Omega

di Halcyon Days
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** di riscaldamenti che non funzionano, sbornie e mezzi presi d'assalto ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Diede un’occhiata veloce allo specchietto retrovisore e lasciò andare lentamente il piede dall’acceleratore. Guardò di nuovo. Avevtenuto mentalmente il conto e quella era la trecento diciassettesima volta, trecento diciotto si corresse mentalmente, che sbirciava dallo specchietto per controllare se le stessero ancora seguendo. Si concesse un sospiro di sollievo quando constatò che la strada alle loro spalle era libera. Si rilassò maggiormente contro lo schienale del sedile, lasciò il volante per legarsi i lunghi capelli scuri in una crocchia disordinata. «Ehi tesoro, era un fuoco fatuo quello?» la bambina seduta al posto del passeggero mugugnò e si rannicchiò ancora di più contro la portiera. «Stavi dormendo, scusa.» 

Abbassò il finestrino, l’aria pungente le attanagliò il braccio, lo richiuse immediatamente. Era ancora troppo presto per guidare con il braccio fuori come piaceva a lei, mancavano ancora cinquantaquattro giorni. Lanciò un’occhiata alla bambina al suo fianco e le sistemò la coperta di pile sulla spalla, Fin mugugnò qualcosa a proposito dei fuochi d’artificio ed emise un lungo sospiro lasciando della condensa sul vetro del finestrino. La donna sorrise e riprese il controllo della macchina che aveva sbandato. «Niente scherzi bolide.» esclamò rivolta al volante. «Almeno non adesso.» aggiunse sbirciando nuovamente dallo specchietto. Trecento diciannove. La bambina di fianco a lei si stiracchiò facendo cadere la coperta di pile decorata in stile scozzese e sbadigliò. «Ehi Fin! Buongiorno!» esclamò sorridente. «Almeno credo sia ancora giorno.» aggiunse sporgendosi in avanti per guardare il cielo dal parabrezza. Alberi, tronchi, rami e foglie e le radici che si facevano largo tra l’asfalto erano le uniche cose che si presentavano alla sua vista. Del cielo nemmeno l’ombra. 

 «Non chiamarmi in quel modo.» borbottò la bambina. Aveva già messo su il broncio: braccia incrociate, testa incassata tra le spalle e labbra e naso arricciati. Le diede un buffetto sulla spalla e Fin si fece scappare un sorriso, allo stesso tempo però si ricordò di essere ancora arrabbiata con lei ed allontanò la mano della madre, come se fosse stata una mosca fastidiosa, e ritornò a fare l’imbronciata. 

Annie si allungò nuovamente in avanti, ancora nessun cartello. Roy le aveva detto di prendere la statale ovest e di proseguire finché non avesse trovato un cartello che l’avesse indirizzata verso le montagne, evidentemente se l’era perso. «Con tutti questi alberi non capisco.» borbottò. Fin sbadigliò nuovamente e si sistemò meglio sul sedile. «Hai dormito bene?» la bambina annuì sorridente, il broncio ormai era solo un ricordo. Le sfiorò la guancia piena e morbida, era di ghiaccio. «Tesoro, hai freddo?» La bambina scosse la testa con veemenza, ma le labbra orribilmente viola e la punta delle dita arrossate testimoniavano il contrario. «Jack ti ha morso!» la bambina ignorò la donna a fianco a lei e si allungò sul cruscotto per prendere la cartina stradale. «Jack Frost non esiste.» sbuffò e si allungò verso la donna, frugò nella tasca del giaccone e ne tirò fuori un paio di guanti che si infilò prontamente, poi alzò le sopracciglia facendole vedere le mani coperte. 

 «Ecco, brava Fin.» disse aiutandola a dispiegare la cartina con una mano mentre con l‘altra teneva poco saldamente il volante. «Guarda dove siamo finite e sistemati questo.» le abbassò il cappellino di lana sulla fronte. «Così va meglio.» 

 «E tu guarda avanti o finiremo contro un albero.» la rimproverò la bambina. 

 «Ti preferivo mentre dormivi.» la riprese scherzosamente. Fin rise e, dopo aver individuato il nord sulla cartina, cominciò a lisciarla con le mani. 

 «Hai sbagliato direzione, dovevi continuare e poi svoltare sulla superstrada, invece hai girato per di qua allungando il tragitto.» le spiegò puntando il dito su una linea bianca e seguendone le curve.  «Saremmo già arrivate.» 

Annie accarezzò la testa della figlia ma Fin la scansò con un gesto della mano, si spostò un ciuffo immaginario e riprese il controllo della macchina.  «Lo so che sei stanca e hai freddo ma cerca di resistere che manca poco, ok?» Tutto quello che la bambina fu in grado di rispondere fu: «Mh 

Per tutta l'ora successiva l’abitacolo venne avvolto nel silenzio interrotto di tanto in tanto da uno starnuto o da un colpo di tosse. 

Roy sapeva che sarebbe successo, lo sapeva e quel giorno le aveva detto di evitare la superstrada, la gente terrorizzata si sarebbe precipitata fuori città, riversata nelle strade e bloccato la circolazione. Dopo la notizia che il terremoto aveva provocato l’esplosione di tre centrali, una di seguito all’altrae che i gas che esse contenevano stavano fuoriuscendo, si era scatenato il caos; e mentre la città si era svuotata in un lasso di tempo minimo, la periferia e la zona industriale si erano trasformate in un inferno. 

Aveva trovato Fin, per miracolo, rannicchiata dietro al cespuglio secco del rododendro, aveva ancora lo zaino sulle spalle, era il suo primo giorno di scuola, stringeva il suo orsacchiotto e tutta sporca di polvere piangeva e urlava. Poi era arrivato, le aveva detto che in periferia non era rimasto quasi più niente, -il terremoto aveva fatto crollare la parte Ovest della cittadella e gran parte della zona Nord (ma di quello se n'era accorta da sola) e che dovevano andarsene, trovare un posto sicuro e lui sapeva dove. Non ci pensò un secondo di più, prese in braccio una Fin urlante e scioccata e lo seguì senza fare domande.  

Ora erano rimaste solo loro due. 

Si passò una mano in mezzo ai capelli e un ciuffo scuro le cadde davanti agli occhi. «C’era un fuoco fatuo!» si giustificò lei. «A te non piacciono i fuochi fatui?» La bambina aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa in una muta rassegnazione. 

«Mamma, la magia non esiste.» borbottò lei, la macchina in quel momento si arrestò bruscamente e si spense l'auto. La donna diede due bruschi colpi al volante facendo suonare il clacson e si lasciò andare contro il sedile. «Hai solo otto anni Fin, non dovresti dire queste cose. Fino ad un mese fa andavi a caccia di fate in giardino e prima di andare a dormire mi chiedevi di controllare sotto al letto e dentro l’armadio. Avevamo anche la pozione scaccia mostri.» la rimproverò. «La magia esiste.» le sorrise. 

