What's Grey in a Black & White World

di _Pulse_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bernard d'Andrésy ***
Capitolo 2: *** Faith ***
Capitolo 3: *** Gentleman Cambrioleur ***
Capitolo 4: *** Breakfast without murder ***
Capitolo 5: *** Violin ***
Capitolo 6: *** Secret sister ***
Capitolo 7: *** Women ***
Capitolo 8: *** The blue diamond ***
Capitolo 9: *** Texts ***
Capitolo 10: *** Blood bonds ***
Capitolo 11: *** Team Arsène VS Team Sherlock ***
Capitolo 12: *** Grief ***
Capitolo 13: *** The black pearl ***
Capitolo 14: *** Dear ones ***
Capitolo 15: *** Family business ***
Capitolo 16: *** Instinct ***
Capitolo 17: *** White flower ***
Capitolo 18: *** Undercover ***
Capitolo 19: *** Role-playing game ***
Capitolo 20: *** Broken vow ***
Capitolo 21: *** Truth shall make you free ***
Capitolo 22: *** Les jeux sont faits ***
Capitolo 23: *** Stay ***
Capitolo 24: *** Epilogue ***



Capitolo 1
*** Bernard d'Andrésy ***


Buonasera! :-)
Come annunciato sulla mia pagina facebook, Sherlock is back and the game is on!
Quello che state per leggere - o almeno lo spero - è il primo capitolo di un progetto ambizioso e al momento non ancora concluso. Ultimamente l'ispirazione scarseggia, ma ho buone speranze! Certo, sapere da voi che ne vale la pena sarebbe un ulteriore incentivo... :-P
Anyway, la storia è ambientata dopo la quarta stagione e ci sarà un nuovo antagonista, molto particolare, e che io amo follemente!
Non vi dico altro per non spoilerare troppo!
Grazie e a presto!

P.S. I personaggi non sono miei e questa storia non è scrtta a scopo di lucro.

Vostra,

_Pulse_


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WHAT'S GREY IN A BLACK & WHITE WORLD



1. Bernard d'Andrésy


Era raro, rarissimo che Sherlock trovasse una lettura così interessante da ignorarlo completamente. Nella quasi totalità dei casi si stancava ed insultava l'incompetenza dell'autore dopo poche pagine.
John l’aveva trovato così quando finalmente era riuscito a lasciare Rosie sul letto del detective ed era tornato in salotto: infossato in quel divano che accoglieva così bene le forme del suo corpo leggermente spigoloso, avvolto nella sua vestaglia preferita e col naso nascosto tra le pagine di un grosso volume scientifico.
Dopo aver tentato ben due volte di avviare una conversazione si era arreso: se voleva passare del tempo col suo migliore amico, la cosa migliore da fare era sedersi sulla propria poltrona e concedersi qualche minuto di relax, coi piedi vicino al fuoco scoppiettante nel camino.
Sentì il campanello suonare al piano inferiore, ma non ci badò troppo, certo che ci avrebbe pensato la signora Hudson. L’idea che si trattasse di un cliente lo sfiorò solo per un istante, il tempo necessario a dirsi che se anche fosse stato ci sarebbe voluto un caso davvero straordinario per attirare l’attenzione del consulente investigativo.
Non avrebbe saputo dire con certezza quanto tempo fosse passato dal suono del campanello, ma sobbalzò quando sentì la signora Hudson scoppiare in quella sua risata che in un’occasione molto speciale Sherlock aveva paragonato al verso di un gufo sotto tortura.
Gettò un’occhiata verso l’amico, ancora nella stessa identica posizione, e aprì la bocca per chiedergli chi potesse farle visita a quell’ora, ma la richiuse non appena udì un verso simile ad un grugnito, uno di quei versi che si fanno inconsciamente durante il…
Il dottor Watson si alzò di scatto dalla poltrona e con cautela tolse il libro dalle mani di Sherlock, scoprendo che in realtà il grande detective non era tanto immerso nella lettura da non accorgersi della sua presenza: si era semplicemente addormentato col libro sulla faccia.
Trattenne a stento una risata, mentre si aggirava per l’appartamento alla ricerca di una coperta, pensando a quanto spesso si dimenticasse che anche Sherlock era un essere umano e come tale aveva bisogno di dormire, ogni tanto. Specialmente dopo un intero pomeriggio trascorso dietro ad una Rosie novizia eppure già così entusiasta del gattonamento.
La signora Hudson aveva ricominciato a ridere come una matta e John non riuscì più a trattenersi. Sulle scale pensò a quale scusa poter usare per entrare in casa sua e vedere coi propri occhi il suo misterioso ospite, ma non ebbe il tempo materiale per scegliere quella adatta: un uomo elegantissimo, con una folta chioma di capelli color biondo platino e due occhi verdi particolari quanto il viso perlaceo in cui erano incastonati, aveva appena afferrato il corrimano con la mano guantata di bianco, intenzionato a raggiungere il 221B.
«Oh, buonasera», esclamò e il suo volto si illuminò grazie ad un sorriso perfetto ed affascinante come tutta la sua persona. «Lei deve essere il dottor Watson. È un vero piacere fare la sua conoscenza, sa? Seguo con infinito piacere il suo blog e posso affermare con certezza di essere il vostro più fedele ammiratore, suo e del monsieur Holmes».
John fu colpito da quel flusso di complimenti, dal suo accento francese, dai suoi occhi brillanti come quelli di un bambino di fronte al suo eroe preferito e dalla sua stretta di mano decisa ed energica, in contrasto con la raffinatezza del suo aspetto.
«Ne sono lusingato», riuscì a dire, prima che l’uomo misterioso riprendesse a parlare.
«A proposito del monsieur Holmes. La vostra padrona di casa, madame Hudson – che donna incantevole! – mi ha detto che è in casa».
Stava per superarlo, quando John stese un braccio e lo fermò sul suo stesso scalino, trovandosi così a pochi centimetri dal suo corpo. Solo in quel momento si rese conto della sua vera altezza – doveva di fatto sollevare il viso per poterlo guardare negli occhi – e di quanto in realtà fosse in forma sotto quel completo impeccabile e con un prezzo che lui avrebbe potuto pagare soltanto digiunando per diversi mesi.  
«Veramente il signor Holmes non si sentiva troppo bene ed è andato letto presto».
L’uomo misterioso lo fissò per un paio di secondi interminabili, durante i quali John non si sentì solo in soggezione, bensì anche un po’ spaventato. Sotto i suoi occhi ora privi di ogni traccia di allegria e simpatia, colmi invece di fastidio e scetticismo, si sentì indifeso, quasi nudo, e alla sua mercé.
Sherlock l'aveva scandagliato più volte, cercando in lui tutte le risposte alle sue domande, ma mai si era sentito intimorito. Era come se quell'uomo, al contrario del suo migliore amico, potesse leggere i suoi pensieri peggiori.
Bastò un battito di ciglia, però, perché tutto tornasse alla normalità.
L’uomo fece per posargli le mani curatissime sulle spalle ma all'ultimo momento le ritrasse, stirando un sorriso reticente e scuotendo lievemente il capo.
«Mon Dieu! Ho dovuto fare i salti mortali per riuscire a ritagliarmi un’ora di libertà – ho persino cancellato un appuntamento a cui tenevo particolarmente – e il mio vecchio amico è già tra le braccia di Morfeo!». Sospirò e all’improvviso iniziò a ridacchiare, scendendo le scale e dirigendosi verso la porta.
«Gli dica che sono passato, caro dottor Watson, e di non preoccuparsi: anche io sono ansioso di vederlo e sono sicuro che ci incontreremo prestissimo».
«Non so nemmeno il suo nome».
L’uomo si voltò e socchiuse gli occhi, portandosi teatralmente una mano alla fronte. «Mi perdoni, è la stanchezza. È stato un lungo viaggio».
Si aprì di nuovo il cappotto - molto simile a quello di Sherlock, notò - e da una delle tasche interne tirò fuori un bigliettino da visita, per poi controllarlo alla luce dell'ingresso. John lo trovò strano, ma trovò ancora più strano ciò che vide guardando con più attenzione: non c'era scritto niente su quel cartoncino, entrambi i lati erano immacolati. Quindi l'uomo estrasse una stilografica, posò il piede sul primo scalino ed usò il proprio ginocchio come appoggio per scrivere qualcosa sul bigliettino. Infine, tenendolo tra l’indice e il medio, glielo porse con un sorriso.
«Bernard d'Andrésy», lesse il nome, scritto con una calligrafia svolazzante ma chiara e precisa. «Tutto qui?».
«È tutto ciò che serve al monsieur Holmes», rispose quasi con dolcezza.
John si rigirò nervosamente il bigliettino tra le dita e in uno slancio di coraggio scese le scale fino a trovarsi di nuovo al suo cospetto.
«Non capisco... Vi conoscete già?».
L’uomo aprì la porta e si fermò sulla soglia, col vento freddo che gli scompigliava i capelli. Non rispose alla sua domanda, ma gli rivolse un sorrisetto malizioso ed esclamò: «Mon Dieu, sono stato via per troppo tempo. Lo Sherlock che conosco non avrebbe mai sopportato di stare nella stessa stanza con una bambina per più di cinque minuti».
La mandibola di John fu sul punto di crollare. «Come... come fa a sapere di Rosie?».
«Non può dire sul serio», esclamò con un risolino. Leggendo l'incredulità sul volto di Watson, però, si incupì. «Oh, dice sul serio. Si guardi, dottore! Borse sotto gli occhi per mancanza di sonno, segno che qualcosa o qualcuno la fa dormire poco o in maniera irregolare; macchie di omogenizzato e pappa di mela con due diverse fasi di seccatura sulla camicia, segno che sono stati somministrati a distanza di qualche ora l'uno dall'altro; sempre sulla camicia, ci sono delle pieghe poco sopra i fianchi che indicano chiaramente che ha tenuto un cucciolo d'uomo in braccio per un lungo periodo di tempo, forse per farlo addormentare».
«Lei ha detto... ha specificato "bambina"».
L'uomo fece una pernacchia. «Brillantini sulla sua spalla sinistra. Una fascia, un qualche oggettino per capelli... Prettamente femminili». Lo stesso sorriso reticente comparve sulle sue labbra mentre sollevava una mano per agitare le dita. «È per quelli che non l'ho toccata, prima».
John rimase scioccato dalle sue deduzioni, tanto da pensare: Oh no, un altro.
L'uomo attese per qualche minuto, invano, che proferisse verbo; poi scoppiò in una risata allegra che si concluse con un sospiro soddisfatto.
«Sa, dottor Watson... Mi sono giunte voci riguardo ai progressivi cambiamenti di monsieur Holmes e volevo verificare di persona. Il fatto che sua figlia al momento sia sola con lui, nel suo appartamento, mi meraviglia».
John strinse i pugni lungo i fianchi, sentendo la rabbia iniziare a scaldargli il sangue nelle vene. L'unico motivo per cui non disse nulla fu il pensiero che mai, mai avrebbe osato lasciare una creatura dell'età di Rosie sola con lo Sherlock di qualche anno prima.
Il biondo gli rivolse un cenno d'assenso, quasi come se avesse seguito per filo e per segno il suo ragionamento, e finalmente uscì dalla porta. John lo seguì e rimase sulla soglia, sferzato dal vento, a guardarlo a bocca aperta mentre saliva su una Porsche argentata e sfrecciava via facendo ruggire il potente motore.
Chi diavolo era quell'uomo? E perché sembrava sapere così tanto di Sherlock?
Il desiderio di chiederlo immediatamente al diretto interessato lo ammaliava, ma sapeva che se avesse svegliato Sherlock per qualcosa di inutile questo gli avrebbe tenuto il broncio per giorni, e che se invece si fosse trattato di un altro arcinemico sarebbe stato lui a non poter più chiudere occhio fino alla fine del gioco.
Finalmente si chiuse la porta alle spalle, cacciando fuori il freddo, e dirigendosi verso l'appartamento della signora Hudson si infilò il bigliettino nella tasca dei jeans.
Bussò lievemente ed entrò, trovandola intenta a sciacquare un paio di tazze da tè.
«Penso di averle già detto come la penso a proposito di prendere il tè con gli sconosciuti, signora Hudson».
La donna spense l’acqua e si tolse i guanti di gomma viola, ridendo: «Ma quel giovanotto non è affatto uno sconosciuto, mio caro!».
John corrugò la fronte, sentendo la confusione crescere come un’erba rampicante nella sua mente. «Non lo è?».
«Oh no, lui e Sherlock sono amici di vecchia data!».
«Come lo sa?».
«Me l’ha detto lui!».
Di bene in meglio, pensò gravemente il dottore, sedendosi al piccolo tavolo della cucina.
«Non lo trova tremendamente affascinante?», disse ancora la signora Hudson. «Se solo avessi qualche anno di meno! Anche se credo che le donne non siano proprio la sua… zona di caccia, se capisce cosa intendo».
John si massaggiò la mascella, meditabondo.
La donna, la finta relazione con Janine e l'ultima, sconvolgente confessione che aveva fatto a Molly - nonostante fosse stata una prova della sua pazza sorella Eurus, - avevano reso la vita ancora più complicata a tutti, ma specialmente a John, il quale non riusciva a non chiedersi quale fosse la zona di caccia del detective, o se ne avesse una almeno.
Unì le mani sul tavolo e con aria seria chiese: «Lei pensa che tra lui e Sherlock…?».
«Non saprei proprio, caro. Starebbero bene insieme però, non trova?».
L’ex medico militare pensò alla gioia nei suoi occhi e subito dopo alla loro severa superiorità, capace di mettergli i brividi.
Aveva parlato con lui per… quanto? Dieci minuti? E al suo cospetto aveva provato prima simpatia e un pizzico di ammirazione, subito dopo timore e disagio.
Quell’uomo aveva qualcosa che non gli piaceva e il solo pensiero che fosse un amico di Sherlock, o addirittura qualcosa di più, lo rendeva inquieto, anche se doveva ammettere che anche lui ce li vedeva bene insieme. Di sicuro avevano molto in comune, a partire dalle straordinarie capacità deduttive.
«È di sopra, ora?», gli chiese la signora Hudson, interrompendo i suoi ragionamenti.
«No, Sherlock dormiva e ho preferito non svegliarlo. A questo punto mi chiedo se ho fatto la cosa giusta».

***

John si sentì un po' in colpa nei confronti di Sherlock quando rientrando nell'appartamento andò a controllare Rosie. Dormiva pacifica sopra il letto rifatto, un pugnetto vicino alla bocca e il cerchietto coi brillantini rosa storto tra i boccoli biondi.
Quindi tornò in salotto e una volta sprofondato nella propria poltrona fissò Sherlock, rannicchiato sul fianco e con un lembo della vestaglia che sfiorava il pavimento.
Tirò fuori dalla tasca dei jeans il bigliettino da visita che gli aveva lasciato Bernard d'Andrésy e lo girò e rigirò, più volte. Completamente bianco, fatta eccezione per il nome che aveva scritto a penna.
John chiuse gli occhi, continunando a chiedersi: Chi mai se ne andrebbe in giro con dei bigliettini da visita bianchi?
Qualcuno sempre pronto a cambiare identità, rispose Mary dolcemente.
Spalancò gli occhi e scandagliò l'appartamento, ma di lei nessuna traccia.
Era da un po' che non la vedeva né sentiva. Da quando si era riavvicinato a Sherlock si era fatta da parte poco a poco, gradualmente, fino a quando non era scomparsa del tutto. John si era detto che era meglio così, che era giusto così, ma una parte di lui ne aveva sofferto terribilmente.
Ed ora eccola lì, di nuovo, pronta ad aiutarlo nel momento del bisogno.
Abbozzò un sorriso e tornò a chiudere gli occhi per ripetere l'esperimento.
Non ha senso, si disse. Nessuno può cambiare identità in questo modo.
Mary non rispose e John aspettò, fino a quando non cedette al sonno. 

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Capitolo 2
*** Faith ***


2. Faith


John si svegliò a causa del cellulare che stava vibrando sul comodino. Sollevò la testa e guardò Rosie nel suo lettino, poi sospirò e si puntellò su un gomito per prendere in mano il telefono. Il display luminoso lo accecò, ma riuscì comunque a leggere il nome di Sherlock. L'amico lo chiamava raramente, amante com'era degli sms, quindi non poté fare a meno di preoccuparsi. Rispose senza ulteriori esitazioni.
«Sherlock, stai bene?».
«Che ore sono?», farfugliò il detective.
John allungò una mano verso la sveglia e poi si portò le dita sugli occhi. «Le quattro e un quarto, di notte. Dimmi che non mi hai svegliato per chiedermi l'ora».
«Tu non mi hai svegliato quando tu e Rosie siete andati via. Non hai lasciato nemmeno un biglietto».
John si sentì all'improvviso sveglissimo. «Tu... tu ti sei preoccupato per noi?».
Il silenzio dall'altra parte fu eloquente e il dottore sorrise, promettendo: «Non lo farò più, okay? Stavi dormendo...».
«Non stavo dormendo», ribatté inacidito, come se lo avesse appena insultato. Si era dimenticato che per Sherlock dormire era uno spreco di tempo insopportabile.
«Va bene, come vuoi».
«John?».
«Sì?».
«Mentre io... er, riflettevo... è passato qualcuno? Mi è sembrato di sentire una voce».
John si ricordò all'improvviso di Bernard d'Andrésy, l'uomo biondo e raffinato che voleva vedere Sherlock. Il suo enigmatico bigliettino da visita era ancora sul comodino, lì dove l'aveva lasciato prima di imporsi di chiudere gli occhi.
«John?».
«Sherlock, è tardi», mormorò, sentendo un groppo in gola.
Perché esitava a dirglielo? Prima o dopo, in fondo, non avrebbe fatto alcuna differenza. O forse sì, dato che avrebbe preferito Moriarty, Magnussen e persino Culverton in confronto all'uomo misterioso. Almeno con loro sapeva con chi aveva a che fare.
«Domani mattina, cioè... tra un paio d'ore vengo lì per lasciare Rosie alla signora Hudson, facciamo colazione e parliamo».
«Perché aspettare? John?».
«Perché ho sonno, dannazione!», gridò dimenticandosi di Rosie, la quale si svegliò ed iniziò a piangere per lo spavento.
«Oh, no...», piagnucolò, passandosi una mano sul volto stanco. «Devo andare, Sherlock. A domani».
Il detective non rispose e John terminò la comunicazione. Posò il cellulare sul comodino, sopra il biglietto da visita, e si alzò rassicurando la figlia.
«Va tutto bene, papà è uno stupido», le disse e cercò di convincere anche se stesso.

***

Poco dopo le otto, John entrava al 221B di Baker Street con una grande borsa sulla spalla, il proprio zaino sulla schiena e Rosie stretta al collo, ancora un po' insonnolita.
«Buongiorno caro», lo salutò la signora Hudson con un sorriso, andandogli incontro per prendere Rosie ed accarezzarle il naso col proprio.
Il dottore lasciò la borsa su una delle sedie intorno al tavolo della cucina e chiese: «Sherlock?».
La padrona di casa sollevò le sopracciglia. «Ah, lasciamo perdere. Questa notte l'ho sentito andare avanti e indietro senza sosta».
«Mi dispiace, temo...».
«Ma ora sembra essersi calmato. C'è un cliente».
«Un cliente?», esclamò, guardando l'orologio. «Così presto?». Poi un terribile sospetto gli attraversò la mente. «Non è l'uomo di ieri, vero?».
«Oh no», rispose la signora Hudson, divertita. «È un tipo strano e piuttosto burbero, sulla cinquantina. Sherlock sembrava conoscerlo».
John lo trovò molto insolito. In meno di ventiquattr'ore si erano presentati alla porta di Sherlock due individui che lui conosceva e di cui, però, non gli aveva mai detto nulla. Quanti altri segreti possedeva, il suo migliore amico?
«Le dispiace se vado di sopra?», le chiese e senza attendere una risposta percorse gli scalini due a due.
Si fermò sulla soglia del salotto e guardò Sherlock seduto sulla sua poltrona di pelle nera, gli occhi chiusi e le punte delle dita unite di fronte alle labbra. Il suo cliente, invece, era in piedi davanti alla finestra socchiusa, una sigaretta accesa tra le labbra.
Come aveva detto la signora Hudson, quel tipo aveva un'aria davvero burbera: i capelli brizzolati tenuti in disordine; il volto belloccio, solcato di rughe d'espressione, sembrava accartocciato su se stesso; gli occhi castani arrossati e stretti in due fessure; le labbra sottili contratte in un ringhio muto. Per essere sulla cinquantina, li portava davvero male.
John aprì la bocca per introdursi, ma Sherlock lo fermò con un solo gesto della mano. Quindi tornò nella sua posa e con voce pacata lo presentò lui stesso: «Ispettore Ganimard, le presento il mio amico e collega, il dottor John Watson. Può fidarsi di lui, qualsiasi cosa dirà rimarrà tra noi». E dal modo in cui Sherlock lo fissò, capì che quella storia non sarebbe mai finita sul suo blog.
«Confermo», rispose irrigidendo le spalle. «Piacere di conoscerla, ispettore».
L'uomo gli rivolse un'occhiata astiosa, prima di scrollare le spalle e voltarsi per spegnere il mozzicone di sigaretta nel posacenere che Sherlock doveva aver tirato fuori per lui. Da quando c'era Rosie aveva smesso di lasciare in giro cose nocive per lei, e per quanto possibile cercava di tenere in ordine.
«Non mi ripeterò», esclamò con la voce arrochita, da fumatore incallito. «È già stato abbastanza umiliante».
«Lei è francese», notò John dall'accento, sbalordito. Come Bernard d'Andrésy...
Ganimard guardò Sherlock, le mani posate sullo schienale della sedia dei clienti. «Non ci voleva molto per intuirlo».
«Gli dia tempo, ispettore. Imparerà ad apprezzarlo».
John, punto nel vivo, si tolse il giubbotto e si sedette sulla poltrona di fronte a Sherlock, pronto a trattare quell'uomo come uno qualunque dei loro casi.
«Allora... Arsène Lupin non è più in prigione», ricapitolò Sherlock. «Lei era riuscito a mettercelo e lei l'ha fatto uscire».
Ganimard abbassò il capo, stringendo lo schienale tanto forte da sbiancarsi le nocche. «Sono stato raggirato».
«E nessuno lo sa perché Arsène la considera un amico».
«È quello che ha detto».
«E lei non ha nessuna intenzione di dirlo ai suoi colleghi. Immagino che diventerebbe lo zimbello di Francia, che la ripudierebbero...».
L'ispettore infilò una mano nella tasca del trench marrone ed estrasse una nuova sigaretta dal pacchetto rovinato. Si avvicinò nuovamente alla finestra e l'accese, aspirando avidamente.
«Perché è venuto da me, ispettore?», domandò ancora Sherlock, con una calma che preannunciava l'arrivo di una tempesta di dimensioni epiche.
John poteva dire addio alla tranquillità per un bel po'.
«Perché Lupin mi ha detto che sarebbe venuto qui, a Londra».
John strabuzzò gli occhi. «Mi faccia capire bene: questo Arsène Lupin è riuscito a fuggire di prigione...».
«È stato lasciato andare», lo corresse Sherlock a denti stretti, perdendo un po' di quella sua tempra granitica.
«... E le ha detto dove sarebbe andato, di sua spontanea volontà?».
«Tipico di lui», borbottò ancora il detective, toccandosi la tempia sinistra con la punta dell'indice e del medio.
«Sì, è esatto», rispose invece Ganimard, sconsolato.
Sherlock afferrò i braccioli della poltrona per darsi la spinta necessaria ad alzarsi con l’agilità di un felino ed allacciandosi i bottoni della giacca si avviò verso la porta, accanto alla quale si fermò per fissare il francese con aria gelida. Questo soffiò un'ultima boccata di fumo fuori dalla finestra e spense il mozzicone nel posacere con stizza, poi raggiunse il consulente investigativo e lo fronteggiò.
«Sono molto deluso, Ganimard. Ma ti scriverò se avrò sue notizie».
L'ispettore annuì e senza nemmeno salutare uscì, scese le scale a passi pesanti e si sbatté la porta alle spalle. Sherlock fece lo stesso con quella dell'appartamento, borbottando tra sé, mentre John correva alla finestra per guardare Ganimard accendersi la terza sigaretta ed allontanarsi a piedi, con le spalle curve sotto un peso insostenibile.
John doveva andare al lavoro, era già in ritardo, ma non poté non voltarsi verso Sherlock nella speranza di ricevere qualche dettaglio in più sulla questione.
«Perché dovresti avere sue notizie?», domandò, sentendo di nuovo quel groppo in gola.
«Ah, non farmi domande di cui sai già le risposte!», lo rimproverò, gli occhi azzurri di ghiaccio. Senza aggiungere altro, stese una mano verso di lui.
«Cosa?».
«Avanti, lo sai cosa voglio!», ringhiò. «Ieri sera, mentre dormivo, si è presentato qui uno sconosciuto, anche lui dall'accento francese visto il modo in cui ti sei stupito quando hai sentito parlare Ganimard. Tu non l'hai fatto salire e gli hai chiesto chi fosse. Lui deve averti dato un bigliettino da visita e da come il tuo pollice si è mosso all'interno della tasca direi che si trova lì. Dammelo, John».
«Quindi ammetti che stavi dormendo».
Sherlock, spazientito, voltò il capo verso lo specchio come alla ricerca di sostegno da se stesso. «Sì, stavo dormendo. E, come ho sempre sostenuto, è stato uno spreco di tempo incredibile».
«Quindi lo sconosciuto sarebbe Arsène Lupin?».
«Il fatto che sul bigliettino abbia scritto un altro nome non vuol dire che sia il suo».
«Come fai a conoscerlo?», insistette il dottore, sempre meno contento dell'arrivo di quello sconosciuto nelle loro vite.
«È una storia troppo lunga».
«Allora dimmi che cosa vuole da te».
«Questo dovresti dirmelo tu! Sei tu che l'hai incontrato! Tu mi hai tenuto all'oscuro del suo arrivo!».
John non abbassò lo sguardo di fronte a quello colmo d'ira di Sherlock, uno Sherlock che non vedeva in quello stato da tanto, tantissimo tempo.
Fu la signora Hudson ad interrompere il loro muto duello, preoccupata per le grida. Rosie era ancora tra le sue braccia, con un sonaglino di gomma in bocca.
«Va tutto bene, cari?».
«Se ne vada, signora Hudson», ordinò il detective, imperativo.
La sua mano era ancora tesa a mezz'aria e John, nonostante fosse furente di rabbia per come li stava trattando per via di quel dannato Arsène, infilò finalmente la mano in tasca e tirò fuori il bigliettino da visita tanto agognato. Gli occhi di Sherlock si illuminarono di una luce perversa e il dottore, vagamente disgustato, lanciò il cartoncino sulla poltrona del detective.
«Divertiti», mugugnò prima di raggiungere la signora Hudson e rassicurarla con un braccio intorno alle sue spalle.

***

Bernard d'Andrésy, un nome scelto appositamente per fargli capire che si trattava proprio di lui, del solo ed unico Arsène Lupin.
Arsène Lupin, l'inafferrabile ladro le cui prodezze venivano ampliamente raccontate sui giornali francesi, così ricche di dettagli da supporre che fosse lui stesso a spiegare i fatti.
Arsène Lupin, il gentiluomo che operava soltanto nelle ville e nelle gallerie più famose, e che, una notte in cui era entrato dal signor Schormann, ne era uscito a mani vuote lasciando il suo biglietto da visita bianco, su cui aveva scritto la frase: "Arsène Lupin, ladro gentiluomo, tornerà quando i mobili saranno autentici".
Arsène Lupin, l'uomo dai mille travestimenti: di volta in volta autista, giardiniere, ragazzo di buona famiglia, broker, vecchio, medico russo, torero spagnolo!
Arsène Lupin, ladro oltre che per professione per diletto. Lavorava per gusto e per vocazione, certo, ma anche per divertimento. Proprio come lui.
Bernard d'Andrésy, era quella l'identità con cui era finito in manette una volta sceso dalla nave da crociera che dalla Francia l'aveva portato sulle coste americane. E ora era libero di tornare ai propri giochi, ai tesori che collezionava come le figurine di un album, pubblicizzandosi sui giornali eppure rimanendo un totale mistero.
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede".

Sherlock socchiuse gli occhi e fece segno alla guardia pesantemente armata di aprirgli la porta della cella. Era l'unica del blocco, immersa nel cemento delle fondamenta e la porta di solidissimo ferro era blindata.
«Mon Dieu!».
Arsène Lupin lo guardava affascinato, entusiasta come un bambino, seduto a gambe incrociate sul letto a due piazze e dalle lenzuola di seta.
Indossava la stessa divisa degli altri carcerati della Santé, ma sopra portava una vestaglia di velluto rosso. I capelli biondi erano puliti e tirati indietro, come se avesse appena fatto lo shampoo, e il suo viso perfettamente sbarbato.
«Ti trattano bene, vedo», esordì Sherlock, ammirando l'arredamento sfarzoso di quella cella ampia ed illuminata da un lampadario di cristallo. Ai quattro angoli del soffitto, le telecamere li stavano osservando attentamente.
Arsène si alzò e si avvicinò con cautela, esaminandolo. Sherlock rimase fermo mentre il ladro gli volteggiava intorno in punta di piedi, trattenendo a stento un risolino.
«Pensano che in questo modo non mi venga in mente di evadere», sussurrò con una mano vicino alla bocca. «Non hanno ancora capito che sono di passaggio».
Sherlock non riuscì a trattenere una risata e Arsène si fermò di fronte a lui, guardandolo con quei suoi occhi brillanti ed ammaliati.
«Mi hai fatto proprio una bella sorpresa. Il caro Sherlock, qui!».
«In persona».
«Non è che sei venuto per rimproverarmi, vero?».
Il detective corrugò la fronte. «Rimproverarti?».
«Sì, l'altro giorno ho detto al caro Ganimard che è il nostro miglior detective. Che vale quasi come Sherlock Holmes. Ed eccoti qui! Te la sei presa?».
Il detective strinse le labbra e alla fine rispose: «Non sono qui per questo».
«Lo sapevo, non dovevo dire quelle cose». Mortificato, Arsène si guardò intorno per cercare qualcosa con cui farsi perdonare. «Sono desolato, posso offrirti solo questo sgabello». Guardando verso la porta, gridò indignato: «Neanche una bibita fresca! Un bicchiere di birra!».
Sherlock osservò Arsène sistemare lo sgabello dietro di lui e spolverarlo con cura, poi al cenno del ladro si sedette, posando un piede sull'appoggio in modo da avere un ginocchio sollevato.
«Mon Dieu, come sono felice di posare i miei occhi sul viso di un uomo onesto!», esclamò Arsène, sedendosi sul bordo del letto. «Ne ho abbastanza di tutte queste facce di spie e di aguzzini che passano dieci volte al giorno a controllare le mie tasche e la mia modesta cella per assicurarsi che non stia preparando un'evasione. Caspita, questo governo ci tiene proprio a me!».
«E ha ragione. Tu sei unico nel tuo genere, Arsène».
Il ladro parve arrossire e chinò il capo, stringendosi nelle spalle. «Non dire così. Sarei tanto felice se mi lasciassero vivere nel mio angolino!».
«Con i gioielli, i quadri e gli artefatti degli altri».
«Almeno non sperpererei le tasse dei miei concittadini», rispose indicando tutto ciò che c'era intorno a sé. «Ma veniamo a noi, caro Sherlock. A cosa devo l'onore di una tua visita?».
«Il caso Cahorn», dichiarò Sherlock senza giri di parole.
Arsène alzò una mano e chiuse gli occhi, portandosi le dita dell'altra sulla tempia. «Aspetta, fammi entrare nel mio Palazzo Mentale e tirare fuori il dossier di questo Cahorn».
Sherlock digrignò i denti, infastito dall'imitazione. Gli occhi luminosi di Arsène lo costrinsero a tornare impassibile.
«Ah, ci sono! Scusami, è che ho così tanti affari in ballo... Allora, residenza Malaquis. Due Rubens, un Watteau e alcuni piccoli oggetti».
«Piccoli?».
«Nulla di così importante, ho visto di meglio. Dimmi, perché ti interessa tanto? Ganimard non riesce a raccapezzarsene?».
Il suo ghigno divertito tornò a stuzzicare i suoi nervi. Quando voleva, Arsène era un vero sbruffone.
Il ladro scosse il capo, amareggiato. «Lo sapevo che paragonarlo a te gli avrebbe dato alla testa».
«Ganimard ha chiesto il mio aiuto e sono venuto».
«Ma questo caso non è nemmeno un cinque!».
Sherlock deviò il suo sguardo, domandandosi come diavolo facesse a sapere del metodo che usava per classificare i casi e decidere così se valesse la pena di uscire di casa.
«So che l'hai già risolto. Non ne dubito. Quindi... Perché sei qui?», chiese a bassa voce, prendendosi il mento tra le dita. Il sorriso che gli incurvò le labbra all'improvviso lo fece agitare sullo sgabello.
«Volevi vedermi», dedusse. «Volevi vedere coi tuoi occhi il grande Arsène Lupin in una cella d'isolamento».
«Hai ragione», ammise Sherlock. «Non riuscivo a credere che ti fossi lasciato arrestare. In modo così docile, poi! Perché, Arsène? Non capisco».
Il ladro si alzò e si avvicinò di nuovo, si fermò davanti al celebre detective e poi, per qualche assurdo motivo, si inginocchiò ed infilò le mani nelle sue. Sherlock ebbe un fremito, scorgendo il proprio riflesso negli occhi verdi dell'avversario e sentendo la delicatezza di quelle mani, così diverse dalle sue, piene di cicatrici da elementi chimici. Ci volevano mani curate per trattare gli oggetti preziosi che adorava rubare.
«Una donna mi guardava, Sherlock, e l'amavo», sussurrò con dolcezza. «Lei mi guardava, il suo amore per me si sgretolava di fronte alla verità e tutto il resto non aveva più importanza, ti giuro. È per questo che sono qui».
«Continuo a non capire».
«No, certo che no. L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
Sherlock ritrasse finalmente le mani e si alzò per dargli le spalle, un'espressione di scherno sul volto. «Guarda dove ti ha portato, l'amore».
«Non è l'amore che mi ha portato qui. Sono stato io».
Sherlock girò impercettibilmente la testa, porgendogli l'orecchio.
«L'ho persa per sempre e volevo dimenticarla. Tu hai il tuo lavoro per distrarti, lo so, ma con me non avrebbe funzionato. Ogni gemma, ogni dipinto, ogni cosa bella mi avrebbe ricordato lei. Così mi sono lasciato ammanettare, felice che Ganimard raccogliesse un po' della gloria che merita».
«Mi stai prendendo in giro», ringhiò Sherlock, mantenendo a stento la calma.
«Sherlock».
Il suo tono di voce fiero e determinato lo fece voltare.
«Fede».
«Non è il mio campo».
Arsène sorrise, di nuovo con quella sfumatura dolce. Si appoggiò allo sgabello per alzarsi e si avvicinò per porgergli la mano. Sherlock ebbe qualche remora, ma alla fine la strinse.
«Abbi fede in me».
«Non sei un dio, Arsène».
«No, ma uscirò da questa cella, presto o tardi. Non appena il mio cuore sarà guarito».
«Uscirai solo quando sarai scortato in tribunale, dopodiché non vedrai più la luce del sole».
Il sorriso di Arsène si ampliò, mostrando un qualcosa di maligno. «Non assisterò al mio processo, mon ami».
«Staremo a vedere», concluse ferale, lasciandogli la mano per picchiare il pugno contro la porta di ferro.
Lo spioncino scorrevole si aprì e la guardia annuì prima di iniziare ad aprire le varie serrature.

«Ah, Sherlock!», gridò Arsène, quando la porta era ormai aperta.
Il suo scatto improvviso aveva fatto sollevare i fucili automatici delle guardie, le quali iniziarono ad urlare ammonimenti in francese.
Il ladro alzò rapidamente le mani, fingendosi spaventato. «Scusate, io... volevo solo restituire al monsieur Holmes il suo cellulare».
Sherlock si tastò le tasche del cappotto, senza trovarlo. Maledetto Lupin.
Quando i loro sguardi si incrociarono, il volto di Arsène brillò di gioia. Il consulente investigativo tornò indietro e stese una mano verso di lui. Con movimenti calcolati, il ladro infilò una mano nella tasca della vestaglia e gli porse il cellulare. Le loro dita si sfiorarono e Arsène, chinandosi in avanti, sussurrò: «Fede».
Sherlock strinse i denti e una volta preso il cellulare gli diede le spalle per non voltarsi più indietro, nemmeno quando la porta blindata si chiuse con un tonfo che echeggiò per tutto il sotterraneo.

Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancioni e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del ladro gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami». 


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Eccoci qui al capitolo due! :D 
Sono molto emozionata per questa storia e per il meraviglioso personaggio di Arsène Lupin, da me rivisitato perché potesse confrontarsi con lo Sherlock del ventunesimo secolo. Spero solo di averne mantenuto l'anima originale, perché è strepitoso. (Per chi non avesse mai letto le sue avventure, scritte da Maurice Leblanc, avete aspettato fin troppo!). A questo proposito ci tengo a precisare che ho preso molta ispirazione dai casi descritti da Leblanc, perciò, anche se io li ho riadattati in chiave moderna, tutti i crediti vanno a lui!
Detto ciò, adesso iniziamo ad entrare nel vivo della storia... Quale sarà il motivo per cui Arsène Lupin è a Londra? E quale rapporto lo lega a Sherlock Holmes? Spero di avervi incuriosito abbastanza. Fatemi sapere le vostre idee e se vi è piaciuto, ovviamente ;)
Grazie a chi ha messo questa storia tra le preferite, seguite e ricordate e a tutte le persone che hanno letto!
A presto!

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Capitolo 3
*** Gentleman Cambrioleur ***


3. Gentleman Cambrioleur


Finalmente quella giornata di lavoro era terminata.
Il tempo sembrava scorrere all'indietro e John non aveva fatto altro che scervellarsi, tra un paziente e l'altro, sullo strano comportamento di Sherlock. Cosa lo legava ad Arsène Lupin e perché non ne aveva mai sentito parlare?
Alla fine aveva preso una decisione, nonostante il suo rapporto con Mycroft fosse diventato ancora più imbarazzante da quando aveva cercato di salvarlo in una delle prove di Eurus. Dall'Holmes più freddo e meschino non se lo sarebbe mai aspettato e sapeva che avrebbe dovuto ringraziarlo, un giorno o l'altro.
Fu scortato nella sua saletta privata in quell'assurdo posto che era il Diogenes Club e una volta chiusa la porta alle sue spalle sospirò, cercando di raccimolare il coraggio.
«Buonasera, John», lo salutò Mycroft, senza distogliere lo sguardo dal giornale che stava leggendo. «Si accomodi».
Il dottore si sedette sulla poltrona che dava le spalle alla porta e si portò le mani sulle ginocchia, a disagio.
«Qual è il problema?».
«Non lo sa?».
Mycroft abbassò rapidamente il giornale e lo piegò con cura per metterlo sul vassoio accanto ad una bottiglia di whisky pregiato.
«Arsène Lupin è a Londra».
Il maggiore degli Holmes chiuse gli occhi e si versò un goccio, si portò il bicchiere di cristallo alle labbra e buttò giù il liquido ambrato tutto in una volta.
«Come lo sa?», gli chiese poi, schiarendosi la gola.
«L'ispettore Ganimard è passato questa mattina, chiedendo l'aiuto di Sherlock. Lei sapeva che era riuscito ad uscire di prigione?».
«Sì, lo sapevo. E sapevo anche che questo giorno sarebbe arrivato, speravo solo... non così presto», sospirò, versandosi un altro bicchiere.
«Non capisco. Chi è questo Lupin? È davvero una minaccia così grande?».
Mycroft inchiodò gli occhi nei suoi. «Lei l'ha incontrato, non è così?».
John non poté far altro che annuire.
«Cosa ne pensa?».
«Ho avuto... sensazioni discordanti».
«Esatto. Arsène Lupin è così. Lo odi e lo ami, non puoi decidere. Lui è il grigio in un mondo in bianco e nero».
«Ha le stesse abilità di Sherlock...».
«E ha i sentimenti», aggiunse Mycroft, schioccando la lingua al palato. «Oh, una valanga! Per questo è così irresistibile».
John si accigliò, cercando di carpire ogni possibile sottinteso. «Sta dicendo che Sherlock...?».
«Oh, no», scosse il capo con decisione. «Arsène, forse. Ma Sherlock no, lo conosce! Per lui, Arsène è solo un mistero che non è mai riuscito a risolvere. Non riesce proprio a capire come faccia a conciliare cervello e cuore, dato che secondo lui l'uno ostruisce l'altro».
John, affascinato da quell'analisi, pendeva dalle sue labbra.
«Mi chiedo proprio che cosa succederà», mormorò Mycroft, lo sguardo perso. Parve addirittura sforzarsi ad un certo punto, ma alla fine si arrese al terzo bicchiere di whisky. «È una battaglia persa, contro Arsène. Almeno, per quanto mi riguarda». Si indicò il petto, a sottolineare ancora una volta la mancanza del cuore.
John sapeva che non era così, ma rimase in silenzio. Piuttosto, disse: «Mi ha detto che gli sono giunte voci riguardo ai cambiamenti di Sherlock e che voleva verificare di persona».
Lo sguardo di Mycroft tornò a farsi attento.
«Secondo lei intendeva i suoi miglioramenti riguardo alle emozioni?».
«Ora che mi ci fa pensare, c'è stato un periodo, prima del suo arresto, in cui Arsène ha provato in ogni modo a dimostrargli che le emozioni avrebbero favorito le sue capacità. Gli diceva anche che quando l'avrebbe compreso, solo allora, sarebbero stati avversari alla pari».
«E lei pensa che sia vero?».
Mycroft lo guardò, per la prima volta senza la conoscenza dalla sua parte.
Riprese il giornale e si nascose dietro le pagine, congedandolo: «Buona serata, dottore».

***

Al 221B si scusò con la signora Hudson per il ritardo, ma trovò Rosie addormentata e lo reputò un momento perfetto per salire da Sherlock a riprendere il discorso abbandonato così in malomodo quella mattina.
Trovò la porta socchiusa, così bussò e poi fece capolino all'interno, trovando il detective seduto per terra, tra diversi computer portatili e pile e pile di carte.
«Che cosa stai facendo?», gli chiese facendo attenzione a dove metteva i piedi.
Sul muro sopra il divano, una grande mappa d'Europa era costellata da puntine colorate, specialmente in Francia, della quale non si vedevano quasi più i confini.
Sherlock lo guardò con la coda dell'occhio, poi respirò a pieni polmoni e disse: «Sei stato al Diogenes».
«Sì», affermò, senza chiedergli come facesse a saperlo - Sherlock non aveva più bisogno di certi stimoli.
«Hai portato l'odore di vecchiume fino a qui».
John abbozzò un sorriso e tolse una pila di libri dalla propria poltrona per sprofondarci dentro.
«Hai intenzione di chiedermi scusa per questa mattina?», gli domandò ad un tratto.
«Scusa? Scusa per cosa?».
«Non pensi di aver esagerato un po'?».
Sherlock si girò verso di lui, il volto serio e gli occhi ardenti di determinazione. «Tu non sai con chi abbiamo a che fare, John».
«Allora spiegamelo», rispose tranquillo, sollevando le spalle.
«Non ho tempo adesso».
Il dottore sospirò, tornando a fissare la sua schiena sottile e su cui, curva sui pc, si intravedevano le puntute vertebre dorsali.
«Mycroft mi ha raccontato della sua... "missione"».
«Mycroft è bravissimo a spiattellare informazioni. Mi chiedo per quale motivo l'abbiano messo a capo della sicurezza della nazione».
«Sherlock... Credo che Arsène sia qui per te. Mi ha detto che ha sentito delle voci sui tuoi cambiamenti e che voleva verificare di persona».
Il detective rizzò la schiena e in un attimo John se lo ritrovò appollaiato davanti, le braccia incrociate sulle ginocchia e gli occhi fissi su di lui.
«Finalmente dici qualcosa di interessante. Ricordi quando ti dissi che nel tuo blog mettevi troppe opinioni personali, troppe descrizioni piene di dettagli inutili?».
«Sì, certo», bofonchiò, provando ancora una fitta all'altezza dello stomaco.
«Bene, ora mi torneranno utili, perciò non omettere nulla. Voglio sapere anche del suo aspetto fisico».
John strabuzzò gli occhi. «Il suo... cosa?».
«Hai capito benissimo».
«Perchè? Pensavo lo conoscessi bene, questo Lupin».
«Oh sì, ci siamo incontrati molte volte, ma Arsène Lupin, tra le altre cose, è un abile trasformista».
«Nel senso che…?».
«Gli piace cambiare», tagliò corto. «Ora procedi».
John lo accontentò, descrivendogli per filo e per segno il loro strano incontro.
Il detective ascoltò il racconto dell'amico senza mai interromperlo, persino quando i dettagli inutili diventavano addirittura dolorosi per le sue orecchie.
Riuscì a capire che nel presentarsi a John non si era travestito come al solito, e che era stato ben attento a non farsi scappare indizi su quali fossero i motivi per cui si trovava a Londra. Si rifiutava di pensare che fosse lì per lui, per gongolarsi dei suoi "miglioramenti" e dirgli: «Te l'avevo detto!».
Quando finì, Sherlock si alzò e prese il violino per iniziare a suonare una canzone dal ritmo allegro e poi improvvisamente malinconico.
«Ci incontreremo presto, eh?», domandò al proprio riflesso nella finestra. «E va bene, Arsène. Il gioco è cominciato».
Lasciò il violino e tornò per terra, tra i pc e le carte.
«Sherlock, ora tocca a te parlare».
Annoiato, il consulente investigativo chiese: «Che cosa vuoi sapere?».
«Chi è, per cominciare».
«Nessuno lo sa. Arsène Lupin è un uomo di cui nessuno conosce la vera identità, la vera storia. Ne ha diverse, tutte fittizie».
«Una di queste è Bernard d'Andrésy?».
«Sì, bruciata quando è stato arrestato».
«E allora perché tu e Ganimard lo chiamate Arsène Lupin?».
«Se l'è scelto lui, è il suo nome d'arte. Ogni volta che fa un colpo lascia un biglietto come questo», rispose sollevando il bigliettino da visita ormai consunto. «È la sua firma. Il giorno dopo, su L'Ècho de France, compare in prima pagina il resoconto della sua ultima prodezza».
John annuì, per nulla colpito. «Se ne vanta».
«Gli piace avere un pubblico. Comunque sia, l'unico modo per fermarlo è coglierlo con le mani nel sacco. Nemmeno io, sulle sue scene del crimine, sono mai riuscito a trovare un indizio».
«Non ci credo!».
Sherlock lo fulminò con gli occhi, tornando a digitare sulla tastiera che aveva di fronte. «Lui non pensa solo al furto che commette, ma a tutte le circostanze che potrebbero denunciarlo. Farebbe tutto ciò che farei io e per questo i suoi piani sono perfetti. Inoltre, riesce anche a manipolare le persone...».
«Ti riferisci a Ganimard?».
«Non solo lui!», sbottò in preda alla frustrazione. Si alzò e lo guardò dritto negli occhi, con una luce folle nei propri. «Miss Nelly Underdown».
«Mai sentita».
«Era ferito ad un braccio e a corto di risorse dopo un colpo andato incredibilmente storto per via una serie di fatti che non poteva prevedere, così è salito sulla Providence, la nave da crociera da cui è sceso in manette. È lì che l'ha conosciuta e se n'è innamorato». Il suo naso arricciato, come se avesse appena sentito l'odore di uno dei pannolini sporchi di Rosie, fece sorridere John. «Anche lei ricambiava i suoi sentimenti e cercò in lui protezione».
«Protezione?».
«La nave era già a cinquecento miglia dalle coste francesi quando Ganimard capì che Arsène doveva essere salito a bordo, camuffandosi come uno dei facoltosi passeggeri. Inviò un messaggio al capitano, intimandogli di mantenere il più stretto riserbo, ma la notizia trapelò: Arsène Lupin era su quella nave da crociera e, come puoi immaginare, ci fu il panico. Tutti sospettavano di tutti e a piccoli gruppi si iniziò persino a investigare».
John pendeva letteralmente dalle sue labbra. Con gli Holmes gli capitava spesso, più di quanto avrebbe voluto.
«E poi? Che cos'è successo?».

«Arsène rubò i gioielli di lady Jerland, più per vedere le reazioni dei compagni di viaggio che per altro. Ovviamente fu un disastro. Gli improvvisati investigatori si convinsero della colpevolezza di un certo Rozaine e se ne tennero lontani come se avesse la peste. Questi, proclamando la sua innocenza, mise in palio una discreta somma di denaro per la cattura del vero Lupin. La stessa notte venne ritrovato sul ponte, legato ed imbavagliato e con un bigliettino da visita di Arsène addosso, che diceva: "Arsène Lupin accetta con riconoscenza la ricompensa per la cattura di Arsène Lupin"».
«Incredibile», sussurrò John.
Sherlock gli rivolse un'occhiata profondamente offesa e... ingelosita?
«Stai sorridendo, lo sai?».
John se ne rese conto e si portò le mani sulle labbra, capendo finalmente ciò che aveva voluto intendere Mycroft: «Arsène Lupin è così. Lo odi e lo ami, non puoi decidere».
La sua ironia, il suo genio inventivo, il divertimento con cui compiva i suoi misfatti e il mistero della sua vita... era questo che piaceva tanto ai francesi e che stava lentamente conquistando anche John Watson.
Ecco cosa avrebbe potuto fare Sherlock se non avesse deciso di stare dall'altra parte, quella dei buoni. Questa definizione però avrebbe definito Arsène "cattivo" e al dottore, nonostante tutto, non sembrava giusto.
«Lui è il grigio in un mondo in bianco e nero».
«Ad ogni modo, Rozaine venne tolto dalla lista dei sospettati e il capitano della Providence aumentò i controlli sulla nave. Arsène, per fargli capire quanto fosse inutile tutto ciò, gli rubò l'orologio. A quel punto vennero ispezionate tutte le cabine, mentre d'Andresy, professione fotografo, ritraeva la sua amata in ogni posa. Non trovarono nulla e il mistero sull'identità di Arsène rimase tale fino a quando non raggiunsero le coste americane. Ganimard era là, ad aspettarlo. Il resto è fastidiosamente chiaro», concluse Sherlock, gettandosi sul divano a peso morto.
«No che non lo è!», obiettò John, ansioso di conoscere la fine di quella storia appassionante. «Dov'erano i gioielli, i soldi e l'orologio? E che n'è stato di miss Underdown?».
Sherlock gemette con le mani tra i capelli, come in preda ai più atroci dolori. «Pensa John, pensa. Ti ho già detto tutto ciò che ti serve per risolverlo».
Il dottore si imbronciò e si concentrò al massimo per unire i puntini. All'improvviso, un'idea pizzicò i suoi neuroni. «Hai detto che non trovarono nulla nelle cabine, perciò Arsène doveva avere un altro nascondiglio».
«Oppure?».
«Oppure... si portava dietro il bottino. Ma è impossibile, qualcuno se ne sarebbe accorto!».
Sherlock sospirò. «Ci siamo già passati, John. Al tuo matrimonio, ricordi?».
«Il mio...?». John si incupì, colpito dal ricordo bruciante di quella giornata indimenticabile. Poi capì ciò che voleva dire Sherlock e riuscì ad uscire dalla voragine che aveva rischiato di inghiottirlo nuovamente. «Il fotografo».
L'amico sollevò un angolo della bocca. «Bernard non si sarebbe mai perdonato se avesse perso l'opportunità di scattare la foto perfetta alla sua adorata Nelly. Era questo che le diceva, quando lei domandava perché si portasse sempre dietro tutta la sua attrezzatura. E al momento fatidico, mentre Ganimard passava in rassegna ogni passeggero, lei risolse il mistero. L'uomo che amava, l'uomo tra le cui braccia si era rifugiata per paura di Arsène, era Arsène stesso».
John immaginava come si fosse sentita miss Underdown; anzi, lo sapeva perfettamente, dato che lui aveva provato lo stesso dolore, la stessa delusione, quando aveva scoperto il passato di Mary.
«A quel punto Arsène aveva almeno dieci modi per scendere da quella nave e scomparire, ma invece fece qualcosa di incomprensibile: consegnò alla Underdown la borsa con la fotocamera ed affrontò Ganimard, al quale bastò scoprirgli il braccio ferito per accertare la sua identità ed arrestarlo».
Sherlock si sollevò di scatto, i piedi sul bordo del tavolino, e guardò John negli occhi. «E ora ciò che capisco ancora meno: Nelly Underdown. Aveva la prova della sua colpevolezza tra le mani - i gioielli di lady Jerland, il denaro del signor Rozaine, l'orologio del capitano - e invece di consegnarla a Ganimard sfruttò il baccano intorno all'arresto di Arsène Lupin per gettarla in mare. (La storia mi è stata raccontata, ma ne sono certo). Con quella prova, il processo di Arsène sarebbe stato chiuso in men che non si dica e forse, a quest'ora, sarebbe ancora alla Santé. Perché l'ha fatto, John? Perché difendere un criminale?».
John sorrise teneramente e si alzò, sistemandosi il maglione sui fianchi. «Perché lo amava».
«Come si può amare un ladro col delirio di onnipotenza?».
«Come si può amare un sociopatico iperattivo che si è finto morto per due anni e ha sparato in testa ad un uomo senza alcun rimorso? Come si può amare una donna che è stata una mercenaria per soldi?».
Sherlock rimase in silenzio, scrutandolo con quel suo sguardo inquisitorio e allo stesso tempo confuso.
«Dimmi una cosa», ruppe il silenzio John. «Sii sincero, se puoi. Ti sei arrabbiato quando si è fatto arrestare, vero?».
Il volto di Sherlock si indurì mentre si alzava in piedi a sua volta e superava il tavolo salendoci sopra. Davanti a lui, assottigliò ancora un po' gli occhi di ghiaccio.
«Non girarci intorno, John. So che cos'è che mi vuoi chiedere veramente».
«E va bene», sorrise alzando le mani. Si schiarì la gola e allungando un poco il collo verso di lui sussurrò: «Sei contento che sia uscito di prigione?».
Il sorriso che mostrò fu quello eccitato e un po' perverso, quello della caccia. «Certo, abbiamo un conto in sospeso!».
Poi con una giravolta tornò a fissare i computer. «Avrò bisogno del tuo aiuto, John».
«Che cosa devo fare?».
«Giornali, internet... Devi controllare se recentemente a Londra sono arrivate persone o cose che potrebbero interessare ad Arsène».
«Credi che sia qui per rubare, quindi?».
«Certo che è qui per rubare! È il suo lavoro!».
«Okay, ehm... qualche elemento per restringere il campo?».
Sherlock si acquattò sul pavimento e uno dopo l'altro chiuse i pc. Con l'ultimo esitò, sfiorando lo schermo in corrispondenza del titolo di un articolo scritto in francese: "Arsène Lupin, Gentleman Cambrioleur".
«Ha una specie di morale, nel suo campo», si riscosse il detective, dando le spalle all'articolo. «Colpisce esclusivamente le persone che secondo lui possiedono troppo, specie se ciò che hanno è stato ottenuto ingiustamente. Concentrati su questo e sugli eventi mondani, gli piacciono un sacco».
«Va bene. Tu che cosa farai?».
«Io? Controllerò tutti i suoi alias conosciuti per scoprire dove alloggia».
John non disse ciò che pensava, ovvero che ci avrebbe impiegato dei secoli: sapeva che con Sherlock nulla era impossibile.
«Buona fortuna», gli augurò avviandosi verso la porta.
«John?».
Quel tono di voce, quell'incertezza che gli faceva tremare il cuore... Il dottore si voltò lentamente, trovando Sherlock con lo sguardo fisso su una pila di vecchi giornali francesi. Dove li aveva recuperati?
«Ti andrebbe di... di rimanere qui a cena?», gli chiese.
John si accigliò. «Tu non mangi mai quando lavori».
«Già... il mio dottore mi rimprovera spesso per questo. Forse dovrei ascoltarlo di più», rispose piano, con un vago sorriso sulle labbra.
Ovviamente quelle parole lo convinsero a restare.
Ordinarono del cibo cinese d'asporto e Sherlock piluccò persino qualcosa mentre i suoi occhi scandagliavano a tratti lo schermo del computer sulla scrivania e a tratti Rosie, seduta sul seggiolone che John e la signora Hudson avevano trovato un pomeriggio nella cucina di quest'ultima, già montato e pronto all'uso.
Sherlock insisteva nell'affermare che Arsène fosse a Londra perché aveva in mente un colpo dei suoi, ma John intuì che sotto sotto stava iniziando a prendere in considerazione che forse non c'era niente che lo interessava di più della trasformazione del detective: una mente fredda e calcolatrice che col tempo si era lasciata smussare e riscaldare dall'affetto e dalle cure delle persone che gli stavano accanto.
Il dottore sapeva che non ne avrebbe mai parlato con lui, o almeno non così presto, perciò tornò a concentrarsi sul proprio compito. Le parole che però Sherlock aveva sfiorato poco prima, il titolo dell'articolo in francese, diventarono una distrazione troppo grande da ignorare.
Aprì una nuova scheda e una volta sul motore di ricerca le scrisse per trovarne la traduzione: "Ladro Gentiluomo".
Alzò gli occhi verso Sherlock per chiedergli spiegazioni, ma i modi di fare e la figura di Bernard d'Andrésy, alias Arsène Lupin, gli diedero tutte le risposte. E, riflettendoci, non c'erano parole migliori per descrivere quell'uomo misterioso che sembrava un personaggio uscito direttamente da qualche romanzo dei primi anni del Novecento.
«Stai sorridendo di nuovo», borbottò Sherlock.
John abbassò il capo, colto sul fatto. «Scusa».




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Buonasera! :) Spero di farvi cosa gradita con questo aggiornamento anticipato, anche se il vero motivo è che avrei rischiato di saltare per impegni lavorativi.
Finalmente Sherlock ha rivelato qualcosa al curiosissimo John, il quale è persino andato da Mycroft per ottenere delle informazioni! Se non è un migliore amico premuroso lui... ;)
E che ve ne pare di Arsène? Per chi ne sentisse la mancanza, nel prossimo capitolo tornerà in carne ed ossa e figaggine!
Aspetto i vostri commenti e ringrazio in anticipo chiunque abbia letto fino a qui! :D
A presto!

_Pulse_

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Capitolo 4
*** Breakfast without murder ***



4. Breakfast without murder


«Buongiorno John», lo salutò Sherlock, rivolgendogli persino un sorriso.
Una persona normale non lo avrebbe preoccupato, ma se il consulente investigativo sorrideva di prima mattina voleva dire solo una cosa: aveva finalmente trovato una pista.
In quei due giorni avevano parlato raramente, concentrati com'erano nell'intento di anticipare le mosse di Arsène.
Lui aveva esaminato minuziosamente tutti i giornali e le loro edizioni online dell'ultima settimana alla ricerca di gioielli, quadri e artefatti recentemente spostati a Londra, ma non aveva avuto fortuna. A non tutti piaceva spiattellare informazioni del genere, soprattutto se si temeva di essere derubati.
Sherlock, invece, aveva controllato tutti gli alias conosciuti del Ladro Gentiluomo per giungere alla sola conclusione che per il suo soggiorno londinese doveva averne creato uno nuovo di zecca. Molto premuroso da parte sua evitare di annoiarlo.
«Novità?», domandò il dottore.
Il pensiero di rivedere Arsène lo rendeva inquieto ed emozionato allo stesso tempo.

«Spero tu non abbia fatto colazione, perché quello sfacciato ci ha invitato da lui». Sherlock indicò la scrivania e John vi si precipitò per leggere il bigliettino su cui, con la stessa calligrafia svolazzante di Bernard d'Andrésy, c'era scritto: «Savoy Hotel, ore 8.30, ti aspetto. Tuo sempre».
John deglutì, chiedendosi se non avesse voluto invitare solo Sherlock: in fondo aveva parlato al singolare e quel saluto... Mycroft stesso aveva lasciato intendere che forse Arsène provava qualcosa per il detective, perciò...
«Sei sicuro di volermi portare con te?», gli chiese, passandosi una mano sul collo.
«Certo, perché non dovrei?».
La risposta di Sherlock arrivò da lontano, precisamente dall'ingresso della palazzina. Il dottore sospirò e lo raggiunse scendendo in fretta la scale.
«Forse... forse Arsène vuole vederti da solo», aggiunse.
Sherlock finì di sistemarsi la sciarpa blu al collo e nel silenzio, John sentì quasi le rotelle del suo cervello girare con precisione ed efficienza, fino a che non ebbero a che fare con un granello di sabbia che se impossibile da eliminare andava ignorato.
«La signora Hudson non c'è», affermò il consulente, corrugando la fronte subito dopo. «Dov'è Rosie?».
«A casa mia, con Molly. A proposito di lei...».
«Dobbiamo andare. Arsène odia i ritardatari», lo interruppe aprendo la porta  col cappello di Sherlock Holmes stretto nella mano sinistra.


***

Il viaggio in taxi, tutto sommato, era stato meno complicato del previsto.
Per evitare che John riprendesse il discorso "Molly" era bastato tirare su il colletto del cappotto e guardare costantemente fuori dal finestrino.
Per evitare a se stesso di pensare al discorso "Molly"... beh, pensare all'invito di Arsène era stata una distrazione solo parziale. Ma non era quello il momento, non poteva ancora occuparsene e l'anatomopatologa l'avrebbe capito, prima o poi.
Entrarono nell’elegantissima struttura cinque stelle lusso attraverso la porta girevole e una volta nella hall, dai pavimenti a scacchiera di lucido marmo bianco e nero, Sherlock si diresse a spasso spedito verso la reception, mentre John faticava a tenere la bocca non spalancata e il naso non rivolto verso gli alti soffitti, le colonne imponenti e i lampadari di cristallo.
L’uomo dietro il bancone, certamente il capo ricevimento, sorrise cortese e parlò ancor prima che Sherlock potesse annunciarsi o spiegare il motivo della sua visita.
«Lei dev’essere il signor Holmes, accompagnato dal dottor Watson. Il nostro ospite ci ha avvisati che sarebbe passato. Lasciate che Mathias vi mostri la strada».
Il receptionist più giovane fece rapidamente il giro del bancone e li guidò fino al Thames Foyer, una raffinata sala da tè illuminata naturalmente da una cupola di vetro sotto la quale si stagliava un gazebo in ferro battuto con un pianoforte a coda nero al suo interno e fiori, fiori freschi ovunque.
Sherlock provò a fargli sputare il nome del loro "ospite", tentò anche di corromperlo quando constatò che i suoi commenti sull'infelice destino che lo attendeva - il licenziamento, la fidanzata che lo lasciava e il ritorno nella stanzetta accanto a quella dei suoi genitori - non facevano presa, ma fu tutto inutile.
Il ragazzo si fermò accanto alla porta, indicando loro di entrare con un gesto del braccio. Quando Sherlock gli passò accanto però, gli afferrò il polso e gli sussurrò con rabbia: «Il nostro ospite mi ha pagato il triplo, signor Holmes».
Il detective gli rivolse un ringhio muto e Mathias lo lasciò, sobbalzando leggermente. Quindi entrarono nella sala e videro immediatamente Arsène Lupin - chiunque egli si spacciasse di essere in quel momento - seduto al pianoforte, intento a deliziare i pochi mattinieri con il suo tocco leggero e allo stesso tempo penetrante.
Poco importava che indossasse una vestaglia di velluto color porpora, il pigiama e le pantofole, e che non avesse i capelli biondi perfettamente pettinati all’indietro come quando l'aveva visto l'ultima volta, in prigione: la sua eleganza non aveva eguali. Un angelo sceso direttamente dal cielo, nella sua più naturale perfezione.
Se solo gli angeli fossero esistiti.
«Chopin, il mio preferito», esclamò senza aprire gli occhi, ma indubbiamente rivolto a loro. «Oh, Sherlock, quanto vorrei che avessi qui il tuo violino! Il nostro sarebbe stato un duetto straordinario, come sempre».
Il detective, imperturbabile, si sedette sul divano che dava le spalle al gazebo ed attese in silenzio che Arsène terminasse l'esibizione.
Era un vero piacere ascoltarlo suonare, ma nel frattempo analizzò anche ogni individuo presente in quella stanza, riuscendo fin troppo facilmente ad individuare i suoi due uomini migliori (la maggior parte del tempo guardie del corpo, durante i suoi colpi complici fidati): erano seduti ad un tavolo poco lontano e non si perdevano un attimo di ciò che succedeva intorno al loro capo.
Le ultime note sfumarono nell’aria e una coppia di anziani signori applaudì, facendo sorridere d’orgoglio Arsène, il quale salì in piedi sullo sgabello e si inchinò con grazia. Poi scavalcò agilmente la ringhiera e si lasciò cadere accanto a Sherlock, sdraiandosi addirittura col capo sulle sue ginocchia.
«Ne sono cambiate di cose dall’ultima volta in cui ci siamo visti, mmh?», mormorò quasi dolcemente, accarezzando il volto del detective con un dito, dallo zigomo al mento.
«Non molte», rispose senza incrociare il suo sguardo languido.
«Bugiardo. Te lo leggo negli occhi, Sherlock», sospirò e passò ad accarezzargli un ricciolo nero, arrotolandoselo tra le dita lunghe ed affusolate. All’improvviso sul suo volto comparve un sorriso malizioso e gli chiese a bruciapelo: «Sei ancora single?».
Sherlock strinse le labbra per non dargli la soddisfazione di vederlo sorridere e posò gli occhi su John, seduto sulla poltrona alla sua sinistra, paralizzato dallo shock.
«Penso possa bastare, Arsène».
L’uomo biondo si sollevò agilmente e fissò John con quegli occhi luminosi pieni di acume, vivacità e spensieratezza. Scoppiò in una risata melodiosa e contagiosa e si batté una mano sul ginocchio, esclamando a fatica: «Ci è cascato in pieno, dottore! Mon Dieu, avrei dovuto fare l’attore!».
Quando si riprese, si alzò e gli porse la mano, scusandosi: «Aveva scommesso con i miei amici, laggiù, che questa mattina sarebbe venuto anche lei, caro dottor Watson, per scoprire se ero stato effettivamente una vecchia fiamma di Sherlock. Ammetto di essermi lasciato un po’ trascinare - d'altronde non ho mai nascosto a Sherlock il mio affetto per lui - perciò le chiedo perdono».
John, realizzando finalmente di essere stato sin dall’inizio l’ignaro spettatore di una commedia, non poté impedire al suo volto accartocciato in una smorfia di disappunto di parlare per sé mentre stringeva la mano a quell’uomo enigmatico e con un senso dell’umorismo davvero tutto suo.
«Mi perdonerebbe più in fretta, se dividessi con lei la mia vincita?», continuò imperterrito Arsène, sedendosi di nuovo accanto a Sherlock per versarsi una tazza di cioccolata. Quindi sollevò di scatto il viso, esclamando con aria infinitamente seria: «Spero che non abbiate fatto colazione. Sul biglietto non c'era spazio».
«L'abbiamo capito», rispose l’ex medico militare, rispondendo all’occhiataccia del consulente investigativo. A meno che non fosse Sherlock stesso a non riconoscersi i giusti crediti delle proprie deduzioni, dividere non era il suo forte. Ma glielo doveva, dopo quel teatrino.
«Allora permettetemi di offrirvela».
Arsène attirò educatamente l’attenzione di un cameriere ed espresse le proprie richieste, dimostrando di conoscere fin troppo bene le abitudini di Sherlock; poi sorrise gentilmente e i suoi occhi tornarono a posarsi sul detective, in attesa. Stava aspettando la sua mossa, la prima delle molte domande che era certo volesse porgergli.
«Hai ancora paura delle altezze?», gli chiese alla fine e la delusione sul volto di Arsène fu così profonda che a John venne quasi voglia di rimproverare l’amico.
Il Ladro Gentiluomo si alzò in piedi sul divanetto e rivolgendosi alle poche persone presenti in sala gridò: «Vogliate scusarci? Avremmo bisogno di un po' di privacy».
Le due guardie del corpo di Lupin si alzarono e raggiunsero i due confusi signori anziani per invitarli ad alzarsi ed accompagnarli fuori dalla sala.
«Grazie, grazie infinite», esclamò e si profuse addirittura in un inchino.
Quindi anche una ragazzina dai capelli biondi e dallo sguardo circospetto e un uomo sulla quarantina, dai capelli sale e pepe, coi baffi e il portamento distinto, si alzarono e raggiunsero la porta.
Il Thames Foyer era completamente a loro disposizione, ora.
Il biondo ritornò seduto sul divanetto, o meglio vi si lasciò cadere quasi a peso morto.
«Mi fa piacere sapere che non sei cambiato di una virgola: sai ferire le persone in modo esemplare», rispose a Sherlock in tono offeso, cosa che rese il suo accento francese molto più marcato.
Il cameriere portò al loro tavolino le due colazioni che Arsène aveva ordinato per i suoi ospiti e John non se lo fece ripetere due volte prima di servirsi.
Si era appena portato la tazza di tè alle labbra, quando Arsène aggiunse adirato: «Dovevi proprio saltare da quel tetto, mon ami? Mi hai rubato due anni di vita!».
John sentì il liquido caldo andargli di traverso e tossì rumorosamente, il volto paonazzo, mentre Sherlock, in tutta tranquillità, sollevava un sopracciglio e rispondeva: «Io che rubo qualcosa a te? C'è una prima volta per tutto, allora».
Arsène sospirò arrendevole e mescolò svogliatamente la propria cioccolata, appoggiando la testa contro la spalla di Sherlock. Il detective strinse leggermente le dita sul ginocchio accavallato e cercò lo sguardo di John, sempre più confuso dalle mosse di quell'uomo.
«Non hai toccato ancora nulla...», sussurrò dispiaciuto, indicando il vassoio portato per Sherlock. «È per via dei due ravioli al vapore che hai mangiato ieri sera?».
«Come diavolo...?», iniziò a chiedere il dottor Watson, scioccato. «Lei ci ha spiati!».
«Oh sì, certo», rispose con calma Arsène. «Ma ha iniziato Sherlock, mobilitando la sua rete di senzatetto. Mi sono sentito molto onorato, voglio che tu lo sappia», aggiunse con una mano sul cuore.
Sherlock strinse i denti, irritato, e guardò con la coda dell'occhio Arsène sporgersi verso John con una mano stesa a sfiorare il suo ginocchio.
«Non vantarti, non farlo», lo minacciò, fissando stregato le dita curate di Arsène sui pantaloni del suo migliore amico. Non voleva che gli parlasse, figurarsi toccarlo! «Sarebbe come ammettere che sei davvero Arsène Lupin e dovrei farti arrestare».
«Vantarsi di cosa?», chiese John, il quale non sembrava per nulla infastidito dal tocco del Ladro Gentiluomo.
«Della rete dei senzatetto. È abitudine di Arsène assoldare i vagabondi per pedinare qualcuno, fornirgli alibi, addirittura costituirsi al posto suo. Io ho perfezionato il metodo, cerco di aiutarli e di certo non faccio fare loro nulla di illegale».
Arsène sventolò vuluttuosamente una mano e tornò a voltarsi verso John per fargli il verso. Riuscendo a strappargli un sorriso, si ritenne soddisfatto e allontanò la mano dal suo ginocchio.
Tornò a sdraiarsi sul divanetto, quella volta con i polpacci sulle gambe di Sherlock, e riprese: «Ad ogni modo nessuno ha scoperto qualcosa di nuovo e io mi stavo annoiando».
«Non ti è mai piaciuto aspettare».
«Sono in grado di farlo, ma che mi piaccia... no, questo no».
«Perciò ci hai invitati».
«Precisamente». Si portò la tazza alle labbra e guardandolo con espressione ridente sussurrò: «Spero di non essere stato troppo sfacciato».
Fu Sherlock quella volta a cercare il contatto fisico: posò una mano sulla sua tibia e risalì piano lungo la gamba, fino al ginocchio. Allora gli rivolse un lieve sorriso, senza parlare. Le pupille di Arsène si dilatarono e la tazza nella sua mano tremò leggermente, mentre il suo volto arrossiva.
Arsène passava dall'essere il più cinico ed egoista al più sentimentale ed indifeso degli uomini, senza però mai sentirsi in difetto. Era in pace con se stesso, con tutte le sfumature di sé, e Sherlock, per quanto volesse in segreto imitarlo, non sarebbe mai arrivato a capire come ci riuscisse.  
«Chi è lo sfacciato ora, chérie?», gli chiese in un sussurro.
«Io lo sono sempre. Potrei esserlo ancora di più, se ti ammanettassi».
«Potrebbe piacermi».
John lasciò la propria tazza, all'improvviso con lo stomaco chiuso. Non riusciva più a capire cosa fosse vero e cosa no, con Arsène. Provava davvero dei sentimenti per Sherlock? Il rossore che si era impadronito delle sue guance e l'emozione nella sua voce gli dicevano di sì, ma i suoi occhi, vigili e attenti, in cerca del pericolo, gli facevano pensare che forse avrebbe davvero dovuto fare l'attore.
La tensione tra quei due, però, era reale. Si attiravano e respingevano come calamite e John non osava nemmeno respirare, per paura di ritrovarcisi in mezzo.         
«Che cosa ti porta a Londra?», ruppe il silenzio Sherlock, spezzando l'incantesimo.
Arsène si allontanò bruscamente, cupo in viso. Afferrò un croissant e scrollò le spalle, spezzettandolo per immergerlo nella sua cioccolata calda.
«Sei sempre venuto tu a farmi visita, a Parigi, quindi ho pensato che fosse giunto il momento di ricambiare la cortesia».
«Peccato tu non sia stato invitato».
«Rovini sempre tutto», bofonchiò annegando l'intera brioche nella tazza di porcellana finemente decorata, disgustato.
I suoi occhi color verde smeraldo si posarono su John, sconsolati, e il dottore si trovò ancora una volta nell’imbarazzante posizione di voler stare dalla parte di Lupin. Per fortuna riuscì a rendersi conto dell'assurdità della cosa prima di aprire bocca e si convinse che doveva prestare un livello di attenzione ancora più alto, se non voleva rimanere fregato anche lui come la metà della popolazione francese, fiera sostenitrice degli interventi di Arsène Lupin a danno dei più ricchi.
«Che cosa ti porta a Londra?», ripeté la domanda Sherlock, dimostrandosi sempre più infastidito.
«Hai detto che non sono stato invitato, poco fa. Beh, ti sbagli. Qualcuno l'ha fatto», confessò senza piacere.
Sherlock si voltò verso l'avversario, scutandolo intensamente. «Chi?».
Arsène scosse il capo. «Je ne peux pas».
A quel punto il detective perse definitivamente la calma e si alzò, premendo forte le dita sulle tempie.
«Chi mai potrebbe invitarti qui? Per quale scopo?».

«Oh, questo posso dirtelo», rispose tutto contento Arsène, sollevando una mano. «Per aprirti gli occhi».
John serrò le labbra mentre Sherlock si voltava di scatto, il cappotto che gli turbinava intorno. Anche Arsène parve notare quel particolare, perché sorrise dolcemente, come se gli fosse appena tornato alla mente un tenero ricordo.
«Come ho detto al dottor Watson... qualcuno ha notato i tuoi recenti cambiamenti, Sherlock. Lo scopo della mia presenza è appurare la veridicità di queste voci e sì, perché no, provare a convincerti ancora una volta che i tuoi doni si sono duplicati da quando ti sei circondato di persone che ti amano».
«Non è vero», sentenziò. «I miei... doni, come li chiami tu, non sono minimamente influenzati dalle emozioni».
«Potrei farti un elenco e mostrartelo, mon ami, e ancora non ci crederesti».
Il detective rilassò improvvisamente le spalle, abbassò le mani e John afferrò i braccioli della poltrona, sapendo ormai riconoscere la gestualità del corpo dell'amico in certe circostanze. Quell'improvvisa calma preannunciava l'arrivo di uno tsunami.
«Perché non elenchiamo le volte in cui tu ti sei trovato nei guai per via delle emozioni?», gli chiese, rivolgendogli un ampio sorriso.
Arsène si rigirò un lembo della vestaglia tra le dita, gli occhi bassi. Sherlock doveva aver toccato un tasto dolente, per azzittire un uomo come Arsène Lupin.

«Montigny, Gruchet, Crasville... Potrei continuare per giorni!», riprese Sherlock, sempre più esaltato. «Ma il caso della Providence, con quello hai davvero toccato il fondo, amico mio».
«Non osare», lo minacciò Arsène, mostrando finalmente una reazione. «Non osare riportare a galla quella storia, Sherlock».
«Miss. Nelly. Underdown», scandì ogni parola con precisione e tono di sfida, sporgendosi verso di lui per fissarlo intensamente negli occhi. «A causa sua sei finito in prigione, sei rimasto in quella cella per sei mesi e se Ganimard non fosse stato tanto stupido da lasciarti andare ci saresti rimasto per tutta la vita! È questo che fanno l'emozioni, questo che fa l'amore?! Perché dovrei...?!».
«Due anni, Sherlock!», lo interruppe Arsène, gettando a terra i vassoi delle colazioni per salire sul tavolino. Quel meraviglioso set di porcellane, distrutto.
John trasalì a quelle parole, colto di sorpresa da un potente dejà-vù, e fissò il Ladro Gentiluomo, ora tremante di collera e con una vena pulsante sul collo.
«Hai trascorso due anni in solitudine, fingendoti morto, per proteggere John, madame Hudson e l'ispettore Lestrade! Come puoi dire di non aver agito per amore?!».
«Stavo smantellando l'organizzazione di Moriarty!», replicò il detective, salendo a sua volta sul tavolo.
John, seduto sulla poltrona, si sentiva una formica al cospetto di quei due uomini così carismatici e geniali, due antagonisti perfetti.
«E Mary Morstan? Uhm? Lei ti ha sparato, Sherlock. Ma l'amore per lei, o meglio l'amore per John, ti ha convinto ad aiutarla, a fare tutto ciò che potevi perché la coppia dell'anno non scoppiasse. Hai sparato in testa ad un uomo e questo ti avrebbe portato ad un altro esilio. Ma non ti importava di sacrificare te stesso, ti bastava che John e Mary e la piccola Rosie fossero al sicuro nel loro nido, felici. Non è amore, questo?».
Sherlock aprì bocca per rispondere anche a quell'accusa - non troppo lontana dalla verità - ma Arsène lo attirò improvvisamente a sé, stringendolo in un abbraccio.
«I sentimenti non penalizzano quelli come noi, Sherlock. Sono i nostri trampolini di lancio, sono droghe naturali che rendono tutto ancora più forte, più vivido e chiaro. Ci permettono di fare cose straordinarie, cose impossibili. Lo sai che è così...».
Sherlock si staccò bruscamente da lui e scese dal tavolo, gli occhi spauriti.
Che cosa stava dicendo? Assurdità, nient'altro. Ma forse... E se avesse avuto ragione?
I pensieri si accavallarono l'uno sull'altro, dolorosamente.
Ripensò al momento in cui Mary aveva premuto il grilletto, al proprio Palazzo Mentale e alle persone a cui si era aggrappato per rimanere in vita: Molly, Anderson, Mycroft, persino Moriarty. La donna di scienza che soffriva costantemente per amore, l'uomo consapevole dei propri limiti e tuttavia speranzoso, la conoscenza e la tristezza fatte a persona, la parte di sé contro cui avrebbe lottato fino alla fine dei suoi giorni.  
Senza di loro come avrebbe fatto a sopravvivere in quell'occasione? Senza di loro perché avrebbe dovuto vivere? Non aveva niente prima e non avrebbe mai avuto nulla, senza di loro.
John, la signora Hudson, Lestrade, Molly e tutte le altre persone che tenevano a lui e si erano accaparrate, con le unghie e con i denti, un angolo del suo cuore, erano le uniche in grado di custodirlo e di proteggerlo, dato che lui non ne era e forse non ne sarebbe mai stato in grado.
«Sherlock, stai bene?».
Il detective guardò John e poi alzò gli occhi su Arsène: non sorrideva, nonostante l'evidente vittoria, e si guardava le dita della mano destra, su cui erano comparse delle minuscole gocce di sangue.
Non avrebbe dovuto, ma si sentì terribilmente in colpa.
«Che cos'è successo?», domandò un John inebetito, sicuro di essersi perso qualcosa.
«Sherlock ha voluto pareggiare un piccolo conto in sospeso», mormorò Arsène, tirando fuori dalla tasca della vestaglia un fazzoletto di seta per pulirsi.
Nel silenzio, una risata echeggiò all'improvviso. Una risata gioiosa, felice, la risata di un bambino preso dalla ridarella e che non riesce a smettere.
«Oh, ma petite chérie», sospirò quando riuscì a calmarsi. «A volte è necessario sanguinare, per le cose importanti».
Il detective si portò la mano nella tasca interna del cappotto e con occhi sbarrati fissò il Ladro Gentiluomo, il quale stava esaminando accuratamente il cellulare di Sherlock, succhiandosi i polpastrelli feriti.
Ad un tratto qualcosa lo infastidì tanto, e tanto all'improvviso, che si disfò del cellulare lanciandolo. Al consulente investigativo bastò sollevare una mano per afferrarlo al volo, mentre Arsène sputava con eleganza all'interno del fazzoletto di seta per poi lasciarlo cadere a terra.
«Volevi drogarmi, mon ami. Non è carino».
Le porte della sala si spalancarono e i due uomini di Arsène si avvicinarono a Sherlock, il quale provò a difendersi con delle mosse di arti marziali, inutilmente. John si era alzato a sua volta per difendere l'amico, ma il Ladro Gentiluomo gli aveva posato una mano sul petto e quel tocco era bastato a farlo desistere.
«Non voglio fargli alcun male, dottore. Prendo solo ciò che è mio».
Il detective si dimenò tra gli energumeni che lo tenevano per le braccia e coi piedi leggermente sollevati da terra, ma questi non fecero una piega e Arséne, in tutta calma, raccolse una forchetta da dolce e lo raggiunse. Quindi, tenendo aperta la tasca destra del suo cappotto, vi infilò la forchetta come un chirurgo avrebbe infilato una pinza in una ferita aperta. Con un gesto più brusco infilzò qualcosa, per poi ritrarre la forchetta.
«Molto ingegnoso, Sherlock», esclamò il ladro gentiluomo, esaminando la piccola pianta grassa che aveva così brutalmente inforchettato. «Contavi sul fatto che io avrei ceduto ad una delle mie brutte abitudini e hai pensato bene di drogarmi e prendere un campione del mio sangue».
Tornò a guardarlo in volto, con quel suo sorriso affascinante. «La prossima volta gradirei delle rose. Senza spine, chiaramente».
Quindi fece un cenno con la mano e i due uomini lasciarono Sherlock, il quale si spolverò le maniche del cappotto con l'espressione più irritata e frustrata di cui era capace.
Il silenzio regnò sovrano per quelle che sembrarono ore. Nè Sherlock nè Arsène sembravano intenzionati a parlarsi o a guardarsi negli occhi, come due bambini tremendamente offesi dai dispetti reciproci.
«Forse faremmo meglio ad andare», disse ad un tratto John, non riuscendo più a resistere a quella tensione.
Il consulente investigativo sollevò una mano e guardò il ladro quasi con rammarico. «Un'ultima cosa».
Quella particolare sfumatura nel suo tono di voce attirò l'attenzione di Arsène, il quale voltò il capo di tre quarti.
«Parla».
«La mia proposta è ancora valida».
Arsène fremette e tornò a dargli le spalle, le braccia incrociate al petto.
«So di cosa sei capace, Arsène. Se solo utilizzassi le tue capacità per il bene...».
«Per quanto mi piacerebbe fare coppia con te, non funzionerebbe», rispose piano, risultando persino triste. «Amo sfuggire alla legge tanto quanto a te piace sentirti sopra di essa. Siamo due incorreggibili, tu ed io».
Sherlock lo osservò a lungo, poi annuì con un cenno del capo e si diresse a passo deciso verso l'uscita. John lo seguì mesto, non prima di aver gettato un'ultima occhiata al Ladro Gentiluomo, le cui spalle ora tremavano come se stesse piangendo.
Impossibile, si disse, ma rimase oppresso da quella vista per tutto il giorno; da quella, dalla proposta di Sherlock e dai soldi che aveva trovato nella tasca della sua giacca: la vincita della scommessa di Arsène.

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Ciao a tutti! :)
Eccoci finalmente al capitolo in cui Sherlock e Arsène si incontrano faccia a faccia dopo l'evasione di quest'ultimo! Sono troppo curiosa di sapere che cosa ne pensate! :D
Chi sarà la persona che ha "ingaggiato" il Ladro Gentiluomo per scoprire la veridicità dei rumors su Sherlock? E come reagirà il detective alle parole del rivale?
La scena si svolge al Savoy Hotel, un hotel esistente scelto da Arsène per il suo soggiorno londinese, perciò se volete farvi un'idea della location a cui mi sono ispirata vi lascio qui il link.
Ringrazio chi ha commentato lo scorso capitolo, chi ha letto soltanto e un grazie immenso a chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate!
A presto, un abbraccio (senza piante grasse xD)!!

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Capitolo 5
*** Violin ***


Ciao a tutti! :)
Annuncio importante: con questo capitolo ricco di nuove scoperte e feelings vi auguro buone vacanze, dato che al mare non avrò internet e non potrò aggiornare. Perciò ci rivedremo a fine agosto!
Spero di trovarvi ancora qui e chissà, di imbattermi in qualcuno di nuovo :)
Ringrazio moltissimo chi fin'ora ha seguito e commentato la storia e chi ha letto soltanto! A prestissimo!

Vostra,

_Pulse_


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5. Violin


Sherlock sbatté le palpebre e si ritrovò in salotto, seduto sulla poltrona di pelle nera e con le braci del camino quasi spente.
Un suono l'aveva riportato alla realtà: la suoneria di notifica degli sms.
Lo ignorò, come doveva aver fatto con John e tutto il resto del mondo da quando aveva lasciato Arsène Lupin al Savoy.
Il suo cellulare... Il ladro non aveva potuto resistere al loro piccolo rituale - il trucco che li aveva presentati, quello da cui lui stesso aveva preso spunto in più di un'occasione (recentemente con Culverton) e con cui puntualmente riusciva a fregarlo ogni volta. Quella mattina l'aveva fatto con un intento preciso però, ovvero quello di trovarci dentro qualcosa. Dalla sua reazione aveva capito che Arsène avrebbe voluto non farlo, sbagliarsi addirittura.
Cosa poteva esserci di tanto irritante per lui? Che non chiamasse regolarmente i suoi genitori? Oppure che non avesse scaricato l'ultima versione di Candy Crash? Con Arsène tutto era possibile.
Aveva anche detto che era stato invitato a Londra, da qualcuno che aveva notato i suoi cambiamenti e voleva avere conferma delle proprie teorie.
Chi poteva essere così interessato a quella sua vita più che privata, quasi celata ed incatenata nelle profondità della sua anima, visibile solo ai più vicini, ai più esperti dei suoi amici?
Sherlock aveva il terribile sospetto che i due elementi fossero collegati, che la risposta si trovasse nel suo cellulare. Doveva essere così, altrimenti non avrebbe avuto senso la sua repulsione.
Arrivò un altro messaggio e a quel punto Sherlock non poté fare a meno di raggiungere il cellulare, in bilico sul bracciolo della poltrona, e di portarselo davanti agli occhi.
Il primo sms era di Molly, la stessa Molly a cui non riusciva a smettere di pensare a meno di trovarsi con altri rompicapi tra le mani.
Era arrivato al punto di modificare il contatto nella sua rubrica, pur di non leggere il suo nome. Prima era stata MH - durato poco per via degli assurdi pensieri causati da quelle iniziali - e ora era diventata Hooper. Informale e distaccato.

Rimandare non faciliterà le cose.

Non era il primo messaggio del genere che riceveva da parte sua.
Aveva provato molte e molte volte a convincerlo a parlare con lei, a spiegarle che cos'era successo quel giorno, quel maledetto giorno in cui anche l'ultima barriera, quella che si era ripromesso inconsciamente di non buttare mai più giù, si era incrinata irreparabilmente, mostrando ciò che c'era dall'altra parte.
Anche per lei doveva essere stato così, anche lei aveva pronunciato quelle parole che, nonostante fossero vere, con forza e dignità si era giurata di non dirgli mai ad alta voce. Eppure lei voleva parlarne, ancora una volta voleva rialzarsi e ricominciare, rassicurarlo, perdonarlo e dimenticare. Era sempre così, con Molly Hooper.
C'era una testardaggine e una stupidità che non comprendeva, dei livelli di autolesionismo in cui nemmeno la sua parte drogata poteva immedesimarsi.
Sherlock aveva sempre ignorato l'argomento e quando si ritrovava costretto a starle vicino o a parlarle, si rivolgeva a lei con professionalità, senza mostrare la benché minima traccia di emozione. Stava cercando di renderle le cose più facili, di renderle più facili ad entrambi, ma stava miseramente fallendo.
Sapeva che fingere che non fosse accaduto nulla avrebbe portato a conseguenze disastrose - la sua mente l'aveva già fatto, dopotutto - ma non aveva calcolato che nel mentre avrebbe fatto così male. Ogni giorno trascorso lontano da lei, ora che aveva pronunciato quelle tre parole, era un rigagnolo di sangue che filtrava da quella crepa. Presto sarebbe annegato in se stesso, soffocato da un'emorragia interna incurabile dagli uomini di scienza.
Il secondo sms, per fortuna, era di Ganimard.

Sto per ordinare da bere. Vieni a fermarmi.

Sherlock non se lo fece ripetere due volte. Si alzò e prese il cappotto appeso dietro la porta, se lo infilò e solo allora, sollevandosi il colletto, ricordò il momento preciso in cui aveva deciso che non ne avrebbe mai più fatto a meno.
Abbozzò un sorriso e lasciandosi la propria oscurità alle spalle si gettò in quella del mondo.

***

«Non ha fame, signore?».
Arsène abbandonò la forchetta nel piatto, nonostante quei ravioli ai funghi avessero un profumo ed un aspetto più che invitante, e sospirò posando il mento su una mano.
«Sai che non devi chiamarmi "signore", o darmi del lei», esordì, consapevole che non l'avrebbe ascoltato. Poi confessò: «Stavo pensando a Sherlock. Siamo così simili... e così diversi. Ogni volta che mi trovo al suo cospetto mi sento felice ed oppresso allo stesso tempo».
«Se la fa stare male, non dovrebbe tenersene lontano?».
Il Ladro Gentiluomo osservò la ragazzina seduta davanti a lui, gli occhi di un verde chiaro e i capelli d'oro, il volto di porcellana e le labbra strette in una pallida cicatrice, rappresentativa di quella che aveva sul cuore.
Allungò il braccio sul tavolo e le accarezzò la mano, poi se la portò alle labbra per sfiorarne le nocche.
«I sentimenti, tesoro, non possono essere fermati. Non vi si può sfuggire in alcun modo. Non importa quanto lontano correrai, loro ti seguiranno e tu ti ritroverai con le spalle al muro. L'unico modo per sopravvivervi è accettarli ed affrontarne le conseguenze».
Arsène le diede un buffetto sulla mano, si appoggiò allo schienale della sedia e guardò il soffitto decorato da affreschi. Quindi ridacchiò e guardò la propria ospite, esclamando: «Sarebbe disdicevole passare subito al dolce?».
Si guardò intorno, temendo il giudizio degli altri commensali. Solo in quel momento si ricordò dell’ora tarda e del fatto che il direttore dell’hotel avesse fatto riaprire il ristorante solo per lui, buttando giù dal letto un cameriere e il loro miglior chef. «Nessuno? Bene, perché ho una voglia tremenda di profiterole».
A quelle parole il cameriere, in continua lotta contro gli sbadigli, raddrizzò la schiena e passò per formalità a ritirare l’ordinazione, quindi sparì dietro le porte della cucina.
Nell'attesa, Arsène osservò più attentamente la ragazzina e si accorse che si era stretta nelle spalle, tremanti in modo quasi impercettibile, e aveva chinato il capo, in modo che gli occhi venissero nascosti dalla frangetta.
Stava per chiederle se stesse bene, ma lei lo anticipò.
«È questo che sono per lei, signore?», gli chiese con la voce spezzata. «Una conseguenza indesiderata che si è ritrovato tra i piedi? Un impiccio?».
Arsène trasalì, realizzando di non essere stato molto specifico nella propria spiegazione. «No. No, tesoro, hai frainteso».
Si sporse nel tentativo di cercare un contatto più ravvicinato, ma la ragazzina si alzò di scatto dal tavolo ed evitandolo corse fuori dalla sala da pranzo deserta.
In realtà non era completamente deserta: seduto al tavolo vicino alla porta, la presenza mai inopportuna del suo uomo più fidato, l'amico e compagno di tante avventure, uno dei pochi privilegiati che Arsène considerava la propria famiglia, lo tranquillizzò.
Era a lui che aveva affidato la cura del suo tesoro più stupefacente, un tesoro che aveva solo recentemente scoperto di avere e con cui non aveva ancora ben imparato a relazionarsi.
Le teenager... una categoria del genere femminile assai complicata per Arsène Lupin, abituato a ben altre donne.
«Seguila, tienila d'occhio», lo implorò, portandosi poi le mani sul volto.
«Lei sta bene, padrone?».
Arsène annuì brevemente e gli rivolse un piccolo sorriso. «Me la caverò, grazie».
L'uomo dai capelli brizzolati, dal completo elegante e il portamento da maggiordomo - come l'avevano definito più volte su L'Ècho de France - lo salutò con un piccolo inchino della testa e lo lasciò solo nella grande sala.
Arsène si portò le dita sotto il mento e fissò la sedia vuota davanti a sé, chiedendosi perché finisse sempre in quel modo: lui a cena da solo.
Perché lui, disperatamente bisognoso di compagnia, non riusciva ad averne? Perché Sherlock, il cui desiderio un tempo era quello di stare solo coi propri pensieri, si era ritrovato circondato dall'amore di innumerevoli amici?
Sei un criminale, che cosa ti aspettavi?
La voce della propria coscienza somigliava terribilmente a quella del detective, così tornò a pensare a lui e a ciò che, purtroppo, aveva trovato nel suo cellulare.
La donna non gli aveva mentito.

***

Il bar dell'albergo in cui Justin Ganimard aveva affittato una camera era scarsamente illuminato - una scelta di stile per permettere ai clienti di sentirsi più a loro agio coi loro bicchieri oppure una trascuratezza a cui quegli stessi clienti non facevano caso.
Sherlock lo raggiunse al tavolino in fondo alla piccola sala e senza togliersi il cappotto si sedette. Guardò il bicchiere di gin tonic che Ganimard teneva nella mano destra e capì di essere arrivato in tempo. Glielo sfilò dalla mano e lo posò sul tavolino accanto, attirando così l'attenzione dell'ispettore francese.
«Sarebbe un peccato se tornaste ad avvelenarvi», mormorò.
«Avvelenarmi», ripeté Ganimard, con un sorriso beffardo. «Puoi fare di meglio, ragazzo».
Sherlock ricambiò il sorriso e guardò quell'uomo stanco e depresso, la cui malsana ossessione per Arsène Lupin gli aveva rovinato la vita. Capiva perché si fosse dato all'alcool e ammirava il fatto che fosse riuscito a smettere.
Non avrebbe però mai rinunciato alle sue sigarette. Ne aveva già fumate quattro, a contare i mozziconi nel posacenere, e con la quinta tra le labbra disse: «Hai scoperto qualcosa?».
Sherlock fu costretto a deviare i suoi occhi verdi ed arrossati, ammettendo la sconfitta. «No, siamo in stallo».
«Forse sbagliamo a preoccuparci tanto. Forse... forse è qui per fare una vacanza, lontano dalla stampa francese».
«Non dica sciocchezze», replicò annoiato. «Lo sa benissimo che adora stare sotto i riflettori. L'Ècho de France è praticamente di sua proprietà».
«Già...».
«Probabilmente uno di questi giorni avviserà lui stesso qualche giornalista perché segua e riporti in patria le sue imprese londinesi».
«Allora terrò sott'occhio Maurice Leblanc. Di solito è lui che scrive gli articoli che lo riguardano. Si dice siano diventati addirittura amici, che sia il suo confidente. Un po' come il dottor Watson per te».
Sherlock si portò le dita davanti alla bocca, in riflessione.
In mancanza d'altro, doveva sul serio iniziare a considerare l'ipotesi che Arsène fosse stato incaricato di sorvegliarlo, di accertarsi dei suoi cambiamenti in fatto di relazioni e di riportare le informazioni raccolte al proprio misterioso cliente.
Aveva anche detto che gli avrebbe fatto aprire gli occhi, ma in che modo?
«Magari c'entra una donna», ipotizzò ancora Ganimard, soffiando il fumo oltre la sua spalla sinistra. Un accorgimento gentile per non fargli venir voglia di fumare. E Dio se ne aveva voglia.
«Non mi ricordo un caso dove non c'entrasse una donna, dico uno», aggiunse con un risolino. «Magari sentiremo di nuovo parlare della Donna Bionda. Nessuno sa che fine abbia fatto, in fondo».
L'interesse del detective si riaccese di colpo, al ricordo della ragazzina che aveva visto nella sala da té del Savoy Hotel.
In quel momento non ci aveva fatto molto caso, interamente concentrato su Arsène, ma il suo cervello aveva notato e messo da parte il cenno d'intesa che si erano rivolti prima che questa uscisse, accompagnata da un'uomo che a quel punto doveva essere per forza un altro membro della banda di Arsène.
«C'era una ragazzina con lui», disse ad alta voce, posando i palmi sul tavolino e sporgendosi verso Ganimard. «Anche lei era bionda».
«Una ragazzina?», ripeté confuso l'ispettore. «Questo è strano. Non è da Lupin...».
Sherlock socchiuse gli occhi, cercando di riordinare le idee. «No. No, infatti. Sto adattando supposizioni ai pochi elementi che ho, ignorando il resto come un principiante».
Justin spense la sigaretta nel posacenere e gli diede una pacca sul braccio. «Non te la prendere, ragazzo. Con Arsène Lupin è normale non avere elementi su cui lavorare. Ti ci abituerai, un giorno».
L'idea lo infastidì tanto che rispose in malomodo: «Vedo che il suo pessimismo non è cambiato. Cosa ne pensa la sua terapista?».
Il francese strinse i pugni, la mascella contratta in un grido muto. Si alzò e fece per andarsene, ma ci ripensò: pagava fior di quattrini quella terapista, perché non sfruttare i suoi consigli? Gli aveva detto di non tenersi tutto dentro, di sfogare la rabbia che provava. E chi meglio di Sherlock Holmes poteva incassare senza battere ciglio?
«Ho speso vent'anni della mia vita, venti fottuti anni, dietro Arsène Lupin. Vent'anni in cui la mia vita è andata a rotoli: sono diventato lo zimbello della polizia, mia moglie mi ha lasciato e mi ha portato via le bambine, sono entrato in crisi depressiva e ho iniziato a bere. Sono pessimista, sì, ma posso concedermelo. La mia carriera ormai è finita: quando si scoprirà che Arsène è libero per causa mia, mi licenzieranno. Allora non avrò più modo di fare l'unica cosa che mi tiene ancora in vita - trovare le prove per metterlo dentro - e pur di portare a termine questa storia gli sparerò, proprio qui», si indicò il petto, all'altezza del cuore. «Diventerò un assassino e non potrò sopportarlo, perciò mi sparerò qui», e si portò due dita alla tempia, mimando un colpo di pistola.
Sherlock lo fissò in silenzio per quelle che sembrarono ore. Poi, con voce pacata e sicura, affermò: «Lei non gli sparerà».
A Ganimard venne quasi da ridere. «E come lo sai?».
«Perché io glielo impedirò». Il detective si alzò per guardarlo dritto negli occhi. «Arsène non merita di morire».
«Alla fine ci sei cascato pure tu, ragazzo», commentò l'ispettore, a capo chino e con una risata sulle labbra. «Ti sei affezionato».
«No», lo contraddisse a denti stretti. «Ciò che voglio dire è che il suo posto è la prigione. La morte lo renderebbe immortale».
La risata di Moriarty gli risuonò nelle orecchie, facendogli socchiudere gli occhi. Una risata cattiva, piena di derisione.
Se Arsène fosse morto avrebbero diviso quella cella del suo Palazzo Mentale, quel pozzo di pochi metri e dalle mura imbottite? Anche Arsène avrebbe indossato una camicia di forza logora, anche i suoi movimenti sarebbero stati impediti dalle catene?
No, lo sapeva. Di Arsène avrebbe ricordato la risata gioiosa e piena di vita, gli occhi dietro cui si vedeva la sua anima, gli abiti eleganti e lo sfarzo di cui si circondava. L'avrebbe ricordato come un avversario che avrebbe potuto essere un amico.
L'ispettore Ganimard aveva ragione, ma non poteva dirglielo. Sapere che anche Sherlock Holmes fosse al fianco di Arsène sarebbe stato ciò che lo avrebbe ucciso. Il consulente investigativo provava un'irrazionale simpatia per quell'uomo così simile a lui e al contempo così diverso, e anche lui, proprio come Arsène, aveva sempre avuto una missione: convincerlo a passare alle forze del bene. Lo disturbava - tormentava, a dire il vero - quell'uso improprio dei doni che entrambi avevano ricevuto.
«Inoltre», aggiunse ad un tratto, «odio i funerali».
Ganimard lo fissò fino a quando un sorriso non gli increspò le labbra. «L’ho sentito dire».
Il detective lo guardò andare via senza mai voltarsi indietro, le spalle sempre curve sotto il peso insostenibile che l'universo gli aveva accollato.

***

Arsène raggiunse l'amico davanti alla porta della stanza dietro cui si sentivano le chitarre di una canzone rock sparata a tutto volume.
«I suoi gusti musicali sono molto diversi dai miei», disse con una nota sorpresa nella voce, le sopracciglia inarcate.
L'uomo scrollò le spalle. «Credo sia nel periodo della ribellione, padrone».
«Dici che dovrei provare a parlarle?».
«Temo che non ne abbia voglia, al momento».
«Se non lo farò, io non riuscirò a chiudere occhio e sai che la mancanza di sonno è terribile per l'aspetto», rispose accarezzandosi il volto, per poi respirare profondamente e bussare alla porta con decisione.
Nessuna risposta.
«Geneviève, sono io. Potresti farmi entrare?».
Ancora silenzio.
I due uomini si scambiarono un'occhiata e ancor prima che l'amico potesse tentare di farlo desistere, Arsène aveva già infilato una mano nella tasca interna della giacca per tirare fuori il proprio passepartout - col quale poteva aprire tutte le camere dei suoi affiliati a loro insaputa - per posarlo sul lettore fuori dalla porta.
La serratura scattò con un rumore quasi impercettibile e Arsène entrò nella stanza col suo passo più felpato. Tornò pochi secondi dopo, il volto cinereo.
«Non è qui».
L'uomo si passò una mano sui baffi, mortificato. «Sono desolato padrone, io...».
Ma Arsène, incredibilmente, sorrise mesto. «Non potevi fare nulla per impedire che accadesse». Quindi, con una punta di orgoglio negli occhi, aggiunse: «Tale padre, tale figlia».

***

Sherlock era tornato a casa a piedi, passando anche dal chiosco dove aveva preso le patatine fritte con quella che pensava fosse una cliente e che invece era sempre stata sua sorella Eurus. La stessa Eurus che gli aveva detto che era più gentile di quello che si diceva, che l'aveva costretto a far dire a Molly Hooper quelle tre parole.
Aveva distrutto il precario equilibrio che c'era tra loro, il vetro sottile che ancora li proteggeva da quel sentimento troppo ingombrante.
L'aveva perdonata quasi per tutto, ma per quello... per quello ci sarebbero voluti molti altri duetti di violino.
Forse, se avesse preso il taxi e non avesse deciso di comprarsi un cartoccio di patatine, non avrebbe mai sorpreso quella ragazzina nel proprio appartamento.
Aveva subito notato qualcosa di strano entrando nell'androne: un profumo dolce e fruttato, che non conosceva. Poi, salendo le scale, aveva sentito dei passi leggerissimi sulla moquette, di qualcuno che stava camminando sulle punte, e un fruscìo di fogli e spartiti musicali.
Una strana euforia lo aveva fatto entrare con baldanza nel proprio appartamento, certo che si trattasse di Lupin, e questo era stato il suo primo errore.
Rimase di sasso infatti, realizzando che non era Lupin che lo stava derubando, bensì la ragazzina bionda che aveva visto quella mattina al Savoy. Indossava un cappellino di lana nero, ua felpa dello stesso colore, dei jeans e delle scarpe da ginnastica, e aveva appena riposto il suo violino nella custodia foderata.
Incrociò il suo sguardo per un solo attimo, per poi concentrarsi sul piano di fuga.
Saltò sulla poltrona di pelle nera, anziché aggirarla, e fece anche di più: sfruttò la forza di gravità perché poi cadesse verso Sherlock, intralciandogli la strada e facendogli perdere altri secondi preziosi. Quindi corse in direzione della stanza del detective, da dove era entrata e dove aveva lasciato la finestra aperta.
Il suo secondo errore fu quello di sottovalutarla.
«Fermati!», le gridò quando ormai era a cavalcioni sul davanzale.
Sherlock vide il pugnale che gli lanciò contro solo all'ultimo momento, ma riuscì a fermarsi in tempo. La lama si conficcò nel corridoio, tra i suoi piedi, e la ragazzina saltò dalla finestra, tirandosi dietro un invisibile filo di nylon che chiuse la finestra, impedendo così al detective di lanciarsi immediatamente dietro di lei. Non l'avrebbe fatto comunque una volta vista la moto - sicuramente rubata - su cui saltò e sfrecciò via, ma era stata molto astuta, doveva riconoscerlo. Non aveva soltanto pensato al furto che doveva commettere, ma anche alla possibilità che venisse colta sul fatto e che dunque avrebbe avuto bisogno di scappare.
Per quanto fosse stupido non farlo, non tutti i ladri ci pensavano. E tra quei pochi professionisti, uno più di tutti era il maestro della fuga, tanto da preparare più di un piano per colpo.
Sherlock raccolse il pugnale e tornò in salotto, il volto arcigno per via dello smacco subìto.
Ebbe la prova delle sue teorie quando trovò un altro filo di nylon teso sull'ingresso della cucina, piazzato casomai lei si fosse trovata costretta a dover scappare da quella parte.
Lo tirò via subito, prima che se ne dimenticasse e rischiasse di inciamparci in seguito o, ancora peggio, che lo facesse la signora Hudson.
Chino per terra, maledì Arsène Lupin. Ma poi, osservando meglio il pugnale che aveva in mano, abbozzò un sorriso.
Se non poteva prendere il capo, avrebbe iniziato con uno dei suoi sottoposti.

***

La ragazzina, dopo aver lasciato la moto in un vicolo non lontano da dove l'aveva presa in prestito, entrò in hotel come ci era uscita: passando per il garage sotterraneo. Chiamò l'ascensore e salì  fino al quattordicesimo piano, quindi percorse il corridoio fino a raggiungere la camera che faceva al caso suo. Sfortunatamente, era occupata.
«Dannazione», biascicò e posò l'orecchio sulla porta.
Non sentì rumori particolari, perciò decise di rischiare: usò il passepartout che aveva rubato ad una delle cameriere ed aprì la porta. Capitolò all'interno col capo e sentire il getto della doccia le fece tirare un sospiro di sollievo. Si chiuse la porta alle spalle con estrema attenzione e poi superò quella socchiusa del bagno, dalla quale uscivano volute di vapore e profumo di bagnoschiuma al pino silvestre.
Raggiunse il balcone e si chiuse la portafinestra alle spalle proprio quando l'uomo, sulla trentina e dal fisico scolpito, si spostò nella camera da letto per frizionarsi i capelli castani e vestirsi.
La ragazzina, col viso accaldato dall'adrenalina, scavalcò il parapetto e una volta  aggrappata alla ringhiera, con molta attenzione fece penzolare le gambe nel vuoto. Respirò profondamente per farsi coraggio e poi mollò la presa. Cadde in piedi sul parapetto del balcone sottostante e subito, prima di perdere l'equilibrio e volare di sotto, si spinse in avanti per cadere sulla distesa di cuscini che aveva preparato, giusto per sicurezza, prima di uscire. A carponi sul pavimento freddo sorrise, sentendosi estremamente realizzata.
Aveva rubato il violino di Sherlock Holmes. Sherlock Holmes!
Si avvicinò alla portafinestra e in pochi secondi riuscì a forzare la serratura ed entrare. Tutto era rimasto esattamente come l'aveva lasciato, perciò nè la sua babysitter nè suo padre si erano accorti della sua assenza. Le moderne casse per l'iPod – dotazione dell'albergo – erano ancora accese e fu accolta da "Rockstar", dei Nickelback. Non poteva esserci canzone più azzeccata per descrivere come si sentiva. Finalmente capiva cosa volesse dire essere una Lupin e non avrebbe mai smesso.
Si tolse il cappellino e si fece scivolare la custodia del violino dalle spalle per posarla sul letto ed inginocchiarvisi davanti. L'aprì come se contenesse il più prezioso dei tesori e per lei era così: suo padre sarebbe stato fiero di lei, ne era sicura.
La musica si interruppe all'improvviso e alzando gli occhi fu proprio lui che vide accanto agli altoparlanti, il piccolo telecomando in mano e le braccia incrociate al petto. I suoi occhi... I suoi occhi di solito così gentili e dolci, ora la fissivano con rabbia e delusione, tanto che si sentì rimpicciolire.
«Dove sei stata?», le chiese.
«Io... Io ho preso questo per lei», rispose, sforzandosi di non balbettare. Girò quindi la custodia verso di lui, mostrandogli il violino al suo interno.
Lo degnò a malapena di un'occhiata, con aria di sufficienza. Tutto il suo lavoro, la sua fatica! Non riuscì più a controllare la rabbia e si alzò per fronteggiarlo, il volto una maschera di pietra su cui iniziavano a rotolare lacrime ardenti.
«Prima ho avuto l'impressione che mi ritenesse un impiccio, perciò ho pensato di doverle provare il contrario», spiegò. «Questo è il violino di Sherlock Holmes, signore. Sono andata al suo appartamento e l'ho preso, ricordando che questa mattina voleva duettare con lui. Il signor Holmes è tornato prima del previsto e mi ha sorpresa, ma sono riuscita a sfuggirgli. Avevo organizzato due piani di fuga diversi, come fa lei di solito. Pensavo... pensavo che le avrebbe fatto piacere, che avrebbe finalmente capito che posso portare alto il suo nome e che... che sarebbe stato fiero di me, signore».
Ora non osava più guardarlo e teneva il capo abbassato, imbarazzata dalle sue stesse lacrime. Si stava dimostrando la ragazzina che era, non la figlia del celebre Ladro Gentiluomo.
Non sentì nemmeno i suoi passi, talmente forti erano i propri singhiozzi e il cuore che le pulsava nelle orecchie. Si ritrovò semplicemente stretta contro il suo petto, un suo braccio intorno alla schiena tremante e una sua mano sulla nuca, ad accarezzarle teneramente i capelli.
«Shhh, va tutto bene», le sussurrò, le labbra ad un soffio dalla sua tempia. «Mi dispiace, non volevo farti piangere. La verità è che mi sono così spaventato... Tu non sei un impiccio, non lo sarai mai. E so che ci conosciamo da poco, ma solo il pensiero di perderti mi terrorizza, Geneviève».
La ragazzina sobbalzò, sentendo il proprio nome pronunciato dalle sue labbra. Davvero teneva così tanto a lei?
Si allontanò dalla sua spalla e si asciugò le lacrime alla bell'e meglio, incrociando il suo sguardo ora di nuovo amorevole.
«Sono stata brava, allora? È fiero di me?», gli chiese con un piccolo sorriso.
«Certo che sono fiero di te, tesoro! Ma...».
Geneviève si incupì nuovamente. «Ma cosa?».
«Ho promesso a tua madre di prendermi cura di te e, soprattutto, di tenerti lontana dai miei affari».
Fu come se il mondo intero le cadesse sulle spalle. «Che cosa?».
«Mi dispiace, tesoro. È evidente che hai un dono...», indicò il violino, ancora un po' incredulo che una ragazzina di quindici anni avesse potuto fregare il detective di fama internazionale. «Ma una promessa è una promessa».
«Non ha alcun senso!», gridò, spingendolo via. Si dimenticò persino di dargli del lei - un modo come un altro per non affezionarsi troppo in fretta - talmente era arrabbiata con lui. «Lei lavorava con te, avete fatto decine di colpi insieme! Quando ero piccola, prima di andare a letto mi raccontava delle vostre avventure! E ora che ti ho finalmente trovato, che ho finalmente la possibilità di seguire la mia vocazione, tu me la vieti?!».
Arsène deglutì rumorosamente, osservando un punto oltre le sue spalle. «Come ti ho detto, il pensiero di perderti mi terrorizza. E la vita che conduco è piena di rischi, come puoi immaginare».
«Ma io voglio stare con te! Voglio vivere le stesse avventure che ha vissuto mia madre, e cento di più!», insistette. Con un enorme sforzo e gli occhi di nuovo lucidi, tornò da lui e lo strinse in un abbraccio, sussurrando: «Ti prego, papà».
A quelle parole sentì Arsène trasalire e pensò di esserci riuscita, pensò che avrebbe ceduto, ma si sbagliava.
Le prese i gomiti e l'allontanò da sè, evitando i suoi occhi verdi.
«Lui ti ha vista in faccia?», le chiese con tono secco, autoritario. «Sherlock Holmes ti ha vista?».
«Sì, per un secondo o due. Non penso che potrebbe...».
«Oh, lui può eccome».
Arsène sospirò e fece un ulteriore passo indietro, posandosi due dita sugli occhi. Ad un tratto le sue spalle iniziarono a tremare e dalla sua gola uscì una risata sommessa, fino a quando non si trasformò in una in piena regola, tanto forte da doversi piegare in due.
«Che cosa...?».
«Ma è perfetto! Geneviève, sei un genio!».
«Davvero?», mormorò, sentendosi arrossire.
Le prese il volto tra le mani e le posò il primo bacio sulla fronte, gli occhi brillanti d'eccitazione.
«Cercavo disperatamente un modo per avvicinarmi a lui e la risposta ce l'ho sempre avuta davanti: tu, tesoro!».
La ragazzina lo fissò confusa. «Ma... ma la promessa...».
«Non ti accadrà nulla di male, vedrai. Domani andrò da lui a restituirgli il violino e tutto verrà da sè, ne sono certo».
Geneviève lo guardò, ammirata. Riusciva sempre a vedere il lato positivo di ogni cosa, senza mai lasciarsi scoraggiare. Coglieva le occasioni, ne approfittava fino a sfruttarne ogni più piccolo vantaggio. E in parte era anche merito suo.
L'adrenalina tornò in circolo all'idea che avrebbe fatto parte di un piano di suo padre, che ne sarebbe stata addirittura una protagonista.
Il Ladro Gentiluomo l'abbracciò forte, felice come un bambino, e lei strinse le mani sulle sue spalle, pregando perché non la lasciasse mai.
Tuttavia lo fece, dicendole: «Ora dormi, hai bisogno di riposare».
Geneviève annuì, ma dubitava fortemente che avrebbe chiuso occhio quella notte.
Guardò Arsène chiudere la custodia del violino e con essa dirigersi verso la porta, per poi fermarsi con la mano sulla maniglia. Il cuore le balzò nel petto quando si voltò nuovamente verso di lei, un sorriso divertito sulle labbra.
«Diavolo, avrei tanto voluto vedere la sua faccia!».
La ragazzina si lasciò scappare una risatina, avvertendo una nuova complicità nascere tra di loro. E fu grazie a questo che riuscì a dire: «Buonanotte, papà».
Arsène parve arrossire, o forse era solo frutto della sua immaginazione.
«Buonanotte, piccola», sussurrò dandole la schiena.
Geneviève sentì un piacevole calore riscaldarle le membra e si lasciò cadere a peso morto sul letto, gli occhi rivolti verso il soffitto e un sorriso sereno sul volto. 

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Capitolo 6
*** Secret sister ***


Aloha! Ben ritrovati a tutti! :)
Nonostante il saluto, no, non sono stata alle Hawaii. Magari! Però mi sono rilassata al mare, leggendo tanti manga e soprattutto scrivendo! Sono proprio contenta di come sta venendo fuori questa storia e spero vivamente che sarete del mio stesso parere in futuro :D
Per il momento ringrazio chi ha aspettato pazientemente questo capitolo, chi ha commentato il precedente (vi risponderò, abbiate fede) e chi ha aggiunto la fic tra preferite/seguite/ricordate. Tanto ammmore per tutti
Adesso vi lascio alla lettura, che è cosa buona e giusta.
A presto!

Vostra,
_Pulse_


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6. Secret sister


Non era mai domenica mattina per John. Non c'era un giorno della settimana in cui potesse starsene tranquillo a letto, se Sherlock lo chiamava.
Profondamente deluso da come cedesse ogni volta, entrò sospirando nel 221B e trovò Sherlock pressoché nella stessa posizione del giorno prima, quando, dopo la disastrosa colazione con Arsène Lupin, l'aveva lasciato a sbollirsi. Non si era nemmeno cambiato, da quello che vedeva.
«Sei arrivato, bene», esclamò prima che potesse anche solo salutarlo, compiaciuto. «E hai portato anche Rosie, come ti avevo chiesto».
«Mi vuoi spiegare che cosa sta succedendo?».
Il consulente investigativo si alzò con un saltello e fece una mezza giravolta su se stesso, dirigendosi verso il bagno.
«Ho un buon presentimento, John!».
«Su cosa?».
Da dietro la porta chiusa, Sherlock gridò: «Stai alla finestra e chiamami quando vedi arrivare Lupin!».
John socchiuse gli occhi e con fare arrendevole fece ciò che l'amico gli aveva chiesto, certo che presto avrebbe ricevuto tutte le risposte.
Lasciò Rosie sul pavimento, tra i giochi che le aveva portato e quelli che Sherlock aveva comprato per lei - puzzle e rompicapi per stimolare il suo sviluppo cognitivo - e rimase alla finestra, a braccia incrociate, fino a quando non scorse la Porsche 918 Spyder argentata di Arsène Lupin.
Prima ancora che potesse chiamarlo, Sherlock uscì dal bagno con i capelli ancora un po' umidi, il volto perfettamente rasato, una camicia viola e dei pantaloni neri. Afferrò la vestaglia e se la infilò, dopodichè prese Rosie tra le braccia e si mise alla finestra dove di solito si metteva a suonare il violino. A proposito, che fine aveva fatto?
John aprì di nuovo la bocca per chiedere quali fossero le sue intenzioni e che cosa c'entrasse sua figlia, ma ancora una volta venne interrotto. La signora Hudson bussò contro la porta aperta, con un sorriso felice sul volto.
«Cucù! Ci sono visite, Sherlock».
«Grazie, madame Hudson», disse piano Arsène, chinando un poco il capo.
«Si figuri, caro. Preparo un po' di tè, uhm?».
«Non si disturbi, sono solo di passaggio».
Quando la padrona di casa se ne andò, Arsène entrò nell'appartamento con passi calcolati, guardandosi intorno con gli occhi spalancati perché non si perdessero nemmeno un dettaglio.
E così quello era l'appartamento di Sherlock, il covo del grande detective inglese, il luogo sicuro in cui si rifugiava dopo aver affrontato mille e più pericoli.
C'era ancora odore di cenere e di nuovo, com'era ovvio che fosse. Era stato rimesso a nuovo dopo l'esplosione che l'aveva quasi interamente distrutto, anche se nulla alla fine era stato modificato; anzi, con impegno e dedizione gli inquilini avevano fatto sì che ritornasse ad essere quel luogo vissuto, consumato dagli stati d'animo di Sherlock, dalle risate e dai pianti, dalle confidenze, dalle riappacificazioni e dai litigi, dai casi più strani e da quelli più comuni. Ricordi indelebili dei quali non potevano fare a meno, senza i quali il 221B di Baker Street non esisteva.
Arsène provò una stretta al cuore, sintomo di rimpianto e gelosia: lui non aveva un luogo del genere. Aveva un posto in cui viveva la maggior parte del tempo, quando non era in giro per il mondo; aveva il suo nascondiglio preferito, ma non un luogo che poteva chiamare casa.
«Buongiorno, Arsène», lo salutò Sherlock con l'abbozzo di un sorriso, voltandosi verso di lui.
Solo allora il Ladro Gentiluomo notò la bambina che teneva tra le braccia, la figlia del dottor Watson. Era davvero bella, per avere solo sei mesi. C'era molto di sua madre in quei boccoli biondi, in quegli occhioni pieni di vita...
Arsène abbassò lo sguardo e si avvicinò al tavolo per posarci sopra la custodia di un violino, farne scattare i due ganci metallici e mostrarne loro il contenuto. John strabuzzò gli occhi, rendendosi conto che quello non era un violino qualunque, ma il violino di Sherlock.
«Come...? Perché ce l'ha lei?», chiese, confuso.
Sherlock abbozzò un sorriso. «Perché ieri sera mi è stato rubato».
«Sono desolato», replicò subito Arsène, dallo sguardo davvero mortificato. «Non ne sapevo nulla e ti prego di perdonarla».
«Perdonarla?», ripeté John, sempre più scioccato.
«Ti ricordi la ragazzina che c'era alla sala da tè del Savoy?», si rivolse a lui Sherlock, senza però distogliere lo sguardo dal Ladro Gentiluomo. «È stata lei ad introdursi qui e a rubare il mio violino. Quanti anni ha, Arsène?».
«Quindici, compiuti da poco».
Sherlock parve sorpreso da quella risposta, lui che raramente si sorprendeva. «Se è già così abile a quest'età, credo che presto l'allieva supererà il maestro. Lo sai che è scappata via in moto?».
Arsène non fece una piega, come se sapesse perfettamente con chi aveva a che fare. Però strinse i pugni lungo i fianchi, esclamando: «Non succederà mai».
«Paura di venire spodestato?», ridacchiò il detective.
«Niente affatto».
John si ritrovò a trattenere il respiro, fissando i due uomini che si scrutavano in silenzio. La tensione si stemperò quando Rosie afferrò una ciocca di capelli di Sherlock e tirò, con un versetto divertito.
Il detective chiuse a malapena gli occhi, abituato a ben altro tipo di dolore, e a passi decisi si avvicinò ad Arsène, il quale indietreggiò di un passo. John ne fu molto colpito, soprattutto perché non riusciva a capire che cosa lo spaventasse tanto.
«Chi è quella ragazzina, Arsène?», gli chiese in un sussurro Sherlock, riservandogli la sua occhiata più penetrante.
Il ladro guardò la bambina davanti a lui, così vicina da poterne sentire il profumo di talco, e deglutì. A Sherlock quel dettaglio non sfuggì e sorrise, come se avesse appena avuto la prova che cercava. John, come al solito, non capiva ancora un accidenti.
«Puoi tenerla in braccio, se vuoi», gli propose con tono suadente. «Può, John?».
«Credo... credo di sì», rispose, come ipnotizzato.
Sherlock si avvicinò ancora un po' e si chinò perché Arsène potesse prendere Rosie. Il biondo esitò, poi sfiorò il corpicino della bambina e tenendola da sotto le ascelle la sfilò dalle braccia del detective. Quindi se la posò contro il petto, con un braccio sotto il pannolino e una mano sulla sua schiena.
Arsène parve rilassarsi e respirò profondamente, con un lieve sorriso sulle labbra. Poi però una lacrima solitaria gli sfuggì dall'occhio destro ed accorgendosene si cancellò quel sorriso dal volto, esclamando: «Riprendila, Sherlock».
«Che cosa c'è che non va?», gli domandò questo, con una punta di ironia nella voce. «Ti fa male pensare che tu non c'eri quando quella ragazzina, tua figlia, era piccola così?».
Arsène scoprì i denti in un ringhio pieno di dolore e si avvicinò al dottor Watson per lasciargli la bambina. Quindi tirò su col naso e ritornò agli affari, indicando il violino nella custodia.
«Te lo rendo, Sherlock, in quanto non ha alcun valore per me e ne ha moltissimo, a livello affettivo, per te. In cambio, ti chiedo di dimenticarti di lei».
«Non posso crederci, è davvero sua figlia?», chiese John, a scoppio ritardato.
«Oh sì, eccome se lo è», rispose Sherlock, mostrando tutta la propria gaiezza per aver risolto il caso della settimana. «Il mio violino scompare e lui si precipita qui a restituirmelo, dicendo che non è opera sua. Da quando è arrivato il suo sguardo non ha fatto altro che indugiare su Rosie: voleva e al contempo non voleva prenderla in braccio, per via dei rimpianti. Inoltre, poco fa, quando ho detto che presto l'allieva avrebbe superato il maestro, ha risposto che non sarebbe mai accaduto, non tanto perché temeva di essere spodestato ma perché non vuole che lei faccia il suo stesso mestiere. Questa ragazzina non può essere un semplice membro della sua banda, visto il modo in cui sta cercando di proteggerla. Sa perfettamente che non lascerò perdere la questione ed è persino disposto a contrattare, a darmi qualcosa in cambio, per la sua sicurezza. Non è così, Arsène?».
Il ladro chinò il capo, poi rilassò i pugni e si lasciò andare ad una breve risata. Quando tornò a guardarli, il suo sguardo era tornato quello ridente che conoscevano. Applaudì anche, superando Sherlock per andare a sedersi sulla poltrona di John.
«Magnifique, mon ami». Accavallò le gambe con eleganza e fece per tirare fuori dalla tasca interna del cappotto una sigaretta elettronica, ma ci ripensò non appena riposò lo sguardo sulla piccola Rosie.
«Come al solito, è impossibile tenere dei segreti con te. Ebbene, oggi sono qui in qualità di padre, che chiede perdono per la marachella della sua bambina. Il violino è in ottimo stato, puoi controllare tu stesso».
Sherlock afferrò il delicato strumento e suonò qualche nota con l'archetto, poi lo riposò nella custodia, soddisfatto.
«John, siediti e datti un contegno, per favore».
Il dottore si riscosse e finalmente chiuse la bocca, spalancata per le ultime rivelazioni. Si sedette sul divano, con Rosie tra le braccia, e guardò Sherlock sedersi sulla poltrona di fronte ad Arsène, il quale aveva ripreso a guardarsi intorno con aria curiosa.
«La carta da parati rende l'ambiente più piccolo di quello che è», commentò. «Perché non l'avete cambiata?».
«A me piace».
Arsène fece spallucce e si passò una mano tra i capelli biondi, poi tornò a guardare Sherlock, serio.
«Allora, che cosa vuoi?».
«Quanto vale per te tua figlia?».
«Ti concedo tre desideri», sorrise enigmatico. «Chiedi e ti sarà dato. Solo... presta molta attenzione a ciò che vuoi, Sherlock».
Il detective si portò le mani unite davanti alla bocca e guardò l'avversario seduto  davanti a lui: la calma e la sicurezza che dimostrava, nonostante stesse barattando la sicurezza di sua figlia, erano ammirevoli.
«Va bene, sono pronto», annunciò ad un tratto il consulente investigativo. «Il primo desiderio ti sembrerà un po' scontato, ma tant'è... Voglio sapere il o i motivi per cui ti trovi a Londra».
Arsène sospirò deluso, ma mantenne fede alla sua promessa e contò sulle dita: «Famiglia, cliente e curiosità».
Sherlock strinse i denti. Aveva sbagliato - ancora - e ora doveva buttare via un desiderio.
«Voglio i dettagli, Arsène».
«Oh... Peccato, avresti dovuto essere più preciso prima».
Sherlock si sforzò per non saltargli addosso ed attese, in silenzio.
«La madre di Geneviève, mia figlia, ha il cancro. Si è trasferita qui a Londra circa quattro anni fa, per curarsi, ma i trattamenti non hanno dato gli esiti sperati. Sta morendo e ha deciso di farci incontrare».
«Bene», rispose Sherlock, soddisfatto della risposta, ma venne subito rimproverato da John, il quale gli ordinò di scusarsi.
«La ringrazio, dottor Watson, ma tra me e Sherlock non c'è bisogno di tutto questo. Ci conosciamo, ormai», spiegò Arsène, sorridendo.
«Il cliente», lo incalzò il detective, smanioso di sapere.
Arsène si strinse nelle spalle, più restio quella volta. «Non è mia abitudine rivelare l'identità di coloro che mi chiedono favori...».
«Tua figlia, Arsène».
«... ma per questa volta farò un'eccezione, dato che quella donna non mi è mai stata simpatica».
John rizzò le orecchie. «Donna?».
Sherlock, invece, si coprì gli occhi con i palmi delle mani. Aveva avuto modo di riflettere quella notte, a lungo, ed era giunto ad un'unica soluzione.
«Irene Adler, ovviamente», esclamò Arsène, con espressione stizzita. «Ci conosciamo da tempo, ma ho sempre cercato di tenermene alla larga. Non mi piacciono i suoi metodi, nè lei in particolare. Il solo fatto che abbia lavorato con Moriarty avrebbe dovuto farti capire che non avresti dovuto...».
«Che cosa vuole?», lo interruppe bruscamente Sherlock, fissandolo con astio.
«Devo contarlo come terzo desiderio?».
«No, è ancora il secondo!».
«Va bene, va bene», sospirò alzando le mani. «Te l'ho già detto, comunque. Le nostre strade si sono incrociate per caso e ha approfittato dell'occasione per dirmi che aveva notato qualcosa di diverso in te. Non ho potuto resistere e ho voluto sapere di più, ma nemmeno lei riusciva a spiegarsi cosa fosse successo, così mi ha chiesto di investigare, dato che tu sei stato molto chiaro con lei, dopo il vostro ultimo incontro».
Sherlock gemette e Arsène, con la fronte corrugata, se ne chiese il motivo. Non fu difficile trovarlo: bastò girarsi verso il dottor Watson, nuovamente a bocca aperta.
«Perdonami, John non era al corrente delle vostre scappatelle?».
Lo sguardo truce di Sherlock fu abbastanza eloquente, ma Arsène scrollò le spalle.
«Ad ogni modo, eccomi qua. Ora che sai questo, il terzo motivo è piuttosto semplice da dedurre».
«Eri curioso di sapere se Irene ti avesse detto la verità».
«Bravo!».
Sherlock si alzò ed evitò accuratamente di posare lo sguardo sul suo migliore amico, il quale però attaccò: «Tu hai visto Irene Adler? Quando? E con il termine scappatelle...?».
«Non è rilevante», rispose a bassa voce Sherlock, guardando Baker Street fuori dalla finestra. «È finita, ormai».
«Finita? L'ultima volta che ne abbiamo parlato hai detto che non rispondevi nemmeno ai suoi messaggi!».
«Mi dispiace dovervi interrompere, signori, ma il tempo è prezioso», si intromise Arsène alzandosi e guardando il proprio Rolex. «Sherlock, qual è il terzo desiderio?».
Il detective rimase in silenzio, immobile.
«Sherlock... devo andare», ripeté Arsène, davvero dispiaciuto di dovergli mettere fretta.
«Non mi capiterà mai più un'occasione del genere», mormorò, più a se stesso che a qualcuno in particolare.
«Non si può avere tutto dalla vita».
«E va bene». Sherlock si voltò e guardò l'avversario con decisione. «Ad Irene ci penserò io. Non ti chiederò nemmeno di consegnarti di tua spontanea volontà a Ganimard perché gli toglierei la soddisfazione di una vita».
Arsène sorrise. «Allora che cosa vuoi?».
«Voglio che tu consegni tua figlia a Mycroft».
Arsène impallidì e vacillò, tanto che dovette appoggiarsi al bracciolo della poltrona con una mano. John stesso ci rimase male: togliergli la figlia che aveva appena trovato era di una crudeltà inaudita.
«Hai detto "Chiedi e ti sarà dato"», gli ricordò il consulente, sfruttando il suo stesso trucco. «Dovevi porre dei limiti, Arsène. Stiamo contrattando per la sua sicurezza e, purtroppo per lei, Mycroft è la persona che può occuparsene nel migliore dei modi».
Il Ladro Gentiluomo si riprese e lo guardò con tutta la collera di cui era capace, tremando. «È solo una ragazzina, Sherlock».
«Proprio per questo. Le sue doti non sono ancora pienamente sviluppate e credo abbia un notevole margine di miglioramento. Non vuoi che faccia la tua stessa vita? Questa è la miglior offerta che potrebbe mai ricevere».
«Ma diventerebbe...».
«Meglio di me. Con le tue capacità e quelle della famiglia Holmes... diventerebbe il miglior agente segreto di questo mondo».
Per qualche motivo a lui sconosciuto, Arsène fissò John e la piccola Rosie. A lungo, con tristezza. Sherlock fece un passo avanti, non riuscendo a spiegarselo.
«Voglio che sia lei a scegliere», rispose alla fine Arsène.
«Glielo proporrai?».
Arsène si chiuse il cappotto e dirigendosi verso la porta rispose: «No, lo farai tu. Vieni con me».
Sherlock non ci pensò su due volte e togliendosi la vestaglia lo seguì. Anche John si alzò dal divano, troppo coinvolto per non assistere alla fine di quel duello senz'armi.
«Sono desolato, dottor Watson, ma lei non può venire», affermò Arsène mentre scendevano le scale.
«Che cosa? Perché no?».
Una volta nell'androne, Arsène si girò verso i ragazzi di Baker Street, inseparabili, e prima che Sherlock potesse prendere le difese dell'amico incatenò i loro sguardi e gli posò una mano guantata sul braccio.
«Fidati di me, Sherlock».
Quelle parole lo attraversarono da capo a piedi come una scossa elettrica e il detective, suo malgrado, dovette dire a John di rimanere lì.
«Sherlock...», provò a convincerlo, ferito e con poca voce.
«Inoltre, l'auto ha solo due posti!», aggiunse Arsène, facendo il giro della decappottabile e saltando sul sedile del guidatore senza aprire la portiera. Lo stesso fece Sherlock e prima che Arsène mettesse in moto rivolse al dottore un'ultima occhiata di scuse.
John li guardò sfrecciare via e poi con rabbia si chiuse la porta alle spalle, facendo spaventare Rosie, alla quale vennero i lucciconi agli occhi.
«Scusami tesoro, è che devi capire che zio Sherlock è un idiota».
Questo parve tranquillizzare la bambina e John ne fu in parte contento. Era meglio che fosse preparata, perché con il consulente investigativo le delusioni erano sempre dietro l'angolo.

***

Il motore della Porsche ruggiva come una leonessa e Arsène teneva strette le mani sul volante di pelle, ma i suoi movimenti rimanevano aggraziati e la sua guida sicura, sciolta come se non facesse altro dalla mattina alla sera.
Sherlock guardò l'avversario: la linea spigolosa della mascella contratta, il profilo delicato del naso, le ciglia lunghe, gli occhi verdi e i capelli biondi ora un po' scompigliati dall'alta velocità.
Era un bell'uomo, Arsène Lupin, e non si stupiva che avesse così successo con le donne. Ciò nonostante, le sue storie d'amore erano sempre finite nel peggiore dei modi. Arsène dava il cento percento di sé, non si teneva dentro niente, e questo, insieme alla sua professione insolita, dopo un po' stancava le donne che frequentava.
Per questo motivo la possibilità che avesse una figlia aveva impiegato così tanto ad attecchire nella sua mente. Ma d'altronde, una volta eliminato l'impossibile, ciò che rimaneva, per quanto strano, non poteva che essere la verità.
Doveva essere stato sicuramente un incidente di percorso, qualcosa di non programmato. Altrimenti, la donna non gli avrebbe tenuto nascosto di essere incinta. E se l'avesse saputo, Arsène avrebbe fatto di tutto per starle accanto, per impedire alla madre di sua figlia di lasciarlo. Perciò, come d'abitudine, era stata lei a farlo, magari subito dopo aver ricevuto la conferma della gravidanza. Arsène non l'aveva nemmeno sospettato.
Sherlock si chiese come doveva essersi sentito quando quella donna l'aveva ricontattato, dopo tutti quegli anni, per dirgli che stava morendo e che d'ora in avanti avrebbe dovuto prendersi cura della loro bambina. Si chiese dov'era, che cosa stava facendo, e la sua mente viaggiò.

«Lupin!».
Dei colpi sordi alla porta blindata.
«Stai lontano, Lupin! È arrivata la posta!».
Il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso ed aprì un solo occhio, senza muoversi dalla propria posizione zen: gambe incrociate, schiena dritta, polsi sulle ginocchia e indici e pollici uniti a formare due cerchi.
Le numerose serrature scattarono e una guardia entrò nella sua modesta cella trascinandosi dietro un pesante sacco di juta. Quindi si diresse verso la scrivania e prese in consegna quello della scorsa settimana. Non gli era permesso di conservare nessuna delle lettere che riceveva - avrebbero finito lo spazio in tempi molto brevi - ma d'altronde Arsène Lupin non ne aveva bisogno: ricordava tutte le parole gentili e anche le critiche a lui rivolte.
«Incredibile», borbottò la guardia. «Non riesco proprio a capire come tu possa avere così tanti ammiratori».
«Antoine, questa sera, a cena, provi a chiederlo a sua moglie. La cara Maryse mi scrive ogni settimana».
La guardia lo fissò inebetito per qualche istante, poi il suo volto sotto il caschetto divenne purpureo e una mano sfiorò il calcio della mitraglietta.
«La prego, se ha concluso, di lasciarmi solo. Ero nel bel mezzo di una meditazione».
Antoine grugnì ed uscì a passi pesanti col sacco di juta, quindi la porta si chiuse con un tonfo e Arsène sospirò. Allungò le gambe di fronte a sè per stiracchiarsi e saltò giù dal letto a baldacchino per andare a recuperare la posta.
Aprì il sacco e ne svuotò il contenuto sul pavimento, dove si sedette per iniziare a leggere le lettere dei suoi fan.
Passarono due ore - anche se era difficile a dirsi, non avendo né orologi né finestre - ed afferrò l'ennesima busta bianca, decidendo che sarebbe stata l'ultima della giornata.
L'indirizzo del mittente era stato cancellato da qualche bravo impiegato assunto proprio per controllare la posta di Arsène Lupin, ma il profumo... ah, il profumo era impossibile da nascondere. E quel profumo in particolare gli fece schizzare il cuore in gola.
Estrasse la lettera con mani tremanti ed incredibilmente non trovò nemmeno una parola censurata. La sua amica era stata molto furba, come sempre: aveva scritto usando un codice che solo loro due e pochi altri, membri fidati della cerchia del Ladro Gentiluomo, conoscevano. L'impiegato statale, insonnolito e stufo marcio di sentir dare dell'eroe ad un uomo che non lo era affatto, l'aveva approvata senza nemmeno intuire che ci fosse un messaggio nascosto in quelle frasi lette e rilette.
Anche il fatto che si fosse firmata "La Donna Bionda" non era una novità, per l'impiegato. I colpi di Arsène Lupin erano stati così ampliamente raccontati sui giornali che i suoi ammiratori usavano spesso i nominativi dei suoi complici, nella futile speranza che Arsène rispondesse loro.
Quello che l'impiegato non sapeva era che quella era la Donna Bionda originale, la sola ed unica. E aveva bisogno di lui.
Arsène si portò la lettera al viso e con il profumo dell'amata nelle narici scoppiò a piangere, disperato.
Le guardie sentirono i suoi singhiozzi e i suoi lamenti per ore e quella sera, quando finalmente Antoine ritornò a casa da sua moglie, non ebbe la forza di arrabbiarsi con lei per le lettere che a sua insaputa aveva inviato al Ladro Gentiluomo.
Non successe più nulla per le due settimane successive. La solita, rassicurante routine. Poi, una mattina, Antoine scoprì che da quel giorno in avanti le sue mansioni sarebbero cambiate. Chiedendone il motivo, gli venne detto che Arsène Lupin aveva lasciato la sua cella, forse per sempre.

«Siamo arrivati», esclamò Arsène, risvegliandolo dal sogno ad occhi aperti.
Sherlock lo guardò scendere dall'auto, gli occhi tristi e i gesti nervosi. Poi alzò lo sguardo verso l'edificio dalla facciata regolare che avevano di fronte: il London Bridge Hospital, una delle migliori strutture private per la cura e l'assistenza dei pazienti malati di cancro.
Lo seguì all'interno e la ragazza dietro la reception salutò Arsène con un sorriso gentile e un cenno del capo, segno che l'aveva visto lì altre volte.
Presero l'ascensore e salirono al terzo piano, dove Sherlock notò subito un paio - o meglio, quattro - degli uomini del ladro seguirlo attentamente con gli occhi, pronti ad intervenire al segnale del loro capo.
Seduto davanti ad una delle stanze private, c'era lo stesso uomo elegante e coi baffi che aveva visto al Saovy accanto alla ragazzina. L'uomo più fidato e vicino a Lupin, a quel punto.
Si scambiarono un breve cenno d'intesa, poi Arsène si avvicinò al vetro tramite cui si poteva vedere l'interno della stanza. Sherlock lo affiancò.
La ragazzina dava loro le spalle, seduta su una sedia accanto al letto dove riposava una donna dal volto pallido e stanco, ma pur sempre bello, e con un turbante di seta intorno alla testa calva.
Sherlock sentì l'aria mancargli dai polmoni e il cuore stringersi come se una mano invisibile, ghiacciata, gli avesse appena trapassato il petto per usarlo come pallina antistress.
Quella donna... somigliava terribilmente a Mary, alla sua Mary, alla Mary di John.
Si scostò dal vetro e si sedette sulla sedia lasciatagli dall'uomo coi baffi.
«Ora capisci perché non volevo che John venisse?».
Sherlock alzò gli occhi di ghiaccio su Arsène. «Com'è possibile?».
Il ladro si girò verso di lui e lo fissò con un sorriso quasi divertito sul volto. «Cosa? Pensavi davvero che Mary Watson non avesse nessuno al mondo? Suvvia... Col lavoro che faceva, era necessario che lei risultasse orfana e senza alcun legame affettivo. Avrebbe messo a rischio la vita di chi le stava accanto, altrimenti».
«Ma quando ci ha rivelato la verità perché non ci ha detto...?».
«Perché sua sorella aveva intrapreso la stessa carriera, più o meno. La donna che vedi là dentro non esiste, non ufficialmente».
Il cervello di Sherlock lavorava ad una velocità disumana, ad una velocità a cui persino un computer di ultima generazione si sarebbe fuso.
Ora tutto aveva un senso. L'intelligenza di Geneviève, il modo in cui Arsène aveva guardato John e Rosie all'appartamento...
«Geneviève è la cugina di Rosie. Tu e John... tu e John siete parenti, in pratica».
Arsène abbozzò una risata. «Oh, com'è piccolo il mondo!».
Sherlock si alzò dalla poltrona e si ricompose. Guardò ancora la donna oltre il vetro, fino a quando questa non aprì gli occhi, rivelando gli stessi occhi di Mary. Un'altra stretta al cuore, a cui però resistette per dire: «Voglio parlarle».
«E che cosa vorresti dirle?».
«Qualcosa che non ho potuto dire a Mary».
Arsène parve capire e strinse le labbra, quindi bussò piano alla porta ed entrò. Salutò la donna con un lieve bacio sulla fronte e poi le sussurrò qualcosa all'orecchio. Lei annuì e Arsène accarezzò la spalla della figlia, invitandola ad alzarsi. La donna le sorrise per tranquillizzarla e Arsène e Geneviève uscirono dalla stanza.
Non appena la ragazzina lo vide, la sua stretta intorno alla mano del padre si fece più decisa, ma non arretrò né deviò il suo sguardo. Anche nei suoi occhi, ora che li fissava da vicino, c'era qualcosa di Mary.
Sherlock si infilò una mano nella tasca interna del cappotto e le porse il pugnale che gli aveva lanciato contro la sera prima.
«Credo che questo sia tuo», le disse, sorridendole persino.
Geneviève guardò il padre in cerca di rassicurazioni e quando le ottenne afferrò il pugnale dal manico di ferro intarsiato e ringraziò Sherlock con un inglese perfetto, segno che era stata cresciuta come una bilingue.
«C'è altro che vorresti dirgli, Geneviève?», la incalzò Arsène.
La ragazzina sorrise furbescamente e invece di scusarsi disse: «Mi piace lo smile nel suo appartamento, signor Holmes».
Il ladro si portò una mano sulla fronte, ma Sherlock invece ampliò il proprio sorriso e le rivolse un piccolo inchino.
La ragazzina andò a sedersi sulla poltrona del corridoio, felice di riaver ottenuto il proprio pugnale preferito, e Arsène lo ringraziò con gli occhi, quasi commosso.
«No, non osare...!».
Ma Arsène non gli fece nemmeno finire la frase e lo strinse in un abbraccio soffocante.
Sherlock aspettò pazientemente che lo lasciasse andare, quindi si spolverò le maniche del cappotto, controllò che avesse ancora tutto nelle tasche e lo superò per entrare nella stanza d'ospedale della sorella di Mary.
«Non pensavo che avrei mai avuto l'onore di conoscerla di persona», esordì la donna quando si chiuse la porta alle spalle.
«L'onore è mio», rispose Sherlock.
Si avvicinò al letto e la guardò intensamente, cercando di cogliere tutte le deduzioni che gli comparvero davanti agli occhi. Era una caratterista di famiglia, mostrare tutto e tuttavia rimanere illegibili.
Alla fine qualcosa spiccò sul resto, un piccolo anello che portava alla mano sinistra, con la pietra rivolta verso l'interno. Il diamante azzurro, rubato ad un certo Hautrec da Lupin e dalla sua misteriosa complice e sparito dalla circolazione da molto, moltissimo tempo.
«Avevo ragione: lei è la Donna Bionda», affermò.
La madre di Geneviève non lo smentì e si portò una mano sul turbante di seta viola: «Un tempo, forse. Ora non più».
Il silenzio si fece opprimente, eppure Sherlock non riusciva a romperlo.
«Signor Holmes...».
«Uhm?».
«Voleva dirmi qualcosa?».
Il consulente investigativo incrociò quegli occhi verdi e trovò il coraggio che cercava, anche se non abbastanza da impedire a delle lacrime di bagnargli gli occhi.
«Grazie per aver dato un valore alla mia vita, lo userò per renderti orgogliosa».
La donna non capì, ma a lui non importava. L'aveva detto, fingendo che si trattasse di Mary, e ora stava meglio. Uscì dalla stanza senza più guardarsi indietro e con passo deciso si diresse verso la ragazzina, la prese per un braccio e se la trascinò dietro.
Gli uomini di Lupin si mossero tutti contemporaneamente, puntando contro Sherlock le loro pistole.
«Arsène!», gridò il detective, senza nemmeno voltarsi.
«Oh, sì», esclamò il ladro, sorpreso lui stesso dalla rapidità dei suoi uomini. «Lasciateli andare».
La ragazzina si girò, oltraggiata. «Che cosa?».
«Stai tranquilla tesoro, non ti farà nulla! E se lo farà, io farò lo stesso a lui, ma col doppio della violenza! Hai capito, Sherlock?!».
Il detective entrò nell'ascensore e lo salutò con un cenno di mano, giusto un momento prima che le porte si chiudessero.

***

Arsène, dopo la propria fuga, aveva impiegato poco meno di una settimana per prepararsi al viaggio. Ci avrebbe messo ancora meno, se non fosse stato così spaventato dall'idea di incontrare sua figlia.
Sua figlia... Una creatura tutta nuova, nata dal suo amore per la Donna Bionda. Una creatura che, nelle giuste mani e coi giusti insegnamenti, poteva diventare la sua erede. Ma sarebbe stato un buon padre, se le avesse insegnato il mestiere che da anni praticava? I genitori non avrebbero dovuto proteggere i figli, insegnare loro cosa fosse giusto e cosa sbagliato?
Con quei pensieri, si era finalmente recato in Inghilterra. Aveva rintracciato la Donna Bionda e aveva parlato con lei, raccontandole tutto ciò che era successo da quando le loro strade si erano separate. Poi lo stesso aveva fatto lei, spiegandogli perché lo avesse lasciato e non gli avesse mai confessato di aver dato alla luce la loro bambina.
«Io ti amavo, Arsène. Ti amo tutt'ora. Ma non potevo più stare con te: sarei stata un peso e, soprattutto, non volevo che Geneviève corresse dei pericoli. Ho cambiato identità e con il ricavato dei nostri colpi mi sono comprata una casetta. Abbiamo vissuto come due persone normali e siamo state felici, anche se sapevo che prima o poi avrei dovuto fare i conti col passato. Geneviève... ti assomiglia così tanto, mio caro. E quando ho capito che si stava avvicinando la mia ora ho deciso che era arrivato il momento di farvi conoscere. Non ha nessun altro... devi prenderti cura di lei. E devi promettermi che non farà mai la tua vita, mai».
E Arsène aveva promesso. Sapeva che era la cosa giusta per sua figlia.
Lui era diventato ladro per necessità, una necessità che poi aveva trasformato in arte. Lei meritava di più, molto di più. Poteva diventare una brillante dottoressa, un'avvocatessa di successo, il prossimo Presidente di Francia.
La figlia di Arsène Lupin, Presidente francese. I mass media ne sarebbero andati matti.
Prese finalmente una decisione: si sarebbero occupati di Sherlock, poi l'avrebbe lasciata libera di scegliere la propria strada. Non c'era dono più prezioso della libertà, in fondo, e sua madre avrebbe capito.
«Padrone?».
Arsène scostò la fronte dal vetro della finestra da cui poteva vedere il Tamigi, la famosa ruota panoramica e, in lontananza, persino il Big Ben.
«Che cosa c'è?».
«Geneviève non è ancora rientrata».
«Lo so perfettamente».
«Non è preoccupato?».
«Perché dovrei? Con Sherlock Holmes è completamente al sicuro».

***

«Moriremo, non è vero?», gli domandò Geneviève, con una spessa corda avvolta intorno al busto che la legava, schiena contro schiena, a Sherlock Holmes.
Il sole era già tramontato da un pezzo e le acque del Tamigi si dividevano schiumando al passaggio del piccolo battello, del quale loro erano gli unici passeggeri.
«Al momento, le nostre probabilità di farcela sono del cinquanta percento. Hai ancora il tuo pugnale?».
«No, me l'hanno preso quando ci hanno perquisiti».
«Giusto. Quarantatre percento, allora».
Geneviève abbandonò il capo contro la spalla sinistra del detective, sospirando.
«So che cosa stai pensando», disse ancora Sherlock, con tono dispiaciuto. «Stai iniziando a pensare che la carriera di ladro sia meno pericolosa rispetto a quella del detective, ma ti assicuro che...».
«In realtà stavo pensando ad altro», lo interruppe la ragazzina.
«Hai intenzione di dirmelo?».
«Mi chiedevo in che modo mio padre la ucciderà, se mai riusciremo a sopravvivere».
Geneviève iniziò a ridere e lo stesso fece Sherlock. Da quanto tempo era che non rideva in quel modo? La risposta era fin troppo semplice: da quando Mary si era sacrificata per lui.
Non poteva permettere che a quella ragazzina, la nipote che lei non sapeva di avere e che le somigliava così tanto, venisse torto un solo capello, quindi iniziò a pensare ad un piano per tirarli fuori da quella tediosa situazione.
«Signor Holmes?».
«Non ora, sto pensando».
«Gli uomini: non riescono proprio ad usare la testa e le mani contemporaneamente».
Sherlock ringhiò: «Le battute di spirito non ci aiuteranno a liberarci, perciò...».
«Signor Holmes!», gridò a mezza voce, con lo stesso tono imperioso che usava Mary quando voleva riportarlo coi piedi per terra.
«Cosa?».
«Riesce a prendere il mio fermacapelli?».
Sherlock girò il volto verso la propria spalla sinistra, dove Geneviève aveva posato la nuca. Tra i suoi capelli raccolti, in bella vista, brillava un rubino della grandezza di un'unghia.
«Sì, posso farlo», rispose il detective. «Ma a cosa mai potrebbe servirci un fermacapelli?».
«Non è un fermacapelli comune. Me l'ha regalato mio padre al nostro secondo incontro, dicendomi di portarlo sempre con me per sicurezza».
Sherlock iniziava a capire. Senza ulteriori indugi, afferrò la pietra con i denti e tirò, delicatamente, fino a che i capelli di Geneviève non gli ricaddero lungo la spalla.
«Prema il rubino, come se si trattasse di una penna, e vedrà che il legno dello spillone si sgancerà fino a rivelare...».
Il detective, che aveva già capito il meccanismo, concluse per lei: «Uno stiletto. Molto astuto».
«Già. Mio padre è un figo».
Sherlock non l'avrebbe definito proprio così, ma dato che era merito suo se potevano liberarsi, decise di soprassedere.

***

Arsène entrò nel salotto come una furia ed incrociò subito lo sguardo di Sherlock, seduto davanti al camino acceso, con una tazza di té tra le mani e un asciugamano intorno al collo.
Aprì la bocca per chiedergli che fine avesse fatto sua figlia, ma il detective si portò un dito alle labbra, intimandogli di fare silenzio, ed indicò il divano con un cenno del capo. Lì, rannicchiato sotto una coperta, c'era il suo prezioso tesoro.
Il Ladro Gentiluomo sospirò di sollievo e si avvicinò per accarezzarle i capelli, trovandoli umidi. Si guardò la mano, confuso, e si voltò nuovamente verso Sherlock, adirato.
«Non ho sentito la porta», lo anticipò il moro.
«Le porte devono funzionare senza che mai si sentano», rispose sbrigativo. «Ora dimmi che cosa diavolo è successo».
Il consulente investigativo sorrise divertito. «Ah, è una lunga storia».
«Ho tutta la notte», rispose Arsène, sedendosi davanti a lui e versandosi una tazza di té. 

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Capitolo 7
*** Women ***


Buonasera belle persone! :)
Un aggiornamento veloce veloce, dato che questo fine settimana ho un battesimo e sarò piuttosto impegnata!
Spero che questo capitolo incentrato sulle donne - di Sherlock, ma non solo - sia di vostro gradimento. Sinceramente a me piace molto, anche se l'ho trovato difficile da scrivere, specie i pensieri e i sentimenti del nostro amato detective. Quindi mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate voi! ;) Ci conto!
Ringrazio chi ha letto e commentato lo scorso capitolo e tutte le belle persone che hanno messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate.

Buona serata e buona lettura!

Vostra,
_Pulse_


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7. Women


Quando quella mattina, prima di andare all'ambulatorio, John portò Rosie dalla signora Hudson, sentì un insolito vociare provenire dal piano di sopra. Delle risate, addirittura!
«Signora Hudson, che cosa sta succedendo?», domandò John, lievemente preoccupato. «Sherlock ha invitato di nuovo i suoi amici drogati?».
«Ma no, John!», lo rassicurò, ridacchiando. Sistemò Rosie nel seggiolone e poi lo accompagnò fino ai piedi delle scale. «Ci sono solo il signor d'Andrésy e sua figlia, Geneviève. È proprio una cara ragazza, lo sai? Mi ricorda Mary».
Gli accarezzò il braccio per confortarlo, le labbra stese in un sorriso docile. Quindi tornò dalla piccola Rosamund, mentre il dottore si faceva coraggio e saliva fino al suo ex appartamento.
«E allora lui ha detto: "Le battute di spirito non ci aiuteranno a liberarci"», esclamò la ragazzina, imitando quasi alla perfezione la voce e il tono irritato di Sherlock.
Arsène, seduto davanti a lei, si tenne la pancia mentre scoppiava in una nuova contagiosa risata. «Tesoro, sei tale e quale a lui!».
Anche Sherlock sorrideva, mentre sgranocchiava un biscotto. Quando alzò gli occhi e lo vide sulla porta, però, il suo volto divenne di pietra.
Non era la prima volta che lo guardava in quel modo, con quel misto di senso di colpa e vergogna negli occhi. Ma perché? Pensava che fosse geloso del suo rapporto con Arsène? Forse un poco, ma non giustificava quell'espressione.

Finalmente anche i due ospiti si accorsero della sua presenza e si ammutolirono all'improvviso, come se li avesse appena sorpresi a rubare.
Arsène Lupin fu il primo a riscuotersi, riservandogli un sorriso contento. «Caro dottor Watson! Non stia sulla porta, venga qui con noi! Stavamo giusto facendo colazione. Non è quella del Savoy, ma va bene ugualmente».
John cercò lo sguardo di Sherlock, ma l'amico si alzò dal tavolo e si diresse verso la finestra, davanti alla quale rimase per tutto il tempo, in contemplazione e con le mani unite dietro la schiena.
«Scusi l'intrusione, ma la scorsa notte è stata piuttosto movimentata», disse ancora Arsène, mentre lui si sedeva sulla sedia lasciata libera da Sherlock. «Tè?».
«Sì, grazie».
Il dottor Watson incrociò gli occhi di Geneviève quasi per caso e si ritrovò a sobbalzare sulla sedia, notandovi qualcosa che al Savoy gli era sfuggito. O forse erano solo le parole della signora Hudson ad influenzarlo. D'altronde non era possibile che lei e Mary avessero qualche grado di parentela. Sarebbe stato troppo assurdo.
«Oh, ma dove sono finite le mie buone maniere!», si lamentò Arsène, schiaffeggiandosi una mano. «Dottor Watson, le presento mia figlia, Geneviève. Tesoro, lui è il dottor John Watson, il blogger e compagno di mille avventure di Sherlock Holmes. "Partners against crime"... è l'espressione azzeccata per descriverli».
La ragazzina sorrise e John sentì un'altra fitta al cuore.
«Ho trascorso con lui un pomeriggio soltanto e ho provato la forte tentazione di prenderlo a pugni almeno in un paio di occasioni. È normale?», gli chiese poi, portandosi la tazza alle labbra.
«Oh sì, più che normale», rispose John, sforzandosi di sorridere. La curiosità però prese il sopravvento e con la fronte corrugata chiese: «Hai trascorso con lui il pomeriggio?».
«Sì», rispose per lei il padre. «Dopo la nostra chiacchierata di ieri, ho concesso a Sherlock e a Geneviève un po' di tempo da soli. Avrebbero dovuto solo parlare, in modo del tutto teorico, delle carriere alternative che poteva considerare, ma Sherlock», e gli rivolse un'occhiata di rimprovero, «si è lasciato prendere la mano e ha deciso di portarla con sé ad indagare».
«In realtà, dopo aver visitato l'altro Holmes, sono stata io ad insistere che mi mostrasse in che cosa consistesse il suo lavoro», lo difese la ragazzina. «Certo, non potevo immaginare che saremmo finiti in quel pasticcio...».
«Quale pasticcio?».
«Ci stavo giusto arrivando, dottor Watson».
E Arsène iniziò a raccontare il caso, in modo così coinvolgente e dettagliato da catturare tutta la sua attenzione e fargli perdere la cognizione del tempo.
All'apparenza sembrava un semplice caso di overdose, ma la sostanza trovata nell'organismo di quel povero malcapitato era quella che veniva chiamata "piede del diavolo", una droga nuova di zecca ricavata da una radice di origini africane a forma di piede per metà umano e per metà caprino. Come tutte le nuove droghe, era ancora imprevedibile e in fase di test, perciò non era il primo caso di overdose in cui Scotland Yard si imbatteva. Quella volta però c'era qualcosa di diverso, a detta di Sherlock. Secondo lui, infatti, la droga gli era stata iniettata, simulando l'overdose per sviare le indagini.
«Diceva di saper riconoscere quando una persona si fa da sola», esclamò Geneviève, guardando il detective ancora con lo sguardo fisso fuori dalla finestra.
John biascicò: «Lo sa eccome, infatti», per poi invitare Arsène a proseguire.
Perquisendo l'appartamento della vittima, Geneviève aveva trovato strana la presenza di un quadro, così fuori luogo che doveva avere per forza uno scopo: quello di nascondere una cassaforte. Mentre Sherlock si scervellava con i suoi ragionamenti, a lei era bastato guardarsi intorno per trovare la combinazione, appesa all'anta del frigorifero con un magnete a forma di lucchetto. Più facile di così.
Dentro vi avevano trovato una quantità insolita di soldi, quasi certamente il ricavato della vendita della droga. Forse la vittima era diventata avida e aveva iniziato a crearsi un giro proprio, così da non dover condividere i guadagni con i compagni. Con quell'idea, avevano chiesto a Lestrade di fornire loro tutto ciò che avevano trovato sulle precedenti vittime di overdose, quelle vere, e cercando qualcosa che li accomunasse avevano notato che erano state tutte su un battello per turisti. E sempre Geneviève aveva ricordato di aver visto, sempre sul frigorifero, il volantino dello stesso battello.
Così avevano acquistato due biglietti e, camuffati, si erano fatti una crociera sul Tamigi. Geneviève aveva sfruttato il suo impeccabile francese per non creare sospetti tra gli inservienti e in fretta aveva scoperto chi facesse lo spacciatore come secondo lavoro.
Quando il giro fu concluso, gli investigatori si erano nascosti e avevano atteso di rimanere soli con i due malviventi, i due che guarda caso avevano il compito di portare il battello al deposito. Ottimo per spostare da una parte all'altra di Londra la droga.
Le cose erano precipitate quando erano stati scoperti e si erano ritrovati con due pistole puntate alla testa. Legati come due salami, erano riusciti a liberarsi grazie allo speciale fermacapelli-barra-pugnale che Arsène aveva regalato alla figlia per eventualità del genere. Avevano colto di sorpresa i due spacciatori e c'era stata una zuffa che si era conclusa con Sherlock e Geneviève che si gettavano nel Tamigi. Per fortuna la ragazzina aveva fatto in tempo a recuperare il cellulare che le avevano sequestrato e a chiamare la polizia, la quale per una volta era arrivata in tempo per arrestare i due farabutti e ripescare dal fiume il grande detective e la sua giovane aiutante.
«A proposito, sei sicuro che questo Lestrade non si chiederà chi sia?», chiese Arsène a Sherlock, riferendosi alla figlia.
«Non ti preoccupare, gli ho detto che era con me».
«Bene. E nessuno vi ha fotografati insieme, ne sei certo?».
Sherlock si strinse nelle spalle. «Anche se fosse? Dopo quest'avventura sono certo che Geneviève non seguirà le tue orme».
Tutti gli sguardi, compreso quello di John, si posarono sulla ragazzina, la quale finse di non averli sentiti e si interessò alla tazza che teneva tra le mani.
«Sei fatta per questo, Geneviève!», insistette Sherlock, con una passione a cui non seppe dare una motivazione. «Hai l'intuizione e l'intelligenza di tuo padre e se solo le sfruttassi per il bene...!».
«Certo però che il tuo non è un lavoro remunerativo...», si intromise Arsène, guardando l'appartamento in cui si trovavano. «Insomma, la maggior parte dei tuoi clienti sono dei disperati! Come dovrebbe vivere, la mia bambina?».
«I soldi non fanno la felicità, Arsène».
«Ah, odio questa frase! È così ipocrita!».
«Soprattutto se li ottieni rubando!».
«Equa ridistribuzione, preferisco. E comunque che cosa ne sai tu?! Sei sempre stato un ragazzino viziato! Lo sei tutt'ora!».
John aprì la bocca per azzittirli entrambi, scioccato da come si contendessero il diritto di decidere della vita di Geneviève. Quello che più lo stupiva non era tanto Arsène - era suo padre, in fondo - ma Sherlock: perché si intrometteva in quel modo? Che cosa rappresentava quella ragazzina per lui?
Non fece in tempo a dire una parola, interrotto dal pugno che Geneviève sbatté sul tavolo. Il silenzio piombò su di loro e la ragazzina si portò la mano al petto, mostrando loro gli occhi verdi colmi di lacrime. Si era fatta male, forse? O era per il litigio dei due uomini?
«Adesso basta», mormorò. «Ho quindici anni, non posso decidere adesso della mia vita. Voglio finire il liceo, voglio andare all'università. Per quanto mi piacciano entrambe le vostre carriere, voglio vivere come una ragazza della mia età finché posso. Poi deciderò».
Sherlock e Arsène, ammutoliti da quella risposta, non osarono dire nulla nemmeno quando si alzò da tavola per correre giù dalle scale.
«Spero tu sia soddisfatto», borbottò Arsène, incrociando le braccia sopra al gilet.
Il detective gli rivolse un'occhiata truce. «Io? Che cos'avrei...?».
«Piantatela!», fu il turno di John, alzandosi a sua volta. Rendendosi conto del disastroso ritardo, puntò il dito prima verso l'uno, poi verso l'altro.
«Devo andare al lavoro. Lasciate stare quella povera ragazza, okay? È molto più saggia di voi, da quanto ho visto. Deve averlo preso da sua madre».
I due si scambiarono un altro sguardo, quella volta addolorato, e John si sentì all'oscuro di un segreto che lo riguardava. Decise di ignorare il presentimento, perché non aveva tempo.
«E noi due», aggiunse guardando Sherlock, «più tardi faremo una lunga chiacchierata».
Il consulente investigativo fece una smorfia e tornò a voltarsi verso la finestra.
«È stato un piacere», John salutò l'uomo biondo, il quale però si alzò dicendo: «Me ne vado anche io. Sono stato qui dentro fin troppo, ho bisogno d'aria».
Recuperò il cappotto che aveva lasciato sulla poltrona e insieme scesero le scale. Dall'androne, scorsero Geneviève seduta al tavolo della cucina della signora Hudson, accanto ad una Rosie divertita dalla filastrocca in francese che le stava canticchiando muovendo due pupazzetti.
Gli uomini sorrisero e si ritrovarono a guardarsi con imbarazzo, sorprendendosi a vicenda.
Quindi si avvicinarono e John salutò la figlioletta e la signora Hudson, mentre Arsène invitava Geneviève a raggiungerlo per tornare in albergo.
«Posso rimanere qui per un po'?», chiese la ragazzina, mostrando un'espressione da cucciolo.
Il padre non poté far altro che cedere, avvicinandosi per posarle un bacio sulla guancia.
Risollevandosi, le posò una mano sulla testa e le disse: «Ti farò portare dei vestiti puliti da qualcuno».
Il sorriso che ricevette in risposta fu il migliore dei ringraziamenti e col cuore leggero, Arsène e John si diressero alla porta.
«Ah, i figli», sospirò il ladro, stringendosi nel lungo cappotto.
A quel punto, lontano dalle orecchie di Sherlock, il dottore non riuscì più a trattenersi: «Avete lo stesso sarto, per caso?».
«Che cosa?».
«Il cappotto. È praticamente identito a quello di Sherlock».
Arsène si guardò e poi scoppiò in una di quelle sue risate da bambino.
«Che... che cosa c'è di divertente?», chiese il dottore, non riuscendo a nascondere il sorriso che gli aveva increspato le labbra.
«Tu, John! Scusami, posso darti del tu? Sarebbe ora, dopotutto... Tu credi davvero che io abbia copiato Sherlock?». Fece schioccare la lingua contro il palato, dirigendosi verso la propria Porsche.
«Stai per caso dicendo che è lui che ha copiato te?».
«Beh, non proprio. Però sono stato io a regalargli il suo primo cappotto, quando ci siamo conosciuti. Allora non avrei mai immaginato che avrei contribuito all'iconica figura del grande detective, pensavo solo gli stesse bene. Non trovi?».
«Ecco... Sì, molto bene. Gli dà quell'aria da drama queen...».
Arsène aprì la portiera della Posche, quel giorno coperta per via del cielo nuvoloso, e oltre il tettuccio gli rivolse una strizzata d'occhio.
«Proprio quello che intendevo. Ora, mi perdonerai se non ti offro un passaggio, ma sono di fretta».
John avrebbe tanto desiderato che lo facesse, così da non dover prendere l'autobus, ma finse di non esserci rimasto male e sollevò una mano in segno di saluto. Aspettò che la Porsche sparisse dietro l'angolo, poi si incamminò verso la fermata.

***

Perché Eurus aveva scelto Molly? Perché Molly lo amava davvero, al contrario di Irene Adler.
La Donna era stata una sfida, un'avversaria che lo aveva affascinato e verso cui aveva provato, sin dal primo istante, una forte attrazione fisica. Tra loro c'era tanta chimica, poco cuore. Molly, invece... Molly era tutto cuore. E quel cuore apparteneva a Sherlock, che lui lo volesse o no. Persino Eurus l'aveva capito e gliel'aveva schiaffeggiato davanti, costringendolo ad aprire gli occhi.
Aprire gli occhi. Anche Arsène voleva che facesse lo stesso, senza sapere che l'aveva già fatto, che stava solo fingendo di non aver visto la verità.
La stessa Irene ne era all'oscuro, tanto che aveva chiesto al Ladro Gentiluomo di investigare sul perché l'avesse lasciata. O meglio, per chi.

Erano ancora nel bel mezzo della ristrutturazione del 221B, quando aveva ricevuto il suo sms.

Mi manchi.

Senza rimuginarci troppo, le aveva risposto di getto.
Forse non avrebbe dovuto, forse sarebbe stato meglio ignorarla e cancellare il suo numero, una volta per tutte, ma la ferita aperta da Eurus era ancora fresca e dolorosa e cercava il modo di chiuderla, in fretta.

Sai dove trovarmi.
SH

Quella sera stessa, un'auto elegante si era fermata davanti alla palazzina e Sherlock vi era salito. L'autista lo portò al solito albergo e Sherlock chiese la solita stanza, poi aspettò.
Irene Adler arrivò con mezz'ora di ritardo - le piaceva farsi desiderare - ma per farsi perdonare si era messa il suo abito da battaglia.
Lasciò cadere l'impermeabile e fu nuda davanti a lui, seduto sul letto.
Si avvicinò e gli sfiorò il viso, lo zigomo che gli aveva tagliato la prima volta che si erano visti. Sherlock chiuse gli occhi, beandosi della sua carezza.
«Pensavo non ci saremmo più rivisti», sussurrò, sedendosi a cavalcioni su di lui, le mani che ora affondavano nei suoi capelli e lo invitavano a posare le labbra sul suo collo candido.
«Non succederà più, infatti. Questo è un addio definitivo».
Irene gli tirò i capelli di scatto, così che potesse guardarlo negli occhi. Non stava mentendo.
«Perché?».
«Perché tu non mi ami».
«Nemmeno tu», rispose con un sorriso. «Ma stiamo bene insieme. Siamo fatti della stessa pasta, Sherlock».
«No, ti sbagli. Tu sei senza scrupoli, Irene; manipolatrice, bugiarda, lussuriosa. Io non ho bisogno di una donna come te».
«Non dirmi che anche tu soffri, come la maggior parte degli uomini, del complesso di Edipo».
«Forse», rispose, prendendole i polsi quasi con dolcezza. «So solo che tra noi finisce qui, stasera».
Sherlock fece per alzarsi, ma la donna lo schiaffeggiò e finì steso sul letto. Nei suoi occhi c'era una freddezza insolita, che il detective poteva spiegarsi solo se fosse stata davvero addolorata. Che, alla fine, si fosse affezionata a quel punto?
«Sei sicuro, Sherlock? Sei davvero sicuro di quello che stai dicendo?», gli domandò, le mani dalle unghie laccate di rosso strette intorno al suo collo. «Ti annoieresti, accanto ad una donna ordinaria».
Sherlock abbozzò un sorriso, nonostante l'aria faticasse a raggiungergli i polmoni. Fu forse per la mancanza di ossigeno che rispose: «Lei è tutt'altro che ordinaria».
Irene allentò la presa, scossa. «Quindi c'è già un'altra donna. Chi è?».
Non poteva dirglielo, non poteva rischiare di metterla in pericolo per l'ennesima volta.
«Non è per parlarti di lei che sono qui», esclamò, percorrendo le sue braccia con le dita. «So che cosa ti piace e questo è il mio addio».
Le prese il volto e la baciò, stringendola poi a sè su quel letto a cui non disfarono nemmeno le coperte.

Era stato piacevole possedere il suo corpo un'ultima volta.
Più che l'atto in sé, da bravo scienzato, lo affascinava la chimica: ad ogni azione una reazione. E Irene Adler, la dominatrice, diventava malleabile come chiunque altro quand'era Sherlock Holmes a toccarla, baciarla, penetrarla.
Anche lui aveva provato lo stesso senso di appagamento alla fine, ma dopo si era sentito sporco come tutte le altre volte, imbarazzato e in collera con se stesso.
Lui, l'uomo che aveva sempre proclamato di sdegnare i sentimenti in quanto distrazioni, non era altro che un romanticone che soffriva se faceva l'amore con una donna che non amava.
«Compone?».
Sherlock chiuse gli occhi e sollevò l'archetto dalle corde del violino. Quella ragazzina aveva lo stesso passo impercettibile del padre.
«Mi aiuta a pensare. Perché sei ancora qui?».
Geneviève scrollò le spalle e si avvicinò alla mensola del camino. Sherlock osservò i suoi movimenti.
«Perché ha messo un tavogliolo su questo teschio?», gli domandò, sollevandone solo un angolo con la punta delle dita.
Non gli aveva chiesto perché possedesse un teschio, come faceva la maggior parte delle persone. Lei era diversa, era speciale.
Invece di rispondere - non era pronto a condividere quella storia con lei - le chiese: «Non lo trovi inquietante?».
«Perché dovrei? È ciò che diventeremo tutti, prima o poi. Un mucchietto di ossa».
«Sei strana, Geneviève Lupin».
A quell'appellativo, la ragazzina lasciò il tovagliolo e lo fissò con le guance color porpora.
«Io volevo... volevo scusarmi per essermi introdotta qui e aver rubato il suo violino».
«Non ce n'è bisogno». Posò lo strumento sulla poltrona, il manico adagiato sul bracciolo, accanto al suo cellulare, e aggiunse: «Non lo dire a tuo padre, ma sappi che sei stata brava. Dove hai imparato a guidare la moto?».
«Mi ha insegnato mia madre, quando ancora ne aveva le forze».
«Giusto».
«Le piaceva la velocità, il vento sul viso...».
Entrambi a corto di parole, si guardarono intorno. Il detective avrebbe voluto in realtà dirle dell'altro, ma esitava. Ma da quando si faceva tutti quei problemi?
Si schiarì la gola e anche a costo di farla piangere decise di essere schietto con lei: «Lo sai che prima o poi metterò tuo padre dietro le sbarre, vero?».
«Che cosa?».
«Tuo padre è un ladro. Quello che fa è sbagliato, è contro la legge. Non puoi giustificarlo».
«No, questo lo so. Non capisco perché me lo sta dicendo».
Sherlock la guardò stranito. La sua reazione era del tutto anormale. Perché non stava nemmeno provando a difenderlo?
«Non voglio dover arrestare anche te, un giorno».
Geneviève gli sorrise ed annuì, guardandosi le scarpe da tennis. «Grazie, signor Holmes. Anche lei mi piace».
«Io non ho...».
«Allora, che cosa stava componendo? Sembrava un pezzo romantico», cambiò in fretta argomento la ragazzina, superandolo per leggere le note musicali sullo spartito. «Lo sa, avrò ereditato molti doni dai miei genitori, ma la musica... Questo è arabo, per me. Preferisco di gran lunga ascoltarla. È questo che fa quando non lavora ad un caso? Scrive canzoni?».
Quel flusso inarrestabile di parole lo confuse tanto che Sherlock dovette poggiarle l'archetto sulle labbra per azzittirla.
«Vorrei restare solo, per favore».
«Perché?».
«Devo pensare».
«Io voglio uscire. Londra è bellissima con le decorazioni natalizie!».
«La porta è da quella parte».
«Avanti, signor Holmes!», lo pregò, prendendolo per mano.
A quel contatto Sherlock si irrigidì e la stessa Geneviève si ritrasse, colpita da qualcosa nel suo sguardo. Che cosa ci avesse visto, non l'avrebbe mai scoperto.
«Mi piacerebbe... mi piacerebbe tornare al Bart's. Molly, ieri, ha detto che potevo tornare a trovarla quando volevo».
Sherlock sentì il sangue ghiacciarsi nelle vene e le diede le spalle. «Mi rincresce deluderti, ma credo che abbia pronunciato quella frase per me».
«Non capisco».
«Succede anche alle menti più brillanti, a volte», rispose secco.
«Perché non è stata chiara?».
Il detective inspirò ed espirò profondamente. «I dubbi sono preferibili, in alcune circostanze. Permettono di fantasticare».
«I dubbi portano ai fraintendimenti. Allora, andiamo?».
«No».
«Perché no?».
«Smettila! Smettila di ficcare il naso in questioni che non ti riguardano! Hai la stessa sfacciataggine di tuo padre!», gridò, non riuscendo più a contenersi.
Geneviève sostenne il suo sguardo gelido per un po', più di quanto avrebbero resistito le persone comuni, poi abbassò il capo e scese le scale a passo spedito. Sentì il tonfo della porta al piano inferiore e sospirò di sollievo. Finalmente se l'era tolta dai piedi.
Tornò alla finestra per finire la composizione, ma l'immagine della ragazzina che vagava da sola per le strade di Londra, nel suo cappottino blu elettrico, gli strinse lo stomaco. Cos'era? Preoccupazione? Perché avrebbe dovuto preoccuparsi? L'aveva vista gestire uno spacciatore, se la sarebbe cavata.
Si passò le mani sul volto ed ottenne tutte le risposte dalla voce ammonitrice di Mary nella sua testa: È solo una ragazzina, Sherlock! Seguila e chiedile scusa!
La voce della ragione.
Sherlock sbuffò, lasciò il violino sul tavolo ed infilandosi il cappotto prese le scale.
Era già a metà, quando si rese conto di aver dimenticato il cellulare. Lo cercò prima con lo sguardo, poi si avvicinò alla poltrona, dov'era sicuro di averlo lasciato, ed infilò una mano tra il cuscino e il bracciolo. Lo trovò e senza ulteriori indugi uscì.

***

Molly alzò gli occhi dal microscopio sentendo la porta aprirsi e la bocca le si seccò all'improvviso, incrociando gli occhi dell'uomo che da settimane ormai la stava evitando con lodevole impegno. E ora si presentava lì, al suo laboratorio, e con appresso una ragazzina di quindici anni, i capelli biondi e ondulati raccolti sulla nuca da un fermaglio e due occhi verdi vispi e allegri.
«Wow! E così questo è un vero laboratorio della scientifica?».
«No, è il laboratorio dell'obitorio», la corresse pazientemente Sherlock.
Finalmente la ragazzina si accorse di lei e guardò il detective, in attesa di essere introdotta.
«Giusto, le formalità. Geneviève, questa è Molly Hooper, la responsabile».
La stessa che due settimane prima aveva chiamato "amica", a cui aveva chiesto di dirgli "Ti amo" senza fare domande e a cui lui stesso aveva detto quelle parole, due volte.
«Molly», riprese dopo una pausa, guardandola brevemente negli occhi. «Questa è Geneviève, aspirante detective. Mi sta aiutando a risolvere un caso».
«Molto piacere», rispose con un sorriso, dicendosi che non poteva essere scortese con lei per via di Sherlock. «Il tuo nome è davvero bello, è francese?».
La ragazzina annuì e si avvicinò per curiosare. «Che stai facendo?».
«Sto controllando dei campioni. Un lavoro noioso».
Geneviève la fissò severamente, con un'espressione molto simile a quella che un tempo le rivolgeva Sherlock, quando parlava troppo o cercava di essere spiritosa - Dio, avrebbe perferito persino quella all'indifferenza che da quel giorno le riservava. Poi posò una mano sulla sua e con voce morbida affermò: «Il tuo lavoro non è affatto noioso. Anzi, è di massimale importanza. Senza di te la polizia e persino il grande Sherlock Holmes sarebbero perduti».
Molly guardò il consulente investigativo, col cuore che le batteva forte nelle orecchie.
Lui deviò ancora una volta il suo sguardo e schiarendosi la gola disse: «Geneviève ha ragione».

