Le gru della Manciuria

di Urban BlackWolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenou, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo I

 

 

 

La velocità di un piccolo falco

Pest – Distretto VII, Fabbrica C.A.P. – Agosto 1950

 

 

Jànos Tenoh chiuse la conversazione con il Ministero dei Trasporti dimenticando per un istante la cornetta a mezz’aria. Guardando un punto indecifrato, sentì una sensazione molto simile alla felicità scaldarlo dal di dentro.

“Ci siamo riusciti…” Soffiò lentamente scandendo ogni singola parola, perché risultasse chiaro anche alla sua incredulità, che la meta che come fabbrica stavano inseguendo da più di un anno, era stata raggiunta.

Abbandonando la bachelite nera adagiandola sul telefono, respirò profondamente serrando le mani dietro la schiena e puntando l’attenzione al grande orologio a muro che stava per segnare le otto del mattino, si diresse ai vetri della finestra che dava sul cortile sapendo che da li a qualche secondo, l’avrebbe vista schizzare come ogni mattina passando il cancellone in ferro battuto come inseguita da un demonio alato.

Sorrise al mattonato rossiccio del quale erano composti tutti i muri dei prospetti affaccianti sullo spiazzo, iniziando a contare mentalmente, uno, due, tre, quatt…, ed eccola li, puntualmente sulla soglia del ritardo, fare la barba alla guardia che stava per chiudere l’entrata arrivando proprio sul fischio dell’inizio del turno. Scuotendo la testa, l’uomo sciolse le dita serrando la destra alla maniglia del telaio girandola con un movimento secco.

“Haruka!” Urlò confondendo la sua voce con l’eco della sirena.

Irrigidendo la schiena ancora incurvata per l’apnea della corsa, la ragazza corrugò la fronte alzando la testa in direzione dell’ufficio del padre dimenticando le mani arpionate ai fianchi.

“Possibile che tu sia sempre in ritardo?!” Disse marcando il tono rendendolo volutamente più severo di quanto in realtà non fosse.

La vide muovere leggermente le spalle facendole cenno con l’indice di salire su da lui e richiudendo l’anta permise finalmente alle labbra di accendersi in un voluminoso sorriso.

Amava terribilmente le sue due figlie, ma doveva ammettere che quando la minore, Haruka, lo guardava con quello sguardo verde tanto simile a quello della madre e carico di furbesca sfida dannatamente identico al suo, non poteva non domandarsi cosa avesse fatto di buono nella vita per meritarsi un angelo biondo come quella ragazzina. Sempre di corsa, in perenne movimento, mai soddisfatta di quel che faceva e per questo immersa nella frenetica ricerca di migliorare quello che in realtà già andava benissimo così, Haruka assomigliava più ad un piccolo falco pescatore che ad una donna di vent’anni. Ogni volta che si prefissava un obbiettivo, si gettava a capofitto pur di realizzarlo, con determinazione e sagacia e pur odiando il padre di colei che era stata sua moglie fino a quando gli strascichi di una malattia non gliela avevano strappata, Jànos non poteva che ammettere quanto il soprannome che quell’uomo aveva dato a sua nipote fin dalla nascita fosse calzante. Precoce nel venire al mondo di sette mesi come se il periodo trascorso nell’utero materno fosse tempo strappato alle bellezze del mondo, il nonno la chiamava Turul, ovvero il falco che si libra veloce nel cielo simbolo della loro bella città.

Sedendosi sul piano in legno grezzo della sua scrivania, iniziò a far dondolare un piede mantenendo ben saldo l’altro al pavimento in quella che nei piani avrebbe dovuto essere una posa plastica di severo giudizio, ma che di fatto nascondeva tutta la frenesia della notizia appena ricevuta.

Haruka sospirò asciugandosi il sudore della fronte con il fazzoletto macchiato di grasso che teneva sempre nella tasca posteriore dei pantaloni.

“Dannazione!” Mormorò osservando la strada al di là del cancello.

“Se continuo ad essere tanto lenta, non riuscirò mai a vincere la gara di corsa che si terrà durante la Festa della vendemmia.”

Calciando l’aria tornò a guardare la finestra da dov’era stata ripresa per poi ricordarsi il richiamo paterno.

“O porca…” E scattò verso i pochi gradini che immettevano agli uffici saltandoli a due a due e da li all’interno, su per la doppia rampa in breccia ormai opaca che tanto metteva a dura prova le sue povere caviglie ogni volta che la saliva o la discendeva con quell’impeto. Rischiando di scivolare un paio di volte, si ritrovò sul corridoio del primo piano percorrendolo velocemente fino ad arrivare ansante davanti all’ultima porta, bussare discretamente ed attendere alcuni istanti. All’invito ad entrare cercò di far decelerare i battiti trattenendo a stento il respiro.

“Buongiorno!” Disse richiudendosi l’anta alle spalle sfoderando uno dei suoi classici sorrisi ammaliatori.

“Buongiorno un accidente! Ma dì, ti sembra una cosa normale che proprio tu, mia figlia, debba arrivare in ritardo ogni singolo giorno?!” Domandò incrociando le braccia ad un petto reso ampio e vigoroso da anni di lavoro a piantar rivetti sulle impalcature di mezza Budapest.

“Tecnicamente sarei arrivata sul fischio e perciò in perfetto orario.”

“Tecnicamente…”

“Già! - Ribadì alzando l’indice. - In alcuni paesi questa potrebbe essere scambiata per virtù.”

“Virtù…”

“Esattamente!”

Guardandola dall’alto in basso Jànos tornò a scuotere la testa bionda ormai spruzzata dal primo grigio per poi alzarsi. Era imponente ed anche se la figlia aveva preso la stessa caratteristica fisica, essendo molto alta, davanti al padre sembrava un giunco. Socchiudendo gli occhi stirò le labbra davanti a quel viso ancora arrossato dallo sforzo. Camicia arrotolata agli avambracci già madida di sudore, il gilet mezzo slacciato, i capelli portati corti tutti arruffati. Sua figlia era un maschio mancato, ma in verità anche se spesso si ritrovava a riprenderne gli atteggiamenti troppo spigolosi, a lui la sua Ruka andava bene così, perché sicuro come del suo nome, anche se avesse avuto in dote un figlio non sarebbe mai stato all’altezza di quel diavolo. L’unica cosa che lo preoccupava erano le tendenze in campo sentimentale che dopo l’adolescenza Haruka aveva iniziato a manifestare verso il proprio sesso e che sotto un regime autoritario come quello che stava imbavagliando la libertà dell’Ungheria, non erano affatto viste di buon occhio.

“Come pretendi di correre veloce se lo fai vestita in questo modo?” Inquisì alzando il mento invaso da una leggera barba.

Già da tempo aveva rinunciato a vedere sua figlia in gonna, ma almeno quando si allenava doveva farlo con gli abiti e le scarpe giuste.

“Lo sai che non ho molto tempo per prepararmi e comunque per battere quelle quattro bimbette mi basterà farmela di corsa ogni mattina da casa a qui fino alla fine del prossimo mese.”

“Non chiamarle bimbette. La gara di corsa femminile vedrà le atlete migliori di ogni distretto cittadino, vedi perciò di non sottovalutare la cosa. Potresti allenarti la mattina presto, quando io e tua sorella ci alziamo per venire in fabbrica, invece che poltrire tra le lenzuola fino all’ultimo secondo utile per poi scapicollarti qui con il rischio di essere fermata dalla Polizia.”

Piegando leggermente la testa da un lato lei guardò il suo apa dritto negli occhi. “E perché mai dovrebbero fermarmi scusa.”

“Non certo per la velocità Ruka! - Sfotte' per tornare serio. - Lo sai che non voglio che tu vada in giro vestita in questo modo. Se per lavorare più comodamente hai bisogno di un paio di pantaloni, i capannoni per l’assemblaggio sono muniti di spogliatoi! Piuttosto hai fatto colazione?”

“Si signore.”

“Sicura?” Le si avvicinò ulteriormente sovrastandola.

“No… signore.”

Cercando di guardarla nella maniera più severa possibile non poté che cedere scoppiando in una fragorosa risata e dirigendosi verso il secondo cassetto della sua scrivania lo aprì estraendone un sacchetto colorato di giallo chiaro. Dilatando le pupille la figlia raddrizzò la schiena intuendone il contenuto dalla scritta rossa in stile inglese tipica della pasticceria più grande del quinto distretto.

“A proposito Haruka…, mi ha appena chiamato il responsabile dell’ufficio tecnico del Ministero dei Trasporti; la C.A.P. si è aggiudicata la commessa per la costruzione del nuovo ponte.” Disse alzando il sacchetto con un paio di kurtőskalács alla crema sopra la testa.

Come un cucciolo leggermente distratto dall’istinto base della fame, le ci volle qualche secondo per mettere bene a fuoco la notizia che stavano aspettando tutti con ansia da quando la cooperativa aveva consegnato al dicastero la proposta del bando di gara.

“Abbiamo vinto?!”

“Si amore, abbiamo vinto!” Rispose con un sorrisetto tronfio identico a quello che era solita metter su lei quando sentiva di avere nel petto un moto d’orgoglio.

“Fantastico! - Urlò serrando i pugni come un pugile dopo un fulmineo uppercut. - Quando iniziamo?!”

“Non appena arriveranno le autorizzazioni per trivellare.”

Smorzando l’entusiasmo, Haruka sembrò rabbuiarsi di colpo. “E l’acciaio?”

“Non preoccuparti per questo ragazzina. Proprio ieri la banca mi ha assicurato che in caso di vittoria ci avrebbe concesso i finanziamenti necessari per il materiale. Non è quanto avevamo chiesto, ma assemblando gran parte dei componenti del ponte qui, abbatteremo le spese di spedizione riuscendo a rientrare dei costi. E poi non dimenticarti che abbiamo un paio di creditori che dovrebbero saldarci a breve.”

“Appunto dovrebbero. Sai che questa cosa di aspettare i comodi degli altri non mi piace affatto apa. Come non sono per niente convinta che ci convenga riporre tanta fiducia in una banca.”

Tornandole davanti le poggiò una mano sulla spalla. “Ma è così che si fanno gli affari amore. La Kaioh Bank è degna di fiducia. Sono sicurissimo che non faranno pressioni e comunque i tassi d’interesse che ci hanno prospettato sono molto vantaggiosi. Ora scendi all’ufficio progetti e vai a dare a Johanna la bella notizia e bada che uno dei due cannoli qui dentro è per lei, chiaro?”

“Per me ti stai fidando troppo di quella gente di Buda.” Disse afferrando il sacchetto non distogliendo gli occhi da quelli del padre.

“E tu... troppo poco. Sono il presidente di questa cooperativa da tre anni e so quello che faccio. Ti dico di stare serena Haruka. Coraggio, ora va e vedi di cambiarti almeno la camicia.” Concluse con una poderosa carezza che in pratica le cinse tutto il retro del collo.

 

 

Il vasto spazio dalle enormi finestre dell’ufficio tecnico era ancora deserto. Le piaceva disegnare con il silenzio, soprattutto la mattina presto, quando la luce ad est invadeva le volte bianche di calce e i muri tappezzati dalle cianografie seppiate. Tenendo saldamente sotto l’avambraccio sinistro una grande squadra di legno, la ragazza trattenne il fiato e chiudendo un occhio avvicinò la punta metallica del pennino al lucido iniziando a scrivere lentamente ed in maniera perfettamente lineare, la scritta in capo all’ultimo lavoro appena terminato; C.A.P. Cooperativa Acciaierie Pest…

“Jo!” Ed una poderosa macchia nera iniziò ad invadere la parte finale della scritta.

“Ma che cavolo… Ruka!” Alzando di scatto il pennino afferrò rapida un fazzoletto tamponando alla bene e meglio il danno.

“Che c’è?!” Avvicinandosi al tecnigrafo dove la sorella era solita passare le ore di lavoro dietro a qualche progetto, le mise la destra sulla schiena affacciandosi noncurante da un lato.

“Come che c’è?! Non vedi!? Guarda che casino.” Le mostrò venendo attratta dall’odore proveniente dal sacchetto giallo.

“O per così poco. Grattalo via.”

“E certo che lo gratterò via, ma… che cos’è questo?” Disse cercando di prenderglielo.

“A no, prima le notizie di lavoro, poi si mangia.”

“Quale notizie?” Chiese facendo compiere allo sgabello di legno un mezzo giro.

Apa è stato appena contattato dal Ministero dei Trasporti… La commessa del nuovo ponte sul Danubio è nostra!”

“Dici sul serio? Non mi stai prendendo in giro come al tuo solito Ruka?!”

“Non scherzo mai con il lavoro, dovresti saperlo sorella.”

Serrando gli occhi Johanna strinse i pugni come aveva fatto poco prima l’altra. “Si! Lo sapevo che ce l’avremmo fatta con la Ganz impegnata nella nuova tratta ferroviaria a sud.”

“In gara c’era sempre la Mávag.” Sottolineò porgendole un cannolo.

“Poca cosa Ruka, poca cosa.” E ringraziandola addentò il dolce stracolmo di crema avvertendo sul palato un formicolio di godimento.

In città erano sempre state le fabbriche della Ganz e della Mávag a farla da padrone. Ormai era più di un secolo che gestivano il settore dei trasporti nazionali con strade ferrate, tram e locomotive, ma da qualche anno avevano iniziato concorrenzialmente a farsi la guerra anche nell’emisfero dei ponti. Un affare redditizio, soprattutto in virtù della ricostruzione post bellica. Per cercare di sopravvivere, le fabbriche minori della città avevano dovuto riunirsi in consorzi più o meno grandi e proprio grazie alla fusione di quattro piccole “sorelle”, un lustro prima era nata la C.A.P..

“Quando dovremmo iniziare con le fondazioni per le pilastrature?”

“Appena pronti i permessi. Fai vedere un po’? A cosa stavi lavorando?” Chiese iniziando a scombussolarle i lucidi presenti sul piano inclinato.

“Ferma con quelle zampacce Ruka, hai già fatto abbastanza danno per oggi!”

Sorpresa nel vedersi davanti la decorazione di un basso rilievo, guardò l’altra perplessa. “E questo?”

“E questo sarebbe dovuto essere una sorpresa per mia sorella che tanto è stata brava a superare gli esami d’ammissione ad Ingegneria, ma che di fatto è troppo impicciona da non sapersi tenere le mani nelle tasche!” La scansò con una leggera spallata.

“E’ un falco!”

“Si zucca vuota. Questo in particolare sarà posto sulla sponda sinistra, verso Pest e sarà una colatura in rame.”

“E questa H sotto gli artigli?” Indicò con l’indice.

“Ufficialmente la Commissione Artistica sa che è Horus, signore egizio del cielo, ma ufficiosamente è l’iniziale del tuo nome… zucca vuota.”

Grattandosi la tempia Haruka fece un paio di passi indietro imbarazzata. “Ma che sciocchezza e poi nostro padre non ti darà mai il permesso di metterla su. Lo sai che non sopporta il soprannome con il quale mi ha sempre chiamata il nonno.”

“Sai sempre tutto eh?! Guarda che i bozzetti li ha visti anche lui e non ha detto proprio niente.” Controbatté finendo il suo dolce.

“Lo sa?”

“Certo! Vuoi che il Presidente non lo sappia? Non ama questo uccello, ma visto che nonostante il lavoro che svolgi sempre sulle macchine della fabbrica sei stata ammessa alla BME con un punteggio schifosamente alto, per questa volta farà finta di niente.” E rise a quell’espressione un po’ persa che la sorella minore era solita metter su quando non riusciva ad afferrare subito le cose.

 

 

La scelta di una piccola gru

Buda – Distretto I, Palazzo Kaioh

 

Alexander Kaioh era un uomo pragmatico, lineare, molto portato per gli affari, ma senza quella vena di cinismo proprio di ogni singolo banchiere che si rispetti. Di famiglia operaia, era riuscito a costruirsi un impero finanziario grazie ad uno spiccato fiuto per gli affari e a quel conflitto mondiale finito ormai da qualche anno. Non aveva combattuto quella guerra e di questo se ne dispiaceva, ma l’aver scelto la così detta “via della fuga”, gli aveva permesso di proteggere le creature che ai suoi occhi rappresentavano il fulcro di tutta la sua vita e non si sarebbe mai pentito per questo.

Venticinque anni prima, durante un breve viaggio di studi, aveva incontrato l’amore decidendo di rimanerle accanto e scegliendo di allontanarsi dalla sua Ungheria per adottarne il paese, ovvero il Giappone. Ancor prima dello scoppio della guerra, a Budapest Alexander non aveva più legami; la famiglia, gli amici di un tempo, i compagni di studi, si erano dissolti nelle pieghe del passato. Era rimasto solo ed anche se dentro al petto avrebbe sempre sentito l’ululato forte dell’orgoglio magiaro, se non fosse stato per la devastazione post bellica che aveva colpito l’arcipelago del Sol Levante, non sarebbe mai più tornato in patria.

Cercando di schivare i proiettili della depressione economica subita da ragazzo, che aveva giurato non avrebbero mai subito la moglie Kurēn e la figlia Michiru, era riuscito a creare solide congiunzioni finanziarie tra Giappone ed Ungheria, sia prima che durante il conflitto, arricchendosi paurosamente e ritrovandosi a capo di una delle più potenti banche del paese europeo.

Portandosi la mano alla fronte, avvertì la morsa della consueta emicrania giornaliera farsi strada tra la sua stanchezza e poggiando i muscoli delle spalle allo schienale della poltrona, guardò alla sua sinistra una delle poche cose che riusciva ad allietargli quei momenti dolorosi; uno splendido quadro che raffigurava la danza rituale delle gru maestose ed eleganti tipiche della terra di Hokkaidō. Perdere le iridi su quei pigmenti, a quegli uccelli tanto eleganti quanto perfetti nell’esprimere il loro amore, gli faceva immancabilmente pensare a colei che era stata la regina del suo cuore.

Due colpi alla porta e l’uomo riconobbe in quel suono gentile il tocco della figlia e senza neanche chiedere conferma la invitò ad entrare.

“E se non fossi stata io?” Gli chiese lei stringendo nelle mani un vassoio con dell’acqua ed un paio di aspirine.

“Ho tirato ad indovinare.” Rispose scherzoso accogliendola con un sorriso.

Quanto poteva essere bella la sua dolcissima figlia e quanto in lei rivedeva Kurēn; la stessa corporatura esile, gli stessi capelli, anche se mossi come onde di spuma, il naso grazioso e la postura elegante che la ragazza aveva adottato dall’osservazione avida dei comportamenti materni. In realtà in quel dono meraviglioso lasciatole dalla moglie, c’era tanto anche di lui, anche se Alexander non riusciva a vederlo, perché pur se mezzosangue, Michiru non aveva affatto le caratteristiche somatiche tipiche della razza nipponica come il taglio obliquo degli occhi o la carnagione, anzi, le perle blu, prese dalla famiglia Kaioh, incorniciate da un viso dai lineamenti morbidi ed ovali, facevano si che raramente qualcuno si soffermasse a chiederle se fosse nata o meno in Europa.

“Ti fa tanto male?” Poggiando il vassoio sul piano della scrivania lo guardò accigliata afferrare pasticche e bicchiere.

“Non più del solito tesoro.” Chiudendo gli occhi ed inclinando la testa all’indietro ingoiò tutto d’un fiato.

“Dovresti farti controllare. Non mi piacciono questi continui mal di testa.”

“Ne ho sempre sofferto Michiru.” Disse avvertendo le labbra tenerissime di lei sfiorargli la fronte.

“Stai lavorando troppo, papà.”

“Lo so, ma presto avrò un valido aiuto. Ancora qualche anno e potrai affiancarmi.” Lasciandole una carezza terminò di bere.

“Dovrò fare parecchio praticantato prima di riuscire ad aiutarti, perciò visto che il tempo del tuo ritiro è ancora piuttosto lontano, io opterei per un controllino medico.”

“Michiru…”

“So essere sfiancante se voglio, lo sai. Non costringermi a darti il tormento.”

“So anche questo. Sei proprio come la tua povera madre.”

Alla ragazza non sfuggì la fugace occhiata data dal genitore al quadro e poggiandosi alla scrivania, perse lo sguardo a quei due splendidi uccelli ricordandosi la prima volta che aveva avuto modo di vedere quella particolare razza di gru da vicino, in una delle tante paludi sparse nelle vicinanze della casa materna.

“Mi manca l’isola di Hokkaidō sai. - Rivelò. - Budapest è così… diversa.”

“Se l’Ungheria avesse avuto il mare sarebbe stato meno traumatico per te abbandonare il Giappone, ma purtroppo non ho potuto fare altrimenti cara.”

Lei si voltò di scatto afferrando nel tono del genitore una punta di rammarico.

“Lo hai fatto per me e la mamma. La guerra ha colpito anche li."

“Già…” Soffiò piano non aggiungendo il suo sentirsi terribilmente responsabile, visto che non era riuscito a salvare la moglie dalla malattia che l’aveva colpita al ritorno in Europa.

Tra padre e figlia scese il silenzio ed ognuno si perse nei propri pensieri fino a quando la cameriera bussò per annunciare l’arrivo di un ospite.

“Signor Kaioh, il signor Nagyry è giù da basso che l’attende.”

“Gli dica che sarò da lui a breve, grazie.- Alzandosi di malavoglia, si diresse verso la cassaforte dove teneva i documenti più importanti. - Vai all’Università oggi?”

“Si, avevo intenzione di seguire una lezione.” Rispose non staccando gli occhi dal dipinto.

“Mi raccomando, stai attenta. Con la ripresa dell’anno accademico sono ripresi anche i malcontenti studenteschi verso il regime e so per certo che tra i corridoi di Economia ci sono parecchi dissidenti pronti ad arringare i più giovani.”

Stirando leggermente le labbra, Michiru sentì la presenza paterna al fianco e staccando finalmente il contatto con l’immagine lo rassicurò. “Non sono più una matricola papà.”

“Ma sei sempre mia figlia e come padre ho tutto il diritto di darti fastidio con le mie sciocche preoccupazioni.”

“Va bene, come vuoi. Adesso però devo andare o rischio di non trovare più un posto per prendere degli appunti decenti.” Un’ultima occhiata all’opera della madre, un bacio alla guancia di quel padre sempre tanto apprensivo, poi via verso la porta.

“Michiru… “

“Dimmi.”

“Avresti voluto frequentare l’Accademia delle Belle Arti, non è vero?” Le chiese a bruciapelo.

Con la mano già sulla maniglia lei voltò il busto fingendo come sempre. Certo che avrebbe voluto, perché l’economia, la finanza e tutto ciò che da sempre ruotava attorno al dio denaro, pur beneficiandone ampiamente nella vita quotidiana, non le aveva mai acceso l’interesse.

“Sono la tua unica erede.” Un dato di fatto che chiudeva ogni tipo di discussione in merito.

“Si, ma sei così portata per la pittura… Forse anche più di Kurēn. Non avrei dovuto accettare quello che per te è un sacrificio giornaliero Michiru.”

“Ormai è tardi per tornare indietro papà. Sto iniziando il terzo anno. Ho scelto di seguire le tue orme e l’ho fatto con convinzione, perciò non preoccuparti. Ci vediamo questa sera a cena?” Chiese per sviare il malessere che provava ogni qual volta si affrontava l’argomento.

“No. Questa sera sono con Nagyry a cena dal ministro dei trasporti. Devo ragguagliarlo sulle garanzie di un grosso prestito che la banca dovrebbe sottoscrivere con i vincitori di un appalto sul Danubio.” Concluse alzando a mezz’aria il plico che aveva appena afferrato dalla cassaforte lasciando che ne intuisse il contenuto.

“Allora a domani.” Ed uscendo trattenne un sospiro a stento.

Abbassando il braccio Alexander tornò a fissare il quadro, rappresentazione dell’amore che la moglie aveva sempre nutrito per lui. “Kurēn, la nostra bambina è cresciuta e ha scelto la sua strada, anche se a volte vorrei che Michiru non avesse ereditato la fedeltà ed il sacrificio nipponico verso la famiglia.”

Incontrando sul pianerottolo la domestica alla quale aveva affidato la borsa con i libri scolastici, la giovane donna ringraziò dirigendosi verso le scale. Si sentiva spossata e priva d’entusiasmo, ma avrebbe continuato. La pittura, come la musica, non avrebbe aiutato il padre a gestire una banca fiorente come la loro e del signor Andràs Nagyry, collaboratore di Alexander e titolare della quota di minoranza della Kaioh Bank, lei non si fidava poi un gran che. Non che fosse uomo di scarsa stima o poco portato per gli affari, ma adesso che Michiru stava apprendendo i rudimenti dell’economia, alcune azioni compiute dall’uomo a danno dei piccoli risparmiatori le sembravano quanto meno azzardate e prive di scrupolo.

“Buongiorno Michiru.” Dal fondo della scala lui salutò accennando un leggero inchino con la testa.

Sempre terribilmente gentile. Sempre dannatamente affabile.

“Buongiorno a lei Andràs. Come state questa mattina?” Chiese raggiungendolo mentre simulava un interesse che non provava affatto.

“Molto bene grazie. Siete diretta all’Università?”

“Come ogni mattina.”

Quanto era strano il viso di quell’uomo. Il padre si fidava ciecamente di lui, ma quegli occhi antracite sembravano due enormi sfere molto simili a quelle di uno squalo e quella bocca piena di piccoli denti le faceva una certa impressione.

“Scusate, ma ora devo andare. Credo di essere già sufficientemente in ritardo.”

“Allora buona lezione.”

Salutandolo con una stretta di mano Michiru si diresse al portoncino d’ingresso sperando in un passaggio dell’autista di famiglia. Non le andava di correre a perdifiato fino alla BME. Inondati i polmoni di aria calda e carica di odori, raggiunse il giardino e li lo vide, il signor Takaoka, da sempre al servizio della famiglia Kōtei e per questo rimastole accanto anche dopo la prematura morte della madre. Avrebbe potuto ritornarsene in patria, ma lo spirito di dedizione che aveva nei confronti suoi e del padre lo avevano spinto a trattenersi in Ungheria.

“Signorina Michiru…”

“Voliamo signor Takaoka. Voliamo…” Disse scherzosamente lasciandosi aprire lo sportello.

 

 

“Usagi stammi incollata, perché oggi qui si mette male.” Disse Minako afferrando rattamente la mano della sorella minore mentre i suoi grandi occhi azzurri non riuscivano a smettere di guardarsi intorno.

Quella parte di università era caotica, trafficata, incoerente. In altre parole era Architettura. Era la prima volta che Minako Aino si avventurava fin dentro al ventre molle di quel covo di artistoidi fuori controllo.

“Tu credi che arriveranno a picchiarsi?”

“Se le daranno di santa ragione vedrai.”

“Allora torniamocene a casa.” Piagnucolò la biondina stringendosi all’avambraccio della maggiore.

“Ti ricordo che in questo preciso istante avresti dovuto stare a scuola e non per i corridoi di una Facoltà! Se nostro padre dovesse anche solo sub dorare che questa mattina mi hai seguita…” Lasciò cadere enfatizzando.

“Ma c’era il compito di matematica oggi!”

“E allora!”

Chinando la testa e piazzando il viso quasi fin sotto l’ascella dell’altra cercò di nascondersi come una tartaruga dentro al suo carapace.

“Neanche tu dovresti essere qui… soprattutto per quel tipo.” Bofonchiò attirandosi contro gli occhi incandescenti dell’altra.

“Bada Usa…” Ringhiò ben sapendo quanto quella piaga che il destino le aveva dato in sorte avesse ragione.

Era per seguire un giovane universitario che abitava vicino all’Accademia di Danza che frequentava, che aveva trasgredito al più elementare buon senso. Ma quel ragazzo dalla carnagione chiarissima ed il fisico mozzafiato, era talmente affascinante che questa volta non aveva proprio saputo resistere al richiamo di quell’infantile pedinamento. Minako era pur sempre una diciottenne e come tale voleva vivere le esperienze della vita completamente ed in tutta frenesia, proprio come una bocca quando addenta la polpa succosa di una mela. Certo è che in quella mattina dal caotico vai e vieni degli studenti iscritti all’Università Pubblica, non aveva assolutamente messo in conto quella zavorra piagnucolante di sua sorella.

Accidenti… eppure ero sicurissima di averlo visto entrare ad Architettura! Possibile che me lo sia lasciato sfuggire così! Pensò osservando con maggiore attenzione le persone presenti accanto all’androne spingendo poi lo sforzo visivo lungo l’enorme rampa che portava al piano delle aule.

“Ei ragazzine, toglietevi un po’ dai piedi!” Urlò uno studente dando ad Usagi una spintonata spostandola malamente. Con le braccia occupate da un pacco abbastanza voluminoso se le guardò con supponenza.

“Stai attento tu… cafone che non sei altro!”

Bloccando il passo febbrile lui si voltò verso le due gonfiando i bicipiti. “Come scusa?”

“Ho detto e ribadisco, che dovresti essere tu a stare più attento.”

“Ma sentite questa ochetta.” Vomitò sicuro di se pronto a tornare indietro quando una figura alle spalle delle due lo bloccò.

“Cosa succede qui?” Una voce dolce, ma decisa, si fece largo tra le altre che stavano invadendo gli spazi del corridoio.

“Nulla Michiru, nulla. - Si affrettò a dire lui sistemandosi meglio la scatola sulla pelle delle braccia. - Sei in ritardo! Gli altri ti stanno aspettando da un pezzo.”

“Dove sono?”

“Al solito posto.”

“Abbiamo ciò che ci serve?”

Gagliardamente lui alzò il cartone lasciandole intendere di si.

“Perfetto. Vi raggiungerò appena trovato Hairàm.”

“E’ di sopra. Scenderà fra poco. Tu però stai attenta. Oggi gli animi sono piuttosto caldi.” Consigliò e dopo un fugace scambio di sguardi il ragazzo si dileguò come se gli fosse stato impartito un ordine mentale.

Minako ed Usagi squadrarono la ragazza più alta sgranando gli occhi.

“Dite un po’ signorine, cosa ci fate voi qui?”

Come una statua di sale la più piccola guardò la sorella che senza scomporsi troppo affermò sicura di stare per seguire la prima lezione della mattina.

Alzando le sopracciglia Michiru sorrise maliziosa. “Tu frequenteresti l’Università?”

E con una faccia di bronzo degna di un’attrice navigata Minako rispose affermativamente.

“E anche lei?”

Presa in contropiede Usagi entrò nel panico ed iniziando a balbettare frasi senza senso costrinse l'altra ad intervenire. "No, lei no. Mi ha solo accompagnata. E’ mia sorella minore!”

“Kaioh!” Riecheggiò e le tre guardarono all’unisono il fondo della scalinata.

Un bellissimo ragazzo dal viso intelligente, lo sguardo castano ed i capelli folti e biondi, la salutò con la mano facendole cenno di seguirla.

“Scusate, adesso devo andare. Se fossi in te porterei mia sorella a casa. La BME non è un posto per liceali.”

Le biondine la guardarono raggiungere e salutare l’amico e sparire poco dopo tra il caos.

“Cavolo, ma hai vista quanto è bella! Se tutte le universitarie sono così non troverò mai uno stralcio di ragazzo! Che depressione…. Mina?!”

Ma porcaccia la miseria! Ha già la ragazza! Pensò l’altra riconoscendo in quel giovane ben vestito la sua attuale spina amorosa.

“Muoviti Usa, voglio andare in fondo a questa storia!”

Sentitasi afferrata per la mano e trascinata come una carpa all’amo di un pescatore, alla più piccola non rimase altro che seguirla in quello che presto si sarebbe trasformato in un inseguimento in piena regola.

 

 

La parte dei sotterranei di Ingegneria era sempre stato il loro ritrovo migliore. Protetto da sguardi indiscreti, facilmente raggiungibile da ogni punto della BME, non troppo grande, ma ricco di anfratti per poter nascondere agilmente una macchina ciclostile, inchiostro, fogli e volantini. Il loro gruppo non era numeroso, perché in tempi tanto incerti come quello, l’assembramento di troppi ragazzi veniva subito considerato sospetto, alzando così il rischio di venire arrestati senza alcun motivo.

Oltre a Michiru, entrata nel gruppo meno di un anno prima, vi erano altri dieci studenti, tre ragazze e sette ragazzi. Tutti iscritti all’Università Pubblica. Tutti di buona estrazione sociale. Tutti incensurati. Nerbo giovane della Buda bene, futuro della nazione, menti pensanti insospettabili agli occhi del Regime e per questo abbastanza liberi di agire nell’ombra.

“Dunque ragazzi, il nostro obbiettivo è la Festa della Vendemmia che si svolgerà alla fine di settembre alle pendici del Castello di Buda.” Hairàm Ferhèr, studente al quarto anno di Architettura e leader del gruppo, si sedette sul tavolo afferrando un volantino dalla scatola.

“Se riusciremo nell’intento di lanciare sulla folla anche solo la metà di questi, potremmo ritenerci soddisfatti.”

“Certo la fai facile tu, ma io non la vedo una cosa tanto semplice. Primo perché essendo una festa all’aperto che si svolgerà alle pendici del castello, vicino alle vigne, non vedrà punti alti da dove fare un lancio ottimale e secondo, visto l’importanza dell’evento sicuramente ci sarà anche la ÁHV, il che rende tutto troppo pericoloso.” Disse Anna, una delle fondatrici del gruppo.

“Hairàm sono cose da considerare.” Appoggiò Adam, il ragazzo che aveva spintonato poco prima le due biondine e che si era preso la briga di portare in giro “merce tanto scottante”:

“E allora La voce di Buda cosa si è presa la briga di fare negli ultimi giorni? Stampare questa roba è stato pericoloso e se ora non ce ne servissimo per far capire a quei bastardi stranieri che devono andarsene, tanto valeva non rischiare le chiappe e rimanercene a casa a studiare!” Stizzito sventolò il foglietto a mezz’aria accavallando le gambe.

La voce di Buda è solo uno dei tanti gruppetti di studenti sparsi per le sedi di tutta la città. Non è la prima volta e non sarà neanche l’ultima che ribadisco l’importanza che avrebbe il solo unirci, invece che tentare la sorte con queste sciocche opere di rappresaglia!” Insistette lei iniziando a toccarsi i folti capelli rossi nervosamente.

“Potevi parlare prima che preparassimo questi mille volantini!” Intervenne un terzo ragazzo alle prese con l’ingrassaggio della manovella del ciclostile.

“Ma sei stupido o cosa! Io l’ho detto Lukàs!”

“Potevi dirlo meglio, perché non lo ha capito nessuno mia cara!”

“Ora basta! Facciamola finita. - Azzittì tutti la voce potente del capo gruppo. - L’azione va compiuta punto e basta. Anna, se ti preme tanto sapere da dove lanceremo i volantini non ti preoccupare, lo faremo durante lo svolgimento della gara di corsa femminile. Il tracciato che gli organizzatori hanno scelto, per un tratto passa tra i palazzi della parte nord-ovest del secondo distretto. Li ci sono dei palazzi. Basterà riuscire ad entrare in un androne ed arrivare al tetto. Se la giornata poi sarà ventosa il lancio sarà perfetto.”

“E la polizia?” Chiese lei dubbiosa.

“Per la gara femminile? Fosse quella maschile capirei, ma con tutto il rispetto…” E l’ilarità testosteronica salì alta tra i muri scrostati dei sotterranei.

“Ma quanto siete stupidi! Piuttosto... chi tra noi s'incaricherà di portarli in giro e lanciarli?”

Improvvisamente le risa maschili cessarono e gli schiamazzi anche, perché quello era il compito più rischioso.

“Bè, qui la cosa si fa complicata ragazzi.”

“Non vedo nulla di complicato Hairàm.” Michiru, che per tutto il tempo era rimasta in silenzio ad ascoltare gli altri con le spalle poggiate al muro e le braccia conserte al petto, parlò attirandosi contro gli sguardi di tutti.

“Che vuoi dire?”

“Voglio dire che se partecipassi alla corsa avrei tutto il tempo di portare i volantini e passare inosservata tra i controlli. Non potrei lanciarli, ma lasciarli in un posto sicuro si.”

“Geniale Kaioh.” Disse Adam ammirato.

“Non se ne parla Michiru. E’ troppo pericoloso!”

“E’ pericoloso per tutti o non ti fidi perché sono una donna?!” Punzecchiò lei sapendo di colpire il nervo scoperto del capo gruppo.

Michiru non era entrata a far parte della voce di Buda spinta da un nazionalismo che come mezzosangue non provava affatto, ma dalla necessità di dare, si, voce ad una libertà, ma a quella delle donne di quel paese. Tutto intorno a lei era pervaso da un sessismo strisciante che poco era congeniale al retaggio culturale impartitole fin da bambina. Persino all’interno di quel gruppo il maschilismo la faceva da padrone. Questa cosa doveva finire.

“Lo sai che mi fido di te Kaioh…” Sospirò lui sempre un po’ stupito da quello sguardo freddo e determinato che faceva di quella donna un leader nato.

“D’accordo Michiru, allora tu porterai i volantini sul tetto mentre io li lancerò sulla folla al momento giusto. Adesso dobbiamo solo scegliere il palazzo.” Intervenne galvanizzato Adam mentre un leggero vociare proveniente dall’esterno accendeva in tutti un campanello d’allarme.

“Hairàm, Hairàm dove sei?!”

Riconosciuta la voce del compagno preposto a fare da sentinella, il ragazzo si alzò dalla scrivania dirigendosi verso la porta quando si ritrovò una ragazzina dai capelli lisci e biondissimi tra le braccia.

“Guarda un po’ chi stava gironzolando nei paraggi?”

"E tu chi diavolo sei?" Chiese perdendosi in due laghi azzurri agitatissimi.

“E qui ce n’è un’altra!”

Michiru spalancò allora gli occhi staccandosi dal muro. E quelle due?

 

 

 

NOTE: Ciau, visto che qui un lavoro decente non si trova e di tempo un po’ ne ho, continuo a mettere su carta la mia fantasia ;)

Questa volta ho cambiato terra, mi sono staccata dalle ridenti valli svizzere tuffandomi in una nazione, l’Ungheria, che in tutta onestà non conoscevo affatto e che invece mi ha catturata per la sua travagliatissima storia. Proprio perché l’ungherese è una lingua complicatissima cercherò di usare meno parole possibili, anche perché tra accenti vari rischio di fare una confusione pazzesca.

In primis metto subito le mani avanti, perché il titolo “le gru della Manciuria” a primo sguardo può far giustamente pensare al Giappone, nello specifico all’isola di Hokkaidō e non ha nulla a che vedere con la location nel quale si dipanerà il racconto, ma in realtà questo splendido uccello rappresenta l’interiorità insita in Michiru e più in là cercherò di spiegarlo meglio. Questa ff sarà abbastanza complessa, sia per il numero di personaggi, che per gli argomenti trattati. Non sarà da bollino rosso, ma diciamo che qualche cosa di “crudo” ci sarà, soprattutto perché il periodo storico è quello pre rivoluzionario, dove i moti studenteschi contro l’armata di occupazione sovietica stanno iniziando a posare le basi per gli scontri sanguinari che ci saranno nel 1956.

I temi principe saranno due; l’amore e la vendetta. Il bianco e il nero. Buda e Pest. Un falco ed una gru.

Ritroveremo tanti personaggi amati, da Setsuna a Makoto, Minako e la coppia Mano-Usa. Mi sono permessa di schiaffare tra questa storia anche Giovanna, che qui chiamerò Johanna, forse più musicale, ma sempre la solita bestia sarà 

Come credo si sia già capito punterò molto l’attenzione sul dualismo padre-figlia, sia con Haruka che con Michiru, perché sarà proprio questo legame a far scontrare le due una volta incontratesi. Ci sarà anche un’evoluzione piuttosto marcata nei caratteri di Kaioh e Tenoh; la prima molto probabilmente scoprirà di avere un orgoglio magiaro molto più sviluppato di quel che crede e la seconda, dalla serenità di una vita famigliare amorevole, passerà ad un tormento molto difficile da lenire.

Ho inserito parecchie cose reali che mi hanno dato degli spunti, tipo:

la Ganz e la Mávag, due delle più fiorenti industrie con sede a Budapest,

la ÁHV, ovvero la polizia segreta ungherese,

il Turul, ovvero il falco simbolo della città e spesso usato come raffigurazione sui ponti cittadini,

la BME, l’università pubblica che fra le altre comprende Economia, Architettura ed Ingegneria.

In fine il significato del nome della madre di Michiru, Kurēn Kōtei, letteralmente imperatore gru.

Spero che questa nuova storia vi piaccia. Ci metterò tanta buona volontà.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo II

 

 

I pensieri sotto il cielo di Buda…

Buda – Distretto I, Palazzo Kaioh

 

 

Rigirandosi tra le lenzuola completamente priva di sonno, si sistemò sulla schiena fissando il lampadario di cristallo della sua camera da letto sentendosi inquieta. Michiru Kaioh si conosceva abbastanza bene per sapere quanto quello che era accaduto quella mattina nel ritrovo della voce di Buda rappresentasse una svolta. Sia per lei, che per il gruppo. Si era offerta d'iniziare un’azione di protesta all’indirizzo del Regime che avrebbe portato al rilancio di una serie di volantini sulla folla venuta a celebrare la Festa della Vendemmia. Lo aveva fatto senza pensarci su più di tanto e forse per questo, ora, all’inizio della notte, si ritrovava a chiedersi il perché di un gesto tanto impulsivo. Non era certo il timore di essere scoperta a darle pensiero, era una donna coraggiosa che sapeva spingersi oltre i propri limiti, ma cos’avrebbe pensato di lei suo padre se fosse stata fermata ed arrestata dalla polizia? Cresciuta in un paese dove il rispetto genitoriale veniva prima di tutto, Michiru non avrebbe mai e poi mai gettato fango su quello che per una figlia del Sol Levante rappresentava il fulcro della famiglia. Era perciò inevitabile che nel trascorrere di quelle ore di solitudine chiusa nella sua stanza, non si capacitasse di come non fosse riuscita a spegnere la fiamma di ardente rivolta femminista che aveva avvertito al sentir parlare gli uomini del suo gruppo. Un gesto tanto impulsivo quanto inedito per una ragazza come lei.

Sospirando si rigirò a pancia sotto afferrando il cuscino come il petto di un’amante. Adesso avrebbe anche dovuto prepararsi per una gara di corsa per lei inutile e per niente allettante e tutto per dimostrare a quei ragazzi di essere degna della loro fiducia pur se donna e mezzosangue. Amava nuotare, ma non l’atletica, il sudore, la polvere e si trovava in una di quelle fasi della vita nella quale si sentiva dannatamente fuori esercizio. Già, avrebbe dovuto allenarsi ed anche così un risultato decente non sarebbe stato scontato fino al suo arrivo. Se fosse stata una ragazza priva di aspettative, sarebbe andato bene anche il solo partecipare, ma il dramma era che da sempre possedeva uno spirito di competizione abbastanza ingestibile che nel caso specifico di una gara, non le avrebbe mai permesso di fare brutta figura. Il suo motto era sempre stato quello di partecipare per provare a vincere e non per provare e basta. In ogni cosa della vita. Su qualsiasi fronte. Per qualunque traguardo.

Avrei dovuto pensare prima di parlare, ma ormai sono in ballo e correrò come meglio posso. A papà dirò che sono stata spinta in gara da una scommessa, ma per il resto… dovrò stare molto attenta. Non voglio rischiare che s’inneschi uno scandalo a danno della famiglia o della banca pensò nascondendo il viso tra il cotone non facendo ancora i conti con gli inesorabili sensi di colpa che le sarebbero venuti nell’inanellare al genitore una serie interminabile di menzogne.

E poi c’erano quelle due ragazzine a darle pensiero. Molto pensiero. Ma come si può!? Accidentaccio! Se l'erano ritrovate davanti, strattonate dal ragazzo preposto al controllo dell’entrata, leggermente confuse per il repentino cambio della luce passata in pochissimi secondi da brillante a soffusa, vagamente intimorite, ma non più di tanto, curiose come dopo la scoperta di chissà quale mistero. E si che con tutto il materiale politicamente compromettente che erano riusciti a stampare nell’ultimo periodo, il gruppo avrebbero dovuto quanto meno essere più accorto. Eppure erano bastate due semplici ragazze poco più che adolescenti, una delle quali persino minorenne, a far saltare in aria tutta la sicurezza. Erano riuscite a seguire lei e Hairàm senza essere notate, ad infilarsi facilmente nella porta che dava accesso ai sotterranei, a svoltare l’angolo per i locali tecnici e solo li, dopo un percorso di svariati metri tra il chiaro oscuro della luce solare che ancora riusciva a filtrare attraverso le bocche di lupo incastrate tra il solaio e la parete perimetrale della struttura, erano state intercettate dalla “sentinella”.

“Razza di stupido! Si può essere più sconsiderati?” Borbottò con le labbra soffocate dalla stoffa all’indirizzo del loro fantasmagorico palo.

Non appena Minako e Usagi avevano finito di essere interrogate da Hairàm sul perché e per come si trovassero in un luogo tanto “fuori mano”, era risultato chiaro il loro essere innocue. Ma comunque e nonostante la buona fede da loro dimostrata La voce di Buda adesso aveva un problema in più e questo era rappresentato da due biondine che non sarebbero mai dovute venire a conoscenza dei loro piani, ma che di fatto avevano intuito tutto perfettamente. Ma la cosa non era finita li. Quelle due ragazze nate e cresciute nella zona centrale del secondo distretto, che ad un primo sguardo potevano benissimo passare per due svampitelle di buona famiglia, erano in realtà le figlie di uno degli uomini più illustri della città. Non appena Adam aveva sentito il cognome Aino, aveva emesso un forte fischio iniziando a scuotere la testa in segno d'incondizionato assenso.

“Niente di meno che le figlie del grande Ferenc Aino, uno dei comandanti che combatté fino allo stremo per evitare la caduta di Budapest alla fine della guerra!” E Michiru, che aveva vissuto quel conflitto sotto un'altra bandiera, aveva visto negli occhi di tutti i suoi compagni una scintilla d'orgoglio nazionale che l’aveva preoccupata e fatta sentire, se possibile, ancora più emarginata.

Forse sono troppo allarmista, ma dovremmo prestare più attenzione a come ci muoviamo. La ÁHV ha ramificazioni ovunque, inclusi i licei e le accademie. Ma da questo orecchio Hairàm sembra proprio non volerci sentire. Chi ci garantisce che dietro il nome di quel generale non si nascondano delle spie? Mettendosi seduta sul letto Michiru affondò le dita tra i capelli ravvivandoli. Il dormire era reso ancora più difficile dal ricordo della conversazione avuta con le sorelle Aino una volta deciso che sarebbe stato più saggio riportarle a casa.

La macchina guidata dal signor Takaoka, richiamato da una telefonata fatta al volo da una delle cabine telefoniche poste nell’ingresso della Facoltà di Economia, aveva percorso lentamente le strade del secondo distretto, mentre tra le tre ragazze era andata consumandosi una conversazione per Michiru allucinante.

“Kaioh, non prendertela a male, ma devo dirtelo… tralasciando la scarsa sicurezza del vostro ritrovo, il vostro gruppo non mi sembra poi così affiatato come dovrebbe.” Aveva improvvisamente detto Usagi guardandola sicura.

“Usa fa silenzio!”

“Mina... è vero!”

Dilatando gli occhi, Michiru aveva guardato la più giovane schiudendo leggermente le labbra.

“Non… non capisco a cosa tu voglia alludere. Siamo un gruppo di studenti come ce ne sono tanti.”

“A certo... per studiare, preparare esami e ridere spensierati fuori dai caffè… , ma per divulgare quello che volete divulgare non basta, te lo assicuro…”

“Cosa…”

"Ti prego di non offenderti per le parole di mia sorella, ma vedi Michiru, se nelle vostre intenzioni ci dovesse essere una matrice politica a danno dell’attuale governo, bè è consigliabile che vi muoviate con maggior prudenza di quella dimostrata oggi e comunque in maniera più coordinata.”

Michiru aveva così compreso che di fronte a quelle due ragazze, nate e cresciute in un ambiente militare e fortemente populista, non avrebbe mai potuto “giocare sporco”. Minako, dall’aria superficiale e frivola e sua sorella Usagi, buontempona ed innocente, nascondevano un qualcosa di molto più segreto di un semplice pacco di volantini. La freddezza nel rispondere della più grande e la lucida semplicità che traspariva da ogni fibra del corpo della più piccola, lasciavano in Michiru una serie di pesanti domande. Chi erano in realtà quelle due e cosa nascondevano dietro la normalità delle loro vite?

Afferrando la vestaglia ed alzandosi dal materasso, perse lo sguardo agli arabeschi del tappeto accanto al letto quasi del tutto nascosti dalla semi oscurità. E non avevano dimostrato paura o soggezione neanche per l’autorità sprigionata da un tipo come Hairàm. Guardandosi intorno ancora stretta per un braccio, Usagi gli aveva sorriso come se fosse stato un vecchio compagno di giochi e quando lui aveva iniziato a sommergerla di domande, lei aveva risposto candidamente ammettendo che nessuna delle due avrebbe mai fatto parola con chi che sia di quel nascondiglio “segreto”.

“Usagi..., devo ammettere che hai avuto un gran coraggio questa mattina a parlare così schiettamente al leader del nostro gruppo.” Aveva confessato Michiru mentre la macchina correva verso la loro abitazione.

"Grazie e a tal proposito vorrei che tu mi togliessi una curiosità. Perché è quel ragazzo ad essere il capo e non tu?” E ancora quel modo di guardare le persone come se riuscisse ad intravedere in loro chissà quale scrigno meraviglioso.

Già, perché? “Non sono un leader e non voglio esserlo. Mi basta che le mie idee vengano rispettate e giudicate per la loro valenza.” Aveva confessato con un po’ di sforzo guardando fuori dal finestrino i palazzi in stile Liberty tipici di quella parte di città.

“Vedi Michiru, mia sorella Usagi può anche essere una piagnucolona alle volte anche troppo infantile, ma ha il grande dono di capire immediatamente di quale pasta siano fatte le persone. Chiamalo intuito o… sesto senso se vuoi, ma se afferma che dentro di te batte il cuore di un leader, allora ti consiglio di darle ascolto.” Aveva ammesso Minako lasciandola ancora più spiazzata.

Una volta arrivate davanti alla piccola villa dove risiedeva la famiglia Aino, la ragazza più grande le aveva salutate raccomandandosi per l’ennesima volta di non far parola con nessuno di quello che avevano visto e compreso, ed accomiatandosi da loro si era fatta riportare a casa desiderosa di potersi finalmente congedare dalle preoccupazioni della giornata suonando qualche brano con il suo violino.

“Oggi il mettere l’archetto sulle corde non è servito a nulla, vero Michiru?!” Si disse stringendosi la cinta della vestaglia alla vita andando alla finestra per aprirla e lasciar passare cosi' un po’ d’aria.

La brezza notturna invase quasi nell’immediato la stanza, mentre lei prendeva ad inalarla lentamente. Grazie al cielo il signor Takaoka era un uomo più che affidabile e non avrebbe mai rivelato ad Alexander la conversazione che a larghi tratti aveva sentito tra le tre ragazze, come tutto quello che nei mesi precedenti aveva scoperto della figlia del suo padrone.

Perdonami papà, non vorrei mentirti sempre, ma non credo che riusciresti a capire quanto male io provi giornalmente nel sentirmi tanto diversa dagli altri e perdendo lo sguardo alla parte bassa di una dormiente Buda, scorse le luci della sua gemella; la caotica e rumorosa Pest.

 

 

i sogni sotto il cielo di Pest.

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh.

 

Sentendosi le spalle indolenzite Johanna sgrullò le mani ancora parzialmente insaponate afferrando poi il catino per rovesciare l’acqua nel lavabo. Era stanca, ma tutto sommato si sentiva soddisfatta, sia per la cena preparata a quei due lupi con lo stomaco senza fondo del padre e della sorella, sia per l’aggiudicazione della commessa. Da li in avanti avrebbero dovuto lavorare come forsennati per cercare di rispettare l’organigramma che sarebbe stato imposto loro dal Ministero dei Trasporti. Non avrebbe avuto più il tempo per far nulla; vedere i suoi amici, studiare, frequentare o sostenere gli ultimi esami che le sarebbero serviti per l’agognata laurea alla quale il padre teneva tanto. In pratica sarebbe rimasta segregata in fabbrica con un genitore ed una sorella completamente fuori fase.

Dal carattere simile, Jànos ed Haruka non reggevano la pressione e non sarebbe trascorso molto tempo prima di un’epocale trasformazione, neanche tanto figurata, in due leoni stretti nella medesima gabbia.

“Sei stranamente silenziosa questa sera.” Johanna avvertì la voce profonda del sua apa provenire dalla poltrona del soggiorno sulla quale sedeva ogni sera dopo aver mangiato per fumare la sua pipa, leggere il giornale cittadino ed ascoltare un po’ di buona musica alla radio.

“Stavo solo pensando che non appena entreremo nel piano dei lavori, tu e Ruka inizierete a punzecchiarvi.” Asciugandosi al canovaccio lo sentì ridere.

“E’ un modo come un altro per stemperare la tensione.” Ammise aspirando a pieni polmoni. Il giornale parlava della loro “vittoria”. Un articolo in terza pagina con nel mezzo il disegno di come sarebbe stato il ponte dopo l’inaugurazione.

“Magari lo sarà per voi, ma per tutti quelli che vi stanno intorno un po’ meno… Ruka di grazia, quando intendi finire di sparecchiare?” Chiese con voce sostenuta non immaginando che con la voglia di leggere la prefazione di un libro di testo abbastanza importante, riscaldata dal vino bevuto a cena ed abbattuta dalla stanchezza di quell’esaltante giornata, la bionda aveva adagiato la testa alle braccia intrecciate sulla tavola perdendosi nel sonno.

“Credo che il cucciolo sia crollato Johanna.”

Affacciandosi alla porta lei sospirò stirando le labbra. “Ne conosce sempre una più del diavolo per evitare di entrare in cucina.”

Andandole vicino se la guardò scuotendo la testa mentre le accarezzava la frangia.

“E’ stato un giorno lungo, porta pazienza figliola.”

“Mmmm… lo è stato per tutti. Tendi sempre ad essere troppo indulgente con lei apa.” Lo rimproverò bonariamente.

In effetti la sorella non dava mai o quasi una mano in casa e toccava sempre alla maggiore fare tutto, ma era pur vero che Haruka si spezzava la schiena al lavoro ed era sempre china sui libri.

Se non ti volessi tanto bene finirei con l’ucciderti nel sonno, zucca vuota, pensò afferrando il paniere e la bottiglia di vino vinta da quel sentimento di protezione che aveva sempre manifestato per la sorella e che era andato acuendosi dopo la morte della madre. Avrebbe fatto qualunque cosa per lei e negli ultimi anni lo aveva dimostrato cercando di farle da esempio, dilatando i suoi tempi di permanenza universitari pur di permettere alla minore di finire il liceo, di fare apprendistato in fabbrica dietro ai migliori tecnici della CAP e di studiare per entrare alla BME con la soddisfazione di una buona borsa di studio che avrebbe sgravato le spese della casa. Non se ne pentiva Johanna e non lo avrebbe mai fatto, perché l’avere Haruka per lei era la cosa più importante del mondo e lo aveva capito sin da quella fine di gennaio di venti anni prima, quando dopo giorni di vero terrore dove per causa di una nascita prematura aveva rischiato la vita, la secondogenita di Jànos aveva battuto ogni nefasta previsione medica sopravvivendo e riuscendo finalmente ad uscire dall’ospedale. Da quando aveva saputo che sarebbe diventata una sorella maggiore da una madre trepidante ed un padre in completo brodo di giuggiole, Johanna aveva cercato infantilmente di opporsi in tutti i modi alla cosa, arrivando persino a salire sul tetto della loro casetta a schiera per gettare nel panico mezzo quartiere pur di urlare a squarcia gola a tutto il mondo che MAI avrebbe accettato la cosa. Poi, dopo tanti tira e molla e compromessi di ogni genere, quella bambina di quattro anni aveva dovuto piegarsi al fatto che non avrebbe più avuto una stanza tutta sua e l’amore esclusivo dei genitori ed attendendo seduta con il nonno sulle scale di casa l'arrivo di quel mostro usurpatore, aveva rimuginato vendetta fino a vedere la macchina di Jànos far capolino dalla strada. Ma una volta che l'auto si era fermata davanti al civico e la madre ne era uscita stringendo al seno un ammasso di coperte, era bastato uno sguardo, una manina tesale da quel fagotto con quattro capelli chiari messi in croce e gli occhi verdi più grandi che avesse mai visto, a fregarla per tutto il resto della sua vita. Da quel giorno Johanna Tenoh sarebbe stata lo scudo dell’altra, o almeno ci avrebbe provato con ogni stilla di forza posseduta.

“Si, ma cascasse il mondo domani sera mi darai una mano.” Minacciò mentre la bionda muoveva impercettibilmente le palpebre ormai catturata da uno stranissimo sogno.

Il Danubio scorreva lento come sempre e lei lo guardava ferma ritta in piedi con le braccia dimenticate lungo i fianchi. Il vento soffiava leggero, mentre i lampioni dalle grandi sfere vetrate illuminavano la pavimentazione cadenzando le banchine d’attracco con una vaga luce ambrata. Tutto intorno a lei era intrisa da una strana aria innaturale fatta di colori a tinte blu e verdi. Era notte, il cielo illuminato a “giorno” da una luna quasi del tutto formata. Di fronte, dalla parte opposta della riva, addormentato, il primo distretto di Buda ed alla sua sinistra un ponte a tripla arcata, strallato e completamente forgiato nell’acciaio.

Gonfiando il petto riconobbe in quelle linee il lavoro di mesi. Tenendo sempre fisso lo sguardo su quell’opera imponente, iniziò ad avvicinarsi alla spalla e man mano che avanzava, lui diventava sempre più maestoso, tanto che arrivata a varcare con il passo l’asfalto della prima campata, un brivido le sferzò la pelle costringendola a fermarsi e ad alzare la testa sui cavi e poi oltre; al cielo. E nel cielo lo vide. Un falco dal volo nervoso, scendere per poi risalire più volte tra il ferro della struttura. Sorridendo tornò a camminare seguendolo e muovendo il collo come ipnotizzata. A destra, poi a sinistra per poi tornare nuovamente a destra, in alto, in basso. Rimase a guardarlo per interminabili istanti per poi intravedere il sopraggiungere un altro uccello, di gran lunga più grande del rapale. Placido si avvicinò così tanto che Haruka riuscì a vederlo abbastanza bene, ma non a riconoscerlo. Completamente diverso dall’altro, sia come stazza, colore, e forma, sia per il comportamento di un volo lento e lineare, si affiancò al più piccolo iniziando a percorrere assieme un tratto della volta celeste. In un primo momento il falco sembrò non gradire la sua vicinanza, scattando e modificando più volte traiettoria come a volerlo seminare, ma indomito, l’altro continuò a seguirlo sbattendo sicuro le ali.

Haruka riuscì a seguirli sino a quando non scomparvero verso le mura del castello di Buda.

 

 

Patti notturni

Buda – Distretto II, Villa Sàrin.

 

“La cena è stata deliziosa signor Sàrin. Vi ringraziamo ancora per l’invito.” Sbrodolò Nagyry alle spalle di colui che era il Ministro dei Trasporti e perciò una delle personalità di spicco del parlamento ungherese.

“Sono lieto che vi sia piaciuto il pollo alla paprika. E’ un sapore che non tutti apprezzano.” Condendo la risposta con una fragorosa risata invitò Andràs ed un taciturno Alexander nel salottino che si apriva accanto alla camera da pranzo, dove il conforto di un ambiente di buon gusto, due divani con comode sedute in velluto blu e rosso ed una bottiglia di Cognac, li stavano aspettando per concludere la serata.

Il signor Sàrin aveva voluto dalla Kaioh Bank tutte le garanzie possibili sulla commessa vinta dalla CAP e gli altri due gliele avevano date convincendolo che quell’apparente azzardo finanziario per il Ministero dei Trasporti non sarebbe stato tale.

“Sia che l’organigramma imposto alla C.A.P. venga rispettato o meno, il Ministero non avrà problemi se firmerà la clausola contrattuale che vi stiamo prospettando.” Aveva azzardato Nagiry durante la cena attirandosi contro lo sguardo stupito dell’uomo e quello non certo accondiscendente di Alexander.

Ovvio che sarebbe stato vantaggioso. Estremamente vantaggioso. Se infatti la costruzione del ponte fosse proceduta nel rispetto della tempistica, lo Stato avrebbe avuto il guadagno di avere un nuovo collegamento tra Buda e Pest, ma se nelle più disgraziate ipotesi questo non fosse accaduto, la Kaioh Bank si sarebbe rivalsa sulla CAP chiedendo la restituzione immediata del prestito con i relativi interessi ed una quota parte di questo voluminoso giro di denaro sarebbe stata versata nelle casse del Ministero dei Trasporti. Azione finanziaria questa, che ad Alexander non piaceva per niente.

Con quella che dalla fine della guerra era diventata una prassi consolidata in tutto il paese, mai del tutto ammessa, ma di fatto torbidamente in uso per qualsivoglia opera pubblica, per ottenere il permesso di prestare a terzi somme di una certa importanza, le banche private dovevano a loro volta sottoscrivere con lo Stato un contratto che tutelasse quest’ultimo in caso di problematiche. Una sorta di “indennizzo” o “tassa ombra” che andava ad arricchire le alte schiere del potere a danno degli stessi istituti di credito, che guadagnavano si, ma fino ad un certo punto.

“Il contratto che mi avete fatto vedere tra la CAP e la Kaioh Bank è molto dettagliato e non lascia clausole interpretative. - Disse il ministro versando il liquido in tre Ballon mentre gli altri due andavano a sedersi su uno dei divani. - Per quanto riguarda invece noi e voi, avrei piacere di rivedere la percentuale in caso di un fallimento della Cooperativa.”

Alexander evitò di sorridere. Erano stati sufficientemente generosi a concedere il trenta percento, ora quell’individuo voleva portare ulteriore acqua ai padroni che stavano gestendo da anni il paese.

Non guardando neanche Nagiry, Kaioh parlò saltando preamboli inutili e chiedendo direttamente a quale percentuale il politico avesse pensato.

“Il quaranta. Mi sembra giusto e decoroso per il nostro Stato.”

No, per Alexander non era ne giusto, ne decoroso, perché quel denaro sottratto con una scrittura privata alla sua banca non sarebbe andato al popolo, ma al Regime e ai maiali che grufolavano nel gran calderone della corruzione interna. E’ vero, lui era un banchiere e come tale si era arricchito sugli altri, ma aveva sempre cercato di venire incontro ai suoi creditori o ai risparmiatori, usando i tassi d’interesse più bassi del paese.

“O su andiamo signor Kaioh non fate quella faccia, lo sappiamo tutti che in un piatto dove si mangia in uno, con un po’ di buona volontà ci si può mangiare anche in due, no?”

Nagiry rise, ma ad Alexander parve un’uscita completamente fuori luogo. Fissando serio il Ministro abbassò la percentuale al trentacinque attendendo. Gli stava scoppiando la testa già dalla prima forchettata ingoiata in quella disgustosa serata e non aveva certo voglia di contrattare come se fossero stati in una casba. Conosceva benissimo la CAP e credeva cecamente nelle sue potenzialità, ma anche se sicuro che la cooperativa guidata da Jànos Tenoh sarebbe riuscita a portare a fine la commessa non facendo intervenire le rivalse contrattuali della sua banca, se disgraziatamente si fosse palesato uno slittamento nella consegna del cantiere, non avrebbe comunque dato la soddisfazione a Sàrin di mangiarsi una “fetta di torta” tanto grossa.

Porgendo i bicchieri agli ospiti per poi afferrare il proprio, il padrone di casa, uomo corpulento dalla testa quasi del tutto stempiata degna incarnazione del politico medio, rise prendendo posto davanti ai due. “Signor Kaioh, signor Kaioh… quanta arroganza in un uomo che per il nostro paese non ha neanche indossato una divisa.” Colpì convinto di ferire.

“La nostra banca non è solita trattare percentuali tanto importanti, ma per il Ministero potremmo sempre fare uno strap…”

“Nagiry!” Lo bloccò Alexander piatto.

Non scomponendosi accavallò le gambe iniziando a far roteare leggermente il bicchiere panciuto rispondendo alla frecciata dell’altro con altrettanta sagacia. “Non si tratta di arroganza Ministro, ma di affari. Converrà con me che quello che stiamo stipulando fra noi non può certo considerarsi un accordo… cristallino.”

“O su via, non vorrete venirmi a dire che in caso di rivalsa su quella cooperativa di Pest, per una tale percentuale la Kaioh Bank andrebbe fallita?”

“Non sto parlando di soldi, ma del buon nome del nostro governo. Ministro cosa accadrebbe se le condizioni del nostro innocente sodalizio economico dovessero uscire fuori da queste mura? - Lo vide dilatare gli occhi continuando con una calma ferale. - Gli schieramenti politici più liberali non sarebbero contenti di avere la certezza che tra le banche private e lo Stato ci siano certi accordi, soprattutto con i tempi che corrono…”

Concluse sapendo che se ci fosse stata una qual si voglia fuga di notizie, in quanto ente pubblico sarebbe stato il Ministero dei Trasporti ad uscirne maggiormente colpito e non certo una banca come la sua. Da calabrone a farfalla l’altro si ritrovò punto sul vivo e stizzito trangugiò il distillato gettandoselo nella gola.

“Signor Sàrin non prendetevela a male, ma…”

Cercò improvvisamente di mediare Nagiry.

“Ho inteso perfettamente. Comunque, il Ministero del quale sono un umilissimo servitore mi ha dato carta bianca perciò credo che per evitare di rovinare questa piacevole serata... accetterò la vostra proposta.”

Andràs sembrò sollevato mentre diventato un viso di pietra completamente inespressivo, Alexander si portava il vetro alle labbra iniziando a sorseggiare il liquido. Anche se l’aveva spuntata con una sottilissima stoccata non sentiva di aver vinto. Al mal di testa andò a sommarsi quasi nell’immediato un velato senso di nausea. Spero che tutto questo teatrino non serva, Jànos pensò guardando l’orologio da polso facendo intuire agli altri due la sua intenzione di chiudere li la serata.

Venti minuti più tardi erano entrambi seduti sul sedile posteriore della macchina guidata dal fidato Takaoka diretti verso le rispettive abitazioni. Nagiry era entusiasta anche se Alexander non se ne spiegava il perché. Da azionista di minoranza avrebbe certamente osservato tutta l’evoluzione del cantiere del ponte, ma sarebbero state quelle di Kaioh tutte le firme su qualunque documento redatto.

“Mi sembrate taciturno Alexander.” Se ne uscì mentre il mezzo imboccava una strada secondaria.

Era vero, perché parlare se non sentiva di avere nulla da dire?

“Devo ammettere che sono abbastanza soddisfatto di come siamo riusciti a condurre in porto l’affare. - Continuò azzerando la pazienza dell’altro. - Non abbiamo mai allacciato rapporti con un Ministero tanto importante.”

Siamo riusciti? Pensò Alexander stirando stancamente le labbra.

“A proposito Andràs… non ho gradito la prontezza con la quale eravate disposto a cedere all’offerta fattaci dal signor Sàrin. Ricordatevi che il responsabile, nonché titolare della Kaioh Bank sono io e spetta sempre e solo a me l’ultima parola. In qualunque affare. Per qualsivoglia importo. Spero che da oggi in avanti lo terrete a mente.”

Rimanendo di sasso Nagiry contrasse la mascella. Erano più di dieci anni che lavoravano insieme e mai sodalizio lavorativo era stato più squilibrato. Iniziava però a non tollerare più di essere relegato al semplice ruolo di comparsa.

Spostando lo sguardo alle abitazioni che stavano correndo lungo la parte ovest del secondo distretto, Alexander pensò con rammarico che vista l’ora per l’ennesima volta non avrebbe potuto dare la buona notte alla sua dolce bambina. Michiru era ormai una donna fatta e non necessitava ne richiedeva più da tempo coccole o abbracci, ma nonostante questo, ogni qual volta non riusciva a rincasare per tempo, come padre si sentiva in difetto.

Scorgendo distrattamente una piccola villa dal tetto grigio verde e dal giardino curatissimo lasciò che i pensieri volassero al passato, non potendo neanche lontanamente immaginare che proprio al secondo piano di quella che era la casa della famiglia Aino, in quel momento due ragazze stessero parlando proprio della sua Michiru.

“Forse non avremmo dovuto esporci tanto con Kaioh. Mi da l’impressione di essere una ragazza molto intelligente e potrebbe arrivare a capire cose di noi che per adesso è meglio che non sappia.” Altri due colpi di spazzola ai suoi lunghissimi e lucenti capelli biodi e Minako abbandonò l’oggetto sul piano del comò da bagno.

La sorella minore fece altrettanto. “La colpa è stata mia Mina, scusa. Non avrei dovuto dire quello che ho detto al ragazzo che ti piace, ma converrai con me che quel branco di universitari sono davvero degli incompetenti.”

“Anche se quel leader approssimativo è e rimane un grandissimo bel pezzo d’uomo, non chiamarlo il ragazzo che ti piace, ha un nome ed un cognome; Hairàm Ferhèr. Comunque non divaghiamo.”

“Non sto divagando. Di tutti i gruppi studenteschi contrari al Regime, La Voce di Buda mi sembra quello meno organizzato e più facilmente sopprimibile.”

Rimanendo seduta su uno degli sgabelli presenti nel loro bagno mentre l’altra si alzava dal suo per andare verso la porta che dava accesso alla sua camera, Usagi sorrise tristemente chiedendo se avebbero dovuto iniziare a seguire solo Michiru o tutti i componenti del gruppo.

“Per adesso sarà meglio agire a largo spettro cercando di farci accettare, poi non appena riusciremo a capire che potenzialità hanno, decideremo se e come agganciare Kaioh. Ci muoveremo con circospezione Usa, anche se credo tu abbia ragione sai; è un gruppo facilmente sopprimibile.”

 

 

 

NOTE: Ciau, scusate il ritardo, ma ho avuto un periodo un tantino impicciato.

Le ultime frasi aprono scenari leggermente “oscuri”. Chi sono queste due ragazzine? Stanno solo “giocando” a fare le Mata Hari o nascondono qualcosa di veramente misterioso?

Nel prossimo capitolo assisteremo al primo incontro tra Buda e Pest e credo che sarà abbastanza particolare.

A prestissimo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo III

 

 

E vidi le tue ali

Buda – Distretto I – Settembre 1950

 

 

Si diede ancora qualche secondo e poi impose alle gambe di accelerare sentendo quasi nell’immediato l’aumento del sincrono cardiaco. Cento metri, duecento, trecento. Stringi i denti Michi. Fino alla fontanella, dai pensò inalando ossigeno correndo verso l’agognata meta già ben visibile dalla parte opposta della strada, lungo il fiume. Mantenendo il ritmo dello scatto oltrepassò la cancellata del parco dov’era solita correre da ormai un mese, avvertendo nei muscoli dei piedi il cambio della superficie. Passando dal brecciolino dei viottoli al rivestimento liscio del marciapiede, le suole delle scarpe da corsa sembrarono come ammorbidirsi di colpo provocandole sollievo. Arrivò all’angolo con il vialone principale e voltando la testa in entrambe le direzioni coprì rapidamente la carreggiata ancora poco frequentata dai veicoli. Davanti a lei il Ponte della Libertà ed immediatamente sotto il Danubio, che anche per quell’alba sembrava porgerle il suo buongiorno. Accattivante. Fluido. Ammaliatore.

Ormai era diventato un incontro fisso il loro, un impegno improrogabile, sia che ci fosse pioggia, sole o la nebbia di quella mattina di fine settembre. I primi giorni di allenamento erano stati per lei devastanti, tanto che aveva dovuto grattare fino all’ultima oncia di volontà per costringersi a continuare quel supplizio al quale la sua sconsideratezza l’aveva portata. Era partita forte con il suo “programma ginnico”, ignara di quel che volesse dire iniziare improvvisamente un’attività fisica competitiva, impersonificando scioccamente il così detto passo più lungo della gamba.

Il giorno nel quale aveva deciso che avrebbe partecipato alla gara di corsa della Festa della vendemmia si era ripromessa che si sarebbe allenata e così aveva fatto. L’inizio di quella tortura, le sei di un lunedì, l’aveva vista vestirsi di tutto punto; calzoncini, maglietta, calzini, scarpe, una comoda coda di cavallo ed una massiccia dose di buona volontà e poi via, verso una zona indecifrata del suo distretto, una strada presa a caso. Inizialmente aveva trotterellato quasi timorosa, ma visto che con il passare dei minuti aveva sentito il corpo rispondere positivamente, aveva accelerato non badando alla vocina della sua intelligenza che le urlava di fermarsi e continuando si era ritrovata in quel parco percorrendone poi il perimetro prima di rientrare verso casa. Tutto sommato era stata un’uscita più che positiva. Non sapeva quanti chilometri avesse percorso, ma sicuramente pari a quelli stabiliti per la gara. Rinfrescata da una doccia corroborante e rivestita con abiti più consoni, era poi andata alla BME come se nulla fosse sentendosi solo leggermente spossata. Il pomeriggio lo aveva passato a studiare e dipingere, mentre verso sera una fame anomala aveva iniziato a farsi largo tra le pieghe del suo stomaco provocandole rumorosissimi crampi come in casa Kaioh non se n'erano mai sentiti. Crollando subito dopo cena trasformatasi in un ciocco stagionato, aveva infine dormito come un animale da tana per tutta la notte. Ma era stata la mattina successiva ad essere tragicomica.

Aveva aperto gli occhi ancor prima di essere svegliata dalla domestica, stiracchiandosi tra le lenzuola come una gatta per poi scansarle pronta ad alzarsi e li, insospettatamente, ma inesorabilmente, una miriade di spilli le avevano fucilato le gambe stramazzandole il respiro nella gola. Dilatando gli occhi li aveva poi serrati stringendo denti e mani gemendo soffiando un semplice, ma esaustivo Ahi.

Erano serviti tre giorni alle sue fasce muscolari per tornare quelle di prima. Così aveva ripreso ad allenarsi, ma questa volta con parsimonia ed attenzione, percorrendo un chilometro alla vota, un giorno alla volta, una settimana alla volta, fino a sentirsi scattante e pronta.

Aprendo il rubinetto della fontanella lasciò che l’acqua gelata le sferzasse i polsi facendole contrarre i muscoli della schiena, poi si dissetò ampiamente ed infine si sciacquò il viso più volte passandosi i palmi ancora bagnati sulla pelle delle braccia provando piacere. Si sentiva bene. Non avrebbe mai creduto che della sana e semplicissima attività all’aperto le potesse portare tanto giovamento. Il rapporto con gli altri era migliorato rendendola più serena e solare, la concentrazione nello studio era andata via via intensificandosi e fisicamente non si era mai sentita tanto in forma. Era pronta a gareggiare con qualunque atleta l’avesse voluta sfidare lungo le strade della collina del castello di Buda, qualsiasi ragazza, fosse stata anche veloce come un falco o il vento stesso.

Già, un falco. Michiru guardò la struttura del Ponte della Libertà che si apriva accanto a lei ancora semi nascosta dalla nebbia. Adorava lo stile con il quale era stato costruito; un Art nouveau magnifico, così possente, ma al contempo elegante, come se gli Architetti che ne avevano disegnato le forme avessero voluto simboleggiare le due facce di una stessa medaglia. La possanza e l’eleganza; la componente maschile e femminile di un’unione. Concentrandosi rendendo gli occhi due fessure, riuscì a scorgere i quattro animali alati posti a guardia del cielo cittadino di Buda e Pest.

Incamminandosi verso il primo pilone Michiru continuò a guardarli iniziando il defaticamento. Da quando circa un mese prima li aveva visti stagliati contro l’azzurro, aveva iniziato a sognarne uno quasi tutte le notti. Un piccolo falco dagli occhi profondi, verdissimi e guardinghi, tanto che una mattina a colazione ne aveva parlato con il padre. Alexander, che da quando la figlia era stata sufficientemente grande per capire le aveva narrato la mitologia magiara, l’aveva ascoltata con un certo interesse sbiancando subito dopo la fine del suo racconto notturno.

“Amore te lo ricordi l’episodio del sogno della madre del principe Almos?” Le aveva chiesto dimenticando tra le dita la tazza di caffè e lei innocentemente gli aveva risposto di si.

“Ne sei proprio sicura?”

“Ti ho detto di si papà. Scusa, ma adesso che c’entra il sogno di Emese con il mio?!” E si era stizzita da quello strano senso di disagio manifestato dal genitore.

“E no Michiru, non mi sembra che tu…”

“Un Turul, dopo aver fecondato Emese le apparve in sogno annunciandole che avrebbe dato all’Ungheria un grande re. Corretto? Io non…” Bloccandosi improvvisamente la ragazza era diventata paonazza.

“Papà! Ma cosa vai a pensare!?”

“Anima mia, sei una così bella ragazza che è normale che prima o poi…”

“Prima o poi che!? Per tua informazione non sto frequentando nessuno ed è perciò assolutamente impossibile che io sia... Che aspetti un… Insomma, hai capito.”

Alexander aveva tirato allora un sonoro sospiro di sollievo sorridendole. “Allora vorrà dire che un falco sta per entrare nella tua vita e sarà foriero d’amore.” E tornando a bere il suo caffè l'aveva lasciata ancor più interdetta di prima.

Sistemandosi la coda di cavallo Michiru sbuffò ricordando quell'assurdo presagio. “Ah papà, tu e le tue tradizioni. Alle volte mi sembra di sentir parlare nonno Kōtei.”

Arrivata quasi fin sotto alla seconda guglia, a più di due terzi del ponte, la ragazza scosse la testa guardando uno dei due Turul a guardia di Pest. Che razza di padre aveva; romantico fino all’inverosimile. Ma dico io, come gli sarà venuto in mente.. un falco foriero d’amore. Sono proprio nel periodo giusto per provare un sentimento del genere si sfotté spostando le iridi sulla banchina verso il quinto distretto. E tra la nebbia che stava velocemente alzandosi e gli attracchi delle chiatte mercantili che stavano scaricando la merce giornaliera, lo vide. Un giovane alto, biondo, dalla pelle imperlata di sudore e la falcata ampia e sicura, correre fino alle scale che salivano dall’argine alla spalla del ponte.

Cercando di metterlo a fuoco ne inquadrò il viso concentrato e lo sguardo fisso di chi ha un punto immaginario da inseguire nella mente, ed ebbe un brivido. Bello. Era bello come un dio greco e spinta come da una planetaria forza d’attrazione velocizzò il passo cercando d’incrociarlo alla fine del porte. Non vi riuscì. Cambiando rapidamente direzione lui evitò un furgone attraversando rapidamente la strada.

E’ veloce come il vento. Come un falco pensò rabbrividendo una seconda volta a quel pensiero. Poi qualcosa nel corpo di quel giovane la colpì. Ormai sufficientemente vicina non poté non notare le forme morbide del torace e dei glutei.

“E’ una ragazza?!” Ed il suo cuore tornò a battere veloce come durante la sua corsa, mentre le campane della chiesa di San Mattia iniziavano la loro cadenzata squilla.

Porca… le campane. Sono in ritardo! Zigzagando tra una fila di paletti Haruka scattò per una cinquantina di metri diretta verso casa. Iniziava ad essere stanca, ma doveva tener duro. Non poteva certo permettersi il lusso di arrivare tardi in fabbrica proprio ora che le opere di trivellazione erano iniziate. Doveva riuscire a concludere il suo allenamento, lavarsi, cambiarsi e buttar giù un boccone prima che il padre e la sorella fossero usciti.

Corri accidenti a te… Corri! Salendo i gradini di una scalinata che metteva in comunicazione due zone dal notevole dislivello, si ritrovò tra i sobborghi del quinto distretto. Quella mattina aveva deciso di cambiare strada spezzando la monotonia del suo solito tragitto. Le era capitato ancora di sognare il Danubio e quello stranissimo uccello bianco e nero e forse per questo era arrivata a lambire quella zona centrale per lei così fuori mano. Non amava il centro cittadino e nello specifico la parte della ricca ed altolocata Buda, fatta di palazzi storici dalla pietra grigia e dalle ville dai giardini curati. Lei era figlia della caotica e popolare Pest, del colore caldo dei mattoni delle sue fabbriche e degli intonaci colorati delle case popolari. Ma tanto sta che ora era li e già non vedeva l’ora di tornare indietro.

Si era convinta a prendere quella gara di corsa sul serio e spinta da Jànos e dalle pedate di Johanna, aveva iniziato a svegliarsi prima dell’alba per uscire ad allenarsi. Mai scelta era stata più sofferta. Haruka amava dormire, poltrire era la parola giusta e più le giornate diventavano fredde ed uggiose e meno si riusciva di tirarla fuori dal letto. Fin da bambina aveva imparato a sfruttare ogni istante dei canonici cinque minuti pur di crogiolarsi il più possibile nel tepore delle lenzuola. Ma questa volta aveva fatto le cose per bene, esercitando corpo e mente pur sapendo di non averne affatto bisogno. L’aggiudicazione della commessa aveva galvanizzato tutta la sua famiglia e lei per prima. Avrebbe sudato, gareggiato e vinto anche quella personalissima sfida e lo avrebbe fatto triturando i suoi limiti e perché no, anche le avversarie.

Fermandosi in pasticceria per acquistare al volo tre kurtőskalács, puntò verso il perimetro meridionale del sesto distretto e venti minuti più tardi svoltò nella strada dalle case a schiera che l’avevano vista crescere. Salutando il lattaio ed una signora scesa per far fare la passeggiata al cane, aprì il cancelletto di casa salendo i gradini a due a due come al suo solito. Pur se curiosa della vita amava tornare al nido, lei falco pellegrino bramante della solitudine e della sua piccola famiglia.

“Giorno.” Esordì sentendo nell’aria l’odore di caffè.

“Sei in ritardo come al solito!” La redarguì Johanna dalla cucina.

“Lo so, lo so. Dov’è pà?” Chiese togliendosi le scarpe con l’aiuto delle punte dei piedi.

“E’ uscito mezz’ora dopo di te. Doveva preparare gli ambienti per l’acciaio. Dovrebbe arrivare via fiume questo fine settimana.”

“Se avessimo forni più potenti potremmo fondercelo da soli!”

“Se avessimo forni più potenti ci chiameremmo Ganz! Dai vai a farti una doccia e poi vieni a fare colazione. Sarai affamata.”

Entrando in cucina a piedi scalzi la bionda aprì il sacchetto mettendolo sul tavolo pronta per sedersi e ricevere la sua dose giornaliera di caffeina. “Mi lavo dopo!”

“No Haruka… ti lavi ora!” Intimò l'altra guardandola male.

“Che differenza fa!”

“La differenza sta nel fatto che sei sudata marcia e così rischi che ti si freddino i muscoli e poi… puzzi. Dai cammina, ti aspetto!”

“Che palle!” Di malavoglia lasciò il legno della sedia imboccando la porta e poi le scale che portavano al piano superiore.

“Hai una camicia pulita sulla traversa della sedia.” Urlò la maggiore sentendo il furgoncino del lattaio avvicinarsi.

“Grazie cosa farei senza di te!” Canzonò entrando in bagno.

“Moriresti di fame puzzando come un tasso morto.” Borbottò Johanna andando ad aprire la porta di casa.

 

 

Pest – Distretto VII, Fabbrica C.A.P.

 

Tirando su con il naso Jànos si grattò la nuca contrariato. Gli spazi disponibili che la fabbrica aveva per lo stoccaggio dei materiali per la prima parte della campata, erano angusti e completamente insufficienti. Nelle misurazioni i loro tecnici sarebbero dovuti essere più precisi. Ora si ritrovavano con una partita d’acciaio in arrivo dal nord e pochissimo tempo per porre rimedio ad un potenziale disastro.

”E’ proprio un gran casino vero Presidente?” Rimarcò Scada Erőskar, uno dei cofondatori della CAP, nonché grande amico di Jànos.

“Puoi dirlo forte! Ma si può sapere chi ha fatto i rilievi del magazzino?!”

“Non tua figlia!” Scoppiando in una fragorosa risata gli diede una pacca sulla spalla.

Scada era per Jànos il fratello che non aveva mai avuto. Sempre pronto a spalleggiarlo in qualsiasi occasione erano diventati inseparabili ancor prima delle elementari, frequentando poi le medie ed il liceo nella stessa classe. Abitando l’uno di fronte all’altro avevano visto la loro prole crescere giocando per la strada con qualunque condizione atmosferica e verso la fine della guerra, avevano combattuto fianco a fianco l’Armata rossa in quella che sarebbe passata agli annali come la Battaglia di Budapest.

Sorridendo fiero l’altro colpì il piccolo lucido con il dorso della destra ammettendo che non fosse la scrittura di Johanna.

"Jo e' una casinista, ma di questi errori non ne fà."

“Non preoccuparti amico mio, in qualche modo faremo. In fin dei conti lo stoccaggio dell’acciaio non è permanente e non appena saranno finite le fondazioni non servirà più che lo si porti qui, perché basterà scaricarlo dalle chiatte e metterlo in opera.” Disse convincente.

Questa volta fu il turno di Jànos di ridere. Il suo amico vedeva sempre il bicchiere mezzo pieno. “Si, ma voglio sapere chi è stato a disegnare questa porcheria. Adesso che siamo in ballo per questa commessa non voglio cialtronerie Scada!”

“Sono d’accordo, ma vedila con più serenità fratello.”

“Ma si, che diamine! Non sarà certo questo problemuccio ad impensierirci. Abbiamo vinto sbaragliando la concorrenza, ed è questa la cosa che più conta!”

“Giusto! Piuttosto dimmi, la piccola di casa è pronta per la gara?”

Sogghignando al nomignolo con il quale Haruka veniva chiamata da quello che in pratica era il suo padrino, confermò con una certa dose d’orgoglio che non l’aveva mai vista tanto in forma.

“Allora potremmo scommetterci su!”

“Si, ma che non le arrivi alle orecchie, perché se ne fregherebbe di chi siamo pretendendo una percentuale sulle vincite.” Disse tornando poi a ridere.

 

 

Provvidenziali interventi

Buda – Distretto I – Festa della vendemmia

 

La giornata era splendida. Nulla a che vedere con quel tempo orrendo dalla pioggia incessante che aveva battuto le strade della capitale per tutto il giorno precedente, rendendole paurosamente scivolose. Johanna si guardò attorno felice come una ragazzina, puntando i suoi occhi chiari alle bancarelle di dolciumi e cibarie varie disseminate attorno all’arrivo.

Francamente non ricordava molto di com’era quella festa prima che lo scoppio della guerra ne interrompesse la ritualità annuale, ma le dava comunque un senso di gioia, perché vedere le famiglie riunite imbastire le coperte per il consueto picnic di mezzogiorno sulle pendici del castello, la riportava con la memoria a quando anche loro quattro camminavano tra i tralci di viti appena messi a riposo cercando un posticino per disfare i cestini del pranzo. Sapeva che anche Haruka provava le stesse sensazioni anche se non aveva potuto godersi la madre tanto quanto lei. La sorella aveva solo dieci anni quando l’avevano persa e con un padre impegnato nell’esercito non era stato facile cercare di non farle mancare quegli affetti.

“Dove diavolo si è cacciata!?” Si sentì chiedere avvertendo una certa preoccupazione nel timbro di quella voce tanto potente.

“Arriverà apa, arriverà. Tranquillo.”

“Tranquillo un accidente! Ma sei sicura che sia riuscita a rotolare fuori dal letto?”

“Prima di andare in fabbrica ho chiesto alla signora Erőskar di svegliarla.”

“Dovevi rimanere a casa invece che venire al magazzino per cercare di mettere ordine tra i rilievi di quell’incompetente!”

Girandosi verso il padre inarcò le sopracciglia mettendosi sulla difensiva. “Ma se sei stato tu a chiedermi di darti una mano anche se è domenica.”

“Per tutti i Santi, Johanna… lo so! Non ti sto incolpando è solo che… Ma che fine avrà fatto quella disgraziata!”

Alzando gli occhi al cielo la figlia fece finta di niente. Quando Jànos entrava in quello strano stato mentale fatto d’apprensione paterna, si doveva lasciarlo cuocere nel suo brodo, perché qualunque cosa gli fosse stata detta sarebbe stato peggio.

“Allora dov’è la nostra campionessa?” Scada arrivò alle loro spalle pasturando ancor di più.

E no! Adesso ci si mette anche lui pensò la ragazza sorridendo forzatamente.

“Che vuoi che ne sappia!” Ringhiò Jànos guardandolo storto.

“Che hai?“

“Nulla! E’ che la signorina Tenoh ancora non si è degnata di comparire e la partenza è tra meno di un’ora! Tua moglie l’ha svegliata?”

“E che ne so! Ti ricordo che sono stato in cantiere fino ad ora e non sono certo passato per casa. Ma non agitarti troppo... Guarda eccola li.” Indicò un punto dove la bionda in tuta stava arrivando senza fretta facendosi largo tra la folla.

“Alla buon’ora.” Masticò Jo mentre uno strano profumo, che non avendolo mai visto non poteva certo sapere fosse di mare, le invadeva le narici spingendola a voltarsi.

Vide le spalle di una ragazza passare oltre stringendo una borsa da ginnastica. La seguì con lo sguardo fino a quando non la perse tra la gente.

Michiru si insinuò tra due bancarelle uscendo dal flusso pedonale per camminare più comodamente sul marciapiede. Rasentando una vera e propria fobia, non amava la calca ed anche se Hairàm era stato chiaro, era più forte di lei. Camminare tra le persone venute a vedere la gara sarebbe stato più sicuro. Non potevano sapere dove e quanti poliziotti in borghese fossero presenti in quell’occasione ed anche se un’atleta con una borsa a tracolla non avrebbe dovuto attirare sospetti, il condizionale d’obbligo la costringeva comunque ad essere il più accorta possibile. Forzandosi tornò a seguire il flusso fino a vederlo scemare in prossimità delle prime abitazioni; dei palazzi a sei piani risalenti agli ultimi anni del secolo precedente. Nonostante si trovassero in pieno centro quella particolare tipologia di nuclei abitativi potevano quasi considerarsi popolari ed usando un po’ di scaltrezza sarebbe stato facile accedervi.

Arrivando nei pressi del portone che il sopralluogo dei giorni precedenti aveva decretato essere quello più riparato e con una buona vista sulla parte terminale del percorso, Michiru si fermò lasciando la borsa sul muretto di cinta e facendo finta di controllarne il contenuto, aprì la lampo stirando le labbra all’asciugamano che stava usando per nascondere il suo vero contenuto. Sentendo l’ascensore mettersi in moto, s'inginocchiò temporeggiando iniziando ad allacciarsi meglio la scarpa destra. Meno di un minuto ed una signora uscì dal portoncino metallico e lei ne approfittò tenendole gentilmente l’anta per poi sgattaiolare all'interno. Un’azione tanto rapida ed apparentemente naturale che però non passò inosservata ad un paio di persone ferme nell’ombra dell’angolo del palazzo opposto.

“Hai visto con quanta freddezza è entrata?” Chiese la figura più alta ancora seminascosta.

“Le viene naturale. Te l'ho detto; la signorina Michiru Kaioh è un soggetto da tenere fortemente in considerazione.”

Infilandosi nell’ascensore e premendo il bottone dell’ultimo piano si poggiò alle grate metalliche della cabina cercando di frenare l’adrenalina. Calmati Michiru, respira si disse sentendosi già esausta. Sapendo che la porta che dava accesso ai lavatoi era sempre aperta, salì rapida l’ultima rampa di scale non trovando alcuna difficoltà nell’arrivare là dove Adam le aveva detto di nascondere i volantini; una piccola nicchia larga si e no una quarantina di centimetri ricavata nel muro della terrazza condominiale. E così fece. Piazzandoli in bell’ordine richiuse la borsa non avendo più salivazione nella bocca. Ripercorrendo i suoi passi tagliò nuovamente il locale dalle grandi vasche in pietra uscendo fuori dal pianerottolo ridiscendendo poi la rampa di scale per riprendere l’ascensore, ma non appena stava per afferrare la maniglia, questo iniziò la discesa richiamato ad un piano intermedio.

Maledizione! E d’impulso si schiacciò contro il muro sentendosi già le manette ai polsi. Inondando i polmoni d'ossigeno provò a riflettere con calma.

La cabina è aperta e se scendessi adesso potrei essere vista da chi l’ha presa, perciò anche se voglio andare via da qui devo aspettare che si chiuda il portone d’ingresso e sperare di non incrociare nessuno. Hai capito Michiru?!

Attese secondi interminabili, poi vociare per la tromba delle scale, saluti di gente che si conosce, la porta metallica dell’ascensore che si chiude, il motore che si riavvia, l’arrivo al piano terra, altri suoni secchi e poi il silenzio. Benedetto, ma non tranquillizzante. Scattando giù per la rampa iniziò a scendere. Quinto piano. Quarto. Terzo. Serrando le dita della destra al corrimano di legno che circondava il vuoto e le corde a vista del vano ascensore, stava per abbandonare il secondo piano quando il portoncino di un appartamento si aprì alla sua sinistra lasciando intravedere la faccina curiosa di una bambina di circa cinque anni. Michiru dovette farsi forza per mantenere il controllo sul terrore che sentiva spingerle le gambe verso la fuga. Le due si guardarono per un istante poi portandosi l’indice alle labbra in segno di silenzio, la ragazza sibilò leggermente facendo un occhiolino alla più piccola. Dopo un attimo di ovvio stupore la bambina esplose un enorme sorriso richiudendo lentamente la porta.

Sospirando allo scampato pericolo Michiru arrivò al piano terra e da li al sole riprendendo a camminare verso la strada principale brulicante di gente. E qui il vero carattere di Kaioh saltò fuori nel pensiero aggressivo rivolto verso se stessa e alla stanchezza che stava provando.

Non riuscirò mai a vincere se le gambe continueranno a tremarmi così!

 

 

Qualche altro giro di lancetta ed arrivò il momento per la folla di allontanarsi da quello che era sia l’avvio che l’arrivo. I giudici presero posto sul palco costruito per l’occasione e le concorrenti iniziarono a spogliarsi.

“Ti sei scaldata a sufficienza?”

“Si Jo.”

“Mi raccomando tieni a mente che verso metà del tragitto per terra c’è del basalto. Con tutta l’acqua di ieri sarà scivoloso. Fai attenzione a come poggi i piedi.”

“Lo so, lo so.” Affidandole la tuta rimase in canottiera e pantaloncini finalmente libera di dar sfogo alla frenesia che sentiva nelle gambe.

“Non partire a razzo come al solito. Sei in forma, ma non conosci le tue avversarie.”

Iniziando a saltellare sul posto la bionda se la guardò non capendo il perché fossero tutti tanto apprensivi.

“Johanna vado, le schianto e torno. Dacci un freno. Mamma mia sembra quasi che tu e apa ci abbiate scommesso sopra. - Fermando i saltelli dilatò le pupille sporgendosi verso l’altra. - Lo avete fatto?”

“No! Forse… Può darsi. O insomma, concentrati per la miseria!”

Ghignando la bionda iniziò a muovere ritmicamente il busto per sciogliere la tensione. “Passi lui, ma sorella... non è da te buttare i soldi. Allora pensi che vincerò!”

Certo che pensava che avrebbe vinto. Era un fulmine ed era la sua Ruka. Quali altre garanzie avrebbe potuto chiedere?

“Bada… Ho puntato la paga di un intero mese! Se ti azzardi a combinar casini parola mia che te le trito queste gambe. Chiaro?!” Minacciò alzandole l’indice sul naso mentre i giudici lasciavano partire la sirena che avvertiva tutti i non partecipanti di uscire dalla strada.

“Si, si, ora vattene e lasciami fare. Aspettami dietro al traguardo… non ci metterò molto!” Dandole una spinta l’allontanò per poi iniziare a studiare la situazione.

In tutto le partecipanti non superavano la trentina e ad un primo sguardo solo una decina di loro sembravano essere in possesso della giusta fisicità per portare a termine i cinque chilometri che servivano per vincere. Molto bene. Stai a vedere che mi sono fatta tutte quelle alzatacce per niente pensò superba mentre prendeva posizione in seconda fila preferendo lasciare sfogare le avversarie nei primi metri per poi riprenderle man mano. Arretrando di un passo avvertì il calore della pelle del braccio di un’altra atleta sulla sua e spostando gli occhi su di lei si sentì immediatamente catturata dalla linea del collo lasciato libero dai capelli, dal profilo delicato del suo viso e dallo sguardo concentrato fisso oltre il muro delle prime ragazze.

“Scusa.” Articolò proprio mentre il colpo di pistola decretava l’avvio della gara.

Troppo presa l’altra sembrò non badarci scattando e lasciandola sul posto a fissarle le spalle.

Haruka rimase così sola ed ultima, bloccata come se i suoi piedi fossero stati ancorati al suolo.

“Che fa?!” Esclamò allarmato Jànos aprendo le braccia.

“Ma che cavolo… Haruka per la miseria! Avanti… Corri!” Urlò Johanna cercando di sovrastare l’infinità di voci che si stavano alzando tutto intorno a loro.

“E’ impazzita! Tua sorella è impazzita! Haruka!”

“No… Vorrà dare un po’ di vantaggio alle avversarie. Vedrai che adesso parte. Parti dannazione! Parti!” Si sgolò mentre il padre si portava una mano al viso scuotendo la testa.

Pur se ancora ferma, imbambolata come uno stoccafisso con le altre e lei ormai già con un buon margine di vantaggio, la bionda sentì il battito del cuore accelerare e farsi forte, intenso. Stirando un sorriso sardonico inalò una boccata d’ossigeno partendo a sua volta. Come infuocata da qualcosa che le stava ardendo alla bocca dello stomaco, lasciò che la distanza tra le avversarie rimanesse pressoché invariata fino all’inizio della prima salita, poi, ad una ad una, le riprese quasi tutte ed alla prima curva a gomito che spaccava in due i campi di vite deposti lungo uno dei fianchi della collina del castello, ne contò davanti a se soltanto due; una ragazzona alta quanto lei e quello splendido cigno dalla fluttuante coda di cavallo che aveva visto alla partenza.

Entrambe spaventosamente resistenti non le permisero di avvicinarsi neanche una volta tornate in piano, sull’asfalto. Porca miseria! Siete due tipe toste eh?! Allora se volete giocare… giochiamo pensò dilatando la cassa toracica aumentando la spinta riuscendo ad avvicinarsi alla prima ragazza, ma non a quella più minuta che una volta arrivate tra i palazzi, sembrò improvvisamente più interessata al panorama che alla sfida in atto.

Non perdendo ritmo nelle falcate Michiru guardò in cielo non scorgendo ancora nulla, poi li vide; uno, due, tanti foglietti bianchi dondolare sospesi tra il chiarore delle facciate. Costretta dal percorso ad una svolta a destra lasciò temporaneamente la strada dei palazzi con il pensiero ad Adam.

Lanciato anche l’ultimo blocco di volantini il ragazzo schizzò verso la porta metallica dei lavatoi togliendosi dal sole. Kaioh era stata semplicemente perfetta e lui aveva trovato tutto dove e come le aveva chiesto.

“Ora non ci rimane che filarsela prima che le guardie possano capire da quale terrazza sono partiti questi scottanti gioiellini.” E cercando di fare meno rumore possibile discese per le scale con l’accortezza di un gatto. Aprendo il portoncino dello stabile passò la sottile striscia delle fioriere che arrivava fino a muretto di cinta ritrovandosi sul marciapiede. Mani nelle tasche cercò di fare il vago sforzandosi di non guardare in alto.

Fottuti alla grandissima pensò sentendosi ormai in salvo quando il suono acuto di un fischietto non gli bloccò il cuore.

“Ei tu! Fermo li!” Intimò una voce dittatoriale proveniente dalle sue spalle.

Merda! Ruotando il busto si voltò lasciando uscire lentamente le mani dalle tasche. Davanti a certa gente si doveva esser cauti.

“Di un po’ ragazzo, vivi nei paraggi?” Un poliziotto in borghese con dietro uno in divisa, estrasse la placca d’ordinanza bloccandogli ogni via di fuga.

“Perché è un crimine signor agente?”

“Fai poco lo spiritoso e tira fuori i documenti!” Ordinò l’altro stringendo minacciosamente la sinistra all’impugnatura del manganello.

“Scusate, scusate. Ecco a voi.”

Una rapida scorsa ai suoi dati e scattò l’ovvia domanda. “Senti un po’, visto che non abiti in questo distretto che ci fai da queste parti?”

“Be diciamo che ci sarebbe una festa… da queste parti.”

L’uomo in borghese lo afferrò allora per il cotone della camicia ringhiandogli sul viso di non continuare con quell’atteggiamento.

“Di un po’ ragazzino sai per caso cos’è questo?” E gli sventolò in faccia un volantino dove campeggiava la scritta SVEGLIA!

“Un pezzo di carta?”

“Divertente! Vediamo se portandoti alla centrale ti passerà la voglia di fare il galletto.”

“Amore…”

I tre uomini si voltarono all’unisono verso la biondina che braccio alzato, oltrepassò la carreggiata andando loro incontro.

“Ma sei qui! Ti stavo aspettando all’arrivo della gara. Adam possibile che tu sia sempre in ritardo?!”

“E voi sareste?” Chiese l’agente in divisa.

“Minako… la sua fidanzata. Cos’è successo? Ci sono dei problemi? - Corrugando la fronte guardò allora la mano dell’altro ancora serrata al colletto della camicia del ragazzo. - Mi avevi promesso che mi avresti portato alla festa, ma tanto lo sapevo che avrei dovuto aspettarti buttata in mezzo alla strada. Sempre in ritardo! Diteglielo voi signori, che sarebbe buona creanza non fare attendere una donna.”

Leggermente spiazzato da quei due laghi di pura innocenza, l’uomo lasciò la presa schiarendosi la gola con un secco colpo di tosse. “Signorina, i ragazzi di oggi sono spesso irrispettosi. Confido che sappiate dare al vostro fidanzato la giusta dose di educazione. Potete andare.” Riconsegnando i documenti ad Adam e portando l’indice ed il medio della destra alla fronte, abbassò leggermente la testa verso Minako in segno di saluto.

Afferrando il ragazzo per un braccio lei lo attirò a se lasciandogli un bacio sulle labbra. “Coraggio amore. La gara sta per terminare.” E si allontanarono senza fretta.

“Grandissima interpretazione Aino. Buon sangue non mente!” Bisbigliò.

“Sta zitto stupido! La prima regola per non destar sospetti è di non provocare gli uomini in divisa. Ringrazia il cielo che non fossero della ÁHV o saresti già sparito nei meandri della casa della giustizia.” Incompetenti terminò nella sua testa scorgendo Usagi ad aspettarli nei pressi dell’incrocio dove stavano passando le ragazze in testa alla corsa.

Distratta dal trambusto che il lancio dei volantini stava provocando sulla folla sparsa a “macchia di leopardo” lungo il tracciato, Michiru sentì scemare l’adrenalina iniziando a sentirsi a corto d’energia. Ai suoi fianchi, una a destra ed una a sinistra, le due ragazze che stavano dividendo con lei i primi posti. Vuoi il pensiero di Adam, vuoi che quando correva non era solita guardarsi in torno, non sapeva neanche che faccia avessero. Sapeva solamente che erano veloci e che doveva dare di più se voleva sperare di portarsi a casa la vittoria.

Non ce la faccio più ed avvertì una delle sue avversarie fiancheggiarla. Solo allora, con le spalle a pochissimi centimetri l’una dall’altra, riuscì a mettere a fuoco l’immagine di Haruka e a riconoscere nel suo viso la ragazza vista qualche giorno prima correre lungo il Danubio.

Eccomi qui mio bel faccino. Credevi di sfuggirmi vero? E no. Proprio no ed una volta identificata la sua preda, il piccolo falco scese in picchiata pronto a ghermire.

E’ lei! Ne sono sicura… Ma cosa sta facendo? Perché sorride?

Accidenti che taglio d’occhi che hai. Ed il colore poi…

Se questa è una dichiarazione di guerra… l’accetto volentieri pensò la gru forzando il passo.

Acceleri? Così mia cara all'arrivo arriverai squassata.

Non mi farò battere! Mi scoppiasse il cuore.

Competitiva la ragazza, mi piac…

Michiru perse il contatto visivo che aveva tenuto a passi alterni con la bionda sentendo quasi nell’immediato un tonfo sordo proprio dietro di lei. Voltandosi decelerò quanto basta per vedere la sua avversaria rovinata sul basalto disseminato di foglietti mezzi bagnati.

“Cazzo…” Articolò l’altra quando un dolore sordo le colpì la caviglia destra facendole serrare la mascella.

“Tutto bene?” Chiese Michiru fermandosi e tornando indietro.

Maledizione che male pensò Haruka avvertendo il calore di un palmo sulla schiena.

“Ce la fai a rialzarti?”

Cercando di non badare alle escoriazioni a pelle viva che sulle ginocchia e sui gomiti stavano iniziando ad arrossarsi di sangue, la bionda provò a rimettersi in piedi non riuscendovi. Rimanendo seduta sul basalto socchiuse gli occhi chinando la testa ed arpionandosi il polpaccio con entrambe le mani iniziò sommessamente ad inanellare una quantità industriale di male parole.

Michiru guardò allora al gruppo delle inseguitrici che stava iniziando ad intravedersi dal margine della strada decidendo alla velocità di un lampo. Per entrambe la gara si chiudeva li.

“Dobbiamo toglierci. Vieni, ti aiuto io.” E prima ancora che Tenoh avesse potuto obbiettare qualcosa, se l'era già presa di forza tra le braccia costringendola a far leva sull’altra gamba. Infilandosi sotto la sua ascella Kaioh la guidò verso il marciapiede il più velocemente possibile.

"Cazzo... che male!"

“Posso immaginare il dolore, ma non è il caso di sporcarsi la bocca con queste volgarità, non trovi?!" La redarguì inalando per la prima volta il suo odore buono fatto di sudore giovane e fragranza di pelle.

“La fai facile tu! Porca puttana schifa!”

“Ancora?! Dimmi piuttosto cos’è successo. Sei inciampata?”

Inciampata un par di palle… Pensò Che sono una pupattola di un anno?! Però… sei proprio della mia misura. Indolente ridacchiò e vincendo il pulsare doloroso che stava provando un po’ dappertutto, si appoggiò più comodamente a lei. Era più bassa di una quindicina di centimetri ed i loro corpi aderivano perfettamente.

Finalmente messa a sedere sul ciglio della strada indicò un paio di pezzi di carta abbandonati tra le pozzanghere. “Sono stati quelli!”

Oddio i volantini ed inginocchiandosi Michiru si sentì mortificata.

“Chi può essere stato il genio?”

“Magari se avessi guardato per terra li avresti evitati.” Rispose acida senza neanche pensarci su.

“Quando corro io guardo avanti… non in terra.”

“E fai male. Se lo avessi fatto a quest’ora saremmo quasi al traguardo.”

Stizzita Haruka le piantò gli occhi addosso. “Non ti ho chiesto io di fermarti!”

Ed accettando la sfida l’altra fece altrettanto. “Io non sono solita lasciare indietro nessuno!”

Rimasero così, occhi negli occhi, a fissarsi non accettando una resa, come se ognuna delle due sentisse di dover sostenere il punto. Un dovere verso se stesse che ben presto si trasformò in piacere.

Se sei bella ragazzina. “Comunque il mio nome è Haruka.”

Perché non riesco a staccarle gli occhi di dosso?! “Michiru.”

“Michiru... - Scandì lentamente come a volersene impadronire. - A parte tutto mi dispiace che tu abbia perso l’occasione di vincere. Stavi gareggiando bene.”

A quelle parole Kaioh iniziò a ridere spezzando quella sorta di arcano richiamo ammettendo di non aver mai sentito il cuore battere tanto forte. “Credo che se non mi fossi fermata mi sarebbe uscito dal petto prima di toccare la linea del traguardo.”

Ma la bionda non la seguì in quell’improvvisa esplosione d’ilarità, anzi. Sbattendo le palpebre arretrò leggermente il collo stupendosi di stare provando serenità e piacere in quel suono argentino.

“Senti, adesso come facciamo? Non credo che la tua caviglia stia bene. Si sta gonfiando.”

“Oh… Non preoccuparti. Non fa poi tanto male.” Mentì Haruka, mentì fregandosene del dolore, delle altre concorrenti che nel frattempo stavano sopraggiungendo sorpassandole, della figuraccia che stava facendo davanti a quell’incanto, del suo sentirsi avvilita perché momentaneamente menomata e bisognosa di aiuto.

“Non si tratta di male o meno. Riesci a muoverla?”

“Si… Un po’.”

“Ottimo, allora vieni… Ti accompagno.”

La bionda la guardò alzarsi e tenderle una mano. “Dove?”

“A casa tua.”

E no, ferita si, ma almeno l’orgoglio in quella giornata di sconfitte doveva rimanere intatto. “Ti ringrazio Michiru, ma credo di riuscire a cavarmela da sola.” Disse con una smorfia da dura rimettendosi lentamente in piedi.

“Sei sicura? A me non costa nulla sai.”

“Sicurissima. Ti ringrazio.”

Un po’ delusa l’altra stava per ritrarre la mano rimasta vuota quando se la sentì stringere forte. “Spero di rivederti. La nostra gara non è ancora finita, giusto?”

Avvampando a quel semplice tocco Kaioh scosse frettolosamente la testa distogliendo lo sguardo dal verde dei suoi occhi. - Chissà. Be allora io vado, ho degli amici che mi stanno aspettando al traguardo. - E lasciando a forza il calore di quella mano le sorrise un’ultima volta tornando a correre lungo la strada dell’arrivo.

Rimasta sola la bionda sospirò rumorosamente. “Che grandissima figura di merda che hai fatto Haruka.”

Facendo un mea culpa iniziò zoppicando ad incamminarsi verso quella che avrebbe dovuto essere la sua trionfale vittoria e che invece la stava vedendo sconfitta su tutta la linea. O no? Forse avrei dovuto accettare l’offerta di farmi riaccompagnare a casa. Io ed il mio stupidissimo orgoglio. Chissà se la rivedrò mai… Michiru…

 

 

“Un puledro con le zampe troppo lunghe per stare in piedi, ecco che sei! Tu e le tue stupide gambe mi avete fatto perdere la paga di un mese!”

“Dio che palle! Ho capito Jo. Te li restituirò quei soldi!”

“No! Stupida io che mi sono lasciata forviare da tutta la frenesia che c’era in fabbrica. Ben mi sta! I soldi vanno guadagnati, non vinti!”

Non vedendola arrivare Jo e Jànos le erano andati incontro ed ora, caricata a forza sulla schiena del padre, stavano tornandosene a casa senza alcuna fretta dopo aver fatto una capatina dal dottore.

“Basta voi due. Fatela finita! Johanna può capitare e tu Haruka, ringrazia il cielo di non esserti rotta la caviglia.”

“Se becco chi è stato a gettare quei volantini gli torco il collo, quanto è vero iddio!” Abbaiò stringendosi all'uomo.

“Non colpevolizzare chi combatte per la libertà del nostro popolo.”

“Si combatte con le armi e non con degli stupidi pezzi di carta lanciati vigliaccamente sulla folla.”

Jànos non controbatté alle parole della figlia sapendo che quello sfogo di rabbiosa indolenza era dettato più dall’avvilimento della sconfitta che da una vera e propria convinzione. Stringendo le labbra l’uomo voltò l’angolo della loro strada notando un gruppetto di persone nei pressi della loro abitazione. Riconobbe Scada, sua moglie ed un altro paio di vicini, tutti con un’aria cupa stampata in faccia e tutti con una copia del quotidiano cittadino stretto in mano.

“Jànos dov’eravate?” Si sentì chiedere fermando il passo e lasciando che i quattro gli si facessero incontro.

“Dal dottore. Haruka è caduta. Che cos’avete tutti? Perché quelle facce?”

“Guarda da te fratello.” Rispose l’altro aprendo il giornale per lasciarlo leggere.

Irrigidendosi al titolo che campeggiava in prima pagina lasciò che la figlia gli scendesse dalle spalle afferrandolo.

“Questa non ci voleva.”

 

 

 

NOTE: Ciau. Questa volta sono riuscita a terminare il capitolo in tempi decenti 

Abbiamo avuto la riprova che le sorelle Aino hanno una “marcia in più” e conoscono cose che gli altri ragazzi non possono neanche lontanamente immaginare, mentre il falco e la gru si sono incontrate per la prima volta e credo non sia passato inosservato quante scintille facciano i loro caratteri se accostati in una gara. Soprattutto Kaioh, che non le manda certo a dire rispondendo colpo su colpo.

Per quanto riguarda la leggenda di sogno di Emese per chi ne volesse sapere di più la può trovare velocemente su “santo” Wikipedia.

Passando invece alla famigerata casa della lealtà, oggi trasformata in museo detto la casa del terrore, era un’antica struttura dove durante la seconda guerra mondiale e successivamente, furono rinchiusi e torturati i dissidenti politici del nazismo prima e del socialismo poi.

A prestissimo

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf


 

 

 

Capitolo IV

 

 

Tempesta

Nesznély – Ungheria settentrionale – Settembre 1950

 

 

La notte di quel fine settimana sarebbe passata alla storia come una delle più inquietanti e difficili mai vissute negli ultimi vent’anni in quella parte di regione. La frontiera era da sempre un settore complesso da gestire, soprattutto dopo la fine della guerra, quando più di seicentomila ungheresi erano stati costretti a scegliere se rimanere sui territori della Cecoslovacchia meridionale o espatriare in quella che per i più giovani era una terra che non avevano mai visto e dato che la stessa cosa era accaduta a parti invertite, da allora tra le due sponde del Danubio non era più corso buon sangue. Gli sguardi da una parte all’altra del confine erano diffidenti, quasi ostili, ma ogni chiatta o nave solcasse le acque di quella particolarissima striscia liquida, era tollerata, quasi ci si trovasse in un limbo, una bolla dove ogni nazionalismo decadeva ed ogni malinteso si azzerava. In quella tratta il fiume rendeva la navigazione molto difficile. La presenza di numerosi isolotti e la complessità di un fondo dai notevoli dislivelli creavano una specie di zona franca, un luogo dove entrambe le popolazioni, proprio per evitare incidenti o sciagure, cercavano di aiutarsi scambiandosi informazioni sul crescere e decrescere delle acque, su blocchi dovuti a scorie lignee o mal funzionamenti delle chiuse.

E questa prassi consuetudinaria era andata consumandosi anche nel corso di quella notte, quando sin dal crepuscolo le radio di tutte le stazioni fluviali del nord avevano iniziato a preallertare i naviganti sulla possibilità d’incontrare fortissime correnti generate dalla piena. Un temporale torrenziale, la foschia nata dal crollo delle gocce sulle superfici e le rapide intervallate da piccoli e grandi gorghi acquatici, consigliavano prudenza ed immediato attracco.

“Capitano, con questa pioggia non si vede niente!” Urlò il Primo Ufficiale nella speranza di farsi udire dal Comandante arpionato con una mano al corrimano metallico mentre con l’altra stringeva un binocolo.

“Dovremmo cercare d'attraccare o rischiamo di arenarci!” Proseguì saldando ancor di più le dita al timone.

“La corrente è troppo forte!”

“Ma..., signore!”

“Proseguiamo ho detto! Abbiamo tonnellate d'acciaio che ci garantiscono pescato. Coraggio!” Disse guardando in direzione della prima chiatta a qualche decina di metri davanti a loro.

La corrente che stava rombando al centro del letto del fiume era dannatamente forte, ma era un suicidio avvicinarsi alle sponde dei numerosi isolotti per smorzarne la spinta. Colpiti da un vero e proprio nubifragio, con il passare delle ore la navigazione stava diventando ingestibile e l’unica speranza che avevano per superare indenni la tratta di Nesznély, era di mantenersi il più possibile lontano dalla terra ferma sperando di essere sufficientemente pesanti da mantenere stabilità.

Con sforzo titanico il Primo Ufficiale raddrizzò l’imbarcazione che stava scodando paurosamente verso destra e per qualche minuto la scelta del suo superiore sembrò essere la più corretta e lo sarebbe stata per tutto il tragitto se il Capitano della prima chiatta non avesse improvvisamente deciso di direzionare il suo scafo su correnti meno forti.

“Cosa diavolo sta facendo?!” Ringhiò l’altro togliendo il binocolo dal viso una volta vista la sagoma del posteriore della chiatta gemella ondeggiare verso la sponda di sinistra.

Afferrando la radio imbullonata alla paratia della cabina stava per chiamare quando il Primo Ufficiale urlò. “Comandante si sono incagliati… , si sono incagliati!”

Il margine di sicurezza si ridusse in una manciata di secondi e prima che il Capitano potesse afferrare la leva di comando per cercare l’indietro tutta, videro impotenti un’ombra scura roteare sull’asse piazzandosi proprio al centro dell’alveolo ed i dettagli della fiancata della prima imbarcazione farsi via via più nitidi e ravvicinati. Lo scontro fu inevitabile. La seconda chiatta entrò letteralmente nella parte terminale della prima, tranciando lo scafo fino a penetrarne il vano motore. Scintille e nafta fecero il resto. La deflagrazione risultò talmente violenta che nell’urto, pur se appesantita dal suo carico, la prima chiatta fu letteralmente schiantata contro la costa dell’isola sulla quale si era appena arenata e la seconda scaraventata dalla parte opposta della riva.

Purtroppo in quella notte di fine settembre la sagacia delle squadre di pronto intervento fluviale di entrambi i paesi non poterono fermare la disgraziata serie di eventi che portarono all’affondamento parziale delle due imbarcazioni destinate al mercato di Budapest.

 

 

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh.

 

Tragedia sul Danubio. Due chiatte cariche di acciaio parzialmente affondate. Le cause ancora tutte da verificare potrebbero essere riconducibili ai forti venti e al temporale che ha colpito ieri notte la zona del transdanubio centrale. Comunque la si metteva quel titolo era una condanna. Una mannaia. Scada abbandonò il giornale afferrando il bicchiere di vino dimenticato sul tavolo della sala da pranzo del suo amico, trangugiandolo come se fosse stato un anestetico contro la cattiva sorte.

“Non abbiamo ancora iniziato e già siamo fottuti, fratello!” E per ammetterlo lui, ottimista fin nel midollo, voleva dire che la situazione nella quale la CAP era sprofondata nel giro di poche ore era da considerarsi poco meno che miserabile.

Jànos sedutogli accanto tornò a riaprire gli occhi fino a quel momento rimasti chiusi. Una volta giunto a casa ed accolto con scoramento quell’assurda notizia uscita in prima pagina con la copia della domenica, si era seduto assieme a Scada provando a fare il punto della situazione. La mattina successiva avrebbero convocato una riunione straordinaria con i componenti del Direttivo, ma prima di tutto avrebbe dovuto capire cosa dire per tranquillizzare gli animi.

“Quanto acciaio abbiamo nei magazzini?” Chiese girando la prima pagina verso di se.

“Troppo pochi.”

“Quanti Scada!?”

Emettendo un suono gutturale l’altro rispose più o meno un’ottantina di tonnellate. “E che cosa ci vorresti fare con quei quattro fondi di magazzino che per di più andrebbero riadattati al progetto esecutivo?”

“Per l’intanto possiamo provare a guadagnare qualche giorno su quegli avvoltoi del Ministero, poi si vedrà.”

“Ci piomberanno addosso come se fossimo già morti. Me li immagino sai? Tutti impettiti nelle loro belle cravattine di seta… Domani mattina saranno i primi a bussare ai nostri cancelli.”

“Cerchiamo di ragionare con calma. Abbiamo ancora una settimana di posa prima che le spalle in cemento armato del ponte siano pronte, giusto? Prevedendo poi altri quattro, cinque giorni per mettere in opera le tonnellate di acciaio che abbiamo, dovremmo riuscire a ritagliarci una sacca di lavoro di un paio di settimane. Questo potrebbe permetterci di comprare nuovo materiale al nord senza fermare le lavorazioni.”

“Ti seguo, ma ci sono due cose da considerare; il denaro e il nostro bel Danubio. Con un poco d'accortezza potremmo anche riuscire a far rientrare nei costi la nuova partita di materiale, ma con il fiume da ripulire e gonfio come le mammelle di una vacca, non possiamo sperare che nuove chiatte riescano ad arrivare in così breve tempo.”

“E noi useremo un’altra strada.”

“Il treno?” Chiese Scada quasi con timore perché era l’unica soluzione accettabile.

“Il treno.“ Confermò l’amico versandosi un nuovo bicchiere di vino.

“E’ un mezzo troppo costoso! Come credi che riusciremo a pagarlo?”

“Abbiamo o no due creditori che ancora devono saldarci?”

“Certo… Uno è lo Stato e l’altro è una caccola di privato che non ha più neanche gli occhi per piangere!”

Sbattendo un pugno sul tavolo Jànos lo guardò truce. Ora che aveva più bisogno di sostegno faceva il disfattista?! “Vuol dire che per rimanere nei tempi dovremo chiedere alla Kaioh Bank un nuovo prestito, perché altrimenti è il fallimento che ci aspetta… fratello!”

“Secondo te usando il treno potremmo comunque farcela a rispettare il cronoprogramma?”

“Si, ma conti alla mano ci serviranno una cinquantina di assunzioni in più per rientrare nei tempi persi e perciò più soldi da investire nei pagamenti. Un cane che si morde la coda.”

“Possibile che non ci siano altre alternative?”

“Busseremo comunque alle porte dei creditori, questo è certo, ma… - Sospirando lo guardò negli occhi. - Se i soldi non li hanno, non li hanno. Comunque se dovessimo saltare la consegna della prima parte di arcata il Ministero dei Trasporti ci toglierà la commessa e sai meglio di me che la banca è pronta a riprendersi il finanziamento al primo passo falso. Se hai un’altra idea per non farci dichiarare banca rotta accomodati pure… Ti ascolto.”

Dopo qualche secondo passato a torturarsi il mento Scada sembrò avere un’illuminazione. “Siamo assicurati! Quando abbiamo stipulato il contratto con la Kaioh abbiamo pagato bei soldini per quella specie di tangente, o no?! Stai a vedere che potrebbe salvarci il culo. In fin dei conti che colpa ne abbiamo noi se il materiale è colato a picco!”

Causa terzi. Poteva essere una via di salvezza, anche se difficilissima da percorrere. “Sappiamo tutti che le banche sono ratte nel prendere, ma molto lente nel restituire. Purtroppo la polizza che abbiamo stipulato con loro ha uno sblocco d’indennizzo a sessanta giorni, mentre la restituzione di un secondo debito che andrebbe ad aggiungersi al precedente è di trenta. Perciò domani, prima della riunione del Direttivo, andrò da loro e vedrò di parlare direttamente con Alexander Kaioh per vedere se si possa fare qualcosa per venirci incontro.”

Storcendo la bocca l’altro puntò lo sguardo al liquido rossastro del suo bicchiere. “Credi davvero che avrà un occhio di riguardo per te Jànos?”

“E’ e rimane un figlio di Pest. Sono convinto che non farà difficoltà a velocizzare la pratica.”

“Che passi un angelo e dica amen fratello.” Concluse versandosi dell’altro vino.

Seduta sull’ultimo gradino della scala, al ridosso del corridoio che serviva le stanze del primo piano, Haruka guardò la sorella ferma in piedi accanto alle sue gambe. In silenzio, senza che il padre ne avvertisse la presenza, avevano sentito tutto ed ora preoccupate, non potevano far altro che fissarsi con una comprensibile dose d'angoscia. Jànos sembrava avere molte aspettative su quel tizio, quel Kaioh, anche se non ne capivano il motivo. In fin dei conti era un banchiere e faceva gli affari della sua attività, ed in quel particolare momento storico anche dello Stato. Riprova stava nel semplice fatto che alla stipula del contratto con la Cooperativa era stata allegata anche un’assicurazione obbligatoria.

“Gira che ti rigira i soldi sono sempre in mano loro.” Soffiò la bionda mentre Johanna le porgeva una mano per aiutarla ad alzarsi.

“E ti meravigli?”

 

 

In cerca di te

Buda – Distretto I

 

Si sentiva una stupida. Era una stupida.

Michiru abbassò la testa vinta dalla sua idiozia. Possibile che la razionalità che l’aveva sempre contraddistinta, tutto d’un tratto avesse preso a latitare spingendola a compiere gesti tanto adolescenziali? Sbuffando piano guardò il cielo al di sopra del Ponte della Libertà non sapendo che fare. Incamminarsi verso casa o restare li, ferma come un palo d’ormeggio a prendersi la sua buona dose di nebbia nell’attesa di un’improbabilità? Esatto, improbabilità.

Si era alzata ancor prima dell’alba, come ormai faceva da più di un mese e se pur conscia dell’inutilità di quel gesto, si era vestita ed era uscita, ma questa volta non per correre, no, ma per cercarla. Pur avendo tutti i muscoli indolenziti per lo sforzo e l’adrenalina prodotti il giorno prima, Michiru non ci aveva pensato su due volte e spinta come da una febbrile ansia, era scesa in strada andando verso il parco che si estendeva di fronte al fiume. Da quando l’aveva aiutata dopo la brutta caduta in gara, non aveva fatto altro che pensare a lei, alla bionda e bellissima Haruka e non badando al fatto che con una caviglia tanto gonfia l’indomani non si sarebbe certo potuta allenare, era tornata là dove l’aveva vista la prima volta; lungo le sponde eteree del Danubio.

Non poteva non ammettere di essere rimasta affascinata da quella ragazza. Quello sguardo verde menta carico di sfacciataggine, arroganza e benedetto pudore che a momenti alterni le aveva puntato contro non accettando il suo aiuto. Haruka, che si era sforzata in tutti i modi di mantenere un piglio da dura quando invece di duro in quella testarda lei non era riuscita a vedere nulla. Haruka, che tra uno sproloquio e l’altro, non aveva potuto dissimulare piu' di tanto uno scintillio di lacrima ed un tremore muscolare dettati dal dolore che la caduta le aveva lasciato addosso. Haruka, con i suoi muscoli tesi e la pelle liscia dal buonissimo odore. HARUKA. Inconsciamente era per tutto questo che ora la stava cercando. Michiru non aveva mai riscontrato tanta forza in un’altra ragazza che non fosse la stessa Michiru Kaioh, neanche tra le amiche nipponiche cresciute con lei all’ombra dei ciliegi di Hokkaidō. Questa fierezza unita ad un magnetismo innato che forse la stessa bionda non sapeva di possedere, l’avevano ora spinta a guardare in direzione delle banchine di Pest alla sua ricerca.

“Sono proprio una ragazzina! Con la caviglia conciata in quel modo perché dovrebbe spingersi sin qui?!” Si disse scrutando un’ultima volta tra i battelli ormeggiati e la strada sovrastante.

Così sentendosi abbastanza avvilita Michiru s'incamminò verso il ritorno chiedendosi il perché. Il perché del volerla rivedere. Il perché necessitasse di parlarle. Il perché le sarebbe piaciuto far parte della sua vita. Il perché si sentisse tanto attratta da lei.

Una quarantina di minuti dopo rientrò mestamente a casa pronta a far colazione con il padre. Solcando la porta del soggiorno, notò immediatamente che il tavolo era apparecchiato per uno e chiese alla cameriera il perché della mancanza del genitore. Sicura che fosse uscito prima del consueto per improrogabili questioni lavorative, restò di sasso nell'apprendere che Alexander era stato colpito da un forte attacco di emicrania e che adesso, ancora impossibilitato nel muoversi, si trovava in compagnia del medico di famiglia, Hisla Börcs.

 

 

“Alexander la dovresti fare finita di strapazzarti così! Non hai più vent’anni!” Richiudendo seccato la borsa di cuoio tipica della sua professione, il dottore guardò l’uomo ancora disteso sul letto cercando un qualche cenno d’approvazione in quel viso contrito dal malessere.

Ancora con la vestaglia color blu scuro addosso, appena alzatosi dal letto non era riuscito neanche a andare nella stanza da bagno attigua alla sua camera, che un violento giramento di testa l’aveva avvolto facendolo cadere come un sacco sul tappeto. Ora, dopo aver portato scompiglio ed una buona dose d’agitazione in casa, accudito dal suo buon amico, compagno di mille avventure sui banchi di scuola e tra le aule delle rispettive facoltà universitarie, un imbestialito Kaioh era più che pronto a riprendere in mano le redini di una giornata iniziata male.

“Non farne un dramma! E’ normale che un uomo di novanta chili si senta venir meno senza la sua caffeina mattutina.”

Che idiozia! “Credi davvero che me la berrò, testardo magiaro!”

“Assolutamente si.” Rispose stirando un sorrisetto sghembo degno di un Giamburrasca pizzicato fionda in mano.

Srotolandosi le maniche della camicia ed iniziando ad allacciarsi i polsini, l’altro sembrò non accettare la battuta scherzosa. Dopo più di vent’anni di onoratissima carriera, Hisla era ormai stanco delle solite scuse inanellate da pazienti indisciplinati e privi di un ben che minimo rispetto per se stessi. Il suo bel viso, ormai completamente privo della freschezza che come uomo dal notevole fascino aveva elargito al gentil sesso sin dalla pubertà, non lasciava trasparire che sfiducia e sarcasmo nei confronti di un amico che proprio non ne voleva sapere di considerare quei malesseri come campanelli d’allarme per un qualcosa di più serio.

“Non mi piacciono per niente questi continui mal di testa. Sei sufficientemente maturo per capirlo da solo Alex.”

“Sei peggio di mia figlia. Ne ho sempre sofferto.” Alzandosi lentamente dal letto si sentì pronto per lavarsi.

“Cantilena vecchia fratello. Quante volte ti ho invitato a venire a studio per delle analisi!? Lo sai che non sono il tipo di medico che assilla i pazienti, ma nascondere la testa sotto la sabbia o allontanare visite che potrebbero giovare al tuo stato, francamente mi sembra un’imbecillità.”

Entrando in bagno l'altro iniziò a riempire il lavandino d’acqua tiepida.

“Verrò, verrò.”

“Perché non approfittare di questo malore per farlo oggi.”

No, quella mattina proprio no. Ho questioni improrogabili.”

“Hai sempre questioni improrogabili Alex.” Affacciandosi allo stipite l’osservò pensieroso.

“Questa mattina hai avuto modo di leggere il giornale?” Chiese il padrone di casa afferrando l’asciugamani.

Un laconico si ed Alexander proseguì continuando a dargli le spalle. “Avrai allora letto del naufragio avvenuto presso Nesznély. - Finalmente tornò a guardarlo. - La CAP è in grossi guai e se non m’invento qual’cosa prima che il Ministero inizi a stressarmi, Jànos Tenoh colerà a picco come il suo acciaio.”

Pur se ignaro delle specifiche sulla trattativa intavolata tra la Kaioh Bank e la Cooperativa di Pest guidata da Tenoh, a Hisla era bastato leggere un paio di articoli per figurarsi scenari ben più torbidi di un semplice prestito per l’esecuzione di un’opera pubblica. Intorno alla commessa di quel nuovo ponte, simbolo della rinascita ungherese sotto l’ala protettiva del regime sovietico, era sorto un triangolo tra lo Stato, una delle banche private più potenti del paese ed una giovane attività siderurgica, rappresentazione concreta di quella parte di Budapest operaia e produttiva che tanto poteva servire come immagine di un nuovo socialismo. Gioco forza che l’incidente della notte precedente aprisse scenari quanto meno complicati.

“Dopo che all’alba un responsabile del Ministero dei Trasporti mi ha telefonato informandomi dell’accaduto, ho cercato di pensare a come aggirare alcune clausole contrattuali, diciamo… non molto vantaggiose per la CAP e stai pur certo che è stato questo a farmi svenire come una ragazzina!”

“Tralasciando questa tua ultima canzonata, perché non aiutare la Cooperativa in fase di stipula del contratto, invece che aspettare l’uscita dei buoi dal recinto.”

“Porca puttana Hisla, perché di mezzo c’è lo Stato e sai meglio di me che il Regime che lo guida esige il suo bel tornaconto!”

E prima che Börcs potesse chiedere o dire altro, un bussare discreto proveniente dall’entrata li fece uscire entrambi dal bagno. “Si?”

“Papà sono io.”

“Mi raccomando con Michiru. Non farla più tragica di quel che è… intesi?!” Soffiò Alexander prima d'invitarla.

“Papà la cameriera mi ha detto che hai avuto un malore… Dottor Börcs, buongiorno.”

“A te mia cara.” Cordiale le sorrise.

Rimaneva sempre un po’ sorpreso di quanto padre e figlia si somigliassero. Non tanto fisicamente, quanto per la luce che certe volte traspariva in quegli sguardi tinti dello stesso blu dei petali di un’orchidea e che lo portava a chiedersi del perché lui, votato anima e corpo alla scienza medica, non avesse mai voluto avere degli eredi.

“Siate onesto con me Dottor Börcs … E’ vero che questa volta lo costringerete a seguire uno stile di vita più tranquillo?”

“Michiru…” La voce del padre passò dal dolce al freddo in una frazione di secondo.

“Spero vi abbia detto da quando questi malesseri sono andati aggravandosi.” Continuò lei indolente.

“Ora basta! Questa mattina ho da fare.”

“Papà…”

“Ho detto basta! Sono già in fortissimo ritardo."

“Vedi Michiru, se fosse per me… Però confido che appena un paio di cose di lavoro si saranno sistemate ci darà soddisfazione. Non è vero Alexandrer?!”

Il medico pietoso lascia che la ferita vada in cancrena e non era certo da lui, ma questa volta decise che sarebbe stato più saggio seguire la strada di Ponzio Pilato, che rischiare di causare degli attriti in famiglia. Tanto con in ballo la questione della CAP non sarebbe mai riuscito a trascinare l’amico in nessun posto che non fosse stata la sua banca.

 

 

Fiducia

Buda – Distretto I, sede della Kaioh Bank

 

Non era certo un uomo ignorante, ma non era avvezzo a luoghi del genere. Seduto in un angolo con una cartellina tra le mani Jànos sospirò rumorosamente guardandosi intorno per l’ennesima volta. Nessuno sembrava aver notato il colosso dall’aria severa che era entrato dalla porta girevole ormai venti minuti prima e che aveva chiesto di parlare con il signor Alexander Kaioh in persona. Tutti di corsa, tutti molto occupati, come se gli unici ad avere il privilegio di un’occupazione fossero loro e tutti gli altri prendessero la vita alla come viene viene campando d’aria. I cassieri nei loro bozzoli protetti da un bancone di frassino lucidissimo intenti a manegiar liquidi, le segretarie dai tacchi rumorosi e le gonne sobrie che andavano e venivano tra gli uffici del personale del piano terra e gli impiegati, che nei loro completi blu scuro dalle cravatte in tinta, accoglievano la clientela che doveva stipulare con loro qualche polizza.

Stai calmo si disse cercando d’inalare ossigeno misto a quella pazienza che sentiva ormai ridotta ad un frammento piccolissimo. Aprendo la cartellina rilesse la prima pagina del contratto e la quinta, ovvero l’allegato riferito alla clausola assicurativa.

Scada ha ragione, questa è una tangente. Prendono le persone per il collo neanche fossero un cappio.

“Signor Tenoh.”

Alzando gli occhi grigio azzurri sull’uomo fermatosi davanti a lui, avvertì un brivido non appena questo gli mostrò il filo bianco della dentatura.

“Salve, il mio nome è Andràs Nagyry. Vi prego di perdonarmi per l’attesa.”

E questo attrezzo qui? Pensò alzandosi lentamente. “Ho chiesto espressamente di poter parlare con il vostro Direttore.”

