One thousand paper planes

di kirarin3000
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** 2008 ***
Capitolo 3: *** Adam ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


Prologue.

« A quanto pare lì fuori c’è davvero qualcosa. È quel che dicono. Che ci sia qualcosa, ma che ci abbia abbandonati al nostro destino. O come preferiscono dire i fedeli e gli illusi, ci ha dotati di libero arbitrio. Oh, che gioia! Ma che regalo meraviglioso! » 

L’uomo, scura barba incolta, carnagione olivastra, gli occhi taglienti e neri più del catrame, sbuffò e rise isterico ed amareggiato. Il neonato sussultò tra le sue braccia, svegliandosi dal suo sonno già precario, avvolto in una tutina leggera color verde pallido. Iniziò a piagnucolare, a scuotere i braccini intorpiditi e scoordinati. L’uomo, come fosse un soprammobile qualunque lo adagiò sul divano grigio e impolverato, poi continuò, certo che l’infante gli stesse prestando attenzione.
« Che ingegnoso modo di lavarsi le mani dalla propria responsabilità di aver creato qualcosa di imperfetto. Solo i codardi non ammettono il fallimento, ricordalo bene, tienilo bene a mente. Qualunque sia il tuo nome o la tua classe sociale, la tua umanità potrà condurti verso entrambi i sentieri: quello che ti darà il successo o quello che ti renderà miserabile. » sbuffò ancora, ma questa volta non rise. L’idea del sentiero dei miserabili non lo entusiasmava affatto. Sollevò le maniche della camicia bianca, in lino, priva di grinze, ma con qualche macchiolina di sangue sparsa qua e là, indossò i guanti neri in lattice e rassegnato alla fatica imminente afferrò il cadavere della donna dai polsi gelidi e lo adagiò con non troppa delicatezza dentro un grosso sacco nero.
« Ah, ma certo, noi parliamo di un Dio, non di certo di un qualunque essere umano. Figuriamoci, un simile pezzo grosso non potrebbe mai provare pentimento o essere punito. » riprese il suo soliloquio, per niente contento del fatto che il bambino avesse preso a piangere e strillare. Guardò l’ora sull’orologio bianco appeso alla parete e alzò le spalle. Era appena in ritardo, ma non poteva di certo rischiare di sporcarsi ulteriormente. Si prese addirittura un attimo per osservare il viso della donna che sporgeva ancora dal sacco. Si disse che era davvero un peccato. In un’altra vita, in cui magari avesse avuto qualche soldo in più e qualche motivo di piangere in meno, sarebbe potuta dirsi una bellissima donna. Erano in particolare gli occhi di lei ad attrarlo: grandi e blu come il mare. Il resto poteva dirsi presumibilmente accettabile, ma era come mostrare ad un miope un bel dipinto da lontano. Non avrebbe mai potuto avere una visione dettagliata dell’insieme del dipinto. Allo stesso modo l’uomo non poteva sapere quale sarebbe potuto essere l’aspetto della donna senza la sua triste vita nel paesello di Kamoenai, al ritmo di droga, alcol, depressione e povertà. Guardò il neonato che piangeva tanto da rischiare il soffocamento da un momento all’altro. Sperò in cuor suo che avesse ereditato gli occhi di sua madre e nient’altro, o sarebbe tornato ad abbandonarlo in uno dei sudici pescherecci sulla riva della cittadina. Magari sarebbe stata un’ottima scusa per tornare a gustare del granchio fresco in quell’area dell’Hokkaido.
« Diamoci una mossa » sentenziò rassegnato, tornando a chinarsi per sollevare i bordi del sacco e far sì che il cadavere si ripiegasse su se stesso quel che bastava perché il sacco fosse chiudibile. Si sfilò un guanto con i denti e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un cellulare, recuperò alla svelta un numero dalla rubrica e portò il cellulare all’orecchio, reggendolo con la spalla mentre si sfilava i guanti.

« Kamoenai » disse, non appena dall’altro lato una voce scocciata rispose.
« Cosa vorrebbe dire? » l’uomo ebbe subito la conferma che la voce era molto più che scocciata.

« Kamoenai, Hokkaido » ribadì alla svelta, avvicinandosi alla finestra e scostando la tendina bianca che dava sulla strada buia.
« Non puoi essere serio. Non posso crederci. Quella cazzo di cittadina puzzolente. Come farò ad arrivare fin lì? »
« Trova un modo. È il tuo lavoro, non il mio di certo. Io il mio l’ho fatto e farò anche meglio a darmi una mossa ad andarmene »
« Figlio di puttana » sbottò la voce, prendendosi un attimo per contenere il proprio fastidio « Hai trovato il neonato? »
« Si. Piange. »
« Congratulazioni, Daichi. Sei diventato padre »
« Sta zitto »

E riattaccò. Tornò a ficcare di fretta il cellulare in tasca, rivolse uno sguardo sconcertato al neonato in lacrime e tornò al proprio lavoro. Restava solo da sollevare il sacco e metterlo dentro l’armadio scricchiolante della camera da letto. E così fece. Tornato nel salottino fu il turno del neonato. Lo prese in braccio e quello smise di piangere immediatamente. Daichi aggrottò la fronte.
« Non abituartici. » disse minaccioso, mentre metteva i guanti sporchi e gli altri pochi strumenti che aveva utilizzato all’interno di una 24 ore in cuoio. « In fondo ci credo a questa storia del libero arbitrio, sai? Siamo liberi di fare quel che vogliamo. Nessun Dio agisce in nostro favore o sfavore. Siamo liberi. E siamo soli. Io lo sono. Tu lo sarai. » ridacchiò mentre usciva di casa. Quella città era davvero gelida e davvero puzzava di pesce giorno e notte. « E avrai il tuo piccolo mondo, in cui io sarò il tuo grande Dio misericordioso. Tanto misericordioso da non concederti alcun libero arbitrio. Mai. »

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Capitolo 2
*** 2008 ***


1. 2008

« Beh allora, posso andarci o no? » chiese Masae, sporgendosi verso il sedile anteriore sinistro, dove la madre era comodamente seduta e a labbra serrate canticchiava una vecchia ballata di Akina Nakamori. La quindicenne tutta boccoli e lucidalabbra aveva insistito tutta la settimana. Voleva andare a quella festicciola di Capodanno che avrebbero tenuto degli amici di infanzia, lì a Sapporo. Anche se la madre le aveva negato il permesso di andare almeno una ventina di volte, lei aveva comunque speso la paghetta per comprare un vestito che andasse bene per la serata, rosso fuoco, che sua madre non avrebbe mai visto. La famiglia Ueda si era ormai fatta un nome in tutto il Giappone. Non erano solo una famiglia particolarmente benestante, ma erano soprattutto un riconosciuto simbolo della tradizione giapponese. Le radici del loro albero genealogico erano antichissime e secondo alcuni fanatici veterani della famiglia discendevano persino da chissà quale dio. Sua madre rideva a tali sciocchezze. Le interessava solo che la famiglia mantenesse il contegno, l’educazione e fosse di esempio per gli altri. Era una donna sempre sorridente, sempre rilassata e senza un pelo sulla lingua. Masae detestava il modo in cui, senza dal peso a nulla, riusciva a negarle qualsiasi atto di ribellione. Persino quello. Persino la festa di Capodanno. Ma la ragazzina tutta moda niente cervello, non si era ancora rassegnata a rinunciare.
« Non dovrete neanche accompagnarmi, può passarmi a prendere il fratello di… »
« Masae »

Suo padre aveva parlato e una ventata d’aria gelida sembrò investirle il viso.
« Tua madre non ti ha già detto di no più volte? » disse severo.
« Si, ma… »
« Oggi è l’ultimo giorno dell’anno. L’onsen sarà piena zeppa di turisti, i tuoi nonni avranno bisogno di aiuto nella gestione. Come ogni anno d’altronde. E poi, come ogni anno, ribadisco, poco prima della mezzanotte ci recheremo al tempio per pregare e festeggiare il compleanno di tuo fratello.»
« A nessuno importa del compleanno di Hana » sbottò la ragazzina, tornando con un solo brusco gesto seduta contro lo schienale con le braccia conserte.
« Chiamando così tuo fratello hai appena distrutto ogni tua possibilità di trascorrere del tempo con i tuoi amici al tempio. » dichiarò suo padre. Masae sgranò gli occhi, aprì la bocca per lamentarsi, ma perse tutte le speranze ancor prima di poter dar voce ad una qualunque vocale.
Nel frattempo il piccolo Ren si era limitato ad alzare lo sguardo dal suo libro per un attimo, quando la sorella l’aveva chiamato in quel modo: Hana, “fiore”. Era un bravo bambino e non si lamentava mai di nulla, ma quel nomignolo gli faceva ancora torcere lo stomaco. Non disse una parola e guardò fuori dal finestrino. Oltre il riflesso appena visibile di un bambino dalla pelle candida, bianca come la neve, due occhi grandi e castani e i capelli neri perfettamente lisci, si estendeva il panorama mozzafiato di Sapporo innevata. Dovevano essere quasi arrivati. Riconosceva la radura di abeti e larici in cima alla montagna. Accennò un sorriso e le sue guance arrossirono appena dall’emozione. Riportò lo sguardo sul proprio prezioso libro che, poggiato sulle gambette esili, lo faceva sembrare ancor più piccino di quanto già non fosse. La copertina in pelle del libro recitava “il mio raccoglitore”, poi con la scrittura corsiva e chiara di mamma era stato aggiunto “delle erbe e dei fiori magici”. Andava molto fiero del suo libro e lo portava sempre con sé. Era il suo hobby a tempo pieno. Raccoglieva foglie, fiori e quant’altro donasse il terreno e non desse troppo spessore a quelle pagine. Sotto ad ognuno di quei suoi inestimabili tesori aveva scritto dove, quando l’aveva raccolto ed aveva infine aggiunto una piccola didascalia descrittiva.

Dopo strade in salita e sentieri tortuosi fiancheggiati dai boschi innevati, finalmente raggiunsero un piazzale ampio, ma già gremito di automobili.
« Sembra più affollato dello scorso anno » commentò la signora Ueda, mentre scendeva dall’auto ed accelerava il passo per girare attorno all’automobile e raggiungere lo sportello posteriore, aprirlo e sporgersi per chiudere per bene il giubbotto al figlio minore, poi sistemare una pomposa sciarpa blu attorno al suo collo ed infilargli un cappellino di lana. Che lo volesse o meno, la madre l’avrebbe salvato dal freddo tiranno.
« Mamma, ormai ho nove anni » mugolò il figlio con un filo di voce, ma chiaramente frustrato.

