Easy

di ChiiCat92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Falling Star ***
Capitolo 2: *** God's Gift ***
Capitolo 3: *** Loveless ***
Capitolo 4: *** Fatty ***
Capitolo 5: *** You may kiss the bride ***
Capitolo 6: *** Hell ***
Capitolo 7: *** Puppy ***
Capitolo 8: *** We fall from faith ***
Capitolo 9: *** Smallest Miracle ***
Capitolo 10: *** Hungry Jealousy ***
Capitolo 11: *** Grey ***
Capitolo 12: *** I don't want you to go ***



Capitolo 1
*** Falling Star ***


Per cominciare:

Salve a tutti e benvenuti in "Easy". Come ho detto nell'introduzione, questa storia nasce da una serie di headcanon scribacchiati su un taccuino davanti ad un tè, e che si sono trasformati in una storia grazie agli influssi della mia Musa, fonte infinita di ispirazione <3 
Per i primi capitoli quest'avventura sarà impostata in una serie di flashback, finché non comincerà la narrazione del tempo "presente" in cui si svolge la storia vera e propria. 
Spero vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverla e quanto alla mia Musa inventarla. 

Chii





Part One: Silver Ice

 

- 1 -

Falling Star

 

 

Quando Hojo la vide per la prima volta restò senza fiato. Pensò che era bella, più di ogni altra ragazza che avesse mai visto, bella a tal punto da sembrargli aliena.

Era appena arrivata in città, si sussurrava che fosse scappata con la famiglia dalla Russia.

Forse per questo ad Hojo appariva completamente diversa da chiunque altro avesse intorno.

Camminava stringendosi al petto i libri come se fossero la sua unica difesa dal mondo esterno, parlava poco, rimaneva in giro per i corridoi ancora meno. Era quasi impossibile avvicinarla senza avere l'impressione che quegli occhi marrone rossiccio ti penetrassero l'anima.

La novità del suo arrivo rimase sulla bocca di tutti per una lunghissima settimana, ma dopo che mostrò un timido disinteresse per chiunque cercasse di interagire con lei, i pensieri degli studenti si volsero altrove.

Ma non quelli di Hojo.

Quella piccola ragazzina era la prima immagine che vedeva quando apriva gli occhi e l'ultima quando andava a dormire.

Era cotto, e non sapeva come gestire la situazione. A sedici anni nessuno sa come gestire niente, men che meno quel pensiero ossessivo che non faceva che perforargli la mente.

Avrebbe potuto parlarle, scoprire almeno il suo nome, ma si sentiva uno stalker, ed era del primo anno, e aveva cominciato semplicemente ad evitarla, il più possibile.

Quando la vedeva in lontananza Hojo svoltava nel primo corridoio disponibile o scendeva le scale o infilava il naso in un libro e aspettava con il cuore in tumulto che lei passasse.

Il suo profumo aveva il sentore della neve appena caduta. Ma come poteva saperlo lui che non aveva mai visto la neve?

Ormai era quasi un mese che andava avanti così, ogni giorno era una nuova tortura, e le cose non sembravano migliorare, anzi.

Era uno schifo essere un adolescente.

Voleva concentrarsi sugli studi per dimenticare lei, ma lei occupava tutta la sua mente e non riusciva a concentrarsi su niente. Se avesse continuato in quel modo i suoi voti avrebbero fatto una picchiata verso il basso, e non poteva permetterselo, doveva proteggere la sua media, e la borsa di studio che l'avrebbe portato al college con un anno di anticipo.

Doveva porre rimedio a quell'assurdità. Poteva anche non essere la ragazza che stava tanto idealizzando, poteva non piacergli così tanto dopo averla conosciuta, anche se una vocina dentro di lui non faceva che dirgli che non poteva non piacergli.

Quella mattina, quando aprì gli occhi e inforcò gli occhiali rotondi, decise che sarebbe stato il giorno giusto. Se lo diceva più o meno ogni volta, ma adesso era diverso, adesso c'erano di mezzo gli esami di fine trimestre, e non poteva perdere tempo dietro alle ragazze come tutti i suoi compagni, come tutti gli altri. Lui era diverso.

Si tirò su a sedere con un profondo respiro. Il cuore gli batteva a mille e si massaggiò il petto con una smorfia infastidita. Hojo era un ragazzo razionale, un amante della scienza, ma quello che gli stava succedendo era tutt'altro che razionale e scientifico. Non lo capiva, e lo spaventava.

Si alzò, cercando di non indugiare in quei pensieri ansiogeni, e indossò la divisa del liceo con la stessa meticolosa attenzione di sempre. Doveva apparire perfetto, quel giorno in particolare.

Riempito lo zaino, scese a fare colazione.

L'enorme casa in cui abitava era stata per lui, nell'infanzia, motivo di vanto quanto di imbarazzo. Non poteva dire che gli fosse mancato alcunché crescendo, e nonostante non fosse un ragazzino viziato e conoscesse il valore dei soldi, era comunque figlio di persone ricche.

La maggior parte dei ragazzi della sua età non avevano neanche un quarto di quello che aveva lui, a cominciare dalla macchina che suo padre gli aveva regalato quando aveva compiuto sedici anni.

Ma lui, al contrario di quello che pensavano alcuni dei suoi coetanei, non intendeva adagiarsi sugli allori e scialacquare la fortuna dei suoi genitori. No, lui voleva meritarsi quello che aveva. Per questo si era gettato nello studio con tutta la dedizione di cui era capace, e adesso era tra i migliori dell'istituto.

Ovviamente le male lingue insinuavano che i suoi successi scolastici fossero il risultato di donazioni fatte alla scuola da parte di suo padre. Il campo di football non era stato generosamente bonificato sempre da, ahahah, lui? E la biblioteca non portava il nome del figlio?

Ad Hojo, però, non interessava. I suoi genitori erano orgogliosi, e non gli avrebbe dato un dispiacere perché girava la testa per una bella ragazza.

Anche se era davvero bella.

Sbuffò, cercando di scuotere via quei pensieri.

Nonostante i suoi genitori gli volessero bene e avessero fatto di tutto perché avesse una vita felice, non erano molto presenti. Il lavoro assorbiva tutto il loro tempo e anche quella mattina, come tutte le altre, ad avergli preparato la colazione era stata la cameriera.

Da che ricordava, Inga era sempre stata con loro, ma era tanto spaventata dal potere di suo padre che non si era mai sbilanciata nel dargli anche solo una parvenza di affetto. I suoi pancakes però erano meravigliosi.

I suoi genitori erano già usciti, e sedette da solo al tavolo per gustare i waffles alla belga che Inga aveva preparato. Da quando sua madre aveva comprato la piastra per cuocerli spuntavano spesso sul menù della colazione.

Hojo mangiò in silenzio, fissando il suo piatto e immaginando i diversi scenari in cui si sarebbe potuto trovare per parlare con la ragazza straniera.

Doveva aver imparato l'inglese a quel punto, sapeva che seguiva dei corsi intensivi pomeridiani, quindi farsi capire non doveva essere un problema. Ma l'imprevedibilità della situazione lo metteva a disagio. Era abituato ad avere le cose sotto controllo, e quella era la cosa con più variabili che avesse mai fatto.

Il frusciare della carta gli annunciò che Inga gli aveva imbustato il pranzo, lasciandoglielo sulla penisola, dopo di che con un breve saluto si congedò per andare a fare qualunque cosa facesse quando rimaneva da sola a casa. Pulizie, probabilmente.

Hojo lasciò il piatto nel lavandino, recuperò il sacchetto del pranzo e lo infilò nello zaino, dopo di che inforcò la giacca. La normalità di quei gesti, fatti ogni giorno tutti i giorni negli ultimi dieci anni almeno, assumevano tutto un altro significato adesso. Perché era una giornata importante.

Gli sarebbe piaciuto non sudare così tanto né sentirsi così tanto impacciato. Qual è il vantaggio di avere un gran cervello se nel momento del bisogno va in tilt?

La sua macchina non era una macchina costosa, anzi, era di seconda mano, anche se era tenuta in perfette condizioni. Suo padre non voleva comprargli cose costose solo perché poteva e lo apprezzava, visto tutte le voci che giravano su di lui, ma voleva anche fargli un bel regalo, e Hojo era sicuro che avesse speso comunque una fortuna per fare in modo che fosse più sicura di una macchina nuova.

Profumava di menta per via dell'alberello deodorante lasciato appeso allo specchietto retrovisore, e per lui era ormai un profumo familiare, tanto che si riempì i polmoni con un gran respiro.

Quando la mise in moto la sentì rombare e scaldò un po' il motore spingendo sull'acceleratore. Rispondeva così bene, così prontamente, che stentava a credere che fosse davvero di seconda mano.

Guidò con calma fino alla scuola, rispettando tutti gli stop e fermandosi ad ogni semaforo rosso. Aveva la patente da poco più di sei mesi e non intendeva rischiare di perderla.

Il liceo che frequentava era un istituto privato che profumava di soldi già solo a vederlo da lontano. I professori migliori per l'istruzione migliore: era il motto che faceva capolino sui cartelloni pubblicitari. Ma questo non voleva dire avere la promozione facile, anzi. La severità degli insegnanti era famosa in tutto lo stato, e il tasso di stress quanto di ottimi risultati era paragonabile sono alle migliori scuole giapponesi.

Era importante costruirsi con le proprie mani, con il sudore e con la fatica, diceva a volte suo padre con voce seria, proprio come aveva fatto lui.

Adorava raccontare la storia di come era partito con in tasca solo cinque dollari, per poi investirli in borsa e arrivare ad avere un portfolio di un miliardo nel giro di qualche anno. Hojo sapeva che buona parte di quella storia era vera, ma anche che suo padre provava un gusto particolare nell'ingigantire gli avvenimenti del suo passato.

Se avesse voluto, il ragazzo avrebbe potuto avere un parcheggio con il suo nome sopra nel cortile di fronte alla scuola, ma c'era già la biblioteca che lo portava, e non voleva attirare su di sé più attenzione di quanta già non ne avesse. Gli toccò parcheggiare lontano dall'ingresso, ma non lo ritenne un problema dal momento che mancavano ancora dieci minuti al suono della campanella.

Da una parte sperava di poter parlare con la ragazza prima dell'inizio delle lezioni, per togliersi di dosso quell'orribile ansia torci-budella, dall'altra aveva il terrore di vedersela apparire di fronte e di non sapere più cosa dire, nonostante le svariate prove che aveva fatto davanti allo specchio.

Scendendo dall'auto guardò con ansia a destra e sinistra alla ricerca del suo volto. Era assurdo essere fissato con una ragazza di cui non conosceva neanche il nome, vero?

All'improvviso gli sembrava che tutto quello che aveva in mente di fare fosse stupido, davvero stupido. Ma non poteva tornare su suoi passi.

- Che situazione del cavolo. - mormorò tra sé e sé e, recuperato lo zaino, si incamminò verso l'entrata.

Il chiacchiericcio dei ragazzi assiepati davanti all'ingresso gli faceva venire mal di testa. Non riusciva a ragionare lucidamente e tutta quella confusione non aiutava affatto.

Non aveva molti amici, per lo più erano tutti conoscenti con cui non aveva approfondito troppo: non era bravo a mantenere i legami.

Salutò un paio di ragazzi con cui collaborava alle lezioni di chimica, ma il suo sguardo cercava lei tra la folla. I suoi capelli candidi, la sua figura minuta, e quegli occhi rossicci magnetici come poli d'attrazione.

La campanella suonò anche troppo presto, e lui tirò un mezzo sospiro di sollievo, misto a delusione. Il fatto di non averla vista gli lasciava un sapore dolce amaro in bocca.

Salì la scalinata e superò il portone cerando di non farsi spintonare dai ragazzi che correvano verso le classi, non perché avessero fretta di imparare, ma solo perché facevano a gara a chi arrivava prima o qualcosa di simile.

A stento ricordava quale lezione doveva seguire quella mattina, aveva la testa completamente altrove.

Era così assente che non si accorse dello scalpiccio agitato alle sue spalle, e quando venne investito da un piccolo bolide in corsa aveva già un'imprecazione e un insulto a fior di labbra.

Salvo poi perdere la voce.

Non aveva sentito mai parlare la ragazza straniera perché non gli era arrivato abbastanza vicino da potersi imprimere il suo timbro, o bearsi del suo accento, ma adesso che si scusava per essergli arrivata addosso gli sembrava la cosa più meravigliosa al mondo.

Il suo modo di parlare sognante con l'accento russo tanto marcato da far sorridere gli capovolse piacevolmente lo stomaco, ma riuscì ad abbozzare un “Stai tranquilla, è tutto okay” che gli avrebbe dovuto assicurare un oscar per la recitazione: per come gli palpitava il cuore, era riuscito a mantenere una facciata di tranquillità invidiabile.

La aiutò a raccogliere i libri che le erano caduti e per tutto il tempo cercò di capire come attaccare bottone ma niente gli venne in aiuto, né le centinaia di romanzi d'amore che aveva letto o studiato, né tanto meno il sangue freddo da scienziato che aveva quando maneggiava sostanze pericolose in laboratorio.

Lei lo ringraziò e poi, con la stessa fretta, corse verso la sua classe.

Profumava davvero di neve appena caduta.

 

 

Per fortuna, Hojo non dovette partecipare attivamente a nessuna lezione, perché la sua attenzione era tutta per la ragazza e il loro fortuito incontro.

Tutto quel tempo a pianificare il modo in cui sarebbe successo e alla fine...era successo per caso.

Non poteva perdonare il Destino per questo.

Quando suonò la campanella del pranzo quasi saltò giù dalla sedia.

Finalmente avrebbe avuto un'ora di tempo per stare solo con i suoi pensieri e il libro di Margherita Hack che non aveva ancora finito di leggere. Lontano da tutti, lontano da tutto. Magari anche dalla bella Ragazza Neve.

Evitò per un pelo il presidente del club di scacchi che di certo l'avrebbe trascinato in un'interminabile conversazione, e corse fuori.

La giornata era soleggiata, non calda ma comunque piacevole, annunciava il ritorno della primavera. Un po' in anticipo quell'anno.

Aspirò a fondo quell'aria fresca e pulita e si diresse al cortile.

Le voci allegre dei ragazzi che giocavano e correvano, liberi per qualche istante dalle loro in apparenza pesanti vite, era il sottofondo perfetto, un tappeto armonico di esistenze che lo circondavano senza però renderlo partecipe. Gli piaceva poterle guardare come fosse uno scienziato, uno vero. Chissà, un giorno avrebbe potuto fare qualcosa del genere davvero.

Osservare una vita che prende coscienza di sé in un utero artificiale, ad esempio.

Beh, in ogni caso se non avesse superato gli esami del trimestre sarebbe rimasto tutto nella sua fantasia.

Si sedette all'ombra del suo albero preferito. Il club di atletica al completo gli passò a fianco correndo e sbuffando, mentre il capitano teneva il ritmo urlando una filastrocca.

Con l'arrivo della bella stagione sarebbero ricominciati i tornei sportivi, e i campi di allenamento si sarebbero riempiti di atleti con la testa vuota e le tasche piene: le borse di studio non andavano solo a chi aveva tutte A in pagella.

Sospirò e infilò la mano nello zaino per tirare fuori il sacchetto del pranzo e...e...il libro. Ma lì non c'era.

Con le sopracciglia aggrottate aprì meglio lo zaino per controllare l'interno. Una, due, tre volte: il libro non c'era davvero.

Possibile che l'avesse lasciato a casa? Eppure era sicuro di averlo portato, lo portava sempre.

Cercò di ricordare se l'avesse invece posato nell'armadietto tra una lezione e l'altra, ma per quanto si sforzasse non riusciva a ricostruire il momento.

L'aveva perso? L'aveva lasciato in biblioteca l'ultima volta?

- Ciao. - alzò la testa di scatto e quasi si sentì morire. La ragazza dei suoi sogni, dei suoi pensieri ossessivi, gli stava davanti con un timido ma caldo sorriso sulle piccole labbra rosee.

Il respiro si fece grosso, il cuore cominciò a pompare impazzito, e sudore caldo gli coprì immediatamente la schiena.

Cominciò a chiedersi se il suo alito puzzava, se aveva le mani appiccicaticce, se i capelli neri fossero ancora legati in una rigorosa coda oppure spettinati.

- Ciao. - riuscì a dirle. Gli occhiali gli scivolarono sul naso per il sudore, e si affrettò a tirarli su.

Doveva apparire davvero patetico.

- Scusami, non volevo disturbarti. Tu sei Hojo Crescent, vero? -

Come faceva a conoscere il suo nome? Andò nel panico finché il suo cervello non gli suggerì che probabilmente la ragazza lo conosceva perché c'era il suo nome sulla targhetta fuori dalla biblioteca, e suo padre finiva al telegiornale un giorno sì e uno no, e lui stesso qualche volta era scappato da giornalisti sciacalli che volevano intervistarlo.

Insomma, non era così strano che lo conoscesse in fondo, no?

- Sì, sono io. - disse però, cercando di capire a che livello d'ansia fosse.

Da uno a dieci forse era arrivato a venti, una buona media considerando il fatto che era la prima volta che parlava con una ragazza, e che per di più era una che gli piaceva.

Lei gli tese un libro e lui subito lo riconobbe. Ecco che fine aveva fatto! Gli era caduto quando si erano scontrati.

- Oh, grazie. - lo prese e per un momento le loro dita si sfiorarono.

Hojo non aveva mai pensato che quel momento sarebbe stato come i tanti che aveva visto nei film.

Il ragazzo che sfiora la ragazza e all'improvviso capisce di voler passare tutta la vita con lei: che noioso, stupido cliché romantico.

Eppure fu proprio quello che provò.

In quell'istante, quel misero istante in cui le loro dita si toccarono, lui capì che avrebbero avuto una vita lunga e felice insieme, che si sarebbero sposati, che avrebbero avuto dei figli, che si sarebbero amati fino alla fine delle loro vite.

Doveva essere così che ci si sentiva quando si era giovani e innamorati.

- Mi chiamo Jenova. Sarebbe Jenova Yarkoye Serèbro, ma va bene solo Jenova. - si portò dietro l'orecchio un ciuffo di capelli candidi.

Sembrava troppo eterea per poter essere vera, effimera come una stella cadente.

Hojo tirò su le labbra in un sorriso. Era imbarazzata tanto quanto lui, altrettanto impacciata e confusa.

Non si sentì più tanto stupido, e per la prima volta non si sentì neanche solo.

- Mi dispiace che hai dovuto portartelo dietro tutto il giorno. - le disse, sollevando il libro per farle capire che stava parlando di quello.

Lei scosse la testa, i capelli frusciarono. Erano così leggeri, fatti come di seta. Adesso che poteva vederla da vicino si accorgeva di piccoli dettagli, della pelle candida, di quanto fossero lunghi quei capelli, delle leggerissime efelidi che le circondavano il naso, delle labbra carnose, di quanto fosse minuta, di come i suoi occhi brillassero.

- Non è stato un problema, anzi, perdonami ma non sono riuscita a trattenere la curiosità e ho dato un'occhiata. Il mio inglese però...non è ancora così buono. -

Hojo inarcò le sopracciglia, sorpreso. Una parte di lui gli diede dello stupido. Solo perché era una ragazza carina non voleva dire che non era intelligente o interessata alla scienza. Ma quello era un libro di fisica teorica che aveva trovato difficile da comprendere persino lui.

- Se vuoi puoi...prenderlo in prestito, appena l'avrò finito. -

Lei sollevò un po' la testa e gli risolve il primo di quelli che lui sapeva sarebbero stati tanti sorrisi. - Davvero posso? -

- Certo. - avrebbe voluto essere più risoluto ma la voce gli tremava, era fuori dal suo controllo.

- Ti ringrazio. - anche se aveva quell'accentaccio russo, il suo modo di parlare era comunque piacevole.

Hojo si chiese se fosse arrivata in America senza conoscere una sola parola di inglese, e come dovesse essere cambiare non solo città, ma stato, nazione, continente.

Non si stupiva che fosse così timida e introversa.

- Ti va di mangiare insieme? - gli uscì dalle labbra, senza sapere come e perché. Qualcosa dentro di lui cominciò a urlare e disperarsi: se avesse rifiutato sarebbe morto dentro. - Cioè...solo se non hai niente altro da fare e...posso aiutarti con il libro se ti va. - si affrettò ad aggiungere come giustificazione.

Dio, quanto era stupido! Adesso di certo lei pensava che fosse strambo o qualcosa del genere, o peggio, che fosse un totale imbranato con le ragazze. E lo era, davvero, ma avrebbero preferito che lei non lo sapesse, non al loro primo incontro almeno.

Lei non sembrò pensarci molto, forse non aveva altri impegni, o forse – come piacque pensare a Hojo – semplicemente le piaceva l'idea di pranzare insieme.

In ogni caso gli si sedette accanto.

Dopo un primo, lunghissimo momento di silenzio imbarazzato, cominciarono a parlare, prima del libro, poi di qualsiasi altra cosa.

E non smisero più.

 

*

 

Hojo si guardò allo specchio per quella che doveva essere la decima volta. Era indeciso se tenere o meno i capelli sciolti.

Erano neri, un nero intenso come inchiostro, così in contrasto con quelli di Jenova che stare vicini li faceva sembrare troppo diversi per andare d'accordo.

Avvicinò il naso allo specchio, controllò che nessun brufolo e nessuna imperfezione avesse deciso di deturpargli la faccia quel giorno, controllò il mento in cerca di sparuti peli di barba. Poi tornò a fissarsi.

Tolse gli occhiali e cercò di dare conforto a se stesso dicendosi che sarebbe andato tutto bene. Aveva occhi verdi luminosi, di un verde che raramente si vede in giro. Se solo non fosse stato obbligato a portare quei fondi di bottiglia per la miopia...

Prese un profondo respiro e afferrò la scatolina delle lenti a contatto. Non le aveva mai indossate prima, e il solo pensiero di doversi infilare le dita negli occhi per metterle gli faceva venire i brividi.

Svitò il tappo del contenitore e con mani tremanti prese la morbida lente. Sembrava fatta di gomma sottile e non avrebbe dovuto dargli nessun fastidio, o almeno, era quello che gli aveva detto il tizio che gliele aveva vendute all'ottica.

Allargò un occhio con le dita di una mano e con l'altra armeggiò per infilarci dentro la lente.

Circa cinquanta tentativi e duecento parolacce dopo, con gli occhi arrossati, uscì vincitore da quella battaglia. Le lenti bruciavano giusto un po', ed era quasi sicuro che dipendesse più dal fatto che aveva torturato gli occhi che dalle lenti stesse.

Il risultato, con i capelli sciolti, era stupefacente.

Non si era mai sentito un bel ragazzo, o un brutto ragazzo, non aveva mai voluto considerare il suo aspetto fisico, impegnato com'era a sviluppare il cervello.

Era magrolino, anche troppo, ma alto, come lo era suo padre, e vestito elegante faceva la sua bella figura. Poi adesso, con le lenti e quei capelli d'inchiostro a scivolargli lungo le spalle, era persino carino.

Un altro respiro profondo e ingollò due mentine, nonostante avesse già lavato i denti tre volte.