“Lo so, ma il signor Kaioh oggi è indisposto. Ma non preoccupatevi. Ha delegato me per ascoltare i bisogni della nostra clientela. Prego andiamo nel mio ufficio, saremo più comodi.”

Cos’è…, ti fai negare adesso?! Spazientito lo seguì non aspettandosi nulla di buono. Un conto era parlare con il padrone del vapore e un conto era il trovarsi davanti un suo lacchè.

Camminando tra l’elegante sobrietà degli spazi di quel palazzo a quattro piani dell’inizio dell’ottocento, Jànos si rese conto forse per la prima volta di quanta strada avesse fatto quell’uomo, del potere economico che era riuscito ad accumulare. Iniziò a domandarsi se Scada non avesse ragione, se la fiducia che sentiva verso di lui non fosse mal riposta.

“Eccoci arrivati. Prego.” Disse Nagyry aprendogli la porta del suo ufficio lasciandolo entrare.

“Posso offrirvi qualcosa signor Tenoh?”

“No grazie. Purtroppo sono già parecchio in ritardo.” Sottolineò sedendosi ed aspettando che l’altro lo imitasse.

“Va bene. Allora procediamo pure. Immagino che siate venuto qui per l’incidente avvenuto ieri notte a Nesznély. - Aspettò conferma proseguendo speditamente. - Dunque signor Tenoh, credo che sia inutile dirvi che abbiamo già mandato sul posto un nostro perito per verificare l’entità dei danni. Non abbiamo ancora una refertazione, ma pare che i giornali parlino di… disastro.”

“Già, così sembra. Non mi nasconderò dietro un dito temporeggiando signor Nagyry, ma se le due chiatte che portavano l’acciaio che avevamo acquistato per la prima campata del ponte sono anche solo parzialmente affondate, il materiale è perso. Quindi sono venuto qui da voi per avvalermi dell’assicurazione che la CAP ha stipulato con la vostra banca in fase di finanziamento e per chiedere un supplemento al prestito che già abbiamo acceso con voi." Concluse porgendogli la cartellina aperta alla quinta pagina.

Nagyry stirò le labbra. Poggiando i gomiti sulla scrivania guardò il documento leggendolo con attenzione. Come uno squalo osservò la situazione capendo immediatamente come poterne trarre il maggior guadagno.

“Qui vedo scritto che l’assicurazione su materiali e trasporti è attivabile dopo sessanta giorni dalla presentazione della domanda di risarcimento danni.”

“Ss…si.- Ecco perché voleva colloquiare con Kaioh; le cose erano molto più complicate di così. - A tal proposito sono venuto proprio per compilare il modulo di richiesta e come vi accennavo, per capire se sia possibile avere un incremento del finanziamento che ci avete già concesso, così da poter acquistare subito un'altra partita d'acciaio e rimanere nei tempi per la prima consegna. La Cooperativa salderà questo nuovo prestito una volta arrivato l’indennizzo.”

“Una richiesta del genere è fattibilissima, ma devo ricordarvi che la nostra politica finanziaria prevede la restituzione di un prestito entro e non oltre trenta giorni.”

Anche se aveva le mani callose ed il fisico di un bracciante, Jànos non era analfabeta. “E' scritto nero su bianco signor Nagyry, so leggere e quello che volevo sapere vista la situazione, è se questi sessanta giorni non potessero diventare trenta.” Disse piattamente.

La situazione era fin troppo chiara. Se la polizza che la Cooperativa aveva sottoscritto con la Kaioh Bank poteva essere incassata solo dopo due mesi, non avrebbero mai potuto usarla per saldare l’ulteriore richiesta di denaro che sarebbe servita loro per trasportare la nuova partita d’acciaio via treno.

“Signor Tenoh, rimarco il fattibilissima, ma quello che mi state chiedendo non può essere fatto a meno di una garanzia sulla piena restituzione dell’indennizzo.”

“Come un’ipoteca?”

Nagyry fece allora un’espressione al limite del grottesco che all’altro non piacque per niente. “Esattamente.”

“Potrei anche far valutare la mia casa, ma non credo che coprirebbe il prestito.” Disse con la morte nel cuore sentendosi un bastardo di fronte all’eredità che spettava di diritto alle sue ragazze.

“Lo credo anche io. Comunque, in virtù delle leggi finanziarie vigenti nel nostro paese, come rappresentante legale di una cooperativa, voi signor Tenoh non potreste comunque ipotecare dei beni vostri per coprire un prestito dato all’impresa.”

Corrugando la fronte ed alzando leggermente le spalle Jànos lo guardò scorato. Allora era inutile continuare quella discussione. "Bene signor Nagyry, siete stato chiarissimo e di questo vi ringrazio. Non mi resta che parlarne in fabbrica e cercare una soluzione alternativa. Buona giornata.”

“Un istante signor Tenoh. - Lo bloccò prima che fosse riuscito a mettersi del tutto in piedi. - Lasciatemi finire, per favore. Una soluzione ci sarebbe, soddisfacente per entrambe le parti."

Alzandosi per dirigersi verso uno schedario aprì il primo cassetto estraendone un modello prestampato. "Saputo dell'incidente! il signor Kaioh ha avuto la vostra stessa idea, ovvero la riduzione dei giorni per lo sblocco dell’assicurazione."

“Trenta giorni?!”

Tornando a sedersi, l’altro indicò la firma in calce già apposta dal Direttore in persona. "Esatto."

“In tal modo la CAP sarebbe in grado di restituire il prestito per l’acquisto ed il trasporto del nuovo materiale?!”

“Uno strappo alla regola che noi saremmo molto lieti di concedervi.”

Nella sua ingenuità Jànos sembrò risollevarsi l’animo anche quando quell’omino dai denti inquietanti mise i fatidici puntini sulle i.

“Sta di fatto signor Tenoh, che per qualsiasi movimento di questo genere la questione di una garanzia ipotecaria rimane. - Non mancò di spiegargli. - E spero comprendiate che per la sottoscrizione di un tale accordo la cosa più ovvia sia non tanto ipotecare una casa privata, ma la fabbrica che state rappresentando.”

Deglutendo Jànos provò la stessa sensazione di avere un milione di aghi nella gola. Ipotecare la CAP, o meglio tutto quello che sorreggeva il suo lavoro; macchinari, materiali, progetti ancora in essere, finanche le stesse mura dal mattonato rossiccio che tanto scaldava il cuore di tutti coloro che avevano la fortuna di lavorare all’interno dei suoi spazi. Ipotecare il sogno di quei coraggiosi che l’avevano voluta. Ipotecare il futuro di più di centocinquanta famiglie.

“Non posso prendere una decisione così importante da solo.”

“Ma siete o non siete il Presidente?” Incalzò.

“Si, ma il Direttivo si riunirà a breve. Questione di un paio d’ore.” Cercò d'arginare.

“Si fidi di noi. Per portare a termine la commessa e non rischiare il fallimento questa è l’unica strada che allo stato dei fatti, a voi ed ai vostri operai è concesso percorrere.”

 

 

 

Buda – Distretto I

 

Alzando le sopracciglia chiarissime l’uomo seduto alla scrivania guardò le ragazze ferme in piedi dalla parte opposta. Nulla da dire, nonostante la sua latitanza avvenuta per forza di cose nei primissimi anni della loro vita, quelle due biondine erano venute su proprio bene e nonostante fossero ancora così giovani, la dimostrazione di saperci fare non lasciava dubbi sulla provenienza del loro gene. Le informazioni che erano riuscite a raccogliere su ogni componente della voce di Buda stavano portando in lui orgoglio e fierezza paterna ed ora, come buon ascoltatore, non gli rimaneva che fidarsi delle impressioni su quel gruppo di universitari che le due stavano raccogliendo già da qualche settimana.

Appoggiandosi allo schienale della sedia guardò le cartelline dimenticate aperte sul piano. Davanti ai suoi occhi di un celeste chiarissimo, svariati nomi di giovani scritti con l’asettico carattere di una macchina da scrivere; Lukàs Körkh, Anna Indry, Hairàm Ferhèr, Michiru Kaioh ed altri, arricchiti dalle rispettive foto, alcune delle quali risalenti agli annuari liceali, spillate ad un’omonima carta gialla priva di qualsivoglia intestazione.

“Perciò mi state dicendo che tra questi dissidenti ve ne sarebbero due da tenere particolarmente sott’occhio?” Chiese alla ragazza più grande che senza esitare scosse la testa affermativamente stringendo le mani dietro alla schiena come un piccolo soldato.

“Mmmm, Adam Bascasch e Michiru Kaioh?”

“Esattamente. In pratica sono stati loro a prendersi i rischi dell’azione dimostrativa di ieri mattina.”

“In egual misura Minako?” Chiese passandosi le dita tra il folto di un’insolita capigliatura biondo rossiccia.

“In verità..., la Kaioh ha dimostrato di gran lunga più sangue freddo ed arguzia del compagno.”

“Se non fosse stato per Mina due poliziotti lo avrebbero beccato di sicuro.” Intervenne Usagi gonfiando il petto fulminata dalla sorella.

“In che senso?”

“O nulla. Diciamo che sono dovuta intervenire per tirarlo fuori dagli impicci. Ha fatto un po’ lo strafottente e per non compromettere la nostra sorveglianza ho tirato fuori… mmm, diciamo il coniglio dal cilindro.”

“Sei intervenuta?! Coniglio dal cilindro?! Cosa significa?” Riecheggiò nell’ambiente scarno dello studio di lui. Non erano questi i patti per iniziare ad inserirle nel mondo occulto dello spionaggio rivoluzionario.

“Minako credevo che su questo punto noi due fossimo riusciti a chiarirci. Non mi avevi promesso che sareste state lontane da ogni intromissione?”

“Non ho fatto nulla di trascendentale.” Si difese con calma talmente serafica che quasi nell’immediato l’uomo smorzò quella sorta di apprensione che aveva quando veniva affidata loro una qualche missione.

“Va bene, ma non voglio ripeterlo per l’ennesima volta; state attente o sarò costretto a togliervi la pratica. Intesi?”

Rispondendo all’unisono ricevettero l’ordine di continuare a monitorare il polso del gruppo facendo particolare attenzione ai due soggetti che gli erano appena stati indicati.

“Molto presto testeremo la loro prontezza. Se supereranno la prova alla quale gli altri stanno pensando… potremmo reclutarli. Anche se… ”

“Anche se?” Chiese la maggiore sporgendo leggermente il busto in avanti.

“Qui leggo che questa ragazza, questa Michiru, non è di sangue puro ed in più è figlia del banchiere Alexander Kaioh e tutti sappiamo che quell’uomo più che pensare all’Ungheria, pensi a se stesso e alle sue tasche. E’ emigrato in Giappone riconsegnando la tessera del Partito dei Piccoli Proprietari come se fosse un ladro, non tornando neanche per combattere la guerra. Se la ghianda non cade mai lontana dalla quercia, Minako non mi farei troppe speranze nel ricercare in lei quella dedizione e quell’orgoglio ungherese che ci servono per ritagliarci una fetta nel Comitato Centrale. In ultimo, dovrà accettare il fatto di essere stata seguita e segnalata e questo potrebbe non piacerle.”

Pensierosa, perché quell’idea era scesa anche nel suo cuore, Minako abbassò la testa lasciando che nella stanza calasse il silenzio. Qualche istante e come spesso accadeva, fu Usagi con il suo smisurato ottimismo ad intromettersi nella conversazione che sembrava quasi non coinvolgerla affatto.

“Non posso parlare per il suo amor di patria, visto che è nata e cresciuta all’estero, ma di una cosa sono sicura; non appena si sarà fidata completamente di noi e avrà capito che le nostre azioni hanno motivazioni giuste, scommetto quel che volete che sarà lei a chiederci di unirsi a noi. Basterà usare l’argomento giusto.”

“A costo di andarci giù pesante?” Chiese la sorella.

“A costo di andarci giù pesante!” Rispose l’altra poco innocentemente.

 

 

 

NOTE: Ciau, scusate il ritardo, ma come al solito ho dovuto studiare un poco di storia per far quadrare bene i conti. In questo capitolo c’è molta dietrologia e scenari contorti, lo so. In genere preferisco scrivere di rapporti interpersonali, come il legame tra Haruka e Michiru o tra gli altri personaggi della signora Takeuchi, ma dovevo per forza di cose mettere in campo altre figure. Ve l’avevo detto che sarebbe stato un racconto lungo e faticoso, anche da seguire ;)

Comunque credo che questa prima parte della mia ff stia per terminare. La seconda si concentrerà interamente sulle ragazze. Tutte o quasi e sulle coppie Manoru/Usagi ed Haruka/Michiru. Non mi sono dimenticata di loro. Si potrebbe dire che le Gru della Manciuria sia diviso in tre blocchi: COMPLOTTI/ VENDETTA / AMORE.

Tralascio le spiegazioni sul Parlamento ungherese del 1950 perché non vorrei scrivere fesserie, dico solo che il Partito dei Piccoli Proprietari, come quello degli Agricoltori, è esistito e dopo l’occupazione sovietica venne pian piano soppresso dal Regime.

Ciauuu alla prossima!

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo V

 

 

Conflitti

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh – Ottobre

 

 

 

Venerdì. Johanna non ricordava da quanto tempo non accadeva. In realtà non ricordava neanche che fosse mai successo. Certo, come è logico e naturale qualche scaramuccia, incomprensioni, gelosie, ma mai nulla di realmente serio. Mai nulla che non fosse già dimenticato al loro coricarsi per la notte. Ed invece questa volta era stato diverso. Questa volta una discussione c’era stata. Violenta, marcatamente, tanto che lo stesso Jànos era dovuto intervenire per dividerle prima che dalla zuffa verbale si fosse passate a qualcosa di più. Quel litigio era uno strascico. Scorie insalubri di una situazione molto più grande di loro.

Tutto era iniziato in una tarda mattina di due settimane prima, quando il Direttivo della CAP si era riunito nella grande sala delle assemblee ed il Presidente Tenoh aveva mostrato a tutti il piano di risanamento per riprendersi dalla perdita della partita d’acciaio, cosa che in un primissimo momento era stato accolto abbastanza positivamente, sia dai rappresentanti che dagli operai. Ma quando si era parlato d'ipoteca tutto era cambiato. Inevitabilmente quel giorno era venuta a crearsi una profonda spaccatura tra coloro che ritenevano la mossa del Presidente l’unica possibile e chi invece, indubbiamente spinto dalla situazione politica del momento e dalla paura di perdere il lavoro, vedeva in quell’atto una sorta di autoritarismo manovrato da qualcuno di più potente, magari dalla banca stessa. In entrambe le visioni era stato il caos e c’era voluto tutto il sangue freddo di Jànos, unito ad un altro paio di rappresentanti del Collettivo, tra i quali il fedele Scada, per placare gli animi. Non si discuteva certo sulla bontà della proposta imbastita dall’istituto di credito, ma l’apparente mancanza di rispetto che Tenoh aveva avuto nell’arrogarsi il diritto di scegliere per tutti. E non erano bastate frasi del tipo; del Direttore della Kaioh Bank ci si può fidare, oppure se qualcosa in questa trattativa andrà storta, mi prenderò io tutte le responsabilità del caso, perché se realmente una cosa qualunque fosse andata storta, un altro incidente, un ritardo negli steap delle consegne, non sarebbe stato solo lui a rimetterci, ma tutta la Cooperativa. Poco contava che Jànos si sentisse mortificato, che sapesse perfettamente di aver concluso quell’accordo senza il beneplacito di tutti, che stavano rischiando il loro mondo per un maledetto contrattempo, perché nessuno avrebbe mai realmente saputo come si era sentito davanti a quell’offerta, a quell’uomo fintamente affabile, alle pressioni che era riuscito a gettargli addosso prospettandogli scenari ben più svantaggiosi se avesse lasciato correre del tempo non sottoscrivendo subito l'ipoteca.

In questo fronteggiarsi intestino, anche le figlie avevano finito per schierarsi per l’una o per l’altra “fazione” e disgraziatamente agli antipodi, avevano portato la cosa su un piano strettamente personale continuando la discussione tra le mura di casa ogni santo giorno fino all’inevitabile rottura. Quel venerdì sera.

“Io sto soltanto cercando di farti capire come la penso Ruka. Tralasciando le voci assurde sul fatto che apa possa essere d’accordo con la Kaioh, devi ammettere che il suo non consultarsi con il Direttivo sia stato un errore che un Presidente non può permettersi di fare!

“E io ti sto pregando di non farglielo notare quando a breve tornerà a casa. E’ tutto il giorno che sta in sede a prendersi le lagne di tutti e vista l’ora sarà stravolto!”

Sorridendo ironicamente la maggiore alzò le spalle fissandola dalla seduta del divano armeggiare con la legna del camino. Haruka non era serena e concentrata a sufficienza e lo si notava dal nervosismo dimostrato verso chiunque attaccasse l’operato del padre. Questo non andava bene, soprattutto perché in tal modo si rischiava di rallentare il lavoro.

“Dio Santissimo! E’ con te che sto cercando di parlare da giorni non con lui!”

“E allora parla!”

“Ormai il contratto c’è e la sua firma anche, perciò Ruka mia è perfettamente inutile montare una linea difensiva intorno a lui guardando male e lavorando peggio con chiunque l’abbia o continui a criticato. Così non va!”

“Non permetterti di dirmi come svolgere le mie mansioni all’interno della fabbrica, perché non ho avuto ne un calo lavorativo, ne tanto meno un richiamo disciplinare.”

“Non è un calo lavorativo non riuscire più a lavorare in squadra?”

“Si può rendere benissimo anche operando da soli.”

“Allora non mi stai ascoltando!”

“No, sei tu che ti stai spiegando a cazzo!” Graffiante si voltò verso l’altra alzandosi e dimenticandosi del fuoco.

“Non metterti sulla difensiva e cerca di aprire bene le orecchie. L’abbiamo visto tutti come tu non riesca più a lavorare concentrata. Due giorni fa hai rischiato di perdere un braccio, non ricordi?”

Scoppiando a ridere la bionda abbandono' allora i fiammiferi sul tavolo appoggiandovi i palmi per spostarvi tutto il peso del corpo in avanti. Fin da piccola aveva sempre mal tollerato le critiche e a maggior ragione se provenienti da Jo.

“Adesso voglio proprio sentire se vuoi continuare con questo atteggiamento!”

“Scusami?”

“E si Johanna. Non fai che girarci intorno, ma è chiaro che in questa storia tu non voglia prendere una vera e propria posizione…”

“Ma finiscila.”

“O forse sbaglio, perché sei stata la prima a criticare nostro padre invece di proteggerlo!”

“Lo ammetto Haruka e non ne ho fatto mistero con lui parlandogliene subito dopo la riunione, ma qui non si tratta di proteggere o meno la sua scelta. - Allargando le braccia si alzò dal divano sapendo di stare per innescare una mina ancora inesplosa. - Facendo di testa sua e non consultandosi con il Direttivo, credo abbia commesso la più grossa stronzata della sua vita! E se fossi lucida lo ammetteresti anche tu!”

“Ma che bastarda.” Serrando i pugni la voce della minore salì pericolosamente di livello.

“Aspetta a partire in quarta!”

“Aspetta a partire in quarta un corno! Giuda!”

Cercando di mantenere il controllo Johanna respirò a fondo un paio di volte prima di rispondere all’offesa. Quando Haruka faceva così le formicolavano le mani per la voglia che aveva di appiccicarla al muro.

“Non insultare o dirmi cose delle quali potresti pentirti Ruka…”

Iniziando a diminuire la distanza, la bionda agirò il tavolo continuando a puntarle lo sguardo contro mentre rimarcava di non essere il tipo di persona che va pentendosi di quello che dice o pensa. “E dovresti saperlo, perché nessuna mi conosce meglio di te Jo.”

“E fai male! Non sei infallibile, ne saggia e se mi lasciassi spiegare…”

“Spiega.” Le alitò contro ormai giuntale a pochi centimetri. Più alta la sovrastò ad un passo dalla rissa.

“Razionalizza e cerca di guardare il quadro generale. In fabbrica nessuno mette in discussione la necessità che abbiamo avuto nel dover chiedere un altro prestito. Quello che alcuni contestano ad apa è che non si sia consigliato prima con il Direttivo.”

“Non sono un’idiota. Questo l’ho capito… Non fai altro che ripeterlo da giorni.” Gelo nella voce.

“E allora perché stai facendo di tutto per sembrarlo?!”

Velocità di presa. Johanna si sentì stringere per un braccio provando immediato dolore.

“Non è così che si fa in una famiglia. Ci si spalleggia e ci si difende. Sempre!”

“Allora è questo che ti rode! E’ per questo che non mi parli da giorni!”

“Sei sempre stata una pacifista del cazzo, ma pensavo che vuoi o non vuoi saresti stata dalla nostra parte almeno questa volta.”

“Mi stai facendo male. Lasciami.” Ringhiò cercando di staccarsi da dosso quell’artiglio.

“Da noi apa si merita quantomeno un sostegno e invece tu non stai facendo altro che startene in un angolo zitta e buona mentre altri sparlano di lui alle sue spalle!”

"Ti ho detto che mi stai facendo male..."

"E te ne farò ancora se non la pianti Johanna!"

“Ti ho detto di guardare il quadro generale! Continuando a creare ostracismo sul lavoro non farai altro che rallentarlo e non ce lo possiamo permettere!”

“Che succede qui!” Tornato disfatto per l’ennesima giornata campale portata avanti ad oltranza, Jànos avrebbe voluto trovarsi davanti agli occhi un piatto di stufato fumante, un bel fuocherello e quattro braccia al collo desiderose di un sorriso paterno invece di una scena come quella. La figlia maggiore era stata onesta a parlargli dei dubbi che aveva nell’animo e perciò sapeva perfettamente come la pensasse, ma Haruka, molto meno razionale e più istintiva, quando si trattava di lui non voleva sentir ragioni. In tutta franchezza dopo la fine della riunione generale, ogni volta che la sera era tornato a casa trovando la tavola pronta, il tepore e una certa dose di pace casalinga, si era stupito, perché era solo questione di tempo prima che il loro Turul avvertisse la necessità di usare gli artigli e graffiare.

“Allora?” Autoritario si tolse il berretto per appenderlo con il cappotto all’attaccapanni inchiodato al muro dell’ingresso.

Approfittando dell’allentarsi della stretta Johanna si liberò con un gesto secco facendo un passo indietro. “Nulla.”

“Nulla dici?! E allora perché qui dentro c’è un freddo micidiale e la cena latita? Sono stanco ragazze e quando rientro non pretendo molto di più che un po’ di calore. Perciò Johanna, vai in cucina e tu Haruka… sali a prepararmi la vasca.”

“Si apa.” Risposero all’unisono dimenticandosi l’una dell’altra per fiondarsi alle due estremità della sala da pranzo.

Passando accanto al genitore la bionda si sentì afferrata per un braccio. “Haruka non voglio più vedere una scena del genere… Sono stato chiaro?!” E al leggero assenso le piazzò una manata dietro alla nuca guardandola salire velocemente le scale.

Che pazienza vivere con due donne.

Così passò la cena, passò la notte e passò anche l’alba del giorno successivo, ma tra le due nulla di più che qualche occhiataccia strappata di straforo allo sguardo severo di Jànos. Poi arrivò la colazione, fintamente serena, giusto il tanto per lasciarlo contento e poi via, tutti e tre al lavoro; il padre in cantiere insieme alla maggiore e la bionda in fabbrica, dalle sue adorate macchine di produzione.

Haruka continuò a manifestare insofferenza per tutto il santissimo giorno preferendo lavorare per conto suo, mangiare per conto suo e tornare a casa per conto suo. Lei, sempre pronta agli scherzi in mensa, a parlare logorroica di qualsiasi ingranaggio le avesse solleticato le fantasie, lei, mai troppo generosa di sorrisi, ma sempre estremamente gentile con tutti, ora sembrava essersi trasformata in una piccola testuggine schiva e guardinga. Forse Jo aveva ragione; avrebbe dovuto guardare il quadro d’insieme, oltrepassare quello che per lei era un affronto diretto alle energie che per anni Jànos aveva investito in quella fabbrica, al tempo speso per ogni singolo operaio, ai sogni costruiti e a quelli ancora da realizzare. Già, forse Haruka avrebbe dovuto farlo invece che ostinarsi nella sua personalissima opera di guerriglia.

Meditando, alla fine del turno decise che nonostante il vento pungente sceso da est portasse un freddo anomalo per quel mese, sarebbe comunque andata incontro al padre ed alla sorella e camminando mani nelle tasche giunse alla zona dei bistrot all’aperto che abbellivano la parte al ridosso del Danubio. Incassando il collo nel bavero del cappotto si fermò ad un incrocio per lasciar passare qualche automobile, quando la vide. Quella bellissima sirena che tanto l’aveva colpita alla gara di corsa del mese precedente e che sfacciata era riuscita a controbattere ogni suo tentativo di tacitarla.

Michiru pensò socchiudendo gli occhi per meglio mettere a fuoco una ragazza che dalla parte opposta della strada stava alzandosi da un tavolino sorridendo ad un paio di coetanei, che presumibilmente dovevano far parte della sua stessa compagnia.

“Dai Kaioh, ti accompagniamo a casa.”

“Grazie Adam, ma non ce né alcun bisogno. Conosco abbastanza bene questa parte di Pest.”

“Appunto… Pest. Qui è pieno di bifolchi e non vorremmo che una bella ragazza come te dovesse aver problemi.” Disse sottovoce Lukàs guardandosi le spalle fintamente preoccupato.

“Anche se così facendo manderete fuori dai gangheri Hairàm? Lo sapete che non sopporta quando vi presentate a casa sua in ritardo.” E alla sua bella risata, Adam alzò le spalle confessandole che per farsi perdonare gli avrebbero portato una sontuosa bottiglia di Pàlinka.

Facendo una smorfia d’ammirazione con la bocca la ragazza uscì dal nuvolo di sedie dimenticate alla rinfusa sul marciapiede, iniziando ad incamminarsi verso il fiume con i due amici al fianco.

 

 

Buttando il suo spazzolino nel bicchiere accanto agli altri, Jo si guardò un’ultima volta nello specchio sfiorandosi con l’indice lo zigomo. Aveva bisogno di riposo. Era stanca, ma certo non era l’unica della sua famiglia ad avere bisogno di una massiva dose di sonno. Spegnendo la luce si richiuse la porta del bagno alle spalle percorrendo i pochi metri che la separavano dalla sua camera. Passando davanti alle scale vide la luce da basso ancora accesa. Il padre avrebbe fatto le ore piccole anche quella notte. Sospirando proseguì sentendo i listoni di pino del pavimento del corridoio scricchiolare leggermente. Erano quelli i suoni tipici di ogni casa e dopo più di vent’anni ormai li considerava come vecchi amici, scrigni gelosi della storia di una famiglia. La sua.

Arrivata in camera trovò Haruka già sotto le coperte intenta a leggere un libro. Maglietta a maniche corte e il sotto del pigiama. Il solito abbigliamento che ci si trovasse d’estate o d’inverno.

“Il riscaldamento è ancora acceso, ma ti consiglio di coprirti perché pare che questa notte farà piuttosto freddo.”

Sfogliando distrattamente una pagina sorrise non staccando gli occhi dalle parole. “Se mi copro troppo sudo e dormo male, lo sai.”

“Giusto. Stupida io che mi preoccupo.” Borbottò alzando le coperte del suo letto per poi sedersi sul materasso pronta a coricarsi.

“Allora… buonanotte.” Seccata si trasformò in un bozzolo dandole le spalle.

Nulla da dire, tra le due era la piccola la testa più dura, ma se in altre occasioni Johanna avrebbe lasciato correre, questa volta il comportamento di Haruka la stava mandando in bestia. Quando quella sera lei e Jànos l’avevano incrociata non molto lontano dal cantiere, intimamente aveva sperato in un gesto di riappacificazione, perché sua sorella era così, burbera e bizzosa, ma anche tenera ed intelligente. Ma al contrario, era stata come assente per tutta la strada del ritorno non degnandola di una parola neanche durante e dopo la cena. A pensarci bene quella risposta era la prima frase di senso compiuto che le rivolgeva dopo lo scontro del giorno precedente.

Ma Jo non poteva immaginare quello che a sua sorella stava passando per la testa. Il cuore avvilito ed il morale sotto i tacchi per aver visto la ragazza che tanto l’aveva folgorata in compagnia maschile. Sorridente, alla mano, perfettamente a suo agio con gli atteggiamenti anche troppo confidenziali di quei due ragazzi. Dandosi dell’imbecille per aver anche solo sfiorato l’idea di poter venire un giorno amata da una come lei, Haruka si era rifugiata nel suo letto come se fosse stato una rocca cinta da un fossato, pensando e ripensando alla gara e ad ogni singola parola nata sul ciglio di quella strada. Ogni tocco. Ogni sguardo. Con la questione della banca non aveva più avuto modo di tornare con il cuore a lei, come se il loro incontro fosse stato relegato in un cantuccio del suo io in attesa di tempi più sereni per essere ripreso e curato come un fiore meraviglioso e ora che l’aveva rivista, anche se per pochissimi istanti, quel limbo era esploso facendo riemergere le sensazioni che aveva avvertito in sua presenza. Sbuffando grattandosi la testa, la bionda guardò quel bozzolo che era la sorella sentendo la necessità di un contatto.

“Jo…”

Rannicchiandosi ancor di più sotto la trapunta l’altra si strinse le braccia alle spalle assumendo la posizione fetale che sperava l’avrebbe portata al sonno. “Mmmm…”

“Scusami…”

Qualche secondo e riemergendo di malavoglia si infilò entrambe le mani sotto la nuca puntandola. “Vedi Ruka… alle volte ti ammazzerei.”

“Ti ho chiesto scusa, no?!”

“Si, ma non hai ancora capito.” Disse avvertendo il suono sordo del libro chiudersi di colpo.

“Quello che mi da pensiero, quello che mi spaventa da morire, è sapere che apa abbia firmato quel documento assumendosi tutta la responsabilità e se non dovesse andare come tutti speriamo la colpa sarà solo sua.”

Haruka finalmente tornò a guardarla dopo aver schivato quello sguardo tanto simile al suo per un tempo assurdamente lungo.

“Vedi, se fosse stato il Direttivo a decidere di firmare quell’ipoteca, le responsabilità si sarebbero potute dividere tra tutti i rappresentanti e nessuno avrebbe mosso critiche. Invece non volendo o potendo aspettare un’assemblea che visto l’ordine del giorno, sono convintissima sarebbe andata avanti ad oltranza bruciando tempo prezioso, nostro padre si è arrogato la facoltà di scegliere per tutti. Ora, se tutto scorrerà e la CAP porterà a termine il ponte, per Jànos Tenoh non ci saranno che un paio di strette di mano, ma …” Abbandonando un avambraccio sugli occhi provò un brivido mentre Haruka continuava la sua frase.

“Ma se sarà un fallimento sarà soltanto lui a pagarne le spese.”

“Sia morali che… legali. Come rappresentante di una fabbrica che non potrebbe che dichiarare banca rotta per tutti i debiti che si troverebbe ad avere con una banca creditrice, credo rischierebbe addirittura la galera.”

“Come la galera…!”

“Non lo so, sono quasi un Architetto non un Avvocato conclamato, ma a quel che ho capito parlando con qualche amico che ho a Giurisprudenza, per quello che ha fatto è questo che le attuali leggi potrebbero prospettargli. Io sarò sempre dalla sua parte Ruka, ma questa volta ho paura che si sia spinto troppo oltre… e lo sa anche lui ed è per questo che sta sputando il cuore su questa storia.”

Haruka iniziò a capire la sorella e ancor di più il padre. Erano preoccupati, non dormivano e mangiavano pochissimo, ma cercavano comunque di restare calmi per essere precisi e concentrati sul lavoro, mentre lei non aveva fatto altro che tirare pugni all’aria mostrando le zanne. Come tutte le famiglie della Cooperativa anche la sua rischiava di perdere l’unica entrata economica, ma a dispetto delle altre, per il clan Tenoh la posta in gioco era ancora più alta.

“Jo io…”

“Ma non accadrà nulla Ruka. Stai tranquilla. - Voltandosi cercò di sorriderle il più dolcemente possibile. - Vedrai… da lassù la mamma ci darà una mano. Finiremo quel ponte e lo finiremo bene. Ora dormiamo. Da domani ricominceremo a giocare di squadra, vero?!”

Haruka non le rispose che con un impercettibile assenso con la testa, perché il groppo che le era salito alle corde vocale le impedì di proferire una qual si voglia parola.

 

 

Apri gli occhi piccola Gru di Buda

Buda – Distretto I, Palazzo Kaioh

 

Michiru richiuse la porta della sua camera appoggiandovi pesantemente le spalle. Portando la destra al petto sentì il cuore continuare a battere furioso. Sotto i polpastrelli, chiazze di sangue ormai raggrumatosi al freddo della sera. Inalando ossigeno guadagnò il letto prima che l’adrenalina che l’aveva sorretta fino a quel momento l’abbandonasse per dar spazio al tremore. Arrivando al bordo e lasciandosi cadere pesantemente sul materasso si arpionò la testa con le mani puntellando i gomiti sulle cosce. Era accaduto tutto troppo rapidamente e ancora non si capacitava di come quella bella serata tranquillamente passata assieme a Lukàs e Adam, avesse potuto improvvisamente trasformarsi in un incubo. Camminando verso casa Kaioh si erano imbattuti in una scena assurda e da semplici ragazzi si erano trasformati in salvatori. Poi, altrettanto velocemente, i piccoli salvatori erano diventati prede e come tali erano dovuti fuggire.

“Dio Santissimo…” Soffiò sentendo nel naso l’odore dolciastro del sangue che ancora le macchiava le dita.

Era allenata nella corsa. Non aveva fatto fatica a star dietro ai suoi compagni, ma nonostante tutto iniziava ad avvertire durezza nelle gambe. Nauseata dall’olezzo di sudore misto a sangue, si alzò di scatto andando in bagno dove si disfò velocemente dei vestiti per poi varcare il bordo della vasca da bagno ed aprire il rubinetto della doccia. Sedendosi sul fondo portò le ginocchia al petto appoggiandovi la fronte lasciando così che l’acqua bollente iniziasse a sferzarele collo e spalle. Nella mente ancora vivide le scene che suo malgrado era stata costretta a vedere. Nelle orecchie il suono acuto emesso dal fischietto di uno dei due uomini che i tre avevano sorpreso mentre stavano pestando un loro coetaneo reo di aver scritto un qualcosa di politico sul muro di un palazzo.

Era stato Adam ad accorgersi per primo del fatto, attirato forse dai suoni gutturali che quel povero disgraziato riusciva ancora ad emettere da una bocca ormai totalmente invasa dal sangue. “Ei voi! Cosa state facendo!?” Aveva urlato non avendo risposta.

Uno sguardo d’intesa con Lukàs e senza esitare si erano gettati sui due iniziando uno scontro. Michiru li aveva seguiti riuscendo ad arpionare un lembo del cappotto del malcapitato trascinandolo lontano di un paio di metri.

“Non preoccuparti. Sei al sicuro ora.” Gli aveva sussurrato stringendogli le spallle.

Presi dal fervore del momento e dall’effetto sorpresa, i ragazzi avevano avuto la meglio gettando in terra gli altri con un paio di ganci a testa, ma prima che avessero potuto portare in salvo il ragazzo, uno dei due aveva estratto dalla tasca del cappotto un fischietto soffiandoci dentro. Neanche il tempo di pensare ad un segnale di richiamo che dall’angolo della strada erano comparsi quattro uomini vestiti di scuro armati di manganelli.

“Porca puttana la ÁHV!” Avevo urlato Adam dilatando gli occhi come un coniglio impaurito mentre quelli iniziavano a corrergli incontro.

“Via, via!”

“E lui?” Aveva chiesto Michiru sentendosi strattonata per un braccio da Lukàs.

“Non è in grado di correre e se questi ci prendono è finita!” E con dolore e rabbia avevano dovuto abbandonare il ferito per iniziare a correre all’impazzata verso il parco che dava su Danubio.

Conoscendolo benissimo Michiru li aveva guidati all’interno dei viottoli ormai nascosti dalla semi oscurità dei lampioncini di ghisa, mentre i quattro che avevano preso ad inseguirli gli intimavano di fermarsi o avrebbero sparato. Ed in effetti un paio di colpi d'avvertimento c’erano stati, ma più veloci e meglio orientati i ragazzi erano riusciti a guadagnare un certo margine di sicurezza puntando verso l’uscita ad ovest convinti erroneamente di trovarla aperta.

“Cazzo! Cazzo!” Aveva ringhiato Adam dando un calcio alla cancellata chiusa da uno spesso lucchetto, iniziando poi a fare avanti e indietro come una fiera in gabbia.

Qui Michiru era esplosa e serrando i pugni aveva vomitato un finiscila e cerchiamo di ragionare che aveva avuto il potere di tacitarlo.

Tornare indietro no. Nascondersi tra i cespugli forse?

“Stanno arrivando. Cosa facciamo Kaioh?” E lei aveva guardato Lukàs non capendo il perché lo stesse chiedendo proprio a lei.

Non sono un leader e non voglio esserlo aveva pensato ripetendo la stessa frase che aveva detto alla piccola Usagi Aino, non accorgendosi però che mentre il suo cervello entrava in una pericolosissima empasse, il corpo agiva di volere proprio.

Spingendo Adam contro al muro di cinta intimò all’altro di montargli sulle spalle. "Dai muoviti! Dobbiamo scavalcare. Vieni!”

Così avevano fatto. Obbedendo Adam aveva alzato Lukàs fin sopra al ciglio del muro adornato da un filare di corte lance dorate. Mezzo accovacciato con i piedi incastrati tra i ferri, il ragazzo aveva issato Michiru aiutandola a scivolare dalla parte opposta per poi porgere la mano al compagno. Quando anche Adam era riuscito a salire, uno sparo esploso da un punto non distinto del parco lo aveva costretto a velocizzare l’operazione di discesa, distraendolo e facendogli slittare un piede sul muschio reso scivoloso dall’umidità. Riuscendo comunque a saltare verso la strada aveva urtato la punta di una lancia squarciandosi l’avambraccio sinistro nonostante lo spesso cappotto. Così erano riusciti a dileguarsi nella sera scura di Buda capendo solamente qualche chilometro dopo di avercela fatta. Nascosti a riprendere fiato dietro l’angolo di un palazzo di una stradina senza uscita, Michiru aveva stretto il suo fazzoletto al braccio dell’amico cercando di capire in quale punto del primo distretto si fossero trovati ed una volta ragionatoci sopra, aveva deciso che sarebbe stato meglio dividersi.

“L’abitazione di Hairàm è qui vicino. Andate da lui.”

“Ma scherzi!? Con quei porci in giro?!”

“Adam ha bisogno di cure. Vuoi forse che muoia dissanguato? Coraggio, andate. La mia casa non è poi tanto lontana.” Così avevano fatto.

Una volta varcato il portoncino della sua villa, Michiru era riuscita a non farsi vedere da nessuno schizzando sulle scale facendo il meno rumore possibile. Alexander era ancora in sede e con molta probabilità il fedele Takaoka lo stava aspettando all’interno dell’auto parcheggiata sotto la banca, la cuoca era chiusa in cucina e la cameriera, forte della sua giornata libera, non era ancora rincasata.

Alzando il mento all’acqua, la ragazza ebbe un brivido freddo nonostante tutto intorno stesse salendo un caldo vapore. Com’era stato possibile che fosse riuscita a ragionare così velocemente? A mantenere la calma? Quando aveva compreso di avere le spalle al muro, intorno a lei tutto aveva iniziato a rallentare; la frenesia di Adam, il terrore negli occhi di Lukàs, il vociare dei loro inseguitori. Invece che rotolare verso il baratro del panico, era stata spinta da un'improvvisa lucidità verso una visione d’insieme dove al problema c’era stata una rapida soluzione.

Passandosi le mani tra i capelli bagnati si alzò chiudendo l’acqua ed afferrando l’accappatoio uscì lentamente poggiando i piedi sul tappetino. E quel povero ragazzo? “Padre cielo cosa sta succedendo in questo paese?” Si chiese mentre il telefono della sua camera prendeva a squillare.

 

 

“Buonasera Kaioh.” Ferma accanto alla macchina della sua famiglia, Usagi alzò un braccio esplodendo un bellissimo sorriso.

“Buonasera a te Aino. Devo dire che la tua richiesta di vedermi mi ha sorpresa.” Rispose piegandosi leggermente in avanti per lasciarsi baciare sulla guancia.

“Scusami se mi sono permessa di disturbarti a quest’ora, ma vorrei parlarti. Vieni, sali. Facciamo un giro.”

Un tantino sulle sue la ragazza non si mosse. All’invito dell’altra guardò la portiera aprirsi avvertendo un’inspiegabile brivido di paura. Quello che aveva vissuto quella sera, unito all’impellente necessità della liceale di vederla, le fecero puntare i piedi.

“Mio padre non è ancora rientrato e con i tempi che corrono non ha piacere di sapermi fuori dopo cena.”

“Non ci vorrà molto.” Incalzò la biondina dalla buffa capigliatura notando quasi con gusto il suo disagio.

“Ti vedo tesa. Questa mia richiesta ti sta forse mettendo ansia, Kaioh?”

“Dovrebbe?”

Stirando le labbra Usagi entrò nella macchina attendendo con lo sportello aperto, perché se veramente aveva inquadrato la personalità di quella giovane donna, non sarebbe mai voluta passare per codarda. Ed infatti dopo pochi secondi Michiru salì accostandosi alla sua spalla.

Chiedendo all’autista di partire si diressero verso il fiume e da li al centro del sesto distretto.

“Allora… dove stiamo andando?”

Usagi abbassò la testa ghignando. Doveva ammetterlo; quella ragazza le piaceva da morire. Il suo carattere posato riusciva a nascondere con una certa facilità una forza a dir poco impressionante e nonostante in quel preciso momento una tensione crescente la stesse divorando, continuava a dissimulare l’apprensione con una certa distaccata impazienza.

“Vorrei mostrarti una cosa, anche se credo tu la conosca già. Almeno per sentito dire. Non frequenti molto il sesto distretto, giusto?”

Deglutendo Michiru rispose con sicurezza che non era solita farlo, anche se non disdegnava alcuni caffè verso il Danubio.

“Vedi, il sesto distretto non ha solo una considerevole fetta di fabbriche e case popolari, di bistrò e caffè, ma ci sono anche alcuni edifici che varrebbe la pena di conoscere meglio.”

“Ed è forse verso uno di questi che siamo dirette?”

“Esattamente.”

La più grande sentì di stare al limite. Usagi era sempre stata sincera anche a costo di passare per sempliciotta, ma quella sera tutto sembrava tranne una sprovveduta liceale. Cercò di fare di tutto per mantenere compostezza, fino a piantarsi le unghie nei palmi, ma sapeva di stare per crollare. Forse in un’altra occasione avrebbe potuto controbattere meglio, ma non quella sera. Non era ignorante Michiru, conosceva abbastanza bene Budapest per sapere che in quella zona cittadina sorgeva un edificio disgraziato, maledetto, una spaventosa concentrazione d’ipocrisia storica e politica che sotto il regime nazista prima e quello socialista ora, continuava a tormentare i sogni di tutti coloro che in un modo o in un altro si trovavano contrari alle idee assolutiste del momento.

La macchina della famiglia Aino, una Aurelia nero corvo nuova di zecca, si fermò sulla Andràssy dove un’enorme edificio d’angolo campeggiava come una sorta di monolitico sparti strada. In stile neoclassico dal bugnato chiaro, poteva benissimo essere scambiato per una scuola o una sede ministeriale. Apparentemente non aveva nulla di speciale tranne per il fatto che fosse stato adibito ad una delle case di correzione più famigerate del paese.

“Ne hai sentito parlare Kaioh?- Chiese la ragazzina mentre l’autista scendeva per andarsi a fumare una sigaretta.- E’ la casa della giustizia, meglio nota come la sede della polizia politica comunista.” Continuò mentre l’altra era letteralmente in apnea.

“Kaioh? Perché tu ed i tuoi amici state continuando a giocare con il fuoco?”

A quella domanda Michiru si voltò di scatto verso di lei dilatando gli occhi. “Cosa… Usagi… ma tu chi sei?”

“Rispondi prima a questo. Perché tu, Bascasch e Körkh questa sera siete stati inseguiti da alcuni rappresentanti della ÁHV?”

Michiru distolse allora lo sguardo puntandolo alle mani che adesso stava stringendo a pugno sulle cosce. Quella domanda era stata più devastante di una granata. Sentendo l’adrenalina montare per l’ennesima volta nel corso di quell’interminabile serata, respirò affondo alzando poi la testa. “Credo tu lo sappia, altrimenti non mi avresti posto la domanda Aino.”

Notevole. Veramente notevole. A quelle parole Usagi sorrise tristemente chinandosi verso di lei aprendole il finestrino. “Ascolta la voce del vento Kaioh.” E tacque.

Non capendo e continuando ad avere tutti i muscoli paralizzati, la più grande voltò leggermente il viso verso il vetro parzialmente abbassato. La casa della giustizia a pochi metri, dall’altra parte della strada. E dopo qualche istante di silenzio, un urlo soffocato preveniente da una delle tante finestrelle del piano terra le gelò il sangue. Guardando nuovamente Usagi sporgersi per riafferrare la manovella del finestrino schiacciò la schiena contro il sedile di pelle.

“Michiru, mia sorella ed io vi abbiamo già consigliato di stare attenti, di non giocare a fare gli eroi della nazione, di controllare meglio come e cosa dire quando siete riuniti in pubblico, ma non credo che abbiate capito veramente cosa o chi state punzecchiando. L’intervento di questa sera poteva portarvi a quello.” Indicò con il mento l’edificio lasciando che l’altra intuisse di chi fosse l’urlo straziante appena sentito.

“Quel ragazzo… Noi non potevamo… Non siamo riusciti a salvarlo!"

“Azione encomiabile, ma stupida. La polizia segreta ha orecchie ed occhi dappertutto. La vostra fuga dal parco è stata senz’altro rocambolesca, ma ti ripeto, voi non dovreste…

“Chi diavolo sei…!?” L’interruppe rabbiosa.

“Sono la figlia di un uomo che ha combattuto per l’Ungheria ritrovandosi un’invasore per le strade della sua capitale. Un uomo che per questo, qualche tempo fa, fu per così dire invitato in quella casa per alcuni giorni dai “nuovi occupanti” e che ne uscì zoppo e parzialmente cieco da un occhio. Un uomo che ha dovuto rinnegare pubblicamente quello che era stato e che per le sue figlie si è piegato al volere dei nuovi padroni.”

“Ferenc Aino…” Soffiò.

“Già. Un uomo ed un patriota coraggioso che ha deciso comunque di continuare a combattere nell’ombra e che adesso ha bisogno anche del tuo aiuto Michiru.”

 

 

 

NOTE: Ciau. Lo so, lo so, vedere Usagi in queste vesti misteriose è particolare e da da pensare, ma se ci pensiamo bene, anche “l’originale” ha spesso camuffato la sua vera natura per poi apparire un’eroina no? Non dico che questo sarà il caso, ma i presupposti ci sono tutti.

L’evoluzione di Michiru sta incominciando, quella di Haruka ancora no, ma non manca molto perché si trovi a dover “crescere” e decidere del suo futuro.

Un’appuntino sulla Pàlinka, una bevanda piuttosto alcolica ungherese (serba e romena) che si ottiene usando svariati tipi di frutta. Bona ;)

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Mamoru Kiba, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo VI

 

 

Incontri e… scontri

Buda – Distretto I, Sede della BME – Novembre

 

 

 

Il via vai degli studenti immersi nella consuetudine. L’inizio e la fine di ogni singola lezione. Le aule che si svuotano e si riempiono. Il vociare smorzato dall’improvviso silenzio. Il cicaleccio dei gruppetti femminili sovrastato dalle sonore risa di quelli maschili. Facoltà che si fondono, si mescolano, goliardicamente si deridono, per poi tornare disciplinate e lasciarsi, ognuna concentrata nella rispettiva sfera di studio. E li, come immersa in un liquido viscoso, c’era lei, un essere annaspante reso ancor più pesante dalla consapevolezza di aver toccato con mano l’enorme iniquità che stava serpeggiando nel suo paese.

Erano passati più di dieci giorni dalla sera della fuga dalla ÁHV, dalla sera nella quale la giovane Usagi Aino le aveva rivelato cose sconvolgenti, cose che le avevano spalancato gli occhi su una situazione ai margini della legalità, che ora per Michiru Kaioh era così dannatamente difficile rimanere impassibili e con le mani nelle mani. Impossibile. Su segnalazione delle sue due figlie, il Generale Ferenc Aino, ex comandante della resistenza ungherese ed ora membro autorevole dell’esercito, ora richiedeva i suoi servigi e lei, lasciata libera di agire in tutta coscienza, si trovava nella disgraziata posizione di dover scegliere se rimanere alla finestra o intervenire in quella “lotta” sotterranea in maniera ben più concreta di quanto la voce di Buda non stesse facendo o avrebbe mai avuto la possibilità di fare.

“Vedi Michiru mia sorella ed io stiamo studiando il vostro gruppo da svariate settimane e soltanto tu ci sembri portata per aiutarci.” Le aveva detto quella sera la liceale seduta sul retro della macchina di famiglia ancora parcheggiata davanti alla casa della giustizia.

“Perdonami Usagi, ma non riesco a capire. Cosa siete esattamente tu e Minako?”

Allora sorridendole la biondina le aveva poggiato una mano sulla sua. “Agenti. - Aveva confessato alzando leggermente le sopracciglia chiare. - O come dice sempre mio padre… aspiranti agenti di controllo.”

“Ss… spie?”

“In realtà siamo troppo giovani ed inesperte per essere considerate tali. Per ora abbiamo solamente il compito di reperire informazioni e passarle a chi di dovere ed è proprio questo che vorremmo tu iniziassi a fare per … noi.

“Noi chi?!”

“Kaioh, in questa fase meno ne sai e meglio è. Persino Mina che ha due anni d’esperienza più di me, non conosce i personaggi politici e militari per i quali lavoriamo.”

Sulla base di quel che aveva visto quella sera, ovvero la facilità con la quale la polizia portava a tortura anche semplici ragazzini, a Michiru questo alone di mistero era parso un plausibile mezzo protettivo.

“Se dovessi accettare? Io non ho alcuna esperienza.”

“Tu hai molto di più Kaioh; hai talento. Una capacità innata di essere un leader, di prendere decisioni velocemente e di essere seguita dagli altri. L’esperienza viene con il passare del tempo, ma quello che hai tu è un dono naturale.”

“E se… non dovessi accettare?” Aveva chiesto gettando uno sguardo all’incombente palazzo colta da un’improvvisa scintilla di paura.

“Capiremmo. Sappiamo che hai un padre con una posizione sociale abbastanza scomoda. Non preoccuparti. Vuol dire che faremmo finta che tutto quello che ci siamo appena dette faccia parte di uno stranissimo sogno. Io sono solo una liceale qualunque. Mia sorella è un’aspirante ballerina e mio padre… bè, mio padre in questi anni è riuscito a tessere intorno a se una maglia protettiva con ramificazioni in tutta Europa, perciò… “

Scendendo verso le aule del secondo piano Michiru rabbrividì. Non terminando quella frase Usagi era stata di una chiarezza allucinante. In pratica, anche se l’erede dei Kaioh fosse stata arrestata e torturata, rivelare il nome di Ferenc Aino non sarebbe servito a nulla.

Cosa devo fare. Cosa diavolo devo fare. Ho l’impressione che tutto il mondo si sia trasformato in un’immersa ruota panoramica ed io non riesca più a scendere. Ho la nausea pensò arrivando lentamente al piano terra mentre un’ombra scura allungava una mano verso la sua schiena.

“Scusami…”

Trasalendo Michiru si voltò di scatto mettendosi involontariamente sulla difensiva.

Due occhi blu la guardarono dispiaciuti. “O perdonami, non volevo spaventarti.”

Sentendosi colta in fallo contraccambiò il contatto visivo montando un piglio di falsissima sicurezza. “Posso aiutarti?” Chiese al ragazzo alto e moro dal completo nero.

“Credo proprio di essermi perso. Sto cercando la sede temporanea della segreteria amministrativa della Facoltà di Medicina della Semmelweis. Sai dove sia?” Chiese con l’aria di un cucciolo smarrito che ebbe il potere di farle tornare un leggero buonumore.

Ridacchiando gli si avvicinò come a volergli rivelare un importantissimo segreto. “Ma lo sai che sei a Buda?”

A Michiru non interessava molto il calcio, ma era risaputo che tra la squadra della BME di Buda e la Semmelweis di Pest c’era da sempre una certa rivalità. Era a dir poco curioso ritrovarsi uno studente di medicina gironzolare per i corridoi della loro sede.

Portandosi la destra alla nuca il ragazzo scoppiò a ridere ammettendo il disagio. “In effetti è tutto piuttosto strano qui da voi, ma da quando la nostra segreteria è inagibile, siamo obbligati a varcare zone meno… oscure.” Giocando sul color antracite delle magliette della squadra universitaria al di la del Danubio, si sentì sollevato nel vederla improvvisamente più a suo agio. Quella bellissima ragazza era talmente immersa nei suoi pensieri che il suo semplice tocco doveva averla spaventata parecchio.

“Di preciso non so dove sia, però se prosegui in quella direzione arriverai all’esterno dove c’è una piccola struttura. Forse li potranno aiutarti.”

“O mille grazie.” Porgendole la mano fece un cenno con la testa lasciandola mentre sopraggiungeva Minako.

“Non è di qui.” Affermò la piu' giovane continuando a tenergli gli occhi incollati alle spalle robuste.

“No.”

“E’ un medico.”

“Come fai a dirlo? Oltre a seguirmi adesso ti sei anche messa ad origliare?” Da quella sera di mozzate rivelazioni e pesanti richieste, Michiru aveva iniziato a sentirsi soffocare dalla presenza costante dell’una o dell’altra Aino. Non che le stessero facendo delle pressioni, ma con una scusa o meno se le ritrovava sempre tra i piedi.

“Non essere sciocca. Anche se è il mio lavoro in questo caso non c’è affatto bisogno di scomodare le orecchie, basta guardare con attenzione.”

“Spiegati Mina.”

“Ha un completo da medico… non te ne sei accorta? Non è di buona fattura, perciò o è povero in canna o è un tipo trasandato, il che non mi sembra visto il taglio estremamente curato dei capelli. E aggiungo che salutare con una stretta di mano una ragazza alla quale si è appena rivolta la parola è da campagnolo. Con molta probabilità non è di Budapest.”

Michiru rimase colpita. Minako era un’osservatrice eccezionale.

Percorrendo guardingo tutto il corridoio, il ragazzo si ritrovò finalmente all’aperto e respirando l’aria buona di quella mattina di novembre, dilatò i polmoni per prendere una copiosa boccata d’aria quando un qualcosa di molto, molto duro andò a rimbalzargli contro il petto.

Con il fiato mozzato guardò il basso inclinando la testa da un lato. Polpette?

“Ma che diavolo fai!? Perché ti sei fermato così di colpo?!”

Lui guardò la ragazzina dal viso offeso per un paio di secondi, esterrefatto da quell’assurda capigliatura che aveva su, poi non riuscendo a trattenersi gli sbottò a ridere in faccia facendola imbestialire ancora di più.

“Ma che ti ridi scemo!?”

“A io scemo? Ma di un po’… ti sei vista?!” Chiese indicando i due pon pon formati dai capelli al di sopra dei codini che portava ai lati della testa.

Usagi si zittì di colpo iniziando a colorirsi le guance di rosso e visto che lui non la smetteva di ridere, partì dritta spedita come un treno. “E tu allora? Sembri un becchino!”

“Bè… alle volte… Comunque meglio che avere due polpette spiaccicate sulla testa.” Articolò asciugandosi gli occhi con indice e pollice.

“CA...FO…NE…! - Gli urlò lei iniziando a camminare all’indietro verso l’entrata. - Bifolco ignorante!” E sparì tra il chiaroscuro del corridoio continuando a sbattere contro chiunque si fosse trovato lungo la sua strada.

“O mio Dio queste facoltà sono uno spasso.” Disse lui individuando l’edificio indicatogli poco prima dove una piccola targa dorata riportava la scritta Semmelweis Univerity.

Una ventina di minuti più tardi l’addetto alla segreteria tornò con una cartellina bianca tra le mani dove il simbolo della sua facoltà, la croce di Lorena, campeggiava sulla copertina facendo bella mostra di se. “Ecco qui la vostra abilitazione dottore. Una firma sul modulo di ritiro ed è tutta vostra.”

“Grazie mille.” Disse impugnando la penna per scrivere il suo nome. Da quel momento in poi Mamoru Kiba sarebbe stato un medico a tutti gli effetti.

 

 

Momenti da ricordare

Pest – Distretto XIII , Isola Margherita

 

La giornata era assolata anche se freddina e non invogliava certo a stare nei pressi o dentro l’acqua, ma sta di fatto che Jànos ed Haruka avevano preso quel ritaglio di serenità domenicale per imbastire la più grande gara di pesca della storia di Budapest. Del paese. Del mondo intero. Semidistesa sull’erba con la splendida torre ottagonale del serbatoio idrico che si stagliava in lontananza, Johanna scosse la testa alzando le sopracciglia in un’espressione al limite del disperato. Davanti a lei, a qualche metro, pantaloni arrotolati fino al ginocchio, polpacci immersi nell’acqua, camicie sporche d’erba, sudore e Dio sa cos’altro, se ne stavano padre e sorella da più di un’ora, canne da pesca in mano, bigattini a contorcersi in un secchio appeso alla staccionata posta a protezione della riva e zero trote nelle sporte di tela cerata penzolanti dalle loro cinte.

“Fate pena.” Disse strappando l’ennesimo fiore di campo per portarselo alle labbra.

“Non mi sembra che tu abbia avuto più successo figliola.” Le rispose il suo grande e grosso apa richiamando l’esca tra le dita.

“E’ il posto che non va. Qui c’è troppo casino.” Obiettò Haruka guardando storto alcuni bambini che stavano giocando con un pallone poco oltre.

Naturale che in una giornata così nitida quello spicchio di verde cittadino fosse pieno di gente. Sciocca lei che nel proporre alla famiglia quell’uscita ristoratrice dopo tanti giorni di duro lavoro, non avesse pensato al fatto che l’isola Margherita, parco pubblico d’immensa bellezza, sarebbe stato preso d’assalto prima dell’inesorabile scesa dell’inverno.

Tuffandosi nell’erba a braccia aperte, Johanna iniziò a succhiare il gambo sorridendo. “Mettetela come vi pare, ma se non pescherete qualcosa la grigliata di pesce che aveva prospettato Scada sarà un fiasco totale.”

Padre e l’altra figlia si guardarono avviliti. Erano usciti di casa poco dopo l’alba mentre l’amico stava facendo colazione. Li aveva guardati sornione da dietro il vetro della sua sala da pranzo con il caffè in una mano ed il giornale appena consegnatogli nell’altra. Aprendo la finestra aveva iniziato a punzecchiarli sottoscrivendo così una vera e propria dichiarazione di guerra e sapendo intimamente di stare sparando sulla croce rossa.

“Fai poco lo spiritoso, ma ti garantisco che all’imbrunire le nostre scarselle saranno piene di trote.” Aveva sentenziato Jànos mentre l’altro accettava la sfida.

“Se prenderete più di dieci pesci questa sera li cucineremo da me!”

Dieci pesci penso Johanna. “Sarà grasso che cola se ne prenderemo uno!” Disse sollevando il busto.

“Ha ragione, apa, facciamo proprio pena.” Borbottò Haruka.

“E Scada lo sa che ho perso il tocco ed è per questo che si è gentilmente offerto di preparare lui la cena.”

Jo si affacciò alla staccionata posandovi gli avambracci. “E non vi siete neanche visti. Sembrate usciti da una trincea. Perché non venite fuori prima di buscarvi un raffreddore? Facciamo colazione avanti.”

“Che dici Ruka?”

“Dico che ho fame. E poi pescare è stupido e noioso.” Staccando i piedi ormai affondati nella fanghiglia, la bionda guadagnò la riva aggrappandosi al legno della palizzata una volta gettata nell'erba la sua canna.

“Sempre così quando non ti riesce di fare una cosa, vero?”

Facendo leva sui bicipiti, la minore riuscì a liberarsi dalla melma uscendo sgocciolando. “Non si tratta di riuscire o meno. Ammettilo apa… pescare è una palla.”

“Da ragazzo ero piuttosto bravino. Ero solito farlo con un mio buon amico, ma non qui, fuori città. Ho passato interi pomeriggi con lui seduto sulla riva a gettar esche ai pesci e le risate. Poi…”

“Poi?” Chiese Jo.

“Poi lui iniziò l’università ed io presi a lavorare in fabbrica. Tutto qui.” Rispose con un leggero rimpianto. Aveva considerato quel ragazzo come un fratello. Al pari di Scada.

Camminando sull’erba arrivarono al cesto stracolmo di cibo che Johanna aveva preparato e sdraiandosi al sole iniziarono ad apparecchiare usando come appoggio la tovaglia della cucina. Jànos stappò il vino ed Haruka tagliò diligentemente pane, formaggio e salumi vari.

“E per il pescato?”

“Quale Ruka?”

“Non fare la spiritosa Jo.”

“A mali estremi…” Dichiarò stentoreo il genitore versando da bere.

“Ovvero?”

“Ovvero lo compreremo al primo banco del pesce che incontreremo di ritorno. Giusto!?” Chiese alla figlia maggiore e tutti e tre scoppiarono a ridere.

 

 

“Di la verità fratello… L’hai comprato.”

Seduti sul calar della sera con le pance piene di allegria ed ottimo cibo, Scada e Jànos si accesero le rispettive pipe aspirando e distendendo le schiene sulle sedie del giardino.

“Cosa te lo fa pensare?”

“Ma finiscila. Ti conosco meglio di quel che pensi!” Ghignò fissandolo di sottecchi con quell’aria scanzonata che il suo viso non più giovane riusciva ancora a mostrare in certe occasioni.

Guardando in direzione dei loro ragazzi che poco oltre stavano giocando a carte sotto il grande olmo che cresceva sul retro di casa Erőskar, sorrise alzando le spalle. “Vedi di non dirlo alla tua dolce metà. D'altronde è stata Mirka a dover pulire sei chili di pesce.”

“Questa volta hai proprio esagerato. Sei chili… Neanche nei sogni.”

“Già.”

Sentendo le risa dei figli si persero ad osservarli. Scada aveva messo al mondo tre maschi, robusti ed attaccabrighe come lui, ma non aveva mai avuto modo di sentirsi umiliato per la loro irruenza o la scarsa capacità scolastica. Erano bravi e ne andava fiero. Semmai era lui a non essere stato un gran genitore ed un marito fedele. Durante i primi anni di matrimonio, era stato costretto ad allontanarsi dalla città per lunghi periodi durante i quali aveva conosciuto una donna di qualche anno più grande di lui, innamorandosene follemente. Ricordava ancora il suo nome; Belami. Belami Kino, la folgore che lo aveva colpito e che aveva dovuto dimenticare per la promessa fatta sul sagrato di una chiesa.

“Si sono fatte proprio belle le tue ragazze, Jànos. Ti stai preparando psicologicamente per i due baldi giovanotti che prima o poi te le porteranno via?”

Stirando le labbra l’altro scosse la testa aspirando nuovamente. “Proprio no.” E lo sentì grufolare divertito.

Sferrandogli una pacca sul braccio, Scada si sporse confessandogli che il maggiore da qualche tempo aveva iniziato ad interessarsi ad Haruka e questa volta fu Jànos a scoppiare a ridere. L’amico non sapeva delle tendenze di sua figlia ed anche se doveva riconoscere a quel ragazzotto un certo non so che, per ovvi motivi non sarebbe mai interessato alla bionda.

“Credo che da qualche tempo Haruka abbia i pensieri del cuore altrove.”

“Si è innamorata?” Chiese tirandosi leggermente indietro.

“Ma, non so. Innamorata mi sembra una parola grossa, ma è certo che tralasciando la storia della banca, in questi giorni sia più svampita del solito, soprattutto la sera. Se ne sta dei minuti interi a fissare il fuoco e… sospira. Sospira sempre.”

“E Johanna che dice?”

“E che vuoi che dica? Nulla. Anche se sapesse qualcosa non verrebbe certo a dirlo a me.”

Un po’ deluso Scada tornò ad appoggiare la schiena alla traversa godendosi il giardino ricco di vita. “A be. Se deve essere, sarà.”

Passò qualche minuto di completo silenzio, dove la mente dei due volò lontano tra pensieri e ricordi, poi Jànos ruppe quella serenità con una richiesta.

“Scada… se dovesse accadermi qualcosa, ti prego… occupati tu delle mie ragazze.”

“Cosa c’è?! Notizie dalla banca?”

“No… ed è per questo che ho un brutto presentimento amico mio.”

 

 

L’inizio di un incubo chiamato ingiustizia

Pest – Distretto VI, Cantiere sul Danubio

 

Appuntando il numero degli “uomini giorno” sul giornale dei lavori, Johanna si rese conto di quante braccia stessero lavorando a quel ponte. Centocinquantasette. Un’enormità per la Cooperativa. Un record invidiabile per qualsiasi opera pubblica edificata a Bucarest negli ultimi anni. In quel lunedì mattina altri quindici operai si erano aggiunti alla squadra dei posatori e sapendo che avrebbe dovuto essere lei a comandarli, aveva iniziato ad agitarsi ancor prima di vederli arrivare.

La vita di un cantiere come quello, in produzione ventiquattro ore su ventiquattro, assumeva i contorni di un essere vivente e pulsante d’energia, una specie di corpo dove ognuno aveva un compito e dove c’era un compito per ognuno. Nello specifico lei doveva supervisionare i ribattini, gente dai fisici nerboruti e la vista aguzza, erano forse la squadra più importante di tutte, perché era dalla bontà della posa dei rivetti che scaturiva la forza strutturale di un ponte. E lei era li, davanti ai nuovi arrivati che mazze, secchi e pinze alla mano, la guardavano ora con una certa aria di sufficienza, domandandosi forse che cosa volesse da loro quello scricciolo di donna.

In fin dei conti non è difficile. Avanti Jo… datti un tono e lascia fare tutto a loro. E' gente preparata che sa cosa fare, tu guarda, annuisci, scrivi e basta, pensò mentre spuntava i nominativi di chi avrebbe dovuto lanciare, afferrare o battere le controteste arroventate.

“Bene signori. Una volta che avrò chiamato i vostri nomi potrete andare a posizionarvi sul terzo ponteggio della prima arcata di sinistra. Dunque…” Disse pronta a suddividere la squadra quando la voce di un collaboratore la raggiunse costringendola a voltarsi.

“Tenoh…” Chiamò arrancando sulla collinetta fangosa adibita allo smistamento del personale.

Lei lo guardò disorientata. “Cosa c’è?”

“Ci sono quattro signori che stanno cercando tuo padre.”

Ansimando si fermò davanti alla ragazza puntando con l’indice la strada che costeggiava il fiume. Una berlina nera di fattura sovietica ferma sulla carreggiata proprio davanti l’entrata del cantiere, stava scintillando al sole dal suo parafango argentato. Jo ebbe un brivido. Una stranissima sensazione di disagio s'impadronì di lei quando il suo sguardo passò dal veicolo, agli uomini dai cappotti scuri e dai cappelli dalla tesa leggermente calata sul viso che a larghe falcate si stavano avvicinando al padre.

“Pensaci tu.” Disse lasciando il quaderno al collega iniziando a discendere velocemente la collinetta incolta.

“Siete voi Jànos Tenoh, Presidente della Cooperativa acciaierie Pest?” Chiese stentoreo uno.

Alla vista della piastra di riconoscimento János dilatò le palpebre rispondendo. “Si e lor signori?”

“Polizia Tributaria. Vorremmo farvi alcune domande.”

Sentendo un’esplosione d'adrenalina nel cervello, l'uomo intuì immediatamente di cosa si trattasse. “Il mio ufficio è a pochi passi.”

“NO. Gradiremmo accompagnarvi in un posto un po’ meno affollato e sicuramente più comodo. Prego.” E al gesto cortese proposto con un braccio dall'agente, Jànos capì che non poteva rifiutarsi.

Così iniziò a seguirli. Scortato peggio di un condannato guardò il suo cantiere iniziare a mormorare.

“Allora?! Continuate a lavorare!” Urlò all’indirizzo dei primi operai che si erano fermati.

Apa!” Jo si vide bloccata prima di poterlo raggiungere.

“E’ mia figlia!”

Il poliziotto di testa, quello che si era “presentato”, alzò leggermente il mento e lei fu libera di afferrare la mano del padre.

“Che succede?! Chi sono? Dove ti stanno portando?!”

“Stai tranquilla tesoro. Questi signori sono della Tributaria e vogliono solo farmi alcune domande. Non preoccuparti.” Disse sfiorandole una guancia con l’indice sporgendosi poi per baciargliela.

“Ricorda il vostro scrigno segreto.” Mormorò.

“Cosa?”

Leggermente strattonato lui le sorrise riprendendo a camminare. “Mi raccomando Johanna. Dillo anche ad Haruka."

Guardandolo oltrepassare il cancello per salire in macchina, le ci vollero alcuni secondi per focalizzare, poi schizzando verso la baracca dov’era stato allestito l’ufficio corse più veloce possibile.

 

 

Serrando saldamente le dita di entrambe le mani alla chiave inglese, Haruka forzò nella speranza di vincere la battaglia che da più di mezz’ora aveva ingaggiato contro quel dannatissimo ingranaggio. Digrignando i denti diede un’ultima stretta al bullone prima di alzandosi gli occhiali protettivi sulla fronte e guardare con sfida tutta la macchina.

“Senti bella, ti sei battuta bene, lo riconosco, ma contro di me non si passa. Cedi le armi.” Disse abbandonando il ferro per sfilarsi i guanti ed andare al quadro generale.

“Basta giocare. E’ ora di capire chi comanda in questa officina.” Alzando un paio di piccole leve e girando la chiave d’avviamento provò piacere nell’improvviso accendersi della luce verde.

Un fremito sulla piastra incernierata al suolo dov’era ancorato l’enorme macchinario, alcuni sbuffi ed il rumore tipico di un motore che riparte.

“Ma che brava bambina che sei.” Dedusse gonfiando il petto d'orgoglio.

“Ho le mani d’oro e non c’è nessuna macchina che io non possa riparare..." Ma un improvviso sibilo proveniente dal bullone che aveva appena stretto seguito da una specie di rantolo, le fece fare lentamente capolino da dietro il quadro.

“Che hai?!” Chiese mentre la lampadina verde si spegneva di colpo.

“No, no… Aspetta un attimo!” Quella rossa si accese con altrettanta rapidità.

“Non fare scherzi!” Un sussulto, un singhiozzo, infine... il silenzio.

Merda pensò la ragazza esasperata sbattendo i pugni sul piano. “Questa mattina hai proprio deciso di farmi saltare i nervi, vero!? - Calandosi nuovamente le lenti sul viso ed afferrando la chiave, la incastrò con decisione sulla testa del bullone e gonfiando i bicipiti lo allentò. - Bada... che non ho voglia!” Masticò prima di captare un leggerissimo sibilo seguito da un ping ed un improvviso quanto fulmineo spruzzo d’olio gelato la colpì in pieno petto sbilanciandola da un lato.

Sentendoselo colare lungo tutto il tronco, Haruka gettò in terra la chiave inglese facendo un passo indietro. Sfilandosi lentamente lo spesso elastico dalla testa, si tolse gli occhiali protettivi lasciandoli penzolanti nella mano mentre alzando le iridi al cielo si domandava perché.

“Perché ce l’hai con me! Sono una brava persona io.” Si lagnò mentre il collega con il quale stava lavorando quella mattina entrava dalla porta principale ridendo come un matto.

“Tenoh, Tenoh. Oggi proprio non le stai simpatica.”

“Ti prego Vizhek, non infierire. Guada come mi ha ridotta.” Mostrando l’enorme macchia scura che aveva ormai imbrattato tutta la parte superiore della tuta, allargò le braccia sentendosi consigliare di andarsi a cambiare.

“Non ho altre tute pulite nell’armadietto. Dovrò per forza fare un salto a casa. Che scocciatura.”

“Vai pure! A questa ragazzaccia ci penso io.”

“Grazie. Faccio in un lampo.” Sorridendo gli lanciò gli occhiali correndo verso la porta.

Lasciandole un segno di saluto con la testa prese il posto della bionda nella disfida all'arma bianca quando il telefono a muro iniziò a trillare.

“Vizhek!... O salve Johanna… No, Haruka non c’è… E’ appena uscita… Si, è tornata un attimo a casa… Johanna?... Pronto…” Interdetto l'operaio riabbassò la cornetta e con una smorfia sul viso tornò al lavoro.

 

 

Jo corse con tutto il fiato che aveva. Appena messo giù la cornetta aveva provato un brivido gelido correrle lungo tutta la schiena ed una vocina interiore suggerirle, urlarle di tornare a casa.

Forse quei tizzi sono andati anche li, aveva pensato aprendo di getto l’anta di legno della baracca correndo verso l’uscita del cantiere. Haruka! Doveva vederla. Dirle del padre.

Coprì i chilometri che dividevano l’argine dalla strada che l’aveva vista nascere in poco meno di mezz’ora, sentendo il rombo ormai assordante delle pulsazioni nelle orecchie ed il cuore dilatarsi come a volerle uscire dal petto e quando riuscì a scorgere il tetto della sua abitazione, rallentò fino a fermarsi aggrottando la fronte al capannello di gente che si era formato nei pressi di una macchina scura dannatamente simile a quella che aveva portato via suo padre.

“Johanna… meno male!” La signora Erőskar le andò incontro agitatissima, il che era uno stranissimo ed insolito vedere.

“Mirka, che succede?!”

“Ci sono due agenti di polizia in casa… e Haruka è con loro.” E prima che l’altra avesse avuto modo di aggiungere dell’altro, la ragazza aveva già salito a due a due i pochi gradini della scala.

Spalancando il portoncino comunque già semiaperto, trovò la sorella appoggiata al muro dell’ingresso ed al piano di sopra un gran fracasso.

“Ruka!” Urlò andandole accanto.

Guardandola con un misto di rabbia ed impotenza la bionda le afferrò una mano. “Stanno frugando in tutta casa! Hanno un mandato. Che cazzo sta succedendo Johanna?! Dov’è apa?”

“Alcuni agenti della Polizia Tributaria l’hanno prelevato dal cantiere meno di un’ora fa. Non so dove l’abbiano portato.” Cercò di spiegarle sentendola irrigidirsi mentre i due agenti iniziavano a scendere le scale.

“Johanna Tenoh, immagino. Buongiorno.” Disse il primo sfilandosi i guanti di pelle nera. Era un uomo alto, abbastanza giovane anche se da sotto il cappello potevano intravedersi solo fili argentati.

Prendendo un grosso respiro lei si staccò dalla sorella attendendolo alla fine della scala. “Immagina bene e voi sareste?”

“Agente Thöryn. Polizia Tributaria.”

“E come vi siete permessi di entrare in casa nostra!?”

Di tutta risposta e con estrema noncuranza lui estrasse dalla tasca del cappotto una carta bollata sventolandogliela sul viso. “Un semplice controllo.”

“Un accidente!” Si intromise Haruka sempre ferma contro il muro a pugni chiusi.

Stirando le labbra e squadrandola da capo a piedi, lui consigliò a Johanna di tenere a freno la lingua della bionda. “Vostra sorella dovrebbe imparare l’educazione signorina Tenoh. E la faccia andare in giro in abiti più adeguati al suo sesso o potrebbe essere sconvenientemente scambiata per un ragazzo.”

“Ma come vi permettete…”

“Haruka! - La zittì l'altra con un gesto. - Mia sorella presta servizio in fabbrica. Quelli sono abiti da lavoro.”

“O certo. Impiegata nella Cooperativa Acciaierie Pest con il ruolo di manutentore meccanico. Terza classificata nell’esame di ammissione per l’anno accademico ‘50/’51 e vincitrice di una borsa di studio alla Facoltà d’Ingegneria della BME.”

Deglutendo all'unisono, alle sorelle apparve chiaro che oltre alla polizia tributaria di mezzo c’era un organismo ben più pericoloso che si era addirittura preso la briga di fare ricerche su di loro.

Avvicinandosi al muro per osservare una foto che ritraeva tutti e quattro i membri della famiglia Tenoh, l’uomo dai capelli argentati, l’agente Thöryn, proseguì mettendo le mani dietro alla schiena. “Dovete trovarvi veramente a vostro agio in abiti maschili per indossarli anche fuori dalla CAP. Non è così signorina Haruka?”

“Si e allora? Mi avete forse pedinata?”

“Vedete, se fossi in voi provvederei immediatamente a cambiare atteggiamento… prima di venire additata come una, diciamo… diversa.” Ed afferrò la cornice staccandola dal muro.

“Peccato che voi non siate me!” Spostandosi finalmente dal muro la bionda raddrizzò fieramente la schiena.

“Agente Thöryn, se avete finito vi pregherei di andarvene.” Intervenne Johanna cercando di stare calma.

Quell’uomo le stava deliberatamente provocando. Era il classico giochetto psicologico per indurle a commettere qualche sciocchezza e più che Haruka, questa volta era lei a sentirsi una molla pronta a scattare.

“Voi non siate me…” Ripeté lui ilare prima di lasciare la cornice e farla schiantare in terra liberando così l’energia nervosa di Jo, che bruciante di rabbia, gli inveì contro prima di sentirsi afferrata per le braccia dal secondo agente sempre rimasto fermo sugli ultimi gradini della scala.

“Ho detto di uscire fuori da casa nostra!” Abbaiò incatenata innescando la furia di Haruka che muovendosi verso i due cercò di liberarla.

“Lasciatela bastardo!” Ma prima che potesse anche solo pensare di mettere una mano sull’ufficiale, il collega, forse cercando proprio la reazione della bionda, riuscì ad afferrarla per il bavero della tuta e strattonandola dalla parte opposta, la sbatté contro il muro proprio dove poco prima era affissa la foto della loro famiglia.

Spingendo con forza le nocche contro il suo collo la costrinse ad un improvviso colpo di tosse. “Gente come voi dovrebbe capire che la diversità non può essere tollerata in una società civile come la nostra. Badate Tenoh, abbiamo i mezzi per farvi cambiare atteggiamento.” Minacciò prima che dalla porta di casa non facesse irruzione uno Scada sconcertato.

“Haruka!”

Lentamente l’ufficiale lasciò la ragazza sistemandosi il bavero del cappotto. “Bene, possiamo andare.”

“Dove avete portato nostro padre?!” Chiese Johanna sentendosi libera di andare dalla sorella.

“Non appena i capi d’accusa saranno ufficialmente formulati verrete informate. Fino ad allora vi consiglio di non fare domante.” Rispose gelando con lo sguardo Scada che lasciandoli passare, li osservò scendere le scale e dirigersi verso la berlina.

“Ti ha fatto male?” Chiese Johanna alla sorella.

“Stavo meglio prima. Che voleva dire quel porco con capi d’accusa? Cosa avrebbe fatto apa!?”

“Qualunque cosa abbia fatto adesso è in grossi guai ragazze.” Sentenziò Scada mentre la bionda raccoglieva mestamente la foto di famiglia con il vetro ormai spaccato.

 

 

 

NOTE: Ciau. Iniziano i guai.

In questo capitolo Michiru e Mina hanno avuto pochissimo spazio, un po’ di più Usagi e credo non sia sfuggita la new entry; Mamoru. Questa volta scriverò anche di lui e del suo rapporto con Usa, che per adesso non è certo un fiore :P

Ho puntato l’attenzione sulla famiglia Tenoh, sulla complicità che c’è tra Haruka, Johanna e Jànos, perché come avrete già intuito saranno messi tutti a dura prova.

Ho voluto anche dare dei piccoli indizi e porre qualche domanda del tipo; che intendeva dire Jànos con scrigno segreto? Conosceremo mai l’amico con il quale andava a pescare da ragazzo? E questa fantomatica Belami Kino ha forse a che fare con un’altra nostra “vecchia” conoscenza?

Alla prossima ;)

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo VII

 

 

Il senso della ragione

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh

 

 

 

Correva Haruka, correva tenendo gli occhi fissi sul grosso uccello bianco dalle ali nere che stava solcando il cielo notturno. Correva sul cemento del suo ponte dirigendosi verso quella parte di città che tanto disprezzava, ma che la chiamava a se per uno stranissimo scherzo d’attrazione. Correva sentendo il vento freddo della notte sulla pelle imperlata di sudore. Correva per liberarsi da un’angoscia che non accennava a lasciarle l’anima durante le ore diurne, ma che scompariva del tutto nell’immersione ovattata dei suoi sogni ricorrenti.

Questa volta non mi scapperai, pensò stirando le labbra sicura come del suo nome che questa volta sarebbe finalmente riuscita a capire dove quello strano uccello andasse a riposare dopo il suo consueto viaggiare.

Si sentiva bene quando riusciva ad esprimere se stessa così, correndo. Quando il suo corpo le obbediva e lei andava veloce, seguendo sicura il ritmo impostole dai piedi. Quando tutta quella macchina meravigliosa fatta di sangue, muscoli ed ossa, sembrava fare come della musica e il piccolo falco diventava piena armonia.

Quasi in procinto di arrivare sulla spalla di Buda, l’uccello scese improvvisamente di quota planando su una delle quattro colonne corinzie che abbellivano uno dei tanti monumenti cittadini eretti nel dopoguerra, emettendo un suono leggermente gutturale che la bionda interpretò come un richiamo. Fermandosi nei pressi della piazza dove sorgeva l’opera lo fissò prendendo ossigeno.

Sei arrivata Haruka.”

Una voce per lei splendida le accarezzò le orecchie facendola voltare verso sinistra. Riconobbe Michiru stupendosi di come potesse portare i pantaloncini e la canottiera che le aveva visto in gara, in una notte fredda come quella. I capelli mossi non più legati, lasciati liberi sulle spalle. Una catenina d’argento con un piccolo pendaglio a forma di tridente a cingerle il collo sottile.

E’ tanto che ti sto cercando sai? Sono felice che tu abbia ripreso a correre.” Le disse avvicinandosi un poco.

Solo allora la bionda focalizzò il fatto che portasse anche lei lo stesso abbigliamento e comprese. “Sto sonando vero?”

L'altra la guardò teneramente, con una dolcezza ed una comprensione che ad Haruka fece quasi male al cuore. Abbassando la testa sospirò piano sentendosi patetica. Non era da lei aggrapparsi all’immagine distorta di una realtà che sentiva non avrebbe mai avuto.

Dovrei rassegnarmi al fatto che non avrò più l’occasione di vederti.”

Haruka…”

Ma voglio continuare ad averti almeno durante le mie notti.”

Haruka…”

Ne ho bisogno… Per favore… Michiru…”

La sua sveglia fisiologica la destò alla solita ora, ma rimase ostinatamente con gli occhi chiusi fino a quando un pallido raggio di sole filtrante dai vetri, non le sferzò il viso portandola a mugolare e a rintanarsi sotto le lenzuola. Concedendosi ancora qualche minuto di tregua, cercò di tenere l’immagine del sorriso di Michiru prima che la veglia lo dissolvesse definitivamente. Tornando a riaffacciarsi sulla realtà della sua camera, rimase per qualche secondo con lo sguardo fisso alle pareti sentendolo bruciare. Un carattere come il suo, forte ed orgoglioso, non poteva certo andare fiero di quella debolezza, ma erano tre giorni che si coricava per la notte provando nel petto una voglia matta di piangere. Il tempo esatto nel quale non si avevano più notizie di Jànos. In più, la stessa mattina del suo arresto, l’ennesima squadra di poliziotti tributari erano entrati in fabbrica rovistando e ponendo tutti i locali sotto sequestro portando via gran parte dei libri contabili dell’ultimo anno. Al cantiere del ponte era stato riservato lo stesso trattamento e con l’apposizione dei sigilli all’ingresso dell’area, in pratica si era scritta la parola fine sulla CAP. I controlli si erano attivati perché la banca affermava che i trenta giorni per saldare il prestito erano trascorsi. Trenta e non sessanta, come invece aveva detto a tutti Jànos.

E così i dipendenti della Cooperativa avevano capito; o il Presidente aveva mentito loro facendo un doppio gioco da svariate centinaia di fiorini o era stato truffato dalla Kaioh banc. C’era poco da essere allegri e più sarebbero rimasti inattivi e meno sarebbero riusciti a tener fede agli impegni presi con il Ministero dei Trasporti e la stessa banca.

Haruka avrebbe tanto voluto rimanersene sotto le coperte e non pensare a nulla. Non pensare al fatto di non avere suo padre in casa, al fastidio rabbioso di sentire mormorii su di lui, alla frustrazione di non poter più andare in fabbrica. Ma fuggire a tutto quello che stava succedendo non le apparteneva e in più non sarebbe servito a nulla, perciò facendo un enorme sforzo di volontà si alzò infilandosi le pantofole rabbrividendo. Strofinandosi la pelle nuda delle braccia, afferrò il sopra del pigiama che lasciava sempre abbandonato ai piedi del letto ed indossandolo si alzò ed uscì.

Era strana la casa senza Jànos. Non si avvertiva più il ristagno dell’odore della sua pipa proveniente dal soggiorno o il suo dopobarba in bagno, niente musica la sera o le chiacchierate dopo cena. Scendendo le scale Haruka tornò a sentire quella schifosissima morsa alla bocca dello stomaco provata quando quei due poliziotti si erano permessi di profanare il suo nido. Non aveva potuto opporsi e questo ancora le ribolliva nelle vene. Era stata offesa, umiliata sia moralmente che fisicamente, ed ora sapeva quanto la sua omosessualità fosse mal vista. Da quando aveva capito di essere attratta dalle donne non aveva mai avuto problemi in tal senso. Dopo la pubertà, nessuno aveva badato al fatto che portasse i capelli corti o indossasse abiti maschili. La guerra era terminata da una manciata d’anni e la gente aveva cose ben più importanti da fare che pensare a lei e forte di questo, fino ad allora, era stata convinta di poter vivere all’insegna dell’uguaglianza e del diritto. Evidentemente si era sbagliata, perché qualcuno che non vedeva di buon occhio il suo modo di essere in realtà c’era e aveva fatto indagini su di lei prendendola di mira.

“Buongiorno.” Disse entrando in soggiorno trovandolo gelido.

La sorella non le rispose nemmeno. Rimasta in silenzio seduta al tavolo da pranzo con la fronte poggiata ai dorsi delle mani, Johanna non si mosse nemmeno. La schiena incurvata come se improvvisamente avesse dovuto portare un peso troppo grande.

Era sempre stata una ragazza allegra, alla mano e pronta allo scherzo con tutti. Leale, affidabile, amorevole, alle volte bizzosa al suo pari, ma capace di un’autocritica che la bionda ancora non aveva, leggermente tonta nell’afferrare alcune cose, ma indomabile una volta imparate. Haruka lo stava capendo in quegli ultimi giorni passati senza il padre come considerasse la maggiore un faro, un’amica, in realtà l’unica della quale si fosse mai fidata veramente. C’era voluta quella prova durissima per far si che la bionda iniziasse a vederla per quello che realmente l’altra era per il suo cuore inquieto.

Mordendosi il labbro inferiore entrò nella stanza posandole una mano sul braccio. “Jo…” E la vide alzarsi leggermente.

“Ruka…. Credo di essermi assopita.”

“Da quanto tempo sei qui a gelarti le ossa?” Chiese avendo visto il suo letto disfatto e già vuoto.

“Una mezzoretta credo. Preparo la colazione.” Facendo forza sulle mani stava per alzarsi quando l’altra la bloccò.

“Ci penso io.”

Con una smorfia sulla bocca Jo guardò il camino spento di fronte a lei. “Tu?” Rispose leggermente ironica accarezzandole la mano.

A quel tocco la bionda si chinò cingendole le spalle con le braccia poggiandole il mento nell'incavo del collo. Non era un gesto usuale per il Turul di casa Tenoh, anzi, era sempre la maggiore ad avvicinarsi e mai il contrario. Vogliosa di contatti la prima e schiva la seconda. Ma questa volta era diverso. Questa volta anche Haruka aveva bisogno di calore e di quella forza fraterna che poteva trovare solo in un’altra persona che capisse quello che stava provando lei.

“Te lo prometto Johanna… Oggi sapremo dove l’hanno portato.”

Continuando a rimanere seduta, l’altra godette del contatto accarezzandole i capelli. “Sono preoccupata da morire.”

“Lo so. Lo sono anch’io, ma non è il momento di rimanere inattive a piangerci addosso. Dobbiamo pretendere delle spiegazioni dalla polizia e capire cosa volesse dire apa con scrigno segreto.”

Che tarlo. Visto le persone poco raccomandabili che erano venute a prelevarlo, Jànos aveva lasciato loro una sorta di messaggio cifrato che le due però ancora non erano riuscite a codificare. Quasi sicuramente si trattava di documenti che la polizia non doveva trovare, ma di cosa si trattasse e soprattutto, dove si trovassero, questo era ancora un mistero.

“Ci ho pensato sai. Visto la simpatica perquisizione che abbiamo avuto, questo fantomatico scrigno segreto dovrebbe trovarsi qui in casa o al più in giardino.”

“Si Jo, ma non lo ha trovato la polizia, ne tanto meno noi quando abbiamo dovuto rimettere in ordine il casino che quegli schifosi ci hanno lasciato in giro.” Disse Haruka abbandonandola per andare a poggiarsi al bordo del tavolo.

“Ragioniamoci su. Dov’è che apa lascia i documenti, le foto ed i conti di casa?”

“Nel terzo cassetto della sua scrivania… Ma non c’è nulla. Come negli armadi, nella cassapanca dell’ingresso o dietro i ripiani alti della dispensa.”

Scrigno segreto… Scrigno segreto… Rimuginò la maggiore iniziando a torturarsi le dita.

“Aspetta un po’! Quando eravamo bambine non avevamo un nostro nascondiglio?” Chiese la bionda fissandola nell’attesa della conferma di un vaghissimo ricordo.

“Si… Era… Era nel portico del giardino, sotto una delle mattonelle d’angolo vicino la finestra posteriore della cucina. Ma era un posto tutto nostro e non credo che apa lo conosca…”

Tanto valeva dare un’occhiata. Haruka scattò uscendo seguita dall’altra. Spalancando la porta sul retro sentì un freddo pungente assalirle la pelle. Guardando la finestra scorse un paio di damigiane vuote lasciate a prendere aria dal genitore.

“Jo un coltello.” Ordinò iniziando a spostarle mentre sprazzi di ricordi le lampeggiavano nella testa. Da quanto tempo non pensava più a quel loro posticino.

“Tieni.” Di ritorno dalla cucina la maggiore le passò la lama mentre l’altra faceva scorrere l’indice sulla fuga ormai sguarnita di malta di una grossa mattonella.

“Era questa, non è vero?”

Finendo di spostare le damigiane impolverate, Johanna le si accovacciò accanto aiutandola a spostare quello che in pochi istanti si rivelò essere una sorta di coperchio per un piccolo buco scavato nella terra battuta. Ai loro occhi apparve una scatola di latta di un vecchio biscottificio di Pest.

“Non ci posso credere! E’ ancora qui dopo quindici anni.” Disse la maggiore estraendola.

“Io non mi ricordo molto… Ma cosa ci mettevamo dentro?”

“I nostri tesori…- Rivelò aprendola. - La tua trottola rossa e la fionda con la quale seminavo il panico tra i bambini delle strade vicine.”

“E poi ero io la teppista? - Sarcastica Haruka prese il giocattolo di legno colorato rigirandoselo tra le dita. - Non sono mai riuscita a farla funzionare.”

“E i vetri che ho rotto io con questa? Santo cielo le botte che ho preso.” Johanna corrugò la fronte notando un paio di buste sul fondo della scatola.

“E queste?”

Prendendo la prima l'aprì scoprendo un paio di foto dei loro genitori; una del matrimonio ed una di un viaggio. Presumibilmente quello di nozze."Che bella coppia." Disse sorridendo.

"Così apa ha sempre saputo tutto. Altro che posto segreto." Si schernì la bionda.

Un po’ delusa Johanna guardò allora l’altra busta, sigillata e con la calligrafia del padre che l’indirizzava a loro due.

 

 

Ragazze mie, se state leggendo questo messaggio allora vuol dire che mi è successo qualcosa e che la Cooperativa è in grossi guai. Qualunque cosa, mi raccomando non fate sciocchezze ed affidatevi a Scada. Non voglio che la copia della nuova polizza cada in mani sbagliate. Mi fido della Kaioh, ma con i soldi dello Stato di mezzo è meglio essere previdenti.

Rimanete unite e prendetevi cura l’una dell’altra. Ricordatevi sempre che sono orgoglioso di voi e che vi voglio un bene immenso. Papà

 

 

Seduta sul divano con il messaggio di Jànos in mano, Haruka lo scorse mentalmente e per l’ennesima. Era come se il padre avesse previsto tutto, ma il perché ancora le sfuggiva. Guardando la sorella fare avanti e indietro le chiese di passarle la polizza. L’avevano trovata assieme al messaggio ed ora sapevano cosa la Polizia Tributaria era venuta a cercare con tanto zelo.

“Secondo te perché apa l'ha nascosta? La Kaioh non ne ha una copia?"

"Evidentemente c'è qualcosa che non va. Non ha senso."

"Allora andiamo in banca! Continuo a pensare che in tutta questa faccenda ci sia del marcio."

“Si Ruka, ma ci serviremo di un avvocato, perché le perquisizioni che abbiamo avuto sia qui che in fabbrica stanno a significare che c’è di mezzo anche il Regime. La banca e lo Stato volevano screditare apa per spartirsi la torta.”

“Una torta dal nome CAP!” Confermò la bionda sentendo bussare alla porta.

Scorgendo Scada dal vetro della finestra posta alle proprie spalle andò ad aprirgli speranzosa. Forse aveva notizie. Ed in effetti l’uomo ne aveva, ma purtroppo non buone.

“Ragazze, dopo le verifiche fatte dalla Polizia Tributaria, la Kaioh ha avuto il permesso di rivalersi su di noi. Abbiamo perso la Cooperativa. - Disse con un nodo in gola. - Vostro padre è stato arrestato per banca rotta fraudolenta e condotto dalla sede della polizia alla… casa della giustizia.”

“Come alla casa della giustizia?! Perché?! Non è certo un dissidente politico!” Sbottò Haruka presa dal panico mentre la maggiore andava ad abbandonarsi mollemente sul divano.

“Come ho già detto c’è di mezzo lo Stato, Ruka. C’è di mezzo lo Stato.” Soffiò stringendo nelle dita l’unica controprova che avrebbero potuto usare per tirare fuori Jànos da quella disgraziata situazione.

 

 

Una scelta consapevole

Periferia di Budapest, località ignota

 

 

Quando la macchina si fermò scricchiolando sui sassi della strada d’accesso, preceduta da Minako, Michiru uscì dalla portiera sentendo vacillare la determinazione che l’aveva spinta da casa Aino a quella località sconosciuta a ridosso della periferia cittadina. Aveva deciso. Sarebbe entrata a far parte di quella resistenza silenziosa nascosta nel ventre molle della sua Budapest. Avrebbe fatto del suo meglio per essere utile alla causa, ma al contempo sarebbe stata attenta a non tirare in ballo la sua famiglia. Era stata una scelta più che ponderata, pensata e ripensata, che per svariati giorni l’aveva condotta davanti all’edificio dove Usagi si era esposta per prima confessandole la necessità di un suo aiuto e che da quel momento non le aveva fatto più chiudere occhio; la casa della giustizia.

Ferma ad un angolo del marciapiede, aveva guardato quelle finestre apparentemente normali non capendo come la gente potesse far finta di nulla nonostante tutti in città sapessero le atrocità che si celavano dietro ai vetri oscurati del piano interrato, cercando d’immaginare cosa avrebbe fatto lei se si fosse trovata nella stessa situazione del ragazzo incontrato la sera di qualche giorno prima. Sarebbe riuscita a resistere alle estorsioni o avrebbe ceduto trascinando giù con se anche altre persone? E suo padre sarebbe stato fiero della sua lotta o deluso per come aveva deciso di condurla?

Aveva pensato Michiru. Pensato e soppesato ogni variabile fino a quando, una mattina di buon ora, una macchina scura non si era fermata davanti al grande portone di legno borchiato della casa della giustizia ed un uomo alto e robusto vi era sceso, estratto a forza da alcuni individui in cappotti ed abiti scuri. Lei lo aveva visto entrare senza quasi opporre resistenza, trascinato peggio di un forzato alla gogna. Nel vedere quella scena si era chiesta cosa avesse fatto di tanto politicamente scorretto quel povero Cristo per essere trattato così duramente. Aveva abiti da lavoro spolverati di calce ed il viso mansueto di chi è abituato al lavoro e non certo alla politica. L’apparenza spesso inganna e doveva ammettere che neanche Minako ed Usagi avevano le parvenze di due giovani oppositrici, ma era comunque rimasta colpita da quella scena. Con molta probabilità si trattava di un genitore ed un marito che aveva lasciato a casa una famiglia preoccupata. E se si fosse trattato di suo padre? Lei come avrebbe reagito? Quella scena l’aveva fatta rabbrividire ed aveva rappresentato la fatidica svolta che l’aveva fatta decidere. Dirigendosi all’Università aveva aspettato l’inesorabile arrivo di una Minako ormai quasi del tutto integrata nella voce di Buda , chiedendole di accompagnarla dal Generale Aino.

“Credo di aver capito. - Le aveva detto. - Vorrei incontrare tuo padre.”

Ora a distanza di qualche giorno, era stata convocata e per lei si apriva la fase più delicata del passaggio obbligato che l’avrebbe trasformata da semplice studentessa universitaria, in un qualcosa d'indefinito, di sconosciuto.

Notando come l’altra si stesse guardando intorno, Minako sorrise rassicurante. “Non temere Kaioh. La zona è sicura. Abbiamo sentinelle e cecchini sparsi per tutta la campagna.”

“Stai cercando di stupirmi Mina?” Rispose goliardicamente convinta di mascherare in tal modo quello che per lei stava diventando lo spaccato di un libro giallo.

La biondina dal grande fiocco rosso appuntato con orgoglio dietro la nuca non rispose lasciando correre. In fin dei conti lei ed Usagi erano nate nella casa di un comandante e vivere così, nella segretezza e nel pericolo, era la normalità. Non poteva comprendere come Michiru si stesse sentendo in quel momento.

Si erano fermate con l’automobile davanti ad una vecchia cascina in disuso. Una serie di tre strutture poste a C comprendenti una stalla a sinistra, un magazzino a destra e la casa padronale dal doppio piano al centro. Tutte e tre dotate di un massiccio tetto a doppia falda dai coppi leggermente sconnessi. Tutte e tre recanti le inesorabili zampate del tempo. Vetri rotti, persiane sconquassate, erbacce aggrappate agli intonaci di un arancione ormai sbiadito. Non certo un vedere confortante, ma nonostante tutto, la presenza di un sole bello e tiepido aiutava a rendere tutto un po’ meno desolante.

Camminando verso l’entrata del corpo principale Michiru notò alcuni movimenti dietro le aperture sia della stalla che del magazzino. Evidentemente c’erano molte più persone dei due uomini fermi ad aspettarle ai lati degli stipiti del portone sconnesso.

“Minako, il Generali vi sta aspettando.” Disse il primo mentre il secondo le accompagnava dentro.

Stringendo leggermente i pugni Michiru li seguì alzando il mento e non appena furono arrivati nella stanza che una volta accoglieva la sala da pranzo, un terzo uomo andò loro incontro. Non era molto alto, indubbiamente molto meno di suo padre e zoppicava dalla gamba sinistra, ma il portamento indubbiamente militaresco fece comprendere alla ragazza di chi si trattasse.

Ferenc Aino si presentò porgendole sorridente la destra ed inchinando leggermente la testa incrociò le sue iridi cortese e sicuro di se. “Signorina Kaioh… è un piacere.”

“Generale…” Rispose lei fissandolo negli occhi.

Già, gli occhi. Usagi le aveva detto che prima di ricoprire un’alta carica statale, suo padre era uscito dalla casa della giustizia zoppo e mezzo cieco da un occhio, ed in effetti la pupilla destra era quasi del tutto dilatata, lasciando all’iride un piccolissimo cerchio di color grigio, come se si fosse trovata in semioscurità.

“Sono felice che abbiate voluto incontrarmi. Scusate per l’accoglienza, ma di questi tempi la prudenza non è mai troppa. Prego accomodatevi.” E le mostrò un tavolo con quattro sedie.

Michiru era abbastanza immune alla cortesia maschile e poi cresciuta nel Sol Levante non poteva certo dire che gli uomini di quella terra si prodigassero per essere meno asettici, ma doveva ammettere che quell’uomo aveva un fascino fuori dal comune. Garbato, ma alla buona. Gentile, ma senza scivolare sul lezioso. Almeno a primo impatto.

“Devo dirvi signorina Kaioh che quando Minako mi ha detto che volevate incontrarmi sono rimasto interdetto, ma non vi nascondo che viste le spiccate doti che state dimostrando di avere, sotto sotto ci speravo.” Attendendo che le due ragazze si fossero sedute spostò anch’egli a seduta per mettersi comodo.

Le sue doti. Quella propensione al comando che tanto avevano sottolineato le figlie e che lei francamente non sentiva di possedere.

“Con tutto il rispetto avrei dei dubbi in tal senso. - Affermò gentilmente notando sul piano una serie di fogli e fotografie. - Credevate che non accettassi?”

“Perché avreste dovuto. La posizione di estrema agiatezza nella quale vivete smorzerebbe lo spirito patriottico di molti. Soprattutto perché vostra madre non era magiara.” Diretto.

“Signore non siete il primo a pensare che il mio sangue misto mi porti ad amare più il Giappone che questa terra. Comunque mi sembra che anche Usagi e Minako vivano nell’agiatezza, eppure… Anzi credo che la loro posizione sia molto più complicata di quanto potrebbe essere la mia se iniziassi a collaborare con voi. Siete sempre un Generale dell’esercito ungherese.”

“Questo è vero, ma dovete tener conto che le mie ragazze sono cresciute in un ambiente militare e sono abituate a certe cose, come per esempio ai trattamenti non troppo convenzionali che la ÁHV compie per le strade o all’interno della casa della giustizia.”

Michiru dilatò leggermente le pupille. Nel cuore la netta sensazione che fosse stata spiata anche durante le lunghe ore passate nei pressi di quell’edificio. Cercando di non badarci tornò a concentrarsi sulle parole dell’uomo seduto di fronte a lei.

“In più siete la figlia di uno dei banchieri più facoltosi del paese e gli scambi che il signor Alexander ha con lo Stato potrebbero frenare e di molto, le idee liberali della sua unica erede. O sbaglio forse?” Chiese lanciando l’esca.

“Da un lato può anche essere vero Generale. Mio padre è fiero di essere ungherese, ma è anche un uomo d’affari e se venisse a conoscenza di questo mio, diciamo, lato nascosto… non so come prenderebbe la cosa. Ma sono sua figlia e cercherebbe di capirmi, perché mi ama. Di questo ne sono assolutamente certa.”

“Allora se vi chiedessi d'indagare su alcune sue manovre finanziarie o amicizie politiche, voi cosa mi direste?”

Ed il pesce annusò l’odore della trappola agendo di conseguenza. “Non lo tradirei mai se è questo che intendete sapere. Perciò se quello che volete che io faccia per voi riguarda o dovesse un giorno riguardare lui o i suoi affari, credo che questa conversazione possa anche chiudersi qui.”

Rimasta in religioso silenzio Minako iniziò a guardarli alternativamente. Michiru stava tenendo testa ad uno degli uomini più illustri dell’Ungheria. Osannato durante la guerra e successivamente elevato ad un ruolo di comando dal Regime che intelligentemente stava spiando nell’attesa di un rovesciamento di fronte. Composta. Risoluta. Mani sul grembo e sguardo imperscrutabile. Aveva visto giusto; Michiru Kaioh era una leader.

“E se vi trovaste a scoprire che alcune sue azioni non collimano con l’idea di correttezza che avete di lui?”

Qualche istante di tregua, poi la ragazza rispose. “Se mai quest’assurdità dovesse concretizzarsi ed io ne venissi a conoscenza, agirei, ma a modo mio signor Generale.”

“L’amore per la vostra famiglia viene dunque prima della patria.”

“Almeno quello verso mio padre e sono convinta che come genitore possiate comprendermi. Come lo puoi tu Mina.” Disse voltandosi verso la ragazza.

“Certo che posso comprendervi signorina, ma la vita è fatta di situazioni e scelte ed alle volte ai pochi bisogna scegliere i tanti. - La scrutò abbassare la testa continuando. - Comunque vi sono grato della vostra schiettezza. Vedete a differenza di quello che accade nelle file del Regime noi cerchiamo di evitare che gli informatori debbano trovarsi in situazioni di questo tipo. State dunque tranquilla. Per adesso non abbiamo notizie su coinvolgimenti poco chiari che riguardino Alexander Kaioh. Vorrei invece avervi al nostro fianco per un’altra faccenda.”

Rassicurata tornò a guardarlo mentre le foto presenti sul tavolo le venivano mostrate. Riconobbe immediatamente tre componenti del suo gruppo in tre distinti scatti. Aggrottando la fronte si rivolse verso Minako chiedendole se le avesse fatte lei.

“Si Michiru. E risalgono a parecchi mesi prima che tu entrassi a far parte della voce di Buda.”

“Non capisco. Non mi avevi detto che eravamo un gruppetto di pesci piccoli e male organizzati?”

“Lo ribadisco, ma per una persona siete diventati un ottimo paravento per qualcosa di più grande.”

“Continuo a non capire.” Prendendo le foto tra le mani scosse la testa.

“Michiru… c’è una talpa nella voce di Buda ed è una di loro. - Disse Minako severa. - E noi dobbiamo capire chi sia prima che possa riuscire ad avvicinarsi e capitozzare le vette di gruppi universitari più numerosi ed importanti.”

 

 

L’urlo del cuore

Pest – Distretto VI, Casa della giustizia

 

 

Aveva un freddo dannato e male dappertutto, ma sapeva che non dipendeva solamente dal trattamento che aveva subito nelle ultime ore. Il suo corpo stava cedendo ed anche se robusto a sufficienza per poter resistere a qualche colpo, la scarica di manganellate che aveva ricevuto sulla testa e nel torace, gli avevano provocato qualcosa di ben più serio di qualche ematoma. Rannicchiandosi ancora di più sulla branda della sua cella, Jànos ingoiò il sangue che sentiva montargli in gola.

Quelli della ÁHV avevano voluto sapere tutto sui libri contabili sequestrati alla sua povera fabbrica e c’erano voluti giorni, ma lui era riuscito a spiegare tutto. Ogni passaggio. Ogni credito. Ogni lavoro eseguito. Fornitori, clienti, operai. Una cosa però proprio non era riuscito a giustificare; ovvero come sotto la minaccia di un’ipoteca sull’intera CAP, avesse potuto sottoscritto con la Kaioh un prestito che se non onorato di fatto l’avrebbe portata alla bancarotta. Dove avrebbe preso il denaro da restituire? Lo avrebbe poi restituito veramente o tra la Cooperativa e l’istituto di credito c’era l’idea di escludere lo Stato?

“Questa sul contratto d'acquisizione per i lavori del ponte sul Danubio è la vostra firma signor Tenoh?”

"Si..."

"E dopo la perdita della partita d'acciaio che la C.A.P. ha subito qualche settimana fa, come speravate di tener fede agli accordi presi con lo Stato?"

"Ve l'ho già detto! Ho sottoscritto con la Kaiou Bank un'altra polizza che avremmo saldato con l'assicurazione."

“Peccato che nella sede della banca non di questa polizza non vi sia traccia ed il signor Alexander Kaioh non ne sappia nulla!”

“Non è possibile! C’era anche la sua di firma!”

“Lui continua a ripetere di non saperne nulla signor Tenoh.”

“Fatemi parlare con le mie figlie!”

“Non ce n’è bisogno! Almeno fino a quando la vostra posizione non verrà chiarita. O dobbiamo supporre che sappiano qualcosa?”

“No! No… Lasciatele fuori da questa storia. Loro non sanno nulla…”

E così tutelando le sue ragazze aveva preferito tacere sperando nel ritrovamento della copia che possedeva e nell’avvocato che la Cooperativa avrebbe messo a sua difesa per aiutarlo a dimostrare la sua buona fede.

Jànos vide passare i giorni in quel posto raccapricciante continuando a ripetere ai suoi carcerieri e fino allo sfinimento di non aver provato a frodare lo Stato e di tutta risposta ogni volta il legno dei manganelli si erano abbatto su di lui. Prima in maniera intimidatoria, poi via via sempre più ferocemente. Fino a quell’ultima sera. Fino ad un pestaggio in piena regola. La conoscenza che da ragazzo aveva avuto con Alexander Kaioh non aveva fatto altro che aumentare la frustrazione delle guardie e lo scoramento di un animo che come il suo, ancora ostinatamente continuava a voler credere nel vincolo dell’amicizia.

Non puoi avermi tradito così Alex. Non puoi si ripeteva come un mantra durante gli interrogatori e sdraiato li, sopra quella branda troppo piccola per un colosso come lui. Davvero la vita ed il denaro avevano cambiato tanto radicalmente un uomo che non aveva mai fatto mistero di tenere a lui come ad un fratello? Forse il pragmatismo di Scada aveva colto nel segno. Ma ormai gli errori erano stati fatti e gli scotti pagati. Aveva perso la CAP e con molta probabilità anche la sua libertà.

Cercando lentamente di cambiare posizione avvertì un dolore acuto al ventre, poi al capo e mentre le orecchie iniziavano ad avvertire uno stranissimo ronzio, un senso di vertigine seguito da un’improvvisa vampata di calore gli fecero aggrottare la fronte.

Non mi sento bene pensò puntando gli occhi al soffitto e poi ad uno degli angoli scuri dove gli sembrò di scorgere tra le ragnatele una piccolissima luce pulsante. Ricca di sfumature giallo chiare questa si dilatò crescendo un poco.

Sentì l’ossigeno venirgli meno ed il cuore iniziare a correre e cercando disperatamente di prendere aria scorse in quella luce il volto di colei che tanto aveva amato. Gli sorrideva e lui contraccambiò mentre da quelle labbra piegate all’insù usciva un sottile rivolo di sangue. Alzando il braccio nella sua direzione cercò di articolare qualche parola non riuscendovi. Dopo un istante l’arto andò a schiantarsi sul materassino lurido mentre con un ultimo pensiero rivolto alle sue splendide ragazze Jànos Tenoh abbandonava per sempre questo mondo.

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 

 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo VIII

 

 

Un’ala spezzata

Buda – Distretto I, Sede della BME

 

 

 

Il cielo si era andato annuvolandosi già nel corso della prima mattina e verso l’ora di pranzo le prime gocce di una pioggia gelata avevano iniziato a cadere bagnando lentamente tutto il piccolo parco che accoglieva le sedi dell’università pubblica. Seduta su una delle panchine di pietra protette dal portico che mettevano in comunicazione la sede di Economia da quella di Ingegneria, Michiru si sporse in avanti posando entrambi i gomiti sulle cosce ormai intirizzite. Si era resa conto del tempo che aveva trascorso li seduta, solamente grazie all’orologio della torre che svettava sopra l’aula magna. Le dieci. Le undici. L’ora del pranzo e quelle successive. Sapeva di stare sprecando ore di studio, così come sapeva che il suo stare ferma ad oziare, prima con un testo completamente ignorato tra le mani, poi con lo sguardo apaticamente perso nel vuoto, stava dando adito alle sue compagne di corso di tirarsi gomitate e scambi d’occhiate su chissà quale rottura amorosa o bidone tiratole. Non le importava. Così come non aveva mai badato ai pettegolezzi, ora men che mai le interessava esserne l’involontario soggetto. Aveva cose ben più serie alle quali pensare.

Quello che il Generale Aino le aveva rivelato l’aveva stravolta. Non si sarebbe mai immaginata che tra i componenti della voce di Buda si potesse annidare una serpe. E uno di loro tre poi. Appoggiando il mento nell’incavo delle mani puntò lo sguardo ai cespugli bagnati davanti a lei, oltre il portico. Cercando di riflettere riguardò con gli occhi della mente gli scatti rubati ai suoi compagni che le erano stati mostrati.

Il primo riguardava Anna Indry, una dei fondatori del gruppo. Ragazza docile, quasi apatica e per questo insospettabile, anche se la foto che la ritraeva seduta al tavolo di un caffè con il figlio di un gerarca russo, non deponeva certo a suo favore.

Non si possono incolpare i figli per le azioni dei padri, si disse puntando al secondo indiziato; Lukàs Körkh.

“No, Lukàs no!” Se lo rivedeva la, in quel parco, mentre inseguiti dalla polizia la guardava terrorizzato nell’attesa di un comando sa eseguire.

Ma per quanto volesse negare l’evidenza dell’immagine in bianco e nero che lo vedeva uscire guardingo da una delle porte secondarie della casa della giustizia, era abbastanza difficile provare a non pensar male.

In ultima istanza c’era lui; Hairàm Ferhèr! Scuotendo la testa tornò ad alzare la schiena ispirando copiosamente l’aria carica dell’odore della prima neve in arrivo. “Hairàm… Come posso credere sia lui?! E’ solo merito suo se siamo arrivati ad organizzare il lancio dei volantini durante la gara di corsa. Se non si fosse offerto Adam sarebbe andato lui su quel tetto a gettarli sulla folla. No… In tutto questo ci deve essere qualcosa di sbagliato.”

Ma ancor prima che Michiru entrasse nella voce di Buda il suo leader aveva preso a frequentare senza apparente motivo una sorta di piano bar dove gli avventori erano quasi esclusivamente militari e questo, unito alla latitanza che aveva iniziato a manifestando già da un pò nei riguardi del gruppo, aveva insospettito a tal punto Minako da segnalarlo come persona fortemente sospetta.

Si fidava di tutti e tre e per tutti e tre avrebbe messo la mano destra sul fuoco. Ora dopo le rivelazioni fatte dal Generale Aino, Michiru stava comprendendo come, se pur dotata di un forte intuito ed un carattere abbastanza diffidente, la strada per una corretta comprensione dell’animo umano fosse per lei ancora lunghissima.

“Che sguardo triste e pensieroso che abbiamo oggi.”

Squadrando Usagi da capo a piedi, la ragazza più grande si domandò del perché bazzicasse sempre la BME nonostante i pagellini del primo quadrimestre stessero per chiudersi e le interrogazioni negli istituti liceali fossero in pieno fermento.

“Usa, ma tu non dovresti essere a scuola a studiare? Capisco che ti intrighino sedi interessanti come questa, ma se non passi gli esami di fine anno sarà molto difficile che un giorno tu possa entrarvi.”

Gonfiando le guance la ragazzina le si sedette accanto lasciandosi andare ad un lamento prolungato. “Michiruuuu… Non infierire! Ci pensa già Mina a questo!”

“Tesoro mio, c’è poco da inferire. E’ o non è la verità?” Disse sorridendole. Quella biondina aveva il potere di metterla a suo estremo agio o di tenderle i nervi da morire. A seconda del caso.

Notando la pettinatura estremamente curata che quel giorno aveva deciso di portare, Michiru le domandò del perché avesse scelto di togliere i due bon bon che le aveva sempre visto ai lati della testa. Sorpresa per la domanda l’altra si portò istintivamente una mano alla tempia storcendo imbarazzata la bocca.

“Bè, diciamo che…”

Ma di un po’… ti sei vista?! Ricordò le parole del bel moro totalmente vestito di scuro e ancora furente per l’affronto accese lo sguardo di fiera sicurezza.

“Diciamo che pettinata così sembro più grande.”

“A… capisco. Peccato sai? Davano allegria quei due odango.”

“Odango?” Chiese incuriosita.

“In Giappone è un particolare tipo d'acconciatura usata da molte ragazze, soprattutto liceali, che ricorda le polpette di farina di riso e tofu. Pensavo lo sapessi.”

“In realtà no. La uso perché mi piace. - Confessò massaggiandosi la testa cercando una divagazione. - E a te Michiru… manca il Giappone?”

Tornando a guardare le pozzanghere poco distanti l’altra sospirò leggermente. “Moltissimo. I colori, i sapori, le tradizioni. Il mare.”

“Il mare! Come vorrei vederlo un giorno! Dicono che a guardarlo ci si senta piccolissimi ed indifesi, soprattutto quando ruggisce agitato.”

“A me ha sempre dato solo forza e calore.” Ammise sentendosi fissata.

Con un colpo di tosse Michiru le chiese se avesse pranzato e al diniego si alzò porgendole la destra per invitarla in qualche caffè. “Sta spiovendo. Approfittiamone.” E al vederla toccarsi impulsivamente la tasca del cappotto comprese rassicurandola che sarebbe stata sua ospite.

Entusiasta Usagi saltò in piedi accettando e senza dover neanche aprire gli ombrelli, iniziarono ad incamminarsi verso il Danubio. Non poteva certo ammetterlo con la ragazzina, ma aveva una voglia matta di vedere il Ponte della Libertà, perché le ricordava lei ed ogni volta che si ritrovava a passargli accanto, sentiva riaccendersi la speranza mai sopita che un giorno l’avrebbe rivista.

Camminando lentamente fianco a fianco si ritrovarono inesorabilmente a parlare della notizia shock che il Generale Aino aveva dato ad una Kaioh ancora in piena fase confusionale.

“Non riesco ad accettare che uno di noi possa collaborare con la polizia segreta. Da quanto tempo lo sapete?”

“Di Hairàm da parecchio. Quasi un anno. Degli altri due… Un poco prima che tu entrassi nel gruppo…”

“Tuo padre mi ha confessato che avete fatto indagini anche su di me.”

“Naturalmente, ma si sono limitate a qualche appostamento nei pressi dei luoghi che frequenti maggiormente. Casa, sede, un paio di amiche. Devo ammettere Michi che prima della tua entrata nella voce di Buda la tua vita era abbastanza monotona.” Se ne uscì portandosi quasi nell’immediato una mano alla bocca.

Mortificata per la gaffe le chiese scusa iniziando a giocherellare con i capelli.

“Bè Usa... non ti manca certo la schiettezza.” Disse l’altra trattenendosi dal sorriderle perché un po’ voleva vendicarsi. Arrivava certo a capire perché lo avessero fatto, ma non le faceva piacere l’esser giudicata come una ragazza noiosa.

“Perdonami Kaioh. Faresti la felicità di ogni genitore, soprattutto del mio che mal sopporta quando sto troppo tempo fuori casa.” Così trasformandosi in una salamandra su uno specchio Usagi riuscì finalmente a strapparle il bel sorriso che stava celando.

“Diciamo che accetto questa tua sviolinata, ma per ripagarmi di un tale affronto la prossima volta sarai tu ad offrire.” Disse toccandole con un dito la punta del naso.

Arrivate all’incrocio che dava sul ponte videro un capannello di gente parlottare davanti ad uno sbarramento di transenne, una vettura dei corpo dei pompieri ed un paio di macchine della polizia urbana.

“Cosa sarà successo?!” Usagi attraversò rapidamente per chiedere.

Rimasta indietro Michiru la raggiunse dopo qualche secondo rimanendo di sasso alla notizia che una delle due stratue raffiguranti i Turul che vegliavano Pest, era improvvisamente franata al suolo abbattuta da uno dei pochi fulmini caduti durante la pioggia della mattina.

“Hanno dovuto chiudere il ponte e non sanno quando sarà nuovamente agibile.”

La voce della biondina le arrivò come un eco lontano. Michiru si fece largo tra la folla proprio in tempo per vedere l’enorme falco di bronzo dall’ala ormai spezzata mentre veniva issato sul retro del camion dei pompieri da quattro uomini.

“Kaioh che c’è?” Cercando di attirare la sua attenzione la vide rabbrividire.

Ho la brutta sensazione che le sia accaduto qualcosa pensò mentre il viso di Haruka si accavallava prepotente a quella del Turul caduto.

 

 

Sfiorarsi

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh.

 

Socchiudendo gli occhi Johanna si accorse di aver sviluppato una specie di ipersensibilità ai primi raggi solari che stavano iniziando a filtrare dalle nuvole ancora minacciose. Li sentiva bruciare e non riusciva a tenerli aperti a dovere. Tutti avrebbero scambiato quel rossore per pianto, ma solo lei conosceva la reale causa di quel fastidio. Il fumo sprigionato dalle candele e dall’incensiere durante la funzione religiosa, la terra del Campo Santo spazzata dal vento prima del temporale e quella particolare luce ormai bassa sui tetti.

Aveva tenuto la dignità che ormai il suo nuovo ruolo di capo famiglia le imponeva non versando neanche una lacrima, fiera, dritta sul sagrato della chiesa, destra protesa all’accoglienza d'infinite condoglianze, svuotata di tutto, ma consapevole che se avesse mollato lei, Haruka le sarebbe venuta dietro. Cosa che non poteva permettere.

Mascella serrata e occhiali da sole calati sul naso, la bionda era rimasta composta e calma fino all’ultimo saluto, quando al veder calare la cassa del padre nella fossa, si era voltata di scatto sussurrandole una frase senza senso. "Apa avrà freddo. Jo fai qualcosa!”

Per Johanna quelle parole erano state peggio di una stilettata e c'era voluta tutta la forza del mondo per non crollare davanti a tutti.

“Fai qualcosa… dannazione!” Aveva ripetuto Haruka quasi urlando e anche con l’aiuto di Scada che l'aveva abbracciata stretta, era riuscita ad allontanarla prima che alle parole si fosse giunti a qualcosa di peggio.

Era per questo, per la sua Ruka, per pudore e per un lato del suo carattere che francamente neanche lei comprendeva fino in fondo, che dalla notizia della morte del padre alla fine della tumulazione, gli occhi di Johanna Tenoh erano rimasti asciutti.

Chiudendo lo sportello della macchina la ragazza si voltò verso i coniugi Erőskar lieta di averli avuti sempre accanto. Erano stati stupendi. Dalla richiesta della restituzione del corpo di Jànos all’organizzazione del funerale, si erano comportati come veri e propri membri della famiglia, come zii distrutti dal dolore che tra un singulto e l’altro avevano comunque cercato di essere forti per quelle due ragazze viste crescere davanti alle finestre della loro casa ed ora rimaste senza il loro apa. Non erano mai state lasciate sole. Scada era con loro quando la mattina presto del giorno precedente un telegramma di una freddezza sconvolgente le aveva avvertite che la polizia penitenziaria della casa della giustizia è spiacente d'informarvi che la scorsa notte il congiunto Jànos Tenoh è spirato per arresto cardiocircolatorio. Il corpo verrà restituito alla famiglia dopo apposita richiesta. E poi era seguita una giornata assurda dove alla notizia della scomparsa del Presidente della CAP, un tam tam per tutte le fabbriche di Budapest aveva via vai riempito di gente il loro soggiorno fino a tarda sera. Era stata Mirka a badare agli ospiti, per lo più sconosciuti, che come da tradizione si erano presentati per manifestare alla famiglia il loro profondo rincrescimento. Ma ora che tutta la frenesia delle ore successive ad una perdita tanto importante era finita, sarebbero arrivati i giorni difficili. C'erano già passate alla morte della madre, ma questa volta erano adulte e Jànos non sarebbe stato li con loro per consolarle. Il timore di Johanna era quello che non sarebbe stata in grado di aiutare la sorella quando quest’ultima sarebbe crollata. Haruka era gelosa e pudica delle sue fragilità e mal tollerava da se stessa cedimenti più o meno decisi.

“Ragazze perché non venite a cena da noi questa sera?” Chiese Mirka accogliendo il sorriso forzato della bionda che scuotendo la testa aprì il cancelletto di casa per dirigersi a spalle incurvate verso i gradini.

“Grazie, ma siamo stanche. Magari domani.” Intervenne la maggiore salutandoli.

“Johanna... per qualunque cosa siamo qui.”

"Lo so Scada. Senza di voi sarebbe stato impossibile. Per… la CAP?”

“Non è il momento. Pensa ad Haruka. Accuserà il colpo prima o poi. E anche tu; in gamba mi raccomando!”

Abbracciando entrambi Jo seguì i passi della sorella fino a richiudersi l’anta del portone di casa dietro la schiena.

La minore era li, ferma tra l’ingresso e la porta della camera da pranzo con ancora il cappotto nero calzato addosso. Le mani abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo alla foto di loro quattro tornata sul muro al lato delle scale. Andandole accanto iniziò semplicemente a toglierle la sciarpa ed il cappotto, allentandole la cravatta nera toccando poi il primo bottone della camicia bianca.

“Devo ammettere Ruka, che sei molto fascinosa in abiti maschili. Un paio di ragazze non la smettevano di fissarti. - Cercò di sdrammatizzare abbandonando il soprabito sul corrimano. - E nonostante avessi gli occhi di tutti puntati contro non hai ceduto. Sono molto fiera sai?”

“Si che l’ho fatto…” Intendeva durante la tumulazione, ma l’altra fece finta di niente iniziando a sbottonarle i gemelli.

“Senti perché non vai a farti un bagno caldo e poi ti riposi un po’ prima di cena? Mirka ci ha riempito la cucina di cibo. Dovremmo pur onorare la sua gentilezza, no?”

“Siamo rimaste sole…”

“Si tesoro…”

Continuando a non staccare gli occhi dallo scatto, la bionda manifestò la necessità di andare a correre.

“Scusami?”

“Devo muovermi. Mi sento soffocare.” E come rianimata scattò al piano superiore.

“Haruka non dire fesserie! Sei esausta! Dove vuoi andare!?”

Ma come al solito l’irruenza della sorella non fece che spingerla in avanti e meno di dieci minuti dopo era in strada in una corsa disperata verso il Danubio.

 

 

Con un rapido movimento della forchetta Usagi si portò l’ennesimo pezzo di torta alle labbra trangugiandola avidamente. Michiru seduta al tavolino della graziosa te room di un caffè proprio accanto al fiume, alzando le sopracciglia stupita se la guardò domandandosi quanto dolce quello scricciolo sarebbe riuscito ancora ad ingurgitare prima di esplodere come un passerotto ingordo.

“Nulla da dire Aino… Avevi proprio una gran fame.”

Si erano accomodate a quel tavolino in un orario indecente. Nonostante la chiusura momentanea del ponte della Libertà, Michiru aveva voluto ugualmente condurre Usagi lungo la strada dei bistrot del sesto distretto che in genere frequentava con i suoi amici. Troppo forte il senso di disagio che il vedere la statua caduta del Turul le aveva lasciato addosso. La ragazzina non aveva capito il perché di così tanta ostinazione nel volerla portare a consumare un semplice dolce proprio li, ma per la più grande era stata una necessità accarezzare nuovamente le prospettive scorte il giorno che per la prima volta aveva visto lei. Naturalmente non l’aveva trovata ed ora che la pioggia aveva ripreso a scendere con una certa insistenza, si sentiva responsabile per tutto il freddo che la più piccola avrebbe preso nel tragitto di ritorno verso casa.

Guardando il vetro davanti a loro martellato di gocce sospirò finendo di bere il suo te. “Sarà meglio che chiami il signor Takaoka. A quest’ora potrebbe essere ancora a casa.”

Ingoiando l’altra alzò le spalle staccando un altro spicchio di glassa. “Ti ringrazio, ma non c’è ne bisogno Kaioh. Non mi spaventano quattro gocce d’acqua.”

Un lampo e Michiru si alzò decisa. “Non se ne parla. Faccio subito.” Le disse dirigendosi verso l’entrata dove sapeva dell’esistenza di un telefono pubblico.

Fece abbastanza rapidamente. Sollevata per aver trovato l’uomo tornò da Usagi che catturata dall’ennesimo lampo, si era soffermata a guardare oltre il vetro un ragazzetto mezzo scemo fare jogging sotto la pioggia battente.

“Guarda la giù Michi. Quello domani ha la polmonite.” Disse indicandole un punto a qualche decina di metri dalla parte opposta della carreggiata.

Anche se lontana e girata di spalle la riconobbe immediatamente.

Incurvata sulle ginocchia con la canottiera ed i pantaloncini appiccicati ad un corpo tremante dal freddo e dalla spossatezza, i capelli completamente inzuppati e piccole nuvole di vapore ad uscirle da una bocca semiaperta, Haruka non udì quando precipitatasi sulla porta del locale Michiru urlò il suo nome con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Il boato di un tuono a seguito di un fulmine caduto nel fiume poco distante, ebbe il potere di sovrastare tutto. Tornando eretta la bionda riprese quel suo personalissimo delirio affondando il passo tra pozzanghere e rivoli d’acqua.

“Haruka!” Chiamò ancora, ma questa volta con voce sofferta, perché la bionda era già stata ingoiata dal primo ammanto serale.

Quando un’ora più tardi Tenoh rientrò a casa non si reggeva in piedi. Johanna se la guardò attonita starsene sgocciolante sull’uscio di casa come se provasse timore ad entrare. Le labbra livide e i muscoli squassati dal tremore. Masticando un’imprecazione la maggiore le afferrò un polso strattonandola dentro.

“Tu sei completamente fuori di testa!”

“Non urlare.” Sbiascicò cercando di arrivare al corrimano sentendosi afferrata per la vita.

“Io urlo e te le suono anche! Prendersi un malanno non cancellerà la giornata!”

“Lo so!” Allontanandola con una spinta riuscì ad arrivare in cima alle scale.

“Haruka…”

Ma l'altra la bloccò con un gesto secco. “Jo, sto bene d’accordo?! Ora vado a farmi un bagno. Stai serena.”

Stai serena, era una di quelle frasi che alle volte le uscivano fuori senza preavviso e che avevano il potere di far saltare alla sorella la vena del collo. Ma quello non era certo il momento piu' adatto per dar vita ad una discussione e guardandola entrare in bagno Jo attese impaziente mani sui fianchi e sguardo torvo il primo scroscio d’acqua per poi dirigersi in cucina vogliosa di un bicchiere di vino.

Nonostante i piatti appetitosi amorevolmente lasciati in bella vista da Mirka, nessuna delle due riuscì a mangiare. Jo rimase accoccolata nella poltrona del padre ad aspettare Haruka sprofondando lentamente nel sonno ridestandosi solo a tarda notte, mentre fuori la temperatura era scesa a tal punto da trasformare la pioggia in nevischio. Sparpagliando le ultime braci nel camino, la ragazza salì le scale sentendosi dannatamente sola e quando aprendo la porta della loro stanza la trovò vuota, guardò desolata quella del padre sapendo che l’avrebbe trovata li. Come lei, anche la bionda voleva sentirlo vicino.

Avvolta nella trapunta, il piccolo Turul di casa Tenoh si era addormentato sfinito stringendo a se il cuscino di Jànos. Sulle guance l’inequivocabile segno di un pianto disperato.

Silenziosamente e con il cuore stretto in una morsa, Jo s'infilò in quello che era stato il lato della madre e stringendo le spalle della sua Ruka tornò a cedere al sonno.

 

 

Un’idea chiamata vendetta

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh.

 

Erano passati giorni nei quali tutto sembrava essersi fermato in un limbo innaturale. Senza Jànos era venuta a mancare quella quotidianità fatta dall’andare tutti insieme verso il posto di lavoro, mangiare a mensa, ascoltarlo canticchiare la sera dietro qualche melodia radiofonica e… parlare. La mattina dopo il funerale, risvegliandosi tra le braccia di Johanna, Haruka aveva rotto nuovamente gli argini, ma una volta terminato quel naturale sfogo l’aveva guardata affermando sulle anime dei loro genitori, che quella cosa finita li. Non avrebbe mai più versato una sola lacrima in vita sua.

In un primo momento ed in tutta onestà, la maggiore aveva pensato che fosse una frase di circostanza, lanciata come paravento alla vergogna di quell’improvvisa fragilità, ma da quel preciso istante una nuova luce era scesa nelle iridi della sorella, una luce fredda che non le aveva mai visto. Da quella sorta di stentoreo giuramento, ogni volta che la bionda si soffermava un istante come colpita da un ricordo, quella luce riemergeva rafforzandosi. Le sere a cena, quando nel preparare la tavola ancora portava a tavola per tre. Le mattine uscendo dalla loro stanza, quando fermandosi davanti alla porta del bagno, soprappensiero si ostinava a bussarci sopra. Quando prima di evadere da una casa ormai troppo vuota per fare lunghe passeggiate senza una meta, si trovava a fissare il berretto di Jànos ancora appeso al muro dell’ingresso.

Anche il loro rapporto stava risentendo di quel drastico cambio di vita e invece di unirle le stava dividendo. Due caratteri tanto indipendenti facevano fatica a fondersi nel dolore.

La CAP era stata presa dalla Kaioh, i cancelli chiusi e tutti gli operai, loro incluse, mandati a casa. Il sogno era finito ed ora dovevano rimboccarsi le maniche ed andare avanti. Così Johanna aveva iniziato a cercarsi un lavoro e con Scada avevano preso a bussare a tutte le fabbriche di Pest, ma Haruka no. Pur dotata di uno spirito d’iniziativa invidiabile, non aveva ancora accettato la cosa. La si vedeva starsene davanti alla cancellata chiusa dell’acciaieria con le mani nelle tasche, randagia, oppure in bar poco raccomandabili, provare a cancellare con l’alcol lo squarcio che aveva dentro il petto e che le impediva di tornare a volare.

“Non so proprio come aiutarla, Scada.” Aveva vomitato la maggiore ormai spinta con le spalle al muro da una bionda con una testa più dura del granito.

“Devi portare pazienza Johanna. Vedi, io credo che ancora debba elaborare il lutto e non mi riferisco solo a Jànos, ma anche alla perdita di tutto il suo mondo. Prova a pensarci; in definitiva tua sorella è cresciuta senza madre e non appena è stata sufficientemente grande da bazzicare per le acciaierie, ha preso quel mondo come il fulcro della sua esistenza. La Cooperativa era una grande famiglia e lei li aveva trovato una sua dimensione.”

“Deve riprendere a studiare!”

“Potrebbe essere una buona medicina.”

Così giunta l’ennesima sera senza averla vista per tutto il santo giorno e spinta dal ruolo di sorella maggiore che in quel momento tanto le andava stretto, Johanna l’aspettò seduta sul divano pregando di riuscire a trovare le parole giuste per spronarla. Haruka tornò tardissimo. Rinchiusa nel suo cappotto scuro entrò in casa seguita da una folata di vento gelido e fermandosi sulla porta della sala da pranzo, guardò la maggiore togliendosi il berretto. Non aveva voglia di parlare, di ascoltare o mangiare il solito boccone che l’altra la forzava ad ingoiare per tenersi in piedi.

“Dove sei stata?”

Si sentì chiedere stupendosi di un timbro tanto tranquillo. Conoscendo Johanna sapeva che prima o poi sarebbe tornata a romperle l’anima.

“In giro.” E sperò bastasse per tacitarla almeno per un po’.

“Haruka dobbiamo parlare.” No, non era bastato.

Soffiando scocciata l'altra posò il cappotto sul gancio dell’attaccapanni a muro entrando nella stanza. Andando verso il tavolo estrasse una sedia e sedendovi comodamente la guardò incrociando le braccia al petto. Il tutto con semplice noncuranza.

“Dimmi.” E questa apparente freddezza spiazzò Johanna a tal punto da disorientarla.

“Vorrei dirti tante cose, ma francamente non so da dove iniziare.”