« Non li hai ancora » lo punzecchiò la sorella maggiore mentre scendeva da sé dall’auto sbattendo appositamente lo sportello e guadagnandosi uno sguardo severo da parte del padre, che decise di evitare accelerando il passo verso l’entrata di quello che da fuori sarebbe sembrato nient’altro che un piccolo cottage un po’ malandato. In effetti il rotenburo, visto da fuori, non sembrava veramente niente di che. In cima alla casetta in legno, dal tetto spiovente, era ormai difficile leggere il nome dei bagni termali: kanji ed hiragana recitavano “Hoheikyo Onsen”.
Ren, libero dalle premure eccessive della madre, strinse il libro con entrambe le braccia e corse verso l’entrata, contento di rivedere facce ben note. Queste gli vennero incontro immediatamente: i nonni paterni erano stretti nelle divise blu dell’onsen, ogni anno più segnati dal tempo e probabilmente dalle fatiche inevitabili derivanti dal loro lavoro, nonostante il personale a loro disposizione fosse più che vasto.
« Sei cresciuto Ren. Sei proprio un ometto adesso » osservò il nonno, lasciando che il bambino annuisse e fieramente gonfiasse il petto. La nonna, sempre un po’ ingobbita, lo raggiunse e gli tolse alla svelta lo zainetto dalle spalle.
« Finirai gobba quanto me se non smetti di portare carichi pesanti » lo ammonì, ma senza alcun segno di severità nella voce « Vai in fretta a sistemare le tue in camera, il nonno ha portato i bekomochi da un breve viaggio a Yakumo. Metto su il tè. »
Ren sorrise e annuì, infilò il libro sotto il braccio e caricò lo zainetto su una spalla, pronto a superare la reception. Corso per tutto il genkan, sfilò le scarpe alla svelta e le ripose ordinatamente nella scarpiera, poi salì il gradino in legno e si diresse alle scale che lo avrebbero condotto al primo piano. La prima porta sulla destra era la sua stanza.
Essere in Hokkaido lo rendeva sempre piuttosto euforico. Amava la neve, l’atmosfera natalizia, la compagnia della sua famiglia e la lontananza da scuola e da tutti i doveri che ne derivavano. Non che non fosse studioso, anzi, era sempre molto curioso e i suoi voti erano parecchio alti, ma c’era altro che lo tormentava in quella scuola. Lì tutti lo chiamavano Hana.

Entrò nella cameretta piccola e accogliente, le pareti gialline, mai riverniciate da prima che lui nascesse. Sulla sinistra vi era un armadio a due ante di uno strano grigio perla e abbinata ad esso era una scrivania sul lato opposto della camera. Era spoglia, ma ciò che piaceva davvero al piccolo Ren era la finestra sul soffitto, appena sopra il letto, che gli permetteva di fissare le stelle del cielo gelido dell’Hokkaido e immaginare senza sosta mondi nuovi, nuove avventure.
Posò il suo prezioso libro sulla scrivania, lo zainetto in un angolo e si sfilò il giubbotto, poi si lanciò sul letto, rimbalzando appena. La nonna aveva provveduto a cambiare le lenzuola e , oltre ad essere incredibilmente soffici, profumavano di talco e vaniglia.
Avrebbe riposato un po’, giusto un po’, dopo quel lungo viaggio. Poi si sarebbe alzato e sarebbe andato a fare merenda con i bekomochi e il tè verde. Sarebbe stato uno di quei pomeriggi che piacevano a lui.

-

Il risveglio arrivò più brusco del previsto. Un botto, un urlo e Ren cadde giù dal letto. Con un dolore non indifferente al didietro, gli occhi gonfi dal sonno, si rese conto di non vedere niente nonostante fosse certo di star tenendo le palpebre ben aperte.
« Cosa fai? » chiese una voce poco distante da lui. Un attimo dopo la voce di una torcia gli illuminò il viso facendogli stringere gli occhi per un istante.
« Masae? » domandò Ren, cercando di accertarsi di avere la figura della sorella davanti, mentre goffamente si alzava dal pavimento. Che brusco risveglio. « Perché è così buio? »

« è andata via la luce. Black out generale di tutta l’area. » sbottò scocciata « Papà vuole ugualmente che andiamo al tempio prima di mezzanotte per festeggiare il tuo stupido compleanno e tu sei in queste condizioni! Dormivi beato! Forse mi hanno presa per la tua babysitter. Forse mi hanno fatta nascere unicamente per questa ragione. »
Mentre Masae continuava a lamentarsi, Ren notò, nella luce flebile della torcia, che indossava uno yukata rosso ornato di fiori rosa e gialli e che attorno alle spalle l’avvolgeva una bella pelliccia bianca. Era già così tardi. Mancava appena un’ora alla mezzanotte. Per tradizione a mezzanotte si recavano al tempio pronti a pregare per un anno proficuo.
« Ero stanco, mi sono addormentato. » si giustificò il più piccolo, mentre la sorella si avvicinava e gli lasciava una borsa di carta in mano.
« Dentro trovi l’hakama e tutto il resto. E una torcia. Aspetto sotto. Datti una mossa. » disse Masae, prima di uscire dalla camera sbattendo la porta.
Ren rovistò nella borsa fin quando non trovò la torcia. L’ accese e la posò sulla scrivania così da potersi cambiare senza troppi impicci. Chissà perché non l’avevano svegliato. Gli ci volle un attimo a capirlo. Mamma non l’avrebbe mai permesso. “Se il bambino dorme è perché ne ha bisogno” diceva sempre con il suo fare iperprotettivo. Non gli sarebbe dispiaciuto essere svegliato quel pomeriggio. Si era perso la merenda e le grandi pulizie. Avrebbe anche potuto aiutare il resto della famiglia a preparare i soba. E invece aveva dormito. Un sonno profondo, privo di sogni.
Indossato l’hakama scese al piano di sotto e si infilò i geta che qualcuno doveva aver preparato lì davanti per lui. L’entrata era vuota, non c’era anima viva. Anche con la torcia riusciva a sentire la paura dell’ignoto che il buio nascondeva. Accelerò il passo ed uscì al freddo e al gelo. Sua sorella era lì con aria scocciata, che inviava sms senza sosta con il suo cellulare.

« Dove sono mamma e papà? » domandò Ren con un filo di voce.
« E che vuoi che ne sappia? » rispose, come il fratellino in fin dei conti si aspettava, e prese a camminare senza neanche guardare il sentiero, gli occhi fissi sullo schermo luminoso, noncurante né del ghiaccio nè della discesa nè di qualunque persona o macchina potesse trovare sulla via. Ren che aveva il terrore di scivolare e farsi male invece cercava di essere ben più cauto. « Sono tutti spariti con questo stupido black out. Ci credo. Pensa ai clienti nelle vasche, al buio totale. Tra l’altro stanotte non c’è neanche una stella. Sembra stia per piovere. Sarà che il giorno del tuo compleanno porta sfiga, Hana » blaterò Masae ridacchiando. Ren pregò solo di arrivare presto al tempio perché fosse costretta a mantenere un silenzio solenne dovuto all’ambiente e alla preghiera. « Anzi, la cosa positiva è che senz’altro mamma e papà non se ne accorgeranno se staremo fuori un po’ più a lungo. Forse riesco ad incontrare i miei amici... »
Ren pensò fosse una pessima idea. Suo padre era estremamente severo per quanto riguardava quel genere di cose e Masae riusciva sempre a fargli perdere le staffe, ribelle com’era. Ad ogni modo, non disse una parola. Era inutile parlarle. Lei lo odiava. Ciò che diceva lui era completamente privo d’importanza.
Quando raggiunsero il tempio lo trovano già gremito di gente. Di certo non quanto lo sarebbe stato dopo la mezzanotte, ma seguire la figura di sua sorella che avanzava nella folla noncurante di lui fu comunque difficoltoso per Ren che, per quanto cresciuto potesse essere, si confondeva facilmente tra la gente. Fortunatamente, avendo percorso la medesima strada ogni anno, ormai sapeva raggiungere l’entrata del tempio senza troppi problemi, e così fece. Qualche minuto dopo la sorella raggiunse il tempio dove due adorabili sacerdotesse, piuttosto giovani, gli si avvicinarono, facendogli i complimenti e tirandogli le guance.
« Sei davvero cresciuto Ren! Venire qui tutto da solo con tua sorella. Queste sono cose da grandi. Sei pronto per la cerimonia? E per il tuo compleanno naturalmente. » Le sacerdotesse erano sempre molto felici di incontrare quel bambino. In fin dei conti chi avrebbe avuto qualcosa da ridire su quel bimbo dai lineamenti efebici, delicati ed elegante non solo nei tratti, ma anche e soprattutto nei modi. Tra le persone che lo avevano intorno più spesso solo sua sorella sembrava detestarlo così tanto. Forse perché si era convinta che i genitori avessero dato classe, bellezza e un cuore puro solo a lui.
Essendo nipoti di una sacerdotessa e facendo parte di un’importante famiglia della zona, ogni anno partecipavano alla cerimonia di fine anno. Generalmente con tutta la famiglia, ma a quanto pare non quell’anno. Un black out creava senz’altro molti disagi, ma Ren non sarebbe potuto restare a casa ad aiutare neanche volendo. Era un suo dovere rappresentare la famiglia in quel caso perché beh… si fidavano molto più di lui che di sua sorella. E come dargli torto.
La mezzanotte arrivò in un soffio. Le sacerdotesse diedero il via ad un breve corteo davanti al tempio mentre sussurravano preghiere. Attorno a loro la folla si era azzittita, contemplando la cerimonia, chi per curiosità, chi per fede religiosa. Al termine del corteo le donne si fecero da parte e fecero cenno ai due fratelli di farsi avanti verso l’area di preghiera. Sarebbero stati i primi a fare le loro richieste e nessuno avrebbe protestato poiché tra la folla non vi era individuo che non sapesse chi fossero. Sua sorella sapeva essere straordinariamente composta in quei momenti, così si fece avanti per prima, poi insieme lanciarono una monetina all’interno di una cassa in legno di fronte all’altare, afferrarono la spessa corda che pendeva di fronte a loro e muovendola fecero suonare le campane due volte, per lo stesso numero di volte si inchinarono e batterono le mani. Chiusero gli occhi e pregarono. O almeno così sembrò agli altri. Ren non sapeva cosa chiedere. Non c’era qualcosa che desiderasse così tanto, né qualcosa che non lo facesse sentire presuntuoso nei confronti di chiunque avesse dovuto esaudire il suo desiderio. E poi non aveva il tempo di pensarci, nonostante da fuori non fosse affatto ovvio, lo innervosiva il fatto che centinaia di persone alle sue spalle lo stessero fissando. Odiava stare al centro dell’attenzione. Rendersi trasparente lo metteva a suo agio. Finalmente sua sorella alzò il capo e lui poté fare lo stesso. Il vociferare alle loro spalle si accese, mentre si facevano da parte per lasciare che anche gli altri in visita al tempio pregassero.
« Buon compleanno Ren » disse una delle due sacerdotesse avvicinandosi a lui e dandogli un buffetto tra i capelli. Lui sorrise e si inchinò educatamente, ringraziandola per gli auguri e per la cerimonia. No, non aveva pensato neanche per un attimo che potesse trattarsi degli auguri di sua sorella. Era certo che non glieli avesse mai fatti, neanche da bebè. A proposito di sua sorella, sembrava svanita nel nulla. Il programma era generalmente partecipare alla cerimonia, pregare, poi prendere un omikuji e andare via alla svelta. E invece lei era sparita. Sospirando affranto decise di scoprire la fortuna per l’anno nuovo da sé. Si recò ad un banchetto e le persone in fila lo fecero passare avanti sorridendogli amichevoli e bisbigliando quanto fosse adorabile. Lui li ringraziò praticamente uno ad uno e raggiunto il banchetto estrasse un cilindro sottile contenente un bigliettino con su scritta la predizione divina per lui per quell’anno, si fece da parte e la lesse. Recitava:

Grande benedizione. L’anno ti porterà molta fortuna. Salute per te e tutta la tua famiglia. Successi nella vita privata, negli studi e nel lavoro, ma soprattutto nell’amore.

