Anche solo per un attimo

di StellaDemone
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Lettera numero 10 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Lettera numero 11 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Lettera numero 10 ***


1

Lettera numero 10

 


Ciao Giulia,
pensavo che fosse l’ultima, invece no. E’ come se fosse sempre la prima per me. Tutto sembra accadermi come se fosse la prima volta.
Il cielo è pieno di nuvole e sembra proprio come se non ne avessi mai viste oggi. Le azalee oggi sono più rosa del solito, oppure mi sbaglio? Ed i tuoi capelli profumano tantissimo oppure sono io che non li annusavo da così tanto?
Sei proprio qui, dietro di me, distesa sul letto, nuda, che dormi. Le tue linee morbide e sottili disegnano delle bellissime colline, da cui posso ergermi per vederti meglio. Ed io fumo proprio qui, davanti a te, seduto sulla scrivania, che ti scrivo un’ennesima lettera. Che cosa datata, ormai, scriversi le lettere, quando con un click potrei copia incollarti le terzine più belle del V canto della Divina Commedia, quelle di Paolo e Francesca per intenderci. La trovo una cosa troppo fredda e distaccata, metodica e quasi meccanica. Adesso, invece, sto sprecando del tempo e delle energie per cercare di scriverti qualcosa che ti faccia battere il cuore per un attimo solo. Me ne basta uno solo di attimo. Non ne voglio cento o mille, voglio che quel battito sia per le mie parole e per me soltanto. Voglio che il tuo cuori smetta di pulsare solo per me.
Ti ho sentita che ti muovevi, proprio come se stessi ascoltando questi miei pensieri un po’ carnali ed un po’ passionali che mi girano per la testa. Forse passano pure per la tua in questo momento. Aggrovigliati tra questi tuoi sogni, muoviti nel nostro letto d’amore e poi fallo pure con me. Muoviamoci insieme. Giochiamo ad amarci o, almeno, proviamoci a fingere di farlo. Ho bisogno del tuo amore in questo momento, non penso che potrei sopravvivere un giorno di più senza il tuo respiro sulla pelle che cerca, in maniera quasi animalesca, il punto esatto per azzannarmi con i denti e finirmi con i tuoi baci.
Non potrei stare un giorno di più senza vederti mentre ti vesti di fretta e furia perché stai facendo tardi, senza vederti mentre sei così concentrata a leggere quel libro che non hai mai finito, ma è sempre riposto sul tuo comodino, senza vederti mentre ti arrabbi con me e mi urli contro che non dovrei alzare troppo il volume della musica perché ti deconcentra da quello a cui stavi pensando. Ed io mi chiedo, a cosa pensi in quei momenti? Vorrei proprio poterti entrare dentro al cervello per scoprirlo. O forse dovrei dirigermi più verso il tuo cuore? Non lo so, fatto sta che sei un mistero. Sei il più bell’enigma da risolvere della mia vita. Sei sempre un po’ persa, tra le nuvole. È proprio in quei momenti che ti trovo bellissima e allo stesso tempo impossibile da capire. Cosa guardi? A cosa punti? Ammettilo, ammettilo pure a te stessa, che, in realtà, quello a cui punti ormai l’hai perso.
Il distacco tra te e la realtà si nota quando ti perdi in mezzo a questi pensieri. È come se entrassi in un’altra dimensione e cercassi di prendere da quell’enorme matassa, un piccolo filo di speranza che possa esserti utile per renderti la giornata più semplice e meno logorante. Perché ricerchi questo filo? A cosa ti serve prenderne solo uno? È perché li hai usati tutti, vero? È perché non te ne rimane nemmeno uno da utilizzare per renderti felice? Nemmeno più io, a cui ti eri aggrappata così tanto, non riesco più a sostenerti. Si vede che giochi a fare l’equilibrista su questi fili, ma prima o poi, lo sai benissimo che cadrai di sotto. Aiutami a capirti, non voglio vederti precipitare di nuovo. Aiutami a salvarti. Lascia che sia io a prenderti la mano mentre stai per essere inghiottita da quell’oscurità cieca e buia. 
Mi ricordo ancora quell’inverno in cui ti ho vista per la prima volta. Eri fresca, una persona completamente pregnante di solarità, se dovessi paragonarti a qualcosa, ti paragonerei ad un fiore appena sbocciato, pieno di vita, che ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura. I capelli, che ti cadevano sulle spalle, incorniciavano le linee del tuo viso allungato, con quei tuoi zigomi pronunciati e quelle tue fossette ai lati della bocca che mi piacciono tanto. Meravigliosa apparizione, mi parevi che fossi un angelo sceso in terra soltanto per me. Eri con le tue amiche, in quel bar in centro, quello in cui andavi spesso. Mentre parlavo con Francesco, ti vidi entrare, notai soltanto te tra tutte voi. Avevi un vestito nero sui cui erano disegnate delle bellissime rose stilizzate, ma quello che ho guardato più di tutto, sono stati i tuoi occhi di un verde quasi accecante. Ti ho notata così, per caso. Il casus, in latino, che ha fatto sì che tutto iniziasse. Allora io mi chiedo, esiste veramente questo indeterminismo cosmico? Tutto ciò può avvenire veramente senza una causa alcuna? Non so risponderti, forse sì o forse no. Lascio i dilemmi filosofici a chi di filosofia ne capisce qualcosa. Fatto sta che per me non sei soltanto un caso, una che “avrei potuto” conoscere tra le tante. Anzi, sei la persona che non avrei potuto non conoscere. Non esisteva nessun’altra se non te. Tu, che mi spronasti ad andare avanti con gli studi, quando avrei voluto soltanto passare le giornate disteso sul tuo letto di casa a coccolarti e ad accarezzarti il corpo e l’anima. Tu che quando morì mia madre, prendesti il mio viso e ne asciugasti le lacrime, che mi donasti non una, bensì tutte e due le tue spalle dove poter piangere e rifugiarmi.