“Lascia che ti aiuti io sorella. Dunque, vorresti dirmi di evitare di andarmene in giro tutto il giorno a non far nulla di costruttivo. Di farla finita di piangermi addosso davanti ai cancelli della CAP. Muori dalla voglia di sapere in quale bettola mi cacci tutte le sere o a chi mi accompagni seduta al bancone dei bar di mezzo distretto. Vorresti chiedermi di riprendere a mangiare di più, perché sto dimagrendo troppo e così non va. Di stare attenta quando cammino per strade poco frequentate, perché sono una donna che calza abiti maschili e a qualcuno questo non piace. Vorresti dirmi di trovarmi un lavoro, che siamo alla canna del gas e tu devi pensare a preparare gli ultimi esami. - La guardò stirando maggiormente le labbra convinta di aver colto nel segno, capendo intimamente che quelle parole erano dirette più alla sua coscienza che alla sorella. - Giusto Johanna? E’ questo che volevi dirmi? Bene, adesso che ci siamo chiarite possiamo anche andare a dormire.”

Guardandola rimettere la sedia al suo posto Jo aggrottò la fronte. Possibile che quel pezzo di ghiaccio fosse realmente la sua Ruka?

“Sai sempre tutto eh?! La meravigliosa ed indomita Haruka Tenoh sa sempre tutto, prevede tutto e risolve tutto! - Si alzò lentamente scuotendo la testa. - E’ ovvio che vorrei sapere dove vai a sbatterti tutte le stramaledette sere sentendo quanto puzzi d’alcol quando torni a casa. Com’è vero che non mi piace vederti giù e si, avrei piacere che non andassi in giro vestita così dopo che quel poliziotto si è permesso di metterti le mani addosso giudicandoti per le tue tendenze. Ho il sacrosanto terrore che tu possa venire arrestata per questo e non è giusto, perché dovresti essere libera di vivere come vuoi la tua esistenza. Ma le case di correzione sono piene di persone come te! Ho paura e non puoi farmene una colpa, perché hanno massacrato di botte nostro padre e non posso neanche pensare che potrebbe accaderti una cosa simile ed ammetto di essere come nostra madre quando ti pungolava perché da piccola eri tutt'ossa e non mangiavi mai a sufficienza, ma arrivare a dirmi che dovresti lavorare per mantenermi fino alla laurea è troppo anche per una saccente zucca vuota come te!”

Stringendo i pugni fino al tremore cercò di controllarsi. “Oggi ho trovato lavoro… presso una fabbrica di scarpe del settimo distretto. La paga non è il massimo, ma basterà… Per entrambe. Volevo solo dirtelo e chiederti di tornare a studiare. Hai una borsa di studio. Non puoi permetterti di perderla.”

Vinta e dispiaciuta le passò accanto uscendo dalla stanza. “Se hai fame la cena è nel forno. Buona notte.”

La casa tornò silenziosa. Haruka restò in piedi per lungo tempo. Nella testa un mare di pensieri e nel cuore una pesantezza senza pari. La borsa di studio. Se l’era proprio dimenticata e si che dopo averla vinta, per giorni era andata tanto fiera di quel risultato. Come sembrava tutto lontano e privo di sostanza ora. Guardando l’incandescenza delle braci del camino avvertì nel petto montare la rabbia. Avvicinandosi si sedette sul pavimento a gambe incrociate perdendosi nel lieve respiro del carbone vivo. Pulsava come il suo cuore. Ardeva come la sua collera verso colui che aveva strappato a lei e a Johanna tutto. Se quel cane di Alexander Kaioh non avesse ingannato suo padre, tutto sarebbe rimasto saldo. Jànos non sarebbe morto e loro avrebbero ancora il capo chiave della loro famiglia. Il loro apa. Robusto e saggio. Fiero e cordiale. Onesto e leale. La CAP avrebbe continuato ad esistere e vien da se che nessun operaio avrebbe perso un posto di lavoro. Lei avrebbe iniziato l’università e la sorella finito il suo ciclo di studi. Haruka Tenoh sarebbe rimasta la guascona bionda di sempre, invece di evolversi in un Turul vagabondo fuori controllo in un cielo solitario.

Vi porterò via con me se sarà necessario, ma avrò la mia vendetta. Per mio padre. Per mia sorella. Per la CAP… e per me pensò stringendo le mani poggiandovi il mento in un muto sodalizio con se stessa.

Non si coricò. Non dormì affatto. All’alba di una giornata livida lasciò un biglietto accanto alla colazione preparata per Johanna rassicurandola che avrebbe fatto ritorno la sera ed uscì di casa diretta alla periferia orientale e da li, con l’ausilio di una vecchia corriera, viaggiando per circa un’ora oltre i sobborghi cittadini, le frazioni dormitorio e le vecchie fattorie abbandonate, arrivò nei pressi di un gruppo di case, in aperta campagna.

Toccando con la suola degli scarponcini l’asfalto mezzo mangiato di quella strada sperduta, inalò ossigeno facendo un gesto al conducente che richiudendo la porta ripartì abbandonandola in quel posto deprimente. La campagna era incolta ed ormai dormiente. Tutto intorno solo il verde dell’erba alta, alberi ormai spogli, il grigiore del cielo e lontano, dopo una strada sterrata, alcune piccole strutture. Capanne più che vere e proprie abitazioni.

Lui viveva li. Lei lo sapeva. L’unico che avrebbe potuto aiutarla nell’avvio della sua missione. La vendetta alla qualessa li a breve si sarebbe votata e che andava suggellata con un rito di passaggio antico come il mondo magiaro al quale lui ancora apparteneva.

 

 

 

NOTE: Ciau. E si inizia con la seconda parte di questa ff; quella della vendetta di Haruka e del suo avvicinarsi a Michiru. Non manca molto prima che le loro vite si fondano e come si può intuire, la loro storia non sarà facile. Conosciamo tutti il carattere indomito di Tenoh ed anche in questa storia, come nell’originale, una volta scelta la sua missione cercherà di portarla a termine in tutti i modi, leciti o meno.

Chi sarà la persona preposta ad incoraggiarla e sostenerla in questo suo delirante viaggio verso Alexander Kaioh? E qualcuno riuscirà a fermarla?

Batterò molto il così detto “ferro” su questo tema, molto di più che sulla fantomatica talpa della voce di Buda, perché ritengo sia più interessante e rappresenti la chiave di volta di tutta la storia.

Spero di far bene. A prestissimo!!!

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Usagi Tzukino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo IX

 

 

Le tre sfere del destino

Fót – Sobborgo nord orientale di Budapest, dicembre 1940

 

 

 

Era furente. Con se stesso. Con quell’uomo. Con quell’assurda tradizione ormai sorpassata che vedeva i nonni tramandare ai nipoti l’arte antica del Kés. E si che credeva di essere riuscito a salvare le sue due figlie da una tale pratica proprio in virtù del loro sesso, sperando, pregando che non subissero il fascino perverso del sentirsi padrone di una lama e perciò della vita di un altro essere umano. Sostituirsi al volere di Dio era sbagliato, dannoso e per Jànos, inaccettabile.

Il trasferirsi in campagna allontanandosi dalla città era stata una mossa azzardata. Nel farlo aveva realmente pensato che dati i venti di guerra provenienti da più parti, sarebbe riuscito a dare alla sua famiglia cibo, sicurezza e protezione. Anche Scada lo aveva seguito in quel piccolo villaggio di case basse dai tetti di paglia, sapendo che prima o poi anche il Regno d’Ungheria sarebbe stato risucchiato nel vortice del secondo conflitto mondiale. Lui era stato più fortunato, aveva si tre maschi, ma sia lui che sua moglie Mirka non avevano più i padri e non c’era dunque nessuno che potesse insegnare ai ragazzi l’uso del coltello. L’uso del coltello. Quale assurda metrica per traghettare un bambino dall’età della fanciullezza a quella dell’adolescenza.

Sulla riga dell’educazione siberiana, che vedeva insegnamenti più o meno ortodossi per la difesa armata del proprio credo o del clan d’appartenenza, anche nella cultura ugrica si trovavano le componenti della così detta legge del taglione, dove ad un affronto di particolare gravità, si era autorizzati a rispondere con l’ausilio della lama del proprio kés; un coltello dato dal nagyapa al proprio nipote, sulla quale impugnatura il nonno aveva fatto incidere simboli antropomorfi o animali che avrebbero protetto il ragazzo nel corso della propria vita.

Catapultandosi verso la rimessa Jànos sentì il sangue ribollirgli nelle vene e questa volta neanche tutta la comprensione e l’amore del quale era dotata sua moglie gli avrebbero impedito di cacciare di casa quel vecchio vagabondo. Aveva già parlato con Johanna, la sua primogenita, che ormai raggiunti i quattordici anni aveva compreso le preoccupazioni del padre accettando di non assecondare il nonno. Ma la piccola Haruka era molto più difficile da gestire, perché affascinata da tutto cio' che quell’uomo sapeva e poteva offrirle. Negli ultimi mesi era arrivata a passare con lui gran parte delle giornate, dimenticando lo studio e le amicizie, l’amore per la tecnologia e le automobili.

“Devi affondare di più se vuoi procurare danni permanenti piccolo Turul.” Disse suo nonno guardandola severamente tendere il braccio armato in avanti.

Uno scricciolo tutt’ossa dalla forza irrilevante, ma dalle potenzialità enormi. Sua nipote ci sapeva fare con il coltello nonostante la natura le avesse imposto il sesso più fragile. Testarda, ma veloce. Impulsiva, ma estremamente intelligente nel saper prevedere le mosse di un avversario.

Con il fiato corto lei lo guardò storcendo la bocca stizzita. “Se fossi più alta sarebbe tutto più facile táltos.”

Da sempre lo chiamava così; táltos, ovvero sciamano, il membro più importante della comunità, colui che secondo le credenze magiare prima della nascita si era accostato direttamente a Dio ricevendo il compito di guidare la sua gente. Non nagyapa o più semplicemente nonno. Come a voler sottolineare quella sorta di rispetto reverenziale e mancata famigliarità che provava per quell’uomo minuto dalla carnagione chiarissima e dai capelli completamente argentati nonostante non avesse superato ancora la cinquantina. Una lunga coda a simboleggiare l’inscindibile rapporto con il cavallo; il suo animale guida. Quello che per la piccola era il falco e per la sorella il lupo.

Haruka aveva timore di lui, rispettandolo al pari di suo padre e non certo perché avesse mai osato alzare una mano su di lei, ma perché in quell’uomo vedeva la sciamanica congiunzione tra l’amore per la loro terra e le mistiche tradizioni della loro cultura.

“Crescerai. Se hai preso da tuo padre… crescerai.” Le disse sentendo un botto proveniente da una delle due ante di legno che stavano chiudendo la rimessa.

Sbattendo il palmo della destra Jànos entrò nell’ambiente alzando un nuvolo di polvere che iniziò a danzare tra i raggi solari provenienti dalle lastre sconnesse delle pareti.

“Haruka!” Abbaiò spalancando le iridi chiare inquadrandola ferma accanto al nonno.

Nella mano un coltello a serramanico di circa cinque dita. Sul viso gli occhi della colpa. Aveva trasgredito ancora.

Apa…”

“Fila in casa ragazzina. Con te farò i conti più tardi." Ordinò scattando il mento verso l’entrata.

Riconsegnando l’arma lei schizzò a testa bassa dileguandosi in una frazione di secondo.

“Ve l’ho già detto! Non voglio che l’arte del Kés sia insegnata alla bambina.”

Chiudendo la lama su se stessa l’altro ripose l’oggetto sul tavolo accanto ad una miriade di cianfrusaglie. “E’ portata come lo è Johanna, ma è più agile nei movimenti. E vuole imparare.”

Nagyapa allora non capite?!“

“Vi capisco benissimo invece, ma il fatto che voi e mia figlia non abbiate saputo dare al mio clan un erede maschio, non vuol dire che il filo delle tradizioni della nostra terra debba essere reciso.”

Cercando di trattenersi dal saltargli al collo Jànos fece un paio di profondi respiri provando a calmarsi. La glaciale ostinazione di quell’uomo lo metteva a disagio e sapeva che prima o poi avrebbe dovuto imporsi per averla vinta sul futuro delle sue figlie. Quello che stava insegnando loro era non soltanto anacronistico, ma pericoloso, molto, troppo e se per Johanna la questione era terminata senza troppi drammi, per Haruka non si poteva dire lo stesso. La figlia minore sembrava attratta dalle tradizioni più oscure. In più c’era sua moglie, che continuava ad assillarlo convinta che se la piccola avesse imparato a maneggiare la lama di un Kés, il destino avrebbe portato sciagura su di lei.

“Ho paura Jànos. Ferma mio padre, ti prego.”

Un presentimento, magari stupido, dettato da un cuore di madre, ma comunque inquietante.

“Vi avverto, questa è l’ultima volta! Se vedrò ancora Ruka con un’arma tra le mani, vi sbatterò fuori dalla mia casa. Sono stato chiaro?!”

Per qualche tempo tutto sembrò sopirsi. Passò il Natale ed arrivò l’anno nuovo e con esso il turbine della guerra. Richiamato al fronte in primavera, Jànos non poté più tenerlo lontano dalla sua bambina.

 

 

Fót – Novembre 1950

 

Incamminandosi lungo lo sterrato Haruka si guardò intorno. Il tempo non era stato clemente con quel posto o forse era lei a vedere la desolazione là dove in realtà c’era solamente il vello dormiente dell’inverno. Se lo ricordava più grande quel microcosmo contadino che tanta libertà le aveva donato da bambina. Le vasche di pietra del fontanile dove sua madre e le altre donne di quella comunità improvvisata erano solite fermarsi a chiacchierare mentre lavavano i panni, i recinti dei buoi e quello del toro predisposto per la monta, la cappelletta di San Giorgio, le strade che zigzagando accarezzavano le case dei vicini. Persino l’abitazione che li aveva visti essere una famiglia era ormai un mezzo rudere. Anche la scuola ora le appariva solo come una delle tante stanze di quel punto impercettibile sulla carta geografica. Niente più magia in quei piccoli banchi dal legno ormai rigonfio. Niente risa spensierate nel cortile accanto agli orti.

Senza fretta arrivò in quello che era stato il centro del paese sentendo nell’aria l’odore di legna arsa. Alzando gli occhi ai tetti ne scorse uno poco oltre da dove usciva una sottile striscia di fumo. Chissà se l’avrebbe riconosciuta una volta avutala davanti. Arrivando alla porta dell’unica abitazione che dava ancora la parvenza di accogliere della vita umana, bussò con decisione facendo poi un passo indietro. Qualche secondo e l’uscio si aprì mostrandole una parte del suo passato.

Un viso di pietra, duro come quel posto, la squadrò da capo a piedi. Calzando le sue previsioni lui era ancora la, nonostante alla morte della madre avvenuta solamente qualche mese dopo l’inizio della guerra, non avesse voluto tornare con le nipoti in città. Non era cambiato molto, sia nell’aspetto, sia nel modo che aveva sempre avuto di fissarla da quelle due pozze d’ambra liquida. Ingoiando a vuoto Haruka incrociò il suo sguardo attendendo.

“Il piccolo Turul si è fatta una donna vedo.” Non aveva avuto bisogno di altro per riconoscere sua nipote.

Táltos… Sono qui per chiedervi il mio Kés.” Nessuna frase di circostanza, saluti, abbracci o chissà quale altra manifestazione d’affetto tra due esseri dello stesso sangue divisi da dieci anni di lontananza.

“Tuo padre non vorrebbe.”

“Mio padre non cammina più su questa terra.”

“Si… Ho saputo. Gli spiriti mi hanno parlato. Bene allora,… entra.” Disse aprendo maggiormente l’anta ed Haruka lo fece non stupendosi neanche di quella risposta.

Come il fuori anche il dentro era scarno e decadente. Non era una casa vera e propria, ma una delle tante rimesse dove i contadini tenevano le sementi e gli attrezzi per la coltivazione dei campi e come tale i suoi spazi si riducevano all’essenziale del vivere civile. Un giaciglio come letto, un braciere al centro per scaldarsi, qualche indumento e derrate alimentari. Nessuna finestra. Solo un’apertura ricavata nelle assi del tetto per lo sfogo del fumo.

“Sei diventata alta.” Richiuse la porta raggiungendola.

“Cos’avrebbero detto gli spiriti a proposito di mio padre?”

“Che è stato tradito. - Andando a sedersi su una stuoia riattizzò il fuoco che stava ardendo. - E che per assurgere al mondo dei giusti la sua anima ha bisogno di sangue.”

Haruka non si mosse. Ormai era un’adulta. Non rimaneva più a bocca aperta nell’ascoltare simili eresie da visionari.

Táltos so cosa devo fare.”

“E allora perché vuoi farlo alla maniera degli antichi?”

“Perché credo che apa lo meriti.”

Ascoltando la invitò a sedersi con un gesto gentile, ma deciso. “Togliti il cappotto Turul e mostrami le braccia.”

Lei eseguì sentendosi improvvisamente tornata bambina. Quell’uomo aveva ancora un fortissimo ascendente. Arrotolandosi le maniche della camicia ed inginocchiandosi gli mostrò gli avambracci che lui afferrò traendoli a se. D’istinto la bionda oppose resistenza facendolo finalmente sorridere.

“Le tue ali sono diventate forti.”

Si, ma non volano più pensò lei allontanando immediatamente quel rammarico.

“Sei sicura di volerti vendicare seguendo la strada del mito? - E lasciandola proseguì fissandole intensamente gli occhi. - Non potrai più tornare indietro una volta che ti avrò segnata.”

“Lo so.”

“E quando aprirò il cerchio per richiuderlo dovrai portare a compimento la tua missione.”

Un si più che convinto e lui si alzò con assoluta solennità. “Allora sarà per questa sera.”

“Questa sera no!”

“Il primo ripensamento?”

“No! Ma non voglio che mia sorella si preoccupi. Devo tornare a Pest il prima possibile e per il mio rito di passaggio ci vuole tempo.”

“Vi siete sempre protette a vicenda nonostante non abbiate mai voluto ammetterlo. Se macchierai le tue mani di sangue lei ne soffrirà piccolo Turul.”

“Non ho paura di sporcarmi le mani e Johanna non è lo spirito della mia coscienza.” Disse con leggera stizza, come se le desse fastidio il sapere che suo nonno avesse detto il vero. Avrebbe sofferto, eppure era anche per lei che stava per intraprendere quel viaggio senza ritorno.

“Allora farò presto.” E si dileguò lasciandola.

Meno di un’ora più tardi tre ciotole di legno le vennero poste davanti. Seduta a gambe incrociate accanto al braciere le fissò sapendo già cosa fossero.

“Ti ricordi i principi del nostro credo piccolo Turul? Queste ciotole rappresentano le tre sfere con il quale è diviso il mondo. - Indicandole man mano proseguì. - Il Mondo Superiore, dimora delle divinità, il Mondo di Mezzo, fatto per e dagli uomini, dal mito e della natura e il Mondo Sotterraneo, regno dei fantasmi che sono stati empi in vita. Per avere il tuo Kés e compiere attraverso la sua lama la vendetta che spetta all’anima di tuo padre, dovrai oltrepassarli tutti e tre. Sei pronta?”

Forzando la mascella la bionda mosse impercettibilmente la fronte e lui le porse la prima.

“Il Mondo Superiore. L’assenzio del divino.”

Un gran respiro e prendendola tra le mani si portò alle labbra quel particolare distillato verde dalle sfumature tanto simili al colore delle sue iridi. Solo pochi istanti e al leggero gusto d’anice si sovrappose l’elevatissimo tasso alcolico che le bruciò la trachea spingendola a tossire. Haruka era abituata a bere, ma non distillati tanto forti. Strizzando le palpebre tornò a respirare agevolmente solo dopo alcuni secondi.

Stirando la bocca lui riprese la prima ciotola passandole la seconda. “Il Mondo di Mezzo. La mandragola dei boschi.”

Guardando il denso liquido violaceo la bionda ebbe un fremito. Stava già avvertendo l’inizio dell’effetto rilassante dell’Assenzio. Presto non avrebbe più avuto potere sul suo corpo. Un sapore corposo di terra e muschi le invase il palato ricordandole di contro le lunghe passeggiate che si divertiva a fare da ragazzina tra la penombra della macchia. Un senso di nausea le colpì lo stomaco sfigurandole il viso.

“E per ultimo il Mondo Sotterraneo. Le spore dei dannati condannati all’infelicità.”

Funghi. O meglio le loro spore. Un decotto potentissimo che aveva il potere di uccidere se non preparato a dovere. Haruka ne aveva sentito parlare da piccola e non positivamente, anzi. Si vociferava che gli sciamani lo utilizzassero per raggiungere le anime dei morti, per traviare le persone e per soggiogare le giovani vergini ai piaceri carnali.

Amaro. Di sapore pessimo proprio come la sfera che simboleggiava. Ingoiando a fatica sentì l’esatto istante nel quale il suo effetto si espanse nel suo cervello annebbiandole la vista e costringendola ad appoggiare un palmo a terra per sorreggersi. L’intreccio dei tre liquidi la stordirono a tal punto che iniziò a distaccarsi dalla realtà di quell’ambiente per proiettarsi in un turbine d’immagini senza senso.

“Lasciati andare.” Sentì riecheggiare mentre l’uomo l’aiutava a distendersi sulla stuoia sprofondando nell’incoscienza e nel delirio.

 

 

Perse i sensi per ore durante le quali alternò all’apatia totale i ricordi e le sensazioni di una vita. Si rivide bambina, piccola, piccolissima, Jànos che la cullava raccontandole storie, il volto imbronciato di sua sorella, spodestata dalla carica di figlia unica e quello dolcissimo e fiero di sua madre. Una regressione talmente intensa e concreta che soltanto una droga è capace di dare. Poi le sensazioni tattili dei primi abbracci, i passi stentati e vogliosi di una libertà insita nel suo carattere e le parole inventate che diventano man mano vere e proprie frasi. La scuola, le prime amicizie, gli incontri fugaci e quelli più duraturi, tutto incatenato secondo l’ordine degli anni della fanciullezza, dell’adolescenza, fino all’età adulta. Una vita. La sua vita.

Le tre sfere si concretizzarono molto precisamente. Il Mondo Sotterraneo ebbe la forza ed il dolore del ricordo della morte di suo padre, la fucilata al petto avvertita nell’ascoltare il telegramma che annunciava la sua morte. Quello terreno le venne invece offerto dalla concretezza dello sguardo protettivo di Johanna, la sua costanza nel starle sempre accanto nonostante tutto e tutti, il suo indiscusso affetto. Infine l’emisfero superiore, quello predisposto al Paradiso, Haruka lo identificò con il sorriso leggermente timido e gli occhi cobalto della ragazza che nell’arco di una manciata di minuti era riuscita con il proprio nome ad inciderle il cuore. Michiru.

“Mi… chi… ru…” Lamentò cercando di riaprire le palpebre.

Faticosamente tornò alla realtà ritrovandosi distesa sulla schiena. I muscoli come macigni dolorosi. Il fiato ancora corto ed un forte bruciore all’avambraccio destro.

Turul…”

“Mmmm… - Voltandosi sul fianco sentì un formicolio farsi largo tra le fibre delle gambe fino al tronco e alle spalle. - Táltos. Ho male…”

“Lo so bambina. Lo so.”

Bambina. Forse era la prima volta che suo nonno la chiamava così. Questo riuscì quasi a spaventarla e comunque a farle un certo effetto. Poggiando la fronte sulla stuoia cercò di immettere nei polmoni più ossigeno possibile. Si sentiva la febbre e sapeva che quello era il primo scotto che avrebbe dovuto pagare. Nel corso delle successive ventiquattro, trentasei ore sarebbero arrivate controindicazioni peggiori.

“Devi rimetterti in piedi Haruka!”

“Tem…po. Datemi tempo.”

“Non ne hai più se vuoi far ritorno.”

Devo tornare a casa pensò ingoiando un conato. Voglio tornare a casa. Aiutami apa…

 

 

Buda – Distretto XI, periferia occidentale

 

Michiru socchiuse gli occhi alla stanchezza. Era li da un’infinità. Ferma come una statua di sale. La compostezza che da sempre caratterizzava una postura elegante racchiusa negli avambracci leggermente incrociati al busto e un modo di vestire semplice che in quella giornata di freddo pungente la stava proteggendo regalandole comunque sguardi ammirati. Un baschetto per proteggere la testa, il trench chiaro allacciato alla vita da un nodo classico, un maglione avana a collo alto, i tacchi non pretenziosi ed un paio di guanti di pelle scamosciata.

L’aveva seguita decisa a dipanare la matassa che si era venuta a creare attorno a quei tre benedetti nomi. Non poteva continuare a sospettare di loro e se per le sorelle Aino la cosa sembrava non avere alcuna importanza se non strettamente politica, per lei la questione lambiva una sfera molto più importante; quella della correttezza, della lealtà verso il gruppo. Non poteva certo battersi il petto ed affermare che Anna Indry fosse una delle sue più care amiche, in effetti arrivata quasi alla soglia dei ventuno anni Michiru non avrebbe potuto farlo con nessuna, ma da li a pensare che fosse lei la spia, ce ne correva.

Anna era uscita dalla sua abitazione alla periferia del secondo distretto verso le dieci di quella mattina da lupi, prendendo un paio di autobus fino alla zona più occidentale dell’undicesimo, dove non c’erano gli edifici storici, le strade pulite, le ville dai giardini curati di Buda o i bistrò e le fabbriche dai laterizi rossicci che si potevano trovare al di la del fiume, nella caotica Pest, ma solo le fredde strutture in costruzione di un tipico quartiere dormitorio dell’est Europa. Guardandosi intorno con sguardo furtivo, aveva percorso tutta la strada che dal capolinea portava ad un piccolo motel ad ore e li era sparita riemergendo solo a fatto compiuto, sottobraccio ad un giovane ufficiale russo che senza particolari manifestazioni d'affetto, l’aveva salutata con un fugace bacio sulle labbra dileguandosi poi per una traversa. Accompagnata dal signor Takaoka, Michiru aveva atteso la ragazza a qualche metro di distanza dall’automobile, paziente e risoluta, conscia di quel che si era appena consumato dietro le tende di quella squallida casupola e per questo leggermente imbarazzata. Nel vederla aveva sospirato iniziando la sua personalissima partita a scacchi.

“Anna…” Chiamò sorridendole per andarle incontro.

Michiru lo sapeva che il Generale Aino non avrebbe mai approvato l’approccio schietto che stava per avere con la ragazza, ma doveva provare ad arrivare là dove altri non erano riusciti in mesi di appostamenti. Doveva e lo avrebbe fatto con un confronto diretto. Unica soluzione che nessuno aveva ancora messo in pratica.

“Michiru? Cosa… cosa ci fai qui?”

“Tu cosa ci fai qui!? Siamo lontani dal centro città.” Controbatté lentamente intuendo dallo sguardo di sorpresa prima e resa poi, come l’altra avesse capito di essere stata scoperta.

L’amante del figlio di un gerarca russo. Anch’egli appartenente all’esercito d’occupazione che gli stessi componenti della voce di Buda stavano combattendo. Gran brutta posizione.

“Nulla. Io…”

“Perché non facciamo due passi?” Invitò con gentilezza.

Come due vecchie amiche s'incamminarono senza una vera meta, Michiru con le mani strette al grembo ed Anna con la sinistra serrata alla cinghia della sua borsa e l'altra dimenticata nella tasca del cappotto.

“Allora?”

“Perdona la franchezza Kaioh, ma non credo che questi…”

“… siano affari miei? Sei proprio certa che l’uniforme indossata dal ragazzo che hai appesa salutato riguardi soltanto te?”

“Non capisco.”

“Sarò più chiara. Non voglio certo giudicare quello che fai o con chi ti accompagni, ma sa che appartieni ad un gruppo di rivoluzionari? - L’altra si fermò di colpo. - Perché se si, vuol dire che sta facendo un gioco molto pericoloso e se no, allora sei tu a stare giocando rischiando di coinvolgere anche tutti quanti noi.”

“Kaioh è più complicato di così.” Rispose elusiva riprendendo a camminare.

“Plausibile.”

“Allora perché ti sei presa la briga di pedinarmi!? E’ stato Hairàm a dirti di farlo?”

Hairàm pensò cogliendo la possibilità di un doppio confronto. “E’ solo preoccupato per il gruppo. Non puoi colpevolizzarlo per questo.” Mentì ed attese.

“Se ne facesse una ragione… Il figlio non è suo!” Disse con rabbia stringendo i pugni mentre gli occhi le si velavano di lacrime.

Sgranandole contro i suoi, Michiru si puntò in mezzo al marciapiede mentre Anna apriva gli argini.

“Non è suo e di questo ne sono certa! Ma lui niente! Non riesce a farsene una ragione. La nostra storia è finita! E’ stata solo sesso. Attrazione! Con Dimitri è un’altra cosa. Lui mi ama ed intendiamo sposarci non appena mi presenterà alla sua famiglia, perciò diglielo,… diglielo che l’amore non è possesso, ma ben altro!” Rigettò tutto d’un fiato lasciando che l’altra analizzasse quelle scioccanti rivelazioni.

Anna era incinta e aveva avuto una relazione con Hairàm e più o meno lunga che fosse stata, ora lui era convinto che il figlio fosse suo. Ma era davvero tutto li?

Michiru puntò ancora girando la sua personale ruota immaginaria. “Ma lui lo sa che il padre del tuo bambino appartiene all’esercito russo?”

“No, sono sempre stata molto accorta a non farmi scappare nulla con Hairàm. Pensa sia un collega di corso, ma ti assicuro Kaioh che per lui potrebbe essere chi che sia e continuerebbe comunque ad asfissiarmi con la sua stupida gelosia!”

“E questo ragazzo? Lui sa che sei una dissidente?”

Emettendo un sibilo scosse la testa confessando di essere intenzionata a lasciare la voce di Buda il prima possibile.

“Assolutamente no! Non sono una sprovveduta Michiru. So perfettamente che in ballo ci sono le vite di tutti. Le vostre e quella di Dimitri. Uscirò dal gruppo prima che… “ E toccandosi il ventre le fece capire.

“Prima che si veda la tua gravidanza.”

“Già. Mi dispiace.”

Un colpo di scena che Michiru non si sarebbe mai aspettata ed ora che aveva compreso in quale assurdo casino fosse andata ad impelagarsi quella ragazza, provava pudore nel pensare che avrebbe dovuto rivelare i suoi segreti al Generale Aino. Il mestiere dell’informatore era anche e soprattutto questo; ingannare gli altri carpendone i segreti. Non le piaceva e per tutta la strada del ritorno, dopo aver lasciato una scorata Anna, rifletté sul ruolo che aveva scelto e su quanto la facesse sentire sporca.

Alcune settimane dopo Michiru Kaioh avrebbe saputo che per tutto il tempo della conversazione avuta con Anna, due occhi implacabili l’avevano tenuta sotto controllo capendo di lei molte cose.

 

 

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh

 

Dopo il suo primo giorno di lavoro Johanna tornò a casa sperando di non trovarla vuota. Ora che la sua vita era cambiata tanto rapidamente, sentiva la necessità impellente di far ritorno nell’unico posto che aveva il potere di accarezzarle l’anima. Una casa però diventata di colpo fredda e nervosa, dove ogni parola doveva essere soppesata per evitare danni peggiori. Mai come in quegli ultimi tempi il suo carattere le era sembrato tanto simile a quello di Haruka, sia nella vergogna del dolore, cosa di norma tipicamente maschile, sia nell’assoluta certezza di potercela fare da sola. Due istrici sul piede di guerra che proprio in virtù di queste loro fragilità, avrebbero dovuto unirsi invece di cercare di fuggire l’una dall’altra.

Così una volta capito che la sorella non era ancora rientrata e spaventata dall’angoscia di quel silenzio, iniziò a fare le faccende su e giù per le scale come animata da masochismo, ma non seguendo un ordine ne uno schema, in pratica non fece altro che stressarsi ulteriormente lasciando tutto a metà. Insoddisfatta e sempre più nevrotica, una volta acceso il camino e la caldaia, si sbracò sul divano martellando la punta del piede sulle assi del pavimento.

“Ma dove cazzo sei finita?!” Ruggì lanciando verso il tavolo lo straccio dimenticato attorno al collo.

L’ennesimo copione. L’avrebbe aspettata per cena e non vedendola avrebbe dovuto mangiare da sola iniziando a preoccuparsi.

“Mi sono proprio rotta le palle, Haruka.”

Alzando le braccia sulla spalliera ed poggiandovi il collo, chiuse gli occhi rassegnata quando il rumore della chiave nella toppa della porta d’ingresso glieli fece spalancare di colpo. Guardando verso le scale la vide poggiarsi allo stipite rabbrividendo. Sembrava uno spettro riemerso dall’Ade. Pallida, con gli occhi cinti di scuro e lo sguardo vitreo della febbre alta.

“… Ruka.”

Lei sorrise. Un ghigno che le fece impressione costringendola ad alzarsi di colpo. “Che hai?! Che cos’è successo?”

“Sta… nevicando. - Un passo nella stanza e le gambe cedettero schiantandola in ginocchio con ancora addosso il cappotto ed il berretto spruzzati di bianco. - Ce l’ho fatta… Sono tornata a casa.”

In un istante Johanna le fu accanto aiutandola. La sorella non puzzava d’alcol eppure sembrava come stordita e trasalì quando, arpionandole la fronte con la mano, sentì quanto stesse scottando.

“Stai bruciando! Ce la fai ad alzarti?”

“Non… penso. Sai… ho camminato tanto e la corriera era così fredda. Io… io…” Ansimando le poggiò la fronte sulla spalla desiderando solo di coricarsi.

Dopo essere riuscita a rimettersi in piedi ed aver abbandonato la baracca del nonno, si era dovuta fermare parecchie volte per dare di stomaco ed ogni volta il dopo era stato una serie ininterrotta di brividi e crampi. Quando aveva visto arrivare la corriera che l’avrebbe riportata a Pest, aveva sperato che lo stare seduta le sarebbe servito per star meglio. Neanche per sogno. Un feroce mal di testa aveva preso a martellarle il cervello ed ogni buca presa da quel cane dell’autista aveva avuto il potere di aumentarlo a dismisura. Scesa e sbattutasi contro un muro per riprendere le energie aveva infine rivolto il viso al cielo accorgendosi della prima neve dell’anno. Si era così trascinata verso casa spinta più dalla disperazione che da una concreta forza. Ogni lampione, ogni finestra, le aveva ferito gli occhi con la luce riducendoglieli a due fessure arrossate.

“Corriera? Hai preso una corriera per andare dove?”

“Credo… all’inferno.” Soffiò iniziando a ridere grottescamente.

Non capendo l’altra cercò allora di sollevarla afferrandola per le braccia, ma con un gemito la bionda trasalì scostandosi.

“Haruka che hai!? Dannazione rispondimi!” Ma sulla soglia dell’incoscienza l’altra non ne ebbe la capacità.

Riuscendo a portarla verso il divano, Johanna le tolse cappotto e maglione notando un tremore anomalo al braccio destro. Slacciandole il polsino della camicia le scoprì la pelle e quello che vide le tolse il fiato nella gola.

L’avambraccio interno era gonfio ed arrossato. “No… No, no, no Ruka. No!”

Afferrandole la mano ghiacciata la chiamò un paio di volte guardandola riaprire le palpebre. “Sei andata da lui vero? Perché non ne hai parlato prima con me idiota!”

“Perché mi avresti fermata.”

“Certo che ti avrei fermata! Dio del cielo Ruka… Che hai fatto!”

 

 

Quando i coniugi Erőskar uscirono silenziosamente dalla loro camera, Haruka era finalmente stata presa dal sonno. Johanna aveva dovuto chiamarli per farsi aiutare a portarla di sopra. Non dicendo una parola Scada si era preso la bionda fra le braccia salendo accortamente le scale, mentre Mirka l’aveva spogliata cercando di alleviarle il gonfiore al braccio. Entrambi avevano visto, ma non avevano chiesto.

Sconfitta, Jo tornò ad accarezzarle la fronte. Non si sarebbe mai aspettata un’azione tanto sconsiderata. Non era riuscita a prevederla ed ora se ne sentiva tutta la responsabilità. Haruka non era mai stata un tipo violento; protettivo si, ma mai violento. Ora il segno indelebile lasciatole sulla pelle e l’oggetto che le aveva trovato nella tasca dei pantaloni, stavano ad significare la scelta di una giustizia sommaria. E Jo aveva paura.

Scuotendo la testa si sedette sul letto scansando il panno intriso di antisettico ed eccoli li, i tratti scuri che avrebbero trasformato sua sorella in un’assassina. Era stato sicuramente il loro nagyapa a farle quel tatuaggio. Un pugnale di semplice fattura, lungo una decina di centimetri, con la lama rivolta verso l’alto, mezza scura e l’altra lasciata chiara. Proprio sopra l’impugnatura tre lettere; G V M, l’acronimo della frase magiara gyözelem vagy meghal, ovvero vincere o morire.

Provando rabbia spostò l’attenzione da quell’orrore al piano della scrivania poco oltre il comodino della sorella. “Così sei andata a reclamare il tuo Kés.”

Il suo coltello, quello che dalla nascita le era stato promesso e che all’occasione avrebbe dovuto usare per difendere l’onore del suo clan. Una lama a scatto capace di squarciare il petto di un uomo retratta in un manico d’osso finemente lavorato rappresentante l’animale guida che il loro sciamano aveva scelto per lei. Un Turul nell’atto di scendere giù in picchiata per ghermire la sua preda.

“E noi che da ragazzine ci scherzavamo sopra. - Disse piegandosi su se stessa come a voler pregare. - Ora come potrò aiutarti sorella mia?”

 

 

 

NOTE: Ciau. Questo capitolo è un po’ particolare, molto descrittivo e non so come sia venuto.

Rimarco subito che Haruka e Michiru, così come Usagi e Mamoru, si incontreranno presto. Adesso, non so se sin dal prossimo o in quello successivo, perché prima la bionda dovrà far danno (l’avvio c’è tutto) e la sua dea dovrà cercare di smascherare la talpa. Parola che i colpi di scena non mancheranno.

Mi sono permessa di riprendere una frase MITICA della puntata 110 dell’anime anni ’90, quando Haruka afferma a se stessa “ non ho paura di sporcarmi le mani” ;p

Se Michiru sapesse…. Che c’è di mezzo suo padre…

Infine lasciate che ringrazi Ferra10 per avermi aiutata nella composizione del tatuaggio di Haruka. Ha avuto tantissima pazienza nel cercare la frase giusta e nella scelta del doppio colore della lama, che ha poi un significato ben preciso, che però farò dare alla stessa bionda tra qualche pagina.

A prestissimo!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo X

 

 

Colpo di lama - La fine della libertà del piccolo falco

Buda – Distretto I, Palazzo Kaioh, gennaio

 

 

L’anno nuovo era iniziato sotto i migliori auspici e di questo Michiru ne era felice. Prendendosi finalmente qualche giorno di vacanza lontano da Budapest, suo padre sembrava aver ritrovato il vigore e le energie dei tempi di Hokkaidō. Almeno fisicamente. Per l’umore il discorso era diverso. La ragazza l’aveva compreso benissimo. Erano bastate le interminabili telefonate con Andràs Nagiry e quelle con il Ministro dei Trasporti, il signor Sàrin, a renderlo nervoso e quasi nostalgico.

Forse per via della vita parallela che aveva scelto di percorrere o per empatia, Michiru era riuscita a collegare la tristezza di Alexander ad un particolare episodio economico-politico avvenuto in città qualche settimana prima; l’acquisizione da parte della loro banca di una fabbrica di Pest. Il padre non faceva certo parte di quella disgustosa categoria umana di speculatori senza scrupoli della quale erano pieni gli istituti di credito, ma neanche l’aveva mai visto battersi il petto per la buona riuscita di un affare. Questa volta, invece, sembrava diverso. Una sottile linea di dispiacere l’aveva colto, come se nel fallimento di quell’attività fosse stato coinvolto personalmente. Ma sentendo di avere la coscienza sporca per altre questioni, non aveva avuto il coraggio di avvicinarlo, preferendo mantenere vigliaccamente il freddo distacco nipponico che tra loro non c’era mai stato.

Michiru si sentiva terribilmente in colpa verso il padre, tanto che durante la loro vacanza spesso si era trovata a combattere contro se stessa e c’era voluta una bella dose di volontà per evitare di alleviarsi la coscienza. Avrebbe tanto voluto dire tutto ad Alexander; dalla sua entrata nella voce di Buda, alla sua collaborazione con il Generale Aino. Ma non poteva. Doveva salvaguardare la serenita' e la sicurezza della sua famiglia.

“Michiru mi stai ascoltando? Allora sei dei nostri?”

Seduta sul letto con la cornetta tra le mani, la ragazza si guardò l’abito da sera blu notte che avrebbe dovuto mostrare con orgoglio in quella sera di gala, sospirando sonoramente. Dalla parte opposta dell’apparecchio Minako corrugò le sopracciglia chiare ripetendo la domanda.

“Dunque? Non vorrai mollarci propio ora? Dobbiamo fare il punto della situazione.”

Dio del cielo quanto poteva essere trapanosa quella ragazza.

“Ti ho detto che sarei venuta Aino e verrò. Devo solamente trovare una scusa per mio padre. Gli avevo promesso che questa sera l’avrei accompagnato ad un gran galà, perciò… dammi un attimo.” Rispose piattamente sentendolo bussare alla porta della sua camera.

“Ora devo andare Mina. Ci vediamo al solito posto tra un’ora.” Tagliò corto attaccando.

“Michiru sei pronta? Se non usciamo subito rischiamo di far tardi.” La chiamò Alexander vestito di tutto punto in quel venerdì pomeriggio.

Abbandonando la cornetta la ragazza si alzò sentendo per l’ennesima volta le viscere contorcersi, perché per l’ennesima volta avrebbe dovuto mentirgli. Se avessi immaginato uno scotto tanto alto da pagare… pensò avvicinandosi all’anta laccata di bianco.

All’uomo s'illuminarono gli occhi quando la vide. Era stupenda in quell’abito. Semplice e per questo di un’eleganza impareggiabile.

“Michiru… Sei uno spettacolo!” Disse ammirato ed orgoglioso lasciando però che il sorriso che aveva dipinto sul viso, scemasse pian piano alla vista di quello affranto di lei.

“Che c’è?!”

“Papà… perdonami, ma… questa sera non mi sento di uscire…”

“Perché, non stai bene?”

“Non è nulla di grave… I soliti dolori di noi donne.” E sorrise imbarazzata e dispiaciuta al tempo stesso.

Spostando lo sguardo altrove lui tossicchiò grattandosi il collo. “Ooo… Mi dispiace. Ci tenevo ad averti al mio fianco, ma immagino che… Vuoi che dica alla cuoca di farti una tisana o del brodo caldo?”

“No! Non preoccuparti. Lascia pure che vada a dormire. Non ho fame.” Puntualizzò sperando di non avere gente intorno.

Accarezzandole una guancia le lasciò un bacio sulla fronte. “Assicurami che ti coricherai presto. Non farmi stare in pensiero bambina.”

Senza neanche avere la forza di dire altre colossali balle, lei scosse la testa affermativamente guardandolo allontanarsi verso le scale. Si sentiva un verme. Richiudendo la porta si diresse verso l’armadio iniziando a spogliarsi. Aveva pochissimo tempo per arrivare all’appuntamento con le sorelle Aino.

Quando il signor Takaoka vide il suo signore inclinò leggermente il capo aprendogli lo sportello. Avendo portato la macchina dal carrozziere per un controllo alle gomme, lo stava aspettando in strada, davanti al cancello d’ingresso, non potendo certo immaginare che a qualche decina di metri, dietro il tronco di un grosso albero posto sul marciapiede opposto a casa Kaioh, una giovane donna stava da quasi mezz’ora ferma al freddo. Tesa come una corda di violino e risoluta come una fiera in attesa della sua preda.

Porco figlio di un cane. Vi siete deciso finalmente a tornare in città, pensò Haruka sporgendosi leggermente dal tronco per meglio vedere colui che era diventato la sua ossessione.

Non aveva fatto altro che cercarlo. Prima alla sede della Kaioh Bank, poi, una volta scoperto il suo indirizzo, a casa. Era partito con la famiglia quel bastardo e lei era stata costretta ad aspettarlo, covando rancore e masticando fiele per giorni, dipanandosi tra la vita e il dovere che si era imposta di portare a compimento. Al freddo, sotto la neve, sferzata dal vento del nord, cercando di tamponare le richieste che Johanna aveva sul vederla nuovamente china sui libri e Scada, che dopo aver intravisto il suo avambraccio destro, sembrava non volerle più staccare gli occhi di dosso.

Guardando meglio l’uomo che le aveva distrutto la vita, la bionda cercò di memorizzarne i lineamenti. Non voleva certo rischiare di compiere un atroce scambio di persona una volta avutolo davanti alla lama del suo coltello. Alto, magro, capelli brizzolati portati corti e stirati all’indietro con la cera. Mascella volitiva, spalle larghe. Altro non riusciva a vedere da quella distanza, ma nel complesso un gran bell’uomo. A preoccupare Haruka era pero' quello più piccolo. Un orientale che tutto sembrava tranne facile d’aggirare. D’indole curiosa, una volta aveva letto da qualche parte che le persone di quella zona del mondo spesso conoscevano una qualche forma di autodifesa. Per colpire Kaioh avrebbe dovuto coglierlo da solo o comunque, neutralizzare prima l’asiatico.

“Ho tutto il tempo del mondo.” Bisbigliò tra se poggiando le spalle all’albero una volta allontanatasi l’automobile. Prendendo il suo Kés in mano ne fissò l’impugnatura lanciandolo un paio di volte a mezz’aria.

“E’ ora di tornare a casa. Adesso che so dove abitate mio caro Alexander Kaioh…” E sogghignando si allontanò lentamente bavero alzato e mani nelle tasche.

Meno di venti minuti dopo, Michiru uscì rattamente dal cancello per dirigersi verso il castello di Buda.

 

 

L’agente Thöryn si portò l’ennesimo bicchiere di Vodka alle labbra e con un colpo secco del collo, lo ingoiò tutto d’un fiato sbattendo poi il vetro sul bancone. Era stanco ed annoiato. Quella città gli stava stretta se paragonata alla vita mondana della sua dolce Mosca. Ovunque andasse, qualunque distretto frequentasse, non riusciva a trovare pace e tranquillità interiore. Non vedeva l’ora di tornarsene a casa e la neve accumulatasi agli angoli delle strade, non faceva altro che ricordargli quanto gli mancasse la sua patria. Gli avevano affidato una sezione della polizia tributaria solo ed esclusivamente perché il Regime non lo riteneva sufficientemente adeguato per un ruolo più importante e questo a causa delle sue origine ungherese. I suoi nonni erano infatti emigrati in Russia alla fine del secolo, suo padre aveva combattuto ed era morto nella Grande Guerra per quel paese, mentre lui aveva direttamente partecipato alla Seconda. Ma evidentemente non era bastato alle alte schiere per considerarlo ancora un vero russo. Questo smacco, unito all’inadeguatezza di un carattere molle e discontinuo, a lungo andare lo avevano incattivito facendo si che il distintivo che portava all’interno del cappotto, ormai gli servisse più da paravento per azioni discutibili che per far realmente rispettare la legge.

Tamburellando un paio di volte l’indice sul bancone, fece capire al barista di servirgli un altro bicchiere quando la vide passare. Camminava veloce, mani nelle tasche e sciarpa premuta sul viso, berretto calato fin quasi sopra agli occhi. Fisionomista fin nei più insignificanti particolari, riuscì ugualmente a riconoscerla e ordinando ai due uomini che in quel momento erano con lui di pedinarla, uscì rapido dal locale salendo nella berlina di servizio diretto verso il sesto distretto.

I due poliziotti in borghese la videro tagliare il Danubio, passare agevolmente le strade affollate dei negozi pronti per la chiusura, puntando al quadrante del distretto dove viveva con sua sorella. La seguirono mantenendo il suo ritmo, spinti da quella febbrile sensazione di onnipotenza data del loro ruolo.

Haruka non si accorse subito di essere seguita, anzi, provando piacere in quella camminata e nel sentir scricchiolare la neve sotto le suole, iniziò a pianificare la sua vendetta con semplice lucidità. I due attesero la solitudine di un vicolo per poi intimarle di fermarsi.

“Cosa volete da me? Non mi sembra che passeggiare sia un reato.” Rispose neanche troppo sorpresa da un’azione che ormai troppo spesso andava consumandosi ai danni dei cittadini.

“Un semplice controllo, signore.”

La frase un semplice controllo pose tutto il suo corpo in un immediato stato di vigilanza, ma fu il signore a preoccuparla. Onestamente sapeva che vestita in abiti maschili e bardata a quel modo nessuno avrebbe potuto dire in prima istanza che fosse una donna, figuriamoci due mezze cartucce come quelle.

“Il documento… Prego.” Disse uno dei due mentre l’altro l’aggirava ponendosi alle sue spalle.

Guardandoli alternativamente si mise di trequarti per tentare di averli entrambi sott’occhio. Maledizione, sono armata. Passerò un brutto quarto d’ora se mi beccano con il coltello in tasca, pensò cercando di mantenersi calma. Doveva assecondarli per evitare danni peggiori, ma dargli il documento sarebbe equivalso ad una condanna.

“E se non lo avessi?”

“Sarebbe un problema risolvibile soltanto alla centrale, dal nostro superiore.”

Facendo un passo indietro verso il muro, la bionda stirò le labbra irritata. Non aveva scelta. Facendo finta di estrarre dalla tasca interna del cappotto il suo portafoglio, si catapultò verso l’agente più vicino liberandosene con una spallata per imboccare poi a tutta velocità la fine del vicolo. Non avrebbero potuto raggiungere una scheggia come lei. Non rimaneva loro che intimarle di fermarsi.

Conoscendo a menadito le strade del suo quartiere li portò lontano da casa, conscia che tenendo sconosciute le sue generalità sarebbe stata al sicuro. Un sali e scendi di scale e rampe, vicoli e giardini pubblici che la videro giocare fino al completo sfinimento dei due. Haruka riuscì a seminarli in meno di dieci minuti ridendosela mentre svoltava un ultimo angolo.

“Imbecilli. - Rallentò iniziando a camminare all’indietro mentre i poveretti arrancavano in lontananza - Troppo facile. Troppo lenti!”

Adesso avrebbe dovuto tapparsi in casa per qualche tempo, fino al quietarsi delle acque, ma per uno smacco del genere ne sarebbe valsa la pena. Piu' che soddisfatta tornò a voltarsi quando qualcosa le si parò davanti costringendola ad alzare la testa. Due occhi d’un celeste chiarissimo si piazzarono nei suoi facendola trasalire.

“Signorina Tenoh. Perché tanto di fretta?” E come nel giorno dell’arresto di Jànos quelle mani si permisero di afferrarla nuovamente.

“Agente… Thöryn?!”

“Ma che sorpresa. Non avrei mai creduto che una donna come voi potesse ricordarsi del nome di un uomo. Ne sono lusingato.” La sentì divincolarsi stringendo maggiormente alle braccia.

“Lasciatemi! Non ho fatto niente.”

“Fuggire da due agenti di polizia lo chiamate niente? - Una rapida occhiata ai sottoposti boccheggianti che stavano sopraggiungendo ed avvicinando il viso al suo continuò sussurrando. - Vi assicuro che presto capirete come ci si comporta mia cara signorina.”

“State minacciando una libera cittadina! Questo è abuso di potere!”

“Abuso di potere? “

“SI, abuso di potere e lo ribadisco.”

“E cosa vorreste fare? Chiamare la stampa? Gli universitari? Gli operai? Voi piccoli sciocchi ungheresi siete un covo di vipere e noi vi schiacceremo la testa una volta per tutte.”

“Come potete parlare così! Thöryn è un cognome ungherese. Questa è anche la vostra patr…” Ma colpita al viso da un manrovescio non poté terminare la frase.

“Non osate! Vi farò pentire di essere venuta al mondo sporca invertita. Vi riserveremo lo stesso trattamento che abbiamo usato con vostro padre!”

Haruka non ci vide più e nel lampo di un secondo lo sbigottimento del momento si trasformò in furia cieca. Con un calcio bene assestato allo stinco riuscì a liberarsi e ad estrarre il suo Kés. La lama scattò uscendo dal manico e lei la usò fendendo l’aria. L’uomo gemette inclinando per istinto il busto all’indietro, ma colpito non poté far altro che portarsi la destra alla guancia sgranando gli occhi in quelli altrettanto dilatati di lei. La ragazza aveva agito d’impulso. Tutto il suo corpo si era mosso senza il filo di un pensiero e solo quando un sottile rivolo di sangue iniziò a bagnare la guancia del graduato, si rese conto di quello che aveva fatto.

“Bastarda!” Tuonò estraendo la pistola poggiandogliela alla fronte.

Haruka ne sentì il freddo della canna e come un animale braccato non poté far altro che fissarne le iridi infuocate aspettandosi il peggio. Impietrita non si accorse dell’arrivo degli altri due agenti e di un gruppetto di ragazzi che presumibilmente avevano assistito a tutta la scena.

“Ei voi! - Urlò Hairàm seguito da tre coetanei, tutti appartenenti alla voce di Buda - Bella roba tre contro uno!”

Colti alla sprovvista gli agenti sopraggiunti si bloccarono non sapendo che fare mentre Thöryn spostava la canna dell’arma dalla bionda al ragazzo.

“Fermatevi o sparo!” Intimò.

“In una strada che pullula ancora di gente? Bel modo di farsi pubblicità! - E vedendolo guardarsi intorno forse per la prima volta, rincarò la dose come solo uno studente politicamente attivo sapeva fare. - Popolo di Budapest… guarda! Guarda come i servi dell’invasore trattano i tuoi figli!”

Alcune persone iniziarono a fermarsi, altre a parlottare tra loro. Fu subito chiaro che per l’ennesima volta stava consumandosi un’ingiustizia a loro danno.

“Allora signor agente?“ Chiese il ragazzo alzando beffardamente le braccia in segno di resa, mentre con la testa faceva segno ai compagni di allontanarsi.

“Piccolo verme - Masticò andandogli davanti per nulla intimorito colpendolo sulla tempia con il calcio della pistola. - Cosa credete di mettermi paura? Siete solo dei viscidi traditori!”

Hairàm si ritrovò stordito in terra e prima ancora che i suoi compagni, o la gente che era andata a formare un piccolo semicerchio avesse potuto intervenire, un paio di colpi d’arma da fuoco riecheggiarono tutto intono. Ci fu un’immobilità assoluta. Haruka si sentì stringere dolorosamente il polso destro fin dietro alla schiena e lasciando il coltello lo guardo' rimbalzare sull’asfalto, mentre l’altro agente afferrava il ragazzo strattonandolo in piedi. Entrambi protetti dall’arma del loro superiore si diressero verso la berlina poco distante scaraventandoli dentro.

“Hairàm…” Chiamò uno dei suoi mentre Thöryn sbottava in una risata soddisfatta.

“Non sono i numeri a fare la differenza mio caro popolo di Budapest, ma queste.” Ed agitando in alto la pistola camminò a ritroso verso il coltello prova dell’aggressione subita, raccogliendolo per dirigersi poi verso lo sportello lasciato aperto.

 

 

Doppiezza - La fine della libertà della piccola gru

Pest – Distretto VI, febbraio

 

Ridestandosi dal senso di torpore che quell’appostamento davanti alla casa della giustizia le stava regalato, Minako drizzo la colonna rendendo i suoi splendidi occhi celesti due implacabili fessure. Scorgendo il ragazzo uscire finalmente dalla porta secondaria della struttura guardingo come cacciagione, avvertì le altre sedute assieme a lei sul sedile posteriore dell’automobile di famiglia. Stessa scena vista e rivista in giorni d’appostamento. Stesso copione al medesimo giro di lancetta.

“E’ ora di farla finita.” Annunciò stentorea.

“Pienamente d’accordo!” Rispose Michiru mentre Usagi scuoteva la testa più che convinta.

Ormai era cosa acclarata; la talpa della voce di Buda altri non era che Lukàs Körkh e a questo spiacevole risultato, che in realtà le aveva abbastanza spiazzate, erano giunte non tanto per l’atteggiamento schivo che l’universitario usava per entrare ed uscire dalla casa circondariale, per le foto compromettenti o chissà quale altro eclatante motivo, ma per il fatto che con il pestaggio ricevuto da Hairàm quasi tre settimane prima ad opera di alcuni agenti della polizia tributaria, in pratica si era denunciato da solo.

Scendendo dal mezzo gli andarono incontro intercettandolo alla fine del vicolo che dava sulla strada principale. Sarebbero state discrete, ma risolute, perché per evitare di scomodare gli agenti del Generale Aino, Körkh avrebbe dovuto consegnarsi spontaneamente.

“Salve Lukàs!” Chiamò Kaioh facendolo trasalire.

“Ss… salve. Curioso incontrarti da queste parti.” Poi viste anche le sorelle Aino, dipinse un timido sorriso cercando di dissimulare la tensione che quell’incontro casuale gli stava procurando ai muscoli della schiena.

“In giro per bistrò? L’aria gelida incoraggia.” Continuò lui.

Un appiglio che Minako fu lietissima di accettare. “Esattamente e visto che siamo sole solette, che ne diresti di farci compagnia?” Invitò afferrandogli il braccio civettuola mentre Michiru sorrideva per invogliarlo.

“In realtà avrei un impegno ragazze.”

“O suvvia Lukàs! Non vorrai lasciarci senza scorta con i tempi che corrono!?” Incalzò Kaioh alludendo neanche troppo velatamente al pestaggio ai danni del leader del gruppo.

“Devo declinare. Proprio non posso.”

“Dai almeno accetta una tazza di caffè bollente. Non vedi? Sta per riprendere a nevicare.” E a quell’ultima, devastante stoccata infertagli da Usagi, il ragazzo cedette lasciandosi condurre poco lontano, il un localino abbastanza appartato, con sale da te intime e scarse di avventori.

Preso posto attorno ad un tavolino da quattro, per qualche minuto parlarono del più e del meno, ridendo anche, poi la conversazione si spostò su Hairàm e sulla sua ripresa fisica.

“E’ una roccia! Per aver passato quattro giorni all’interno della casa della giustizia, troppo bene sta.” Affermò l’amico con una punta d’ammirazione.

“Sei riuscito a vederlo?” Gli chiese Michiru che tanto aveva fatto per cercare di contattare il ragazzo non riuscendoci.

“Proprio ieri. Sono passato da casa sua. Le costole incrinate stanno molto meglio, il braccio che gli hanno rotto pare proceda bene e in viso ha solo un leggero alone scuro intorno all’occhio destro.”

Era ora di muovere scacco al re. “Solo ieri? Strano. Eravamo sinceramente convinte che andando e venendo dalla casa della giustizia fossi riuscito a vederlo nei giorni della sua reclusione.” Tagliò Michiru poggiando il mento alle nocche delle mani per scrutarne la reazione.

Sedutole davanti lui si ritrasse come colpito da una tremenda epifania. “Non capisco, Kaioh.”

“Mettiamo le cose in chiaro Lukàs. Cerchiamo di non prenderci in giro. Quasi ogni giorno entri in quel palazzo per uscirne solo dopo un paio d’ore. Purtroppo sappiamo tutti quali crimini avvengano li dentro. E’ perciò molto strano che un dissidente abbia un così libero accesso a luoghi che in teoria dovrebbe evitare come la peste. Non trovi?” Incalzò Mina vedendolo sudare.

“No, no, no! Aspettate un attimo! E’ Hairàm che vi ha detto di seguirmi?”

Ci risiamo pensò Michiru lasciando condurre la biondina.

“Lascia perdere Ferhèr e rispondi a questa domanda. Cosa diavolo ci vai a fare in quel posto?”

“Non sono cose che vi riguardano!”

“O ci riguardano e come se c’è anche una sola possibilità che tu stia facendo il doppio gioco per conto del Regime.”

“Credete veramente che io sia un informatore, una spia di quella gente?!”

“Non è forse così Lukàs?”

“No Aino! Non è così!” Disse sbattendo i pugni sul tavolinetto di ceramica dipinta.

“E allora illuminaci.”

“T'illumino io, Kaioh.” Una voce nota li prese alle spalle.

Ferhèr comparve loro come il più gioviale degli invitati e posando l’avambraccio steccato sul pianale. si sporse verso Michiru con uno sguardo assolutamente inedito. “Anche perché non credo che il qui presente avrà mai il coraggio di ammettere di prenderlo in culo da uno dei cuochi. Giusto Körkh?!”

Deflagrazione! Sgranando gli occhi su entrambi i ragazzi Michiru ebbe come l’impressione di essersi persa qualcosa e non tanto per la notizia shock dell’omosessualità di Lukàs, mai neanche lontanamente sub dorata, quanto di come l’altro l’avesse rivelata. Un linguaggio ed un tono che non aveva mai sentito in lui.

“Hairàm!”

“Sta’ zitta sporca checca! Con te faremo i conti dopo. Ora sono queste tre fanciulle ad interessarmi. - Afferrando una sedia con il presunto braccio rotto la pose con lo schienale verso il bordo del tavolo sedendovi a cavalcioni - Chi avrebbe mai immaginato che dietro questi bei faccini si potessero nascondere delle informatrici. La figlia di un banchiere e quelle di un generale. Sapete… sono mesi che stiamo con il fiato sul collo del grande eroe della patria Ferenc Aino. Lui e le sue porche riforme, il suo voler stare dalla parte del popolo, il pretendere l’indipendenza! Ma per destituirlo e togliere potere al Parlamento non avremmo mai creduto che sarebbe bastato far cadere le sue graziosissime figliole in una trappola. Certo è stata lunga. Imbastire la sceneggiata del gruppetto di rivoluzionari è stata una cosa disgustosa e sfiancante, ma devo dire che n’è valsa la pena. Soprattutto visto come mi state guardando in questo momento.”

“Con schifo?” Se ne uscì Usagi mentre Michiru provava a capire.

“Allora l’intrattenerti nei bar con degli ufficiali russi…”

“Esatto Kaioh. Le ragazzine qui sono state piuttosto brave. Non mi sono mai accorto di nulla e se non mi avessero avvertito degli amici, non avrei mai potuto proporre una contromossa tanto efficace.”

“Il pestaggio…” Chiese Minako.

“O, ma quello c’è stato davvero. Anche se non così cruento. - Indicò l’ormai quasi impercettibile tumefazione intorno e vicino l’occhio - Diciamo che ho dovuto sacrificarmi per la causa. Se non fosse stato per l’arresto di un ragazzo, non mi sarebbe venuto in mente nulla per spostare la vostra attenzione da me al nostro bel frocetto.”

Stringendo il braccio fasciato, ma perfettamente sano, intorno al collo di Lukàs, lo fece alzare consegnandolo ad un paio di uomini vestiti di scuro che fino a quel momento avevano atteso alle loro spalle.

Un collaborazionista. Hairàm Ferhèr era un collaborazionista e della peggior specie. Aveva tirato su un’impalcatura audace ed ingegnosa per smascherare il Generale Aino ed i suoi fidati. Aveva creato un gruppo di universitari pervasi dal sacro fuoco rivoluzionario diventandone il leader. Imbastendo azioni propagandistiche ai danni del Regime era riuscito ad accerchiarsi di gente che in un modo o nell’altro stravedeva per lui, attendendo il momento giusto per colpire, sapendo che prima o poi qualcuno avrebbe fatto una mossa falsa.

Michiru lo guardò frastornata. Quel ragazzo era stato semplicemente geniale.

“Anna…” Sospirò facendolo ridere.

“Tranquilla Kaioh, Indry non sa nulla. In questa storia è solo un’altra inconsapevole pedina. Un po’ come te. Anzi, credo proprio che in questo preciso momento il suo adorato non che mio fraterno amico Dimitri, la stia conducendo al suo distaccamento per interrogarla. Mi ha stupito sai, il vederti ferma ad aspettarla davanti a quel motel dell’undicesimo distretto. Non ti facevo tanto ostinata.”

Stringendo le mani a pugno lei abbassò leggermente la testa dandosi della stupida. Avrebbe dovuto essere più accorta. Avrebbe dovuto prestare maggior attenzione alle raccomandazioni che il Generale Aino le aveva fatto in merito alla sua nuova condizione d’informatrice. In una terra come la loro, in un periodo storico tanto complicato, in ogni incontro, ad ogni scambio di mano poteva annidarsi l’ombra dell’inganno.

Papà… perdonami… pensò mentre lentamente andava consegnandosi a quel tradimento.

 

 

Incontro d’ali

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

Scorrendo lungo il binario d’acciaio cementato al suolo, la porta dallo spesso acciaio borchiato si aprì rilasciando nell’ambiente semi deserto un suono pesante.

“Tenoh muoviti! La dottoressa Maioh vuole parlarti.”

Che palle pensò sbuffando all’ennesimo incontro con quella donna petulante dall’aria altezzosa.

Era entrata in quell’istituto di correzione da neanche tre settimane ed in pratica non passava giorno che non dovesse fare una capatina nel suo ufficio. Neanche fosse una studentessa inviata dal Preside.

“E cosa avrei fatto di tanto scellerato questa volta?”

“E cosa ne so io?! Avanti!” Le rispose l’agente penitenziario dalla sagoma sottile e dai capelli castani portati corti quasi quanto i suoi.

Arpionando il montante del letto a castello la bionda si tirò stancamente in piedi notando quanto lo sterno le facesse ancora male. Gliele avevano suonate di santa ragione, ma nonostante quel pestaggio al limite della brutalità, non le avevano fatto altro, il che per la sua condizione di “amante del proprio sesso” era di se per se una gran risultato. Visto l’avversione dimostrata verso le sue inclinazioni dall’agente Thöryn e lo sfregio lasciatogli in dote dal suo Kés, avrebbe anche potuto subire uno stupro o delle deturpazioni permanenti. Invece, dopo il suo riconoscimento e la medicazione alla quale era stato sottoposto l'uomo, l’aveva personalmente interrogata. Filo conduttore di quella spiacevole chiacchierata; il nulla.

In realtà la si poteva accusare solo di resistenza e percosse a pubblico ufficiale, il che, anche se grave, non giustificava ne l’uso della forza, ne tanto meno la richiesta che lo stesso agente aveva immediatamente fatto per un suo trasferimento alla casa della giustizia. Quel giorno un santo aveva evitato ad Haruka Tenoh l'entrata in quel posto ormai completamente saturo, assegnandola invece a quello meno politicamente pericoloso nel quale stava ora. La casa della luce; piccola struttura femminile ai margini della Budapest bene, dove un centinaio di donne di tutte le età erano recluse per reati che andavano dal furto alla corruzione, dalla prostituzione all’omicidio.

Uscendo dalla cella mani nelle tasche, si lasciò condurre dall’altra tra i ballatoi del primo piano dov’erano collocate le celle. Guardandole le spalle sottili sbuffò scuotendo la testa. L’agente Horvàth era una ragazza simpaticamente preposta a farle saltare i nervi ogni qual volta aveva la sfortuna d’incrociarne il passo. Entrate nella struttura circondariale a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, in pratica non facevano altro che attirarsi e respingersi di continuo e per il penitenziario già circolava la scommessa sul dove e quando avrebbero avuto il loro primo scambio di pelle. Piccola, ossuta, dal ghigno prepotente e gli occhi di un particolarissimo azzurro acciaio, l'agente Hovàth era diventata per Haruka un vero e proprio incubo. Insopportabile. Non si potevano vedere, eppure la bionda suo malgrado n'era attratta. La cercava, come se il suo viso riuscisse ad infonderle un po’ di quella forza che dalla sua cattura sembrava aver smarrito.

Percorrendo gli spazi voltati della zona dei ballatoi per passare poi attraverso la mensa e la cucina, arrivarono al Blocco B, quello delle detenute più giovani, tra i quattordici e i diciassette anni. La bionda aveva già notato come alcune di loro avessero preso a guardarla in modo strano, tra l’affascinato ed il bramoso e questo non era passato inosservato ad alcune donne del Blocco A, ovvero il suo. Era una fortuna avere una cella tutta per se e poter dormire così sogni tranquilli. Non era ancora riuscita ad entrare in una cricca o farsene una sua e questo a lungo andare avrebbe potuto diventare una pericolosa debolezza. Haruka non si era mai soffermata a pensare che tolta la figura maschile, in una prigione femminile certe esigenze potessero venire tranquillamente soddisfatte sia con rapporti occasionali, che con vere e proprie coppie fisse e visto la bellezza fisica ed il fascino androgino che emanava, con il trascorrere dei giorni stava diventando l’oggetto delle fantasie di parecchie, Anche donne già impegnate. Per questo fino a quando non fosse riuscita a memorizzare ogni faccia ed ogni situazione, avrebbe dovuto prestare attenzione a chi guardava e soprattutto, a come guardava.

“Ei! Ecco le novelline!” Fece eco una delle tante voci veterane non appena arrivate al cancello sorvegliato che dava nell’ultimo blocco, quello C, ovvero la lavanderia, l’infermeria, l’ufficio della Direttrice, l’archivio e le stanze del personale.

Notando un leggero moto di stizza nella postura della detenuta, il secondino le diede un’occhiataccia riprendendola prima che venisse aperto loro lo sbarramento di sicurezza.

“Tenoh pensa per te!”

“Si, agente Horvàth.” Masticò tornando a digrignare i denti come aveva preso a fare nell’ultimo mese.

L’ennesimo giro di chiavi e finalmente entrarono in quella che Haruka chiamava la zona civile, dove non soltanto le pareti erano imbiancate di fresco e la pulizia sembrava essere di casa, ma ci si poteva guardare intorno senza paura di offendere nessuna. E proprio distogliendo l’attenzione dalle ormai note mattonelle esagonali bianche e nere disseminate su la quasi totalità dei pavimenti della prigione, che la bionda vide un giovane uomo uscire dall’ufficio della dottoressa Setsuna Meioh, voltarsi ed abbassare la testa in segno di saluto.

“Appena visitate e compilate le cartelle delle due detenute minorenni ve le farò avere. Arrivedeci.” Disse gentilmente risoluto per poi sparire lungo il corridoio che portava all’infermeria.

"Grazie dottor Kiba." Rispose lei con altrettanta cortesia.

Un uomo? Confuse le due ragazze si guardarono fino a quando la Direttrice non fece capolino dallo stipite facendo loro cenno d'accomodarsi con un ampio movimento del braccio.

“Puntualissime. Prego.”

Haruka entrò per prima mentre roteando gli occhi si vedeva costretta dalla sua ombra in divisa a togliere le mani dalle tasche.

“Tenoh, su con la schiena! Buongiorno dottoressa Meioh. Ho portato la detenuta 0192 come richiesto.”

“Ottimo, anche se questa non mi sembra una giornata di tempo stabile Horvàth - Disse richiudendo l’anta per andare ad accomodarsi dietro alla sua ampia scrivania in radica - Visto che siete qui, vi informo ufficialmente che da oggi in poi il nostro istituto avrà finalmente il medico richiesto; il dottor Mamoru Kiba.”

“Un uomo?” Se ne uscì l’agente esterrefatta.

“Non soltanto, ma anche alle prime armi. Come se le nostre detenute non avessero già abbastanza problemi tra tubazioni fragili come vecchie arterie sclerotizzate, farmaci scaduti, pareti fredde, riscaldamento a singhiozzo, sporcizia e cibo insufficiente…”

“Ed aggiungerei di pessima qualità!” Intervenne Haruka ripresa da un buffetto di Horvàth.

“E di pessima qualità. Lo so Tenoh. Lo so.” Sottoscrisse la Direttrice sorridendo.

In effetti tutto si poteva imputare a quella donna tranne che non vivesse al limite della decenza come le sue detenute e che non cercasse in tutti i modi di migliorarne le condizioni di vita. Setsuna Meioh, trentenne criminologa, nata e cresciuta tra i sobborghi di Pest da una famiglia di umilissimi operai, non avrebbe mai potuto ricoprire quel ruolo se non fosse stata in gamba, se non avesse posseduto il guizzo tipico del comando e dell’intraprendente voglia di emergere. La casa circondariale detta della luce, era un carcere piccolo, ma portava in se numerose problematiche tra le quali quella di avere detenute di ogni età, anche minorenni e reati di ogni tipo, divisi tra loro da scarsissime misure di sicurezza. Era perciò ovvio che una delinquente comune come Tenoh arrivasse ad un contatto sia con una dissidente politica, che con una vera e propria assassina.

“Ma Dottoressa... un medico uomo!” Cercò di protestare il secondino di qualche anno più giovane ottenendo come risposta un’alzata di braccia.

“Che volete che vi dica Horvàth? Questo è quello che passa il Ministero della Giustizia. Sempre meglio che non avere niente come stiamo facendo da mesi. - Guardando la cartellina con le referenze dell’uomo ancora presente sul piano, si passò una mano tra i liscissimi capelli neri - Comunque non vi ho fatto venire qui per questo, ma per dire a Tenoh che da oggi in poi avrà una compagna di cella.”

E no, merda! Dilatando i suoi splendidi occhi verdi come un leprotto di fronte ai fari di una berlina in corsa, Haruka guardò alternativamente le altre due sentendosi sull’orlo di una crisi politica. Possibile che in quell’ultimo mese si fosse concentrata la summa sfiga di tutta la sua vita?!

“E non è finita qui. Vorrei che la ragazza in questione fosse tenuta sott’occhio.”

“Ovvero?” Intervenne l’agente aggrottando la fronte.

“Protezione. Stiamo parlando dell'unica erede di famiglia alto borghese. Una studentessa al terzo anno d'Universita arrestata con l’accusa di sedizione ed attivismo politico. Vien da se che in un ambiente… diciamo misto come questo, potrebbe avere delle noie.”

“E dovrei proteggerla io? - Sbottò la bionda portandosi la destra al petto - Con tutto il rispetto Dottoressa, avrei già le mie belle rogne nel dovermi guardare le spalle. Se si tratta di una dissidente universitaria che se ne vada allegramente alla casa della giustizia!”

“Tenoh!” La riprese sbattendo un palmo sul bracciolo di pelle scura.

“Non ho intenzione di essere l’angelo custode di nessuno! Tanto meno di una sconosciuta.”

“Con molta probabilità non rimarrà qui per molto. E’ la figlia di un ricco uomo d’affari ed è per questo che non è finita nel posto nel quale ha trovato la morte Jànos Temoh. - Sottolineò gravemente alzandosi dalla poltrona per poggiare le nocche dei pugni sul pianale della scrivania. - O forse vogliamo che l’ennesima innocente debba fare la stessa fine di vostro padre?"

Guardando la ragazza dritta negli occhi le rivelò in tono ancora più marcato, di aver gia' chiesto lo stesso piacere ad un’altra detenuta del Braccio B, una certa Makoto Kino, la quale avrebbe dovuto tenere al sicuro le altre due ragazzine con le quali l’universitaria era stata arrestata.

“Questa cosa non mi piace!” Esasperata la bionda si scansò la frangia dalla fronte soffiando rudemente.

“Insomma Tenoh… posso contarci? Abbiamo o no anche noi un angioletto tra queste mura a guardarci le spalle?”

Haruka si sentì presa per i fondelli, ma aveva dei debiti con quella donna e parecchi. Era incappata in una alta, colossale, incommensurabile parete di granito. Setsuna Meioh sapeva il fatto suo, conosceva la sua storia personale e contava sulla sua bravura nel sapersi destreggiare in situazioni pericolose.

“Va bene, ma questo vi costerà una doppia razione di sbobba per tutto il tempo che quella figlia di papà rimarrà in questo garrulo posto!”

“Detenuta 0192… non si contratta con la Direttrice!” Ringhiò il secondino tagliandola con uno sguardo per nulla rassicurante.

Alzando una mano Meioh accettò facendo da paciere. “Horvàth... nessun problema. Va bene così. Dunque, la nuova arrivata dovrebbe essere già al blocco. Ha incontrato il dottor Kiba passando la visita medica. Mi raccomando… Facciamo sentire la signorina Kōtei come se fosse… diciamo a casa sua. Intesi Tenoh?!”

E davanti a quel sorrisetto beffardo Haruka sfondò il cielo con un improperio mentale di proporzioni epiche.

 

 

Quando Michiru senti' il suono del metallo richiudersi alle sue spalle avverti' forte il crollo emotivo. Per tutto il tragitto dal punto del loro arresto alla sede della polizia, aveva cercato di reggere per Minako ed Usagi. Durante l’interrogatorio, la lettura dei suoi “diritti” e la strada verso la prigione a bordo di una camionetta dai finestrini oscurati con un grigliato metallico, era riuscita a ricacciare indietro le lacrime. Una volta arrivata e mandata in infermeria per la rituale visita medica, aveva cercato di mantenere il giusto controllo, un decoro quanto meno accettabile, anche se davanti si era ritrovata un giovane uomo. Da li, era stata infine portata dalla Direttrice, che stupendola, le aveva annunciato che per tutto il periodo della sua detenzione avrebbe dovuto adottare il cognome della madre e dividere gli spazi vitali con un'altra detenuta.

“Vi registrerò con il nome di Kōtei. Vostro padre è un uomo troppo noto in città. La posizione sociale che ricopre la vostra famiglia potrebbe arrecarvi più male che bene signorina Kaioh.”

La stessa cosa era stata imposta alle sorelle Aino. Ma se per loro il nascondere che fossero le figlie di un Generale poteva capirlo, per lei il discorso non quadrava. Ma forte della sicurezza che il padre sarebbe riuscito ad ungere ruote sufficientemente importanti per farla scarcerare il prima possibile, aveva tollerato quell’imposizione puntando ad uno stralcio d'ottimismo.

Ora però, entrata in quella piccola stanza con il solo spiraglio sul mondo dettato da una finestra alta dalle inquietanti grate romboidali, tutta la compostezza, la classe, la forza di reazione di una caparbietà profondissima, stavano via via disgregando.si per far posto alla desolazione del cuore, allo scoramento dell’anima e al senso di colpa per aver infangato il nome di suo padre.

Un paio di passi e dovette reggersi con una mano al metallo del letto a castello che assieme ad una sbarra a parete per i vestiti ed una scrivania, componevano la deprimente scenografia del personalissimo incubo che stava vivendo.

“Non è possibile che stia accadendo.” Lamentò crollando a sedere sul materasso.

E i volti di Anna e Lukàs che sapeva arrestati e condotti alla casa della giustizia presumibilmente con Adam e tutti gli altri componenti della voce di Buda, quello di Hairàm, viscido e geniale doppiogiochista, quello di suo padre, ormai sicuramente informato del suo arresto, iniziarono ad affastellarsi nella testa tanto vividamente da costringerla a richiudersi su se stessa come un riccio spaventato dalla luce. Poggiando la fronte alle ginocchia arpionandosi le braccia al grembo, Michiru iniziò a piangere silenziosamente tutta la devastazione che aveva dentro fino a quando nuovamente la porta della cella si riaprì per poi chiudersi con quel suono tanto tetro.

“Ei ragazzina mettiamo subito le cose in chiaro. Il letto di sotto è il mio!” Disse Haruka sfoggiando l’aria da galeotta navigata prima che un colpo di frusta andasse a fermarle il cuore.

Non poteva essere lei.

 

 

 

 

NOTE: Ciau.

Sono una bastarda a far finire il capitolo così! Lo so! Ma ormai dovreste conoscermi, no? Su dai, ci stavamo dilungando troppo e poi l’incontro tra Haruka e Michiru vorrei riuscire a descriverlo bene. Ve lo meritate dopo dieci, dico dieci capitoli di attesa!

Bè credo che di colpi di scena se ne siano visti. Ve lo aspettavate che la talpa fosse proprio Hairàm? Devo ammettere che sono stata in bilico per un po’, perché all’inizio della storia avrebbe dovuto essere un personaggio positivo, ma poi… mi sono scappate le cose di mano come al solito.

Occhio, credo di aver fatto danno nella sintassi di alcune frasi, ma rimedierò. Chiedo scusa soprattutto a coloro che mi leggono subito, ma faccio parecchia fatica a correggere sul pc, trovandomi più a mio agio sull’ Ipad. Come scusatemi del tempo che ci ho messo a scrivere.

A prestissimo .)

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XI

 

 

Riconoscersi, attrarsi, respingersi…

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

 

Non poteva essere lei…

Aveva sperato Haruka, aveva sperato e tanto. Ogni notte, prima di cadere addormentata ed ogni mattina, al risveglio, aveva sperato di ritrovarla, di poterle parlare, magari passeggiando lungo il Danubio, tra la gente, come se fossero state sempre parte l’una dell’altra. Le sarebbe bastata la sua amicizia, il bearsi di quel sorriso tanto dolce, di quel blu tanto intenso del quale erano tinte le sue iridi, anzi di più, se il destino le avesse concesso di rivederla, si sarebbe accontentata anche solo di guardarla da lontano.

Ma la brama dell’essere umano è forte e troppo radicata nella sua natura. Così era accaduto che con il passare dei giorni, soprattutto in quel periodo di reclusione, le fantasie di una semplice ragazza di vent’anni perfettamente sana e con il cuore scosso dal primo, vero amore, inevitabilmente si fossero trasformate diventando più ricche ed impegnative, più perverse e profonde. Nella solitudine del corpo, spesso si era ritrovata a pensare a Michiru in termini sempre meno casti, sentendosi in colpa e profondamente in difetto per questo.

Ed ora che ne aveva riconosciuta la schiena, le onde dei capelli e pochi istanti dopo, al sollevarsi del capo, il viso, gli occhi lucidi, la bocca perfetta, ora non le rimaneva altro che scansare lo sguardo invasa da una risacca bollente al petto.

 

 

Il timbro della sua voce se lo ricordava ancora Michiru. L'era entrato dentro come un dolcissimo veleno accolto con gioia. Profondo e musicale, misterioso e benedettamente sensuale. Il suo orecchio l’aveva registrato e fatto suo, paragonandolo ad uno dei suoni più belli mai sentiti prima; più della voce del padre, delle note vibrate dal suo violino o del ruggito del mare. Si era chiesta spesso del perché volesse ascoltarlo ancora. Se l’era chiesto dandosi spesso risposte contrastanti, alle volte perfino elusive. Quella ragazza alta e bionda dai modi un poco rudi, era certamente affascinante. Indiscutibilmente bellissima. Cos’avrebbe sperato di trovare in lei? Di avere da lei?

Alzandosi dal materasso con una forza che credeva di aver perso, Michiru la fissò sentendosi pervasa da una voglia matta di contatto e calore.

“Sei tu…” Disse incurvando leggermente gli angoli delle labbra in un impercettibile sorriso.

“Michiru…” Un altrettanto soffio.

Ti ricordi il mio nome pensò con una gioia che strideva con la situazione che stavano vivendo.

“Cosa… “ Cercò di articolare Haruka sentendosi improvvisamente stringere. Il viso di colei che tanto aveva sognato premuto a forza contro l’incavo del collo. La pelle che iniziava a bagnarsi delle sue lacrime. Padre cielo che sensazione meravigliosa.

Provò a dire qualcosa di senso compiuto, ma i singulti di Michiru non glielo resero possibile. Allora, cercando di calmare entrambe, non le rimase altro che stringersela contro la camicia immergendo la guancia tra i suoi capelli.

Rimasero così per un tempo indefinito. Haruka con i battiti del cuore impazziti e nelle braccia un leggero tremore e Michiru arpionata a quell’imprevedibile roccia, a respirarne l’odore, a vergognarsi di quel momento di fragilità.

“Sssss… Dai smetti di piangere. Lo so che è dura, ma… andrà tutto bene vedrai.” Ci sono io qui con te e ti proteggerò da tutto e tutti. Non resterai mai sola, dovesse costarmi l’anima, avrebbe voluto aggiungere, ma naturalmente non lo fece.

Arrivata al limite emozionale la bionda prese coraggio ed afferrandole gli avambracci si scostò da lei e nel farlo si sentì un’ipocrita, perché non avrebbe voluto.

Lasciando scivolare le mani sulle sue la guardò finalmente dritta negli occhi. “Allora sei tu la dissidente politica arrestata con altre due ragazze.”

Schiarendosi la voce l’altra annuì iniziando una lenta, ma efficace respirazione. “Cerca di perdonare il mio sfogo Haruka, non avrei dovuto saltarti al collo così, ma il ritrovarti qui e dopo le ultime disgraziate ore poi … ha del miracoloso.”

“Ti hanno interrogata?” Chiese a bruciapelo.

“Si. Per quasi tutta la notte. Sono esausta. Mi sembra di stare vivendo un infinito incubo.” Confessò corrugando la fronte all’improvviso lampo di paura colto nel suo sguardo.

“Non ti hanno fatto del male, vero?!”

“No, perché? Sono pur sempre una donna.”

E nel sentirla la bionda sbottò a ridere abbandonandole le mani. “O questo per alcuni di loro non ha grande importanza - Appoggiandosi alla scrivania incrociò le braccia al petto sorridendole sorniona. - Te lo assicuro.”

“Non capisco.”

“Lasciamo perdere. Comunque se vuoi… il letto di sotto è il tuo.”

“Sei generosa, grazie.” Disse guardando desolata lo spioncino chiuso.

In teoria sarebbe uscita presto. La dottoressa Meioh era stata chiara in merito al fatto che Alexander Kaioh avrebbe pagato profumatamente per il suo rilascio. Ma Minako e Usagi? E la stessa Haruka?! Non riusciva a pensare per la stanchezza. Sospirando rumorosamente si sentì sciocca e molto infantile nel chiedere a quella che da li in avanti sarebbe stata la sua compagna di cella, una sorta di permesso per potersi stendere.

“Ti dispiace se mi riposo un attimo?!”

“Fai con comodo. Dormi qualche ora. Al tuo risveglio ti darò un paio di dritte su questo posto.”

La bionda la guardò sorridergli ancora, togliersi gli stivaletti e stendersi. Era bella da morire nonostante la pesantezza del momento e quando chiuse gli occhi abbandonandosi sul suo cuscino, Tenoh si sistemò alla scrivania con carta e penna tra le mani.

 

 

L’ora del pranzo arrivò abbastanza velocemente. Abbandonando una sfibrata Michiru, Haruka uscì per mangiare qualcosa al volo e cercare tra la folla colei che avrebbe potuto aiutarla. La vide ferma in piedi davanti alle finestre che davano sullo spazio comune esterno, parlottare con un’altra guardia guardandosi intorno con fare circospetto. Con molta probabilità era scesa in mensa la cricca di Tesla detta la slava; un’assassina rea confessa di aver sgozzato il marito ubriacone. Senza volersi soffermare sul perché e per come di un gesto avvenuto ormai sette anni prima e costatole l’ergastolo, rimaneva il fatto che la donna non fosse un tipo mentalmente equilibrato, tutt’altro, con i suoi scatti umorali in pratica era riuscita a soggiogare gran parte delle veterane della prigione. Questo rendeva i punti di aggregazione vere e proprie polveriere.

La bionda non la temeva, ma visto la scintilla di follia che a volte le balenava negli occhi, soprattutto se contraddetta, preferiva tenersene lontana. Non aveva più il suo Kés, abbandonato chissà dove nell’archivio assieme ai suoi oggetti personali, ma alla bisogna avrebbe saputo come difendersi e comunque la dottoressa Meioh aveva ragione; all’interno di quelle quattro mura Haruka aveva sempre il suo angelo custode.

Horvàth si sentì fissata ed alzando le sopraciglia le lasciò intendere di lasciarla in pace, non era un buon momento, ma Tenoh continuò a lanciarle sguardi e gesti, fin quando il secondino non cedette avvicinandosi.

“Si può sapere cosa vuoi?!” Bisbigliò facendo finta di nulla sapendo che mezza mensa le aveva già inquadrate.

“Mi serve un favore.” Rispose altrettanto sommessamente allungandole un foglietto ripiegato in quattro parti.

“Cos’è un invito?” E lo prese aprendolo per poi guardarla come se non avesse inteso assolutamente nulla.

“Non facciamo dello spirito. Ci sono già troppe voci su di noi! Allora… mi puoi procurare le cose che sono scritte in questa lista?”

Una rapida scorsa per nulla impietosita. “Non sono il tuo corriere Tenoh. Cosa ci devi fare con tutta questa roba? Non ti bastano le cose che tua sorella già ti fa arrivare da fuori?” Ringhiò stizzita.

“Non sono affari tuoi! Dimmi solo se puoi o non puoi procurarmela!”

L’altra si fece improvvisamente languida. “Dovresti essere un poco più gentile se vuoi da me dei favori… Haruka.”

Sentendosi chiamata per nome la più giovane chinò la testa sospirando vinta. Girava così in quel posto. Do ut des. Dare e ricevere. Scambio equivalente di mercanzie e favori di qual si voglia natura.

“Dove.” Chiese guardando altrove.

“Questo pomeriggio sul tardi. Nel locale lavanderie.”

“Va bene.”

Così a giochi fatti si separarono mentre un paio di fischi si alzavano a loro danno.

 

 

“Minako e Usagi Tzukino. Diciassette e quattordici anni.”

“Quasi quindici!” Falciò la più piccola guardandolo storto dal lettino dov’era ancora seduta.

“Quasi quindici.” Trattenendo a stento un sorriso, il giovane medico si corresse chiudendo le schede che aveva appena finito di compilare.

E’ proprio vero; il mondo è un buco piccolo pensò alzando lo sguardo sull’altra ragazza seduta dalla parte opposta della sua scrivania. Chi glielo avrebbe detto che due delle tre ragazze visitate quel giorno, fossero già passate nella sua vita. Michiru Kōtei e Usagi Tzukino. Dolente forzò il timbro con l’insegne dell’Ordine dei medici di Budapest imprimendole sul fronte delle cartelline.

Ragazze così dannatamente giovani. Che brutta piega stava prendendo il loro paese se la politica era andata ad insinuarsi anche negli istituti superiori. Quelle due avrebbero dovuto pensare a vivere una vita piena tra coetanei, compiti, balli ed uscite serali, invece che tuffarsi in situazioni più grandi di loro.

“Mi fa piacere informarvi che siete in perfetta salute signorine, ma vi consiglio di coprirvi bene. Mi hanno detto che qui fa parecchio freddo, soprattutto la notte.”

“Grazie dottor Kiba. Per caso sa se mia sorella ed io potremmo rimanere insieme?”

“Penso di si, ma sono nuovo anche io della struttura e non so assolutamente cosa rispondervi.”

“Andiamo bene.” Borbottò Usagi continuando a fissarlo storto.

“Mi perdoni signorina, ma ho forse fatto o detto qualcosa a vostro danno per meritarmi un trattamento tanto maleducato?!” Colpì sottile lui guardandola saltar giù dal lettino.

Era carina, forse anche simpatica, ma quanto a carattere e maniere…

Per nulla intimorita da quello sprazzo di paternale, la biondina dalla buffa capigliatura si toccò involontariamente un codino illuminando. Dipingendo una smorfia sul bel volto, il giovane medico scosse la testa divertito. I codini e il suo prenderla in giro durante il loro primo incontro. Era tipico dei bambini metter su il muso per cose banali tralasciando invece di concentrarsi sulle vere problematiche dell’esistenza. Eppure Usagi Tzukino era o non era stata arrestata con l’accusa di attivismo politico?

Con molta probabilità non se ne rende neanche conto, pensò immaginandosi erroneamente un carattere debole e facilmente influenzabile. Non andiamoci giù duro Manoru.

“Bene per me potete andare. - Alzandosi si diresse verso la porta per chiamare la guardia. - Ricordatevi solo di coprirvi. Buon… “ Ma si fermò di colpo imbarazzato.

“Grazie dottore. E cerchi di scusare questa grandissima cafona!” Disse Minako gentilmente.

“Buon… soggiorno?! Buon proseguimento?! Buon… questo cavolo!' Puntualizzò Usagi ricevendo in cambio uno buffetto bene assestato dalla maggiore.

Arrivarono al Braccio B pochi minuti dopo. Scortate da un secondino che avrebbe potuto essere loro madre, sia per età, sia per il compatimento che traspariva dal suo sguardo ogni volta che le guardava, le due ragazze trovarono sulla porta della cella loro assegnata una ragazza molto alta, longilinea, con una sigaretta spenta tra le labbra, gli occhi buoni, ma piuttosto decisi e l’aria di chi, nonostante la giovane età, ne ha già passate parecchie. Sciogliendo le braccia al petto si staccò dal metallo squadrandosele come se sapesse già cosa aspettarsi da loro.

Nell’incrociare quel verde chiarissimo Minako sentì il campanello d’allarme tipico del suo carattere diffidente. mentre Usagi assolutamente no. La biondina le sorrise e quasi nell’immediato le fece un cenno di saluto con la testa.

“Kino, la sigaretta!”

Prendendola tra l’indice ed il pollice della destra la detenuta alzò le spalle mostrandogliela. “Non la sto mica fumando.”

“Sappiamo tutte che lo fai in cella, ma almeno non fare tanto la sfacciata! Su coraggio voi due. Siamo arrivate.” Disse indicando loro la cella da quattro.

“Benvenute nel resort a cinque stelle. - E fece loro strada entrando - Il mio nome è Makoto. Piacere di conoscervi.”

 

 

Non riusciva proprio a staccarle gli occhi di dosso. E si che aveva cercato di fare altro, come leggere, scrivere, scarabocchiare forme senza senso su fogli già provati, o tentare di dormire come lei. Tutto inutile. Che si trovasse alla scrivania o sul materasso del letto superiore, inesorabilmente si girava verso di lei per scrutarne il respiro, il candore di un viso finalmente rilassato. E sapeva che non avrebbe dovuto. Che doveva smetterla.

Ora, distesa mani nelle mani sulla rete sgangherata del suo letto, Haruka non poteva far altro che maledirsi.

Che cavolo sto facendo!? Piantala di guardarla così! Piantala! Quando si sveglierà e sarà più calma, capirà dai tuoi occhi che ti piace e tu farai l’ennesima figura di merda.

Rigirandosi contro il muro si premette l’avambraccio all’orecchio lasciato libero dal cuscino. Ma perché a me. Proprio a me! Sono pronta ad accettare la galera, stare senza il poter correre, lontana dalla mia casa, dalla mia libertà. E tutto per ingiustizia. Ma questo no! Privami di tutto o Signore, ma non darmi questo supplizio. Ti prego.

Rannicchiandosi in posizione fetale chiuse le palpebre. Il suo odore. Il suo calore. Mi sento ardere.

Con uno scatto di reni si voltò nuovamente facendo cigolare le molle della rete. O fanculo! Schiacciando la schiena al materasso puntò il soffitto ingiallito. Erano bastati pochi minuti con lei per iniziare a provare pericolosissime sensazioni, sia di cuore che di carne.

Non riuscirò mai a non farle capire che mi attrae. E rabbrivisì ricordando la sensazione tattile dei polpastrelli di Michiru premuti sulla pelle del suo collo.

No! Devo fare qualcosa e subito. Devo sfogarmi o do di matto! Non avrei mai dovuto fantasticare sul suo corpo a quel modo! Dannazione! Sono tesa peggio di una molla.

Scendendo con un salto dal letto andò alla porta dove una cordicella sottilissima legata ad una campanella esterna penzolava al lato dello stipite. Un segnale di chiamata in caso di bisogno. Un paio di minuti e lo spioncino rettangolare si aprì.

“Tenoh che c’è?” Le chiese la stessa donna che aveva scortato qualche ora prima Usagi e Minako.

“Devo andare in lavanderia.”

“A che fare? Non ci sei stata due giorni fa.”

Colta in fallo afferrò al volo una maglia lasciata sulla traversa del letto mostrandogliela con pietismo.

“Benedetta ragazza, ma come fai a sporcarti tanto? Avanti, muoviti. Andiamo.”

La pesante serratura si aprì consentendole di tornare a respirare l’aria gelida del ballatoio. Aveva un appuntamento ed avrebbe sfruttato ogni singolo secondo concessole.

 

 

Michiru sognò tanto. Alexander. Sua madre. La terra di Hokkaidō. La potenza del suo mare. I ricordi di una vita miscelati con immagini senza senso. Colori vividi e sensazioni emozionali, tanto che al socchiudersi delle palpebre, una lacrima si liberò dalle ciglia scorrendo velocemente sulla linea del naso. Papà, pensò abbandonata all'inerzia della veglia.

Guardando davanti a se trovò il muro della cella, ricordando. Non era stato tutto un incubo.

“Ben tornata. Sembravi entrata in letargo. - Appollaiata sul bordo più lontano del letto, Haruka la guardò tenerissima cercando di essere solare. - Ti informo che hai saltato il pranzo ed è un peccato sai. Qui si mangia da signori.” Ironizzò.

Asciugandosi immediatamente gli occhi l’altra si mise a sedere ammettendo di non avere assolutamente appetito.

“Accidenti. Ero riuscita a procurarti questa.” Disse con un pizzico d’orgoglio mostrandole una gran bella mela stretta nel palmo della destra.

Michiru se la guardò con una strana espressione iniziando a strofinarsi le braccia. “Ma hai caldo?”

“Cc… come?”

“Hai la mano tutta sudata.”

Alzandosi di scatto la bionda lasciò il frutto sulla scrivania asciugandosi goffamente sulla camicia. “Sono sempre stata un tipo caloroso. - Era vero e Johanna avrebbe potuto testimoniarlo quando in inverno lasciava sempre la finestra della loro camera aperta. - Anche se ti assicuro… non mi capita mai di sudare così.” Cercò di svicolare provando imbarazzo. La colpa era sua, sua e della sua bellezza.

Tossicchiando prese la federa abbandonata sulla sedia con dentro il prezioso contenuto frutto di un’infinità di compromessi. Un’estorsione in piena regola avvenuta nel silenzio dei locali lavanderia.

“Immaginavo che potessi aver freddo. Il riscaldamento va a singhiozzo. Tieni.”

Michiru prese il sacco improvvisato estraendone una coperta di lana ed un paio di maglioni.

“Naturalmente possiamo ricevere indumenti dall’esterno, ma non sapendo quando ti arriveranno le tue cose, mi sono permessa. C’è anche un asciugamano, del sapone e qualche altra cosa per l’igiene personale. I bagni e le docce sono in comune, quindi se fossi in te non lascerei nulla in giro.”

“Le mie cose…” Abbandonando la fronte tra le dita della detra ricominciò a combattere contro l’abbattimento.

“Mio padre. Cosa penserà di me.”

“Che ami il tuo paese. Che sei una combattente!” Rispose l’altra più che convinta mentre si vedeva puntati contro due occhi increduli.

“Una combattente?! Io?” Ridacchiando grottescamente tornò a tenersi il capo.

“Certo! O mi vuoi far credere che provenendo dall’agiatezza, ai tuoi genitori stia bene il bavaglio che il Regime ha messo ai nostri leader politici?”

“Agiatezza? Ce l’ho forse scritto in faccia che sono ricca?” Domandò Kaiou a bruciapelo.

Porca loca!

“Allora?” Incalzò irritata. Non aveva mai sopportato le persone che con sufficienza tendevano ad appiccicarle addosso l’epiteto di figlia di papà.

“Ecco, vedi… Voci di corridoio.” S'affrettò a dire la bionda non potendole certo rivelare chi le avesse già parlato del suo status.

Sperò così di spegnere sul nascere quell’improvvisa scossa, ma non raggiunse lo scopo. Anzi. “Splendido! Sono in questo posto da neanche un giorno e già sono diventata oggetto di conversazione?!”

Haruka non capì se fosse una domanda o una costatazione. Guardandola alzarsi notò quanto quegli occhi prima rassegnati, quasi impauriti, si stessero trasformando in qualcosa di diametralmente opposto e lo riconobbe quello sguardo, lo riconobbe non appena Michiru iniziò a fare su e giù per i pochi metri quadrati della cella. La gara della Festa della vendemmia! Il cipiglio fiero di una donna indomita e caparbia. Le piaceva quell’atteggiamento.

“E anche se fosse? Cosa diavolo ci sarebbe di male?! Mi sono stufata di venire etichettata per i soldi di mio padre, per il distretto nel quale vivo o per la Facoltà che frequento!”

Tenoh stirò le labbra divertita. “Che poi sarebbe?”

“Economia!”

“Be… allora te la cerchi.” Disse allargando le braccia ed iniziando a ridere attirandosi così contro tutta la sua irritazione.

“Haruka!”

“Scusami. Scusami. Hai ragione. Non si dovrebbe mai giudicare un libro dalla copertina.”

L’altra si fermò guardandola offesa. “Sentiamo… , tu cosa faresti nella vita fuori da qui?”

Prendendo la sedia e rigirandola, la cavalcò incrociando le braccia allo schienale annunciando stentorea. “Haruka Tenoh, Ingegneria Meccanica.”

“Ingegneria?”

“Sembri sorpresa. Non si direbbe vero? E sono anche piuttosto bravina. Come vedi spesso anch’io vengo giudicata dal guscio, ma non me la prendo certo per questo.” Frecciatina ed anche bene indirizzata.

Distogliendo lo sguardo leggermente contrariato, Kaiou lo lasciò vagare per la cella posandolo infine sulla federa abbandonata sul letto. Era stata un’arrogante ingrata.

“Scusami. E’ che sono… Non lo so neanche io, ma questo non mi giustifica. Sei stata gentile e io ti ho attaccata.”

“Così non và Michiru! In questo posto ci sto solo da tre settimane, ma ho potuto notare come ci voglia grinta e sicurezza per affrontare le altre. Un passo falso e rischi di ritrovartele tutte contro. Nessuna lacrima. Nessuna debolezza. E soprattutto... nessuna scusa."

“Ma…”

“Nessun ma. Non è successo niente ed è perfettamente normale essere aggressivi all’inizio. Io ho preso a pugni il muro per due giorni prima di rendermi conto che mi stavo solo facendo del male non risolvendo nulla.” E le mostrò le nocche ancora leggermente livide e totalmente escoriate.

Tornando a sedersi, Michiru le chiese del perché fosse dentro e si stupì nell’apprendere che avesse ferito un agente di polizia.

“Lo so che sembra assurdo da credere, ma è stata legittima difesa. Non vesto in abiti maschili solo qui, ma anche fuori e questo a certa gente non piace.”

“Che fesseria! Che male c’è ad indossare un paio di pantaloni?!”

E Michi, fosse solo questo, pensò appoggiando il mento alle braccia. “Mi hanno dato quattordici mesi, ma confido che con la buona condotta ed una referenza da parte della Direttrice, il Tribunale me ne faccia scontare solo sei.”

L’altra divenne pensierosa. Con molta probabilità lei sarebbe uscita prima, evitando persino di comparire davanti al Giudice. In questo caso si che i soldi di suo padre avrebbero fatto la differenza.

 

 

Per mia sorella

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh

 

Scada richiuse il cancelletto del giardino di casa Tenoh perdendosi negli occhi di sua moglie. Ad aspettarlo sul marciapiede, Mirka lo vide scuotere la testa capendo. Johanna non era ancora tornata.

Erano passate tre settimane dall’arresto di Haruka ed una volta venutolo a sapere, la maggiore non aveva perso tempo recandosi alla centrale di polizia come una furia. Non avrebbe permesso il ripetersi della disgrazia toccata in sorte al padre e anche se con ogni probabilità non sarebbe stata ascoltata, ne avrebbe potuto vedere la sorella, sarebbe rimasta sui gradini davanti a quel fottuto ufficio in attesa di notizie.

Così era stato e dopo una notte passata sotto la neve con Scada che aveva infruttuosamente cercato di trascinarla via, un paio di poliziotti erano usciti dalla guardiania muovendosi a pietà.

“Signorina, non è il caso che rischi il congelamento. Vostra sorella ha ferito un collega. Ora si trova in una delle celle interne in attesa di essere trasferita nella casa della luce.” Le avevano detto cercando di allontanarla.

“Voglio vederla.” Aveva urlato lei di contro, terrorizzata da quella berlina scura parcheggiata accanto alle scale d’accesso che tanto ricordava quella che aveva portato via Jànos.

“Non è assolutamente possibile!”

“Non mi muoverò di qui. Sono stata chiara!”

“A noi non interessa. Se volete morire assiderata il problema è solo vostro. Buonanotte.”

Scada aveva dovuto afferrarla per le braccia o gli sarebbe saltata al collo. “Se le torcerete anche solo un capello, quanto è vero iddio farò saltare questo posto con tutti voi dentro!”

Quelli si erano allora fermati consigliando all’uomo di portarla via.

“Se la tua intenzione è quella farti arrestare per poterla vedere, allora sappi che non te lo lascerò fare Johanna!”

“Lasciami Scada! Lasciami!”

“No! Ho promesso a Jànos che mi sarei preso cura di voi e cascasse il mondo riuscirò a farlo. Almeno con te!”

A quelle parole vibrate a brutto muso, Jo si era arresa e per la prima volta dopo la perdita della madre aveva fatto una cosa che non l'era più riuscita neanche alla morte del padre; piangere. Premendo il viso contro il cappotto dell’uomo lo aveva fatto sommessamente e per pochissimi istanti, come se fosse stata una colpa, una labilità inconfessabile. Poi asciugandosi gli occhi lo aveva guardato con gratitudine rassicurandolo.

“Hai ragione. Non serve a nulla sbraitare così. Ma sull’anima dei miei, ti assicuro che non lascerò che alla mia Ruka capiti qualcosa.” Una certezza che dopo aver visto come la piu' piccola si era conciata il braccio, aveva fatto rabbrividire l'amico per tutto il tragitto del loro ritorno a casa. Quelle due ragazze avevano la testa più dura del granito ed una costanza invidiabile.

L’indomani mattina Haruka Tenoh era stata caricata su una camionetta penitenziaria e trasferita. Di Johanna nessuna traccia. I coniugi Erőskar l’avevano cercata ed aspettata per giorni. Senza una notizia. Senza alcun contatto. Avevano immaginato il peggio ed il peggio si era materializzato una settimana più tardi sotto forma di una breve lettera. Scada l’aveva letta portandosi poi la mano agli occhi. Avrebbe dovuto immaginarsi da Johanna un’azione tanto idiota. Quando c’era di mezzo sua sorella non guardava in faccia nessuno.

“Stai tranquillo caro. E’ una ragazza con la testa sulle spalle e sa quel che fa. Non ci rimane che aspettarla. Prima o poi tornerà, vedrai.”

 

 

 

NOTE: Ciau. E siamo entrati nel pieno della seconda parte della storia. Finalmente Haruka e Michiru si sono incontrate, anzi, hanno avuto a possibilità di guardarsi, toccarsi, parlare. Niente più sguardi fugaci rubati in chissà quali occasioni. Niente sogni ricorrenti. Niente fantasia. Adesso è tutta pura realtà, anche se nell’incombente sagoma di un penitenziario femminile. Vi preannuncio che questo non faciliterà le cose. L’ambiente è quel che è e trovandosi rinchiusi, due caratteri tanto forti potrebbero esplodere. Poi sono curiosa di vedere se Michiru proverà moti di gelosia nei confronti di qualche donna che sta gironzolando un po’ troppo vicino alla bionda ;)

Intanto l’insofferenza di Usagi verso Mamoru sta crescendo esponenzialmente e non so proprio cosa succederà tra loro. E’ entrata in campo anche Makoto e sono contenta perché è un personaggio che mi è sempre piaciuto molto. Vien da se che non potrò caratterizzare tutti i personaggi, ma il fatto che siano già conosciuti ed amati mi aiuterà.

In ultimo… Johanna… non pervenuta. Che fine avrà fatto?

A prestissimo.

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XII

 

 

Iniziare a conoscersi, iniziare a scontrarsi

Nógrát, Ungheria settentrionale

 

 

Passandosi una mano sugli occhi stanchi, Ferenc Aino sospirò irrequieto. In macchina da ore verso la frontiera con la Cecoslovacchia in cerca di asilo. Costretto alla fuga da un ordine di cattura fino a poche ore prima inimmaginabile. Avvilito, preoccupato per le figlie delle quali sapeva poco o nulla. Arrestate con l’accusa di spionaggio. Rinchiuse nel carcere femminile della Luce. Sole.

Confidava in loro quel padre con il cuore stretto nell’angoscia, in quel sangue freddo dimostrato da sempre di fronte al pericolo. Gli scagnozzi del Regime le avrebbero interrogate per ore, forse giorni, nella speranza di carpire delle informazioni utili su di lui, i luoghi preposti per gli incontri clandestini con gli altri gerarchi e politici che mal tolleravano la situazione venutasi a creare all’interno del Parlamento, documenti compromettenti, nomi di altri informatori e collaborazionisti. In altre parole, Ferenc temeva, conoscendola sulla propria pelle, la brutalità della reclusione. Non poteva sopportare l’idea che Minako e Usagi potessero provare la sofferenza della coercizione mentale e fisica di guardie bene addestrate e senza scrupoli. La loro giovane età non sarebbe rappresentata una protezione. E lui era così dannatamente impotente.

“Non preoccupatevi per le vostre ragazze, Generale. Ricordatevi che all’interno della casa della luce abbiamo degli agganci. Alcune delle guardie carcerarie sono nostre infiltrate. Sapranno proteggerle.” La voce di un suo collaboratore, un vecchio commilitone, gli arrivò come un eco distorto.

“Potranno proteggerle anche dagli interrogatori della ÁHV?!” Chiese ironico guardando il buio della campagna.

“Minako e Usagi non sanno praticamente nulla. Siamo sempre stati molto accorti a non invischiarle troppo.”

“Certo, ma i metodi di manipolazione mentale che sono atti usare con i loro interlocutori, potrebbero portare un innocente anche ad ammettere di essere un colpevole. In più, mettete in conto che il fatto di essere le figlie di un ostruzionista, un traditore, le porterà inesorabilmente ad essere in pericolo. - Sospirando si premette le nocche contro le labbra sentendosi un vile - Sto scappando come un codardo mentre loro stanno rischiando tutto. Non è un comportamento da padre. Ne tanto meno da soldato.”

“Generale…”

“Vi assicuro che se servisse alla loro scarcerazione andrei a costituirmi questa notte stessa.”

“Lo immagino, ma sapete anche voi che non servirebbe a nulla. Quella è gente con la quale non si può scendere a patti.”

“Già. Per non parlare della signorina Michiru. Abbiamo messo quella ragazza proprio tra l’incudine ed il martello.”

“La cosa migliore da fare è aspettare che le acque si calmino per poi cercare di contattare Alexander Kaioh. Ha una buona influenza all’interno del panorama economico della città. Il suo denaro potrà esserci molto utile.”

Ma a quella frase il Generale non rispose. Signorina, vi assicuro che se deciderete di collaborare con noi, qualunque cosa accada cercheremo di non compromettere la vostra famiglia, ricordò. Non era stato di parola e se avesse cercato aiuto in quel banchiere sarebbe andato contro al poco onore che sentiva ancora di possedere.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

La mensa era affollata come al solito. Cercare di far mangiare più di cento detenute in soli tre turni era abbastanza arduo. Tre volte al giorno la stessa storia. Lentezza, comunelle ed assembramenti vari. E ogni sacrosanto giorno gli stessi problemi di ordine pubblico; gruppi che non volevano alzarsi per far sedere il turno successivo e l’ultimo che non voleva abbandonare le panche per lasciar pulire. In presenza di tante persone, il comportamento femminile era assai diverso da quello maschile e la Dottoressa Meioh l’aveva capito sin dai primi giorni d’incarico. Era per questo che aveva portato a quaranta i minuti per la consumazione del pasto. Tutto inutile. Una volta su dieci si creavano zuffe. Una volta su dieci volava qualche schiaffo. Una volta su venti una o più donne rimanevano a terra.

Per certi soggetti ogni scusa era buona per attaccar briga. Sfogare i propri istinti. Le proprie frustrazioni. E generalmente le problematiche nascevano in presenza delle recluse più pericolose, quelle con una pena alta, che non avevano più nulla da perdere. Bastava uno sguardo fuori posto, un gesto male interpretato, un saluto non dato.

Così la quinta sera di detenzione, Michiru, Usagi e Minako, si trovarono ad assistere all’inedito alterco tra la banda di Tesla la slava e il gruppo delle anziane; sei ergastolane con un’età compresa tra i cinquanta e i settant'anni, ma non per questo arrendevoli e sottomesse. Scintilla; uno sgambetto forse innocente, molto probabilmente volontario, che Mary, la compagna della slava, aveva fatto all’indirizzo del capo banda rivale. Il fragoroso tuffo seguito da un’imprecazione, rumore di metallo e risa, avevano aizzato la già precaria disciplina della mensa. L’immancabile inizio dei latrati seguiti dai primi spintoni e i secondini a guardia dello stanzone erano dovute intervenire manganelli alla mano.

“Che cazzo succede qui?!”

Urlò la capo squadra. La prima ad alzare il bastone in segno di minaccia. Il primo punto di riferimento per tutte le guardie. Temuta e rispettata. Giusta, ma implacabile.

“Capo Shiry… non è colpa nostra. E’ stata quest’imbecille di Mary a farmi cadere.” Si difese la leader delle anziane strattonata via da un paio del suo gruppo.

“Non è vero! Sei tu che cammini da idiota. Zoppa!” Le urlò in faccia di rimarcando la ragazza dal viso lentigginoso sottolineando la sua decennale menomazione alla gamba sinistra.

“Brutta figlia di cagna! Adesso ti faccio vedere io come questa zoppa ti prende a calci sui culo!”

“Basta così! - Una manganellata sul piano di uno dei lunghi tavoli ed il brusio venutosi a creare tacque di colpo. - Disperdetevi o sarò costretta a sbattervi nelle celle d’isolamento.” Minacciò puntando il bastone alla gola di Mary, che per istinto balzò all’indietro andando a colpire la schiena di un’altra detenuta che in quel momento aveva solo voglia di riempirsi lo stomaco con la brodaglia della cena.

Testardamente rimasta al suo posto, Haruka rovesciò la zuppa dal cucchiaio che stava per portarsi alle labbra. Respirando pesantemente mugugnò un qualcosa d’incomprensibile. Vicino all’entrata, ancora ferme in attesa di passare il vassoio sulla guida di metallo e farsi servire, Michiru e le sorelle Aino s’irrigidirono. Si sentivano perse in quell’ambiente duro e praticamente privo di umanità, ancora spaesate per l’arresto, soprattutto le due più giovani, sfiancate dai continui interrogatori subiti in parlatorio dall’ ÁHV.

“Ogni volta che ci siete voi di mezzo non si riesce mai a mangiare in santa pace.” La bionda lasciò cadere la posata nella brodaglia iniziando ad asciugarsi la mano dagli schizzi.

La slava drizzò le orecchie sogghignando. Era da quando quella bellezza dagli occhi verdi era entrata in carcere che desiderava approcciarsi a lei. In qualsiasi modo. Fosse stato consenziente o meno.

Sporgendosi sul tavolo dove Haruka aveva preso posto nell’attesa delle altre, la fissò sorridendo sardonica. “Tenoh, giusto? - Domandò falsamente sapendo già tutto di lei. - Perché invece di stare sempre in compagnia di quelle acciughe non vieni a servirti da noi?”

“Come scusa?!” Un tono profondissimo e piatto.

Dando una rapida occhiata al bancone, la bionda notò accanto a Michiru l’entrata di Kino e si sentì meglio. Aveva legato subito con quella ragazza simile a lei per la stessa voglia di libertà, ma al contempo diversissima per la totale mancanza del senso famigliare. Makoto era come una circense girovaga, perennemente in cerca di qualcosa, combattuta tra la voglia di un posto al quale appartenere e la necessità di doverlo abbandonare una volta ottenuto. Un cuore da marinaio. La forza di una folgore tropicale.

“Non ci senti Tenoh?! Ti ho appena invitata nel nostro gruppo. O forse vuoi continuare a startene per conto tuo o peggio ancora, accerchiata da quelle piccole oche di buona famiglia?”

“No, grazie. Non mi interessa.” Rispose provando ad alzarsi quando la mano dell’altra le bloccò una spalla.

“Non dirmi che una bella ragazzona come te preferisce i piatti raffinati di Buda, invece che le osterie appetitose di Pest?! Ammetto che la tua nuova compagna di cella sia un bel fiorellino, ma sono convinta che sotto le lenzuola sia piuttosto… insipida.”

Haruka avvertì la vena della fronte dilatarsi per poi restringersi di colpo. “Non permetterti slava.”

“Potremmo anche fare una cosa a tre se proprio ci tieni.”

Scansandole la mano, la più giovane si liberò fissandola truce. “Non mi toccare…”

“Forse non mi sono spiegata…”

“Ti sei spiegata benissimo.” Il manganello di Horvàth si appoggiò al braccio della donna costringendola a spostare l’attenzione su di lei.

“Non vedi che sto parlando con un’amica?” Ringhiò Tesla di rimando.

“Hai sentito il capo squadra, no?!”

“La novellina gioca a fare la guardia grande. Spuntiamo sempre fuori dal nulla come un fungo velenoso, non è così Horvàth?!” Sfotté continuando però ad immergere il nero degli occhi in quelli di Haruka.

“Allontanati Tesla.”

“Non hai ancora i galloni per poterti permettere di chiamarmi per nome… Novellina.” Nessun voi dovuto in genere alla divisa. Nessun rispetto.

“Ho detto di allontanarti.”

Afferrando la punta del manganello la slava strattonò la guardia a se soffiandole all’orecchio. “Un bocconcino come Tenoh va condiviso. O pensi di potertela tenere tutta per te ancora per molto?!”

“Piantatela! - Provvidenziale Shiry intervenne prima che Haruka scattasse in piedi per mollarle un pugno in bocca all’altra detenuta. – La cena è finita! Vi voglio in cella entro cinque minuti. Tutte!” Concluse guardandole una per una finendo con la collega più giovane.

“Horvàth, con te parlerò più tardi. Per ora accompagna Tenoh e Kōtei in cella.”

“Cosa c’entra Michiru?! Lei non ha fatto nulla!” Si intromise la bionda corrugando la fronte.

“E’ così che va in questa prigione, detenuta 0192. Se fai una cazzata tu, la sconta tutta la tua cella. Perciò la prossima volta pensa prima di parlare.”

Presa per un braccio da Horvàth, la bionda guardò desolata Michiru poggiare il vassoio e aspettarle accanto alla porta d’ingresso. Era bianca come un cencio, ma aveva gli occhi ardenti.

“Forza e coraggio Tenoh. - Disse ad alta voce Makoto strizzandole un occhio. - Fa bene alla linea digiunare ogni tanto e poi questa sera c’è la passata di ceci. Non ti perdi niente!”

“Kino… non infierire.” La riprese Horvàth passandole accanto.

“Si signora.” E se la rise prevedendo cosa sarebbe successo nella loro cella da li a qualche minuto.

Conosceva Haruka da pochissimo e Michiru da ancora meno, ma aveva notato come la prima tendesse ad essere un po’ troppo protettiva e la seconda ne soffrisse irritandosi. Al pari di una partita a scacchi ben giocata, le due si stavano studiando vogliose di conoscersi, ma l’orgoglio e la forza dei rispettivi caratteri, finiva per trascinarle inevitabilmente ad uno scontro.

“Haru mi sento soffocare.” Aveva nervosamente ammesso Michiru il giorno precedente ritrovandosela a far la guardia davanti alla porta di uno dei bagni peggio di un mastino cinto da un collare a sette punte.

“Mi ringrazierai un giorno.”

“Per cosa? Lo capisci che non sono abituata ad avere persone tanto… addosso?! Soprattutto quando cerco un pochino d’intimità.”

“Mi dispiace che il tuo intestino ne stia risentendo. Vedi di regolarizzarlo.”

Nel gustarsi questo siparietto, Makoto aveva preso a ridere seguita a ruota da tutte le donne presenti nei bagni in quel momento. Sapeva che alla bionda era stato dato lo stesso incarico di “guardia del corpo” assegnatole a lei, gongolando, e parecchio, nel vedere quella musona sempre tutta imbronciata in difficoltà.

E questo non era nulla. Prima dello spegnimento delle luci, nel silenzio dei ballatoi, le si sentiva spesso discutere per il gran casino che una Tenoh per nulla avvezza all’ordine, osava lasciare in giro.

“Già siamo costrette a vivere in una scatola di cemento! Potresti almeno fare un po' d’ordine… per favore?!”

“Senti Kōtei, mezza cella è la mia e ne faccio quel che voglio! Neanche a casa mi rompevano tanto le palle!”

“Haruka!”

“A si, dimenticavo. La signorina di Buda non sopporta che si usi questo tipo di linguaggio.”

“Non siamo sulle banchine di Pest! E poi ti ho già detto di non chiamarmi Kōtei!”

“Non è forse il tuo cognome?!”

“S…si.”

“E allora basta così, no?!”

“E finitela! Qui c’è gente che vuole dormire!” Riecheggiava per gli ambienti del ballatoio.

Fatta eccezione per la prima sera, dove una Kaioh traumatizzata era crollata sul materasso fino all'alba successiva, questo copione era andato in scena quasi seguendo una sua logicità di coppia e se da una parte poteva dar fastidio, soprattutto nelle ore serali, dall’altra era diventato un divertente intermezzo.

Quando una volta arrivate alla loro cella Horvàth aprì la porta d’acciaio, guardò Haruka con pietismo. “Adesso sono cavoli tuoi. Comunque almeno vedete di far piano. Le altre si lamentano.”

“Non siamo cani che si azzuffano per ogni cosa agente.” Tagliò corto Michiru rispondendo più bruscamente di quanto non avrebbe voluto.

Il secondino non controbatté preferendo farsi gli affari suoi. Santa pace che caratterino e richiudendo a tripla mandata le lasciò a scannarsi da sole.

“Senti Michiru… mi dispiace.”

Nessuna risposta. Sedendosi sulla sua branda l’altra iniziò a spogliarsi per prepararsi all’ennesima freddissima notte. Non sopportava quell’ambiente e le sue leggi socratiche non scritte. Come non sopportava la strafottenza che certe volte affiorava in Haruka. Non che volesse vederla piegarsi a donne più adulte e prepotenti, ma con quell’atteggiamento rischiava di mettersi nei guai. Guai che potevano arrivare sotto ogni forma; pestaggi, ritorsioni, spinte psicologiche o peggio. Aveva paura che per colpa sua le potesse accadere qualcosa, perché era fin troppo ovvio che la bionda stesse facendo di tutto per darle una protezione che lei non voleva.

In più c’era dell’altro. Guardandosi in torno, osservando e tirando le debite somme, Kaioh aveva compreso come in quel luogo ci fosse una sottilissima linea bianca immaginaria da non dovere oltrepassare mai, per nessun motivo. Ma forse quello che ancora non le era chiaro, che la razionalità insita nel suo cuore nipponico non le aveva ancora suggerito, era di quale natura fosse il sentimento che provava ogni qual volta vedeva altre detenute avvicinarsi alla bionda, parlare con lei, stuzzicarla o provarci spudoratamente come aveva fatto quella sera la slava. Gelosia. Michiru era gelosa di ogni sfaccettatura di Haruka e ogni volta che la sua intelligenza le suggeriva questa umana debolezza, si ritrovava ad innervosirsi con se stessa. Non era mai stata un tipo geloso, eppure con lei sentiva di esserlo. Non aveva mai provato attrazione per le donne, eppure con lei era diverso. Non aveva mai pensato così fortemente alla sicurezza di un’altra persona che non fosse il padre, eppure con lei le veniva naturale.

“Kino ha ragione; questa sera non ci siamo perse nulla.” Riprovò Haruka con maggior convinzione.

Ancora niente, anzi buttarla sullo spirito non fece che peggiorare le cose. Guardandola storto, l’altra alzò le coperte sparendovi sotto.

“Se vuoi ho qualche scorta alimentare... occulta.”

“Mi è passato l’appetito e poi smettila di farti dare cibo di nascosto! Alla prima ispezione ci sbatteranno in punizione e francamente non voglio continuare ad essere tirata in mezzo.”

“Oh, ma se è per questo ho chi mi avverte in anticipo… Stai serena.” Disse con sufficienza riferendosi ad Horvàth e l’altra, capitolo, uscì per un attimo dal suo bozzolo fulminandola.

“Ti ripeto che gradirei rimanerne fuori… soprattutto se si tratta di cose a TRE! Buonanotte… Tenoh.” Concluse seccamente tagliando ogni comunicazione e facendole cosi' intendere di aver sentito le battute che aveva scambiato con Tesla.

Sbuffando anche Haruka si preparò per coricarsi. Saltando il più rumorosamente possibile sulle molle del letto superiore, cercò un sonno che non arrivò che a tarda notte. Fuori dalla casa della luce una bufera in piena regola fece crollare le temperature in tutta la regione.

 

 

Solitudini

 

Il turno del nuovo lavoro era stato stressante come al solito, ma nonostante non le piacesse, il suo corpo sembrava stare accettando la novità. Non aveva veri e propri turni come alla CAP e forse per questo si sentiva spesso e volentieri abbastanza scombussolata. E poi l’ambiente non era certo dei migliori e già si era fatta delle antipatie. In fabbrica il faticare, l’interscambio che aveva di continuo con gli altri tecnici, l’avere degli obbiettivi, degli scopi comuni, le avevano sempre fatto da stimolo. Provava gioia ad andare in quel complesso dai laterizi rossi. In più li c’era tutto il suo mondo. Tutte le sue colonne.

Quello che invece, suo malgrado, aveva trovato nel nuovo lavoro e che le stava permettendo di tirare avanti, era tutto l’opposto. La deprimeva. La castrava. Insomma, non era la sua vera aspirazione e poi essendo l’ultima arrivata era costretta a fare la gavetta.

Johanna era un tipo per molti versi placido, soprattutto se lasciata in pace. Se non le si mettevano i così detti "bastoni fra le ruote" o non le si toccavano gli affetti più cari, era capacissima di amare tutto il mondo. Si vedeva come un ruminante al centro di un piccolo appezzamento di terreno. Un toro al pascolo. Tranquillo. Di contro, se qualcuno o qualcosa si frapponeva tra la sua anima e la tranquillità del suo bel campo erboso, diventava intrattabile, un vero e proprio schiacciasassi che spesso e volentieri partiva in quarta al pari della sorella, rischiando così di passare dalla ragione al torto marcio in un secondo.

E purtroppo era successo che quel giorno dal cielo bianco latte iniziato sotto i migliori auspici, qualcuno le avesse stuzzicato i nervi tanto da farle perdere il controllo e farla così riprendere dal suo superiore. Questo le sarebbe costato denaro e non poteva permettersi di buttarlo via se la sua intenzione era quella di pagare un buon avvocato per aiutare Haruka.

“Che viso triste che abbiamo questa sera, occhioni.” Le disse il vecchio barista asciugando svogliatamente un bicchiere da Tokaji.

Lui era l’unico li dentro a potersi permettere di chiamarla così. Ormai frequentava quel piccolo Wine bar da abbastanza tempo per dirsi una cliente abituale. La sera, dopo aver staccato dal turno o quando capitava, ci si rifugiava a volte anche per ore. Il posto era carino, piccolo ed accogliente. Pulito. Intimo. Si respirava un senso di casa li dentro e per un’anima persa come la sua, era un miraggio talmente benedetto da non poterne più fare a meno. Una sorta di isola che non c’è, dove Johanna poteva nuovamente respirare l’odore degli aghi di pino bruciati nelle fiamme del camino, quello del legno alle pareti e dei dolci tipici fatti in casa. Si sentiva bene li e protetta dalla simpatia della famiglia che lo gestiva da generazioni, pur essendo una donna sola seduta al bancone di un locale, non aveva mai avuto problemi di nessun genere.

“Oggi il mio capo mi ha ripresa. - Portandosi il vino che stava gustandosi alle labbra ne prese un grosso sorso. - E non è stata neanche colpa mia!”

“Capisco, però vedete, a volte capita. Non prendetevela Johanna.”

Tirando su le spalle, finì il liquido lasciandolo scivolare nella gola. “Lo so, però mi da fastidio lo stesso. Dovrebbero capire che per me si tratta di una condizione del tutto nuova. Invece pare che se ne freghino tutti, anzi, ho la netta sensazione che mi boicottino appioppandomi mansioni a caso.”

“Addirittura?! Scusate se ve lo dico, ma allora dovreste andarvene. Con le vostre capacità trovereste subito di meglio. Ne sono sicuro.”

Jo sorrise guardandolo. Le ricordava Scada; idealista e buono. “E’ finito il tempo dei cantieri. Questo posto di lavoro mi serve ed è ben pagato. Per questo lo faccio.”

“Vostra sorella come sta?”

“Mah… Benino. Non vedo l’ora di avere il denaro per poter ricorrere in appello e farla uscire.” Ammise anche se da una parte aveva paura che una volta avute nuovamente le ali libere per volare, Haruka avrebbe ripreso il filo vendicativo che suo malgrado aveva dovuto interrompere.

Guardando in direzione dei vetri, il proprietario si accorse dell’intensificarsi della nevicata. “Johanna, dovreste avviarsi. Non mi piace questo tempo.”

“Avete ragione. - Posando le monete sul legno del bancone, afferrò il cappotto e la sciarpa abbandonati sullo sgabello accanto. - Buona notte e grazie.”

Salutandola con un cenno del capo lui la vide vestirsi ed uscire dalla porta. Il gelo investì la ragazza come un treno costringendola a sbilanciarsi in avanti per non perdere l’equilibrio. Sarebbe rimasta volentieri a scaldarsi al tepore di quel posto, ad infuocarsi le viscere con l’alcol che forniva. In questo non era diversa da Haruka. Si sarebbe attaccata alla prima bottiglia di Vodka se non avesse avuto una sorella.

Inalando l'alito caldo nella lana pensò alla tristezza della scarna camera che la stava aspettando in quella che era diventata la sua nuova abitazione, ed incamminandosi velocizzò il passo immergendosi in quella che stava diventando una vera e propria tormenta.

 

 

Dannazione. Fa troppo freddo, la caldaia si deve essere piantata un’altra volta, pensò Setsuna Meioh scostando le dita dalla ghisa del termosifone che serviva la stanza accanto al suo ufficio. Era stanca di doversi svegliare da sola in un letto troppo grande e vuoto. Com’era stanca del freddo persistente che quelle mura riuscivano a sputarle contro senza soluzione di continuità.

L’ennesimo problema che avrebbe portato ai solidi mugugni. Stizzita chiamò il capo squadra Shiry adoperando la linea telefonica interna. Quella storia doveva finire e dato che il Ministero di Grazia e Giustizia non erogava da anni un solo fiorino per il loro carcere, avrebbero dovuto pensarci da sole.

“E’ il caso che quella piccola casinista bionda inizi a darsi da fare.” Disse fra se pregustandosi la mutua lotta che si sarebbe innescata tra quell’aggeggio indemoniato che era il cuore del calore di quel posto e colei che tanto si vantava di essere in grado di aggiustare tutto e che, di fatto, ad oggi non era ancora riuscita a farlo con nessuna cosa le avessero messo davanti.

Pochi squilli e la guardia rispose personalmente ricevendo l’ordine di portare Tenoh nel locale tecnico.

“Bene piccolo Turul. Datti da fare.” Cantilenò la donna riagganciando la cornetta sadicamente soddisfatta di se.

Quando Michiru riaprì gli occhi riemergendo dalla coperta, sentì subito che qualcosa non andava. Un’aria ghiacciata anomala proveniente dai muri e presente in tutta la cella.

Perché questo freddo?! Poi dei rumori simili ad ansimi e guardando in direzione delle molle della rete della compagna, corrugò la fronte non capendo.

“Haruka?”

“Sssi…”

Tirandosi su a sedere Michiru la vide piantata sul pavimento a far flessioni. “Cosa stai facendo?!”

“Non… si vede?”

“Stai cercando di scaldarti?”

“Diciamo. - Terminando la serie l'altra si rimise in piedi con un saltello. - La caldaia deve averci abbandonate.”

“Dici che fare ginnastica aiuta?” E illuminò il viso accompagnando quell’innocente domanda con un sorriso assonnato di dolcezza.

Haruka arretrò il busto serrando la mascella. “Si.” Soprattutto per evitare di saltarti addosso, aggiunse iniziando a molleggiarsi sul posto proprio mentre la serratura accoglieva la grande chiave della porta.

“Tenoh, la Direttrice ti ha affidato un compito.”

“Fatemi indovinare capo Shiry; la caldaia?”

“Già. Quella grandissima bastarda si è piantata di nuovo e visto le previsioni metereologiche è il caso che tu ci metta le mani.”

La bionda stirò un sorrisetto sghembo che Michiru riconobbe come la prova tangibile di una sfida accettata. L’aveva già visto quel ghigno da faccia da schiaffi e le piaceva.

“Questa volta mi darete almeno un paio di cacciaviti o dovrò strangolarla a mani nude?” Afferrando un maglione uscì dalla cella senza neanche degnare la compagna di un saluto.

“Fai poco spirito. Avrai ciò che avrai. Avanti. Andiamo.”

E lasciando da sola una contrariata Kaioh si dileguarono in men che non si dica tra i ballatoi del Blocco A.

 

 

Seduta al centro della stanza, Usagi era sola. Sola, alla mercé di un uomo, un aguzzino ormai conosciuto, che come al solito aveva allontanato in malo modo la Dottoressa Meioh, che durante gli interrogatori non amava lasciare le detenute sole e che da più di un’ora la stava tartassando con le solite domande. Generalità. Posizione scolastica. Amicizie. Conoscenze. Avvenimenti più o meno mirati. Ed infine; nomi. Nomi dei collaboratori del padre che ne lei ne Minako avevano mai saputo, ma che per quegl’individuo era impossibile non conoscere.

Il retaggio con il quale l’aveva educata Ferenc Aino non le avrebbe mai permesso di darlo a vedere, ma dentro era terrorizzata a morte. Da quando erano state arrestate, gli interrogatori si erano susseguiti con una cadenza micidiale, sfiancandole, ed ora che erano state perversamente separate, la biondina dalla buffa capigliatura si sentiva come una zattera alla deriva. Niente più coste all’orizzonte. Solo minacciose nuvole nere e tutto intorno acqua torbide.

“Signorina Aino, perché non la facciamo finita di giocare? Trincerarsi dietro il non lo so non c’impedirà di avere le informazioni che vogliamo.” L’uomo dalla capigliatura scarna fermo in piedi davanti a lei, si sporse penetrandola con lo sguardo.

“Signore, siete sufficientemente esperto da sapere che se non si sa,… non si sa.” Rispose lei sostenendone il contatto visivo.

“La stessa cosa ci è stata detta da vostra sorella Minako fino a quando, poco fa, non ha accettato di collaborare con il mio collega rivelandoci molte cose interessanti. - Mentì non traendola però in inganno. - Suvvia perciò! Prima avvallerete i nomi che la signorina Minako ci ha gentilmente fornito e prima vi lascerò in pace.”

“Risparmiatevi la commedia. Io non so NULLA!"

Al vederle scuotere il capo e sentendosi colto in fallo da una ragazzina, si fece più incalzante. “Com’è possibile che la figlia di un ex Generale non abbia mai sentito un nome, un cognome, un indirizzo?!”

Ingoiando a vuoto, la ragazza girò allora il busto drizzando la spina dorsale. “Non viene in mente hai vostri superiori che proprio in virtù dell’essere le figlie di un alto graduato, nostro padre ci abbia volutamente tenute all’oscuro?!”

“Talmente all’oscuro da farvi partecipare a delle missioni di spionaggio!” Urlò come un cane al quale hanno sottratto l’osso.

“Non abbiamo mai eseguito azioni di spionaggio… signore! - Urlò a sua volta abbassando poi di colpo la voce. - Ci è stato ordinato sempre e solo di osservare e riferire.”

“Da chi?”

“Sempre e solo da nostro padre.”

“E chi vi dava le missioni?”

“Sempre lui.”

“Lui e…?”

“E di tanto in tanto qualche suo collaboratore.”

“Ovvero?”

“Ovvero cosa?!”

“I nomi signorina Aino. I nomi!” Le arpionò una spalla scuotendola forte.

“Non li so i nomi! Quante volte devo ripetervelo!”

“Avrete visto questi fantomatici individui da qualche parte, no? Una parata. Una festa. All’opera!”

