Aspettando Peter

di CottonCandyGlob
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Turno di notte ***
Capitolo 2: *** Hood e Scarlett, Wilde e Claire ***



Capitolo 1
*** Prologo: Turno di notte ***


Prologo
 
Turno di notte
 
 
Un brivido gli salì lungo la schiena, un sussulto di quelli che ti prendono durante il sonno e ti costringono a socchiudere gli occhi, nonostante le palpebre non ne vogliano sapere.
Lo sentiva, sentiva che lo toccava, un pungolo dentro la spalla.

Non avrebbe resistito a lungo, prima o poi avrebbe dovuto intervenire.
Ma no, non ci riusciva proprio. Quel sogno che aveva fatto poteva essere finito, se solo si sbrigava a riacchiapparlo.

-Ehi…- gli arrivò un sospiro nell’orecchio.
“Non muoverti, non ti farà nulla, non muoverti”.
-Ehi, so che mi senti-lo raggiunse una voce più decisa- smettila di far finta di dormire… ehi…
Tenne duro, e non rispose. Non avrebbe ceduto, no, non ancora.
-Alec, per favore…
“Per favore, lasciami stare”.
-Alec… dai…

Qualcosa di caldo gli scivolò sul collo e prese a solleticarglielo leggermente.
“No! Stai fermo! Non muoverti! Tu-dormi-non-farci-caso!”.
Si udì uno sbuffo. Silenzio.
“Bene, perfetto… adesso se ne va ed è tutto passato”.
Un secondo sbuffo diede l’impressione di allontanarsi.
“L’abbiamo spuntat…”.
Sarebbe bello un giorno poter registrare e riportare i pensieri che entrano in testa a chi viene colto di sorpresa, sia che si tratti di una festa di compleanno, sia di una spinta, in questo caso giù dal letto.
Alec riuscì solo a pensare al vuoto sotto di sé e allo strato di coperte in cui era finito insaccato.
Ma il pensiero che venne immediatamente dopo, quando già stava grattando il viso sul tappeto, era chiaro e limpido: qualcuno aveva esagerato.

-Oh Santo Cielo! Scusa!
E forse non sarebbero bastate le scuse.
-Oh, Alec, stai bene?
L’uomo si girò su un fianco per liberare il gomito e farci leva per mettersi seduto. Con la nuova visuale poteva assicurarsi che la sua espressione alquanto torva arrivasse a chi aveva voluto simpaticamente facilitargli il completo risveglio.
-Sì, diciamo di sì- sbadigliò.
-Meno male, meglio così… è il tuo turno- si sentì rispondere con entusiasmo.
-Ed era il caso di spingermi giù?
-Volevo solo chiamarti… ma non rispondevi…
-Immagino fosse un’emergenza- alzò il tono, e le sopracciglia.
-No, è… è il solito, è il tuo turno, mi spiace ma tocca a te.
-E quindi era il caso, no? Sì, certo, va bene, non aggiungere altro…- agitò nervoso la mano per liberarsi dal bozzolo in cui era finito-forse il mio gomito non ne è uscito bene- se lo massaggiò.
-Vieni- si vide porgere una mano da sopra il materasso.
Non la afferrò, ma la seguì a distanza per tornare sul letto.

Preso da un altro sbadiglio, percorse con le dita le linee sconnesse delle lenzuola rimaste appese e cercò di rimetterle in ordine. Dopo un nuovo lungo respiro, preparò un altro dei suoi sguardi.
-Scusami…
Sul viso di Marianne si leggeva quanto fosse sinceramente dispiaciuta, il tutto reso ancora più sconfortato, e quindi perdonabile, dai due solchi che le contornavano gli occhi, più profondi e violacei del normale.
-Mi spiace, Alec, io non… non ho dormito… per favore…
-Va bene, va bene… ti sei fatta l’infuso che ti avevo detto?
-Sì, dottore.
-E allora?
-Allora non ha funzionato, dottore-incrociò gli occhi.
Alec le appoggiò una mano sul ginocchio piegato-Devi solo rilassarti, tutto qua.
-Ma come faccio a rilassarmi se so che devo farlo io? Se tu te ne stai qui e nessuno va? - si scansò.
-Oh Cristo, Mary, ricominciamo? - guardò il soffitto.

Lei abbozzò una faccia infastidita e stirò il collo. Era improvvisamente irritata, pronta ad urlargli in faccia, per la prima volta dopo due giorni di tregua.
In fondo che c’era di male, da prendersela così tanto? Si trattava di priorità. Certo lui aveva in testa un granello di maschilismo puro, che lo teneva inchiodato a letto, incurante della situazione, ma sarà stata una delle poche volte in cui lasciava che prendesse il sopravvento. Teneva fede agli impegni, lui. Ma l’indomani aveva il turno di notte, lui.