Sei tu l’unica persona che poteva salvarmi. Sei tu. Solo che non l’hai mai capito. Ci siamo fatti tanto male a vicenda. Ci siamo feriti e graffiati il cuore troppe volte, tante forse, ma non potrei mai abbandonarti. Si dice “se ami davvero qualcuno, lascialo andare”, ma io ti amo così tanto che l’idea di non averti, mi uccide.
Mi ami anche tu, vero?

Non ti vidi più per molto tempo dopo quell’unico episodio, mi eri rimasta incastrata dentro. Non dico che ti cercavo con gli occhi nei locali che frequentavo, perché mentirei, però eri rimasta. Se ti avessi rivista, ti avrei riconosciuta subito. E poi venne quel fatidico giorno, qualche anno dopo, in cui pure tu ti accorgesti di me. Te lo ricordi?
Sulle note di una canzone nostalgica degli anni ‘80 passata alla radio in macchina, mentre giravo il volante per entrare in una piccola stradina, una vettura rossa mi venne incontro proprio dalla strada in cui dovevo entrare. (Ti ricordo che era a senso unico, comunque). Questo scontro frontale non fu mai così forte, come quello che ebbi quando ti vidi uscire da quella stessa auto. Mi sembrava di vivere un sogno. Urlavi “mi dispiace, mi dispiace”, quasi ti piangevano gli occhi al solo pensiero di quello che avrebbero detto i tuoi genitori sulla cifra che dovevi sborsare per ripagarmi. Dicesti “ma dai, è solo un piccolo graffietto”, quando in realtà l’avevi ammaccata di brutto. Non è mai cambiato questo tuo lato di voler rimpicciolire le cose, anche se poi sono enormi. Non sapevo come comportarmi, non sapevo che dirti. Ti chiesi di darmi le generalità, forse per strapparti qualcosa in più di te. Ti chiamavi Giulia, avevi 24 anni e quando ti dissi che avremmo fatto la constatazione amichevole, mi hai mostrato per la prima volta il tuo sorriso di gratitudine mista alla consapevolezza di aver commesso un errore. Lo stesso, preciso, identico sorriso che mi facesti anni e anni dopo.
Ti chiesi se volevi venire a prendere un caffè, per parlare e metterci d’accordo su tutto l’incidente in generale. Guardando l’orologio, con un filo di voce, mi rispondesti con un diniego, che stavi facendo tardi, che quell’incidente non avresti mai voluto farlo e che ti eri sbagliata. Per me, invece, quell’incidente fu la cosa più bella che potesse capitarmi. Mi desti il tuo numero di cellulare e mi dicesti che potevo scriverti per vederci in qualsiasi momento. Avevi quella sciarpa verde smeraldo che ti copriva il collo, ma che ti aggiustavi sempre in maniera quasi maniacale, e quel berretto nero sulla testa, ma sentivi freddo lo stesso. Mi salutasti con fare discreto, mi stringesti la mano e corresti subito in macchina. Pronta, forse, per fare qualche incidente nei cuori di qualche altro uomo, per te ero soltanto il ragazzo a cui avevi distrutto la macchina e che non volevi più rivedere per l’imbarazzo. 
Che strana la vita, no? Per questo non penso che sia stato il caso a farci incontrare. Quante probabilità c’erano? Una su un milione? Era destino, com’è destino tutto quello che venne dopo.