“Se volete sapere se siano o meno militari o politici, ebbene non so neanche questo! Le poche persone delle quali ho visto i volti, le ho incrociate esclusivamente nei posti dove mia sorella ed io potevamo accedere.”

Lui mosse un braccio stizzito. I fantomatici ritrovi sperduti tra le campagne di Budapest che le due non erano mai state in grado di ritrovare sulle mappe.

“Badate a voi signorina. La pazienza della quale è dotata l'ÁHV non è infinita.” Sentenziò andando a versarsi un bicchiere d’acqua presente al tavolo appoggiato ad una delle pareti.

“Non c’è bisogno di minacciare. Conosco perfettamente i vostri metodi coercitivi.” Si lasciò scappare ormai presa dalla foga del momento alimentando così la frustrazione dell’uomo.

Scostando il bicchiere dalle labbra glielo lanciò contro sfiorandola. Voltando il viso da un lato Usagi serrò gli occhi sentendolo esplodere accanto ai suoi piedi.

“Li conoscete bene?! Li conoscete bene?! - Le fu addosso ghermendola sulle scapole sottili. - Non credo proprio, perché altrimenti stareste tremando di fronte a me, signorina!”

“Lasciatela immediatamente!” La porta aperta di colpo. La voce che dirompe.

Mamoru Kiba guardò la scena cristallizzandola in un’esplosione d’adrenalina.

“Chi siete?” Abbaiò l'agente scattando il collo verso il medico.

“Io? Chi siete voi?! Togliete immediatamente le mani da Usagi!” Disse il giovane coprendo in un attimo la distanza tra loro.

“Dottor Kiba?!” Mormorò lei sgranando gli occhi sulla collera del moro.

“Sto interrogando la detenuta. Non impicciatevi…”

“Mi impiccio e come! Si da il caso che la qui presente signorina Aino sia sotto la mia responsabilità medica. Sono il dottore del carcere e ho riscontrato in lei e nella sorella un forte stress nervoso, che voi lor signori della polizia, non state facendo altro che alimentare. Perciò vi chiedo cortesemente di andarci piano!”

“Andarci come?” Sembrò divertito.

“Andarci piano, ho detto.”

Lasciando lentamente la ragazza, l’agente sogghignò facendo un passo indietro. Infruttuoso come i precedenti, quell’incontro poteva concludersi li e non certo per l’intervento di quel ragazzino. Raccogliendo il cappotto e cappello si diresse verso la porta lasciata aperta. “Visto che siete il medico, mi auspico che il disturbo della signorina venga presto… risolto. Arrivederci.” E sparì.

“State bene?” Chiese lui andando verso il tavolo dov’erano presenti ancora la brocca ed un’altro paio di bicchieri. Pronto per aiutarla si voltò trovandola già in piedi.

Fiera, con le mani strette a pugno lungo il corpo sottile, lo guardò riconoscente, ma non vinta e questo lo colpì a tal punto da fargli sbattere le palpebre dalla sorpresa. Non si sarebbe mai aspettato quel piglio.

“Non avreste dovuto irrompere e parlare così Dottor Kiba. Quella gente è pericolosa.”

Andandole vicino le porse il bicchiere che lei non accettò.

“Le urla si sentivano dal corridoio. Non possono permettersi di trattare le persone così!”

Usagi sorrise ammettendo che fosse un ingenuo. “Comunque vi ringrazio. Non ce la facevo più.” Ammise mentre un secondino entrava per ricondurla in cella.

 

 

“Fanculo!” Scagliando con rabbia la chiave inglese contro il cilindro metallico, Haruka si sedette su uno dei gradini che immettevano al locale tecnico arpionandosi la testa con le mani.

“Brutta bastarda! Perché non vai in pressione?!” Ringhiò guardando con sfida il manometro piantato a zero.

C’è qualcosa che mi sfugge. Pensa Ruka, pensa. Cos’è che non hai controllato? Alzandosi si tolse anche la camicia rimanendo con la sola canottiera. A dispetto di tutto il resto del carcere, in quella stanza faceva un caldo asfissiante. Si era già disfatta del maglione, non sopportando di lavorare con la sensazione di soffocamento che da sempre il calore le dava. Ora avrebbe tanto voluto denudarsi completamente e piazzarsi sotto una doccia gelata. Non c’era verso; con il sudore appiccicato addosso proprio non riusciva a concentrarsi ed in più quella macchina non accennava a ripartire. Nella speranza di una fragorosa botta di fortuna, aveva anche provato a prenderla a calci, ma nulla. Quella caldaia era così vecchia da risalire al primo trentennio del secolo.

“Molto probabilmente sono le guarnizioni. - Accovacciandosi sotto la pancia ferrosa ne accarezzò la rotondità fino ad avvertire con i polpastrelli due valvole. - E se dovesse essere così, sono cavoli acidi, perché qui dentro non troverò mai i pezzi di ricambio.”

Sentendo un colpo di tosse provenire dalla porta lasciata aperta per far circolare un po’ d’aria, si voltò di scatto mettendosi quasi sulla difensiva.

“Haruka. Scusami. Sono ore che stai chiusa qui dentro. Sono venuta a chiamarti per il pranzo.” Disse Michiru dispiaciuta.

Stirando le labbra l’altra si alzò grattandosi la testa. “Un consiglio Kōtei; in questo posto è bene evitare di fare agguati alle spalle.”

Respirando affondo Michiru strinse le mani l’una su l’altra cercando di non pensare a quanto fastidio le desse l’esser chiamata con quel cognome. Era di sua madre e ne andava fiera, ma era il segno tangibile di una menzogna. Guardandosi intorno dall’alto del piccolo pianerottolo d’accesso, notò quanto caos fosse presente in quella stanza. Praticamente un magazzino.

Haruka si coprì allora l’avambraccio destro con la camicia prima di scoppiare a ridere. “Scommetto che ora la nostra cella non ti sembra più tanto incasinata, vero?!”

Continuando a far viaggiare le iridi sulle cianfrusaglie ammassate agli angoli, l’altra strinse le labbra perplessa. “Il fatto che questo posto sia…, bè, sia, non vuol dire che continuerò a piegarti le magliette, Haruka.”

“Non lo fai certo per mio volere..., Michiru.” Le piaceva da matti stuzzicarla.

“Devo se non voglio vivere questo periodo nel marasma più totale.” E finalmente fermò lo sguardo sulla bionda e al pari di quando la rivide correre sotto la pioggia, rimase senza fiato.

Haruka era sudata dalla testa ai piedi. I capelli corti appiccicati sulla fronte imperlata di minute goccioline trasparenti. La canottiera che aderiva completamente ai fianchi. Al seno. I muscoli tesi delle braccia conserte in una posa spavalda.

“Non vuol proprio partire, vero?” Divagò cercando di non arrossire.

Asciugandosi con la camicia la bionda sospirò stancamente. Non ci stava facendo una bella figura. “Non conosco ferraglie tanto datate e se ci metti che per paura che compia chissà quale gesto, mi hanno dato in donazione quattro arnesi arrugginiti…”

Infilandosi il maglione e radunando i pochi attrezzi che le avevano concesso, la raggiunse accorgendosi solo in quel momento di avere una fame allucinante. Sorridendosi reciprocamente s'incamminarono verso il corridoio che le avrebbe portate al loro blocco.

“Devono piacerti davvero molto gli ingranaggi e il funzionamento delle cose.”

“Da cosa si capirebbe?”

“Dagli studi che mi hai detto di avere scelto e dal fatto che questa mattina, non appena saputo del prolema, ti sia catapultata verso la porta dimenticandoti persino di salutarmi.” Colpì di fino e sogghignando alla buffa espressione messa su dall'altra cercò di non pensare a quanto l’odore emanato dalla sua pelle la stesse inebriando.

 

 

 

NOTE: Ciau. Scusate se ci ho messo così tanto tempo, ma ho avuto qualche pensiero.

Dunque; in questo capitolo ci sono delle piccole “tracce” che ho voluto lasciare per quello che avverrà nel prossimo capitolo. E non parlo dell’attrazione che stanno iniziando a provare Haruka e Michiru, ma per altri personaggi, diciamo, secondari.

Spero di riuscire a sorprendervi ancora.

A prestissimo .)

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XIII

 

 

Orgoglio magiaro

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

 

Quando Michiru entrò nella stanza chiamata piccolo parlatorio, che per motivi di sicurezza era adibita hai casi non comuni, vide l’uomo dal bell’aspetto vestito con un completo scuro sentendosi un groppo alla gola. Papà, sospirò capendo dal bruciore agli occhi di stare per piangere.

“Michiru. Amore.” Disse lui alzandosi lentamente e a quella parola carica di un’infinità di significati, amore, il sollievo la spinse a corrergli incontro fasciandogli lo sterno con le braccia.

Per giorni non aveva potuto dare ne ricevere notizie ed anche se avrebbe scommesso tutto sull’affetto che Alexander provava per lei, i sensi di colpa che aveva nei suoi confronti l’avevano spinta ad immaginarsi un’accoglienza ben diversa. Fredda. Giudicatrice.

Nascondendo il viso nel suo petto si sentì stringere. “Papà… Perdonami. Ti prego.” Ma lui non rispose continuando semplicemente a tenersela stretta iniziando ad accarezzarle i capelli.

Rimasero così per qualche momento, poi afferrandole le spalle, la staccò scrutandola da capo a piedi.

“Stai bene?” Chiese per poi lasciarla definitivamente.

Michiru conosceva quello sguardo severo ed abbassando il suo mosse la testa affermativamente. Era sempre stato così fra loro; lunghe pause intervallate da sguardi attenti carichi di significati. Frasi mai fuori posto. Forse ancor più pragmatica del padre, la figlia attese in piedi mentre l’uomo riprendeva sospirando la seduta.

“Per tutti i Santi del Paradiso figlia, cosa ti è saltato in mente!” Iniziando a massaggiarsi la fronte con la destra rivelò l’ennesimo attacco d’emicrania.

Un paio di passi e lei gli fu accanto posandogli le dita sulla guancia rasata. “Posso spiegarti tutto… se vorrai ascoltarmi.”

Certo che voleva e facendole cenno di sedersi accanto a lui, provò a seguire il filo logico delle ragioni di una figlia che non aveva mai dato avvisaglie populiste. Nell’eventualità molto probabile che nella stanza fossero presenti delle microspie, con un gesto le lasciò intendere di non esporsi troppo, ed incrociando le braccia al petto si sistemò più comodamente. Così Michiru iniziò a spiegargli quando, ma soprattutto perché, fosse entrata a far parte della Voce di Buda. Il rapporto nato ed accresciutosi nel tempo con le sorelle Aino. Il suo prendere contatto con il mondo sotterraneo della resistenza contro il regime sovietico, rimanendone però ai margini. Infine, come se fosse l’onta più atroce di tutto quel percorso, rimarcò a più riprese la sua ingenuità nei confronti di quello che si era rivelato una talpa infida e geniale, dandosi più volte dell’idiota per avergli concesso una fiducia praticamente incondizionata.

“E’ tutto nato per un mio capriccio papà. - Forzò il sinonimo guardandosi intorno con fare sospetto. - Volevo sentirmi parte di qualcosa. Lo riconosco.”

Da prima Michiru aveva pensato che l’entrare a far parte di un gruppo universitario idealista e politicamente impegnato, le avrebbe dato quel senso d'appartenenza nazionale che da quando si erano trasferiti in Ungheria non aveva mai sentito di avere.

“Poi credo di essermi lasciata guidare da una specie d’insofferenza sessista. So quanto valgo… Volevo che lo sapessero anche gli altri. Sono stata una sciocca superba.”

In effetti nel suo attivismo aveva pesato il suo essere donna. Il sentirsi soverchiata dal potere decisionale di alcuni uomini del gruppo, nello specifico Hairàm, l’aveva infuocata. Così l’asticella si era fatta via via più impegnativa, alzandosi ad ogni incontro. Minako e Usagi Aino erano state solo l'ennesimo step di quello che ora, a mentre fredda, le sembrava la più logica delle continuazioni. Da una lotta di genere tutto si era rapidamente trasformato in una forma più grande e complessa.

Non essendo quello il luogo più adatto per ammettere delle colpe a danno del Regime, Michiru cercò di forzare ancor di più la cosa nel caso la stessero registrando, rimarcando così quanto fosse stata ingenua.

“La mia battaglia personale è stata inutile e dispendiosa. E ti ha creato problemi papà. - Ammise abbassando poi di colpo la voce sporgendosi verso l’orecchio dell’uomo. - Ho toccato con mano l’iniquità di alcune situazioni e ho creduto di far bene. Non so cosa mi sia successo, ma dentro ho avvertito come un fuoco, una sensazione mai provata prima. Il nostro paese è soffocato da un bavaglio inaccettabile!”

Leggittimamente stupito nel sentirle bisbigliare il nostro paese, Alexander sbatté le palpebre. Orgoglio nazionale. Sua figlia, la sua Michiru, per alcuni versi asettica come la madre, granitica osservante del razionalismo del Sol Levante, aveva scoperto di avere un cuore magiaro che batteva per una terra che non conosceva ancora, che non l’aveva vista nascere e crescere, formarsi e diventare adulta, ma che nonostante tutto era presente in lei grazie al sangue paterno.

Stirò le labbra Alexander, tanto impercettibilmente che lei non se ne accorse. La sua piccola gru, da sempre legata a doppio filo alle sponde di Hokkaidō, stava rivelando un’inaspettata fedeltà anche nei confronti dell’Ungheria.

“Purtroppo cara, le tue azioni non hanno implicato solamente la nostra famiglia. Il tuo coinvolgimento con Ferenc Aino, anche se solo marginale, ha creato un danno considerevole alle centinaia di correntisti che fanno capo alla Kaioh Bank. Il Regime ci ha imposto il rallentamento di gran parte delle trattative private ed un blocco totale su quelle pubbliche." Ammise desolato.

Michiru perse lo sguardo nel vuoto avvertendo un tremore. “Cosa ho fatto. - Si lasciò sfuggire prima di portarsi una mano alla bocca. - Non avrei mai accettato di collaborare con chi che sia se lo avessi previsto. Se soltanto fossi stata più accorta nelle mie scelte. Mi dispiace.” Terminò con una specie di lamento.

Afferrandole la mano, l’uomo la strinse forte cercando di spiegarle che sarebbe stata una cosa temporanea. “Risolverò tutto amore. La nostra banca è solida e vanta un grosso credito d’immagine, perciò su questo fronte stai tranquilla. Tu cerca solamente di tener duro. Purtroppo la tua implicazione con l’ex Generale Aino non renderà facile una tua veloce scarcerazione, ma vedrai che tutto andrà per il meglio. - Imitando la ragazza abbassò di colpo il tono della voce. - Tutti hanno un prezzo cara e io so come arrivare dove voglio.”

Ma scattando in piedi lei riuscì a sorprenderlo ancora una volta. “Non si tratta di me papà, ma di tutti i piccoli e medi risparmiatori che per colpa mia adesso si vedono bloccati i loro conti!”

“Michiru stai calma, la situazione non è cosi' drammatica.”

Deformando il viso in un’espressione satirica gli ricordò di essere al terzo anno di economia. “Non indorarmi la pillola papà! Per garantire una certa liquidità ai risparmiatori, la Kaioh dovrà attingere al credito interno.”

“Già cara e come hai detto tu pocanzi, non avresti mai dovuto accettare di collaborare con chi che sia!”

Dilatando le palpebre lei lo guardò per poi comprendere. “Hai ragione. - Confessò sorridendo tristemente al gioco paterno. - Ho agito veramente da ragazzina.”

Seguendola in piedi lui si raccomandò di continuare a collaborare con la polizia. “La Direttrice mi ha detto che non dovresti essere più interrogata, ma se dovesse accadere… Mi raccomando.” Le lasciò intendere strizzando un occhio glissando a malincuore l'enorme fierezza che come padre stava provando.

“Ora devo andare. Per qualunque cosa, scrivimi. Intesi?”

“Per ora ho tutto quel che mi serve, grazie. Però un paio di cose potresti farle e potrebbero portare beneficio a tutto il carcere.” Ed abbracciandolo sorrise pensando ad una bionda, una lotta impari con una vecchia ferraglia, un freddo micidiale e le troppe ore vuote che in inverno cadenzavano la vita di ogni reclusa.

 

 

La visione di una vecchia amica

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh, maggio 1941

 

“Scendi immediatamente giù da li, piccola peste bionda!” Urlò la ragazza puntando l’indice della mano destra alla terra del giardinetto dietro casa.

“Col cavolo!” Rispose la bambina da sopra una porzione di tetto che copriva la veranda.

“Haruka conto fino a tre e poi salgo e ce le prendi!”

“Bada Meioh che se non te ne vai ti sparo un sasso in mezzo agli occhi!” Minacciò estraendo la fionda dalla tasca posteriore dei pantaloncini.

“Dove l’hai presa quella?!” Ricordava perfettamente di averle buttato quell’arma diabolica la sera precedente, quando al ritorno da un corso universitario, durante un agguato era stata colpita alla schiena da quel mostro.

“E’ mia. - Rispose Johanna uscendo dalla porta sul retro. - Possibile che non riusciate più ad andare d’accordo?”

Che sfinimento quelle due. Ogni giorno un grattacapo. Ogni singola ora trascorsa in serenità, una lode al Signore.

“Vallo a dire a quell’essere li! Lo sai che ha fatto a botte con la figlia del panettiere e per l’ennesima volta mi sono dovuta sentire le sue urla, mentre quel piccolo Turul se ne stava a ridacchiarmi dietro l’orlo della gonna?!” Tornando a guardare la biondina in atteggiamento di sfida, riprese la sua intimidazione penetrandola con lo sguardo facendola così ritrarre un po’.

“Setsuna ti consiglio di non stuzzicarla troppo. Mia sorella è brava con la fionda, lo sai.”

“Sentito carina? Smamma o armo.”

“Tu stai zitta Ruka e porta rispetto! - Urlò Jo sorridendo poi all’altra. - Uscendo da scuola sono passata al mercato e ho preso un po’ di zucchero. Magari riuscirai ad addolcirla con qualche biscotto dei tuoi. Lascia che le parli io Set. So come prenderla.”

Sospirando impotente, la più grande le lasciò una carezza sulla guancia entrando in casa. La situazione venutasi a creare in quella famiglia stava diventando ingestibile. Da quando Jànos era stato richiamato al fronte, Haruka aveva preso a trattare Setsuna peggio di un’appestata. Per un pò la ragazza aveva cercato di non badarci, perchè in fin dei conti la bambina aveva perso la madre da poco e lo vedeva come il ritorno forzato in città l’avesse scombussolata tarpandole le ali, ma anche lei, giovane donna provata da una famiglia tutt’altro che facile, aveva i suoi problemi e in tutta onestà iniziava a pentirsi di avere accettato la richiesta d’aiuto di un padre rimasto solo con due figlie.

”Set ho bisogno di una mano. Presto sarò costretto a seguire la mia unità e visto la latitanza dimostrata dal padre di mia moglie, non posso contare su di lui, ne chiedere a Johanna d'occuparsi di tutto. Ha solo quattordici anni. Perciò stavo pensando che visto la tua volontà nel continuare gli studi e l’impossibilità che avresti nel farlo a contatto con il tuo... ambiente, potremmo aiutarci a vicenda.” Le aveva proposto un giorno Jànos dopo essere stato a trovare la famiglia Mieoh e constatato con mano quanto le voci che giravano sul capo famiglia fossero vere.

Amiche da sempre, ma divise da anni dal solco dell’alcol che aveva trasformato un brav’uomo in un derelitto violento e scansafatiche, le famiglie Tenoh-Maioh si erano così riavvicinate. Setsuna, unica figlia rimasta di un destino avverso che le aveva portato via due fratelli maggiori, aveva così accettato con gioia, passando qualche settimana insieme ai tre per poi accompagnare Jànos alla stazione e vederlo partire nella speranza che la guerra finisse presto. Ma da quel momento la piccola Haruka era diventata intrattabile. Una vera e propria teppista. In verità studiava e faceva tutto quello che Mirka e Johanna le dicevano di fare, ma quanto a relazioni con gli altri, il discorso si complicava e non poco. Aggressiva. Taciturna. Quasi violenta. E Setsuna non ce la faceva più, perchè sentiva di essere diventata l’oggetto sul quale quella bambina amava sfogare tutta la rabbia che in quel momento provava verso il mondo.

Scuotendo la testa, Johanna andò a prendere la scala abbandonata nell'erba e poggiandola sulla grondaia iniziò a salire.

”Ruka devi ascoltarmi; se non cambi atteggiamento un giorno Set se ne andrà e noi saremo divise.” Disse gattonando sulla rotondità dei coppi sedendole poi accanto. Respirando a pieno l’aria carica degli odori primaverili la sentì pontificare.

“Puoi benissimo occuparti tu di me e della casa.”

“No che non posso. Sono troppo giovane. A malapena riesco a badare a me stessa.”

“Allora ci penserà la signora Mirka!”

“Ha già tre figli ed un marito al fronte. Non fare sempre la bambina capricciosa e pensa anche agli altri qualche volta! Credi che se la famiglia Erőskar avesse potuto, nostro padre ci avrebbe lasciate con una ragazza poco più che ventenne?”

“Mi sta sulle palle! E poi ha gli occhi strani.” Disse stentorea guardando le cime degli alberi che svettavano dalla parte opposta della loro palizzata.

In effetti Setsuna aveva il colore delle iridi più simile ad una coppa di vino d’annata che a quelle di una giovane donna. Quasi rossi. E questo metteva spesso e volentieri la sorellina in crisi.

“Non dire sciocchezze.”

“E poi mi obbliga sempre a fare le cose.”

“Si chiama disciplina Haruka. - La guardò poggiare le ginocchia al petto e le venne da sorridere. - Non penserai che voglia prendere il posto della mamma, vero? Amore, Set è solo qui per aiutarci e poi anche lei viene da una situazione famigliare complicata e se non ci si spalleggia nei momenti brutti, come credi potremmo andare avanti ora che siamo in guerra?”

“Mi manca.”

“La mamma?”

“Mmm.” Mugulo' nascondendo il viso tra le gambe in quella che era un’ammissione difficile per un tipino tosto come lei.

“Lo so, anche a me. - Se la strinse contro grattandole la zazzera bionda. - Allora cercherai di fare la brava con lei e con tutti i bambini della zona?”

“Proverò. Però se mi darà ancora noia con il lavarsi le orecchie tutte le mattine, il bagno e l’ordine, ti assicuro che le impallinerò quel suo bel cul…”

“Si. Si, va bene.” E scoppiando a ridere la tacitò tappandole la bocca con la mano.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce, inverno 1951

 

Con lo scarponcino già sulla breccia parzialmente ghiacciata del primo gradino dell’entrata del carcere, Johanna guardò alcuni ragazzini poco oltre sfidarsi fionde alla mano a tirar sassi contro alcuni barattoli di latta. Stirando le labbra rivide se stessa ed Haruka. Quanti contenitori, vetri e Dio sa cos’altro, avevano fatto saltare durante le interminabili ore pomeridiane di un’infanzia spesa tra le strade del loro quartiere.

Saldando la mano alla cinghia della borsa che portava a tracolla si sentì contenta. Era finalmente arrivato quel giorno della settimana che tanto aspettava; la visita in parlatorio. Aveva alcune cose da dare al suo piccolo Turul. Per lo più panni caldi. Poi le avrebbe chiesto come stesse e come sempre Haruka avrebbe mugugnato un che non si vede il posto di lusso?! Un po’ di chiacchiere, qualche risata, un paio di pettegolezzi. Insomma, la normalità tra due sorelle, anche se forzata dalle circostanze. Ma soprattutto, la maggiore si sarebbe sincerata sull’andamento di quel particolarissimo rapporto che giornalmente stava istaurandosi tra la bionda e la sua nuova compagna di cella.

Michiru. Un nome straniero e per questo assai raro dalle loro parti. Un nome che Johanna aveva già sentito pronunciare ad Haruka in quella famosa notte, quando rientrando a casa dopo essersi fatta deturpare il braccio dal loro nagyapa, nel delirio della febbre lo aveva scandito più volte con vibrata sofferenza. Si conoscevano già quelle due creature tanto diverse, ma incredibilmente affini e Jo ancora non si capacitava di come il destino avesse potuto muovere così furbescamente i fili delle loro vite facendole ritrovare in un posto come quello.

Sempre molto gelosa dei suoi sentimenti, la bionda non si era sbottonata un gran che, ma si vedeva da come le si illuminava lo sguardo ogni qual volta parlava di quella ragazza, che provasse amore per lei. E Jo non poteva che esserne felice.

Suonando il campanello attese l’apertura del portone da parte di una guardia. Entrando subì la perquisizione di rito, dirigendosi poi verso la guardiania dove i visitatori dovevano lasciare il cappotto e gli oggetti metallici. Ormai abbastanza avvezza a quegli ambienti asettici, tagliò velocemente il corridoio entrando nella stanza non accorgendosi però di un uomo fermo davanti al bancone. Gli franò praticamente contro lasciando che la borsa le si sfilasse dalla spalla ed il giornale che teneva stretto sotto l’incavo dell’ascella, non le cadesse in terra.

“O signorina. Mi dispiace. Vi siete fatta male?” Chiese lui accovacciandosi per raccoglierle il quotidiano.

Tenendosi il naso con la mano lei scosse la testa mortificata. “Colpa mia. Non guardo mai dove metto i piedi.” E la colpì il blu profondo e triste dei suoi occhi incorniciati da un volto sulla cinquantina.

Un po’ smagrito, sicuramente preoccupato. Un viso che a Johanna parve subito noto, ma che non riuscì a focalizzare se non qualche minuto più tardi.

“Prego tenete. Vi è caduto questo.” Prendendo il cappello abbandonato sul bancone le sorrise chinando la testa per poi sparire dietro l’imbocco della porta.

Facendo capolino dallo stipite, lei ne seguì l’alta figura fino a vederlo uscire dal portone congedato dal secondino preposto.

“Oggi siamo di visita al piccolo parlatorio?” Chiese la guardia chiudendo il registro delle visite.

Richiamata dall’ovvietà di quella domanda, Johanna iniziò a mettere sul piano le cose che aveva portato per Haruka. Ho come l’impressione di averlo già visto, pensò chiedendo poi alla donna dalla parte opposta del tavolato chi fosse quel distinto signore.

“Johanna lo sai che non mi è permesso rivelare i nomi dei visitatori. Sappi solo che è un parente di una delle ultime arrivate.”

“Ma chi, le ragazze di Buda? Le sovversive?”

“Esattamente. E’ un uomo di classe, vero? Ho sentito dire dalla collega all’entrata che sia legato all’alta finanza cittadina.”

Fu in quel preciso istante che Johanna ebbe una folgorazione. Aprendo il quotidiano guardò attentamente la foto in prima pagina leggendo mentalmente il titolo di spalla. Liquidi momentaneamente bloccati. Alexander Kaioh riuscirà a tenere in piedi la sua banca?

E tutto le fu chiaro. Kaioh! L’uomo appena incontrato era Alexander Kaioh. Il Direttore dell’omonimo istituto di credito e causa dell’inganno che aveva portato Jànos in prigione. E alla sua morte.

Continuando a leggere apprese dell’arresto, fino a quel momento tenuto segreto, dell’unica figlia, affiliata ad un gruppo sovversivo capeggiato dall’ex Generale Aino attualmente ricercato in tutto il paese con l’accusa di cospirazione ai danni dello Stato.

“Non posso crederci.” Ringhiò guardando in direzione della porta.

 

 

Bussando convulsamente sull’anta si riversò all’interno del suo ufficio senza neanche attendere una voce. La Direttrice Meioh se la ritrovò davanti alla scrivania con il fiato corto e gli occhi iniettati di sangue. Alzando le sopracciglia abbandonò il modulo che stava compilando arretrando il busto fino allo schienale.

“Ma che cos’hai fatto?! - Chiese Johanna lanciandole il quotidiano sul petto. - Se questo è uno scherzo a me non fa affatto ridere Set!”

Guardando la pagina stampata l’altra capì. Prima o poi lo avrebbe scoperto, ma non credeva sarebbe avvenuto tanto presto. “Calmati e siediti Jo.”

“Calmati un cazzo!” Urlò sbattendo entrambi i palmi sul legno del pianale sporgendosi in avanti minacciosa.

“Siedi, riponi le zanne e dammi la possibilità di spiegarti.”

“Spiegare cosa? Che hai deliberatamente voluto mettere mia sorella nella stessa cella con la figlia di colui che riteniamo essere il responsabile della morte di nostro padre?! Ma cosa ti dice il cervello!”

Non scomponendosi l’altra la invitò nuovamente con un gesto deciso. “Siediti ho detto."

“Non venirmi a dire quello che devo fare Set. Non ho più quattordici anni!”

“E allora resta in piedi, ma non alzare la voce! Signore del cielo, tu ed Haruka siete fatte della stessa pasta. Sbraitate, sbraitate, ma mai che vi fermiate a riflettere sulle cose.”

Abbandonando mollemente la testa, Jo inalò aria fremendo di collera. “Ora anche la paternale?!”

“Come l’hai scoperto? La signorina Kaioh è stata registrata con il nome materno.”

“Vedo che quello di cambiare il cognome è un giochino che ti piace fare spesso. - Crollando sulla poltrona davanti a quella di una donna nonostante tutto calmissima, Johanna le rivelò di avere incontrato il signor Kaioh giù da basso, all’ufficio accettazione. - Ci siamo incrociati mentre stavo per andare in parlatorio. L’ho riconosciuto dalla foto che quest'oggi campeggia in prima pagina su quasi tutti i quotidiani del paese e facendo due più due non mi è stato difficile arrivare ad una conclusione logica. Sul giornale non viene riportato il nome di Michiru, ma quello del carcere dov’è stata rinchiusa… si.”

“Sei perspicace.” Ammise iniziando a leggere velocemente l’articolo.

“Ma fottiti Set. - Si lasciò scappare prendendo a massacrarsi le labbra con le dita. - Pensavo volessi bene ad Haruka. Nonostante non vi siate mai prese. Non avrei mai creduto che potessi essere capace di una simile canagliata.”

“Trovi veramente che quella di far vivere due donne tanto diverse in una stessa cella, sotto pressione costante, in un ambiente malsano come questo, possa essere considerata una… canagliata?” Sorrise spocchiosa ripiegando il quotidiano.

Non capendo, l’altra fermò il dondolio delle gambe guardandola allibita. “Cosa mi sfugge?”

“Johanna non prendiamoci in giro. Lo so io come lo sai tu che una volta uscita da qui tua sorella farà qualunque cosa per portare a termine la sua vendetta. Il sangue magiaro che ci scorre nelle vene, le tradizioni con le quali siamo state cresciute, i riti pagani ai quali i nostri táltos ci hanno spinte a credere, volenti o meno ci hanno dato un’impostazione che anche se arcaica, continua ad influenzarci anche adesso che siamo adulte. Haruka ha consacrato la sua vita ad una missione di sangue. Il suo braccio è stato segnato e tralasciando l'omicidio, solo con il perdono la lama del suo kés potrebbe trovare la pace.”

“Michiru…”

Setsuna annuì. “Ad Haruka quella ragazza piace e molto. Ma lascia che ti dica che la cosa penso possa essere reciproca.”

“Credi che l’amore per una donna potrebbe farle dimenticare l’amore verso nostro padre?”

“Certo che no, ma potrebbe darle il coraggio per capire che la strada che ha scelto di intraprendere è sbagliata.”

Scuotendo la testa Johanna la guardò dritta negli occhi. “Haruka sa già che la strada che ha scelto è sbagliata! Non è certo una stupida e non sono affatto convinta che il metterle vicine sia la soluzione, anzi, ti figuro questa ipotesi Meioh; e se Haruka, una volta venuta a conoscenza dell’identità di quella ragazza, scegliesse comunque di strappare la vita di suo padre? Vivrebbe con un rimorso ancor più spaventoso, non trovi?”

“Johanna... tua sorella non è stupida, è vero, ma non è neanche un’assassina. Non ha mai avuto l’istinto da killer che invece hanno molte donne che si trovano qui dentro. E’ un tipo testardo, questo si, ma è buona e generosa e sono certa che istaurare un rapporto con la figlia di Alexander Kaioh possa farla desistere dal suo proposito.”

L’altra non rispose, ma capiva una disamina tanto umana.

“Aspettiamo sperando nel meglio. Sono sicura che la signorina Kaioh riuscirà a guarirle il cuore. Adesso però quella che mi preoccupa sei tu Johanna. - La vide sgranare gli occhi proseguendo. - Non fare quella faccia. Ti stai ammazzando di lavoro per cercare di pagarle un legale che perori la causa della buona condotta facendole ottenere un corposo sconto di pena. Quando ti ho fatta assumere, anche io credevo fosse la cosa più giusta da fare, ma ora che le cose sono cambiate, che Michiru è entrata in prima persona in questa storia, ho cambiato parere.”

“Non capisco. Secondo te dovrei smettere di aiutare mia sorella?”

“No, aiutarla in modo diverso, perché farla uscire prima la porterà solamente alla rovina.”

Ingoiando faticosamente Jo iniziò a riflettere. In effetti aveva puntato tutto sullo sconto di pena, non pensando però ad un dopo. Aveva in mente di portarla via, in un 'altra città, in un altro paese se fosse stato necessario. Ma Haruka non aveva più dieci anni e non avrebbe potuto costringerla a desistere nel suo progetto con la forza di una fuga. Non l’avrebbe ascoltata come quando era bambina.

“Maledizione.” Vomitò flebilmente.

“Cerca di ponderare bene le tue scelte. Da ora in avanti la vita del tuo piccolo Turul, la sua felicità, il suo futuro, dipenderanno anche da te e da come giocherai le carte che ancora ti rimangono in mano.”

 

 

Qualche giorno dopo avvenne il miracolo della caldaia. Poggiata con le spalle al grosso termosifone del corridoio che portava alla biblioteca, Haruka socchiuse le palpebre gongolando per la sua vittoria. Seduta sul pavimento sistemò la spina dorsale tra un paio di elementi iniziando ad avvertire il beneficio del calore. Lasciarsi coccolare i muscoli dal tepore, era un vizio che aveva da sempre e nonostante tutti non facessero altro che ripeterle che poteva farle male, non avrebbe mai rinunciato a quel suo personalissimo atollo di piacere. E poi era talmente appagante la sensazione del raggiungimento di un obbiettivo, che non si sarebbe schiodata di li molto facilmente.

Ce l’aveva fatta. Non soltanto era riuscita a far ripartire la caldaia, già di per se un risultato eccezionale, ma grazie ai pezzi di ricambio che un anonimo benefattore aveva fatto arrivare direttamente dalla casa costruttrice, ne aveva potenziato le prestazioni. Non sapeva quanto quel bidone avrebbe resistito, ma sicuramente abbastanza per passare tutto l’inverno al calduccio.

Inondando eccessivamente d’aria i polmoni tornò ad aprire completamente gli occhi voltandoli in direzione di quello che ormai era diventato il suo gruppetto; Kino, le sorelle Aino e lei. Ma quanto poteva essere bella lei. Così fine, così testarda, alle volte persino sprezzante, bizzosa, ma dolcissima, intelligente, pudica quanto basta per strapparle sorrisi camuffati da smorfie strane, ogni volta che era costretta a condividere il locale delle docce con una bionda in completo brodo di giuggiole.

Mi hai proprio fottuta alla grande pensò grattandosi il collo. Stava pensando troppo a quella bella ragazza di Buda e come poter fare il contrario visto che l’aveva davanti agli occhi praticamente sempre. Fatta l’eccezione per gli spicchi temporali che Michiru si ritagliava chiudendosi a leggere in biblioteca con Minako e quelli dove Haruka usciva durante le ore d’aria a correre in mezzo alla neve o a sollevar pesi con Makoto, erano praticamente inseparabili. Così la figlia di Pest, che pur non aveva mai amato molto parlare di se, si era ritrovata dal marcato senso d’agio che riusciva ad infonderle quella di Buda, a raccontarle della sua vita, così come aveva preso a fare l’altra. Avevano scoperto che le similitudini tra loro erano molte di più delle differenze caratteriali. Entrambe orfane di madre. Entrambe con un’adorazione viscerale verso la figura paterna. Entrambe estrose nell’arte di saper costruire un qualcosa di bello con le mani; la pittura e la musica per Michiru, la tecnologia e gli ingranaggi per Haruka. Certo i drammi per l’ordine, la sciatteria cronica della bionda, il suo parlare colorito, sarebbero sempre andati a cozzare contro la ferrea impostazione nipponica, la compostezza e l’educazione dell’altra, ma nel vederle insieme camminare spalla a spalla per gli ambienti della reclusione, nessuno avrebbe potuto mentire sull’affinità di coppia che quelle due ragazze comunicavano.

Nessuna; neanche Mery, che di Michiru guardava con bramosia soprattutto il corpo e di Haruka gli spostamenti.

“Prima o poi riuscirò a beccarti da sola bellezza.” Soffiò la rossa mentre appoggiata al muro con un paio di compagne, guardava la scena di una Kaioh sorridente andare ad accovacciarsi davanti ad una Tenoh con le difese stranamente basse.

“Guardate quanto sono diventate pappa e ciccia quelle due. Sembrano una coppia di sposine.” Disse la donna al fianco di Mery mentre la terza sogghignava.

“Le sposine scopano. Dubito che quelle due abbiano mai combinato qualcosa.”

“Tenoh si fa fottere solo dalle novelline in divisa.” Replicò l’altra azzittita dalla rossa.

“Invece di sparare boiate, perché una delle due non mi fa un grande favore togliendomi Haruka dalle palle per un po’?”

“Cosa intendi dire?” Chiese la prima mentre Mery iniziava a sussurrarle all’orecchio un’idea appena saltatale in mente.

 

 

L’Angelo custode del piccolo Turul

 

Poco dopo l’ora di cena, Michiru e Haruka si prepararono attendendo pazienti davanti alla porta della loro cella che un secondino le scortasse fino al locale dei bagni. Kaioh non si era ancora abituata a vivere sotto i ritmi imposti dalla prigione e quella della divisione degli spazi per l’igiene personale era il momento della giornata che in assoluto odiava di più. Nata e cresciuta avendo la propria intimità, si era abbastanza abituata a dormire con un’altra persona, con quel cigolare continuo dannatamente fastidioso che Haruka riusciva a far fare alle molle del letto ad ogni santo respiro, ma i turni per il bagno erano una cosa che continuava a stressarle il corpo. E la bionda, subdola canaglia priva di qual si voglia pudore, non perdeva occasione di rinfacciarglielo ridendoci anche su. Come quel giorno.

“Se fossi cresciuta con una sorella ingombrante come la mia ed un padre alto più di due metri, in un ambiente lavorativo dove gli spogliatoi femminili erano sempre occupati e in mensa poteva anche capitarti di trovare dei pezzi di cibo nel reggiseno, vivresti questa situazione molto più serenamente Kōtei.”

“Scusa tanto se ho sempre avuto la fortuna di avere un bagno ed una stanza tutti per me! Non mi sento in colpa per questo.” Sbuffò vedendo finalmente la porta aprirsi.

“Non ti sto dicendo queste cose perché tu ti ci senta, ma perché si vede che provi ancora del disagio. Tutto qui.”

“Avanti ragazze, andiamo.” Un cenno di saluto alla guardia e s’incamminarono lungo il ballatoio.

“Ti ringrazio Haruka, ma l’essere umano è adattabile e prima o poi lo diventero' anch’io.” Rassicurò stizzita puntando improvvisamente i piedi.

“Kōtei che c’è?”

“Accidenti agente… lo spazzolino. Che testa. Posso andarlo a prendere?”

“Vai pure, ma fa presto. Tenoh tu intanto vai, altrimenti rischiamo di fare un tappo con i turni.”

“Ricevuto.” Disse la bionda e strizzando un occhio ad entrambe si diresse a passo svelto verso le scale.

In effetti il bagno a quell’ora era pieno di gente e si sa che le donne in certe situazioni sono piuttosto lente. Così mettendosi l’anima in pace, Haruka prese posto nella fila fuori dalla porta attendendo il suo turno. Arrivata più o meno all’altezza dello stipite, vide Horvàth ferma a mani conserte dalla parte opposta dei box doccia e Mery entrarvi facendo la cretina. Sbuffando guardò verso la fine del corridoio, ma di Michiru ancora nessuna traccia.

Meglio così, si disse stringendo l’asciugamani che teneva tra le braccia scambiando un rapido sguardo d’intesa con il secondino. Le sorrise proprio un attimo prima che qualcosa andasse a colpirle il crociato posteriore facendole cedere improvvisamente la gamba destra. Ritrovandosi in ginocchio avvertì una pedata in piena schiena ed abbandonando le cose che stava tenendo tra le braccia, riuscì a bloccare la caduta con un palmo prima di franare completamente in terra. Serrando la mascella al dolore, riconobbe la risata di una delle amichette di Mery provenire dalle sue spalle.

“Ei Tenoh, troppo stanca per reggerti in piedi?” E giù altri grugniti divertiti.

“Bastarda.” Massaggiandosi la mano che aveva urtato il pavimento, la bionda riuscì ad alzarsi fronteggiandola a brutto muso.

Più alta, più forte e più intelligente, la fulminò con gli occhi senza però toccarla, sapendo sin troppo bene che avrebbe rischiato la sua libertà se invischiata in una rissa.

“Che c’è? Vuoi picchiarmi?!” Canzonò il tappetto idiota.

“Levati dalle palle.”Consigliò venendo però spinta.

“Perché se no che fai?” Urlò fomentata dalle altre.

“Non provocarmi. Non ti convien…” L’ennesimo spintone e Haruka reagì.

D’impulso le mollò un gancio alla guancia mandandola al tappeto. La guardò girare gli occhi all’indietro e andare lentamente giù come un sacco di patate proprio mentre il capo squadra Shiry e altre due guardie seguite a breve distanza da Michiru, sopraggiungevano trafelate. Facendosi largo tra il capannello venutosi a creare tutto intorno alla due, la graduata guardò la scena ritrovandosi a dover decidere in fretta.

“Che cazzo è successo qui?!” Un omertoso silenzio scese improvviso ammutolendo i brusii costringendo così l’agente a rifare la domanda.

“Allora?! Tenoh?”

“Mi ha provocata lei!” Si difese mentre Horvàth emergeva dalla porta.

Shiry guardò allora la collega alzando il mento. “Hai visto chi ha iniziato per prima?”

La bionda smise di agitarsi. Soddisfatta stirò le labbra gonfiando il petto fiduciosa. Pur se cosa irritante aveva sempre avuto un’alleata in quella guardia.

“Allora?” Incalzò il superiore e senza indugiare la novellina rispose freddamente.

“Tenoh!”

“Cosa? - Dilatando le iridi a dismisura, Haruka si sentì stringere le spalle da un altro secondino. - Non diciamo cazzate! Tutte hanno visto che non sono stata io!”

Ed era vero, ma la bionda non aveva messo in conto che le donne presenti nella fila al momento dell’alterco, facevano parte dello schieramento di Tesla la slava, inclusa quella ancora sanguinante a terra.

Andando accanto ad Horvàth il capo squadra le chiese se fosse matematicamente sicura di ciò che aveva visto. “Guarda che così Tenoh si gioca la buona condotta. Sei certa che sia stata lei?” Sussurrò e nel silenzio l’altra scandì un si che mise fine ad ogni discussione.

“Che notiziona! La novellina e la bionda hanno litigato!” Se ne uscì Mery ridendo con ancora l’asciugamano fasciato addosso.

Non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato tanto facile sbarazzarsi della bionda e che avrebbe trovato un’alleata in una porca guardia. Ma alla fine della fiera non le fregava, perché l’importante era avere Haruka fuori gioco e Michiru con le costole libere dal suo personalissimo mastino.

“Va bene, ora basta. Tenoh, questa bravata ti costerà una settimana d’isolamento!”

“No! - Iniziando a divincolarsi Haruka guardò Horvàth furente. - Sei una grandissima carogna! Perché!? Perché non dici la verità?!”

“Finiscila ragazzina! Ti avevo già avvertita qualche giorno fa. Portatela via! - Ordinò Shiry continuando poi verso la collega. - Voglio una relazione sull’accaduto da dare alla Direttrice Meioh. Intesi?!”

Annuendo l’altra sospiro' piano sentendosi tutti gli occhi puntati contro.

 

 

Immersa nella penombra dell’unica fonte di luce proveniente dal corridoio, seduta con le gambe al petto in un angolo di quel buco di cella, digrignò i denti ancora una volta. Non sapeva da quante ore l’avessero rinchiusa li, ne da quanto si ostinasse a starsene in terra invece che usufruire dell’unico conforto di quella brandina arrugginita che ora le stava davanti, ma sta di fatto che Haruka era ancora incredula. Avvertiva un senso di nausea costante premuto al di sotto dei polmoni e aveva un gran freddo e nonostante tutto, razionalmente, sapeva che quella condizione non dipendeva dall’umidità presente in quel posto, ma da lei stessa. Dal suo essere. Si sentiva tradita. Offesa. Aveva sempre creduto in quella donna, sempre e ora, dopo quella pugnalata infertale a brucia pelo, davanti a tutte, provava male al cuore. Un male profondissimo e lacerante. Un male che non avrebbe mai creduto di dover provare.

E gli occhi di Michiru erano stati l’ultima mazzata. Un’espressione contrariata, un misto tra incredulità e delusione. Già, delusione, perché sia lei che le altre guardie avevano creduto a quella Giuda di Horvàth e non a lei. Come se potesse essere tanto stupida da giocarsi la buona condotta per una provocazione infantile al limite del dispetto. Come se non sapesse che iniziando una rissa sarebbe andata incontro alla pena piena, a quattordici mesi in quello schifo.

“Non sono un’idiota! - Masticò giù amaro appoggiando la fronte alle ginocchia. - Voglio uscire di qui! Devo uscire da qui. Apa, che cosa devo fare?”

Si tormentava Haruka, ogni notte, prima di chiudere gli occhi pensava a lui, a suo padre, a com’era la vita prima che quel viscido inganno mettesse fine a tutto, a quanto era felice, serena nella consapevolezza degli affetti più cari, nell’orgoglio di quel che era e di quello che avrebbe ancora potuto diventare. Sognatrice come ogni ragazza. Con lo sguardo perso al cielo e agli infiniti traguardi che le avrebbe regalato.

Sospirando si sentì improvvisamente stanca. Svuotata di tutto. Come avrebbe fatto a resistere ancora più di un anno dentro quell’inferno di ignoranza e lerciume umano? Prima o poi anche Michiru avrebbe riacquistato la libertà e lei si sarebbe ritrovata sola.

Nel silenzio del corridoio privo di finestre e sbocchi d'aria, passi noti le fecero sollevare un poco la testa. Conosceva più che bene quella cadenzata sicurezza nell’avanzare. Scattando in piedi come rianimata dalla forza del livore, attese guardando le sbarre metalliche. Alcuni istanti, la sua ombra e poi la vide. Con la sua bella uniforme blu. I bottoni argentati. La camicia bianca. La cravatta scura. La cinta di cuoio nero con l’immancabile mano serrata all’impugnatura del manganello. Sapeva che andava fiera di quella corazza, anche se non le piaceva, anche se non erano gli abiti che aveva scelto per la sua vita. Ma lo aveva fatto per essere il suo angelo custode e quando l’aveva scoperto, Haruka l’aveva amata ancora più di prima. Per questo ora ci stava tanto male. Per questo e per cento altri motivi ancora.

“Come stai?” Iniziò il secondino riuscendo a sostenerne lo sguardo astioso.

“Che domanda idiota. Come vuoi che stia… Horvàth!?”

“Fa freddo qui. Ti ho portato una coperta in più. E questa.” Passando la mano tra le sbarre le porse una mela sorridendo bonaria.

Avvicinandosi non staccando però il contatto visivo, l’altra la prese soppesandola. “Mi sarei aspettata di più. Troppe mele dovrai portarmi in questa settimana per … - Lanciando il frutto contro la parete scrostata alle sue spalle lo guardò ammaccarsi malamente. - ... scusarti della pugnalata che mi hai dato!” Concluse incollerita.

“Haruka, io…”

“Vaffanculo! - Serrando le mani alle sbarre gonfiò i bicipiti sporgendosi il più possibile. - Come ti sei permessa!? Ora sarò costretta a scontare tutta la pena e lo sai che devo uscire! Tu lo sai, dannazione!”

“Certo che lo so.” Ammise abbassando la testa.

“E allora perché!?”

“Perché uccidere quell’uomo non riporterà indietro il tempo, Haruka! Anzi, ti rovinerà per sempre. E io non posso permetterlo.”

Al sentire quelle parole, la rabbia della bionda montò ancora di più. “Non puoi decidere per me!” Le urlò contro mollando un calcio al ferro.

“Non credere che sia stato facile prendere questa decisione, ma non posso vederti buttare via il tuo futuro. Lo capisci?”

“No! Non lo voglio capire!”

Lui non avrebbe voluto. Si è sempre battuto per evitare che un giorno tu potessi prendere decisioni del genere. Non dimenticarlo Haruka.” E questa volta anche lei urlò.

“Non osare metterlo in mezzo” Hai capito?! Non te lo permetto, cazzo!”

Abbassando nuovamente il timbro della voce, l’altra la guardò un’ultima volta prima di lasciare la coperta accanto ai ferri e tornare a percorrere a ritroso i passi spesi per arrivare fin li.

“Ne parleremo un’altra volta. Quando sarai più disposta al dialogo. Ora sono troppo stanca per combatterti. Ma sappi che ti staro' sempre accanto. Anche contro la tua volontà.” Disse incurvando un poco le spalle.

“Non potrai continuare a proteggermi per sempre. - Si sgolò premendo con forza la fronte al ferro freddo. - Hai capito?! Non potrai continuare a farlo… Johanna!”

 

 

 

NOTE: Zan, zan, zan! Ve lo aspettavate? Vi aspettavate che la piccola e fastidiosa sentinella blu, in realtà fosse Johanna? Da quando Haruka è stata arrestata, ho costruito l’immagine di questo personaggio “secondario” spingendo sul gioco degli equivoci, su frasi volutamente a doppio senso, per far credere che magari potesse esserci qualcosa tra loro. Il mancato voi nei loro dialoghi (fin troppo famigliari), il loro cercarsi, potevano passare come una passione momentanea. Cosa che pensano tutte le altre donne della prigione. Magari anche la stessa Michiru e da qui la sua latente e ancora non manifesta gelosia.

Poi c’è Setsuna, che ho voluto inserire nella vita della famiglia Tenoh e che da una spiegazione di come Johanna abbia potuto avere quel tipo di lavoro con velocità e senza averne le basi. Già dal capitolo precedente Set chiama Haruka “piccolo Turul” come se conoscesse il soprannome che in genere la bionda usa in famiglia.

Infine c’è Michiru che adesso non avrà più la bionda a stretto giro. Chi sa se capirà finalmente qual cosina su se stessa.

A prestissimo. Ciauu

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XIV

 

 

Lo scontro tra il lupo e la gru

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

 

La stagione invernale le era sempre piaciuta. I colori, i sapori, gli odori. Un periodo dormiente ai più malinconico, che da quando aveva memoria riusciva ad infonderle serenità. Senso di famiglia. Affetto.

“E’ tutto sbagliato.” Lamentò guardando le alte pareti con il filo spinato spruzzato di bianco.

Sistemando meglio la schiena al muro, Johanna addentò l’ennesimo boccone di quello che era il suo pranzo. Erano più di venti minuti che stava ferma in un angolo dello spazio preposto per le attività all’aperto e non era ancora riuscita a terminare quel frugale pezzo di pane e carne. Troppo chiuso lo stomaco. Troppo triste l’anima. Eppure la giornata era bella e tersa. Il cielo aveva finalmente smesso di sputar neve e i raggi del sole promettevano luce e tepore.

Proteggendosi le iridi chiare con l’aiuto delle dita, respirò profondamente alzando il mento al vento freddo. Se Haruka non fosse stata rinchiusa sotto il neon dell’isolamento, sarebbe stata la prima ad uscire, fosse anche a non far nulla, ma libera di godersi quel fruscio melodioso che tanto le calmava i nervi, soprattutto da quando era li.

“E invece ti ho costretta a stare in gabbia.” Ingoiando a forza sbuffò arpionandosi la frangia castana.

Lo aveva fatto. Aveva tradito sua sorella per salvarla, ma ancora non era convinta di aver scelto la soluzione migliore. Setsuna era stata chiara. La sua disamina pulita e lineare l’aveva spinta a riflettere e non appena avutane l’occasione, Johanna aveva agito. Ora però, a distanza di quattro giorni, iniziava a domandarsi se mai Haruka avrebbe capito e perdonato.

“Non riesco a farlo neanche io.” Si disse sogghignando grottescamente.

Non potrai continuare a proteggermi per sempre!” Le aveva urlato contro quando era andata a trovarla la prima sera. E quelle erano state le ultime parole che la bionda le aveva rivolto, perché a distanza di giorni, Haruka si era trincerata dietro ad un mutismo astioso che non le aveva mai visto fare, neanche da bambina. E non era solo una tattica per sfiancarla, per farla sentire ancora più colpevole di quanto in realtà Johanna non si sentisse già. Quel silenzio aveva radici più profonde. Più velenose. Il tatuaggio che la bionda si era fatta fare sull’avambraccio l’aveva lentamente cambiata rendendola più fredda. Più determinata.

“Agente Horvàth…”

Colta alla sprovvista l'alra sobbalzò leggermente scattando la testa alla sua sinistra. Sorridendo Michiru si scusò per l’improvvisata.

“Non volevo disturbarvi agente.”

Agente. Johanna si strofinò la punta del naso con un dito ricambiando il sorriso. Non si sarebbe mai abituata ad essere chiamata così.

“Signorina Kōtei. Non mi disturbate affatto, solo che non mi sarei mai aspettata di vedervi all'aperto a quest’ora.”

Perdendo il blu delle iridi in quello molto più chiaro del cielo, Michiru ammise che quella occasione di un sole era troppo ghiotta. “E’ un peccato mortale restarsene dentro... Non trovate?”

“Vero, anche se oggi siete l’unica a pensarla così.” Enfatizzò compiendo un ampio gesto sullo spazio deserto.

Alzando leggermente le spalle la ragazza chinò la testa da un lato. “Tanto meglio, giusto?”

“Giusto.”

“Posso sedermi? Vorrei parlarvi un attimo.”

Aggrottando le sopracciglia ad una richiesta tanto particolare, accettò guardandola accomodarsi sul prolungamento della seduta in pietra che correva lungo tutto il prospetto. Solo ora che aveva conosciuto le fattezze di Alexander Kaioh, Johanna poteva notare quanto Michiru somigliasse al padre. A parte il taglio degli occhi, leggermente orientaleggiante, era tale e quale all’uomo. Questo, unito alla consapevolezza di cosa quel banchiere avesse fatto alla sua famiglia, le rese arduo rimanere impassibile.

“E da giorni che speravo di trovarvi da sola, agente.”

“Johanna. Chiamatemi Johanna, per favore. Almeno quando siamo sole.”

Grata l’altra la guardò intensamente per poi continuare. “Volevo sapere come sta Haruka.”

La più grande avvertì una voce tanto coinvolta da farle quasi tenerezza. Si ricordò allora delle parole di Setsuna; ad Haruka quella ragazza piace e molto, ma lascia che ti dica che la cosa penso possa essere reciproca, ed ebbe la prima prova concreta che l'amica aveva colto nel segno.

“Perché lo chiedete proprio a me signorina?“

“Perché so che fra voi due c’è… - Si fermò un istante per trovare le parole giuste. - diciamo dell’affetto e sono convinta che vi siate sincerata delle sue condizioni. Non è così?”

“Vero.” Una semplice ammissione che convalidò entrambe le ipotesi.

Anche se leggermente infastidita della cosa, Michiru proseguì dritta per la sua strada. “Haruka ha sbagliato ed è giusto che paghi. Ho capito fin troppo bene quanto possa essere impulsiva, ma non è certo cattiva e se si è ritrovata a mettere le mani addosso ad un’altra detenuta, sono convinta che c’è un motivo.”

“La state scusando forse?”

“Certo che no. Sto solo dicendovi quello che penso.” Ecco la combattente Michiru Kaioh.

Stirando le labbra maliziosa, Jo chiuse gli occhi puntando il viso al sole. “Comunque non ne so molto più di voi. Sono giorni che quando scendo nei sotterranei non mi parla.”

“Allora come fate a dire che stia bene!?”

“Perché a differenza vostra io conosco quell’animale biondo da molto più tempo e se ha la forza per guardarmi in cagnesco, vuol dire che non sta poi tanto male.” Rimanendo ad occhi chiusi incrociò le braccia al petto abbandonandosi contro il muro.

L’altra non seppe controbattere. Erano dunque vere le voci che serpeggiavano su quelle due. Avevano realmente un rapporto e di qualunque matrice fosse, a Michiru quella specie di spocchia saccente non stava piacendo. Non erano in gara. Non c’era nessun premio in palio. O forse si? L’amore di Haruka forse?

Sorpresa dall’accelerazione del proprio battito, Michiru scattò in piedi pronta ad abbandonare quell'imbarazzante conversazione.

“Non volete sapere del perché ce l’abbia con me?” Chiese Johanna tornando a inchiodarle le iridi addosso.

“Non sono cose che mi riguardano… agente Horvàth. Con permesso.” E fece dietro front per andarsene.

O Ruka mia, sei proprio nei guai. Hai trovato pane per i tuoi denti, pensò intravedendo nell’atteggiamento stizzito dell’altra, un’infinità d’amore camuffato sotto la piega della ritrosia.

“Non è stata lei ad iniziare.”

Voltandosi lentamente Michiru l’ascoltò continuare. “E’ stata l’amica di Mery a colpirla per prima.”

“Come?”

“Ho mentito e lo sanno tutte le detenute che erano presenti. - Ammise felice di togliersi finalmente quel peso dallo stomaco. - Tenoh si è bruciata la buona condotta a causa mia.”

Alzando il tono Kaioh serrò i pugni partendo all’attacco. “Perché! Perché l’avete tradita così? Speravate forse di tenerla legata a voi per un altro anno?!”

“Può essere una chiave di lettura, anche se non è affatto come credete. Ve lo posso assicurare.”

“A no?! E allora come sarebbe?”

“Mi era sembrato di capire che non erano cose che vi riguardassero.” Dichiarò sicura tornando a chiudere gli occhi.

Colta in fallo la più giovane rilasciò la forza nelle mani abbandonandole lungo i fianchi. Quell’atteggiamento strafottente non riusciva proprio a capirlo. Tanto meno a tollerarlo.

“Non capisco perché mi stiate dicendo queste cose agente.”

“Diciamo che vorrei non colpevolizzaste Haruka. Se c’è una da condannare, quella sono io.”

“Andrò a dirlo alla Direttrice! Non potete giocare con la vita delle persone in questo modo!”

Jo si alzo' stancamente ed avendo più o meno la stessa altezza, riuscì a piantarle lo sguardo dritto sul viso. “Vi fa onore, ma non servirebbe a nulla. Non eravate presente Michiru e perciò le vostre rimostranze con la Direttrice sarebbero totalmente inutili, ma ascoltatemi; non sono una carogna che vuole il male di Haruka e credetemi se vi dico che farei qualunque cosa per lei. Ho agito solo nel suo interesse e per il suo bene ora è meglio che rimanga qui.”

Kaioh si trovò l’ennesima volta senza appigli logici. Lo sguardo di quella donna era così carico di sincerità, di dispiacere, che sentì quasi nell’immediato scemare la collera. Cos’era che le legava? Poi Johanna compì un gesto. Indietreggiando di un passo si arpionò il braccio destro con la mano opposta gonfiando il petto sorridendo e Kaioh rivide per una frazione di secondo la bionda. Resa fisionomista da anni di pittura, la squadrò da capo a piedi come colta da un lampo.

“Concedetemi un po’ di fiducia e quando arriverà il momento vi garantisco che tutto vi sarà chiaro.”

“Non me n’ero mai accorta, ma a guardarvi meglio…”

“Michiru!” La voce squillante di Usagi spezzò il momento portando Johanna ad allontanarsi.

“Aspettate un momento.”

“La mia pausa è finita signorina Kōtei e per la vostra sicurezza vi consiglio di non farvi trovare a parlare con una di noi guardie. Molte detenute lo vedono come un insulto. Arrivederci.”

Raggiunta da una trafelatissima biondina, Michiru guardò Horvàth allontanarsi verso l’entrata. “Cammina come lei.” Soffiò sentendo la mano di Usagi all’avambraccio.

“Michi vieni!”

“Usagi prendi fiato. Dove dovrei venire?”

“Dalla Direttrice. Vuole parlarti!”

 

 

Sfiorando la lacca del ricciolo con la punta dell’indice, Michiru ebbe un fremito. Da quanto non provava una simile sensazione. Un misto tra impazienza e gioia bruciante. Una compressione d’emozioni allo sterno. Come qualcosa di fisico. Di carnale. Afferrando il manico del violino se lo rigirò fra le mani accarezzandone la sinuosità delle linee con lo sguardo di una vecchia amica d’infanzia. Avvicinando la mentoniera alla pelle del viso, inalò lentamente aria, poi, prendendo l’archetto, lo poggiò sulle corde dando vita al suono. Qualche accordo, giusto per verificarne la timbratura, ma bastò a rilasciarle nella mente piacere e commozione, ricordi e traguardi.

“Sono bellissimi.” Ammise Usagi che di musica non ne aveva mai capito nulla.

Grazie papà, pensò l’altra allontanando definitivamente lo strumento per riporlo nella custodia dimenticata sulla scrivania della Direttrice.

“Vostro padre è stato molto generoso nel donarceli. C’è forse una vostra interferenza Michiru?” Setsuna non si sarebbe mai aspettata di ritrovarsi l’ufficio invaso da cinque strumenti come quelli. Un violino, due chitarre, un flauto traverso ed un contrabbasso. Nuovi. Di altissima fattura.

Sorridendo beatamente come non le capitava da settimane, la più giovane alzò le spalle facendo un mea culpa.

“Scommetto che fanno il paio con i pezzi di ricambio della caldaia.”

“Cose utili. Che servivano, Dottoressa.”

Usagi sbuffò neanche troppo velatamente. Era lampante che la biondina non stesse riuscendo a smaltire le tossine della reclusione come invece stava facendo Minako, tanto è vero che da quando era stata arrestata, la Direttrice si era vista costretta a mandarla dal Dottor Kiba più di una volta. Un’insofferenza latente, quasi una vera e propria depressione, dettata non tanto dall’impossibilità di muoversi a proprio piacimento, quanto dalla preoccupazione per la sorte del padre e i tartassanti interrogatori dell’ ÁHV. Così si stava assistendo ad una sorta d'involuzione. La dolce e squillante Usagi stava cedendo il passo ad una ragazza forse più matura, ma sicuramente meno sognatrice.

La sezione delle più giovani non era dura come quella delle adulte, anzi, le sorelle Aino avevano fatto amicizia con Makoto e le sue compagne, tanto che spesso le si sentiva ridere. Purtroppo questa unione non stava servendo a lenire il cuore di Usagi.

“Siamo in un carcere. A cosa dovrebbero servire degli strumenti musicali?” S'intromise alquanto scettica.

“A fare musica Usa. Della buona e sana musica.” Rispose Kaioh più che convinta.

“E la buona musica è da sempre il viatico migliore per risollevare gli spiriti. Dico bene Michiru?”

“Signorina Meioh, ho chiesto a mio padre questi strumenti perché avrei un’idea da sottoporvi.”

“Quale idea?”

“Far fare musica a tutte coloro che abbiano voglia di riprendere a suonare o apprendere ex novo.”

“Interessante…”

“A che pro?” Mugugnò la biondina.

Michiru contrasse bonariamente le labbra afferrando alcuni spartiti. “Vedi Usagi, stando qui mi sono resa conto di quanto tempo si sprechi a non far nulla e questo alla lunga è pericoloso. Soprattutto quando gli animi non sono sereni. Penso che investire pazienza, fatica e dedizione nel fare qualcosa durante ore di norma vuote, potrebbe creare unione. Affinità. La novità di un lavoro collettivo potrebbe distrarre e sciogliere la tensione che regna tra i vari gruppi.”

“A me non piace fare musica.” Controbatté disfattista tornando a guardare gli strumenti.

“Ma magari vi piacerebbe ballarci sopra. - Stuzzicò Setsuna poggiandosi al bordo della scrivania iniziando a strofinarsi il mento con una mano. - Potremmo organizzare qualcosa. Già, qualcosa per la fine del Carnevale.”

 

 

Due anime a confronto

 

La cella era così vuota senza quel puledro biondo. Così pulita, talmente ordinata da sembrare la scenografia di una bizzarra opera teatrale. Poi quel silenzio quasi assordante. Nessun cigolio di molle. Nessuno sbuffare. Nessun grugnito. Solo una pace che Michiru non aveva mai richiesto, ne tanto meno auspicato. E questo, nelle lunghe ore notturne a torturarsi sul perché e per come sentisse nel petto una struggente nostalgia, le aveva fatto comprendere di se tante cose. Cose che Michiru Kaioh, giovane donna della Buda bene, troppo intelligente per continuare a tenerlo nascosto in un cantuccio del suo io, aveva sub dorato sin da quel giorno, sulla sponda di un Danubio sonnacchioso, quando aveva scorto Haruka per la prima volta e che ora, complice la sua assenza, vedeva talmente chiaro da lasciarla praticamente senza fiato.

Era innamorata. Di lei. Del suo assurdo carattere. Di quegli occhi smeraldo a volte timidi, altri talmente sfacciati da imbarazzarla. Di quel sorriso da schiaffi che montava su ogni tre per due. Del suo acume. Della sua voglia di fare. Della tenacia, financo dell’arroganza che ogni tanto saltava fuori.

Voglio vederti. Voglio parlarti. Mi manchi Haruka. Rigirandosi nel letto sospirò rannicchiandosi in posizione fetale come a voler tornare nell’utero materno. Al sicuro.

Che buffa cosa era quel nuovo sentimento nato e sviluppatosi pian piano nel corso dei mesi precedenti, quando si era ritrovata a cercarla per le strade del sesto distretto, tra visi sconosciuti. Era rimasto sopito in lei come lava schiacciata a forza nella caldera di un vulcano. Ogni tanto qualche avvisaglia, qualche sbuffo, un brontolio, ma mai nulla che non potesse essere gestito. Poi l’eruzione. Non tanto violenta, quanto consapevole.

Un percorso diametralmente opposto a quello intrapreso da Haruka. Nell’immediato del loro primo contatto, la bionda l’aveva sognata quella bella ragazza dai modi composti e a tutt’oggi la sognava ancora. Sin dalla gara di corsa alla Festa della vendemmia, lungo la linea di una partenza che aveva metaforicamente rappresentato l’inizio del suo amore per lei. Immediatamente analizzato, accettato e fatto suo.

Ora, durante quella fredda notte simile a tante altre, lontana dalla sua dea che pur sapeva essere ad una manciata di metri da lei, Haruka la pensava, con lo sguardo fisso al muro, seduta sulla branda, avvolta da una coperta, bruciante di desiderio, questa volta non carnale, ma umano. Di cuore. Le mancava la sua Michiru. Le mancavano i rimbrotti, le occhiatacce per il perenne casino che lei riusciva a creare in quel piccolo spazio, i sorrisi sinceri, gli occhi curiosi e profondi, i discorsi impegnati e le frivolezze tra ragazze.

Il piccolo Turul sentiva di stare vivendo a metà, come se in lei fossero presenti due donne; una feroce e votata alla vendetta, pressata dalla nostalgia e dal livore, l’altra sognatrice e speranzosa.

Due modi così diversi di vedere e vivere l’amore. La razionalità di Michiru. L’impulsività di Haruka.

“Michiru…” Sospirò la bionda stringendosi nella coperta.

“Haruka…” Rispose l’altra come colpita da una sorta di contatto telepatico.

Alzandosi dal letto Kaioh andò alla scrivania afferrando uno dei tanti fogli che l'altra teneva sempre a portata di mano per poter scarabocchiare qualche ingranaggio.

La luce proveniente dal ballatoio che riusciva a filtrare dal grande occhio rettangolare posto sopra la porta, era scarsa, ma le sarebbe bastata per scrivere. Voleva mettere nero su bianco quello che stava provando. Iniziò più volte, ma stranamente arrivata al dunque non riusciva a sentirsi soddisfatta. Stette minuti interi a fissare la carta, quasi impacciata. Poi ebbe un fremito e sorridendo permise finalmente all’inchiostro di scivolare sulla carta esprimendo così se stessa.

 

 

La melodia del mio cuore

 

Quando la mattina successiva Johanna se la vide nuovamente di fronte, ebbe come la sensazione di aver parlato al vento. Quella ragazza era testarda. Testarda e dannatamente incosciente.

“Credevo di essermi spiegata bene, signorina Kōtei. Sarebbe meglio che le detenute non parlino con le guardie.” Leggermente sulle sue guardò di soppiatto Mery che le stava fissando a qualche decina di metri con una strana luce negli occhi.

Quella donna non mi piace per niente, si disse Johanna mentre la voce di Michiru la raggiungeva riportandole attenzione.

“L’avete vista oggi?” Chiese ansiosa.

Intuendo l’ovvio soggetto l'altra scosse la testa in senso di diniego. “Scenderò nei sotterranei solo nel tardo pomeriggio. Alla fine del mio turno.”

“Allora vorrei chiedervi la cortesia di portarle un mio messaggio.” Estraendo dalla tasca della gonna un foglio ripiegato, glielo porse senza pensarci su.

“Signorina, le detenute in isolamento non possono ricevere alcun che.”

“Mi vorreste fare intendere che in questo tempo Haruka non abbia ricevuto mai nulla da voi?” Chiese con una leggera punta di malizia, ammiccando quanto basta per far abbassare lo sguardo all’altra.

“E va bene, ma non qui e che sia la prima e l’ultima volta. Non posso fare come mi pare. Ci sono delle regole da rispettare. Dove stavate andando?”

“In biblioteca.”

“Allora forza, vi accompagno io. Daremo meno nell’occhio.” Ed iniziarono a camminare verso il grande stanzone.

“Vi ringrazio.” Michiru non sapeva il perché, ma quella guardia le dava fiducia, anche se in amore non è mai saggio ne logico chiedere aiuto ad una diretta concorrente.

Tralasciando quello che aveva intravisto in quel soggetto poco raccomandabile che era Mery, Johanna spostò la conversazione su cose più leggere. “Ho saputo dalla Direttrice che ci sono delle novità… musicali. E’ stata una vostra idea?”

Michiru gonfiò con orgoglio il petto. “Spero che con il tempo possa diventare una cosa positiva.”

“Non saprei, ma vi ringrazio anche a nome delle altre guardie. L’aver pensato al benessere della prigione forse potrà stemperare il nervosismo. Ditemi, voi suonate?”

“Si, il violino. Da sempre. Insieme alla pittura è il mio grande amore.”

“Allora sarete sicuramente molto brava.”

“Diciamo… che mi sono presa le mie belle soddisfazioni.” Ammise ricordando le gare vinte prima di scegliere di seguire le orme paterne nella sfera per lei completamente avulsa dell’economia.

A pochi metri dalla porta della biblioteca Jo si puntò guardandola negli occhi. “Vorreste avere un’uditrice speciale?”

 

 

Dopo aver visto chi fosse alle sbarre Haruka scostò la testa tornando a distendersi sul materasso. “Che palle. Ogni sera questa tortura, Jo?!”

“Che carina che sei. L’aspide affettuoso di sempre vedo.”

“Mi hai almeno portato la cena?” Brontolò immersa nella semioscurità.

“Te la porterà tra un’oretta una collega. Io ho di meglio che quell’insipida brodaglia. - Cercando di avere attenzione della sorella si sfilò dai pantaloni il messaggio alzandolo verso il viso. - Pensa a me come ad un... piccione viaggiatore.”

“Giusto. I piccioni s'impallinano e poi… si mangiano!”

Non gliela aveva ancora perdonata. “Senti bestia, la vuoi la sorpresa che c'e in questo foglietto o no?”

“Se non è commestibile puoi anche tenertela!”

“A bene. Arguisco che della missiva che ti manda la tua bella compagna di cella non te ne freghi nulla. Glielo dirò, ma credo che ci resterà malissimo.” E fece per andarsene quando saltando letteralmente giù dalla branda, la bionda la fermò arpionandosi ai ferri.

“Aspetta! Che hai detto? Michiru mi ha scritto?”

Squadrandola da capo a piedi Johanna si mosse a pietà tornando alle sbarre. “E non solo. Tra qualche minuto rincarerà la dose.”

“Che vuol dire?!”

Indicando la presa d’aria della cella l'altra le passò il foglietto. “Ringrazia il cielo che quella ragazza sappia essere molto più diplomatica ed educata di te. Comunque, apri bene le orecchie e leggi quello che ti ha scritto..., imbecille.” Sentenziò e mentre si allontanava ricordò le battute salienti avute nella biblioteca con Michiru.

“Signorina Kōtei, dovete sapere che essendo un tipo molto curioso e capendoci qualcosina di architettura, una delle prime cose che ho studiato entrando a lavorare in questo carcere, è stata la sua impiantistica. Nello specifico ho notato che l’areazione delle celle d’isolamento parte proprio dalla biblioteca. Perciò immagino che se una persona volesse esercitarsi qui per un po’, diciamo in un assolo di violino, il suono riuscirebbe ad arrivare anche ai sotterranei.” Le aveva rivelato.

L’altra aveva allora guardato i grandi bocchettoni grigliati seminascosti tra le scaffalature illuminando il viso in maniera sempre più marcata.

“Dite sul serio?”

“Provar non nuoce." E facendole un occhiolino le aveva lasciato intendere di avere trovato in lei una buona amica.

Perciò ora spettava a Michiru farsi sentire da Haruka.

percorrendo a ritroso quasi tutto il corridoio Jo richiamò per l'ultima volta l’interesse della sorella. “Haruka… Preparati ad uscire.”

Alzando gli occhi dal foglio la bionda li puntò smarriti nel vuoto. “Setsuna ha ridotto l’isolamento?”

“Lo sai che non può avere occhi di riguardo per nessuna.”

“E allora?”

Arrivata alla porta blindata si fermò prima di bussare per chiedere di uscire. “Non trovi che qui dentro ci sia un po' troppa umidità? Se fossi in te questa sera terrei i piedi ben sollevati da terra. Buona lettura e buon ascolto, Ruka.”

“Cosa significa?! Jo!” Ma non ebbe risposta.

Il secondino che si trovava all’esterno le aprì lasciandola uscire.

“Chi ti capisce è brava.” Grugnì storpiando il viso.

Tornando verso la branda rimosse velocemente dalla testa quella criptica frase sedendosi con noncuranza sul materasso a gambe incrociate. Senza non poca curiosità stava per aprire il foglio quando avvertì nell’aria la melodia di uno strumento. Lontano, ovattato, ma abbastanza chiaro da farle capire che si trattasse di una corda. Per la precisione un violino. Fissando il condotto ebbe un fremito.

Michiru?, pensò aiutandosi nella lettura con la luce del corridoio. Quello che vide la colpì. Non era una lettera, ma un disegno. Un bellissimo disegno in bianco e nero raffigurante due uccelli, alti, dalle lunghe zampe, il becco prorompente, il collo sottile nell’atto di sfiorarsi come a voler danzare. Le grandi ali leggermente aperte del primo e completamente spiegate il secondo. Pur essendo un semplice schizzo, Michiru era riuscita a trasferire in quei due animali una sontuosità ed un’armonia incredibili.

Haruka riconobbe quegli uccelli, anche se non sapeva affatto di quale razza fossero o da dove provenissero. Aveva sognato spesso quel volatile librarsi nel cielo del secondo distretto affiancato ad un falco che aveva sempre saputo essere lei; il Turul di Pest. Ora quell'aggraziato uccello dal piumaggio bianco e nero lo ritrovava li, disegnato dalla donna che amava.

Cosa significa… poi le iridi corsero all’unica frase scritta e si sentì magicamente.

 

Mi manchi.

M.

 

Compiendo un gesto che da sempre accomuna gli innamorati di ogni età e periodo storico, Haruka si portò il foglio al viso respirando profondamente come se contenesse chissà quale profumo. Avvertì solo l’odore dell’inchiostro, ma le sembrò più dolce della fragranza di una rosa. Appoggiando le spalle al muro chiuse gli occhi tornando a concentrarsi sulla melodia che Michiru stava eseguendo per lei e le sembrò di annegare, di perdersi in essa.

 

 

Meno di due ore dopo, un’ombra entrò furtivamente nel cubicolo spettrale che portava alle canne di adduzione dell’acqua. Non certo un posto ameno, anzi, a dire il vero la corrente che riusciva ad incunearsi lungo quel tunnel stretto, basso e voltato, provocava un ululato sinistro degno del migliore racconto dell’orrore. Alzando la luce fioca della lampada al mondo brulicante che viveva in pianta stabile sui muri e tutto intorno a lei, cercò di non badare allo schifo che stava provando concentrandosi invece sulle targhette metalliche dov’erano riportate le varie servitù. Blocco A. Blocco B. Blocco C. Lavanderia. Mensa. Celle d’isolamento.

“Trovata!” Esultò spezzando il suono d’acqua sgocciolante proveniente da alcune giunture.

Il piano che stava per mettere in moto era semplice, ma profondamente dannoso. Avrebbe provocato una mancanza d’acqua su tutti i bagni dei blocchi detentivi e se Setsuna Meioh l’avesse scoperta, non sarebbe bastata la paga di un anno per azzittirne i latrati.

Agganciando la lampada ad una zanca incrostata incastrata tra i mattoni, si sfregò le mani afferrando la manopola d’arresto posta proprio sotto la targhetta delle celle.

“Iniziamo la festa. - E forzando un poco aprì totalmente. - Via con l’effetto domino!” Un cigolio sinistro e la parte superiore del tubo iniziò a vibrare.

“Ottimo. Un altro paio di valvoline e prepariamoci all’apertura delle acque! A questo giro potrei rivaleggiare con Mosè in persona.”

Ad uno ad uno, anche gli altri tubi iniziarono ad emettere strani suoni. “Bene, ora torniamocene alla civiltà prima che me la faccia sotto dalla paura.”

 

 

“Ma che cavolo. Polpettone anche questa sera?!” Brontolò la bionda già abbastanza imbestialita, perché da quando era stata trasferita li dentro, non soltano mangiava quando le altre si stavano già preparando per andare a dormire, ma le venivano ripropinate sempre le stesse cose! Questo, oltre alla solitudine in se, la faceva sentire una reietta.

“Tenoh e non lagnarti di continuo! Se non lo vuoi lo porto via.”

“No, no! Me lo mangio.” Rispose alla guardia facendo uno strano verso con la bocca.

“Bene. Torno tra un po’ per ritirare…” Disse la donna bloccandosi attirata da uno strano suono proveniente dal lavandino della cella.

Entrambe aggrottarono la fronte e mentre Haruka si avvicinava al muro con ancora il piatto nelle mani, il rubinetto del lavandino saltò in aria sbattendo contro il soffitto ed un getto d’acqua la colpì in pieno inzuppandola da capo a piedi.

Sopra la struttura delle celle d’isolamento, ad un centinaio di metri, Michiru guardò il soffione non capendo. Con ancora la mano stretta sulla manopola, strinse l’alta all’asciugamano che ancora portava su e che in genere si toglieva solo una volta raggiunta la temperatura ideale dell’acqua, appendendolo al muro che segnava il grande box delle docce.

“Ma perché non esce?” Si domandò chiudendo e riaprendo più volte.

Voltandosi per chiedere alle altre donne che erano entrate con lei si rese conto di essere rimasta sola. Niente detenute. Nessun secondino. Sempre più spiazzata tornò a guardare il doccione quando una voce la raggiunse.

“E così dopo giorni d’attesa, sono riuscita a pizzicarti da sola Kōtei.”

L’affermazione di Mery la fece rabbrividire.

 

 

 

NOTE: Hola. Era un po’ che non terminavo un capitolo lasciandovi un pochino di patos addosso 

Adesso vediamo come se la caverà Michiru. Io sono sicura che ci sorprenderà ancora una volta e preparatevi perché anche Haruka farà un notevole passo in avanti nel rapporto che stanno costruendo.

Spero che adesso si capisca meglio il perché, pur se ambientato in Ungheria, questa ff si intitoli le gru della Manciuria. Non è solo l’animale guida nel quale si identifica Michiru, ma simboleggia anche la fedeltà. In questo caso tra due persone.

Alla prossima, ciauuu.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XV

 

 

Desiderio

Prefettura di Hokkaidō – città di Hakodate, dôjô della scuola inferiore Kaisui, ottobre 1939

 

 

Preparandosi ad incoccare la freccia, Michiru guardò l’asta leggermente ricurva davanti a se. Ad un cenno della sua insegnante si alzò dalla posizione inginocchiata ponendosi esattamente davanti al bersaglio; un enteki decorato da cerchi concentrici di vari colori. Alzando l’arco al di sopra della linea della sua coda di cavallo e tenendo la freccia tra indice e pollice, distese il braccio sinistro contraendo simultaneamente il destro. La sentì posarsi delicatamente tra la parte esterna delle dita che stavano serrando l’anima dello yumi. Un respiro, qualche secondo di forzata apnea e il rilasciò che produsse nell’aria un sibilo ovattato seguito da un suono sordo. Quello della superficie di canne intrecciate colpite al bordo esterno del cerchio rosso.

Muovendo impercettibilmente le labbra all’insù, si sistemò la manica del keikogi bianco guardando poi il viso dell’insegnante. Era moderatamente contenta dei suoi progressi, ma da brava giapponese non lo avrebbe mai dato a vedere ad una bambina di dodici anni. Non volesse il cielo che la piccola Kaioh si sentisse troppo soddisfatta di se.

“La postura è corretta, ma la concentrazione lascia ancora a desiderare signorina. Bene, per oggi è tutto. Potete andare.” Le annunciò attendendo l’inchino di rito.

“Vi ringrazio sensei. A mercoledì.” Salutò rimanendo inchinata in segno di rispetto fino all’uscita dalla stanza dell’anziana donna.

Accarezzandosi il collo nudo Michiru si sentì stanca. Avrebbe voluto andare a fare una passeggiata sulla spiaggia per godersi il tepore del sole, l’odore di salsedine che l’oceano le regalava ogni qual volta riusciva a stare in sua compagnia e la danza di quei magnifici esemplari di gru che avevano nidificato nella baia che si apriva nei pressi della villa della sua famiglia. Loro; le uniche gru provenienti dalla Manciuria a risiedere permanentemente in Hokkaidō. Che non abbandonavano mai le sue coste per la migrazione siberiana. Le più maestose. Le più fedeli. La sublimazione della loro specie. Ma sapeva di dover rientrare. L’esercito cinese con il quale l’Impero era in guerra da un paio d’anni, avrebbe potuto attaccare le loro coste in qualsiasi momento e a tutti i bambini era stato imposto di non giocare o stare troppo all’aperto, perciò anche l’erede di casa Kōtei doveva obbedire.

Eppure il richiamo del mare era per lei fortissimo e il volo di quelle gru irresistibile, tanto che alle volte contraddicendo ad ogni regola, sgattaiolava lungo le scale in pietra che si districavano tra le rocce che dal giardino della sua casa portavano alla baia, finendo per passare interi pomeriggi in loro compagnia. Suo nonno le aveva mostrato quello spettacolo qualche anno prima e da allora, in qualunque stagione ci si trovasse, lei non perdeva occasione di ammirarle, rimando incantata a guardare quelle movenze, a disegnarle e a comporci sopra melodie con il suo strumento preferito; il violino.

Ad attrarre una bambina benedettamente dotata in diverse arti, non era solo la curiosità di una giovane mente, ma soprattutto il fatto che quegli uccelli le ricordassero incredibilmente i suoi genitori quando ballavano la sera, dopo cena, sulla musica che eseguiva per loro. Quanto si amavano e com’era bello per lei poterli guardare sperando di poter vivere un giorno un coinvolgimento emozionale come quello. Profondo, duraturo, consapevole ed appagante in ogni sua forma. Come sarebbe stato il suo cavaliere? Non avendo ancora l’età per soffermarsi troppo su particolari di tipo fisico, Michiru sperava solo di avere la fortuna d’incontrarlo un giorno e di poter ballare con lui nello stesso modo.

Una volta riposto nel proprio armadietto il Kyudogi con il quale si componeva il suo abbigliamento da praticante, si rivestì con la divisa scolastica dalla gonna a pieghe e la camicia con l’immancabile fazzoletto alla marinara ricamato con le iniziali della sua scuola, ed uscì dalla struttura adibita a dôjô camminando a passo svelto per svariati metri lungo il viale alberato che portava ad un piccolo spiazzo. Lì vide il signor Takaoka fermo ad aspettarla fuori dall’auto. Come al solito distinto nel suo bell’abito scuro.

“Buon pomeriggio signorina Michiru.” E le aprì lo sportello sorridendole affabile.

“A voi signor Takaoka. Grazie.” Contraccambiando il saluto salì sul sedile posteriore sistemando la borsa a fianco a lei.

“Com’è andato l’allenamento?” Chiese lui innestando la prima percorrendo adagio il vialone dei ciliegi che portava alla cancellata principale.

Sospirando la bambina perse lo sguardo cobalto alla struttura imponente del corpo principale dov’erano dislocate le classi superiori che l’anno successivo avrebbe frequentato. Quella donna, la sua sensei, non era mai contenta. Il tiro con l’arco, l’arte millenaria del Kyudo, non era la passione della piccola Kaioh e quel vecchio rudere altezzoso lo sapeva. Avrebbe dovuto perciò gioire di ogni centro sfiorato, invece di pretendere da lei la perfezione.

“Non tanto bene.”

Contro ogni previsione l’orientale scoppiò in una fragorosa risata. Il loro rapporto era piacevolissimo. C’era rispetto ed onestà anche se l’uomo era un dipendente e lei la figlia del suo padrone. Michiru chinò la testa stringendo le labbra in un’espressione buffa. Lui riusciva sempre a metterla di buon’umore invertendo totalmente intere giornate nate storte.

“Scommetto che la vostra sensei vi ha bacchettata ancora usando frasi del tipo; non siete sufficientemente concentrata signorina Kaioh.” Imitò facendole il verso mentre lei lo guardava allibita.

“Come fate a saperlo?!”

“La postura va bene, ma potete migliorare?”

Afferrando l’interno dei due sedili anteriori con entrambe le mani, si sporse verso l’autista. “Si, si. Ha detto così!”

“Anche il mio sensei pretendeva da me molto di più di quanto non credessi di poter dare, ma poi riuscivo sempre a superare i miei limiti.”

“Ho sentito dire da mio padre che una volta praticavate lo Judo.”

“Si. Fino alle scuole superiori e me la cavo a tutt’oggi. - La guardò negli occhi utilizzando il riflesso dello specchietto retrovisore. - Ogni sensei pretende e più o meno dicono tutti le stesse cose.”

“Si, ma io non sono deconcentrata.” Pigolò.

“Permettetemi di dissentire. E poi diciamocela tutta signorina Michiru; anche vostro padre ha notato che ultimamente avete la testa altrove.”

Tornando a sedersi composta alzò le spalle mentre Takaoka le chiedeva cosa avesse.

“Nulla.”

“Non è vero. Qualcosa c’è. E’ forse colpa di quello che sta accadendo in Europa? Il signor Alexander ne sta parlando spesso ultimamente.”

Si riferiva all’invasione della Polonia da parte della Germania. Tutti erano preoccupati, da Tokyo a Kobe, da Yokohama alla moderna Sapporo. Già da due anni l’Impero Nipponico stava combattendo contro la Cina e un’altra guerra sarebbe stata una mazzata sotto vari punti di vista. Ci si chiedeva quanti uomini ancora sarebbero dovuti partire per il fronte. E tra questi avrebbero potuto esserci anche il signor Takaoka e il signor Kaioh.

“Se dovessimo scendere in campo per aiutare i paesi dell’asse, sia voi che mio padre potreste essere richiamati al fronte.” Disse franca con un filo di voce.

“Ma suvvia signorina Michiru, non è detto che si entri in guerra. Com’è alquanto improbabile che vostro padre sia richiamato nell’esercito ungherese. Per quanto mi riguarda…, staremo a vedere.”

Michiru ci pensò su. In effetti Alexander era magiaro. Emigrato da anni non sarebbe stato rimpatriato con tanta facilità. Ma il signor Takaoka? Teneva a lui.

“Spero che abbiate ragione. - Stringendo i pugni guardò fuori dal vetro la costa scintillare incurante dei loro problemi. - La guerra è una fesseria! Le armi lo sono!”

“E’ per questo che non vi piace tirare con l’arco?”

Scuotendo il capo ammise che se proprio avesse dovuto scegliere un’arte marziale, ne avrebbe preferita una a mani nude, tanto per avere la possibilità di difendersi in caso di un’aggressione. Lui rise ancora una volta portandosi indice e pollice ai dotti lacrimali. Accostando tirò il freno girandosi verso la bambina.

“Il contatto fisico non si addice ad una signorina e poi il Kyudo ormai lo si pratica per sviluppare una crescita interiore e non per difendersi.”

“Non voglio farmi difendere dagli altri!” Sentenziò risoluta tanto che iniziando a strofinarsi il mento ben rasato, l'autista ebbe un’idea.

“E se vi insegnassi qualche tecnica? Anche il signor Alexander è stato un mio allievo.”

“Lo fareste davvero?”

“Certo, a patto che rimanga un segreto e che si faccia molta attenzione a non farsi male. Intesi?”

E sancirono quel patto con una calorosa stretta di mano.

Purtroppo soltanto qualche settimana più tardi, le paure della piccola Kaioh si tramutarono in una triste realtà. L’Impero scese in guerra al fianco della Germani e dell’Ungheria. Alexander, proprio in virtù delle sue origini e dei gravi problemi di salute della moglie, si risparmiò l’uniforme, ma il signor Takaoka no. Richiamato nell’aviazione, combatté venendo ferito nella battaglia delle Midway riuscendo così a tornare a casa, malconcio, ma ancora vivo per raccontarla.

Ma furono i numerosi bombardamenti subiti dalla marittima Hakodate a far crescere di colpo quella ragazzina. Il vedere distrutti gli antichi palazzi della sua città, le famiglie divise, la scuola interrotta, le restrizioni economiche arrivate a bussare anche alla porta di una famiglia abbastanza facoltosa come i Kōtei ed infine, il trasferimento in Ungheria, ebbero il potere di trasformare la dolce Michiru in una ferrea adolescente.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce, inverno 1951

 

“E così dopo giorni d’attesa, sono riuscita a pizzicarti da sola, Kōtei.”

Mery fece alcuni passi all’interno dei bagni mentre Michiru rabbrividiva. L’accompagnava uno strano sguardo di desiderio che non le aveva visto neanche quando amoreggiava con la slava in qualche anfratto del carcere. Un sorriso per nulla rassicurante. Una postura gaglioffa al limite della volgarità. Pollici nei passanti anteriori della gonna, camicia quasi del tutto sbottonata con il reggiseno a far bella mostra di se. E lei aveva addosso solamente un asciugamano. E i locali erano diventati improvvisamente deserti.

“Dove sono le altre?”

“Non sei contenta? Così non ci disturberà nessuno.”

Aveva organizzato tutto con cura. Alcune del suo gruppo a far finta che una di loro fosse scivolata nel corridoio così d’attirare fuori la guardia preposta al controllo. La sua amante impegnata in lavanderia. Tenoh in isolamento a rodersi l’anima e lei libera di agire e prendersi la carne di quella bellissima femmina.

“Piantala Mery, questi giochetti non mi piacciono!” Le rispose Piatta.

Avanzando ancora, la ragazza lentigginosa guardò con sadica soddisfazione la destra dell’altra stretta sulla stoffa che le copriva parte del seno. La sua pelle sembrava di porcellana. Nulla a che vedere con quella bruciata dal sole di una contadina come Tesla. Non aveva difetti, o almeno così appariva ai suoi occhi.

“Farei qualunque cosa con te Michiru.”

“Stai dando un senso perverso a questa cosa.”

“A quale cosa?”

“Sai benissimo a cosa stia alludendo, Mery.”

“Vuoi dirmi che vorresti restare fedele al tuo coriaceo mastino biondo? - Ormai arrivatale a meno di un metro iniziò ad allungare le mani cercando di posargliele sui fianchi. - Suvvia bella. Qui ogni lasciata è persa.”

Serrando le dita della sinistra al suo polso, Michiru rimase di una calma disarmante. “Ti consiglio di lasciarmi in pace. Credo di avere il diritto di scegliermi da sola le persone con le quali passare il mio tempo.”

“Ti consiglio di lasciarmi in pace? Sarebbe forse una minaccia? - Sporgendosi pericolosamente verso il viso dell'altra, arrivò a sussurrarle all’orecchio. - Ma dai. Non essere ridicola. Una ragazza come te, con queste mani, questa pelle, questi lineamenti, non sarebbe fisicamente capace di imporsi su nessuno.”

Michiru continuò a rimanere impassibile, ma a quelle parole una scintilla dentro le si accese. Facendo leva con il pollice all’interno del palmo di Mery creò una leggerissima pressione che le torse il polso strapparle un gemito. Simultaneamente, pronta nell’eventualità di doverla neutralizzare a terra, lasciò scivolare il piede tra quelli ben piantati dell’altra, attendendo.

“Eppure parlo l’ungherese benissimo. Ti ho detto di lasciarmi in pace! - Ribadì non forzando però la stretta che avrebbe facilmente potuto lussarle l’articolazione. - Sono perfettamente in grado di provocarti dolore in trenta modi diversi. E ti assicuro che non è quello che voglio.”

Piegata leggermente sulle ginocchia Mery sogghignò. Quell’imprevedibile gioco la stava eccitando.

“Che scoperta! La gattina ha le unghie.” Ed afferrandosi al bianco dell'asciugamano, le si buttò contro come a voler provare più sofferenza.

“Ma cosa sei… masochista? - Sorpresa Michiru le abbandonò istantaneamente il polso. - Ti ho detto che non voglio farti del mal…”

Ma non riuscì a terminare la frase. L’asciugamano le venne strappato via lasciando il suo corpo indifeso e fissato con perversione.

“Meravigliosa!”

“Mery…” Ed iniziò la lotta per cercare di allontanarsela dalla pelle.

“Dai Kōtei, rilassati. Sarà bello vedrai. Se per te è la prima volta, non importa. So essere delicata se voglio.”

“Lasciami…” Riuscendo a scansarla con uno spintone, inquadrò l’asciugamano abbandonato a qualche centimetro dai suoi piedi.

“Padre Santo, quanto mi ecciti quando fai la verginella pudica. Ti vogli...”

“Ti eccita vederla nuda eh…?!” Due mani che in quel momento sembrarono enormi, afferrarono la donna al cotone delle spalle strattonandola lontano e facendola volare sul pavimento.

“Adesso ti faccio eccitare io sottospecie di blatta!”

Haruka piombò sopra Mery alzandola da terra per poi sbatterla con violenza al maiolicato del muro di fronte alle docce e tenendola stretta per il bavero della camicia, serrò le dita talmente forte da strapparle un rantolo strozzato.

“Se proverai ancora a toccarla… ti staccherò la testa dal collo! Sono stata chiara?!”

Annaspando l’altra scosse la testa affermativamente non trovando però perdono. Imperterrita il Turul di Pest continuò a ghermirla come a volerla uccidere per soffocamento.

“Sono stata chiara!” E questa volta urlò costringendo Mery ad usare l’ultimo fiato stretto in gola.

“S… sssi… SI!”

“Haruka basta! Così l’ammazzi! Haruka… - Passandole un braccio tra quelli che la bionda stava tenendo in tensione, Michiru cercò d'intromettersi per liberare una rossa ormai al limite. - Haruka … Ruka!” E a quel nomignolo vide la morsa allentarsi un poco.

“Ruka… per favore. Lasciala andare, dai…”

Completamente paonazza, la malcapitata si sentì libera di riprendere ossigeno scivolando lungo il muro fino a sedersi sul pavimento tenendosi il collo con la mano.

Con i pugni tremanti di collera dimenticati a mezz’aria, Tenoh guardò Mary intimandole di sparire. “E se ne farai parola con Tesla… ti assicuro che vi scatenerò contro una guerra che non te la immagini nemmeno. Fuori di qui!”

Non facendoselo ripetere, quella iniziò a gattonare per poi alzarsi schizzando fuori dal locale dei bagni più veloce di un lampo. Uscendo dalla porta e svoltando per il corridoio che dava ai ballatoi, incrociò Horvàth placidamente appoggiata al muro a braccia conserte. Si guardarono. Mery dilatò le palpebre quando le labbra del secondino si piegarono in un sorriso sghembo al limite della soddisfazione. Non era intervenuta rimanendo in disparte mentre quella pazza di Tenoh cercava di ammazzarla.

“Me la pagherai.” Sibilò frustrata continuando a tenersi il collo per poi scappare via, presumibilmente tra le braccia della sua compagna.

Johanna aveva avuto fiuto nell'intuire che in quella donna stessero covando delle perversioni pericolose riguardanti Kaioh. Vuoi perché voleva vedere sua sorella fuori dal buco dell'isolamento, vuoi per quel presentimento, era riuscita a provocare la rottura parziale dell'impianto idrico appena in tempo, ed ora ringraziava il cielo per questo.

Intanto nelle docce una stravolta bionda stava venendo ripresa come una scolaretta. "Di un po’, ma cosa ti dice la testa?!”

Completamente abbandonata la serafica freddezza nipponica, Michiru strinse la mano all’avambraccio di Haruka costringendola a guardarla. Sembrava trasfigurata. Il viso; una maschera contrita di rabbia.

“Mi stai ascoltando?!”

Inalando aria come a voler spegnere un incendio, la bionda finalmente le diede retta. “Ti ha fatto del male?”

“Ma no, tranquilla. Avrei potuto tenerla a bada, ma… - spostando le iridi da quelle dell’altra al suo corpo, si vide ancora nuda. - … Mery ha ragione…, sono troppo pudica.” Una volta venuto via l’asciugamano si era bloccata come un’allocca. E si che sapeva difendersi.

Cercando di non badare al fatto che fosse totalmente esposta all'altra, continuò accarezzandole un ciuffo di capelli ancora umidi. “Tu piuttosto, non saresti dovuta uscire dall’isolamento tra un paio di giorni? E poi, perché sei tutta bagnata? Qui non c’è una sola goccia d’acqua.”

Haruka sentì come un’improvvisa ondata di calore irradiarsi dappertutto. Le sue carezze e la vista di quel corpo bramato, sognato, voluto per intere settimane, le colpirono il ventre come una potente vergata. Vera! Era vera, in carne e ossa, li davanti a lei.

“Il piano interrato è… allagato.” Non riuscendo a toglierle gli occhi di dosso, usò un tono rauco particolarmente sensuale.

Captatolo, Kaioh avvampò.

“Be è una fortuna, no?” Disse prima di essere afferrata per la vita da una bionda completamente assente. Come ipnotizzata.

Sentendosi stringere la pelle dei fianchi da dita improvvisamente audaci, Michiru sbatte' le palpebre ritrovandosi schiena al muro. Il freddo delle mattonelle riuscì a mozzarle il fiato.

“Cosa stai facendo? - Avvertendo il corpo dell’altra sovrastarla iniziando ad aderire perfettamente al suo, la guardò sconvolta. - Haruka...”

“Ho gradito molto il tuo messaggio. - Bisbigliò avvicinando la bocca al suo lobo sinistro. - Vorrei ricambiare…”

Le labbra lo sfiorarono scivolando poi verso la piega del mento. Caldissime e morbide tanto che l’altra quasi se ne stupì.

“Il suono del tuo violino è riuscito a toccarmi l’anima. - Dal mento alla scapola. - Non credevo sapessi suonare con tanto sentimento.”

Michiru trattenne il fiato al primo contatto della lingua della bionda con il suo collo. Con ancora i palmi delle mani premuti contro il suo petto, non trovò la forza di respingerla, ne di fare altro se non gemere.

Con una sapienza che non credeva di possedere, una naturalezza quasi ancestrale, Haruka iniziò a baciare e succhiare quella piccola porzione benedetta, trasformandosi in un vampiro famelico man mano che il sapore della pelle di lei le inondava la bocca.

“Ha… ruka…” Ansimò aggrappandosi con una mano alla sua nuca.

Ormai persa, la bionda osò spingere la sua destra randagia lungo quel tronco liscio fino a giungere all’attaccatura del seno di una Kaioh completamente annientata.

“Ru…ka.” E le diede più spazio.

"Ti voglio Michi..."

"Aspetta... non... cosi'... Non in questo posto...” Articolò.

Un altro gemito e Tenoh riuscì a fermarsi staccandosi un poco da lei. Entrambe con il fiato corto. Entrambe con il cuore fuori controllo. Entrambe sdoganate da un pudore che sembrava sparito chissà dove.

Haruka si era esposta. Non avrebbe più potuto tornare indietro. Con quel gesto aveva fatto capire a Michiru tutto. Le sue inclinazioni. Il suo desiderio.

“Mi sei mancata anche tu…” Riuscì a dire mentre le dita dell’altra abbandonavano lentamente i fili dorati dei suoi capelli.

Allontanandosi a forza da quell’emisfero bollente che era diventato quel corpo nudo, Haruka si guardò intorno disorientata in cerca dell’asciugamano. Lo vide abbandonato poco oltre. Come un vecchio amico al quale è stato affidato il compito di proteggere la cosa più preziosa del mondo, lo raccolse accarezzandolo un paio di volte, poi glielo porse e vedendo che lei non lo prendeva, le cinse la vita ancora una volta attraendola a se. La fasciò allacciandoglielo al petto. Con dolcezza. Non incrociando mai i suoi occhi. Poi, tirando su con il naso, si piantò le mani nelle tasche uscendo dal locale.

Michiru rimase con la fronte aggrottata a guardare la porta per un tempo lunghissimo. Cos’era successo? Portandosi due dita al collo lo sentì bruciare ed andando ad uno degli specchi posti sopra la fila dei lavandini, ne scoprì il perché.

 

 

Aveva visto la sorella uscire dai bagni con l’espressione di chi l’ha fatta grossa. Veramente grossa. Sguardo basso e passo svelto. Ora, osservando Kaioh uscire imbambolata sul corridoio, iniziò ad immaginarsi cosa potesse essere successo. E se la rise. Tanto. Michiru aveva il viso arrossato e negli occhi una miscellanea di emozioni che Jo non riuscì a decifrare. Sempre poggiata al muro a braccia conserte, la squadrò inarcando le sopraciglia. La camicetta abbottonata malamente, il maglione gettato su una spalla, nella destra l’asciugamano lasciato strusciare in terra e in quella sinistra sapone, spazzolino e dentifricio. Un’immagine veramente insolita per un tipino ordinato come lei.

“Tutto a posto, signorina… Kōtei?” Chiese divertita mentre l’altra si riaccendeva stirando le labbra come a voler trattenere chissà quale sfondone.

“Dove… eravate?”

“Sono sempre stata qui.” Enfatizzò con un braccio.

“E’ il posto giusto!” Sarcastica le passo' davanti.

“Avrei dovuto entrare? - Prese a seguirla continuando a stuzzicarla. - Mi hanno detto che non c’è acqua, ed è un peccato, perché…” Michiru si impuntò e sbattendole contro Johanna si vide il suo indice piazzato davanti al naso.

“Perché?” Chiese stizzita da morire.

Si sentiva accaldata, eccitata e stava provando vergogna! Il suo corpo aveva reagito ad Haruka come se non avesse aspettato altro per tutta la vita e questa cosa l’aveva scioccata. Perché adesso quel secondino idiota voleva usarla per il suo trastullo serale? Quanto avrebbe voluto potersi fare una doccia gelata!

“Perchè vi vedo leggermente… sudata. Ecco tutto.”

“Ecco tutto!" Fece eco fumantina riprendendo la marcia verso la sua cella mentre la più grande cercava di non riderle dietro.

La mia sorellina non vi è per nulla indifferente, vero Michiru? Pensò iniziando a far roteare il grande mazzo di chiavi che serviva per sbloccare tutti gli ingressi del Blocco A. Forse Setsuna Meioh aveva visto giusto. Forse l’amore di quella ragazza avrebbe realmente potuto strappare Haruka dalla fossa che si era scavata.

Arrivata alla porta metallica, Johanna aprì facendola scorrere sulla guida. “Buonanotte ragazze. Un avvertimento,… cercate di non far troppo casino.” E strizzando un occhiolino ad una Michiru allibita, la spinse letteralmente dentro per poi richiudere.

“Oddio l’hai… l’hai sentita?!” Chiese indicando la porta con il mento mentre scaraventava la sua roba sul materasso.

Ma Haruka era di spalle. Non aveva visto ne il viso profondamente soddisfatto della sorella, ne tanto meno quello incredulo della sua compagna di cella. Con gesti controllati che per forza di cose aveva dovuto richiamare a se dopo aver sbattuto ripetutamente la fronte contro il muro, aveva iniziato a cambiarsi per la notte. Via la camicia ed il maglione bagnati. Via la maglietta. Via il reggiseno. Rimasta a tronco nudo afferrò il cotone pulito di una maglietta a maniche lunghe dimenticata sul suo letto, consigliandole di non badar troppo alle prese per i fondelli di quella guardia.

“Johanna è fatta così. Quando trova pane per i suoi denti e si diverte, è capacissima di stuzzicarti per giorni. - Rivestendosi si girò come se nulla fosse. - Ti suggerisco di non darle spago e di lasciar correre fino a quando non si stancherà.”

Michiru ingoiò a vuoto. Dov’erano finiti tutti gli ansimi, i baci, le carezze che quella donna le aveva regalato neanche venti minuti prima? La voce roca, le parole sussurrate, il calore del suo corpo che nonostante i vestiti umidi, era riuscito a squassarla dentro? Iniziando a provare una certa dose di rabbia, Kaioh colmò i pochi metri che le dividevano inarcando il collo ed indicando il segno rosso che le aveva lasciato.

“Di un po’….” Ma penetrata dal verde degli occhi dell’altra si sentì in confusione stizzendosi ancora di più.

“Che c’è?” Faccia da schiaffi! Impunita donna tremenda.

“Mi hai marchiata come… come… - Abbassando la voce arrivò quasi a mormorarlo con vergogna. - … come una pecora. Che sono una pecora io!”

“Pecora… E’ questo che pensi?” Sorridendo maliziosa si sfilò le scarpe con l’aiuto delle punte dei piedi, iniziando poi a slacciarsi i bottoni dei pantaloni.

“Cosa fai?” Chiese Michiru guardando altrove sperando di non arrossire nuovamente.

“Mi cambio per la notte! O vuoi che dorma bagnata fradicia?” Via anche quelli.

“Vedi Michi, i meccanismi presenti nelle prigioni femminili sono abbastanza elementari. Se non hai il cuore impegnato, dentro ad una cella o altrove, sei soggetta ad avere attenzioni particolari. E’ per questo che Mery si è presa la libertà di metterti le mani addosso. Anche se sono convinta che se soltanto Tesla lo venisse a sapesse, le spezzerebbe le dita. Adesso con questo… - mosse indice e medio a mezz’aria mimando le virgolette - …marchio che ti ho lasciato, domani mattina ogni donna omosessuale di questo posto saprà che Michiru Kōtei ha una compagna e non è più disponibile a scambi di pelle occasionali con chi che sia.”

Pronta per controbattere a quel chiarissimo concetto rivelatore, Michiru schiuse le labbra rendendosi però conto di non avere più la forza, il coraggio, la sfrontatezza, la lucidità di dire niente. Il comportamento di Tenoh l’aveva spiazzata a tal punto da ridurla alla stessa stregua di una zattera alla deriva. Persa.

Cercando di non badare al calore che le stava avvampando la pelle nonostante avesse preso un gran freddo, Haruka posò entrambe le mani sul suo materasso e con un saltò riuscì a raggiungerlo sovrastandola. Come avrebbe fatto a dormire sapendo quello che ora sapeva, ovvero che il corpo di Michiru aveva reagito al suo, invitandola a proseguire quella pratica che la sua bocca aveva osato iniziare?

Poi una domanda dell'altra le diede l'insperato appiglio per togliersi dal casino colossale che i suoi ormoni avevano creato.

“E’ solo per questo che lo hai fatto? Per proteggermi dalle altre?” Chiese tenendo la testa bassa come se un lampo di delusione le avesse illuminato la ragione.

Mani nelle mani la bionda si sporse in avanti mascherando una sfrontata sicurezza. “Avresti voluto un’altra motivazione forse?”

Ed ecco riapparire la decisa, indomita Michiru Kaioh. Scattando lo sguardo verso il suo la fulminò e Haruka capì che quel carattere complesso, apparentemente criptico, stava iniziando ad esserle famigliare tanto da riuscire a prevederne una reazione. Con quella contro domanda la bionda era riuscita a strappare entrambe ad un imbarazzo che avrebbe potuto condizionare il loro rapporto. E questo non doveva accadere. Teneva troppo a lei ed anche se cedendo ai suoi baci Michiru l’aveva spinta a proseguire, anche se quel mi manchi messo nero su bianco era valso come una sorta di dichiarazione d’affetto, quel posto, in quel momento, con il livore che ardeva in lei, per il Turul vagabondo di Pest non avrebbe potuto essere un terreno fertile per una storia d'amore. Aveva una missione da compiere fuori da li e si era perfettamente resa conto che quella ragazza stava soffocando il fuoco della sua vendetta. Quando la guardava. Quando le sorrideva. Quando la sfiorava. No! Non poteva permetterselo Haruka. Non poteva permettersi di tradire l’anima del suo apa.

Se soltanto Michiru avesse saputo, avesse anche solo immaginato il supplizio interiore che quel cuore diviso a metà come la lama del tatuaggio che campeggiava ormai indelebile sul suo avambraccio, avrebbe sicuramente agito diversamente. L’avrebbe stretta al cuore cercando di farle capire che la vendetta non può essere una soluzione.

“Buonanotte Haruka…” Tagliente Kaioh iniziò a spogliarsi mentre il segnale dello spegnimento delle luci riecheggiava negli ambienti del blocco e la semioscurità le avvolgeva mettendo fine a quell’interminabile giornata fatta di scoperte e passi falsi.

 

 

 

NOTE: Come si dice; mai una gioia. Eravamo a tanto così .)

Si avvicinano. Si respingono. O meglio, è Haruka che attrae e poi respinge mandando in confusione quella povera Michiru. Ma sapevamo tutti che la bionda non avrebbe potuto resistere ancora allungo, che prima o poi avrebbe fatto il passo e a dire il vero, non è neanche stato più lungo della gamba, come si suol dire, perché Kaioh tutto ha fatto tranne che opporsi. Ma se qui non ci si complica la vita non siamo contenti :p

Ormai l’ingranaggio si è messo in movimento e ne vedremo delle belle.

Una glossario veloce, veloce per alcuni termini in lingua nipponica. La scuola dove andava Michiru da ragazzina, nella città di Hakodate, in realtà non esiste. Ne avessi trovata una reale che faceva al caso mio. Perciò l’ho inventata dandole il nome Kaisui, che letteralmente significa “acqua di mare”.

Il Kyudo, l’arte del tiro con l’arco, ha una divisa ben precisa chiamata Kyudogi, composta dall’hakama (per intenderci la gonna-pantalone che Rei usa spesso) però nera, il keikogi, una sorta di kimono bianco, l’obi, una cintura tradizionale e qualche altro accessorio.

Comunque due paesi con una lingua complessa come l’Ungheria ed il Giappone non li potevo scegliere ;)

PS Jo con Michiru è una grandissima carogna hahaha

A prestissimo!!!

 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XVI

 

 

Crisi

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

 

Ferma con le mani serrate dietro la schiena, le gambe leggermente divaricate, il petto in fuori e lo sguardo fisso al nulla, la donna più giovane cercò di non contrariare ulteriormente la furia che aveva davanti. Setsuna le stava facendo impressione. Con il viso contrito, gli occhi già di per se grandi, resi ancora più appariscenti dalla rabbia, l’arteria del collo gonfia come non le aveva mai visto neanche dopo i vetri spaccati dalle fionde sue e della sorella, stava ora fissa di fronte a lei, impugnando già solo con la postura aggressiva del corpo, l’autorità che rappresentava in quella casa circondariale. Imbestialita. Era semplicemente imbestialita e sapendola dalla parte della ragione, Johanna aveva preso a fare quello che meno le riusciva; ovvero stare zitta.

“A... non parli più?!”

E cosa avrebbe potuto dire per cercare di svicolare dalla lampante colpa di aver fatto saltare l’impianto idrico di mezzo carcere? Negare. Negare anche l’evidenza. Sempre e comunque e fino a prova contraria?

Così provò a continuare quell'omertoso giochetto che tanto stava portando Setsuna alla nevrosi. “Ti ho già detto che non so di cosa tu stia parlando.”

“Piantala di giocare alla finta tonta con me Johanna Tenoh! Bada che questa volta non si tratta di una stupidaggine, ma di un danno e non soltanto di svariate centinaia di fiorini, ma anche e soprattutto sociale! Appena scatterà l’orario d’ufficio, dovrò chiamare il Ministero di Grazia e Giustizia per informare chi di dovere che il carcere e' in stato di crisi e sicuramente manderanno un ispettore. E tutto perché Haruka non poteva farsi una cazzo di settimana d’isolamento?!”

Abbassando la testa l’altra serrò la mascella cercando calma. Non poteva confessare o sarebbe passata ancor più dalla parte del torto.

“Sto aspettando Johanna! Esigo una spiegazione, perché tanto so che sei stata tu! Qui dentro sei l’unica ad avere le competenze per sapere come manomettere un impianto..., idrico, termico o fognario che sia!” Forse quasi un complimento.

“Non vedo perché tu mi abbia fatta tirare giù dal letto se per te sono io la responsabile.”

“A non lo capisci? Allora te lo spiego subito; perché come Haruka, hai la brutta abitudine di non pensare mai troppo alle conseguenze dei tuoi gesti! Togliere a delle recluse l'acqua per lavarsi equivale ad accendere una rivolta!”

Chiudendo gli occhi Jo inalò aria per poi aprirli di colpo e ritrovarsi il viso della direttrice ad uno spicciolo di centimetri dal suo.

“Incosciente! Quando si tratta di salvare il culo a tua sorella non ragioni più!”

Arretrando il collo stupita nel sentirsi tanto sotto torchio, partì finalmente in quarta contrattaccando. “E finiscila di tirare sempre in ballo quella povera disgraziata! Lo sai quanto ci sia rimasta male per la canagliata che le ho tirato, no?!

“E allora? Non è di questo che stiamo parlando, ma del fatto che Dio solo sa come, sei riuscita nell’intento di allagare le celle d’isolamento di trenta centimetri! - Alzando le braccia come un predicatore roteò gli occhi e sempre più isterica iniziò a camminare per la stanza come una fiera in gabbia. - Porca puttana, adesso vedi cosa succederà quando comunicherò l’accaduto. Avremo tutto il Ministero addosso.”

Esagerata, pensò la più giovane stringendo le labbra. Quando era alterata, Setsuna tendeva ad esprimersi con un linguaggio al limite dello scaricatore di porto. Nonostante gli studi universitari e la carriera, non era riuscita a scrollarsi del tutto l’aria mefitica dei sobborghi di Pest.

“Visto che le tubazioni fanno schifo, sicuramente penseranno ad una rottura strutturale.”

La direttrice si voltò nella sua direzione. Lo sguardo soddisfatto di una faina affamata che ha appena intravisto la cena. “Hai pianificato tutto, anche la scusa da potermi dare per tirartici fuori, complimenti!!”

Schiodando da quella posizione al limite del militaresco, Johanna prese ad imitarla camminando in cerchio. “E non darmi la croce addosso! Ma cosa credi che non ci abbia pensato? Ma se proprio lo vuoi sapere… tutto sto casino è anche colpa tua! - Sorprendendola proseguì. - Sei TU che mi hai detto di scegliere bene le mie carte, perché la vita di mia sorella è a un bivio. E io ho agito di conseguenza. Sei TU che le hai imposto di badare alla figlia di Alexander Kaioh appiccicandogliela praticamente addosso. E io ho accettato la cosa. Come sei sempre stata TU a farmi notare come quelle due creature abbiano iniziato a piacersi. E io, si IO, ho dato modo ad Haruka di tornarsene nel luogo dove ora come ora si sente più a casa."

“Ma perché! Perché non aspettare un altro paio di giorni! Avranno tempo per stare insieme!”

“Ammetto che far saltare l'impianto per far tornare Haruka in cella mi abbia un pò alleggerito la coscienza, ma non l'ho fatto solo per questo! Michiru era sola. Non c’era più tempo, Set! E cerca di capire, no!"

L’altra non ci arrivò subito, ma poi vedendo la smorfia della più giovane, avvertì un brivido freddo solleticarle la spina dorsale. “Non mi dirai che…”

“Ecco, brava. Adesso che ha più bisogno di Haruka, perché… bhe sai benissimo cosa può succedere nelle viscere di un carcere, adesso che fai? Le dividi?”

“Kaioh è stata importunata da qualcuna?” Domandò allarmata indietreggiando fino al piano della scrivania per poi appoggiarvisi stancamente.

“Non come alcune qui dentro avrebbero voluto ed è anche per merito di mia sorella. Quella che apostrofi come una stupida schizzata che agisce sempre prima di pensare!” Cantilenò facendole il verso.

“Haruka è stata tirata in mezzo alla zuffa della scorsa sera solo per toglierla un po’ dalla circolazione e permettere così a certe individue di avere campo libero con Kaioh. E io che non avevo focalizzato la situazione, ho anche partecipato alla cosa. Adesso non puoi darmi la colpa per aver cercato di rimediare, Set.” Concluse la sua personalissima arringa sapendo che tanto ormai Haruka si sarebbe dovuta fare tutta la pena e difficilmente avrebbe digerito la cosa.

Strofinandosi la fronte la direttrice sbuffò pesantemente. Non riusciva proprio a capire come certe donne potessero arrivare a diventare simili alla parte più schifosa del maschio medio.

“Quello degli approcci e delle violenze di gruppo è un problema che dovrebbe essere estirpato alla radice.”

“I controllori siamo noi! Digli questo al Ministero.” E dolente glissò sul fatto che anche un paio di colleghe tendevano ad approfittarsi troppo e troppo spesso, dell’autorità che dava loro l'uniforme.

“Va bene Johanna vai, ma prepariamoci ad un’inchiesta. Dio Santo che palle! Speriamo che ci mandino qualcuno abbastanza stupido da essere abbindolato con quattro moine.”

 

 

Al risveglio non si erano guardate negli occhi, non si erano parlate se non per darsi il buongiorno e sorridendosi a malapena, forzatamente, come dopo un litigio che in realtà non c’era mai stato, dandosi le spalle si erano vestite. Michiru facendolo con gesti lenti. Haruka di fretta, come al solito. Cercando di non pestarsi i piedi nei pochi metri a loro disposizione, si erano anche scontrate un paio di volte, ma questo invece di stemperare la tensione con una risata, l’aveva resa ancora più soffocante, tanto che quando la guardia aveva aperto la cella per farle uscire, la più grande si era fiondata fuori seguita da una bionda piuttosto rabbuiata.

Avevano dormito male. Avevano dormito poco. Quando all’eccitazione che il gesto di Haruka aveva portato nei loro corpi era subentrata la stanchezza, avevano entrambe intimamente sperato di crollare, di arrendersi al sonno per resettare tutte le emozioni provate in quella sera. Invece era stato un calvario. Il giovane Turul non aveva fatto altro che rigirarsi nel letto, annientando così il silenzio che aveva regnato durante la sua assenza, mentre la giovane gru non aveva avuto la forza, ne il coraggio di dire niente, sospirando alla notte e al suo io di donna innamorata.

Dopo essersi coricata imbestialita dalla spiegazione datale della bionda, Michiru aveva iniziato a sentirsi sempre più triste. Ormai non aveva più dubbi sul perché avesse reagito con tanto impeto ai baci dell’altra e sapere che era stato solo un gesto protettivo, le aveva fatto male. Non le importava di Mery, Tesla o chissà quale altra noia. Quello che contava per lei era il sapere cosa realmente provasse Haruka. Ma l’altra non parlava. Non la guardava nemmeno. Forte della sua statura, continuava a fissare un punto immaginario dritto davanti a lei.

Ora che l’alba era arrivata a strapparle dai letti, sentivano entrambe un gran peso sugli occhi ed una strana sensazione di disagio nel cuore.

“Su ragazze muoviamoci. La Direttrice vuole fare un annuncio.” Disse la guardia precedendole.

Così camminarono a passo sostenuto fino alla mensa, dove trovarono gran parte delle detenute, sia del loro blocco che di quello B. Minako, Usagi e Makoto accolsero Tenoh con grandi sorrisi di entusiasmo.

“La solita fortuna, vero Haru?!” Se ne uscì Kino con un paio di colpi bene assestati alla schiena dell’amica.

“Che ci vuoi fare. Quando una nasce baciata dalla sorte…” Rispose posando lo sguardo sulla sala gremita.

A parte le detenute più pericolose, in pratica c’era tutta la casa della Luce ad attendere il discorsetto di Setsuna. Haruka analizzò la situazione. La slava era rimasta a catena, ma Mery no, era li, circondata dalla sua cricca e la stava fissando. Stava fissando entrambe. Lei e Michiru al suo fianco. Forte della protezione del suo gruppo, se ne stava seduta su uno dei tavoli avambracci sulle cosce. E non era un bel vedere.

D’impulso Haruka afferrò la mano di Michiru intrecciando le dita alle sue ricambiando lo sguardo torvo della rossa. Questo gesto non passò inosservato, men che mai agli occhi sbigottiti di Usagi, che sorridendo ancora più marcatamente, si portò una mano alla bocca giubilando come la ragazzina che era.

Cercando di sciogliere il contatto Kaioh avvertì resistenza. “Haruka…” Sussurrò irritata.

“Credevo di essere stata chiara ieri sera. Lasciami fare!”

“Non sono un trofeo da sfoggiare!” Continuò mormorando mentre la bionda ignorandola, le posava la mano libera alla vita continuando a sfidare Mery.

“Ma che carine!” Masticò amaro quella incurvando ulteriormente la schiena.

“Ora si che Tenoh e Kōtei sono delle vere sposine.” Se la rise la compagna che aveva innescato la rissa ai bagni e che di fatto, era la sua galoppina.

Non rispose Mery. Fissa su Haruka stava provando una rabbia incontenibile. Si era permessa di metterle le mani al collo. Si era permessa di ridicolizzarla davanti a Michiru. E ora si stava permettendo di toccarla al suo posto. Cascasse il mondo si sarebbe vendicata. Ma con le poche notizie che aveva sulla bionda non poteva fare nulla. Conoscere il proprio avversario prima di colpirlo giù duro era la regola base per una fruttuosa azione di guerriglia e lei doveva sapere di più su quella dannata spilungona.

“Devo avere più informazioni su Tenoh e già che ci siamo, anche su quell'altra carogna di Horvàth.”

“Cosa intendi fare?” Chiese l'amica avvicinandosi alle sue labbra per sentirle sussurrare l’ennesima richiesta.

“Tu esegui le pulizie nel Blocco C, giusto?”

“Si, al bagno delle guardie.”

“Non hai accesso alle stanze della Direttrice?”

“Assolutamente no. In quella zona è consentito l’ingresso solamente ad una detenuta. Una con una condotta esemplare, che può perfino entrare nell’infermeria del Dottor Kiba.”

“Chi sarebbe?”

“Un’ergastolana. Una della banda delle anziane.”

“E se questa fantomatica detenuta modello un giorno non potesse?”

“Credo… Credo che in quel caso toccherebbe a me.” Ammise pensandoci su.

“Allora faremo in modo che la brava lavoratrice non possa proprio tener fede all’impegno preso.” Concluse strofinandosi sapientemente il mento.

Il classico brusio di un luogo affollato cessò di colpo quando il capo squadra Shiry entrò nel locale della mensa assieme alla direttrice Setsuna Meioh e ad un altro paio di guardie, tra le quali Johanna, fresca di colloquio inquisitore. Michiru la guardò e di riflesso sciolse la presa di Haruka, che non capì. Si vergognava nei confronti del secondino e poi non aveva ancora capito con esattezza cosa la legasse alla bionda.

“Buongiorno a tutte. - Iniziò cordialmente la Direttrice. - Ormai credo che siano bel noti a tutte i problemi all’impianto idrico che ieri sera hanno messo fuori uso tutti i bagni del Blocco A. Ho già provveduto a comunicare il disagio a chi di dovere e in mattinata dovremmo avere delle risposte sulla tempistica con la quale verranno eseguiti i lavori di riparazione. Fino a quando i locali resteranno inagibili, tutte le detenute del Blocco A usufruiranno dei bagni di quello B.”

Un ovvio latrare partì dalle ultime file costringendo la donna ad alzare voce e braccia in segno di calma.

“Lo so, lo so! Posso capire quanto questo renda complicate le cose, ma è l’unica soluzione praticabile.”

Peggio! Partirono fischi e qualche frase poco irriguardosa, una delle quali, perché non ci fate accedere al bagno della vostra camera, diede a Shiry l’avvio per estrarre il manganello e al solito, scaraventarlo con forza contro la prima superficie utile.

“Basta cosi!” E tornò nuovamente l’ordine.

Setsuna sospirò riprendendo il polso della situazione. “Ho anche una bella notizia. Per la fine del Carnevale, il Ministero ci ha dato il permesso di poter organizzare una festa danzante. Naturalmente potranno partecipare tutte le detenute che non sono sotto regime restrittivo, ovvero tutte voi qui presenti. Abbiamo un mese di tempo per mettere in piedi una bella cosa, perciò chiedo a chiunque voglia suonare di farsi avanti. Le prove degli strumenti avranno luogo in biblioteca o se il tempo lo permetterà, all’aperto. Questo è tutto.”

Minako strinse forte le mani l’una contro l’altra, impazzita di gioia. Ballare! Quanto tempo era che non ne aveva più l’occasione. Il suo sogno. La sua vita. Potersi finalmente esprimere con il movimento. Usagi la guardò un poco perplessa fino a lasciare sulle labbra un sorriso. In effetti era una gran bella novità. Una distrazione piacevolissima che le avrebbe portate a stringere altre amicizie e magari, ad impegnare il loro tempo in maniera costruttiva, proprio come le avevano detto Michiru e Setsuna Meioh. Quegli strumenti musicali dopotutto non sarebbero stati inutili come credeva.

“Allora suonerai!” Disse Haruka ad una Kaioh sempre abbastanza sul chi vive.

“Credo. Non so. Forse.”

“Che c’è?!”

“Nulla.” Elusiva guardò Makoto piazzare l’ennesima manata sulla schiena della bionda.

“Serviranno svariati cavalieri, Tenoh!”

Cavalieri! Michiru aggrottò la fronte fissando il viso sorpreso della sua compagna di cella. Il suo cavaliere. Improvvisamente si ricordò dei pensieri di una lei bambina, quando nel veder danzare i propri genitori, cercava, senza successo, di figurarsi l’uomo che l’avrebbe stretta fra le braccia. Che l’avrebbe guardata negli occhi sussurrandole la sua bellezza. Che l’avrebbe fatta sentire amata.

“Non capisco.” Rispose Haruka noncurante. Si che capiva.

“Andiamo Haru! Non vorrai farmi intendere che non accompagnerai Michiru! Vedi forse degli uomini in questo posto? A parte quello stoccafisso di Kiba, qui dentro c’è solo una concentrazione esagerata di estrogeni.” Se la rise Mako, seguita a ruota da Mina, ma non dalla piccola Usagi.

Guardando storto entrambe, si sbilanciò con il difendere il giovane medico apostrofando le due come stupide cafone.

“Che cos’è questa novità? Da quando in qua ti piace quell’attrezzo?”

“Mako piantala! Non mi piace affatto, ma è comunque un bravissimo professionista!” Osò ergersi a paladina, venendo così sfottuta anche dalla sorella.

“Lasciamola perdere che da quando frequenta l’infermeria di quell’uomo, la mia sorellina non fa che parlare di quanto sia bello, bravo e sensibile il moro di Buda.”

E si accese una diatriba che portò le tre a punzecchiarsi a vicenda, mentre Michiru si guardava Haruka e quest’ultima faceva finta di nulla, continuando a non volere entrare in quella conversazione per lei inutile. Così passò un buon quarto d’ora con il polso della situazione che andava dall’euforia per l’evento, alla preoccupazione per l’accesso ai bagni.

Una volta che l’assembramento venne sciolto, Kaioh s'isolò in biblioteca e con la scusa di aiutare un altro paio di detenute a prendere i nominativi di chi avrebbe voluto suonare, restò fuori dalla cella per la restante mattinata. Cercò di concentrarsi il più possibile, ma non vi riuscì molto. Cavaliere. Questa parola non fece altro che ronzarle nella testa per ore, tanto che quando vide il viso della bionda far capolino da dietro la porta, tornò ad increspare la pelle della fronte in un’espressione al limite del contrariato.

Appoggiata ad un tavolo con un elenco tra le mani, la guardò avanzare bella come il sole. Studiando con minuzioso interesse l’ambiente abbastanza scarno, ma comunque ricco di volumi di un certo interesse, Haruka si infilò le mani nelle tasche con estrema nonchalance.

“Dunque è da qui che ieri sera hai suonato?” Chiese continuando a non guardarla negli occhi. Cosa questa che all’altra diede molto fastidio.

“Già.“ Assumendo il cipiglio di un’insegnante di fronte ad un’interrogazione, lasciò scorrere lo sguardo sulla lista. In parecchie stavano aderendo all’iniziativa di Setsuna.

“Sai, a me piace leggere, ma devo confessarti che qui dentro non ci ho mai messo piede.” Continuò Tenoh andando verso uno scaffale dove campeggiavano alcuni dei tomi più conosciuti della letteratura mondiale.

“Lo so.” Un sibilo fintamente distratto che Haruka percepì come una critica.

“Cosa vuoi dire?!”

“Non vederla sempre male. Non ti ci ho mai vista, ecco tutto. - Abbandonando i fogli sul piano se la squadrò sorridendo in modo strano, quasi con provocazione. - Lo sai chi mi ha indicato questo posto per suonare?”

Prendendo un libro ed iniziandolo a sfogliare, questa volta toccò alla bionda far finta di niente. Michiru sembrava estremamente infastidita. Sicuramente era la conseguenza del suo adolescenziale approccio idiota che aveva avuto con lei la sera precedente.

“Immagino Horvàth.”

“Immagini bene.”

Jo ama molto l’Architettura ed è un tipo piuttosto curioso. Ha studiato gran parte delle piante del carcere. Dovrebbe farsi una vita privata.” Nel parlare della sorella sorrise quasi con dolcezza alle lettere di una pagina aperta a caso.

Ancora uno spaccato del carattere di quel secondino. Nuovamente affetto nel timbro profondo della bionda. Quel nome pronunciato con una famigliarità che per lei ancora non aveva. Ma perché?!

Staccandosi dal tavolo Michiru le andò accanto parlandole sommessamente. “Makoto ha detto il vero; siamo tutte donne e al ballo qualcuna di noi dovrà per forza di cose fare l’uomo.”

Storcendo la bocca Haruka sembrò assolutamente certa del fatto che mai avrebbe danzato in vita sua. “Io sono una donna e ne vado fiera.”

“Non vuoi accompagnarmi?”

“Ci mancherebbe che ti lasciassi andar sola! Ma scordati una qualsivoglia movenza ballerina.”

Reprimendo un’improvvisa voglia di piantarla li su due piedi, Kaioh tornò al pieno controllo di se respirando profondamente un paio di volte. Era stanca di quella maniacale forma di controllo.

“Ti ho già detto che non ho bisogno della guardia del corpo. Dimmi invece chi realmente vorresti condurre su una pista. Horvàth forse?” Chiese a bruciapelo sentendosi una morsa allo stomaco.

“Chi!? - E sbottò a ridere incontrollatamente, perché scena troppo assurda. - Sei completamente fuori strada Michiru.”

“Se sono così persa, allora perché non mi dici una volta per tutte cos’è che vi lega!?”

Non avrebbe voluto Haruka, ma fu brusca nel rispondere a quella che con il passare dei giorni stava diventando una domanda più che lecita. Non era ancora pronta a rivelarle cosa in realtà rappresentasse Johanna per lei.

“Queste sono cose che non ti riguardano Kōtei.” Chiudendo il libro di scatto lo ripose rimarcando con quel gesto l’invasione del proprio emisfero privato.

Esasperata Michiru questa volta cedette abbandonandola per tornare dalle altre, parlottare un momento con loro ed infine dirigersi di gran carriera verso la porta. Passo deciso e pugni stretti nelle mani. Era assolutamente inutile dialogare con quella zotica di Pest.

Cazzo e la zotica di Pest seguì la sua personalissima stella Polare senza neanche pensarci su. Aveva esagerato. “Aspetta Michi…”

“Non darmi noia!” Svolta a destra e via.

“Aspetta ho detto!” Evitando di dare troppo nell’occhio cercò di rimanerle incollata.

“Fai quel cavolo che ti pare e fallo con chi vuoi! Hai ragione Tenoh; non sono affari miei!” Un nuovo angolo ed entrarono nel loro blocco e più la bionda la seguiva a stretto giro e più Michiru si rendeva conto che quella stava diventando una fuga da se stessa e dalla gelosia che sentiva di provare nei confronti del secondino.

“Mi vuoi spiegare che ti prende? Kōtei!”

Già a metà di una delle scale metalliche che metteva in comunicazione il piano terra al ballatoio, l’altra si voltò fuori di se.

“Non chiamarmi così! - E sentendosi afferrata per un polso, cercò di scioglierlo divincolandosi. - Non voglio piu' vedere questo atteggiamento... e' chiaro!?”

“Michi…”

“Arrivi ergendoti a salvatrice della mia virtù… - abbassò la voce - … mi metti le mani addosso. Mi segni come se fossi roba tua. Chi ti credi di essere, eh?!”

La bionda lasciò la presa dandole due occhi interdetti. “Michiru non so cosa ti stia prendendo, ma… calmati.”

“Che stiamo insieme noi?!”

“N… no, ma…”

“Ecco, appunto!”

“Io non…”

“Non sono il tuo trastullo Haruka…” Disse ancora più piano sentendosi patetica e sull'orlo di una crisi di pianto.

“E’ questo che pensi? Che stia giocando con te?”

“Non è forse così?”

Delusa la bionda scosse la testa. Come avrebbe mai potuto! “Se è per ieri sera…”

Ma non riuscì a proseguire. Cosa le avrebbe potuto dire? Che era attratta da lei come una falena alla luce? Che voleva stare con lei ogni dannatissimo istante della giornata e… della notte? Che… l’amava? L’amava!

Trattenendo una specie di singulto a quell’ovvia rivelazione, Haruka chinò la testa dando l’avvio all’ennesimo malinteso.

“Visto?! Ti sei risposta da sola Tenoh.” Chiuse definitivamente l'altra senza rendersi conto dell'epifania avuta dalla bionda.

 

 

Anime affini

 

Dopo l’annuncio della condivisione forzata dell’acqua che il Braccio B avrebbe dovuto avere con quello A, per le più giovani il resto della mattina trascorse abbastanza normalmente. L’eccitazione per la festa danzante concessa loro dal Ministero, rese tutte euforiche ed abbastanza inclini all’accoglienza delle più grandi. Naturalmente sarebbe stata una tregua di brevissima durata. Lo sapevano tutte; dalla Direttrice, all’ultima delle guardie di presidio al portone.

“Finché dura.” Setsuna Meioh accettò con un po’ di riluttanza la pasticca e il bicchier d’acqua che le stava porgendo il Dottor Kiba.