Quando aveva detto a sua madre che sarebbe uscito con una ragazza era scoppiato l'allarme “il mio bambino sta crescendo!” che gli era costato un abbraccio spacca-costole e una dose di imbarazzo sufficiente per il resto della sua vita. L'aveva tempestato di domande a cui aveva risposto a mezza bocca, senza sapere bene quanto fosse legittimo dire alla mamma e quanto lo facesse sembrare uno stupido.

Alla fine era riuscita a scucirgli il nome della ragazza e il luogo dell'appuntamento, e per fortuna Dio doveva averla dotata di buon senso perché non era andata a fondo e aveva smesso di fargli domande.

Per circa due settimane lui e Jenova avevano passato il tempo insieme, tutto il tempo possibile. Lui le leggeva il libro della Hack, spiegandole le parti complesse a causa della lingua, e lei lo riempiva di domande spigliate e attente che erano spunti di conversazioni infinite.

Si capivano in un modo tanto profondo da fare quasi paura.

Alla fine si era deciso a chiederle un appuntamento e di uscire da quella che in tv chiamavano “friendzone”. Lei aveva titubato per un attimo, come pesando sulla sua bilancia interiore il guadagno e la perdita. Alla fine aveva acconsentito e lui si era sentito come un missile spedito nello spazio.

Non sarebbe stato un appuntamento come tutti altri, niente cinema, niente pizzeria, e neanche sarebbero andati a mangiare un hamburger con le patatine. No, lui l'avrebbe portata all'osservatorio.

Una parte di lui si rese conto che agli occhi degli altri doveva sembrare una cosa particolarmente nerd, ma non gli importava: lei era sembrata felicissima dell'idea e gli aveva stampato un bacio sulla guancia.

Al solo ripensarci gli tremavano le gambe.

Sperava di baciarla sulle labbra quella sera? Sì. Il solo pensiero gli rivoltava lo stomaco? Sì. Avrebbe avuto una crisi di panico? Era probabile, ma sarebbe uscito comunque.

Tolse pelucchi invisibili sulla sua giacca e si decise ad uscire dalla sua stanza. Non voleva arrivare in ritardo, e non era sicuro di saper arrivare in macchina da Jenova, nonostante avesse memorizzato il percorso.

Passò in soggiorno velocemente, cercando di evitare il contatto visivo con la madre che stava seduta sul divano. Lei, al pari di una gazzella quando sente l'arrivo del leone, alzò la testa e gli indirizzò uno sguardo.

Avrebbe voluto dirle “Mamma ti prego, no!” senza però trovare la voce per farlo. Per fortuna non gli disse niente, e tornò al suo programma televisivo.

Hojo tirò un sospiro di sollievo, prese le chiavi e fece per uscire.

- Mi raccomando, fa' attenzione! -

- Sì, mamma. -

Almeno questo glielo doveva, no?

Si chiuse però in fretta la porta alle spalle e volò verso la macchina.

Il tragitto verso casa si Jenova fu più semplice del previsto, e non poté fare a meno di chiedersi se non ci fosse qualcosa di orribile ad aspettarlo più in là, perché non poteva andare tutto così liscio.

La trovò che lo aspettava sul porticato, una borsetta sulle gambe. Il viso le si illuminò quando lo vide e scattò in piedi in un frusciare di stoffa.

Hojo si chiese se tra venti o trent'anni avrebbe ricordato ancora com'era vestita, con quella gonna color nocciola ampia a pieghe e il pullover stretto bianco con una leggera scollatura. Si chiese anche se il suo profumo gli sarebbe rimasto impresso, e se quel “ciao” sussurrato con imbarazzo mentre saliva sarebbe stato argomento di discussione durante il loro matrimonio.

Stava spingendo il pensiero troppo in avanti, lo sapeva, ma era difficile tenere i piedi per terra quando aveva lo stomaco pieno di farfalle.

Il primo tratto di strada fu coperto da uno spesso strato di silenzio. Avevano passato molto tempo insieme, ma da amici, non così. Quell'appuntamento metteva in luce aspetti che non avevano considerato fino ad allora.

Nessun adulto gli aveva spiegato quanto era strano quel mondo, quello dei sentimenti, delle mani che si toccano, delle labbra che si fanno invitanti, come se fosse un tabù.

La tensione si sciolse gradualmente quando Jenova lo informò che aveva preso un libro nuovo in biblioteca e che sarebbe stata felice di leggerlo con lui. Stavolta parlava della vita delle stelle.

La lingua di Hojo si sciolse, e quando arrivarono all'osservatorio non poteva credere di averci messo così poco.

Il cielo era terso e l'aria fresca, le stelle erano già visibili ad occhio nudo, ma entrambi non vedevano l'ora di vederle attraverso l'enorme telescopio.

Il silenzio tutto intorno non li disturbava, anzi, il frinire di sparuti grilli e il gracchiare di qualche rana rendeva tutto assurdamente romantico.

Si trovavano in mezzo alla campagna, la città era diventata un puntino sullo sfondo, non c'era nessuno nei dintorni, solo un paio di macchine erano parcheggiate di fianco a quella di Hojo. Sarebbe potuto essere un posto spaventoso con quel buio, invece faceva da teatro per un magnifico spettacolo.

Hojo aprì la portiera per Jenova con un mezzo impacciato inchino. Lei rise. Aveva legato i capelli in modo che non le coprissero il viso e si era truccata leggermente. Era fulgida e candida come una stella bianca.

Quando alzò gli occhi su di lui si sentì andare a fuoco e cercò di distogliere lo sguardo per non farsi leggere dentro.

- Hai messo le lenti a contatto? - gli chiese, con una risata sul fondo della voce.

Lui si passò una mano sulla nuca, a disagio. - Sì. Non ti piaccio? -

Jenova si affrettò a scuotere la testa. - È solo...diverso. -

Oh sì, quella sera era diverso. Il modo in cui vestivano, il modo in cui si toccavano, l'aria che respiravano, le parole che usavano: era tutto diverso.

Le porse il braccio e lei lo prese, improvvisamente il suo calore lo rese nervoso. Non succedeva quando stavano testa contro testa chini su un libro, o quando dividevano lo stesso sandwich.

Entrarono nell'osservatorio ammantati nel buio. L'unica luce accesa era in cima ad una serie di scale che portavano su, nella cupola dov'era montato il telescopio.

Salirono in cima e vennero accolti da un infreddolito astrologo che fu ben contento di vederli: c'era solo un'altra coppia venuta quella sera, il che doveva renderlo molto triste.

L'uomo gli fece una breve presentazione sciorinando dati storici e tecnici sulla struttura, poi gli permise di vedere il cielo attraverso il telescopio. Hojo si offrì di far andare prima Jenova e lei, ridendo, gli chiese se per caso non fosse una scusa per guardarle sotto la gonna, dal momento che doveva salire una scaletta prima di poter guardare nel telescopio.

Lui arrossì, e benedisse quella scarsa luce che lo rendeva invisibile ai suoi occhi.

Per un po' si diedero il cambio al telescopio, finché Saturno non sparì oltre l'orizzonte e non fu più possibile vederlo.

Quando Hojo scese dalla scaletta l'astrologo si scusò e andò a fare da Cicerone astrale per l'altra coppia, lasciando i due ragazzini da soli.

- Grazie per avermi portata qui. - mormorò lei, le mani dietro la schiena, il naso all'insù per guardare le stelle. - È un posto meraviglioso. -

- Figurati. - lui si poggiò sulla balaustra. Erano molto in alto, e immersi in quel buio aveva come l'impressione di poter toccare il cielo. - Non sei mai andata in un osservatorio in Russia? -

La vide abbassare il capo e corrucciare le sopracciglia. Forse non avrebbe dovuto toccare quell'argomento. Nonostante il tempo passato insieme lei non aveva mai voluto raccontargli niente di cosa faceva o come viveva nel suo paese d'origine.

- Scusa, puoi non dirmelo, non sei obbligata. - si affrettò quindi a dirle, le mani strette contro la balaustra. Aveva il terrore di averle appena rovinato la serata.

- Non mi sento obbligata. - mormorò lei, alzando la testa su Hojo e abbozzando un sorriso. - È solo che non è una cosa di cui piace parlare, la mia vita è qui adesso. - si fece più vicina, troppo vicina.

Hojo si riscoprì a guardarle il viso, le gote, le labbra. Quante volte le aveva guardate da quando erano insieme? Troppe, concluse.

Serrò la mascella mentre un formicolio pressante si faceva largo in tutto il suo corpo.

Voglio baciarla.” fu l'irrazionale, impulsivo pensiero che gli passò per la mente, perforandogliela.

Ma se lei lo avesse respinto? Se non le piaceva quanto piaceva a lui? Se avesse preferito rimanere solo amici?

Non l'avrebbe sopportato. Forse doveva solo aspettare. Era il primo appuntamento, d'altronde, ne avrebbero avuti altri, avrebbero preso confidenza del nuovo ruolo che avevano l'uno per l'altra in quella parte tutta strana della vita, e forse allora avrebbe potuto baciarla.

Non ci fu tempo per pensare ad altro, né poté ritrarsi, perché fu lei a baciarlo, così, con una manina bianca stretta intorno alla sua giacca come per non farlo scappare, e l'altra sul suo viso per accompagnarlo al proprio.

Hojo lì per lì si ritrovò senza fiato, e senza sapere come agire, poi qualcosa di atavico nel suo DNA gli disse come fare. Le cinse la vita con un braccio per tirarla a sé e ricambiò il bacio.

Si stupì di quanto fossero buone quelle labbra, di quanto fosse esaltante baciarla, e di quanto quel bacio sapesse di amore.

 

*

 

Jenova era sull'orlo delle lacrime. L'ansia e la paura le dilaniavano il cuore.

All'inizio non vi aveva dato peso, presa com'era dalla storia con Hojo, dalla scuola, dalla vita.

Per quasi un anno le era sembrato di aver vissuto in una favola. Ma negli ultimi quattro mesi le cose avevano cominciato a cambiare.

Il suo corpo aveva cominciato a cambiare.

Aveva fatto e rifatto i conti milioni di volte, aveva spulciato il calendario su cui, di solito, appuntava con cura il giorno del ciclo mestruale, per non essere colta alla sprovvista il mese successivo.

Non poteva credere di essere stata così superficiale da non accorgersi di quanto tempo fosse passato dall'ultima mestruazione.

Per quanto si impegnasse ad allontanare il pensiero, la mente tornava sempre lì, a Hojo, ai primi, goffi rapporti che avevano avuto insieme, e poi al decollo di una vita sessuale soddisfacente e nuova che aveva riempito ogni momento e ogni pensiero della sua giornata.

Con lui si divertiva, non soltanto per ciò che condividevano mentalmente, ma anche per i momenti di intimità fisica.

Le piaceva fare sesso con lui, perché con lui era amore.

Ma erano stati bravi, avevano usato il preservativo tutte le volte, tutte le volte!

Cosa poteva essere andato storto?

Rifece i calcoli ancora una volta. Le date tornavano.

Non era stato lo stress a farle saltare il ciclo, ne era sicura, così sicura e così terrorizzata da non avere il coraggio di fare il test di gravidanza.

Però l'aveva comprato. La scatola ancora intonsa stava sotto una marea di calzini in un cassetto che sua madre non andava mai a controllare.

Se avesse saputo cosa stava succedendo, se i suoi timori fossero stati fondati...

Non voleva neanche pensare a come l'avrebbero presa i suoi, perché ogni scenario era tragico. A malapena sapevano che erano fidanzati, e molto spesso mentiva su dove andava o con chi era, o non le avrebbero permesso di uscire.

Le lacrime tornarono brucianti e lei dovette premere il volto sul cuscino per evitare di urlare.

Non poteva neanche dirlo ad Hojo. Avrebbe rovinato tutto, avrebbe rovinato tutto!
Ma doveva togliersi quel dubbio, altrimenti sarebbe impazzita.

Prese un profondo respiro, si asciugò gli occhi e con mano tremante frugò nel cassetto dei calzini per prendere la scatola dei test di gravidanza.

Il panico le strinse la gola, così forte che temette di non riuscire più a respirare.

Corse alla porta della sua stanza e la chiuse a chiave. Rimase con la testa poggiata contro il legno per un lungo attimo temendo che i suoi avessero sentito lo scatto della serratura.

Se i suoi avessero scoperto che aveva combinato quell'enorme guaio non le avrebbero più permesso neanche di vederlo. Aveva appena sedici anni, come sperava di poter superare tutto quello da sola?

Che disastro, che disastro!

Quando le gambe smisero di tremare andò in bagno. Averlo in camera era stata la cosa migliore di quella casa nuova.

Si sedette sul water con la tavoletta abbassata e aprì la scatola, strappandola quasi. Lesse avidamente le istruzioni, per quanto glielo consentirono gli occhi bagnati da lacrime incessanti. Avrebbe tanto voluto che lui fosse con lei in quel momento, che le tenesse la mano e le carezzasse i capelli come faceva da quasi un anno.

Poi, lentamente, come in un sogno, si alzò, sollevò la tavoletta, abbassò i pantaloni rosa del pigiama e le mutandine con i cuoricini e si risedette con un test tra le dita che ormai tremavano senza controllo.

Era facile, doveva solo fare pipì sulla striscetta bianca e poi aspettare. Sentiva la pancia dolerle e dovette sforzarsi per due lunghi minuti prima di riuscire a urinare, le dita dei piedi intrecciate tra loro, i talloni puntellati contro le mattonelle gelide.

La punizione divina per aver perso la verginità fuori dal matrimonio, ecco cos'era. Il Dio dei suoi genitori le stava dicendo che ormai era una peccatrice e che avrebbe dovuto portare quel marchio per il resto della vita.

C'è sempre l'aborto.” le passò per la mente, fugace, mentre metteva il test bagnato sul bordo del lavandino e si tirava su slip e pantaloni.

Si tastò il ventre. Era ingrassata di qualche chilo nelle ultime settimane, non abbastanza da dover comprare vestiti nuovi, ma si era accorta di rotondità dove prima non c'erano; aveva spesso la nausea al mattino, ma passava dopo aver fatto colazione. Poteva essere a causa di una gravidanza o si stava convincendo di averne i sintomi?

Poi si immaginò più in là nel tempo, con la pancia sempre più grossa, immaginò di vedere la pelle tendersi contro i colpetti dei piedini del bambino.

Un nuovo fiotto di lacrime le ricoprì il viso. Non poteva ucciderlo, non era colpa sua se lei e Hojo avevano fatto un errore, non doveva pagare con la sua vita.

Cominciò ad essere scossa da brividi di freddo, le venne la pelle d'oca. Gli occhi corsero verso il test di gravidanza, ma non aveva il coraggio di guardarlo.

Si aggrappò alla maglietta del pigiama e se lo tirò verso il basso a coprire la pancia, il pube, la vagina. Si vergognava di essere donna, di aver abusato di quel corpo che doveva essere al servizio di Dio e Dio soltanto.

Se solo fosse stata diligente e avesse fatto come le avevano insegnato i suoi genitori...

Cinque minuti erano ormai passati, e aveva messo distanza tra sé e il test di gravidanza come se avesse potuto morderla.

Doveva controllarlo, doveva leggerlo, doveva sapere.

Si avvicinò su gambe instabili e lo prese.

Una striscia, negativo, due strisce, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Una striscia, negativo, due strisce, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Una striscia, negativo, due strisce, la sua vita sarebbe cambiata per sempre.

Lo poggiò nuovamente sul lavandino, poi si lasciò cadere a terra, strinse le gambe al petto, affondò il viso tra le ginocchia e pianse, pianse tutte le sue lacrime.

Due strisce.   

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Capitolo 2
*** God's Gift ***


- 2 -

God's Gift

 

 

Il bambino piangeva. Non era un pianto fastidioso, ricordava il miagolio di un micino, ma era insistente, e Jenova era stanca.

Rimase a lungo con gli occhi spalancati nel buio, immobile, aspettando che il pianto smettesse.

Ma non smise.

Di qualsiasi cosa avesse bisogno, il bambino ne aveva bisogno adesso.

L'istinto materno obbligò la ragazza a tirarsi su, stropicciandosi gli occhi. La gravidanza non l'aveva resa più adulta, aveva ancora sedici anni, e anche se il suo corpo era maturato in fretta nelle forme, il suo cuore e la sua mente erano ancora quelli di una ragazzina.

Hojo le sfiorò la mano e tentò un sorriso, ma lei, nervosa, la ritrasse.

Non era arrabbiata con lui, era solo la frustrazione di quegli ultimi due mesi e mezzo a farla reagire in quel modo.

Sephiroth era un bambino tranquillo. Aveva tutte le dita delle mani e tutte quelle dei piedi, minuscole, ma c'erano tutte; una candida capigliatura bianca come quella di Jenova gli ricopriva la testina; i suoi occhioni erano di un colore ancora non ben definito, viravano dall'azzurro intenso al verde intenso, ma presto – la mamma di Hojo ne era sicura – si sarebbero stabilizzati sul verde; il peso, la lunghezza, la circonferenza della testa: era tutto nella norma. Un bambino sano, con bisogni sani, che era venuto al mondo senza piangere, come se non avesse paura di affrontare ciò che la vita gli avrebbe messo davanti, o almeno, era la sensazione che, stremata, aveva dato a Jenova.

Stava crescendo bene, era leggermente più avanti nello sviluppo rispetto ad altri bambini, ma nonostante questo rimaneva pur sempre un neonato. Dipendeva strenuamente da qualcun altro, e sarebbe stato così per molto tempo ancora.

Quando Jenova si avvicinò alla culla lo trovò a pancia sotto, il faccino arrossato dal pianto. Doveva essere stato quello a svegliarlo e a farlo piangere tanto accoratamente.

La pediatra era stata chiara: fino a quattro mesi doveva dormire sulla schiena, per evitare che un rigurgito o persino il cuscino lo soffocassero nel sonno.

In qualche modo, Sephiroth doveva essersi girato, e quando si era trovato nell'impossibilità di farlo nuovamente aveva cominciato a piangere.

Un sorriso istintivo nacque sulle labbra della giovane mamma. Anche se era sfibrata da quella vita, triste, a volte depressa, vedere quel piccolo miracolo la illuminava.

Lo prese in braccio, cautamente. Ogni volta si stupiva di quanto fosse leggero, di quanto fosse caldo, di quanto fosse inerme. Qualsiasi altro cucciolo, in natura, a quest'ora avrebbe già saputo camminare, correre, e giocare alla caccia con la madre per prepararsi ad una vita pericolosa.

Subito, assecondando l'istinto che lo muoveva, il piccolo poggiò la testina contro la spalla della mamma, piagnucolando ancora, sommessamente, solo perché lei gli accarezzasse la schiena per consolarlo.

Quando lo teneva così stretto, Jenova diventava sicura: aveva fatto la scelta giusta.

Lo cullò per un po', tentata di portarlo a letto con sé, finché lui non chiuse gli occhietti e scivolò in un delicato sonno.

A quel punto Jenova sospirò e lo rimise nella culla.

La stanza che divideva con Hojo, e il bambino, era piccola, troppo piccola per tutti e tre, ma doveva essere contenta di avere ancora un tetto sopra la testa.

I suoi genitori avevano accolto molto bene la gravidanza, così bene da averla maledetta e cacciata di casa senza darle neanche il tempo di fare le valigie. Si era ritrovata da un momento all'altro a vagare in mezzo alla strada, senza sapere dove andare, senza sapere a chi affidarsi, con un bambino in grembo che richiedeva attenzioni, cure e denaro che non aveva.

Hojo non aveva saputo niente fino agli otto mesi. Lei aveva fatto in modo di sparire, e i suoi genitori l'avevano inconsciamente aiutata negando persino di avere una figlia quando lui si era presentato a casa loro. Per fortuna avevano scelto di far finta che lei non fosse mai esistita, e non l'avevano aggredito.

Per un po' era stata in strada, vivendo di quello che riusciva a racimolare con elemosina e piccoli furti. Poi la pancia si era fatta evidente, sempre più ingombrante, per la sua costituzione minuta era diventata un impaccio. Non riusciva più a camminare tutto il giorno per cercare da mangiare, e il bambino scalciava sempre più spesso, forse affamato quanto lo era lei.

Per questo aveva alla fine ceduto alla disperazione e si era presentata a casa Crescent.

Hojo non si era arrabbiato, non le aveva fatto nessuna scenata, a malapena aveva parlato. L'aveva fatta entrare subito in casa e senza esitazione aveva chiesto l'aiuto della madre. Lei era stata particolarmente comprensiva nei suoi confronti, Jenova non seppe mai se perché rivide qualcosa di se stessa nella sua condizione o solo perché le faceva pena, ridotta all'osso com'era e senza possibilità di sopravvivere un altro giorno.

L'avevano nutrita, vestita, le avevano dato una casa, avevano pagato per lei tutte le cure mediche, avevano comprato i beni di prima necessità per il bambino in arrivo.

In attesa di capire come risolvere al meglio quella tragica situazione, avevano adattato la stanza degli ospiti in modo che potesse starvi con Hojo e il bambino, e avessero un minimo di privacy.

Ma era pur sempre una stanza.

Non aveva avuto il coraggio di tornare a scuola, ma Hojo continuava a frequentarla, con più zelo e tenacia di prima, e per gran parte della giornata rimaneva sola con il bambino e Inga.

Era frustrante, e spesso si sentiva come in carcere. Inga era sempre gentile con lei, ma era distante, fredda, come se lo facesse per lavoro.

Gli unici momenti che passava con Hojo vedevano lei impegnata con il bambino e lui piegato sui libri, o addormentato nella sua metà del letto.

Tornò ad infilarsi sotto le coperte, lui era sveglio.

- Tutto bene? - le chiese, e tornò a sfiorarle la mano. Stavolta, lei la prese.

Aveva paura del contatto fisico, non riusciva a togliersi dalla mente che la causa di tutte le sue sofferenze era lui, ciò che provava per lui, e il fatto che fosse passato così poco dal parto le dava una buona giustificazione per evitare ogni interazione.

- Sì, si era solo rigirato sulla pancia. - si sdraiò su un fianco, così si ritrovò a specchiarsi negli occhi verdi di Hojo.

Quelli di Sephiroth sarebbero diventati come i suoi?

Lui sorrise. I capelli neri spettinati lo facevano sembrare giovane, e lo era davvero, all'alba del test di ammissione per l'università, con un anno di anticipo come previsto. Essere diventato padre non aveva rovinato i suoi piani. Solo quelli di lei.

- È un bravo soldatino, vero? -

- Lo è. - commentò lei, e per qualche ragione un sapore amaro le riempì la bocca e si volse per dargli la schiena.

Hojo le si avvicinò e l'abbracciò da dietro, un braccio a cingerle la vita. Non la capiva, non la sentiva.

- È un po' che ci sto pensando ma...che ne dici di portare Sephiroth a conoscere i tuoi genitori? -

Jenova si irrigidì, il respiro si fermò per un istante e strinse i pugni. Per un attimo immaginò se stessa a difendere il suo bambino dalla furia di suo padre e di sua madre.

- Non credo che sia una buona idea. -

- Perché no? - prese ad accarezzarle il fianco, brividi gelidi le percorsero la schiena. Voleva solo essere carino, darle conforto, lo sapeva, ma quel contatto la faceva tremare di orrore. - Non li vedi praticamente da un anno, e non hanno mai visto il bambino. Forse si ricrederanno. - Jenova, però, rimase in silenzio. Lui le baciò la spalla, poi si sistemò meglio sul cuscino. - Almeno pensaci, okay?-

- Okay. -

Mentre lui si addormentava, lei rimase sveglia, sul chi vive, non solo per cogliere eventuali strani rumori provenienti dalla culla, ma anche perché temeva che avrebbe fatto il peggiore degli incubi se solo si fosse abbandonata al sonno.