Fin smontò dall’auto e seguì sua madre. «Un mese fa ero stupida e lo so che quella pozione era solo acqua con un po’ di brillantini nella bottiglia del detersivo per i vetri.» affermò in tono piatto, alzando le sopracciglia come se volesse sfidarla a dire che ciò che aveva affermato non fosse la verità. Fin sembrò leggerle la conferma negli occhi. «La magia non esiste e tu non dovresti crederci» Avrebbe voluto controbattere ma preferì lasciar correre. «Che cosa stai facendo?» le chiese vedendola appoggiata al bagagliaio con il vano aperto mentre osservava il motore della macchina. «Controllo se ci sono problemi.» Osservò per pochi minuti quel groviglio di cavi, vaschette contenenti liquidi, scatole varie e ventole e decise che non c’era nessun problema. «Fin, davvero non credi nella magia?» chiese appoggiandosi al fianco della macchina, si picchio la fronte mentalmente, non aveva appena deciso di lasciar perdere? 

Fin si strinse al petto la cartina piegata accuratamente e alzò le spalle. «No.» rispose semplicemente. «Finché non riceverò la mia lettera per Hogwarts non ci credo 

La donna roteò gli occhi e sospirò. «Se avrai pazienza tra tre anni un gufo potrebbe lasciare nel camino la tua lettera.» 

La bambina parve scettica. «Quale camino?»  

Decise che era meglio ignorare la domanda. E così fece. «Dai Fin salta in macchina, problema risolto.» 

Fin le lanciò un’occhiataccia. «Tu non sai un cavolo di cose da maschi mamma… come le auto per esempio. Faceva tutto papà.» 

La donna sorrise perché sapeva che Fin aveva ragione. «Ti sbagli.» sospirò. «Ne so abbastanza per aver preso la patente e per sapere che una macchina del genere ha il motore dietro e non davanti, non credi?» Che fosse veloce per lei era abbastanza. Il più velocemente avessero lasciato quel luogo, prima avrebbero aggiunto il loro rifugio in mezzo alle montagne e meglio sarebbe stato. La bambina si mise una mano su un fianco e guardò la madre con un’espressione poco convinta. «Ti ricordo che tu la patente non ce l’hai più.» aprì la portiera della macchina. 

 «Tesoro, non c’è nessun problema, deve essersi infilato qualche ago nelle prese d’aria, sali in macchina.» le disse sistemandole il cappuccio sulla testa e spingendola dentro l’abitacolo. «Oppure siamo in riserva.» borbottò fra sé e sé. 

 «Mamma.» la chiamò dopo che ebbero ripreso il viaggio. Le labbra della bambina erano rimaste viola e anche le dita stavano diventando dello stesso colore. 

 «Hai freddo?» le calò il berretto sulla fronte, le labbra stavano diventando sempre più scure e il viso stava perdendo colore. Alla domanda della madre Fin scosse la testa e si alzò il cappello, le prudeva e non riusciva a tenerlo. «Rimettiti i guanti.» scosse di nuovo la testa. «Fin.» l’ammonì. Provò ad accendere il riscaldamento ma dalle ventole usciva solo aria fredda. Lo spense. «Fin, per favore.» la supplicò. 

La bambina scosse di nuovo la testa. «Non ho freddo.» il rumore dei denti che battevano tra di loro era l’unico rumore che faceva da sottofondo alla loro discussione. «Ho fame.» si rannicchiò contro il sedile stringendosi il giaccone attorno alla pancia. «Ho fame.» le brontolò lo stomaco ma nella sua testa c’era solo la voce della figlia che le ripeteva all’infinito “Ho fame!” 

La donna sospirò, lanciò un’occhiata allo specchietto. «Non possiamo fermarci Fin.» oltre che a battere i denti cominciava a far fatica a parlare. «Dobbiamo-» Fin scrollò le spalle, un movimento debole e privo di convinzione, si infilò i guanti e giusto per far felice la mamma anche il cappello e si acciambellò sul sedile nascondendo la testa tra le ginocchia. «È un sacco-» fece una pausa per fare un respiro profondo. «di tempo che cerchiamo questo posto» di nuovo una pausa «e la millesima volta che cambiamo macchina, spero solo che ci sia la cheesecake al limone più buona del mondo dove stiamo andando.» riuscì a brontolare prima di addormentarsi. 

La loro corsa durò solo un’ora in più. Lasciò andare lentamente l’acceleratore e si abbandonò contro il sedile finché la macchina non si fermò da sola. «Abbiamo finito la benzina.» si voltò a guardare la figlia ancora rannicchiata sotto la coperta di pile. «Fin vado a vedere se c’è qualcosa qui attorno. Fin?» scosse la spalla della bambina che non si mosse. «Ehi, tesoro.» la scosse più forte. «Fin!» le mise il dorso della mano sotto al naso, respirava ancora. «Fin.» la scosse più forte. La chiamò per nome. La bambina mugugnò, tentò di stiracchiarsi nello spazio ridotto e osservò la madre con lo sguardo assonnato.  

Fin si alzò a sedere. «Mh?» sbadigliò e le si inumidirono gli occhi. 

 «Mi hai fatto prendere uno spavento!» la strinse in un abbraccio. «Quanti sono questi?» 

La bambina le scansò la mano. «Quattro, mamma. Se conti il dito piegato sono cinque.»  

Le diede un bacio sulla fronte. «Brava la mia bambina.» Le abbottonò il collo del giaccone e le sistemò la coperta sulle spalle. «Vado a vedere se c’è una stazione di rifornimento qui attorno. Faccio presto. E copriti le orecchie o Jack Frost morderà anche quelle.» le diede un rapido bacio sulla punta del naso e uscì dall’abitacolo. 

 «Mamma!» urlò Fin seguendo la madre, la coperta le svolazzava attorno ai piedi e le faceva da mantello. «Mi lasci da sola?» sua madre si fermò a guardarla aggrottando le sopracciglia. «Non lo sai che cosa succede alle persone che vengono lasciate da sole?» si sistemò meglio la coperta sulle spalle e raggiunse sua madre. «Gli succedono-» fece una pausa e la madre la guardò preoccupata, tese le mani in avanti come se da un momento all’altro avesse potuto cadere. «Gli succedono sempre cose brutte, l’ho visto nei film. Non sono pronta a mangiare i serpenti, anche se sanno da pollo.» 

La donna sorrise. «E chi te li ha fatti vedere questi film?» le domandò stringendole la mano fasciata dai guanti. 

 «Papà.» sul viso di Fin si dipinse il sorriso più triste che la donna le avesse mai visto. 