Finito di parlare alle detenute, aveva avvertito un pesante mal di stomaco che l’aveva costretta sia a rimettere la colazione, che a fare un salto in infermeria.

“Con questa dovrebbe andare meglio. E’ un potente antispastico. Però lasciatevi dire che se non riuscirete a trovare un pizzico di tranquillità in più continuerete a soffrire di stomaco.”

Ingoiando la pallina bianca con un colpo secco del collo, la donna sorrise. “Da sempre somatizzo tutto lo stress in punti ben noti dell’addome. Ormai ci sono abituata.”

“Non è una buona ragione per smettere di provare a curarsi. Molto spesso è un problema di testa.” Osò dire avendo intuito già da un po' come la sagacia della quale quella donna era dotata, non le avrebbe mai permesso di offendersi per una frase tanto azzardata.

Ed di fatti Setsuna non se la prese, anzi, rilassandosi sulla poltroncina ci rise anche su. Nonostante Kiba fosse entrato a far parte dello staff della prigione solamente da qualche settimana, aveva scoperto di avere con lui molti punti in comune, come la vena intuitiva e parlando durante le ore serali nelle quali si cimentavano in lunghe partite agli scacchi, la donna aveva anche compreso quell’era stata la molla che aveva portato un semplice ragazzo di campagna a ricoprire il ruolo di medico presso una casa circondariale. Pest! Ovvero uno dei suoi sobborghi più degradati. Lo stesso nel quale la piccola Setsuna era cresciuta allo sbando con i fratelli.

Orfano di guerra, arrivato ancora piccolo dalla provincia cittadina nella grande e caotica capitale, arrestato all’età di quindici anni per furto, sbattuto e cresciuto in una specie di casa famiglia per delinquentelli, si era rivelato comunque forte abbastanza per elevarsi tra molti, studiare e farsi una posizione. Mamoru Kiba era emerso dalla melma della povertà e stava a tutt’oggi cercando di farsi strada nel mondo con unghie e denti. Simili. Due anime molto simili, soprattutto per quella scia di perfezionismo che li vedeva sempre provare e riprovare fino al raggiungimento dello scopo prefissato.

“Non è una mia semplice fantasia se mezzo carcere è senz’acqua. - Arpionandosi il viso la donna scavallò una gamba per accavallare l’altra. - Speriamo almeno che l’idea del ballo non sia stata una grandissima idiozia.”

“Potrebbero insorgere problemi?”

“Ne nascono sempre in posti come questo.” Poi accendendo le iridi di furbesca femminilità, gli chiese se si fosse mai soffermato a pensare al fatto di essere l’unico uomo in un ambiente pieno zeppo di donne di tutte le età.

Stuzzicandosi la leggera peluria di una mancata rasatura, lui fu ancora più sornione. “Cosa dovrei… preoccuparmi forse?”

“Non ditemi che con tutto il ben di Dio che offre la casa della luce, non c’è nessuna che vi,... come dire, stuzzichi l’ego maschile!? O devo pensare che fuori di qui vi sia già un cuore che batte per voi?”

“In realtà nessuna di tanto speciale.”

“Dunque?!” Incalzò per puro gusto.

Iniziando a tamburellare l’indice su bracciolo, Kiba spostò lo sguardo agli armadietti dei medicinali che movimentavano le pareti bianche. “Diciamola tutta Direttrice; non potrei mai allacciare una relazione in un ambiente come questo. Non fraintendetemi, non perché consideri le donne che vivono qui solo come meri pezzi di carne da curare, ma credo che la mancanza di libertà renda le reazioni sentimentali… troppo enfatizzate.”

“Questo è vero, E’ come se qui tempo e spazio siano rallentati. In un certo senso… falsati.”

Facendo un gesto d'approvazione, lui continuò tornando a fissarle quegli occhi tanto particolari. “Certo è che se trovassi una gemma rara…”

“Allora provereste l’azzardo?” Chiese Setsuna piegando la testa corvina da un lato, mentre lui avvicinava la sua con estrema fermezza.

“Le notti in prigione possono essere fin troppo insopportabili se passate da soli.” Disse sfiorandole delicatamente una guancia.

 

 

Trascorsi due giorni, fu chiaro che la questione acqua non avrebbe portato solo un enorme quanto ovvio disagio, ma avrebbe finito con lo scombussolare tutte le tabelle giornaliere che ritmavano la vita di quel microcosmo bene oliato. Così il minutaggio dedicato all’igiene personale aveva iniziato ad accavallarsi a quello per il mangiare, quello per lavare gli indumenti aveva finito per soppiantare quello per le attività ricreative e il rimanente tempo, che in genere si spendeva per vedere i famigliari, aveva portato alla discutibilissima scelta di creare in parlatorio grupponi indisciplinati sempre meno gestibili.

“Colpa tua! Guarda che casino.” Se la rise Haruka scannerizzando l’ambiente asettico sovraffollato che era il parlatorio comune.

“Sta zitta! Aspetto ancora un grazie.” Sbiascicò Johanna cercando di mantenere una certa serietà.

“Col cavolo!” E salutando Scada appena entrato dalla parte opposta dello stanzone, lasciò la sorella a rimuginare ad un perdono che non le sarebbe mai concesso.

“Finalmente sei venuto a trovarmi!” Esordì la ragazza abbracciando l’uomo con trasporto.

“Haruka! Ti trovo bene. - Stringendole le spalle contrasse la bocca in una smorfia. - Forse un po’ troppo sciupata. Ma ti danno da mangiare qui?”

“Ma si, si. - Fece lei elusiva mentre si accomodavano al tavolo. - Ma dimmi, Mirka e i ragazzi? Tutto bene a casa?”

“Tutto come al solito. Ho saputo da Jo che il Tribunale ha respinto la richiesta di riduzione della pena.”

“E ti ha anche detto il perché?!” Vomitò rancorosa stuzzicandosi un’unghia.

Certo che si, ma Scada glissò alzando un poco le spalle. Era ungherese tanto quanto quel piccolo Turul biondo e conosceva perfettamente le leggi non scritte dai Táltos delle loro comunità sull’onore verso i propri avi. Non lo avrebbe mai confessato ad Haruka, ma approvava Johanna e la sua scelta di aver contribuito nel farle sfumare l’uscita anticipata per buona condotta. Sarebbe stato totalmente inutile vendicarsi di Kaioh per la morte di Jànos.

“Haruka ascoltami. Cerca di non colpevolizzare tua sorella e prova a pensare…”

“E no! - L’interruppe lei alzandosi di scatto mettendo in allarme la vigilanza. - Sono io a stare qui dentro, non lei!”

“Tenoh… seduta o torni in cella!” Urlò Johanna staccatasi dal muro di fronte mettendo la destra all’impugnatura del manganello.

“Ecco, la vedi?! Ma si fotta!” Ringhiò tornando sulla sedia.

Scada sospirò incrociando lo sguardo della maggiore. La posizione nella quale Jo era andata ad infilarsi non era certo delle più comode.

“Senti, lasciamo perdere e dimmi piuttosto cosa succede a Pest. La fabbrica? Il Consiglio è riuscito a far qualcosa contro l’acquisizione della C.A.P. da parte della Kaioh?”

“C’è poco da fare Haruka.”

“Ma il contratto che abbiamo trovato a casa? L’avete fatto vedere ad un avvocato?”

“No, perché per adesso la situazione si è cristallizzata. Il Regime ha momentaneamente bloccato gran parte delle transazioni bancarie della Kaioh Bank e fino a quando permarrà questa situazione, non possiamo fare un gran che.”

La ragazza sembrò stupirsi. “Qui non passa un quotidiano neanche a pagarlo oro. Cos’è successo?”

“Pare che la figlia di Alexander Kaioh sia stata arrestata con l’accusa di sovversione. Puoi immaginare il fragore politico.”

“Certo! Quel porco è ammanicato con tutte le alte schiere del Regime. Quello schifoso presta soldi a mezzo Stato. Pensa quanto ci sarà rimasto di sasso nel sapere che la sua dolce bambina covava come una serpe tra le mura della sua sontuosa villa.” E ne godette.

Mettendole una mano sul braccio, Scada si sporse paternamente e consigliandole di cercare di star buona e sopportare, vide Johanna avvicinarsi facendo cenno che i minuti erano terminati.

“Mi dispiace, ma dovete andare signor Erőskar. Oggi il tempo per i colloqui è ridotto.”

Scada se la guardò arricciando il naso. Quanto gli faceva strano vedere quella ragazza con una divisa addosso. Lei era un tecnico, non un’agente. E gli studi? Dio del cielo, quella storia rischiava di bruciare le vite di entrambe.

“Va bene, vado. Mi raccomando a voi… due.” Alluse strizzando un occhio ad entrambe.

Così allungando una carezza ad una bionda abbastanza contrariata per il troppo zelo del secondino, fece per andare verso l’uscita, quando un nome chiamato a gran voce da una guardia lo colpì.

“Kino è il tuo turno!”

“Eccomi!”

E vide una ragazza alta, magra, ben formata, con una lunga coda di cavallo castano chiara, gli occhi di un chiarissimo verde acqua, camminare con passo sicuro verso il tavolo dove la stava aspettando a braccia aperte un bel ragazzo.

Belami, pensò raggiunto dal ricordo del viso della donna che in un tempo giovanile aveva amato più di se stesso.

“Chi è quella ragazza?!” Chiese ad Haruka stringendo forte la mascella.

“E’ Makoto Kino.”

“E’ una tua amica?”

“Si. E’ dentro per furto con scasso, ma nonostante tutto è una gran brava persona.”

“Quanti anni ha?”

“Diciassette. Perché me lo chiedi?”

Sentendosi le gambe molli Scada tornò a guardare entrambe le ragazze scuotendo la testa. “Nulla, è solo che assomiglia moltissimo ad un fantasma.”

“Come un fantasma…”

“O, non è nulla Haruka. Stai in gamba, mi raccomando. Cercherò di tornare presto con Mirka. Arrivederci.” E lasciando la bionda, si diresse con Johanna verso l’uscita dando un ultimo sguardo a quel fantasma che stava ora tra le braccia del suo ragazzo.

 

 

Dimostrazione di “forza”

 

Iniziava a sentirsi entusiasta per quella nuova, benedetta sfida. Michiru non avrebbe mai creduto che riprendere a suonare le avrebbe infuso nel petto tanta gioia. Man mano che venivano delineate le assegnazioni degli strumenti e scelte le partiture per la festa, il vigore famelico proprio di ogni musicista che si rispetti stava tornando a divorarla, così che anche i problemi con la bionda, i tentennamenti, i dubbi, quando impugnava l’archetto sembravano più piccoli. Più semplici d'affrontare. Certo, la strana relazione venutasi a consolidare tra lei e la sua compagna di cella, non le regalava pensieri sereni e sogni con unicorni rosa, ma affrontare quel dizionario complesso di contraddizioni che era per lei Haruka Tenoh, con lo sfogo della musica era sicuramente divenuto più fattibile.

Camminando con fare allegro per il corridoio che portava alla biblioteca, si sentì felice di essere viva dopo un’infinità di tempo e disegnando sul viso un sorriso compiaciuto, guardò gli spartiti che stava stringendo nella destra. Complessi, ma se bene eseguiti saranno un successone, pensò non accorgendosi di essere entrata in un campo minato.

Distratta si ritrovò così a sbattere contro una detenuta piuttosto massiccia. Scattando da un lato, chiese prontamente scusa prima che una risatina le raggiungesse le orecchie. La slava la guardò soddisfatta dal suo metro e ottanta.

“Kōtei! Tra le nuvole oggi? - E le artiglio' la vita con decisione. - Dov’è il tuo cagnolino?”

“Tesla…”

“Allora?”

A brutto muso, Michiru ne sostenne lo sguardo staccandosela da dosso. “Se intendi Haruka… credo stia ricevendo visite in parlatorio.”

“Senti un po’, si dice in giro che siate diventate una coppia. E’ vero?” Analizzandole il segno sul collo che, anche se sbiadito ancora s'intravedeva, le fece schizzare la pressione alle stelle.

Toccandoselo Michiru sottolineò che non erano affari suoi.

“In realtà lo sarebbero, visto che gli occhi su Tenoh ce li avevo messi prima io. Poi sei arrivata tu e quel piccolo cucciolo biondo è caduta in… confusione. Ma possiamo sempre porre rimedio, perché in certe situazioni particolari, più si è e meglio è, giusto?!”

Francamente stanca di quella perenne tensione sessuale che serpeggiava tanto impunemente per gli ambienti di quel posto, Kaioh non le rispose nemmeno tirando dritta per la sua strada.

“Bè che fai?!”

“Non lo vedi? Me ne vado Tesla.”

“Aspetta un po’…”

Slava!” Haruka comparve dalla scala d’accesso al piano.

“Amore mio! E tu da dove salti fuori?” Giubilò malignamente la più grande.

“Non ti basta quella cagnetta che ti scalda ogni notte?! Bada a non dar rogne a Kōtei!”

“Ma io è te che stavo cercando.” Ammise alzando infantilmente le sopracciglia.

“Ecco, mi hai trovata!”

Tesla stava per controbattere quando il capo squadra Shiry si affacciò da una porta poco oltre. Dilatando le narici delusa, la detenuta la salutò con un cenno della testa abbandonando le altre due. “Alla prossima Tenoh.” E se ne andò senza ulteriori strascichi.

Sbuffando Haruka si rassicurò. L’ennesimo proiettile schivato.

“La cosa inizia ad essere imbarazzante Michiru. Potresti anche evitare di alzarti i capelli. Attiri troppe rogne quando li porti così.” Ma quello che avrebbe dovuto essere un goffo complimento, portò Kaioh a gonfiare inaspettatamente un’onda di Zunami.

“Non ho bisogno del tuo scudo immaginario!” Ecco, per Michiru il momento di grazia era scemato, polverizzato da due gallette da cortile.

“A si?!”

“Esatto e ti ripeto quello che già ho detto a Mery; conosco svariati modi per difendermi da sola e il fatto che non voglia, non vuol dire che non possa farlo!”

“Non paragonarmi a quell’idiota!”

“E allora finiscila di assomigliarle tanto!”

Haruka afferrò gli spartiti. Stava perdendo la pazienza. “Vuoi davvero essere lasciata in balia delle donne di questo carcere, Kōtei? Vuoi davvero che non ti giri piu' intorno? Se sai difenderti tanto bene perché non lo hai fatto con Mery?"

"Non ne ho avuto il tempo! Lascia i fogli Tenoh, così li rovini!”

“Problemi ragazze?” Shiry uscì dalla stanza e richiudendo la porta si fermò abbandonando una mano sulla doratura della maniglia.

Continuando a tenere gli occhi inchiodati in quelli dell’altra, Haruka la tranquillizzò mollando la presa. “Nulla capo.”

“Vuoi che te lo dimostri? Vuoi che ti dimostri di essere in grado di non farmi toccare da nessuna che io non voglia? D’accordo, ma a una condizione; se ci riuscirò, mi farai da cavaliere al ballo!” Pattuì sviluppando un sorrisetto strano.

Haruka aggrottò la fronte non capendo, mentre l’altra abbandonava gli spartiti sul pavimento avvicinandosi e sfiorandole il fianco col proprio.

“Sono più forte di te, Michiru.”

“Questo non conta.”

“Conta e come, ma se proprio ci tieni… Se mi dimostrerai quello che per me e pura e semplice utopia, ti farò da cavaliere al ballo.”

“Una promessa dunque. Non aspettavo altro.” Le soffiò in un orecchio sentendola rabbrividire.

Spostandosi verso il lato sinistro, Kaioh lasciò strusciare sensualmente il suo bacino contro quello della bionda che irrigidendosi all’istante, dilatò le pupille trattenendo il fiato. Simultaneamente, afferrando con la mano destra parte del suo maglione, passò l’avambraccio sinistro sotto la ascella di quell’inerme sacco improvvisato pregustandosi l’inevitabile.

“Michiru…?” Disse sentendosi baciata dolcemente sulla guancia e fu un attimo.

Haruka vide il mondo rovesciato e quando il freddo mattonato bicolore accolse la sua povera schiena, si ritrovò abbattuta come una quercia. Tossendo guardò l'altra da terra ad occhi sgranati.

Lasciando la presa al maglione Michiru si ricompose sistemandosi il suo. “Bene. Ti aspetto in biblioteca tra dieci minuti.” E riprendendo i fogli si allontanò serafica disegnando sulla bocca il sorriso più soddisfatto del mondo.

Peggio di una vecchia testuggine schiacciata sul suo carapace, la sconfitta cercò di girarsi pancia sotto, aspettandosi dal capo Shiry quanto meno una parola. Un aiuto. Ma alzando le spalle quella fece una smorfia buffa allontanandosi come se nulla fosse.

Ma dai… e che cavolo, si disse mentre le suole di due anfibi si fermavano ad una spanna dal suo braccio.

“Perché sei per terra?” Ironica Jo le si accovacciò accanto guardandola soffiarsi via un ciuffo della frangia dagli occhi.

“… L’hai vista?”

“Dimmi come avrei potuto non vedere l’incommensurabile figura di merda che hai appena fatto con una ragazza che ha almeno quindici centimetri in meno di te. Credo proprio che mi farò dare qualche lezioni di… qualsiasi cosa abbia usato per ridurti così, Ruka mia.”

Poggiando la fronte a terra la bionda ebbe un’epifania. “Kōtei è un cognome giapponese! Come ho fatto a non arrivarci prima…“

“Te lo dico io, perché quando sei vicino a quella ragazza avvampi come una comare con le caldane e non capisci più niente! - Alzandosi la scavalcò per dirigersi anche lei in biblioteca. - Non me la voglio proprio perdere la scena di te che impari a ballare.”

“Ma fottiti Jo.” Mugolò sapendo che avrebbe dovuto trasformarsi da ciocco stagionato a cavaliere in meno di quattro settimane.

 

 

L’agente bussò e attese l’apertura del grande portone borchiato che dava accesso al mondo per nulla semplice, delle carceri femminili. Era la prima volta che aveva occasione di entrarvi e se da un lato l’opportunità datale dal Ministero di Grazia e Giustizia l’inorgogliva, da l’altro stava avvertendo i crampi dell’agitazione già dalla sera precedente, quando la telefonata del suo superiore, l’aveva avvertita di quel nuovo incarico; redigere un rapporto dettagliato sulla segnalazione di guasto che la Direttrice Setsuna Meioh aveva fatto.

Se non si fosse trattato di una porzione dell’impianto idrico, lei non sarebbe neanche stata scomodata. Ma si sa, prevenire è meglio che curare, ed in questo frangente ipotizzare manomissioni per un’eventuale fuga, doveva essere una fantasia da prendere in considerazione.

Fermandosi sul pianerottolo, l’agente alzò i profondi occhi neri alla targa dorata che segnalava il nome di quel posto.

“Bene, si va in scena!” Si disse e bussando risoluta attese che la guardia di servizio le chiedesse le generalità.

“Agente Rei Hino, agente speciale della Polizia Investigativa.”

 

 

 

NOTE: Ciau.

Allora, ne ho messa di carne al fuoco ;)

Mery e i suoi propositi, Setsuna e Mamoru, che spero si sia capito che tutto avranno tranne che una storia d’Amore con la A maiuscola, Michiru e la sua montante gelosia verso Johanna, Haruka ed il “suo stare dappertutto”, Scada e Makoto e, dulcis in fundo, Rei. Lei proprio non doveva esserci, ma come tantissime cose, è apparsa all’improvviso, schizzando fuori dalla tastiera.

Vediamo un po’. Credo però che vedremo anche una componente di mistero, tipo (non linciatemi per l’accostamento, è solo per farvi capire) il nome della rosa.

A prestissimo.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XVII

 

 

Due bambine

Periferia rurale di Baja, Ungheria meridionale – Casa Hino, Settembre 1939

 

 

L’estate era stata calda, Torrida come si dice in questi casi, sotto ogni punto di vista e ora toccava a loro, due bambine dall’indole solitaria, pagarne il prezzo. Uno scotto salato che le avrebbe divise. Loro; anime affini, unite dalla sorte per chissà quale scherzo del destino. La prima, più grande di quattro anni, abbastanza taciturna, per alcuni misticamente schiva, la seconda, ponderata, timida al punto da preferire passare ore rintanata nella cucina dietro alle sottane di qualche anziana cuoca pur d’imparare i segreti dell’arte culinaria del loro paese. Due cuori grandi come la loro acerba curiosità. Dieci anni Rei. Sei anni scarsi, Makoto.

“E così ve ne andate?!” Lamentò la ragazzina dai lunghi capelli neri mentre spostando le iridi pece verso lo stagno, le perdeva sulle ninfee in fiore che si aprivano sull'acqua dietro il capanno degli attrezzi del podere di famiglia.

Makoto sospirò portandosi le ginocchia al petto. Quella notizia datale dalla madre Belami la sera precedente, era stata come un fulmine a ciel sereno. Si trovava bene con la famiglia Hino e proprio non riusciva a capire perché da qualche tempo in quella casa si respirasse un’aria tanto pesante.

“Già.” Rispose laconica seguendo la scia di un gruppo di formiche, iniziando a farle deviare dal loro andare con l’ausilio di un filo d’erba ormai secco.

Essendo un poco più grande e stando lentamente per entrare in quello spicchio di vita chiamato pre adolescenza, Rei invece qualcosa aveva intuito. Le discussioni che sempre più frequentemente sentiva accendersi tra i suoi genitori non lasciavano tanti fronzoli all’immaginazione. Era Belami la causa dell’esplosioni di gelosia che sovente colpivano la madre.

Belami Kino era una bella donna proveniente dalle zone palustri dell’ovest del paese, che tre anni prima aveva trovato lavoro presso le coltivazioni della famiglia Hino. Lavoratrice attenta ed infaticabile, aveva immediatamente fatto buona impressione, tanto che la stessa signora della masseria le aveva chiesto di rimanere con loro anche nei mesi invernali. Forse a causa del suo essere una ragazza madre, vogliosa perciò di offrire a sua figlia un nido nel quale crescere, Belami aveva accettato con gratitudine diventando presto una di famiglia. Tutto fino alla primavera precedente, alla rottura che Rei aveva intuito essere la sbandata del padre verso quella donna più giovane che non lo corrispondeva e che gia' tanto aveva sofferto per amore di un uomo sposato.

In tutta franchezza delle beghe tra quei tre adulti a Rei poco importava. Quello che per lei invece contava davvero, era l’amicizia che aveva istaurato con quella bambina e la profonda solitudine che avrebbe provato nel vederla andar via.

“Io i grandi proprio non li capisco. - Sputò tutto dun fiato lanciando un sasso nell’acqua. - Non si ascoltano. Non osservano!”

A quelle parole la più piccola la guardò in modo strano, molto probabilmente non capendo neanche lei.

“Cosa intendi dire?”

Sospirando l’altra si ritrovò a sorridere a quella faccina tonda e buffa dagli occhi tanto brillanti.

Cosa ne potevano sapere due bambine come loro delle questione degli adulti. E come poter dar torto alla signora Hino, se la storia pregressa della foresteria e le attenzioni, giustificate o meno, del marito al suo indirizzo, la stavano portando a sospettare di chissà quale torbida storia consumata tra i fienili della loro proprietà? Se Belami non fosse stata una ragazza madre, se non si fosse fatta abbindolare da un uomo venuto da Budapest, un aitante e focoso magiaro emigrato sette anni prima per bonificare le campagne palustri dell’oriente ungherese, niente sarebbe accaduto.

Anche se piccola, Rei aveva un intuito fuori dal comune, che spesso stupiva i suoi genitori e gli abitanti di quel fazzoletto di terra di confine. Un intuito che portava guai, ghettizzazione, sguardi increduli e diffidenza.

“Nulla Mako. Nulla.”

Si limitò a dire sorridendole bonaria, perché anche se le avesse confessato la vera causa dell’allontanamento suo e di Belami, l’amichetta non avrebbe capito. Anima candida, non era ancora entrata nei meccanismi adulti che la stessa Rei faceva ancora fatica ad afferrare pienamente.

“Non voglio andare via. Mi trovo bene qui!”

Cingendole le spalle con un abbraccio, l’altra non poté che ammettere quanto la cosa devastasse anche le.

“Scappiamo!” Disse improvvisamente la piccola alzandosi di colpo.

“Cosa?”

“Si Rei, scappiamo. Andiamo a Budapest, li c’è mio padre! Lui ci aiuterà.”

Seguendola lentamente, la moretta sembrò non capire. “Come tuo padre!?”

“Si! Mamma mi parla spesso di lui quando non riesco ad addormentarmi. E’ bello. E’ forte. E’…”

“E’ a Budapest, Mako. Ma lo sai quanto è lontana?”

“Non m’importa!” Urlò stringendo i pugni.

“Và bene! Và bene! Ma sai almeno come si chiami e dove viva?” Chiese cercando di calmare quell’improvvisa esplosione di frustrazione.

Qualche secondo e poi abbassando le mani la bambina ammise dolente. “No…”

“Allora mia cara Mako non credo che…”

“Lo riconoscerò! - Se ne uscì con la convinzione tipica delle bimbe della sua età. - Mamma dice che gli assomiglio.”

“Cosa vuol dire!”

Afferrandole una mano lei insistette. “Rei, sono sua figlia. Vedrai che questa cosa mi condurrà a lui.”

“Makoto…”

“Ma come! Non sei tu a dire sempre che i sensi degli esseri umani sono più sviluppati di quanto non credano?! Che fai? Ora ti rimangi le parole?”

“No è che… - Poi guardandola in quella trasparenza al limite del pianto, non poté far altro che arrendersi. - O al diavolo! D’accordo, ci proveremo. Ma riuscirai a tenere il segreto fino a quando non avrò pianificato tutto?”

“Certo!” Si mise sull’attenti come un bravo soldatino.

“Bambine… Dove siete?!” Sentirono la voce della signora Hino provenire dalla stalla.

“Andiamo Mako e… acqua in bocca.”

“Si! Rei…”

“Dimmi.”

“Hai detto al diavolo.” Portandosi le mani alla bocca e ghignando, fece roteare gli occhi dell’altra che afferrandole la treccia dai capelli scarmigliati, iniziò a trascinarla senza ritegno lungo il sentiero che le avrebbe ricondotte a casa.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

Camminando leggermente dietro al secondino che la stava accompagnando attraverso il Blocco C, l’agente scelto Hino iniziò a focalizzare la sua attenzione sulle disposizioni di sicurezza. Le veniva naturale, come respirare o correre. Deformazione professionale, avrebbero detto in molti. Puro e semplice spirito di osservazione, avrebbe giurato lei. Non era nata con la sindrome della guardia. Non era il mestiere che avrebbe voluto per se o quello che sognavano i suoi genitori. Eppure il destino, il fato o la pura casualità, avevano scelto per lei e lo avevano fatto bene, visto che ad appena ventitré anni, Rei Hino era di fatto l’agente scelto più giovane della sezione investigativa della città di Budapest.

Passata la pesante porta di metallo che immetteva alla zona “privata” del blocco, le due donne si trovarono davanti un corridoio insolitamente spazioso e ricco di finestre, anche se sbarrate dalle immancabili grate. Stupendosene, l’agente continuò a seguire il suo Virgilio fino ad arrivare alla porta dell’ufficio della Direttrice.

“Prego. La dottoressa Meioh vi sta aspettando.” E bussando, attese una voce aprendo con discrezione.

Da dietro la sua scrivania, Setsuna ingoiò a vuoto indossando la maschera della sicurezza.

“Prego agente. Accomodatevi.”

Una ragazzina. Non si sarebbe mai aspettata di ricevere un agente tanto giovane. Sbattendo le palpebre per la sorpresa, la donna le andò incontro porgendole la mano che l’altra afferrò prontamente.

“Buongiorno Direttrice Meioh.”

“Agente Hino… Benvenuta alla casa della luce.” Disse notando solo in quel momento e con un pizzico d’allarmismo, il pesante borsone che la donna stringeva nella sinistra.

A Rei non sfuggì e per chissà quale meccanismo mentale si senti soddisfatta. Affondando il palmo in quello dell’altra, sorrise forte del suo primo punto.

“Mi dispiace di aver dovuto incomodare il Ministero, ma conoscete anche voi il protocollo di sicurezza da adottarsi in questi casi. - Continuò Setsuna. - Confido e sono fiduciosa sul fatto che non vi occorrerà più di una mezza giornata per raccogliere tutte le informazioni che vi serviranno per stilare una relazione sull’accaduto.”

Appoggiando il bagaglio a terra, l’ospite mise subito le cose in chiaro. E fu come una dichiarazione di guerra su larga scala. “Ci vorrà quel che ci vorrà. Non è mia abitudine fare le cose di corsa, dottoressa.”

Forse perché molto giovane e donna, Rei sentiva pressione e la necessità di dover sempre dimostrare qualcosa.

“E’ per questo che avete portato quello?” Chiese la direttrice accettando la sfida.

“Sono sicura che riuscirete a trovarmi un alloggio.”

“… Naturalmente, anche se ribadisco che per una semplice rottura strutturale non ci vorrà più di qualche ora.” Insistette.

“Questo lasciate che sia io a stabilirlo. Appena alloggiatami vorrei che mi conduceste nel punto esatto dove pensate sia partito il problema che ha portato all’allagamento delle celle del seminterrato. In più vorrei avere i tabulati di tutte le detenute presenti nell’isolamento al momento dell’evacuazione e quella dei secondini di servizio.”

Merda, pensò l’altra sbiancando.

“Ci sono problemi?”

“Niente affatto agente Hino. Ma prego, vi faccio strada. - Le aprì la porta mentre afferrava le chiavi del blocco che portava nella tasca del vestito. - Troverete le stanze per il personale un poco anguste, ma sono calde e tutto sommato confortevoli. Non usiamo camerate qui, ma purtroppo i bagni e le docce sono in comune.”

“E’ tutto sullo stesso piano?”

“Si, al primo. Prego per di qua.”

Imboccando le scale di servizio, Rei continuò ad annotare mentalmente falle nella sicurezza. In primis nella stessa direttrice.

“Perdonate se vi faccio questa domanda, ma sono le chiavi delle stanze del personale quelle che avete preso?”

“Di tutto il blocco, perché?”

“E le portate spesso in giro con voi?”

Inchiodando di colpo per girarsi verso l’altra, Setsuna inalò rizzando la postura. “C’è qualcosa che non vi quadra, agente Hino?!”

Per nulla intimorita ammise che visto il contesto, era quanto meno un’azione azzardata. “Non avete paura di un colpo di mano da parte di qualche detenuta?”

“Assolutamente no. - Riprese per la rampa. - L’accesso a quest’ala è da un’unica porta apribile solamente dall’interno, ed è sempre presidiata. Ogni detenuta che ha l’autorizzazione ad entravi viene sempre scortata da una o più guardie, sia se venga a rapporto nel mio ufficio, sia che vada in infermeria.”

“Durante le degenze sanitarie?”

“Controllo a vista h 24.”

“Pulizie e manutenzioni?"

“Delle prime sono incaricati nostri soggetti altamente selezionati, mentre per i secondi ci rivolgiamo a personale esterno mandatoci direttamente dal Ministero.”

“Perciò se ho ben capito le pulizie all’interno del blocco vengono fatte dalle stesse detenute. Anche nel vostro ufficio?”

Arrivata sul piano Setsuna si fermò ancora. Che cos’era quello? Un interrogatorio accompagnato da una sfilza di critiche all’indirizzo della sua gestione?!

Insospettatamente e contro ogni forma di quieto vivere, la più giovane disegnò sulle labbra un sorriso spavaldo, perché nonostante quella bella donna dal volto abbronzato, la statura slanciata e la postura impettita, continuasse a controbattere colpo su colpo, era lapalissiano che la struttura di quel carcere non fosse sicura.

Nel leggere quel ghigno, Setsuna provò il solito bruciore alla bocca dello stomaco preludio di grampi ingestibili. Avrebbe voluto estrarre gli aculei come un istrice sotto attacco, ma era una donna intelligente e forte della sua maturità, non abboccò alla pungola arroganza dell’altra. L’estranea era giovane e perciò saccente. Cadere in bieche provocazioni non avrebbe fatto altro che rendere la direttrice ridicola.

“Agente Hino, da quando sono a capo della gestione di questo carcere, non è mai accaduto nulla e potete star certa che quando avrete svolto il vostro compito e sarete andata via, l’andazzo rimarrà lo stesso.”

“Sento nervosismo nella vostra voce, dottoressa. Se vi ho offesa, mi dispiace. Credo però di avere accumulato abbastanza esperienza nella casa della giustizia per poter affermare che questo posto non ha i requisiti di sicurezza che mi sarei aspettata di trovare.”

A quella rivelazione l’altra sentì la pelle scossa da un brivido. Questo cambiava tutto. “Avete prestato servizio in quella struttura?!”

“Già… - disse Rei puntando lo sguardo a terra. - … e non ne vado affatto fiera.”

 

 

Non si era mai sentita tanto impacciata, fuori posto e ridicola. Mai! E si che di stupidaggini ne aveva fatte in vita sua. In situazioni tragicomiche ci si era venuta a trovare, soprattutto da ragazzina. Corse sfrenate tra sterco di vacca conclusesi con salti pindarici in pozze di guano troppo ben celate. Arnie accidentalmente sfasciate con conseguenti fughe, sia dal padre, che dalle stesse occupanti. Scivoloni sul ghiaccio. Neve piombatale a bruciapelo giù dai tetti. Ruzzoloni dal letto, quando beatamente immersa in piena fase REM la sorella la svegliava urlandole nelle orecchie. Lo stesso volo coatto fatto la prima volta che aveva incontrato Michiru e che l’aveva vista schiantarsi sul basalto bagnato del tracciato della gara per la Festa della vendemmia, poteva essere annoverato in quella fascia di bonaccia dove il suo orgoglio era stato preso a calci. Ma quello no! Una situazione avvilente al limite del pianto.

“Scusami…” Abbassando la zazzera bionda, Haruka si sentì mortificata.

Di fronte a lei Michiru si massaggiò il collo del piede destro alzando il braccio opposto come a volerla tranquillizzare.

“Non è successo… niente Tenoh. Non… importa.”

E come se importava, visto che era il terzo pestone che riceveva in cinque minuti. Ma d'altronde era stata lei a volerlo, scegliendolo quel supplizio con indicibile masochismo, ed ora che l’aveva trovato grazie alla forza della sua intelligenza, non poteva certo tirarsi indietro. Ne tanto meno lagnarsi. Haruka l’aveva avvertita di essere un ciocco nel ballo, ma lei, convinta di trovarsi in presenza di una puerile scusa per evitare di sottrarsi ad una sua richiesta, aveva minimizzato ergendosi a signora del Jazz Swing. La prossima volta le avrebbe creduto dandogliela vinta a mani basse.

“Te l’avevo detto che ero un’impedita! Mi dispiace Kōtei.” Allargando le braccia desolata, cercò il pietismo che le sarebbe servito per far desistere l’altra dal suo assurdo proponimento.

“Haruka, va tutto bene. Certo i tuoi piedi sono un po' ingombranti, ma ce la faremo vedrai.”

Dio mio quanto sei testarda, si disse la bionda vedendola avvicinarsi.

“Vuol dire che ci metteremo più tempo. Coraggio… Riproviamo. Ricordati… Uno, due, tre… Uno, due, tre…”

“Quello l’ho capito. So contare sai…” E si sentì afferrare la sinistra tornando a respirare a fatica.

La faceva facile quella piccoletta, ma l’ambiente marcatamente ostile fatto da un paio di guardie, tra le quali una ilare Johanna, ed una decina di detenute che la stavano prendendo per i fondelli, unito a quel corpo perfettamente collimante con il suo che aveva avuto l’onore di vedere nudo, non rendevano l’apprendimento una cosa facile. In più, del ballo a lei non gliene era mai fregato niente e questo diminuiva, se non azzerava, la già scarsa concentrazione che stava usando nell'imparare quella fesseria.

“Perché dobbiamo farlo proprio qui?” Sussurrò irrigidendosi nuovamente.

“Perché qui c’è spazio, mentre in cella no. E’ poi quel posto è deprimente. - Dichiarò sicura iniziando a rigirarsi la mano dell’altra nella propria. - Com’è grande rispetto alla mia.”

Avvertendo un’esplosione di calore nel cervello, Haruka guardò altrove cercando di minimizzare. “Non più di tanto.”

“Hai dita affusolate, ma forti.”

“E piene di calli.” Sbuffò annaspando.

Lei si che aveva delle mani bellissime. Ma porca miseria… Kōtei. Penso'.

“Mi piacciono anche con i calli.” E sorrise perché anche lei, suonando uno strumento a corda, ne aveva.

“Adesso svalvola.” Appoggiata al muro come al suo solito, Johanna guardò Minako poco oltre cercando di rimanere seria. Non aveva mai visto la sorella tanto vulnerabile. Abbattuta la corazza che nel tempo Haruka era riuscita ad ergere tutto intorno alla sua anima, Michiru Kaioh stava operando ad insaputa di entrambe, un miracolo e Johanna non poteva che gioirne, anche se l’ombra scura di quel cognome, Kaioh, aleggiava sempre nei suoi pensieri.

“Tenoh è cotta a puntino.” Rispose Kino alzando le sopracciglia.

“Haruka sei troppo rigida. Cerca di scioglierti un poco. - Consigliò Michiru afferrandole la destra per spostarla sul proprio fianco. - Stringimi. Sei tu che dovresti condurre, non io.”

“Mmm…” Credeva fosse facile?! No, non lo era!

“Avrebbe bisogno di una scossa.” Soffiò Makoto e Johanna prese la così detta palla al balzo.

“Kōtei, perché non vi scambiate i ruoli? Evidentemente Tenoh è troppo timida!”

Un affronto che la bionda ingoiò male e digerì peggio. Passi fare l’uomo, condurre, dettare tempo e ritmo nei movimenti, ma farsi scorrazzare per una pista come una femminuccia, mai! Come rianimata, Haruka afferrò la destra di Michiru posizionandosela sul petto, all’altezza del cuore e biascicando un fottiti all!indirizzo della sorella, si strinse contro la sua dama fissandola negli occhi.

Sorpresa l’altra sbatté le palpebre arretrando un po’ la testa. “Come?”

“Nulla. Non ce l’avevo con te. - Ed inalando ossigeno divenne ancora più seria. - Ricominciamo.”

Così fecero e questa volta andò meglio. Estremamente. Due creature meravigliosamente affini, ancora un poco titubanti, ma splendide. La grazia di Kaioh, la gru di Buda. La passione di Tenou, il falco di Pest.

 

 

Tutto contro

 

Ripensando alle prove pomeridiane, Haruka sospirò al silenzio della lavanderia scaraventando l’ennesimo panno nell’acqua insaponata. Doveva ammetterlo; l'era piaciuta quell’esperienza. Non certo per il ballo in se per se, ancora pallosissima pratica, ma per l’opportunità che aveva avuto nel sentire Michiru tanto vicina. Corpo ed anima. E si, quella tremenda ragazza si era aperta, nel senso che al piccolo Turul era sembrato che tutto il nervosismo sceso fra loro da quei tocchi carnali nelle docce, fosse scomparso, polverizzato, lasciato ad una giovane tenerezza nei contatti e una voglia nello sfiorarsi che Michiru non aveva mai manifestato prima. Certo, tralasciando il primo giorno di reclusione e la sera nella quale le aveva regalato la dolce melodia del suo violino, il comportamento nei suoi confronti era ancora abbastanza criptico, ma almeno adesso non c’era più irritabilità in lei. Una sola cosa stava confondendo Haruka ponendola in un perenne stato di tensione e voglia; ovvero l’atteggiamento che Kaioh sapeva padroneggiare splendidamente e che prendeva il nome di femminilità. Stuzzicava, scappava, si riavvicinava per poi scappare nuovamente.

“Sembri confusa.” La voce della sorella le sembrò irriverente come al solito.

“Non so a cosa tu ti stia riferendo Johanna e francamente poco me ne frega.”

Scaraventando l’ultima maglietta nell'acqua la sentì al fianco. “Piantala di avercela con me! E’ dalla morte di nostro padre che non parliamo più noi due.”

“La stai mettendo sul personale?”

“Non è forse così, Ruka?” Chiese dando le spalle al vascone in pietra appoggiando i palmi al bordo logoro.

Era vero e la bionda lo sapeva. A dividerle non era stato solo quel meschino voltafaccia che aveva costretto Johanna a tradirla, ma tutto quanto. La perdita della C.A.P., il suo farsi deturpare il braccio, quello che quel simbolo inciso nelle carni rappresentava, il prendere coscienza che la sua diversità era dannatamente mal vista e l'arresto ingiusto subito. Queste cose avevano portato Haruka a separarsi da Johanna, a non parlarle più con il cuore nelle mani come invece era sempre stata solita fare, a tenersi tutto dentro, con l’ovvio risultato di un malessere che aveva colpito entrambe.

“Mi manchi. - Mormorò la maggiore abbassando la testa. - E da sorella non sai quanto mi dispiaccia non esserci.”

“Me la sto cavando benissimo da sola!” Tagliò sentendo però la determinazione venire meno, perché anche se non sopportava ammetterlo la cosa era reciproca.

“Lo so. Lo vedo, ma non mi riferisco solo alle cose negative, ma anche a quelle belle.”

Serrando la mascella Haruka raddrizzò la schiena piantandole gli occhi addosso. “Cosa intendi dire?”

“Michiru…” E rimanendo appoggiata all’umidità del bordo Jo ne sostenne tranquillamente lo sguardo.

“Cosa c’entra Kōtei?”

Un piccolo suono gutturale e l’altra dichiarò senza mezzi termini. “Sei innamorata persa.”

“Sciocchezze!” Un ampio movimento con il braccio e via le mani in ammollo per iniziare a strofinare.

“A si? Tu che ti pieghi ad imparare una cosa che francamente ti ha sempre fatto schifo? Tu che proteggi ingoiando risatine e scherno senza sfasciar troppi denti in giro? Tu che ti esponi mostrando il cuore ad una persona che conosci appena? - Staccandosi dal bordo le si avvicinò talmente tanto da sussurrarle in un orecchio. - Tu che tremi di fronte al suo corpo?”

Facendo un rapido movimento all’indietro, Haruka abbandonò l’acqua rimanendo con le mani sgocciolanti lungo i fianchi. “Questi non sono affari tuoi!”

Sorridendo il secondino scosse lentamente la testa tornando ad appoggiarsi alla vasca. “Potrebbe anche essere vero, però lascia che ti chieda una cosa; ti sei resa conto di quanto quella ragazza sia gelosa di me? Questo non ti suggerisce proprio niente?”

“Cosa dovrebbe suggerirmi?!”

L’altra socchiuse allora gli occhi rendendoli due fessure interdette. “Che Michiru è persa per te. Ma ci fai o ci sei Haruka?! Cosa devo farti… un disegnino?”

"Azzera la saccenza da sorella maggiore e donna navigata, perché mia cara Johanna, a quel che so non puoi ergerti a conoscitrice dell’amore più di quanto non lo sia io!”

“Vero anche questo. Ma è talmente palese che vi piacciate.”

“E cosa dovrei fare, sentiamo.”

Sbattendo le palpebre Jo sembrò spiazzata dalla domanda.“Amarla….”

Abbassando le difese la minore le sedette accanto. Non l’avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, ma era bello e liberatorio tornare a confrontarsi con lei.

“Non è facile. - Poi le labbra si stirarono e la voce le tremò un poco. - Davvero pensi si sia innamorata di me?”

“Si… “

Il cuore che accelera per poi tornare stabile. Questo provò il Turul dei cieli di Pest a quella semplice affermazione e poi felicità, perché pur se avendolo intuito, quella conferma era qualcosa di meraviglioso.

“Ora ho altro a cui pensare e sai quanto per me, per noi, sia vitale.”

Entrambe posarono l’attenzione sull’avambraccio semi coperto dal maglione che la bionda prese a massaggiarsi.

Battendo il ferro, Jo riattizzò il fuoco mettendo nuova legna. “E’ dunque più importante una vendetta che comunque non potrà riportarci apa, che un futuro che potreste avere insieme fuori da qui?!”

“Io glielo devo Johanna.” Mormorò con fredda convinzione spingendola a proseguire.

“Nostro padre avrebbe voluto vederti felice e diventando un’assassina non potrai mai esserlo. Abbandona questa follia per amore tuo e di Michiru. Vivi la vostra storia… Vivi.”

“Jo io non… - Ma bloccandosi di colpo, Haruka fu presa da un’inquietante consapevolezza, una cosa alla quale non era ancora riuscita ad arrivare, nonostante ci avesse provato con tutta se stessa. - Aspetta un attimo! Ecco perché!”

“Perché cosa?”

Alzandosi di scatto le puntò contro due occhi glaciali. “Mi sono cervellata per giorni, ma proprio non riuscivo a capire il perché della tua bastardata, il perché avessi deciso di tradire il tuo stesso sangue. Dovevi tenermi chiusa qui il più allungo possibile e intanto cercare qualcosa che mi facesse desistere dal mio proponimento, qualcosa talmente importante da farmi inconsciamente scegliere di lasciare sulla terra quel porco di Kaioh!”

“Aspetta …”

“… E hai visto in Michiru quella che per te poteva essere l’ancora della mia salvezza!” Mettendole le mani al colletto della giacca la trascino' in piedi.

“un attimo…”

“Se è vero che anche lei mi ama, stando sempre insieme prima o poi ci saremmo arrese all’attrazione che proviamo l’una per l’altra. Ecco perché mi hai tradita! - Strattonandosela contro il viso prese a studiarne le fattezze. - Scommetto che in questa storia c’entra anche quella narcisista manipolatrice di Set!”

“Lascia che ti spieghi, Ruka.”

“C’è poco da spiegare! Ringrazia Dio che non ti metto le mani addosso Johanna Tenoh!”

“… Ruka.”

“Ringrazia iddio!” Urlò mentre nell’aria iniziava a riecheggiare uno strano fischio, seguito a poca distanza da uno più gutturale e lacerante. Bloccando la tensione muscolare, la bionda si girò verso la porta della lavanderia.

“Ma… cos’è?!”

“L’allarme generale! Deve essere successo qualcosa di grave… E lasciami imbecille!" Ordino' l’altra staccandosela di dosso con una secca botta alle braccia correndo poi verso l’uscita e li, seguita dalla sorella, vide un’ombra sgattaiolare veloce dietro un angolo ad una ventina di metri.

 

 

Non aveva mai rassettato tanto. Non le era mai servito in vita sua. Per l’ovvia conseguenza del suo benessere, c’era sempre stato chi lo aveva fatto al suo posto, ma in realtà essendo per indole ordinata, anche se non avesse avuto una domestica, se la sarebbe cavata benissimo da sola. Ecco perché ogni volta che si ritrovava a guardare la porzione di cella in genere occupata dalla bionda, Michiru non riusciva a capire come l’altra potesse anche soltanto respirare in quel porcile che aveva la sfrontatezza di chiamare letto. Forse quella ragazza glielo faceva apposta o forse avrebbe dovuto essere lei a smetterla di pretendere troppo da quell'uragano.

Quell’uragano fantastico che sei... Haruka, pensò Kaioh slanciandosi sul letto superiore per afferrare il sopra del pigiama che la bionda aveva dimenticato appallottolato tra materasso e muro. Un saltello sulla traversa metallica e tornata con i piedi sul pavimento sorrise al cencio avvicinandoselo al viso inalando così l’odore buono che emanava. Adorava quella fragranza di pelle, fin dalla prima volta che l’aveva sentita, così come adorava il suono del suo respiro addormentato nel silenzio della notte e quei piccoli mugolii che alle volte le uscivano dalle labbra quando sognava.

Ormai era evidente; Michiru era arrivata al punto nel quale una ragazza afferra la consapevolezza dei propri sentimenti, tracciando la strada e i successivi passi da compiersi per cercare di far sbocciare un qualcosa di bello. Anche se la situazione nella quale stava vivendo non era delle più semplici. Un carcere e l’oggetto di una passione che sentiva crescere esponenzialmente con il passare dei giorni. L’attrazione verso il suo stesso sesso.

C’era dunque tanto in gioco e mai come in quel periodo, Michiru avrebbe voluto avere la madre accanto. Un consiglio, una parola gentile, i suoi sorrisi, gli abbracci. Cosa avrebbe detto nel sentirsi dire: mamma sono innamorata di una donna fantastica di nome Haruka Tenoh. E’ alta, bella, forte, testarda, orgogliosa, generosa e chissà cos’altro, perché sono centinaia le cose che ancora non so di lei. Ma quando mi guarda con il verde dei suoi occhi, è come se riuscisse a penetrarmi l’anima. Dimmi mamma… , dimmelo tu. Cosa devo fare? L’avrebbe capita Kurēn, capita e sostenuta, arrivando financo ad approvarla. Si, Michiru non aveva dubbi ed era per questo che ogni volta che sentiva di stare per perdere la bussola per colpa di un atteggiamento troppo possessivo o difficilmente interpretabile di Tenoh, sentiva fortissima la voglia di avere ancora la madre accanto.

Non era mai stata una ragazza troppo religiosa. Da mezzosangue aveva appreso i rudimenti del cattolicesimo paterno e dello scintoismo materno, fondendoli in una unica e per lei grande verità; quella di un comune bene superiore. Tutto il resto, dal culto, alle tradizioni, lo lasciava alle persone intellettualmente impegnate, ai teologi, ai dotti, ai filantropi, sperando solo che dopo la morte potesse esserci un qualcosa che riportasse all’unione le anime che in terra si erano amate. E’ per questo che alla scomparsa di Kurēn, aveva preso a parlare con lei come se fosse stata ancora in vita, riuscendo a stemperare così il dolore per una perdita tanto importante, imparando nel contempo ad ascoltare se stessa.

Certo, il mio cavaliere è un tantino diverso da quello che mi figuravo da ragazzina, ma ti sarebbe piaciuta mamma, continuò commuovendosi al ricordo delle lunghe chiacchierate che erano solite fare al crepuscolo, dopo cena, sedute sul legno perfettamente piallato del portico davanti al centenario nihon teien della famiglia Kōtei.

Che carattere particolare che ha. Fino a quando la presa in giro di Horvàth non le è arrivata alle orecchie, Haruka era goffa ed impacciata. Poi il suo sguardo è cambiato di colpo, tanto da lasciarmi stupita. Le sue braccia mi hanno afferrata e stretta. Il suo corpo ha aderito al mio in maniera tanto perfetta che mi sono sentita sciogliere.

“Michiru… ancora in piedi?”

Sobbalzando si girò di scatto al secondino fermo sull’uscio della cella ancora aperta. Anya, che tutte giocando sul nome proprio della donna e sulla condizione di genitore, chiamavano anya egységes, letteralmente “madre in uniforme”, se la guardò sorridendole come sempre. Era lei che in genere veniva a prenderle la mattina, ed era sempre lei che spesso dava loro la buonanotte alla chiusura delle porte. Comprensiva ed umanissima, con il passare degli anni era diventata, al pari di Shiry, una sorta di figura iconica, soprattutto per le giovani del Blocco B. Usagi e Minako l’adoravano.

“Credevo che con tutto il da fare che avete in questi giorni, vi foste coricata già da un pezzo.”

Il voi. Michiru l’aveva capito subito quanto la sua condizione di oppositrice del Regime, per assurdo che fosse le avesse portato rispetto, soprattutto da parte delle donne in uniforme.

“In effetti sono esausta, ma sto aspettando Haruka.”

“Scommetto che è andata in lavanderia.” E rise entrando.

“Esatto.”

“Io glielo chiedo sempre a quella benedetta ragazza del perché non riesca a tenersi pulita una camicia per più di un giorno, ma lei mi fa spallucce mettendo su una faccia da schiaffi degna del mio figliolo più piccolo.”

Anche Michiru rise per chiederle poi quanti ne avesse.

“Tre.” Rispose con una certa punta d’orgoglio, ammettendo però che visto il lavoro che svolgeva nel carcere, era costretta a vederli di rado.

“Sapete, il più giovane ha dieci anni e suona il violino come voi. Ha una vera e propria passione per quello strumento e vorrebbe fare il conservatorio. Credo abbia preso dal padre di mio marito.”

“Perché no? Se ha talento.”

“A tal proposito mi piacerebbe avere un vostro giudizio. Magari un giorno, quando sarete stata scarcerata.”

“Con piacere, anche se non so proprio quando riuscirò ad uscire da qui.”

“Non si sa ancora nulla dal Tribunale?”

“No.”

“Vedrete che presto tutto andra' per il meglio. Non disperate…”

Ma prima ancora che la donna potesse metterle una mano sulla spalla in segno di profonda comprensione, la sirena dell’allarme generale riecheggiò tra i ballatoi e le volte del Blocco A.

“Dannazione.” Esclamò sentendo a malapena la voce del capo Shiry urlare a tutte le guardie di chiudere le celle.

“Cosa sta succedendo?”

“Kōtei restate tranquilla.” Suggerì schizzando fuori per sbarrarle la porta metallica sul viso.

“Aspettate! Cosa significa questo suono?!”

“Restate tranquilla ho detto!” Ripeté correndo via mentre le colleghe iniziavano a spintonare le altre detenute all’interno delle rispettive celle.

 

 

L’agente speciale Hino guardò il fascicolo alzandoselo davanti agli occhi. Alla luce della lampada quel nome era riuscito a toglierle con furia la pesante coperta che aveva cercato d'abbandonare sui ricordi del periodo nel quale aveva preso servizio alla casa della giustizia. Tenoh. Possibile che l’unica detenuta in isolamento al momento dell’allagamento del piano interrato, fosse connessa all’ultimo uomo che lei aveva visto morire in quel carcere maledetto e che di fatto, le aveva dato il coraggio di abbandonare quell’incarico?

“Jànos Tenoh. Haruka Tenoh. - Sibilò, mentre con la sinistra afferrava un altro fascicolo; quello di un secondino in servizio alla casa della Luce da poco più di un mese. - Johanna Tenoh, registrata sotto il cognome materno di Horvàth.”

La stessa Johanna Tenoh che al momento della presunta rottura delle tubazioni si stava aggirando nei seminterrati.

Poggiando la schiena alla traversa di legno della sua sedia, Rei sospirò avvertendo nei muscoli del collo tutta la tensione accumulata in quelle poche ore. Raccogliendo i lunghi capelli neri e bloccandosi sulla testa con una matita, iniziò a massaggiarsi la pelle cercando sollievo. Aveva la necessità di elaborare un programma da seguire per quello che non sarebbe stato il compitino semplice che il suo superiore le aveva prospettato con tanto entusiasmo. Perdendosi al neutro della vernice che ricopriva la stanza, ricordò gli sprazzi salienti della conversazione che l’avevano portata in quel carcere.

“Non preoccupatevi Hino! La casa della luce è una struttura della fine dell’ottocento e come tutte le vecchie signore, ha i suoi acciacchi. Vedrete che basterà un sopralluogo di qualche ora. Saranno saltate le tubature. Non ci sono state mai evasioni, incidenti o rivolte. Non impensieritevi dunque e pensate alla carriera!”

Certo, quello che in pratica le aveva ripetuto fino alla noia anche la direttrice Meioh e che chissà perché, il suo intuito da segugio le suggeriva di non accettare come la più papabile delle ipotesi. Eppure le tubazioni che aveva visto non lasciavano spazio all’immaginazione. Con molta probabilità le temperature rigide degli ultimi giorni avevano finito per ghiacciare parte delle sezioni e la pressione dell'acqua aveva fatto il resto. Un copione già visto, soprattutto alle loro latitudini e in strutture tanto datate. Ma fino alla definitiva conferma, Rei si sarebbe sentita agitata.

“Speriamo sia la strada giusta.” Rantolò stiracchiandosi posando l'avambraccio destro sugli occhi proprio mentre il silenzio del Blocco C veniva interrotto dal suono lancinante di una sirena che purtroppo ogni guardia che si rispetti sapeva riconoscere come segno di pericolo.

Spostando il braccio guardò la porta trattenendo il respiro. Poi un vociare concitato proveniente dal corridoio la costrinse a scattare in piedi.

 

 

Ungheria meridionale – scalo ferroviario, Agosto 1939

 

Rei si svegliò di soprassalto, come se qualcosa le avesse urlato di farlo. Alzandosi a sedere sul giaciglio di paglia improvvisato trovato nell’ultimo vagone merci che avrebbe portato lei e Makoto nella capitale, si sentì stranamente agitata. Non aveva fatto brutti sogni e riteneva quel treno un luogo sicuro. Toccandosi il petto inalò più volte. Allora perché tanta inquietudine. Verificando di non aver svegliato la sua piccola amica, voltò la testa verso il fianco accorgendosi con terrore della sua mancanza. E capì. Scattando verso il portellone parzialmente aperto, saltò giù dal treno ritrovandosi illuminata dalla luna in quella che presumibilmente era una stazione di scambio.

Coricatesi alla solita ora, le due bambine avevano atteso che i rispettivi genitori avessero fatto altrettanto, per poi sgattaiolare fuori dalle loro stanze e facendo affidamento sulla stanchezza che ogni bracciante agricolo portava con se nel letto, avevano racimolato qualche provvista in dispensa per poi incamminarsi mano nella mano verso il centro città di Baja. Era stata una traversata lunga per due esserini come loro, ma determinate nel loro proponimento erano riuscite a coprire i chilometri necessari per arrivare in stazione. All’alba, sfinite, si erano infine issate su di un treno merci diretto a Budapest e li erano crollate cullate dallo sferragliare delle ruote sul binario.

Cercando di mantenere l’equilibrio sulle montagnole di ghiaione ingrigito dalla fuliggine e sentendo negli occhi la furia delle lacrime, Rei richiamò a se tutta la calma della sua giovane età. Non era da Mako allontanarsi così. Dove poteva essersi cacciata? Zigzagando tra le lamiere ricacciò più volte l’ovvio grido di richiamo che avrebbe tanto voluto emettere, sapendo che se scoperte, gli adulti le avrebbero rispedite al mittente senza pensarci su due volte.

Dove sei Mako, dove sei!? Pensò avvertendo l’adrenalina pulsarle nelle tempie e l’arsura impastarle la lingua. Poi, nel silenzio di quel luogo sconosciuto fatto di possenti giganti bruniti parzialmente dormienti, un urlo tarantolato le diede la direzione da seguire.

Quando meno di un paio di minuti dopo riuscì a far capolino tra l’ancoraggio di due vagoni, la scena che le si presentò agli occhi fu quella di una Makoto terrorizzata, scalciante come un puledro ad una fiera e bloccata per le braccia da un uomo in uniforme blu.

“Stai ferma piccola Erinni.”

“Nooo! Lasciatemi!” Strillò peggio divincolandosi nel suo giacchetto scuro.

“Makoto! Toglietele le mani di dosso!” Saltando fuori ed afferrando una delle tante pietre disseminate a terra, Rei la lanciò verso la testa dell’individuo colpendolo in pieno.

Sentendosi finalmente libera, la bambina corse dalla più grande che riarmando la mano l’accolse con l’altra stringendosela forte al petto.

“Maledetta!” Bofonchiò quello arretrando mentre incurvava la schiena tenendosi la testa tra le dita.

“Ma di ragazzina, sei impazzita?”

Una seconda voce proveniente dalla sua destra e Rei scoprì che l’uomo colpito non era solo, anzi, che aveva quattro compagni. Macchinisti, o almeno questo sembravano dalla logora divisa della MÁV che avevano su.

“Rei…” Piagnucolò Makoto stringendosi alla sua giacchetta mentre quelli si avvicinavano.

“Fermi o ve ne tiro un altro.” Minacciò lei alzando il braccio.

“Stai tranquilla.” Disse quello tra loro che sembrava il più anziano.

Capelli brizzolati, sguardo stanco, ma buono, avanzò di un passo alzando le braccia in segno di pacificazione.

“Non fidarti Rei… Sono cattivi.” Supplicò l’altra camuffando la voce tra la stoffa ed i singulti impauriti.

“Che le avete fatto!?”

“Noi assolutamente nulla. E’ lei che ha mancato. Abbiamo pizzicato questa ossessa a rubare.”

Come colta da uno spasmo di rivalsa, la piccola scattò allora la testa verso l’individuo ringhiando di collera. “Non è vero! Io non sono una ladra!”

“Abbiamo avuto dei furti durante le scorse ore!”

“Non sono stata io!”

“E allora cosa ci facevi li dentro?!” Inquisì indicando il vagone alle loro spalle.

“Non sono affari vostri!”

“Mako! No…” Sentendosi ripresa dall’improvvisa severità di Rei, la bambina abbassò la testa ammettendo che era scesa dal loro treno per andare in bagno, ma che confusa dai tanti binari, aveva finito con il perdersi.

“Credevo fossi riuscita a tornare, ma questi cosi sono tutti uguali.” Frignò stropicciandosi gli occhi arrossati dal pianto.

“Visto!? Una persona e' sempre innocente fino a prova contraria!”

“Questo è quello che dice la tua amica, ma sta di fatto che siete due abusive e qui da noi non siamo soliti far viaggiare la gente a sbafo.”

E la questione finì li. In men che non si dica, Rei e Makoto furono portate alla polizia ferroviaria che una volta sapute le loro generalità, provvide a rispedirle a casa senza troppi convenevoli.

 

 

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

“Non… non sono stata io…” Spalancando gli occhi Makoto alzò lentamente le braccia alle canne dei fucili.

Cercando di allontanarsi dal corpo disteso accanto a lei, sentì la suola della scarpa sinistra scivolare sulla densa pozza vermiglia che stava allargandosi a vista d’occhio tutta intorno a lei.

“Toglietevi dannazione e fate tacere questo allarme! - Facendosi strada tra il fronte delle quattro colleghe che stavano tenendo la ragazza sotto tiro, Shiry guardò atterrita il pavimento e la giugulare della donna dalla bocca grottescamente spalancata ormai completamente imbrattata di sangue. - Cristo Santo, Kino! Ma che hai fatto?!”

“Capo Shiry… Io non c’entro niente.”

“Sta ferma!” Urlò una dei secondini alzando maggiormente l’arma d’ordinanza.

Con un gesto secco il superiore bloccò la sottoposta mentre con circospezione andava chinandosi per posare indice e medio sul polso esangue ormai privo di vita. Gli occhi corsero al collo squarciato, dove piccole bolle di un rosso arterioso intensissimo stavano andando confondendosi tra i lembi macabramente mutilati di cartilagine e muscoli.

Porca puttana, pensò il capo guardia non essendosi mai trovata davanti ad una scena simile in vent’anni di onorato servizio.

“Spostatevi.” Setsuna irruppe nel corridoio anche troppo affollato, seguita da Rei ed un altro paio di secondini.

“Direttrice… “

“E’ morta?”

“Si signora. Le hanno reciso l’arteria di netto. Il corpo è ancora caldo e se non ci sbrighiamo a pulire… qui tra poco sarà un casino. - Piatta, Shiry tornò eretta estraendo dal cuoio della cintura un paio di manette. - Kino… stai ferma.”

“No!” Schiacciandosi contro il muro la ragazza iniziò a guardarsi intorno per cercare un’improbabile via di fuga.

“Stai calma… Cerca di non peggiorare la tua situazione.”

“Calma una cazzo! Non sono stata io! Stavo rientrando al blocco quando ho avvertito dei rumori e avvicinandomi, ho trovato… lei.”

“D’accordo, ma adesso buona… - Insistette avvicinandosi ordinando nel contempo alle colleghe di abbassare le armi. - … e buttalo in terra. Lentamente…”

Solo allora, seguendo con lo sguardo quello dell’alta fisso sulla sua destra, Makoto si accorse di stare stringendo tra dita una lama artigianale, di quelle ricavate da pazienti battiture di pezzi di metallo trovato chissà dove. Tagliente come un rasoio e ferale al pari di quelle forgiate dal più sapiente dei maestri armaioli. Guardando con orrore il palmo arrossato, la ragazza lasciò cadere l’arma ritrovandosi spinta, rigirata, inginocchiata ed ammanettata dal capo squadra.

“Portatela in…” Stava per dire isolamento, ma ricordandosi l’inagibilità temporanea del seminterrato, Shiry cercò allora consiglio dalla direttrice.

Bianca come un cencio, gli occhi come svuotati, la bocca arsa serrata in una piega amara, Meioh diresse con autorità, sentendosi però la morte nel cuore. Aveva sempre confidato in quella ragazza. Kino era una brava detenuta. “Useremo l’ultima stanza del Blocco C non ancora occupata. Bonifica completa dell’ambiente e sentinella davanti alla porta fino a nuovo ordine. - Poi a voce sostenuta ordinò che fosse chiamato Mamoru Kiba. - Fatelo venire qui! Anche se ormai…”

Prendendo la comanda, il capo squadra affidò alle colleghe la ragazza andando discretamente accanto a Setsuna. “Direttrice… e il corpo?” Sussurrò fissandola negli occhi.

“Abbiamo dei sacchi per cadavere?”

“Credo, anche se non mi chieda dove diavolo siano andati a finire.”

Inalò pesantemente Setsuna, sentendo stomaco e budella contorcersi in un’unica, devastante accozzaglia dolorosa. “Trovateli, fossero anche all’inferno e fino a quando il corpo non sarà rimosso, voglio un presidio. Cerchiamo di non allarmare le detenute. Che nessuna veda questo scempio.”

“Direttrice, non sono stata io! Credetemi…” Intervenne Makoto disperata.

“Detenuta 0201, verremo ad interrogarti tra poco. Allora ci spiegherai quello che è successo. Agente Hino… naturalmente vorrei foste presente.”

Ma Rei non rispose. Non recepì nemmeno quello che per Setsuna era diventata una vera e propria emergenza. Lo sguardo incollato a quello di Makoto, la fronte imperlata di sudore e solcata da una ruga profondissima, anomala per la sua giovane età.

 

 

 

NOTE: Salve! La cosa mi sta sfuggendo di mano! Adesso manca solo Ami e siamo al gran completo. Rei proprio non doveva esserci. Mako proprio non doveva far danno. Setsuna proprio non avrebbe dovuto trovarsi in una situazione come quella di un omicidio all’interno delle mura carcerarie.

Così facendo si rischia di far passare in secondo piano la scintilla d’amore che ormai ha innescato l’attrazione tra Haruka e Michiru.

Qui si rischia di allungarsi tutto troppo!

PS La MÁV sono le Ferrovie Statali Ungheresi, in funzione dal 1869.

Ciau e a presto!

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XVIII

 

 

Partita a scacchi… con delitto

 

 

Con un pugno stretto alla bocca, Rei guardò la donna seduta dalla parte opposta della scrivania. Il viso rassegnato, di colpo meno fresco. Una piega amara ai lati della bocca carnosa. Il respiro corto e cadenzato da un’angoscia che trascende la mera posizione che stava ricoprendo come direttrice. Setsuna Meioh sembrava invecchiata all’improvviso, schiacciata da un avvenimento totalmente privo di una qual si voglia apparenza logica. Makoto Kino aveva deluso entrambe o almeno così sembrava. Il pugnale artigianale che le era stato trovato nella destra, non lasciava tanto spazio all’immaginazione. L’arma del delitto, la dinamica, la colpevole, c’era tutto e tutto riconduceva a quella ragazzina di diciassette anni che tanto si stava dimenando nel dire, urlandolo a gran voce, che lei in quell’atto tanto efferato non c’entrava nulla.

“E così la conoscevate già.” Aveva dichiarato Setsuna dopo il primo interrogatorio.

“Irrilevante.” Aveva amaramente risposto l’agente scelto, cercando di non tradire l’amarezza che sentiva di stare provando.

Dopo più di dieci anni aveva ritrovato Makoto ed era stato brutto, triste, non soltanto perché era una detenuta, ma soprattutto perché si era appena macchiata di un delitto orribile e a Rei non sarebbe bastato il potente vino liquoroso che la direttrice aveva tirato fuori da uno degli armadietti del suo ufficio, per non rivedere con gli occhi del ricordo, la scena raccapricciante di quel collo tagliato quasi fino alle vertebre cervicali.

Adesso, ferme ognuna sulla propria poltrona, viso contro viso, sepolta l’ascia di una guerra che le aveva accompagnate sin dal loro primo scambio verbale, Rei e Setsuna avrebbero dovuto cercare di sbrogliare una matassa che apparentemente sembrava non esserci nemmeno.

“Dovrò informare il Ministero…” Laconica la direttrice afferrò il bicchierino abbandonato sul piano della scrivania tracannandolo tutto d’un fiato.

“Aspettate qualche giorno. Dobbiamo fare il punto della situazione.” Consigliò Rei imitandone gesti ed umore.

“Secondo voi, Kino potrebbe essere innocente?”

In effetti Makoto aveva giurato e spergiurato su tutte le anime del Paradiso di non aver commesso il fatto, di essersi avvicinata attratta dai rantoli agonizzanti dell’altra detenuta, di non aver mai visto l’arma con la quale era stata uccisa, anzi, di averla presa in mano spinta solo dall’istinto, da una forma di passaggio mentale inconscio.

“Se bastasse un giuramento per professarsi innocente, le case circondariali sarebbero lande desolate. Però… non so, ma questa storia non mi convince per niente dottoressa.”

“Come nel più classico dei copioni tragici, dove il povero malcapitato di turno afferra il pugnale conficcato nello sterno della vittima mentre fanno capolino i primi poliziotti.” Setsuna si versò un altro bicchiere riempiendo anche quello dell’ospite mentre alla porta il dottor Kiba chiedeva il permesso di entrare.

“Avanti Mamoru.”

“Direttrice… Agente Hino. Ho il referto autoptico. - Non aveva perso tempo. - La detenuta 0056 è deceduta per massiva perdita ematica causata da una ferita da taglio all’altezza dell’arteria carotidea.”

“E questo è un fatto.” Rispose la donna alzandosi per prendere un altro bicchiere. Pur se molto professionale era evidente che anche il giovane medico avesse accusato il colpo e necessitasse di un aiuto per tirarsi su.

“Quello che però ci deve far riflettere è la posizione del taglio.”

“Spiegatevi meglio.” Disse Rei guardandolo sedersi sulla poltrona accanto alla sua.

“Per provocare quasi il distacco di parte del collo, l’assassino - si corresse al volo - l’assassina, deve avere agito cogliendo la vittima alle spalle. Una vittima piuttosto bassa. La detenuta 0201, Makoto Kino, è alta un metro e settantasei centimetri, quindi il solco lamare e la conseguente slabbratura della pelle, dovrebbero essere rivolti verso l’alto.”

Setsuna ebbe un sussulto. “E non lo sono?”

“Assolutamente no. La ferita rivela che l’omicida sia una persona con un’altezza oscillante tra il metro e sessanta ed il metro e sessantacinque, la stessa della detenuta 0056 che… con molta probabilità non si è neanche accorta di stare morendo. In più, non avendo riscontrato ecchimosi sulle spalle, alle braccia o ai polsi, escludo che sia stata un’aggressione di gruppo.”

“Questo scagionerebbe Kino ponendo come plausibile la sua versione. L’essersi trovata nel corridoio al momento sbagliato. L’aver preso il coltello di riflesso.” Dichiarò Rei sentendosi sollevata, ma al contempo atterrita perché se così fosse stato, all’interno della casa della luce girava ancora un’efferata assassina.

“Apparentemente, ma nasce il problema di dover fare l’identikit di una persona fortemente disturbata, che per un motivo qualunque, sempre se presente, abbia ucciso a sangue freddo. In maniera praticamente chirurgica.- Disse Setsuna porgendo il bicchiere di liquore all’uomo. - Cerchiamo allora di procedere per piani logici. Ricapitolando; abbiamo un soggetto con un’altezza ricadente nella media, forte quanto basta per affondare la lama nella gola di un’altra donna arrivando quasi a staccarle la testa dal collo. Questo mi porta a pensare ad una detenuta che senta di non avere più nulla da perdere e perciò un’ergastolana come la vittima.”

“O una folle.” Rincarò Hino seguita dal medico.

“Esattamente. Le carni sono state recise con lucida fermezza, il che ci porta a due strade; o siamo in presenza di una persona che in passato abbia già ucciso con lo stesso modus operandi, oppure di fronte ad una mente dissociata, priva cioè di qual si voglia discernimento umano.

“Domani mattina inizieremo una programmatica analisi della vittima. Amicizie. Inimicizie. Era un’ergastolana che non aveva mai dato problemi, anzi, era l’unica a poter accedere in qualsiasi punto del Blocco C che non fossero le stanze private del personale. Faceva parte del gruppo delle anziane, che da anni è in lotta con quello di Tesla la slava. Partiamo da li.” Concluse Setsuna sparpagliando i fascicoli per averli tutti a portata di sguardo.

Rei ebbe un fremito. Una campanella d’allarme iniziò a titillarle nervosamente nella testa. Quel famoso sesto senso, quell’intuito alla Sherlock che l’aveva spinta fin li e che tante soddisfazioni le aveva già regalato nella sua pur breve carriera.

E se quell’omicidio non fosse stato la drammatica conseguenza di un litigio, di una vendetta tra bande rivali? Se fosse stato invece l’inizio di qualcosa di più cervellotico?

“Purtroppo non ci sono ergastolane con un profilo simile. - La scosse la direttrice riportandola con i piedi per terra. - Nessuna donna con una pena a vita è qui per aver ucciso in maniera tanto efferata. Ho già controllato.”

“C’è sempre una prima volta. Anche se come ho già detto sarebbe una situazione molto rara. - Asserì Kiba afferrando uno dei fascicoli abbandonati sulla scrivania riguardanti le pene ad ergastolo. - Io penso che nonostante si abbia già ucciso, farlo in quel modo è da squilibrati.”

“Se dovesse trattarsi di una mente prima di giudizio, allora saremmo in grossi guai. Il campo di verifica si amplierebbe a dismisura e nessuna detenuta potrebbe dirsi al sicuro. Comunque fino a quando non ne sapremmo qualcosa di più, chiedo ad entrambi la massima discrezione. Ovvio che la notizia della morte della detenuta 0056 circolerà presto, ma almeno che non si sappia ancora come.”

“A tal proposito… - S'intromise Rei alzandosi dalla poltrona in pelle. - …vorrei parlare con le uniche due persone che insieme all’assassina e a Kino erano nei paraggi al momento dell’aggressione. La detenuta 0192 e l’agente Johanna Horvàth.”

 

 

Una volta ritornata in cella, Haruka aveva avuto conati di stomaco. Uscita dalla lavanderia per tornare verso il suo blocco, era dovuta obbligatoriamente passare per l’unico corridoio utile e li aveva visto Makoto accerchiata da uniformi, inginocchiata in un angolo, ammanettata e schiacciata contro il muro peggio di una bestia. Ad un paio di metri, un corpo disteso in una pozza di sangue talmente vasta da sembrare per assurdo quasi finta. Posando gli occhi sulla scena, la bionda aveva visto Setsuna ed il capo Shiry parlottare, certamente sul da farsi. Poi la curiosità l’aveva spinta a posare l’attenzione al fagotto abbandonato poco oltre le loro scarpe. Forse perché mai bazzicato per macellai o studi medici, il suo cervello ci aveva messo un po’ ad elaborare l’orripilante immagine dello squarcio che da parte a parte del collo stava lasciando esposta la carotide di una mal capitata. Ma non appena i contorni di quella scena erano stati razionalizzati passando dalla vista al cervello, Haruka aveva avvertito una scarica alla tempia seguita da una morsa allo stomaco talmente violenta da costringerla a serrare la mascella fino al suo ritorno in cella.

Nel voltarsi verso di lei, Meioh aveva ordinato un qualcosa che però la ragazza non era riuscita a comprendere. L’olezzo dolciastro del sangue unito ad un fastidiosissimo ronzare nelle orecchie, l’avevano spinta pericolosamente verso un mondo muto e se non fosse stato per la botta ricevuta all’altezza dei reni con la quale Johanna l’aveva scossa, con molta probabilità avrebbe perso i sensi.

“Horvàth! Porta via Tenoh e discrezione! Chiaro!?” Aveva ordinato Shiry, mentre Rei prendeva appunti mentali sulle due.

Adesso che Haruka si ritrovava seduta sul letto della sua compagna di cella, con le mani tra i capelli e lo stomaco sottosopra, incerta se rivelare o meno a Michiru quello che aveva visto, sentiva di essere meno tosta di quel che aveva sempre creduto.

Inginocchiandosi di fronte a lei e posandole una mano sul ginocchio, Michiru se la guardò scura in volto. Accigliata, cercò un contatto.

“Haruka… Che cos’hai? Non ti senti bene? L’agente Anya ha detto che la sirena è scattata a causa di un’emergenza. Non vedendoti rientrare mi sono preoccupata.”

“Non era mia intenzione…”

“Lo so, non ti sto rimproverando, vorrei solo capire.”

“… Come si può?!”

“Far cosa?” Chiese afferrandole i polsi per spostarle le mani dalla testa.

"Dammi un attimo Michiru."

Cavare qualcosa di bocca ad Haruka era un’impresa e di questo ormai era rassegnata, ma la strana energia negativa che in quella sera nevosa di pieno inverno aveva preso a strisciare tra i ballatoi della casa della luce, la stavano rendendo inquieta come il primo giorno, come se la bilancia che faticosamente reggeva l’umore di quel posto si fosse improvvisamente sbilanciata. Questo stranissimo stato d’animo la spinse ad insistere.

“Ruka… mi spieghi, per favore?”

E come sempre accadeva, la famigliarità di quel nomignolo sciolse la reticenza della bionda che finalmente approcciò i suoi occhi a quelli turchesi dell’altra. “Credo che… che Makoto abbia ucciso una donna.”

“Stai scherzando?!”

“Oddio Michi. - Come toltasi un’occlusione dalla gola, sentì i polmoni liberi di dilatarsi. - Non avrei mai immaginato che potesse fare una cosa del genere. E così poi…”

Sedendosi al suo fianco, l'altra si permise di cingerle le spalle con un braccio. Ed in silenzio ascoltò.

Nel descriverle per sommi capi quello che era accaduto, pian piano Haruka si lasciò andare, rivelando per la prima volta un cuore a tratti ancora ostinatamente innocente.

“E’ stato… E’ stato orribile. Orribile! Nessuno dovrebbe finire la sua vita così e nessuno dovrebbe permettersi di troncarla in maniera tanto abietta. Scommetto che le bestie del mattatoio hanno in sorte una fine migliore." Voltando il viso le grate della finestra, si perse ai fiocchi di neve che stavano turbinando nel grigiore della tarda sera.

Non sarebbe riuscita facilmente a togliersi quel collo mutilato dagli occhi e quell’odore nauseabondo dalle narici. “Non posso credere sia stata Mako.” Affermò sentendosi improvvisamente stanca.

“E’ ovvio! Andiamo Haruka… la conosciamo e non farebbe male ad una mosca.”

“Lo so, ma tutte le guardie, direttrice in testa, credono il contrario. E poi ognuno porta dentro di se un lato oscuro.” Soffiò sentendosi un’ipocrita, perché il proponimento di vendetta che si stava impegnando così stupidamente a perseguire, altro non sarebbe stato che un omicidio, certo non così inumano, ma comunque tale. Con quale diritto ora giudicava quell’azione.

Non sapendo come aiutarla ed incredibilmente attratta da quel suo momento di fragilità, Michiru posò due dita sul finire del mento della bionda costringendola a guardarla. “Non fare così…” Bisbigliò avvertendo i loro fiati fondersi in un unico calore.

“Michi…”

“Sss… - Sibilò lasciando che la punta dei loro nasi si sfiorasse. - Adesso sei qui… con me.”

"Vorrei tanto che il tuo profumo riuscisse a cancellare l'odore di quel sangue."

"Ruka..."

“SPEGNIMENTO LUCI!” Riecheggiò dall’altoparlante del piano sorprendendole ad un passo dal contatto.

“Così presto?” Si lasciò sfuggire Kaioh allontanandosi un poco mentre l’altra abbassava la testa stirando le labbra.

“Evidentemente vogliono tenerci buone.”

Rabbrividì Michiru ed empatica se l’abbracciò stretta al petto sfiorandole la tempia con un bacio lievissimo e senza più paure, senza fremiti, senza scariche di voglia, Haruka la lasciò fare, concedendosi interamente a quell’improvvisa quanto benedetta dolcezza, mentre Kaioh si abbandonava sul materasso portandola giù con se.

“Chiudi gli occhi e cerca di dormire. Domani sarà tutto più chiaro.” Ed iniziando ad l’accarezzarle i capelli, arrivò con l’altra mano a cingerle un fianco attirandosela contro facendo così aderire con forza i loro busti. Aspettò che il ritmo del respiro dell’altra si facesse sempre più lieve, fino ad accompagnandola nell’oblio di un sonno senza sogni.

 

 

Quando lo sgraziato suono metallico dell’apertura della porta le svegliò, si ritrovarono come si erano addormentate. Abbracciate, l’una immersa nel profumo dell’altra, vestite, come se la giornata appena iniziata fosse la prosecuzione di quella appena trascorsa.

“Tenoh alzati. A colloquio con la Direttrice Meioh.”

“Mamma mia, la testa. “ Sbiascicò la ragazza staccandosi dalle braccia di Michiru sentendosi tutta un dolore.

Non aveva avuto incubi, ma aveva dormito male lo stesso. Forse perché abituata a muoversi di continuo, non volendo svegliare Kaioh aveva cercato una quiete non sua, ritrovandosi i muscoli di spalle e collo tutti rattrappiti in un'unica poderosa contrattura.

Buongiorno, si sentì dire la bionda mentre lentamente, molto lentamente, il suo sguardo accarezzava il maglioncino aderente di color blu scuro che imprigionava la rotondità del seno della compagna di cella ancora distesa accanto a lei. Una mano abbandonata sul cuscino, oltre la testa e quella che l’aveva tenuta forte per tutta la notte, ora sul grembo che cadenzato dal respiro si alzava ed abbassava piano. I capelli adagiati sul cuscino, come la sabbia dopo la fine dell'alta marea.

“…Giorno.” Grugnì imbarazzata grattandosi la zazzera mentre anche Michiru si sollevava a sedere.

“Sei riuscita a riposare un po’?” Bisbigliò perché potesse udirla solo lei.

“Mmm… si. Grazie.” Ecco nuovamente quell’atteggiamento sensuale mesciuto a quell’odore buono di lei, che aveva il potere di confondere Haruka deviandole il giudizio e che la sera precedente era riuscito a calmarla avviluppandole le narici.

“Dai Tenoh. Non abbiamo tutto il giorno!”

L’agente Anya sembrava stranamente impaziente se paragonata alla donna docile e materna che veniva a prelevarle ogni mattina. Ennesimo indizio che qualcosa di gravissimo era accaduto, così come il silenzio che stava avvolgendo il ballatoio e il filare di celle stranamente poco animate.

“Eccomi anya egységes. Tutta vostra.”

“Kōtei, voi venite a mensa con me. La colazione si farà un po’ prima del solito oggi.” Sollecitò e una volta uscite le due detenute si accorsero della presenza di Johanna ferma accanto alla rampa delle scale.

“Haruka vai con Horvàth, ti scorterà lei.”

Scambiandosi una specie di sguardo d’intesa, le compagne di cella indugiarono occhi negli occhi per qualche istante per poi dividersi ed immancabilmente, nel vedere la bionda avvicinarsi alla donna in uniforme, Michiru tornò a provare quel sottile bruciore geloso che non riusciva più a frenare e che tanto la faceva sentire una persona orribile.

“Hai novità?” Sussurrò la minore mentre discendevano sulle pedate metalliche.

“Si. Quello che ho capito è che Kino sembra estranea ai fatti.”

“Perfetto, ma si ha idea di chi potrebbe aver commesso quello scempio?”

“No, ma il fatto che Set voglia parlarci non mi piace. Hai visto quella moretta dai capelli lunghi e lo sguardo sicuro che le stava al fianco? - Alla negazione dell’altra proseguì mentre arrivava al piano terra. - E’ un’agente speciale inviato direttamente dal Ministero.”

“Di già?!”

“No, era qui per investigare sul problemuccio all’impianto idrico.”

“Che culo. E’ venuta per un semplice sopralluogo e si ritrova invischiata in un omicidio!” Se la rise Haruka e quella fu l’ultima volta, perché venti minuti dopo, alla presenza dell’agente speciale Hino, alla bionda passò completamente la voglia di sfottere.

“Detenuta 0192: Haruka Tenou, anni ventuno. Nata nel sesto distretto di Budapest il ventisette gennaio del 1930. Motivo della reclusione… - Rei spostò lo sguardo dalla foto che campeggiava sulla prima pagina della scheda personale della ragazza, alla figura originale ferma in piedi davanti a lei - ... aggressione armata ad un agente della Polizia Tributaria.”

Per nulla intimorita da quella presentazione, la bionda stirò un sorrisetto sghembo alzando con tracotanza il mento. Nel riconoscerlo, Johanna pensò inesorabilmente a quanto fosse tronfia la sorella.

“Con chi ho il piacere?”

“Hino. Agente Speciale Rei Hino.”

“Volete farmi gli auguri per il ventisette, agente Hino? Un po' in ritardo, non trovate?” Canzonò visto il compleanno passato da poco.

“Non fate la spiritosa. In questi casi non conviene a nessuno. Piuttosto, ditemi cosa facevate fuori dal vostro blocco dopo l’ora di cena.”

“Il bucato. - Guardando la sorella si mise le mani nelle tasche. - Può confermarlo anche l’agente Horvàth.”

“Giusto. L’agente Johanna Horvàth… Tenoh. - Disse rivolgendosi poi direttamente a Setsuna rimasta in disparte a braccia incrociate. - Sono parenti, non è vero?”

“Sorelle.” Rivelò l'altra mantenendo la calma. Inutile e controproducente negare.

Stringendo la cartellina nelle mani, Rei ebbe come un moto di rabbia, immediatamente represso dal notevole autocontrollo coltivato in anni di quel faticoso esercizio mentale che imponeva al suo carattere fumantino di non bruciare troppo rapidamente.

“Dottoressa Meioh, correggetemi se sbaglio, ma il reclutamento del personale interconnesso con le detenute fino al quarto grado di parentela, nel nostro paese non è forse proibito dalla legge?” L’ennesima mancanza di rigore in una struttura già altamente soggetta a labilità di ogni tipo.

“Si.”

Lo sapeva Setsuna e dal primo sguardo che quella ragazza non avrebbe mai dovuto varcare il cancello della casa della luce. Troppo intelligente. Troppo scaltra. Troppo impicciona.

“E allora spiegatemi perché l’avete assunta! Nel suo fascicolo c’è scritto che ha iniziato a prendere servizio neanche una settimana dopo l’arresto della detenuta 0192!” Sbattendo la cartellina sul pianale si rivolse direttamente a Johanna chiedendole da quale accademia provenisse.

“Agente Hino, c’è carenza di personale e poi Horvàth è un bravo secondino. Il fatto che siano parenti non fa alcuna differenza.” Cercò di mediare la direttrice abbassando braccia e orgoglio.

“Sorelle! Dottoressa, non due cugine alla lontana, ma sorelle. Agente Tenoh, dove diavolo avete ricevuto la vostra preparazione per non sapere neanche le basi di una delle leggi di tutela carceraria più importanti dell'Ungheria!?”

“Ecco, io…”

“Non ha ricevuto alcuna preparazione! - Sbottò Haruka facendo un passo verso la donna. - Che cos’è quest’interrogatorio? Credete forse che quella poveretta l’abbiamo sgozzata noi?!”

“Non è questo il punto…”

“E allora quale sarebbe? Qui abbiamo un problema. Qui si è ammazzato e a quel che ho potuto vedere, anche in maniera piuttosto cruenta e tutto quello che sapete fare è puntare l’indice contro queste due donne che hanno come unico difetto quello di volermi bene?! Johanna ha lasciato tutto per starmi vicina e Set non ha fatto altro che assecondarla.”

“Set?”

“Si, Set! Setsuna Meioh è una cara amica di famiglia e se è reato anche questo, bè… allora sbattete in cella anche lei!”

“Haruka, basta così.” Ordinò la direttrice modulando verso il basso il timbro della voce.

“Fatemi capire bene signorina Johanna… Voi non siete un agente penitenziario?” Chiese Hino rendendo gli occhi due fessure.

“No signora.”

“O ma… che cazzo! Voi tre siete completamente folli! Passi voi Haruka, che in questo caso siete la meno colpevole, ma voi Direttrice, assumere una ragazza per un lavoro tanto delicato, senza nessuna preparazione fisica, psicologica e disciplinare, contravvenendo alla legge e rischiando così di giocarvi la carriera! E voi Tenoh… - Avvicinandosi fissò Johanna alzando l’indice prima verso il suo petto, poi alla porta. - … voi che giocate tanto bene a fare l’agente penitenziaria, sapete il perché della necessità di una legge tanto severa? La scena che avete visto qualche ora fa, vi sembrerebbe nulla se paragonato a quello che potrebbero farvi le delinquenti la fuori se soltanto si spargesse la voce di un vostro legame di sangue con una detenuta.”

“Hino non ammetto che si facciano queste pressioni! Usando il cognome della madre, Johanna è perfettamente al sicuro, perciò evitiamo scenate.”

Rei sogghignò alzando il mento. Proprio non riusciva a farsi comprendere.

Approfittando del momento di silenzio Johanna intervenne facendo un piccolo passo verso l'agente. “Mi dispiace se ho mentito passando per quella che non sono, ma l’ho fatto per restare accanto a mia sorella. Nostro padre è morto da poco e non volevo perdere anche lei.”

“Jo non fare la vittima!” Abbaiò la bionda.

“Non è vittimismo Ruka, ma la pura verità. Agente Hino, vorrei che fosse chiara una cosa; la Direttrice Meioh c’entra poco e niente. Sono stata io ad insistere per farmi assumere. Perciò punite me se volete, ma non…”

“Certo! Immoliamoci anche. - Disse la mora francamente esasperata. - E’ inutile che cerchiate di difendere l’indifendibile."

Provando a calmarsi, Hino si arpionò i fianchi sottili abbassando la testa. "Direttrice, chi altro sa di questa storia?”

“Il capo squadra Shiry.”

Jo spalancò gli occhi. Ecco perché quella donna le assegnava sempre compiti elementari e continuava a trattarla come se fosse un corpo avulso dal resto della squadra.

Mettendosi a sedere, l’agente cercò di riflettere. Più che altro di prendere tempo. Era indecisa sul da farsi. A primo acchito avrebbe voluto segnalare Setsuna Meioh al Ministero di Grazia e Giustizia per poi sbattere Johanna Tenoh dentro il buco più profondo mai scavato da mano umana, ma qualcosa le diceva di fermare la collera. Di essere elastica. Almeno questa volta. Le mancava la conferma, ma quelle due ragazze erano quasi certamente le figlie di Jànos Tenoh, quello stesso uomo le cui urla strazianti aveva sentito più di una volta salire dal seminterrato della casa della giustizia alla tromba delle scale e li, nel silenzio degli ambienti, fin nel suo ufficio. Alle sue orecchie. Soltanto qualche mese prima.

“Chi è quel disgraziato che stanno interrogando da giorni?” Aveva chiesto un giorno ad un collega.

“Un uomo qualunque. Un padre di famiglia. Un uomo che si è messo contro il potere dello Stato e la lobby delle banche.”

Quell'avvenimento aveva scioccato al tal punto la ragazza da spingerla a chiedere un immediato trasferimento.

Vedendo Hino assente, Meioh continuò il colloquio cercando di deviarlo su binari più sicuri. “Johanna, quando stavate rientrando dalla lavanderia, avete visto o sentito niente di strano?”

“In effetti. - Guardò Haruka muovere leggermente il mento. - Non appena ho sentito partire la sirena, mi sono precipitata verso la porta d’ingresso della lavanderia e li… mi è sembrato di vedere un’ombra muoversi velocemente verso il vano caldaie.”

La voce di Rei arrivò stanca. “Siete sicura?”

“L’ho vista anch’io.” Confermò Haruka.

“Altezza?”

Scrollando le spalle il secondino non comprese la domanda. Era solo un’ombra e le ombre non hanno altezza.

Sfiancata da quella situazione per lei inaccettabile e nuovissima, la mora tornò ad alzarsi. “Se foste un vero agente sapreste che quando si avvista qualcosa di sospetto bisogna sempre prendere dei punti di riferimento. Comunque, ho avuto modo di vedere la zona è se fosse come dite questa fantomatica ombra sarebbe dovuta passare per il corridoio dov’è stato commesso l’omicidio. E più di dieci agenti non hanno visto nulla. Indi per cui l’unico nascondiglio rimane il locale tecnico della caldaia, ma è la prima stanza che abbiamo bonificato non trovando assolutamente nessuno.”

“Pensandoci bene, avendo un solo accesso chiunque fosse entrato per nascondersi sarebbe stato scoperto.” Rispose Setsuna venendo però smentita dalla bionda.

“In realtà le porte sarebbero due. Quando stavo lavorando al ripristino della caldaia, ho notato una porticina metallica proprio sotto le scale seminascosta da una pila di scatole di legno. E’ completamente arrugginita e non credo possa essere aperta con tanta facilità, ma una volta avvicinato l’orecchio alla serratura, ho sentito il sibilo di una corrente. Magari è un passaggio che sbuca da qualche altra parte.”

“Lo verificheremo. Ora andate, sempre se la Direttrice non ha da chiedervi altro.”

“No.”

“Devo ritenermi licenziata? Agli arresti? O cosa?!” Chiese Johanna mentre la bionda aveva già la mano sulla maniglia della porta.

“Tutto a tempo debito. Ora abbiamo una cosa più importante da gestire.” Liquidò massaggiandosi la fronte.

Aveva la necessità di parlare con Makoto e metterla al corrente del piano che lentamente stava formandosi nella sua finissima mente da detective.

 

 

Non era poi tanto diversa da come se la ricordava. Stessi occhi verde acqua, grandi e vivaci. Stesso taglio del viso, naturalmente più sfinato dall’entrata nell’età adulta. Stesso sorriso, con qualche incisivo in più. Solo la corporatura era cambiata slanciandosi in maniera notevole rispetto a lei. Poi c'era lo sguardo. Quello aveva avuto un’evoluzione, facendosi da innocente a spudorato.

A trovarsela davanti, distesa sul letto dell’ultima stanza del piano adibito a dormitorio, Rei avrebbe voluto porle mille domande; il perché si trovasse a Budapest, lei figlia delle paludi orientali, cosa avesse fatto negli ultimi undici anni, se fosse riuscita a ritrovare il padre, se era stata felice dopo aver lasciato la masseria della famiglia Hino e cosa più importante di tutte, punto nodale del suo involontario coinvolgimento in quella brutta faccenda, il perché si fosse trasformata in una ladra. Ma non era quello ne il momento, ne il luogo. Le priorità erano altre, forse meno personali, ma sicuramente più pressanti, così prendendo un grosso respiro, attese che la direttrice e l’agente Shiry entrassero nella stanza, chiamandola per riprendere con l’interrogatorio.

“Kino...”

“Quando potrò uscire da qui?” Chiese spostando l’avambraccio fino a quel momento tenuto sulla fronte.

“Dobbiamo parlarti. Siediti per favore.”

Emanando un suono gutturale seguito da una mezza imprecazione, la ragazza obbedì incurvando le spalle e perdendo lo sguardo all'anonimato del muro di fronte. Indomita e per nulla impressionata da quella noncuranza che altro non era che paura, Setsuna prese la sedia dalla scrivania posizionandola davanti alla detenuta.

“Signorina Kino, l’autopsia che il dottor Kiba ha eseguito sulla detenuta 0056, ha confermato la vostra innocenza. - Sedendosi sorrise agli occhi spalancati di lei. - Ma purtroppo non avendo ancora informazioni sufficienti sulla vera assassina, non possiamo riportarvi al Blocco A.”

“Cosa vuol dire!? Se sono innocente perché volete tenermi rinchiusa qui?!”

“Per la sicurezza di tutti.” La donna più grande sapeva che sarebbe stato difficile farle capire, ma si stupì comunque quando Makoto si alzò di colpo mossa da un moto di ribellione.

“Cazzate! Dite le cose come stanno! Non credete fino in fondo alla mia innocenza!” Urlò facendo così scattare Shiry, che mano sinistra serrata al manganello s'insinuo' rapida tra le due.

“Stai calma Kino.”

“Capo squadra… Non preoccupatevi.” Tranquillizzò Setsuna facendola ritirare poco convinta.

Toccò allora a Rei, che afferrandola per le spalle provò a calmare la ragazza. Anche da piccola, Makoto aveva il terrore che gli altri non credessero alle sue parole. Doveva cercare di essere convincente. “Kino cerca di capire. Abbiamo bisogno di una mano. L’assassina è ancora in giro e crediamo che non sia molto stabile di testa. Potrebbe uccidere ancora e mettere in giro la voce sulla tua colpevolezza ci darebbe un’enorme vantaggio per provare a farla uscire allo scoperto.”

Scuotendo la testa e scrollandosi le mani di Rei da dosso, l'altra scrollò le spalle guardandola. "Voi sareste?"

Sorpresa per la domanda Rei rispose lentamente. "Agente speciale Rei Hino."

"Agente speciale..." Ripetè l'altra crollando sul materasso. “Niente di meno..."

"Makoto..."

"Non potete chiedermi questo. Non è giusto!"

“Lo so, ma pensaci bene. - Accovacciandosi accanto alle sue gambe, Rei cercò attenzione modulando la voce verso bassi più dolci. - Fino a prova contraria siamo tutti in pericolo. Detenute, sicurezza, perfino il dottor Kiba. Ci troviamo di fronte ad una persona imprevedibile e se non giochiamo d’astuzia, non riusciremo a prenderla.”

“Abbiamo bisogno di un vantaggio.” Insistette la direttrice.

“Sarebbe meglio dire un sacrificio…” Puntualizzò Makoto guardandola.

“Sacrificio, si.” Ne convenne lei aggiungendo però che un tale gesto non sarebbe stato vano e per una serie di ragioni.

“L'aiutarci in questa storia porterà un vantaggio anche a voi, infatti vi prometto che una volta che questa storia sarà finita, sarà mia premura segnalarlo a chi di dovere, così che se ne possa tenere conto quando il Tribunale dei Minori discuterà il vostro caso. Pensateci Kino. E’ un’ottima offerta.”

“Kino, ti manca un anno. Così facendo potresti uscire tra sei mesi.” Rincarò Rei guardandola negli occhi.

“Non voglio passare le mie giornate in quel buco di seminterrato.”

“Le passerete qui.” Disse la direttrice mentre riponeva al suo posto la sedia.

“Accerchiata da guardie. Bella roba, - Una rapida sbirciatina al viso impassibile del capo squadra ferma a braccia incrociate, per poi accettare. - Va bene. Ma vedete di far presto... per favore.”

“Perfetto. – Ne convenne Meioh andando ad aprire la porta senza aggiungere altro. - Shiry venite.” E lasciando le due parlare da sole, precedette l’ufficiale nel corridoio.

“Ascoltate, essendoci ancora un’assassina in giro la sorveglianza dovrà essere ancora più alta del solito. Non possiamo farci cogliere impreparate un’altra volta, chiaro? - Un ordine che aveva tutto il sapore acre di una critica. - Per rendere questa trappola credibile, nessuna attività del carcere dovrà essere soppressa, incluso il ballo per l’inizio della Quaresima.”

“Ma Direttrice…, l’organico è ridotto al minimo.”

“Lo so Shiry, ma confido sul fatto che voi e la vostra squadra saprete far fronte a questa emergenza.” La chiuse li lasciando l'altra a rimuginarci poco convinta.

Intanto all'interno della camera le due amiche d'infanzia restarono a scavarsi una negli occhi dell'altra.

"Non avrei mai creduto di ritrovarti con i galloni di una guardia." Disse Makoto con sfida.

"Ed io con una pendenza di furto a gravarti sulla testa."

 

 

La capo squadra

 

Passato un giorno abbondante dall'omicidio, la situazione tra gli animi delle detenute sembrava stabile. Le voci sulla morte di una di loro per mano di Makoto Kino avevano naturalmente fatto il giro della struttura, innescando un tourbillon di congetture sul perché una diciassettenne dentro per furto, si fosse improvvisamente trasformata in un’assassina. Una volta venute a conoscenza della dipartita di una di loro, solo il gruppo delle anziane capeggiate dalla Zoppa aveva iniziato a fare domande in giro, spinte dalla convinzione che la responsabile potesse essere la slava e non certo quella ragazzina. Lo si sarebbe potuto chiamare istinto killer.

Johanna respirò profondamente l’aria gelida serrando le dita guantate dietro la schiena. Visto le buone condizioni del tempo e la necessità di pulire il piazzale preposto per le attività all’aperto, gran parte delle detenute si era riversato fuori, tra i mucchi di neve e le lastre di ghiaccio. In lontananza Haruka, Michiru, Usagi e Minako, sedute ad un tavolo che stavano presumibilmente parlando della loro amica Mako e poco oltre, nella sua giacca nera dai bottoni dorati, il capo squadra Shiry, che con un altro paio di colleghe teneva d’occhio che Tesla e la sua cricca di brave ragazze non entrassero in contatto con il comprensibile nervosismo delle anziane ferme vicino al muro di cinta.

Sospirando la ragazza piantò l’attenzione a quella donna graduata che molto le somigliava fisicamente, ma che tanto era diversa da lei. Più grande di una decina d’anni, Annamariah Shiry svolgeva quel lavoro con dedizione e ferrea disciplina, non mostrando mai più di quanto un posto come quello potesse permettere. Cresciuta come agente e maturata come donna all’ombra del filo spinato di quella casa circondariale, Shiry era una delle poche guardie che era riuscita a crearsi una vita al di fuori di quel micro mondo al limite della società, ottenendo al contempo una famiglia ed un’ottima carriera. Johanna l’ammirava, ma se avesse potuto conoscerla due lustri prima, appena uscita dall’Accademia di Pest con gli ideali di giustizia e onore ancora stretti nella propria convinzione di ragazza allegra e spensierata, avrebbe sicuramente notato l’involuzione caratteriale che quella giovane donna aveva subito con il passare del tempo. Pagate a caro prezzo ogni manifestazione di umanità, ogni abbraccio, sorriso o parola gentile che in quegli anni aveva riservato alla popolazione carceraria, il cuore di Shiry si era ormai talmente inaridito d'arrivare a non soffrire più per il gretto squallore di quel posto o per la solitudine imposta dal suo ruolo di comando.

Haruka scherzava spesso sulla somiglianza estetica che aveva con Johanna, domandandosi se anche caratterialmente Anna non fosse una scassa pifferi come la sorella. Stessa corporatura, stesso taglio di capelli portati corti, lo stesso modo di camminare sicuro e mai ciondolante, la stessa postura da guardia. Ma Johanna sapeva da quelle labbra sottili troppo spesso piegate all’ingiù e da quello sguardo castano schivo e riservato, che oltre a quelle sciocche similitudini null’altro le accomunava. Non l’aveva mai vista ridere, neanche durante le ore private che le agenti avevano fra loro dopo la fine dei turni, neanche quando marito e figlio venivano a trovarla per passare con lei qualche scampolo di tempo strappato al suo lavoro. Eppure Shiry era di Budapest e come molti altri secondini e avrebbe potuto passare la notte a casa, con la sua famiglia, tra le sue cose. Invece preferiva rimanere all’interno del carcere, mangiando e dormendo in un ambiente che ormai era diventato casa più di quella costruita in anni di sacrifici, rivelando così un malessere che Johanna non riusciva a comprendere fino in fondo. Lei che aveva abbandonato tutto pur di stare accanto alla sorella, non afferrava come si potesse scegliere quella vita grigia così per intero, senza una valvola di sfogo, con il rischio concreto di spezzare un rapporto coniugale e la gioia dell’essere madre.

Guardandola camminare lentamente tra i tavoli, ripensò alla conversazione avuta con lei la notte precedente, quando ad un orario oscillante tra le due e le due e mezza del mattino, un’inquieta Johanna aveva iniziato a gironzolare per il Blocco C incapace di prendere sonno. Attirata dal rumore di un rivolo d’acqua proveniente dai bagni, aveva visto il suo superiore intenta a prepararsi per la notte. La camicia bianca con i distintivi e le mostrine che la contraddistinguevano dal resto della squadra, aperta e ormai non più impeccabile. L’asciugamano buttato su una spalla.

Era entrata discretamente avvicinandosi e trovandone lo sguardo attraverso il riflesso dello specchio, le aveva sorriso cercando un approccio che nelle più rosee intenzioni avrebbe dovuto portarla a chiederle scusa.

“Ancora sveglia? - Aveva iniziato immaginando quanta frustrazione potesse avere un responsabile della sicurezza di fronte ad un crimine sfuggitogli di mano. - Questa sera la Direttrice Meioh mi ha rivelato che sapevi la mia vera identità già dal primo giorno di servizio.”

Sputando un boccone di dentifricio nel lavandino l’altra non aveva battuto ciglio.

“Hai da dirmi qualcosa Johanna?"”

“Volevo chiederti scusa. Immagino che la mia totale mancanza di preparazione possa averti arrecato noie. Nella gestione del lavoro intendo. Ma spero che tu abbia compreso che l’ho fatto solamente per mia sorella.”

Pulendosi la bocca la donna più grande aveva allora iniziato a ripiegare l’asciuga mani con movimenti lenti e precisi. “Non me ne faccio niente delle tue scuse. A me non interessano le motivazioni che ti hanno portata a chiedere alla Meioh un posto tanto delicato, quello che mi disturba è che attualmente a me e alla mia squadra manca un’agente. - Voltandosi l’aveva fissata negli occhi. - Scommetto che non hai pensato a questo quando sei entrata qui dentro per la prima volta.”

“In realtà no.”

“Come scommetto che non hai neanche pensato al pericolo che avresti corso. L’uniforme che indossi non ti da una protezione, tutt’altro. Non sapendo come difenderti dalle dinamiche mentali e fisiche di un ambiente come questo, sei un pericolo per te e per le altre. L’anello debole della catena. Il perenne assillo alla mia preoccupazione.”

Spostando il viso altrove Johanna non aveva saputo come replicare, perché erano tutte cose giuste, cose che nella frenesia di aiutare Haruka, sia lei che Setsuna non avevano minimamente calcolato.

“La direttrice Meioh è il mio superiore, perciò lungi da me criticarne l’operato, ma per quanto riguarda te il discorso è diverso.”

“Cosa vuol dire?!” Aveva chiesto guardandola avvicinarsi all’uscita.

“Che non voglio ritrovarmi a pagare per una tua inettitudine. Guardati sempre le spalle Tenoh. Sempre. Non dare confidenza alle detenute come invece fai di solito e cerca di non rimanere mai sola per gli ambienti comuni. Il mondo delle carceri è duro e se si cede all’umanità abbassando la guardia si rischia di pagarne un prezzo molto alto.”

Un prezzo molto alto. Era forse stato questo ad avvizzire il cuore del capo squadra? Johanna aveva visto come le detenute più anziane portassero ad Anna rispetto. Ma sicuramente non era sempre stato così. Quasi certamente aveva dovuto soffrire per imparare, per arrivare dov’era, chiudendosi per non essere colpita, attaccando per non essere attaccata, prevedendo ogni mossa con due d’anticipo.

Tornando a guardarsi intorno, Johanna trattenne lo sguardo al tavolo dalla parte opposta del cortile dove il gruppetto della sorella stava parlando. Le mancava il suo apa. Le mancava la sua Ruka allegra e strafottente. Le mancava la sua famiglia. Le mancavano le sue cose. Le mancava persino la sua tesi, dimenticata in un cassetto che forse mai più avrebbe aperto.

 

 

Iniziando a torturarsi un labbro, Haruka guardò le due biondine sedute sulla panca speculare alla sua. Aveva del curioso la compostezza che avevano avuto nel venire a conoscenza di quello che era accaduto. Dell’innaturale. Se una ragazzona come lei aveva avvertito il colpo, perché nel sapere di un delitto tanto truce, Minako e Usagi sembravano così freddamente calme? Certo non avevano potuto impressionarsi nel vedere il cadavere di persona come invece aveva fatto lei, ma almeno avrebbero dovuto stupirsi, oppure aver paura nel riflettere sul fatto che tra loro ci fosse ancora un’assassina libera di girare tra i blocchi. Invece no. Tutto sembravano tranne che preoccupate, spaventate, disgustate o chissà cos’altro. Guardando Michiru ferma accanto a lei, ragionò anche sul suo di comportamento. Non stava arrivando a toccare punte asettiche come le sorelle Tzukino, ma sembrava comunque pienamente padrona della situazione.

Lei invece si sentiva ancora scossa. Lo shock avvertito al ritorno in cella era passato, annientato dal tempo e dalla presenza della sua compagna di cella, ma l’adrenalinica esplosione che quell’avvenimento le aveva provocato, aveva innescato un tentennamento che da quando aveva incontrato il suo táltos non l’aveva mai sfiorata. E se Johanna avesse avuto ragione? Se uccidere quel banchiere fosse stato troppo per un animo buono come il suo?

Strofinandosi apaticamente una guancia, la bionda sentì di stare paurosamente sbandando. Una volta avuto Kaioh davanti, avrebbe mai avuto il coraggio ed il livore di piantargli una lama nello sterno e continuare poi a vivere come prima? Se ci fosse riuscita, che differenza ci sarebbe stata tra lei e quell’assassina? Esisteva veramente il delitto d’onore o era solo un vigliacco paravento, una comoda quanto pericolosa bugia?

Stai vacillando Tenoh! Dimmi,… stai vacillando?! Pensò ormai completamente avulsa dalla conversazione tra le altre tre.

“Usagi, ma sei proprio sicura di averla vista?” Chiese Michiru non badando alla momentanea assenza della compagna di cella.

“Si. Adesso il compito di fare le faccende in gran parte del Blocco C è affidato allo zerbino. Quando questa mattina sono uscita dallo studio del dottor Kiba, me la sono vista davanti e vi assicuro che aveva l’aria di chi è stato pizzicato con le mani nella marmellata.”

Lo zerbino, soprannome abbastanza calzante con il quale Haruka aveva battezzato l’amichetta che Mery usava per i lavoretti sporchi e che era stata la causa del suo isolamento con la questione della rissa nelle docce. Il fatto che fosse stata scelta non era strano, visto che già si occupava della pulizia nel bagno delle guardie, ma quando si trattava del gruppo della slava, non c’era mai da fidarsi troppo.

“Vuol dire che la terremo d’occhio. - Affermò logica Minako, odiando il fatto che la sorellina dovesse aver bisogno di una cura psicologica che le permettesse di affrontare la reclusione. - Ora, acclarato che Mako non c’entra nulla, la domanda è come ci si possa muovere senza dare nell'occhio. Haruka? Haruka, mi ascolti?” La sua voce vibrò nell’aria rarefatta come un trillo telefonico.

Scossa, l’altra puntò loro contro due occhi interrogativi. “Come?”

“Uuu… Tenou, ci sei?!” Canzonò agitandole davanti al viso la destra.

“E piantala!” Le rispose a brutto muso schiaffeggiandogliela.

Alla bionda non andava per niente di giocare all’investigatore privato. Le domande urlate a gran voce dalla propria coscienza la stavano rendendo carica di boria. Aveva altro a cui pensare ed era delusa dalla mancanza di carattere che stava dimostrando verso il suo obbiettivo.

“Ma che modi! Insomma, vogliamo ragionare su come aiutare Mako?”

“Quale ragionamento?! Kino è innocente e l’unica cosa che rimane da fare è quella di aspettare che la moretta dai capelli lisci riesca a beccare la vera colpevole.”

“Scusa e allora perché non l’avrebbero ancora fatta uscire dall’isolamento?” Chiese Minako spostando il busto verso l'altra.

“Che ne so! Avete detto voi di essere delle specie di spie… no?”

Informatrici e poi abbassa la voce!”

“Credo si tratti di un’esca. Una trappola per snidare l’omicida.” S’inserì pensierosa Michiru, proseguendo con la convinzione che così facendo l’assassina si sarebbe sentita al sicuro e forse avrebbe commesso un passo falso.

“Bella roba lasciar dentro un’innocente!”

“Lo so Haruka, ma non è una tattica così rara. Forse per te può risultare sgradevole, ma cerca di guardare il quadro generale. Il sacrificio di uno, per un bene superiore.”

“E questo bene superiore sarebbe la giustizia?”

“Si!” Affermò Kichiru piccandosi nel sentirla ridere.

“Certo, dimenticavo che voi tre siete delle attiviste politiche ed è risaputo che le ragazze di buona famiglia nascano e crescano con sane convinzioni di giustizia.”

“Haruka…” S'intromise Minako vedendosi bloccata da un gesto di Kaioh.

“Aspetta Mina, lasciamola parlare. Adesso Tenoh ci spiega cosa c’entra il fatto che siamo delle attiviste di Buda.”

Tagliando fuori dal discorso le sorelle, la bionda scavallò con una gamba la panca ed arpionandosi le ginocchia con le mani raddrizzò la schiena stirando le labbra in quello che era il suo solito ghigno da battaglia. “Mia cara Kōtei, lo sanno tutti, polizia segreta inclusa, quanto a voi ragazzi dei quartieri alti piaccia da matti giocare a fare i sovversivi formando gruppi nelle università, nelle accademie o nei licei… - Una rapida occhiata alle ragazzine per poi tornare a sfidare lei. - … per andarvene in giro a pungolare lo Stato con, mmm… passami il termine, discutibili opere di guerriglia urbana fatta di lanci di volantini e scritte sui muri inneggianti alla libertà! Vorrei proprio vedervi davanti al fuoco di un cannone.”

“Stai uscendo fuori dai binari della decenza Tenoh. Non fare l’ignorante parlando di cose che conosci solo per sentito dire.”

“Non le conoscerò, o meglio, non frequentando certi ambienti non ho mai avuto il piacere di approfondire il discorso, ma ho sempre trovato oltremodo pavido lanciare sassi nascondendo poi le mani! Per affermare i nostri diritti noi delle fabbriche siamo soliti scioperare e ne converrai che sia molto più concreto che riempirsi la bocca di belle parole.”

Scattando in piedi Michiru strinse i pugni. Nella piega dei ricordi i volti dei suoi amici arrestati dalla ÁHV e dei quali non sapeva più nulla. Lukàs, Anna, Adam e sicuramente tutti gli altri componenti della voce di Buda.

“Non ti permettere!”

Haruka la seguì sovrastandola nuovamente. “Di far cosa?!”

“Non credevo fossi tanto superficiale.” Affondò uscendo dalla seduta con tutta l’intenzione di andarsene.

“Cosa fai, scappi?”

Bloccandosi per tornarle di fronte, Michiru le sussurrò all’orecchio sapendo di avere molti occhi puntati contro. Non voleva fare una scenata.

“Ricordati bene una cosa Haruka, io non sono mai scappata da niente e da nessuno, che fosse una sfida o un bombardamento dal cielo. Di questo puoi starne certa. Ritengo solo che parlare con chi non vuole ascoltare sia solo una grande perdita di tempo e il mio… è molto prezioso.” Così voltando i tacchi si allontanò lasciandola con un pugno di mosche in mano.

E no! Scattando agilmente la bionda la seguì come già accaduto altre volte.

Vista tutta la scena e godendo di quel siparietto gratuito, Mery spostò lo sguardo dalla porta dell’ingresso dove si era appena infilata Tenoh, alla sua sottoposta che stava arrivando di gran carriera. Iniziando a tamburellare con il dito sul pianale di legno grezzo del tavolo dov’era riunita con un altro paio di detenute, aspettò il resoconto della donna.

“Allora? Ci sei riuscita?” Chiese più trepidante di quel che avrebbe voluto dare a vedere.

“Si. Con il casino di questi giorni, la Meioh si è dimenticata di chiudere a chiave l’archivio.”

“Dunque?”

“Purtroppo su Haruka Tenou non c’è più di quanto non si sappia già. Arrestata per aggressione a pubblico ufficiale. Tutto qui.”

“Dannazione!”

“Aspetta. Forse su di lei non ci sarà nulla di nuovo, ma ho avuto il tempo di farmi un giretto nella sezione dedicata al personale. - Disse avendo finalmente tutta l’attenzione che il suo spirito debole bisognoso d’approvazione bramava. - E sono sicura che quello che ho scoperto ti potrà essere molto utile.”

“E cioè?” Domandò accogliendone il parlottare sommesso per poi disegnare sulle labbra livide per il freddo un sorrisetto sardonico.

“Ma bene, bene. Meglio non potevo augurarmi. - Ghignò spostando il busto in direzione di una delle guardie ferme dalla parte opposta dello spiazzo. - Adesso so come colpire entrambe.”

 

 

In quelle settimane le era già capitato d’inseguirla. Sembrava che dalla Festa della vendemmia non facesse altro ed iniziava a detestarlo. A passo svelto per non attirare l’attenzione della vigilanza, Haruka riuscì a raggiungerla verso la metà del tragitto che portava alla loro cella, in un corridoio in quel momento deserto. Arrivandole alle spalle riuscì ad afferrargliele voltandola e costringendola contro il muro.

“Hai detto che non scappi Michiru, ma ultimamente non stai facendo altro!”

“Lasciami!” Urlò cercando di sciogliersi.

“No! Parla con me. Parlami cazzo!”

“Per dirti cosa?!” Sbotto'.

“Pensi davvero che sia una superficiale?!”

“Haruka lasciami o chiamo aiuto!” Minacciò poco convinta mentre l’altra la schiacciava con il proprio corpo bloccandole i polsi alla parete.

“Dimmelo! Se sono tanto superficiale, tanto ignorante, allora perché mi stai sempre accanto, mi sostieni, mi aiuti! Perché Michi?”

“Cosa c’entra questo adesso?!” Guizzò con la rabbia di una sirena stretta in una rete.

“C’entra! C’entra perché non voglio che pensi questo di me. - Sentendola rabbrividire, smorzò la foga abbandonando la presa ai polsi per posarle la fronte sulla sua. - Non voglio.”

“Haruka…”

“Non voglio.” E fasciato il mento nell’incavo di entrambe le mani, si tuffò su quelle labbra meravigliose in un atteso, sperato, bramato bacio di passione.

 

 

 

NOTE: Salve! Sono sospiri e grida di giubilo quelle che sento, o appallamenti per la troppa lunghezza di questa storia?

Su, dai, non lamentatevi o ci schiaffo anche Ami. E sapete che lo faccio ;P

Tralasciando gli scherzi, finalmente Haruka e Michiru hanno ceduto l’una all’altra, o meglio, Kaioh lanciava razzi di segnalazione che Tenoh non voleva vedere fino a centrarne uno in faccia. Credo che lo screzio nato per le loro divergenze sociali, sia stata la scintilla che ha permesso al piccolo falco di darsi una mossa e scendere giù in picchiata sulla piccola gru.

Sottolineando che non sono mai stata attratta dai polizieschi (che francamente mi fanno sentire una mentecatta, perché l’assassino è sempre un altro), ammetto che mi è piaciucchiato affacciarmi a questo mondo. La signora Fletcher, che con la sua canzoncina ed il pigiare come un fabbro sui tasti della sua macchina da scrivere, tanto mi ha traumatizzato l’infanzia, sarebbe fiera di me. Spero lo siate anche voi o almeno mi auguro di non aver scritto corbellerie.

Infine due pensieri, uno per Mery e l’altro per Shiry. La prima inizia ad essere inquietante. Non vorrei che sotto quella faccia lentigginosa si nascondesse una brutta sorpresa. Per la seconda, che fino ad ora non avevo ancora inquadrato fisicamente, mi sono rifatta a Caroline Laplante; il capo delle guardie carcerarie di una serie televisiva canadese chiamata Unitè 9 che sto guardando da qualche giorno. Francamente non ci sto capendo nulla perché non tradotta, ma il personaggio mi piace molto.

A prestissimo!

 

 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XIX

 

 

Un cielo predestinato

 

 

Quando si staccò dalle labbra della bionda, così morbide rispetto a quelle di un uomo, a Michiru sembrò d'annaspare in una nuvola di vapore denso. Cercando di prendere fiato, ingoiò a forza riappropriandosi degli unici sensi che aveva momentaneamente perso; la vista e l’udito.

Il tatto no, quello si era amplificato a dismisura, sia nella strana quanto nuova sensazione di formicolio proveniente dai polpastrelli della sua sinistra stuzzicati dai fili dorati dei capelli di Haruka, sia per quel bruciore alle guance, accesesi con il tocco dei palmi dell’altra.

Il gusto per quel sapore dolce che era quella bocca bramata per settimane. L'olfatto, con quell’odore di lei ormai conosciuto ed apprezzato in ogni sua sfumatura, come una tavolozza di colori dalle molteplici tonalità, che come in un potente imprinting le avrebbe consegnato per sempre il ricordo del loro primo bacio. Tre sensi benedetti che in quell’immersione ovattata nella quale c’erano solo loro due, le aveva dato aritmia, sconvolgimento ed un lieve tremore alle gambe.

Una volta separate e tornata in se, Michiru si accorse del respiro affannoso di Haruka, della fronte abbandonata sulla sua spalla, dei muscoli di gran parte del corpo ancora tesi, come un auriga dopo lo slancio di una corsa a cavallo. Una mano aperta contro la pittura a calce del muro, l’altra ancora sul suo viso, con le dita ad accarezzarla lievemente, come si fa con un cucciolo per farlo addormentare.

“Ruka…” Riuscì a dire captando il gracchiare dell’altoparlante intento a richiamare più volte un soggetto.

“DETENUTA 0192 AL PUNTO SMISTAMENTO DEL BLOCCO A.”

“…sei tu. E’ la tua matricola.”

Sospirando pesantemente l’altra spostò lo sguardo all’oggetto appeso in un angolo del corridoio. “Se continua ad avere questo tempismo finirò per staccarlo dal muro quel coso fastidio.” E mentre Michiru soffocava il riso sul cotone della sua giacca, si separò definitivamente da lei espandendo il petto in una copiosa boccata d’ossigeno.

Serissima la costrinse a darle nuovamente la bocca in quello che a differenza del primo, fu un bacio più gentile, quasi premuroso. “Sei bellissima quando ridi.”

“Solo quando rido?” Le sussurrò sapendo di essere arrossita.

Come colpita a freddo, Haruka dilatò le pupille vagamente persa. Doveva ancora farne di strada per capire i sottili e finissimi meccanismi della femminilità di Kaioh. “Ecco io… No e che… sei sempre bellissima, ma…”

Posandole l’indice sulle labbra Kaiou la bloccò prima che potesse iniziare a mugolare. “Stavo solo scherzando, non fare quella faccia.”

“Ti chiedo scusa per la sparata che ho avuto in cortile. E’ stata completamente fuori luogo.” Confessò avvicinandosi al suo orecchio mentre avvertiva nuovamente e con soddisfazione le dita dell’altra alla base del suo collo.

“Siamo tanto diverse Haruka. Capiteranno altre discussioni. Sarà un modo per conoscerci meglio, basterà solo affrontarle in maniera aperta.”

“Mmm…”

“Vai ora o il capo Annamariah se la prenderà a male.”

“Che palle. Cosa vorranno ancora.” Farfugliò poco convinta nel doverla lasciare ora che la voleva così tanto.

“Io torno dalle ragazze. Ti ricordi che tra un’oretta abbiamo le prove per il ballo?”

Già lontana, l’altra si voltò iniziando a camminare all’indietro piantandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. “Non molli mai di un centimetro, vero Kōtei?!”

“Cosa vuoi farci Tenoh, è un dono di natura.” Ed alzando leggermente le spalle alla Giamburrasca, le sorrise così dolcemente che il cuore della bionda si contrasse nuovamente.

 

 

La cosa aveva dell’anomalo, diciamo anche del curioso. Grattandosi il collo Johanna scrollò la testa tornando a guardare la Direttrice. Accanto a lei, l’agente Hino; imbestialita. Poco oltre, Haruka ed il capo squadra Shiry, seccate per quell’inutile perdita di tempo. Tutte ferme a semicerchio attorno a lei, come un piccolo plotone d’esecuzione.

“Queste carte sono datate! E’ inutile girarci in torno; qui i due cunicoli che dite di avere ispezionato non sono segnati.” Sottolineò voltando il busto verso la scala di mattoni del vano caldaia.

“Ne siete sicura?”

“Certo agente Hino! Se permette credo di saper leggere una piantina!” Stizzita oltre ogni dire, Johanna posò la logora cianografia su una delle casse per tornare poi ad accovacciarsi davanti alla porticina dal metallo parzialmente arrugginito.

Passi per il momento difficile che, come agente esterno, la mora stava vivendo, ma se avesse continuato con quell’atteggiamento da tuttologa, la più grande delle sorelle Tenoh avrebbe perso il controllo. D’accordo, avendo aggirato il sistema penitenziario fingendosi una guaria era lei ad essere in difetto, ma questo non giustificava il pesante, nonché stupido ostracismo che Rei stava matematicamente portando ad ogni sua apertura di bocca.

Hino, Setsuna, Shiry ed i muscoli dell’unico uomo presente nella struttura, ovvero il dottor Kiba, con lampade alla mano, erano riusciti qualche ora prima ad ispezionare il cunicolo voltato che dal vano caldaia, in effetti andava districandosi sotto i blocchi A e B. Lo avevano fatto alla cieca, senza cioè la certezza di quel che avrebbero trovato al passo successivo. Camminando per svariate decine di metri piegati tra ragnatele, viscidume di ogni genere, sporcizia ed umidità, avevano infine trovato una biforcazione. Uno dei passaggi andava verso la mensa, mentre l’altro arrivava alla cucina, sbucando in un pertugio seminascosto dietro le derrate alimentari della dispensa. Ma se il primo poteva dirsi inutilizzabile perché ad un certo punto trovato murato, il secondo era risultato perfettamente agibile. Era perciò stato quello ad essere utilizzato dall’ombra che avevano intravisto le sorelle Tenoh la sera dell’assassinio della detenuta 0056.

“Posso solo ipotizzare che visto dove portano, questi siano i vecchi condotti utilizzati per spostare le casse di cibo dalla zona dello scarico che si trova proprio qui fuori, a dove si preparano e consumano i pasti.” Disse Johanna aspettando l’immancabile ripresa che puntuale scosse Hino ancora poco convinta.

“E allora perché non segnarli sulla piantina!?”

“Perché con molta probabilità questa non è quella originale. Non vedo bolli o timbri che in genere sono apposti su ogni progetto. Oppure i passaggi sono stati scavati in un secondo momento e nessuno si è preoccupato di aggiornare i disegni. Non so e credo che arrivati a questo punto non sia neanche importante scoprirlo. Non trovate?!”

Annusando il nervosismo, la Direttrice decise d'intervenire chiedendo alla ragazza se avesse potuto mapparli e disegnarli.

Serrando le labbra in una smorfia l'altra ammise di non esserci alcun problema. “Mi ci vorranno un paio di giorni. Se serve posso iniziare anche subito.”

“Te ne sarei grata ed una volta terminato chiuderemo anche il secondo passaggio.”

“Bene, finito qui io posso andare!” Disse Haruka già con un piede sulla breccia delle scale.

“Avete da fare Tenoh!?”

“Vedete agente Hino, il fatto che sia rinchiusa in questa galera non vuol dire che non abbia di meglio da fare che starmene in un posto sudicio a morirmi di caldo con delle donne che vorrebbero solo scannarsi... "

“Stessa cosa vale per me. Dottoressa Meioh, posso andare?” Rincarò Shiry che mal digeriva gli screzi femminili.

“Andate pure.” Le sciolse Setsuna. La sua prigione stava iniziando ad assomigliare alla una polveriera di un galeone spagnolo. Ed il suo mal di stomaco cresceva.

Sentendosi agitata come il primo giorno di scuola, dopo aver gentilmente tenuto la porta e fatto passare il capo squadra, la bionda schizzò percorrendo i corridoi ormai famigliari fino ad arrivare alla biblioteca, dove le prove per la festa erano già iniziate. Fermandosi sulla porta aperta respirò affondo un paio di volte per cercare di calmarsi. Michiru era riuscita ad arpionarle il cuore e a centrifugarglielo in una miscellanea di emozioni mai provate prima. Era già accaduto in passato che si fosse invaghita di qualche ragazza, ma quello che sentiva per lei la stava portando alla novità di un amore intenso e travolgente, a tratti anche doloroso, che la pungolava, la spingeva a dubitare di se stessa e a mettersi continuamente in discussione.

Guardandosi intorno non la vide. Non c’erano neanche le sorelle Tzukino. Forse si erano trattenute all’esterno. Digrignando i denti fece dietrofront chiamando a raccolta tutti i santi del Paradiso. Sapeva di stare facendo la mamma chioccia e che quel suo comportamento asfissiante mandava la sua compagna di cella fuori dai gangheri, ma era più forte di lei preoccuparsi ogni qual volta non la sapeva a stretto giro. In più la voleva. La voleva da morire la sua Michiru.

Una Michiru che in quel preciso istante stava imponendo alla sua scarsa sfacciataggine di non distogliere lo sguardo dal tavolo posto a qualche decina di metri da quello dov’era ancora seduta con le due biondine.

Escludendo le anziane, della quale la vittima faceva parte, rimanevano una quindicina di donne che avrebbero potuto compiere il fatto. Un po’ di ogni età. Riuscendo a circuire Setsuna, Haruka aveva spifferato al suo gruppo il risultato autoptico raggiunto dal dottor Kiba, così il trio aveva saputo di doversi concentrare su detenute non troppo alte, magari anche corpulente, con forza sufficiente per poter sopprimere un’altra persona in poche mosse. Una coscienza bipolare, dall’apparenza mansueta. In poche parole… una donna anonima.

“Secondo voi il gruppo di Tesla potrebbe entrarci qualcosa?”

“Molto probabile Michi. - Confermò Minako dandole noncurante le spalle inarcando la schiena al vento. - Ma ti consiglio di non guardare Mery così. L’abbiamo capito tutte che ha un debole per te e con molta probabilità Tesla non gradisce.

Posando il mento sulle nocche, l’amica stirò un sorrisetto. “Perché… come la starei guardando?”

“La stai stuzzicando e quelle sono persone che vanno lasciate a macerare nel loro brodo. Fidati.”

E difatti contraccambiando la stessa sfrontatezza usata da Kaioh, la ragazza lentigginosa iniziò a passarsi la punta della lingua sulle labbra in maniera piuttosto volgare.

“In apparenza non sembra una persona capace di far male. Direi più il classico tutto fumo e niente arrosto, ma siamo rinchiuse qui dentro proprio in virtù di un nostro colossale errore. Se la pugnalata infertaci da Hairàm Ferhèr ci ha insegnato qualcosa, è che non bisogna mai fidarsi. - Staccando finalmente il contatto visivo con l’altra tavolata, Michru si alzò iniziando a massaggiarsi le braccia. - Inizia a far freddino. Andiamo alle prove?”

“Mery e la sua amichetta non me la raccontano giusta. Se fossi la direttrice Meioh non permetterei a quella li di gironzolare tanto liberamente nel Blocco C.” Riferendosi allo zerbino, Usagi si sporse da dietro le spalle della sorella.

“Usa ha ragione. - Saltando giù dal pianale, Minako si strinse la sorellina addosso baciandole la fronte. - Forza che ho voglia di ballare un po’!”

Nel vederle, Michiru provò una tenerezza infinita. Un’ultima occhiata a Mery e all'altra, poi si voltò verso l’entrata. Qui vide la slava che impietrita sulla porta la fulminò con uno sguardo di rabbia liquida.

 

 

“SPEGNIMENTO LUCI.” Riecheggiò e a Michiru non rimase che tuffare il viso nella stoffa della camicia di Haruka iniziando a ghignare sommessamente.

“Perchè ridi?" Mormoró l’altra scansandosi un po’ per cercare di inquadrarne gli occhi nell’improvvisa semioscurità.

“Nulla, mi stavo solo chiedendo se adesso vorresti ancora sfasciare l’altoparlante.”

“Mmmm… forse no.” E tornò ad assaporarla.

La bionda aveva avuto un desiderio folle di contatto per tutto il giorno. Quando l’aveva incrociata con le sorelle Tsukino mentre si dirigevano alla biblioteca, aveva realizzato che quella era la prima volta che la rivedeva dopo averla baciata e si era sentita morire. Era stata sfacciata a catturarle la bocca in quel modo, senza permesso e a ripensarci, un vago rossore le era apparso sulle guance insospettendo le biondine e lusingando lei. Durante il pasto si era accorta di avere lo stomaco completamente chiuso, tutto scombussolato e sottosopra, uno sfarfallare che le si alzava dalle viscere ogni qual volta posava lo sguardo in quello dell’altra. La piega del collo. Il rosso delle labbra. Le mani. Non riusciva proprio a pensare ad altro. E il lasciare cibo nel piatto era stata un’anomalia talmente curiosa da spingere le amiche a punzecchiarla fino a sera. Infine c’era stata la parentesi della doccia serale alla quale, con una scusa ridicola, la bionda si era rifiutata di partecipare. Se avesse visto ancora Michiru nuda sul piatto doccia, il Turul di Pest sarebbe finita per perdere il poco controllo che ancora aveva sul proprio corpo.

“Perché ho come l’impressione che tu mi stia evitando, Tenoh?!” Le aveva sussurrato la compagna di cella mentre si trovavano nell’antibagno pronte per il proprio turno.

“Ti sbagli, ma… la sai una cosa? Questa sera passo. Sono pulitissima così.” Le aveva risposto in tono scherzoso staccandosi dalla fila ed allontanandosi di gran carriera e a Kaioh non era rimasto altro che allargare le braccia scuotendo la testa per nulla convinta.

Cosa credeva quella bionda spilungona tutta movimento, che anche lei non provasse la stessa tensione, gli stessi tremori di voglia? Era solo che riusciva a dissimularlo meglio, ma dentro sentiva una frenesia sentimentale senza precedenti e la cosa che forse Haruka non era ancora riuscita ad inquadrare, era che se per lei provare desiderio nel vedere le rotondità femminili poteva dirsi normale, per Michiru era un’esperienza del tutto nuova. Ed in un certo senso doveva ancora abituarsi a questo nuovo lato di se.

Adesso che era giunta l’ora della chiusura notturna delle celle, che tutto il piano si era quietato preparandosi al sonno, ora e finalmente, era arrivato il momento di stare da sole. Semidistese sul materasso di Michiru , con le schiene poggiate al muro, abbracciate, si stavano perdendo in una notte uguale e al contempo diversissima dalle altre.

“Hai freddo?” Accorgendosi di un suo tremore Haruka la strinse ancora più forte.

“Non è il freddo; sei tu.”

“Io?” E come se fosse una panacea la baciò ancora.

Gemendo Kaioh l’accolse provando un piacere incredibile.

“Si… tu.” Colpevolizzò bonariamente tornando ad inspirare a fatica mentre la bocca della bionda scendeva lungo la curva del suo collo.

“Non credevo di avere questo potere…” Le rispose riprendendo la pratica interrotta nelle docce qualche giorno prima, quando aveva conosciuto il sapore di quella piccola gru.

Le dita della destra ad insinuarsi maliziosamente sotto il maglione che ancora portava su. Il respiro spezzato da una smania ormai quasi incontrollabile.

Sentendosi toccare il seno, Michiru staccò il contatto cercando di bloccarle la mano. “Aspetta Ruka…”

“Che c’è? Non hai voglia di me?!” Chiese aggirando la presa.

O si che ne aveva e non l’avrebbe negato neanche sotto tortura. “E’ solo che sta andando tutto troppo velocemente.”

“Velocemente? - Stupita se la guardò in modo strano, quasi offeso. - Michi, ci stiamo correndo dietro da mesi. Non ti sembra che potrebbe essere arrivato il momento di… approfondire la nostra conoscenza?”

Ma scansando un poco il viso al nuovo assalto, Kaioh la respinse sentendola sbuffare. Non era facile cercare di spiegarsi, ma anche se avrebbe tanto voluto sentirsi interamente sua, quel posto, quella situazione, tutto insomma, erano al limite dello squallore. E l'avvilivano. La deprimevano.