-Ma che cos’hai… stavolta?
-Volevo solo svegliarti, tutto qua!
-No, intendo stavolta, questa seconda volta… con Carl non facevi così… questa volta sei una belva- accennò ad un sorriso.
“Ma sì, prendiamola sul ridere. E’ lo stress, solo lo stress, queste sono le discussioni giustificabili. Domani sera saremo di nuovo sul dondolo a parlare come una coppia normale”.
-Cosa?
-Intendo, sei diventata iperprotettiva, Mary, anche troppo, e violenta- indicò l’orlo del letto.
La moglie arrossì-Non è vero…
-Come no, sei stata sveglia probabilmente per controllare che respirasse, vero?
-No…
-Bugiarda-le pizzicò il fianco della camicia da notte.
Mary sobbalzò, ridacchiando e coprendosi con le braccia.
-Smettila! Alec! Sul serio!
-Mi hai buttato giù dal letto! E’ il minimo! Sei una maledetta rompiscatole!
-Shhh, non urlare!
-Sei tu che stai urlando!
-Shhhh…

Stettero zitti solo perché Mary, rischiando la stessa sorte del marito, era stata tirata per un braccio, ed era finita di slancio addosso all’uomo. I due si erano scambiati un bacio innocente.
-Sono ancora arrabbiato, non mi piace essere svegliato in questo modo, voglio che tu lo sappia-puntualizzò.
-Dovevo farti saltare giù dal letto…
-Sì, ma non così alla lettera…
-Lo sai che ho un gran senso dell’umorismo- gli prese le guance, strette fra indice e pollice.
-…e sei anche ormonalmente alterata, per questo sei perdonata- aggiunse, appena poté parlare.
-Così però sono perdonata solo da Alexander Stantz, il medico… vorrei che mio marito Alec provasse a sopportarmi… non vado in giro a rendere padri mille uomini, ogni tre giorni, quindi pregherei solo di essere rispettata per il servizio privilegiato che ti ho fornito…

Mary aveva tirato fuori quel viso che lo faceva impazzire, quello dei sermoni pseudointellettuali. Il medico era lui, ma sua moglie aveva l’eccezionale dono di mettere retorica ovunque, anche nelle liste della spesa.
-Detto questo- si voltò verso la sveglia, illuminata dalla finestra- preparati, tra circa mezz’oretta il piccolo si farà sentire, sempre che sia puntuale.
-Vedi-le puntò il dito sul petto-vedi che è diverso? Lo chiami “piccolo”? Cos’è, un cucciolo, un micio? -rise.
-Perché, non va bene? Da quando sarebbe strano?
Un debole squittìo arrivò alle orecchie di entrambi-Shhh, ascolta!
Dopo tre secondi di vuoto, un vagito esplose nel corridoio oltre la porta.
La donna era scattata giù dal letto di un balzo, usando per la spinta un colpo di mano destinato al materasso, che di fatto affondò dritto nella coscia del marito.
Stava per tranquillizzarla che non gli avesse fatto niente, ma lo trovò inutile, dato che nessuno da tranquillizzare gli era rimasto vicino. Bestemmiò mentalmente un paio di formule, in inglese e in quel poco di russo che conosceva, e solo dopo decise di alzarsi.

Il pavimento del corridoio era freddo, nonostante fosse estate e ricordarsi l’esistenza del fresco fosse ancora difficile. Beh, almeno per quella stagione averlo di marmo aveva i suoi pregi.

Vide la luce accesa nel salotto e si avvicinò. Mary aveva solo dimenticato di spegnerla. Del resto, perché avrebbe dovuto stare in salotto, metri inutili lontano dalla cameretta?