 «Non credi alla magia ma a quello che succede nei film si?» le domandò incredula. La figlia alzò le spalle e le prese la mano. «E da dove sbuca fuori questa storia dei serpenti?» 

La bambina scosse le spalle. «Papà una volta mi ha fatto vedere un film su un signore che porta un cappello da cowboy e che una volta ha mangiato serpenti perché si era perso nel bosco.» Fin alzò nuovamente le spalle. «Lui ha detto che sapevano da pollo.» 

Il padre di Fin era morto circa due anni prima, faceva il ricercatore. Il giorno in cui le avevano dato la brutta notizia era il compleanno del marito e della figlia. Fin aveva voluto fare la torta da sola, aveva esagerato con la farina e si era mangiata tutta la cioccolata, se tirata in testa un sasso avrebbe fatto meno male, e poi si era nascosta in mezzo ai cuscini del divano in attesa di fare una sorpresa al padre. 

Quando il campanello aveva suonato sapeva che stavano arrivando brutte notizie. Due poliziotti se ne stavano davanti alla porta. «Deve venire con noi.» Non c’era nessun bisogno che aggiungessero altro, sapeva già cos’erano venuti a dirle. A quanto sembrava, dalla ricostruzione, suo marito era stato aggredito da un gruppo di ragazzini, alcuni testimoni li avevano visti mentre lo pestavano a sangue e come di consuetudine nessuno era intervenuto. Non era certo una novità, non in quel quartiere ed in quel periodo, che qualcuno venisse aggredito, derubato di qualsiasi cosa e poi ucciso. «Quando sono arrivati i soccorsi non c’era più nulla da fare.» Il che significava che i soccorsi non erano mai stati chiamati, non ce n’era bisogno se vivevi tra la zona Ovest e quella Nord, vivere in periferia o all’Inferno non faceva alcuna differenza. «Signora stiamo facendo il nostro meglio per identificare gli assassini, stiamo facendo il nostro meglio perché vengano assicurati alla giustizia.» Solo Dio sa cosa l’abbia trattenuta dallo sbattere la porta in faccia a quei due e mettersi ad urlare. I due poliziotti le chiesero nuovamente di seguirla per l’identificazione del corpo, al suo rifiuto si erano levati il cappello e avevano fatto un breve cenno con la testa. 

Aveva provato a convincere il marito a farsi trasferire in un ospedale del centro città, vicino alle mura sarebbe andato bene lo stesso, ma gli era stato detto che per loro non era consentito muoversi. Dovevano rimanere dov’erano. 

I suoi pensieri vennero interrotti da un rumore assordante. «Mamma.» Fin le strattonò la manica del giaccone per richiamare la sua attenzione, indicò davanti a lei. Dalla direzione che la figlia le aveva indicato stava arrivando un grosso camion militare. 

 «Vieni.» agguantò Fin per un braccio e la trascinò verso il limitare della strada e poi in mezzo al bosco. 

 «Voglio vedere!» protestò la bambina. 

 «Fin non fare i capricci e muoviti.» 

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Capitolo 2
*** di riscaldamenti che non funzionano, sbornie e mezzi presi d'assalto ***


Higher Point era la base militare più vecchia esistente in quel territorio, costruita su un altopiano in mezzo alle montagne ancora prima della fusione, era riuscita a resistere al disastro della grande divisione e aveva tenuto valorosamente testa al nemico per oltre mezzo secolo. Ora era l’unica sopravvissuta nella provincia dei Fiumi Superiori, l’unica base a non essersi ancora arresa. Dove tutte le altre basi avevano fallito, Higher Point continuava a resistere e a portare a termine la missione ultima, ciò che in pianura era già stato sistemato. Non era stato facile mantenere il controllo su quella parte del territorio, il nemico aveva scelto con cura quale zona delle montagne assediare, si erano infiltrati, erano cresciuti a dismisura ed era diventato impossibile contenerli. Erano diventati un tutt’uno con l’ambiente, ostile e pericoloso tanto quanto loro, erano il male assoluto.

Ian era orgoglioso di essere nato e cresciuto in quella base militare, di essere in grado di sostenerla e mantenerla viva servendo il Governo, combattendo i nemici e difendendo il popolo ogni giorno, come avevano fatto migliaia di soldati prima di lui. Amava quel luogo più di quanto amasse sé stesso, le sue vittorie, la sua divisa nera rispetto a quella bianca e il silenzio che avvolgeva Higher Point alle quattro e mezza del mattino.

Si fermò davanti alla grande vetrata che si affacciava sulla parte est della Base. La neve aveva smesso di cadere da un paio d’ore, lasciando dietro di sé una tranquillità e un silenzio totale, seppellendo al suo sguardo la spianata qualche chilometro più giù, prima del limitare del bosco, ghiacciando e facendo saltare le giunte di uno dei tre ponti che attraversavano il fiume. Ciò nonostante l’Inverno era la sua stagione preferita. La mattina presto era ancora buio; l’erba, marcia e ghiacciata, che scricchiolava piacevolmente sotto le suole degli scarponi durante i suoi quotidiani giri di ricognizione, gli trasmetteva un senso di soddisfazione, qualcosa di terrificante e soddisfacente prendeva forma nella sua mente. Il cielo restava cupo tutta la giornata, il sole costantemente nascosto dalle nuvole e gli alberi piegati dal peso della neve che cadeva incessantemente. Il vento che ululava, sbatteva e scuoteva le fronde degli alberi, e faceva eco tra le cime aguzze delle montagne: ecco, quello era il suo suono preferito. Si sentiva ancora meglio quando si sollevava la bufera, quando la neve cadeva fitta e non si riusciva a vedere a un palmo dal naso e tutto attorno a lui assumeva il colore della tempesta e non si distinguevano le montagne dagli alberi e dalle zone pianeggianti e il cielo dalla terra. Quando il tempo era talmente insidioso e il vento faceva vibrare le vetrate e minacciava di spazzar via la montagna, quando la natura all’esterno era in tumulto, lui si sentiva in pace. 

Quella posizione e quella vista gli davano uno strano senso di potere e di superiorità, raccolse le mani dietro la schiena e raddrizzò le spalle ancor più di prima.

Una porta si aprì in fondo al corridoio, Ian riconobbe il Generale Hastings uscire dal suo ufficio circondato da un nutrito gruppo di strateghi, il ragazzo li riconobbe dai gradi militari appuntati al petto della vecchia divisa e perché la maggior parte di loro aveva i capelli bianchi. Il Generale rivolse un saluto militare ai due soldati di guardia alla porta e lasciò che uno di loro la chiudesse, l’uomo avanzò quindi per il corridoio silenzioso, sempre circondato da quel gruppo di vecchi barbuti. Non capì di cosa stessero parlando ma dal modo concitato nel quale uno degli strateghi stava gesticolando e l’espressione concentrata con la quale il Generale lo stava ascoltando, doveva essere molto importante e Ian aveva un’impellente bisogno di sapere di cosa si trattasse. Quando quel gruppo gli passò a fianco il Generale gli dedicò un breve saluto al quale Ian rispose più per riflesso che per vera intenzione, ma gli altri non sembrarono notarlo.