L'anatomopatologa lo fissò a lungo, senza capire quale fosse il suo gioco. Perché le stava facendo tutto questo? Perché lei continuava ad amarlo nonostante tutto?
Si fece forza e ritraendosi dal tocco della ragazzina chiese: «Cosa vi porta qui?».
«Un cadavere», rispose entusiasta Geneviève.
Non la sorprese che Sherlock avesse preso sotto la sua ala una ragazzina sociopatica. Quindi li condusse all'obitorio ed aprì loro la porta. Sapeva che non l'avrebbero ascoltata, ma fece un tentativo.
«Non è un po' troppo giovane per un cadavere?», chiese al detective, il quale soppesò in silenzio Geneviève.
Alla fine fu proprio la ragazzina a mostrare un po' di buonsenso, esclamando: «Sì, è meglio che io rimanga qui. Non impazzisco per i cadaveri, dopotutto».
Strano, dall'eccitazione che aveva letto nei suoi occhi cinque minuti prima avrebbe detto il contrario. Comunque rimase fuori dall'obitorio con lei, davanti alla finestra attraverso la quale potevano vedere Sherlock muoversi a suo agio come se fosse casa sua.
La ragazzina tirò fuori una gomma da masticare dal cappotto blu elettrico e dopo essersela messa in bocca iniziò a dondolarsi sui talloni.
«Quindi...», esordì, indicando con un cenno del mento il detective, intento ad esaminare il corpo dell'ultima vittima di overdose di quella nuova droga, il piede del diavolo.
«Che cosa?», domandò Molly, stanca.
«Precisamente da quanto tempo ti piace Sherlock?».
La scienziata non fece una piega. Si strinse le braccia al petto, continuando a guardare oltre il vetro mentre il ricordo di quella conversazione telefonica si ripeteva nella sua mente ancora e ancora, come un nastro rotto.
«Lui non mi piace», confessò pacatamente. «Io lo amo».
Geneviève soffiò una bolla e quando scoppiò disse: «Bel casino».
«A chi lo dici», replicò Molly, non riuscendo a trattenere un sorriso malinconico.
«Il vero problema», aggiunse, trovando estremamente facile parlare e confidarsi con quella ragazzina sconosciuta, «è che lui ne è pienamente a conoscenza».
«L'ho notato. Sprizza disagio da tutti i pori, quando siete nella stessa stanza. È stranissimo». Un'altra bolla, un altro scoppio. «Pensavo non fosse il tipo».
«È solo una facciata, una corazza che si è costruito intorno. Mi sono sempre chiesta che cosa l'avesse costretto a tanto».
«E ora sta crollando, pezzo dopo pezzo».
Molly si voltò verso quella ragazzina, stupefatta da quanto fosse riuscita a capire di Sherlock in così poco tempo. Chi era, in realtà?
«Infatti», mormorò, a bassa voce. «Non ha mai avuto problemi a tenermi a distanza pur standomi accanto. Da un paio di settimane, invece...».
«È necessaria quella fisica».
«Se solo mi parlasse, mi raccontasse che cos'è successo...».
Sherlock si sollevò dal cadavere e lo richiuse nella sua cella frigorifera. Aveva finito la propria ispezione.
Molly sorrise a Geneviève e andò alla porta per accoglierlo. Sherlock si sistemò la sciarpa ed esordì: «Non si tratta di un'overdose».
«No?».
«No. Andiamo, abbiamo un appartamento da perquisire».
Sherlock non la salutò. Geneviève, prima di seguirlo, le prese la mano e la guardò riconoscente.
«Grazie per tutto, è stato bello conoscerti e parlare con te».
Sherlock si voltò per esortare la ragazzina a muoversi e solo allora, incrociando il suo sguardo, Molly trovò la forza per dire: «Torna a trovarmi quando vuoi!».
La ragazzina le sollevò il pollice, senza capire che si stava rivolgendo prima di tutto al detective. Lui capì, lui capiva sempre tutto, ma la tristezza nei suoi occhi non fece altro che aumentare.

Molly, seduta ad uno dei tavoli della mensa, non riusciva a fare a meno di pensare al loro ultimo incontro e allo strano sms che aveva ricevuto un quarto d'ora prima, quando ormai si stava preparando per tornare a casa.
Un semplice "Aspettami", mandato da Sherlock.
C'era qualcosa di strano in quel messaggio, non solo perché finalmente sembrava intenzionato a parlarle dopo settimane di silenzio, ma soprattutto perché non si era firmato. Aveva quella strana ossessione di mettere le sue iniziali - SH - alla fine di ogni messaggio, come se non sapesse che i destinatari avevano il suo numero salvato in rubrica.
Per questo, non vedendole, Molly si era preoccupata. Ma aveva deciso di fermarsi comunque ad aspettarlo: non poteva perdere quell'occasione, non dopo tutti i tentativi che aveva fatto per convincerlo a darle qualche spiegazione. 
Finalmente l'anatomopatologa poté mettere da parte tutte le domande e concentrarsi sui fatti: Sherlock era appena passato davanti alle porte della mensa, ma aveva tirato dritto, senza vederla. Afferrò la borsa in stile patchwork e lo rincorse, chiamando il suo nome.
Il detective si fermò di colpo e si irrigidì visibilmente, mentre voltava con cautela il capo verso di lei. La tristezza nei suoi occhi sbriciolò un altro pezzetto del suo cuore.
«Sherlock, stai bene?», gli chiese, stringendo il cellulare tra le mani nervose.
«Sì», rispose di getto, per poi corrugare la fronte. «Perché sei ancora qui?».
Molly si chiese se non fosse sotto effetto di qualche droga, magari lo stesso piede del diavolo su cui aveva indagato. Respirò profondamente, sollevando il cellulare.
«Mi hai scritto di aspettarti».

Il consulente investigativo indossò una maschera di impassibilità e la raggiunse a passo deciso. Molly ebbe l'istinto di arretrare, ma lo ignorò e lasciò che Sherlock si facesse tanto vicino da poter sentire il suo profumo. Quindi lo guardò mentre le prendeva il cellulare e leggeva il messaggio che lui stesso le aveva inviato. O forse... forse non era stato lui. Ma certo, era l'unica spiegazione.
«Scusami, avrei dovuto capirlo prima», mormorò, portandosi una mano sul viso stanco. «Non ti sei firmato, quindi non l'hai scritto tu».
Sherlock la guardò negli occhi con una punta di ammirazione. Era raro che la guardasse in quel modo e Molly ne approfittò per raccogliere il coraggio e dire: «Già che sei qui, potremmo parlare di...».
«Ma certo», sussurrò, con lo sguardo di nuovo lontano, perso nei propri ragionamenti. «È stata lei. È sempre stato questo il suo intento».
«Di che cosa stai parlando?».
«Geneviève», la rese partecipe. «Geneviève ha preso il mio cellulare - è un vizio di famiglia - e ti ha inviato questo messaggio perché voleva che ci incontrassimo».
Venne scosso come da un fremito, all'improvviso. Aveva appena unito un altro puntino della rete stesa per lui. «Ieri ha detto di non voler esaminare il cadavere, ma era tutta una scusa per rimanere da sola con te. Di che cosa avete parlato?».
Le aveva posato le mani sulle braccia e, chino sulle ginocchia, la stava guardando dritta negli occhi, seriamente, come se si trattasse di una questione di vita o di morte.
Molly iniziava a capire le macchinazioni di quella ragazzina e, dallo sguardo del detective, capì che entrambi l'avevano sottovalutata.
«Lei... lei ha capito, Sherlock, e io non ho negato. Non ha più senso farlo, ormai», rispose, abbassando il capo. «Ha notato come tu fossi a disagio nella stessa stanza con me, della distanza che tenevi, e ha dedotto che fosse successo qualcosa a causa della quale la tua corazza ha iniziato a cadere».
Sherlock respirò profondamente e si allontanò, i pugni stretti lungo i fianchi.
«Che cos'è successo, Sherlock?», gli chiese, sforzandosi per mantenere una voce ferma. «Devi dirmelo, io... Voglio che le cose tornino come prima. Per favore».
Il consulente investigativo continuò a darle le spalle, chiuso nel proprio silenzio.
Molly sapeva di essere al limite - grazie a lui, aveva imparato a prevedere esattamente il momento in cui avrebbe iniziato a piangere - perciò si girò a sua volta ed iniziò ad allontanarsi.
«Le cose non torneranno mai come prima», disse ad un tratto il detective, malinconico.
L'anatomopatologa accusò l'ennesimo colpo e attese, invano, un "ma". Sempre così speranzosa...
Inspirò, raddrizzando le spalle, e senza salutarlo si diresse verso l'uscita.

***

Sherlock aveva voglia di gridare, di spaccare tutto ciò che lo circondava come aveva spaccato la bara destinata a Molly nelle fantasie di Eurus.
Era proprio come aveva detto sua sorella: lui non aveva salvato Molly Hooper, non l'aveva mai fatto. L'aveva sempre e solo condannata al dolore, a quel dolore che lui si trascinava dietro da quando era un bambino e che, solo ora se ne rendeva conto, aveva attaccato a tutte le persone che per qualche motivo si ritrovavano a volergli bene.
Tutti i suoi sforzi di tenere le distanze, di risultare presuntuoso e cattivo, non erano serviti a nulla con le persone speciali che aveva incontrato sul suo cammino. Molly Hooper, in particolare, aveva sempre visto sotto quella corazza, come l'aveva chiamata lei, e ora lei più di tutti ne stava patendo le conseguenze.
Non poteva nemmeno dare la colpa a Geneviève, l'autrice di quel piano elementare che come scopo aveva quello di farli riappacificare. Era solo una ragazzina, ancora non aveva pienamente realizzato che il mondo non era un libro di favole, dove ogni storia finiva sempre col principe che salva la principessa e la sposa.
Entrò nell'obitorio e lì, nel silenzio dei morti, riuscì ad acquietare i propri pensieri. Almeno fino a quando non notò una busta bianca posata su uno dei freddi tavoli per le autopsie. Era indirizzata a lui, ovviamente.
All'interno vi trovò due biglietti per lo spettacolo del Don Giovanni alla Royal Opera House e un cartoncino bianco, firma di Arsène Lupin, con su scritto: "Mio padre voleva che ci andassi con lui, ma io preferisco il concerto degli Artic Monkeys. Divertitevi! Geneviève".
Quella maledetta ragazzina.
Sherlock uscì dall'obitorio e si diresse verso gli spogliatoi del personale. Non trovò nessuno, cosa che gli facilitò notevolmente il lavoro.
Aprì l'armadietto di Molly - la combinazione non era un problema - ed esitò prima di lasciare i biglietti sopra il suo camice, in modo che fosse impossibile non notarli. Sospirò, strappò un angolo del calendario appeso accanto alla porta e sulla parte bianca scrisse frettolosamente: "Un regalo da parte di Geneviève. Vacci con qualcuno che ti meriti e che non ti faccia soffrire. SH".
Chiuse l'anta e vi diede le spalle. Ora non poteva più tornare indietro.

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Capitolo 8
*** The blue diamond ***


Ciao a tutti! :)
Allora, first things first: sono così contenta che la storia vi piaccia! Arsène ha rubato il mio cuore ed ero certa che avrebbe fatto lo stesso col vostro - in fondo è la sua specialità - ma non pensavo a questi livelli 
Perciò vi ringrazio tutti, uno per uno, e spero di farvi divertire fino alla fine!
In questo capitolo parleremo, tra le altre cose, di un vecchio caso irrisolto che coinvolto il Ladro Gentiluomo e la Donna Bionda, ovvero la madre di Geneviève. E chi si interesserà a riprenderlo in mano dopo tutti questi anni? Ma certo, il nostro amato consulente investigativo. Perché? Questo non ve lo anticipo ;)
Vi auguro buona lettura e se avrete voglia e cinque minuti mi farebbe piacere un vostro parere!

Alla prossima!

_Pulse_


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8. The blue diamond


Arsène toccò il bordo della piscina con una mano e poi vi si appoggiò con entrambi i gomiti, fissando il suo fidato collaboratore in piedi davanti a lui, con un asciugamano in una mano e il suo cellulare squillante nell'altra.
«Chi è?», chiese, infastidito dall'interruzione.
«Irene Adler, padrone».
Il ladro alzò gli occhi verso la cupola che illuminava di luce naturale la piscina del Savoy, sgombrata appositamente per lui. Quindi prese l'asciugamano e dopo esserselo passato contro l'orecchio destro si fece dare il cellulare per rispondere.
«La pazienza non è il tuo forte, vero?», esordì stizzito.
«Quanto ti ci vuole, Arsène?».
«Signor Lupin, prego», la corresse. «Solo gli amici mi chiamano Arsène».
«Bene, signor Lupin. Non pensavo che scoprire l'identità della donna di cui Sherlock è innamorato si sarebbe rivelato un problema per te».
«Conosci i miei metodi e conosci Sherlock. Non è facile entrare nel suo cuore, ma ci sto lavorando».
«Dimmi che cosa vuoi per accelerare i tempi».
Arsène fissò allibito il cellulare, poi si portò il microfono alla bocca e gridò come un ragazzino: «Che tu la smetta di chiamarmi!».
«E va bene», rispose mestamente la Adler. «Ma sappi che ti pagherò il doppio, se riuscirai a far sì che Sherlock torni da me strisciando».
Il rumore secco di un frustino pose fine alla comunicazione e Arsène lanciò il cellulare verso il proprio servitore, con una smorfia sul volto.
«L'ho già detto che non riesco a tollerare quella donna?».
«Ripetutamente».
«E pensare che nel mio cuore c'è spazio per tutti!».
Arsène stava per riprendere il proprio allenamento, quando Geneviève venne scortata a bordo piscina da un altro dei suoi uomini.
«Tesoro!», esclamò il Ladro Gentiluomo, con un sorriso allegro. «Iniziavo a sentire terribilmente la tua mancanza».
La ragazzina abbozzò un sorriso imbarazzato e si sedette su una delle eleganti sedie sdraio a bordo piscina.
«Avevi ragione tu», gli disse.
«A proposito di cosa?».
«Molly Hooper. Sherlock è innamorato di lei».
«Beh, i fatti erano chiarissimi: a parte sua madre, la signora Hudson, Irene Adler e una sua amica defunta non ha altri contatti femminili nella sua rubrica. Tuttavia, avevo ancora qualche dubbio. Insomma... ho visto la signorina Hooper e non mi è sembrata nulla di speciale. Ne sei proprio certa, tesoro?».
Geneviève annuì con convinzione. «Ho fatto come mi hai chiesto: ho lasciato delle piccole briciole di pane e Sherlock le ha seguite, finendo proprio al Bart's. Domani saprò se ha invitato Molly allo spettacolo».
«Ottimo».
Arsène rimase appoggiato a bordo piscina, le gambe stese in avanti. Il suo sguardo si era fatto assente e Geneviève guardò l'uomo che solitamente le faceva da baby-sitter, il cui nome le era ancora sconosciuto e pertanto per lei era semplicemente "Baffoni", il quale osò dire: «Non dovrebbe avvisare la Adler, padrone?».
Il Ladro Gentiluomo arricciò il naso. «Nah. Lasciamola ancora un po' nel suo brodo, se lo merita per avermi chiuso il telefono in faccia. E poi...».
«Che cosa?», chiese la figlia, incuriosita.
«Voglio scoprire che cosa c'è sotto. Perché Sherlock ha messo fine a quella loro malsana relazione così, di punto in bianco?».
«Molly sostiene che è successo qualcosa, quasi un mese fa. Da allora Sherlock riesce a malapena a stare nella stessa stanza con lei», disse ancora Geneviève.
«Quasi un mese fa, uhm?». Arsène si passò una mano tra i capelli biondi, tirandoli indietro. «Sì, è un bel rompicapo. Vale la pena di investigare ancora un po'. Chissà, potrebbe anche fruttarci qualcosa».
Quindi si voltò verso la figlia e con entrambe le mani sul bordo vasca si sollevò verso di lei senza alcuna fatica. Rimase in equilibrio su un solo braccio, mostrando le stesse capacità di un acrobata, e le toccò la punta del naso con un dito, un sorriso gioioso sulle labbra.
«Lavoro esemplare, tesoro mio».
Mentre Geneviève cercava di reprimere il rossore, Arsène uscì dalla piscina e si infilò l'accappatoio bianco che l'amico gli aveva porto.
Dirigendosi verso le docce con le infradito ai piedi, esclamò: «Vai a cambiarti, Geneviève. È orario di visita».

***

«Com'è andata al lavoro?», lo accolse Sherlock quando entrò in salotto, sorridendogli persino, con un vassoio di té appena fatto tra le mani.
John si portò le mani sui fianchi, sospettoso. «Non mi chiedi mai com'è andata al lavoro. Stai cercando di essere gentile per evitare di parlare?».
Sherlock, colpito e affondato, lasciò cadere in malomodo il vassoio sul tavolino accanto alla poltrona e poi si avvicinò alla mensola del caminetto, guardando il dottore attraverso lo specchio.
«Sì, tra me e Irene Adler c'era qualcosa», disse senza che gli ponesse alcuna domanda. «Non la chiamerei una relazione, dato che io ho quasi sempre ignorato i suoi messaggi, anche dopo i tuoi rimproveri. Ci incontravamo però, occasionalmente, quando entrambi eravamo liberi ed annoiati».
John si tolse la giacca e si accomodò nella propria poltrona. Gettò un'occhiata al detective, intimandogli di continuare mentre si versava una tazza di té.
Sherlock piegò la bocca in una smorfia e riprese: «Non lo nego, l'attrazione fisica tra noi c'è sempre stata. Il sesso è stato... appagante, molto. C'era una cosa che faceva, in particolare...».
«Okay, meno dettagli», lo interruppe il dottore, imbarazzato.
Il consulente investigativo a quel punto abbozzò un sorriso, come se avesse voluto vedere fino a dove si sarebbe spinta la sua curiosità. Quindi si appollaiò sulla poltrona di pelle nera.
«A parte questo e le nostre intelligenze affini, non avevamo nient'altro in comune. Non poteva funzionare, ne ero consapevole fin dall'inizio».
«Forse lei non la pensava allo stesso modo, visto che ha assunto Arsène Lupin».
«No, ha ammesso tranquillamente di non amarmi quando tre settimane fa le ho detto che non ci saremmo più rivisti. Sono più propenso a credere che l'abbia assunto per quello che mi sono lasciato sfuggire».
«Cioè?».
Sherlock lo guardò severamente, come se trovasse incredibilmente stupido il suo chiedere spiegazioni. O forse aveva già appurato che John sapesse perfettamente ciò che gli passava per la testa ed era infastidito dal fatto che volesse farglielo dire ad alta voce a tutti i costi, ancora una volta.
Alla fine Sherlock sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona, e guardò le braci nel camino spento biascicando: «Una serie di indizi mi hanno fatto dedurre che amo un'altra donna».
«Molly», disse John, annuendo. «Ce ne hai messo di tempo».
Sherlock corrugò la fronte, sinceramente confuso. «Uhm?».
John iniziò a contare sulle dita: «Ti sei rivolto a lei prima di affrontare Moriarty, hai chiesto a lei di farti da assistente quando io non ero disponibile, uno dei tuoi nascondigli è a casa sua... E ti ricordi quanto odiavi vederla al fianco di Tom, la tua brutta copia? Beh, queste sono tutte prove del tuo amore per lei. E il tuo continuo criticarla e sminuirla, come a volerla smantellare pezzo dopo pezzo, era solo il tuo modo contorto per tenerla lontana, per non affezionarti. Eurus, la sua bara e la minaccia della bomba nel suo appartamento, quella dichiarazione... sono state le gocce che hanno fatto traboccare il vaso, non è così?».
«Perché non hai le stesse capacità deduttive durante i casi?». Infastidito, Sherlock deviò il suo sguardo.
Possibile che tutti lo sapessero, tranne lui? Solo pronunciando quelle tre parole ne era venuto a conoscenza, e lo shock era stato tanto che la seconda volta le aveva ripetute più per se stesso che per Molly. E il terrore che aveva provato quando lei non aveva subito ricambiato... Un dolore del genere non avrebbe mai più voluto sperimentarlo, ma lei ci era riuscita.
«Non c'è bisogno di alcuna capacità deduttiva, Sherlock. A te però farebbe bene un corso sulla comprensione delle emozioni umane».
«L'ho detto, John», sussurrò, coprendosi gli occhi con i palmi delle mani, proprio come aveva fatto di fronte al timer che si era fermato due secondi prima della finta detonazione. «Non si può tornare indietro».
«No, puoi solo andare avanti. Ma hai deciso cosa fare, no? Hai lasciato Irene, ora puoi...».
«No!», gridò, alzandosi. «Non capisci, John?! Io la amo!».
«Oh sì, l'ho capito benissimo», lo rassicurò.
«E allora perché sorridi? Non c'è niente da sorridere!».
«Okay... forse ora non sto capendo».
Sherlock si portò le mani tra i capelli, il desiderio di strapparseli uno a uno dalla testa.
«Quante volte ti sei ritrovato nei guai per colpa mia?», gli chiese, sforzandosi per risultare calmo.
«Almeno una volta al giorno, quando vivevamo insieme», rispose il dottore e ascoltandosi riuscì a intravedere una luce in fondo al tunnel. «Oh... Non vuoi che diventi un bersaglio».
«Perdonami, John. Non ho mai voluto che tu lo diventassi, che Mary...». Si portò un pugno alla bocca e deglutì, come a ricacciare giù, nelle viscere della sua anima, l'emozione. «Ma devo proteggere chi ancora posso. Se Molly mi odierà... non correrà alcun pericolo. Specialmente ora, con Arsène e Irene...».
«Dannato idiota».
Sherlock si voltò verso di lui, colpito dal suo tono duro, arrabbiato. E lo trovò così, infatti: coi pugni stretti lungo i fianchi, il volto proteso leggermente in avanti e i muscoli del collo tesi.
«Tu insulti la tua intelligenza ogni volta che pensi che la nostra felicità sia meno importante della nostra sicurezza. Sai perché sono ancora qui, in piedi? Perché un giorno di felicità, un giorno al fianco delle persone a cui si tiene, vale più di mille anni di miseria e solitudine, Sherlock. Chi ama non è la parte perdente, come sosteneva tua sorella. Chi ama è destinato a vincere e così è stato: hai salvato me e hai salvato la bambina sull'aereo, tua sorella. Ora devi salvare te stesso e aprire gli occhi, come ha detto Arsène».
Sherlock, scioccato, non aprì bocca. Il dottore, soddisfatto, si congratulò con se stesso per il discorso e lo lasciò a riflettere.
Si trovava ancora dalla signora Hudson, una ventina di minuti dopo, quando lo sentì scedere dalle scale e poi sbattersi la porta d'ingresso alle spalle.

***

«Gen?».
La ragazzina sbatté le palpebre e tornò a guardare sua madre con un lieve sorriso sulle labbra, cercando di ignorare suo padre al di là del vetro: stava parlando con Baffoni e rideva, come se non si trovasse davanti alla stanza d'ospedale della donna che un tempo aveva amato, con cui aveva concepito una figlia e che ora si stava spegnendo.
«C'è qualcosa che ti preoccupa, non è vero?». Sollevò una mano e le accarezzò il volto. «Puoi parlarmene, sai».
«Mi dispiace», sussurrò, chinando il capo così che i capelli le coprissero gli occhi.
«Per che cosa, amore?».
«Tu hai... hai fatto davvero promettere a papà di non coinvolgermi nei suoi affari?».
La Donna Bionda sospirò, capendo al volo. «Oh, tesoro mio. Vieni qui».
Geneviève posò la testa contro il suo ventre e non riuscì ad arrestare le lacrime che le irritarono le guance.
«È vero, gli ho detto che doveva tenerti al sicuro, che non volevo che facessi la sua stessa vita. Però, se è questo che ti senti di fare, non voglio che tu pensi di avermi delusa. Io per prima sono stata una complice di tuo padre».
«Mi dispiace solo avertene tenuta all'oscuro. Non voglio ci siano segreti tra noi».
«Mai, amore mio», la rassicurò, accarezzandole i capelli.
Il suo sorriso però a poco a poco si spense. Si fece forza per sollevarsi e Geneviève si alzò per sistemarle i cuscini dietro la schiena; la madre ne approfittò per prenderle il volto tra le mani ed incatenare gli occhi nei suoi.
«Ma non aspettarti lo stesso da Arsène Lupin», affermò con veemenza. «Con lui ci saranno sempre dei segreti, che ti piaccia o no. È fatto così, prendere o lasciare». «Ma lui... lui è mio padre», balbettò. «Perché dovrebbe tenere dei segreti con me?».
Sua madre sorrise mestamente. «Tuo padre è un uomo buono ed ha una mente brillante. È bravissimo a tenere in piedi tutte le sue false identità e ad elaborare piani intricatissimi, ma a volte smette di vedere ciò che ha sotto il naso. Quando si fissa su un obiettivo utilizzerà ogni mezzo a sua disposizione per raggiungerlo».
Geneviève sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie, mentre una pesante coperta gelata si posava sulle sue spalle. Il sospetto. La paura di non potersi fidare dell'unica persona al mondo che presto o tardi avrebbe avuto come famiglia.
«Lui ti ha mai... ti ha mai usata per uno dei suoi obiettivi?».
La Donna Bionda strinse il pugno, nascondendo il diamante azzurro che lei e suo padre avevano rubato ad un vecchio per rivenderlo ad un collezionista e che poi, quando Arsène era ricomparso nelle loro vite, era tornato al suo dito in memoria del tempo trascorso insieme.
«Sono stanca, amore mio. Ci vediamo domani alla stessa ora?».
Geneviève si alzò, cercando di reprimere il tremore. Non le aveva appena detto che non ci sarebbero mai stati segreti tra loro?
Si fece forza e la baciò sulla guancia, poi si diresse verso la porta. Aveva già la mano sulla maniglia, quando la madre le disse: «Pensa sempre con la tua testa, Gen. E non fare mai nulla di cui potresti pentirti».
La ragazzina annuì ed abbozzò un sorriso, poi si decise ad uscire e si ritrovò al cospetto di suo padre, i cui occhi verdi brillavano di gioia e acume.
«Sei pronta, tesoro? Pensavo che potremmo andare a cena fuori, questa sera».
Geneviève si strinse le braccia al petto e deviò il suo sguardo, a disagio. «Preferisco... preferisco tornare in hotel e andare subito a dormire, se non ti dispiace».
Arsène sembrò davvero deluso dalla sua risposta, ma solo per i primi tre secondi, trascorsi i quali, infatti, scrollò le spalle e picchiò una mano sulla schiena di Baffoni, esclamando: «Oh beh, andremo noi due allora!».
«Come vuole, padrone».
Geneviève, suo padre e Baffoni salirono sull'auto che li riportò al Savoy, scortati come al solito da quattro uomini della sicurezza. Lei mantenne la parola e si rifugiò subito in camera, dove accese l'iPod e si tartassò di musica heavy metal. Qualsiasi cosa, pur di riempire il vuoto lasciato dal silenzio di sua madre.
Ad un tratto non riuscì più a starsene con le mani in mano: doveva andare a fondo di quella faccenda.
Sua madre non gliene avrebbe parlato, quindi doveva trovare un modo per scoprire che cosa fosse successo tra lei e suo padre di tanto grave da giustificare il suo ultimo monito. Pensò di andare a casa, a Brixton, a cercare tra i diari di sua madre, ma dubitava avesse tenuto a portata di mano (e di poliziotto) dettagli così sensibili riguardo alla sua complicità con Arsène Lupin.
Di chiedere a suo padre non ne aveva la minima intenzione: non voleva che se la prendesse con sua madre e poi temeva che dimostrando dei sospetti sulla sua moralità lo avrebbe allontanato. Quella era proprio l'ultima cosa che voleva e sperava proprio di trovare il modo di dimostrare che aveva interpretato male le parole di sua madre e che Arsène Lupin non fosse altro che il Ladro Gentiluomo di cui si era innamorata da bambina sentendone le storie.
C'era un'unica persona che poteva aiutarla a riabilitare il suo nome e quella persona era il suo più grande rivale di nazionalità inglese: Sherlock Holmes.
Scelse un outfit total black e preparò uno zainetto con tutto ciò che avrebbe potuto servirle, compreso un cambio di vestiti e il proprio pugnale; poi si infilò il cappellino nero e si preparò a saltare sul balcone sottostante come aveva fatto la prima volta che era sfuggita alla sicurezza, ma un trambusto improvviso al piano di sopra, dove si trovava la Royal Suite di suo padre, la fece scendere dal cornicione.
Si spogliò velocemente, si infilò l'accappatoio in dotazione e si raccolse i capelli col fermaglio-pugnale, poi corse fuori dalla stanza. La guardia davanti alla sua porta provò a fermarla, ma lei gridò di toglierle le mani di dosso e questa obbedì. In fondo era pur sempre una Lupin.
La seguì fino alla Royal Suite, dove la sicurezza aveva sorpreso proprio Sherlock Holmes mentre tentava di intrufolarsi nel covo extra lusso del loro capo fingendosi uno dei maggiordomi privati i quali, inclusi nel servizio, si davano il cambio per essere sempre a disposizione, ventiquattr'ore su ventiquattro, dell'illustre ospite.
Di sicuro ci aveva messo dell'impegno - si era truccato con parrucca e baffi fulvi, aveva rubato una divisa, un carrello e dello spumante pregiato - ma non era stato abbastanza. D'altronde non aveva idea che tra i compiti della sicurezza ci fosse quello di fare sempre un esame approfondito del volto dei pochi privilegiati che avevano il permesso di entrare nelle stanze di Arsène Lupin.
Una volta smascherato, il detective aveva provato ad entrare comunque, usando la forza quella volta, ma era caduto in trappola, cinque contro uno, e ora si trovava con un occhio pesto e del sangue che gli colava dal naso, legato ed imbavagliato ad una delle dodici sedie del tavolo da pranzo.
Vedendolo in quelle condizioni, Geneviève sentì il cuore salirle in gola.
«Non osare!», gridò, trucidando con gli occhi il gorilla che le si era piazzato davanti per impedirle di avvicinarsi ulteriormente al detective.
Era così arrabbiata per quello che gli avevano fatto! Lo era in un modo che non riteneva possibile. Perché avrebbe dovuto importarle? Eppure eccola lì, a sfruttare tutta l'influenza che il legame di sangue con Arsène Lupin le trasmetteva.
«Stavamo per chiamare il capo, signorina», spiegò la guardia, in francese e con una voce da topino.
«No, non disturbatelo. Ci penso io a lui».
«Ne è sicura, sign-?».
Geneviève non lo lasciò nemmeno finire e spingendolo da parte entrò nella sala da pranzo. Scrutò l'ambiente e realizzò amaramente che a parte la porta non avevano altre vie di fuga. Gli uomini di suo padre, nonostante i muscoli e l'aspetto rozzo, non erano affatto stupidi: avevano scelto di mettere Sherlock nell'unica stanza senza finestre.
«Lasciateci», esclamò ad un tratto, ferale.
«Signorina, non credo che sia...».
Geneviève si voltò di scatto verso l'uomo, lo stesso che le aveva ostruito l'ingresso, e lo fissò in cagnesco. «Come ti chiami?».
«Ernest».
Un ghigno le arricciò gli angoli della bocca, mentre con la voce a singhiozzo recitò: «Papino, Ernest ha cercato di farmi del male mentre tu non c'eri! Ho avuto tanta paura!».
Il bestione arretrò, il volto pallido come un lenzuolo, e fece segno ai suoi compari di uscire. Una volta chiusa la porta, la ragazzina sospirò e raggiunse finalmente il detective.
Si chinò su di lui sentendo il cuore batterle forte nel petto a causa dei suoi occhi di ghiaccio che la stavano studiando con attenzione, circospetti e al contempo impressionati. Ignorandoli, gli tolse il bavaglio perché potesse parlare.
«Avevo tutto sotto controllo», esordì con tono indispettito.
Geneviève avrebbe voluto portarsi una mano sul viso, ma si limitò a sussurrare: «Senti, ho bisogno del tuo aiuto. Che ne dici se facciamo uno scambio? Io ti faccio uscire di qui prima che torni mio padre e tu...».
«No».
La ragazzina, che si era già portata la mano tra i capelli per prendere il fermaglio, divenne una statua di sale. «Come hai detto, scusa?».
«Ho detto no», ripeté Sherlock, irremovibile. «Non mi estorcerai alcun favore».
Geneviève rimase a lungo in silenzio, a riflettere sulla prossima mossa. Se stava imparando a conoscere Sherlock Holmes, quello che aveva voluto sottintendere con quella frase era che l'avrebbe aiutata comunque, se l'avesse trovata la cosa giusta da fare. E questo, incredibilmente, glielo fece piacere ancora di più.
Si morse un sorriso e premette il rubino del fermaglio, rivelando la lama luccicante del pugnale nascosto.
«Vuoi che ti spieghi il piano?», gli domandò, mentre tagliava lo scotch con cui l'avevano legato alla sedia.
«Non serve. Tu hai una scusa abbastanza convincente da usare quando Arsène ti chiederà il motivo per cui mi hai liberato?».
Geneviève, accucciata accanto alla sedia, dovette ammettere che non ci aveva pensato. Immaginava che si sarebbe giustificata dicendo che l'aveva colpita e le aveva rubato il fermaglio, ma il modo in cui lo avevano legato - il busto contro lo schienale e i polsi e le caviglie alle gambe della sedia - rendeva impossibile la sua bugia. Arsène l'avrebbe scoperta in un attimo.
«Mi verrà in mente qualcosa», biascicò pur di non dover ammettere la propria mancanza.
Quando Sherlock fu libero, le domandò con gli occhi se fosse pronta. Geneviève annuì con un cenno del capo e gli consegnò il fermaglio, poi si voltò.
«Tra mezz'ora al Waterloo Bridge?», gli chiese, sentendo il calore del suo corpo alle spalle. Il suo profumo era molto diverso da quello di suo padre, tanto inebriante da lasciarla stordita; Sherlock Holmes sapeva di elettricità.
«Va bene».
Il detective l'avvicinò di più a sé e senza alcun preavviso le strinse un braccio intorno al collo. Il fiato le venne a mancare e il panico le fece portare le mani sul suo gomito, ma Sherlock si chinò sul suo orecchio e sussurrò: «Perdonami, ma dovrà sembrare realistico. Ora urla».
Geneviève obbedì ed  immediatamente tutte le guardie fecero irruzione nella sala, scoprendo che Sherlock Holmes aveva preso in ostaggio Geneviève Lupin.
«Oh, salve!», salutò il detective, con un'espressione folle sul viso. «Scusatemi, ma la sedia iniziava a risultare scomoda».
«La lasci andare», lo minacciò uno degli uomini, con un forte accento francese, puntandogli contro la pistola.
«Oppure che cosa? Mi sparerà, rischiando di colpire la sola e unica figlia del vostro capo? Non ne sarebbe contento».
«Ti prego, non farmi del male», soffiò Genevieve, guardando la punta del sottile pugnale con la coda dell'occhio.
«Non ti preoccupare, non ho alcuna intenzione di sfregiare il tuo bel visino. Però, se la tua scorta non mi lascia andare...».
La ragazzina chiuse gli occhi, riuscendo persino a farsi scivolare una lacrima sul volto. «Fate come vuole», mormorò tremando. «È uno psicopatico».
«Sociopatico iperattivo», la corresse e Geneviève dovette serrare i denti per non scoppiare a ridere.
Gli uomini della sicurezza, non vedendo altre alternative, abbassarono le pistole ed arretrarono fino a ritrovarsi nel corridoio che attraversava tutta la Royal Suite, collegando ogni stanza all'altra. Sherlock procedette con calma, tenendo Geneviève sempre davanti a sè. Camminando all'indietro, raggiunse la porta e l'aprì per controllare che non ci fossero altri uomini. Una volta al sicuro lasciò il fermaglio e spinse in avanti la ragazzina, facendola cadere sul pavimento, per poi correre via.
Quattro uomini si gettarono all'inseguimento, mentre gli altri due si sarebbero presi cura di Geneviève, la quale era rimasta a terra, una mano sul collo dolorante e una sulla bocca per reprimere le risate. In quel modo, il tremore delle sue spalle sembrava dovuto al pianto.

***

Geneviève era una continua sorpresa per Sherlock e forse era per questo che l'apprezzava tanto: con lei non rischiava di annoiarsi.
Dall'unione dei geni di Arsène Lupin e della sorella di Mary era uscito solo il meglio, rendendo quella ragazzina non solo intelligente e senza paura, ma anche sensibile e divertente. Guardandola, Sherlock non poteva fare a meno di provare una specie di gelosia al pensiero che statisticamente lui non avrebbe mai provato l'orgoglio che doveva provare Arsène nell'avere una tale progenie.
Quasi sicuramente, lui non avrebbe avuto alcuna progenie. Non sarebbe mai stato in grado di prendersi cura e di crescere un altro essere umano, lui che a stento si ricordava di dover mangiare quando era assorbito da un caso. Che razza di modello sarebbe stato?
«A che cosa stai pensando?».
Sherlock smise di seguire il filo dei propri pensieri e si voltò verso una Geneviève vestita interamente di nero: cappellino, giacca di pelle, felpa, jeans e anfibi. In tutta quell'oscurità, spiccavano le sue guance rosse per il freddo pungente e i suoi capelli biondi, ondulati sulle spalle.
«Al mio lascito», rispose, senza sapere bene perché.
Era vero che si trattava della nipote di Mary e che iniziava a piacergli, ma non era ancora riuscito a stabilire con precisione quanto fosse dedita al padre e se poteva fidarsi di lei, specie dopo il suo ultimo tiro da Cupido.
Geneviève si appoggiò alle transenne del ponte e guardò lo skyline notturno di Londra: dalla loro posizione spiccavano la St. Paul's Cathedral, la Tower 42 e il Gherkin.
«Che si fottano», mormorò con un profondo dolore negli occhi. «I lasciti sono come incudini. Perché una persona dovrebbe lasciare ciò che è stata ad un'altra? Perché costringerla a seguire le sue orme, invece di lasciarla diventare ciò che vuole essere?».
«E tu che cosa vuoi essere?».
La ragazzina si sollevò e strinse le mani intorno alla ringhiera, guardando l'acqua scura che turbinava sotto il Waterloo Bridge. Indossava un paio di guanti senza dita e Sherlock ne fu distratto: qual era la loro utilità? Tenere al caldo parte della mano, rendere insensibili le dita? Non li aveva mai sopportati.
«Non lo so più», rispose alla fine, rivolgendogli un sorriso umido di lacrime. «Hai presente quello che si dice sull'incontrare i propri idoli? Si rimarrà inevitabilmente delusi, perché le aspettative che ci siamo fatti su di loro sono troppo alte».
Il detective la fissò intensamente, colpito dal suo ragionamento e dai suoi occhi, tanto forti e tanto fragili allo stesso tempo. Anche quelli di Molly erano così.
«Mia madre non mi ha mai nascosto chi fosse mio padre e io sono cresciuta con le sue storie. Tutti i giorni correvo all'edicola in paese, nella speranza di leggere l'ultimo strabiliante furto del Ladro Gentiluomo. Ero così orgogliosa di lui... eppure non potevo parlarne mai con nessuno, perché mia madre mi aveva fatto promettere di mantenere il segreto. Diceva che non ne sarebbe venuto nulla di buono. Una sola volta disubbidii: alcuni miei compagni di classe si stavano vantando dei loro papà, ricchi e di successo, e prendevano in giro quelli degli altri. Io non ero stata presa di mira, ma decisi comunque di intervenire. Mi dissero che non avevo voce in capitolo, dato che non avevo un padre, ed io esplosi... Gridai che mio padre era Arsène Lupin e che se solo avesse voluto avrebbe potuto dare a tutti i loro papà una bella lezione. Ovviamente nessuno mi credette, anzi... divenni lo zimbello della classe, la vittima preferita dei bulletti. Persino i compagni che avevo cercato di difendere ridevano di me, affermando che mia madre si era inventata tutto solo per evitare di dirmi la verità, ovvero che a mio padre non era mai importato nulla di noi. Il pettegolezzo raggiunse persino le orecchie degli insegnanti, ma non dissero nulla in merito: pensavano fosse tutto frutto della fantasia di una ragazzina orfana di padre. Furono costretti ad intervenire quando un giorno, stanca di subire, decisi di sgattaiolare via dalla lezione di educazione fisica per introdurmi negli spogliatoi e prendere gli zaini di tutti quelli che mi avevano dato fastidio. Il mio unico sbaglio fu quello di firmare il colpo, lasciando un bigliettino con le iniziali G.L.».
«Geneviève Lupin», disse Sherlock, sfruttando la pausa che si era presa dopo quel flusso inarrestabile di parole, un fiume in piena.
Riusciva ad immaginarsela perfettamente mentre cercava di imitare suo padre.
La ragazzina abbassò di nuovo lo sguardo verso le torbide acque del fiume e diede un calcetto alla ringhiera.
«I professori convocarono mia madre per discutere della mia punizione e le dissero che era colpa sua se si era arrivati a tanto. L'accusarono di avermi raccontato un sacco di fandonie e io stessa iniziai a dubitare delle sue parole. In fondo non mi aveva mai fornito alcuna prova che mio padre fosse realmente Arsène Lupin. Quando glielo confessai, mia madre non ne fu sorpresa, ma mi disse anche che non aveva prove. Dovevo decidere se crederle o meno e io... io decisi di crederle. Io volevo essere la figlia di Arsène Lupin, più di ogni altra cosa».
Sherlock si alzò dalla panchina su cui era rimasto ad osservarla durante tutto il suo racconto e l'affiancò, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto.
«E adesso?», le chiese con gentilezza, gli occhi puntati verso lo skyline. «Adesso che l'hai conosciuto cos'è cambiato?».
«Non ne sono sicura ancora. È per via di una cosa che mi ha detto mia madre, oggi pomeriggio».
Lo sguardo di Sherlock si fece ancora più attento. Eccola, l'occasione che aspettava. Il filo che l'avrebbe portato alla cattura di Arsène Lupin.
«Di che si tratta?».
Geneviève però si nascose dietro una corazza fin troppo familiare: raddrizzò le spalle e sbatté le ciglia perché le lacrime sparissero, la sua espressione tornò fiera e decisa, facendola sembrare molto più grande di ciò che era.
«Il diamante azzurro», esclamò. «Mia madre non mi ha mai raccontato nei dettagli quel caso e i giornali, in particolare L'Ècho de France, gli dedicarono appena un paragrafo. Quasi come se...».
«Come se fosse stato comprato il loro silenzio», concluse per lei Sherlock. Sì, era proprio il modo di fare di Arsène Lupin. Ma che cosa valeva tanto disturbo?
«Ho bisogno di sapere come sono andate veramente le cose», decretò Geneviève. «Mi aiuterai?».
Il detective ricambiò il suo sguardo fino a quando non fu certo che con o senza il suo aiuto avrebbe indagato per scoprire la verità.
Le avvolse improvvisamente un braccio intorno alle spalle e tornando verso il Victoria Embankment affermò con un sorrisino sulle labbra: «Risolvere i misteri è il mio lavoro».

***

«Padrone, abbiamo un problema».
Arsène mosse una mano nella sua direzione, profondamente concentrato sulla donna seduta dall'altra parte del bancone del pub, sola e con gli occhi tristi fissi sulla pinta di birra che aveva quasi finito.
«Si tratta di Geneviève».
A quelle parole il Ladro Gentiluomo chiuse gli occhi e sospirò pazientemente, girandosi verso l'amico per prendere il cellulare che gli stava porgendo. Se lo portò all'orecchio e diede le spalle al bancone, il volto contratto in un'espressione stizzita.
«Che cosa c'è?», ringhiò. «Sapete che non voglio distrazioni mentre lavoro».
«Signore, Sherlock Holmes ha provato ad introdursi nelle sue stanze. L'abbiamo catturato, ma poi...».
«Poi cosa?».
«Sua figlia ha insistito per rimanere da sola con lui, signore, e l'inglese ne ha approfittato per liberarsi, prenderla in ostaggio e scappare».
«Geneviève sta bene?».
«Nemmeno un graffio, signore. Ora si trova nella sua stanza».
«Aspetta in linea».
Fece segno all'amico di tirare fuori il suo tablet dalla borsa e col cellulare incastrato tra la spalla e l'orecchio lo accese per collegarsi alle telecamere che aveva installato nella sua suite dopo la sua prima fuga. Si era sentito molto a disagio al pensiero di dover spiare la sua stessa figlia, ma iniziava a credere che avesse avuto l'idea giusta.
La camera era buia, il letto intoccato, e in nessuna delle quattro angolazioni si vedeva Geneviève.
Con enorme disappunto, disse al capo della sua scorta: «No, idiota, non c'è».
«Che cosa? Ma...».
«Mi state solo facendo perdere tempo», lo interruppe, per poi terminare bruscamente la comunicazione e lanciare il cellulare verso il partner.
Quindi prese un sorso del Martini che si era fatto servire e passandosi la lingua tra le labbra si rimirò grazie alla fotocamera interna del tablet: i capelli biondo platino non erano tirati all'indietro, bensì con la riga centrale ed ondulati sopra le orecchie; gli occhi smeraldo erano schermati da un paio di finti occhiali da vista dalla montatura spessa ma elegante, firmati Ray-Ban. Come stile, invece, aveva scelto il casual chic: pantaloni cachi, maglietta bianca e giacca di velluto blu con delle toppe marroni sui gomiti.
«Bene, sono pronto», esclamò porgendo il tablet all'amico. Quindi prese di nuovo il bicchiere di Martini e lo finì tutto d'un fiato.
«È giunto il momento di conoscere la famosa Molly Hooper».

***

«Non è un po' tardi per cenare, ragazzo?».
«Cenare? Chi ha detto che voglio cenare?».
Ganimard si guardò intorno. «Per quale motivo mi avresti chiesto di incontrarti in un ristorante, altrimenti?».
«Angelo, il proprietario, è un mio amico», spiegò Sherlock, portandosi le mani sotto il mento. «Posso stare qui e non mangiare nulla. Ma se lei vuole ordinare qualcosa, faccia pure».
L'ispettore francese ordinò un piatto di spaghetti con le polpette e il detective alternò lo sguardo su di lui e sulle spalle sottili della ragazza che gli dava la schiena, seduta al tavolo davanti al loro.
Aveva raccolto i capelli biondi sotto il cappellino nero e aveva ordinato del pesce fritto, che stava spiluccanto con il cellulare davanti al naso come tutte le normali teenager, tuttavia saperla così vicina all'uomo che avrebbe dato di tutto per catturarne il padre lo rendeva inquieto, preoccupato che Justin potesse fiutare l'odore di Lupin e la trascinasse via con sè.
Ancora una volta, l'apprensione che provava per quella ragazzina scatenò in lui sensazioni contrastanti.
«Allora, perché volevi vedermi?», domandò ad un tratto Ganimard, stufo del suo silenzio.
Geneviève voltò un poco il capo verso la spalla, in ascolto.
«L'altro giorno ha accennato alla Donna Bionda e nel documentarmi ho notato che il caso del diamante azzurro non è stato considerato molto dalla stampa. Come mai? Lupin adora vantarsi delle proprie imprese!».
Ganimard si pulì la bocca, all'improvviso senza più appetito. «Non quando ci scappa il morto, a quanto pare».
Sia Sherlock che Geneviève si irrigidirono, per nulla preparati ad una risposta del genere.
«Sta dicendo che Lupin si è macchiato di omicidio, Ganimard?».
«Ma no, no. La sua morale glielo impedirebbe, lo sai perfettamente. Ha sempre ripudiato la violenza e i casi in cui l'ha usata - sempre a difesa dei suoi princìpi - si contano su una mano. I membri della sua banda, però...».
Sherlock si portò distrattamente una mano sul naso, ancora pulsante e su cui sarebbe comparso un bel livido per via del pugno ricevuto.
«Mi racconti tutto dall'inizio».
L'ispettore sospirò e si addossò contro lo schienale della sedia, la mano destra sul pacchetto di sigarette che aveva posato sul tavolo.
«Possiamo uscire?», gli chiese mentre Sherlock, già un passo avanti, rispondeva con un secco «No».
«L'ex ambasciatore Hautrec si era trasferito a casa di suo fratello Charles da sei mesi, a causa delle sue precarie condizioni di salute, quando venne trovato morto nella sua stanza. Il giorno era trascorso nella solita routine. Non c'era nulla che facesse presagire la tragedia. Ad ogni modo, devi sapere che per quanto gli volesse bene, Charles non gradiva occuparsi di persona di tutte le necessità del fratello - non ne avrebbe nemmeno avuto il tempo, essendo ancora attivo in politica - perciò aveva assunto un'infermiera privata dal curriculum esemplare, di nome Antoniette Bréhat. Si fermava a dormire nella stanza accanto a quella del vecchio Hautrec cinque sere a settimana, perciò era diventata una di famiglia. Nessuno sospettava di lei».
«Nessuno tranne lei, Ganimard», intervenne Sherlock.
«Ho semplicemente prestato attenzione alle prove, ragazzo».
Il detective gli fece segno di continuare col racconto e l'ispettore obbedì.
«Quella notte, intorno alle tre, Charles venne svegliato da un lungo trillo: il campanello delle emergenze che aveva fatto installare nella sua camera, identico a quello che c'era nella stanza della signorina Antoniette. Era raro che suo fratello lo chiamasse, specialmente se era di turno l'infermiera. Si disse che forse si era semplicemente confuso, al buio, e fece per tornare a dormire, ma il dubbio lo assalì e andò a controllare comunque. Passò davanti alla camera dell'infermiera e la trovò vuota, il letto intonso. Allora corse dal fratello e come ho anticipato prima lo trovò morto, steso ai piedi del letto e con una ferita al collo, l'arma del delitto - un tagliacarte ricevuto come regalo di pensionamento - accanto a lui. Secondo il racconto di Charles, c'era anche un fazzoletto macchiato di sangue sul comodino, vicino ai pulsanti di emergenza».
Sherlock assottigliò gli occhi. «Intende forse dire che non venne ritrovato dalla scientifica?».
Ganimard sogghignò ed annuì con un cenno del capo. «E non solo quello».
«Non capisco».
Quelle due parole aumentarono la sua ilarità, tanto che scoppiò in una risata rauca che ben presto, a causa del vizio del fumo, si trasformò in un attacco di tosse. I suoi occhi arrossati erano lucidi di lacrime.
«Charles si precipitò al telefono fisso per chiamare un'ambulanza e la polizia, ma la linea era stata tranciata. Allora andò a recuperare il cellulare in camera sua, ma anche quello era stato disabilitato. La scientifica, successivamente, avrebbe trovato diversi disturbatori di segnale disposti in vari punti della villa, piazzati in via preventiva. Ora, cos'ha fatto il nostro povero Charles?».
Sherlock guardò la porta del ristorante, ma ciò che vide fu il fratello dell'ex ambasciatore, pallido e scioccato per la terribile scoperta, avanzare verso l'ingresso col cellulare sollevato. Una volta in giardino, il segnale tornò e con estremo sollievo poté chiamare aiuto.
Più quella visione proseguiva, più le parole e il divertimento di Ganimard trovavano finalmente un senso.
«È stato mandato fuori», mormorò, posando di nuovo gli occhi in quelli del francese. «Perché era lì che lo volevano mentre la scena del crimine veniva ripulita da ogni prova, ogni indizio conducibile all'assassino».
Ganimard incrociò le braccia al petto, soddisfatto. «Proprio così. La porta si chiuse alle spalle di Charles e lui, sprovvisto di chiavi, non riuscì a rientrare fino a quando non arrivò la polizia. A quel punto l'unica prova dell'omicidio era il morto, sistemato sotto le coperte, con le mani incrociate sul petto. Tutto il resto - l'arma, il fazzoletto, i segni di colluttazione - era sparito. Capisci perché sospettai immediatamente di Lupin e della Donna Bionda?».
Sherlock si portò le dita alla bocca e con gli occhi fissi oltre le spalle di Ganimard mormorò: «Antoniette Bréhat. Caso vuole che fosse bionda, suppongo».
Era una tortura per lui non poter vedere il volto di Geneviève, ma dal modo in cui aveva contratto i muscoli del collo e delle spalle capì che il racconto di Ganimard stava purtroppo dando prove a sostegno dei suoi sospetti.
«Ne ero sicuro allora e ne sono sicuro adesso: quella donna era una complice di Lupin, la quale, spacciandosi per infermiera, aveva il compito di rubare al vecchio Hautrec l'anello con il diamante azzurro», affermò Ganimard, burbero. «Il diamante però era ancora lì, alla mano della vittima, e per questo nessuno mi credette. La mia reputazione si stava già sfasciando: ero l'ispettore che vedeva Lupin ovunque. Nemmeno le prove che misi loro sotto il naso riuscirono a convincerli».
«Sentiamo», lo invitò Sherlock, chiudendo gli occhi per proiettarsi in Francia, in quella villa di campagna, in quella stanza da letto.
«Primo: Charles affermò che ogni oggetto era esattamente dove doveva essere, perciò è chiaro che solo una persona che conosceva a menadito quella stanza poteva risistemare tutto in modo così preciso».
«Chiaro».
«Secondo: il pulsante di emergenza. Charles era convinto che fosse stato il fratello a chiamarlo, ma quando avrebbe suonato? Dopo la lotta, prima di morire? No, perché Charles l'aveva trovato ai piedi del letto, ben lontano dal comodino. Durante la lotta? Anche questo impossibile, perché il trillo era stato lungo, continuo, e il suo aggressore non gli avrebbe mai permesso di chiamare aiuto in quel modo. Allora prima, quando aveva capito che sarebbe stato aggredito? Nemmeno, perché dalle ricostruzioni si appurò che erano trascorsi tre minuti, non di più, dalla chiamata al ritrovamento del corpo. Un tempo troppo limitato per la lotta, l'assassinio e la fuga del colpevole, concordi con me?».
«Io avrei potuto farlo», rispose tranquillo il consulente investigativo, senza aprire gli occhi.
Si perse così l'espressione di rimprovero di Ganimard, il quale concluse: «Il pulsante di emergenza è stato premuto dall'assassina: la Donna Bionda, la complice di Arsène Lupin. Non so per quale motivo, ma non può essere che così».
Sherlock era d'accordo con lui, ma il tremore delle spalle di Geneviève gli fece fare qualcosa di più unico che raro: dubitare davanti ad un buon ragionamento.
«Senza prove fisiche schiaccianti...», disse incerto, sentendosi sull'orlo di un precipizio. Un altro passo e il grande detective sarebbe diventato un uomo comune, un uomo che davanti ai fatti preferiva una bugia, una speranza.
«Ce l'avevo. Sparì misteriosamente dal laboratorio - senza alcuna sorpresa da parte mia - ma ce l'avevo: dei sottili capelli biondi, nella mano di Hautrec. Deve averglieli strappati durante la colluttazione».
Sherlock sospirò, salvo e con entrambi i piedi sul terreno. Geneviève però, dall'altra parte del burrone, cadde. Il detective avrebbe voluto stendere la mano, afferrarla per il polso e stringerla a sé, ma con Ganimard che lo guardava...
La ragazzina si alzò di scatto dal tavolo, urtando persino la sedia dell'ispettore francese, e col capo rivolto verso il basso corse verso i bagni, dall'altra parte del locale. Justin aveva avuto l'istinto di girarsi per dirle di stare attenta, ma Sherlock non poteva permettere che la vedesse, perciò si era sollevato a sua volta per guardarlo negli occhi ad una distanza quasi nulla, tanto che i loro nasi si sfiorarono.
«Andiamo a fumare».
L'ispettore non se lo fece ripetere due volte e si portò una sigaretta alla bocca ancor prima di uscire dal ristorante. Appena fuori, l'accese ed aspirò avidamente, chiudendo gli occhi al piacere delle nicotina che gli entrava in circolo.
Sherlock rifiutò quella che gli venne offerta, impegnato com'era a risolvere l'enigma della Donna Bionda. Era a buon punto, anche se alcuni dettagli erano ancora oscuri.
«L'anello. Che ne è stato dell'anello?», chiese ad un tratto, con le mani infossate nelle tasche del cappotto.
«Léonce Hautrec, il nipote, l'ha messo all'asta», rispose Ganimard, soffiando il fumo verso il cielo scuro. «Ed è stato allora che la Donna Bionda è ricomparsa. Io ero lì, casomai Lupin decidesse di colpire in quel momento, e ho assistito in prima persona alla battaglia tra la signora Crozon, collezionista, e il signor Herschmann, milionario. Si sono raggiunte cifre astronomiche, ma diciamocela tutta... era già scritto che il diamante sarebbe finito nelle mani di quest'ultimo. Ma con Lupin il mondo va al contrario, non è vero?».
«La Crozon si aggiudicò il diamante? Come?».
«Un sms. Herschmann ricevette un sms che lo distrasse, o meglio, lo spaventò».
«Cosa c'era scritto?».
«"Il diamante azzurro porta disgrazia. Si ricordi del vecchio Hautrec". Per nulla velata, come minaccia. Comunque sia, quando il martello cadde e il diamante fu della signora Crozon, una donna si è alzata all'improvviso e se n'è andata, nonostante l'asta non fosse conclusa. L'ho vista solo di sfuggita, ma ancora una volta ero sicuro che si trattasse della Donna Bionda».
«È più che probabile. Ma perché spaventare Herschmann?».
«Perché una volta nel suo caveau sarebbe stato difficile rubare il diamante. Molto più semplice introdursi nella villa della Crozon, specialmente se invitati. Accadde l'estate stessa, ancora la Donna Bionda. Si faceva chiamare signora Réal e divenne amica della Crozon, un'amica così fidata che poté ammirare da vicino la sua collezione di diamanti e gemme preziose. Ovviamente alla prima occasione il diamante azzurro scomparve insieme alla signora Réal. Durante le perquisizioni venne ritrovato nel beauty case di un altro ospite della signora Crozon, un certo Bleichen. Un trucco per sviare le indagini, dato che si trattava di un falso».
Sherlock era a tanto così dalla soluzione, ma perse il filo quando scorse Geneviève sbucare dal vicolo ad una ventina di metri dall'ingresso del ristorante. Doveva essere uscita dalla stretta finestra del bagno. Una continua sorpresa.
Lei si infilò le cuffiette nelle orecchie, poi strinse le mani intorno alle fibbie del suo zainetto e si incamminò nella direzione opposta.
«Pensavo di averla in pugno quando scoprimmo un traffico clandestino di diamanti, ma Lupin ebbe la cortesia di mandarmi un'email dicendomi di non perdere più tempo con la signora Rèal che interrogavo senza successo da due giorni: non era la sua complice, ma la persona a cui si erano ispirati quando avevano dovuto scegliere l'ultima identità della Donna Bionda. Niente di più semplice per cogliermi in fallo e farsi una risata alle mie spalle».
Sherlock abbozzò un sorriso e Ganimard si offese, giustamente. Gettò il mozzicone a terra - non era rimasto altro che il filtro - e per abitudine lo schiacciò col piede.
«Allora, sei soddisfatto?», gli domandò, burbero come suo solito.
«Quasi», rispose il detective, e facendo un passo avanti verso la strada alzò la mano per chiamare un taxi. «Ti manderò un messaggio quando avrò capito come la Donna Bionda riusciva a scomparire».
«Non ci riuscirai!», gridò Ganimard, rosso di rabbia. «Io ho cercarto di capirci qualcosa per anni!».
«Tu sei bravo, Ganimard. Il poliziotto migliore che conosco. Ma io sono Sherlock Holmes!».
Gli fece l'occhiolino e chiuse finalmente la portiera, sporgendosi verso l'autista per dare l'indirizzo: 221B Baker Street.

Certo, gli indizi che aveva non erano di prima mano, ma Ganimard non avrebbe potuto fare di meglio nemmeno volendo.
Ed era anche consapevole che con Lupin doveva lavorare al contrario, doveva ovvero tirare fuori un'idea e poi, solo poi, verificare che si adattasse ai fatti.
Ecco cos'aveva fatto durante la breve corsa in taxi, con le strade della sua Londra che scorrevano fuori dal finestrino, e alla fine era riuscito a raggiungere il bandolo della matassa, il punto da cui partire. Ora si trattava solo di districarla.
Pensava che Geneviève fosse tornata al Savoy per prepararsi ad affrontare suo padre, ma la trovò nel suo salotto, sprofondata nella poltrona di John, con i capelli sciolti e la musica così alta nelle orecchie che Sherlock si domandò come potesse non essere già diventata sorda.
Il detective si tolse il cappotto e si diresse verso la scrivania, la stessa scrivania dove solamente quella mattina aveva fatto colazione con lei e Arsène. Recuperò il pc portatile, impilato sopra una serie di libri posati per terra, e lo accese di fronte a sé per fare delle ricerche.
Erano fondamentali per verificare la sua teoria, eppure non riusciva a concentrarsi: gli occhi spiritati di Geneviève lo fissavano, ma non lo vedevano veramente. Anche lui assumeva quell'espressione quando era concentrato? Ora capiva come dovevano sentirsi John, la signora Hudson o Molly: invisibili, non importanti.
Rimasero in silenzio per un'ora, ognuno immerso nel caso da due punti di vista differenti: quello della figlia che cercava di scagionare la propria madre e quello del detective che, appurata la sua colpevolezza, era già passato oltre.
Avrebbe voluto che John fosse lì, per mostrargli che cosa stavano facendo i sentimenti alla mente brillante di quella ragazzina: distorcevano la realtà, le impedivano di accettare che sua madre aveva ucciso un uomo e, ultimo ma non meno importante, la stavano distruggendo dall'interno. Geneviève non sembrava affatto la parte vincente.
Ad un tratto le chiatarre, la batteria e tutta quella cacofonia di strumenti con cui si stava stordendo si interruppe all'improvviso. La ragazzina tirò fuori il cellulare dalla tasca della felpa e leggendo il nome sul display ritornò nel mondo reale. Incrociò il suo sguardo con intenzione e si alzò per dirigersi in cucina. Solo allora rispose alla chiamata, esclamando: «Ciao papà».
Sherlock era troppo lontano per sentire le risposte di Arsène, perciò si concentrò sulla gestualità di Geneviève: il piccolo sorriso che si sforzava di mostrare, come se suo padre la stesse guardando; il dito che sfiorava con delicatezza gli strumenti da chimico del consulente investigativo; il suo leggero ondeggiare sui talloni.
«Sono contenta che tu ti sia divertito. La prossima volta non mancherò, promesso. Va bene, allora buonanotte».
A quel punto i suoi occhi si sgranarono leggermente, colta di sorpresa. Ma si sforzò per risultare tranquilla ed abbozzò persino una risata: «Ma che dici? Perché dovrei salutarti Sherlock?».
Il detective si girò completamente verso il pc, le dita che picchiettavano  velocemente sulla tastiera, mentre Geneviève lo guardava imbarazzata.
«S-Sì», balbettò. «Okay. Buonanotte anche a te».
La comunicazione si interruppe e Geneviève guardò lo schermo del cellulare per qualche secondo, profondamente turbata. Quell'espressione e la luce azzurrognola sul suo volto la facevano somigliare ad uno spettro.
«Che cosa ti ha detto?», le domandò Sherlock, quando non riuscì più a trattenere la curiosità.
La ragazzina deviò il suo sguardo, fissandosi le scarpe da ginnastica. «Ha detto che sono in un mare di guai per essere scappata ancora dalla scorta. E ha aggiunto che se mi piace tanto la tua compagnia, allora dovrei...».
Sherlock si voltò di scatto, i nervi tesi. Geneviève si ritrasse ancora di più, nascondendo il collo tra le spalle.
«Sono d'accordo», affermò con decisione, ancor prima che la bionda trovasse il coraggio per ripetere le parole di suo padre.
Geneviève sollevò gli occhi grandi e lucidi. «Non stai dicendo sul serio».
Sherlock si alzò, serissimo, e con le mani unite dietro la schiena la scrutò a fondo. Era un rischio enorme, ma com'era quel detto? Tieni gli amici vicini e i nemici ancora più vicini. Arsène aveva dimostrato più volte di essere inafferrabile e altrettante volte aveva commesso errori grossolani per le persone che amava. Doveva solo giocare bene le sue carte, sfruttare l'opportunità che gli aveva dato, e cercare di ribaltare la situazione.
«La stanza di John, di sopra, è libera», spiegò. «Puoi restare per questa notte, e per tutto il tempo che vorrai».
La ragazzina si morse le labbra e si passò un braccio sugli occhi per cancellare le lacrime. Non ne aveva l'assoluta certezza - l'aveva vista piangere a comando un paio d'ore prima - ma dalla stretta allo stomaco che provò, Sherlock volle credere che fossero vere.
«Grazie», mormorò avvicinandosi cautamente, forse per un abbraccio.
Il detective fece finta di non aver compreso e tornò davanti al pc. La stessa Geneviève ne sembrò sollevata, quando la guardò per dirle: «Domani mattina tutti i dubbi riguardanti il caso della Donna Bionda saranno risolti, hai la mia parola».
E con quell'augurio di buonanotte, la ragazza bionda gli rivolse un lieve sorriso, carico di gratitudine, e lo lasciò solo.  

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Capitolo 9
*** Texts ***


Buonasera a tutti :)
Con questo capitolo si chiude il caso del "diamante azzurro" e si verrà a scoprire anche qualcosina di più sui piani di Lupin, il quale fa una visita a... a chi? Vi lascio la sorpresa!
Grazie a chi sta leggendo questa storia, commentando e apprezzando tanto da metterla tra le preferite e le seguite. Siete la mia gioiaaaaa!
Vi auguro una buona lettura! :)
Alla prossima.

Vostra,

_Pulse_


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9. Texts


Geneviève scese le scale in punta di piedi e trovò la porta del salotto chiusa, così entrò da quella accostata che dava sulla cucina e sbirciò all'interno, non trovando nessuno. Il detective doveva essere andato a dormire, finalmente.
Col cuore che le galoppava nel petto si guardò intorno e decise di iniziare a curiosare, partendo dal pc portatile sulla scrivania, su cui Sherlock aveva lavorato per quasi tutta la notte. Non era protetto da password e questo la stupì, ma non tanto quanto la cartella che vide al centro del desktop, intitolata "Donna Bionda". Vi portò sopra il cursore, ma quando fu sul punto di aprirla ci ripensò.
Le aveva dato la sua parola, le aveva permesso di dormire nella stanza del suo migliore amico...

Geneviève abbassò lo schermo del laptop ed uscì in fretta dall'appartamento. Il senso di colpa era talmente grande, così pesante sulle sue spalle, che dovette respirare a pieni polmoni quando fu sul marciapiede, sotto il cielo violaceo. Mancava ancora un'ora all'alba e Geneviève decise di camminare verso il Savoy, così che l'aria fredda le schiarisse le idee.

«Ciao papà», lo salutò, facendo del suo meglio per non risultare triste.
La voce di suo padre invece le giunse chiara e squillante, felice. «Ciao tesoro! Volevo solo dirti che sono rientrato adesso. È un vero peccato che tu non ci fossi, è stata una serata memorabile!».
Geneviève mantenne il piccolo sorriso che aveva sulle labbra ed accarezzò con un dito uno dei tanti becher che ingombravano il tavolo della cucina di Sherlock. Più che una cucina, sembrava un laboratorio di metanfetamina.
«Sono contenta che tu ti sia divertito. La prossima volta non mancherò, promesso».
«Ci conto, tesoro! Ora ti lascio, sono molto stanco».
«Va bene, allora buonanotte».
Era già pronta a chiudere, ma la sua risposta tardava ad arrivare. I suoi silenzi non promettevano mai nulla di buono e quando finalmente parlò, Geneviève si ritrovò ad occhi sgranati, scioccata.
«Salutami Sherlock, mi raccomando».
«Ma che dici?», ridacchiò, nervosa. «Perché dovrei salutarti Sherlock?».
Arsène l'avrebbe perforata con uno dei suoi sguardi intimidatori, uno di quelli che le facevano accapponare la pelle solo all'idea. Invece, trattandosi solo della sua voce al telefono, sibilò adirato: «Non ti azzardare a fare la finta tonta con me. Ci siamo capiti?».
«S-Sì».
«Domani mattina mi aspetto delle spiegazioni», aggiunse. «Ora rimani pure lì, vedi di sfruttare l'occasione per scoprire qualcosa di utile».
«Okay. Buonanotte anche a te», lo salutò, senza venir ricambiata.

Geneviève non si sarebbe mai pentita di quello che aveva fatto per sua madre, ma era davvero dispiaciuta di aver deluso suo padre. Incredibilmente però, lo era ancora di più per aver mentito a Sherlock, fingendo che Arsène l'avesse allontanata solo per l'arrabbiatura e non perché potesse sfruttare il buon cuore del detective per frugare in casa sua.
Era quello che intendeva sua madre, quando le aveva detto di fare solo ciò che riteneva giusto e di non fare cose di cui si sarebbe pentita?
Tutti quei sentimenti che si facevano lotta tra di loro - l'amore per sua madre, l'orgoglio che voleva suo padre provasse nei suoi confronti, la simpatia che stava iniziando a provare per Sherlock Holmes - la stavano portando ad un'esaurimento nervoso.
Passò di fronte alla stazione di Regent's Park e decise di salire sulla metro per arrivare prima al Savoy, dove avrebbe affrontato suo padre. Non poteva più aspettare.

***

Molly si svegliò e nel buio della sua stanza pensò che fosse stato tutto un sogno.
Era già pronta a sprofondare con la faccia nel cuscino per godere di altri cinque minuti di sonno prima che suonasse la seconda sveglia, quando sul comodino vide un bigliettino con un numero di telefono e un nome: Jean.
Lo prese tra le dita, quasi col timore che si sbriciolasse, e portandoselo tra gli occhi chiusi ripensò alla serata trascorsa al pub.
Quando, dopo cena, era uscita per bere qualche bicchiere tra la gente - un metodo come un altro per sentirsi meno sola, - non aveva la minima idea che avrebbe fatto colpo su un ragazzo affascinante e carismatico come Jean. E a dire il vero aveva pensato che la stesse prendendo in giro per almeno un quarto d'ora, sospettosa e ormai fin troppo abituata al modo in cui finiva sempre per attirare i sociopatici. Tanto valeva evitare di rischiare, no?
Come se tutto quello non fosse bastato a metterle il morale sotto le suole delle scarpe, il suo ultimo incontro con Sherlock le aveva dato il colpo di grazia definitivo. Non aveva la minima intenzione di socializzare, ma Jean... I suoi occhi color smeraldo e pieni di vita, il suo sorriso gioioso in grado di farla rilassare, la sua voce calda e i suoi modi da vero gentiluomo l'avevano fatta cedere.
Davanti a due pinte di birra, il biondo si era scusato per l'accento e le aveva confessato di essere francese, cosa che Molly aveva già notato e trovato alquanto strana, considerando che anche la ragazzina che aveva visto con Sherlock aveva origini d'oltremanica. Si era detta che era solo una coincidenza, doveva esserlo.
Jean si trovava a Londra per motivi di famiglia, ma ne stava anche approfittando per fare un po' il turista. Molly aveva risposto che lei non era mai stata in Francia e che avrebbe adorato visitare Parigi, così lui l'aveva buttata lì: «Se mi farai da guida, prometto che ricambierò il favore se mai verrai a Parigi».
L'aveva proposto con così tanta tranquillità, nemmeno un cenno di malizia, che l'anatomopatologa era stata sul punto di considerare l'offerta. Avrebbe di certo accettato se l'espressione triste di Sherlock non le fosse balenata davanti agli occhi come un rimprovero.
«Mi dispiace, non credo di essere la persona adatta», aveva risposto, e il ragazzo non aveva insistito. Si era semplicemente stretto nelle spalle, con un sorriso rammaricato. Questo a dimostrazione di quanto fosse stata priva di secondi fini la sua proposta.
Molly si era guardata - il maglione a righe, i pantaloni color cachi, le scarpe economiche - e si era chiesta cosa mai potesse aver spinto quel ragazzo tanto bello a sedersi al suo fianco, ad offrirle una pinta di birra e ad intavolare una conversazione. Alla fine non era più riuscita a trattenersi e grazie all'audacia che si ha solo con gli estrani gliel'aveva chiesto chiaramente.
Lui l'aveva fissata negli occhi, tanto stupito da rimanere persino con le labbra socchiuse. «Nessuna ragazza dovrebbe bere da sola, specialmente una come te».
«Una come me? Che significa?».
Jean aveva scrollato ancora le spalle, sorridendo. «Non posso dirlo, se non mi dai l'opportunità di conoscerti. Il fatto che tu me l'abbia chiesto, però, denota una scarsa autostima. Me ne domando il motivo...».
Anche Molly se l'era chiesto, molte e molte volte.
Tutte le persone che incontrava la sottovalutavano o non la reputavano importante, una donna da nì, e l'avevano sempre trattata tale, tanto che alla fine aveva finito per crederci. L'unico che l'aveva vista davvero, nella solutidine del laboratorio o dell'obitorio, era stato Sherlock. Come poteva non innamorarsene, dunque? Peccato che lui non fosse capace di amare, o meglio non volesse farlo.
Jean aveva capito più di lei in cinque minuti che molti suoi conoscenti in anni, per questo aveva alzato le barriere ed era scesa dallo sgabello, lasciando sul bancone una banconota di taglio sufficiente a coprire le loro ordinazioni. Lui aveva protestato, ma Molly era stata irremovibile e qualcosa nei suoi occhi doveva averlo convinto a lasciar perdere. Allora aveva infilato una mano nella tasca interna della giacca, aveva tirato fuori un cartoncino bianco e vi aveva scritto sopra il proprio numero di cellulare.
«Chiamami, se cambi idea sulla visita guidata».
Molly aveva preso il bigliettino, incredula. Di solito era lei a dare il suo numero, nella speranza che la richiamassero. Ore ed ore spese accanto al cellulare, in attesa di una telefonata. (E poi ne era bastata una, una di pochi minuti, per sbriciolare anche l'ultimo pezzo del suo cuore).
Jean aveva dato a lei la scelta: le aveva consegnato le proprie speranze e le aveva dato il potere di deciderne il destino. Avrebbe dovuto esserne felice, lusingata, eppure quel bigliettino le era pesato una tonnellata nella tasca del cappotto.
La seconda sveglia suonò e Molly riaprì gli occhi, si tolse il bigliettino dalla fronte e lo portò con sé in cucina. Col cestino aperto davanti a sè, la mano stesa verso l'oblio del sacco, si chiese quante volte fosse successo al suo numero. Tuttavia non poteva chiamarlo, non poteva fingere un'altra volta, illudersi di poter dimenticare l'unico amore della sua vita.
Gettò il bigliettino nella spazzatura e mise su l'acqua per il té.

***

Sherlock sbadigliò infilandosi nella vestaglia e scuotendo il capo maledisse quella stupida necessità fisiologica. Ogni traccia di sonno svanì quando le scoperte della notte appena trascorsa si ripresentarono, talmente chiare e semplici che Geneviève si sarebbe messa a ridere quando gliele avrebbe raccontate.
Forse ridere no, considerato che sua madre aveva pur sempre ucciso un uomo, ma sperava di poter alleviare almeno un po' il dolore che doveva patire nel chiedersi se fosse la figlia di un'assassina.
«Signora Hudson!», gridò, cadendo nella propria poltrona.
La padrona di casa si presentò poco dopo, dandogli il buongiorno con il solito di tè e dei biscotti allo zenzero.
«Sembri di buon umore questa mattina».
Il detective sorrise, mordendone uno. «Ho risolto un caso».
«Oh, mi fa piacere caro».
Gli versò una tazza di té e dopo averci soffiato sopra, Sherlock le chiese: «Potrebbe andare nella stanza di John a svegliare la nostra ospite?».
«Quale ospite?».
«Geneviève».
La donna aprì la bocca, poi la richiuse, guardandolo apprensiva. Era dura per il detective capire il motivo di certe espressioni, specie di prima mattina.
«Che c'è?», borbottò.
«Sherlock... Geneviève è una cara ragazza e so che non c'è alcuna malizia nel vostro rapporto, ma devo ricordarti che ha solo quindici anni? Che dorma qui, da sola, è sconveniente. Per non pensare a quello che scriverebbero i giornali, se si venisse a sapere!».
Il grande detective non ci aveva pensato, ovviamente. Aveva visto una ragazza triste e abbandonata dal padre, aveva visto l'opportunità di rendersela amica e conquistarsi la sua fiducia per impedirle di seguirne le orme, e le aveva offerto ospitalità. I giornali, il decoro... noiosi.
«Non lo farò più», mentì.
La signora Hudson annuì e salì al piano di sopra, nonostante l'anca dolorante. Sherlock sentì i suoi passi, come se girasse in tondo, e poi la sua voce confusa: «Ma qui non c'è nessuno!».
Il detective si precipitò su per le scale e trovò il vecchio letto di John sfatto, ma di Geneviève nessuna traccia.
«Devo smettere di dormire, devo smettere!», gridò con un diavolo per capello, tornando rumorosamente in salotto.

***

Geneviève raggiunse la propria suite per darsi una rinfrescata prima dell'incontro con suo padre, ma la tessera elettronica non funzionò. Scassinare quella porta era impossibile, a meno di manomettere i circuiti elettrici, perciò fece ciò che avrebbero fatto tutti in una situazione del genere: andò alla reception.
«Buongiorno», mormorò allungando sul bancone di mogano la key-card col logo del Savoy. «Non riesco ad entrare nella mia stanza. Deve essersi smagnetizzata».
Il receptionist le sorrise cordialmente, rispondendo: «No, signorina. Suo padre, ieri sera, ha dato istruzioni perché la disattivassimo».
Geneviève sentì il cuore sprofondarle nel petto. Suo padre era davvero arrabbiato, se aveva preso una decisione così estrema. Se quella notte non fosse rimasta da Sherlock, come le aveva ordinato, sarebbe tornata in hotel e avrebbe scoperto di non avere più un posto dove dormire. Cosa avrebbe fatto, allora?
«Si sente bene, signorina?».
«Sì», rispose, allontanando la mano dalla tessera elettronica. «Sa per caso dove posso trovarlo?».
Il receptionist controllò qualcosa sugli schermi che aveva di fronte, poi sorrise nuovamente. «Ha ordinato due colazioni in camera giusto qualche minuto fa».
La ragazzina lo ringraziò con un cenno del capo e si diresse verso l'ascensore dalle pareti dorate. Il viaggio sembrò durare ore, tant'era l'ansia che le stava mordendo lo stomaco brontolante. La sera prima non aveva mangiato granché, al ristorante di Angelo, e dubitava che avrebbe avuto la forza di fare colazione sotto gli occhi inquisitori di Arsène Lupin.
Finalmente le porte si aprirono davanti al corridoio dell'ultimo piano e Geneviève fu subito accolta da due guardie, le quali la scortarono davanti alla porta della Royal Suite. Uno dei due bussò e la passò in cosegna - proprio come un pacco - all'uomo di guardia all'ingresso, e via così, fino a quando non si trovò nella camera padronale. Baffoni la lasciò entrare e rivolgendo un piccolo inchino verso il suo capo si ritirò, lasciandoli soli.
Suo padre era ancora sdraiato a letto, con indosso una vestaglia di velluto verde chiaro e i capelli un po' spettinati che gli ricadevano sul volto. Il suo sguardo era fisso sul tablet che aveva tra le mani e Geneviève rimase ferma davanti alla porta fino a quando non si decise a guardarla, con un misto di indifferenza e delusione sul viso.
«Dormito bene?», le domandò atono.
Geneviève si tolse lo zainetto dalle spalle e lo lasciò cadere a terra. Provava l'irrefrenabile impulso di scoppiare a piangere, di lanciarsi su quel letto a baldacchino per stringerlo forte ed implorarlo di perdonarla, ma il suo atteggiamento freddo, quasi disprezzante, la costringeva a reprimere tutto quanto. Non poteva mostrarsi debole di fronte a lui, non dopo ciò che aveva fatto. Quale padre avrebbe negato un letto alla propria figlia?
«Abbastanza», rispose con voce ferma, i pungi stretti dietro la schiena.
«Io per niente». Arsène sollevò di nuovo gli occhi dal tablet. «Non ho chiuso occhio, ad essere onesti».
Geneviève voltò il capo, pronta ad incassare la ramanzina, ma la voce di suo padre si sciolse, trasformandosi in una carezza colma di dispiacere.
«Ieri ho esagerato. Mi sono lasciato travolgere dalle emozioni, devi perdonarmi».
Rilassò i pugni e guardò il Ladro Gentiluomo, il quale aveva le labbra strette in una smorfia e gli occhi velati di lacrime.
«Non ho idea di cosa dovrebbe fare un buon padre, Geneviève. Ma sto iniziando a capire ciò che si prova quando la propria figlia si allontana di nascosto, o fa qualcosa di incomprensibile. L'ansia, il timore... Non ho mai provato nulla di così forte in vita mia. E io sono sempre circondato da pericoli, lo sai».
A quel punto le era davvero difficile trattenersi: quel discorso a cuore aperto la stava facendo cedere. Ciò nonostante fece un ultimo sforzo mentre suo padre concludeva: «Adesso, a mente fredda, sono sicuro che tu abbia avuto le tue ragioni per liberare Sherlock Holmes e aiutarlo a fuggire. Ma ieri non ho potuto evitare di pensare che preferissi la sua compagnia alla mia, o che...».
«Tu sei mio padre», lo interruppe con ardore. «Ammetto che Sherlock Holmes ha una certa influenza su di me, ma tu... tu sei l'uomo che ho sempre voluto conoscere, l'uomo a cui voglio assomigliare».
Geneviève avvertì una nota stonata in quella frase, ma la ignorò e così dovette fare Arsène, commosso. Infatti si alzò dal letto e la raggiunse con poche falcate per stringerla in un abbraccio, sollevandola anche un poco da terra in una giravolta.
La ragazzina respirò profondamente, con le braccia avvolte intorno al suo collo. Avrebbe voluto che quel momento non finisse mai, tanto si sentiva protetta e amata, ma venne infranto da dei colpi alla porta.
Arsène la rimise coi piedi per terra e guardandola con tenerezza esclamò: «Avanti!».
Baffoni entrò con un carrello imbandito di prelibatezze: le due colazioni che aveva ordinato.
Geneviève, ora che tutto sembrava risolto, avvertì i morsi della fame. Qualcosa però gliela tolse di nuovo: il tablet che suo padre aveva lasciato sulla panca ai piedi del letto, su cui c'erano quattro diverse inquadrature della sua stanza. Si rifiutò di crederci, dicendosi che c'erano altre suite uguali alla sua. Ma perché Arsène avrebbe dovuto sorvegliarle? Ogni dubbio venne spazzato via quando vide se stessa mentre si toglieva l'accappatoio, indossava i vestiti per la fuga e poi, zainetto in spalla, usciva sul balcone per non rientrare più.
Ecco come aveva fatto suo padre a scoprirla così in fretta.
Si voltò verso di lui, sentendosi confusa e tradita, e quando anche lui si girò dopo aver richiuso la porta, ogni traccia del buon umore ritrovato sparì dal suo viso. Il suo sguardo seguì il dito che Geneviève puntava verso il tablet, poi si concentrò sulle lacrime che le avevano riempito gli occhi.
«Che cosa significa?», gli chiese, la voce tremante.
Arsène aprì la bocca, colto in fallo, ma impiegò solo un paio di secondi per sorridere con dolcezza. «Significa che hai un padre iperprotettivo, tesoro. Le ho fatte installare per la tua sicurezza personale».
La ragazzina deglutì e lo guardò a lungo, cercando di capire se stesse mentendo o meno. Ma come poteva farlo? Per quanto lei fosse brava a propinare bugie, era da lui che aveva ereditato quel gene; lui sarebbe sempre stato il maestro delle truffe e degli inganni, il più fedele seguace di Loki.
«Mi dispiace tesoro, ma era necessario», aggiunse, passandole accanto col carrello.
Forse era vero. D'altronde Sherlock stesso le aveva rivelato che Ganimard, l'ispettore che da anni cercava di arrestare suo padre - lo stesso a cui si erano rivolti per sapere di più in merito al caso del diamante azzurro - avrebbe fatto qualsiasi cosa, persino usare lei come esca, per mettere nella rete il pesce più grosso della sua vita.
O forse no. Forse suo padre, nonostante affermasse il contrario, non si fidava ancora completamente di lei e il suo intento era quello di sorvegliarla per evitare che potesse tradirlo.
Non c'era modo di scoprirlo e Geneviève, d'ora in avanti, avrebbe dovuto combattere su due fronti: aiutare suo padre a portare a termine il compito assegnatogli da Irene Adler, conquistandosi la fiducia di Sherlock Holmes, e poi agire contro di lui, alleandosi col detective, per scoprire chi fosse veramente e se, a quel punto, poteva fidarsi di lui.
Non sarebbe stata un'impresa facile, passare tra quei due fuochi senza mai scottarsi, ed era probabile che alla fine avrebbe dovuto prendere una posizione, tradendo inevitabilmente uno dei due, ma non poteva fare altrimenti.
«Allora», esclamò Arsène, svaccato di nuovo sul letto con una tazza di cioccolata calda in una mano e un muffin nell'altra. «Raccontami tutto, dall'inizio».
Geneviève sbatté gli occhi per spazzare via le lacrime e respirò profondamente, sedendosi ai piedi del letto. Era giunto il momento a cui si era preparata tanto, insonne nella vecchia camera del dottor Watson.
«Ieri, all'ospedale, mamma mi ha fatto venire una terribile nostalgia di casa», esordì, guardandosi le unghie mangiucchiate delle mani. «Era lì che volevo andare e non volevo che la scorta si facesse gli affari miei, perciò ho scelto di uscire ancora dalla finestra. Sono stata interrotta però, dai rumori provenienti dalla tua suite».
Arsène sorrise, muovendo una mano e riassumendo: «Sei venuta qui, hai trovato Sherlock Holmes legato e imbavagliato e hai chiesto di rimanere sola con lui. Qui non ho installato alcuna telecamera di sicurezza, non lo ritenevo necessario, perciò voglio sapere di cosa avete parlato».
«Di niente. Gli ho solo offerto il mio aiuto».
«Pro bono?».
«Beh, non proprio. Quello che volevo in cambio era la sua fiducia, ma non potevo chiedergliela direttamente. Così l'ho liberato, fingendo di essere dalla sua parte, e abbiamo inscenato quel sequestro perché potesse fuggire».
Arsène la fissò, soppesando le sue parole, e la ragazzina dovette concentrarsi al massimo per non far trasparire la verità, ovvero che in cambio aveva voluto il suo aiuto per scoprire la vera storia del diamante azzurro.
Alla fine suo padre sorrise entusiasta, gli occhi brillanti di eccitazione.
«Sono impressionato, tesoro. Hai fatto credere a Sherlock di non fidarti di me per avvicinarti a lui? Magnifica pensata! Ora lui pensa di averti dalla sua parte e si lascerà scappare qualcosa di più, si confiderà addirittura, non vedendo in te alcuna minaccia, quando invece... Oh, che spettacolo!», gridò, sfregandosi le mani.
Geneviève si sforzò di sorridere, spaventata dalla rete che stava tentendo.
«È bravissimo a tenere in piedi tutte le sue false identità e ad elaborare piani intricatissimi, ma a volte smette di vedere ciò che ha sotto il naso», aveva detto sua madre. Lei avrebbe fatto la stessa fine? Sarebbe finita nella sua stessa rete, troppo complessa ed intricata per una ragazzina di soli quindici anni?
«Vai avanti», la invitò, prendendo degli acini d'uva per lanciarseli in bocca.
«Ci siamo dati appuntamento al Waterloo Bridge e dopo le dovute spiegazioni, con le quali sono riuscita a convincerlo della mia sincerità, mi ha portata al ristorante di un suo amico. Lì ha incontrato Justin Ganimard».
Arsène rischiò di strozzarsi con un chicco d'uva. Geneviève fece per avvicinarsi, ma il padre tossì con violenza e tornò a respirare regolarmente. Quindi, con gli occhi fuori dalle orbite, strepitò: «È pazzo?! Se l'ispettore avesse un solo sospetto, uno solo, saresti nei guai fino al collo!».
«Me l'ha detto, ma ho insistito per rimanere ad ascoltare. Hanno parlato di te, ovviamente. Di vecchi casi mai risolti, in particolare di quello del diamante azzurro...».
Lupin si irrigidì e Geneviève si chiese se non avesse osato troppo. Tuttavia il suo interesse era troppo forte e doveva rischiare, se voleva ottenere qualcosa da lui.
«Si tratta dell'anello che hai dato alla mamma, non è così?».
Lui annuì con un impercettibile cenno del capo e lasciò la tazza sul carrello, per poi alzarsi e dirigersi verso la finestra, lo sguardo cupo rivolto verso il London Eye.
«Hanno detto che quel caso è stato diverso, che c'è stato un... un omicidio».
«Fandonie!», gridò, pestando un piede a terra.
«Ma loro hanno detto...».
Arsène si girò di scatto e la guardò in cagnesco, il labbro superiore arricciato sui denti in un ringhio. «Fai silenzio! Non voglio più sentirne parlare, ci siamo capiti?».
Quei repentini cambiamenti d'umore la turbavano sempre, tanto che si alzò e prendendo una mela dal carrello si diresse verso la porta, decisa a lasciarlo sbollire.
«Scusami», le disse piano, quando fu sulla soglia.
Geneviève lo guardò con la coda dell'occhio, trovandolo stanco e depresso come non l'aveva mai visto. Lo seguì mentre si lasciava cadere seduto sul bordo del letto, le mani a coprirsi il volto e poi a tirarsi indietro i capelli.
«Quel caso fa parte del passato. Il passato è morto per sempre; il passato non esiste», aggiunse, pronunciando quelle parole come una specie di filastrocca con lo scopo di tranquillizzare lui, piuttosto che la figlia. Le ripeté per un po', sempre più piano, fino a quando le sue spalle non si rilassarono nuovamente e sul suo volto tornò a splendere il sorriso. Quella volta palesemente finto.
«Vai pure, tesoro. Darò disposizioni perché la tua tessera venga riattivata», la congedò e la ragazzina non se lo fece ripetere due volte.
Chiuse piano la porta e si ritrovò davanti Baffoni, il quale le rivolse un'occhiata guardinga dicendo: «La tengo d'occhio, signorina».
Geneviève gli mostrò la lingua e poi lo superò, dando un morso alla sua mela.

***

Molly aprì il proprio armadietto per indossare il camice da laboratorio e nel tirarlo fuori una busta bianca cadde a terra. Se la rigirò tra le dita e il cuore le finì in gola leggendo il nome di Sherlock sul retro, scritto da una calligrafia femminile. Incuriosita, aprì la busta e al suo interno trovò due biglietti per lo spettacolo del Don Giovanni alla Royal Opera House e quello che sembrava proprio il pezzo di calendario mancante. Sherlock l'aveva strappato per scriverci sopra poche parole: "Un regalo da parte di Geneviève. Vacci con qualcuno che ti meriti e che non ti faccia soffrire. SH".
Molly si sedette sulla panchina alle sue spalle e si coprì il volto con le mani, sentendo le lacrime affluire agli occhi.
Allora lo sapeva, lo sapeva che la stava facendo soffrire. Quel bastardo.
Diceva anche di non meritarla, e forse era vero visto il modo in cui la trattava, ma Molly non poteva lasciarlo andare, non poteva nemmeno volendo.
Avrebbe voluto stracciare quei biglietti - di vedere un uomo che se ne andava in giro a conquistare donne non ne aveva granché voglia - ma invece si ripromise di restituirli alla stessa Geneviève, la quale aveva voluto fare da Cupido e aveva fallito miseramente.
Si alzò, si infilò il camice e fingendo che andasse tutto bene chiuse l'armadietto per iniziare a lavorare.

***

John salutò la figlia e poi la babysitter, quindi uscì di casa e saliti i gradini che lo portarono sul marciapiede rimase di stucco: la Porsche argentata di Arsène Lupin era parcheggiata lì davanti, scintillante come uno specchio e bellissima, e il suo proprietario era seduto sul cofano, che leggeva il Sun con aria assorta.
Quando si accorse della sua presenza gli rivolse un ampio sorriso e gettò il giornale in un cestino vicino, non prima però di averne strappato un articolo particolarmente interessante, che finì nella tasca interna del suo cappotto grigio.
«Buongiorno dottore», lo salutò avvicinandosi.
John si guardò intorno, circospetto, aspettandosi di notare gli uomini della sua scorta.
Lupin si mise a ridere, esclamando: «Sono solo io, dottore. Hai la mia parola».
«Come fai a sapere dove abito?».
«Questo non è rilevante», rispose con lo stesso tono annoiato di Sherlock, ma senza perdere il sorriso. «Chiedimi perché sono venuto».
John, abituato, non la fece troppo lunga e chiese: «Perché sei venuto?».
«Perché volevo farmi perdonare!». Lo affiancò e gli mise una mano sulla schiena, invitandolo ad avanzare senza paura verso l'auto sportiva. «Ultimamente ti sto rubando Sherlock e...».
«Non sono affatto geloso».
Arsène gli rivolse un'occhiata impietosita, come se la sua bugia fosse talmente ovvia da risultare imbarazzante.
«Quello che voglio dire è che volevo farmi perdonare, offrendoti quel passaggio che ti ho rifiutato l'altra mattina. Anzi, farò di più!». Tirò fuori dalla tasca del cappotto le chiavi e le fece dondolare davanti ai suoi occhi, con un sorriso eccitato sulle labbra. «Vuoi guidare tu?».
John ne fu tentato, molto tentato, ma all'ultimo momento rifiutò, scuotendo il capo. «No, grazie. Non devi farti perdonare, quello che fa Sherlock è affar suo, non mio. Prenderò l'autobus».
«Rifiuti il mio passaggio?», ripeté Arsène, sbalordito da come si stavano svolgendo gli eventi. Doveva essersi fatto un'idea diversa di lui.
John sorrise compiaciuto. «Esatto. Ma ti ringrazio per essere passato, mi hai evitato un viaggio fino al Savoy». Dalla tasca posteriore dei jeans tirò fuori il portafoglio, dove aveva conservato le banconote che Arsène gli aveva infilato nella giacca, come un prestigiatore, quando li aveva invitati a colazione.
«Questi sono tuoi», disse, porgendogli i soldi.
«La vincita della mia scommessa?», chiese il Ladro Gentiluomo. «Puoi - devi tenerli. Sono un regalo».
«Non li voglio».
L'uomo biondo lo fissò a lungo, facendolo sentire ancora una volta piccolo e insignificante. Poi la sua espressione cambiò, rivelando un profondo rammarico.
«Capisco», mormorò. «Dato che sospetti che io sia chi io sia - Arsène Lupin, il famoso ladro francese - non vuoi accettare nulla da me. Ecco che vuol dire avere una cattiva reputazione».
Arsène si infilò le banconote in tasca e poi saltò dentro l'abitacolo, girò le chiavi nel quadro d'accensione e il motore ruggì. Lo salutò portandosi due dita sopra il sopracciglio destro e con un piccolo sorriso, poi diede gas e partì con una sgommata.
John guardò le linee scure lasciate dalle gomme sull'asfalto e sospirò, ma non si pentì della sua decisione. Se Sherlock era convinto che quell'uomo fosse Arsène Lupin doveva fidarsi di lui. Che razza di migliore amico sarebbe stato, altrimenti?
Tirò fuori il cellulare ed iniziò a scrivergli un sms:

Ciao, volevo solo avv|

Cancellò tutto, consapevole che così scritto sarebbe finito direttamente nel cestino. (O almeno così diceva Sherlock. In realtà, era impossibile saperlo).

Arsène mi ha appena offerto un passaggio al lavoro.
Ho rifiutato.

Inviò e dopo un respiro profondo si avviò verso la fermata dell'autobus.

***

Arsène strinse forte il volante della Porsche, il viso contratto in un'espressione corrucciata.
Molly Hooper non l'aveva ancora richiamato.
John Watson non voleva avere nulla a che fare con lui.
Avrebbe potuto andare dalla signora Hudson, ma aveva come il presentimento che sotto le vesti dell'anziana padrona di casa ci fosse molto di più: se avesse provato a farle qualche domanda su Sherlock o su ciò che era successo al 221B un mese prima, probabilmente avrebbe fiutato puzza di guai e anche lei si sarebbe allontanata.
Tra gli amici più intimi del detective c'era l'ispettore Greg Lestrade e l'idea di entrare a Scotland Yard, nel cuore della polizia britannica, stuzzicava il suo lato più irriverente. I rischi però erano troppi e le percentuali di riuscita troppo basse. Avrebbe continuato a tenerlo d'occhio mantenendo le dovute distanze.
Tutti così leali... Sherlock se li era scelti bene. E lui che pensava che la solitudine fosse la miglior difesa!
«Dannazione!», berciò, picchiando una mano guantata di bianco sul volante.
La fortuna non era decisamente dalla sua parte e se non avesse avuto Geneviève, la quale stava facendo un ottimo lavoro nel diventare amica del consulente investigativo, non avrebbe avuto nulla in mano. Sperava solo che, al contrario di lui e nonostante la giovane età, riuscisse a tenere separati lavoro e sentimenti. Sarebbe stato un duro colpo se alla fine avesse davvero preferito Sherlock a lui, tanto duro che probabilmente non avrebbe più risposto delle proprie azioni.
Guardò l'ora sul proprio Rolex e, dato che era ancora presto per andare in ospedale, decise di fare visita al maggiore degli Holmes. Sarebbe stato scortese non salutarlo, dopotutto.

«Mon Dieu, Myc! Sei davvero in forma smagliante!».
Mycroft lo guardò con la coda dell'occhio, senza scomporsi, e pigiò qualche tasto sul tapis roulant, poi vi saltò giù e raggiunse il tavolino dove aveva lasciato un asciugamano e un integratore.
«Non ti chiedo nemmeno come tu sia riuscito ad entrare, Arsène».
Il biondo sorrise furbescamente, portandosi alle labbra il bicchiere di aranciata che si era versato da solo in cucina.
«Comunque grazie», aggiunse il maggiore degli Holmes.
«Ma figurati. Se vuoi, uno di questi giorni, possiamo fare qualche esercizio insieme. Al Savoy hanno una palestra davvero attrezzata».
«Sai perfettamente che preferisco la solitudine».
«Già... Ma ultimamente stai frequentando una donna, mi sbaglio?».
Mycroft lo fissò, cercando inutilmente di celare la sorpresa. Come poteva saperlo? Era stato attentissimo, tanto che nemmeno Sherlock era riuscito a dedurlo.
Arsène si fece più vicino, guardandolo maliziosamente. Sollevò una mano e fece correre due dita dalla spalla destra a quella sinistra, sussurrando: «Certe cose non ho bisogno di vederle... le percepisco».
«Questo è impossibile».
Il Ladro Gentiluomo incrociò i loro sguardi e si mostrò terribilmente offeso, fino a quando non riuscì più a reprimere una risata.
«E va bene, hai ragione. Ho solo visto che il tuo frigo era pieno e ho tirato ad indovinare. La tua espressione mi ha dato la conferma definitiva».
«Come puoi...?».
«Sull'anta ci sono appesi diversi volantini di ristoranti, segno che fino a qualche tempo fa rientravi a casa a tarda notte, da solo, e ordinavi cibo d'asporto. Ora però c'è una donna, perciò ti preoccupi che ci sia da mangiare nel caso in cui rimanga qui la notte e voglia fare colazione prima di andare al lavoro. Le uova, il bacon e i formaggi sono in scadenza, perciò presuppongo che non sia accora accaduto, ma è molto tenero da parte tua, Myc...».
Il fratello di Sherlock si ostinò a mantenere un atteggiamento superiore, per non dargli la soddisfazione di averci preso in pieno, e disse: «A che cosa devo l'onore della tua visita, Arsène? Tua figlia? Mi stupisce che tu ti sia fatto incastrare in questo modo...».
«Nessuno mi ha incastrato», rispose a denti stretti.
«Sicuro? Lo sai come sono i figli... Possono essere una rovina».
«Parli a nome dei tuoi poveri genitori?», ribatté, con un sorriso beffardo sul volto. «Lei è diversa, l'avrai notato anche tu. È il mio tesoro più prezioso».
Quindi si sedette con grazia sulla poltrona, le gambe accavallate, e si portò una mano sul mento perfettamente rasato, meditabondo.
«Comunque la mia è una semplice visita di cortesia, devi credermi. Dopotutto era da quando mi hai chiesto aiuto per prendere per la prima volta Moriarty che non facevamo due chiacchiere, vero?».
Mycroft socchiuse gli occhi al ricordo dello sforzo compiuto per abbassarsi a chiedere aiuto ad un ladro. E se pensava che a quel primo arresto erano succeduti i colloqui, le rivelazioni su Sherlock, il regalo di Natale a sua sorella Eurus...
Represse un brivido, ammettendo: «Ultimamente rimpiango spesso quella decisione».
«Anche io, in parte. Quell'uomo era ripugnante, Myc. Tutti i suoi giochi contorti,  le morti e il piacere che ne traeva... Ah, l'ho odiato dal primo momento! Ma c'è da dire che aveva un certo gusto nel vestire».
«Perché l'hai fatto, allora?».
Arsène corrugò la fronte. «Che domanda è? Noi siamo amici, Myc».
«Il mio nome è Mycroft», lo corresse, esasperato. «E no, non siamo nulla del genere: a te interessa solo Sherlock».
«Sei geloso, per caso? Devo ricordarti che sei stato tu a metterlo sulla mia strada? E non dirmi che è un altro dei tuoi rimpianti».
«Questo non posso farlo», ammise Mycroft, tamponandosi nuovamente il viso sudato con l'asciugamano che aveva intorno al collo. «Per quanto mi costi ammetterlo, è anche merito tuo se Sherlock è diventato ciò che è oggi».
Arsène sorrise, gongolante, e guardò il soffitto. «Ah, eravamo così giovani...».
Mycroft, spinto dalla curiosità, tornò sull'argomento Moriarty: «Sul serio, perché accettasti di aiutarmi ad arrestarlo? Dimmi la verità, prometto che rimarrà tra di noi».
Il ladro perse ogni traccia di sorriso, si alzò dalla poltrona e sistemandosi il nodo della cravatta si schiarì la gola. «E va bene», esclamò con tono pacato. «Posso dire che ho sfruttato alcuni dei suoi affari per mettere le mani su certe cosucce».
«I suoi facevano il lavoro sporco e tu derubavi le vittime senza lasciare il tuo bigliettino da visita».
«Non potevo di certo farmi una simile pubblicità! Ho una reputazione da difendere!».
Mycroft scosse il capo, quasi con delusione, e gli diede le spalle per guardare fuori dalle ampie vetrate. «Dici a te stesso di essere diverso, ma in realtà sei come tutti gli altri: un criminale».
Arsène strinse forte i pugni lungo i fianchi, rosso di rabbia.
«Non capisco che cosa abbia visto in te il mio fratellino, o per quale motivo si sia così interstardito sul volerti redimere. Tutto tempo sprecato».
Al silenzio del ladro, l'Holmes più grande si voltò a guardarlo e lo trovò a capo chino, come un bambino che è appena stato scoperto a rubare caramelle e ne è profondamente dispiaciuto.
«Sai, Mycroft», sussurrò dolcemente. «Avevi ragione, prima, quando hai detto che noi due non siamo amici. Non mi sei mai piaciuto, ma anche io, proprio come Sherlock, ho la testa dura. Ogni volta penso di poter scorgere qualcosa di buono in te, ma fallisco. È frustrante, lo sai?». Alzò finalmente gli occhi, dispiaciuti e ridenti allo stesso tempo. «Non sono abituato a perdere. Tuttavia, non mi dispiace. Vincere sempre e in ogni caso finisce col diventare fastidioso».
Si avvicinò nuovamente e lo fronteggiò, i loro volti tanto vicini da scorgere ognuno le particolarità delle iridi dell'altro.
«Ma ci riuscirò, prima o poi. Riuscirò a scalfire la tua corazza, Mycroft Holmes».
«A quale scopo?».
«Per dimostrarti che Sherlock vale tanto quanto te, se non di più. Per farti ammettere che lui non ha sbagliato sul mio conto, che il suo volermi redimere non è tempo sprecato».
«Se quel giorno arriverà, sarò felice di ammettere di essermi sbagliato», rispose Mycroft, sorridendo.
Arsène ricambiò e si voltò per uscire da dov'era entrato. Sulla soglia però si fermò e con l'atteggiamento incurante di chi era abituato a fare domande a cui non servivano risposte disse: «Chi ha fatto esplodere l'appartamento di Sherlock?».
Il maggiore dei fratelli Holmes dissimulò la sorpresa che gli aveva ghiacciato il sangue nelle vene e rispose con tranquillità: «Nessuno. È scoppiata una bombola del gas».
Il ladro gli rivolse un sorriso sornione, facendo schioccare la lingua contro il palato. «Questa è la versione data alla stampa, Myc. Sei sempre stato bravo ad insabbiare la verità, mi domando perché questa volta tu abbia fatto un lavoro così approssimativo».
Mycroft non rispose e Arsène, con gli occhi fulgidi per l'eccitazione, aggiunse: «Non c'era tempo a sufficienza per inventare una storia migliore?».
«Ti sbagli».
«Forse. D'altronde la mia è stata una perizia fatta su due piedi. Non ho avuto modo di cercare prove, ho colto solo quello che ho potuto, e sono giunto alla conclusione che la storia della bombola del gas difettosa non sta in piedi».
Il ladro si appoggiò allo stipite della porta con la schiena ed incrociò le braccia al petto. Riprese a parlare tenendo gli occhi chiusi, con un sorrisino soddisfatto sulle labbra.
«Vuoi un esempio? Se l'esplosione fosse davvero stata causata da una bombola del gas la cucina sarebbe stata distrutta, invece qualcosa si è salvato. Inoltre, quando sono stato invitato dalla signora Hudson per un tè, ho notato delle crepe sul soffitto della sua cucina, la quale si trova proprio sotto il salotto di Sherlock. Capisci dove voglio arrivare?».
«Le crepe potevano esserci già».
Arsène fece spallucce. «Forse. Ti farò un altro esempio allora: se fosse stata una bombola del gas difettosa come avrebbe fatto Sherlock a sapere esattamente il momento in cui sarebbe esplosa? Alcuni testimoni oculari sono convinti che il caro dottor Watson e il nostro amato Sherlock hanno sfondato le finestre appena prima dell'esplosione, non a causa della stessa. Trovi tutto su Twitter».
Mycroft sospirò, consapevole di non poter in alcun modo controbattere alla logica schiacciante dei suoi ragionamenti.
«Perché vuoi saperlo?», gli chiese.
Il ladro gli rivolse un sorriso divertito. «Mi piace giocare al detective nel tempo libero».
«Lascia perdere, Arsène».
«Sai che non succederà», rispose scrollando un poco le spalle.
«È una perdita di tempo».
«Anche cercare la perla dei Borgia, eppure l'Interpol non si è ancora arresa».
Mycroft alzò gli occhi al cielo. «Ce l'hai tu».
Il Ladro Gentiluomo alzò le mani, ma non si voltò per mostrargli il ghigno che gli incurvava le labbra. «Io so solo che Moriarty l'ha venduta a qualcuno che non se ne separerà facilmente».
«Capisco», sospirò Mycroft. «Arrivederci, Lupin».
Arsène si sollevò un cappello invisibile e se ne andò, silenzioso com'era arrivato.
Il maggiore degli Holmes si tolse l'asciugamano dalle spalle per gettarlo sulla poltrona, poi recuperò il cellulare e una volta di fronte alle finestre che davano sul bellissimo e curato giardino scrisse un breve sms.

Arsène è venuto a porgere i suoi omaggi.
Fa' attenzione, fratello mio.
MH

***

Sherlock rilesse i messaggi ricevuti da John e da Mycroft ed abbozzò un sorriso vittorioso. Arsène non aveva più molti assi nella manica se si stava già muovendo tra i suoi conoscenti nel tentativo di spillare loro qualche informazione utile.
Immaginava la sua frustrazione nell'incontrare muro dopo muro e se ne beò.
John, Lestrade, la signora Hudson... non lo avrebbero mai tradito ed era grato di avere degli amici del genere.
L'aveva evitato di proposito, ma il nome di Molly era impossibile da ignorare, tant'era doloroso. Era possibile, se non praticamente certo, che Arsène avrebbe cercato di entrare in contatto anche con l'anatomopatologa - specie se Geneviève lo aveva tenuto informato come sospettava, - ma non poteva scriverle solo per chiederle se avesse conosciuto persone nuove. L'avrebbe mandato al diavolo, poco ma sicuro. Doveva semplicemente fidarsi di lei e del suo istinto, come sempre.
Quindi entrò nella rilassante hall del London Bridge Hospital ed incrociò subito lo sguardo attento di una delle guardie di Lupin, la quale lo avvicinò chiedendogli il motivo della sua visita.
«Devo vedere Geneviève».
«Temo non sia possibile, monsieur».
«Avvisatela che sono qui, sono certo che mi riceverà».
L'uomo della scorta arretrò di qualche passo ed attese per qualche minuto accanto all'ascensore. Quando le porte si aprirono rivelarono il secondo in comando della banda di Lupin, il maggiordomo che aveva tra i suoi compiti principali quelli di badare alla ragazzina bionda.
«Venga pure, signor Holmes», gli disse, stendendo un braccio verso di lui.
Sherlock lo raggiunse nell'ascensore e una volta soli lo fissò con attenzione, notando che portava l'orologio al polso destro perché sul sinistro erano visibili delle cicatrici da ustioni. Si domandò come se le fosse procurate e se Arsène c'entrasse in qualche modo, ma continuando con la propria analisi si infastidì non trovando nulla che potesse fargli dedurre il motivo per cui il Ladro Gentiluomo si trovava a Londra.
Le sue scarpe erano pulite, perciò era rimasto al chiuso per tutta la mattina.
O Lupin aveva messo in punizione sua figlia, permettendole di uscire solo per andare a trovare sua madre, oppure era proprio vero che il suo unico compito era quello affidatogli da Irene Adler.
Quella donna... Maledetto lui e il giorno in cui l'aveva incontrata. Però forse avrebbe dovuto ringraziarla: era merito suo se Arsène era tornato sulla scena, portandosi dietro la sorella e la nipote segreta di Mary.
Le porte dell'ascensore si aprirono sul corridoio e il suo sguardo si posò immediatamente sulla ragazzina, in piedi davanti alla porta della stanza di sua madre. Si dondolava sui talloni e si stringeva le mani, sopraffatta dal nervosismo. Da quanto tempo era lì, incapace di prendere la maniglia ed affrontare quella pagina censurata del passato di sua madre?
Sherlock avanzò fino a trovarsi al suo fianco e le posò una mano sulla spalla. Geneviève trasalì ed alzò gli occhi grandi e lucidi nei suoi. Dalle occhiaie, il detective capì subito che non aveva dormito quella notte. Si era girata e rigirata nel vecchio letto di John, afflitta da mille e più pensieri.
La fitta che provò all'altezza del cuore, vedendola ridotta a quel fascio di nervi, lo colse ancora una volta di sorpresa.
«Avanti», sussurrò. «Risolviamo questa faccenda».
La ragazzina si fece forza ed annuì. Quindi, prima di ripensarci, afferrò con decisione la maniglia e spalancò la porta. Si bloccò di nuovo però, quando sua madre le rivolse un pallido sorriso dicendo: «Finalmente sei arrivata, tesoro».
Geneviève la guardò con gli occhi colmi di lacrime ed arretrò di un passo, finendo a sbattere contro il detective.
«Gen, che cosa c'è? Stai male?», le domandò ancora, con apprensione, puntellandosi sui gomiti per tirarsi su.
La ragazzina si girò verso Sherlock e mormorò: «No... No, non posso farcela».
Lui l'afferrò per le braccia e si chinò un poco perché i loro occhi fossero allo stesso livello. «Devi. Non si può preferire una bugia alla verità, anche se fa male».
«Non ci riesco...».
«Ci sono qui io».
Gli era uscito così, automaticamente. E Sherlock non se ne pentì, nemmeno un po'. Figlia di Lupin o meno, con lui o contro di lui... quella che aveva davanti era una ragazzina di quindici anni, troppo piccola per affrontare da sola una verità simile. Lui, grande abbastanza per processare il dolore, ne era stato quasi dilaniato alla scoperta che sua sorella aveva ucciso il suo migliore amico d'infanzia. Il fatto che lei fosse lì, senza aver versato ancora una lacrima, era già molto più di quello che avrebbe fatto lui alla sua età.
Geneviève rilassò le spalle ed inspirò, riprendendo il controllo di sé. Poi tornò a voltarsi verso la madre e con coraggio la raggiunse, sedendosi sulla sedia accanto al letto. Era davvero straordinaria.
Sherlock chiuse la porta alle sue spalle e chiese scusa agli uomini, compreso Baffoni, quando tirò giù la veneziana in modo che non potessero leggere nemmeno il loro labiale attraverso il vetro.
«Mi volete spiegare che cosa sta succedendo?», chiese la donna, sempre più agitata.
Il dective si girò ed unì le mani dietro la schiena, esordendo: «Clotilde Destange».
Geneviève lo guardò confusa, ma le bastò notare il pallore sul volto della madre per capire che era quello il suo vero nome.
«Una ragazza intelligente, il più giovane architetto dello studio "Lucien Architecture". Aveva una carriera brillante davanti a sé, eppure dopo la faccenda del diamante azzurro si è licenziata ed è partita, senza dare troppe spiegazioni. La stessa settimana, un altro giovane architetto, di nome Maxime Bermond, ha smesso di presentarsi al lavoro. Era talmente ovvio che non capisco come la polizia francese non ci sia arrivata».
«Maman», sussurrò Geneviève, prendendole le mani tra le sue. «S'il te plaît».
«Non ha senso negare ancora», aggiunse Sherlock, afferrando la sponda ai piedi del letto. «Dica a sua figlia la verità, o lo farò io».
La Donna Bionda guardò la ragazzina, lasciando che le lacrime le rigassero il volto sciupato. «Perché? Il passato è morto per sempre; il passato non esiste».
Geneviève fu scossa da un brivido a quelle parole e Sherlock, deciso ad andare fino in fondo, prese ancora una volta le redini della conversazione.
«E va bene. Riprendendo in mano i casi in cui è comparsa la Donna Bionda - l'affare Gerbois, la morte di Hautrec e il furto a villa Crozon - mi sono reso conto che tutti e tre avevano qualcosa in comune: le case».
«In che senso le case?», domandò Geneviève.
«Gli autori dei colpi, ovvero Arsène Lupin e la misteriosa Donna Bionda, riuscivano sempre a scappare senza lasciare alcuna traccia. Addirittura, nel caso dell'ambasciatore, sono riusciti ad uscire e rientrare per cancellare le prove lasciate dall'assassina».
«La prego», singhiozzò la donna. «Si fermi».
«E non dimentichiamoci che, come ha detto il buon Ganimard, Arsène voleva che il diamante messo all'asta finisse alla signora Crozon, tanto da mandare la Donna Bionda a minacciare l'altro acquirente, il miliardario Herschmann. Partendo da questo presupposto, ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto che tutte e tre le case avevano subìto dei lavori di ristrutturazione».
«Tutti progettati dallo studio "Lucien Architecture"», trasse le fila Geneviève, sconcertata dalla semplicità della soluzione.
Gli occhi di Sherlock brillarono d'orgoglio, mentre aggiungeva: «E progettati da Clotilde Destange e Maxime Bermond, meglio conosciuti come la Donna Bionda e Arsène Lupin».
La ragazzina cercò nella madre una qualsiasi traccia di innocenza, ma la donna non provò nemmeno a negare: chiuse semplicemente gli occhi, ormai consapevole di non poter più sfuggire al passato che credeva morto.
Allora si alzò dalla sedia e barcollò, sentendo il mondo crollarle sotto i piedi. «No, tu... tu non puoi... Non... non sei un'assassina, mamma. Dimmi che non lo sei».
Sherlock la raggiunse e le tappò la bocca prima che potesse gridare, dando un pretesto alla scorta di Lupin di entrare.
«Non lo è», le sussurrò, ripetendolo più volte perché se ne convincesse e smettesse di dimenarsi tra le sue braccia. Il suo corpo era caldo, come se stesse bruciando dall'interno.
«Glielo dica», ordinò alla donna, guardandola con rabbia. «Ha bisogno di sentirlo dire da lei».
«Perché?», ripeté Clotilde, per poi sollevare i palmi verso l'alto. «Queste mani hanno ucciso, non importa come o perché».
«Lo so. Mi creda, lo so bene», ammise pacato Sherlock, pensando a Magnussen. «Per lei è e sarà sempre così, non potrà mai dimenticare. Ma Geneviève... può consolarsi, sapendo come sono andate veramente le cose».
Madre e figlia si scambiarono un lungo sguardo, al termine del quale la complice di Lupin scosse il capo. Geneviève si portò le mani tra i capelli, disperata.
«Va bene, dirò io anche questo», si assunse quell'ennesima responsabilità Sherlock. «Mi correggerà, se l'idea che mi sono fatto è imprecisa».
Quindi voltò la ragazzina verso di sé e la guardò dritta negli occhi, scandendo bene le parole: «È stata legittima difesa».
«Come puoi dirlo?», replicò, tremando e tirando su col naso. «Se nemmeno lei lo ammette...».
«Vive con questo tormento da tutta la vita. Il suo silenzio è la punizione che si sta infliggendo, pur sapendo che non sarà sufficiente. Nulla sarà mai sufficiente...».
«Il vecchio Hautrec soffriva di alzheimer», disse finalmente la Donna Bionda, deglutendo. «Era sempre stato un uomo d'animo violento, ma con l'avanzare della malattia questa sua natura smise di essere un segreto. Arsène... Arsène voleva a tutti i costi il diamante azzurro, così mi creò la falsa identità di Antoinette Bréhat e mi fece assumere come infermiera privata da Charles Hautrec. Io non volevo, avevo paura che quel vecchio potesse aggredirmi, ma amavo tuo padre a tal punto che per renderlo felice accettai. Studiammo le abitudini dei due fratelli e quando fummo pronti ad ogni eventualità, decidemmo di intervenire».
«E qualcosa andò storto», intervenne Sherlock, il quale fino a quel momento aveva avuto ragione su tutti i fronti.
La Donna Bionda si sporse verso il comodino e Geneviève l'anticipò, versandole un bicchiere d'acqua. Le sue mani tremavano, perciò l'aiutò a bere un sorso, per poi rimanere seduta al suo fianco mentre continuava il suo racconto.
«Quella notte aspettai che il vecchio Hautrec fosse profondamente addormentato e tornai nella sua stanza. Gli stavo sfilando con cautela l'anello, quando iniziò a tossire convulsamente. Si svegliò e io cercai di rassicurarlo, ma lui non mi riconobbe. Come avevo temuto tante e tante volte, perse il controllo e mi aggredì. Ci fu una colluttazione e caddi contro il bordo della scrivania, ferendomi alla fronte. Non svenni però, ero troppo determinata a salvarmi. Sulla stessa scrivania trovai il tagliacarte e ancor prima che potessi rendermene conto il vecchio Hautrec era a terra, in una pozza di sangue. A quella vista fui io a perdere il controllo e senza pensare alle conseguenze premetti il pulsante d'emergenza collegato alla camera di Charles Hautrec».
«Subito dopo è arrivato Arsène», continuò per lei Sherlock. «L'ha nascosta e poi ha fatto in modo che Charles rimanesse chiuso fuori, tagliando le comuncazioni. In quel breve lasso di tempo, lui e alcuni membri della sua banda sono entrati e hanno pulito e risistemato tutto secondo le sue direttive. L'anello è finito in secondo piano».
«Esatto», mormorò, togliendoselo dal dito per osservarne la brillantezza alla luce delle lampade al neon. «Sai per quanto tempo l'ha tenuto?».
Geneviève guardò Sherlock, scoprendo che stava parlando con lei.
«Chi, papà?».
Clotilde annuì. «Quando siamo riusciti a rubarlo alla signora Crozon l'ha tenuto per due giorni, rimirandolo e vantandosene con tutti. Poi ha trovato un buon acquirente e l'ha venduto. Io avevo ucciso per quest'anello. In esso c'era un pezzo della mia anima e lui l'ha venduto senza pensarci su due volte. Quando gli confessai il mio tormento, mi disse che il passato era morto, il passato non esisteva».
«Ha detto la stessa cosa questa mattina, quando ho provato a parlargliene», disse Geneviève, ricevendo un'occhiata ammonitrice da parte del detective.
Perché aveva corso quel rischio inutile? Forse voleva la sua versione dei fatti, oppure sapere se avrebbe difeso sua madre dall'accusa di omicidio.
«Lo ripeteva sempre, ma si sbagliava», sussurrò la madre, con altre lacrime a rigarle le guance. «Rimasi con lui ancora per un po', fino a quando non scoprii di aspettare te. Lui non lo sa, ma è anche per questa storia che lo lasciai. Quando lo conobbi come Maxime fu un colpo di fulmine, ma quando mi rivelò la sua vera identità... diavolo, non riuscivo a pensare ad altro. Ero entusiasta all'idea di vivere sempre al limite, in incognito... come mia sorella».
Sherlock si pietrificò. Era certo che Clotilde non avesse idea del lavoro di Mary. Arsène gli aveva detto... Ma perché avrebbe dovuto fidarsi delle sue parole, dopotutto? Era possibile anche che nemmeno lui lo sapesse, che Clotilde avesse mantenuto il segreto per tutti quegli anni.
«Non sapevo avessi una sorella», esclamò Geneviève e per fortuna non si girò, o avrebbe scoperto che Sherlock glielo aveva nascosto.
«I nostri genitori morirono quando eravamo piccole e dopo essere state in orfanatrofio venimmo adottate da due famiglie diverse. Io divenni Clotilde Destange, mentre lei... beh, non ha importanza. Lei era la maggiore, perciò periodicamente mi mandava dei messaggi in codice per controllare se stessi bene. Mi rivelò che era diventata una spia internazionale, che non poteva dirmi di più per ragioni di sicurezza. E io ero così orgogliosa di lei...».
Geneviève sorrideva, finalmente, e quel sorriso fece sanguinare Sherlock peggio di una pugnalata. Girò il coltello nella piaga, quando disse: «Sembra forte».
Clotilde le sorrise e le accarezzò il volto. «Le assomigli molto, tesoro».
«E lei sapeva di te e papà?».
«No, non gliel'ho mai detto: l'informazione era troppo scottante. Ma era intelligente. Hai visto quanto ci ha messo Sherlock Holmes, pur non sapendo quale fosse il mio nome? Lei lo sapeva, perciò non dubito che ad un certo punto abbia fatto due più due. Non abbiamo mai messo di scriverci, nonostante Arsène me l'avesse proibito, e non mi ha mai chiesto nulla in proposito».
«Quand'è stata l'ultima volta che l'hai sentita?».
«Mi scrisse un anno e mezzo fa. Voleva farmi sapere che aveva una vita normale, che aveva trovato l'amore e che si sarebbe sposata».
«Se entrambe non correvate più pericoli, allora perché non vi siete incontrate?».
«La malattia, tesoro. Non volevo mi vedesse in questo stato, per questo non le ho mai risposto».
«Ma lei merita di sapere! Di salutarti almeno un'ultima volta! Non ho ragione, Sherlock?».
Geneviève si era voltata verso di lui, ma il dective non poteva vederla. Pensava a Mary, alla stessa Mary che si era sacrificata per salvargli la vita e che aveva celato l'esistenza di sua sorella - una delle complici di Lupin! - persino a John.
«Sherlock?», lo richiamò la ragazzina. «Ti senti bene?».
Il detective si ricompose e replicò secco: «Penso che spetti a tua madre decidere».
La ragazzina non ne fu contenta ed iniziò ad elencare le proprie ragioni, mentre Clotilde Destange lo fissava intensamente. Ad un tratto abbozzò un sorriso malinconico e prese una mano alla figlia per baciarne il dorso.
«Tesoro», la interruppe dolcemente. «Ripensare a quella vecchia storia mi ha stancata molto. Vorrei riposare un po', prima che arrivi tua padre».
Geneviève parve notare solo in quel momento la sua assenza, ma non ne fece un dramma ed obbedì alla madre, scendendo dal letto per stringerla in un delicato abbraccio.
«Je t'aime, maman», le disse, posandole anche un bacio sulla fronte.
Clotilde fu sul punto di scoppiare di nuovo a piangere, tuttavia riuscì a trattenersi e a ricambiare l'affetto della figlia scompigliandole i capelli e baciandole le guance.
Geneviève e Sherlock fecero per uscire dalla stanza, ma la Donna Bionda chiamò il detective. Vedendo la figlia esitare sulla soglia, le chiese di lasciare loro due minuti di privacy.
Il consulente investigativo chiuse di nuovo la porta, ma non lasciò mai la maniglia, come se volesse avere la certezza di poter andarsene in qualsiasi momento.
Clotilde gli fece un'unica domanda: «È morta, non è vero?».
La sua reazione di poco prima, assieme alle parole che le aveva rivolto quando si erano conosciuti, l'avevano tradito.
Sherlock abbassò il capo e fu eloquente come una risposta.
«Mi prometta solo una cosa».
«Non sono bravo con le promesse».
Clotilde gli lanciò con una smorfia il diamante azzurro e Sherlock lo afferrò al volo, stupito. L'aveva definito un pezzo della sua anima... perché gliel'aveva affidato?
«La tenga al sicuro, signor Holmes. Se non vuole farlo per me, lo faccia per Mary».
Il detective strinse le dita intorno al diamante azzurro e si portò il pugno al petto, annuendo con solennità. Quindi lo ripose nella tasca del cappotto ed uscì dalla stanza senza più voltarsi.
Geneviève non si era nemmeno seduta e non appena lo vide gli si piazzò davanti, tartassandolo di domande su quanto si erano detti in privato.
«Mi ha solo chiesto se avevo intenzione di denunciarla», le mentì.
Gli occhioni della ragazzina si ingrandirono ancora un po'. «E tu cosa le hai detto?».
«Che non lo farò. Non merita di finire in prigione per legittima difesa, specialmente ora che sta...».
Sherlock si ammutolì, improvvisamente stretto dalle braccia di Geneviève. La sua fronte, posata contro la sua spalla, fu come un balsamo che lenì la ferita ancora aperta sul suo cuore. Ciò nonostante non ricambiò l'abbraccio ed aspettò semplicemente che lo lasciasse.
Quando lo fece, la ragazzina bionda gli rivolse un sorriso a trentadue denti e disse: «Grazie per aver mantenuto la parola».
Sherlock sorrise, quello sì, felice di esserci riuscito per una volta.
«Andiamo a mangiare qualcosa? Questa mattina ho preso solo una mela».
Geneviève non attese una risposta e lo trascinò verso l'ascensore, mentre Sherlock pensava a quello stupido detto sulle mele e i dottori. Questo lo portò inevitabilmente a pensare a John, con il quale avrebbe dovuto fare una bella chiacchierata il prima possibile. Si era detto che forse avrebbe potuto evitargli un altro dolore, tenendo per sé la scoperta della sorella di Mary, ma la verità era che non spettava a lui decidere. E prima che fosse troppo tardi, avrebbe dovuto dirglielo. 

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Capitolo 10
*** Blood bonds ***


Buongiorno a tutti e buona domenica :)
Eccoci qua. Risolto il caso della perla nera e del diamante azzurro mi sembrava giusto aprirne un altro, magari uno in cui Sherlock e Arsène si affronteranno un po' più direttamente. Spero vi piaccia!
Questo capitolo è importante anche per i legami familiari (da qui il titolo)... Sì, è giunto il momento che tutti aspettavate: come reagirà John alla scoperta?
Grazie a chi ha letto e commentato lo scorso capitolo e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi voglio bene :D
Alla prossima!

Vostra,

_Pulse_

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10. Blood bonds


«Come facevi a sapere che era stata legittima difesa?».
Sherlock la guardò prendere una forchettata di uova strapazzate che dall'aspetto sembravano di gomma e portarsela alla bocca. Masticò senza fare una piega e Sherlock ebbe la forte tentazione di assaggiarle per sapere se almeno il gusto fosse buono, ma si trattenne.
Geneviève arricciò gli angoli della bocca in un sorriso beffardo, pressoché identico a quello di suo padre. «Hai intenzione di dirmelo o hai paura che capisca il tuo segreto?».
«Non c'è alcun segreto», rispose. «Ho semplicemente prestato attenzione ai dettagli. Probabilmente tu eri troppo sconvolta, per questo non l'hai capito subito».
«Beh, grazie per la fiducia».
Sherlock non riuscì più a resistere e le rubò la forchetta dalle dita per portarsi alla bocca un po' di uova.
«Ehi!», si lamentò la ragazzina. «E poi chi sarebbe il ladro?!».
Il detective avrebbe riso se non fosse stato impegnato ad arraffare il piatto per sputarci dentro quello si era appena messo in bocca.
«Ma come fai a mangiare questa roba?!», esclamò, il volto accartocciato in una smorfia di disgusto.
Geneviève si addossò contro lo schienale della sedia ed incrociò le braccia al petto, un sopracciglio inarcato. «Sarà perché è da quattro anni che vivo negli ospedali e non posso permettermi altro».
Sherlock si irrigidì un poco, scioccato dalla sua stessa stupidità. Quindi si alzò e chiudendosi il cappotto le offrì la mano, senza guardarla negli occhi.
«Che cos'hai in mente?».
«Non sei più costretta ad accontentarti».
Non era la risposta che si aspettava, ma Geneviève decise di fidarsi un'altra volta, specialmente ora che suo padre era ancora disperso.
Pensava che Sherlock l'avrebbe portata in una caffetteria degna del nome, invece una volta scesi dal taxi si ritrovarono di fronte alla porta nera e lucida del 221B.
Geneviève restò sul marciapiede, a fissare il batacchio storto, mentre il detective apriva ed entrava.
«Avanti, dobbiamo sbrigarci prima che la signora Hudson torni dalla sua lezione di pilates».
Sopraffatta dalla curiosità, la ragazzina entrò e si tolse il cappottino per appenderlo accanto a quello di Sherlock, nell'ingresso. Quindi lo seguì fino all'appartamento della signora Hudson, in cui era riuscito ad entrare fin troppo facilmente, e ad un suo cenno si sedette al piccolo tavolo della cucina.
«Che cos'hai in mente?», ripeté la domanda, mentre il consulente investigativo apriva il frigorifero e le ante dei mobili sopra i fornelli per tirare fuori vari ingredienti e diverse pentole. Geneviève sentì il cuore iniziare a battere più forte, realizzando che Sherlock le stava preparando una tipica colazione all'inglese.
Era così imbarazzata - almeno quanto il detective - che si alzò dalla sedia per affiancarlo. La guardò solo una volta, con la coda dell'occhio, poi si misero al lavoro.
Sherlock maneggiò con maestria il coltello, tagliando i funghi e i pomodori, mentre lei faceva rosolare il bacon fino a farlo diventare croccante. Nella stessa padella, poi, il detective buttò le verdure e le fece saltare come un vero chef, sotto gli occhi sgranati di Geneviève, la quale avrebbe dovuto prestare attenzione al tostapane.
In un altro pentolino Sherlock cucinò le uova strapazzate e Geneviève fu mandata davanti al forno a microonde, dove aveva messo a riscaldare dei fagioli in salsa già pronti. Al din di fine cottura, Sherlock le lanciò due presine senza nemmeno sollevare gli occhi dalle uova.
In meno di dieci minuti il detective impiattò, spolverando tutto con un po' di sale, pepe e del prezzemolo, quindi portò i due piatti in tavola e si accomodò, deviando con insistenza il suo sguardo.
Lo stomaco di Geneviève brontolava rumorosamente per via del profumino che le stuzzicava le narici, ma non poté trattenersi dal dire: «Tu sai cucinare».
«Cucinare è chimica. I giusti elementi, le giuste porzioni, i giusti tempi», rispose in modo meccanico e finalmente alzò gli occhi nei suoi per rivolgerle un'occhiata serissima. «Ma non lo sa nessuno, e vorrei che le cose rimanessero così».
«Perché? Insomma...».
«Oggi è stata un'eccezione», sottolineò, stringendo forte nei pugni forchetta e coltello. «Se si scoprisse, ogni giorno dovrei perdere una quantità esorbitante di tempo ed è inaccettabile».
«Quindi preferisci che qualcun altro cucini per te, mentre tu ti fai gli affari tuoi».
Sherlock sorrise. «Vedo che hai capito. Ora zitta e mangia, prima che si freddi».
Geneviève non approvava la sua condotta, ma non se lo fece ripetere due volte e si avventò sul piatto. Spolverò tutto, persino le fette di pane che era riuscita a far bruciacchiare, e una volta a pancia piena, soddisfatta, tornò all'attacco.
«Non mi hai ancora detto come facevi a sapere che era stata legittima difesa».
Sherlock bevve un sorso di caffè e poi prese il tovagliolo accanto al piatto, sventolandolo di fronte al viso della ragazzina prima di usarlo per pulirsi la bocca.
«Ma certo!», esclamò lei, colpendosi la fronte. «Il fazzoletto sul comodino!».
Il detective sorrise, dimostrandosi quasi orgoglioso, e la lasciò continuare.
«Non poteva di certo appartenere al vecchio Hautrec, visto che una ferita al collo inferta da un tagliacarte avrebbe procurato un'emorragia che avrebbe inzuppato il fazzoletto. Inoltre, sarebbe stato trovato vicino al corpo della vittima. Secondo il testimone, invece, era solo parzialmente sporco di sangue. Mia madre deve averlo usato dopo essersi ferita alla fronte ed averlo dimenticato sul comodino dopo aver suonato il pulsante d'emergenza».
«Ecco la tua risposta», disse Sherlock.
Geneviève ridacchiò divertita. «Avevi ragione, non c'è alcun segreto».
Il detective fece per unirsi a lei, ma la porta alle loro spalle si aprì all'improvviso, mostrando una signora Hudson provata per la lezione di pilates. Lasciò cadere la borsa da ginnastica a terra e guardò i due, sconcertata.
«Che diavolo ci fate qui? E cos'è successo alla mia cucina?!».
Sherlock aprì la bocca, pallido, ma Geneviève si alzò e fu più veloce di lui nel dire: «Mi dispiace signora Hudson, è colpa mia. Volevo ringraziare il signor Holmes per l'ospitalità, così sono tornata per prepargli la colazione, ma lui non aveva niente in frigo. Pensavo... pensavo sarebbe tornata più tardi».
La padrona di casa la osservò a lungo, indecisa se crederle o meno. Alla fine dovette bersela, perché le rivolse un sorriso carico di dolcezza e le disse: «Sei davvero una cara ragazza, Geneviève».
«Quindi non sono nei guai?», le chiese speranzosa.
Il volto della signora Hudson perse ogni traccia di tenerezza. «Non ho detto questo».

Geneviève si ritrovò ad insaponare, grattare e risciacquare le stoviglie, per poi passarle a Sherlock, il quale le asciugava con un panno e poi le sistemava nella credenza. Aveva già fatto gioco di squadra con il detective, ma quello... quello era esilarante, tanto che ad un tratto non riuscì più a frenare le risate, e Sherlock neppure.
Quando si calmarono, il consulente investigativo sussurrò: «Grazie per aver mantenuto il segreto».
«Grazie a te per avermi aiutata a risolvere il caso del diamante azzurro».
«È stato un piacere».
«Sai... Dovremmo rifarlo, qualche volta».
«Ti ho detto che questa è stata un'eccezione».
«Non intendevo la colazione», sbuffò, dandogli un colpetto d'anca. «Investigare insieme».
Sherlock la guardò, vagamente sorpreso. «Vorresti davvero risolvere altri casi al mio fianco?».
Geneviève grattò con più energia il fondo della padella che avevano usato per il bacon - una scusa per non ricambiare il suo sguardo.
«Se pensi che io sia troppo piccola...».
«No», la interruppe. «No, penso sia un'ottima idea. John non si offenderà, se per qualche caso farò a meno di lui».
La ragazzina si illuminò, il cuore che le batteva forte nel petto. Raramente era stata così felice. Al contempo però, non poté fare a meno di pensare a suo padre e al suo piano per raccogliere informazioni sul detective. Poteva davvero reggere la pressione, essere sia amica di Sherlock Holmes che figlia di suo padre?
«Ho detto qualcosa di sbagliato?».
Geneviève rialzò gli occhi in quelli azzurri di Sherlock ed abbozzò un sorriso. «No, stavo solo pensando che avrei già un caso da proporti».
«Di che stai parlando?», le domandò con la fronte corrugata.
«La sorella di mia madre! Voglio trovarla, voglio che si incontrino!».
Il detective prese la padella che aveva appena finito di sciacquare e l'asciugò, fingendo di non aver sentito quell'ultima frase. Però l'aveva sentita, l'aveva sentita eccome: lo si capiva dal modo in cui il suo volto si era trasformato in una maschera di pietra.
«Che cosa c'è?», chiese Geneviève, innervosita dal suo silenzio.
Le diede le spalle per sistemare la pentola e disse piano: «Non posso aiutarti».
«Mia zia merita di sapere che sua sorella sta morendo! E poi...».
Sherlock si girò di scatto, gli occhi assottigliati in due fessure. Geneviève ebbe la tentazione di arretrare, o perlomeno deviare il suo sguardo, ma non ci sarebbe riuscita nemmeno volendo.
«Continua», la esortò il detective.
«Mia zia... mia zia sarebbe un'alternativa, se le cose con mio padre... beh, hai capito».
Non ci aveva pensato. I tratti del viso del consulente investigativo si ammorbidirono, mostrando persino del rammarico. Non aveva pensato che non voleva farlo solo per sua madre, ma anche per se stessa, per allargare la famiglia e sentirsi un po' meno sola.
Ora che l'aveva capito, Geneviève era sicura che non le avrebbe negato il suo aiuto. Ancora una volta si sbagliò.
«Non posso aiutarti», ripeté, quella volta con un tono che non ammetteva repliche.
Avrebbe dovuto chiedere il perché, pretendere almeno un valido motivo, ma la rabbia prese il sopravvento. Anche lei, come suo padre, si lasciava travolgere dalle emozioni, tanto da dimenticare tutto ciò che Sherlock aveva fatto di buono per lei.
Lo schizzò con il getto dell'acqua e poi, furibonda, corse alla porta, da dove gridò: «Vorrà dire che la troverò da sola!».
Sherlock non la seguì e Geneviève si ritrovò sul marciapiede, con le lacrime agli occhi. Tirò fuori il cellulare e vi collegò le cuffiette. Con la musica sparata a tutto volume nelle orecchie, iniziò a correre.

Erano trascorsi due giorni da quella mattina e Geneviève non l'aveva più visto né sentito. E così avrebbe voluto continuare: non voleva ripresentarsi alla sua porta solo per ammettere che senza il suo aiuto non aveva fatto alcun passo avanti.
Tutto ciò che sapeva di sua zia era che si chiamava Mary e che da piccola era identica a sua madre, come aveva potuto constatare di persona dopo aver trovato una fotografia nascosta tra i suoi vestiti, nella loro casa a Brixton.
Clotilde non aveva conservato nient'altro, forse proprio per mantenere il segreto, e Geneviève si era ritrovata con in mano un pugno di mosche.
Ma non sarebbe tornata da Sherlock ad implorarlo, ne andava del suo orgoglio. Per questo teneva il broncio a suo padre, il quale stava per affidarla niente meno che al detective.
«È proprio necessario?», domandò per l'ennesima volta. «Non sono una bambina, non ho bisogno della babysitter. E poi perché proprio Sherlock? Non posso stare con uno dei tuoi uomini? Andrebbe bene anche Ernest».
«Ernest è terrorizzato da te», rispose Arsène, senza distogliere lo sguardo dal finestrino.
Erano giorni che la sua mente sembrava da un'altra parte, come se stesse pensando a come risolvere un problema irrisolvibile. Geneviève aveva provato a chiedergli che cosa lo preoccupasse tanto, ma lui aveva sempre negato, o cambiato argomento.
«Che cosa gli hai fatto?».
«Non so di cosa tu stia parlando», mentì.
«Ad ogni modo, nel posto dove sto andando, avrò bisogno della scorta al completo», le confessò,  dandole finalmente un indizio.
L'unico motivo per cui avrebbe potuto aver bisogno di tutti i suoi uomini era un colpo. E uno grosso, per giunta. Ora il poco tempo passato in ospedale, le parole sussurrate a Baffoni e le lunghe riunioni con i suoi sottoposti avevano finalmente un senso. Geneviève avrebbe dovuto capirlo prima, ma era stata così assorbita dalla proprie inconcludenti indagini da non aver visto quello che stava accadendo sotto il proprio naso.
Capiva che non l'avesse inclusa nel suo piano per via della promessa fatta a sua madre, ma almeno avrebbe potuto informarla... La delusione e il timore che non si fidasse ancora di lei la fecero scivolare ancora un po' di più nel sedile, col desiderio che la pelle nera la inglobasse. Meglio una vita vissuta all'interno di una limousine che tra un padre che la teneva a distanza e un detective che si rifiutava di aiutarla a rintracciare un membro della famiglia.

***

«Ehi, volevi vedermi?».
Sherlock diede le spalle alla finestra e respirò profondamente. John ebbe un brutto presentimento, il quale si intensificò quando l'amico gli disse che forse avrebbe fatto meglio a sedersi.
Il dottore si avvicinò alla poltrona, ma non si sedette. «Di che si tratta, Sherlock? Se è per chiedermi di Molly...».
L'investigatore corrugò la fronte. «Cosa? Perché dovrei chiederti di Molly?».
«Beh, quando Arsène ha raccontato del caso che tu e Geneviève avete risolto insieme, quello del piede del diavolo, avevo intuito che tu e lei vi eravate visti. Volevo parlartene, ma è uscita fuori la questione Irene Adler e non ne ho più avuto l'occasione. Poi l'altro giorno, quando sono andato a prendere Rosie, è stata lei a raccontarmi tutto».
«Lei...? Perché avrebbe dovuto fare una cosa del genere?», borbottò, finendo lui stesso per sedersi, nervoso.
«Che razza di domanda è? Lo sai perché. È la madrina di mia figlia, noi due siamo amici».
«Quando ti fa comodo», sussurrò Sherlock, ma non abbastanza a bassa voce da non farsi sentire.
«Che cos'hai detto? Che intendi dire?».
Il detective gli rivolse un'occhiata tagliente. «Sei stato a dir poco spregevole, quando l'hai costretta a dirmi che avresti preferito l'aiuto di chiunque altro piuttosto che il mio. Non sono ferrato in questo campo, ma non penso si sia trovata a suo agio nel farlo».
«Oh. Oh, questa è bella!», gridò John, con un sorriso ironico sul volto. «Tu, proprio tu, vieni a farmi la ramanzia per averla fatta soffrire?! C'è una bella differenza tra me e te, amico: io le ho già chiesto scusa per quello, più volte. Tu, invece, continui a comportarti da idiota!».
Sherlock deviò il suo sguardo, mentre il dottor Watson continuava: «Mi ha raccontato dei biglietti, lo sai? Di quello che le hai scritto. Come puoi pretendere che passi oltre, dopo quello che le hai detto senza ricevere nemmeno una spiegazione?! Se proprio vuoi farti del male non dicendole che era vero, almeno abbi il coraggio di dirle che l'hai fatto perché dovevi salvarle la vita! Così se ne farà una ragione, o ci proverà! Ma il tuo silenzio... La stai torturando, Sherlock».
Il suo tono di voce si era ammorbidito alla fine, tuttavia il detective avrebbe preferito che continuasse a gridare. Se lo meritava.
«Mi dispiace molto», rispose mestamente. «Ma lo sappiamo entrambi che è meglio così».
John non sembrava d'accordo, affatto. Ciò nonostante si lasciò cadere sulla propria poltrona, sospirando.
«Di che cosa devi parlarmi, allora?».
Sherlock tornò a mostrare quei segni di incertezza che tanto lo intimorivano, quella volta però fece del suo meglio per controllarli e guardandolo profondamente negli occhi rispose: «Di una cosa che ho scoperto recentemente e che temo riaprirà una ferita. Per questo ho aspettato di esserne assolutamente certo, prima di parlartene. Ho condotto alcuni test del DNA e quelli... quelli non mentono».
John si portò le mani sugli occhi, avvertendo il proprio cuore appesantirsi di diverse tonnellate. «C'entra Mary, non è vero?».
«Sì, John».
Il dottore prese un profondo respiro e guardò l'amico sinceramente addolorato di fronte a lui. «Avanti, sono pronto».
E così Sherlock gli raccontò tutto: dell'incontro con Geneviève e sua madre, malata di cancro e terribilmente somigliante a Mary; della conferma ricevuta da Arsène e successivamente dalla stessa donna, dopo che aveva scoperto della sua complicità con il Ladro Gentiluomo in diversi casi, in particolare quello del diamante azzurro. Clotilde Destange, il suo nome vero e il cognome della sua famiglia affidataria - diversa da quella di Mary, - gli aveva anche rivelato che l'ultimo contatto con la sorella era stato prima del suo matrimonio.
Sherlock aveva avuto due giorni per verificare che la storia reggesse, ma non aveva trovato prove fisiche. L'incidente in cui erano morti i loro genitori doveva essere stato banale, poco eclatante e comunque troppo generico per individuarlo tra i miliardi di casi identici. Però le tempistiche combaciavano perfettamente.
Quello che voleva erano prove solide - non poteva rischiare di farlo soffrire nuovamente per nulla - perciò era ricorso al test del DNA.
Grazie all'anello che Clotilde gli aveva dato era riuscito a prelevare delle tracce epiteliali a malapena sufficienti per un solo tentativo. Aveva fatto bene a rischiare però, perché aveva ottenuto la risposta che cercava: Mary e Clotilde erano veramente sorelle.
John si alzò e camminò per un po' per il salotto, dalla porta della cucina a quella che dava sulle scale. Sherlock gli diede tutto il tempo necessario a metabolizzare quel flusso di informazioni, con le gambe accavallate e le mani posate sui braccioli della poltrona.
Ad un tratto il dottore si girò verso di lui e con un enorme punto interrogativo sul volto chiese: «Come hai ottenuto un campione del DNA di Mary?».
Sherlock deviò il suo sguardo, ma non gli negò la risposta: «Non hai ancora avuto la forza di liberarti delle sue cose. Le hai inscatolate, ma...».
«Sei entrato in casa mia quando non c'ero. È questo che stai dicendo».
«Sì, in sostanza».
John annuì e riprese a camminare. Altri due minuti di passi meditabondi e si fermò di nuovo per dire: «Quindi mi stai dicendo che Geneviève e Rosie sono cugine? E che... che sono imparentato con Arsène Lupin?!».
«Poteva andarti peggio».
«E lui l'ha sempre saputo? Voleva anche che accettassi dei soldi da lui! Che faccia tosta!».
«Lui lo sa», confermò Sherlock, il quale si alzò dalla poltrona per tornare alla finestra. Con le dita sfiorò le corde del violino, senza raccoglierlo dalla scrivania, e aggiunse: «Ma Geneviève no. Solo due giorni fa ha scoperto che sua madre aveva una sorella e ora si è messa in testa che deve trovarla, prima che sia troppo tardi. Ha chiesto il mio aiuto, John».
Il dottore si portò le mani sul viso, iniziando a capire perché non l'avesse più vista da quelle parti. «Tu gliel'hai negato, non è vero?».
«Che altro potevo fare? Dirle che conoscevo sua zia? Che ha sposato il mio migliore amico e che ha avuto una bambina, sua cugina? Avrei potuto farlo, ma tu saresti stato inevitabilmente compromesso».
Sherlock si girò per tornare a guardarlo negli occhi. Dal canto suo John non sapeva che dire, così lasciò che fosse il detective a riempire il silenzio.
«Lei stessa ha detto di voler trovare sua zia in modo tale che se le cose con suo padre non fossero andate bene avrebbe avuto qualcun altro su cui contare. Sei sicuro di volere questa ragazzina nella tua vita, John? È pur sempre una Lupin».
«È pur sempre mia nipote», replicò a tono, ancor prima di poter decidere se fosse saggio o meno. Era vero che si trattava della figlia di quello che si sospettava essere il ladro più astuto del mondo, ma se c'era anche una sola possibilità, una sola, che non prendesse la sua stessa strada, allora dovevano tentare.
Sherlock parve capirlo e gli sorrise dolcemente, sollevato che fosse giunto alla stessa conclusione.
«Bene», disse. «Avevo già promesso a Clotilde che l'avrei tenuta al sicuro per Mary».
John avrebbe voluto prenderlo a pugni per aver fatto l'ennesima promessa senza avere la completa certezza di poterla mantenere, ma poi scorse Mary seduta sul divano, con le ginocchia strette al petto, un sorriso felice e gli occhi colmi d'orgoglio. Gli indicò Sherlock con un cenno del capo e John capì immediatamente quello che doveva fare.
Appoggiandosi allo schienale della poltrona con entrambe le mani, disse: «Perciò, anche se io ti avessi detto che non ne volevo sapere, tu avresti comunque cercato di portarla sulla buona strada?».
«Non ci sono riuscito con suo padre, magari lei...».
«No, c'è di più», lo interruppe, ottenendo l'approvazione di Mary. «Tu ti sei affezionato».
Sherlock quella volta non fuggì, quella volta no. Anzi ricambiò il sorriso ed unendo le mani dietro la schiena disse: «Pensavo di averti già fatto capire che grazie a te ho realizzato che la famiglia può andare ben oltre i legami di sangue».
Ecco, questo era quello che voleva sentirsi dire.
John si lasciò cadere sulla poltrona e nonostante tutte quelle rivelazioni gli fossero cadute tra capo e collo all'improvviso, non se ne sentì appesantito. Non se al suo fianco aveva Sherlock, pronto ad aiutarlo a sostenerle.

***

Arsène scese dalla limousine ed aiutò la figlia, porgendole la mano. Lei la evitò e lui sospirò, dirigendosi verso la porta. Bussò un paio di volte col batacchio che aveva raddrizzato e quando la signora Hudson aprì la porta la salutò con meno brio del solito, chiedendo di Sherlock.
«È di sopra, entrate pure».
«Non posso, sono in partenza», si scusò Arsène. «Vogliate solo dirgli che gli sono davvero grato per l'ospitalità che darà a mia figlia».
Quindi prese il volto di Geneviève per darle un bacio sulla fronte, al quale lei reagì con una smorfia.
«Sarò di ritorno domani mattina. Farai la brava, oui?».
La ragazzina annuì di malavoglia, così che la lasciasse andare, poi guardò il padre risalire sulla limousine. Una volta lontano, lasciò cadere la borsa nell'androne e le tirò un calcio, gridando improperi in francese.
La signora Hudson si portò le mani alla bocca, scossa, fino a quando non vide Sherlock e John precipitarsi giù dalle scale.
«Che cos'è successo?», chiese il dottore, fissando prima la padrona di casa e poi la ragazzina e viceversa.
«Un pacco! Crede che io sia un maledetto pacco!», gridò Geneviève, accanendosi ancora contro la borsa.
«Su, adesso calmati», fece un tentativo John. «Vieni a bere una tazza di té, così puoi raccontarci cosa sta succedendo».
Fallendo con le buone maniere, Sherlock decise di intervenire a modo suo, ma non appena le sfiorò la spalla la ragazzina lo trucidò con lo sguardo, spingendolo lontano da sé.
«Non mi toccare», sibilò, prima di correre su per le scale e chiudersi a chiave nella vecchia stanza di John.
I due uomini si fissarono, chiedendosi se fosse troppo tardi per tirarsi indietro.

***

«Forse dovrei prendermi una giornata di ferie», esclamò John, gli occhi rivolti verso il soffitto, oltre il quale sapeva ci fosse la nipote di cui aveva appena scoperto l'esistenza.
«Forse dovresti», rispose Sherlock con quel suo tono assente, segno che stava pensando ad altro e non aveva nemmeno sentito le sue parole. Anche la sua posizione lo confermava: appollaiato sulla poltrona, con le dita unite appena sotto le labbra.
«Perché Arsène avrebbe dovuto affidarla a me?», si chiese, rispondendo a tutte le domande di John. «Si è portato dietro almeno dieci uomini...».
«La signora Hudson ha detto che Arsène era in partenza, forse...».
Sherlock sgranò gli occhi e guardò l'amico. «Quanto sono stupido?!».
«Da uno a dieci?».
«John, Arsène ha in mente un colpo! Per questo non si è portato dietro Geneviève, per questo lei è così arrabbiata e per questo l'ha portata qui, così da costringerci a farle da babysitter! Ma si sbaglia di grosso se pensa di potermela fare sotto il naso!».
Il detective si alzò e prese un plico di giornali, li lasciò cadere sul grembo di John e poi si riaccomodò col pc sulle gambe e il proprio cellulare in una mano.
Il dottore non dovette nemmeno chiedere, sapeva fin troppo bene quale fosse il suo compito: sfogliare ognuno di quei giornali per cercare ciò che Arsène aveva intenzione di rubare.

***

Geneviève si era calmata, finalmente, e il silenzio che proveniva dal salotto la rendeva soltanto più curiosa. Così, dimentica dell'arrabbiatura con Sherlock Holmes, uscì dalla stanza e scese le scale in punta di piedi. Evitò persino il gradino scricchiolante che aveva notato la prima ed unica volta che aveva dormito lì, quindi nessuno si accorse di lei, nascosta dietro lo stipite della porta.
«Perché non chiediamo a Geneviève se sa qualcosa?», domandò il dottor Watson.
«Perché suo padre non le ha detto nulla. Se aveva già in mente di portarla qui, non avrebbe rischiato tanto mettendola a conoscenza del suo piano».
«Va bene, ma tentar non nuoce».
«John, non è il momento».
«Lo so, lo so». Scoperto, il dottore sospirò e tornò a sfogliare giornali.
Geneviève si arrischiò a guardare all'interno del salotto, incuriosita da quell'ultimo scambio di battute. Strinse i pugni lungo i fianchi, stufa marcia che le persone che le stavano intorno la tenessero all'oscuro di informazioni importanti.
Per questo entrò nel salotto domandando: «Non è il momento per cosa?».
John sobbalzò dallo spavento, mentre Sherlock esclamò con tono piatto: «Finalmente ti sei degnata di raggiungerci».
«Con me non attacca, signor Holmes», replicò piccata, incrociando le braccia al petto. «Non è il momento per cosa?».
«Per occuparci delle tue crisi da teenager!», sbottò allora. «Siamo nel bel mezzo di un caso, non vedi? Tuo padre ha in mente un colpo dei suoi e dobbiamo scoprire di che si tratta».
A quel punto Sherlock si alzò, mettendole tra le mani un po' dei giornali di John.
«Se vuoi aiutarci bene, altrimenti sei pregata di fare silenzio».
Geneviève si imbronciò, ma si sdraiò a pancia in giù sul sul divano ed iniziò a sfogliare i giornali. Il dottor Watson seguì ogni suo movimento e la ragazzina non si sentì completamente a suo agio, ma rimase in silenzio. Non capiva perché di colpo fosse così interessato a lei, né a cosa fosse dovuta la sua espressione: un misto di rimpianto e tenerezza.
Nel frattempo Sherlock si era portato il cellulare all'orecchio e attendeva che dall'altra parte rispondessero. Quando accadde, attaccò subito a parlare senza nemmeno salutare.
«Ispettore Ganimard, sono Sherlock Holmes. Ho ragione di credere che Arsène abbia organizzato uno dei suoi colpi e che si stia muovendo mentre parliamo. Lei ha qualche idea?».
La risposta non dovette piacergli particolarmente, perché gli chiuse il telefono in faccia, ancora senza salutare.
«Perché mi guardate in quel modo?», sbottò, trovandoli entrambi con gli occhi puntati su di lui. «Al lavoro!».
Geneviève sbuffò e chiuse il terzo quotidiano, poi lo lanciò sul tavolino insieme agli altri ed iniziò a cercarne uno in particolare.
«Dottor Watson?», lo chiamò, per quanto non fosse entusiasta di attirare la sua attenzione ora che finalmente le aveva staccato gli occhi di dosso.
«Sì?».
«Ha lei il Sun?».
«Uhm... non mi pare».
Sherlock alzò lo sguardo dal pc. «Il Sun? Perché proprio il Sun? È spazzatura!».
«Neanche a me piace il gossip, ma mio padre lo legge tutte le mattine», rispose la ragazzina, scrollando le spalle.
John rimase in silenzio per qualche istante, fino a quando non comparve chiaramente una lampadina accesa sopra la sua testa. Sherlock e Geneviève lo fissarono, trovando estremamente buffa la sua faccia.
«Credo che lei abbia ragione, Sherlock».
«Di che cosa stai parlando?».
«Il Sun! Quando si è presentato davanti a casa mia per offrirmi quel passaggio stava leggendo il Sun! L'ho visto strappare un articolo ed infilarselo in tasca, prima di buttare il resto».
Il consulente investigativo lo guardò a bocca aperta.
«E me lo dici solo ora?!», gridò poi, alzandosi dalla poltrona e correndo giù per le scale come un tornado. «Signora Hudson!».
Tutti e tre fecero irruzione nel suo appartamento, alla ricerca del numero di due giorni prima. Lo trovarono e lo sfogliarono con cura, in piedi intorno al tavolo della cucina.
Ad un tratto gli occhi di Sherlock notarono un trafiletto non troppo appariscente, quasi alla fine del quotidiano. Vi puntò sopra l'indice, sollevandosi per scambiare un'occhiata con John.
Geneviève lesse ad alta voce: «"L'erede del patrimonio Thibermesnil si sposa!" Non capisco, che interesse dovrebbe avere mio padre in un matrimonio?».
«Perché la sposa è stata l'ultimo amore di tuo padre: miss Nelly Underdown», rispose gravemente Sherlock.

***

Il tintinnio di una forchetta contro il bicchiere di cristallo attirò l'attenzione della ristretta cerchia di invitati di Georges Devanne, il solo ed unico erede di tutte le ricchezze della famiglia di Thibermesnil.
Era questo il nome con cui erano conosciuti, per via dell'imponente castello che si erano tramandati di generazione in generazione e in cui vi erano raccolti tesori dal valore inestimabile: pezzi d'arredamento, diademi e gioielli con gemme di ogni sorta, quadri, arazzi, statue.
Un posto solitamente inespugnabile, dove però si era deciso di celebrare il matrimonio dell'anno. Certo, prevedendo un tale afflusso di gente - gli invitati alle nozze vere e proprie sarebbero state più di duecento - le misure di sicurezza erano state triplicate, ma con uno come Arsène sarebbero state inutili. Specialmente se aveva avuto il piacere di conoscere lo stesso Georges Devanne durante la sua permanenza nel Principato di Monaco, qualche anno addietro. Aggiungersi alla lista degli invitati a quel punto era stato un gioco da ragazzi e dubitava fortemente che il caro Georges avrebbe avuto il coraggio di dire pubblicamente che non ricordava di averlo invitato. Prima di tutto le apparenze.
Anche se non l'avesse conosciuto – e l'avrebbe preferito – avrebbe trovato il modo per entrare e rovinare il matrimonio. Ma come aveva potuto la sua cara, dolce ed intelligente Nelly innamorarsi di un tipo del genere? E dopo così poco tempo dalla loro separazione, poi!
«Buona sera a tutti», salutò Georges, nel suo orribile completo tre pezzi. «E grazie per essere venuti da così lontano per quest'occasione così speciale. Per voi sono state arredate le stanze degli ospiti, le stesse stanze dove hanno soggiornato nobili e re. Spero vi sentirete a casa».
Arsène sorrise, arricciandosi i finti baffi fulvi. Oh, sicuramente.

Dopo la cena si spostarono nell'antica sala delle guardie per conversare ancora, bere whisky e fumare sigari pregiati.
Si trattava di una vasta e alta stanza che occupava tutta la parte inferiore della torre Guillaume, dov'erano conservati i pezzi migliori della collezione dei signori di Thibermesnil. C'erano cassapanche e credenze e arazzi appesi ai muri di pietra; le quattro finestre ogivali, tutte su un lato della torre, avevano profondi vani, muniti di panchine in cui erano conservati gioielli, tabacchiere, antichi orologi da taschino.
Tutt'intorno, fatta eccezione per la parete in cui si ergeva l'imponente camino di marmo, si ergeva una biblioteca in stile Rinascimento e su uno dei frontoni si leggeva, a grandi lettere d'oro, il nome "Thibermesnil".
«E tu, Velmont? Che cosa mi racconti? Saranno anni che non ci vediamo!», esclamò ad un tratto Georges, sorridendogli con una punta di nervosismo negli occhi.
«Già. Non sai che sorpresa, ricevere il tuo invito!».
«Ah, ma figurati... Non avrei mai potuto dimenticarti! Tu eri... sì, insomma...».
«Un fantastico pittore?».
«Giusto!». Ridacchiò, massaggiandosi il collo. «I tuoi ritratti...».
«Paesaggi, in realtà».
Gli amici di Devanne si scambiarono occhiate imbarazzate, chiedendosi che razza di padrone di casa fosse il giovane rampollo: come poteva non ricordarsi di quel suo caro amico?
C'era anche da dire, però, che Horace Velmont – niente meno che Arsène Lupin – si stava divertendo un mondo a metterlo in difficoltà. Anche un po' troppo, a dire il vero. Decise di darsi un contegno, per non insospettire troppo Georges. Non voleva che corresse ai ripari, anzi... voleva che si fidasse di lui e gli rivelasse tutte le meraviglie del castello.
Arsène, seduto proprio accanto a Georges, continuava a versargli da bere - whisky corretto Pentothal, per la precisione - e a farlo parlare. Scoprì che Nelly non c'era, che sarebbe arrivata quella notte da Chicago, dov'era andata a prendere i suoi genitori, e che gli uomini della sicurezza sarebbero stati ovunque, il giorno successivo. Come aveva previsto, il colpo andava fatto quella notte stessa.
Quando fu sicuro che il siero della verità sortisse gli effetti sperati, Arsène poté spingersi un po' di più con le domande.
«Ma dimmi, sono vere le leggende su questo castello?».
«Quali leggende?».
«I fantasmi, i passaggi segreti...».
Devanne scoppiò a ridere, tirandosi le ginocchia fino al petto. «I fantasmi! Non c'è nessun fantasma, Horace!».
«E i passaggi segreti?», insistette.
«Quelli sì, è possibile».
Velmont trattenne il respiro, guardando gli altri amici con espressione sconvolta. Un paio di loro risero e si ritirarono per riprendersi dal jet-lag, altri rimasero giusto per il gusto di sentire le cose assurde che Georges avrebbe detto da ubriaco e rinfacciargliele per il resto della vita.
«C'è un libro, là...», farfugliò, indicando un punto dell'immensa libreria.
Arsène si alzò, sentendo le dita prudere per l'eccitazione. Quel libro, o meglio una sua pagina, era tutto ciò che gli serviva per completare e rendere perfetto il proprio piano.
«Quale libro?», domandò, nonostante lo avesse già individuato e ne stesse accarezzando il dorso.
«Si chiama... Thibermesnil Chronicles. La nostra famiglia ne ha una copia, mentre l'altra si trovava nella biblioteca di un monastero, affidata a un certo abate Gélis. Ma è andata persa quasi un secolo fa».
Arsène si voltò e guardò Georges ad occhi chiusi, con la testa appoggiata alla spalla e la bocca semiaperta. Lo raggiunse ad ampie falcate e gli diede uno schiaffetto sul volto per impedirgli di addormentarsi.
«Ehi, non vorrai mica lasciarci a metà della storia!», lo rimproverò ridendo. «Va' avanti».
Devanne ricambiò il sorriso e la sua vera natura da sbruffone si fece avanti: si alzò persino, riuscendo a malapena a non barcollare.
«Beh... in entrambi i libri sono conservate le planimetrie originali del castello e si dice che solo confrontandole si può scoprire il passaggio segreto che permetteva ai miei avi di avere... come dire... relazioni clandestine».
Arsène sapeva già tutto questo, come sapeva che non era vero che bastavano i due libri - presto entrambi in suo possesso - per risolvere il mistero di Thibermesnil. Oltre agli ingressi, infatti, bisognava conoscere il meccanismo con cui aprirli e questo era un segreto che si tramandavano i Devanne di generazione in generazione.
«E dimmi, tu hai mai usato questo passaggio? Mi ricordo che a Monte Carlo andavi matto per le feste e le ragazze, ovviamente!».
Georges gli rivolse un sorriso stupido e riprese a ridere, tanto che un paio di amici dovettero prenderlo al volo prima che cadesse faccia a terra. Lo gettarono sulla poltrona e poi anche loro si ritirarono per evitare che il giorno seguente, quando Devanne si sarebbe presentato sbronzo al proprio matrimonio, venissero incolpati di qualcosa.
«Non vi preoccupate, ci penso io a lui!», li rassicurò Velmont, il quale aspettò che la porta del salotto si richiudesse prima di perdere ogni traccia di sorriso.
Si avvicinò con la stessa espressione di un predatore e una volta chino su di lui, con le mani posate sui braccioli, mormorò: «E così siamo rimasti noi due, mon ami».
Il rampollo ridacchiò, senza cogliere il pericolo che stava correndo.
Era da tempo che Arsène non avvertiva un tale desiderio di fare del male a qualcuno, ma Georges Devanne stava facendo uscire il peggio di lui: non solo era l'erede immeritevole di una fortuna milionaria, ma in qualche modo aveva anche ottenuto l'amore della sua Nelly. Come diavolo era possibile?!
«Cosa stavamo dicendo? Ah, il passaggio segreto. L'hai mai usato?».
Georges scosse il capo. «Il segreto è perduto... perduto per sempre».
«Che cosa?», mormorò Arsène. «No, non è possibile».
«E invece sì!», ridacchiò ancora, per poi iniziare a singhiozzare. «Il mio bisnonno morì prima di poter rivelarlo al suo unico figlio. Si cercò e cercò tra i suoi averi, ma a parte qualche strana citazione...».
«Strane citazioni? Di che stai parlando?».
Georges indicò la mensola sopra il camino. «Quella foto».
Arsène vi si precipitò ed afferrò la cornice d'oro in cui era conservata una fotografia in bianco e nero che ritraeva il bisnonno di Georges con sua moglie e il suo unico figlio, di sei o sette anni. Era stata scattata in quella stessa stanza, col capofamiglia seduto sulla poltrona che dava le spalle alla libreria col nome del castello sul frontone.
Senza troppe cerimonie aprì la cornice ed estrasse la fotografia per leggere gli appunti che erano stati scritti a penna: "T.G. L'ascia volteggia nell'aria che freme, ma l'ala si apre, e si va verso Dio. 2-6-12".
Sul volto di Arsène si aprì un sorriso che ben presto si trasformò in una risata entusiasta. Eccola, finalmente! Ecco la soluzione dell'enigma!
Georges si unì a lui in quella risata, ma si interruppe non appena gli occhi gelidi di Lupin si posarono su di lui.
«Grazie mille, Georges. Sei stato incredibilmente d'aiuto. Ti auguro tante belle cose». E con la fotografia e il libro tra le mani uscì dalla torre.


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Capitolo 11
*** Team Arsène VS Team Sherlock ***


Buongiorno e ben ritrovati! Siete arrivati giusto in tempo per il matrimonio del secolo! O forse qualcosa o qualcuno riuscirà a rovinarlo?
La battaglia tra Sherlock e Arsène sta per iniziare... Chi avrà la meglio?
E Geneviève e John faranno da spettatori o avranno altro a cui pensare?
Scoprirete tutto quanto leggendo questo capitolo ;-)
Ringrazio infinitamente le meravigliose anime che commentano sempre e anche i lettori silenziosi.
Buona lettura e mi raccomando: scegliete il team vincente! :D

Vostra,

_Pulse_



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11. Team Arsène VS Team Sherlock


«Non venite a supplicarmi, quando Arsène Lupin vi ruberà tutto!», gridò ancora Sherlock mentre veniva scortato fuori dalla proprietà da un paio di guardie.
John li seguì mesto, col collo stretto tra le spalle, e alcuni paparazzi appostati fuori dal castello li fotografarono. Il dottore sospirò: non ci voleva proprio una pubblicità del genere.
Il cancello in ferro battuto venne chiuso e il detective afferrò le sbarre, infilandoci in mezzo il viso per rivolgersi ancora al padre dello sposo: «State facendo un grosso sbaglio!».
John gli posò una mano sulla spalla. «Sherlock... Andiamo via».
«Ecco cosa succede a chi prova ad essere gentile! Perché dici sempre che dovrei esserlo più spesso?».
«Perché è giusto così. Dai, almeno ci abbiamo provato».
Il consulente investigativo lasciò andare il cancello e diede le spalle al castello, dirigendosi verso il taxi a cui aveva chiesto di aspettarli. In fondo aveva previsto una situazione del genere, ma avrebbe tanto voluto sbagliarsi. Una volta che riuscivano ad arrivare in anticipo!
Sherlock si sporse verso l'autista per dare la loro destinazione: «Alla stazione».
«Torniamo a casa?», domandò allora il dottor Watson.
«Tu vai», lo corresse il detective, con un pugno davanti alla bocca e gli occhi persi fuori dal finestrino, dove non c'era altro che campagna. «Io rimango qui fino a domani. Il signor Devanne mi chiamerà, eccome se lo farà, e io voglio guardarlo in faccia quando ammetterà che avevo ragione».
John scosse il capo, consapevole che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea. Quindi cambiò argomento: «E Geneviève? Cosa devo fare con lei?».
«Se puoi, rimani con lei al 221B. Altrimenti portala a casa tua».
«Non era questo che intendevo. Pensi... pensi dovrei dirglielo?».
Sherlock ci rifletté per qualche minuto, poi si arrese: «Non lo so, John».
Il dottore tamburellò le dita sulle ginocchia, guardando a sua volta fuori dal finestrino.
Ripensò al modo in cui si era rifiutata di seguirli fino al castello di Thibermesnil: aveva detto che se suo padre l'avesse vista arrivare con loro avrebbe potuto fraintendere e che non voleva che pensasse che avesse gà deciso di unirsi al Team Sherlock. John pensava che forse, quando le avrebbero rivelato che lui e Rosie facevano parte della famiglia, allora non avrebbe più avuto dubbi. O almeno lo sperava. Ma quando dirglielo? E soprattutto, come? John non ne aveva la più pallida idea.
Quando l'aveva vista dopo la confessione di Sherlock aveva fatto la figura dell'ebete, per non dire del pervertito, continuando a fissarla. Non era sua intenzione, ma ora che sapeva che era la nipote di Mary non aveva potuto fare a meno di cercare in lei somiglianze con la moglie.
Per fortuna non era il momento per rivelarglielo, ma temeva che se anche si fosse presentata l'occasione perfetta avrebbe faticato a trovare il coraggio necessario.
Il taxi si fermò alla stazione dei treni da cui li aveva prelevati, ma solo John scese dal mezzo.
Cercò lo sguardo di Sherlock e gli chiese: «Sei proprio sicuro di voler rimanere?».
Il detective annuì con un breve cenno del capo, allora il dottore chiuse la portiera e guardò il taxi prendere la strada verso il paese.

John non era tornato subito al 221B.
Dopo un respiro profondo varcò le porte scorrevoli del London Bridge Hospital e si diresse verso la reception. Sapeva che l'orario di visita era terminato, eppure aveva deciso di fare comunque un tentativo: non poteva ancora rivelare la verità a Geneviève, ma poteva e doveva incontrare la sorella di Mary, prima che fosse troppo tardi.
Fece appena in tempo a ricambiare il sorriso cortese dell'infermiera dietro il bancone quando l'uomo che aveva visto accompagnare la ragazzina fuori dalla sala da té del Savoy gli posò una mano sulla spalla, invitandolo a seguirlo con voce gentile.
Senza dire una parola entrarono nell'ascensore e John unì le mani dietro la schiena, a disagio.
«Pensavo dovesse stare sempre al fianco di Lupin», ruppe il silenzio ad un tratto.
L'uomo non si scompose. In effetti, se non avesse risposto avrebbe dato l'impressione di non aver sentito una parola, come se il dottore non esistesse. Probabilmente per lui non c'erano altri che il suo padrone.
«Io eseguo gli ordini, nient'altro. Mi è stato detto che c'era la possibilità che lei passasse e di rimanere nei paraggi».
Arsène aveva previsto che Sherlock gli avrebbe confessato del loro "legame di parentela" e che lui avrebbe sfruttato la prima occasione disponibile per incontrare tutto ciò che rimaneva della famiglia di sua moglie. Nulla di cui stupirsi.
Finalmente le porte dell'ascensore si aprirono, rivelando loro un lungo corridoio illuminato dalle luci al neon ed immerso nel silenzio. Se non fosse stato per l'inserviente che, poco più avanti, stava lavando il pavimento già immacolato, John e il segretario di Arsène Lupin sarebbero stati completamente soli.
Seguì l'uomo coi baffi davanti ad una delle tante stanze private e il cuore gli si fermò nel petto nello scorgere la donna all'interno: la malattia aveva reso smunta la sua carnagione ed impigrito i suoi occhi verdi, ma la somiglianza con Mary era impressionante.
John deglutì e dopo un cenno dell'uomo al suo fianco bussò piano alla porta, quindi l'aprì ed entrò.
La donna si soffermò a guardarlo con espressione stupita, fino a quando non fece tutti i collegamenti del caso e spense il piccolo televisore appeso nell'angolo della stanza.
«Non pensavo sarebbe venuto», esordì, abbozzando un sorriso triste.
«Se vuole che me ne vada...».
«No. Rimanga, la prego».
John annuì col capo e si sedette sulla sedia accanto al letto. La sorella di Mary gli porse la mano e il dottore, dopo un attimo di esitazione, la strinse.
«È un vero piacere conoscerla, dottor Watson».
«Chiamami John».
Clotilde sorrise nuovamente, portando sul materasso le loro mani intrecciate.
«Allora, John, raccontami di Mary. Voglio sapere tutto».

Una volta sul bordo del marciapiede, John alzò la testa verso le finestre del primo piano e vide le luci accese, perciò ipotizzò che Geneviève fosse ancora sveglia. Entrò e andò subito dalla signora Hudson, a cui aveva affidato le cure di Rosie. La donna però le disse che dopo cena l'aveva presa Geneviève, così che lei potesse farsi una maschera di bellezza.
Il dottore provò una certa ansia mentre saliva le scale e il suo cuore perse un battito quando non vide nessuno né nel salotto né nella cucina. Che fosse come aveva detto Sherlock? Non c'era da fidarsi di una Lupin?
Esaminò il resto dell'appartamento e alla fine, una volta nella stanza di Sherlock, sospirò vedendo Geneviève sdraiata sul letto accanto a Rosie, a cui teneva un braccio intorno alla vita per far sì che non rotolasse giù muovendosi. Entrambe dormivano pacificamente.
John sorrise, quasi commosso da quella visione, e fu più forte di lui: estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scattò una foto. L'avrebbe fatta vedere a Clotilde la prossima volta che si sarebbero visti.
Parlare con lei di Mary era stato facile, quasi terapeutico, e prima di lasciarla riposare le aveva promesso che sarebbe tornato presto, anche con Rosie.
La bambina era troppo piccola perché potesse in futuro ricordarsi della zia, ma era giusto che si conoscessero.
Tornato in salotto raccolse dal pavimento qualche gioco, poi si sedette sul divano e chiuse anche lui gli occhi, addormentandosi all'istante.

***

Se per John i paparazzi fuori dal castello erano stati una seccatura, per Sherlock erano stati una manna dal cielo. Mentre li inondavano con i loro flash, infatti, aveva sentito un paio di loro esclamare: «Beh, se questa notte non dovessimo riuscire a fotografare la sposa almeno avremo le foto di Sherlock Holmes da vendere!».
Era stato facile, a quel punto, dedurre che la sposa sarebbe arrivata al castello quella notte. Miss Nelly Underdown era di Chicago, perciò era stato ancora più facile dedurre che fosse tornata a casa qualche settimana prima delle nozze per stare con la sua famiglia e allontanarsi dalla stampa inglese. Poi era bastata una breve ricerca su Internet per scoprire l'orario in cui sarebbe atterrata, anche perché c'era un solo volo proveniente da Chicago.
Sherlock, dopo aver lasciato John alla stazione, aveva fatto solo finta di andare in paese. Una volta girato l'angolo, infatti, aveva detto all'autista di portarlo subito in aeroporto, dove avrebbe atteso la signorina Underdown.
L'aereo atterrò con qualche minuto di ritardo, ma Sherlock aveva già preso il suo posto da un pezzo.
Individuò immediatamente la vecchia fiamma di Lupin: con la sua figura ben proporzionata e il suo bel volto, circondato da una cascata di lucidi capelli neri, spiccava tra tutti gli altri passeggeri.
La guardò avvicinarsi insieme ai genitori al nastro trasportatore per recuperare i bagagli e sorrise quando lei iniziò a rendersi conto che, giro dopo giro, della sua valigia non c'era traccia. Si stava giusto lamentando con la madre quando Sherlock, nella sua uniforme da addetto della sicurezza, si avvicinò.
«La signorina Underdown?», le domandò.
La ragazza lo fissò confusa coi suoi grandi occhi neri. Ora che la guardava da così vicino, Sherlock non poteva negare la sua bellezza.
«Sì, sono io. C'è qualche problema?».
«Mi pare di capire che non sia riuscita a trovare il suo bagaglio».
«Infatti non c'è».
«Questo perché il nostro personale, quando l'ha recuperato dalla stiva dell'aereo, l'ha trovato con il lucchetto scassinato. Non sappiamo quando o come sia successo, ma per prassi dobbiamo assicurarci che non le manchi nulla. In caso contrario, potrà sporgere denuncia. Se mi vuole seguire...».
La ragazza tranquillizzò i genitori, dicendo che non ci avrebbe messo molto. Quindi seguì Sherlock in uno degli uffici della sicurezza e vide immediatamente la sua valigia sul tavolo al centro della stanza.
«Ma... Non capisco, il lucchetto non è stato scassinato», esclamò, per poi irrigidirsi e voltarsi lentamente verso l'uomo che, una volta tolti cappello e occhiali, riconobbe come Sherlock Holmes, il famoso detective.
«Mi scusi se mi sono permesso di portarla qui con l'inganno, ma non c'era altro modo», le disse.
«Che cosa vuole?».
«Che mi ascolti».
Si avvicinò di un passo e la donna continuò a fissarlo, immobile. A parte lo shock iniziale, mostrava un coraggio e una forza non comuni. Iniziava a capire perché Arsène si fosse innamorato di lei a tal punto da farsi arrestare. E per questo stesso motivo sperava che, grazie al suo aiuto, lasciasse perdere il colpo che aveva in mente.
«Ho ragione di credere che Arsène Lupin si sia aggiunto alla lista degli invitati del suo matrimonio. Penso si trovi già a Thibermesnil, in questo momento. Ha intenzione di derubare Georges Devanne, forse perché è l'occasione perfetta o forse perché nel profondo non sopporta che lei si sia innamorata di un altro uomo dopo di lui».
Nelly strinse i pugni lungo i fianchi, esclamando: «Non conosco alcun Arsène Lupin».
«Non c'è bisogno di fingere con me, non sono un poliziotto», disse Sherlock, con un vago sorriso sulle labbra. «Tutto ciò che voglio è impedire ad Arsène di portare a termine uno dei suoi colpi. E dato che il padre del suo futuro marito mi ha cacciato, mi rivolgo a lei. O forse preferirebbe che il matrimonio andasse a monte?».
«Certo che no», ringhiò, avanzando di un passo. «Che cosa vuole che faccia?».
Sherlock sorrise eccitato. «Coglierlo sul fatto».

***

Alle tre, col castello immerso nelle tenebre e nel silenzio, Arsène entrò nella cappella dove si sarebbero celebrate le nozze.
Un po' piccola per i duecenti invitati, tanto che solo i parenti e gli amici più intimi degli sposi avrebbero avuto l'onore di assistere coi propri occhi all'unione delle famiglie Devanne e Underdown.
Il ladro avrebbe voluto dissacrare quel luogo, scaravoltare le panche e prendere a picconate l'altare, ma si trattenne.
Seguito dai suoi uomini, raggiunse la pietra tombale di uno dei fondatori di Thibermesnil e si mise all'opera.