Appena la raggiunse, Alec si accorse di un lieve odore di vernice che la porta emanava, se ci si accostava. Avrebbero dovuto pensarci prima, a cambiare colore. La carta da parati rossa era bellissima, tutto sommato, eppure se n’era andata presto; la porta era rimasta ancora per un po’ un modello perfetto di classico e professionalità.
-Ma un bambino non può crescere in una stanza del genere… non è mica il Piccolo Lord!
-Non siamo mica in una reggia, è solo una camera formale, una camera formale è una camera normale.
-Normale? Cos’è, lo fasciamo con gli inserti dei manuali di anatomia? No, no, no!
-Certo che i libri non li lascio qui!
-Ma i libri non sono nulla, è il muro, è freddo, polveroso, sa di tristezza e solitudine!
-Oh Gesù, era il mio studio!
-Appunto, era il tuo studio, ma adesso mi spiace, ma quella carta da parati non si può vedere!
-Certo, certo, va bene! La staccherò, andrò a comprarne altra e la appiccicherò ovunque! Che dici MacMillan, fantasia scozzese, la vuoi scozzese?
-Ah, Alexander, vorrei appiccicare te al muro…
-Perché i muri non parlano, no? Così starò zitto, zittissimo!
-Non stavo dicendo di stare zitto, stavo cercando di farti cambiare idea…
-E l’ho cambiata! Tranquilla, l’ho cambiata! Dimmi solo cosa devo fare per farti felice e non dico nulla! Però dimmelo!
-Adesso non fare il bambino offeso!
-Io? Il bambino offeso? Faccio solo l’incompreso semmai! Nessuno mi sta a sentire, me le sento da te, da mia madre, da mia sorella, dal mio vicino, ma no, dobbiamo stare zitti, noi, perché se uno ha la fortuna di avere tutto quello che ha, non si può lamentare, giusto? Mi stesse qualcuno a sentire saremmo a posto, ma no, c’è sempre qualcosa che non va in quello che faccio, dico, penso!
-Che cosa stai dicendo? Tu, non sei affatto incompreso…
-Esatto, non avevi miglior modo di confermarmelo.
-Alec, sei solo stressato per il lavoro, è arrivato tutto insieme…
-Dammi…
-Eh?
-Sai benissimo cosa, dammi!
-Alec…
-DAMMELO.
-Alec…
-Ti avevo detto di smetterla con il gelato prima di cena!
-Adesso dobbiamo fare il giro di discussioni su tutto?
-Vedi che nessuno mi ascolta? Sono un medico, ti chiedo di pensare alla vostra salute, ma tu niente, eh?
-Porto Carl a fare un giro… leggiti un libro.
-Ecco, mentre sei fuori, vai fino ai grandi magazzini e trova un bel colore di carta da parati… e magari di vernice, sai, nel caso dovessimo anche sistemare la mia orribile porta!
-Vai al diavolo…!
-E prendimi anche le sigarette!
Ovviamente, come previsto, dopo cinque minuti, si era cambiata per uscire ed era passata dallo studio per scoccargli un bacio. Morale della favola, ci era finito lui ai grandi magazzini e la porta era stata approvata, per quanto smorta. Questo fino a due settimane prima che la camera entrasse in funzione. Ecco perché, nonostante ci avessero pensato in anticipo, sembravano i classici ritardatari dell’ultimo momento che si sono ricordati per miracolo ci fosse una culla da sistemare.

Mary era in piedi, appoggiata con un ginocchio su una sedia (quella l’aveva tenuta!) e con una mano stretta sul bordo della trama della culla. L’altro braccio era immerso dentro, verso il centro.
-Shhh…- accarezzò il pancino del bimbo-shhh… shh, sono qui, piccolino, sono qui…
Notò solo allora che il marito l’aveva raggiunta- Devo averlo svegliato io con quelle urla… non sembra essere ancora disperato per la fame… shhh… piccolo…
-Aspetterò che gli venga, allora…
-Va bene…
Alec sospirò- Non sta male, Mary, è un bambino normale.
-Sì, ma già solo il fatto che dobbiamo dargli quelle robe in polvere…
-Ma non è colpa tua…
-Forse lo è… non so, io posso fidarmi, ma qualcuno dice che potrebbero fargli male… non crescere bene… e io non voglio…- le vennero le lacrime agli occhi.
-E’ Carl ad essere nato troppo grosso- rise lui, accarezzandole il viso e asciugandoglielo- ero scioccato quanto te, certo forse meno sconvolto di te, ovviamente… lui è perfettamente ordinario, su.
Lei storse le labbra-Ordinario forse è troppo… lo fai sembrare un signor Nessuno, però…