 

 

La giornata cominciava presto, perché Sephiroth si svegliava presto. Alle cinque e mezza Jenova era già in piedi, tenendo il bambino al seno perché succhiasse il latte.

Poppava sempre con gusto e molto spesso poggiava la manina alla tetta come per sentire il suo calore. La guardava sempre, con gli occhioni spalancati e fissi su di lei. La vedeva come lei vedeva lui?

Aveva letto da qualche parte che i bambini appena nati vedono il mondo in bianco e nero, e che solo ad otto settimane cominciano a vedere il rosso e il verde. In qualsiasi modo vedesse, doveva essere completamente diverso da come vedeva lei.

Si chiese se per il piccolo i suoi occhi marroni apparissero solo rossi, e se i capelli bianchi rifulgessero ancor più candidi.

Quando finiva di mangiare, Sephiroth emetteva sempre un leggero sospiro, come a dire “sono sazio mamma!” così lei lo allontanava dal seno, asciugava il latte in eccesso, si rivestiva, e poi se lo poggiava sulla spalla per fargli fare il ruttino.

Si sentiva fortunata, per certi versi, il bambino non soffriva di coliche, non era capriccioso, piangeva solo quando aveva qualche necessità urgente, dormiva abbastanza e quando era sveglio passava il tempo a emettere versetti mugolanti e agitare pugnetti e piedini: un piccolo angelo.

Aveva visto bambini terribili dalla pediatra, della stessa età, più grandi o più piccoli. Frignoni a tal punto da far esaurire le loro madri che apparivano come l'ombra di se stesse mentre li cullavano nella speranza di farli smettere di piangere.

Più di una volta era stata vittima di occhiatacce d'invidia. Perché una ragazza così giovane, evidentemente una troia, veniva premiata con un bambino così tranquillo, mentre loro che avevano fatto come il Signore aveva comandato venivano punite?

Forse era solo sua impressione, perché si sentiva nel torto e non aveva mai smesso di avvertire quella sensazione di sporcizia addosso. Non aveva, però, il coraggio di chiedere ad Hojo di sposarla.

Il ragazzo si svegliò alle sei, gettando le bracca in alto per stiracchiarsi, mentre lei, seduta in poltrona, giocava distrattamente con il bambino.

Il suo dito, tra le manine di Sephiroth, sembrava enorme.

- Buongiorno. - sussurrò Hojo, alzandosi.

- Buongiorno. - rispose lei.

Non ci pensò neanche a porgergli il bambino. Sarebbe stato assente quasi tutto il giorno, doveva approfittare di quei pochi istanti.

- Buongiorno anche a te Sephiroth. - mormorò, sfiorando il nasino del bambino con il proprio.

Lui sorrise, ma sapeva che non stava sorridendo perché capiva di essere tra le bracca del suo papà, ma solo per un riflesso incondizionato. Beh, era comunque meraviglioso.

Gli tenne la testina con una mano mentre con l'altra se lo stringeva addosso, cullandolo un po'. Il bambino si aggrappò alla maglia del suo pigiama come una piccola scimmietta. Profumava sempre di buono, di borotalco soprattutto. Jenova era attentissima alla sua igiene, ed era terrorizzata al solo pensiero che potesse sviluppare qualsiasi genere di irritazione.

- Jen, hai fame? Andiamo a fare colazione insieme? -

La ragazza annuì e...le sfuggì un sorriso. Quando la chiamava “Jen” la maschera di ghiaccio che aveva sviluppato nell'ultimo anno si scioglieva inevitabilmente.

Insieme scesero in cucina e trovarono i genitori di Hojo già svegli e vestiti di tutto punto per andare a lavorare. Sorseggiavano caffè chiacchierando sottovoce, ma quando li videro scendere si zittirono. Rimase solo il rimestio dei piatti che Inga stava lavando e sistemando.

Jenova aveva sempre l'impressione di non essere ben accetta in quella casa, nonostante, invece, l'avessero accolta nel migliore dei modi. Era il padre a mordere un po' il freno, mentre la madre smaniava per passare qualsiasi istante possibile in compagnia del bambino.

- Eccolo qui, il mio nipotino! - infatti lasciò la tazza di caffè e si gettò su Hojo per prendergli dalle braccia Sephiroth.

Il piccino si lasciò fare, del tutto inerme, guardando prima il padre, poi la nonna con gli occhioni enormi e all'apparenza consapevoli. Quando lei gli porse un dito, subito glielo afferrò agitandolo come fosse un giocattolo.

Quell'immagine suscitò un sorriso in tutti i presenti.

Aaliyah non era tanto vecchia da sembrare una nonna, quel bambino poteva anche essere suo, ma non aveva problemi con quel ruolo, tutt'altro.

Inga servì la colazione e poi si ritirò altrove, era sempre impegnata a fare qualcosa, la casa era grande.

Per un po' mangiarono in silenzio, Aaliyah con il bambino tra le braccia, l'imbarazzo alle stelle. Era sempre difficile capire come comportarsi, e quella situazione creava sentimenti contrastanti in tutti.

Jenova era grata ai genitori di Hojo per quello che avevano fatto per lei e Sephiroth, ma non sarebbe mai stata in grado di ripagarli, e averne la consapevolezza la faceva sentire a disagio.

Quando Lewis finì il caffè, si alzò, lasciò un dolce quanto leggero bacio sulla testina del nipote, una pacca affettuosa sulla spalla della moglie e se ne andò.

Uscito lui, il clima si alleggerì.

Lewis era di certo quello che meno sopportava tutto quello, per questo motivo Hojo si era immerso negli studi più che mai, per dimostrargli che non avrebbe gettato il suo futuro alle ortiche solo per quel piccolo imprevisto.

- Jenova, oggi tornerò un po' prima dal lavoro, magari potremmo uscire a fare una passeggiata e andare a comprare qualche bel vestitino per questo bellissimo bimbo. - disse sorridendo Aaliyah, toccando con un dito il nasino di Sephiroth che lì per lì rimase immobile come se avesse subito chissà quale affronto, per poi continuare nel suo ingenuo e infantile borbottio.

- Certo, perché no. - rispose timidamente lei, punzecchiando le uova che aveva nel piatto.

- Bene! Allora a più tardi. - lasciò il piccolo tra le bracca di Hojo e poi andò, salutandoli affettuosamente con una mano.

Sephiroth agitò i pugnetti, mostrando segni di insofferenza, così Jenova lo riprese e lo cullò con amore. Solo quando lo teneva stretto a sé appariva davvero felice.

In quel silenzio, con Hojo che leggiucchiava il giornale lasciato dal padre, sembravano una famiglia normale. Se non avessero avuto lei sedici anni, lui diciassette e un bambino di due mesi e mezzo a distruggergli l'adolescenza.

- Non ti da fastidio uscire da sola con mia madre, vero? - non alzò gli occhi dal giornale, anche se Jenova era sicura che non stesse leggendo con attenzione. Era solo spaventato all'idea di incontrare il suo sguardo.

- No, non preoccuparti. Sarà un...modo per legare. - di contro, neanche lei lo guardava, impegnata com'era ad accarezzare il faccino rotondo di Sephiroth.

Non faceva altro che pensare a come sarebbe stato da grande. Succedeva quando si diventava genitore, si pensava al futuro, anche se si era tanto giovani come lo era lei.

- D'accordo. - sospirò Hojo. Ingollò le uova rimanenti in una sola forchettata, svuotò il bicchiere di spremuta d'arancia, e si alzò.

Quando tentò di lasciare un bacio sulle labbra di Jenova lei allontanò il viso impercettibilmente, tanto che alla fine le baciò la fronte. Per ultimo, rivolse una carezza al figlioletto.

- Lo sai che ti amo? - sembrava la domanda di un bambino, e di un bambino aveva gli occhi quando la guardò.

Jenova sentì un antico moto dentro di lei, qualcosa che la smosse e la costrinse a rivolgergli una carezza.

Lo amava ancora, in qualche modo confuso e arrabbiato, nelle profondità del suo essere. Solo...non riusciva a dirglielo, non adesso.

Lui dovette capirlo, dovette sentirlo, e non le fece pressione.

Si limitò a sospirare.

 

 

Quel pomeriggio Jenova mise a Sephiroth i vestitini più carini che aveva. Nonostante fosse metà marzo l'aria non era ancora così calda, e si stentava a credere che l'estate fosse ormai alle porte.

Accompagnò con dolcezza le braccia del piccino dentro la magliettina, abbottonò il body dopo essersi accertata che il pannolino fosse pulito, gli mise dei piccoli jeans. Amava soprattutto questo di Sephiroth: il minuscolo mondo in cui viveva.

Aveva piccoli indumenti adatti al suo corpicino, le scarpine sembravano quelle di un bambolotto, così come il ciuccio e il biberon.

Ricordava di aver avuto una bambola del genere quand'era solo una bambina. L'unica che i suo genitori le avessero mai comprato, con una piccolissima culla e dei vestiti di ricambio che sembravano troppo piccoli da maneggiare. Ricordava di aver giocato a lungo con quella bambola, fino a consumarne la plastica e a danneggiarla in ogni modo possibile.

Sephiroth era più pesante, vivo e vero di una bambola, eppure era molto più fragile.

- Ecco qui, sei pronto. - gli disse, come se potesse capire. Lui agitò i piedini nelle scarpine nuove, confuso dalla sensazione che doveva provare nell'indossare qualcosa di così strano quando era abituato a stare scalzo. - Farà caldo? Dovrei metterti qualcosa di più leggero? - il piccolo la guardò interrogativo, sorrideva quando incrociava il suo sguardo e agitava i pugnetti. - Chi lo sa? La mamma non lo sa. - gli prese le manine e cominciò a canticchiare con la voce sempre più tremante “la mamma non lo sa, la mamma non lo sa”, finché si rese conto di stare piangendo.

Dovette alzarsi e nascondere il viso tra le mani, non voleva che Sephiroth la vedesse piangere, anche se era certa che non potesse capire cosa stava succedendo.

Per un po' lui rimase immobile sul letto a mugolare come un micino, agitandosi tutto come a volersi voltare sulla pancia, e lei si costrinse a non singhiozzare, non troppo rumorosamente almeno.

- Jenova? - poi un timido bussare. Aaliyah non entrava mai nella “loro” stanza senza permesso. - Posso entrare? -

Lei si affrettò a cancellare dal viso le tracce di lacrime e mormorò un “entra pure!” carico di finto entusiasmo.

Forse la donna non era stata presente nell'infanzia del figlio, tutt'ora non lo era, ma non era mai stata disattenta o superficiale. Quando vide il volto di Jenova si accorse che aveva pianto.

- Tesoro, cos'è successo? - le chiese, apprensiva, lanciando uno sguardo al piccolo che, tranquillo, fissava il soffitto vedendo chissà quali meraviglie.

- Niente, niente...sono solo...niente. -

- Il bambino fa i capricci? - provò la donna, cercando di leggere in quegli occhi scuri e troppo profondi per esseri quelli di una ragazzina.

- No, no, Sephiroth è il bambino più tranquillo del mondo. Non è colpa sua. - gli occhi tornarono a riempirsi di lacrime. Provò a nascondere il volto ma Aaliyah glielo impedì, tenendoglielo sollevato per il mento.

- Lo so che sei spaventata. - cominciò, e Jenova sperò tanto che tacesse, che la smettesse di compatirla, che la odiasse per aver incastrato suo figlio, tutto tranne quell'amore incondizionato che le rivolgeva. Era insostenibile. - Ma non sei sola, e anche se è difficile, vi aiuteremo finché ci sarà possibile. -

A quel punto il dolore le salì in gola tutto insieme, gli occhi strariparono e l'unica cosa che le riuscì di fare fu gettare le braccia al collo della donna e piangere, piangere tutte le lacrime che fino a quel momento aveva tenuto per sé.

Aaliyah le carezzò la schiena mormorando di tanto in tanto un “va tutto bene” o “su su” come se fosse lei la neonata da calmare e non il piccolino lasciato da solo sul letto.

Rimasero abbracciate l'una all'altra per un tempo indefinito. Jenova avrebbe voluto scusarsi ma temeva che se avesse aperto bocca ne sarebbe uscito un lamento indefinito.

- Ricordati. - disse ancora Aaliyah, asciugandole le lacrime con la manica della sua giacca. Doveva appena essere tornata dal lavoro, aveva ancora il tailleur blu addosso. - Non importa quello che gli altri pensano, Sephiroth è e rimarrà sempre un dono. Ma non un dono di Dio. - sorridendole, sapeva come la pensavano i genitori di lei sulla religione, d'altronde era il motivo per cui era senza casa e senza famiglia. - È un dono d'amore. -

Jenova sentì il labbro inferiore tremare e gli occhi minacciare una seconda fuoriuscita di lacrime, ma riuscì a trattenersi dopo essersi voltata a guardare il suo bambino.

Non era stato desiderato, era arrivato all'improvviso, con i suoi pochi chili di peso e cinquantacinque centimetri di lunghezza aveva capovolto il suo mondo, ma l'avrebbe amato per sempre.


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The Corner

Salve a tutti e ben trovati nel nuovo capitolo di Easy!
Spero che la storia stuzzichi la vostra curiosità e che continuerete a seguirla, gli aggiornamenti saranno sempre lunedì e giovedì, quindi non vi resta che controllare di tanto in tanto, e se dovessero essere cambiamenti lo scriverò qui nel mio piccolo angolo.
Di nuovo, e come sempre, grazie alla mia Musa per aver reso tutto questo possibile.

Chii

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Capitolo 3
*** Loveless ***


- 3 -

Loveless

 

 

Sephiroth spalancò gli occhi. Nonostante fosse appena sveglio divenne immediatamente consapevole di che giorno fosse.

Un giorno che aveva aspettato con ansia.

Gli si torse lo stomaco per l'emozione e saltò giù dal letto ignorando il gelo del pavimento.

Era un gennaio particolarmente freddo, la neve non aveva smesso di cadere lenta dal cielo. Avevano avuto un bianco Natale e un ancor più bianco Capodanno. E lui avrebbe avuto un bianco compleanno.

Prima di scendere in cucina corse allo specchio appeso alla parete della sua cameretta, così poté guardarsi attentamente. Era un giorno speciale, quello, il suo aspetto doveva per forza avere qualcosa di diverso.

Avvicinò il nasino allo specchio e si studiò a lungo, con le sopraccigli aggrottate, il suo riflesso allo specchio.

I capelli argentei, sottili e volatili come fossero senza peso, gli scendevano lunghi sulla schiena e le piccole spalle, come sempre; gli occhi di un verde liquido e intenso rifulgevano per l'emozione, ma erano gli stessi del giorno prima. Si toccò il petto, il pancino piatto, si prese il visetto tra le mani.

Niente.

Anche se aveva compiuto sei anni, rimaneva il solito Sephiroth di sempre.

Deluso, sospirò. Infilò i piedini nelle pantofole e si preparò ad affrontare una giornata esattamente uguale a tutte le altre.

Non era grande ancora grande abbastanza per lasciare quella casa.

Vivevano a qualche isola dalla casa dei nonni, nello stesso quartiere, nella stessa città.

Suo padre era sempre mortalmente impegnato con i suoi studi, o a scrivere qualche libro sui suoi studi, o a fare qualche viaggio di studio.

Non c'era mai, e quando c'era litigava con la mamma.

Certe volte a cena urlavano tanto forte che Sephiroth aveva tutto il tempo di finire il suo piatto e andarsene nella sua stanza senza che nessuno dei due se ne accorgesse.

Era piccolo per comprendere i loro problemi, ma non così tanto da non sapere che ne avessero, e che erano per lo più irrisolvibili.

C'erano dei momenti di tregua, ma lui tendeva a dimenticarli, come facevano tutti i bambini: il nero era il colore che gli rimaneva più impresso.

Si sentiva stretto in quella casa, a scuola non aveva amici, a casa stava per lo più solo in silenzio, chino sui libri o sdraiato a letto a fissare il soffitto.

Qualche volta la nonna andava a fargli visita, o sua madre lo portava da lei. Gli piaceva passare del tempo insieme, sognava di rimanere per sempre in quella casa enorme. A confronto, la loro faceva una brutta figura.

Probabilmente avrebbe visto la nonna quel giorno e questo lo fece sorridere.

Quando uscì dalla sua stanza sentì le voci dei genitori ovattate, la porta della cucina era chiusa.

Rimase un po' titubante sulle scale. Non voleva ascoltare di nascosto e non voleva disturbare, ma era anche curioso. E poi era il suo giorno, loro potevano litigare in qualsiasi altro momento, ma non adesso.

Con passetti calcolati scese un gradino alla volta finché le voci dei genitori non furono chiare alle orecchie.

- ...non è il momento di parlarne! - sibilava la mamma, chiaramente infastidita. - Si sveglierà da un momento all'altro. -

- E quando hai intenzione di parlarne? Ogni volta c'è una scusa diversa. - fu la risposta anche troppo pacata di suo padre.

Una parte di Sephiroth ammirava il suo papà, non tutti i bambini potevano dire che il loro padre fosse uno scienziato, ma lui sì. Poi, certo, non aveva idea di cosa si occupasse davvero, era uno scienziato e questo bastava. Ma gli sembrava di non conoscerlo davvero, e quando avrebbe voluto avvicinarlo si ritrovava nel non sapere come fare.

- È il suo compleanno, qualsiasi altro giorno ma non oggi! - aveva alzato il tono di voce a tal punto da risultare stridulo e costringere il padre a dirle di fare silenzio.

Sephiroth sentì il padre sospirare. - Jen, così non va bene. Io ce la sto mettendo tutta per far funzionare questa famiglia ma tu... -

- IO. - strillò la mamma, così forte da far sobbalzare il bambino. - IO ho lasciato TUTTO per questa famiglia. Non ho mai finito la scuola, non sono andata al college, non lavoro neanche! Non venire a dire a ME che TU ce la stai mettendo tutta per farla funzionare, perché non ha la MINIMA idea di cosa voglia dire! - seguì un lunghissimo silenzio, in cui Sephiroth sentì persino il rombo del cuore nelle proprie orecchie. - Adesso per favore, aiutami con le decorazioni, o chiama la pasticceria per sapere quando possiamo passare a prendere la torta. -

Sephiroth sentì che il padre stava per uscire, così corse come un bolide su per le scale. Quando lui aprì la porta, lo sorprese con il fiatone in cima alla rampa.

Qualcosa nel suo volto gli fece intuire che lui sapesse che aveva origliato, ma decise di non farglielo notare, anzi, gli rivolse un sorriso e allargò le braccia.

- Ma guarda chi è già in piedi! Il mio piccolo soldato! Vieni qui. -

All'inizio titubante, poi più tranquillo, il bambino scese dalle scale e si gettò tra le braccia del padre. Il suo profumo pungente gli piaceva, e gli piaceva anche il fatto che avesse i capelli così scuri rispetto ai propri. Aveva sei anni, amava i suoi genitori, non poteva fare altrimenti.

- Buon compleanno, ometto. - sussurrò Hojo al suo orecchio, per poi baciarlo sulla fronte. - Meglio che vada a fare le cose che mi ha detto la mamma sennò mi uccide. - gli rivolse un occhiolino e poi andò in salone.

Averli sentiti litigare metteva un senso di disagio addosso al bambino, si sentiva in colpa perché sapeva di aver fatto qualcosa di sbagliato, e in parte era preoccupato che il padre l'avrebbe sgridato dopo.

Entrò comunque in cucina, strisciando i piedi.

La mamma era ai fornelli, i capelli legati stretti sulla testa perché non le fossero d'impiccio, il grembiule era sporco di farina e chissà cos'altro, ma sul volto aveva un sorriso.

- Buongiorno, festeggiato. - esordì, con quello sguardo rossiccio penetrante, magnetico. Sephiroth aveva per la mamma un attaccamento morboso. Era la colonna portante della sua esistenza, una sicurezza che non mancava mai, sempre uguale a se stessa. Che fosse una bella o brutta giornata, che fosse felice o triste, la mamma non gli negava mai il suo affetto, la sua presenza, il calore del suo abbraccio.

Il cuore del bambino era piccolo, ma così colmo d'amore che gli sembrava potesse scoppiare. Tutto l'amore del mondo per la sua mamma.

Si tuffò tra le sue braccia e tutte le cose brutte che esistevano nell'universo sparirono.

La mamma aveva un profumo fresco, come di vento e gelo, di neve. Sephiroth lo ispirò a fondo, gli occhi chiusi. Non avrebbe mai più voluto separarsi da lei. Solo per quello sperava di non diventare troppo grande: abbracciare la sua mamma.

- Alloora, credo che ci sia qualcosa da fare adesso. - disse lei, allontanandolo quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi. Dolorosamente, erano gli occhi di suo padre.

Al bambino si illuminò lo sguardo e prese a saltellare appena, tutto emozionato.

Si era quasi dimenticato della tradizione annuale del suo compleanno!

La mamma gli prese la manina e, con incedere serio come se stesse officiando un rito, lo condusse alla parete bianca di fianco al frigorifero. Che bianca più non era, dal momento che, da quando Sephiroth era stato in grado di rimanere in piedi, la mamma aveva segnato la sua altezza, con accanto lettere che solo adesso cominciava a saper decifrare.

Guardò la tacca che corrispondeva ai 5 anni, e il numero corrispondente: 110 cm. Di quanto era cresciuto nell'ultimo anno?

Certo, aveva cambiato diversi pantaloni e cominciava ad aver bisogno di scarpe nuove. Doveva per forza significare che era cresciuto, no?

- Sull'attenti, su! -

Sephiroth raddrizzò la schiena, pigiata contro il muro, resistendo a stento all'impulso di alzarsi sulle punte, tutto fremente. La mamma gli poggiò una mano sulla testolina poi, con una matita, tracciò una linea dritta e scrisse “6 yrs old”.

- Mh, interessante. - disse la donna, poggiandosi la matita sulle labbra e guardando la linea. Il bambino non ebbe il coraggio di voltarsi e lei aveva un'espressione così seria. - Sembra che tu sia cresciuto di un bel po'! Dai, adesso guarda! -

Lui emise un versetto soddisfatto e si volse a guardare la linea. Il numero era aumentato, era più grande, 116!

- Wow! Mamma hai visto! Sono...sono... -

- Più alto di ben sei centimetri. - gli disse orgogliosa la mamma, tornando ad abbracciarlo. - Di questo passo diventerai più alto di me! -

- Anche di papà? -

- Più alto di tutti. -

Il bambino rise e ricambiò la stretta della mamma con tale slancio che lei quasi perse l'equilibrio. Era troppo sottile persino per le sue piccole braccia.

- Un tale traguardo deve essere ricompensato. - il piccino alzò lo sguardo verso la mamma, famelico e curioso insieme. Lei gongolò per un attimo. Sciolse l'abbraccio e da un ripiano alto prese un pacco incartato con una carta blu e un grande fiocco rosso. - Buon compleanno tesoro. -

Il bambino non si avventò sul regalo, sebbene gli prudessero le mani. Prima si gettò a baciare la mamma sulla guancia, poi si sedette comodo sulla sua sedia al tavolo mentre lei tornava a preparare la colazione. Voleva gustarsi il momento, era così bello.