L’amore. Ren rilesse quella parola e arrossì all’istante. Infilò il bigliettino nell’hakama e si allontanò in fretta dal banchetto. Non c’era nessuna bambina che gli piacesse nella sua classe o nelle altre. E poi tutta quella faccenda dell’amore lo metteva in ansia. Come sarebbe potuto essere capace di dichiararsi ad una bambina? L’avrebbero preso in giro per sempre. No, non sarebbe mai accaduto. Quello strano amore non voleva sperimentarlo. Non gli avrebbe più permesso di nascondersi e sparire quando ne aveva voglia. Altro che grande benedizione. Meglio tornare a cercare Masae.
Ci impiegò poco. Eccola lì che starnazzava circondata da un gruppo di ragazzi e ragazze. Stringeva tra le mani un nikuman alla carne ancora fumante e sembrava assolutamente nella sua comfort zone. Peccato che il fratellino di soli nove anni dovesse riportarla con i piedi per terra. Affranto e pronto ad essere maltrattato Ren la raggiunse e tirò piano una manica del suo yukata.

« Sai che mamma non vuole che mangiamo niente dai banchetti… » mormorò Ren. Lei lo guardò sprezzante e ridacchiò. Gli occhi dei suoi amici erano posati su entrambi.
« Mamma non vuole che TU mangi niente dai banchetti, perché sei più cagionevole di un novantenne e non vorrebbe mai che tu potessi morire avvelenato da un nikuman » Gli amici risero e la stretta di Ren sul suo yukata si allentò in un attimo di sconforto.
« Dobbiamo tornare a casa, papà si arrabbierà » cercò di farsi forza per il bene di sua sorella. Riportarla a casa sarebbe stata la mossa più saggia e poi di certo non poteva tornare a casa da solo dopo la mezzanotte.
« Tornaci da solo »
Come non detto, pensò Ren.
« Papà e mamma sono tutti presi da quel black out, non si accorgeranno se torno un po’ più tardi. E tu non glielo dirai.» disse Masae con tono minaccioso.
« Ma se mi vedranno tornare si chiederanno dove sei… è meglio che resti con te »
La sorella inorridì e per poco non gli lanciò addosso il suo nikuman. Il rischio più grande era che i suoi amici iniziassero ad interessarsi al suo fratellino di porcellana.
« No. Dobbiamo andare. » si affrettò a dire, facendo cenno al resto del gruppo di allontanarsi in fretta. La destinazione era sconosciuta a Ren, ma sapeva che seguirli sarebbe stato inutile e sinceramente non aveva nessuna voglia di farsi trattare ancora come uno zerbino.
Impotente, rimase lì in un angolo osservando la figura in yukata di sua sorella che si allontanava. Di tanto in tanto spostava lo sguardo verso il sentiero buio che portava a casa, oltre il torii. Era dritto e doveva solo seguirlo fino al parcheggio davanti l’onsen. Non era difficile in fin dei conti. E poi non aveva altra scelta. Non poteva mettersi a scorrazzare con i bambini tra le bancarelle, né disturbare le sacerdotesse perché lo accompagnassero a casa, non poteva sedersi su uno scalino perché non era buon costume e non poteva restare fermo lì come una statua perché sarebbe sembrato uno scemo. Non gli restò che raccogliere tutto il suo coraggio ed intraprendere la buia, gelida via di casa.
A metà strada, come se non bastasse, iniziò a piovere e nevicare e quei quindici minuti a piedi gli sembrarono i più lunghi della sua breve vita. Quantomeno quando raggiunse il parcheggio era salvo, bagnato fradicio, pronto a far prendere un infarto a sua madre, ma salvo. Lo stabile sembrava ancora al buio. Non osò immaginare quanta ansia potesse provare lo staff in una simile situazione. Entrò silenzioso come una biscia e lasciò i geta all’entrata. Continuava a non esserci anima viva. Sicuramente tutti stavano cercando di interagire con i clienti. Era un capodanno piuttosto inusuale, completamente diverso dai precedenti. Di solito dopo essere stati al tempio, tornavano all’onsen e i festeggiamenti continuavano. Mangiavano soba, mochi, riceveva regali di compleanno e di capodanno al contempo e l’aria era festiva e calda, nonostante si trattasse pur sempre di Sapporo. Peccato, per quell’anno era andata così.
Recuperò la torcia lasciata all’entrata e salì le scale. Anche lì niente e nessuno fiatava. Entrò in camera e si chiuse la porta alle spalle. Finalmente era di nuovo nel suo piccolo mondo. Al sicuro. Poggiò la torcia sul tavolo come aveva fatto prima di uscire e iniziò a sfilarsi l’hakama. Pensava a quanti guai avrebbe dovuto passare sua sorella. Tra l’altro Ren non sapeva fingere davanti ai suoi genitori e non aveva motivo di farlo per sua sorella. Un comportamento sbagliato era sbagliato e doveva essere corretto. Non sarebbe andata da nessuna parte con quell’atteggiamento, sua nonna glielo diceva sempre. Poggiò l’hakama sul letto dopo averlo piegato accuratamente e fece per sollevarsi la sottoveste, quando un tonfo metallico lo fece sobbalzare. Sgranando gli occhi seguì la fonte del rumore e si ritrovò a fissare l’armadio. Sembrava quasi che una gruccia fosse caduta. Ma come? Che ci fosse un animale chiuso lì dentro? Deglutendo e facendosi coraggio si avvicinò alle ante dell’armadio, allungò una mano, ma prima che questa potesse raggiungere la maniglia dell’anta essa si spalancò. Un peso non indifferente buttò il suo corpo gracile a terra, una mano si artigliò attorno al suo collo sottile e lo privò del respiro per qualche attimo. Quegli attimi necessari a permettere ai due di studiarsi. Quello che l’aveva attaccato non era di certo un animale. Sembrava più… un ragazzino. Non ne era del tutto certo. L’altro sembrò studiarlo a sua volta e la sua presa si allentò.
« Un moccioso » osservò, sollevando il busto, ma tenendolo ancorato a terra ancora in quel modo.
Ren era terrorizzato, ma cercò comunque di divincolarsi senza riuscire a fare nulla.

« Lasciami andare! » urlò, ma la mano dell’altro scattò immediatamente sulla sua bocca.
« Ti consiglio di non urlare » disse calmo, fissandolo intensamente. Ren si chiese come un ragazzino di massimo 2 o 3 anni più grande di lui potesse avere uno sguardo così terrificante, ma la cosa strana fu che prima di rispondersi, la sua attenzione era stata veicolata sul colore delle sue iridi. Azzurre. Era come guardare un cielo mattutino ed il più piccolo non sarebbe stato neanche capace di spiegare quanto quel colore fosse poco indicato ad un ragazzino di quell’aspetto. Era fradicio almeno quanto Ren, con un pesante cappello di lana che gli copriva la testa senza lasciar intravedere neanche un capello. Tutto di lui era sudicio, malandato. Ren si rese conto per la prima volta di essere abbastanza schizzinoso.
« Puzzi » mormorò intimidito, non riuscendo a guardarlo in faccia. Perché dire una cosa del genere? Doveva essere proprio bravo a scavarsi la fossa da solo. Il ragazzino lo guardò aggrottando la fronte per poi scoppiare in una risata, che placò nell’attimo in cui si rese conto di essere troppo rumoroso.
« Sto per ucciderti e il tuo problema è che puzzo? »
Questa volta fu Ren ad aggrottare la fronte incredulo, mentre l’altro si scostava da lui a peso morto e si lasciava andare sul pavimento.
« Tu non stai per uccidermi » disse con ovvietà il più piccolo. Uccidere? Era una cosa che si vedeva nei telegiornali o nelle fiction in televisione. Era così assurda l’idea che un essere umano potesse uccidere, figuriamoci un ragazzino di quelle dimensioni, dall’apparenza sudicia e senz’altro malnutrito. L’altro ridacchiò ancora, mettendosi seduto davanti a Ren e fissandolo stranamente incuriosito, interessato, ma al contempo quasi affamato. Sorrideva in maniera inquietante e Ren avrebbe giurato di non averlo visto battere le palpebre neanche una volta.
Ren prese coraggio.
« Chi sei? E che ci facevi nel mio armadio? »
Recentemente aveva letto le Cronache di Narnia e una parte di lui sperava che fosse un fauno o una creatura magica di Narnia, anche se con quegli occhi tutti gli indizi portavano alla regina dei ghiacci… e a quel punto non ci sarebbe stato motivo di rallegrarsi.
« Volevo dare un’occhiata dentro, ma non ho i soldi per entrare, quindi ho approfittato del blackout. L’armadio sembrava così comodo. »
Ren si morse il labbro. Fiutava bugie, ma non era neanche tanto da presuntuoso da dichiarare che fosse un bugiardo se non lo conosceva. Insomma, era la prima volta che gli capitava di trovare qualcuno nel suo armadio, in qualche modo non voleva essere sgarbato con lui… ognuno aveva le proprie ragioni per nascondersi in un armadio, a quanto pare. Si mise seduto davanti all’altro e sospettoso lo osservò.
« Come ti chiami? » domandò incerto, ma prima che l’altro aprisse bocca, lo sguardo di Ren, che continuava ad indugiare sui vestiti bagnati e luridi del ragazzino, si soffermò su delle macchie piuttosto ampie all’altezza del petto. « Si può sapere cos’hai fatto? » chiese inquieto, allungando una mano verso la sua maglia. Quello si ritrasse bruscamente, facendo sussultare anche Ren. Capì subito che doveva tenere sotto controllo certe confidenze e ritrasse la mano. « Sei sporco di fango. Lì sul petto. » disse indicando appena con un dito il suo petto. L’altro abbassò lo sguardo, adocchiò la macchia e ridacchiò.
« Si, fango. Non so proprio come sia possibile » disse, dando una scrollata di spalle.
Ren si alzò e andò verso il proprio zainetto. Tirò fuori un maglioncino verde e glielo passò.
« Puoi prendere questa » disse, lasciandola per terra accanto a lui, per poi arretrare. Si faceva un po’ così con i gatti, no? Quando non voleva che si spaventassero e fuggissero. Anche se in quel caso l’unico che avrebbe dovuto avere paura era proprio Ren. Eppure nello sguardo di ghiaccio di quel ragazzino qualcosa si mosse. Aveva posato gli occhi sul maglioncino verde e lo fissava sull’attenti. Se avesse avuto una coda sarebbe stata dritta e rigida senza ombra di dubbio.
« Perché? » chiese allora, alzando lo sguardo verso Ren, quasi scocciato.
« Perché sei sporco e fradicio. E ti ammalerai se non ti cambi in fretta » spiegò, accucciandosi davanti a lui. « A me non serve » disse sorridendo dolcemente. L’altro lo guardò dalla testa ai piedi e colse il leggero tremolio delle sue labbra, ormai viola.
« Tu sei fradicio quanto me » osservò.
« Io non ne ho bisogno. Non mi ammalo mai. E poi posso infilarmi sotto le coperte, tu no, sporco come sei. »