L’uomo schioccò la lingua, si avvicinò allungando le braccia e sollevò con delicatezza il neonato.
-Nessuno, hai sentito? Tua madre dice, che io penso, che tu diventerai nessuno… ma io non ho ammassato in soffitta cataste di libri per nessuno, capito?
Gli guardò luccicare i piccoli occhi vivaci: potè giurare a se stesso che, sì, fossero di due sfumature leggermente diverse. Non era una cosa da signor Nessuno.
-Forse non sei nato per portare la divisa come quel colosso di tuo fratello, ma non ti chiedo troppo…
Mary passò la mano dietro la schiena del piccolo e se lo fece mettere in braccio. Lo sventolò un po’con la mano, per paura che avesse caldo, anche se, oltre fasce e un vestitino bianco leggerissimo, altro non aveva indosso.
-Anzi, per favore, cerca di non diventare mai medico… in questa casa un dottor Stantz basta e avanza… - gli solleticò il braccino che si muoveva verso di lui- ma se proprio non volessi farne a meno, per noi sarai comunque il nostro piccolo…
-Il mio piccolino-gli fece la linguaccia lei- piccolo Harry…
Alec fece una smorfia- Oh, Dio… limitati a “piccolo” per ora, per favore, va benissimo.
-Se non ti piace possiamo sempre cambiarlo, tua madre non si offenderà troppo-alzò le spalle Mary, cullando il bimbo.
-Io non voglio chiamarlo solo come uno che ha fatto saltare in aria un sacco di gente… agli altri andrà pure bene, ma io non amo particolarmente sta storia.
-Nemmeno io, ma l’altro nome non era di buon auspicio e, comunque, ormai mi sono abituata…
-Va beh, ma ora è nato, non vedo alcun problema… mica lo chiamiamo Giuda o che so io!
-Allora Raymond?
Mary strofinò il naso sul viso del neonato.
-Che dici, Ray, può andare? -rise.

-Però hai ragione, mia madre avrà da ridire… mi spiacerebbe discutere il giorno del battesimo. Lo traumatizziamo, questo bambino.
-Già… ma quando è fatta, è fatta-sorrise maliziosa la moglie.
Così ad essere traumatizzata fu invece Katherine Stantz, che, nelle successive due settimane, mentre suo figlio e sua nuora si erano messi ad indicare l’ultimo arrivato con l’esclusivo appellativo di “piccolo”, aveva meticolosamente preparato la bellezza di sedici ricami nuovi di zecca: dovette segretamente ricominciare da capo, fingere di averlo saputo fin dal principio, insomma, riprendere un po’ di autorità in famiglia.

“Cominciamo bene, con questo qui”.
 


A.A.
Alla fine dovevo scrivere una storia, sperando di finirla. Dovrei tirare fuori un po’ di capitoli, non molto lunghi, in cui ripercorrere pezzetti della vita di Ray, quelli prima dell’arrivo di Peter. Da qui il titolo 😊
Incrocio le dita, mi auguro siano decenti e che io possa sfornarne almeno un altro al più presto.
Uso il Movieverse perché è la versione che preferisco, anche se alcuni dettagli carini arrivano da The Real Ghostbusters per il semplice gusto di fare coincidere le due versioni (E così non me li devo inventare!).

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Capitolo 2
*** Hood e Scarlett, Wilde e Claire ***


                                                                                                          Capitolo 2

Hood e Scarlett, Wilde e Claire
 
-E io?
-Tu? Non so, vuoi fare lo Sceriffo?
-Sì, lo faccio, io! Io!
-Bene, allora tieni, vai dal tavolo e chiedi le tasse.
Tasse. Tasse. Boh, chissà cos’erano. Era una di quelle cose complicate che aveva a che fare con i numeri. Sì, probabilmente sì. Ma non poteva far vedere a Carl che non capiva, perché lui avrebbe riso. Poi avrebbe riso anche John, forse.
-Voglio fare un cattivo!
-Guarda che lo Sceriffo è cattivo, Ray- gli rispose Carl, velenoso.
-E se lo facessi bravo?
-Se è cattivo, non può essere bravo-commentò John, accanto all’altro.
-Allora faccio un bravo! Voglio anche io usare le frecce!
-No, ne abbiamo poche e le frecce le uso solo io.
-Perché?
Domanda totalmente lecita: se nel fine settimana precedente c’era anche lui in giardino a cercare i legnetti della misura giusta per l’arco, per quale assurda ragione non poteva usarle?
-Perché è Robin Hood- gli sorrise l’amico.
-Non posso farlo io?
-Perché tu e non io? Io sono più grande e faccio Robin. John deve fare Little John perché si chiama così. Se vuoi puoi fare Will Scarlett, hai pure la maglia rossa- indicò.
Ray tirò l’orlo della maglia, quasi ad essere sicuro che fosse ancora rossa, dopotutto.
-Will va bene, tanto nel nostro gruppo non c’è ancora- osservò John.
-Nessuno vuole fare Scarlett- ghignò Carl.
-Io! Io sì!
-Va bene, va bene, certo che lo fai, però poi non puoi cambiarlo!
-Perché?
Altra domanda più che sensata.