 
tuo, Febo
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2: Lettera numero 11 ***


2
Lettera numero 11
 


Mia cara Giulia
non smetterò mai di guardarti mentre fai le faccende di casa. Te lo giuro. Sembra quasi che tu stia danzando sulle note di una canzone di cui non ricordo nemmeno il nome. Ed il mio nome te lo ricordi, almeno? Se sì, gridalo forte. Urlalo a tutti, fino a distruggerti le corde vocali. Grida al mondo il mio nome e aggiungi, sussurrando, che sei solo mia. Dimostra a tutti quanto il nostro amore sia forte. Anche se -di forte- non c'è nessuno di noi due.

Mi hai appena chiesto cosa stessi scrivendo. Hai i capelli legati, alcuni sono bianchi, ti donano, sai? Penso ti diano un'aria da persona saggia, che sa che cosa sta facendo. Ti ho risposto che stavo buttando giù due righe per la presentazione del mio prossimo romanzo. Ci credi e continui a pulirmi attorno, senza mai sfiorarmi, come se avessi paura di alzare il polverone che c'è dentro di me. Mi giri attorno con quei tuoi abiti da casa e mi urli che dovrei smettere di fumare e di iniziare a pulire qualcosa. Come faccio a pulire quello che mi circonda, se io ho sporca pure l'anima? Sei appena entrata nella stanza di Marco. È a scuola e fra qualche ora dovrò andare a prenderlo. Lui è l'unica cosa pulita che ne è uscita da noi due. Lo amo infinitamente, darei la mia stessa vita per lui e so che faresti anche tu la stessa cosa. È forse lui quello che ci tiene legati? La precauzione di non romperlo, come se fosse un oggetto, è più grande dei nostri stessi desideri? No, non voglio credere che lui sia il motivo per cui tu stia ancora con me. Voglio confidare nel fatto che tu possa ancora amarmi. Non saperlo mi logora dentro, fino al midollo. Ho paura a chiedertelo perché ho paura di sentirne la risposta.
Squilla un cellulare. È il tuo. Credo, dal tuo tono di voce confidenziale, che sia la tua amica Martina. È quella a cui racconti sempre tutto, vero? E di me e te, cosa hai raccontato? Gliene hai parlato di quando ti scrissi per metterci d'accordo per vederci per parlare dell'incidente? Penso di sì. E di come per quello stesso appuntamento, fosti in ritardo e per scusarti mi portasti un cioccolatino?
Dio mio. Me lo ricordo come se fosse successo ieri. Quel tuo sorrisetto sfacciato nel porgermi quel Lindt, come se quello potesse scusarti per il forte ritardo. In realtà, ti avrei scusata anche senza nessuna carineria. Mi bastavano i tuoi occhi come dolce, antipasto, primo e secondo. Quei meravigliosi occhi in cui mi perdevo, manco fossi un labirinto kafkiano. Eppure, continuo a perdermi e tu non mi dai la possibilità di accedere nel tuo palazzo mentale. Mi ricordo che quando ti pagai il caffè, ti opponesti con tutte le forze, dicendomi:
"Siamo nel XXI secolo e le donne sono abbastanza emancipate per pagarsi il caffè da sole."
Che femminista agguerrita che eri, mi guardasti con quegli occhi di sfida. Sembrava come se avessi capito che ero rapito da te, che non ti avrei mai potuto opporre resistenza.
Ti sento parlare ancora al telefono dalla stanza di Marco, mentre sbatti i tappeti dalla sua finestra e fai un casino pazzesco. Lo stesso casino che sento quando ti guardo, mentre dormi. Anche se l'unico suono che fai è quello del tuo respiro profondo, quello che sento io è un vero e proprio concerto di tutte le canzoni che ci hanno portati fin qua. Fai un chiasso assurdo anche se stai in silenzio.
"Sìsì, è a scuola. Ieri m'ha portato una nota dalla maestra. Non mi dire niente. Sì sì, l'ho sgridato male. Appena s'azzarda a non fare i compiti di nuovo sa quello che gli faccio". Menti. Non gli alzeresti manco un dito, hai paura che possa odiarti, proprio come tu odiavi tua madre per tutte le angherie che ti fece da bambina, da adolescente e da donna. L'hai odiata per tutte le cose cattive che ti disse e, dopotutto, tu la perdonavi costantemente perché non avevi altro se non quel luogo d'appartenza, che era la tua casa. Me l'hai sempre detto che quando stavi dai tuoi, stavi male, avevi l'ansia, eri un'altra persona e che quando uscivi ti liberavi un po' dal peso che ti portavi, da quella situazione familiare un po' strana e malata. Tua madre che sembrava che ti odiasse per la sua eterna frustrazione ed insoddisfazione e quel tuo padre che, nel suo silenzio, nella sua assenza, nella sua sottomissione dovuta alla moglie, non faceva altro che lamentarsi della sua stessa vita e della tua. Ed è la verità che la famiglia è il primo luogo che forma l'anima. Ma è pur vero che da quell'ambiente, tu sei cresciuta come la ginestra, ai piedi del vulcano, di cui in versi ne descriveva la forza Leopardi.