Seguendo le indicazioni lasciate dal bisnonno di Georges fu facilissimo entrare nel salotto della torre Guillaume. Così facile che quasi non ci provò alcun gusto. Ma se ne dimenticò non appena iniziò ad indicare cosa andava preso e che cosa no. C'erano oggetti troppo grandi o troppo pesanti per essere trasportati lungo il passaggio sotterraneo e con rammarico Arsène ci rinunciava.
I lavori di sgombero non durarono molto, una quarantina di minuti appena. Arsène però si attardò ad osservare le teche nei vani delle finestre, ammaliato da quegli oggetti preziosi, piccoli capolavori di un'arte così delicata. Decise che se ne sarebbe occupato di persona - voleva avere lui l'onore - e dopo essersi infilato i guanti bianchi, con estrema cura raccolse e sistemò nelle valigette gli orologi e i gioielli.
«Capo, noi abbiamo finito», sussurrò uno dei suoi uomini.
«Bene», mormorò Arsène, senza perdere la concentrazione. «Andate. Fate il percorso che abbiamo concordato, ma per precauzione tenete accesa la radio sulla frequenza della polizia, come al solito. Io vi raggiungerò con la moto».
I suoi uomini sparirono dietro l'entrata del passaggio segreto, lasciandola socchiusa perché un filo di luce illuminasse il pavimento di legno, e Lupin rimase solo col suo lavoro di minuzia e pazienza, ma che svolgeva con la passione del migliore degli amanti.
Si fermò di colpo quando sentì il pomello della porta del salotto ruotare lentamente. Chi diavolo poteva essere a quell'ora di notte?
Con passo felpato andò a nascondersi dietro la porta ed attese. Questa si aprì e una figura snella, di donna, entrò cautamente nel salotto. Arsène riconobbe immediatamente il profumo, i suoi lucidi capelli neri, il modo in cui si portò le mani alla bocca quando si accorse degli oggetti mancanti.
«Nelly», sussurrò, non riuscendo a trattenersi.
La ragazza si girò di scatto e lo guardò, al buio. I suoi occhi erano lucidi, velati di lacrime, e il lieve tremore delle sue mani venne nascosto alla bell'e meglio quando strinse i pugni. Anche la sua espressione si fece dura, severa, e Arsène ebbe coscienza di come doveva apparire ai suoi occhi in quel momento, colto sul fatto.
Mai nella sua vita si era sentito così in colpa. Sentì le gambe cedergli, mentre tutta la sua sicurezza evaporava: per la prima volta in vita sua, quell’appellativo che tanto adorava, “Ladro Gentiluomo”, lo disgustò. Come poteva definirsi in quel modo e non provare rimorso di fronte alla donna che aveva amato sulla Providence, a cui aveva pensato nelle lunghe ore trascorse nella sua cella?
Forse Mycroft Holmes aveva ragione: era un criminale come tutti gli altri.
«Nelly, mi dispiace tanto», sussurrò ancora, con il cuore pesante nel petto. «Domani, prima del matrimonio, tutto sarà rimesso al suo posto. I mobili saranno riportati...».
Lei non rispose, continuò semplicemente a guardarlo.
«Domani, ti prometto, tutto sarà rimesso al suo posto», ripeté.
Il suo sguardo lo stava uccidendo, piano ed inesorabilmente. Si allontanò dalla parete, le passò accanto senza avere più la forza di guardarla in viso e se ne andò com'era entrato, dimenticando persino la valigetta di preziosi lì dove l'aveva lasciata.

***

«Dottor Watson? Dottor Watson, si svegli».
John aprì gli occhi e quasi sobbalzò sul divano, trovandosi davanti il volto rigato di lacrime di Geneviève.  
«Che... Che cosa c'è? Perché piangi?».
La ragazzina non doveva essersene resa conto, perché si passò le mani sulle guance e si guardò le dita umide, sorpresa. Non le importò però e tornò a guardarlo in viso, sollevando il cellulare che aveva in mano.
«Mia madre...».
«Non dire altro».
John si alzò di scatto, all'improvviso lucidissimo, e mentre infilava a Rosie il giubbottino, svegliandola inevitabilmente, chiamò un taxi. Quindi scesero cercando di non svegliare la signora Hudson ed invitarono il tassista ad andare il più veloce possibile.
Una volta al London Bridge Hospital fu ancora il segretario di Arsène Lupin ad accoglierli e a ragguagliarli sulle condizioni di Clotilde, la quale era stata portata d'urgenza in sala operatoria per un'insufficienza respiratoria. Quindi un'infermiera li aveva fatti accomodare in sala d'aspetto, dicendo loro che li avrebbe tenuti informati, ma Geneviève non ne voleva sapere di sedersi. Passeggiava nervosamente davanti a lui e Rosie, passandosi a tratti le mani nei capelli e a tratti sul volto. Non l'aveva mai vista perdere il controllo in quel modo, ma era anche vero che non dimostrava spesso i suoi quindici anni.
John si alzò a sua volta e con Rosie appesa al collo andò al distributore di bevande, prese un té che dall'aspetto sembrava acqua sporca e glielo portò. La ragazzina prese il bicchiere caldo e lo fissò, inebetita, prima di riprendere a piangere.
Il dottore la fece sedere e con un braccio intorno alla schiena di Rosie e l'altro intorno alle sue spalle la lasciò sfogare ed accolse tutte le sue lacrime in silenzio.
Quando parve calmarsi – o più semplicemente si ritrovò senza forze – Geneviève gettò un'occhiata all'uomo coi baffi, seduto davanti a loro ed intento a sfogliare una rivista come se stesse aspettando il suo turno dal dentista, e sussurrò: «Nessuno la obbliga a stare qui».
«No, infatti. Ma nessuno dovrebbe stare da solo in situazioni come queste, lo so per esperienza».
A quelle parole l'uomo sollevò appena gli occhi dalle pagine patinate, per poi riabbassarli con indifferenza.
Geneviève invece guardò John con quei suoi occhi verdi, specchio di quelli di Mary, ora arrossati per il pianto ma ugualmente bellissimi, e riuscì persino a rivolgergli un piccolo sorriso.
«Grazie, dottor Watson», mormorò, tornando a posare la testa contro la sua spalla.
«Chiamami John», rispose accarezzandole i capelli. Si fermò quasi subito però, timoroso di star oltrepassando un confine per cui non era ancora pronto. Non voleva affezionarsi, non prima di vedere come avrebbe reagito alla verità.
Rosie gli diede la scusa perfetta, iniziando a lamentarsi per il sonno. Si alzò ed iniziò a cullarla, con la sua testa sulla spalla, e guardò la ragazzina dall'alto dicendo: «Vuoi che chiami tuo padre?».
Prima ancora che la ragazzina potesse aprire bocca, il segretario di Arsène Lupin rispose: «Il padrone mi ha ordinato di chiamarlo solo in casi di emergenza e le informazioni che possediamo al momento non valgono una chiamata».
John strinse i denti, indignato davanti a tanta freddezza. Dov'era finita la sua umanità?
«Mi ascolti bene, lei...».
«Inoltre», lo interruppe l'uomo, alzando il capo dalla rivista per incrociare il suo sguardo e rivolgergli un sorriso derisorio, «il suo interesse è del tutto ingiustificato. Quale legame la unisce a madmoiselle Geneviève o a sua madre, dottore?».
La rabbia gli contrasse ancora di più i lineamenti del viso e John sentì i denti dolere, tant'era la forza con cui li aveva serrati. Quell'uomo sapeva tutto e si stava divertendo a sue spese, magari solo per ingannare il tempo.
«Adesso basta», intervenne Geneviève, tirando su col naso. «Nemmeno tu fai parte della famiglia e voglio che te ne vada».
«Sa che non posso farlo», rispose l'uomo coi baffi. «Lei e sua madre siete sotto la mia protezione».
La ragazzina si alzò dalla poltroncina e col volto arrossato gridò: «Non mi interessa! Vattene da qualche altra parte, non ti voglio qui».
I loro sguardi si diedero battaglia per qualche altro secondo, poi il lacché di Arsène Lupin sospirò e lasciò cadere sul tavolino la rivista che aveva sfogliato solo per metà. Si portò una mano poco sopra il ventre e piegò il capo in un inchino frettoloso prima di dirigersi verso la reception.
Geneviève rilassò le spalle e si lasciò cadere di nuovo sulla poltroncina alle sue spalle, una mano a coprirle metà del viso.
«Davanti a lui non l'avrei mai ammesso, ma... ha ragione», confessò, lasciando John di stucco. «Preferisco avere delle risposte prima di contattare mio padre. E poi... non credo che apprezzerebbe, se dessi il suo numero privato al migliore amico di Sherlock».
Il dottore rifletté qualche secondo, ma non trovò niente con cui controbattere. Se magari Geneviève avesse saputo la verità sul suo conto, allora forse avrebbe potuto avere voce in capitolo. Al momento, invece, non gli restava che pregare perché Clotilde superasse la crisi.
«E va bene», disse alla fine. «Puoi tenere un attimo Rosie? Vado a prendermi un caffè, sperando che non sia come il té».
Riuscì a farla sorridere di nuovo e John si allontanò, impensierito.
Approfittò di quel viaggio al distributore per mandare un messaggio a Sherlock. Erano le cinque e mezzo del mattino, ma sapeva che l'avrebbe letto: dormiva poco e male quand'era sul campo. Sperava soltanto che riuscisse a fermare Lupin e a portarlo lì, dove sua figlia aveva bisogno che fosse.

***

Sherlock, seduto nella piccola camera d'albergo che aveva affittato per la notte, aveva atteso il sorgere del sole senza chiudere occhio.
I pensieri che avevano affollato la sua mente erano stati tanti, ma due in particolare avevano continuato a ripresentarsi, assillandolo: Molly Hooper e Irene Adler.
Due donne, l'una l'opposto dell'altra, entrambe finite nel suo cuore. Com'era potuto succedere?
Aveva detto ad Arsène che si sarebbe occupato personalmente di Irene, ma non aveva la più pallida idea di cosa fare. Doveva chiamarla, chiederle perché avesse assoldato Arsène invece di parlarne con lui? Oppure fare finta di niente, evitando così che agisse ancora più di impulso? Perché era questo che lo preoccupava... Se Irene avesse deciso di intervenire in qualche modo, guidata dalle emozioni, avrebbe potuto ferirlo – ma ci era abituato – e soprattutto ferire Molly, la donna per cui l'aveva lasciata.
Più i minuti passavano, più l'idea di affrontarla attecchiva nella sua mente. Ad un certo punto aveva persino preso il cellulare tra le mani, ma la chiamata che aveva ricevuto gli aveva dato altro a cui pensare.
«Aveva ragione, l'ho colto in flagrante. Mi ha promesso che domani, prima del matrimonio, tutto sarà rimesso al suo posto», gli aveva detto miss Underdown, controllando la voce perché non risultasse rotta dal pianto.
Se conosceva bene Arsène – e pensava di conoscero piuttosto bene – c'era il novantanove percento di possibilità che sarebbe rimasto fino a quel momento, mantenendo la sua copertura come invitato. Non poteva andarsene prima di aver dimostrato al suo vecchio amore di saper ancora mantenere una promessa.
Le cose sarebbero potute andare molto diversamente se avesse ricevuto lo stesso messaggio che aveva ricevuto lui da John intorno alle cinque e trenta. La madre di Geneviève era finita in sala operatoria e si trovavano in ospedale, ad attendere notizie. Arsène avrebbe potuto fare ritorno a Londra in quel caso, ma John aveva aggiunto un post scriptum: “Lui non lo sa”.
Certo, Geneviève non aveva voluto disturbarlo prima di sapere in che condizioni riversava la madre. Quella ragazzina... Una continua sorpresa.
Perciò, finché Arsène sarebbe stato a Thibermesnil, nemmeno lui poteva tornare a Londra. Se anche l'avesse fatto sarebbe stato inutile, perché non poteva fare nulla di concreto per Geneviève. Se John gliel'avesse sentito dire probabilmente l'avrebbe rimproverato, dicendogli che poteva starle vicino, ma Sherlock non era il tipo.
Ultimo motivo, ma non meno importante: voleva far patire le pene dell'inferno all'uomo che non aveva voluto ascoltarlo e gli aveva sbattuto la porta in faccia.
Sorrise, sentendo il cellulare vibrare una, due, tre volte. Sette del mattino, numero sconosciuto. Poteva essere solo una persona.
Al quarto squillo silenzioso, rispose con estrema calma: «Il signor Devanne, immagino».
L'uomo dall'altra parte rantolò, dovendo dire ad alta voce: «Avrei dovuto darle ascolto».
«Lo so».
«Ci aiuterà, signor Holmes?».
«Aiutarvi? Per quale motivo? Ormai il furto è avvenuto, non posso più sventarlo».
«Potrebbe... Ecco, trovare degli indizi...».
«Arsène Lupin non lascia mai inidizi».
«Il passaggio segreto, allora! La prego, signor Holmes... faccia almeno luce su come è riuscito a portare via tutta quella roba!».
Sherlock sospirò internamente, socchiudendo gli occhi.
«E va bene», rispose alla fine, lasciandosi conquistare dalla curiosità.

Il furto avrebbe dovuto restare un segreto, ma la voce si era già sparsa tra i paparazzi, forse avvertiti da una guardia che voleva un po' di soldi facili, da una cameriera che odiava pulire i panni sporchi dei Devanne o forse da un amico di Georges, geloso della sua eredità o della sua futura moglie. Non si sarebbe stupito, se fosse partito tutto dallo stesso Arsène Lupin!
L'arrivo della polizia e successivamente di Sherlock Holmes, quella volta accolto col tappeto rosso, dissiparono ogni dubbio.
Il detective venne subito portato nella torre Guillaume, spoglia ormai dei pezzi di maggior valore. Lì trovò l'ispettore a cui era toccato il caso e la famiglia al completo, tutti in vestaglia, compresa la bella Nelly Underdown. I loro sguardi si incrociarono un istante, ma finsero di non conoscersi quando vennero presentati. Prima di arrivare, infatti, le aveva mandato un messaggio perché non parlasse con nessuno né di lui né del suo incontro con Lupin, onde evitare ulteriori scandali. Lei aveva risposto che non l'avrebbe fatto comunque: non voleva rovinare del tutto il matrimonio.
«Signor Holmes!», piagnucolò, disperato, il giovane Devanne. «È tutta colpa mia!».
Guardò la sua futura sposa e imbarazzato aggiunse: «Ieri sera, dopo cena, ho bevuto un po' troppo e ho iniziato a parlare a sproposito. Horace Velmont mi ha fatto domande veramente specifiche sul passaggio segreto. Dev'essere lui! Lo sapevo di non averlo invitato!».
Sherlock non poté trattenere un sorriso divertito. Arsène doveva conoscere bene il suo pollo, se era certo che non avrebbe suscitato sospetti fino a fatto compiuto.
Quindi iniziò ad esaminare la grande sala della torre, ormai quasi completamente spoglia. Notò subito la valigetta lasciata su una delle teche, mezza piena. Arsène doveva averla lasciata lì dopo essere stato interrotto da Nelly.
Davanti alla monumentale libreria gli saltò all'occhio la mancanza di un libro, ma poteva essere stato preso da un ospite che amava addormentarsi leggendo.
«Lì c'era il Thibermesnil Chronicles», lo contraddisse il padre di Georges. «Un libro che racconta come è stato costruito il castello, i suoi ospiti...».
«All'interno c'era anche una planimetria molto dettagliata dei sotterranei», aggiunse miss Underdown. «Ma incompleta. I volumi in origine erano due e si diceva che solo possedendo entrambe le planimetrie era possibile individuare il passaggio segreto».
Finalmente qualcuno che diceva le cose importanti!
«Okay, quindi Lupin aveva in mente di fare un colpo da diverso tempo. Come sospettavo. Ha visto l'occasione del matrimonio e l'ha colta».
«Signor Holmes, quello che ha detto Nelly è vero, ma solo i membri della famiglia Devanne sapevano come accedere al passaggio».
«Ah! Allora mostratemelo!».
Georges si passò una mano sul collo, imbarazzato. «In realtà... il mio bisnonno non fu in grado di tramandare il segreto, morendo all'improvviso. Ha lasciato solo degli indizi, segnati sul retro di quella... La foto!».
Tutta la famiglia si spostò davanti alla mensola dell'imponente camino e si guardarono scioccati. Sherlock e Nelly si scambiarono un'occhiata e il detective avrebbe voluto chiederle che ci trovava in degli stupidi del genere - forse Arsène aveva ragione ad essere tanto offeso - ma decise di non mettere naso in questioni di cuore.
«Ieri sera, sotto l'influenza dell'alcool o più probabilmente di qualche droga, Georges deve aver indicato quella stessa foto a Lupin, il quale ha potuto risolvere l'enigma. Qualcuno sa dirmi esattamente che cosa c'era scritto?».
«Certo», esclamò il signor Devanne. Si schiarì la gola e con tono quasi solenne disse: «"T.G. L'ascia volteggia nell'aria che freme, ma l'ala si apre, e si va verso Dio. 2-6-12"».
Sherlock si voltò verso le finestre e visualizzò gli indizi di fronte a sé, come appesi al soffitto da fili invisibili.
Lui non aveva i libri con le planimetrie, ma quella sigla, T.G. non poteva che indicare la torre in cui si trovavano: Torre Guillaume. Quindi, com'era ovvio, uno degli ingressi del passaggio si trovava in quella stanza.
La citazione doveva riferirsi ad una specie di meccanismo, ne era sicuro, ma furono i tre numeri a fornirgli finalmente la soluzione.
Sherlock fece una mezza giravolta e sorridendo puntò l'indice verso la libreria.
«Di che cosa vanno fieri i signori Devanne, più di ogni cosa? Del loro buon nome. E come sono conosciuti nei circoli?».
«I signori di Thibermesnil», rispose Nelly, abbozzando un sorriso.
«Ho bisogno di una scala!».
E la scala fu portata in men che non si dica. Sherlock salì i primi gradini, ma poi ci ripensò e finse di cedere l'onore al giovane rampollo, il quale, desideroso di riscattarsi, accettò il compito con entusiasmo.
Una volta di fronte alle grosse lettere in rilievo che componevano il nome Thibermesnil, il detective gli disse: «Afferri la lettera H e provi a vedere se si gira, in un verso o nell'altro».
Georges eseguì e la lettera si girò di centottanta gradi. La sorpresa colse tutti i presenti, eccetto Nelly e Sherlock. Certo, il detective aveva piena fiducia nella sua intuizione, ma Nelly? Che quando aveva sorpreso Lupin avesse visto l'ingresso del passaggio e non gli avesse detto nulla per constatare di persona quanto tempo ci avrebbe messo a risolvere il mistero? Oppure, inconsciamente, voleva proteggere il Ladro Gentiluomo?
«E poi, signor Holmes?», chiese un trepidante Georges.
Miss Underdown incrociò il suo sguardo ed arrossì, deviandolo, e Sherlock riprese a guidare l'ereditiero: «Ora la R. Non girerà come la H, dovrà tirarla verso di sé e poi spingerla in avanti».
Dopo diversi tentativi, la lettera si ritirò nel frontone con uno scatto interno.
«Perfetto, ora deve spostarsi per raggiungere l'ultima lettera, la L. Fin'ora non ho sbagliato, perciò credo proprio che questa si aprirà come uno sportello».
Tutti trattennero il respiro, ispettore compreso, e Georges tirò fino a quando la L non rimase attaccata al frontone solo per la linea inferiore. Nello stesso momento, tutta la parte della biblioteca situata tra la prima e l'ultima lettera della parola Thibermesnil ruotò su se stessa, rivelando l'oscuro sotterraneo.
Georges, troppo sbigottito per capire cosa sarebbe successo, venne travolto dalla porta segreta e cadde giù dalla scala. Nessuno però se ne curò, impegnati a fissare il buio tunnel di pietra.
«Settant'anni», mormorò il signor Devanne, tamponandosi la fronte sudata con un fazzoletto. «Settant'anni che cerchiamo e lei e Lupin in dieci minuti...».
«Signor Devanne, non tutti sono idonei a decifrare enigmi», gli disse Sherlock, anche se avrebbe voluto essere più scortese. «La seconda, la sesta e la dodicesima lettera. L'H gira, l'R freme e la L si apre».
«Ma Arsène Lupin arrivava da fuori, giusto? Come lo spiega questo?», gli chiese l'ispettore. Allora parlava!
Il consulente investigativo scese un paio di scalini ed estrasse una torcia elettrica da una delle tasche interne del cappotto. La puntò in alto e sorrise, trovando le lettere all'inverso e il nudo meccanismo di apertura.
«Ha fatto proprio come noi, ma all'incontrario», rispose, per poi accucciarsi ad esaminare delle macchie scure sul pavimento. Ne toccò una e dato che non era passato molto tempo dall'effrazione la trovò ancora fresca.
Si portò le dita sotto il naso e sorrise, ammirato: «Ah, Arsène, non mi deludi mai! Sapeva che il passaggio non veniva aperto da almeno settant'anni, così si è portato dietro dell'olio per lubrificare gli ingranaggi».   
Nelly si sporse all'interno del tunnel, ignorando i rimproveri della suocera, ed incrociando nuovamente lo sguardo del detective esclamò beffarda: «Ci si poteva arrivare».
Sherlock ricambiò e le porse la mano. «Andiamo?».
La ragazza lo affiancò ed iniziò a scendere le ripide scale di pietra senza timore, curiosa di sapere dove sarebbero sbucati. Georges allora, appena ripresosi dalla rovinosa caduta, volle conservare il poco onore che gli era rimasto e li seguì.
Scesero per diversi metri - e quarantotto scalini esatti - fino a ritrovarsi in un corridoio polveroso, scavato nella roccia.
Qualcuno aveva il respiro tremante e non era Nelly, perciò Sherlock si voltò verso Georges e lo trovò pallido, con le braccia stese verso le pareti.
«È claustrofobico?», gli domandò.
«Non lo so... Forse».
Nelly allora affiancò il fidanzato, facendogli mettere un braccio intorno alle sue spalle. Sorridendo amorevole gli accarezzò il volto, e Sherlock fu costretto a distogliere lo sguardo. Forse lo amava davvero, pregi e difetti. Era un uomo fortunato, quel Devanne.
Alla fine del corridoio si ritrovarono davanti ad un'altra ripida scalinata, che quella volta dovettero salire in fila indiana. Ora capiva perché Arsène non avesse portato via tutto: questioni di spazio.
Sherlock si immobilizzò, ritrovandosi davanti ad una parete di nuda roccia.
«Non è possibile. Deve essere qui».  
«Signor Holmes, è stato strabiliante, ma se tornassimo indietro...».
Nelly azzittì il futuro sposo, guardando il detective tastare la pietra in lungo e in largo. Poi vi posò contro l'orecchio e solo allora, alzando lo sguardo, scorse una fessura tra la parete e il soffitto. Lì nascosto c'era lo stesso meccanismo rovesciato della biblioteca.
Quella volta fu Sherlock ad eseguire i passaggi e fece un passo indietro quanto la pietra davanti a loro oscillò. A quel punto, con l'aiuto di Georges, la spinse di lato e si ritrovarono nella cappella, dove il parroco e i chirichetti, riuniti davanti all'altare, li fissarono ad occhi sgranati.
Tutto era già stato addobbato per il matrimonio e un intenso profumo di fiori li stordì, specie dopo aver respirato l'aria ammuffita del passaggio segreto.
«Scusate, è in corso un'indagine», disse Sherlock, con un sorriso a trentadue denti sul viso.
Aspettò che Georges e Nelly uscissero dal sotterraneo, poi insieme richiusero la porta di pietra. Quella da cui li avevano visti uscire gli uomini di fede altro non era che la pietra tombale di uno degli antenati dei Devanne, forse colui che aveva fatto costruire il tunnel.
«Bene, il mistero è risolto», esclamò soddisfatto Sherlock, sfregandosi le mani.
«Ma gli oggetti rubati...», piagnucolò ancora Georges.
Il detective gli rivolse un'occhiata tagliente. «A che cosa le servono? Ha già tutto ciò di cui ha bisogno».
Georges guardò la donna che aveva al fianco e il suo sguardo si sciolse, ammettendo a se stesso che era proprio così.
«Vuoi comunque sposarmi, Nelly?».
Miss Underdown sorrise, sporgendosi per posargli un bacio sulle labbra. «Ma certo, zucca vuota. Ti amo per quello che sei, non per la tua ricchezza. Arsène Lupin non rovinerà il nostro matrimonio».
Sherlock abbozzò un sorriso e senza dire una parola si allontanò lungo la navata.
«Signor Holmes!», lo chiamò ancora Nelly.
Si fermò davanti alle porte aperte, col sole che allungava la sua ombra sul pavimento di marmo.
«Ci farebbe piacere se rimanesse. Per ringraziarla».
Sherlock annuì con un breve cenno del capo e se ne andò senza più guardarsi indietro.

***

Il padre della sposa aprì nuovamente la portiera dell'auto dai vetri oscurati e si sporse all'interno. Gli invitati rimasti fuori dalla cappella allungarono invano i colli per vedere in anteprima il vestito bianco.
«Tesoro, sono le undici», le disse, guardando l'orologio che portava al polso.
Nelly sospirò, delusa, e fece per allungare una mano perché l'aiutasse a scendere, ma il nugolo di paparazzi fuori dal castello si agitò quando il grande cancello si aprì per lasciar entrare tre camion della FedEx.
«Che cosa diavolo...?».
Il signor Underdown chiuse la portiera e raggiunse i signori Devanne, i quali rimasero senza parole quando i fattorini aprirono il retro dei loro mezzi per mostrare credenze, arazzi, quadri... insomma, tutto ciò che era stato rubato quella notte.
«Ho mantenuto la mia promessa».
Nelly trasalì voltandosi verso l'autista della limousine. Attraverso lo specchietto retrovisore incrociò gli occhi verdi di Arsène Lupin.
Il Ladro Gentiluomo aprì la bocca, forse per discolparsi, per cercare delle scuse, per mostrare la sua vita in ciò che aveva di audace e di grande. Ma la richiuse, consapevole che avrebbe soltanto peggiorato le cose. Un sorriso venato di tristezza piegò le sue labbra sottili.
«Ah, sembra ieri che viaggiavamo sulla Providence. Ti ricordi le ore trascorse sdraiati al sole, a bordo piscina? E quella sera al ristorante, quando per te rubai una rosa dal mazzo del nostro vicino di tavolo?».
«Avrei dovuto capirlo già allora, che razza di uomo eri».
«E invece mi sorridesti, arrossendo. Voglio che tu sappia che quello che c'era tra noi era vero, Nelly. Io ti amavo; ti amo ancora. Vorrei non essere ciò che sono, ma...».
Nelly deviò il suo sguardo, con gli occhi lucidi di lacrime. Arsène sospirò e rimase in silenzio, deciso a non farsi ulteriore male: non l'avrebbe mai accettato, ora che sapeva la verità.
La portiera si aprì ancora e il padre di Nelly la guardò entusiasta, dicendo: «Tutto! È stato riportato tutto!».
«Bene, mi fa molto piacere», rispose lei, sorridendo.
«Tesoro, ti senti bene? Stai piangendo».
Nelly scosse il capo, asciugandosi la lacrima che le era scivolata sulla guancia, fuori dal suo controllo. «Sì, sto bene. Sono solo felice, papà».
L'uomo parve rincuorato e finalmente prese la mano della figlia per aiutarla a scendere dall'auto. A braccetto, iniziarono a percorrere la lunga passerella che li avrebbe portati fino all'altare.
Arsène si addossò contro lo schienale del sedile, guardando la sua Nelly convolare a nozze con un uomo che non l'avrebbe mai amata in tutta la sua vita come l'aveva amata lui in quelle poche settimane.
Stava per scendere dall'auto e filarsela quando con la coda dell'occhio vide una rosa lì dove era seduta Nelly. Una rosa bianca, sfilata dal suo bouquet e lasciata sul sedile per lui, come regalo d'addio.
La prese tra le dita e scese dalla limousine, si appoggiò al tettuccio con i gomiti e chiudendo gli occhi se la portò al naso per respirarne il dolce profumo.
Perse la cognizione del tempo e furono le campane a riscuoterlo, facendogli riaprire gli occhi. E ciò che vide lo fece correre lungo i confini del giardino: Sherlock Holmes, probabilmente avvisato da Nelly. Ah, avrebbe dovuto prevederlo! Non era stato un caso che lo avesse colto sul fatto... Si erano messi d'accordo sin dal principio!
La rabbia lo fece correre ancora più veloce, tanto che lo staccò di diversi metri.
Il cancello di servizio che lui e i suoi uomini avevano scassinato per avere una seconda via di fuga era proprio davanti a lui, mimetizzato dalle siepi, perciò ci corse contro senza alcun timore. Quello che non aveva previsto era che Sherlock Holmes l'avesse preceduto, chiudendolo con un grosso lucchetto.
Ci sbatté contro come un allocco e si ritrovò steso sull'erba, col fiato corto e un atroce dolore al braccio destro. Fratturato, come minimo.
«Sei mio, Arsène!».
Il Ladro Gentiluomo scoppiò a ridere. «Vuoi approfittare di un uomo col cuore infranto, Sherlock? Non hai proprio alcuna decenza!».
Il detective gli saltò addosso e Arsène si difese come meglio poté. Rotolarono per un po' sull'erba, tirandosi pugni e ginocchiate, ma nessuno sembrava avere mai la meglio. Quando Sherlock estrasse un paio di manette, Arsène lo colpì con una testata sul naso e riuscì ad alzarsi.
«Quei bracciali non mi piacciono», esclamò, tirandogli un calcio nello stomaco che gli tolse il respiro. Poi si accovacciò su di lui, con un ginocchio puntato sulla sua gola.
«Inizio a capire perché ti porti dietro John», disse Arsène, mentre Sherlock si dimeneva nel tentativo di liberarsi. «Ti copre le spalle se le cose si mettono male, come in questo caso».
E fu proprio John a salvarlo anche quella volta, facendo squillare il suo cellulare. Arsène, senza fare complimenti, infilò una mano nella tasca destra del suo cappotto e fece per rispondere, ma un'altra chiamata, quella volta per lui, lo distrasse.
Il volto di Sherlock era ormai paonazzo per la mancanza di ossigeno, perciò Arsène allentò un po' il peso sulla sua gola mentre si portava entrambi i telefoni alle orecchie.
«Sono desolato, ma non è un buon momento».
Arsène ascoltò in silenzio, sentendo la terra inghiottirlo a poco a poco. Lasciò andare Sherlock e si sedette sull'erba, con gli occhi lucidi di lacrime. I cellulari gli caddero dalle mani e il detective prese il proprio per parlare con John.
«Arriviamo il prima possibile», rispose alla fine, con voce rauca.
Pose fine alla telefonata e guardò il Ladro Gentiluomo, col volto nascosto tra le ginocchia e la schiena squassata dai singhiozzi. Lo ferì profondamente vederlo in quelle condizioni, nonostante fino a pochi minuti prima l'unico suo desiderio era quello di mettergli le manette ai polsi.
Stipulando una tregua, si alzò e gli prese entrambe le mani per tirarlo su, scoprendolo ferito al braccio destro. Arsène tuttavia non fece una piega e si lasciò muovere come una bambola di pezza, e Sherlock lo condusse fino all'uscita principale, con le campane della cappella che suonavano a festa alle loro spalle.

Dopo un'ora e molte regole del codice della strada ignorate, entrarono insieme al London Bridge Hospital e chiesero indicazioni. In realtà fu Sherlock a chiederle, dato che Arsène si trovava ancora in stato di shock.
Corsero fino all'ala est, dove si trovava la sala operatoria in cui era stata portata Clotilde, e lì davanti trovarono il secondo in comando della banda di Lupin, John, Rosie e una Geneviève che aveva esaurito le lacrime, seduta sul pavimento con le gambe strette al petto. Non appena li vide in fondo al corridoio però si alzò e corse loro incontro, gettandosi ai loro colli contemporaneamente. Arsène ricambiò subito la stretta, affondando il viso tra i capelli biondi della figlia, mentre Sherlock esitò, imbarazzato e a disagio. Cercò lo sguardo di John, il quale gli sorrise mesto, annuendo. Allora il detective le avvolse la schiena con un braccio, finendo con la mano su quella di Lupin, il quale la strinse forte.
Sherlock, senza nemmeno rendersene conto, ricambiò la stretta e posò il capo contro quello di Arsène, respirando il profumo dei suoi capelli e sentendo una spiacevole fitta allo stomaco. Tuttavia non si allontanò: quel dolore, dopotutto, l'aveva salvato. 

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Capitolo 12
*** Grief ***


Ciao a tutti :)
Allora, nell'ultimo capitolo la madre di Geneviève è passata a miglior vita - o così si spera - e in questo vedremo un po' le reazioni di chi è rimasto, in particolare della figlia e di Arsène, ovviamente.
Maurice Leblanc ha scritto così tante belle storie che vorrei "riscriverle" tutte, ma non mi ritengo così brava (e così pazza), per questo ho fatto una selezione. Avete capito bene, con questo capitolo si apre un nuovo caso per il Ladro Gentiluomo! Spero davvero vi piaccia, perché secondo me è uno dei migliori ;-)
E a proposito di monsieur Leblanc... no, niente spoiler.
Grazie a tutti - ma proprio a tutti! - e vi auguro una buona lettura! ♥

Vostra,

_Pulse_



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12. Grief


«Grazie per essere venuto. E per... beh, tutto quello che hai fatto prima».
Sherlock gli rivolse un piccolo sorriso, nascosto in parte dal bavero del cappotto sollevato.
«L'ho fatto per lei», disse una mezza verità, tornando a guardare la figura esile e ora più che mai fragile di Geneviève, ferma davanti alla tomba della madre.
In verità, il fatto che avesse lasciato perdere il furto al castello Thibermesnil era dovuto puramente alla mancanza di prove e soprattutto di una denuncia, dato che era stata ritirata non appena i facchini della FedEx avevano finito di scaricare i camion. Di sicuro c'era lo zampino della neo signora Devanne.
«Grazie lo stesso», ripeté Arsène, sistemandosi con una smorfia il braccio fratturato nel tutore.
Il funerale era finito da un pezzo e i pochi invitati - loro tre e alcuni membri della banda di Lupin - si erano già tutti allontanati. Solo Geneviève si era attardata, forse per salutare la madre un'ultima volta.
«Perché l'avete seppellita qui e non in Francia?», gli chiese ad un tratto, incuriosito.
Arsène tirò fuori dalla tasca del cappotto la sigaretta elettronica e scrollò le spalle. «Ho pensato che le avrebbe fatto piacere riposare vicino a sua sorella. Sono state lontane così tanto tempo...».
Lo sguardo di Sherlock si spostò verso l'altro lato del cimitero, dove sapeva esserci la tomba di Mary. Era da tempo che non andava a trovarla.
Pur di non pensarci, il detective aprì un argomento su cui si arrovellava da un po': «Ora che sua madre è morta immagino che dovrai occuparti della montagna di scartoffie per l'affido».
«Oh sì. Dal momento in cui mi esponessi, dichiarando la patria podestà, partirebbe un iter burocratico davvero rognoso, ma ho già qualcuno che sta vagliando ogni passaggio per trovare una scappatoia», rispose tranquillo il ladro, per poi aspirare una lunga boccata di fumo aromatizzato alla vaniglia. «Nel frattempo ho fatto in modo che Geneviève risultasse ospite di una struttura di accoglienza in Francia».
All'improvviso si voltò verso Sherlock, le labbra socchiuse in un'espressione di stupore. Il consulente investigativo lo guardò con la coda dell'occhio e dopo un breve sospiro disse: «Non farò la spia. Per questa volta».
«Posso baciarti?», domandò candidamente il Ladro Gentiluomo, sporgendosi verso di lui.
«Assolutamente no», rispose Sherlock, con tono di voce ancora più glaciale del solito. Dopodiché gli fece un cenno col capo e Arsène si voltò a guardare la figlia che li stava raggiungendo sotto un ombrello nero identico al loro.
«Tutto bene, tesoro?».
La ragazzina non rispose, alzò semplicemente lo sguardo per incrociare quello del detective e dire: «Posso venire a casa tua? Mi piace di più, rispetto alla mia camera d'albergo».
Sherlock guardò Arsène, il quale nascose con un sorriso il dolore che gli aveva attraversato il volto.
«Va bene, andiamo».
Le aprì la portiera della limousine e la fece entrare, poi guardò di nuovo Arsène. «A te sta bene?», chiese, cercando un'ulteriore conferma.
Il ladro ampliò il sorriso e con voce perfettamente controllata disse: «Ma certo, perché non dovrebbe? In effetti, te l'avrei chiesto io stesso. Ho bisogno di stare un po' per i fatti miei. Sono stati giorni difficili».
Sherlock sospirò e seguì Geneviève nell'auto, lasciando che fosse Arsène a chiudere la portiera. Quest'ultimo si sedette davanti a loro e diede all'autista l'indirizzo: «221B, Baker Street».

Sherlock si tolse il cappotto ed aiutò Geneviève a fare lo stesso, poi li appese entrambi all'appendiabiti dell'ingresso.  
Avvolta in quell'abitino nero, con dei ricami in pizzo sulle braccia, la sua pelle diafana e i capelli biondissimi spiccavano ancora di più.
La osservò togliersi le scarpe col tacco, lanciarle disordinatamente nel salotto e rimanere in collant prima di sedersi sul divano, dove abbandonò la piccola pochette nera e si avvolse nella coperta che era rimasta lì dall'ultima volta che qualcuno - forse John - l'aveva usata.

Nei suoi occhi c'era tanto dolore, tanto smarrimento... Aveva appena perso sua madre, la donna che l'aveva cresciuta da sola, e con lei aveva perso una colonna portante, senza la quale la struttura rischiava di crollare in mille pezzi.
Senza dire una parola, Sherlock andò in cucina e mise su l'acqua per il té.
Mentre attendeva che raggiungesse la giusta temperatura, ricevette una chiamata da suo fratello Mycroft.
«Oggi alla stessa ora?», gli chiese senza salutare.
«Non posso», sussurrò in risposta, guardando in direzione del salotto con la coda dell'occhio. Geneviève ora si era sdraiata, in posizione fetale, e fissava con sguardo vacuo un punto sul tappeto.
«Che cosa stai dicendo? Lei si aspetta di vederti».
«Lo so e mi dispiace, ma dobbiamo rimandare».
«Ci rimarrà molto male».
Sherlock chiuse gli occhi e strinse i pugni sul bancone della cucina. «Ho detto che mi dispiace, Mycroft».
Il maggiore degli Holmes terminò la comunicazione senza aggiungere altro.
Quando l'acqua fu pronta ne versò un po' in una tazza e vi aggiunse del latte e del miele, nelle stesse dosi che utilizzava sua madre quando lui era malato. Geneviève era malata nello spirito, ma sperava potesse essere ugualmente di conforto.
Gliela portò e la ragazzina si sollevò un poco per poterla prendere tra le mani e portarsela sotto il naso. Quindi lo guardò negli occhi e disse: «Se hai un impegno non dovresti annullarlo per me».
Sherlock stirò un pallido sorriso. «È solo rimandato».
«Grazie».
Fece per andare a sedersi sulla sua poltrona, ma ci ripensò e si accomodò sul divano, con le mani unite dietro la testa. Allungò le gambe e posò i piedi sul tavolino, socchiudendo gli occhi.
Fu colto di sorpresa quando la ragazzina si avvicinò a lui e posò l'orecchio contro il suo petto, una mano sul suo stomaco. Sembrava gli stesse auscultando il cuore, ma non era chiaramente quello il suo intento.
Prima che potesse chiederglielo, Geneviève sussurrò con voce incrinata: «Sapevo che sarebbe successo, mi sono preparata per quattro anni... affrontarlo però non è la stessa cosa. Mi sento come se... come se ci fosse una voragine dentro di me. Passerà mai?».
Il consulente investigativo le avvolse con cautela un braccio intorno alla schiena e ammise: «Non lo so».
«I tuoi genitori sono ancora vivi?».
«Sì, fortunatamente. Ma da bambino ho perso il mio migliore amico».
«Il teschio coperto sulla mensola?».
Sherlock la fissò, incredulo che fosse giunta a quella conclusione tanto facilmente.
Quello non era il vero teschio di Victor, ma lo aveva sempre rappresentato. A tutti quelli che gli domandavano chi fosse, lui aveva sempre risposto: "Un amico", pur non sapendo a quale amico si riferisse. Forse la sua mente aveva cercato di mandargli un messaggio, per tutti quegli anni. E ora che sapeva la verità aveva sentito la necessità di coprirlo. Non di disfarsene, quello mai... Il ricordo doveva rimanere. Aveva solo bisogno di un po' di tempo per guarire da quella ferita, quella voragine, come aveva detto Geneviève.
«Sì, proprio lui», rispose alla fine.
«Perdere un amico non è come perdere una mamma».
«Penso di no. Ma lo supererai, ne sono certo. Se hai ereditato anche solo la metà della forza di tuo padre...».
Sherlock si alzò, sottraendosi all'abbraccio. Non voleva più parlare di morte e di sofferenza: il suo umore ne stava già risentendo. Perciò si avvicinò alla finestra e prese tra le mani il violino, iniziando a suonare la melodia che aveva finito di comporre giusto quella mattina. Una canzone triste, malinconica, ma dolce: un'ode alla gentilezza che lui non meritava.
Geneviève si fece più attenta e dopo aver bevuto un sorso di té incrociò le gambe e chiese: «È per Molly?».
Da sua madre aveva certamente ereditato l'acume in fatto di comprensione della natura umana, specie di cui anche lui, suo malgrado, faceva parte.
«Chi tace acconsente», esclamò in risposta al suo silenzio. «L'hai invitata a vedere il Don Giovanni?».
«No. Qualsiasi cosa tu credi ci sia tra me e lei, ti sbagli».
«Io non credo proprio».
Una nota stonata e Sherlock abbassò il violino, borbottando: «Quasi quasi ti preferivo in lutto».
Geneviève assottigliò gli occhi e lo guardò con cattiveria. «Bastava dire che non ne vuoi parlare».
«Non ne voglio parlare».
«Okay, continua pure a sprecare il tuo tempo suonando le tue canzoni depressive anziché provare un po' di felicità al fianco di una persona che ti ama. La vita è la tua. Ma te ne pentirai un giorno».
Sherlock si voltò, raggelato dal velo di minaccia che aveva avvertito posarsi su quell'ultima frase. Geneviève aveva lasciato la tazza di té sul tavolino e dalla pochette aveva estratto cellulare e cuffiette con l'intenzione di isolarsi nella sua musica - in quello erano abbastanza simili - ma non ci riuscì subito. La ragazzina gli rivolse un'occhiata imbarazzata ed imprecò sottovoce, cercando di sbrogliare gli auricolari annodati; compiuta la delicata e snervante operazione tornò a sdraiarsi sul divano, raggomitolata sotto la coperta e con i capelli che le ricadevano sul viso, le chitarre elettriche che le graffiavano i timpani.
Il detective la guardò ancora per qualche istante, poi tornò ad affacciarsi alla finestra e a suonare.


***

Arsène entrò come una furia nella sua suite e gridando iniziò a rovesciare divani, poltrone, tavolini, e a strappare giornali. Aveva così tanta rabbia in corpo che neppure il suo migliore amico riuscì a calmarlo.
Perché sua figlia aveva scelto di stare con Sherlock? Perché non era rimasta con lui, cosicché potessero lenire il dolore l'uno dell'altra? Non riusciva a capirlo. Si rifiutava di credere che si fosse affezionata tanto al detective da preferirlo. Doveva esserci una spiegazione logica per il suo comportamento, solo che la sua mente, sopraffatta dal dolore della perdita, non riusciva a vederla.
Strinse i pugni lungo i fianchi e respirò profondamente una, due, tre volte. Quindi riaprì gli occhi e guardò la devastazione che aveva causato: sembrava che fosse appena passato un tornado.
«Sono mortificato», disse guardando gli uomini della sua scorta.
«Non c'è problema capo, sistemiamo noi», rispose Ernest, servizievole come sempre.
Gli rivolse un sorriso affettuoso e finalmente si tolse il cappotto, porgendolo al suo secondo in comando. Poi si diresse verso la camera da letto, dove si sciolse anche la cravatta e si sedette sulla panca ai piedi del letto.
«Padrone, volevo avvertirla che l'aereo è appena atterrato».
«L'auto è stata mandata?».
«È già lì che lo attende. Sarà qui entro mezz'ora».
Arsène sorrise, sollevato che quella giornata non fosse completamente da dimenticare.
«Bene, avvisa la reception di far preparare una camera. Che sia interamente a mio carico, mi raccomando. E prenota per le tredici un tavolo per due al ristorante».
«Ai suoi ordini».
Rimasto solo, Arsène si tolse anche le scarpe e a piedi nudi raggiunse la finestra che dava sul Tamigi. Il cielo era ancora nuvoloso, ma aveva smesso di piovere. Avrebbe preferito che il suo amico venisse accolto da un tempo più mite, ma il meteo era una delle poche cose al mondo su cui non aveva il controllo. Anche se, ultimamente, erano parecchie le cose che gli sfuggivano di mano: il dottor Watson, Molly Hooper e per ultima sua figlia Geneviève.
Che Sherlock avesse una tale influenza sulle persone che gli stavano accanto, tanto da renderle abbastanza intelligenti e furbe da tenersi lontane da lui? Era possibile. Dopotutto lui stesso, in più di un'occasione, al fianco del detective aveva desiderato essere qualcosa di più. Ma non era mai abbastanza, perché lui era un ladro e finché fosse rimasto tale il divario tra loro sarebbe stato insormontabile. Lui era il male, mentre Sherlock era il bene. Chiunque sano di mente avrebbe scelto quest'ultimo, la luce anziché le tenebre.
Arsène si scrollò di dosso tutti quei pensieri e aprì le ante del grande armadio per scegliere l'outfit adatto all'incontro che lo aspettava.

***

Justin Ganimard stava aspirando avidamente gli ultimi tiri della sigaretta, con il giornale di qualche giorno prima arrotolato sotto l'ascella sinistra, quando scorse un'auto dalla targa governativa fermarsi a ridosso del marciapiede. Ne scese niente meno che Mycroft Holmes, il quale si avvicinò usando il proprio ombrello chiuso come un bastone da passeggio.
«Ispettore», lo salutò con cortesia. «Non si arrende proprio mai? Ammirevole».
«O incredibilmente stupido», rispose con un ghigno, gettando il filtro a terra.
Bussarono al 221B e fu la signora Hudson ad aprire e a scortarli entrambi al piano superiore, dove trovarono Sherlock seduto sulla sua poltrona, intento a giocare a scacchi contro un avversario invisibile.
Ganimard non ci trovò nulla di particolarmente strano e si complimentò per il bel livido sul suo naso, ma Mycroft... Mycroft lo trapassò con lo sguardo e disse: «Hai compagnia, fratellino?».
Il detective rispose atono, concentrato sulla partita: «Voi due, anche se non siete della più gradita. Mi riferisco specialmente a mio fratello, non si offenda ispettore».
«Assolutamente», lo rassicurò Justin, srotolando il giornale per mostrargli la prima pagina. «Hai letto? Ora Arsène Lupin è ufficialmente sbarcato in Inghilterra con il colpo a Thibermesnil. Mi spieghi come hai fatto a convincerlo a restituire tutto?».
«Non sono stato io», rispose con calma. «Ma miss Nelly Underdown».
«Che cosa...?».
«Sul serio, Sherlock, qui c'era qualcuno prima che arrivassimo», insistette Mycroft, picchiando la punta dell'ombrello sul pavimento.
Sherlock alzò gli occhi dalla scacchiera e lo sguardo che gli rivolse fece correre un brivido sulla schiena dell'ispettore.
«Ti dico che ti sbagli», ringhiò, mostrando i denti.
Mycroft non fece una piega, ma non lo contraddisse nemmeno. Probabilmente non voleva che l'ispettore si spaventasse ulteriormente davanti ad un litigio tra Holmes.
«Ad ogni modo...», osò mettersi in mezzo Ganimard. «Sono qui perché questa mattina ho ricevuto una telefonata da Folenfant. Uno dei pochi, se non l'unico, che ancora non mi considera un pazzo».
«E?».
«Maurice Leblanc questa mattina ha preso un aereo per Londra». Guardò l'orologio che portava al polso e aggiunse: «Dovrebbe essere atterrato da poco».
Sherlock si addossò contro lo schienale della poltrona, le dita delle mani unite davanti alla bocca. «È probabile che sia voluto venire di sua spontanea volontà, dopo aver saputo del furto ai Devanne».
«O forse perché Lupin ne ha in mente un'altra delle sue e vuole il suo reporter!», strepitò l'ispettore, infervorandosi. «Dobbiamo metterlo sotto sorveglianza! Dobbiamo mettere entrambi sotto sorveglianza!».
Sherlock scosse il capo. «Come crede di convincere Scotland Yard a spendere energie e risorse per pedinare due cittadini francesi che fino a prova contraria non hanno fatto nulla di male?».
«Inoltre se la notizia trapelasse - cosa certa visto che uno dei due è un membro della stampa - sarebbe uno scandalo non indifferente. Verremmo accusati di violazione della privacy, abuso di potere e un'altra mezza dozzina di reati; il governo francese ci salterebbe alla gola e di conseguenza Downing Street ci taglierebbe la testa, me per primo», intervenne Mycroft, suscitando l'attenzione di Sherlock, il quale rivolse a Ganimard un sorriso a trentadue denti dicendo:
«Sa, forse ripensandoci...».
«Non sei divertente, Sherlock».
«Quindi dovremmo starcene con le mani in mano, come sempre, ad aspettare che Lupin colpisca?», sbottò il francese, guardando prima l'uno e poi l'altro.
Non ricevendo risposta lanciò il giornale sulla poltrona vuota e se ne andò a passi pesanti, sbattendosi poi la porta d'ingresso alle spalle.
Il silenzio tornò grave e pesante sui due fratelli, almeno fino a quando Mycroft non si schiarì la gola e domandò: «Lei dov'è?».
«Non so di chi tu stia parlando».
«La ragazzina, la figlia di Lupin».
«Cosa ti fa credere che...?».
«Il profumo», rispose annoiato. «Note fruttate: bergamotto, mandarino, pesca; e un fondo di vaniglia e caramello. Lo stesso profumo che aveva Geneviève quando l'hai portata da me la prima volta. E poi la scacchiera», la indicò, annoiato. «Tu non avresti mai mosso i pezzi in quella maniera. C'era un principiante davanti a te».
Sherlock era pronto a ribattere quando Geneviève in persona si palesò in salotto, con la coperta che non le cingeva le spalle appallottolata tra le braccia e le scarpe in una mano.
A Mycroft bastò uno sguardo per unire i puntini e mettersi sul volto la maschera della persona addolorata. «Le mie condoglianze».
«Grazie», rispose freddamente la ragazzina.
Sherlock si alzò e si avvicinò al fratello, interrompendo la battaglia di sguardi tra i due.
«Allora, perché sei venuto?».
«Volevo solo sapere il motivo dell'improvviso cambio di programma. Ora è tutto chiaro».
«Bene, conosci la strada».
«Preferisco che mi accompagni».
Sherlock roteò gli occhi al cielo e scortò Mycroft fino al pianerottolo.
«Ne sei proprio sicuro? Non sappiamo che conseguenze avrà la tua decisione».
«Sono certo che sarai all'altezza della situazione».
Stava per rientrare, ma il fratello lo afferrò per il polso e si avvicinò al suo orecchio per sussurrare: «Sappiamo invece come può diventare Arsène se si ingelosisce, vero? Io non starei troppo vicino alle sue proprietà».
«Geneviève non è una sua proprietà», ribatté piccato.
«La chiama il suo "tesoro più prezioso"».
Mycroft sollevò le sopracciglia, consapevole di aver segnato un punto a suo favore. Scendendo le scale, lo salutò con un'alzata d'ombrello.
Sherlock rientrò in salotto e si sbatté la porta alle spalle, facendo sobbalzare Geneviève, la quale era tornata a sedersi sulla poltrona di John e stava leggendo il giornale lasciato da Ganimard.
Si appollaiò sulla sua poltrona di pelle, meditabondo, e fu proprio lei a riportarlo alla realtà, affermando con voce triste: «È come quand'ero piccola: non potrò mai rivelare a nessuno l'identità di mio padre. Dovrò negare, nascondermi... Non saprò mai che cosa vuol dire avere un padre normale».
«E lo preferiresti davvero?».
Geneviève si strinse nelle spalle, sollevando il re nero dalla scacchiera per osservarlo più da vicino.
Sherlock sospirò, ripensando alla missione che lui non era mai riuscito a portare a termine. «Potresti sempre provare a fargli abbandonare la carriera di ladro».
«Non posso farlo. Non posso chiedergli di cambiare per me. E poi forse hai ragione... non credo che mi piacerebbe. Arsène Lupin è ciò che è, è mio padre e gli voglio bene nonostante tutto».
Il detective le prese il re dalle mani e lo riposizionò sulla scacchiera.
«Dov'eravamo rimasti?», cambiò discorso quasi bruscamente.
«Uhm... Ah! Ti stavo per mangiare il cavallo!», gridò Geneviève, già pronta a portare a termine la sua mossa.
Sherlock però la fermò, afferrandole il polso e guardandola dritta negli occhi.
«Sei sicura di volerlo fare? Potrebbe essere una trappola».
La ragazzina corrugò la fronte ed osservando con più attenzione la disposizione dei pezzi capì che se avesse mangiato il suo cavallo, messo proprio sulla linea della propria regina, quest'ultima sarebbe stata presa dall'alfiere.
«Volevi mangiare la mia regina!».
Sherlock sorrise, quasi dolcemente, e la lasciò andare. «Lo scopo del gioco è proteggere il re, ma qual è il pezzo con più libertà di movimento, quello più forte se vogliamo?».
«La regina».
«Il re sarebbe perduto, senza di lei... E va protetta tanto quanto lui».
C'era qualcosa nel suo discorso, una specie di sottotesto, che Geneviève colse e per questo arrossì, con il labbro inferiore tra i denti.
Sherlock non l'avrebbe mai detto ad alta voce, ma sperava che Arsène non la chiamasse il suo "tesoro più prezioso" per semplice vanto, ma perché fosse pienamente  consapevole che se anche gli avessero tolto tutte le ricchezze di cui si era appropriato negli anni sarebbe comunque rimasto l'uomo più ricco del pianeta, avendo l'amore incondizionato di sua figlia.
«A volte non ti capisco proprio, Sherlock Holmes».
«Non sei l'unica».
«Perché fai a meno della tua regina?».
Il detective guardò la scacchiera e la sua regina era lì, insieme agli altri pezzi, al sicuro da ogni possibile attacco. «Che cosa stai dicendo?».
«Non quella regina», ridacchiò. «Quella là fuori».
Oh, chiaro. Quand'è che si sarebbe arresa e avrebbe lasciato perdere? Forse, se le dava ciò che voleva...
«Te l'ho detto: va protetta ad ogni costo».
«Anche a costo di sacrificare il re?».
«Certo».
«Così facendo però perderesti».
Sherlock la fissò, scioccato. Stava ancora parlando di Molly o degli scacchi? Stava perdendo il senso della realtà.
Geneviève sorrideva tranquilla però, come se avesse pienamente raggiunto il suo scopo. E l'aveva fatto, eccome: aveva instillato il dubbio nella sua mente, ritorcendo le sue stesse parole contro di lui. Quella ragazzina...
Con la lingua si toccò l'angolo sinistro delle labbra e spostò in avanti un pedone, mettendolo a difesa di uno dei suoi pezzi. Estremamente soddisfatta, alzò gli occhi sul consulente investigativo, il quale ricambiò con serietà.
«Che c'è? Ho sbagliato?».
«No, la mossa andava bene. È tutto il resto... Anche io a volte non ti capisco, Geneviève».
Dalla sua espressione improvvisamente preoccupata intuì che forse avrebbe preferito non sentire quelle parole, che avrebbe preferito pensare di essere un libro aperto per lui. Che avesse davvero qualcosa da nascondere, come aveva sempre pensato? Che lui non fosse l'unico a sfruttare quella loro amicizia, di cui stavano entrambi perdendo un po' il controllo, per altri scopi?
Solo il tempo avrebbe potuto dirglielo. Una mossa per volta.

***

«Amico mio», sussurrò Arsène attirandolo tra le sue braccia - uno, in realtà - per stringerlo forte.
Maurice ricambiò con attenzione, domandando: «Che cos'hai fatto al braccio?».
«Ah, una sciocchezza. Sono così felice di vederti... Iniziavo a sentirmi nostalgico, in questa terra straniera».
Maurice sorrise mesto e gli diede delle lievi pacche sulla schiena, più simili a carezze. «Mi dispiace molto».
«Per che cosa?».
Si scostarono l'uno dall'altro per guardarsi negli occhi e il reporter si sistemò gli occhiali sul setto nasale prima di rispondere piano: «Per la tua perdita. Avrei voluto saperlo prima, starti vicino...».
Il Ladro Gentiluomo gli rivolse un sorriso commosso. «Lo apprezzo molto, Maurice. Sarebbe stato molto sconveniente, però. Vedi, anche ora stiamo correndo un rischio».
Si sedettero al tavolo uno di fronte all'altro e subito un cameriere portò loro i menù.
«Non pensi di esagerare un po' troppo?», gli chiese Maurice. «Anche se ci vedessero insieme, non è una prova sufficiente per accusarti di essere tu-sai-chi».
Arsène rise di cuore. «Avresti ragione, se non fossimo nel terriotorio di Sherlock Holmes. L'ho fatta franca a Thibermesnil, ma per un pelo. La prossima volta non esiterà ad ammanettarmi».
«Ma i tuoi alias... Insomma, noi due ci conosciamo da tempo ormai, vero?».
«Vero», rispose il ladro, sorridendo mentre sollevava una mano per richiamare l'attenzione del cameriere.
«Sei sempre apparso a me come una persona diversa o, piuttosto, la stessa persona circondata di specchi, ognuno riflettente un'immagine deformata. Se fossi entrato da solo in questo ristorante non avrei mai saputo riconoscerti!».
Il cameriere portò loro dell'acqua e del pane e ritirò i loro ordini. Arsène gli aveva parlato sorridendo, ma non appena si fu allontanato la sua espressione cambiò radicalmente: sembrava stanco, addirittura triste... Maurice non l'aveva visto spesso in quello stato.
Lo guardò mentre prendeva il calice del vino e se lo portava davanti al volto per rispecchiarcisi.
«Io stesso non so più bene chi io sia. Tutti i miei alias, le mie molteplici vite, i miei travestimenti... Il fatto stesso di avere un nome d'arte, di essere diventato un personaggio... Guardandomi allo specchio non mi riconosco più. Dov'è il bambino...?».
Si interruppe bruscamente e il suo umore cambiò di nuovo, mutevole come il tempo.
«Ma d'altronde perché avere un aspetto definito?», esclamò, gli occhi brillanti. «Perché costringersi a vivere solo una vita? Sono le mie azioni a rendermi ciò che sono». Si chinò sul tavolo e lo fissò dritto negli occhi, precisando con orgoglio: «Mi fa comodo che non si possa mai dire in tutta certezza: "Ecco Arsène Lupin". L'essenziale è che si dica senza timore di sbagliare: "Arsène Lupin ha fatto questo"».
Insieme ai loro piatti, il cameriere portò un vino bianco in abbinamento. Ne versò un po' nei loro bicchieri e rimasti soli sollevarono i calici in un brindisi.
«Al Ladro Gentiluomo, allora».
Arsène si incupì nuovamente, ma provò a nasconderlo con uno dei suoi sorrisi abbaglianti. I suoi occhi però non mentivano, non in quell'occasione.
«C'è qualcosa che ti preoccupa?», gli domandò Maurice cautamente, per paura che si richiudesse ancora di più in se stesso. «Puoi parlarmene, se vuoi».
«Si tratta di Sherlock Holmes. I miei travestimenti e le mie doti recitative sono inutili, con lui. Ho capito che sarebbe stato così dalla prima volta che ci incontrammo, molti anni fa. Mi ha afferrato con quei suoi meravigliosi occhi azzurri, imprigionato, registrato. Ha scattato il negativo della mia persona ancor prima di cogliere il mio vero aspetto alla Santé, perciò non perdo nemmeno più tempo a travestirmi».
«Non capisco, se è così pericoloso perché non torni in Francia?».
«Non posso, non prima di aver conquistato il mio tesoro più grande».
Maurice smise di arrotolare intorno alla forchetta le sue linguine e lo fissò, gli occhi sgranati colmi di curiosità. «E puoi dirmi di che cosa si tratta?».
Arsène assottigliò le labbra ridenti. «No, mi dispiace. Come ti dissi quando mi chiedesti di scriverti l'ultimo elegio alla Donna Bionda da pubblicare, certe cose devono rimanere segrete».
Il motivo per cui il Ladro Gentiluomo aveva scelto come proprio portavoce quel ragazzo tra tutti gli stimati giornalisti de L'Ècho de France era molto semplice: era gentile, umile e con dei solidi principi morali. Non andava a caccia di scoop, non pubblicava notizie con lo scopo di far andare a ruba le copie; al contrario dei suoi colleghi, credeva ancora che il mondo, ora più che mai, avesse bisogno di speranza, di eroi. E aveva scelto lui, Arsène Lupin, perché cercava di riequilibrare le differenze sociali. Certo, non aveva scelto la strada della legalità, ma almeno era qualcosa.
«E va bene», rispose Maurice sorridendo. «Rispetto la tua decisione, nonostante sia sempre più convinto che il tuo pubblico avrebbe apprezzato sapere che sei umano, che anche tu e i tuoi complici soffrite e che...».
«E che possiamo morire». Arsène sospirò e si passò le mani sul volto. «No, la gente sa benissimo che sono umano. Sono finito in prigione per una donna! Una donna che tre giorni fa è convolata a nozze».
Il reporter si pulì gli angoli della bocca con il tovagliolo e dispiaciuto fece per allungare una mano verso la sua, ma Arsène la ritrasse e ancora una volta finse di stare bene.
«Come sono le tue linguine?».
«Ahm...». Maurice abbassò gli occhi sul piatto, confuso. «Ottime, sì. Tu però non hai mangiato nemmeno un boccone».
In compenso però aveva bevuto già tre bicchieri di vino. Che Arsène stesse soffrendo, per una o più ragioni, ormai gli era chiarissimo.
«Non ti preoccupare per me. Piuttosto, c'è qualcosa che vorresti fare durante il tuo soggiorno londinese?».
«Mi affido a te», rispose Maurice, per poi ripensarci e aprire nuovamente la bocca. Non pronunciò una parola però, timoroso di offendere il prestigioso amico.
«Che cosa c'è? Parla liberamente!», lo incalzò quest'ultimo, sorridendo.
«Beh, mi chiedevo... Sarebbe un'onore per me scambiare due parole con Sherlock Holmes e il dottor Watson. Voi due siete stati rivali in molte occasioni e mi piacerebbe avere il suo punto di vista...».
Arsène si addossò contro lo schienale della sedia e fissò il contenuto del proprio bicchiere, ruotandolo con degli aggraziati movimenti di polso.
Rifletté a lungo, tanto a lungo che Maurice fu sul punto di rinunciare spontaneamente al proprio desiderio. Prima che potesse farlo però, il Ladro Gentiluomo disse: «Ma sì, credo sia fattibile. Io non potrò accompagnarti per ovvie ragioni e se deciderai di scrivere un articolo dovrò approvarlo prima della pubblicazione, ma per il resto sei libero di fare ciò che vuoi, Maurice. Ho piena fiducia in te».
Il ragazzo gli rivolse un sorriso grato, il cuore gonfio d'orgoglio per ciò che aveva appena detto. Si fidava di lui!
«Grazie. Grazie, non ti deluderò».

***

John entrò nell'appartamento di Sherlock e trovò il salotto vuoto, così si sporse verso la cucina e trovò il detective e Geneviève in piedi dietro il tavolo, alle prese con qualche folle esperimente. Almeno indossavano gli occhiali protettivi.
«Mi sto annoiando», sbuffò la ragazzina.
«Continuare a ripeterlo non serve», rispose monocorde Sherlock.
Fu allora che lei si accorse del loro arrivo: il sorriso che si aprì sul suo viso fu come il primo raggio di sole dopo una furiosa tempesta e John ne fu contagiato.
Geneviève abbandonò il fianco dello scienziato per correre da Rosie, ma nel farlo lo urtò, rischiando di fargli cadere il composto su cui stava lavorando. Sherlock lo salvò all'ultimo momento e dall'espressione furiosa che le rivolse, John capì che non era l'unica cosa che rischiava di esplodere.
Lasciò la figlia alla ragazzina, la quale improvvisò un balletto nel salotto, e si avvicinò all'amico per calmarlo e chiedergli: «Da quanto tempo è qui?».
«Da questa mattina. Dopo il funerale ha insistito per venire qui e all'inizio pensavo che non sarebbe stato un problema, ma... guardala!», la indicò, disperato, mentre faceva giravolte con una Rosie divertita. «È iperattiva! Vuole fare mille cose e non ne finisce una perché si annoia! Non ce la faccio più, John!».
«Ora sai finalmente come mi sentivo quando abitavo con te», esclamò il dottore, dandogli una pacca sulla spalla.
«Io non ero affatto così!».
«Hai ragione, a volte eri peggio. Ti ricordi quando rientrasti coperto di sangue, con un arpione in mano?».
John sollevò le sopracciglia, compiaciuto dal silenzio di Sherlock, e fece per tornare in salotto. Non ne ebbe il tempo materiale, richiamato dall'amico.
«Quando hai intenzione di dirglielo?», gli chiese a bassa voce, cauto ché non li sentisse.
Il dottor Watson si gettò un'occhiata alle spalle. «Non ne ho idea. E tu quando hai intenzione di affrontare Molly? O Irene Adler?».
«Touché», mormorò il detective, prendendo il composto e versandolo nel lavandino, dove sfrigolò come olio bollente. Quindi si tolse gli occhialini trasparenti e raggiunse John in salotto, sedendosi sulla propria poltrona.
«Mi dispiace di non essere riuscito a venire al funerale», disse il dottore a Geneviève, la quale si era seduta sul divano, con Rosie sulle ginocchia.
La ragazzina si strinse nelle spalle, rispondendo: «Non è stato nulla di che. Mia madre non aveva nessuno, a parte mio padre. In realtà ha una sorella, ma qualcuno non vuole aiutarmi a trovarla...».       
John si voltò verso Sherlock, a cui era stata rivolta la frecciatina. Avrebbe voluto aiutarlo, farla finita proprio in quel momento, ma venne interrotto dal cellulare del detective.
«Una chiamata da Scotland Yard», annunciò prima di rispondere. «Pronto? Sapevo che l'avrei risentita, Ganimard, ma non pensavo in queste circostanze. Ha cercato di cogliere Lupin e Leblanc insieme ma non ci è riuscito, ho ragione?».
Il sorriso vittorioso che si impossessò delle labbra di Sherlock mentre ascoltava la risposta del francese fece capire loro che non si era sbagliato, come sempre.
«Non la capisco, ma rispetto la sua tenacia. Arrivo il prima possibile».
Terminò la conversazione e ridacchiò, portandosi una mano sulla fronte.
«Vuoi spiegare anche a noi?», chiese Geneviève, anticipandolo.
«Tuo padre. Aveva previsto che Ganimard avrebbe tenuto d'occhio Maurice Leblanc - il suo portavoce ufficiale su L'Ècho de France - così ha sfruttato l'occasione per crearsi un vantaggio. Ganimard l'ha visto entrare al ristorante del Savoy e ha provato a fare lo stesso per coglierli in flagrante, ma tutto il personale doveva essere stato avvisato da Lupin, forse addirittura comprato, perché lo tenessero a debita distanza. Ganimard ha perso le staffe e ha colpito un cameriere».
«Caspita... È nei guai?».
Sherlock sospirò e si alzò. «Non solo è stato bandito a vita dal Savoy, ma si trova a Scotland Yard al momento. Mi ha chiesto se posso fare qualcosa per aiutarlo».
«E perché dovresti?», domandò Geneviève, attirando l'attenzione di entrambi.
John corrugò la fronte, confuso. Che razza di domanda era?
«Quel Ganimard è stato stupido e ha sbagliato a colpire quel cameriere, dovrebbe affrontarne le conseguenze», aggiunse aspramente. «Inoltre la sua ossessione per mio padre mi disturba. Che cosa gli ha mai fatto di male, per volerlo così ardentemente dietro le sbarre?».
Il dottor Watson, sconvolto dalle sue parole, non avrebbe saputo cosa rispondere nemmeno volendo. Si limitò a guardare Sherlock abbottonarsi la giacca e perforarla con quel suo sguardo di ghiaccio e al contempo incendiato di fiera determinazione.
«Sarà per la morte di tua madre, ma credo che tu sia un po' confusa», esordì. «Pensavo di essere stato chiaro con te, o te lo sei dimenticata? Lo so che io e tuo padre ci comportiamo spesso come due vecchi amici e che entrambi a volte ci crogioliamo in questo pensiero perché è ciò che vorremmo, ma la verità è che siamo e saremo sempre rivali. Anche a me non ha mai fatto nulla di male, anzi... ma i criminali non si catturano per interessi personali. E non devi avere dubbi su questo: presto o tardi lo catturerò e dovrà, come hai detto tu, affrontare le conseguenze dei suoi sbagli».
Geneviève deviò il suo sguardo, stringendo a sé il corpicino di Rosie.
«Per quanto riguarda l'ispettore Ganimard, lui ha perso quasi tutto a causa di tuo padre. L'ha presa fin troppo sul personale, questo te lo concedo, ma è un uomo di giustizia e per questo andrò ad aiutarlo. Scusami John, ci vediamo».
John non ebbe nemmeno la forza di rispondere: si limitò a sollevare una mano in segno di saluto, quando ormai Sherlock aveva lasciato il salotto per scendere le scale, afferrare il cappotto e uscire in strada. Poi guardò Geneviève, ancora con Rosie stretta al petto come se si trattasse di una bambola in grado di confortarla.
«Ehi», provò ad attirare la sua attenzione e magari dirle che non era così grave come sembrava, ma avrebbe mentito: le parole di Sherlock non lasciavano altra interpretazione.
La ragazzina sollevò di scatto il capo, con una nuova durezza nello sguardo, e si alzò per consegnargli la figlia.
«Dove vai?», le chiese, seguendola mentre anche lei prendeva la via delle scale. La domanda si rivelò inutile quando anziché scendere salì.
La porta venne sbattuta con forza e dopo qualche secondo la sentì gridare a squarciagola. Con quelle urla uscirono tutta la frustrazione, il dolore e la rabbia che aveva contenuto fino a quel momento.
John l'ascoltò ripetere l'operazione più volte, ad occhi chiusi, fino a quando anche la signora Hudson non lo raggiunse, preoccupata. Lui indicò il piano di sopra e lei si portò una mano sul cuore.
«Oh, cielo».
Come se ciò non fosse abbastanza straziante, la piccola Rosie iniziò a piangere e finché Geneviève non si calmò non lo fece nemmeno lei, non importava quanto la cullasse.
Dopo un quarto d'ora di silenzio, John si insospettì e salì le scale. Bussò alla porta della sua vecchia stanza e la chiamò, più volte, senza mai ottenere risposta. Alla fine provò a girare il pomello e non la trovò chiusa a chiave, così entrò annunciandosi a gran voce. Non servì a nulla: Geneviève se n'era andata, lasciandosi alle spalle solo la finestra aperta.

***

Sherlock entrò a Scotland Yard seguito dagli sguardi di tutti i poliziotti di turno. Strano come avessero cambiato il loro atteggiamento nei suoi riguardi, passando dall'irritazione all'ammirazione, da quando erano stati portati a credere di aver spinto un uomo al suicidio. Solo quando incrociò gli occhi di Lestrade, l'unico che era sempre stato dalla sua parte, riuscì a liberarsi da tutta quella pressione. Era seduto dietro la propria scrivania, in compagnia dell'ispettore Ganimard, e lo stava aspettando.
«Ciao ragazzo, grazie per essere venuto», lo salutò il francese.
«Da quello che mi ha detto al telefono, la credevo in manette».
Lestrade unì le mani sullo stomaco, ma davanti ad un collega straniero non osò posare i piedi sull'angolo della scrivania.
«Non siamo mai arrivati a tanto, ma ha rischiato molto. Se la denuncia non fosse stata ritirata...».
Sherlock si avvicinò, la fronte aggrottata. «Ripeti?».
«La denuncia è stata ritirata», sospirò Justin, stringendo forte i pugni sulle ginocchia. Era furente di rabbia, tanto che rischiava di accendere tutte le sigarette che aveva nella tasca del trench.
«E subito dopo la nostra telefonata, guarda caso. Arsène voleva solo umiliarmi, spingendomi a chiedere il tuo aiuto».
«Non c'è niente di male nel chiedere aiuto», disse Lestrade, attirando su di sé gli sguardi orgogliosi di entrambi.
Ganimard si alzò e sospirò stancamente. Prima di uscire dall'ufficio, ripeté: «Grazie ad entrambi».
Rimasti soli, Greg si alzò dalla poltrona e ruppe il silenzio schiarendosi la gola.
«Non posso», disse Sherlock.
L'ispettore si portò le mani sui fianchi, gli occhi alzati al cielo. «Non ho nemmeno aperto bocca!».
«Dovresti saperlo che a volte non ce n'è bisogno». Il detective indicò le fotografie di una scena del crimine impilate sulla scrivania e spiegò: «Volevi chiedermi aiuto per quel caso, non è vero? È per quello che hai risposto in quel modo, poco fa: non era gentilezza, ti sei sentito in difetto».
«E se fosse stata gentilezza?».
Sherlock sbuffò, allungandosi sulla scrivania per afferrare il post-it incollato accanto al telefono, dove, oltre ad essere state scritte varie parole sottolineate ed incorniciate da punti di domanda, c'era un nome: il suo.
«Okay, va bene», ammise l'ispettore con l'accenno di un sorriso. «Allora, vuoi sapere di che si tratta? Avevamo dato per scontato fosse un suicidio, ma qualcosa non torna. Poco fa Molly ha terminato l'autopsia e mi ha chiamato dicendomi che ha qualcosa da mostrarmi».
«Per questo ho detto che non posso».
Lestrade impiegò qualche secondo per capire di cosa si trattasse davvero.
«Ah, andiamo!», esclamò. «Non la starai davvero evitando!».
Il silenzio e lo sguardo triste di Sherlock furono meglio di mille parole.
«E io che pensavo che Molly stesse scherzando», mormorò l'ispettore, stupito. «Dev'essere successo qualcosa di grosso per trasformare il grande detective in un grande codardo».
«Non sono un codardo, ho le mie ragioni», lo contraddisse con una smorfia.
Si diresse verso la porta e con un piede ormai fuori dall'ufficio urlò: «Comunque Lupin ha una talpa all'interno di Scotland Yard!».
«Una talpa?», ripeté Lestrade, incredulo.
Si precipitò alla porta, ma Sherlock era già lontano. Allora appoggiò entrambe le mani agli stipiti e guardò tutti gli agenti presenti nella sala, chi alla propria scrivania, chi al distributore di caffé e chi intento a fare fotocopie. Decine di occhi ricambiarono il suo sguardo e l'ispettore finalmente capì: se la denuncia era stata ritirata proprio dopo la telefonata che aveva concesso a Ganimard, allora...
Lestrade imprecò e lasciò anche lui la sede della polizia inglese, diretto verso il St. Bart's.

A quell'ora della sera era tutto così tranquillo, tanto da fargli venire i brividi quando si trovava nei pressi dell'obitorio. I film horror iniziavano sempre così: con la quiete. Ogni volta che ci pensava si chiedeva come diavolo facesse Molly a fare i turni di notte.
Arrivò fino alle vetrate e vi bussò contro per attirare l'attenzione dell'anatomopatologa. Lei sollevò il capo dall'ultimo ospite morto che le era stato portato e gli fece segno di entrare. Nel frattempo si tolse la mascherina e i guanti in lattice sporchi per infilarsene un paio pulito, poi senza troppi convenevoli andò ad aprire la cella frigorifera in cui era conservata la sua vittima: una ragazza ancora senza nome, dato che non avevano trovato documenti sulla scena del crimine né le sue impronte avevano dato risultati. Sapevano solo che aveva un'età approssimativa tra i venti e i trentacinque anni, che era di razza caucasica e che, prima di morire con un buco che andava da tempia a tempia, aveva in circolo della morfina, quasi come se l'assassino - sì, la pistola non era stata trovata accanto al cadavere - non avesse voluto che provasse dolore.
Mentre Molly parlava, Greg non riusciva a pensare ad altro che alle parole di Sherlock.
«Ha detto di avere una ragione», esclamò ad alta voce, rendendosene conto troppo tardi per rimangiarselo.
Molly lo fissò confusa. «Che cosa?».
«Sherlock... l'ho incontrato, poco fa», confessò, passandosi una mano sul collo. «Volevo che mi aiutasse con questo caso, ma ha rifiutato perché non voleva incontrarti. Ti sta evitando, ma ha detto di avere una ragione».
Rimasero in silenzio a lungo, senza guardarsi negli occhi e con una morta tra loro. Greg si sentì così male, così in colpa per aver tirato fuori l'argomento che si scusò, scrollando il capo.
«No, non ce n'è bisogno», rispose Molly con un piccolo sorriso. «Non è colpa tua, ma di Sherlock. È sempre colpa sua».
«Sì, però...».
«Sono stufa, Greg. Il mio è un amore malato, che mi sta avvelenando la vita. E a questo proposito volevo... volevo chiederti una cosa».
Stupito da quel repentino cambiamento di tono, da uno affranto e deluso ad uno timoroso e imbarazzato, Lestrade la lasciò finire senza interromperla.
«Saresti libero questo sabato? Mi hanno dato due biglietti per la Royal Opera House e pensavo... potremmo andarci insieme, se vuoi».
Si trattava di un appuntamento? Sì, probabilmente.
C'era stato un periodo in cui avrebbe tanto voluto che Molly gli lanciasse qualche segnale di interesse, ma col tempo quel desiderio si era affievolito. Il fatto che ora, proprio dopo quello sfogo, gli proponesse di uscire insieme, lo faceva sentire come la ruota di scorta, il ripiego.
Inoltre, come poteva reggere il confronto con Sherlock Holmes?
Non era giusto verso Molly, la quale voleva semplicemente voltare pagina, ma Lestrade non riuscì a dirle di sì.
«Mi dispiace, Molly, ma...».
Anticipando le sue parole, l'anatomopatologa ridacchiò e portò le mani avanti, dicendo: «No, perdonami, sono stata una stupida. Ti stavi frequentando con Danielle, vero? Me l'ero completamente scordata».
Sapeva perfettamente che la storia con Danielle era naufragata ancor prima di iniziare, ma Greg decise di stare al gioco e le rivolse un sorriso carico d'affetto.
Avrebbero entrambi trovato la persona giusta, presto o tardi. O almeno era questo che si diceva ogni notte, prima di addormentarsi da solo.
«Allora, cosa stavi dicendo?», tornò a concentrarsi sulla vittima.
E Molly, di nuovo nella sua comfort zone, rispose: «Mentre esaminavo il corpo ho notato dei punti di sutura poco sopra l'ombelico, eseguiti post-mortem. Li ho rimossi e all'interno ho trovato... quella».
La seguì fino ad un tavolino e dentro ad un contenitore di plastica circolare e perfettamente sigillato vide una fish rossa da casinò.
«Mi stai prendendo in giro?», domandò retoricamente.
Di certo quella stranezza sarebbe piaciuta un sacco a Sherlock. Peccato se la stesse perdendo, e non solo quella.

***

A che cosa stava pensando? Sapeva perfettamente chi fosse Arsène Lupin e chi fosse Sherlock Holmes. Sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto scegliere, ma aveva davvero bisogno di pensarci? Arsène era suo padre, la sua famiglia; sarebbe comunque stata legata a lui per sempre. Allora perché si era permessa di affezionarsi al detective? Pensava davvero di poter ottenere l'amore di entrambi, che per lei avrebbero deposto l'ascia di guerra? No, non sarebbe mai accaduto ed era stata una stupida solo a pensarlo.
D'ora in avanti niente più errori, si disse. Devi pensare solo a te stessa, a stare bene.
Non sarebbe stato facile, ma ci sarebbe riuscita. Lei era forte... Era stato Sherlock a dirlo e di lui si fidava, perciò non metteva in dubbio che avrebbe fatto esattamente ciò che le aveva detto: alla prima occasione avrebbe ammanettato suo padre, anche se ciò avrebbe voluto dire toglierle tutta la propria famiglia.
Non poteva vivere in quel modo, con la costante paura di rimanere sola al mondo, tradita dall'unica persona che sembrava capirla veramente. Un amico, nonostante la differenza d'età. Il fratello maggiore che non aveva mai avuto.
E la piccola Rosie... Adorava quella bambina, era la sorellina che le sarebbe piaciuto avere. Ma niente le assicurava che avrebbe potuto vederla ancora, nel caso in cui Sherlock avesse portato a termine la sua missione. Magari lo stesso detective gliel'avrebbe impedito: era pur sempre una Lupin, nei suoi geni c'era l'influenza criminale di suo padre e doveva stare lontana dalle persone a lui care.
L'idea che l'avesse accolta nel suo appartamento e si fosse avvicinato a lei solo per giungere a suo padre - usandola proprio come lei aveva usato lui - si rinforzava ad ogni passo.
Una volta sul Waterloo Bridge però, appoggiata al parapetto e con lo sguardo rivolto verso l'acqua scura sotto di sé, tutti i sospetti su Sherlock crollarono.
L'aveva portata da suo fratello Mycroft per convincerla ad usare le sue doti per il bene, l'aveva resa la sua sidekick per un giorno, l'aveva aiutata a scoprire la verità sul caso del diamante azzurro, aveva partecipato al funerale di sua madre e quel giorno l'aveva accontentata in tutto senza fiatare, nonostante glielo avesse letto in faccia che non gli piaceva passare da un'attività all'altra ogni dieci minuti.
Non era possibile che avesse fatto tutto questo solo per ottenere la sua fiducia e convincerla a consegnargli suo padre. Ma allora per quale altro motivo l'aveva fatto? Ci doveva essere un motivo, ci doveva essere...
Con tutte quelle domande per la testa attraversò di nuovo il ponte ed entrò nella sfarzosa hall del Savoy. Raggiunse il piano dove si trovava la Royal Suite di suo padre e trovò il solito uomo davanti alla porta. Come d'abitudine, venne scortata di stanza in stanza da diversi membri della sicurezza, fino a trovarsi al cospetto del padre, immerso nella grande vasca da bagno scavata in un blocco di marmo nero.
«Ciao tesoro, sei tornata», la salutò senza particolare entusiasmo. «Ti senti meglio?».
Geneviève deglutì. Se si sentiva meglio? Davvero pensava che una giornata con Sherlock Holmes le avrebbe fatto provare meno dolore?
«Sì, un po'», mormorò in risposta. «Non volevo disturbarti, scusami se...».
«No, nessun disturbo. Anzi, hai fatto bene a passare adesso, dato che dopo sarò impegnato. Io e Maurice abbiamo appuntamento al bar per l'esibizione di Leona Zalti. Sai chi è?».
«No, io...».
«Una cantante di origini italiane. Ha avuto un breve successo vent'anni fa, poi si è ritirata dalle scene. Ora che si trova in una brutta situazione economica per via della morte del marito, il quale non le ha lasciato nulla della sua fortuna, fa piccoli spettacoli in giro per l'Inghilterra. Li spaccia come eventi esclusivi, ma in realtà non c'è questa grande richiesta». Arsène prese un po' di schiuma nella mano e la soffiò verso i suoi piedi. «Ad ogni modo si esibirà al Savoy e voglio andarci».
«Posso venire anche io?», domandò timidamente la ragazzina.
«Non credo che sia il tuo genere, tesoro. E poi se Maurice dovesse vederti farebbe immediatamente due più due».
«Ma...».
«Qualsiasi cosa sia, tesoro, ne parliamo domani, va bene?». Le rivolse un'occhiata apprensiva, col labbro inferiore sporgente, e aggiunse: «Vai a riposare, hai un aspetto orribile».
Geneviève strinse i pugni lungo i fianchi e si trattenne dall'urlargli contro. Se anche ci avesse provato non era sicura che avrebbe sortito gli effetti sperati: le sue corde vocali gridavano pietà, dopo le urla liberatorie di poco prima.
Lo salutò con un piccolo inchino della testa e poi, scansando gli uomini come una furia, lasciò la suite del padre per correre nella propria, dove si spogliò del vestito del funerale di sua madre, prese il proprio mp3 e con le cuffie nelle orecchie si raggomitolò sotto le coperte.
Sua madre era appena morta, quella mattina l'avevano seppellita e alla sera suo padre, anziché stare con sua figlia, preferiva andare a vedere una cantante italiana da quattro soldi con Maurice? Ma che razza di genitore era?
Forse si era offeso perché era rimasta tutto il giorno con Sherlock Holmes, ma a lei non importava. Era lei quella che stava soffrendo di più dei due, lei era l'unica che poteva permettersi di comportarsi come una bambina capricciosa. E invece Geneviève si era dimostrata quella matura: aveva voluto scacciare la tristezza col lavoro, decidendo di stare al 221B per sfruttare la pena che il suo lutto avrebbe suscitato in Sherlock e far cadere un altro strato delle sue difese (senza però riuscirci). Possibile che suo padre non l'avesse capito?
Con le lacrime che le scorrevano sul volto e la voragine che si allargava e si allargava nel suo petto, si chiese se sua madre si trovasse in un posto migliore. Di certo stava meglio di lei in quel momento, dilaniata dalla tristezza, dalla solitudine e dalla terribile scelta che presto sarebbe stata chiamata a compiere: Arsène Lupin, il padre che si comportava come un bambino, o Sherlock Holmes, l'estraneo che si comportava come un fratello?

***

Dopo la patetica e carissima interruzione causata da Ganimard - il cameriere che era stato colpito aveva voluto il doppio di quello che avevano pattuito per ritirare la denuncia - Arsène e Maurice si erano spostati al bar dell'hotel, dove avevano visto per la prima volta il manifesto che pubblicizzava lo spettacolo della Zalti.
Il Ladro Gentiluomo non aveva idea di chi fosse, ma gli era bastato guardare la locandina per capire il valore di ciò che portava al collo: una semplice catenina d'argento da cui però pendeva una magnifica perla nera.
Scusandosi con l'amico reporter, aveva fatto qualche ricerca sul proprio cellulare e aveva scoperto tutto quello che più tardi avrebbe detto a Geneviève, eccetto il suo intento: rubare quell'inestimabile gioiello per regalarlo a lei. Le sarebbe stato così bene... e forse sarebbe riuscito a riconquistare il suo affetto.
Poco prima delle ventuno, Arsène scese al bar del Savoy: un ambiente raffinato, dai toni scuri che contrastavano con le nicchie e le rifiniture dei soffitti d'oro. Il piccolo palco - giusto un rialzo di forma circolare per un pianoforte a coda, uno sgabello e un microfono - era stato allestito al centro del locale, sotto il lampadario provenzale dalla luce calda e morbida e davanti alla zona bar che risultava essere la più luminosa, grazie al neon del bancone e agli specchi e ai cristalli dell'espositore di alcolici.
Maurice si era già accomodato e aveva ordinato da bere per entrambi, conoscendo ormai i gusti di Arsène. Lo accolse accanto a sé sul divanetto di velluto grigio scuro situato in una delle nicchie dorate alla destra del palco e il suo sorriso svanì per fare spazio all'apprensione.
«Va tutto bene?», gli chiese. «Hai gli occhi così arrossati...».
Il Ladro Gentiluomo si passò una mano sul collo, imbarazzato. «Non è niente, solo un po' di shampoo», mentì, tenendo per sé il ricordo delle lacrime che aveva versato in quella vasca da bagno dopo il suo ultimo incontro con Geneviève.
La stava perdendo, gli stava scivolando via come sabbia tra le dita, e il solo pensiero gli apriva il cuore in due. Ma avrebbe rubato per lei la perla nera e tutto si sarebbe sistemato, ne era sicuro.
Nel bar calò il silenzio e dei drappeggi neri calarono davanti al bancone, rendendo l'atmosfera ancora più soffusa. Leona Zalti, avvolta in un lungo vestito nero, salì sul palco accompagnata dal suo pianista e sorrise agli spettatori mentre prendeva posto sullo sgabello e sistemava l'asta del microfono all'altezza del suo viso.
Arsène si portò il bicchiere alla bocca e bevve un sorso, giusto per umettarsi le labbra. I suoi occhi non si scostarono nemmeno per un secondo dalla perla nera, così perfetta contro la pelle diafana della cantante.
Si trattava di un gioiello davvero unico, come la sua bambina.

Alla fine dello spettacolo Arsène augurò la buonanotte a Maurice, con la promessa di rivedersi la mattina successiva a colazione, e venne raggiunto subito dal suo fedele collaboratore.
«È tutto qui dentro, padrone», esordì, consegnandogli il tablet.
«Bene, grazie».
Prima di tornare nella propria suite per studiare il piano d'azione però, si alzò dal divanetto ed allacciandosi la giacca bianca si diresse verso il retro del locale, raggiungibile tramite una porta accanto al bancone del bar.
Mostrando la giusta dose di tranquillità e sicurezza nessuno lo fermò per chiedergli dove stesse andando. Raggiunse così la stanza che era stata adibita a camerino per la signora Zalti, ma giusto prima di bussare venne sorpreso da delle grida.
«Sei solo una puttana!», gridò un uomo, per poi aprire la porta e trovarsi davanti ad un allibito Arsène Lupin.
«E lei chi diavolo è?».
Arsène riuscì a sbirciare all'interno del camerino e vide la Zalti col viso rivolto verso la parete, le spalle leggermente scosse circondate dal braccio di quella che doveva essere la sua parrucchiera-truccatrice, visti gli strumenti del mestiere che aveva nello speciale marsupio legato in vita.
«Ah, non importa!», urlò l'uomo ancor prima che potesse rispondere, furibondo.
Aveva più o meno quarant'anni, era alto e forte e dall'alito capì che aveva bevuto molto, mentre dal viso che era un'abitudine. Era un alcolista e probabilmente uno che, come effetto collaterale, diventava violento.
«Se ne vada, Leona non ha tempo per firmare autografi ora!».
Lo spinse e senza controllare che se andasse davvero si allontanò a passo pesante, stringendo i pugni lungo i fianchi e borbottando tra sé. Arsène, sempre più sconvolto ed adirato che al mondo esistessero tipi del genere, si spolverò la giacca dove l'uomo aveva osato toccarlo e poi scorse l'assistente della cantante avvicinarsi.
«Mi scusi, ma non è proprio un buon momento», gli disse con un sorriso dispiaciuto sul viso, prima di chiudergli la porta in faccia.
Il Ladro Gentiluomo rinunciò all'idea di scambiare qualche parola con Leona Zalti ed ammirare da più vicino la perla nera. Uscì dal retro del bar così com'era entrato e mentre si dirigeva verso la propria suite iniziò a leggere le informazioni contenute nel tablet: la posizione e la planimetria dell'appartamento della cantante, i nomi e le abitudini degli altri inquilini del palazzo, le persone che potevano far visita alla stessa Zalti. Queste ultime non era molte: una cugina, la sua assistente, il suo pianista e l'uomo con cui aveva avuto l'onore di interagire, niente meno che il suo manager.
In ascensore, Arsène si prese il setto nasale tra le dita e non riuscendo a resistere selezionò l'icona che gli permise di collegarsi con le telecamere che aveva fatto installare nella suite di Geneviève e che non aveva ancora tolto: la sua bambina era rannicchiata sotto le coperte e respirava lentamente, addormentata. Era così innocente, così bella... Tale e quale a sua madre.
Le porte dell'ascensore si aprirono e Arsène vi uscì, entrò nella Royal Suite e vi rimase a studiare il proprio piano fino a quando non arrivò il momento di agire.

«Chi diavolo è a quest'ora?», sbottò la voce gracchiante di una donna.
«Sono io, ma'», biascicò il ragazzo, per poi scoppiare in una risatina, con la guancia posata contro la telecamera del citofono.
«Sei il figlio della signora Harel? Michael? Santo cielo, ti sei ubriacato un'altra volta?».
«Fa freddo! E devo pisciare», piagnucolò.
La donna sospirò pesantemente e il portone del condominio si aprì con uno scatto.
«Va bene, ti apro. Ma domani mattina farò un bel discorso a tua madre! Sai che ore sono?!».
Ma il ragazzo si era già allontanato barcollando, facendo molta attenzione a non farsi inquadrare in viso dalla telecamera. Una volta al sicuro all'interno dell'androne, il ragazzo raddrizzò le spalle e si tolse il cappellino da baseball blu per sistemarsi i capelli biondo platino di Arsène Lupin.
E il primo ostacolo era stato superato fin troppo facilmente.
I suoi ragazzi avevano fatto un ottimo lavoro col background di ogni inquilino, fornendogli così la copertura perfetta da utilizzare: Michael Harel, ragazzo di vent'anni che spesso e volentieri tornava a casa ubriaco e svegliava per errore gli altri inquilini chiamandoli al citofono. Come avevano fatto a scoprirlo? Lo stupido aveva raccontato le sue disavventure più di una volta sui suoi profili social.
Grazie a Facebook, Twitter e Instagram ormai era un gioco da ragazzi per Arsène rubare l'aspetto e la voce di chiunque.
A volte pensava che il mestiere del ladro fosse il più semplice del mondo: bastavano un po' di riflessione e un po' di destrezza. Tutti avrebbero potuto farlo, tant'era facile. Un lavoro di tutto riposo, da padre di famiglia. A volte così comodo da risultare persino fastidioso.
Salì le scale senza fare il minimo rumore e raggiunse il quinto piano, dove si trovava l'appartamento di Leona Zalti.
Si era trasferita lì dopo la morte del marito, rinunciando al suo sfarzoso stile di vita pur di tenere con sé la perla nera. I tabloid avevano speculato molto su quel gioiello, sul perché non l'avesse venduto per tenersi la casa e vivere agiatamente per il resto della sua vita, e i pettegolezzi si erano spinti fino a supporre che vi fosse così legata perché era stata il regalo di un altro uomo, un amante che aveva amato più del marito defunto.
La verità non era mai venuta a galla e ad Arsène non importava: tutto ciò che voleva era mettere le mani sulla perla nera.
Il Ladro Gentiluomo osservò la porta che aveva di fronte: nulla di particolarmente complicato, ma che fare nel caso in cui il chiavistello fosse stato chiuso?
Un problema per volta, si disse ed iniziò ad armeggiare con la serratura esterna. Quando sentì lo scatto che tanto adorava piegò la maniglia e con sua enorme sorpresa la porta si aprì. La fortuna lo assisteva.
Si infilò dei copriscarpe monouso, dello stesso tipo in dotazione alla scientifica, e silenzioso come la notte percorse l'appartamento senza nemmeno dover accendere una luce. La piantina che gli avevano fornito i suoi ragazzi era molto dettagliata, perciò sapeva esattamente come fossero sistemati i mobili.
Ben presto fu davanti alla camera da letto e una volta spinta in avanti la porta si ritrovò immerso nel buio più totale. Le pesanti tende erano tirate sulle finestre, lasciando fuori anche i deboli raggi della luna, e Arsène decise di chiudere gli occhi per concentrarsi ed estendere gli altri quattro sensi.
Immediatamente percepì qualcosa di strano e il suo cuore iniziò a battere più forte, ma decise di ignorare quella sgradevole sensazione ed avanzò.
Aveva affrontato situazioni ben più pericolose e non era mai stato così agitato. Nessun pericolo lo minacciava, per questo non riusciva a capire. Che fosse il buio? O la donna addormentata a pochi metri da lui, ignara di tutto?
All'improvviso il suo piede destro si posò su qualcosa che non doveva trovarsi rovesciato sul pavimento: lo schienale di una sedia. Arsène si chinò, ancora col cuore che pulsava nelle orecchie, ed aggirò l'ostacolo, per poi trovarsi davanti ad una lampada rovesciata.
Qua si mette male, pensò, proprio mentre la sua mano tastava qualcosa che lo fece ritrarre con un grido incastrato in gola. Rimase fermo immobile per venti, trenta secondi, spaventato e col sudore che gli imperlava la fronte, sulle dita ancora la sensazione di quel contatto.
Respirò profondamente più volte per farsi coraggio e calmare i nervi, quindi stese di nuovo la mano ed accarezzò dei capelli, una fronte, il profilo di un naso, delle labbra socchiuse. Il viso di una donna, senza dubbio, e freddo come neve.
Ecco che cosa l'aveva stranito tanto appena entrato: non aveva sentito il respiro della cantante.
Ormai non c'era più nulla di ignoto e la paura scivolò via, tanto che il cuore tornò a battere regolare nel petto e Arsène si alzò per tirare fuori una piccola torcia elettrica ed esaminare il cadavere.
«Leona Zalti, morta», sussurrò, osservando il suo pallido volto sfigurato dal dolore, gli occhi vitrei spalancati.
Il suo collo e le sue spalle erano devastate da profonde ferite, da cui il sangue scuro, ormai coagulato, era sceso copioso, formando una pozza intorno al corpo. Poco lontano, l'arma del delitto: un coltello da cucina.
Appurato che non corresse alcun pericolo, accese la luce e come aveva ipotizzato trovò i segni della colluttazione avvenuta prima della morte. Non poteva fare più niente per la cantante, così si preoccupò per ciò per cui era lì: la perla nera.
La Zalti se la toglieva solo prima di andare a dormire e dato che si trovava in vestaglia e sul collo non aveva segni lasciati da una catenina strappata capì che il suo assassino doveva averla sorpresa mentre la toglieva o subito dopo, considerando che il letto non era stato disfatto. Inoltre, il fatto che non ci fossero segni d'effrazione lo portava a pensare che la donna conosceva il suo aggressore e che lo aveva lasciato entrare.
Andò al mobile da toeletta e cercò la perla tra gli altri gioielli, ma sembrava che qualcuno ci avesse già frugato. Allora si voltò verso il tavolo vicino a cui aveva rinvenuto il corpo della cantante e su di esso notò una scatola di legno intagliato, simile ad un carillon. L'aprì e all'interno trovò un semplice cuscinetto di velluto rosso su cui, col tempo, si era formata una cunetta della stessa misura della perla.
L'assassino l'aveva presa, non c'erano dubbi. Ma Arsène Lupin l'avrebbe trovata, anche a costo di trasformarsi in detective per una notte.
Si sedette sul letto e con le mani a sostenere il viso chiuse gli occhi, pensando a cosa avrebbe fatto Sherlock Holmes. 

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Capitolo 13
*** The black pearl ***


Buona domenica!
Sì, non vi state sbagliando: è passata solo una settimana dall'ultimo aggiornamento! Voglio fare questo esperimento e vedere se un capitolo a settimana può andare. Fatemi sapere :)
E dite la verità, non vedevate l'ora di vedere Arsène rivestire i panni del detective per appropriarsi della perla nera. Già, vi capisco ;-)
Ma l'attesa è finalmente terminata! Come reagirà Sherlock? Riuscirà ad impedirgli di ottenere ciò che vuole? E Geneviève da che parte starà?
Spero di aver fatto un buon lavoro (se non è così siete liberissimi di insultarmi nei commenti) e vi ringrazio per il vostro supporto continuo!
Alla prossima!

Vostra,

_Pulse_


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13. The black pearl


John, aspettando la babysitter, aveva acceso la televisione per guardare se ultimamente fosse successo qualcosa di interessante nel mondo.
Il telegiornale era già iniziato da un po', perciò le notizie più importanti se le era già perse, ma leggendo i titoli che scorrevano in sovraimpressione scoprì che quella notte era stato commesso l'ennesimo omicidio. Nulla di particolare, se non si fosse trattato di una cantante: una certa Leona Zalti - a lui sconosciuta - era stata trovata morta nel suo piccolo appartamento, colpita da ben tredici pugnalate, e la polizia pensava che fosse stato un furto finito nel peggiore dei modi per via della scomparsa della perla nera, un gioiello unico al mondo da cui lei non si separava mai.
Il dottore non ebbe il tempo di informarsi a sufficienza, distratto dal trillo del campanello: la babysitter era arrivata. Salutò la piccola Rosie ed uscì dall'appartamento per dirigersi alla fermata dell'autobus.
Una volta sul mezzo notò l'uomo seduto di fronte a lui leggere un giornale sulla cui prima pagina si parlava proprio del caso della perla nera. John assottigliò gli occhi per leggere nel dettaglio, ma l'uomo chiuse il quotidiano e se lo mise sotto il braccio per scendere dall'autobus.
All'ambulatorio si sedette dietro la propria scrivania e prima di iniziare a ricevere, dato che per una volta era arrivato in anticipo, decise di accendere il computer e andare finalmente a soddisfare la propria curiosità.
Fu allora che scoprì che giusto la sera precedente la Zalti aveva tenuto un piccolo spettacolo al Savoy Hotel, lo stesso albergo in cui alloggiava il più famoso e ricercato ladro di Francia. Coincidenza? Forse.
Da quello che Sherlock gli aveva detto, Arsène Lupin non usava mai la violenza e in tutta onestà non ce lo vedeva proprio a pugnalare una donna innocente per tredici volte. Chiunque fosse stato aveva usato una forza e una violenza che stavano ad indicare quanto fosse arrabbiato e ferito. Persino lui, che era un dottore, poteva dire che al novantanove percento si trattava di un delitto passionale.
La polizia non era stata da meno, per fortuna, e il principale indiziato era il manager della cantante, Victor Danegre, un uomo alcolizzato e violento che non aveva mai superato la fine della relazione con la Zalti.
Lo squillo del telefono lo fece sobbalzare sulla sedia e John dovette occuparsi dei pazienti in coda, chiedendosi se anche Sherlock si stesse interessando al caso.

***

«Buongiorno, il mio nome è Sherlock Holmes. Potrebbe passarmi la signorina Geneviève, stanza 312?».
«Solo un momento», rispose l'addetto al ricevimento, mettendolo in attesa.
Un lento ritornello jazz lo accompagnò per quegli interminabili due minuti e quando finalmente la musica cessò sentì nuovamente la voce del receptionist: «Non risponde al telefono, mi dispiace».
«Può riprovare tra un po' e dirle di chiamarmi? Si tratta di una questione urgente».
«Certamente, vuole lasciarmi il suo numero?».
«No, lei ce l'ha già», rispose brusco, terminando la comunicazione senza salutare.
Stava riflettendo su quale fosse la mossa migliore da fare – se attendere che lo richiamasse, perdendo tempo prezioso, oppure andare direttamente al Savoy – quando sentì qualcuno bussare alla porta del 221B. La signora Hudson andò ad aprire e la udì salutare l'ispettore Ganimard, il quale senza troppe cerimonie la lasciò per salire le scale due a due.
Arrivò col fiatone e l'odore dell'ultima sigaretta fumata ancora addosso e Sherlock non aspettò che si riprendesse prima di esordire: «Se è venuto qui per l'omicidio di Leona Zalti, non è opera di Arsène».
«No, quello no, ma il furto della perla nera sì! Non può essere una semplice coincidenza, è di Lupin che stiamo parlando!».
Sherlock scosse piano il capo, accarezzandosi così le labbra con la punta degli indici.
«C'è qualcosa di sbagliato in questo caso. Il colpevole è chiaramente il manager - geloso della relazione tra la Zalti e il pianista - ma l'assenza di prove fisiche costringerà la polizia a lasciarlo andare. È come se...».
«Che cosa?», domandò Ganimard, a fiato corto non solo per le scale ma anche per la suspance.
Sherlock si alzò dalla poltrona, dicendo: «Ho una teoria, ma ho bisogno di verificarla».
Quindi andò in camera, si cambiò e tornò da Ganimard per invitarlo a scendere le scale prima di lui. Nell'androne si infilò il cappotto ed uscì sotto una pioggerellina leggera, chiamando per sé e per l'ispettore un taxi.
«Dove andiamo?», chiese quest'ultimo.
Sherlock, rivolgendosi al tassista, rispose: «Scotland Yard».

«Chi è a capo dell'indagine Zalti?», chiese Sherlock all'agente di turno al ricevimento.
«L'ispettore Dimmock».
«Dove lo trovo?».
«Sala riunioni cinque».
«Grazie».
Ganimard aveva seguito quel botta e risposta sconcertato da quanto Sherlock Holmes contasse per le autorità: lo consideravano quasi uno di loro, tanto da rispondere a tutte le sue domande senza riserve e permettergli di andare ovunque volesse. Una cosa del genere in Francia non sarebbe mai accaduta, ma l'avrebbe preferita ad un ladro con gli stessi poteri: come un Napoleone moderno si era autoproclamato al di sopra della legge, diventando spesso e volentieri lui stesso giudice, giuria e boia.
Salirono al secondo piano e Sherlock non si fece problemi ad entrare nella sala riunioni cinque senza annunciarsi: tutti gli agenti fino ad allora rivolti verso la lavagna trasparente su cui erano raccolti i dettagli del caso si girarono e lo mangiarono con gli occhi, come se potessero fare proprie le sue straordinarie abilità deduttive solo guardandolo.
«Sherlock, che piacere vederti», esclamò quello che doveva essere l'ispettore Dimmock, un ragazzo sui tentacinque anni e di bell'aspetto, restio ad accettare l'aiuto del detective ma comunque sollevato di poter contare su di lui in casi particolarmente difficili.
«Danegre è già qui?».
Dimmock annuì con un cenno del capo. «In una delle stanze per gli interrogatori, che discute con il suo avvocato».
Sherlock si avvicinò alla lavagna, sempre seguito dalla mezza dozzina di agenti, ed esaminando attentamente le foto e gli appunti chiese: «C'è qualcosa che non avete rivelato alla stampa e che dovrei sapere?».
«Solo un fatto che nessuno riesce a spiegarsi: la notte dell'omicidio, intorno alle tre, la signora Palmer è stata svegliata dal citofono; pensava si trattasse di Michael Harel, il figlio della vicina, ancora una volta ubriaco, e gli ha aperto il portone. Questa mattina però, quando ha incrociato la signora Harel sulle scale e gliene ha parlato, ha scoperto che il ragazzo si trova a Bristol e non tornerà prima della settimana prossima. Secondo l'autopsia la Zalti è morta tra mezzanotte e mezza e l'una, perciò pensiamo che la persona che si è introdotta nel condominio non abbia niente a che fare con l'omicidio, ma è strano».
Il consulente investigativo sorrise e si voltò verso Ganimard, accorgendosi solo allora di non averlo affatto introdotto. Concluse le formalità, tornò a mostrare quell'espressione euforica di chi ha appena capito tutto.
«Non ho più niente da fare qui», esclamò senza spiegare nulla a nessuno.
Era già alla porta quando Dimmock gridò: «E Victor Danegre? Non possiamo lasciarlo andare: è stato lui! Stava per confessare, quando quel maledetto avvocato è arrivato e gli ha rivelato che in realtà non avevamo nulla in mano! Ancora un minuto e... Ah!». Si portò un pugno davanti alla bocca, adirato. «Non l'aveva nemmeno voluto, l'avvocato!».
Sherlock si irrigidì e si voltò di colpo, gli occhi di ghiaccio stretti in due fessure. «Che cos'hai detto?».
«Sì, è così! Pensa che quando si è annunciato come il suo avvocato sembrava non l'avesse mai visto in vita sua!».
«Portami da lui, subito».
Senza obiettare, Dimmock si infilò la giacca e corsero tutti e tre fino alla stanza degli interrogatori in cui era tenuto il loro sospettato. Sherlock aprì la porta e gli bastò guardarlo in faccia per capire che Danegre era senza alcun dubbio l'assassino di Leona Zalti, mentre l'avvocato... l'avvocato non era Arsène Lupin, ma d'altronde perché avrebbe dovuto occuparsi di quella faccenda in prima persona? Probabilmente tra le sue finte lauree non c'era ancora quella in giurisprudenza, o forse persino per il Ladro Gentiluomo era troppo rischioso introdursi a Scotland Yard. Non era nemmeno un uomo della sua scorta, perciò aveva ragione di credere che quello fosse un vero avvocato, assoldato da Arsène Lupin per fare in modo che Danegre non finisse in prigione.
Sherlock picchiò le mani sul tavolo e fissò i due uomini con aria minacciosa.
Si concentrò dunque sul sospettato e disse: «Lei ha ucciso Leona Zalti e ne pagherà le conseguenze, può starne certo». E poi sull'avvocato: «E lei... Se dovessi trovare delle prove che la collegano ad Arsène Lupin la farò radiare dall'albo, mi ha capito bene?».
Sortito l'effetto desiderato, il consulente investigativo uscì dalla stanza degli interrogatori e raggiunse Dimmock e Ganimard.
«Allora, ci vuoi spiegare?», sbottò il primo, con le mani sui fianchi.
Sherlock sorrise e guardò Justin, dandogli persino una pacca sulla spalla: «Avevi ragione, qui c'entra Arsène Lupin».
«Lo sapevo, lo sapevo!», esclamò l'ispettore francese, picchiandosi il pugno destro sul palmo della mano sinistra.
«Arsène deve aver visto la perla nera al concerto della Zalti al Savoy, trovandola abbastanza interessante da volerla rubare. Nel cuore della notte si è introdotto nel condominio fingendosi Michael Harel, è salito al quinto piano e si è introdotto nell'appartamento della cantante, trovandone il cadavere per primo. Devi sapere, Dimmock, che Arsène Lupin è un ladro dalle straordinarie abilità, tanto che la polizia francese, nonostante tutti i suoi sforzi, non è mai riuscita a tenerlo a lungo dietro le sbarre».
Dimmock guardò Ganimard, circospetto. «Addirittura?».
«Pensa se Sherlock Holmes iniziasse a rubare», rispose lo stesso Ganimard, col volto accartocciato in una smorfia di frustrazione. «Credi che riuscireste a catturarlo?».
Il giovane ispettore di Scotland Yard guardò Sherlock, il quale stava esibendo un inquietante  sorriso a trentadue denti. Non ci fu bisogno di risposta.
«Ad ogni modo», riprese il detective, «in quell'appartamento Arsène ha avuto tutto il tempo per investigare, scoprire il nome dell'assassino ed architettare un piano per impossessarsi della perla nera».
«Aspetta, stai dicendo che...». Ganimard si interruppe, scioccato. Ci era arrivato anche lui, alla fine. Il povero Dimmock no, purtroppo, ed incrociò le braccia al petto.
Provando tenerezza per il collega inglese, fu Justin a spiegare: «Arsène Lupin sapeva che Victor Danegre sarebbe stato l'unico sospettato della polizia - visto il tipo, Sherlock crede che avesse lasciato delle tracce nell'appartamento della Zalti, - perciò per impedire che venisse subito condannato ha ripulito la scena. Poi, temendo che potesse confessare, ha assunto un avvocato. Vuole che Danegre venga rilasciato, così da poter mettere le mani sulla perla nera».
«Non ce l'ha lui. Abbiamo già perquisito il suo appartamento, la sua auto...».
«L'ha fatto anche Arsène Lupin, senza successo. È per questo che si sta dando così da fare per tenerlo fuori di prigione: vuole la sua riconoscenza, vuole che gli dica dove l'ha nascosta». Ganimard si voltò verso Sherlock, chiedendo conferma della propria teoria. Dal sorriso che il detective gli rivolse, capì di aver fatto centro.
«Okay, allora... allora quando Danegre verrà rilasciato lo metteremo sotto sorveglianza e prenderemo due piccioni con una fava», disse Dimmock, sbrigativo.
Ganimard lo guardò con compassione, ricordando i bei tempi in cui pensava che le normali tecniche della polizia sarebbero bastate, quando ancora non sapeva di cosa fosse capace Arsène Lupin.
«Tentar non nuoce», esclamò alla fine, per poi allontanarsi al fianco di Sherlock Holmes.

***

Bussarono alla porta e Geneviève si chiuse meglio l'accappatoio prima di andare ad aprire. Si trattava dell'addetto del servizio in camera con la sua colazione e lo lasciò entrare, dicendogli di lasciare pure il carrello accanto al letto.
Rimasta sola, la ragazzina si preparò un vassoio e tornò a sedersi tra le lenzuola, davanti alla TV accesa sul telegiornale. Non si parlava d'altro che dell'omicidio di Leona Zalti e del furto della sua perla nera. Era quasi certa che fosse quello il motivo per cui Sherlock Holmes l'aveva cercata.
Quando l'addetto della reception le aveva comunicato che aveva in linea il detective che chiedeva di lei gli aveva ordinato di dirgli che non aveva risposto al telefono. A quel punto Sherlock aveva chiesto di farlo richiamare al più presto, ma Geneviève non ne aveva ancora trovato la forza.
Guardando la colazione preparata dalla squadra dello chef del Savoy ebbe una tremenda nostalgia di quella che lui le aveva cucinato qualche giorno prima, nella cucina della signora Hudson. Non era sicuramente all'altezza di quella che aveva davanti in quel momento, ma aveva messo tutt'altro sentimento nel prepararla ed era questo che le mancava. Sherlock Holmes le mancava e odiava che fosse così.
Si appoggiò alla testiera del letto con le spalle e sospirando allungò il braccio verso il comodino, raggiunse il cellulare ed inoltrò la chiamata, quindi se lo portò all'orecchio e chiuse gli occhi.
Sherlock rispose al secondo squillo e Geneviève si sentì subito meno sola al mondo, e un piccolo sorriso le increspò le labbra.
«Come facevi a sapere che avevo il tuo numero?», gli chiese, curiosa.
«Beh, è scritto sul mio blog, ma penso sia più probabile che tu l'abbia preso quando hai inviato quell'sms a Molly».
«Molto bravo. Allora, che cosa c'è?».
«Hai saputo del furto della perla nera?».
«E io che pensavo che mi avessi chiamata per chiedermi scusa...».
«Se vuoi delle scuse per quello che ti ho detto ieri, mi dispiace deluderti ma non le avrai».
Geneviève richiuse gli occhi, celando le lacrime. Era stato un ultimo, disperato tentativo.
«Allora, la perla nera?».
«Sì, ho sentito. Ne parlano su tutti i canali in TV. È stato il manager, vero?».
«Sì, ma non ci sono abbastanza prove per incriminarlo. Tuo padre voleva rubare la perla nera, ma è stato preceduto. Adesso sta impedendo alla giustizia di fare il suo corso e ho bisogno che tu gli parli».
«Che stai dicendo? Quale interesse avrebbe mio padre nel proteggere un assassino?».
«Vuole la perla nera e l'unico modo per sapere dove si trova è far uscire Danegre da Scotland Yard».
La ragazzina pensò che aveva un senso, ma se avesse aiutato Sherlock Holmes sarebbe andata ancora una volta contro suo padre e non voleva peggiorare ulteriormente il loro rapporto, ultimamente così precario. Doveva prendere tempo e pensare ad un modo per non deludere entrambi.
«Non so dove sia, al momento. È da ieri sera che non esco dalla mia camera».
«Sei per caso in punizione?».
«Isolamento volontario
».
«A volte sei tale e quale a lui».
«Ascolta... proverò a parlare con mio padre, ma non ti assicuro nulla».
«Va bene, grazie».
«Ti scrivo più tardi. Ciao».
Geneviève terminò la comunicazione e lanciò il cellulare sul letto, poi bevve un po' di cioccolata calda e dopo aver digitato il numero della Royal Suite di suo padre si portò la cornetta del telefono fisso all'orecchio.
Davvero a volte era tale e quale a suo padre? Non sapeva se prenderlo come un'offesa o un complimento, non ancora.
Rispose un uomo della sua scorta, il quale le spiegò che il signor Lupin era a fare colazione al Thames Foyer.
A quel punto le toccò scendere dal letto e vestirsi. La sera precedente non aveva cenato, perciò mangiò frettolosamente una forchettata di tutto e si infilò nello zainetto una mela e un mandarino, poi uscì dalla stanza. La sua guardia del corpo la seguì nell'ascensore e poi fino alla sala da té, ma si fermò con lei sulla soglia quando si accorse che seduto allo stesso tavolo di suo padre c'era un ragazzo di nemmeno trent'anni, coi capelli castani sollevati sulla fronte, gli occhi scuri nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura squadrata e il volto perfettamente rasato. Doveva trattarsi di Maurice Leblanc, il giornalista de L'Ècho de France, e Geneviève non se l'era affatto immaginato così carino.
Arrossì al solo pensiero e si girò verso l'uomo della sicurezza per dirgli di andare a chiamare suo padre. Il giorno prima le aveva detto che non sarebbe stato prudente farsi vedere insieme davanti a Maurice, per questo non poteva raggiungerlo di persona.
Appoggiata dietro una colonna, aspettò pazientemente.
Arsène non disse nulla quando le posò una mano sulla nuca per avvicinarle il viso e posarle le labbra sulla fronte, in un bacio delicato.
Geneviève chiuse gli occhi a quel contatto e respirò profondamente con le mani sul suo petto. Non poteva fornire a Sherlock prove della sua colpevolezza, non poteva.
«Come stai, tesoro?», le domandò, scostandosi per guardarla e sistemarle una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Adesso molto meglio, grazie».
Suo padre sorrise dolcemente. «Mi fa piacere. Perdonami se ieri sono risultato scostante, non ero in me».
«Tranquillo, capisco. Io...». Non poteva nemmeno ignorare la situazione però. Voleva sapere se era davvero come pensava, voleva soddisfare la propria curiosità.
«Sì?».
«Ecco, mi chiedevo se c'entri qualcosa col furto della perla nera».
Arsène corrugò la fronte e si portò un dito sulle labbra. «Il furto della perla nera, dici? Uhm, no, purtroppo non è opera mia». Quindi tornò a sorridere e le chiese: «C'è altro? Dovrei tornare da Maurice».
La ragazzina scosse il capo, sforzandosi di ricambiare il sorriso. «Sembra un tipo simpatico».
«Lo è. Ed è un vero peccato che non possa presentarvi, sono certo che sareste andati d'accordo».
Un silenzio imbarazzato calò tra di loro e Geneviève ebbe un'ulteriore conferma che le stesse nascondendo qualcosa. Delusa dal suo comportamento, chinò il capo e strinse le mani intorno alle fibbie dello zainetto che portava sulle spalle.
«Stai uscendo, tesoro?», le domandò il padre ad un tratto. «Posso sapere dove vai?».
«Ahm... pensavo di andare a casa a prendere alcune cose. Vestiti, libri... cose così».
Il volto di Arsène si distese. Aveva bevuto la sua bugia.
«Ma certo. Vuoi che uno dei miei ragazzi ti accompagni con l'auto?».
«No, preferisco prendere i mezzi. Grazie comunque».
Il Ladro Gentiluomo le passò di nuovo la mano tra i capelli e la salutò, poi tornò nella sala da té e si risedette di fronte a Maurice, scusandosi. Il ragazzo sorrise e Geneviève arrossì di nuovo, così distolse lo sguardo e senza più guardarsi indietro uscì dall'hotel. Si infilò il cappellino di lana e camminò per una decina di metri sotto quella fine e fastidiosa pioggerellina, poi girò l'angolo e tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappottino azzurro.
«Ha detto che il furto della perla nera non è opera sua», affermò non appena Sherlock rispose, senza nemmeno dargli il tempo di salutare.
«In un certo senso è vero. Ganimard ed io abbiamo intenzione di pedinare lui e i suoi uomini: è possibile che non appena Danegre sarà fuori lo avvicinino per interrogarlo».
«Siete solo in due, come pensate di riuscirci?».
«Ci stai per caso offrendo il tuo aiuto?».
Geneviève si portò le dita alla bocca e mangiucchiandosi l'unghia del pollice pensò, pensò in fretta. Alla fine rispose: «Ad una condizione: lasciate a me mio padre».
Sherlock rimase in silenzio, tanto a lungo che la ragazzina capì che se non avesse aggiunto qualcosa non gliel'avrebbe mai permesso.
«Per favore, Sherlock. Devi fidarti di me».
A quelle parole il detective sospirò e Geneviève sorrise: ce l'aveva fatta.
«Grazie», squittì prima di chiudere, stringendo il cellulare al petto ed alzando gli occhi verso il Savoy giusto in tempo per vedere suo padre e Baffoni uscire dalle porte girevoli. Stavano aspettando l'auto.
Geneviève non poteva permettere che se andassero, non senza un mezzo con cui seguirli. Si guardò intorno e legata ad un palo dall'altra parte della strada vide una bicicletta. L'idea di pedalare non la entusiasmava, ma al momento era l'unica opzione.

***

Era da poco passata l'ora di pranzo quando Victor Danegre venne rilasciato per mancanza di prove. Sarebbe dovuto essere impossibile, eppure era libero. Niente sbarre, niente manette ai polsi. Solo l'insostenibile peso della sua coscienza sporca di sangue.
Fuori dalla sede principale di Scotland Yard si guardò intorno, chiedendosi che cosa avrebbe dovuto fare ora della sua patetica vita: aveva ucciso la donna che amava, la cantante per cui lavorava... Qual sarebbe stato il suo scopo, ora?
Disorientato, decise di fare quello che gli aveva detto l'avvocato che l'aveva fermato ad un passo dalla confessione.

«Posso rimanere da solo con il mio cliente?».
L'ispettore Dimmock lo fissò in cagnesco, poi si alzò ed uscì dalla stanza degli interrogatori sbattendosi la porta alle spalle.
Victor guardò l'uomo in piedi accanto a sé, dal vestito firmato e la schiena dritta, tirare fuori dal taschino un fazzoletto e tamponarsi la fronte sudata. Ora che l'ispettore non poteva vederlo, tutta la sua agitazione si palesò e Victor ne fu impressionato: non era lui quello che rischiava l'ergastolo?
«Lei chi è?».
«Il suo avvocato».
«Ma io non ho chiesto nessun avvocato! Non posso permettermelo!».
L'uomo si sbottonò la giacca e si sedette al suo fianco, sospirando. «Sono stato assunto da una persona che non vuole che lei finisca in prigione».
«Chi è questa persona? Che cosa vuole da me?».
«Sono due domande di cui io non ho le risposte». L'uomo, con la pelle color dell'ebano e profondi occhi scuri, gli posò una mano sulla spalla e aggiunse in tono perentorio: «Tutto quello che deve fare è rimanere in silenzio e lasciar parlare me. Quando sarà fuori di qui – e succederà presto, mi creda – andrà a casa e non si muoverà da lì fino a quando non riceverà delle visite. Ci siamo capiti?».
Victor non poté far altro che annuire, sentendosi peggio che dietro le sbarre.

Lentamente si diresse verso casa, col cuore pesante come piombo che gli rimbombava nelle orecchie e la sensazione di essere osservato non solo dalla volante della polizia che procedeva a passo d'uomo dietro di lui, ma da chiunque incontrasse sul suo cammino. Continuava a guardarsi alle spalle, ma nessuno lo stava seguendo.  
Alla fine quella sensazione si fece così opprimente che corse per gli ultimi due isolati, aprì il cancello con mano tremante e poi la porta di casa, trovandola messa a soqquadro dalla polizia. L'ordine era l'ultimo dei suoi pensieri, al momento.
Si chiuse dentro a chiave e dalla cucina prese un coltello simile a quello con cui aveva massacrato la povera, dolce Leona. Era colpa sua, tutta colpa sua! Se non l'avesse mai lasciato, se non fosse andata a letto con David!
Si sedette sul divano, rivolto verso la porta, e col coltello stretto in mano attese come gli era stato detto di fare.
Passò mezz'ora, un'ora e poi un'ora e mezza. Due ore dopo, finalmente, una voce lo sorprese alle spalle, facendolo trasalire.
Victor si alzò dal divano e puntò il coltello verso il corridoio, da dove un uomo avvolto in un lungo cappotto grigio si stava osservando le unghie della mano destra, la spalla addossata contro la parete. Quando sollevò lo sguardo, solo allora lo riconobbe: era lo stesso uomo in cui si era imbattuto la sera prima, fuori dal camerino di Leona.
«Lei... Lei!».
«Io», ripeté l'uomo biondo, portandosi una mano sul petto con un sorriso divertito sul volto, uno di quei sorrisi che contagiavano anche gli occhi.
«È lei che ha ingaggiato quell'avvocato? Perché? Che cosa vuole da me?».
«Mi sembrava abbastanza ovvio... la perla nera».
Victor forzò una risata, abbassando il coltello. «Può cercare ovunque, non la troverà!».
«L'ho già fatto, questa notte», ammise tranquillo, staccandosi dal muro per avvicinarsi.
Danegre risollevò il coltello, ricevendo un'occhiata di disprezzo dal biondo.
«Non è in questa casa, ma sono certo che l'ha presa lei. Non so se per sviare le indagini o per togliere anche quella alla donna che un tempo amava, ma non è importante... Voglio la perla nera, Danegre, e l'avrò».
La sua aura autoritaria e la determinazione nei suoi occhi ora non più ridenti lo fecero tremare come una foglia. Tuttavia l'ex-manager si impose un certo contegno e rinsaldò la presa sul coltello.
«Anche se sapessi dov'è, come pensa di convincermi a rivelarglielo?».
L'uomo abbassò il capo e col naso stretto tra le dita lo esaminò da capo a piedi, girandogli intorno. «Per esempio, potrei riportarla a Scotland Yard e fare in modo che non ne esca più».
«Non può farlo. Non possono arrestarmi, senza...».
«Senza prove?», lo interruppe, fermandosi di nuovo di fronte a lui. Quindi infilò una mano nella tasca interna del cappotto e tirò fuori un coltello da cucina, chiuso in un'ermetica busta trasparente.
«Lo riconosce? E vede il sangue che c'è sopra? È una prova piuttosto incriminante...».
Danegre, ad occhi sgranati, balbettò: «Ma non può... Come...?».
«Non basta?», esclamò con voce soave l'uomo biondo. Dalla stessa tasca interna tirò fuori un'altra busta di plastica, quella volta più piccola, contenente un bottone. «Era nella mano della vittima... deve averglielo strappato dal gilet durante la lotta, quello che ha messo nel cesto della biancheria sporca in bagno». Il suo sorriso si allargò, soddisfatto. «Ho controllato».
«Questo... questo non prova niente. Eravamo amanti, potrebbe avermelo strappato nella foga della passione...».
Il volto dell'uomo si accartocciò in un'espressione di puro disgusto. «Per favore, lo sanno tutti che tra voi non c'era più quel tipo di passione da molto, molto tempo. Leona aveva voltato pagina, mentre lei... lei non sopportava che stesse con un altro, dico bene? Stava frequentando David, il pianista. Ha iniziato a molestarla da quando l'ha scoperto, ma non c'era molto che potesse fare, dato che era lei che le dava da mangiare... Ogni giorno era sempre più frustrato ed addolorato, così cercava sollievo nell'alcool, senza rendersi conto che peggiorava solo le cose. Ieri deve essere arrivato al limite: è andato da lei con l'intento di convincerla a tornare insieme e il suo ennesimo rifiuto è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ha preso un coltello dall'espositore in cucina, l'ha rincorsa fino alla camera da letto e l'ha colpita... tredici volte. Tredici...». L'uomo biondo rabbrividì, coi pugni stretti lungo i fianchi, e quando tornò a guardarlo negli occhi c'era odio puro nei suoi. «Poi, quando finalmente la furia omicida è cessata e si è reso conto del terribile atto commesso, ha lasciato cadere il coltello, si è appoggiato alla parete alle sue spalle e ha iniziato a pensare a come tirarsi fuori da quella situazione. Non poteva però, nella sua piccola e perversa mente c'era il vuoto più totale».   
Chi era quell'uomo? Come poteva sapere tutte quelle cose, come se fosse stato lì presente? Solo il diavolo avrebbe potuto sapere certi dettagli. Sì, quell'uomo era il demonio ed era venuto per trascinarlo con sé all'Inferno.
Il biondo tirò fuori il cellulare dalla tasca del cappotto, dimostrando così di essere perlomeno in parte umano, e gli mostrò una fotografia: uno sfondo bianco, su cui spiccavano delle impronte digitali color cremisi. Le sue.
«Ho avuto la gentilezza di rimuovere anche queste dal muro, ma non mi ringrazi», esclamò, mettendo via il cellulare. «Allora, ha capito la situazione? Lei finirà in prigione, se non mi dirà dov'è la perla nera».
Victor sentì la stretta di catene invisibili intorno al busto e capì che non aveva via di scampo: non voleva finire in prigione, non più ora che aveva riacquistato la libertà. Bastava davvero consegnare a quell'uomo la perla nera per dimenticarsi di quella faccenda?
«Ho la sua parola?», mormorò, trovando il coraggio di guardarlo negli occhi.
L'uomo biondo non si mosse: non era lui quello che doveva accettare compromessi.
L'ex-manager sospirò e confessò: «C'è una tabaccheria, non lontano dall'appartamento di Leona. Avevo finito le sigarette, perciò...».
«La perla nera, Danegre», lo riportò in carreggiata a denti stretti.
«Sì, ehm... Accanto al distributore c'è una grondaia a forma di drago. Ho avvolto la catenina intorno alla cresta ed infilato la perla nella bocca, in modo che non si vedesse».
L'uomo lo fissò, forse per assicurarsi che gli avesse detto la verità, ed estrasse di nuovo il cellulare per inviare un sms.
«E ora... ora che si fa?», osò domandare Victor, tremante.
L'uomo biondo gli sorrise e si accomodò sul divano, accavallando le gambe. «Ora aspettiamo».

***

Il cellulare le vibrò nella tasca del cappottino e Geneviève si abbassò sotto la finestra, imprecando a mezza voce. Sapeva che avrebbe corso un rischio del genere quando gli aveva mandato quel messaggio, un paio d'ore prima, ma non pensava che sarebbe stata nei guai fino a quel punto.
Aveva seguito suo padre, mantenendo la parola data a Sherlock: la maggior parte della mattinata l'aveva trascorsa in un centro commerciale, facendo acquisti nei negozi più disparati, poi aveva preso un milkshake ed era risalito in auto.
Un'altra pedalata e si era ritrovata nascosta dietro uno degli alberi del cimitero in cui era seppellita sua madre. Arséne aveva comprato dei fiori e si era inginocchiato davanti alla lapide, trasferendo un bacio dalle sue dita al nome inciso sul marmo bianco.
Geneviève era troppo lontana per sentire cosa le stesse dicendo, ma dal modo in cui i suoi occhi ridenti si erano velati di lacrime aveva avvertito una stretta al cuore. E ancora una volta si era sentita tremendamente in colpa per il pedinamento.
Era stato allora che si era detta che doveva sì scoprire la verità sulla perla nera, ma doveva anche proteggere suo padre dalle manette. Gli aveva mandato così un sms, dicendogli che Sherlock Holmes l'aveva contattata per chiederle aiuto e che le aveva anche rivelato che lui e Ganimard avrebbero tenuto d'occhio i suoi uomini.
La sua reazione non era stata né sorpresa né infastidita, solamente rassegnata. L'aveva già messo in conto, probabilmente.
Le aveva  risposto subito dopo, scrivendole: "Grazie per l'avviso, tesoro. Potrei aver bisogno di te più tardi, mi farò sentire."
La ragazzina si era immediatamente pentita della sua mossa, ma non poteva più tornare indietro. Aveva continuato a seguirlo, pregando perché non la contattasse, ma ormai avrebbe dovuto saperlo che non c'era nessuno dall'altra parte ad ascoltare.
Geneviève rilesse il messaggio appena ricevuto, col quale suo padre le chiedeva di recarsi alla tabaccheria vicino all'appartamento di Leona Zalti. Non le andava di lasciare il suo posto sotto la finestra del salotto, da cui era stata in grado di assistere a tutta la conversazione tra Arsène e quell'assassino, ma a causa del messaggio che lei stessa gli aveva inviato quella mattina sapeva di essere l'unica in grado di aiutarlo. Non poteva deluderlo.

Sto tornando adesso da Brixton, dammi venti minuti.

Respirando profondamente inviò il messaggio e tornò alla bici che aveva lasciato sul retro della casa, sotto il piccolo balcone da cui suo padre era riuscito a penetrare nelle casa. Era sempre stato in quella camera da letto, in attesa che Victor Danegre venisse rilasciato da Scotland Yard, e nella sua posizione zen aveva fatto trascorrere altre due ore prima di annunciarsi all'uomo.
Il perché di tutta quell'attesa lo capì in parte solo quando scorse l'auto della polizia appostata davanti alla casa: probabilmente, essendo ancora l'unico indagato, dopo il rilascio Scotland Yard aveva deciso di far pedinare Denagre. Ma perché attendere altre due ore? Che fosse una tecnica di logoramento psicologico?
Inforcò la bicicletta e pedalò a più non posso, sudando tutte e sette le proverbiali camicie. Arrivò davanti alla tabaccheria con ben cinque minuti d'anticipo e scrisse un nuovo sms a suo padre:

Ci sono. Adesso?

La risposta non tardò ad arrivare, ma Geneviève dovette rileggerla un paio di volte, confusa. Aveva scritto un'unica parola - "Grondaia" - e solo alzando gli occhi riuscì a capire: voleva che ci guardasse dentro. Se davvero Danegre aveva nascosto lì dentro la perla nera...
Entrò nella tabaccheria, trovando dietro lo striminzito bancone un uomo che pareva avere cent'anni, tant'era rugosa la sua pelle. Stava appendendo ad un filo di nylon steso sopra la sua testa una serie di fisarmoniche di gratta e vinci, ma sembrava in difficoltà.
«Posso aiutarla?», domandò Geneviève candidamente, attirando su di sé i suoi occhi scuri, enormi dietro i fondi di bottiglia che aveva come occhiali.
«Cosa vuoi in cambio?», berciò il vecchio.
«Solo che mi presti una scala. Va bene anche una sedia, se non ce l'ha».
Il proprietario della tabaccheria la fissò a lungo, poi scrollò le spalle e le fece segno di passare aldilà del bancone, dove Geneviève si arrampicò per appendere l'esposizione di gratta e vinci. Una volta terminato - le ci vollero cinque minuti - il vecchio mantenne la parola data e le prestò una scaletta. La ragazzina la portò fuori, in corrispondenza della grondaia a forma di drago, e sotto lo sguardo sempre più confuso dell'anziano vi salì. All'interno Geneviève vide subito la perla nera, penzolante come se si trattasse dell'ugola del drago, ma non poteva estrarla davanti a lui: se l'avesse vista, il proprietario della tabaccheria avrebbe subito avvisato le autorità. Doveva fare in modo che si allontanasse.
«Ehi ragazzina, allora? Che stai facendo?».
Geneviève non aveva più tempo per pensare ad altro, perciò finse di scivolare e di cadere a terra. Urlò, portandosi il ginocchio al petto, e il vecchio, pallido come un lenzuolo, le si chinò subito accanto.
«Mio Dio, ti sei fatta male?».
«Non lo so...».
«Aspetta qui, dovrei avere del ghiaccio istantaneo nella cassetta del pronto soccorso».
La bionda annuì ed aspettò che l'anziano rientrasse, quindi saltò di nuovo sulla scaletta, slacciò la catenina, la districò dalla cresta di metallo ed estrasse il gioiello. Se lo infilò subito nella tasca del cappottino, ma non fece in tempo a tornare seduta a terra. L'uomo la sorprese in piedi e Geneviève gli sorrise, con una mano sulla gamba.
«Credo che non sia nulla di grave», esclamò, poggiando il piede a terra ed alternando il peso da una gamba all'altra. «Sì, è solo una botta».
«Sei sicura? Non vorrei che... insomma...».
La ragazzina capì qual era la sua più grande preoccupazione e lo rassicurò: «Ma no, non la denuncerò! Sono stata io a chiederle la scala! Mi era sembrato di vedere un nido nella grondaia...».
Il vecchio le sorrise, molto più rilassato, e con la busta del ghiaccio in mano fece per riprendere la scaletta. Geneviève si scusò per il disturbo, ma prima di tornare alla bici decise di sfruttare la situazione per una piccola voglia improvvisa. Il proprietario della tabaccheria non osò negargliela.
«Arrivederci e mi scusi ancora!», lo salutò con la mano mentre scartava il lecca-lecca sferico e se lo portava alla bocca.
L'anziano ricambiò e la guardò pedalare via, ignaro che nella sua grondaia fosse stata nascosta la perla nera.

Geneviève aveva pedalato ancora più forte, ma dopo aver inviato a suo padre il messaggio con cui l'aveva avvisato di avere la perla nera avrebbe dovuto immaginare che non avrebbe fatto in tempo a vederlo congedarsi da Victor Danegre.
Col fiato grosso aveva mollato la bici dietro l'angolo e aveva attraversato un paio di giardini di corsa, aggirando aiuole e saltando cespugli. Tutta quella fatica per nulla: suo padre se n'era già andato, ma l'assassino era ancora lì nel suo salotto, impunito.
Perché aveva pensato diversamente? Sperare che suo padre lo avrebbe portato comunque davanti alla giustizia aveva soltanto reso la sua delusione più cocente.
Quindi era questo che intendeva dire sua madre? Quando Arsène Lupin voleva qualcosa se la prendeva, giusto o sbagliato che fosse, abbassandosi persino a contrattare con un assassino.
Geneviève infilò una mano nella tasca del cappottino e le sue dita sfiorarono la superficie liscia e fredda della perla nera, un gioiello che per anni era stato al collo di una donna che ora era morta.
Rabbrividì e ritrasse la mano, non volendo più toccare quell'oggetto per lei privo di valore eppure così pesante nella sua tasca. Non voleva che diventasse il suo diamante azzurro, perciò recuperò il cellulare con l'intenzione di chiamare Sherlock Holmes.
Solo quando le rispose la ragazzina realizzò che non poteva chiedere il suo aiuto: sarebbe stato come consegnargli suo padre su un piatto d'argento.
«Geneviève? Mi senti? Rispondimi».
«Sì, scusami... Ho sbagliato numero», disse frettolosamente e riagganciò.
Respirando profondamente per calmare l'agitazione si infilò le cuffiette nelle orecchie e con la musica ad assordare ogni suo pensiero tornò finalmente al Savoy, dove suo padre la stava sicuramente aspettando per accertarsi di persona dell'autenticità della perla nera.

***

Ganimard aveva già fumato diverse sigarette quando Sherlock scese dal taxi.
«Allora?», esclamò subito il francese, ansioso.
Il detective non pronunciò una sola parola, non ce n'era bisogno: era stato un disastro su tutti i fronti.
Forse, se avesse seguito il semplice piano di Ganimard anziché complicarsi la vita coinvolgendo Geneviève, le cose sarebbero andate diversamente. Ma non poteva confessarlo all'ispettore francese, a cui aveva solo detto che avrebbero lasciato il pedinamento di Arsène Lupin ad un suo uomo di fiducia. Ora doveva subirsi la ramanzina in silenzio, consapevole di essere stato lui la sola ed unica causa del fallimento. Ancora una volta i sentimenti gli avevano impedito di essere obiettivo.
Ganimard però lo sorprese e rimase in silenzio, seduto sul divano con le mani sul viso e i gomiti puntati sulle ginocchia. Dava ancora l'impressione di avere tutto il peso del mondo sulle spalle.
«Non posso più rimanere qui», affermò ad un tratto, guardando il pavimento.
Sherlock, seduto sulla propria poltrona, lo fissò senza capire. «Di che cosa sta parlando?».
«Devo tornare a Parigi. Le mie figlie...».
«Quanti anni hanno?».
«Undici e sette. Perché vuoi saperlo?».
Il detective scrollò le spalle e rispose: «Sono abbastanza grandi per capire qual è il suo lavoro. Spieghi loro la situazione e rimanga, ho bisogno di lei».
«Non posso farlo», ruggì, alzandosi. «Le mie bambine sono intelligenti e capiscono perché io voglia catturare Lupin, ma vogliono anche che il loro papà ci sia, nel week-end in cui posso vederle. Tu forse non riesci a capire perché non hai figli, ma essere genitori vuol dire fare sacrifici, mettere da parte ciò che riteniamo importante per ciò che invece è fondamentale: il loro amore».
Il suo sguardo era fiero e determinato, come l'aveva visto in pochissime occasioni, e Sherlock abbozzò un sorriso.
«Che cosa c'è?».
«Allora c'è qualcosa, oltre alla cattura di Lupin, per cui desidera ancora vivere».
Ganimard, ricordando la conversazione che avevano avuto al bar del suo hotel, in cui era persino arrivato a dire che avrebbe ucciso il ladro prima di spararsi, ricambiò il sorriso.
«Già, penso di sì».
Sherlock Holmes si alzò e gli andò incontro con la mano tesa. Justin Ganimard l'afferrò e la scosse con decisione.
«Farò tutto il possibile», promise il consulente investigativo.
L'ispettore francese annuì. «Ne sono certo. Au revoir, ragazzo».

***

Geneviève trovò suo padre al bar dell'albergo, solo.
Seduto su un divanetto di velluto grigio in una nicchia dorata, con le gambe accavallate, un bicchiere di cristallo nella mano destra e lo sguardo assorto rivolto verso il soffitto, sembrava la raffigurazione di un angelo - Lucifero forse: il prediletto, il caduto.
Si avvicinò con cautela e non appena la vide Arsène si alzò e con movimenti febbrili la fece sedere al suo fianco.
«Tesoro, mi dispiace averti coinvolta ma il ficcanasare di Sherlock e Ganimard mi ha costretto», esordì, sembrando davvero mortificato.
Geneviève abbassò il capo, le mani strette tra le gambe. «Non c'è problema, sono contenta di esserti stata d'aiuto».
Suo padre non aggiunse altro e lei neppure. L'imbarazzo crebbe fino a quando il Ladro Gentiluomo non si schiarì la gola, stendendo una mano verso di lei.
«Oh, già», mormorò la ragazzina, infilando la mano in tasca per estrarre la perla nera. Arsène la prese con entrambe le mani, accarezzando il dorso della sua, e poi osservò il gioiello con occhi brillanti.
«È bellissima», sussurrò ad un tratto, sollevando di nuovo lo sguardo su di lei per aggiungere: «Come te, piccola mia».
Geneviève arrossì violentemente e rischiò di strozzarsi con l'aria che respirava.
«Volevo che fosse una sorpresa, ma...».
Con fare quasi impacciato, ben lontano dalla sicurezza che dimostrava in qualsiasi altra situazione, suo padre tirò fuori da sotto il cappotto, piegato accuratamente sul bracciolo del divanetto, una custodia di velluto rosso. L'aprì e vi posò con cura la collana con la perla, per poi girarla verso di lei e porgergliela.
Solo allora Geneviève capì: si era dato tutto quel disturbo - risolvendo un omicidio, facendo uscire il colpevole da Scotland Yard e contrattando con lui - solo per impossessarsi della perla e regalargliela.
«Perché?», balbettò con gli occhi lucidi di lacrime. «Mi hai già dato il tuo regalo di compleanno».
«Lo so, tesoro. Ma questi ultimi giorni... sono stati difficili per te, quindi pensavo che un regalo ti avrebbe risollevato il morale».
La sua espressione scioccata doveva essere stata eloquente, perché Arsène scosse il capo e si avvicinò un po' di più per avvolgerle un braccio tra le spalle e stringerla a sé, con le labbra contro la sua tempia.
«Perdonami, non è la verità», confessò. «Vedendoti trascorrere tutto quel tempo con Sherlock temevo che ti fossi stancata di me, così ho deciso di dimostrarti di cosa sono capace».
Geneviève era impressionata, davvero. I suoi sospetti alla fine si erano rivelati corretti: si era davvero ingelosito, senza capire le sue reali motivazioni.
Si scostò quel tanto che le bastava per guardarlo negli occhi e con un sorriso umido disse: «Come hai potuto pensare una cosa del genere? Io non potrò mai stancarmi di te, te l'ho già detto. E l'unico motivo per cui ho chiesto di poter stare con Sherlock, dopo il funerale, era per distrarmi: non volevo piangere o stare a deprimermi e ho pensato di poter sfruttare il momento per scoprire qualcos'altro su di lui».
«Ti sei gettata sul lavoro, come si suol dire», esclamò Arsène, colpito.
La ragazzina chiuse il cofanetto e lo spinse di nuovo verso suo padre, dicendo: «Non ho mai avuto niente di valore e non mi importa. Tutto ciò che desidero è il tuo affetto e la tua fiducia». Quindi, spinta da un irrefrenabile desiderio di sdolcinatezze, affondò il viso nel suo petto e lo strinse forte.
Arsène impiegò qualche secondo per ricambiare l'abbraccio, preso in contropiede. Quando lo fece però si sentì sia al settimo cielo che nelle profondità del Tartaro. Era questo, essere genitori? Pensare di fare la cosa migliore e sbagliare, sbagliare ripetutamente? Come padre non era decisamente all'altezza, soprattutto per via della scarsa fiducia che le concedeva.
Aveva trascorso tutta la vita da solo, a difendersi da tutto e da tutti per mantenere la propria libertà, e comportarsi  alla stessa maniera con sua figlia non gli sembrava giusto, ma allo stesso tempo non riusciva a fare diversamente.
Il brontolio dello stomaco della ragazzina fece incrociare di nuovo i loro sguardi e risero insieme prima di scostarsi l'uno dall'altra.
«Sarà meglio che vada a mangiare qualcosa. Non ho proprio avuto tempo, oggi», spiegò Geneviève.
«Ma certo tesoro, vai pure. Ma niente schifezze, okay?».
Lei fece una pernacchia - desiderava moltissimo hamburger e patatine - ma per lui ne avrebbe fatto a meno. Si alzò dal divanetto e dopo un paio di passi soltanto si girò di nuovo, fissando il padre con incertezza.
«Che cosa c'è?», le chiese Arsène, vedendola esitare.
Geneviève abbassò il capo, dondolandosi sui talloni. «C'è una cosa che mi tirerebbe su di morale».
«Ah sì? Di che si tratta?», domandò incuriosito, lasciando il bicchiere ormai vuoto sul tavolino di vetro nero.
Guardò la figlia avvicinarsi e le porse l'orecchio perché vi sussurrasse la sua risposta. Quando si scostò, assunse l'espressione imbronciata di un bambino.
«Pensavi davvero che gliel'avrei fatta passare liscia?».
Al che gli occhi di Geneviève brillarono. «Lo farai davvero?».
Arsène si portò una mano sul cuore e le fece l'occhiolino. «Assolutamente».
«E la perla nera?».
«Beh...». Il Ladro Gentiluomo tentennò, diviso tra il desiderio di aggiungerla alla propria collezione oppure usarla per incastrare Victor Danegre, ma gli occhi pieni di speranza della sua bambina lo convinsero a dire: «L'ho presa per te, perciò se non la vuoi farò in modo che finisca al parente più prossimo di Leona Zalti: sua cugina».
Geneviève si chinò per baciarlo sulla guancia, sussurrando un semplice quanto significativo: «Grazie». Davvero bastava così poco per renderlo così felice?
Arsène la guardò andare via, quella volta per davvero, ed attirò l'attenzione del cameriere perché gli portasse un altro drink. Qualche minuto dopo venne raggiunto dal suo fidato amico.
«Domani Victor Danegre verrà accusato di omicidio e furto», esclamò serio. «Sai cosa devi fare».
«Non gliel'avete detto, vero?».
Il ladro alzò lo sguardo, indispettito dal tono accusatorio della sua voce. I suoi occhi gentili però gli impedirono di rispondere sgarbatamente: si limitò a sospirare, arrendevole.
«Non ci sono riuscito. Forse sono troppo ansioso... Ha quindici anni ed è una ragazza curiosa, magari...».
«Le ha mentito, padrone. Le ha detto che sarebbe andata all'appartamento di Brixton e invece l'ha pedinata per tutto il giorno: il GPS sul suo cellulare non mente».
Arsène si portò una mano sugli occhi, combattuto come lo era stato poche volte in vita sua.
«Però mi ha aiutato a recuperare la perla, quando gliel'ho chiesto. Questo dovrà pur contare qualcosa!», sbottò, mentre i dubbi tornavano a bussargli contro le pareti del cranio. Per fortuna poté azzittirli con l'alcool.
Quando il cameriere si fu allontanato, l'amico aggiunse: «È un gioco pericoloso, padrone: farla avvicinare in questo modo a Sherlock Holmes, lasciarle la libertà di scegliere... Sta rischiando molto».
«Credi che non lo sappia?», domandò, pacato ma inflessibile. «Forse ti stai dimenticando che è mia figlia, non la prima ragazzina incontrata per caso. Per quanto io ci provi ad essere prudente, a prendere tutte le precauzioni possibili... sarò sempre esposto di fronte a lei. Non può essere diversamente, dopotutto».
«Essere esposti è un conto», insistette l'uomo. «Lasciarsi abbindolare è un altro».
Arsène alzò di nuovo lo sguardo, oltraggiato. «Abbindolare?», ripeté. «Abbindolare, hai detto? Come osi...?».
«Sherlock Holmes voleva l'aiuto di Geneviève per convincerla a consegnare Danegre alla giustizia, dico bene? Non le sembra sospetto che ora...».
«Quell'uomo ha ucciso una donna innocente! L'ha accoltellata tredici volte, santo cielo!», gridò a bassa voce interrompendolo, rosso come un peperone. «Merita di essere messo in una cella e che la chiave venga buttata nel Tamigi, come minimo! È in momenti come questi che rimpiango la cara, vecchia ghigliottina».
«E la perla nera? Che bisogno c'è di rinunciarvi?».
Arsène abbassò il capo, colpito. A questo non sapeva darsi una risposta nemmeno lui. Che fosse anche questo, essere genitori? Fare dei sacrifici per amore dei propri figli? Dei sacrifici molto preziosi e rari.
Con espressione delusa, l'amico concluse: «L'Arsène Lupin che conosco non avrebbe mai rinunciato ad un tesoro simile, per niente e nessuno al mondo».
Nessuno dei due aprì bocca per minuti interminabili. La tensione era tanto densa da poterla affettare con un coltello. Alla fine il Ladro Gentiluomo si alzò e con lentezza si lasciò scivolare il bicchiere ancora pieno dalle dita. Whisky, cubetti di ghiaccio e pezzi di vetro si sparsero sul pavimento lucido, insozzandogli le scarpe su misura, e il cameriere accorse per pulire, ma l'occhiata furente che ricevette da parte di Arsène gli fece cambiare idea.
«Adesso mi hai stufato, Grégorie», sibilò infine, coi pugni stretti lungo i fianchi e lo sguardo più intimidatorio del suo repertorio. «Arsène Lupin non esiste e nessuno conosce la persona che vi si cela dietro, nemmeno tu. Perciò non ti permettere mai più di dire che cosa farei o non farei, ci siamo capiti?».
L'uomo, di solito così imperturbabile, mostrò dei segni di cedimento e con le labbra tremanti si piegò in un profondo inchino, poi si allontanò col collo stretto tra le spalle.
Arsène si lasciò ricadere sul divanetto, svuotato, e ripensò a ciò che aveva detto a Maurice il giorno prima, a pranzo. Si guardò le mani, poi se le portò su quel volto che non riconosceva più allo specchio. Chi era diventato? Cosa sarebbe potuto essere? Poteva ancora cambiare? Voleva cambiare?
Sherlock non ci era riuscito, ma forse per Geneviève... Chissà.

***

John andò ad aprire la porta e si ritrovò davanti uno Sherlock dall'espressione spiritata, completamente estraniato dalla realtà. Conosceva quello sguardo e sapeva cosa aspettarsi, tuttavia riuscì a prenderlo alla sprovvista per l'ennesima volta.
«Allora, di che si tratta? Dev'essere qualcosa di importante, se sei persino uscito di casa...».
Il detective lo seguì in cucina, dove Rosie stava finendo di mangiare sul seggiolone, e senza togliersi il cappotto disse: «Ho sempre tenuto conto delle tue osservazioni e vorrei che ne facessi qualcuna in merito a ciò che sto per raccontarti».
John si sedette ed annuì, incuriosito. Ascoltò il racconto di Sherlock dall'inizio alla fine senza mai fiatare, rapito dalla giornata che aveva vissuto e dai retroscena del caso della perla nera che lui si era perso.
Scoprì così che il consulente si era subito interessato alla vicenda, ancor prima che Ganimard andasse da lui per affermare il coinvolgimento di Arsène, e che insieme all'ispettore francese era stato a Scotland Yard per avere ulteriori dettagli da Dimmock.
Grazie ad un fatto che non sembrava collegato all'omicidio Sherlock aveva avuto conferma del coinvolgimento di Lupin, il quale si era introdotto nell'appartamento della Zalti traendo in inganno una delle condomine. Peccato che al posto della perla nera aveva trovato il cadavere della cantante.
Deciso ad impossessarsi del gioiello, il ladro aveva giocato a fare il detective e aveva scoperto il nome dell'assassino, il quale però oltre a non aver tenuto con sé la perla era subito stato portato a Scotland Yard come maggiore indiziato. Una bella seccatura.
Per impedirgli di confessare e finire in prigione per il resto della sua vita aveva dovuto assumere un avvocato, ma i suoi sforzi erano stati ripagati: una volta libero infatti, Victor Danegre aveva seguito le istruzioni ricevute ed era tornato a casa, dove aveva trovato Arsène ad attenderlo, insieme a tutte le prove che aveva raccolto sulla scena del crimine e che lo avrebbero condannato. Secondo le deduzioni del detective il piano di Lupin prevedeva il ricatto: promettendogli in cambio di sbarazzarsi di tutto e di dimenticarsi di lui, Arsène aveva costretto Danegre a rivelargli dove aveva nascosto la perla nera.
Sherlock gli aveva raccontato com'erano andati i fatti perché riuscisse ad avere un contesto, ma non era lì né per Arsène né per Danegre. Quello che gli importava davvero era comprendere le decisioni prese da Geneviève.
«Che cosa c'entra lei in questa storia?».
Sherlock non lo guardò mai negli occhi mentre gli narrava una storia parallela a quella appena raccontata, la cui protagonista altri non era che la ragazzina bionda.
Era stato lui a coinvolgerla però, quando l'aveva chiamata in albergo perché convincesse Arsène a permettere che la giustizia facesse il suo corso con Victor Danegre. Geneviève gli aveva detto che suo padre non aveva nulla a che fare con il furto della perla nera, ma aveva deciso di aiutarlo ad una sola condizione: che fosse lei a pedinare Lupin.
«E tu gliel'hai lasciato fare?», gli chiese John, mentre infilava a Rosie il pigiamino per metterla a letto.
«Mi ha chiesto di fidarmi di lei».
John scosse il capo mestamente. «E adesso chi è l'incoerente? Tu stesso mi hai detto che non ci si può fidare di una Lupin!».
«Me lo ricordo», replicò, ottenendo tutta l'attenzione dell'amico. Alla sua espressione confusa, aggiunse: «Geneviève mi ha chiesto di poter pedinare suo padre e gliel'ho lasciato fare, ma nulla mi impediva di pedinare lei».
Il dottore impiegò qualche secondo per capire la sottigliezza del piano, poi scosse di nuovo il capo ed esclamò esasperato: «Continua. Ma, per la cronaca, quello che hai fatto non vuol dire fidarsi».
Durante quel doppio pedinamento Sherlock aveva visto Geneviève mandare un sms a suo padre, ma era riuscito a scoprirne il contenuto solo quando lui aveva chiesto il suo aiuto per recuperare la perla nera: l'aveva avvisato delle loro intenzioni, proprie e di Ganimard. E lei, guidata forse dallo stesso desiderio di renderlo orgoglioso che l'aveva spinta a rubargli il violino, aveva eseguito gli ordini.
Sherlock sarebbe dovuto rimanere in appostamento fino al suo ritorno, ma era stato tanto stupido da seguire Geneviève fino alla tabaccheria dove Danegre aveva nascosto la collana. Una volta di ritorno entrambi si erano resi conto della loro leggerezza: Arsène non c'era più e Danegre era libero.
Sherlock non aveva perso solo l'occasione di poter arrestare Arsène con l'accusa di intralcio alla giustizia, sequestro di persona e ricatto, ma aveva avuto anche conferma che Geneviève non era ancora degna della sua fiducia. Ed era questo a fargli più male, in fondo.
Arrabbiato e deluso, aveva appena deciso di affrontare la ragazzina quando aveva ricevuto una chiamata proprio da parte sua. Le era così vicino che se solo non avesse avuto il cellulare in modalità vibrazione l'avrebbe scoperto.
John lasciò la bambina nel suo lettino e socchiuse la porta della cameretta, poi tornò in salotto da Sherlock, seduto sul bordo del divano, con un gomito puntato sul bracciolo e la mano sulla fronte.
«E che cosa ti ha detto?», gli chiese, divorato dalla curiosità.
«Niente. Non ha detto niente, John. È per questo che sono qui».
Il dottore si addossò contro lo schienale del divano, il collo piegato sulla sua morbida curva e gli occhi rivolti verso il soffitto.
«Mi stai chiedendo di dirti che cos'è passato nella mente di una ragazzina di quindici anni?».
«Sei sempre stato più bravo di me in queste cose», ammise sventolando una mano.
«Se è un complimento, ti ringrazio».
«Prendilo come vuoi. Allora, che ne pensi?».
«Io credo... credo che sia combattuta. Tutti gli adolescenti lo sono, ma se penso che ha appena perso sua madre, che suo padre è un ladro famoso per la sua infallibilità e che tu ti sei scontrato platealmente con lui per il suo futuro... Io, al suo posto, sarei già impazzito».
«Perché?».
La tranquillità con cui pose quella domanda fece voltare John, il quale comprese che il consulente non aveva sinceramente idea di cosa stesse perlando.
«È una ragazza intelligente e sa distinguere tra bene e male: sa che ciò che fa suo padre è sbagliato, ma è suo padre... Forse è per questo che ti ha chiamato, oggi. Quando si è resa conto che è venuto a patti con un assassino per una pietra, il suo primo istinto è stato quello di chiamarti per dirtelo. Poi però se n'è pentita perché Arsène è l'unica famiglia che ha e non può fare a meno di volergli bene, di renderlo fiero di lei. Ha paura di rimanere sola, Sherlock...».
Il detective rimase in silenzio a lungo, con gli occhi fissi davanti a sé. John non osò interrompere le sue riflessioni, nonostante avrebbe tanto voluto approfittare della tranquillità di Rosie per dormire a sua volta.
Il sonno dovette prendere il sopravvento, perché gli sembrò di sentire Sherlock dire qualcosa riguardo al fatto di rivelarle della promessa e del diamante azzurro, ma quando riaprì gli occhi del detective non c'era più traccia.

***

Con lo stomaco finalmente pieno, Geneviève spinse via il carrello portavivande con un piede e cadde supina sul letto, gli occhi chiusi.
Alla TV stavano mandando la replica di un episodio natalizio di Doctor Who, una serie a cui lei e sua madre si erano appassionate durante la sua lunga degenza in ospedale. Pensare alla sua mamma, al fatto che non ci fosse più, le faceva ancora mancare il fiato; era come se un masso enorme le comprimesse la gabbia toracica e le schiacciasse i polmoni.
Per questo rotolò sulla pancia per raggiungere il telecomando e spense il televisore al plasma, per poi rimanere con la guancia posata contro il copriletto. Il silenzio l'avvolse, un silenzio così pesante che riuscì a sentire i dolorosi battiti del suo cuore.
Chiuse gli occhi umidi di lacrime e si sforzò di ricordare come fosse stare tra le braccia di sua madre, le sue carezze e il suo dolce profumo, ma ogni giorno le sembrava di perdere un pezzetto di lei. E se ad un tratto si fosse resa conto di averla dimenticata del tutto? Non avrebbe potuto sopportarlo.
Si alzò e facendosi forza si trascinò in bagno, dove si infilò il pigiama e si lavò i denti. Si sciolse i capelli ancora un po' umidi per la doccia, spense le luci e si accucciò sotto le coperte. Provò a dormire, provò persino a cantarsi la filastrocca in francese che sua madre usava come ninna nanna, ma non riusciva a togliersi di dosso quella tristezza che le era piombiata addosso all'improvviso. Le mancava così tanto...
Tornò seduta, con le spalle strette e i piedi nudi appoggiati al pavimento in linoleum. Fu allora che le tornò alla mente il modo in cui suo padre aveva sorriso parlando da solo di fronte alla tomba di sua madre. Davvero era d'aiuto? Anche solo alleviare il peso di quel macigno le sarebbe bastato. Doveva provarci.

Geneviève non sapeva se suo padre avesse fatto disintallare le telecamere nella sua suite, ma comunque non aveva intenzione di tenergli nascosto quel suo dilemma. Lui capì al volo e senza fare domande si infilò il cappotto e mandò Ernest a prendere la limousine nel garage.
Non parlarono nemmeno durante il tragitto e per la ragazzina fu meglio così: non aveva nulla da dirgli, in quel momento. Inoltre, temeva che se anche avessero parlato del meteo la sua voce sarebbe risultata tremula. Stava lottando ferocemente contro le lacrime e ogni distrazione sarebbe potuta essere quella fatale.
Giunti al cimitero, Geneviève chiese di poter essere lasciata sola e suo padre acconsentì: lui ed Ernest sarebbero rimasti in auto ad aspettarla per tutto il tempo necessario. Lo ringraziò con un debole sorriso e coprendosi il capo col cappuccio scese dall'auto.
A quell'ora il cimitero era chiuso, ma suo padre le aveva indicato una via alternativa per entrare: un piccolo cancello, più semplice da scavalcare, usato dai custodi e dai giardinieri.
Camminò tra le tombe e giunse di fronte a quella di sua madre: Clotilde Destange, una donna che aveva rinunciato a tutto, persino al suo vero nome, per l'uomo di cui si era innamorata; una donna che era riuscita a riappropiarsi della sua vera identità solo con la morte.
Si domandò se fosse stata felice, se avesse vissuto la vita che desiderava.
Lei non gliel'aveva mai detto chiaro e tondo, ma ora che Geneviève conosceva la storia del diamante azzurro sapeva che almeno in un'occasione si era pentita del suo amore per il Ladro Gentiluomo. L'aveva fatta soffrire, l'aveva portata a fare cose che l'avevano perseguitata per molti anni, e al contempo era stata la storia più importante della sua vita, da cui era nata persino la sua unica figlia.
Di una sola cosa Geneviève era certa: sua madre l'aveva amata più della sua stessa vita. Anche nei periodi più bui non aveva mai smesso di dirle che lei era tutto ciò che contava, che per lei avrebbe spostato le montagne e affrontato qualsiasi tempesta. Aveva lottato contro il cancro per lei...
La ragazzina non aveva ancora aperto bocca, in compenso però le lacrime scorrevano già da un po' sul suo viso e grazie ad esse parte del peso che sentiva sul petto si era trasformato in piume, rendendole più facile respirare.
Inginocchiata sull'erba bagnata di pioggia, per calmarsi canticchiò la filastrocca a mezza voce e si chiese per quale motivo sua madre l'avesse sempre cullata con delle parole così tristi e lugubri. Chi gliel'aveva insegnata?
Respirò profondamente, svuotata, e si passò le mani sul volto irritato per asciugarselo. Quindi si rialzò e fece per tornare indietro, quando all'improvviso ricordò ciò che aveva fatto suo padre quella mattina: aveva fatto visita ad una seconda tomba prima di andarsene, dall'altra parte del cimitero. Lei non aveva potuto avvicinarsi molto per la mancanza di nascondigli, ma ora che aveva l'occasione per soddisfare la sua curiosità doveva sfruttarla.
Ricordava perfettamente dove si fosse fermato, ma una volta giunta al cospetto della lapide a cui aveva porto i suoi omaggi non riuscì a capire.
«Mary Watson», sussurrò, sentendo una fitta al cuore.
Nonostante la pioggia si stesse facendo più intensa, tirò fuori il cellulare e china sullo schermo riportò il nome sul motore di ricerca.
Il suo cattivo presentimento aveva ragione di essere, purtroppo.
La verità fu tanto chiara e tanto scioccante che si voltò e corse a perdifiato verso l'uscita del cimitero, il cuore che le pulsava nelle orecchie.
Aprì la portiera della limousine col fiatone e si gettò all'interno, finendo col volto sulle gambe di suo padre, il quale l'avvolse subito con un braccio e si chinò per baciarle la testa, sussurrando parole di conforto.
Geneviève, ad occhi sbarrati, non gli diede spiegazioni e si lasciò accarezzare i capelli mentre Ernest li riportava in albergo. E come se tutto ciò non bastasse le arrivò un sms da Sherlock, il cui tempismo e la cui ironia avevano qualcosa di paranormale. 

Non sei sola.
SH

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Capitolo 14
*** Dear ones ***


Buongiorno!
Allora, nello scorso capitolo si è scoperto il nome dell'assistente/maggiordomo/secondo in comando/miglior amico/chi più ne ha più ne metta di Arsène Lupin: Grégorie. (Che poi se ci penso è la versione francese di Greg, ma giuro che è una mera coincidenza e i due personaggi non c'azzeccano nulla tra di loro).
So che molti non lo trovano simpatico, ma da adesso in poi il suo personaggio avrà un ruolo abbastanza importante, si scopriranno più cose sul suo conto e sul suo rapporto col Ladro Gentiluomo e spero, alla fine, di farvelo apprezzare come merita.
Si parlerà anche di Ganimard, come avevo detto a qualcuno di voi, e vedremo un po' le dinamiche tra l'ispettore francese e il suo acerrimo nemico grazie ad un lungo flashback in cui verrà raccontato un vecchio colpo del ladro. Spero solo di non annoiarvi e di non farvi sentire la mancanza di Sherlock, Geneviève e tutti gli altri! ;)
Aspetto come sempre di ricevere i vostri pareri - mi fa sempre super-piacere rispondervi - e vi ringrazio tutti, anche chi legge soltanto, chi ha messo questa storia tra le preferite/seguite/ricordate (siete tantissimi!). ♡
Buona lettura e alla prossima settimana!

Vostra,

_Pulse_


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14. Dear ones


Quella notte non era riuscito a dormire molto, a causa del comportamento di Geneviève e soprattutto del suo scontro con Grégorie.
Mai, in dieci anni di collaborazione, si erano trovati ad avere pareri così contrastanti, e il fatto che fosse sua figlia la causa di tutto quintuplicava il dolore che sentiva nel petto.
Aveva cercato di distrarsi e di pensare a come sfruttare a suo vantaggio la consegna di Victor Danegre, ma nonostante il buon piano che aveva articolato, senza Grégorie ad approvarlo e a congratularsi con lui non riusciva a reputarlo un successo.
Nel suo piccolo mondo c'erano poche, pochissime persone per cui provava un tale affetto e una tale stima da non poterne fare a meno, e una di queste era proprio Grégorie. Per questo si era ripromesso, come prima cosa da fare al risveglio, di appianare le loro divergenze e, se necessario, trovare un compromesso. Non sarebbe riuscito ad andare avanti altrimenti, con quel peso sul cuore.
Quando bussarono alla sua porta per svegliarlo, Arsène era in realtà già pronto a ricevere l'amico e compagno di mille avventure.
«Avanti», esclamò languido.
L'irritazione che provò quando invece di Grégorie fu Ernest ad aprire la porta e a trovarlo steso di traverso sul letto, competamente nudo, con un velo di brillantini azzurri sulle palpebre e le labbra tinte di rosso, fu inenarrabile.
«Mi scusi signore, sono mortificato...», balbettò l'uomo della scorta, abbassando gli occhi.
Lupin invece, per nulla a disagio nel mostrare il proprio corpo, digrignò semplicemente i denti e disse: «Che diavolo ci fai tu qui? Non è compito tuo svegliarmi».
«Lo so, signore, ma è stato Grégorie a chiedermelo. Ha detto che doveva occuparsi di alcuni arrangiamenti per la giornata e...».
«Smettila di blaterare e portami qui Grégorie!».
«Sì, signore. Certamente, signore».
Un imbarazzatissimo Ernest uscì dalla stanza chiudendosi piano la porta alle spalle ed Arsène sbuffò, lasciandosi cadere supino sul letto. Il suo desiderio di farsi perdonare stava scemando, a causa dello scherzetto che l'amico aveva voluto tirargli.
E così voleva tenere le distanze? Braccio fratturato o meno, non gli avrebbe concesso nemmeno lo spazio per respirare.
Si alzò rapidamente dal letto, si infilò una vestaglia di seta blu (in tinta con l'ombretto) e si nascose dietro la porta.
Quando finalmente Grégorie si degnò di raggiungerlo lo lasciò bussare un paio di volte senza rispondere. Alla fine l'amico aprì la porta e non vedendo nessuno nella stanza si preoccupò. Non appena si diresse verso il bagno padronale però, Lupin spinse la porta, facendola sbattere, e vi si appoggiò per poterla chiudere con una mandata di chiave.
Grégorie non si girò, le spalle contratte e i pugni stretti lungo i fianchi. Arsène lo raggiunse e lo abbracciò, posando una guancia contro la sua spalla destra.
«Non fare così», gli sussurrò, con le labbra a pochi millimetri dalla pelle sensibile del suo collo.
«Non sto facendo nulla, padrone».
Arsène abbozzò un sorriso a quell'appellativo: non importava quante volte gli ripetesse di non chiamarlo in quel modo, non l'avrebbe mai ascoltato. Nonostante fosse più grande di lui, quando gli aveva salvato la vita in quel tragico incidente ed aveva riaperto gli occhi in ospedale, trovandolo seduto al suo fianco, aveva giurato solennemente che da quel giorno in avanti avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avesse ordinato. La sua vita gli apparteneva e poteva farne ciò che voleva.
«Perché hai mandato Ernest a svegliarmi? Non mi starai evitando, spero...».
Grégorie aprì la bocca per rispondere, ma il morso che ricevette tra spalla e collo lo fece desistere.
«Non mentirmi», sussurrò ancora Arsène, baciandolo sullo stesso punto.
«E va bene», ammise mestamente. Posò le mani sul braccio col quale gli stringeva il petto con la stessa forza di una tenaglia. «Mi vergognavo per ciò che le ho detto ieri sera e pensavo che, fino a quando non avessi fatto ammenda, non sarei stato degno di servirla».
Arsène si sollevò, profondamente toccato dalle sue parole, e gentilmente lo voltò verso di sé per guardarlo negli occhi.
Caro, dolce Grégorie... Che aveva fatto di tanto buono per meritarsi un amico come lui?

Incrociò i suoi occhi scuri, velati di lacrime, e con uno slancio fece scontrare le loro bocche.
La rigida compostezza di Grégorie venne meno e gli portò una mano tra i capelli biondi, scompigliandoli mentre ricambiava il bacio con passione.
Anche l'uomo si poneva le stesse domande di Arsène, lasciandosi trascinare verso il letto sfatto: che cos'aveva fatto per meritarsi l'affetto del giovane ed allora sconosciuto Ladro Gentiluomo? Non solo gli aveva salvato la vita, ma gliel'aveva cambiata radicalmente, permettendogli di far parte di un qualcosa che avrebbe vissuto in eterno: una leggenda.
Accarezzando e baciando quella pelle candida come la neve e solcata di vecchie cicatrici ripensò ancora alle parole che gli aveva rivolto la sera prima: «Arsène Lupin non esiste e nessuno conosce la persona che vi si cela dietro, nemmeno tu». Forse era davvero così, ma lui amava l'Arsène Lupin che conosceva, l'amava in ogni sua sfaccettatura, incondizionatamente.
Nelle saltuarie occasioni in cui lo sceglieva come compagno di letto, nonostante sapesse ciò che avrebbe provato successivamente - tristezza, rimpianto, delusione - non riusciva mai a dirgli di no, era più forte di lui. D'altronde sapeva anche che non sarebbe mai stato solo suo, perciò si limitava a godere ogni istante della sua compagnia, ignorando gli aspri commenti degli altri membri della banda che ogni tanto arrivavano a loro insaputa anche alle sue orecchie.
Raggiunto l'orgasmo, Arsène gli chiese di rimanere ancora un po' dentro di lui, addossato col petto contro la sua schiena. Grégorie annuì e si portò una sua mano alla bocca per baciarne il dorso con le labbra.
«Siamo a posto?», gli chiese ad un tratto il ladro, come se il sesso fosse l'unico modo che conosceva per appianare i contrasti. Fu come ricevere una pugnalata al cuore, ma l'uomo fece finta di nulla.
«Certo», rispose, portandogli i capelli biondi dietro l'orecchio.
«Anche per quanto riguarda mia figlia? Cercherai di essere meno duro nei suoi confronti?».
«Ci proverò, padrone».
Arsène sorrise e con una torsione del collo gli posò un fugace bacio sulle labbra, poi scivolò via, provocandogli un mezzo gemito che soffocò mordendosi il labbro.
Grégorie lo guardò alzarsi, infilarsi la vestaglia e dirigersi verso il bagno, dove aprì il rubinetto per prepararsi un bagno caldo.
«Vorrei esporti il piano che ho elaborato questa notte», gridò, mentre Grégorie si puliva e recuperava i propri vestiti, sparsi per tutta la zona notte.
«Penso di aver trovato il modo perfetto per attirare l'attenzione di Molly Hooper!».
L'uomo si irrigidì e strinse forte le mani intorno alla cintura, quindi si avvicinò alla porta del bagno ed affacciandosi vide Arsène già nella vasca, che si versava sul viso del sapone per lavarsi via il trucco.
I travestimenti erano sempre stati il suo forte e il suo aspetto androgino lo aiutava molto quando decideva di impersonare una donna. Il perché ogni tanto lo facesse era sempre stato un mistero: Grégorie non aveva alcun tipo di problema ad ammettere di essere gay, non aveva bisogno di scorciatoie del genere. Aveva provato a chiederglielo una volta, ma non aveva ottenuto risposta.
«Molly Hooper?», ripeté. «La donna di cui è innamorato Sherlock Holmes?».
«Esatto!», non lo contraddisse purtroppo, sorridendo come un bambino. «Abbiamo un sacco di preparativi da fare, perciò vieni qui e aiutami, vuoi?».
Grégorie non si tirò indietro. Non si era ancora infilato la camicia, perciò si sedette sul bordo della vasca e gli insaponò i capelli mentre Arsène gli spiegava nei dettagli il suo piano. Era semplice ed ingegnoso, come sempre, ma anche doloroso per l'uomo, il quale avrebbe dovuto assistere in silenzio all'ennesima possibile conquista del suo padrone.
«Allora, che te ne pare?», gli domandò alla fine il ladro, alzandosi per infilarsi nell'accappatoio che Grégorie gli stava tenendo aperto.
I suoi occhi luminosi e pieni di aspettative lo costrinsero a rispondere nell'unico modo possibile, anche se i propri, di occhi, rimasero fissi sulla catenina con il piccolo e semplice crocifisso d'oro che gli adornava lo sterno e da cui non si separava mai.
«Sarà un successo, non ci sono dubbi».
«Lo sapevo. Grazie, Grégorie. Sono contento che tutto sia tornato alla normalità».
L'amico si sforzò di sorridere. «Anche io, padrone».
Arsène abbassò gli occhi sul suo petto nudo e con la punta delle dita accarezzò le cicatrici da ustione che gli ricoprivano tutto il lato sinistro del torso, braccio compreso. Grégorie si ritrasse un poco, a disagio.
C'era voluto molto tempo per abituarsi alle ferite e soprattutto a convivere coi ricordi ad esse legati, e Lupin l'aveva aiutato moltissimo ad accettarsi per quello che era e a convincerlo che aveva fatto tutto il possibile, rischiando persino la vita. Quelle cicatrici non erano la prova del fallimento, gli aveva detto più e più volte, ma qualcosa di cui andare fiero. Chissà se la pensava così anche a proposito delle sue, di cicatrici.
Grégorie lo lasciò perché si preparasse e dopo essersi rivestito uscì dalla camera da letto, venendo subito giudicato dagli sguardi degli altri membri della scorta del Ladro Gentiluomo. Lui non fece una piega e tornò ai propri affari, sentendo però le vecchie ferite riaprirsi e sanguinare sul suo cuore.

***

Molly guardò i due biglietti per il Don Giovanni alla Royal Opera House e sbuffò posando la fronte sulle mani, i gomiti puntati sul piano da lavoro della cucina.
Aveva provato in ogni modo a disfarsene, ma nonostante costassero una fortuna e lo spettacolo avesse fatto il tutto esaurito da mesi, per qualche strano motivo - una specie di sortilegio forse - se li ritrovava sempre tra le mani. Che fosse un segno del destino? D'altronde non era mai stata nel famoso teatro e sprecare un'occasione del genere le sembrava un vero peccato. Ci sarebbe andata da sola, se proprio nessuno voleva farle compagnia.
Presa finalmente quella decisione, si risollevò ed accese la televisione in salotto per passare un po' il tempo. Quel giorno era di riposo, ma non era riuscita a dormire fino a mezzogiorno come avrebbe voluto. Più tardi sarebbe andata a fare delle commissioni e magari, perché no, a comprarsi un bel vestito per l'opera.
Si imbatté nel telegiornale e Molly avrebbe senz'altro cambiato canale, stufa delle solite terribili notizie, se non avesse riconosciuto Jean al fianco dell'ispettore Dimmock, mentre gli stringeva la mano e veniva inondato dai flash dei fotografi.
«Ma che cosa...?», iniziò a domandarsi, incredula, senza mai staccare gli occhi dallo schermo mentre faceva il giro del divano per sedersi.
Alzò il volume ed ascoltò le parole della giornalista, scoprendo che era stato grazie a lui che Victor Danegre, il manager della deceduta Leona Zalti, era stato arrestato per la seconda volta, quella definitiva.
Il turista francese stava passeggiando lungo il Waterloo Bridge, scattando foto del panorama, quando si era accorto per primo dell'uomo che aveva scavalcato la ringhiera con l'intenzione di gettarsi nel Tamigi con una borsa contenente tutte le prove dell'omicidio e la stessa perla nera.  
Jean era accorso e, come mostravano le foto e i video girati da altri passanti, era riuscito ad impedire all'assassino di togliersi la vita. Poi, sotto lo sguardo incredulo dei poliziotti, l'aveva abbracciato e consolato, sussurrandogli qualcosa all'orecchio, prima di consegnarlo alle autorità.
Molly aspettò il termine del servizio, che si chiuse con la replica del momento in cui Jean sorrideva alla telecamera, come se sapesse che c'era lei dall'altra parte, e stringeva la mano dell'ispettore Dimmock, poi spense la TV.
Si portò le mani sul petto per verificare se fosse davvero il suo cuore a battere così forte ed abbassando il capo si morse il sorriso che le era comparso sulle labbra.
Un eroe. Aveva attirato l'attenzione di un eroe e lei aveva quasi buttato via il suo numero di cellulare.
Sapeva che c'era qualcosa di diverso in lui: l'aveva capito dal primo momento in cui l'aveva visto, dato che la sensazione che aveva avvertito era stata molto simile a quella che aveva provato quando aveva conosciuto Sherlock. Non ci aveva dato peso però, dicendosi che non c'era nessuno come il detective, ma quel pensiero era stato sempre lì, in un angolo della sua mente, ed era stato quello a costringerla a recuperare dalla pattumiera il bigliettino col suo numero, una volta tornata a casa dal turno in obitorio. Si era data della stupida, ma alla fine si era rivelata la mossa giusta.
Si alzò dal divano e tornò in cucina, dove aprì un cassetto e vi estrasse il bigliettino. Prese il cellulare ed iniziò a scriverlo sulla tastiera, ma si fermò dopo appena tre numeri, pensando a quanto sarebbe sembrato ipocrita chiamarlo ora, dopo averlo visto in TV.
Al diavolo! Che cos'ho da perdere?
Terminò il numero, poi premette il tasto di chiamata e si portò il cellulare all'orecchio.
Ebbe qualche altro ripensamento ascoltando gli squilli, ma si impose di darsi una chance, un'ultima chance per dimenticare Sherlock, e alla fine la voce calda e piena d'allegria di Jean la fece sorridere.
«Ciao Jean, sono Molly. Molly Hooper, la...».
«So perfettamente chi sei», esclamò interrompendola. «Ti ho pensata molto, in questi giorni».
L'anatomopatologa arrossì violentemente. «Ti ringrazio, io...».
«Caspita, stavo quasi perdendo le speranze!», aggiunse, scoppiando in una risata.
A quel punto i sensi di colpa iniziarono a mangiarle lo stomaco e Molly non se la sentì di mentire.
«Ascolta, Jean... È brutto da dire, ma non ti avrei mai richiamato se non ti avessi visto alla TV qualche minuto fa. Quello che hai fatto è stato...».
«Fermati, fermati. Sarò anch'io onesto, va bene? L'unico motivo per cui ho impedito a quell'assassino di buttarsi è stato per attirare la tua attenzione».
Molly sgranò gli occhi. «Che cosa?».
«Sì, certo, volevo anche che finisse in prigione per quello che ha fatto, ma tu non mi hai più richiamato e speravo... sì, la verità è che speravo proprio di finire in TV perché tu ti ricordassi di me».
Stava dicendo la verità. Era strana e un po' estrema come tecnica d'abbordaggio, ma Molly non poté fare a meno di trovarlo dolce.
«Ehi, sei ancora lì?», la chiamò, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Molly sbatté le palpebre e facendosi coraggio disse: «Ti va di vederci? Penso di doverti almeno un caffé per l'impegno».
«Con molto piacere, Molly».