“Vorrei che la nostra prima volta non fosse così. Vorrei…”

“Kōtei… io uscirò di qui fra un anno! - Sciogliendo l’abbraccio Haruka si mise a sedere curvandosi sulla schiena. - Se non mi vuoi… dillo e basta! Senza stupidi giri si parole!”

“Ma lo vedi come sei! Possibile che debba fraintendermi sempre!? - Si adagiò sulle sue spalle come un caldo scialle. - Voglio fare l’amore con te più di ogni altra cosa al mondo. Mi sento bruciare al solo sentirti accanto.”

“Ma sei una ragazza di buona famiglia e vuoi la favola…” Disse ironica raddrizzandosi per poggiarle la nuca sull’incavo del collo.

“Non ricominciare con la storia della classe sociale!”

“No, non ricomincio. E’ che sento il bisogno di te e quest’urgenza mi fa male. Cosa credi che abbia cercato di sfuggirti tutto il santo giorno perché mi sei … antipatica?”

Appiccicandole la guancia contro la sua, Michiru uggiolò docilmente. Sapeva che anche se di indole timida, Haruka era una ragazza molto carnale, a tratti focosa, ma non avrebbe mai creduto di dover provare con lei le stesse reticenze avute in passato per amici o compagni di università.

“Non farmi pressioni Ruka. Per favore. Non tu.”

Spalancando gli occhi alla semioscurità, la bionda si scansò guardandola. “Oddio, non penserai che… Cavolo, so controllarmi sai!”

“Non mi sembrano tocchi tanto… controllati.” Disse pianissimo accarezzandole la frangia mentre la sentiva abbassare la testa vinta.

“Scusami.”

“No, scusami tu. Lo so, non ho fatto altro che lanciarti segnali ed ora che finalmente ci siamo aperte l’una all’altra non dovrei fare tante storie per una cosa così naturale.”

“Sarebbe la prima volta anche per me Michi.” E quasi quasi se ne vergognò.

“Non avere tutta questa fretta. Ora che sei entrata nella mia vita non ti lascerò scapparne tanto facilmente.”

Ebbe un fremito Haruka ed il sospetto che forse quella foga non fosse dettata solo dalla voglia matta di averla finalmente tra le braccia, quanto dal sapere che probabilmente Michiru sarebbe uscita da quel posto molto prima di lei, lasciandola sola con i suoi demoni. Una volta ritrovatesi entrambe all’esterno, nella vita reale, l’avrebbe accolta nuovamente pur sapendo dei suoi piani di sangue? La terrorizzava l’immaginarsi come l’altra avrebbe reagito nel sapere. L’atterriva il disgusto che avrebbe provato nello scoprirsi innamorata di una potenziale assassina.

Aggrappandosi alla lana del suo maglione, la bionda ebbe un singulto. Possibile che una singola scelta di vita dettata dalla rabbia e dal dolore, potesse condizionarla e rischiare di rovinare l’unica cosa bella capitatale dalla morte di suo padre?

Azzerato qualsiasi ardore fisico, improvvisamente e senza preavviso, la bionda sentì una tristezza infinita scenderle nell’anima.

“Abbracciami Michi.” Chiese quasi con disperazione lasciando l’altra spiazzata.

Sono una persona orribile! Se soltanto mi conoscessi veramente fuggiresti da me a gambe levate.

“Ruka? Ecco, lo sapevo, non sono riuscita a spiegarmi bene.”

“No, sei stata chiarissima invece e ti do ragione. Sei la prima cosa bella che mi sia successa da secoli e non voglio rischiare di mandare tutto a puttane. - Tornando la solita bionda guascona sfoderò un sorriso sghembo che l’altra riuscì solamente ad intravedere. - Se vuoi aspettare… aspetteremo.”

Sdraiandosi nuovamente Tenoh serrò le dita di entrambe le mani sotto la nuca fissando le molle del letto compagne delle notti insonne di Kaioh.

“Bè Ruka, ci sono anche le sfumature. Te l’ho già detto; il mondo non è tutto o solo bianco o solo nero. - Crollando sul suo petto iniziò a giocherellare con un bottone della sua camicia. - Ci sono i baci…, le carezze…”

“Mmmm…”

“… e le parole che ci possono aiutare a conoscerci meglio, che mi possono dire il vero motivo per il quale ti sei intristita così di colpo.”

“Non mi sono intristita.”

“Invece si.” Le soffiò all’orecchio indispettendola.

“Però Michi… se fai così … Non sono mica un pezzo di pietra!" Scattò il collo allontanandosi.

“Scusa. - E si accoccolò come se fosse il più comodo dei cuscini. - Facciamo cosi'; io prometto di stare buona se tu prometti di aprirti con chi ti sta volendo un bene dell’anima.”

Stirando le labbra fino a dischiuderle, Haruka le afferrò la mano posandosela all’altezza del cuore. Doveva iniziare a fidarsi.

“Stavo pensando a mio padre. - Ed in un certo senso era vero. - Gli saresti piaciuta, soprattutto per il tuo carattere stizzoso.”

“Come… stizzoso!?” Chiese l'altra con tono imbronciato senza però avere soddisfazione.

“Stizzoso… Stizzoso. E non dirmi che non è vero, perché lo sappiamo entrambe che è così! Lui invece era calmo e riflessivo, anche se quando serviva, era capacissimo di surclassarti con la sola forza di un’occhiata… Tutto il contrario di me che borbotto sempre e parto in quarta per un niente. Spesso mi diceva che gli somigliavo, ma io so che non è così. Non avrei fatto le scelte che ho fatto se fosse stato vero.”

A quel parlare al passato Kaioh se la strinse mortificata. “Non avevo idea che aversi perso anche lui. Credevo fosse quell’uomo che ogni tanto viene a trovarti.”

“Chi… Scada? No, anche se per il mio apa, lui era come un fratello. Ma per me e mia sorella è comunque un punto di riferimento.”

“Hai una sorella? Più piccola o più grande?”

“Più grande. Una cosa fastidiosa. Appiccicaticcia. Ingombrante.”

L’altra rise ammettendo che le sarebbe piaciuto non essere figlia unica.

“Tuo padre invece? - Virò Haruka rapidamente. - Mi hai detto che anche tu gli vuoi un gran bene, ma per quanto mi sforzi, proprio non riesco ad immaginarmelo questo nipponico tutto casa e lavoro.”

A Michiru mancò aria. Nipponico! Giusto, Kōtei era un cognome di provenienza orientale ed era dunque ovvio che la bionda pensasse che suo padre non fosse ungherese.

“Ascolta Haruka... avrei una cosa da confessarti. - La loro storia non poteva iniziare sulle basi di una o più menzogne. - In realtà mio padre è nato qui, a Budapest, nel sesto Distretto. Kōtei è il nome del clan di mia madre. Era lei ad essere giapponese. Più precisamente di Hokkaidō.”

“E perché mai ti faresti chiamare così?”

“Ho avvallato un’idea della direttrice Meioh. Per colpa della mia detenzione mio padre sta avendo una marea di problemi, soprattutto politici. Quando sono stata arrestata, ero appena entrata nella cerchia d’influenza del deposto Generale Aino e se si venisse a sapere potrei avere delle noie con detenute simpatizzanti dell’attuale regime sovietico. Ecco perché.”

Emettendo un lieve fischio l’altra le baciò la fronte con ammirazione. “Lo hai conosciuto? Ferenc Aino intendo. Mio padre parlava spesso di lui, soprattutto in merito alle riforme che voleva attuare e che tanto beneficio avrebbero portato anche alla nostra fabbrica.”

“Ho avuto modo di parlargli un paio di volte. Un uomo gradevole.”

“Gradevole?! O Dio del cielo Michiru, stiamo parlando di un eroe nazionale!”

“Per la maggioranza della popolazione, ma non tutti la pensano così. Ecco perché anche Mina e Usa hanno dovuto prendere il cognome della madre.”

"Anche loro lo hanno conosciuto?"

"Sono le sue figlie Haruka..."

Haruka drizzò il collo. “cosa?! Quelle due sono le figlie del grande Ferenc Aino?”

“Non alzare troppo la voce.” Posandole due dita sulle labbra le intimò di far piano.

“Ora mi spiego l’acume che alle volte dimostra Minako. Per quell’altra… bè, il discorso è alquanto… diverso.”

“Non credere; Usagi mi ha spesso lasciata stupita e sai che non è così facile.” Le sorrise sfiorandole la punta del naso con il proprio.

Tornando a rilassarsi l’una nelle braccia dell’altra, passarono svariati secondi nei quali nessuna delle due ebbe la necessità di parlare, poi sospirando rumorosamente, una bionda ormai quieta le domandò se fosse per quella mezza mancata verità che ogni qual volta la chiamava Kōtei lei se la prendeva tanto.

“Si.”

“Non volevi bene a tua madre?”

“Da morire, ma a sentirtelo pronunciare pensavo a quanto fossi meschina a tenerti nascosta questa cosa.”

“Non m’importa del cognome che hai scelto di adottare, per me sei e rimarrai sempre Michi. Di tutto il resto non m’importa. Te lo assicuro.” Avvinghiando le gambe alle sue si rilassò iniziando a provare pesantezza agli occhi.

“Dici sul serio?”

“… Si.”

“E tu?”

“Io cosa?”

“Non hai alcun segreto da confidarmi?”

Una pausa, un pensiero, ma la bionda non trovò il coraggio. Così mentì. Per la prima volta ed in tutta coscienza, mentì alla sua dea. E se ne vergognò. Tanto. “No. Io sono cristallina come acqua di fonte.”

Avrebbe dovuto confessarle che la Meioh aveva usato lo stesso giochetto di cambiar cognome anche con Horvàth. Avrebbe dovuto confessarle che il secondino della quale era tanto gelosa altri non era che sua sorella maggiore. Avrebbe dovuto confessarle che sotto la stoffa della camicia, inciso con l’inchiostro del rancore, c’era un disegno che l’avrebbe spinta a compiere un omicidio. Avrebbe dovuto confessarle di stare provando schifo per quella piega di vigliacca omertà che si stava impadronendo velocemente del suo cuore. Avrebbe dovuto confessarle di stare provando terrore al solo pensiero che avrebbe potuto perderla se prima o poi la verità fosse venuta a galla.

Non fece nulla di ciò. Quel dolce essere che era Haruka Tenoh si lasciò trasportare dal respiro dell’altra, chiudendo gli occhi nel vano tentativo di trovare nel sonno un po’ di quella pace che ormai da tempo non l’accompagnava più.

 

 

La mattina successiva tutto ricominciò a scorrere come la routine penitenziaria imponeva. Una volta espletate abluzioni e colazione, Michiru si diresse in biblioteca per le prove degli strumenti ed Haruka, glissando con un mezzo ghigno alla domanda, vieni con me, così ne approfittiamo per provare qualche passo, rispedì al mittente l’invito.

“Non prendertela Michi, ma è meglio che mi tenga impegnata. Per un po’… Da sola. ”

“Se non proviamo finiremo per fare una figuraccia!”

Tanto meglio! Vorrebbe dire che sono riuscita a stare lontana dal tuo splendido corpo a sufficienza. “Non preoccuparti. Ce la caveremo!” Alzando un pugno al cielo in segno di vittoria, corse via con l’idea di chiedere a Setsuna Meioh di potersi rendere utile provando ad aggiustare un furgoncino FIAT 626 che aveva visto giacere languido nella rimessa accanto al vano caldaia.

“Ma dai… Haruka…” Supplicò all’aria vedendola già per le scale.

“Giorno Michi! Vedo che ti hanno bidonata anche oggi!” Una poco femminile pacca sulla schiena e Minako si presentò gioviale come sempre.

“Giono a te.”

“Cos’è, la tua bionda è riuscita a darsi ancora?”

Iniziarono così a camminare fianco a fianco e Kaioh riuscì finalmente a sfogarsi un pò. Lei, celebrare oltre ogni dire, proprio non riusciva a capire certi lati di Haruka. “A volte è più sfuggente di un daino. Farebbe la felicità di qualsiasi cacciatore.”

“O… cacciatrice.” Punzecchiò vedendola sorridere.

“Già, ma se continua ad ostinarsi a non voler provare, non soltanto mi falcerà i piedi, ma rischieremo anche una pessima figura.”

“Michiru non è una gara.”

“Lo so, ma l’impegno va onorato lo stesso. Le cose vanno fatte bene.”

L’altra roteò gli occhi. Quella ragazza era talmente competitiva che ogni tre per due finiva per non godersi niente.

“Comunque, tua sorella come sta oggi?”

“Meglio, grazie anche alla tregua che stranamente l’ÁHV ci sta concedendo e alle chiacchierate con il dottor Kiba.”

La sorellina sembrava stare traendo giovamento dalle sedute con il bel moro di Buda, anche se la vera ed unica cura per ritrovare un po’ di equilibrio, sarebbe stata quella di poter riabbracciare il padre, o quantomeno saperlo al sicuro.

“A renderla così apatica non è tanto la detenzione, quanto il non avere uno straccio di notizia. Le poche informazioni che riescono a filtrare da fuori, lo vedono ancora in fuga, ma se sia o meno riuscito ad oltrepassare la frontiera, questo non è riportato da nessuna testata giornalistica e visto la scarsa libertà di stampa imposta dal Regime, mai lo sarà.”

“Capisco. Chiederei a mio padre, ma con questa storia dell’omicidio tutte le visite sono state sospese.”

“Ci mancava anche questa. A proposito… - Le bloccò un braccio guardandosi rattamente intorno. – Entrando in discorsi più frivoli, questa notte tu ed Haruka avete sentito le grida?”

“Quali grida?!”

“D’accordo che la vostra cella è dalla parte opposta, ma almeno il fracasso fatto dalle guardie avreste dovuto avvertirlo… Pare che Tesla abbia picchiato a sangue Mery.”

“O Dio e perché?”

Riprendendo a camminare Minako alzò le sopracciglia divertita. “Ma come perché! Cerca di fare mente locale Michi.”

“Guarda, ti assicuro, mi stai cogliendo totalmente…”

“A causa tua! - Confessò fermandosi ancora ed abbassando la voce. - Te l’avevo detto di non civettare con lei. Neanche per scherzo. “

“Civettare?! Si seria Mina.”

“Io lo sono mia cara Michiru. Ricordi che mentre ieri stavamo rientrando per andare in biblioteca, abbiamo incrociato la slava? Bene, sembra che abbia visto la compagna ammiccare mentre rispondeva ad un tuo sguardo e da li ne sia nata una lite piuttosto accesa, tanto che Mery, esasperata, prima d'iniziare a prendercele, abbia persino manifestato l’intenzione di cambiare cella perché ormai innamorata di un’altra. Detenuta che qualche sera fa, avrebbe ricambiato le sue attenzioni con tocchi audaci nelle docce.”

“C…cosa?! E sarei io!?”

Scrollando le spalle Minako riprese il passo lasciando l’amica al palo. “Questo è quello che sono venuta a sapere questa mattina a mensa. Per di più, sembra che Tesla ti stia cercando per mettere le cose in chiaro.”

Le cose in chiaro? Pensò Kaioh sentendosi salire il fumo agli occhi.

“Le metto IO le cose in chiaro!” Minacciò tornando indietro.

“Michi dove vai?!”

“Tu prepara gli strumenti. Ho una cosetta da risolvere! Dovreste pensare tutte agli affari vostri invece che passare il tempo a spettegolare su cose completamente prive di fondamento!” Terminò urlando così che fosse chiaro anche a tutte le orecchie sintonizzate in quel momento su di loro, che una come lei non avrebbe mai offerto il fianco a simili illazioni.

 

 

Schivando un proiettile

 

Quel cunicolo era soffocante, nonostante la corrente gelida le stesse sferzando le gambe costringendola a velocizzare il suo lavoro. Non si sentiva tranquilla a star li, sola, in quell’ambiente stretto, alto all’intradosso poco meno di lei, umido, inospitale per qualunque forma di vita non avesse posseduto un esoscheletro. Forse era quel continuo lamento sibilante a gettarle addosso inquietudine o forse il sapere ancora in giro una persona che, per così dire, mal digeriva lo spettro delle regole civili, ma sta di fatto che Johanna avrebbe tanto voluto stare altrove.

“E invece sono qui e non mi ritorna un cazzo!” Rimproverò alla scarsa destrezza che pur se tecnico, aveva sempre avuto nelle rilevazioni.

“Bell’Architetto che diventerò se mai avrò ancora la fortuna di mettere le mani sulla mia povera tesi.” Critica ed avvilita per la poca accuratezza che stava mettendo in quel lavoro, cercò di controllare i numeri che aveva appuntato sul foglio. E la lampada le scivolò di mano.

“Ma porca… Altro?! No, perché se devi darti anche fuoco… basta dirlo Johanna! - Raddrizzando la scocca di metallo e vetro, decise di lasciarla vicino alle scarpe per avere così una mano libera e gonfiando le guance cercando di reprimere la voglia che aveva di urlare, iniziò a contare i punti che ancora le mancavano per finire. - Un metro e due. Un metro e dieci, e ventitré. Ventisette… Non finirò mai! Come al solito ho parlato prima di pensare. Già me la sento quella saccente ragazzina so tutto io! Se non metto il pennino su carta entro questa sera, domani se ne uscirà con una frase del tipo; ma come signorina Tenoh, non avete ancora finito di aggiornare le carte? Eppure sarebbe il vostro mestiere.” Facendo il verso all’agente Hino, voltò il busto e mettendosi la cartellina sotto al braccio, iniziò a richiamare la striscia numerata del metro a nastro.

“Che poi la fa facile quella… Ci provi lei a rilevare un tunnel del quale non si sa e vede la fine, alla luce di una fiammella, con l’aiuto di una fettuccia, una matita e sola come un cane, e poi vediamo."

Tre, quattro, cinque giri, poi la manovella metallica al lato del flessometro s'impuntò e a Johanna non restò altro che imprecare. “Nooo. Ti prego! Non ditemi che l’anellino ha agganciato qualche porcheria…”

Accovacciandosi chinò la testa sbuffando pesantemente. Era quasi un’ora che stava respirando polvere tendendo le orecchie ad ogni suono che poteva essere anche solo vagamente sinistro, ed era sinceramente stanca.

Adesso mando tutto all’aria e me ne vado, pensò provando a dare un paio di colpetti al metro teso. No Johanna, non è professionale…

Un’altro strappo e tra il chiaroscuro delle ombre tremolanti prodotte dalla lampada ad olio, vide la fettuccia rilassarsi di colpo. Ne seguì uno strano fruscio. Il ritmo vagamente trascinato di un qualcosa simile ad una serie di passi, la posero in un immediato stato di vigilanza. Smettendo di respirare e tendendo tutti i muscoli, rimase in ascolto. La cadenza si mantenne lenta e lontana per qualche istante, poi tutto ad un tratto divenne agile e minacciosa.

Ancora accovacciata, la ragazza si voltò di colpo mollando strumento e lampada per iniziare a correre verso il locale caldaia. Leggermente incurvata sulla schiena per evitare il contatto con la voltina, puntò alla debole luce dell’apertura avendo il vuoto nel cervello. Sentiva una presenza dietro di se e reale o immaginata che fosse la stava inseguendo. Veloce. Sempre più veloce. Come un animale braccato, l’adrenalina le impedì di provare dolore quando le nocche si graffiarono sulla superficie del mattonato e praticamente stando in apnea, riuscì a coprire tutta la distanza mancante in un tempo che le sembrò infinito e terrificante. Quando con un balzo oltrepassò la porticina, se la chiuse alla schiena sbattendola violentemente con la suola dell’anfibio per poi serrarla spasmodicamente tirando il chiavistello.

Madida di sudore e boccheggiando, guardò il metallo arrugginito continuando ad alzare ed abbassare le spalle. Improvvisamente un botto, come un pugno o un calcio mollato al pannello, seguito dal suono di un qualcosa d’appuntito strisciato con forza contro una superficie e Jo ebbe la riprova che dalla parte opposta ci fosse qualcuno. Ne sentì il fiato pesante. Un rantolo. Ne avvertì l’odio. Poi il silenzio. Infine nuovamente lo strusciare incerto che si allontanava fino a scomparire del tutto.

“Horvàth!”

Sobbalzando spalancò gli occhi alla voce proveniente dalla porta del corridoio

“Capo squadra…” E puntando l’indice cercò d'ingoiare la poca saliva che sentiva di avere in bocca.

Tre quarti d’ora più tardi Shiry e Hino entrarono nel cunicolo armate di pistole con il colpo in canna.

 

 

Avvicinando la lampada alle leggere strisce che s’intravedevano sullo strato di terra parzialmente battuta del quale era ricoperto il cunicolo, l’agente speciale guardò l’altra piegata accanto a lei.

“Dunque Horvàth ha visto giusto; c’era qualcuno altro qui con lei. ”

“E visto i graffi lasciati sul metallo, con molta probabilità era armato di un oggetto a punta. - Rincarò Annamariah. - Potrebbe essere l'assassina, ma in ogni caso dobbiamo mettere fine a questa storia! Farò perquisire ogni cella.”

Visti gli occhi terrorizzati di Johanna era ovvio che non avesse ingigantito la cosa, ma ora che ne aveva le prove, era preoccupata da morire. Solchi lasciati da un passo claudicante, forse zoppo, comunque incerto, ed incisioni all’interno del metallo della piccola apertura sotto le scale del vano caldaia. Non era finita.

“Dannazione. Fate mettere una guardia all’imbocco del tunnel ed una fissa dalla parte opposta. Io vado ad avvertire la dottoressa Meioh.” Ordinò Rei ripercorrendo il tragitto.

Una volta riemerse dall’oscurità del cunicolo, appoggiata ad una delle casse con ancora la cartellina fra le mani, Jo se le guardò aspettando il responso. Bella figura che aveva fatto.

“Hai rischiato grosso Johanna.”

“Lo so e ammetto di essermela quasi fatta sotto, capo.” Ripensando alla fettuccia metrica bloccatasi e liberatasi di colpo, ora poteva ipotizzare che qualcuno la dentro aveva voluto giocare con lei. Come un gatto col topo.

“Perché non hai aspettato una collega come ti avevo detto?” La rimproverò Annamariah più sollevata nel vederla sana e salva che arrabbiata per la mancata esecuzione del suo ordine.

“Non vedendo arrivare nessuno, ho pensato di avvantaggiarmi.” Si difese neanche troppo convinta mentre Hino le passava davanti squadrandola con la solita sufficienza.

Stronza, pensò mentre Shiry la costringeva con un gesto a ridarle lo sguardo. “Johanna te la senti di aiutarmi nelle perquisizioni? Se c’è un’arma in giro… deve essere trovata.”

 

 

Odiava tutto di quel posto. Tutto! Come avrebbe potuto fare l’amore con Haruka mantenendo la discrezione che la loro storia meritava, se in quel piccolo mondo despota e criminale, persino le dicerie prendevano la stessa cassa di risonanza dello scoppio di un colpo di stato? Era bastato un non nulla per scatenare su lei e Mery un putiferio di pettegolezzi falsi e tendenziosi. Che poi a ripensarci, era ovvio che a mettere in giro tali fesserie fosse stata una della banda della slava.

In quel posto tutto si dilatava, si distorceva. Neanche durante le classi superiori, quelle più ricche di confessioni e battiti amorosi tra i baschi del liceo, a Michiru era mai capitato di essere invischiata in una tale puerilità. Eppure siamo tra adulte! Pensò iniziando a salire una delle scale non accorgendosi, presa com’era, di star sbattendo le suole sulla pedata metallica. Le fremevano le mani, ed era una cosa così strana, così inusuale per un tipo ponderato come lei.

Questa volta si è superato il segno. Arrivata al ballatoio, più o meno all’altezza della cella sua e di Haruka, prese la sinistra e con passo militaresco iniziò a coprire i cento metri che la dividevano da quella di Tesla e Mery.

Gettando la prima delle quattro carte che ancora le rimanevano in mano, la slava sorrise alle donne che stavano giocando contro di lei. “Mi dispiace, ma a questo giro credo proprio di essere stata servita dalla dea bendata in persona.”

“Non cantar vittoria troppo presto…”

“Lo vedremo. Dai, che aspetti? Scarta!”

Ma l’altra invece di farlo, indicò con il mento la porta della cella alle sue spalle. “Hai visite.”

Voltandosi non rimase che dilatare gli occhi per poi piegare la testa da un lato. Che bella, bellissima ed inaspettata sorpresa.

“Kōtei? Che il diavolo mi porti se sono stupita di vederti! - Dandole nuovamente la schiena tornò a fissare l’unica carta per adesso ancora presente sul materasso che in quel momento stava fungendo da tavolo. - Cosa sei venuta a fare nella tana del lupo?”

Guardandosi intorno, Michiru si meravigliò che nonostante l’arteria del collo le stesse pompando sangue a martellate, riuscisse ugualmente a prestare attenzione alle piccole diversità che quelle quattro mura avevano con la cella che divideva con la bionda. Sporcizia, disordine ed una noncuranza per le cose che la stessa caotica Haruka non si era mai sognata di avere. Calze appese al ferro del letto a castello, ammiccanti disegni alle pareti, financo un paio di slip non proprio freschi di bucato abbandonati sulla scrivania.

Reprimendo un brivido di disgusto, tornò a guardare le spalle ricurve della donna. “Ho saputo che volevi parlarmi. Ebbene…, sono qui.”

“Quando avrò finito. Ora ho da fare.”

Entrando di un paio di passi, Michiru non demorse. Se pensava di intimorirla usando un atteggiamento da capo banda, si sbagliava di grosso. Non calcolando minimamente le altre, parlò decisa come Tesla non l’aveva mai sentita.

“Adesso! Ti aspetto fuori.” E usci non aggiungendo altro.

Serrando la mascella, quella inalò forte gettando le carte sulla coperta ed alzandosi dal materasso, fece cenno alle altre d’eclissarsi.

Ferma al centro del ballatoio, Kaioh le vide allontanarsi velocemente verso le rispettive celle, poi riducendo i suoi occhi a due fessure, attese.

“Non avrei mai creduto che tu fossi tanto coraggiosa e gentile da risparmiarmi la fatica di venirti a cercare.” Era una donna alta ed abbastanza possente Tesla, molto più di Haruka e quando fece capolino dalla porta, lo fece come una fiera sull’arena di un anfiteatro romano, lentamente, puntando quella che credeva essere la sua preda del giorno e godendo nel pensarla indifesa.

Solo che davanti non aveva un condannato a morte, ma una combattente, una gladiatrice armata di tutta la tensione accumulata in mesi. Hairàm e l’arresto. La delusione che sapeva di aver dato a suo padre e i consequenziali problemi finanziari della Kaioh Bank. Il Generale Aino ed il crollo della stabilità parlamentare del Governo. Le urla avvertite fuori dalla casa della giustizia. Il malessere di Usagi, la fine miserabile dei compagni della voce di Buda. Lo schifo di quel posto malsano e le sue assurde leggi. Il non poter dare alla sua Haruka l’amore completo che volevano entrambe. Non si trattava di essere coraggiose, ne sfrontate, tanto meno folli. Michiru aveva una carica nervosa talmente elevata che Tesla avrebbe dovuto temere.

Ma non lo fece. “Se sai che ti stavo cercando, saprai anche il motivo.”

“Esatto e vorrei che ti fosse ben chiaro che tra me e la tua compagna non c’è mai stato niente!”

"Strano perché ho visto come ieri la stavi guardando.

"La stavo solo prendendo in giro, hai abbastanza esperienza da potertene rendere conto da sola."

Arrivandole ad un passo l’altra continuò incalzante. “Vero. Allora rispondi; quella sera nelle docce non avete fatto nulla?”

“No!”

Puntandole l’indice allo sterno sinistro, Tesla scosse la testa schioccando la lingua svariate volte in segno di diniego. “Dunque se controllassi proprio qui. - Spinse. - Non troverei un piccolo e delizioso neo?!”

Dilatando impercettibilmente le iridi all’esplosione d’adrenalina che quella rivelazione le aveva fulmineamente prodotto nei sensi, Michiru mantenne il punto. “Ti ho detto che non c’è stato niente, non che non fossi nuda e stessi provando a farmi una doccia!”

Fintamente stupita la slava alzò le sopracciglia costringendola ad arretrare di un passo. “A giusto. Dopotutto cosa ci si va a fare in una doccia?! Non è vero… amore?”

Solo in quel momento Kaioh si rese conto che alla sua sinistra stava sopraggiungendo Mery. Con l’immancabile espressione da cane bastonato che assumeva quando era in presenza della compagna e una camminata leggermente legnosa, che se non fosse stato per tutte le botte prese, avrebbe benissimo potuto essere scambiata per totale mancanza di fretta.

”Amore, diglielo tu a questa ragazzina di Buda per cos’altro si usano le docce qui alla casa della luce!”

“Piantala slava! Tutta questa becera ironia mi ha stancata!”

“O povera, piccola Kōtei, costretta a crescere e vivere nella bambagia dei distretti centrali. Che pena.”

“Ma che ne sai tu di me eh?! Cosa!?

Arretrando ancora, Michiru avvertì alla schiena l’asta del corrimano metallico e staccando per un istante le iridi da quelle dell’altra, guardò il vuoto dietro di lei. Un salto di circa quattro metri.

“Paura? - Sussurrò bloccandola tra l’asta tubolare ed il suo corpo. - Avresti dovuto pensarci prima di venire nella mia zona.”

“Non… minacciarmi.” Un ringhio di risposta che nulla aveva dello spaventato.

“Perché zuccherino, se no che mi fai?!”

Cercando di opporsi alla massa che la stava spingendo, anche lei serrò le dita al corrimano. “E’ da quando sono entrata qui dentro che la tua ragazza non fa che darmi fastidio, lo hanno visto tutte e so che te ne sei accorta anche tu. Ora, visto il mio totale disinteresse per lei e per qualunque donna qui dentro non sia… Haruka Tenoh, ti pregherei di tenere il tuo furetto in calore ben legato al guinzaglio. Sono stata chiara?” Nel dire quel nome, nel pronunciarlo con una dose di sfacciato orgoglio, si sentì magnificamente!

Lo sguardo di Tesla, prima gaglioffo e prepotente, a quelle parole si fece rabbioso. Cattivo.

“Ah, è così che stanno le cose!? - E la sovrastò. - Oltre che dalla mia donna, adesso ti fai sbattere anche da Tenoh!?”

“Non ti permetto di tirarla in mezzo a questo squallore!”

Iniziando a provare dolore alla spina dorsale, Michiru cercò di resistere alla spinta gonfiando i dorsali.

"Kōtei, mi troverò costretta ad intervenire se ti ripescherò a guardare Mery anche solo di sfuggita e per quanto riguarda la nostra bella biondina...., cerca di non illuderti troppo. Non e' carne per te quella."

“Tesla! Allontanati immediatamente!”

Non si voltò la slava, ma riconobbe lo stesso la voce ormai famigliare di Annamariah Shiry.

“Capo squadra… Che succede?” Ironica continuò a fissare gli occhi della ragazza più bassa di lei di una ventina di centimetri.

“Allontanati ho detto!”

“Capo…”

“Non farmelo ripetere!”

Grugnendo lei tenne lo sguardo in quello di Michiru un altro paio di secondi, poi staccando le dita dalla balaustra ed alzandole di scatto a mezz’aria si allontanò di qualche passo. “Va bene, va bene. Non c’è bisogno di arrabbiarsi.”

“Contro il muro.” Ordinò, facendo poi cenno a Johanna, ferma accanto a lei, di comportarsi nello stesso modo con Mery.

“Oh, ma abbiamo anche la novellina! Cosa c’è un’esercitazione?”

“Non fare dello spirito Tesla. Togliti le scarpe ed allarga braccia e gambe.”

Imitando la fermezza della graduata, Jo intimò all’altra di fare la stessa cosa. “La conosci la procedura, no? Mani contro il muro.”

“Non toccarmi.” Urlò Mery vedendo le dita della ragazza avvicinarsi.

“Stai calma e fai quello che ti ho detto!”

“Io non faccio proprio un cazzo. Tu non mi dai ordini, hai capito novellina!?”

“Mery!” Richiamò la compagna e quella smise di divincolarsi di colpo.

“Ecco, fa la brava e dai retta alla tua donna o un’altro paio di legnate non te le toglie nessuno!” Le consigliò Johanna glaciale.

“Bastarda…” E si cavò via gli stivaletti.

“Contro il muro!”

“Te la farò pagare… quanto è vero iddio.”

Esasperata Jo scattò voltandola di schiena per spingerla violentemente contro la parete. “Sta zitta! Devi stare zitta!”

Avambracci, gomiti braccia, ascelle. Collo, capelli, tronco, vita. Retro della cinta, tasche dei pantaloni, interno ed esterno coscia, giù, fino a polpacci e calzini. Non tralasciò nulla Johanna, seguendo la logica metrica della perquisizione con professionalità ed autocontrollo, palpeggiando affondo ogni centimetro quadrato che avesse potuto nascondere un’arma.

“Hei novellina, vacci piano! Capo Shiry ditele qualcosa. Quella è la mia donna!”

“Finiscila di scherzare ho detto, o saremmo costrette ad un'ispezione corporale."

“Ma capo, quella ha già Tenoh da toccare. A proposito Kōtei, come la metti con Horvàth?!”

“Allora la finiamo!?” Disse Shiry sempre più esasperata.

Rimasta bloccata al parapetto, Michiru si sentì presa in causa, ma non rispose. Continuava a tenere gli occhi fissi sulla schiena di Johanna, che con gambe ben piantate a terra stava continuando la perquisizione su Mery. Come un dejavu rivide Haruka in quella famosa sera, quando aveva sbattuto la ragazza lentigginosa al muro salvandola dal suo approccio. Il corpo più minuto, l’altezza diversa. ma le stesse movenze scattose. Da dietro la bionda e l’agente Horvàth erano praticamente identiche.

“Finito?” Chiese Shiry mentre invitava la donna slava a farsi da parte mentre un paio di agenti appena arrivate entravano nella cella.

“Si. Nulla di rilevato.” Confermò Johanna.

“Perché questo controllo?” Tesla perse Mery per la manica trascinandola lontana dal secondino.

Tutto intorno, guardie abbastanza nervose che andavano e venivano dagli altri vani, mettendo tutto sottosopra. Perquisizioni dei secondini da una parte e moti d’insurrezione delle detenute dall’altra.

Ovviamente Shiry non rispose. "Non sono affari tuoi. Restate sul ballatoio finché non vi sarà detto di rientrare in cella. Horvàth, signorina Kōtei, seguitemi.”

Allontanandosi velocemente il capo squadra guardò Johanna ancora abbastanza alterata. “Allora? Tutto apposto?”

“Ha cercato di non tradirsi, ma quando le ho toccato le gambe ha leggermente sussultato. Credo abbia ecchimosi abbastanza estese. Soprattutto a quella destra. Tesla non l’ha picchiata sul viso, ma credo l’abbia pestata forte su tutto il resto del corpo. - Ipotizzò mentre Shiry si fermava davanti ad un’altra cella dov’era già in atto il controllo. - Io la sottoporrei ad un’ispezione corpolare… approfondita.”

“Dio che palle! Va bene. Più tardi la porteremo in infermeria e verificheremo se ha lividi e se tiene qualcosa di nascosto nella sua intimità. Sei stata brava. - Poi rivolgendosi all’altra ragazza montò un’espressione stupita. - E voi Kōtei, mi spiegate cosa diavolo ci stavate facendo dalla slava? Lo sapete che è meglio non averci niente a che fare.”

“Dovevo mettere in chiaro una certa cosa.” Vomitò tutto d’un fiato riuscendo a spezzare la labile calma che il capo squadra ancora aveva e a farla sbottare.

“Non me ne frega un emerito delle beghe di questa parte di ballatoio e in futuro mai e poi mai dovrete ripetere questa stronzata. Non avvicinatevi a Tesla o alla sua ragazza, da sola, con le sorelle Tzukino, Tenoh o chi per loro! Non rivolgetele la parola e soprattutto, non sfidatela occhi negli occhi come vi ho appena visto fare. Quella donna è pericolosa! Mi sono spiegata?!”

“Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno, agente Sh…”

“Kōtei! Siete sufficientemente intelligente per rendervi conto della situazione! Mi sono stufata di fare da balia ad un gruppo di ragazzine senza la ben che minima idea del rischio che stanno correndo nel vivere fianco a fianco con la feccia più infima di Budapest! Fate come vi dico e basta!”

E visto la risolutezza della donna più grande a Michiru non rimase altro che tacere e muovere leggermente la testa. Poco oltre anche Johanna si sentì presa in causa e si fece piccola piccola.

“Bene. Horvàth accompagnala in cella e perquisisci l’ambiente. Muoviti!”

“Si signora.” Obbedì guardandola allontanarsi.

Quel giorno di febbraio il capo squadra Shiry sgranò nel cervello un rosario intero di bestemmie.

Neanche dieci minuti ed Haruka irruppe nella cella come l’eroe a cavallo di una fiaba disneyana.

“Che cos’è questa pagliacciata?!”

Un libro in mano, lo sguardo di chi avrebbe tanto voluto stare in qualunque altro posto tranne che quello e Johanna grugnì come un muflone accaldato. Ecco. Siamo al completo, pensò voltandosi verso la sorella apparsa sulla porta.

“Allora? Per i blocchi è tutto un subbuglio. Perché una retata in grande stile?”

Terminando di spulciare le ultime pagine, la maggiore passò ad altro. “Perché c’è un’arma in giro.”

“E la devi cercare proprio qui?! - Poi attratta dal rosso sulle sue nocche, entrò ed amorevole le prese una mano iniziando ad accarezzargliela. - Che hai fatto!? Hai pestato qualcuno?”

"Quella e' una pratica che spetta a te."

Michiru, rimasta inchiodata fuori a braccia conserte, nel vedere quella scena si rose ancor di più il fegato. Cosa le aveva detto Tesla? A proposito Kōtei, come la metti con Horvàth?! Dipingendo sul viso la maschera glaciale dell'indifferenza, strinse le labbra diventando un fascio di nervi.

"E allora? Hai le nocche tutte abrase."

“Nulla. Incidente nei tunnel che sto rilevando. - Poi sentendo gli occhi di Kaioh piantati addosso come due pugnali arroventati, ritrasse la mano ammettendo che la sorella non fosse un gran che furba. - A me non frega, perché sei tu a dormirci insieme, ma se fossi in te non ci penserei oltre a dirle di noi.” Bisbigliò alla sorella.

Ad Haruka si alzarono i peli delle braccia. Sin da subito dopo il loro ritrovarsi li dentro, avevano giocato sulle dicerie che circolavano sul loro conto, anzi, le avevano alimentate per non destare sospetti quando si allontanavano per parlare un po’, ma Jo aveva ragione; ora c’era lei e sarebbe stato sempre più difficile tenerle nascosta la verità.

“Detto così ha un non so che d'incestuoso..“ Ghignò mentre l’altra apriva un cassetto facendo finta di rovistarci dentro.

“Si, si, ridi pure, ma credo che per quieto vivere ti convenga dire alla tua ragazza che questa splendida ed efficientissima guardia carceraria altri non è che tua sorella maggiore. O vuoi che la bomba ti scoppi sui denti quando meno te lo aspetti Tenoh?”

Colta da un improvviso senso del pudore, Haruka chinò la testa iniziando a tamburellare con i polpastrelli sul pianale della scrivania. La sua ragazza! “Meno cose sa e più riuscirò a proteggerla. E’ per tenerla lontano dai guai, non lo capisci?”

I guai li attira lo stesso, anzi se li va a cercare, si disse afferrando un paio di fogli. “Questi disegni li ha fatti lei? Ha talento… - Ammirò. - Dai retta a me sorella. Parlale.”

Ma Haruka glissò come al solito.

“Capito. Dovrai sbatterci le corna. Fai come vuoi, ma sappi che non mi sembra giusto farla ingelosire così. - Poi abbandonando i fogli e richiudendo il cassetto alzò la voce perché potesse sentire anche la ragazza fuori dalla porta. - Tutto apposto. Signorina Kōtei… Potete rientrare.” Ed uscendo fece finta di non notare quanto ardenti fossero quelle due splendide pozze d’acqua marina.

 

 

 

NOTE: Ciau. Prima di tutto buone vacanze! Da per me stando al palo a casa ne approfitto per scrivere e tutto sommato va bene così. Fa caldo, perciò scusate se troverete i soliti erroracci, che come ormai saprete bene, riesco a snidare e correggere solo rileggendo più volte dal mio Ipad. Li mi saltano meglio agli occhi. Che ci posso fare.

Allora; mettiamo il famoso punto su questa storia, almeno sui rapporti interpersonali tra i vari personaggi.

Inizio con Tesla, che mai sazia vuole tutto. Tutte. Due per l’esattezza; Haruka e Mery. Mery che vuole da sempre Michiru. Poi passo a Johanna, che vorrebbe tritare Rei, la quale mal digerisce la mancata efficienza all’interno del carcere. Qui troviamo Setsuna, che giudicata da più fronti, sente di stare perdendo la presa sulle altre.

Non sto approfondendo il rapporto tra Usagi e Mamoru e me ne scuso, ma per quanto li riguarda spero comunque sia chiaro che qualcosina, fosse solo amicizia, stima o cosa, sta nascendo. Viriamo sulla coppia d’oro per eccellenza… Alzi la mano chi si aspettava fuoco e fiamme. Bene, potete anche abbassarle. Viziose! :p Ho capito, ho capito. Datemi tempo. Non volevo ricalcare la loro prima volta descritta nella mia terza ff. Volevo fare qualcosa di leggermente diverso. Per esempio una Kaioh attendista. Haruka no… Lei è la solita porcella di sempre hihihi.

Infine Johanna e Michiru. Me la sto proprio godendo questa Kaioh sempre più gelosa. Non so come e quando deflagrerà la bomba, ma lo farà. O si che lo farà.

Credo che il prossimo capitolo sarà abbastanza ricco, anzi preparatevi che accadranno parecchie cose.

Alla prossima!

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XX

 

 

Il velo sulla verità

 

 

Se lo rigirò nel palmo della mano e ne studiò l’impugnatura decorata. Che insperato regalo aveva ricevuto dalla sorte. Tanto prezioso da provare quasi un senso d’invidia per colei che l’aveva posseduto. Tanto utile ora, che ancora non riusciva a credere di esserne entrata in possesso così facilmente. Non avrebbe dovuto trovarsi nelle sue mani e per questo non l’avrebbero mai cercato. In ogni caso lei sarebbe riuscita ad occultarlo. In anni passati rinchiusa a spender la vita all’interno di quelle quattro mura che la società per bene aveva eretto per tenere lontana gente come lei, gli ambienti della casa della luce non avevano più segreti. Ogni anfratto, ogni angolo, persino quel pezzo di marmo posto al lato del vascone in pietra del locale lavanderia che si alzava per un non nulla e che tante volte le aveva fatto da compagno silenzioso celando ai più i suoi segreti.

Sfiorando con il polpastrello del pollice la decorazione cesellata raffigurante piccole piume stilizzate, la donna sorrise ironica al gesto che presto avrebbe compiuto grazie a quell’oggetto. Conosceva il significato del possederlo ed in tutta franchezza il sapere di chi fosse l’aveva sorpresa parecchio. Era proprio vero il detto che ogni uomo porta in se l’ambigua bivalenza tra il bene ed il male.

Riponendolo con cura nella piccola buca ricavata dallo squasso del massetto, prese il pezzo di marmo ormai reso liscio dallo sfregamento di mille e mille suole, riposizionandolo accanto agli altri, poi si alzò sbattendo più volte i palmi l’uno contro l’altro.

“Ti procurerò tanto di quel dolore che rimpiangerai di essere venuta al mondo e questo inatteso aiuto, renderà ancora più dolce la mia vendetta.” Soffiò nella solitudine della lavanderia afferrando il cesto del bucato ed uscendo come nulla fosse verso l’aria del cortile.

 

 

Erano passati giorni ed il Carnevale era ormai nel vivo. Per le strade di Budapest maschere di ogni tipo, sfilate, luminarie notturne, fuse con allegra assonanza all’odore delle frittelle e delle crépe dei carrettini di strada. All’interno della casa circondariale della luce, lo strano quanto inusuale fermento per il ballo che sarebbe andato presto in scena aveva conteggiato chiunque non avesse un’uniforme in dosso. La vita carceraria sembrava ormai inesorabilmente girare attorno a quell’evento, tanto che anche la comprensibile agitazione scaturita dall’omicidio della detenuta 0056 sembrava essersi sopita.

Tutto era quasi pronto, come un ultimo giorno di scuola. Era stata decisa la scaletta per le musiche che si sarebbero suonate, la biblioteca ormai irriconoscibile nello spazio dilatatosi dalla rimozione dei tavoli, i festoni multicolori appesi, ed il menu per la cena in piedi che sarebbe venuta prima delle danze. Non mancavano che pochi dettagli, come ad esempio i vestiti. Naturalmente non si poteva pretendere di fare indossare alle detenute abiti di gran gala, ma il partecipare con i cenci casalinghi che molte portavano ormai su da anni, avrebbe in un certo senso guastato tutto ciò che di buono Michiru e le altre avevano fatto. Setsuna aveva così deciso di aprire a tutte le donne che avrebbero avuto il permesso di partecipare alla festa, la sala per le attività domestiche, pagando di tasca propria il materiale tessile per la modifica o il confezionamento dei vestiti.

Le uniche a non avere alcuno slancio euforico per quel ribollire di umanità erano le guardie, che leggevano in quel perenne via vai un potenziale rischio. Nonostante la famigerata arma con la quale l’ombra aveva graffiato la porticina metallica del vano caldaia fosse stata ritrovata ed identificata come essere un cacciavite a stella abbandonato da un operaio distratto impegnato nel lavoro di ripristino d’impianto idrico del Blocco A, non si dimenticava che la responsabile dell’omicidio fosse ancora libera di girare per gli ambienti. Come non si poteva dimenticare che Makoto Kino si stesse immolando rinchiusa in una delle stanze del personale.

Così, sinceramente stanca di essere criticata di scarsa efficienza dall’agente Rei Hino quando poteva contare solo su poche decine di guardie, il capo squadra Shiry aveva deciso di fregarsene del rigore, della correttezza e dell’abnegazione verso la figura della Direttrice, iniziando a servirsi di alcune recluse delle quali si fidava, per far spiare le altre. Non ne andava certo fiera, ma a mali estremi...

Si, perché la parentesi del cacciavite e dell’ombra nel cunicolo non erano state le uniche stranezze che avevano dovuto affrontare. Erano accadute altre cose raccapriccianti, cose che avevano posto lei e la sua squadra in uno stato di altissima tensione.

Come quella sera, quando impegnata nella ronda post chiusura delle celle, una delle guardie aveva trovato il corpicino mutilato di un uccello davanti ad una delle porte della mensa. La testa era saltata fuori due giorni dopo, proprio durante l’allestimento della biblioteca. Fatta sparire prima che qualcuna delle detenute l’avesse potuta vedere, aveva creato allarme, rientrato solo all'agirarsi tra il filo spinato del muro di cinta, di un grosso gatto rosso. Ma se per quel macabro memento mori poteva essere incolpato l’istinto di un randagio, per il contenitore di sangue lasciato a marcire dietro un mobile della cucina, il discorso poteva dirsi ben diverso.

“Come diavolo si sta facendo sicurezza in questo posto!?” Aveva tuonato l’agente Hino ormai inchiodata dal Ministero in quel carcere fino a quando non fosse riuscita a trovare la colpevole dell’omicidio.

“Abbiamo chiesto alle cuoche, ma nessuna ricorda di aver lasciato del sangue in giro.” Aveva risposto Annamariah sapendo benissimo che quell’atto, come la testa mozzata di un’animale, nella cultura più arcaica della delinquenza magiara simboleggiava avvisaglie di morte.

“Ovvio! Nessuno si ricorda mai niente quando serve!” E con un moto di profonda frustrazione aveva finito per gettare sul pavimento la pila di cartelline che languivano da giorni su quella che era diventata la sua scrivania e che ormai aveva imparato infruttuosamente a memoria.

Con le poche forze messe a sua disposizione, l’unica cosa che al capo squadra rimaneva da fare era quella di cercare di proteggere le sue guardie, attendendo come in una partita a scacchi che sentiva di stare perdendo, la prossima mossa dell’assassina. Così alzando ulteriormente l’asticella dei controlli, aveva posto come veto il girare per la struttura sempre in coppia.

A minare ulteriormente lo stillicidio nervoso ormai proprio del capo squadra, era poi arrivato il suggerimento di quella ragazzina dalla stramba capigliatura, Usagi, che una mattina le si era presentata con aria gioviale permettendosi d’invitarla a revocare allo zerbino, ovvero una delle detenute simpatizzanti della banda di Tesla, il permesso di fare le faccende in tutto il Blocco C. Un segno d'aiuto che se non fosse venuto da una delle due figlie del Generale Aino, Annamariah Shiry avrebbe sicuramente mal tollerato. Ma arrivati a quel punto si era fatto anche questo e lo zerbino era tornata al ruolo poco performante di detenuta comune.

Sotto quella scure di pesante soffocamento che era il doversi guardare sempre le spalle cercando nel contempo di non far trasparire nulla, Johanna Tenoh, che nulla aveva a che spartire con quel posto, attese per la prima volta il suo giorno di permesso come una boccata d’aria pulita. Voleva tornare a casa, starsene un po’ in panciolle davanti al caminetto, bearsi nello stordimento di un buon bicchiere di vino e fare quattro chiacchiere con Mirka e Scada. Persone normali immerse nella quotidianità di una vita come tante.

“Jo!” Si sentì chiamare spostando lo sguardo dal viso della collega con la quale stava facendo la ronda, a quello di una bionda tutta agitata che stava arrivando.

“Jo… Agente Horvàth. - Si corresse Haruka nel vedere l’altra guardia. - Dovrei parlarvi. Avete un attimo?”

“Prendi fiato Tenoh. E’ una cosa urgente?”

Vedendola muovere la zazzera affermativamente, Johanna guardò la donna accanto a lei e quella si allontanò di qualche passo.

“Allora che c’è?”

Con le mani completamente sporche di grasso a causa di quel porco camioncino che stava cercando di far ripartire da giorni e che con ostinazione ancora si rifiutava di darle retta, la sorella prese a torturarsi le dita temporeggiando.

"Ruka, non ho tutto il giorno."

Invitata allora da una smorfia sputò tutto d’un fiato. “Domani è il tuo giorno libero, vero? Senti, avrei bisogno di un paio di favori.”

“Addirittura un paio?”

“Si… e vedi di prendere poco per il culo. Allora. Dovresti portarmi il mio completo scuro. Per il ballo qui stanno tutte preparando qualcosa. C’è chi ha pensato di rimodernare un vecchio abito, chi, come Kōtei, se ne sta addirittura confezionando uno nuovo. Non posso certo partecipare alla festa conciata così, no?” Allargando un poco le braccia mostrò il maglione a costine grigie chiazzato d’olio.

“E te n’esci il giorno prima della festa!”

Haruka non prestava il fianco ai venti della moda, ma non era certo un tipo sciatto ed orgogliosa come poche non avrebbe mai tollerato di sfigurare nel confronto con le altre.

“Sono stata impegnata! Dunque? Me la faresti o no questa cortesia?!”

“Certo e a pensarci bene ti servirebbe anche una camicia nuova.”

“Grande! E poi… - Abbassando di colpo voce e sguardo. - … poi ci sarebbe un’altra cosa…”

“Dimmi.”

Tornando a massacrarsi le dita le chiese di guardare nel secondo cassetto della scrivania della loro stanza. “C’è un libro. Nell’ultima pagina ci sono un po’ di fiorini. Vorrei che li usassi per comprarmi…” Ed avvicinandole la bocca all’orecchio concluse sussurrandole l’articolo.

“Cosa?!” Cercò di non ridere Johanna, ma non poté impedire alle sue labbra di stirarsi all’insù per una richiesta tanto dolce.

“Togliti quel ghigno idiota dalla faccia!”

“O povera la mia Ruka. Che brutta botta che hai preso.”

“Fanculo!” Ringhiò girando i tacchi avvampando dalla vergogna.

Guardando di soppiatto la collega poco oltre, la maggiore cercò di ritrovare un briciolo di distacco assicurando alla detenuta l’esecuzione della commissione.

“Vedrò quello che posso fare Tenoh.” E ricevendo come ringraziamento un grugnito indecifrato, la guardò allontanarsi provando al petto una stretta di puro amore.

 

 

La voce di un padre

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh.

 

 

Era di venerdì grasso quando inserendo le chiavi nella toppa del portoncino, Johanna si affacciò dopo un’infinità di tempo all’ingresso di casa. Era tutto rimasto come l’aveva lasciato. Tutto abbastanza in ordine. La penombra degli scuri a donare agli ambienti l’aria dormiente di un momentaneo abbandono. Il camino pulito dal carico dell’ultima cenere. La cucina rassettata. Dal vetro della porta sul retro anche il giardino appariva sgombro da gran parte della neve fioccata negli ultimi giorni. Sicuramente la mano amorevole di Scada.

Sospirando e gettando le chiavi sulla piccola consolle alla sua sinistra, la ragazza si tolse le scarpe sporche di fanghiglia grigia, agganciando il cappotto all’appendiabiti accanto al cappello di Jànos, che come un piccolo guardiano, o un talismano, non era mai stato spostato da li. Avvertendo la solita tristezza che la colpiva quando il suono sordo di quel silenzio le dava il bentornato, iniziò a salire le scale cercando gli scricchioli famigliari del legno. La sua casa era sempre la stessa; i quadri alle pareti, i ninnoli sparsi un po’ dappertutto, i tappeti, le venature delle doghe dei pavimenti, eppure a lei sembrava tutto diverso, come se fosse stata la casa di un’altra famiglia e lei un ospite non attesa. Una volta giunta al primo piano percorse il corridoio passando le stanze del bagno e dei suoi genitori, arrivando così a quella sua e della sorella aprendo lentamente la porta. Entrata la colpì l’odore suo e di Haruka provenienti dai vestiti ripiegati sui letti, fusi alla resina delle scaffalature montate la primavera precedente. Non fece neanche luce, andò semplicemente a gettarsi sul suo materasso e senza neanche accorgersene si addormentò per un paio di ore.

Quando riaprì gli occhi era quasi l’ora di pranzo. Sentendo l’aggrovigliarsi di uno stomaco vuoto, si portò per istinto la destra all’addome e l’altra al viso. Era crollata beandosi della sensazione di sicurezza che alla casa della luce proprio non riusciva a trovare. Conosceva ogni suono della sua casa, ogni sibilo di corrente. Nessuno avrebbe mai potuto farle del male li. Quello era il suo castello. La sua rocca invalicabile.

Era crollata e aveva sognato. Per lo più scene indefinite, prive di quella logica che alle volte quell’onirico sfogo le dava, ma di una cosa era certa; aveva distintamente percepito la voce di suo padre. Johanna le aveva detto, non attendere più. Agisci. Un’esortazione che però lei non aveva afferrato e che continuava a non capire pur se riemersa alla realtà.

Stropicciandosi un occhio, si alzò a fatica dirigendosi verso la finestra aprendone vetri, persiane e scuri. Poi verso l’armadio, ridendo all’incommensurabile casino che si ritrovò davanti una volta spalancate le ante. Haruka era sempre stata una confusionaria cronica, ma non si poteva certo dire che lei fosse meglio. Sfiorando con l’indice della destra gli indumenti appesi della sorella, arrivò al completo che le aveva chiesto di prenderle.

“Farai proprio un figurone e sono sicura che la signorina Kaioh crollerà come la torre di Babele.” Disse sganciando la stampella dall’asta di metallo.

Posando il tutto sul letto della bionda andò infine alla loro scrivania ed aprendo quello che da sempre era il cassetto dell’altra, vi trovò un libro in pelle nera dal titolo: le poesie di Jacques Prévert.

Sei tanto bestia quanto tenera, si disse di quella stroboscopica accozzaglia di colori che era il carattere della sua Ruka. Forte e tenace fino allo sfinimento. Delicata e gentile come una brezza dopo la tempesta. Capace di collera e di successiva redenzione. Di attenzioni con chi amava. Di coraggio quando serviva.

Soffermandosi a leggere qualche riga della primissima pagina, passò poi all’ultima trovandovi una manciata di banconote. Quasi sicuramente parte dell’ultima busta paga della C.A.P.. Prendendole richiuse il testo, ma mentre lo stava riponendo venne attratta da una serie di fogli piegati in quattro dimenticati verso il fondo. Li riconobbe perché già visti. Abbandonando il libro sul pianale, li prese aprendoli e stingendo la polizza che Jànos aveva firmato con la Kaioh Bank si prese qualche minuto e la rilesse. Capoversi scritti con l’asettica ed alle volte incomprensibile lingua dell’alta finanza, imparati quasi a memoria qualche mese prima e che ebbero il potere di far riemergere velocemente quella rabbia che aveva cercato di soffocare con il lavoro quotidiano, ma che, sotto sotto, sapeva essere sempre li; dentro di lei. Quando terminò quel masochistico strazio che aveva portato all’annientamento di tutto il suo mondo, le parole dette in sogno dal padre improvvisamente acquistarono una connotazione nuova e seppe cosa doveva fare.

Johanna, non attendere più. Agisci.

Iniziando a spogliarsi, tornò all’armadio, questa volta spulciando nella sua parte e scegliendo un bel vestito si preparò per uscire. Aveva un incontro speciale.

Agisci. E lo avrebbe fatto.

 

 

Buda – Distretto I, Palazzo Kaioh

 

L’aveva riconosciuta subito quella ragazza minuta dagli occhi grigio verdi. La ragazza con la quale si era scontrato un giorno al punto accettazione della casa della luce.

La cameriera l’aveva avvertito di una giovane donna che necessitava con una certa urgenza di parlargli, ma in tutta franchezza con l’emicrania che gli era scoppiata già dall’alba, avrebbe voluto rimanersene disteso sul suo divanetto di raso, alla luce fioca dell’abat jour della sua scrivania, con una pezzuola umida sugli occhi, piuttosto che ricevere visite, per di più di gente sconosciuta. Segno certo di un violento cambiamento atmosferico, alle prime avvisaglie di quel dolore ormai noto, era stato costretto a cancellare tutti i restanti impegni della giornata e a rintanarsi nel silenzio delle scaffalature piene di libri e nell’avvolgente calore della stufa. Ma quando aveva sentito Tenoh, scandito dalla domestica, si era drizzato a sedere abbandonando i cuscini e il suo stupore era cresciuto quando a quel nome aveva associato un viso già noto.

“Non mi aspetto certo che voi vi ricordiate di me signor Kaioh, ma abbiamo già avuto modo d'incontrarci." Sentiva di avere una morsa alla gola Johanna, come una mano nerboruta serrata alla sua povera carotide.

“Se non erro ci siamo incrociati alla casa della Luce.

Disse e la sorprese.

"Complimenti, avete un'ottima memoria."

"Grazie. Ma prego, a cosa devo la vostra visita? Spero che… - Una lievissima sospensione che alla ragazza non sfuggì. - …non si siano verificati dei problemi alla casa della Luce.”

Non si era esposto nel chiederle apertamente di Michiru, non poteva farlo, per questo Johanna lo rassicurò prontamente. “No signore, ma lasciate che sia franca con voi; mia sorella è attualmente rinchiusa in quel carcere e so che anche vostra figlia lo è … con un’altra identità. Sentitevi perciò libero di chiedermi di lei, se volete.”

Ma Kaioh non rispose. Perché quella ragazza era venuta da lui.

“Sta bene ed è serena. - Continuò Johanna apparentemente calma. - Comunque nonostante questa grottesca coincidenza, non sono venuta qui per parlarvi di lei.”

Segnando la fronte con una profonda ruga, Alexander si sentì perso. “Ma voi sareste?”

“Mi sembra che la vostra domestica ve lo abbia già detto. Tenoh. Johanna Tenoh…. Ma aggiungo di essere la primogenita di Jànos Tenoh; ex presidente della Cooperativa Acciaierie Pest.”

Rimasero in piedi l’uno di fronte all’altra, in silenzio. Per molto tempo. Lo sguardo dell’uomo fisso alla libreria, senza però vederla veramente e Johanna a scrutarne i lineamenti, con una strana sensazione di disagio dentro. Quante cose Alexander aveva donato di se alla figlia; la forma delle orecchie, l’inarco delle sopracciglia castane, la forma del viso, quella particolare punta di blu negli occhi.

E quanto lo aveva maledetto quell’uomo, arrivando addirittura a sfiorarlo con l’odio quando una febbricitante Haruka le era svenuta tra le braccia surclassata dagli effetti delle tre sfere del destino. Lui era la causa di tutto. Lui era l’artefice dello sfascio della sua famiglia, della perdita della loro fabbrica. Lui era la causa dell’arresto di Jànos e indirettamente, della sua morte. Ma Kaioh era anche il padre di una bravissima ragazza, che non aveva fatto loro alcun male, anzi, se mai il contrario. Improvvisamente Johanna riuscì a comprendere lo strazio di Haruka.

Sospirando l’uomo tornò a guardarla. Non sentiva responsabilità sull’acquisizione della Cooperativa da parte della sua banca, di per se un’azione finanziaria perfettamente in regola, ne della sottoscrizione che Tenoh aveva fatto accettando le clausole della polizza assicurativa per la perdita dei materiali durante la tempesta del Nesznély. Ma del fatto che fosse stato trattato come, se non peggio di un reo insurrezionalista dall’ÁHV solo perché in quell’affare era coinvolto anche lo Stato; di quello si, se ne sentiva tutto il peso.

Sentendo debolezza nelle gambe le indicò divano e poltrone. “Vogliamo accomodarci?”

E lei accettò, anche se avrebbe tanto preferito fare avanti ed indietro per cercare di scaricare la tensione. Guardandola andare verso il divano aspettò che prendesse posto imitandola subito dopo. Occupando una delle poltrone, il padrone di cada si sporse informalmente in avanti poggiando gli avambracci al nero dei pantaloni.

“Ammetto di essere rimasto sorpreso non vedendovi assieme al Direttivo della C.A.P. quando all’indomani dell’arresto di vostro padre si è presentato in blocco alla sede della Kaioh.”

“Sono stati giorni un po’… impegnativi. Non avendone il titolo ho preferito lasciare queste cose in mano a chi di dovere.” Ammise sentendo caldo e pulsazioni impazzite.

“Perdonatemi, ma è per questo che sono stupito nel vedervi qui, ora, dopo tutto questo tempo.”

“Già. Diciamo che ai giorni impegnativi se ne sono aggiunti molti altri. - Abbassando la testa iniziò a scuoterla. - Eppure sembrate un uomo così a modo. Sapete… conosco vostra figlia. L’avete tirata su bene. E’ gentile, educata, generosa. Una ragazza determinata, con un carattere ben delineato. Ha legato subito con mia sorella. Sono diventate praticamente inseparabili. Haruka non starebbe affrontando così bene la detenzione se al suo fianco non ci fosse Michiru.”

“Questo… mi fa piacere. - Disse lui ancora più interdetto da quel preambolo. - Posso chiedervi se vostra sorella ne avrà ancora per molto?"

"Si. Un anno. - Ed il viso di Michiru si sovrappose nuovamente a quello del padre. - Sapete proprio non riesco a capire.

"Cosa signorina?"

"Come si possa riuscire a trasmettere così tanti valori positivi alla propria figlia, se poi si è pronti a pugnalare alle spalle gli altri in nome di una cosa disgustosa come il denaro. Spiegatemi signor Kaioh, spiegatemelo, perché io proprio non capisco.” Una liberazione.

“In realtà sono io a non capire signorina Tenoh. Se come credo vi state riferendo all’affare C.A.P., vi chiedo la cortesia di essere più chiara.”

Affare, iniziò a ripetersi lei cercando di star calma. “Non chiamatelo così. Per decine di persone che lavoravano presso la nostra fabbrica e che si sono trovate dall’oggi al domani in mezzo ad una strada, per mio padre, che con tanti sacrifici era riuscito a tirare su dal niente una cooperativa, per me e mia sorella, che ce lo siamo viste portar via dall’ÁHV, non è stato un affare!”

“Ma per la mia banca si e so che per una profana come voi può risultare difficile, ma in questo tipo di contesto non c’è posto per i sentimentalismi.”

Stirando un sorriso distorto lei sembrò rifletterci su. “Sapete, non avete tutti i torti. Anche se ammetteste di aver giocato sporco sulla pelle di mio padre, nessuno me lo riporterebbe indietro ed anche se avessi le vostre scuse…, queste non cancellerebbero nulla.”

“Giocato sporco?! Aspettate un attimo! Vi sto accogliendo in casa mia dedicandovi il mio tempo e mi devo sentir dire di aver gioc…”

“Giocato sporco! - Gli si accavallò con prepotenza emettendo quasi un ringhio. - E ho le prove di quel che sto affermando.”

Totalmente privo d’espressione, Alexander si alzò dalla poltrona e chiedendole di attendere, sparì dietro la porta d’entrata lasciandola sola. Non voleva trattare male quella ragazza, ma sentiva di doversi difendere dalle accuse che gli stava muovendo.

Riuscirò a farvi sbattere in galera proprio com’è successo a mio padre e forse a farlo prima che Haruka esca e si faccia giustizia da sola, si disse Johanna avendo come l’impressione che i suoi pensieri stessero andando a fondersi con il ticchettio fastidioso dell’orologio da tavolo presente sulla scrivania del banchiere. Ritrovandosi a vagare con lo sguardo sui particolari di quell’ambiente, notò una foto di Michiru adolescente in una cornice argentata posta sul tavolino che intramezzava divano e poltrone. Al suo fianco una donna dai tratti somatici orientali. Quasi sicuramente la madre. Mi dispiace, ma tuo padre deve pagare per quello che ha fatto. Sono sicura che capirai. Sentendo la porta riaprirsi stirò la colonna mettendosi composta.

“Ecco signorina Tenoh. Qui c’è tutta la pratica che la Kaioh Bank ha aperto con la C.A.P.. Come vedete anche io ho delle prove. Qualunque siano le vostre motivazioni non permetto che mi si tacci di scorrettezza ai danni dei miei clienti.” E gliela porse con uno sguardo glaciale totalmente trasfigurato.

Afferrandola lei l’aprì puntando subito all’ultimo documento che in ordine cronologico si riferiva al settembre scorso. “Ecco signor Kaioh. La polizza che la Cooperativa ha stipolato con voi.”

Alexander dovette guardarla in modo strano, perché stizzita Johanna lo invitò ad aprirla. “Coraggio! La terza pagina. In fondo!”

E lui lo fece seguendola sempre di meno. “Lo sblocco della polizza per eventuali danni a cose o a persone deve considerarsi a sessanta giorni. - Scorse ad alta voce le righe scritte a macchina. - Dunque? E’ questo che volevate che leggessi? Che il denaro per la perdita del vostro acciaio sarebbe stato erogato dopo due mesi dalla firma di questo documento?!”

“Si! - Alzandosi di scatto estrasse dalla borsa i fogli in suo possesso. - Questa è la copia che è stata rilasciata a mio padre. Vi invito a leggere la stessa clausola! Noterete da voi che sono riportati la metà dei giorni. Trenta! Questo vuol dire solo una cosa; che qualcuno ha falsificato ad arte la firma di mio padre! Voi signor mio, avete deliberatamente creato un raggiro per portare al fallimento la C.A.P. per poi spartirvene con lo Stato i profitti del suo smembramento, sapendo che tanto, qualunque causa legale la Cooperativa avesse mai provato ad intentare contro di voi, le prove sarebbero state cancellate con le perquisizioni fatte sia in casa nostra che il fabbrica. E visto che quei bravi signori dalla Polizia Tributaria si sono ritrovati con un pugno di mosche per le mani, hanno incarcerato mio padre affidandolo alla persuasione dell’ÁHV nella speranza di riuscire ad estorcergli l’ubicazione della copia in suo possesso.”

“Badate signorina, questa è diffamazione!”

“Non m'interessa! Non cercate d’intimidirmi quando questo contratto parla tanto chiaramente. Ecco, guardate!”

Alexander prese quasi con foga la copia della ragazza aprendola esattamente alla terza pagina, ne lesse l’ultima parte dove effettivamente si parlava di trenta giorni e non sessanta, poi tornò a sedersi iniziando a massaggiarsi le tempie con le dita della sinistra. Gli stava scoppiando il cervello.

Sentendosi già vittoriosa la ragazza stirò le labbra respirando finalmente meglio. “Ricevendo dalla vostra banca il denaro dell’assicurazione dopo un mese, la nostra fabbrica avrebbe già dovuto fare salti mortali per consegnare per tempo la prima parte della campata per quello stramaledetto ponte; aspettare sessanta giorni per l’acquisto di una nuova partita d’acciaio sarebbe stata una follia che mio padre non avrebbe mai sottoscritto!”

“Mi sono chiesto spesso del perché Jànos avesse avvallato una clausola che di fatto tagliava le gambe alla C.A.P.. Ammetto di aver pensato ad un momentaneo appannamento di giudizio dettato dalla paura di non riuscire a seguire il crono programma impostogli dal Ministero. Ma ora che ho le due copie della polizza tra le mani… - La guardò con dolore. - Ora so il perché.”

Johanna attese rimanendo in piedi. Lo guardò scuotere la testa ridendo grottescamente.

“Mi dispiace signorina Tenoh, ma anche la firma che avrei sottoscritto io e che è sulla copia di vostro padre… è falsa.”

“O su via, signor Kaioh. Non state parlando con una sempliciotta di campagna!”

“Non sto cercando di sgravarmi da responsabilità che comunque come proprietario mi sento di avere, ma guardate voi stessa. Ammetto che ci sia arte in questo scarabocchio, ma non è certo opera mia!” E visto che Johanna sembrava tutto fuorché convinta, andò alla scrivania prendendo un paio di documenti su cui stava lavorando.

“Guardate da voi se non mi credete. Potete fare tutte le comparazioni calligrafiche che volete. - Le porse i fogli, ma pur notando un improvviso cedimento nella carica nervosa di lei, insistette. - Ed aggiungo che sia il mio avvocato, che la stessa Michiru, potrebbero testimoniare sul fatto che quel modo di arricciare la lettera K non mi appartenga affatto.”

Quella ragazza, indubbiamente armata di tutte le buone intenzioni del mondo ed un amore viscerale per il padre, non poteva non vedere quanto quella firma, anche se molto ben fatta, non fosse originale.

“Signorina Tenoh, a causa del mio lavoro non vado fiero di molte cose. In vita mia sono stato tacciato molte volte di disonestà, tante d’averne perso il conto, ma vi assicuro che non avrei mai potuto tradire proprio la fiducia di vostro padre. Mai!”

“Allora… - si schiarì la voce. - … Allora chi sarebbe stato a far questo?!”

Questa volta Alexander non si sedette semplicemente sulla poltrona, ci crollò come una quercia abbattuta dalla foga del vento e portandosi la mano sul viso inspirò pesantemente. Certo che sapeva chi aveva accolto, parlato e, a questo punto, ingannato Jànos.

“Vi ripeto che mi sento responsabile anch’io. Come direttore dovrei controllare tutti i documenti in entrata ed in uscita, ma sono tanti e ho dei collaboratori fidati che mi aiutano a farlo seguendo personalmente alcune pratiche.”

"Perciò non siete stato voi a seguire la pratica riferita alla C.A.P., ma un vostro collaboratore..." Ribadì con un leggerissimo soffio carico di bile.

“Esattamente e la cosa grave e' che questa persona non abbia apposto la sua firma, ma la mia."

"E potrebbe essere rintracciato?"

"Con estrema facilità. Anzi, credo proprio di sapere chi sia senza neanche avere bisogno di conferme.

Se soltanto fosse stato più accorto. Se si fosse accertato della posizione bancaria di quella pratica per lui tanto importante soprassedendo alle continue emicranie che in quel periodo lo avevano reso un invalido. Se proprio in virtù di quella strana sottoscrizione, si fosse preso la briga di dargli un’occhiata, Jànos sarebbe ancora vivo e fieramente alla testa della sua fabbrica. Ma con i se e con i ma non si fa la storia, ne lo strallo di un ponte, ne si rianimano i morti, così Alexander andò alla sua scrivania, afferrò la cornetta di bachelite nera, compose il numero sferzando più volte la grossa rotella d’osso e attese.

“Pronto? Si, sono io. Devo vedervi subito. No, non qui… In sede. Si, ora! Non m'interessa! Tra un’ora alla Kaioh Bank.”

 

 

Notte d’amore e sangue

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

Setsuna abbandonò il foglio che stava reggendo con entrambe le mani, scambiando un fugace sguardo con il capo squadra Shiry, seduta con il fiato in sospensione dalla parte opposta della scrivania. Incredula tornò ad alzare la carta intestata accorgendosi di stare leggermente tremando. Non le si poteva chiedere una cosa così, perché avvallare qual trasferimento sarebbe equivalso a condannare due ragazzine ad una fine orribile. L’ÁHV reclamava il suo tributo e lei avrebbe dovuto far finta di niente.

Visto gli infruttuosi interrogatori che avevano visto Minako e Usagi Aino trincerarsi dietro il mutismo più ostinato, la sezione della Polizia Segreta aveva deciso che gli interrogatori alle due ragazze, momentaneamente sospesi fino a data da destinarsi, da li in avanti si sarebbero dovuti tenere in un ambiente diverso, più adeguato.

Con la presente, si invita la casa circondariale della Luce ad informare le signorine Minako e Usagi Aino del loro imminente trasferimento alla casa della giustizia. Il prelevamento sarà eseguito con automezzo blindato e scorta annessa. Si confida nella più totale collaborazione.” Rilesse e Shiry ebbe un brivido.

“Cosa vorrebbe dire imminente?” Chiese sporgendosi in avanti improvvisamente accortasi della scomodità della sua seduta.

“Cosa volete che significhi! Che non abbiamo molto tempo per inventarci qualcosa.”

Inventarsi qualcosa. Già, come se fosse stato facile cercare di strappare due potenziali vittime alle grinfie della polizia segreta.

“Non riuscendo ancora a trovare il nascondiglio del Generale Aino, le alte schiere dello Stato vogliono cercare di estorcere alle figlie più informazioni possibili. Evidentemente Mosca sta facendo pressioni sul governo e l’ultima carta da giocarsi rimane il torturare quelle due disgraziate.”

“Le tortureranno fino… - Ma Shiry non ebbe cuore di continuare la frase. - Quando direte loro del trasferimento?”

“Ora. Le ho fatte andare a chiamare.” Confessò e l’agente in un certo senso la maledì, perché si sarebbe trovata suo malgrado ad assistere ad un dramma.

Anche se giovanissime, la loro età non rappresentava per l’ÁHV un problema, semmai un vantaggio. Non era raro che perfino bambini o anziani all’occorrenza conoscessero la brutalità dei metodi persuasivi di quella gente. A volte bastava mostrar loro alcuni dei giochi preferiti usati da quei sadici bastardi, per far sciogliere anche le lingue più taciturne.

Proprio in quel momento alla porta bussò una guardia e loro sobbalzarono all’unisono.

“Direttrice, ho portato la detenuta Usagi Tzukino. Posso entrare?”

Come morsa da una bestia velenosa, Shiry schizzò in piedi mentre Setsuna acconsentiva all’ingresso.

Usagi comparve loro con la sua solita capigliatura buffa, il viso ovale e gli occhi di un celeste quasi trasparente. Sembrava molto più serena, anzi, l’imminente inizio del ballo le stava restituendo l’originaria immagine di una ragazzina solare e spigliata.

“Buona giornata Direttrice.” Si presentò sorridendo alle due donne.

“A voi signorina Tzukino.” Poi vedendo che Minako non era con loro, interrogò la guardia che le rispose di averla trovata nelle docce.

“Va bene, potete andare, grazie.” Un saluto, un’occhiata d’intesa con il suo capo squadra e la sottoposta uscì congedandosi.

“Molto bene signorina. Vorrà dire che parlerò prima con voi.”

“Direttrice! - Intervenne Shiry dilatando incredula i suoi begli occhi castani. - Non è meglio aspettare che ci sia anche la sorella?!”

Posando lo sguardo prima su l’una, poi sull’altra, Usagi approfittò del momento d'empasse iniziando ad inondarle di parole sul perché e per come l’idea di un ballo, che lei per prima aveva ostracizzato, si stava invece rivelando una cosa incredibilmente eccitante.

“Sono riuscita a confezionarmi un abito! In verità ne ho modificato uno. Per essere sincera sono state Mina e Michiru ad aiutarmi… In realtà l’hanno fatto loro, ma io ho collaborato! - Confessò strappando alle due un mezzo sorriso. - Perciò approfitto di questo incontro per ringraziarvi ancora per tutto il materiale che ci avete fatto trovare nella stanza per le attività domestiche e per il ballo naturalmente.”

“Di nulla. Sono felice che siate riuscita a svagarvi un po’ e sono io a ringraziarvi per l’aiuto che informalmente ci state dando nella ricerca dell’assassina della detenuta 0056.”

Aggrottando le sopracciglia, la ragazzina tornò a guardarle con alternanza.

“Ho detto alla Direttrice che l’esonerare momentaneamente personale estraneo alla sicurezza nelle funzioni interne a questa parte di prigione, è stato un vostro buon suggerimento, Usagi.” E nel compiere quell'atto di profonda umiltà Annamariah si sentì un poco svilita nel suo ruolo.

Sorpresa, la ragazzina accolse quel ringraziamento con fin troppo imbarazzo. ”Oh… sono convinta che avreste preso questo provvedimento molto prima se non ci fossero state tante teste a parlare. - Un nano secondo e rendendosi conto di ciò che aveva detto, si portò la destra alla bocca incassando leggermente il collo. - Scusate. Non intendevo offendervi.”

Ma ne la Meioh, ne Shiry se la presero, perché in tutta onestà l’arrivo dell’agente speciale Hino aveva portato scompiglio un po’ su tutta la linea. Avevano perso intere giornate a farsi la guerra, rimpallandosi responsabilità di ogni tipo e colei che ne aveva giovato, era stata solo la truce mano che aveva sgozzato quella donna.

“Usagi non preoccupatevi nell’esporre il vero. Alle volte noi donne tendiamo all’individualismo, invece che all’unione. Comunque grazie ancora.”

Stirando un sorrisetto buffo e portando le mani ad allacciarsi dietro la schiena, gonfiò il petto come se avesse ricevuto un premio. Un gancio alla bocca dello stomaco che Setsuna assorbì a fatica.

“Purtroppo non siamo ancora riuscite a scoprire nulla di che, ma sono convinta che questo momento di apparente calma, rappresenti solamente la quiete prima della tempesta. Non trovate?” E si riferì soprattutto a Shiry, che sentendosi tirata in ballo deglutì nervosamente.

“Vorrei che sia voi, che vostra sorella, manteneste comunque un profilo basso. Non c’è bisogno che ribadisca quanto quella persona sia pericolosa, giusto?” Una domanda con un’altra domanda. Setsuna stava tergiversando in maniera imbarazzante e Annamariah un po’ ne godette.

“Certo Direttrice. Ma perché mi avete fatto chiamare?”

Ecco. E adesso come si sarebbe comportata quella donna austera di fronte alla necessità di eseguire un ordine impostole dai suoi superiori? Sospirando esageratamente, chiuse gli occhi abbandonandosi allo schienale della poltrona.

“In effetti vi ho fatto venire qui per chiedervi una cosa. – Riaprendoli esplose un sorriso che il capo squadra non comprese subito. - Vorreste fare una visitina alla detenuta 0201? Con la reclusione forzata e la questione del ballo, è un tantinello nervosa e come darle torto. Giusto, agente Shiry?”

“Come?”

“O si grazie! Avevo proprio una voglia matta di scambiare quattro chiacchiere con Mako!” Entusiasta oltre ogni dire per quella concessione, Usagi non si accorse dell’espressione di completo sbigottimento che Annamariah assunse dopo quella richiesta.

“Bene allora. Siamo d’accordo. L’agente Shiry vi accompagnerà dalla signorina Kino. Andate ora.”

Vigliacca, pensò la graduata guardandosela con pietismo mentre fuori un cielo stracarico di bianco iniziava a spolverare le prime manciate di neve.

 

 

Makoto se la ritrovò avvinghiata addosso come uno di quei rampicanti fastidiosi e ridacchiando a quell’esplosione di sincero affetto che solo un tipino come Usagi riusciva a manifestare senza alcun pudore, contraccambiò con il doppio della forza. Arrivando ad alzarla da terra di una decina di centimetri, la fece dondolare un paio di volte a destra e a sinistra fino ad una lamentosa opposizione.

“Mako, mi fai male. Rimettimi giù!”

“A..., prima butti il sasso e poi nascondi la mano?! - Disse arpionandole le spalle per squadrarla da capo a piedi. - Ti vedo bene! Il moro di Buda sta facendo un ottimo lavoro!” Ed attese l’inevitabile reazione.

Sbuffando con scocciata sonorità, la biondina si svincolò dai suoi palmi andando a buttarsi a sedere sul letto.

“Piantala! Sei peggio di Mina!”

“Ma tesoro non è colpa mia se sei un bersaglio tanto facile da impallinare.”

“E che sono un uccello io!!?”

“No, in effetti assomigli più ad un coniglio… - Raggiungendola le sedette accanto chiedendole come andasse. - Le altre?”

“Oh, tutte bene e tu?”

“Lo vedi da te, no?! Mi sto rompendo l’anima. Se la Direttrice non mi avesse promesso uno sconto di pena, non avrei mai accettato questa tortura! Di un po’, ma queste quattro guardie che tanto si credono brave, stanno facendo realmente qualcosa o rimarrò a marcire qui dentro per l’eternità?”

“Non essere severa con loro. Fanno quel che possono. La stessa Minako, che sai quanto possa essere intuitiva, sta trovando parecchie difficoltà nel circoscrivere la potenziale assassina.”

“Tzs. Le vorrei vedere io a star chiusa ventiquattro ore su ventiquattro!”

Usagi si fece pensierosa e le raccontò un avvenimento del quale lei e Minako erano venute a conoscenza e che tutte le guardie, agente Hino in testa, avevano cercato di tenere nascosto. Ascoltando della testa mozzata dell’uccello e del sangue in cucina, Makoto ebbe un fremito ghiacciato lungo tutte le terminazioni nervose della schiena.

“Cazzo. Questa è matta sul serio.”

“Hai capito con chi abbiamo a che fare? La pazzia rende scaltri. Molto intelligenti. Non sarà facile risalire a colei che si nasconde dietro a tutto questo.”

“Capito. Resterò confinata qui per tutto il resto della vita.” Mugugnò raggomitolandosi in avanti.

“Ma no, dai!”

“A no?! - Scattò come una molla. - Se due ragazzine sono venute a sapere di un avvenimento che hanno cercato di tenere nascosto… Bè, saluti e baci alla sicurezza! Sono delle incompetenti, altro che!”

L'altra stava per aprir bocca e continuare a difendere le guardie, ma si fermò per tempo. Non le andava di passare i pochi minuti che aveva con l’amica a discutere su una cosa che non avrebbe spostato l’ago della bilancia di un solo centimetro. La verità era che nei confronti dell’assassina, stavano perdendo ed anche malamente. Nella sua pur breve esistenza Usagi ne aveva viste abbastanza per avvertire, annusare nell’aria l’odore nauseabondo del pericolo e della conseguenziale sconfitta più nera. Era consolante sapere Mako al sicuro, rinchiusa li, a rompersi l’anima certo, ma accerchiata di guardie.

“Sai quello che mi rode di più? E’ che mi perderò il ballo!” Continuò l’amica facendola sorridere.

“Tutto qui? Ma questo non è un problema! - Ed alzandosi dal letto, annunciò stentorea porgendole la mano. - Mio bel cavaliere, potreste concedermi l’onore?!”

“Ma cosa…”

“O suvvia, non farti pregare.”

Makoto si sentì afferrare e strattonare in piedi. Arpionare spalla destra e mano sinistra. “Non vorrai che conduca io?!”

“Ma dici sul serio?”

“Ti sembra che stia scherzando?” Inquisì iniziando a muoversi.

“Va bene. Va bene! Come volete voi. signorina.” Ed iniziando a portare l’altra, le sorrise teneramente sentendosi meno nervosa.

Contro ogni diceria o apparenza, questo era il grandissimo potere di Usagi; far sentire bene le persone che le stavano accanto. Così immerse tra oggetti asettici che nulla avevano a che fare con loro, si persero in un giro di danza.

 

 

Il tempo era volato da quando si era congedata da casa Kaioh diretta verso una delle mercerie più fornite di Pest. Era riuscita a fare tutto quello che si era ripromessa; acquistare il tanto agognato oggetto per Haruka, sceglierle una bella camicia nuova d’accompagnare al completo e fare un salto dagli Erőskar per mettere a conoscenza Scada di quello che aveva saputo nel faccia a faccia con Alexander Kaioh. Non avendolo trovato, aveva lasciato detto a Mirka, intrattenendosi con lei per il restante pomeriggio, prima di chiudere nuovamente casa e tornare verso il tredicesimo distretto alle diciotto passate di un venerdì grasso dal tempo orrendo.

Doveva parlare con la sorella e cercare di farle capire che degli sbagli e delle sviste, della fiducia mal riposta ed una certa dose di sconsiderata negligenza, non potevano fare di Alexsander Kaioh un assassino. Sarebbe stato difficile, n’era certa. Lei per prima non riusciva ancora a capire cosa stesse provando realmente. Quando si spende tanto tempo a focalizzarsi su un’idea, giusta o sbagliata che sia, non è facile accettare di aver dissipato energie inutilmente. Ma si sentiva comunque sollevata, soprattutto nei confronti di Michiru. Forse con l'immagine de banchiere parzialmente redenta, anche la storia tra lei ed Haruka avrebbe potuta diventare più semplice.

Una volta dismessi i panni di una ragazza di ventiquattro anni e messi quelli di una guardia carceraria, Johanna riprese servizio con animo più sereno. Entrando nel Blocco A insieme a due colleghe, si diresse verso la scala del ballatoio tenendo da conto il pacchetto che aveva nella tasca destra della giacca. Intravedendo di sfuggita Michiru dirigersi ai bagni tenendo tra le braccia quello che presumibilmente era il vestito che avrebbe indossato quella sera, ipotizzò che la bionda fosse rimasta a prepararsi nella loro cella e la raggiunse. Aprendo lo spioncino, la vide voltata di spalle mentre stava allacciandosi la camicia.

“Tenoh sei presentabile?” Urlò mentre mandava i tre giri di chiave ed apriva la porta.

“Spiritosa! Mai una volta che ne combinassi una giusta. Mi sta stretta!” Lagnandosi si voltò allargando le braccia mostrando rotondità che in effetti Johanna non ricordava tanto abbondanti.

“No Ruka, la taglia è sempre la stessa, sei tu che sei ingrassata. Tutto il giorno ad oziare e guarda il risultato… - Agganciandosi le chiavi al cinturone, iniziò a sistemargliela alle spalle terminando con l'allacciarle al collo l’ultimo bottone. - Sono contenta che il pacco che ho lasciato in guardiania ti sia stato consegnato per tempo.”

“Mi stringe dappertutto!”

“E’ perfetta così! Tu sei perfetta così. Avanti, infilati gilè e giacca e fatti guardare.”

Poco convinta e stranamente agitata, l’altra obbedì sbuffando smaniosa. “Mi sento strana.”

“E’ ovvio, hai un indumento nuovo ed un completo che non porti da tempo. Datti una calmata.”

“Non è per questo!”

“Lo so.”

Maternamente le aggiustò il cran. Le piaceva farlo e Haruka se lo lasciava sempre fare quando le capitava d'indossare una giacca.

“Credo che a breve sarà un’altra donna a far si che tu ti renda presentabile.” Disse in tono scherzoso facendole roteare gli occhi.

“Che palle! Piuttosto, con i vestiti non mi hanno portato quello che ti avevo chiesto di comprarmi. Non te ne sarai mica dimenticata?”

“Certo che no, ma per chi mi hai presa?! - Disse estraendo dalla tasca il piatto pacchettino in carta da zucchero che la bionda prese tra le mani come un reliquiario. - Senti Ruka, dovrei parlarti di una cosa importante.”

“Ora?” Ed intanto fece per scartarlo.

“Ma che fai!” La bloccò.

“Lo apro. E se avessi combinato uno dei tuoi soliti casini?!” Si difese.

“Non ho combinato proprio niente. Fidati. Vuoi forse che le tue zampacce maldestre lo rovinino?”

Pensandoci storse la bocca accettando l’ovvietà. Avrebbe potuto tenere fra le mani l’ingranaggio più delicato del mondo e sarebbe stato al sicuro come in una cassaforte, ma per tutto il resto Haruka era l’undicesima piaga d’Egitto.

Allungando il braccio ed abbandonando il pacchetto sul suo materasso, sembrò darle finalmente retta. “Allora? Dimmi pure.”

Johanna stava per parlare quando un qualcosa nello sguardo della sorella le uccise il suono. Una scintilla di felicità, quel sentimento così bello che non le aveva più visto da tempo e si ritrovò a mordersi il labbro inferiore sentendosi gli occhi pizzicare.

“Dio, se apa fosse qui sarebbe così fiero. - Se ne uscì lasciandola di sasso. - Come lo sono sempre stata io.”

“Ma… che… sciocchezza! Non dovevi dirmi qualcosa?” Borbottò imbarazzatissima.

“Sai che c’è? Non questa sera. Domani. Goditi la festa e l’amore della tua Michiru. - Le accarezzò lieve la frangia bionda. - E brilla Haruka, brilla come solo tu sai fare.”

“Ma che ti prende?!”

“Nulla. - Alzò le spalle montando la solita faccia scherzosa. - E’ che ritornare a casa mi fa sempre un certo effetto.”

Spezzando il momento catartico con una decisa pacca sulla spalla, Johanna la lasciò andando verso la porta.

“Ci sarai questa sera?” Si sentì chiedere scuotendo però la testa.

“Mi dispiace, ma ho la ronda. Ci sono parecchie detenute che non sono state ammesse al ballo e vanno controllate. A domani.”

“Jo!”

“Si?” Voltando il busto di tre quarti, la maggiore sentì le braccia dell’altra avvolgerla forte.

“Grazie… anche per la camicia. Stai attenta d’accordo?”

Si concesse un po’ di tregua quella che fra le sorelle Tenoh era apparentemente la più appiccicosa, ma che in realtà nascondeva un enorme pudore nel manifestare apertamente il proprio affetto. Così aggrappandosi alla schiena di Haruka, Johanna contraccambiò quella stretta con un solo braccio concedendosi un attimo per goderne, poi sciogliendola, si portò la mano destra alla fronte mettendosi sull'attenti rispondendo con un si signora. La bionda naturalmente ce la mandò.

 

 

La biblioteca era già parecchio animata. Con gli strumenti perfettamente accordati, la musica aveva iniziato a diffondersi per il piano già da prima di mangiare, quando il buffet sarebbe stato servito con la concessione di un po’ di vino. Michiru non stava più nella pelle e con il suo bel vestito nuovo, aveva suonato un paio di brani in assolo, lasciando poi il violino ad un’altra detenuta. Lei ed Haruka avevano pattuito che si sarebbero viste direttamente alla festa. Covava in loro il gusto della sorpresa, dello scoprirsi e perché no, del corteggiarsi. Tutto bello, tutto dannatamente eccitante, fino al solito passo falso della bionda. Michiru lo sapeva che dentro quella scorza batteva il cuore di una donna, ma non avrebbe mai immaginato che ci avrebbe messo tanto nel prepararsi.

Non si è mai sentito di un cavaliere che faccia ritardo! Inalando insofferenza, Kaioh guardò per l’ennesima volta l’entrata mentre Minako prendeva a ridersela.

“Mina… cortesemente…” Continuando a tenere gli occhi fissi come un gufo sopra il ramo di un albero, bruciò l’amica prima ancora che avesse potuto aprir bocca.

“E poi dici di non avere intuito?” Puntualizzò Usagi nel suo bel vestitino rosa.

Non è che avessero confezionato chissà quali abiti di alta moda, erano lontani i tagli da sera che le avevano viste brillare nelle notti dell’alta società della capitale, ma stavano ugualmente tutte e tre molto bene, soprattutto Michiru, che in quella sera nevosa sembrava lucente. Un vestito semplice, di color blu scuro dalla gonna un poco più bassa del ginocchio, aderentissimo in vita grazie ad una fascia di color beige e scollato a V sul petto. Le maniche portate alla drop shoulder grazie al fenomenale riscaldamento che stava permettendo a tutte di vestire in maniera più leggera. I capelli lasciati sciolti e vaporosi sulle spalle. Nessun gioiello; il regolamento lo vietava, ma in tutta onestà anche se il suo viso fosse stato valorizzato da un paio di orecchini o il suo collo da una vistosa collana, non sarebbe potuta essere più bella di quanto non lo fosse li, ora, in un carcere della periferia di Pest.

“Non capisco dove possa essere! Quando l’ho lasciata per andarmi a cambiare aveva già indossato i pantaloni.” Soffiò tra i denti mentre una giacca nera entrava nella sala accompagnata da un brusio.

“Eccola!” Esclamò Mina quasi immediatamente sbugiardata.

“No, è il dottor Kiba con la direttrice Meioh!” Disse Kaioh iniziando ad innervosirsi.

Drizzando le antenne, Usagi gonfiò il piccolo petto facendo sorridere entrambe.

“Porca miseria! La Direttrice è fantastica.” Se ne uscì Minako serrando la mascella.

“Chi quella zitella? Ma fammi il piacere…” Obiettò la biondina mentre dentro rodeva di rabbia.

Michiru fece finta di sorridere, anche se di quella strana coppia venutasi a creare tra la solitudine di due ruoli molto diversi fra loro, non poteva importarle niente. Uno strano senso d'abbandono iniziò ad avvilirla, tanto che rifiutandosi di suonare o ballare con chi che sia, andò a rifugiarsi in un cantuccio, che poi altro non era che la parte più nascosta della sala; una piccola nicchia ricavata tra le scaffalature ed un angolo del muro. Incrociando le dita dietro alla schiena si appoggiò ad un filare di libri iniziando a rimuginare. Lì rimase per un po’, a testa bassa, con la frangia in quella sera particolarmente obbediente, mentre tutto il resto di quella piccola euforia le vorticava intorno.

“Ma che viso sconsolato che abbiamo signorina.”

Riconoscendo quella voce profondissima come una delle vibrazioni sonore più sensuali del mondo, Kaioh inalò aria serrando per un momento gli occhi pronta a dar battaglia, poi alzando di scatto il viso, schiuse le labbra per dar sfogo a tutta l’indignazione che sentiva dentro, quando l’immagine di un angelo biondo la sgretolò.

“Sei incantevole. - Sospirò Haruka avvicinandosi al suo orecchio facendola rabbrividire. - Scusa se ci ho messo tanto. Non trovavo una cosa.”

“Una cosa!” E volendo fargliela pagare, Michiru cercò di mantenere il punto e sguardo a sguardo aggrottò la fronte.

“Già. Tieni, questo è per te.” Prendendole la destra ancora nascosta dietro il tronco, gliela aprì lasciandole nel palmo il pacchetto e richiudendola, se la strinse tra le sue portandosela alle labbra per baciandola delicatamente.

Non trovava il suo coraggio Haruka, altro che pacchetti o entrate ad effetto galvanizzate dalla musica. Aveva finito di prepararsi più di quaranta minuti prima e per il restante tempo se n’era rimasta seduta sul letto di Michiru a rigirarsi quel regalo tra le mani, indecisa se dar retta ai crampi di stomaco o all’aritmia del suo povero cuore. Uscita a forza dalla cella, spinta per lo più dalle prese per i fondelli delle altre, aveva strascicato i piedi come un’ameba arrivando infine alla meta, dove cercando tra volti ormai troppo noti, era riuscita finalmente a scorgere la fonte di tutto quell’assurdo malessere nascosta in un angolo. Una volta vistala, tutta la paura e l’ansia erano scemate di getto e al loro posto una forza prorompente, un’energia sana, aveva preso ad irrorarsi in lei come alcool caldo.

Ed ora ferma con le mani avvolte nella sua a pochi centimetri da labbra leggermente umide, Haruka Tenoh sentiva di essere tornata il giovane falco pescatore pronto a scendere in picchiata e far suo il pasto che voleva.

“Hai perso il mio assolo.” Punzecchiò Michiru. Cosa credeva quella spudorata bionda, che sarebbe crollata tanto facilmente?

“Aprilo.” Esortò indomita accettando l’ennesima sfida.

“Sei impossibile!”

“Lo so, ma aprilo, dai.”

Un tantino sulle sue, l’altra ubbidì cercando di controllare l’agitazione per quell’inaspettato gesto. Lo fece lentamente, con gusto, con gratitudine ed anche con un pizzico di perfidia nel vedere Haruka trepidante nell'attesa di un consenso e quando un nastro di seta blu con leggeri arabeschi di foglie d’acanto le sfiorò la pelle lasciandole una sensazione di freschezza sulle dita, piegò leggermente la testa da un lato stirando le labbra.

"Ruka...

“Perdonami, non è molto. Meriteresti che ti facessi dono della luna, ma… non mi è concesso.” Disse con tono dispiaciuto, come se realmente avesse potuto strapparla alla profondità del cielo.

“E’… bellissimo…”

“Tu lo sei. Mi piace tanto quando tiri su i capelli. Hai un collo così fine.” E sfiorò quella piega morbida che Michiru troppe volte nascondeva. La sfiorò provocandole un brivido di piacere e provandolo anch’essa.

Finalmente Kaioh tornò a guardarla e c’era solo tanto amore nel cobalto del suo sguardo. Anche quella parentesi di lotta era finita.

“Aiutami.”

"Con piacere." Asserì e galvanizzata le tirò su i capelli.

Una volta finito Michiru le strinse forte il braccio. “Andiamo a ballare?”

“Certamente! Non è per questo che ci siamo esercitate tanto?”

Tanto?, pensò l'altra inarcando le sopraciglia sarcastica non dicendo però nulla, ma lasciandosi guidare in un lato della sala.

“O Signore del cielo se sono belle!” Se ne uscì di cuore Minako non potendo che ammirarle lasciando in se una punta d’invidia.

Intrecciando le dita della destra con quelle della sinistra di Haruka, Michiru le poggiò le altre alla spalla opposta, delicatamente, come un tocco di piuma. Aspettandosi una certa dose d’incertezza da parte del suo indisciplinato cavaliere, guardò le donne che stavano suonando sopra un palchetto allestito per l’occasione, quando avvertendo la destra della bionda cingerle saldamente la vita all’altezza dei reni, si ritrovò a sbattere le palpebre stupita. Un viso improvvisamente serio le si avvicinò, i suoi smeraldi la penetrarono sin nel profondo, mentre complice la diversa altezza, i loro bacini presero un incastro perfetto. Tutto questo la disorientò ancor più che sentirla condurre con insospettata maestria, ed in quell’istante, dove il corpo caldo della bionda era ormai stretto al suo nei lenti movimenti della danza, Michiru capì cosa realmente fosse il desiderio. Quale potente mezzo che madre natura aveva messo a disposizione degli esseri umani per abbattere le paure del contatto ed iniziare invece a bramarlo con urgenza. Quale trucco meraviglioso, paravento alchemico, fusione burrascosa e comunque armonica fatta di sensazioni tattili, olfattive e chimiche tutte fuse insieme. Si sentì avvampare in ogni parte del corpo, dalla testa al petto e poi più giù, dove una forte contrazione nel suo essere donna le provocò un improvviso dolore.

Dio Ruka…, gemette nella sua mente.

Quando anche l’ultima nota abbandonò l’aria calda della sala, le due ragazze si fermarono. Occhi negli occhi. Fiato a fiato. Carne viva a carne viva. La prima a tornare a respirare più liberamente sembrò essere Haruka, la quale staccando il contatto dei loro busti facendo un leggero passo indietro, continuò a guardarla sfoderando un sorriso enorme.

“Non siamo andate poi tanto male, no?”

“Direi.” Ma nel risponderle Michiru non le lasciò subito le mani. Ne avrebbe sofferto troppo.

“Ho saputo che, udite udite, questa sera ci spetta anche un bicchiere di vino a testa. Ne vogliamo approfittare?”

“Si, ne ho bisogno. Ma tu non hai caldo?”

“Caldo? Non più del solito. Comunque hai ragione, qui ce né parecchio. Se vuoi vai pure a rinfrescarti in corridoio. Ti porterò da bere li.”

Accettando al volo, Michiru schizzò fuori come inseguita dalla lava. Cosa mi sta succedendo?! Si chiese iniziando a fare profondi respiri. Mi sento bruciare.

“Tutto bene Kōtei?” Il capo squadra se la guardò accigliata.

Non amando troppo gli assembramenti, aveva deciso di rimanere fuori dalla biblioteca, controllando da lontano l’andamento di una festa comunque abbastanza tranquilla. A parte qualche giovane e irruento cucciolo del Blocco A, le altre avevano preso quell’occasione come un libero sfogo di movimento ed evasione dalla routine carceraria. Poi Shiry aveva visto quella giovane rampolla uscire con il volto arrossato e sembrandole strano le si era avvicinata per sincerarsi sul suo stato.

“Si grazie. Credo di essere completamente fuori esercizio. E’ bastato un ballo per farmi venire il fiatone.”

“A…, se è tutto qui allora va bene.”

AnnaMariah calcava da troppi anni le scene delle carceri femminili per non rendersi conto dell’attrazione tra due donne e quella che Michiru stava provando per l’irruente Haruka, era talmente lampante che il dissimularla le sembrava quasi una capriccio da ragazzina.

“Ecco il vin…” La bionda spuntò dalla porta bloccandosi di colpo.

“Tenoh! Cosa abbiamo ripetuto da quando è stata decisa la data della festa?!”

“Che i bicchieri di vetro non devono uscire dalla biblioteca.” Rispose come a scuola.

“Allora perché per le mani ne hai addirittura due?”

“Colpa mia agente Shiry. Dai Ruka, in effetti non mi sento molto bene. Potremmo tornare in cella?”

La bionda dimenticò i bicchieri guardandola con preoccupazione. “Che cos’hai?!”

“Non fare quella faccia, sono solo un po’ stanca. Sono giorni che aiuto a preparare la festa e ora che vedo quanto stia riuscendo bene, deve essermi calata di colpo la tensione.”

“Forse dovresti stenderti.”

“Si…”

“Tenou non vorrai lasciarla da sola spero.”

“N…no, certo che no!” Voltandosi verso la sala, la bionda attirò con un fischio l’attenzione di una detenuta che stava parlottando e chiamandola fuori le mollò i bicchieri.

“Su andiamo. Vi accompagno io.” Chiarì il capo squadra.

S’incamminarono dirette al blocco d’appartenenza, ma proprio a circa metà strada, un secondino le intercettò trafelata iniziando a parlare con la graduata. Pochi istanti ed il colorito dell’agente Shiry cambiò bruscamente.

“Sono qui?”

“Si e pare abbiano anche una certa premura.”

“Dov’è l’agente Hino?”

“Non è ancora tornata dal Ministero. Pare che sia in arrivo una tormenta. Sta diventando difficile muoversi in auto.”

“Ma quelle bestie ci sono riuscite!”

“Così sembra. Dobbiamo informare la Direttrice.”

“Ci penso io. Tu scorta Kōtei e Tenou in cella.” Ordinò e senza neanche degnare di uno sguardo le ragazze, tornò velocemente sui suoi passi mentre le luci del corridoio iniziavano a sfarfallare.

 

 

Haruka corrugò la fronte allo sgradevole rumore dello scorrere della porta sui binari. I tre canonici giri di chiave ed i passi dell’agente che si allontana.

“Non sarebbe stato meglio passare prima in bagno per darsi una rinfrescata?”

“No tranquilla, sto bene.”

“A me non pare, sei tutta rossa. - Appoggiandole una mano alla fronte cercò di verificare se avesse la febbre. - Guarda che mi sembra che tu sia calda.”

A quelle parole Kaioh si staccò sentendosi pesante come il piombo.

“Si Haruka, sono calda. Non puoi immaginare quanto. - Iniziò finalmente a guardarla nella sua interezza, perché fino a quel momento era stata troppo presa per farlo. - Questo completo ti sta divinamente. Lo porti con talmente tanta naturalezza che sembra che tu ci sia nata dentro.”

Dopo un primo istante di ovvio imbarazzo, la bionda iniziò a ridere grattandosi la testa. Cosa voleva dire che vestita a quel modo assomigliava ad un figurino di Buda? "Grazie, ma e' anche parecchio ingombrante." E con un movimento brusco si tolse la giacca sbottonandosi il gilè.

"Ora va meglio. Sai, non so proprio come tu faccia a stare a tuo agio con un abito tanto aderente ai fianchi."

Posandole le mani sulle asole, Michiru iniziò a concentrarsi sui bottoni di madreperla della camicia. “Perché?… - Via il primo. - Sono sicura che con un pò d'esercizio finiresti con il trovarlo comodo anche tu… - Il secondo. - Potremmo provare..., ma non questa sera.”

“Michiru… cosa stai facendo?!”

Il terzo. “Ruka non ce la faccio più. Sono giorni che ci stiamo ammazzando di lavoro per arrivare a crollare stanche la sera; io per i preparativi di questa sera e tu dietro a quello stupido furgoncino. - Le rivolse uno sguardo talmente carico di desiderio e supplica che l’altra deglutì a vuoto digrignando i denti fino a farsi male. - Ti prego. Ora basta. Ho voglia di te.”

Completamente tramortita da quel comportamento tanto inedito, la bionda le bloccò le dita avide ormai arrivare all’ultimo bottone prima della cinta dei pantaloni.

“Michiru ferma. Guardami. - Indice e medio a sollevarle il mento. - Avevi detto che volevi fare le cose per bene, che avresti voluto la favola.”

“Haruka… sei tu la mia favola.” Ed arpionando la stoffa della camicia ormai del tutto aperta, si tuffò sulla sua bocca chiedendole quasi immediato spazio.

Cercò di opporsi, ma quando sentì la camicia scorrerle lungo le braccia per poi perdersi in terra con il gilè, ad Haruka fu chiaro che il punto di non ritorno era stato oltrepassato e si lasciò andare. Interamente. Afferrandole i fianchi la spinse fin sotto alla finestra avvertendo sulla testa il formicolio della corrente fredda che serpeggiava dal telaio. La sovrastò mentre lei prendeva a danzare nella sua bocca stringendosi al suo collo. Con dita febbricitanti riuscì ad allentarle la chiusura lampo alla schiena, concentrandosi poi sulla cintura, vero ed ultimo baluardo difensivo. Facendo un poco di fatica le liberò la vita e fermandosi un istante a guardarsi reciprocamente, con le labbra che pulsavano arrossate, si sorrisero riprendendo fiato.

”Riesci sempre a sorprendermi Michiru.”

Posando i polpastrelli di entrambi i medi sull’attaccatura delle clavicole di Kaioh, li lasciò scorrere verso le maniche, lievemente, tanto che la sentì fremere. Poi, forzando con l’aiuto degli indici, spinse verso il basso ed inesorabile il vestito corse giù, ai gomiti, agli avambracci, ai polsi e la piccola gru, esposta e a un passo dall’essere sua, divenne preda di penna.

 

 

Con la punta del naso quasi a contatto con il vetro, l’agente Anya guardò i turbini bianchi che stavano confondendo la consueta vista che si aveva dalla finestra del corridoio del piano terra. Quella tormenta non ci voleva e lo sapeva fin dentro le ossa di una donna ormai colpita dai primi acciacchi dell'età che non avrebbe fatto che peggiorare.

“Addio ritorno a casa.” Lamentò mentre la collega la raggiungeva spazzando con il palmo della destra la condensa opaca sul vetro.

“Ne sta facendo veramente troppa. Se non cala d’intensità la linea elettrica rischia di andare in tilt.”

“Le luci ne stanno già risentendo, ma tranquilla, la prigione è dotata di un generatore ausiliario che all’occorrenza entra in funzione.”

“Meglio. Non mi alletta per niente l'idea di rimanere al buoi in una prigione.” Disse Johanna domandandole perché avendo finalmente il fine settimana libero non avesse ancora preso la via di casa.

“Le detenute della cella tre devono ancora passare in lavanderia e fino a quando non avranno finito non posso staccare. Ma visto quanta ne sta facendo…”

Anya era fin troppo onesta per chiedere a Shiry di poter uscire prima di aver assolto l’ultimo compito della giornata.

“Se aspetti un altro po’ non riuscirai neanche a trovare la strada. Vai, il tuo turno lo copro io.”

L’altra la guardò con gratitudine, ma scosse lo stesso la testa. “Pazienza, sarà per la prossima volta.”

“Proprio perché sei una anya egységes è giusto che il giorno del venerdì grasso tu stia con i tuoi figli. Avanti!”

La donna in un primo momento sembrò titubare, ma poi si lasciò convincere. Era un mese che non tornava in famiglia e voleva proprio goderseli quei giorni di permesso.

“D’accordo Horvàth, ma promettimi di stare attenta. Le detenute rimaste nel blocco non sono affatto stinchi di santo.”

“Si, si, ma adesso vai.” La rassicurò Jo stringendole un braccio per poi guardarla corricchiare verso l’accettazione.

Va bene. Allora andiamo da quelle due ragazzacce, si disse sfregandosi le mani sicura che non sarebbe comunque stata da sola.

E di fatti trovò una collega sull’uscio della cella e le due detenute che stavano uscendo con una pila di panni sporchi a testa.

“Uuuu… Ma veramente sei come il prezzemolo!” Se ne uscì Tesla una volta vistala arrivare.

“E tu la solita burlona!” Scambiando un cenno d’intesa con l’altra guardia, Johanna si mise dalla parte opposta delle due.

“Anya?” Le chiese mentre si stavano avviando e la musica della festa risuonava in lontananza.

“Ha staccato. Fuori c’è tormenta. Se avesse tardato avrebbe rischiato di non poter tornare a casa. Per questa sera la copro io.”

“Ma che gesto di buon cuore agente Horvàth!” Intromettendosi la donna slava iniziò a camminare all’indietro stirando un sorrisetto idiota che Johanna fece finta di non vedere.

Continuando a tirar dritta non le diede spago seguendo alla lettera le direttive che aveva cercato d'inculcarle Shiry. Non dare mai confidenza. Non rispondere. Non cadere nelle bieche provocazioni. Tutte cose che al sangue Tenoh risultavano difficilissime da fare. In tutto questo, l’altra detenuta non aveva ancora detto una parola. Con lo sguardo assente Mery se ne stava incollata alla compagna come un cagnolino al quale hanno appena rubato l’osso. Johanna non se ne lamentò.

Arrivate alla porta della lavanderia le due guardie rimasero fuori, mentre Tesla e Mery entrarono. Aprendo uno dei rubinetti del vascone la prima aspettò che il rivolo d’acqua riempisse la tinozza mentre la seconda afferrava l’asse di legno e un pezzo di sapone.

“Merda guarda qua! Le tubazioni devono essere quasi del tutto ghiacciate!” Disse la slava.

“Tranquilla Tesla, questa sera non abbiamo fretta. Datti una calmata.” Rispose Johanna iniziando a camminare lentamente avanti e indietro con le dita arpionate al cinturone.

“Voi non avrete fretta, ma io si! Possibile che per lavare due panni ci si debba sempre mettere un’eternità? - Sbraitò afferrando al volo l’ennesima scusa per attaccar briga. - Su amore, passami il sapone.”

Ma Mery lo lasciò cadere nell’incavo del vaso e serrando le mani al bordo iniziò a tossire curvando la schiena n avanti.

“Amore?”

E quel tossire si fece sempre più acuto fino a provocare sangue.

“Mery che cos’hai?!” Urlò la slava mettendo in allarme le altre due.

Afferrando la sua compagna per le spalle, la costrinse a voltarsi verso di lei e lì vide drammaticamente la sua bocca imbrattata di sangue.

“Oddio, chiamate il medico! Presto!”

“Vai a chiamare il dottor Kiba!” Disse Johanna alla collega sporgendosi sulla porta prima di essere bloccata per un avambraccio. “Rimani fuori, afferra il manganello e non entrare per nessun motivo. Io faccio prima che posso.” E correndo via la lasciò.

“Stai tranquilla amore. Vedrai, andrà tutto bene!” E quelle parole suonavano così dissonanti se si conosceva il soggetto Tesla nella sua interezza.

Johanna ne rimase in un certo senso colpita, come, se non più, del vedere il rivolo denso continuare ad alimentare la chiazza scarlatta sul colletto della camicia di Mery.

“Ho male. Portami via…” Articolò improvvisamente e Tesla non se lo lasciò ripetere due volte.

Andando verso Johanna le intimò di lasciarle passare.

“Ce la porto io in infermeria!” Alzò i pugni minacciosa costringendola a brandire il legno.

“Stai calma! La collega farà subito.”

“Non con questa stramaledettissima festa!

Giusto, pensò Johanna ricordandosi che anche il dottor Kiba avrebbe partecipato. Alzando il manganello all’altezza del petto della slava, cercò di mantenere tra loro una certa distanza quando le lampadine del piano iniziarono a blincare. Le due puntarono all'unisono l’attenzione a quella che serviva la lavanderia, che d’improvviso saltò spegnendosi.

“Porca puttana.” Disse Tenoh facendo un salto all'indietro allontanandosi mentre dall'ombra delle spalle di Tesla usciva Mery, sporca in viso come un vampiro appena nutritosi.

Rabbrividì. Gli occhi di quella donna avevano un non so ché di demoniaco e quando comparve sulle sue labbra un sorriso sardonico via via sempre più marcato, com’era accaduto nel tunnel, Johanna intuì di essere in pericolo.

“Mery?” Anche Tesla rimase stupita e quando il suono simile ad uno stec giunse alle sue orecchie, quello stupore si trasformò in incredulità.

La lama di un coltello si rifletté per qualche istante brillando come una stella alla luce delle lampade del corridoio, tanto che a Johanna sembrò quasi una visione, uno scherzo dettato dal panico che le stava montando dentro. Ma poi tutto si fece nitido.

“Lo riconosci o tua sorella non te lo ha mai fatto vedere?” Chiese Mery facendo un passo verso di lei ed era tanto divertita dalla bomba appena lanciata che iniziò ad oscillare l’impugnatura tra l’indice ed il pollice.

Un altro passo e Johanna percepì la presenza della massa del muro dietro alla schiena. Era in trappola? Guardando la fine del corridoio fece capire all’altra l’intenzione di scappare e quella scattò come una molla.

“Tu sarai la prima mia cara Johanna Tenoh!” E le si avventò contro.

 

 

 

NOTE: Ciau. Scusate, mi è scappata la mano! Non avevo mai scritto un capitolo tanto lungo, ma non potevo dividerlo in due, perciò ho deciso di troncarlo come al solito, così da lasciare che le vostre maledizioni mi colpiscano inesorabili. E visto il periodo di summa sfiga… fate anche meno, per carità hahaha.

Naturalmente scherzo.

Allora, con quest’ultima pagina abbiamo elevato Mery a psicopatica leader di tutta la casa della luce, che Tesla…, levati. Già si intuiscono gli enormi casini che ha combinato, le trame che ha tessuto, ma naturalmente spiegherò tutto all’inizio del prossimo capitolo. Come ha detto Usagi; i matti sono scaltri ed intelligenti, perciò della nostra biondina ci si può fidare :P

E di Haruka e Michiru che mi dite? Non siamo sotto l’egemonia del bollino rosso, perciò spero di non aver deluso nessuno non descrivendo nei minimi particolari la loro prima volta. Ammetto che avevo pensato ad una Tenoh che per non far cigolare le molle, spostava il materasso per terra e se ne usciva con una frase del tipo “come in campeggio”, ma poi ho scartato l’idea. Veramente poco romantica. Già abbiamo una Kaioh che per un pelo non le strappa i vestiti di dosso. Proprio non si poteva ;)

A prestissimo!

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXI

 

 

La follia di un amore distorto

 

 

Provò dolore quando la lama del Kés di Haruka le penetrò il petto. Un dolore che mozza il respiro e porta quasi nell’immediato la mollezza nelle gambe. Non appena Mery le si era avventata contro, con una torsione del busto era quasi riuscita a schivare l'affondo, ma sbilanciandosi aveva finito per urtare il muro alle sue spalle agevolando la donna. Ormai impossibilitata nella fuga, Johanna aveva distintamente avvertito la punta di metallo morderle la carne poco sotto la clavicola sinistra e la foga dell’assalitrice spingersi su di lei. Non aveva rivisto flash della sua vita come si dice accada prima di una morte violenta, ma in compenso si era ritrovata suo malgrado tutti i sensi vigili, così che al bruciore di carne, era arrivato l’odore ferrico del sangue, quello dell’alito carico di bile dell’altra, il suono della sua risata incontrollata, l’urlo di Tesla, il ronzare delle lampade che stavano perdendo potenza ed lo sgocciolare di una delle cannelle della grande vasca di pietra della lavanderia. Estratta l’arma aveva avuto come l’impressione che tutto si smorzasse in tinte grigie, che il suo stomaco esplodesse in una generale sensazione di nausea e che il suo cuore perdesse un colpo per poi riprendere a perdifiato.

Johanna Tenoh non seppe mai se quello scherzo fisico fosse dipeso da una reale scossa multisensoriale scatenata da qualche reazione chimica o no, ma sta di fatto che portandosi il palmo della destra alla giacca, iniziò a scivolare giù, contro il muro grezzo, fino ad arrivare a sedersi in terra.

“Mery! - Tesla le fu addosso prima che questa potesse infierire ancora. - Sei impazzita?!”

“Lasciami.” Ordinò tagliando l’aria con la mano armata costringendo la compagna ad arretrare.

“Come fai ad avere un coltello!?”

Quella sogghignò vagamente soddisfatta. “Bello vero? Non immagineresti mai di chi è.”

“P…Perché ce l’hai… tu?” La voce di Johanna arrivò dolorante anche se ancora chiarissima.

“Taci sporca bastarda! - Imperò la rossa puntandole la lama contro. - E’ stato grazie ad una serie di coincidenze se sono venuta in possesso di questo bell’oggettino. - Poi tornando a guardare Tesla si fece più calma. - Inizialmente di questa cagna non me ne fregava niente; era solo l’amante che pensavo si scopasse la bionda che ti piace tanto, amore. Si, quella bellezza che sogni ogni notte, quando sento che ti tocchi, quando preferisci le tue dita invece che chiedere a me di soddisfarti! L’ho capito sai; ho capito che vorresti lei al tuo fianco. Non mi hai mai guardata come ti scopro fare quando scende in cortile per correre o si rilassa sotto l’acqua della doccia!”

“Ma cosa stai dicendo…”

“Ma ho preso a fottermene anche di questo, perché sapevo che prima o poi gliel’avrei fatta pagare. Te l’avrei strappata dal cuore strappandole la vita. Ma avevo bisogno di conoscere tutto di lei, per trovarne il punto debole ed agire. Così ho iniziato a fare domande, a seguirla, ma quella se ne stava sempre rintanata in cella o per i fatti suoi, tanto che mi stavo arrendendo all’evidenza…”

“Basta con queste stronzate! Sei tu che guardi le altre, che ti fai sbattere nelle docce quando giro gli occhi!” Tuonò Tesla provando a fare un passo, ma alzando minacciosa la mano Mery la sbloccò continuando con folle lucidità.

“Kōtei mi attrae lo riconosco, ma è il suo corpo che voglio, non il suo cuore. Per te è diverso, non ti accontenteresti di avere Tenoh nel tuo letto, perché tu…, tu sei innamorata!”

“Che cazzata…” Soffiò Johanna tossendo e ridendo insieme.

“Tu crepa." E giù un calcio tra spalla e collo che la schiantò su un fianco.

La donna slava intervenne frapponendosi. “Sei uscita di senno?! Per chi ammazza una di queste c’è la pena capitale!”

“Voglio che quella bionda provi dolore e facendo fuori Horvàth gliene farò tanto, puoi starne certa.”

“E’ solo una che si scopa! Non penserai mica che si strapperà i capelli se…”

“E’ sua sorella!” Urlò e l’eco tornò a riempire un ambiente spettrale.

Tesla rimase bloccata per qualche istante, poi spostando lo sguardo dalla compagna alla guardia che intanto era riuscita a rimettersi seduta, scosse la testa incredula.

“La sorella?! Anche se fosse rischieresti un cappio al collo solo per colpire Tenoh?”

“Esattamente."

“Dove hai trovato quell’arma!?”

“Ho gente in gamba che mi gira intorno sai? Non hai mica l’esclusiva.”

“Mery non scherzare! Quello è un Kés. Come diavolo hai fatto a farlo entrare?!”

“Non l’ho fatto entrare… C’era già, ben custodito in una delle scatole che contengono gli oggetti che vengono sequestrati all’arresto. Ho dovuto tagliare la gola a quella schifosa, ma tutto sommato n’è valsa la pena.”

“Sei stata tu…” Una costatazione, perché gli occhi che adesso Tesla aveva davanti valevano più di mille conferme verbali.

“Inizialmente l’ho fatto solo per far accedere la mia amichetta alla scheda personale della tua bionda. Aveva bisogno di una scusa per potersi aggirare indisturbata in quella parte del Blocco C che a noi è interdetta. Ma poi una serie di fortunate coincidenze mi hanno portato questo.” Baciando velocemente la lama se la guardò come il più bello dei regali di nozze.

Lo zerbino, pensò Johanna non riuscendo quasi più a tamponare la ferita resa ormai viscida dal sangue che lentamente le stava imbrattando la giacca.

“Vedi cara, sapevo che sarebbe stata lei la sostituta per le faccende se a quella vecchia fosse accaduto qualcosa e confidavo che con il putiferio dell’omicidio, prima o poi sarebbe riuscita ad accedere all’archivio. Ma non avrei mai pensato che all'arresto Tenoh avesse questo con se, che sua sorella maggiore fosse una guardia carceraria…- Accovacciandosi vicino a Johanna proseguì riprendendo a giocherellare con il manico del coltello. - … e che per questo sarebbe stato tanto soddisfacente prendermi la mia vendetta. Siete state furbe a far passare il vostro legame come una sbandata, ma la cosa mi ha fatto incazzare ancora di più!”

“Tu hai ucciso per questo?!” Chiese Tesla scuotendo la testa.

“Mi era d’intralcio amore! Non mi hai sempre detto che gli ostacoli vanno rimossi? Ebbene... l’ho fatto!”

Non tanto in Johanna, alla quale era ormai ovvio quanto l’assassina della detenuta 0056 fosse instabile, quanto alla slava parve chiaro che in anni di reclusione nella sua compagna si fosse sviluppato il tarlo della follia. Se Mery fosse stata già predisposta o meno, questo non sarebbe servito saperlo. L’attrazione dimostrata da Tesla per Haruka era stato l’innesco e la gelosia il comburente silenzioso per quell’esplosione.

“Va bene, adesso cerchiamo di stare calme e proviamo a capire come fare ad uscire da questa situazione.”

Ma tornando a ridere isterica, l’altra scrollò le spalle spostando l’attenzione sulla ferita e Tesla capì. Ormai Johanna sapeva chi fosse l’assassina della casa della Luce. Non avrebbe potuto rimanere in vita.

“Voglio vederla morta! Ma prima potremmo usarla come ostaggio per evadere da questa merda! Con il ballo e la tormenta che si sta scatenando fuori… - Lasciando in sospeso la frase Mery guardò la luce ambrata ormai sempre più fioca della lampada che pendeva sopra le loro teste. - Presto saremo al buio.”

Ma la slava invece di avvallare il piano, esplose rabbiosa. “Potevi pensarci prima di conciarla così! Adesso morirà prima di arrivare al cancello di servizio. E poi tu stai male e…”

Forse illuminata da una lucidità che nonostante la ferita sembrava esserle scesa addosso, Johanna intervenne dando la più ovvia delle spiegazioni. “Non lo capisci che è stata tutta una messa in scena?!”

Corrugò la fronte Tesla, perché pulendosi la bocca con la manica del maglione, Mery diede ragione al secondino stirando le labbra. “Non ti sembra che sia stata un’ottima mossa il mordersi un poco la lingua per eludere parte della sorveglianza… amore?”

“La tua amica non avrebbe dovuto trafugare dal deposito il Kés di mia sorella. Quella lama è sacra.”

“Sciocchezze! E' una lama come un'altra! E quando ti ammazzerà ci proverò ancora più gusto. Ti avrebbe gia' sgozzata se l'avessi avuta in mano quando eri nel cunicolo. Ma ammetto comunque di essere stata fortunata, perche' la mia amica è riuscita a prenderlo poco prima che il vostro capo squadra decidesse di non farla più lavorare nel blocco. - Afferrandola per i capelli si avvicinò tanto da sussurrarle in un orecchio. - Ma sappi che per me avevi già le ore contate. Barattandolo in cambio di favori, sono riuscita ad entrare in possesso di un cacciavite che una detenuta aveva trovato per caso e ti ripeto che se non fossi stata baciata dalla sorte, saresti già morta.”

Alzandosi la trascinò su con se. - Adesso però muovi il culo e ci porti fuori di qui. - Ma Johanna gemendo si sostenne nuovamente contro il muro.

La mano ormai totalmente imbrattata di sangue spinse Tesla ad intervenire. “Ti ho detto che conciata così non arriverà al cancello. Lasciala, forse possiamo ancora salvarla.”

“Cosa? Tieni dunque così tanto a quella bionda da salvarle la sorella?!”

Ma in realtà non era affatto così. “E’ a te che tengo imbecille!”

“A si, con la scusa di una condanna alla forca?! Credi realmente che la vita di questa, per lo Stato valga tanto?” E come una bambina che prende a sfidare l’autorità materna, spostò la lama alla gola di Johanna.

“E tu credi che la tua valga di più? Non scherzare con il fuoco Mery. La legge parla chiaro!”

“Dobbiamo solo riuscire ad arrivare in strada! Poco importa se con una moribonda o un cadavere.” Serrando l’avambraccio al collo della ferita, fece per muovere i primi passi quando una serie di voci catturarono la loro attenzione.

“Porca puttana, sono già qui!” Esplose la slava iniziando a provare uno strano panico.

In realtà della loro relazione Mery non aveva mai capito nulla o forse non fino in fondo. Era vero, Tesla si era innamorata di un’altra, ma pur se di carattere non sempre semplice e con tutti i difetti di questo mondo, non avrebbe mai lasciata la compagna di anni per una ragazza che non la corrispondeva e che per di più, sarebbe uscita da li a pochi mesi. E poi c’era sempre l’affetto, la quotidianità, l’impossibilità di vivere una nuova storia senza arrecare danno ad una donna che avrebbe comunque dovuto vedere tutti i giorni.

“Allora dobbiamo sbrigarci! - Strattonando una Johanna ormai al limite, si adirò nel sentirla tanto pesante sulle gambe e così poco reattiva. - E’ inutile che cerchi di boicottarci! Ti farò muovere il culo dovessi portarti in spalla!”

“Mery… no!” Bloccandola Tesla provò un’ultima volta a farla ragionare mentre le voci accompagnate da passi concitati si facevano via via più vicine.

“Ma lo capisci che è un’opportunità?!”

“Lasciala e dammi quel coltello!” Ordinò guardandola dritta negli occhi convinta che come sempre sarebbe stata ascoltata.

Questa volta però non avvenne. Questa volta Mery non obbedì e la lama corse rapida l’ennesima volta tra le ombre tremolanti delle lampadine.

 

 

Le verità di un amore profondo

 

Accarezzandole lievemente il braccio con l’indice, ammise a se stessa di non riuscire a spiegarsi del perché quella pelle potesse essere tanto profumata nonostante il sudore speso. Contraendosi a quel tocco Michiru sorrise affondando il viso nell’incavo del suo collo.

“Mi fai il solletico.” Sussurrò respirandole a pochissimi centimetri dall’orecchio sinistro.

Era quella la felicità. Una felicità data e ricevuta, bramata, prima lentamente, quasi con pudore, poi gemuta, soffocata negli spasmi di un piacere mai provato prima. Una felicità di corpo. Una felicità di cuore. Una felicità d’anima. Moltitudine di colori miscelati insieme; quelli forti e vibrati di Haruka, quelli temperati e profondi di Michiru.

“Alza il viso. Voglio guardarti.” Comandò la bionda dolcemente vedendola eseguire imbarazzata.

Questa volta era stata Kaioh a prendere l’iniziativa e lo aveva fatto sfacciatamente, guidata più dall’impulso di averla che da altro. Ora, dopo i baci e le carezze, i tocchi e le spinte, dopo la frenesia tesa fino allo spasmo dell’esplosione di un piacere condiviso, ora, si sentiva come un pugile rivolto supino sul tappeto di un ring; vinta, battuta, completamente inerme.

“Cosa fai adesso, ti vergogni?” Domandò Haruka portandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

“Abbiamo fatto l’amore.” Soffiò Michiru non riuscendo a darle gli occhi.

“Sei pentita?”

“Assolutamente no!”

“E allora cosa c’è?”

“Abbiamo fatto l’amore.” Ripeté e questa volta Haruka capì fondendo il sorriso a quello che stava nascendo dolcissimo sulle labbra dell’altra.

“Ed è stato perfetto.”

“Non avrebbe potuto essere più intenso neanche se fossimo state in un palazzo.” E Kaioh tornò a guardarla con un’intensità disarmante.

“Come fai a darmi tanto con un solo sguardo, Michiru?”

“Perché ti amo Haruka.”

Scese un improvviso silenzio in quella cella tre per due immersa nella penombra della notte, spingendo la bionda a pensare che se fosse durato troppo allungo, Michiru sarebbe riuscita a sentirle il battito impazzito del cuore. Era sempre stata amata in vita sua; dai genitori, dalla sorella, gli amici, perfino dal suo nagyapa e avrebbe dovuto perciò essere in un certo senso abituata a parole intense come quelle. Ma era così diversa quella sensazione, così immensamente profonda, che a quella semplicissima quanto potente frase, la bionda si piantò l’indice in mezzo ai denti emettendo una specie di singulto soffocato.

Accorgendosene l’altra le spostò la mano riprendendosi il rossore delle labbra. Un bacio delicato. Imparagonabile alla foga dei precedenti.

“Non dovrei?”

“Forse…” Lamentò di risposta e lo fece talmente piano che Michiru le chiese spiegazioni con la sola espressività del viso.

Non era corretto, Haruka avrebbe dovuto parlarle prima di permettersi di sfiorarla anche solo con la punta di un dito, ma non aveva potuto non cedere all’impulso di averla. Quella ragazza di Buda le era entrata sotto pelle da troppo tempo per riuscire a fermarsi quando se l’era sentita premuta contro. Ma ora che il corpo aveva ricevuto la sua dose d’ambrosia, ora si, era arrivato il momento di esporsi e confessare.

“Sono una vigliacca e non sono certo pura come acqua di fonte… - Ricordò ammettendo la grande labilità che sentiva di avere da mesi. - Non credo che vorresti ancora le mie mani addosso se ti raccontassi alcune cose di me.”

Puntando le braccia Michiru si alzò leggermente guardandola con severità. “Mettiamo subito in chiaro una cosa; io amo l’animo di una ragazza meravigliosa che ha nelle sue mani solo il prolungamento della sua anima.”

Haruka piegò leggermente gli angoli delle labbra. Con quanta chiarezza riusciva a sottolineare le cose.

“Se si tratta di quello che ti spingi a fare quando ti apparti con l’agente Horvàth, bè… non posso certo dire che mi faccia piacere, ma dovresti aver capito che non sono una donna che lega a se le persone con mezzucci tipo bronci o ricatti.”

“O Michi…”

“Perciò se vuoi dirmi che tra le due non sai chi scegliere…” Una carezza sulla guancia la bloccò immediatamente.

“No Michiru, no! Come potrei dopo quello che ci siamo scambiate poco fa?! E’ mia sorella… - Sorridendo mesta le toccò la punta del naso con l'indice. - Johanna è mia sorella maggiore.”

“Cosa?!"

“Si. Perdonami se te l’ho tenuto nascosto, è che più passava il tempo e meno riuscivo a dirtelo. Forse avevo paura che pensassi che ti stessi prendendo in giro o forse era solo un altro modo per cercare di proteggerti, ma tu non sopporti quando lo faccio, così…”

“Proteggermi da cosa!” Una leggera inflessione d’insofferenza nel timbro che la bionda lesse come pericolo.

“Michi, la legge delle carceri è molto chiara in merito al rapporto che può istaurarsi tra detenuta e secondino. Puoi farti sbattere come e dove vuoi, ma guai ad andare oltre. Mai una storia d’amore seria, mai un’amicizia, figuriamoci un grado di parentela stretto come il nostro. Quando sono stata messa dentro, per starmi vicina Johanna ha chiesto alla direttrice Meioh di poter essere assunta pur non avendone ne i titoli, ne le capacità. Setsuna visse con noi quando nostro padre partì per il fronte ed è proprio grazie a quest’amicizia che ha avvallato quest’enorme fesseria. Devo ammettere però che averla qui è stata una fortuna. Le volte che sparivamo era per parlare e ci faceva comodo che tutte le altre pensassero ad un rapporto carnale. Le cose che mi faceva arrivare da fuori, fino agli sguardi d’intesa, sono stati un aiuto enorme per me, ma se a qualcuno dovesse arrivare voce del nostro legame, entrambe rischieremmo la vita. - Spostando il palmo dal fianco dell'altra proseguì stancamente. - Ho pensato che non dicendoti nulla ti avrei tenuta fuori da questa cosa.”

“E io che mi sono roduta l’anima…”

“Johanna mi ha spronata a dirtelo, persino l’altro giorno, durante la perquisizione della nostra cella, ma io…, lo sai, sono una gran testona.”

Ecco perché a tratti Horvàth le ricordava Haruka, ed ecco il perché di quell’affetto nei loro gesti.

“Tu non puoi neanche immaginare quanto mi sia sentita meschina nei suoi confronti. Ero gelosa da morire e più vedevo la vostra complicità e più cercavo di trattenermi dal non volerle male. Non è stato corretto, Ruka.”

“Scusami…” Accogliendola nuovamente tra le sue braccia la baciò tenerissima sulla fronte.

“Horvàth è il cognome di vostra madre?”

“Si. Setsuna non brilla per fantasia visto che ha usato lo stesso espediente con te e le sorelle Aino.”

“Mmmm… Ma non c’è solo questo vero? - E prese ad accarezzarle lieve la pelle e lo fece in prossimità del dorso dell’avambraccio destro. - Una volta l’ho intravisto nelle docce, ma solo questa sera sono riuscita a metterlo veramente a fuoco.”

Girandole il polso scoprì il tatuaggio che Haruka aveva provato a nascondere ogni santo giorno da quando avevano preso a vivere insieme. La sera, quando s'infilava il pigiama, la mattina, quando si vestiva, sotto le docce, all’aria aperta, quando era solita tirarsi su le maniche del giaccone per godere pienamente dell’aria fresca. Ratta evitava di farle vedere le braccia, compiendo movimenti alle volte grotteschi e totalmente innaturali. Viste le stranezze che ogni tanto emergevano da quella ragazza, Michiru non ci aveva badato più di tanto, arrivando addirittura ad ipotizzare un pudore cronico che, in tutta franchezza, la bionda non possedeva affatto.

Anche se abbastanza eloquenti, cercò comunque di farsi spiegare cosa rappresentassero quei segni. Quando e perché se li fosse fatti fare.

“Fino all’autunno scorso non mi sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di farmi deturpare così, ma… “ Sospirando cercò le parole giuste.

“Ma?” Incalzò l'altra stuzzicandola con una stretta alla vita.

“Diciamo che rappresenta una sorta di promemoria.”

“Per ricordarti?”

“Per ricordare mio padre…, la sua morte, o meglio… il responsabile della sua morte.”

“Me ne vuoi parlare?”