Sei forte, Giulia, sei fortissima e non lo sai.

Pensi di essere debole, ma è perché ti sminuisci tanto. Sei sempre stata così. Anche quando ti chiesi di uscire una terza ed una quarta volta, non ci credevi nemmeno che potessi anche solo considerarti attraente, ma ti facevi bellissima lo stesso. Ti truccavi come se dovessi andare ad un matrimonio, mettevi gli abitini di tua sorella più grande, quelli che ti arrivavano un poco più su del ginocchio, che facevano intravedere quelle tue gambe esili e che lasciavano spazio a mille altri pensieri, forse troppo osé. Erano uscite di gruppo le nostre: io che mi portavo Francesco e qualche altro amico e tu che ti portavi dietro la tua comitiva, più grande sicuramente della mia, che era stata raccapezzata soltanto per non sfigurare davanti a te e promettendo loro di presentargli qualcuna delle tue amiche. Parlavamo, parlavamo, parlavamo del più e del meno, mentre tiravamo giù qualche drink. Ed allora ti confessai sotto i fumi dell'alcool che ci avevo riflettuto tantissimo prima di chiederti di uscire, che avevo paura che non ti piacessi, che magari ti stavo antipatico, che forse non ero il tuo tipo.
"Che ne so, magari sei pure fidanzata."
"No, ma chi io? Nessuno mi prenderebbe, fidati", eccoti che ti sminuisci.
"Ma smettila, chissà quanti te ne ronzano intorno."
"Forse è proprio così e tu sei uno dei tanti", mi fai l'occhiolino e tiri giù un altro shot. Mi invitasti a ballare, eri una donna che sapeva prendersi quello che desiderava. Io ti dissi che di ballo non ci capivo molto, ma mi hai trascinato in mezzo a quei corpi sudati. E allora ballammo, sfiorandoci e toccandoci a vicenda, ballammo per tutta la sera. Se n'erano andati tutti i nostri amici ed eravamo rimasti soltanto noi due, alle 5 del mattino, pronti a metterci in macchina per tornare a casa. Ci sorregevamo l'un l'altro per arrivare al parcheggio e ridevamo come due matti. Eravamo proprio davanti alla tua macchina, il sole si stava per scorgere dai palazzi vicini e disegnava quei colori teneri e violacei che solo l’alba riesce a fare. Ed è lì che, con poca nonchalance, ti poggiai le labbra sulla guancia per qualche secondo. Per poi spostarmi sempre di più verso il tuo orecchio sinistro, lo morsi con delicatezza. Sembrava che ti stesse piacendo la cosa, respiravi pure in maniera affannata. Però, poi ti sei spostata e mi congedasti in maniera più moderata. Mi hai dato un bacio e scappasti, come fai sempre, sopra alla tua 600 rossa. Sì, hai l'abitudine di scappare dalle cose che potrebbero farti stare bene o che ti piacciono un pochino. Hai paura che ti possano ferire e che ne puoi rimanere delusa. E pregai, quando ti vidi allontanare con la tua macchinina ancora rotta, di poterti incontrare ancora. Ti ricordi cosa ti scrissi dopo che tornai a casa?
Forse eravamo troppo ubriachi.
Mi stavo scusando, perché di te non avevo capito un bel niente. Speravo di portarti a letto, nel mio magari, quella sera stessa. Troppo preso da quegli impulsi, per accorgermi di quanto tu fossi, in realtà, timida ed insicura. 
Direi proprio di sì, però mi sono divertita lo stesso. Balli bene!”, come sai prendermi in giro tu nessuno mai. Mi hai sempre un po’ preso in giro proprio perché te lo lasciavo fare. Quante volte avrei preferito sentirti dire una parola d’amore, piuttosto che qualche cattiveria gratuita che sapevi uscire nei momenti meno adatti. Te le ho sempre perdonate tutte. Dalla prima all’ultima. Proprio come quando con voce sottile e piena di rabbia mi dicesti:
Sei un fallito.” 
Tornai a casa a pezzi dopo quella discussione. Nata dal semplice fatto che scherzai sulla tua bocciatura all’esame, che avevi preparato per un mese intero. 
Almeno io faccio qualcosa nella vita.
Sì, certo..” 