Era una situazione surreale. Apparentemente per entrambi. Ren aveva appena assistito all’arrivo di un presunto abitante di Narnia, l’altro sembrava sconvolto e irrigidito da quel semplicissimo gesto di gentilezza. Era tornato a fissare il maglioncino e niente ormai si muoveva nella stanza. Sembrò che il maggiore avesse raggiunto la conclusione del processo mentale che lo stava tormentando e con un piccolo sorriso annuì e si sfilò prima il cappello di lana sudicia, scoprendo i capelli castani e sporchi, poi la stupida camicia in flanella consumata che indossava e la maglia bucherellata e sozza di fango sotto di essa.

« Come fai ad andartene in giro vestito così? Non hai freddo? Fuori nevica » osservò Ren, mentre l’altro indossava il maglioncino. Dalla sua espressione si scorgeva un senso di piacere immenso.
« Solo i principini come te hanno freddo nella neve » commentò l’altro ironico.

Ren arrossì e si imbronciò « Non è affatto vero. Anche papà avrebbe freddo nella neve. E io non sono un principino »
Ma l’altro lo liquidò con un “aha” e fece orecchie da mercante. Si alzò da terra e iniziò a gironzolare per la stanza. Non che ci fosse molto da esplorare. L’unica cosa che attrasse il suo sguardo fu il grosso libro sulla scrivania, ma non appena fece per sollevarne la copertina, Ren corse a levarglielo di mano.
« Questo non puoi toccarlo » disse, stringendo possessivo il libro tra le braccia. Lo sguardo sorpreso dell’altro venne attratto da qualcosa che scivolava giù dal libro e toccava il parquet. Si chinò a raccoglierlo e tirò su una fogliolina stretta e lunga.
« Un libro di foglie? »
Ren fece in fretta a recuperare la foglia dalla sua mano, si inginocchiò sul pavimento e cercò la pagina dalla quale era scappata.
« è una foglia di canna da zucchero. Non potevo metterci una canna da zucchero, non sarei riuscito a chiudere il libro. » spiegò Ren mentre risistemava lo scotch alle estremità della fogliolina. L’altro si chinò a sua volta, stranamente interessato.
« Dove l’hai presa? Perché la tieni in un libro? » domandò. Per lui non aveva senso.
« Questa in particolare è un ricordo di un viaggio che ho fatto con la mia famiglia la scorsa estate. Siamo stati ad Okinawa. »
« Okinawa? La grande isola al sud? »
Ren inclinò il capo. Sembrava non ne sapesse niente. Eppure la geografia la studiavano sin dalla prima elementare. « Proprio quella. Masae, mia sorella maggiore, voleva assolutamente andarci. Dice che tutti i suoi amici adorano andare in spiaggia. Io sono stato felice di andare perché c’erano diverse piante e fiori che non avevo mai visto... » disse Ren, fermandosi quando si rese conto di stare divagando un po’ troppo, ma gli occhi del ragazzino erano fissi sul libro, in attesa di sentire qualcos’altro, o almeno quella era l’impressione che dava. Ren un po’ incerto voltò pagina.
« Da questa pagina in poi ci sono tutte le foglie e i fiori che ho raccolto quando siamo stati in Europa. »
« In Europa? Quella che per raggiungerla devi andare in aereo? » chiese l’altro sconvolto. Ren era sorpreso e avrebbe voluto ridere, ma non lo fece. Sembrava sinceramente euforico a riguardo.
« Si. Abbiamo fatto diverse ore di volo e siamo arrivati a Parigi, in Francia. Questo fiore l’ho raccolto lì, sotto la tour Eiffel. Quella torre alta, in ferro. Somiglia molto alla Tokyo Tower. »
« Sei stato a Tokyo? » domandò l’altro sempre più emozionato.
« Beh, ci abito. Veniamo qui solo per le vacanze invernali, a trovare i nonni » gli spiegò. L’altro annuì e sorrise. Non era più un sorriso inquietante, ma sincero, quasi dolce. E soprattutto aveva rivelato le fossette sulle sue guance. Ren abbassò lo sguardo in fretta, arrossendo. Lo stava fissando troppo.
« Puoi venire… »
« Venire dove? » chiese l’altro alzando un sopracciglio.
« A casa mia. A Tokyo. È grande. Mamma sarebbe molto felice se invitassi un amico, dato che non lo faccio mai » Era la prima volta che invitava qualcuno a casa sua e la cosa lo rendeva terribilmente nervoso. Perché qualcuno avrebbe dovuto voler andare a casa sua? Per far cosa? Alzò lo sguardo per capire cosa ne pensasse e l’altro era arrossito terribilmente. Ren ne fu sconvolto. Su quel viso, nel giro di neanche un’ora, aveva visto non solo espressioni, ma persone diverse. C’era qualcosa di meravigliosamente intrigante e terribile al contempo, su quel viso.
« Aoi.» fu la risposta dell’altro « Il mio nome è Aoi »
Ren lo fissò per un attimo. Aoi gli sorrideva e il più piccolo lo prese come un si. Aveva trovato il suo primo amico.
Restarono a parlare tutta la notte di piante e fiori e viaggi e luoghi che Aoi non aveva mai sentito neanche nominare. Ren scoprì che non aveva mai visto la televisione, neanche i cartoni animati, che non conosceva la Disney e che non proveniva da Narnia, ma da Sapporo stessa, che viveva con suo padre, ma a riguardo non desiderava raccontargli altro. Per Ren parlare con lui era così semplice, così ovvio, scorrevole, che il tempo passava in fretta, senza fargli sentire neanche più il freddo alle ossa, facendogli dimenticare che era bagnato e con le labbra viola. Un amico.

« Ora cosa farai? » domandò Ren, lasciando che l’altro sfogliasse il suo libro.
« Che intendi? »
« Beh, sei a casa mia. Non devi tornare a casa? »
L’altro sembrò cadere dalle nuvole. La luce non era ancora tornata, ma dovevano essere passate almeno quattro o cinque ore. Tra non molto sarebbe sorto il sole, ma Aoi sembrava restio ad andare via, così Ren si fece avanti.
« Puoi restare qui se vuoi, sono certo che se lo dico ai nonni… »
« No » si affrettò a dire l’altro « Devo tornare a casa, in effetti »
Ren lo guardò interdetto per un attimo, ma immaginò fosse normale. Suo padre sicuramente lo stava aspettando.
« Allora dovresti andare prima del sorgere del sole. Riesci a tornare a casa da solo? Anche se fa buio? Posso darti il mio ombrello » disse e in fretta lo andò a recuperare dallo zainetto. Aoi aveva sempre quello sguardo incerto davanti ad un atto di gentilezza, ma non disse di no e prese l’ombrello.
« Non ho problemi a tornare a casa di notte » disse, alzando le spalle. Ren lo trovò incredibilmente coraggioso e desiderò essere come lui, anche solo per un giorno. Aoi si sistemò meglio il maglione addosso e appallottolò i vestiti fradici sotto un braccio, poi si mise in punta di piedi per aprire la finestra sul soffitto. Ren era così preso dai propri pensieri che non si chiese neanche perché lo stesse facendo, perché non usare la porta d’uscita, in fin dei conti ora era suo amico.
« Tornerai, vero? » alla fine Ren cedette e gli pose quella domanda, guardandolo speranzoso e imbarazzato al contempo « Posso raccontarti molte altre cose, quindi puoi tornare anche domani se vuoi. Saremo qui per altri cinque giorni. » lo avvisò. Aoi lo fissò serio, poi il suo sguardo si raddolcì. Anche a lui sembrava di conoscerlo da una vita. Sospirò e abbozzò un sorriso che di certo non urlava sicurezze al piccolo Ren.
« Oggi è il mio compleanno » mugolò allora, cercando di convincerlo in extremis. Aoi sembrò interessato e alzò le sopracciglia « Devi farmi un regalo. Devi promettermi che tornerai » disse, allungando una mano verso il maglioncino e trattenendolo « sarà il mio regalo di compleanno e non vorrò più niente » mormorò, abbassando lo sguardo. L’altro non sembrava convinto. Forse non lo considerava ancora suo amico. Forse ci voleva molto più tempo per diventare amici.
Un rumore proveniente dalle scale fece sussultare Aoi. Ren non si preoccupò, pensò fosse sua madre venuta a controllarlo e a chiedergli dove fosse Masae. Anzi, chissà se era rientrata o meno. Lo sguardo di Aoi iniziò a cambiare, tornò gelido e sull’attenti. Si spostò su Ren e il sorriso abbozzato divenne più forzato.