“C’è poco da dire; il mio apa era un uomo in gamba, cresciuto dal niente, ma arrivato a dirigere una fabbrica solida. A causa della perdita di una partita d’acciaio che sarebbe servita per l’inizio di una grossa commessa statale, il settembre scorso si è visto costretto a mettersi nelle mani di un uomo che alla fine si è rivelato un disonesto bastardo. Non riuscendo a pagare il materiale e visto che di mezzo c’era anche il Ministero dei Trasporti, è stato arrestato dalla Polizia Tributaria e portato alla casa della giustizia. - Alzando l’avambraccio a mezz’altezza, Haruka ne studiò il disegno che in genere guardava solo di sfuggita. - Gli agenti dell’ÁHV l’hanno torturato per giorni convinti che nascondesse chissà cosa.”

Michiru rabbrividì ricordando la sera che aveva deciso di entrare a far parte del sottobosco rivoltoso tessuto del generale Aino, quando ferma davanti a quel palazzo inquietante, aveva visto un uomo in abiti da lavoro, alto anche più di suo padre, trascinato verso il portone d’accesso neanche fosse la peggiore delle bestie. Era stata quella scena a farle capire che sarebbe stato suo dovere provare a cambiare le cose.

“Ce l’hanno ammazzato Michi e questo tatuaggio mi ricorderà per sempre la missione che mi sono prefissa di portare a compimento.”

“Quale missione Haruka?”

“Farla pagare a colui che l’ha tradito. Vedi la lama di questo pugnale? E’ vero che ha una parte scura che rappresenta una cosa negativa come la vendetta, ma ha anche una parte chiara, la giustizia, ed è questa luce che mi porterà a dare finalmente pace all’anima di mio padre. La giustizia.” Rimarcò convinta.

“Vuoi farlo arrestare?” Chiese con un filo di voce avendo già intuito dalla durezza di quelle parole che non potesse essere quella la soluzione.

“No Michiru, devo ucciderlo.”

Alzandosi di scatto l’altra trattenne il fiato mentre Haruka continuava a guardarsi l’avambraccio con una strana calma.

“Dovrò ritrovare la forza che avevo prima di entrare qui dentro. Devo ritrovarla assolutamente.” Lo disse più a se stessa e alla punta della lama del suo disegno, che rivolta verso l’alto, stava a significare quella determinazione che avrebbe dovuto usare per affondare il suo Kés nella carne di Alexander Kaioh.

“Nessuno te lo riporterà!”

“Non essere ovvia come Johanna! E’ un altro il punto, Kōtei.”

“Un altro punto?! Quale altro punto potrebbe mai esserci per giustificare un omicidio?”

“Speravo avresti capito. - Disse glaciale scansandola per mettersi seduta ed iniziare così a cercarsi la biancheria intima. - Ma come potresti. Sei cresciuta nell’agiatezza di Buda, estranea a tutte quelle antiche leggi che hanno scandito per secoli la dignità e l’onore delle popolazioni ungare.”

Arpionandole una spalla Michiru la costrinse a voltarsi. “Non stiamo parlando di chissà quale retaggio culturale Tenoh, ne del sangue ungherese, ma di una scelta! Quella di mandare o meno un uomo all’atro mondo!”

“Credi non lo sappia! - Ringhiò scostandosi. - Credi che non mi sia fatta mille domande prima d'intraprendere questa strada? Ma è una cosa che devo a mio padre e ne te, ne Johanna, tantomeno Scada o Setsuna potrete farmi cambiare idea!”

Come se improvvisamente quel pensiero fisso andato stemperandosi con il passare delle settimane di reclusione, si fosse rinnovato, la bionda si alzò infilandosi la maglietta proprio mentre alcuni passi si avvicinavano alla porta. Lo spioncino si aprì e una parte del viso di una delle guardie del turno di notte comparve ordinando loro di vestirsi.

“Muoviti Tenoh! E anche tu Kōtei. Il capo squadra Shiry vi vuole vedere.”

Azzerando la discussione le due ragazze si guardarono e nella semioscurità iniziarono ad indossare le prime cose trovate. Uscirono notando subito la bassa tensione dell’illuminazione e le prime donne che facevano ritorno al blocco.

“Cos’è… la festa è già finita?” Chiese Michiru ancora scioccata dalle rivelazioni della bionda. Non ebbe risposta.

“Ehi agente,, vi ha fatto una domanda.”

“Calmina Tenoh! Fuori è un inferno bianco e la luce potrebbe saltare da un momento all’altro. Le detenute devono rientrare tutte nelle celle.”

“Ed è per aiutarvi a farlo che il capo squadra vuole vederci?!” Rispose ironica non gradendo lo strano atteggiamento che la donna stava avendo con loro e non potendo certo immaginare quello che si era appena consumato nella lavanderia, la seguì con Michiru al fianco verso la zona più protetta del Blocco C.

 

 

La forza di un amore fraterno

 

Shiry si portò una mano sul viso allontanandosi di qualche passo dal lettino dell’infermeria. Non riusciva a ragionare, a prendere decisioni lucide, perché in una manciata di minuti era accaduto di tutto. Si era vista consegnare da due agenti dell’ÁHV l’ordine di trasferimento per le detenute Minako e Usagi Aino e giâ questo di per se l’aveva gettata nel panico. Non era pronta a perdere quelle due ragazzine e Setsuna Meioh non aveva ancora un piano per cercare di strapparle al destino che le stava aspettando nelle stanze del seminterrato della casa della giustizia. Così aveva colto l’occasione del ritorno dell’agente scelto Hino per temporeggiare, tornare dalla Direttrice e sperare di ricavarne un qualcosa di costruttivo.

Non aveva potuto. Bloccata da Julie, il suo vice, sudata e in debito d’ossigeno, era venuta a conoscenza di quello che stava accadendo in lavanderia; Mery stava male, sputava sangue e aveva bisogno del dottor Kiba.

Dio Santo anche questa, aveva pensato intimando all’altra di andare a chiamare l’uomo ancora immerso nei divertimenti del ballo, mentre lei si sarebbe diretta a prestare i primi soccorsi. In più Horvàth era rimasta sola e nel saperlo una bruttissima sensazione d’irrequietezza aveva preso a stringerle il petto. Così era corsa.

Una volta svoltato l’angolo del corridoio che portava ai locali di servizio, le si era presentata una scena agghiacciante; Johanna seduta contro il muro accanto ad una chiazza scura che scintillava ad ogni pulsazione rimandata dalle lampade. Bloccandosi ed estraendo il manganello, si era avvicinata con circospezione, cercando di richiamare l’attenzione della ragazza che però non aveva risposto. Con la testa mollemente abbandonata da un lato, le spalle leggermente incurvate in avanti e la mano destra ferma sul petto, non le aveva dato cenni di vita neanche quando Annamariah le era stata sufficientemente vicina per poterla toccare.

“Johanna!” Si era sporta, quando l’occhio l’era caduto sulla strana superficie riflettente che altri non era che una pozza densissima di sangue.

Scattando all’indietro aveva intimato alla sua razionalità di calmarsi, di alzare il bastone metallico e guardarsi intorno. Con la schiena protetta dal muro si era abbassata lentamente continuando a scrutare la porta e gli angoli in ombra della lavanderia, mentre portava indice e medio alla carotide della ragazza. Al primo battito aveva rilasciato la poca aria trattenuta nei polmoni e al secondo era finalmente riuscita a prenderne una boccata piena. Era ancora viva.

“Johanna mi senti? Apri gli occhi.” Poi arrivandole alle orecchie le voci dei soccorsi, aveva abbassato un poco il manganello voltandosi verso l’altra.

Quello che aveva visto l’aveva atterrita. Raggomitolata in posizione fetale quasi del tutto nascosta dalla sagoma di Tenoh, se ne stava Tesla la slava. Le mani portate all’addome, lo sguardo spalancato verso un punto indistinto del corridoio, come a voler cogliere chissà quale sfumatura nel pulviscolo dello sporco. Shiry lo aveva riconosciuto immediatamente quello sguardo. Occhi che non vedono più.

Calma Annamariah, devi stare calma! Non è questo il momento di cedere, si disse intravedendo oltre la porta dell’infermeria la collega che era venuta ad avvisarla. Bianca come un cencio, non faceva altro che andare avanti e in dietro presa sicuramente dal senso di colpa.

Quando il capo squadra uscì sul corridoio, lei la guardò per poi sbirciare all’interno della stanza medica. Di Johanna riusciva a vedere solo i piedi e parte delle gambe. Il resto era coperto dal corpo del dottor Kiba, alacremente impegnato a cercare di fermare l’emorragia all’altezza del quadrante superiore sinistro.

“Non avrei dovuto lasciarla sola! Sono un’imbecille. Mi sono fatta prendere dal panico - Bloccata per le spalle dall’altra, la sottoposta tornò a fissarle gli occhi scuri scuotendo la testa. - Mi dispiace Anna. Mi dispiace tanto…”

“Julie basta! Non serve a nulla fare così! Senti, ho bisogno di una mano e devo sapere se sei in grado di darmela. - Scuotendola un paio di volte riuscì ad ottenere una soffocata affermazione. - Bene. Ora va a prendere le sorelle Aino. Spiega loro che l’ÁHV è venuta a prelevarle per trasferirle alla casa della giustizia, fa che indossino abiti pesanti e portale al vano caldaia. Fino a quando fuori imperverserà la tormenta, abbiamo ancora un po’ di tempo.”

“Cosa intendi fare?”

“Non possiamo lasciarle in mano a quegli aguzzini. Il Generale non ce lo perdonerebbe mai. Gli abbiamo promesso che in sua assenza avremmo protetto le sue figlie ed ora è il momento di farlo. - Abbassò di colpo la voce diventando più comprensiva. - Te la senti? Hai famiglia…”

“Anche tu Anna e sapevamo a quali rischi saremmo potute andare incontro quando abbiamo deciso di entrare a far parte della resistenza capeggiata da Ferenc.”

Sospirando Shiry le staccò le mani dalla giacca d'ordinanza stirando le labbra in un sorriso amaro. Era dall’immediata fine della guerra che ne facevano parte, da quando ai nazisti si erano sostituiti i comunisti di Stalin. Era li, in una delle loro tante riunioni per cercare di riorganizzare la resistenza, che aveva conosciuto Julie e la sua famiglia. Tutti combattenti, tutti contrari al nuovo padrone. Per lei invece il discorso era diverso, perché suo marito non soltanto non sapeva delle sue idee liberali, ma non avrebbe neanche mai approvato.

“Fai in modo che nessuno ti veda. Intesi?”

“Tranquilla. Una volta arrivate al locale caldaia?”

“Aspettami li. Cercherò di fare prima che posso.”

“E Horvàth?” Chiese tornando a sbirciare la sua sagoma della porta.

“E’ nelle mani di Dio… Ora vai.” Ammise rientrando.

Ed in effetti lo era, perché per quanto potesse stare facendo del suo meglio, Mamoru Kiba era solo e a quel che aveva potuto capire da un primo approccio tattile, la ferita riportata dalla pugnalata aveva provocato danni.

“Porca puttana!” Lo sentì sbraitare stupendosene un poco.

Con l’abito da sera scuro completamente imbrattato di sangue, sembrava non riuscire a dare un freno a quella massiva perdita ematica, tanto che Johanna già da qualche minuto aveva iniziato a tossire e respirare a fatica.

“Dannazione, dov’è la signorina Kōtei!?” Alzando per un solo istante gli occhi dalla paziente, sembrò trasfigurato in un fauno ungherese. Gli occhi fiammeggianti, la fronte imperlata di sudore, i capelli, che di norma riportavano una precisissima riga laterale, arruffati e le dita di entrambe le mani rosse.

“L’ho mandata a chiamare. Sarà qui a momenti.”

“Me lo auguro. Venite qui e datemi una mano!” Ed Anna, che non era certo abituata a ricevere ordini da un uomo, per di più tanto giovane, eseguì non emettendo un fiato.

“Prendete quelle garze e comprimete la ferita. Io devo preparare il kit per la trasfusione e cercare di suturarle l'arteria.”

Il capo squadra si mosse rapida, ma prima che potesse essere in grado di eseguire, avvertì la cancellata che apriva quella sezione del blocco catapultandosi verso il corridoio.

Haruka, Michiru e l’agente che le stava accompagnando comparvero percorrendo velocemente il corridoio. Andandole incontro Annamariah ordinò alla subalterna e a Kaioh di andare ad aiutare il dottor Kiba.

“Haruka… E’ successa una cosa brutta.” Se ne uscì mentre la ragazza prendeva a guardare con aria interdetta le altre due entrare.

“Che succede?”

“C’è stata un’aggressione nella lavanderia. Cerca di stare calma, ma…”

Non seppe come, ma Haruka comprese al volo e scattando la testa in direzione della porta iniziò ad agitarsi. “Johanna!”

“Aspetta! - Parandosi a scudo cercò di spiegarle. - Non dare di matto e lascia lavorare il dottore. Johanna è stata pugnalata qualche centimetro al di sotto la clavicola sinistra. La ferita è profonda, ma Kōtei potrebbe…” Nulla! Con un movimento tanto fulmineo quanto violento, Haruka la travolse catapultandosi all’interno dell’infermeria.

Con il cuore nel cervello la bionda posò lo sguardo prima su Kiba, che con movimenti convulsi ma precisi, afferrava uno strano cilindro di vetro con due tubi ed una specie di stantuffo in sommità, poi su Michiru, che nel frattempo stava tirandosi su la manica destra del maglione, infine su Johanna, che ormai privata della giacca abbandonata in un angolo del pavimento, se ne stava con la camicia aperta e i palmi sovrapposti dell’altro secondino a schiacciarle il petto.

“Johanna!” Urlò raggiungendo il lettino con due salti e afferrandole la mano.

La sorella non ne avvertì subito la voce, ma poi, dopo qualche istante, aprendo leggermente gli occhi riuscì a guardarla e a sorriderle debolmente.

“Ru… ka…” Un filo sottilissimo che mandò l’altra nel panico.

“Hei.. Sono qui… Sono qui!” Sussurrò inginocchiandosi al suo fianco iniziando ad accarezzarle i capelli.

“Fa… malissimo…” Lamentò tra una boccata d'aria e l’altra.

“Ma che mi combini! Te l’avevo detto di stare attenta, ma tu niente!”

Jo non obbiettò. Non ne aveva la forza.

“Chi è stato?! - Le chiese per poi rifare la domanda a Shiry ferma accanto a loro. - Chi cazzo è stato!?”

“Tenoh…”

“E’ stata Tesla non è vero? Lo sapevo io che quella è matta da legare! Ma quanto è vero Iddio…”

“Tesla è morta! - La interruppe la graduata. - Colpita dalla compagna.”

Sgranandole contro due occhi stupiti la bionda ascoltò a grandi linee il resoconto della storia e quando il capo squadra ebbe finito, mettendo finalmente un po’ di forza nelle dita per stringere la mano della sorella, Johanna aggiunse lieve. “Ha cercato di proteggermi… Ruka, Mery ha il tuo Kés.”

“Ha usato quello per colpirti?!” Aveva senz’altro del grottesco; la slava che per chissà quale motivo si frappone tra lei e la compagna e quest’ultima che usa il suo coltello per fare del male a sua sorella.

“E’ stato… E’ stato lo zerbino. Ha ficcanasato nell'archivio e nel degli oggetti… - Un altro paio di colpi di tosse che diedero maggior slancio al dottore. - E’ Mery l’assassina della detenuta 0056. Ha ordito tutto questo per gelosia. Ruka… quella vuole te.”

“E mi avrà Johanna! Ti assicuro che mi avrà e non puoi immaginare quanto le farò male!”

“Non dire… stupidaggini e… ascoltami. Ho da dirti una cosa… importante… su nostro padre…”

“Basta parlare adesso! - Interrompendo quel delirio, il medico guardò Michiru pronta ad un paio di metri da loro. - Signorina Kōtei è proprio certa che il suo gruppo sanguigno sia quello riportato nella scheda?”

Vista la perdita di sangue che la parziale lacerazione alla succlavia stava provocando e l’incompatibilità tra i gruppi sanguigni delle sorelle Tenoh, il medico si era visto costretto a spulciare in fretta e furia le cartelle mediche di gran parte delle detenute riscontrando in Michiru Kōtei una potenziale donatrice.

“Si. Poco prima dello scoppio della guerra, la scuola che frequentavo rese obbligatorio il saperlo, nel caso … Sono zero. Ne sono certa dottore.” Rispose lei ricordando lo scrupolo fatalista degli adulti di allora.

“Bene, allora iniziamo.”

“Deve andare in ospedale!” Emettendo come un gemito, la bionda si maledisse perché lei aveva il gruppo B mentre la sorella quello A. In fabbrica, dove Jànos aveva chiesto a tutti i dipendenti di farsi le analisi per evitare che in caso d’infortunio non si fosse perso tempo all’arrivo dei soccorsi, le prendevano sempre in giro asserendo che Haruka avesse ereditato il sangue irruento del padre, mentre Johanna quello ponderato della madre.

Shiry cercò di spiegarle che avevano provato a chiamare un’ambulanza, ma erano isolati. “Tenoh, le linee telefoniche sono saltate circa mezz’ora fa. Siamo tagliati fuori dal mondo.”

“Allora la volete far morire dissanguata?!”

“E io avrei fatto chiamare la signorina Kōtei per cosa?! Avanti, scansatevi e lasciatemi lavorare.”

Spostandola di peso, Kiba l’allontanò di un passo iniziando a pulire e disinfettare la lacerazione. Un taglio di neanche un centimetro e mezzo che si vide costretto ad allargare un poco con la forza affilata di un bisturi e dove senza troppi scrupoli entrò con indice e pollice destri.

All’ovvio dolore di Johanna, Haruka gli inveì contro di usare almeno un poco di morfina.

“Ruka, il dottore sa quello che fa.” La voce di Michiru la raggiunse dolce, anche se la presa al suo braccio fu tutto l’opposto.

Uno sguardo determinato che riuscì a controllarle i nervi con una forza che riusciva ancora a stupirla e che n’era sicura, non avrebbe mai imparato a domare. “Michi…”

“Datele retta Haruka. Mi dispiace, ma vostra sorella ha la pressione troppo bassa per poter sopportare un’anestesia… Eccoti piccola bastarda. - Avvertendo sulla superficie dei polpastrelli la spinta del flusso ematico che stava uscendo dalla ferita, strinse la vena vedendone l’immediato risultato. - Preparatevi signorina Kōtei. Appena avrò finito di clampare partiremo con la trasfusione.”

“Va bene dottor Kiba.”

“Michiru sei sicura?”

“Certo Ruka. Sicurissima.”

Alzandosi e posandole la fronte sulla sua aggiunse un mormorato sarai stanca, che riuscì a sentire solo l'altra.

“Non più di te.”

"Ma io non devo donare del sangue... Non posso."

"Stai tranquilla..."

Sentendosi accarezzare una guancia, Haruka le passò una mano dietro la schiena attirandosela contro. Infischiandosene degli altri la baciò lievissima mormorandole il suo grazie più sincero.

“Ruka.” Chiamò Jo provando ad allungare il braccio destro verso di lei.

“Eccomi.” Afferrandole nuovamente la mano la bionda ritornò ad accovacciarsi al suo fianco.

“Io devo… dirti… Devo dirti una… cosa.”

“Non è il momento. Adesso riceverai un po’ di sangue e andrà meglio. Poi potrai ricominciare ad affliggermi con la tua logorroica parlantina. Ora pensa solo a risparmiare le energie. - La rassicurò notando con terrore quanto fosse spento l’acciaio dei suoi occhi. - Ma non mi fare scherzi del cazzo o puoi scommetterci il culo che ti strappo la testa a morsi. Hai capito?! Sono stata chiara Johanna!?”

Sempre tanto affettuosa la mia sorellina. Tranquilla… non intendo stirare le zampe ora che so chi è realmente il responsabile della morte di apa, disse convinta di aver dato forza alla sua voce. Invece fu soltanto un pensiero, seguito dalla consapevolezza di stare scivolando verso l’incoscienza con il ritmo del cuore a correrle improvvisamente nel petto.

“Johanna! Johanna!”

Afferrando uno dei due tubicini di gomma che terminavano con un grosso ago cavo, Kiba strappò il braccio della ragazza dalle mani di Haruka ed una volta individuata una vena, glielo piantò nella pelle senza troppi complimenti. Fece altrettanto dopo aver invitato Michiru a porgerli il suo. Suo malgrado le provocò dolore, ma come ogni donna giapponese che si rispetti, lei rimase impassibile. La bionda invece ingoiò a forza. Serrando la mascella guardò il sangue fuoriuscire dal corpo della compagna, risalire lentamente, gettarsi nel cilindro, per poi rinfilarsi nel secondo cannello ed avvicinarsi alla sorella. Una vita succhiata con vorace avidità per salvarne un’altra.

“Per favore capo Shiry, prendete una sedia per la signorina Kōtei. E voi, venite qui prego.- Ordinò all’altra guardia rimasta ferma accanto al lettino con ancora le garze sporche in mano. - Lo vedete questo stantuffo? Guardate bene come faccio, perché adesso sarete voi a pompare il sangue da un braccio all’altro.”

“E voi?!” Lo fulminò Haruka.

“Io devo ricucire. Mi sembra di avere solo due mani, ma se siete tanto brava potete pensarci voi Tenoh!” Mostrandole il filo da sutura l’azzittì borbottando male parole. La stessa cosa fece lei.

“La medicazione reggerà?” Chiese Shiry buttando un occhio alla pendola a muro che stava segnando l’arrivo della mezzanotte. Doveva far fronte anche all’arrivo dell’ÁHV.

“Si spera, ma deve essere operata. Se le linee telefoniche non saranno ripristinate a tormenta finita, manderemo qualcuno all’ospedale.”

Potrebbe durare ore, pensò la bionda sapendo che quando il vento di tramontana tirava giù dal cielo così tanta neve, Budapest poteva ritrovarsi isolata per giorni.

“E se ci andasse qualcuno adesso?!”

“No Tenoh, è troppo pericoloso. Se avessimo un mezzo di trasporto… forse.” Pensando al piccolo mezzo blindato con il quale la Polizia Segreta a breve avrebbe preso in consegna le sorelle Aino, Shiry non si rese conto di aver acceso in Haruka un’idea.

“Il furgoncino! - Alzandosi da terra serrò il pugno con disperata speranza. - E’ quasi pronto! Mi manca poco. Annamariah… potremmo utilizzare quello!”

“Intendi il rottame che sta fermo nella rimessa accanto al vano caldaia?”

“Si! Il pianale è spazioso.”

Al capo squadra la Meioh aveva detto che Tenoh si stava prendendo la briga di smontare e rimontare pezzo per pezzo quel ferro prebellico, ma in tutta franchezza non avrebbe scommesso un solo giorno di paga sulla riuscita di quella follia.

“Credi davvero di poterlo mettere in moto?”

Muovendo frettolosamente la zazzera Haruka trattenne il fiato e quando l’altra ammise che meglio che restar ferma a non far nulla avrebbe potuto tentare, si sentì finalmente utile a qualcosa.

“Cos’abbiamo da perdere?”

“Grazie capo.”

“Aspetta! Non andrai da sola!”

“Non siate sciocca, non ho certo intenzione d'evadere!”

“Non è per questo Haruka! Mery è ancora in giro ed è armata. - Disse avvicinandosi. - Ti coprirò le spalle, almeno fino a quando non saremo arrivate alla rimessa.”

La bionda guardò Michiru, Johanna e Kiba.

Uno sguardo d’amore per la prima.

Uno sguardo d’angoscia per la seconda.

Uno sguardo che fu tutto un programma per il terzo.

Come a volergli intimare di stare attento ad ogni passo successivo, si trattenne su di lui per più tempo, fino a quando anche gli occhi del medico non la raggiunsero, poi scattando come una furia, abbandonò la stanza inforcando la porta seguita dal capo squadra.

 

 

NOTE: Ciau. Ho tagliato anche qui, perché devono accadere ancora delle cosucce abbastanza movimentate. Stiamo andando verso la terza ed ultima parte di questa ff.

Allora; non so se qualcuno ricorderà che all’inizio del XII capitolo c’è un breve dialogo tra Ferenc Aino e uno dei suoi collaboratori in fuga verso il confine, dove il secondo rassicura un preoccupatissimo padre sulla sorte delle sue figlie ricordandogli che alcune guardie all’interno della casa della luce sono delle loro collaboratrici, ebbene, una di queste è il capo squadra Shiry, che adesso si trova tra l’incudine ed il martello. Usa e Mina stanno per essere prelevate e lei deve inventarsi qualcosa. E qualcosa si inventerà, vedrete.

Nel frattempo ho pensato di riabilitare parzialmente Tesla, la quale da possibile o probabile carnefice, si è dimostrata anche lei una vittima. In realtà di tutta la storia del’omicidio, dell’agguato a Johanna, dei macabri ricordini lasciati in giro per la struttura, del cacciavite, non ne ha mai saputo niente. L’unica sua colpa è stata quella di non voler vedere cosa stava montando dentro la mente contorta ed un tantino schizzata di Mery, che ormai è armata e continua a girare per la struttura immersa nella semioscurità della tormenta.

Bell’ambientino.

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXII

 

 

La furia del Turul di Pest

 

 

Haruka sembrava volare, i suoi piedi incollati al pavimento bianco e nero, il fiato cadenzato anche se pesante. Correva come il vento, come un dio alato, come il suo animale guida, il falco, che dalla nascita la seguiva e la proteggeva. Correva lungo i corridoi che dall’infermeria portavano alla rimessa. Correva spinta dall’angoscia, dalla necessità di dover far presto. Correva e ad ogni cancellata chiusa ci si abbatteva contro come un masso, sferrando calci ai ferri nell’attesa che una troppo lenta Shiry le aprisse per permetterle di passare. E Annamariah cercava di starle dietro, di mantenerne il passo, giudicando quell’ovvia frenesia come la disperazione di una sorella che sta rischiando di perderne un’altra.

“Cazzo… Muovetevi!” Urlò serrando le dita all’ennesimo sbarramento.

“Eccomi.” Ingoiando bocconi enormi d'aria comunque incapaci di soddisfare la necessità d’ossigeno dei suoi poveri polmoni, la guardia infilò la grossa chiave nella toppa forzando un po’ la mano.

“Tenoh, devo passare prima in armeria.”

“E dove sarebbe?”

“Al primo piano, vicino le stanze del personale.”

“State scherzando?! Allungheremo e Johanna non ha tempo!”

“Lo so, ma devo armare le mie ragazze.” Spiegò lasciando scorrere la cancellata sulle guide.

“Per un coltellino? Ma andiamo! - E ripresero a correre. - Per quella demente basterà sbattergli una manganellata sul muso.”

“Non credere. Non c’è da fidarsi di una che ha appena ammazzato la sua donna e che… - Riuscendo ad arpionarle il braccio la costrinse a fermarsi un attimo. - Aspetta! Haruka guarda le luci. Se salta la corrente dovrò dichiarare lo stato d’emergenza e non voglio che la mia squadra debba rotrovarsi al buio senza la possibilità di potersi difendersi in caso di bisogno.”

La bionda sembrò pensarci su una frazione di secondo, poi guardandola freddamente alzò le spalle facendo una smorfia. “Non me ne frega uno stramaledettissimo cazzo. Io vado alla rimessa… Con o senza di voi.”

Deglutendo l’altra tolse lentamente la mano da una tensione muscolare che aveva portato il bicipite sinistro di Haruka a gonfiarsi e tremare. Lo fece con comprensione e alla luce della situazione parallela venutasi a creare con l’arrivo della Polizia Segreta e del piano che da li a breve avrebbe messo in scena, decise di lasciarla andare.

“Va bene, ma cerca di stare attenta.”

“Datemi la chiave dell’armadio degli attrezzi, se non volete che lo apra a pedate.”

Le scaffalature erano piene di potenziali armi, ma non poteva certo finire di aggiustare quel motore con la forza del pensiero, così, anche se di malavoglia, la guardia la sfilò dal grande anello che portava sempre con se.

“Occhio Tenoh. Mi fido di te.”

“Se avrò la fortuna di vedermi quella porca davanti, vi assicuro che per fargliela pagare non mi serviranno oggetti appuntiti, ma solo questo.” Mostrandole il pugno chiuso lo rilasciò attendendo la chiave con il palmo rivolto all’insù.

“Haruka…” Ma Shiry la vide scattar via e sospirando fece altrettanto imboccando il vano scale.

 

 

Setsuna Meioh era una gran bella donna, alta, formosa, con la carnagione scura. I capelli corvini, lisci e lunghissimi, le labbra carnose, dove non mancava mai un filo di rossetto, gli occhi profondi di chi sa di avere in un particolare colore la forza di sguardi intensi. Si, Setsuna Meioh era una gran bella donna, che in quella sera speciale aveva addirittura smesso il suo abituale completo scuro per valorizzare le sue morbide sinuosità dentro un vestito da ballo. Eppure in quel preciso momento aveva davanti tre uomini talmente irritati da risultare immuni a qualsiasi forma di coercizione femminile.

Ma che maschi siete?! Si domandò amara terminando di versar loro l’ennesimo bicchierino di liquore.

Agenti; due della Polizia Segreta ed uno di quella Tributaria, insofferenti, resi ancora più smaniosi da compiti che per causa di forza maggiore non stavano riuscendo a svolgere con la solita velocità. La tormenta stava bloccando tutta la città. Persino la grande sfilata dei carri era stata interrotta per ovvi motivi di ordine pubblico. Le strade si erano fatte deserte già all’ora di cena ed ora, dopo quasi tre ore di una burrasca nevosa come non se ne vedevano da anni, erano ricoperte da uno spesso manto bianco.

Dilatando le narici la direttrice guardò di soppiatto l’agente Hino ferma accanto alla porta d’ingresso. Era riuscita a rientrare dal suo distaccamento proprio quando quei tre stavano attendendo in guardiania di essere ricevuti. Togliendosi cappotto e berretto completamente inzuppati, la ragazza li aveva guardati in modo strano, perché la loro presenza ad un’ora tanto insolita come quella l'aveva incuriosita, poi riconoscendone gli abiti scuri, i cappelli dalle rigide tese sempre calate sugli occhi e l’immancabile fare guardingo, aveva tremato. Agenti dell’ÁHV. Forti della loro posizione non si erano neanche scomodati a darle un cenno di saluto, anzi lagnandosi avevano iniziato a dare in escandescenza domandando al secondino di guardia al portone il perché in una prigione stesse andando in scena una festa e la direttrice stessa vi stesse prendendo parte. L’unico che a Rei era sembrato apparentemente più umano e meno tracotante, era stato il rappresentante della tributaria, che porgendole la mano si era presentato.

"Anche lei qui per il gran ballo?" Ci aveva scherzato su sorridendole.

"Pura casualità collega. Agente speciale Rei Hino."

“Agente Thöryn.” E lei aveva capito in un attimo che forse tra i tre quello era il più pericoloso.

La ragazza conosceva quell’uomo, ma non di persona, ma per sentito dire. La nomea che lo precedeva non era per niente rassicurante. Uno stato di servizio eccellente in una scorza gelidamente pragmatica. Di lui sapeva che l’aspetto fisico quasi albino ricalcava per intero un’anima glaciale. Misogino, amante della bella vita, narcisista, preciso sul lavoro e spietato con coloro che reputava suoi nemici. I suoi metodi di persuasione erano conosciuti per tutti i distretti, tanto da essere spesso accostato all’ÁHV pur non facendone parte.

“Piacere.” Aveva risposto non inquadrando la situazione. Perché si trovava li, in quel momento, assieme a due colleghi di un’altra sezione?

“Potreste essere tanto gentile da condurci dalla direttrice Meioh? Sono venti minuti che aspettiamo.”

Così aveva fatto e Setsuna, alla quale avevano appena comunicato che una detenuta stava sputando sangue in lavanderia, se li era visti arrivare di gran carriera. Con ancora l’abito da sera calzato addosso, il trucco, le scarpe con il tacco alto, aveva sorriso loro cercando di dissimulare il panico che l’era esploso dentro, capendo dai loro sguardi torvi, di stare venendo disapprovata e perché no, mal giudicata.

Tornando a guardare il denso liquido carminio, Setsuna ascoltò un’aperta critica fioccarle addosso senza neanche troppo preavviso.

“Una festa da ballo in una struttura di correzione?! Mi sembra quanto meno curioso direttrice Meioh. - Il più alto in grado dei tre, si alzò abbandonando sul bracciolo della poltrona i guanti di pelle nera che fino a quel momento aveva tenuto in mano. - E non vorrei che le signorine che stiamo aspettando stiano facendo ritardo proprio in virtù di questa particolarissima occasione.” Disse ironico seguito dal collega.

“Presto la neve coprirà totalmente le ruote del furgone e per noi sarà impossibile tornare al comando. Direttrice, vorremmo che voi e le vostre agenti foste un tantino meno frivole ed un po’ più celeri.”

Uno, due, tre e voltandosi languida, la donna sfornò un sorriso accattivante. “Vi dispiacerebbe proprio tanto passare la notte qui da noi?” E porse loro i bicchieri.

All’unisono rifiutarono mentre quello in piedi prendeva ad aggirare la scrivania per piazzarsi davanti al vetro della finestra quasi del tutto offuscato.

“Non è questo Dottoressa, ma credo che abbiate già il vostro bel da fare. - Indicando con un dito il lampadario proseguì quasi divertito. - L’intervallo fra un calo di tensione e l’altro si sta facendo sempre più ravvicinato e presto rimarrete pressoché al buio. Non prendetevela a male, ma non è una circostanza che vorremmo affrontare.”

Punzecchiata sul vivo lei si voltò nuovamente verso il mobiletto ritrovandosi a sbattere i due bicchieri sul piano. “Leggo una critica alla mia gestione, signore!”

“Be Direttrice Meioh, mettetela così; sappiamo che nonostante l’ausilio di forze esterne come l’agente Hino, non siete ancora riuscita a venire a capo di un’aggressione mortale, perciò con tutto il rispetto, non vorremmo essere invischiati in faccende che non ci riguardano. Se la coscienza vi segue, potete organizzare tutte le feste danzanti che volete, ma per quanto ci riguarda, questa sera siamo venuti qui per prelevare due detenute e nulla più.”

“La stessa cosa vale per me. Gradirei che la signorina Kaioh si sbrigasse così che io la possa accompagnare da suo padre.” Concluse Thöryn.

Già, l’ordine di scarcerazione che quell'agente le aveva sventolato davanti agli occhi e al quale lei non credeva affatto. In anni di carriera Setsuna non aveva mai conosciuto tanta solerzia nei confronti di una detenuta, anche se ricca come Michiru Kaioh. Portarle un ordine di scarcerazione così a tarda sera, in un giorno festivo, insolitamente accompagnato da un agente di quel calibro e non dal consueto e più formale telegramma, aveva un non so che di sospetto.

“Agente, rimango interdetta dal sapere che all’interno della Polizia Tributaria ci sia tanta premura verso una detenuta.”

Stirando le labbra ed alzando le spalle ancora cinte dal cappotto, il poliziotto ammise che per un personaggio tanto importante era quasi dovuto. “Per la figlia del banchiere Alexander Kaioh questo e altro.” E la vistosa cicatrice che gli solcava il viso all’altezza della guancia si mosse all’insù seguendo le labbra.

Quasi dovuto un cavolo, pensò la donna tornando a guardare Hino stranita anche più di lei. “Molto bene. Allora sono sicura che se dovessi interpellare il segretario del Ministro di Grazia e Giustizia, questi mi confermerebbe le vostre lodevole intenzioni. Corretto?”

Sostenendone lo sguardo chiarissimo attese una risposta che non le piacque affatto.

“Fate pure signorina, anche se devo avvertirvi che nonostante il maltempo, a quest’ora ogni funzionario che si rispetti starà partecipando alla grande festa per il venerdì grasso che annualmente va in scena nelle sale del Parlamento.”

Canaglia, ve la siete apparecchiata proprio bene… he?!

“Non voglio certo discutere le direttive del Ministero. Vi chiedo solo di portare un altro po’ di pazienza. Spero capiate quanto le questioni interne all’ÁHV abbia la precedenza su tutto il resto, anche sulla gentilezza dovuta ad un facoltoso banchiere. Manderò a chiamare la signorina Kaioh non appena le signorine Aino saranno consegnate ai vostri colleghi.” Un affondo per lei.

Facendo una smorfia grottesca proprio mentre qualcuno bussava alla porta, Thöryn le indicò l’anta scostandosi per lasciarla passare. “Spero solo di non dover attendere tutta la notte …signorina.” Un affondo per lui.

Chiamami Direttrice, imbecille! Smorzando la voglia di piantargli quattro nocche in bocca, Setsuna andò ad aprire e quando gli occhi di Annamariah Shiry le si inchiodarono addosso, capì che la situazione di per se già abbastanza difficile, si era ulteriormente complicata.

“Dove sono le detenute che devono essere trasferite?” Scandendo le parole perché i presenti nella stanza potessero sentire, sperò che l’altra afferrasse la difficoltà del momento.

E il caposquadra lo fece. “Direttrice… dovrei parlarvi un attimo.”

“Delle signorine Aino?”

“No. Loro saranno qui a breve. Il generatore ausiliario…, prego.” Facendole cenno di seguirla riuscì a portarla nel corridoio.

“Rei cortesemente, fate voi gli onori di casa. Signori… - Lasciando l’anta aperta per non destare sospetti, le due si fermarono accanto ad una finestra del corridoio sufficientemente lontane per poter parlare tranquillamente. - Allora Anna, qual è la situazione?”

Emettendo una specie di grugnito, Shiry le snocciolò in pochi secondi il dramma consumatosi in una manciata di minuti nel vano lavanderia. Mery, il coltello, la morte di Tesla, il ferimento di Johanna.

“Johanna?! Come sta ora?”

“Non bene. Dovrebbe immediatamente essere portata all’ospedale. Ho lasciato Haruka libera di provare a finire di aggiustare il furgoncino, ma dubito che ci riesca in breve tempo. Magari loro…” Un impercettibile movimento del mento verso l’ufficio.

“Loro chi?! Non possiamo certo chiedere alla Polizia Segreta di portare all’ospedale un nostro agente che poi agente non è! Anzi, che non soltanto ha una parentela di primo grado con una detenuta, ma è anche la figlia di un povero Cristo torturato dalla stessa ÁHV perché tacciato di frode ai danni dello Stato.”

Abbassando la testa Shiry iniziò a strofinarsi la fronte.

“Cercate di mantenere la calma. Conosco la scorza di quella ragazza e la testardaggine della sorella e sono sicura che ce la faranno. Johanna terrà duro ed Haruka aggiusterà quel fottuto motore.”

“Speriamo…”

“Non abbiamo più tempo ne scelta. Anna… - afferrandole una spalla la vide rialzare lo sguardo. - …dobbiamo fare evadere le sorelle Aino! Nonostante ci sia una tormenta e sia notte.”

“Sono già pronte nel locale caldaia.”

Non nascondendo una certa sorpresa, Setsuna se la guardò compiaciuta. In anni di lavoro fianco a fianco troppe volte aveva sottovalutato l’arguzia di quella donna ed ora non poteva che fare un mea culpa e ringraziare il cielo per averla accanto.

“Sono sole?”

“No, c’è Julie con loro.”

“Bene… So di chiedervi tanto, ma non possiamo fare altrimenti e mi dispiace che siate proprio voi due a rischiare maggiormente.”

“Direttrice non si faccia un’idea distorta della cosa. Julie ed io lo facciamo per il Generale, non per spirito eroico. Siamo entrambe madri e non ci alletta affatto il pensare che potremmo finirci noi alla casa della giustizia.”

Setsuna accettò lo stesso quell’azione pazza e coraggiosa. “E’ comunque lodevole, Anna. Ma ora abbiamo un’altro problema… - La luce cedette e per un paio di secondi tutto si ammantò di grigio. - Ecco, anche questa. Quando il generatore ausiliario entrerà in funzione, sappiamo che non tutti i blocchi saranno egualmente illuminati, perciò voglio che ogni guardia sia armata. Abbiamo sempre un’assassina ancora a piede libero!”

“Ho già dato l’ordine di distribuire i fucili e ho portato questa per voi.” Estraendo dal cinturone una piccola, ma letale Beretta 418, gliela porse senza farsi vedere.

“Grazie. Spero non mi serva.” Ratta si tolse lo scialle che portava sulle spalle nascondendola tra le spire del lino colorato.

“E’ tutto?” Chiese la capo squadra.

“Purtroppo no! Kaioh. Qui c’è un agente della Tributaria con un mandato di scarcerazione ed io non sono assolutamente convinta che sia vero.”

Anche Anna sembrò diffidente e vedendo con la coda dell’occhio un certo movimento nella stanza, cercò di velocizzare la conversazione prima di attirare sospetti. “Non è arrivata nessuna comunicazione ufficiale?”

“No, ed è per questo che la cosa mi puzza. Da qualche anno a questa parte non è raro che i giovani rampolli della Buda bene spariscano improvvisamente per saltar fuori dopo qualche presunta donazione elargita della famiglia a qualche alta carica dello Stato. E chi meglio di un facoltoso banchiere come Alexander Kaioh potrebbe essere raggiunto da un riscatto?! La ragazza è in cella?”

“No, in infermeria. Ha un gruppo sanguigno compatibile con quello di Johanna.”

Setsuna si accese d’entusiasmo, perché almeno per Michiru aveva una scusa per temporeggiare. “Una ragazza che ha appena donato il sangue non può certo muoversi andandosene in giro per la città! Riuscirò a non farla salire nella macchina di quell’uomo almeno fino a domani mattina. Non appena riaprirà il Ministero, chiamerò un mio amico per avere una conferma sulla sua scarcerazione.”

“Va bene, allora io vado.”

“Anna. - Sul bel viso della Direttrice comparve tutta l’ansia del mondo. - Non c’è bisogno che ve lo dica, ma state attente. Un’evasione porta già di per se un gran casino, quella delle figlie di Ferenc Aino ci scatenerà contro tutto il Regime. Per quanto possibile cercate di rimanerne fuori.”

Scuotendo leggera la testa bruna, il capo delle guardie la salutò lasciandola rientrare nella sua personalissima arena.

“Bene signori, scusate l’intermezzo, ma purtroppo non ho buone nuove, soprattutto per voi agente Thöryn…” Disse seria richiudendosi la porta alle spalle.

 

 

Era strano, ma da quando Haruka le aveva confessato chi fosse, avvertiva uno senso d’affetto per lei, tanto che quando il dottor Kiba le aveva chiesto di prestarsi per la donazione di sangue, Michiru non aveva accettato solo per la sua bionda, o per bontà d’animo, ma anche per la stessa Johanna. Non si somigliavano molto nell’aspetto, a parte il taglio degli occhi e alcuni tratti somatici del viso, ma i modi di fare di quella ragazzetta sempre attenta, erano tali e quali a quelli del suo tornado biondo.

Una volta che il medico decretò conclusa la trasfusione con un cerotto a testa, Michiru la vide riaprire gli occhi finalmente un po’ più vigile.

“Come ti senti?” Chiese poggiando entrambi i gomiti sul sottile materasso del lettino.

“Mi ronzano le orecchie e la testa… gira tutto.”

“E’ normale. Avete perso una quantità esagerata di sangue. - Disse Kiba dando loro le spalle iniziando a sfilarsi il cravattino dal collo. - Vado a cambiarmi. Cercate di non muovervi. Non è detto che la clampatura regga.”

“Clampatura...? Cos’è successo!?”

“Non ricordi? Sei stata ferita da Mery. Ti ha pugnalata al petto quando eravate in lavanderia.” Disse Michiru accarezzandole il viso.

Cercando di sistemarsi meglio sulla schiena, Johanna avvertì un immediato dolore sotto la clavicola sinistra. “O cacchio…. - E perse per un attimo il fiato. - Brutta disgraziata! Ha fatto finta di stare male per dividermi da Julie ed aggredirmi.”

“Già e non è tutto. Ha colpito a morte Tesla. Molto probabilmente un raptus. Non so.”

L'altra la guardò come se non avesse capito bene, poi le tornarono in mente sprazzi di conversazioni afferrate qua e la prima d'iniziare a perdere conoscenza.

“Ricordo poco. Mery voleva usarmi come ostaggio, ma la slava ha cercato in tutti i modi di farla desistere. Improvvisamente mi sono sentita afferrata e spinta a terra. Poi una specie di gemito. Il resto è un’accozzaglia d’immagini distorte. Dov’è ora quella pazza?”

“E’ scappata prima che ti venissero prestati i primi soccorsi. - Muovendo in aria la destra Kaioh fece una faccia che era tutto un programma. - La stanno cercando.”

“E Haruka?”

“Sta provando a mettere in moto il furgone della prigione così che si possa portarti in ospedale. Le linee telefoniche sono fuori uso e non è possibile chiamare un’ambulanza.”

Johanna sembrò non prestarle ascolto. Nella testa un lampo. “Mery ha un coltello… Michiru è quello che Haruka aveva con se al momento dell’arresto!”

“Si, ma tranquilla, Shiry è con lei e le altre guardie la prenderanno prima che possa fare altro male. Ruka non corre alcun pericolo.”

Scorgendo una collega dritta in piedi accanto agli armadietti dei medicinali, Johanna fece cenno all’altra di avvicinarsi per poterle parlare ad un orecchio. “Quello è un Kés e la sua lama è sacra. Usandolo Mary ha fatto un affronto alla nostra famiglia.”

Tirando il busto indietro, Michiru aggrottò la fronte non capendo. Anche se ungherese da parte di padre, c’erano tante cose che non conosceva di quella cultura. Visioni fortemente arcaiche che Alexander non le aveva mai voluto insegnare. La parte più oscura della loro splendida cultura.

“Non ti seguo Johanna.”

“Michiru…, Haruka è mia sorella.”

“Lo so. Me l’ha detto. Ma cosa c’entra con…”

“Non gliela lascerà passare liscia.”

Scuotendo la testa le afferrò la mano. “Johanna… Cosa devo fare?”

“Fermala…, ferma Haruka prima che sia troppo tardi. - Inspirò esageratamente sentendo le palpebre pesanti. - Ti prego… KAIOH.” Esausta iniziò a sprofondare nel sonno.

“Come? Come mi hai chiamata?”

“Signorina Kōtei, adesso basta!”

Uscendo fuori da un separé aperto a nascondere un angolo dell’infermeria, Kiba la guardò con rimprovero non potendo certo immaginare quello che di gravissimo le due si erano appena dette.

“L’agente Horvàth deve risparmiare le forze. Lasciatela riposare e anche voi... - Con un cenno richiamò l’attenzione dell’altro secondino. - … tornate nella vostra cella e stendetevi un po’. Mi assicurerò che vi portino qualcosa di sostanzioso da mangiare.”

“Non posso! Devo parlare con Haruka, dirle che Johanna sta meglio.” Ma si sentì afferrata per un braccio dalla guardia.

“Avvertirò io Tenoh, ma ora voi tornate in cella.” Ordinò l'altra cercando un tatto che dopo tutto quello che era accaduto proprio non sentiva di avere. In quella stanza c’erano puzza di sangue e disinfettante e non vedeva l’ora di riportare quella ragazza al blocco d’appartenenza.

Sentendo resistenza iniziò a strattonarla. “Su coraggio Kōtei, avete sentito il dottore no? Andiamo.”

Abbandonando le dita di una Johanna ormai completamente assente, Michiru si lasciò condurre fuori.

Iniziarono così a tornare indietrompercorrendo velocemente il Blocco C. Guardandosi intorno Michiru riconobbe le svolte che portavano ai locali tecnici e da li, alla rimessa. Una volta uscite non sarebbe più potuta rientrare senza permesso. La luce era bassissima, il corridoio deserto e lei voleva, doveva raggiungere Haruka. Allora agì.

Rallentando quanto basta per portarsi leggermente dietro all'altra donna, si scusò prima di sferrarle con il taglio della mano un micidiale shuto alla base sinistra del collo. Pronta a sostenere la guardia tramortita, l’adagiò a terra con le spalle rivolte al muro.

“Mi dispiace tanto, ma ora non posso proprio darvi retta.” Ed anche se la testa le girava un poco, scattò ugualmente verso i locali tecnici.

 

 

Minako abbracciò Usagi mentre sedute su un paio di casse, aspettavano l’arrivo del capo squadra. Strappate quasi con forza dalla festa per essere ricondotte nella loro cella con l’ordine di cambiarsi in favore di abiti più consoni ad un viaggio che ad un ballo, erano ora immerse in un silenzio rotto solo dal borbottio della caldaia e dal vento che sbatteva sul grigliato di sicurezza delle finestrature a nastro. Avevano perfettamente capito che era accaduto qualcosa, che dovevano essere trasferite, ma Julie, il vice di Annamariah, ancora non si era degnata di spiegar loro la situazione. Muta come una statua di cera, la donna se ne stava appoggiata alla porta, in ascolto, come un soldato sul mastio di una roccaforte. Armata di un fucile a ripetizione adagiato tra le braccia conserte, aveva lo sguardo scuro e il viso totalmente inespressivo.

“Si può sapere cos’è successo? Perché siamo qui e perché siete armata?” Sbottò Minako.

“Vi ho già detto che dovete attendere. Le spiegazioni arriveranno non appena Shiry sarà qui.”

“E’ un nostro diritto almeno il capire se siamo in pericolo o meno.”

“Visto questo… non credo che qualcuno possa farvi del male.” Mostrando e dando due colpetti l’arma, stirò fieramente le labbra non facendo altro che agitare la biondina ancora di più.

“E se ci volessero trasferire? Magari proprio nella sede della Polizia Segreta?” Chiese sommessamente Usagi spalancando sulla sorella i suoi grandi occhi azzurri.

“Non dire sciocchezze amore e poi dove vuoi che ci portino con questa tormenta?”

“Si, ma l’ÁHV non viene ad interrogarci da giorni e lo sai che quelli non mollano tanto facilmente. Il fatto di non avergli dato informazioni, non vuol dire che abbiano deciso di lasciarci in pace.”

“E’ così?!” Scattò l’altra alzandosi verso la guardia.

“Vi ho detto che appena…” Tendendo l’orecchio, si mise il fucile in spalla aprendo leggermente la porta di metallo.

“Grazie al cielo.” Spalancando l’anta la donna accolse il superiore con un sorriso.

“Svelta richiudi. - Ordinò Shiry guardandosi le spalle. - Le ragazze stanno bene? Le hai informate?”

“No!” Intervenne Minako guardando entrambe a brutto muso.

“Ho preferito aspettare che ci fossi anche tu.”

“Poco male. Signorine, la Polizia Segreta è venuta a prelevarvi per portarvi alla casa della giustizia.” Annunciò quasi stentorea e Usagi storcendo la bocca, seguì la sorella in piedi sbattendo le braccia lungo i fianchi.

“Ecco… Lo sapevo!” Se ne uscì mentre la maggiore prendeva con meno filosofia la notizia iniziando ad inveire.

“Siamo letteralmente fottute Usa!”

“State calme, non è affatto detto. - Scendendo i gradini, il capo squadra prese i cappotti abbandonati sul finire del corrimano porgendoglieli. - Ma dobbiamo muoverci. Ascoltate con attenzione perché non abbiamo tempo. Julie ed io siamo al servizio di vostro padre. Qualche ora dopo la vostra cattura, abbiamo ricevuto l’ordine che se foste state in pericolo vi avremmo fatte evadere. Ora, lo so che fuori è brutta, ma non avete altra scelta. Apriremo il cancello di servizio quanto basta per farvi uscire e voi non dovrete far altro che cercare di raggiungere la parte settentrionale del distretto, dove c’è la scuola di Agraria. Li c'è sempre un nostro agente pronto alla bisogna. Avrà una macchina e vi porterà fuori città.”

Prendendo ed infilandosi i cappotti di lana grigia, le due la fissarono quasi inebetite.

“Ma avete capito?!” Chiese lei scuotendo Mina per un braccio.

“Allora nostro padre è ancora in patria!”

“No, è al sicuro sul suolo cecoslovacco, ma non sappiamo di preciso dove. Lo sapete come funziona; nessuno di noi deve mai avere la completezza delle informazioni. L’autista vi accompagnerà in una località sicura, poi quando le acque si saranno calmate, espatrierete e potrete riabbracciarlo. - Tornando sulle scale sorrise alla collega rimasta a guardia della porta. -Sbrighiamoci però. Quei bravi signori non aspetteranno per sempre il vostro arrivo.”

Riaprendo l’anta Julie tornò ad imbracciare il fucile controllando il corridoio.

“Non ci avete detto del perché siete armate.” Chiese Minako sbirciando la pistola che Shiry portava incastrata nel cinturone di servizio.

“Abbiamo ancora un’assassina a piede libero.”

“Chi?” La curiosità infantile completamente fuori luogo della piccola Usagi le fece quasi tenerezza.

“Mery.”

“Lo dicevo io che quella era matta come un cavallo.”

Iniziando a camminare nella penombra arrivarono poco dopo al bivio che portava da una parte al centro di smistamento e dall’altra all’uscita, quella accanto alla rimessa.

“Julie, adesso torna dalle altre, se tutto andrà come spero, ti raggiungerò dopo aver richiuso il cancello.”

“Vuoi andare da sola?”

“Sei il mio vice e sai meglio di me che almeno una delle due deve essere sempre presente nella struttura. Coraggio, non ci metterò molto.” La esortò con una pacca sulla spalla.

“Stai attenta.”

Annamariah la guardò allontanarsi e con un gesto del capo spronò le ragazze a seguirla verso l’estero, verso quel mostro bianco fatto di turbini che stava montando potenza nella notte di Budapest non sapendo che dietro ad una delle porte che si affacciavano sul corridoio, orecchie tese le avevano ascoltate.

 

 

Colpendo con violenza la pelle del volante, Haruka cercò di ricacciare indietro le lacrime. Era disperata e più cercava di stare calma, di riflettere e più le sembrava di stare perdendo tempo prezioso che sapeva di non avere.

Non essendo nella sua natura l’arrendersi, provò l’ennesima volta a girare la chiave forzando la frizione con il piede sinistro e dando gas con il destro. Un forte sussulto assorbito dalle molle cigolanti sotto il sedile, un paio di scossoni e nulle più. L’immobilità totale. Emettendo un grido rabbioso piantò la fronte su uno dei tre raggi metallici del manubrio iniziando a lacrimare.

“Dannato bastardo. Vaffanculo!” Ed un nuovo colpo con il palmo ormai arrossato.

Era imbestialita, per tutto. L’inettitudine che stava dimostrando come meccanico la stava destabilizzando, perché conosceva le sue capacità e non si sarebbe mai aspettata un fallimento. Mai! Era imbestialita perché sapeva che quella poteva essere l’unica speranza per salvare Johanna. Era imbestialita perché il suo Kès era servito per far male ad una delle due donne che in quel momento sentiva di amare più di tutto. Era imbestialita perché i suoi occhi stavano nuovamente diventando liquidi nonostante il giuramento fatto alla morte di suo padre.

Digrignando i denti si aggrappò al volante rialzando la testa. “No! Haruka Tenoh non piange, agisce cazzo!”

Passandosi con stizza il dorso della destra sulle guance respirò l’odore di Michiru che ancora aveva addosso. Non era neanche un’ora che si erano lasciate e già le mancava da morire.

Scendendo dalla cabina tornò al cofano lasciato aperto. Arpionando il bordo iniziò ad esaminare quel motore che conosceva ormai pezzo per pezzo. L’aveva amato, coccolato, servito, nutrito con grasso ed attenzioni e ora lui la tradiva.

“Ragiona Haruka. Cosa ti sta sfuggendo?!”

Ti sfugge che sei una mezza sega, ecco cosa ti sfugge. Quello è un motore, non una macchina per lo stampo dei rivetti, le avrebbe detto Johanna girandole lentamente dietro le spalle con fare strafottente. Le mani serrate ai reni e quel sorrisetto imbecille che la bionda non sopportava perché marcatamente ironico e pronto a sottolineare ogni suo fallimento.

“Zitta tu che di un camion non sapresti riconoscere una candela da un pistone!” Disse rendendosi conto di aver parlato al nulla.

O Jo… Abbassando la testa sentì di stare nuovamente per cedere quando una voce benedetta le solleticò l’udito.

“Ruka…”

Uscendo fuori dall’ombra del cofano, Haruka s’illuminò tutta. Michiru se ne stava ferma sulla porta. Le braccia lungo i fianchi, la postura eretta, un leggero fiatone ad alzarle ed abbassarle lo sterno, ma con una strana smorfia sul volto pallidissimo.

Nel vederla la bionda trattenne il respiro ipotizzando l’irreparabile. “Michi… Johanna?”

“E’ stabile. - La rassicurò facendo un passo in avanti. - Ruka… Stai calma.”

Interdetta l’altra la imitò scuotendo la testa. “Michi che hai? Non capisco.”

Poi un suono le colpì le orecchie. Un clak che conosceva molto bene. E capì il perché di quel viso teso.

Strisciando da dietro il corpo di Kaioh, Mery le piazzò la lama del coltello ad un paio di centimetri dalla gola. “Bene, bene, bene. Ecco qui anche la nostra bella bionda.”

Haruka non si mosse, dilatò semplicemente le pupille avvertendo nitidamente un’esplosione di calore all’altezza della fronte. Poi un fuoco dentro che di rimando le fece serrare i pugni fino al bianco delle nocche.

“Mi stavo facendo gli affari miei quando ho sentito un improvviso vai e vieni di gente. In ultimo... questo fiore tutto solo soletto ...”

Spinta ai reni per un paio di passi, Michiru si sentì stringere l’avambraccio sinistro al collo. “Se Tesla ci scoprisse sono sicura che non la prenderebbe bene. Dobbiamo mantenere il segreto. Capito Tenoh?!” Annusando i capelli della sua preda fremette sommessamente.

“Cosa stai farfugliando? Lasciami Mery.” Ordinò Michiru afferrandole la manica.

La donna continuò a guardare il verde degli occhi di Haruka senza però vederli veramente, come se stesse galleggiando in una sorta di trance. “Perché Tesla continua a stravedere per te? Che cos’hai che l’attira tanto?”

“Mery… lasciami.”

“Lei ha bisogno di avere accanto una donna che si faccia dominare e tu bionda, tu sei come un turbine di vento che non si può ingabbiare.”

Ascoltandola parlare al presente, come se gli avvenimenti delle ultime ore non fossero mai accaduti, Michiru iniziò a capire che forse quella bava di ragno che stava tenendo in piedi la sua stabilità, si era definitivamente sfilacciata. Così provò a giocare d’astuzia. Avrebbe potuto liberarsi facilmente, ma qualcosa nello sguardo di Haruka le impediva di farlo, le urlava di prendere tempo. La bionda era immobile. Non aveva risposto ne detto ancora nulla. Il suo fiato era cadenzato e profondo e questo la preoccupò più del sentirsi una lama di svariati centimetri alla carotide. Sembrava una furia pronta allo scatto, un ghepardo attento fisso sulla preda.

“Su dai, lo sai che non è vero. Tesla ti ama e non farebbe mai nulla per dispiacerti.” Disse convinta come se stesse parlando con una vecchia amica davanti ad una tazza di te.

Lentamente la donna armata spostò le iridi dalla bionda all’ostaggio, allentando impercettibilmente la stretta. “Mi ha picchiata, ed è tutta colpa tua, sai?”

“Mi dispiace Mery. Siamo state fraintese, ma è pentita per averti fatto del male.”

“E tu che ne sai?!” Chiese stizzita.

“Me l’ha detto lei. Ti ama ed è questo quello che conta.”

“Davvero?” E la lama si abbassò un poco.

“Certo! Haruka, diglielo anche tu. Rassicurala…”

Quell’innocente smania di cercare di sistemare le cose con la condiscendenza, maturò frutti completamente diversi da quelli che Michiru si sarebbe aspettata di cogliere e questo perché nonostante tutto l’amore che provava per Haruka, si conoscevano ancora relativamente poco per sapere tutto l’una del carattere dell’altra. Così cercando di fare del bene, di cristallizzare una situazione che aveva superato il punto del non ritorno già da tempo, si ritrovò a far peggio.

“Cosa cazzo dovrei dirle Kōtei? Che ama talmente tanto la slava da non voler ricordare che il sangue su quella lama è anche il suo?!”

“Haruka!”

Una volta analizzata quella vergata, Mery prese a fissare sul coltello quell’accozzaglia rossastra ormai raggrumata corrugando la fronte. “Cosa sta dicendo, Michiru?”

“Nulla Mery è che…”

“L’hai ammazzata, così come hai ammazzato quella povera vecchia! Hai spezzato la vita della tua donna e ora dovrei avvallare questa pagliacciata solo perché ti è andato in pappa il cervello?!”

“Haruka no!” La riprese Kaioh ritornando a sentire l'avambraccio della rossa serrarsi al suo collo.

“Sei una bugiarda Tenoh. Io amo Tesla e non le farei mai del male.”

“Lascia subito! E affronta la verità!”

“Io non… Sei cattiva! Non dovresti parlare in questo modo…” Una sorta di voce infantile, un improvviso tremore nella mano che reggeva l’arma e Michiru agì prima che potesse essere troppo tardi.

Spezzando quel picco di tensione, riuscì a svincolarsi schiacciando con il tallone destro il collo del piede dell'altra e sentendosi libera quel tanto, le sferrò una gomitata allo stomaco sgusciando alla sua sinistra e rotolando via verso il muro. Voltandosi pronta a fermare Haruka, fu però colpita da un violento senso di vertigine rimanendo confusa per qualche secondo.

Ormai libera da ogni freno, la bionda si fiondò su Mery. Bloccandole la parte posteriore del ginocchio con una gamba, riuscì a buttarla in terra, a soverchiarla mettendosi a cavalcioni sopra di lei. Afferrandole la mano armata, iniziò a sbattergliela violentemente sul marmittone della rimessa facendogliela aprire.

“Questo è mio!” Riprendendo il Kés ne guardò la lordura della lama e il suo cervello si spense. Con un gesto secco lo abbandonò alle sue spalle piantando un primo pugno sul viso della donna rimasta inebetita.

“Non me ne frega un cazzo se sei uscita fuori di testa! Hai fatto del male a Johanna. Non avresti dovuto... sporca bastarda!” E già un altro paio di colpi.

“Se muore è colpa tua!” Un quarto ed un quinto affondo.

“Haruka…” Allucinata Michiru cercò di rialzarsi poggiandosi al muro.

”Hai usato ciò che mi appartiene dalla nascita per far male a mia sorella!”

Schizzi di sangue iniziarono a fiottargli addosso, ma neanche le avvisaglie dei primi dolori alle articolazioni della dita impedirono alla bionda di fermarsi. Continuando a colpire duro non sentì neanche i richiami di Michiru e le sue braccia che le avvolgevano la vita nel disperato tentativo di fermarla.

“Per carità Haruka, fermati!”

Ma non era come nelle docce. Questa volta Tenoh sembrava essersi trasformata in un animale assetato di sangue. Lo sguardo lucido di chi sa quello che sta facendo, non ne gode, ma lo ritiene necessario al fine di una giustizia sommaria tutta sua. La forza messa nei muscoli della schiena, nelle spalle e nelle braccia, costrinsero Kaioh ad uno sforzo sovrumano. Aiutandosi con tutto il peso del corpo riuscì a buttare indietro Haruka e a scostarla da una Mery mezza tramortita.

“Lasciami Kōtei!” Divincolandosi la sentì totalmente avvinghiata a se.

“Basta!”

Ma nonostante tutto Haruka era più forte e non aveva appena donato del sangue. Facendo leva sulla carica nervosa che ancora aveva nelle gambe, Tenoh riuscì a mettersi in piedi trascinando con se anche l’altra. Ansimando come una locomotiva tornò a guardare il viso imbrattato di sangue di Mery ed i primi movimenti che stava cercando di compiere per rialzarsi e nuova linfa violenta scorse in lei.

“Non ho ancora finito con te! - Le urlò contro cercando di scrollarsi Michiru di dosso. - Alzati bastarda! Alzati!”

“O detto basta!” E Kaioh colpì.

Uno schiaffo secco. Un dolore acuto, che percorse i sensi di entrambe. Occhi negli occhi si fissarono. L’incredulità di Haruka. La determinata sofferenza di Michiru. Portandosi la destra alla guancia la bionda chinò la testa improvvisamente quieta, mentre l’altra si voltava verso Mery ormai in ginocchio.

“Sparisci! Non m’importa dove, ma vattene via!”

“Lo dirò a Tesla e non te la farà passare liscia. Hai capito Tenoh?!” Delirò quella tenendosi la bocca barcollando all’indietro per poi uscire malconcia dalla porta.

Kaioh tornò a guardare la compagna. La frangia dorata calata sulle belle ciglia chiuse, il respiro pesante. Non riusciva a capacitarsi di ciò che aveva appena visto. Era sconvolta. L’adrenalina le aveva intimato di agire, di gettarsi su Haruka per cercare di fermarla in ogni modo. Ma quella furia non era la ragazza della quale si era innamorata. Quelle mani ricoperte da sottili rivoli rossi non erano le stesse che le facevano fremere i sensi spalancandole l’anima ogni qual volta la toccavano. Quegli occhi ciechi offuscati di ferocia, che non vedevano, non capivano, non erano gli stessi dalle mille sfumature verdi che tanto adorava fissare.

“Cosa ti è preso… Haruka!” Più un’affermazione che una domanda.

La sentì tremare un poco. Uno spasmo. Un ritorno di coscienza.

Era delusa anche se l’ira che aveva trasfigurato quella ragazza, la sua ragazza, era comprensibilissima. Pronta a qualsiasi reazione violenta, Kaioh arretrò di qualche centimetro pronta all’urto verbale, ma nuovamente nell’arco di quei pochi minuti si rese conto di aver sbagliato calcolo. Haruka non reagì come si sarebbe aspettata, anzi, alzandole contro due occhi disperati, serrò i denti evidenziando i muscoli della mascella.

“Non… Non riesco a farlo partire.”

“Il furgoncino? - Chiese provando a farsi capire. - Ma questo non giustifica il tuo comportamento.”

“Non ci riesco… Io… non riesco.” E le palpebre della bionda si serrarono cercando di bloccare due lacrime sottili.

Colpita al cuore l’altra se la strinse forte contro arpionandole i capelli. “O mio amore.”

“Eppure… sono… brava. Michiru, sono brava.”

“Lo so Ruka, ma non puoi aggiustare tutto.”

“Io devo aggiustarlo.” E purtroppo aveva ragione.

“Ascoltami… - Afferrandole le guance la fissò pretendendo uno sguardo di rimando. - Sei proprio sicura di aver fatto tutto quello che potevi?”

Con un sospiro la bionda rispose di si. “Anche più del dovuto. Ero convinta che fossi a tanto così dal riuscire a farlo ripartire.” Avvicinando pollice ed indice a mezz’aria, si voltò verso il cassonato verde militare.

“Johanna sta riposando, abbiamo ancora un po’ di tempo per ricontrollare tutto. Non devi scoraggiarti.”

Parole d’incoraggiamento che diedero a Tenoh un ritrovato contegno. Un respiro secco e piegandosi a raccogliere il coltello, ne pulì la lama strofinandola con forza nel bordo del maglione, poi richiudendolo se lo mise in tasca ammettendo che Michiru avesse ragione. Doveva tentare ancora.

Seguita ritornò al cofano iniziando ad elencarle i singoli lavoretti che aveva fatto su ogni parte di quell’emisfero all’altra completamente avulso. Non potendola aiutare cercò quanto più possibile di farle domande capendo che il lasciarla parlare, non soltanto era utile per cercare di trovare un’eventuale falla, ma soprattutto serviva a calmarla. Haruka ripercorse con meticolosa precisione ogni passaggio fatto, arrivando alla più logica delle conclusioni; aveva realmente fatto tutto il possibile.

Dando un colpo di stizza alla carrozzeria guardò la ragazza allargando le braccia. “Visto?!”

“Eppure se non parte qualcosa c’è. - Ragionò Kaioh improvvisamente illuminata da un pensiero apparentemente infantile. - Ma… la benzina? Ce l'hai messa la benzina?”

Per una frazione di secondo sul viso della bionda montò una smorfia di saccenza mista ad arroganza, poi…

“O… cazzo…”

Saltando con due balzi al serbatoio, ne svitò il tappo dando un’occhiata al suo interno per poi lanciare una tuonante imprecazione che Michiru fece finta di non aver sentito. “Porca puttana! Sono veramente una mezza sega! Ci saranno neanche due dita di carburante. E’ praticamente a secco! Dobbiamo trovare della benzina. Forza Michi… negli armadietti. Cerca delle latte rettangolari.”

Rivitalizzate di speranza, spulciarono in ogni armadio, arrivando anche a spaccare con una spranga i lucchetti di quelli dei quali non avevano la chiave. Ogni ripiano, ogni angolo. Non trovando che porcherie piene di polvere, stavano per desistere quanto Kaioh lesse un’etichetta sbiadita che la riportò in un certo senso a casa. “Manciuria Petroleum Company. Haruka… potrebbe andare?”

“Ma guarda che residuato bellico! - Una latta da dieci litri seminascosta su uno scaffale troppo alto per Michiru. - Questa è roba vostra. Una benzina sintetica derivante dagli scisti della Manciuria. Durante la guerra la usavano anche i tedeschi, ecco perché è qui.”

“Nostra? Vuoi dire giapponese?”

“Si.” Rispose entusiasta tirandola giù ed aprendola.

Svuotando la latta nel serbatoio la ragazza tornò a sedersi al posto di guida e dopo un sonoro sbuffo, riprovò a mettere in moto. Questa volta per l’ambiente della rimessa riecheggiò un poderoso rombo.

Colpendo nuovamente il cerchio del volante, ma questa volta con entusiasmo, la bionda scese abbracciando e baciando l’altra.

“Hai visto?” Chiese Michiru soffocata dalla bocca dell'altra.

“Grazie… Grazie, grazie, grazie…” Le soffiò poi tra i capelli.

“Sei tu che lo hai aggiustano. Visto che le ruote hanno già le catene non rimane che portarlo nello spiazzo. Avanti, aiutami ad aprire le ante.”

 

 

Contrariato per la situazione, ma tutto sommato in piacevole compagnia di un’affascinante collega, l’agente Thöryn guardò Rei ferma in piedi accanto a lui allungandole il pacchetto di Leek rosse. Era uscito dall’ufficio per fumarsi una sigaretta e lei lo aveva seguito non riuscendo più a sopportare lo stato di tensione che era venuto a crearsi tra la Direttrice Meioh e i rappresentanti della Polizia Segreta. La lentezza nel consegnar loro le sorelle Aino stava sollecitando la già di per se risicata pazienza dei due uomini.

“Direttrice questo è assurdo!” Urlò uno dei due sbattendo un pugno sulla scrivania della donna che per nulla intimorita riprese a versarsi da bere come se non ci fosse un domani.

“Se proprio ci tenete, perché non ve le andate a prendere da soli? Capirete il perché di tutto questo ritardo.” Sentendosi leggermente brilla, benedisse la gradazione alcolica che stava impedendo alla paura di saltar fuori.

“Non ci sono problemi! Troveremo il blocco anche se ci dovesse essere un buio pesto, ma devo avvertirvi che questo comportamento sarà segnalato al vostro superiore!” Minacciò uscendo seguito dal collega mentre un poderoso vaffa mentale veniva partorito dai pensieri della donna.

“Ma fai come ti pare... imbecille.” Borbottò lei storcendo la bocca prima d'inarcare la schiena e gettarsi nella gola nuovo calore liquido.

Osservandoli allontanarsi di gran carriera, Rei aggrottò le sopraciglia per ritrovarsi una batteria di sigarette quasi sotto il naso.

“Sono estoni. Molto corpose. Le conosce?”

Sorridendo scosse la testa. “No, grazie. Non fumo.”

“E’ un peccato, rilassa i nervi.”

“Allora è questo il segreto della vostra calma.”

Portandosi un filtro alle labbra, l'uomo ne estrasse una accendendola con la fiamma di un accendino d’oro. “In realtà credo proprio che in questo caso sia tutto merito di una bella collega dagli splendidi capelli scuri. E poi non ho tutta questa gran fretta di mettermi al volante con un tempo come questo.”

Lusinghiero anche più della decenza, spostò l’attenzione dalla ragazza alla finestra con il telaio esterno ormai interamente bordato di neve. Riponendo il pacchetto nella tasca interna del cappotto, iniziò a pulire il vetro mettendo finalmente in evidenza lo spiazzo sottostante ed il cancello secondario.

“Una tormenta in piena regola. - Ammise all’immagine di se che la fiochissima luce ancora riusciva a rimandargli. - Una di quelle che si dovrebbero passare davanti al tepore di un camino, con un buon bicchiere di Vodka e le braccia amorevoli di una donna ad accarezzarti la pelle stanca. Non siete d’accordo con me, agente?”

“Non mi è mai piaciuta la Vodka.”

A causa dell’ovvia idiosincrasia che come donna dall’aspetto piacevole aveva sviluppato nel sentire troppo spesso illazioni come quella, rispose in maniera più fredda di quanto non avrebbe voluto provocando il lui uni provvista chiusura.

La brutalità che Thöryn mise nella battuta di risposta la stupì. “Spero non siate una di quelle donne fautrici di quell’amore saffico che tanto ha preso ad andare di moda nei caffè di Parigi?!”

“Non riesco a seguirvi e comunque questi non sarebbero affari vostri.”

“Sapete che in questo carcere è detenuta la responsabile di questa. - Indicando lo sfregio sulla guancia si arpionò ai reni una mano nell'altra tornando con gli occhi al buio della notte. - Una donna, se così si può dire, molto particolare. Bellissima se si vestisse civilmente e si lasciasse crescere i capelli. Una creatura che la natura ha fatto nascere sbagliata.”

“Agente Thöryn…”

“Scusate! Sto divagando. Mi avete solo confessato di non amare la Vodka… Giusto?”

Sentendosi penetrata da quelle particolari iridi, Rei glissò sull'omofobia del collega sforzandosi di sorridere per lasciaro così tornare a guardare al di la del vetro, quando improvvisamente l’uomo si bloccò sporgendo in avanti il collo.

“Ma cosa diavolo… Il cancello è aperto!”

“Come? Ne siete sicuro?”

“Bè, controllate voi stessa. C’è gente nello spazio… Non mi piace!” Disse scattando verso le scale mentre Rei prendeva a seguirlo dopo aver dato una voce a Setsuna.

 

 

Fu davvero faticoso far scorrere il cancello sulla massiccia guida di metallo. Il vento aveva preso a sputarle contro neve e gelo già dal primo passo fatto dopo essere uscite all’aperto, ma non avevano desistito, continuando a seguire il perimetro del muro fino alle ante chiuse della rimessa e da li verso l’uscita. Shiry, Minako ed Usagi. Tutte e tre unite mani nelle mani. Affondando nel biancore fino ai polpacci, erano infine arrivate al cancello che la donna aveva sbloccato con una delle chiavi di servizio.

“Più di così non riesco ad aprirlo, ma dovrebbe bastare. Usagi, provate a passare.” Urlò cercando di sovrastare il rumore del vento.

Un poco più bassa e corposa della sorella, la ragazzina riuscì a sgusciare agilmente dalla parte opposta.

“Ottimo! Adesso voi Minako.”

“Capo squadra… - Abbracciandola forse le lasciò un bacio sulla guancia. - Grazie. Spero di rivedervi ancora.”

“Lo spero anch’io. Mi raccomando la strada e salutatemi il Generale. Coraggio, andate!”

Guardando un’ultima volte gli occhi delle due ragazzine, Annamariah tornò a forzare le mani sul maniglione gelato tirandolo verso di se.

“Andate…” Ripetè e la sua voce si perse tra le spire del vento proprio mentre il rombo che sembrava essere di un motore le arrivava confuso alle orecchie.

Un ultimo sguardo alle sorelle ormai allontanatesi e abbandonando un istante la presa del cancello ancora semi aperto, si voltò in direzione della rimessa.

Tenoh! Ce l'hai fatta! Pensò calandosi il palmo della destra sulla fronte per proteggersi gli occhi dal vento, mentre le ante scure si aprivano lasciando intravedere due sfere gialle a squarciare il pulviscolo davanti a loro.

“Non posso crederci!” Giubilò un istante prima che un colpo bene assestato alla nuca non le facesse perdere i sensi.

 

 

Quando Thöryn spalancò la stessa porta che era servita qualche minuto prima alle tre donne per uscire sul piazzale, fu investito da uno schiaffo bianco che gli fece ondeggiare un poco le gambe. Riparandosi il viso con il braccio sinistro cercò di mettere ordine nella confusione sensoriale esplosagli nel cervello, quando un bagliore simile ai fari di un automezzo e un rombo a qualche decina di metri alla sua destra catturarono la sua attenzione. Non capendo bene di cosa si stesse trattando, abbandonò la protezione del muro per avventurarsi verso il centro dello spiazzo, da dove avrebbe avuto la possibilità di vedere meglio.

Con Michiru davanti al muso dell’automezzo che le faceva da apri strada agitando le braccia, la bionda ingranò la prima spingendo con moderata forza la pianta del piede sull’acceleratore. Grattando un po’ la marcia, digrignò i denti rendendo gli occhi a due fessure. Non immaginava che fuori fosse tanto brutta. Sarebbe stata un’impresa titanica condurre quel mezzo fino all’ospedale più vicino.

Voltando il cassonato verso il cancello, gli fece compiere qualche giro di ruota andando ad illuminare uno strano fagotto scuro tra la neve. Tirando il freno a mano lasciandolo acceso al minimo, saltò giù mentre Michiru la precedeva.

“Shiry!” Urlò Kaioh arrivando con difficoltà al corpo della guardia.

Voltandosela fra le braccia cercò di scuoterla mentre Haruka prendeva a guardarsi le spalle con una gran brutta sensazione nelle ossa.

“Annamariah, rispondetemi! Accidenti e’ svenuta. Dobbiamo portarla dentro. Ruka… Mi dai retta per favore!?” Ringhiò cercando di attrarre l’attenzione dell’altra proprio mentre un colpo di pistola riecheggiava distorto per il cortile.

Bloccandosi all’unisono, le due ragazze guardarono lo spazio scuro al di là del perimetro disegnato dalla luce dei fari, intravedendo una figura con una mano armata puntata su di loro.

“Cosa state cercando di fare Haruka Tenoh? Evadere forse?!”

Tirando leggermente in dietro il collo la bionda riconobbe l’artefice del suo arresto e capì di essere nei guai.

Guardando la canna della pistola stendersi a mezz’aria, abbandonò Michiru per farle da scudo. Mettendo le mani avanti cercò di spiegare la sua situazione.

“Aspettate. Non è come sembra. Non ho alcuna intenzione di evadere! Questo furgone mi serve per…”

“Fate silenzio! - Minacciò l'agente della Tributaria facendo un passo avanti. - Alzate le braccia!”

Il contrasto tra la luce alle spalle ed il suo avere tutta la parte anteriore del corpo in ombra, non permisero ad Haruka di vederne l’espressività del viso.

“Allontanatevi immediatamente dal cancello. - Ordinò notando poi Shiry tramortita tra le braccia di Michiru diventando ancora più autoritario. - Immediatamente, se non volete che vi lasci un buco in mezzo alla fronte!”

A quella minaccia fu Kaioh a prendere l'iniziativa alzandosi. “Non ha fatto nulla!”

“Levatevi dai piedi voi!”

E fu chiaro che ben presto alle parole sarebbero seguiti i fatti. Avanzando Thöryn raddrizzò la postura puntando al petto della donna che sentendosi spinta da un lato si ritrovò improvvisamente tra la neve.

“Michiru… Giù!” Urlò Haruka gettandosi sul suo corpo fondendo la voce con quella di un secondo sparo.

Colpo che però non partì dall’arma dell'agente, ma da un tratto del muto di cinta che dava sulla strada. Proprio vicino all’uomo, un suono secco di metallo e leggere scintille sprigionatesi dal cofano, lo spinsero ad acquattarsi e rispondere al fuoco. Colpi in sequenza; tre, che anche se direzionati praticamente alla cieca andarono comunque a segno.

Il primo le penetrò la pelle all’altezza del fianco destro. Il secondo l’addome. Aprendo le braccia rivolgendo lo sguardo ad un cielo indefinito, Mery sorrise lasciando cadere la pistola sottratta a Shiry. Sto per raggiungerti amore mio, aspettami, pensò in un bagliore di ritrovata lucidità prima che il terzo colpo non le portasse un bruciore acuto al petto mozzandole il fiato e strappandole così l'ultimo anelito di vita.

Non avendo alcuna visuale, Haruka pensò a Michiru accertandosi che stesse bene. Attendendo qualche istante il cessate il fuoco da parte del suo cecchino sconosciuto, l’agente Thöryn ritornò eretto direzionando nuovamente la canna verso le due.

“Tenoh!” L’indice sul grilletto. Lo sguardo di pietra.

Stringendo Michiru tra le braccia, la bionda rivolse le spalle all’uomo pronta a tutto pur di difendere la sua compagna.

Ma anche quel colpo non la raggiunse. Tornando a guardarlo vide Rei Hino mezza abbarbicata sul collega nel disperato tentativo di bloccarlo.

“Ma cosa fate!?” Chiese sconcertato tanto che ne nacque una specie di colluttazione grottesca tra lei che cercava di tenergli le braccia e lui che si divincolava inveendo come un pazzo.

Fu Michiru a rendersi conto per prima di una possibilità di fuga. Sgusciando da sotto il petto di Haruka le afferrò un polso strattonandola. “Vieni!”

E prima che potesse metter ordine, la bionda si ritrovò tra muro e cancello e da li in strada.

 

 

 

NOTE: Ciau. Conclusione seconda parte di questa ff.

Per cercare di pubblicare prima di avere minacce di morte ;) , ho sicuramente tralasciato descrizioni che forse avrebbero arricchito quest’ultima parte di capitolo. Non ho chiuso lasciandovi con il fiato sospeso, perché va bene che siamo in piena evasione, ma almeno non si è fatto male quasi nessuno e per quasi, intendo Mery che in un bagliore di lucida consapevolezza, ha deciso di raggiungere Tesla e perché no, salvare Michiru.

Lo so che la descrizione di Haruka che sclera di fronte al camioncino era drammatica, ma una parte comica l’ho dovuta mettere per forza, perché ad immaginarmi Kaioh che le chiede se ci fosse benza nel motore mi sono divertita troppo.

Per finire, ho voluto inserire la Manciuria Petroleum Company perché ci stava bene con il titolo della storia ;P. Reale compagnia petrolifera strappata dal Giappone alla Manciuria e poi servita nella seconda guerra mondiale per rifornire di carburante l’Asse.

Anche le sigarette Leek che Thöryn usa per attaccare bottone con Rei, sono vere.

Spero di mantenere il ritmo. Da domani avrò un botto da fare, ma cercherò di aggiornare in tempi brevi.

Grazie e a prestissimo!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXIII

 

 

Notturno

 

 

Non appena si ritrovarono fuori del carcere, un senso di confusione catturò i sensi di entrambe, così che anche il solo scegliere se andare a destra o a sinistra sembrò una cosa difficile. Non era solo colpa della reclusione, della vita quasi monastica che erano state costrette ad affrontare per settimane allontanandole dalle strade della loro adorata Budapest, ma anche da quell’emisfero lattiginoso che aveva trasformato tutta la città in una colossale coltre bianca.

Minako aveva preso per mano sua sorella e non l’aveva lasciata un solo istante, terrorizzata dal poterla perdere, dal vedersela strappar via da quelle forti raffiche di vento e neve che si serravano ai loro corpi come mani enormi e che a seconda della corrente che prendevano, le spingevano prima in avanti, poi all’indietro, come in una danza grottesca.

Danza. In tutto questo Usagi aveva continuato a farfugliare che per colpa della Polizia Segreta non aveva potuto godere a pieno di tutti i balli che avrebbe potuto avere con il bel moro di Buda e che avrebbero portato le altre donne a morire d’invidia; Setsuna Meioh in testa. Povero cucciolo da marsupio, non poteva certo sapere cosa in quel momento stava passando per la testa della Direttrice, di Kiba e di tutta la casa della luce. Il giovane medico, pur se grato alla biondina dei giri di ballo fatti e degli occhi di lei che l’avevano accarezzato civettuoli ed infantili rallegrandogli lo spirito, ora era troppo impegnato a dichiarare l’ennesima morte delle ultime ore, a cercare di tenere in vita una guardia mezza dissanguata e nel contempo, a far capire a quegli stessi sbirri che volevano trasferire le sorelle Aino, che il Fiat 626 emerso magicamente dalla rimessa, non serviva per far evadere delle detenute, ma per salvare un’accoltellata. Come non poteva sapere che pur se ritrovatasi spesso tra le braccia di quel compagno di solitudini, Setsuna doveva ora provare ad uscire illesa dalle cariche di mitraglia che le sarebbero arrivate a pioggia dal Ministero.

“Usa, cerca di velocizzare il passo.” Urlò Minako abbassando per un attimo la sciarpa premuta fin sopra al naso.

“Sai dove stiamo andando?”

“Credo, ma con neve e buio le strade sembrano tutte uguali!” Affossando il collo nel bavero del cappotto, la più grande si guardò intorno cercando punti di riferimento che non avrebbe mai potuto avere essendo di Buda.

Maledizione! Se almeno le luci stradali non fossero saltate, pensò riprendendo a camminare faticosamente.

Per assurdo a meno di un chilometro da loro, anche ritrovandosi nella loro stessa situazione, Haruka non sentiva di avere lo stesso problema, anzi. Per una bionda nata nel distretto confinante e spesso bazzicante in quello, muoversi anche alla cieca non sembrava essere un pensiero. Semmai era il freddo micidiale di quella notte a preoccuparla. Sia lei che Michiru vestivano solo pantaloni, maglietta e un maglione a testa. Un po’ poco per non risentire delle prime avvisaglie di un congelamento

“Michi tutto bene?” Tenendosi strette si fermarono in un angolo riparato dal vento.

“Si Ruka.”

“Sei stanca? Sei molto pallida. - Accarezzandole la guancia con un dito si accorse di una piccola chiazza rossa proprio vicino al mento. - Dobbiamo raggiungere il sesto distretto prima che quell’agente pazzo si metta sulle nostre tracce. Sempre che non l’abbia già fatto.”

“Vuoi andare a casa tua?”

“Si, li ci scalderemo, ci vestiremo più pesantemente, faremo fagotto e poi spariremo per un po’. Conosco un posto sicuro.”

Sicuro anche se scomodissimo e sporco come il villaggio mezzo diroccato delle case basse dai tetti di paglia dove viveva suo nonno. Aveva già pianificato tutto la bionda, forte del coraggio che quell’amore le stava dando.

“Forse sarebbe meglio andare da mio padre. Lui saprà come aiutarci.”

L’altra ci pensò su, ma poi ne convenne che la soluzione più semplice in quel frangente fosse anche la meno attuabile. Quella macchia sul mento dell’altra non le piaceva. Michiru aveva bisogno di calore e il secondo distretto era davvero troppo lontano.

“Quando questa tormenta sarà finita sicuramente avremo la polizia addosso. Controlleranno le nostre case, percio' non abbiamo tempo da perdere. La mia e' la più vicina.”

“Si, ma…”

“Niente ma. Non voglio neanche pensare in che condizione siano i tuoi piedi. Stai tremando come una foglia e hai bisogno di prendere fiato e di scaldarti. Il sesto distretto è molto più vicino, giusto?” Chiese ironica sfregandole le spalle e Michiru, che non era certo una stupida, non poté che ammettere l'ovvietà.

Sentendola sospirare Haruka le baciò la fronte incoraggiandola. La strada non era poi molta. Così tornando ad affondare nella neve alta ormai quasi trenta centimetri, avanzarono lentamente e con cadenzata determinazione verso la loro libertà.

Intorno all’una del mattino il vento sembrò quietarsi un poco, la neve iniziare a cadere con meno furore e la visibilità farsi più nitida. Casa Tenoh apparve ad una Michiru esausta sotto forma di un miraggio fatto da un muretto di pietra, un cancelletto verde scuro ed una piccola rampa di scale che portavano ad un portoncino dai vetri colorati.

“Aspettami qui, faccio subito.” Rassicurò la bionda abbandonandola per scavalcare il ferro del cancello.

La suola completamente avvolta dai cristalli di neve incastrata in una traversa e con un balzo volò dalla parte opposta bucando il manto intatto con un leggero suono ovattato. Liberando a forza di pedate il vialetto, Haruka riuscì ad aprire il cancello tirandolo forte a se.

“Vieni Michi.” Porgendole la mano intirizzita le sorrise convincente.

“Come faremo ad entrare?” Le domandò l'altra sentendo quelle braccia benedette avvolgerle le spalle.

“Ora vedrai.” Sussurrò strizzandole un occhio.

Arrivate alla porta Haruka s’inginocchiò accanto ad uno dei due leoncini a guardia dell’entrata. Tra le fauci, una chiave che la ragazza prese portandosela alle labbra con uno schiocco.

Rialzandosi gliela mostrò per poi inserirla nella toppa ed aprire. “Alla bisogna…”

Con il fatto che Johanna era stata a casa qualche ora prima e che Mirka e Scada si erano presi l’onere di curarne gli ambienti in assenza delle proprietarie, tutto apparve loro in ordine e meno abbandonato di quel che si sarebbe aspettate. Provando più volte ad accendere e spegnere l’interruttore, Haruka masticò giù amaro e muovendosi come un gatto riuscì ad arrivare alla consolle vicino all’appendi abiti a muro, aprendone un cassetto ed estraendone una candela ed un pacchetto di fiammiferi.

“Aspetta ancora un attimo…” Rassicurò cercando d’infiammare lo stoppino nonostante il tremore alle dita.

Alla luce di quella piccola fiamma che già di per se dava senso di calore, alla bionda apparve finalmente l’ingresso della sua casa. A destra lo studio e le scale dal corrimano di legno scuro, trampolino di lancio per i suoi poderosi salti spiccati sin dalla più tenera età, sullo sfondo del corridoio la porta a vetri che dava al giardino sul retro e a sinistra, la grande porta a doppia anta che immetteva alla sala da pranzo e poi più giù, il tinello della cucina. Haruka si fermò un attimo dimenticandosi la candela nel palmo della mano. Quanto l'erano mancati quegli ambienti fatti di storia e di ricordi.

Voltandosi verso Michiru la vide stretta nelle braccia e tornò a concentrarsi su di lei. “Vieni sul divano mentre io penso al fuoco.”

Afferrandole il polso la condusse incoraggiandola a sedersi, poi iniziò ad armeggiare con i pochi pezzi di legna che ancora giacevano dimenticati sul fondo della piccolo contenitore che Jànos aveva costruito accanto al camino.

“Speriamo che basti.” Disse mentre ricordi passati prendevano a solleticarle le labbra in una smorfia guascona al limite dell’impertinenza.

Era da quel giorno di settembre, dopo che si era schiantata sul basalto viscido del tracciato della gara di corsa, che avrebbe tanto voluto portare quella splendida creatura in casa sua, il nido caldo ed accogliente dove il giovane Turuldi Pest era cresciuta forte ed orgogliosa.

Riesci a muovere la caviglia?”

Si… Un po’.”

Ottimo, allora vieni… Ti accompagno.”

Dove?”

A casa tua.”

Ti ringrazio Michiru, ma credo di riuscire a cavarmela da sola.”Ricordò.

Soffiando sulle giovani fiamme, la bionda ghignò al loro primo incontro-scontro, quando riuscendo a tenerle testa con poche, ma esaustive frasi, il carattere pragmatico ed indomabile dell’altra l’aveva affascinata al pari della sua bellezza.

“Perché sghignazzi?” Chiese Kaioh cercando di togliersi in maglioncino fradicio senza però riuscirci.

“Aspetta faccio io. - Sedendole accanto l’aiutò a sbarazzarsi di quell’indumento gelido e della maglietta che aveva sotto. - Stavo solo pensando a quando ci siamo conosciute; ti ricordi? Alla festa della Vendemmia, quando cadendo come una pera su uno di quei volantini disgraziati quasi non mi rompevo una caviglia. Allora ti offristi di riaccompagnarmi a casa, ma io non accettai. Sapessi quante volte mi sono morsa le mani per non averti ascoltata.”

“Mi sei piaciuta subito Haruka e quella di aiutarti era una scusa per poterti conoscere. Ma tu sei talmente orgogliosa..."

Una smorfia indolente di rimando ed inginocchiandosi iniziò a slacciarle i lacci degli stivaletti. “Sarò anche orgogliosa, ma ammetti che è anche per questo che mi hai scelta.”

“E’ vero… e poi mi sentivo terribilmente in colpa, perché in realtà avevo contribuito anch’io al lancio di quei volantini.”

Fissandola tra il curioso e l’offeso, l’altra si sporse per catturarle lievemente le labbra sfilandole poi con estrema accortezza il primo calzare. “Johanna aveva proprio ragione nel dirmi che ero nei guai. Ho ceduto il mio cuore ad una combattente liberale.”

Al pronunciare il nome della sorella si fermò sospirando. “Cosa sarà successo alla casa della luce?”

“Non preoccuparti Ruka. - Posandole la destra sulla guancia la guardò con dolcezza. - Sono più che certa che ce la farà. Riusciranno a portarla in ospedale.”

“Speriamo…. Ma ora pensiamo a te. Acqua calda non ce n’è, ma con un paio di panni caldi e la fiamma del camino…”

Facendole cenno con un dito d'aspettare, prese la candela uscendo per sparire su per le scale. Mentre si sfilava le calze bagnate diventate ormai come una seconda pelle, Michiru avvertì i suoni tipici di una porta che si apre, un po’ di trambusto e lo scricchiolio di passi sui gradini.

“Ecco qui! Sono sicura che ti andranno bene. Tu e Jo avete più o meno la stessa taglia.”

Vedendosi porgere alcuni indumenti puliti, Kaioh ringraziò cercando di afferrarli. Le braccia le cedettero facendo rovinare la piccola pila sui piedi della bionda.

“Scusami.” Mortificata Michiru tornò a strofinarsi la pelle ghiacciata delle spalle.

“Non è un problema, ma forse sarebbe meglio avvicinarsi al fuoco.”

“No Ruka, sono stanca, Ho necessità di stendermi e chiudere gli occhi per un po’.” Forse anche troppo risoluta, le prese i pantaloni tra le mani provando a rivestirsi.

Non aveva mai avuto tanto freddo in vita sua se non durante il primo inverno di guerra, quando nonno Kōtei aveva deciso che per amor di patria anche la sua famiglia dovesse razionare le scorte di cherosene e legna. Ma allora bastava infilarsi tra il materassino e la trapunta del suo futon per star caldi. Ora invece le sembrava di avere dell’acqua ghiacciata a scorrerle nelle vene.

“Sei sicura?” Ora che alla luce della candela riusciva a vederla meglio, Haruka si rendeva conto di quanto il viso di Michiru fosse arrossato ed i muscoli necessitassero di rilassare il continuo tremore dato dai brividi.

“Si. Aiutami, ti prego.”

Alla bionda venne però un’altra idea; facendole cenno di alzare le gambe e distendersi sui cuscini in posizione fetale, aprì la coperta di lana che aveva portato assieme ai vestiti, stendendogliela addosso. Una lieve carezza su quei capelli fradici ed iniziò a spogliarsi anche lei.

Una volta abbandonato sul pavimento anche l’ultimo indumento, Haruka s'intrufolò sotto la coperta abbracciandola forte.

“State forse cercando di sedurmi, signorina Tenoh?” Bofonchiò adagiandole la testa sul petto già mezza addormentata.

“Si fa quel che si può, signorina Kōtei.” Le soffiò lievissima in un orecchio mettendosi comoda.

Michiru non dormì molto, perché nonostante il corpo nudo di Haruka premutole contro, la coperta ed un ambiente non certo polare, continuò ad avere un freddo micidiale. In compenso sognò e non fu bello. Sentiva le gambe serrate in una morsa avvolgente, che le infuocava la pelle e le arrestava il movimento. Immersa nella foschia di una campagna che non conosceva, sapeva di non essere sola, che Haruka era ad un passo da lei, vicinissima, ma non vedendola la chiamava, chiamava quel suo nome musicale sforzandosi di raggiungerla.

Si svegliò quasi di soprassalto avvertendo le dita dell’altra massaggiarle energicamente un piede.

“Fai piano. Mi fa male.”

“Lo immagino. E’ rossissimo.”

“Brucia.”

“Questo è un buon segno, significa che la circolazione si sta riattivando. - Fermandosi e rimboccando la coperta alle gambe, gattonò fino al tavolino vicino al bracciolo dove aveva preparato un bicchiere con del cognac. - Non pensate male mia bella signorina, non voglio circuirvi, ma è il caso che voi beviate questo.”

“Cos’è?” Chiese flebilmente non afferrando la frase giocosa.

“Fa differenza?” Sedendosi l’aiutò a mettersi dritta.

Con l’alito liquoroso la bionda le portò alle labbra il bicchiere esageratamente pieno.

“Ma quanto hai bevuto!?”

“Cosa fai, rimproveri?! Non credo sia questo il momento!”

Guardandola severa, Kaioh non rispose ingoiando il primo sorso per tossire l’inferno subito dopo. “O Dio del cielo!”

“Vedo con piacere che non sei affatto abituata a questo tipo d’ambrosia.”

“Perché… tu si?!”

Spostandole la mano dalla bocca, Haruka la costrinse ad un altro sorso. “Si. Io si!”

Stizzita per quello che l'era sempre apparso come un pessimo vizio, Michiru decise d’inscenare una rivolta stile Bounty.

“Basta! E’ disgustoso!” Come una bambina scansò il viso tornando a sprofondare tra cuscini e coperta. All’altra non rimase che accettare lo stato delle cose.

“E’ il caso che ti riposi. Io intanto vado in dispensa a vedere se c’è dello scatolame. D’accordo?” Consigliò e dopo aver sentito un mezzo lamento la bionda terminò di vestirsi e a lume di candela si diresse a piedi nudi verso il tinello.

Mezz’ora più tardi Kaioh riemerse dal torpore della stanchezza avvolta da uno strano quanto accattivante profumo di cibo.

“… Ruka?”

“Ben svegliata! La mia caccia è stata un mezzo fiasco, ma almeno una scatola di fagioli sono riuscita a trovarla. Dai, mangia, hai bisogno d'energia. Hai una faccia…”

“Sarà bella la tua!” Duellò mettendosi seduta cercando di afferrare la maglietta abbandonata sul bracciolo opposto senza lasciar scorgere il seno.

Sbottando a ridere la cuoca provetta intinse il cucchiaio nel piatto per poi porgerglielo. “Sei adorabile quando cerchi di tenermi testa, Michiru.”

“Cerco? Vorrai dire quando riesco a tenerti testa.” Sottolineò accettando quella cucchiaiata di benessere caldo masticandolo lentamente.

“A parte tutto, com’e’ la situazione fuori?” Chiese cercando di sbirciare tra le tende tirate della finestra che si apriva proprio sopra lo schienale.

“Un bello schifo! Di questo passo Budapest resterà isolata per giorni. Ed io che volevo portarti a Fót.”

“Fót?”

“Si, li c’è un piccolo villaggio mezzo abbandonato. Pensavo che sarebbe stato un buon posto per nascondersi.”

“Siamo delle fuggitive. - Costatò Kaioh quasi se ne rendesse conto solo in quel momento. - Ed è colpa mia.”

“Sciocchezze! Cos’altro avresti potuto fare?! Se non avessi preso in mano la situazione decidendo di oltrepassare il cancello, quel misogino avrebbe finito con l’ammazzarmi. Sai, lo conosco; è lo stesso agente che con una scusa idiota mi fermò portandomi a ferirlo. Credo che senta di avere un conto aperto con me e penso anche di saperne il motivo!”

Ingoiando un altro boccone Michiru provò a seguire il filo del discorso. “Be… se lo hai ferito…”

“Non è per quello o almeno non solo. La sindrome più corretta per identificare gentaglia come quella è una e una sola; omofobia, o per meglio dire, un disgusto incontrollato e direi anche alquanto violento per donne come me.”

“Come noi…” Puntualizzò l’altra con orgoglio.

”Tu non sei come me, piaci agli uomini e francamente questa cosa mi disturba.”

”Sciocca.” Rispose languida.

Haruka le sorrise e sfiorandole la punta del naso con un dito si sedette in terra schiena al divano perdendosi nelle fiamme del camino dalla parte opposta della stanza.

Per qualche minuto scese il silenzio rotto solamente da una grande verità. Abbandonando il piatto ormai vuoto sul tavolino accanto al divano, Michiru le cinse le spalle come le piaceva fare.

“Alle volte ci si ritrova ad odiare ciò che non si vuole ammettere di essere.”

“Non ci avevo pensato. Sei saggia. Ti confesso che la prima volta che lo vidi, mi mise addosso i brividi. Ebbe l’arroganza di suonare al nostro campanello, sbattermi da un lato dopo essersi presentato a stento e puntare verso le scale sventolarmi in faccia un mandato di perquisizione. Fu odioso e quando Johanna gli intimò di farla finita di minacciarmi per come vesto, ebbe anche l'indecenza di mettermi le mani al collo."

“Per come ti vesti? Cosa c'entra?!”

“Ma, non so, ma se ci ripenso …, mi viene una rabbia.” Avvertendo la mano della ragazza accarezzarle la nuca, si voltò tornando a guardarla.

"A te non interessa se porto i pantaloni e ho i capelli corti?"

“Assolutamento no. Ma non pensarci più mio tesoro… è passata ora.”

“Non credo sai. Ci sto rimuginando da quando abbiamo varcato quel cancello; è oltremodo curioso che quell’agente della Tributaria si trovasse alla casa della luce, non trovi?”

“Pensi potesse essere li per te?”

“Non saprei, ma è comunque anomalo, soprattutto visto il tempo, l’ora ed il venerdì di festa. In più Shiry tramortita ed il cancello di servizio aperto, mi fanno pensare che prima del nostro arrivo sia accaduto qualcosa di grosso." Infilandole una mano tra i capelli l’attrasse a se baciandola con avidità.

“Sta di fatto che dobbiamo inventarci qualcosa. Sono sicura che all’alba li avremo addosso.”

“Haruka… devo confessarti una cosa. Per raggiungerti alla rimessa ho tramortito una guardia.”

“Cos’è che avresti fatto?!”

“E’ andata giù come un sacco di patate.” E Michiru mise su il solito viso da verginella.

“Come diavolo… A si, le origini orientali… Alle volte sei inquietante sai? - Era per questo che era tanto attratta da lei; era in grado di manifestare forza anche possedendo una grazia innata. - Poco male. Tanto ormai siamo nei casini fino alle ginocchia.”

“Non si dice collo?” E rise piano.

“Si, ma potrebbe andar peggio e non siamo ancora arrivate a quel punto.”

“Il peggio potrebbe stare nel fatto che non credo di riuscire a rimettermi a combattere con il freddo.”

“Lo so e dopo tutto il sangue che hai donato a Johanna ha del miracoloso che tu sia riuscita a seguirmi fin qui.”

“Mi dispiace.” Chinando la testa si strinse nella coperta.

“Non preoccuparti Michi, qualcosa m'inventerò vedrai. Ora vestiti e stenditi un altro po’.”

 

 

Ci volle un po’ prima che Mirka riuscisse a capire che i colpi ripetuti provenienti giù da basso, non fossero opera del vento, ma di qualcuno che con accanimento stava con molta probabilità cercando di buttar giù l’anta. “Scada…”

Scrollando la spalla del marito si drizzò a sedere tendendo l’orecchio.

“Scada svegliati. C’è qualcuno alla porta!”

“Mmmm… Dormi amore…”

“Dormi un accidente! Muoviti poltrone. Potrebbero essere i ragazzi." Mentre l’uomo rotolava giù dal letto chiamando a raccolta tutti i Santi del Paradiso, lei sempre più che vigile, si porto' sul bordo del materasso infilandosi pantofole e vestaglia schizzando poi verso l’uscita della loro camera muovendosi facilmente nonostante il buio.

Quando Mirka aprì il portoncino, si ritrovò a pensare seriamente di stare ancora sognando, perché il trovarsi davanti quella ragazzina bionda, la sua ragazzina bionda, aveva dell’incredibile.

“Haruka?!” Balbettò mentre il marito la raggiungeva alzando sulle due la luce ondulata di una candela.

“Mirka…”

“Cosa diavolo ci fai qui?!” Chiese la donna mentre Scada si faceva guardingo.

“Che cazzo hai combinato!?" Stranamente meno incredulo della moglie, lui scrutò la bionda da capo a piedi prima di afferrarle un polso e scaraventarla quasi al centro della soggiorno.

"Entra casinista!"

“Scada!”

“Zitta moglie! - Ringhiò richiudendo e guardando poi dalla piccola finestra al lato della porta. - Ti ha vista nessuno?”

“No, tranquillo.” Rispose Haruka togliendosi con gesti secchi la neve dalle spalle.

“Mi volete spiegare?!”

“Ah, io non so nulla cara. Chiedilo alla qui presente! Chiedile il perché di un’improvvisata tanto assurda alle due di un mattino da Siberia, con le linee telefoniche ed elettriche saltate e svariati centimetri di neve a finire di paralizzare la città! Chiedilo a colei che, in teoria, in questo momento dovrebbe trovarsi al calduccio in una cella ben chiusa di un carcere, ma che in pratica ha rischiato l’assideramento andarsene in giro dovendo ancora scontare più di un anno di pena!”

Serrandosi i fianchi Haruka gonfiò le guancie pronta all’inevitabile interrogatorio.

Analizzando rapidamente la situazione Mirka si rivolse allora direttamente alla ragazza. "Allora Ruka? Non sarai mica…”

“Evasa! - Interruppe l’uomo alzando pericolosamente il tono della voce. - Porca puttana Tenoh, ma che cazzo ti dice il cervello!”

“Sssss..... Adagio marito! O vuoi che si svegli tutta la casa?”

“I ragazzi non ci sono amore. Allora… è vero? Sei evasa?”

“Si, è vero, ma non è come sembra. In prigione è scoppiato un casino dopo l’altro e…, lo so che vi sembrerà assurdo, ma… sono stata costretta a scappare. Davvero.”

Passando la candela alla moglie, Scada iniziò a camminare come un cane impazzito tra tavolo, divano e poltrone.

“E’ stata costretta dice lei. Costretta!”

“Ma stai bene?”

“Si MIrka.”

“E tua sorella? Lo sa che sei evasa?” Chiese lui riuscendo finalmente a fissarla negli occhi.

Occhi di colpo strani, inquieti, preoccupati, tanto che senza quasi aver bisogno di conferme lui si arpionò i capelli tornando ad imprecare.

“C’è stata un’aggressione e Johanna è stata coinvolta.” Rivelò la ragazza con un filo di voce.

“O Signore Iddio e ora come sta?!”

Fu allora che strofinandosi il collo, Haruka abbandonò finalmente quella specie di spocchia difensiva. “Non lo so Mirka. Quando l’ho lasciata stava riprendendo fiato. Non potendo chiamare un’ambulanza per via delle linee saltate, mi sono offerta di rimettere in moto il vecchio fiat 626 della prigione, ma per una serie di disgraziate coincidenze, un agente esterno ha creduto che volessi evadere e ha cercato di ammazzarmi. Vi assicuro che non ho potuto fare altro che scappare, anche perchè quell'invasato era lo stesso che ferii alla guancia prima dell'arresto e sono convinta che me la volesse far pagare con una pallottola in fronte. Ma ora sono nei casini, non soltanto perché sono un’evasa, ma anche perché la ragazza che era con me al momento della fuga non sta bene, necessita di cibo e credo abbia un brutto inizio di congelamento che non sono riuscita a fermare del tutto.”

“Siete in due?”

“Si Scada e lascia che ti dica che oltre ad aver salvato me è stata anche colei che ha donato il sangue che ha permesso al dottore della prigione di prestare i primi soccorsi a Johanna.”

A quelle parole Mirka si fece il segno della croce abbracciandola.

“Non posso più far niente per mia sorella, ma per Michiru si. - E la voce di Haruka s'incrinò quel che basta per farla vergognare. - Siamo passate da casa solo per riscaldarci e riposare. Avrei voluto lasciare la città, ma vista la situazione non posso che riportarla da suo padre, al secondo distretto. Lei viene da una famiglia più che benestante e sono sicura che potranno nasconderla. Non era mia intenzione disturbarvi o mettervi in potenziali guai, ma siete la mia unica speranza. Per favore, aiutatemi.”

“Certo che ti aiuteremo amore …”

“… Ma dobbiamo far presto, perché non appena la tormenta sarà finita inizieranno a cercarvi. - Concluse lui tornando verso le scale - Vado a vestirmi. Moglie, c’è ancora dello stufato.”

“Lo scaldo subito. Vieni in cucina cara, devi mangiare qualcosa di caldo anche tu.”

Così mentre Mirka scaldava quei deliziosi pezzi di carne che sarebbero riusciti a ridare a Kaioh un po’ di energia, Haruka condì il suo racconto con novizia di particolari tanto che alla donna vennero a più ondate i brividi nell’immaginarsi le due figlie di Jànos immerse in un mondo tanto crudo rispetto a quello dov’erano nate.

“Io lo sapevo che Johanna non avrebbe mai dovuto chiedere alla signorina Setsuna di poter lavorare in quel carcere. Ho sempre pensato che fosse una follia, ma lo sai com’è fatta tua sorella, no?! - Scaraventandole nel piatto che aveva davanti un’altra mestolata fumante, si sporse per riuscire a guardarla in viso. - Ma di un po’, chi sarebbe questa tua amica?”

Tossicchiando la ragazza riprese ad ingozzarsi come se non mangiasse da giorni. “Un amica.”

“Un amica… e basta?”

Haruka allora si fermò dilatandole contro gli occhi facendola ridere.

“Non fare quella faccia ragazzina, sono una madre, anche se di tre maschi e certe cose le annuso a pelle. Non ci hai mai chiesto di aiutarti, neanche alla morte dei tuoi. Le tue iridi brillano come due gemme, sintomo di un cuore gonfio d’affetto. - La fisso' seria. - D’amore Haruka. Ti conosco da sempre e so, come lo sapeva tua madre.”

Deglutendo a forza Haruka la guardò incredula. “La mamma lo sapeva?”

“Certo, anche se eri solo una bambina. Quando eravamo a Fót e tu iniziasti a manifestare comportamenti molto più maschili che femminili, ne parlammo qualche volta. L’unica preoccupazione di tua madre era quella che con il crescere ti saresti inevitabilmente scontrata con il mondo arcaico ed ancora prettamente chiuso del nostro tempo. Ed infatti… Scada mi ha detto come ti ha guardato quell’agente della Tributaria il giorno che sono venuti a perquisirvi casa. Mio marito non ne capisce molto di queste cose, per lui sei e rimarrai sempre la piccola di casa Tenoh, il falchetto mai stanco che non fa altro che correre a destra e a sinistra. Ma per me sei una donna fatta ormai, con tutto quello che ne concerne e se vuoi vivere questa cosa a modo tuo, io non posso che appoggiarti.”

Esalando rumorosamente la bionda tornò a mangiare china sul piatto. “Mmm…”

“Tua madre ti adorava e sarebbe sempre stata dalla tua parte.”

“Sono pronto. Allora Ruka, hai finito?”

Un altro paio di bocconi trangugiati quasi senza masticare e lei si alzò dalla sedia pulendosi la bocca in malo modo.

“E lasciala un po’ in pace! Che differenza vuoi che faccia qualche minuto in più o in meno!”

“Ne fa moglie. Con la polizia non si scherza o ci siamo dimenticati cos’hanno fatto a Jànos?”

Mirka li raggiunse già sulla porta. “Rischiano la casa della giustizia?”

“Sono delle evase, amore… Rischiano questo e altro! Su, andiamo, useremo il furgone della ditta per la quale sto attualmente lavorando. E’ parcheggiato qui vicino.”

“Va bene. - Voltandosi verso la donna, la ragazza le sorrise prendendo il contenitore di metallo che aveva tra le mani. - Grazie per tutto Mirka e scusa se sono piombata a quest’ora portandomi dietro una valanga di problemi.”

“Questa è sempre casa tua amor mio. Mi raccomando a voi, intesi?!”

“Si, lo so e qualunque cosa dovesse accadere, ti prego, bada tu a Johanna.” E si abbracciarono mentre Scada iniziava a scendere i gradini diretto al cancelletto.

“Muoviti Haruka. - Disse piano indicandole un punto indecifrato della strada. - Facciamo così; tu torna e fa preparare la tua amica. Io vado a prendere il furgone. Ci troviamo davanti a casa tua.”

 

 

Il sacrificio di Haruka

 

“Michiru svegliati.” Accarezzandole una guancia la vide aprire leggermente gli occhi e si sentì felice.

Amava quella ragazza e l’avrebbe voluto gridare a tutto il mondo se soltanto glielo avessero permesso, ed il venire a conoscenza dei sentimenti che sua madre nutriva per lei nonostante avesse capito le sue acerbe inclinazioni, non faceva che rafforzarle l’animo per quella che sarebbe stata una lunga traversata.

“Ruka…, mi sono addormentata di nuovo.”

“Hai fatto bene. - Invitandola ad alzarsi le mostrò il dono di Mirka. - Ho trovato il modo per portarti a casa. Dai mangia al volo, Scada sarà qui a breve.”

“Scada? L’amico di tuo padre?”

“Abita dalla parte opposta della strada. Mentre stavi riposando sono andata a chiedergli aiuto. - Aprendo il contenitore le mostrò lo stufato. - E sua moglie ti manda questo. Ti ridarà le energie che hai speso.”

Solcando la fronte Kaioh si trovò in disaccordo con tanta euforia. “Non avresti dovuto coinvolgerli.”

“Lo so benedetta testona, ma cos’altro potevo fare?!”

Haruka sembrava stranamente angelica, tanto che Michiru guardando il cucchiaio di carne che le stava porgendo, fu colta da diffidenza. “Dimmi la verità Tenoh; è successo qualcosa.”

“Che vuoi dire?”

“Voglio dire che sembri appena uscita da un bagno bollente e da un massaggio alle ossa.”

Scoppiando a ridere le porse il contenitore.

“Addirittura?! - Disse gettando un occhio alla finestra. - Purtroppo devi far svelta. Scada non ci impiegherà molto. Ha un furgone.”

Vuoi il poco tempo a sua disposizione, la bontà della carne e la fame che l'era rimasta nello stomaco nonostante i fagioli, anche Michiru mangiò avidamente ed in pratica non riuscì a gustarsi nulla. Carne, patate, legumi, verdura, tutti ingoiati in malo modo in una calda accozzaglia di sapori.

Abbandonando il contenitore sul tavolo, spensero il fuoco del camino aspettando nell’ingresso. Michiru notò quanto in quei pochi minuti di pace prima di rituffarsi in strada, gli occhi dell’altra si muovessero caldi su ogni superficie. Ne sarebbe passata di acqua sotto i ponti prima che Haruka avesse avuto l’opportunità di fare ritorno e non soltanto in quella casa, ma forse anche a Pest.

“Ti sei intristita?”

Scuotendo la testa l’altra afferrò la foto della sua famiglia appesa al muro accanto all’appendiabiti. “E’ successo tutto così in fretta.”

“Spiegami.” Chiese studiando la fisionomia fanciullesca della bambina bionda che circondata dalla sua famiglia, le sorrideva di rimando dal vetro di una foto in bianco e nero.

“Fino a poco prima dello scoppio della guerra avevo tutto. C’era la pace, c’erano le braccia dei miei a proteggermi, la bellezza della vita quotidiana. Le uniche cose alle quali ero chiamata si concentravano nello studio e nei giochi. Poi sono cresciuta, i miei sono morti, ho perso il lavoro e le mie prospettive universitarie. Non so neanche cosa sia successo a mia sorella. Devo lasciare la mia casa nel cuore della notte come se fossi la peggiore delle criminali e … non riesco più a volare. In una manciata d’anni ho perso tutto.”

La dolcezza disarmante di Michiru riuscì a colpirla per l’ennesima volta. Stringendosi al suo collo, lentamente e con tatto, le arrivò all’orecchio sussurrandole un ti amo che le mozzò lo sterno.

“Non hai perso tutto, Ruka; io sono ancora qui e per te ci sarò sempre.”

Ricambiando quella stretta, la gola le si sciolse arrivando finalmente a dire quello che per mesi aveva tenuto stretto nel petto come il più geloso ed inconfessabile dei segreti. “Michiru… Ti amo.”

 

 

 

Quando Scada arrivò, dovette comunque attendere che Haruka chiudesse casa. Torturandosi un’unghia, prese a tamburellare con l’altra mano sulla pelle del volante mentre i tergicristalli danzavano ipnotici davanti ai suoi occhi. Cosa sarebbe accaduto alle figlie di Jànos ora che la situazione si era trasformata da difficile in drammaticamente complicata. Johanna ferita ed Haruka spinta nell’incertezza di una fuga che con molta probabilità non avrebbe portato a nulla di buono. Era angosciato come se fossero state sue quelle due ragazze cresciutegli davanti e come un padre, sentiva tutta l’impotenza della crudeltà della vita che scorre.

“Eccoci.” Lo sportello del lato passeggeri si aprì e ne emerse una bionda guardinga.

“Alla buon’ora Tenoh.” Rimproverò lui scoprendo finalmente il viso della seconda fuggitiva.

Issandosi nella cabina, Michiru gli sorrise ringraziandolo prontamente.

“Non è un problema signorina.”

“Avevo capito che fosse tutto l’opposto Scada.” Sistemandosi contro la spalla della compagna, Haruka fece capolino sarcastica.

Contrariato l’uomo si accorse del berretto che la ragazza portava ben calzato sulla testa, riconoscendolo. Era quello che aveva sempre visto sulla chioma di Jànos e che ne aveva in qualche modo cadenzato la cromia; dal biondo cenere della gioventù, al brizzolato di un età più matura.

“Sempre il solito brutto carattere. - Sentenziò girando la chiave sul cruscotto facendo finta che il rivedere quell’oggetto non l’avesse in qualche modo colpito. - Di questo passo non ti accaserai mai.”

E mettendo finalmente in moto partì illuminando la coltre bianca con la luce giallognola dei fari. Inghiottito dalla notte e dalla ripresa massiva di una nevicata che sembrava proprio non voler finire, il furgone sparì, lasciando negli occhi di una Mirka rimasta di vedetta dietro il vetro della finestrella accanto alla porta, solamente una gran pena.

Il tragitto fu arduo, molto più di quel che Scada immaginasse. Aveva già guidato in situazioni proibitive come quella, soprattutto in Russia, durante la guerra, ma fece fatica lo stesso, in particolar modo lungo le campate del ponte della Libertà, dove per via delle fortissime correnti incanalatesi lungo il letto del Danubio, la neve sulla massicciata aveva assunto una consistenza simile al ghiaccio.

Appena riusciti a giungere a ridosso del secondo distretto, Michiru iniziò ad indicargli la strada, intimamente più serena nel ritrovare in quel grigiore oscuro, punti di riferimento a lei ben noti, come la cancellata orientale del parco cittadino dov’era solita arrivare quando si stava preparando per la gara di corsa e dove l’ÁHV l’aveva inseguita, la sede di Economia della BME, la piazzetta del suo bistrò preferito, dove lei e i membri della voce di Buda si riunivano per due chiacchiere dopo le lezioni.

“Ci siamo quasi signor Scada.” Sporgendosi in avanti socchiuse gli occhi.

“Devo proseguire dritto?”

“Si, fino alla seconda traversa. Poi deve voltare a sinistra.”

Un pò disorientata, Haruka la guardò stirando leggermente le labbra. Sentiva la frenesia nella voce di Michiru e sapeva da cosa dipendesse. Sicuramente era per la certezza che da li a breve avrebbe riabbracciato il padre ed un poco ne provò invidia.

Sei tutta un fremito, mia dea, pensò poco prima che il piede destro dell’uomo non schiacciasse violentemente sul freno.

“Porca puttana!” Si lasciò scappare premendo la schiena contro il sedile.

Bloccando il contraccolpo sul cruscotto con il palmo della destra, la ragazza lo guardò contrariata. “Che c’è?!”

“Guarda la! - Indicò lui con un colpo di mento spegnendo motore e fari. - C'è un veicolo parcheggiato con le luci accese.”

Dilatando i polmoni al gelo dell’abitacolo, Haruka intuì dall’espressione messa su da Scada a quale tipo di automezzo potessero appartenere.

“Credi sia una berlina della Polizia?”

“Potrebbe. Vado a dare un’occhiata.” Ed aprendo lo sportello scese.

“Dannazione. Aspettami! - Disse facendo altrettanto. - Michi resta qui. Facciamo subito.”

“Ma…” Inutile obbiettare. Vedendosi lo sportello sbattuto in faccia, sospirò pesantemente storcendo la bocca.

Velocissima la bionda raggiunse l’uomo dietro ad un’edicola di giornali. “Riesci a vedere chi siano?”

“No. Ma nell’abitacolo c’è qualcuno e la macchina sembra…”

“Sembra il modello in uso alla Polizia Segreta…”

Guardandosi, rincularono tornando sui loro passi. Michiru li vide riemergere e risalire a bordo.

“Allora?”

“Potrebbero essere gli sbirri. Non possiamo rischiare. Ci sono altre strade per arrivare a casa tua?”

“No Ruka. Abito in una senza uscita.”

Maledizione! Imprecò Scada riaccendendo il motore ed ingranando la retromarcia.

“Dove vai?!”

“Tenoh dobbiamo allontanarci da qui il più velocemente possibile!”

“No, aspetta! - Ne fermò la manovra serrandogli il braccio. - La casa di Michiru è a due passi e se non fossero quelli che crediamo?”

“Chi vuoi che siano a quest’ora e con questo tempo? Molto probabilmente è un posto di blocco.”

“Possiamo andare a piedi.” Se ne uscì presa dalla frenesia di voler portare in salvo la sua compagna.

“Per me non sarebbe un problema.” Replicò Kaioh guardandoli alternativamente. Non era certo un peso, o almeno non voleva esserlo.

“Non si tratta di questo signorina. Con o senza mezzo dovremmo per forza di cose passargli davanti. Tocca tornare indietro ed inventarsi qualcos’altro.”

“Non necessariamente!” Haruka balzò nuovamente fuori.

“Che intenzioni hai?” Scada conosceva troppo bene quel diavolo biondo per non provare una certa agitazione nell’afferrarne la sicurezza nel timbro.

Voltandosi la bionda guardò entrambi non dilungandosi troppo nello spiegargli che avrebbe provato a distrarre gli occupanti del mezzo mentre loro ne avrebbero approfittato per sgattaiolare via a piedi.

“Non esiste Ruka. E se si trattasse della Polizia?!”

“Poco male Kōtei! Vuol dire che li seminerò come ho già fatto in passato.” Convinta del fatto suo si tolse il berretto del padre posandoglielo tra i capelli.

“Ci tengo in particolar modo. Abbine cura fino al mio ritorno.”

A quelle parole l’altra si sporse fuori dalla cabina afferrandole il giaccone per le spalle. “No, aspetta!”

“Non è necessario Tenoh!” Fece eco l’uomo scendendo per provare a fermarla.

“Amore…”

“Non preoccuparti. - Sospirò la bionda mentre non vista, lasciava scivolare il suo Kès nella tasca del cappotto di lei. - Non ci metterò molto.” E staccandosi a forza, si allontanò prima che Scada riuscisse a raggiungerla.

Forse Haruka lo sapeva, forse aveva già intuito la portata che quel gesto apparentemente sconsiderato avrebbe avuto sulla vita sua e di Michiru. Sacrificio d’amore o semplice prova di coraggio, lo avrebbe scoperto solo al trovarsi faccia a faccia con gli occupanti di quella macchina nera, che più si avvicinava alla nitidezza della sua vista, più sembrava nota.

Così si divisero ancora, come tanto tempo prima, in una giornata di settembre, su quella strada di basalto scuro, quando i loro occhi chiari si erano fusi per la prima volta; la piccola gru di Buda ed il giovane falco di Pest.

 

 

 

NOTE: Ciau. Mai fatto tanto ritardo! Perdonatemi, ma ho dovuto fare una consegna e ho visto la tastiera solo per disegnare. E questo darà quello che mi aspetta nelle prossime settimane. Non so quindi quando riuscirò a finire il prossimo capitolo e soprattutto che grado di scrittura avrà, ma cercherò di buttarlo giù, magari anche con una sola paginetta al giorno. Ci stiamo avvicinando alla fine e manca solo la resa dei conti tra Alexander Kaioh e Haruka. Non posso certo lasciarvi in sospeso, giusto?! Un abbraccione e grazie per la pazienza ;) PS Non è che abbia riletto molto attentamente... perdonatemi anche per questo....

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXIV

 

 

Amara verità

Pest – Distretto VII, Distaccamento della Polizia Tributaria

 

Sentì formicolare le dita della mano destra, le uniche che riuscisse ancora a muovere, le uniche che non avessero ancora ricevuto qualche pestone. Inalando un po’ più di ossigeno, avvertì l’ennesima stilettata al costato ed incurvando le spalle tornò a lasciarsi mordere la pelle dei polsi dalle manette che la stavano tenendo relegata su una sedia di ferro della sede della Polizia Tributaria. Quanto era passato da quando erano riusciti ad arrestarla? Una giornata? O forse due?

Aveva presto perso il contatto con il mondo esterno e la cognizione del tempo che lo governa, non soltanto perché chiusa in un ambiente buio, privo di finestre, ma anche e soprattutto per una brutalità fisica che come donna, in tutta onestà non si sarebbe mai aspettata di ricevere. Così tra una perdita di coscienza e l’altra, erano passate le ore, si erano susseguite le guardie che l’avevano interrogata, così come le manganellate che le si erano abbattute sulle spalle e nello sterno. Trascinata da una stanza all’altra per corridoi freddi e deserti, come una discesa dantesca verso i gironi più nefasti del personale inferno che quella gente stava scrivendo per lei, Haruka Tenoh, rea di essere evasa dalla casa circondariale della Luce, era diventata l’inconsapevole chiave di volta di una vicenda più grande di lei e non importava se fosse una ragazza poco più che ventenne, anzi, il suo sesso sembrava quasi irrilevante per degli uomini che avevano come solo fine il farsi dire dove fossero scappate le figlie dell’ex Generale Aino.

Non importava a nessuno che fosse una donna, anche se forse per alcuni punti di vista poteva dirsi un bene, perché il suo vestire al maschile aveva portato sdegno e non la lussuria che in certi casi porta alla violenza sessuale. Guardata come una bestia rara o chissà quale scherzo della natura, si era almeno risparmiata visitine singole o di gruppo, preludio a disgustosi stupri.

“Dove sono le sorelle Aino?!” Le urlò contro il solito galoppino del Commissario, che semiseduto sul tavolo davanti a lei con una cartellina fra le mani, aveva delegato all’altro di porle l’ennesimo giro di domande.

Scuotendo piano la testa la ragazza tornò ad abbassarla cercando di non dare a vedere quanto tutto quell’urlare iniziasse a destabilizzarle i nervi. Continuamente, ad ogni colloquio, con qualunque persona cercasse d’interagire, le urlavano contro e se all’inizio questa specie di prevaricazione psicologica l’aveva fatta sorridere, adesso, dopo tutte le botte prese, il male sordo che ad ondate le invadeva muscoli, ossa e carne, aveva sulla sua psiche lo stesso potere di un gesso sulla lavagna.

O apa, aiutami, pregò facendo cozzare i denti gli uni contro gli altri.

“Sicuramente le conoscete come Tzukino, non è così signorina Tenoh?” Sottolineò il Commissario continuando con inquietante tranquillità a leggere stralci di documenti.

“Vi ho già detto che non so nulla. Non sapevo che fossero le figlie di Ferenc Aino …- in questo mentì. - … e non sono evasa con loro.” Cercando di ridare alla voce una timbratura più ferma, se la schiarì con un deciso colpo di gola.

“Non sapevo neanche che fossero scappate.”

“L’agente Thöryn afferma il contrario.”

“L’agente Thöryn ha frainteso!” Una frazione di secondo ed al galoppino partì la mano che andò a colpirla sull’orecchio sinistro.

Alzando un braccio il Commissario intimò al collega di fermarsi terminando la rilettura dei fogli per voltarsi finalmente verso di lei. Sporgendosi in avanti la fissò con fare sicuro. Fino a quel momento era l’unico che ancora non si era sporcato le mani.

“In che senso... signorina?”

Faticosamente Haruka ripeté la solita pappardella, ovvero che aveva dovuto mettere in funzione un furgoncino per permettere alle guardie della casa della luce di portare in ospedale un agente ferito, che guidando il mezzo all’aperto si era accorta che il capo squadra Shiry era stata tramortita e che il cancello di servizio fosse parzialmente aperto.

“Se mi avesse fatto spiegare prima di spararmi contro, non saremmo state costrette a darci alla fuga.”

“Voi e la signorina Kōtei…”

“Io e la signorina Kōtei.”

Quanto era stanca, le si chiudevano gli occhi, ma le uniche pause da quell’assurdo supplizio fatto di domande e risposte, sempre uguali, ripetute all’infinito, erano quando le percosse la facevano svenire. Piccole parentesi d’incoscienza benedetta alle quali in genere veniva sottratta con l’ausilio non certo piacevole di una secchiata d’acqua gelata. Quella di non permetterle di dormire era un’altra subdola bastardata per farla crollare.

“Ci risulta che la guardia ferita sia vostra sorella maggiore, certa… - controllò al volo nei fogli. - ... Johanna Tenoh. E questo potrebbe anche avvallare il vostro racconto o portare alla suddetta un’accusa di favoreggiamento.”

“Johanna non centra niente!” Fulminò.

“Questo lo appureranno gli agenti dell’ÁHV. Siete al corrente del trascorso attivista della signorina Michiru Kōtei?”

La bionda tornò a scuotere la testa. “Mi ha solo detto che è stata la causa del suo arresto, ma altro non so. Ve lo assicuro.”

“E che sia la figlia di un ricco banchiere?” Interruppe l’altro.

“In una prigione cosa vuole che importi?”

Ritirando su la schiena, il Commissario scorse il sottile rivolo di sangue ormai coagulato far capolino dalla fronte, proprio all'attaccatura dei capelli. “Importa, perché vede signorina Tenoh, come nella vita, in una prigione è proprio il denaro ha fare la differenza e se se ne possiede molto, si potrebbe anche pensare di usarlo per evadere e portare con se le figlie di un nemico del popolo ungherese.”

Ad Haruka sembrò utopia, ma in realtà la trama che quell’uomo stava cercando di scrivere per lei e le altre era la più ovvia di tutte. Michiru le aveva detto di aver fatto parte dello schieramento del Generale Aino e visto l’amicizia con le sue figlie, era naturale pensare di far uso di una piccola parte del patrimonio di famiglia per scappare e portare con se le due biondine. Già e lei? Haruka Tenoh, figlia di Pest, operaio metalmeccanico, studentessa d’ingegneria, in tutto quell’abbacinante gioco alla Mata Hari, cosa poteva entrarci? Era forse solo la quarta ruota di un carro che senza l’ausilio di un redivivo motore a scoppio non avrebbe fatto muovere le restanti tre?

“Signorina, ci avete detto che siete riuscita a rimettere in funzione un mezzo della prigione e questo ci è stato confermato anche dalla Direttrice Setsuna Meioh.”

“Allora se sapete già tutto, perché continuate a farmi le stesse domande?”

“Perché confermare una singola azione non vuol dire ammettere la totale verità!”

Stirando le labbra ferite quanto basta per riaprirne i tagli, Haruka se lo guardò quasi divertita. “Credete davvero che la signorina Kōtei abbia usato i soldi di suo padre per pagare il mio lavoro su un furgone che avrebbe permesso a lei e alle Aino di evadere?”

"E a voi..."

“Vi ripeto che non era mia intenzione fuggire. Ho usato le mie competenze da meccanico solamemte per cercare di salvare la vita di mia sorella, cosa che dalle mie parti vale molto di più di un mazzetto di banconote.”

Muovendo in aria il braccio lui ammise che poteva benissimo trattarsi di una fortuita coincidenza.

Fortuita coincidenza? Pensò la bionda abbandonando nuovamente il collo mentre con la memoria volava a qualche ora prima che tutto quel casino deflagrasse peggio di una granata in una mensa. Johanna che le sorrideva mentre le aggiustava la giacca e lei a raccomandarle di stare attenta durante la ronda, come se si sentisse qualcosa dentro, come se quello spicchio di pura serenità tra sorelle potesse essere l’ultimo.

“Non ho ricevuto denaro dalla signorina Kōtei. Non ho aggiustato il furgone per mettere in pratica un piano di evasione e non so assolutamente nulla delle sorelle Tzukino o come diavolo si chiamano.”

Allora il galoppino, che tanto sembrava provar gusto nell’umiliarla, tornò incalzante. “Visto che eravate compagne di cella forse non vi ha promesso del denaro, forse è altro che una donna come voi avrebbe voluto ricevere in cambio di un favore.”

Serrando la mascella Haruka tornò il Turul di Pest e lo fece inchiodando addosso a quel mezzo servo di partito due smeraldi traboccanti d'improvvisa ira. “Scusate..., credo di non aver afferrato bene la vostra allusione.”

“Ma andiamo, l’avete afferrata benissimo altrimenti non mi guardereste così… signorina.” E quel titolo di cortesia sembrò improvvisamente lordato.

“Non permettetevi.” Urlò lei trattenendosi a stento.

“Allora avevo visto giusto e ditemi, il pagamento c’è già stato? E per la signorina Kōtei siete stata solo il capriccio di una trasgressione o la conferma di una perversione?”

E l’otre si colmò, Haruka abbandonò la strada della sopravvivenza per lanciarsi a capo fitto in quella della follia imboccando così il burrone del non ritorno. Riuscendo ad alzarsi dalla sedia ed usando la madre dell’uomo per apostrofarne mansioni di strada, gli inveì contro fino a quando un manganello uscito chissà da dove non le si abbatté sul collo tramortendola all'istante facendola ripiombare pesantemente sulla seduta.

“Che grandissima bastarda questa invertita!” Grufolò borioso pronto a colpire ancora.

“Basta così! Ci serve viva. Portatela di là. - Disse il Commissario arpionandole i capelli per guardarla. - Se non vorrete collaborare con noi signorina Tenoh, allora lo farete con ÁHV, alla casa della giustizia.”

 

 

Fót – Sobborgo nord orientale di Budapest, Agosto 1940

 

Un tuono in lontananza e Johanna smise di guardare le trote seminascoste tra il pietrame del torrente per puntare i suoi grandi occhi grigio acciaio all’ammasso temporalesco che stava formandosi a ponente. Sorrise, perché quel tempo le piaceva, perchè era capace d'indurle forza, perché avrebbe spazzato via in pochi minuti il caldo soffocante di una stagione torrida, dando alla terra un’inconfondibile odore di bagnato. Un altro tuono e decise di alzarsi per iniziare ad incamminarsi verso il villaggio. Se si fosse bagnata ancora questa volta Jànos gliele avrebbe suonate di santa ragione. Pochi balzelli sul greto erboso per iniziare a corricchiare sullo sterrato.

Arrivata al bivio per il paese, vide una bambina inginocchiata davanti alla grande vasca in pietra della fonte dov’erano solite abbeverarsi le mucche. La riconobbe subito. Capelli corti, biondi, corporatura esile, carnagione abbronzata cinta da una canottiera bianca e da un paio di pantaloncini blu scuro. Rallentando aggrottò la fronte.

“Haruka.” Chiamò vedendola irrigidire la schiena.

“Cosa ci fai qui?! Hai sentito i tuoni? Tra non molto pioverà.”

“Ho sentito.” Rispose continuando a bagnarsi il viso.

“E allora? Dai muoviti o prenderemo l’acqua.”