Un’occhiata veloce all’orologio da polso gli fece notare che ora fosse, prima però sarebbe passato in infermeria per una visita veloce. Salì le scale fini al Livello 3 due gradini alla volta, si diresse a passo spedito verso le due grandi porte antipanico rosse ma, una volta raggiunte, si fermò un istante e cambiò improvvisamente idea, capì che non era il momento adatto e si diresse in mensa. Mentre scendeva di corsa le scale percepiva già la Base svegliarsi: le porte delle stanze che si aprivano e chiudevano, il rumore delle scarpe dei soldati che si avviavano a passo deciso a far colazione, chiacchierando tra di loro con le voci ancora impastate dal sonno.

La mensa era il luogo più grande ad Higher Point dopo la palestra e il poligono di tiro, la stanza più frequentata dai soldati e, paradossalmente, quella più esposta alle incurie e al degrado. Ian si soffermò sui pezzi di intonaco caduti dalle pareti e ammucchiati agli angoli della stanza, alla macchia sul soffitto dovuta ad un’infiltrazione risalente all’anno precedente, alle lampade al neon che penzolavano minacciose sopra le teste dei suoi commilitoni e ai mattoni che avevano usato per chiudere la vecchia finestra che si era dapprima scheggiata ed era successivamente esplosa lasciando entrare aria gelida. Con rassegnazione recuperò un vassoio dalla pila all’entrata, lascio passare avanti due suoi commilitoni e si mise ordinatamente in coda. Una volta giunto il suo turno l’inserviente lasciò cadere nella scodella la solita colazione liquida, osservò i piccoli cubetti bianchi e rosa galleggiare nel liquido di un colore non esattamente definibile, aveva un’aria disgustosa, quel giorno ancor più del solito. Lanciò un’occhiata all’inserviente che, senza degnarlo di troppa attenzione, aveva già posato il pentolone a terra per sostituirlo con uno nuovo, pronto a servire il soldato dopo di lui, osservò nuovamente la scodella e la sistemò sul vassoio. Gli era andato anche troppo bene, di solito la zuppa non veniva mai mescolata e perciò il meglio, o almeno quello che avrebbe dovuto dare un po’ di sapore a litri e litri d’acqua sporca, rimaneva sempre sul fondo, prese un pezzo di pane e un bicchiere di plastica e attraversò la sala diretto al suo solito tavolo. «Com’è che lo chiama James quel colore?»

Ian osservò Seth abbandonarsi pesantemente sulla sedia accanto alla sua, portando con sé un forte odore di alcol misto a sudore che gli fece arricciare il naso. Si infilò una cucchiaiata di sbobba in bocca. Gli era andata decisamente troppo bene. «Potresti anche usarla la doccia una volta ogni tanto.»

Seth si annusò l’ascella e alzò le spalle. «Amico, le tubature sono scoppiate e io non ho intenzione di farmi una scammellata fino alla tua zona per farmi una doccia ghiacciata. Che schifo.» disse dopo aver assaggiato il suo intruglio.

 «Come fai a dire che fa schifo se mangiamo sempre la stessa cosa?» domandò un altro soldato davanti a lui, di cui Ian non ricordava il nome e, proprio in quel momento, dal soffitto si staccò un piccolo pezzo di intonaco che cadde dritto sul suo piatto, senza battere ciglio, ripescò l’incrostazione e continuò a mangiare.

 «Oggi fa particolarmente schifo.» Ian ignorò Seth e finì di mangiare la sua colazione. «E il pane è congelato e vecchio, potremmo usarlo quando siamo a corto di munizioni. Ian?» aggiunse quando non ricevette risposta.

Ian si alzò dalla sua sedia. «Finisci di mangiare e di fare l’idiota poi raggiungimi sul pianale.» prima di congedarsi ufficialmente aggiunse: «E vedi di farti una doccia.»

 «Sissignore.»

Il riscaldamento aveva smesso di funzionare correttamente da nove giorni. Faceva quasi più caldo fuori che dentro l’edificio. 

Da nove giorni l’acqua calda era finita, i pasti erano serviti tiepidi e rigorosamente scaldati con le poche bombole di gas rimaste, ma finite nell'arco di appena cinque giorni nonostante la meticolosa parsimonia con la quale erano state razionate.

Da quando aveva memoria, Ian non ricordava di aver mai passato un periodo così disastroso come quei nove giorni. La gente che abitava nel villaggio a ridosso della base non se la stava passando tanto meglio. La maggior parte delle case erano vecchie e fatiscenti, i muri non erano spessi abbastanza e il calore si disperdeva in fretta, gli ammalati aumentarono e il contagio divenne inevitabile anche alla base. 

In nove giorni, tre quarti della popolazione civile era caduta vittima di una terribile influenza e, come spesso accade in casi del genere, anziani e bambini furono i primi a contrarre la malattia. La popolazione colpita venne isolata per evitare la trasmissione del virus, ne morirono la metà, senza contare le perdite a causa del freddo e della fame.

La fame era un altro dei problemi che li aveva colpiti in Autunno, che non erano riusciti a risolvere e che ora si trascinava nel tempo con tutte le sue conseguenze. Quella era la seconda volta che sarebbe arrivato un carico speciale per far fronte alla mancanza di cibo, Ian pensò a tutte quelle richieste che erano state inoltrate al commando generale e le loro lapidarie risposte, si passò una mano sul viso frustrato.

Quell’Inverno si rivelò essere il più rigido e il più crudele che avessero mai sperimentato. 

Uno dei tre dottori, il più vecchio, quello con i tremori alle mani, rimasto in servizio solo perché gli anziani non si fidavano di nessun altro, aveva preso la broncopolmonite; un altro era rimasto senza una mano a causa dell’ipotermia, gli era andata in cancrena e avevano dovuto amputarla, e i tecnici militari erano troppo occupati a cercare il materiale necessario per sistemare il riscaldamento e rattoppare le tubature esplose per progettargliene una nuova. Coalster era l’unico rimasto che fosse ancora in grado di esercitare. Lui e la figlia. Più tutte le donne che si erano offerte di dare assistenza e che non erano occupate a prestare servizio militare. 

La situazione era disastrosa sia dentro che fuori Higher Point. 

Passò a svegliare qualche suo commilitone con secchiate di neve, non era un problema recuperarne un po’, dato che qualcuno aveva festeggiato più del dovuto la sera precedente. Salutò il Capitano spostandosi di lato per farlo passare, si portò una mano alla fronte per poi proseguire a passo spedito verso l’uscita e il punto di raccolta.