In realtà, da bambino quale era, capiva benissimo che non si poteva giocare se qualcuno poi cambiava qualcosa: i giochi sono cose serie, studiate, una volta iniziati non si torna indietro, perché si rischia di rovinare tutto, di ripartire da capo e di distruggere quello che è venuto prima.
Dalla vetta dei loro undici anni, Carl e John scorgevano ancora per poco il punto della questione. Conveniva giocare perché “Ehi, siamo i più grandi” alle scuole medie non avrebbero potuto più dirlo, e l’unico modo per appagare quella situazione erano proprio i lunghi weekend fuori porta che si organizzavano ogni estate, nelle domeniche noiose di caldo e zanzare. Allora lì sì, che avrebbe funzionato, perché l’unico membro del clan che li superava di età era John, un altro John, l’unico figlio dei Connor, ormai troppo grande e grosso persino per fare Fra’ Tuck (anche se ignoravano che l’uso di alcool calzava a pennello).

In effetti neanche John era poi adatto al ruolo: a lui Little calzava bene, data la statura non troppo pronunciata; evidentemente si trattava di un difetto condizionato, visto che divideva quasi intere giornate nello stesso spazio d’aria di Carl, che era alto, smilzo, in più sempre spettinato, il che dava un vantaggio di ulteriori centimetri.
Ma il confronto non aveva importanza se a cercarlo era un tappetto di sei anni, neppure se era in punta di piedi. Per questo, e per altri motivi ignoti, John era felice di giocare con Ray. Con lui era sicuro che non avrebbe dovuto litigare per avere Robin, né urlare per tenersi le frecce. Certo, non sempre, perché sapeva essere capriccioso, come no, ma andare d’accordo con tutti era di dovere, per mantenere in vita il gruppo.

Connor, gli Spacey, Burman, i Broderick erano dei giocatori perfetti, la più varia e ben distribuita banda di Merry Men mai esistita, quel boschetto sul lago una Sherwood perfetta, le tre pietre disordinatamente sistemate a cerchio all’angolo del ruscello erano il castello, dove Lady Marian e le sue ancelle, le Turner passavano ore ad intrecciarsi i capelli, in attesa che le guardie invisibili venissero sconfitte.
C’erano battaglie campali, inseguimenti, imprecise bastonate ai tronchi d’albero che si trovavano per la via; volavano frecce, non senza essere prima annunciate a squarciagola; i guerrieri cadevano, si ferivano, e allora arrivava una fata, Nora Burman, che strillava se non veniva accontentata. Poi c’erano anche schegge varie, quelle vere, e lì non c’era magia che tenesse, se non quella di acqua ossigenata e qualche caramella della mamma. Magia pura.
Coperte, maglie, asciugamani che capitavano fra le mani si trasformavano in tappeti, travestimenti, qualche pupazzo di Sceriffo o di Principe Giovanni.

Garrett Spacey, che, poverino, aveva l’asma, se ne stava fermo e fiero su uno sdraio (cambiando posizione per non friggere al sole), sotto un telo rosso, cioè una tovaglia, con un mestolo in mano e una pentola in testa, aspettando che qualcuno chiedesse udienza al grande Re Riccardo Cuor di Leone. Ovviamente si assentava durante i pasti per evitare che sua madre apparecchiasse con lui dentro, e allora sicuramente nell’ora più calda, mezzogiorno, il re inglese, come ogni giorno, scompariva a combattere le Crociate. Nel caso fosse tornato, Robin Hood doveva sforzarsi di non guardarlo, perché non avrebbe dovuto sapere che lui si trovava già lì, nella foresta. Prima doveva essere catturato dallo Sceriffo, essere incatenato e legato e poi liberarsi all’improvviso e salvare tutti.
Al tramonto, con l’aria più fredda e i vestiti duplicati, ci si agghindava per la grande festa finale, che avrebbe dovuto essere il matrimonio di Robin Hood e Lady Marian: peccato che né Carl né Grace Broderick erano felici di convolare a nozze tanto presto e soprattutto smorzare tutta l’adrenalina della giornata nei bagordi di un banchetto felice. Che fare?

La seconda sera di quella routine di Cronache da Sherwood, ad un lato del falò, i bambini avevano tirato per le lunghe le caramelle dure che la madre di Sean aveva distribuito, tanto per ritagliare ancora del tempo prima di andare a dormire.
Ray, dato che aveva ricevuto come loro una caramella, aveva pensato bene che come loro poteva sedersi un attimo ad ascoltare i loro discorsi. Era sicuro che Carl stesse raccontando l’esito delle avventure giornaliere, probabilmente le stesse del giorno prima, con qualche caduta in più, dettaglio in più, o ordine invertito. Non che al fratello minore servissero i resoconti, visto che faceva lo spettatore fisso da quando era stato ritrovato il “castello”, senza mai poter prendere parte, perché bisognava (ed era una regola, a quanto pare) aver iniziato le elementari.
Così era condannato ad essere invisibile e a stare con Fred Spacey per il resto del suo tempo, a meno che non volesse passeggiare con sua sorella Jean e sua madre, che a forza di raccogliere violette le avevano praticamente estinte dai prati lì intorno.