***

Sherlock era stato informato del secondo arresto di Victor Danegre dalla signora Hudson, la quale era salita per portargli il té mattutino e come d'abitudine l'aveva intrattenuto - che lo gradisse o meno - con le sue chiacchiere.
Quel giorno era andata bene, considerato che grazie a lei aveva visto concludersi il caso della perla nera. Certo, non era successo come sperava, ma come aveva detto a Ganimard quando l'aveva chiamato poteva considerarla una mezza vittoria.
«Lupin è sempre stato un giustiziere, non mi stupisce che abbia incastrato Danegre», aveva risposto l'ispettore. «Non capisco però perché si sia esposto in quella maniera... E poi perché rinunciare alla perla nera? Bastavano le altre prove ad incriminarlo! Non potrebbe trattarsi di un falso?».
Avevano entrambi concordato che ad Arsène era sempre piaciuto mettersi in mostra, in una forma o in un'altra. Per quanto riguardava la perla nera, invece, Sherlock non aveva bisogno di accertarsene: sapeva che non si trattava di un falso: Geneviève, alla fine, era riuscita ad aiutarlo. Non sapeva come, ma ce l'aveva fatta: non aveva deluso suo padre aiutandolo a recuperare il gioiello e dopo l'aveva convinto a disfarsene.
Tutta la rabbia e la delusione che aveva provato il giorno prima - già notevolmente acquietate dopo la chiacchierata con John - erano scomparse nel constatare i frutti del suo operato. Quello che lo preoccupava, ora, era il silenzio della ragazzina. Conoscendola si sarebbe aspettato una chiamata o almeno un messaggio di autocelebrazione con una quantità sproporzionata di emoji. Inoltre non aveva risposto nemmeno all'sms che le aveva inviato la notte prima, una volta tornato a Baker Street.
Scervellandosi sui possibili motivi per cui non avesse ricevuto sue notizie gli ingranaggi del suo cervello si sarebbero fusi, se non dalla vastità delle opzioni dai livelli d'ansia che le accompagnavano, perciò si alzò e decise di comporre una nuova canzone.
Descrivere Geneviève con delle note di violino, scindere la sua mente dal suo cuore, non sarebbe stata impresa facile, ma valeva un tentativo.

***

«Hai intenzione di fare una vacanza, Danegre?».
L'uomo sobbalzò nell'udire quella voce, ma credette fosse solo frutto della sua fervida immaginazione e tornò a riempire la valigia che aveva di fronte.
Non aveva mai smesso di sentirla nei propri incubi, in cui il suo proprietario veniva rappresentato come un uomo biondo con grandi corna, delle ali appuntite e una coda in grado di stritolarlo. Ne era così ossessionato che aveva deciso di sparire, in modo che non potesse mettere le mani su di lui nel caso in cui avesse cambiato idea ed avesse usato contro di lui le prove che si era rifiutato di consegnargli nonostante avesse mantenuto la parola rivelandogli il nascondiglio della perla nera.
«Ehi, sto parlando con te!», gridò di nuovo l'uomo e il colpo che Danegre ricevette nell'incavo del ginocchio fu reale, tanto che si ritrovò carponi.
«Tu... tu...», balbettò, ritrovandosi davanti il suo diavolo personale. «Avevi promesso che mi avresti lasciato in pace».
L'uomo biondo gli rivolse un sorriso impietosito. «Non ricordo di averti mai fatto una promessa del genere».
Era vero, non gliel'aveva mai fatta. Victor iniziò a piangere, sentendo l'ombra della morte allungarsi verso di lui.
«Ti prego... Ti prego, non voglio morire», singhiozzò.
L'uomo corrugò la fronte e si chinò davanti a lui. Con voce carezzevole, disse: «Non morirai, Danegre. Su questo ti do' la mia parola».
L'assassino di Leona Zalti lo guardò negli occhi, quegli occhi verdi ed innocenti, e gli credette. Almeno fino a quando il suo sorriso non si trasformò in un ghigno sadico.
«Farai solo finta», concluse, infilzandogli un sottile ago nel collo e mettendogli la testa in un sacco nero.

Strano come gli esseri umani cambiassero le loro priorità di fronte alla minaccia della morte. Così volubili, così privi di coraggio... Victor Danegre, poi, era della peggior specie: un'ameba, per così dire.
Per la libertà aveva deciso di rinunciare alla perla nera e ora, per la vita, tornava a preferire la prigionia. Se solo fosse stato un po' meno credulone - come aveva insegnato al vecchio Ganimard in più di un'occasione - avrebbe potuto evitare di diventare una marionetta nelle sue mani.
Invece, troppo spaventato per ragionare, Danegre aveva acconsentito a seguire per filo e per segno le sue istruzioni.
All'ora pattuita si era incamminato lungo il Waterloo Bridge, portando con sé una borsa contenente tutte le prove dell'omicidio da lui commesso e la stessa perla nera; poi aveva scavalcato il parapetto con l'intenzione di uccidersi e si era fatto salvare da un turista francese che passava di lì per caso - il proprio ricattatore, Arsène Lupin in persona - il quale era stato celebrato dai media e dalla stessa polizia per il servizio reso alla giustizia.
Prima di lasciarlo andare Arsène aveva finto di abbracciarlo e di consolarlo, ma ciò che in realtà gli aveva detto all'orecchio era stato: «Non ti avrei mai ucciso, Danegre. Sadie avrebbe voluto che lo facessi, ma come diceva Gandhi: "Occhio per occhio e il mondo diventa cieco"».
Sadie, la truccatrice e parrucchiera personale di Leona Zalti, gli aveva confessato tutto quando quella mattina era passato a trovarla: della fine della relazione con Danegre, del suo alcolismo, delle innumerevoli volte in cui si era trovata a dover ricoprire con fondotinta e cipria i lividi di quell'amore malato. La cantante non aveva mai voluto denunciarlo, per paura di un altro scandalo e forse per l'affetto che ancora nutriva per lui, ma era stata stupida. E Sadie con lei, dato che non aveva mai avuto la forza di scavalcarla. Se l'avesse fatto Leona non sarebbe morta.
Anche dopo lo spettacolo al Savoy Danegre l'aveva colpita e per questo la truccatrice l'aveva lasciato fuori dal camerino. Arsène l'aveva saputo dal primo istante in cui si era ritrovato da solo col suo cadavere, notando il segno di quell'ultimo schiaffo sul suo volto privo di trucco. Voleva averne però conferma e far sì che Danegre pagasse non solo per l'omicidio ma per tutto il dolore che le aveva causato prima della morte.
«Che le dicevo? Un successo», si era complimentato Grégorie quando era tornato in albergo, dopo essere stato premiato dall'ispettore Dimmock di Scotland Yard.
Ma Arsène poté chiamarlo tale solo quando ricevette la chiamata di Molly Hooper, la quale l'aveva visto in TV - come sperava - e aveva deciso di dargli una chance.
Tutto era andato secondo i suoi piani e il Ladro Gentiluomo non vedeva l'ora di raccontare tutto a Genévive prima del suo appuntamento con l'anatomopatologa. Quella mattina non aveva proprio avuto tempo di passare a salutarla ed ebbe un'amara sorpresa quando appeso alla maniglia della sua porta scorse il cartellino "Do not disturb". Che cosa significava?
«Tesoro?», la chiamò, bussando. «Sei lì dentro? Stai bene?».
Non ottenendo alcuna risposta ed iniziando a preoccuparsi, chiamò Grégorie e si fece portare il suo tablet. Si collegò alle telecamere installate nella sua stanza e scoprì che mentre non guardavano, probabilmente quella notte, sua figlia si era costruita il proprio baldacchino personale appendendo al lampadario sopra il letto tende e lenzuola. C'era anche un cartello appeso sul lato che fronteggiava il mobile in cui era installata la TV - il luogo più comodo per piazzarci una telecamera - che diceva: "Voglio stare da sola, per favore".
«Vuole che vada a prenderle il passepartout?», domandò Grégorie, ma Arsène gli sorrise e scosse il capo.
Gli riconsegnò il tablet e si accostò di nuovo alla porta per dire: «Capisco, tesoro. Puoi solo confermarmi che sei lì dentro?».
Grégorie abbassò gli occhi sul tablet e notò un improvviso spostamento di una delle tende, come se la ragazzina l'avesse appena colpita con un pugno.
«È lì sotto», confermò.
«Molte grazie, tesoro. Ripasserò più tardi».
Arsène non ricevette nessuna risposta, ma non ne fece un dramma e si allontanò, seguito da un basito Grégorie.
«Lo so che cosa vuoi dire», lo anticipò, senza guardarlo. «Ma diamole un po' di spazio, va bene? Credo che abbia scoperto la verità su sua zia, finalmente».
Il compagno entrò nell'ascensore e rifletté, fino a quando si chiese se il giorno prima, al cimitero, sapendo di essere seguito da Geneviève, avesse visitato di proposito la tomba di Mary Watson.
«Sherlock e John ci stavano mettendo troppo, così ho deciso di darle un indizio», confessò, per poi sospirare amareggiato. «Spero solo di non aver affrettato le cose».
Grégorie non sapeva cosa dirgli, considerando che non riusciva proprio a togliersi di dosso la sensazione che quella ragazzina avrebbe portato solo guai, perciò gli posò semplicemente una mano sulla spalla.
Arsène parve apprezzare e gli rivolse un piccolo sorriso, mormorando: «Come farei senza di te?».
E per quanto lo riguardava, l'uomo avrebbe voluto che quella giornata finisse lì.

***

Ganimard chiuse gli occhi e provò a riposare una mezz'oretta prima che l'aereo atterrasse su suolo francese, ma le immagini che aveva visto al telegiornale continuavano a passargli davanti agli occhi, facendogli ribollire il sangue nelle vene: Arsène Lupin premiato dalla polizia inglese per aver impedito a Victor Danegre di buttarsi nel Tamigi.
Il ladro si era spesso trasformato in giustiziere per riparare i torti subiti, ma non era ancora capitato che combattesse le battaglie degli altri senza un motivo, un tornaconto personale. Sherlock affermava che quello fosse uno di quei rari casi, ma Justin non ci credeva. Ricordava fin troppo bene i numerosi casi in cui Arsène si era spacciato come il più generoso dei benefattori per poi rivelarsi come il ladro che era. In particolare, non avrebbe mai dimenticato il caso della sciarpa di seta rossa, dopo il quale aveva giurato sul proprio nome, distintivo e tutto ciò che aveva di più caro al mondo che non si sarebbe fermato fino a quando non l'avesse visto dietro le sbarre.

Stava andando al lavoro a piedi, come faceva da qualche settimana a quella parte per fare un po' di attività fisica, e mentre si fumava la seconda sigaretta della giornata notò il personaggio strano che gli stava camminando davanti.
Si trattava di un uomo sulla quarantina, vestito poveramente, forse un clochard, il quale ogni cinquanta o sessanta passi si abbassava, o per riallacciarsi le stringhe delle scarpe o per sistemarsi l'orlo dei pantaloni o per qualche altro motivo. Ogni volta, inoltre, si toglieva dalla tasca un pezzettino di buccia d'arancia e lo deponeva furtivamente sul bordo del marciapiede.
Insospettito da quello strano comportamento, che la gente comune avrebbe definito come insensato o da maniaco, decise di seguire l'uomo anziché entrare nella sede parigina della polizia. Avrebbe ricevuto l'ennesimo richiamo da parte del suo superiore, ma finché non fosse venuto a capo di quel mistero non sarebbe stato contento.
Ad un tratto Ganimard scorse il suo uomo scambiare dei segni con un ragazzino di dodici anni, non di più, dall'altra parte della strada. Insieme iniziarono a percorrere la via: dove il primo lasciava la buccia d'arancia, il secondo tirava fuori un gessetto bianco e segnava sul muro della casa che costeggiava una X all'interno di un cerchio.
Continuarono così per mezz'ora almeno, spargendo bucce e segnando case mentre passeggiavano. Ganimard era sempre più incuriosito e preoccupato: gli era ormai chiaro che quei due stessero complottando qualcosa e la sua ossessione per Lupin gli fece temere la sua comparsa.
Dal loro aspetto era più che probabile che fossero due senzatetto pagati da lui per qualche lavoro sporco. Le X sulle case dovevano significare qualcosa, come un codice, e Ganimard giurò che avrebbe scoperto di che cosa si trattava.
In place Beauvau l'uomo parve esitare, indeciso. Alla fine si piegò e alzò e riabbassò due volte l'orlo dei pantaloni. Il ragazzino, ricevuto il messaggio segreto, segnò due X cerchiate sul marciapiede davanti al soldato che montava di guardia davanti al Ministero degli Interni.
«Che diavolo significa?», si domandò burbero Ganimard, il quale ebbe la forte tentazione di acciuffare almeno il ragazzino per fargli confessare tutto. Non lo fece però, sperando che quei due pesci piccoli potessero portarlo da quello grosso.
Altre due X vennero segnate nei pressi dell'Eliseo, poi i complici si ricongiunsero per smezzarsi una sigaretta. Anche Ganimard fumò, osservandoli con trepidazione mentre, di spalle, sembravano trafficare con qualcosa. L'uomo si infilò la mano in tasca per sei volte, estraendo ogni volta un qualcosa di piccolo, e l'ispettore non poté non pensare ai proiettili di una pistola.
A quel punto ripresero il cammino e Ganimard, senza più paura di essere scoperto a pedinarli, li seguì da vicino pur di non perderli di vista. Lo condussero fino ad un vecchio palazzo, dalle persiane chiuse eccetto quelle del terzo ed ultimo piano.
Li seguì sotto il porticato e oltre il cortile interno scorse l'altra facciata della proprietà, la quale stava subendo dei lavori di ristrutturazione. Dei forti colpi richiamarono la sua attenzione e Ganimard, pensando alla pistola che li aveva visti caricare, si precipitò su per le scale.
Quando raggiunse l'appartamento dell'ultimo piano trovò la porta aperta e con la pistola tra le mani sudate si annunciò. Il rumore si fece più forte e l'ispettore attraversò l'appartamento sgombro fino a trovarsi in quella che doveva essere stata la camera da letto padronale, dove sorprese l'uomo delle bucce d'arancia e il ragazzino delle croci mentre sbattevano due sedie contro il pavimento.
Rosso di rabbia e sudato per la corsa sulle scale, Ganimard ebbe il forte desiderio di sparare loro alle gambe. Ad impedirglielo fu l'arrivo di una giovane donna dai lunghi capelli biondi, acconciati in morbidi boccoli, con indosso una voluminosa pelliccia nera. Sembrava russa.
«Buongiorno Ganimard», lo salutò con tranquillità, rivolgendogli persino un sorriso. Quindi si voltò verso i due personaggi e disse: «Grazie, amici miei, e ottimo lavoro! Ecco qui la vostra ricompensa».
Li pagò con un paio di biglietti da cento euro e li spinse fuori. Poi chiuse anche la porta da cui era comparsa lei, forse un bagno, e tornò a concentrarsi su di lui.
«Ti chiedo scusa, vecchio mio. Ma avevo bisogno di parlarti... un bisogno urgente».
Ganimard osservò la mano dalle lunghe unghie laccate di rosso che gli aveva steso, la faccia accartocciata in una smorfia di confusione e collera, e la giovane donna rise coprendosi la bocca.
«Davvero, non mi hai riconosciuto? Aspetta».
La donna si tolse gli occhiali da sole e quella che si rivelò essere una parrucca. Ora, nonostante il trucco, il volto che aveva di fronte era senza alcun dubbio quello di Arsène Lupin. Si schiarì la gola, portandosi teatralmente un pungo sul petto, e parlò con la sua voce calda e piena di vita: «Va meglio, ora?».
«Animale!», gridò Ganimard, avanzando di un passo e non di più verso di lui, frenato da quel senso di timore riverenziale che provava quando doveva ammettere la sconfitta di fronte alle sue strabilianti capacità.
Il suo aspetto, la sua voce, persino i movimenti gli erano sembrati quelli di una donna. Nessuno si sarebbe accorto dell'inganno, forse nemmeno Sherlock Holmes.
«Da palcoscenico, intendi? Già, avrei avuto una brillante carriera d'attore... Magari quando andrò in pensione, che ne dici?», esclamò, facendogli l'occhiolino. Quindi sistemò meglio le sedie usate dai suoi lacché per attirarlo fino a lì e si sedette, accavallando le gambe e mostrando delle scarpe con un tacco non indifferente. Come riusciva a camminare su quei trampoli?
«Avanti, accomodati! Ho bisogno di parlarti».
«E c'era bisogno di portarmi fin qui?», domandò Ganimard, lasciando che la rabbia venisse spodestata dalla curiosità.
«Beh, se ti avessi scritto o telefonato non saresti venuto... o l'avresti fatto con l'intero corpo di polizia al seguito. Io volevo vederti da solo e ho pensato di mandarti incontro quei due bravi ragazzi. L'idea delle bucce d'arancia e delle croci è stata loro, sai? Hanno fatto davvero un buon lavoro».
Ganimard tornò a sentire il sangue ribollire e dallo sguardo desolato del ladro capì che doveva essergli spuntata la vena gonfia sulla fronte.
«Sei arrabbiato? Sì, hai la vena che pulsa... E io che pensavo che ti avrebbe fatto piacere vedermi! Sono passati mesi dal nostro ultimo tête-à-tête! Pensavo mi avresti gettato le braccia al collo!».
Ganimard si guardò intorno, chiedendosi se non fosse davvero il caso di mettergli le mani al collo, ma il ricordo di tutte le battaglie perse lo scoraggiò tanto da costringerlo ad abbandonarsi, come sfinito, sulla sedia offertagli dal ladro.
«Parla», esclamò lugubre. «E senza fronzoli. Ho fretta, io».
«Sì, va bene». Si stiracchiò, stendendo le lunghe gambe e sistemandosi subito dopo la corta gonna del talleur rosso sulle cosce. Quindi tirò fuori dalla tasca della pelliccia una sigaretta.
«Mi dispiace non averlo visto arredato», commentò l'appartamento, guardandosi intorno mentre aspirava la prima boccata di fumo. «Apparteneva ad un certo Rochelaure, insieme a tutto l'altro lato della proprietà, e dato che nessuno voleva più abitarci per i protratti lavori di ristrutturazione...».
«Cosa vuoi che me ne importi!», lo interruppe Ganimard.
«Infatti, io chiacchiero, e tu hai fretta. Scusami, sarò più conciso. Cinque minuti, non di più. Ho un appuntamento, dopo».
L'ispettore sospirò, chiedendosi se il suo appuntamento fosse un uomo o una donna e con quale aspetto l'avrebbe incontrato; poi tirò fuori il proprio pacchetto di sigarette e lasciò che Lupin gliene accendesse una con il suo accendino d'oro zecchino.
«Allora, il 17 ottobre 1599, in una bella giornata calda e gioiosa... No, aspetta, forse non è il caso di raccontarti tutta la storia del Pont-Neuf. Ti basti sapere che stanotte, verso le quattro, un battelliere che transitava sotto il suddetto Pont-Neuf, dalla parte della rive gauche, sentì cadere, sul davanti della sua chiatta, una cosa che era stata lanciata dall'alto del ponte e che era destinata alle profondità della Senna. Il suo cane si precipitò abbaiando e quando il battelliere raggiunse l'estremità della chiatta vide che la bestia scuoteva con le fauci un sacchetto di plastica che era servito ad avvolgere parecchi oggetti. Raccolse ciò che non era finito in acqua e, tornato nella sua cabina, li esaminò. Ora entro in scena io, dato che quell'uomo si tratta in realtà di un mio amico».
Arsène si alzò e tenendo la sigaretta fumata a metà tra le labbra recuperò una borsa firmata Louis Vuitton, l'aprì e tirò fuori gli oggetti che gli erano stati consegnati, allineandoli con cura sul pavimento, tra le loro sedie.
C'era ovviamente il sacchetto di plastica a brandelli in cui erano stati raccolti gli oggetti. C'erano dei frammenti di vetro scuri e poi una specie di cartone ripiegato, ridotto a cencio. E c'era infine un pezzo di seta rossa scarlatta, che finiva con una nappa della stessa stoffa e dello stesso colore.
«Ecco qui i nostri reperti, amico mio», riprese Lupin. «Certo, sarebbe stato più semplice se avessimo avuto anche gli oggetti che la stupidità del cane ha disperso, ma con un po' di riflessione e d'intelligenza ce la possiamo cavare. Sono le tue qualità principali, dopotutto. Che ne dici?».
Ganimard lanciò il mozzicone della sigaretta ed incrociò le braccia al petto, fissando quelle prove con la sua solita aria imbronciata. Aveva acconsentito ad ascoltare le chiacchiere di Lupin, ma non avrebbe giocato a fare il detective con lui, ne andava del suo orgoglio.
«Non ho dubbi che tu ci sia arrivato», esclamò il ladro, senza perdere quel suo sorriso gioviale. «Ma lascia comunque che riassuma i fatti, va bene? Mi piace fare deduzioni, mi fa sentire più vicino al carissimo Sherlock. Chissà come se la passa...».
I suoi occhi si rabbuiarono per un momento, uno soltanto, prima che iniziasse a raccontare la sua versione dei fatti, quella che in base agli oggetti in suo possesso credeva fosse la sola ed unica verità.
«Ieri notte, fra la mezzanotte e le due, una signorina dalle apparenze eccentriche è stata ferita a coltellate, poi stretta alla gola fino a che è sopraggiunta le morte, da un signore che portava gli occhiali da sole, appartenente al mondo del dj set e con il quale la suddetta signorina aveva appena mangiato delle tartine ai frutti di mare».
Si riportò con eleganza la sigaretta alle labbra color cremisi, stese in un sorriso colmo di soddisfazione, e aggiunse: «Elementare, non trovi?».
Ganimard non abbandonò il proprio mutismo, ma strinse i pugni sulle gambe, furioso. Sapeva che non lo stava prendendo in giro - nonostante non avesse la più pallida idea di come avesse fatto a dedurre simili particolari da quei pochi oggetti - ed era proprio questo a farlo arrabbiare tanto: perché, con doni come quelli, aveva scelto la carriera del ladro? Ora, finalmente, capiva come doveva sentirsi Sherlock ogni volta che si trovava al suo cospetto.
«Potrei spiegarti tutto, ma hai detto di avere fretta, giusto? Ti passo il caso, Ganimard: sono sicuro che lo risolverai in quattro e quattr'otto e che farai un figurone col tuo capo!».
L'ispettore alzò di scatto gli occhi, allibito: c'era da fidarsi? Perché gli stava facendo un favore del genere, anziché occuparsi personalmente della vicenda e sfruttare l'occasione per farsi amare ancora un po' dal pubblico e, magari, rubare anche qualcosa?
Come se Arsène avesse seguito per filo e per segno ogni passaggio del suo ragionamento, sbuffò dicendo: «Non ho tempo, Ganimard! Sono oberato di lavoro, al momento. Un furto con scasso a Londra, un altro a Losanna, una sostituzione di bambino a Marsiglia, il salvataggio di una ragazza intorno cui la morte è in agguato... Ho molta carne al fuoco».
Si risedette sulla sedia e si sporse per guardarlo fisso negli occhi e sussurrare: «Fra poco, probabilmente, conoscerai la vittima... una ballerina, o una cameriera. Propendo per la prima. È molto probabile anche che il colpevole abiti nelle vicinanze del Pont-Neuf, magari proprio sulla rive gauche».
Si risollevò ed indicò i reperti ai loro piedi, aggiungendo: «È tutto qui, non sto scherzando. Indaga e arresta il colpevole, è il tuo mestiere. Prendi tutto tranne questo pezzo di sciarpa». Lo raccolse da terra prima che Ganimard potesse impedirglielo e si allontanò, rimirando la seta macchiata di sangue coagulato.
«Questo lo tengo io», riprese. «Se per le indagini avrai bisogno di ricostruire l'intera sciarpa portami l'altro pezzo, quello che troverai al collo della vittima. Portamelo fra una settimana esatta, qui, alle dieci. Ci sarò, te lo prometto».
L'ispettore non provò nemmeno a fermarlo: lo guardò dirigersi verso la porta, schiacciato da quel senso di impotenza. Malgrado tutti i suoi sforzi, malgrado la persistenza delle sue ricerche, non avrebbe mai avuto ragione di un avversario simile. Tutto ciò che otteneva, correndogli dietro come un cagnolino, erano i soprannomi, le vignette e gli articoli derisori che la stampa gli dedicava.
«Ah, a proposito!», gridò Lupin, facendolo quasi sobbalzare sulla sedia. Il suo sorriso da bambino stonò terribilmente con ciò che gli disse: «Quando arresterai il colpevole fa' attenzione: è mancino. Addio, vecchio mio, e buona fortuna!».
Con un risolino e una piroetta si chiuse la porta alle spalle e Ganimard, trovandosi all'improvviso con la bava alla bocca, corse all'inseguimento. La porta però non si aprì e la frustrazione tornò a farlo sentire quel patetico cagnolino che non riusciva mai ad arrendersi, anche dopo decine, centinaia di bastoni invisibili lanciati verso di lui.
Per quanto provasse a girare la maniglia, la serratura doveva essere stata manomessa per garantire a Lupin una ritirata sicura. Ma Ganimard non era più disposto a stare ai suoi giochetti: tirò fuori la pistola e sparò, facendo saltare il meccanismo. A quel punto bastò un calcio per sfondare la porta e ritrovarsi in un bagno con balcone, da cui Lupin si era lanciato sulla scala antincendio per saltare in auto e sfrecciare via con alcuni dei suoi uomini.
Era troppo tardi, ancora e sempre.
Rientrò nell'appartamento e raccolse le prove di quell'omicidio. Una volta in strada si accese un'altra sigaretta e ricevette una chiamata.
«Ganimard», rispose col filtro tra le labbra.
«Dove diavolo sei finito?», sbraitò il suo capo. «Muoviti ad arrivare, c'è un omicidio che ti aspetta!».
«Chi è morto?».
«Una ragazza. Una cubista, se non ho capito male. E adesso sbrigati!».
L'ispettore chiuse gli occhi e respirò profondamente, ammettendo che la prima deduzione di Arsène Lupin si era rivelata esatta.
«Sto arrivando», rispose alla fine, terminando la chiamata.

***

«Sai, ripensandoci forse avrei dovuto lasciarlo cadere», le confessò a bassa voce Jean quando poté tornare a sedersi davanti a lei e alla sua vellutata di zucca con crostini. «Il risultato sarebbe stato lo stesso, probabilmente».
Molly guardò le due ragazze che avevano chiesto un selfie con "l'eroe di Waterloo Bridge" mentre uscivano dal ristorante, scambiandosi commenti eccitati e risatine.
Non erano le prime ad aver fatto una richiesta simile, dato che da quando si erano incontrati per quel caffé, tramutatosi in un invito a pranzo, almeno un altro paio di persone l'avevano fermato per fargli i complimenti e stringergli la mano.
Jean sembrava gradire tutte quelle attenzioni, a dispetto di ciò che aveva appena detto.
«Che cosa intendi?».
Gli occhi verdi del ragazzo vennero attraversati da un luccichio di furbizia che, unito al suo sorriso brillante, le azzerarono la salivazione.
«Lavori in un obitorio, giusto? È probabile che, se fosse riuscito nel suo intento, Danegre sarebbe stato portato da te».
«Okay, ma non vedo come tu...».
«A quel punto la polizia mi avrebbe convocato come testimone oculare e io avrei fatto il possibile per incrociarti».
Molly lo fissò per una dozzina di secondi, sconcertata, fino a quando Jean non scoppiò a ridere e versò ad entrambi un bicchiere di vino.
«Stavo scherzando», le disse con un sorriso ora più gentile. «Ho sperato tanto che mi richiamassi, ma non sarei arrivato a tanto per rivederti. Non sono un sociopatico!».
Il vino che aveva iniziato a bere le finì quasi di traverso a quelle parole. Jean le scivolò accanto sulla panca ad angolo e le batté una mano sulla schiena, per poi lasciarla lì mentre Molly alzava gli occhi lucidi e lo guardava con un misto di shock e timore.
«Ne sei sicuro?», gli domandò quando raccimolò tutto il suo coraggio.
Jean socchiuse le labbra, vagamente ferito da quella domanda. «Ora sono io a non capire», ammise. «Perché me lo chiedi?».
No, non può essere, si convinse l'anatomopatologa, ancora incatenata a quello sguardo bello ed innocente. Anche se qualcosa, il pensiero che ci fosse di più dietro quella facciata, le punzecchiava la nuca. Come l'Uomo Ragno, anche lei aveva il suo senso speciale: quello individua-sociopatico.
«Scusami, ho avuto un paio di brutte esperienze», rispose alla fine, riuscendo ad abbassare gli occhi sulla sua insalata di pollo.
Jean rimase in silenzio, forse non convinto, e Molly, pur di stemperare la tensione, stirò un sorriso e aggiunse: «Inoltre mi sembra tutto troppo bello per essere vero».
Ormai le era chiaro che i complimenti fossero il suo punto debole - ma dopotutto un pizzico di vanità gliela si poteva concedere - e infatti Jean tornò ad essere il ragazzo solare e divertente che l'aveva avvicinata al pub.
«Ma, a parte gli scherzi, mi addolora molto questo tuo sottovalutarti», disse ad un tratto. Puntandole contro il cucchiaio, aggiunse: «Devi imparare ad amarti un po' di più, Molly Hooper».
«Ne ho tutte le intenzioni», affermò, guardando verso le finestre dall'altro lato del ristorante. «Ho aspettato fin troppo tempo, cercando la felicità in una fantasia. Ma voglio che le cose cambino, d'ora in avanti».
Si voltò verso di lui, sopresa lei stessa dalle sue parole, e trovò Jean con gli occhi fissi su di lei, profondamente concentrato. Quello sguardo le ricordò terribilmente Sherlock, ma cancellò la sua immagine non appena si presentò e facendo di nuovo appello al proprio coraggio tirò fuori dalla borsa i due biglietti per il Don Giovanni.
«Non voglio più precludermi alcuna possibilità, perciò... se ti fa piacere, vorrei che mi accompagnassi a questo spettacolo».
Jean afferrò la busta, la girò e Molly si sentì morire quando vide riflesso nelle sue iridi il nome di Sherlock. Incredibilmente però non disse nulla e si concentrò sui biglietti all'interno, assumendo un'espressione di pura incredulità.
«Non posso crederci», mormorò. «La Royal Opera House! Ho sempre sognato di andarci! Ma gli spettacoli vanno sempre a ruba e costano un occhio della testa, non vorrei approfittare... Sei sicura che vuoi che ti accompagni?».
Fu Molly a ridere quella volta, imitandolo nel puntargli la forchetta contro e dicendogli: «Non ti senti per caso all'altezza, Jean?».
Il ragazzo si tirò indietro i capelli biondi, arrossendo persino, e ripeté: «Davvero, sei sicura?».
«Al cento percento. E poi, se vuoi la verità, me li hanno regalati».
«Beh, hai proprio una bella fortuna», commentò, restituendole la busta. Prima di lasciare la presa fece in modo che lo guardasse negli occhi e sorridendo concluse: «E io con te. Non vedo l'ora di sabato».
«Anche io», ricambiò.
E, dopo molto tempo, era davvero così: l'idea di trascorrere una serata diversa, con una persona che l'apprezzava, le faceva battere forte il cuore. E in un certo senso era anche merito di Sherlock.

***

«Eccoti, finalmente», esclamò l'Ispettore Capo Dudouis non appena Ganimard varcò la soglia del suo ufficio.
Bevve un sorso di caffé e la sua faccia si accartocciò come se avesse appena morso un limone, poi disse: «Sei uno dei miei uomini migliori Justin, lo sai, ma non posso più tollerare la tua insubordinazione. Davanti ai tuoi colleghi e alla stampa non ci faccio una bella figura. Mi capisci? La tua ossessione con Lupin, le tue assenze, il brutto periodo che stai passando...».
«È tutto sotto controllo», ringhiò stringendo i pugni lungo i fianchi.
«Hai chiamato quella terapista che ti ho consigliato?».
«Mi sembrava di averti già detto che non ne ho bisogno».
Dudouis sospirò e sventolando una mano tagliò corto: «Come vuoi. Sappi solo che l'ora e mezza di ritardo ti verrà decurtata dallo stipendio. E ora passiamo al caso».
Prese la sola ed unica cartelletta rimasta sulla scrivania e gliela porse, iniziando ad enunciare come d'abitudine: «Omicidio. Jenny Lefevre, ventotto anni, nubile, faceva la ballerina al Lazare, nome d'arte: "Saphir". È stata ritrovata questa mattina dalla sua coinquilina».
«Causa della morte?», domandò Ganimard, il quale non aveva ancora avuto la forza per aprire il fascicolo e leggere da sé tutto quanto.
«Prima è stata pugnalata, poi strangolata».
«Dannazione», sputò tra i denti, pensando a quel maledetto di Lupin.
Aveva visto tutto senza essere presente! Ma potevano essere solo coincidenze. Sapeva che c'era un solo modo per verificarlo, perciò respirò profondamente ed aprì la cartelletta, trovandosi subito davanti le foto della scena del crimine. In una di queste, in cui il soggetto era la vittima, notò immediatamente il brandello di sciarpa di seta rossa a cui si era aggrappata con tutte le sue forze prima di morire. Ecco la conferma che sperava di non trovare.
«È tutto?», domandò Ganimard, desideroso di mettersi al lavoro.
L'Ispettore Capo sospirò, lasciandosi cadere nella propria poltrona. «Vorrei fosse così, per il tuo bene. Ma dato che lo scoprirai comunque, è inutile tenertelo nascosto: il movente del delitto sembra essere il furto di uno zaffiro - da qui il soprannome. Lo ricevette in regalo qualche anno fa da un miliardario russo che frequentava il club. Tutti quelli vicini alla ragazza conoscevano la storia, ma Jenny era stata ben attenta a non mostrarlo mai a nessuno, perciò molti dubitavano della sua esistenza».
«A quanto pare qualcuno era convinto del contrario», disse Ganimard, lugubre.
«So esattamente cosa stai pensando e la mia risposta è no. Ti prego, Justin, non farti questo. Lupin non c'entra, non questa volta».
Sapeva che non era così, che il solo ed unico motivo per cui quella mattina Arsène lo aveva attirato in quel palazzo era per allungare le mani sullo zaffiro, ma c'era una ragazza assassinata che meritava giustizia. Lei aveva la priorità, poi avrebbe pensato al ladro.
Rivolse un lieve sorriso all'Ispettore Capo e prima di uscire dall'ufficio lo salutò avvicinandosi la cartelletta alla fronte, senza promettergli nulla.

Tre giorni dopo Ganimard si trovava nel proprio ufficio, l'unico di tutto il palazzo in cui gli era ancora possibile fumare senza dover per forza uscire.
Era tardi, ma all'ispettore non importava: che restasse lì oppure andasse a casa non faceva alcuna differenza. Nessuno lo aspettava.
Seduto dietro la propria scrivania, coi piedi sollevati e una fetta di pizza alle acciughe in una mano, l'ultima sigaretta fumata a metà nel posacenere, osservava la lavagna sulla quale aveva appeso tutto ciò che aveva scoperto sull'omicidio di Jenny Saphir.
Più ci si arrovellava, più malediceva Lupin per averlo coinvolto in quella storia. Al contempo doveva ringraziarlo per avergli fornito le prove senza le quali non sarebbe mai riuscito ad arrivare fino a quel punto.
Dei colpi alla porta attirarono la sua attenzione.
«Avanti».
Folefant, uno degli agenti che ancora non lo reputavano matto da legare, entrò nell'ufficio quasi completamente immerso nell'oscurità - l'unica fonte di luce era infatti la lampada della scrivania - e lo guardò con un misto di apprensione e curiosità.
«Va tutto bene, ispettore?».
«Assolutamente», rispose, dando un morso alla pizza ormai fredda. «Tu che cosa ci fai ancora qui?».
Il ragazzo abbassò il capo e ammise: «So che ha detto di voler seguire da solo questo caso, ma mi chiedevo, ecco, se potessi in qualche modo rendermi utile».
Folefant gli ricordava terribilmente il Ganimard di vent'anni prima: giovane, pieno di iniziativa e fedelissimo nei confronti del sistema giudiziario. L'arrivo di Lupin aveva avvelenato tutto, rivelandogli la vera, cinica asprezza del mondo.
Per questo l'ispettore lanciò il pezzo di pizza nella scatola, la chiuse e la gettò a terra, nei pressi del cestino. Bevve un sorso di birra ed indicò lo spazio libero sulla scrivania; Folefant, sorridendo felice, si accomodò mentre il più anziano si alzava per avvicinarsi alla lavagna.
Quell'agente meritava di credere nella giustizia ancora per un po', o almeno di vedere che qualcuno continuava a lottare per essa.
«Jenny Lefevre è stata strangolata la notte tra il 23 e il 24, secondo l'autopsia intorno all'una, dopo essere stata ferita con due coltellate alla spalla sinistra», esordì, indicando le prime foto della vittima. «La morte per asfissia è dovuta alla sciarpa di seta rossa che la ragazza portava al collo e che sappiamo, grazie alla coinquilina, essere la sua preferita, tanto che la portava con sé ovunque andasse».
«Ma lì ce n'è solo un pezzo», notò Folefant, indicando la foto che la scientifica aveva scattato durante l'esame. Era chiaro come il sole che quella fosse solo metà della sciarpa. L'altra metà, lui lo sapeva bene, era tra le mani di Lupin.
«Corretto. La vittima vi si è aggrappata con tutte le sue forze, forse per allentare la stretta, e l'assassino non è riuscito a recuperarla. Così ha deciso di tagliarla - si vedono chiaramente i segni irregolari lasciati da una forbice - per sbarazzarsi delle prove. È quasi certo che su di essa avremmo trovato del DNA o delle impronte digitali».
«E il movente quale sarebbe?», chiese Folefant.
Ganimard sospirò. «Ho interrogato tutti quelli che conoscevano Jenny e pare non avesse nemici, né al lavoro né altrove. A questo punto non rimane che la pista dello zaffiro».
«Mi pareva di aver capito che nessuno fosse sicuro della sua esistenza».
«Alla fine deve averlo mostrato a qualcuno, il quale ha cercato di impossessarsene e ha finito per ucciderla».
«Chi sarebbe arrivato a tanto per una pietra?», si domandò Folefant, pentendosene subito dopo per via del nome che era spuntato, ingombrante, tra loro. «Mi scusi ispettore, non volevo...».
«Non ti preoccupare. Arsène Lupin non si è mai fatto accusare di omicidio, fino ad ora almeno. I miei sospetti sono rivolti altrove».
«La coinquilina?».
«No, ma è stata lei ad indirizzarmi. Durante l'interrogatorio ha rivelato che Jenny stava frequentando un uomo da qualche mese a questa parte. Ne era entusiasta e diceva persino che presto le avrebbe chiesto di sposarla, ma nessuno l'aveva mai visto. Pensa che nemmeno lei ci è mai riuscita: le sembra di averlo incrociato una volta, quando rientrando si attardò sulle scale, ma indossava un cappello e degli occhiali da sole. Jenny affermava che fosse un personaggio famoso e che per questo voleva che mantenesse il segreto sulla sua identità».
«Lo zaffiro, la celebrità... Mi sembra che questa ragazza raccontasse un sacco di fandonie per attirare l'attenzione», disse Folefant, ridacchiando.
«All'inizio l'ho pensato anch'io. Poi però...».
Poi però aveva recuperato la borsa con le prove che Lupin gli aveva così spassionatamente regalato.
Durante il loro incontro gli aveva svelato com'era avvenuto il delitto, che l'assassino portava gli occhiali da sole e che lavorava nell'ambiente del dj set, dandosi tante arie per le proprie brillanti deduzioni. Arsène Lupin però non era un mago, nessuno lo era, e Ganimard conosceva almeno un'altra persona in grado di stupire in quel modo: Sherlock Holmes. Ed era stato proprio il detective inglese a rivelargli, in un giorno in cui era particolarmente di buon umore, che il trucco era proprio quello: dare all'interlocutore solo la soluzione, senza spiegare nel dettaglio i propri ragionamenti, spesso e volentieri banalissimi.
Ganimard allora aveva sfruttato le informazioni di Lupin e, andando a ritroso, era risalito ai punti da cui era partito per poi esibirsi in quel suo giochetto di prestigio.
«Poi cosa?», lo incalzò Folefant, pendendo dalle sue labbra.
L'ispettore sospirò arrendevole e si spostò vicino al mobile su cui aveva posato le prove di Lupin.
«Guarda qui», gli disse, invitandolo ad avvicinarsi. «L'assassino, dopo l'omicidio, ha raccolto delle prove in questo sacchetto, ma nel tentativo di sbarazzarsene buttandole nella Senna sono finite invece su una chiatta. Il battelliere è riuscito a recuperare solo questo perché il suo cane è arrivato prima».
«Come fa a sapere che sono prove del caso Saphir?», domandò Folefant, sinceramente confuso. D'altronde ciò che aveva davanti non era nulla di compromettente: un sacchetto di plastica a brandelli, dei frammenti di vetro scuro (forse pezzi di una lente?) e una scatoletta di cartone ripiegata e anch'essa mangiucchiata dal cane.
Ganimard prese ciò che rimaneva del sacchetto e del cartone, cercò un punto ben preciso e poi li avvicinò: un logo si palesò davanti ai loro occhi, il logo quasi illeggibile del Lazare, il club dove lavorava la vittima.

«C'è di più», aggiunse. Aprì la scatola di cartone e al suo interno indicò delle macchie: «Le ho fatte esaminare dalla scientifica e come risultato hanno ottenuto colla di pesce e salsa rosa. Pare che questa scatola contenesse delle tartine ai frutti di mare».
«Sì, il Lazare è un club per ricchi, quindi hanno anche queste cose», confermò Folefant, per poi aggiungere imbarazzato: «Non che io ci sia mai stato... L'ho sentito dire».
Ganimard lo ignorò. «Ad ogni modo, facendo un test sul contenuto dello stomaco della vittima ho scoperto che prima di morire ne aveva mangiata qualcuna anche lei». Proprio come ha detto Lupin. «Allora sono andato al Lazare e ho chiesto al proprietario, ai baristi e alle altre ballerine, ma nessuno di loro mi ha saputo aiutare. Partendo dal presupposto che fosse un personaggio piuttosto famoso, ho fatto delle ricerche e ho notato che da qualche mese il club ha iniziato a collaborare con un certo Dj Prévail. Non è proprio una star da quanto ho capito, ma nel suo ambiente è conosciuto. Guarda caso la notte dell'omicidio Dj Prévail si è esibito al club e, dalle testimonianze raccolte, prima di andarsene ha chiesto delle tartine da portare via. Ed indossava degli occhiali da sole anche in quell'occasione. Una moda assurda, lo so».
Ganimard incrociò le braccia al petto e tornò alla lavagna, davanti alla foto del suo maggiore indiziato, per concludere: «Il suo vero nome è Thomas Derocq e abita sul quai des Augustins, proprio nei pressi del Pont-Neuf».
Folefant rimase in silenzio a lungo, concentrato nel mettere insieme tutti i pezzi del puzzle. Alla fine si portò le mani sui fianchi e scosse il capo, sospirando. «Non lo so, ispettore. Il ragionamento è plausibile, ma...».
«Ma non è abbastanza», concluse per lui, tornando alla scrivania per recuperare la sigaretta ancora accesa. Aspirò avidamente, ad occhi chiusi.
«Sa che cosa farebbe veramente comodo?», esclamò il ragazzo, sorridente come se avesse appena risolto il mistero del secolo. «La seconda parte della sciarpa! Con quella prova, il colpevole non avrebbe via di scampo!».
Ganimard lo sapeva, lo sapeva fin troppo bene. E doveva saperlo anche Lupin, quella canaglia: ecco perché aveva dato così per scontato che avrebbe avuto bisogno di incontrarlo nuovamente. Ma l'ispettore non gli avrebbe dato quella soddisfazione senza averle provate tutte. Aveva ancora quattro giorni a disposizione.

Ganimard uscì dall'aeroporto con il proprio trolley nero in una mano e si accese immediatamente una sigaretta, sotto un sole accecante di cui non aveva per nulla sentito la mancanza in Inghilterra.
Dopo un paio di boccate di fumo fece per dirigersi verso la fermata degli autobus, ma un fischio lo fece voltare. Appoggiato contro il cofano di un'utilitaria vide il volto giovane e sorridente di Folefant, i ricci biondi che gli accarezzavano la fronte.
L'agente sollevò una mano in segno di saluto e Ganimard lo raggiunse, confuso.
«E tu come facevi a sapere che sarei tornato oggi?», gli chiese.
«Me l'ha detto Dudouis», rispose candidamente il giovane, scrollando le spalle. «E ho pensato di offrirle un passaggio».
Ganimard non sapeva come comportarsi di fronte ad una tale gentilezza, perciò abbassò lo sguardo e rimase in silenzio mentre Folefant gli apriva il bagagliaio.
Una volta seduto al suo fianco, sul sedile del passeggero, guardò il suo volto e qualcosa dentro di lui si sciolse: quel grumo di rabbia ed indifferenza a causa del quale impediva agli altri di avvicinarsi troppo. Con Folefant però non era mai servito: quel ragazzo - il figlio maschio che non aveva mai avuto - l'aveva preso come modello, per chissà quale motivo, e Ganimard si sentiva in terribile difetto ogni volta che quel pensiero lo sfiorava. Che aveva fatto per meritarsi una tale ammirazione?
«Perché fai tutto questo?», chiese ad alta voce, senza rendersene conto. Ormai però era troppo tardi per rimangiarselo.
Folefant ridacchiò, immettendosi nel traffico cittadino. «Che domanda è? Lei è il mio capo».
«Ho capito», sospirò rassegnato. «Devo avvisarti che se sei in cerca di una promozione, sappi che io non ho più alcuna autorità e...».
«Ma quale promozione? Non ho alcun secondo fine, ispettore. Deve credermi».
«Allora per quale motivo ti comporti in questo modo? Non mi devi niente!».
Il ragazzo parve veramente turbato da quelle parole ed impiegò qualche secondo per rispondere, con due rughe d'espressione tra le sopracciglia.
«Non le devo niente?», ripeté, stringendo forte le mani intorno al volante. «Ispettore, lei è la ragione per cui io mi sono iscritto all'accademia. Lei per me è la giustizia fatta a persona, l'unica persona che non si è mai arresa di fronte ad Arsène Lupin».
«E guarda dove mi ha portato», mormorò Ganimard, voltandosi verso il finestrino.
«Appunto! Al posto suo, chiunque avrebbe gettato la spugna. Lei, invece, nonostante i fallimenti, le critiche, le malelingue... lei persiste, perché crede nella giustizia. E io sarò sempre dalla sua parte».
La determinazione nei suoi occhi di solito docili lo colpì a tal punto che rischiò di commuoversi.
L'ispettore si fece forza e tentò il tutto per tutto: «Spero tu non vada a dirlo in giro: la tua reputazione e la tua carriera potrebbero risentirne».
«Non mi interessa», affermò il ragazzo. «Chiunque la giudica negativamente si sbaglia e non smetterò mai di dirlo».
Ganimard abbozzò un sorriso, arrendendosi, e all'improvviso si sentì a casa.

Mancava solo un giorno ormai all'incontro fissato da Lupin e Ganimard, sentendosi alle strette, aveva deciso di affrontare direttamente Dj Prévail. In termini legali non era la mossa giusta da fare, ma l'ostruzionismo del suo avvocato e le pressioni di Dudouis, il quale voleva il caso risolto ad ogni costo, non gli avevano lasciato molte alternative.
Guardò Folefant, seduto in auto al suo fianco, e sospirò: poteva finire in guai seri per averlo voluto aiutare, ma tutti i suoi tentativi di dissuaderlo erano stati inutili.
«Sei ancora in tempo per andartene», gli disse, conoscendo già la sua risposta.
L'agente gli rivolse un sorriso a trentadue denti: «Se lo può scordare».
Erano appostati davanti alla casa di Thomas Derocq da ormai due ore quando finalmente il loro sospettato scese da un SUV nero, indossando come d'abitudine occhiali da sole scuri e cappellino da baseball.
«È lui?», domandò Folefant, non stando più nella pelle.
Ganimard annuì con un cenno del capo e scese dall'auto per attraversare la strada e raggiungere il dj. Non era ancora giunto al portone del suo palazzo quando l'ispettore lo chiamò per nome.
L'uomo si girò e si mise subito sulla difensiva, chiedendo: «E voi chi diavolo siete?».
«Ispettore Ganimard e agente Folefant, Polizia Nazionale. Abbiamo cercato di contattarla, ma il suo avvocato ci ha informato che era molto occupato... Così siamo venuti noi da lei».
Derocq indietreggiò verso il portone e Ganimard lo trovò sospetto, così si affrettò a dire: «Vogliamo solo farle qualche domanda, non siamo qui per arrestarla».
«Potete rivolgerle al mio avvocato», parlò alla fine, mostrando i denti come un cane rabbioso.
«Lei conosceva Jenny Lefevre?», gli domandò Folefant, avanzando di un passo. «È stata trovata morta nel suo appartamento sei giorni fa e abbiamo ragione di credere che lei sia stata l'ultima persona ad averla vista viva».
Ganimard avrebbe voluto fermarlo, fargli capire che in quel modo non avrebbe cavato un ragno dal buco, ma non ne ebbe il tempo materiale. Con la coda dell'occhio notò che Derocq si era infilato la mano sinista nella tasca della giacca. Ricordando l'avvertimento di Lupin - l'assassino era mancino - Ganimard spinse di lato Folefant e si gettò sul dj. Partì un colpo di pistola, ma l'ispettore aveva fatto in tempo ad afferrargli il braccio e a deviarne la traiettoria. Quindi gli diede una gomitata sul mento e lo immobilizzò contro il portone per togliergli la pistola di mano ed ammanettarlo.
Folefant, rimaso fino ad allora fermo immobile e muto come un pesce per lo stupore e la velocità con cui si era svolto il tutto, seguì l'ispettore mentre portava il loro sospettato all'auto e lo faceva accomodare nei sedili posteriori.
Quando Ganimard si voltò verso di lui, Folefant riuscì solo a chiedere: «Come faceva a sapere che aveva una pistola?».
Il più anziano, sentendosi in colpa per aver utilizzato il suggerimento di Lupin, disse semplicemente: «Istinto. Andiamo, sarà una lunga nottata».

***

«Bentornato, padrone».
Arsène sorrise e diede le spalle a Grégorie perché lo aiutasse a togliersi la giacca di pelle color senape che aveva indossato per l'appuntamento con Molly Hooper. Fece una smorfia quando fu il turno del braccio fratturato, ma una volta di nuovo nel tutore si sentì subito meglio. D'altronde se Jean e Arsène si fossero fatti vedere entrambi con il tutore sarebbe stato fin troppo facile capire che in realtà erano la stessa persona.
«Ho una buona notizia», esclamò Grégorie. «L'ispettore Ganimard ha preso un volo per Parigi questa mattina».
«Dici sul serio?». Stupito, Arsène si voltò per guardarlo negli occhi. Al cenno affermativo dell'amico, il ladro sospirò. «Quel maleducato... Non mi ha nemmeno salutato!».
Quelle parole furono in grado di far sorridere il servitore, il quale però cambiò subito argomento.
«Com'è andata con Molly Hooper?», gli chiese infatti, rimanendo in piedi accanto al divano a due posti sul quale Lupin si era lasciato cadere - un divano troppo piccolo per il suo metro e ottanta.  
Arsène si portò una mano tra i capelli e guardò il soffitto, meditabondo. Alla fine rispose: «Bene, benissimo. Però...».
«Qualcosa di imprevisto?».
«Non lo difinirei così. Molly Hooper... c'è qualcosa di diverso, in questa donna. All'apparenza sembra insignificante, ma dentro di sé nasconde una gentilezza e una forza non comuni. Mi sono sentito esposto, di fronte a lei. Hai capito bene... Ho avuto la sensazione che mi vedesse veramente!».
«Ma questo è impossibile», affermò Grégorie, con un sorriso nervoso sulle labbra. Sparì subito quando gli occhi verdi del Ladro Gentiluomo si posarono su di lui.
Si tirò su seduto di scatto e, serissimo, esclamò: «Lo so bene. Però è così. Questo che cosa comporta?».
«Non saprei».
«Che Irene Adler si sbagliava!», gridò, alzandosi in piedi con una mano sollevata. «Che io mi sbagliavo! Molly Hooper non è affatto una donna ordinaria. E la sua abilità è quella di andare oltre le maschere, di vedere il vero animo delle persone, con tutti i loro pregi e i loro difetti. È per questo che Sherlock ha una considerazione così alta di lei: perché lei riesce a capirlo in ogni circostanza...».
La sua eccitazione era tale che aveva già fatto quattro volte il giro del divano, saltellando come un bambino. Ad un tratto si fermò, portò una mano sulla spalla dell'amico e guardandolo dritto negli occhi esclamò: «Ah, quanto vorrei possedere un dono simile! E probabilmente lei non sa nemmeno di averlo! O come servirsene!».
Sorrise dolcemente, guardando oltre la sua spalla, e come se qualcuno gli avesse appena fatto un appunto rispose: «Già, la sua innocenza le impedirebbe di sfruttarlo per i motivi sbagliati».
Tornò a guardare Grégorie e gli diede uno schiaffetto sul viso, poi si diresse verso il corridoio. Il fedele compagno lo seguì, pieno di interrogativi.
«Adesso cosa farà?».
«Un bagno», rispose candidamente Lupin, iniziando a sbottonarsi il gilet. Poi si rese conto del possibile fraintendimento e chiese: «Ti riferivi ancora a Molly Hooper?».
«Sì».
«Giusto. Beh, ricordi i biglietti del Don Giovanni che tramite Geneviève avevo così gentilmente regalato a Sherlock? Si dà il caso che siano tornati a me...».
«Nel senso che Molly Hooper le ha chiesto di essere il suo cavaliere?».
Lupin rise di cuore, togliendosi anche la camicia. A petto nudo e con i capelli scompigliati lo guardò divertito, senza accorgersi della sua improvvisa rigidezza.
«Cavaliere? Ma da che secolo provieni, amico mio? Ad ogni modo, ci hai preso».
Grégorie abbassò gli occhi e concluse: «Quindi suppongo che aspetterà ancora prima di informare la signorina Adler».
«Precisamente».
Come temeva. Non gli piaceva il modo in cui Arsène stesse giocando con la pazienza di Irene Adler, prendendo alla leggera una donna a suo parere molto pericolosa. Grégorie avrebbe tanto voluto chiudere in fretta la questione e tornare a casa, ma i suoi desideri non contavano.
Lupin si tolse pantaloni e boxer in un colpo solo e ormai completamente nudo guardò Grégorie con espressione eloquente: se non c'era altro, poteva andare.
L'uomo gli rivolse un inchino e fece per chiudere le porte scorrevoli del bagno, ma il ladro richiamò la sua attenzione.
«Geneviève non è ancora uscita dalla sua stanza?», gli domandò.
«No, padrone».
Il biondo sbuffò e sventolò una mano, congedandolo.

***

«Grazie ancora, Folefant».
Il ragazzo lo salutò con un sorriso e un cenno del capo, poi mise la freccia e si allontanò dal marciapiede dove l'aveva lasciato.
Ganimard rimase a guardare l'auto dell'agente fino a quando poté, poi si voltò verso la facciata del vecchio palazzo ed entrò nell'androne buio.
Salì le scale ed aprì la porta del piccolo appartamento che aveva preso in affitto quando Célestine aveva voluto la separazione. All'interno trovò il disordine e la trascuratezza che aveva lasciato alla partenza, ma non ne fu rincuorato. Anzi, gli ricordò dolorosamente in che condizioni pietose l'aveva ridotto Lupin.
Si tolse il trench e lo appese nel minuscolo ingresso, poi portò il trolley in camera e lo adagiò sul letto cigolante, su cui si sedette anche lui, con le mani a nascondere il viso stanco.

Non solo arrestare Thomas Derocq fu una perdita di tempo, ma la sua reputazione già a pezzi ne soffrì ancora di più.
I media non facevano altro che parlare dell'ultima figuraccia dell'ispettore Ganimard, si chiedevano se fosse giusto che un uomo come lui continuasse a lavorare nel corpo della polizia ed erano pronti a prendere di mira chiunque si mettesse dalla sua parte. L'Ispettore Capo Dudouis non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma anche lui stava iniziando a considerare l'ipotesi di una pensione anticipata.
«Derocq aveva avuto dei problemi con la polizia, qualche anno fa, per un'accusa di possesso e spaccio di droga», esclamò Dudouis, chiudendo il giornale su cui la polizia era finita ancora una volta in prima pagina - e non in modo positivo - per guardare gli occhi arrossati di Ganimard.
«Secondo il suo avvocato è per questo che ha reagito in quel modo, ieri sera. Ne risponderà, su questo non ci piove, ma non possiamo trattenerlo con accusa di omicidio. Non senza prove solide».
«Tu che cosa ne pensi? Credi sia colpevole? Sii sincero».
Dudouis si ritrovò costretto ad annuire, le mani unite sullo stomaco. «Come ti ho detto però...».
«Ho capito, ho capito». Ganimard sospirò, alzandosi dalla sedia con le mani sulle ginocchia. Gettò un'occhiata all'orologio appeso alla parete e con lo stesso tono di un condannato a morte affermò: «Dopo pranzo avrai la prova definitiva della sua colpevolezza».
L'Ispettore Capo rischiò di strozzarsi col caffé che stava bevendo, e questa volta non per il suo saporaccio. «Di che cosa stai parlando?».
Ganimard però non rispose ed uscì dall'ufficio, ignorando le urla di Dudouis.
Sulla strada del deposito prove incrociò Folefant, il quale iniziò ad insultare l'intera categoria dei giornalisti. Questi, notando il totale disinteresse dell'ispettore, si ammutolì fino a quando la curiosità non lo portò a chiedergli: «E adesso cos'ha intenzione di fare?».
«Qualcosa di cui mi pentirò presto», mormorò Ganimard, lugubre.
«E sarebbe?».
«Stanne fuori, Folefant».
«Ma...».
L'ispettore lo fissò intensamente, tanto da interrompere sul nascere ogni suo tentativo di farsi valere. Posandogli una mano sulla spalla, fece del suo meglio per fargli capire che non era un gioco.
«Lo dico per il tuo bene», aggiunse.
Miracolosamente, Folefant decise di dargli retta e smise di seguirlo. Dandogli le spalle Ganimard si sentì malissimo, ma si fece forza: non c'era bisogno che sapesse, che portasse sulle sue giovani spalle il peso della vergogna e dei sensi di colpa per ciò che aveva intenzione di fare: chiedere l'aiuto di Arsène Lupin.

Alle dieci meno un quarto, dopo aver ispezionato ogni lato dell'edificio ed essersi assicurato che non fossero stati installati nuovi trucchi, Ganimard salì al terzo piano ed aspettò pazientemente che Lupin si facesse vivo. Non aveva dubbi che sarebbe arrivato: la sua strafottenza era la caratteristica che più lo faceva imbestialire.
Ciò nonostante iniziò a nutrire qualche dubbio quando scoccarono le dieci e un quarto e di lui non vi era ancora traccia.
«Cos'è, hai avuto paura?», gli chiese a mezza voce, con una punta di soddisfazione.
«Non fare lo scemo!».  
Ganimard si voltò di scatto e sulla soglia vide un vecchio imbianchino con indosso una salopette sporca di vernice. L'uomo gli sorrise furbescamente e togliendosi il cappello si esibì in un inchino teatrale, poi esclamò: «Eccomi qui, come promesso. Scusa il ritardo, stavo lavorando».
«Ah, questa è bella», bofonchiò l'ispettore.
Lupin non andò a prendere le sedie quella volta e Ganimard ne fu felice: voleva portare a termine quella faccenda il prima possibile e andare al pub a fare i conti con le sue terribili scelte.
«Non sai come sono contento che tu sia venuto!», disse ancora Lupin, felice come un bambino. «Volevo proprio dirti di persona quanto mi sono divertito a seguire la vicenda sui giornali e in televisione. Alla fine ho avuto ragione su tutto, dico bene? Le pugnalate, l'asfissia, gli occhiali da sole, il mondo del dj set! Dimmi, forse anche le tartine? Sì, dalla tua faccia direi proprio di sì. Mi faccio i complimenti da solo! Mi sono proprio superato questa volta! Ho persino previsto che saresti tornato qui, in cerca della prova definitiva!».
Ganimard, il quale non era in vena di ascoltare un secondo di più quel pallone gonfiato, infilò una mano nella tasca interna del trench e tirò fuori il pezzo di sciarpa che aveva recuperato dal deposito prove. Non era stato difficile ottenerlo, ma se qualcuno avesse scoperto che l'aveva portato ad Arsène Lupin...
«Oh, fai sul serio!», squittì, gli occhi brillanti di eccitazione. Dalla tasca frontale della salopette il Ladro Gentiluomo estrasse un sacchetto di plastica trasparente simile al suo. «Ecco l'altra metà. Le confrontiamo?».
Con gesti lenti e calcolati estrassero i due frammenti di sciarpa e li posarono sul pavimento, uno accanto all'altro: le irregolarità provocate dalle frettolose sforbiciate combaciavano alla perfezione e il colore del tessuto era lo stesso.
«Quello che ti interessa veramente però sono le tracce di sangue, non è così?», domandò Arsène, guardandolo negli occhi. Afferrò un pezzo di sciarpa e prima che Ganimard potesse dire o fare alcunché, si alzò e si diresse verso la porta del bagno dicendo: «Seguimi, qui c'è più luce!».
Non gli piaceva, non gli piaceva per niente che Lupin lo stesse conducendo nella stessa stanza da cui era scappato l'ultima volta. Ma non poteva nemmeno rimanere lì, perciò lo raggiunse.
Il ladro lo stava attendendo davanti alla porta finestra, con la sciarpa di seta posata sul vetro. In controluce le macchie di sangue erano nettissime: c'erano quelle lasciate dalla pulizia del pugnale e quelle di un palmo e cinque dita, inconfutabili. A quella vista Ganimard pensò davvero che tutto potesse risolversi senza ulteriori complicazioni. Poi però Lupin gli ricordò della sua esistenza, facendogli notare: «Guarda un po', è la mano sinistra! Te l'avevo detto, ricordi?».
L'ispettore cercò di ignorare il suo compiacimento ed afferrò il pezzo di sciarpa, la prova definitiva della colpevolezza di Derocq, prima che Lupin la facesse sparire.
Il ladro ridacchiò. «Ma sì, prendilo pure. Io volevo esaminare l'altro pezzo, quello che era al collo della vittima. Era l'unica condizione che avevo posto per questo secondo incontro. Non ti preoccupare, te lo restituisco».
Inarcando le sopracciglia Lupin stese una mano verso di lui e Ganimard, da uomo di parola, dovette cedergli malvolentieri l'altra metà.
Gli occhi del biondo si illuminarono, due smeraldi verdi tra i più finemente tagliati, quando finalmente mise le mani su ciò che aveva desiderato sin dal primo giorno. E la prima cosa che fece fu esaminare la nappa, sotto lo sguardo perplesso e preoccupato dell'ispettore.
«Ti ricordi con che termini ti descrissi la nostra vittima?», gli domandò ad un tratto il ladro, alzando gli occhi per sorridergli.
«Dicesti che era dalle apparenze eccentriche».
«Ottima memoria, Ganimard! E sai perché? Perché le piaceva personalizzare i suoi vestiti. Insomma... questa sciarpa di seta le sarà costata un'occhio della testa, eppure l'ha rovinata con queste terribili nappe fatte a mano. Ora arriva la parte divertente però... Quando mi è stato portato il pezzo di sciarpa insanguinato, quello che ti sei intascato, mi sono accorto che la nappa non era solo un così detto abbellimento, ma aveva una funzione ben precisa: contenere una piccola medaglietta benedetta della Vergine Maria. Non te lo saresti mai aspettato da una cubista, vero?».
Ganimard sentì la salivazione azzerarsi e il cuore pompare più velocemente il sangue nelle vene ghiacciate, mentre Lupin continuava nel suo racconto.
«Ad ogni modo ero curioso di esaminare anche l'altra estremità. Non sono mai stato un patito di questi lavoretti femminili, ma apprezzo la loro ingegnosità... Guarda com'è fatto bene! Basta prendere una matassa di cordoncino rosso e intrecciarlo intorno ad un'oliva di legno, lasciando nel mezzo un piccolo spazio vuoto, stretto ma sufficiente a nascondere una medaglia benedetta... o qualsiasi altra cosa. Un gioiello, per esempio... uno zaffiro...».
In quel preciso istante tra le sue dita comparve una pietra azzurra dai mille bagliori.
«Che ti dicevo?», esclamò Lupin, sorridendo entusiasta. L'espressione di Ganimard però lo fece mettere in guardia: era livido, con gli occhi sgranati per la rabbia e i pugni tanto stretti da rendere bianche le nocche.
«Animale!», gridò, capendo finalmente il perché di tutto il suo interesse.
Ecco che cosa voleva veramente e Ganimard, come uno stupido, si era lasciato usare. Anzi, aveva fatto di più! Gli aveva portato lui stesso lo zaffiro, come un bravo cagnolino!
«Avanti, non ne vale la pena arrabbiarsi tanto! Ti fa male al fegato!», gli disse il ladro, vagamente annoiato.
L'ispettore avanzò d'un passo, gridando ancora: «Restituiscimela!».
Lupin, senza fare una piega, gli lanciò la sciarpa.
«Anche lo zaffiro!».
«Ah, questa è la seconda fesseria che ti sento dire oggi!», sbottò Lupin, con un sorriso cattivo sul volto. «Dico, sei diventato pazzo? O forse è l'alcool a parlare? Hai bevuto, prima di venire qui?».
Ganimard gli si gettò contro con le mani stese, con l'intenzione di stringergliele intorno al collo, ma Arsène si spostò di lato e con un semplice sgambetto lo fece cadere a terra.
«Certo che siete proprio una delusione...», mormorò il ladro, scavalcando l'ispettore per dirigersi verso la porta. «Quante persone hanno avuto tra le mani questa sciarpa? Almeno una decina, compreso te... E nessuno si è mai chiesto perché la ragazza non avesse ferite da difesa sulle mani! Ha preferito lasciarsi accoltellare, piuttosto che lasciare la presa dalla sciarpa. Questo non vi ha detto nulla? Stupidi, stupidi!».
Ganimard ringhiò come un cane rabbioso e con un colpo di reni di cui si sarebbe pentito per la settimana successiva si girò e gli puntò contro la pistola.
«Non ti muovere, o giuro...!».
«Non sparerai», lo interruppe Lupin, con un sorriso serafico.
Nemmeno la minaccia di una pallottola lo intimoriva... Quell'uomo era incredibile. O forse... forse c'era un motivo, se era così sicuro.
«Che cos'hai fatto?», domandò l'ispettore, deglutendo.
«Io nulla. Folefant, tuttavia...». Lupin si piegò sulle ginocchia e lo guardò impietosito. «Da quel che mi risulta, sei particolarmente affezionato a questo ragazzo. Ma ti puoi davvero fidare di lui?».
Ganimard non rispose, atterrito, e al ladro fu sufficiente per sospirare e scuotere il capo.
«Mi dispiace dovertelo dire, ma tutti hanno un prezzo».
Il mondo gli crollò addosso, ma l'ispettore riuscì comunque a sferrare un calcio con l'intenzione di farlo cadere a sua volta. Arséne però lo deviò con un semplice saltello e ricadde sopra la sua caviglia sinistra, facendolo gridare di dolore.
«Non costringermi a farti più male del necessario, vecchio mio», lo supplicò Lupin, con tono davvero addolorato. «Tanto lo sai come andrà a finire. Accontentati di sbattere Derocq in prigione e di riscattarti di fronte al tuo capo e ai media».
Lentamente Lupin spostò il piede dalla sua caviglia e Ganimard abbassò la pistola, chiuse gli occhi umidi di lacrime ed abbandonò il capo contro il pavimento piastrellato.
Aveva ragione. Aveva ragione su ogni fronte. Lupin disponeva di forze contro le quali qualunque iniziativa individuale s'infrangeva. Che scopo aveva continuare a lottare, ostinarsi fino a quel punto? Avrebbe dovuto fermarsi molto tempo prima, quando ancora aveva qualcosa da salvare.
«Se ti può consolare, vedila così: lo zaffiro è il tuo ringraziamento per averti salvato la vita», esclamò Arsène. «Se io non ti avessi avvisato che Derocq era mancino, a quest'ora Emélie e Théa non avrebbero più un padre. Dico bene?».
Quelle parole furono in grado di rianimarlo. Quella canaglia aveva osato troppo, pronunciando i nomi delle sue bambine.
Con un gesto fulmineo recuperò la pistola e gliela lanciò dietro, ma Lupin era scoppiato a ridere e aveva usato la porta del bagno come scudo. L'ispettore si precipitò allora all'inseguimento, ma il ladro fu più veloce e lo salutò con le quattro dita della mano prima di chiuderlo a chiave all'interno dell'appartamento.
Provò a buttarla giù a spallate e a far saltare la maniglia a calci, ma il clacson di un'auto attirò la sua attenzione. Tornò nel bagno e dal piccolo balconcino vide Lupin, ora senza i capelli e i baffi grigi dell'imbianchino, che lo salutava da dietro lo stesso SUV nero dai vetri oscurati della settimana precedente.
«Un consiglio, Ganimard: smettila di essere così credulone! Se qualcuno ti dice che la pistola non sparerà, anche se si chiama Arsène Lupin, ti conviene sempre provare prima! Per fortuna non c'era qui Folefant, altrimenti sai come si sarebbe offeso!».
Con gli occhi iniettati di sangue, l'ispettore prese la mira e sparò uno, due, tre colpi. Lupin si nascose dietro la fiancata del SUV - ovviamente antiproiettile - e riprese a ridere come un matto. Questo portò Ganimard a svuotare tutto il caricatore, tant'era l'odio che provava nei suoi confronti in quel momento.
Quando abbassò l'arma e riprese fiato, Arsène sollevò il capo e sorridendo concluse: «È stato un piacere, vecchio mio! A presto!».
Ganimard guardò il SUV allontanarsi, lasciandosi dietro una nuvola di polvere, e poi strinse le mani intorno all'inferriata, il collo stretto tra le spalle.
Aveva perso e non sarebbe stata l'ultima volta, ma forse un motivo per lottare ancora ce l'aveva.

Si sistemò ancora una volta il nodo alla cravatta e controllò che i capelli non fossero troppo scompigliati, quindi chiuse gli occhi, respirò profondamente e premette il pulsante del campanello.
Fu Célestine ad aprire la porta e il suo volto ricoperto di efelidi, incorniciato da una cascata di capelli rossi, era così bello che Ganimard sentì il cuore in gola.
«Justin», esclamò sorpresa. Non arrabbiata, nè infastidita: solo sorpresa. «Che cosa ci fai qui?».
«Io, ecco... Lo so che non sarei dovuto venire prima di domani, ma sono appena tornato da Londra e volevo...».
«Papà! Papà, sei qui!», gridò Théa, la più piccola, superando la madre per aggrapparsi alla sua gamba sinistra. Presto, richiamata dalle urla della sorella, anche Emélie si aggiunse all'abbraccio, circondandogli la vita ed affondando il viso nel suo cappotto.
Ganimard accarezzò i capelli delle sue figlie, le uniche che riuscivano a sciogliere tutta la rabbia che come catrame gli anneriva la vita, e guardò Célestine con sguardo implorante.
L'ex-moglie sospirò, ma alla fine abbozzò un piccolo sorriso ed acconsentì a quella visita fuori programma.
Mentre Emélie e Théa esaminavano i loro souvenirs - un orsetto di peluche vestito da guardia reale e un libro in inglese da colorare - i genitori si sedettero all'isola della cucina per un caffè.
«Come mai sei già tornato?», spezzò il silenzio la donna, senza guardarlo in viso.
«Non volevo perdermi il week-end con le bambine».
Célestine lo guardò da dietro la tazza di caffé e i suoi penetranti occhi azzurri fecero fare un'altra capriola al suo cuore.
«Quindi avresti abbandonato una pista su Arsène Lupin per...».
Fu un azzardo, ma Ganimard non se ne pentì: allungò una mano e raggiunse l'incavo del gomito dell'ex-moglie, cercando un contatto.
Non avevano mai avuto un momento simile da quando si erano separati: per la prima volta stavano discorrendo come due persone civili, davanti ad una tazza di caffé, e doveva approfittarne per dirle ciò che doveva.

«Ho commesso degli errori. Molti errori. Ho dato te e le bambine per scontate e ho iniziato a bere per la frustrazione, ma ora sto meglio. Mi sto impegnando al massimo per rimettermi in carreggiata e, anche se ho promesso a me stesso che avrei arrestato Arsène Lupin, ho capito che non è tutto. Fintanto che si trova in Inghilterra se ne occuperà Sherlock Holmes. Al momento, Emélie e Théa sono la mia priorità».
Célestine abbozzò un sorriso e tenne la tazza con una sola mano per posare l'altra sul suo braccio, in una carezza.
Dentro di sé Ganimard sentì la scintilla della speranza riaccendersi e decise che avrebbe lottato fino alla fine dei suoi giorni per ricostruire la sua famiglia e allo stesso tempo arrestare Arsène Lupin. Poteva farcela, doveva farcela. 

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Capitolo 15
*** Family business ***


Buongiorno e buona domenica a tutti!
Allora, spero di non avervi sconvolto troppo con lo scorso capitolo! (Ma so che è così xD). Con questo torniamo nel bel mezzo della storia, con Geneviève che ha scoperto la verità sulla sorella di sua madre e ora vuole delle spiegazioni da Sherlock, il quale sapeva tutto sin dall'inizio e l'ha tenuta all'oscuro, e da John, suo zio.
Parleremo anche di Molly, la cara dolce Molly che ha deciso di invitare Jean allo spettacolo alla Royal Opera House senza sapere che in realtà ha invitato Arsène Lupin! La saga del #maiunagioia continua... Ma chissà, magari ne verrà fuori anche qualcosa di buono! O forse un disastro cosmico.
E niente, ormai siamo arrivati circa a metà della storia e dal prossimo capitolo si aprirà una specie di Parte 2, perciò spero davvero che vi piaccia tanto quanto piace a me.
Sulla mia pagina facebook trovate un album in cui ho iniziato a raccogliere tutto ciò a cui mi sono ispirata durante la stesura della fic e poi vabbè, aggiornamenti e altre cose che mi piacciono. Fateci un salto se vi va! ^///^
Grazie a tutti per il supporto e buona lettura! Ci vediamo la prossima settimana! ❤

Vostra,
_Pulse_
 

P.S. Il titolo del capitolo è chiaramente ispirato al motto dei fratelli Winchester di Supernatural ;)



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15. Family business


Sherlock aveva più volte denigrato l'uso delle parole, considerandole spesso e volentieri inutili e ridondanti, ma con sua sorella Eurus gli avrebbero fatto comodo. Spiegarle l'arrivo di Arsène Lupin e di sua figlia Geneviéve con delle note di violino non era stato difficile, di più. Tuttavia lei era riuscita a capire e di conseguenza a perdonarlo per aver saltato il loro ultimo incontro. Ciò che non era riuscita a fare, secondo il parere di Sherlock, era stato dargli un consiglio su come gestire quella situazione complicata.
La ragazzina non aveva risposto a nessuno dei suoi messaggi ed era sempre risultata irrintracciabile al Savoy. Aveva chiesto aiuto a John, alla signora Hudson e persino a Mycroft, ma nessuno aveva saputo contribuire alla soluzione dell'enigma. Come ultima risorsa si era rivolto persino ad Arsène, confessandogli la propria preoccupazione, ma il ladro gli aveva riso in faccia, chiedendogli se l'avesse offesa in qualche modo.
«Le adolescenti tendono ad essere molto suscettibili, sai. E poi lei è del segno dello scorpione, quindi...», gli aveva detto.
Il detective aveva ripercorso gli ultimi giorni e non aveva trovato nulla di insolito: era stato il solito Sherlock di sempre, se non addirittura più affettuoso del normale. Che fosse stato quello a farla allontanare in quel modo? O che avesse finalmente deciso da che parte stare, quella di suo padre?
Sherlock sentì delle voci nell'androne e si intascò il diamante azzurro, con cui non aveva fatto altro che giocare mentre rifletteva davanti alla tazza di té che la signora Hudson gli aveva portato. Fu proprio la padrona di casa a raggiungerlo per prima, seguita da un ragazzo sui trent'anni, dai capelli castani e gli occhi scuri, tutto sommato di bell'aspetto.
«Grazie, signora Hudson», la congedò, poi si concentrò sul suo ospite: «Maurice Leblanc, suppongo».
Il giornalista rizzò di scatto le spalle, riservandogli uno sguardo di profonda stima e timore riverenziale. Si avvicinò con la mano tesa ed aprì la bocca, ma non un suono vi uscì.
Sherlock inarcò un sopracciglio, alzandosi per stringergli la mano. «È muto per caso? Arsène non mi aveva informato...».
«N-No», lo interruppe balbettando. «Mi scusi, signor Holmes. È solo che ho pensato così tanto a quest'incontro che ho avuto un attimo di... incredulità».
Il detective gli rivolse un sorriso di circostanza e tornò a sedersi sulla propria poltrona, senza offrirgli né un té né qualcos'altro. Non voleva protrarre ulteriomente la durata di quell'intervista.
Maurice però lo stava ancora fissando, a bocca socchiusa, come se si trattasse di un apparizione divina. Seccato, Sherlock si portò due dita sulla tempia e disse: «Vogliamo sbrigarci? Ho altri impegni».
Gli indicò il divano e il reporter si sedette, tirò fuori un bloc-notes e una penna ed iniziò a scarabocchiare qualcosa, peggiorando ulteriormente il cattivo umore del detective.
«Che cosa sta scrivendo adesso?».
«Ero stato avvisato che sarebbe stato piuttosto irritabile, perciò scrivo che il signor Lupin aveva ragione. Voi due vi conoscete molto bene... Ciò nonostante, non è ancora riuscito ad arrestarlo. Come lo spiega, signor Holmes?».
All'improvviso tutta l'impacciata timidezza e il disagio di quel ragazzo erano svaniti, lasciando posto alla professionalità. Forse l'aveva sottovalutato.
Sherlock guardò la poltrona vuota davanti a sé e rispose: «Arsène Lupin è un avversario formidabile, non ho problemi ad ammetterlo. La sua intelligenza è comparabile alla mia, per questo riusciamo a prevedere ognuno le mosse dell'altro con così tanta facilità. Il motivo per cui non sono ancora riuscito ad arrestarlo è semplice: Arsène ha mezzi di cui io non dispongo».
«Cioè?».
«Uomini, tecnologie, capitali... Togliendogli tutto, scommetto che in uno scontro uno contro uno non avrebbe scampo».
Maurice alzò lo sguardo dal proprio bloc-notes, con un sorriso che aleggiava sul suo volto. «Dice sul serio? Secondo le mie fonti vi siete battuti uno contro uno a Thibermesnil e a prevalere è stato Arsène Lupin».
Sherlock strinse i pugni sui braccioli della poltrona e respirò profondamente per controllare la rabbia. Quel maledetto...
Una leggera vibrazione attirò la sua attenzione. Con la coda dell'occhio il consulente investigativo guardò Maurice Leblanc tirare fuori dalla tasca della giacca il proprio cellulare ed abbozzare un sorriso leggendo il messaggio che gli era appena arrivato.
«Mi scusi un momento», mormorò, rispondendo velocemente. Poi tornò a guardarlo e disse: «Dov'eravamo rimasti? Oh, sì. È davvero sicuro che uno contro uno riuscirebbe a prevalere?».
«Beh, di certo avrei...».
Il cellulare del reporter vibrò nuovamente e questi esibì lo stesso sorriso, ignorandolo per rispondere.
«Oh, insomma!», sbottò Sherlock.
«Mi... Mi perdoni, non accadrà più», promise Maurice, deglutendo. «Cambiando argomento, mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista sul vostro primo incontro. Ci sono ancora molti punti oscuri e...».
«No».
«No? Che cosa significa?».
Sherlock sospirò, esasperato. «Significa che non le racconterò del nostro primo incontro. È una storia troppo lunga e complessa».
Arrivò un nuovo sms che Maurice ignorò, come aveva promesso.
«Capisco. Può almeno rivelare perché, in quell'occasione...». Maurice si interruppe bruscamente, osservando Sherlock alzarsi e dirigersi a passo deciso verso di lui. Istintivamente si portò le mani davanti al viso per proteggersi, ma al detective interessava il suo cellulare, il quale non aveva smesso di vibrare da quando aveva ignorato l'ultimo messaggio.
Maurice Leblanc era un tipo professionale, che amava il suo lavoro, perciò non avrebbe mai distolto l'attenzione dal tanto atteso incontro con Sherlock Holmes se non fosse stato per un'ottima ragione. Forse il suo amico di chat era lo stesso per cui era diventato conosciuto nel mondo dei quotidiani: Arsène Lupin.
«Ehi, ma che cosa fa?», protestò Maurice quando si accorse che l'interesse del detective era rivolto verso il suo cellulare.
Il sorriso vittorioso di Sherlock però si spense non appena lesse il nome della persona che lo stava chiamando: Gen.
Geneviéve? si chiese, mentre il suo cuore si comportava in modo strano. Si tirò un pugno sul petto e ricomponendosi porse l'apparecchio al suo proprietario, dicendo: «Risponda pure, sembra importante».
Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte ed accettò la chiamata. Senza distogliere gli occhi da quelli del detective, in piedi di fronte a lui, esordì: «Sono impegnato».
Sherlock avrebbe dato di tutto per sentire la risposta di "Gen": avrebbe avuto così la conferma che la ragazzina stava bene. Al contempo, però, si sarebbe ritrovato con altri interrogativi tra le mani: come faceva a conoscere Maurice Leblanc? Che suo padre avesse confessato anche questo al giovane reporter? E, soprattutto, che rapporto c'era tra quei due? Non era uno che si scandalizzava facilmente, ma il pensiero che Geneviève e Maurice potessero... No, impossibile! Arsène per primo non l'avrebbe mai permesso. Aveva solo quindici anni, per l'amor del cielo!
«Che cosa?», domandò stupito il ragazzo. «Perché dovrei farlo?».
La comunicazione si interruppe all'improvviso e Maurice guardò sbigottito il cellulare, poi rialzò lo sguardo per incrociare quello di Sherlock e, ignorando l'imbarazzo, esclamò: «Mi è stato raccomandato di non fidarmi di lei, signor Holmes, e di dirle che la verità, che le piaccia o no, viene sempre a galla».
Il consulente investigativo indietreggiò di un passo, poi disse che l'intervista era finita e tornò alla propria poltrona, dove si sedette con le dita davanti alla bocca, meditabondo.
Maurice Leblanc sospirò, mostrando dell'insoddisfazione, e dopo averlo salutato e ringraziato per il tempo concesso se ne andò.
Rimasto solo, Sherlock rifletté a lungo. Poi, giungendo alla conclusione che non aveva alcun senso rimandare, scrisse un breve sms a Geneviève, con la speranza che non venisse ignorato come gli altri.

Waterloo Bridge, 9 p.m.
SH

***

Tutto aveva un senso, ora.
L'interessamento di Sherlock nei suoi confronti, lo strano comportamento del dottor Watson e il modo in cui le era rimasto accanto quando sua madre era tra la vita e la morte. Ancora, il rifiuto categorico del detective quando gli aveva chiesto di cercare insieme sua zia e il messaggio che le aveva inviato due giorni prima, dicendole che non era sola.
Sherlock aveva sempre saputo, sin dal suo primo incontro con sua madre, e non le aveva mai detto nulla. Certo, in teoria non era compito suo - avrebbe dovuto pensarci suo padre, o al massimo John Watson, suo zio - ma Geneviève si era sentita così tradita e presa in giro da volersi isolare dal resto nel mondo, costruendosi un fortino all'interno della propria stanza ed impedendo a tutti di entrare.
Era stata chiusa lì dentro per un giorno intero, ventiquattro ore di solitudine in cui non aveva fatto altro che ascoltare musica e scrivere su un quaderno tutto ciò che era successo da quando aveva finalmente conosciuto suo padre. Mettere i propri pensieri nero su bianco le era servito per alleggerirsi il cuore e riordinare le idee, tanto che una volta finito si era alzata, aveva aperto le porte finestre per far cambiare l'aria - nonostante fosse passata l'ora di cena da un pezzo - ed aveva abbozzato persino un sorriso. Era ancora arrabbiata con Sherlock, ma almeno era pronta ad affrontare ciò che l'attendeva.
Così era uscita dalla sua stanza e si era diretta verso quella del padre. Ancora non lo sapeva, ma aveva molto da recuperare.
Un uomo della sua scorta l'aveva informata che Arsène non era ancora rientrato dalle sue commissioni e Geneviève, per perdere un po' di tempo, aveva deciso di fare una passeggiata. Era stato un caso, dunque, se la sua strada e quella di Maurice Leblanc si erano incrociate. Quella volta però la ragazzina aveva ignorato i timori del padre e non si era nascosta, incuriosita ed attratta da quel giovane reporter che in qualche modo era riuscito a conquistare le simpatie del Ladro Gentiluomo.
Si era seduta sulla sua stessa panchina affacciata sulle rive del Tamigi, non molto distante dal London Eye illuminato, ed aveva lasciato che fosse lui a fare il primo passo.
Le aveva chiesto se per caso alloggiasse al Savoy, dato che gli sembrava di averla già vista da qualche parte. Geneviève aveva sorriso e in breve tempo - scoprendo che erano entrambi francesi ed avevano molte passioni in comune, a partire dal rock - si erano alzati per andare a prendere un caffè. Un caffè e una cioccolata calda, per la precisione, dato che alla ragazzina non piaceva.
Solo a fine serata, dopo aver fatto un giro sulla ruota panoramica, Maurice aveva osato chiederle la sua età. Geneviève si era calata il cappellino nero sulla fronte e aveva finto di offendersi, dandogli le spalle, e questo le aveva permesso di ottenere la verità: gli piaceva e voleva il suo numero.
A quel punto sapeva che se avesse rivelato la sua vera età avrebbe perso l'opportunità di conoscere ancora meglio quel ragazzo - piaceva anche a lei, ad essere onesti - perciò aveva fatto l'unica cosa possibile: aveva mentito. D'altronde glielo dicevano tutti che sembrava più grande...
«Ho diciott'anni», aveva risposto. La differenza d'età era ancora molta, dato che Maurice ne aveva ventinove, ma ad ogni modo non voleva mentirgli per sempre.
A quel punto si erano scambiati i numeri di cellulare ed erano tornati in hotel, dove le loro strade si erano separate. Tuttavia quella notte erano stati svegli fino alle tre a messaggiare. E quella mattina, appena svegli, avevano fatto lo stesso, almeno fino a quando Maurice non le aveva rivelato che aveva intenzione di andare da Sherlock Holmes per un'intervista.
Sulla ruota panoramica avevano parlato del suo lavoro di reporter per L'Ècho de France e dei pettegolezzi che giravano sul suo conto, ovvero che era stato scelto come portavoce di Arsène Lupin. Persino lei lo sapeva, nonostante non leggesse i quotidiani. Maurice aveva glissato, senza rivelarle se fosse vero o meno, e Geneviève non aveva insistito troppo: sarebbe sembrato sospetto.
La ragazzina, una volta sicura che fosse davanti al grande detective inglese, aveva deciso di fare la propria mossa per costringerlo ad uscire allo scoperto. Fino ad allora si era limitato a mandarle sms, chiedendole se stesse bene ma mantenendo le distanze: Geneviève voleva che si esponesse, che la guardasse negli occhi e le dicesse perché le aveva tenuta nascosta una verità così importante.
Le dispiaceva aver usato Maurice in quel modo, ma non le sembrava un tipo che ne avrebbe fatto un dramma. O almeno così credeva.
Si trovava al Thames Foyer per la colazione, col cellulare tra le mani per via del messaggio che aveva appena ricevuto da parte di Sherlock, quando il reporter la raggiunse a passo deciso e le rivolse la sua espressione più furiosa: gli occhi stretti a due fessure, le narici dilatate e i denti stretti.
«Sarai contenta, spero. La mia intervista è andata a farsi benedire, per colpa tua», urlò a mezza voce, per non attirare troppo l'attenzione.
Geneviève si portò alla bocca un cupcake ai mirtilli e dopo avervi dato un piccolo morso lo guardò negli occhi, la fronte aggrottata.
«Colpa mia?», ripeté candidamente. «Se temevi un finale del genere avresti dovuto ignorare ciò che ti avevo detto».
Maurice, preso in contropiede, non seppe come ribattere. Si lasciò cadere sulla poltrona alle sue spalle, accanto al divanetto su cui era seduta Geneviève, e si portò una mano tra i capelli castani.
«Scusami, hai ragione. Non mi hai mica costretto a dire quelle cose. Però... non capisco. Tu conosci Sherlock Holmes?».
«Diciamo che mi ero rivolta a lui per un caso», disse, rimanendo sul vago. «E non l'ha gestito nel migliore dei modi».
La curiosità di Maurice e il suo fiuto da reporter gli fecero rizzare le orecchie. «Posso sapere di che cosa si trattava?».
Geneviève sorrise e si alzò, col cupcake mangiato a metà in mano. «Forse, un giorno. Ci sentiamo».  
La ragazzina sentì lo sguardo di Maurice perforarle le scapole mentre lasciava la sala da té e sorrise, soddisfatta del proprio operato. Peccato che Baffoni la stava aspettando all'uscita, addossato ad una delle colonne e con le braccia conserte.
Quell'uomo continuava a non piacerle, ogni giorno di più.
«Padron Lupin le aveva proibito di entrare in contatto con il signor Leblanc», le disse, granitico.
«Lui non è il mio padrone», rispose a tono Geneviève.
«Il minimo che dovrebbe fare è ascoltarlo, come segno di riconoscenza per averla presa con sé».
La bionda strinse così forte i denti da sentirli stridere tra loro. Quindi gli tirò in faccia il mezzo cupcake, macchiandogli i baffi di frosting azzurro, e sibilò: «Nessuno gliel'ha chiesto. E se ha un secondo fine, se crede di poter usare la carta della "riconoscenza" per sfruttarmi come fa con te o uno qualsiasi dei suoi minions si sbaglia. Riferisciglielo pure, se lo ritieni opportuno».
Detto questo Geneviève raggiunse l'ascensore e lo fissò, truce, fino a quando le porte non si chiusero. Allora tutto il peso delle parole che Baffoni le aveva rivolto, in particolare il loro significato sottinteso, le crollò addosso facendole salire le lacrime gli occhi. Si rifugiò di nuovo nella sua stanza, rassettata dopo giorni, e cadde a peso morto sul letto.

***

John aprì la porta e sorrise vedendo Molly dall'altra parte, dall'espressione distesa e sorridente, come non la vedeva da settimane.
«Grazie per essere venuta con così poco preavviso. La baby-sitter mi ha dato buca un'ora fa», si scusò il dottore, facendola entrare.
«Non ti preoccupare, mi fa piacere prendermi cura di Rosie. A te sta bene se la porto a fare un giro, più tardi? Dovrei andare dal parrucchiere...».
«Ahm, no, nessun problema», la rassicurò John e prese la palla al balzo per domandare: «Taglio di routine o occasione speciale?».
L'anatomopatologa finì di togliersi il cappotto e gli sorrise, rispondendo: «Si nota così tanto?».
«Diciamo di sì. Allora, chi è il fortunato?».
«Non ci crederesti».
John aprì le braccia. «Mettimi alla prova».
«La storia ha dell'inverosimile, ma ti giuro che è la verità».
E così gli raccontò di Jean, il francese che l'aveva abbordata al Fox. Lo stesso Jean che qualche tempo dopo era diventato famoso per aver impedito a Victor Danegre, l'assassino di Leona Zalti, di buttarsi giù dal Waterloo Bridge.
«Lo so che lo conosco da poco e che dovrei andarci piano, ma mi piace molto. Così gli ho chiesto se voleva accompagnarmi alla Royal Opera House e lui ha accettato», concluse con un sorriso imbarazzato.
John, incredulo, non riuscì a dimostrarsi contento per lei come avrebbe dovuto. Molly lo notò, ma non fece in tempo a chiedergliene il motivo. Il dottore infatti prese la giacca e fingendo di essere in ritardo la salutò, ringraziandola ancora per la sua disponibilità.
Correndo John raggiunse la strada pricipale e chiamò un taxi: non aveva tempo per aspettare l'autobus, doveva immediatamente avvisare Sherlock. Alla fine le sue paure si stavano realizzando, dato che l'affascinante Jean altri non era che Arsène Lupin.
Una volta al 221B, John trovò l'amico sulla sua poltrona di pelle, nella posizione di meditazione che assumeva quando un problema assorbiva tutta la sua concentrazione.
«Sherlock, devi sapere una cosa», esclamò, agitato.
«Anche tu», rispose il detective, alzando gli occhi su di lui. «Geneviève ha scoperto tutto».
Il dottore rimase a bocca aperta, letteralmente. «Intendi...».
«Sì. Non so come abbia fatto, se sia stato Arsène oppure...».
«A proposito di lui», lo interruppe John, il quale realizzò di non potersi tenere dentro quella notizia un secondo di più. «Lui e Molly andranno all'opera domani sera».
Sherlock lo guardò confuso, poi un piccolo sorriso gli alzò un angolo della bocca. «No che non lo faranno».
«Non sto scherzando, Sherlock. Si è avvicinato a lei come Jean, il turista che ha salvato la vita a Danegre. E Molly gli ha chiesto di accompagnarla allo spettacolo».
Il consulente investigativo rimase in silenzio a lungo e quando finalmente capì che non lo stava prendendo in giro si alzò, lo superò e scese le scale a capofitto. John faticò a stargli dietro e una volta sul marciapiede, guardandolo alzare un braccio per fermare un taxi, gli gridò: «Che hai intenzione di fare?».
Sherlock non rispose, ma il suo sguardo glaciale fu piuttosto eloquente.
John fissò il taxi allontanarsi lungo Baker Street e si chiese se non avesse fatto un errore, poi pensò a ciò che avrebbe dovuto preoccupare lui - Geneviève sapeva la verità! - e mestamente si diresse verso la fermata degli autobus per andare al lavoro.

***

Arsène si sfregò le mani, sorridente, e bussò alla porta della figlia. A causa del suo periodo di isolamento e delle commissioni sbrigate in mattinata non aveva avuto ancora modo di raccontarle tutto ciò che si era persa.
Quando gli aprì, Geneviève lo guardò con un misto di timore e rancore negli occhi.
«Che cos'è successo, tesoro?», gli chiese, preoccupato di aver fatto qualcosa di male.
«Baffoni non ti ha detto nulla?», gli domandò a sua volta, sospettosa.
«Baffoni?».
La ragazzina sventolò una mano. «Il tuo... Non so nemmeno come definirlo».
«Ti riferisci forse alla persona a cui ti ho affidata in più di un'occasione?». Arsène rise divertito al suo cenno affermativo, trovando davvero simpatico il soprannome. Forse avrebbe potuto usarlo anche lui.
«Il suo nome è Grégorie», le confidò, con una mano al lato della bocca. «Ma non gli piace, perciò evita di chiamarlo così».
Geneviève sogghignò. «Contaci...».
«E comunque no, non mi ha detto nulla. C'è qualcosa che dovrei sapere?».
La bionda negò col capo e si spostò di lato per lasciarlo entrare.
Arsène si sedette sul letto ed invitò la figlia a fare altrettanto perché potesse raccontarle gli ultimi sviluppi e spiegarle ciò che aveva bisogno che facesse quel giorno.
Lei si trovava a casa di Sherlock quando lui si era avvicinato a Molly Hooper per la prima volta, perciò dovette raccontarle anche quell'episodio prima di dirle di essere diventato "l'eroe di Waterloo Bridge", del loro pranzo insieme e dell'invito alla Royal Opera House.
Geneviève non reagì come si aspettava, ovvero con contentezza ed ammirazione; piuttosto si dimostrò agitata, preoccupata che si fosse spinto un po' troppo oltre.
«Lei non ti ha fatto niente», cercò di dissuaderlo, stringendosi le mani sulle gambe. «Non dovresti coinvolgerla».
Arsène le accarezzò una guancia, per poi prenderle il mento tra le dita e guardarla negli occhi. «Tranquilla, non ho intenzione di farle del male».
«Forse no, ma... ma che succederebbe se si affezionasse a Jean e poi scoprisse che non esiste?».
Il Ladro Gentiluomo esitò, poi si alzò e si sistemò meglio il tutore che aveva al braccio. Con voce ferma, rispose: «È un rischio che devo correre, temo. Molly Hooper... ho bisogno di studiarla».
«Che cosa?».
«A quanto pare non è ordinaria come credevamo. Ha un dono speciale e voglio verificarne l'estensione, prima di decidere».
«Decidere?», ripeté la figlia, sempre più confusa dalle sue parole.
Arsène si voltò e la guardò con un tenero sorriso, così in disaccordo con le parole che gli uscirono di bocca: «Prima di decidere se consegnarla o meno a Irene Adler».
Senza darle il tempo di ribattere tornò a sedersi di fianco a lei e le prese una mano per portarsela alla bocca.
«E qui entri in gioco tu, tesoro. Avrei bisogno che tu faccia una cosa per me».

«Allora, lo farai?».
Geneviève alzò gli occhi in quelli del padre, ma dei decisi colpi alla porta le impedirono di rispondere. Fu un sollievo, anche se sapeva fin troppo bene che quel momento era solo rimandato.
Era proprio come aveva detto a Grégorie... Suo padre continuava a chiederle di aiutarlo, spacciandoli come favori, quando in realtà la sfruttava come uno qualunque dei suoi uomini. E se si fosse rifiutata che cosa sarebbe successo? L'avrebbe rispedita da dov'era venuta, decidendo di non volersi più di occupare di lei per la scarsa riconoscenza che dimostrava? D'altronde perché avrebbe dovuto sfamare una bocca senza ricevere nulla in cambio?
Arsène aprì la porta e trovò Ernest dall'altra parte, il quale gli sussurrò qualche parola prima di ritirarsi. A quel punto suo padre si girò verso di lei e con un sorrisino divertito sul volto esclamò: «Il caro Sherlock vuole vedermi. Ti dispiacerebbe rimanere qui? Ci vorranno dieci minuti al massimo».
Geneviève annuì e guardò il padre uscire. Quando si fu chiuso la porta alle spalle, la ragazzina aspettò due minuti e lo seguì. Raggiunse la reception, dove si erano radunati la maggior parte degli uomini del suo entourage, perfettamente camuffati e mimetizzati nell'ambiente, e per non farsi vedere sfruttò il carrello stracolmo di bagagli che un facchino stava portando verso l'uscita. Al momento giusto saltò dietro una delle tante poltrone sparse per l'enorme hall e guardò la scena che aveva di fronte: due membri della sicurezza del Savoy avevano fermato Sherlock tra le due porte girevoli e Arsène lo fissava divertito, scuotendo il capo.
«A quanto pare non sei ben voluto nemmeno tu qui, dopo lo scherzetto dell'ultima volta», gli disse. «Avresti potuto chiamarmi, ci saremmo incontrati altrove. Invece hai agito impulsivamente, senza pensare...». Si avvicinò, sinuoso, e si chinò all'altezza del suo petto, dove posò anche un dito per tracciarvi un cuore stilizzato. «Devo presupporre che si tratti di questo?».
Sherlock si liberò delle guardie con una facilità disarmante, facendo capire a tutti che erano riuscite a fermarlo solo perché gliel'aveva permesso, e si avventò contro Lupin. Il pugno andò a segno, stupendo tutti i presenti e il ladro stesso, il quale rise e gli rivolse uno sguardo folle, mentre un rivolo di sangue gli scorreva lungo il mento. Doveva essersi tagliato il labbro.
«Te l'avevo detto che l'amore ci permette di fare cose impossibili!», esclamò prima di sollevare una mano, un segnale al quale i suoi uomini accerchiarono Sherlock, mentre un impassibile Grégorie tirava fuori dal taschino un fazzoletto di seta e lo porgeva al suo padrone perché si tamponasse la ferita.
Geneviève sentì il cuore schizzarle il gola, ma non riuscì a muoversi dal suo nascondiglio: era come paralizzata dietro quella poltrona.
Ancora una volta il detective non oppose resistenza e si lasciò scortare in uno dei salotti privati dell'immensa hall, lontano dagli occhi e dalle orecchie indiscrete dei facoltosi e rispettabili ospiti del Savoy.  
L'impiegato seduto dietro un'antica scrivania in mogano venne fatto sloggiare e Geneviève lo guardò chiudersi la porta alle spalle. In quel momento le sue possibilità di origliare furono ridotte a zero e l'unica cosa che poté fare fu tornare nella sua camera per prepararsi alla giornata che l'attendeva.
Sherlock si era presentato lì, nella tana del nemico, perché doveva aver scoperto che suo padre si era avvicinato a Molly Hooper. Per lei avrebbe affrontato Lupin e tutta la sua scorta a mani nude, se necessario, e Geneviève non poteva ignorarlo.
Inoltre le era bastato un solo incontro per capire che Molly aveva sofferto già troppo. Per questo avrebbe all'apparenza aiutato suo padre, mentre in realtà avrebbe cercato di avvertirla del possibile pericolo a cui andava incontro.
Era una decisione rischiosa, la più rischiosa, ma era quella giusta da prendere.

***

«Lasciala in pace».
Arsène si voltò verso di lui, fissandolo con gli occhi stretti in due fessure. Ad un tratto il sorriso che tanto incuteva terrore negli uomini e le donne che si ritrovavano con un conto in sospeso col ladro si ripresentò, ma Sherlock non ne era più impressionato ormai.
«E così... tutto questo teatrino, per Molly Hooper?».
Il detective si dimenò sulla sedia dove era stato fatto accomodare, stretto tra la pesante scrivania e tre uomini che gli tenevano ferme spalle e braccia.
«Ganimard aveva ragione», disse tra i denti. «E io non l'ho ascoltato, come uno stupido».
«Ah, il povero Ganimard... Viene così spesso sottovalutato! E invece è l'unico che sia mai riuscito a mettermi i bastoni tra le ruote». Arsène sospirò, forse ricordando alcune delle loro avventure, e si sedette sul bordo della scrivania. «E dimmi, su cosa aveva ragione?».
«Aveva detto che la restituzione della perla nera non era un atto di bontà, ma un mezzo per arrivare a qualcos'altro. La parte dell'eroe... è stata tutta una recita per attirare l'attenzione di Molly, un incentivo a fidarsi di te».
«Magnifique!», esclamò, battendo persino le mani. Subito dopo però si rabbuiò e si chinò sulla scrivania per avvicinarsi al suo viso e tornare a guardarlo negli occhi. I loro nasi quasi si sfiorarono.
«C'è qualcosa che non quadra, però... Perché sei venuto fin qui a minacciarmi, a dirmi di stare lontano da una donna adulta e vaccinata, che è liberissima di fare le sue scelte, e che tu eviti come la peste?».
Sherlock ricambiò il sorriso, mettendoci la stessa punta di follia. «Quindi avevo ragione: stai usando Geneviève per trarre informazioni sulle persone a cui tengo. Personalmente non credo che i segni zodiacali influenzino il carattere di una persona. Scorpione o meno, sono certo che non sarà felice di scoprirlo».
Arsène saltò giù dalla scrivania e finse una risata, ma il detective notò il nervosismo che gli tendeva i muscoli.
«E tu pensi davvero di poter mettere mia figlia contro di me? Sì, forse è vero che in un'occasione o due le ho chiesto dei favori, ma aveva sempre una scelta. Non l'ho mai obbligata a fare nulla. Però il fatto che ti abbia ignorato negli ultimi due giorni è indicativo, non credi? Di chi si fida di più? Di suo padre o dell'uomo che non ha avuto il coraggio di dirle la verità sul conto di sua zia?».
«Lo sapevo che eri stato tu», sibilò con astio.
«Ha fatto tutto da sola. Io le ho solo dato un piccolo indizio», rispose il ladro, sventolando una mano. Poi tornò verso la scrivania e vi si appoggiò con l'anca.
«Ad ogni modo... se non vuoi che Molly Hooper mi frequenti basterebbe che tu andassi da lei e l'avvisassi sul mio conto, come hai fatto con John. La cosa più semplice del mondo, no?».
Sherlock strinse i pugni, fremendo di collera sotto la stretta degli uomini di Lupin.
Aveva ragione, aveva dannatamente ragione. Ma con che coraggio poteva affrontarla, dirle di non usare i biglietti che lui stesso le aveva dato, o almeno di non offrirne uno a quel finto-eroe? Un unico scenario gli si presentava davanti agli occhi: Molly non gli avrebbe creduto, forse per la prima volta, e a meno che non le avesse rivelato la verità su ciò che era successo a Sherrinford, avrebbe pensato che fosse l'ennesimo tentativo di rendere la sua vita un inferno in terra.
Per qualsiasi sua mossa Arsène aveva già la risposta; il re bianco era condannato.

«A quanto pare non la pensiamo allo stesso modo, mon ami», interruppe il silenzio il Ladro Gentiluomo.
Iniziò a sbottonarsi il gilet grigio e, temerario come sempre, non gli nascose la parte interna del lato sinistro, dov'erano state cucite una tasca interna e una fila di portapenne in cui però c'era il kit base dello scassinatore. Dalla tasca tirò fuori una busta bianca, poi fece il giro della scrivania e con un semplice cenno del capo disse ad uno degli uomini di farsi da parte: Arsène stesso lo sostituì, ma solo per infilargli la busta nella tasca interna del cappotto e col naso tra i suoi capelli sussurargli all'orecchio: «Lo sai, ho un animo romantico, perciò ti concederò un'ultima possibilità. Hai fino a domani sera per decidere e se ti presenterai, allora io mi farò da parte. Se non lo farai... beh, lascerò che le cose vadano come vadano».
Prima di allontanarsi gli diede un morsetto sul lobo, a cui Sherlock reagì con una repulsione tale da liberare un braccio e puntare alla sua chioma bionda per sbattergli la fronte contro il bordo della scrivania, nella speranza che magari rinsavisse. Non riuscì a portare a termine il proprio piano però, perché Arsène sfruttò i suoi sensi da felino per balzare via giusto in tempo.
Con una risatina si avviò verso la porta e non si voltò mai indietro, nemmeno quando disse: «E per la cronaca... Avrei più motivi io per essere geloso, lo sai? L'affetto che Geneviève inizia a provare per te mi preoccupa».
Sherlock si irrigidì, ricordando le parole di Mycroft a proposito di come poteva diventare Arsène se sentiva i propri tesori minacciati, e allo stesso tempo provò una sorta di calore in mezzo al petto, simile a quello che poche ore prima aveva provato leggendo il diminutivo di Geneviève sul cellulare di Maurice Leblanc. Aveva un'opportunità per fare breccia nel cuore del ladro, lui che nonostante tutte le ferite lo metteva sempre in bella mostra, e non voleva sprecarla.
«Forse dovresti pensare prima alla fiducia», disse prima che potesse uscire dal salottino.
Arsène si fermò sulla soglia e si voltò di tre quarti per guardarlo con la sola coda dell'occhio. «Che hai detto?».
«Il fatto che tu sia suo padre non vuol dire che tu non debba guadagnarti la sua fiducia. Io ho commesso un errore, non dicendole subito la verità su Mary, ma avevo le mie ragioni e mi farò perdonare. Tu, invece... Che cos'hai fatto fin'ora per dimostrarle che ci tieni davvero?».
Il ladro rimase in silenzio a lungo, mordendosi con così tanta forza il labbro che il taglio riprese a sanguinare. Quando alla fine ruppe la bolla di cristallo in cui sembrava che pure il tempo si fosse fermato, lo fece uscendo semplicemente dal salottino, senza rispondere.
Sherlock si rilassò sulla sedia finemente intagliata e gli uomini della scorta lo lasciarono per seguire il loro capo. Le due guardie del Savoy diedero loro il cambio per scortarlo fuori, ma il detective fu felice di assecondarle.
Quell'incontro non era andato come aveva immaginato, ma aveva ottenuto più informazioni di quanto avrebbe mai potuto sperare. Inoltre...
Recuperò la busta regalatagli da Lupin e all'interno trovò un terzo biglietto per il Don Giovanni.
In un modo o nell'altro avrebbe incontrato Molly Hooper. Su questo non c'erano dubbi, dato che Lupin aveva deciso così. Ma cos'era, in realtà, che voleva Arsène?

***

Molly aveva proprio bisogno di un pomeriggio da dedicare a se stessa.
L'aspettavano il parrucchiere e l'estetista, ma all'appuntamento con il primo ebbe una sorpresa: Geneviève, la ragazzina che Sherlock aveva preso sotto la sua ala per il caso del piede di diavolo, era pronta per farsi fare lo shampoo nella postazione accanto alla sua.
«Questa sì che è una strana coincidenza», esclamò la bionda, mentre il parrucchiere le tirava indietro la fronte.
Molly dubitava fortemente che fosse una coincidenza e non aveva intenzione di sottostare ai giochetti del detective, perciò andò dritta al punto mentre sistemava il passeggino di Rosie di fianco a sé e si sedeva sulla poltrona.
«Adesso Sherlock ha deciso di spiarmi?», le chiese.
La ragazzina scoppiò in una risata allegra, così simile a quella di Jean da farle correre un brivido lungo la pelle. La guardò attentamente ed in effetti delle somiglianze c'erano; in più, erano entrambi francesi. Jean le aveva detto di trovarsi a Londra per questioni familiari, ma poteva davvero averle nascosto di avere una figlia? E se così fosse stato, qual era il vero collegamento tra lui e Sherlock?
«Pensi che mi abbia mandato qui lui? Nah, avevo semplicemente bisogno di una spuntatina», rispose alla fine, sistemandosi meglio e chiudendo gli occhi sotto il massaggio del parrucchiere. «Hai capito Max? Solo un paio di centimetri, non di più».
«Sei sicura?», provò ad insistere l'artista delle forbici. «Il tuo viso sarebbe più valorizzato da un taglio corto...».
E così dicendo le tirò indietro i capelli, lasciando solo qualche ciocca mossa ai lati del suo volto. Molly si ritrovò a trattenere il fiato vedendo quello di Mary sovrapposto a quello della ragazzina, la quale scacciò stizzita la mano destra del parrucchiere e berciò a denti stretti: «Sicurissima».
Geneviève le lanciò un'occhiata di sbieco, imbronciata, e l'anatomopatologa distolse immediatamente lo sguardo. La sua mente le aveva fatto proprio un brutto scherzo: prima Jean, ora Mary... Non c'era alcuna possibilità, nessuna, che quella ragazzina fosse imparentata con la moglie di John.
A quel punto la ragazza che si sarebbe occupata di Molly le sorrise attraverso lo specchio e le chiese: «E tu che mi dici? Preferisci rimanere sul classico o vuoi qualcosa di particolare?».
«Come lei», rispose l'anatomopatologa, sospirando.
Mentre ad entrambe veniva fatto lo shampoo, Geneviève decise di rompere il silenzio tornando a parlare di Sherlock, l'argomento che Molly avrebbe voluto a tutti i costi evitare. Però la ragazzina aveva ragione: era stata lei a nominarlo per prima.
«Perché pensavi che mi avesse mandato qui a spiarti? Non mi sembra il tipo».
«Non lo so, ultimamente fa molte cose strane. Come girare insieme ad una ragazzina», la buttò lì, senza aprire gli occhi. Tuttavia sentì i suoi occhi verdi scrutarla, tanto che Max dovette dirle di stare ferma sopra il lavandino.
«Quindi non è successo nient'altro tra voi, dall'ultima volta?».
Molly continuava a non fidarsi, ad avere uno strano presentimento su di lei, ma sapeva anche che accontentarla era l'unico modo per poi provare a farle a sua volta qualche domanda.
«In realtà ci siamo visti ancora, qualche giorno dopo. Dovresti saperlo, dato che sei stata tu ad attirarlo al Bart's e ad inviarmi un sms col suo cellulare perché ci incontrassimo. Qual era il tuo scopo, posso saperlo?».
«Volevo aiutarvi. È chiaro che siete fatti l'uno per l'altra...».
A quel punto Molly aprì gli occhi e piegò il capo verso di lei, trovando la ragazzina intenta ad osservare la sua reazione con la coda dell'occhio sinistro.
Questa le sorrise sbarazzina, aggiungendo: «Avanti, lo capirebbe pure un cieco che anche Sherlock è innamorato di te. Per qualche ragione però si ostina a...».
«Smettila», la interruppe bruscamente. «Non sai cosa stai dicendo».
Tremando, Molly tornò a fissare il soffitto e a lasciarsi lavare i capelli dalla parrucchiera.
Quello che Geneviève aveva detto non aveva il minimo senso. Sherlock... Sherlock non poteva essere innamorato di lei, non veramente. Anche se quella sarebbe stata la risposta a molti dei quesiti con cui si era interrogata nelle ultime settimane, perdendo ore di sonno e tantissimi sali minerali sotto forma di lacrime.
Ad ogni modo, se Sherlock aveva deciso di evitarla allora c'era un'unica spiegazione: non voleva che quei sentimenti - veri o finti che fossero - prendessero il sopravvento. Come le aveva scritto nella nota allegata ai biglietti per l'opera, voleva che trovasse qualcuno in grado di non farla soffrire e che la meritasse veramente.
Finito lo shampoo, entrambe le loro poltrone vennero rialzate e si ritrovarono davanti ai loro riflessi. Si guardarono finché non fu Geneviève a parlare per prima, sospirando affranta.
«Mi dispiace, non dovevo intromettermi. Però...».
«Che cosa?», la incalzò l'anatomopatologa, sentendo il cuore batterle forte nel petto.
«Niente, è una sciocchezza», glissò la bionda, con un lieve sorriso sulle labbra.
«Voglio saperlo comunque».
«Ecco, io... mi sono affezionata a lui e volevo aiutarlo. Promettimi che non glielo dirai mai».
Molly ricambiò il sorriso, intenerita, ed annuì. Poi però la curiosità ebbe la meglio e le domandò: «Come vi siete conosciuti?».
«Mio padre», rispose sospirando nuovamente. «A quanto pare lui e Sherlock sono amici di vecchia data».
«Ah sì? E come sei finita ad investigare con lui?».
Geneviève la guardò attraverso gli specchi che avevano di fronte, mostrando quel sorriso malizioso che, di nuovo, le ricordò Jean.
«Non ti facevo così curiosa, Molly Hooper».
«Perdonami, ma tuo padre non deve essere un tipo troppo normale... Permetterti di investigare con Sherlock Holmes è a dir poco da irresponsabili, visti i pericoli che affronta di solito».
«Strano, mio padre ha detto che il posto più sicuro in cui potesse lasciarmi era proprio al fianco di Sherlock», ribatté le ragazzina. «Non è mai morto nessuno per colpa sua, no?».
Quella domanda, posta con così tanta leggerezza, col presupposto che non necessitasse di una risposta, la colpì in pieno viso come uno schiaffo. Lei e Mary non erano mai state intime come avrebbe voluto, ma era comunque la madrina di sua figlia e la sua perdita era stata devastante. Pensare al dolore che avrebbe patito quella bambina, crescendo senza la sua mamma, era devastante.
Guardò proprio Rosie, la quale stava masticando con gusto un sonaglino di gomma. Poi si ricompose, decisa a non rivelare quell'informazione così sensibile ad una ragazzina che nemmeno conosceva, ma quando si voltò verso di lei la trovò con gli occhi sgranati e velati di lacrime, i pugni stretti sui braccioli della poltrona.
«Ehi, che cosa ti prende?», le chiese, improvvisamente preoccupata.
«Questa bambina... questa bambina ha perso qualcuno per colpa di Sherlock Holmes?».
Il suo intuito spaventò Molly: erano intelligenze del genere che l'avevano sempre attratta e allo stesso tempo impaurita, perché potevano essere utilizzate per il bene e per il male allo stesso tempo. Una scelta sbagliata, un dolore troppo grande, e molte più persone di quanto si potrebbe immaginare ne avrebbero subìto le conseguenze.
«No. No, certo che no. Non è stata in alcun modo colpa di Sherlock», la rassicurò Molly, o almeno ci provò.
I due parrucchieri, per quanto interessati alla questione, dovettero interromperle per procedere ai tagli.
Il discorso non venne più riaperto e, per quanto Molly ne fosse sollevata, le aveva lasciato anche un sapore amaro in bocca: vedere quell'espressione sul volto della ragazzina l'aveva convinta che sapesse più di quanto volesse dimostrare e che, qualunque fosse il collegamento tra lei, suo padre, Sherlock e, a quel punto, Rosie, il suo dolore era reale. E Molly non era mai stata in grado di starsene in disparte a non fare niente davanti alla sofferenza. (Della propria era okay che nessuno si interessasse, ormai ci aveva fatto il callo).
Per questo esclamò: «Quindi devo ringraziare te se domani sera andrò all'opera. Certo, non ci andrò con Sherlock come avevi sperato, ma...».
«Con chi ci andrai, allora?», le chiese, tornando la solita Geneviève: sorridente e curiosa.
«Si chiama Jean, l'ho conosciuto circa una settimana fa. Tu gli somigli, non è che...?».
«Mai sentito nominare», rispose in fretta. Fin troppo, per i suoi gusti.
«Strano, ne hanno parlato in tutti i telegiornali».
«Aspetta, non sarà mica il turista che ha impedito a quell'uomo di buttarsi giù dal ponte!».
«Proprio lui».
«Caspita! Allora sono gli eroi il tuo tipo!», le disse ridacchiando e facendole l'occhiolino.
Molly ricambiò, dicendosi che forse era così: era vero che in Sherlock c'era una parte sociopatica, ma era quella dell'eroe che amava. Giusto?
«Ma non ti sembra un po' avventato? Insomma... che cosa sai veramente di lui?», le domandò ancora la ragazzina.
«Se non ci uscirò non potrò mai conoscerlo meglio».
«E poi è francese! Sei sicura di volere una relazione a distanza?».
«Chi ha parlato di relazione?».
«Okay, ma...».
Molly aggrottò la fronte, cercando di guardarla il più possibile senza girare il capo: non voleva che la parrucchiera le tagliasse male i capelli.
«Stai cercando di convincermi a non uscire con lui?».
«Dico solo che potrebbe non essere chi credi che sia».
Le sue parole le lasciarono un marchio sul cervello.
Quante volte aveva pensato di conoscere la persona che aveva al suo fianco, per poi venire pugnalata alle spalle? Era successo decine di volte, prima ancora dell'arrivo di Jim Moriarty, il culmine della sua cecità.
Aveva pensato che con Jean fosse diverso, ma forse doveva ascoltare Geneviève ed evitarsi altro dolore. I suoi occhi verdi, però... No, lui era diverso. E poi, seguendo quel ragionamento, perché avrebbe dovuto ascoltare lei in primo luogo?
Glielo disse senza troppi giri di parole, lasciandola a dir poco a bocca aperta.
Quando ritrovò la propria voce, la biondina disse: «Hai tutte le ragioni per non fidarti di me, ma ti prego di pensarci su».
All'improvviso dimostrava ben più della sua verà età: i suoi occhi tristi sembravano aver visto la vera natura del mondo, il suo volto contratto in un'espressione di fiera determinazione rivelava la forza di mille battaglie.
Nonostante tutti i tentativi di Molly per convincerla a spiegarle perché avrebbe dovuto ascoltarla, e soprattutto perché fosse così interessata alla sua vita sentimentale, Geneviève non disse più nulla.
Aspettò che il parrucchiere finisse di spuntarle i capelli e che si allontanasse per andare a prendere il phon, quindi si strappò dal collo il telo che le aveva fatto indossare per far sì che non si bagnasse o sporcasse i vestiti, posò accanto alla cassa una banconota di valore molto superiore al servizio reso e se andò infilandosi i capelli umidi dentro un cappellino di lana nero.
Molly la guardò attraversare la strada e poi girare l'angolo, rimanendo con diverse domande e il sospetto sempre più forte che lei e Jean si conoscessero, se non addirittura...
I balbettii di Rosie la distrassero e voltandosi la vide sorridere in direzione delle vetrate del negozio, una manina sollevata con cui sembrava proprio salutare la ragazzina.

***

«Che cos'hai fatto fin'ora per dimostrarle che ci tieni davvero?».
Quelle parole continuavano a ripetersi nella sua mente, come un disco rotto, e Arsène non riusciva a trovare una risposta che soddisfacesse lui e la voce di Sherlock.
Era proprio ciò che temeva... I suoi problemi di fiducia l'avrebbero reso un terribile padre, alla fine.
Geneviève aveva fatto tutto il possibile, tutto ciò che lui le aveva chiesto, per farlo felice e renderlo fiero di lei. Tuttavia non era mai riuscito a lasciarla andare in solitaria. Telecamere, GPS e membri della sua scorta l'avevano sempre seguita ovunque andasse. Non poteva più permetterlo, doveva fare qualcosa.
Così aveva deciso di iniziare con le telecamere. Si era recato nella stanza della figlia e aveva tolto tutte le microspie, gettandole nel cestino.
Una volta finito si era seduto sulla poltrona accanto al balcone, senza sentirsi ancora soddisfatto. I sensi di colpa, o almeno una parte, non si sarebbero acquietati finché non avesse visto la reazione di Geneviève davanti a quell'enorme passo avanti.
Perciò attese il suo ritorno con ansia e quando credette che ci fosse lei dietro la porta provò una grande delusione nel veder entrare Grégorie.
«Che cosa c'è?», gli chiese, tornando a sedersi.
«Il parrucchiere ci ha appena informato che Geneviève è uscita dal negozio».
Arsène provò a non porre ulteriori domande, si disse che sua figlia gli avrebbe raccontato tutto quando si sarebbero visti, lottò con tutte le sue forze per darle la fiducia che si meritava, ma perse. Col pugno stretto davanti alla bocca, mugugnò: «Di che cosa hanno parlato lei e Molly Hooper?».
Grégorie abbozzò uno dei suoi rari sorrisi mentre rispondeva: «Non le piacerà, padrone».

«Mia figlia dalla parte di Sherlock? No, è impossibile».
«Eppure pare proprio...».
«Quel parrucchiere deve aver capito male», insistette il ladro, passeggiando nervosamente di fronte all'amico. «Per quale motivo avrebbe provato ad avvertire Molly?».
«Perché Sherlock Holmes ama quella donna».
«E tu dici che Geneviève preferirebbe aiutare lui, anche a costo di intralciarmi?».
Arsène si voltò a guardarlo e lo trovò con lo stesso sorriso sotto i baffi - letteralmente - e la rabbia che sentì incendiargli gli organi interni lo portò a gridare con tutto il fiato che aveva nei polmoni: «Smettila di sorridere! Sei disgustoso!».
L'uomo abbassò il capo, mormorando: «Mi perdoni, padrone. Ma l'avevo avvertita che...».
«Vattene. Lasciami solo».
Senza aggiungere altro, Grégorie obbedì agli ordini e se andò. Rimasto solo, Lupin si lasciò cadere sul letto della figlia e si coprì il volto con una mano, sentendo le lacrime bagnargli gli angoli degli occhi.
Il dolore provocato dal dubbio, dalla paura di non poter contare su sua figlia, sangue del suo sangue, era più lacerante di quello che avrebbe mai potuto immaginare. Ma d'altronde non l'avrebbe biasimata, se avesse deciso di stare davvero dalla parte del detective. In fondo... che cos'aveva fatto per dimostrarle che ci teneva davvero?
Le aveva precurato un luogo dove poter mangiare e dormire, ma non una casa in cui sentirsi amata.
L'aveva messa sotto sorveglianza, anziché parlare con lei e starle accanto.
Aveva rubato per lei un gioiello, senza realizzare che non era il genere di persona che si lasciava comprare in quel modo.
Le aveva chiesto di aiutarlo, senza mai chiederle se potesse fare lui qualcosa per lei.

Tutto questo doveva cambiare. Lui doveva cambiare. Era Arsène Lupin, poteva farlo.
Dopo l'uscita con Molly Hooper avrebbe deciso come chiudere la questione con Irene Adler e poi...

Mezz'ora dopo, quando Geneviève rientrò nella sua stanza e trovò il cestino ai piedi del letto con all'interno le telecamere di sorveglianza, Arsène non era lì per guardare la sua espressione piena di sollievo e gioia.

***

John sentì il cellulare vibrargli nella tasca dei jeans e guardando Molly, in piedi davanti a lui, si scusò prima di portarselo all'orecchio.
«Sei già a casa?», gli domandò Sherlock, diretto come suo solito.
«Sì, sono arrivato da cinque minuti».
«Bene, ti raggiungo tra poco».
Terminata la comunicazione, John si passò una mano sulla nuca e sospirò.
«Perdonami, Molly. Sherlock sta venendo qui e sono tentato di chiederti di restare, ma...».
«Non c'è problema», lo interruppe lei quella volta, abbozzando un sorriso. «Mi ha fatto capire chiaramente che non mi darà alcuna spiegazione, tanto vale evitarci situazioni imbarazzanti».
Afferrò il cappotto e dopo esserselo infilato salutò la piccola Rosie, seduta sul tappeto con i suoi giochi. Era ancora accucciata, che le accarezzava le guance piene, quando John si strinse le braccia al petto e con la fronte corrugata riprese il discorso che avevano lasciato a metà: «Quindi pensi che Geneviève volesse metterti in guardia su Jean?».
«Non so davvero che cosa pensare. Perché avrebbe dovuto?».
Il dottore si passò di nuovo la mano sulla nuca e dopo qualche secondo di riflessione  sospirò. «Ecco, in verità...».
Il campanello lo interruppe e i due si scambiarono un'occhiata, pensando alla stessa cosa.
«Non può essere...», mormorò John, andando ad aprire.
Ma si trattava proprio di Sherlock, il quale doveva averlo chiamato da dietro l'angolo. Entrò senza salutare né dargli il tempo per avvisarlo, iniziando a raccontargli subito del suo ultimo incontro con Arsène. Troppo tardi si accorse della presenza di Molly. I loro sguardi si incrociarono e Sherlock si irrigidì, tanto che non ebbe la forza per interrompere il contatto visivo nemmeno quando si rivolse a John, biascicando: «Perché non mi hai avvisato?».
«Ci ho provato!», sussurrò il dottore, alzando gli occhi al soffitto.
«Stavo giusto andando via», esclamò Molly, mostrando un sorriso fin troppo audace, nel tentativo di nascondere il dolore.
Finì di allacciarsi il cappotto e salutò i due a testa bassa, ma prima che potesse passare tra loro per raggiungere la porta John l'afferrò per un braccio e sotto gli occhi sgranati del detective le disse: «No, resta. C'è una cosa che devi sapere».

«Che... Che cosa?», balbettò l'anatomopatologa, guardando preoccupata in direzione di Sherlock.
John avrebbe tanto voluto dirle la verità su quello che spaventava tanto il consulente investigativo, darle tutte le risposte che cercava da settimane ormai, ma doveva accontarsi di quella sola confessione che, però, era ciò che avrebbe potuto risparmiarle ulteriori drammi.
«Geneviève aveva ragione: Jean non è chi dice di essere. Il suo vero nome è Arsène Lupin ed è un ladro di fama internazionale».
Un silenzio tombale calò tra di loro, tanto profondo che se solo si fossero concentrati sarebbero riusciti a sentire i battiti dei loro cuori. Alla fine fu Molly a romperlo, lasciandosi scappare una risatina nervosa.
«Mi stai prendendo in giro», gli disse, dandogli una debole spinta sul petto.
John le afferrò la mano e con sguardo colmo di dispiacere replicò: «Vorrei fosse così, ma è la verità. Sherlock può confermarlo».
Imitando il dottore, Molly si voltò verso il detective e lo fissò con gli occhi lucidi e le labbra che le tremavano. La sua voce però risultò ferma e decisa, fiera come quella di una leonessa che nononostante tutte le ferite non aveva ancora smesso di lottare.
«È così? Ne sei certo al cento percento?».
Sherlock rivolse tutta la propria frustrazione verso John, poi socchiuse gli occhi ed inspirando annuì col capo. Molly rilassò le spalle, come se si fosse appena tolta un peso anziché averlo ricevuto, e si sfilò il cappotto mentre si dirigeva di nuovo verso il salotto.
«Beh, perché state lì impalati?», domandò ad un tratto. «Avete molto da spiegarmi».
E così si ritrovarono nella piccola cucina di John, seduti al tavolo – Rosie compresa, nel suo seggiolone – con una tazza di té tra le mani.
Sherlock le riassunse la storia come l'aveva riassunta al dottor Watson una decina di giorni prima, raccontandole delle abilità di ladro e di trasformista di Arsène Lupin, dello strano rapporto di amore e odio che avevano sempre avuto e delle avventure che lo avevano visto protagonista in Inghilterra, in particolare quella della perla nera, dove si era esposto in prima persona sotto la falsa identità di Jean Daspry con l'unico scopo di attirare la sua attenzione.
«E Geneviève che ruolo ha in tutto questo?», gli chiese quando fece una pausa.
«Geneviève è sua figlia», rispose John. Abbassando gli occhi sulle braccia incrociate, aggiunse: «E mia nipote».
Molly rischiò di strozzarsi col té. «Che cosa?!».
«A quanto pare Mary aveva una sorella, Clotilde, la quale... la quale era una complice di Arsène, prima di rimanere incinta. Gli ha nascosto di portare in grembo sua figlia e l'ha lasciato per crescerla da sola, lontana dalla sua vita di ladro. Solo recentemente si sono ricongiunti, quando Clotilde ha capito che non le rimaneva molto tempo».
«Cancro», specificò Sherlock.
«Oddio, è terribile», mormorò Molly, portandosi una mano alla bocca e una sulla mano di John. «E tu stai bene?».
«Sì, io... sopravviverò. È Geneviève che mi preoccupa».
«Aspetta, stai dicendo che lei non lo sa?».
«Ora sì», si intromise di nuovo il detective. «L'ha scoperto un paio di giorni fa e questa sera alle nove ci incontreremo sul Waterloo Bridge per parlarne. Sei invitato, John».
«Invitato?», ripeté Molly, scioccata. «Cosa vuol dire invitato? È sua nipote! È lui che dovrebbe parlarle, non tu!».
Sherlock si addossò contro lo schienale della sedia, mostrandosi offeso dal tono della donna.
«Hai ragione, ma lei merita delle risposte e io non sono sicuro di potergliele dare. Non ora, almeno», mitigò gli animi John, sospirando. Quindi si rivolse direttamente al consulente, abbozzando persino un sorriso: «Grazie, ci penserò».      
L'anatomopatologa si alzò per mettere la propria tazza nel lavello e si appoggiò ad esso con la base della schiena, portandosi una mano sulla fronte.
«C'è ancora una cosa che non capisco. Che cosa vuole Arsène da me?».
John si girò per guardarla in viso, ma Sherlock lo anticipò attirando su di sé gli occhi traboccanti di rimproveri dell'amico.
«Non lo sappiamo ancora».
«Forse lo sa Geneviève. È lei che mi ha avvertito sul suo conto, no? O sei stato tu a chiederle di farlo, perché sapevi che anche lui è un sociopatico?».  
«No, fino a stamattina non sapevo nemmeno che Arsène ti aveva avvicinata», ribattè Sherlock, riservandole un'occhiata più tagliente del dovuto. «Geneviève ha agito di testa propria, come sempre, e non ho idea del perché in quest'occasione si sia messa contro il padre».
«Io ne avrei una o due», mormorò John, canzonatorio nei confronti di Sherlock.
Molly però non lo sentì e tornò al tavolo, vi posò sopra entrambe le mani e guardando prima l'uno e poi l'altro chiese: «Che cosa dovrei fare adesso?».
«L'ideale sarebbe fare finta di nulla e andare a quell'appuntamento», rispose il detective.
«E lasciare che mi usi perché tu possa capire che cos'ha in mente? Non se ne parla».
«Ma...».
«Molly ha ragione», le diede man forte John, riservandogli un'occhiata eloquente.
«Tu non capisci», gli sussurrò, ma venne interrotto dalla donna.
«Gli chiederò di vederci questa sera e lo costringerò a darmi spiegazioni», affermò, con un tono da non ammettere repliche. «In base alla sua risposta, deciderò che cosa fare».
«Questa sì che è un'idea assurda!», sbottò Sherlock, alzandosi in piedi a sua volta.
Entrambi con le mani sul tavolo, nessuno dei due sembrava intenzionato a cedere. John li guardò esasperato: se solo Sherlock avesse ammesso i suoi sentimenti...
«L'uomo che ho conosciuto si chiama Jean Daspry», disse Molly ad un tratto. «Sei tu il detective, perciò dammi delle prove: dimostrami che lui è chi tu dici che sia e farò come vuoi tu».
Sherlock digrignò i denti e cercò il sostegno del dottore, il quale abbozzò un sorriso sardonico: Molly l'aveva fregato quella volta. Non c'erano prove per affermare che Jean Daspry fosse Arsène Lupin, dato che Arsène Lupin in primis non esisteva.
«Allora è deciso», pose fine alla discussione l'anatomopatologa, sorridendo.
Si allontanò per andare a recuperare il cappotto, ma Sherlock la chiamò prima che potesse uscire dalla cucina. Lei si girò e lo guardò, stanca come se avesse corso per ore.
«A parte i miei occhi non ho prove da darti. E se non ti fidi più di me... è solo colpa mia».
Aveva parlato con voce soffice, quasi amorevole, eppure ciò che brillò negli occhi di Molly fu pura irritazione. Aveva smesso davvero di pendere dalle sue labbra.
«Non farmi sentire in colpa, Sherlock. Le tue sono solo parole prive di significato».
La frecciatina colpì il cuore del detective, facendolo sanguinare più di quanto avrebbe voluto, ma non lo diede a vedere. Si avvicinò di un passo alla donna e dopo essersi umettato le labbra riprese: «Posso dirti solo questo: al castello di Thibermesnil Arsène si è fratturato il braccio destro. Come Jean Daspry non porta il tutore, ma se vuoi la prova che siano la stessa persona...».
«Devo esaminargli il braccio», concluse lei. «E come dovrei fare?».
Sherlock sorrise teneramente. «Sei intelligente, troverai un modo».
Come se l'avesse offesa con le parole più volgari del vocabolario, Molly raccattò le sue cose e se ne andò sbattendosi la porta alle spalle.
John aspettò che il consulente si girasse, poi esclamò: «Davvero? I tuoi sentimenti per lei e il coinvolgimento di Irene Adler? Se continui così, saranno i segreti a fare i danni peggiori».
«Ti sbagli», gli disse, ma senza troppa convinzione. Accorgendosene, riacquistò un po' del proprio autocontrollo. «Se le dicessi la verità correrebbe ancora più rischi. Hai sentito cos'ha detto! Chiederà ad Arsène di incontrarla questa sera! E chissà come potrebbe reagire, trovandosi senza più una copertura!».
Si avvicinò di scatto al tavolo e con voce morbida aggiunse: «Devo chiederti un favore, John».
Il dottore si prese il setto nasale tra le dita, socchiudendo gli occhi. «Non me lo dire: vuoi che vada all'incontro con Geneviève mentre tu pedini Molly».
«Mi sorprendi ogni giorno di più», esclamò il detective, quasi orgoglioso.
Si sistemò la sciarpa intorno al collo e fece per andarsene, ma John lo fermò per chiedergli: «Per quale motivo sei venuto qui? È successo qualcosa al Savoy?».
Sherlock si portò una mano sopra al petto, in corrispondenza della tasca interna del cappotto, però non disse nulla in merito al terzo biglietto per il Don Giovanni.
Gli posò una mano sulla spalla e disse: «Non fare tardi questa sera».
E se ne andò prima che potesse interrogarlo ancora.

***

Non esagerava nel dire che le sudavano le mani. Raramente era stata così agitata e le sembrava impossibile che la causa di tutto fosse l'appuntamento con Sherlock. L'aveva odiato quando si era rifiutato di dirle la verità e ora che finalmente era pronto a rivelargliela, Geneviève non era più sicura di volerla sentire.
Come avrebbe fatto a guardarlo negli occhi se davvero fosse stato lui a provocare la morte di sua zia? Il solo pensiero la terrorizzava.
Il cellulare iniziò a vibrarle nella tasca dei jeans e sospirando lo ignorò. Sapeva già chi la stesse cercando e non era proprio dell'umore per spiegargli perché lo avesse ignorato fino ad allora.
«Pensavo fossi diversa, sai?».
Geneviève si voltò di scatto, dando le spalle allo skyline notturno di Londra, per osservare incredula Maurice mentre si chiudeva alle spalle la porta scorrevole della terrazza del bar.
«E invece sei proprio sfuggente come tuo padre, Geneviève Lupin», concluse con un sorriso sbarazzino.
La ragazzina celò lo shock e sorrise a sua volta. «Io sarei la figlia di Lupin? Non scherzare».
Maurice si avvicinò al parapetto e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette. Ne estrasse una e se la portò alle labbra per accenderla, con una mano a riparare dal vento la fiamma dello zippo. Quindi le rivolse un altro sorriso e sbuffando del fumo con le parole disse: «Non te ne offro una perché a quindici anni non si dovrebbe fumare».
Geneviève si strinse le braccia al petto e rinunciò a portare avanti la commedia: era tutto tempo sprecato.
«Come hai fatto?», gli chiese semplicemente, tirando a sé una sedia di ferro per sedersi.
Maurice la raggiunse poco dopo, sistemando le lunghe gambe sotto il tavolino. Le rispose con lo sguardo rivolto verso il cielo privo di stelle: «Sono il reporter ufficiale del Ladro Gentiluomo da sei anni ormai e posso dire di conoscerlo, almeno un po'. Quando mi ha scritto per mettermi al corrente della scomparsa della Donna Bionda sono rimasto stupito: quella donna non faceva più parte della sua banda da ormai quindici anni, perciò doveva esserci un motivo se in punto di morte aveva sentito il bisogno di contattarlo. Lupin è sempre stato un tipo romantico - potrei raccontarti decine di avventure in cui è corso in soccorso di una donna - ma vedi, quando venne a sapere delle condizioni della Donna Bionda era incarcerato nei sotterranei della Santé. Nel giro di due settimane ha organizzato la fuga e l'ha messa in atto, muovendo forze incalcolabili. Come ci sia riuscito è ancora un mistero e tutti ne parlano, in Francia. Ma non è questo il punto. Il punto è: quale motivo l'ha spinto a fare l'impossibile?».
I suoi occhi scuri, nonostante fossero schermati dalle lenti degli occhiali, la inquadrarono nel loro mirino e Geneviève si sentì così esposta che si concentrò sul fumo che saliva dalla sua sigaretta: quella notte non c'era nemmeno un filo di vento, perciò era una linea sottile, simile alla cordicella di un palloncino.
«Forse la Donna Bionda aveva richiesto di trascorrere gli ultimi suoi momenti con l'uomo che aveva tanto amato. Possibile, ma una volta spirata Lupin non avrebbe avuto alcun motivo per rimanere in Inghilterra, giusto? Più mi scervellavo, più mi sembrava di allontanarmi dalla verità. Alla fine però è stata lei a venire da me».
Esibì un nuovo, splendido sorriso e si sporse verso di lei, o almeno così credette Geneviève. In realtà Maurice si era solo allungato per prendere il posacene dal tavolo vicino e senza farlo apposta - o forse sì - aveva fatto scontrare le loro ginocchia.
«Arséne mi aveva detto che non avrebbe lasciato l'Inghilterra senza prima aver conquistato il suo tesoro più grande», riprese, con tono carezzevole. «In quell'occasione non avevo capito proprio nulla, uh?».
Maurice tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia e si portò una mano dietro la testa, sbuffando. «È un vero peccato. Avrei preferito...».
«Che cosa?», domandò Geneviève.
«Avrei preferito continuare a non capire nulla», concluse, guardandola con amarezza. «Mi piacevi davvero, Gen. Ma non credo che tuo padre ne sarebbe felice se lo venisse a sapere».
La ragazzina si alzò dalla sedia, lasciando che i capelli le coprissero il volto rosso d'imbarazzo. «Quindi non gli dirai nulla?».
«No. Aspetterò che sia lui a parlarmene, se e quando ne avrà voglia».
Geneviève tirò fuori il cellulare e si accorse che era già in ritardo per l'incontro con Sherlock. Rivolse una breve occhiata a Maurice, il quale la salutò con un cenno del mento e tirò una lunga boccata alla propria sigaretta; quindi si allontanò senza aggiungere altro.
Uscì dall'Hotel Savoy e dal piazzale in cui si fermavano le limousine e i taxi alzò gli occhi verso la terrazza del bar. Scrisse un breve sms e senza pensarci su due volte lo inviò. Avrebbe voluto vedere la sua espressione, ma si sarebbe fatta bastare quella che aveva immaginato.

Riparliamone tra qualche anno.

***

Molly si fece coraggio con un respiro profondo e poi diede una spinta decisa alla porta del Fox, dove aveva dato appuntamento a Jean o, come sosteneva Sherlock, ad Arsène; lo stesso pub dove l'aveva conosciuto.
Lo individuò subito, seduto all'angolo del bancone: da lì poteva osservare l'ingresso e allo stesso tempo rifugiarsi nel bagno in tempo record nel caso in cui l'appuntamento fosse andato male. Era il posto che di solito cercava di accaparrarsi lei, per le stesse ragioni.
L'idea che quell'uomo l'avesse scelto per fuggire dalle sue accuse però la fece sentire terribilmente in colpa, nonostante ancora non ne avesse mossa alcuna. A dire la verità non aveva ancora deciso se fidarsi o meno delle parole di Sherlock. Era difficile che si sbagliasse nel giudicare le persone, ma Molly sperava davvero che anche per il detective di fama internazionale ci fossero le prime volte.
«Ehi», la salutò Jean non appena lo raggiunse. Scese persino dallo sgabello per aiutarla a togliersi il cappotto, ma l'anatomopatologa si ritrasse lanciandogli un'occhiata diffidente e con tono pacato spiegò: «Sarà una cosa veloce».
Gli occhi del biondo si rabbuiarono in modo repentino, come se davvero la sua freddezza l'avesse rattristato. O era un attore tremendamente bravo, oppure...
«Va bene», rispose cercando di mascherare la delusione con un sorriso. «Hai almeno il tempo per un drink?».
Forse irrigidirsi in quel modo, trattandolo come se la sua colpevolezza fosse un dato di fatto, non era stato il miglior approccio. Prima avrebbe dovuto provare con le buone.
Sorrise, concedendosi persino di sciogliere il nodo della sciarpa. «Sì, certo. Scusami per prima, non volevo risultare scontrosa. È stata una giornata piena».
«Non c'è problema», rispose Jean, attirando l'attenzione del barista con un cenno della mano. «Sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Solo... speravo di avere un po' più di tempo».
Molly sgranò gli occhi, incredula. Che avesse già capito il motivo per cui l'aveva chiamato? Che fosse tutto vero, ogni singola parola?
Il barista si sporse verso di loro per prendere l'ordinazione e Jean, sorridendo affabile, chiese un boccale di birra per lei e un altro Martini per lui.
«Oh su, non fare quella faccia», aggiunse ridacchiando Arséne.
Sì, Arsène: l'uomo che stava guardando, infatti, non era più Jean il bel ragazzo francese, Jean il fotografo, Jean l'eroe di Waterloo Bridge; quell'uomo non era mai esistito, era nato solo per avvicinarla, proprio come aveva detto Sherlock.
Il ladro allungò un braccio sullo schienale del suo sgabello e Molly non riuscì a sottrarsi: per quanto avesse voluto farlo, lo shock e la rabbia – verso di lui e verso se stessa per essere stata così cieca un'altra volta, per non parlare della poca fiducia che aveva riposto nel detective – le impedirono di muoversi.
Chino sul suo orecchio, le spiegò: «Sapevo che Sherlock avrebbe scoperto di noi due e che sarebbe subito corso a salvare la damigella in pericolo. È nel suo DNA tanto quanto lo è nel mio, anche se lui non lo ammetterà mai».
Il barista li servì e Arsène si allontanò. Molly lo fissò con la coda dell'occhio e ciò che vide la lasciò ancora più confusa: il suo volto aveva perso ogni traccia di gioia e anche i suoi occhi si erano spenti, come se le iridi verdi di solito lucenti fossero state avvolte da una fitta nebbia di malinconia, rendendole opache.
Arsène appoggiò il braccio destro sul bancone e con la mano sinistra afferrò il sottile stelo del bicchiere per portarselo alla bocca in un movimento fluido e aggrazziato. Tutto in lui era elegante: i suoi gesti, il suo volto, i suoi abiti.
Fino ad allora l'aveva sempre visto indossare capi firmati, ma quella sera aveva abbandonato il suo stile casual-chic per apparire come un gentiluomo dell'epoca Vittoriana. Inoltre, i capelli che di solito portava con la riga centrale, adesso erano laccati e tirati all'indietro. Anche gli occhiali da vista erano spariti. Era praticamente un'altra persona e sarebbe stato perfetto in un circolo privato, mentre stonava terribilmente in quel pub.
«Te ne sei accorta?», le chiese l'uomo, con un angolo delle labbra sollevato in un ghigno divertito. «Pensavo avresti impiegato qualche secondo in più a riconoscermi, invece non appena sei entrata... incroyable».
«Perché?», domandò, lottando per evitare che le tremasse la voce. «Perché io? Che cos'ho fatto per meritarmi...? Lo sapevo che era troppo bello per essere vero».
Arsène si voltò e sembrò davvero dispiaciuto, guardando la prima lacrima scivolarle sulla guancia. Lasciò il bicchiere di Martini per avvicinarle la mano al viso, ma l'anatomopatologa gliela schiaffeggiò e ritrovò la forza necessaria per guardarlo di nuovo negli occhi.
«Rispondimi. Che cosa vuoi da me?».
«Non voglio niente, Molly», rispose con un sorriso quasi esasperato. «Solo conoscerti, se me lo permetterai. Voglio capire perché Sherlock...».
Molly lo afferrò per il braccio destro e lo strinse forte, tanto da sentire la fasciatura sotto la giacca e la camicia che indossava. Arsène assottigliò le labbra in una pallida cicatrice e chiuse gli occhi per il dolore e l'anatomopatologa, accorgendosene, lasciò subito la presa.
Non pensava che si sarebbe spinta a tanto - solo Sherlock riusciva a trasformarla in una persona violenta - e per il rimorso dovette uscire di corsa, ignorando gli sguardi dei frequentatori del pub e la voce di Arsène.
Ne aveva abbastanza. Sherlock, Sherlock e ancora Sherlock! Era sempre e solo colpa sua se i matti l'avvicinavano. E lei, come un'imbecille, riusciva sempre a farsi abbindolare.
Sollevò la mano per chiamare un taxi, ma delle dita dalla presa salda e al contempo gentile (una presa che le ricordava fin troppo quella di una certa persona) si strinsero attorno al suo polso, tirandole giù il braccio e facendo in modo che il taxi non si fermasse sul ciglio della strada per farla salire a bordo. Dannazione, una volta che ne trovava uno senza dover aspettare al freddo!
Molly provò a divincolarsi, ma Arsène l'attirò a sé tanto all'improvviso da farla aderire contro il suo corpo, avvolto da un lungo cappotto grigio. L'anatomopatologa aprì la bocca, ma non un suono uscì dalla sua gola: gli occhi verdi di Arsène erano tornati a risplendere e le sue labbra erano così vicine alle sue che poteva sentirne il calore.
«Perché mi hai chiesto di incontrarci qui?», le domandò gentilmente, senza allentare la presa sul suo polso o la pressione dell'altra mano sulla sua schiena.
«Volevo... volevo delle spiegazioni da te».
«Ed ero pronto a dartele. Lo stavo facendo, ma quando ho nominato Sherlock sei scappata. Non ti piaceva come risposta? Avresti preferito una bugia?».
Al silenzio dell'anatomopatologa il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso e si piegò verso il suo orecchio per sussurrare: «Io sono chi sono, ma non fuggo quando la situazione si fa difficile. E tu? Pensavo che tu sapessi come ci si sente quando non si viene affrontati».
Molly chiuse gli occhi e si aggrappò istintivamente alla sua spalla, facendo scivolare l'altra mano in quella che fino a poco prima le teneva saldamente il polso. Arséne la guidò in una specie di giravolta, così che lei si ritrovasse nel punto in cui era stato lui.
«Non le sopporto proprio le persone che restano a guardare», sussurrò ancora Arsène.
Molly lo scorse solo di sfuggita, ma non ebbe alcun dubbio: un lembo del cappotto di Sherlock, inghiottito dal buio del vicolo accanto al pub.
Si scostò in fretta da Arsène e corse verso l'angolo dell'edificio in mattoni, riuscendo a vedere il detective mentre saltava su un cassonetto e scavalcava la recinzione. I loro sguardi si incrociarono per un attimo, uno solo, abbastanza per aprire l'ennesima ferita sul cuore di Molly.
«Idiota», mormorò guardandolo correre via.
Arsène la raggiunse e le posò una mano sulla spalla per stringerla piano.
«Non so che cosa ti abbia detto sul mio conto, ma ti assicuro che non sei in pericolo con me».
«Presumo che tutti i malintenzionati lo direbbero», replicò Molly e quando alzò il viso per incrociare il suo sguardo trovò un sorriso ad attenderla, riconoscendovi lo stesso Jean Daspry che l'aveva avvicinata.
«Sì, hai ragione. Dovrai seguire l'istinto, allora».
L'anatomopatologa sospirò pesantemente. «Il mio istinto è terribile».
Arsène scoppiò a ridere e si allontanò lungo il marciapiede. Molly ripensò a tutto ciò che le era stato detto su di lui e a quello che lei aveva visto, comparando le informazioni. Geneviève le aveva solo detto che poteva rivelarsi una persona diversa da quella che credeva, non che fosse un pazzo omicida, perciò...
«Geneviève», esclamò all'improvviso, ricordandosi dell'incontro fissato con Sherlock. Se lui non era all'appuntamento di certo doveva aver mandato John, ma quella ragazzina necessitava del sostegno e dell'affetto di tutte le persone possibili, prima fra tutte di suo padre.
Arsène si voltò e la fissò sorpreso, per poi sorridere dolcemente. «Già, ho saputo che l'hai conosciuta. Mi dispiace, avrei dovuto dirtelo che ho una figlia».
«No, non è questo. Alle nove aveva appuntamento con Sherlock sul Waterloo Bridge per parlare di Mary. Penso che dovresti raggiungerla. Ha bisogno di sapere che può contare su di te».
Il volto del Ladro Gentiluomo cambiò più volte espressione, per poi soffermarsi su una apprensiva. La raggiunse con due rapide falcate e prendendole la mano destra tra le sue guantate di bianco vi posò sopra un bacio; quindi corse via senza più voltarsi.
Molly, imbarazzata, si portò la stessa mano al petto e sollevando il volto verso il cielo sorprese i primi fiocchi di quella che sarebbe stata una lunga nevicata.

***

La neve scendeva piano ma con costanza, e sembrava proprio che quella notte avrebbe attecchito.
John si fermò e strinse i pugni lungo i fianchi, irrigidito non solo dal freddo ma anche dal nervosismo. Respirò profondamente per farsi coraggio e una nuvoletta di vapore gli uscì dalle labbra. Fu allora che Geneviève voltò il capo nella sua direzione e i loro sguardi si incrociarono. Si fissarono in silenzio, due marionette senza burattinaio a guidarne i movimenti, e John non fu sorpreso quando fu la ragazzina a reagire per prima, staccando le mani dalla ringhiera per strapparsi le cuffiette dalle orecchie con espressione furente.
«E così non ha nemmeno il coraggio per affrontarmi, eh?», gridò, riferendosi a Sherlock.
John scosse il capo. «Non è come pensi. Lui...».
«È vero che è stata colpa sua se zia Mary è morta?».
Quella domanda riaprì la ferita pulsante sul cuore di John, tanto dolorosa che dovette distogliere lo sguardo. Lo rivolse verso le acque del Tamigi, davanti alle quali aveva più volte pensato di togliersi la vita in quelle settimane terribili in cui aveva davvero pensato che, se Sherlock non fosse mai resuscitato, allora Mary sarebbe stata ancora viva.
Alla fine ne era uscito ed era stato sostanzialmente merito di Eurus, la quale, con le sue macchinazioni, l'aveva costretto a riavvicinarsi a lui e a comprendere che lo stesso dolore, anche se in modo diverso, aveva dilaniato il cuore del consulente investigativo.
Tornò a guardare la ragazzina che aveva di fronte, ora col volto pallido e le labbra tremanti, gli occhi verdi sgranati per la paura.
«Non è stata colpa di Sherlock», affermò con decisione, avvicinandosi.
Geneviève fece istintivamente un passo indietro, aggrappandosi con una mano alla ringhiera del ponte.
«Mary... Mary è morta proteggendolo. Si è messa tra lui e un proiettile. È stata una stupida, lo penso anche io, ma ha fatto ciò che riteneva giusto. Forse... forse ha voluto anche pareggiare i conti per quando gli ha sparato, o fare ammenda per il suo passato, non lo so. Sta di fatto che tua zia non se n'è pentita, anzi... conoscendola, se potesse tornare indietro e fosse messa davanti alla stessa scelta lo rifarebbe».
Geneviève abbassò il volto e lo coprì con le mani per nascondere le lacrime. Le sue spalle tremavano come foglie mosse dal vento e John annullò la distanza tra loro per posarvi sopra le mani ed accostare la guancia alla sua. In una situazione diversa lo avrebbe imbarazzato essere qualche centimetro più basso di lei, ma in quel momento non ci fece nemmeno caso.
«Mi dispiace non essermi fatto avanti prima. Ero... spaventato», confessò John, deglutendo il grumo di incertezze che gli si era formato in gola.
«Di che cosa?», farfugliò la ragazzina.
«Delle conseguenze, presumo».
John sospirò e sollevò le mani, permettendo a Geneviève di allontanarsi quel tanto che bastava per poterlo guardare in volto. Aveva le guance irritate dal freddo e dalle lacrime, il naso che le colava e gli occhi gonfi, eppure era ancora carinissima. Chissà se anche Mary era così, alla sua età.
«Hai confessato a Sherlock che volevi incontrare tua zia per... per avere un piano di riserva se le cose con tuo padre non fossero andate nel migliore dei modi, giusto?». Le sistemò il cappellino sulla testa, la lana resa umida dai fiocchi di neve sciolti. «Mi sto ancora abituando a dovermi occupare di Rosie senza Mary, perciò avevo paura di non farcela, nel caso in cui...».
«Nel caso in cui mi fossi presentata davanti alla tua porta», concluse per lui Geneviève, abbozzando un sorriso.
«Non mi fraintendere, io...».
La ragazzina fece un ulteriore passo indietro, ad occhi bassi. «Ho capito, dottor Watson. E ti ringrazio per la tua franchezza».
«Aspetta, Geneviève».
«Mi chiedo soltanto se questo sia l'unico motivo», esclamò con rinnovato ardore. «Forse hai esitato a dirmi la verità sul nostro legame di parentela anche per via di mio padre. Voglio la verità».
John aprì la bocca, ancora insicuro su ciò che ne sarebbe uscito, ma una voce alle sue spalle lo anticipò: «Ti sbagli, tesoro».
Geneviève strinse gli occhi guardando l'uomo chino sulle ginocchia alle spalle del dottore. Questi alzò il viso e mostrò un sorriso brillante, nonostante il fiato corto e i ciuffi di capelli che gli ricadevano sulla fronte.
«Papà...».
«In carne ed ossa», rispose, sollevandosi per avvicinarsi alla figlia e posarle una mano sulla guancia. «Ascoltami, Geneviève... È vero che io sono tuo padre e che i miei geni sono nel tuo DNA, ma questo non vuol dire che diventerai come me. Tu sei, prima di tutto, una Destange. Tua madre ti ha cresciuto e mi dispiace di non esserci stato per te, ma ti prometto che ci sarò per i prossimi quindici, trenta o sessant'anni. Ci sarò quando avrai bisogno di me, non importa quale strada prenderai. Hai capito?».
Geneviève sorrise, quella volta con lacrime di gioia ad inumidirle gli occhi, ma prima che potesse gettare le braccia al collo del padre una seconda mano si posò sulla sua spalla, trattenendola.
«Sherlock?», esclamò John, stupito nel vederlo su quel ponte.
Lupin sorrise beffardo, ricambiando lo sguardo affilato dell'inglese. «Che c'è? Ti brucia che, nonostante io sia partito dopo, sia arrivato comunque per primo? Avanti, dovresti saperlo che nella corsa sono imbattibile».
«Anni di pratica a scappare dalla polizia, immagino».
«Non confermo nè smentisco», rispose il ladro, ridacchiando.
Geneviève, in mezzo ai due rivali per cui, nonostante le loro differenze, provava lo stesso affetto, si sfregò gli occhi arrossati e guardò prima l'uno e poi l'altro alla ricerca di risposte.
Sherlock le sorrise teneramente ed infilò la mano libera nella tasca del cappotto per estrarvi un anello con incastonato un diamante azzurro.
Vedendolo Arsène cambiò espressione: le sue labbra si arricciarono sui denti in un ringhio muto e i suoi occhi si assottigliarono, astiosi.
Sherlock ne sembrò soddisfatto, ma non si lasciò distrarre troppo. Era lì per Geneviève, dopotutto.
«Quando tua madre ha voluto rimanere da sola con me, quella volta, l'ha fatto per darmi questo e avere la mia parola che ti avrei protetta. Avevo già fatto una promessa del genere a John e Mary e non sono riuscito a mantenerla».
John si ritrovò a deglutire quando Sherlock spostò gli occhi nei suoi e vi lesse lo stesso dolore, lo stesso rammarico di quei giorni.
«Tuttavia», riprese il detective, posandole l'anello sul palmo della mano destra e richiudendovi intorno le dita, «ho tutte le intenzioni di provarci. Ormai sei parte della famiglia, Geneviève».
Arsène voltò il capo, come se si fosse offeso, e fece schioccare la lingua contro il palato.
Nello stesso momento, Sherlock aggiungeva risoluto: «E così anche tuo padre, se lo vorrà».
John rimase a bocca aperta a quell'affermazione, ma non tanto quanto il Ladro Gentiluomo, il quale fissò Sherlock con gli occhi verdi sgranati e resi lucidi dall'emozione. Socchiuse le labbra, ma ci ripensò e le strinse in una linea sottile.
Geneviève gli circondò la vita con un braccio, sorridendogli con dolcezza. «Non ascoltarlo, papà. Non importa quale strada prenderai, io ti vorrò sempre bene».
«Oh, cherì», mormorò Arsène, attirando a sé la figlia per stringerla in un abbraccio ed accarezzandole la nuca con una mano. «Sei tale e quale a tua madre».
John e Sherlock, spettatori silenziosi di quella scena d'amore, si scambiarono un'occhiata imbarazzata, tanto che entrambi poi rivolsero la loro attenzione verso il cielo da cui continuavano a scendere, implacabili, i fiocchi di neve.
Non era da lui fare il guastafeste, ma come deformazione professionale non poteva fare a meno di pensare alla salute delle persone a lui care.
«Rischiamo di prenderci un malanno se restiamo ancora qui», esclamò.
Arsène si scostò per accarezzare le guance fredde ed arrossate della figlia e sorrise, annuendo con un cenno del capo. «Credo che il dottore abbia ragione, tesoro. Andiamo a casa. Non me lo perdonerei mai se ti venisse il raffreddore».
«Ah, non fare il melodrammatico!», sbottò Sherlock, infastidito da tutta quella sdolcinatezza. «È solo un po' di neve!».
«Parli così perché tu non hai una figlia! Non sai nemmeno che cosa sia, l'istinto paterno!».
«No, e se significa comportarsi in questo modo ne sono felice!».
John scosse il capo: quando bisticciavano in quel modo sembravano proprio due bambini. Per caso i suoi occhi si posarono su Geneviève, rimasta tra Sherlock e Arsène con le braccia strette intorno alla vita e gli occhi smarriti. Lei non si accorse di essere osservata e continuò a dividersi tra ciò che le diceva il cuore e ciò che le suggeriva la mente: seguire Arsène Lupin, il ladro che si era ritrovata come padre, o Sherlock Holmes, il detective che si era autoproclamato suo tutore. Nonostante le belle parole doveva compiere una scelta e sapeva che, in un modo o nell'altro, avrebbe ferito uno dei due.
Però era troppo presto perché potesse prendere quella decisione, John glielo leggeva negli occhi. Quello di cui aveva bisogno, adesso, era un posto tranquillo, neutrale, in cui poter riflettere sul proprio futuro. Il problema vero era trovarlo, un posto del genere.
Geneviève non aveva altri parenti o conoscenti a Londra, nessuno che si potesse occupare di lei e starle vicino con gentilezza, nessuno in grado di gestire e fare da mediatore tra quei due uomini dalle straordinarie capacità. O forse... forse qualcuno c'era.
«Ehi, Geneviève».
La ragazzina si voltò verso di lui e sbatté rapidamente le palpebre, mettendolo a fuoco.
«Che ne diresti di stare qualche giorno da Molly Hooper?».
Sherlock e Arsène lo fissarono a loro volta, scioccati, per poi esclamare all'unisono: «Che cosa?».

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Capitolo 16
*** Instinct ***


Ciao a tutti! :D
Ebbene sì, John ha dato il via a qualcosa di più grande di lui mettendo Geneviève sotto la custodia di Molly. Sherlock e Arsène come la prenderanno? E l'appuntamento alla Royal Opera House s'ha da fare? Tutto questo si scoprirà nel capitolo che state per leggere. Quindi, bando alla ciance, vi auguro una buona lettura ;)
Grazie a tutte le belle anime che hanno recensito la scorsa settimana, chi ha letto soltanto e chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate. Vi adoro tutti!

Vostra,

_Pulse_



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16. Instinct


«Una cosa del genere me la sarei aspettata da Sherlock», sibilò Molly, il volto arrossato per la rabbia. «Perché mi hai coinvolto in questa storia senza nemmeno avvisarmi?».
«Stai dicendo che se te l'avessi chiesto avresti accettato?», domandò John, seduto sullo sgabello da bar dall'altra parte dell'isola della cucina, dove l'amica stava preparando il té.
Molly gli rivolse un'occhiata esasperata e il dottore annuì.
«Come immaginavo. Ascolta, Molly: non è colpa di quella ragazzina se suo padre è un ladro di fama internazionale e Sherlock ha deciso di prenderla sotto la sua ala. Ha appena perso sua madre e ha bisogno di stare tranquilla per capire che cosa fare».
«E perché non te ne occupi tu? Sei suo zio, dopotutto».
John sospirò. «Sono troppo vicino a Sherlock e onestamente...», si sporse sul bancone di marmo scuro e Molly fece lo stesso per porgergli l'orecchio. «Più lontano mi tengo da Arsène Lupin, meglio è».
«Oh, quindi se io devo averci a che fare va bene!», replicò a bassa voce, irritata.
«Avanti, Molly! Tu sei la persona perfetta! E anche l'unica, in realtà. Per Geneviève sei come la Svizzera».
Molly lo fissò a lungo, soppesando le sue parole, ma non c'era molto che potesse fare ormai: Geneviève era già nel suo salotto e nonostante sembrasse felice mentre coccolava Toby, il quale sembrava già averla presa in simpatia e le faceva le fusa, il dolore per della perdita di sua madre era palese. E né Arsène né Sherlock - soprattutto quest'ultimo - sapevano come approcciarsi a quel dolore. Quell'ingrato compito toccava a lei.
Molly sospirò, consolandosi col pensiero che in quel modo avrebbe ricambiato la gentilezza della ragazzina, senza la quale sarebbe rimasta all'oscuro della verità su Jean Daspry per chissà quanto tempo.
«E va bene, lo farò», sussurrò alla fine, prendendo tra le mani il vassoio su cui aveva posato il necessario per servire il té.
John aprì la bocca per ringraziarla, ma l'anatomopatologa lo fulminò con lo sguardo aggiungendo: «Mi devi un favore enorme, sappilo».
«Certamente. Qualsiasi cosa».
Molly annuì, appuntandosi mentalmente quelle parole, e lasciò la cucina a vista per precederlo nella zona giorno, dove aleggiava un'atmosfera carica di tensione. Sherlock e Arsène erano seduti ai lati opposti del piccolo divano, entrambi ancora avvolti nei loro lunghi cappotti e con le gambe accavallate nella stessa posizione, che si lanciavano scintille con gli occhi. Il bianco e il nero, il giorno e la notte, opposti ma complementari.
Vedendola arrivare, Geneviève si alzò in fretta dal pavimento con il suo micio tra le braccia ed incrociò il suo sguardo con un misto di timore e vergogna.
Per rompere il silenzio Molly le sorrise ed esclamò: «Vedo che avete già fatto amicizia».
Geneviève abbassò gli occhi su Toby, il quale allungò il collo per strofinare la testa sotto il suo mento. Lei non poté evitare di sorridere, solleticata dal suo pelo.
Molly versò il té nelle tazze, poi alzò lo sguardo in quello di Arsène. «Zucchero? Latte?».
«Come lo prende Sherlock», rispose il ladro, rivolgendole un sorriso sfrontato per cui Molly avrebbe voluto prenderlo a schiaffi. Si contenne però e lo servì, dimostrando così di sapere perfettamente come piaceva al detective.
«Papà», lo rimproverò la ragazzina, riuscendo persino a fargli porgere delle scuse.
«Non importa», rispose Molly, versandosi un po' di té ed appoggiandosi al bracciolo della poltrona su cui si era accomodato John. A pensarci bene non fu una buona idea, dato che era a portata di mano di Arsène, letteralmente: gli bastò allungare il braccio destro, quello fratturato, per prenderle il gomito ed attirare la sua attenzione.
«Sì che importa», la contraddisse. «Sono stato insensibile, perdonami».
Molly bevve un sorso di té per inumidirsi le labbra improvvisamente secche. I suoi occhi, il suo tocco... le avevano provocato una fitta allo stomaco che poche persone nella sua vita erano riuscite ad infliggere.
«Adesso che non devi più fingere di essere qualcun altro dovresti rimetterti il tutore», cambiò argomento, ruotando il braccio per liberarsi della sua stretta e posare con delicatezza una mano nel punto in cui, solo un'ora e mezza prima, l'aveva stretto per fargli del male. «Non guarirà mai, altrimenti».
Arsène abbozzò un sorriso. «Hai ragione».
«Dovrei averne uno nell'altra stanza, se vuoi...».
«Ti ringrazio, ma non è necessario».
Lasciò la tazza sul tavolino e si alzò, torreggiando su di lei. Avvicinò le dita al suo mento e lo sfiorò, incatenando lo sguardo al suo.
Molly arrossì violentemente, mentre il suo cuore iniziava a scalpitare nella cassa toracica. C'erano altre persone nel salotto: c'era John, c'era Geneviève... c'era Sherlock. Avrebbe dovuto scostarsi, dire ad Arsène di tenere le mani a posto, eppure non aveva il controllo di un muscolo che fosse uno.
«Grazie anche per la tua disponibilità, non lo dimenticherò», aggiunse con voce vellutata prima di prenderle la mano e sfiorarne le nocche nel secondo baciamano della serata. Quindi la liberò dall'incantesimo voltandosi con una piroetta e si diresse verso la figlia, la quale lasciò andare Toby ed allacciò le braccia al suo collo.
«Ehi, tesoro, non ci stiamo dicendo addio», scherzò, nonostante anche lui avesse ricambiato l'abbraccio con forza. «Sono certo che Molly Hooper sarà una perfetta padrona di casa, ma se per qualsiasi ragione volessi tornare al Savoy, troverai la tua camera come l'hai lasciata».
Geneviève annuì con un semplice cenno del capo ed allentò la presa.
«Anche il 221B è a tua disposizione», intervenne Sherlock, lugubre e senza nemmeno guardarla in volto.
«Grazie», rispose allora, avendo raccimolato il coraggio. «Grazie a tutti e due».
«Baffoni è già per strada, dovrebbe arrivare tra poco con i tuoi effetti personali».
Geneviève ridacchiò, forse per il soprannome usato dal ladro, il quale le diede un buffetto sulla guancia come congedo definitivo. Fece per avviarsi verso la porta e Molly si alzò per accompagnarlo, ma Arsène la fermò con un candido sorriso.
«Posso trovare la strada da solo, grazie». Si portò una mano sul petto e si prodigò in un mezzo inchino, togliendosi dalla testa un cilindro invisibile.
«Vi auguro un buon proseguimento di serata e noi due ci vediamo domani sera, Molly Hooper. Ti andrebbe di mangiare insieme un boccone, prima dello spettacolo?».
La donna impiegò qualche secondo per capire a che cosa si riferisse: il Don Giovanni alla Royal Opera House. Lei aveva invitato Jean Daspry, non pensava che Arsène Lupin avrebbe preso il suo posto. Come rispondere? Non poté fare a meno di guardare in direzione del detective, il quale si ostinava a rivolgere tutta la propria attenzione verso la libreria alla sua sinsitra.
Sospirando, Molly esibì un piccolo sorriso. «Certo, perché no? Va bene per le sei e mezza?».
«Magnifique», rispose in francese. Si risollevò e strizzò l'occhio a Geneviève, poi sparì nel piccolo ingresso e si chiuse la porta alle spalle.
«Beh, sarà il caso che vada anche io», esclamò John dopo qualche attimo di silenzio. «Ho lasciato Rosie dalla signora Hudson e sto abusando della sua gentilezza».
Il dottore recuperò il giaccone e se lo infilò, fissando interrogativo Sherlock, ancora seduto sul divano con quel suo sguardo assorto.
In imbarazzo, John si schiarì la gola. «Andiamo?».
Solo allora Sherlock si voltò, ma lo fece per inchiodare gli occhi in quelli di Molly, alla quale si rivolse dicendo: «Quindi hai deciso di uscire con lui».
C'era qualcosa nella sua espressione, qualcosa che non riuscì ad afferrare e che comunque le urtò i nervi.
«Ahm, ho bisogno del bagno», esclamò Geneviève ad un tratto, permettendo all'antomopatologa di distogliere lo sguardo dal detective.
«Prego, si trova in fondo a questo corridoio. Poi ti mostro la tua camera, okay?».
La ragazzina annuì con un piccolo sorriso sulle labbra e sparì nel corridoio. A seguito della serratura che scattava, Molly tornò a fissare Sherlock con le mani sui fianchi.
«Sbaglio o sei stato tu a suggerire che sarei dovuta andare all'appuntamento per scoprire che cosa avesse in mente?».
«Questo prima che lo smascherassi», replicò, alzandosi in piedi per avvicinarsi e guardarla negli occhi con fare quasi minaccioso, aiutato dai centimetri in più. «Inoltre, quando l'ho suggerito, non avevo idea che fossi attratta da quella specie di... brutta copia di Legolas».
«Legolas… de Il Signore degli Anelli?», intervenne John, scioccato dalla piega che quella conversazione stava prendendo.
«Lo Hobbit», lo corresse Sherlock, ignaro che fosse un personaggio di entrambe le saghe. Quindi roteò gli occhi e si giustificò: «Mi annoiavo e lo davano in TV. Ho apprezzato solo Smaug*».
«In effetti è un gran bel drago», concordò John.
«Ehi, possiamo tornare alla questione?».
Entrambi si voltarono verso Molly, stupiti dalla sua risolutezza.
«Che cosa ti importa se lo trovo attraente? Posso comunque darti una mano a trovare le informazioni che cerchi, se è questo ciò che ti preoccupa».
Sherlock strinse i denti e si limitò a sollevare le mani ai lati della testa, borbottando parole a mezza voce mentre la superava per raggiungere l'ingresso.
«Sherlock», lo richiamò la donna, intrecciando nervosamente le dita davanti al ventre.
Il consulente investigativo si voltò, lanciandole un'occhiata infastidita.
«Che cos'è che non mi stai dicendo?».
«As 33», rispose semplicemente Sherlock, lasciando i due amici stupiti e confusi.
«Che cosa significa?», domandò John ad un tratto, rompendo quel silenzio carico di tensione.
Il detective gli rivolse un sorriso compassionevole, per poi incrociare gli occhi affilati di Molly, la quale aveva persino stretto i pugni lungo i fianchi. Lei aveva capito.
«Simbolo e numero atomico dell'arsenico, un elemento chimico tossico per l'essere umano».
«Questo lo so, ma non vedo come...».
«Lo sai che in Età Vittoriana veniva usato come cosmetico, per rendere più pallida la carnagione del volto? Alcuni uomini sono morti per aver baciato donne con arsenico sulle labbra. Questo insegna che la bellezza inganna ed uccide, se non si presta la giusta dose di attenzione».
Senza aggiungere altro il detective si diresse verso la porta e dopo essere uscito se la chiuse alle spalle.
John sospirò, massaggiandosi la fronte, e quando risollevò gli occhi in quelli di Molly cercò le parole adatte per scusarsi, ma non ce ne fu bisogno.
«Non ti preoccupare, John», lo rassicurò la donna, rivolgendogli persino un sorriso. «Sherlock cerca solo di proteggerci, a modo suo».
«Già. Promettimi che starai attenta».
L'anatomopatologa annuì e lo condusse fino alla porta, alla quale si appoggiò fino a quando i due non sparirono dietro l'angolo delle scale. Il suo sguardo e quello di Sherlock si incrociarono per un'ultima volta e Molly sospirò rientrando in casa, chiedendosi cosa lo spaventasse tanto. L'aveva detto lui che Arsène non era pericoloso, in fondo. Perché quell'improvvisa smentita, giocando col suo nome per paragonarlo ad un veleno?
Decise di non pensarci più, sicura che non sarebbe mai arrivata a baciare Arsène Lupin, anche se la sola idea le faceva rizzare i peli sulle braccia.
Raccolse sul vassoio le tazze da té, trovando quella di Sherlock piena come gliel'aveva offerta, e dopo averle riposte nel lavello in cucina si ricordò della sua ospite, la quale non era ancora tornata dal bagno.
Titubante, Molly si fermò dietro la porta chiusa e bussò.
«Geneviève, va tutto bene?».
«Sì, ahm... arrivo tra un attimo».
Come promesso, dopo una manciata di secondi la ragazzina aprì la porta e le rivolse un debole sorriso, per poi deviare il suo sguardo con fare imbarazzato. L'anatomopatologa sospirò e le portò una mano sulla guancia per sollevarle il viso ed accarezzarle l'angolo dell'occhio sinistro, trovandolo arrossato e ancora accaldato nonostante avesse usato l'acqua fredda nel tentativo di cancellare i segni delle lacrime.
Geneviève si ritrasse e aprì la bocca per giustificarsi, ma Molly non gliene diede il tempo.
«Andiamo, ti mostro la tua camera», esclamò sorridendo, senza chiederle perché stesse piangendo o consolarla. La ragazzina ne fu così sorpresa che la seguì a bocca aperta.
La stanza degli ospiti era piccola ma confortevole, con un letto da una piazza e mezza, un armadio, un cassettone e una piccola panca imbottita sotto la finestra che dava sulla strada.
«Spero che possa andare bene», disse Molly, fissandola con attenzione per captare i suoi pensieri.
La ragazzina girò in tondo un paio di volte e quando si fermò di fronte a lei le regalò un sorriso con una sfumatura che fino ad allora non aveva mai visto: vera gratitudine.
«Va benissimo», le disse poi, sedendosi sul bordo del letto e lasciandosi cadere sulla schiena, a braccia aperte e coi capelli biondi sparsi intorno alla testa come un'aureola. Sembrava un vero angelo.
«Mi fa piacere. Allora mentre aspettiamo che ti portino le tue cose vado di là. Se hai bisogno di qualcosa...».
Geneviève si sollevò sui gomiti e la inchiodò sulla soglia con i suoi occhi verdi, così simili a quelli di sua madre e di conseguenza di Mary.
«Perché mi stai ospitando? Insomma... ora che sai chi è in realtà mio padre, avresti potuto rifiutare».
Molly sospirò arricciandosi le punte dei capelli, raccolti in una coda. «Se io avessi rifiutato dove saresti in questo momento?».
La ragazzina si alzò a sedere e aprì e chiuse la bocca un paio di volte, alla ricerca della risposta migliore da dare, mentre i suoi occhi tornavano a riempirsi di lacrime. La donna la raggiunse sul letto e le posò una mano sulla schiena, guardandola con espressione amorevole.
«Ascolta, Geneviève. Non riesco nemmeno ad immaginare quello che stai provando in questo momento: la tua situazione familiare è alquanto... inusuale. Se c'è una cosa di cui sono sicura, però, è che sei più forte di quello che credi. Il solo fatto che tu abbia cercato di mettermi in guardia dal tuo stesso padre me lo conferma e per questo ti ringrazio: senza di te probabilmente non avrei mai scoperto la verità, o l'avrei fatto quando ormai era troppo tardi. Se non vuoi credere che io ti sia ospitando perchè era la cosa giusta da fare, allora vedilo come il mio modo per sdebitarmi».
La figlia del ladro francese sorrise e prima che potesse dire qualcosa per ringraziarla qualcuno suonò al citofono. Ne fu in parte contenta, dato che quella situazione continuava a metterla in imbarazzo: nessuno, a parte sua madre, era mai stato tanto gentile con lei; quindi perché Molly Hooper, una donna che nemmeno la conosceva, le stava permettendo di stare a casa sua? Aveva detto che era la cosa giusta da fare... Ma giusta per chi?
«Sarà di sicuro il lacchè di mio padre», spiegò Geneviève, alzandosi in piedi.
Insieme raggiunsero l'ingresso e Molly aprì il portone del condominio, poi attesero davanti alla porta aperta che dall'ascensore uscisse proprio Grégorie, il complice più fidato di Arsène Lupin. L'uomo squadrò Molly da capo a piedi, poi senza dire una parola alzò le mani per mostrare lo zainetto e il trolley che aveva portato con sé dall'hotel.
Geneviève superò l'anatomopatologa e glieli strappò dalle mani, lanciandogli un'occhiata assassina. «Spero che tu non abbia maneggiato la mia biancheria».
Un ghigno si impossessò delle labbra dell'uomo, il quale si profuse persino in un inchino dicendo: «Sono desolato, madmoiselle, ma è stato inevitabile. Ad ogni modo le assicuro che il gentilsesso non mi interessa».
Quell'affermazione creò un certo imbarazzo, tanto che Molly si congedò dicendo che sarebbe andata in cucina. Rimasta sola Geneviève incrociò le braccia al petto e corrugò la fronte, iniziando ad unire finalmente i puntini.
«Tu non sei solo il secondo in comando della banda di mio padre, vero Grégorie?».
Nel sentire il proprio nome di battesimo, l'uomo serrò la mascella perdendo anche quella debole traccia di sorriso.
«Io sono tutto ciò che il padrone vuole che io sia».
«Stai cercando di farmi credere che non hai una tua volontà, dei desideri di cui nemmeno mio padre è a conoscenza?».
«Potrà sembrarvi strano, ma è così: devo a suo padre la mia vita e può farne ciò che desidera».
Geneviève si avvicinò e, nonostante fosse una spanna più bassa di lui, fu in grado di incatenare i loro sguardi. La distanza tra i loro volti era eccessivamente poca, ma Grégorie non si mosse né cambiò espressione.
«Allora rispondi a questa domanda: perché non gli hai detto che ho avuto dei contatti con Maurice Leblanc? Sarebbe stata la tua occasione per dimostrargli che sono una figlia disubbidiente. Forse saresti persino riuscito a convincerlo a lasciarmi in mezzo ad una strada».
Le mani di Grégorie si posarono sulle sue spalle, facendola sussultare per lo spavento. Il suo tocco però fu leggero e delicato, ben diverso da quello che si aspettava.
L'uomo l'allontanò da sé giusto di qualche centimetro e poi si chinò perché i loro sguardi fossero quasi alla stessa altezza.
«Mi dispiace averle dato l'impressione sbagliata, signorina. Tutto ciò che desidero è che il mio padrone sia felice e non posso negare l'evidenza: lei gli sta molto a cuore e se dovesse perderla ne soffrirebbe terribilmente. Per questo ho evitato di riferirgli dei suoi incontri col signor Leblanc. La devo avvisare però che, se non smetterà subito di frequentarlo...».
«Tranquillo, non succederà più», lo interruppe la ragazzina, sorridendo mestamente.
Grégorie le rivolse un'occhiata penetrante, quindi si sollevò e guardandosi intorno nel pianerottolo si accarezzò i baffi con la punta delle dita.
«Abbiamo già controllato in modo approfondito le vite dei vicini e sembra essere tutta gente perbene. Anche la zona sembra tranquilla, tuttavia sotto indicazioni di padron Lupin, Ernest ed io faremo dei turni di guardia finché sarà ospite della signorina Hooper. Le ho lasciato il mio recapito nel cellulare usa e getta che troverà nello zaino. Me lo faccia sapere, se dovesse aver bisogno di qualcosa, ma tenga presente che non obbedirò ciecamente ai suoi ordini: essere la figlia di Arsène Lupin non la rende automaticamente mia padrona, ci siamo intesi?».
Geneviève annuì e sospirò con espressione affranta, tanto da incuriosire l'uomo.
«Che cosa c'è?».
«Eri a tanto così dal piacermi, ma all'ultimo hai rovinato tutto», confessò.
Gli diede le spalle per rientrare nell'appartamento dell'anatomopatologa e prima di chiudere la porta gli fece l'occhiolino, augurandogli la buonanotte e chiamandolo col suo nome di battesimo.
Grégorie sospirò a sua volta e premette il tasto di chiamata dell'ascensore. Una volta entrato selezionò il piano terra. Quando le porte di metallo si chiusero gli mostrarono il riflesso sfocato del suo viso, dove aleggiava chiaramente un sorriso.
Quella ragazzina... per certi aspetti era tale e quale a suo padre. Che, come lui, avesse il potere di attirare la simpatia e l'affetto delle persone con cui aveva a che fare, anche delle più impensabili? Probabilmente.