Sciolse il fiocco e strappò la carta con più attenzione possibile e alla fine squittì per la gioia, non poté impedirselo.

La mamma lo conosceva bene.

Nella scatola, un po' ammaccata – forse un giocattolo in sconto? Ma questo lui non lo pensò neanche – posavano fieri dei soldatini giocattolo, con un piccolo elicottero e uno scenario di cartone che mostrava un deserto.

Nonostante lei non amasse vederlo giocare alla guerra in giardino mimando pistole con le dita o tenere agguati al padre dichiarandolo un “prigioniero degli Stati Uniti”, non poteva neanche negargli la cosa che più gli piaceva al mondo.

Sephiroth sognava di diventare un soldato, con la divisa, le medaglie sul petto. Generale! Generale Sephiroth, ecco cosa sarebbe diventato.

- Posso aprirlo, mamma? - chiese, fremendo, le mani che si muovevano sulla scatola. Voleva così tanto aprirla, ma non voleva dare fastidio a sua madre.

- E va bene, sospendiamo la regola “niente giocattoli a tavola” per oggi. -

Lui esclamò un “evviva!” e prese ad armeggiare con la scatola.

Jenova sorrise.

La vita non si era fatta più semplice solo perché Sephiroth era cresciuto, e neanche perché erano riusciti a trasferirsi in quella piccola casa con lo stipendio di Hojo – e qualche sparuto contributo dei suoi genitori –.

Lei si sentiva ancora in trappola, si sentiva ancora insoddisfatta.

Sephiroth era la luce della sua vita, mentre Hojo si allontanava sempre di più.

Stava diventando come suo padre, sempre impegnato in qualche lavoro o troppo preoccupato dei soldi per accorgersi che suo figlio non avrebbe più avuto quell'età, che non avrebbe più disegnato casette e alberelli, che non sarebbe più avuto paura del buio e odio per le verdure. Non sarebbe più stato un bambino. E lui se lo stava perdendo.

Perché era egoista, credeva lei, perché voleva costruire un futuro dignitoso per Sephiroth, diceva lui.

Ma non importava, i loro problemi quel giorno non contavano niente, contava solo che il piccolo fosse felice.

- Ho preparato dei cupcakes, ne vuoi uno per colazione? -

Sephiroth sollevò lo sguardo sulla mamma e si esibì in un'espressione adorabile. - Posso averne due? -

- Così poi passi tutta la notte con il mal di pancia? - lo redarguì lei, per nulla colpita da quel faccino. - Ci saranno tante cose buone da mangiare oggi, cerchiamo di non esagerare, okay? -

- Sì, mamma. - e le rivolse un sorriso.

Jenova gli mise un piattino davanti con un cupcake e un bicchiere di latte al cioccolato, forse come consolazione per il secondo dolcetto che gli aveva negato.

 

 

Quella era di certo la giornata più lunga di tutta la sua vita. Fuori la neve cadeva incessante, il papà era uscito e la mamma stava finendo di appendere i festoni con su scritto “buon compleanno!” alla parete del salone – alla fine, papà non lo aveva fatto –.

Da ormai un'ora era vestito di tutto punto per la festa, anche se non ne capiva bene il motivo.

Non aveva molti amici, non era un bambino particolarmente socievole, e per di più l'unico regalo che voleva glielo aveva dato la mamma quella mattina.

Certe volte, Sephiroth aveva come l'impressione di non piacere ai compagni di scuola proprio per via della mamma. La guardavano in modo strano quando lo accompagnava a scuola o quando andava a prenderlo agli allenamenti di calcio.

Certo, la sua mamma era diversa da ogni altra mamma, e non solo per via dei meravigliosi capelli. Il bambino non era certo sul perché fosse diversa, lo era e basta. Forse era il viso che la faceva sembrare una bambina.

Non poteva sapere che era malvista perché era così giovane, troppo giovane, e che la storia di come si era fatta mettere incinta dal figlio di Lewis Crescent si fosse diffusa a macchia d'olio in tutta la città. Credevano che volesse i suoi soldi, che non puntasse ad altro. Non sapevano a quali rinunce si sottoponevano lei e Hojo per vivere di quello che riuscivano a guadagnare e che non chiedevano quasi niente ai genitori di lui.

Importava solo l'apparenza, ma questo il bambino ancora non lo aveva capito.

In ogni caso, si chiedeva chi sarebbe venuto alla festa.

Era sicuro che la mamma avesse invitato tutti i suoi compagni di classe, e qualche bambino del calcio, ma lui a malapena ne ricordava i nomi, e di certo non poteva considerarli amici. Però lei teneva così tanto ad organizzargli una bella festa che non importava.

Era la prima festa di compleanno che avesse mai avuto, prima era troppo piccolo per potersene rendere conto, e non andava ancora a scuola.

Steso sul tappeto del salotto, sotto il suo festone “buon compleanno!” mormorava una storia inventata per i suoi soldatini. Una guerra immaginaria in un mondo da salvare, e lui era come sempre l'eroe.

Quando giocava, giocava sottovoce, per non disturbare i genitori, e perché voleva che quel mondo rimanesse segreto.

- Stanno arrivando, stanno arrivando! - mormorò, muovendo il soldatino piegato sulle ginocchia con il fucile di plastica fuso sul ginocchio come dopo aver ricevuto l'ordine “mira”, non ci sarebbe mai stato un “spara” per lui. - Oh no, Generale, cosa dobbiamo fare? - mosse il secondo soldatino, quello rigido sull'attenti. - Presto c'è bisogno di... -

Il telefono squillò. Sephiroth per poco non si lasciò cadere i soldatini dalle mani per lo spavento. Al terzo squillo era già in piedi per raggiungere il ricevitore.

Non riuscì mai a dire “pronto!” perché la mamma aveva risposto dalla cucina. Avrebbe potuto riporre la cornetta ma...all'improvviso gli venne voglia di ascoltare. Da quand'è che era diventato così impiccione negli affari dei grandi?

- Mi dispiace molto, ma non potremo venire alla festa. - disse una voce di donna, che a Sephiroth non sembrò dispiaciuta davvero.

- Capisco. - rispose la mamma, dura e fredda come il ghiaccio. - Posso chiedere perché? -

- La neve! Le strade sono bloccate, mi dispiace. -

Il bambino si volse verso la finestra. Nevicava, sì, ma non sembrava che fosse una nevicata così terribile. Strinse un po' di più la cornetta contro l'orecchio, cercando di trattenere il fiato il più possibile, altrimenti la mamma si sarebbe accorta che stava ascoltando.

- Certo, certo, la neve. - sempre più rigida. - Grazie per aver avvertito. -

La persona dall'altra parte della cornetta attaccò, e sotto il tu tu tu tu tu della chiamata ormai finita, Sephiroth poté sentire la mamma che sospirava.

Ripose velocemente la cornetta e corse da lei.

La trovò ancora con il telefono tra le mani e l'espressione tetra, ma quando alzò lo sguardo su di lui sorrideva.

- Ehi soldatino. - aveva gli occhi lucidi? Il bambino non avrebbe saputo dirlo. - Sembra che i tuoi amici stiano avendo problemi a raggiungerci, con questo brutto tempo. -

Sephiroth colmò velocemente lo spazio che c'era tra loro e quasi le saltò in braccio.

- Non fa niente. - le disse, dopo averle stampato un bacio sulla guancia. - Non mi importa se non viene nessuno. Mangeremo la torta io, tu, papà e i nonni. Ce ne sarà più per noi! -

- Hai ragione. - la mamma lo strinse, forte, ma non appena il piccino affondò il viso nella sua spalla, lei si lasciò sfuggire una lacrima.

Fortunatamente era diventata veloce ad asciugarle.

 

 

Alle sei del pomeriggio, quando ormai il cielo era buio – sebbene terso e pulito dopo l'abbondante nevicata – sia a Sephiroth che a Jenova si rese chiaro il fatto che alla festa non sarebbe venuto nessuno, davvero nessuno.

Jenova era disperata, tratteneva a stento lacrime di rabbia. Chi aveva avuto il buon senso di chiamare per avvertire aveva piantato scuse così deboli da farle quasi perdere il controllo. Avrebbe voluto urlare in faccia ad ognuna di quelle orribili persone.

Non le interessava che trattassero lei come fosse un rifiuto della società, che la guardassero male, che mormorassero cattiverie alle sue spalle. Non sopportava che a pagarne le conseguenze fosse il figlioletto. Sephiroth era un bambino troppo buono per meritarselo, e stava diventando introverso.

Lo vedeva quando lo portava al parco a giocare e rimaneva in disparte sulle altalene o aspettava il suo turno sullo scivolo in silenzio, o quando lo portava agli allenamenti di calcio e lui rispondeva agli ordini dell'allenatore concentrato sulla palla e nient'altro. Era diventato così palese che la sua maestra l'aveva mandata a chiamare per parlarne.

Per questo aveva organizzato quella festa per il suo compleanno, nella vana, invisibile speranza, che legasse con qualcuno, che non avesse solo adulti intorno, invece.

Aaliyah e Lewis erano in salotto a giocare con lui; come tutti gli anni gli avevano portato svariati regali, con disappunto di Jenova che si sentiva sempre inferiore a loro. Ma Sephiroth, nonostante fosse abbagliato dalla macchina telecomandata che aveva appena messo in funzione, teneva nella taschina dei pantaloni i soldati di plastica che gli aveva regalato quella mattina.

- Mi dispiace. - la ragazza quasi sobbalzò e si volse di scatto verso il compagno che le si era avvicinato così silenziosamente da prenderla alla sprovvista.

Lei sospirò, trattenendo la rabbia il più possibile. Sarebbe stato controproducente prendersela con lui che non c'entrava niente. - Non pensavo che le persone potessero essere tanto cattive. - aveva gli occhi sul figlio, che aveva lasciato ordinatamente da una parte la macchinina per aprire un terzo regalo dei nonni. Stavolta era un maglione nuovo, e lui se lo strinse al petto come se fosse un tesoro. - Davvero non gli importa di ferire un bambino di sei anni? È terribile. -

- Lo è. - convenne Hojo.

A prescindere dai soldi spesi per le decorazioni e il cibo che giaceva quasi intonso sul tavolo della cucina, delle bustine regalo fatte apposta da dare ai piccoli invitati, a prescindere da qualsiasi spesa, di certo Sephiroth non meritava quel trattamento.

- Forse dovremmo provare a cambiargli scuola. - provò il ragazzo.

Guardare il bambino che si divertiva con i nonni, da lontano, metteva addosso ai due giovani genitori un senso di gelosia ed estraniamento. Non gli dispiaceva passare del tempo con il figlio, ma per la prima volta dopo tanto tempo potevano sentirsi come i ventenni che erano, e questo li faceva sentire in colpa.

- A che scopo. Dovremmo cambiare città perché le cose vadano meglio, qui sanno tutti di chi è figlio. -

Anche se non era un'accusa formalmente rivolta ad Hojo, lui si sentì comunque piccato. Ebbe però la forza di capire che la sua rabbia era per la situazione, non contro di lui, e non ribatté oltre.

Per un po' lo guardarono giocare, seduto a terra con gli abiti nuovi e belli comprati apposta per la festa, mentre sistemava i soldatini giocattolo nell'auto telecomandata e li mandava in avanscoperta sotto il tavolo.

Poi Hojo sospirò. - Tagliamo la torta e gli facciamo soffiare le candeline? -

Jenova avrebbe voluto aspettare ancora un po', ma a quel punto non c'era ragione di continuare a torturarsi. - Sì, facciamola finita. Mangeremo avanzi per tutta la settimana. -

Il ragazzo stava per annunciare che era arrivato il momento della torta quando suonarono alla porta.

Lì per lì tutti rimasero in silenzio, persino Sephiroth aveva abbandonato la macchinina per voltarsi verso l'ingresso con espressione sorpresa.

Jenova guardò l'orologio, erano le sei e mezza, non poteva sperare che fosse un invitato ritardatario, una metà aveva chiamato, l'altra non si sarebbe neanche scomodata di farlo.

- Vado io, vado io! Prepara la torta, tesoro. - trillò la ragazza, cercando di sorridere.

Poteva essere chiunque, nella sua mente immaginò diversi scenari. Poteva essere il postino, anche se era sabato pomeriggio e l'orario di consegne per la loro zona era entro le dodici; magari un vicino che aveva finito lo zucchero o il sale, anche se nel circondario evitavano di chiedere loro qualsiasi cosa, come fossero degli appestati; qualcuno che aveva la macchina in panne proprio davanti la loro porta di casa e voleva chiedere di usare il telefono, quella poteva essere una buona ipotesi.

Aprì la porta cercando di mantenere un sorriso, ma quasi le morì sul volto per l'enorme stupore. Dovette costringersi a chiudere le labbra che si erano spalancate in un “oh!”.

Sullo zerbino, infreddoliti per la neve, c'erano una donna e una piccola figuretta avvolta in sciarpa e cappello, di cui a malapena si intravedevano gli occhietti blu.

- Sono mortificata. - disse la donna, e dalla sua espressione Jenova capì che era sincera. - Non ci crederà ma abbiamo avuto una sere di sfortunati eventi, sembrava proprio che il mondo non volesse farci arrivare! Spero che siamo ancora in tempo per la festa. -

Rivolse un rapido cenno sulla spalla del bambino, che alzò un pacco rettangolare incartato con una carta regalo rossa costellata di supereroi dei fumetti. - Ho portato un regalo. - disse il piccoletto, anche se, con la sciarpa a coprirgli il viso, la sua voce risultò ovattata in modo buffo.

Jenova sentì le sopracciglia sollevarsi fino a sfiorare l'attaccatura dei capelli. Non aveva idea di chi fosse quella donna, non l'aveva mai vista prima, non era una delle mamme che aveva invitato, ne era sicura.

Eppure, era l'unica persona che si era presentata alla festa, e che sembrava avercela messa tutta per esserci.

Qualcosa dentro di lei le disse di non farla entrare, che non la conosceva e che poteva essere un pericolo per la sua famiglia, ma il sorriso della donna era tanto gioviale e sincero che non poté fare a meno di farla accomodare. Fece togliere loro giacche, scarpe e cappelli, gli offrì delle pantofole calde da sostituire agli stivali bagnati dalla neve, nel più totale sconcerto di Hojo e dei nonni, che erano rimasti a fissare la scena come se stessero assistendo al primo contatto umano con gli extraterrestri.

Sotto quell'enorme strato di vestiti invernali, si celava un piccolo bambino, con capelli rosso scuro e occhi di un blu intenso, vestito come un damerino.

Sephiroth lasciò perdere i giocattoli, si alzò da terra e corse dal suo ospite, affiancando la mamma ancora attonita che cercava di ricordare le basilari regole dell'accoglienza. Riuscì ad invitare la mamma del bambino a prendere qualcosa di caldo, mentre i due piccoli si ritrovarono soli, faccia a faccia.

- Ciao. - fece Sephiroth, una manina stringeva ancora i soldatini della mamma. - Grazie per essere venuto alla mia festa. -

Il rosso si guardò intorno. C'erano palloncini vaganti sul soffitto, e festoni colorati che rendevano l'ambiente accogliente. Non si sentiva a disagio, era solo...arrabbiato.

- Non c'è nessun altro? - chiese, con le sopracciglia rossicce corrucciate. Sembrava non essere la prima volta che vedeva una cosa del genere.

Sephiroth però incassò la testina tra le spalle, imbarazzato. - No, sei l'unico. -

- Dispiacerà a loro. - ribatté prontamente il bambino. - Che teste di cavolo. -

Sephiroth si lasciò sfuggire un sorrisetto divertito. - I miei nonni mi hanno regalato una macchinina telecomandata, vuoi giocarci con me? -

- Forte, certo! -

I bambini si gettarono insieme sul tappeto del salotto, sotto gli sguardi illuminati degli adulti.

Si divisero equamente i giocattoli e insieme cominciarono ad imbastire la più grande storia di guerra mai narrata in quella casa.

In cucina, Jenova stava versando una cioccolata calda nella tazza della donna – Megan, aveva detto di chiamarsi –.

- Spero che non si arrabbierà se ci siamo auto invitati. - mormorò Megan, lo sguardo che fugacemente andò al bambino steso a terra con Sephiroth. - Mio figlio non è in classe con il suo, ma ho sentito alcune delle mie amiche organizzarsi per darvi buca stasera, e non potevo permetterlo. - sembrava così arrabbiata che Jenova per un attimo ne ebbe paura. - Inutile dirle che da questo momento in poi non sono più amiche. -

- Per favore, sono troppo giovane per il lei, mi dia pure del tu. - tentò la ragazza, timidamente. Si sentiva sopraffatta da sentimenti così intensi che non riusciva a dare voce alle parole come avrebbe voluto.

- Spero che farai lo stesso. - sorrise Megan. Jenova aveva negli occhi solo gratitudine.

Quella donna si era presentata a casa loro solo perché aveva ritenuto fosse la cosa giusta, senza sapere come e da chi sarebbe stata accolta, aveva portato con sé il figlio e aveva fatto persino un regalo a Sephiroth. Nel mondo c'erano persone orribili, ma anche meravigliose, proprio come lei.

- Anche noi siamo stati quelli “strani” per molto tempo. - continuò, sorseggiando piano la cioccolata. - Io sono una madre single, e ti assicuro che ho subito anch'io questo genere di ostracismo. Non permetterò che succeda ad un altro bravo bambino. -

Jenova invidiava la dignità di quella donna, la sua forza, il suo coraggio. Da quel momento in poi, si disse, sarebbe stata il suo modello.

Sephiroth porse il telecomando della macchinina al bambino dopo avergli spiegato i comandi. Non aveva paura che la rompesse e non era geloso di lui, anzi, gli piaceva.

Non aveva mai provato simpatia per nessuno in particolare, ma quel bambino era diverso. Forse erano quegli occhi blu intenso a catturarlo.

- Non ti ho chiesto neanche come ti chiami. - gli disse, con un mezzo sorriso di scuse. Non era la prima cosa che la mamma gli aveva insegnato? Presentarsi alle persone nuove con una stretta di mano e dicendo il proprio nome?

Il bambino rosso armeggiò per un attimo con i comandi della macchinina, mandandola lentamente avanti e indietro con la lingua all'infuori per lo sforzo. Quando capì come funzionava, si volse per rispondere. Sì, doveva proprio essere colpa di quegli occhi.

- Neanch'io ti ho chiesto come ti chiami. Comunque sono Genesis. -

- Sephiroth. -

- È un bel nome. -

- Anche il tuo! -

La macchinina fece un giro intorno al tavolo portando con sé i valorosi soldatini, poi Genesis diede nuovamente il telecomando a Sephiroth. - Dici che possiamo essere migliori amici? Non ho mai avuto un migliore amico. -

- Neanch'io... - mormorò in risposta, pensieroso. Quali erano le caratteristiche di un migliore amico? Come poteva saperlo quando non aveva mai avuto neanche un amico normale? Beh, rifletté, magari era qualcosa che si scopriva con il tempo, come una di quelle cose che suo padre metteva a tacere con “lo capirai quando sarai più grande”. - Per me va bene. - disse alla fine.

- Migliori amici? - chiese sorpreso Genesis.

- Migliori amici! - rispose Sephiroth.

Intrecciarono i mignolini come a suggellare quelle parole, e poi tornarono alla loro guerra di plastica.

 

*

 

Sephiroth passò accanto all'ex muro bianco accanto al frigo per andare a prendere dei succhi di frutta per sé e Genesis. Accanto alla scritta “10 yrs old” c'era il numero 139. La pediatra aveva assicurato a sua madre che era più alto di tre centimetri rispetto alla media dei bambini della sua età, il che probabilmente poteva significare due cose: o avrebbe esaurito la sua spinta di crescita nell'adolescenza, bloccandolo intorno al metro e sessanta, oppure, al contrario, l'avrebbe fatto crescere alto come un albero fino al metro e novanta. Due estremi che, in ogni caso, avrebbero avuto conferma o smentita solo quando fosse stato grande abbastanza. Per il momento doveva solo pensare a comportarsi come il bambino di dieci anni che era.

Era una bella giornata di sole di un aprile pazzo: solo una settimana prima aveva piovuto tanto da allagare le strade.

Genesis lo aspettava fuori, seduto sulle sedie di plastica con i libri aperti e la testa tra le mani.

Da quando avevano sei anni ogni pomeriggio lo passavano insieme, a casa dell'uno o dell'altro, facevano i compiti, si aiutavano a vicenda dove non riuscivano da soli, e quando finivano giocavano o chiacchieravano o facevano merenda.

Per Sephiroth era bellissimo non essere più solo. Che gli altri bambini continuassero a non rivolgergli la parola non gli importava, aveva persino lasciato la squadra di calcio. Per fortuna, essere il più alto della classe incuteva un certo timore, e i suoi occhi verdi si erano fatti più duri e freddi. Non quando stava con Genesis, però.

Lui era l'unico che lo capisse davvero, l'unica persona vicina al suo cuore.

Sedette al suo posto accanto all'amico e gli porse il succo di frutta.

- Ti è venuto in mente qualcosa? - chiese, sporgendosi verso il foglio bianco che Genesis aveva davanti da almeno mezz'ora.

- No, niente di niente. - sbuffò lui, gettando la testa all'indietro.

Era bravo in matematica, in storia, persino in geografia, ma quando c'era da scrivere un tema andava nel panico.

- Dai, non può essere così difficile. -

- Oh certo, scrivilo tu allora. - Genesis gli spinse il foglio davanti al naso e lui lesse, in cima, il titolo: “Cos'è per me la libertà?”.

Sephiroth ci rifletté per un attimo, teatralmente, poi lanciò uno sguardo brillante all'amico. - E tu mi fai i compiti di geometria? -

- Cos-...sei serio?! -

Mano sul cuore, come se avesse appena ricevuto un insulto, Sephiroth rispose: - Io lo sono sempre. -

Il rosso storse le labbra in una smorfia indecisa, infelice. Non gli piaceva cedere, ma era impossibile resistere a Sephiroth.

Il loro era un rapporto fatto di dare e avere, cercando di essere più sinceri possibile, prima che la società, il mondo, il buon senso o l'età li rendesse incapaci di dirsi la verità.

Condividevano sogni, speranze e paure, molto spesso sussurrate sotto la stessa coperta nello stesso letto.

Sephiroth aveva contagiato Genesis con il suo desiderio di diventare soldato da grande, e Genesis aveva acceso in lui la passione per la lettura e gli aveva riempito la stanza di libri.

A “L'omino dei desideri”, che era stato il suo primo regalo, erano seguiti molti altri volumi, e lui li aveva letti tutti, per poi passarli all'amico così da poterne discutere insieme.

Sephiroth non avrebbe potuto sperare di trovare un amico migliore di lui, e neanche lo voleva. Insieme erano una forza, erano indivisibili.

Non sapeva se fosse stata l'amicizia di Genesis a rendere tutto migliore o se le cose avevano trovato modo di sistemarsi da sole senza che lui lo sapesse, ma anche a casa si respirava un'aria completamente diversa.