Si sistemò il colletto del giaccone davanti alla bocca e rimase ad osservare il bosco davanti a sé, oltre quegli alti cancelli dal filo spinato, al di là della spianata. Pensò a tutto quello che si nascondeva lì dentro, a quello per cui stavano strenuamente combattendo e a ciò che era accaduto quasi due settimane prima esattamente in quel punto. 

Una risata interruppe i suoi pensieri.  

«Ian Hastings!» lo chiamò un soldato mentre gli veniva incontro barcollando, anche a quella distanza poteva notare quanto fosse ubriaco. Alzò il braccio non molto convinto e il soldato lo salutò mostrandogli i denti, ondeggiando la mano con fare distratto e fallendo miseramente nel tentativo di mettere un piede davanti all’altro.

 «La situazione è fuori controllo.» borbottò. La ragazza accanto a lui mugugnò qualcosa annuendo distrattamente. «Spero non sia stato autorizzato.» si rivolse infine a lei. Candice alzò lo sguardo per poi riabbassarlo sulla lista di nomi che aveva in mano, spuntò l’ultimo nome di quella pagina e alzò le spalle. Con fare molto brusco lui le levò la cartella dalle mani, scrutò molto attentamente l’elenco trovando esattamente ciò che non avrebbe voluto, strappò la penna dalle mani della ragazza, cancellò il nome e le ridiede la cartella. Altri due soldati raggiunsero l’amico ubriaco e per sostenerlo, entrambi, si fecero passare un braccio attorno al collo. «Portatelo in infermeria, non voglio che combini guai, e poi ripresentatevi qui per gli ultimi preparativi.»

 «Sissignore.» e dopo aver fatto un breve cenno con la testa i tre sparirono attraverso il portone laterale. Ian si passò il pollice e l’indice sulle palpebre e frustrato.

 «Parlerai con il Capitano?» chiese la ragazza, lui scosse la testa e incrociò le mani dietro alla schiena irrigidendosi. «Può mettere la parola fine all’uso sconsiderato di alcol! Sai quanti soldati abbiamo ricoverato in nove giorni? Arrivano in infermeria e noi continuiamo a ripetere che non serve a nulla bere così tanto, chiunque abbia messo in giro la voce che gli alcolici scaldano dovrebbe essere rinchiuso. So che i nostri tecnici non stanno aiutando proprio per niente, ma voi soldati ne state abusando e non è proprio il caso.» scosse la testa in disapprovazione. Ian le lanciò un’occhiataccia e Candice abbassò la testa stringendo la cartella al petto. «Mi dispiace, ogni tanto mi dimentico con chi sto parlando.» mormorò la ragazza e fece un passo indietro. 

 «Lo riferirò al Capitano, gli dirò che dall’infermeria hanno chiesto di prendere provvedimenti in merito a ciò che si sta verificando.»

Dall’altra parte del punto di raccolta vide Seth correre verso di lui, notò che indossava la divisa bianca, quella che non metteva mai. «Signore.» lo salutò piuttosto affannato e si posizionò alla sua destra. Lanciò uno sguardo di traverso a Candice e poi si rivolse a lui: «Non dovrebbe esserci James al posto suo

La ragazza prese il mento del soldato davanti a lei e gli spostò il viso di lato, prima da una parte e poi dall’altra, gli puntò una luce negli occhi, fece un breve cenno con la testa e gli diede il permesso di andare. «James è ancora in infermeria.» rispose con tono impassibile mentre segnava il nome di un altro commilitone. «A lamentarsi come al solito, quindi direi che è tutto a posto. Tu no.» si rivolse infine ad un altro soldato, Ian fece cenno allo stesso soldato di rientrare alla base.

 «Se è tutto-»

Candice si sporse in avanti, oltre Ian. «Ordini dall’alto.» disse a denti stretti.

 «Smettetela voi due.» esclamò Ian con tono annoiato ma con quel pizzico di autorità che li fece chiudere la bocca. I due rimasero in silenzio, Candice di fianco a Ian spuntava o sbarrava nomi a seconda degli ordini di lui. «Le tubature dell’area Est sono esplose a causa del ghiaccio, da quella parte-»

Ian imprecò senza preoccuparsi di essere discreto. «Moore!» sbottò. «Dov’è Moore della squadra speciale? Rispondi soldato!»

Il soldato tutto impettito e con la mano alla fronte rispose: «È ancora in infermeria, signore.»

Il Sergente imprecò per la seconda volta. «E non può velocizzare il processo?» si avvicinò al soldato con fare minaccioso. Seth subito al suo fianco.

 «Non è così che funziona, signore.» gli rispose il soldato, il tono di voce fermo e sicuro. «La ferita era molto grave, signore, ma secondo il Dottor Coalster il soldato Moore potrà rientrare in servizio già da domani.» la vena sulla fronte di Ian cominciò a diventare visibile. «Signore.» aggiunse velocemente.

 «E secondo te» lanciò una breve occhiata alla targhetta appuntata sul giaccone. «Volkov» riprese dopo aver appreso il suo nome. «dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per farci arrivare il carico dal commando centrale, è possibile rimandare un recupero di questa portata? Vuoi rimanere senza cibo fino all’Equinozio?» sbraitò e nella foga della saliva schizzò in faccia al povero soldato che non batté ciglio.

 «No-» Volkov venne interrotto.

 «Non ti ho dato il permesso di rispondere.» Ian osservò gli altri soldati della squadra speciale, non gli piacevano, nessuno di loro, ma suo padre aveva tanto insistito e il più delle volte si rivelavano utili. A qualcosa servivano. «Quanto ha Moore?»

Volkov rispose prontamente. «Trentadue, signore.» Ian lanciò uno sguardo oltre le sue spalle, Candice aveva appena scosso la testa e sbarrato un altro nome, se si era accorta di cosa stava succedendo stava facendo un buon lavoro per nasconderlo. Chiuse gli occhi, un tentativo mal riuscito di ricomporsi. «E tu soldato?» la risposta lo spazientì, un’immagine di lui che stringeva le mani attorno al collo del soldato gli apparve fugace davanti agli occhi e quello bastò a calmarlo. Con un gesto della mano scusò il soldato, Ian fece un passo indietro e si rivolse alla fila di soldati davanti a lui. «È possibile chiedere qualcosa di più?» gli fu difficile trattenere quelle parole velenose, sbirciò di nuovo oltre alle sue spalle sperando che Candice non lo avesse sentito. Rivolse un ultimo sguardo alle due file di uomini davanti a loro e con un cenno annoiato della mano gli concesse di rompere le file. «Quanti ne mancano ancora?» Seth si strusciò il dorso della mano sulla fronte e con un breve gesto gli indicò gli ultimi cinque soldati che stavano aspettando. «Tra due minuti raduna gli uomini sotto il capannone.» il soldato annuì brevemente, ruotò sui tacchi e si avvicinò a Candice, le sussurrò qualcosa all’orecchio e lei sbuffò spazientita.
 