A quel tempo volevo fare l’anticonformista. Pensavo che lo studio facesse soltanto perdere del tempo, che si sprecavano giorni interi sui libri per cose che nessuno mai ti avrebbe più chiesto. Avevi ragione Giulia, lo studio ti apre l’anima e la mente. Anche tu sei studio, allora. Mi piace doverti approfondire, conoscerti nei dettagli. Sei ciò che mi ha aperto il cuore.
Sta zitto!
Non dirmi che te la sei presa.
E’ troppo facile criticare gli altri, mentre tu non fai niente della tua vita.
Quello che faccio nella mia vita sono cazzi miei oppure no?
Sono anche cazzi miei quando pensi che siano divertenti le tue battute di merda.
Ma non volevo offenderti, era uno scherzo.
Non mi importa se era uno scherzo. -Sei un fallito.- Non studi, non lavori, non sei niente e nessuno e vieni qua a prendermi in giro?
Non ti risposi. Alla fine avevi ragione. Ero e sono, tuttora, un fallito. Ho perso contro la vita, mentre tu cercavi di farmi vincere. Non avevo la forza di fare niente, non sapevo nemmeno chi fossi, se forse volevo diventare un medico, un ingegnere, un mago oppure uno scrittore, un cantante o un attore. Non avevo passioni, né talenti particolari. Tutti hanno sempre qualcosa in cui sono bravi, chi riesce nella matematica, oppure è portato per qualche lingua in particolare. Io non avevo niente. Non sapevo cosa mi piacesse, se esistesse almeno qualcosa che mi interessasse. O forse amavo così tante cose, così tanti aspetti della natura umana, che non riuscivo a coltivarne nemmeno uno? Un giorno volevo fare il traduttore, il giorno dopo volevo viaggiare per tutta l’Asia, in altri, invece, avevo semplicemente voglia di dormire. Dormire per dimenticare, forse. No, forse per evitare. Sì, ecco, volevo ingannare il tempo. Scappare dalle mie responsabilità e rifugiarmi nell’onirico. Avevo troppa paura per affrontare e per affrontarmi. Sapevo che se mi fossi alzato da quella culla, mi sarei dovuto scontrare con la realtà. Dura e cruda realtà che mi rappresenta come un uomo-bambino impaurito, incapace, saccente e poco pronto per affrontare quella vita piena di squali e pescecani. Non ero pronto. Perché tutta questa fretta? Qual è il motivo? Perché correre per capire cose fare e per capirsi? Io non voglio correre, ho già il fiatone stando fermo.
Facemmo pace dopo qualche bacino e le mie più sincere scuse. Quella sera smuovesti non pochi meccanismi nella mia testa.
“Chi ero? Chi sono? Perché sono così turbato da quella frase? Mi fa male di più la verità oppure che l’abbia detta tu? Perché esisto se, effettivamente, non servo a niente? A cosa porta continuare a vivere? Dov’è che questo fottuto mondo vuole che vada?”
Riflettei sul mio letto, mi colarono delle lacrime, ma, imperterrito, continuai a fissare l’oscurità che mi avvolgeva come se stessi aspettando una sua risposta. Dicono che la notte porta consiglio, forse io lo presi troppo alla lettera. Tendevo le orecchie per essere pronto per carpire una qualche informazione su cosa e come dovessi comportarmi. È una cosa che ho fatto sempre. Immergermi nel buio per trovarne conforto. Forse perché alla luce le cose risaltano di più, i peccati sono più evidenti, le colpe e gli errori si notano. Al buio, invece, tutto è celato ed è proprio lì che si nasconde la verità delle cose. Solo che io la risposta non l’ho avuta. Ho soltanto lasciato che le cose andassero per come dovessero andare. E questo fiume di eventi, dove mi ha portato? Qui, seduto in cucina, che ti scrivo una lettera perché ho il terrore di parlarti come facevo una volta. È giusto così? Forse, ma non è quello che avrei voluto. Non è quello che avrei voluto da noi due.
Hai finito di parlare con Martina, stai passando l'aspirapolvere nel corridoio. Ti intravedo, vedo le tue linee da donna ormai, che risvegliano in me quegli stessi istinti che avevo da giovane. Vorrei prenderti da dietro e sfilarti gli abiti uno ad uno, metterti a letto e baciarti ogni singolo centimetro di pelle. Ma sono fatto vecchio e devo andare a prendere Marco.

F.

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