***

Sherlock si tolse bruscamente il cappotto e lo lanciò sulla poltrona, quindi si passò una mano sulla bocca e camminò nervosamente avanti e indietro, da un capo all'altro del divano. John lo guardò in silenzio, aspettando pazientemente che si calmasse e gli confidasse i suoi turbamenti.
O almeno di solito era così. Dopo cinque minuti il dottore guardò l'orologio da polso e sospirò stancamente, rassegnandosi al fatto che quella sera Sherlock non avrebbe parlato.
«Io vado a casa con Rosie», esclamò. «Se puoi, non chiamarmi nel cuore della notte».
Era già nell'anticamera quando il detective ammise: «Arsène mi ha dato un biglietto per il Don Giovanni».
John tornò sui suoi passi e guardò l'amico, incredulo, mentre questi aggiungeva: «E ha detto che se mi presenterò si farà da parte».
«"Si farà da parte" in che senso?».
Sherlock gli gettò un'occhiata scocciata. «Tu cosa credi? Arsène sta cercando di sedurre Molly per farmi uscire allo scoperto e avere la prova definitiva che sono innamorato di lei».
John corrugò la fronte, trovando la soluzione fin troppo semplice. «Che succederebbe se non ti presentassi?».
«Temo che continuerebbe questa farsa per farmi un dispetto. Lupin è un gentiluomo, non sopporta gli uomini che fanno soffrire le donne e vuole farmela pagare».
«Se è davvero questo il suo intento, allora sono tentato a schierarmi dalla sua parte», esclamò John, tirandosi addosso l'ennesimo sguardo glaciale. Anche per questo si sentì costretto a doverlo rincuorare: «Sono certo che Molly non ci cascherà, specialmente ora che sa chi è».
Le spalle di Sherlock, ora rivolto verso la finestra di destra, iniziarono a tremare; solo successivamente si udì la sua risata, roca e gutturale.
«Ti sei già dimenticato quello che ti ho raccontato, John? Non importa se Arsène Lupin è un ladro: con la sua intelligenza, la sua spensieratezza, la sua empatia... e tutto ciò che lo rende Arsène Lupin, lui è in grado di conquistare chiunque. I suoi crimini passano in secondo piano, una volta che lo si è preso in simpatia». Il consulente investigativo si voltò e l'ampio sorriso che gli conferiva quell'espressione folle fece rabbrividire il dottor Watson. «Hai persino avuto modo di vederlo coi tuoi stessi occhi! Miss Nelly Underdown e la madre di Geneviève ne sono la prova! Si sono innamorate di quell'uomo ed è vero che sono riuscite ad allontanarsene, ma come ha fatto ben intendere Clotilde... dopo di lui non c'è stato più nessuno all'altezza».
Il silenzio successivo gravò su di loro con la pesantezza di una coperta bagnata e John, nonostante fosse stanco e bisognoso di tornare a casa, trovò la forza per stringere i pugni lungo i fianchi e replicare con tono fermo: «E tu non hai ancora capito di che pasta è fatta Molly Hooper. Puoi provare a spezzarla, ma lei tornerà sempre in piedi e non ti manderà nemmeno al diavolo, perché la sua gentilezza soffoca l'odio sul nascere. Gestire Arsène Lupin le sembrerà una passeggiata, dopo aver speso tutti questi anni appresso a te».
Sherlock abbassò il capo e non replicò, facendo credere a John di aver avuto l'ultima parola - un'occasione più unica che rara. Il dottore, gongolante, gli augurò la buonanotte e si avviò verso il piano inferiore per prendere la piccola Rosie e tornare a casa, ignaro invece di aver alimentato le paure del detective.
Arsène Lupin, come gli aveva fatto notare suo fratello Mycroft al termine del loro primo scontro, era tutto ciò che era lui e anche di più, grazie alla sua grande empatia. Quindi perché Molly non avrebbe dovuto preferirlo?
Sherlock si avvicinò alla scrivania ed estrasse il suo violino dalla custodia per suonare qualche nota, ma gli spartiti che si trovò davanti agli occhi, quelli della canzone scritta per l'anatomopatologa, aumentarono il senso di impotenza e di rabbia che gli stavano stritolando il cuore.
Istintivamente appallottolò gli spartiti galeotti e li gettò nel camino per guardarli bruciare tra le fiamme, metafora di ciò che sarebbe presto successo ai sentimenti che Molly aveva provato per lui prima di incontrare Arsène Lupin.  

***

«Il vostro liquore più costoso», ordinò Arsène con aria stizzita, sventolando una mano in direzione dell'espositore oltre il bancone.
Il barista annuì e sparì nel retro per tornare, un paio di minuti dopo, con una grossa ampolla di cristallo finemente lavorata ed impreziosita da pennellate d'oro.
Aveva appena preso un bicchiere all'altezza del liquido ambrato quando il ladro fece schioccare la lingua contro il palato ed esclamò: «La bottiglia».
Il ragazzo sgranò un poco gli occhi, ma non osò fiatare e prese la carta di credito che Arsène aveva tirato fuori da un piccolo portatessere d'argento. La strisciò e sbrigò con efficienza le pratiche, quindi ringraziò e si offrì di portare il tutto ad un tavolo, ma il biondo rifiutò con un semplice gesto del capo ed afferrata la pregiatissima bottiglia e il bicchiere si diresse verso la terrazza.
Aveva sperato di trovarla deserta, complice anche la neve che non aveva ancora smesso di cadere, e invece c'era un ragazzo svaccato su una sedia e con le lunghe gambe stese su un'altra, il capo coperto dal cappuccio della felpa, il volto alzato al cielo e una sigaretta accesa tra le labbra.
Arsène non lo riconobbe fino a quando questi non si accorse della sua presenza e girò un poco la testa per dare un'occhiata al pazzo che, come lui, preferiva stare al freddo piuttosto che all'interno. I loro sguardi si incrociarono e rimasero per qualche secondo in silenzio, mentre un sorriso si impadroniva delle loro labbra inconsapevoli.
«Rischi di prenderti un malanno», esordì Maurice dopo essersi tolto le cuffiette dalle orecchie e la sigaretta dalle labbra.
Arsène afferrò una sedia dal tavolo vicino e si sedette accanto a lui. «Potrei dirti la stessa cosa, amico mio».
Quindi anche lui allungò le gambe verso la sedia usata dal reporter come pouff per i piedi e rimasero così, a guardare quel cielo scuro da cui continuava a scendere la neve, smezzandosi una sigaretta.
«Ha l'aria di essere un whisky molto costoso, quello», ruppe il silenzio il ragazzo, indicando l'ampolla che il biondo aveva lasciato sul tavolino. «A cosa brindi?».
Arsène finse di non aver udito la domanda: tenendo il filtro tra le dita si riempì il bicchiere, se lo portò alle labbra e lo bevve tutto d'un fiato. Quindi ululò alla luna nascosta dal manto di nubi ed arricciò le labbra in una smorfia.
«Devo proprio togliermi questo brutto vizio», esclamò, scuotendo il capo con vigore.
Maurice si sollevò un poco sulla sedia, intrigato. «Quale?».
«Quando sono triste tendo a circondarmi delle cose più costose, come questo whisky. Il vuoto che a volte sento dentro non si può riempire con cose così frivole, ormai dovrei saperlo...».
«È successo qualcosa? Posso aiutarti?».
Arsène sorrise dolcemente e aprì la bocca per rispondere, ma ci ripensò. Posò il bicchiere sul tavolino e la sigaretta nel posacenere, poi avvicinò entrambe le mani al suo volto; Maurice lo lasciò fare, senza distogliere lo sguardo dal suo: si fidava ciecamente di lui, si era fidato sin dal primo momento in cui l'aveva incontrato alla presentazione di una raccolta di poesie e si era presentato come Jean Daspry.
Lavorava per L'Ècho de France da un paio di mesi ormai e finalmente aveva trovato un appartamento che soddisfacesse le sue esigenze: un loft nel pieno centro di Parigi, con una vista fantastica, abbordabile e senza fregature; almeno così pensava. Allora era così fiducioso e pieno di speranze che non avrebbe mai immaginato che quell'incontro avrebbe reso la sua vita ancora migliore.
Il Ladro Gentiluomo gli sfilò delicatamente gli occhiali prendendoli per le astine e li asciugò dai residui di neve sciolta con il fazzoletto bianco che portava nel taschino della giacca.
«Quando sei arrivato a Londra ti ho confessato di non poter tornare a casa senza aver prima conquistato il mio tesoro più grande. Beh, credo che questa sarà l'impresa più difficile in cui mi sia mai cimentato».
Arsène non sapeva nulla del suo incontro con Geneviève, non poteva immaginare che avesse capito esattamente di cosa stesse parlando, perciò Maurice si limitò a rispondere: «Sono certo che ci riuscirai invece».
«Io no», ammise il ladro, senza però perdere il sorriso. «Credo di aver sbagliato, amico mio. Questo tesoro non può e non deve essere conquistato. Ha bisogno di protezione e cure, ma non apparterrà mai a nessuno».
«Ho capito».
Lupin gli infilò di nuovo gli occhiali, ma anziché allontanare le mani, le posò sulle sue guance e lo guardò intensamente negli occhi.
«Davvero?», gli chiese in un sussurro, il capo leggermente piegato verso destra.
Il reporter si sentì con le spalle al muro, certo che quell'uomo incredibile avesse in qualche modo letto la verità che gli stava celando. Non riuscì a rispondere e non ce ne fu bisogno, perché Arsène lo lasciò libero alzandosi e dandogli le spalle per versarsi un altro bicchiere di quel whisky pregiato.
«Mi dispiace averti annoiato con questi discorsi, non era mia intenzione».
Maurice si alzò a sua volta e il cappuccio gli scivolò dalla testa.
«Tu non mi annoieresti mai. E puoi raccontarmi qualsiasi cosa, lo sai che non pubblicherei mai nulla senza prima avere la tua approvazione».
«Grazie», disse il Ladro Gentiluomo, rivolgendogli un sorriso mesto. Quindi, con ancora il bicchiere pieno in mano, camminò verso il parapetto ornato da piante incredibilmente belle e profumate, nonostante l'inverno fosse alle porte.
«A proposito di pubblicazioni, non ho più avuto modo di chiederti com'è andata la tua intervista a Sherlock».
«Ahm... non troppo bene, in realtà», confessò, grattandosi la nuca. «Ho buttato via un'occasione d'oro».
«È per questo che eri qui da solo al freddo?».
«No. Cioè, sì... anche».
Arsène ridacchiò e versò il contenuto del bicchiere sopra le piante, con tanta naturalezza e fluidità da sembrare quasi un'azione benevola, piuttosto che punibile.
«Sai, Maurice, sarei onorato se anche tu ti sentissi libero di dirmi tutto quello che ti passa per la testa», esclamò, tornando sui suoi passi per afferrare il collo della bottiglia.
Si diresse verso le porte scorrevoli per lasciare la terrazza e senza guardarlo concluse: «Immagino però che non solo Arsène Lupin abbia dei segreti da custodire».

***

Geneviève si strofinò gli occhi ancora gonfi di sonno e non riconoscendo la stanza in cui si trovava si tirò su seduta col cuore che le batteva forte nel petto. Le bastarono pochi secondi però per ricordare gli eventi della sera precedente e non solo ebbe piena consapevolezza di dove fosse, ma il macigno che le era pesato sulle spalle tornò a farsi sentire.
La gentilezza di Molly Hooper la metteva ancora a disagio, così come la propria incapacità di prendere una decisione. Perché lo trovava tanto difficile? Eppure la risposta sarebbe dovuta essere una soltanto: suo padre.
Sua madre aveva chiamato lui quando aveva capito di aver quasi esaurito il tempo concessole in questo mondo; a lui aveva chiesto di prendersi cura della sua bambina, eppure...
Si voltò verso il comodino ed allungando un braccio prese tra le dita la collana che proprio sua madre le aveva regalato per il suo ultimo compleanno: una semplice catenina d'oro con un cuore grande quanto un'unghia come ciondolo.
La sera precedente, quando se l'era tolta per andare a dormire, vi aveva infilato anche il diamante azzurro datole da Sherlock quando le aveva confessato che Clotilde gli aveva fatto promettere di proteggerla.
Proteggerla da chi? Da Arsène Lupin, suo padre?
«Ah, non ci sto capendo più niente», sospirò prendendosi la testa tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia.
Avrebbe voluto essere una di quelle persone capaci di vedere solo bianco o nero, ma forse nemmeno in quel caso avrebbe saputo verso chi voltarsi: né Arsène né Sherlock erano solo bianco o solo nero, in loro c'era tanta luce quanta oscurità e la verità era che entrambi, a modo loro, si erano presi cura di lei quando ne aveva più bisogno.
Avrebbe voluto avere un'amica del cuore a cui poter confidare i propri tormenti e a cui chiedere consiglio, ma non era mai stata brava con i ragazzi della sua età. Sua madre le aveva sempre detto che era per via della sua straordinaria intelligenza e Geneviève aveva iniziato a reputarla come una specie di condanna, anziché un dono.
Avrebbe voluto mandare un messaggio a Maurice, ma se Baffoni l'avesse scoperto non ne sarebbe stato contento.
Se solo sua madre non si fosse mai ammalata... tutto questo non sarebbe mai accaduto e la sua vita sarebbe stata tanto più semplice, anche se incompleta.
Le lacrime tornarono a bagnarle gli occhi, ma Geneviève si rifiutò di versarle e con un gesto deciso scostò le coperte per alzarsi dal letto.
Si legò i capelli con l'elastico che portava al polso e si allacciò la catenina al collo, nascondendo i ciondoli sotto la maglia del pigiama, poi uscì dalla stanza degli ospiti e si diresse verso la parte principale dell'appartamento: una grande stanza che comprendeva il salotto con un piccolo tavolo da pranzo e la cucina a vista, divisi solo da un'isola dal bancone di marmo scuro.
Pensava di trovare un bigliettino appeso al frigorifero con cui Molly le spiegava che era andata al lavoro e che poteva fare come se fosse a casa sua, invece trovò proprio l'anatomopatologa dietro l'anta aperta.
Quando ebbe preso ciò che le serviva - un cartone di succo d'arancia - si sollevò e solo allora si rese conto della sua presenza.
Sobbalzò un poco per la sorpresa e portandosi la mano libera sul pettò esclamò ridendo: «Non ti ho sentita arrivare, scusami! Hai dormito bene? Ieri non mi è venuto in mente che quella stanza è la più fredda, perciò se hai bisogno ho anche una stufetta...».
Geneviève sollevò le mani, come a volersi proteggere da quella valanga di parole, e scosse il capo con un sorriso imbarazzato sul volto.
«La stanza è okay», rispose poi.
Molly annuì e le indicò uno degli sgabelli da bar davanti all'isola. La ragazzina si sedette e si lasciò servire una tazza di tè, poi guardò la donna che la stava ospitando senza chiedere nulla in cambio, solo perché era "la cosa giusta da fare", e realizzò che si sarebbe sempre sentita in debito nei suoi confronti.
«Ahm... Come mai non sei al lavoro?», decise di spezzare il silenzio per concentrarsi su altro e togliersi quei pensieri dalla testa.
«Mi sono data malata».
Geneviève smise di mescolare lo zucchero che aveva appena versato nel caldo liquido ambrato e sollevò il capo per incrociare i suoi occhi. Molly non sembrava affatto malata, anzi sorrideva e il suo viso sembrava più rilassato rispetto alla sera prima, quando si era ritrovata in casa non solo Arsène Lupin e sua figlia ma anche Sherlock Holmes.
«Non mi sembrava giusto lasciarti qui da sola e poi, devo essere sincera, non mi dispiace passare del tempo con delle persone vive, ogni tanto», aggiunse l'anatomopatologa, facendole l'occhiolino.
Geneviève sentì il peso sulle sue spalle aumentare e strinse i pugni sul marmo fresco, trattenendo a stento la rabbia. Avrebbe potuto chiederglielo mille volte ancora - «Perché fai tutto questo?» - ma la risposta che avrebbe ottenuto sarebbe stata sempre la stessa e non l'avrebbe capita. Tanto valeva che l'accettasse per quel che era, impegnandosi a fare tutto ciò che poteva per ripagarla almeno in parte.
Iniziò subito, rivelandole: «Non so che cosa passi esattamente nella mente di mio padre, né cosa abbia pianificato per la vostra uscita, ma ho provato a dissuaderlo dall'usarti. Lui... e anche io... noi crediamo davvero che Sherlock sia innamorato di te e temo che il motivo per cui vuole avvicinarsi a te sia per verificarlo di persona».
Molly la fissò per una manciata di secondi, poi si portò alla bocca il bicchiere di succo e dopo aver preso un sorso le rivolse un sorriso rammaricato.
«Se Sherlock è davvero innamorato di me ha uno strano modo di dimostrarlo».
«Ti sembrerà assurdo, ma credo di aver ottenuto una mezza confessione durante una partita a scacchi».
«Una partita a scacchi? Pff...».
Geneviève infilò la mano dentro il barattolo dei biscotti e ne tirò fuori uno per inzupparlo nel tè.
«Non sto scherzando... Stavamo parlando del ruolo del re e della regina e una frase che ha detto mi ha colpita molto. Ha detto che nonostante lo scopo del gioco fosse far cadere il re, lui non è nulla senza gli altri pezzi, in particolare senza la regina. La regina è la più importante, è quella che può muoversi sulla scacchiera con più libertà, e proteggerla è fondamentale. Io l'ho un po' provocato, chiedendogli per vie traverse se nella vita reale avesse una regina per cui avrebbe persino sacrificato il re, se stesso...».
«E la sua risposta?».
La sua domanda le sembrò più di cortesia che di reale interesse, visto il tono distaccato e i suoi occhi abbassati, ma la ragazzina si domandò se in realtà non avesse alzato la sua di corazza, quella dietro la quale lo stesso Sherlock l'aveva costretta a barricarsi più e più volte.
«Il suo silenzio è stato eloquente».
Allungò una mano verso di lei per toccarle il braccio, ma Molly si ritrasse con nonchalance e le diede le spalle per rimettere in frigorifero il cartone di succo.
«Sherlock ha avuto molte occasioni per ricambiare il mio amore», disse piano, con una mano posata contro l'anta del frigorifero come a volersi sostenere. «Ha sempre scelto di non farlo e io l'ho sempre accettato. Per quanto i nostri sentimenti fossero palesi, non ne abbiamo mai parlato: sapevamo che non avrebbe portato a nulla. Poi, all'incirca un mese fa...».
Geneviève, ad occhi sgranati e la tazza sospesa a mezz'aria, pendeva letteralmente dalle sue labbra. Ecco, era il momento: finalmente avrebbe scoperto l'evento che aveva scosso così tanto Sherlock e per cui suo padre era stato assunto da quella donna sgradevole che, chissà perché, era stata l'amante del detective.
Molly però si era interrotta sul più bello e non sembrava intenzionata a continuare. Il suono del citofono fu solo un ulteriore incentivo ad allontanarsi, lasciando la ragazzina con l'amaro in bocca e la certezza che se le avesse chiesto di finire non avrebbe fatto altro che convincerla a non dire più una parola.
La guardò ciabattare fino all'ingresso e chiedere chi fosse, poi aprire il portone e attendere dietro la porta chiusa, sbirciando dallo spioncino. Quando suonarono al campanello la donna tirò via il chiavistello ed aprì la porta, rivelando un innocuo fattorino con un pacco per lei. Apposta la firma per il ritiro, Molly chiuse nuovamente la porta col chiavistello e col pacco tra le mani si fermò nel bel mezzo del salotto.
«Chi lo manda?», si azzardò a domandare Geneviève, seduta di sbieco sullo sgabello.
Molly alzò il capo verso di lei come se si fosse ricordata solo in quel momento della sua presenza e con espressione confusa rispose: «Jean Daspry».
Geneviève posò la tazza di té e senza perdere altro tempo raggiunse l'anatomopatologa per toglierle il pacco dalle mani ed analizzarne ogni lato.
Quella sua espressione concentrata le ricordò terribilmente quella di Sherlock, ma Molly dovette rimangiarselo non appena la ragazzina rivelò la sua vera età, urlando con tono eccitato e gli occhi brillanti di curiosità: «Che stai aspettando, aprilo!». Poi iniziò a sbatacchiare il pacco di qua e di là per cercare di capire che cosa ci fosse all'interno.
La donna glielo levò dalle mani esclamando divertita: «Se dentro ci fosse stata una bomba a quest'ora saremmo già saltate in aria».
Geneviève incrociò le braccia al petto, imbronciandosi. «E perché mio padre avrebbe dovuto spedirti una bomba? Prima avrebbe dovuto almeno trovare una scusa per farmi allontanare!».
Si guardarono negli occhi e risero insieme, quindi posarono il pacco sul tavolino basso davanti al divano e si inginocchiarono sul tappeto per aprirlo. Vennero raggiunte anche da Toby, il quale si strusciò su di loro con la stessa curiosità.
«Quindi non ne sai davvero niente?», domandò all'ultimo momento Molly, dopo aver sollevato solo di qualche centrimetro il coperchio bianco del pacco.
Geneviève scosse il capo ed allungò il collo, impaziente di scoprire l'ultima idea di suo padre. Molly respirò profondamente e tolse del tutto il coperchio, lo lasciò sul tappeto e prese il bigliettino che trovò sopra diversi strati di carta velina nera.

Un piccolo ringraziamento per aver seguito il tuo istinto.
A.L.


Molly, con le labbra stese in un piccolo sorriso, lasciò cadere il biglietto all'interno del coperchio rovesciato e si affrettò a togliere i vari strati di carta velina per prendere tra le mani un bellissimo vestito blu notte, perfetto per una serata di gala.
Incantate, le due non riuscirono a spiccicare parola per un po'. Fu Geneviève a riprendersi per prima, notando sul fondo della scatola un secondo bigliettino.
«Ehi, ce n'è un altro», esclamò, sventolandolo di fronte al viso.
Molly, la quale si stava sommariamente provando addosso l'abito, le chiese di leggerlo ad alta voce.
«Spero che tu non ti sia offesa: il fatto che io abbia azzeccato la tua taglia non significa che ti abbia guardata con malizia. A stasera, A.L.».
Geneviève ridacchiò e il rossore sul volto di Molly la intenerì, perciò si alzò e prendendola per un braccio la costrinse a seguirla nel corridoio, poi la spinse nel bagno gridando che doveva assolutamente provarlo.
Molly avrebbe preferito rifiutare la gentilezza di Lupin, ma quel vestito era talmente bello che le sembrava un vero peccato non approfittare di quell'occasione più unica che rara.
Si spogliò e si infilò l'abito, sentendolo aderire al corpo come una seconda pelle di seta. Lupin ci sapeva davvero fare con le taglie e la qualità della stoffa era tale da farle domandare quanto gli fosse costato.
«Ecco fatto», esclamò quando aprì la porta perché Geneviève potesse guardarla.
La ragazzina la rimirò da capo a piedi con la bocca spalancata e poi sorrise, ma non disse nulla. A disagio, Molly sbottò: «Allora?».
«Allora sei bellissima».
L'anatomopatologa abbassò gli occhi, sfiorando la seta blu che le fasciava le gambe, e quando rialzò il capo annunciò con determinazione: «Non ho intenzione di accettare un regalo del genere, glielo restituirò domani».
Geneviève aprì la bocca per ribattere che suo padre non avrebbe mai ripreso un regalo, ma Molly chiuse di nuovo la porta del bagno, facendole capire chiaramente che in quanto a testardaggine sarebbe stato un duello alla pari.

***

Sherlock non aveva chiuso occhio, ciò nonostante non aveva ancora deciso la linea d'azione da adottare quella sera: utilizzare il biglietto datogli da Lupin e presentarsi alla Royal Opera House, fornendo al ladro la prova definitiva riguardo al suo interessamento per Molly Hooper, oppure gettarlo nel camino ed aspettare di vedere la sua prossima mossa? Entrambe erano rischiose e con un'infinità di variabili, tanto che Sherlock era arrivato a pensare ad una terza opzione: affrontare direttamente la donna che aveva assunto Arsène Lupin, Irene Adler. Tuttavia parlarle, dirle la verità riguardo ai suoi sentimenti e il motivo per cui non poteva più continuare quella loro relazione, non gli garantiva in alcun modo che Molly sarebbe stata al sicuro, anzi: non solo rischiava di essere presa di mira direttamente dalla donna, ma Arsène avrebbe potuto vendicarsi nel caso in cui non avesse ricevuto qualsiasi ricompensa la Adler gli avesse promesso per il lavoro.
Più pensava ad una via d'uscita, più si sentiva prigioniero di un labirinto dalle pareti mobili.
Esasperato, Sherlock si alzò dalla poltrona per recuperare il violino e scaricare un po' di tensione sulle corde. Non appena prese lo strumento tra le mani però, una quarta opzione si mostrò ai suoi occhi stanchi.
Abbassarsi a tanto l'avrebbe perseguitato per il resto della sua vita, ma doveva tentare.

***

«Padrone... Padrone, si svegli».
Arsène aprì pigramente un occhio e scorse la figura in controluce di Grégorie in piedi di fianco a lui, con un vassoio tra le mani e l'espressione apprensiva di una madre.
«È ora di alzarsi», aggiunse dolcemente e si spostò per posare il vassoio ai piedi del letto, esponendolo così alla luce del sole che entrava dalle grandi finestre da cui aveva scostato le tende.
Il ladro si coprì gli occhi con un braccio e rotolò sulla schiena, mugugnando.
«Come ha detto?», domandò Grégorie, quasi con tono divertito.
«La pagherai», bofonchiò con maggior sforzo Arsène. Quindi si puntellò sui gomiti e cercò di tirarsi su a sedere, ma ricadde tra i cuscini di piuma d'oca al primo tentativo.
«Se ieri sera non avesse bevuto quella bottiglia tutto da solo, forse ora non sarebbe in questo stato».
Il Ladro Gentiluomo gettò la testa all'indietro per scorgere sul comodino la pregiata ampolla di cristallo ormai vuota e sbuffò, iniziando a ricordare alcuni frammenti della sera precedente, tra cui la chiacchierata con Maurice.
Sollevò il capo con immensa fatica e scrutò quello che poteva definire tranquillamente il suo migliore amico mentre apriva l'armadio e sceglieva per lui gli abiti da indossare.
«Tu sapevi che Maurice era a conoscenza del motivo principale per cui sono a Londra?», gli chiese ad un tratto, improvvisamente lucido, tanto che fu in grado di cogliere il modo in cui le spalle dell'uomo si irrigidirono.
Lupin attese con pazienza la sua risposta e fu sorpreso quando ricevette un sincero: «No, padrone, non lo sapevo».
«Allora che cosa sai?».
Grégorie sospirò e si voltò per guardarlo negli occhi, il completo che aveva scelto per lui piegato con cura sul braccio sinistro.
«Sapevo che sua figlia aveva avuto dei contatti con il signor Leblanc, disubbidendo ai suoi ordini, forse per curiosità, ma non immaginavo che fosse stata tanto irresponsabile da rivelargli di essere...».
«Non lo è stata», lo interruppe con fermezza, calciando via le coperte per alzarsi e, perfettamente a suo agio nel mostrarsi con indosso solo dei boxer neri, stirarsi i muscoli delle braccia. Quello fratturato gli faceva ancora male e lo mosse con cautela, poi lo infilò nel tutore abbandonato sul pavimento.
«Credo che tu stia sottovalutando Maurice, amico mio», riprese, rivolgendo un sorriso al servitore. «Deve aver solamente unito i puntini, non era difficile. Quello che non mi spiego è perché tu non mi abbia detto di Geneviève».
«Le dirò quello che ho detto alla signorina: le avevo promesso che sarei stato più indulgente nei suoi confronti, se questo l'avesse resa felice, e ho preferito darle un avvertimento prima di riferirlo a lei, padrone. Ieri sera mi è stato detto che la signorina e Maurice Leblanc non avranno più contatti d'ora in avanti».
Arsène si avvicinò a Grégorie senza mai distogliere gli occhi dai suoi, quasi con aria minacciosa. Il servitore non osò interrompere il contatto visivo e a testa alta avrebbe affrontato qualsiasi punizione; quello che ottenne invece fu un bacio a stampo sulle labbra e una carezza sulla guancia.
«Ti ringrazio, Grégorie», gli sussurrò con dolcezza prima di tornare a sedersi sul letto, accanto al vassoio con la colazione da cui si servì una tazza di cioccolata calda. Arsène Lupin odiava il caffè.
L'uomo non rispose, si limitò a chinare un poco il capo.
Mentre si impegnava a togliere il pirottino di carta dal muffin che aveva scelto tra i vari a disposizione, Arsène chiese: «Il pacco che ho fatto preparare ieri sera per miss Hooper è stato già recapitato?».
«Sì, Ernest mi ha confermato che è giunto a destinazione».
«Bene».
«Mi ha anche riferito che Sherlock Holmes ha avuto la sua stessa idea e ha ingaggiato un senzatetto per sorvegliare l'appartamento di miss Hooper. Dovremmo sbarazzarcene?».
«No. Dopotutto quattro occhi sono meglio di due».
«E a proposito di Sherlock Holmes...».
Arsène alzò gli occhi, incuriosito dalla pausa ad effetto di Grégorie. «Sì?».
«La sta aspettando al Thames Foyer».
«Che cosa?!», strepitò, con una voce così stridula da autoprocurarsi una fitta di dolore alla testa. Lasciò la tazza sul vassoio e si alzò di scatto, gli occhi sgranati e le mani nei capelli terribilmente in disordine. «Da quant'è che aspetta?».
«All'incirca due ore».
«Che cosa?! Perché non mi hai svegliato immediatamente?».
«Aveva bisogno di riposo e non volevo...».
Arsène marciò furioso verso di lui e gli strappò di mano gli indumenti che aveva preso dall'armadio, urlando: «Smettila di giustificarti e aiutami a rendermi presentabile!».
Grégorie non aprì più bocca e dopo un profondo inchino di scuse si mise al lavoro.
Aiutò Arsène a vestirsi, abbottonandogli da dietro la camicia azzurra mentre il ladro si infilava i pantaloni del completo blu scuro e litigava con la cintura che, per la fretta, non ne voleva sapere di infilarsi nei passanti. Il servitore lo sostituì in quel compito, lasciandogli le mani libere di occuparsi dei capelli, che pettinò all'indietro e su cui spruzzò con una generosa quantità di lacca.
Grégorie poi si allontanò per recuperare la cravatta di un bel giallo brillante e un paio di Clarks a collo basso, di morbido cuoio blu e con dettagli color senape. Prima gli annodò la cravatta al collo, incrociando ogni tanto i suoi occhi arrossati per il post-sbronza che lo scrutavano, poi gli chiese di sedersi perché potesse aiutarlo con le scarpe.
Il servitore si inginocchiò davanti a lui e portò a termine quell'ultimo compito con rapidità, ma quando fece per alzarsi la mano sinistra di Arsène si posò con forza sulla sua spalla, trattenendolo. I loro sguardi si incatenarono nuovamente e il Ladro Gentiluomo si chinò verso il suo viso, aprendo il più possibile le gambe e leccandosi le labbra in modo alquanto eloquente.
«Adesso non ho tempo, ma più tardi sai già cosa dovrai fare per farti perdonare», gli disse a pochi centimetri dalla sua bocca, lussurioso.
«Sarà un piacere, padrone».
Il ladro sorrise divertito e si alzò in piedi per stuzzicare ancora un po' il controllo del compagno, dato che col cavallo dei pantaloni gli sfiorò il naso.
«Allora a dopo, Baffoni», lo salutò malizioso, sfiorandogli la mandibola con la punta delle dita.

***

«Perdona l'attesa, mon ami», esordì Arsène facendo il suo trionfale ingresso nella sala da té sgomberata dai suoi uomini per il loro incontro.
Sherlock, seduto sul divanetto che dava le spalle al gazebo in ferro, non dovette nemmeno guardarlo con attenzione per capire come avesse trascorso la nottata.
«Non hai mai retto l'alcool».
«Nemmeno tu, se non ricordo male. Allora, hai pensato alla mia proposta a quanto vedo. Hai deciso che cosa -?». Il Ladro Gentiluomo si interruppe bruscamente quando vide la custodia del violino posata contro il cuscino alla sinistra del detective. Fece un passo indietro e gli angoli delle sue labbra si arricciarono in un sorriso eccitato e anche un po' incredulo.
«Je ne crois pas», esclamò, scuotendo un poco il capo. «Sto sognando per caso?».
Sherlock serrò i denti, fissando dritto davanti a sè. Davvero non c'erano altre alternative?
«Sherlock Holmes, il consulente investigativo di fama internazionale, è venuto a patteggiare**?!», gridò il ladro, tanto estasiato che se non avesse avuto ancora i postumi della sbornia avrebbe iniziato a saltellare sul posto. Si diede invece un contegno ed allentandosi un poco il nodo alla cravatta si schiarì la gola. «Perdonami, ma questo non me lo sarei mai aspettato da te».
«Allora, lo facciamo oppure no?», sbottò il detective a denti stretti e coi pugni serrati sulle ginocchia.
«Certo, assolutamente!».
Il biondo si precipitò al pianoforte e Sherlock lo seguì col proprio violino. Seduto sullo sgabello, Arsène intrecciò le dita e respirò profondamente, guardandolo con imbarazzo.
«Perdonami se non sarò all'altezza. Se solo l'avessi saputo...!».
«Zitto e suona».
«Certo».
Troppo tardi Arsène si ricordò di non avergli detto quale brano volesse suonare, ma non ce ne fu bisogno: non appena le sue dita si posarono sui tasti e le prime note vibrarono nell'aria, Sherlock fece scivolare l'archetto sulle corde e lo seguì. Il ladro sapeva bene quanto fosse bravo il detective come musicista, solo non credeva fino a quel punto. O forse la verità era che lo conosceva talmente a fondo da sapere già quale brano avrebbe scelto per il loro duetto: l'opera 9 numero 2 di Chopin, un notturno in mi bemolle maggiore dalla melodia sognante, struggente e ricca di passione.
«Ah, non lo trovi meraviglioso?», domandò Arsène, con gli occhi lucidi di emozione. «Sto per commuovermi».
Sherlock non rispose e continuò a suonare ad occhi chiusi.
«Lo sai che questo notturno, insieme ad altri, è stato dedicato da Chopin a Marie Pleyel? Una pianista di successo, famosa in tutta l'Europa della prima metà dell'Ottocento; l'unica donna che abbia ricevuto una tale notorietà come musicista. Tra lei e Chopin non sembra esserci mai stata alcuna relazione amorosa, però, per dedicarle simili opere, doveva essere davvero straordinaria. Non lo credi anche tu, Sherlock?».
Le note del violino presero il sopravvento su quelle del pianoforte, fino a diventare per un attimo le uniche udibili, e il detective ne approfittò per rispondere: «Mi sembra di aver letto da qualche parte che fosse una donna che passava da un uomo all'altro e che, quando si fidanzò, finì per cambiare idea, portando il poveretto a pensare di ucciderla per poi suicidarsi. Donne del genere sono pericolose».
E come a voler rimarcare la potenza di quelle parole, la melodia crebbe di ritmo ed intensità, azzittendo del tutto il pianoforte di Arsène, il quale si portò le mani dietro la nuca e fissò Sherlock esibirsi in quell'assolo con occhi ammaliati.
Era così assorto che quasi si dimenticò di dover riprendere a suonare per la chiusura del brano. Fece appena in tempo e conclusero insieme, dolcemente e in perfetta armonia. Se solo avessero avuto un pubblico! Ah, Arsène poteva sentire nelle orecchie lo scrosciare degli applausi che avrebbero ottenuto.
Si prodigò lui stesso nel battere vigorosamente le mani e si alzò dallo sgabello per travolgere Sherlock in un abbraccio.
«Levati di dosso!», urlò il detective, cercando di liberarsi, ma la presa ferrea di Arsène non gli dava scampo.
All'improvviso sentì il suo fiato caldo sul lobo destro e si irrigidì ascoltando le parole che gli sussurrò, serissimo: «Eppure, pur conoscendo i rischi, hai scelto comunque di frequentare Irene Adler. Sei un po' contraddittorio, Sherlock».
Il consulente investigativo si arrese al suo abbraccio e rispose: «È proprio per questo che sono qui, Arsène. Ho commesso un errore e ho bisogno del tuo aiuto per risolverlo. Qualsiasi cosa ti abbia promesso Irene...».
«Posso fare a meno di quello che mi ha promesso», affermò il ladro, scostandosi per poterlo guardare negli occhi. Posò le mani sulle sue guance, i pollici ad accarezzargli gli zigomi affilati, e scorgendo della confusione nei suoi occhi azzurri sorrise dolcemente, spiegando: «Te l'ho detto, quella donna non mi piace, non mi è mai piaciuta e mai mi piacerà. Non ho accettato per la ricompensa, ma per curiosità. Tuttavia le devo una risposta e quale sarà dipende solo da te».
«Dettami le tue condizioni, farò tutto ciò che posso per tenere Molly al sicuro».
Sherlock deglutì guardando il sorriso di Arsène ampliarsi sempre più, fino a diventare un ghigno quasi perverso.
Non avrebbe dovuto dire quelle parole così alla leggera, ma ormai non poteva più rimangiarsele e la sicurezza di Molly era davvero la sua priorità al momento. L'avrebbe fatto anche per John, Rosie, la signora Hudson e Lestrade, certo, ma ora aveva un motivo in più per proteggere l'anatomopatologa che era sempre stata al suo fianco come un'ombra silenziosa, aiutandolo senza mai chiedere nulla in cambio e amandolo persino nei suoi giorni peggiori.
Ad un tratto però il Ladro Gentiluomo si incupì e gli diede le spalle, interessandosi ai vasi di fiori che ornavano il gazebo. Sfilò una rosa bianca dalla composizione e se la portò al naso, sussurrando con tono nostalgico: «Quello che vorrei...».
La rosa gli scivolò dalle dita e Sherlock corrugò la fronte, incapace di comprendere ciò stava passando per la mente del rivale. Di solito era così facile... Ogni sua mossa era prevedibile perché conosceva Arsène Lupin come le sue tasche. Che quello che avesse di fronte non fosse più il personaggio che si era cucito addosso?
«Quello che vorrei tu non puoi darmelo», concluse la frase con rabbia, pestando il fiore con una suola e rivolgendogli uno sguardo ardente, nonostante una lacrima gli avesse scavato un solco sulla guancia.
«Vorrei una bella reputazione, vorrei degli amici come i tuoi, vorrei una famiglia, vorrei una donna che mi ami nonostante tutti i miei difetti. Vorrei tutto ciò che tu hai e che troppo spesso dai per scontato!».
Lo raggiunse nuovamente e lo afferrò per i baveri della giacca, strattonandolo senza mai distogliere gli occhi colmi di lacrime dai suoi.
«Vorrei tutto ciò che hai tu, vorrei le uniche cose che non potrò mai rubare!».
I singhiozzi ormai si erano fatti incontrollabili e Sherlock, profondamente scosso da quell'irriconoscibile Lupin, gli portò le mani sulla schiena tremante. Il ladro fece per ritrarsi, come se fosse stato appena sfiorato da delle lingue di fuoco, ma quella volta fu Sherlock a tenerlo in una stretta di ferro a cui poco dopo cedette, abbandonando la fronte contro la sua spalla sinistra.
«Vorrei una figlia che possa vantarsi di suo padre e non finire nel mirino della polizia per questo», aggiunse in un sussurro quando il pianto cessò.
Sherlock non avrebbe mai immaginato che quell'incontro potesse prendere una piega del genere e soprattutto non avrebbe mai creduto di vedere per la seconda volta il cuore di Lupin messo a nudo, quello che segretamente gli aveva sempre invidiato e che lui aveva nascosto chissà dove per paura di nuove cicatrici.
Arsène aveva sofferto molto nella sua vita, o almeno così credeva, eppure non aveva mai smesso di mettersi in gioco. Era come se le cicatrici lo rendessero più forte, anzichè indebolirlo. Come diceva quel proverbio? "Ciò che non uccide, fortifica". Forse era davvero così, forse no. Non poteva saperlo senza prima provarci.
«È vero, io non posso darti tutto questo. Non so nemmeno come abbia fatto ad ottenere tutto quello che ho», ammise Sherlock quando decise di rompere il silenzio. «Però posso aiutarti a cambiare, se lo vuoi davvero. Abbandona la maschera di Arsène Lupin e sii chi vuoi essere. Il resto verrà da sè, suppongo».
Arsène sollevò il capo e lo guardò negli occhi. «Tu... Tu lo faresti davvero?».
Il detective annuì. «Aiutami a fermare Irene prima che faccia qualcosa di avventato e io ti aiuterò ad avere degli amici, una famiglia e tutto il resto».
«E per quanto riguarda Molly?».
Sherlock sospirò e solo in quel momento si accorse di avere Arsène ancora tra le braccia. Si scostò in modo impacciato e si passò una mano sulla nuca.
«Stare dalla parte del bene significa farsi dei nemici e io non voglio che Molly venga presa di mira per colpa mia. So che per te è difficile capirlo, ma per la sua sicurezza non posso starle accanto. Tutto quello che mi interessa è tenerla al sicuro, non importa come. Puoi farlo, Arsène?».
Il Ladro Gentiluomo ci pensò su mentre estraeva un fazzoletto da taschino giallo - in tinta con la cravatta, - si asciugava il volto e si soffiava rumorosamente il naso.
«Perdona il mio stato, non pensavo di...».
«Non importa. Allora, abbiamo un patto?».
«Sì. Prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per gestire Irene Adler e proteggere Molly Hooper».
Entrambi fecero un passo verso l'altro, ma mentre Sherlock stese la mano per sigillare l'accordo, Arsène si sporse verso il suo viso con gli occhi socchiusi.
«Che diavolo -?!», urlò il detective, coprendogli la bocca con la mano. «Che diavolo pensi di fare?!».
Arsène bofonchiò qualcosa di incomprensibile e Sherlock fu costretto a liberarlo perché potesse ripetere con innocenza: «In Francia i patti si sigillano con un bacio! Il famoso bacio alla francese! Non lo sapevi? Le lingue si intrecciano e si...».
«Piantala», lo interruppe il detective, nauseato.
Il ladro finse delusione, ma sorrise quando afferrò la sua mano e la agitò con vigore.

***

«Ma non finiresti nei guai se qualcuno del lavoro ti vedesse qui?».
Molly prese un paio di bottiglie di salsa di pomodoro e le posò nel carrello che Geneviève stava conducendo tra le corsie alimentari, rispondendole con un sorriso: «Non ho mai saltato un giorno di lavoro, nemmeno con la febbre o il raffreddore, perciò probabilmente il mio superiore sa che ho detto una bugia. Ma è okay prendersi un giorno di vacanza ogni tanto».
La ragazzina annuì con un cenno del capo, a disagio. Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che era andata a fare la spesa con sua mamma e trovarsi lì con Molly le sembrava surreale, specie sapendo di essere osservata da Ernest, parcheggiato fuori dal supermercato.
«Perché mi hai portata con te?», le chiese alla fine, non potendo più resistere alla curiosità. «Posso cavarmela da sola, sai».
«Ne sono sicura, ma perché non approfittare della tua presenza per farmi aiutare? Non avere l'auto è davvero un problema, oggigiorno».
La ragazzina non si fece abbindolare dal suo occhiolino ed abbandonò il carrello per incrociare le braccia al petto e fissarla con un sopracciglio inarcato.
«Davvero, dimmi la verità. Ho la sensazione che tu abbia qualcosa in mente».
Molly sospirò e trascinò verso di sè il carrello per prenderne il controllo. «Non ti si può nascondere niente, vero? Tanto vale che te lo dica subito, allora».
Geneviève l'affiancò, trepidante.
«Tuo padre ieri mi ha proposto di mangiare un boccone prima dello spettacolo, ti ricordi? Sicuramente le sue intenzioni sono quelle di andare in un ristorante, ma io ho un'idea migliore: perché non gli facciamo una sorpresa e gli cuciniamo noi la cena? Penso che ne rimarrà piacevolmente stupito».
Molly si alzò sulle punte per prendere una confezione di pasta e non avendo ancora ricevuto risposta da Geneviève si voltò per chiederle che cosa ne pensasse. La sua espressione confusa però la fece desistere e fu la stessa ragazzina a rompere il silenzio, domandandole: «Perché dovremmo fare una cosa del genere?».
«Perché è tuo padre e credo che gli farebbe piacere cenare con sua figlia, mangiare qualcosa di preparato con le sue mani, avere la possibilità di conoscerla un po' meglio...».
Molly buttò nel carrello il pacco di pasta e raggiunse la bionda per accarezzarle le guance e sorriderle con tenerezza.
«Ascolta... so che cosa stai passando. Anche mio papà non c'è più ed è un dolore che non si può cancellare, però si può alleviare stando col resto della propria famiglia. Purtroppo non posso darti consigli specifici, posso solo immaginare quanto tu sia confusa in questo momento, ma lo scopo di questa cena è proprio quello di aiutarti a capire davvero chi è tuo padre. Almeno lo spero».
Con le mani esitò sui suoi capelli dorati e glieli spostò con cura oltre le spalle, aggiungendo piano: «Gli darai una possibilità?».
Geneviève sbatté rapidamente le palpebre per spazzare via le lacrime ed annuì col capo, evitando il suo sguardo per non arrossire.
«Perfetto. Allora, io pensavo di preparare una teglia di lasagne - la ricetta di mia madre è fantastica - e poi un dolce. Tu che ne pensi?».
«Posso farlo io il dolce?».
Molly fu colpita dall'improvvisa presa di iniziativa  e rispose con entusiasmo: «Ma certo!».
 «Okay, allora vado a prendere gli ingredienti».
«Va bene, ci vediamo tra dieci minuti alle casse».
Geneviève annuì e si voltò, ma dopo appena due passi si fermò ed incrociò di nuovo il suo sguardo per dirle un semplice «Grazie», un po' rigido ed imbarazzato, ma sincero. Quindi le diede definitivamente le spalle e correndo sparì dietro l'angolo della corsia, senza accorgersi del sorriso soddisfatto dell'anatomopatologa.

***

Grégorie guardò il proprio padrone rientrare nella suite e rimase inerte, incapace di pronunciare parola, quando si accorse della sua espressione tormentata e dei suoi occhi ancora più rossi rispetto a quando era uscito per incontrare Sherlock Holmes.
Quel maledetto detective... Era sempre stato fonte di guai, ma non importava quante volte provasse ad avvertirlo: Arsène l'avrebbe sempre cercato, come un drogato la sua dose.
Il Ladro Gentiluomo si tolse la giacca e gliela fece cadere tra le braccia, in silenzio e senza incrociare il suo sguardo. Solo allora Grégorie trovò la forza per allungare una mano ed afferrare la sua prima che lo superasse del tutto.
Lupin però lo anticipò, dicendo a bassa voce: «Non adesso. Voglio rimanere solo, per favore».
Con la morte nel cuore, il servitore non poté far altro che lasciargli la mano, ottenendo in cambio un lieve sorriso di ringraziamento.
Arsène raggiunse la camera padronale, in fondo al corridoio, e si chiuse all'interno, lasciando Grégorie ad aggirarsi inquieto per il salotto, con la giacca blu ancora stretta al petto e domandandosi cosa potesse fare per migliorargli l'umore. La risposta venne dal proprio cellulare.
«Signorina Geneviève», esclamò sorpreso.
Sperava vivamente di non ricevere una sua chiamata dal cellulare prepagato che le aveva fornito, specialmente durante il turno di guardia di Ernest.
«Non ti avrei chiamato se non si trattasse di un'emergenza».
«Mi dica allora».
«Se, per ipotesi, volessi preparare la cena a mio padre... Tu lo conosci molto bene, perciò, ecco... Che piatti mi consiglieresti?».
Grégorie chiuse gli occhi e trattenne un profondo sospiro. «Sarebbe questa l'emergenza?».
«Sì, al momento è una questione di vita o di morte!».
L'uomo si passò pollice ed indice sui baffi e guardando in direzione della porta chiusa abbozzò un sorriso: sì, lo conosceva molto bene; forse, tra tutti i membri del suo entourage, era la persona che lo conosceva meglio. Sapeva che Geneviève gli era entrata nel cuore dal primo momento, se non addirittura da quando era venuto a conoscenza della sua esistenza, e che desiderava essere un buon padre per lei. Per questo, per dimostrarle la propria fiducia, aveva disinstallato le telecamere nella sua camera e aveva allentato la sorveglianza, evitando persino di rimproverarla per l'avvertimento che aveva dato a Molly Hooper. Grégorie non sapeva se quella donna c'entrasse o meno con quell'improvvisa richiesta, ma era certo che Arsène sarebbe stato più che felice se sua figlia gli avesse dimostrato di tenere a lui preparandogli la cena.
Per quanto gli costasse ammettere di non poterlo aiutare in prima persona, se Geneviève si fosse dimostrata all'altezza della situazione allora avrebbe potuto considerare l'idea di mettersi anche al suo servizio, senza riserva alcuna.
«Grégorie, hai intenzione di aiutarmi oppure no?!», berciò la ragazzina, riportandolo coi piedi per terra.
«Sì, lo farò», rispose con determinazione, uscendo dalla royal suite per parlarle in tutta privacy. «Ha da scrivere?».

***

«Non è di nostra competenza».
Sherlock trattenne un grido frustrato, arruffandosi rabbiosamente i capelli. Quindi sbatté i palmi delle mani sulla scrivania e fissò gli occhi azzurro ghiaccio in quelli dell’Ispettore di Scotland Yard.
«Lo so benissimo! Vuoi proprio farmelo dire, eh?».
Lestrade gli rivolse un sorriso smagliante mentre continuava a giocare con la penna che teneva tra le dita, schiacciando ripetutamente il pulsante di apertura e chiusura sulla sua estremità.
Il detective strinse i pugni, deviando il suo sguardo, e parlò a denti stretti: «Non ho bisogno dell'Ispettore Lestrade, ma di Greg. Ti sto chiedendo un favore da amico».
«Ci voleva tanto?», gli domandò l'uomo, alzandosi dalla sua poltrona per raggiungere un mobile portadocumenti.
Aprì uno dei cassetti con la chiave che aveva estratto dalla tasca dei pantaloni e prese una serie di cartellette legate insieme con uno spago. Quindi le gettò sulla scrivania e Sherlock corrugò un poco la fronte scorgendovi sopra il timbro rosso la cui dicitura "Top Secret" era tutta un programma.
«Li fanno ancora? È così vintage...».
«Me le ha date tuo fratello, ancor prima che Ganimard venisse portato qui per quella denuncia di aggressione».
«Tu e Mycroft? Non sapevo foste in contatto. Vi vedete spesso?».
«Ma di che diavolo stai parlando?», sbottò l'Ispettore, infastidito. Picchiò l'indice sulla pila di cartellette e spiegò: «Mi ha chiesto di informarmi su questo Arsène Lupin e di tenere gli occhi ben aperti».
«Quindi se sono io a dire che Arsène Lupin è pericoloso vengo ignorato, mentre se l'informazione arriva da Mycroft... Dio, devo davvero falsificare un paio di lauree».
Ancora una volta Lestrade ignorò il suo farneticare e concluse: «Ti aiuterò, ma non credere che lo faccia solo per te. Molly mi aveva chiesto di accompagnarla alla Royal Opera House, non mi perdonerei mai se le succedesse qualcosa per colpa del mio stupido orgoglio».
Il consulente investigativo corrugò ancora una volta la fronte, confuso da quelle parole, ma non chiese ulteriori spiegazioni. Abbassò gli occhi sul terzo biglietto, quello che gli aveva fornito Arsène in persona e che aveva posato sulla scrivania quando aveva iniziato a spiegare le sue intenzioni a Greg.
«In questo caso è meglio se troviamo qualcun altro da infiltrare», esclamò.
Lestrade lo guardò negli occhi. «E chi?».
Un solo nome capitolò sulla lingua di Sherlock, ma non ebbe il coraggio di pronunciarlo. Si limitò a sospirare, sperando che tutto andasse per il meglio.

***

Geneviève si portò l'esterno del polso sulla fronte per scostare il ciuffo che proprio non ne voleva sapere di rimanere dietro l'orecchio sinistro e sorrise soddisfatta davanti alle teglie e alle pentole con le pietanze che avevano preparato e da cui si levavano profumi più che invanti.
«Abbiamo fatto proprio un bel lavoro, non pensi?», l'anticipò Molly.
«Spero gli piaccia...», rispose Geneviève, rabbuiandosi all'improvviso.
«Ehi!». L'anatomopatologa le tirò un colpetto col gomito, costringendola a rivolgerle lo sguardo. «Certo che gli piacerà! Ed è tutto merito tuo: se non avessi saputo che è vegetariano...».
La ragazzina le rivolse un sorriso teso, senza rivelarle che senza Grégorie avrebbero fatto una pessima figura. Questo a conferma di quanto poco conoscesse suo padre.
«Oddio, ma guarda che ore sono!», gridò Geneviève, il cui sguardo era caduto per caso sull'orologio appeso al muro. «Papà sarà qui tra mezz'ora e siamo un disastro!».
Molly fece per ribattere, ma le bastò darsi un'occhiata per darle ragione: entrambe avevano bisogno di una doccia e lei avrebbe dovuto anche prepararsi per il dopo-cena.
Geneviève si tolse il grembiule sporco e come quella mattina afferrò Molly per il braccio per trascinarla nel bagno, dove ci mancò poco che la spogliasse con le sue mani tant'era la fretta.
Se la donna le avesse chiesto perché volesse così disperatamente che suo padre la trovasse bella e che insieme trascorressero una serata piacevole non avrebbe saputo rispondere, perciò fu grata del modo in cui venne cacciata fuori dal bagno.
Un'idea però le attraversò la mente e Geneviève, di nuovo in piedi davanti alla tavola apparecchiata con cura per tre persone, si portò una mano sullo sterno: da sopra la maglietta tastò i ciondoli che le ricordavano sua madre e scosse il capo, realizzando che niente e nessuno sarebbe stato in grado di riempire il vuoto che sentiva in mezzo al petto. Illudersi in quel modo l'avrebbe solo fatta soffrire.
Con quella convinzione ciabattò fino alla camera degli ospiti e si cambiò la maglia sudata. Chi l'avrebbe mai detto che cucinare quei piatti della tradizione francese avrebbe richiesto un tale impiego di energie? Eppure sua madre cucinava per lei tutti i giorni, due volte al giorno... Non sempre erano piatti che richiedevano tempi così lunghi, ma prima di allora non si era mai resa conto di quanto anche le piccole cose avessero un peso così grande, sintomo di un amore incalcolabile.
Si lasciò cadere con la schiena sul letto e chiuse gli occhi, dicendosi che avrebbe riposato solo per dieci minuti, dieci minuti soltanto...

***

Arsène sospirò profondamente e scese dalla Porsche parcheggiata proprio davanti al portone del condominio in cui si trovava l'appartamento di Molly Hooper.
Alzò il colletto del cappotto e si guardò intorno, scorgendo immediatamente lo sguardo rassicurante di Grégorie, appostato dall'altra parte della strada. Quindi raggiunse il citofono e premette il pulsante di chiamata. L'anatomopatologa rispose immediatamente, sorprendendolo, e Arsène entrò nell'androne senza curarsi di chiudere il portone.
Salì in ascensore col cuore che gli batteva regolare nel petto, nonostante quel pomeriggio avesse attraversato una crisi umorale piuttosto grave. In qualche modo ne era uscito - aveva dovuto farlo, per mantenere la promessa fatta a Sherlock - ma non poteva dire di stare bene.
Il detective gli aveva offerto in cambio il suo aiuto, ma dubitava che avrebbe avuto successo. La verità era che forse non sarebbe mai stato bene. La sua vita era sempre stata segnata, fin dalla più tenera età, dal dolore e dalla solitudine. Probabilmente era il suo destino, un crudele e spietato destino al quale nemmeno l'incredibile Arsène Lupin poteva sfuggire.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono il Ladro Gentiluomo inspirò nuovamente e fu in quel momento che si raggelò, sentendo nell'aria un profumo che gli ricordò casa. Poi incrociò gli occhi sorridenti di Molly Hooper, appoggiata allo stipite della porta aperta, coi capelli ancora un po' umidi raccolti in uno chignon e con indosso dei semplici jeans e una felpa di una taglia più grande.
Lupin non si vergognò della propria confusione, né tentò di nasconderla.
«Che cosa sta succedendo?».
Molly allora rise anche con la bocca e spalancò la porta, facendogli segno di entrare. Il ladro non le tolse mai gli occhi di dosso mentre percorreva i pochi passi che dal pianerottolo lo condussero all'interno dell'appartamento, ma fu costretto dal profumo di cibo ancora più intenso. I ricordi della sua infanzia lo colpirono come uno schiaffo in pieno volto, mai nitidi come in quel momento.
Sgomento guardò l'anatomopatologa per ricevere una spiegazione, ma lei si limitò ad affiancarlo e ad indicare la tavola apparecchiata, sussurrando: «Sorpresa».
Il cervello di Lupin non aveva mai lavorato tanto velocemente in vita sua, eppure, sopraffatto dall'emozione, non riuscì a cogliere il punto di partenza di quella catena di eventi che l'avevano condotto fin lì. Pensava che sarebbe entrato solo per prendere Molly sottobraccio ed accompagnarla a cena, invece qualcuno aveva scombinato tutti i suoi piani.
«Non capisco», ammise.
Molly sorrise, quella volta dolcemente, e gli passò accanto per prendere la bottiglia di vino che aveva già stappato e versargli un bicchiere di rosso. Arsène lo accettò e lo bevve tutto d'un fiato, senza mai toglierle gli occhi di dosso.
«Geneviève ha appena perso sua mamma, una delle persone che amava di più al mondo, se non l'unica», esordì finalmente l'anatomopatologa. «Io so cosa significa perdere un membro della propria famiglia e so che per superarlo c'è bisogno di stabilità. Niente e nessuno potrà mai riempire il vuoto provocato dalla mancanza di quella persona, ma poter contare su qualcun altro è un grande aiuto».
Arsène aprì la bocca per parlare, ma Molly sollevò una mano e lo azzittì.
«Aspetta, fammi finire. Io non ti conosco, non so se sei davvero il ladro che Sherlock afferma tu sia, ma prima di questo sei suo padre. Sono sicura che tieni moltissimo a Geneviève e che faresti qualsiasi cosa per lei, te lo leggo negli occhi. Lei ha bisogno di te, ora più che mai. E non sarà facile, dato che vi siete appena conosciuti, ma entrambi dovete ritagliarvi degli spazi per conoscervi e legare».
Si voltò per indicare di nuovo la tavola e con un angolo della bocca sollevato in un sorriso concluse: «Per questo ho mandato a monte i tuoi piani e ho deciso che la cena si sarebbe svolta qui, anziché in un ristorante di lusso. Anche perché, non prendiamoci in giro, io non sono il tuo tipo».
Lupin abbozzò un sorriso, mentre il proprio cuore si ricopriva di ghiaccio. Molly gli ricordava moltissimo Clotilde, con la sua gentilezza e determinazione, un'anima sensibile e al contempo forte come poche altre. Lui non si meritava donne del genere e forse non le avrebbe mai meritate, ma non poteva fare a meno di innamorarsene.
«Geneviève ed io abbiamo cucinato per tutto il pomeriggio e non abbiamo parlato molto, ma posso assicurarti che vuole fare una buona impressione, perché tiene a te. Si è impegnata moltissimo, perciò ti invito a fare lo stesso».
Arsène, ormai con un iceberg in mezzo al petto, si voltò verso di lei e dopo aver posato il calice vuoto sul bordo del tavolo le prese le mani tra le sue per guardarla intensamente negli occhi.
«Non avrei mai immaginato che sarei diventato padre e scoprire di avere una figlia e di essermi perso i suoi primi quindici anni di vita mi ha fatto soffrire moltissimo. Ma voglio recuperare, lo voglio davvero. Non so se ci riuscirò, ma di certo mi impegnerò. Ti prometto che mi impegnerò al massimo per non deluderla, Molly Hooper».
La donna sorrise ed annuì, quindi sciolse l'intreccio delle loro dita e con un cenno del capo la invitò a seguirla lungo il corridoio che portava alle camere da letto. Il ladro corrugò la fronte, mal interpretando le sue intenzioni, ma non aprì bocca. Fece bene, perché la stanza davanti a cui lo portò fu quella degli ospiti, dove vide una Geneviève addormentata, sfinita ma soddisfatta - o almeno così gli piacque pensare notando il piccolo sorriso che gli arricciava gli angoli della bocca.
«Che dici, papà, la svegliamo?», gli chiese Molly.
Arsène ricambiò il suo sguardo con un sorriso intenerito. «Non sarebbe giusto iniziare senza di lei».
La donna gli diede una leggera pacca sulla spalla. «Va bene, pensaci tu».
«Cosa? No, aspetta...».
Ma Molly era già andata. Per qualche motivo incrociare gli occhi di sua figlia e ringraziarla per quello che aveva fatto per lui lo metteva in agitazione.
Lupin però aveva affrontato ben altro nella sua carriera, quindi si fece coraggio con un respiro profondo e si avvicinò al letto, dove si sedette per rimirare l'innocente bellezza di quella ragazzina nata dall'unione tra lui e Clotilde.
Se ci pensava troppo finiva sempre per non credere di aver contribuito alla creazione di qualcosa di così stupefacente. E il dolore tornava a schiacciargli il petto, rendendogli difficile la respirazione, realizzando che per quanto avesse amato Clotilde lei non l'aveva comunque ritenuto sufficiente per permettergli di starle accanto durante la gravidanza e poi quando la loro bambina era venuta al mondo.
Non l'aveva ritenuto abbastanza allora, come poteva sapere che sarebbe stato un buon padre ora? A quella domanda Clotilde aveva semplicemente risposto che lo sperava, per il bene di Geneviève, la quale presto si sarebbe trovata sola.
Senza che se ne rendesse conto una lacrima gli era rotolata sulla guancia nello stesso momento in cui allungava una mano per sfiorarle i capelli biondi.
A quella carezza la ragazzina aprì gli occhi di scatto e si tirò su seduta, guardandosi intorno spaesata. Quando incrociò i suoi occhi lucidi, Geneviève trasalì.
«Papà, cosa...?».
Arsène però le portò una mano sulla nuca e con l'altro braccio le avvolse la vita, ignorando il dolore della frattura, per stringerla forte a sé.
«Devi perdonarmi, Geneviève», le sussurrò tra i capelli.
«Per che cosa? Papà, mi stai spaventando».
Il Ladro Gentiluomo si scostò e un sorriso gli sbocciò sulle labbra. «Non era mia intenzione, tesoro. Quello che voglio dire è che mio padre mi abbandonò quand'ero piccolo, perciò non so se sarò mai all'altezza di questo compito. Quindi mi perdonerai, se sbaglierò. Dovrai correggermi, insegnarmi... perché non ho alcuna intenzione di rinunciare a te, ora che so della tua esistenza».
Adesso anche Geneviève aveva gli occhi gonfi di pianto e gli gettò di nuovo le braccia al collo. Arsène la strinse e sorrise dolcemente, sentendo quell'enorme blocco di ghiaccio che gli aveva intrappolato il cuore sciogliersi.
«È pronto in tavola!», esclamò ad un tratto Molly dalla cucina, costringendoli a separarsi per guardarsi negli occhi.
Imbarazzata, Geneviève fu la prima a distogliere lo sguardo per giocare con il diamante azzurro che aveva appeso al collo.
«Non avevo idea di quali fossero i tuoi piatti preferiti, perciò... ho chiesto aiuto a Grégorie. Non sapevo nemmeno fossi vegetariano...», confessò.
All'inizio Arsène inarcò le sopracciglia per la sorpresa, poi il suo viso si rasserenò. «Te l'avrei detto sicuramente, prima o poi. Solo le persone importanti lo sanno».
«Maurice Leblanc lo sa?».
«No, non lo sa. E a proposito di lui...».
Geneviève sobbalzò e lo guardò con gli occhi spalancati. «Mi dispiace, avrei dovuto ascoltarti. È colpa mia se ora sa chi sono, l'ho sottovalutato».
Arsène le passò una mano tra i capelli fino a posarla di nuovo sulla sua nuca ed avvicinare il viso al suo, tanto da far toccare le loro fronti.
«Avrei dovuto capire subito che impedirti qualcosa ti avrebbe solamente fatto venire ancora più voglia di farla. Sei come me in questo».
«Quindi... non sei arrabbiato?».
Arsène fece finta di pensarci, arricciando il naso, poi scosse il capo con una risata sulle labbra. «Ci si può fidare di Maurice».
Geneviève ricambiò e sospirò di sollievo. Fece anche per aggiungere qualcosa, ma Molly comparì nel rettangolo della porta aperta ed esclamò: «Avanti, si sta raffreddando tutto!».
Entrambi rizzarono la schiena e risposero: «Arriviamo!». Poi si guardarono negli occhi e senza nemmeno parlare decisero di fare una gara a chi arrivava per primo.
Molly li osservò dal corridoio, con le mani posate sui fianchi e un sorrisino soddisfatto sul volto, e poi scuotendo il capo li seguì.

***

«Non capisco perchè siamo qui. Mi avevate detto che dovevo andare a vedere un qualche spettacolo!».
«È inutile, Philip. Da qualsiasi prospettiva tu lo guardi, rimarrà sempre un pedinamento: stiamo spiando Molly».
Sherlock, seduto sui sedili posteriori, incrociò le braccia al petto e guardò severamente prima Lestrade e poi Anderson, ma non aprì bocca. Tamburellò nervosamente le dita sulla gamba e guardò di nuovo l'ora. Arsène era salito ormai da un quarto d'ora, per quale motivo si stava attardando tanto? C'era anche lui quando aveva detto a Molly che sarebbe passato a prenderla prima per poter andare a cena. Che nel frattempo i loro programmi fossero cambiati?
Selezionò il numero di John e si portò il cellulare all'orecchio, trepidante.
«Sherlock, stavo giusto per chiamarti», esclamò il dottore.
«Che cos'è successo?».
«Mi è appena arrivato un sms da parte di Molly: a quanto pare ceneranno a casa e poi, prima di andare all'opera, accompagneranno qui Geneviève».
«Capito, grazie». E senza aggiungere altro terminò la comunicazione.
Trovò gli sguardi di Lestrade e Anderson puntati addosso, in attesa di spiegazioni, ma Sherlock li ignorò, tornando a fissare le finestre dell'appartamento di Molly.
Perché stava ignorando in modo così plateale le sue raccomandazioni? Sembrava quasi lo stesse sfidando a prendere provvedimenti, a mettere una volta per tutte le carte in tavola, ma Sherlock non si sarebbe fatto abbindolare. Se l'anatomopatologa voleva giocare col fuoco, nonostante gli avvertimenti e la possibilità di scottarsi, lui non gliel'avrebbe impedito.

***

«Mon Dieu, erano anni che non mi concedevo una cena simile. Credo che potrei scoppiare», esclamò Arsène, abbandonandosi contro lo schienale della sedia e portandosi entrambe le mani sulla pancia piena.
Molly sorrise mentre avvicinava alla bocca il proprio bicchiere di vino. «Avresti potuto evitare di fare il bis di tutto».
«Ma era tutto così buono!», si difese. «La zuppa di cipolle, la ratatouille, il gratin dauphinois... erano tutti squisiti e molto simili a come li preparava mia madre».
Geneviève abbassò gli occhi, imbarazzata, quando il padre si sporse dal suo posto di capotavola per posarle un bacio sulla fronte.
«Merci beaucoup, ma chérie».
«Io aspetterei a ringraziarla, se fossi in te», si intromise Molly, facendole l'occhiolino.
La ragazzina si alzò e sotto lo sguardo scioccato del padre andò a tirare fuori dal forno spento il dessert che aveva voluto a tutti i costi preparare da sola e di cui andava estremamente fiera. Il solo profumo era qualcosa di paradisiaco.
Geneviève sistemò in mezzo al tavolo il piatto su cui aveva sistemato la torta e poi tornò in cucina per prendere tre piattini puliti, un coltello e una spatola. Passò gli ultimi a suo padre e con un lieve sorriso disse: «A te l'onore».
Arsène guardò ripetutamente la torta e poi la figlia, incredulo. «Ma questa è...».
Geneviève annuì col capo. «La Tarte Tatin che ti faceva la mia, di mamma. Quand'ero più piccola la faceva spesso anche a me, essendo il mio dolce preferito, e ogni volta mi raccontava quanto ti piacesse».
«Oh, tesoro...». Con gli occhi lucidi, Arsène si alzò ed abbracciò la figlia, la quale ricambiò affondando il volto nell'incavo tra collo e spalla.
Gli sguardi del Ladro Gentiluomo e di Molly si incrociarono per un attimo e fu lei a distoglierlo per prima, afferrando la bottiglia di vino e versando ciò che ne rimaneva nel bicchiere di Arsène e nel proprio. Poi versò della Coca-Cola in quello di Geneviève e disse: «Mi sembra l'occasione giusta per fare un brindisi».
Arsène lasciò che la figlia si scostasse, ma le tenne un braccio avvolto intorno alle spalle mentre annuiva e sollevava il proprio bicchiere.
«A Clotilde», esclamò il ladro. «E alla famiglia».
Tutti e tre fecero scontrare delicatamente i loro calici e bevvero. Quindi Lupin, armato di coltello e spatola, affettò la torta di mele rovesciata ancora tiepida e la versò nei piatti.
Alla prima forchettata Arsène ricordò quando, quindici anni prima, si era svegliato da solo nel letto che lui e Clotilde condividevano e sul tavolo della cucina aveva trovato il suo biglietto di addio, posato accanto ai resti della sera prima della sua torta preferita. Quella era stata l'ultima volta che l'aveva mangiata, tuttavia ne ricordava perfettamente il sapore e non mentì quando disse a Geneviève che la sua era buona tanto quanto quella di Clotilde, se non di più.

***

Quando finalmente il portone del palazzo si aprì, lasciando uscire Geneviève, Arsène e un'elegantissima Molly, Sherlock stava per fare qualcosa di veramente folle: piombare in quello stesso appartamento e... Il seguito non lo sapeva, dato che non aveva la minima idea di quale scena avrebbe potuto trovarsi davanti, e di conseguenza nemmeno immaginarsi la sua reazione.
Per fortuna non era dovuto arrivare a tanto, anche se iniziò a pentirsene quando vide il sorriso felice sul volto della ragazzina e gli sguardi complici di Arsène e Molly. Guardandoli aveva l'impressione che si fosse creato una sorta di legame tra loro, avvicinandoli in una maniera che Sherlock aveva già visto in passato e di cui aveva paura.
«Non sembra davvero il criminale che mi ha descritto Mycroft», esclamò Lestrade, guardando Arsène attraversare la strada, diretto verso un SUV nero.
«Che sta facendo?», domandò invece Anderson.
Sherlock si sporse tra i due sedili anteriori. «Sta prendendo accordi col suo uomo. Si spaccia per il suo maggiordomo, ma in realtà, se dovesse succedergli qualcosa, sarebbe lui a prendere il comando dell'intera organizzazione».
Geneviève salutò il padre e Molly e poi salì nel SUV, le cui luci si accesero poco prima del motore, per poi lasciare il parcheggio e dirigersi verso l'incrocio.
«Dobbiamo seguirlo?», chiese Greg.
«No, a noi interessa Lupin».
Sherlock scrisse rapidamente un sms a John per avvisarlo che Geneviève sarebbe stata lì in meno di quindici minuti, poi tornò a fissare le mosse di Arsène e Molly, i quali si erano già avvicinati alla Porsche.
Lui le aprì la portiera e le porse la mano guantata come un vero gentiluomo e lei lo ringraziò sorridendo. Quindi il ladro fece il giro dell'auto e si mise al volante.
Sherlock disse a Greg di tenere una cinquantina di metri di distanza - come se l'ispettore di Scotland Yard avesse bisogno di sapere come ci si comportava durante un pedinamento - e finalmente si diressero verso la Royal Opera House.  

«Mi sentite? Uno, due, tre, prova».
«Sì, ti sentiamo», confermò Sherlock, spostatosi sul sedile del passeggero per poter mostrare anche a Lestrade quello che riprendeva la telecamerina appuntata al fiore all'occhiello dello smoking di Anderson.
L'ex-agente della scientifica era appena entrato nel teatro con il biglietto del detective e si stava dirigendo verso il suo posto. Nonostante fossero arrivati insieme, Arsène aveva sfruttato i suoi agganci non solo per lasciare l'auto ad uno chaffeur, ma anche per saltare la fila chilometrica.
Quando Anderson raggiunse la balconata da cui avrebbe assistito allo spettacolo, Sherlock notò la perversione di Lupin e fu solo grazie alla prontezza di riflessi di Greg se non ruppe a metà il laptop che aveva sulle gambe.
«Quello sfacciato!», ringhiò irritato.
L'ispettore di Scotland Yard prestò più attenzione alle immagini ed anticipò persino Anderson riconoscendo Arsène Lupin e Molly Hooper seduti nella galleria opposta, perfettamente inquadrati dalla telecamera. Ne derivava che se Sherlock si fosse presentato non solo avrebbe assistito a ben altro spettacolo, ma sarebbe stato inevitabilmente visto dall'anatomopatologa, con chissà quali conseguenze.
Le luci si abbassarono e il silenzio calò sugli spettatori, dopodiché i fari illuminarono il palco e i primi personaggi fecero la loro comparsa.
Lestrade tolse l'audio - non era un fan dell'opera e tecnicamente, non essendo quella un'operazione autorizzata dalla polizia, stava commettendo un crimine - e si voltò verso il detective. Preferì non commentare la scelta dei posti di Lupin, ma decise di sfruttare l'occasione per cercare di capire che cosa fosse successo davvero tra lui e Molly. Qualche giorno prima infatti, riflettendo ed incastrando tutti i pezzi di informazioni che possedeva, gli era sembrato di vedere della luce in tutta quella oscurità, ma doveva esserne sicuro.
«Posso farti una domanda?».
Il consulente investigativo incrociò le braccia al petto, sulla difensiva, perciò prima che potesse dirgli che non era il momento, Greg lo anticipò: «Mi chiedevo se esiste un collegamento tra quello che è successo a Sherrinford e il tuo evitare Molly».
Sherlock non rispose, ma il modo in cui strinse gli occhi, chiari come il ghiaccio, fu di per sé una risposta.
«Che cosa te lo fa pensare?».
«La cronologia dei fatti, solo questo. Un po' poco, lo so, però... Anche il fatto che Mycroft, quando è passato a consegnarmi quei fascicoli su Lupin, mi abbia raccomandato di non parlare della faccenda ad anima viva...».
«Lui che cosa?», domandò Sherlock, irrigidendosi improvvisamente.
Lestrade lo fissò stupito. «Sì, mi ha fatto capire che non dovevo lasciarmi scappare nemmeno una parola su tua sorella, dimenticarmene addirittura».
Il consulente investigativo si accigliò ulteriormente e un ricordo gli balenò davanti agli occhi, lasciandolo come stordito: Arsène Lupin nel suo salotto, che parlava di carta da parati. Che cosa gli aveva chiesto?
«Perché non l'avete cambiata?».
Sherlock si portò le mani sulla testa, gli occhi sbarrati per via della propria cecità.
In quel momento, eccitato com'era dalla scoperta della figlia segreta del ladro, non aveva prestato attenzione all'uso delle sue parole e del loro possibile significato. E se le avesse mal interpretate? E se Arsène avesse voluto dire, in realtà: «Perché, già che c'eravate, non l'avete cambiata?».
Conosceva le sue capacità deduttive - era bravo tanto quanto lui - eppure non ci aveva neppure pensato. Invitandolo al 221B gli aveva permesso di guardarsi intorno e di raccogliere indizi preziosi.
Forse allora sapeva già del finto incidente che aveva distrutto il suo appartamento e aveva fatto lo stesso semplicissimo ragionamento di Lestrade, immaginando che quell'esplosione e il suo allontanamento da Molly fossero collegati. A quel punto aveva sfruttato la mossa di Geneviève e aveva lasciato che fosse lui stesso ad aprirgli la porta, dandogli così modo di confermare le sue teorie e cercare il pezzo mancante: ciò che collegava i due eventi.
«Sherlock, che cosa c'è?».
Il detective rialzò gli occhi in quelli dell'ispettore e si rese conto dell'altro errore grossolano che aveva commesso.
«La chiamata di Ganimard. Da quale telefono gli hai permesso di chiamarmi?».
Lestrade lo guardò come se fosse pazzo e in effetti la sua espressione poteva essere definita tale, tant'erano lo sgomento e la frustrazione che provava.
«Rispondimi, Greg!».
«Gli ho fatto usare il telefono del mio ufficio!», gridò in risposta l'uomo, senza saperne il motivo.
«Dannazione!».
Sherlock uscì dall'auto e si sbatté la portiera alle spalle, passandosi poi la mano sulla bocca. Lestrade lo imitò poco dopo e fece il giro del veicolo per poterlo guardare in volto.
«Mi vuoi spiegare che cosa ti è preso all'improvviso?».
Il consulente investigativo lo osservò a lungo, poi esclamò: «Togliti la giacca».
«Che cosa?».
«Fidati di me».
Greg si arrese e fece come gli era stato chiesto. Seguendo le istruzioni del detective la lanciò sui sedili posteriori, poi riaccese l'audio del laptop e lo impostò al massimo. Il Don Giovanni era ancora al primo atto, mentre Sherlock non si era accorto di essere stato lui stesso protagonista di una trama architettata nei minimi dettagli dal Ladro Gentiluomo, il cui scopo - scoprire il o i motivi del suo cambiamento in fatto di relazioni - non era mai cambiato.
«Io mi sono fidato, ma se mi prendo il raffreddore giuro che...».
Sherlock lo interruppe con un'occhiata tagliente e le seguenti parole: «È probabile che Arsène ti stia facendo sorvegliare».
La bocca dell'ispettore si aprì in una O di shock.
«Ricordi quando ti dissi che c'era una sua talpa a Scotland Yard?», riprese Sherlock. «Ho appena realizzato che per lui sarebbe stato molto più comodo e soprattutto più redditizio installare delle cimici. Nel tuo ufficio, sulla tua auto, forse persino nella tua giacca... Ricordi di aver mai lasciato il cellulare incustodito nelle ultime settimane?».
«No, non credo, ma...».
«Comunque sia, d'ora in avanti sarà meglio evitare di scambiarci informazioni sensibili tramite telefono o nei luoghi che frequentiamo di solito».
«Informazioni...? Ma di che stai parlando, Sherlock?!».
Lestrade era allibito e anche un po' spaventato. L'aveva visto furioso, sballato, eccitato, preoccupato, ma mai così paranoico. Non lo reputava nemmeno possibile, dato che lui riusciva a prevedere le mosse di chiunque. Che Arsène Lupin fosse un rivale formidabile ormai era assodato.
Sherlock lo guardò e lentamente i suoi occhi spiritati lo misero a fuoco. Quindi si portò di nuovo le mani tra i capelli, ma quella volta lo fece respirando profondamente per riacquistare il proprio autocontrollo. Quando tornò a guardarlo, Greg realizzò con sollievo che finalmente era tornato in sè.
«Tu sei uno dei pochi che sa la verità su Sherrinford, o almeno una parte», iniziò a spiegare. «Mycroft ha capito prima di me che Arsène avrebbe indagato e ha cercato di metterci in guardia, ma io come uno stupido mi sono fatto distrarre da...». Irene. Molly. Geneviève. «Da altro».
Dopo un momento di silenzio, Lestrade giunse finalmente alle conclusioni: «Quindi con le cimici avrebbe capito quando far ritirare la denuncia contro Ganimard e ora...».
Sherlock annuì, scuro in volto. «Ora potrebbe aver scoperto che ho una sorella».

***

In una stanza del Savoy Hotel in cui il letto non era mai stato usato, uno degli uomini della banda di Lupin si tolse le cuffie ed imprecò in francese per via di un improvviso acuto della cantante d'opera. Quindi si alzò dalla propria postazione e guardò il collega mentre questi ricontrollava la trascrizione dell'ultima conversazione tra Sherlock Holmes e l'ispettore Lestrade di Scotland Yard, la convertiva in un file criptato e la inoltrava per email al loro superiore.

Grégorie, seduto nello stesso SUV nero con cui aveva accompagnato Geneviève a casa del dottor Watson, davanti alla quale era ancora parcheggiato, in attesa, ricevette un'email sul cellulare del lavoro.
Aprì il file criptato e lesse gli ultimi risultati di quella lungimirante operazione di sorveglianza. Finalmente avevano ottenuto delle informazioni di valore, ma al tempo stesso erano stati scoperti.
Rispose all'email dando istruzioni perché interrompessero l'operazione e distruggessero a distanza le cimici, in modo da complicare ulteriormente il lavoro della scientifica, poi scrisse un sms.

Cattiva notizia: cimici bruciate.
Buona notizia: SH ha una sorella.

Arsène sentì il cellulare vibrare nella tasca dei pantaloni e fu tentato di ignorarlo - sarebbe stato da maleducati nei confronti degli attori e della sua accompagnatrice - ma il pensiero che potesse trattarsi di Geneviève lo spinse a sbloccarne il display e controllare.
Un sms da parte di Grégorie.
Lo aprì e lo lesse diverse volte, sentendo un sorriso allargarsi sempre di più sulle sue labbra. Alla fine fu costretto a portarsi una mano sulla bocca per non scoppiare a ridere, ma il modo in cui gettò indietro il capo attirò l'attenzione di Molly Hooper, la quale lo fissò prima con cipiglio perplesso e poi con preoccupazione.

Anderson intuì subito che qualcosa stava per succedere quando vide Arsène Lupin distogliere lo sguardo dallo spettacolo.
Una debole luce, ma perfettamente visibile anche da quella distanza, gli illuminò il viso e l'ex-agente della scientifica rabbrividì nello scorgere il suo sorriso. Fu ancora peggio quando lo sorprese in un attacco di riso, perciò decise di contattare Sherlock e Lestrade. Non ricevette alcuna risposta.  





Scusate, ma non ho potuto trattenermi dal citare Smaug* e Doctor Strange** (entrambi ruoli del nostro Benedict). Che burlona! xD
E ho anche fatto unpo' di fanservice con quella battutina di Sherlock su Lestrade e Mycroft. #sorrynotsorry

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Capitolo 17
*** White flower ***


Buonasera a tutti! :)
Allora, nello scorso capitolo vi ho lasciati ancora un po' in sospeso con la questione dell'appuntamento alla Royal Opera House ma direi che ciò che importava era il pre-show, no? Nel capitolo che leggerete tra poco vedrete il post e spero che vi piaccia, anche se sento di dovervi avvisare: preparate i fazzolettini. 
A proposito di avvisi, avevo già anticipato qualche capitolo fa che, essendo ormai a metà storia, gli equilibri cambieranno. E' giusto che i protagonisti rimangano Sherlock & Co., però non sono riuscita a tenere a freno quell'esuberante di Lupin, il quale da questo capitolo in particolare si prenderà ancora più spazio. Spero solo non sia troppo, ecco.
Ultimo ma non meno importante: fino ad adesso la storia era di rating arancione, ma è possibile che d'ora in avanti in certi capitoli ci siano delle scene da rosso. Come alla fine di questo, ad esempio. Vi avviserò di volta in volta, comunque.
Detto tutto ciò, vi lascio alla lettura!
Grazie a tutti, un bacio enorme e alla prossima!

Vostra,

_Pulse_



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17. White flower


La facciata della Royal Opera House, simile ad un tempio greco classico, era illuminata da luci dorate che oscuravano ancora di più il cielo, ricoperto da banchi di nuvole tanto fitti che nascondevano persino la luna. Forse avrebbe nevicato di nuovo.
Molly osservò l'uomo al suo fianco: stava prendendo una lunga boccata dalla sua sigaretta elettronica e nonostante le guance incavate aveva ancora quel sorriso divertito sul volto, come se gli avessero appena raccontato la barzelletta più divertente che avesse mai sentito; in tutta onestà le faceva un po' paura. Non ne sapeva esattamente il motivo, ma prevedeva guai.
Eppure a casa, durante la cena, non aveva provato le stesse sensazioni. Era come se, ad un certo punto, l'uomo gentile e premuroso che aveva visto con Geneviève fosse sparito per lasciare spazio ad un'altra versione di sè, imprevedibile e pericolosa. Una specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Che il messaggio che aveva ricevuto appena un quarto d'ora dopo l'inizio dello spettacolo fosse stato la causa di quella trasformazione?
Molly non riuscì a trattenere la curiosità e per azzittire la vocina che le diceva di farsi gli affari suoi si disse che dopotutto era compito suo strappare da Arsène informazioni utili a Sherlock.
«Ricevuto buone notizie?», gli chiese quindi a bruciapelo.
Gli occhi verdi del ladro francese si posarono su di lei e la fissarono con un misto di sorpresa e curiosità.
«Ho notato che hai ricevuto un messaggio, durante lo spettacolo», aggiunse.
«Sì, è così», rispose Arsène. «Un'ottima notizia, piuttosto inaspettata».
«Posso sapere...?».
Il biondo non le fece nemmeno terminare la domanda. «Lavoro».
«Capisco».
Molly accolse il silenzio come un amico fidato, demoralizzata da com'era andato a finire il suo tentativo, ma quella volta fu Lupin a fare la prima mossa, esclamando: «Mi dispiace se ti ho dato l'impressione sbagliata. Ho adorato lo spettacolo, e tu?».
«Sì, anche io», rispose lei, abbozzando un sorriso.
«Ti ringrazio».
Qualcosa nel suo tono di voce, diventata improvvisamente più profonda, le fece aggrottare la fronte. «Per che cosa?».
I loro sguardi si incrociarono nuovamente e Molly sentì le ginocchia tremare.
Eccolo. L'uomo con cui aveva cenato e chiacchierato circa tre ore prima era tornato.
«Per tutto quello che hai fatto per Geneviève. Io... riuscirò a ripagarti, un giorno».
«Non ce n'è davvero bisogno. Io sono la madrina di Rosie, e dato che lei e Geneviève sono cugine mi sento in dovere di prendermi cura anche di lei».
«Molly Hooper», esclamò il Ladro Gentiluomo, prendendole le mani tra le sue ed incatenando i loro sguardi.
La donna rabbrividì nuovamente: l'ardore nei suoi occhi, il suo tocco delicato, il modo in cui aveva pronunciato il suo nome... Nome e cognome, proprio come faceva Sherlock. Tutto glielo ricordava dolorosamente, anche se i due non potevano essere più diversi.
«La gentilezza e la bontà sono doni preziosi, dovresti pretendere che vengano riconosciuti e ripagati».
«Se lo facessi... non sarebbero più doni, giusto? Chi fa del bene non lo fa per un tornaconto personale. Vedere che le proprie azioni hanno reso migliore la vita di qualcun altro... questa è la ricompensa».
Aveva cercato di non balbettare, ma non ci era riuscita. Inoltre, era arrossita davanti all'espressione ammirata di Arsène.
«Sherlock è davvero uno stupido», disse ad un tratto, rompendo il contatto visivo e tornando alla propria sigaretta elettronica con un sorriso rammaricato sulle labbra. Quindi si accigliò e voltando il capo verso la fine della strada borbottò: «Ma quanto ci mettono a portarmi l'auto?».
«Che cosa significa?», gli domandò Molly, col cuore in gola. «Che vuol dire che Sherlock è...?».
Venne interrotta da un uomo in smoking che, scendendo frettolosamente la scalinata, aveva urtato Arsène con tanta forza da spingerlo contro di lei.
Pensando che il colpo potesse farle perdere l'equilibrio il ladro le avvolse il braccio sinistro intorno alla vita e la strinse a sè. Il suo gesto era stato istintivo e per nulla malizioso, tuttavia Molly si sentì andare a fuoco nei punti in cui i loro corpi erano entrati in contatto.
«Ehi, stia un po' attento!», gridò Lupin, rivolgendo all'uomo un'occhiata tagliente.
«Mi scusi, non l'ho fatto apposta».
Solo quando l'uomo rialzò la testa, china in segno di prostrazione, e si portò i lunghi capelli neri dietro le orecchie Molly riuscì a riconoscerlo.
«Philip?».
«Molly! Che incredibile coincidenza!».
L'anatomopatologa non credeva affatto fosse una coincidenza e si accigliò, un pugno stretto nella tasca del cappotto.
«Che cosa ci fai tu qui?», gli domandò, fingendosi altrettanto sorpresa. «Non sapevo ti piacesse l'opera».
«Non particolarmente, in effetti. Solo che un mio amico non poteva venire ed era un peccato sprecare il biglietto, perciò... Ma chi è il tuo accompagnatore? Ha una faccia nota...».
Arsène si allontanò di un passo da Molly e lei tornò ad avvertire il freddo della notte penetrarle le ossa.
«Il mio nome è Jean Daspry», si presentò Arsène, porgendogli una mano.
«Jean Daspry... Ah, ecco! L'eroe del Waterloo Bridge!».
Il ladro gli rivolse un sorriso imbarazzato. «Così mi hanno definito, anche se non ho fatto nulla di speciale».
In quel momento la Porsche argentata con cui erano arrivati fu parcheggiata a ridosso del marciapiede dallo chaffeur che con rapidità scese dal mezzo e si scusò per l'attesa.
«Beh, è stato un piacere conoscerti, Philip», esclamò Arsène, chinandosi un poco verso di lui per sfilargli il fiore che aveva appuntato alla giacca. «Scusa, posso?».
Anderson lo fissò ad occhi sgranati, senza riuscire a spiccicare parola, mentre il biondo lo sistemava con delicatezza sopra l'orecchio sinistro di Molly.
«Credo che a lei stia molto meglio, non trovi?», aggiunse il Ladro Gentiluomo, rivolgendogli un candido sorriso prima di porgere il braccio all'anatomopatologa. «Andiamo?».
Molly non poté far altro che annuire e salutare uno scioccato Philip con un semplice cenno della mano. Salì in auto e, sempre in silenzio, guardò Arsène avviare il motore ed immettersi nelle strade sempre trafficate di Londra.

***

Rosie si era addormentata già da un pezzo quando Geneviève, fino ad allora di ottimo umore, aveva smesso di interessarsi al film che davano in televisione per rabbuiarsi e stringersi al petto un cuscino del divano.
John non aveva avuto il coraggio di chiederle che cosa le fosse preso, ma non aveva dovuto attendere molto prima di scoprirlo; era stata la stessa Geneviève a renderlo partecipe.
«Lei com'era? Mia zia, intendo».
Il dottor Watson aveva sospirato: aveva sperato di rimandare quel momento al più tardi possibile. La sua solita sfortuna.
Ricacciando in fondo alla gola il dolore aveva iniziato a raccontarle della donna che aveva rapito il suo cuore dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lei; una donna che credeva di conoscere e che invece gli aveva nascosto molti segreti.
Le aveva raccontato del loro primo appuntamento, di quando aveva capito di essersi innamorato di lei e della proposta di matrimonio rovinata da Sherlock.
Le aveva raccontato del matrimonio, del modo in cui avevano scoperto che presto sarebbero stati genitori e della crisi che avevano vissuto e superato per via del suo passato.
A quel punto aveva persino tirato fuori le foto delle nozze, sfogliando quell'album per la prima volta da quando era morta, ma aveva osato troppo: si era ritrovato in lacrime e Geneviève gli era stata accanto in silenzio, posandogli semplicemente una mano sulla schiena in segno di conforto.
A seguito dell'episodio l'aveva a malapena guardata in faccia e, seduto al tavolo della cucina con una tazza di tè tra le mani, era rimasto a guardare le lancette dell'orologio appeso al muro, in attesa del ritorno di Molly e Arsène.

***

Arsène guardò Molly con la coda dell'occhio e, turbato dal suo silenzio, le chiese: «C'è qualcosa che non va?».
La donna, fino ad allora con lo sguardo fisso fuori dal finestrino, si voltò per rivolgergli un piccolo sorriso. «No, è tutto okay».
«Gradirei che non mi mentissi».
La osservò aprire la bocca per replicare e poi richiuderla, abbassare gli occhi sul fiore finto che si era tolta dai capelli e rigiraselo tra le dita mentre scuoteva mestamente il capo, con aria afflitta.
«È solo... Tu, Geneviève, John, lo stesso Sherlock... Credete che io sia una stupida? Do' l'impressione di esserlo, forse, ma non lo sono. Credete di potermi manipolare a vostro piacimento, senza accorgervi che sono io a lasciarvi fare», disse alla fine.
Arsène non distolse gli occhi dalla strada, con un improvviso peso a schiacciargli il petto. «Désolé, non credo di seguirti».
Lo sguardo colmo d'ira e frustrazione che lei gli rivolse lo colpì con la stessa forza di uno schiaffo, tanto che lo sentì bruciare sul volto. Molly strappò via la microcamera nascosta tra i grandi petali bianchi del fiore finto, dimostrando di aver sempre saputo delle macchinazioni di Sherlock, e dopo aver abbassato il finestrino la gettò fuori dall'abitacolo.
Quindi tornò a prestare attenzione alle luci dei ristoranti e dei negozi dalle vetrine addobbate in tema natalizio e il Ladro Gentiluomo non osò più dire una parola, nemmeno quando raggiunsero il quartiere residenziale in cui abitava il dottor Watson.
Al loro arrivo Grégorie scese dal SUV e andò a bussare alla porta. Pochi minuti dopo tornò sui suoi passi insieme a Geneviève, la quale salutò il padre e Molly con un cenno della mano prima di salire sull'auto di grossa cilindrata. Quindi si diressero tutti verso l'appartamento della scienziata.
Davanti al portone del condominio Lupin salutò la figlia e le augurò la buonanotte.
Anche Molly fece per congedarsi, ringraziandolo per la serata, ma il ladro l'afferrò per il polso.
«Non posso lasciarti andare in questo modo», le disse con gli occhi venati di tristezza. «Ti prego solo di ascoltarmi».
Molly non riuscì a dirgli di no. Consegnò le chiavi di casa a Geneviève e quando scomparve in ascensore si concentrò sull'uomo che aveva di fronte, chiedendosi che cos'avesse da dirle.
Decifrare le sue espressioni era semplice, molto più semplice rispetto a ciò che era abituata di solito con Sherlock, ma proprio per questo rischiava di essere tratta in inganno: non sempre, infatti, erano autentiche. Sherlock non era in grado di fingere emozioni, mentre Arsène, da quel che le era stato raccontato, era un maestro in quel campo.
«Vedilo come un piccolo anticipo della tua ricompensa, oui? È vero che ti ho sottovalutata e che pensavo di usarti per ottenere qualcosa da Sherlock, ma ora non ne ho più alcuna intenzione. Anzi, gli ho promesso che ti avrei tenuta al sicuro».
Molly strabuzzò gli occhi, incredula alle proprie orecchie. «Che cosa vuol dire?».
«Vuol dire proprio ciò che ho detto», rispose, avvicinandosi per posarle le mani sulle braccia e sorriderle dolcemente. «Tu sei speciale, Molly Hooper, e conti molto per Sherlock. So bene che i suoi modi di dimostrarlo lasciano a desiderare e so quanto possa essere frustrante il suo negare l'evidenza, ma... è per la tua sicurezza che ha mantenuto le distanze fino ad adesso. Non vuole che tu diventi un bersaglio, capisci?».
L'anatomopatologa abbassò il capo ed arretrò di un passo, sottraendosi alla delicata stretta di Lupin così che non potesse notare il tremore delle sue spalle.
«Grazie», ebbe a malapena la forza di sussurrare prima di voltarsi verso il portone e sparire all'interno del palazzo.

***

«Molly era davvero uno schianto questa sera», fu il commento con cui Anderson ruppe la bolla di silenzio, carica di tensione, in cui si trovavano. Un commento che attirò su di sé lo sguardo di rimprovero di Lestrade e quello furioso di Sherlock.
L'ispettore accostò l'auto davanti al 221B di Baker Street e si voltò verso il detective.
«Stai bene?», gli chiese con tono apprensivo.
«Sì, certo», rispose freddamente Sherlock, fingendo che le parole di Molly, le ultime catturate dalla microcamera, non avesse aperto l'ennesima ferita.
Aprì la portiera e una volta sul marciapiede la richiuse con un tonfo, per poi chinarsi sul finestrino chiuso. Greg lo abbassò.
«Di sicuro a quest'ora gli uomini di Lupin avranno disattivato le cimici, ma...».
«Farò controllare tutto, non preoccuparti».
Il consulente investigativo annuì con un cenno del capo e deviò il suo sguardo, esitante. Lestrade abbozzò un sorriso e lo tolse dall'impaccio, esclamando: «È a questo che servono gli amici. Buonanotte».
Sherlock alzò un angolo della bocca. «Sì, buonanotte».
Salì le scale in punta di piedi, per evitare di svegliare la signora Hudson, e una volta in salotto lasciò il laptop sul tavolino davanti al divano; dopodiché si tolse il cappotto e lo appese dietro la porta.
Si portò le mani al volto e pensò alla prossima mossa da fare, ma il suo cervello si rifiutò di collaborare. Era come se i pensieri si fossero aggrovigliati, formando un unico, grande nodo impossibile da sbrogliare.
Alla fine decise di fare le due cose che odiava di più: la prima, chiedere consiglio a suo fratello Mycroft; la seconda, mettersi a dormire con la speranza che quella stupida diceria che la notte fosse in grado di portare consiglio si rivelasse vera.
La risposta all'sms che gli aveva inviato arrivò dopo pochi minuti:

Ti avevo detto di fare attenzione.
Ora aspettiamo.

Sherlock imprecò, scagliando il cellulare contro il divano.
Si spogliò e si lavò i denti, poi si chiuse nella sua stanza e si infilò sotto le coperte, coprendosi fin sopra la testa.
Rannicchiato sul fianco destro, abbassò le palpebre ed aspettò il giungere del sonno. Arrivò solo quando la sua mente si lasciò alle spalle gli eventi della giornata e si soffermò invece sull'immagine di Molly.
I capelli che per l'occasione non aveva raccolto sulla nuca le ricadevano in lisce ciocche sulle spalle nude, coperte soltanto dal cappotto; il rossetto lucido brillava su quelle labbra che per lui non andavano mai bene, e il vestito che indossava, blu notte e lungo fino alle caviglie, la faceva sembrare leggera ed aggraziata. Era come se fosse stata avvolta da un pezzo di cielo, dalla via lattea e una miriade di stelle cadenti.
Sì, Anderson aveva ragione. Era bellissima.
Soltanto nel buio e nella solitudine della sua camera, in stato di dormiveglia, poteva concedersi pensieri tanto frivoli, e da qualche parte dentro di sé ne fu molto triste.

***

Addossata alla porta d'ingresso, Molly si tolse i tacchi e rimase nell'ingresso, a piedi nudi e con le lacrime che non facevano altro che caderle copiose sul viso.
Sherlock l'aveva davvero evitata per tutto quel tempo per tenerla al sicuro? Ma al sicuro da cosa, o da chi? E, soprattutto, poteva fidarsi delle parole di Arsène Lupin?
La tristezza nei suoi occhi però, quella che le aveva sempre fatto sanguinare il cuore... Se quella era la verità, finalmente aveva un senso.
Era stata così dura con lui, c'erano stati giorni in cui l'aveva odiato con tutte le sue forze a causa del dolore che le stava infliggendo, e ora scopriva che l'aveva fatto solo per proteggerla?
«Sono una persona orribile», sussurrò, trattenendo a malapena i singhiozzi.
«Molly, sei tu?».
Sentendo i passi di Geneviève avvicinarsi, l'anatomopatologa si sciolse frettolosamente lo chignon e lasciò che i capelli le coprissero come una tenda il viso deturpato dal pianto.
«Che cosa stai facendo?», le domandò ancora la ragazzina, confusa.
«Credo mi sia uscita una vescica», rispose, facendo del proprio meglio per nascondere la voce rotta. «Non sono abituata a portare scarpe così femminili».
Geneviève rimase in silenzio tanto a lungo che Molly pensò di essere stata scoperta. In un certo senso ne sarebbe stata sollevata: era stanca di nascondere il proprio dolore, stanca di fingere che tutto andasse bene. Ma così non fu.
«Okay, allora io vado a letto. Buonanotte!».
Molly finse ancora di controllarsi la pianta del piede sinistro. «Fai bei sogni».
«Anche tu, qualsiasi cosa ti abbia detto mio padre».
L'anatomopatologa alzò di scatto la testa a causa di quelle parole che lasciavano intendere che lei sapesse più di quanto desse a vedere, ma Geneviève era già andata via.

***

Grégorie tornò finalmente al Savoy Hotel dopo aver dato il cambio ad Ernest, ma prima di dirigersi verso la royal suite si fermò al tredicesimo piano.

«Allora, com'è andata la cena?».
Geneviève lo guardò di sottecchi e col viso rosso per l'imbarazzo rispose: «Ti interessa davvero o vuoi solo che ti ringrazi nuovamente per l'aiuto?».
«Se ci sono i presupposti per un ringraziamento, vuol dire che è andata bene».
Quel suo commento la fece imbronciare, tanto che si strinse le braccia al petto, e Grégorie decise di essere sincero.
«Mi interessa veramente. Vede, padron Lupin era un po' giù di morale questa mattina e, come le ho già detto, io non desidero altro che la sua felicità».
La ragazzina rimase in silenzio per una dozzina di secondi, poi posò le mani sulle ginocchia ed abbozzò persino un sorriso dicendo: «È andata molto bene. Grazie, Grégorie».
Nonostante lo stupore, l'uomo si sforzò per mantenere la propria compostezza. «Bene, mi fa piacere sentirlo».
I minuti trascorsi in silenzio, mentre l'accompagnava a casa del dottor Watson, furono pacifici.
Erano passate solo due settimane da quando l'aveva conosciuta e mai si sarebbe immaginato che avrebbe impiegato così poco a tollerare il suo lavoro da babysitter, a non trovare più la sua sola vista insopportabile... in poche parole, che avrebbe smesso di esserne geloso.
Le gettò un'occhiata con la coda dell'occhio e la scoprì intenta ad osservarlo. Immediatamente Geneviève abbassò il capo ed iniziò a torturarsi le mani, intrecciando le dita.
«Senti, Grégorie...».
«Preferirei che non mi chiamasse in quel modo, signorina».
«E come dovrei chiamarti? "Baffoni" ti andrebbe bene?».
Grégorie finalmente capì perché quella mattina Arsène si fosse riferito a lui in quel modo e dovette sforzarsi parecchio per non sorridere divertito.
«Perché detesti tanto il tuo nome?».
«Perché mi ricorda il passato. Il passato è morto per sempre; il passato non esiste. E così anche Grégorie ha smesso di esistere nel momento in cui ho conosciuto padron Lupin».
«Aspetta un momento», esclamò la ragazzina, gli occhi verdi spalancati. «Ho già sentito quelle parole. Te le ha dette mio padre, per caso? Che cosa significano?».
L'uomo serrò le labbra, incupendosi al ricordo di quella vita che ora sembrava di qualcun altro.
«Sì, è stato padron Lupin a pronunciarle», confessò. «Dice quella frase a chiunque entri a far parte della sua organizzazione. Lui offre un futuro a chi non ce l'ha, permettendoci di lasciarci tutto alle spalle, ma mi sono domandato spesso anch'io quale sia il passato da cui lui per primo è fuggito».
Geneviève si chiuse di nuovo nel silenzio e fu il servitore a romperlo.
«C'era qualcosa che voleva chiedermi, signorina?».
La domanda parve scacciare via dal suo volto ogni preoccupazione, ma non dai suoi occhi, specchi dell'anima.
«Nulla di importante», rispose con le labbra arricciate in un sorriso. «Mi chiedevo solo se, quando mi hai preparato il bagaglio, avessi per caso visto un quaderno».
«Un quaderno?».
«Sì, uno di quelli scolastici, a quadretti, con la copertina blu. Lo uso come una sorta di diario».
Grégorie aggrottò le sopracciglia e la guardò severamente, tanto che il sorriso le sparì dal volto. «Non avrà scritto anche di padron Lupin, spero».
La ragazzina boccheggiò e il servitore strinse più forte il volante tra le mani, trattenendosi dall'imprecare.
«Capisce che se dovesse finire nelle mani sbagliate...?». Non continuò, riflettendo sulle varie possibilità.
«Io... Mi dispiace», sussurrò ad un tratto la ragazzina, mortificata.
Grégorie la guardò e si sentì così in colpa che la rassicurò e le diede persino un buffetto sulla testa, senza immaginare che avrebbe finito per aumentare i livelli di imbarazzo di entrambi.
Forse sbagliava ad essere così fatalista.
Sì, in fondo pochissime persone sapevano che Arsène Lupin alloggiava sotto falso nome al Savoy Hotel e ancora meno erano a conoscenza del legame di parentela tra lui e Geneviève. Una volta tornato in albergo sarebbe andato subito a controllare e trovato il quaderno l'avrebbe distrutto personalmente.
Sì, sarebbe andato tutto per il meglio.

Col passepartout che custodiva per il ladro entrò nella stanza di Geneviève e respirò profondamente per tranquillizzarsi, poi controllò nei cassetti di entrambi i comodini, sotto il letto, nell'armadio, nella cassettiera, persino nei mobiletti del bagno, ma del quaderno nessuna traccia.
Calma, si disse. Niente panico. Forse Geneviève si era sbagliata e l'aveva già con sè.
Gli sembrava improbabile, dato che era stata lei a sollevare la questione, ma non voleva scartare nessuna possibilità.
Decise che avrebbe indagato successivamente. Adesso voleva solo vedere il suo padrone e conoscere quali sarebbero state le sue mosse future.
Trovò Arsène ancora sveglio, nel salotto della propria suite, con un fiore finto tra le labbra rosee e gli occhi che scorrevano con attenzione la trascrizione che lui aveva ricevuto per primo.
«Ah, eccoti qua! Che fine avevi fatto?», esclamò il Ladro Gentiluomo non appena lo sentì arrivare, ma assunse tutt'altra espressione quando gli dedicò la propria attenzione.
«Che ti è successo? Hai una faccia così scura! Non mi dire che hai bisticciato ancora con Geneviève!».
Il servitore sorrise e con una mano sul ventre si chinò un poco, salutandolo.
«No, inaspettatamente il nostro rapporto migliora di giorno in giorno», rispose.
La notizia lo fece tanto felice che si dimenticò persino della sua "faccia scura" e Grégorie non riaprì l'argomento. Non voleva allarmarlo per nulla, specialmente ora che aveva ottenuto informazioni di rilievo.
«Sherrinford, eh? Secondo te di che si tratta?», gli domandò, facendo scorrere il dito sullo schermo del tablet.
«In base alle parole usate dall'ispettore Lestrade, sembra essere un luogo».
«Lo pensavo anch'io, ma non risulta in nessuna cartina».
Anziché dimostrarsi infastidito dal risultato infruttuoso delle sue ricerche, Arsène si sfregò le mani e si lasciò andare ad una risata entusiasta.
«Che bello, il gioco continua! Sherrinford... L'Atlantide di Mycroft e Sherlock Holmes!».
Si voltò di nuovo verso l'amico e i suoi occhi attenti, in grado di leggerlo come un libro aperto, lo scandagliarono. Quando parlò, lo fece con voce serissima.
«Puoi parlarmi di qualsiasi cosa, lo sai vero?».
Grégorie gli sorrise grato. «Sì, lo so».
«Bene. Puoi andare a riposarti».
«Non sono stanco, vorrei...».
Lo sguardo perentorio del Ladro Gentiluomo lo interruppe a metà frase e lo costrinse a chinare il capo.
«Come desidera. Buonanotte».
Si era già voltato, diretto verso la porta, quando Arsène lo richiamò. Grégorie si girò e vide che il biondo gli stava indicando col dito di avvicinarsi. Negli occhi aveva quel luccichio che stava a significare solo una cosa, per questo l'uomo si guardò intorno, a disagio di fronte ad altri membri della banda.
«Avanti, avvicinati!», lo incalzò Lupin, con le sopracciglia corrugate. Il servitore non poté ignorare il comando e si chinò oltre lo schienale del divano.
Arsène lo afferrò repentinamente per la cravatta ed avvicinò la bocca al suo orecchio, tanto da poter sentire le sue labbra sfiorargli il lobo.
«Preparami la pistola».
Grégorie sgranò gli occhi, scioccato. «La pistola, padrone?».
Il ladro diede un altro strattone alla cravatta, stringendogliela ancora di più intorno al collo e rendendogli difficoltosa la respirazione.
«Sì», sussurrò semplicemente, per poi lasciarlo andare e sdraiarsi sul divano, il braccio sano dietro la nuca e gli occhi chiusi, sul volto un'espressione serena e quel fiore dai grandi petali bianchi di nuovo sulle labbra.
Grégorie si massaggiò il collo, sapendo che presto sarebbe comunque uscito il livido, e rifiutandosi di dubitare del proprio padrone si allontanò per eseguire gli ordini.

***

Grégorie aveva proprio una brutta cera quand'era rientrato, ma nemmeno col sesso Arsène era riuscito a fargli sputare il rospo. D'altronde nemmeno lui aveva risposto alle sue domande in merito alla pistola, perciò non poteva lamentarsi troppo.
Con la mente affollata di pensieri aspettò pazientemente l'ora prefissata e poi scivolò via dall'abbraccio di Grégorie per andare in bagno.
Si guardò allo specchio e dopo aver inumidito un asciugamano si accarezzò il collo, poi scese sul petto e strofinò con forza tutte le cicatrici visibili, consapevole che quelle erano solo il dieci percento del totale. Il resto delle sue ferite era all'interno, infette e maleodoranti, il cui pus scuro somigliava a melma viscida che non sarebbe mai riuscito a lavare via. Come accadeva ogni volta che si soffermava su pensieri del genere, oltre alle proprie mani iniziò a sentire su di sé quelle dei mostri, capaci di graffiare, tirare, stringere e strappare per il proprio piacere.
«Basta», sussurrò, aggrappandosi al bordo del lavandino con entrambe le mani. «Basta, vi prego».
Con uno sforzo immane sollevò un braccio e con forza si colpì la schiena con l'asciugamano bagnato e pesante come una frusta.
Si piegò sul lavandino per il dolore, ma grazie ad esso riuscì anche a riprendere il controllo di sé. Si sollevò e ansimando tornò a guardarsi allo specchio: si tirò indietro i capelli e sorrise persino, dicendosi che non aveva nulla da temere, non più. Strinse nella mano destra il crocifisso appeso al collo e se lo portò alle labbra per baciarlo ad occhi chiusi, poi finì di pulirsi e tornò in camera da letto per vestirsi nel più totale dei silenzi. Svolse ogni azione meccanicamente, come un automa: calze, pantaloni, camicia, cravatta.
Si sedette sul bordo del materasso per infilarsi le scarpe e solo una volta allacciate si girò verso il compagno. Il suo respiro addormentato lo tranquillizzava sempre, perciò prima di rialzarsi chiuse gli occhi e si concentrò perché il proprio vi si adattasse. Quindi, con le mani guantate, afferrò la pistola che lo stesso Grégorie aveva preparato per lui e se la infilò nella speciale fibbia cucita all'interno di ogni sua giacca. Non si poteva mai sapere quando un gentiluomo avrebbe avuto bisogno di difendersi.
Era stata una giornata piena di emozioni e voleva concluderla nel migliore dei modi, mettendo al sicuro Molly Hooper. Non lo faceva solo perché l'aveva promesso a Sherlock, ma anche perché aveva scoperto che persona perbene fosse. Ce n'erano poche al mondo ed era nel suo interesse salvaguardarle. Inoltre, non gli era sfuggito lo sguardo pieno di stima che sua figlia le aveva rivolto in più di un'occasione.
Prima di allora Geneviève gli aveva già chiesto di non giocare con i sentimenti della donna, ma non pensava che l'avesse presa tanto a cuore. Che, in un certo senso, le ricordasse Clotilde? In effetti entrambe avevano un aspetto gentile e docile, quasi sprovveduto, dietro il quale si celavano intelligenza, forza e fierezza. Entrambe sapevano quand'era il momento delle carezze e quando, invece, quello degli schiaffi. Erano donne a cui la solitudine non spaventava, anzi, sapevano sfruttarla meglio di chiunque altro.
Finalmente l'auto che era venuta a prenderlo, mandata dalla Adler, imboccò la rotatoria posta davanti all'ingresso dell'hotel e si fermò al suo fianco. Arsène prese l'ultima boccata dalla propria sigaretta elettronica prima di metterla via, mentre l'autista scendeva e gli apriva la portiera.
Il Ladro Gentiluomo salì sull'elegante veicolo ed ebbe una brutta sorpresa: i finestrini erano oscurati anche all'interno, in modo da rendergli impossibile capire dove lo avrebbero condotto.
Abbozzò un sorriso, mettendosi più comodo sul sedile di pelle, ed ironizzò: «Beh, sempre meglio di un cappuccio sulla testa. Quello sì che sarebbe stato disdicevole».
L'autista rispose dicendogli che se voleva poteva versarsi un drink - c'erano diverse bottiglie sul tavolino posto tra i sedili davanti a lui - poi alzò il vetro che separava passeggero e conducente.
Arsène non dovette più mostrare ilarità e ne fu sollevato: non ne era in vena. I suoi sensi erano in allerta, lo erano sin da quando aveva messaggiato con Irene Adler, subito dopo aver riportato a casa Molly Hooper.
Aveva trovato strani sia i termini usati per fissare l'incontro sia il fatto che non gli avesse chiesto dove alloggiava. Come aveva fatto a scoprirlo? Che l'avesse fatto pedinare? O che qualcuno della sua scorta si fosse fatto comprare? Dopotutto era difficile rimanere indifferenti di fronte alla sua bellezza o al fascino della sua aura di potere e crudeltà. Persino Sherlock si era lasciato abbindolare. (Lo stesso Sherlock che, stranamente, non aveva risposto all'sms con cui l'aveva avvisato del suo incontro con la Dominatrice).
Solo Grégorie era, sotto quel punto di vista, incorruttibile, però un pensiero terribile gli aveva sfiorato la mente quando l'aveva visto rientrare quella sera, in ritardo e col volto deformato dalla preoccupazione. Lui che di solito non si scomponeva mai! Che cosa poteva essergli successo? E poi, perché all'improvviso aveva dei segreti? In dieci anni non gli aveva mai nascosto nulla...
Che fosse a causa di Geneviève? Era sempre stato un po' geloso di lei, ne era consapevole, ma sarebbe stato un motivo sufficiente per scegliere le parti di Irene Adler? O forse era per via del suo rapporto complicato con Sherlock? Temeva che, più si fosse trattenuto a Londra, più ne sarebbe rimasto influenzato?
Ad un certo punto si era costretto ad allontanare da lui ogni sospetto - un suo tradimento sarebbe stato insopportabile - ma nonostante tutti gli sforzi quel pensiero rimaneva lì, a mordicchiargli la nuca.
Arsène chiuse gli occhi ed acuì i sensi per cercare di captare i suoni della città, ma l'auto era ben insonorizzata. Dubitava comunque che avrebbe potuto indovinare in quel modo la loro destinazione. Se fosse stata Parigi nessun problema, ma Londra! No, quella era la città di Sherlock.
Ciò nonostante non fu tempo sprecato; anzi, fu grazie a quel tentativo che scoprì quello che stava succedendo.
Un leggerissimo ronzio, simile a quello dell'aria che esce dal forellino di un gommone bucato, impercepibile ad orecchie meno raffinate, gli fece trattenere il respiro appena in tempo. Quindi estrasse la pistola e sparò contro il separé, il quale si infranse facendo spaventare l'autista.
L'auto sbandò, ma solo per un attimo. Fu il terrore negli occhi dell'uomo, i quali incrociarono per la prima volta quelli di Lupin attraverso lo specchietto retrovisore, a durare di più. Ora che il vetro era andato in frantumi avrebbe respirato anche lui qualsiasi gas avesse azionato per stordirlo.
L'autista continuò a guidare e trattenne a sua volta il respiro, tanto a lungo che il suo volto divenne paonazzo. Forse sperava di poter durare più del ladro per poi, una volta fuorigioco, aprire il finestrino e prendere una boccata di ossigeno. Povero stolto.
Arsène gli rivolse un sorriso tranquillo e in tutta calma tirò fuori dal cappotto l'astuccio in cui conservava la propria sigaretta elettronica e dei filtri di ricambio. Tra questi ce n'era uno particolare, su cui anziché specificato il tipo di aroma - vaniglia, cioccolato, menta - c'era scritta una formula chimica: O2.
Avvitò il filtro speciale e tappandosi il naso tirò una lunga boccata, per poi rivolgere all'uomo un altro pacifico sorriso ed addossarsi allo schienale del sedile, con le gambe accavallate e le sopracciglia inarcate.
A quel punto, capendo di non aver alcuna possibilità, il conducente fece qualcosa che Arsène non aveva previsto: chiuse gli occhi ed accelerò.

***

Grégorie si svegliò di soprassalto, sudato e col cuore che gli batteva furiosamente nel petto.
Un incubo. Era solo un incubo, si disse nel tentativo di calmarsi.
Si voltò verso la parte di letto vuota alla sua destra e tornando a sdraiarsi vi passò sopra la mano, sentendo le lenzuola ancora calde e che sapevano degli umori del sesso.
Notò inoltre che la pistola, prima che si addormentasse posata sul comodino, era stata sostituita dal finto fiore bianco con cui Arsène aveva giocato per tutta la sera e che alla fine aveva infestato persino i suoi sogni. Nel suo incubo, infatti, il Ladro Gentiluomo si trovava in una bara stracolma degli stessi fiori bianchi, i quali però, nonostante la quantità e il loro intenso profumo, non riuscivano a coprire l'odore della morte.
Grégorie allungò una mano verso il comodino e lo afferrò, domandandosi come l'avesse ottenuto. Fu una curiosità di un attimo, spazzata via da altre e più pressanti preoccupazioni: chi era la persona che doveva incontrare e perché non si era confidato con lui come per ogni sua altra operazione?
E poi, perché quella missione in solitaria? Non si fidava di lui? O forse aveva capito che lo stava tenendo all'oscuro di qualcosa e quello era il suo modo per fargliela pagare? Se era davvero quello il suo intento ci stava riuscendo perfettamente, visto che era tanto preoccupato da avere gli incubi.
Chiuse gli occhi nel tentativo di dormire per qualche altra ora, ma non riuscì ad abbandonarsi alle braccia di Morfeo. Voleva solo le sue, di braccia... Voleva che lo stringessero forte, ma con dolcezza, e che allontanassero il mostro della paura che stava allungando le sue mani dalle lunghe dita sul suo cuore, intrappolandolo in una morsa gelata.

***

«Non risponde».
«Questo lo so anch'io. Riprova».
Venne inoltrata una nuova chiamata e i beep, un po' distorti a causa del vivavoce, riempirono il grande ufficio dalla moquette verde.
Dei mugolii ruppero il religioso silenzio tra un beep e l'altro e la donna seduta dietro la scrivania tirò un calcio alla causa di quei versi.
«Zitta, cagna».
Al settimo beep la chiamata venne accettata e si udirono un respiro rauco e dei passi strascicati su dei pezzi di vetro.
«Chiunque tu sia... ti troverò... e te la farò pagare... cara», esordì con voce affaticata, ma ugualmente minacciosa, l'uomo che aveva risposto alla chiamata. «Parola di Arsène Lupin».
Si udì il boato di un'esplosione e la donna sorrise, togliendosi le mani grassocce da sotto il mento per premere il tasto "Chiudi".
«Vieni, Arsène Lupin. Ti aspetto», rispose in tono di sfida.
Prese il cellulare prepagato e lo porse al ragazzo in piedi alla sua destra. «Disfatene», ordinò e questi, dopo averlo afferrato con entrambe le mani, annuì con un cenno del capo e si voltò per uscire dall'ufficio.
«Gabriel, aspetta».
Il ragazzo, con quei lunghi capelli biondi un po' ricciuti, legati in una coda, i lineamenti del viso delicati, quasi effemminati, e quei profondi occhi neri, ricordava davvero l'arcangelo Gabriele.
Si fermò davanti alla porta ed osservò il suo capo girare la poltrona verso la donna accucciata ai suoi piedi: indossava solo gli indumenti intimi e il pizzo nero metteva in risalto il chiarore della sua pelle e i lividi di varie tonalità che le ricoprivano le gambe, la schiena, le braccia. I suoi esili polsi e il collo, in particolare, erano martoriati dai segni delle catene che la tenevano legata all'imponente scrivania di mogano. E, come ogni cane rabbioso che si rispetti, una museruola in lattice nero le teneva chiusa la bocca.
Delle lacrime le scivolarono sulle tempie quando venne strattonata per le catene perché si mettesse in ginocchio ed alzasse il capo per ricambiare lo sguardo pieno di rabbia e follia del proprio carceriere.
«Che cosa c'è, Dominatrice? Non è più bello quando il gioco lo conduce qualcun altro, eh?».
La donna scoppiò a ridere e poi, bruscamente, mollò la presa sulle catene. Irene Adler, stremata, cadde con un tonfo sulla moquette verde e lì rimase, senza produrre il benché minimo suono, anche quando sentì un piede posarsi alla base della sua schiena.
«E così il signor Lupin non è venuto a sostituirti», disse ancora la donna, schioccando la lingua al palato. «Peccato, un vero peccato, perché inizio a stancarmi di te».
A quel punto le tirò un calcio nell'addome e poi la scavalcò per raggiungere Gabriel ed impartirgli gli ultimi ordini: «Dalle una ripulita e portala nella sua gabbia, non vorrei che mi sporcasse la moquette».
«Sì, zia».
Gabriel aspettò che la donna sparisse dietro l'angolo prima di tornare verso la Adler, la quale non oppose alcuna resistenza quando fu voltata e una mano gentile le scostò i capelli dalla fronte. Si limitò a piangere, guardando quel volto tanto angelico e chiedendo con gli occhi un po' di pietà.
«Resisti, presto finirà tutto», le sussurrò Gabriel, iniettandole nell'incavo del braccio una dose di morfina per alleviarle un po' il dolore.
Irene, nonostante fosse consapevole che lui non potesse vedere oltre il latex che le nascondeva la bocca, gli sorrise con gratitudine prima di chiudere gli occhi e perdere i sensi.

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Capitolo 18
*** Undercover ***


Okay, se dopo la fine del capitolo 17 mi avete immaginata a ridere con tono malefico... beh, non ci siete andati troppo lontani xD
A parte gli scherzi, la settimana scorsa ci siamo lasciati con un colpo di scena e ora è giunto il momento delle spiegazioni e delle reazioni. Inoltre, alcuni pezzi andranno al loro posto e avvenimenti che sembravano solo un modo per riempire i vuoti si riveleranno invece collegati a ciò che sta accadendo ai nostri protagonisti. Sono stra-curiosa di avere il vostro parere, perciò non vi annoierò oltre!
Vi auguro una buona lettura e ringrazio tutti per essere arrivati fino a qui, chi commentando e chi leggendo solamente. ♥
Buona Vigilia e auguri di Buon Natale!

Vostra,

_Pulse_



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18. Undercover

John, grazie al suo sonno leggero da soldato, fu in grado di sentire i rumori provenienti dal salotto. Era entrato qualcuno.
Si alzò in fretta, già completamente sveglio e lucido, e tirò fuori dal primo cassetto del comodino la propria pistola. Controllò che fosse carica e poi si alzò per dirigersi verso la camera della figlia, posta proprio davanti alla sua. Vedendola addormentata chiuse la porta il più piano possibile e col cuore che gli batteva forte nelle orecchie percorse il corridoio rasentando il muro, il braccio destro teso davanti a sé.
Giunto in salotto puntò la pistola, ma non c'era nessuno. Fece per abbassarla, ma dei nuovi rumori, quella volta provenienti dalla cucina, gli fecero stringere il calcio con più forza.
Si avvicinò con cautela, prestando attenzione ad ogni passo, e solo quando abbassò gli occhi per non inciampare in un pupazzetto di Rosie notò la scia di gocce di sangue che dall'ingresso conducevano proprio alla cucina.
Il suo primo pensiero fu rivolto a Sherlock e, divorato dalla preoccupazione, abbassò l'arma per fare il proprio ingresso in cucina, sul cui pavimento era stato abbandonato un cappotto molto simile a quello del detective, ma differente.
John accese la luce e percorse la figura dell'uomo che si era appoggiato al bordo del tavolo, intento ad estrarsi dal fianco sinistro dei frammenti di vetro con una pinza da cucina in acciaio. Il sangue, che gli aveva già inzuppato la camicia, stava gocciolando ai suoi piedi.
«Mi dispiace averti svegliato», esordì Arsène Lupin, rivolgendogli un sorriso nonostante il dolore e le abrasioni sul suo volto. «Il fatto è che credo di aver bisogno di un dottore».
Iniziò a ridere debolmente e le sue palpebre si abbassarono. John lo raggiunse con poche falcate prima che gli cedessero le ginocchia e si portò un suo braccio intorno al collo, poi fece uno sforzo per stenderlo sul tavolo. Fece saltare i bottoni della camicia aprendogliela sul petto ed esaminò la ferita: il taglio era irregolare e profondo, come se fosse stato trafitto da una bottiglia, e diversi pezzi di vetro erano ancora all'interno. Aveva perso moltissimo sangue e il suo pallore mortale ne era la prova.
«Hai bisogno di andare in ospedale», esclamò con decisione.
Arsène però gli afferrò il polso prima che potesse allontanarsi per chiamare un'ambulanza e sia la forza della sua stretta, sia il fuoco nei suoi occhi verdi gli fecero capire fino a che punto fosse straordinario quell'uomo.
«Niente ospedali. Questo deve rimanere tra noi, dottore».
«Che cosa? Rischi di morire!».
«Credo nelle tue capacità», rispose il ladro, sorridendo. «Allora, ho la tua parola? Nessuno deve venirlo a sapere. Nemmeno Sherlock».
John non aveva tempo per porre ulteriori domande: se non faceva subito qualcosa per fermare l'emorragia, Arsène sarebbe davvero morto dissanguato.
«E va bene. Ma ti avviso che senza gli strumenti giusti...».
Arsène chiuse gli occhi, forse vinti per la stanchezza, ed abbozzò un sorriso. «Siamo in una cucina... Non c'è sala operatoria migliore».
Sembrava così tranquillo, anche ad un passo dalla morte... John non se ne capacitava.
Senza esitare ulteriormente il dottore gli prese la pinza dalle mani, recuperò la cassetta del pronto soccorso e degli stracci puliti, mise a sterilizzare sui fuochi alcuni attrezzi da cucina e prese tutto ciò che aveva in freezer.
Posò i sacchetti di piselli e delle bistecche congelate intorno alla ferita, per anestetizzare l'area, e nel frattempò andò a recuperare la bottiglia di whisky che teneva sempre di scorta per i momenti difficili.
L'aprì e la posò in mano ad Arsène, ordinando: «Bevi. Farà parecchio male».
Il ladro si attaccò al collo della bottiglia e trangugiò un lungo sorso, tanto da farsi lacrimare gli occhi. Quindi alzò il capo per vedere la pinza bollente che John stava per infilargli nella carne viva per divaricare la ferita e chiudere col calore i vasi sanguigni.
«So quello che faccio. O ti vuoi già rimangiare ciò che hai detto prima?», gli domandò il dottor Watson, notando il suo sguardo preoccupato.
Il ladro deglutì e tornando a posare il capo sul tavolo negò muovendolo a destra e a sinistra. Bevve un altro po' di whisky e poi strinse tra i denti un mestolo di legno.
«Allora io vado. Uno, due...».
Arsène sgranò gli occhi, straziato dal dolore. Aveva saltato il tre.

Quando Arsène riaprì gli occhi i primi raggi del sole illuminavano il soffitto della cucina. Era ancora sdraiato sul tavolo, ma John gli aveva messo un cuscino sotto la testa e gli aveva steso addosso una coperta in pile.
Nell'aria aleggiava ancora odore di carne bruciata, sangue e disinfettante; era chiaro però che mentre era privo di conoscenza era stato preparato del caffè: l'aroma era inconfondibile. Anche lui avrebbe gradito bere qualcosa, visto che sentiva la gola arida e la lingua come carta vetrata contro il palato.
Voltò il capo verso sinistra, in direzione del salotto da cui proveniva la voce dell'annunciatrice del telegiornale del mattino, e con un sforzo cercò di alzarsi. Il dolore al fianco fu talmente intenso che rischiò di vomitare. In qualche modo però riuscì a trattenersi e a mettersi seduto, poi scese dal tavolo. A passi brevi e sostenendosi al muro con una mano, mentre con l'altra si teneva la ferita ricoperta da vari giri di garza, raggiunse la porta.
John Watson era seduto sul divano, con la faccia sbattuta di uno che non aveva chiuso occhio, e quando i loro sguardi si incrociarono il ladro sorrise, esclamando: «Hai un aspetto terribile, dottore».
Il blogger di Sherlock Holmes ricambiò. «Ti sei visto allo specchio?».
Arsène non riuscì a trattenere le risa, le quali gli provocarono una scarica di dolore che lo costrinse ad appoggiarsi allo stipite con la schiena.
John gli fu subito accanto e come poche ore prima si avvolse un suo braccio intorno al collo per sostenerlo ed accompagnarlo al divano, dove lo fece sedere con delicatezza.
«Non devi fare il minimo sforzo, ci siamo capiti? Hai rischiato di morire».
Il Ladro Gentiluomo sollevò un angolo della bocca, sbarazzino. «Non è il mio primo rodeo».
John si diresse verso la cucina e tornò pochi secondi dopo con un bicchiere d'acqua. «Bevi, cowboy. Devi reintregare i liquidi perduti».
Arsène annuì e bevve, sperando che il saporaccio che aveva in bocca sparisse. Quindi riconsegnò il bicchiere al dottore e lo guardò sedersi al suo fianco sul divano, i gomiti posati sulle ginocchia e gli occhi rivolti verso il televisore.
«Che avrei fatto se fossi morto sul tavolo della mia cucina?», gli domandò piano. «Come l'avrei detto a Geneviève?».
«E io che pensavo che temessi davvero per la mia vita», ridacchiò il ladro, col capo abbandonato contro lo schienale.
«Sono un dottore, temo per le vite di tutti i miei pazienti».
Arsène rimase in silenzio, profondamente colpito da quelle parole. Quando trovò finalmente la forza per ringraziarlo, John indicò le immagini sul televisore con un cenno del capo.
«Ne sai qualcosa?», gli domandò.
Il servizio riguardava una notizia dell'ultima ora: intorno alle tre di quella notte un'auto si era schiantata a folle velocità contro la facciata di un palazzo e aveva preso fuoco. Il conducente era morto sul colpo e al momento la polizia, arrivata dopo l'intervento dei vigili del fuoco, era ancora sul posto per ricostruire l'accaduto, recuperare i filmati delle telecamere stradali e quelle a circuito chiuso dei negozi vicini e raccogliere le dichiarazioni di eventuali testimoni oculari. Era ancora da verificare se al momento dell'incidente sul veicolo ci fossero dei passeggeri, ma secondo le prime indiscrezioni sembrava proprio di sì.
«Mi vuoi raccontare che cos'è successo?».
«Meglio di no: ti ho già procurato abbastanza disagi. Tolgo il disturbo».
Nonostante vedesse doppio e si sentisse tanto accaldato da avere il volto bagnato di sudore, Arsène provò ad alzarsi; John ovviamente non glielo permise.
«Non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto, vero? Tu non puoi andare da nessuna parte in queste condizioni! Hai perso moltissimo sangue e hai bisogno di assoluto riposo».
«E dovrei rimanere qui?», chiese, esterrefatto.
Il dottore si alzò e si portò le mani sui fianchi, le sopracciglia inarcate. «Sono desolato che la soluzione non l'aggradi, Vostra Signoria!».
«No, non è quello», sussurrò il ladro, a capo chino. «Davvero tu... mi ospiteresti? Se Sherlock dovesse venirlo a sapere...».
«Di nuovo: non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto».
Arsène sollevò il capo e ad attenderlo trovò un inaspettato sorriso.
«Che tu sia un ladro, il papa o la regina d'Inghilterra non mi importa. Sei un mio paziente e non ti lascerò andare fino a quando non sarò sicuro dei tuoi miglioramenti».
«Potrei denunciarti per rapimento».
«E io per violazione di domicilio».
Arsène scrollò le spalle con un sorriso divertito sul volto, affermando: «Dovevo scegliere meglio il mio dottore».

***

Grégorie controllò l'orologio da polso e bussò alla porta dell'hacker che si era unito alla banda di Arsène Lupin circa tre anni prima: un ragazzino di nome François, dai folti capelli ricci, alto e secco come un giunco.
Dopo la tragica scomparsa dei genitori per mano di un assassino che il Ladro Gentiluomo aveva aiutato a consegnare alla polizia francese, aveva deciso di mettere le sue straordinarie abilità a servizio dell'uomo che gli aveva offerto una nuova vita. Si diceva che non ci fosse sito, programma o sistema di sicurezza che lui non potesse craccare ed era proprio delle sue abilità che aveva bisogno in quel momento.
L'hacker aprì la porta stropicciandosi gli occhi, piccoli dietro le grandi lenti degli occhiali, e Grégorie si introdusse nella stanza senza nemmeno ricevere prima il permesso.
«Che ore sono?», domandò il ragazzo con voce rauca, così profonda che pareva impossibile che appartenesse ad uno che, stanto alle apparenze, sarebbe potuto volare via al più debole soffio di vento.
«Le sette e trenta», rispose monocorde l'uomo coi baffi.
«Del mattino?! Ma sei pazzo? Sono andato a dormire tre ore fa per colpa di Sherrinford! Ne è valsa la pena però, sai? Ce l'ho fatta, ho finalmente...».
«Adesso non mi interessa», lo interruppe sbrigativo. «Sono venuto per una questione personale».
«Personale? Tu? Pensavo fossi un tutt'uno col big boss».
Lo sguardo severo che gli rivolse gli fece rizzare la schiena e recuperare il portatile abbandonato ai piedi del letto sfatto, sul quale si sedette a gambe incrociate. Lo accese e dopo essersi sistemato gli occhiali sul setto nasale gli chiese: «Che cosa posso fare per te?».
Grégorie si avvicinò e porgendogli una chiavetta USB spiegò: «Devi entrare nel programma dell'hotel che monitora i passepartout del personale e copiare la lista di tutti quelli che hanno aperto la camera di Geneviève».
«Easy. Altro?».
«Sì. Fammi una copia di tutte le riprese delle telecamere di sorveglianza che c'erano nella sua stanza».
A quel punto il ragazzo fermò il frenetico digitare sulla tastiera ed alzò il capo per incrociare lo sguardo del più anziano.
«Mi pare di capire che stai cercando qualcuno. Vuoi una mano? Le ore di filmato sono parecchie...».
Grégorie gli tirò uno schiaffetto sulla nuca. «Tu che ti offri di fare qualcosa? Di' la verità: vuoi vedere la figlia di padron Lupin mentre dorme».
Il ragazzo diventò rosso come un peperone, confermando i sospetti dell'uomo, e tornò a fissare lo schermo, muovendo le dita sui tasti.
Una volta fatto consegnò la chiavetta al superiore e prima che uscisse dalla porta sussurrò: «Non lo dirai al big boss, vero?».
Grégorie sospirò ed uscì senza rispondergli. Controllò di nuovo l'orologio e si diresse verso la royal suite del suo padrone.
Entrò e salutò con un cenno del capo gli addetti alla sicurezza che stavano per andare a riposarsi e quelli che avrebbero iniziato il turno, poi bussò alla porta della camera matrimoniale. Non ricevette risposta, ma questo non gli impedì di entrare: dopotutto era suo compito svegliarlo. Peccato che il letto fosse intonso e che di Arsène non vi fosse traccia. Che non fosse ancora rientrato?
Col cuore che gli batteva forte nel petto tornò indietro e sulla porta fermò gli uomini che erano rimasti lì tutta la notte per chiedere loro se l'avessero visto.
«No, pensavamo fosse con te».
Grégorie si portò un pugno alla bocca, cercando di mantenere la calma. Diede loro le spalle, dicendo che potevano andare, ed estrasse il cellulare dalla tasca dei pantaloni. Lo chiamò, ma una voce femminile gli comunicò che l'utente non era raggiungibile.
Gli sembrava di essere rientrato nell'incubo che l'aveva svegliato quella notte, con l'unica differenza che quella volta era tutto vero.
Aveva un brutto, bruttissimo presentimento, però doveva avere fede nel proprio padrone e continuare il lavoro assegnatogli.
Un'altra occhiata all'orologio e fu costretto a prendere il cappotto: anche lui doveva dare il cambio ad Ernest nella sorveglianza della signorina Geneviève.

***

«Mi raccomando: nessuno sforzo. E non... non toccare niente, per favore».
Arsène gli fece l'occhiolino e sollevò una mano. John, già con un piede oltre la porta di casa, guardò la figlioletta rispondere al saluto stringendo e aprendo il pugno, e riuscì a stento a trattenere una risata guardando l'espressione incredula del Ladro Gentiluomo. Quindi chiuse la porta di casa e Arsène rimase solo.
Si sdraiò sul divano e riuscì a stare fermo per cinque minuti. Ciò che era successo poche ore prima, i vari sospetti che avevano iniziato a bussargli alle pareti del cranio e la consapevolezza di non poter fare davvero nulla in quelle condizioni avrebbero aggravato ulteriormente il suo mal di testa se non si fosse distratto con altro.
Quell'imboscata era stata opera di Irene Adler, stufa di attendere? Oppure qualcuno l'aveva sfruttata per arrivare fino a lui? In quel caso chi erano, come avevano fatto a sapere che alloggiava al Savoy Hotel e cosa volevano da lui?
Si alzò faticosamente e tornò in cucina per recuperare il proprio cappotto, appoggiato su una sedia. Sbuffò irritato, notando il sangue e le scuciture provocate dai frammenti di vetro delle bottiglie contro cui era finito nel momento dello schianto. Era irrimediabilmente rovinato e giurò a se stesso che avrebbe messo in conto anche quello alle persone che avevano ordito l'agguato.
Quindi prese ciò che cercava: il cellulare dell'autista e il proprio. Lo schermo di quest'ultimo aveva una ragnatela di crepe sullo schermo e non dava segni di vita (il conto continuava a salire), mentre quello che aveva preso al conducente kamikaze, un prepagato con la chiusura a conchiglia, era ancora in buone condizioni. Ne scandagliò il contenuto: rubrica, messaggi inviati e ricevuti, ma a parte la chiamata ricevuta subito dopo l'incidente e a cui aveva risposto lui non c'era niente. Forse con l'aiuto dei propri compagni avrebbe potuto ricavare qualcosa di più - delle impronte, o con un po' di fortuna la triangolazione dell'area da cui era stata fatta la chiamata - ma purtroppo era solo. Al momento non poteva fidarsi di nessuno, nemmeno di Grégorie, e il solo pensiero gli faceva sanguinare il cuore.
Si diresse verso il bagno e si guardò allo specchio, spaventandosi di fronte al proprio riflesso: il volto, in particolare la parte sinistra, era sfregiato dalle abrasioni - che il dottor Watson doveva aver medicato dopo l'operazione - e tanto pallido da riuscire a scorgere le vene bluastre sottopelle; gli occhi stanchi, cerchiati da ombre scure; i capelli in disordine. Automaticamente se li tirò indietro con una mano, accorgendosi della sporcizia e del sangue incrostato sotto le unghie.
Schifato si spogliò ed entrò nella vasca da bagno vuota, aprì il getto d'acqua e si lavò alla bell'e meglio, facendo attenzione a non bagnare la garza che gli fasciava il ventre. Quando si sentì sufficientemente pulito uscì e con un asciugamano intorno alla vita cercò la camera da letto di John. Si imbatté prima in quella di Rosie e un sorriso venato d'amarezza gli piegò le labbra comparando quella stanza dalle pareti colorate, col fasciatoio da una parte e la culla dall'altra, colma di giochi e vestitini, con quella in cui era cresciuto lui.
Scosso dai brividi di freddo allontanò quei pensieri ed entrò nella camera di fronte, dirigendosi immediatamente verso l'armadio.
«Mon Dieu», esclamò Arsène, atterrito di fronte alla scelta che sarebbe stato costretto a fare: maglioni dalle orribili fantasie o camicie di flanella?
Trovò una maglietta intima di cotone e se la infilò, poi prese uno dei pochi maglioni in tinta unita, di un grigio-beige e con spessi intrecci verticali, e dei jeans che, avendo il dottore le gambe più corte delle sue, gli arrivavano ad almeno tre dita sopra la caviglia scoperta. In quel momento si sentiva ridicolo, non poteva nemmeno immaginare che quel pomeriggio, girando per le strade di Londra, avrebbe dato il via ad una nuova moda.
Una volta vestito tornò in salotto, dove si mise a curiosare tra i libri posseduti da John.
Non doveva essere un gran lettore, o forse ultimamente non aveva abbastanza tempo per sé: così gli suggeriva la polvere sulle mensole. Solo un punto ne era privo, in corrispondenza di un volume dalla spessa copertina di pelle. Lo estrasse, venendo meno alla promessa fatta al dottore, e scoprì che non si trattava di un libro, bensì di un album fotografico.
Lo portò con sè sul divano e lo sfogliò con calma, ammirando i volti felici di John e Mary, novelli sposi, e di tutti gli invitati. C'erano la signora Hudson, l'ispettore Lestrade, Sherlock e Molly. Arsène sorrise notando che non c'erano foto di loro due insieme. O almeno, non in cui ne fossero consapevoli.
All'epoca l'anatomopatologa era fidanzata con un ragazzo che nelle fattezze ricordava vagamente il detective e davanti all'obiettivo aveva cercato in ogni modo di dimostrarsi felice ed appagata da quella relazione, ma le prove che la sua fosse una semplice recita ce le aveva davanti: in più di un'occasione era stata immortalata mentre guardava in direzione di Sherlock, con sguardo triste e malinconico, e lo stesso aveva fatto il detective quando lei non poteva accorgersi delle sue occhiate.
Il Ladro Gentiluomo si chiese come avesse dormito la donna quella notte, dopo aver saputo le motivazioni dietro il comportamento scostante di Sherlock. E come invece l'avesse trascorsa il detective, ora che finalmente aveva scoperto che il suo amico Lestrade era stato tenuto sotto sorveglianza.
Chiuse l'album e lo riaprì dall'inizio per incrociare ancora una volta lo sguardo di Mary Morstan, la sorella della sua amata Clotilde e zia di Geneviève; la stessa donna che aveva sacrificato la sua vita per salvare quella di Sherlock.
Estrasse la fotografia e se l'avvicinò al volto per sussurrare: «Non potrò mai ringraziarti abbastanza. Se Sherlock fosse morto, io... beh, non importa. Grazie, Mary. Grazie di cuore».
Posò un lieve bacio sulla fotografia, in corrispondenza della fronte della donna, poi la sistemò nell'album e si sdraiò supino sul divano. Le palpebre si abbassarono senza che nemmeno se ne accorgesse e piombò in un sogno in cui tornò ventenne.

***

«Perché sei voluta venire al lavoro con me? Di domenica, oltretutto».
Geneviève alzò gli occhi dal microscopio col quale si era messa ad esaminare un suo stesso capello e sorrise in direzione di Molly, seduta poco distante. Stava compilando il rapporto inerente all'ultima autopsia effettuata, alla quale purtroppo non l'aveva fatta assistere. «Non è roba adatta ad una ragazzina», le aveva detto.
«Ieri, al supermercato, non hai forse detto che potevi cavartela da sola?», aggiunse Molly.
«Mi piace questo laboratorio», rispose la ragazzina, stringendosi nelle spalle. Poi, mordendosi il labbro inferiore, confessò: «E non mi andava di lasciarti sola».
La scienziata sforzò una risata, così come si era sforzata quella mattina davanti allo specchio per coprire col trucco i segni di una notte praticamente insonne.
«Ti ringrazio, ma sto bene».
«Uhm, meglio così».
Entrambe tornarono alle loro faccende e calò il silenzio. Non era un silenzio spiacevole, ma Geneviève fu comunque grata all'ispettore Lestrade, il quale bussò alla porta ed entrò con espressione stanca.
«Ciao Greg», lo salutò Molly con tono di voce sorpreso. «Anche tu di turno, eh?».
«I criminali, proprio come i morti, non rispettano i festivi purtroppo».
«Se sei venuto qui per il cadavere carbonizzato, dovresti sapere che non ho effettuatio io l'autopsia».
L'uomo sorrise imbarazzato e le porse un bicchierone di caffè, per poi lasciare sul tavolo la cartelletta che portava sotto braccio.
«Non sono qui per quello, infatti. Che caso strano, comunque. Dai primi rilevamenti sembra che l'autista non abbia cercato di frenare».
«Credi si tratti di un suicidio?».
Lestrade scosse il capo. «Non saprei. La scientifica sta ancora controllando ciò che è rimasto dell'auto e dato che avevo del tempo libero ho deciso di fare un salto qui. Come stai?».
«Bene».
Si guardarono e Geneviève poté percepire la tensione tra loro. L'ispettore di Scotland Yard fu il primo ad abbassare gli occhi e a grattarsi la nuca.
«Ah, era ieri sera lo spettacolo alla Royal Opera House? Ci sei andata, poi?».
Molly sospirò profondamente e si addossò allo schienale dello sgabello per incrociare le braccia al petto e guardarlo severamente.
«Ascolta Greg, so benissimo che l'incontro con Anderson non è stata una coincidenza. So che è stato mandato lì da Sherlock per controllare Jean Daspry, Arsène Lupin o come volete chiamarlo... E so che tu l'hai aiutato, fornendogli la strumentazione necessaria a registrare tutto. Avete ricavato qualcosa di utile, almeno?».
Lestrade negò col capo, gli occhi fissi sul pavimento. Passarono diversi secondi prima che riprendesse a parlare.
«Non è una giustificazione, ma Sherlock ha scoperto che anche lui ci spiava. O meglio, spiava me. Ho fatto controllare la mia auto e il mio ufficio e sono state trovate delle cimici».
A quelle parole Molly rimase a bocca aperta, scioccata, ed istintivamente si voltò verso Geneviève, rendendosi conto troppo tardi dell'errore. Greg, il quale fino ad allora non l'aveva notata seduta dietro il microscopio, corrugò la fronte.
«Ehi, ma tu... tu sei quella ragazzina che abbiamo ripescato dal Tamigi insieme a Sherlock quando indagava sul caso del piede di diavolo!».
La biondina sorrise e sollevò una mano. «Ehilà».
Prima che potesse fare altre domande, Molly cercò di cambiare argomento: «Ci sono novità sulla sconosciuta della fish?».
Greg finse di dimenticarsi di Geneviève e rispose con aria afflitta: «Purtroppo no. Nessuno per ora ne ha denunciato la scomparsa, perciò non sappiamo ancora chi sia. La scientifica ha esaminato il proiettile per verificare se la pistola fosse stata usata in altri crimini, senza risultati. E per quanto riguarda la fish... è un pezzo standard, usato in decine di casinò. Ho mandato degli agenti a fare domande in giro, ma per ora siamo ad un punto morto».
Alzò la cartelletta che aveva lasciato sul tavolo e aggiunse: «Quindi pensavo proprio di passare da Sherlock per chiedergli un'altra volta il suo aiuto, anche se dubito...».
«Posso vedere?», lo interruppe Geneviève, saltando giù dallo sgabello.
«Assolutamente no!», gridarono contemporaneamente i due adulti.
La ragazzina incrociò le braccia al petto e con aria saccente esclamò: «Come volete. Però sappiate che, come nuova assistente di Sherlock Holmes, potrebbe darmi retta se fossi io a proporgli il caso».
Molly guardò Greg assottigliando gli occhi, sibilando: «Non ci pensare nemmeno».
«E se fosse un serial killer fissato col gioco d'azzardo?», replicò Lestrade, nonostante fosse lui stesso poco incline a condividere con una ragazzina informazioni su delle indagini in corso. «Se dovessero esserci altre vittime riusciresti a dormire tranquilla? Io no». Sospirò ed incrociò gli occhi della ragazzina, la quale stese le mani con un sorriso euforico sul volto.
«Ci serve l'aiuto di Sherlock», esclamò quindi l'ispettore, come a voler convincere se stesso, e stringendo i denti le consegnò la cartelletta.
Geneviève si appoggiò al tavolo, accanto ad una Molly contrariata, ed iniziò a sfogliare il fascicolo.
Guardò le foto della scena del crimine senza rimanerne minimamente impressionata, per questo trovarono tanto strano il suo improvviso pallore quando si imbatté in quella che era stata scattata al viso della ragazza una volta terminata l'autopsia.
I lunghi capelli neri, il volto pallido e le labbra a cuore. Non aveva segni distintivi, nessun neo o voglia caratteristici, eppure ne era assolutamente certa: lei aveva già visto quella ragazza.
«Che cosa c'è?», le chiese Molly, quasi con cautela.
«Io... Io so chi è questa ragazza. O meglio, so dove lavorava».
Greg la fissò scioccato per qualche istante, prima di trovare la forza per chiederle dove.
«Al Savoy Hotel. Faceva la cameriera, l'ho incrociata spesso nei corridoi e ha anche rassettato la mia stanza un paio di volte», rispose Geneviève, senza pensare che quelle informazioni, agli occhi dell'ispettore, avrebbero potuto legarla ulteriormente ad Arsène Lupin. Non poteva però rimanere in silenzio, c'era di mezzo una ragazza morta!
«Vado subito sul posto», esclamò Lestrade, togliendole il fascicolo dalle mani. Geneviève però lo pregò di aspettare.
«Aspettare cosa? Non c'è un minuto da perdere!».
«Non può essere», mormorò la ragazzina, con un lieve tremore a scuoterle le spalle. «Lì c'è scritto che è morta domenica scorsa».
«Sì, è esatto», confermò Molly. «Ho eseguito io l'autopsia».
Geneviève si aggrappò al braccio dell'anatomopatologa con entrambe le mani e la guardò con gli occhi colmi di lacrime. «E allora mi dici com'è possibile che io l'abbia vista uscire dalla mia camera l'altro ieri?».

***

Grégorie, appostato fuori dal St. Bart's, bevve un sorso di caffé e poi tornò a concentrarsi sullo schermo del piccolo notebook che aveva davanti al volante.  
Le telecamere installate nella camera di Geneviève avevano dei sensori di movimento, perciò si azionavano soltanto quando c'era effettivamente qualcuno; ciò nonostante se avesse dovuto controllare tutte le ore di registrazione ci avrebbe impiegato il doppio del tempo. Anche per questo aveva chiesto la lista degli accessi dei passepartout, in modo da diminuire la mole di lavoro.
Era sempre possibile che il ladro del quaderno si fosse introdotto dal balcone, o che avesse colpito quando ormai Arsène, spinto dal desiderio di essere un padre migliore, aveva smesso di sorvegliare la propria figlia.
L'uomo sospirò e strizzò gli occhi, mandando avanti velocemente il filmato. Quindi premette il tasto play e guardò Geneviève uscire dal proprio fortino col quaderno tra le mani ed infilarlo nel primo cassetto del comodino alla destra del letto. Proprio dove gli aveva detto di averlo visto l'ultima volta.
Mandò ancora avanti, arrivando alla mattina di venerdì, e guardò con particolare attenzione la cameriera dai capelli neri entrare nella stanza e rimanere con le mani sui fianchi a fissare le lenzuola fissate al lampadario. Quindi si arrampicò sul letto e le sciolse, le appallottolò e le buttò sul pavimento. Solo allora si mise a curiosare in giro, fino a quando non aprì i cassetti dei comodini e trovò il quaderno. Lo sfogliò velocemente e, capendo quante informazioni contenesse, lo infilò tra le lenzuola sporche ed uscì dalla stanza. Vi rientrò solo per terminare il lavoro da cameriera, che svolse con velocità e precisione. Fin troppa.
Grégorie stoppò il filmato e recuperò quello di una settimana prima, dove era comparsa la stessa cameriera. Mise i due modi di lavorare a confronto e a quel punto c'erano due possibilità: o quella cameriera aveva frequentato un corso lampo che l'aveva resa perfetta, oppure erano due persone diverse.
Gli bastò poco per verificare quale delle due teorie fosse quella esatta: chiamò il Savoy Hotel e dando al receptionist la parola d'ordine la sua chiamata venne trasferita al direttore, uno dei pochi a conoscere la vera identità del loro ospite. Gli venne assicurato che l'avrebbe richiamato con tutti i dettagli riguardanti la cameriera e così fu: cinque minuti dopo sapeva esattamente chi era, dove abitava e anche che, dopo quasi una settimana di malattia, venerdì mattina era tornata al lavoro, per poi sparire nuovamente senza più farsi viva.
«La ringrazio», disse e terminò la comunicazione.
Si massaggiò gli occhi con due dita e non ebbe nemmeno il tempo per mettere in ordine le idee che ricevette un'altra chiamata, quella volta dal cellulare prepagato dato a Geneviève per le emergenze.
«Altri dubbi culinari?», esordì divertito, ma cambiò repentinamente registro quando si rese conto che la ragazzina era in lacrime. «Signorina, che cos'è successo?».
«Una cameriera del Savoy è stata uccisa», singhiozzò. «Qualcuno... qualcuno si è sostituito a lei e ha rubato il mio quaderno, ne sono sicura. Grégorie, io... Mi dispiace tanto».
L'uomo, col cuore in gola, unì finalmente i pezzi. Che Arsène fosse giunto per primo a quella conclusione e fosse andato a fronteggiare da solo l'avversario? E che fine aveva fatto? Che fosse stato sconfitto?
All'improvviso ricordò la notizia che aveva sentito quella mattina alla radio: intorno alle tre di notte un'auto si era schiantata contro un palazzo e il conducente era morto per via dell'impatto oppure nel successivo rogo, era ancora da stabilire. Quello che però lasciava perplessi gli investigatori, avevano rivelato alla stampa, era la scia di sangue che era stata trovata nei pressi dell'auto, come se ci fosse stato qualcun altro all'interno del veicolo al momento dell'incidente, qualcuno che era sopravvissuto e che si era allontanato a piedi.
Grégorie non poté fare a meno di pensare che fosse Arsène il sopravvissuto. I pezzi combaciavano tutti: la richiesta della pistola, le lenzuola ancora calde quando si era svegliato nel cuore della notte, la sua scomparsa.
E se la ferita fosse stata troppo grave e non fosse riuscito a chiedere aiuto?, continuava a domandarsi Grégorie, pur consapevole che lasciarsi prendere dal panico non avrebbe giovato a nessuno.
Respirò profondamente e si rivolse a Geneviève, ancora scossa dai singhiozzi: «Stia tranquilla, signorina. Non poteva sapere che c'era qualcuno che controllava le nostre mosse. La colpa è solo nostra se si è verificata una falla nella sicurezza. Ora dove si trova?».
«Sono nel... nel bagno del laboratorio. Ascolta, Grégorie...».
«Sì?».
«Voglio vedere mio padre. Ho provato a chiamarlo, ma...».
«Padron Lupin si sta già occupando della faccenda», mentì, certo che se le avesse rivelato della sua scomparsa sarebbe stata ancora peggio. «E io devo raggiungerlo. Prenda i mezzi pubblici, faccia in modo di prendere strade trafficate e vada da Sherlock Holmes. Stia con lui, è la cosa migliore da fare al momento».
«Va bene, lo farò».
«Stia attenta».
«Anche tu».
Grégorie arrossì e fu lieto che non potesse vederlo tramite il cellulare.
«Mi prometti che mi farai chiamare da mio padre non appena avrà un momento libero?», gli domandò giusto prima che chiudesse la chiamata.
«Lo prometto».
L'uomo infilò il cellulare nella tasca interna della giacca, girò la chiave nel quadro d'accensione e diede gas per immettersi nel traffico cittadino.
Non erano molti, a Londra, i posti in cui un Arsène Lupin ferito e desideroso di non dare nell'occhio poteva rifugiarsi. Anzi, uno solo lo convinceva davvero e Grégorie sperava con tutto il cuore di non sbagliarsi.

***

Geneviève bussò freneticamente alla porta del 221B di Baker Street, ma nessuno andò ad aprirle.
«Dannazione», imprecò, tremando. Non sapeva se fosse dovuto al freddo pungente oppure per via di quella ragazza.
Aveva già visto la morte da vicino, ma un assassinio era tutt'altro paio di maniche e per quanto le costasse ammetterlo, l'aveva scossa nel profondo. Specie se pensava che quella morte era servita solo ed unicamente a raccogliere informazioni su suo padre.
La persona che aveva spento quella vita era entrata nella sua camera, le aveva rifatto il letto e toccato le sue cose... Sentì la colazione salirle su per l'esofago e, appoggiata alla porta di lucido legno nero, dovette inspirare ed espirare diverse volte, profondamente, per cacciare via la nausea. Quindi entrò nella tavola calda lì accanto e chiese del bagno, per poi sgattaiolare fuori dalla porta sul retro.
Nel piccolo spiazzo dietro il locale erano ammassati i bidoni della spazzatura e l'odore non fece altro che peggiorare il suo mal di stomaco, ma strinse i denti e li usò come scala per passare dall'altro lato della recinzione, ovvero nel giardinetto sul retro della signora Hudson.
La porta che dava direttamente sulla cucina era più facile da scassinare ed impiegò meno di cinque minuti ad entrare. Poi corse su per le scale, dove sperava di trovare il detective. Si ritrovò però in un salotto vuoto e silenzioso.
Il pensiero di ritrovarsi sola, senza suo padre e senza Sherlock, le fece quasi perdere la ragione. Quasi, perché a salvarla fu una tazza da tè.
La signora Hudson, come ogni mattina, doveva aver portato al detective la colazione, che consisteva in tè e biscotti, ma la tazza era ancora capovolta sul piattino, inutilizzata. Geneviève allora, speranzosa, corse verso la camera da letto e fu proprio là che trovò Sherlock, interamente nascosto sotto il piumone. Il sollievo fu tanto che senza pensarci si gettò sul letto e si aggrappò a quel corpo spigoloso che subito iniziò a divincolarsi, emettendo versi davvero buffi.
Quando riuscì a liberarsi dalle coperte, Sherlock incrociò gli occhi della ragazzina e ancora prima di riuscire a chiederle perché fosse lì e non con Molly, lei gli gettò le braccia al collo e riprese a piangere, in modo quasi incontrollabile.
«Geneviève», esclamò il consulente investigativo, confuso, ma ricambiò l'abbraccio accarezzandole i capelli con una mano. «Calmati».
«Non ce la faccio, io... Ho paura. Ho tanta paura», singhiozzò.
«Piangere non ti aiuterà. Avanti, alzati».
La ragazzina obbedì e mano per mano col detective, ancora avvolto nel piumone, tornò in salotto. Lui la fece sedere sulla poltrona di John e le versò una tazza di té tiepido, poi si sedette di fronte a lei e portandosi le dita unite davanti alle labbra esclamò: «Raccontami tutto dall'inizio».

***

Grégorie scese dal SUV e si guardò intorno, circospetto, prima di avvicinarsi alla casa del dottor Watson. L'ingresso era qualche gradino sotto il livello della strada e l'uomo fece per afferrare il corrimano, ma si fermò quando vi notò l'impronta insanguinata di una mano. Col cuore di nuovo vivo nel petto corse alla porta e suonò il campanello. Lo fece una, due, tre volte, senza ricevere mai risposta.
Forse Arsène si era fatto curare dal dottor Watson e poi era andato per la sua strada, evitando così di creare ulteriori disturbi all'amico di Sherlock Holmes. Tipico del suo padrone.
Si voltò, afflitto ma non ancora disposto a darsi per vinto. Era quasi giunto alla scalinata quando sentì la porta alle sue spalle aprirsi.
«Grégorie...».
Sentì il proprio cuore mancare un battito prima di iniziare a pulsare a velocità folle, incrociando gli occhi verdi di Arsène Lupin. Il suo volto era segnato da tagli e lividi che spiccavano sulla pelle pallida, quasi trasparente, ma era vivo.
Lo raggiunse con due sole falcate e lo travolse con un abbraccio.
«Piano, piano», disse il ladro, accennando una risata mentre gli posava delicatamente le mani sulle spalle e lo allontanava da sé per guardarlo negli occhi, quegli stessi occhi che Grégorie aveva vergognosamente nascosto nell'incavo tra il collo e la spalla sinistra perché lucidi di lacrime.
«Per un attimo ho temuto...», iniziò a dire, ma venne interrotto.
«Non dire scemenze, amico mio. Deciderò io quando morire, io soltanto».
I loro sguardi si incrociarono e quello sorridente di Arsène fu in grado di calmarlo, come sempre.
«Che cos'è successo?», gli domandò quindi.
«Sono stato attirato in una trappola», confessò il ladro, facendosi una bella risata. Ad un tratto si bloccò e cambiò espressione, chiedendo: «Se tu sei qui, chi sta sorvegliando Geneviève?».
«L'ho mandata da Sherlock Holmes».
Arsène lo afferrò per i baveri della giacca e lo inchiodò al muro, gli occhi a pochi centimetri dai suoi. Era furioso come poche volte l'aveva visto.
«E con quale autorità hai deciso di ignorare gli ordini?».
«Mi... Mi dispiace».
Il Ladro Gentiluomo lo lasciò bruscamente e gli diede le spalle per rientrare in casa.
«Aspetti un attimo. Ha intenzione di rimanere qui?», domandò Grégorie, confuso.
«Non avrei dovuto nemmeno aprire la porta», ammise Arsène, a bassa voce. «L'unico motivo per cui l'ho fatto è perché ti voglio bene, Grégorie. Ma i fatti non mi permettono di escluderti dalla lista dei sospettati, ecco».
«Sospettati? Crede... crede che io potrei tradirla, padrone?».
Il ladro si voltò di tre quarti, mostrando la lacrima che gli aveva rigato la guancia. «Spero proprio di no. Il mondo, però, è un posto spietato. Finché non avrò chiaro il quadro della situazione, dovrò lavorare da solo».
Grégorie abbassò il capo e dopo diversi secondi di silenzio mormorò: «Capisco. In questo caso ho da dirle qualcosa che credo possa esserle utile nelle sue indagini».
Arsène soppesò le sue parole e ancora una volta cedette alla speranza, facendogli segno di entrare. Seduti nel piccolo salotto del dottor Watson, padrone e servitore parlarono a lungo della cameriera uccisa e della persona che aveva preso il suo posto e che era venuta in possesso di informazioni di rilievo a causa dell'ingenuità di Geneviève. Era chiaro ad entrambi che quegli eventi e l'agguato di quella notte fossero collegati, ma era ancora un mistero chi stesse tirando i fili e quale fosse il suo scopo finale.
«È probabile che la signorina si confiderà con Sherlock Holmes e che questi si metterà ad indagare», esclamò Grégorie quando fu il momento dei saluti.
«Vedremo chi giungerà prima alla soluzione, allora», rispose Arsène, solare come suo solito. «Se si tratta di un nemico del passato in cerca di vendetta, come temo che sia, allora potrei avere qualche vantaggio».
Il servitore abbozzò un sorriso e di nuovo sulla porta si profuse in un profondo inchino. «Allora... a presto, padrone».
«A presto, amico mio».
Grégorie si sollevò e senza più guardarlo - temeva di dimostrarsi di nuovo commosso - si diresse verso la breve scalinata. Ricordandosi improvvisamente della promessa fatta a Geneviève si voltò e sorprese Lupin con un'espressione di pura tristezza.
«La signorina...», iniziò, deglutendo un improvviso nodo alla gola. «Vorrebbe tanto ricevere una sua telefonata, padrone. Può farlo?».
«Il mio cellulare si è rotto nell'incidente, ma in qualche modo riuscirò a contattarla», rispose con un sorriso.
Grégorie ricambiò, fingendo di non aver visto ciò che si celava sotto la maschera.

***

Molly pagò e scese dal taxi per bussare al 221B di Baker Street. Fu la signora Hudson, come la maggior parte delle volte, ad aprirle e a farla entrare.
Non si fermò a chiacchierare, preferì precipitarsi al primo piano, dove trovò Sherlock seduto sulla sua poltrona, con le lingue di fuoco del camino che si riflettevano nei suoi occhi di ghiaccio.
«Molly! E tu che ci fai qui?».
L'anatomopatologa si voltò verso la cucina e rivolse un'occhiata fulminante a Geneviève, scalza e con una porzione di spaghetti di soia in una mano e delle bacchette usa e getta nell'altra.
«Che cosa ci faccio qui?!», ripeté, furibonda. «Hai idea dello spavento che mi sono presa?! Sei sparita dal laboratorio senza dire una parola, a casa non c'eri e al cellulare non rispondevi!».
La ragazzina lasciò le bacchette nel cartone per potersi infilare una mano nella tasca posteriore dei jeans, da dove estrasse il cellulare e spiegò: «La batteria è morta».
Molly sospirò, cercando di calmare la rabbia, e la raggiunse a passi così pesanti che Geneviève ebbe paura che potesse picchiarla. Si ritrovò infatti a chiudere gli occhi, un braccio a proteggerle il viso, ma nessuno schiaffo la colpì: si ritrovò invece stretta in un abbraccio, immersa nella grande sciarpa di lana che copriva il collo della donna. Il suo profumo dolce e il suo calore la fecero rilassare a tal punto che posò il capo contro quello dell'anatomopatologa.
«Ero molto preoccupata. Dopo quella scoperta, temevo...».
«Ora sto bene», sussurrò la ragazzina.
Le due si scostarono per scambiarsi un sorriso e poi Molly si girò verso il detective, portandosi le mani sui fianchi.
«E ora è il tuo turno! Ho provato a chiamare anche te, decine di volte! Qual è la tua scusa?».
Sherlock non si degnò nemmeno di guardarla. «Non trovo più il cellulare».
Geneviève, che nel frattempo si era avvicinata al divano per finire i propri spaghetti, non fece in tempo a sedersi che estrasse qualcosa dalla piega tra lo schienale e i cuscini: il cellulare del detective.
Molly sospirò, lasciando penzolare le braccia lungo i fianchi. Poi si sistemò la borsa sulla spalla ed esclamò: «La mia pausa pranzo sta per finire, devo tornare al laboratorio».
«Hai già mangiato?», le chiese Geneviève, a bocca piena. Una volta deglutito, aggiunse: «Ho ordinato anche per Sherlock, ma ha detto che non vuole niente».
Lo stomaco dell'anatomopatologa borbottò per la fame, ma era già tanto se aveva resistito nella stessa stanza con lui fino ad allora. Il desiderio di prenderlo a schiaffi o di abbracciarlo, oppure di fare entrambe le cose e non necessariamente in quell'ordine, si stava facendo sempre più impellente. Doveva andarsene.
«Comprerò delle patatine dal distributore, ti ringrazio», rispose alla fine. «Vengo a prenderti più tardi, okay?».
«In realtà...».
«La mia non era una domanda. Non puoi dormire qui, punto e basta».
Geneviève aggrottò le sopracciglia. «Perché no? L'ho già fatto, in fondo. Diglielo, Sherlock».
«Molly ha ragione: non puoi dormire qui».
«Ma...».
«Tuo padre ed io abbiamo fatto un patto, ricordi? Zona neutrale».
A quelle parole la biondina abbassò gli occhi e smise di controbattere. Molly si avvicinò per darle una carezza sulla testa e poi, senza più guardarsi indietro o chiedersi perché lui avesse preso le sue parti, scese giù per le scale.
Stava già per tirare un sospiro di sollievo, con una mano sulla maniglia della porta, quando sentì la voce di Sherlock chiamare il suo nome. Con le gambe rigide come pezzi di legno si girò e vide la sua figura sulla sommità delle scale: con indosso la vestaglia, i capelli in disordine e quello sguardo indurito dai troppi pensieri sembrava un supereroe tormentato.
Lo guardò mentre la raggiungeva, uno scalino per volta, e deglutì ritrovandosi col mento leggermente sollevato per poter incrociare i suoi occhi freddi.
«Ti sei già affezionata a Geneviève», affermò. Raramente poneva domande, dopotutto.
«Già. Lo trovo strano anche io».
«Non deve accadere lo stesso con Arsène Lupin».
Molly corrugò la fronte. «Pensi che sia possibile?».
Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma la donna riprese: «Capisco i tuoi timori, sai? Dopotutto è un uomo galante, socievole, divertente ed è in grado di dire le cose come stanno, anche se fanno male».
Il detective affilò lo sguardo e ancora una volta Molly lo precedette prima che potesse parlare.
«Sì, Arsène mi ha detto che mi stai evitando per tenermi al sicuro. Non so in che guaio tu ti sia andato a ficcare questa volta, ma preferisco avere un bersaglio sulla schiena piuttosto che... che perdere un amico».
Nel pronunciare quelle ultime parole la voce le si era incrinata e gli occhi velati di lacrime, ma aveva mantenuto il contatto visivo.
Sherlock non disse niente e Molly, annuendo come se non si aspettasse altro, deglutì il nodo alla gola ed aprì la porta, lasciando che il freddo entrasse nell'androne e gli facesse svolazzare i lembi della vestaglia blu intorno alle gambe.

***

Arsène, di nuovo seduto sul divano del dottor Watson, fissava lo schermo nero della televisione, profondamente concentrato.
Come aveva detto a Grégorie, per un po' sarebbe dovuto sparire. Non poteva fare diversamente, se voleva scoprire l'identità delle persone che volevano colpirlo. C'era solo un piccolo dettaglio che lo preoccupava: lui non era più solo, non lo sarebbe mai più stato, e quelle persone lo sapevano.
Dato che il piano di cattura era andato in fumo, era più che probabile che il piano B prevedesse l'utilizzo di Geneviève, sua figlia, come oggetto di scambio. Lei era il formaggio e lui il topo: per quanto scaltro, sarebbe stato impossibile tenersene lontano. Quindi doveva fingersi disperso e al contempo starle sempre vicino per evitare che la usassero come esca.
Si portò le dita sulle tempie e le massaggiò, meditabondo. All'improvviso, l'illuminazione.
«Ma certo!», esclamò, con un sorriso a trentadue denti.
Si precipitò subito in cucina e dai propri indumenti ormai inutilizzabili estrasse tutto ciò che gli era rimasto e con cui per il momento avrebbe dovuto arrangiarsi: il passaporto falso con cui si spacciava per Jean Daspry; il portafoglio in cui, tra le altre cose, c'erano diverse banconote da cinquanta sterline; l'astuccio con la sigaretta elettronica e i filtri; il revolver dal manico di madreperla con ancora cinque proiettili; i suoi attrezzi da scassinatore e la piccola chiave di una cassetta postale. Poteva decisamente andargli peggio.
Mise tutto in uno zainetto di John, gli scrisse un bigliettino, buttò nella spazzatura i suoi vestiti strappati e controllò che in giro non ci fosse nulla da cui si potesse estrarre il suo DNA (stracci sporchi di sangue, ad esempio) e dopo aver preso in prestito anche un Parka che su di lui sembrava una normalissima giacca si guardò allo specchio ed esclamò: «Sarà una lunga giornata!».
Gettò il sacco pieno in un bidone dell'indifferenziata e come un comune londinese prese l'autobus, da cui scese a poche vie di distanza da un piccolo hotel da poche pretese, la sua prima tappa.
La ragazza dietro il bancone della reception, troppo bella per un posto del genere, gli rivolse un sorriso cortese salutandolo. Arsène ricambiò chinando un poco il capo e prese l'ascensore che lo portò al secondo ed ultimo piano. Quindi camminò fino alla fine del corridoio, vicino alle scale antincendio, e dal portafoglio estrasse una tessera magnetica con cui aprì la porta della stanza 219.
Aveva affittato e prepagato quella camera contemporaneamente a quella del Savoy, all'insaputa di tutti come faceva ogni volta che usciva dai confini francesi, nel caso avesse avuto bisogno di un rifugio alternativo. All'interno aveva tutto il necessario per nascondersi o cambiare identità, insomma per agire in totale autonomia per diverso tempo: scorte di cibo e acqua, parrucche, vestiti, cellulari usa e getta, un tablet e un computer di riserva, alcuni attrezzi del mestiere - sia standard che fatti su misura - e soprattutto, al sicuro nella piccola cassaforte in dotazione, contanti ed altri passaporti falsi. Peccato che, per ciò che aveva in mente, avrebbe dovuto crearsi una nuova identità. Nulla di impossibile, per carità, ma avrebbe richiesto tempo e ad Arsène non piaceva aspettare.
Si truccò e si cambiò, e una volta soddisfatto riempì un piccolo trolley con tutto ciò che pensava potesse tornargli utile. Quindi uscì dalla stanza e non tornò all'ascensore, bensì aprì la porta tagliafuoco che dava sulle scale antincendio e le scese in tutta calma. Sapeva che alla reception sarebbe scattato l'allarme, ma sapeva anche che di giorno nessuno si degnava di controllarne il motivo, dato che era abitudine di molti clienti utilizzarle come area fumatori per comodità.
Con quello stratagemma poté raggiungere il parcheggio sul retro dell'hotel senza passare dalla reception, dove un uomo diverso da quello che era appena passato avrebbe destato qualche sospetto. Estrasse dalla tasca della giacca di pelle nera le chiavi della piccola utilitaria presa a noleggio e una volta aperta gettò il trolley nel bagagliaio, per poi mettersi al volante e guidare verso la sua seconda tappa: una lavanderia a cui consegnò i vestiti di John. Pagò in anticipo e diede l'indirizzo del dottore perché glieli recapitassero direttamente a casa, poi uscì e si rimise al volante, diretto verso un internet café dall'altra parte della città.
Alla barista chiese una tazza di latte caldo per riempirsi lo stomaco e riscaldarsi, poi scelse il computer più vicino ai bagni e si scrocchiò le dita delle mani: era da tanto che non curava più di persona dettagli del genere - di solito se ne occupava Grégorie o uno dei suoi hacker di fiducia - e lo colse un po' di nostalgia.
Nonostante la ruggine riuscì ad entrare facilmente nel Deep Web e a trovare il forum a numero chiuso in cui aspiranti Arsène Lupin raccontavano le loro piccole grandi avventure. Ricordava i bei tempi in cui passava le ore a leggere le discussioni, a rispondere ai commenti e a dispensare consigli. In particolare ripensò con gioia al giorno in cui, dopo un colpo piuttosto complicato, aveva osato troppo e aveva smentito tutte le supposizioni degli utenti per dare una semplice quanto perfetta spiegazione, scatenando un putiferio. Aveva provato in ogni modo a negare, inutilmente. Molti di loro, infatti, si erano convinti di aver scoperto l'identità di MonsieurL e Arsène, divertito, non aveva potuto far altro che ammetterlo e sfruttare la cosa a suo vantaggio.
In quel modo, quasi per gioco, era nata la sua organizzazione; grazie all'aiuto di tanti individui, provenienti da tutto il mondo ma con un solo desiderio: avere più giustizia grazie ai suoi colpi. Spesso Arsène non si era sentito all'altezza di quel compito ed era lieto che Maurice Leblanc, sei anni prima, avesse iniziato a chiamarlo come tutti lo conoscevano: il Ladro Gentiluomo. Era decisamente più appropriato, vista la sua indole volubile e il suo personalissimo metodo di giudizio.
Alla fine, per questioni di sicurezza, avevano rintracciato l'amministratore del forum e l'avevano comprato con la promessa che per gli utenti nulla sarebbe cambiato. E così era stato, dato che non avevano idea che alcuni dei membri entrati successivamente fossero uomini effettivi della banda, i quali utilizzavano la chat privata del forum per comunicare tra loro.
Non poté trattenersi dal salutare i propri ammiratori nella chat aperta, i quali risposero a centinaia, come se fossero stati tutti dietro le loro tastiere in attesa di una sua apparizione. Arsène ne fu onorato, ma anche un po' spaventato.
E se le persone che avevano architettato quell'agguato fossero riuscite ad introdursi pure lì, superando il test attitudinale e psicologico che in seguito alla sua rivelazione era stato istituito per limitare l'accesso alle sole persone veramente al fianco di Lupin?
Mordendosi le labbra, il ladro decise di fare la prima mossa ed aprì una nuova discussione con priorità massima:

Carissimi amici miei,
per chi ancora di voi non lo sapesse al momento mi trovo a Londra.
Vi scrivo per informarvi che la semplice vacanza che mi ero concesso e che mi stava arricchendo spiritualmente, purtroppo si è trasformata in un duello mortale contro una forza misteriosa. Ma voi mi conoscete e sapete che non ho paura!
Vi chiedo di assistermi nei giorni a venire e di prestare attenzione a qualsiasi stranezza, scrivendomi privatamente se necessario.

Sempre vostro,
A.L.

I commenti di indignazione e sostegno non esitarono ad arrivare, ma Arsène li ignorò per entrare nella sezione dei messaggi privati. Scrisse un breve messaggio all'utente Vict8ire, chiedendole di attendere la seconda parte, poi pagò il conto ed uscì per dirigersi verso la quarta destinazione: il centro commerciale.
Non si fermò molto, solo il tempo per farsi delle foto istantanee ed entrare in un'agenzia di viaggio. Quindi, con un biglietto di sola andata per la Costa Azzurra, Arsène decise di lasciare l'auto nel garage sotterraneo del centro commerciale e prese un taxi per raggiungere un altro internet cafè, più grande ed attrezzato e soprattutto più vicino alla sua prossima ed ultima tappa.
Scannerizzò le fotografie e le inoltrò in allegato alla seconda parte del messaggio per Vict8ire, il cui testo consisteva nell'indirizzo dell'ufficio postale londinese in cui aveva affittato una cassetta.
La donna rispose pochi secondi dopo la ricezione, rimproverandolo per la sua scarsità di buone maniere - non le aveva scritto né "Per favore" né "Grazie" - e chiedendogli aggiornamenti su Geneviève. Borbottando, Arsène scrisse un terzo messaggio e già che c'era le domandò se ci fossero novità in merito alla questione affidamento. Vict8ire rispose indicandogli un numero di cellulare prepagato: un chiaro invito a chiamarla. Arsène però non aveva tempo, perciò scrisse il numero su un bigliettino ed uscì dal forum.
Quindi lasciò il locale e, zainetto sulle spalle e trolley al seguito, si mischiò ai turisti che avevano deciso di visitare la capitale inglese in uno dei periodi forse più magici, quello natalizio.
Erano ormai le quattro di pomeriggio quando bussò alla porta della signora Lee.
Le sue doti di gentiluomo, rimaste invariate nonostante il travestimento, e una storia di legami familiari inventata su due piedi in base ai ricordi che aveva sui profili degli abitanti del condominio gli permisero di conquistarsi la sua fiducia, tanto che l'anziana lo lasciò entrare e gli offrì un tè e dei piccoli sandwich.
«Allora giovanotto, per quanto tempo hai intenzione di rimanere a Londra?».
«Un paio di settimane, pensavo».
«Viaggi leggero! E dimmi, dove starai?».
Arsène posò la tazza sul piattino e sorrise felice. «Speravo proprio mi ponesse questa domanda».