Due minuti dopo Ian era sotto il capannone che fungeva da autorimessa, curvo sulla mappa dello Stato e stava mettendo al corrente i soldati del piano di recupero del cibo. Seth al suo fianco, come al solito, annuiva ogni tanto mentre il suo amico procedeva ad elencare ogni singola mossa. Erano tutti nervosi, questa volta sarebbero andati loro direttamente al deposito situato al confine; il quartier generale non aveva ammesso nessun’altra condizione, altrimenti non avrebbero spedito nessun carico fino al trecento sessantaquattresimo giorno, due giorni prima l’Equinozio. «Tutto andrà alla perfezione.» esclamò guardando i soldati ritti e composti attorno al tavolo. «Deve» sottolineò «o rimarremo senza viveri per il resto della stagione e di certo non vogliamo morire né di fame, né di freddo.» Seth, alla sua sinistra annuì con veemenza. Candice gli diede una leggera gomitata al fianco per attirare la sua attenzione, con un cenno impercettibile della testa, indicò verso il portone da cui era appena uscito un soldato. Seth le lanciò uno sguardo confuso e ritornò a concentrarsi sul discorso di Ian, tutto era perfettamente normale per lui. «Tutto è stato pianificato alla perfezione. Non ci faremo cogliere impreparati, nessuno verrà ferito e torneremo tutti a casa sani e salvi.» Candice si scusò brevemente.

Ian congedò i soldati e questi si sparpagliarono dirigendosi all’interno dell’autorimessa, si lasciò scappare un lungo sospiro.

 «Cosa c’è che non va adesso?» domandò Seth.

 «Non mi fido di lui.» mormorò con lo sguardo puntato su uno dei soldati appartenente alla squadra speciale.

Seth alzò lo sguardo. «Tu non ti fidi di loro e basta.» gli fece presente.

 «Sì, ma c’è qualcosa nel suo sguardo, non so spiegarmi esattamente cosa.» osservò il soldato dirigersi verso una delle due camionette che avrebbero usato per lo spostamento e ispezionare le gomme, chiamò uno della sua squadra, gli disse qualcosa e questo si allontanò. Ian si era già scordato il nome. «Ma-»

 «Non ti fidi nemmeno di me e James.» lo interruppe scherzosamente.

Ian lo guardò con un’espressione seria. «Già.» e si allontanò verso l’uscita dell’edificio lasciando il compagno di squadra sbigottito e immobile.

Adocchiò Candice litigare con un soldato, almeno era ciò che i gesti concitati e il tono di voce facevano trasparire.

 «Che cosa ci fai tu qui?»

 «Puoi dirle che sto bene?» lui e il soldato esclamarono contemporaneamente. Candice incrociò le braccia seccata. «Non sono un dottore, James. Non ho idea se tu stia bene o no. Sono passate due settimane-»

 «E non è abbastanza tempo per guarire?»

Ian afferrò il braccio del soldato e tirò su la manica del giaccone rivelando una ferita non ancora guarita del tutto. «Visto? Hai ancora bisogno di riposare. Non posso mettere a rischio i miei uomini per-»

 «Non mi serve riposare. Non sono-»

 «James smettila. Se davvero vuoi essere d’aiuto, vai con Seth nella stanza di controllo e rimani con lui. Rimarrai dietro alle quinte e mi aiuterai ugualmente. Non mi guardare in quel modo. Questo è un ordine, ed è l’ultima volta che te lo dico.»

 «Sissignore.» James salutò Ian e si diresse all’interno dell’edificio.

 «Grazie.» annuì Candice e senza ulteriori indugi seguì James ad Higher Point.

Un soldato gli si avvicinò, gli porse I suoi saluti ed esclamò: «Le gomme sono state sostituite, è tutto pronto, Sergente.»

Ian annuì soddisfatto. «Avvisa il Capitano che siamo pronti a partire.» il soldato si congedò e a grandi passi si diresse all’interno della base. Un quarto d’ora dopo uscirono da Higher Point.

 
 «Mi senti?» gracchiò una voce dall’altra parte dell’auricolare e Ian annuì silenziosamente. «Hastings mi senti?» notò come Seth fosse passato al cognome. Se l’era presa per ciò che gli aveva detto pochi minuti prima, al pensiero della sua espressione gli venne da ridere.

 «Ho detto di sì.» rispose seccato.

 «Non hai detto un bel niente Hastings, tu hai sentito qualcosa?» si rivolse a qualcun’altro vicino a lui. «No, nessuno qui ha sentito niente. Dimmi solo se mi senti in modo chiaro.» continuò assumendo un tono serio.

 «Aggiusta il volume, sfrigola.»

 «Mi senti adesso? E non dirmi cazzate, lo so che il tuo microfono funziona perfettamente. Apparentemente quelli sembrano essere le uniche cose a funzionare qua dentro.» borbottò infine.

 «Ti sento forte e chiaro.»

 «Ricevuto.»

Sul ciglio della strada, coperta da edera e ruggine e squarciata da un albero, che si era fatto spazio sul cofano accartocciandolo, se ne stava ciò che rimaneva di una macchina. Gli fu facile capire da quanto tempo giacesse lì, abbandonata, esposta alle intemperie e alle incurie del tempo.

Il soldato che stava alla guida del mezzo militare gli diede una leggera gomitata e, senza dir nulla, gli porse una fiaschetta. Ian osservò la boccia e poi alzò lo sguardo verso il soldato scuotendo lentamente la testa, resosi conto del suo gesto gli strappò la fiaschetta dalle mani per poi lanciarla fuori dal finestrino.

Dopo due ore e mezza di strada i soldati intravidero i cancelli chiusi che precedevano un gruppo di edifici bassi e grigi che fungevano da magazzini. La loro colonna di mezzi venne fermata e controllata al gate, i soldati di guardia davanti il piccolo casotto li fecero passare. Vennero indirizzati verso un piccolo piazzale dove un altro gruppo di uomini vestiti di bianco li stavano già aspettando.

Scese dalla camionetta seguito da altri cinque soldati, non prima di aver intimato all’autista del suo mezzo di fare retromarcia e di posizionarsi ultimo in coda.

 «Ti prego, fammi la lista di quello che c’è.» gracchiò Seth dall’altra parte dell’auricolare. Sbuffò divertito, fece finta di non aver sentito la voce dell’amico all’altro capo del microfono e a grandi passi si diresse verso il comitato di accoglienza.