-Posso fare il fantasma?
-Che?
-Non mi vedete, come se non ci sono, ma sono qui.
-Fantasmi? Non c’erano a Sherwood, no!
-Perché non li vedevano, Carl, altrimenti sarebbero stati nella storia, ma non come fantasmi, visto che li vedevano. Giusto, giusto?
Carl aveva squadrato con occhi serrati la madre, che lo stava condannando a cambiare il suo gioco, proprio nel bel mezzo dell’ennesimo attacco al castello, dove progettava di essere ferito, per giunta.
Una gentildonna non autorizzata vagava per Sherwood, un affronto: almeno quando venivano a chiamarli per la cena, il signor Broderick aveva accettato di sbattere i piatti come un elegante messo di corte, oppure come le campane di Fra’ Tuck.
-Mamma, noi stiamo giocando!
-Ma Ray ha detto che farà l’invisibile…
Suo fratello minore aveva annuito sorridendo. Con due sorrisi davanti di quelle proporzioni, era incastrato. Ma Robin Hood non si incastra. Eh, no, non completamente.
-Però non devi disturbare!
-No, no, i fantasmi non ci sono, giusto? Voi non li vedete nemmeno! -gli strizzò l’occhio.
Carl aveva sbuffato. Doveva fermare il gioco per comunicare il tutto: Le guardie invisibili erano dovute scomparire per qualche minuto. Dopodiché mentre la carrozza del Principe veniva ormai assediata, Fred e Ray se ne stavano già per i fatti propri a godersi la vita ultraterrena sulla torre del castello. Prevalentemente scavavano, scavavano nella terra con dei cucchiai. D’altronde, non dovevano neanche mangiare.

Vicino al fuoco, comunque, un po’ si smetteva di essere i Merry Men di prima, nonostante non si rinunciasse affatto al proprio eroico ruolo, rischiando di essere attaccati alle spalle da cattivi invisibili mai notati prima. Le bambine si scioglievano le trecce, questo è vero, per dormire più comode; anche le varie armi di legno si depositavano fuori dalle tende. Nessuno del gruppo faceva da allegro menestrello, ma un coro di voci ricordava a tutti gli avvenimenti della giornata, e che se non fosse stata ora di dormire, avrebbero dovuto controllare che il Principe Giovanni fosse ancora in prigione.

Era stato lì, in quel momento di dubbio, che il fuoco, distante almeno un metro e mezzo, circondato dal parlottìo degli adulti superstiti, aveva emesso un fortissimo bagliore e un getto di calore. Mason, ovvero “la vedetta” del gruppo, era stato mandato a controllare: suo padre e il padre di Sean stavano toccando con un bastone due pezzi di stracci ormai in fiamme.
-Ma non si bruciano i vestiti! -lo aveva subito ripreso Nora Burman (e chi altri, sennò?).
-Infatti, è vero!
Garrett era stato curato quel giorno dalla fata, doveva ricambiare il favore per non essere lasciato morire nella foresta, dato che non amava scavare coi cucchiai. Ah, sì, perché Ray in fondo aveva servito la leadership di Carl su un piatto d’argento: insomma, della serie, combattiamo bene e non facciamoci colpire, altrimenti vi tocca diventare dei fantasmi che ovviamente io non ho affatto visto, ma penso in fondo ci siano nella foresta. Nora Burman purtroppo aveva quindi ridotto i suoi interventi, ma essendo una semplice sventolatrice di nastri guaritori, non era una maga sapiente e accorta in grado di fare due più due e prendersela col fratellino di Carl.