Jenova frequentava molto Megan e aveva cominciato a lavorare a casa, piccole commissioni di oggetti di découpage per lo più, che non erano un grande introito ma che la tenevano felicemente occupata; Hojo aveva ottenuto una promozione e presto si sarebbero potuti permettere di fare quei lavori di cui la casa aveva assolutamente bisogno.

Erano felici, Sephiroth poteva dirlo. Ormai sentiva litigare i suoi raramente, sembravano di nuovo vivi e attivi e intenzionati a godersi ogni istante di quell'esistenza.

- Fatto. - concluse l'albino, mostrando il foglio fitto di parole all'amico rimasto con gli occhi sgranati per tutto il tempo. - Cos'è la libertà per me, un foglio e mezzo. Basta? -

- Sì, basta. - mugugnò Genesis con l'espressione fintamente ferita.

Gli prese il foglio dalle mani e borbottando chiese all'amico cosa doveva fare di geometria.

Sephiroth aveva l'aria di un gatto con la pancia piena e prima di rispondere prese il suo succo di frutta e bevve un lungo sorso.

Gli piaceva tirarla per le lunghe.

Poi spostò con gentilezza il quaderno di geometria e soddisfatto ammirò l'espressione scontenta di Genesis alla vista di tutti quei problemi da risolvere.

Rise, mentre l'amico cominciava a fare i calcoli, sulle dita. Forse non era il modo più veloce, ma non sbagliava mai.

Intanto lui cominciò a fare gli esercizi di grammatica inglese.

Per un po' rimasero in silenzio, gomito a gomito cercando il calore l'uno dell'altro. Quando erano troppo lontani tendevano sempre ad avvicinarsi per colmare la distanza tra loro, i loro corpi dovevano sempre toccarsi in qualche modo, dava loro conforto.

Passò un'ora in cui Genesis si lamentò a profusione mentre disegnava triangoli e rettangoli sul quaderno.

- Bambini? Siete in giardino? -

Sephiroth si volse subito, sorridendo al suono di quella voce. - Sì, mamma! Siamo qui! -

Jenova era nell'età della grazia, bella e splendente come un raggio di luna. Aveva ventisei anni ed era radiosa, ogni giorno sorrideva. Aveva mantenuto la sua figura esile e longilinea, ma le forme sotto i vestiti erano quelle di una donna, ora più che mai.

- Avete già fatto merenda? - chiese. Aveva con sé una bustina di carta, e i due amici sapevano bene cosa significava.

- No, abbiamo solo preso del succo di frutta. - sorrise Sephiroth. Un bravo bambino dice sempre la verità, e d'altronde avevano solo sbocconcellato il resto di una barretta di cioccolato avanzata dal giorno prima, non poteva considerarsi una vera e propria merenda.

- Allora ecco una riserva di energia formato pizza. -

I bambini esultarono e lei gli porse la bustina, dentro c'erano due pizzette con formaggio e pomodoro. Sephiroth ne tenne una per sé, l'altra la diede a Genesis.

Jenova sembrava particolarmente felice, anche se il bambino non avrebbe saputo dire perché.

Sedette con loro al tavolo e per un po' li osservò mangiare.

Era grata al fatto che fossero ancora troppo piccoli per sentirsi in imbarazzo in resenza di un adulto, e soprattutto di una madre.

- Seph, ho una notizia da darti. - il piccolo alzò la testa dalla sua pizzetta e guardò la madre interrogativo. Era felice, no? Quindi doveva essere una bella notizia. - Ti piacerebbe...avere un fratellino o una sorellina? -

Genesis sollevò un sopracciglio, confuso, ma non si intromise, anche se all'improvviso sembrava interessato alla discussione.

- Mh...credo di sì? - chiese Sephiroth indeciso.

Aveva Genesis, perché avrebbe dovuto desiderare una sorellina o un fratellino? Lui era già il miglior fratello possibile.

Jenova si poggiò una mano sul ventre e il sorriso si fece più largo.

- Beh, allora sarai contento di sapere che...la mamma è incinta! -

Per un attimo Sephiroth rimase con la bocca spalancata, sporca del pomodoro della pizzetta. Come si doveva reagire ad una cosa del genere? Doveva saltare al collo della mamma e mostrare tutta la felicità di cui era capace? Oppure doveva stringerle la mano o cose così? Non gli avevano ancora insegnato a comportarsi da adulto in una situazione da adulti, era troppo piccolo per questo.

- Quindi...nella tua pancia c'è un bambino? - perplesso, piegò la testa da un lato.

- C'è un bambino già da un mese. Ma l'ho scoperto solo oggi. Sei contento? -

Ci pensò, il piccolo ci pensò davvero.

Era felice?

Lo capì all'improvviso, come si capiscono queste cose.

Gli occhi si ingrandirono, si illuminarono, il cuore cominciò a battergli forte in petto.

Un fratellino e una sorellina. Avrebbe preferito un fratellino se avesse potuto scegliere, ma in fondo non gli importava.

Quasi saltò per abbracciare la mamma.

- Oh mamma! Sì! Sono felice! -


-------------------------------------------------

The Corner 

Se siete arrivati qui avete appena conosciuto il piccolo Genesis. Non ho mai scritto di lui e non so se sono in grado di gestirlo bene come personaggio, quindi se avete qualche rimostranza, commentate/scrivetemi pure! 
Gli anni passano, Sephiroth cresce, e un nuovo piccolo pulcino sta per unirsi alla famiglia. Chi sarà mai? 
Lo scoprirete lunedì!
Oltre a ringraziare la mia Musa, il mio amore, il mio sostegno, questa volta voglio fare un ringraziamento anche ad una piccola ragazzina speciale, che con il suo fangirling rende un po' meno triste il poco seguito che ho su questo sito, sì sto parlando con te G. 
Grazie <3 

Chii

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Capitolo 4
*** Fatty ***


Part Two: Golden Heart

 

- 1 -

Fatty

 

 

- Per oggi la lezione è finita, potete andare. -

Un vociare concitato si alzò tra gli studenti.

La giornata era stata lunga, densa, il compito in classe di matematica aveva tolto alla maggior parte dei ragazzi la voglia di vivere. Beh, in senso figurativo. Tutti i preadolescenti diventano drammatici quando si parla di scuola, è il periodo, gli ormoni, l'aria che cambia, il mondo che vedono per davvero per la prima volta.

Sephiroth si portò un ciuffo di capelli dietro l'orecchio con un sospiro e infilò i libri nello zaino.

Sentiva gli occhi dei compagni addosso ad ogni movimento, ma ormai si era abituato ad essere guardato in quel modo, tanto che evitava persino di dirlo ai suoi genitori.

D'altronde, cos'altro poteva dire che loro non sapessero già?

La speranza che, passando dalle elementari alle medie, le cose sarebbero cambiate si era vaporizzata il primo giorno, quando durante l'appello aveva risposto “presente” al suo nome. Cominciava a pesargli chiamarsi Crescent come il nonno.

Con il tempo aveva imparato a rivestirsi di indifferenza, che sul suo viso di dodicenne stonava così tanto da farlo sembrare più grande. Forse era per questo che lo odiavano e lo ammiravano insieme, o dipendeva dai buoni voti sulla sua pagella, o entrambe le cose.

Si avviò all'armadietto per lasciare i libri e l'unica cosa bella della scuola gli saltò letteralmente addosso.

Genesis era più basso di lui. Adesso che i loro corpi stavano facendo una gara a chi cresceva più in fretta era ben evidente. Sebbene anche fosse sopra la media della sua età, non poteva competere con Sephiroth.

Era una verità evidente che aleggiava silenziosa su di loro, e che riguardava, in realtà, quasi tutte le cose in cui si cimentavano insieme: Genesis doveva venire a patti con il fatto che Sephiroth sarebbe stato sempre migliore di lui, in ogni campo, a prescindere da impegno o talento.

- Ciao bro. - lo salutò l'amico, un braccio intorno alle sue spalle. - Ti vedo giù, brutta giornata? -

- Non peggiore delle altre. - commentò Sephiroth sospirando.

Praticamente si trascinò dietro Genesis fino all'armadietto, dove ripose i libri che non gli servivano e prese quelli da portare a casa per studiare.

- Facciamo qualcosa insieme oggi? - tentò il rosso per cercare di tirare su il morale dell'amico.

Quello che ottenne fu un sospiro ancor più profondo. - No, oggi devo badare a mio fratello. -

- Oh Seph che cavolo, stai sempre con quel marmocchio ultimamente. -

- Lo so, lo so. Ma mia madre deve stare dietro al negozio, e non ha senso chiamare una baby sitter quando io sono a casa comunque. -

- Ah, già, il negozio... - il rosso mise il broncio, come sempre quando parlavano del negozio.

Durante la gravidanza Jenova aveva adocchiato un piccolo locale in vendita in centro, un negozio di articoli casalinghi che era fallito miseramente. Il pensiero dell'acquisto non l'aveva abbandonata e alla fine, dopo tanto rimuginare, aveva avuto il coraggio di parlarne a Hojo. Lui sulle prime aveva dato in escandescenza, perché le cose non andavano benissimo e con il nuovo bambino in arrivo avrebbero dovuto stringere la cinghia. Poi, la prospettiva di una possibile seconda fonte di guadagno, e di realizzazione per Jenova, gli aveva fatto dire di sì.

Con l'aiuto dei nonni e un prestito della banca, erano riusciti a comprare e rinnovare il locale, che era diventato uno squisito negozio di abbigliamento.

Sua madre ne era fiera, e aveva aperto quando il bambino era grande abbastanza da non dipendere completamente da lei e da poter essere lasciato a casa con qualcuno. Ovviamente quel qualcuno era Sephiroth.

Gli affari andavano benino, ma c'era sempre qualcosa da fare e spesso sua madre tornava tardi a casa.

Che questo togliesse del tempo vitale al nuovo nato non sembrava essere un problema, forse perché Loz era in assoluto il bambino più tranquillo dell'universo.

Sano e perfetto proprio come il fratello, Loz aveva una qualità ammirabile: dormiva sempre. Si svegliava per pochi istanti quando doveva mangiare, poi riprendeva a dormire. Dormiva quando veniva cambiato, dormiva quand'era in braccio, dormiva quando era nella culla, dormiva anche con forti rumori di sottofondo, tanto che per un periodo i suoi genitori avevano temuto che avesse qualche problema. Invece no, era solo un gran dormiglione. E quando poi l'aveva svezzato era diventato anche un gran mangione.

Non era un bambino che richiedeva molte attenzioni, ubbidiva quando gli si diceva di fare qualcosa, capiva i toni arrabbiati degli adulti, non faceva capricci come la quasi totalità dei bambini, né quand'era stanco né quand'era arrabbiato. Propendeva più per sorridere a chiunque fosse alla sua portata.

Quando lo portavano in giro sul passeggino rivolgeva a tutti i suoi sorrisi spontanei e Jenova aveva stretto più di un rapporto di amicizia perché avevano abboccato all'esca di Loz. Un paffuto, morbido dispenser di felicità.

Sephiroth non poteva dire di amarlo alla follia, perché mal sopportava di essere costretto a prendersene cura, soprattutto quando questo gli toglieva la compagnia di Genesis, e poi da qualche tempo a quella parte era diventato appiccicoso.

Lo seguiva per casa come un'ombra, una piccola ombra grassoccia che sgambettava su corte estremità; si arrampicava sul divano e gli si sedeva praticamente addosso; voleva essere preso in braccio di continuo o che qualcuno gli tenesse la mano quando attraversava un corridoio troppo buio per i suoi gusti.

Era frustrante, perché se per caso si provava anche solo a sgridarlo i suoi occhioni verde intenso – uguali a quelli di Sephiroth e a quelli di Hojo – si riempivano subito di lacrime e suscitavano un infinito senso di colpa. D'altronde non faceva niente di male, come gli si poteva urlare addosso solo perché voleva stare vicino a suo fratello sul divano o perché aveva paura del buio?

- Dai, facciamo che mi organizzo per vederci domani? - chiese all'amico, tentando di sorridere.

Genesis era essenzialmente geloso del fatto che per “colpa” di Loz passavano sempre meno tempo insieme. Sentiva la sua mancanza, anche se non aveva il coraggio di dirlo ad alta voce.

- Casa mia? Play Station e pizza? -

- Non chiedo altro. -

Il rosso sorrise. Quand'era felice anche gli occhi brillavano, era così adorabile che Sephiroth si chiese se non fosse lui il bambino e non il fratellino di due anni.

- Okay, allora ci vediamo domani. -

- Sì, a domani. -

Genesis mosse la mano in segno di saluto e poi se ne andò fischiettando verso l'uscita, mentre Sephiroth finiva con calma di svuotare lo zaino nell'armadietto.

 

 

- Grazie al cielo sei arrivato! - la mamma era già vestita di tutto punto, e saltellava su una gamba nel tentativo di infilarsi una scarpa. - Sono in ritardo per aprire il negozio, papà non torna per cena, e se io dovessi fare tardi ti ho lasciato tutto pronto nel forno a microonde, okay? -

Quando riuscì a mettersi la scarpa esultò, prese la borsetta e diede un bacio sulla fronte a Sephiroth passando. Lui però apparve smarrito, era appena rientrato a casa e si prospettava una serata senza la supervisione di un adulto: era molto più di quello che era abituato a fare.

- Ma...mamma...e Loz? -

- Oh a lui puoi fare un po' di pastina, riesci da solo, sì? -

Sephiroth avrebbe voluto dirgli che no, non era in grado, e che forse avrebbe dovuto capire che lasciare un dodicenne da solo con un bambino di due anni era un pessimo, pessimo comportamento. Ma avrebbe potuto dirlo solo se lui non fosse stato un bravo figlio. Sephiroth ubbidiva sempre alla mamma, anche quando gli imponeva di fare cose che non era grande abbastanza per fare.

Le avrebbe mostrato che di lui poteva fidarsi.

- Non preoccuparti mamma, passa una buona giornata. - le disse, dolcemente.

Qualcosa nella sua voce dovette raggiungere uno spazio morbido nel cuore della donna, che si fermò sulla soglia, lasciò la borsetta a terra e corse ad abbracciarlo.

Il suo bambino stava diventando un piccolo uomo, ormai era alto quasi quanto lei.

- Grazie tesoro, chiamami per qualsiasi problema, d'accordo? -

- Non ce ne saranno, ma certo. -

Quella frase gli fece guadagnare un altro bacio sulla fronte e un sorriso. La mamma era sempre bella quando sorrideva. - Loz è nel box, sta giocando, gli ho cambiato il pannolino, non dovrebbe averne bisogno per un po'. Fate i bravi, mh. -

- Tranquilla, e vai che fai tardi a lavoro. -

Quasi la spinse oltre la soglia, all'improvviso non aveva più voglia di andare. Non smetteva di apparire giovane quella ragazza cresciuta troppo in fretta.

Salutò il figlio ancora una volta e poi corse nel vialetto, verso l'ormai sgangherata macchina di Hojo, che non avevano ancora cambiato perché non potevano permettersi due macchine nuove: averne presa un'altra era già un miracolo.

Lui la guardò mettere in moto e poi sparire in lontananza.

Rimase qualche altro istante sulla porta a fissare la strada e poi, con quello che sarebbe stato il primo di molti sospiri, chiuse la porta.

In teoria Loz avrebbe già dovuto cominciare a formulare le prime, piccole frasi. Però non parlava molto, comunicava più a gesti o, in generale, si faceva capire con versetti. Di parlare non sembrava averne ancora intenzione.

La pediatra aveva garantito a Jenova che ogni bambino è diverso e che Loz non aveva alcun ritardo nello sviluppo; capiva, era intelligente, sveglio, reagiva a tutti gli stimoli, quando sarebbe stato pronto avrebbe preso il via e allora, aveva detto ridendo, avrebbe rimpianto i giorni in cui non parlava.

Anche adesso era silenzioso, seduto nel box con i suoi giocattoli. Quando Sephiroth si avvicinò, lui alzò lo sguardo e gli sorrise, un tenero sorriso con i suoi piccoli dentini.

Il ragazzino alzò gli occhi al cielo. Era impossibile che Loz cercasse di arruffianarselo, ma certe volte aveva quell'impressione.

- Senti. - gli disse, puntandogli il dito contro. Il piccolino lo guardò con attenzione, senza smettere di sorridere. Aveva capelli corti e tirati all'indietro, argentei come i suoi e quelli della mamma, e gli occhi sembravano sempre così attenti e vigili; era ben troppo in carne, tanto da avere le guanciotte rotonde, un pancino evidente, e rotolini di ciccia sulle braccine. - Stasera siamo soli io e te, quindi niente piagnistei, niente crisi, niente drammi. Capito? -

Loz afferrò un sonaglietto e si alzò in piedi reggendosi dai maniglioni di plastica che fungevano da appiglio all'interno del box. Scosse il giocattolo nella direzione di Sephiroth sorridendo felice.

No, non credeva che avesse capito.

Sephiroth scosse la testa. - Io devo studiare. Vado di sopra a prendere le cose che mi servono. Vado via un attimo solo, okay? - fece un passo verso le scale e l'espressione di Loz si fece allarmata. Il ragazzino sapeva cosa volesse dire, ma sperò di sbagliarsi.

Non smise di guardarlo mentre si avvicinava alle scale, per capire se poteva lasciarlo solo o no, ma quando Loz cominciò a mugolare e lasciò cadere il sonaglio capì che se l'avesse perso di vista avrebbe cominciato a piangere.

Non erano capricci, era paura. Di poche poche Loz aveva paura come il buio e l'essere lasciato solo in una stanza. Quando giocava alzava sempre gli occhi per controllare che qualcuno della famiglia fosse sempre in vista, e allora si tranquillizzava e continuava a fare quello che stava facendo.

- Oh ma andiamo! - sbottò il fratello maggiore, e si avvicinò al box. Subito il bambino alzò le braccia per essere sollevato. - No Loz, sei la cosa più grassa che esista, non ti porto in braccio. -

Imperterrito, il piccolo rimase con le braccia tese.

Sephiroth lo prese solo un attimo, per toglierlo dal box, e con enorme sforzo – ma quanto diamine pesava quel ciccione –, per poi lasciarlo a terra. Loz, confuso, si guardò intorno, come se non capisse come mai si trovasse così in basso dal momento che il fratello l'aveva preso in braccio.

Provò di nuovo, allungando le braccia verso l'alto e chiudendo e aprendo le manine, insistente.

- Ho detto no, Loz. Puoi venire su con me, ma non ti porto in braccio. -

Il bambino, allora, gli porse solo una manina, nella speranza che il fratellone che tanto adorava la prendesse. E aveva quei dannati, grandi occhi lucidi. Sephiroth prese la manina grassoccia e con lui cominciò a salire la rampa di scale.

Ci impiegarono così tanto tempo che il ragazzino avrebbe voluto urlare, ma Loz...Loz era così carino, con l'espressione concentrata a salire i gradini e l'altra manina attaccata al corrimano per non perdere l'equilibrio.

Quando finalmente arrivarono nella stanza, Sephiroth lasciò il bambino scorrazzare libero. Si guardava intorno con gli occhi enormi di stupore, faceva così tutte le volte, come se fosse entrato in un magico mondo di meraviglie, con le manine aggrappate al copriletto azzurro per evitare di cadere. Era troppo grasso per tenersi in piedi senza rischiare di cadere, già poteva ritenersi un miracolo il fatto che riuscisse effettivamente a camminare.

Il ragazzino non aveva più tanti giocattoli, e quelli sopravvissuti all'infanzia che ancora voleva tenere con sé stavano su una mensola in alto. Loz dovette averli visti perché allungò una mano come per indicarli, mugolando qualcosa con le piccola labbra in fuori.

- Non abbiamo tempo di giocare adesso, più tardi. - prese i libri necessari con un braccio, e porse la mano al bambino perché la prendesse.

Insieme scesero nuovamente in salotto e Sephiroth scaricò Loz nel box, per avere un po' di libertà di movimento.

Anche se continuava a mugolare e piagnucolare come fosse un cagnolino in gabbia, il ragazzino non si fece intenerire. Aprì i quaderni e i libri sul tavolino basso del salone e cominciò a fare i compiti.

Sarebbe stato difficile, però, con quel sottofondo fastidioso.

Alla fine dovette riprendere in braccio Loz e piazzarselo sulle gambe mentre studiava. Solo così smise di piagnucolare e, buono buono, appoggiando la testina prima contro il petto di Sephiroth, poi contro il suo braccio, si addormentò.

 

 

Il bambino pesava una tonnellata. No, obbiettivamente non poteva pesare una tonnellata, ma Sephiroth aveva le gambe intorpidite per il troppo rimanere in quella posizione con il suo peso sopra. Dormiva – come al solito – e quando lo sollevò per metterlo sul divano non si mosse neanche.

La manina, però, si chiuse intorno ai capelli del ragazzino, che dovette trattenere uno strilletto di dolore. Imprecò con la parolaccia più brutta che conosceva – nella sua mente, a voce alta non le diceva ancora – e impiegò più tempo del necessario per aprire le dita grassocce di Loz. Non doveva assolutamente svegliarlo.

Quando ci riuscì, il piccolino emise un versetto nel sonno e tornò immobile.

Era sicuramente una vittoria per Sephiroth.

Tornò a sedersi a terra tra i suoi libri, magari sarebbe riuscito a finire la ricerca di storia.

Per un po' l'unico suono nella stanza, oltre al ronfare di Loz, fu il suo scrivere frenetico sul quaderno.

Fu lo squillare di un cellulare a farlo sobbalzare.

Aveva lasciato il telefonino al piano di sopra.

Averne uno era una tappa fondamentale per ottenere l'indipendenza, e anche se era un modello vecchio che a malapena funzionava, Sephiroth non era pretenzioso, si era accontentato e, anzi, aveva ringraziato i suoi genitori come se gli avessero regalato un lingotto d'oro.

- Ma che ore sono? - mormorò tra sé e sé, cercando l'orologio a muro con lo sguardo.

Si sentì un esimio stupido. Si diede un colpo in fronte e scattò in piedi.

Aveva dimenticato la telefonata con Olive, dovevano parlare del progetto di scienze. Non aveva neanche buttato giù uno straccio d'idea.

Si lanciò verso le scale e al secondo gradino si ricordò di Loz. Quanto ci avrebbe messo al telefono? Se lo spostava per metterlo nel box si sarebbe svegliato e avrebbe disturbato la telefonata. Si sollevò sulle punte per accertarsi che fosse ancora come l'aveva lasciato e poi riprese a salire le scale. Non ci avrebbe messo molto.

Riuscì ad afferrare il cellulare mentre ancora stava squillando, con un sospiro recuperò un blocknotes, una matita, e si preparò ad affrontare Olive, la ragazza che gli era stata affiancata al corso di scienze.

Non che non gli piacesse, anzi, era seria, studiosa, attenta, scriveva appunti molto chiari, ma quello era l'unico corso dell'anno che si era trovato a frequentare con Genesis, e avrebbe voluto fare coppia con lui. Il professore, invece, asseriva che era importante legare con altri compagni, e gli aveva appioppato Olive.

Forse era anche per questo che non aveva cominciato a pensare a cosa fare.

La vocetta della ragazza era gradevole, lo salutò cordialmente, e poi cominciò a sciorinare le sue idee. A quanto pareva, almeno lei ne aveva molte.