« Buon compleanno » sussurrò, posando una mano sulla sua testa e carezzandola piano, prima che con un gesto fulmineo essa si irrigidisse e lo colpisse con forza alla nuca, facendolo svenire sul colpo.
Aoi accolse il suo corpo tra le braccia e delicatamente lo pose sul pavimento, per poi recuperare una sedia alla svelta e uscire dalla finestra sul soffitto un attimo prima che la porta della camera si spalancasse. I passi del ragazzino rimbombavano ancora sul tetto, sopra le loro teste, ma la signora Ueda non li sentì, poche cose avrebbero superato le sue urla in quel momento, le quali attrassero il marito, Masae e vari membri dello staff dell’onsen. Accorsero, bianchi in viso come fantasmi. Il padre si avvicinò di fretta al figlio per terra e scostò la madre, tastò subito il suo polso e con suo grande sollievo avvisò tutti che era solo svenuto, ma che la sua temperatura corporea era stranamente alta. Tuttavia non se la sentì di dare della matta alla moglie, in fin dei conti sulla sottoveste bianca di Ren era ben visibile una macchia che non poteva che essere sangue. Solo una vola che la luce fu tornata poterono confermare che non si trattava del suo sangue. Per quanto fosse svenuto, non sembrava riportasse alcun tipo di ferita corporea.

Ma ciò non bastò a farlo svegliare. Per i giorni successivi una febbre alta, altissima, lo tenne a letto, con la madre al suo capezzale, terrorizzata ad ogni colpo di tosse o respiro profondo. La nottata sotto la pioggia e la neve aveva dato il colpo di grazia al suo fisico sulla quale gravava già la stanchezza di un lungo viaggio in auto.
Non poteva sapere se quel qualcuno sarebbe tornato a trovarlo o meno, ma c’erano cose che avrebbe scoperto una volta aperti gli occhi, cose raccapriccianti che avrebbero fatto tremare il suo piccolo cuore. Cose che gli avrebbero fatto maledire per sempre quel giorno e fatto smettere di credere in quegli dei che avevano prospettato per quel suo anno una “grande benedizione”.

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Ciao a tutti! Pubblico qualcosa per  la prima volta perchè sono molto insicura delle mie abilità nello scrivere, ma spero ugualmente che la storia possa interessare e coinvolgere! Abbiate pietà di me ; _ ;
La trama si svilupperà attorno a Ren e Aoi e il genere sarà principalmente romantico/angst. Nel prossimo capitolo torneremo nel presente e il loro passato verrà svelato man mano. Scrivo per svagarmi dalla sessione d'esami stressante, quindi chiedo scusa se il testo non fosse perfetto, ma spero possiate godervi la lettura in ogni caso e ogni critica costruttiva, recensione e commento sono assolutamente ben accetti. A presto!


 

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Capitolo 3
*** Adam ***


2. Adam

La sveglia suonò. Ren si limitò ad allungare la mano verso di essa per spegnerla. Le lancette segnavano le sette del mattino, ma per lui la giornata era iniziata due ore prima, quando dopo una notte quasi completamente insonne era finalmente crollato per lo sfinimento e aveva dormito forse un’oretta. Intorpidito, con gli occhi gonfi e la testa pesante, abbandonò il piumino caldo e si infilò le ciabatte, mettendosi in piedi e facendo un debole tentativo di stiracchiarsi. Niente da fare, il suo corpo non voleva saperne di darsi una svegliata. Forse la colazione l’avrebbe aiutato.
Rabbrividendo al contatto della pelle nuda con l’aria fresca, si sfilò il pigiama ed indossò la divisa scolastica: camicia bianca, pantalone marrone, cardigan beige. Era sempre grato agli indumenti poco appariscenti come quelli, soprattutto quando sarebbe stato costretto a sfoggiare per le strade affollate di Tokyo quell’aria da zombie.

Spazzolò i capelli neri e fece per uscire dalla camera, ma lo sguardo cadde casualmente sulla scrivania popolata da ritagli di giornale, alcuni più vecchi, altri più nuovi, nessuno, a parer suo, abbastanza recente. Mamma avrebbe dato di matto se entrando in camera sua li avesse di nuovo visti sulla scrivania, così decise di risistemarli all’interno di una cartelletta verde che prontamente avrebbe nascosto tra la rete del letto e il materasso. Apparentemente sembrava che sua madre non avesse ancora scoperto quel nascondiglio.
Aveva cercato di guardare il meno possibile le foto sgranate e in bianco e nero sui ritagli di giornale, ma inevitabilmente anche solo intravederli con la coda dell’occhio l’aveva reso amareggiato e, mentre scendeva le scale diretto alla cucina, si rese conto che gli si era chiuso lo stomaco. Conosceva tuttavia sua madre e non era assolutamente il caso di farla preoccupare. Stomaco chiuso per lei voleva dire morte imminente e Ren non era pronto a rassicurarla dalla sua ipocondria. Non quella mattina. Così entrò in cucina e l’odore della colazione gli diede la nausea, ma si sforzò di sorridere alla madre già seduta a tavola a sorseggiare il tè, mentre suo padre leggeva un quotidiano con non troppo interesse. Stava senz’altro cercando le notizie sportive: il giorno precedente la sua squadra di baseball preferita aveva perso una partita e per via del lavoro al ryokan non era riuscito a vederla in televisione. Dire che la cosa lo rendeva frustrato era dire poco.
« Buongiorno » disse Ren, mentre la domestica sorridente gli portava la colazione che quella mattina, così come buona parte delle altre, consisteva in una ciotola di riso al vapore, pesce grigliato e zuppa di miso. Era certo che non ce l’avrebbe fatta ad ingurgitare tutto e si diede dello stupido per non essere sceso in cucina più tardi, così da poter prendere un toast al volo con la scusa del ritardo.
« Sei un po’ pallido, Ren. Non hai dormito bene? » osservò sua madre, alla quale non sfuggiva mai nulla. Mentire non era un’opzione.
« Non molto. Ho studiato fino a tardi. » O forse in alcuni casi mentire era l’unico modo per sopravvivere, a pensarci bene.
La madre sospirò, pronta a ribattere e dirgli come sempre che non aveva senso studiare così tanto, che aveva preso da lei che era dotata di un gran cervello e tanta memoria, ma suo padre abbassò il quotidiano per guardare la moglie e lo sguardo fu tanto eloquente da zittirla immediatamente.
Ren cercò di cambiare discorso. « Dov’è Masae? »
« Oh, è già uscita » rispose la madre con fierezza. « Oggi lavora in reception. I clienti la adorano. È davvero una cosa inaspettata, dato che è sempre stata abbastanza acidella sin da bambina, non credi caro? »
Suo padre alzò le spalle.
« Sono molto contenta. Sembra che finalmente abbia trovato la sua strada. Tra l’altro è da un po’ che non blatera di viaggi in America o in qualunque altro posto del mondo. È un miracolo. »
Capiva la fierezza di sua madre. Ci aveva messo moltissimo tempo a convincere Masae a prendere parte all’attività di famiglia, una volta finite le scuole superiori. Erano passati tre anni prima che la sorella maggiore si decidesse a fare qualcosa della sua vita. In fin dei conti avrebbe dovuto capire che mamma e papà o qualunque altro parente avessero, non avrebbero mai acconsentito a farle scegliere il suo cammino, irresponsabile com’era, a detta di tutti “capace di portare una famiglia rispettabile al declino in men che non si dica”. Ovviamente riguardo Ren tutti erano parecchio tranquilli. Non si era mai neanche sognato di esprimere un desiderio sul suo futuro. La sua famiglia aveva tra le mani un grosso business e non sarebbe stato così stupido da mandare tutto all’aria. Non che in ogni caso avesse un qualche sogno da inseguire. Aveva degli obiettivi, certo, ma centravano ben poco con il suo futuro. Eppure in fondo in fondo, provava una certa compassione per quella sorella che lo detestava tanto e che a lui ormai non faceva né caldo né freddo. Non doveva essere piacevole avere un sogno e vederlo disintegrarsi davanti alla propria impotenza.

« Vado » disse Ren mettendosi in piedi. Si sentiva pieno come un uovo anche se aveva bevuto solo la zuppa e mangiato un po’ di riso. Mamma se ne sarebbe lamentata al suo ritorno.
« Chiama l’autista » consigliò sua madre. Tutto pur di non fargli fare alcun tipo di sforzo.

« Non ce n’è bisogno, vado a piedi » e detto ciò sorrise alla madre nel modo più rassicurante possibile e preso zaino, parka e sciarpa uscì di casa. L’aria era sorprendentemente fredda per essere Ottobre e purtroppo era una giornata particolarmente ventosa. Quantomeno non pioveva.