Ma la sorella non lo fece. Poggiandosi con gli avambracci al bordo della vasca sbuffò sonoramente iniziando a lagnarsi.

“E’ un altro il mio problema adesso.”

“E cioè?”

Voltandosi la più piccola raddrizzò tutta la postura mostrando con una certa dose d’orgoglio mal celato, la tumefazione che stava iniziando a scurirle parte del viso.

“O Signore. - Andandole vicino Johanna le alzò il mento studiandone i lineamenti. - Chi è stato?!”

Stizzita l’altra si scansò guardando in terra. “Nessuno! Sono caduta!”

“Sopra un pugno, Ruka?!”

“Spiritosa…” Calciando un sasso si piantò le mani nelle tasche gonfiando le guance.

“Allora?”

“Il figlio del mugnaio.”

“Che bastardo! E’ più grande di me!”

“E ce le ha prese!” Urlò cacciando fuori due pugnetti minacciosi.

“Si, ma vedo che le hai prese anche tu e nostra madre ti darà il resto, lo sai.”

“Mmmm… Le dirò che sono caduta.”

“Ancora?! Perché ogni volta che torni a casa dopo aver fatto a botte tiri fuori questa scusa? La mamma non ci casca mai. - Sedendosi sul bordo della fonte incrociò le braccia al petto. - Mi spieghi almeno il perché ti sei battuta con un sedicenne?”

“Perché è un cretino, ecco perché!”

“Questo lo so. Non brilla per ingegno e simpatia, ma arrivare a battersi…”

“L’ho fatto per te! Per difendere il tuo onore!” Disse tenendo serrate le mani lungo i fianchi come una piccola guerriera d’altri tempi.

Alzando le sopracciglia Johanna iniziò a capire. “O Ruka. Lo sai come sono fatti i ragazzi di paese, no?!”

“Si è permesso di dire che vi siete incontrati nel deposito del grano e…” Lasciando cadere la frase iniziò a grattarsi il collo arrossendo un poco.

“E… ?”

“Be si, lo sai.”

“Ci siamo baciati? O peggio?”

“Si.” Masticò sentendo la rabbia tornare.

In effetti quell’incontro c’era stato e la ricerca da parte di lui di un approccio non propriamente amichevole, anche, ma forte di una parlantina invidiabile Johanna era riuscita a tenerlo a bada e a togliersi abbastanza agilmente da quel potenziale pericolo.

“Mamma ci ripete sempre di stare attente ai ragazzi di quell’età, perché alle volte da quel punto di vista sono parecchio esuberanti. Perciò stai tranquilla Ruka.”

“Io sono tranquilla e lui che va a dire in giro quelle cose.”

Tirando su con le spalle Johanna se la rise. “E tu lascialo fare. Presto torneremo a Budapest, che vuoi che me ne importi se un campagnolo qualunque si riempie la bocca con allusioni di quel tipo.”

“Importa a me!” Abbaiò spostando la rabbia dal ragazzotto alla sorella.

“E a me importa che tu non ti faccia male! Mi fa piacere che il mio Turul personale voglia proteggere il mio onore, ma guarda anche chi sta provando ad infangarlo. - Improvvisamente seria si alzò arpionandole la fronte con la destra scuotendogliela un paio di volte. - Non ne vale la pena con gente così. Dai, muoviamoci. Lungo la strada cercherò d’inventarmi una scusa degna di questo nome.”

“Non capisco.”

Uscendo dallo spiazzo in terra battuta che perimetrava la fonte, presero la strada mentre le prime enormi gocce iniziavano a cadere. “Vedi, anche se gli avessi cambiato i connotati a suon di pugni, lui avrebbe comunque continuato a sparlare di me, perché è un cretino ignorante. Haruka non abbassarti al suo livello, tu vali molto di più per gettar bile su cause perse in partenza.”

Inchiodandosi la sorellina se la guardò storta. “Io continuerò sempre a difendere l’onore delle persone che amo, Jo!”

L’altra l’imito sospirando. In fin dei conti quell’atteggiamento protettivo le faceva piacere, perché voleva dire che teneva a lei.

“Devi imparare l'arte della diplomazia, altrimenti capiterà che ce le prenderai Ruka mia.”

 

 

Sentendo la porta aprirsi e la corrente investirla in pieno, cercò di aprire gli occhi ritrovandosi a fissare le suole delle scarpe di un uomo. Solo allora si rese conto di essere rannicchiata su di un fianco, sulle fredde mattonelle di una stanza illuminata dal neon di una lampada, con ancora i polsi legati dietro le spalle.

“Non v’immaginate neanche quanto questa scena mi esalti, signorina Tenoh.”

La voce fastidiosa dell’agente Thöryn le arrivò come un poderoso senso di nausea. Ancora quell’uomo e questa volta sapeva di non poter fuggire o difendersi. Questa volta era alla sua mercé.

Lo zigomo le faceva un gran male, ma riuscì ugualmente a muovere la mascella per parlare. “Ancora sulla mia strada agente? Sta diventando una piacevole abitudine.”

Cercando di spostarsi meglio sulla spalla destra, inarcò il collo vedendolo afferrare la sedia al centro della stanza per poi sedervi di peso.

“Devo dire di essere d’accordo con voi, almeno questa volta.” Schernì accavallando le gambe.

“Cosa volete da me?” Andando subito al dunque, sospirò abbandonando nuovamente la testa sul piastrellato gelato.

“Da voi nulla. Era dalla vostra compagna di cela che mi aspettavo qualcosa.”

A quelle parole la bionda tornò vigile continuando ad ascoltare.

“Vedete, avevo in mente un piano per la pensione, un piano che mi avrebbe portato tanti di quei soldi da permettermi il ritiro anticipato sulle sponde del Don. Errore mio non essermi preoccupato di voi, Haruka. Come avrei potuto immaginarvi amica e complice di una ragazza come quella. Voi che siete, bè, quello che siete. Non potrebbero esserci due anime tanto diverse al mondo.”

“Spiegatevi.” Incalzò lei sempre più sul chi vive.

“Ma si! Vi dirò tutto. Tanto tra non molto verrete trasferita e di voi non rimarrà che un semplice ricordo su una scheda. - Alzandosi le si accovacciò davanti. - Avevo pensato di rapire la vostra bella compagna di sventura per chiedere un lauto riscatto a suo padre. Avevo già sbattuto sulla faccia di quell’altezzosa femmina che dirige la casa della luce, l’ordine di scarcerazione. Falso naturalmente. Ma poi…” Tornando eretto si afferrò i fianchi alzando il cappotto come un grottesco pipistrello.

“Poi vi siete messa in mezzo voi con quell’assurda evasione!”

“Quante volte ancora dovrò ripetervelo!? Non stavamo cercando di evadere! E' stata vostra la colpa! E lo sapete benissimo!"

“Poco male! Sta di fatto che il mio piano è andato all’aria ed il miraggio di spillare al signor Kaioh soldi a sufficienza per vivere da nababbo, anche!”

Haruka non avvertì neanche il pestone che la raggiunse ad una coscia. Kaioh. Aveva detto proprio Kaioh?!

Riafferrando ossigeno, tornò a guardare Thöryn cercando conferme.

“Kaioh?!”

“Si. Alexander Kaioh. E’ da quando la sua unica figlia è stata arrestata che sta facendo di tutto per farla scarcerare. Ho perso il conto delle porte al quale ha bussato o delle ruote che ha cercato di ungere.”

“Michiru è… Il padre di Michiru è…” Si rese conto di stare balbettando mentre il cuore iniziava a correre.

“... E’ il banchiere Alexander Kaioh. Si, certo. - Muovendo una mano per l’aria ricordò la scheda della ragazza. - E’ stata registrata con il cognome Kōtei. Bè, non mi meraviglia vista la posizione politicamente poco invidiabile che quel banchiere sta affrontando per colpa della figlia. Una dissidente alle dipendenze di Ferenc Aino. Al Regime non è piaciuta affatto questa storia, ma sono sicuro che l’ammontare spropositato dei beni della loro famiglia toglieranno presto dagli impicci quella ragazzina.”

Non m’importa del cognome che hai scelto di adottare, per me sei e rimarrai sempre Michi. Di tutto il resto non conta, te lo assicuro.”

Dici sul serio?”

“… Si.”

La figlia dell’uomo responsabile della morte del suo apa.

Sentendosi la testa scoppiare, Haruka cercò di mettersi seduta. Puntando la fronte a terra, fece leva montando rabbia.

“Siete un bugiardo!

“Io? E perché mai dovrei mentirvi?”

Ed era vero. Quel viscido homunculus creato dalla smania di emergere da una condizione d'inadeguatezza, non aveva assolutamente alcun motivo per inventarsi una storia tanto assurda.

“Voglio uscire! - Forzando sul quadricipite destro iniziò a sollevarsi. - Toglietevi dai piedi!”

Arretrando il collo divertito, l'agente vide in quell’improvvisa intolleranza la scusa per ripagare quella bionda della cicatrice che gli campeggiava sulla guancia. Arpionandole una spalla stirò le labbra in una smorfia sghemba.

"Se fossi in voi cercherei di darmi una calmata e di essere un pò più ... diplomatica, signorina."

"Al diavolo la diplomazia! Fatemi uscire di qui!"

“Mi rendete tutto troppo facile.” Ilare serrò il pugno destro alzandolo a mezz’aria verso il viso della donna.

 

 

Un gesto generoso

 

La macchina procedeva senza rapidità. Le strade ancora semi bloccate dalla neve non permettevano di andare oltre la seconda marcia. Una berlina nera con a bordo quattro agenti; uno alla guida, uno sul lato passeggero e due dietro, sul grande sedile di pelle, a far da guardiani a lei, ammanettata ed incappucciata, ancora mezza tramortita per il brutale pestaggio che Thöryn le aveva riservato. Già, lui non era stato aggiunto alla scorta, forse perché ancora adirato per la notizia arrivata al commissariato della tributaria un paio d’ore dopo la conversazione avuta con Tenoh. Un ordine ben preciso, che lui aveva accolto male, per non dire malissimo, additando gli stessi vertici della polizia di essere corrotti, di guardare oltre la giustizia che avrebbero dovuto rappresentare. Pensieri stridenti ed ipocriti dati dallo stesso agente che giorni prima aveva imbastito l’affare Michiru Kaioh fin quasi a vederne il successo.

Un ordine che aveva spinto Haruka Tenoh, ferita, bloccata e con un sacco in testa, dentro l’auto ad una tale velocità che lui quasi non se n’era reso conto. Una ragazza convinta di stare per entrare nel ventre molle della casa della giustizia da dove con ogni probabilità non ne sarebbe più uscita viva.

L’automezzo arrivò a destinazione circa venti minuti dopo. Sotto un cielo livido, si fermò davanti al grande edificio non spegnendo neanche il motore. Ad attenderlo sul marciapiede, un uomo alto, ben piazzato, dagli occhi blu. Il viso stanco, la mascella serrata, la postura ritta come quella di una sentinella.

Vide uscire due di loro; quelli seduti dietro. Li osservò. Mettevano i brividi. Eppure erano uomini come lui, magari anche di caratura inferiore, persone che se incontrate senza quei cappotti scuri dalle mostrine lucide, avrebbero fatto sorridere per la loro pochezza. Ma sta di fatto che al pari degli agenti della polizia segreta, anche quelli della tributaria aveva ormai acquisito una gran brutta nomea.

Senza far trasparire alcuna emozione, uno di questi afferrò la ragazza per un braccio trascinandola sul bordo dal sedile ed una volta liberatale i polsi, la issò attendendo l'aiuto del collega. Poi afferrando le ascelle della malcapitata percorsero i pochi passi che li dividevano dal cancello.

“Ecco la ragazza.” Disse uno liberandola dal cappuccio che proteggeva alla vista del mondo lo scempio che erano riusciti a farle al viso.

L’uomo che aspettava non disse nulla, anche se nel vedere quelle tumefazioni che le stavano impedendo di aprire addirittura la palpebra sinistra, provò un umano senso di pena. Avvertendo la luce del primo pomeriggio, lei si ritrasse come a volersi proteggere l’occhio ancora sano e voltando il viso lo abbassò di colpo. In quella sorta di delirio che era diventata la sua incostante incoscienza, Haruka si sentì i polsi liberi ed il corpo non più sorretto dai due, improvvisamente molle.

“La consegna è stata effettuata. Buona serata.” E facendo all’unisono dietrofront, tornarono verso la berlina salendovi e sbattendone rumorosamente gli sportelli si allontanarono definitivamente nel biancore dal secondo distretto.

Afferrata al volo, la bionda guardò l’uomo, ma non lo riconobbe. Vinta da un giramento di testa e da un lancinante dolore fisico, sentendo le orecchie fischiare andò giù come un piombo.

 

 

Erano stati due giorni terrificanti che mai avrebbe immaginato di dover passare. Spinta dall’ansia e da un profondo senso di colpa, al suo rimettersi, Michiru aveva vissuto quel ritaglio di vita senza Haruka facendo avanti ed indietro nella sua stanza, tra gli oggetti della sua passata quotidianità di giovane universitaria e che ora neanche vedeva più. I libri, compagni di tante sere, le tele, sorelle del suo spiccatissimo senso artistico, financo l’amico a lei più caro, il violino, ormai dimenticato nella custodia di raso nero abbandonata sopra la consolle. Niente aveva potuto dare conforto alla sua pena. Niente, neanche suo padre, riabbracciato tra le lacrime e l’enfasi di un ricongiungimento tanto rocambolesco. Tutto quello che sapeva era che Haruka era stata inghiottita dalla tundra siberiana di quella notte e quello che le era rimasto di lei era il suo Kès, ritrovato nella tasca del cappotto ed il berretto che ora non faceva che stringere nelle mani. Fragranza di un uomo a lei sconosciuto e della sua adorata bionda.

Chi conosceva perfettamente che fine avesse fatto Tenoh era invece Alexander, che visto le condizioni fisiche, ma soprattutto psicologiche nelle quali versava la figlia, aveva preferito tacere sul fatto che fosse stato avvertito da un amico della cattura e successivo arresto della figlia di Jànos da parte della tributaria e del pericolo concreto di un suo successivo trasferimento alla casa della giustizia. La sua bambina sembrava essere molto affezionata a quella ragazza, tanto che più volte si era soffermato a studiarne i sospiri, gli sguardi assenti lanciati ai vetri della finestra, il vai e vieni del suo incedere sulle scale. Su e giù ad ogni suonata di campanello. Su e giù ad ogni movimento in giardino.

Così sapendo di non avere tempo, incalzato anche da Scada Erőskar, amicizia nata da ragazzi sui banchi di una scuola del sesto distretto, Kaioh si era rinchiuso del suo studio ed una volta saputo dal dottor Börcs che il principio di congelamento di Michiru era stato superato, si era gettato anima e corpo nel tentativo di tirare fuori dai guai le due evase. Aveva già unto parecchio per far cadere le accuse di sovversione che pendevano sul capo della figlia e non avrebbe dovuto far altro che aggiungere qualche zero per far chiudere al Ministero di Grazia e Giustizia entrambi gli occhi sulla sua evasione. Ma per Tenoh le cose erano diverse. Per lei avrebbe dovuto fare molto di più.

 

 

Quando i suoi occhi si posarono sul bel volto orrendamente gonfio di quella che avrebbe benissimo potuto essere sua figlia, ad Alexander non rimase altro che sollevarne da terra il peso e stringerselo tra le braccia. La sentì tremare e gemere prima che l’incoscienza gliela facesse afflosciare contro.

Non la lascerò morire così Jànos. Puoi starne certo, pensò varcando velocemente il viale ben ripulito mentre gettava al signor Takaoka una voce.

“Vada immediatamente a chiamare il dottor Börcs!” E l’altro, rimasto fino a quel momento vigile accanto alla porta d’ingresso, eseguì schizzando come un furetto verso il garage.

Entrato in casa ordinò alla cameriera bloccatasi sul pomello di metallo dell’anta, di preparare una bacinella d’acqua calda, degli asciugamani e del sapone, poi rivolgendosi alla figlia impietrita sul finire delle scale, le fece cenno di seguirlo al piano di sopra.

“Forza Michiru, devi aiutarmi a toglierle questi vestiti di dosso e a darle una pulita prima che le ferite s’infettino.” Ma lei niente.

Ad occhi sbarrati, le mani portate alla bocca per placare un urlo, sembrò non aver capito una sola parola.

“Michiru, muoviti!”

Già a metà scala lui si fermò una frazione di secondo adirato con tutto il mondo. Come diavolo si poteva ridurre una donna in quello stato?!

E finalmente la figlia si scosse raggiungendolo per poi precederlo aprendogli la porta della stanza degli ospiti. Sentiva di stare per perdere il controllo, di stare per piangere nella disperata necessità che aveva di abbracciare quel corpo piagato. Guardò il padre adagiare delicatamente Haruka sul materasso, toglierle le scarpe e i calzini gelati.

“Come si sono permessi. Bestie!” Lo sentì ringhiare mentre iniziava a massaggiare la pelle dei piedi della ragazza.

Per Michiru era una cosa inedita vedere il padre in quello stato di violenta prostrazione. Forse solo alla notizia della consunzione della moglie, quando preso dalla collera contro un nemico immaginario Alexander aveva mostrato il peggio di se scagliando inutilmente imprecazioni e pugni contro una parete. Ma erano ricordi di ragazzina, sbiaditi dal tempo e dalla vita che passa.

Quando la cameriera e la figlia iniziarono a spogliare Haruka, Alexander uscì dalla stanza per andare ad aspettare Hisla giù da basso. Cosa sarebbe successo a quella povera creatura se non avesse promesso al Regime un suo immediato ritiro dalle scene dell’alta finanza ungherese? Un prezzo altissimo per un’altrettanto alto servizio che sentiva di dovere a Jànos. Il rischio del crollo finanziario della sua famiglia per ridare ad Haruka la sua libertà.

Un potente mal di testa gli esplose proprio quando il rombo dell’utilitaria di famiglia gli annunciò l’arrivo del dottore. Non fu consolatorio vederlo entrare in casa con gli occhi ancora carichi di sonno. Molto probabilmente la discrezionalità del signor Takaoka aveva fatto si che il medico non arrivasse a capire a pieno cosa fosse realmente successo al fantomatico ragazzetto biondo che Alexander si era caricato tra le braccia.

“Cosa diavolo è successo?!”

“Vieni Hisla, si tratta della figlia di Jànos.”

"Avevo capito si trattasse di un ragazzo..."

"No, e' Haruka.

“Sei riuscito a strapparla alla Tributaria?!” E ne fu sorpreso al punto da inchiodarsi sulla porta ancora aperta.

Da quando Johanna Tenoh era riuscita a parlare con l’amico, Hisla sapeva tutto di Haruka, dall’arresto alla sua amicizia con Michiru, ma mai si sarebbe aspettato un’evasione, tantomeno che Alexander avrebbe fatto così tanti compromessi per rivederla libera. Evidentemente i sensi di colpa che nutriva verso Jànos erano molto più profondi di quel che l'amico pensasse.

“Si, ma non sta bene. E’ stata pestata a sangue. E’ incosciente e non sono riuscito a capire se abbia o meno un’emorragia interna.”

“Addirittura!” Allibito lo seguì stringendo la sua borsa nella destra.

“E’ svenuta quasi subito e da allora non ha ancora ripreso conoscenza.”

“Va bene. Vediamo di darle un’occhiata.”

“E’ stata in quella caserma due giorni. Hisla devi anche controllare se per caso non abbia subito… violenza.” L’ultima parola la sussurrò appena.

Sospirando il medico scosse il capo stringendo le labbra. “Fidati della mia discrezione.”

 

 

Non riusciva a smettere di guardarla. Proprio non riusciva. Al massimo lasciava vagare gli occhi dal costato, alle cosce e dalle braccia nuovamente al viso, forse il più martoriato di tutto quel bel corpo di colpo reso fragile dalle sfumature bluastre dei lividi che a macchia di leopardo sembravano espandersi ad ogni passaggio di spugna, ad ogni carezza di cotone.

Anche la cuoca era salita per aiutarle e da donna più esperta, era riuscita a spogliare la bionda con una grazia che le sue mani callose da lavoratrice tendevano ad avere solo quando maneggiava il cibo. Tozza quanto basta per calzare perfettamente l’idea stereotipata della sua professione, era invece stata capace di una delicatezza che aveva stupito le altre due ed ora, tolto anche l’intimo ad una bionda scossa dal tremore, ne ricopriva la pelle segnata con le lenzuola.

“Perché sta tremando così?!” Le chiese Michiru inginocchiandosi per afferrare la destra di Haruka.

“Per il dolore, signorina. Anche se incosciente il corpo lo avverte lo stesso.” Rispose dolente mentre la vedeva chinare la testa per iniziare compostamente a dare sfogo a tutto il dispiacere che sentiva dentro. Un pianto leggerissimo, al limite del silenzioso.

“Su avanti, non piangete.” E mentre cercava di consolarla posandole una mano sulla spalla, alla porta si sentirono due rintocchi e l’anta si aprì.

“E’ arrivato il dottor Börcs. Tutte fuori.” Ordinò Alexander vedendo le domestiche obbedire.

Con la fronte appoggiata al dorso della mano di Haruka, la schiena incurvata come se pregasse, la figlia non si mosse neanche quando lui cercò di alzarla di peso.

“Michiru, anche tu!”

“Lasciami papà!” Lo allontanò con un gesto secco vedendolo tornare alla carica.

“Piantala di fare la bambina! Hisla deve fare il suo lavoro e lo deve fare con calma, senza che tu gli stia tra i piedi!”

“Non lo farò!” E questa volta la sua voce toccò un preoccupante acuto tanto che, come spesso accadeva quando i due caratteri del padre e della figlia andavano a cozzargli davanti, il medico cercò la via della mediazione.

Virando a più miti consigli assicurò la ragazza. “Sarò delicato vedrai, ma vorrei che tu ti calmassi.

“Cercherò di essere chiara dottore; io non intendo muovermi di qui! Se non posso aiutarvi mi metterò in un angolo e aspetterò che abbiate terminato, ma Haruka non la lascio!”

“Michiru… potrei farle del male. Sei sicura di volere assistere?” Non avendo per risposta che un si, inspirò guardando Alexander.

“Che rimanga se vuole.”

L’altro non commentò, imboccò semplicemente la porta richiudendosela alle spalle. La sua intenzione era quella di proteggere sua figlia, ma se voleva flagellarsi assistendo al dolore di una persona alla quale teneva, liberissima.

Togliendosi cappotto e giacca, Hisla stirò le labbra andando al catino lasciato dalla cuoca. “Siete fatti della stessa pasta. Quando la tua povera madre stava male neanche io riuscivo a tenerlo.”

“Lo so. Come so che lo fa per me. - Accarezzando la frangia di Haruka continuò dolcemente. - Quando un Kaioh ama, lo fa con tutto il cuore, senza mezzi termini.”

La baldanza coraggiosa di Michiru durò però poco. Al primo tiraggio delle ossa spezzate dell’indice e medio della mano sinistra della sua bionda, una specie di singulto le riempì la gola, diventando un vero e proprio gemito quando l’uomo iniziò a fasciare il costato dopo averlo ampiamente ispezionato. Ma fu quando si arrivò al vero e proprio punto dolente, l’occhio, che alla ragazza mancò la terra sotto ai piedi. Appoggiandosi con la schiena al muro lo vide chinarsi sul viso di Haruka, afferrarle la palpebra inferiore e quella superiore ancora serrate e forzarne l’apertura. Al gonfiore della parte, si aggiunse un rivolo di sangue che iniziò a colare lungo la guancia della ragazza ridestandone i sensi con un sussulto.

“Aaaa … Noo…” Cercando di difendersi da quelle mani sconosciute, Haruka alzò le sue ritrovandosi ad urtale la steccatura della sinistra contro l’ascella dell’uomo.

Gemendo si sentì stringere agli avambracci. “Buona, state buona Haruka. Ho quasi finito. Sono un dottore.”

“Ruka. - Michiru le fu immediatamente accanto. - Sei al sicuro. Stai tranquilla.”

Frastornata l’altra cercò di guardarla, ma era tutto così confuso. Le luci, i colori. Non vedeva nulla come avrebbe dovuto.

“Michi… Dove sei?!”

“Qui amore. Sono qui.” E le strinse il palmo destro talmente forte che quando Haruka adagiò nuovamente la testa sul cuscino immobile, quasi pensò che fosse stata per colpa sua.

Guardando confusa Hisla, lasciò che le sorridesse per un attimo per poi tornare a concentrarsi sulla tumefazione. “Non agitarti Michiru, è normale. Perderà e riacquisterà conoscenza molte volte prima di riuscire a ridestarsi del tutto. Ma è un bene, perché adesso dovrò fare una cosa sgradevole e a che ne dica tuo padre, sono sollevato che tu possa darmi una mano.”

 

 

Pest – Distretto V, Ospedale militare di Re Mattia I

 

Johanna dilatò le narici mentre di contro stringeva le dita della destra al cotone del lenzuolo. Come evasa! Come diavolo poteva esserle venuta in mente una cosa tanto idiota!

“Io… la… polverizzo!” Disse lentamente, scandendo le parole piano piano, come un promemoria.

Annamariah se la guardò da sotto la spessa fasciatura che le stringeva la fronte, non sapendo se ridere o piangere, perché se da una parte il progressivo miglioramento della ragazza rappresentasse il più bello dei segnali, dall’altra la sparizione di Haruka e Michiru, perse in quella notte di tormenta, lasciava tutte con il fiato sospeso. Setsuna, Rei, Johanna e naturalmente lei. Non sapevano se fossero state riprese dalla polizia tributaria, perché loro per prime erano ora soggette ad inchiesta.

Tutte e quattro sospese a tempo indeterminato, fino a quando cioè, l’indagine a loro carico non sarebbe terminata. La prima ad essere indagata era stata la direttrice Setsuna Meioh, rea di aver mal gestito la casa della luce. Eufemismo per indicare tre decessi, quattro evasioni ed una lista infinita d’infrazioni a danno del regolamento interno come quello di assumere la sorella di una detenuta. Senza l’intervento di una mano divina, con molta probabilità avrebbe terminato la sua carriera.

La seconda colpevole era Rei Hino, agente scelto, talentuosa e promettente esecutrice dell’ordine costituito ungherese, buttatasi contro un membro della Tributaria che con mano armata avrebbe sicuramente bloccato sul nascere i piani di fuga delle detenute Michiru Kaioh ed Haruka Tenoh. Questo poteva dirsi atto sufficientemente grave per polverizzarle lo stato di servizio. Da ora in avanti quel neo, frutto di un umanissimo quanto deplorabile attacco di pietà, avrebbe macchiato inesorabilmente la placca fino a quel momento immacolata del suo distintivo.

Annamariah Shiry, a ragion veduta la meno colpevole delle quattro, ma anche quella il quale comportamento poco chiaro destava più sospetti. Era stata trovata tramortita in mezzo alla neve con una profonda ferita alla fronte, è vero, ma era veramente poco credibile che due ragazzine del calibro di Minako ed Usagi Aino, se pur con un retaggio militaresco alle spalle, avessero potuto immobilizzarla, rubarle la chiave del cancello secondario, aprirlo per poi fuggire. Credibile era diventata la storia del furgone aggiustato da Tenoh e portato sulla piazzola d’uscita per salvare la vita della sorella, ma se vi fosse un collegamento tra il ferimento di Johanna e la fuga delle figlie dell’ex Generale Aino, questo era ancora tutto da verificare.

Infine proprio Johanna Tenoh, ultima, ma non meno colpevole delle altre tre. Basista? Spalleggiatrice? Complice? Come non dar torto alle riserve delle investigazioni, lei che era niente popò di meno che la sorella maggiore di una delle quattro evase. Pur essendo grottesco, forse la cosa che stava impedendo alla ragazza un arresto, era quella di avere un alibi di ferro; l’essere stata ferita molto prima dell’evasione. Anche se poi l’arma del suddetto ferimento non era stata ancora trovata.

“Ti ho già spiegato come sono andate le cose, no? Non era intenzione di Haruka fuggire.”

“Non indorarmi la pillola Annamariah! Qualunque morivo abbia spinto quella testa di legno a varcare il cancello, l’ha comunque condannata ad una vita in fuga e questo per una sorella… - La guardò con tutta l’angoscia del mondo. - … non è cosa facile d’accettare.”

 

 

Delirio

Buda – Distretto II, Palazzo Kaioh

 

Ti ricordi i principi del nostro credo piccolo Turul?

Si

Allora tieni la prima ciotola; il Mondo Superiore. L’assenzio del divino.

Haruka tossì in preda al delirio. Nella mente ricordi confusi di una scelta difficile. Sulla pelle un dolore pulsante che scendeva nelle fibre muscolari, lambendo e penetrando fin dentro le ossa.

“Michi…” Lamentò inarcando il collo adagiato su un paio di cuscini.

“Sono qui Ruka.”

Ed era vero. Non si era mossa. Mai. Cadenzando le ore con la solerzia di una veglia inutile e per il suo fisico controproducente. Su consiglio del dottor Börcs aveva provato a stendersi al fianco della bionda per cercare di riposare un po’, ma non era servito. Ad ogni spasmo, ad ogni gemito, al mutare del respiro, lei si sollevava ansiosa per guardarla, preoccupata, anche se nel complesso ad Haruka sarebbe potuta andare molto peggio.

Le ferite riportate erano dolorose, ma non gravi. Solo l’occhio sinistro destava preoccupazione, perché fino a quando la benda non fosse stata rimossa ed il gonfiore diminuito, il pericolo della perdita parziale o addirittura totale della vista sarebbe stata possibile.

“Le tumefazioni guariscono. Le ossa si risaldano. La vista di un solo occhio può bastare. Michiru non fare quella faccia e rallegrati, perché oltre a questo la tua amica non è stata obbligata a sopportare altro.” Le aveva detto Hisla dopo il termine della visita ginecologica e lei, a botta calda, poco l’aveva presa bene.

Che discorso assurdo a guardare com’era ridotto il suo amore. Ma poi, con il passare delle ore, riflettendo con mente lucida, da donna, aveva iniziato a capire, fino ad accettare.

“Guarirai amor mio e volerai di nuovo.”

Ma nonostante tutta l'abnegazione di Michiru, Haruka continuava a galleggiare in un mondo tutto suo, fatto di ricordi vicini e lontani nel tempo.

Il Mondo di Mezzo. La mandragola dei boschi.

Nel suo delirio affastellato di flash, Haruka ricordava nitidamente quel sapore di sottobosco, di penombre e terra bagnata, buono e liquoroso come le lunghe sere d'estate. Ancor di più era presente alla sua coscienza la seconda sfera, un pò amarognola e pesante, come un Purgatorio ben descritto, ma tutto sommato ancora accettabile. Era però la terza, quella che il suo Táltos le aveva dato quasi con sfida, come se non fosse realmente convinto della sua determinazione, che non riusciva più a sopportare. Il Mondo Sotterraneo, quello nel quale era entrata e che ora la teneva incatenata al suolo peggio delle manette della polizia o delle sbarre di una prigione.

Michiru è la figlia del banchiere Alexander Kaioh, lampeggiò immersa anima e corpo nel suo vaneggiamento, ed io devo ucciderlo. Devo farlo per il mio apa. Non posso venir meno al mio giuramento.

E gli occhi di suo nonno, ambrati come pozze d’argilla che da ragazzina la fissavano severi. Devi affondare di più il tuo Kés se vuoi procurare danni permanenti, piccolo Turul.

Se fossi più alta sarebbe tutto più facile táltos.

Crescerai. Se hai preso da tuo padre… crescerai.

Ed era cresciuta. E si era fatta una donna. Ed ora ne amava una. Amava la figlia di colui per il quale aveva abbandonato tutto il raziocino inculcatole da piccola, quando Jànos cercava di tenerla lontana dagli insegnamenti del suo sciamano.

Non voglio che l’arte del Kés sia insegnata alla bambina.

Quante volte stando acquattata dietro ad un muro, aveva ascoltato il genitore discutere con suo nonno sull’inutilità di una pratica tanto arcaica e pericolosa. Allora non capiva perché i suoi se la prendessero tanto. Ora, arrivata alla maggiore età, le era tutto drammaticamente più chiaro.

Sei andata da lui vero? Perché non ne hai parlato prima con me idiota!

Perché mi avresti fermata.

Certo che ti avrei fermata! Dio del cielo Ruka… Che hai fatto!

Sarebbe andata contro Johanna ed i dettami del buon senso se non avesse imparato e, sotto sotto, creduto nel codice d’onore insegnatole da piccola? In quel testo non scritto fatto di violenza, dove occhio per occhio diventava il cardine di tutto? Non lo sapeva, ma allo stato delle cose ora doveva riemergere dall'incoscenza e scegliere cosa fare.

“Mi… chiru.”

Cercando di aprire le palpebre, Haruka si rese conto di averne una bloccata da qualcosa e portandosi pesantemente la mano al viso, avvertì sotto i polpastrelli la morbidezza di una garza.

“Amore…” Kaioh le fu subito accanto.

La sua dea le apparve bellissima come sempre, anche se con gli occhi segnati dalla stanchezza e dal pianto. Questo la spaventò. “Michi… Sei tu?”

“Si anima mia.”

“Ti hanno presa?!”

Scuotendo energicamente la testa l’altra si affrettò a negare rassicurandola prontamente sul fatto che fossero al sicuro.

“Baciami…”

“Hai le labbra tutte spaccate… Ti farò male.”

“Non importa. Ti prego. - Il suo sapore, il calore di quella morbidezza, l'era mancato così tanto. - Credevo di essere diretta alla casa della giustizia… Credevo che sarei morta, che non ti avrei piu' rivista.“

L’altra eseguì lievissima, procurandole in effetti dolore, ma anche pace e la consapevolezza che quelle sensazioni non fossero un altro dei suoi deliri.

“Lo so, ma grazie al cielo e ad una cosa più spicciola come il denaro, mio padre è riuscito a corrompere parecchi funzionari della polizia, sia segreta che tributaria. Mi dispiace che non sia riuscito a strapparti alle loro mani prima che ti facessero questo.” Aggiunse sfiorandole la benda con infinita dolcezza.

“Tuo… padre?” Perché!

“Ascoltami, adesso devi solo pensare a rimetterti. Hai parecchie ossa rotte. Le dita, le costole. Cerca di non muoverti, intesi?!”

Ingoiando a vuoto, Haruka avvertì la bocca più arsa dell’Averno. Non ci stava capendo più niente. Era passata dal cercare di farsi inseguire dai due poliziotti a presidio di un posto di blocco nei pressi dell’abitazione di Michiru, all’essere tradita proprio dalla neve che tanto amava, incatenatasi alle gambe per impedirle di seminare uomini che essendo in macchina, in un paio d’isolati l’erano stati addosso. Poi gli interrogatori e le botte, tante, gli insulti, le prese in giro che lei aveva superato solo grazie alla sua tenace resistenza e ad un mantra dagli occhi blu mare. Amore, tornerò da te, aspettami, si diceva. Sempre, ad ogni schiaffo, calcio, imprecazione, urlo. Ma nulla era stato equiparabile a quel cazzotto dritto nell’anima datole dall’agente Thöryn, squalo vagabondo che neanche aveva capito quanto in realtà le avesse fatto male. Neanche la paura di entrare nella prigione dov’era morto suo padre e dove con molta probabilità sarebbe morta anche lei, aveva potuto più del sentirsi dire che Michiru era una Kaioh, che aveva nelle vene il sangue dell’uomo che doveva uccidere.

Ed ora era li quella ragazza meravigliosa che tra il sudore ed il sole, l’odore del mosto, la corsa e le incitazioni di gente eccitata, aveva amato subito e la guardava con un tale affetto, una tale comprensione, che quasi provò l’impulso di urlare al cielo quanto provasse vergogna per il suo proposito di vendetta.

“Sei stata tu a chiedergli di pagare per il mio rilascio?”

L’altra si sedette più comodamente negando. Lei non sapeva neanche che fosse stata arrestata nuovamente.

“Non mi ha dato spiegazioni, ma glielo chiederai tu non appena ne sentirai il bisogno. Hai appetito? Vuoi che ti porti qualcosa come un bel brodo? Il dottore ne sarebbe contento.”

La bionda stirò impercettibilmente le labbra. Quell’uomo aveva fatto scomodare anche un medico. “Dimmi Michiru, tuo padre sa che sono la figlia di Jànos Tenoh?”

“Si Haruka, ed è proprio per questo che siete qui, ora.”

Da dietro la porta che si aprì lentamente, Alexander comparve alle due scuro in volto. Nelle mani il berretto di Jànos. Nella bocca spiegazioni che sapeva di dover dare.

 

 

 

NOTE: Ciau.

Ritardo colossale e capitolo terminato come sempre a cavolo. Non so proprio come sia venuto, ho i minuti contati e so che avrei dovuto scrivere di più per finire presto questa storia, ma di meglio ora proprio non posso fare.

Scusatemi. Prometto che ci siamo quasi. Un altro paio di capitoli e concludiamo il tutto.

Un abbraccione e a presto 

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXV

 

 

Bivio

Prefettura di Hokkaidō – città di Hakodate, casa Kōtei, febbraio 1929

 

Quando il signor Takaoka gli aveva consegnato quella lettera affrancata con l’effige di un sovrano ungherese, Alexander si era sentito, se possibile, ancora più euforico. La sua piccola Michiru era passata dal gattonare al fare i primi sgambettanti passi verso la conquista del mondo, il lavoro non poteva andare meglio di così ed il rapporto con la sua adorata Kurēn era la cosa più salda che avesse mai avuto in tutta la sua vita. Una concretezza ed una stabilità alle quali il suo giovane cuore di uomo avventuroso voglioso di emergere, ambiva di avere da quando aveva lasciato la sua patria. Ed ora quei fogli composti da una calligrafia aguzza che ricordava bene, arrivati con la lentezza propria della posta transoceanica del loro tempo, datati agli ultimi giorni di gennaio e che gli annunciavano la lieta notizia della nascita della secondogenita del suo amico fraterno Jànos Tenoh.

“Belle notizie?” Chiese la moglie inginocchiata sul tatami della loro camera da letto mentre con le labbra gli sorrideva, ma con gli occhi era sempre attenta ai movimenti di una Michiru più che indisciplinata.

“Altro che belle moglie mia, meravigliose!” Porgendole una foto allegata allo scritto, ricambiò il sorriso mentre si chinava per afferrare la figlia e farla volare in alto.

“Non sbatacchiarla così Alex. Ha appena mangiato.”

Consigliando l’uomo si concentrò sullo scatto riconoscendo l’amico del marito. Non lo aveva mai visto di persona, ma Alexander gliene aveva parlato talmente tanto e con dovizia di particolari, che nel trovarsi davanti alle iridi quel viso dal sorriso sincero, si sentì come di fronte ad un parente.

“E così è nata! Avevo capito che il lieto evento sarebbe avvenuto in primavera.”

“Si. E’ settimina.”

Non staccando gli occhi dalla foto, il cuore di Kurēn sussultò empatico. Da quando aveva avuto Michiru era diventata di un’apprensione folle e pensare allo spavento che quei due genitori sicuramente avevano avuto per una figlia prematura, la resero inquieta nel chiedere al marito come stesse ora la piccola.

“Benone. Jànos scrive che nonostante sia appena uscita dall'ospedale mangia come un bue e dorme sempre e quando non lo fa, guarda il modo con occhi curiosi e già è sufficientemente prepotente da metter sotto tutta la famiglia, Johanna in testa.” Rise accarezzando la figlia lasciando che si adagiasse comodamente sul suo forte bicipite.

“Meno male. Da questa foto sembra così piccola.”

Raggiungendola sul tatami, lui tornò a ridere lasciando che Michiru gli afferrasse le orecchie, forse nel tentativo di strappargliele.

“Buona tu, piccola peste! Non sai proprio trattare con gli uomini eh?! - Staccandosela da dosso per tenerla sospesa a mezz’aria, guardò Kurēn convinto del fatto suo. - Non farti forviare dal fagotto che Jànos tiene tra le braccia, perché è lui ad essere enorme.”

“Spero non ricomincerai con le tue solite storie su zuffe colossali innescate e vinte contro i ragazzi dei distretti confinanti con il vostro.”

Bonaria guardò la figlia poggiare i piedini sul tappeto e partire con idee di fuga ben chiare nella testa. Un breve scatto, uno schianto contro uno dei pannelli dello shoji decorato con fiori di loto che chiudeva la loro stanza, ed un consequenziale rimbalzo all’indietro. Niente pianti, strepiti o capricci, solo uno sguardo blu cobalto contrariato e la faticosa riconquista del rimettersi in piedi.

“Non c’è che dire; nostra figlia ha carattere.”

“Già. Potrebbe aver preso da entrambi. - Una velata punta d’orgoglio nipponico nel constatare quanto a quella bambina non appartenessero le lagne. - Vuoi tornare a Budapest per il battesimo?”

“Si, tanto più che Jànos mi ha chiesto di fare da padrino. Scada è all’est per lavoro e credo abbia bisogno di un supporto morale così accerchiato da donne.”

“Avrebbe gradito un maschio?”

“Lo sai che per noi uomini è importante, ma tirando le somme quello che conta veramente è che Haruka cresca sana e forte. Tutto il resto passa in secondo piano, Kurēn.” Rivolgendo un’occhiata a Michiru, aggrottò la fronte vedendola provare a sgusciare via tra un pannello e l’altro.

"Assolutamente. Haruka..., perciò l'hanno chiamata come avevi suggerito se fossero stati benedetti con un fiocco rosa."

Già. Anche se non era ungherese, ad Alexander era sembrato un bel nome per una bambina. "Sarebbe dovuta nascere in primavera, ed uno dei significati di Haruka e' proprio fiore di primavera. Alla famiglia Tenoh e' piaciuto molto." Disse senza nascondere la sua soddisfazione.

“Parlando invece del nostro piccolo intralcio; hai notato quanto Michiru adori la spiaggia? Secondo te è normale alla sua età? Ha appena compiuto un anno e l'immensità dell’oceano dovrebbe spaventarla, soprattutto in questa stagione.”

“Ma si che è normale, amore. Ma oggi le onde sono troppo alte e perciò… - Gattonando fino alla figlia, Kurēn la prese per le ascelle - … tu rimarrai qui mia piccola gru, a sentire tuo padre raccontare di quando aveva ancora una folta chioma castana e faceva il teppista per le strade di Pest.” L’ultima frase sussurrata all’orecchio divertito della bambina.

“Hei, ho ancora una chioma fluente.” Passandosi una mano tra i capelli li sentì meno folti di un tempo.

“Va bene, come desidera il mio signore.” E scoppiando a ridere entrambi, tornarono a guardare la foto di Jànos che stringeva con orgoglio la sua Haruka al petto.

 

 

Buda – Distretto II, Palazzo Kaioh

 

Seduta sul letto nella penombra di quella stanza non sua, Haruka si toccò il costano incurvandosi in avanti.

Cazzo che male, pensò provando ad emettere un profondo respiro. Non poteva non ammettere quanto quegli agenti fossero stati bravi nel conciarla così. Gliene avevano date con l’intento di provocarle più dolore possibile nella speranza che il suo fisico reggesse all’urto delle percosse. E lei aveva retto. Era forte Haruka Tenoh, alta, robusta, ed anche se i mesi di prigione l’avevano ammorbidita un po’, non si poteva certo dire che non fosse una giovane donna in perfetta salute. Questo almeno fino a qualche giorno prima.

La sua muscolatura l’aveva salvata, anche se la faccia che il dottor Börcs metteva su ogni qual volta terminava di medicarla, le faceva pensare che forse l’impegno di quei bastardi le sarebbe valso la perdita dell’occhio sinistro.

Digrignando i denti la ragazza provò a mettersi in piedi raddrizzando lentamente il busto. Le faceva male ogni cosa. Parti del corpo che non aveva mai considerato, come la testa, il costato, le giunture delle ginocchia.

“Brutti figli di puttana! Almeno non mi hanno messo le mani addosso!” Ringhiò voltandosi verso il comodino dove il suo coltello era stato dimenticato tra una brocca d’acqua, una scatola di analgesici ed una lampada. Provando a chinarsi per prenderlo si bloccò colpita da una violenta stilettata al busto. Chinando la testa strinse a mezz’aria la mano in un pugno tremante di rassegnazione. Quanto avrebbe voluto urlare!

“Perché?!” Disse pianissimo schiacciata da un’angoscia che sembrava non volerla più abbandonare. Non sapeva Haruka, quante dissidenti erano sparite nei meandri oscuri della sede della polizia segreta e quanto potesse essere stata fortunata. Era tornata libera, era viva e presto avrebbe riacquistato le forze.

Eppure si sentiva a pezzi, sia fisicamente che emotivamente. Dal suo arrivo in casa Kaioh era passata quasi una settimana e in questo lasso di tempo era venuta a sapere che Johanna si era salvata ed ora stava trascorrendo la degenza nell’ospedale militare di re Mattia. Aveva una gran voglia di vederla, ma era momentaneamente sotto inchiesta, guardata a vista da un paio di poliziotti e chissà quanto tempo sarebbe passato prima di poterla riabbracciare. In più c’erano Scada e Mirka, che per non essere coinvolti più di quanto non lo fossero già stati, avevano ricevuto dalla bionda l’ordine tassativo di non venirla a trovare o di chiamarla al telefono.

Così facendo però, Haruka aveva come tagliato i ponti con la sua vecchia vita ed ora si sentiva persa, senza una famiglia. Ma avrebbe potuto sorvolare su tutto con la sua solita determinazione se non si fosse aggiunto alla lista l’ultimo duro, infame, inaspettato, inaccettabile, devastante calcio sui denti; la parentela che Alexander Kaioh aveva con la sua Michiru. La generosità, o senso di colpa, dimostratole dall'uomo nel salvarle la vita la imbestialiva e disorientava.

Da quando erano evase il faro rimastole era la sua dea, ma dopo aver saputo del suo legame con il banchiere, colpevolmente non riusciva più a guardarla negli occhi. Se da una parte voleva la sua compagnia come aria da respirare, dall’altra la respingeva con grugniti e mutismo, non potendo non notare quanto somigliasse al padre, quanto nel modo che aveva di guardarla, di sorriderle, fosse la sua fotocopia sputata. E questo la faceva impazzire. Ora che l’oggetto della sua vendetta era così a portata di mano, lo era anche la consapevolezza che facendo soffrire lui avrebbe inesorabilmente fatto soffrire lei.

Come faccio. Come cazzo faccio!

Tornando a sedersi sul letto si arpionò la coscia con la destra aspettando che il giramento di testa passasse. Ricordava la faccia di Kaioh quando era entrato per la prima volta nella sua stanza. Il viso contrito, la postura rigida. Non appena riuscita a metterlo a fuoco con l’unico occhio buono rimastole, aveva capito subito che lui sapeva, sapeva chi fosse suo padre e grazie al Kés ed al tatuaggio sul suo braccio, sapeva anche a cosa una semplice ragazza di ventuno anni si era votata.

So perfettamente chi siete Haruka ed è proprio per questo che siete qui ora.” Le aveva detto lasciandola atterrita.

Facendo alcuni passi nella stanza, si era fermato ad un pugno di centimetro dal letto, spostando lo sguardo da lei alla mano che la figlia continuava a tenere sulla sua. L’amore che Michiru nutriva non poteva passare inosservato e Haruka aveva compreso come quell’improvvisa rivelazione nei confronti del loro legame lo avesse preso alla sprovvista scioccandolo .

Io sono Alexander Kaioh, ma credo che questo lo abbiate già compreso da voi, come credo che abbiate tante cose da chiedermi. Non appena vi sarete rimessa affronteremo quello che dobbiamo. Fino ad allora… consideratevi al sicuro.” E voltando le spalle ad entrambe, era sparito dietro la porta.

Papà!” Aveva chiamato Michiru alzandosi di scatto e la bionda si era sentita morire.

“Papà! - Ghignò stirando leggermente le labbra. - Certo che il destino ne ha di fantasia. Papà! L’uomo che devo ammazzare è quello che ti ha generata e tu mi odierai amore mio. Ed io non avrò più ragione di esistere.”

Al solo pensiero avvertì gli occhi pizzicare. Mai, non avrebbe mai voluto o potuto fare del male a Michiru, ma così sarebbe venuta meno al patto con se stessa. “Sono con le spalle al muro. Non ho via d’uscita.”

La porta vibrò per un paio di colpi facendola sobbalzare. Era più tesa di una corda di violino.

“Ruka, sei sveglia? Posso entrare?”

No amore mio, no. Non ce la faccio ad affrontarti ora, pensò mentre l’anta si apriva lentamente.

“Ruka?” Un fagotto sotto la trapunta e Michiru sorrise soddisfatta.

Facendo finta di dormire, l’altra strinse i denti al dolore acutizzato dal movimento brusco compiuto per quell’inganno. Sentì l'avvicinarsi di passi lievi sul tappeto, le sue dita sfiorarle la frangia, le sue labbra posarsi piano sulla parte di fronte non avvolta dalle bende e fu così difficile.

“Mio amore riposa. Ci vediamo domani.” Ed uscì mentre Haruka chiamava a raccolta tutti i demoni dell’inferno.

Percorrendo l’ampio corridoio che l’avrebbe portata in camera sua, Michiru sentì la voce bassa del padre chiamarla dalle scale. Voltandosi lo vide fare l’ultimo gradino e guardarla in modo strano.

“Cosa c’è?” Chiese un tantino offesa, perché erano giorni e per l’esattezza da quando si era presentato ad Haruka, che non lo si vedeva più in giro, neanche durante i pasti.

“Hai un attimo? Dovrei parlarti.”

Arrivatole davanti se la guardò colpevole sapendo di aver mancato. Era semplicemente scappato non riuscendo a razionalizzare di avere capito, ed in un modo tento rocambolesco, che la sua bambina si fosse innamorata di una donna. E quale donna.

“Sono giorni che ho un attimo, papà.” Acida fece per voltarsi ed entrare in camera.

Bloccandole una spalla lui insistette con uno dei suoi classici sorrisi di riconciliazione e lei, che mai voleva affrontare le giornate con il cuore arrabbiato, accettò facendogli strada.

“Allora mi spiegheresti perché fino ad ora ti sei rifiutato di guardarmi anche solo di sfuggita?” Richiudendosi la porta alle spalle notò quelle del genitore tendersi un poco.

“Hai sempre avuto un intuito fuori dal comune cara.”

“In questo caso ci vuole poco, papà.”

“Ti prego di non chiuderti così. - Rimanendo al centro della stanza, iniziò a strofinarsi la fronte arpionandosi la vita con l’altra mano. - Io proprio non riesco a spiegarmi come diavolo sia potuto succedere. Come puoi esserti innamorata di…” E tacque guardandola finalmente negli occhi.

“Di una donna?”

“Di una donna!”

Allargando leggermente le braccia, Michiru tirò su le spalle stirando le labbra. “Non l’avevo certo preventivato.”

“Ascoltami bene; in una prigione credo sia facile cadere preda di queste pulsioni, ma fuori, nella vita reale non…”

“Conoscevo Haruka già da prima papà!”

Lui si bloccò corrugando la fronte. “Da prima?”

“Il ritrovarci nella casa della luce è stata solo una coincidenza.”

“O… Allora era proprio destino. E pensare che sareste potute crescere insieme, andare nella stessa scuola o frequentare le stesse amicizie.”

Questa volta fu lei a solcare la fronte con una profonda ruga. “Non capisco.”

“Se fossimo tornati in patria prima della guerra… Ma non è questo il punto. - Sospirando cercò di farle capire le preoccupazioni di un padre. - Vedi Michiru, l’amore tra donne è visto dalla società ancora come una macchia, una cosa sbagliata e…”

“Non m’interessa cosa potrebbe pensare la società di me e delle mie scelte. Tu! M’interessa cosa TU possa pensare di tua figlia.”

“Michiru…”

"Allora?! Non sei un bigotto, ma non ti ho mai neanche sentito dire apertamente qualcosa di positivo al riguardo. Forse sarebbe il caso che ti schierassi.”

“Non parlarmi con questo tono ragazzina.” Tuonò ritrovandosi davanti un muro di granito invece che la solita figlia disposta al dialogo.

Provando a farsi capire iniziò a camminare avanti e indietro vedendola incrociare freddamente le braccia al petto montando così bile ancora di più. “Ma cosa credi che per un padre sia facile tutto questo?! Saperti tra le braccia di una donna… Dannazione Michiru, quando sarai madre lo capirai! Capirai cosa si prova ad avere paura nel prevedere che il mondo schiaccerà con i suoi pregiudizi la creatura che hai generato e per la quale nutri tante speranze. Capirai cosa si prova a non poterla difendere.”

“Non credo di avere occhi tanto potenti per guardare così lontano nel tempo. Perciò te lo ripeto, per me è il tuo giudizio che conta! Non voglio che tu sia deluso della mia scelta, ma se così dovesse essere… - Inalando ossigeno proseguì più lentamente. - ... non potrei farci nulla. Mi dispiace.”

“Michiru…” Fece per avvicinarsi, ma lei glielo impedì alzando tra loro una mano.

“Papà, ti ricordi il sogno che facesti una notte di qualche tempo fa? Un Turul entrava nella mia vita incatenando la sua con la mia? Ebbene, è Haruka il mio falco, è lei che mi ama. Non chiedermi di scegliere tra voi.”

“Non lo farei mai, amore.”

“E allora cerca di capirmi.”

”Ma capire cosa?! - Sbottò improvvisamente lui. - Lo hai visto da te cosa quelle bestie hanno fatto al suo corpo! Se non fossero stati degli omofobi, l’avrebbero anche violentata. In questo paese la diversità è vista come una colpa da punire, non da capire e io non voglio che mia figlia debba sopportare tutto questo solo per un ...”

”Cosa?! Smarrimento? Confusione? Curiosità? No, non hai capito niente se è questo ciò che pensi. Io amo Haruka e sono pienamente conscia di quello che provo e che ho scoperto di essere.”

O Jànos… che casino, si disse l’uomo tornando a massacrarsi la fronte. “Non nutro riserve solo perché Haruka è una donna.”

”Allora spiegami.” Incalzò facendo un passo quasi rabbioso verso il genitore.

”Ascoltami Michiru... non ti ho mai voluto insegnare parti crude della tradizione ungherese e perciò non puoi sapere cosa rappresenti il tatuaggio che ha inciso sul braccio.”

“Lo so perfettamente!” Lo bloccò rimanendo impassibile.

“Te lo ha spiegato lei? - Ad un lieve cenno con il capo proseguì. - Bene… ma dubito che tu conosca anche l’identità del soggetto al quale sarebbe destinata la sua vendetta, giusto?”

“Giusto.”

Un tantino più sollevato Alexander proseguì. “Posso chiederti che idea ti sei fatta di questa cosa?”

Alzando le sopracciglia Michiru gli rispose con l’ovvia verità delle cose; accettava la scelta dell’altra anche se la reputava totalmente folle. “Ho imparato a conoscerla e so di cosa è capace se adirata. - Un pensiero a tutti i pugni che Haruka aveva dato a Mery. - Ma arrivare ad uccidere a sangue freddo... No papà, non è nel suo carattere!”

“Potresti scommetterci?”

“Penso di si, anche se non si arriva mai a conoscere fino in fondo una persona.”

Passandosi una mano tra i capelli insolitamente disordinati, lui cercò con lo sguardo la foto di Kurēn che sapeva essere sul comodino accanto al letto della figlia. Come a volerne prendere forza la fissò per tanto non accorgendosi che Michiru gli si era avvicinata.

“Cosa c’è papà?! Cosa vorresti dirmi?”

Continuando a guardare l’immagine cercò le parole adatte. Era più che mai convinto che l’inchiostro del tatuaggio di Tenoh fosse per lui, che la lama del Kés che quella benedetta ragazza aveva portato in casa sua gli fosse destinata. I suoi occhi astiosi non lasciavano troppi dubbi. Conosceva la famiglia della moglie di Jànos; quando ancora erano in contatto, spesso l’amico si era lamentato del comportamento che il nagyapa aveva con le nipoti, del fascino che le tradizioni avevano sulla piccola Haruka e di quanto questo preoccupasse i suoi genitori.

Se la mia intuizione è giusta, vorrebbe dire che ti sei innamorata della donna che ha giurato di uccidermi. Un pensiero talmente potente da innescargli la solita emicrania.

“Spero tanto che tu abbia ragione cara.”

“Stai tranquillo, Haruka non è cattiva.”

“Qui non si tratta di cattiveria, ma di onore…”

“Sei deluso? - Soffiò abbassando di colpo gli occhi. - Prima ti ritrovi ad avere una figlia dissidente e poi…”

“Non potrei mai esserlo tesoro mio, anzi, sono fiero che il tuo sangue magiaro abbia preso il sopravvento sulla componente razionale di tua madre e tu sia diventata un’oppositrice del Regime, ma per il resto… Concedimi del tempo per accettare la cosa. Puoi?”

Alzandole il mento stirò un sorriso sghembo. “E già..., l’avevo detto che un falco sarebbe presto giunto a rubarti il cuore.”

Si concesse, quando dal corridoio un vociare li distolse. Guardando all’unisono la porta, riconobbero i toni della cuoca e della bionda.

“Spostatevi ho detto! Questa non è una prigione!”

“No signorina! Il dottor Börcs è stato chiaro; non dovete lasciare il letto!”

Bloccando la fine della discesa con la destra serrata al corrimano e l’altra distesa verso il muro, quella specie di Panzer tedesco armato di testardaggine non l’avrebbe lasciata passare tanto facilmente. Inchiodata a pochi gradini dalla fine della scala, la bionda le piazzò la mano buona sulla spalla minacciandola con gli occhi.

“E’ inutile che mi guardiate così signorina. Le ferite si riapriranno se continuerete ad essere tanto infantile!”

Tirando indietro il busto, Haruka se la guardò stupita per esplodere subito dopo. “Non ho tempo per questi giochetti signora! Voglio andare a casa mia! Spostatevi!”

“No!” Sovrastò alzando di più la voce.

“Che diavolo sta succedendo qui?!”

“Signore…”

A quel timbro maschile Tenoh serrò la mascella staccando la mano destra dal corpo della donna e trasformandola a pugno se la schiacciò contro il tronco diventando una statua di sale.

“Ruka…” Aggirando il padre, Michiru scese velocemente raggiungendola mentre la cuoca spiegava loro le intenzioni di quella stupida ragazzina.

“Vuole andare a casa…”

“Perché?!” Chiese l’altra non capendo.

“Io ho cercato di spiegarle che sarebbe troppo pericoloso, ma non sente ragioni!”

“Va bene. Grazie, potete andare. Risolveremo la questione.” Tagliò corto lui iniziando a discendere.

Abbassando leggermente il capo la donna ubbidì e dopo aver riservato alla bionda un’occhiataccia truce, si dileguò borbottando in dialetto stretto.

“Haruka si può sapere che ti prende?”

“Michiru devo andare via! Ti prego… lasciami.” Lamentò quasi fosse una supplica.

Allontanarsi da lei e da suo padre era l’unica cosa che l'era venuta in mente per cercare di non ferirla. Rinunciare al suo amore, rinunciare al suo onore, lasciando la lama tatuata sul suo avambraccio snudata per vivere il resto dei suoi giorni nell’onta di non essere stata in grado di assolvere al suo compito.

“Se è per Johanna, ne uscirà pulita vedrai…”

“Non è per questo!” Quasi urlò conficcando ancor di più il collo nelle spalle.

“E allora cos…”

“Michiru basta così! - Fissando entrambe, Alexander passò oltre per dirigersi verso il suo studio. - Haruka venite. E’ arrivato il momento di risolvere la questione. Ce la fate?” Stuzzicò leggermente maligno sfidandola apertamente su un piano per lei importantissimo, ovvero quello fisico.

“Certo…” Gli rispose emettendo una specie di grugnito.

Provava un gran dolore, ma per tutti i Santi sarebbe riuscita a tenergli testa. Così non degnando di un solo cenno un’attonita Michiru, la bionda lo seguì lentamente, tenendosi il fianco destro con la mano, zoppicando un poco, ma cercando comunque di mantenere una postura ritta ed orgogliosa, come una combattente malconcia prima dell’ultimo scontro. Socchiudendo gli occhi l’altra la guardò entrare nello studio per incrociare poi le iridi del padre che stava attendendo sulla porta.

“Vieni anche tu cara. Alla luce di quello che vi lega la questione riguarda anche te.”

“No! - Intervenne Tenoh inchiodandosi. - Michi non ce la voglio.”

“Michi viene e come!” Stoccò l’altra arrivando di gran carriera. Se pensava di lasciarla fuori come un cane si sbagliava di grosso.

Vedendola entrare scura in volto, Haruka ghignò storcendo le labbra. Di che magnifica creatura si era andata ad innamorare. “Fai come vuoi, ma la questione non sarà piacevole.”

“Questo l’ho capito anche da sola Tenoh!” E fermandosi al centro della stanza attese che il padre chiudesse la porta fissando la bionda e consigliandole di mettersi quantomeno seduta. Si vedeva lontano un miglio che stava male.

Non ubbidendo, il giovane Turul si concesse come appoggio solo la spalliera in legno del divano.

“Testarda.” Graffiò Michiru sempre più nervosa.

“Vostra sorella Johanna vi ha detto di essere stata qui?” Iniziò lui senza troppi giri di parole.

Haruka non gli rispose che con uno sguardo torvo e Alexander proseguì andando verso la scrivania per estrarne da un cassetto una serie di fogli che la bionda riconobbe quasi immediatamente.

“Quella è la copia della polizza che aveva mio padre! Perché ce l’avete voi? Chi ve l’ha data?!”

“Vostra sorella, il venerdì della tormenta, quando è venuta da me per cercare di capire.”

“C’è poco da capire signor Kaioh!” A ripensarci bene, la sera del ballo Johanna aveva accennato a qualcosa, ma poi aveva desistito. Disorientata dalla notizia, Haruka cercò di mantenersi calma.

“Ce n’è invece, visto che mi si accusa del fallimento della C.A.P. e del consequenziale arresto da parte della Tributaria di vostro padre Jànos.”

“E della sua morte.” Rimarcò e al solo ricordo la calma l’abbandonò immediatamente.

Porgendole i fogli l’uomo aggiunse di fare molta attenzione alla terza pagina.

“Qui c’è anche la mia copia. Troverete interessante sapere che vostra sorella ed io abbiamo scoperto un'incongruenza nella firma mia e di vostro padre. Haruka, sono entrambe false.”

Interessante?! La ragazza prese i fogli staccando la mano con cui si stava sorreggendo e dopo un rapido sguardo, li gettò sulla seduta del divano guardandolo intensamente. Da vicino. Da molto vicino.

Potrei trapassarvi da parte a parte e neanche ve ne rendereste conto!

“Cosa dovrebbero rappresentarmi queste copie? Che siete stato anche voi vittima di un raggiro? Che un vostro collaboratore ha frodato mio padre tirando in ballo il vostro nome?”

“Più o meno.”

“Più o meno un cazzo! La Kaioh Bank è cosa vostra! Siete voi il padrone della baracca e come tale è vostra la responsabilità di tutto quello che vi accade al suo interno!”

“Papà… - Michiru, che intanto si era avvicinata al divano per prendere le due copie della polizza, dopo una rapida scorsa lo guardò incredula. - Chi può aver agito in maniera tanto deplorevole.”

“Nagiry. E’ stato quel piccolo verme. Troppo il denaro che ruotava intorno al nuovo porte sul Danubio per non tuffarcisi dentro alla prima occasione.”

“E l’occasione è stata la perdita della partita d’acciaio che la C.A.P. ha avuto durante quel maledetto temporale.” Sottolineò piano la bionda tornando a stringersi il fianco.

“Papà come puoi non aver seguito di persona un affare tanto importante?” Inquisì la figlia dimenticando i fogli dattilografati tra le dita. Non era una cosa da Alexander, professionista meticoloso ed accorto, soprattutto quando in ballo c’erano tanti interessi.

Fu proprio a questa domanda che l’uomo cedette abbandonando il freddo distacco che l’aveva contraddistinto fino a quel momento ammettendo quello che in sostanza aveva confessato solo a Börcs.

“Vedendo accettate sulla polizza clausole da strozzinaggio, ho imperdonabilmente pensato che Jànos avesse fatto una mossa azzardata. E’ sempre stato un uomo intelligente, ma anche sfrontato, mai timoroso di provare a mettersi in gioco. Ho creduto che avesse fatto il passo più lungo della gamba. Per lui, per la C.A.P., per tutti i sogni che aveva sempre avuto nel veder prolificare una fabbrica florida.”

“Non vi azzardate a chiamare mio padre per nome o a parlare di lui come se fosse un vecchio compagno di bevute! Nessuno ve ne da il diritto signor Kaioh! Non eravate amici. Non lo conoscevate nemmeno!”

Disegnando una smorfia grottesca sul viso, lui si staccò per un attimo da quello sguardo che tanto gli stava ricordando l’amico, per andare nuovamente alla scrivania. Aprendo un altro cassetto, vi frugò al suo interno tirando fuori una fotografia. Osservandola stirò impercettibilmente le labbra sottili. Quanto tempo era passato. “Ventuno anni. Sono trascorsi ben ventuno anni! - Tornandole davanti le porse l’immagine che la ragazza sbirciò con assoluta indifferenza. - Ed hai la stessa determinazione di quando ti sei conquistata il diritto di stare in questo mondo nonostante allora fossi nata troppo presto.”

Muovendo l’immagine un paio di volte, Alexander la invitò ad osservarla meglio e proprio mentre il sentirsi dare un troppo familiare del tu stava montando nella ragazza ancora più rabbia, lei riconobbe senza appello il trentenne Jànos Tenoh. Barba folta, occhi brillanti, pelle liscia e capelli anche troppo folti, insomma, un giovane uomo ben lontano dal padre che ricordava, ma lo stesso inconfondibile sorriso, che poi altro non era che uno dei bellissimi retaggi fisici che aveva trasmesso ad entrambe le figlie. Era lui, il suo apa, accanto ad un altro uomo, meno poderoso nella stazza, ma aitante e robusto quanto il genitore. Nelle braccia dello sconosciuto un neonato che la bionda non riconobbe.

“Cosa sta a significare questa fotografia?!”

“Non lo immagini?” Disse piano attirandosi contro tutto l’astio del mondo.

“No! E non datemi del tu!”

“Ne avrei tutto il diritto visto che sono il… vostro padrino.”

Dopo un momento di ovvio silenzio, la bionda scoppiò in una fragorosa risata quasi subito interrotta da una fitta al costato. Digrignando i denti scansò la mano dell’uomo con un gesto secco. Non sopportava di averlo tanto vicino e se ancora non aveva estratto il coltello che aveva in tasca, era solo perché aveva a pochi centimetri Michiru. L’odore buono della sua pelle riusciva ancora a darle un freno.

“Non prendetemi per i fondelli!”

“Leggete allora.” E rigirò il cartoncino seppiato.

Una calligrafia curata, leggermente aguzza come lo stile del tempo. Una frase. Una data.

A mio fratello Alex. - Lesse sommessamente prima di avvertire nella testa un’esplosione d’adrenalina. - Jànos…”

“Budapest, 25 Marzo 1929. - Aggiunse lui. - Il giorno del vostro battesimo. Certo riconoscerete la calligrafia di vostro padre. E questa non è certo un falso.”

Uno scritto pragmatico, proprio come si usa fra uomini, senza i fronzoli del cuore femminile, ma ricco di un significato profondo che Haruka non voleva e poteva accettare.

Michiru riconobbe nello scatto il padre, perché aveva tante foto di lui e Kurēn giovani, ma non disse nulla. Il fremito muscolare dell’altra l’impressionò a tal punto da provare un contatto sfiorandole il braccio sinistro. Contatto che la bionda respinse immediatamente.

“Questo non prova nulla?! - Inchiodando lo sguardo al tappeto persiano che sentiva soffice sotto le suole degli stivaletti, raccolse fiato ed energia. - Volete farmi credere che conoscevate mio padre?”

“Tanto bene d’avere avuto l’onore di tenervi a battesimo. Tanto da suggerire per la sua secondogenita un nome giapponese. Tanto da potervi dire quanto fosse bravo nella pesca e per questo si vantasse fino all'esagerazione. Di quanto fosse dotato per la tecnologia, ma odiasse lo studio a tal punto da interrompere la scuola al terzo anno superiore. Quanto amasse i dolci e la carne speziata e ancor di più la birra scura accompagnata da una tavolata di gente alleg…”

“Basta! Fate silenzio! Come vi permettete?! Dovreste sciacquarvi la bocca prima di parlare di lui!” E lo strido di quel Turul ferito riempì la sospensione temporale creatasi nella stanza.

“Haruka…” Intervenne Michiru non sapendo cosa fare, ma avendo una gran brutta sensazione.

“Non ho mai sentito mio padre parlare di voi. Mai!” O forse si?!

Da ragazzo nella pesca ero piuttosto bravino. Ero solito farlo con un mio buon amico, ma non qui. Fuori città. Ho passato interi pomeriggi con lui seduto sulla riva a gettar esche ai pesci e le risate, ricordò come una frustata. Parole dette davanti alle acque quiete del loro Danubio, una mattina di fine estate, prima che tutta quella disgraziata storia avesse inizio.

“Lo immagino. Da quel giorno del ventinove tornai in patria quattro, forse cinque volte. Gli impegni, l’attività, lo scoppio della guerra. Io vivevo in Giappone dove avevo moglie e figlia, lui qui, a cercare di costruire un futuro per se e la sua famiglia. Poi la morte di vostra madre. Rimanemmo in contatto per un po’, ma avevamo scelto strade diverse… Così è la vita. Quando tornai in Ungheria qualcosa tra noi si era incrinato. Il conflitto, la perdita. Il fronte russo lo aveva cambiato, così come la morte della mia Kurēn aveva cambiato me. Non eravamo più i ragazzi venuti su insieme tra le strade di Pest. Ma per me, Jànos era e sarà sempre un fratello.”

“Un fratello?! - Toccandosi la fronte Haruka la sentì imperlata di sudore gelato. - Un fratello si tradisce così? Ditemi signor Kaioh, si lascia annaspare ed andare affondo di fronte alla corruzione della propria attività?

“No, certo che no! Se avessi anche solo immaginato che Andras Nagiry fosse un’opportunista simile non… “ S’interruppe, perché in realtà aveva spesso visto negli atteggiamenti di quel collaboratore tanto presente e zelante, sprazzi camaleontici anche troppo marcati.

Michiru l’aveva avvertito più volte di stare attento a quell’uomo, di non investirlo di responsabilità che gli avrebbero permesso di acquisire più potere del dovuto. Confidenze con clienti di una certa importanza, ingenti movimenti di capitale, che lo avevano reso pian piano autosufficiente, scaltro e capace di sostituirlo alla bisogna. Gli impegni finanziari, soprattutto con l’ingresso del nuovo Regine negli affari di Stato, si erano fatti sempre più pressanti e Kaioh si era per forza di cose ritrovato a dover delegare. Era per questo che aveva spinto la figlia a lasciare le arti umanistiche per scegliere la facoltà di Economia. Aveva bisogno di qualcuno su cui poter contare incondizionatamente. Una persona fidata. Fidata come una figlia.

Nel vedere quella faccia improvvisamente illuminata, la bionda ebbe quasi un moto di rivalsa, come se il far comprendere a quell’uomo l’enorme mancanza che aveva dimostrato verso il padre, potesse in qualche modo ripagarla.

“Se veramente per voi Jànos Tenoh era un amico, un fratello come dite, dovevate seguire VOI la sua pratica e non lasciarla nelle mani di chissà quale passacarte!”

“Lo so. - Disse lui piano per poi alzare improvvisamente il tono. - E’ da quando ho scoperto questa frode che non faccio che pensarci!”

“O poverino.”

“Haruka per favore, cerca di capire.” Michiru s’intromise nuovamente, non potendo neanche immaginare che quella fosse solo la punta dell’iceberg.

“E così ti sei schierata.” Sussurrò l’altra non riuscendo a guardarla negli occhi.

“No Ruka.”

“Mi sembra tutto il contrario.”

Tra le due scese il silenzio, gelido, anomalo, nel quale quei due cuori innamorati, persi l’uno nell’altro praticamente da subito, non erano mai stati tanto distanti. Accorgendosene la bionda le voltò la schiena per dirigersi verso l’uscita. A Michiru ci volle qualche secondo prima di avere la forza per scattarle dietro e fermarla per l’avambraccio destro.

“Dove vuoi andare!?”

“L’ho già detto; via da questa casa!”

Opponendosi con tutto il corpo, l'altra le si parò davanti. “Non sei in condizione di muoverti.”

E la bionda se la rise. “Sono molto più forte di quel che pensi… Kaioh.” Aggiunse riferito più all’uomo che alla ragazza.

“Allora vengo con te!”

“No, devo stare da sola.”

“Chi ti curerà? Chi ti starà accanto? Sono io che dici di amare e sono io che voglio fare tutto questo.”

Sentendosi stringere la giacca, Haruka deglutì a vuoto afferrandole i polsi. Lo fece lentamente, soprattutto con la mano sinistra, steccata del medio e dell’indice. “No.”

“Mi stai lasciando?” Sussurò aspettandosi, anzi, pretendendo una risposta che non le arrivò.

Scansandola bruscamente da un lato, Haruka andò per afferrare l’ottone della maniglia quando Alexander la bloccò.

“Siete una vigliacca egoista! Perché non avete il coraggio di dirle la verità che quel tatuaggio cela? - La guardò pietrificarsi, respirare affondo per poi voltare leggermente il tronco verso di lui. - Tanto soffrirà ugualmente, sia che si compia o meno la vostra vendetta, signorina Tenoh.”

“State giocando con il fuoco, signore. Se fossi in voi chiuderei quella cazzo di bocca prima di ritrovarvi a pentirvene amaramente.”

“Cosa c’entra il tatuaggio papà?”

“Chiedilo a lei cara, chiedile a chi dovrebbe essere destinata la lama del Kés che ti abbiamo trovato nella tasca del cappotto.”

Posando le dita sul dorso della mano dell’altra, Michiru la sentì fremere ed ebbe come una folgorazione dolorosa. Cosa le aveva confessato Haruka mentre stretta fra le sue braccia dopo aver fatto l’amore, si era esposta confessandole il più torbido dei segreti? Un uomo facoltoso. Un uomo che aveva tradito.

“Ruka… l’uomo che devi uccidere per vendicare l’onore di tuo padre non sarà forse … il mio!?”

 

 

Una lama, un’ amore, un dolore.

 

Era sempre stata brava nel controbattere. Dote naturale o innata faccia tosta che fosse, fin da ragazzina aveva opposto strenuamente ai momenti difficili, la sua gran curiosità, una bellezza fuori dal comune ed una goliardia viscerale, riuscendo a cavarsela sempre in ogni situazione. Dalle domande delle maestre su lezioni mai imparate, alle pretese di una madre disperata per il suo cronico disordine, dalle sfuriate di una Setsuna Meioh stanca di vedere ignorata la sua autorità casalinga, ai primi approcci maschili magistralmente evitati con scuse a caso, financo all’interrogatorio fiume che la Polizia Tributaria le aveva riservato convinta di chissà quale ruolo da basista. Ma questa volta, immersa nel blu acceso d’orrore che gli occhi di Michiru le stavano puntando contro, il giovane falco di Pest si trovò completamente impreparata, disarmata a tal punto che per una frazione di secondo sentì scemare tutto l’odio che stava provando.

“Rispondimi Haruka… E’ mio padre che vuoi uccidere?” Incalzò serrandole la mano incurante della steccatura.

“Rispondimi!”

“Si…” Mormorò appena, costringendo l’altra a rifarle la domanda e questa volta urlò, come un cane rabbioso, con un’esasperazione che sentiva di non poter più controllare.

“Si, è lui! Sei contenta adesso?! E' lui!"

L’ennesimo colpo di coda di una vicenda che se pur aggrovigliata come tralci di vite dalle visioni distorte che ognuno dei protagonisti aveva, non lasciava più dubbi. Scuotendo la testa Michiru guardò il padre avanzare ed ebbe paura. Frapponendosi tra il fascio di muscoli che era ora il corpo della bionda e l’andatura sicura di Alexander, cercò una conciliazione nella quale neanche lei credeva veramente.

“Tenoh... non vi muoverete da questa stanza fino a quando questa storia non sarà finita. Spostati cara, credo che la signorina qui presente abbia qualcosa per me.” Sfidò quasi sogghignando nel sentire il suono di una lama a scatto uscire snudata dal suo manico.

Allungando il braccio armato oltre la spalla destra di Michiru, Haruka accettò il confronto. Se quell’uomo credeva di giocare d’azzardo con lei come era solito fare nelle stanze dell’alta finanza, allora si sbagliava di grosso e presente o meno la figlia, se avesse continuato a non volerla lasciare andare allora avrebbe reagito di conseguenza.

“Signore, io amo questa ragazza ed è solo per lei che siete ancora in questo mondo, ma per tutti i Santi di Budapest non comportatevi da imbecille! Statevene buono e nessuno si farà del male.” Poi soffiando all’orecchio dell’altra le chiese di aprirle la porta.

“Se l’amate veramente… - ed un poco gli costò il sottolinearlo - … allora vi invito a cercare insieme una soluzione a tutto questo.”

Le labbra di Tenoh si stirarono all’insù. “Soluzione? Io non so come siate abituati voi di Buda, ma da noi non c’è soluzione ad un giuramento di morte se non…”

“Portarlo a compimento o vivere tutta la vita con l’onta di non essere riuscita a tenerne fede. Lo so Haruka, dimenticate che anche io sono di Pest.”

“Bene e allora lasciatemi andare altrimenti oltre al vostro collaboratore dovrò pensare anche a voi!”

E fu tutto molto più chiaro. Le mire di Haruka si erano spostate da Kaioh al viscido verme che aveva frodato Jànos. Ma se momentaneamente o in via definitiva, questo neanche la ragazza lo sapeva.

“Non con le vostre ferite ancora aperte.” Rispose determinatissimo lanciando un’occhiata eloquente al pavimento.

Seguendo lo sguardo del padre, Michiru notò solo in quel momento alcune macchie di sangue per terra, proprio accanto ai piedi della bionda. “Ruka, stai sanguinando.”

Distorcendo nuovamente le labbra in quello che ormai era una grottesca parodia di un sorriso, Haruka sembrò non curarsene. Sentiva un rivolo caldo serpeggiarle lungo la coscia destra. Un solletico fastidioso. Tenendo con il braccio armato il banchiere sempre a debita distanza, provò allora ad aprirsi la porta da sola.

“Non vedo quale sia il problema.” Disse attirandosi contro la compagna.

“Lo vedo io! Il dottore ti aveva detto di stare ferma! La salute non è un gioco e tu non hai alcun diritto di rovinartela…”

“Michi piantala! Allora cercherò di essere più chiara… Non voglio più stare qui, non voglio più averti intorno, non voglio più vedere la tua faccia, ne pronunciare il cognome che hai preso da quest’uomo!”

Facendo un leggero passo indietro, l’altra la guardò sconvolta. Tenoh non aveva urlato o dato di matto, ma quella frase ebbe lo stesso potere di lacerarle le orecchie.

Tornado ad avanzare verso le due, Alexander si vide puntata nuovamente la lama contro. “A quanto pare voi Kaioh siete un po’ duri di comprendonio. Vi ho già detto di stare fermo. tutti e due. Alexander...non crediate che l’aver scoperto il fautore materiale della truffa ai danni della C.A.P. vi scagioni!”

Accanto alla bionda, con ancora un fastidiosissimo fischio nel cervello a ricordarle lo scoppio d’adrenalina che la frase vomitatale contro le aveva provocato, Michiru tentò una seconda mediazione, perché questa era la sua natura e perché mai avrebbe lasciato qualcosa d’intentato per salvare la situazione.

“Papà,.. - disse con un filo di voce di una potenza disarmante - …spero che tu abbia preso già dei provvedimenti. Quello che ha fatto il signor Andras non può essere lasciato impunito.”

“Sei furba Kaioh. Il cercare di spostare la discussione da tuo padre a questo Nagiry, non li salverà. Perciò è perfettamente inutile tutto questo impegno.”

Non raccogliendo quel delirio omicida, la ragazza continuò a fissare il viso del padre fino a quando avvallando un lento movimento della testa, Alexander le disse di no.

“Ormai non posso più nulla, mi dispiace.” Bisognoso di bere, andò verso il mappamondo porta liquori di castagno che faceva bella mostra di se accanto ad un’altrettanto ben tornita libreria, prendendo una bottiglia di brandy.

“Cosa significa!? Le prove sono nelle nostre mani. Non c’è bisogno di scannarsi come maiali quando la legge può aiutarci ad avere giustizia!”

Certo e quella di fargliela pagare per vie legali era stata la prima cosa che Alexander aveva provato a fare subito dopo aver parlato con Johanna.

“Nagiry è diventato molto influente ed in questi ultimi mesi. È riuscito a farsi degli amici molto importanti e ad entrare nel giro di chi conta in questo paese. Di controparte, è stata la nostra famiglia a veder scemare il potere ed il rispetto che era riuscita ad ottenere in anni di duri compromessi.”

Ingoiò tutto d’un fiato Alexander, come a voler spegnere un’arsura che gli stava divorando la gola ed il liquido pastoso andò giù, scivolandogli nella trachea fino a bruciargli le viscere. “Già dal tuo arresto avevo notato che la famiglia Kaioh non vantava più con il Regime gli stessi privilegi che aveva prima, ma con la vostra fuga…”

“Non avevi detto di aver pagato profumatamente chi di dovere perché la mia evasione fosse dimenticata!”

“Alcune proprietà ci erano già state confiscate subito dopo il tuo arresto, preventivamente, avevano detto, fino a quando la tua posizione in merito al Generale Aino non fosse stata chiarita, ma il denaro in mio possesso è comunque bastato per insabbiare momentaneamente la cosa.” Sempre voltato di schiena, si versò un secondo bicchiere che però dimenticò stretto nel palmo della mano.

“ Papà, se Nagiry si è fatto degli amici diventando così un intoccabile, allora paga anche loro! - Sbottò triviale. - Tutti gli uomini hanno un prezzo e per te non dovrebbe essere un problema contattarli e convincerli a schierarsi con la verità. Se non hai più la liquidità necessaria non importa, basteranno le garanzie economiche della nostra banca!”

”Una volta forse, anzi sicuramente.” Disse tornando finalmente a guardarla.

Abbandonando il bicchiere sulla cesellatura degli intarsi di quel bel pezzo d’artigianato inglese, sospirò a quanto stava per dire. “Michiru, le cose sono cambiate. Con molta probabilità ci rimangono solo questa casa e i gioielli nella cassaforte e con altrettanta probabilità dovremmo lasciare il paese. Senza un’adeguata protezione economica, la nostra famiglia non è più al sicuro qui.”

“Cosa?”

“Non credere, ma certe volte il denaro non è la cosa più bramata.” E la figlia iniziò a comprendere.

Voltandosi verso Haruka, che ormai esausta si era appoggiata spalle alla porta per cercare di resistere meglio al dolore al costato, continuò al posto del padre. “Uno scambio. O papà… ti sei spinto fino a questo punto.”

Non avendoli seguiti più di tanto, impegnata com’era nel cercare di pensare a quale sarebbe stata la mossa successiva da fare, la bionda se li guardò entrambi con una leggera vena d’apatia sul viso.

“Sentite voi due, non m’interessa su quale piano la stiate mettendo. Finanza, banche, soldi…, io non ho tempo di star qui a sentirvi blaterare. - Richiudendo la lama nel manico sentì di non avere più una sola stilla d’energia. - Signore, l’ho capito che avete pagato anche per me, non sono stupida, ma non aspettatevi ringraziamenti o applausi per il vostro intervento e non voglio che pensiate che il debito che avete con la mia famiglia possa essere stato estinto da quattro mazzette messe in croce. Perciò sentite il mio programma; vi restituirò fino all’ultimo fiorino, perché non si dica che per cavarsi dagli impicci, la figlia di Jànos Tenoh si sia piegata ad un uomo ipocrita ed opportunista come voi!”

Nuovamente con la mano sulla maniglia e l’urlo di Michiru riempì lo studio.

“Haruka!”

“Ti sento, non c’è bisogno che mi penetri la testa così.”

“A mi senti! - E con tutta la forza nervosa che possedeva la voltò di peso. - Non ti permetto di dare a mio padre dell’opportunista, come non ti permetto di continuare a tenere piazzata sulla faccia quell’espressione da superiore. Ma chi ti credi di essere?! Scendi dal piedistallo e prova anche solo per una frazione di secondo a non essere tanto indolente. Mio padre avrà anche sbagliato con il tuo e Dio gli è testimone… , ma ha fatto per te più di quanto un genitore non potrebbe fare!”

“Michiru stai esagerando."

“Ti ha salvato dalla casa della giustizia…”

“E ho detto che lo risarcirò di ogni soldo speso per acquietarsi la coscienza!” Controbatté esasperata.

“Ma proprio non ci arrivi vero? E’ della Kaioh Bank che stiamo parlando!”

“Cosa stai cercando d’insinuare?”

“Che mio padre, l’uomo che tanto odi e che vorresti uccidere, l’uomo che ritieni l’artefice di tutto il male del mondo, il mostro che adesso ti sta davanti e che è pronto a prendersi ogni tipo di responsabilità verso di te e la tua famiglia per una vigliaccata che ha commesso un’altra persona, ha barattato l’attività che ha tirato su in anni di lavoro per la tua vita!”

“Precisa richiesta del Regime.” Sentenziò lui tornando al bicchiere di brandy dimenticato sulla ghiera lignea del mappamondo.

“State mentendo! La vita di una semplice operaia di Pest non vale così tanto!”

“Vale per chi è disposto a scambiarla con qualcosa e se questo qualcosa rappresenta un bene che in questa città è bramato da anni. - Voltandosi verso le due, Alexander mosse leggermente il bicchiere verso l’alto come a mimare un brindisi. - Il gioco è fatto.”

Scuotendo la testa Haruka si staccò a forza dall’anta. “Non… non vi credo. Non credo ad una sola parola!” Ma era così stanca che la sua voce sembrò un pigolo invece che un ruggito.

Vedendo il mondo iniziare a girare cercò con un braccio Michiru arpionandosi il fianco con l’altro.

“Ruka!”

Alexander scattò e la bionda si sentì tra le braccia di quell’uomo per la seconda volta nel giro di qualche giorno.

 

 

Il dottor Börcs era allibito, o forse sarebbe stato meglio dire esasperato. Una volta finito di esaminare il costato di Haruka e ricucita la lacerazione che si era riaperta sulla coscia, era uscito dalla stanza scattoso come un piccolo cane di razza, pronto ad azzannare ogni cosa.

“Ma che diavolo vi è saltato in testa?! Alexander, credevo di essere stato chiaro nel dirti di stare attento a quella ragazzina, no?! Passi lei, bizzosa come il padre, ma tu!”

“Hisla… le cose ci sono sfuggite di mano. Ho dovuto dirle di Jànos e non l’ha presa troppo bene. Come sta ora?”

Avvicinandosi tanto da riuscire a parlargli ad un orecchio, l’amico non sembrò sentire ragioni. “Ascoltami bene, Haruka ha rischiato che una costola fratturata si spostasse lacerando il polmone, perciò scusami se per ora delle tue motivazioni non me ne faccio assolutamente niente!”

Portandosi una mano alla fronte l’altro sbuffò desolato. Non era certo facile provare a fermare quella testarda. “Ma starà bene, vero?”

“E’ di tempra forte, ma ha la febbre alta. In ogni caso aspetteremo. Se sta ferma e si lascia curare a dovere, tra un paio di settimane potrà alzarsi dal letto.”

“E viaggiare?”

“Viaggiare?!”

“Si Hisla, viaggiare! In quanto tempo potrebbe essere in grado di sostenere un percorso abbastanza lungo?”

“Non… non saprei Alex. Dipende da lei. Ma che intenzioni hai?!”

“Intenzioni tante, bisognerà vedere se quel demone biondo sarà d’accordo.” Disse lui mentre il viso di Michiru faceva capolino da dietro la porta.

“Scusatemi... Papà, puoi venire un attimo?”

“Si, arrivo cara. - Poi stringendo con energia la spalla dell’amico, gli indicò la camera degli ospiti che ormai l’altro conosceva perfettamente. - Puoi rimanere per la notte o sei di turno in ospedale?”

“Sono stato sostituito, tranquillo.” Masticò giù amaro, ormai rassegnato al fatto che ogni trillo telefonico nel cuore della notte fosse casa Kaioh con la sua valanga di problemi.

Una pacca sulla spalla prima di tornare nella stanza ed Alexander lo lasciò strusciare stancamente i piedi sul marmo del corridoio.

“Cosa c’è? Si è svegliata?”

“No. Sta delirando.” Ancora dietro l’anta, Michiru lo lasciò passare per poi chiuderla silenziosamente.

Haruka era distesa sul materasso, bloccata allo sterno con una fasciatura, la testa adagiata su di un paio di cuscini, le braccia sulla trapunta abbandonate lungo i fianchi, la mano destra serrata alla stoffa, il viso imperlato di sudore, così come il collo e la parte superiore del petto.

Tra un respiro e l’altro, il lamento sottile di una frase. “Papa', dove sei?”

“Il dottore non vuole darle nulla, ma è dura vederla così.” Disse lei guardando il padre girare intorno al letto per sedersi sul bordo.

“Lo so amore, fa tenerezza vederla stare tanto male, ma Hisla sa quel che fa.”

“Speriamo.” Poco convinta, Michiru riprese il panno nel catino d'acqua gelida posto sul comodino ed una volta strizzatalo tornò a passarlo sul viso e sul collo di Haruka inginocchiandosi poi accanto a lei.

“Michiru… dobbiamo lasciare il paese.” Se ne uscì lui abbassando la voce.

Lo aveva detto anche durante il confronto con Tenoh e lei lo aveva registrato, non prestandogli però alcun’attenzione. Non le interessava, non avrebbe accettato un trasferimento neanche se fosse stato il padre ad ordinarglielo o le motivazioni fossero state l’improvvisa mancanza di denaro e il rischio di un nuovo arresto.

“Se pensi che mi spaventi lavorare solo perché sono nata e cresciuta nell’agiatezza papà…”

“Non sto riferendomi ad una condizione economica, ma politica. Dopo il tuo coinvolgimento con Ferenc Aino non sei più al sicuro a Budapest.”

Certo, prima con il denaro della sua famiglia Michiru avrebbe potuto stare tranquilla, ma ora era diventata improvvisamente una ragazza come tante. Sacrificabile.

“Posso immaginarlo e sono d’accordo con te, ma senza di lei io non vado da nessuna parte.” Continuando lentamente a passare il panno umido sulla pelle chiara della bionda, lo guardò un istante stirando le labbra dolcemente.

“Ma lei ha detto chiaro e tondo di non volerti più vedere. Sei una Kaioh.” Sottolineando il concetto prese una sedia per poi crollarvi sopra.

Accentuando il sorriso la ragazza socchiuse gli occhi sorniona. Tanto facevano gli uomini per cercare di comprendere l’emisfero sconfinato del cielo femminile, che poi si ritrovavano sempre allo stesso punto di partenza.

“Vedi papà, posso accettare tutto di lei; che abbia un caratteraccio, che sia impulsiva, molto fumantina ed estremamente protettiva, ma non e' mai riuscita a mentirmi se messa alle strette. Certo, non posso negarti che quelle parole li per li mi abbiano ferita, ma mentre le pronunciava con le labbra non lo faceva con il cuore, anzi, il suo sguardo mal celava la paura che io potessi prenderla sul serio. - Sospirando si accovacciò sul tappeto con le mani nelle mani. - Mi ama e su questo potrei scommetterci l’anima.”

“Come puoi dirlo, la conosci appena.”

“Non hai provato la stessa cosa con la mamma? Non mi hai sempre detto che vi bastò un solo sguardo per perdervi per sempre? Eppure al mondo non avrebbero potuto esserci due esseri tanto dissonanti; culture diverse, religioni diverse, famiglie dal retaggio diverso. Tu, un povero studentello ungherese venuto dall'Est Europa, mentre lei, unica erede di una secolare famiglia di Hakodate.”

“A tuo nonno prese un colpo quanto Kurēn mi presentò agli anziani.”

“Visto? Tu sapevi che fosse quella giusta, così come lo sapeva lei e dopo l’iniziale shock della famiglia Kōtei, andò tutto bene, no?”

Respirando pianissimo, Alexandersi sporse sfiorandole la guancia con un dito. “Non credo sia la stessa cosa amore.”

“Perché siamo due donne, lo so!”

“No, non è per questo, non solo. Perdonami Michiru, ma come ti ho già detto mi serve tempo per accettare questa cosa. Ora però mi preoccupa questo. - Indicando il tatuaggio sul braccio di Haruka puntò i gomiti alle cosce incurvando la schiena. - Ti avverto cara, qualunque cosa scelga per me questa ragazza, io non mi opporrò. Che trovi nel suo cuore la forza di un perdono o il coraggio di un omicidio, la lascerò fare e vorrei che tu facessi altrettanto.”

“Non posso papà! Pensare che potrebbe fare del male a te o a Nagiry è una cosa che mi atterrisce.”

“Lo so, ma non siamo la sua famiglia e non abbiamo alcun diritto d’intrometterci. Lo so io, lo sa Scada, lo sa persino Haruka. Confido nel fatto che Jànos la guiderà.” Concluse mentre la bionda tornava a parlare nel delirio chiamando disperatamente il suo apa.

“Dobbiamo abbassare la febbre.” Rianimata Michiru tornò ad immergere la pezzuola nella tinozza mentre Alexander si sporgeva verso Tenoh afferrandole la mano.

Apa… apa mio, dove sei?”

“Qui Haruka. Sono qui, stai tranquilla.”

Apa?!”

“Si tesoro. Cerca di dormire. Da ora in avanti andrà tutto bene vedrai.”

E a sentire la dolcezza del padre, a Michiru si allargò il cuore e vedendo il viso prima contrito di Haruka rilassarsi improvvisamente, sperò con tutta se stessa che quelle parole rappresentassero la più indiscussa delle verità.

 

 

 

NOTE: Non so come scusarmi per l’incredibile ritardo con il quale sono riuscita a partorire questo penultimo capitolo (il lavoro, cicciato dal nulla come un fungo velenoso). Nel prossimo ci sarà l’epilogo dove vedremo che fine hanno fatto i vari personaggi e si tireranno le somme di tutte le storie. Naturalmente cosa sceglierà di fare Haruka. Lascerà la strada della vendetta per una staccionata bianca, un cane ed un buon lavoro? Bè, Alexander il gesto lo ha fatto; cedere la Kaioh per la sua vita non è da tutti. Magari basterà, non saprei. Michiru partirà o rimarrà a Budapest con tutto quello che ne concerne? Minako e Usagi? Saranno riuscite a ritrovare il padre? Setsuna, Giovanna, Shiry e Rey? Ingabbiate? Makoto? Mamoru? Bè… gli altri li ho seccati perciò con le domande abbiamo finito qui.

Cercherò di scrivere il più possibile per non farvi aspettare troppo. Ciauuu e a presto!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 - Epilogo ***


 

Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XXVI-Epilogo

 

 

Vincoli

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce – 20 Marzo

 

Makoto si appoggiò al bancone della guardiania fissando la scatola di legno dove campeggiava un’etichetta bianca con sopra scritto il suo nome. I suoi oggetti personali. Tutto quello che le avevano trovato nelle tasche e nel vecchio zaino militare del nonno al momento dell’arresto e che in pratica rappresentava tutta la sua vita. Un paio di foto, qualche spicciolo, il suo diario, la spilla lasciatale dalla madre. Storcendo la bocca osservò il secondino terminare la compilazione della sua scheda di uscita per poi vedersi offerta una stilografica per la firma d’accettazione.

“Coraggio Kino.” La spronò non rispondendo alla domanda "ci sono ancora le mie sigarette o ve le siete fumate tutte alla mia salute?"

Una volta finita la prassi di rutine, Makoto venne accompagnata al portone principale rivedendo finalmente la luce della libertà. Setsuna Meioh era stata di parola ed anche se la sua scarcerazione aveva subito una brusca battuta d'arresto a causa dei guai giudiziari che avevano coinvolto la direttrice, alla fine la ragazza aveva ottenuto il premio promessole per aver collaborato in maniera attiva durante la vicenda dell’assassinio della detenuta 0056.

La primavera l’accolse mentre un senso d’euforia andava a solleticarle il viso inarcandole i lati della bocca all'insù. “Che meraviglia!” Si disse stiracchiandosi al sole.

Giovane, irrequieta, Makoto Kino era tutto tranne che ponderatezza e nonostante avesse avuto tempo per pensare a cosa avrebbe fatto una volta uscita dalla casa della luce, a come si sarebbe guadagnata da vivere o dove avrebbe trovato asilo, in cuor suo non aveva mai creduto fino in fondo alla promessa della Meioh. Ed invece ora che quel giorno era arrivato, si ritrovava ad osservare spaesata il cielo terso di quella città non sua senza sapere bene cosa fare. Non aveva legami veri a Budapest e se realmente aveva intenzione di sfruttare al meglio quella nuova occasione per dare un senso diverso alla sua vita, le amicizie che si era costruita dopo aver abbandonato la campagna, avrebbero solo potuto riportarla sulla cattiva strada. Era sola, anche il suo ragazzo era sparito, ma dalla sua parte aveva un invidiabile spirito d'adattamento. Forse sarebbe andata in cerca dell’unico collegamento che ancora aveva con il suo passato, ovvero Rei Hino, o forse avrebbe ripreso la via del viaggio, salendo sul primo treno in partenza per il futuro.

Notando sugli alberi l’alone verde creato dalle giovani foglie, si rese conto di quanto tempo aveva sprecato stando rinchiusa in quel carcere e non volendo più attendere oltre, si mise lo zaino in spalla pronta a discendere i gradini che l’avrebbero portata in strada. E li lo vide.

Un uomo sulla cinquantina, alto, robusto, con il viso rotondo incorniciato da una leggera peluria castana. Stava fermo accanto ad un lampione con le mani nelle tasche della giacca e lo sguardo di qualcuno in attesa. Aggrottando la fronte Makoto scese, ma non si avvicinò, stizzendosi della sfrontatezza con la quale l’uomo la stava fissando.

“Che c’è?! Mai vista un’ex detenuta uscire da un carcere?” Tagliò corto arpionando entrambe le mani alla cinghia dello zaino.

Lui non rispose, almeno non subito, anzi quella provocazione gratuita velatamente coatta lo portò a sorriderle. Sempre più sulle sue, la ragazza lo vide avvicinarsi un poco.

“Perdonatemi signorina, non volevo essere sfacciato, ma conoscevo vostra madre e lasciatemi dire che le somigliate molto.” Se ne uscì incuriosendola.

“Mia madre?”

“Si, Belami Kino. Voi siete sua figlia… vero?”

Anche non volendolo, al sentire il nome della madre Makoto cedette un poco abbassando l’indifferenza. “Si, lo sono. E voi sareste...?”

Un altro passo di lui e si trovarono praticamente faccia a faccia. La ragazza era alta, non certo come l’uomo, ma comunque a sufficienza per non sentirsi in nessun modo intimorita.

“Allora?” Incalzò vedendolo titubante.

Aveva un non so che di familiare, di conosciuto, che Makoto attribuì ad un possibile ricordo. “Vi ho forse già incontrato da ragazzina?”

“No. Conoscevo vostra madre, ma non ho mai avuto il piacere di vedere voi signorina.”

“A… capisco. - Disse non riuscendo a staccargli gli occhi di dosso. - Eravate aspettando me?”

“Si.”

“Perché?”

Sospirando pesantemente l’uomo ammise di avere nei confronti della madre come una specie di debito. “Io non vorrei che mi fraintendeste, ma… potrei chiedervi le vostre intenzioni adesso che siete uscita dal carcere?”

Contro ogni cautela, Makoto sbottò a ridere alzando le spalle. “Bè signor mio, le mie intenzioni sarebbero quelle di mangiare, lavarmi e trovare un posto dove passare la notte. Tutto qui.”

“Avete appoggi?”

“Appoggi?! No, no, per carità. Credo proprio che ora come ora i miei appoggi porterebbero solo guai.”

“Mmmm…. - Mugugnò lui spostando finalmente lo sguardo. - Se non vi offendete avrei da farvi una proposta. Se è per un lavoro ed un posto dove stare… credo di potervi aiutare io. Il panettiere dove si serve mia moglie cerca un aiuto e so che ha un posto letto nel retrobottega. Potrebbe essere un’occasione per un nuovo inizio.”

A tali proposte Makoto Kino non era abituata, soprattutto negli ultimi anni e dovette fare una faccia tra lo stranito, lo stupito ed il diffidente, perché indietreggiando di un passo mettendo le mani avanti, l’uomo cercò di spiegarsi meglio.

“Per carità signorina, non pensiate che sia un viscido marpione con il vizietto di adescare le giovani ex detenute con la scusa di un aiuto!”

Ed in effetti poteva anche sembrare, ma invece che dargli ragione, la ragazza non se la prese, anzi, esplodendo un’enorme sorriso scosse la testa tanto energicamente che la sua ricca coda di cavallo le ondeggiò sulle spalle come una frusta castana.

Emettendo un sonoro fischio l’altro se la rise iniziando a grattarsi il collo. “Meno male. Sapete, in verità ho spesso a che fare con i ragazzi piuttosto che con le ragazze. Mia moglie mi rimprovera sempre di essere troppo spicciolo e di non avere un briciolo di tatto.”

“Mi piace!” Se ne uscì lei con convinzione, sempre più stupita di quanto quello sconosciuto, a parte la proposta generosa appena fattale, le stesse dando un qualcosa.

“Bene. Sono sollevato. Il panettiere si trova all’inizio del sesto distretto. Andiamo? - Incoraggiante fece per farle strada quando ricordandosi di non essersi presentato le porse la destra sorridendo. – A proposito, il mio nome è Scada Erőskar.”

“Piacere signor Erőskar. In quale occasione avete incontrato mia madre?”

Già incamminati sul marciapiede lui guardò il cielo stringendo le labbra. “E’ una lunga storia signorina Kino. Non appena vi sarete sistemata ed avremo il tempo, vi racconterò tutto; di quando la incontrai la prima volta e di quanto fosse una donna straordinaria.”

 

 

Cecoslovacchia, Roblin, periferia di Praga – 25 marzo 1951

 

Usagi chiuse sbuffando il libro di storia che il padre le aveva imposto di leggere. Poche figure, una marea di didascalie condite da valanghe di date e nomi di gente morta della quale, con tutto il rispetto possibile, non le poteva fregare assolutamente niente. Eppure aveva promesso; almeno un paio di pagine al giorno le sarebbero entrate nella testa. In fin dei conti pur non essendo una cima, a scuola se l’era sempre cavata galleggiando sulla sufficienza spicciola in tutte o quasi le materie che contano. Ma si sa, lo studio è come l’esercizio fisico, lo si deve coltivare giorno per giorno e lei, povero piccolo cucciolo, era completamente fuori allenamento. Si distraeva con una facilità disarmante. Ogni rumore, voce, folata di quel vento tiepido foriero delle prime avvisaglie della primavera, le facevano alzare lo sguardo dalle pagine alla finestra poco lontano dalla sua scrivania, da dove si vedevano i campi. Ed ogni volta che accadeva qualche anima misericordiosa, fosse sua sorella Minako, il padre o la donna che la famiglia Aino aveva preso a servizio per le faccende domestiche e la cucina, arrivava per riportarla all’ordine e Usagi non ce la faceva più.

All’entusiasmo del ricongiungimento con il padre, giunto dopo la rocambolesca fuga dal carcere e l’interminabile marcialonga che aveva spinto Mina e trascinarla fino al punto indicato loro dal capo squadra Shiry al margine nord del XIII distretto, era seguito un periodo abbastanza lungo di quiete, soprattutto interiore. Varcata la frontiera con la Cecoslovacchia grazie a due visti scolastici artatamente falsi, avevano raggiunto Ferenc ed i suoi fedelissimi in un piccolo paese della campagna rurale, per poi puntare verso Praga, dove il Generale aveva dei solidi agganci politici.

Forse a causa della sua giovane età, di una sconsideratezza insita nel suo carattere, Usagi non aveva capito a pieno che con molta probabilità non avrebbe più visto il suolo ungherese per molto, moltissimo tempo e quando la consapevolezza di quella che poi era la più ovvia delle realtà le era stata gettata in faccia da una Minako stufa di sentirla sospirare persa in chissà quali fantasie amorose, un senso d’impotenza si era impadronito del suo piccolo cuore adolescente.

“Smettila di palpitare per quel ragazzo e vedi di crescere!” Le aveva urlato contro proprio sul finire di quella mattina, quando per l’ennesima volta l’aveva pizzicata a scarabocchiare il nome del bel moro di Buda su uno dei quaderni di matematica.

“E tu smettila di dirmi sempre quello che posso o non posso fare!”

“Io lo faccio per te Usa. Dammi retta; prima te lo togli dalla testa e meglio sarà.” Scendendo più a miti consigli, la maggiore le aveva ripetuto la pappardella che lei sapeva già, ovvero che fino a quando il regine comunista avesse continuato a tenere in scacco il Governo della loro nazione, la famiglia Aino non sarebbe potuta tornare.

“Non appena avrò la tua età, mi procurerò una nuova identità e rientrerò a Budapest!”

A quelle parole determinatamente stupide e prive di logica, Minako aveva sbuffato alzando le braccia come a voler dire che la vita era la sua ed era perciò liberissima di gettarla alle ortiche.

“Ricorda solo che nostro padre ne morirebbe e che prima di rischiare tutto per un uomo del quale non conosci i sentimenti, dovresti quanto meno rifletterci su più e più volte, mia cara sorellina!”

Già, i sentimenti. Quel caleidoscopio di sensazioni tattili, olfattive, visive e d’anima che Usagi aveva iniziato a provare per Mamoru Kiba molto prima della fuga dal carcere e dei quali però, non ne aveva ascoltato la voce. Che fossero compresi o meno dalla sorella ad Usagi poco importava, perché sapeva perfettamente cosa provava e lo strazio che sentiva al solo pensiero di non poter rivedere più quel ragazzo. Non si era neanche chiesta se le palpitazioni che provava fossero tutte frutto della fine delle loro lunghe chiacchierate, del sentirsi capita, dell’aprirsi, oppure di un suo auto convincimento, della voglia di appartenere finalmente al mondo degli adulti. Non se l’era chiesto perché in definitiva il saperlo non avrebbe cambiato la durezza delle cose.

“La fai facile Mina, ma solo io so cosa sentivo quando i suoi occhi mi accarezzavano.” Si disse allontanando il libro.

“Forse hai ragione tu e sto crogiolandomi nel dolore come una ragazzina, oppure ce l’ho io ed allora tornerò per capire, ma in entrambi i casi non hai il diritto di trattarmi come una sciocca!” Alzandosi dalla sedia Usagi andò alla finestra aprendo entrambe le ante tornando con i ricordi del cuore alla stanza che li aveva visti tante volte seduti l’uno di fronte all’altra, come in una confessione, alle sua mani serrate a pugno sulle ginocchia, al suo sguardo basso, alla pazienza di lui che con parole gentili l’esortava ad aprirsi.

Usagi non poteva sapere e forse non l’avrebbe saputo mai, che proprio in quel momento appoggiato ad una delle tante finestre di un carcere femminile, dove il cielo era intervallato dal ferro di una sbarra, il giovane dottor Kiba sorrideva ad occhi chiusi ripensando a due odango dorati e alla testolina buffa che li portava.

 

 

Giappone, prefettura di Hokkaidō – baia di Hakodate, 28 marzo 1951

 

Il rollio del battello, le onde tagliate dalla sua prua, lo strido dei gabbiani spinti allargo dalla giornaliera battuta di pesca. Il sole caldo a scaldarle la pelle del viso e delle braccia nude finalmente liberate dalle solite maniche per lei troppo opprimenti, l’odore nuovo dello iodio e la sensazione strana del sale sul dorso delle mani bagnate dagli schizzi. Davanti a lei l’isola più grande del Giappone; Hokkaidō e tutto intorno l’oceano, sconfinata distesa dalle molteplici sfumature di blu, alle volte intensissime, profonde e fredde, altre stemperate con il bianco delle increspature di leggera spuma.

Inalando aria cristallina, mosse leggermente la testa per permettere ai ciuffi della frangia bionda di spostarsi tutti da un lato e consentirle così di apprezzare la vista del porto dove da li a breve sarebbe sbarcata. Che viaggio epocale aveva compiuto in poco meno di due settimane. Prima lungo il Danubio, verso sud, su un barchino di un amico di Scada, partito da Pest nel cuore della notte, poi raggiunta la Jugoslavia, in treno fino a Zagabria e da li, in volo per Tokio. Non c’erano tratte transoceaniche che permettessero di mettere in comunicazione Budapest con Sapporo e comunque anche se ci fossero state, lei ed i suoi compagni di viaggio non avrebbero potuto usarla. Era libera, è vero, ma in realtà Michiru non poteva dirsi altrettanto fortunata. Un paio di giorni dopo il suo sapere di Nâgiry, davanti la casa della famiglia Kaioh aveva preso a stare in pianta stabile una berlina nera. Sempre li, parcheggiata davanti al cancello d’entrata, che ci fosse bel tempo o nevicasse. Di giorno come la notte.

“Ricordati Ruka che sono una dissidente. - Le aveva confessato l’altra alzando le spalle quasi divertita. - Staranno aspettando che compia un passo falso per riprendermi. Giocano sporco... Lo sai.”

E con molta probabilità Michiru aveva ragione. In più, lo stesso giorno nel quale la berlina era apparsa, la famiglia che ancora ostinatamente continuava a curarla aveva ricevuto un avviso di confisca immobiliare. In pratica un gentilissimo invito dello Stato a lasciare la proprietà.

Inarcando la schiena nel tentativo infruttuoso di sgranchirsi la colonna, la ragazza chiuse gli occhi ai raggi caldi cercando di trarne il massimo beneficio. Era abbastanza provata, ma le lacerazioni sulla pelle si erano quasi del tutto rimarginate, le ossa dello sterno stavano guarendo bene, ed Haruka lo capiva dalla sempre maggior nitidezza con la quale riscontrava forme e colori, che presto anche il suo povero occhio sinistro sarebbe tornato a posto. Solo la pupilla sarebbe rimasta quasi del tutto dilatata, atrofizzata e fastidiosamente pungolata dalla luce e chissà, magari Michiru aveva ragione, questo avrebbe contribuito ad accrescere ulteriormente il magnetismo del suo sguardo.

Michiru; la sua splendida gru, delicata e fragile, ma al contempo forte come il più resistente dei diamanti. Era pienamente cosciente che il suo carattere testardo ed orgoglioso aveva portato a quella ragazza tanti guai, ma era grata al cielo che nonostante tutto, potesse ancora considerarla l’amore della sua vita.

Sospirando la bionda si portò istintivamente la mano sinistra all’interno del braccio opposto. Una leggera torsione muscolare ed il suo tatuaggio risaltò alla luce brillante di quella tarda mattina di primavera. La lama bicolore non c’era più, coperta da un fodero nero che Haruka aveva voluto fosse Scada a farle. La sua vendetta si era compiuta o forse sarebbe stato più corretto dire che lei aveva avuto il coraggio di fare una scelta. La più difficile che avesse mai fatto.

Non appena si era sentita meglio ed era riuscita a scendere dal letto e a camminare abbastanza speditamente sulle gambe, si era lavata e vestita con cura, come prima di una partenza. Infilate le scarpe ed indossata la giacca, aveva afferrato il suo Kés uscendo dalla stanza per percorrere il corridoio che portava alla grande rampa di rappresentanza ed una volta discesala, si era ritrovata davanti alla porta dello studio di Alexander Kaioh.

Nei giorni in cui non aveva potuto muoversi, lo aveva intravisto si e no un paio di volte mentre con discrezione chiamava la figlia per qualche comunicazione. Un rapido colpo di sguardi e nulla più. Tra loro non c’era stato altro. Così Haruka era stata lasciata sola a decidere sul da farsi, sul come comportarsi di fronte alle rivelazioni che l’uomo le aveva fatto. Fraterno compagno di suo padre che fosse, lei doveva comunque capire se le attenuanti che Alexander aveva verso la sua famiglia fossero sufficienti o meno per scagionarlo. Ed in tutto questo non poteva contare su Johanna, ancora lontana da lei, ne su Scada o su ogni altro componente della C.A.P. che si era visto privato del lavoro e di un uomo come Jànos Tenoh. Non poteva contare neanche su Michiru, drasticamente di parte. L’unica a dover decidere era lei e lo avrebbe fatto seguendo l’istinto e la coscienza.

Con le nocche a pochi centimetri dal legno dell’anta dello studio aveva ricordato le parole di suo nonno, non dimenticarti piccolo Turul che la lama di un Kés non ha ragione di sopravvivere al compimento di una vendetta, ed aveva bussato stringendone forte l’impugnatura nascosta nella tasca dei suoi pantaloni.

Era stata invitata ad entrare e lo aveva trovato li, dietro la sua scrivania di noce lavorato, intento a scartabellare qualche documento alla luce potente di una lampada. Si erano guardati non fiatando. Haruka non l’aveva ringraziato per le cure ricevute o del più generoso atto di cedere allo Stato le quote della Kaioh Bank in cambio della sua scarcerazione. Non lo aveva fatto e forse non lo avrebbe fatto mai e nessuno l’avrebbe mai giudicata per questo.

“Ditemi Haruka.”

Aveva esordito lui alzandosi per attendere al lato della scrivania ed in quel momento, aggrottando la fronte ancora parzialmente fasciata, la bioda aveva ripensato a quel picnic sull’isola Margherita, alle risate cavernose di suo padre, agli sguardi d’intesa con la sorella, alla cena di Mirka e alla birra artigianale di Scada. Momenti indimenticabili, incisi a fuoco dentro di lei, così come lo era la C.A.P. e i suoi mattoni rossi, le grandi finestre ad arco, i soffitti voltati delle sue officine, il caldo asfissiante della fonderia ed il rumore sordo della battitura dell’acciaio.

“E’ finita.”

Aveva detto pianissimo estraendo il coltello snudandolo con rapida freddezza prima di piantarne la lama nello stipite con tutta la forza che aveva nel braccio. Con altrettanta determinazione l’aveva inflessa fino a spezzarne la punta che poi aveva estratto dal legno.

“Devo andare avanti.”

Una considerazione che l’aveva spinta al primo passo e non solo fisico, verso un nuovo capitolo della sua vita. Non staccando gli occhi dall’uomo, gli si era infine fermata davanti porgendogli il frammento di metallo.

“Ora la mia vendetta è compiuta; per me Alexander Kaioh è morto.”

A questo l’uomo non aveva detto nulla, ma serrando la mascella aveva preso il frammento stringendolo nel pugno della destra.

Era quello il rituale con il quale si compiva una vendetta magiara; spezzare la lama del proprio Kés una volta che questa aveva adempiuto al suo compito, per poi lasciarla sul corpo della vittima così che si potesse tornare alla vita. Anche il coltello di Haruka Tenoh aveva ricevuto la stessa conclusione, anche se questa volta la sua lama non era stata macchiata dal sangue del suo debitore.

“Ne siete sicura?” Aveva chiesto Alexander mentre le labbra della ragazza si piegavano il un sorriso sghembo.

Non aveva risposto, non lo sapeva. Di una cosa sola era certa; dell’amore che provava per Michiru e fosse cascato il cielo con tutte le sue stelle, non le avrebbe mai arrecato un dolore come quello che aveva provato lei per perdita del padre. Voltandosi per uscire dallo studio l’aveva vista inchiodata sulla porta. Lo sguardo lucido e grato, un labbro serrato tra gli incisivi.

Due giorni dopo la famiglia Kaioh aveva dovuto allontanarsi da quella che non avrebbe più potuto considerare la propria casa. Sempre pedinati, con pochi indumenti in una valigia e gli ultimi fiorini nelle tasche, una volta affrancata la servitù avevano lasciato il porto sicuro di Buda per sparire nei meandri dei vicoli di Pest, dove amici di vecchia data avevano accolto e nascosto Haruka, Michiru, Alexander ed il fidato Takaoka.

Piegandosi sugli avambracci la bionda si sporse dal parapetto quanto basta per osservare degli strani animali far capolino quasi vicino alla chiglia. Delfini, cetacei che come tante cose, lei non aveva visto che in foto o disegnati su qualche libro di scuola. Un gruppetto bene affiatato, un branco che le ricordava il suo ormai perso.

“C’è vento amore. Copriti.” La voce di Michiru le arrivò alle orecchie come una carezza.

Amore. Aveva preso a chiamarla così quando erano sole. Amore ed ogni volta, ogni santissima volta, ad Haruka sobbalzava il cuore.

Avvertendo le sue mani stringerle la vita si voltò sorridendole. Dio la voglia che aveva di baciarla, di toccarla, di averla.

“Cosa stai guardando?”

“Quelli. - Indicando con il mento le sfiorò la guancia con un dito. - Sono delfini, vero?”

Sporgendosi un poco le diede ragione non appena un grosso esemplare cacciò fuori dall’acqua muso e tronco per poi saltare agilmente e ripiombare giù in un nuvolo di schizzi.

“L’oceano è talmente ricco di vita.”

“C’è quasi d’aver paura di un’immensità come questa.” Ammise la bionda perdendo lo sguardo all’orizzonte.

“Non devi. All’inizio forse, se non lo si conosce, ma poi… credimi Ruka, è capace di darti tanto. Libertà, passione, forza.”

L’altra tornò a fissarla inarcando le sopracciglia. “Ne parli come di un amante. Devo forse essere gelosa?” E questa volta fu lei a stringerla per i fianchi.

“Chissà…”

“Ma sentitela.” Sfotté provando un leggero bruciore all’occhio sinistro.

“Ti da fastidio la luce?”

“Un po’, ma non importa. Si sta bene qui. Sono giorni che viaggiamo e non mi va di stare sotto coperta. E poi mi ci dovrò abituare.” Mettendo le mani avanti, Haruka cercò d'arginare lo spirito della mamma chioccia che da quando era stata scarcerata sembrava essersi impossessata dell’altra.

“Lo capisco, ma non devi strapazzarti, lo sai.”

“Si… lo so.” E montando su un viso da bambina, la bionda tornò a guardare i delfini seguire la chiglia.

Michiru non se la prese, tanto aveva capito che parlare con Haruka alle volte era come farlo ad un muro di cemento armato. Aveva rischiato di perdere l’occhio, di rimanere menomata a vita. Era riuscita a guarire con costante lentezza e adesso non voleva rischiare di vederla cedere proprio ad un passo dalla meta; Hokkaidō ed un nuova vita.

Quando la bionda tornò a poggiare gli avambracci al corrimano metallico, l’altra iniziò ad accarezzarle la pelle del polso perdendosi in se. Sia lei che il padre sapevano che trascinare Tenoh dall’altra parte del mondo era stato un azzardo, una specie di cattiveria, ma per non dividerle non avevano avuto scelta. Michiru non poteva rimanere in patria ed anche se fosse riuscita a raggiungere la milizia di Ferenc Aino, la sua vita sarebbe stata tanto difficile quanto pericolosa ed Haruka, che l’avrebbe di certo seguita, meritava un po’ di serenità.

Dopo la confisca dell’ultimo bene, la casa, Alexander aveva immediatamente cercato di prendere contatti per espatriare e l’unico paese dove avrebbe potuto ricominciare avendo già basi solide era il Giappone. Li Michiru sarebbe stata al sicuro e libera di riprendere la sua vita; finire gli studi, magari tornando alla pittura, suonare il suo violino, riallacciare il rapporto con i nonni materni che la lontananza per forza di cose aveva un po’ logorato.

“Dimmi Michi, vedremo anche le famose gru delle quali mi parli sempre?”

“Certamente. Un gruppo nidificò anni fa proprio accanto alla spiaggia sotto la casa dei miei nonni."

“Mmmm. Io che ero un falco dovevo proprio innamorarmi di una gru.” Se la rise sentendola spalla a spalla.

“Tu sei ancora un Turul amore mio. Non credo che riuscirò mai a trasformarti in una gru e a dirla tutta, mi piace che tu non lo sia.”

“Anche se sono uccelli veloci, agguerriti, spericolati ed… indomabili?”

“Si! Anche se sono veloci, agguerriti, spericolati ed indomabili. - Quella ragazzona era questo e cento altre cose ancora. - Ma sappi una cosa; sia i falchi che le gru quando scelgono un compagno o una compagna lo fanno per sempre. Perciò… se mi vorrai, io sarò qui, con te, al tuo fianco, per tutto il resto della vita.”

Improvvisamente la voce di Michiru si fece triste. “Mi sento un’egoista.” Se ne uscì subito dopo aver sospirando piano.

Quante volte negli ultimi giorni lo aveva detto, ritrovandosi a fissare gli occhi verdi della compagna, incapace di pensare che in tal modo aveva salvato anche lei. Quelli stessi occhi che si erano riempiti di tristezza la sera che, prima di dirigersi al molo di Pest, avevano accarezzato per l’ultima volta casa Tenoh. Gli stessi occhi che avevano salutato Mirka e Scada. Gli stessi occhi che avevano ceduto al pizzicore di una lacrima quando l’uomo era riuscito a consegnarle una lettera di Johanna, ancora bloccata dalla burocrazia in un ospedale militare.

Seduta sulla chiglia del barchino che la stava strappando alla sua terra, alla sua storia, Haruka aveva letto quelle poche righe serrando i denti fino quasi a farsi male, abbassando poi la testa poggiando la fronte alle ginocchia. Michiru era stata sul punto di abbracciarla, ma il padre glielo aveva impedito. La bionda era un tipo troppo orgoglioso per non vergognarsi di un simile comportamento.

“Lasciala stare un po’ da sola. Ne avrete di tempo per stare insieme.”

Ad Alexander risultava facile seguire i percorsi neurali di Haruka, forse perché rivedeva in lei Jànos o forse perché la bionda aveva tanti atteggiamenti maschili, come per esempio il vergognarsi di esprimere troppo apertamente i propri sentimenti. Così Michiru aveva ceduto e l'era costato parecchio. Solo in aereo, ormai lontane dal cielo dell’Ungheria, la bionda le aveva fatto leggere la missiva della sorella e si era commossa, capendo ancor di più quanto amore unisse quelle due ragazze.

Tornando a fissare gli occhi blu del suo amore, Haruka divenne seria e come prima di un solenne giuramento raddrizzò la postura portandole dietro ad un orecchio i capelli sconquassati dal vento. “Ne abbiamo già parlato Michi. Ti ho seguita perché ti amo e questo non deve assolutamente farti sentire in colpa. Un giorno tornerò. Non so quando, ma non ho detto addio alla mia patria, agli amici di una vita, o a mia sorella.”

 

 

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh, 10 aprile 1951

 

Afferrando l’ennesima molletta dal cestino dimenticato accanto ai suoi piedi, Johanna sistemò sul filo del bucato l’ennesimo lenzuolo. Il giardinetto sul retro della sua casa era diventato decisamente troppo piccolo per tutti quei panni e se non fosse stato per la meticolosità casalinga di Setsuna, non sarebbe mai riuscita a star dietro a tutto. Un nuovo ed impegnativo lavoro come disegnatrice, la casa nuovamente piena di gente e quest’ultima che dopo il superamento di un lungo inverno in abbandono, necessitava d’interventi urgenti al tetto ed agli infissi.

Gonfiando le guance iniziò a stirare con i palmi delle mani l’ultimo panno. “In che razza di casino sono andata a cacciarmi! Dico io… potevo farmi gli affari miei invece di trasformarmi nella buona samaritana accogliendo tre randagi?!”

Prendendo al volo il manico del cestino entrò in casa sperando che vista l’ora, qualche anima pia si fosse ricordata di fare la spesa. Se qualcuna delle tre non è passata al mercato, questa volta do di matto, pensò proprio mentre un vociare femminile abbastanza concitato si avvicinava alla porta d’ingresso. Una manciata di secondi e l’anta si aprì.

“Ti ho detto che toccava a te e vedi di non fare la solita faccia, perché questa volta hai torto marcio Set!”

Ecco, lo sapevo. Johanna si fermò sullo stipite della sala da pranzo avendo un dejavu.

“Che si rimane senza pranzo anche oggi? No, perché la signora Erőskar non può continuare a sfamarci.”

“Lo so Johanna, ma vallo a dire alla signorina qui presente. Oggi spettava a lei andare al mercato!” Sbraitò Setsuna togliendosi il soprabito mentre l’altra mora le passava davanti con gli occhi iniettati di sangue.

“Non è vero!” Stilò Rei.

“Si che lo è!” Rilanciò la più grande.

“Guarda la tabella in cucina sottospecie di ameba decerebrata!”

“Non fare la cafona con me ragazzina…”

“Perché… se no?!” E Hino si piazzò davanti alla scale mani sui fianchi.

Oddio santa pace che supplizio. Jo sparì prima di cacciare un urlo.

“Pregate iddio che ci abbia pensato Anna. Ma è mai possibile che quattro donne, dico QUATTRO, non riescano a far funzionare una casa. E’ matematicamente impossibile!” Arrivata in cucina ed aperta la porticina che dava sulla dispensa, Johanna ne controllò la desolazione scuotendo la testa.

“Ma che cacchio!” Masticò sbattendo l’anta.

Neanche con Haruka aveva mai avuto tanti problemi. Tralasciando l’emisfero dell’ordine, se alla sorella le si diceva di fare una cosa, la faceva e basta. Ogni commissione, ogni lavoretto. Magari ci voleva un po’, la si doveva pungolare, ma una volta partita la si vedeva andare e venire come una formica operaia.

“Questa casa ha bisogno di un’infinità d’accortezze ed invece non si riesce a star dietro a nulla!” Urlò per farsi sentire dalle altre.

Abbandonando il cestino sulla credenza, la ragazza avvertì nuovamente la porta dell’ingresso aprirsi e sperò con tutto il cuore in un miracolo. Miracolo che le apparve sotto forma di un sacchetto di stoffa mezzo pieno.

“Dio te ne renda merito Annamariah!”

“Avrei potuto scommetterci che nessuna di quelle due iene sarebbe passata per il mercato.” Ammise l’altra cercando di sorriderle.

Le labbra all’insù, ma gli occhi tristi di una madre alla quale avevano strappato la gioia di un figlio.

Jo contraccambiò stirando le sue. Con molta probabilità l’incontro che l’ex capo squadra Shiry aveva avuto quella mattina con il marito era stato infruttuoso come i precedenti.

“Non te lo ha fatto vedere neanche oggi?”

“No.” Rispose laconica iniziando a tirar fuori dal sacchetto la spesa.

Da quando era stata indagata per favoreggiamento, il marito, fervente estimatore del Regime sovietico, aveva impedito alla donna di parlare con il figlio ed anche se una volta concluse le indagini Annamariah era risultata estranea all’evasione, era stata comunque privata di gradi e lavoro, cosa che aveva ingigantito a dismisura l’acredine ed il sospetto dell’uomo. Così un litigio dietro l’altro ed era stato inevitabile finire per separarsi e dato che l’abitazione risultava a nome dell’uomo, Anna era stata addirittura cacciarla di casa. Allontanata dagli affetti famigliari e della sua posizione all’interno della casa della luce, sola, senza neanche un posto dove andare, la donna aveva girato Budapest in lungo e in largo trovando porte chiuse e scuse puerili di ogni genere. Se gli amici si vedono nel momento del bisogno, lei aveva presto capito di non essere stata in grado di seminare affetto a sufficenza e sull’orlo dell’abbattimento aveva trovato in Tenoh un isolotto tranquillo, un porto sicuro, un’amica.

Si erano incontrate per caso, qualche giorno dopo la partenza di Haruka e Michiru per il Giappone. Nel sentire la sua storia, Johanna non aveva avuto remore ad invitarla a stare da lei e complice la tristezza per la perdita della sorella, aveva provato ad istaurare un buon rapporto di convivenza con una donna che poi tanto diversa da lei non era. Ma tutta l’idea che Jo si era fatta era saltata in aria all’apparizione sulla porta di casa Tenou della Direttrice Setsuna Meioh.

“Sono stata licenziata! - Aveva esordito imbufalita valige alla mano. - Adesso che cazzo faccio!”

E cosa avrebbe dovuto fare già con un piede sulla soglia? Entrarci in pianta stabile.

Johanna aveva accettato sapendo già cosa aspettarsi da un tipino come lei. In fin dei conti anni addietro avevano già vissuto insieme, andavano d’accordo ed il rapporto che la ormai ex direttrice aveva con l’altrettanto ex capo squadra era sempre stato buono. Si preannunciava così un bel trittico femminile.

Ed anche questa volta la bomba era esplosa tra le mani di una Johanna ormai rassegnata al fato più bastardo ed arzigogolato che si potesse immaginare. Qualche giorno dopo, i giornali erano stati latori di pessime notizie ed il resto era venuto da se.

“Ragazze avete letto?!” Una sera, con il fuoco nel camino ancora acceso davanti al tavolo apparecchiato della sala da pranzo, Shiry aveva mostrato alle altre due un trafiletto in seconda pagina dal titolo il crollo di una carriera, dove il talento socratico dell’agente scelto Rei Hino veniva messo in ridicolo da un giornalista anche troppo puntiglioso.

“Devo ammettere che mi fa pena.” Terminando la lettura Jo aveva scaraventato il quotidiano sul tavolo guardando le altre.

“Cosa vorresti fare? Aiutare anche lei?" Aveva sogghignato Setsuna sfidandola.

“Non mi è mai stata simpatica, è vero, ma accanirsi con tanta acidità su di lei non mi sembra corretto. Questi giornalisti dovrebbero stare attenti a ciò che scrivono. Ci vuol niente per distruggere la reputazione di una persona e non è giusto.”

“E' il Regime a parlare per loro.”

Caracollando sul divano Johanna si era allora portata le mani dietro la nuca sbuffando. “Non è giusto lo stesso! Come giovane donna, Hino ha faticato più dei suoi colleghi per arrivare dov'era arrivata."

E se per Johanna una cosa non era giusta la si vedeva fare di tutto per cambiare le cose, anche andare in giro per cercare la terza recluta d'affiliare al suo nuovo clan. Così ora erano in quattro e le cose si erano incredibilmente complicate e per questo maleceva la sorella, perché da quando Haruka se n’era andata lei sentiva di essere diventata più disposta verso i guai degli altri, più epatica e vogliosa di compagnia.

“Ti chiamo ameba decerebrata, perché SEI un’ameba decerebrata Setsuna! Ieri a cena ho detto che avrei avuto un colloquio di lavoro. Possibile che non mi ascolti mai!?”

“Rei sei TU che non ti sai spiegare!”

“Non dire idiozie!” Urlò Rei a brutto muso.

“O Dio, ma perché quelle due non si mettono insieme così si scaricano e ci lasciano vivere in pace? - Disse AnnaMariah aprendo la porta della dispensa. - Sono stramaledettamente convinta che farebbero proprio una bella coppia.”

Jo, che sul fronte sentimentale spesso e volentieri mancava completamente d’intuito, le fissò le spalle aggrottando la fronte. “Tu dici?”

“Ma si! Quanto meno eviterebbero di dar fastidio a noi.”

“Mmmm… Per me si ammazzerebbero dopo una settimana.” Poco convinta spostò lo sguardo in direzione delle scale dove intanto l’alterco stava proseguendo.

“Fidati Johanna e comunque ricordati che sei tu che vai in giro per Pest a raccogliere le randagie della casa della luce, perciò non sei nella posizione di lagnarti più di tanto - Scherzò mettendosi una mano nella tasca della gonna tirando fuori una busta bianca con una serie di strani ideogrammi sopra. - A proposito, dimenticavo; tornando ho incontrato il signor Scada.”

Porgendole la lettera la vide trattenere il fiato. “Coraggio, prendila. Mi ha detto che viene dal Giappone.”

Era stata un’idea dell’uomo quella di usare l’indirizzo di un amico, così anche se la Polizia Segreta o la Tributaria avessero voluto ancora tenere d’occhio casa Tenoh, Johanna ed Haruka sarebbero state comunque libere di mantene un contatto.

Afferrandola la più giovane osservò il francobollo con un monte innevato in sommità e poi la girò. E là, una calligrafia dagli scarsi fronzoli, tutta inclinata verso destra, le rivelò chi fosse il mittente.

Volendo lasciarla sola, Anna si defilò con la scusa di andare a sedare l’ennesima rissa casalinga. Poggiandosi al bordo del tavolo a Jo ci volle un poco prima di aprire la busta ed iniziare a leggere quel breve scritto.

 

 

Salve sorella,

siamo per salire sul traghetto che ci porterà al porto della città di Hakodate, dov’è nata Michiru e dove la sua famiglia ci aspetta. Il viaggio è stato lungo. Non sto ad elencarti le sterminate terre che abbiamo dovuto attraversare per arrivare fino a qui, ma tutto sommato è andata bene. Sono quasi guarita.

Mi dispiace di non averti potuto mettere a conoscenza di questo viaggio, ne tanto meno di averti potuta salutare. Ma siamo sorelle, mi conosci e sai cosa provo. Tra noi non c’è bisogno di parole.

Credo che Scada ti abbia già detto quello che è successo in casa Kaioh. Di ciò che hanno fatto per me. Cercare di perdonare è stata una scelta difficile, ma credo sia giusto, come so che dentro di me combatterò ancora allungo per cercare di andare oltre. E’ per questo che ho iniziato a chiamare il padre di Michiru, Alex e non signor Kaioh. Perché per me quell’uomo è morto e sepolto.

Non so cosa diavolo troverò in questo paese. Sono tutti così strani; piccoli, discreti e mi guardano come se fossi un oggetto misterioso e devo ammetterlo, un po’ me la rido, soprattutto quando non capiscono se sono un uomo o una donna. Michiru invece sembra perfettamente a suo agio. Ora capisco dove abbia preso la sua compostezza.

Bando alle ciance, perché stiamo per imbarcarci. Ti saluto, così potrò imbucare la lettera. Ti lascio l’indirizzo della famiglia Kōtei presso la quale andremo a stare. Ti scriverò non appena mi sarò sistemata. Stai tranquilla e cerca di non fare casini.

Ruka

 

Jo deglutì alzando la testa alla credenza inanimata fissa davanti a lei. Il classico stile Tenoh; noncurante, pragmatico, strafottente, ma in realtà quella firma voleva dire tutto e valeva tutto, perché sua sorella non si firmava mai con il diminutivo. Mai.

In quel Ruka c’erano i sentimenti che quella gran zucca vuota non riusciva ad esternare, per pudore o per vergogna. C’era un ti voglio bene, un mi mancherai, un vorrei averti qui, c’era il dolore del distacco e la voglia del ricongiungimento, c’era l’orgoglio di un legame di sangue, il vincolo profondo del loro amore.

 

 

 

NOTE: Ciau.

E così è finita! E’ stata dura concludere questa ff ed ammetto che questo capitolo non è curato come avrei voluto, ma sono un po’ sotto pressione e ho la testa altrove, scusatemi. Vorrei solo dirvi che l'occhio di Haruka e' un tributo al grande duca bianco David Bowie.

Non credo scriverò più storie tanto lunghe… 26 capitoli sono un’infinità :) , sia per chi legge che per chi scrive, ma se arriverà l'ispirazione... Chi sa.

Per un po’ mi concentrerò sulle one-shot legate alle prime due ff che ho composto. Per Natale ho già in mente un siparietto divertente con il nuovo inquilino di casa Tenou-Kaiou.

Vi ringrazio tanto per la vostra dedizione, soprattutto di coloro che mi hanno recensita spingendomi a proseguire. GRAZIE veramente a tutti per il vostro supporto.

A prestissimo!!!

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