Non seppe esattamente quanto tempo rimasero a parlare, il foglio che Sephiroth aveva davanti si era però riempito di scritte, scarabocchiate o sottolineate.

Bocciarono l'idea del vulcano, perché venivano costruiti almeno dieci vulcani l'anno e volevano fare qualcosa di diverso; per un po' indugiarono sull'idea di una lampadina alimentata dall'elettricità prodotta da una patata, ma poi capirono che non avrebbero fatto una gran bella figura, perché nonostante l'idea fosse attuabile, rimaneva sempre una patata con una lampadina sopra.

Alla fine optarono per una riproduzione in scala del sistema solare, non con i “soliti” otto pianeti, ma con tutti quelli che erano troppo piccoli per essere definiti pianeti, con tanto di minuscole lune e la fascia di asteroidi. Un progetto ambizioso, serviva un motore elettrico per far girare gli anelli della struttura intorno al sole, doveva almeno essere in grado di fare un giro completo, potevano usare palline di polistirolo di varia misura e si divisero equamente i pianeti da creare. Doveva essere grande abbastanza da meritarsi una B, altrimenti la media di entrambi ne avrebbe risentito.

Stavano per mettersi d'accordo su quando vedersi per lavorare sulla base quando Sephiroth udì un tonfo.

Chiese scusa a Olive e scostò l'orecchio dal telefono. Stava per chiamare “mamma?”, salvo poi ricordarsi che avrebbe fatto tardi e che non sarebbe tornata prima di cena.

Il botto successivo lo fece scattare in piedi. Seguirono numerosi tonfi, un pianto sommesso e poi più niente.

- LOZ! -

Avrebbe voluto dire qualcosa come “Scusa Olive devo andare, a mio fratello è successo qualcosa”, ma dalla sua mente confusa non uscì nulla, così come dalle sue labbra. Abbandonò il telefono sul letto e corse fuori dalla stanza.

Impallidì, il cuore saltò un battito, all'improvviso il corpo si fece pesante. Loz era alla base delle scale, un braccino piegato ad un angolo strano, sangue gli usciva dalla tempia.

Lo vide nella sua testa in quegli attimi di concitato orrore.

Loz che si svegliava, si ritrovava da solo nel salone, cercava suo fratello inutilmente, poi sentiva la sua voce al piano di sopra e, per quanto glielo consentivano le gambette tozze, cominciava a salire le scale. Doveva aver perso l'equilibrio, o non aver poggiato bene il piede su uno scalino. Era scivolato all'indietro e ruzzolato giù per le scale. Il pavimento aveva arrestato la sua corsa e ora giaceva lì, immobile.

Sephiroth percepì il bisogno di urlare, riuscì a scollare il proprio corpo dal pavimento per correre giù dalle scale e prendere in braccio il fratellino. Respirava ma era incosciente e pallido, così pallido.

Si guardò intorno spaesato. Cosa doveva fare? Cos'era giusto che facesse?

Provò un moto di orrore al pensiero di dover chiamare i suoi genitori. La mamma gli aveva dato la responsabilità, l'aveva lasciato solo con lui perché sapeva che sarebbe stato attento.

La sua spaventata mente di bambino glielo sconsigliava vivamente, ma c'era qualcun altro che poteva chiamare.

Stringendosi al petto Loz, e senza quasi più sentirne il peso, tornò al piano di sopra e prese il cellulare. Probabilmente chiuse in faccia la chiamata a Olive, ma aveva gli occhi appannati dal panico e non ne fu sicuro. Le avrebbe spiegato tutto dopo.

Compose in fretta il numero, ad ogni squillo sentiva un pungiglione infuocato attraversargli le budella.

- Pronto? Sephiroth? -

- Megan! - non si accorse di avere la voce tremolante come la fiammella di una candela, di essere sull'orlo di una crisi di pianto. - Ti prego, vieni qui. Loz è caduto dalle scale, credo che si sia rotto un braccio. -

Per un attimo la donna non rispose, tanto che Sephiroth la chiamò accorato, temendo che la linea fosse caduta.

- Tesoro, calmati, sono ancora qui. Sei solo a casa? Dove sono mamma e papà? -

- A lavoro, non c'è nessuno. Ti prego Megan vieni, vieni subito. Non so cosa fare! -

- Okay, okay, stai tranquillo, copri Loz con una coperta e metti la giacca, tra cinque minuti sono da te. -

Sephiroth stava iperventilando, non riusciva a vederci, ma si costrinse a fare come Megan gli aveva detto. Recuperò un plaid con cui avvolgere Loz, prese la giacca, infilò il telefonino nella tasca dei jeans e corse fuori.

Megan non aveva mentivo, in cinque minuti fu davanti casa Crescent.

Scese dall'auto senza spegnere il motore e corse incontro al ragazzino.

- Dallo a me, su. - gli disse, allungando le braccia verso Loz.

- NO, no...lo porto io. - e strinse appena appena la presa sul corpicino del bambino che emise un piccolo mugolio indolenzito.

- D'accordo. Andiamo. -

La donna poggiò una mano sulla spalla di Sephiroth come per aiutarlo a camminare.

In qualche modo riuscì a salire in macchina, ma il suo unico pensiero era tenere Loz al caldo.

La ferita sulla fronte aveva smesso di sanguinare, ma c'era tanto sangue da far venire la nausea al ragazzino. Non era il colore, la quantità, e neanche l'odore a fargli girare la testa, ma il fatto che fosse fuori, non doveva stare fuori, doveva stare dentro. E poi era il suo fratellino. Il fratellino che aveva ignorato e lasciato da solo perché non voleva avercelo in mezzo ai piedi.

Era tutta colpa sua, solo colpa sua.

Le lacrime, però, rimasero incastrate negli occhi appannati. Non riuscì a piangere, ma cominciò a mormorare parole dolci a Loz, accarezzandogli i capelli inzaccherati di sangue.

Megan guidò in fretta verso l'ospedale e lasciò la macchina quasi nel mezzo del pronto soccorso pediatrico, saltando fuori urlando che era un'emergenza.

Le infermiere accorsero, e la parte più difficile fu convincere Sephiroth a lasciare che prendessero Loz per stenderlo sulla barella.

- Lei è la madre? - chiese un'infermiera a Megan, mentre il ragazzino si appendeva alla sua giacca.

Avrebbe potuto mentire, certo, ma poi avrebbero chiesto i documenti e le cose sarebbero potute precipitare.

- No, no, io...sono la zia. - una mezza verità, d'altronde la donna era entrata a far parte della famiglia proprio come una zia.

- Allora non possiamo farla entrare. C'è bisogno di un genitore o di un tutore legale. -

- Per favore. - mormorò Sephiroth, rimanendo attaccato a Megan ma facendo un passo in avanti per farsi vedere dall'infermiera. - È mio fratello, non voglio che rimanga solo finché non arrivano i miei, posso entrare? -

L'infermiera lo squadrò a lungo, da una parte intenerita, dall'altra obbligata a seguire i protocolli. - Quanti anni hai? -

Sephiroth indugiò. Adocchiò un cartello appeso al muro che diceva: “l'accesso ai reparti è vietato ai bambini fino a dodici anni”. E capì che cosa doveva fare.

- Quattordici. - mentì, senza neanche pensarci, e a quel punto lasciò andare Megan.

Era alto abbastanza da passare per un quattordicenne, l'espressione profonda e seria lo rendeva plausibile, e si estendeva agli occhi verdi.

- Bene, forza entra. -

Megan gli rivolse una calda occhiata e un mezzo sorriso. Sotto sotto si congratulava con lui la prontezza d'animo.

Sephiroth corse dietro alla barella su cui era steso il fratellino.

Lo portarono in una stanza dove un pediatra lo visitò dalla testa ai piedi. Il piccolo riprese coscienza solo per piangere debolmente, come un animaletto ferito, e Sephiroth gli rimase a fianco continuando, accarezzandolo e mormorando qualche parola.

- Sta bene? - chiese poi al medico, senza però osare alzare gli occhi su di lui.

L'uomo prese a tastare il braccino, che fino a quel momento era rimasto piegato contro il piccolo petto, e Loz fu percorso da un brivido di dolore che lo fece piangere più forte.

Sephiroth tentò di rassicurarlo, ma quel pianto copriva le sue parole.

Gli faceva male vederlo così, lo stomaco attorcigliato mandava delle fitte. Avrebbe voluto urlare al medico di smetterla, dirgli che così gli faceva solo male, ma non riuscì a fare altro che rimanere lì, con le dita tra i corti capelli del fratellino.

- Il braccio sembra rotto, adesso lo mandiamo a fare una lastra. - disse il medico, scribacchiando qualcosa su un foglio.

- E la ferita alla testa? -

- Non è grave, è solo un taglietto. La testa sanguina molto e fa sembrare tutto più terribile. -

Il ragazzino annuì, guardò il medico solo per attimo, poi tornò a fissare il bambino.

Con la manina del braccio sano lui gli afferrò un dito. Aprì gli occhioni verdi, pieni di lacrime fino all'orlo, così lucidi che il fratello quasi poté specchiarvisi, e fece qualcosa che lui non si sarebbe mai aspettato, non in quell'occasione ma forse da Loz sì: sorrise.

Sephiroth dovette mordersi la lingua per non scoppiare a piangere, e per fortuna le infermiere vennero a prenderlo per portarlo in radiologia, cosa che gli risparmiò una brutta figura.

Quello stupido ciccione gli sorrideva dopo quello che gli aveva fatto. Non si rendeva neanche conto che se si trovava in ospedale era tutta colpa sua e della poca attenzione che gli aveva prestato.

Sopportava a stento quel sorriso, perché sapeva cosa significava: Loz lo amava, nel modo incosciente e naturale in cui amano i bambini, ignorava il concetto “colpa”.

Le infermiere non gli permisero di accompagnare il fratellino a fare la lastra, dovette tornare nella sala d'aspetto dove, con sua somma sorpresa – e orrore insieme – trovò sua madre e suo padre.

Jenova si lanciò ad abbracciarlo con tale slancio che Sephiroth si sentì anche peggio. Non meritava quell'abbraccio così come non meritava il sorriso di Loz. Era stato lui ad aver causato tutto quello, perché non lo sgridavano e basta?!

Anche Hojo si avvicinò a loro. Era preoccupato, e il suo volto scavato e magro lo sembrava ancora di più. Aveva addosso il camice da laboratorio, indice del fatto che doveva essere scappato dal lavoro per poter essere lì.

- Cos'è successo? - chiese Jenova, allontanando Sephiroth da sé, ma tenendogli le mani sulle spalle.

Il ragazzino abbassò lo sguardo. Doveva dire la verità, altrimenti si sarebbe portato dentro quel peso per sempre.

- Loz stava dormendo sul divano e...non volevo che si svegliasse, altrimenti non sarei riuscito a finire i compiti e... - Sephiroth non piangeva, non piangeva mai, aveva un cuore rigido e freddo anche se capace di dare grande amore. Ma adesso, di fronte all'inevitabilità di quello che era successo, le lacrime si fecero strada verso i suoi occhi e rotolarono sulle guance. - Sono salito su solo un attimo, dovevo parlare con Olive per il progetto di scienze. - non singhiozzava, le parole erano chiare, nitide, e dolorose, mentre le lacrime calde continuavano a bagnargli il visetto. Ora sì che dimostrava i suoi dodici anni. - È caduto dalle scale, ma mamma ti giuro, ti giuro, è stato un incidente, mi sono distratto solo un attimo, solo un attimo, solo un attimo... -

A quel punto Jenova lo strinse al petto. Non appena lui si sentì compresso tra le sue braccia si lasciò andare e prese a singhiozzare scompostamente. Per la paura, per il senso di colpa, per tutta la tensione che aveva accumulato.

- Non è stata colpa tua. - lo consolò la mamma, accarezzandogli la testa. - Dovevamo montare un cancelletto per chiudere le scale quando ci siamo trasferiti ma non abbiamo mai avuto il tempo di farlo. Sei un bambino responsabile, anzi, un ragazzo responsabile. - Sephiroth alzò lo sguardo, tirando su col naso. La mamma si fidava ancora di lui? - Certe cose a volte succedono. Ma per fortuna stavolta non è una cosa grave. Andrà tutto bene, okay? -

- Okay. - mormorò lui, e si separò dalla madre per asciugarsi con forza gli occhi.

Continuava a sentirsi in colpa, e sentiva aleggiare nell'aria il disappunto del padre per come lei aveva reagito. Forse avrebbe voluto urlare o qualcosa del genere, ma a quel punto sarebbe stato controproducente.

- Siete i genitori del bambino? - tutti e tre – e Megan, rimasta un po' in disparte – alzarono gli occhi sul medico che venne loro incontro con una cartella clinica tra le mani. - Avrei bisogno dei documenti di uno di voi per compilare i moduli di dimissione. -

- Sì, ci penso io. - mormorò Hojo, facendosi avanti.

- Il bambino è nella stanza 5, mamma e fratello possono andare se vogliono. Devono ingessargli il braccio. -

Anche se alle parole “devono ingessargli il braccio” Jenova sbiancò fino a diventare dello stesso colore dei suoi capelli, né lei né il figlio se lo fecero ripetere due volte.

Raggiunsero la stanza 5, e furono ben lieti di trovare Loz cosciente, seduto sul lettino, con una garza e una fasciatura intorno alla testina, e il braccio rotto tra le mani di una dottoressa che stava procedendo con l'ingessatura. Evidentemente dovevano avergli fatto un'iniezione per il dolore o per anestetizzare la parte, perché lui non sembrava soffrire mentre la dottoressa maneggiava il suo piccolo braccio.

- Oh il mio Loz. - quasi singhiozzò Jenova, gettandosi su di lui per baciarlo ovunque, sul viso pacioccone, sulle manine morbide, ovunque potesse.

Il piccolo si lamentò pigramente, poi i suoi occhioni si posarono sul fratello.

- Sefilot! - disse all'improvviso, con quell'adorabile vocetta che si sentiva solo quando piangeva o quando mugolava per attirare l'attenzione dei genitori.

Jenova, scioccata, si allontanò dal bambino con la bocca spalancata, e si volse verso il figlio maggiore, non meno scioccato di lei.

- Sefilot, Sefilot, Sefilot! - continuò a trillare Loz, battendo l'altra manina sulla cosciotta come se stesse tenendo il ritmo.

La donna diede una spintarella al figlio così da avvicinarlo al piccolo che subito tese il braccino verso l'alto, verso di lui.

- Allora parli. - disse Sephiroth, sedendosi di fianco a lui in modo che potesse prendergli la manina senza tendersi troppo.

- Pallo. - rispose tutto contento il piccino, un gran sorriso sulle labbra.

Sephiroth mandò un sospiro stremato e lo abbracciò pian piano, senza impacciare il lavoro della dottoressa.

- Ti voglio bene Loz. Scusami. - il bambino poggiò la testa contro la sua spalla, e solo allora il fratello realizzò quanto dovesse significare per lui la sua presenza.

Con la mamma e il papà sempre impegnati al lavoro, Loz aveva un'unica sicurezza, un'unica stabile figura: il suo fratellone. Per questo gli si era avvicinato, per questo cercava di continuo il contatto con lui. Agli occhi di un adulto poteva sembrare un appiccicoso moccioso di due anni, ma in realtà cercava solo di tenere stretta l'unica cosa importante che avesse.

La dottoressa terminò di ingessare il braccino di Loz e poi gli permise di andarsene.

Sephiroth lo tenne in braccio fino a casa, gli permise di stare seduto tra le sue gambe mentre finiva i compiti, e quella notte lo lasciò dormire nel suo letto.

Non l'avrebbe mai più perso di vista, non sarebbe mai più stato un peso.


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The Corner 

Ciao a tutti!
In questo periodo non scoppio di salute, proprio per niente, però ci tenevo comunque ad aggiornare la storia. Mi diverte scriverla e mi diverte condividerla.
Nella famiglia Crescent è arrivato un nuovo pargolo, il piccolo, dolcissimo Loz. Fin ora è il mio preferito!
I "soliti" ringraziamenti alla "solita" persona che mi sta sempre accanto, e a G. che pensa di non meritarsi le mie dediche.

Chii

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Capitolo 5
*** You may kiss the bride ***


- 2 -

You may kiss the bride

 

 

- Perché dobbiamo vestirci in questo modo? -

- Perché oggi è un giorno speciale. -

- E perché è un giorno speciale? -

- Perché mamma e papà finalmente si sposano. -

- Ho caldooo. -

- Dai, sta' fermo. -

Sephiroth annodò il cravattino al collo di Loz. Era una miniatura di uomo, con giacca, pantaloni e scarpe lucide. Era così carino che veniva voglia di mangiarlo.

Però aveva ragione a lamentarsi, faceva caldo. Avrebbe preferito portarlo in piscina e non ad assistere ad un rito matrimoniale.

Loz adorava l'acqua, e Sephiroth amava vederlo sguazzare e ridere: le due cose conciliavano perfettamente.

Ma non oggi, nonostante gli avesse promesso che appena fossero iniziate le vacanze estive l'avrebbe portato tutti i giorni.

Oggi era davvero un giorno speciale.

Dopo quattordici anni dalla nascita di Sephiroth, Jenova e Hojo sarebbero diventati marito e moglie. Sarebbero stati una coppia ufficiale agli occhi dello Stato e avrebbero sistemato pratiche burocratiche ed economiche.

Mentre Hojo diceva spesso che era superfluo e che non sarebbe cambiato nulla se un giudice di pace avesse sottoscritto il loro “sì”, Jenova sprizzava felicità da tutti i pori.

Per quasi un anno aveva organizzato quel giorno con tutta la cura possibile. Anche se era stata attenta a non sperperare denaro inutilmente, poteva permettersi qualche piccolo sfizio.

Aveva comprato un vestito – non bianco, perché andiamo, come poteva definirsi pura dopo che aveva un figlio quattordicenne e uno di quasi quattro? –, affittato un gazebo, prenotato in un bel ristorante, e sempre lei si era occupata di tutte le scartoffie del caso. Questo perché Hojo diceva di non capirne niente, e di non volerci avere a che fare.

Sephiroth e Loz l'avevano accompagnata qualche volta a fare shopping, e invece di essere imbarazzante – come Genesis aveva predetto sarebbe stato – era stato divertente: alla fine, prendevano sempre un gelato, e bastava per togliere a Loz qualsiasi traccia di broncio.

La data scelta era il 3 giugno, che era sorta più calda e limpida che mai.

Sephiroth finì di abbottonare la piccola giacca di Loz e poi lo guardò con un sorriso.

- Stai molto bene, sembri un vero gentleman. -

Il bambino si guardò allo specchio mentre il fratello gli metteva un fiore all'occhiello. Fece una smorfietta confusa.

- Cos'è un gentimen? -

- Gentleman, è una persona elegante, a modo, affascinante. -

- Come te? -

Sephiroth rise. Si trattenne a scombinare i capelli del fratellino soltanto perché era appena riuscito a domarli con il gel: tutti tirati indietro, trovavano comunque il modo di sembrare spettinati.

Il ragazzo si guardò allo specchio.

Quel giorno all'ospedale quando aveva detto di avere quattordici anni, quando Loz si era rotto il braccio cadendo, non immaginava che sarebbe stare così nel futuro. Il suo corpo si stava allargando, le spalle e il busto soprattutto, e non sembrava voler smettere di crescere. La voce aveva cominciato ad abbassarsi, gli occhi erano più sottili e maturi, i capelli meravigliosamente lunghi e setosi, che adesso dondolavano sulla schiena legati in una coda. In giacca e cravatta sembrava anche più grande, e si sentiva a suo agio con quei vestiti nonostante non li avesse mai portati prima.

- Anche come te, guarda. - il ragazzo prese il fratellino e lo piazzò davanti allo specchio, proprio accanto a sé. Erano vestiti praticamente uguali, e Loz, nonostante le forme rotonde, era la miniatura in piccolo di Sephiroth.

- Quindi adesso sono un gentimen? - provò nuovamente il piccolo, che forse non aveva ancora il concetto di bellezza, ma che reputava comunque suo fratello il più bello del mondo, dopo la mamma.

- Gentleman. - ripeté con pazienza il maggiore, anche se non poteva pretendere che Loz parlasse correttamente, aveva solo tre anni e mezzo e aveva cominciato ad esprimersi a voce da poco tempo. - Sì, lo sei davvero. - poi gli porse la mano e subito il piccolo la prese. La prendeva sempre, perché si fidava ciecamente di lui.

Insieme uscirono dalla stanza e scesero in salotto.

Hojo si sistemava nervosamente i capelli. Non sapeva se tenerli o meno legati. Erano ancora neri come l'inchiostro, ma alla base se ne intravedeva qualcuno grigio. A trent'anni non ci si può reputare vecchi, ma alle volte non è l'età ma solo la genetica o la fortuna a dettare regole.

- Tutto bene papà? - chiese Sephiroth, sollevando Loz per farlo sedere sul divano. Aveva l'ordine di non muoversi, non sudare, non sporcarsi almeno fin dopo la cerimonia, e dato che era un bravo bambino rimase immobile lì dove il fratello l'aveva piazzato.

- Sì, sì, tutto bene. - commentò l'uomo, gli occhi verdi lo inquadrarono per un attimo, poi tornarono in basso, sui propri piedi. Faceva avanti e indietro da almeno mezz'ora.

Sephiroth sorrise tra sé e sé, era visibile e tangibile il suo nervosismo, ma non glielo avrebbe fatto notare.

Quando il campanello suonò, fu il ragazzo ad andare ad aprire, e si trovò subito strangolato tra le braccia della nonna.

Da quando era nato Loz, paradossalmente, si vedevano meno, forse a causa della vita da adolescente, o forse per la vita e basta, ma lei non aveva smesso di amarlo allo stesso modo di sempre, con lo stesso sincero slancio.

- Come sei bello! - squittì la donna, pizzicandogli una guancia. Lo faceva tutte le volte, ed era l'unica vera cosa a farlo sentire in imbarazzo. - Farai strage di signorine tra qualche anno! -

- Nonnina! - chiamò il piccolo Loz. Nonostante volesse correre dalla nonna e aveva le braccine tese verso di lei, non si mosse finché Sephiroth non gli rivolse un cenno affermativo. D'altronde gli aveva detto di non muoversi e lui non si stava muovendo. Tendeva a prendere troppo seriamente le parole del fratello.

Lei lo prese in braccio subito, senza lamentarsi del suo peso, e si profuse in dolci, esagerati complimenti sulla sua eleganza, tanto che alla fine il bambino rideva.

Quel clima così leggero, così saturo di amore, scaldava il cuore di Sephiroth.

Ricordava vagamente di aver desiderato scappare da quella casa quand'era un bambino. Ora stentava a capirne il perché, ma la sensazione era rimasta, ed era strano dal momento che non voleva essere in nessun altro posto al mondo.

Hojo avrebbe preferito non ricevere tutte quelle attenzioni, ma non rifiutò l'abbraccio dei genitori, anche se sembrava parecchio impacciato, come se non fosse più abituato a certe effusioni.

Forse dipendeva dal fatto che si sentiva in debito con loro. Non avevano voluto sentire ragioni e avevano voluto partecipare economicamente al matrimonio. I vestiti per i ragazzi li avevano pagati loro, così come il fotografo che era entrato subito dietro di loro e stava sistemando le luci in giro per la stanza, scattando di tanto in tanto e immortalandoli mentre erano più vulnerabili.