Da casa alla stazione della metro impiegò circa cinque minuti, ma da Asakusa a Minato, dove si trovava la scuola superiore che frequentava, ci sarebbero voluti 50 minuti. Come sempre sperò che vi fosse un posticino libero e fortuna volle che una signora si alzasse proprio mentre lui saliva sul mezzo. Rischiò di appisolarsi miliardi di volte. L’andatura dondolante della metro sembrava conciliare il sonno e se non avesse avuto paura di non svegliarsi in tempo per scendere, si sarebbe lasciato andare ad un lungo, profondo sonno. Non desiderava altro.
Ma niente da fare. I 50 minuti passarono, scese dalla metro e si incamminò verso la scuola.
Il cortile era già gremito di gente. In fin dei conti prendendo la metro non era arrivato con largo anticipo, anzi, mancavano giusto cinque minuti all’inizio delle lezioni.
Nell’atrio si chinò per togliersi le scarpe da esterni ed indossare quelle adibite esclusivamente alla scuola, ma, mentre apriva l’armadietto per sistemarle all’interno, una pacca sulla schiena lo fece tossire e mugolare di dolore. Sapeva già di chi si trattava.
« Ren! Sei venuto! Avevo il terrore che non venissi a scuola. Avevamo un patto, no? No? »
« Buongiorno a te, Hiro » borbottò Ren, mentre si massaggiava la schiena e ricambiava lo sguardo speranzoso dell’amico. Erano una strana coppia, senza ombra di dubbio. Ren a diciassette anni era bassino, aveva mantenuto la sua corporatura minuta e all’apparenza fragile, la pelle bianca come una nuvola in contrasto nettissimo con gli occhi e i capelli neri. Al contrario Hiro era alto due metri, una tinta andata male aveva reso i suoi capelli arruffati di uno strano castano caramello, con qualche ciuffo ramato qui e lì, aveva la pelle più scura di chi era nato e cresciuto al sud del Giappone ed era maledettamente estroverso e rumoroso.
« Buongiorno, buongiorno » si affrettò a dire Hiro seguendo Ren lungo i corridoi. « Non hai dimenticato la promessa, vero? »
« No che non l’ho dimenticata, ma… »
« Ma?! » l’altro si parò davanti a lui esasperato.
« Non posso presentarti l’amica di Asami proprio oggi. Ho da fare. »
L’amico sbuffò sonoramente mentre entravano in classe. Tutti si girarono a guardarli. Quel duo era piuttosto comico e mentre Hiro attirava senz’altro i ragazzi per il suo carisma e la sua aria da macho, l’eleganza e le buone maniere di Ren erano al centro dell’interesse delle ragazze.
« Hai da fare! Hai sempre da fare. So esattamente cosa vai a fare. »
« Si? » Ren fece il finto tonto mentre tirava fuori i libri di storia dallo zaino.
« Vuoi andare di nuovo in commissariato.»
Ren non parlò e si mise seduto. Hiro recuperò la sedia dal banco di fronte e si sedette rivolto verso il banco retrostante, poggiando i gomiti con scortesia sul libro di Ren.
« Lo sai che è inutile, no? Te l’hanno detto i poliziotti, i tuoi genitori, tutti quelli che conosci. Guardati, sei bianco come un cadavere. Questa settimana avrai dormito forse cinque ore in tutto. E se questa storia non dovesse mai risolversi? Cosa pensi di fare? Vivere così per sempre? O morire a diciassette anni per una vecchia storia di dieci anni fa? »
« Tu non capisci. » tagliò corto Ren, spingendo via i gomiti dell’amico e aprendo il libro di storia su una pagina a caso, giusto per fargli intendere che non aveva voglia di continuare il discorso.
« Non capirò, certo, ma so senz’altro che ti stai dando colpe che non hai. Tutto quello che è successo non è colpa tua. »
Ren sembrò cedere per un attimo. Sospirò e mise via l’armatura che, in quei casi, la frustrazione e la stanchezza lo costringevano ad indossare. I suoi occhi divennero tristi ed esausti.
« Non riesco a non pensarci… » mormorò, mordendosi il labbro.
Proprio mentre Hiro stava per aprire bocca un altro compagno di classe andò a dare una pacca sulla spalla a Ren, che tornò ad innervosirsi all’istante.
« Amico! Fossi in te sarei preoccupato! » esclamò il compagno. Ren era preoccupato, ma non era niente della quale quel tizio potesse essere a conoscenza.
« Di cosa dovrei preoccuparmi…? » domandò incerto.
« Non ne sai niente? C’è un nuovo arrivato nella classe della tua fidanzata. Le ragazze sono esplose non appena l’hanno visto. Dicono sia per metà straniero… »
Ren fece roteare gli occhi, ma abbozzò comunque un sorriso.
« Queste cose non mi preoccupano affatto. Asami non è così superficiale » sbuffò, scrollando le spalle. La realtà era che fondamentalmente di Asami non gli importava poi più di tanto. L’aveva conosciuta ad un evento di beneficenza al quale aveva partecipato con la sua famiglia. Lei, molto graziosa, si era fatta avanti per prima, presentandosi e dicendogli che l’aveva visto a scuola. Sua madre aveva fatto così tante pressioni perché lui si interessasse a lei che alla fine Ren aveva ceduto e aveva cercato di accontentarla. Asami era molto carina, figlia di medici e non sembrava una ragazza frivola. Ah e ovviamente aveva una cotta estremamente evidente per lui. Perché rifiutarla allora? Non ne vedeva il motivo. Allo stesso tempo però non capiva perché la presenza di un bel ragazzo nella sua classe avrebbe dovuto preoccuparlo. Anche se le fosse piaciuto non poteva di certo comandarle di non farlo. E forse era strano, ma la cosa non lo avrebbe comunque ferito. Sapeva che generalmente i fidanzati dovevano essere gelosi, quindi davanti agli altri si mostrava sempre leggermente stizzito nei confronti di determinate situazioni, ma in realtà non era affatto un bravo attore. A lui avevano dato la bellezza e l’intelligenza e tutto il resto, ma la recitazione era finita tutta nelle mani della sorella maggiore. Peccato, anche a lui avrebbe fatto comodo delle volte.
Il compagno di classe sembrava piuttosto scettico, ma prima che potesse ribattere il professore fece il suo ingresso in aula e tutti tornarono rapidamente ai propri posti, pronti per una tediosa lezione di storia del Giappone.

La giornata andò avanti a rilento. Ren era da sempre il primo della classe, ma ultimamente faceva enormi sforzi per stare al passo con gli altri e non deludere le aspettative dei genitori e dei professori. L’insonnia gli risucchiava via tutte le energie e mentre il professore di matematica scriveva sulla lavagna divenne letargico e rischiò di appisolarsi una o due volte. Un letto, non desiderava altro.
Quantomeno, forse, la lezione di educazione fisica lo avrebbe aiutato a darsi una svegliata. Non che fosse la sua materia preferita, assolutamente no. Gli sport non facevano per lui. L’unico che praticava assiduamente sin da ragazzino era il kyudo, il tiro con l’arco giapponese. Era uno sport che non prevedeva grandi sforzi fisici, ma piuttosto una spiccata concentrazione mentale. Non lo stancava terribilmente e non lo faceva sudare. Era lo sport perfetto per uno come lui.
Per quanto fosse membro del club di kyudo, che si riuniva tre volte a settimana, l’ora di educazione fisica non lo entusiasmava. Ragazzi e ragazze si alternavano due volte a settimana: quel giorno le ragazze avrebbero fatto nuoto, mentre i ragazzi basket. Niente di peggiore.

Al formarsi dei team Hiro venne scelto per primo, alto e possente com’era, ma Ren venne lasciato come eventuale sostituto. Era sempre così e lui di certo non se ne sarebbe lamentato. La coordinazione non era il suo forte, era bassino e quelle poche volte che lo lasciavano giocare finiva per cadere a terra, tornare a casa con qualche livido e dover sopportare sua madre pronta a portarlo al pronto soccorso.
Ren si scelse allora un angolino a bordo campo e si mise seduto, quando le porte della palestra si spalancarono e un altro gruppetto di ragazzi si fece avanti rumorosamente.
« Sono quegli idioti della B-3 » sbottò Hiro massaggiandosi la nuca. I ragazzi dell’altra classe li battevano ogni volta e a Hiro non piaceva perdere, ma Ren tenne queste osservazioni unicamente per sé.
« Farò il tifo per te. Spera che nessuno debba essere sostituito, se dovessi entrare in campo io potreste dire addio al vostro orgoglio di squadra » mugolò Ren rassegnato, ma Hiro di certo non dissentì. Rabbrividiva all’idea di vedere Ren in campo.

La partita iniziò. Ren era così annoiato ed assonnato e così poco interessato al basket che fissare le punte delle scarpe da ginnastica per tutto il tempo fu l’unico passatempo che trovò. Ad un certo punto l’insegnante gli chiese di aiutarlo a mettere a posto dei palloni nel ripostiglio, ma poi tornò seduto al suo solito posticino. Alzò lo sguardo solo le volte in cui Hiro inveì contro gli avversari e venne ripreso dal professore per la sua volgarità. Ren roteò gli occhi un paio di volte e quando Hiro cercò il suo sguardo, come a pretendere sopporto morale, Ren scosse il capo e lo guardò in cagnesco. Gli aveva detto miliardi di volte che quel suo temperamento non l’avrebbe portato da nessuna parte.
La partita ricominciò, un’ora era quasi trascorsa, lenta più che mai, poi finalmente il professore fischiò la fine della partita, Ren entusiasta sollevò lo sguardo pronto a mettersi in piedi, ma prima che potesse mettere in moto un qualunque muscolo, qualcosa lo colpì con tanta forza da farlo scivolare di lato sul pavimento. Qualcuno doveva aver calciato la palla che per sbaglio era andata proprio a colpirlo sulla guancia sinistra. Non si sarebbe stupito di sapere poi che si trattava di Hiro, in uno scatto d’ira dovuto alla perdita della partita. Ma fu proprio l’amico, seguito da altri ragazzi della sua classe, a correre per primo da lui e inginocchiarsi per vedere come stava.

« Amico… sul serio? Dobbiamo andare subito in infermeria. Ti verrà un livido enorme, dobbiamo mettere del ghiaccio… merda, chi la sente tua madre? Che razza di idiota... »
Ren era ancora stordito, ma vedendolo digrignare i denti seguì la direzione del suo sguardo. Un secondo gruppetto era radunato al centro della palestra. L’insegnante sbraitava contro qualcuno dell’altra classe mentre i compagni lo difendevano. Ren lo individuò. Era il più alto del gruppetto, alto poco più dell’insegnante, le spalle larghe, il fisico sviluppato come quello di un ragazzo ben oltre i diciassette anni. Lo colpirono i suoi capelli biondi, quasi bianchi, che tirati all’indietro scoprivano la sua fronte chiara. Osservò il suo profilo perfetto. C’era qualcosa di mascolino, deciso e al contempo delicato nei suoi tratti. Si fermò anche ad osservare i piercing neri alle orecchie. Erano tre o quattro. Non pensava che determinate cose fossero permesse in una scuola privata come quella.
Da quel che poté dedurre, apparentemente con fare annoiato, aveva calciato la palla con un bel po’ di forza e aveva colpito Ren in maniera non intenzionale. Ovviamente. Perché avrebbe dovuto farlo intenzionalmente? Non si conoscevano neanche.
L’insegnante lo obbligò a chiedere scusa e l’altro spostò lo sguardo sul più basso, trascinato da Hiro verso l’uscita.
« Scusa » urlò con fare piuttosto indifferente. Ren lo guardò per un attimo. Aveva degli occhi incredibilmente grandi, espressivi e color nocciola. Stranamente l’altro sembrò gelarsi per un attimo, lo vide deglutire, poi Ren distolse lo sguardo per primo. Si disse che doveva essere messo piuttosto male per mettere a disagio un simile sborone. Sentì l’insegnante che gli ordinava di andare a fargli delle scuse appropriate, ma le scarpe da ginnastica del ragazzo fischiarono contro il pavimento lucido della palestra mentre girava i tacchi e andava verso lo spogliatoio. Inutile dire che la cosa provocò le ire dell’insegnante e i versi di apprezzamento degli altri studenti.
Ren si disse solo che non se ne faceva niente delle sue scuse. Tutto il volto gli faceva male.

Quando Ren riaprì gli occhi era sdraiato a letto. Si rallegrò del fatto che il suo desiderio del giorno fosse stato esaudito, ma solo prima di tendere appena le labbra e rendersi conto che il lato sinistro del suo volto era appena gonfio e doleva.
« Come ti senti?! » urlò Hiro entrando in infermeria in quell’istante.
Ren si mise seduto e sospirò.