-A dormire, ehi, su! Forza! Sean! Max! Judy!
-Carl! Ray! Dai! -li aveva chiamati Alec, tenendo in braccio una Jean ormai addormentata- Cercate di dormire, noi siamo qui vicino, se c’è qualcosa, d’accordo?
-Sì. Ciao, buonanotte!
-Notte!
-Notte, papà!
Già insaccati, i due fratelli Stantz si erano ancora rotolati uno sull’altro per giochicchiare ancora un po’. In un attimo di silenzio, non si sa da che pensiero, Ray aveva sussurrato a Carl-Io so cosa bruciava nel fuoco!
-Cosa? -aveva sbadigliato.
-Il Principe Giovanni!
Il maggiore si era messo a ridere- Come no, certo! Lo abbiamo visto tutti!
-No, no, no, io l’ho visto, voi no…
-Sì, certo, perché?
-Perché era un fantasma, non si vedeva, ma io sì.
-Certo, certo.
Certo, diamine, aveva un senso. Avrebbero dovuto bruciare il Principe Giovanni, ogni sera, così non fuggiva di prigione ogni notte, così non si sarebbe ripetuta la scena. Avrebbero avuto dei nuovi cattivi e lui sarebbe potuto diventare re. Sarebbero cambiate delle cose, ma a chi importava? Poteva diventare re. Non male.

Per questi lunghi e complessi motivi, per queste trame intricate e incastri di gioco, era di vitale importanza che Ray si decidesse una volta per tutte a fare Will Scarlett. Sarebbe stato da scemi dopotutto ignorare questa concessione inaudita che Carl gli stava dando: diventare il più piccolo della banda, quello che sta con i grandi perché se lo è meritato, perché ha avuto un’idea interessante, e non per la statura, com’era successo con Sean, che siccome all’epoca sfiorava l’altezza di Carl, era entrato d’obbligo.

-Oh, ma allora sei perfetto, Ray…
-Sì?
-Ovvio…
Il bambino sperava di non perdersi il motivo, con le orecchie otturate dalla schiuma che gli cadeva addosso. Era difficile concentrarsi mentre la testa gli veniva sballottata a destra e manca per essere decentemente insaponata.
-Chiudi gli occhi– fece la madre, vuotandogli il pentolino del latte sui capelli.
-E’ fredda!
-Un attimo e abbiamo finito! Non dovremmo tagliarli questi capelli?
-No-rabbrividì, tenendosi la testa.
-Alec! L’acqua sta tornando fredda!
Nessuna risposta. Mary provò con un po’ più di forza a sovrastare il rumore del getto della doccia.
-ALEC! L’ACQUA!
-COSA? -si sentì una voce appressarsi.
-Ho detto che l’acqua è FREDDA!
-Deve avere il tempo di scaldarsi, l’hanno usata tutti questa sera! -commentò il marito, sfilandosi i guanti con cui stava armeggiando la griglia poco prima, lì vicino ai bagni.
-Auff, bene, allora aspettiamo. Spera di non far congelare Raymond, nel frattempo- e si levò la vestaglia porpora che aveva addosso, sopra la camicia da notte, per avvolgere il bambino. Poi deviò il getto.
-Oh, guarda, se ora non sei perfetto per fare Will Scarlett! -gli indicò il padre, su un punto impreciso intorno all’ombelico, costringendo Ray, per la seconda volta di quel giorno, a controllare come fosse vestito.
-Perché?
-Perché? Will Scarlett non era quello che si vestiva sempre elegante?
Ci fu un attimo di silenzio in cui Alec si era bloccato con lo sguardo sulla testa di Marianne, aspettando si voltasse.
“Cosa?” fece lei con gli occhi.
“E’ giusto, no?”.
-Oh, sì.
-Si vestiva veramente bene, col velluto sai? Un vero uomo elegante.

“Oh Cielo, ci manca solo che a Sherwood arrivi Oscar Wilde…” pensò Mary, cercando di non ridere al pensiero di suo cognato e alle facce che faceva quando, anni prima, aveva speso i suoi primi minuti con Alexander, allora fermo a mordicchiare compiaciuto i suoi occhiali e a decantare orgoglioso l’opera omnia, ovviamente da lui interamente letta, del grande Oscar Wilde.
Benedetta la mano magica che arrivati al Delitto di Lord Arthur Saville l’aveva trattenuta dal commetterne uno personale. E al Fantasma dei Canterville dal crearne uno lei. E al Principe Felice di diventarlo dunque anche lei, in quel momento.

-Che c’è da ridere?
-Nulla-tossì, deglutendo- mi è andata della schiuma negli occhi.
-Mamma? Perché?
Mary sorrise. Per quanto avesse tratti vagamente Stantziani (sua definizione), era grata che oltre a minimi sprazzi di rosso scozzese nei capelli e di lentiggini sul viso, Raymond avesse la sua stessa considerazione della questione eleganza. Fortunatamente era un suo piccolo ritratto, e non un Ritratto di Dorian Gray.
“Va bene, la smetto” rise di nuovo.
-Si vestiva meglio di tutti, ma perché di solito si travestiva e faceva la spia.
-La spia?
-La spia, la spia del Principe Giovanni, lo guardava e diceva a Robin Hood dove andava così poteva attaccarlo.
-Non era anche il fratello di Robin Hood?- interruppe Alec.
-Non mi ricordo, forse sì, mi pare di aver letto che in alcune poesie era suo cugino, ma visto il caso…
-Non era tipo, il fratellastro?
-Ma visto il caso…- puntualizzò Mary.
-Avevo un amico che studiava questo tipo di storie e mi aveva detto così, comunque.
-Bene, allora ci resta da decidere a chi dei due dare Claire, e a chi dare me- annuì la moglie, aprendo le braccia e appoggiando la schiena alla parete.