Doveva così tanto ai suoi genitori che non sarebbe bastata tutta la vita per ripagarli.

Era soprattutto nei confronti del padre che si sentiva debitore. Oh, non l'aveva deluso, lo sapeva, perché nonostante tutto non aveva abbandonato gli studi, si era laureato, aveva pubblicato le sue ricerche e sembrava che la sua carriera dovesse spiccare il volo da un momento all'altro, in più riusciva a portare avanti anche la famiglia, con la ragazza che aveva messo incinta per sbaglio e i suoi due figli. Ma c'era sempre qualcosa nel suo sguardo che gli diceva che aveva immaginato per lui tutto un altro scenario.

Non poteva biasimarlo. Quando guardava Sephiroth, adesso grande abbastanza per capire cosa fossero le pulsioni sessuali e cominciare a godere del proprio corpo – e di quello di altri – provava il cieco terrore che potesse avere un “incidente” come l'aveva avuto lui, e di non poterlo aiutare come invece suo padre aveva fatto.

Ma una cosa del genere era davvero evitabile?

Lui stesso aveva preso precauzioni, era giovane ma non avventato, e nonostante tutto...

Avvertirono il ticchettare di scarpe alte sul pavimento e si voltarono.

Il fotografo sembrò impazzire, e prese a correre da una parte all'altra del salone per scattare foto da ogni angolazione possibile. Gli occhi di Aaliyah si fecero lucidi mentre si portava una mano sulla bocca come per contenere lo stupore.

Hojo si morse le labbra. Ogni pensiero negativo abbandonò la sua mente, scivolando dietro un sentimento che credeva sopito.

Dopo tanto tempo rivide in Jenova la ragazzina straniera spaurita ed eterea di cui si era innamorato.

Fasciata nel vestito color avorio, con inserti azzurri e blu di cristallo che sembravano fiocchi di neve, quasi instabile su tacchi troppo alti rispetto alle scarpe a cui era abituata, Jenova cominciò a scendere le scale, un passo alla volta, una mano sulla balaustra per non cadere.

Era bellissima.

Sephiroth si riempì gli occhi di quella vista. Era meravigliosa. Aveva scelto un trucco leggero, i capelli erano acconciati alti sulla testa, non aveva velo, ma piccolo fiocchi di neve azzurri intrecciati nell'acconciatura; gli occhi sembravano quasi rossi in contrasto con tutto quell'azzurro.

Solo una cosa disturbò la vista del ragazzino. Il vestito non era attillato, le dava la possibilità di muoversi, di camminare, la gonna era ampia, ma all'altezza dell'addome scorse una sospettosa forma.

Poteva essere?

Ah, ma lui cosa ne poteva capire.

Il fotografo cominciò a dare educati ordini ai presenti perché si mettessero in posa e cominciò a scattare le foto di famiglia, e Sephiroth dimenticò persino di aver formulato quel pensiero.

 

 

Loz scattò come un centometrista quando il giudice di pace gli chiese di portare gli anelli. Era il paggetto, incaricato di custodire e conservare il prezioso cuscino su cui erano legate le fedi nuziali.

I pochi presenti – Aaliyah, Lewis, Megan, Genesis, qualche collega del lavoro di Hojo, le due commesse che lavoravano al negozio di Jenova – sorrisero per la tenerezza.

Indubbiamente Loz suscitava un senso di protezione quasi istantaneo, ed era virtualmente impossibile non amarlo.

Il giudice di pace lo ringraziò e slegò gli anelli e lui, tutto fiero, tornò al posto accanto al fratello stringendo ancora il cuscino tra le manine.

Lui e Sephiroth avevano fatto prove su prove per come avrebbe dovuto camminare, per come avrebbe dovuto porgere il cuscino, per come sarebbe dovuto tornare al suo posto, e alla fine il piccolo si era affezionato tanto al cuscino che il fratello aveva dovuto promettergli che avrebbe potuto tenerlo dopo la cerimonia. Infatti adesso se lo stringeva al petto come fosse un tesoro.

- Vi dichiaro marito e moglie. - disse il giudice di pace, con un sorriso. Gli occhi di Jenova erano lucidi ma felici, e così anche quelli di Hojo. Avevano avuto tanti brutti momenti, forse ne sarebbero venuti anche di peggiori, ma in quel momento erano l'uno per l'altra tutto ciò che potessero desiderare. - Puoi baciare la sposa. -

Hojo guardò la moglie – che parola strana, lo faceva formicolare tutto – e si avvicinò per baciarla.

Fu un tenero eppure intenso bacio.

Gli invitati batterono le mani, Genesis azzardò persino un fischio, alla fine avevano tutti le labbra tirate su in un sorriso così ampio da fargli dolere le guance.

Loz corse verso la mamma e quasi si appese alla sua gonna, tirandola per farsi prendere in braccio. Lei non glielo negò, lo prese e se lo strinse al petto; da qualche parte, lontano ma non fuori tiro, il fotografo scattò una foto.

- Mamma anch'io voglio darti un bacio! - le disse il bambino, con la manina paffuta che le carezzava il viso. Aveva negli occhi la meraviglia, lo stupore, la felicità. Jenova avrebbe voluto poterlo preservare così per sempre.

- Ma certo tesoro, tutti quelli che vuoi. -

Il bambino prima le gettò le braccia al collo per abbracciarla più forte che poteva, poi le stampò un bacio sulla guancia che la fece ridere: quando Loz baciava, lo faceva sempre come se fosse l'ultima volta, e doveva essere il bacio più grande, più intenso...e più bavoso possibile. Ma lei lo trovava comunque adorabile.

- Che ne dite di spostarci al ristorante adesso? - propose Hojo, prendendo a braccetto la moglie, mentre Loz scivolava giù dalle braccia di lei per cercare, probabilmente, di ottenere qualche coccola anche dal fratellone.

La cerimonia si era tenuta nel giardino di un locale elegante, sotto il gazebo tanto voluto da Jenova, su un prato all'inglese su cui erano state sistemate delle sedie bianche con un lungo tappeto blu al centro.

Anche se gli invitati non erano molti, erano comunque tutte le persone che i due giovani volevano al loro fianco, ed erano ben felici che alla fine fosse stata una cosa intima.

Jenova e Hojo avevano discusso a fondo su un punto cruciale: avrebbero o no dovuto invitare i genitori di lei?

Lui aveva ribadito quello che molto tempo prima le aveva detto, quando Sephiroth era solo un neonato, ma lei non ne sembrava felice.

Aveva ancora paura del loro giudizio, aveva ancora paura di quello che avrebbero potuto dire o fare. Sephiroth poteva difendere se stesso adesso, e all'occorrenza si sarebbe gettato a difendere la madre, ma Loz era ancora inerme, e Jenova non voleva assolutamente che i suoi genitori si accanissero su di lui per colpire lei. Certo, quello era il peggiore degli scenari, ma non faceva che pensarci. Immaginava il volto della madre, incagnato e duro, commentare con acidità il fatto che non solo aveva perso la verginità prima del matrimonio ed era rimasta incinta, ma che aveva continuato a peccare mettendo al mondo un altro figlio bastardo.

L'ultima cosa che voleva era sopportare un dramma del genere durante il suo giorno felice.

Alla fine, dunque, aveva deciso di non invitarli, anche se non li vedeva da quindici lunghi anni.

In ogni caso, non voleva pensarci, non adesso che incedeva sorridente con il suo sposo verso il locale e veniva accolta da petali di rose bianche e blu, dall'applauso dei camerieri, e dalla marcia nuziale sintetica suonata da un ragazzo alla tastiera.

Era tutto semplice ma meraviglioso. La sala era stata decorata in tema con il suo vestito, con bianco e blu; sull'unica lunga tavolata allestita da una parte erano stati messi vasi con fiori degli stessi colori, e persino la mise en place era abbinata.

- Tua madre è proprio bella. - Sephiroth si volse verso l'amico, non l'aveva neanche sentito arrivare.

Aveva una cravatta blu, che ben si amalgamava al tema del matrimonio, ma anche ai suoi occhi. Il ragazzo lo trovò carino, soprattutto con quei, finalmente ordinati, capelli rossi

- Sì, ma non guardarla troppo. - commentò di rimando, punzecchiandolo.

Intanto gli invitati si mettevano a sedere, Hojo sollevò Loz sulla sua “sedia speciale” tra Jenova e il posto di Sephiroth.

- Non intendevo bella in quel senso, solo...bella. - bofonchiò Genesis con una smorfietta, le braccia incrociate.

Megan non era ancora entrata, era rimasta fuori a fumare un'ultima sigaretta prima del pranzo; Aaliyah e Lewis avevano già preso posto. I due ragazzi, invece, indugiavano ancora un po'.

Era bello vedere la famiglia da fuori, come se non ne facessero veramente parte.

Genesis era entrato così profondamente a far parte dell'inusuale vita di Sephiroth che non avrebbe saputo immaginarsi senza di lui. Era come un'estensione del suo braccio.

Quel matrimonio aveva commosso il rosso come se fosse stata sua madre a sposarsi, e riusciva quasi a tollerare persino la presenza di Loz – forse perché era così adorabile che nemmeno la sua gelosia poteva respingerlo –.

- Hai già pensato a cosa fare quest'estate? - chiese il rosso. Avevano tempo per chiacchierare in privato solo finché Megan non avesse finito la sua sigaretta, anche se gli altri quasi non si accorsero della loro assenza.

- Vorrei insegnare a nuotare a Loz, lui dice di saperlo fare, ma con i braccioli non vale. - commentò sorridendo Sephiroth. Sì, i suoi lunghi, spensierati pomeriggi estivi, in compagnia di quel fratellino cicciottello che ce la metteva davvero tutta in qualsiasi cosa, come se dovesse continuamente rivaleggiare con se stesso. La sua testardaggine non avrebbe avuto limiti se non fosse stato così ingenuo. Con il tempo, forse, sarebbe uscito qualcosa di buono da quella sua testa dura.

- Come l'estate scorsa, praticamente. - fu la risposta appena appena irritata di Genesis. La sua espressione, però, passò da arrabbiata a intenerita quando vide il piccolo Loz afferrare un panino, per poi vederselo togliere dalla mamma. Che faccino triste e deluso fece!

- Ovviamente nei miei progetti ci sei anche tu. - Sephiroth spostò lo sguardo verde su di lui, e il rosso sentì un calore confortante riempirgli il petto.

- Senti...ci sarebbe una cosa che potremmo fare. - tentò Genesis, cosa che fece capire all'albino che aveva progettato di fargli quel discorso per chissà quanto tempo. - È una specie di campeggio militare estivo, non una roba da faticare e soffrire, però potrebbe essere una cosa bella da fare insieme. Certo, se hai ancora quell'idea di arruolarti... -

- Certo che ho ancora quell'idea. -

- Ma non vuoi lasciare tuo fratello, ho capito. - fece il rosso, gli occhi già gettati verso l'alto.

Sephiroth si fece serio, e il cambiamento nell'aria fu tangibile, tanto che Genesis si pentì di aver usato quel tono.

- Loz ha bisogno di me, è ancora un bambino. Non voglio sparire per tutta l'estate e lasciarlo da solo. Sei importante per me, Gen, ma non costringermi a scegliere tra te e la mia famiglia. -

Per un attimo ci fu del gelo tra loro, e Genesis sentì che lui gli era distante mille chilometri. Forse la loro amicizia sarebbe finita con il finire della scuola, o dopo il liceo, quando avrebbero dovuto scegliere il college, o se davvero Sephiroth si fosse arruolato.

Poi lui gli poggiò una mano sulla spalla, e si sentì tremare come se l'avesse colpito.

- Ne parliamo meglio in un altro momento, okay? -

Quindi tutto sommato non era un “no” categorico. Genesis annuì.

Megan rientrò in quel momento e riprese i ragazzi perché non si erano ancora seduti, che poi fecero a gara a chi arrivava prima al proprio posto.

Alti, slanciati, vestiti eleganti, ma pur sempre dei quattordicenni.

 

 

A metà del pranzo Jenova si scusò dolcemente e si alzò. Era pallida in volto e non aveva toccato quasi nessun piatto che contenesse del pesce. Quando le avevano servito il cocktail di gamberi era sbiancata a tal punto da sembrare lì lì per vomitare.

Il suo congedarsi per andare in bagno non sembrò suscitare preoccupazione nei presenti, che continuarono a chiacchierare e mangiare.

Sephiroth era impegnato con Loz. Il bambino non era a dieta, ma la pediatra pretendeva che perdesse un po' di peso, e andava controllato. Anche perché, altrimenti, mangiava a quattro mani qualsiasi cosa avesse davanti.

Era ingenuamente goloso, senza sapere a cosa avrebbe portato tutta quella fame.

Il ragazzino lo aiutò a bere dal bicchiere, reggendolo per lui dal momento che era troppo grande per le sue manine, quando si rese conto che la mamma mancava da almeno un quarto d'ora.

Strano, si stava letteralmente perdendo il pranzo del suo matrimonio.

Sephiroth si chiese se per caso non si fosse sentita male o solo se dovesse...fare un bisogno grosso.

Attese ancora dieci minuti, in cui persino Loz soffrì la sua assenza con un lamento stanco.

- Vado a controllare se sta bene. - mormorò Hojo al figlio, che poi scosse la testa.

- No, tu resta, è già abbastanza che uno dei due sposi manchi, ci penso io. -

Il padre annuì e lui si alzò, sotto lo sguardo interrogativo di Genesis. Gli fece cenno che gli avrebbe spiegato dopo e andò verso i bagni.

Per un momento si chiese come avrebbe fatto a chiamare la madre, chiusa nel bagno delle donne, e un sottile imbarazzo si fece largo nel suo petto.

Poi lo sentì. Il verso di qualcuno che vomita e tossisce.

Lo stomaco si chiuse in una morsa, mille pensieri gli passarono per la mente, e non esitò due volte ad entrare nel bagno.

- Mamma? - chiamò ad alta voce.

Non c'era nessun altro, per fortuna, e l'orlo del vestito di Jenova, così come le sue scarpe, si intravedevano da sotto la porta.

- Mamma, ti senti bene? -

Un conato di vomito gli disse che no, non si sentiva bene.

Lei tossì, Sephiroth sentì che srotolava la carta igienica, probabilmente per asciugarsi la bocca, poi la vide spostarsi e accostare la porta.

Aveva gli occhi pieni di lacrime per lo sforzo, e il viso pallido come un cencio.

- Tutto bene tesoro, dammi un minuto e arrivo. -

- Mamma... - “non prendermi in giro” avrebbe voluto aggiungere, ma di certo era scritto sul suo bel viso, perché la donna sospirò profondamente.

- Sephiroth...tu sai mantenere un segreto, vero? -

Lui aggrottò le sopracciglia, ora preoccupato. Vedeva solo il viso della madre, il resto del corpo era nascosto dalla porta del bagno, e lei non sembrava volersi far vedere più di così.

- Sì...certo...ma che succede? -

Lei abbassò lo sguardo, colpevole, e per un attimo non disse nulla. Forse cercava le parole giuste, il modo giusto. Alla fine prese il coraggio a due mani e aprì del tutto la porta.

Il ragazzino non ne capì il motivo, non vedeva alcuna differenza nel suo aspetto rispetto a prima.

- Non l'ho ancora detto a papà, non ho trovato il momento giusto per dirglielo, e stavamo preparando il matrimonio, non volevo...rovinare questo giorno. -

Lo stava spaventando, ma di nuovo non disse nulla, anche se la madre ben sapeva leggere negli occhi del figlio.

Si portò una mano sul ventre e allora Sephiroth pensò nuovamente che era più tondo di quando, qualche mese prima, aveva provato il vestito per la prima volta.

- Potrei...potrei essere un po' incinta. -

Il ragazzino accolse quella notizia come un'improvvisa doccia gelata, sentì lo stomaco ruzzolare e il cuore aumentare i battiti.

Era un ricordo piacevole il momento in cui lei gli aveva detto di Loz, lo portava dentro e lo assaporava dolcemente, soprattutto adesso che aveva riscoperto l'amore per il suo fratellino.

Ma ora fu diverso. Era più consapevole, sapeva meglio cosa comportava crescere un bambino, capiva il valore dei soldi spesi e guadagnati, e gli sembrò improvvisamente la cosa più sbagliata che potesse succedere.

- Da quanto tempo? -

Lei fece i conti sulle dita di una mano, come a voler essere sicura, e poi guardò in figlio, quasi desolata.

- Sono vicina al sesto mese. -

Sephiroth allora capì, tanti piccoli tasselli andarono al loro posto. La mamma aveva smesso di mangiare alcune cose in particolare, carne cruda, uova, pesce, non beveva più neanche il vino con papà la sera, anche se prima se lo consentiva di tanto in tanto. Erano cose che non avevano un gran valore, d'altronde era libera di mangiare e bere quello che voleva. Ma adesso...adesso...

Guardò il ventre, tremò al pensiero che ci fosse un bambino al suo interno, un bambino già così grande da essere quasi pronto a venire al mondo. Non mancava poi così molto.

- Devi dirlo a papà, abbiamo...poco tempo per prepararci. -

- Lo so, lo so. - annuì lei, cercando di mantenere un contegno. In quella situazione sembrava una ragazzina. Forse non avrebbe mai perso quell'aspetto, perché non aveva mai avuto la possibilità di crescere normalmente. - Lo farò dopo oggi, promesso. Ma tu non dire niente a nessuno per il momento. -

- Ma certo mamma. -

Lei gli sorrise, e lui sentì il bisogno di abbracciarla.

Piano però, perché aveva paura di fare male al bambino. Chissà se Loz sarebbe stato felice di avere un fratellino. 

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The Corner 

Ciao a tutti e ben trovati! Questo capitolo è un po' più cortino degli altri, ma non significa che abbia perso la voglia di scrivere (?) 
Anche se devo ammettere, ieri ho avuto una piccola crisi creativa, avrei voluto gettare tutto all'aria, e la mia povera Musa ha subito la mia sfuriata. E' frustrante non avere nessun riscontro come scrittrice, però mi diverto a scrivere, e non credo smetterò. Contenta? Spero di sì.

Chii

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Capitolo 6
*** Hell ***


Part Three: Frozen Mirror

 

- 1 -

Hell

 

 

Il neonato piangeva. Sephiroth poteva sentirlo attraverso la parete della sua stanza, sottile, di cartongesso, come tutte le pareti di quella casa.

Si rigirò nel letto, sotto le calde coperte.

Il pianto era stridulo, continuo, intenso.

Non aveva mai sentito piangere così forte e per così tanto tempo. Prima o poi avrebbe finito l'aria o avrebbe perso la voce, o almeno era quello che sperava.

Sentì sua madre che si alzava trascinando i piedi per prendere in braccio il bambino. Sentì il suo canticchiare sommesso e disperato nel tentativo di calmarlo, ma il pianto continuò.

Avvertì, deboli, le parole “Che cosa c'è, Yazoo?”, sussurrate dalla madre, prima di, probabilmente, attaccarlo al seno per vedere se il suo era un pianto di fame. Non lo era, e riprese a piangere.

Sephiroth ricordava i primi mesi di Loz. Molto spesso il fratellino giaceva addormentato nella culla, e nonostante lo punzecchiasse con un dito lui non si svegliava. Non avevano dovuto usare neanche il ciuccio con lui, dal momento che non aveva mai avuto bisogno di quel genere di conforto per smettere di piangere.

Loz, dal primo istante, aveva sorriso a tutti. Alla mamma, a Sephiroth, a papà: solo grandi sorrisi. Era un bambino così buono da sembrare quasi finto.

Sephiroth era convinto che se l'avesse messo in una culla per le bambole e l'avesse lasciato lì non si sarebbe mosso né avrebbe cambiato posizione per tutto il giorno.

Yazoo era completamente diverso.

Piccolo e chiaro, una carnagione di porcellana, labbra disegnate da un pittore esperto, un corpicino come la miniatura di un putto di marmo: era bello, nessuno avrebbe potuto dire il contrario, ma era terribile, un piccolo demone.

Dormiva poco, e quando era sveglio piangeva. Piangeva così tanto da congestionare il meraviglioso visetto, da stringere le manine fino a farle sbiancare, con la bocca spalancata a urlare il suo scontento per qualcosa che sapeva solo lui.

Era passato poco più di un mese da quando era nato, ed era poco più di un mese che nessuno in quella casa riusciva a chiudere occhio.

Quand'era venuto al mondo Yazoo sembrava il più perfetto dei neonati, messo lì, nella sua culletta nella nursey, i parenti venuti per vedere i nuovi nascituri si soffermavano più del dovuto su di lui, alcuni cercavano addirittura Jenova per farle i complimenti: la sua bellezza era passata al piccolino come una preziosa eredità.

Lei ne era stata felice, segretamente, perché non poteva certo apparire orgogliosa della bellezza di Yazoo davanti a Sephiroth, o peggio, davanti a Loz.

A non essere felice era Hojo. La nuova gravidanza aveva messo la parole fine alla sua pazienza e alla sua comprensione, e dopo tutto, almeno era quello che Sephiroth pensava, Jenova gliel'aveva tenuta nascosta finché il buon senso non le aveva detto di fare diversamente. Per di più, il bambino era insopportabile. Hojo si era chiamato fuori sin dal primo momento.

A prendersi cura di Yazoo erano per lo più Jenova e Sephiroth, che stava crescendo troppo in fretta e neanche se ne rendeva conto.

Dato che il neonato continuava a piangere disperatamente, il ragazzo si alzò dal letto con uno sbuffo, e investito dal freddo fuori dalle coperte uscì in corridoio per bussare alla porta accanto.

Per un attimo non ci fu risposta, se non il pianto continuo del fratellino, poi Jenova andò ad aprirgli.

Sephiroth aveva visto spesso sua madre stanca, ma non così, non distrutta. Dal parto era dimagrita moltissimo, e la privazione di sonno rendeva il suo viso niveo contratto, teso, più vecchio di quanto fosse in realtà, le occhiaie violacee sotto i bellissimi occhi descrivevano un quadro ben più disperato di quanto lei fosse disposta ad ammettere.

- Oh tesoro, scusami, ti ha svegliato? -

Il ragazzo quasi stentò a sentirla sopra il pianto del minuscolo esserino che teneva tra le braccia, cullandolo infinitamente senza risultati. Come poteva una cosa così piccola fare così tanto rumore?

Yazoo, persino nel pianto, per quanto rosso e stravolto, era comunque bellissimo, ma sembrava sul punto di esplodere e Sephiroth si chiese se non fosse il caso di portarlo in ospedale o qualcosa del genere.

- Lo tengo io ma', tu vai a riposare. -

Gli occhi di lei si illuminarono, ma poi scosse la testa. Era incredibile come riuscisse a fare tutto senza smettere di cullare il neonato, così come era incredibile che lui continuasse a piangere. - Hai scuola domani, non voglio che stai su tutta la notte a badare a tuo fratello, non preoccuparti. -

Sephiroth aveva un modo tutto speciale di capire sua madre, aveva una via preferenziale per i suoi pensieri come se ce li avesse in testa. Coglieva i suoi sguardi, i piccoli movimenti delle labbra o delle spalle, persino delle sopracciglia, il suo corpo gli parlava così come faceva il suo cuore. Sapeva quando mentiva, sapeva quando era preoccupata, sapeva quando era stanca, sapeva quando era sull'orlo della disperazione. E adesso ci era orribilmente vicina.