« Potrei stare peggio. Non fa poi così male »
« La dottoressa ha applicato del ghiaccio e una pomata mentre dormivi. Ha pensato fossi svenuto per il colpo, era piuttosto preoccupata, ma a quanto pare stavi solo dormendo beato. »
Ren sorrise e alzò le spalle « Ne avevo davvero bisogno »
Se fosse servita una pallonata in faccia ogni notte per farlo addormentare avrebbe valutato di assumere quel ragazzo biondo.

Giusto, lui.

« Il tizio che ha tirato la palla… è quello nuovo vero? » domandò Ren, retorico.
Hiro si infiammò immediatamente. « Quell’idiota, si. Adam. Dovresti vedere come i cagnolini della sua classe gli vanno dietro, per non parlare delle ragazze »

Ren avvertì un filo di invidia nella sua voce, ma anche questa volta lo tenne per sé.
« Se i suoi compagni di classe non fossero stati degli incompetenti avrebbe potuto vincere la partita ad occhi chiusi. È alto quanto me, certo, ma non si tratta solo di questo. Era davvero agile, sembrava giocasse a basket da una vita. L’avrai notato anche tu. »
Ren alzò di nuovo le spalle. Hiro era convinto davvero che l’amico prestasse attenzione al basket? Comunque rimase sorpreso del fatto che l’altro stesse riconoscendo la superiorità di quel biondo beffardo. Avvertì quasi timore nelle parole dell’altro. Ren si disse che probabilmente il fatto che avesse fatto inavvertitamente del male a Ren doveva averlo turbato. Hiro era sempre stato premuroso e protettivo nei suoi confronti.

Come si dice, parli del diavolo e spuntano le corna.

La porta dell’infermeria si spalancò. Lo sguardo di Ren si posò immediatamente sulla figura del ragazzo che teneva la porta scorrevole aperta e lo fissava con aria quasi euforica.
« Lo sapevo. Non ci sono dubbi. » dichiarò l’altro, sfoderando un ampio sorriso. Si avvicinò ad ampie falcate al letto. Hiro si alzò immediatamente con fare minaccioso, intimandogli con lo sguardo di non avvicinarsi oltre, ma il bel biondo lo ignorò senza pietà e si mise seduto sul materasso quel che bastava da avvicinarsi al viso di Ren che arretrò all’istante. Quella vicinanza gli mozzò il fiato. Quegli occhi lo scrutavano. Sembravano scavare nella sua anima. Sembrava così euforico, così felice e al contempo così terrificante. Un senso di nausea lo colse e strinse le mani sul lenzuolo non potendo fuggire dalla gabbia delle sue braccia, posate ai lati del suo corpo.


« Lo sapevo. Sei Hana! »

L’entusiasmo con cui pronunciò quel nome sferzò l’aria e spezzò il cuore di Ren tanto forte da temere che fosse rimbombato tra le mura asettiche dell’infermeria.
Hiro agì prima che Ren potesse fare o dire alcun che. Afferrò l’altro per il retro della camicia e lo tirò indietro con tanta forza da sbatterlo giù dal materasso. Ren sentì chiaramente la botta, ma il suo cuore si era rimpicciolito infinitamente tanto. Erano anni e anni che nessuno si permetteva più di chiamarlo con quello stupido nomignolo. Neanche sua sorella. Ma soprattutto, credeva che coloro che gli avevano affibbiato quel soprannome fossero ormai lontani da lui. Che il ragazzo appena trasferitosi facesse parte della sua infanzia?

Hiro fece per calciare l’altro, ormai a terra, ma quello si mise in piedi in men che non si dica, allontanandosi di scatto quel che bastava per evitare il calcio dell’altro.
« C’è mancato poco » commentò allegramente, sistemandosi il cardigan come se niente fosse.
« Chi sei?! Non permetto a nessuno di chiamarlo in quel modo! »
Hiro era sempre stato il suo difensore più agguerrito e Ren gli sarebbe stato grato per sempre. Il tentativo di proteggerlo sembrò stizzire il biondo, quell’Adam di cui tutti parlavano. La sua espressione cambiò, divenendo gelida e scocciata.
« Io lo chiamo come preferisco. » decretò, riportando gli occhi su Ren che si sentì minuscolo, un insetto, mentre l’altro lo divorava nel profondo.
Hiro tornò alla carica sollevando il pugno, ma prima di poter fare ulteriori danni, la voce acuta della dottoressa lo fermò. Strillando ordinò ad entrambi di uscire dall’infermeria, poi chiamò a gran voce un insegnante in corridoio e gli chiese di scortare i due in presidenza. Quando tornò dentro continuava a borbottare tra se e sé.
« Non è colpa di Hiro, quell’altro ha… »
Ren ci aveva provato, ma lo sguardo della dottoressa bastò a farlo zittire.
« Se stai bene puoi anche andare » disse e Ren percepì che il posto più sicuro non era più sotto quelle coperte. In fretta si alzò, indossò il cardigan e si infilò le scarpe.

Dopo essere tornato in classe a recuperare libri e zaino si diresse all’uscita. Davanti al suo armadietto trovò Asami, già stretta nel suo cappotto beige, pronta ad andare.
« Ren! Ero preoccupata per te! Mi hanno detto cos’è successo… stai bene? Il livido non sembra molto grande… »
In effetti era giusto una macchiolina violacea di qualche centimetro all’altezza dello zigomo. La fidanzata, graziosa come sempre, si avvicinò e gli scostò una ciocca di capelli per dare meglio un’occhiata. Lui la lasciò fare, poi recuperò le sue cose dall’armadietto.
« Torniamo a casa insieme? » propose lei.
« Solo fino a un certo punto. Devo passare in commissariato. » disse Ren, pronto ad andare.
« Non sarebbe meglio se tornassi a casa a riposare? »
« Riposerò più tardi, ho una serata intera, no? » le rivolse un sorriso tenue e lei arrossì. Come sempre pendeva dalle sue labbra.

Sulla strada di casa Ren le raccontò cos’era successo.
« Spero che Hiro non sia nei guai… sua madre lo metterà in punizione per un anno intero » mormorò Ren, sbuffando.
« Hiro è sempre in punizione » osservò la ragazzina con fare rassegnato. Come darle torto.
« Spero comunque che questa volta gli vada bene. Non è colpa sua. »
« è stato Adam, giusto? »
Ren non le aveva raccontato di come lo aveva chiamato e quando Asami si rendeva conto che l’altro non voleva dire troppo non cercava mai di forzarlo. Era una sua qualità che Ren apprezzava.
« Si. Ha iniziato lui. »
Asami sospirò un po’ pensierosa. « In classe tutti lo adorano. A me non sta un granchè simpatico, così, a pelle. Fa tanto il ribelle. Risponde ai professori e hai visto tutti quei piercing? Non mi sembra un tipo raccomandabile. Ha un’aria da bullo. »
“Bullo” però non era il termine che Ren avrebbe usato per descriverlo. Non ne aveva ancora trovato uno adatto nella sua testolina confusa. Chiaramente Asami temeva per la sua incolumità, Ren sembrava proprio qualcuno che i bulli avrebbero preso di mira, in fin dei conti.
« Sinceramente non mi interessa. Voglio che mi stia lontano. »
« In realtà ci sono già delle dicerie sul suo conto. Dicono che si sia trasferito da un’altra scuola fuori dalla prefettura in seguito a un’espulsione… dev’essere successo qualcosa di grave, non credi? »
Ren non l’aveva ascoltata, era sovrappensiero. Si fermò ad un incrocio e fece cenno all’altra. Lui doveva procedere verso sinistra. Lei esitò per un attimo. Una volta gli aveva chiesto un piccolo bacio, ma Ren non aveva acconsentito. Ora ogni volta temeva che glielo chiedesse ancora. Aveva detto che era normale, che stavano insieme, ma qualcosa del concederle un bacio lo faceva sentire terribilmente in colpa. Non voleva prenderla in giro fino a quel punto, ma affrontare la cosa non era tra le sue priorità. Quindi si affrettò a salutarla agitando una mano per aria e a dirle che si sarebbero visti il giorno dopo durante l’intervallo o magari già all’entrata, poi le diede le spalle e procedette lungo il viottolo a sinistra.

Il commissariato era poco distante. Proprio alla fine di quella via stretta, costeggiata da alberi già spogli e qualche casetta abitata. C’era anche un gatto nero e bianco, solitamente, e quando aveva qualche rimasuglio del pranzo da dargli si fermava a coccolarlo un po’, ma quel giorno non era riuscito ad avvistarlo, così raggiunse il commissariato senza ulteriori indugi.
Entrò senza che la guardia in portineria lo notasse e andò dritto verso le scale. No, non avrebbe potuto girovagare per quel posto come desiderava, ma ormai lo conoscevano tutti. Lo vedevano almeno tre volte alla settimana e tutti ne conoscevano la ragione. Raggiunto il primo piano una segretaria goffa sobbalzò vedendolo e fece volare per aria una serie di scartoffie.

« Oh cielo » piagnucolò, chinandosi a raccoglierli. « Ciao Ren » disse sorridente, mentre lui l’aiutava a raccogliere tutto.
« Il signor Tanizaki? » chiese Ren. La segretaria fece roteare gli occhi, ma sapeva bene che era inutile fargli la predica.
« In ufficio »
« Grazie mille. Ecco qui. » e le passò i fogli raccolti. La superò e andò verso uno degli uffici, il quarto a destra. Bussò un paio di volte, poi aprì la porta senza aspettare.

Il fumo di sigaretta lo fece tossire un paio di volte. L’uomo seduto sulla poltrona davanti a lui saltò dalla sedia per la paura e spense in fretta la sigaretta. Era un uomo dalla barba incolta, le spalle larghe e una lunga cicatrice lungo il collo. Si vantava sempre di come era riuscito a scampare alla morte quando qualcuno aveva tentato di farlo secco, ma ogni volta cambiava versione, rendendo la storia sempre meno credibile.
« Ho bussato » si giustificò Ren.