Claire era la seconda moglie di Alexander, ed aveva fama di essere molto più brava in casa di Mary. D’altro canto aveva lo stesso nome della marca di disinfettanti che usavano in casa, anzi che usava in casa, perché Claire faceva tutti i lavori che Mary non toccava. Del tipo “Alec, avevo lasciato da buttare la spazzatura a te, ma tranquillo poi ci ha pensato Claire e ha risolto il problema” oppure “Alec! Ti ricordi che il televisore non prendeva più quei tre canali? Non c’è bisogno che chiami il tecnico a quest’ora, alla fine Claire ha risolto tutto!” e poi “Ehi, Alec, visto che ho saputo che hai promesso ai bambini un cane, ma io ho detto no perché sono allergica, ho parlato con Claire e sono riuscita a darle la mia allergia, così finalmente siamo tutti felici! Non è una donna deliziosa?”. “Oh, hai visto cosa mi ha comprato Claire a Natale? Certe volte credo mi legga nel pensiero… non mi stupirei di scoprire che Santa Claus in realtà è Claire!” “MARY!”.

-Va bene, erano fratelli, ok. Secondo me però la cosa migliore di Will Scarlett era che era il più coraggioso!
-Davvero?
-Sì- si inginocchiò il padre per averlo viso a viso- perché lui non usava l’arco.
-Tanto Carl non me lo vuole dare -alzò le spalle il bambino, stringendosi la vestaglia appiccicosa addosso.
-E fregatene!- rise Alec- I veri uomini usano la spada! Will Scarlett era il miglior spadaccino della compagnia!
-Vero! -commentò Marianne- era il più coraggioso perché era sempre vicino al nemico quando combatteva! Seh, sono capaci tutti di tirare frecce da lontano, bravi tutti!
-Sì?
-Sì! E poi era il più piccolo, ma stava con loro proprio perché era intelligente e coraggioso! Loro non ce l’avrebbero mai fatta senza di lui!
-Ma io non sono il più piccolo, proprio, Fred è più piccolo di me, ma lo fanno giocare lo stesso perché è mio amico.
-Di Will Scarlett, ce n’è uno solo Ray… e non è Fred ad avere questa lussuosa, elegante e fascinosa vestaglia, con questi piccoli- gli toccò la pancia- luccicanti, bottoncini-continuò a solleticarlo.
-La vuoi per giocare, domani?
Ray non se lo fece ripetere due volte.

Voleva anche un giorno saperle lui quelle cose, sapere che Robin Hood aveva un fratello, sapere che gli arcieri in realtà sono dei fifoni e che vestirsi elegante non è proprio la cosa più importante, soprattutto se usi i vestiti di tua mamma. Ma Garrett era una tavola apparecchiata e Nora una noiosa bambina con un nastro in mano, quindi, forse era meglio avere dei veri vestiti.
Un giorno avrebbe voluto diventare suo padre o sua madre, perché loro non gli avevano semplicemente detto che la sua maglia era ross, e neanche avevano raccontato la storia di Robin Hood sfregandosi il mento e pretendendo che lui stesse a sentire camminando, come aveva fatto il signor Scott poco prima, che, in quella piccola passeggiata, di fatto era stato il responsabile della sua caduta nel fiumiciattolo del castello.

Loro gli avevano detto delle cose bellissime, stando in piedi mezzi bagnati a discutere di leggende e letteratura con un bambino di sei anni, quasi congelato, con i capelli ancora insaponati. Con tanto di sapore di schiuma che gli era inevitabilmente finita in bocca, questo pensiero riempì una minima sconosciuta casellina della sua testa.


A.A.
Ce l'ho fatta! Seh, per ora. Spero, come sempr,e sia accettabile, perchè l'ho scritto in un grigio pomeriggio di sfogo creativo al posto dello studio e ho completamente perso di vista l'orologio. Sarà perchè da piccola adoravo giocare a Robin Hood e mi rubavano sempre Will Scarlett, e poi, nonostante tutto, adoro quel furbone di Oscar Wilde :)
 

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