***

Sherlock fece finta di nulla, ma non gli sfuggì il modo furtivo in cui Geneviève spostò gli occhi dal libro che stava leggendo per spiarlo.
Dopo lo scambio di battute con Molly era tornato in salotto e aveva recuperato il cellulare per verificare se qualcun altro a parte lei lo avesse cercato. A quanto pareva sì.
Alle due e quarantotto di quella notte aveva ricevuto un sms da parte di un numero sconosciuto, ma leggendone il contenuto non ebbe dubbi sul mittente: Arsène. Aveva voluto avvisarlo che quella notte aveva fissato un incontro con Irene Adler, alla quale voleva proporre un patto per garantire la sicurezza di Molly. Ovviamente quell'incontro non era mai avvenuto.
Di nuovo sulla propria poltrona, accanto al camino acceso, cercava di recuperare il bandolo della matassa e forse era stato il suo mutismo meditativo ad incuriosire tanto la ragazzina.
«La trama non è di tuo gradimento?», le domandò all'improvviso, girandosi di scatto per coglierla sul fatto.
Geneviève reagì come un gatto, sobbalzando sul divano e stringendo gli occhi a due fessure. Mancava solo che gli soffiasse contro.
«E tu ti sei reso conto che ci sono anche io qui?».
Sherlock corrugò la fronte e si alzò per raggiungere la finestra. «Ne ero perfettamente consapevole. Qual è il punto?».
«Il punto è che forse, se mi parlassi, potrei aiutarti».
«Dubito che tu conosca l'identità della persona che ha ucciso quella cameriera. Deve trattarsi per forza di qualche vecchio nemico di tuo padre, qualcuno che ha deciso di pareggiare i conti...».
«Pareggiare i conti? Di che stai parlando?».
Il detective le rivolse un sorriso quasi derisorio. «Cara Geneviève, lo shock deve aver compromesso le tue capacità deduttive se non hai ancora capito che tuo padre è il passeggero scampato all'incidente d'auto di cui si è parlato in tutti i telegiornali».
«Che cosa?».
Quella volta Sherlock si concesse una risata, sinceramente divertito. Si tirò dietro la vestaglia mentre si sedeva al suo fianco sul divano.
«In questo momento sarà rifugiato da qualche parte, a leccarsi le ferite e a pensare ad un piano», disse. Quindi si portò le mani sugli occhi e mormorò: «Devo sbrigarmi, lui è già in vantaggio».
Geneviève lo fissò, scioccata ed inorridita allo stesso tempo.
«Credi che sia un gioco? Mio padre potrebbe essere ferito e tu...!».
Non continuò la frase, tremante di rabbia e di nuovo con le lacrime agli occhi. Si alzò in piedi e corse su per le scale. Sherlock non provò a fermarla, né reagì quando sentì il tonfo della porta della vecchia camera di John che si era sbattuta alle spalle.
Il consulente investigativo si alzò e tornò alla finestra, dove si infilò una mano nella tasca della vestaglia. Esitò. Non aveva mai creduto al sesto senso - preferiva affidarsi alla logica - ma gli era impossibile ignorare il brutto presentimento che gli stringeva lo stomaco. Quindi digitò a memoria il suo numero e rimase in attesa fino a quando non scattò la segreteria telefonica.
Serrò i denti e stringendo forte il cellulare nella mano destra tornò a contemplare Baker Street dalla finestra.

***

Gabriel alzò gli occhi dai libri contabili che stava controllando quando scorse il cellulare di Irene Adler vibrare insistentemente sulla scrivania. Sul display lampeggiavano solo le iniziali di chi la stava chiamando, ma non fu difficile capire a chi appartenessero.
Quando il tentativo di chiamata terminò, prese il cellulare per spegnerlo e toglierne la batteria. Poi si alzò dalla scrivania ed uscì dal suo piccolo ufficio barra camera da letto. Attraversò un corridoio con decine di porte tutte uguali e raggiunse l'ascensore, dove dovette inserire un passepartout e un codice di sei cifre per avere l'autorizzazione a salire all'ultimo piano.
Le porte si aprirono con un din delicato e Gabriel, ancora con indosso la sua divisa da croupier e i lunghi capelli biondi sciolti sulla schiena, salutò con un gesto del capo l'uomo della sicurezza posto davanti all'ufficio di sua zia. Bussò alla porta e ottenuto il permesso di entrare avanzò fino a raggiungere il bordo della grande scrivania in mogano.
La donna, dalla corportatura massiccia che veniva ancora più evidenziata dallo stretto vestito viola che portava, era in piedi davanti alla parete vetrata che dava sull'enorme piscina e da cui si vedeva lo skyline londinese in lontananza. Tra le mani teneva il quaderno rubato dalla stanza di Geneviève, la figlia del Ladro Gentiluomo.
Senza voltarsi, domandò: «Che cosa c'è, Gabriel?».
«Irene Adler ha appena ricevuto una chiamata».
«Da chi?».
«Sherlock Holmes».
Quel nome attirò l'attenzione della zia, la quale diede le spalle al panorama per guardare il nipote coi suoi occhi porcini.
«Questo potrebbe essere un problema. Pensi che proverà a rintracciarla?».
«Posso chiederlo a lei».
La donna strinse le labbra e rifletté a lungo. Ad un tratto si gettò i gonfi ricci neri dietro le spalle e gli rivolse un ampio sorriso.
«Ma sì, fate una chiacchierata. Dille che nemmeno il grande detective riuscirà mai a trovarla. E se anche lo facesse, a noi lui non interessa: se metterà a rischio il nostro piano lo uccideremo senza esitare».
«Capisco».
«È tutto?», chiese la zia al nipote, tornando a dargli le spalle.
«Sì, è tutto».
«Bene, allora vai».
Gabriel chinò il capo ed uscì dall'ufficio. Percorse il corridoio fino a raggiungere un'altra porta sorvegliata, con l'unica differenza che poche persone possedevano la chiave per accedervi. Lui era una di quelle. Entrò e se la chiuse alle spalle delicatamente, ma questo non impedì ad Irene Adler di svegliarsi di scatto.
Il ragazzo accese le luci al neon e la donna, abituata all'oscurità più totale, strinse gli occhi arrossati. Quindi si rannicchiò in un angolo della gabbia in cui era stata chiusa a chiave, stringendosi le ginocchia al petto.
«Tranquilla, non sono qui per portarti dalla zia», cercò di rassicurarla, chinandosi per guardarla in volto attraverso le sbarre.
Le mostrò il suo cellulare e spiegò: «Per quale motivo Sherlock Holmes ti ha cercata? Siete amici? Amanti?».
La donna scelse il silenzio, chiudendo gli occhi e voltando il capo, e Gabriel sospirò alzandosi. Andò al bancone posto dall'altra parte della grande stanza, il cui unico arredamento consisteva in un tavolo operatorio e in un mobile pieno di flaconi che sembravano provenire proprio da un ospedale, ed Irene tremò vedendolo accarezzare i vari strumenti medici allineati sulla superficie metallica.
«Eravamo amanti», confessò con poca voce.
Gabriel alzò il capo e le sorrise. «Continua».
«Non c'è nient'altro da dire. Ci siamo detti addio alcune settimane fa».
Il ragazzo prese un bisturi e ne controllò l'affilatura esponendolo alla luce della lampada operatoria, poi lo ripose al suo posto. Alla fine scelse un piccolo cilindro nero e con un rapido gesto della mano, come se tenesse il manico di una frusta, ne fece uscire il contenuto: sembrava l'antenna retraibile di una radio, ma in realtà era un teaser di cui Irene portava addosso diversi segni.
«Aspetta. Aspetta, ti prego», cercò di prendere tempo la donna, consapevole che per quanto si addossasse alle sbarre della gabbia lui l'avrebbe raggiunta comunque.
«Lo sai che non mi piace farlo», esclamò Gabriel, con voce triste. «Quindi perché non collabori?».
«Io non... non so perché mi abbia cercata».
La punta del teaser sfrigolò di elettricità quando il ragazzo premette il pulsante sul manico.
«Lo giuro», singhiozzò Irene.
Gabriel si inginocchiò di fronte alla gabbia e sospirò, scuotendo mestamente il capo.
«Non ci hai mai rivelato quale fosse l'accordo che avevi con Arsène Lupin. Sai, ho visto lui e Sherlock Holmes trascorrere parecchio tempo insieme, quasi come due amici, ed inizio a chiedermi se Lupin non abbia preferito il detective a te».
«È probabile. Non gli sono mai andata a genio, dopotutto. Per questo ho chiesto il vostro aiuto. Sapevo che avevate delle questioni in sospeso con Arsène e pensavo che, lavorando insieme, avremmo potuto...».
Gabriel sorrise con una punta di malinconia e fece schioccare la lingua contro il palato. «Non avresti mai dovuto contattare mia zia. Lei... è spietata, penso te ne sia accorta».
«Ma tu non lo sei, tu...!». Irene, che con uno slancio si era aggrappata alle sbarre davanti al viso tranquillo di Gabriel e aveva cercato di disarmarlo del teaser, ricevette una potente scarica sul fianco che la lasciò agonizzante sul pavimento della gabbia. Tuttavia era ancora abbastanza lucida per guardare Gabriel negli occhi ed ascoltare le sue parole.
«Spero solo che Sherlock Holmes non si metta in mezzo: non voglio più uccidere persone innocenti».
Sospirando si alzò e andò a riporre il teaser sul bancone. Sulla porta si voltò a guardare Irene Adler un'ultima volta, poi spense la luce ed uscì.

***

Quando John quella sera rientrò a casa, dopo essere passato a prendere Rosie dalla babysitter, la trovò buia e silenziosa.
Era certo che il suo istinto non l'avrebbe deluso, ma si costrinse a fare comunque un tentativo. Sospirando, esclamò: «Arsène, sono tornato!».
Accese la luce in salotto, trovandolo deserto, e lasciò la figlia nel suo box per spogliarsi del giaccone e andare in cucina. Fu lì, sullo stesso tavolo dove l'aveva ricucito, che trovò il biglietto del Ladro Gentiluomo.

Caro John,
ti ringrazio per esserti preso cura di me. Sei un dottore veramente valido.
Se mai volessi cambiare fazione, sappi che hai un posto sicuro nella mia organizzazione. Ci facciamo male più spesso di quello che vorrei, purtroppo.
Ho preso in prestito alcuni dei tuoi abiti, ma non temere: ti verranno recapitati nei prossimi giorni dalla lavanderia.
Davvero, ti sono debitore.

A.L.

P.S. Qui sotto ti lascio i nomi di alcune boutique londinesi: ti basterà fare il nome di Paul Daubreuil per avere uno sconto del 50% su ogni capo.


John scosse la testa con un sorriso tra l'irritato e il divertito sul volto.
Non solo aveva disubbidito agli ordini del dottore, ma aveva avuto la faccia tosta di consigliargli di cambiare guardaroba! E lui che si era perfino abbassato a rubare dall'armadietto dei medicinali delle soluzioni saline e degli antidolorifici!
Dannazione, era diventato un ladro per conto del Ladro Gentiluomo. Ora aveva un motivo in più per non parlarne con Sherlock, anche se...
Andò nella cameretta di Rosie ed aprì il primo cassetto della cassapanca accanto al suo lettino: sotto i vestiti della figlia trovò il sacchetto di plastica in cui aveva conservato un pezzo di garza sporco di sangue, il sangue di Arsène Lupin.
Era certo che avrebbe cercato di eliminare ogni traccia della sua presenza prima di togliere il disturbo, per questo l'aveva nascosto lì.
Si colpì il palmo della mano col sacchettino e decise che non l'avrebbe consegnato subito al detective, ma che l'avrebbe tenuto come assicurazione, nella speranza di non doverlo mai usare.

***

Il campanello al piano di sotto suonò e, ancor prima che la signora Hudson potesse fare le scale per chiamare Geneviève, questa si precipitò giù dalle scale. Esitò di fronte alla porta del salotto, ma vedendo che Sherlock non aveva alcuna intenzione di voltarsi e salutarla evitò di sprecare fiato e scese anche l'ultima rampa di scale per raggiungere Molly, in piedi sul marciapiede. Si era rifiutata di entrare.
Sherlock le osservò salire sul taxi che era rimasto ad aspettarle e non mostrò alcuna emozione nemmeno quando il suo sguardo e quello dell'anatomopatologa si incrociarono per un breve istante, prima che lei rientrasse nella vettura.
Le parole che gli aveva rivolto qualche ora prima gli bruciavano ancora: non tanto perché Molly avesse saputo il motivo per cui la teneva a distanza, ma perché era stato Arsène a dirglielo e a trarne beneficio, diventando quello onesto.
Ma non poteva arrabbiarsi con lui, non ne aveva alcun diritto: Arsène gli aveva promesso che l'avrebbe tenuta al sicuro, ed evidentemente metterla a conoscenza dei fatti secondo lui era la cosa migliore. Forse aveva ragione.
«Sherlock, caro, che sta succedendo?».
O forse no.
Arrabbiato com'era con Arsène, se stesso e il mondo in generale, si voltò e se la prese con la signora Hudson: «Sempre a ficcare il naso in questioni che non la riguardano, vero? Mi lasci solo!».
La donna, anziché abbaiargli contro o andarsene tremendamente offesa, si avvicinò a lui e lo strinse tra le braccia, lasciandolo confuso e sbalordito.
«La vita è una sola, Sherlock. Vivila in modo da non avere rimpianti». Gli diede dei colpetti sulla schiena e lo lasciò andare per guardarlo negli occhi ed accarezzargli una guancia, sorridendo. «Ascolta chi ha più anni di te, per una volta».
«L'età non è sintomo di saggezza. Perché tutti pensano che...?».
La signora Hudson gli diede le spalle e se ne andò ridacchiando.
Sherlock sbuffò e al contempo, senza rendersene conto, sorrise. Scrisse un messaggio a Mycroft, chiedendogli di trovare Irene Adler ad ogni costo, e poi chiamò Lestrade per un aggiornamento.
«Cos'hai scoperto sulla cameriera?».
«È come ha detto quella ragazzina. Georgiana Horia, rumena, si è trasferita a Londra cinque anni fa e ha sempre lavorato come cameriera d'albergo. Ha iniziato a lavorare al Savoy sei mesi fa».
«Vai alla parte interessante, per favore».
«Beh, secondo la governante sabato scorso ha chiamato per avvisare che non stava troppo bene e che non sarebbe venuta al lavoro. È tornata questo venerdì - cinque giorni dopo la sua presunta morte - e alcune delle sue colleghe hanno detto di averla trovata strana, diversa. Più introversa, scostante... Pensavano fosse quel periodo del mese».
«Quando le donne non sanno che altro pensare danno sempre la colpa alle mestruazioni», commentò Sherlock, atono. «Ha mandato un certificato di malattia, per caso?».
«Sì, ma è stato falsificato da cima a fondo».
«Ovviamente».
«Come lo sapevi?».
«È una professionista che non lascia nulla al caso».
«Chi?».
«La donna che l'ha rapita, uccisa e preso il suo posto».
«Come fai a sapere che ad ucciderla è stata la stessa donna che ha preso il suo posto? Magari sono più persone».
«Uhm, se lo dici tu».
«Sai, mi piaceva di più lo Sherlock che adorava intrattenerci con i suoi ragionamenti prolissi».
«Non c'è tempo. Geneviève ha accennato ad una fish».
«Oh, sì. L'ha trovata Molly durante l'autopsia. A proposito, sa che ti ho aiutato con la microcamera piazzata su Anderson e...».
«Non è il momento, Greg».
Lestrade sospirò, abbattuto. «Non abbiamo molto... Ascolta, devo andare. Ti mando tutto per e-mail, okay?».
«Preferirei di persona».
«Giusto. Va bene, a più tardi».
«Ah, Greg! Chi si sta occupando del caso dell'incidente d'auto?».
«Dimmock. Come mai ti interessa quel caso?».
«Te lo farò sapere».

***

«Sai, per caso ho sentito che cosa vi siete detti tu e Sherlock».
Molly sollevò le sopracciglia. «Per caso, eh?».
«Non l'ho mica fatto apposta!».
Geneviève si fermò al fianco dell'anatomopatologa mentre questa cercava nella borsa le chiavi per aprire la porta di casa.
«Penso che tu abbia fatto bene a dirgli quelle cose».
«Lo spero davvero», sospirò Molly. «Che cosa vorresti per cena?».
La ragazzina si strinse nelle spalle, un dito sulle labbra, ma alla fine rispose con un semplice: «Non saprei».
Finalmente Molly trovò le chiavi e le infilò nella toppa, ma venne distratta dal giovane uomo che uscì dall'appartamento accanto: indossava dei jeans neri e tagliuzzati sulle ginocchia e una maglietta dello stesso colore con un grande scorpione bianco stampato sul fianco; i capelli erano neri, legati in un codino alto, e aveva dei sorridenti occhi color cioccolato; portava un cerchietto al naso e sul lato sinistro del viso aveva diverse escoriazioni, alcune coperte dai cerotti.
«Oh, buonasera», le salutò per primo. «Sono Thomas, il nipote della signora Lee, piacere di conoscervi. Mia nonna è partita per una vacanza e io starò qui per un po'».
Geneviève guardò Molly, la quale distolse lo sguardo ed esclamò: «Non sapevo che la signora Lee avesse un nipote. Eppure la conosco da dieci anni».
«Beh, io ho vissuto all'estero per parecchio tempo e non ci sentivamo spesso, perciò...».
Molly scoppiò a ridere, sotto lo sguardo sbigottito della ragazzina, ed incrociando di nuovo gli occhi del ragazzo disse: «Falla finita, Arsène».
Geneviève, a bocca aperta, avanzò di un passo verso di lui. «Papà?».
L'uomo cercò di trattenersi, ma alla fine si liberò con una risata genuina. «Mon Dieu! Hai davvero un occhio incredibile, Molly!».
«Che cosa ci fai qui? E che ne è stato veramente della signora Lee? Giuro che se le hai fatto del male...».
«Ma no, ma no! Non mentivo quando ho detto che è partita per una vacanza. Le ho mostrato la mia villa in Costa Azzurra e le ho chiesto se voleva fare a cambio per qualche settimana. Non è il periodo migliore, ma tant'è... Non mi credi? Giuro sulla mia collezione di Picasso».
Molly scosse il capo e guardò Geneviève saltare al collo del padre, il quale esibì una smorfia di dolore. Nemmeno quella sfuggì alla donna.
«Papà, ho avuto tanta paura! Quella cameriera... E poi Sherlock ha detto che ti stavi leccando le ferite!».
Arsène sorrise e prese la testa della figlia tra le mani per accostare la fronte alla sua.
«Guardami negli occhi», le disse, nonostante le fosse impossibile guardare altrove. «Ci vuole ben altro per fermarmi».
Geneviève ricambiò il sorriso, anche se debolmente. «Però...».
«Scusate, mi sono persa qualcosa?», domandò Molly, ancora ferma davanti alla porta del proprio appartamento.
Il Ladro Gentiluomo sospirò e circondando le spalle della figlia con un braccio la guardò negli occhi, più serio che mai. «Non è una questione di cui si può parlare sul pianerottolo».
Vedendola indecisa, Geneviève si avvicinò di un passo a Molly per pregarla: «Può entrare?».
L'anatomopatologa si portò le mani sui fianchi e sussurrò a sua volta: «Ti ricordi cos'ha detto Sherlock? Lui e tuo padre hanno fatto un patto e se lo facessi entrare...».
«Solo cinque minuti!», la interruppe, intrecciando le dita davanti al volto e sfarfallando le ciglia. «Per favore».
Molly alzò gli occhi su quelli di Arsène e trovando la stessa espressione supplichevole sbuffò, sbattendosi le mani sulle cosce.
«Va bene! Non farò la spia, ma se Sherlock dovesse scoprirlo non mentirò».
Mentre Geneviève saltellava, euforica, il Ladro Gentiluomo le rivolse un sorriso carico di gratitudine e quando fu trascinato all'interno dell'appartamento si piegò al suo orecchio per sussurrarle un «Merci beaucoup».
Ovviamente i "cinque minuti" si trasformarono in una pizza e poi in un film alla TV, di cui Geneviève guardò solo i primi venti minuti.
«Doveva essere proprio stremata per addormentarsi in questo modo», sussurrò Arsène, guardando Molly da sopra la testa della figlia, abbadonata sulla sua spalla.
«È stata una giornata piuttosto intensa», commentò l'anatomopatologa, alzandosi per recuperare una coperta ed aiutare il ladro a spostarsi senza svegliarla. Insieme la stesero sul divano e quasi immediatamente Toby si acciambellò al suo fianco, appisolandosi.
L'uno accanto all'altra guardarono la scena inteneriti fino a quando non si resero conto che sembravano una coppia di genitori. Allora, imbarazzati, si allontanarono e fu Arsène il primo a parlare.
«Credo che per me sia giunto il momento di togliere il disturbo. Ho approfittato fin troppo della tua ospitalità».
Molly, con le braccia strette al petto, lo guardò dirigersi verso la porta. La cosa migliore era tenere le distanze, però...
«Arsène, aspetta».
Il ladro si voltò, sorpreso, e attese in silenzio.
Molly non sapeva davvero da dove cominciare: aveva così tante cose da chiedergli! Si disse che magari sarebbe stato meglio iniziare con qualcosa di semplice, qualcosa con cui poteva avvantaggiarsi.
Raccogliendo il coraggio, la scienziata lo raggiunse a passi decisi e senza dargli il tempo di capire le sue intenzioni gli tirò su la maglietta, scoprendo così i giri di garza sporchi di sangue all'altezza del fianco sinistro.
«Sei davvero perspicace, Molly Hooper», esclamò il ladro, ammirato.
«Nessuno poteva uscire illeso da un incidente come quello, dico bene? Inoltre, quando Geneviève ti ha abbracciato, ho notato che ti sei irrigidito. Ho semplicemente unito i puntini».
«È comunque notevole».
Molly ignorò l'ennesimo complimento, abbassando il capo perché non si accorgesse del suo rossore.
«Avanti, quelle garze devono essere cambiate», lo esortò a seguirla in bagno.
Arsène si sedette sulla tavoletta del water e Molly gli srotolò la benda per osservare i punti che gli erano stati applicati sulla ferita irregolare. Intorno ad essa ce n'erano altre, più piccole, ed era evidente che fossero state causate da pezzi di vetro.
«Devi aver sofferto molto», esclamò per rompere il ghiaccio.
«Sono stato peggio, credimi».
«Chi ti ha ricucito?».
Arsène si limitò a sorridere, con un'espressione che diceva chiaramente: «Secondo te?». Molly gli diede le spalle per recuperare dalla cassetta del pronto soccorso del disinfettante e delle garze pulite.
«John», dedusse. «Ha fatto un bel lavoro. La cicatrice si vedrà appena».
Il ladro annuì, rimirando per la prima volta l'operato del dottor Watson. «Lo penso anche io. Sai, avevo intenzione di venire da te, però temevo che Geneviève si sarebbe spaventata. E poi eri troppo lontana, non ero sicuro di farcela».
Molly tornò a guardarlo in faccia e con espressione divertita chiese: «Quindi il fatto che di solito io abbia a che fare con i cadaveri non c'entra».
«Certo che no».
Risero insieme e la donna ne approfittò per passargli del cotone imbevuto di disinfettante sulla ferita. Arsène gemette ed irrigidì i muscoli, rendendo ancora più evidenti i suoi addominali scolpiti, e Molly dovette usare tutto il proprio autocontrollo per tenere gli occhi fissi sui punti.
«Ascolta, Molly», esordì ad un tratto il Ladro Gentiluomo.
«Uhm?».
«Non credevo mi avresti riconosciuto così in fretta».
L'anatomopatologa alzò gli occhi nei suoi e si chiese dove volesse andare a parare. Non fu così difficile indovinarlo.
«Non vuoi che Sherlock sappia che sarai il mio vicino per le prossime due settimane».
«Non lo sa nessuno e se mantenessi il segreto te ne sarei grato».
«Non si tratta del vostro patto, vero? C'è qualcosa di più».
Arsène aprì la bocca, ma il disinfettante gli provocò un'altra scarica di dolore che gli fece stringere i denti. Quando il bruciore passò, rispose: «C'è la possibilità che le persone che mi hanno attaccato la scorsa notte provino ad avvicinarsi a Geneviève e non voglio perderla di vista».
«Capisco».
«Mi dispiace averti trascinata in tutto questo...».
«Posso farti una domanda?».
Il Ladro Gentiluomo corrugò la fronte e la seguì con lo sguardo mentre si alzava e si passava il rotolo di garza da una mano all'altra. «Certo».
«Tu sai chi sono le persone da cui Sherlock mi sta proteggendo?».
Arsène iniziò a scuotere il capo, con un sorriso dispiaciuto ad increspargli le labbra, ma ancor prima che rispondesse Molly ripeté le parole che lui stesso le aveva rivolto la sera prima: «Gradirei che non mi mentissi».
«Anche se te lo dicessi... cosa cambierebbe?», le domandò il ladro.
«Lo voglio sapere».
«Perché?», insistette lui.
«Tu non vuoi sapere l'identità di chi ti vuole fare del male?».
Arsène si alzò in piedi con un'agilità che Molly non si aspettava e per questo si ritrovò con la schiena premuta contro il bordo del lavandino, il suo corpo a pochi centimetri dal proprio.
«Certo, ma io sono un ladro! So che se qualcuno vuole rintracciarmi è perché ho fatto qualcosa che non dovevo. E, cosa più importante, io ho le capacità e le risorse per contrattaccare. Tu, invece... sei solo una pedina che i cattivi usano per arrivare ai buoni». Le posò le mani sulle spalle e concluse, con voce soffice: «Ce ne occuperemo io e Sherlock, è meglio così».
Molly chinò il capo e Arsène la costrinse a guardarlo negli occhi posando due dita sotto il suo mento. Solo allora si rese conto di quanto fossero vicini: i loro respiri si mescolavano e lei poteva vedere chiaramente i contorni delle lenti a contatto colorate.
«Mi prometti che starai buona?».
Non poté far altro che annuire. Arsène, soddisfatto, si allontanò e si mise in posizione: alzò le braccia e le mostrò il fianco perché potesse fasciarlo meglio.
Molly riprese il proprio lavoro senza più aprire bocca e una volta finito si lavò le mani e sistemò la cassetta del pronto soccorso mentre Arsène si infilava la maglietta. Quindi lo accompagnò alla porta, non prima di averlo guardato chinarsi su Geneviève per lasciarle un delicato bacio tra i capelli.
Sul pianerottolo, Arsène sussurrò: «Mi dispiace se sono sembrato duro, ma...».
«No, hai fatto bene», lo interruppe Molly, stringendosi nelle spalle. Sorridendo amaramente, aggiunse: «Cosa potrebbe mai fare una come me?».
«Non è quello che volevo...».
«Ma è quello che è. Va bene così, Arsène».
L'uomo si guardò intorno, circospetto. «Io sono Thomas, ricordati».
Molly ridacchiò. «Certo, Thomas. È stato un piacere conoscerti».
«Anche per me», rispose facendo il proprio gesto caratteristico: togliersi un cilindro invisibile dalla testa. «Buonanotte, allora».
«Buonanotte», ricambiò la scienziata.
«Ehi, niente rif di chitarra dopo le dieci!», lo minacciò poi, puntandogli il dito contro quando entrambi avevano ormai un piede oltre la porta.
«Ah, l'idea di impersonare un rockettaro mi si sta ritorcendo contro: questo finto piercing al naso è insopportabile!», sussurrò, poi le fece l'occhiolino e si chiuse la porta alle spalle.
Molly fece lo stesso e sospirò, chiedendosi come diavolo fosse finita in quella situazione. Il sorriso però le svanì presto ripensando alle parole di Arsène.
Stare buona? Era tutta la vita che stava buona e non ne poteva più.
Recuperò il pc portatile, lasciato sul tavolino accanto al divano, e seduta su uno sgabello dell'isola della cucina aprì il portale di ricerca.
Non voleva più essere una pedina. Anche lei voleva le capacità per contrattaccare e le avrebbe ottenute, ad ogni costo.

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Capitolo 19
*** Role-playing game ***


Sorpresa! :)
Ho anticipato l'aggiornamento perché domani è l'ultimo giorno dell'anno e lo trascorrerrò a cucinare come Molly e Gen, pur sapendo che non avrò ospiti come Arsène (purtroppo >////<).
Anyway, scommetto che siete curiosi di scoprire come se la passa Arsène nel vestire i panni di Thomas. E, parliamone, Molly nell'averlo come vicino di casa? E Sherlock, il quale non sa più che pesci pigliare per via del silenzio del ladro e di Irene Adler, tanto da chiedere aiuto a suo fratello Mycroft? Beh, non dico altro.
Questo capitolo è uno dei miei preferiti, perciò spero piaccia anche a voi. Fatemelo sapere eventualmente, io ne sarei stra-felice *^*
Grazie a tutti e ci vediamo il prossimo anno! Tanti auguri e buona lettura :)

Vostra,

_Pulse_

N.B. Allarme rosso! ROSSO! In questo capitolo ci sono scene esplicite di sesso. Io vi ho avvisati u_u


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19. Role-playing game


«Mi stai davvero chiedendo di spulciare tra tutti i casi in cui è spuntato il nome di Lupin per darti una lista di sospettati?».
«So che si tratta di un lavoro gravoso, ma lei ne sa più di tutti».
«Vorrai dire che io sono l'unico pazzo che potrebbe fare gratuitamente un lavoro del genere».
Sherlock, dall'altra parte dello schermo, sorrise a trentadue denti. «Sapevo di poter contare su di lei, Ganimard».
L'ispettore intrecciò le braccia al petto e il suo volto burbero per natura si irrigidì ulteriormente.
«Ripetimi per quale motivo dovrei farlo. Qualcuno ha provato a rapirlo e poi ad ucciderlo, e allora? Sono ancora del parere che senza di lui si starebbe meglio».
«Non lo pensa sul serio», replicò, gli occhi stretti a due fessure. «Arsène non è malvagio, lui... Deve prendere ciò che fa come una malattia. Una forma di cleptomania, se vogliamo; unita alla sindrome del cavaliere bianco. Ma può ancora essere curato».
«Se ne sei convinto tu...».
«Ne sono convinto».
Ganimard colse la determinazione nello sguardo del detective e sospirò, prendendo tra le mani il block-notes su cui aveva preso appunti la prima volta che Sherlock gli aveva spiegato la situazione. D'altronde aveva sempre saputo che avrebbe ceduto e l'avrebbe aiutato; non solo perché glielo doveva, ma perché si sarebbe incavolato parecchio se qualcuno l'avesse preceduto nel togliere Arsène dalla piazza - in un modo o nell'altro.

Da quella chiamata su Skype era trascorsa una settimana e Ganimard non aveva ancora trovato nessun sospettato che lo convincesse sul serio.
Arsène aveva organizzato così tanti colpi e messo il naso nelle faccende di così tante persone che trovare i mandanti dell'agguato era come trovare un ago in un pagliaio, se non addirittura più difficile, dato che le informazioni che possedevano erano alquanto incomplete.
Sapevano solo che erano persone disposte a tutto per raggiungere il loro scopo, anche ad uccidere, e che avevano fondi consistenti: secondo le analisi della polizia scientifica infatti, l'auto su cui era stato fatto salire Arsène possedeva un impianto di aerazione modificato perché vi uscisse gas stordente. E quando il tentativo di renderlo inerme era andato a monte l'uomo alla guida non ci aveva pensato su due volte prima di correre incontro alla propria morte. Il che forniva un terzo indizio: erano persone che incutevano un certo timore, tanto da far preferire la morte piuttosto che il fallimento.
Uno dei dogmi di Arsène era quello di derubare solo i più ricchi, specialmente se erano coinvolti in attività illegali, perciò era ovvio che la lista fosse chilometrica.
Quando, per restringere il campo, Ganimard aveva chiesto a Sherlock se avesse idea del motivo per cui i persecutori del ladro avessero deciso di vendicarsi proprio durante la sua permanenza a Londra, il detective aveva lasciato intendere che temeva una soffiata. Era stato allora che si era reso conto che non gli era stato raccontato ancora tutto.
Sherlock aveva esitato parecchio, ma alla fine, minacciandolo che solo conoscendo tutta la verità l'avrebbe aiutato, era riuscito a fargli sputare il rospo persino su Irene Adler, la donna con cui aveva avuto una relazione e che per gelosia - o così ipotizzavano - aveva contattato Arsène perché scoprisse chi fosse il nuovo amore del consulente investigativo.
«Hai un nuovo amore?», gli aveva domandato l'ispettore, scioccato.
Sherlock aveva scelto di rimanere in silenzio, fornendogli comunque la risposta che cercava.
Secondo il detective il sentimento di vendetta era stato aizzato proprio da Irene, la quale doveva essersi rivolta a quelle persone conoscendo il loro odio per Arsène. Forse pensava che insieme a loro sarebbe riuscita a portare a termine il compito che aveva affidato al ladro - ed evitare persino di pagarlo - ma qualcosa doveva essere andato storto: Irene Adler era sparita all'improvviso ed era tutt'ora introvabile, persino per i Servizi Segreti guidati da Mycroft Holmes.
Impossibile sapere in che condizioni riversasse, ma di una cosa Sherlock era certo: le avevano sottratto tutte le informazioni possibili e poi si erano messi alla ricerca di Arsène.
Poi c'era il caso della cameriera assassinata. Lo stesso caso che aveva fornito loro degli indizi molto importanti per accorciare la famosa lista dei sospettati e al contempo aveva lasciato più perplessità.
Potevano aver scoperto in quale albergo alloggiasse il Ladro Gentiluomo tenendo sotto stretta sorveglianza il 221B, dove si era presentato in più di un'occasione, ma perché elaborare un piano per infiltrarsi? Forse volevano accertarsi al cento percento che avessero preso di mira l'uomo giusto. Sinceramente Ganimard non vedeva altre ragioni per cui avrebbero dovuto rischiare tanto uccidendo una ragazza. E Sherlock non l'aveva aiutato in quel senso; anzi, ancora una volta gli era sembrato restio nel divulgare informazioni. Gli aveva giurato però di avergli detto tutto ciò che era inerente al caso, nulla di più e nulla di meno.
Dopodiché, pur di cambiare argomento, gli aveva mostrato la fish da casinò che era stata trovata all'interno del corpo della vittima. L'assassino le aveva dato una forte dose di morfina e aveva simulato un suicidio, facendo in modo che la ragazza si portasse lei stessa l'arma alla tempia, poi aveva praticato un'incisione sul suo ventre e vi aveva infilato la fish, richiudendo la ferita con ago e filo.
Secondo l'analisi di Sherlock questo modus operandi delineava il profilo di una killer donna per almeno due ragioni: il fatto che avesse somministrato della morfina, come se avesse mostrato compassione e avesse voluto far soffrire il meno possibile la cameriera di cui poi aveva preso il posto; e la particolarità della sutura.
«Che intendi con particolarità?», gli aveva chiesto Justin, confuso.
Sherlock aveva preso una foto dal fascicolo del caso e l'aveva piazzata davanti alla videocamera del pc, mostrandogli com'era la ferita prima che Molly facesse saltare i punti.
«Che c'è di strano?».
«È evidente che la nostra assassina non ha una preparazione medica, ma la cucitura è fatta con cura. Quanti uomini conosce che sanno cucire?».
E così, per una questione di probabilità, avevano deciso che l'assassino era una donna. Sempre per ipotesi avevano anche stabilito che si trattava della stessa ragazza che aveva preso il posto della vittima al Savoy Hotel e che, per non destare troppi sospetti, doveva somigliarle almeno un po'.
«Aspetta, la vittima ha venticinque anni, giusto? Questo vuol dire che dovrei cercare dei casi in cui sono coinvolte ragazze giovani...».
«Delle bambine», lo aveva corretto il detective.
«Bambine?».
«Lei non è la mente dell'operazione. Sono sicuro che c'è qualcun'altro che tira i fili, qualcuno di più anziano. Forse un parente».
Ganimard si era passato una mano sulla fronte dolente. «Dovrei chiederti cosa te lo fa pensare?».
«La fish. È chiaramente un messaggio, non trova?».
La sua espressione indifferente, come se avesse appena sentito l'ultima strampalata teoria sulla fine del mondo, gli aveva fatto accartocciare il viso in un'espressione risentita.
«A volte mi stupisce, ispettore Ganimard. Perché l'assassino avrebbe dovuto perdere tempo a nascondere una comune fish nel corpo della vittima?».
«Alcuni serial killer lasciano la loro firma».
«Ma questo qui non è un serial killer! C'è stato un solo corpo, l'unico necessario prima della trappola tesa a Lupin. No, la fish è stata messa lì perché ha un significato».
«Quindi, dimmi se ho capito bene», aveva esclamato Ganimard, grattandosi dietro l'orecchio con la matita. «Stai per caso suggerendo che questa ragazza non voleva veramente uccidere, che è stata costretta, e che ha deciso di lasciarci un indizio?».
«È quello che credo».

Una bambina il cui cammino ha incrociato quello di Lupin e una fish da casinò, pensò Ganimard, togliendosi dalla bocca la sigaretta ormai consumata fino al filtro, gli occhi fissi sulla lavagna su cui aveva scarabocchiato tutti i fatti, le prove e le ipotesi, collegati da frecce di diversi colori, punti esclamativi e di domanda.
Cercò di spegnere il mozzicone nel posacenere, ma era così pieno che le sue dita affondarono tra la cenere e altri filtri accartocciati. Solo allora distolse lo sguardo e si alzò per andare ad aprire la finestra e far cambiare aria all'ufficio.
Guardò giù in strada, col freddo che gli pungeva gli occhi arrossati e la pelle del viso su cui si era lasciato crescere un velo di barba, e l'atmosfera natalizia lo colpì come una pallottola nel petto: le luminarie abbellivano le strade, il profumo caldo dei dolci delle pasticcerie aleggiava nell'aria e la gente camminava lungo i marciapiedi con quella frenesia tipica di chi deve trovare il regalo perfetto. Anche lui avrebbe dovuto essere là fuori, a cercare dei giochi per Emélie e Théa e un gioiello per Celestine, ma la realtà era che quello sarebbe stato il primo Natale che avrebbe trascorso lontano dalle sue donne e il solo pensiero lo stava uccidendo. Tanto valeva concentrarsi sul lavoro.
Qualcuno bussò freneticamente alla porta e Justin si voltò appena in tempo per vedere Folefant entrare trafelato nell'ufficio, chiudendosi l'uscio alle spalle ed appoggiandocisi col petto che si alzava ed abbassava irregolarmente.
«Ti stai allenando per la maratona di New York?», gli domandò Ganimard, allontanandosi dalla finestra per tornare dietro la scrivania. «Nel 2010 Lupin ha partecipato, lo sapevi? Prima ha rubato lo zaffiro a sei stelle più grosso al mondo - il Black Star of Queensland - alla sua proprietaria, giunta a New York dalla Svizzera per affari, poi per sfuggire alla polizia si è spogliato e si è mischiato tra i corridori. Credo sia arrivato anche tra i primi cinquanta atleti».
Svuotò il posacene nel cestino, anch'esso sull'orlo di straripare a causa delle scatole di pizza e di vario cibo d'asporto, poi estrasse una nuova sigaretta dal pacchetto per accendersela.
«L'Ispettore Capo Dudouis sta venendo qui», esalò Folefant a causa del fiato corto.
Justin posò l'accendino sul tavolo e si tolse la sigaretta spenta dalle labbra per dire: «E tu sei corso fino a qui per avvisarmi del suo arrivo?».
«Beh... sì. L'indagine che sta conducendo, dopotutto, non è stata autorizzata. Qualcuno dell'ufficio prove deve aver fatto la spia, altrimenti non mi spiego...».
Ganimard, che nel frattempo lo aveva raggiunto, gli posò una mano sulla spalla per scuoterlo e sorridergli teneramente.
«Ti ringrazio», lo interruppe. «Ma non è mai stata mia intenzione tenere nascosta quest'indagine a Dudouis. L'unico motivo per cui non l'ho informato è perché non volevo rovinargli le vacanze».
Tornò dietro la scrivania e si accomodò sulla propria poltrona, riafferrò l'accendino e fece un lungo tiro alla sigaretta prima di soffiare il fumo verso il soffitto ed esclamare tranquillamente: «Lascia pure che venga».
Quindi guardò negli occhi il ragazzo e rivolgendogli un altro sorriso aggiunse: «Non importa ciò che potrebbe accadere a me, ma sarebbe meglio che tu non ti faccia trovare qui».
«Sta scherzando, vero?». Folefant lo guardò ad occhi sgranati. «Nell'ultima settimana l'ho aiutata a controllare centinaia di vecchi casi su Lupin, se Dudouis intende presentarle un richiamo ufficiale allora lo merito anche io!».
«Non essere sciocco, Folefant».
«Dico sul serio!».
«Anche io!», gridò di rimando l'ispettore, alzandosi per sbattere una mano sulla scrivania sommersa di carte, alcune delle quali caddero sul pavimento. «Non permetterò che la tua carriera prenda la stessa piega della mia a causa di Lupin. Te l'ho già detto non so quante volte, ma per qualche ragione non mi stai a sentire!».
Il giovane poliziotto dai capelli biondi strinse i pugni lungo i fianchi e nonostante fremesse di rabbia non aprì bocca.
Ganimard sospirò e si lasciò ricadere sulla poltrona. Gli fece segno di uscire e con voce decisamente più pacata e stanca disse: «Te lo chiedo per favore, Marcel».
Folefant, essendo quella la prima volta in assoluto che si sentiva chiamare per nome, lo fissò scioccato per qualche secondo. Poi cedette alla richiesta dell'uomo che stimava profondamente, lo stesso uomo per cui aveva deciso di entrare nelle forze di polizia, ed aprì la porta per lasciare l'ufficio. Peccato che si ritrovò di fronte a Dudouis in persona, con indosso ancora cappotto e cappello.
«I-Ispettore Capo... buon pomeriggio», lo salutò irrigidendo la schiena.
«Folefant», ricambiò lugubre, riservandogli un'occhiata tagliente. «Che cosa ci fai tu qui? Non hai del lavoro da sbrigare?».
«Se ne stava giusto andando», intervenne Ganimard, comparendo al suo fianco e dandogli una pacca sulla schiena.
L'agente annuì e salutò entrambi chinando il capo in segno di rispetto, poi si avviò lungo il corridoio. Justin allora concentrò tutta la propria attenzione sul proprio capo ed abbozzò persino un sorriso, appoggiandosi allo stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate al petto.
«Dev'essere successo qualcosa di davvero grave se hai preferito venire qui piuttosto che rimanere a casa con la famiglia. Come stanno i ragazzi?».
«Non tirare troppo la corda, Justin. Anzi, mi stupisco che non si sia già spezzata».
Dudouis entrò nell'ufficio e rimase paralizzato davanti alla quantità di scatoloni e fascicoli che l'avevano trasformato in un deposito interamente dedicato all'intensa attività del Ladro Gentiluomo.
Ganimard chiuse la porta e con la sigaretta appesa alle labbra si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, osservando tranquillo l'Ispettore Capo mentre si portava il cappello al petto, mostrando la vistosa piazza tra i corti capelli bianchi, e faceva un giro su se stesso. Quindi incrociò di nuovo il suo sguardo con l'espressione più adirata che gli avesse mai visto in faccia.
«Sei proprio un testardo figlio di puttana, Ganimard».
Il sorriso di Justin si ampliò e le sue sopracciglia di inarcarono. Si tolse la sigaretta dalla bocca ed esclamò: «Wow. Come mai oggi sei di così pessimo umore?».
«Smettila, va bene? E dammi un buon motivo per non sospenderti immediatamente».
«Sospendermi?», ripeté, divertendosi come non faceva da tempo. «E per quale motivo dovresti farlo? Perché faccio il mio lavoro cercando di arrestare Lupin?».
Dudouis strinse i pugni lungo i fianchi e il suo collo si imporporò, rendendo ancora più evidenti le vene gonfie. Prima di rispondere si passò nervosamente pollice e indice sui baffi bianchi e si diede un'altra occhiata intorno, concentrandosi in particolare sulla lavagna e sulla scrivania, su cui alla fine lasciò cadere il cappello a tesa stretta.
«Quante volte ti ho detto che sei uno tra i migliori ispettori francesi, se non il migliore in assoluto?», gli domandò, mostrandosi fin troppo docile.
«Non tengo il conto», replicò Ganimard.
«Perché tu non credi sia la verità». Si avvicinò di un passo e gli puntò un dito sul petto. «E il modo in cui tu sprechi il tuo tempo, per non parlare delle risorse della polizia, dietro alla tua ossessione per Lupin... mi fa imbestialire! Lo sai che, se avessi lasciato perdere la prima volta che te lo dissi, ormai quindici anni fa, adesso ci saresti tu al mio posto, come Ispettore Capo? Per non parlare di come sarebbe oggi il rapporto con tua moglie e le tue figlie...».
Ganimard perse le staffe e dopo aver gettato la sigaretta sul pavimento afferrò Dudouis per i baveri del cappotto, avvicinandogli il viso al proprio in modo che i colori delle loro iridi si fondessero.
«Credi che non lo sappia?», sibilò a denti stretti, il respiro del naso affannoso. «Tu non hai idea di quanto Lupin mi abbia rovinato la vita. Puoi immaginarlo, ma non non lo saprai mai. Ed è proprio per questo che non posso fermarmi. Capisci? Se lo facessi... tutti i miei sacrifici - una carriera brillante, l'amore di mia moglie, le feste e i pomeriggi al parco con le mie bambine - sarebbero stati vani».
L'Ispettore Capo rimase in silenzio, a guardarlo negli occhi, fino a quando Ganimard non decise di lasciarlo e di dargli le spalle.
«Mi dispiace, non avrei dovuto metterti le mani addosso», mormorò ad un tratto, gli occhi fissi sui propri scarabocchi sulla lavagna.
Dudouis si schiarì la gola e lisciandosi il cappotto sul petto esclamò: «Anche io sono andato troppo oltre. Ascolta, Justin...».
«Non so chi ti abbia avvisato delle mie indagini - non voglio nemmeno saperlo, visto che tutti qui dentro hanno almeno un motivo per odiarmi, - ma voglio assicurarti che ho risolto tutti i casi che sono passati sulla mia scrivania questa settimana. Due rapine, un omicidio e un furto d'identità. Casi semplici, se vuoi il mio parere».
Ganimard non poté vederlo, ma intuì che il suo capo stava sorridendo quando gli rispose: «Sei abituato a batterti contro il migliore, dopotutto. Hai trovato ciò che cerchi?».
«Non ancora. Ci riuscirò, prima o poi».
«Buona fortuna, allora».
L'ispettore guardò con la coda dell'occhio Dudouis che si voltava verso la scrivania per recuperare il cappello e portarselo di nuovo al petto. Quindi si scambiarono un lieve sorriso, carico di imbarazzo, e una volta sulla porta il più anziano aggiunse: «Buon Natale, Justin».
«Anche a te», ricambiò Ganimard, salutandolo con un cenno del capo.
Rimasto solo nel proprio ufficio, l'ispettore si passò una mano dietro il collo e sospirò pesantemente. Poi si chinò a prendere la sigaretta fumata a metà che aveva gettato a terra e la soppesò per qualche istante prima di scrollare le spalle e riportarsi il filtro tra le labbra.
Tornò alla scrivania per recuperare l'accendino e fu allora che notò qualcosa di diverso nella disposizione dei fascicoli e degli appunti, ma decise di non darci troppo peso: la sua fiducia nel corpo di polizia era già ridotta al minimo, se avesse iniziato a sospettare anche di Dudouis...
Qualcuno bussò alla porta, interrompendo il flusso di quegli inquietanti pensieri, e diede il permesso di entrare. Ovviamente si trattava di Folefant.
«È andata tanto male?», gli domandò con aria da cane bastonato, come se fosse stato lui a fronteggiare Dudouis.
Ganimard si strinse nelle spalle. «Come al solito», esalò insieme al fumo della sigaretta.
Folefant sembrò rincuorato e con un sorriso fanciullesco tornò a sedersi su una pila di scatole nei pressi del davanzale della finestra per riprendere da dove si era interrotto, prima della pausa pranzo. A dire il vero era stato Ganimard a buttarlo fuori dall'ufficio, dicendogli di andare in caffetteria; se fosse stato per Folefant avrebbe preso un panino e avrebbe continuato a lavorare mangiando. Stava prendendo le sue stesse brutte abitudini e l'uomo ne era sempre più preoccupato, proprio come lo sarebbe stato un padre per il proprio figlio.
«C'è qualcosa che non va?», gli domandò il ragazzo, notando il modo in cui lo stava fissando.
L'ispettore abbozzò un sorriso e scosse il capo, chinandosi a raccogliere i fogli caduti dalla scrivania. Dopodiché posò i piedi sull'angolo del tavolo ed usò le sue stesse gambe per appoggiarvi l'ennesimo fascicolo. Non riuscì però a scrollarsi di dosso la strana sensazione che aveva provato quando Dudouis aveva lasciato l'ufficio, un tarlo che gli impediva di concentrarsi appieno. La sua stessa visita era stata insolita, ora che ci pensava.
Lui e l'Ispettore Capo si conoscevano da vent'anni, precisamente da quando un appena trentenne e promettente Ganimard era stato promosso ispettore e trasferito nella sede parigina della Polizia Nazionale.
Avevano bevuto insieme, cenato insieme e con le rispettive mogli; Dudouis aveva persino partecipato ad entrambi i battesimi delle sue bambine. Insieme avevano iniziato a dare la caccia a Lupin e poi, dopo numerosi fallimenti e una pressione mediatica sempre maggiore, l'Ispettore Capo aveva riconosciuto la potenza e l'inafferabilità del Ladro Gentiluomo. Per Ganimard era stato un tradimento enorme, anche se col tempo aveva capito le sue ragioni. Ciò nonostante non aveva mai smesso di stimarlo, sia sul lavoro che nella vita privata, e lo stesso valeva per Dudouis, o almeno così credeva.
Decine di volte l'aveva difeso davanti alle telecamere e ai colleghi, l'aveva sempre lasciato lavorare come meglio credeva e quando il suo matrimonio si era sfasciato ed aveva iniziato a bere l'aveva aiutato in ogni modo possibile. Era uno dei pochi amici che aveva, se non l'unico, e la figura paterna che gli era venuta a mancare troppo presto. Per questo gli sembrava impossibile che Dudouis fosse in combutta con Lupin. Ma allora perché quella visita? Perché, durante il suo periodo di ferie, si era scomodato per ripetergli ciò che gli diceva tutte le volte che poteva e che sapeva non gli avrebbe comunque fatto cambiare idea? Qualcosa non tornava, glielo diceva l'istinto, e di solito il suo istinto non sbagliava.
«Lo sa, ispettore Ganimard... Ieri sera non riuscivo a prendere sonno», esordì Folefant, alzando gli occhi dal fascicolo.
Ganimard fu grato di quell'intervento e ricambiò il suo sguardo. «Benvenuto nel club».
Il ragazzo sorrise. «Ho ripensato agli elementi che le ha dato Sherlock Holmes, in particolare al fatto che l'assassina doveva essere una bambina all'epoca».
«Lui ne è convinto».
«Beh, se è così dubito che troveremo qualcosa in questi fascicoli».
L'ispettore, improvvisamente attento, si sedette composto e chiese: «Perché dici così?».
«So che è un'ipotesi azzardata, ma ascolti».
Folefant si alzò e mentre spiegava il proprio ragionamento iniziò a camminare avanti e indietro nel poco spazio che aveva a disposizione, gesticolando come se in quel modo potesse sfogare tutta la propria adrenalina.
«In queste scatole ci sono tutti i fascicoli dei casi che sono collegati certamente al Ladro Gentiluomo. Ora, Arsène Lupin, secondo le ultime stime, dovrebbe andare per la quarantina, giusto?».
«Sì, dovrebbe avere giusto qualche anno in più di Sherlock».
«Perfetto. Vuol dire che, all'epoca del colpo che ha coinvolto questa "bambina", doveva averne circa venti. È stato allora che ha iniziato a lasciare i suoi bigliettini, a fare carriera insomma...».
«Corretto. Vent'anni fa mi è stato affidato il primo caso in cui comparve il suo nome».
Folefant annuì e si avvicinò alla scrivania dell'ispettore per posarvi sopra entrambe le mani. Guardandolo negli occhi, coi propri brillanti di eccitazione, sussurrò: «Io avevo appena smesso di portare i pannolini allora, ma...».
«Questo mi fa sentire vecchio».
«... mi sono documentato parecchio e i colpi di allora erano audaci, dai piani elaborati, ricchi di azione e sentimento... Per il suo esordio sulla scena ha scelto gli obiettivi migliori. Voleva che la gente lo notasse, voleva la fama ancor prima della ricchezza e alla fine le ha ottenute entrambe».
Ganimard si alzò a sua volta, capendo dove volesse andare a parare il giovane.
«È possibile che non si sia parlato affatto di questo caso, o che comunque Lupin abbia agito in modo da non risultare coinvolto, per non farsi cattiva pubblicità. E questo potrebbe essere il movente delle persone che l'hanno preso di mira, anche a distanza di vent'anni».
«Sa come si dice... La vendetta è un piatto che va servito freddo».
Ganimard sorrise e spense la sigaretta nel posacene, poi diede un lieve schiaffetto sulla guancia di Folefant e guardandolo negli occhi esclamò: «Ottimo lavoro, figliolo».
Marcel rimase a bocca aperta per qualche istante, ma poi sorrise felice ed abbassò gli occhi lucidi di emozione. Ganimard stesso, rendendosi conto delle parole così paterne che gli erano uscite di bocca, chinò il capo e si allontanò, pensando alla prossima mossa da fare.
Grazie a quella nuova pista da seguire i sospetti su Dudouis passarono in secondo piano.
L'ispettore chiese all'agente di mettere da parte tutte le scatole che non riguardavano i primi anni di attività del ladro - ovvero la maggior parte - mentre lui telefonava a Sherlock per informarlo delle possibili novità.
Ganimard uscì in corridoio col cellulare all'orecchio, ricordandosi troppo tardi del costo esorbitante della chiamata, e quando il detective rispose non si perse in inutili convenevoli.
«Cercavamo nella direzione sbagliata, ragazzo. È come per il caso del diamante azzurro: se qualcosa è andato storto, tanto che quella bambina e chi con lei hanno covato rancore per vent'anni, allora Lupin avrà cercato di seppellire tutto».
Il silenzio di Sherlock era un segno inequivocabile: l'aveva stupito.
«Adesso vado, ti richiamo se trovo qualcosa».
Terminò la chiamata e rientrò in ufficio, scorgendo solo le gambe e le mani di Folefant - il resto del corpo era nascosto dalla pila di scatoloni che stava spostando. Lo raggiunse con poche rapide falcate e ne tolse due dalla torre pericolante, trovandosi di fronte ai suoi occhi cristallini.
«Che le ha detto Holmes?», gli domandò con un leggero fiatone.
Ganimard sorrise. «Si congratula con te. Dice che hai ottime capacità deduttive».
«Dice sul serio?».
L'ispettore annuì e fu un piacere per gli occhi guardare l'espressione felice e fiera di Folefant. Quel ragazzo aveva decisamente un futuro, ma era giusto permettergli di godersi il presente ogni tanto.

***

«Grazie e passi di nuovo a trovarci!», disse Arsène - o meglio, Thomas Lee - all'uomo che aveva appena comprato un volume proveniente dalla sezione dei libri rari.
Una donna sulla sessantina, con lunghissimi capelli bianchi raccolti in una treccia e occhiali da vista che prendevano il sopravvento su tutto il suo viso tempestato di efelidi, uscì dall'ufficio e sbalordita gli chiese: «Ne hai venduto un altro?».
Thomas annuì, sorridendo umilmente.
«Oh gioia, non so davvero che cosa abbia fatto per meritarmi un ragazzo come te!», esclamò la signora O'reilly col suo marcato accento irlandese, stringendolo in un abbraccio che per una persona anziana e minuta come lei era davvero di una forza inaspettata.
Tu non hai fatto proprio niente, pensò Arsène. Il motivo per cui si trovava a lavorare in quel negozio di libri antichi e rari, piccolo ma con dei pezzi davvero niente male, era uno e uno soltanto: era stato lui a volerlo. E, come sempre, era successo.
Certo, prima aveva dovuto aspettare l'arrivo del passaporto che autenticasse la sua nuova identità - speditogli alla sua casella postale londinese - e poi aveva dovuto dimostrarsi degno del lavoro.
L'idea di dover lavorare sul serio non lo faceva impazzire, però era una copertura perfetta: non solo avrebbe reso credibile la sua storia, ma dalla libreria, situata proprio davanti al condominio di Molly Hooper, poteva controllare chiunque transitasse nella zona senza destare sospetti, accertandosi così che sua figlia fosse al sicuro.
Aveva notato il cartello "Cercasi personale" già quando aveva fatto il suo primo sopralluogo (anche se all'epoca non aveva idea che Geneviève si sarebbe ritrovata a vivere sotto lo stesso tetto dell'anatomopatologa) e per fortuna non era ancora stato tolto quando aveva pensato di diventare Thomas Lee.

Dopo essersi specchiato davanti alla vetrina per controllare che i capelli neri e il farfallino rosso fossero in ordine era entrato nel negozio e al contrario di ciò che si aspettava aveva trovato un ambiente caldo ed accogliente e che gli aveva fatto tornare alla mente ricordi della sua adolescenza.
La libreria era composta da due locali delle stesse dimensioni - quattro contando i due soppalchi che erano stati costruiti apposta per sfruttare ogni spazio disponibile: l'ingresso, col bancone da una parte e un tavolo da consultazione dall'altro, e un salottino in cui era possibile sprofondare in una delle tre poltrone Chesterfield in pelle e leggere nel silenzio, avvolti dal profumo dei libri antichi e riscaldati dal tepore di una stufa in ghisa dell'Ottocento.
Ovunque il colore del legno era predominante e le luci delle lampade e del grande lampadario in ottone conferivano un'atmosfera d'altri tempi. I pavimenti erano ricoperti da vari tappeti persiani, dalle tonalità cangianti, e tutte le pareti erano nascoste da librerie stracolme che raggiungevano gli alti soffitti.
Entrando per candidarsi Arsène aveva involontariamente interrotto un affare che sembrava ben lontano dalla conclusione. Un uomo e una donna erano sul soppalco che dava sull'ingresso ed era stata la donna a sporgersi oltre la ringhiera e a sorridergli dicendo che l'avrebbe raggiunto subito.
Avendo ormai capito che era lei la proprietaria del negozio, la persona che doveva impressionare perché lo assumesse, si era messo a curiosare in giro mentre prestava orecchio alla conversazione sopra di lui.
L'uomo chiedeva insistentemente un ulteriore sconto, nonostante sembrasse che la venditrice gliene avesse concessi parecchi nel corso dei mesi e lui non si fosse mai deciso a comprare, tenendola in attesa. Ad Arsène era bastata un'occhiata per capire che quell'uomo era più che benestante e che l'unico motivo per cui voleva una diminuzione del prezzo era perché sapeva che prima o poi quella donna buona e amante dei libri avrebbe ceduto. Il Ladro Gentiluomo non poteva permettere che si approfittasse in quel modo di lei, perciò aveva deciso di intervenire. Inoltre, se la tecnica del concorrente avesse funzionato come aveva già appurato in più di un'occasione, sarebbe anche riuscito a tirare acqua al proprio mulino.
Così aveva attirato l'attenzione dei due e li aveva raggiunti salendo la stretta scala a chiocciola che portava al soppalco. Si era presentato e scusandosi per l'intromissione aveva chiesto di esaminare il volume, dimostrandosi meravigliato di fronte al perfetto stato di conservazione nonostante fosse la prima edizione ed avesse più di trecento anni.
Di fronte all'espressione innervosita dell'uomo si era tolto gli occhiali da lettura e aveva chiesto alla proprietaria a quanto lo vendesse. Sentito il prezzo, ribassato di almeno duecento sterline, Thomas Lee si era fatto una bella risata e ne aveva offerte mille.
«Mi scusi, ma questo è inaccettabile!», aveva esclamato l'uomo, il viso paonazzo. «Qui non stiamo facendo un'asta!».
«E che cosa ce lo impedisce?», aveva ribattuto Thomas, sorridendo pacato. «Io sono interessato a questo libro e se lei lo è altrettanto sono sicuro che lo otterrà chi lo desidera di più. D'altronde nessun prezzo è troppo alto per l'arte. Dico bene, signora?».
Alla strizzata d'occhio che aveva rivolto alla signora O'reilly l'uomo si era gonfiato ancor di più per la rabbia, ricordando un pesce palla, e ne era seguito uno scambio di offerte e controfferte che si era concluso quando Arsène aveva ritenuto che l'ultimo prezzo proposto dall'uomo fosse pari al valore attuale del libro, più un extra per il disturbo causato alla proprietaria del negozio.
Quando l'uomo se n'era andato col volume incartato e gelosamente stretto al petto, ignaro di essere stato raggirato dal solo ed unico Arsène Lupin, la signora O'reilly l'aveva guardato come un'apparizione divina. Immensamente grata gli aveva chiesto che cosa poteva fare per sdebitarsi e Thomas, senza peli sulla lingua, aveva risposto: «Mi assuma».
Solo allora la donna aveva realizzato che lui non era mai stato veramente interessato all'acquisto del libro e, ancora più conquistata dal suo talento, era andata a togliere il cartello dalla vetrina.
«Lo sai, sei qui da una settimana e sei già riuscito a vendere più di quanto io abbia venduto il mese scorso!», esclamò la signora O'reilly, entusiasta. «Per non parlare del tuo occhio negli acquisti!».
«Ah, a proposito».
Thomas si chinò sotto il bancone ed afferrò un voluminoso tomo dalla copertina in pelle, decorata con filamenti d'oro. Già da chiuso dava l'impressione di essere antichissimo e di inestimabile valore, ma quando lo aprì per mostrare alla donna le pagine ingiallite ma intatte, l'inchiostro delle lettere gotiche appena scolorito e le miniature dai colori ancora sgargianti fu quasi sul punto di farle venire un attacco di cuore.
«Christ on a bike!», esclamò col suo accento irlandese, facendo sorridere Thomas.
Il cellulare iniziò a vibrargli nella tasca posteriore dei jeans e le chiese se potesse fidarsi nel lasciarla sola col prezioso manoscritto e il suo shock. Tutto ciò che ottenne in risposta fu un mugugno e Arsène se lo fece bastare.
Attraversò il piccolo ufficio a cui si accedeva dal retro del bancone ed uscì, ritrovandosi in uno stretto vicolo.  
«Pronto?», rispose con cautela, non riconoscendo il numero sul display.
«Sono io».
Arsène riconobbe la voce e sorrise, decidendo di divertirsi un po'. «Io chi?».
«Non mi prendere per il culo, Lupin!».
«Che volgare! È di cattivo umore per caso?».
«Non sei il primo che me lo chiede».
«Beh, spero per il mio che abbia le informazioni che le ho chiesto».
«Sì, ce le ho. Ma con questo abbiamo chiuso, va bene? Justin è un amico, non voglio più...».
«Bla, bla, bla», lo interruppe Arsène, schifato. «Sono anni che ripete la stessa solfa. E sono anni che, ogni volta che chiamo, lei risponde. Perché non si decide una buona volta? Eppure le ho detto esattamente che cosa fare per liberarsi di me!».
«Sai che non posso farlo».
«Oh, no. Lei può, ma non vuole. Sia sincero, Ispettore Capo Dudouis».
Arsène sorrise e tirò fuori la sigaretta elettronica dalla tasca del grembiule bordeaux che indossava per proteggere i vestiti dalla polvere dei libri. Fece un tiro ed aspettò la risposta dell'uomo, che non arrivò.
Spazientito, fu lui a riprendere la parola: «Ecco perché non mi è mai piaciuto, Dudouis. Al contrario di Ganimard lei è un codardo, lo è sempre stato. Ha chiesto il mio aiuto quando ne aveva bisogno e in cambio ha accettato di essere i miei occhi e le mie orecchie nella polizia. Ovviamente si è accorto presto del suo errore e mi ha chiesto di porre fine alla nostra collaborazione. Ricorda cosa le risposi? Le dissi che avrei rinunciato ai suoi servigi se avesse annunciato alla stampa di aver fatto un patto con me. Allora ha fatto i suoi bei conticini e si è detto: "Ne vale davvero la pena? Rinunciare al posto di Ispettore Capo, alla stima dei miei amici e familiari... Cadere in disgrazia solo per andare a letto sereno?". Se siamo qui a parlarne dopo quindici anni, la risposta è chiarissima».
Il respiro affannoso di Dudouis infastidì Arsène ancora di più e con tono stizzito gli ordinò di aggiornarlo sulle indagini che Ganimard, corso in aiuto di Sherlock, stava conducendo sui suoi vecchi casi.
«Da quello che ho potuto vedere non ha le idee molto chiare. Però si stanno concentrando sui casi che hanno coinvolto bambine e casinò».
Arsène aveva voglia di prendere a calci qualcosa, ma si trattenne.
Niente, non gli veniva in mente niente! Per anni aveva ripetuto il mantra: "Il passato è morto per sempre; il passato non esiste", ma in quel momento, con la propria vita e quella di sua figlia in pericolo, avrebbe tanto desiderato ricordare e capire chi fosse il nemico da affrontare.
«Allora, ti serve altro?», domandò l'Ispettore Capo, innervosito dal suo silenzio.
«No. Le auguro un buon Natale, Dudouis».
Terminò la comunicazione senza aspettare di sentire la risposta dell'uomo e fece l'ultimo tiro alla sigaretta elettronica, giungendo alla triste conclusione che da solo non avrebbe fatto alcun progresso. Il suo primo pensiero fu per Grégorie, ma dovette scartarlo quasi subito: anche lui, proprio come Sherlock, aveva dedotto che l'assassina doveva essere appena una bambina quando le loro strade si erano incrociate per la prima volta, perciò l'amico, che conosceva da dieci anni e a cui non aveva mai parlato delle proprie avventure passate, non poteva essergli d'aiuto.
Aveva bisogno di qualcuno che aveva indagato nella sua vita a lungo, come Ganimard, e di cui poteva fidarsi ciecamente. Arsène aprì gli occhi e si colpì in fronte con una mano, dandosi dello stupido. Quindi si portò di nuovo il cellulare all'orecchio, picchiando a terra un piede nell'attesa.
«Avanti, rispondi», lo pregò a bassa voce e il ragazzo, come se avesse udito la sua richiesta, rispose.
«Pronto?».
«Maurice, sono io».
Il giornalista de L'Ècho de France sospirò di sollievo. «Allora stai bene! Grégorie mi ha confermato che non eri morto nell'incidente, ma non ha voluto dirmi nulla di più, quindi temevo...».
«Perdonami se non mi sono fatto sentire, sono stato molto impegnato».
«Ma certo, capisco».
«Hai da fare adesso?».
«Dimmi dove».
Arsène sorrise, dicendosi che aveva fatto davvero un colpaccio quando aveva scelto quel ragazzo come reporter ufficiale.
«Libreria O'reilly. Assicurati di non essere seguito».
«Va bene».
Arsène rientrò nel negozio e vide la proprietaria intenta ad infilarsi cappotto, sciarpa e cappello di lana.
«Sta uscendo?», le domandò, pensando che capitava proprio a fagiolo. Rimasto solo avrebbe potuto parlare con Maurice in tutta tranquillità.
La signora O'reilly incartò il tomo ed una volta infilato in una valigetta di cuoio annuì. «Ho bisogno di un secondo parere per la valutazione Ti affido la libreria. A dopo caro!».
Thomas la seguì fin sopra il marciapiede e la salutò quando salì sul taxi, poi tornò nel negozio e lasciò che la porta si chiudesse alle sue spalle scampanellando. Allora guardò il piccolo albero di Natale con cui avevano addobbato la vetrina e sorrise, ricordando la promessa che aveva fatto a sua figlia: quel week-end avrebbero portato la magia di quella festa anche nell'appartamento di Molly Hooper, la quale aveva tirato fuori gli scatoloni ma non aveva avuto ancora il tempo materiale per guardarci dentro.
Erano anni che non si preoccupava più del Natale: per lui era un giorno qualunque, come tutte le altre festività segnate sul calendario. Aveva sempre lavorato, nonostante i rimproveri di Victoire, e forse iniziava ad intravederne il motivo: il Natale era una festa in cui la famiglia si riuniva ed Arsène, essendone sprovvisto, aveva deciso di ignorarla per non soffrire troppo la solitudine. Quell'anno però era diverso; quell'anno aveva scoperto di avere Geneviève.
Il sorriso gli svanì dal volto ripensando all'ultima conversazione che aveva avuto con Victoire e di cui non aveva ancora avuto il coraggio di parlare con nessuno, men che meno con la diretta interessata, sua figlia.
Secondo le ricerche della donna l'unico modo per poter stare legalmente con lei era dimostrare ancora una volta di essere suo padre - aveva infatti già fatto il test di paternità dopo il loro primo incontro, all'insaputa di Clotilde - e portare i risultati davanti ad un giudice del tribunale dei minori, il quale avrebbe dovuto spulciare nella sua vita prima di decidere. Erano tutti ostacoli che Arsène pensava di superare, ma alla lunga sarebbe stato molto rischioso, soprattutto per Geneviève. Aveva promesso a Clotilde che l'avrebbe tenuta lontana dal suo lavoro, che l'avrebbe fatta vivere come una ragazzina normale e, soprattutto, che non l'avrebbe mai costretta a nascondersi. Farla diventare la figlia di un'identità fittizia, per quanto magistralmente creata, avrebbe voluto dire contannarla ad una vita di menzogne. Lei meritava di meglio, meritava di vivere nella luce.
Scrollando il capo nella speranza che quei pensieri lo abbandonassero si diresse verso il salottino, dove controllò la stufa e poi si mise a sistemare sugli scaffali i libri che erano stati consultati da alcuni dei clienti abituali della signora O'reilly.
Stava riesaminando mentalmente tutti gli indizi che possedeva quando sentì il tintinnio del campanello alla porta. Certo che si trattasse di Maurice corse all'ingresso, ma si ritrovò davanti proprio Geneviève.
«Buongiorno signorina», la salutò, fingendo che si trattasse di una cliente qualunque. «Posso esserle d'aiuto?».
La ragazzina si guardò intorno meravigliata e poi abbassò gli occhi su di lui, squadrandolo da capo a piedi. Thomas aveva mantenuto il suo stile punk, ma quando era di turno in negozio indossava sempre camicia e farfallino, i capelli neri erano ordinatamente legati in un codino e appesi al grembiule portava un paio di piccoli occhiali da lettura dalle lenti tonde. Più che un libraio sembrava un enologo, ma poco importava: era bello da togliere il fiato.
«Sai, potrei abituarmi a questo tuo look», esordì Geneviève sorridendo. «Sono venuta perché Molly è al lavoro e a casa mi stavo annoiando».
«Ti ho già detto che non è il caso che tu ti faccia vedere qui», sussurrò Arsène, avvicinandosi ad uno scaffale ed indicando una serie di libri per mantenere le apparenze. «Grégorie potrebbe insospettirsi e...».
«Tranquillo, il tuo fidanzato non è di turno questa mattina».
Il ladro sgranò gli occhi, scioccato. «Fi-Fidanzato?».
«Sì, lo so che probabilmente la vostra non è una relazione seria, ma lasciamelo chiamare così, okay? È già abbastanza strano».
Arsène le indicò il piccolo corridoio con un semplice cenno del capo e la precedette. Geneviève lo seguì e commentò il salottino con un semplice «Wow», scegliendo poi una poltrona tra i cui braccioli abbandonarsi.
Lontano dalle vetrine che davano sulla strada il Ladro Gentiluomo poté smettere di trattenersi e si portò le mani sui fianchi.
«Che cosa significa? Da quanto tempo sai che io e Grégorie...».
Geneviève si portò le mani sulle orecchie ed intonò un «La-La-La» per non sentire il continuo di quella frase. Quando fu sicura che suo padre non avrebbe aggiunto altro, spiegò: «Ho sempre notato che lui ti guardava in modo diverso rispetto agli altri membri della banda. Pensavo però che fosse una cosa a senso unico, insomma... che tu non ricambiassi visto che la tua reputazione da sciupafemmine ti precede. E poi sono nata io, quindi...».
«Sì, ho capito: non pensavi potessi andare a letto anche con gli uomini».
«Santo cielo, l'hai detto», mormorò Geneviève, coprendosi il volto rosso d'imbarazzo e lasciandosi scivolare un po' di più sulla poltrona.
«Non c'è nulla di cui vergognarsi. Il sesso è sesso... Se c'è attrazione, come nel caso di Grégorie o Sherlock, i generi non contano».
«Mi stai dicendo che tu e Sherlock avete...?». La ragazzina scosse violentemente il capo, correggendosi: «Lascia perdere, non voglio saperlo».
Arsène sospirò e si lasciò cadere sulla poltrona accanto a quella della figlia, le mani unite dietro la testa.
«E cosa ti ha convinta alla fine?», le domandò ad un tratto, non riuscendo a tenere a freno la curiosità.
La biondina si strinse nelle spalle. «Tu, poco fa».
«Mi hai raggirato col trucco più vecchio del mondo».
«Direi di sì».
Si guardarono negli occhi e sorrisero, sentendo la tensione stemperarsi.
Geneviève si portò un ginocchio al petto ed arricciandosi una ciocca di capelli tra le dita gli chiese: «Come vi siete conosciuti?».
Arsène distolse lo sguardo, improvvisamente malinconico. «Sai che non mi piace parlare del passato».
«Lo so, ma tende a vendicarsi se ignorato».
Lupin dovette darle ragione e cedette.
«È stato il 4 Maggio di dieci anni fa», iniziò a raccontare. «Era l'anniversario della morte di un filantropo francese e le sue figlie avevano deciso di organizzare una serata di beneficenza i cui fondi sarebbero andati alle varie associazioni no profit di cui il padre era un sostenitore. L'evento venne chiamato "Bazar de la Charité" e furono invitate le più ricche famiglie di Parigi».
«E tu trovarsti il modo per partecipare anche senza invito, giusto?».
Arsène sorrise, annuendo con un cenno del capo. «So che sembra banale, ma riuscii a farmi assumere come cameriere. Era la copertura perfetta: potevo girare tra gli invitati senza destare sospetti, rubare portafogli e sentirli vantarsi delle loro collezioni di opere d'arte e mobili antichi, acquisendo informazioni preziose».
«E Grégorie? Era anche lui un cameriere?».
Il padre sorrise furbescamente, scuotendo il capo.
«Non dirmi che lui era uno degli aristocratici!», gridò allora Geneviève, incredula.
«Perché ti stupisci tanto?».
«Perché... perché lui sembra un maggiordomo, non uno che era abituato ad essere servito!».
«Beh, allora dev'essere vero il detto "Guardando si impara"».
«Non posso crederci», mormorò Geneviève. La storia era appena cominciata ed era già esterrefatta. «E che cos'è successo? Avanti, racconta!».
«Va bene, va bene». La sua impazienza lo divertiva. «Grégorie era in un angolo della sala, col volto serio ed imperturbabile, e guardava le figlie del filantropo fare le civette con degli importanti industriali. Fui immediatamente attratto dal suo comportamento anticonformista, così lo raggiunsi con la scusa di volergli porgere da bere. Grégorie mi squadrò e rifiutò, però prima che me ne andassi mi afferrò per il polso e mi chiese: "Non hai intenzione di prendere anche il mio di portafoglio?". Non provai nemmeno a negare: avrei insultato il suo occhio attento. Gli lasciai il mio bigliettino da visita e decisi che per la serata avevo raccimolato abbastanza. Stavo giusto servendo gli ultimi drink quando Grégorie mi passò accanto e mi infilò nel taschino del gilet il mio stesso bigliettino, su cui aveva scritto che mi aspettava al piano di sopra in dieci minuti».
«Caspita, non lo facevo così audace», commentò Geneviève.
«Oh, lo era eccome».

Arsène represse un gemito di dolore misto a piacere quando fu spinto contro il muro alle sue spalle. Stretto tra la parete e il corpo dell'uomo ricambiò con foga il bacio fino a quando quest'ultimo non lasciò le sue labbra per scendere sul collo e sul petto da cui aveva già scostato i lembi della camicia bianca.
Rise, divertito dalla piega che aveva preso la serata, ed esclamò con voce affannata: «Non so nemmeno come ti chiami».
«Grégorie Carrière», rispose l'uomo, tracciando con la lingua i contorni dei suoi capezzoli.
«Carrière... Come Cécile e Pauline Carrière? Monsieur Carrière era tuo padre e questa è casa tua?». Sconvolto, Arsène gli portò le mani sulle spalle e lo allontanò per poterlo guardare negli occhi. Grégorie sorrise, annuendo.
«Non sapevo che il vecchio avesse un figlio».
«Diciamo pure che sono la pecora nera della famiglia. Non mi è mai andato a genio il modo in cui gestiva i suoi affari, trovando sempre scorciatoie per aggirare la legge e sfruttare i propri lavoratori... Cercava di pareggiare i conti con le sue generose donazioni per lo sviluppo dei paesi del Terzo Mondo, ma la verità è che era un ipocrita. Questa sera sono venuto solo perché sono state le mie sorelle a chiedermelo. Direi che ho fatto bene ad accettare, non trovi?».
Detto questo gli sbottonò i pantaloni ed iniziò ad occuparsi della sua mezza erezione. Arsène chiuse gli occhi, abbandonando il capo contro la parete, e mormorò: «Oh sì, decisamente».
Non erano nemmeno lontanamente arrivati alla parte divertente quando furono interrotti dall'allarme antincendio. Grégorie gli disse di non farci caso, che probabilmente era partito a causa delle vecchie cappe della cucina, ma Arsène, il cui sesto senso aveva iniziato a pizzicargli la nuca, si alzò dal grande letto a baldacchino e si rivestì, consigliandogli di fare lo stesso. Insieme erano tornati al piano di sotto e una volta di fronte alle porte spalancate della sala da ballo erano rimasti ad occhi e bocca spalancati: il palco in fondo alla sala, sul quale si stava svolgendo l'asta di beneficienza, era avvolto dalle fiamme.
Il panico aveva portato le persone a calpestarsi a vicenda pur di scappare dalla sala e per via del fumo che rendeva l'aria irrespirabile i corpi stesi a terra erano già decine.
Arsène guardò il grande ritratto di Monsieur Carrière bruciare e poi seguì il percorso delle fiamme fino al soffitto dalle travi a vista. Afferrò il polso di Grégorie ed esclamò: «Presto, dobbiamo andarcene da qui».
«Le mie sorelle», balbettò l'uomo, sotto shock. «Devo trovare le mie sorelle».
«Non puoi, qui sta per crollare tutto!», insistette il ladro, ma Grégorie si liberò della sua stretta e corse nella sala da ballo coprendosi la bocca con la giacca.
Arsène sospirò frustrato e gridò alle persone che si stavano accalcando all'uscita di fare con calma. Come un perfetto vigile amministrò il traffico e grazie a lui ci furono due dozzine di vittime in meno.
Una volta riuniti gli invitati nel giardino, Arsène prestò primo soccorso ai feriti in attesa dell'arrivo delle ambulanze e dei vigili del fuoco. Perché ci stavano mettendo tanto?!
Stava raccomandando ad una signora di tenere sveglio il marito con un profondo taglio sulla testa, anche schiaffeggiandolo se necessario, quando un boato gli fece accapponare la pelle. Arsène si voltò verso la villa dei Carriére ed attraverso le alte finestre dai vetri in frantumi vide le lingue di fuoco tingere di rosso il cielo scuro. Quella scena l'aveva già vista.
«Grégorie», sussurrò col cuore in gola.
Si alzò e fece un passo verso la villa, poi si fermò coi pugni stretti lungo i fianchi.
Quello stupido non aveva voluto ascoltarlo e non c'era alcun motivo per cui doveva rischiare la propria vita nel tentativo di salvarlo. Non lo conosceva neppure!
Il Ladro Gentiluomo chinò il capo e sfruttando la rabbia che gli montava dentro corse verso l'ingresso, ignorando le urla e le mani delle persone che tentavano di fermarlo.

Geneviève guardò suo padre con espressione incredula e lui abbozzò un sorriso, alzandosi dalla poltrona.
«Ecco com'è andata», disse, sistemandosi i lacci del grembiule dietro la schiena.
«Che ne è stato delle sue sorelle?», domandò la ragazzina una volta ripresasi.
«Cécile e Pauline sono state le prime vittime: erano sul palco quando un'americana ha ceduto, facendo cadere i fari da cui poi è partito l'incendio».
«Quindi, rimasto solo al mondo, ha deciso di dedicare la sua vita a colui che gliel'ha salvata. Ora capisco».
«Già».
«Papà...».
«Uhm?».
Il suo sguardo serio lo lasciò interdetto, ma Geneviève non ebbe il tempo materiale per dire ciò che aveva in mente, anticipata dallo scampanellio della porta. Arsène si scusò e andò a vedere chi fosse. Ritornò poco dopo, accompagnato da Maurice Leblanc, e i due si scambiarono un'occhiata imbarazzata prima che quest'ultimo fingesse di non conoscerla.
Il Ladro Gentiluomo sorrise e diede una pacca sulla schiena del giornalista, esclamando: «Tranquillo, so che avete già avuto modo di presentarvi».
«Come?», esclamò Maurice, guardando prima il padre e poi la figlia.
«Non ha importanza. Avanti, accomodati», gli disse indicando la poltrona accanto a quella su cui era seduta Geneviève. Prima di lasciarlo andare però si sporse sul suo orecchio e sussurrò: «Guardala con occhi maliziosi e te li farò cavare».
Il ragazzo deglutì ed annuì, stringendosi al petto la borsa a tracolla in cui portava sempre il laptop.
«Bene, arrivo subito!», esclamò euforico Arsène, lasciandoli soli nel salottino.

***

Sherlock entrò nella stanza d'albergo in cui lui e Irene erano soliti incontrarsi e si guardò intorno, sentendo una sgradevole sensazione allargarsi nel suo petto.
Dubitava fortemente che la donna avesse lasciato qualche indizio per lui - pensava infatti che non avesse nutrito alcun sospetto sui suoi rapitori - ma ormai non aveva più carte in mano.
Cercò ovunque, persino dietro il quadro astratto che spesso e volentieri, dopo il sesso, erano rimasti ad osservare domandandosi che cosa diavolo rappresentasse.
Non trovò nulla.
Si sedette sul letto, davanti al maledetto dipinto, e finalmente riuscì a dargli un senso: caos. In quegli ultimi dieci giorni aveva avuto modo di viverci, perciò ora gli sembrava tanto elementare.
Ogni pista che aveva seguito lo aveva portato al nulla e la frustrazione l'aveva ridotto ad un fascio di nervi, insopportabile per tutti quelli che provavano ad avvicinarlo. John, in particolare, era quello che ci aveva rimesso più di tutti, incassando senza mai rispondere fino a quando, il giorno prima, non ce l'aveva più fatta.

«Devo trovare Lupin. Non è un buon segno che sia sparito nel nulla».
Il dottor Watson, chino su Rosie per aiutarla a muovere i primi passi, alzò gli occhi per affermare per la decima volta: «Sono certo che sta bene».
«E come fai a saperlo? Sei andato da un'indovina?», sbottò, riprendendo a camminare avanti e indietro di fronte al camino acceso.
«No», rispose sospirando. «Però, conoscendolo...».
«Conoscendolo? Tu non lo conosci! Ci avrai parlato quanto, venti minuti al massimo? Non hai la minima idea di cosa passi per la sua mente!».
«E tu sì?», ribatté il dottore, mostrandosi molto più arrabbiato di quello che avrebbe dovuto. Aveva raggiunto il punto di rottura, evidentemente, e Sherlock, nonostante se ne fosse accorto, ne approfittò per sfogare il proprio nervosismo.
«Certo! Lui mi considera un amico, perciò so che se le sue ferite fossero state gravi me lo sarei ritrovato qui, dato che non poteva andare in ospedale per evitare che gli aguzzini lo attaccassero mentre era incosciente. Non si sarebbe fidato di nessun altro!».
John lasciò Rosie seduta sul tappeto e si portò le mani sui fianchi, annuendo con un lieve sorriso sulle labbra.
«Mi dispiace dovertelo dire, ma non lo conosci bene come credi».
«Prego?».
«Arsène è venuto da me, dopo l'incidente. Da me! Io l'ho ricucito e sempre io ho vegliato su di lui! E tu eri così convinto di essere il solo ed unico che non ti è nemmeno passato per la testa che avesse preferito andare da un dottore vero!».
Sherlock, sotto shock, aprì la bocca ma nessun suono vi uscì. L'amico scosse il capo, prese la figlioletta tra le braccia e raccattò le sue cose.
«Sai, inizio a pensare che Arsène abbia ragione», esclamò sulla soglia del salotto. «Devi aprire gli occhi e reputare il tuo cuore un alleato, piuttosto che un nemico».
«Tu non capisci, John», mormorò, dandogli le spalle per osservare Baker Street dalla finestra.
«Che cosa non capisco?».
«Ho già fatto affidamento sul mio cuore, tanto tempo fa, e non è andata a finire bene».
«Forse dovresti riprovarci».
Quando Sherlock si era voltato per guardarlo in volto, John non c'era già più.

Un lieve bussare lo riportò alla realtà e Sherlock si alzò dal letto per addossarsi al muro e, pistola in pugno, aprire la porta.
«Mycroft?», domandò confuso il detective, fissando il fratello che, con le mani sollevate, gli sorrideva pacato. «Che diavolo ci fai qui? E come facevi a sapere...?».
«Non ha importanza. Come stai?».
«Come sto?», ripeté Sherlock. Poi comprese e ripose la pistola nella tasca del cappotto, lasciandosi andare ad una risata gutturale. «Ma certo. Perquisiscimi pure, ma non ho droga con me».
«Mi fido della tua parola».
Fece un giro su se stesso per verificare in quali condizioni igienico-sanitarie suo fratello minore avesse avuto dei rapporti sessuali e una volta completato l'esame disse: «Sei più preoccupato per lei o per Arsène?».
Sherlock sbuffò e si lasciò cadere di nuovo sul materasso, le dita sulle tempie. «Tu lo sapevi che dopo l'incidente Arsène è andato da John?».
Mycroft si rifiutava di posare le mani su una qualsiasi superficie di quella stanza, perciò usò l'ombrello come appoggio.
«No, non lo sapevo, ma nella sua situazione l'avrei fatto anche io. È la mossa più logica, dopotutto».
Il silenzio di Sherlock gli fece capire che lui non ci era arrivato, ma non infierì oltre.
«Fratellino, hai confessato al dottor Watson quello che ti preoccupa davvero?».
«No. E non ne ho alcuna intenzione, non cercare di convincermi».
Mycroft sospirò. «Bene, come vuoi. Devo continuare a cercare Irene Adler?».
Sherlock levò di scatto il capo, mostrando inconsapevolmente tutta la propria preoccupazione. «Credi che sia...?».
«Credo che dovresti prepararti all'eventualità».
Il detective si alzò e raggiunse le tende che oscuravano le finestre. Con un gesto deciso le scostò, facendo entrare la luce del primo pomeriggio nella stanza, ed esclamò: «No». Prima che il fratello potesse chiedergli a cosa stesse rispondendo, aggiunse: «Irene non è morta. Se lo fosse avremmo già trovato il suo cadavere».
«Magari non se ne sono ancora sbarazzati perché sapevano che avrebbero attirato la tua attenzione. Gestire Arsène è già abbastanza difficile, dopotutto».
Sherlock si portò di nuovo le dita sulle tempie, nel tentativo di capire a chi toccasse muovere.
«Secondo te Arsène che cosa sta facendo?», chiese a Mycroft.
«Probabilmente si prepara al contrattacco. E sarà qualcosa di grosso».
Il consulente investigativo lo fissò, colpito dalle sue parole. «Perché dici questo?».
Mycroft sorrise in quel suo modo mellifluo. «Il silenzio».
Non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma aveva ragione da vendere. Arsène era solito provocare i propri avversari, avvertirli del suo arrivo (l'aveva fatto anche con lui), ma quella volta era semplicemente sparito, facendo temere il peggio persino a Mycroft.
«Dobbiamo trovarlo, prima che faccia qualcosa di stupido», esclamò il detective, con sguardo febbrile. «Le nostre risorse non bastano a stanarlo, perciò dovremo fare in modo che sia lui ad uscire allo scoperto. Idee?».
«Solo una», rispose il maggiore degli Holmes.
«Me la dici o vuoi una richiesta scritta?».
Arricciando gli angoli della bocca in un sorriso quasi perverso, Mycroft gli puntò contro l'ombrello ed affermò: «Diventerai Arsène Lupin».

***

«Sei arrabbiato?».
Arsène portò dietro il bancone le tazze di té che aveva offerto a Geneviève e Maurice e guardò quest'ultimo con le sopracciglia inarcate.
«E perchè dovrei? Io per primo non ho idea di chi siano i mandanti di quell'agguato».
«Non intendevo per le ricerche andate a vuoto». Il ragazzo chinò il capo e si grattò la nuca, imbarazzato. «Conoscevo Geneviève e te l'ho tenuto nascosto».
Il Ladro Gentiluomo sorrise di cuore e si appoggiò al bancone con gli avambracci, facendogli segno di avvicinarsi con un dito. Maurice deglutì e si chinò verso di lui, porgendogli l'orecchio.
«Sciocco!», gli gridò nel timpano, facendolo sobbalzare. Poi scoppiò a ridere, aggiungendo: «Non sono affatto arrabbiato, piuttosto... impressionato, ecco. Hai impiegato davvero poco a capire chi fosse in realtà. Ti devo fare i miei complimenti, Maurice».
Il giornalista, con la mano ancora sull'orecchio offeso, abbozzò un sorriso.
«Adesso vai», gli disse Arsène, dando un'occhiata all'antico orologio a pendolo posto alle sue spalle. «La signora O'reilly potrebbe tornare da un momento all'altro e dovrei costringerti a comprare un libro che non puoi permetterti».
«Continuerò a cercare», lo rassicurò Maurice, battendo il palmo sulla propria borsa a tracolla.
«E io ti ringrazio. Buona serata, amico mio».
Arsène guardò il ragazzo uscire dal negozio ed incamminarsi a piedi, le mani nelle tasche e il colletto della giacca sollevato per ripararsi dal vento freddo. Quindi sospirò e per evitare di abbattersi ulteriormente tornò a vestire i panni di Thomas il commesso e a sistemare il negozio.
Quando la signora O'reilly rientrò, una mezz'ora più tardi, lo trovò in cima ad una scala, intento a togliere le ragnatele dagli angoli del soffitto e dal lampadario.
«Com'è andata la valutazione?», le domandò subito.
Il suo sorriso a trentadue denti fu abbastanza eloquente. Era così euforica che per ringraziarlo gli diede il resto del pomeriggio libero. Thomas insistette per rimanere - dopotutto aveva iniziato a piacergli la tranquillità di quel posto e il lavoro non era troppo faticoso, anzi, era proprio quello di cui aveva bisogno: una distrazione - ma la donna non volle sentire ragioni e quasi lo spinse fuori dalla porta.
Rimasto sul marciapiede, Arsène sospirò e non poté far altro che tornare a casa.
Pensò che magari lui e Geneviève avrebbero potuto anticipare l'appuntamento con le decorazioni, oppure preparare la cena per fare una sorpresa a Molly, ma i suoi programmi vennero ancora una volta sconvolti quando vide la figlia seduta sulle scale che portavano al pianerottolo dell'anatomopatologa, il cellulare tra le mani e un'espressione pensierosa.
«Ehi, che succede?», le domandò, fermandosi al suo cospetto.
La ragazzina sollevò gli occhi e smise di torturarsi il labbro per forzare un sorriso e scuotere il capo. «Probabilmente non è niente».
«Mai sottovalutare il proprio istinto», le disse il padre, portandole una mano sulla testa. «Regola numero due del Ladro Gentiluomo».
«Qual è la numero uno?».
«Te la rivelerò se mi dici che cosa ti preoccupa».
Geneviève si fece un poco più in là, permettendo ad Arsène di sedersi al suo fianco sul gradino, e con le ginocchia strette al petto confessò: «Mi ha appena chiamato Molly e mi ha detto che farà tardi per cena perché deve fare degli straordinari».
«E...?».
«Ed è strano, perché è già la seconda volta questa settimana».
«Capisco», mormorò il ladro, guardando di fronte a sé.
Senza farlo apposta imitò la posizione di Geneviève, incrociando le braccia sulle ginocchia e posandovi sopra il mento. Ad un tratto si voltò a guardarla e le chiese: «Che cosa vuoi fare?».
«Non lo so. Che cosa dovrei fare?». La ragazzina sospirò.
«Regola numero uno del Ladro Gentiluomo», declamò Arsène, sollevando l'indice della mano destra. «Soddisfare sempre la propria curiosità».
«Non voglio passare per quella che non sa farsi gli affari suoi».
«Essere curiosi non significa per forza essere dei ficcanaso», le spiegò con tono dolce. «Il termine curiosità deriva dal latino e ai tempi significava essere attenti e diligenti, ma anche interessarsi e avere a cuore le conoscenze tramandate di generazione in generazione. Reprimerla è inutile, in quanto è insita nell'animo umano. Pensa dove saremmo, a quest'ora, se gli uomini primitivi non si fossero incuriositi alla vista del fuoco e non avessero imparato a dominarlo, rischiando anche di bruciarsi».
Geneviève riprese a tormentarsi il labbro inferiore con i denti, fino a quando non disse: «Non c'era un proverbio che diceva che la curiosità uccise il gatto?».
Arsène si strinse nelle spalle. «E allora? Noi non siamo mica gatti».
Si scambiarono uno sguardo e scoppiarono a ridere, appoggiandosi ognuno alla spalla dell'altro.
«Allora lo facciamo? Andiamo a pedinare Molly?», sussurrò Geneviève quando si calmò, con ancora dell'incertezza nella voce.
«Andiamo ad assicurarci che stia bene», la corresse, facendole sbocciare un sorriso sul volto.
E per quel sorriso Arsène avrebbe fatto qualsiasi cosa al mondo, ne era certo.

***

«Se tutto andrà come deve andare, non solo Arsène si farà vivo per capire chi abbia sfruttato il suo nome, ma potresti anche attirare l'attenzione dei suoi aguzzini».
Sherlock ascoltò distrattamente le parole del fratello, profondamente a disagio di fronte a quella porta immacolata e ciò nonostante tinta dei peggiori ricordi.
L'uomo che si presentò dietro di essa era lo stesso padrone di casa: un individuo massiccio, basso di statura, coi capelli neri e il volto olivastro tipici delle etnie mediterranee.
«Melas», lo salutò un sintentico Mycroft, rivolgendogli un sorriso forzato.
«Buongiorno professor Melas», disse invece Sherlock, chinando persino il capo. «La trovo in forma».
L'interprete greco alzò gli occhi al cielo vedendoli, ma non li cacciò via: con un silenzioso cenno della mano li invitò ad entrare e li fece accomodare in un piccolo salotto con vista sulla veranda che dava su un giardino chiuso - una specie di serra gigante - ed illuminato naturalmente grazie alle pareti e al soffitto di vetro.
«I fratelli Holmes», furono le sue prime parole, mentre si accomodava su una poltrona simile a quelle del Diogenes Club, il luogo dove lui e Mycroft si erano conosciuti. «A cosa devo il piacere?».
Non aveva nascosto il sarcasmo, né nel tono di voce né nel modo in cui il suo volto si era accartocciato, tuttavia Mycroft non perse il sorriso e rispose con calma: «Avremmo bisogno della tua collaborazione».
«Ah sì? E per quale motivo dovrei aiutarvi?».
Sherlock, il quale fino ad allora era rimasto in silenzio ad osservare le varie specie di uccelli che volavano da albero in albero in quel biotopo artificiale, fu costretto a prendere la parola quando il fratello gli colpì la tibia con l'ombrello.
Gli lanciò un'occhiataccia, poi si schiarì la gola e si rivolse all'uomo: «Professor Melas, speravamo che, visti i nostri trascorsi, sarebbe stato lieto di aiutarci».
«Avete proprio una bella faccia tosta voi due», esclamò in risposta il professore, con gli occhi neri luccicanti di rabbia. «Davvero pensate che io mi ritenga in debito, dopo ciò che è successo?».
«Se non ricordo male senza di noi saresti morto, Melas», ribatté Mycroft, abbandonando il sorriso per mostrare un'espressione autoritaria e in grado di incutere anche un certo timore. «Sherlock ha fatto tutto quello che ha potuto per salvare Katrides, ma la sua sorte era segnata fin dall'inizio».
Il consulente investigativo fissò il fratello, sorpreso di fronte al modo in cui lo aveva difeso. Quindi fece un passo avanti ed incrociando lo sguardo del linguista cercò di mitigare gli animi, per quanto non fosse una sua specialità: «Capisco ciò che prova, professore, e non passa giorno in cui io non mi penta degli errori commessi durante quell'indagine. So che questo non cambierà le cose, ma in mia difesa posso dire che ero giovane ed inesperto. Sono passati tanti anni da allora e adesso sono disposto a fare qualsiasi cosa per impedire ad altre persone di morire inutilmente. Lei è l'unico che può darmi una mano, perciò glielo chiedo per favore: mi aiuti».
Il greco soppesò a lungo le sue parole, tamburellando le dita sul bracciolo della poltrona. Ad un tratto grugnì qualcosa di incomprensibile, si alzò e fronteggiando i fratelli Holmes disse più chiaramente: «Di che cosa avete bisogno?».
«Del suo "Leda col cigno"», rispose prontamente Mycroft.
Il linguista divenne paonazzo ed alzò le mani a voler prendere il più grande per i baveri della giacca. Poi, scosso da tremiti d'ira, le abbassò e gridò: «Voi siete pazzi! Fuori da casa mia!».
«Aspetti!», lo fermò Sherlock, piantandosi davanti alla porta, a braccia aperte, per impedirgli di lasciare il salotto.
«Levati di mezzo!».
«Mio fratello si è spiegato male», riprese il detective, ammonendolo con gli occhi. «Non accadrà nulla di male al suo dipinto, glielo assicuro. Deve solo fingere che sia stato rubato».
«Oh! E questo come migliorerebbe la situazione?!», strepitò ancora, con un diavolo per capello.
Sherlock, a quel punto, realizzò di non avere la minima idea di tutte le complicazioni del piano. Guardò Mycroft e lo trovò assai divertito, tanto da reprimere a stento una risata.
«Tu non ne hai idea, vero?», gli domandò Melas, intuendo la buona fede di Sherlock e il subdolo gioco di Mycroft. «"Leda col cigno" non è un dipinto qualsiasi. Si tratta di un dipinto perduto, la cui ubicazione è nota solo a pochissimi. Se ne denunciassi il furto - cosa di per sé impossibile, in quanto non ho alcun documento che attesti che sia mai stato in mio possesso - sarei rovinato! Rischierei addirittura di finire in galera!». Si voltò nuovamente verso il maggiore degli Holmes e lo trucidò con lo sguardo: «Maledetto il giorno in cui te lo mostrai!».
Il consulente investigativo cercò conferme e il fratello si strinse nelle spalle: «Per questo è perfetto: la notizia del furto farà così tanto scalpore che Arsène sarà costretto a venire allo scoperto».
«E credi che ci cascherebbe così facilmente? Insomma, se non ci sono prove della sua autenticità...».
«Non ti preoccupare di questo. Spargerò io le voci giuste».
Sherlock avrebbe voluto domandargli se avesse fatto lo stesso per avvicinare Moriarty e dare così ad Eurus il suo regalo di Natale, ma decise di tacere. Ad ogni modo il professore non l'avrebbe lasciato parlare.
«E se non acconsentissi?», esclamò infatti, improvvisamente pallido in viso. «La polizia inizierà ad indagare, ci saranno dei processi, dovrò assumere un avvocato... Lo spreco di tempo e di denaro sarà enorme!».
«Vedilo come il prezzo da pagare per il modo in cui l'hai ottenuto», disse Mycroft, sollevando l'ombrello per avvicinarsi a Melas e rivolgergli un altro sorriso mellifluo. «Se farai quello che ti diremo farò in modo che la polizia non venga mai a sapere di ciò che hai fatto per avere il tuo prezioso dipinto», gli sussurrò.
«Questo è un ricatto», sibilò il professore, i pugni stretti lungo i fianchi.
«No, è una mia gentilezza. Ti prometto anche che quando tutto sarà finito riavrai il tuo dipinto e non sentirai più parlare di noi due».
A quelle parole il linguista sgranò gli occhi ed ogni traccia di rabbia svanì dal suo volto. Si prese il naso aquilino tra le dita, cercando la possibile fregatura, ma alla fine cedette: un'offerta del genere era da prendere al volo, prima che Mycroft ci ripensasse.
Ora che avevano trovato un accordo proficuo per entrambi, Sherlock fu impressionato dal modo in cui, seduti sulle poltrone e fumando sigari cubani, iniziarono a chiacchierare dei bei tempi al Diogenes Club.
Forse il fratello non aveva scelto Melas solo perché sapeva possedesse un dipinto di inestimabile valore, ma anche perché ne conosceva la storia e sapeva che un personaggio come quello - ipocrita ed egoista sotto la facciata del rigoroso e stimato professore universitario - sarebbe di certo entrato nel radar del Ladro Gentiluomo. Nel profondo del proprio animo, quella volta Sherlock fu costretto ad ammettere che lui stesso l'avrebbe derubato con enorme piacere.

***

Molly aprì l'armadietto e si guardò al piccolo specchio, trovandosi col volto accaldato e i capelli in disordine.
Non se li era lavati - una volta a casa l'occhio attento di Geneviève li avrebbe notati umidi e si sarebbe insospettita - perciò si sciolse semplicemente la coda di cavallo e se li pettinò, imitando l'acconciatura con cui era uscita quella mattina.
Le facevano male i muscoli delle gambe e delle braccia, ma accettava volentieri quel dolore: significava che aveva lavorato bene e che presto sarebbe stata in grado di possedere al meglio le tecniche che l'istruttore aveva mostrato loro.
Due giorni prima era andata ad assistere ad una lezione e ne era stata così colpita che aveva deciso di iscriversi, in modo da non avere il tempo materiale per ripensarci.
Lo stesso istruttore, vedendola arrivare in abiti da allenamento, era rimasto stupito dalla sua decisione: di solito, le aveva detto avvicinandosi per darle il benvenuto, le ragazze impiegavano qualche settimana per convincersi che un corso di autodifesa le avrebbe aiutate, non solo in caso di reale pericolo ma semplicemente per sentirsi più sicure.
«Io non ho qualche settimana, perciò non si trattenga con me», aveva risposto candidamente l'anatomopatologa, lasciandolo ancora una volta di sasso.
Si sedette sulla panca alle sue spalle e posò la testa contro il muro, gli occhi chiusi, mentre si portava la bottiglietta d'acqua alla bocca e beveva avidamente.
Un'ombra le si parò all'improvviso davanti, così Molly aprì gli occhi ed incrociò quelli sorridenti di Denise, anche lei appena uscita dalla doccia: un morbido asciugamano bianco le avvolgeva il corpo, mettendo in risalto la sua pelle color cioccolato, e i capelli riccissimi le gocciolavano sulle spalle nude.
Erano state compagne di allenamento quella sera e nonostante lei frequentasse la palestra da ormai un paio di mesi, in qualche modo era riuscita a stare al suo passo.
«Ehi, sei stata brava oggi», le disse con un ampio sorriso sul volto.
Molly ricambiò. «Grazie».
Denise si sedette al suo fianco e recuperò dal proprio zainetto un integratore dal colore giallo fluo. Bevve e poi espirò soddisfatta.
«Per quale motivo ti sei iscritta al corso?», le domandò ad un tratto.
«È una storia lunga».
«Già, lo sono tutte», mormorò, guardando le altre ragazze presenti nello spogliatoio. Quindi tornò a sorridere e come se nulla fosse esclamò: «Io sono stata quasi violentata, tre mesi fa».
Molly sgranò gli occhi, scostandosi dal muro. «Mio Dio, è terribile».
«Ho detto quasi!», ripeté, ridendo. «Sono stata incredibilmente fortunata. Se non fosse passata quella ragazza... dubito che a quest'ora sarei qui».
«Ragazza?».
Denise annuì. «Successivamente scoprii che era una poliziotta, ma poco importa. Quella sera mi salvò e poi mi consigliò questo corso, dicendomi che l'istruttore era un suo amico. C'è voluto un po', ma alla fine ho deciso di fare un tentativo ed eccomi qua».
Molly sorrise, ammirando la forza di quella ragazza che era riuscita a sfruttare la paura per diventare più forte.
«Denise, datti una mossa!», la chiamò una biondina già vestita.
La riccia rispose con uno sbrigativo: «Sì, ho capito!», per poi tornare a concentrarsi su Molly. «Dopo le lezioni è nostra abitudine andare a mangiare un boccone in una tavola calda non lontana da qui. Vuoi unirti a noi?».
In altre circostanze avrebbe accettato senza esitazioni - le piaceva conoscere gente nuova, anche se preferiva fare da spettatrice silenziosa - ma il pensiero di Geneviève, la quale la stava sicuramente aspettando per la cena, la costrinse a declinare l'invito.
«Hai famiglia?», le domandò Denise, mostrando un'altra caratterista della sua personalità estroversa: la curiosità.
No, è questo il bello!, avrebbe voluto rispondere Molly, ma si limitò ad annuire con un cenno del capo e a dire: «Sarà per la prossima volta».
«Guarda che ci conto, eh!».
«Denise, giuro che ti lasciamo qui!», gridò la stessa biondina di prima, minacciandola.
La ragazza si alzò, sbuffando divertita, e senza togliersi l'asciugamano iniziò a vestirsi. Molly la imitò e alla fine uscirono insieme dallo spogliatoio.
All'aria gelida della sera l'anatomopatologa rabbrividì e si strinse tra le braccia, rimanendo ai piedi della breve scalinata mentre il gruppetto a cui era stata invitata ad unirsi si allontanava lungo il marciapiede. Ad un tratto si sentì il suono di un fischietto e Denise, in mezzo alle amiche, voltò il capo verso l'altro lato della strada, dov'era parcheggiata una volante della polizia. L'agente donna che era appoggiata al cofano, il fischetto ancora tra le labbra sorridenti, sollevò una mano in direzione della ragazza, la quale le corse incontro e la travolse in un abbraccio dopo averla baciata a stampo sulle labbra.
Molly sorrise alla scena, pensando che Denise era stata davvero fortunata quella sfortunata sera, poi abbassò il capo e si incamminò nella direzione apposta per tornare a casa.
Era circa a metà strada quando iniziò a nevicare e si costrinse ad accelerare il passo nonostante i muscoli che le bruciavano. Non riuscì comunque a non tornare a casa coi vestiti appesantiti e i denti che le battevano per il freddo.
Il suo sogno era quello di spogliarsi ed infilarsi nella vasca piena di acqua calda, ma sapeva che probabilmente avrebbe dovuto mettersi ai fornelli per sfamare Geneviève, di certo troppo impegnata a ronzare intorno a suo padre piuttosto che aiutarla con le faccende domestiche che a causa sua si erano duplicate. Non poteva rimproverarla però: lei e Arsène avevano molto da recuperare e se solo suo padre fosse stato ancora vivo avrebbe trascorso tutto il tempo possibile con lui.
Sospirando aprì la porta dell'appartamento e non fece nemmeno in tempo ad annunciarsi o a togliersi il cappotto bagnato che Geneviève le corse incontro per stringerle le braccia intorno alla vita, cercando di tenere goffamente la testa sotto il suo mento ma che, per questioni di altezza, dovette portare sulla sua spalla.
«Gen, che cosa...? Che è successo?», le chiese e posandole le mani sulle braccia la allontanò da sé.
«Niente», rispose la ragazzina, scuotendo il capo e cercando di celare gli occhi lucidi. «Ho visto che ha iniziato a nevicare. Vieni, ti ho preparato il bagno. Intanto metterò su qualcosa da mangiare, va bene?».
L'anatomopatologa sbarrò gli occhi, ma la bionda la prese per mano e la portò in bagno, dove effettivamente c'era la vasca piena di acqua calda e schiuma profumata ad attenerla. Decise di rimandare le spiegazioni a più tardi.

***

John, una volta passato a prendere Rosie a casa della babysitter, prese una deviazione per fare un salto al 221B.
Aveva pensato molto a ciò che aveva detto a Sherlock il giorno prima, e a come l'aveva fatto, ed era giunto alla conclusione che forse aveva superato il limite.
Una frase in particolare l'aveva tormentato per tutto il giorno: «Ho già fatto affidamento sul mio cuore, tanto tempo fa, e non è andata a finire bene» e voleva che il detective si confidasse con lui, com'era abitudine fare tra migliori amici; voleva che gli spiegasse nei dettagli cos'era successo e se c'entrasse Arsène, soprattutto.
Sherlock non era uno a cui piaceva raccontare del proprio passato, specie se si trattava di parentesi dolorose, ma John era convinto che tutti dovessero imparare ad accettare i loro scheletri nell'armadio e a spolverarli ogni tanto, giusto per ricordare e non fare gli stessi errori.
Evitò di suonare al campanello per non aspettare la signora Hudson sotto la neve, col rischio che Rosie prendesse freddo, ed usò le proprie chiavi per entrare nell'androne.
«Signora Hudson, è in casa?», esclamò e poco dopo sentì la voce della padrona di casa invitarlo al piano superiore.
La trovò in salotto, intenta ad appendere le solite luminarie che nella loro semplicità riuscivano a portare la magia del Natale persino nella vita asettica del consulente investigativo.
«Se sei venuto a cercare Sherlock, temo che non rientrerà tanto presto», gli disse mestamente.
«Sa dov'è andato?».
«Non ne ho idea, caro».
La aiutò a scendere dalla scaletta porgendole una mano e poi si guardò intorno, cercando di trovare qualche indizio su quali fossero le sue intenzioni.
Un pensiero terribile gli attraversò la mente ed andò alla scrivania, trovando il primo cassetto chiuso a chiave come al solito. Andò a recuperare la chiave, grato che il detective non avesse cambiato nascondiglio, e lo aprì. All'interno trovò alcune carte, piccoli souvenirs dei casi più strani e fortunatamente anche ciò che cercava: la dose di emergenza di Sherlock. Sospirò di sollievo, ma durò poco. Un'altra cosa mancava all'appello: la sua pistola.
«In che guaio ti stai cacciando, Sherlock?», si chiese preoccupato, con una mano sul fianco e l'altra alla bocca.

***

Arsène, intento a suonare una malinconica melodia al piccolo pianoforte a parete della signora Lee, si interruppe bruscamente ed aprì gli occhi al suono del campanello. Guardò l'orologio appeso alla parete e pensò che solo una persona avrebbe potuto cercarlo alle dieci e mezza di sera: sua figlia.
Il campanello suonò di nuovo, con impazienza, e il Ladro Gentiluomo si alzò dalla panca imbottita esclamando in francese: «Arrivo, arrivo!».
Guardò attraverso lo spioncino e con sua enorme sorpresa si ritrovò davanti Molly Hooper, la quale non gli diede nemmeno il tempo di aprire bocca e lo schiaffeggiò. Lupin, il viso rivolto verso lo specchio alla sua destra, impiegò qualche secondo per incrociare nuovamente i suoi occhi furiosi.
«Buonasera anche a te», mormorò mentre si tirava indietro i capelli biondi, privi della parrucca, e si faceva da parte per invitarla ad entrare nell'appartamento della sua vicina.
Una volta chiusa la porta l'anatomopatologa fece del suo meglio per tenere un tono di voce normale esclamando: «Mi avete seguita!».
Finalmente Arsène capì il motivo della sua rabbia e con le mani posate sui fianchi scosse il capo. «Caspita, Geneviève ha già confessato».
«E ha fatto la cosa giusta!».
«La mia guancia si permette di dissentire», replicò Arsène, massaggiandosi la mandibola.
Le passò accanto per raggiungere il frigorifero dall'anta laccata di rosso, dietro la piccola isola della cucina, e tirò fuori dal ripiano superiore, quello riservato al congelatore, una busta di piselli surgelati. Se la posò sul volto, sospirando di sollievo in modo teatrale, e poi tornò a guardare Molly, ricordandosi delle buone maniere.
«Perdonami, posso offrirti qualcosa? Ho trovato una bottiglia di vino che sembra...».
«Non voglio niente, grazie», lo interruppe la donna.
Il Ladro Gentiluomo scrollò le spalle e sistemò nel freezer la busta di piselli, poi tornò verso il pianoforte e le indicò di accomodarsi sul divano, notando solo in quel momento che il suo viso si era colorato d'imbarazzo e che i suoi occhi castani lo stavano evitando, preferendo il pavimento o i quadri di dubbio gusto appesi alle pareti.
Stranito, le chiese: «C'è qualcosa che non va?».
Schiarendosi la gola, Molly alzò una mano ad indicargli il petto e rispose: «Potresti... ehm... indossare qualcosa?».
Arsène abbassò gli occhi e si ricordò che dopo la doccia, dato che non aveva altri programmi per la serata, si era infilato un paio di larghi pantaloni bianchi di cotone, di quelli con le fasce strette alle caviglie, ed era rimasto a petto nudo nonostante l'inverno fosse ormai alle porte. Recuperò dallo schienale del divano uno spesso maglione blu e lo indossò senza però preoccuparsi di allacciarsi gli alamari di legno, restando così comunque a petto scoperto, poi si sedette sulla panca imbottita e fece segno alla donna di accomodarsi dove preferiva.
Capendo che Molly, a braccia conserte e l'espressione di nuovo contrita, non aveva alcuna intenzione di avvicinarsi, sospirò e pur di rompere il silenzio riprese lui stesso l'argomento: «Spero tu non sia stata troppo dura con lei. Era molto dubbiosa sul da farsi».
«Lo immaginavo ed infatti non mi sono arrabbiata con Geneviève. In compenso lo sono con te! Tu non avresti mai dovuto permetterle di fare una cosa del genere!».
«Era in pensiero per te. Che cos'avrei dovuto fare?».
«Avresti dovuto dirle di aspettare e di parlarne direttamente con me!».
«Ho ipotizzato che, non avendole detto subito come stavano le cose, avresti continuato a mentirle anche in un probabile faccia a faccia».
Molly strinse i pugni lungo i fianchi e si avvicinò di un passo, forse nel tentativo di intimidirlo torreggiando su di lui.
«Hai detto bene, era una tua ipotesi! Non sai che cos'avrei fatto davvero!».
«Quindi le avresti detto la verità, se lei ti avesse chiesto il perché di tutti questi "straordinari"?», le chiese Arsène tranquillissimo, tanto da schiacciare qualche tasto del pianoforte con una mano.
«Non lo so e non è questo il punto!».
Le dita di Arsène si strinsero in un pugno e con esso diede un colpo ai tasti, suonando un accordo stonato che la fece sobbalzare.
«Allora qual è, il punto?».
Il ladro, non avendo ottenuto risposta, si alzò e dal suo abbondante metro e ottanta la guardò coi suoi occhi verdi, così magnetici da costringerla a tenere il capo sollevato.
«Mia figlia sapeva che avrebbe rischiato di fare la figura della ficcanaso, ma era così preoccupata per te che ha deciso di agire comunque. Io l'ho semplicemente sostenuta. È quello che dovrebbe fare un buon padre, giusto?».
Molly sentiva le gambe molli come gelatina, il cuore che le batteva forte nel petto. Non sapeva perché la vicinanza di Arsène le facesse quell'effetto, ma era ben decisa a non lasciarsi sopraffare.
«Ad ogni modo ti chiedo scusa, se ritieni che avrei dovuto comportarmi diversamente», disse ancora Arsène, impedendole così di replicare. «E voglio approfittare dell'occasione per dirti anche che quando ti rivelai il motivo della distanza di Sherlock non pensavo che tu ti saresti iscritta ad un corso di autodifesa».
«Questo non ha niente a che vedere con Sherlock», mentì di getto Molly, trovandolo estremamente più facile.
Arsène le rivolse un sorriso dolce, uno di quelli che gli contagiavano anche gli occhi, e sollevò una mano per sistemarle una ciocca di capelli umidi, sfuggita alla presa del mollettone, dietro l'orecchio.
«Io penso proprio di sì», sussurrò. «E non voglio che tu ti senta costretta a frequentarlo. Fin quando ci sarò io, sarai perfettamente al sicuro».
«Io non... non voglio essere un peso per nessuno», riuscì a balbettare Molly, nonostante la bocca le si fosse seccata all'improvviso.
Per qualche ragione Arsène non allontanò la mano dalla sua guancia, anzi la accarezzò fino a prenderle il mento tra due dita.
Il suo tocco era così leggero e delicato, come se stesse sfiorando i tasti del pianoforte per suonare la malinconica melodia che era rimasta ad ascoltare fuori dalla porta prima di trovare il coraggio necessario a premere il campanello; allo stesso tempo le lasciava sulla pelle una scia di fuoco.
Si chinò ancora un po' sul suo viso, tanto che Molly riuscì a scorgere il sottile cerchio dorato intorno alle sue pupille dilatate, e con tono suadente disse: «Sei proprio un esemplare raro, Molly Hooper. Mi piacerebbe molto aggiungerti alla mia collezione, ma temo che se ti portassi via con me Sherlock non mi rivolgerebbe più la parola».
«Io non sono un pezzo da collezione».
Fu tutto ciò che disse, il massimo che riuscì a pronunciare. Tuttavia Arsène ne parve soddisfatto, come se l'avesse messa alla prova. Quindi si risollevò, fece un passo indietro e si lasciò cadere di nuovo sulla panca.
«Però...», riprese Molly, prendendo coraggio. «Però mi sembrava di averti già detto che non voglio più precludermi nulla per via di Sherlock».
Il Ladro Gentiluomo la fissò intensamente, corrugando persino la fronte nel tentativo di stabilire se per caso non avesse mal interpretato le sue parole.
Stava ancora riflettendo quando Molly annullò la distanza tra loro: si chinò, gli prese il viso tra le mani e posò le labbra sulle sue in un bacio casto.
Aveva le guance in fiamme e si sentiva tremare da capo a piedi, ma bastò che Arsène le cingesse la vita con un braccio, attirandola a sé, perché si tranquillizzasse. E quando rispose al bacio si sciolse, sedendosi sulle sue ginocchia per paura di cadere a terra.
L'incertezza e la goffaggine vennero presto spazzate via da una passione inaspettata e travolgente, tanto che ad un certo punto si ritrovarono avvianghiati l'uno all'altra e coi polmoni che bruciavano.
Con sguardo liquido Arsène posò la fronte contro la sua e le accarezzò i lati del viso, per poi allungarsi a baciarle la pelle dietro l'orecchio e a scendere sul collo. Molly ne approfittò per riprendere fiato, immergendo le dita tra i suoi capelli biondo platino ed inebriandosi del suo profumo. Si lasciò scappare un verso di sorpresa quando il ladro si alzò, la tirò su di peso e, dopo aver calciato di lato la panca imbottita, la fece sedere sui tasti del pianoforte, i quali si esibirono in una cacofonia di suoni di protesta.
Entrambi risero sulla bocca dell'altro e ripresero la danza di lingue.
Il mollettone di Molly volò alle spalle di Arsène, il quale le strinse i capelli tra le dita mentre lasciava le sue labbra bollenti per scendere nuovamente sul suo collo, lascivo.
L'anatomopatologa gettò indietro la testa e si beò dei tocchi della sua lingua esperta, dei suoi baci e dei piccoli morsi con cui ogni tanto le arrossava la pelle.
Si chiese se quello che stavano facendo fosse giusto, non solo nei confronti di Geneviève, ma anche e soprattutto di Sherlock, il quale aveva tentato più e più volte di metterla in guardia sulle sue doti di seduttore.
Quando Arsène le aveva detto che gli sarebbe piaciuto aggiungerla alla sua collezione avrebbe dovuto esserne inorridita, però... però si era sentita solamente lusingata. Che lui, così simile al detective in intelligenza e così bello da far girare la testa a tutte e tutti, fosse interessato a lei in quel modo... era da non credere.  Aveva provato ad opporsi, ci aveva provato davvero, ma era stato inutile.
Le mani di Arsène scivolarono sotto la larga felpa grigia che indossava, accarezzandole i fianchi, e Molly sollevò automaticamente le braccia perché lui potesse sfilargliela. Poi l'imbarazzo ebbe la meglio e con un braccio andò a coprirsi il seno, arrossendo, e il ladro accostò di nuovo la fronte alla sua, respirando forte sulle sue labbra.
«Sei bellissima», le sussurrò, portandole una mano sulla guancia destra. Con il pollice le accarezzò lo zigomo ed abbozzò un sorriso, per poi cercare di nuovo le sue labbra.
Molly però voltò il capo di scatto, evitando il suo bacio, e rispose: «L'avrai detto a così tante donne che ormai avrà perso di significato per te».
Arsène si sistemò meglio tra le sue gambe e le avvolse la schiena con le braccia, accostò la fronte alla sua e la costrinse a guardarlo negli occhi.
«Ti sbagli», mormorò. «La bellezza è in ogni cosa, basta solo essere capaci di vederla. Provo pena per chi non ci riesce. E ancora di più per chi non ha il coraggio di allungare la mano ed afferrarla, nonostante sia tanto vicina».
Era ovvio che si stesse riferendo a Sherlock e Molly sentì le lacrime bruciarle gli occhi. Tuttavia non voleva rimangiarsi ciò che aveva detto: non poteva smettere di vivere la propria vita, di divertirsi ed essere felice - anche solo per un'ora, - nella speranza che Sherlock trovasse il coraggio per farsi avanti.
Per questo posò le mani sulla sua nuca, le dita strette tra i suoi capelli di seta, e bruscamente lo attirò a sé per far scontrare le loro bocche.
Arsène la invitò a cingergli il bacino con le gambe e poi, prendendola per le cosce, la sollevò.
Si ritrovarono così sul letto della signora Lee e se fosse stata pienamente in sé Molly si sarebbe sentita tremendamente a disagio, ma Arsène era tutto ciò che vedeva, sentiva e desiderava in quel momento.
Lo aiutò a sfilarsi il maglione e mentre lui tornava a baciarla, accarezzandole i fianchi e le cosce, lei percorse con le dita ogni centimetro di pelle: partì dal collo, dal quale penzolava una catenina d'oro con un piccolo crocifisso, e scese sulle spalle, fece avanti e indietro sui suoi bicipiti e tornò sul petto, dove tracciò le linee delle clavicole e poi trovò i suoi pettorali pronunciati, fino ad arrivare agli addominali scolpiti e alle ossa a V del bacino.
Non era mai stata con un uomo con un fisico così perfetto, anche se di imperfezioni ne aveva tante, forse troppe: le cicatrici, di ogni forma e dimensione; ricordi di chiassà quale passato.
Arsène le lasciò un morso un po' più forte degli altri sul seno e Molly inarcò la schiena, gemendo, ed involontariamente strinse le dita sui suoi fianchi. Il Ladro Gentiluomo trasalì, dato che aveva toccato la ferita non ancora del tutto rimarginata.
«Oddio! Scusami, scusami», esclamò la castana, col fiato corto e gli occhi lucidi. Piegò la testa di lato per controllare se la fasciatura si fosse sporcata di sangue, ma Arsène le sfiorò il collo col naso, ridacchiando.
«Non è niente», sussurrò, provocandole la pelle d'oca dove il suo fiato l'aveva sfiorata.
«Sei sicuro? Forse non dovremmo...».
«Ehi». Le prese delicatamente il volto tra le dita perché i loro sguardi si incatenassero e sorrise dolcemente. «Se hai cambiato idea non devi fare altro che dirmelo, siamo ancora in tempo».
Molly scosse con fermezza il capo e gli allacciò le braccia dietro al collo. «Non ho cambiato idea».
«Sei sicura?».
L'anatomopatologa annuì e chiudendo gli occhi sollevò il capo per posargli un casto bacio sulle labbra. «Sicura», affermò senza riaprirli.
Arsène la baciò di nuovo, e ancora e ancora, e nel frattempo le sfilò i leggings e, con lentezza esasperante, le mutandine di cotone bianco, semplici come lei.
Molly Hooper aveva un bel fisico, ben proporzionato, ed era un peccato che si trascurasse tanto nel vestire.
Le sue mani gli accarezzavano i capelli, a tratti con tenerezza e a tratti con forza, facendogli capire quali punti, se stuzzicati, le provocavano le sensazioni più forti.
Al ladro piaceva dedicarsi ai corpi dei suoi amanti, specie quando li possedeva per la prima volta: esplorarli in lungo e in largo, scoprirli e stupirsi delle loro reazioni; la consapevolezza di averli alla sua mercé... era ciò che gli piaceva di più, anche più dell'atto sessuale in sè.
Spesso quel suo dilungarsi tanto nei preliminari aveva riscontrato del malcontento, ma Molly lo lasciava fare e rispondeva ai suoi stimoli in maniera così docile e timida che troppo presto si ritrovò più eccitato del dovuto.
Provò a resistere ancora un po', ma fu costretto a cedere quando il piede dell'anatomopatologa gli accarezzò l'erezione stretta nei boxer. Allontanò le dita dalla sua apertura già umida e velocemente si sbarazzò di pantaloni ed intimo, poi recuperò un preservativo e se lo infilò. Tornò a sdraiarsi sopra di lei, baciandole il petto, il collo e poi le labbra, e lo sguardo offuscato dal piacere che gli rivolse fu ciò che cacciò via ogni ripensamento.
No, non avrebbe mai immaginato di finire a fare l'amore con Molly Hooper, la donna in grado di far ingelosire la Dominatrice, Irene Adler; la stessa donna il cui animo gentile e generoso aveva dato a Geneviève un tetto sopra la testa, regalandole giorni di normalità nel caos che era diventata la sua vita; la stessa donna che riusciva a vedere oltre le maschere, anche quelle meglio riuscite; la stessa donna che aveva rubato il cuore di Sherlock e che ora, per tutti questi motivi, rischiava di rubare anche il suo.
È giusto così?, si domandò mentre i loro gemiti riempivano la stanza.
Quale senso poteva avere innamorarsi di Molly Hooper, sapendo perfettamente che l'amore che lei nutriva per Sherlock non sarebbe mai svanito? Avrebbe finito per rimanerne scottato, come sempre, però...
«Arsène», ansimò Molly ad una spinta più forte e profonda delle altre, infilzandogli le unghie nella schiena.
Il ladro sorrise e con una mano le scostò i capelli dal viso, poi la baciò sulle labbra, sul mento e sul collo. «Sono qui», rispose ansimando sulla sua pelle.
Era lui che stava chiamando in quel momento, e niente al mondo gli avrebbe regalato un'emozione altrettanto forte. Sarebbe passato tra le fiamme dell'inferno pur di sentirsi in quel modo: compreso, desiderato, amato. Perciò al diavolo il dolore! La felicità di quegli attimi era insostituibile, irrinunciabile. E come aveva detto a Geneviève appena qualche ora prima, non se ne sarebbe mai pentito.

«C'era qualcosa che volevi chiedermi prima, in libreria».
Geneviève sollevò il capo dal marciapiede e lo guardò confusa.
Era così immersa nei suoi pensieri - scoprire che Molly si era iscritta ad un corso di autodifesa l'aveva davvero scioccata - che non aveva capito cosa le avesse chiesto. Dopo che il padre ebbe ripetuto, la ragazzina si strinse il collo tra le spalle ed abbozzò un sorriso palesemente finto.
«Non era niente di importante».
«Vorrei saperlo comunque».
La figlia sospirò e calciò una lattina vuota, i capelli biondi che le nascondevano il viso di nuovo rivolto verso il cemento.
«Volevo chiederti se avessi mai amato la mamma».
Arsène fu così colpito da quelle parole che si bloccò, come se qualcuno avesse appena messo il freno a mano alle sue gambe.
«Che domanda è?», le chiese quando riuscì a riprendersi. «Ho amato profondamente tua madre».
Geneviève scosse il capo, amareggiata. «Vedi? Lo sapevo che ti saresti arrabbiato».
«Non sono arrabbiato, sono solo... stupito. Perché dubiti del mio amore per lei?».
«Sono certa che le volessi molto bene, ma non credo che tu fossi innamorato. Insomma, l'amore... per come la vedo io si trova una sola volta nella vita».
«E che cosa te lo fa pensare?», le domandò.
«Ecco, io... non lo so».
Arsène sorrise e la raggiunse per posarle una mano sul capo. «Per come la vedo io, invece, Cupido ha decine di frecce nel suo arco e sta a lui decidere con quante colpirti. Lo so che può sembrare anticonvenzionale o addirittura doloroso per te pensare che tua madre non sia stata l'unica ad avermi rapito il cuore, ma è così: io sono uno che si innamora facilmente, e so che è amore perché non dimentico e soffro, soffro molto, quando una storia finisce. Dopo Clotilde ho amato altre persone e nel futuro ne amerò altre ancora, ma non dimenticherò mai quello che abbiamo avuto io e lei».
«E non ti sei mai pentito di aver amato e sofferto? Nemmeno una volta?».
Arsène rispose subito, certo della propria risposta: «Nemmeno una. E vuoi sapere il perché?».
Geneviève annuì con un debole cenno del capo.
«Perché è stata una mia scelta. Quand'ero un ragazzino... No, non è necessario che tu lo sappia». L'avvicinò a sé con un braccio avvolto intorno alle sue spalle e le baciò la tempia. «Quello che conta è essere liberi di fare le proprie scelte. Che siano giuste o sbagliate... poco importa alla fine».

Arsène era quasi giunto al limite, ma si trattenne ed infilò le braccia sotto la schiena di Molly per sollevarla e portarsela sulle gambe. Da quella posizione riuscì a toccare quel punto dentro di lei che le fece sbarrare gli occhi e raggiungere l'orgasmo. Il ladro, sentendosi stringere dal suo sesso, venne a sua volta, col volto premuto contro la gola dell'anatomopatologa.
Non si allontanarono subito: rimasero abbracciati per diversi minuti, a riprendere fiato e a permettere ai loro cuori di rallentare il ritmo dei battiti.
Lupin, con l'orecchio posato contro il suo petto, si lasciò cullare da quelle pulsazioni e rilassò ogni muscolo. Rischiò addirittura di addormentarsi quando Molly iniziò ad accarezzargli i capelli, passandoseli tra le dita ed immergendovi di tanto in tanto il viso per baciarli teneramente.
«Farei meglio ad andare», sussurrò ad un tratto, scostandosi per cercare di guardare Arsène negli occhi.
Lui li riaprì di scatto e sollevò il viso verso il suo, fissandola con l'espressione spaurita di un bambino. «No, non mi lasciare. Dormi con me».
Molly provò a dirgli che se Geneviève si fosse alzata nel cuore della notte - e capitava più spesso del dovuto - e non l'avesse trovata si sarebbe insospettita, ma la morsa che sentì stringerle il cuore impedì alle parole di uscire.
«E va bene», acconsentì piano, anche se con una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco.
Arsène le rivolse un ampio sorriso - e l'unico aggettivo che le venne in mente per descriverlo fu ancora una volta "bambinesco" - e gentilmente uscì dal suo caldo anfratto, non senza provocarle un brivido lungo la spina dorsale. Si alzò per sbarazzarsi del preservativo e darsi una ripulita e poi la raggiunse sotto il piumone che Molly si era tirata fin sotto il mento. Le sollevò un braccio e tornò a posare l'orecchio contro il suo petto, con espressione pacifica.
La donna corrugò la fronte, ma non disse nulla. Dopotutto ognuno aveva le proprie piccole manie da dopo-sesso. Anche se forse, dal suo punto di vista, avrebbe dovuto essere lei a sentire il bisogno di accoccolarsi contro di lui.
Intuì che forse c'era un motivo per cui si sentiva tanto a disagio quando Arsène le chiese: «Mi accarezzeresti i capelli come hai fatto prima? Solo finché non mi addormento».
Molly ridacchiò nel tentativo di buttarla lì come uno scherzo: «Come mai tutto d'un tratto sei così mammone?».
Arsène però si irrigidì bruscamente e rotolò di lato, prendendo il cuscino e modellandolo con delle manate.
«Hai ragione, scusami», disse quando vi tuffò la faccia, e fu un miracolo se la castana riuscì a capirlo.
L'imbarazzo a quel punto, invece che diminuire, era aumentato.
Molly si girò sul fianco e gli posò una mano sulla spalla. «Ehi, non volevo offenderti o...».
«Non hai fatto nulla di sbagliato», la interruppe, alzando il volto di scatto per rivolgerle un largo sorriso, ma privo di sincerità.
L'anatomopatologa sospirò e spostò la mano sulla sua guancia, accarezzandola dolcemente. Quindi si sporse a baciargliela e sussurrò: «Di qualunque cosa si tratti, mi dispiace. Meglio che vada».
Si alzò, recuperò le mutandine e i leggings e se li infilò. Con un braccio a coprirsi il seno, sulla porta della camera da letto si fermò a guardare Arsène, trovandolo nella stessa posizione in cui l'aveva lasciato ma con una sostanziale differenza: la lacrima che gli brillava sulla guancia.
Molly non se la sentiva di addossarsi altri tormenti, non quella sera; non dopo che aveva fatto l'amore col ladro nel tentativo di riappropriarsi della propria vita in seguito alle tre parole pronunciate nei confronti e dal detective. E forse anche un po' per ripicca, chi lo sa.
Perciò gli diede le spalle, anche se non fu affatto facile, e una volta in salotto si chinò a raccogliere tutte le tracce del proprio passaggio. Rivestita, lasciò l'appartamento della signora Lee e nonostante fossero solo pochi passi respirò profondamente per affrontare quella specie di "camminata della vergogna".

***

«Allora, sei pronto?».
Sherlock si voltò verso il fratello, divertito come lo vedeva raramente, e sospirò. «C'è qualcosa che non mi hai detto, ma adesso è già tardi».
Mycroft annuì con un breve cenno del capo, facendogli segno di scendere dal furgone nero preparato per l'occasione, e Sherlock, infilandosi il passamontagna, si disse che la sua carriera e la sua reputazione di detective, soprattutto, ne avrebbero risentito parecchio se si fosse venuto a sapere che era finito ad interpretare il ruolo di Arsène Lupin. Non poteva più tornare indietro però. Sospirò nuovamente e zaino in spalla scese dal furgone.
Scavalcò la recinzione del giardinetto sul retro e raggiunse la grande serra di vetro. L'interno era buio e silenzioso, ma il detective sapeva che le telecamere con rilevatore di calore erano pronte a far scattare l'allarme se avessero registrato l'ingresso di una massa corporea di temperatura inferiore ai quaranta gradi centigradi (la temperatura media degli uccelli, appunto). Dato che Sherlock non aveva la febbre, doveva per forza disabilitarle. E qui entrava in gioco suo fratello.
«Ci sono», sussurrò dentro il piccolo microfono appuntato alla giacca.
«Diamo il via all'Operazione Role-Play, allora», rispose Mycroft.
«Dobbiamo per forza dare un nome a questa... cosa?».
Sherlock non fece in tempo a concludere la domanda che tutto il vicinato finì al buio a causa di un black-out.
«Fase uno completata», gli disse il fratello maggiore.
Il detective si limitò a tirare fuori dallo zaino un cutter per vetro, dell'olio e una ventosa. Con calma e precisione fece un cerchio accanto alla serratura ed estrasse il pezzo di vetro, poi infilò la mano nel buco ed aprì la porta.
E anche la fase due era completata, come avrebbe detto Mycroft.
Entrò con passo felpato per non svegliare gli uccelli; non tanto perché avrebbero potuto dare l'allarme - Melas era fuori a teatro - ma perché sin da bambino li aveva sempre trovati fastidiosi ed inquietanti, coi loro piccoli occhi, i becchi appuntiti e il loro volare in gruppo. Quindi percorse il vialetto che attraversava tutto il biotopo fino ad arrivare al centro esatto, dove il dolce gorgogliare di una fontana spezzava il silenzio. Si acquattò a terra e coi soli raggi di luna a fargli luce cercò la finta grata di scarico, di forma rotonda e grande all'incirca una spanna, che gli aveva mostrato quel pomeriggio il professor Melas. Quando la trovò infilò le dita della mano destra nei cinque buchi posti alle estremità e la ruotò di trecentosessanta grandi. Contemporaneamente qualche metro più avanti due mattonelle del vialetto scattarono verso l'esterno, rivelando una botola.
Sherlock scese la stretta scalinata di pietra e sbucò in una specie di cantina, dal soffitto a volta e con le pareti di mattoni. Sapeva di avere i minuti contati, perciò non si soffermò a guardare gli altri oggetti da collezione del professor Melas, tra cui vasi ed anfore dell'antica Grecia, e a passo spedito raggiunse il caveau. La porta elettronica aveva un'alimentazione di riserva, ma era nel loro interesse tenerla accesa. Sherlock tirò fuori dallo zaino la strumentazione che Mycroft gli aveva fornito e lasciò che fosse il piccolo computer a trovare la combinazione numerica, anche se era certo che con un po' di tempo in più, esaminando le impronte lasciate sul display touch screen, sarebbe riuscito a trovarla lui stesso.
L'attesa fu a dir poco snervante e a suo parere non ne valse comunque la pena. Una volta entrato nel caveau, infatti, si ritrovò davanti all'oggetto per cui stava facendo tutta quella fatica: il dipinto perduto di Leonardo da Vinci intitolato "Leda col cigno".
Che si trattasse di un quadro astratto, come quello nella camera d'albergo, o di una tavola raffigurante un mito greco, per Sherlock non faceva alcuna differenza. Riconosceva l'impegno e il talento dell'artista - lui non ne sarebbe mai stato in grado - ma non riusciva proprio a comprendere il motivo per cui certe persone fossero disposte a pagare cifre assurde o a compiere azioni illegali pur di impossessarsene. Forse quando Rosie sarebbe cresciuta abbastanza da regalargli un disegno anche lui l'avrebbe conservato, magari appendendolo sul frigorifero per guardarlo e riguardarlo, ma era una questione completamente diversa a causa del legame affettivo tra "artista" e possessore. Qual era il motivo che spingeva Arsène Lupin a rubare i dipinti, invece?
Avrebbe potuto continuare quel ragionamento per giorni, accumulando ipotesi e teorie, ma non aveva tutto quel tempo a disposizione.
Lasciò la porta del caveau aperta alle sue spalle per non rimanere stordito dai bassi livelli di ossigeno - necessari per la perfetta conservazione di opere come quelle - e con due sole falcate raggiunse il cavalletto su cui era posata la tavola perduta di Leonardo da Vinci.
Si inginocchiò e dallo zaino tirò fuori diversi fogli di plastica a bolle. Li posizionò sul pavimento e tirò giù il dipinto dal cavalletto per imballarlo, poi lo infilò all'interno di una grossa sacca di tela.
Prima di lasciare il caveau tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il bigliettino che aveva preparato in anticipo, imitando perfettamente la calligrafia del Ladro Gentiluomo, e lo lasciò sul cavalletto. Quindi sospirò e se ne andò, cancellando ogni traccia del suo passaggio ad eccezione del pezzo di vetro che aveva tagliato per aprire la porta della serra. Per coprire il buco ed evitare di far patire il freddo agli uccelli dovette farsi bastare del nastro adesivo in PVC. Un comportamento da vero gentiluomo, in stile Arsène Lupin.
Con la tavola appesa sulla spalla destra ritornò al minivan nero in cui Mycroft lo stava aspettando, insieme ai due uomini fidati che il fratello aveva coinvolto per fare loro rispettivamente da autista e da hacker.
Una volta entrato e chiusa la portiera, Mycroft gli chiese con gli occhi se fosse tutto a posto. Al cenno affermativo di Sherlock fece segno all'uomo seduto al suo fianco, con un PC sulle gambe e un paio di cuffie alle orecchie, di procedere: in meno di tre secondi la corrente tornò nelle case in cui era venuta a mancare.
«Signori», esclamò poi, con un mezzo sorriso sul volto. «Operazione Role-Play completata. Ottimo lavoro».
L'uomo che era al volante mise in moto e Mycroft non perse tempo: stese le mani verso il fratello minore e questo gli consegnò la tela, studiando con occhi attenti ogni suo più piccolo movimento. Contò persino quante rughe a zampe di gallina gli si formarono agli angoli degli occhi quando la afferrò e la tirò fuori dal proprio imballaggio per accertarsi che fosse proprio l'opera che ricordava e poi la trasferiva in una grande valigetta costruita su misura.
«Che cosa vuoi farci?», gli domandò Sherlock, con gli occhi affilati.
«Pensi che ti abbia nascosto qualcosa?».
«Sì, lo penso».
«Fai bene».
Quella sua onestà non lo stupì affatto. D'altronde perché mentire? Probabilmente Mycroft aveva scommesso con se stesso quanto tempo ci avrebbe messo a giungere alla conclusione che lui non si offriva mai di aiutare qualcuno, perdendo del tempo prezioso, a meno che non avesse un interesse personale.
«Purtroppo però non posso parlartene», aggiunse, chiudendo di scatto la valigetta e rivolgendogli un sorriso. «Spero tu possa capire».
«Certo», rispose Sherlock, incrociando le braccia al petto.
Quella volta fu Mycroft a scrutarlo, alla ricerca del motivo per cui gliel'aveva data vinta così facilmente. Alla fine decise di chiederglielo direttamente.
Sherlock scrollò le spalle. «Tutto ciò che mi interessa è che il piano funzioni. Quello che farai poi col dipinto non mi riguarda».
Mycroft non era ancora convinto, ma era difficile capire quello che passava per la testa del suo fratellino quando c'era di mezzo Arsène.
Quell'uomo era sempre riuscito, fin dal loro primo incontro, a turbarlo profondamente - spesso nel bene, ma non sempre. Si domandò quale fosse delle due, nonostante fosse consapevole che le risposte ad ogni sua curiosità le avrebbe ottenute solo alla fine della storia. Avrebbe aspettato. 

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Capitolo 20
*** Broken vow ***


Buongiorno! :)
Pronti ad iniziare l'anno alla grandissima? Questo capitolo è quello che molti attendevano e non vedo l'ora di leggere le vostre reazioni, veramente. Avete capito di cosa si parlerà? Del passato. Del passato di Sherlock e soprattutto di quello di Arsène.
Non solo, si prepareranno anche le basi per ciò che avverrà nei prossimi capitoli: lo scontro del secolo tra il detective e il ladro.
Vi lascio direttamente alla lettura, è meglio :D
Ah, solo una cosa. Durante la rifinitura di questo capitolo ho ascoltato a ripetizione "Silence" di Marshmello e Khalid perché credo che sia stata scritta per il nostro Ladro Gentiluomo. E ve ne accorgerete.
Adesso vado sul serio. Grazie di cuore a tutte le buone anime che hanno letto fino a questo punto - spero che continuerete fino alla fine - e a chi spende sempre cinque minuti del suo tempo per recensire. Siete la mia gioia! *^* Se avete bisogno di chiaramenti o fare semplicemente quattro chiacchiere ricordo che c'è sempre la mia pagina facebook qui.
Alla prossima settimana, ciao!

Vostra,

_Pulse_


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20. Broken vow

Grégorie non aveva più alcun motivo per cui fermarsi alla Royal Suite prima di dedicarsi all'unico compito lasciatogli dal suo padrone. Per questo era già in auto, diretto verso l'appartamento di Molly Hooper, quando sentì per la prima volta la notizia dell'ultimo strabiliante colpo del Ladro Gentiluomo.
"Questa notte, poco dopo le ventitrè, c'è stato un black-out che ha coinvolto diversi quartieri di Londra, tra cui quello in cui abita il professor Melas, un rinomato linguista di origine greca", stava raccontando il giornalista radiofonico quando Grégorie si sintonizzò.
"Il professor Melas ieri sera era a teatro e solo al suo ritorno, intorno alla mezzanotte, ha scoperto l'effrazione. Non sappiamo molto a riguardo - il professore e il suo avvocato non hanno voluto commentare l'accaduto quando li abbiamo intercettati questa mattina fuori dalla sede di Scotland Yard - ma fonti interne alla polizia confermano che lo scopo dell'effrazione era quello di rubare un dipinto perduto di Leonardo da Vinci, intitolato "Leda col cigno", e che ad organizzare il colpo sia stato Arsène Lupin, in Francia conosciuto come il Ladro Gentiluomo. Lupin infatti, come da sua abitudine, avrebbe lasciato nel caveau del professor Melas un bigliettino con le sue iniziali e con cui lo ringraziava di aver conservato la preziosa tela con così tanta cura. Ovviamente è stata sporta denuncia, ma da quello che sappiamo sarà difficile per il professor Melas rivendicare la proprietà del dipinto nel caso in cui venga ritrovato".
Grégorie, terminato il resoconto del furto, chiamò Ernest per avvisarlo che avrebbe tardato a dargli il cambio nella sorveglianza di Geneviève e fece inversione ad U.
Tornato al Savoy andò alla reception e chiese di Maurice Leblanc. Gli dissero che l'avrebbe trovato al Thames Foyer e così fu. Stava facendo colazione, col suo computer portatile davanti agli occhi.
«Hai saputo?», gli domandò senza badare ai convenevoli, sedendosi davanti a lui.
Il reporter del Ladro Gentiluomo posò la tazza di caffè sul piattino e sospirò, battendo un dito sul touch-pad per interrompere il video delle news in streaming che stava guardando.
«Sì, ma dubito che sia stato lui».
«Lo penso anche io. Ha deciso di mantenere un basso profilo per potersi concentrare sulle persone che hanno provato ad ucciderlo, non ha senso che abbia organizzato un colpo del genere, sapendo che avrebbe attirato l'attenzione dei media».
«A meno che non l'abbia fatto apposta per sfidarli», ipotizzò Maurice, massaggiandosi la fronte. «Però è strano...».
Grégorie lo fissò intrecciando le braccia al petto ed addossando la schiena alla sedia. «Sei in contatto con lui?», gli domandò poi a bruciapelo.
Il ragazzo ricambiò il suo sguardo, il volto impassibile per non lasciar trapelare nulla. Tuttavia il suo silenzio fu eloquente e Grégorie si sporse sul tavolo per sussurrare: «Non voglio sapere dove si trova, ma dimmi almeno come sta».
«È determinato a risolvere la faccenda nel minor tempo possibile per tornare alle solite attività», gli rispose con un sorriso.
L'uomo coi baffi ricambiò, sollevato. Avrebbe tanto voluto sapere anche dove fosse, magari solo per guardarlo da lontano, ma sapere che il suo padrone non aveva perso la fiamma che gli ardeva nel petto era sufficiente per il momento.
Si alzò dal tavolo con l'intenzione di tornare ai propri doveri, ma Maurice lo trattenne dicendo: «Arsène mi ha dato delle ricerche da svolgere e te ne sarei infinitamente grato se potessi aiutarmi».
Colpito dalla richiesta del giornalista, Grégorie impiegò qualche secondo per chiedere: «Che genere di ricerche?».
«Per scoprire chi sono i mandanti dell'agguato dobbiamo investigare sul suo passato».
«Mi dispiace, ma temo di non poterti essere d'aiuto», dovette rispondere, nonostante lo addolorasse molto. «Padron Lupin e io ci conosciamo da dieci anni - di fatto io sono al suo fianco da più tempo di tutti - eppure non mi ha mai raccontato nulla di ciò che è avvenuto prima di quel giorno».
«E non c'è nessuno che potrebbe saperlo? Nessuno che faceva parte dell'organizzazione prima del tuo arrivo e che può essere contattato?».
«Una persona ci sarebbe».
Maurice, gli occhi castani brillanti di emozione dietro le lenti degli occhiali, si alzò in piedi. «Chi?».
«Si tratta di una donna, una certa Victoire».
«Mai sentita nominare».
Grégorie annuì. «Non mi stupisce. Si tratta di una specie di leggenda, tra i membri dell'organizzazione. Nessuno l'ha mai vista, fatta eccezione per padron Lupin, ovviamente. Si dice che si rivolga a lei solo in casi di estrema necessità».
«E io come potrei mettermi in contatto con lei?».
«Tramite il forum».
Prima che Maurice potesse chiedergli di cosa stesse parlando, Grégorie tirò fuori una penna dal taschino e scrisse su un tovagliolo di carta un'indirizzo della darknet.
«Per accedervi verrai sottoposto ad un test e se lo supererai diventerai un membro effettivo. Secondo molti è la stessa Victoire a decidere chi può partecipare alle discussioni e chi no. Ad ogni modo, anche se supererai il test e le scrivessi un messaggio privato non è detto che ti risponda».
Il reporter afferrò il tovagliolo con l'adrenalina a mille - non aveva mai navigato nel Deep Web in vita sua - e lo piegò in quattro con cura prima di infilarselo nella tasca interna della giacca di pelle marrone.
«Ci proverò comunque», disse poi all'uomo. «Grazie per l'aiuto».
Grégorie rispose con un semplice cenno del capo e se ne andò senza più guardarsi indietro.

***

Geneviève uscì dalla propria camera stropicciandosi gli occhi e passando davanti a quella di Molly la trovò vuota ed in ordine, come sempre quando faceva il primo turno al Bart's.
Proseguì fino al salotto, dove si imbatté in Toby. Col micio stretto tra le braccia raggiunse il frigorifero dietro l'isola della cucina. Sull'anta trovò un bigliettino indirizzato a lei: Molly era già uscita per andare al lavoro e sarebbe tornata quel pomeriggio. "Niente straordinari oggi", aveva aggiunto con una faccina sorridente.
Si scaldò una tazza di latte e con una brioche preconfezionata si piazzò sul divano, tra le cui pieghe recuperò il telecomando per accendere la TV.
Era diventata parte della sua routine mattutina ormai guardare un'oretta di cartoni animati prima di sistemare la sua camera, leggere, giocare o navigare su internet col pc dell'anatomopatologa e poi preparasi un pranzo veloce, ma quella volta fu costretta a rinunciarvi a causa del telegiornale. Era stato il grande titolo in sovraimpressione, in particolare, a lasciarla a bocca aperta: "Arsène Lupin ruba dipinto perduto di Leonardo da Vinci".
«Non ci credo», mormorò e Toby miagolò a sua volta, cercando le sue carezze infilandosi sotto il suo braccio.
Si alzò dal divano, gettando all'aria la coperta in cui si era avvolta, e recuperò il cellulare per comporre il numero della libreria della signora O'reilly. Fu proprio lei a rispondere, dopo appena due squilli, e Geneviève chiuse gli occhi, maledicendo la propria impulsività.
«Ahm, mi scusi, c'è per caso Thomas?», le domandò, improvvisando.
«Questa mattina purtroppo non c'è. Posso aiutarla in qualche modo?».
«Vede, ero passata l'altro giorno e mi aveva consigliato un libro. Volevo solo dirgli che l'ho apprezzato molto e ringraziarlo, ecco tutto».
«Capisco. Sono felice che abbia saputo azzeccare i suoi gusti. È davvero bravo in questo!».
«Già. Beh, buona giornata!».
Geneviève terminò la comunicazione mentre la proprietaria della libreria le chiedeva se voleva lasciarle un nome, così da poter avvisare Thomas della sua chiamata. Quindi si sedette su uno degli sgabelli alti dell'isola e si coprì il volto con le mani.
Se suo padre non era alla libreria, allora dov'era? Che fosse davvero come avevano detto al telegiornale?
Il solo pensiero che suo padre non avesse resistito alla tentazione di impossessarsi di quel dipinto, esponendosi e rischiando la propria vita, la faceva andare su tutte le furie, ma era anche preoccupata per lui.
Si portò i palmi sulle tempie, sforzandosi di immaginare il corso degli eventi dopo la rapina.
«Pensa, pensa Geneviève».
Per quanto si impegnasse però - dicendosi che magari gli era venuto il raffreddore o non gli fosse suonata la sveglia - riusciva soltanto a dipingere scene in cui Arsène veniva catturato, torturato e nel peggiore dei casi ucciso.
Fu il rumore di un vetro infranto a farle tornare la speranza. Proveniva dall'appartamento accanto, ne era sicura.
Uscì di casa in pigiama e fece per gettarsi contro la porta e tempestarla di pugni, ma all'ultimo ci ripensò.
E se quel vetro infranto fosse stato il rumore di una finestra sfondata? Forse qualcuno aveva sentito la notizia del dipinto rubato e voleva rubarlo a colui che per primo l'aveva sottratto al suo proprietario. Ma come avrebbe potuto quel qualcuno scoprire che Arsène Lupin si era trasferito nell'appartamento della signora Lee?
Geneviève arretrò lentamente e rientrò nell'appartamento di Molly per riordinare le idee. Quando si decise ad agire si era cambiata e aveva preso con sé la chiave di scorta che Molly le aveva confessato di avere per le occasioni in cui la signora Lee andava a visitare i parenti e le chiedeva di bagnarle i fiori.
Il più silenziosamente possibile infilò la chiave nella toppa e la girò, facendo scattare la serratura. Allora ruotò il pomello e spinse in avanti la porta, lo stretto necessario per sbirciare all'interno. Il salotto era silenzioso e sembrava tutto in ordine, comprese le finestre. Rassicurata fece capitolare all'interno la testa e fu allora che vide suo padre seduto al tavolo della cucina, con la testa nascosta tra le braccia.
«Papà», mormorò preoccupata e nella fretta di raggiungerlo si chiuse la porta alle spalle con un tonfo. Quel rumore improvviso fece alzare di scatto il Ladro Gentiluomo, il quale gridò: «Basta, lasciatemi stare!» ed agì d'istinto: prese il cavatappi abbandonato sul tavolo e glielo lanciò contro con così tanta forza e precisione che se Geneviève non avesse avuto i riflessi pronti e non si fosse abbassata sarebbe stata colpita in piena fronte.
«Papà, sono io!», gridò rimanendo accucciata a terra, con le mani a coprirle la testa.
A quel punto Arsène sbarrò gli occhi, inorridito, ed arretrò, facendo cadere la sedia alle sue spalle.
«Tesoro», sussurrò. «Tesoro, mi dispiace».
La ragazzina levò lo sguardo e quasi non lo riconobbe: nudo dalla vita in su, il volto stanco, gli occhi lucidi ed iniettati di sangue, i capelli in disordine. Capì il motivo del suo aspetto terribile quando notò la bottiglia di vino in frantumi alla sinistra del tavolo. Il pavimento non era bagnato, tranne qualche goccia rossa, perciò era già vuota quando era caduta.
«Papà, che cos'hai fatto?», gli domandò allora, alzandosi.
Arsène si guardò intorno, come se non ne avesse la più pallida idea, e qualche secondo dopo il suo volto assunse una strana sfumatura verdastra. Quando Geneviève capì cosa stava per succedere gli corse accanto, ma lui si era già aggrappato ai bordi del lavandino per rimettere. Si limitò dunque a tenergli la fronte e a massaggiargli la schiena, guardando dall'altra parte e tentando di respirare solo con la bocca per non vomitare a sua volta.
Quando finì, il biondo era senza fiato e con le lacrime agli occhi. Aprì il rubinetto e portò il viso sotto il getto freddo dell'acqua, poi si asciugò con lo straccio che la figlia gli porse e si lasciò accompagnare fino al divano, dove cadde a peso morto, stravolto.
Geneviève trovò una coperta e gliela stese addosso, quindi si sedette sul tappeto, all'altezza del suo volto, e gli tirò indietro i capelli che gli erano rimasti appiccicati alla fronte.
«Mi vergogno di me», sussurrò il Ladro Gentiluomo in francese, l'unica lingua che fosse in grado di parlare durante il post-sbronza.
«Di sicuro non è un bell'esempio», rincarò la dose Geneviève, anche se sorridendo. «Mi spieghi che cos'è successo?».
Arsène chiuse gli occhi, portandovi persino sopra il braccio, e finse di non averla sentita.
«Perché sei qui, Geneviève?».
La ragazzina sospirò e per rispondergli andò a prendere il telecomando. Accese la TV e tutti i più importanti canali di notizie si stavano ancora occupando di Arsène Lupin e del dipinto perduto di Leonardo da Vinci. Ormai il Ladro Gentiluomo era destinato a diventare una stella del crimine anche nel Regno Unito.
Dal modo in cui Arsène fissava lo schermo, con un misto di confusione e rabbia, Geneviève ebbe la certezza che lui non c'entrava nulla col furto e che qualcuno doveva aver usato il suo nome.
«Spero davvero di non essere stato io mentre ero ubriaco», esclamò ad un tratto. «Mi seccherebbe molto non ricordare dove ho messo un tesoro del genere».
Riuscì persino a strapparle un sorriso con quelle parole.
«Perché ti hanno dato il merito di un colpo così ben riuscito?», gli domandò la figlia, sinceramente curiosa ora che la preoccupazione era scemata.
«Non lo so, ma lo scoprirò». Si portò le mani sugli occhi, le dita serrate tra i capelli arruffati. Aveva in testa un nido di vespe.
«Anche se la mia reputazione ne beneficia», aggiunse a fatica, «non mi è mai piaciuto prendermi i meriti degli altri. Ma chi è l'imitatore? Chi sarebbe in grado di fare un colpo simile? Devo scoprirlo ad ogni costo».
Arsène si tirò su seduto, ma Geneviève lo prese per le spalle e lo costrinse a stendersi nuovamente.
«Tu non andrai da nessuna parte in queste condizioni», lo ammonì, portandogli la mano sulla fronte. «Pensa a riprenderti, okay?».
Il Ladro Gentiluomo sospirò e chiuse gli occhi al bacio delicato della figlia. Prima che si allontanasse troppo le posò una mano sulla nuca e la costrinse a guardarlo negli occhi.
Tremendamente serio, sussurrò: «Non mi sono dimenticato del nostro appuntamento. Un paio d'ore e sarò come nuovo, vedrai».
Geneviève sorrise ed annuì. Il padre le accarezzò i capelli, poi abbandonò la mano sul petto e il tempo di abbassare le palpebre ed era già tra le braccia di Morfeo.
Lei rimase per una dozzina di secondi ad osservarlo, chiedendosi cosa potesse mai essergli successo da spingerlo ad ubriacarsi. Che sentisse la nostalgia di casa? O forse era semplicemente stanco di vivere la vita tranquilla e monotona di Thomas il commesso? O, ancora, c'entrava qualcosa il discorso sull'amore che avevano fatto la sera precedente?
Non trovando una risposta, Geneviève decise di passare oltre: non le interessava cosa lo avesse fatto stare male, solo che d'ora in avanti stesse bene.
Cercò una scopa e una paletta e raccolse da terra i pezzi della bottiglia in frantumi, poi pulì le macchie di vino sul tavolo. Una volta finito tornò nell'appartamento di Molly solo per prendere il pc e con esso si sedette a gambe incrociate sul tappeto, la schiena posata contro il divano e il volto rilassato di suo padre a pochi centimetri dal proprio.
Voleva raccogliere il maggior numero di informazioni sul furto del "Leda col cigno" di da Vinci e provare a cercare il colpevole, in modo da poter aiutare suo padre quando si sarebbe ripreso e fargli capire che su di lei poteva sempre contare. Sì, insieme avrebbero potuto fare tutto.

***

Molly firmò le carte e poi seguì gli addetti delle pompe funebri mentre trasportavano all'esterno la semplice bara contente la salma della cameriera del Savoy.
Aveva ripreso a nevicare e nel parcheggio delle ambulanze c'era già l'auto scura con la quale l'avrebbero portata all'aeroporto per caricarla su un volo diretto in Romania, precisamente a Iași, città natale della ragazza.
Era stato straziante - come sempre - quando una settimana prima i genitori erano atterrati a Londra ed erano stati portati all'obitorio per il riconoscimento ufficiale. Molly, avendo fatto l'autopsia, aveva dovuto espletare tutte le pratiche insieme ad un interprete, dato che i due non parlavano altro che rumeno, e anche fare del proprio meglio per consolarli. Per fortuna gli abbracci e le strette di mano erano universali.
Si fermò accanto alle porte scorrevoli, rimpiangendo di non aver preso con sé la giacca, e rimase lì fino a quando il carro funebre non fu messo in moto.
«Assurda la quantità di scartoffie necessarie per spostare un cadavere».
Molly voltò il capo verso la sua sinistra, trovando Sherlock con le mani infossate nelle tasche del cappotto nero e la sciarpa blu avvolta intorno al collo. Quel colore gli aveva sempre fatto risaltare gli occhi, azzurri come il ghiaccio.
Mascherò la sorpresa dietro un pallido sorriso e stringendosi le braccia al petto rispose: «Non dirlo a me».
Il detective capì che si stava riferendo a quando era stata costretta a dichiararlo morto, ma preferì il silenzio.
L'auto uscì dal parcheggio e l'anatomopatologa sospirò, poi rientrò nell'ospedale e si diresse verso la caffetteria. Sherlock la seguì e quel suo comportamento la infastidì tanto - e per una serie infinita di motivi - che ad un tratto si girò di scatto e guardandolo negli occhi berciò: «Che cosa vuoi?».
Lui rimase vagamente stupito dalla sua aggressività, ma si ricompose in un batter d'occhio. «Hai visto il telegiornale questa mattina?».
«Sì, l'ho visto», rispose secca, nonostante avesse già capito dove volesse andare a parare.
«Volevo solo dirti che se per caso Arsène dovesse mettersi in contatto con Geneviève, per qualsiasi motivo...».
«Non è stato lui a rubare quel dipinto».
Sherlock corrugò la fronte ed assottigliò gli occhi. «Come, scusa?».
«Ho detto che non è stato lui a rubare quel dipinto», ripeté Molly, stringendo i pugni lungo i fianchi.
Era così arrabbiata - con Sherlock, con Arsène e con se stessa - che voleva prendere a pugni qualcosa; non potendolo fare, si sarebbe accontentata di sfogarsi col consulente investigativo, la persona che più di tutte aveva alimentato il dolore che le aveva scavato una voragine nel petto.
Non era mai stata una persona vendicativa e di certo se ne sarebbe pentita nel giro di un paio d'ore, ma in quel momento voleva solo fargliela pagare per quel suo atteggiamento da supereroe maledetto, in grado di sopportare tutto per la felicità degli altri. Peccato che non avesse capito che quel suo tenersi a distanza, anche se lo faceva per proteggerla, era la cosa che le stava facendo più male, tanto da spingerla tra le braccia di un uomo con cui non avrebbe mai avuto alcun futuro.
«Quando c'è stato quel black-out io e Arsène eravamo insieme», confessò, sentendo le lacrime pizzicarle gli occhi. «Stavamo facendo sesso, perciò è impossibile che fosse in quella casa».
L'espressione scioccata ed orripilata sul volto di Sherlock le fece arricciare gli angoli della bocca in un sorrisino.
«Cos'è, non l'avevi capito solo guardandomi?», lo prese in giro, strappandosi dal collo il foulard con cui aveva coperto il segno di un succhiotto poco sotto l'orecchio sinistro e poi abbassandosi il colletto del maglione per mostrargli altri segni rossi sulle clavicole, provocati da morsi.
Sherlock rimase in silenzio, incapace di formulare una qualsiasi frase di senso compiuto, e dopo attimi che parvero eterni decise di andarsene. Le diede le spalle e tirandosi su il bavero del cappotto percorse il corridoio, diretto verso l'uscita.
«Ecco, bravo, vattene!», gli gridò dietro Molly, anche se con voce rotta. «Evita le questioni scomode, scappa! È quello che ti riesce meglio dopotutto!».
Le porte scorrevoli si aprirono al suo passaggio e quando si richiusero l'anatomopatologa si voltò, accorgendosi degli sguardi curiosi che la sua scenata avevano attirato.
Abbassò il viso, rosso di rabbia ed imbarazzo, e dimentica del caffé che voleva comprarsi raggiunse il laboratorio d'analisi. Si appoggiò alla porta con la schiena e portandosi le mani tra i capelli raccolti scivolò a terra, i singhiozzi a squassarle la schiena.
«Cos'ho fatto? Cos'ho fatto?».

***

Sherlock sentì il proprio cellulare vibrare nella tasca del cappotto, ma dopo aver letto il nome di John sul display lo ignorò.
Continuò a camminare sotto la neve, ignaro di ciò che lo circondava o di dove fosse diretto. Lo comprese solo una volta arrivato.
Si sedette sulla stessa panchina su cui si trovava Vivian Norbury quando lui e Mary l'avevano raggiunta.
Stava guardando i pesci, come d'abitudine, ma quella volta era preparata ad ogni evenienza: nella borsetta aveva la pistola con cui avrebbe sparato un colpo diretto al detective che l'aveva incastrata, ma anziché ferire lui avrebbe trafitto Mary, togliendole la vita; quella vita tranquilla che aveva desiderato per così tanto tempo.
Nel silenzio e nella semi-oscurità dell'acquario Sherlock sentiva rimbombare nella testa le parole di Molly, e facevano male tanto quanto avrebbe fatto un martello pneumatico che batteva contro le pareti del suo cranio.
Era sicuro che prima o poi sarebbe successo. Era sicuro che Arsène sarebbe riuscito a derubarlo e ad ottenere così ciò che più voleva. Non c'era davvero nulla che potesse fare contro di lui. Doveva ammettere la sconfitta.
«Ti arrendi così presto?».
Sherlock, con la schiena addossata contro il basso schienale della panca, si voltò verso quella alle sue spalle, soffermandosi sul profilo bluastro di Mary, sorridente e con gli occhi fissi sulla vasca di pesci davanti a sé.
«Ho alternative?», le domandò.
La donna scrollò le spalle. «C'è sempre un'alternativa. Il fatto che tu non la veda adesso non vuol dire che non ci sia».
Sherlock sospirò e scosse il capo. «Anche se le dicessi la verità, ormai è troppo tardi».
«Per l'amore non è mai troppo tardi».
Si lasciò scappare una risata amara e si alzò dalla panchina, avvicinandosi al grande muro di vetro dietro il quale nuotavano i pesci.
«Qualcosa di divertente?», gli chiese all'improvviso suo fratello Mycroft, arrivato in quel momento.
Sherlock si voltò per incrociare lo sguardo di Mary - o almeno la proiezione creata dalla sua mente come ultima spiaggia - ma era già scomparsa. Non potendo rispondere con onestà a Mycroft, dicendogli che a farlo ridere era il modo con cui tentava di consolarsi, disse: «Invidiavo la tua triste e solitaria vita privata».
Il fratello maggiore fece schioccare la lingua contro il palato, evitando il suo sguardo.
«Allora, per quale motivo mi hai fatto venire qui? Tu potrai trascorrere le tue giornate dietro ai tuoi amichetti, io invece ho delle responsabilità nei confronti della nazione intera».
«Certo», fu il commento sarcastico di Sherlock. Si portò le mani dietro la schiena e fissando i pesci disse: «Considera annullata l'Operazione Role-Play. Non voglio più avere nulla a che fare con Arsène».
«Ne sei sicuro?».
«Sì. È tempo che ognuno vada per la sua strada, d'ora in poi».
«Pensavo non ti avrei mai sentito pronunciare queste parole. Che cos'ha fatto di così grave?».
Sherlock strinse così forte i denti da sentirli pulsare nelle gengive. «Non ha importanza».
«Va bene», sospirò il fratello. «Hai intenzione di tagliare i ponti anche con la ragazzina?».
Sherlock non ci aveva ancora pensato. Aveva voluto rimandare quel momento al più tardi possibile, ma sapeva esattamente cosa doveva fare.
«In un certo senso».
Mycroft rimase in silenzio e il detective, stringendo i pugni nelle tasche del cappotto, aggiunse: «Ho promesso a sua madre che l'avrei protetta, che l'avrei fatto per Mary, e non ho intenzione di fallire ancora».
«Quindi che hai intenzione di fare? Sai che Arsène non rinuncerà mai a lei».
«Dopo la morte della Donna Bionda mi ha confessato che stava valutando il da farsi e che Geneviève risultava ospite di una struttura d'accoglienza in Francia. Da allora non ci sono stati progressi, perciò deve aver capito che è troppo rischioso esporsi. Che razza di padre mette al secondo posto la figlia per la propria incolumità?».
Il fratello, inquadrata la situazione, lo affiancò e dopo qualche istante di silenzio affermò: «A me questa sembra solo una ripicca. Qualsiasi cosa sia successa tra voi due, forse dovresti evitare di coinvolgere la ragazzina. Ti ho già avvertito di non toccare le sue proprietà per evitare di scatenare le sue ire. E poi non sei stato tu a dirmi che non aveva scelto lei di avere Arsène Lupin come padre e che pertanto non aveva alcuna colpa?».
«Proprio perché non ha nessuna colpa devo allontanarla dalla sua influenza ora che ne ho ancora la possibilità», affermò il detective, irremovibile, mentre prendeva il cellulare e digitava rapidamente sulla tastiera touch-screen. «Se alla fine Arsène decidesse di procedere se la porterebbe via e senza nemmeno accorgersene Geneviève diventerebbe sua complice».
«Se sei sicuro che sia la cosa giusta da fare...».
«Sono sicuro».
A quelle due parole seguì il bip di una notifica.
Mycroft tirò fuori il proprio cellulare e con le sopracciglia inarcate lesse le informazioni che Sherlock gli aveva appena inviato.
«Puoi fare tu la soffiata ai servizi sociali francesi?».
«Certo», rispose con un sospiro l'Holmes più grande, il quale poi si allontanò.
I suoi passi echeggiarono lungo il corridoio, lenti e regolari, con un ritmo ben diverso da quello delle pulsazioni del cuore del detective.
Sherlock ebbe la tentazione di voltarsi per gridare al fratello di cancellare quel messaggio e di dimenticarsi tutto, dalla prima all'ultima parola, ma quando lo fece era già troppo tardi. Allora abbandonò il capo contro il vetro dell'enorme vasca, gli occhi chiusi a celare le lacrime, e poi con rabbia vi picchiò contro i pugni, facendo sobbalzare i pesci dall'altra parte.

***

Arsène aprì gli occhi di scatto e si ritrovò seduto col fiato mozzato, gridando in francese: «Non toccatemi!».
Quando riconobbe l'appartamento della signora Lee però sospirò di sollievo e si portò una mano sul petto, cercando di tranquillizzare i battiti del proprio cuore in tumulto. Era stato un incubo, solo l'ennesimo incubo.
Cercò di ricordare come mai si fosse addormentato sul divano e i ricordi riaffiorarono lentamente, anche se a ritroso: Geneviève che con espressione dolce lo costringeva a riposare, lui che vomitava e le lanciava contro il cavatappi non riconoscendola, la bottiglia di vino che aveva stappato e bevuto da solo nel cuore della notte, Molly Hooper che lasciava il letto su cui avevano fatto l'amore e lui che si comportava come un bambino.
«Dannazione», mormorò, portandosi le mani sul volto.
Non sarebbe dovuto accadere - non così presto almeno - ma quella notte aveva preso il sopravvento quella sua parte fragile che era emersa solo con Clotilde e che lei, anziché respingere, aveva compreso ed accettato. Molly avrebbe fatto lo stesso? O forse, essendo stato un solo momento di debolezza, non ne avrebbero mai più parlato? Ad ogni modo sapeva che le cose tra loro non sarebbero più state le stesse e ne era spaventato. Come l'avrebbe giudicato sua figlia, se fosse venuta a saperlo? E Sherlock?
Continuare a pensarci non gli avrebbe fornito le risposte, perciò si tolse la coperta e solo quando gli cadde lo sguardo sull'orologio si rese conto dell'ennesimo errore. Si alzò in fretta, mantenendo a stento l'equilibrio, e fece una capatina in bagno per fare una lunga pisciata, così lunga che si spazientì un po'; poi si lavò le mani e si diede una rinfrescata a viso e capelli. Quindi si infilò la prima felpa che trovò nell'armadio e con le scarpe in mano si precipitò alla porta accanto.
Fu proprio Geneviève ad aprirgli e ad accoglierlo con un sorriso mentre lui esclamava: «Perché non mi hai svegliato?! Ti avevo promesso che avremmo...!».
Si interruppe, costretto dal dito che la figlia gli posò sulle labbra. La guardò mentre si alzava sulle punte dei piedi e gli lasciava un leggero bacio sulla guancia.
«Avevi bisogno di riposare», gli disse quando fu di nuovo coi talloni per terra, il viso rosso di imbarazzo rivolto verso il pavimento. «Vieni dentro, ti ho preparato un passato di verdure».
Detto ciò lo prese per mano e lo condusse in cucina, intimandogli di fare attenzione alle decorazioni, sparse per tutto il salotto, con cui aveva già iniziato ad addobbare un albero alto circa un metro e mezzo.
Arsène, inebetito, si lasciò cadere sulla sedia che Geneviève aveva scostato dal tavolo per lui e si fece servire. Il profumo del piatto caldo fu l'unica cosa in grado di scuoterlo e che gli permise di afferrare la ragazzina per il polso.
«Che cosa c'è?», gli domandò questa, dato che non si decideva a parlare.
«Non riuscirò mai a capire che cos'ho fatto per meritarmi una figlia come te», ammise alla fine, per poi spostare con un piede la sedia dall'altra parte del tavolo ed invitarla a sedersi con lui.
Geneviève lo accontentò ed Arsène pensò ancora una volta che per lei avrebbe fatto di tutto, anche rinunciare a tutti i tesori del mondo. L'avrebbe fatto davvero.
Abbandonare l'attività di ladro, comprare un appartamento a Parigi, trovarsi un lavoro onesto e tornare a casa la sera per stare con la sua bambina, parlare di come fosse andata la giornata a scuola e con gli amici, chiederle quando gli avrebbe fatto conoscere il fidanzato e minacciare quest'ultimo con le peggiori torture se avesse osato farle del male.
E allora che cosa lo frenava? Perché non prendeva con sè lo stretto necessario e partiva, sparendo senza lasciare traccia per iniziare la loro nuova vita?
Arsène abbassò il cucchiaio nel piatto ormai vuoto ed aprì la bocca per chiederle un parere, ma Geneviève fu un secondo più svelta di lui nell'esclamare: «Sai, mentre dormivi ho fatto alcune ricerche sul furto che avresti commesso questa notte».
Il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso e si portò le mani sotto al mento, decidendo di rimandare l'argomento. Avevano tutto il tempo del mondo per discutere della loro vita insieme, dopotutto.
«Trovato qualcosa di interessante?», le domandò.
«In effetti sì». Gli fece segno di aspettare un attimo col dito indice e andò a recuperare il pc. Una volta tornata al tavolo, spiegò: «In un articolo on-line c'era un po' della biografia del professor Melas, ma non era molto approfondita. In particolare mi ha incuriosito il fatto che per diversi anni, a causa di un incidente, ha smesso di insegnare all'università di lingue. Allora sono andata a cercare tra gli archivi di diversi giornali e ho trovato un articolo risalente ad una decina di anni fa. Eccolo». Posizionò il computer tra loro, in modo che entrambi potessero guardare lo schermo.
«"Cittadino greco in visita a Londra rapito e lasciato a digiuno per l'eredità"», lesse il titolo Arsène, incuriosendosi a sua volta.
«In breve, Paul Kratides era arrivato a Londra con l'intenzione di riportare in Grecia la sorella, la quale si era innamorata di un ragazzo di nome Harold Latimer, un poco di buono. Il fratello era stato mandato dai genitori per cercare di farla ragionare, ma dopo appena tre giorni se ne persero le tracce».
«Kratides era per caso un amico del nostro caro professor Melas?», le domandò Arsène, versandosi un bicchiere d'acqua.
Ora, a stomaco pieno, gli erano tornate le energie e anche il buon umore.
«Esatto. I suoi genitori e Melas si conoscevano molto bene e Kratides ha alloggiato da lui, almeno fino a quando non è stato rapito dallo stesso Latimer e da un suo complice, ovviamente all'insaputa della ragazza.
«Fu aperta un'indagine e ci furono ricerche, ma Paul non venne mai trovato. Fino al giorno in cui lo stesso Melas venne rapito da casa sua. Il professore fu portato nello stesso luogo in cui tenevano Kratides e i due si incontrarono, anche se per poco. Melas era sollevato che il ragazzo fosse vivo, ma era così deperito che se non fosse stato portato subito in ospedale sarebbe morto di fame».
«Perché Melas è stato portato da Kratides?».
«Perché Paul si rifiutava di parlare inglese. Preferiva morire, piuttosto che acconsentire alle richieste dei rapitori, così fingeva di conoscere solo il greco. Melas doveva fungere da interprete. Mentre traduceva per i rapitori, il professore ne approfittava per porgergli qualche domanda su dove si trovassero, ma nemmeno il ragazzo ne aveva idea. Alla fine dell'incontro i rapitori gli dissero che se avesse raccontato qualcosa alla polizia avrebbero ucciso immediatamente Kratides. Poi lo stordirono di nuovo e lo riportarono a casa».
«Inizio ad intuire il finale e non mi piace, non mi piace per niente», esclamò Arsène, corrucciato.
«Quindi non l'ho pensato solo io», rifletté ad alta voce la ragazzina, portandosi un dito alla bocca.
«C'è un ultimo rifugio per i disperati, gli indesiderati, i perseguitati», sussurrò Arsène, come una filastrocca.
«Però è strano, non trovi?», gli domandò la figlia, sospirando. «Nell'articolo si parla di un detective privato, ma Sherlock allora non era nemmeno lontanamente famoso come lo è oggi. Perché il professor Melas sarebbe andato a chiedere aiuto a lui?».
«Probabilmente gliel'ha consigliato Mycroft», ipotizzò il ladro, e un sorrisino gli curvò le labbra. «L'ho visto farlo altre volte».
«Peccato che la vicenda non andò a finire molto bene».
Arsène prese il pc per avvicinarselo al viso e leggerne il triste epilogo. Non solo Kratides era morto, ma senza l'intervento dell'anonimo detective anche Melas, rapito per la seconda volta, avrebbe fatto la stessa fine. Qualche mese dopo, inoltre, sia Harold Latimer che il suo complice erano stati trovati morti pugnalati a Bucarest, in una stanza d'albergo affittata da una ragazza la cui descrizione corrispondeva perfettamente a quella di Sophy Kratides.
«Se la sono cercata», avrebbe voluto commentare Arsène, ma non ne ebbe il tempo.
«Quindi... pensi che sia stato Sherlock a mettere in scena il colpo?», gli domandò Geneviève, mordicchiandosi ancora le unghie. «Perché l'avrebbe fatto?».
«Per stanarmi. Eppure avrebbe soltanto dovuto ragionare col cuore per capire dove mi trovavo...». Si sporse verso la figlia e le accarezzò la guancia, sorridendo. «Accanto a te».
Geneviève si alzò in piedi sorridendo e gli tolse da sotto il naso il piatto vuoto e il cucchiaio. Mise tutto nel lavandino e poi tornò da lui, cingendogli il collo con le braccia e nascondendo il viso tra i suoi capelli biondi.
«E adesso cosa farai?», gli domandò.
Arsène le accarezzò le braccia e rispose: «Adesso aiuterò mia figlia ad addobbare quell'albero. Poi si vedrà».