« Avresti dovuto bussare più forte! Dannazione… » sbottò l’altro buttando la sigaretta fuori dalla finestra con noncuranza.
« C’è scritto che è vietato fumare all’interno dell’edificio » commentò Ren, mettendosi seduto davanti alla scrivania.
« Non sono affari tuoi ragazzino. E chi ti ha invitato a sederti? Vattene subito. Non ho tempo da perdere. Sono estremamente impegnato. »
« Quindi non sta ancora una volta dando un’occhiata a qualche sito porno mentre nessuno può beccarla? »
L’altro divenne paonazzo e infastidito spense in fretta lo schermo del computer.
« Ricordami di spegnertela in fronte la sigaretta, la prossima volta. Cos’è successo al tuo bel faccino d’ angelo? »
« Un incidente ad educazione fisica »
« Peccato che non sia servito a farti rinsavire »
Ren era abituato ai battibecchi con quell’uomo. Si sporse semplicemente in avanti e tirò fuori la questione che lo interessava.
« Dovete riaprire il caso. »
L’altro sbuffò sonoramente e rise di lui. « Non c’è alcun motivo di riaprire un caso chiuso di dieci anni fa.»
« Potrei aver ricordato qualcosa »
« Tu non hai ricordato un bel niente, ragazzino. Quante volte hai tirato fuori questa storia? Poi ci hai fornito identikit imprecisi, fantasie campate per aria. Un mostro che esce da un armadio! Quella volta fu davvero interessante. Se hai bisogno di parlare con qualcuno delle tue allucinazioni posso darti il numero di un bravo psicologo »
Ren sospirò. Non riusciva a farlo ragionare.
« Ci sono prove che non sono state messe in conto. Il caso è stato chiuso senza la minima indagine. Niente di niente. Nessuno è venuto a controllare l’edificio dopo la rimozione dei cadaveri. »
« Semplicemente perché il colpevole, quell’inutile uomo delle pulizie, ha confessato. È andato dritto dritto al commissariato centrale di Sapporo urlando che era stato lui a commettere l’omicidio. Ebbene? Cosa volevi che facessero? Il colpevole è stato trovato, adesso è in gattabuia, caso chiuso, addio. »
Il signor Tanizaki si alzò scocciato e andò verso la finestra, lanciando un’occhiata vaga alla città viva fuori di essa. Ren era arrossito di rabbia e ancora una volta la sua armatura stava vacillando. In fin dei conti non gli piaceva essere preso per un pazzo visionario che non riusciva ad accettare la realtà dei fatti.
« Non smetterò di chiederle di avviare le procedure per riaprire il caso. »
« Tu non hai nessuna autorità di chiedermi una cosa del genere. Dovresti lasciar riposare in pace quelle povere anime defunte, anziché tentare di ritirar fuori la storia dei loro omicidi solo per via del tuo senso di colpa »
Ren, in parte, dava ragione al detective. In parte non riusciva proprio a rassegnarsi. C’era qualcosa di losco nella ricostruzione degli eventi di quella gelida notte di dieci anni fa. Qualcosa non tornava, ma nessuno sembrava volergli credere o collaborare. Sembrava che a nessuno importasse più nulla, neanche alla sua famiglia.
« La farò cedere » disse deciso, tornando in piedi. Non aveva la forza di continuare ad insistere quel giorno. Forse Asami aveva ragione, sarebbe dovuto tornare a casa a riposarsi.
« Non ci riuscirai mai ragazzino. Daremo ordine al portiere di non farti più entrare »
Tanizaki non si voltò a guardarlo mentre usciva con le spalle e lo sguardo bassi.

Aveva perso tutto il suo entusiasmo. Succedeva tutte le volte che arrivava lì e non otteneva ciò che voleva e si sentiva sbagliato, quasi malato. Sulla strada del ritorno si disse che non gli avrebbero vietato di entrare, che la segretaria e qualcun altro si erano affezionati al suo caso e avevano piacere a vederlo di tanto in tanto a stremare il signor Tanizaki.
Calciando l’asfalto con rassegnazione, camminò verso la stazione, scegliendo tuttavia i percorsi più isolati, meno affollati, dove il traffico delle auto non l’avrebbe disturbato mentre il flusso dei suoi pensieri lo guidava più delle sue gambe. Perso nel suo mondo si fermò solo quando sentì delle voci provenire da un parchetto. Sollevò finalmente lo sguardo e vide un gruppo di ragazzi accanirsi su altri due. Il cuore fece un balzo. Avvertì un senso di paura mista a dispiacere. Li stavano pestando senza pietà. Perché? Quale motivo poteva spingerli a fare qualcosa del genere?
Si avvicinò di qualche passo. Non avrebbe avuto il coraggio di andare oltre, lo sapeva già, ma non sarebbe riuscito neanche ad andarsene. Sussultando ad ogni pugno in faccia ai due, il suo sguardo vagò per il parco alla ricerca di un modo per farli smettere senza rischiare necessariamente di essere pestato a sua volta e, mentre lo faceva, notò, ancora una volta, purtroppo, un viso ormai conosciuto. I capelli biondissimi quasi brillavano alla luce rosata del tramonto, i suoi grandi occhi color nocciola guardavano il gruppetto che se le dava di santa ragione, mentre seduto su un’altalena si dondolava appena.

« Sollevate quello lì. Non riesco a guardarlo bene in viso » disse Adam, sorridendo in maniera inquietante quando poté avere una chiara visuale del naso sanguinante della vittima.

Il senso di nausea tornò più forte che mai. Poteva dire senza ombra di dubbio che stesse godendo del dolore altrui, che fosse eccitato come un bambino davanti ad un nuovo cartone animato e che sembrava proprio che fosse stato lui ad aizzare quelle persone contro gli altri due.
Ren, incosciente più che mai, non poté più sopportare una scena simile. Si sfilò lo zaino dalle spalle e con tutta la forza che possedeva lo scagliò contro il gruppo. Gesto improvviso, più stupido che mai, che non l’avrebbe sicuramente portato a niente di buono, ma non aveva trovato altro modo di farli smettere, né era riuscito a controllare abbastanza le sue emozioni. Ovviamente si accorsero di lui all’istante, quello che aveva ricevuto lo zaino pieno di libri dritto in testa gli si avvicinò minaccioso, mentre gli altri ridacchiavano chiedendosi chi fosse quel marmocchio piantagrane, se fosse masochista e desiderasse prenderle un po’ anche lui. Il tizio era abbastanza vicino da colpirlo, Ren lo fissava e le sue gambe non si muovevano, erano pietrificate dalla paura, le scarpe non si spostavano di un millimetro sulla sabbiolina fine del parchetto. L’ombra del pugno alzato dell’altro si proiettò sul terreno e Ren cercò di prepararsi mentalmente al dolore. La seconda botta della giornata, perfetto. Avrebbe fatto meglio a cancellare quel giorno sin dalle prime luci dell’alba.

Eppure il colpo non arrivò. Sentì un tonfo, una sagoma si era parata davanti a lui. Per un attimo la sua mente andò ad Hiro, che era magicamente sempre lì, pronto a difenderlo, ma questa volta, per quanto la corporatura fosse simile, il profumo dolce della figura lì davanti gli suggerì che non si trattava del suo migliore amico. Adam si era parato di fronte a lui e aveva preso il pugno sulla guancia al posto suo. Ren riuscì ad indietreggiare di un passo, il suo cuore tachicardico non accennava a fermarsi neanche per un secondo. Preoccupato fece per aprire bocca, ma il biondo si mosse in fretta, la mano si posò sul volto del bullo che l’aveva attaccato e prima che chiunque potesse rendersene conto lo scaraventò a terra, lo calciò allo stomaco con forza, poi premette con forza la suola della scarpa contro il volto del malcapitato, facendolo supplicare di smetterla, facendolo temere di sentire la propria mandibola comprimersi e rompersi. Solo allora Adam fu soddisfatto e dopo un altro calcio lo lasciò perdere.
« Nessuno ti ha detto di cambiare giocattolo. » disse sprezzante all’altro, poi la sua mano scattò verso il polso di Ren e lo trascinò davanti a sé. La mano scivolò lungo la sua spalla e si chinò verso il suo orecchio. Sentì che lo stava annusando, inalava il suo odore a pieni polmoni, terribilmente soddisfatto.
« Questo giocattolo è mio. Nessuno di voi può giocarci. » li avvisò con lo sguardo più minaccioso che Ren avesse mai visto fino a quel momento. La sua vicinanza continuava a renderlo nervoso. Aveva paura e al contempo si sentiva al sicuro sotto quel braccio che gli cingeva le spalle. Era un controsenso ridicolo. Si fece forza e si allontanò piano dalla sua stretta, ma l’altro non protestò. Piuttosto gli rivolse un sorriso radioso e si indicò lo zigomo arrossato.

« Adesso siamo pari, no? » disse ridendo. Improvvisamente era un’altra persona.

Questo cambio repentino di personalità gli diede i brividi, ma anche uno strano senso di familiarità. E il suo sorriso era così caloroso che da quel calore si sarebbe lasciato scaldare per sempre. Eppure si trattava comunque della stessa persona che un attimo prima godeva di una cruenta scena di violenza, consumata sotto i suoi occhi.
Adam fece un piccolo inchino rivolto a Ren « Sono Adam, piacere di conoscerti »

Ren rimase interdetto. Per lui era davvero un piacere conoscere una persona del genere?
Si era detto che si sarebbe allontanato da un simile soggetto e così avrebbe fatto.
« Non ho idea di chi tu sia, ma non ho nessuna voglia di fare conoscenza » sbottò Ren. Il gruppetto ridacchiò, quasi pronto a vederlo sbattuto a terra come quell’altro, ma Adam guardò il gruppo irritato. I suoi occhi promettevano a quei delinquenti che avrebbero fatto i conti più tardi, ma quando tornò a rivolgersi a Ren gli sorrise dolcemente.
« Immagino che non sia facile. Abbiamo davvero iniziato col piede sbagliato. Credi sia troppo tardi per avere una seconda possibilità? »
Ren non capiva perché una persona del genere fosse così interessata a fare amicizia con lui. Di qualunque cosa si trattasse avrebbe ascoltato la sua testa e non sarebbe stato tanto irresponsabile da lasciar entrare qualcuno del genere nel suo fragile mondo.
« Io non do seconde possibilità » disse abbassando gli occhi e andando a riprendere il proprio zaino evitando lo sguardo dei bulli. « E lasciate stare quei poveri ragazzi! Li avete ridotti già abbastanza male! » ebbe il coraggio di urlare al gruppetto.
Adam rise e scrollò le spalle. « Avete sentito, no? Tutti a casa »
Gli altri lo guardarono scioccati e delusi, ma non osarono ribattere. Ren era sempre più sorpreso. Deglutì e celò il proprio senso di soddisfazione, mentre si sistemava lo zaino sulle spalle.
« Ci vediamo a scuola » disse Adam, mentre Ren usciva dal parchetto.
« No che non ci vedremo » sbottò il più basso, dandogli le spalle e affrettandosi verso la stazione.

Il cuore non smetteva di battere e le mani di tremare.

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