Un uomo basso e tarchiato con un berretto di lana calato sulla testa, accompagnato da un altro, gli si avvicinò allungandogli la mano; osservò la tuta termica nuova, di un bianco abbagliante – mentre la sua era diventata grigia – il cui colletto era alzato all’inverosimile per coprirgli la bocca, infine il suo sguardo cadde sulla maschera dalle lenti riflettenti di cui nemmeno i soldati di Higher Point erano dotati. Laggiù non faceva poi così tanto freddo, pensò. «Higgins. Il Sergente Hastings da Higher Point?» la domanda gli arrivò ovattata, ignorò la mano ancora tesa dell’uomo e gli rivolse un saluto militare. L’uomo vestito di bianco si schiarì la voce, lanciò una veloce occhiata all’uomo al suo fianco e agli altri tre che erano rimasti indietro. Ian riusciva a distinguere solo il naso arrossato dal freddo. «Il vostro carico è pronto per partire.»

Il Sergente aspettò che l’ometto davanti a lui gli facesse strada, o che perlomeno gli indicasse in quale dei tre capannoni erano state sistemate le loro forniture, ma quest’ultimo rimase immobile. «Dov’è?» domandò cercando di mantenere il tono della voce più neutro possibile. Higgins si voltò a guardare l’uomo che aveva accolto i soldati assieme a lui. «Può togliersi la maschera, per favore? Mi piace guardare negli occhi le persone con cui sto parlando.» Higgins fece come gli era stato chiesto. «Ci è stato dato l’ordine preciso di controllare il carico prima di partire, non lasceremo il deposito prima di aver concluso la procedura. Prima concludiamo, prima ce ne possiamo andare e lei può tornarsene dove fa più caldo. O può parlare direttamente con il Capitano.» si levò l’auricolare e lo porse all’uomo che sbuffò alzando le braccia al cielo prima di far strada ai soldati.

Higgins si avvicinò con una cartella, osservando la sua andatura a Ian venne in mente quella dei bambini quando hanno appena iniziato a camminare. La maschera dalle lenti riflettenti, troppo stretta, gli aveva lasciato segni bianchi sul volto, rimase ipnotizzato da quel bizzarro disegno. Higgins gli porse la cartella con l’elenco del carico. «Casse gialle per le cibarie,» Ian annuiva seguendo l’elenco di Higgins e assicurandosi che ci fosse tutto ciò che avevano richiesto.

Arrivato a leggere la fine dell’elenco alzò lo sguardo perplesso. «Dove sono i medicinali?»

 «Quinto foglio, sesta riga dal basso, nelle dodici casse verdi.» Ian chiese ad uno dei suoi soldati di verificare e quando ricevette la conferma diede disposizione di ritornare ad Higher Point.  

 «Base, qui squadra tattica uno, abbiamo il nostro whiskey.»

 «Sergente Hastings, è stato un piacere.» l’ometto tarchiato gli porse nuovamente la mano, Ian lo ignorò anche la seconda volta e lo salutò a modo suo prima di voltarsi, salire sul convoglio militare che chiudeva la loro colonna di mezzi e ripartire verso Higher Point.

 
Un fischio assordante e continuo. Attorno a lui solo rumori indistinti. Si alzò sui gomiti e scosse la testa, qualcuno urlava il suo nome ma non riusciva a distinguere da dove arrivasse e chi lo stesse cercando. Le urla, gli spari erano un tutt’uno indistinto e ovattato, l’unica cosa che riusciva a sentire con chiarezza era quel fischio persistente, quello, e un dolore lancinante alla testa. Si portò una mano all’orecchio, trovò i polpastrelli sporchi di sangue e qualche goccia cadde sulla neve. Al collo ancora gli penzolavano i resti dell’auricolare esploso. Strizzò gli occhi e tentò di recuperare l’equilibrio, ma barcollò e cadde nuovamente a terra con la faccia nella neve gelida. Cercò di mettere ordine nella sua testa, di fare mente locale e recuperare i suoi soldati e ordinare la ritirata.

Non ricordava esattamente cos’era successo, forse si erano fermati, forse la prima camionetta aveva trovato un ostacolo sulla strada, forse la seconda aveva avuto qualche problema tecnico. Si ricordava solo di essere sceso, tutti erano scesi.

Perché vi siete fermati? Gli aveva chiesto Seth attraverso l’auricolare.

Non lo so, gli aveva risposto.

Si guardò attorno cauto, tutti i suoi soldati erano sulla difensiva, qualcuno era a terra. La strada era vuota tranne che per la loro presenza. Con la coda dell’occhio gli sembrò di captare un’ombra compatta e scura muoversi in mezzo ai boschi, strizzò gli occhi in quella direzione. Non vide nulla e non sentì nulla, la neve assorbiva tutti i rumori attorno a lui.

Seth, chiamò attraverso l’auricolare ma la voce che gli rispose non fu la sua, James gli disse che dovevano andarsene da lì e in fretta. O forse no.

Seth, chiamò attraverso l’auricolare ma l’unica risposta che ricevette furono frasi sconnesse di Seth intento a litigare con qualcun altro, riconobbe immediatamente la voce di James che urlava a Seth di mandarci via, poi uno sfrigolio.

Volkov alla sua destra gridò qualcosa, allo stesso tempo la voce di Seth esplose nel microfono e pochi secondi più tardi un rumore lacerante spezzò il silenzio perfetto che la neve, con tanta cura, aveva creato.

E poi più nulla.

Lo spostamento d’aria sbalzò Ian lontano, ai lati della strada, in mezzo alla neve.

Si tastò le orecchie, sfregò il liquido rosso e caldo che gli appiccicava le dita e lo osservò incredulo. Appoggiò le mani sulla neve gelida e si alzò barcollando, l’esplosione gli aveva compromesso l’udito dell’orecchio destro e l’equilibrio. Ian vacillò spaventosamente prima di cadere a terra, al terzo tentativo riuscì a mettersi in piedi anche grazie al sostegno di un albero.

Attorno a lui era scoppiato il caos. Sebbene l’esplosione gli avesse causato un grosso danno all’udito percepì i suoi soldati chiamarlo e chiamarsi a vicenda, i suoni gli arrivavano attutiti.

Lentamente, accompagnato dal fischio all’orecchio destro e da una terribile sensazione di vertigine, riuscì a raggiungere il suo convoglio. Riconobbe uno di quelli, un soldato appartenente alla squadra speciale, aveva il viso ricoperto di sangue e si teneva il braccio stretto al fianco. Quando lo adocchiò, il soldato si voltò, lo vide aprire la bocca e muoverla ma non capì cosa gli stesse dicendo, Seth era quello bravo a leggere il labiale. Il soldato lo raggiunse, lo guardò muovere le labbra per la seconda volta, fece uno sforzo di interpretazione ma gli doleva la testa, gli pulsavano le palpebre e gli veniva da vomitare. «Sto bene.» urlò al soldato di fronte a lui. Quest’ultimo si voltò, parlò di nuovo e Ian si arrese a cercare di comprendere.