***

Molly mantenne fede a ciò che aveva scritto a Geneviève quella mattina: niente straordinari di alcun tipo. Terminato l'orario di lavoro lasciò l'ospedale e tornò direttamente a casa, desiderosa di gettarsi sul divano e spegnere il cervello.
Quando entrò nel proprio appartamento però trovò una sorpresa ad attenderla: Arsène e sua figlia avevano appeso le decorazioni natalizie ed addobbato l'albero e la stavano aspettando ai piedi di quest'ultimo, manco fosse la Vigilia e lei fosse entrata vestita di rosso.
«Sorpresa!», gridarono in coro, allargando le braccia tanto quanto i loro sorrisi.
Molly si costrinse a ricambiare, nonostante non ne fosse in vena.
«Allora, ti piace?», le domandò Geneviève, alzandosi in piedi per prenderle le mani.
«Sì, molto». Le accarezzò i capelli, poi si spogliò della giacca e lanciò la borsa sul divano, facendo sobbalzare il povero Toby, acciambellato su uno dei cuscini.
«Scusatemi, vado a farmi un bagno», disse poi, dirigendosi immediatamente verso il corridoio così che non potessero farle ulteriori domande.
Purtroppo però Arsène la seguì e non si fece scrupoli nemmeno davanti alla porta chiusa a chiave. Con uno dei suoi trucchi riuscì ad aprirla dall'esterno e trovò l'anatomopatologa seduta sul bordo della vasca, in attesa che si riempisse d'acqua calda e schiuma profumata.
«Con te la privacy è un'utopia. Lasciami sola, per favore», provò a mandarlo via, con poca voce e gli occhi spenti.
In risposta Arsène si sfilò la felpa, rimanendo a petto nudo, ed iniziò a togliersi il bendaggio che gli copriva la ferita.
«Avrei bisogno della tua competenza medica».
A quella richiesta Molly non poté dire di no e lo fece appoggiare al lavadino, con lei seduta in modo che fosse più comoda a lavorare. Gli disinfettò il taglio frastagliato e controllò i punti, poi si alzò per prendere delle garze pulite e senza farlo apposta si ritrovò col viso a pochi centimetri da quello di Arsène, il quale alzò una mano e gliela posò delicatamente sulla guancia.
«Perdonami, Molly Hooper», le disse con cautela, gli occhi verdi addolorati.  
«Non sei il centro del mondo. Sicuramente non del mio».
Il ladro sorrise. «No, non lo sono. Ma sei finita fuori orbita per colpa mia, non è così?».
Si guardarono negli occhi per una dozzina di secondi, in religioso silenzio.
«Ho incontrato Sherlock questa mattina», gli confessò Molly alla fine, abbassando gli occhi. «Ed è stato... è stato orribile».
Sentendo la sua voce incrinarsi, Arsène le portò una mano sulla nuca e con l'altro braccio le avvolse la schiena, stringendola a sé.
«Gli ho detto tutto», riprese lei, riuscendo a trattenere le lacrime. «Sa che siamo andati a letto insieme. L'ho praticamente accusato di essere un codardo e lui non ha detto niente. Non una parola».
Il Ladro Gentiluomo sospirò, quindi le prese il volto tra le mani e le posò un delicato bacio sulla fronte. «Proverò a parlargli, oui?».
Molly gli afferrò i polsi e scosse il capo con vigore. «No. Non dobbiamo dargli alcuna spiegazione».
«Come vuoi, ma...».
«Dicevi sul serio, ieri?», lo interruppe, fissando gli occhi nei suoi.
«A che proposito?».  
«Hai detto che vorresti portarmi via con te. Eri serio?».
«E tu lasceresti tutto così all'improvviso?».
«Forse allontanarmi è l'unico modo che ho per disintossicarmi».
Il silenzio tornò a regnare sovrano nel piccolo bagno e senza che se ne rendessero conto si strinsero di più l'uno all'altra, avvicinando le labbra fino a sentire il calore dei loro respiri fondersi. Molly aveva appena chiuso gli occhi quando sentì l'acqua bagnarle i calzini.
«Porca...!», soffocò un'imprecazione e si precipitò a chiudere il rubinetto e a togliere il tappo alla vasca.
Mentre il livello dell'acqua scendeva Molly si portò una mano sul fianco e guardò sconsolata il pavimento bagnato.
«Che disastro», borbottò. «Sarà meglio che vada a...».
Ma Arsène non la fece continuare: afferrandola per il braccio le fece fare una mezza giravolta e una volta di nuovo stretta al suo petto posò le labbra sulle sue. La donna, troppo stupita per scostarsi o ricambiare, lo lasciò fare fino a quando non fu lui stesso ad allontanarsi.
Le portò entrambe le mani intorno al viso e guardandola negli occhi sorrise, sussurrando: «Te ne pentiresti».
«Che cosa?».
«Lasciare tutto per via di Sherlock. Oltre che stupido, sarebbe inutile. Il proverbio "Occhio non vede, cuore non duole" è una falsità. Credimi, io lo so».
Molly abbassò le mani sul suo petto, gli occhi tristi e stanchi. «Io non ce la faccio più, Arsène. Io non... non voglio più vederlo, mi fa troppo male. Forse è vero che non lo dimenticherò mai, ma non posso continuare in questo modo».
Il ladro sospirò piano col naso e portandole le mani ai lati della testa si appoggiò con le labbra alla sua fronte, gli occhi chiusi.
Gli tornò alla mente l'immagine di quell'appartamento nel centro di Parigi, ma quella volta oltre a lui e Geneviève c'era anche Molly. Le avrebbe trovato un lavoro in ospedale, o dovunque avesse voluto, e nel tempo libero sarebbe stata con sua figlia, dandole quel senso di pace e normalità che tutte le ragazzine meritavano di provare alla loro età. Lui non avrebbe dovuto rinunciare alla sua carriera di ladro e Geneviève sarebbe stata felice. Era perfetto.
Si scostò e le sollevò il viso per guardarla negli occhi. «Se è quello che desideri», esclamò, «allora non appena avrò sistemato chi mi dà la caccia verrai via insieme a me e Geneviève. Non sarà facile ricominciare da zero, per giunta in una nuova città, ma...».
L'anatomopatologa non lo fece finire: gli strinse le braccia intorno al collo e lo ringraziò sottovoce. Arsène ricambiò, ma qualcosa gli fece corrugare la fronte. Perché aveva la sensazione che non fosse a suo agio?
Alla fine fu Molly a sciogliere l'abbraccio, deviando il suo sguardo e usando come scusa Geneviève: l'avevano lasciata sola per troppo tempo e, intelligente com'era, probabilmente aveva già fatto due più due.
«Sarà meglio che torni da lei allora», sussurrò Arsène, sistemandole i capelli dietro le orecchie.
Molly annuì, arrossendo sulle guance, e dopo aver completato la fasciatura gli restituì la felpa che aveva abbandonato sul mobiletto accanto al lavandino.
Lo guardò mentre usciva dal bagno, poi abbassò gli occhi sul pavimento bagnato e si coprì il volto con le mani.
Non sapeva se scappare fosse la soluzione migliore, proprio lei che aveva accusato Sherlock di non saper fare altro, ma come aveva detto ad Arsène non poteva più andare avanti in quel modo.
Concedendosi un respiro profondo per ricomporsi, uscì dal bagno e preso straccio e spazzolone si mise ad asciugare il pavimento.

***

John si fermò sulla soglia del salotto, in attesa che Sherlock terminasse di suonare. Era uno dei pezzi più tristi che gli avesse mai sentito suonare, se non il più triste in assoluto, e questo non lo tranquillizzò affatto.
Il detective fece tremare nell'aria l'ultima nota, poi scostò l'archetto dalle corde e si voltò per salutarlo con un brevissimo cenno del capo.
«È da ieri sera che ti cerco», esordì il dottore, con un tono di voce che oscillava dal preoccupato all'arrabbiato. «Ce l'hai con me per qualche motivo?».
«No, John. Tu non c'entri niente».
«E allora spiegami perché ho la sensazione che tu stia mentendo».
Sherlock lo scrutò per secondi che parvero ore, fino a quando non decise di essere completamente onesto con lui.
«Vuoi la verità? E va bene. Tutti voi pensate di essere al sicuro da Arsène Lupin perché pensate di non avere nulla che valga la pena di rubare, ma vi sbagliate. In effetti, è l'errore più grave che possiate fare. Ancor prima dei quadri, dei gioielli, del denaro... quello che Arsène brama e cerca disperatamente di conquistare è l'affetto e la simpatia di chi gli sta accanto. Non so se sia a causa della sua infanzia o chissà quale esperienza traumatica, non sono uno psicologo, ma so che Arsène è un drogato d'amore, proprio come lo sono io dei miei casi. E tu e Molly lo state arricchendo senza che nemmeno ve ne rendiate conto. Un giorno lo preferirete a me e io non potrò farvene una colpa. Perché dovrei? Se si ignorasse la sua carriera di ladro, lui sarebbe un amico e un fidanzato migliore di me sotto ogni punto di vista».
«Che cosa stai dicendo?», sbottò John, incredulo. «A volte mi chiedo sul serio se la tua straordinaria intelligenza ti costringa ad avere momenti di stupidità estrema, in modo da riportare in equilibrio l’universo». Respirò profondamente e scandendo ogni parola come se stesse parlando con un bambino, accompagnandola persino con l'indice della mano destra, aggiunse: «I veri amici, Sherlock, non si comportano in questo modo. Io e Molly non lo preferiremmo mai a te». Si infilò la mano nella tasca interna della giacca, aggiungendo: «E la prova ce l'ho proprio...».
«Eppure tu l'hai ricucito e me l'hai tenuto nascosto per giorni, solo perché lui ti aveva chiesto di mantenere il segreto!», lo interruppe Sherlock. «E Molly ci è andata a letto, ieri sera! Potrebbe già essersene innamorata, per quello che ne so. Come biasimarla?».
«Molly ci è...?», John si schiarì la gola, corrucciato. Questo cambiava le cose, ma doveva esserci per forza una spiegazione. Non era possibile che lei, proprio lei...
«Ammettilo, John! Siete caduti nella sua rete, nonostante io vi abbia avvisato più e più volte!».
John rimase in silenzio per un paio di minuti, meditabondo. Le lingue di fuoco del camino illuminavano il profilo destro del detective, permettendogli di vedere il dolore e la sofferenza sul suo volto. E fu allora che capì.
«Tu... tu per primo sei caduto nella sua rete», dedusse, stringendo gli occhi. Si era ormai dimenticato di ciò che conservava nella tasca interna della giacca.
Sherlock abbassò il capo e si avvicinò alla mensola sopra il camino.
«Era questo che intendevi, quando hai detto che avevi già fatto affidamento sul tuo cuore e non era andata a finire bene?».
Il consulente investigativo sollevò gli occhi sulle luminarie appese intorno allo specchio e i suoi occhi lucidi brillarono ancora di più. Alzò una mano come a voler toccare quei puntini luminosi, ma poi la ritrasse di scatto e sbatté il pugno contro la mensola.
«Quando ci siamo conosciuti, Arsène... lui si travestì per tenermi d'occhio più da vicino, ma la cosa ci è sfuggita di mano. Senza volerlo, noi... siamo diventati amici. Credo sia stato il mio primo, vero amico dopo Victor».
Il suo sguardo si abbassò in direzione del teschio, ancora coperto dal tovagliolo, e John strinse le labbra. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ne trovò la forza.
«E quando ho scoperto che era tutta una farsa, che lui non era chi diceva di essere, io ho pensato sul serio di farla finita. Ero giovane e stupido...». Si interruppe ed abbozzò un sorriso, facendo scivolare il tovagliolo per prendere il teschio tra le mani ed accarezzarlo, dall'osso frontale a quello occipitale. Poi incrociò lo sguardo di John, il quale si era ritrovato a trattenere il respiro.
«Mycroft non sa nulla di tutto questo. Non sa che fu lui a salvarmi. E fu sempre lui a spiegarmi l'assurdità dell'espressione "togliersi la vita": mi disse che la mia vita non era mia, che uccidendomi non mi sarei sentito meglio ma che, piuttosto, avrei fatto del male alle persone al mio fianco, compreso lui. Mi disse... mi disse che poteva aver mentito sulla sua identità, sul motivo per cui si era avvicinato a me, ma che quello che era nato tra noi, qualsiasi cosa fosse, era reale».
«E tu gli credetti», concluse John, avvicinandosi di un passo.
«Oh sì. Gli credo tutt'ora. Pensi che sarebbe ancora a piede libero, se non fossi convinto del legame che ci unisce? Che sarei così in conflitto con me stesso se non mi importasse di lui?».
«In conflitto?», ripeté il dottore, confuso. «Sherlock... Che cos'hai intenzione di fare?».
«Mi dispiace, John. Per tutto quello che succederà, perdonami».
«Sherlock, io...».
Il detective si abbandonò alla propria poltrona di pelle nera e col teschio ancora tra le mani si chiuse nel proprio silenzio.
Il dottor Watson, nonostante fosse profondamente turbato, capì che non sarebbe riuscito a fargli cambiare idea in alcun modo.
Sulla soglia del salotto sospirò dicendo: «Potrai aver anche deluso Mary, ma hai fatto un voto che include anche me e Rosie. Noi ci siamo ancora, Sherlock. Ricordatelo».
Il detective gli rivolse una rapida occhiata e sorrise, annuendo. Allora John lasciò il 221B di Baker Street con il timore che forse quella sarebbe stata l'ultima volta e la speranza che invece non lo fosse.

***

Nel silenzio della casa, rotto soltanto da dei tuoni in lontananza, il fuoco crepitava nel camino e la sedia dondolava ritmicamente davanti ad esso.
Lo sferruzzare dei ferri si interruppe al din del forno.
La donna si alzò e andò in cucina per tirare fuori una teglia di biscotti appena fatti, seguita da un bellissimo esemplare di gatto Birmano, dal pelo lungo chiaro, il muso scuro e gli occhi azzurri.
Il profumo del burro e del cioccolato sciolto si profuse per tutte le stanze, vuote da fin troppo tempo.
Lasciò i dolci a raffreddare e tornò in salotto, ma prima di riprendere il proprio lavoro a maglia recuperò il pc e controllò se le fossero arrivati dei nuovi messaggi.
Trovò una nuova richiesta di iscrizione al forum, in attesa di approvazione. Era da qualche mese ormai che nessuno si dimostrava all'altezza di diventare un membro del sito dedicato al Ladro Gentiluomo e temeva che anche quella volta sarebbe stato uno spreco di tempo, ma dovette ricredersi non appena lesse il nome della persona che aveva spedito la richiesta: Maurice Leblanc.
Un sorriso le incurvò le labbra e tornò ad accomodarsi sulla propria sedia a dondolo per leggere con attenzione le risposte del test. Era scontato che gli avrebbe concesso il lasciapassare, visti i servizi resi ad Arsène Lupin; la sua era semplice curiosità.
Venne interrotta a metà da una chiamata al cellulare e ne fu così scocciata che rispose con tono di voce irritato: «Che c'è?».
«Signora, abbiamo un problema. Qualcuno ha appena avvisato gli assistenti sociali che la vera signorina Geneviève si trova a Londra. Attendiamo istruzioni».
La donna si alzò e in silenzio raggiunse le grandi vetrate che davano sul mare scuro ed agitato per via di una tempesta di cui si sentivano i rombi di tuono.
Il faro situato sullo stesso promontorio in cui era stata costruita quella casa sicura illuminava a tratti il Canale della Manica, oltre il quale si trovava la Gran Bretagna.
«Abbiamo atteso troppo, sapevamo che sarebbe potuto accadere», rispose alla fine, senza scomporsi. «Mandate qui un'auto e fate in modo che al mio arrivo il jet abbia già i motori accesi. Dobbiamo raggiungere Geneviève prima dei veri assistenti sociali».
«Sissignora».
La donna terminò la chiamata e strinse forte il cellulare al petto, immaginando le difficili ore a venire. Quindi si scostò dalle finestre, lasciandosi i fulmini e i tuoni alle spalle, e raggiunse la camera da letto per preparare il proprio trolley nero.
Avrebbe portato con sé l'essenziale, dato che non aveva intenzione di fermarsi su suolo inglese un minuto più del necessario.
Si cambiò e tornò in salotto per accarezzare il gatto e prendere con sé il computer portatile e il sacchetto coi biscotti ancora caldi.
Era da tanto che non andava in prima linea, ma non era preoccupata. In verità, anche se non l'avrebbe mai detto ad alta voce, era elettrizzata.  
Quando l'auto arrivò un uomo andò a prenderla alla porta mentre l'autista si occupava del bagaglio. In meno di mezz'ora furono al più vicino hangar privato di Arsène Lupin e come ordinato il jet aveva già i motori accesi, pronto per il decollo nonostante le cattive condizioni atmosferiche.
«Si prepari, signora», esclamò Alain, lo stesso uomo con cui aveva parlato al telefono e che l'avrebbe accompagnata a Londra. «Si ballerà un po'».
La donna abbozzò un sorriso. «Bene, iniziavo giusto ad annoiarmi».

***

Geneviève guardò Molly e suo padre dall'altro lato dell'isola della cucina, in atteggiamenti più che amichevoli: lei era appena uscita dal bagno, con ancora i capelli bagnati avvolti in un turbante, e lui aveva appena tirato fuori dalla pentola uno spaghetto; chiedendole se era cotto glielo fece penzolare sopra la bocca e lei rise prendendolo dalle sue dita, per poi dargli la propria approvazione.
La ragazzina abbassò gli occhi su Toby, il quale osservava i due col suo stesso scetticismo, seduto come un cane tra le sue gambe incrociate.
Gli accarezzò il pelo con entrambe le mani e sussurrò: «Non lo so... Sento puzza di guai, tu no? Cioè... Molly mi è simpatica e tutto, ma non ce la vedo con mio padre. E Sherlock? Se dovesse scoprire che tra loro c'è del tenero andrebbe su tutte le furie, non pensi?».
Geneviève sospirò, davvero combattuta, tanto da parlarne con un gatto. Forse la verità era che non era ancora pronta a vedere suo padre con un'altra donna dopo la morte di sua madre, anche se si trattava della gentile Molly Hooper.
Si alzò dal tappeto, facendo miagolare Toby, e a testa bassa si diresse verso il corridoio.
«Tesoro, dove stai andando? La cena è pronta», esclamò suo padre, posando gli occhi su di lei.
«Scusatemi, ma non ho fame», mormorò e si dileguò.
Molly si allontanò da Arsène e seguì la ragazzina fino a quando non la vide chiudersi nella stanza degli ospiti, dando addirittura una mandata di chiave. L'anatomopatologa fece per raggiungere la porta, ma il ladro le posò una mano sulla spalla e la fermò.
«Lasciala un po' da sola», le disse dolcemente.
«No, devo spiegarle che ha frainteso».
Lupin la fissò con cipiglio perplesso e Molly arrossì, realizzando che forse anche lui aveva frainteso quello che c'era stato tra loro e le parole che gli aveva detto poco prima in bagno.
«Noi due non stiamo insieme», esclamò ad un tratto, raccogliendo tutto il coraggio e la fermezza di cui disponeva. «Non deve pensare che sostituirò sua madre o cose del genere».
Arsène allontanò la mano dalla sua spalla, abbassando gli occhi con un sorriso mesto sul viso. «Scusami, quando mi hai chiesto di portarti via pensavo...».
«È successo tutto così all'improvviso», lo interruppe Molly, agitata. «Io...».
«Ho capito».
«Davvero?».
Arsène sorrise, ma stava fingendo. Le diede le spalle per lasciare l'appartamento, ma lei si aggrappò al suo braccio.
«Ti prego, rimani».
«Perché dovrei? Ieri notte è stato solo sesso, l'ho capito. Non prendiamoci in giro». Il suo tono era freddo, distaccato; mantenere le distanze era l'unico modo che conosceva per non scottarsi.
«Devi darmi l'opportunità di conoscerti. Voglio conoscere la persona che si cela dietro la figura di Arsène Lupin, il Ladro Gentiluomo».
Il biondo si voltò a fissarla, incredulo, e Molly gli rivolse un piccolo sorriso aggiungendo: «E poi hai cucinato mezzo chilo di spaghetti, qualcuno dovrà pur mangiarli».
A quelle parole Arsène cedette, ma la tensione non ne volle sapere di allentarsi.
Ancora una volta era stato precipitoso nell'offrire il proprio cuore e non riusciva a capire perché commettesse sempre gli stessi errori.
Perché era un romantico, ecco perché. Era bastato che Molly si avvicinasse a lui per alimentare le sue fantasie ed immaginarsi un futuro in cui lui, lei e Geneviève vivevano felici e contenti, come la più normale delle famiglie, ma era solo un'illusione. Lui era e sarebbe sempre stato Arsène Lupin; mai, nemmeno volendo, se ne sarebbe liberato. E se anche ci fosse riuscito quant'era rimasto di vero, sotto quello strato di menzogne? Forse niente. Forse era diventato un tutt'uno col proprio personaggio, imprigionandosi per sempre in abiti che spesso e volentieri gli sembravano camicie di forza.
«A che cosa stai pensando?», gli domandò ad un tratto Molly, portandosi alla bocca il proprio bicchiere di vino.
Osservando come ipnotizzato il liquido rosso scuro nel calice, il ladro rispose piano: «"È una bella prigione, il mondo"».
La donna ridacchiò. «È il vino che ti fa citare Shakespeare? Forse è meglio metterlo via».
Entrambi posarono la mano sul collo della bottiglia e quella di Arsène finì inevitabilmente su quella di Molly, la quale sobbalzò e ricambiò il suo sguardo con gli occhi lucidi. Anche lei, durante quella strana cena, aveva preferito bere piuttosto che parlare.
«Chi altro dovrei citare? Voi inglesi avete avuto forse i migliori poeti del mondo, insieme agli italiani. Non prenderti gioco di un povero cittadino francese».
«Non volevo prendere in giro te, né i francesi».
Arsène sorrise soddisfatto e la liberò dalla sua presa.
Quella volta fu Molly ad adombrarsi, dicendo: «Pensi davvero che il mondo sia una prigione?».
«Sì», rispose con una scrollata di spalle. «Pensaci bene: nessuno è veramente libero. Dal momento in cui nasciamo siamo spinti su una strada e tutto quello che possiamo fare è continuare ad andare avanti, lasciandoci influenzare dalla famiglia, dalla società, dagli eventi. Pochi riescono a fare la vita che desiderano davvero».
«E tu sei tra questi?», gli domandò Molly, versando nei loro bicchieri ciò che rimaneva della bottiglia. A quel punto non era necessario trattenersi. «Hai deciso di intraprendere la carriera di ladro per portare giustizia, rubando ai ricchi per dare ai poveri come Robin Hood?».
Arsène sorrise nuovamente, ma quella volta sulla sua bocca c'era tanta amarezza. «Mi dispiace deluderti, ma all'epoca non ero guidato da nobili ideali».
Non avrebbe dovuto farlo, non avrebbe dovuto raccontare una parte così fondamentale di lui ad una persona così vicina a Sherlock – e da lui potenzialmente influenzabile – e forse il mattino dopo se ne sarebbe pentito, ma aveva davvero bisogno di parlarne con qualcuno, di confidarsi e di sentirsi parte del mondo reale.
Il vino e la tristezza buttarono giù la diga attraverso la quale le parole sgorgarono come un fiume in piena e Molly rimase in silenzio ad ascoltarlo.
«C’era una volta una piccola zona residenziale non lontana dal centro di Parigi, di proprietà, come diverse altre, dei signori Dreux-Seubise. Loro stessi abitavano in uno degli edifici, nell’appartamento più grande e più bello, ed erano ricchi, ma non così tanto come tutti credevano. La loro unica ricchezza, infatti, ciò che rendeva importante il loro cognome, era un cimelio di famiglia molto antico: una collana di diamanti che secondo le leggende era stata persino al collo della regina Marie-Antoinette. Oh, ce n’erano molte di leggende ricamate sopra quella collana: tanti storici erano convinti che l’unico pezzo originale fosse la montatura, che i diamanti fossero stati tolti, venduti per affrontare le varie vicissitudini della vita e poi pian piano sostituiti con altri di minor valore nel corso degli anni. Ma questo non è poi così importante per il proseguimento della storia.
«Una sera, dopo un evento mondano, la signora Dreux ripose la collana nel suo astuccio e la mise, assieme al marito, nel loro solito nascondiglio: una specie di sgabuzzino, pieno di scatole di scarpe, pellicce e abiti fuori stagione. La mattina dopo il signor Seubise entrò nella stanza con l’intento di riportare il gioiello in banca, dove sarebbe stato al sicuro nella loro cassetta di sicurezza, e scoprì con orrore che l’astuccio era sparito.
«Fu una vera tragedia e i due coniugi chiamarono immediatamente la polizia, ma nemmeno loro riuscirono a risolvere il mistero. Il furto – perché di furto si trattava – aveva dell’impossibile. Vedi, lo sgabuzzino si trovava nella camera da letto dei signori Dreux-Seubise ed entrambi, avendo il sonno leggero, si sarebbero sicuramente accorti se qualcuno avesse aggirato il loro letto per andare ad aprire quella porta. Cosa comunque impossibile, dato che la porta della camera da letto era chiusa a chiave dall’interno, come le finestre. Il ladro, dunque, doveva essere entrato per forza dalla piccola finestra dello sgabuzzino. Ma che dico piccola, piccolissima! Nessun uomo sarebbe riuscito ad entrare, nemmeno se fosse stata aperta».
«Era chiusa anche quella?», chiese Molly, totalmente assorbita dal racconto.
«Proprio così. Si trattava di una piccola finestra, una di quelle adatte giusto a far cambiare aria, apribile solo dall’interno. Puoi immaginare come ci sia rimasta male la polizia, non trovando né indizi né supposizioni valide su come il furto fosse stato commesso. Di sospettati però ne ebbero subito uno: Henriette, la donna incaricata delle pulizie e che faceva anche dei lavori di sartoria per la signora Dreux.
«La padrona della zona residenziale l’aveva conosciuta dalla madre, per la quale si occupava praticamente delle stesse faccende ma ottenendo infinito più rispetto e gratitudine. L’aveva presa con sé quando il marito di Henriette se n'era andato, lasciandola con un figlio di sei anni, di nome Raoul, e una casa il cui affitto non poteva più pagare da sola.
«La signora Dreux le diede un appartamento nel condominio di fronte al suo, il più piccolo, vecchio ed umido che ci fosse, con giusto i mobili essenziali e un cucinotto, e Henriette, infinitamente grata perché avesse tolto lei e suo figlio dalla strada, accettava le umiliazioni quotidiane e nonostante fosse tristissima continuava a sorridere.
«Come ti dicevo, la polizia non riuscì a trovare nessuna prova, perciò non poterono in alcun modo incriminare Henriette. Il caso venne archiviato, ma non per la signora Dreux, la quale iniziò ad odiare ancora di più Henriette e le rese la vita un inferno, fino al giorno in cui la sfrattò da quel tugurio in cui l’aveva messa».
«Come ha potuto farlo? Che cuore di pietra!», sbottò Molly, bevendo tutto d’un fiato il vino che aveva nel bicchiere. Dopodiché si alzò ed iniziò a rassettare, mettendo i piatti sporchi nel lavello. Arsène svuotò a sua volta il bicchiere e la aiutò.
Quando finirono di sistemare la cucina si spostarono in salotto: Molly si sedette sul divano ed Arsène si sdraiò con la testa sulle sue gambe. Mentre riprendeva il racconto, l'anatomopatologa iniziò ad accarezzargli i capelli.
«Da un lato fu meglio così. Henriette riuscì a trovarsi diversi altri piccoli lavori – come sarta, donna delle pulizie, badante – e lei e suo figlio Raoul riuscirono a trovarsi un altro posto in cui vivere, nonostante gli stenti. Ma avvenne una cosa curiosa, un paio di mesi dopo la loro partenza: Henriette ricevette una busta con dentro circa mille euro. Puoi immaginare la sua sorpresa e soprattutto quella della signora Dreux quando Henriette le scrisse una lettera di ringraziamento. Non era stata lei ad inviarle quei soldi: era a conoscenza delle loro precarie condizioni di vita, ma era ancora convinta che fosse stata lei a rubarle la preziosa collana, perciò non li avrebbe mai aiutati. Anzi, avvisò la polizia, intenzionata a fare un po’ di luce su quella faccenda».
«E si scoprì qualcosa?».
«Solo che la busta era stata spedita da Parigi, da un uomo che aveva dato false credenziali. L’ennesimo vicolo cieco, insomma.
«Qualche mese dopo la storia si ripeté: busta anonima, spedita da Parigi, con dentro altri mille euro. E fu così per circa tre anni, a cadenza piuttosto regolare. Poi Henriette si ammalò di un male incurabile e le somme nelle buste si duplicarono, permettendole di addolcire un po’ le sofferenze. Henriette morì alla fine del quarto anno e quelle strane missive rimasero un enigma irrisolto».
Arsène rimase per qualche istante in silenzio, cullato dalle carezze di Molly.
«Quindi il tuo vero nome è Raoul?».
Il Ladro Gentiluomo aprì gli occhi per incrociare quelli della donna e scoppiò a ridere. Poteva chiedergli mille altre cose, ma aveva scelto il nome.
Coprendosi gli occhi lucidi di lacrime con un braccio - inconsapevole se quelle lacrime fossero dovute al vino, al racconto, alle risa o un po' a tutto - rispose: «Sì, è il nome che mi hanno dato i miei genitori quando sono nato».
«E quand'è che hai deciso di diventare Arsène?».
«Più avanti, molto più avanti. Adesso concentrati: ti ho esposto i fatti, vediamo se sei più competente della polizia francese di allora».
Molly rise a sua volta, abbandonando la testa contro lo schienale del divano. «Dovrei dirti come hai fatto - tu, un bambino di soli sei anni - a rubare quella collana?».
«Già».
«E come dovrei fare? Io non sono Sherlock Holmes».
Arsène si tolse il braccio dal volto e con le dita le afferrò il mento perché tornasse a guardarlo negli occhi. Molly sentì la pelle andarle a fuoco sotto il suo tocco.
«La risposta è sempre stata di fronte agli occhi di tutti, perciò è anche di fronte ai tuoi, Molly».
La donna sospirò e riprese a giocare con le ciocche bionde dei suoi capelli.
«Hai detto che la porta della camera da letto era chiusa dall’interno e che c’era una piccola finestra nello sgabuzzino, una finestra così piccola che nessun uomo avrebbe potuto attraversarla. Un bambino ci sarebbe passato?».
Arsène, di nuovo ad occhi chiusi, accennò un sorriso. Molly però non era convinta della propria spiegazione: era davvero troppo facile.
«Aspetta un attimo», ricordò. «Hai detto che anche quella finestra era chiusa dall’interno, perciò come avresti potuto?».
«Con un pizzico di inventiva. Ti ho detto che Henriette e suo figlio abitavano nel condominio di fronte a quello dei signori Dreux-Seubise. Beh, la finestra nella cameretta di Raoul era a pochi metri di distanza da quella dello sgabuzzino. Sarebbe bastata anche una semplice scala, posizionata tra le due finestre, ed ecco creato un ponte».
«Sì, ma la finestra…!».
«A Raoul piaceva stare con sua madre, a volte l’aiutava anche. Se era venuto a conoscenza del nascondiglio, magari ha fatto in modo di trovarsi in quello sgabuzzino per manomettere la finestra, così che fosse facile aprirla anche dall’esterno».
«Tutto questo ha dell’incredibile», esclamò Molly, tenendosi la testa con una mano. «Eppure è così semplice! Possibile che nessuno ci abbia mai pensato?».
Arsène ridacchiò con gli occhi intrisi di malinconia. «Erano tutti troppo concentrati a puntare il dito contro l’innocente Henriette. Se anche uno solo, se uno solo degli agenti si fosse preso la briga di guardare nello zainetto di scuola di Raoul, avrebbe certamente trovato la famosa collana. Avrebbero trovato i diamanti che il bambino avrebbe venduto due alla volta, alla sola condizione che il denaro venisse spedito direttamente al loro indirizzo da Parigi.
«Prova a metterti nei panni di quel bambino: aveva solo sua madre, una donna di una gentilezza e di una bellezza uniche al mondo, messe così a dura prova dalla cattiveria che la circondava. Pensa alla sua sofferenza di fronte agli occhi umidi di sua madre, al suo sorriso sempre più debole e alla sua voglia di vivere che veniva meno ogni giorno di più. Voleva darle una vita migliore e farla pagare alle persone che pretendevano di averla salvata e che invece la stavano facendo lentamente morire. Così pensa, pensa, e realizza che è davvero facile porre fine a tutti i loro problemi. Non c’era che volere e tendere la mano. E lui lo voleva, eccome se lo voleva…».
«E tese la mano», concluse Molly per lui, la fronte aggrottata.
Arsène le scoccò un sorriso, correggendola: «Le due mani».
Il silenzio li avvolse e nessuno dei due osò infrangerlo per minuti che sembrarono ore.
La confessione del ladro pesava sulle spalle dell'anatomopatologa, la quale però riuscì a porre una sola domanda: «Perché parli di te in terza persona? Tu e Raoul siete una cosa sola».
Il ladro si tirò su a sedere, mostrandole le spalle incurvate in avanti, e scosse lentamente il capo. «Ti sbagli. Raoul non c'è più da moltissimo tempo, ormai».
«Che stai dicendo?».
«Raoul fa parte del passato e il passato è morto per sempre; il passato non esiste».
Molly si inginocchiò dietro di lui e gli avvolse il collo con le braccia, la guancia posata contro la sua tempia.
«Non si può vivere senza passato», gli sussurrò. «Il passato è alle basi del nostro futuro e non lo si può cancellare. Raoul è ancora dentro di te, ne sono certa. Se solo ti fermassi un momento...».
«Tu non capisci», la interruppe bruscamente, allontanandole le braccia per potersi voltare e guardarla negli occhi, coi propri di nuovo lucidi di lacrime e traboccanti del dolore più cocente. «Raoul sapeva che quello che aveva fatto era sbagliato e ha provato a fermarsi, ma quando è cresciuto ed è tornato dalla gente che aveva derubato per dire loro la verità e restituire la montatura della collana non ha ricevuto nessuna pietà. In quel momento ha capito che su questa Terra tutti siamo soli e tutti abbiamo uno scopo, giusto o sbagliato che sia. E l'unica cosa che lui sapeva fare era rubare agli altri. Gli pareva un segno del destino, dato che anche lui era stato derubato, più volte, e decise che si sarebbe impegnato per impedire che la stessa cosa succedesse ad altri».
Molly sentiva le lacrime pizzicare anche i suoi occhi, ma un'altra sofferenza le impedì di versarle: mentre si sfogava, Arsène le aveva stretto le mani intorno ai polsi e le stava facendo male. Il ladro se ne accorse ed allentò subito la presa, coprendosi poi il volto.
«Mi dispiace. Mi dispiace, Molly», singhiozzò, con le spalle tremanti.
«Non è niente», rispose l'anatomopatologa, avvicinandosi un po' di più a lui. Gli tolse le mani dal viso e lo trovò in lacrime, proprio come un bambino.
«Ehi... Ehi, è tutto okay», mormorò ancora, abbracciandolo con delicatezza ed accarezzandogli i capelli nel tentativo di tranquillizzarlo. «Abbiamo solo bevuto un po' troppo. Andiamo, su».
Lo aiutò ad alzarsi dal divano e insieme si diressero verso la camera da letto della donna. Lo fece sdraiare e per qualche minuto rimase seduta al suo fianco, ad accarezzargli il petto fino a quando non sentì il suo respiro tornare regolare.
Quell'uomo aveva davvero mille sfaccettature, come un diamante la cui superficie però non era affatto indistruttibile. A causa dei dolori della vita si era ritrovato scheggiato, crepato tanto in profondità da perdere se stesso, e rimasto solo si era trovato costretto a diventare lo stesso personaggio che probabilmente a sei anni aveva sperato che lo andasse a salvare.
«Molly?».
Nel silenzio della stanza la voce di Arsène la fece rabbrividire, insieme alla mano morbida e curata che si posò sulla sua guancia.
«Sì?».
«Tu mi ricordi moltissimo mia madre».
Molly riuscì a stendere le labbra in un piccolo sorriso e si sdraiò al suo fianco, il capo appoggiato sulla sua spalla. Arsène le avvolse la schiena col braccio, stringendola a sé.
«Era la donna più buona di questo mondo: aiutava sempre il prossimo, pregava ed era gentile con tutti, anche con chi la trattava in modo meschino. Lei... lei rinunciò a tutto per l'uomo che amava, anche alla propria famiglia. I suoi genitori le chiesero di scegliere tra loro e mio padre e lei seguì il cuore. Credi che abbia fatto la scelta giusta?».
«Sì, ne sono certa. Sei nato tu, no?».
Arsène si girò sul fianco destro per guardarla in viso e i suoi occhi verdi brillarono sotto i deboli raggi lunari.
«Sai... ho trascorso l'adolescenza arrabbiato con me stesso e con mia madre. Ritenevo la mia stessa vita un peso, ma poi ho iniziato a domandarmi se non fosse mia madre la stupida: aveva rinunciato ad una vita agiata per un uomo che alla fine l'aveva abbandonata. Dopo qualche tempo però incontrai il mio primo amore e capii... capii che io ero esattamente come lei: la ragione scompariva, sopraffatta dal cuore. Fui instancabile ed irremovibile. Tutte le sere bussavo alla porta e chiedevo di poter vedere Clarisse, ma suo padre me la sbatteva in faccia. Allora mi arrampicavo fino alla finestra della sua camera ed entravo da lì pur di stare con lei. Ero disposto a fare qualsiasi cosa per la sua felicità e una notte fuggimmo, decisi a trascorrere il resto della nostra vita insieme, ma durò poco: lei mi lasciò».
«Per quale motivo?».
«Perché per darle la stessa vita sfarzosa che aveva con i suoi genitori iniziai a farmi un nome come ladro. Fu in quel momento che Raoul morì definitivamente e diventai Arsène». Il biondo sorrise amaramente e le sistemò i capelli oltre la spalla. «La cosa più divertente è che cercando di renderla felice ho commesso gli stessi errori di mio padre».
Molly si accigliò. «Prima hai detto che tuo padre abbandonò tua madre. In che modo gli assomiglieresti?».
«I miei occhi da bambino la vedevano così, ma la realtà era ben diversa ed Henriette non ebbe mai il coraggio di dirmi la verità. La scoprii dopo la rottura con Clarisse, durante il mio periodo di "studio matto e disperatissimo"».
«Ti sei iscritto all'università?», gli domandò l'anatomopatologa, ridendo.
Arsène ricambiò. «No, ma mi sarebbe piaciuto. Per soffocare il dolore mi rifugiai nei libri e la Bibliothèque Nationale de France diventò la mia seconda casa, letteralmente. Diventai amico di uno dei custodi, il quale mi permise di trasferirmi in un vecchio sgabuzzino per le scope. Una brandina, pochi vestiti e una delle più grandi collezioni d'Europa. Solo trascorrere del tempo circondato da tutta quella conoscenza mi faceva sentire la persona più ricca del mondo. Ma stavamo parlando di mio padre, giusto?».
«Non sei costretto a farlo, se non vuoi», esclamò Molly, posandogli una mano sul bicipite. «Sinceramente non capisco nemmeno perché tu mi abbia raccontato della tua infanzia. Non hai paura che vada a raccontare tutto a Sherlock?».
Il ladro le rivolse un sorriso dolcissimo. «Non ci si può rifiutare di mangiare solo perché c'è il rischio di restare soffocati».
«Ti piacciono proprio le citazioni, eh?».
«Questo è un proverbio cinese». Le posò la mano sulla guancia e con il pollice le accarezzò lo zigomo. Il suo sguardo si fece liquido quando si posò sulle sue labbra. «Pensi che abbia rischiato troppo?».
«Mi stai chiedendo se ti tradirei?».
Arsène annuì piano col capo. «Lo capirei, se lo facessi».
Molly si avvinò tanto da sfiorargli il naso col proprio quando negò. «Non lo farei mai».
«E perché?». Ormai la sua voce era ancora meno di un sussurro.
«Non lo so», ammise lei, accarezzandogli il braccio fino a raggiungere la sua guancia. «Dovrei farlo, ma non lo farò».
Il Ladro Gentiluomo annullò del tutto la distanza tra le loro labbra e la baciò. Entrambi tenevano il volto dell'altro, come se fossero bombole d'ossigeno da cui dipendevano le loro vite, e i loro respiri concitati si fusero insieme. Anche i loro corpi erano così vicini ed intrecciati da non sapere più quale fosse il confine dell'uno e quale dell'altro.
Molly si sentiva andare a fuoco e voleva che Arsène la prendesse come la sera precedente, lo voleva davvero, ma uno spiraglio di lucidità la costrinse a scostarsi. Le era tornato alla mente l'ultimo incontro con Sherlock e il suo lo sguardo gelido era stato in grado di spegnere l'eccitazione.
«No», esclamò a mezza voce, tirandosi su di scatto e portandosi le mani tra i capelli ancora un po' umidi.
«C'è qualcosa che non va?», le domandò Arsène con tono cauto, seguendola seduto sul letto e posandole una mano alla base della schiena.
«Scusa, è che... non possiamo. Io non posso». Sospirò frustrata, ammettendo: «Ieri è stato bellissimo, sul serio, ma è stato uno sbaglio. Ero stanca e triste e, per una sera, non volevo pensare a Sherlock. Ti ho usato e mi dispiace, Arsène».
Il ladro rimase in silenzio per diverso tempo, tanto che ad un tratto Molly trovò il coraggio di girarsi per affrontare ciò che la attendeva. Al contrario di ciò che temeva però, Arsène stava sorridendo in quel modo mesto, come se fosse abituato a tutto ciò.
«Non c'è bisogno che ti scusi», le disse, percorrendo la sua schiena con la mano per arrivare a prenderle la base del collo. L'anatomopatologa si morse le labbra per non maledirsi: solo quel semplice tocco l'aveva eccitata di nuovo.
«Spero solo che le cose non diventino imbarazzanti tra noi. Tengo alla tua amicizia tanto quanto Geneviève».
«Ma certo», lo rassicurò afferrandogli la mano posata sul ginocchio.
Arsène annuì e si sporse con le gambe fuori dal letto con l'intenzione di alzarsi, ma non appena si tirò su fu colto dalle vertigini e ricadde seduto con una mezza risata.
«Mi piace bere, ma la verità è che non lo reggo proprio l'alcool», confessò imbarazzato.
Molly invece si sentiva solo un po' brilla, perciò lo aiutò a stendersi nuovamente e rimboccandogli le coperte gli disse che poteva anche dormire lì per quella notte.
«E dovrei permettere ad una fanciulla di dormire sul divano?», domandò con uno strano miscuglio di inglese e francese. «Jamais!».
Arsène provò davvero a farsi valere, ma finì soltanto per ingarbugliarsi tra le coperte e cadere giù dal letto come un sacco di patate, scatenando le risate di Molly, la quale dovette coprirsi la bocca con entrambe le mani per non svegliare Geneviève, nella stanza accanto.
Una volta rimesso a letto però chiuse gli occhi e farfugliò qualche altra parola nella sua lingua madre, cedendo al vino e al sonno.
La donna non resistette a quella visione e maledicendosi ancora si chinò per posargli un ultimo bacio a stampo sulle labbra, il bacio d'addio. E pensare che avrebbe potuto avere tutto quel bendidio per due notti di fila... Se solo il suo cuore non fosse stato rubato, ormai ben cinque anni prima, da Sherlock Holmes, le cose sarebbero andate molto diversamente con Arsène Lupin.
Quando fece per risollevarsi però il ladro le afferrò la nuca e la costrinse a rimanere piegata su di lui, la fronte contro la sua.
«Mio padre», sussurrò ad occhi chiusi, lucidissimo. «Mio padre aveva una palestra, dove insegnava boxe e arti marziali. Gli allievi però erano pochi e le spese tante, così finì per indebitarsi. Pur di non dare un dispiacere a mia madre iniziò a rubare». Arsène abbozzò un sorriso. «Come vedi, la mela non cade mai troppo lontana dall'albero».
Molly chiuse a sua volta gli occhi, nella speranza che anche le sue orecchie potessero otturarsi, impedendole di sentire il resto della origin story di Arsène Lupin.
A lei non piacevano i segreti, non le piacevano per niente e dopo la faccenda della finta morte di Sherlock, che l'aveva costretta a mentire per due anni, si era ripromessa che non avrebbe mai più custodito segreti per gli altri. Però la curiosità era tanta e Arsène sembrava così bisognoso di parlare, di sfogarsi... di ricordare e fare pace con quel passato che aveva rinnegato e cercato di cancellare per tutta la vita.
«Fu lui a rintracciarmi. Non mi volle rivelare come fece, ma alla fine non mi importava. A dire il vero non volevo avere niente a che fare con lui, però riuscì a convincermi a seguirlo in un café e parlammo per ore. Mi raccontò tutto e scoprii che era stata mia madre ad allontanarlo quando aveva capito da dove provenivano i soldi che usava per ripagare gli strozzini. Mia madre aveva rinunciato all'amore per cui aveva lottato così duramente perché io non crescessi con un esempio simile. Lo fece perché non voleva che seguissi le sue orme, ma alla fine lo feci lo stesso. Realizzai che lei aveva sempre saputo chi fosse il ladro della collana di Marie-Antoinette e che probabilmente ero stato io, nella mia ingenuità, a farla ammalare».
«Non lo pensare nemmeno», intervenne Molly, sedendosi al suo fianco. «Non puoi colpevolezzarti in questo modo, non è giusto».
Arsène le sorrise. «Ti ringrazio per il tentativo, ma non devi consolarmi».
«Ma tu...».
«Ad ogni modo io e mio padre iniziammo a frequentarci e fu lui ad insegnarmi tutto quello che so sul combattimento corpo a corpo, anche se a dire il vero sono rare le occasioni in cui ho dovuto lottare con qualcuno. Ho sempre preferito l'amore alla violenza. "Anche quando fa giustizia, la violenza è ingiusta", Thomas Carlyle».
Molly gli strinse le mani tra le sue e se le portò alle labbra per baciarne le nocche. Quel gesto lasciò il ladro a bocca aperta per lo stupore e poi, orripilato, le ritrasse per stringerle in pugni e portarseli sulla fronte.
«Ciò nonostante ci sono altri modi per fare del male alle persone - io ne so qualcosa - e tuttavia non sono da meno. È per questo che non mi piace rivangare nel passato, perché so che se mi addentrassi troppo finirei risucchiato dalle mie colpe e non riuscirei a riemergervi, come nelle sabbie mobili».
«E poi come andò a finire con tuo padre?», gli domandò l'anatomopatologa, capendo che in realtà continuare a farlo parlare era l'unico modo per tendergli una mano ed aiutarlo a non affondare.
«Lui... mi chiese di partecipare ad un furto in banca, dicendo che insieme avremmo potuto fare il colpo della vita, quello che ci avrebbe permesso di sistemarci per sempre. Io, che già avevo un concetto diverso di rapina, rifiutai. Cercai anche di fargli cambiare idea, spiegandogli che gente con le nostre stesse difficoltà, lavorando duramente aveva messo in banca i risparmi di una vita; rubandoli avrebbe vissuto a spese di moltissimi altri e non era accettabile. Lui non volle ascoltarmi e fece il colpo da solo. Fu un disastro, un vero disastro, e la polizia emise un mandato di cattura che lo costrinse a scappare negli Stati Uniti. Anche in quell'occasione mi chiese di seguirlo, ma non lo feci. Fu l'ultima volta che vidi mio padre in libertà. Lo incontrai nuovamente sette anni dopo, in una prigione americana, poco prima che morisse. Mi chiese di perdonarlo per i suoi sbagli - per aver lasciato me e mia madre, per essere stato un terribile padre e per essere diventato un criminale - e io lo feci, promettendogli che non sarei mai diventato come lui».
Arsène si allontanò le mani dal viso e riaprì gli occhi per incontrare quelli di Molly, ancora seduta al suo fianco. Con uno sforzo si tirò su e si avvicinò al suo viso col proprio, una mano a portarle i capelli dietro l'orecchio destro.
«Per questo ho sempre cercato di rubare ai ricchi, specie a quelli che avevano speculato sulle vite degli altri per raggiungere il loro status, ma sono consapevole che il mio operato ha fatto soffrire molte persone: l'ispettore Ganimard, per esempio; o la stessa Clotilde, l'unica donna che è riuscita a rendermi felice dopo il periodo forse più nero della mia vita. Senza di lei... Forse sarei diventato un altro se non fosse stato per lei. Avevo un debito enorme nei suoi confronti ancora prima di scoprire che aveva dato alla luce Geneviève, adesso... adesso voglio mantenere la promessa fatta ed essere ciò che Theophraste non è stato per me: un buon padre».
Molly tirò su col naso, sopraffatta da tutto il groviglio di emozioni che aveva iniziato ad attorcigliarsi intorno al suo cuore. Il Ladro Gentiluomo sorrise nuovamente e prendendole la testa con entrambe le mani le posò un bacio sulla fronte, poi la strinse a sé avvolgendole le braccia intorno alla schiena.
«Ci riuscirai», mormorò ad un tratto la donna, stringendo i pugni sul suo petto. «Raoul è ancora dentro di te, nascosto da qualche parte, e sono certa che potrebbe tornare se solo lo volessi».
«Grazie, Molly Hooper».
La castana si scostò e lo guardò negli occhi, trovandoli lucidi. «E per che cosa?».
«Per la tua speranza. Ora mi è chiaro perché Sherlock ti ama tanto».
«Ti prego, non...». La sua voce si spezzò, così come la fragile barriera che aveva eretto intorno al cuore per tenere a freno quel dolore immenso.
«Perdonami, non volevo».
Molly si sforzò per sorridere tra le lacrime e si alzò, asciugandosi il volto con le mani. «No, è tutto okay», mentì. «Sarà meglio dormire qualche ora, adesso».
«Va bene. Sei sicura di non voler rimanere qui? Giuro che non ti toccherò».
L'anatomopatologa non poté trattenere una risatina. «Purtroppo non posso prometterti lo stesso, perciò...».
Anche Arsène sorrise a quelle parole. «Allora buonanotte, Molly. E di nuovo grazie».
Lei annuì con un cenno del capo e si lasciò la propria camera da letto alle spalle. Fece per avviarsi verso il salotto, dove l'aspettava il divano su cui non avrebbe comunque chiuso occhio, ma qualcosa la spinse invece verso la camera degli ospiti.
Aprì piano la porta e grazie alla luce del corridoio fu in grado di vedere Geneviève addormentata. Si avvicinò con passo felpato per sistemarle meglio le coperte e solo allora si rese conto che aveva alle orecchie le cuffiette dell'mp3. Gliele tolse con delicatezza e spense il piccolo apparecchio, poi lo posò sul comodino e si fermò per qualche attimo a guardare la ragazzina. Durante il sonno, abbandonata la maschera con cui cercava di dimostrarsi felice e piena di energie, il suo volto era attraversato da un profondo dolore, un sentimento che Molly conosceva bene e con cui poteva relazionarsi.
Si sdraiò delicatamente al suo fianco e con una mano le accarezzò i capelli mentre le sussurrava: «So che ti manca la tua mamma, ma non sei sola, Geneviève. Il tuo papà si sta impegnando molto per te e anche io... anche io voglio che tu sia felice».
A quelle parole la biondina parve rasserenarsi, i tratti del suo viso si distesero e Molly sorrise, rincuorata. Quindi fece per alzarsi, ma una piccola mano si strinse intorno al suo polso e quella presa, forte ma delicata, le ricordò tantissimo quella di Arsène. Si girò ed incrociò gli occhi verdi di Geneviève ad attenderla, grandi e spauriti. Era sempre stata sveglia.
«Rimani qui», le sussurrò. «Solo finché non mi addormento, per favore».
L'anatomopatologa non poté non notare quanto padre e figlia fossero simili - entrambi con una profonda cicatrice sul cuore - e per questo si riaccomodò al suo fianco, quella volta infilandosi sotto il piumone e lasciandosi persino abbracciare.
Si domandò se il calore che sentiva nel petto fosse ciò che tutti i genitori provavano se stretti dai loro figli e un'altra fitta al cuore le inumidì gli occhi: alla sua età sua madre aveva già partorito sua sorella maggiore ed era incinta di lei.
Fino a quel momento non aveva mai pensato seriamente a diventare mamma, nemmeno dopo tutto il tempo trascorso con la piccola Rosie. L'attaccamento che iniziava a provare per quella ragazzina invece la stava facendo fantasticare e al contempo disperare, dato che non avrebbe mai trovato un uomo in grado di spodestare Sherlock Holmes dal suo cuore. Avrebbe potuto affezionarsi, ma mai innamorarsi, e la sua vita sarebbe sempre stata a metà.
Dannato, dannato Sherlock, pensò e senza volerlo si aggrappò con più forza ad una Geneviève ormai addormentata, quella volta per davvero.

Si era addormentata da appena un paio d'ore quando, alle sette di quel venerdì mattina, Molly fu svegliata bruscamente dal campanello. All'inizio pensò di esserselo sognato, poi però il trillo si ripeté e fu costretta ad alzarsi dal letto, sottraendosi dall'abbraccio di una Geneviève mugugnante.
Passò accanto alla propria stanza e vide solo la schiena Arsène, addormentato sul fianco; quindi senza ulteriori esitazioni andò alla porta. Si ritrovò davanti due agenti di polizia in borghese, i quali si scusarono per l'orario e dopo aver mostrato i distintivi e un mandato di perquisizione entrarono nel suo appartamento senza troppe cerimonie.
Molly, stordita dal sonno e dall'incredulità, lesse che stavano cercando Geneviève e provò a fermarli, invano. Aprirono ogni porta e il cuore dell'anatomopatologa smise di battere quando accesero la luce nella sua camera da letto e la trovarono vuota: Arsène, fino a pochi minuti prima sotto le coperte, non c'era più. In quel momento non seppe se sentirsi sollevata oppure infuriata, ma fu decisamente la seconda quando si rese conto che la sua era stata una fuga solitaria: Geneviève, infatti, ancora mezza addormentata, era seduta sul letto che si stropicciava gli occhi e chiedeva cosa stesse succedendo.
Uno degli agenti andò da lei e la fece alzare sotto gli occhi increduli di Molly, mentre l'altro recuperava una radio e comunicava alla Centrale di aver trovato la ragazzina e di averla presa sotto custodia.
«Lasciami!», provò a protestare Geneviève, sollevando i gomiti e scalciando. «Lasciami andare, bastardo!».
«Geneviève, calmati, sono certa che è solo un malinteso», esclamò Molly, ma dovette ricredersi quando l'agente con la radio si portò alle sue spalle per ammanettarla.
A quel punto le due si guardarono, terrorizzate, e Geneviève aprì la bocca per gridare aiuto, ma l'anatomopatologa scosse mestamente il capo nella sua direzione, facendole capire che suo padre non era più nei paraggi. A quel punto la ragazzina si ammutolì e a testa bassa, per non far vedere le lacrime, si lasciò portare via.
Molly testò la stretta delle manette e il freddo del metallo le segò i polsi, ma fu un dolore decisamente più accettabile rispetto a quello che provava in mezzo al petto. 

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Capitolo 21
*** Truth shall make you free ***


Ciao a tutti! :D
Eh eh, la scorsa settimana vi ho lasciati con un altro colpo di scena! Che ci posso fare, Moffat mi ha contagiata xD
Ma, worry not, nel capitolo che state per leggere ci sarà finalmente la resa dei conti tra Sherlock e Arsène. Chi la scamperà e quali saranno i danni collaterali causati dallo scontro tra questi due titani?
Anche la misteriosa Victoire farà il suo ingresso in pompa magna e diciamo che porterà con sé un altro pezzo del passato di Arsène, quello più doloroso e che, ci tengo nel dirlo, mi sono inventata di sana pianta perché fin'ora, durante le mie ricerche, non ho trovato nulla in merito. Sorry se risulterò troppo banale o se vi farò piangere.
Comunque, come si evince dal titolo del capitolo (citazione del Vangelo di Giovanni), la vera protagonista sarà la verità e anche Sherlock dovrà farci i conti. Io non gli ho mai perdonato una certa cosa (non ve la dico per non spoilerare) e il modo in cui ho manovrato il detective è come vorrei che si sentisse a riguardo. Perdonatemi se magari sono andata OOC.
Okay, basta chiacchiere ora! Vi auguro buona lettura e spero di ricevere dei vostri pareri, perché sapete quanto ci tengo :)
Grazie a chi ha seguito fino a qui ♥

Vostra,

_Pulse_



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21. Truth shall make you free


Arsène correva, correva per le strade di Londra ancora illuminate dai lampioni, con indosso i vestiti con cui si era addormentato, infradito ai piedi e il cappuccio della felpa tirato sulla testa.
Il respiro, affannoso per la corsa e i singhiozzi, gli bruciava la gola e il vento freddo gli irritava il volto e gli occhi bagnati di lacrime.
Com'era potuto accadere? Come avevano fatto a trovarla? Nessuno sapeva dove fosse Geneviève. Nessuno tranne Grégorie, Ernest, la stessa Molly e...
Le sue gambe si irrigidirono e Arsène si ritrovò fermo in mezzo alla strada, abbagliato dai fanali dei taxi e dei primi mattinieri, gli occhi sbarrati per lo shock. Non si accorse del semaforono che diventava verde, né dei clacson o delle persone che sporgevano la testa fuori dai finestrini per gridargli di levarsi di mezzo.
Era stato Sherlock, non c'erano altre spiegazioni. Sherlock sapeva della struttura di accoglienza in Francia in cui aveva finto vi fosse Geneviève - era stato lui stesso a rivelarglielo - e sapeva che in realtà si trovava a casa di Molly Hooper. Nessun altro aveva la possibilità e il movente, soprattutto, per avvertire la polizia.
«Allora ti vuoi levare, coglione?!», gridò l'uomo che era appena sceso dal suo camion di surgelati. «Qui c'è gente che deve lavorare, al contrario dei drogati come te!».
Arsène si voltò di scatto, guardandolo con espressione così folle che l'uomo, nonostante fosse grande e grosso, fece un passo indietro, intimorito.
«Sono contrario alle droghe», gli disse, e poi: «Mi offrirebbe un passaggio?».
«Stai scherzando, vero?».
«Affatto. Purtroppo non conosco questa zona e dato che ho dimenticato il portafoglio non posso pagare un taxi. Sarebbe così gentile da portarmi al Savoy Hotel?».
Il camionista, sempre più confuso dalla situazione, lo guardò fino a quando Arsène non scoppiò a ridere, aprendo le braccia ed urlando: «Oppure potrei starmene qui per tutta la mattina! Tanto non ho niente da fare!».
Il rumore dei clacson si fece così insistente che alla fine l'uomo fu costretto a cedere, invitandolo a salire sul suo mezzo.
«La ringrazio molto, signore. Verrà ripagato per la sua gentilezza», esclamò Arsène una volta seduto al suo fianco.
«Tanto dovevo passare di là comunque», borbottò il camionista. «Spero solo tu non sia uno psicopatico».
«Oh no, nulla del genere. Sono solo francese».
L'uomo inarcò le sopracciglia e scuotendo il capo mise finalmente in moto, facendo scorrere il traffico e ricevendo gli applausi degli altri automobilisti.
Mai avrebbe immaginato che quella stessa sera avrebbe ricevuto un sms coi ringraziamenti di Arsène Lupin e un deposito di mille euro sul proprio conto in banca.

***

Victoire scese dalla berlina nera e guardò l'edificio davanti ai suoi occhi, schermati da un paio di occhiali da sole firmati. Un piccolo sorriso le increspò le labbra mentre si tirava su il colletto del corto cappotto rosso ed attendeva che Alain, alla guida del mezzo, la raggiungesse con una ventiquattrore contenente tutti i documenti - squisitamente contraffatti - per il prelievo di Geneviève. Quindi entrarono nella sede londinese di Scotland Yard.
Si avvicinarono all'agente alla reception e con un inglese perfetto, ma ben marcato dall'accento francese, diedero le credenziali degli assistenti sociali che stavano aspettando e che in realtà sarebbero arrivati solo in tarda mattinata. Il poliziotto però, stanco per il turno di notte e desideroso di dare il cambio al collega, non si pose troppe domande e li lasciò passare.
Victoire e Alain raggiunsero la sala interrogatori che era stata loro indicata e dopo aver bussato delicatamente alla porta fu un agente in borghese ad accoglierli e a dare loro il benvenuto a Londra.
«Avete fatto presto», commentò alla fine delle presentazioni e Victoire, togliendosi gli occhiali da sole per fissarlo coi propri magnetici occhi grigi, mostrò un sorriso modesto rispondendo: «In casi come questi non c'è un minuto da perdere. Lei come sta?».
«Come da protocollo l'abbiamo affidata ad una delle nostre psicologhe, ma fino ad adesso si è rifiutata di parlare. Magari voi avrete più fortuna».
L'agente si spostò dalla porta e li lasciò entrare. La psicologa si girò a guardarli, mentre Geneviève, seduta dall'altra parte del tavolo, fissava con occhi vacui la tazza di té e le ciambelle glassate che le erano state portate e che non aveva osato toccare. Per Victoire, la quale l'aveva vista solo in alcune fotografie non troppo recenti, fu quasi commovente posare gli occhi su di lei e notare tutto ciò che aveva preso dal suo Arsène.
«Bonjour, bonbon», la salutò Victoire con voce affettuosa.
La ragazzina alzò gli occhi su di lei, occhi fieri ed orgogliosi quanto quelli del Ladro Gentiluomo, e la squadrò a lungo, con diffidenza. Victoire si innamorò di lei ancora di più.
«Ci dispiace molto per ciò che è successo, ma non temere: risolveremo tutto, te lo prometto», aggiunse in inglese, facendo il giro del tavolo. Dalla grande borsa appesa al gomito estrasse un bigliettino da visita e glielo porse, sorridendo.
Geneviève impiegò qualche secondo per allungare la mano ed afferrarlo, ma dovette dissimulare la sorpresa quando si accorse che quello altri non era che uno dei cartoncini bianchi che Arsène Lupin si portava sempre appresso e che usava per i suoi colpi. Incrociò nuovamente gli occhi della donna, in piedi al suo fianco, e realizzò che suo padre doveva aver mandato la cavalleria.
«Posso sedermi al tuo fianco?», le domandò con gentilezza, indicando la sedia vuota.
Geneviève si limitò ad annuire con un cenno del capo, accartocciando nel pugno il bigliettino bianco.

***

Arsène entrò nella lussuosa hall del Savoy con passo sicuro e nonostante il suo povero abbigliamento non ricevette alcun ammonimento, anzi in qualche modo furono tutti gli altri - dai receptionist e i facchini di turno ai primi clienti - a sentirsi in difetto al suo passaggio. La sua aura di forza e potere doveva essersi quintuplicata per via del tradimento e nessuno, nessuno avrebbe osato contraddirlo in un momento del genere.
Raggiunse la Royal Suite e i membri della scorta furono sorpresi di vederlo, ma lo accolsero con gioia. Fu indetta immediatamente una riunione d'emergenza e alla notizia del ritorno di Arsène, Grégorie si precipitò nella suite e fu solo grazie al suo stoico autocontrollo che non gli gettò le braccia al collo quando incrociò il suo sguardo. Si limitarono a scambiarsi un sorriso e poi il ladro, in piedi davanti al tavolo da pranzo, spiegò il motivo della sua sparizione e cos'era successo fino a quel momento.
«Ernest è già davanti alla sede di Scotland Yard», rispose Grégorie alla richiesta di aggiornamenti.
Arsène annuì soddisfatto. «Bene, voglio che monitori la situazione fino a quando non formuleremo un piano d'estrazione».
In quell'istante il cellulare di Grégorie iniziò a vibrare nella sua tasca e l'uomo corrugò la fronte nel leggere il numero sconosciuto sul display. Guardò il suo padrone con fare circospetto e se lo portò all'orecchio. Non riuscì nemmeno a dire una parola, ricevendo semplicemente l'ordine di passare il cellulare ad Arsène Lupin.
Con cautela Arsène prese l'apparecchio dalla mano dell'amico, trovandola caldissima in confronto alle proprie, gelide per l'ansia e la paura.
«Chi parla?».
Il suo volto si distese sentendo la voce dall'altro capo del telefono e alla fine della conversazione, nella quale nemmeno lui aveva pronunciato verbo, sospirò di sollievo.
«Geneviève è salva», spiegò ai suoi uomini. «Adesso vogliate scusarmi, ma devo prepararmi per...».
«Aspetti un momento, che significa? Chi era la donna al telefono?», lo interruppe Grégorie, agitato.
Tutti gli occhi si posarono su di lui, ma per l'uomo c'era solo Arsène, il quale sorrise e confessò: «La voce che hai sentito appartiene alla donna che mi ha cresciuto e amato come una madre, che mi ha salvato e che continua a salvarmi quando sento il terreno sgretolarsi sotto i miei piedi».
L'uomo coi baffi rimase a bocca aperta, realizzando che il Ladro Gentiluomo si stava riferendo alla donna che appena la mattina precedente, con Maurice Leblanc, lui aveva definito una leggenda: Victoire.
«Ora, come dicevo, devo andare a prepararmi», riprese Arsène con un sorriso gentile e gli occhi di nuovo limpidi. Grégorie però sapeva che si trattava solo dell'ennesima maschera, l'aveva riconosciuta.
Quando la riunione fu sciolta e gli uomini congedati, lui fu il solo a rimanere nella sala da pranzo, a bloccargli l'uscita col proprio corpo.
«Che cos'ha intenzione di fare?», gli domandò piano, cercando i suoi occhi ora attraversati di dolore.
«E me lo chiedi? È stato Sherlock a tradire Geneviève. Ho intenzione di affrontarlo faccia a faccia».
«Lo ha capito vero che è solo un modo per attirarla allo scoperto? Proprio come la storia del dipinto rubato».
«L'ho capito benissimo, ma non posso lasciar correre, non questa volta!», gridò a mezza voce, furioso. «E adesso spostati».
Grégorie ripensò alla domanda che Geneviève gli aveva posto non molto tempo prima: gli aveva chiesto se non avesse una volontà propria e allora l'uomo aveva risposto che il debito che aveva con Arsène l'aveva portato a dedicarsi interamente a lui. Era vero, assolutamente, ma solo in quel momento capì che non l'aveva fatto solo per ripagarlo, ma anche perché l'aveva scelto. Aveva scelto di rimanergli accanto nel bene e nel male, aveva scelto di vegliare su di lui e di proteggerlo e ora lo stava facendo: lo stava proteggendo da se stesso, anche a costo di disubbidire agli ordini.
«Non posso farlo, padrone», rispose con serenità, sicuro della propria decisione.
Arsène lo guardò stralunato. «Sei forse impazzito?».  
«Sto solo cercando di salvarla».
Il Ladro Gentiluomo odiava la violenza, ma anche lui ogni tanto non aveva altre alternative a disposizione. E lo addolorò profondamente che quella fosse una di quelle volte, specie perché era di Grégorie che si trattava.
Lo afferrò per la nuca come se avesse voluto baciarlo, mentre con l'altra mano gli assestava un pugno nello stomaco così forte da fargli perdere la presa sugli stipiti della porta. Poi lo spinse a terra e si chinò su di lui per prenderlo per la camicia e sussurrargli ad un centimetro dalla sua bocca: «Ti ringrazio, amico mio, ma a volte l'unico modo per raggiungere la salvezza è attraversare l'Inferno».
Gli accarezzò il volto, chiudendogli gli occhi, ma Grégorie non si arrese. Gli strinse i polsi tra le dita e lo pregò: «Non lo faccia».
Arsène si appoggiò al pavimento con un ginocchio e con un sorriso mesto sul volto rispose: «Ci rivedremo ancora, te lo prometto. Sono mai venuto meno ad una promessa, Grégorie?».
L'uomo negò col capo, mentre una solitaria lacrima gli scivolava sulla tempia.
«Vedi? Non hai di che temere. Fino ad allora, ho bisogno che anche tu mi faccia una promessa».
«Qualsiasi cosa».
«Proteggi Molly Hooper e porgile le mie scuse».
A quelle richieste Grégorie riaprì gli occhi e guardò quelli del proprio padrone, ammirando la sua forza di spirito ed integrità morale. Davvero il suo cuore era il più grande che avesse mai visto. Nonostante l'anatomopatologa fosse la donna amata da Sherlock Holmes, lo stesso su cui voleva vendicarsi, non sarebbe venuto meno alla promessa fatta. Spesso e volentieri era proprio questo suo onore a procurargli i peggiori guai, tuttavia non vi avrebbe mai rinunciato.
«Allora, pensi di poter fare una promessa simile?», gli domandò ancora.
Grégorie annuì con un cenno del capo. «Sì, glielo prometto».
«Grazie, amico mio».
Il Ladro Gentiluomo si alzò e non si voltò più indietro. Ordinò a François, il giovane hacker, di seguirlo nella sua stanza e mentre sceglieva ed indossava il proprio completo più costoso si preparò per il duello, forse quello finale.

***

A Sherlock bruciavano gli occhi, ma non avrebbe pianto. Non avrebbe versato nemmeno una lacrima per l'uomo che sarebbe potuto diventare il suo migliore amico e forse qualcosa di più, che aveva cercato di redimere così tante volte e con cui avrebbe sempre avuto un debito enorme, a quel punto impossibile da ripagare.
Seduto sulla propria poltrona, col fuoco acceso nel camino come unica fonte di luce ed immerso nel più totale dei silenzi, ascoltò l'impercettibile scatto della serratura e i suoi passi felpati che salivano le scale. Quindi alzò lo sguardo verso la porta che dava sul salotto ed incrociò quello di Arsène Lupin, vestito elegantemente sotto il lungo cappotto grigio. In testa aveva un cappello a cilindro e un monocolo all'occhio destro, due tocchi di classe che lo facevano sembrare un gentiluomo d'epoca Vittoriana.
Sherlock sapeva il motivo per cui si era agghindato in quel modo, ma per crederci dovette avere la sua conferma. Per questo gli chiese: «Hai invitato la stampa?».
Il Ladro Gentiluomo sorrise e si levò il cappello per togliervi dei fiocchi di neve. «Già. L'ultima volta non ero preparato, ma non farò lo stesso errore».
Fece un passo all'interno della stanza e il click di diverse armi automatiche gli fece chiudere gli occhi. Sospirando pesantemente, come se ne fosse terribilmente annoiato, disse: «Quindi non avremo un po' di privacy nemmeno durante la nostra ultima conversazione? Beh, se a te sta bene così... Posso?».
Indicò la poltrona di fronte a quella del detective e Sherlock annuì, permettendogli di accomodarsi. La squadra d'élite di Mycroft Holmes, un grappolo di uomini e donne decorati e con anni di esperienza sul campo, seguirono ogni suo movimento con i fucili alzati.
«Allora, abbiamo all'incirca quindici minuti prima che arrivino i giornalisti, perciò di cosa vuoi parlare nell'attesa?», gli domandò Arsène, guardando il Rolex d'oro che portava al polso. «Se posso proporre un argomento, vorrei che mi spiegassi nel dettaglio il motivo per cui hai tradito la mia fiducia e quella di mia figlia avvisando i servizi sociali francesi».
Sherlock arricciò le labbra, infastidito. «Vuoi davvero che te lo spieghi?».  
«Oh sì, ti prego. Umiliati qui, davanti a tutti questi bravi ragazzi».
«Tu sei un ladro ricercato in tutto il mondo, nessuna ragazzina dovrebbe finire sotto la tua custodia», rispose Sherlock, monocorde. «Sua madre mi ha chiesto di proteggerla e sono giunto alla conclusione che tu non saresti stato un buon padre per lei, per questo ho deciso di allontanarla da te prima che fosse troppo tardi. Magari ora mi odierà, ma quando sarà più grande capirà e mi darà ragione. Forse mi ringrazierà pure».
«Forse», fu la risposta pacata di Arsène.
La sua tranquillità fece agitare il consulente investigativo, il quale si alzò e si portò davanti alla finestra. Sotto l'appartamento si stavano radunando diverse volanti della polizia con i lampeggianti spenti, in attesa del segnale di Sherlock.
«Che cosa c'è, il gatto ti ha mangiato la lingua? Vai avanti, su», lo invitò il ladro, sorridendo furbescamente. «Sappiamo tutti che questo non è l'unico motivo».
Sherlock strinse i pugni lungo i fianchi e rimase in silenzio.
«Vuoi che lo dica io?», gli domandò Arsène, ridacchiando. «E va bene».
Si voltò sulla poltrona ed incrociò gli occhi di uno degli uomini di Mycroft, vestito interamente di nero e con un caschetto dello stesso colore sul capo.
«Volete sapere perché il qui presente Sherlock Holmes ha deciso di fare la sua subdola mossa, usando mia figlia... Lei ha figli, buon uomo? Sì, immagino di sì. Allora capirà il motivo per cui mi sono presentato qui di mia spontanea volontà, pur sapendo che sarei finito in manette per un furto che, tra l'altro, non ho commesso. Ebbene sì, il furto del "Leda col cigno" non è opera mia. Mi hanno incastrato, come si suol dire. Ad ogni modo, Sherlock Holmes, l'infallibile detective, ha usato mia figlia, una ragazzina che ha appena perso sua madre e ha scoperto di avere me come padre, per attirarmi nella sua rete. Non lo trovate anche voi un insulto alle sue capacità? E tutto questo per mera vendetta. Non l'ha fatto perché sono un ladro ricercato in tutto il mondo. No, l'ha fatto per una questione personale. Io sono qui perché ho fatto l'amore con la donna che ama e a cui lui non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Per carità, io ne ero a conoscenza e ammetto di essere stato un terribile amico, ma che posso farci se le donne impazziscono per me?».
Sherlock, il quale aveva ascoltato tutto il suo monologo tremando di rabbia, a quelle ultime parole non riuscì più a trattenersi e si avventò su di lui afferrando un attizzatoio. Arsène era stato tanto rapido di riflessi da spostarsi dalla poltrona ed impugnarne uno a sua volta, parando così il secondo colpo con un clangore metallico.
Gli uomini in divisa lasciarono le loro postazioni per accerchiarli, gridando di allontanarsi l'uno dall'altro e mirando sia ad Arsène che a Sherlock.
Il Ladro Gentiluomo sorrise di fronte all'espressione stravolta dall'ira del detective.    
«Dicevi di volerla proteggere ad ogni costo, ma hai fallito su ogni fronte, Sherlock», gli disse. «Il tuo atteggiamento l'ha spinta tra le mie braccia e io ho dovuto consolarla, capisci? Sei stato tu a chiedermi di proteggerla, ricordi? "Non importa come", hai detto. E io l'ho fatto! È inutile che ora tu te la prendi con me, perché quello che è accaduto è tutta colpa tua. Se fossi stato sincero con lei sin dall'inizio...».
«Stai zitto, maledetto!».
Sherlock allontanò l'attizzatoio da quello tra le mani di Arsène e provò ad infilzargli la gamba, ma il ladrò parò ancora il colpo e subito dopo contrattaccò, costringendo il detective a difendersi.
Adesso aveva smesso di sorridere e lo fissava con gli occhi verdi incendiati dalle fiamme del camino e dall'odio.
«Tu sei solo un egoista, incapace di apprezzare le persone che hai al tuo fianco fino a quando non ti voltano le spalle o muoiono. Volevi farla pagare anche a Molly per essere venuta a letto con me e ci sei riuscito, dato che ora si trova a Scotland Yard con l'accusa di rapimento di minore. Ma tu sei Sherlock Holmes, avrai pensato che tanto tuo fratello avrebbe reso di nuovo limpida la sua fedina penale con uno schiocco delle dita, proprio come ha fatto con te quando hai sparato un colpo in testa a Magnussen».
Lo shock che attraversò il volto di Sherlock lo fece ridere di cuore, ma Arsène non perse l'occasione e gli rivolse una stoccata con cui lo ferì al fianco sinistro, squarciandogli giacca e camicia. Il detective però, nonostante avesse previsto la mossa, anziché difendersi aveva deciso di mettere in pratica ciò che lo stesso Arsène aveva detto qualche settimana prima: «A volte è necessario sanguinare per le cose importanti». Stringendo i denti per il dolore, Sherlock allungò l'attizzatoio e glielo puntò alla gola, mettendolo con le spalle al muro.
Gli uomini di Mycroft, per quanto fedeli, avevano smesso di gridare e avevano iniziato ad abbassare i fucili, increduli davanti ai due duellanti e a tutte le verità che stavano venendo a galla.
«Che cosa c'è? Ti aspettavi forse che continuassi a starmene zitto in nome della nostra amicizia?», gli domandò Arsène, quasi dolcemente. «Mi chiedo chi dei due qui sia il vero bugiardo. Io sono un ladro e non l'ho mai nascosto, mentre tu... Che cosa penserebbero le persone che credono in te, che pensano che tu sia un eroe, se scoprissero la verità? La nazione intera ha iniziato ad idolatrarti, a credere che senza di te il crimine dilagherebbe nelle strade, e questo è il risultato: tu sei libero di uccidere pur di togliere dai guai i tuoi amici. Alla Regina Elisabetta sta bene, è una tua fan, mentre io, semplice ladro d'arte, merito il carcere a vita? Se questo è il mondo in cui viviamo, io non voglio più farne parte».
Detto questo lasciò cadere l'attizzatoio a terra ed allungò i polsi verso il detective, guardandolo negli occhi con orgoglio e fierezza. Sherlock abbassò a sua volta l'arma di fortuna e anche gli occhi, pieni di vergogna.
«Io pensavo... pensavo di non avere altra scelta».
«Lo so. Credimi, lo so. Anche io mi sono trovato ad un bivio simile, tanto tempo fa. Avevo la possibilità di vendicarmi di chi mi aveva fatto del male, sarebbe bastato così poco... Ma realizzai che se mi fossi lasciato sopraffare dall'odio sarei diventato proprio come quelle persone».
La mano di Arsène gli sfiorò delicatamente la guancia e Sherlock, ad occhi chiusi, vi si abbandonò per qualche istante.
Gli stava dicendo la verità, quello era un raro frammento del passato del Ladro Gentiluomo, e per questo il detective si sentì ancora peggio quando lasciò cadere l'attizzatoio e stese una mano verso un agente perché gli consegnasse un paio di manette. Questi esitò, influenzato dalle parole di Arsène Lupin e per cui riluttante ad eseguire gli ordini di un assassino, ma fu costretto ad obbedire quando lo stesso ordine venne da Mycroft, comparso davanti alla porta della cucina col suo inseparabile ombrello come bastone da passeggio.
«Ah, eccoti qua», lo salutò il ladro con un ampio sorriso sul volto, allontanando velocemente la mano dal volto di Sherlock. Per il detective fu peggio che ricevere uno schiaffo.
«Stavo giusto per dire a Sherlock che voglio una cella accanto a quella della vostra sorellina, ma è una richiesta che devo inoltrare a te, non è vero Myc?».
Il maggiore degli Holmes lo ignorò e con tono autoritario ordinò: «Portatelo via».
«Sei in arresto per il furto del "Leda col cigno" e un'altra dozzina di reati».
Sherlock gli assicurò le manette ai polsi, stringendole il più possibile, poi lo consegnò ai due uomini armati più vicini.
Lo avevano scortato solo fino alla porta che dava sulle scale quando Arsène riuscì a divincolarsi con una piroetta ed esclamò a gran voce: «Ah, mi stavo quasi dimenticando!».
Gli agenti alzarono di scatto i fucili verso di lui quando infilò la mano destra nella tasca interna del cappotto. Le manette ciondolavano al suo polso sinistro e nessuno, nemmeno Sherlock, aveva la più pallida idea di come fosse riuscito a liberarsi in così poco tempo.
«Fermo, non ti muovere!», gridò l'unica agente donna, temendo che ciò che volesse estrarre dal cappotto fosse un'arma da fuoco.
Arsène sollevò la mano sinistra e con molta cautela anche la destra, mostrando lo schermo di uno smartphone acceso.
«Permettete?», domandò retoricamente, dato che inoltrò una chiamata senza attendere il via libera. Alla persona che rispose dall'altro capo della linea chiese: «Hai registrato tutto, mon ami?».
«Certo boss. I nostri amici giornalisti faranno a gara per averla».
«Ti ringrazio per la tua collaborazione. A presto».
Il Ladro Gentiluomo terminò la chiamata e poi lanciò il cellulare in direzione di Sherlock, il quale lo afferrò al volo senza distogliere gli occhi, di nuovo traboccanti d'odio, dalla sua figura. Arséne sorrise smagliante, indicandogli il cappello che aveva lasciato sul tavolino tra le due poltrone.
Il detective lo afferrò e notò subito qualcosa di strano nel suo peso. Lo capovolse digrignando i denti e all'interno della fodera vide i fili un microfono.
A quel punto fu Mycroft a rompere quel silenzio carico di tensione, esclamando: «Non hai prove a sostegno di ciò che è stato detto».
«Uhm, forse», rispose Arsène, scrollando le spalle e porgendo di nuovo i polsi verso l'agente al suo fianco perché gli rimettesse le manette. «Ma a volte un rumor è sufficiente per distruggere la reputazione di una persona, non è vero Sherlock?».
«Ti stai per caso riferendo al trucco usato da Moriarty? Sappiamo tutti com'è andata a finire».
«Già. Io però, al contrario di lui, non ho alcun desiderio di morire e non puoi azzittirmi. Potrai gettarmi in una prigione di massima sicurezza o in una bara, ma sappi che ti perseguiterò fino alla fine dei tuoi giorni». Arsène si sistemò il monocolo all'occhio destro e sorridendo malizioso concluse: «Ora hai due opzioni di fronte a te: o vieni in prigione con me di tua spontanea volontà, oppure venderò la registrazione ai giornalisti e ci finirai comunque. Pensa che spasso sarebbe se fosse lo stesso ispettore Lestrade ad arrestarti!».
I due fratelli si scambiarono un'occhiata con cui valutarono le diverse opzioni e alla fine, come spesso accadeva, si trovarono in disaccordo. Sherlock raggiunse Arsène con passo deciso e lo afferrò per un gomito per spingerlo lui stesso giù per le scale, mentre Mycroft domandava senza ritegno: «Che cosa vuoi per quella registrazione?».
«Non puoi dire sul serio», sbottò Sherlock, furioso.
Mycroft lo ammonì con gli occhi e si rivolse di nuovo ad Arsène: «Dammi il tuo prezzo. So che ne hai uno».
«Questa volta no, Mycroft», rispose il Ladro Gentiluomo, sorridendo. «È una questione tra me e Sherlock ed è con lui e lui soltanto che sono disposto a contrattare, quando e se vorrà farlo».
«Non voglio», rispose subito il detective e fece per proseguire, ma il fratello tagliò per la cucina e bloccò loro la strada.
«Levati di mezzo», lo minacciò Sherlock.
«Non posso lasciartelo fare, fratello. Se ammetterai di aver sparato a Magnussen davanti alle telecamere finiresti sul serio in prigione e nemmeno io potrei tirartene fuori questa volta».
«Non dubito che tu voglia proteggermi, ma te lo leggo in faccia che ciò che temi veramente è che il Governo tagli la testa a te».
Mycroft assottigliò gli occhi. «E se così fosse? Saresti disposto a sacrificare tutto? Abbiamo ancora degli assi nella manica».
Arsène, in mezzo ai due Holmes, sorrideva divertito.
«Sì», rispose alla fine Sherlock, irremovibile. «È come ha detto lui: non possiamo continuare a difendere la legge agendo sopra di essa. Arsène pagherà per i suoi crimini e anche io farò lo stesso».
Al termine di quella dichiarazione Arsène sollevò le mani in un applauso e il braccio sinistro di Sherlock fu costretto ad alzarsi a sua volta: il farabutto non aveva atteso un secondo di più prima di liberarsi un polso per cedere un cerchio delle manette al detective, legandoli insieme.
«Ecco il nostro eroe, Sherlock Holmes! Vedrai, le tue action figures andranno a ruba da oggi in poi», esclamò entusiasta, gli occhi brillanti.
«Stai commettendo un grosso errore», provò ancora a dissuaderlo Mycroft, posandogli una mano sulla spalla.
Sherlock però fece qualcosa che fu in grado di sorprendere tutti, compreso il Ladro Gentiluomo: sorrise.
«No invece», replicò, sereno. Per la prima volta da mesi, precisamente da quando aveva sparato a Magnussen uccidendolo, si sentiva in pace. «Sto cercando di rimediare».
Mycroft parve finalmente comprendere i suoi sentimenti, mai come allora così chiari dietro i suoi occhi azzurri, e coprendosi la fronte con una mano si fece da parte per lasciarli passare.
Sherlock e Arsène, seguiti dagli uomini della task-force, scesero le scale e una volta davanti alla porta chiusa del 221B, dietro la quale si sentivano le voci concitate dei giornalisti e dei fotografi chiamati dal ladro e di quelle degli agenti di polizia chiamati dal detective, i due rivali si guardarono negli occhi.
«Noi due, insieme... Sono contento che finisca così», esclamò Arsène, sorridendo teneramente.
Il detective prese il cappotto e Arsène si offrì di aiutarlo con le manette, togliendogli il cerchio che gli avrebbe impedito di indossarlo. Una volta infilata la manica Sherlock gli chiese di rimetterglielo al polso e Arsène lo accontentò, per poi guardarlo mentre si legava al collo la sciarpa blu, in grado di far risaltare i suoi occhi, e si calcava sulla fronte l'iconico cappello da cacciatore a doppia visiera.
«Come sto?», gli domandò il consulente investigativo quando fu pronto.
«Divinamente. Ma ricordati di sorridere davanti ai flash: questo momento passerà alla storia».
I due rimasero ancora qualche secondo a fissare la porta, ripassando mentalmente le variabili che li avevano condotti lì e domandandosi se quella fosse veramente la fine.
Un agente aprì per loro la porta e mentre i flash delle fotocamere li accecavano entrambi giunsero alla stessa conclusione: quello era solo l'inizio.

***

Greg si era svegliato da appena qualche minuto quando dal bagno sentì il suo cellulare iniziare a suonare sul comodino.
«Non potete aspettare ancora un'ora?», domandò infastidito, riconoscendo il numero della Centrale.
«Ispettore Lestrade, mi dispiace disturbarla ma penso che farebbe meglio a venire qui il prima possibile».
«Che cos'è successo?».
«Ecco... facciamo prima se accende la TV, ispettore».
Greg, con un brivido a percorrergli la spina dorsale, si precipitò in salotto. Su ogni canale di informazione scorrevano le stesse immagini e i titoli in sovraimpressione annunciavano la notizia shock: Arsène Lupin, il Ladro Gentiluomo famosissimo in Francia e ricercato in tutta l'Europa e negli Stati Uniti, era stato da poco arrestato al 221B di Baker Street da Sherlock Holmes, il quale si era a sua volta consegnato alle autorità confessando in diretta l'omicidio di Charles Augustus Magnussen, magnate dell'industria del giornalismo.
«Dio, Sherlock... Che cos'hai fatto?», mormorò con una mano alla bocca.
«Ispettore? Ispettore Lestrade, è ancora lì?».
Greg si riportò il cellulare all'orecchio, sospirando. «Sì, sono qui».
«Ci sarebbe un'altra cosa».
«Stai scherzando, vero? Questo non è abbastanza?».
«Mi dispiace, ispettore».
«Avanti, sputa il rospo».
«Abbiamo in custodia Molly Hooper e si rifiuta di parlare. Pensavamo che magari lei, dato che la conosce, potrebbe riuscire a convincerla a collaborare».
Greg impiegò diversi secondi per elaborare le informazioni, ma non ci credette. «Molly Hooper in custodia? Non è possibile».
«È accusata di sequestro di minore, signore».
«Cosa...? No, c'è sicuramente un errore», ripeté, incredulo.
L'agente provò a spiegargli la situazione nel dettaglio, ma Greg non volle sentire altro e lo interruppe dicendogli che sarebbe arrivato il prima possibile.
Uscendo di casa, Lestrade ebbe la netta sensazione che quella giornata non avrebbe fatto altro che peggiorare.

***

L'ultima volta che John aveva percorso quei corridoi piastrellati l'aveva fatto con un mal di testa lancinante e la promessa che mai più si sarebbe ubriacato in quel modo. Quella volta invece correva verso la cella in cui avevano rinchiuso Sherlock Holmes in attesa del suo trasferimento in un carcere vero e proprio.
Fu certo di averla trovata quando vide Mycroft Holmes in piedi davanti ad una porta, l'ombrello chiuso tra le mani e l'espressione assorta.
Era stato lui a chiamarlo, svegliandolo e dandogli la notizia prima che la apprendesse dai telegiornali, e a pregarlo di raggiungerlo per cercare di inculcare un po' di senso nella testa del fratello minore.
«Grazie per essere venuto, dottor Watson», esclamò Mycroft, rivolgendogli a malapena un'occhiata.
«Ciao John!».
Una mano uscì dalle sbarre della cella che precedeva quella di Sherlock e il maggiore degli Holmes fu rapido a colpirla con l'ombrello, facendola ritrarre insieme a gemiti di dolore.
Il dottore passò di fianco alla porta in questione ed alzandosi in punta di piedi vide Arsène Lupin che si stringeva al petto la mano colpita, i capelli biondi un poco scompigliati sulla testa e l'abbigliamento ridotto a camicia e pantaloni con bretelle.
«Dimmi che hai un piano per tirarlo fuori da qui», furono le prime parole di John, in ansia.
Mycroft sospirò, afflitto ed arrabbiato contemporaneamente. «Finché continua a sostenere di aver premeditato l'uccisione di Magnussen non c'è nulla che io possa fare. Per questo l'ho chiamata: deve riuscire a convincerlo a cambiare versione».
«E perché dovrebbe ascoltarmi?».
«Di solito lo fa, no? E adesso mi scusi, ma devo lasciarla».
Mycroft gli passò accanto e Arsène allungò ancora la mano, come se volesse afferrarlo, ma oltre a stringere l'aria ricevette l'ennesimo colpo d'ombrello sulle nocche.
«Aïe!».
«Aspetta un momento, dove stai andando?», gli chiese invece John. Come poteva lasciare il fratello in prigione con tanta leggerezza?
Il più grande degli Holmes si portò due dita sugli occhi e rispose: «Sono stato convocato a Downing Street per dare spiegazioni. Farò il possibile perché Sherlock e Arsène finiscano a Sherrinford».
«Che cosa? Non puoi fare una cosa del genere!».
«E invece è l'unica cosa da fare», intervenne Sherlock, con voce lugubre.
John si avvicinò alla porta della sua cella e si aggrappò alle sbarre della piccola finestrella per guardare all'interno: il detective era seduto sulla lastra di pietra coperta dal sottile materasso che l'ultima volta, di ritorno dal suo addio al celibato, gli aveva ceduto; aveva le mani a coprirgli il volto, i gomiti puntati sulle ginocchia, e sembrava che il peso del mondo gravasse sulle sue spalle.
«Non ci sono altre prigioni in grado di contenere due menti come le nostre».
«Lo prendo come un complimento!», gridò Arsène dalla cella accanto.
«E che ne sarà del voto che hai fatto? Noi abbiamo bisogno di te! Io ho bisogno di te, Sherlock!».
A quelle parole il consulente investigativo allontanò le mani dal viso per alzarlo ed incrociare il suo sguardo, con un piccolo sorriso ad arricciargli gli angoli della bocca e a fargli comparire delle rughette agli angoli degli occhi.
«Mi dispiace John, ma è giunto il momento di pagare il conto».
«No. Siamo soldati, ricordi? In quell'occasione non avevi altra scelta!».
«Sì che ce l'avevo. C'è sempre un'alternativa».
La sua espressione si indurì e il dottore iniziò a scuotere il capo, respirando rumorosamente col naso. «Ti ho perso una volta, non posso perderti una seconda».
«Potrai venirmi a trovare quando vuoi».
«No, no! Non voglio vederti dietro un vetro antiproiettile, con una casacca bianca e lo sguardo spiritato! Per quanto tu possa sentirti in colpa per aver sparato a Magnussen non ti permetterò di farti questo, Sherlock!».
Il detective si alzò e lentamente raggiunse la porta per guardare l'amico da più vicino, con la commozione negli occhi.
«Ormai ho preso la mia decisione. Non c'è nulla che tu possa dire o fare per farmi cambiare idea. Mi dispiace».
«Quando Arsène è venuto da me perché lo curassi ho preso un campione del suo sangue», confessò John a bassa voce, sperando che almeno quell'asso nella manica potesse essergli d'aiuto.
Le pupille di Sherlock si dilatarono un poco per la sorpresa, ma fu solo un attimo.
«In questo momento il suo sangue non mi serve. Ma... sei stato bravo, John».
A quel punto il dottore non vide altra soluzione: allungò
 una mano tra le sbarre per prendere la testa di Sherlock e sbattergliela contro i pezzi di ferro - un ultimo, disperato tentativo di farlo tornare in sé - ma l'amico fu più veloce di lui e si tirò indietro, poi gli diede le spalle ed osservò i raggi del sole che illuminavano l'angusta cella entrando dalla finestrella vicina al soffitto.
John, arrabbiato come lo era stato poche volte in vita sua, si girò per cercare supporto in Mycroft, ma scoprì che se n'era già andato. Allora si diresse verso la cella di Arsène Lupin e tirò un calcio alla porta per attirare la sua attenzione. Il volto sorridente del Ladro Gentiluomo comparve poco dopo davanti alle sbarre.
«Come posso aiutarti, John?».
«La pagherai per questo».
«Sei arrabbiato con me? Oh, questo mi addolora profondamente. E io che pensavo che, essendo praticamente familiari, avresti rivolto anche a me qualche parola d'affetto!».
«Non ti reputerò mai un mio familiare. Mai», ringhiò, furibondo.
«E che mi dici di Geneviève, allora?».
«Che cosa c'entra Geneviève in questa storia?».
«Ma come, non lo sai? Credi che mi sia fatto arrestare per un motivo qualsiasi, dottore?». Arsène assottigliò gli occhi e premette il viso contro le sbarre, facendo arretrare John d'un passo. «Se Sherlock non avesse tradito Geneviève, avvertendo gli assistenti sociali francesi, adesso nessuno di noi sarebbe qui».
Il dottor Watson, il quale non aveva idea del coinvolgimento della nipote, si ritrovò a fare un ulteriore passo indietro e si ritrovò esattamente tra le due celle, senza sapere che cosa pensare.
«Lascia che ti riassuma la situazione, John», disse ancora Arsène, le dita strette intorno alle sbarre. «Se Sherlock dovesse ritrattare la sua versione e venisse rilasciato, i miei uomini consegneranno alla stampa tutta la verità su Magnussen, su Sherrinford e sulla sorellina. A saltare allora non sarà solo la testa di Sherlock, ma anche quella di moltissime altre persone, compresa la tua: tu eri presente, quando Sherlock sparò a Magnussen a sangue freddo. (Ho visto i filmati, quelli veri). Questo fa di te un complice, lo capisci? Ti toglierebbero Rosie e finirebbe a vivere con degli sconosciuti, nel migliore dei casi. È questo che vuoi per tua figlia? Io credo di no».
«Bastardo», sibilò il dottore, coi pugni tanto stretti da sentire le unghie corte graffiargli i palmi. «Tu sapevi fin dall'inizio che Sherlock si sarebbe sacrificato per noi e hai pianificato tutto».
«Esatto. Questa faccenda riguarda solo me e Sherlock, perciò fatti da parte. È meglio così, credimi».
«Fai come dice, John», gli diede man forte il detective, anche se con voce grave.
Non trovando altre vie d'uscita, John decise di fare la propria proposta al Ladro Gentiluomo: «Se hai paura che Geneviève possa finire con una famiglia affidataria che non la ama la adotterò io».
Arsène lo guardò con espressione colpita, per poi chinarsi e scoppiare a ridere tanto forte che le sue risa rimbombarono per tutto il corridoio.
«Sei veramente uno spasso, John!».
All'improvviso calò il silenzio e l'atmosfera si fece talmente pesante e tetra che un brivido gli percorse la schiena. Trasalì addirittura quando Arsène tornò a fissarlo attraverso le sbarre, gli occhi colmi di una furia mai vista prima.
«Anzi no, sei proprio come Sherlock: un egoista. Anche tu useresti mia figlia, una ragazzina innocente, per ottenere ciò che vuoi - la liberazione del tuo amico del cuore. Se Mary fosse qui...».
«Non osare. Non osare pronunciare il suo nome».
«Giusto, perdonami». Tirò fuori il piccolo crocifisso d'oro che aveva legato al collo e baciandolo ad occhi chiusi pronunciò in latino: «Requiescat in pace». Poi tornò a fronteggiarlo, concludendo: «Ad ogni modo non sono interessato alla tua patetica offerta: in questo momento la mia bambina sarà già in un luogo sicuro».
Quelle parole parvero scuotere il detective dall'apatia in cui era piombato. Si fiondò contro le sbarre e guardò l'amico con gli occhi sgranati.
«Che cos'ha detto?».
«Ha detto che...».
«Ho sentito che cos'ha detto! John, devi chiamare subito Lestrade e dirgli di non lasciare che Geneviève se ne vada con gli assistenti sociali! Sono sicuramente due impostori mandati da Lupin!».
Il dottor Watson annuì e senza dire una parola si avviò verso l'uscita, dato che lì sotto i cellulari non prendevano.
«Corri, corri toutou!», gli gridò dietro Arsène, dandogli degli cagnolino.
Rimasti soli, i due vicini di cella rimasero in silenzio per qualche minuto. Il primo a parlare fu Sherlock, sussurrando: «Sai, me ne sono pentito subito».
Arsène impiegò qualche secondo a capire che si stava riferendo a Geneviève.
«Non te lo sto dicendo perché voglio il tuo perdono, ma... voglio che tu sappia che in quel momento pensavo fosse l'unico modo per farti uscire allo scoperto, dato che il trucco del furto del dipinto non è servito. Volevo impedirti di fare qualche sciocchezza e ho pensato che tenendoti in prigione, magari, avrei guadagnato tempo per Ganimard».
Il Ladro Gentiluomo si appoggiò alla porta con le spalle, gli occhi sbarrati per lo shock. Cercando di contenere il tremore della propria voce, disse: «Tu eri... eri preoccupato per me, Sherlock?».
Il detective non lo affermò, ma nemmeno negò. «Non avrei dovuto mettere in mezzo Geneviève, o Molly. Mi dispiace».
«Le tue scuse non hanno alcun valore per me», mentì Arsène, stringendo i pugni lungo i fianchi mentre lacrime silenziose avevano iniziato a rigargli il volto.
«Lo immaginavo».
Il ladro si morse le labbra per frenare i singhiozzi e si allontanò dalla porta. Sherlock si era spinto troppo oltre quella volta, non poteva perdonarlo così in fretta.
Si sdraiò sulla dura panca in fondo alla piccola cella e rannicchiandosi sul fianco destro pensò a sua madre e a suo padre, a Clarisse, a Clotilde e a Nelly, a tutte le persone che per un po' avevano ricambiato il suo amore e che non c'erano più, e si chiese come l'avrebbero giudicato in quel momento: innocente o colpevole?
Tuttavia non era certo di voler conoscere la risposta, soprattutto perché era convinto che nessuno, nessuno al mondo fosse solo bianco o solo nero. Ogni essere umano era attratto da entrambe le fazioni ed almeno una volta nella vita si era macchiato di immoralità, rinunciando alla propria immacolata innocenza.
Tutti gli esseri umani, fatta forse eccezione per rarissimi casi, erano grigi; ecco quello che credeva.
Per Sherlock, nato e vissuto nella luce, sporcarsi le mani con la morte di Magnussen era stato tanto doloroso da desiderare una punizione e pensava che il carcere servisse a purificarlo. Non era così per Arsène invece, il quale era nato nell'oscurità e, da quando l'aveva scoperto, aveva cercato in ogni modo di uscirne.
Per lui l'isolamento non era più sufficiente; al contrario, l'avrebbe ucciso. Se fosse finito tra le mura di un carcere infatti non avrebbe più potuto fare del bene e combattere le ingiustizie, l'unico antidoto che conosceva per debellare o almeno rallentare gli effetti di quel virus che gli era entrato in circolo da bambino e aveva condizionato tutta la sua vita.
La sua più grande paura era di non poter più redimersi per gli errori commessi, di venir inglobato dal male e morire solo e pieno di rimpianti, proprio come suo padre.
Fu in quel momento che ripensò alla preghiera di Grégorie e si pentì della propria impulsività. Se l'avesse ascoltato, invece di fare di testa propria...
Cosa sto dicendo? si rimproverò, asciugandosi le lacrime con una mano e tirandosi su seduto. Gli ho promesso che ci saremmo rivisti ed io mantengo sempre le promesse.
Doveva solo osservare il corso degli eventi e sfruttare la prima occasione disponibile. Sì, ce l'avrebbe fatta.
Si strinse le gambe al petto e nascose il volto tra le braccia incrociate, ignaro che Sherlock, dall'altra parte della parete di cemento, stava in realtà vivendo i suoi stessi conflitti interiori, o quasi.

***

L'agente di guardia davanti alla porta della stanza interrogatori non poté fare nulla davanti all'impetuosità dell'ispettore Lestrade, il quale lo spinse bruscamente da parte ed entrò come una furia nella stanzetta illuminata da una semplice lampada da scrivania.
Molly, con un polso ammanettato al tavolo, alzò la testa dall'incavo del braccio e lo guardò con gli occhi arrossati e delle terribili ombre scure sotto di essi.
«Ti prego, dimmi che non è come penso che sia. Dimmi che è tutto un enorme malinteso», esordì Greg, furioso.
L'anatomopatologa deviò il suo sguardo e si torturò le labbra.
«Dannazione, Molly!», gridò ancora l'ispettore, sbattendo le mani sul tavolo. «Me lo sentivo che quella ragazzina avrebbe portato solo guai, me lo sentivo!».
«Lei non c'entra niente», mormorò Molly. «A proposito, dov'è? Come sta?».
Lestrade la fissò con sguardo stralunato. «Ti rendi conto, vero, che rischi di andare in prigione?».
La scienziata abbassò di nuovo gli occhi, mortificata, e Greg si sollevò per camminare avanti e indietro davanti al tavolo.
«Posso almeno sapere chi è questa ragazzina e perché tutti si ostinano a proteggerla in questo modo?».
«È una lunga storia», rispose Molly stancamente.
«Non andrai da nessuna parte se non inizi a parlare, credimi».
L'ispettore Lestrade si sedette davanti a lei e cercò i suoi occhi, le sopracciglia inarcate per invogliarla a confessare tutto.
L'anatomopatologa si stropicciò il volto con la mano libera e cedette: gli raccontò di come aveva conosciuto Geneviève, di come era stata avvicinata da Jean Daspry - una falsa identità del Ladro Gentiluomo - e di come alla fine, dopo aver scoperto i suoi legami di parentela con Mary Watson, aveva accettato di ospitarla a casa sua.
«Mi stai dicendo che quella ragazzina è la figlia di Arsène Lupin e contemporaneamente nipote di John?», ricapitolò Greg, allibito.
Molly si limitò ad annuire con un cenno del capo.
L'ispettore si alzò dalla sedia, facendone stridere i piedini sul pavimento, e tornò a passeggiare davanti al tavolo, meditabondo. Alla fine prese la sua decisione ed aprì la porta per chiamare l'agente ed ordinargli di toglierle le manette. Nello stesso momento, dal fondo del corridoio, l'ispettore che si stava occupando del caso, avvisato del suo arrivo, gli gridò di non intromettersi.
«Molly Hooper non c'entra nulla», esclamò Greg, strappando di mano all'agente le chiavi e andando lui stesso a togliere le manette dal polso dell'anatomopatologa.
«Ti farò passare un mucchio di guai con l'Ispettore Capo, puoi contarci», lo minacciò il collega.
«E per quale motivo dovrei finire nei guai? Per aver rilasciato una persona innocente?».
«Greg, ti prego», lo supplicò Molly a bassa voce.
Lui la guardò con sguardo rassicurante, poi tornò a fronteggiare l'ispettore suo collega.
«Molly Hooper stava ospitando quella ragazzina perché è stato Sherlock Holmes a chiederglielo. Probabilmente le ha detto che era una testimone per qualche caso, o chissà cos'altro, ma di una cosa sono certo: se Molly Hooper avesse saputo di star infrangendo la legge avrebbe subito avvisato le autorità».
I due si scambiarono un lungo sguardo, al termine del quale il più giovane sbuffò e se andò a passi pesanti, borbottando che sarebbe andato comunque dall'Ispettore Capo per sporgere reclamo contro di lui.
Rimasti di nuovo soli, Greg aiutò Molly ad alzarsi e la accompagnò fuori dalla sede di Scotland Yard.
Lei si massaggiò il polso arrossato e guardandolo negli occhi aprì la bocca per ringraziarlo, ma le parole che invece le uscirono furono di tutt'altra natura: «Perché l'hai fatto? In questo modo sarà Sherlock a finire nei guai».
Greg tirò fuori dal cappotto il pacchetto di sigarette e ne estrasse una. Da quando aveva visto le notizie in TV non aveva avuto nemmeno il tempo di fumare.
«Non importa. Accusa più, accusa meno...».
Molly corrugò la fronte, sinceramente confusa. Lestrade soffiò una boccata di fumo verso il cielo, realizzando che lei non era ancora stata informata.
«Sherlock è stato arrestato questa mattina», le disse. «Ha confessato di aver ucciso Magnussen, il magnate dei giornali».
«Che cosa?». Molly sentì la temperatura abbassarsi di ulteriori dieci gradi all'improvviso. «Non è possibile. Lui non farebbe mai...».
«No? Ne sei proprio sicura?». Lestrade scrollò le spalle, facendo un altro tiro alla propria sigaretta. «Vai a casa, Molly. E dimenticati di lui una volta per tutte, è la cosa migliore da fare».
L'anatomopatologa avrebbe ribattuto, dicendogli che si sbagliava, che Sherlock non poteva in alcun modo aver tolto la vita ad un uomo, ma il cellulare di Greg iniziò a suonare e lui si congedò dandole una carezza sul braccio. Lanciò a terra la sigaretta e rientrò, lasciandola sola su quel marciapiede. Molly non si era mai sentita così abbandonata in vita sua.
«Miss Hooper?».
Molly si girò udendo quella voce gentile chiamarla e si trovò di fronte al lacché di Arsène Lupin, come l'aveva chiamato una volta Geneviève.
«Il mio padrone le manda le sue più sentite scuse per non averla potuta assistere. Posso offrirle un passaggio a casa?».
Scioccata com'era, Molly accosentì con noncuranza e l'uomo l'accompagnò verso il SUV nero che più e più volte aveva visto parcheggiato davanti al suo palazzo.
Seduta sul sedile del passeggero, Molly non riuscì più a resistere e coprendosi il volto con entrambe le mani iniziò a piangere, disperata.

***

Lestrade rispose alla chiamata di John dopo aver respirato profondamente.
«Se vuoi che trovi il modo di scarcerare Sherlock sprechi il tuo tempo», esordì.
«No Greg, non si tratta di questo».
«Allora di che si tratta?».
«Geneviève è stata portata a Scotland Yard insieme a Molly questa mattina, giusto? C'è la possibilità che due uomini di Lupin si siano finti assistenti sociali francesi per portarla via. Non deve succedere».
A quelle parole l'ispettore si precipitò alla reception e domandò se Geneviève fosse ancora lì.
«Mi dispiace, ma è già stata prelevata dagli assistenti sociali mentre lei era con Molly Hooper, signore».
Stringendo i denti, Lestrade tornò a rivolgersi a John, ancora all'altro capo della linea: «Hai sentito?».
«Sì. Arsène aveva detto che saremmo arrivati troppo tardi e aveva ragione».
Piombò il silenzio tra loro e Greg ne approfittò per chiedersi quanta forza d'animo avesse avuto fino a quel momento l'ispettore Ganimard con un avversario come quel Lupin.
«Per quanto riguarda Molly, invece?», gli domandò ad un tratto il dottor Watson.
«L'ho mandata a casa dando la colpa a Sherlock», rispose senza un briciolo di vergogna.
Era così arrabbiato con lui, per aver tradito la fiducia di tutti diventando ciò che Donovan aveva sempre profetizzato, che avrebbe tanto voluto dimenticarsi della sua esistenza.
«Lui avrebbe fatto lo stesso», ammise John prima di terminare la conversazione.

***

«Vuoi un biscotto, bonbon?».
Geneviève si voltò verso la donna seduta al suo fianco nella berlina e la guardò con attenzione, cercando di leggerla come avrebbero fatto suo padre, o Sherlock.
Era sicuramente anziana, ma gli anni non sembravano aver scalfito la sua bellezza: la pelle del suo viso era candida e le rughe si vedevano appena, intorno agli occhi e agli angoli della bocca dipinta di rosso. I capelli a caschetto erano di un grigio uniforme, quasi argenteo, e donavano un aspetto ancora più regale al suo volto.
«Li ho sfornati giusto ieri sera», aggiunse porgendole il sacchettino con i dolci.
La ragazzina lo afferrò con cautela, ma alla fine, spinta dai morsi della fame, se ne portò uno alla bocca e lo finì in due bocconi.
La donna sorrise, rendendosi conto di non aver ancora perso il tocco, e tornò a guardare fuori dal finestrino.
Fu Geneviève a rompere il silenzio, quando ormai il sacchetto fu vuoto ed appallottolato tra le sue mani nervose.
«Ho capito che sei stata mandata da mio padre, ma chi sei?».
La donna la guardò coi suoi occhi metallici e le rivolse un dolce sorriso, allungando una mano curata per toglierle delle briciole dalle guance.
«Il mio nome è Victoire ed è un vero piacere conoscerti, anche se avrei preferito farlo in diverse circostanze».
Geneviève si scostò, assottigliando gli occhi. «Mio padre non mi ha mai parlato di te».
«Sì, lo immaginavo. Io invece so tutto di te, bonbon».
«Puoi evitare di chiamarmi bonbon, Victoire?».
Il volto della donna venne attraversato da un'espressione d'orrore. «Non devi chiamarmi col mio nome, tesoro».
Geneviève alzò gli occhi al cielo. Capiva perché gli affiliati di suo padre fossero così reticenti ad usare i loro nomi, ma la cosa iniziava a stufarla.
«E come dovrei chiamarti?», borbottò, appoggiando un gomito contro il finestrino per tenersi il volto.
«"Nonna" andrà benissimo».
Geneviève si voltò a guardarla, incredula alle proprie orecchie, e la donna si limitò a ridere, tirando fuori dalla grande borsa il lavoro a maglia che si era portata dietro per passare il tempo.
«Abbiamo ancora un po' di strada davanti a noi, perciò se hai delle domande farò del mio meglio per risponderti».

***

«Un commento, ispettore Ganimard!».
«Ci racconti che cosa ne pensa dell'arresto di Arsène Lupin!».
«Come si sente all'idea che sia stato qualcun altro ad arrestare l'uomo che le è sfuggito per vent'anni?».
«Crede che questa sia l'ennesima dimostrazione che la polizia francese ha bisogno di rinnovarsi?».
«Ispettore Ganimard, lei ha lavorato con Sherlock Holmes in diverse occasioni. Sapeva che aveva ucciso un uomo?».
Justin si fermò bruscamente sul marciapiede e venne immediatamente circondato da quegli avvoltoi di giornalisti che, non appena giunta la notizia da oltremanica, si erano appostati sotto il suo appartamento e l'avevano seguito per tutto il tragitto casa-ufficio.
Quando si tolse il mozzicone di sigaretta dalle labbra per parlare, gli obiettivi delle telecamere strinsero sul suo viso e i flash delle macchine fotografiche gli fecero sbattere ripetutamente le palpebre.
«Se sapevo che Sherlock Holmes aveva ucciso un uomo, mi chiedete? Ovviamente non lo sapevo e non lo ritengo nemmeno verosimile».
«Ma ha confessato!».
Ganimard abbozzò un sorriso. «Confesserebbe anche lei un crimine che non ha commesso se le puntassero una pistola alla tempia, giusto? Si chiama coercizione. Ecco, ora che ha imparato un nuovo vocabolo possiamo chiuderla qui?».
L'ispettore allontanò una manciata di microfoni e registratori portatili e si mosse, ma l'orda di giornalisti lo seguì, ponendo un'altra dozzina di domande contemporaneamente e creando una grande confusione.
«Crede che Sherlock Holmes sia stato obbligato da Arsène Lupin?».
«Ne sono convinto. Lupin non usa armi e sapete perchè? Perché non ne ha bisogno. Quella confessione dev'essere stato il prezzo per la sua cattura».
«E Holmes ha accettato, rinunciando alla sua reputazione e alla sua libertà, solo per portare Lupin davanti alla giustizia? Che senso può avere?».
Justin si fermò di nuovo in mezzo al marciapiede e fissò intensamente il giornalista che gli aveva posto quella domanda. All'improvviso lo afferrò per i baveri della giacca ed avvicinò il viso al suo, scatenando ancora di più i flash delle fotocamere.
«Sono vent'anni, vent'anni che Arsène Lupin sfugge alla legge! La maggior parte dei poliziotti di questo paese si è arresa alla sua forza, ma non io, no! Mi avete dato dello stupido, dell'incapace, dell'ubriacone, ma io sono uno dei pochi che non si è piegato davanti a lui! E lo stesso vale per Sherlock Holmes! Non sono contento che si sia dovuto sacrificare, ma lo ammiro per ciò che ha fatto. Se fosse possibile prenderei il suo posto in questo istante e volete sapere perché?». Puntò l'indice contro l'obiettivo della telecamera più vicina e gridò: «Perché tanto la mia vita è stata già rovinata da quel Ladro Gentiluomo che voi, tutti voi dietro gli schermi, tanto amate!».
Lasciò andare il giornalista e gli sistemò la giacca, poi con tono lugubre esclamò: «Ed ora devo andare al lavoro. Con permesso».
Si creò un varco tra i cameramen e i fotografi e quella volta nessuno osò seguirlo.
Giunto in Centrale uno strano silenzio cadde tra gli agenti quando varcò la soglia. La televisione appesa in un angolo della stanza era accesa sul telegiornale e c'era la sua faccia in primo piano, i suoi occhi furenti e le velenose parole che aveva gettato praticamente sull'intero corpo di polizia francese. Abbassò il capo, pensando che adesso i colleghi l'avrebbero odiato ancora di più, ma in realtà non fu accolto dai fischi, bensì da degli applausi.
Esterrefatto, Justin alzò gli occhi ed incrociò subito quelli sorridenti di Folefant, in piedi vicino ad una scrivania e con una penna tra le labbra per avere entrambe le mani libere. Era stato lui ad applaudire per primo ed aveva coinvolto tutte le persone presenti nella stanza, dagli inservienti alle segretarie e agli stessi agenti di polizia che tanto disprezzava.
Rosso d'imbarazzo, Ganimard raggiunse le scale senza guardare in faccia nessuno e una volta nella quiete del suo ufficio pensò solo a concentrarsi sulle indagini che doveva assolutamente portare a termine. Dubitava infatti che gli aguzzini di Lupin avrebbero fatto i salti di gioia per il suo arresto. L'ultima volta avevano cercato di rapirlo ed ucciderlo, perciò era improbabile che i metodi di giustizia tradizionali andassero loro a genio. Chissà che cosa potevano inventarsi per colpirlo quella volta.
Si era appena seduto dietro la scrivania, a sfogliare la pila di vecchi fascicoli rimasta in sospeso, quando il telefono iniziò a squillare al suo fianco. Ganimard sospirò e tirò su la cornetta, rispondendo stancamente: «Gradirei non essere disturbato, non è giornata».
«E quando mai lo è?», rispose divertita Yvonne, una delle segretarie. «Ho in linea Dudouis per lei».
Confuso, Ganimard si limitò a dire: «Passamelo». Aspettò due secondi e poi esordì con un banalissimo: «Pronto?».
«Justin, sono io».
Era effettivamente l'Ispettore Capo, non era uno scherzo. Il brutto presentimento che l'aveva accompagnato per i due giorni precedenti tornò a farsi sentire.
«Dudouis, non riesci proprio a non pensare al lavoro, vero?», fece una battuta per stemperare la tensione, ma il capo continuò a parlare con tono estremamente serio.
«Ti ho visto alla TV, Justin, e...».
«Ti prego, dimmi che vuoi rimproverarmi. Quando sono entrato in Centrale sai che cos'è successo? Mi hanno applaudito. Ti rendi conto? È qualcosa di...».
«Hanno fatto bene», lo interruppe.
Ganimard cambiò posizione sulla poltrona, a disagio, e provò l'irrefrenabile desiderio di accendersi una sigaretta. Lo fece.
«Ah sì?», domandò dopo il primo tiro. «Dalla tua voce non si direbbe. È successo qualcosa?».
«Sì. Vedendoti alla TV, ascoltando ciò che hai detto... ho capito che non posso più andare avanti. Al rientro dalle vacanze di Natale darò le mie dimissioni e ho intenzione di nominare te come mio successore».
A Ganimard sfuggì la sigaretta dalle labbra e rischiò di dare fuoco al fascicolo aperto sulla scrivania. Sistemato il principio di incendio, tornò a concentrarsi sulle parole pronunciate da Dudouis.
«Devo aver sentito male, perché mi è sembrato di capire che...».
«Hai sentito benissimo, Justin. Sei seduto? Devo confessarti una cosa».
Ganimard ascoltò in silenzio ciò che l'amico di una vita gli aveva tenuto nascosto e quando terminò non lo salutò nemmeno. Posò distrattamente la cornetta e si coprì il volto con entrambe le mani, a pezzi.
Folefant bussò alla porta ed entrò senza attendere il permesso, e trovandolo in quello stato si preoccupò. Justin, con gli occhi arrossati per via delle lacrime, gli urlò di andarsene e il ragazzo obbedì senza porre domande, ma rimase appoggiato accanto alla porta per tutto il tempo, nel caso in cui l'ispettore avesse avuto bisogno di lui.

***

Geneviève scese dalla berlina nera con lo stomaco in subbuglio, forse perché non era abituata a viaggi così lunghi o forse perché aveva esagerato mangiando tutti quei biscotti. O ancora - ed era l'ipotesi più probabile - le informazioni ricevute da Victoire erano state troppe e troppo forti da assimilare in una volta sola.
La donna le aveva promesso che avrebbe fatto del suo meglio per rispondere a tutte le sue domande e la ragazzina aveva chiesto, chiesto e chiesto senza darsi un freno, spinta dalla curiosità. Voleva sapere tutto sul passato di suo padre, ma se solo fosse stata avvisata allora avrebbe cercato di trattenersi un poco.
Durante il viaggio che le aveva portate davanti ad una villa in mezzo alla compagna inglese, ad un'ora e mezza da Londra, Victoire le aveva raccontato della triste infanzia di Raoul - il vero nome di Arsène Lupin - rimasto senza padre all'età di sei anni e costretto a vivere con sua madre Henriette della pietà di altre persone; del suo primo furto ai danni dei signori Dreux-Soubise, della morte di Henriette e, ovviamente, di come la stessa Victoire fosse diventata la sua tutrice.
«Io lavoravo per i signori d'Andresy, ero la cameriera privata delle figlie nonostante non fossi molto più grande della maggiore, Henriette. Quando si innamorò di Theophraste, figlio di operai, io fui l'unica a sostenerla e a convincerla a seguire il proprio cuore, ma tutto ciò che ottenne fu di essere cacciata via di casa, disconosciuta dai genitori e senza un soldo. Mi sentii così in colpa che io stessa poco dopo mi licenziai. Decisi di cambiare lavoro e mi ritrovai a fare l'inserviente in un ospedale. Io ed Henriette continuammo a frequentarci e quando Raoul nacque diventò un vero e proprio nipote per me.
«Vedi, sia Theophraste che Henriette lavoravano per tirare avanti ed io, lavorando spesso di notte, mi occupavo di lui durante il giorno. Il nostro rapporto si consolidò ancora di più quando il marito di Henriette andò via: ero io ad accompagnarlo a scuola, ad andarlo a prendere al pomeriggio, ad aiutarlo a fare i compiti, a portarlo al parco... Io non ho avuto la fortuna di innamorarmi, perciò non ho mai avuto figli e lui riempiva il vuoto che sentivo dentro. Quando mi confidò di aver rubato la collana di Marie-Antoinette ai loro padroni di casa ne fui scioccata, certo, ma ero anche contenta che l'avesse fatto: quei due erano spregevoli con la mia amica e se lo meritavano. E neanche a volerlo fu proprio lei che accusarono e la sua vita si trasformò ancora di più un inferno, tanto che si ammalò. Ovviamente Henriette aveva capito subito che era stato suo figlio a rubare la collana, ma fu con me che se la prese: mi disse che dovevo sgridarlo e spiegargli che non era giusto, e io non fui affatto gentile con lei quella sera. Risposi alle sue parole con rabbia, dicendole che se non era in grado di parlare chiaramente nemmeno con Raoul, allora lui non aveva bisogno di lei. Le dissi... le dissi che lui sarebbe stato molto meglio con me e questo mise la parola fine alla nostra amicizia.
«Non pensavo che l'avrei più rivisto e vissi per quattro anni col cuore spezzato, poi venni a sapere della morte di Henriette e lo cercai disperatamente per tutta Parigi. Visitai ogni orfanatrofio, ogni mensa per poveri, ogni sotto-ponte. Lo cercai davvero dovunque e quando ormai avevo perso le speranze accadde l'incredibile: un bambino, nel cuore della notte, si presentò all'ospedale con i vestiti strappati ed ematomi su tutto il corpo. Dopo aver ricevuto le cure necessarie, la polizia lo interrogò ed io, fingendo di passare davanti alla sua stanza per caso, ascoltai tutto ciò che raccontò.
«Diversi mesi prima era stato rapito da un manipolo di uomini e costretto a prostituirsi, subendo le peggiori torture quando si ribellava o non soddisfaceva i clienti. Quando gli chiesero come avesse fatto a liberarsi e a scappare disse che era stato un altro bambino più grande, di nome Raoul, ad orchestrare la fuga sua e di altri cinque bambini. Purtroppo però erano stati sorpresi dagli aguzzini e Raoul aveva preso tempo per permettere ai compagni di scappare, ma lui era l'unico che alla fine era riuscito a fuggire.
«Io capii subito che quel Raoul era il mio Raoul e mi misi subito sulle sue tracce. Dovevo salvarlo ad ogni costo, capisci? Perciò mi presi un periodo di ferie, mi procurai una pistola e trascorsi ogni notte nei quartieri più malfamati a fare domande, spacciandomi per una pedofila, fino a quando non ottenni le informazioni giuste. Mi presentai all'hotel degli incontri clandestini, pagai e quando mi chiesero se avessi qualche preferenza - mon Dieu, mi sento male solo al ricordo - diedi la descrizione fisica di Raoul con la speranza che lo mandassero da me. Mi accompagnarono in una stanza sudicia, con un semplice letto matrimoniale, un lavandino e un gabinetto, ed aspettai per un'ora intera. Alla fine però ne valse la pena, perché fu proprio lui a comparire davanti ai miei occhi».
A quel punto Victoire aveva abbassato le palpebre ed aperto un po' il finestrino, lasciando che l'aria fredda e priva dell'inquinamento della metropoli le accarezzasse il viso e le permettesse di proseguire.
«Era pelle ed ossa, i suoi capelli biondi erano così lunghi da farlo sembrare una ragazza e i suoi occhi verdi, un tempo ridenti e spensierati, erano vacui e pieni di rabbia. Feci fatica a riconoscerlo... era cresciuto così tanto! Ma quando vidi che al collo portava il crocifisso di Henriette ne fui certa: era davvero lui. Quando anche Raoul mi riconobbe mi saltò in braccio ed io piansi, piansi tutte le lacrime che avevo. Poi mi feci raccontare tutto ciò che era successo dalla morte di sua madre.
«In tre anni i servizi sociali lo avevano affidato a diverse famiglie affidatarie, eppure nessuna l'aveva voluto tenere perché secondo loro era un bambino troppo problematico. Ad un certo punto decise di scappare dall'orfanatrofio e visse in strada per un po', facendo lavoretti di vario genere. Una sera stava andando a lavorare alla panetteria di cui era riuscito a farsi amico il fornaio, il quale lo pagava con qualche spiccio e un sacchetto di pane che divideva con altri bambini vagabondi, quando venne rapito dagli sfruttatori. Era stato uno dei senzatetto del quartiere ad avvisarli del nuovo arrivato e loro l'avevano ritenuto una gallina dalle uova d'oro per via del suo aspetto androgino.
«Non ti racconterò cosa lo costrinsero a fare, ma sei sveglia, lo puoi immaginare. Ad ogni modo quella notte ero pronta a portarlo via con me, uccidendo chiunque si parasse sulla mia strada, ma Raoul mi convinse ad aspettare. Non poteva abbandonare gli altri bambini al loro destino e mi chiese di tornare la settimana successiva e quella dopo ancora, in modo da diventare una cliente abituale e far abbassare la guardia ai malviventi.
«Ogni volta per me era uno strazio aspettare un'intera settimana per rivederlo, pensare a ciò che gli stavano facendo e trovare nuovi lividi sul suo corpicino. Alla sesta visita era già trascorso più di un mese e lui mi chiese di aspettare ancora. Io non ci riuscii e una volta in strada feci una soffiata anonima alla polizia. Quello che successe fu... fu terribile e me lo sogno ancora ogni notte.
«Raoul aveva scoperto che gli aguzzini avevano sul loro libro paga un poliziotto corrotto e quello che stava cercando di ottenere era il nome di questo poliziotto, in modo da tenerlo fuori dall'equazione e salvare tutti, ma io, col mio egoismo, fui la causa della morte di sette bambini. I malviventi, venuti a sapere della retata, presero con sé i bambini più richiesti, compreso Raoul, uccisero gli altri a sangue freddo e diedero fuoco all'hotel per eliminare le prove. Alla fine furono arrestati dalla polizia, ma solo perché Raoul riuscì a far uscire di strada il furgone durante l'inseguimento. Gli agenti li trovarono in lacrime, legati mani e piedi a qualche metro di distanza dal loro furgone in fiamme. Vicino a loro c'erano anche una pistola e diversi bossoli.
«Quando i bambini salvati vennero portati all'ospedale in cui lavoravo e non vidi Raoul mi si spezzò di nuovo il cuore, pensai di averlo ucciso e andai nel parco in cui lo portavo sempre a giocare con l'intenzione di togliermi la vita con la pistola che avevo comprato per difenderlo. E lui arrivò. Raoul me la tolse di mano e si inginocchiò nel recinto di sabbia con me. Pensavo che mi odiasse tanto quanto mi odiavo io, invece mi consolò e mi disse che l'avevo salvato. Mi spiegò che vedermi in quel posto squallido dopo tre anni di solitudine, sapere che c'era almeno una persona al mondo che gli voleva bene e teneva a lui, gli aveva dato la forza per lottare e pensare ad un nuovo piano, nonostante il primo avesse causato la sofferenza di molti di loro. E allora io gli dissi che invece quel suo piano, che lui riteneva fallito, era stato ciò che aveva salvato e ridato la speranza a me».
Con le lacrime agli occhi Victoire le aveva accarezzato i capelli biondi e aveva concluso: «Ci siamo salvati a vicenda, bonbon, e da allora siamo stati l'uno l'ancora dell'altro. Non lo vedo spesso come vorrei per via del suo mestiere particolare, ma sono orgogliosa di lui, lo sarò sempre, e spero che anche tu, un giorno, possa amarlo come lo amo io».

Geneviève entrò nella villa e si guardò intorno spaesata, stentando a credere che quella fosse una delle case sicure di suo padre: l'arredamento era semplice, quasi spartano, e dopo aver trascorso settimane immersa nel lusso del Savoy le sembrava strano che Arsène Lupin potesse vivere in un contesto tanto umile. Poi però pensò che tutto doveva sembrargli meglio delle condizioni di prigionia in cui aveva vissuto da ragazzino e il mal di stomaco aumentò.

«Va tutto bene, tesoro? Sei un po' pallida».
Geneviève sforzò un sorriso e mentì: «Ho solo un po' di mal d'auto».
«Oh cara, mi dispiace. Vatti a stendere un attimo, vuoi?».
«Sì, va bene».
Victoire la accompagnò in una delle tante stanze vuote e le scostò un angolo delle coperte dal letto mentre lei si toglieva le scarpe ed affondava i piedi nel morbito tappeto di pelo bianco. Quando si rannicchiò sotto il caldo piumone, la donna dai capelli d'argento si sedette al suo fianco e le accarezzò una gamba.
«Mi dispiace averti raccontato così tanto del passato di tuo padre, forse non eri ancora pronta», le disse.
«No, io... te ne sono grata. Lui ha quel modo di dire che ripete sempre, perciò non me l'avrebbe mai raccontato».
«Il passato è morto per sempre; il passato non esiste. Questo modo di dire?».
Geneviève annuì con un cenno del capo e Victoire sorrise.
«Già. Sa benissimo che continuare a ripeterlo non cambierà le cose, ma è il suo modo di proteggersi dal dolore di quei giorni. E di proteggere quelli intorno a sè, ovviamente».
«Quando potrò vederlo?».
Victoire le rivolse un altro sorriso e si alzò per rimboccarle meglio le coperte e posarle un bacio sulla fronte. Quindi gliela strofinò con le dita per levarle il segno del rossetto.
«Presto, ne sono sicura», le sussurrò. «Ora riposati, va bene?».
La ragazzina guardò la donna uscire dalla stanza chiudendosi piano la porta alle spalle e sospirò fissando il soffitto dalle travi a vista. Non pensava che sarebbe riuscita davvero a dormire, ma le bastò chiudere gli occhi per essere inghiottita dal mondo dei sogni. Fu solo fortuna se non fece incubi.

***

Sherlock spalancò gli occhi quando sentì dei passi avvicinarsi alla sua cella e poi lo scatto della serratura. La pesante porta di ferro si aprì cigolando.
«Sveglia, principessa! È arrivata la vostra carrozza», esclamò il secondino che lo afferrò per il braccio e lo portò fuori dalla cella.
Arsène era già nel corridoio, che sbadigliava assonnato. «Dove andiamo?», domandò.
«Belmarsh», rispose Mycroft, sintetico e scuro in volto.
Sherlock ci avrebbe scommesso. Belmarsh non solo era il più vicino carcere di massima sicurezza, ma era anche il più attrezzato per contenere i peggiori criminali: tra le sue mura erano rinchiusi terroristi affiliati ad Al Qaeda e Isis, serial killer, pedofili e psicopatici. Insomma, la crème de la crème. Non a caso era soprannominata la Guantanamo Bay inglese.
Il consulente investigativo venne affiancato dal fratello maggiore, il quale gli posò una mano sulla spalla e gli disse: «La mia testa è appesa ad un filo, ma mi hanno concesso di portarvi a Sherrinford».
«Quanto tempo ti serve per pianificare la nostra morte?».
Mycroft sospirò. «Un paio di settimane. Sherlock, sei sicuro di quello che stai facendo? Una volta là dentro non potrai più tornare indietro».
«Sono sicuro», affermò, gli occhi fissi sul profilo sorridente di Arsène mentre chiedeva di poter condividere la cella con Sherlock.
Ad un tratto il ladro lo guardò con la coda dell'occhio ed esclamò: «Io prendo il letto di sopra, sia chiaro!».
Sherlock abbozzò un sorriso e si lasciò mettere ai polsi le speciali manette portate da Mycroft: modelli ultra-tecnologici e non proprio legali.
«Uh, li ho già visti questi giocattolini!», disse Arsène, eccitato. Guardò Mycroft e sussurrò: «CIA, giusto?».
L'Holmes più grande sospirò con espressione stanca e parlò con l'adulto della situazione, ovvero Sherlock: «Sono strette e rigide, tanto che nemmeno i più abili contorsionisti possono sottrarvisi, e sono elettroniche, perciò non si possono scassinare con forcine o altro».
Arsène fischiò, ammirato, poi provò a spezzarle forzando i muscoli delle braccia ed arrossandosi in volto per lo sforzo. Smise non appena una scarica elettrica gli attraversò il corpo, facendogli perdere il sostegno delle gambe.
Sherlock, incredulo, fece un passo nella sua direzione, ma Mycroft gli posò una mano sul petto e guardandolo severamente in volto disse: «Fai attenzione, sono estremamente sensibili e in grado di misurare la frequenza cardiaca. Non importa il perché: che tu sia spaventato, eccitato o stia provando a correre via, se i battiti del tuo cuore aumentano verrai attraversato da una scarica elettrica più o meno potente. La stessa cosa se qualcuno dovesse aiutarti a scappare: al loro interno è installato un GPS e nel caso in cui ti trovassi a più di cinque metri di distanza dal controller il teaser ti farebbe svenire».
Un uomo completamente calvo alzò quello che ricordava un vecchio telefono cellulare: ingombrante, con un'antenna lunga diversi centimetri e dei grossi bottoni colorati.
«Lui è il sergente Lind. Si assicurerà che arriviate a Belmarsh tutti interi», spiegò Mycroft.
«Interi ci arriveremo di sicuro, ma temo puzzeremo di bruciato», disse debolmente Arsène, di nuovo in piedi grazie a due poliziotti armati di fucili MP5.
Mycroft lo ignorò per guardare negli occhi il fratello minore e sussurrare: «Tieni duro».
Sherlock annuì e percorse il corridoio fissando le scapole di Arsène. Gli tornò alla mente quando aveva guardato quelle stesse scapole allontanarsi dopo il loro primo scontro. Allora si era chiesto se avesse fatto bene a lasciarlo andare e ritornato a casa aveva promesso a se stesso che la prossima volta l'avrebbe portato dalla parte del bene oppure catturato. Erano passati diciassette anni e avrebbe dovuto essere felice di essere finalmente riuscito a fare una delle due cose, ma non lo era. Non perché avrebbe rinunciato anche alla sua, di libertà; no, era semplicemente triste che fosse andata a finire in quel modo piuttosto che nell'altro. Quella vittoria sapeva di sconfitta, ecco.
Il furgone blindato che li avrebbe portati alla prigione di Belmarsh li stava aspettando sul retro dell'edificio, lontano dai giornalisti, e prima di salire Arsène alzò il volto verso il cielo già scuro da cui stavano scendendo copiosi fiocchi di neve. Alcuni di essi si depositarono sulla sua fronte liscia, sui suoi zigomi, sulle sue palpebre abbassate e sulle sue labbra dischiuse e Sherlock, guardando quel volto tanto bello ed innocente, provò un'infinita gamma di sentimenti che non seppe definire né controllare, ma solo... subire. Quel difetto chimico a cui nemmeno lui era immune e che più e più volte l'aveva portato a perdere fu rilevato dalle manette, le quali gli somministrarono una scossa che gli fece serrare i denti e cedere le ginocchia.
«Ehi, che ti è successo?», gli domandò uno dei poliziotti, afferrandolo per un braccio per tirarlo su e spingerlo dentro il furgone.
Arsène fu fatto entrare subito dopo e quando si sedette di fronte a lui cercò il suo sguardo, con un sorriso malizioso sul volto, ma Sherlock lo evitò.
Quelle manette erano il male: tutti i suoi sforzi per nascondere i propri sentimenti erano inutili, dato che non poteva in alcun modo controllare l'unico muscolo legato ad essi, e il ladro si sarebbe divertito un mondo a provocarlo. Ne avrebbe approfittato fino alla fine, poco ma sicuro.
I due agenti armati e il sergente Lind, a capo della squadra di trasferimento e in possesso del controller, li raggiunsero all'interno e quando le porte del furgone si chiusero con un tonfo iniziarono a muoversi.

***

Geneviève si era alzata da una mezz'ora, riposata come non si sentiva da giorni, e stava aiutando Victoire a preparare la cena quando qualcuno suonò al campanello. La donna rispose al suo sguardo inquieto con un sorriso e le disse di non preoccuparsi e che aspettava un ospite.
Alain, il quale intanto era andato ad aprire, comparve sulla soglia della cucina ed introdusse il ragazzo che aveva raggiunto la casa di campagna.
«Maurice!», gridò la ragazzina, tanto felice di vedere una faccia conosciuta che gli corse incontro per gettargli le braccia al collo.
Il reporter impiegò qualche secondo per ricambiare l'abbraccio, ma lo fece durare poco per via dello sguardo ammonitore di Victoire. Col volto paonazzo per l'imbarazzo si schiarì la gola e si scostò, per poi rivolgere un sorriso a Geneviève.
«Sono contento che tu stia bene. So che dev'essere dura per te, ma sappi che...».
«Signor Leblanc!».
Sia Maurice che Geneviève si voltarono e trovarono la donna dal caschetto d'argento con le mani sui fianchi e gli occhi metallici in fiamme.
«Che cosa c'è?», domandò la ragazzina. Non ottenendo risposta, perspicace come suo solito, aggiunse: «Che cosa mi hai tenuto nascosto?».
Victoire sospirò e si tolse il grembiule per avvicinarsi alla ragazzina, avvolgerle le spalle con un braccio e portarla con sé in salotto. Maurice le seguì ad occhi bassi, colpevole.
La tutrice di Arsène Lupin le spiegò che suo padre era stato arrestato quella mattina, insieme a Sherlock Holmes, e la reazione di Geneviève - c'era da aspettarselo - non fu delle migliori. Pur di non mostrarsi in lacrime si alzò e si rifugiò di nuovo nella camera dove aveva dormito, sbattendosi la porta alle spalle con violenza.
«Mi dispiace», mormorò Maurice dopo qualche istante di silenzio, mortificato.
Victoire sospirò e si addossò contro lo schienale del divano, le gambe coperte dai collant neri accavallate in modo elegante.
«Presto o tardi l'avrebbe scoperto comunque», ammise. «Ma ora veniamo alla ragione per cui sei qui. Quale motivo ti ha spinto a contattarmi?».
«Arsène mi ha dato delle ricerche da svolgere, ma purtroppo non ho cavato un ragno dal buco. Sono venuto a sapere che lei è al suo fianco da molto tempo, perciò pensavo che avrebbe potuto aiutarmi».
La donna sorrise amabilmente, unendo le mani sulle gambe. «Ma certo».
Maurice, entusiasta, tirò fuori il pc portatile dalla borsa a tracolla che aveva lasciato ai suoi piedi e una volta acceso tornò a guardarla in volto, trepidante.
Victoire corrugò la fronte, allungando il collo verso di lui. «Allora? Di che cosa si tratta?», gli domandò.
Il giornalista rimase letteralmente a bocca aperta. «Ahm... Non lo sa?».
«Cosa dovrei sapere?».
Quella volta fu Maurice il portatore di brutte notizie e mentre le raccontava dell'agguato organizzato ai danni del Ladro Gentiluomo e della cameriera del Savoy assassinata, il volto di Victoire, fino ad allora giovanile e regale, si trasformò in una maschera di dolore e tristezza.
«Quello sciocco, perché non me ne ha tenuta all'oscuro?», esclamò alla fine, portandosi una mano a coprirsi una parte del viso.
Maurice si alzò dalla poltrona e si spostò con cautela al suo fianco, sussurrando nel tentativo di confortarla: «Forse pensava di poter risolvere da solo la situazione e non ha voluto farla preoccupare».
«Beh, ha commesso un errore, non pensi? Se avesse chiesto il mio aiuto sin dall'inizio ci saremmo evitati un sacco di problemi. Al contrario di lui, io non dimentico».
Il giornalista sgranò gli occhi dietro le lenti degli occhiali. «Intende forse dire che...?».
Victoire allontanò la mano dal volto e lo fissò con quel suo sguardo metallico, affermando: «So chi sono le persone che vogliono vendicarsi di mio figlio».

***
 
Arsène era rimasto in silenzio per minuti che Sherlock non aveva sperato di avere e quando parlò lo fece per ammettere: «Potrei averti detto una piccola bugia questa mattina».
«A che proposito?», gli domandò il detective, accigliandosi.
Il Ladro Gentiluomo allungò le gambe e sospirò, portandosi per forza di cose entrambe le mani ai lati della testa per grattarsi un punto poco sopra l'orecchio, quasi come se fosse imbarazzato.
«Ho detto che le donne impazziscono per me, facendoti capire che anche Molly rientrava nel gruppo, ma in realtà lei ha tracciato dei confini molto netti tra noi. Siamo andati a letto insieme, sì, ma ha affermato che non si sarebbe più ripetuto».
Sherlock cercò di respirare il più tranquillamente possibile, nel vano tentativo di rallentare i battiti in aumento del suo cuore.
«Perché mi stai dicendo tutto questo?».
«Per farti capire che non ha mai smesso di amarti. Ti ama nonostante tutto e ti amerà sempre».
Il sergente Lind abbassò gli occhi sul controller, il quale aveva iniziato a vibrargli tra le mani per avvisarlo dell'aumento delle pulsazioni del detective, ma non fece in tempo ad avvisarlo: la scossa attraversò Sherlock con così tanta forza che si ritrovò a sbattere la nuca contro la parete del blindato e Arsène ridacchiò.
«Ops, colpa mia».
L'uomo lo trucidò con lo sguardo. «Credi che sia un gioco, biondino? Prego, divertiti pure quanto vuoi! A me non interessa se finirete col cervello talmente fritto da non riuscire nemmeno a pulirvi il culo da soli, ci siamo intesi?».
Il Ladro Gentiluomo annuì con un solenne inchino della testa, poi si chiuse le labbra con una zip invisibile ed assunse una posa zen.
Sherlock, sconvolto e stordito, si passò una mano sulla bocca e lo fissò ad occhi socchiusi, addossato mollemente contro il sedile. Percorse tutta la sua figura fino a quando non notò che con la punta dell'indice e del pollice destro gli stava comunicando qualcosa in codice morse.
"...sei qui, magari il tuo uomo smetterà di sorvegliarla, ma io mantengo le promesse. Molly sarà al sicuro con Grégorie fino a quando non..."
«Che cos'hai detto?», lo interruppe Sherlock, con la fronte solcata di rughe.
I tre poliziotti lo fissarono, stralunati, e lo stesso Arsène riaprì gli occhi per guardarlo in faccia, sinceramente confuso.
«Quale mio uomo?», specificò il detective.
«Holmes, ti senti bene?», gli domandò il capo dell'operazione. «Lupin non ha detto una parola».
Arsène gli fece segno di fare silenzio portandogli le mani davanti al volto, poi si addossò di nuovo contro lo schienale e tamburellò nervosamente le dita sul ginocchio, riprendendo a mandargli messaggi in codice morse in modo che gli agenti ne rimanessero fuori.
"Il senzatetto che ha sorvegliato l'appartamento di Molly da quando Geneviève vi si è trasferita".
"Io non ne so niente", ripeté Sherlock usando lo stesso metodo.
"Se non era uno dei tuoi, allora...".
Non ci fu bisogno di proseguire. Finalmente entrambi avevano capito che la risposta alle loro domande era sempre stata sotto ai loro occhi e che solo loro due, accecati dalla sfida, potevano essere stati tanto stupidi da non vederla.
Dobbiamo uscire di qui, si dissero con gli occhi, senza nemmeno aver bisogno del codice morse.
Sherlock si sforzò di pensare, ma quelle manette erano un problema intricato da risolvere. Dovevano toglierle, questo era certo, ma dalle spiegazioni di Mycroft era chiaro che nemmeno due menti come le loro avrebbero avuto successo. L'unica maniera era convincere gli uomini della scorta a liberarli o almeno a disabilitare la funzione del teaser...
Sherlock alzò lentamente gli occhi su Arsène e lo sorprese a ridacchiare: gli era venuta la stessa malsana idea. Il detective respirò profondamente, serrando gli occhi nel disperato tentativo di trovare una soluzione alternativa. Avrebbe potuto cercare per tutta la notte, ma avrebbe sprecato tempo prezioso, tempo che Molly non aveva.
I nemici di Arsène potevano avere uomini e capitali, ma a quanto a mentalità erano piuttosto banali: l'avrebbe dedotto pure un bambino che per incentivarlo ad organizzare una seconda rocambolesca fuga di prigione avrebbero colpito i suoi punti deboli. E se Geneviève era davvero al sicuro, allora il bersaglio sarebbe stato puntato automaticamente sulla schiena di Molly, con cui l'avevano visto spendere del tempo. Ed era vero che il ladro gli aveva promesso che l'avrebbe tenuta al sicuro, ma secondo lui era tutta colpa del detective se in primo luogo si trovavano in quella situazione e non l'avrebbe aiutato, non quella volta. Doveva farlo Sherlock - doveva usare il proprio cuore e perdere per avere una speranza di vittoria.
Arsène glielo lesse negli occhi che aveva finalmente preso la sua decisione e sorrise quasi con orgoglio, sistemandosi meglio sul sedile per godersi lo spettacolo.
«È stato per colpa, o per merito, di Eurus se ho capito di essere innamorato di Molly», esordì Sherlock, attirando su di sé gli sguardi degli agenti di polizia.
«Fai silenzio», lo ammonì il sergente Lind e Arsène lo guardò indignato.
«Scherza vero? È più di un mese che aspetto di sentire questa storia!».
Quindi tornò a fissare il rivale, le mani unite sotto il mento, e gli fece segno di proseguire.
Sherlock gli raccontò allora del modo in cui sua sorella si era introdotta nella sua vita e in quella di John, orchestrando un piano così ben elaborato che alla fine avevano fatto il suo gioco presentandosi a Sherrinford, dov'erano stati costretti a superare delle prove che alla fine altro non erano che passi necessari alla sua stessa salvezza.
«E in uno di quei test presumo sia stata coinvolta anche Molly», esclamò Arsène sfruttando una pausa del detective, il quale si era fermato perché resosi conto che i battiti del suo cuore stavano aumentando di intensità.
«Sì», rispose, deglutendo.
La scossa sarebbe arrivata da un momento all'altro, era inevitabile.
«Fummo mandati in una stanza e al suo interno c'era una bara...».
Nonostante si fosse preparato, l'elettricità lo fece tremare da capo a piedi e quando smise rimase per una dozzina di secondi con la testa ciondolante, il mento contro lo sterno.
«Lei disse... disse che qualcuno stava per morire», riprese quando ne trovò la forza. «Mi chiese di scoprire di chi fosse quella bara, di fare le mie deduzioni, ma fu Mycroft ha trovare l'indizio chiave: sul coperchio della bara c'era una targa con scritto "Ti amo"».
Arsène sospirò ed allungò le braccia per prendergli le mani tra le sue, ma una scossa lo immobilizzò sul suo sedile.
«Niente contatto fisico», esclamò il sergente Lind.
Il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso. «Poteva semplicemente dirlo».
Sherlock alzò la testa e lo guardò con occhi annebbiati: raccontare quell'episodio si stava facendo molto più doloroso del previsto, sia fisicamente che moralmente.
«Eurus ci mostrò l'appartamento di Molly attraverso delle telecamere nascoste e ci disse che sarebbe esploso in tre minuti se non fossi riuscito a farle dire il codice di disinnesco».
«Dovevi farle dire "Ti amo"», dedusse Arsène. «Senza spiegarle perché o cosa ci fosse in gioco, immagino».
Sherlock si limitò ad annuire e con la lingua ruvida come carta vetrata continuò: «Molly non rispose subito, lei... provò ad ignorarmi. Quando accettò la chiamata però, al secondo tentativo, capii immediatamente che le avrei causato un dolore immenso facendoglielo fare».
Ormai il suo cuore era continuamente sulle montagne russe: ogni volta che riprendeva il discorso il ritmo delle pulsazioni cresceva, la folgorazione le faceva calare quasi fino a fermarlo e così via, ancora e ancora.
«Ma non avevo scelta! Non avevo scelta, capisci?! O quello, oppure sarebbe morta!».
Un rivolo di sangue scivolò sul mento di Sherlock: si era morso la lingua per via delle continue scosse.
«Ehi, ehi!», gridò il sergente Lind, facendo segno ai suoi ragazzi di assicurare meglio Sherlock al sedile. «Basta parlare! Ti stai agitando troppo e il rilevatore ti classifica come una minaccia».
«Un uomo innamorato è una minaccia», esclamò Arsène, nonostante nei suoi occhi verdi ci fosse della vera preoccupazione per il rivale. «Non c'è niente che non farebbe per la donna che ama, assolutamente niente».
«Non ti ci mettere pure tu ora!».
Arsène sospirò e chiuse gli occhi. «Très bien. Ma non volete conoscere la fine della storia?».
«Dimenticati quello che ho detto prima, okay?», sbottò l'uomo, agitandosi. «Voi due siete sotto la mia custodia e Dio solo sa cosa mi succederebbe se vi ridurreste a vegetali!».
«Ma un modo ci sarebbe, sergente», intervenne uno degli agenti armati.
«Che cosa?!», gridò ancora il pelato, rosso di rabbia ed indignazione. «Non se ne parla nemmeno!».
«Anche io vorrei conoscere la fine della storia», ammise il collega. «Insomma... lo vede anche lei che con le scosse che ha ricevuto fin'ora ogni suo muscolo è praticamente intorpidito. Che male può fare?».
«Per come la vedo io potrebbe anche farvi guadagnare qualcosa», esclamò Arsène, con un sorriso malizioso. «Le testate giornalistiche pagherebbero fior di quattrini per intervistare gli agenti che hanno scortato Sherlock Holmes e Arsène Lupin in prigione, e ancora di più se avessero una dichiarazione d'amore come questa...».
I tre si guardarono, ingolositi dall'idea, e il più difficile da convincere fu Lind, il quale cedette solo dopo che Arsène fece danzare le sopracciglia, da bravo diavolo tentatore, ed esclamò mostrando i polsi ammanettati: «L'ha sentito anche lei Mycroft: come potremmo liberarci da queste?».
Il capo della scorta abbassò gli occhi sul controller e dopo aver sospirato pesantemente disabilitò la funzione stordente per le manette di Sherlock.
«Se fate una sola mossa ambigua, una sola...».
«Oh, non posso farle una promessa del genere. Sherlock Holmes non ha ancora ben definito il proprio orientamento sessuale, anche se...».
«Chiudi quella bocca!».
Il Ladro Gentiluomo, offeso, si ammutolì e guardò il detective reprimendo un sorrisino vittorioso: Sherlock ce l'aveva fatta, anche se la parte difficile doveva ancora arrivare.
Aspettò un paio di minuti, giusto il tempo sufficiente perché il consulente investigativo riprendesse fiato, poi finse di guardarsi l'orologio da polso - gliel'avevano portato via insieme a gran parte di ciò che aveva addosso - ed esclamò: «Secondo i miei calcoli adesso dovremmo essere in una zona abbastanza isolata, perciò se vuoi procedere, Sherlock caro...».
I tre poliziotti si voltarono a guardarlo, proprio come aveva previsto, e Sherlock ne approfittò per tirarsi le ginocchia al petto e spingere quelli armati verso Arsène. Il ladro si sganciò rapidamente la cintura e la utilizzò per soffocare il primo dei due, a cui nel mentre tolse anche il fucile automatico per usarlo come una mazza contro l'altro. Bastò un colpo in pieno viso col calcio dell'arma infatti per metterlo k.o. e farlo cadere accanto al suo collega ormai svenuto, e a quel punto Arsène puntò velocemente l'MP5 verso l'unico uomo ancora in piedi: il sergente Lind, armato di controller.
«Ah-ah!», lo ammonì con un sorriso minaccioso, posando l'indice sul grilletto. «Allontani quel dito, monsieur. O potrebbe scivolare il mio, di dito, e vorrei tanto evitare di spararle».
«Ho letto il tuo profilo: non lo faresti mai», provò a dimostrarsi sicuro il capo della scorta messa fuori gioco, in appena una manciata di secondi, da quei due uomini eccezionali.
«C'è una prima volta per tutto», disse Arsène, scrollando un poco le spalle. «Vuole tentare la sorte, sergente Lind?».
L'uomo soppesò le sue parole a lungo, ostentando coraggio ma sudando copiosamente sul cranio calvo. Alla fine non riuscì più a sostenere il suo sguardo e gli porse il controller, arrendendosi.
«Sei un demonio», mormorò quando Arsène lo afferrò e lo studiò con occhi brillanti: era molto semplice, fin troppo, e premendo un solo pulsante le manette si sganciarono dai suoi polsi con uno scatto.
Massaggiandosi i segni rossi, il Ladro Gentiluomo gli rivolse un sorriso gentile ed esclamò: «Demonio, addirittura? No, io sono solo un uomo. Io cerco semplicemente di combattere come fanno tutti gli altri e di rimanere vivo in un mondo che ti vuole morto».
Sherlock gli lanciò un'occhiata perplessa. «È una citazione?».
«Sì. Marilyn Manson».
«E chi sarebbe?».
«Un cantante metal che ascolta Geneviève».
«E da quando ti piace la musica metal?».
«Piace a mia figlia, perciò... Posso sapere perché ne stiamo discutendo adesso? Abbiamo altro da fare».
Detto questo Arsène si scusò col sergente Lind e colpì anche lui alla fronte col calcio dell'arma automatica. Prima che potesse cadere con un tonfo sul pavimento del furgone ancora in movimento il ladro lo sostenne e lo fece sedere sul sedile alle sue spalle, assicurandolo con la cintura. Poi gli prese la radio attaccata al braccio sinistro ed imitando alla perfezione la sua voce roca disse ai due uomini alla guida di accostare immediatamente e di aprire le porte.
«Cos'è, una specie di test? Ci ha fatto giurare che non avremmo acconsentito a richieste del genere, nemmeno se provenivano da lei».
Arsène strinse i denti e con tono infastidito - e non dovette fingere poi molto - abbaiò: «Dimenticate il giuramento e fate come vi ho detto! È un ordine!».
L'uomo alla radio esitò, poi gracchiò: «Sissignore».
Il furgone blindato rallentò e il Ladro Gentiluomo si diede da fare per sollevare uno dei due poliziotti e farlo sedere composto accanto al sergente Lind, il tutto sotto lo sguardo stanco di Sherlock.
«Hai fatto un buon lavoro», ruppe il silenzio Lupin, rivolgendogli un breve sorriso.
«Umpf. Adesso toglimi le manette, per favore».
«Dopo che avrò sistemato gli ultimi due. Posso cavarmela da solo, tu riposati».
Il detective abbandonò il capo contro la parete, fingendo di credere alle parole di Arsène.
Il mezzo finalmente si fermò e il Ladro Gentiluomo tirò su anche il secondo poliziotto, tenendolo in piedi davanti a sé come scudo. Il cuore gli correva impazzito nel petto e se solo avesse avuto ancora addosso le manette tecnologiche avrebbe ricevuto una bella scossa.
«Stiamo aprendo!», gridò lo stesso uomo che gli aveva risposto alla radio.
Arsène imbracciò meglio il fucile e portò il dito sul grilletto, respirando profondamente per farsi coraggio.
Le espressioni sconvolte dei due agenti di polizia erano così buffe e i loro tentativi di estrarre le pistole per puntargliele contro così goffi che per poco Arsène non scoppiò a ridere.
«Non muovetevi», ordinò, mentre l'aria fredda lo investiva e gli ridava le energie. Era proprio bello essere liberi.
I due uomini obbedirono, poi seguendo le istruzioni di Arsène estrassero lentamente le pistole dalle fondine e le lanciarono oltre il guardrail.
Si erano fermati in una piazzola di sosta di quella che sembrava un'autostrada a più corsie, ma il  traffico a quell'ora non era molto e le auto passavano velocemente accanto a loro, tanto che i conducenti non avevano il tempo per capire ciò che stava accadendo.
«Perfetto, adesso che avete le mani libere prendereste il vostro amico? Dovrebbe mettersi a dieta secondo me!», esclamò il ladro, spingendo verso i poliziotti il collega svenuto.
I due lo presero al volo prima che cadesse di faccia sull'asfalto e Arsène saltò giù dal mezzo, il fucile ancora tra le braccia. Ordinò quindi di mettersi seduti vicino al guardrail e li ammanettò ad esso con le normali manette in dotazione della polizia metropolitana.
Completata anche quell'operazione il Ladro Gentiluomo si disfò del fucile, ma se ne pentì quando si voltò di nuovo verso il furgone e trovò Sherlock davanti alle porte aperte, gli occhi di ghiaccio colmi di determinazione e la pistola che doveva aver preso al sergente Lind puntata verso di lui.
«Holà, Sherlock, che stai facendo?», disse ridacchiando, cercando di dimostrarsi tranquillo.
«Non hai intenzione di togliermi le manette, vero? Il tuo piano non è cambiato: vuoi affrontarli da solo. Ma non devi».
Arsène sorrise dolcemente ed abbassò le mani che aveva alzato istintivamente, portandosele sui fianchi.
«Se era un'offerta d'aiuto ti ringrazio, ma è il mio passato ed è compito mio occuparmene».
«Sei sempre stato testardo», esclamò Sherlock, stringendo i denti mentre toglieva la sicura. «In questo caso non mi lasci altra scelta».
Nello stesso istante Arsène tirò fuori dalla tasca posteriore il controller delle manette e la sua espressione si fece altrettanto seria.
«Tu non mi sparerai, Sherlock. Non feriresti mai intenzionalmente una persona a cui vuoi bene».
«Io non ti...».
«Non mentire, non con me».
Il detective sospirò e strinse più forte la pistola nella mano, il dito che tremava sul grilletto. La neve non aveva ancora smesso di cadere e turbinava intorno alla figura di Lupin come quella notte di diciassette anni prima, quando incurante del freddo e del vento si era tolto il lungo cappotto per posarglielo sulle spalle e stringerlo in un abbraccio.
Le lacrime gli bagnarono gli occhi e Sherlock li abbassò per un attimo, ma per il ladro fu più che sufficiente per premere il pulsante per la riattivazione del teaser. Il detective venne immediatamente attraversato da una quantità tale di elettricità che la pistola gli cadde di mano. Solo l'intervento di Arsène gli impedì di cadere sul duro manto stradale.
Tenendolo come se si trattasse di un bambino, con un braccio intorno alla sua schiena e uno sotto le sue ginocchia, il ladro lo portò vicino al guardrail, gli tolse le manette high-tech e lo ammanettò ad esso con un modello standard, poi si inginocchiò al suo cospetto e gli prese il mento tra le dita perché lo guardasse negli occhi.
«Mi dispiace», gli sussurrò, sincero. «Ma questa storia ha già ferito troppe persone, non posso permettere che accada qualcosa anche a te».
Sherlock, nonostante fosse sul punto di svenire e quindi incapace di porsi dei freni, riuscì ad afferrargli un polso e a biascicare: «Ti prego, non... non morire».
Arsène sorrise con tenerezza, gli prese il volto con entrambe le mani e avvicinando le labbra al suo orecchio citò nuovamente Shakespeare: «Più dolce sarebbe la morte se il mio sguardo avesse come ultimo orizzonte il tuo volto, e se così fosse... mille volte vorrei nascere per mille volte ancor morire».
Quindi si scostò ed incrociò ancora il suo sguardo. Si commosse, leggendovi dentro tutto ciò che il detective avrebbe voluto dirgli e che non gli avrebbe mai detto - per orgoglio, ostinazione o chissà cos'altro - e decise che se davvero stava per andare incontro alla propria morte allora c'era una cosa che doveva assolutamente fare un'ultima volta. Annullò la distanza tra i loro volti e lo baciò sulle labbra.
Sherlock si irrigidì, sorpreso, ma non lo spinse via né si ritrasse. La sensazione delle sue labbra calde sulle proprie, mentre la neve continuava a scendere imperterrita facendoli tremare come foglie, era piacevole come se la ricordava. Ed era arrabbiato per questo - non avrebbe dovuto piacergli - specialmente perché l'unico motivo per cui Arsène si era spinto a tanto era perché riteneva potesse essere la sua ultima occasione per farlo. Tuttavia Sherlock non se la sentiva di respingerlo, probabilmente per le stesse motivazioni.
Quando finalmente Arsène si scostò aveva gli occhi lucidi di lacrime e sorrideva come uno stupido.
«Vedrò di non morire», gli disse alzandosi. «Ma se dovessi davvero lasciare questo mondo puoi farmi una promessa? Promettimi che dirai a Molly tutta la verità».
Sherlock si limitò ad annuire con un cenno del capo.
Arsène sorrise felice e, senza dargli (e darsi) il tempo materiale per aggiungere altro corse al furgone blindato, scaricò il sergente Lind e l'altro poliziotto e poi si mise al volante per partire con una sgommata.
Dopodiché Sherlock chiuse gli occhi e si abbandonò alla stanchezza. 

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Capitolo 22
*** Les jeux sont faits ***


Buona domenica! :)
Allora, temo sia arrivato il momento di avvisarvi: questa storia sta giungendo al termine. In totale i capitoli sono infatti 24, incluso l'epilogo, e in questo leggerete finalmente il faccia a faccia di Arsène e i suoi aguzzini. La storia originale di Maurice Leblanc, per chi volesse leggerla, si intitola "La trappola infernale".
Anche in questo capitolo vengono descritte scene di violenza, perciò attenzione. Preparate anche i fazzolettini, perché leggerlo non sarà affatto facile. E' stato difficile per me scriverlo, perciò... fidatevi.
Voglio citare due canzoni in particolare che mi hanno aiutata molto durante la stesura: "Long defeat" dei Thrice e "Go to War" dei Nothing More. Vi consiglio di ascoltarle, perché meritano. Fanno parte della playlist spotify che ho creato apposta, se volete darci un'occhiata potete trovarla a questo link.
AH! Mi è stato fatto notare che nel capitolo scorso mi sono dimenticata di citare il racconto di Doyle "L'Interprete greco" in cui si parla del professor Melas.
Detto questo mi eclisso per lasciarvi alla lettura. Ringrazio di cuore tutti quelli che sono arrivati fino a qui: siete dei compagni di viaggio meravigliosi. ♥
Alla prossima settimana!

Vostra,

_Pulse_


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22. Les jeux sont faits


Grégorie aveva portato una Molly Hooper in lacrime a casa, accompagnandola addirittura fino all'interno del suo appartamento, e poi ci era rimasto, invitato dalla stessa donna. Lui aveva accettato, stanco di trascorrere ore ed ore in auto.
Molly si era chiusa a chiave nella sua camera da letto e da quella mattina vi era uscita solo una volta, precisamente quando il dottor Watson era andato a farle visita per sapere come stava e scusarsi per tutti i problemi che lui e Sherlock le avevano causato.
A proposito del detective, l'anatomopatologa gli aveva rivolto una sola domanda: «È vero che l'ha ucciso?». John aveva esitato, ma alla fine aveva annuito con espressione rammaricata.
Quando se n'era andato Grégorie aveva sentito Molly piangere, gridare, rovesciare mobili e ancora piangere, per ore, fino a quando la stanchezza non aveva preso il sopravvento.
Lui invece si era accomodato in salotto, davanti alla TV, e aveva seguito tutte le edizioni speciali e gli approfondimenti che i canali di informazione avevano trasmesso a seguito dell'arresto di Arsène Lupin e Sherlock Holmes, due personalità magnetiche e controverse che nel tentativo di prevalere l'una sull'altra erano arrivate a sconfiggersi a vicenda.
Grégorie tuttavia non era d'accordo con i mass-media: Arsène gli aveva promesso che si sarebbero rivisti, perciò era sicuro che avrebbe trovato il modo per uscire di prigione e tornare da lui. L'ultima volta ci erano voluti sei mesi, ma non gli importava quanto tempo ci avrebbe messo: l'avrebbe aspettato fino alla fine dei suoi giorni.
Si stava quasi appisolando sul divano quando gli arrivò la notifica di un'e-mail. La aprì e lesse sconvolto ciò che gli era stato comunicato: l'identità delle persone che volevano vendicarsi di Arsène Lupin. In allegato trovò anche le scansioni di vecchi articoli di giornale che avevano commentato la vicenda e le foto dei protagonisti modificate da François con un programma di invecchiamento. In particolare lo colpì la trasformazione di un ragazzino, il nipote della vittima, il cui identikit non solo combaciava perfettamente con l'aspetto della finta cameriera del Savoy ma anche con quello che avevano sempre creduto fosse un senzatetto assoldato da Sherlock Holmes per tenere d'occhio l'appartamento di Molly Hooper.
Grégorie si alzò di scatto dal divano e corse alla finestra che dava sulla strada, trovando il ragazzo seduto sulla solita panchina. Quella volta però alzò lo sguardo ed incrociò il suo con intenzione, confermando ogni suo sospetto: erano stati fregati.
«Miss Hooper!», gridò, dirigendosi a passo spedito verso il corridoio.
Picchiò alla porta della sua camera da letto con il pugno e la chiamò nuovamente. La donna gli aprì dopo qualche secondo, il volto stravolto.
«Che cosa c'è?», mormorò con poca voce.
«La sua vita è in pericolo. Deve andarsene subito da qui», esclamò afferrandola per un braccio, senza darle nemmeno il tempo per pronunciarsi.
«Deve salire sul tetto e saltare su quello dell'edificio accanto, ha capito? Da lì potrà scappare senza problemi. Raggiunga il Savoy Hotel, là sarà al sicuro».
Le infilò il cappotto e la spinse fuori dalla porta, per poi concentrarsi sulla pistola che aveva estratto dalla fondina che teneva nascosta all'interno della giacca.
Molly però gli afferrò le mani e guardandolo dritto negli occhi gli disse: «Vieni con me».
Grégorie abbozzò un sorriso. «Non posso, madmoiselle. Le devo dare il tempo per fuggire e questo è l'unico modo. Adesso vada, su».
Molly abbassò gli occhi e si avviò verso le scale che portavano al tetto, senza più voltarsi indietro per paura di cambiare idea.
L'uomo coi baffi si fece coraggio con un respiro profondo e con la pistola stretta tra le mani scese lentamente le scale, rasentando il muro.
Giunto nell'androne chiuse gli occhi ed aprì il portone, ma non vide più nessuno sulla panchina dall'altro lato della strada. Fece un passo verso l'esterno e un colpo improvviso al braccio gli fece perdere la presa sulla pistola. Il ragazzo, coi lunghi capelli biondi nascosti sotto il cappuccio della felpa, sfruttò la sorpresa di Grégorie per sferrargli un calcio sul ginocchio destro, facendoglielo piegare verso il pavimento, ma l'uomo coi baffi reagì lanciandosi contro di lui come un rugbista.
Ci fu una violenta colluttazione, in cui entrambi cercavano di prevalere sull'altro e intanto provavano ad avvicinarsi alla pistola, caduta sulla scalinata d'ingresso.
Gabriel - così si chiamava il ragazzo - era all'apparenza magro ed esile, ma aveva una forza notevole, tanto che Grégorie ad un tratto ne fu sopraffatto. Si ritrovò infatti steso sul pavimento, con la testa che sporgeva oltre il primo scalino bagnato di neve, e il biondo, a cavalcioni su di lui, gli serrò entrambe le mani intorno alla gola per strangolarlo. L'uomo coi baffi ne approfittò per allungare un braccio alla ricerca della pistola, ma la mossa non sfuggì a Gabriel, il quale cercando di impedirglielo finì per perdere il vantaggio ottenuto. Grégorie, con un colpo di reni, riuscì a capovolgere la situazione. Entrambi toccarono il calcio della pistola, tuttavia il ragazzo, col volto paonazzo per la mancanza d'aria, non si arrese e riuscì a tirargli una ginocchiata all'inguine che gli permise di avere la meglio.
Partì un colpo che echeggiò per tutta la via e Grégorie alzò il capo per guardare Gabriel negli occhi, incredulo tanto quanto lui; poi li abbassò verso il proprio addome, dove si stava allargando rapidamente una macchia di sangue rosso scarlatto.
«Non è possibile», mormorò, iniziando a sentire il dolore paralizzante della ferita d'arma da fuoco. «No, non posso... non posso morire adesso...».
Il ragazzo lo spinse via da sè e si alzò in piedi per fissarlo con i grandi occhi neri spalancati, il fiato corto e il sangue che colando dal naso tumefatto gli stava macchiando le labbra e i denti bianchi. Quindi lo afferrò per le spalle e lo trascinò all'interno del palazzo, addossandolo contro la parete su cui erano fissate le buche per le lettere dei condomini.
Grégorie si portò una mano sulla ferita nel vano tentativo di bloccare l'emorragia, poi sollevò lo sguardo verso Gabriel, il quale lo evitò per correre su per le scale. Aveva sprecato fin troppo tempo.
Aprì la porta dell'appartamento di Molly Hooper, il suo bersaglio, e lo trovò vuoto. Era riuscita a fuggire e sua zia non ne sarebbe stata felice, per niente.
Quando aveva appreso dell'arresto di Lupin era andata su tutte le furie e gli aveva ordinato di tenere d'occhio la figlia e l'anatomopatologa, in modo da poter rapire una delle due e costringerlo ad evadere. Geneviève era stata prelevata da Scotland Yard dagli assistenti sociali, mentre Molly era stata semplicemente mandata a casa con un solo uomo di Lupin a proteggerla, rendendola l'obiettivo perfetto.
Gabriel si portò le mani tra i capelli, pensando alla prossima mossa da fare. Non poteva tornare da sua zia a mani vuote, l'avrebbe di certo punito.
Il televisore ancora acceso in salotto, sintonizzato su un canale di informazione, gli fornì l'aiuto di cui aveva bisogno: la polizia era stata appena informata che il furgone blindato su cui viaggiavano Arsène Lupin e Sherlock Holmes, diretti verso il carcere di massima sicurezza di Belmarsh, era stato dirottato dallo stesso Ladro Gentiluomo, il quale ora era in fuga.
Forse era stato proprio lui ad avvisare il proprio uomo. Che finalmente avesse trovato il bandolo della matassa?
In quel caso Gabriel non aveva più tempo da perdere. In cucina svuotò i cassetti fino a trovare un pezzo di carta e una penna e con scrittura frettolosa lasciò un messaggio al ladro, nella speranza che si precipitasse lì. Quindi tornò dall'uomo a cui aveva dovuto sparare e lo trovò semi-svenuto, col cellulare stretto nella mano destra, macchiata di sangue.  
Per quanto gli dispiacesse doverlo lasciare lì così, in bilico tra la vita e la morte, doveva scappare prima dell'arrivo dei rinforzi, limitandosi a pregare perché non morisse.

***

Arsène sapeva che il furgone blindato era dotato di GPS e che avrebbe attirato l'attenzione, perciò una volta rientrato in città era riuscito a cambiare mezzo tagliando la strada ad un motociclista il quale, riconoscendolo, gli aveva gentilmente prestato il veicolo a due ruote.
Con la moto si era diretto verso l'appartamento di Molly Hooper, sfrecciando in mezzo al traffico dei nottambuli, ma capì di essere arrivato tardi quando togliendosi il casco notò delle macchie di sangue fresco sugli scalini che portavano all'androne del palazzo.
Imprecò in francese ed entrò, trovandosi di fronte ad una scena che si sarebbe presto aggiunta a quelle che già infestavano le sue notti, costantemente agitate nonostante i sonniferi.
«Grégorie», mormorò, crollando in ginocchio al suo fianco. «Grégorie, mi senti? Grégorie, rispondimi!».
Guardò il sangue che gli impregnava la camicia e la spaventosa pozza al suo fianco, sentendo il cuore battergli furiosamente in gola mentre le lacrime iniziavano a bagnargli le guance.
«Grégorie!», singhiozzò cingendogli la testa con le braccia.
«Padrone...».
Il Ladro Gentiluomo sbarrò gli occhi e trattenne il respiro, prendendogli il volto per trovarlo ad occhi socchiusi e con un debole sorriso sulle labbra.
«Grégorie, grazie al cielo!».
«Avete... mantenuto la promessa», aggiunse, tossendo e macchiandogli la camicia di sangue.
«Ma certo, certo che l'ho mantenuta. Una promessa è una promessa».
L'uomo si aggrappò alle sue braccia con le ultime forze rimastegli e col capo sulla sua spalla sussurrò il suo nome: «Arsène».
Il ladro sentì il proprio cuore frantumarsi in mille pezzi.
Grégorie non l'aveva mai chiamato per nome, mai, e Arsène ne era stato in parte contento, dato che quello non era il suo vero nome. L'uomo aveva trascorso dieci anni al suo fianco, eppure non gli aveva mai rivelato nulla di sé, nemmeno un dettaglio insignificante come quello, a cui però il compagno teneva particolarmente. Per assurdo l'aveva fatto con Molly Hooper, la donna amata dal suo più grande rivale. Era pazzo? Forse.
«Raoul», singhiozzò, posando la fronte contro la sua. «Il mio vero nome è Raoul».
Grégorie parve rianimarsi: i suoi occhi si fecero più grandi e luminosi, il suo sorriso più bello.
«Raoul», ripeté.
Pronunciò il suo nome di battesimo fino a quando ne ebbe le forze. Poi, quando la morte lo prese con sé, si abbandonò contro il suo petto e Arsène lo strinse più forte, piangendo e fremendo di rabbia allo stesso tempo.
Fu quella rabbia cocente a dargli la forza per lasciare il fianco del compagno e correre nell'appartamento vuoto dell'anatomopatologa.
Sul ripiano in marmo dell'isola della cucina trovò un biglietto indirizzato a lui che diceva: "Se vuoi rivederla viva vieni a questo indirizzo. Da solo". Lo memorizzò, poi si lavò le mani del sangue dell'amico e col telefono fisso chiamò il Savoy Hotel per impedire ai suoi uomini di mettersi in mezzo.
Quindi scese le scale a precipizio, salutò Grégorie con un delicato bacio sulla fronte, raccolse la moto che aveva lasciato sul bordo del marciapiede e, deciso ad affrontare il proprio passato una volta per tutte, sfrecciò di nuovo nella notte resa più silenziosa grazie alla neve.

***

Molly era appena riuscita a saltare sul tetto dell'edificio che ospitava un altro condominio quando sentì l'eco dello sparo.
Il cuore le salì ancora più su nella gola e si sforzò di pensare che fosse stato l'uomo coi baffi a sparare, ma qualcosa le diceva che non era così. Tuttavia non si fermò e corse e corse, senza nemmeno sapere quale direzione avesse preso. Alla fine non andò al Savoy Hotel, bensì in un luogo in cui per forza di cose sarebbe stata al sicuro: Scotland Yard.
Un paio di agenti la riconobbero e vedendola così turbata le chiesero cosa fosse successo, ma lei disse che avrebbe parlato solo con l'ispettore Lestrade. L'uomo, nonostante fosse ormai notte fonda, era rimasto nel suo ufficio a pensare e una volta avvisato si presentò alla reception, dove Molly si rifugiò tra le sua braccia e cedette ad un pianto liberatorio.
Greg la portò subito nel suo ufficio ed aspettò che si calmasse, poi si fece raccontare nei minimi dettagli tutto quello che era successo.
Molly aveva giusto terminato il proprio racconto quando un agente bussò alla porta per avvertire l'ispettore che, primo, un uomo era stato trovato morto nel palazzo della donna, ucciso da un colpo d'arma da fuoco all'addome (rendendo purtroppo veritiera la sua deposizione), e che, secondo, la persona che stavano cercando di passargli al telefono fisso - che aveva lasciato squillare a vuoto per parecchi minuti - era Mycroft Holmes.
«Sembra piuttosto urgente, ispettore».
Greg sospirò pesantemente, pensando che quella giornata non sarebbe mai finita, e dopo averle chiesto scusa per l'interruzione andò a tirare su la cornetta.
«Che cosa c'è?», sbottò, ma lentamente la sua espressione scocciata venne sostituita dalla preoccupazione.
Dopo due minuti di conversazione in cui lui non aprì più bocca, Lestrade tornò a fissare Molly, la quale tirò su col naso e chiese: «Che cos'è successo?».
«Sherlock. A quanto pare Lupin ha dirottato il furgone blindato su cui viaggiavano e ha lasciato lui e i poliziotti della scorta sul ciglio della strada. Adesso sono tutti all'ospedale e Sherlock... Sherlock sembra grave».
L'anatomopatologa abbassò gli occhi sulle mani unite sulle gambe, strette intorno ad un fazzoletto appallottolato, poi si alzò e mostrò una nuova forza nello sguardo.
«Che cosa stiamo aspettando?», gli domandò, serissima. «Andiamo da lui».
«Sei sicura? Forse sarebbe meglio se tu...».
«Sto bene. Andiamo».
Lestrade sospirò ed annuì, seguendola fuori dall'ufficio col cappotto appeso al braccio.

***

«Signora, è arrivato».
Dietro il pc portatile posato su un angolo della scrivania, la zia di Gabriel sorrise maligna e guardò Arsène Lupin mentre veniva seguito dalle varie telecamere di sorveglianza installate in ogni angolo dell'hotel-casinò.
Pigiò il tasto dell'interfono con le sue dita tozze e con tono quasi divertito disse: «Molto bene. Dite agli addetti del ricevimento di consegnargli il buono per il casinò. Là ci sarà Gabriel ad attenderlo».
Il nipote, sentendosi nominare, irrigidì la schiena e con mani ancora tremanti si sistemò la coda di cavallo, pronto ad andare al suo posto.
«Te la senti?», gli chiese la donna all'improvviso, gli occhi fissi sulle inquadrature delle telecamere: Lupin si era appena accostato al bancone della reception e l'uomo dall'altro lato gli stava porgendo una carta dorata.
«Sì, certo», rispose Gabriel, stupito dalla sua domanda. Sua zia non chiedeva mai, ordinava e basta.
«Aspetto questo momento da vent'anni», spiegò, rispondendo alle sue inespresse perplessità. «Se qualcosa dovesse andare storto non te lo perdonerò».
Il ragazzo deglutì, ma fece del suo meglio per non mostrare il nervosismo. Chinò un poco la testa ed affermò: «Non ti deluderò, zia».
Dopo un grugnito, la donna gli fece segno di andare e Gabriel non perse tempo: lasciò l'ufficio, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle, e prese l'ascensore dipendenti per raggiungere il quinto piano, dov'era situato il casinò.
Entrò nella grande sala, piena di gente seduta intorno ai tavoli da gioco, ai banconi dei tre bar e alle slot-machines. Decine di cameriere in succinti vestitini rossi e verdi e papillon al collo giravano con vassoi di flûte e stuzzichini, offrendoli agli ospiti. Gabriel impiegò poco per individuare Arsène e ad un certo punto, come se avesse avvertito il suo sguardo su di sé, il Ladro Gentiluomo si voltò con precisione verso di lui, inquadrandolo coi suoi occhi verdi. Nonostante la folla non si persero mai di vista e insieme giunsero davanti al tavolo della roulette, dove si fronteggiarono divisi dal lungo tavolo dal tappeto verde.
Gabriel fermò bruscamente il giro della roulette e prendendo di mano il rastrello dal collega fece piazza pulita di tutte le fiches posizionate sui vari numeri, scatenando il malcontento dei giocatori. A Gabriel però bastò uno sguardo, nero come la pece, per farli tacere intimoriti e costringerli a cambiare tavolo.
Arsène guardò i precedenti giocatori allontanarsi, poi tornò a posare gli occhi in quelli del ragazzo e con cautela si sedette sullo sgabello che gli era stato indicato.
«Non sono in vena di giocare», disse, tenendo a freno la rabbia.
Gabriel non rispose e gli consegnò una pila di fiches, squisitamente rosse. Arsène ne prese una e se la rigirò tra le dita, poi chiuse un occhio per prendere la mira e gliela lanciò addosso con precisione, colpendolo in fronte.
Il croupier, a parte alzare lo sguardo su di lui con fare annoiato, non reagì.
«Sei stato tu ad uccidere quella cameriera e a rubare il quaderno di mia figlia, dico bene? Perché? Chi sei?».
Gabriel gli rivolse un candido sorriso ed indicando il tavolo verde esclamò in un francese perfetto: «Faites vos jeux».
Arsène strinse i pugni e respirò profondamente col naso per calmarsi. «Se giocherò... poi mi porterai da Molly Hooper?».
Il ragazzo gli ripeté di puntare sui numeri e il Ladro Gentiluomo non poté fare altrimenti. Avrebbe giocato e avrebbe vinto, ad ogni costo.

***

Mycroft odiava vedere Sherlock in un letto d'ospedale e gli ospedali in generale: gli ricordavano i tempi in cui avevano provato a far internare sua sorella e quelli in cui suo fratello veniva ricoverato d'urgenza almeno una volta a settimana per overdose.
In quell'occasione gli tornò alla mente il giorno in cui era giunto alla conclusione che solo una distrazione, un nuovo stimolo, potesse tenerlo lontano dalla droga e aveva deciso di organizzargli un viaggio in Francia, dove il nome di Arsène Lupin stava iniziando ad essere sulla bocca di tutti. Di certo aveva ottenuto il suo scopo - il Ladro Gentiluomo l'aveva tenuto sufficientemente occupato - ma allora non avrebbe mai immaginato che metterlo sulla sua strada li avrebbe portati a quel punto.
«Mycroft!».
L'uomo si voltò e sforzò un sorriso. «Ispettore Lestrade, dottoressa Hooper», li salutò. «Non era necessaria la vostra presenza».
«Scherza, vero?», esclamò Greg, imbronciato.
«Come sta?», chiese invece Molly, sporgendosi verso la finestrella da cui si poteva intravedere l'interno della stanza: una lampada da comodino dalla luce calda, quasi rosata, illuminava il volto inespressivo di Sherlock, addormentato.
«I dottori dicono che è in una specie di coma».
Lestrade rimase letteralmente a bocca aperta. «Che cosa?».
«Il neurologo ha intenzione di effettuare ulteriori esami, ma l'ipotesi più valida al momento è che si sia ridotto in questo stato per via di una dose eccessiva di scosse elettriche».
«Non capisco. Com'è potuto succedere?».
Mycroft scosse il capo, afflitto. «Temo sia di nuovo colpa mia. Avrei dovuto immaginare che Arsène ne avrebbe approfittato...».
Il maggiore degli Holmes raccontò loro delle manette high-tech ricevute in prestito dalla CIA, del loro funzionamento e di ciò che avevano raccontato i membri della squadra di trasferimento che, poco ma sicuro, sarebbero stati degradati a lavori d'ufficio per il loro comportamento sconsiderato.
«A quanto pare Lupin e Sherlock si sono messi d'accordo per evadere e mio fratello si è fatto folgorare appositamente parlando dei suoi sentimenti per lei, dottoressa Hooper».
Molly, con una mano posata sul vetro freddo, si voltò verso Mycroft con gli occhi grandi e pieni di lacrime.
«Quindi sarebbe colpa mia se Sherlock subisse dei danni permanenti o, peggio, non si dovesse più risvegliare?», domandò con voce tremante, ad un passo dallo scoppiare in singhiozzi.
«Non lo pensare nemmeno», provò a rassicurarla Greg, ma lei cacciò via la sua mano e guardando negli occhi il maggiore dei fratelli Holmes chiese di poter andare da lui.
Mycroft acconsentì con un breve cenno del capo e Molly non se lo fece ripetere due volte: superò i due agenti armati di guardia alla porta, l'aprì e delicatamente se la chiuse alle spalle. Respirò profondamente per farsi coraggio e posò gli occhi sul suo corpo immobile, sentendo una fitta all'altezza del cuore quando si rese conto che aveva entrambi i polsi ammanettati alle sbarre del letto. Era in coma, per l'amor di Dio!
Portò una sedia al lato sinistro del letto, in modo da dare le spalle alla finestra che dava sul corridoio, e con le lacrime che ormai le rigavano il volto gli prese una mano tra le sue.
«Sherlock», sussurrò. «Ti prego, apri gli occhi. Ti scongiuro».
Il detective non ebbe alcuna reazione e lei nascose il viso nell'angolo del braccio posato contro la sbarra, col cuore a pezzi e la gola in fiamme.
«Mi dispiace. Mi dispiace per non averti ascoltato, per averti dato del codardo, per non averti capito... Io volevo solo... volevo che le cose tornassero come prima».
Rimase in quella posizione per tanto, troppo tempo; esaurì le lacrime ed era quasi sul punto di addormentarsi, provata da quella giornata infinita, quando le dita di Sherlock si mossero, facendola sobbalzare. Le sue ciglia fremettero e Molly le guardò trattenendo il respiro, fino a scorgere le sue iridi azzurre.
«Sherlock. Oh, grazie a Dio!». Le scappò persino una risata mentre si chinava sulla sua mano per baciarne il dorso.
Il consulente investigativo ricambiò il suo sguardo e la sua fronte si increspò.
«Ci conosciamo?», le chiese poi, con la voce arrochita.
Il sorriso le abbandonò la bocca e lo shock le fece mollare la presa sulla sua mano, la quale cadde inerte sul materasso. Molly si alzò dalla sedia ed inciampandoci si diresse verso la porta, sotto lo sguardo più che confuso di Sherlock.
Di nuovo in corridoio, lo percorse fino ad imbattersi in Mycroft e Lestrade, vicini al distributore automatico di bevande. Al maggiore bastò leggere la sua espressione per capire che il fratello si era svegliato, mentre Greg la prese per le spalle e le chiese perché fosse tanto turbata. Molly scosse il capo, incapace anche solo di dirlo ad alta voce, e si lasciò stringere in un abbraccio.

***

«Va bene, grazie».
Victoire terminò la chiamata con espressione stizzita e si voltò verso Maurice Leblanc, addossato allo schienale del divano con le braccia conserte e gli occhi che l'avevano seguita passeggiare su e giù per tutta la durata della conversazione telefonica.
«Hanno detto che Arsène li ha contattati dicendogli di starne fuori», gli riassunse, tornando a sedersi al suo fianco con un diavolo per capello.
«Che cos'ha intenzione di fare?», le chiese il reporter.
La donna sospirò. «Mi fiderò di mio figlio anche questa volta, non posso fare altrimenti».
Geneviève si ritrasse e tornò nella camera da letto a passo felpato. Ne era uscita circa venti minuti prima e aveva origliato gran parte della storia raccontata da Victoire, scoprendo così l'identità delle persone che volevano vendicarsi di suo padre. Il loro era un rancore che si era alimentato con gli anni e per raggiungere il loro scopo si erano spinti ad uccidere, perciò dubitava che lui da solo potesse sconfiggerli. Gli uomini dell'organizzazione e la stessa Victoire come facevano a non rendersene conto? Ma lei non se ne sarebbe stata con le mani in mano, non avrebbe potuto.
Recuperò lo zainetto con i pochi effetti personali che la polizia le aveva permesso di prendere con sé prima di portarla a Scotland Yard e che Alain le aveva lasciato in stanza mentre dormiva e tirò un grande sospiro di sollievo quando all'interno di una tasca nascosta trovò il cellulare usa e getta che le aveva dato Grégorie. Il suo numero era il primo della rubrica, sotto il nome di "Baffoni", e fu lui che chiamò.
Il telefono squillò e squillò, tanto da farle temere che non le avrebbe risposto, ma alla fine una voce familiare esclamò un timoroso: «Hello?».
Geneviève si avvicinò alle ampie finestre che davano su un prato che si estendeva a perdita d'occhio e cercò di fare mente locale. Alla fine ricordò a chi appartenesse, nonostante l'avesse visto una volta sola.
«François?», chiese stupita. Uno degli hacker di suo padre, un ragazzo di pochi anni più di lei e di fatto il più giovane membro di tutta l'organizzazione.
«Miss Geneviève! Mi ha riconosciuto!».
Aveva intuito subito che si era preso una cotta per lei e il suo tono di voce leggermente stridulo ne fu la conferma definitiva. La ragazzina abbozzò un sorriso, lusingata, ma al momento non aveva tempo per flirtare.
«Come mai hai risposto tu? Dov'è Grégorie?».
«Lui... ehm... ecco, lui è...».
«François, ti prego, ho bisogno di parlargli. Mio padre è in pericolo e...».
«Grégorie è morto, miss».
Geneviève sentì il cuore batterle a rallentatore nel petto, pesante come un macigno, e fu costretta a sedersi sul bordo del letto per paura di non riuscire a reggersi in piedi.
«Ha permesso a miss Hooper di scappare, ma è stato ferito. Quando l'abbiamo raggiunto, poco prima della polizia, non c'era più niente che potessimo fare. Mi dispiace molto», aggiunse François, il cui ultimo desiderio era quello di rendere infelice la ragazza che gli piaceva. «Posso... posso aiutarla in qualche modo?».
Geneviève lottò ferocemente contro le lacrime, ma un paio le scivolarono inarrestabili lungo le guance. Non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe pianto per lui, ma la notizia della sua scomparsa le provocò un dolore che le fece capire fino in fondo quanto, senza nemmeno volerlo, si fosse affezionata a lui. Grégorie le era stato accanto ogni giorno, quasi più di suo padre, ed era buffo come il loro rapporto fosse cambiato, trasformandosi come un bruco in una farfalla, passando dall'insofferenza di due rivali all'attaccamento quasi familiare. Sì, Grégorie era stato quasi uno zio per lei e le sarebbe mancato, ma se l'avesse vista in quelle condizioni l'avrebbe di certo rimproverata.
«Piangere non serve a niente», le avrebbe detto, imperturbabile come suo solito.
Grégorie aveva passato dieci anni della sua vita accanto a suo padre, servendolo e facendo del suo meglio per proteggerlo, e Geneviève era certa che non l'avesse fatto solo per ripagare il debito, ma anche e soprattutto perché lo amava profondamente.
Questa volta ci penserò io, Baffoni, promise ad occhi chiusi.
Si asciugò il volto e tirò su col naso, ricomponendosi. «Ci sei ancora, François?».
«Yes».
«Bene. So che mio padre vi ha ordinato di non immischiarvi, perciò capisco se non vuoi disubbidirgli...».
«Mi dica cosa vuole che faccia e io lo farò, miss».
«Ne sei sicuro?».
«Al cento percento. Il big boss si è preso cura di me quando nessun altro voleva farlo, incluso il qui presente, ed è tempo che io ricambi il favore».
Geneviève sorrise, commossa, ma decise di metterla sul ridere: «Quindi non lo fai perché speri che io mi senta in debito con te».
«C-Cosa? No, miss, non mi permett-».
«Stavo scherzando, François», interruppe il suo balbettare, divertita. «Are you ready?».
«I was born ready, babe», rispose in automatico, accorgendosi troppo tardi della propria audacia. Cercò di rimediare balbettando delle scuse, ma Geneviève lo azzittì e, confrontate le informazioni in loro possesso, gli spiegò cosa voleva che facesse.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima notte.

***

Arsène perse anche l'ultima delle sue fiches e aprendo le braccia in segno di resa sorrise rivolto al pubblico che si era col tempo radunato ad entrambi i lati del tavolo da gioco per assistere a quella partita one-on-one.
«Come si dice? Sfortunato nel gioco, fortunato in amore!», gridò, sentendosi estremamente rilassato.
Nel corso di quell'estenuante partita di roulette aveva bevuto un solo bicchiere di champagne, consapevole di non potersi ubriacare nel covo del nemico, ma si sentiva lo stesso leggero ed insonnolito.
Prese tra le dita lo stelo del flûte vuoto ancora al suo fianco e lo esaminò alla luce per vedere se ci fossero residui di sostanze stupefacenti. Poi si ricordò del modo in cui era stata uccisa la cameriera del Savoy: prima le era stata inettata della morfina e poi avevano inscenato un suicidio.
Scoppiò a ridere, realizzando che anche a lui sarebbe toccato lo stesso destino.
«Adesso ho capito», esclamò, alzandosi ed avvicinandosi al croupier facendo roteare il bicchiere tra indice e medio. «L'ultima volta che ti ho visto eri solo un bambino, Gabriel. O dovrei chiamarti Gabrielle? Sono confuso».
A quelle parole il giovane dai capelli biondi sorrise cortese. «Credo che abbia bevuto un po' troppo, signore».
«Dici? Sì, forse è così... D'altronde per quale ragione dovresti fingerti maschio?».
Gabriel serrò i pugni e chiamò la sicurezza. Due omoni in smoking afferrarono Lupin per le braccia e tentarono di sollevarlo per trascinarlo verso uno degli ascensori. Arsène si dimenò, gridando che poteva camminare benissimo sulle sue gambe, e il bicchiere che aveva in mano si infranse contro il bordo del tavolo.
La scena creò un po' di panico tra gli altri avventori del casinò, ma Gabriel calmò subito le acque scusandosi per l'inconveniente ed offrendo a tutti una consumazione gratuita. Mentre la gente si accalcava verso i banconi dei bar, ad Arsène venne tappata la bocca e fu trascinato fino all'ascensore dei dipendenti. Una volta all'interno Gabriel selezionò l'ultimo piano, strisciando la propria tessera magnetica ed inserendo il codice a sei cifre che Arsène ebbe modo di vedere con la coda dell'occhio, fornendogli l'ultima e definitiva prova utile a confermare l'identità dei suoi nemici.
La password era una data: un giorno, un mese e un anno che Arsène non avrebbe mai dimenticato, nonostante avrebbe dato di tutto per riuscirci.

Per raccimolare qualcosa in quel periodo di magra, Lupin si era recato personalmente al casinò per vincere qualche mano di black jack e magari tentare la fortuna alla roulette.
Quella sera era pieno di gente, tanto che si faceva addirittura fatica a spostarsi da un tavolo di gioco all'altro, e Arsène decise di sfruttare l'occasione per spennare qualcuno. Non impiegò molto ad individuare l'obiettivo: un omone rosso di pelle, dall'aria gioviale ma preoccupata per via del gruzzolo che doveva avere nella tasca interna della giacca, che controllava ogni dieci secondi.
Arsène stava per affiancarlo al bancone del bar quando l'uomo fu raggiunto da una donna grassa tanto quanto lui, dalla fisionomia volgare e con indosso un discutibile vestito color prugna, e da un ragazzino sette-otto anni, sottile e pallido, con gli occhi neri e dei corti capelli biondi che si arricciavano dietro le orecchie e sulla fronte.

Il Ladro Gentiluomo si avvicinò comunque al bancone del bar ed ordinò un Martini, allungando l'orecchio per sentire cosa si stavano dicendo.
«Forse è meglio se li tengo io», esclamò arcigna la donna, indicando la borsetta che teneva tra le mani.
«No, è più facile infilare la mano in una borsa. Dico bene, Gabriel?».
Il ragazzino abbassò il volto, stringendo gli occhi come se ne fosse intimorito, quando la grande mano dell'uomo gli arruffò i capelli.
«Sarà, ma non mi fido. Questa sera è davvero affollato».
«Non ti preoccupare, cara».
Dalla tasca destra della giacca tirò fuori un orologio a cipolla che catturò l'attenzione del ladro: ormai non se ne vedevano quasi più in giro, perciò doveva essere per forza un cimelio di famiglia.
Controllò l'ora e aggiunse: «Mezz'ora ancora e ce ne andiamo».
La moglie grugnì e si allontanò col ragazzino, diretta verso le slot-machines. L'uomo tornò a sorseggiare il proprio whisky con ghiaccio, mentre Arsène aspettava il momento giusto per agire.
Furono suoi complici un gruppo di ragazzi americani, forse in vacanza a Parigi, che dopo una vincita alla roulette si ammassarono davanti al bancone per ordinare da bere e peggiorare la loro sbronza. Circondarono il suo obiettivo da entrambi i lati, mettendolo ancora più in agitazione, e Lupin fu rapido e preciso nell'infilargli la mano sinistra nella tasca della giacca.
Quando i ragazzi si dispersero e tornò a regnare la quiete, Arsène non c'era già più.
Deluso dalla patacca che aveva sgraffignato, giocò una mano di baccarat senza perdere mai di vista il suo uomo e i ragazzi americani. Quindi lo raggiunse nuovamente al bancone qualche minuto prima dell'orario a cui si era dato appuntamento con la moglie.
«Mi perdoni», attirò la sua attenzione dandogli una gentile pacca sulla spalla. «È suo questo orologio?».
L'uomo sussultò e si portò istintivamente una mano sulla tasca interna della giacca, dove conservava il vero tesoro. Trovandolo ancora lì, si rilassò e riuscì persino a sorridergli: «Sì, è mio! Vede, ci sono le mie iniziali sul retro: N.D. Nicolas Dugrival. Ma lei dove l'ha trovato? Ce l'avevo nella tasca!».
Lupin si fece più vicino e con discrezione tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans il tesserino della Polizia Nazionale che si portava sempre dietro, giusto per trovarsi sempre preparato. Non gli diede il tempo di guardare bene la foto - l'avrebbe trovata diversa da come si era truccato quella sera - e si presentò: «Agente Delangle, molto lieto. Io e l'ispettore Marquenne siamo stati mandati sotto copertura a seguito dei vari furti che si sono registrati in questo casinò».
Dugrival stirò un altro sorriso, nonostante stesse sudando copiosamente. «Dice davvero?».
«Sì, abbiamo anche dei sospettati».
«Ah. E chi sarebbero?».
Lupin indicò con un cenno del capo il gruppetto di ragazzi americani, seduti in un salottino poco distante a fare baldoria.
«Crediamo che sia un'intera banda», spiegò. «Al momento sono solo cinque perché uno è andato al bagno, ma lì c'era il mio collega ad attenderlo e ora stiamo cercando di farlo parlare».
«Sì, sono di certo loro!», confermò l'uomo, annuendo con vigore. «Prima sono venuti qui e hanno fatto un gran casino, mi hanno persino urtato! Dev'essere stato allora che mi hanno rubato l'orologio! Non vale molto, ma me l'ha regalato mia moglie e ci sono affezionato».
Lupin non poté impedirsi di rivolgergli uno sguardo impietosito, per poi esclamare: «Ad ogni modo, sa come sono queste questioni... prima di restituirglielo dovrebbe venire con me dal mio capo ed aiutarci ad incastrare questi ladruncoli».
«A-Adesso? Noi stavamo per andare via...».
«Su, avanti, ci vorranno solo pochi minuti! Non vuole evitare che quella gente derubi qualcun altro?».
«Certo, però...».
Arsène non ascoltò altro ed afferrandolo per un braccio lo fece scendere dallo sgabello, per poi trascinarlo con sé verso i bagni.
A causa del fiume di alcool che ogni sera veniva servito ai clienti, la zona antistante ai servizi, quella degli uomini tanto quella delle donne, era ancora più affollata. Un aspetto che il ladro aveva calcolato e che lo facilitò enormemente. Messe le mani sul portafoglio gonfio dell'uomo, finse di ricevere una chiamata dall'ispettore Marquenne.
«Che cosa? Vi siete spostati? Ma come, io sono qui fuori dai bagni e non vi ho visti passare! Ah. E va bene, arriviamo subito».
Con espressione dispiaciuta lo fece voltare verso l'uscita, esclamando: «Sono desolato signor Dugrival, ma l'ispettore e il sospettato sono fuori che ci attendono. Mi segua da vicino, mi raccomando!».
Nicolas fece del suo meglio per stare al passo dell'agente Delangle, ma la sua stazza e la calca non lo agevolarono. Alla fine lo perse di vista tra la folla, ma in compenso venne raggiunto dalla moglie e da Gabriel, i quali gli domandarono dove fosse stato. L'uomo raccontò loro della vicenda dell'orologio e dei ragazzi americani, ma la donna, sentendo puzza di bruciato, gli chiese: «I soldi ce li hai ancora?».
«Certo, certo, sono stato attent-». Dugrival, con una mano sulla tasca interna della giacca, divenne pallido come un lenzuolo: il portafoglio con tutti i guadagni della serata era sparito. Come in trance alzò gli occhi verso il salottino privato e vide il sesto ragazzo americano avvicinarsi agli amici, battendo i cinque mentre si vantava di essere riuscito a farla tutta nel vaso. Era stato fregato: il vero ladro era il finto agente di polizia e lui ci era cascato in pieno.
La moglie, capendo la situazione, iniziò a gridare al ladro, attirando l'attenzione degli avventori del casinò e delle guardie. Sbraitò e prese a spintoni chi cercava di calmarla, senza accorgersi che Nicolas, con sguardo spento e fisso davanti a sé, aveva tirato fuori dall'altra tasca della giacca una pistola.
«Zio, no!», urlò un Gabriel terrorizzato, cercando di aggrapparsi al braccio dell'uomo, ma non riuscì a fermarlo.
Il colpo partì e il silenzio piombò nella sala da gioco, tanto profondo che Arsène, il quale non aveva ancora raggiunto l'uscita, si sentì raggelare sul posto. Lentamente si voltò, orripilato, e vide Nicolas Dugrival steso ai piedi della moglie, con un buco sulla tempia e una pozza di sangue che si allargava sotto di lui ed impregnava la moquette. Gabriel, l'unico che si era reso conto delle intenzioni dello zio, era in ginocchio al suo fianco, col volto pallido sfregiato da schizzi di sangue, gli occhi neri spalancati e i palmi delle mani rivolti verso il cielo, come se stesse recitando il Padre Nostro.
Quel surreale silenzio venne ben presto sostituito dalle grida disperate della signora Dugrival, da quelle dei bodyguard che chiedevano l'intervento di un'ambulanza e della polizia e dalle esclamazioni dei clienti, i quali abbandonarono i tavoli da gioco e si accalcarono verso l'uscita spinti dalla paura della morte, quasi fosse un virus in grado di infettarli.
Arsène si lasciò trasportare dalla fiumana di gente e solo quando fu fuori dal casinò, all'aria fredda della sera, riuscì a riprendere possesso del proprio corpo.
Corse, corse più veloce che poté, e quando raggiunse uno dei ponti che attraversavano la Senna gettò nel fiume il portafoglio rubato. Si chinò a guardarlo mentre veniva trascinato via dalla corrente e con una mano a stringere il crocifisso che portava al collo cercò di regolarizzare il respiro, affannato per la corsa e l'agitazione. Si disse che non era stata colpa sua, che lui non era responsabile della morte di quell'uomo, ma il suo stomaco evidentemente non era dello stesso parere e lo costrinse a rimettere, piegato oltre la balaustra e con le lacrime che gli rigavano il viso.
 
Le porte dell'ascensore si aprirono con un ding che fece alzare la testa di Arsène, permettendogli di vedere il lungo corridoio che terminava con una porta chiusa.
Non era ansioso di scoprire cosa ci fosse dietro di essa, ma ribellandosi avrebbe messo in pericolo la vita di Molly, perciò si lasciò trascinare fino all'interno di quello che si rivelò essere un ufficio dalla moquette verde, proprio come i tavoli da gioco, e con delle enormi vetrate da cui si poteva godere della vista, anche se in lontananza, del luminoso skyline di Londra.
All'interno, seduta dietro una massiccia scrivania di mogano, c'era solo una persona: la vedova Dugrival.
Nonostante fosse visibilmente invecchiata, Arsène non avrebbe mai scordato quel brutto muso che per una settimana almeno era stato mostrato da tutti i canali di informazione per via delle sue accuse contro il sistema giudiziario e del voto di vendetta che aveva pronunciato subito dopo aver sepolto il marito.
Adesso che aveva tutti i pezzi del puzzle si sentiva così stupido per non esserci arrivato prima!
«Il tempo non è stato clemente con lei, cara la mia signora», esordì il ladro quando fu al suo cospetto.
La donna si alzò dalla poltrona e fece il giro della scrivania per scrutarlo da vicino, le mani sui larghi fianchi e un sorriso sadico sul volto.
«Farei poco lo spiritoso se fossi in te, Ladro Gentiluomo».
«La mia non era una battuta».
Lo schiaffo con cui lo colpì in pieno volto gli fece perdere del tutto il sostegno sulle gambe, già molli per via dell'anestetico. La vedova Dugrival scoppiò a ridere e lo afferrò per i capelli, tenendogli alzato il volto perché potesse guardarla negli occhi.
«Ah, che bella visione! Arsène Lupin in ginocchio davanti a me, come un bravo cagnolino ammaestrato! Nemmeno nei miei sogni immaginavo che sarebbe potuto accadere! Dimmi, mi leccheresti le scarpe se te lo chiedessi per favore?».
Arsène strinse gli occhi e chiese: «Dov'è Molly Hooper?».
«Molly Hooper? Non ne ho idea». La donna alzò gli occhi sul nipote. «Gabriel, tu sai dov'è Molly Hooper?».
«No, zia».
«Mi dispiace, ma Molly Hooper non è qui», sogghignò la vedova. «Sei caduto nella trappola, topolino».
Arsène la guardò a lungo, fino a quando non riuscì più a trattenere le risa. Scosso dai singulti, esclamò: «Tutto questo è davvero comico!».
«Lo pensi sul serio, Lupin?», gli domandò la Dugrival, rabbiosamente. «Ci saremmo evitati un sacco di problemi se non avessi rifiutato il nostro passaggio, non trovi? Per esempio, Gabriel non avrebbe ucciso il tuo amico».
A quelle parole Arsène smise di colpo di ridere. 
«È stato lui ad uccidere Grégorie?», sibilò, dando un nuovo senso al suo naso tumefatto, ai lividi e alle escoriazioni sulle sue nocche.
La donna annuì, divertita dalla sua espressione così addolorata. Era convinta che a quel punto il ladro si sarebbe arreso, spezzato nel corpo e nello spirito, ma si sbagliava. Arsène, rinvigorito dalla rabbia, si liberò dalla presa delle guardie e si avventò su Gabriel puntandogli alla gola un pezzo dello stelo del flûte che aveva infranto al casinò e che aveva infilato nella manica.
Una goccia di sangue macchiò la pelle candida della ragazza - perché sotto gli abiti maschili c'era il corpo di una femmina - e Arsène, a cavalcioni su di lei, incrociò i suoi occhi neri, lucidi come ossidiana ma del tutto privi di emozioni.
Gabriel non aveva paura della morte e gliene diede prova quando gli sussurrò: «Avanti, fallo. Uccidimi, cosa aspetti?».
Il Ladro Gentiluomo avrebbe voluto vendicarsi, toglierle la vita come lei l'aveva tolta a Grégorie, ma aveva fatto un giuramento che non poteva infrangere in alcun modo, un giuramento grazie al quale era riuscito a non cedere all'oscurità che più e più volte l'aveva chiamato a sé.
«No», disse, allontanando il pezzo di vetro dalla sua gola. «Solo a Dio spetta decidere chi deve vivere e chi morire».
«Non esiste alcun Dio!», gridò la vedova Dugrival, ma nessuno la sentì a causa di un forte boato.
Il volto pallido di Gabriel, proprio come vent'anni prima, fu sporcato da alcuni schizzi di sangue e Arsène, confuso, fece per alzare una mano per pulirlo, senza riuscirci. Fu allora che capì che quel boato era stato un colpo di pistola, che il proiettile gli aveva attraversato la spalla, impossibilitandogli i movimenti, e che quel sangue era suo.
Gabriel fremette sotto il suo corpo e Arsène distolse lo sguardo per osservare il proiettile che si era conficcato sul pavimento, a pochi centimetri dalla testa della ragazza.
«Vedi?», esclamò sorridendo. «Non è ancora giunta la tua ora».
Poi il buio calò su di lui come un angelo dalle ali nere.

***

John, chiamato da Mycroft per avvisarlo degli ultimi sviluppi, si presentò con tanto di passeggino davanti alla stanza di Sherlock.
«Ehi, è vero che ha perso la memoria?», fu la sua prima domanda.
Lestrade incrociò le braccia al petto e gettando un'occhiata a Molly, seduta su una delle poltroncine appese alla parete del corridoio, rispose piano: «Di noi tre ha riconosciuto solo Mycroft».
«E le sue capacità deduttive? Insomma...».
«Non abbiamo avuto modo di investigare», intervenne Mycroft, il volto provato. «Le infermiere ci hanno costretti ad aspettare fuori per non affaticarlo».
«Capisco. Notizie di Lupin?».
«Sappiamo che si è disfatto del furgone blindato e che ha rubato una moto. Dopodiché abbiamo perso le sue tracce».
«E i suoi uomini? Avete provato a...?».
Mycroft sospirò, afflitto. «Non possiamo costringerli a parlare, dottore».
«Che mi dici di Geneviève allora? Non dirmi che anche lei è svanita nel nulla!».
«Purtroppo sì», rispose quella volta Lestrade. «Per quanto ne sappiamo potrebbe essere dall'altra parte del mondo in questo momento».
John, frustrato dalla scarsità di risposte ottenute, strinse i manici del passeggino in cui riposava la figlia e andò a sedersi accanto a Molly per attendere l'arrivo del neurologo, il quale si presentò mezz'ora dopo, scusandosi per averli fatti aspettare.
Il medico consentì a due persone di entrare con lui e Greg decise di rimanere accanto all'anatomopatologa, la quale non se la sentiva di incrociare di nuovo i suoi occhi incapaci di riconoscerla.
«Ciao Sherlock», lo salutò John quando fu alla sua sinistra, le mani strette intorno alla sbarra del letto. «Ti ricordi di me?», aggiunse con un sorriso speranzoso.
Il detective sembrò sforzarsi, con la fronte aggrottata, ma alla fine scosse il capo, dispiaciuto.
«Signor Holmes, saprebbe dirmi dove si trova e che giorno crede che sia?», gli domandò il neurologo, esaminandogli gli occhi con una torcetta.
«In base a ciò che ho visto fuori dalla finestra direi che questo è il Royal London Hospital, anche se non ho idea di come ci sono finito. Per quanto riguarda la data...». Sherlock indicò l'orologio da polso di John e disse: «Qui c'è scritto che è il diciassette dicembre del 2017, perciò le possibilità sono tre: uno, mio fratello vuole farmela pagare per qualche motivo e ha organizzato tutto questo; due, ho dormito per diciassette anni; tre, recentemente ho subìto un trauma che mi impedisce di ricordare gli ultimi diciassette anni della mia vita. Qual è quella corretta?».
Mycroft si portò davanti alla finestra, una mano sul collo. «La terza», rispose.
«Capisco. Quindi queste persone sono...?». Sherlock incrociò gli occhi di John, poi quelli di Lestrade e Molly fuori dalla finestrella che dava sul corridoio.
«Amici», concluse il dottor Watson.
«Amici?», ripeté il detective, con espressione scettica. «Ne siete sicuri?».
John abbassò il capo, cercando di trattenere le risate, e quando tornò a guardarlo in volto aveva gli occhi lucidi. «Sì, purtroppo è così».
Il medico controllò la sua cartelletta clinica per diversi minuti e ad un tratto Mycroft, spazientito, sbottò: «Allora, che cosa ne pensa? Si tratta di una cosa momentanea oppure...?».
«Ci sono buone probabilità che col tempo riesca a ricordare ogni cosa. Domani, a seguito di esami più approfonditi, saprò dirvi di più. E adesso vi chiederei di lasciarlo riposare».
«Sì. Grazie, dottore», rispose Mycroft.
John salutò Sherlock con un sorriso e una pacca sul ginocchio, poi seguì il neurologo fuori dalla stanza. Prima che anche Mycroft se ne andasse chiudendosi la porta alle spalle il fratello minore lo chiamò, chiedendogli di rimanere al suo fianco.
Tutti furono sorpresi da quella richiesta così poco da Sherlock, ma nessuno di loro a parte Mycroft sapeva come fosse diciassette anni prima o come si sentisse in quel momento, perciò non si fecero troppe domande.
«Andate pure a casa», disse l'Holmes più grande. «Vi scriverò se dovesse iniziare a ricordare».
Lestrade annuì e con un braccio ancora avvolto intorno alle spalle di Molly la invitò a scostarsi dalla finestra, ma lei esitò quando il suo sguardo e quello del detective si incrociarono. Fu solo un istante, ma abbastanza per permetterle di dubitare. Non disse nulla però, come spesso faceva, e seguì gli amici fuori dall'ospedale.
Mycroft tornò nella stanza e si lasciò cadere sulla sedia accanto al letto, sospirando stancamente e massaggiandosi gli occhi con la punta delle dita.
«Ottima interpretazione, davvero. Hai quasi fregato pure me».
Sherlock si puntellò sui gomiti e si tolse le canule dalle narici. «Era l'unico modo per poter ritrattare la mia versione ed essere creduto dai media».
«Ganimard, senza saperlo, ha spezzato una lancia in tuo favore dicendo ai giornalisti che è stato Lupin a costringerti a confessare l'omicidio di Magnussen».
«Sì, immaginavo l'avrebbe fatto».
«Quindi la prossima volta che verrai interrogato e ti chiederanno se hai ucciso Magnussen ti fingerai davvero sorpreso e Scotland Yard, senza prove e coi risultati degli esami da me contraffatti, non sapranno che pesci pigliare. Il tuo piano sarebbe perfetto se non ti fossi dimenticato di...».
«Di Arsène? No, non me ne sono dimenticato. Diciamo pure che abbiamo fatto pace».
Mycroft scosse il capo, scuro in volto. Sherlock, riconoscendo la faccia delle cattive notizie, capì che mentre loro due erano impegnati nella fuga doveva essere successo qualcosa in grado di sbilanciare nuovamente gli equilibri.
«Uno dei suoi è morto per proteggere Molly Hooper», gli rivelò.
Il consulente investigativo chiuse gli occhi, i pugni serrati sulle gambe. Per quante volte provasse a liberarsi di lui, finiva sempre con l'essere in debito con Arsène.
«Adesso lui dov'è?», chiese al fratello maggiore.
«Non ne abbiamo idea. Ma di una cosa sono certo, fratello mio: quando tornerà - perché tornerà - dovrete fare pace di nuovo».
Sherlock sospirò ed abbandonò il capo sui cuscini, stanco come non si era mai sentito prima.

***

Ganimard si massaggiò il volto con entrambe le mani e poi, frustrato, con un solo movimento del braccio trasformò la disordinata scrivania in un ripiano su cui avrebbe potuto mangiare. Pensando al cibo il suo stomaco brontolò.
Quel giorno non aveva messo nulla sotto i denti per via dell'arresto e dell'evasione di Arsène e Sherlock e soprattutto per la scioccante confessione del suo amico e superiore, l'Ispettore Capo Dudouis, il quale per quindici anni era stato la talpa del Ladro Gentiluomo all'interno del comando. Per quindici anni e sotto il suo naso! 
Si alzò ed afferrò il trench con l'intenzione di andare a casa per colpevolizzarsi in un posto diverso, ma un leggero bussare alla porta lo fece sbuffare. A passo pesante raggiunse la maniglia, dicendosi che quella volta avrebbe alzato le mani su Folefant per la sua insistenza. Rimase a bocca aperta però, tanto incredulo che dovette sbattere le palpebre più volte per essere sicuro che non fosse una visione.
«Célestine?».
«Ciao, Justin», lo salutò l'ex-moglie, sorridendo. «Sono passata al tuo appartamento e non ti ho trovato, così ho pensato che fossi qui, solo ed affamato».
Alzò il sacchetto che teneva tra le mani, da cui proveniva l'inconfondibile profumo del fast-food, ed inclinando semplicemente la testa gli chiese il permesso di entrare. Ganimard si fece da parte in automatico, ancora convinto che si trattasse di un'allucinazione. Forse aveva ceduto alla tentazione e si era ubriacato.
Guardò la donna posare il sacchetto sulla scrivania sgombra ed apparecchiare in modo molto spartano, stendendo tovaglioli di carta, infilando le cannucce nei bicchieroni di carta ed aprendo le confezioni dei panini.
«Hai intenzione di rimanere lì a fissarmi ancora per molto?», gli chiese ad un tratto, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
Ganimard chiuse la porta, lasciando dietro di essa la razionalità, e finalmente raggiunse la donna per posarle una mano tra le scapole, immergendola in quella cascata rossa e setosa che erano i suoi capelli. Célestine trasalì a quel tocco e si voltò, addossandosi al bordo della scrivania e guardando quegli occhi scuri ed intelligenti, in grado di capirla come nessuno mai.
Che fosse un sogno, un'allucinazione causata dall'alcool o la verità, Justin avrebbe fatto e rifatto la stessa cosa senza mai pentirsene: prese il volto tempestato d'efelidi dell'ex-moglie tra le mani, delicatamente, e la baciò sulle labbra.
Era pronto a ricevere schiaffi, spintoni e grida, ma sapeva che non sarebbe successo. Célestine era lì per un motivo, lo stesso motivo per cui un'altra dozzina di persone di cui aveva dimenticato l'esistenza l'avevano contattato quel giorno: l'avevano visto in TV e volevano sapere come se la passasse, se gli andava di vedersi per una pizza o, più semplicemente, se potevano fare qualcosa per lui. Spinte dalla pietà o dalla notorietà dell'anti-eroico ispettore.
Quale fosse il sentimento che aveva spronato Célestine a cercarlo e a rispondere al bacio con foga non ne aveva idea e nemmeno gli importava: lui l'amava, non aveva mai smesso di amarla, e avrebbe dato qualsiasi cosa per trascorrere la notte con lei.
Come se gli avesse letto nel pensiero, la donna si scostò quel tanto che bastava per sussurrare: «Andiamo da te».
«Théa ed Emélie?», chiese Justin, baciandole il lungo collo candido.
«Dormono da mia madre».
Aveva pensato proprio a tutto.
L'ispettore non si pose ulteriori domande e prendendola per mano la trascinò fuori dalla sede parigina della Polizia Nazionale, salirono sull'auto di Célestine e ripresero a baciarsi sulle scale buie del condominio. Quando arrivarono alla porta erano già accaldati e senza fiato.
Si spogliarono in fretta, sentendosi impazienti come due adolescenti, e una volta sdraiati sul letto cigolante di Ganimard fecero l'amore a lungo, affamati ed insaziabili l'uno dell'altra.
Raggiunto l'apice del piacere Célestine si appoggiò alla sua spalla sinistra e rimase in silenzio, accarezzandogli il petto con un dito. Justin avrebbe voluto chiederle a cosa stesse pensando, ma allo stesso tempo era spaventato dalla risposta. Alla fine non dovette nemmeno aprire bocca.
«Non è stata solo colpa di Lupin se ci siamo separati», esordì lei, a bassa voce.
L'ispettore chiuse gli occhi, portandosi un braccio dietro la testa. «Lo so bene».
Célestine si sollevò su un gomito per poterlo guardare meglio in volto. «Mi vuoi far credere che tu sapevi che l'ho usato come capro espiatorio per lasciarti e non hai mai detto nulla?».
«Che cosa potevo dirti? Te ne saresti andata in ogni caso».
«Ma...».
Justin aprì gli occhi e si sdraiò sul fianco, rivolgendole uno dei suoi rarissimi sorrisi. «Sai, forse è stato meglio così. La tua scelta mi ha fatto tornare in carreggiata: ho capito dove stavo sbagliando e ho cercato di rimediare».
Quelle parole la stupirono e non poco, anche se la sorpresa lasciò ben presto posto alla tristezza. Célestine pianse senza emettere un suono, lasciando che le lacrime bagnassero il cuscino sotto la sua testa mentre l'ex-marito le accarezzava i capelli.
Quando si calmò e il suo respiro tornò regolare, Ganimard smise per paura di svegliarla, ma lei gli afferrò la mano e la riportò sulla sua testa. Quindi gli chiese: «Tutti quei fascicoli nel tuo ufficio... sono vecchi casi di Lupin?».
«Sì».
«Posso aiutarti in qualche modo? Di solito mi raccontavi tutto prima di addormentarti, te lo ricordi?».
Justin sorrise di nuovo e si avvicinò per posarle un bacio sulla fronte. «Mi ricordo tutto, amore mio. Ma se c'è una cosa che ho imparato è che è bene tenere separati lavoro e vita privata».
«Avanti, solo questa volta».
La sua insistenza gli fece fare brutti pensieri, del tipo che anche Célestine fosse dalla parte di Arsène Lupin proprio come Dudouis, ma si costrinse a cacciarli via. Su di lei non aveva alcun dubbio: avevano avuto i loro problemi e si erano separati, ma non l'aveva mai tradito. Forse lo amava ancora, visto e considerato che da quando si erano lasciati non aveva ancora avuto altri uomini, nonostante fosse sicuro ci fosse la fila.
Cedette e le raccontò quello che avevano scoperto fino ad allora, sulla pista trovata da Folefant e che per ora non aveva ancora portato a risultati concreti.
«Lupin deve aver fatto davvero qualcosa di terribile a queste persone se non sono riusciti a perdonarlo in vent'anni», commentò Célestine, guardando il soffitto ed arrotolandosi una ciocca di capelli intorno al dito.
«È proprio questo che non mi spiego. Un caso del genere avrebbe dovuto fare scalpore e non restare nell'anonimato».
«Hai detto che c'era anche una bambina?».
«Sherlock ne è convinto». Ganimard osservò il profilo pensieroso dell'ex-moglie e si sollevò sui gomiti, attraversato da un brivido. «Ti è venuto in mente qualcosa?».
«Forse. Ti ricordi di quella signora che si presentò alla nostra porta affermando che Lupin aveva spinto al suicidio il marito e che poi, a causa dei sensi di colpa, le aveva inviato dei soldi come indennizzo?».
L'ispettore ci pensò su e qualche ricordò riaffiorò. «Vagamente».
«Lupin non era ancora la tua ossessione allora. Io però quella donna la ricordo bene: parlava con un tale odio, una tale rabbia... E al suo fianco c'era un ragazzino dai capelli biondi che mi fece un'infinita tenerezza».
«Ti ricordi per caso un nome?».
Célestine arricciò il naso, in un modo così adorabile che Justin fu sul punto di chiederle di sposarlo di nuovo, ma alla fine sospirò scuotendo il capo.
«Mi ricordo che il marito si è ucciso al Clichy».
«Domani mattina farò una ricerca».
La donna lo guardò mordendosi un sorriso, le sopracciglia inarcate. «Domani mattina?».
«Sì... Che c'è?».
«Ti conosco, Justin, e so che stai fremendo».
Ganimard ricambiò il sorriso. «Hai ragione», ammise e si sedette per infilarsi i boxer. Célestine lo sorprese nuovamente imitandolo.
«Beh? Se è come dico io voglio avere una ricompensa dall'ispettore in persona», esclamò con un sorriso sibillino.
Prese dall'appendiabiti una delle sue magliette e si vestì, poi lo seguì nel piccolo salotto e si sedette al suo fianco sul divano a due posti per guardare lo schermo del PC.
L'ispettore fece qualche ricerca e finalmente trovò un vecchio articolo in cui si parlava del suicidio al casinò Clichy: Nicolas Dugrival si era sparato un colpo di pistola alla tempia a seguito del furto del portafoglio. L'aveva fatto di fronte alla moglie e al nipote Gabriel e un fotografo amatoriale aveva immortalato il momento in cui la signora Dugrival si era piegata sul cadavere del marito e aveva giurato vendetta, il volto deformato dal dolore.
«Sono loro», mormorò Ganimard, con lo stomaco stretto in una morsa.
«Come fai ad esserne sicuro?», gli domandò Célestine.
In risposta le lasciò tra le braccia il PC sul cui schermo era ancora aperta la scheda di ricerca in cui aveva digitato il cognome "Dugrival", scoprendo che la vedova si era trasferita in Inghilterra e aveva aperto il suo hotel-casinò.
L'ispettore recuperò il cellulare e chiamò subito Mycroft Holmes, il quale rispose dopo tre interminabili squilli.
«So dov'è andato Lupin», affermò.

***

Arsène riaprì piano gli occhi, con fatica per via della pesantezza che sentiva in tutto il corpo, come se il sangue si fosse trasformato in piombo nelle vene, e dell'intensa luce che gli stava bruciando le retine.
«Alla fine, il Paradiso?».
«No. Benvenuto all'Inferno».
Ricobbe quella voce, ma impiegò un po' a capire da dove provenisse. Facendo del suo meglio per alzare il capo scorse una gabbia dall'altra parte della stanza e al suo interno un'irriconoscibile Irene Adler: struccata, coi capelli arruffati, semi-nuda, col corpo pelle e ossa ricoperto di ferite ed ematomi di ogni genere ed incatenata come un cane.
«Allora sei viva», esclamò, nonostante quella visione gli portasse alla mente altri dolorosi ricordi che aveva cercato in ogni modo di seppellire.
«Purtroppo sì».
«È da molto che sei qui?».
«Ventitré giorni».
Arsène chiuse gli occhi, facendo un rapido calcolo mentale e capendo finalmente che cos'era successo.
«Sei stata tu. È colpa tua e della tua impazienza se io mi trovo qui, se Grégorie è...», deglutì, non riuscendo ancora a dire la parola con la M riferendosi al compagno. «Guarda dove ci ha portati la tua gelosia!».
«Credi che non lo sappia?!», gridò istericamente. «Non mi sono mai sentita così... così impotente!».
Irene scoppiò a piangere e Arsène si abbandonò contro il poggiatesta del lettino operatorio su cui era stato legato, chiuse di nuovo gli occhi e sospirò.
«Mi dispiace, ho esagerato», mormorò ad un tratto. «L'amore fa fare cose assurde, io dovrei saperlo meglio di chiunque. Ad ogni modo non è detta l'ultima parola: finché siamo vivi c'è speranza».
«Io non voglio più vivere», sussurrò la Adler, tirando rumorosamente su col naso.
«Che cosa stai dicendo?».
«Sto dicendo che nella mia vita ho causato solo morte e sofferenza, perciò non merito di essere salvata. E se anche dovessi riuscire ad andarmene da qui... mi ucciderei».
Arsène sbuffò, facendo persino una pernacchia. «Sono stanco, davvero stanco di sentire questi discorsi. Sono poche le cose che posso dire di odiare, ma una di queste sono i suicidi. Mi fanno una tale rabbia! La vita è un dono di Dio e voi, solo perché qualcuno non è stato gentile, siete disposti a buttarla, mentre altri darebbero qualsiasi cosa - qualsiasi - per un solo giorno in più».
«Tu parli così perché non sai come mi sento. Non hai idea delle cose che ho visto, delle cose che ho fatto...».
«Come dici?». Il Ladro Gentiluomo rialzò il capo e rise di gusto. «Io non saprei come ti senti? Ah, questa è bella! Se tu avessi vissuto quello che ho vissuto io probabilmente ti saresti ammazzata già quattro volte!».
Irene, scioccata da quelle parole, si asciugò il volto e si avvicinò alle sbarre, aggrappandosi ad esse con le mani.
«E con quale forza vai avanti? Dimmelo, Arsène».
Il ladro non rispose subito. Quando lo fece parlò a bassa voce, tanto che la Dominatrice dovette sforzarsi per sentirlo.
«Ho fatto una promessa a mia madre prima che morisse. Lei mi ripeteva sempre che la cattiveria, la vendetta e l'odio erano veleni capaci di rovinarci la vita, di distruggercela anche. Sul letto di morte mi ha chiesto di vivere la mia vita al massimo, di sfruttare ogni giorno come se fosse l'ultimo, di lottare sempre per le cose in cui credevo e soprattutto di non fare mai del male a nessuno, nemmeno alle persone che avevano o avrebbero fatto del male a me. Io le promisi tutto questo. So di non essere perfetto, che senza volerlo ho ferito molte persone, ma non per questo mi arrenderò: no, finché vivrò cercherò di fare ammenda per i miei errori».
Il rumore di una complicata serratura ruppe il silenzio sceso dopo la fine del discorso di Arsène e Irene trasalì, spingendosi verso il fondo della propria gabbia. Il Ladro, scorgendo la paura nei suoi occhi, strinse i denti e provò a liberarsi, ma le cinghie che lo tenevano legato al lettino erano strette.
«Ma che belle parole!», gridò la vedova Dugrival, facendo la sua entrata. Indicò la telecamera appesa in un angolo della stanza ed applaudendo aggiunse: «Abbiamo sentito tutto e, complimenti, mi sono quasi commossa!».
Alle sue spalle c'era Gabriel, il volto abbassato a voler nascondere l'occhio pesto che però non sfuggì al Ladro Gentiluomo.
«Ah, les jeux sont faits!», esclamò Arsène con un sorriso. «È venuta a terminare il lavoro, signora?».
La donna si avvicinò al lettino ed osservò il suo petto nudo, per poi stringere i denti alla vista del crocifisso d'oro che gli adornava lo sterno. Con un gesto brusco gli strappò la catenina dal collo e Arsène la fissò adirato, non tanto per il dolore ma perché quel crocifisso era tutto ciò che gli era rimasto di sua madre.
«Me lo restituisca», ringhiò.
La vedova sorrise e glielo fece dondolare davanti al volto, poi se lo gettò alle spalle e sorridendo gli strinse le dita simili a salsicce sulla spalla fasciata, provocandogli una fitta di dolore tremendo nonostante l'anestesia.
«Sei pronto a rispondere alle mie domande?».
Arsène sospirò. «Ho scelta?».
«Allora ascoltami attentamente».
«Sono tutto orecchi».
«Perché hai derubato mio marito quel giorno? Perché lui e non qualcun altro?».
«Derubato? Mi dispiace, ma il termine non è esatto».
La vedova lo fissò coi suoi occhi porcini. «Come, prego?».
«Sì, beh, l'ultima volta che ho controllato sul dizionario, "derubare" significava privare qualcuno di ciò che è suo e gli spetta. Quello che lei mi accusa di aver preso a suo marito non era né suo né l'aveva guadagnato onestamente. Dico bene, Gabriel? Tra colleghi bisogna dirsi la verità. Dimmi, è tua zia che ti ha fatto quell'occhio nero? Mi è venuto il sospetto prima, quando ti ho tirato quella fiche e non hai avuto alcuna reazione. Per te quello era niente... Sei abituato a ben altro».
«Non dire una parola, Gabriel», gli ringhiò contro la Dugrival, per poi tornare a concentrarsi sul ladro: «Ebbene sì, mio marito lavorava nel tuo stesso ramo, ma i nostri colpi non erano nulla di spettacolare. Niente a che vedere con quelli del grande Arsène Lupin!».
«Grazie, troppo buona».
«Sta di fatto che sei stato tu, per me è come se l'avessi ucciso tu con le tue mani! E la tua reputazione non ne ha risentito perché nessuno mi ha creduta! Nemmeno quando ho mostrato alla polizia i soldi che mi avevi inviato...».
«Quali soldi? Oh, aspetti!». Arsène chiuse gli occhi, fingendo di sforzarsi per ricordare. «Ne avevano parlato alla TV, vero? La donazione anonima... Non l'ha trovato un nobile gesto?».
La vedova rise nervosamente. «Tu, maledetto... Ti sentivi in colpa per la morte di mio marito e hai cercato di lavartene le mani!».
«Se pensava che quei soldi fossero miei poteva sempre rifiutarli, sa? O darli in beneficienza, magari».
«Invece no. Ho seguito il consiglio di Gabriel e abbiamo saldato i nostri debiti, poi ci siamo trasferiti qui, dove abbiamo aperto questo hotel con casinò. Era il sogno di mio marito».
«E vissero tutti felici e contenti. Posso andare adesso?».
Arsène cercò nuovamente di allentare le cinghie, ma era così debole - sia per il sangue perso che per la morfina somministratagli - che dovette desistere per non svenire dallo sforzo.
La Dugrival lo spinse di nuovo giù sul lettino prendendolo per la spalla ferita, facendo trasalire non solo Arsène ma anche lo stesso Gabriel, rigido come un pezzo di legno alla sua sinistra.
«Eh no. È adesso che inizia la parte interessante», esclamò, maligna. «Per tutti questi anni non ho mai dimenticato la promessa che feci quella notte, china sul corpo di mio marito... Giurai di trovare l'assassino e di fargliela pagare e finalmente adesso sei qui, legato come un salame. Ti farò provare lo stesso dolore che ho provato io quando hai spinto mio marito al suicidio».
«Ci provi pure», rispose Arsène, abbandonando i sorrisi e le battute per un tono sfrontato e rabbioso. «Ma la avverto: c'è poco che non sia già stato fatto a questo corpo».
A quelle parole Gabriel tremò da capo a piedi e i suoi occhi divennero ancora più neri, ma la zia non se ne accorse: fremeva di gioia e mentre si allontanava dal lettino non lo perse mai di vista, come una bestia feroce con la sua preda. Arsène non aveva mai sentito in un essere umano così tanto odio ed efferatezza.
«Non ti toccherò con un dito, Arsène Lupin. Ti lascerò a guardare, impotente come lo fummo io e mio nipote».
Il Ladro Gentiluomo sgranò gli occhi quando capì le sue intenzioni, ma non c'era davvero modo di liberarsi da quelle cinghie, non da solo.
Mentre la vedova Dugrival apriva il lucchetto della gabbia e ne tirava fuori una Irene Adler incatenata e in lacrime, Lupin cercò lo sguardo di Gabriel col proprio implorante. La ragazza tuttavia si voltò, mordendosi a sangue le labbra sottili.
Troppe volte aveva visto casi di vittime di abusi che non trovavano la forza di ribellarsi e Gabriel ne era il tipico esempio: come una marionetta eseguiva ogni ordine del proprio aguzzino e si lasciava molestare senza protestare, nonostante sapesse benissimo che fosse sbagliato ed ingiusto.
Arsène ripensò a quel breve momento in cui aveva visto Nicolas Dugrival posare la mano grande sulla testa del nipote, vent'anni prima, e capì che le violenze, per quella povera ragazza col nome da ragazzo, erano iniziate molto presto e non erano mai finite. Per questo gli aveva chiesto di ucciderla, perché voleva che la salvasse dal suo inferno personale.
«Non sei sola, okay?», le sussurrò, nel disperato tentativo di farle fare la cosa giusta. «Se mi liberi giuro che ti salverò da tua zia. Non dovrai più fare nulla che non vuoi, nessuno alzerà più un dito su di te».
Le spalle di Gabriel tremarono impercettibilmente e Arsène vide un barlume di speranza quando iniziò a girare il capo verso di lui, mostrandogli la singola lacrima che le aveva tracciato un solco sulla guancia, ma tutto si infranse quando la zia urlò il suo nome.
«Dammi la pistola», gli ordinò poi e il nipote obbedì, porgendole una calibro nove.
«La prego, non lo faccia», esclamò Arsène, guardandosi intorno alla ricerca di ispirazione. Solo allora notò il tavolino con sopra gli attrezzi operatori - alcuni ancora sporchi del suo sangue. Se fosse riuscito ad arrivare al bisturi...
«Di' a Sherlock che mi dispiace», singhiozzò Irene, mentre la vedova Dugrival le portava la pistola alla tempia. «Digli...».
Le luci all'improvviso si spensero, lasciandoli nel buio più totale dato che non c'era nemmeno una finestra.
«Gabriel, accendi la luce!», gridò la zia con fare concitato e il nipote si mosse verso la porta, ma nel farlo andò a sbattere contro il tavolino a cui Arsène stava cercando di arrivare, avvicinandoglielo.
Il ladro capì subito che non era stato un colpo di fortuna - Gabriel conosceva ogni centimetro di quella stanza, era impossibile che fosse inciampato - ma lasciò da parte la gratitudine per prendere il bisturi ed iniziare a tagliare la cinghia che gli legava il polso sinistro. Una volta sfilacciata gli risultò molto più facile liberarsi anche il destro, ma a quel punto la vedova Dugrival aveva aperto la porta della stanza trascinando per le catene Irene Adler e chiamando a gran voce due uomini della sicurezza perché prendessero Arsène Lupin e lo portassero nel suo ufficio.
Il Ladro Gentiluomo provò a difendersi usando il bisturi, ma venne ben presto disarmato e ridotto all'impotenza. Di nuovo.
Gabriel lo incatenò con le manette dei carcerati, quelle che legavano insieme mani e caviglie, e così impossibilitato Arsène fu trascinato fino all'ufficio della Dugrival, dove fu messo in ginocchio sulla moquette verde, accanto ad una Irene Adler priva di sensi, probabilmente per via della catena che le aveva lasciato nuovi, orribili segni intorno alla gola.
Il ladro si chinò subito sulle sue labbra con l'orecchio e tirò un sospiro di sollievo quando sentì che respirava ancora, anche se debolmente.
«Non so cosa sia successo, ma qui non verremo più interrotti», esclamò la donna e in risposta le luci si accesero e si spensero tre volte, lasciando lei e il nipote senza parole.
«Sono i tuoi uomini?», gli chiese la Dugrival, afferrandolo per i capelli e guardandolo da così vicino che Arsène avrebbe potuto contare i pori della sua pelle butterata.
Arsène non sapeva davvero che cosa pensare.
Aveva detto ai suoi di starne fuori ed era piuttosto sicuro che non gli avrebbero disubbidito.
Che fosse opera di Sherlock? No... Anche ricevendo tutto l'aiuto possibile da Mycroft non era possibile che avesse scoperto l'identità dei suoi aguzzini ed organizzato un piano di estrazione in così poco tempo. Inoltre non era da lui limitarsi a certi trucchetti.
Non aveva mai creduto ai fantasmi, quindi era da scartare anche l'intervento di Grégorie.
Sherlock diceva sempre che una volta eliminato l'impossibile quello che rimaneva non poteva che essere la verità, ma Arsène trovava la sua ultima ipotesi così assurda che stentava a crederci. Per questo cavalcò l'onda della paura per mettere con le spalle al muro la sua nemica.
«Mi avevate detto di venire da solo se volevo rivedere viva Molly Hooper. Voi mi avete ingannato, perciò mi pare giusto che io...».
La donna gli impedì di terminare la frase, colpendolo col calcio della pistola sullo zigomo. Poi, voltandosi col fiato corto ed espressione folle verso il nipote, gli disse: «Prendi le tue cose e vai a preparare l'auto».
«Cosa?».
«Non ho bisogno di te per finire Arsène Lupin. Avanti, vai! E non lasciare nulla di compromettente».
Gabriel cercò lo sguardo di Arsène, il quale le sorrise con gli occhi, ringraziandola per tutto l'aiuto che gli aveva dato.
Stava per lasciare l'ufficio quando le luci si spensero definitivamente. Tutti si fermarono, col fiato sospeso, ma nulla successe.
Arsène sospirò, afflitto, ed alzando gli occhi verso la vedova, oltre la canna della pistola che teneva con entrambe le mani, esclamò: «Se dovessi incontrare Nicolas all'altro mondo vuole che gli dica qualcosa?».
La donna ringhiò con la bava alla bocca e premette il dito sul grilletto. Click.
«È così la morte?», domandò Lupin. «A me pare proprio di essere vivo, signora».
Lei ci riprovò, sbalordita. Sparò una, due, tre volte, fino a quando Gabriel non le tolse l'arma dalle mani per esaminarla.
«Sono stati tolti i proiettili», le disse, fingendosi strabiliata.
«Com'è possibile?», balbettò la vedova. Lo shock l'aveva resa ancora più stupida, così stupida da non capire che l'unica persona che poteva aver fatto una cosa simile le stava proprio accanto.
Gabriel guardò Arsène, abbozzando un sorriso della durata di un secondo. La donna infatti si avventò sul ladro, gridando che in quel caso l'avrebbe ucciso a mani nude.
«L'ho giurato! Non la scampi, Lupin!», urlò come impazzita, stringendogli la gola. «L'ho giurato a mio marito e ogni mattina e ogni sera rifaccio il giuramento! Vendicare il morto è un mio diritto! Ah, adesso non ridi più, Lupin!».
In quel momento un rumore di pale fece alzare gli occhi di tutti - Arsène compreso, anche se all'incontrario - verso la parete di vetro. Un drone si palesò davanti a loro, portando con sé un fazzoletto da taschino su cui qualcuno aveva scritto con un pennarello nero: "Al riparo!", e il Ladro Gentiluomo fu il primo a notare la piccola bomba sistemata sotto la pancia del velivolo.
Con un calcio allontanò la donna che lo voleva strangolare, poi si tuffò su Gabriel, in piedi alle spalle della zia, e per la seconda volta la protesse col proprio corpo mentre l'esplosione mandava in frantumi le vetrate.
Con le orecchie che gli fischiavano dolorosamente alzò il capo ed accarezzò il volto della ragazza, urlando: «Tutto bene?!».
Lei annuì, tirandosi su dopo di lui, e fu lei ad accorgersi di sua zia che, sanguinante in volto, si avviava verso la cassaforte.
«Che cosa sta facendo?», le gridò Arsène, tossendo a causa della moquette che stava andando a fuoco vicino alle finestre.
«Non ne ho idea! Non mi ha mai fatto guardare là dentro!».
Ebbero presto la risposta alle loro domande: anche la vedova aveva una bomba come piano di riserva. Li guardò con espressione folle e fece partire il timer: avevano tre minuti prima che l'ufficio, o forse l'intero piano, saltasse in aria.
Arsène si alzò per raggiungere la porta prima della vedova Dugrival, ma cadde al primo passo: si era dimenticato delle manette che gli tenevano legati insieme mani e piedi. Fu quindi la donna a raggiungere la porta e a piazzarvisi davanti, impedendo loro la fuga.
«Sarò lieta di morire se trascinerò all'inferno anche Arsène Lupin!», gridò, per poi scoppiare a ridere con frenesia sadica.
Due minuti.
Gabriel lo aiutò ad alzarsi porgendogli entrambe le mani e prima di lasciargliele gli consegnò le chiavi delle manette che lo tenevano imprigionato. Quindi, prima che il ladro potesse fermarla, corse incontro a sua zia.
Le due si azzuffarono, tirandosi i capelli e graffiandosi, ma in qualche modo, forse sfruttando la rabbia e il rancore accumulati in tutti gli anni di abusi, Gabriel riuscì a prevalere grazie ad un colpo alla testa infertole con un soprammobile.
Un minuto.
Arsène, ormai libero, prese Irene tra le braccia, trovandola spaventosamente leggera, e gridò a Gabriel di correre.
«Per andare dove? Non sappiamo se l'elettricità sia andata via solo qui o in tutta la struttura. E anche se ci fosse non riusciremmo mai a raggiungere in tempo l'ascensore!», gli disse. Poi guardò alle sue spalle ed indicò le finestre ormai in frantumi: «Dobbiamo saltare!».
Arsène si avvicinò al bordo e guardò la piscina sotto di lui, venendo subito colto dalle vertigini. Da quando aveva fatto quel colpo che l'aveva costretto a fuggire in mongolfiera odiava l'altezza, ma se voleva salvarsi doveva superare la propria paura.
«E va bene, facciamolo!», si decise quando ormai mancavano trenta secondi alla detonazione. Le porse la mano e Gabriel sorrise afferrandola.
Arretrarono di qualche passo per prendere la rincorsa e contarono insieme fino a tre, poi si lanciarono verso lo skyline londinese.
Ormai mancava solo un passo prima del tuffo nel vuoto quando qualcosa andò storto. La mano di Gabriel scivolò via dalla sua presa e Arsène, incapace di arrestare la propria corsa, temette che la ragazza avesse fatto solo finta di cambiare idea sul suicidio. Forse sarebbe stato meglio quel pensiero della verità che scoprì voltandosi: la vedova Dugrival, rinvenuta, con uno slancio aveva afferrato il nipote per la caviglia sinistra e l'aveva fatto cadere a terra, sui vetri infranti che avevano sfregiato il suo volto pallido e triste, su cui però sbocciò un sorriso quando il suo sguardo e quello del Ladro Gentiluomo si incatenarono per l'ultima volta.
«Grazie», gli mimò con le labbra un momento prima che la bomba esplodesse, avvolgendo zia e nipote nel fuoco e sbalzando via Arsène e Irene, i quali precipitarono a velocità spaventosa verso la piscina e si schiantarono sulla superficie azzurra.
Arsène galleggiò a lungo nell'acqua che sapeva di cloro, tra i detriti delle due esplosioni, col corpo tanto intorpidito e dolorante da non riuscire a risalire in superficie, le orecchie ovattate e le palpebre che gli si chiudevano sugli occhi. Sapeva che sopra di sé c'erano le fiamme e il fumo e di essere scampato ad un vero e proprio Infero, ma a quale scopo? Se non nel fuoco, sarebbe morto nell'acqua.
Pensava davvero che quella fosse la volta buona, il triste epilogo di Arsène Lupin, e da un lato ne fu rincuorato: davanti alle porte dell'aldilà sarebbe potuto tornare a vestire i panni di Raoul e magari rivedere tutte le persone che aveva perso o non era riuscito a salvare, tra cui anche Gabriel, l'angelo le cui ali si erano tinte di nero a furia di vivere a contatto con la cattiveria e l'odio e che, ciononostante, aveva scelto la luce.
Era già in pace, in attesa della fine, quando sentì due braccia afferrarlo da sotto le ascelle e trascinarlo fuori, sull'erba bagnata di neve. Provò ad aprire gli occhi per scoprire chi fosse il proprio salvatore, ma perse coscienza di sé.

***

Il sole aveva appena fatto la sua comparsa, tingendo di rosa il cielo notturno, quando finalmente Mycroft tornò ad aggiornarlo.
Sherlock prese al volo ciò che gli lanciò: il crocifisso d'oro che in più occasioni aveva visto al collo di Arsène e dal quale non si sarebbe mai separato di sua spontanea volontà. Quindi seguì con gli occhi il fratello mentre si sedeva sulla sedia al capezzale del suo letto e chiudeva gli occhi. Non l'aveva mai visto così stanco in vita sua.
«Siamo arrivati tardi», esordì, rendendo realtà ciò che il detective aveva già dedotto sperando di sbagliarsi. «Ho aspettato che i vigili del fuoco terminassero di spegnere l'incendio e mi sono fatto dare le prime stime. Sono stati trovati i resti di due corpi carbonizzati».
Sherlock strinse forte il crocifisso nella mano destra ed abbassò le palpebre, ma non trovò il modo per chiudere le orecchie. Per fortuna non sentì ciò che temeva.
«Entrambi femminili».
Il sospiro che gli sfuggì dalle labbra socchiuse lo fece arrossire di imbarazzo, ma non se ne vergognò più di tanto: l'aveva sempre detto che Arsène non meritava di morire.
«C'è un'altra cosa che devo dirti».
«Che cosa?».
Al silenzio del più grande, Sherlock lo fissò con un velo di preoccupazione e il cuore iniziò a scalpitargli nel petto. Mycroft abbassò gli occhi verso il manico dell'ombrello.
«Parla, Mycroft!».
«Riesci a camminare?».
Sherlock annuì con determinazione. Il fratello maggiore fece entrare una delle guardie armate ed ordinò che gli venissero tolte la manette.
Una volta libero il detective si tolse le coperte di dosso e si staccò i cerotti collegati ai vari macchinari, ma quando mise i piedi per terra le gambe gli cedettero. Per fortuna Mycroft fu abbastanza svelto di riflessi e lo sostenne.
«Ce la faccio», ringhiò il detective, allontanando il suo braccio, ma alla fine dovette arrendersi all'evidenza: era troppo debole per camminare.
Fu portata una carrozzina e Mycroft, seguito dai due poliziotti, scortò Sherlock fino al reparto di terapia intensiva. Si fermarono accanto ad una stanza singola, identica nell'aspetto e nelle dimensioni a quella del consulente investigativo, e l'Holmes più grande gli aprì la porta.
Sherlock impiegò qualche secondo a decidersi ad entrare e quando lo fece si disse che non avrebbe dovuto, tant'era straziante l'immagine che registrarono i suoi occhi: lo spettro di Irene Adler - deperita, ferita, umiliata - giaceva sotto le coperte cadide ed era tenuto in vita da un respiratore e altri macchinari.
Sherlock resistette poco in quella stanza e di nuovo in corridoio si coprì la testa con i pugni chiusi, un grido muto a mandargli in fiamme la gola.

***

In quella casa in mezzo al nulla il silenzio era così profondo che Geneviève credette di impazzire.
François non le aveva ancora fatto sapere nulla e temeva il peggio.
Se anche suo padre fosse morto, lasciandola orfana di entrambi i genitori, non sapeva proprio come avrebbe reagito.
Si alzò dal letto e col pc portatile sotto braccio uscì dalla stanza per dirigersi in salotto, dove le braci del camino producevano ancora un piacevole tepore e Maurice dormiva pacificamente sul divano.
La ragazzina sorrise notando i riflessi dorati tra i suoi capelli castani, colpiti dai primissimi raggi di sole, e dopo aver posato il computer sul tavolino lo ringraziò del prestito con una lieve carezza sul volto. Sentire la sua pelle calda sotto le dita le fece desiderare di più ed ignorando il cuore in gola si avvicinò per osservarlo più da vicino: le ciglia lunghissime contro gli zigomi, il naso fine e le labbra sottili e dagli angoli perennemente arricciati. Geneviève, arrossendo, si domandò cos'avrebbe provato posandovi sopra le proprie. Non aveva mai baciato nessuno e sapeva che fantasticare su Maurice non l'avrebbe portata da nessuna parte. Baciarlo a tradimento non le sembrava tanto meglio, tuttavia...
Come se il ragazzo avesse avvertito la sua presenza si stese supino, un braccio piegato sopra il petto e l'altro che penzolava oltre il bordo del divano. Le sue labbra si erano dischiuse e la bionda lo prese come un vero e proprio invito.
Con una mano gli sfiorò delicatamente i capelli mentre si chinava sul suo volto ad occhi spalancati, troppo agitata per chiuderli. Erano ormai a pochissimi centimetri di distanza quando il rumore di un'auto che percorreva la strada sterrata davanti alla villa la fece trasalire.
Si alzò in piedi e si fiondò fuori, ignorando il freddo pungente che la faceva tremare. Quindi corse incontro al SUV nero e il suo sguardo incrociò immediatamente quello di Fraçois, seduto sul lato del passeggero. Cercò di capire qualcosa dalla sua espressione, con scarsi risultati.
Finalmente il mezzo si fermò e Geneviève poté spalancare la portiera che dava sui sedili posteriori, dove rimase senza fiato davanti alle condizioni di suo padre: era bagnato fradicio, il suo volto portava i segni di diversi colpi ricevuti e le fasciature ormai allentate sulla spalla destra erano intrise di sangue. Soprattutto, era pallido come un morto.
«Geneviève!».
La ragazzina, frastornata, si voltò verso la direzione da cui l'avevano chiamata, senza però riuscire a vedere veramente chi avesse gridato il suo nome. Lo shock l'aveva come imprigionata dentro il suo stesso corpo e per questo non reagì quando Maurice la strinse a sé, coprendola con la sua giacca di pelle e premendole il volto contro il suo petto.
Anche Victoire e Alain, svegliati da quell'improvviso trambusto, si precipitarono fuori dalla villa per dare una mano e ci pensarono i due uomini più forzuti - Alain, appunto, ed Ernest - a portare all'interno un Arsène Lupin privo di sensi, in bilico tra la vita e la morte.
L'anziana donna, la quale grazie al suo lavoro in ospedale aveva avuto modo di imparare sul campo, fece del proprio meglio per fermare l'emorragia alla spalla e poi lo avvolse in diversi strati di piumoni e coperte, riaccendendo persino il fuoco nel camino pur di tenerlo al caldo.
Una volta sistemato si girò verso i ragazzi più giovani con sguardo adirato, ma fu con François che se la prese, tirandogli un orecchio fino a farlo sedere al tavolo della cucina, dove lo costrinse a confessare tutto quanto: dalla chiamata di Geneviève al modo in cui si era introdotto nei sistemi dell'hotel-casinò per collegarsi alle videocamere interne e poter controllare qualsiasi cosa - dalle luci alle porte automatiche - e infine anche del drone kamikaze, la sua ultima spiaggia.
Alla fine del racconto Victoire si alzò e camminò avanti e indietro per diversi minuti, cercando di sbollire la rabbia. Non riuscendoci, gridò: «Vi rendete conto di quello che poteva accadere? Poteva rimanere ucciso!».
La ragazzina, seduta al fianco dell'hacker tremante - anche i suoi vestiti erano inzuppati - e con ancora la giacca di Maurice sulle spalle, abbassò gli occhi, mortificata.
«Ma non è successo».
Udendo quella voce, roca ed indebolita ma inconfondibile, tutti si voltarono di scatto. Geneviève però fu la prima a raggiungere il suo capezzale e a piangergli sul viso, le mani sulle sue orecchie e la fronte contro la sua.
«Papà! Papà, sei vivo!».
Arsène sorrise, scostando i capelli della figlia perché non gli facessero il solletico. «Così pare, tesoro. Senza il vostro provvidenziale intervento sarei sicuramente morto, perciò vi devo dei ringraziamenti».  
Geneviève si inginocchiò al suo fianco per liberargli la visuale e il Ladro Gentiluomo cercò lo sguardo di Fraçois, il quale unì le mani dietro la schiena e gonfiò il petto come davanti ad un generale dell'esercito.
«Sei stato tu a portarmi fuori dalla piscina, vero?», gli chiese, accigliandosi. «Avrei dovuto riconoscere subito le tue braccia rachitiche».
L'hacker vacillò, ma mantenne l'espressione stoica per esclamare: «Yes, Sir!».
«Perché l'hai fatto? Tu odi l'acqua. Fosse per te non ti faresti nemmeno il bagno».
«Io... Lei aveva bisogno del mio aiuto, boss, e la mia fobia è passata in secondo piano».
Il sorriso dolce che Arsène gli rivolse lo fece arrossire, ma non tanto quanto il bacio che Geneviève, in punta di piedi, andò a posargli sulla guancia.
«C'è altro che vorresti in segno di gratitudine?», gli chiese il ladro, sogghignando.
«N-No», balbettò François, stordito come se gli avessero dato una botta in testa.
«Come immaginavo».   
La ragazzina si morse un sorriso e tornò dal padre, il quale le strinse forte la mano sul proprio petto. Quel cuore vivo e pulsante la rese la persona più felice del mondo, anche se non aveva dimenticato quello che lui e Sherlock avevano fatto, abbandonando lei e Molly nel momento del bisogno.
Anche a questo aveva pensato nelle lunghe ore trascorse in attesa: aveva pensato alla scelta che doveva compiere e alla fine aveva preso una decisione. Non era quello il momento per parlarne a suo padre, ma presto o tardi l'avrebbe fatto e l'unico suo desiderio era che lui capisse che aveva bisogno del suo spazio; che avrebbe trovato la sua strada con le sue sole forze; che durante il cammino sarebbe caduta ma avrebbe trovato la forza per rialzarsi; che in fondo era una Lupin e lo sarebbe stata per sempre.   

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Capitolo 23
*** Stay ***


Et voilà!
Siamo arrivati praticamente alla fine, anche se manca ancora l'epilogo all'appello. Questo sarà il capitolo degli addii, anche se chissà, magari si tratterà di un semplice arrivederci :')
La storia è nata come una Sherlock X Molly perciò, com'era prevedibile, questi due finalmente si affronteranno. Dico finalmente perché ne sono successe di cose nel frattempo e forse nessuno dei due è la persona che era prima dell'arrivo/ritorno di Lupin nelle loro vite. E bravo il nostro Ladro Gentiluomo!
Non mi dilungo troppo nel ringraziare tutti quelli che sono arrivati fin qui perché lo farò la prossima settimana, ma sappiate che vi adoro tutti, dal primo all'ultimo. E' stato un viaggio pazzesco e so che mi mancherà da morire questa storia, per questo, come ho già anticipato a qualcuno, ho intenzione di scrivere il famoso primo incontro tra Sherlock e Arsène - ispirazione e impegni vari permettendo! Quindi spero che ci rivedremo presto ;)
Un bacione a tutti e vi auguro una buona lettura!

Vostra,

_Pulse_


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23. Stay


Molly aveva deciso di prendersi qualche giorno di ferie per riprendersi da tutto ciò che era accaduto e pensare.
Raramente era uscita di casa, ma aveva avuto modo di tenersi aggiornata sugli sviluppi del caso più sensazionale dell'anno grazie ai notiziari e a Lestrade, il quale l'aveva chiamata spesso per sapere come stesse.
A seguito della spettacolare fuga di Arsène Lupin, uno Sherlock senza memoria aveva negato categoricamente di aver ucciso Charles Augustus Magnussen e la polizia aveva dovuto scagionarlo da ogni accusa in quanto non c'erano prove a sostegno del contrario.
Alla fine aveva vinto l'immagine eroica di Sherlock, anche se Molly sapeva che lui aveva sparato davvero a quell'uomo; non solo perché era stato John a dirglielo, ma perché gli aveva letto negli occhi che anche la storia della perdita della memoria era una bugia architettata con l'unico scopo di scagionarsi.
Per quanto riguardava Arsène invece tutto taceva e le indiscrezioni erano innumerevoli. C'era chi diceva che fosse morto nell'incendio dell'hotel-casinò della signora Dugrival e chi, davanti alla mancanza di un cadavere, sosteneva che fosse riuscito a salvarsi e a fuggire; ancora, c'era chi diceva che quello arrestato dalla polizia non fosse il vero Ladro Gentiluomo, ma una semplice controfigura, e altri che pensavano che non esistesse nessuno di così scaltro e simpatico allo stesso tempo, tanto da gridare ad una trovata pubblicitaria francese per attirare turisti.
Anche in quel caso Molly sapeva la verità e se la sarebbe portata nella tomba.
Erano già trascorsi tre giorni di solitudine ed autocommiserazione quando l'anatomopatologa ricevette una chiamata da un numero sconosciuto. Con cautela si portò il cellulare all'orecchio e rimase in silenzio, in attesa di capire chi fosse il suo interlocutore.
«Ciao Molly».
Lei chiuse gli occhi, sollevata e al contempo addolorata di sentire la sua voce: era stato tutto vero e non un sogno.
«Arsène, sei vivo».
«Ovviamente. Tu come stai? Ho saputo che non sei andata al lavoro... Avrei voluto che ti occupassi tu di Grégorie».
Grégorie. Così si chiamava l'uomo che aveva dato la vita per permetterle di fuggire. Tutti i suoi discorsi sul non voler essere più una pedina, il corso di autodifesa... Ma chi voleva prendere in giro? Lei era scappata e per questo quell'uomo era morto.
«Non ho mai fatto un'autopsia ad una persona che conosco. Non credo ci riuscirei, onestamente», rispose alla fine, a bassa voce.
«E perché no? Guardi dentro l'animo delle persone tutti i giorni, aprire il loro corpo non dovrebbe turbarti».
Quella considerazione la lasciò un attimo stupita, ma com'era abituata a fare ignorò il complimento per scuotere il capo e sospirare: «C'è qualcosa che posso fare per te, Arsène?».
«In realtà ti ho chiamata per dirti che, se vuoi, sono pronto a mantenere la mia promessa».
«Intendi...». Molly si morse le labbra, indecisa.
Quando aveva chiesto ad Arsène di portarla via da Londra le era sembrato così facile, mentre ora che doveva dargli una risposta definitiva era così confusa che si sentiva scoppiare la testa. Inoltre, dopo quello che era successo, perché voleva ancora aiutarla?
«Ascolta... Se pensi che quello che è successo a Grégorie sia colpa tua ti sbagli. La responsabilità è mia e mia soltanto», le disse ad un tratto, rompendo il silenzio. «Detto questo... So che è una decisione difficile e non voglio metterti alcuna pressione, ma io non posso più stare in Inghilterra».
«Sì, certo». Molly tirò su col naso, accorgendosi solo in quel momento di star versando lacrime di cui non ne capiva la ragione. Quella principale, almeno. Si passò velocemente una mano sulle guance per spazzarle via ed abbozzando un sorriso aggiunse: «Non sarò di certo io a trattenerti».
«È un peccato».
«E perché?».
Arsène esitò, per poi ammettere con una breve risata: «Ho sperato fino all'ultimo che mi dicessi di restare».
L'anatomopatologa chiuse gli occhi, realizzando ciò che il ladro aveva voluto dire, ciò che lui aveva capito ancor prima di lei: non sarebbe mai partita e il motivo era uno soltanto, di nome Sherlock. Ed era un vero peccato perché Arsène, ignorando la sua lunga lista di crimini e la sua fama di conquistatore, era un uomo di cui avrebbe tanto voluto innamorarsi.
Contro ogni pronostico lui era stato in grado di darle stabilità in un momento in cui aveva sentito la Terra girare troppo velocemente sotto i suoi piedi. L'aveva stretta quando ne aveva più bisogno e l'aveva amata per davvero, anche se solo per una notte.
I loro due mondi, due universi paralleli all'apparenza incapaci di interagire tra loro, si erano incontrati a metà strada ed era stata un'anomalia, un evento raro ed irripetibile dal quale ne erano usciti entrambi arricchiti.
«Alle dieci di questa sera un'auto si fermerà sotto casa tua e ti aspetterà. Potrai scegliere di salire e raggiungermi, oppure di non farlo. Qualsiasi scelta farai voglio che tu sappia che io...».
«No», lo interruppe Molly, coprendosi gli occhi con un braccio nel tentativo di arrestare le lacrime. «Non lo dire, per favore».
Era certa che in quel momento, se solo fossero stati faccia a faccia, avrebbe visto un sorriso tenero sbocciare sulle sue labbra rosee.
«Allora addio, Molly Hooper. Se mai dovessi cambiare idea...».
La comunicazione si interruppe prima che lei potesse rispondere e questo fu l'ennesimo colpo al cuore. Lanciò il cellulare da parte e si strinse le ginocchia al petto, il volto nascosto tra le braccia e i singhiozzi ora incontrollabili che le squassavano la schiena.
Rimase in quella posizione per diversi minuti, precisamente fino a quando il campanello non la fece trasalire. Il suo primo pensiero fu che Arsène avesse cambiato idea, perciò si precipitò alla porta asciugandosi il volto con le maniche della felpa. Rimase delusa però, dato che sul pianerottolo c'era la signora Lee, appena tornata dalla sua vacanza all-inclusive in Costa Azzurra.
«Tesoro, ti senti bene?», le chiese saltando i saluti, preoccupata.
Molly fece del suo meglio per sorridere. «Sì, io... mi sono commossa davanti ad un film. Lo sa che sono una frignona».
L'anziana vicina sorrise a sua volta e cambiò argomento: «Mi dispiace di essere andata via senza avvisarti. Spero che non sia successo nulla durante la mia assenza e soprattutto che mio nipote non abbia dato problemi».
«Thomas?», chiese Molly, sorpresa dalla tranquillità con cui la donna aveva retto il gioco di Lupin. Ma soprattutto fu spiazzata dalla domanda, alla quale era difficile dare una risposta onesta. Avere il Ladro Gentiluomo come vicino le aveva dato problemi? Molti, ma avrebbe rifatto tutto quanto.
«No, nessun problema», rispose alla fine.
Le due si scambiarono uno sguardo imbarazzato, poi la signora Lee abbassò gli occhi sulla singola rosa rossa che teneva tra le dita e come se si fosse dimenticata di averla esclamò in fretta: «Questa era sul tuo zerbino, tesoro. L'ha lasciata un giovanotto biondo. Gli ho chiesto perché non avesse suonato e mi ha risposto che era meglio così».
«Lui... lui era qui?», balbettò Molly, ma non aspettò di sentire la risposta.
Strappandole la rosa dalle dita corse giù dalle scale in ciabatte e una volta sul marciapiede guardò sia a destra che a sinistra, ma di Arsène non c'era più traccia e il vuoto che sentì all'altezza del petto le diede molto da pensare.

***

Sherlock aveva firmato i moduli per la dimissione il giorno prima, tuttavia si trovava ancora all'ospedale, davanti alla porta chiusa della stanza di Irene Adler.
Ormai andarla a trovare era diventata un'abitudine, specie quando si era accorto che nessun altro l'aveva fatto.
La Dominatrice era sola al mondo, proprio come lo sarebbe stato lui se non avesse avuto dei genitori amorevoli, un fratello maggiore che nonostante il carattere freddo e presuntuoso non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui e degli amici che per qualche motivo a lui ancora sconosciuto avevano deciso di rimanergli accanto nel bene e nel male.
Per questo capì subito che c'era sotto qualcosa quando una delle infermiere si presentò con un mazzo di gerbere colorate.
La fermò sulla porta chiedendole chi gliele avesse mandate e lei gli indicò il bigliettino attaccato al bouquet, poi portò il vaso all'interno e lo sistemò sul comodino.
Quando tornò in corridoio Sherlock era già andato via.

Dopo il suo ritorno nel mondo dei vivi la sua tomba avrebbe dovuto essere abbattuta in modo da poter usare quel fazzoletto di terra per il riposo eterno di qualcuno di veramente morto, ma Sherlock si era opposto e aveva concordato di pagare uno sproposito - sottoforma di affitto mensile - per tenerlo.
Tutti, chi prima e chi dopo, gliene avevano chiesto il motivo e la sua risposta era sempre stata la stessa: «Mi piace il posto». In realtà però la vera motivazione era un'altra: ogni tanto gli piaceva andare lì, sedersi contro la fredda lapide di marmo nero e pensare alla propria vita. Era uno dei pochi posti in cui riusciva ad apprezzare davvero ciò che aveva, in cui capiva quanto fosse stato fortunato, e in qualche modo Arsène doveva averlo scoperto. O forse, più semplicemente, aveva deciso di dargli appuntamento lì solo perché gli sembrava poetico.
Il detective, giunto davanti alla propria lapide, si guardò intorno confuso. Estrasse il bigliettino allegato al mazzo di fiori per Irene e lo rilesse per sicurezza. Non l'aveva mal interpretato, eppure di Arsène non c'era traccia.
All'improvviso lo squillo di un cellulare gli fece rizzare le orecchie e con cautela aggirare la lapide, dietro la quale trovò un prepagato e una rosa rossa. Infastidito si chinò a raccogliere entrambi e posandosi il telefono contro l'orecchio esordì: «Teatrale come al solito, vedo».
«Lo sai che è la mia specialità, ma questa volta ha anche un fine pratico. Gli addii non sono mai stati il mio forte, dopotutto».
Sherlock si sedette sulla sommità della lapide e si rigirò la rosa tra le dita, poi se la portò al naso per aspirarne il profumo.
«Sembri triste, mon ami. Volevi sincerarti delle mie condizioni di salute, per caso?».
Sherlock abbassò subito la rosa e tornò a guardarsi intorno, le labbra arricciate sui denti come un cane rabbioso. «Mi stai guardando?».
«Forse», replicò Arsène, divertito. «È davvero così importante per te? Rischio di illudermi, Sherlock caro...».
«'Sta zitto».
«Ecco, ora ti riconosco».
Nessuno parlò più e Sherlock provò a concentrarsi sui rumori provenienti dall'altro lato del telefono, in modo da poter cogliere degli indizi sull'ubicazione di Arsène, ma a parte qualche interferenza ogni tanto e il rumore del traffico non aveva elementi che potessero aiutarlo.
«Voleva che ti dicessi che le dispiace», disse ad un tratto il ladro, triste come se gliene fosse davvero importato qualcosa di Irene.
Sherlock strinse forte il gambo della rosa, pungendosi con una spina e preferendo quel dolore a quello che sentiva in mezzo al petto.
«Me lo dirà di persona quando si sveglierà», affermò.
«Lo spero tanto», sussurrò, ma per il detective fu fin troppo facile capire che non ci credeva veramente.
Non era da Arsène augurare a qualcuno la morte, ma non lo biasimava nemmeno: era colpa di Irene, d'altronde, se lui, Geneviève e Molly avevano rischiato la vita; era colpa sua se Grégorie la vita l'aveva persa.
«Perché hai provato a salvarla?», gli chiese quindi. «Avresti potuto lasciarla tra le fiamme, invece...».
«Lei l'avrebbe preferito senz'altro», lo interruppe, lasciandolo senza parole.
Irene Adler... la stessa Irene che lottava fino allo stremo delle forze e calpestava chiunque pur di ottenere ciò che desiderava, davvero lei...?
«E io non potevo permetterlo», aggiunse Arsène. «Lo sai come la penso sul suicidio. E poi se fosse morta tu ne avresti sofferto, quindi...».
«Presumo che il mio debito con te non si sia ancora estinto, anzi...».
«Debito? Quale debito?».
«Non scherzare».
«Mai stato più serio in vita mia. Tu, piuttosto, hai avuto proprio una bella idea a far finta di aver perso la memoria: ti ha tolto un bel po' di gatte da pelare».
«Credi che abbia fatto finta?».
«Oh, avanti!».
Sherlock rimase in silenzio e sollevò le sopracciglia, certo che Arsène lo stesse ancora guardando. Ma da dove? Se solo avesse avuto un indizio, uno solo...
«Mi stai dicendo che davvero...?». Il ladro ora sembrava davvero agitato. «E il nostro bacio, te lo ricordi?».
«Ho perso i ricordi degli ultimi diciassette anni, quindi purtroppo quello me lo ricordo ancora».
«No, no, no! Noi ci siamo baciati un'altra volta, dopo la nostra evasione!».
«Non prendermi in giro. Ho giurato a me stesso che non sarebbe più accaduto e se è successo davvero, allora tu devi esserti approfittato di me».
«Cosa? No, assolutamente! Tu avevi preso un po' di scosse elettriche, questo è vero, ma eri perfettamente cosciente e consapevole delle mie intenzioni! E non ti sei allontanato, tu...!».
Alla fine non ce l'aveva fatta: non era bravo come Arsène a mentire e un ghigno gli aveva sollevato impercettibilmente l'angolo sinistro della bocca, tradendolo.
«I miei complimenti!», gridò Arsène, ridendo. «Hai buone possibilità di prendere per il naso Scotland Yard, la regina e la nazione intera, ma dovrai fare di meglio con Molly Hooper».
Sapeva che prima o poi avrebbe aperto l'argomento, tuttavia Sherlock si ritrovò a stringere i pugni lungo i fianchi e a cercarlo con ancora più foga: dietro gli alberi e le statue tombali, nel campanile della cappella, negli edifici che si innalzavano oltre entrambi i lati del parco.
«Dovevi continuare a fingerti morto per far sì che mantenessi la promessa. Un errore grossolano da parte tua», gli disse il detective.
«No, sappiamo entrambi che non l'avresti mai fatto comunque. È per questo che hai usato il trucco dell'amnesia: pensavi che, nella peggiore delle ipotesi, avresti finto di non ricordare di averle detto "Ti amo" pur di non darle spiegazioni».
Sherlock girò in tondo come una trottola, tanto da farsi venire il mal di testa. «Come...? Chi ti ha raccontato la fine della storia? È stata lei?».
«No, l'ho semplicemente dedotta. Allora, com'è successo? Scommetto che tu hai chiesto a Molly di dirti quelle tre parole e lei ti ha costretto a dirle per primo. Dimmi, ci ho preso?».
«L'ho fatto solo perché pensavo ci fosse una bomba nel suo appartamento!».
«Non ho alcun dubbio che tu l'abbia fatto per salvarla. Avresti detto qualsiasi cosa anche per salvare John, la signora Hudson o Lestrade. Quelle parole però... una volta pronunciate non si desidera altro che ripeterle se la persona davanti a noi è quella giusta, vero? Rimangono lì, sulla punta della lingua...».
Sherlock se la morse, perché era vero. Erano innumerevoli le volte in cui, incrociando Molly e leggendo la tristezza nei suoi occhi, aveva voluto gridarglielo in faccia fino a farle capire che era vero anche per lui, che quelle parole non erano affatto prive di significato come pensava.
«Beh, è stato bello chiacchierare con te», esclamò Arsène, con quel suo tono allegro tanto caratteristico. «Adesso però devo andare: la pausa pranzo è quasi finita e sarebbe un bel guaio se il signor avvocato mi trovasse ancora qui».
Avvocato?
Sherlock si voltò di scatto verso il grattacielo alla sua destra, il quale, si ricordò, ospitava lo studio di un importante divorzista, uno dei migliori e più pagati di Londra. Da qualche tempo girava anche voce che nella sua cassaforte conservasse per una delle sue clienti fedifraghe una collana di perle dei Mari del Sud.
Lassù, appeso ad una semplice imbragatura, c'era un lavavetri che lo stava osservando con un potente binocolo.
«Ops, penso di essermi fatto scoprire», esclamò Arsène, per poi salutarlo con la mano con cui teneva la spatola.
Sherlock corse via dal cimitero, attraversò la strada facendosi quasi investire e poi entrò nell'elegante hall dell'edificio. Il portinaio fece per fermarlo, ma non appena lo riconobbe lo lasciò passare e il detective, dopo avergli chiesto a che piano si trovasse l'ufficio dell'avvocato, prese l'ascensore.
Il tragitto, per quanto breve, lo innervosì tanto da picchiare un pugno contro la parete ed imprecare. Non l'avrebbe sopportato se fosse arrivato tardi.
Alla fine le porte si aprirono, silenziose, e come aveva detto Arsène tutti quanti erano in pausa pranzo, rendendo il piano deserto.
Passò la reception e si lanciò contro la porta dell'ufficio, trovandola aperta. A sorprenderlo quindi non fu la cassaforte svuotata, bensì vedere il Ladro Gentiluomo ancora dall'altra parte della facciata di vetro, che fischiettava mentre lavorava col braccio sinistro. Perché non era scappato?
Sherlock si avvicinò alla vetrata e lo chiamò col cellulare prepagato che stringeva ancora in mano.
Arsène premette un tastino sul dispositivo bluetooth che aveva all'orecchio e rispose col sorriso: «Sherlock, sei qui di fronte a me vero?».
«Sì».
«Vetro riflettente, mi dispiace. Ma tu mi vedi, perciò... sei contento?».
Sherlock lo esaminò e posò una mano sul vetro all'altezza del suo viso, appurando che stava dicendo la verità: tutto ciò che Arsène vedeva, da fuori, era la propria immagine riflessa.
Sul volto del ladro poté contare lividi nuovi su quelli vecchi, diverse abrasioni e un taglio sul labbro che doveva fargli parecchio male ogni volta che sorrideva.
«Ti hanno sparato alla spalla destra, ma per il resto sembri stare bene», gli disse, ignorando l'incomprensibile desiderio di toccarlo per convincersene al cento percento. «Perché hai aspettato tre giorni prima di farmi sapere che eri vivo?».
«Gesù è risorto il terzo giorno».
«Ti stai paragonando a Gesù?».
«No, la mia era solo una battuta. Però si trattava di certo di un uomo straordinario».
Sherlock strinse gli occhi. «Mi rifiuto di credere che sia esistita una persona in grado di fare miracoli, o che sosteneva che gli ultimi sarebbero stati i primi».
«Io sono cresciuto come un bravo cattolico, quindi credo in Dio e nelle seconde occasioni», rispose tranquillamente il ladro. «Tutti meritano di poter rimediare ai propri errori».
«Certi peccati non dovrebbero essere perdonati, invece. Certe persone...».
«Sei troppo duro con te stesso», lo interruppe Arsène, abbassando la spatola per rivolgere lo sguardo verso dove credeva che fosse. Sbagliò di pochi centimetri.
«Riconosco che tu abbia commesso un errore, ma anche che le tue intenzioni erano buone: hai agito per salvare la famiglia del tuo migliore amico e per quanto mi riguarda sei perdonato».            
Sherlock avrebbe tanto voluto che il suo perdono potesse alleviare il senso di colpa che si sarebbe portato dietro per tutta la vita.
Sarebbero potuti stare lì a parlarne per ore, senza convincere l'altro a cambiare opinione, per questo decise di affrontare un altro argomento.
«Perché tutto questo disturbo per una collana di perle? Tu soffri di vertigini!».
Arsène ridacchiò e ammise: «Sto cercando di vincere le mie paure. Magari tu dovresti fare altrettanto, prima che sia troppo tardi».
«A cosa ti riferisci?», gli chiese il detective, di nuovo sulle spine e con un brutto presentimento. «Parla chiaro per una volta!».  
Arsène sospirò e con una smorfia di dolore si sporse per raggiungere un angolo alla sua sinistra. «Devo proprio imboccarti! Sto parlando di Molly, stupide. Era solo una questione di tempo prima che raggiungesse il limite e quando noi due... sì, insomma, quando ci siamo avvicinati mi ha confessato di volersene andare».
Sherlock sentì il mondo crollargli sotto i piedi. «Andare?», ripeté, come inebetito. «Non capisco. Dove dovrebbe...?».
«Lontana da te, Sherlock. Col tuo atteggiamento scostante l'hai portata all'esasperazione, tanto da convincerla che trascorrere del tempo all'estero l'avrebbe aiutata a dimenticarti. Ho provato a dirle che...».
«Se se ne andasse sarebbe la cosa migliore».
A quelle parole, pronunciate con tono di voce fermo e privo di qualsiasi emozione, Arsène si infuriò e lo guardò - più o meno - con tutta la cattiveria di cui era capace.
«Per chi? Dannazione Sherlock, proprio non lo vuoi capire che il cuore non si può controllare! Se le permetti di andarsene vivrete entrambi nella sofferenza!».
«Se si trattasse di Geneviève non faresti tutto quanto è in tuo potere per tenerla al sicuro? O se avessi potuto evitare che Grégorie morisse...».
«Smettila!», gridò ancora il Ladro Gentiluomo, picchiando un pugno sul vetro. «È ovvio che voglio che Geneviève non corra alcun tipo di pericolo! E so che è colpa mia se Grégorie non c'è più! Tu non sai quante volte... quante volte l'ho pregato di stare nelle retrovie e di non rischiare la sua vita! Lui conosceva i rischi, eppure ha deciso di stare al mio fianco ed è questo! - è questo che non puoi impedire! Non puoi costringere qualcuno a fare ciò che vuoi tu, perché non è giusto! E nel caso di Molly, costringendola a partire la condanneresti ad una vita ancora più miserabile. È questo che vuoi, Sherlock?».
Il consulente investigativo abbassò gli occhi e non rispose, profondamente turbato. Anche John, non molto tempo prima, gli aveva fatto un discorso simile.
Arsène sospirò e scosse mestamente il capo, poi guardò l'orologio che portava al polso e si infilò la spatola in uno dei passanti del marsupio.
«Sarà meglio filarcela ora», esclamò, per poi appoggiare la mano sinistra e guantata sul vetro appena pulito. «Molly ha tempo fino a questa sera alle dieci per decidere. Spero che tu faccia la cosa giusta, Sherlock».
Abbozzò un sorriso venato di malinconia e posò anche le labbra sul vetro, in un bacio casto. «Au revoir, mon ami».
Il detective si lanciò contro il vetro, come a volerlo afferrare, ma Arsène tirò la leva dell'argano a cui era imbragato e il cavo d'acciaio si srotolò dal verricello che si trovava sul tetto del grattacielo, permettendogli di scendere rapidamente.
«Arsène, aspetta!», gridò il detective e si precipitò fuori dall'ufficio, imbattendosi nell'avvocato di ritorno dalla pausa pranzo. Questi, infuriato, gli chiese che cosa ci facesse lì e chi l'avesse lasciato passare, ma Sherlock lo ignorò per correre giù dalle scale.
«È inutile affannarsi in quel modo», gli disse il ladro, ancora all'altro capo del telefono. «Non riuscirai a raggiungermi».
«Allora dimmi almeno che ne sarà di Geneviève! Ha deciso di seguirti?».
«Giusto, me ne stavo quasi dimenticando! Ha scelto di accettare la proposta di Mycroft e mi ha raccomandato di salutarti e di dirti che tornerà a Londra per le vacanze pasquali».
Sherlock sorrise, felice di sentire finalmente una buona notizia. «Farò in modo di organizzarle una caccia alle uova».
«Credo che le farebbe più piacere fare una caccia al criminale, se capisci cosa intendo».
Delle urla di sorpresa costrinsero Sherlock ad arrestare la sua corsa per entrare negli uffici di un call-center.
«Mi scusi madam, non volevo spaventarla», esclamò Arsène davanti alla finestra che doveva aver in precedenza manomesso perché sembrasse chiusa all'apparenza ed apribile con un semplice calcio. Quindi si sganciò il cavo dall'imbragatura e fece lo slalom tra le varie postazioni per raggiungere l'ascensore.
Sherlock si precipitò all'inseguimento, ma non fu abbastanza veloce: il ladro ebbe il tempo per premere il pulsante del pian terreno e salutarlo con un'occhiolino prima che le porte si chiudessero, lasciandolo fuori.
«Maledizione!», gridò il detective, battendovi i pugni con rabbia.
Ritornò alle scale, rifiutandosi di gettare la spugna, e Arsène rise sentendo il suo respiro affannoso.
Una volta giunto alla reception la gola gli bruciava, ma era riuscito a fare prima dell'ascensore, le cui porte si aprirono davanti a lui per riservargli l'ennesima cocente delusione: Arsène si era tolto imbragatura e vestiti da lavavetri e aveva smontato uno dei pannelli del soffitto per poter scendere ad un altro piano senza che lui se ne accorgesse.
Furente, Sherlock si riportò il cellulare all'orecchio ed esclamò: «Non ti sembra un trucco visto e rivisto?».
«Banale, vero? Beh, sai quello che si dice: a volte bisogna sapersi accontentare. Alla prossima!».
Arsène terminò la comunicazione e Sherlock gettò il prepagato a terra, rompendolo in mille pezzi. Uscì dall'edificio e guardò a destra e sinistra alla ricerca del ladro o almeno del suo mezzo per la fuga. Stava per arrendersi quando notò un grosso SUV nero, con tanto di finestrini oscurati, uscire da un vicolo laterale per immettersi nella strada principale. A confermare i suoi sospetti fu lo stesso Arsène, il quale uscì dal tettuccio e lo guardò sorridendo, tirandosi indietro i capelli scompigliati dal vento con una mano e salutandolo con l'altra.
«Mi mancherai!», gli gridò prima che il SUV svoltasse, scomparendo alla sua vista e diventando impossibile da raggiungere.
Sherlock si piegò sulle ginocchia, senza fiato, e ad un tratto scoppiò a ridere, ricevendo le occhiate stupite e confuse dei passanti. Quando si sollevò, con una mano sullo stomaco, aveva le lacrime agli occhi.
«Anche tu mi mancherai», mormorò. «Anche tu».

***

«Ehi, va tutto bene?».
Geneviève si voltò verso Maurice, il quale l'aveva raggiunta nella veranda sul retro dove in quei giorni si era rifugiata spesso a pensare a come sarebbe stata la sua vita d'ora in avanti.
Alla fine, dato che in quella villa c'erano diverse camere per gli ospiti, il reporter era stato invitato a restare e lui aveva accettato per rimanere al fianco del Ladro Gentiluomo.
La ragazzina gli rivolse un piccolo sorriso ed annuì, poi tornò a fissare le colline, avvolta in una coperta di pile.
«Con me puoi parlare, lo sai», le disse ancora, sedendosi a cavalcioni della spessa ringhiera di legno, al suo fianco.
Incrociando i suoi sinceri occhi castani, Geneviève cedette con un sospiro.
«Avrei voluto salutare di persona Sherlock, John e Molly, soprattutto».
«Forse tuo padre voleva risparmiarti il dolore degli addii».
Si strinse nelle spalle, imbronciata. «Non lo trovo giusto comunque».
«Prendere decisioni ingiuste per i figli è il lavoro principale di un genitore», esclamò Maurice, ridacchiando.
«Ne parli come se...».
«Come se ci fossi passato. Già...».
Guardandolo a capo chino, Geneviève non potè resistere e posò una mano sulle sue, strette sulla trave di legno su cui erano seduti. A quel tocco Maurice alzò di scatto il volto e le sorrise, ma era fin troppo evidente che si stava sforzando.
«I miei genitori non volevano che facessi il reporter. Avevano deciso per me una vita del tutto diversa, senza chiedermi cosa volessi io, e tutt'oggi non ci parliamo per questo. Ma tuo padre è diverso: ha scelto di stare dalla tua parte qualsiasi strada avessi intrapreso. A proposito, sei proprio sicura di voler frequentare quella scuola?».
Geneviève annuì con un cenno del capo, tornando a guardare le colline.
«Come l'hai chiamata? Scuola per giovani dotati? Tipo quella degli X-Men?».
La ragazzina rise e si guardò le Vans rosse. «Da come l'ha descritta Mycroft Holmes sembra più una Wammy's House: un istituto per ragazzini con un QI superiore al normale oppure con familiari eccezionali che vengono istruiti per diventare risorse utili al Governo».
«Quindi... niente matematica?».
Geneviève, sempre senza guardarlo, gli tirò un pugnetto sul petto.
«Durante la mattinata frequenterò le lezioni di un normale liceo», gli spiegò. «Mentre nel pomeriggio corsi extra in base alle mie... capacità, ecco. Combattimento corpo a corpo, lancio di coltelli, escapologia...».
«Potrò venire a trovarti?».
La ragazzina perse il sorriso per lo shock e lo guardò, confusa e col cuore che le batteva impazzito nel petto.
Maurice parve arrossire e si passò una mano sulla nuca, imbarazzato. «Sarebbe bello scrivere un articolo su una scuola del genere».
«Credo che sia un programma top secret. Io stessa ho dovuto firmare un accordo di segretezza».
«Capisco».
«Però...». Geneviève abbassò gli occhi, tanto nervosa da allontanare la mano da quelle di Maurice per torturarsele in grembo. «Avrò anch'io delle vacanze, quindi potremmo vederci e potrei raccontarti qualcosa... off the record, naturalmente».
Maurice le prese delicatamente il mento tra le dita e la costrinse ad incrociare il suo sguardo. Sorridendo, rispose carezzevole: «Mi piacerebbe molto».
La ragazzina deglutì e fissò quelle labbra che da tre giorni a quella parte erano la sua ossessione. Socchiuse gli occhi e si avvicinò al suo volto, decisa ad andare fino in fondo quella volta, ma la porta alle loro spalle si aprì all'improvviso, facendola allontanare di scatto e con le guance in fiamme.
François si rese conto di aver interrotto qualcosa, ma ne sembrò quasi lieto.
«È pronto in tavola!», annunciò, per poi rivolgere un'occhiata velenosa a Maurice.
Una volta rientrato, il reporter tirò fuori dalla giacca il pacchetto di sigarette e se ne accese una ridacchiando.
«Non gli piaccio proprio, eh?».
Geneviève, imbarazzata, provò a spiegare: «Non sei tu, è che...».
«Lo capisco. Se avessi la sua età mi comporterei anche io così», disse, strizzandole l'occhio. Poi indicò la porta con un cenno del capo, aspirando la prima boccata di fumo: «Vai avanti, io finisco di fumare e ti raggiungo».
La ragazzina deglutì nuovamente, nonostante la gola secca, e non se lo fece ripetere due volte. Sulla porta si fermò ad osservarlo: appoggiato alla colonna, con un ginocchio sollevato e il gomito su di esso, gli occhi rivolti all'orizzonte. Guardando il suo profilo sereno pensò che prima o poi sarebbe riuscita a baciarlo; ormai era una sfida col destino e lei l'avrebbe vinta.

***

Arsène si sistemò la cravatta e poi scivolò all'interno del cinema privato di Mycroft Holmes, seduto in prima fila e con un bicchiere di whisky nella mano destra.
Sul grande schermo venivano proiettate vecchie fotografie in cui non c'erano solo i due Holmes a lui conosciuti, bensì anche una bambina coi codini e un bambino pel di carota della stessa età di Sherlock e con una grossa benda da pirata sull'occhio sinistro.
«Quindi sei venuto davvero», esclamò Mycroft, prendendolo alla sprovvista. Era talmente concentrato su quelle diapositive che per un attimo aveva perso il contatto con la realtà.
«Sarebbe stato scortese rifiutare il tuo invito, Myc».
Il Ladro Gentiluomo sorrise e facendo roteare il bastone da passeggio scese i gradini ricoperti di moquette per raggiungere il maggiore dei fratelli Holmes. Quindi si sedette al suo fianco e si portò una mano a sostegno del volto, un dito sulla tempia e gli occhi concentrati.
«Quella bambina... è chi penso che sia?».
«Eurus Holmes», rispose Mycroft, sospirando.
«E il bambino?».
«Victor Trevor. Il migliore amico di Sherlock».
«Ouch. Pensavo di essere io il suo migliore amico».
«Non ti preoccupare, è morto».
Arsène si voltò, scioccato, e poi si alzò per poter guardare meglio le fotografie. La sua ombra copriva una parte dello schermo, ma a lui non importava.
Ad un tratto, con le fronte solcata da profonde ed inestetiche rughe di apprensione, indicò la sorella minore di Sherlock e chiese: «È stata lei ad ucciderlo?».
Mycroft si limitò ad annuire, bevendo ciò che rimaneva del suo drink.
«Perché?».
«Voleva che Sherlock giocasse con lei».
Arsène lo fissò a bocca aperta. «Mi stai prendendo in giro?».
«Temo di no».
«Très bien». Il Ladro Gentiluomo si avvicinò al maggiore dei fratelli Holmes a passo pesante e lo sollevò dalla poltroncina rossa prendendolo per il gilet con entrambe le mani. Avvicinando il volto al suo sibilò: «Parliamo di affari?».
«Ti ho chiamato qui apposta», rispose con calma Mycroft, sorridendo con quel suo fare serpentesco.
Si spostarono nella luminosa sala da pranzo, il cui lungo tavolo in mogano la faceva da padrone, e Mycroft lo pregò di sedersi a capotavola mentre lui frugava in un cassetto per tirarvi fuori una cartelletta e una penna stilografica. Posò il tutto davanti a lui e Arsène sfogliò distrattamente i documenti.
«Lo sai Arsène, mi sbagliavo su di te», ruppe il silenzio Holmes. «Non sei affatto un criminale come tutti gli altri».
Il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso e si sedette in maniera più composta. «Che cosa ti ha fatto cambiare idea?».
«Diverse cose, in realtà».
Mycroft passeggiò intorno al tavolo, sfiorando con la mano sinistra i pomoli appuntini delle sedie, e alla fine si sedette davanti a lui.
«Il fatto che tu stia affidando a me l'istruzione di tua figlia...».
«Ricordi quando mi dicesti che i figli possono essere una rovina? In questo caso ho capito di essere io la rovina per mia figlia. Voglio solo il meglio per lei e se poi deciderà comunque di seguirmi, tanto di guadagnato».
«Che tu abbia salvato Irene Adler nonostante il tuo disprezzo per lei», continuò il maggiore dei fratelli Holmes. «E che tu abbia impedito a Sherlock di seguirti dopo l'evasione. L'hai fatto per proteggerlo, non è vero?».
«Quello che non hai mai capito, Myc, è che io tengo davvero a Sherlock. Gli voglio bene, gliene ho voluto sin dal primo giorno, e credo che se le cose fossero diverse... se io non fossi ciò che sono... credo che saremmo stati felici insieme».
Mycroft si accigliò e posò con cautela le mani sul tavolo. «E anche Sherlock la pensa così? È per questo che voleva redimerti? Perché... Perché ti ama?».
«Amore... Oh, magari!», esclamò ridendo, per poi abbandonarsi allo schienale della sedia e guardare il soffitto. «Diciassette anni fa, forse, prima che gli spezzassi il cuore...». Tornò a guardarlo negli occhi e sorrise furbescamente, le mani intrecciate sotto il mento. «Ma non sono venuto qui per parlare del passato».
«Giusto, tu sei uno che guarda sempre al futuro». Mycroft indicò i documenti e gli spiegò: «Apponendo una firma lì sotto accetti che tua figlia frequenterà l'istituto per giovani dotati in cambio del tuo silenzio e della distruzione di ogni prova fisica in tuo possesso che attesti l'esistenza di Sherrinford».
«Isola segreta per isola segreta, mi pare giusto», esclamò Lupin con una scrollata di spalle. Prese in mano la penna, ma prima di apporre la propria firma alla fine della pagina scritta fitta fitta disse: «E per quanto riguarda l'omicidio di Magnussen? Ti ricordo che possiedo i filmati non truccati dai tuoi uomini. Vuoi lasciarmi un'arma di ricatto del genere?».
Mycroft si passò una mano sul volto. «Che cosa vuoi?».
Arsène gli rivolse un largo sorriso. Chiuse la cartelletta fermandovi i fogli con la penna e gliela passò facendola scivolare sulla lucida superficie del lungo tavolo.
«Avanti, non fingere di non avere pronto un asso nella manica», gli disse con tono divertito. «Credi mi sia dimenticato del furto di cui mi avete accusato tu e Sherlock?».
Mycroft deviò il suo sguardo, forse per non fargli vedere il sorrisino che gli aveva incurvato gli angoli della bocca. Il ladro allora si alzò e andò a sedersi sul bordo del tavolo, a gambe accavallate e coi palmi delle mani posati sulla superficie in mogano.
«Forse a Sherlock hai detto che si trattava solo di un modo per attirarmi allo scoperto, ma io so che Mycroft Holmes non fa mai nulla per bontà. Ho fatto qualche domanda in giro e sai, un uccellino mi ha detto che l'ambasciata italiana...».
«Hai ragione», lo interruppe l'uomo, incrociando i suoi occhi verdi. «Quando ho organizzato il furto del "Leda col cigno" avevo un doppio fine».
«Triplo fine», lo corresse. Con un sorriso smagliante, aggiunse: «Sii sincero, per favore».
Il maggiore dei fratelli Holmes roteò gli occhi. «E va bene».
«Quindi, se ho fatto bene i conti...». Arsène saltò giù dal tavolo con agilità, nonostante le ferite riportate appena tre giorni prima, e contando sulle dita riepilogò: «Hai rubato la tela al buon professor Melas promettendogli che gliel'avresti restituita e gli hai rifilato una copia, anche se ben fatta. Hai preso accordi con l'ambasciata italiana per uno scambio e anche a loro hai dato un'imitazione. Ora mi chiedo... Dov'è finito l'originale?».
Mycroft si alzò, raggiunse una piccola ma profonda cassaforte nascosta dietro delle mensole della libreria e tirò fuori un cilindro di plastica che fece arricciare il naso del Ladro Gentiluomo quando se lo vide arrivare tra le braccia.
«È così che tratti le opere d'arte?», gli domandò, irritato, mentre con estrema cautela estraeva il dipinto perduto di Leonardo da Vinci e lo srotolava sul tavolo. «Ora capisco perché le donne ti stanno alla larga. Tieniti stretta quella che hai, mi raccomando».
Mycroft rimase in silenzio a guardare Arsène mentre tirava fuori una lente d'ingrandimento oculare e si chinava sulla tela come un perito per verificarne l'autenticità. L'esame durò parecchi minuti, in cui il maggiore degli Holmes ebbe più volte la tenzione di dirgli di darsi una mossa, spazientito. Alla fine però il ladro si sollevò e sorrise, quasi commosso.
«Meraviglioso», esalò estasiato.
«Per l'amor di Dio, è solo un disegno!».
Arsène lo guardò come se avesse appena insultato sua madre, ma decise di soprassedere scuotendo il capo e riarrotolò l'inestimabile dipinto. Poi prese la penna e tolse il cappuccio con i denti, posò la punta sul foglio ma ci ripensò ancora una volta.
«Che altro vuoi, Arsène?!», sbottò esasperato Mycroft, le mani posate sulla nuca.
Il ladro si tolse il tappo della stilografica dalla bocca e, serissimo, rispose: «Voglio incontrare il Vento dell'Est».
Mycroft si esibì in una rarissima espressione di sorpresa ed impiegò diversi secondi per riprendersi e guardarlo con rabbia.
«No. Assolutamente no. Le sono bastati cinque minuti con Moriarty per stravolgere la vita di Sherlock, non oso nemmeno pensare che cosa...».
«Poco fa non hai detto che non sono un criminale?», lo interruppe.
«No, ho detto che non sei un criminale come gli altri!».
Arsène alzò le mani in segno di resa e a passi lenti, senza mai interrompere il contatto visivo, lo raggiunse dall'altro lato del tavolo per poter parlare a bassa voce e con tono quasi rassicurante.
«Anche se firmassi quei fogli niente mi cancellerà dalla mente ciò che so. Potrei andare a farle visita da solo e nemmeno te ne accorgeresti, o lo faresti quando sarebbe ormai troppo tardi. Questo lo sai. Perciò non credi che sia meglio con te come supervisore?».
Mycroft chiuse gli occhi e pensò alle terribili scelte che aveva commesso, ben deciso a non volerne fare altre. Riaprì gli occhi e sospirando col naso annuì con un cenno del capo a cui Arsène rispose con un veloce abbraccio. Il ladro poi si voltò, si allungò sul tavolo per recuperare penna e documenti e firmò con la sua calligrafia elegante e svolazzante.
Con lo stesso sorriso eufurico di un bambino ad un parco divertimenti esclamò: «Allora, quando partiamo?».
«Subito», rispose mogio Mycroft. «Prima è, meglio è. Devo solo chiamare il pilota».
Arsène sussultò a quelle parole. «Pilota?».
Mycroft si voltò, confuso, ma quando lesse sul suo volto la paura si ritrovò a sogghignare. «Sherrinford si trova su un'isola, pensavo lo sapessi».
«Certo, ma è proprio necessario volare? Non potremmo... che so, andare in nave?».
«Ci metteremmo troppo. Ma non ti preoccupare, ti terrò la mano per tutto il tempo».
Arsène strinse i denti e si infilò il cappotto per seguirlo fuori dalla casa.
«Molto divertente», borbottò e guardò il cielo sperando in una bufera di neve, ma il sole del pomeriggio splendeva in un cielo incredibilmente sgombro per il periodo.

Arsène scese dall'elicottero e rimase per qualche secondo accucciato a terra, con le mani strette a pugno nella sabbia e gli occhi chiusi, il respiro che andava a ritmo delle onde che si infrangevano sulla riva.
«Non vomiterai, spero», esclamò Mycroft.
Il ladro lo azzittì in francese e poco dopo si sollevò, si sfregò le mani per levare i granelli di sabbia dai guanti candidi e poi lo raggiunse alzando il bavero del cappotto grigio.
Mycroft non commentò il suo comportamento orgoglioso - d'altronde c'era abituato con suo fratello - e dalla spiaggia, dove li attendevano diversi uomini armati e il nuovo direttore, furono scortati all'interno della struttura di contenimento top secret nella quale erano rinchiusi i peggiori criminali mai visti, la feccia della feccia, gli irrecuperabili il cui unico scopo era quello di servire - in svariati modi - il governo britannico.
Una volta superati diversi livelli di sicurezza raggiunsero il cuore della prigione e infine la cella di vetro di Eurus Holmes, la quale, con indosso la solita divisa bianca e i lunghi capelli sciolti, dava loro le spalle.
Arsène si avvicinò piano, scrutandola con le stesse movenze di un felino, e si fermò quando raggiunse la linea tratteggiata sul pavimento. Nonostante ci fosse un vetro antiproiettile a dividerli era comunque richiesta una distanza di sicurezza:  questo a dimostrazione di quanto quella donna fosse pericolosa.
Le luci si accesero sopra la sua testa, rendendo l'ambiente ancora più claustrofobico, ed Eurus si alzò dalla panca di pietra per osservare il nuovo visitatore.
«Sorella, ti presento Arsène Lupin», ruppe il silenzio Mycroft, schiarendosi la gola. «Arsène, questa è mia sorella minore, Eurus».
Arsène sollevò una mano in segno di saluto, le labbra tirate. «Non posso dire che è un piacere, lo ammetto».
La donna non sbatté nemmeno le palpebre e il ladro guardò il maggiore degli Holmes in cerca di spiegazioni.
«Si rifiuta di parlare con chiunque. L'unico che riesce a comunicare con lei, tramite il violino, è Sherlock».
Arsène accettò quella risposta e tornò ad osservarla. I due rimasero in silenzio a guardarsi per più di trenta secondi, fino a quando il Ladro Gentiluomo non sospirò esclamando: «No, non ci riesco. Mi dispiace».
«Di che cosa stai parlando?», gli domandò Mycroft, aprendo e stringendo i pugni dietro la schiena, in ansia.
Ma Arsène non lo degnò nemmeno di uno sguardo ed abbozzando un sorriso riprese: «Ed è buffo, lo sai? Perché proprio questa mattina ho detto a Sherlock di credere nelle seconde occasioni, mentre lui sostiene che certi errori non possono essere perdonati. Guardandoti, cercando di immaginare i motivi per cui hai fatto soffrire così tanto Sherlock... non riesco proprio a perdonarti. I ruoli si sono invertiti, a quanto pare. Spero almeno tu ti renda conto di che fortuna sfacciata hai avuto nell'avere due fratelli del genere». Le rivolse un'occhiata severa e le puntò il dito contro: «Comunica questo a Sherlock la prossima volta che viene a trovarti».
Arsène abbassò lo sguardo, scuro in volto, e fece per tornare da Mycroft, bisognoso d'aria, ma successe qualcosa di incredibile: Eurus parlò.
«All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto è forse il sonno / Della morte men duro?», recitò con voce monocorde, arrochita dal lungo silenzio ma decisa, con l'unico intento di attirare la sua attenzione. La ottenne.
Arsène si paralizzò sul posto, gli occhi sbarrati e un brivido ad attraversargli la spina dorsale. Si girò piano ed incrociando il suo sguardo, ancora fisso su di lui, riprese da dove lei si era interrotta: «Ove più il Sole / Per me alla terra non fecondi questa / Bella d’erbe famiglia e d’animali».
E insieme conclusero quei primi, famosi versi dell'opera "Dei Sepolcri" di Ugo Foscolo: «E quando vaghe di lusinghe innanzi / A me non danzeran l’ore future, / Nè da te, dolce amico, udrò più il verso / E la mesta armonia che lo governa».
Arsène si ritrovò col volto rigato di lacrime e se lo asciugò distrattamente col fazzoletto da taschino, tanto sconvolto ed investito dai ricordi da tremare.
Durante le settimane trascorse come prigioniero di quei trafficanti di bambini, i quali venivano venduti oppure sfruttati in un giro di prostituzione minorile, Raoul aveva avuto tra i suoi numerosi clienti fissi un professore di letteratura il quale aveva preso l'abitudine di portargli in regalo delle raccolte di poesie.
La prima volta che si era imbattuto in quel componimento poetico non ci aveva capito molto - aveva solo tredici anni allora - ma era rimasto affascinato dai significati che era riuscito a cogliere. L'aveva letto e riletto, tanto da impararlo a memoria in francese quanto in italiano, e quando, dopo il primo tentativo fallito di fuga, uno dei bambini più piccoli gli aveva chiesto di cantargli una ninna nanna, le parole di quella poesia erano state le prime gli erano venute in mente. Così era nata la canzone che canticchiava sottovoce quando era nervoso o preoccupato: lo calmava all'istante.
Poche persone conoscevano quella storia - tra cui Victoire e Clotilde - e non si spiegava come Eurus Holmes avesse scoperto quel dettaglio così intimo della sua vita passata. Che fosse davvero così intelligente come gli aveva detto Mycroft durante il breve viaggio in elicottero? Tanto da sembrare all'apparenza divina?
Arsène, sotto lo sguardo confuso e sempre più agitato del maggiore dei fratelli Holmes, si riavvicinò al vetro e quella volta oltrepassò la linea per posare una mano sulla superficie trasparente.
«E così mi conosci», le sussurrò, tirando su col naso con un lieve sorriso. «Questo non cambia le cose però. Devi dire a Sherlock che ti dispiace per aver ucciso il suo migliore amico, per averlo ingannato e per averlo costretto a strapparsi il cuore dal petto. Va bene anche una bugia per quanto mi riguarda. Fallo come regalo di Natale».
Il Vento dell'Est annuì con un brevissimo cenno del capo e Lupin, ritenendosi soddisfatto, si allontanò dal vetro. La sua voce lo raggiunse di nuovo quando aveva ormai affiancato Mycroft.
«Grazie per averlo salvato, diciassette anni fa».
Arsène abbassò il capo, scosso da una lieve risata. «Come diavolo fai?».
«Salvato? Di che sta parlando?», gli chiese Mycroft, pallido.
«Il passato è passato», replicò, posandogli una mano sulla spalla. Poi, rivolgendo lo sguardo verso Eurus, aggiunse: «Non c'è bisogno che mi ringrazi. È stato un piacere».
«Esigo delle spiegazioni», disse ancora Mycroft, contenendo a stento la rabbia.
Arsène sbuffò e lo prese a braccetto per avviarsi verso l'ascensore.
«Sherlock mi ha chiesto di mantenere il segreto, non parlerò di certo dopo diciassette anni».
Salirono e prima che le porte si chiudessero il Ladro Gentiluomo salutò Eurus con un cenno della mano, senza però riuscire a liberarsi dell'idea che lui fosse proprio come lei: imprigionato sotto una campana di vetro, inavvicinabile per chiunque tranne poche, rare eccezioni. Entrambi erano rimasti due bambini, feriti nel corpo e nell'anima da quel mondo che non li comprendeva, e in qualche modo Sherlock era riuscito ad avvicinarsi ad entrambi, facendo da tramite ed aiutandoli a sentirsi meno soli.
«Arsène...».
Il ladro sbatté le palpebre, tornando alla realtà, e si rese conto di aver ripreso a piangere. Guardò Mycroft con la coda dell'occhio e si asciugò le lacrime col fazzoletto.
«Sto bene», mentì abbozzando persino un sorriso. «Grazie per avermi portato qui, è stato molto... istruttivo».
Holmes sospirò. «Mi prometti che manterrai il segreto?».
«Non ti preoccupare, sono bravo a mantenere i segreti».
Gli diede un'altra pacca sulla spalla e gli strizzò l'occhio, poi uscì dalla porta blindata ringraziando gli uomini di guardia sollevandosi un cilindro invisibile.
Arsène venne inglobato dalla luce del sole e Mycroft lo guardò aprire le braccia, il volto alzato al cielo, e respirare avidamente. Era inutile però: menti come le loro, e lui lo sapeva bene, avrebbero sempre avvertito il mondo circostante come una prigione.

***

Ganimard salì all'ultimo piano del comando ed entrò nell'ufficio di Dudouis. Si avvicinò alla scrivania e prese il segnaposto placcato d'oro con scritto il nome dell'Ispettore Capo, lo strinse tanto forte tra le mani da sbiancarsi le nocche e poi si diresse verso la finestra da cui poteva vedere in lontanza la Torre Eiffel illuminata a festa, ancora più bella nel cielo venato dei colori del tramonto: rosa, viola e blu.
Era contento che Sherlock fosse stato scagionato da ogni accusa, ma non aveva osato chiedere a lui o peggio ancora a Mycroft come fosse morto Magnussen: non l'avrebbe sopportato se avesse scoperto di essere stato ingannato da qualcun altro che aveva preferito agire al di sopra della legge perché era più facile, o più proficuo. Anche lui si sarebbe risparmiato un sacco di drammi se avesse lasciato perdere la battaglia intrapresa contro Arsène Lupin, ma ne andava della sua integrità di poliziotto. Gli avevano insegnato che la legge era uguale per tutti e ci credeva fermamente, per questo sarebbe stato un dolore troppo grande se Sherlock si fosse rivelato un assassino.
Un leggero bussare contro lo stipite lo fece voltare verso la porta aperta, dove incrociò lo sguardo di Folefant.
«Che cosa ci fai tu qui?», gli domandò Ganimard. «Non ce l'hai la ragazza?».
Il giovane scosse il capo, senza perdere il sorriso. «Nossignore».
«Meglio così», sussurrò, così piano da non essere sentito.
«Sono venuto a cercarla perché ho appena ricevuto una chiamata da Sherlock Holmes. Ha detto che ha provato a chiamarla, ma...».
«Ho dimenticato il cellulare a casa», mentì. «Che cosa voleva?».
«Avvisare che Arsène Lupin rienterà a Parigi nella notte. Non sa ancora con quale mezzo, ce lo farà sapere».
Ganimard grugnì in segno di assenso e tornò a guardare la sua città, quella città bella e maledetta che col suo fascino avrebbe attirato a sé chiunque vi fosse nato e cresciuto, senza distinzione di razza, ceto sociale o fedina penale.
«Va tutto bene, ispettore?», gli chiese ad un tratto Folefant, cauto.
«No, non va tutto bene», ammise.
«C'è... C'è qualcosa che posso fare per lei?».
Ne dubitava. Dopo le vacanze Dudouis avrebbe rivelato alla stampa di essere stato nel libro paga di Arsène Lupin, si sarebbe addirittura addossato la colpa della sua evasione salvandolo così da un ulteriore scandalo, e poi, non contento, l'avrebbe proposto come suo successore al posto di Ispettore Capo.
Justin si voltò e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi. «Potresti rispondere ad una domanda con sincerità?».
«Sempre, ispettore».
A quella risposta Ganimard si avvicinò alla poltrona di Dudouis, la girò verso di sé e vi si lasciò cadere con tutto il proprio peso, poi la ruotò verso la scrivania e con le mani intrecciate sullo stomaco gli chiese: «Mi ci vedi come Ispettore Capo, Marcel?».
La domanda lo stupì tanto che non riuscì a dare una risposta immediata. Inoltre, il cellulare dell'ispettore iniziò a squillare nella tasca interna della giacca - smascherando la sua bugia sul perché non avesse risposto alla chiamata di Sherlock Holmes - e gli impedì di parlare.
«Cèlestine», esclamò l'uomo, raddrizzandosi sulla poltrona. «Ciao, va tutto bene? Stasera? Ma sì, certo, va benissimo. Sarei pazzo a rifiutare. Allora a dopo».
Con gli occhi più sereni, Ganimard si alzò e fece il giro della scrivania per andare a posare la mano sulla spalla destra del poliziotto.
«Pensaci, per favore», gli disse. «Hai tempo fino alla fine delle vacanze di Natale per darmi una risposta».
Dopodiché uscì dall'ufficio e con una sigaretta tra le labbra andò alla ricerca di un fioraio ancora aperto.

***

Molly, ferma davanti alla finestra che dava sulla strada, fu scossa da un brivido quando alle dieci in punto un SUV nero si fermò davanti al suo palazzo. Ne scese un uomo vestito in giacca e cravatta, dalle spalle larghe e la testa rasata, il quale senza esitazioni alzò gli occhi verso la sua finestra per rivolgerle un timido sorriso nonostante la stazza. Non c'erano dubbi: era uno degli uomini di Arsène.
Lasciò andare la tenda e si appoggiò allo schienale del divano con le mani, gli occhi stretti a frenare le lacrime. Quando si tirò su andò a passo sicuro verso la propria camera da letto, dove aveva già preparato un trolley con dentro l'indispensabile.
Senza soffermarsi a guardare all'interno della camera degli ospiti in cui, più di una volta, aveva trovato Sherlock rannicchiato sul letto, tornò in salotto trascinandosi dietro quella valigia che sembrava contenere il peso del mondo.
Anche il salotto e la cucina erano pieni di ricordi che lo riguardavano, perciò cercò di concentrarsi su quelli in cui lui non c'era: quando aveva fatto entrare Arsène per la prima volta, quando avevano cenato insieme a Geneviève, quando aveva trovato padre e figlia seduti sotto l'albero di Natale che avevano addobbato per farle una sorpresa e quando lei e il ladro si erano ritrovati insieme su quel divano a parlare fino a notte fonda.
Un sorriso le increspò le labbra salate per via delle lacrime che alla fine non era riuscita a trattenere, ma quando spense le luci del finto abete i ricordi in cui Sherlock era il protagonista tornarono a prevalere, prepotenti e dolorosi.
Spostò gli occhi verso il bancone in marmo dell'isola della cucina, lo stesso bancone dietro il quale quel giorno si stava preparando il té e il detective più famoso d'Inghilterra le aveva chiesto di dirgli "Ti amo".
Si portò le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi e rimase così, ferma immobile, per diversi secondi. Raccimolando il coraggio aprì la porta e senza più guardarsi indietro portò fuori il trolley. Chiuse a chiave e poi andò dalla sua vicina, la quale si presentò in vestaglia.
«Tesoro, che cosa ti è successo?», le chiese la signora Lee non appena si accorse delle sue condizioni, preoccupata.
«Non è nulla», cercò di rassicurarla stirando un sorriso. Quindi le porse le chiavi del suo appartamento e una busta chiusa: «Devo andare via per un po'. Se qualcuno dovesse cercarmi può dargli questa da parte mia?».
«Qualcuno? Qualcuno chi, cara?».
Molly sorrise amaramente. «Non so nemmeno se passerà. Adesso vado, grazie di tutto e scusi se l'ho disturbata a quest'ora».
«Ma no, figurati...».
L'anziana rimase sulla porta fino a quando le porte dell'ascensore non si chiusero e Molly, guardandosi allo specchio, si asciugò il volto ed assunse un'espressione decisa.
Non c'era tempo per i ripensamenti. Doveva pensare a se stessa, pensare a stare bene, e aveva preso la decisione giusta.
Aperta la porta dell'androne, l'uomo di Arsène le andò incontro per aiutarla col trolley e mentre lo seguiva le suonò il cellulare nella tasca del cappotto.

Rimani.
SH

E così Arsène l'aveva avvisato.
Molly strinse forte il cellulare e guardò il cielo scuro in cui non brillava nemmeno una stella. Il suo sospiro si condensò in una nuvoletta di vapore.
«Andiamo, miss Hooper?», le chiese l'autista, aprendole la portiera del SUV.
Questa volta un SMS non era sufficiente.
Molly annuì con un cenno del capo e salì sul mezzo. L'uomo si sedette dietro il volante e mise in moto, ma dopo appena un paio di metri fu costretto a frenare a causa di un'auto sportiva color rosso scuro che sopraggiunse a folle velocità e con una sgommata si fermò di traverso in mezzo alla strada, impedendo loro di passare.
Molly si sporse tra i sedili anteriori per vedere chi ci fosse alla guida e riconobbe immediatamente Sherlock, per questo fermò l'uomo di Lupin quando questi si infilò la mano destra all'interno della giacca, molto probabilmente per estrarre una pistola.
«Ci penso io», lo rassicurò e scese dal SUV per andare incontro al detective, il quale era sceso dall'Aston Martin della signora Hudson e si stava arruffando i capelli con una mano.
«Che cosa pensi di fare?», lo fronteggiò, stupendo persino se stessa per l'aggressività della sua voce.
«Ti impedisco di commettere l'errore più grande della tua vita».
«Oh, grazie ma no, grazie. Levati di mezzo, per favore».
Gli aveva già dato le spalle, intenzionata a risalire sul SUV che l'avrebbe portata lontana da lui una volta per tutte, quando il detective l'afferrò per il polso e l'attirò a sé fino a trovarsi petto contro petto e i volti a pochissimi centimetri di distanza l'uno dall'altro.
«Sherlock, ti prego...».
Ma lui non la lasciò continuare: le portò una mano sulla nuca e la baciò sulle labbra, quasi con irruenza. Molly fu altrettanto rigida all'inizio, ma lentamente si sciolse e senza osare approfondire quel contatto gli portò semplicemente le mani fredde ai lati del viso.
L'aveva sognato centinaia, migliaia di volte ed era proprio come nei film strappalacrime che le piacevano tanto, se non addirittura meglio.
Quando Sherlock si scostò aprì gli occhi azzurri per incrociare i suoi e le ripeté a parole: «Rimani».
Dopo quel bacio era chiaro che sarebbe rimasta, ma quella era forse l'unica occasione che aveva per farsi dire la verità.
«Perché dovrei?», gli domandò.
«Perché ho bisogno di te nella mia vita, Molly Hooper. Adesso non c'è tempo, ma ti prometto che ti spiegherò tutto quanto».
Molly inarcò le sopracciglia, circospetta. «Tutto?».
«Tutto, te lo prometto».
«Va bene allora. Rimango».
Sherlock sorrise e quel sorriso le fece mancare un battito: non tanto perché era ancora più bello quando era felice, ma perché ne era lei la causa.
Si allontanò dal suo corpo caldo, nonostante fosse l'ultima cosa al mondo che volesse fare, e andò dall'uomo di Lupin per rifiutare i suoi servigi. Mentre lui le recuperava il trolley dal bagagliaio, Sherlock prese qualcosa dal sedile del passeggero e lo consegnò all'autista: un regalo di Natale, con tanto di fiocco rosso.
«Potresti consegnarlo a Geneviève da parte mia?», gli chiese Sherlock.
Il membro della banda del Ladro Gentiluomo afferrò con cautela il pacco e dal bagagliaio ancora aperto estrasse un affare simile ad un metal detector portatile.
«Non si tratta di una bomba», gli disse il consulente investigativo, un po' annoiato.
L'uomo però non si fidò e lo esaminò comunque. Quando fu sicuro che non si trattasse di una minaccia per la sicurezza della figlia del suo capo o del suo staff, promise che gliel'avrebbe portato.
«Grazie tante. Arrivederci!».
Sherlock afferrò Molly per mano e la trascinò all'auto sportiva. Incastrò il suo trolley nel bagagliaio, poi si mise al volante e fece ruggire il motore.
«Dove andiamo?», gli domandò l'anatomopatologa, confusa e al contempo eccitata.
«A prendere John».
«E poi?».
Il detective sogghignò e tirò fuori dalla tasca del cappotto il cellulare, sul cui schermo si vedeva una mappa con un puntino che stava iniziando a muoversi. Molly corrugò la fronte e solo quando il SUV svoltò nella traversa alle loro spalle capì che Sherlock doveva aver messo un localizzatore GPS in quel pacco regalo.
«Andiamo a salutare Geneviève», le disse, confermando la sua ipotesi.
L'anatomopatologa sorrise a sua volta e si abbandonò contro il sedile, felice come non si sentiva da tanto, troppo tempo.
Aveva iniziato a perdere le speranze, ma adesso non aveva più dubbi: i lieto fine esistevano davvero.

***

«Mangia i tuoi broccoli, Théa».
La più piccola mise su il broncio e scosse il capo. I suoi riccioli scuri seguirono ogni suo movimento in modo così adorabile che Ganimard le portò una mano sulla testa per accarezzarli e poi si chinò verso di lei facendo l'occhiolino ad Emélie, la maggiore.
«Mamma, allora pensi che quest'anno Babbo Natale ci porterà tutti i regali che abbiamo chiesto?», le domandò e Cèlestine la guardò sorridendo.
«Siete state delle brave bambine?».
Sfruttando la sua distrazione, Justin aprì la bocca e fece segno a Théa di imboccarlo. La bambina si coprì la bocca con una mano per non ridere e riempì la bocca del padre con i broccoli, ma la madre si voltò prima del previsto e li sorprese.
«Che furfanti!», esclamò fingendosi arrabbiata, con le mani sui fianchi, e reprimendo faticosamente un sorriso.
Ganimard masticò rischiando di soffocarsi per la risata contagiosa delle figlie ed incrociando gli occhi dell'ex-moglie le lanciò uno sguardo carico d'amore a cui lei rispose arrossendo e sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli rossi.
In quell'istante il suo cellulare iniziò a suonare sul bancone da bar che divideva salotto e cucina e le risate di Théa e Emélie si spensero. Justin si alzò e lo prese per controllare chi lo stesse cercando: Folefant. Probabilmente Sherlock gli aveva fatto sapere con quale mezzo Arsène Lupin sarebbe tornato in patria.
«Papà, devi andare al lavoro?», domandò la più piccola, con gli occhi tristi.
Ganimard rifiutò la chiamata e non contento spense il cellulare; quindi sorrise alla figlia ed accarezzando anche i capelli di Emélie tornò a sedersi.
«Possono cavarsela anche senza di me», rispose e lo sguardo che Célestine gli rivolse fu lo stesso di quando aveva detto «Sì» alla domanda: «Mi vuoi sposare?». Al contempo però era anche triste, perché se solo l'avesse capito prima che bastava quello per farla felice - non sempre, giusto ogni tanto - allora si sarebbero risparmiati un sacco di dolore.
«Allora, dov'eravamo rimasti?», esclamò risedendosi. «Li finiamo quei broccoli?».
Théa guardò i piccoli alberelli nel suo piatto, ne prese uno tra le dita e se lo portò alle labbra per sbocconcellarlo.
«Brava la mia bambina», le disse Justin, baciandola sul capo.

***

La banchina del binario da cui sarebbe partito l'Eurostar diretto a Parigi non era affollatissima visto l'orario, ma diversi passeggeri erano stati accompagnati da familiari o amici che ora stavano attendendo la partenza comunicando a gesti attraverso i finestrini. Anche Geneviève avrebbe voluto qualcuno da salutare, ma sapeva che non sarebbe mai successo.
«Va tutto bene, bonbon?».
La ragazzina si voltò verso Victoire, seduta di fronte a lei ed intenta a sferruzzare una lunga sciarpa che, le aveva già anticipato, sarebbe stata il suo regalo di Natale per lei.
«Sì, è solo questa parrucca... Mi dà fastidio! Era proprio necessaria?».
La donna le allontanò delicatamente la mano con cui si stava grattando la testa. «La polizia ti sta cercando, perciò sì, è necessaria».
Geneviève sbuffò e sfruttò il riflesso del finestrino per osservare quell'irriconoscibile se stessa: oltre al finto caschetto nero portava un paio di occhiali squadrati che François aveva molto apprezzato e Victoire le aveva disegnato delle lentiggini sul naso e sugli zigomi. Chiunque avrebbe avuto difficoltà a riconoscerla, chiunque tranne forse...
«Sherlock Holmes mi ha chiesto di consegnarle questo, signorina».
La ragazzina trasalì e fissò il pacco regalo che Ernest le stava porgendo. Stese le mani per afferrarlo, ma Victoire la batté sul tempo e prima ancora che potesse aprire bocca aveva già strappato via la carta a tema natalizio con cui erano state impacchettate un paio di grosse cuffie bluetooth di un bellissimo rosso lucido.
«Ehi, dammelo subito!», riuscì ad urlare alla fine, senza preoccuparsi di attirare l'attenzione degli altri passeggeri: non sapeva come, ma suo padre aveva prenotato un'intera carrozza per la sua banda.
«Da quanto tempo lavori per mio figlio, Ernest?», domandò con fare autoritario Victoire.
«Un anno, signora».
«Ora capisco perché ti sei fatto fregare».
«Che cosa...?», iniziò a chiedere Geneviève, ma si bloccò quando la donna tirò fuori quella che sembrava in tutto e per tutto una pedina da dama, solo elettronica e con una lucetta rossa che si accendeva e spegneva ad intermittenza.
«Asino!», lo rimproverò ed alzandosi pestò il piccolo segnalatore GPS, rompendolo in mille pezzi. Poi si toccò dietro l'orecchio con naturalezza e con voce di nuovo composta esclamò: «Caro, siamo in pericolo».
Arsène dovette chiederle quale fosse il problema, al che Victoire rispose: «Sherlock Holmes potrebbe essere già qui».
Ed era proprio così. Geneviève vide il detective correre verso il loro binario e non era solo: con lui c'erano John Watson, Rosie e Molly Hooper. Senza pensare alle conseguenze, la ragazzina si alzò e sgusciò tra gli uomini di suo padre prima che Victoire potesse gridare loro di fermarla. Raggiunse la porta del treno, ma fu lì, ad un passo dall'uscita, che si imbatté in un ostacolo che non poteva in alcun modo superare: suo padre.
«Il treno sta per partire, signorina», le disse pacato, ma con espressione intransigente.
«Ti prego, io... devo salutarli», sussurrò, sull'orlo delle lacrime. «Ci metterò due minuti. Solo due minuti, te lo prometto».
«Geneviève!», gridò Sherlock e lei, sentendosi chiamare, passò sotto il braccio di suo padre per saltare sulla banchina e gettarsi al collo del detective, il quale la afferrò e le fece fare addirittura una mezza giravolta.
«Abbiamo fatto in tempo, menomale», esclamò John, sollevato.
Sherlock la riportò coi piedi per terra e la guardò in volto, asciugandole la lacrima che le era scivolata sulla guancia.
«Così ti si rovina il trucco», le disse con un lieve sorriso sulle labbra.
Lei ridacchiò e si scostò a sua volta per lasciarsi stringere da Molly, la quale le baciò la fronte e poi, massaggiandole le braccia, mormorò: «Quello che in realtà voleva dire Sherlock è che sei più bella quando sorridi».
«Sì, l'avevo immaginato».
Giunta davanti al dottor Watson, suo zio, osservò la sua mano stesa e la strinse impacciata.
«So che non abbiamo legato molto in queste settimane, però voglio che tu sappia che fai parte della famiglia ora e che ci sarà sempre posto per te a casa mia. Intesi?».
Geneviève annuì e non riuscì a tenere a freno le lacrime, per questo gettò le braccia intorno al suo collo e nascose il volto contro la sua spalla. John, preso alla sprovvista, impiegò un paio di secondi per ricambiare la stretta ed accarezzarle la schiena.
«E tu, Arsène? Hai davvero intenzione di andartene senza salutare?».
Il controllore che fino ad allora era rimasto in attesa sulla porta della carrozza alzò lentamente il capo ed arricciò il naso sopra i finti baffi biondi.
«Sei davvero fenomenale, Molly Hooper», esclamò e scendendo le scalette si tolse il cappello della compagnia ferroviaria, rivelando i suoi capelli biondo platino e quegli occhi verdi così vivaci e resi lucidi dalle lacrime.
L'anatomopatologa lo strinse forte tra le braccia ed alzandosi in punta di piedi gli sussurrò all'orecchio: «Mi ha baciata».
«Se stai cercando di farmi ingelosire complimenti, ci stai riuscendo».
Ovviamente Molly non poteva sapere che quella frase valeva tanto per lei quanto per Sherlock, avendo entrambi rubato un pezzo del suo cuore.

Arsène cercò lo sguardo del detective, il quale corrugò la fronte domandandosi di che cosa stessero parlando, e sorridendo aggiunse: «Sono felice per te, Molly. Lo terrai d'occhio, oui?».
«Certo. Grazie di tutto». Gli lasciò un bacio sulla guancia e sciolse l'abbraccio, ma prima di allontanarsi del tutto esclamò: «Salutami Raoul, va bene?».
Il Ladro Gentiluomo sorrise e le strizzò l'occhio. «Sarà fatto».
Mentre lei raggiungeva Geneviève e Rosie, John si avvicinò per stringergli la mano.
«È stato un piacere conoscerti, dottore», esordì Arsène.
«Anche per me».
«Dici sul serio?».
L'ex-soldato si strinse nelle spalle, incerto. «L'ho detto una volta, fattela bastare».
«Capisco. Grazie per avermi salvato».
John scrollò il capo e lasciò il posto a Sherlock. Si scrutarono per qualche secondo, poi incredibilmente fu il detective a fare il primo passo aprendo le braccia. Arsène non se lo fece ripetere due volte e strinse i pugni sulla sua schiena, il mento posato contro la sua spalla sinistra.
«Chi è Raoul?», gli domandò Sherlock.
«Stai rovinando il momento».
«È la mia specialità. Allora, chi è?».
«Un amico».
«Pensi che un giorno potrò conoscerlo?».
Arsène si allontanò quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi.
«Un giorno, forse».
Sherlock abbassò lo sguardo, come se si vergognasse, e disse a bassa voce: «Tu hai mantenuto la tua promessa, mentre io non sono riuscito a fare la mia parte. Mi dispiace».
«Ne sei proprio sicuro?».
Il detective alzò il capo, le labbra dischiuse, ma una voce femminile annunciò che il treno stava per partire, interrompendolo sul nascere.
Arsène si costrinse a sciogliere definitivamente l'abbraccio e porse la mano alla figlia, la quale la afferrò e sorrise guardando i volti delle tre persone che in poche settimane erano diventate tra le più importanti e care per lei.
«Grazie di tutto», disse inchinandosi come una vera lady.
Il Ladro Gentiluomo, nascondendo l'orgoglio, la accompagnò fino alla carrozza e le tenne la mano fino a quando non furono entrambi a bordo.
Arsène si voltò un'ultima volta e guardando Sherlock esclamò: «Sai, oggi pomeriggio ho conosciuto tua sorella. Per essere uno che non crede nelle seconde occasioni, devi volerle davvero molto bene».
«Sherlock ha una sorella?», fu il commento di Molly, rivolta a John.
La porta della carrozza si chiuse, impedendo loro di sentire la sua risata cristallina.
Sherlock e Arsène si scambiarono un ultimo sguardo e il detective gli fece segno di controllarsi la tasca della giacca. Il ladro lo fece e i suoi occhi si riempirono di lacrime nel ritrovarsi tra le dita il crocifisso della madre. Se lo portò alle labbra in un bacio e poi aprì la bocca per ringraziare il detective, ma il treno aveva già iniziato a muoversi.
John e Molly salutarono con la mano Geneviève, la quale si stava sbracciando da dietro il finestrino, poi rimasero per qualche secondo in silenzio a fissare la coda del treno che veniva inghiottita dal buio.
«Da quando hai una sorella?», ripeté la domanda Molly, quella volta ponendola direttamente al consulente investigativo, il quale alzò gli occhi verso la volta di vetro sopra le loro teste.
«Sarà una lunga notte», dedusse.
Quindi cinse le spalle della scienziata con un braccio e insieme a John e Rosie uscirono dalla stazione di St. Pancras. 




Note:
Scuola per giovani dotati = Istituto per giovani mutanti di Chales Xavier, X-Men
Wammy's House = Istituto/orfanatrofio frequentato da L, detective di Death Note

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Capitolo 24
*** Epilogue ***


24. Epilogue


Molly bussò contro lo stipite della porta che dava sul soggiorno ed entrò.
Sherlock era in piedi davanti alla mensola del camino e fissava con sguardo assente il teschio di nuovo scoperto e la fotografia, presa da un quotidiano ed incorniciata, che ritraeva lui e Arsène ammanettati sulla soglia del 221B, mentre si rigirava tra le dita un sacchettino di plastica trasparente in cui era conservato un pezzo di stoffa intriso di sangue. Il sangue del Ladro Gentiluomo.
John gliel'aveva dato a Natale, come se si trattasse di un regalo, e ancora non aveva deciso che cosa farne. Se l'avesse ricevuto un mese prima non avrebbe esitato un attimo, ma dopo tutto quello che era successo... era seriamente tentato di gettarlo nel fuoco del camino e fingere di non averlo mai posseduto.
Il detective trattenne un sospiro e alzò il capo verso l'anatomopatologa per dedicarle tutta la propria attenzione.  
Non l'aveva mai vista così felice come negli ultimi dieci giorni e tutto quello che aveva dovuto fare era stato essere sincero.
Le aveva raccontato di quello che era successo con Magnussen, di sua sorella e dell'infanzia che aveva riscritto per proteggersi dalla sofferenza, delle prove a cui l'aveva sottoposto Eurus (e per le quali si era inaspettatamente scusata - con poche parole, ma pur sempre parole - quando era andato a trovarla con Mycroft e i suoi genitori la mattina di Natale) e persino dei sentimenti che aveva scoperto di provare per lei, ma il loro rapporto non era cambiato come temeva.
Molly aveva ascoltato tutto senza mai interromperlo, seduta sulla poltrona di John, e quando alla fine si era alzata e si era avvicinata, Sherlock aveva chiuso gli occhi, temendo uno o più schiaffi. Invece si era ritrovato col volto premuto contro il suo ventre, le sue braccia a circondargli il capo e la sua mano destra ad accarezzargli i capelli.
«Mi dispiace tanto», aveva sussurrato e Sherlock non aveva capito, non all'inizio.
«Mi dispiace che tu abbia sofferto in questo modo. Ora capisco perché per così tanto tempo hai preferito la solitudine... Non volevi che accadesse qualcosa di brutto alle persone al tuo fianco, com'è successo al tuo amico d'infanzia. Tuttavia sono convinta che vivere in questo modo non sia giusto, né per noi né, soprattutto, per te. Quello che è fatto è fatto, Sherlock, e mi dispiace. Mi dispiace così tanto...».
Alla fine, il super-detective, nella sua totale ignoranza, era riuscito a comprendere quello che in realtà Molly non riusciva a dire, nascondendosi dietro tutti quei "Mi dispiace": il suo amore non sarebbe bastato per entrambi, non più. Da sola, lei non era in grado di lavare via il sangue con cui si era macchiato le mani e ci sarebbe voluto del tempo per capire come adattarsi l'uno all'altra ora che il muro che li separava era stato definitivamente abbattuto. Bisognava liberarsi delle macerie e avrebbe richiesto dell'impegno. Ad ogni modo, chissà perché, Sherlock era speranzoso.
Aveva sempre immaginato che sarebbe rimasto solo perché "sposato" col proprio lavoro e in qualche modo questo non sarebbe mai cambiato: non sarebbe mai stato un fidanzato convenzionale né avrebbe cambiato stile di vita per qualcuno. Ironia della sorte, ora che aveva compreso che non aveva bisogno di cambiare per stare con Molly Hooper, era lei a fare un passo indietro.
«Cosa posso fare per rimediare?», le aveva chiesto allora, ricambiando la stretta cingendole la vita con le braccia. «Una colpa così grande...».
«Dovrai sopportarne il peso per tutta la vita, è così. Tutto quello che puoi fare, che devi fare, è impedirle di schiacciarti. Fai quello che hai sempre fatto, Sherlock; fai quello che ti viene meglio: aiuta gli altri».
Il consulente investigativo era rimasto in silenzio a lungo, con le lacrime agli occhi e i polmoni pieni del profumo e del calore di Molly. Avrebbe voluto dirle che l'amava come mai aveva fatto prima, ringraziarla per essere sempre stata al suo fianco, ma non una parola gli era uscita di bocca. Sperava che lei, grazie al suo inimitabile talento, l'avesse capito comunque.
«Hai bisogno di me per un caso?», gli chiese mentre aggirava un cavalluccio a dondolo di splendida manifattura: il regalo di Natale di Arsène Lupin per Rosie.
Sherlock, ritornato alla realtà, continuò l'ispezione e la trovò particolarmente bella quella mattina: indossava dei pantaloni beige, una camicetta e un maglioncino bianco e portava i capelli raccolti, con un ciuffo laterale a coprirle parte della fronte. O forse a renderla più bella era semplicemente il sorriso che le illuminava il volto.
Si sentì quasi inadeguato in vestaglia, ma ignorò quel pensiero e prendendola per le spalle la condusse davanti alla scrivania, dove la fece sedere davanti al pc aperto su un'email.
«È arrivata questa mattina. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere leggerla».
Gli occhi di Molly si ingrandirono quando capì che la mittente altri non era che Geneviève, la quale raccontava loro del Natale trascorso con suo padre e Victoire a Parigi e delle paure e delle speranze legate alla scuola che avrebbe iniziato a frequentare a partire dal 2 Gennaio.
«Darei qualsiasi cosa per poterle parlare, dirle che il primo giorno è difficile per tutti».
«Per me non lo è stato», mentì Sherlock, beccandosi una gomitata nello stomaco.
Il detective sorrise e si chinò al suo fianco, accostando il volto al suo, per aprire l'allegato: un selfie che ritraeva lei e Arsène avvolti in un'unica sciarpa fatta a mano, in cima alla Torre Eiffel e con due sorrisi ancora più luminosi di tutte le luci di una Parigi addobbata a festa per il Capodanno.
«Sono tanto contenta per loro», disse Molly, quasi commossa. «Si meritano un po' di felicità».
Sherlock non replicò, bensì le mostrò la bozza di risposta che aveva iniziato a scrivere. Molly corresse alcuni punti, mettendoci un po' di umanità, e poi gli chiese se volesse allegare anche lui delle foto.
«Sì, pensavo queste due».
Aprì le fotografie che aveva scelto tra il mucchio di quelle scattate durante la festa di Natale al 221B e Molly arrossì quando si ritrovò davanti agli occhi l'immagine del bacio che erano stati costretti a darsi per colpa di John e la signora Hudson, i quali si erano messi d'accordo per farli passare sotto il vischio. Lei aveva provato a rifiutarsi in realtà, invece Sherlock non aveva fatto una piega e prendendole il volto tra le mani aveva posato le labbra sulle sue, per poi sussurrarle: «Facciamoli contenti, si sono impegnati tanto». Molly l'aveva fissato e la luce che gli aveva visto negli occhi, così diversa dalla tristezza a cui si era quasi abituata, le aveva fatto sorgere il sospetto che il detective avesse aspettato un assist del genere per tutta la sera. Aveva allontanato subito il pensiero ovviamente, ma il sorriso che lui e John si erano scambiati poco dopo, vicino al pudding...
«Oh mio Dio, non sapevo che qualcuno avesse scattato una foto!», esclamò lei, coprendosi il volto. «Chi è stato?».
«Lestrade».
«La prossima volta che passa in laboratorio gliene dico quattro, eccome!».
«Non capisco, sei arrabbiata per la foto o per il bacio in sè?».
Molly si girò verso di lui e i loro nasi si sfiorarono, tanto erano vicini i loro volti.
«Io... È vero che ti ho chiesto del tempo, ma... Come puoi pensare che sia arrabbiata per il bacio? La verità è che quello che provo per te mi spaventa, perché nonostante tutto non smetterò mai di...».
Sherlock però non le lasciò finire la frase. La baciò, quella volta senza scuse da poter sfruttare, e quando si allontanò le tenne comunque il volto perché non distogliesse lo sguardo mentre le diceva con tono serissimo: «Anche io sono spaventato dai tuoi sentimenti. Terrorizzato».
Molly deglutì a vuoto, le sopracciglia aggrottate. «Uhm... grazie?».
Il detective si tirò su, imbarazzato, e senza più dire una parola andò in camera da letto per disfarsi della vestaglia e recuperare una giacca.
«Vieni con me», le disse sbrigativo, porgendole la mano.
«Dove andiamo?».
«È tempo che tu conosca una persona».
Molly deglutì di nuovo, nervosa, ma si fidava di lui e per questo afferrò la sua mano.
Presero un taxi e Molly capì tutto quando sentì Sherlock dare l'indirizzo all'autista. Sorrise dolcemente e strinse un po' più forte la mano del detective, ma rispettò il suo silenzio.
Quando raggiunsero l'ospedale Sherlock esitò davanti alle porte scorrevoli e Molly si chiese se avesse fatto così anche tutte le altre volte che era andato a trovarla o se si trattasse della sua presenza. Alla fine però entrarono e lui camminò a passo sicuro tra i corridoi, conoscendo a memoria la strada.
Raggiunsero una stanza privata, del tutto spoglia se non fosse stato per un vaso di fiori che dovevano essere del giorno prima, e Molly sentì un peso enorme schiacciarle il petto al pensiero che quella donna aveva posseduto il corpo di Sherlock e forse anche un pezzo del suo cuore, visto e considerato che andava a trovarla ogni giorno.
Una sera in cui si era sentito particolarmente in vena di confidenze le aveva detto che si riteneva responsabile per ciò che le era accaduto, che se le avesse detto la verità lei non si sarebbe mai rivolta ad Arsène e poi alle persone che l'avevano ridotta in quello stato, ma Molly la pensava diversamente. Imitando Arsène, avrebbe voluto dirgli di quel proverbio che faceva: "Chi semina vento raccoglie tempesta", ma alla fine era rimasta in silenzio.
Uno dei dottori che l'aveva in cura, avvisato del suo arrivo, si avvicinò e gli disse che purtroppo non c'erano novità. Sherlock annuì mestamente e Molly, guardandolo, capì che c'era un'altra ragione per cui l'aveva portata con sé: stava perdendo le speranze.
La scienziata tirò fuori le proprie conoscenze mediche e gli parlò da dottore a dottore, facendogli notare che per il momento non c'era motivo di demoralizzarsi in quel modo: finché c'era attività celebrale c'era la possibilità che si svegliasse da un momento all'altro.
Sherlock la guardò ammirato mentre congedava il dottore e poi entrarono nella stanza di Irene Adler. Il suo petto si alzava ed abbassava grazie al respiratore, una serie di tubi le sparivano sotto le maniche della camicia e la pelle delle sue mani e del suo volto era così pallida da confondersi con il bianco delle lenzuola.
Molly avvicinò una mano ai suoi capelli scuri e li accarezzò col dorso delle dita, sentendo la gola bruciare. Lei non la conosceva, ma conosceva il dolore che si provava quando una persona cara stava per andarsene e alzò gli occhi su Sherlock, trovandolo appoggiato alla sponda ai piedi del letto con entrambe le mani.
«Pensi davvero che si sveglierà o lo dicevi per compassione?», le domandò lui ad un tratto.
«Hai detto che voleva disperatamente incontrarmi, no? E da come me ne hai parlato ho capito che è una combattente, una che lotta con le unghie e con i denti, perciò non ho dubbi: si sveglierà».
«E la cosa non ti preoccupa?».
Molly frenò una risata. «Sei ancora innamorato di lei?».
«Non credo che quello che c'era tra noi potesse definirsi amore, almeno per quanto mi riguarda».
«Ecco la tua risposta».
Sherlock la raggiunse e le cinse la vita con un braccio, una mano a stringere quella di Irene.
Sì, ne era sicuro: prima o poi si sarebbe svegliata e avrebbe avuto la sua seconda occasione. Doveva avere fede, come gli aveva insegnato Arsène.

***

Nemmeno la spettacolare vista della Grande Barriera Corallina fu in grado di tirarle su il morale.
Pensava che suo padre l'avrebbe accompagnata fino al cancello della scuola, purtroppo però le coordinate dell'isola in cui si trovava l'istituto - da qualche parte nel Mar dei Caraibi - dovevano rimanere top secret persino a lui.
A quel punto le erano sorti mille dubbi, ma in realtà era semplicemente spaventata di iniziare da zero un'altra volta. Ormai avrebbe dovuto esserci abituata, ma quella volta sarebbe stata sola, su un'isola piena di ragazzini super-intellingenti, e aveva paura di non essere all'altezza.
«Io invece sono convinto che te la caverai alla grande», le aveva detto suo padre salutandola con un abbraccio e un bacio sulla fronte.
Poi era stato il turno di Victoire, la quale le aveva lasciato tra le mani un sacchetto simile a quello che le aveva dato quando si erano conosciute.
«E se i tuoi compagni non si dimostrassero amichevoli offri loro un biscotto, va bene bonbon?».
La donna portava gli occhiali da sole, come il novanta percento del tempo, ma Geneviève l'aveva capito dalla voce che si stava trattenendo dal piangere.
Quindi era salita su quell'elicottero militare scortata da un uomo armato, vestito completamente di nero e con degli occhiali a mascherina che gli nascondevano gran parte del viso, ed era partita.
Tra le mani stringeva ancora il sacchetto con i biscotti e il cellulare, giusto per dirsi che poteva chiamare suo padre in qualsiasi momento, ma anche quella specie di auto-consolazione venne spazzata via quando il militare seduto al suo fianco le disse: «Probabilmente non ti hanno avvisata, ma non c'è campo sull'isola dei piccoli geni. Per una questione di sicurezza siete completamente isolati dal mondo. Perciò scordati anche Netflix».
Per fortuna Sherlock aveva risposto alla sua e-mail il giorno precedente!
«E non si può in alcun modo comunicare con la terra ferma?», domandò quindi, in ansia.
«Questo elicottero e la nave che porta i rifornimenti speciali sono l'unico contatto con la terra ferma. Per il resto l'isola è stata resa quasi completamente autosufficiente: ci sono pozzi e cascate per l'acqua, campi coltivati, allevamenti di bestiame, navi da pesca... Tutto quello che vi arriva in tavola è kilometro zero. Solo il meglio per i nostri piccoli geni».
«La smetta di chiamarci così».
Il militare sogghignò. «Piccoli geni? Vedrai, ti abituerai. Cos'hai in quel sacchetto?».
«Non lo sa? Mi ha perquisita da capo a piedi prima di farmi salire».
«Ehi, facevo solo il mio lavoro».
Geneviève sospirò ed aprì il sacchetto. «Biscotti».
«Posso averne uno?».
«Prego».
«Io sono Kinnon, comunque. Tu ti chiami?».
«Geneviève».
L'uomo infilò una mano nel sacchetto e si portò un dischetto con le gocce di cioccolato alla bocca, sbriciolandosi sulla divisa. Mentre faceva commenti d'apprezzamento le parve molto più umano e la ragazzina si rilassò, riuscendo persino a stendere un sorriso.
«Prima ha detto che c'è una nave che porta dei rifornimenti speciali. In che cosa consistono?».
«Oh beh, quelle cose che sull'isola non si possono produrre: medicinali, vestiti, armi...».
«Cioè mi sta dicendo che se tra i "piccoli geni" uno svalvola e diventa un pazzo omicida avrebbe delle armi per farci fuori tutti?!».
Il militare si tolse gli occhiali, rivelando un paio di glaciali occhi azzurri, e la fissò sbalordito. «Qual è il tuo problema, ragazzina? Sono cinquant'anni che esiste questo programma e non è mai successo nulla del genere».
«Potrebbe accadere proprio mentre ci sono io», mormorò.
«Okay, senti: su quell'isola gli studenti vengono sorvegliati praticamente ventiquattr'ore su ventiquattro da noi delle forze speciali e all'istituto lavorano alcuni dei migliori psicologi del mondo, perciò se anche qualcuno dovesse mostrare segni di squilibrio - e ti ripeto che non è mai successo, dato che i prescelti hanno tutti un pedigree impeccabile - verrebbe subito messo in isolamento e poi rispedito sulla terra ferma».
«Pedigree? Adesso ci paragona a dei cani?».
Kinnon si infilò nuovamente gli occhiali, sbuffando. «Era una metafora per dire che solo gli studenti con un albero genialogico impeccabile vengono ammessi. Per capirci: nessun figlio di criminali ha mai messo piede sull'isola. Fin'ora almeno». Fece per grattarsi la testa, ma ricordandosi di indossare il caschetto ci rinunciò. «Non saprei dirti se è una regola, ma sta di fatto che...».
«Grazie per la spiegazione, tutto molto interessante», lo interruppe bruscamente la ragazzina, tirando fuori dallo zainetto le cuffie ricevute come regalo di Natale da Sherlock ed isolandosi nella propria musica.
Paradossalmente, anziché tranquillizzarla Kinnon aveva aggravato le sue fobie al limite della paranoia.
Nè Mycroft Holmes nè suo padre l'avevano informata di quel piccolo, insignificante dettaglio: anche in quella scuola per ragazzi speciali, dove sperava finalmente di essere apprezzata per tutto ciò che era, avrebbe dovuto tenere nascosto che era la figlia del ladro più famoso di Francia, pena l'espulsione, la reclusione in un qualche sotterraneo o magari la correzione del gene criminale che aveva nel DNA tramite chissà quale avanzato trattamento.
Il viaggio non fu troppo lungo, per fortuna, e l'elicottero atterrò su una piattaforma a qualche chilometro dall'isola, rendendola ancora più inacessibile agli occhi di Geneviève. Fu fatta salire su un humvee - manco dovessero attraversare una zona di guerra - il quale poi fu caricato su un traghetto che li portò finalmente a riva. Lì percorsero un paio di chilometri di spiaggia bianca, costeggiando a sinistra l'oceano cristallino e a destra delle pareti rocciose su cui la vegetazione cresceva rigogliosa.
La geografia le era sempre piaciuta e quell'isola aveva tutte le caratteristiche per essere di origine vulcanica.
Ci manca solo un vulcano, pensò affranta, mentre nelle orecchie i Fall Out Boy le dicevano che i ragazzi non stavano bene.
Ad un tratto la spiaggia terminò a causa di una parete rocciosa che continuava per diversi metri nell'oceano, tuttavia il mezzo militare non rallentò né l'uomo alla guida si preparò a cambiare direzione. Kinnon invece se la rideva sotto i baffi, in attesa che iniziasse a gridare per la paura forse, e Geneviève decise che non gliel'avrebbe data vinta: tirò fuori il coraggio e la sfrontatezza dei Lupin ed accavallò le gambe, sorridendo tranquilla in direzione della parete di pietra.
Come aveva immaginato una lastra di forma rettangolare scivolò di lato, mostrando una galleria segreta che portava verso la superficie, rivestita in metallo ed illuminata da moderne luci a led.
«Hai fegato, ragazzina», le disse Kinnon. «Non sai quanti prima di te se la sono fatta sotto».
Geneviève sorrise orgogliosa e fu quasi accecata dalla luce del sole quando uscirono dalla galleria e si ritrovarono in un viale cementato nel bel mezzo di una foresta tropicale. C'erano pappagalli e lemuri che passavano di albero in albero sopra le loro teste e la biondina si portò le cuffie intorno al collo per ascoltare i suoni della natura.
«Siamo arrivati», esclamò ad un tratto Kinnon, puntando il dito verso la facciata di un edificio dai mattoni scuri che le ricordò il duomo di Notre Dame con i suoi rosoni, le nicchie ogivali e le guglie appuntite.
Davanti al portone principale c'erano altri due uomini delle forze speciali, i quali diedero loro il lasciapassare per accedere al grande quadrilatero interno, circondato su tre lati da un porticato, da cui si entrava ufficialmente nell'istituto.
Geneviève scese dall'humvee e si guardò intorno con la netta sensazione di essere finita in una scuola cattolica del tardo Medioevo: mancavano solo le suore e i frati incappucciati.
«Bene, ti auguro una buona permanenza».
La ragazzina si voltò verso il militare, il quale nel frattempo aveva scaricato i suoi bagagli ed era già risalito sulla vettura.
«Aspetti un momento! Dove dovrei andare?».
Kinnon le scompigliò i capelli sulla testa e le indicò la scalinata centrale, sormontata da due leoni simili a quelli di Trafalgar Square.
«Non ti preoccupare, prima o poi qualcuno lo troverai».
«Cosa? Ma...».
L'uomo le fece il saluto militare, dopodiché il collega fece inversione ad U e la lasciarono sola nel quadrilatero deserto.
Geneviève raccimolò il coraggio e, zaino in spalla, trascinò il pesante trolley su per la scalinata fino al portone che trovò socchiuso. Allora entrò e rimase stupefatta nel notare che se l'esterno somigliava in tutto e per tutto ad una chiesa gotica, l'interno era ultra-moderno: i pavimenti erano di lucido marmo bianco, le porte a scorrimento elettronico e in mezzo alle grandi scale a chiocciola che si trovavano ai lati della sala c'erano persino due ascensori in vetro.
«C'è nessuno?», esordì nel modo più banale possibile, ma ottenne l'effetto desiderato.
«Signorina Geneviève?».
La ragazzina sobbalzò e si guardò intorno, realizzando che dovevano averle parlato attraverso gli altoparlanti che si trovavano ai lati del grande salone, sotto le telecamere.
«Sì, sono io», rispose con voce incerta.
«Io mi chiamo Natalie e dirigo questo istituto. Mi dispiace per la scarsa accoglienza, ma il personale, così come la maggior parte degli studenti, è ancora in congedo per le feste. Ti dispiacerebbe raggiungermi nel mio ufficio? Lascia pure lì i tuoi bagagli, li prenderai dopo».
«Okay».
«Perfetto! Adesso ti indicherò la strada. A tra poco!».
Una luce blu illuminò il pavimento davanti a lei e Geneviève realizzò che quello che aveva scambiato per marmo era in realtà un pavimento formato da mattonelle di led impostate per sembrare semplice marmo.
«Su su, avanti, non avere paura».
Geneviève seguì le mattonelle luminose fino a giungere in un'altra sala che sembrava proprio un salotto comune sviluppato su più piani, con tanto di divani, TV al plasma e giochi di ogni tipo, tra cui anche un tavolo da biliardo.
Proseguì ancora e si ritrovò in un altro giardino circondato da porticati in pietra.
«E adesso?», si domandò e si guardò intorno per cercare la luce blu che doveva farle da guida. Alla fine notò una lampada illuminarsi ritmicamente dall'altra parte del giardino e si affrettò a raggiungerla, ma a metà percorso finì per sbattere contro qualcuno che era uscito da una porta scorrevole senza guardare davanti a sé, probabilmente perché non poteva: diversi scatoloni una volta pieni di libri, appunti, vestiti ed effetti personali gli erano caduti nello scontro ed ora tutto era sparpagliato per terra.
«Ohi-ohi, pensavo che queste cose accadessero solo nei film», esordì il ragazzo e Geneviève  si ritrovò ad arrossire incrociando i suoi occhi blu, vivaci e sorridenti.
Lui fu il primo ad alzarsi e le porse le mani per aiutarla. Lei le accettò e pur di levarsi dall'imbarazzo si concentrò sul disastro ai loro piedi: «Ti do' una mano a mettere a posto, va bene? In fondo è anche colpa mia».
«Ti ringrazio. Sei nuova? Ma certo che sì, che domanda idiota. Io mi chiamo Isidore Beautrelet».
Geneviève gli strinse la mano dopo aver infilato in una scatola una pila di libri, un po' sorpresa. «Sei francese pure tu?».
«Nato e cresciuto a Castagniers, vicino a Nizza».
«Lo conosco! Io abitavo ad Aspremont, è praticamete lì accanto!».
«Ma non mi dire! Che coincidenza incredibile trovarci qui, non trovi?».
«Io sono Geneviève. Geneviève Destange».
«È un vero piacere. Posso chiamarti Gen?».
La bionda sorrise ed annuì, felice di aver trovato qualcuno con cui poter condividere qualcosa. Il fatto che fosse così carino era tanto di guadagnato.
Mancava ormai poca roba da raccogliere e Geneviève non riuscì a trattenere la curiosità: «Come mai gli scatoloni?».
«Perché me ne sto andando».
E addio ai suoi sogni di aver già trovato un amico.
Notando la sua espressione triste Isidore strinse gli occhi e scosse freneticamente le mani davanti al volto.
«No, mi sono spiegato male! Sto andando via da quell'ala del dormitorio perché quest'anno hanno deciso di tenere maschi e femmine in un unico edificio! Non sto andando via dall'isola. Magari. Sono due anni che non vedo la terra ferma».
Forse parlava un po' troppo per i suoi gusti, ma era un difetto a cui poteva facilmente porre rimedio una volta ottenuta maggiore confidenza.
«Quindi hai trascorso qui le vacanze di Natale e il Capodanno?», gli domandò ad occhi bassi, sentendosi all'improvviso estremamente fortunata.
«Già. Quest'anno è stato ancora più triste dell'anno scorso, dato che non è rimasto nessuno a parte me».
«Nessuno? Vuoi dire davvero che tu hai trascorso il Natale su un'isola deserta?».
«No, deserta no... C'erano Natalie, lo chef Kazuo e gli agenti speciali Bust e Tonnerhop. Mi riferivo agli studenti».
«Ho capito».
Geneviève raccolse una serie di appunti e poi dei fogli pinzati insieme il cui titolo attirò la sua attenzione: "Arsène Lupin e il Faraglione Cavo - Il mistero risolto da Isidore Beautrelet".
«E questo che cos'è?», gli domandò la ragazzina.
Isidore alzò di scatto il capo e il suo viso si imporporò. Le strappò il plico dalle mani e se lo portò al petto con una mano, mentre con l'altra si tirava indietro i capelli biondi che per via del caldo e dell'umidità si erano arricciati sulla fronte e sul collo.
«È un progetto a cui sto lavorando da qualche mese a questa parte, ma è difficile lavorare a un vecchio caso in condizioni normali, figuriamoci confinati qui».
«Tu... Tu sei un fan di Arsène Lupin?», la buttò lì, fingendosi non troppo interessata, ma lo era eccome.
«Sono un fan della sua mente», rispose Isidore, di nuovo sorridente. «Il mio sogno è affrontarlo e riuscire ad arrestarlo. Sherlock Holmes ci è andato così vicino, prima di Natale! In quell'occasione ammetto di aver tifato per il Ladro Gentiluomo perché voglio essere io a batterlo».
«Cavolo, sei un tipo ambizioso». Geneviève si alzò e sorridendo nervosamente indicò la luce blu che stava ancora lampeggiando. «Scusami, ma Natalie mi sta aspettando e non vorrei farla arrabbiare il primo giorno».
«Oh, se vuoi ti posso accompagnare nel suo ufficio!».
La ragazzina si guardò intorno alla ricerca di un modo gentile per scaricarlo. «Davvero, non è necessario. Ti ho fatto sprecare già troppo tempo».
«Figurati, il tempo è l'unica cosa che non mi manca».
Sorridendo le afferrò la mano e Geneviève non poté far altro che seguirlo lungo i corridoi, tra le varie stanze e sulle scalinate. Tutto era avvolto nel silenzio.
Provò a rimanere concentrata sul percorso, in modo da poterlo fare da sola al ritorno, ma il calore della sua mano, il suo sorriso e i suoi occhi brillanti la stavano mandando in tilt. Ed era la cosa peggiore che potesse capitarle, dato che Isidore era un aspirante detective il cui sogno era quello di catturare suo padre.
«E, dimmi una cosa», lo interruppe durante la spiegazione sulle attività serali.
«Sì, chiedimi pure quello che vuoi».
«Quand'è che ritorneranno gli altri studenti?».
Isidore, candido ed ingenuo, non capì il sottotesto di quella domanda e rispose: «L'8 Gennaio».
«Ah. Quindi per sei giorni saremo qui da soli, dico bene?».
Il ragazzo sorrise. «Corretto».
«Fantastico», mormorò Geneviève senza farsi sentire e finalmente raggiungerso la porta dell'ufficio della preside.
«Vai, io ti aspetto qui», le disse dopo aver bussato.
La voce femminile che Geneviève aveva sentito attraverso gli altoparlanti le diede il permesso di entrare e lei rivolse uno sguardo scioccato ad Isidore.
«Non so quanto mi tratterrà lì dentro!».
«Non ti preoccupare». Il ragazzo si addossò contro la parete e si lasciò scivolare sul pavimento con le mani intrecciate dietro la testa e le gambe stese. «Come ti ho già detto, ho fin troppo tempo libero».
Geneviève sospirò affranta. Si sarebbe innamorata di quel ragazzo e del suo stupido sorriso, ne era certa.
Senza dire una parola si tolse lo zainetto dalle spalle e tirò fuori il sacchetto di biscotti di Victoire per lanciarglielo. Isidore lo afferrò al volo, un po' confuso, ma Geneviève non gli diede il tempo di porre domande, aprendo la porta e sparendo all'interno dell'ufficio della preside, nel quale venne colta di sorpresa dalla vista mozzafiato di cui si godeva dalle ampie finestre accanto alla scrivania: si vedevano la foresta, la spiaggia che avevano attraversato con l'humvee e in lontananza il traghetto che portava alla piattaforma d'atterraggio in mezzo all'oceano, ma anche tutto ciò che Kinnon le aveva descritto e anche di più: serre e campi coltivati con ortaggi, alberi da frutto e vitigni; fattorie con recinti pieni di mucche, pecore e cavalli; campi da tennis, da basket, da calcio e da baseball; un'arena per il tiro con l'arco e quella che sembrava proprio una piscina olimpionica coperta da una cupola di vetro.
«So cosa stai pensando, bambina mia».
Geneviève posò gli occhi sulla donna seduta dietro la scrivania e la trovò infinitamente più giovane di quanto si era immaginata: avrà avuto trent'anni al massimo ed era una bomba sexy con le sue gambe lunghe, il decolté prorompente e un viso bellissimo contornato da morbidi boccoli neri.
«Ah sì?», le domandò arrossendo.
«Pensi che, più che una scuola, questo sembra un resort. Non hai tutti i torti».
La donna si alzò dalla poltrona e la raggiunse al centro dell'ufficio muovendo sinuosamente i fianchi, dopodiché le alzò il volto e sorridendo ammaliante aggiunse: «Grandi menti hanno bisogno di corpi sani e in forma, per questo prendiamo molto sul serio lo sport e l'alimentazione. Ma per ottenere risultati questo non basta: serve impegno e sacrificio. Sei pronta, Geneviève Lupin?».
La ragazzina rimase a bocca aperta. «Allora... Allora lei lo sa chi sono».
«Certo che lo so».
«E mi ha... mi ha ammessa comunque in questa scuola?».
«Diciamo che tu sei il mio piccolo esperimento», ammise, pizzicandole il naso prima di dirigersi verso le finestre con le mani intrecciate dietro la schiena. «Sei la prima figlia di un criminale che mette piede su quest'isola e voglio vedere che effetto farà sui nostri studenti».
Geneviève strinse i pugni lungo i fianchi, adirata. Prima che potesse dimostrare a parole il proprio malcontento però Natalie si voltò e le rivolse un sorriso quasi materno.
«Io non mi preoccuperei troppo se fossi in te. Dubito che tra i nostri piccoli geni ci sia qualcuno di così stupido da credere che esista il "gene del criminale". Qui i pregiudizi non esistono: conta solo cosa puoi fare per rendere il mondo un posto migliore. Ricordatelo».
La ragazzina annuì, ammettendo che il mondo sarebbe potuto essere un posto migliore se solo tutti avessero ragionato in quel modo sin dall'inizio.
«Bene, bambina mia». Natalie diede le spalle alla finestra e aprì le braccia. «Sei pronta ad uscire dall'ombra di tuo padre e a scoprire cosa rende speciale te?».
La figlia di Arsène Lupin chiuse gli occhi e quando li riaprì erano quelli pieni di determinazione di Geneviève. Sì, era pronta.



FIN




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Non mentirò, non è mia abitudine. È stata dura, a volte è stata durissima. Ci sono stati momenti in cui credevo di non farcela, di essermi imbarcata in qualcosa di più grande di me. Eppure, grazie all'affetto e al sostegno di tutti voi, che avete letto questa mia creatura, e all'amore incondizionato che nutro per questi personaggi - dal primo all'ultimo - sono riuscita a rimboccarmi le maniche e a giungere alla fine di questa avventura. Ho provato un misto di soddisfazione e tristezza quando ho spuntato quel "sì" a completamento della storia, perché mi mancherà da morire il nostro appuntamento domenicale.
Quello che spero è che non sia una fine definitiva: da qualche parte Sherlock continuerà a risolvere casi con l'aiuto di John, Molly, Lestrade e gli altri; Arsène continuerà la sua personale lotta contro il male nell'unico modo che conosce e sa fare, seguito da Victoire, François, il resto della sua banda e sorvegliato dall'alto da Grégorie; Geneviève crescerà e diventerà una splendida donna capace di fare le sue scelte; Maurice scriverà le avventure del ladro e farà carriera; Ganimard ritroverà l'equilibrio tra le famiglia e il lavoro, senza sacrificare niente, e sarà felice; e, un giorno, tutti quanti calcheranno di nuovo lo stesso palcoscenico per regalarci nuove emozioni.
Questo è quello che spero, ma per ora mi godo ciò che sono riuscita a fare fino a questo momento e tutte le parole e i complimenti inaspettati che mi sono arrivati.
Vorrei ringraziarvi tutti, uno per uno, ma è impossibile. Perciò grazie a chi ha messo questa storia tra le seguite/preferite/ricordate. Grazie a chi ha letto semplicemente. Grazie a chi ha commentato, una sola volta oppure quasi tutti i capitoli (tra cui non posso fare a meno di citare: LadyStark, BorderCollie, Shimba97, CreepyDoll e Intergirl84. Leggere le vostre recensioni, settimana dopo settimana, mi ha resa felice e in alcuni momenti mi ha dato la forza per andare avanti!). Un grazie speciale alla già citata Shimba97 , la quale ha ritenuto questa storia degna di una segnalazione per le storie scelte della categoria.
Grazie a Sir Arthur Conan Doyle e all'Onorevole Maurice Leblanc per aver creato due dei personaggi più iconici della letteratura, che io amo alla follia.
Grazie di cuore a tutti ♥
Ci vediamo presto, qui e in qualche altro fandom! ;)

Sempre vostra,

_Pulse_



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