Il soldato, Ian lanciò un’occhiata alla targhetta che non c’era, “deve essersi staccata” pensò distrattamente, cominciò a parlargli di nuovo. Ian pensò fosse stupido, non aveva capito che gli erano saltati i timpani e che non ci sentiva? «Sto bene.» urlò di nuovo e lui si sentì forte e chiaro.

Il soldato lo guardò preoccupato, aggrottò le sopracciglia di nuovo e iniziò a dire qualcosa quando il suono di un’altra esplosione squarciò l’aria e scosse il terreno sotto i loro piedi.

Ian si ritrovò per la terza volta in poco tempo scaraventato a terra.

Sentiva ancora meno di prima, il fischio alle orecchie era triplicato di intensità, sentiva un liquido caldo scorrergli lungo il collo e il soldato sopra di lui, morto, gli impediva di respirare correttamente. Si spostò da sotto il cadavere, provò a rialzarsi fallendo miseramente, lanciò un’occhiata al cadavere del soldato al suo fianco e notò una scheggia di metallo conficcata nel collo, di riflesso si toccò il suo.

Per una frazione di secondo si era quasi dimenticato cosa ci facesse lì, zuppo di neve e sporco di sangue; voltò leggermente la testa di lato e vide il soldato disteso a terra morto, l’odore di metallo e gomma bruciata e il dolore lancinante alla testa glielo ricordarono.

Quello era stato decisamente un attacco, si complimentò e si diede dell’idiota mentalmente, tutto assieme e tutto in una sola volta.

Un uomo, Ian notò che indossava un vecchio giaccone logoro dell’Esercito, si accucciò accanto al soldato dalla gola perforata e cominciò a perquisirlo. Quando si accorse dell’auricolare che ancora aveva alle orecchie lo levò e lo schiacciò con il tacco dello scarpone, si impossessò di tutte le armi, del giaccone pesante e degli scarponi. Si soffermò ad osservare Ian, coperto di sangue poteva benissimo passare per morto, quando qualcun altro richiamò la sua attenzione e se ne andò borbottando.

Da disteso, di sfuggita notò delle ombre uscire dal bosco e Ian rimase immobile, con le braccia spalancate a fissare il cielo grigio.

Non aveva idea di cosa stesse accadendo ai suoi soldati, non sentiva più e una curiosa forza lo stava tenendo ancorato al terreno ghiacciato.

Un secondo sparo sembrò risvegliare l’udito di Ian che si alzò intontito. Vide una sagoma sfuocata poco distante da lui, si era alzato troppo velocemente e ora gli girava la testa e piccole macchie nere gli apparivano davanti agli occhi. Il ragazzo non si era accorto di lui perché era troppo preoccupato a disarmare e a spogliare il soldato ormai morto o in procinto di esserlo, Ian raggiunse lentamente il coltello nascosto nel suo stivale, a passi felpati raggiunse il ragazzo davanti a lui e gli conficcò il coltello sulla trachea, pulì la lama sul giaccone del soldato e osservò il sangue sgorgare dalla ferita con soddisfazione. Recuperò una coppia di coltelli e l’auricolare dal soldato morto e una pistola da quello che aveva appena ucciso. «Qui squadra tattica uno a Base, mi ricevete?» controllò il caricatore della pistola, era ancora pieno. «Qui squadra tattica uno a Base, mi ricevete? Seth, mi senti?» l’auricolare gracchiò di nuovo. «Seth?» sussurrò. «Qui-»

 «Base ad squadra tattica uno, ti riceviamo.» non appena udì la voce dell’amico tirò un sospiro di sollievo. «Vi abbiamo persi.»

L’aveva notato anche lui, Ian si rimangiò ciò che stava per dire. Sbirciò oltre la barriera che lo proteggeva ma non vide nulla. «Era una trappola. Di nuovo.» l’auricolare gracchiò di nuovo. Seth dall’altra parte imprecò. Sbirciò per la seconda volta e notò Volkov scendere dal trasporto merci con le mani alzate, una volta resosi conto di chi aveva davanti si appoggiò una mano al petto sollevato. E non era Ian.

Non riuscì a sentire che cosa si stavano dicendo gli Oscillanti e Volkov ma di certo loro non erano sorpresi di trovarlo li, così come Ian non fu troppo meravigliato della scena che si era appena svolta davanti ai suoi occhi. Notò a sé stesso che se mai fosse tornato a casa avrebbe dovuto dire a Seth un gran bel “te l’avevo detto.”

 «…di contattarvi ma il segnale era bloccato, sono riuscito a bypassarlo e vi siete fermati.»

 «Era una trappola e so anche chi è stato.» l’unica riposta che ricevette dalla Base fu il silenzio.

 «Non fare nulla di azzardato, rimani lì dove sei e vedi di non morire. Ti fidi di noi? Ripeto-»

Alzò entrambe le braccia, socchiuse un occhio e prese bene la mira.

Il tempo sembrò rallentare, il proiettile seguì la sua traiettoria quasi stancamente e il suono dello sparo si riverberò nell’aria. Gli Oscillanti si voltarono con facce sorprese, la pallottola non mancò il suo bersaglio e colpì Volkov in mezzo agli occhi, Ian sorrise.

Altri due Oscillanti caddero a terra prima che Ian venisse placcato, buttato a terra e gli bloccassero le braccia dietro la schiena. «Ma guarda un po’ chi abbiamo qui.» lo schernì uno di loro. Ian tentò di dimenarsi ma l’uomo alle sue spalle aumentò la stretta e gli torse il braccio in un’angolazione innaturale. Sentì chiaramente il suono delle ossa spezzarsi e i muscoli e i tendini tirarsi. «Vacci piano angioletto.» gli sussurrò all’orecchio.

 «Non ti sente.» ghignò un altro uomo che squadrò il soldato dell’Esercito dalla testa ai piedi. Si chinò a raccogliere il coltello, indicò le sue orecchie sanguinanti all’uomo che lo stava trattenendo e che non aveva capito a cosa si stesse riferendo, non prima di essere scoppiato a ridere.

 «Che cosa ne facciamo di questo qua?» domandò a nessuno in particolare.

 «Levagli i guanti e gli scarponi.» Non aveva più forze e li lasciò fare. «E prendigli il giubbotto, quello sì che tiene caldo.» Con movimenti bruschi gli levarono prima il giaccone e poi gli slacciarono gli scarponi. La stoffa della divisa fece presto ad inzupparsi e già sentiva il gelo irrigidirgli i muscoli e attanagliargli le ossa.

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