- Dammi quel piccolo mostro, te lo addormento in un attimo. -

Entrambi sapevano che la cosa non era possibile, ma Jenova sorrise grata al figlio. Era così orgogliosa di lui, non avrebbe potuto desiderare di meglio.

Un po' reticente – perché ancora si chiedeva se delegare il figlio quattordicenne di badare ad un neonato facesse di lei una pessima madre – gli porse il fagottino urlante, e Sephiroth se lo strinse al petto con delicatezza. Aveva imparato a tenere i neonati con Loz, e non l'aveva più dimenticato. Non sono cose che smetti di saper fare solo perché la prima volta che l'hai fatto avevi appena dieci anni.

- Dai, dormi un po'. - le disse, prendendo anche lui a cullare automaticamente il bambino.

Jenova annuì, ma esitò ancora sulla soglia. - Puoi provare a fargli un po' di latte in polvere. Magari con qualcosa di caldo si addormenta. Sei in grado? Vuoi che ti aiuti? -

- No, non ce n'è bisogno, so come si fa. Su, a letto. -

Quasi sembrava lui l'adulto tra loro. In quel momento a Jenova apparve una chiara immagine davanti agli occhi: Sephiroth sarebbe diventato un grande uomo, e poi un grande padre. Sentì il cuore stringersi in una morsa di orgoglio e dolore insieme poi gli annuì e, chiusa la porta, se ne tornò a letto.

Il ragazzo andò in salotto, nella speranza di tenere il mostriciattolo urlante lontano dalle stanze da letto. L'ultima cosa che voleva era che si svegliasse anche Loz.

Cullò il piccolo tra le braccia con paziente dolcezza, aspettando che finisse le lacrime o si stancasse di piangere.

Alla fine le urla si calmarono, anche se continuava ad emettere bassi mugolii come quelli di un cucciolo bastonato.

- Ma cos'hai da piangere tanto, eh? - gli chiese sottovoce, guardandolo negli occhi.

Anche Yazoo, come lui e Loz, avrebbe avuto grandi e bellissimi occhi verdi, un tratto genetico che a quanto pare era inevitabile ereditassero da Hojo, anche se adesso sembravano quasi grigi annacquati dalle lacrime di disperazione che aveva versato nell'ultima ora.

Il piccolo lo guardò, risentito, le sopracciglia chiare, più bianche che mai, contratte sul visino tanto da farlo apparire rugoso, e quelle piccole labbra rosse piegate all'ingiù in una tristezza che di certo non poteva capire ma solo esprimere.

- Non guardarmi con quella faccia. Sei appena nato, che motivo hai di disperarti così? - Yazoo gli rispose – ammesso che di risposta potesse trattarsi – con un tremolante mugolio come di un gattino, premessa di un'altra crisi di pianto. Sephiroth prese a cullarlo di nuovo, non si era accorto di aver smesso.

- Vuoi un po' di latte caldo? La mamma mi ha dato il permesso. A volte aiuta a dormire. Sai, dovresti provarci. A dormire intendo. -

Il ragazzo sorrise tra sé e sé. Stava parlando con un neonato che a malapena aveva consapevolezza del proprio corpo, figurarsi di chi gli stava intorno. Però parlargli gli dava un senso di benessere, come se avesse qualcosa di irrisolto dentro a cui non aveva ancora dato voce.

D'altronde, Yazoo poteva essere il perfetto ascoltatore: non poteva ancora giudicarlo, o anche solo capirlo.

Andò in cucina e mise sul fuoco un pentolino con un po' d'acqua e due cucchiaini di latte in polvere. Anche se Jenova lo allattava ancora al seno, alle volte lo consolava quello in polvere. Che fosse intollerante al suo latte? Sephiroth si appuntò mentalmente di dirlo alla madre.

Mentre il latte cominciava a scaldarsi sul fuoco, continuò a cullare il bambino con un braccio, mentre con la mano libera scioglieva la polvere fino a farla diventare un liquido omogeneo.

Fu una prova di bravura il versare nel biberon il latte con una mano sola, avvitare la tettarella e versarsene un po' sul polso per capire se fosse della giusta temperatura – questo l'aveva imparato dai film –.

Yazoo finalmente tacque, perché era troppo impegnato a ciucciare con foga il latte dal biberon. Allora tutto sommato aveva fame.

Con un gran sospiro Sephiroth andò a sedersi sul divano. Era uno dei momenti più silenziosi che avesse vissuto dalla nascita del fratellino.

Non sapeva ancora come sentirsi a riguardo, non aveva avuto tempo di affezionarsi a lui, e quel primo, disastroso mese l'aveva infastidito a tal punto da desiderare che non fosse mai nato. Con Loz era stato diverso, aveva visto la pancia della mamma crescere, aveva sentito i suoi calcetti contro la mano, aveva comprato con lei le cose che servivano per arredare la sua stanzetta – anche se molte cose erano semplicemente passate da lui al piccolo –.

Eppure, più lo guardava più capiva di amarlo. Era qualcosa di istintivo, una sorta di spinta interiore che lo portava a prendersi cura di lui, ad accarezzargli il visetto con la punta delle dita, a coprirlo bene se sentiva uno spiffero gelido. Poteva bastare per dire di amarlo? Forse no, anche se così si sentiva.

Quando finì di bere tutto il latte, Yazoo emise un sospiro soddisfatto, e sembrò accucciarsi tutto contro il petto del fratello, gli occhietti semichiusi. Forse finalmente si sarebbe addormentato.

Sephiroth lo sollevò per battergli la schiena con piccoli colpi, finché non fece il ruttino, dopo di che tornò a cullarlo tra le braccia. Sembrava voler minacciare il mondo con quelle minuscole manine chiuse a pugno.

Chissà quante sfide avrebbe dovuto affrontare quel piccoletto, sfide che probabilmente non esistevano ancora. Quanto meno, era pronto a combattere.

Lentamente, con le silenziose preghiere di Sephiroth, il neonato si addormentò, senza smettere di tenere i pugnetti stretti, anche se la sua espressione si distese, e apparve per il bellissimo angelo che fingeva di essere. Con un visetto così, era facile farsi imbrogliare.

Il ragazzo sapeva bene di non potersi alzare da lì, e neanche muoversi, perché altrimenti quello stralcio di paradiso sarebbe finito così com'era iniziato.

Cercò di accomodarsi meglio che poté, con la testa poggiata sulla spalliera del divano, e accese la tv.

Erano quasi le quattro del mattino, rimanevano giusto un paio d'ore prima dell'inizio della giornata, ormai poteva evitare di addormentarsi, tanto non sarebbe stato riposante comunque.

Fece un po' di zapping, avanti e indietro per gli stessi canali, che a quell'ora trasmettevano solo puntate stravecchie di sitcom e serie tv ormai morte da anni, finché la presa sul telecomando non si fece più vaga, e la testa cominciò a ciondolargli su un lato.

Si addormentò senza neanche rendersene conto.

 

 

L'odore del caffè e del bacon lo svegliò come un richiamo. Batté piano le palpebre e cercò di ricordare cos'era successo solo qualche ora prima. La prima cosa che notò fu che il peso – per quanto esiguo – del fratellino era sparito, la seconda fu che il collo gli faceva male da impazzire per la posizione in cui si era addormentato. Aveva una coperta addosso, che non c'era quando si era assopito.

Si alzò, cercando di sgranchirsi il collo dolorante, e andò in cucina.

Jenova era ai fornelli, pimpante come non la si vedeva da giorni. Stava impiattando una porzione di uova e bacon che poi mise a tavola. In quel momento si accorse del figlio e gli rivolse un sorriso tanto grande da mostrare tutti i denti.

- Buongiorno tesoro. - lo accolse, poi con il cucchiaio di legno gli indicò il piatto, il bicchiere con il succo d'arancia, e la mela sbucciata. - Spero tu abbia fame. -

Si sedette al suo posto ma non cominciò a mangiare. Aspettò che arrivasse Hojo, vestito in giacca e cravatta come ogni giorno, e Loz, spettinato e caracollante nel pigiama ereditato da lui.

Era molto che non facevano colazione insieme, perché Hojo era sempre di fretta, e Jenova troppo di cattivo umore per preparare qualcosa. Per lo più era Sephiroth a far mangiare Loz, mentre lui sbocconcellava un frutto, per poi trascinarlo ancora sonnolento fino alla fermata del bus.

Fu piacevole – per quanto il padre apparisse assente, con il volto immerso nella tazza di caffè – perché c'era silenzio.

Se lo godettero senza dire una parola. A giudicare da come la testa di Loz ciondolava sulla ciotola di cereali, doveva aver dormito male anche lui a causa del pianto disperato del fratellino. Nessuno di loro aveva passato una bella notte, ed erano grati di quel momento di sollievo.

Finito il caffè, Hojo si alzò, diede un bacio veloce a Jenova, una carezza sui capelli corti di Loz e uno sguardo a Sephiroth, poi se ne andò, probabilmente era già in ritardo per il lavoro.

Sephiroth guardò l'orologio sulla parete, erano le sette e mezza, poi abbassò lo sguardo sul fratellino. Sembrava essersi addormentato con in mano il cucchiaio.

- Ehi? - lo chiamò, facendolo sobbalzare. Non poté non sorridere della sua espressione, così confusa, neanche si era reso conto di essersi assopito. - Non hai dormito stanotte? -

- No. - rispose il piccolo, strusciandosi un occhietto. - Yazoo piange un sacco. -

- Già. - sospirò Sephiroth, poi guardò la madre, che mangiava piano i cereali, come se in parte si vergognasse e in parte non volesse fare troppo rumore per non svegliare il neonato. - Mamma, credo che Yazoo abbia qualche problema con il tuo latte. Quando gli ho dato quello in polvere si è addormentato quasi subito. Dovresti portarlo dalla pediatra. -

- Sì, ci stavo pensando anch'io. - annuì lei, senza smettere di mangiare, e soprattutto di sorridere. Il ragazzo era così felice di averle regalo quel sorriso, se ne sentiva meravigliosamente responsabile. - Telefonerò oggi, non preoccuparti. -

Loz si era addormentato di nuovo con il cucchiaio in mano, a quel punto Sephiroth non riuscì a trattenere una risata. Lo scosse lievemente e lui saltò su come se fosse scoppiata una bomba. Anche Jenova rise, una risata così dolce. Gli rivolse una carezza, quel viso paffuto era così adorabile.

- Andiamo a vestirci Lozzie, sennò perdiamo il bus. - lo incoraggiò Sephiroth.

Il piccolo annuì con un gran sbadiglio, prese altre due cucchiaiate di cereali e si alzò, con il muso ancora sporco di cioccolata.

Trotterellò su per le scale e il fratello gli andò dietro.

- Seph? - era sul primo gradino quando la madre lo chiamò, lui si volse subito verso di lei. - Grazie.-

- Non è niente, mamma. -

- Sono fiera di te. -

Le rispose solo con un sorriso. Sapere che era fiera di lui gli scaldava il cuore in un modo speciale. Non era come quando glielo dicevano i professori, o altri adulti: quello della mamma era del tutto diverso.

A volte vivere in quella casa era un inferno, ma nonostante tutto gli piaceva.

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The Corner 

Ed eccoci qui, con una nuova nascita, un nuovo piccolo Crescent che si aggunge a questa problematica famigliola. Pare che il piccoletto sia bello tosto, chissà se riusciranno a sopravvivere ai suoi primi anni di vita...e poi alla sua adolescenza.
Grazie alla mia piccola Musa, mi tieni lontano dal baratro babe.

Chii

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Capitolo 7
*** Puppy ***


- 2 -

Puppy

 

 

- Ci sarete stasera? -

Jenova stava ancora sbottonando il cappottino del figlio, in ginocchio per essere alla sua altezza. Alzò la testa e si ritrovò praticamente faccia a faccia con Angie.

La dolcezza irresistibile di Loz le aveva permesso di stringere amicizia con le altre mamme, e anche se si sentiva sempre impacciata nei rapporti umani, cercava in tutti modi di afferrare il labile appiglio sociale che le offrivano momenti come quelli.

Solitamente, il bambino andava a scuola con Sephiroth, prendendo il bus, quella mattina però lui era andato via prima, e Jenova non era riuscita a vestire il piccolo in tempo. Così aveva dovuto accompagnarlo lei.

Beh, non che fosse un problema, anche se aveva dovuto preparare in fretta e furia anche Yazoo, che per fortuna non era scoppiato in uno dei suoi soliti pianti disperati.

Loz scivolò via dalle sue mani una volta sfilata la giacca, per correre in classe, tutto sorrisi e sprizzante di gioia come sempre. Persino Sephiroth, per il primo mese, era stato reticente ad affrontare la scuola da solo, mentre Loz aveva accettato la cosa con estrema naturalezza. Adorava andare a scuola, aveva detto una volta alla mamma, e lei quasi aveva pianto per la tenerezza: le faceva spesso quell'effetto.

- Scusami Angie, puoi ripetermi cosa c'è stasera? Mi sento un po' sconnessa oggi. - rispose, abbozzando un sorriso di scuse, mentre appendeva il cappottino di Loz all'attaccapanni.

Erano tutte mamme giovani quelle che accompagnavano i figlioletti in quella loro prima, importante tappa della vita. Alcune rimanevano a chiacchierare nell'atrio per una mezz'oretta, tanto per assicurarsi che i bambini stessero bene, ed era lì che Jenova aveva conosciuto Angie. Anzi, era giusto dire che lì era stata travolta da Angie. Aveva ovviamente capito che era la mamma di Loz per via dei capelli, e aveva subito lodato quel suo piccolo angelo, con parole cariche d'affetto che lei aveva accolto con malcelato imbarazzo.

Era strano per lei, dopo aver vissuto anni bui con Sephiroth, sentirsi parte di qualcosa, sentirsi accettata.

- Immaginavo che te ne fossi dimenticata. - ridacchiò l'amica, scuotendo la testa. - I tuoi figli di fanno impazzire, vero? -

Come per rispondere al suo posto, Yazoo cominciò a piagnucolare.

Jenova, meccanicamente, prese a cullarlo nel passeggino, spingendolo avanti e indietro in modo amorevole. Nascondeva bene quanta poca pazienza in realtà le fosse rimasta.

- Non hai idea. - sospirò, alzando gli occhi al cielo.

- Quanti anni hai detto che ha il tuo maggiore? -

- A Gennaio ne compie sedici. -

- Wow, ormai è un giovanotto. -

- Eh sì, non mi ha mai dato pensieri, e ora mi sembra ben troppo autonomo. -

- Le prime uscite, le prime signorine, eh. - le diede il gomito con un sorriso ammiccante.

Jenova si sentì morire al pensiero di Sephiroth con una ragazza, in qualsiasi senso la si potesse intendere. Non era pronta a pensare al suo bambino come un adulto attivo sessualmente. Per non parlare del terrore cieco che aveva di vederlo portare a casa una ragazza incinta, com'era stato per lei e Hojo. Non si pentiva delle sue scelte, ma non augurava al figlio lo stesso destino.

- Non...non ancora. - riuscì a biascicare, cercando di nascondere almeno a se stessa il fatto di essere sbiancata. - Però sì, comincia a uscire e far tardi la sera. Mi fido di lui, mi scrive sempre e mi tiene aggiornata quasi ogni ora senza che io gli dica niente, però... -

- Però ti impensierisce, è normale. -

- Già. - abbozzò un sorriso.

Yazoo prese a piangere più forte, e lei cercò di convincerlo a smettere infilandogli in bocca il ciuccio.

Ipoallargenico, perché il silicone e la gomma gli causavano leggere reazioni allergiche, e non potevano permettere che andasse in shock anafilattico.

Il piccolo accolse la tettarella tra le piccole labbra e prese a ciucciare. Per un po' sarebbe stato buono.

- La festa di Halloween. Ricordi? - riprese Angie, senza scollare gli occhi di dosso dal piccolo batuffolo di due anni nel passeggino. Terribile, ma bellissimo, glielo dicevano spesso.

Lei aveva un solo figlio, per certi versi non poteva capire come ci si sentisse.

- Ah, ma certo! - esclamò Jenova, quasi dandosi un colpo in fronte. Che stupida. Loz non stava più nella pelle per quella festa. - Sì, sì, ci saremo assolutamente, Loz non vede l'ora. -

- Porta anche Yazoo. Non ci saranno molti bambini della sua età, però l'invito è aperto ai fratelli. - poi emise un versetto divertito. - Beh, i fratelli sotto i dieci anni. -

- Oh se lo proponessi a Sephiroth mi manderebbe a quel paese di certo! -

Risero insieme, ma no, non era davvero convinta che il ragazzo avrebbe rifiutato l'invito, anzi. Amava i suoi fratelli abbastanza da sopportare eventi come quelli tutti i giorni, era più un padre lui di quanto non lo fosse Hojo.

Ah, Hojo. Pensarlo le provocava come una stilettata ghiacciata dritta al cuore.

Non sarebbe stata la prima festa a cui lei andava da sola, come fosse una madre single. Ormai lui non sembrava far più parte della sua vita, né di quella dei suoi figli.

- Allora a stasera! Da cosa si vestirà Loz? -

- Vuoi che ti dica tutta la verità? Non lo so ancora. - mezza imbarazzata, mezza sconfitta.

Angie fu delicata abbastanza da non proporre a Jenova di mettergli uno dei vecchi costumi del fratello maggiore. Loz era obbiettivamente troppo...in carne per entrarci, e per quanto non fosse per lui un problema, lo diventava per lei.

- Non ha qualche preferenza? Magari un supereroe? -

- L'unico eroe per lui è suo fratello, e non credo che vendano costumi di Halloween così. -

Risero ancora, poi Angie le ribadì l'orario e il luogo della festa – che lei disse di ricordare, ma era un'ovvia bugia – e la salutò con una mano andandosene.

Jenova rimase immobile qualche istante fissando Yazoo, le mani sul passeggino. Il colore degli occhi del piccolo si era stabilizzato sul verde, il verde più cristallino che avesse mai visto. Certe volte aveva l'impressione che capisse tutto quello che gli si diceva, ma che semplicemente scegliesse di ignorarlo per essere servito e riverito.

- Dobbiamo andare a fare compere, sai. Tu lo vuoi un bel costumino per la festa? - il piccolo non rispose, sebbene lei sapesse che ne era perfettamente in grado.

Si chiese se fosse troppo crudele vestirlo da diavoletto. Concluse che sarebbe stato il vestito adatto a lui, ma sarebbe stata una brava madre e non l'avrebbe messo in ridicolo.

 

 

- Maaaamma! - Loz zampettò giù dalle scale, reggendosi forte dalla balaustra – da quando si era rotto il braccio aveva sviluppato una certa paura, e stava minuziosamente attento quando saliva o scendeva –.

Trovò la madre in bagno, intenta a infilare i panni nell'asciugatrice.

- È tardi mamma, mi devo vestire! -

- Di già? Ma che ore sono? - spostò lo sguardo sul quadrante dell'orologio da polso che, da madre, aveva imparato a indossare sempre, e quasi sobbalzò. - Oddio, hai ragione, è tardissimo. Ti fai aiutare da tuo fratello? Devo finire qui. -

- D'accooooordo! -

Saltellando, ma sempre tenendo la mano sulla balaustra, Loz tornò al piano di sopra.

Sephiroth stava facendo matematica. Loz capiva sempre quando si trattava di matematica, perché il volto del fratellone cambiava espressione, diventava tutto come compresso, e si formavano rughe sulla sua fronte. Lo trovava estremamente divertente, soprattutto perché rimaneva in quello stato catatonico anche quando qualcuno entrava nella sua stanza. Gli si poteva benissimo rubare qualsiasi cosa da sotto il naso in quei momenti.

Gli si avvicinò di soppiatto per tendergli un agguato, con il cuoricino che batteva a mille e un sorriso sulle labbra da un orecchio all'altro.

Si accucciò per un attimo sulle gambe, come un gatto pronto a saltare, e poi scattò in avanti urlando “Buh!”.

Sephiroth sobbalzò sulla sedia come se fosse appena scoppiata una bomba, e il bambino si mise a ridere tanto forte da doversi reggere la pancia.

Per un attimo il fratello maggiore lo guardò arrabbiato, ma poi si sciolse e scosse la testa, passandosi una mano tra i capelli.

Era impossibile resistergli più di un paio di secondi.

Con un sospiro si sedette sulla sponda del letto e il piccolino quasi gli saltò addosso, strizzandolo in un abbraccio.

- Mamma è un po' in ritardo, mi aiuti a vestirmi per la festa? - gli chiese Loz, con gli occhi così grandi da farlo sembrare un giocattolo più che un bambino.

Sephiroth gli fece un sorriso e gli diede un bacio sulla fronte.

- D'accordo, ma niente più spaventi mentre studio. Mi stava per venire un infarto. -

- Ma oggi è Halloween! Devi essere pronto agli spaventi! - si lamentò il bambino, saltellando sui piedi come se questo potesse sottolineare il concetto.

- Dimmi un po', sei un fantasma? - chiese, serio, e Loz scosse la testolina. - Sei un mostro? - di nuovo, scosse la testa. - Sei il fratellino più buono del mondo? - con un mezzo sorriso, che Loz ricambiò con tanto di risatina. - Ecco, non mi aspetto uno spavento da te, ma forse dopo esserti truccato e vestito le cose saranno diverse. -

- Farò paura? - se Loz avesse avuto una coda avrebbe scodinzolato come un pazzo.

- Sarai la creatura più spaventosa che si sia mai vista. -

- Evviva! -

- Forza, andiamo. -

Sephiroth gli tese la mano e Loz subito la prese.

Non riusciva a trattenere l'entusiasmo, era iperattivo, sembrava completamente fuori di sé.

Il fratello lo portò in bagno e lo piazzò sul water con la tavoletta abbassata.

- Che vestito ti ha preso la mamma? -

- Zombie! -

Sephiroth inarcò un sopracciglio, ma non smise di sorridere.

- E tu sai cos'è uno zombie? -

Loz annuì fortissimo. - È un mostro cattivissimo che mangia il cervello delle persone. -

- Bravo. Fammi una faccia da zombie spaventoso. -

- Arrrrr! - fece il piccolo, e per quanto quel verso somigliasse più a quello di un cucciolo che di uno zombie, Sephiroth non poté fare a meno di fingersi terrorizzato, solo per rendere felice il suo fratellino.

 

 

Jenova dovette tenere Loz saldamente stretto sé per evitare che cominciasse a correre dappertutto, eccitato com'era.

Il vestito da zombie che gli aveva preso non era altro che un cumulo di vestiti stracciati e sporchi di terra e finto sangue marrone simile a ruggine; Sephiroth gli aveva truccato il viso con acquacolor verde marcio, gli occhi con il nero, e si era sbizzarrito nel creargli un taglio sulla guancia e svariate cicatrici sulle braccine: Loz era impazzito di gioia quando si era guardato allo specchio.

La strada era piena di bambini che saettavano da una porta all'altra urlando “Dolcetto o scherzetto?” con le zucche di plastica che già straripavano di caramelle e le faccia impiastricciate di trucco più o meno slavato: su un bambino, nessun lavoro di make up durava abbastanza.

Le mamme li seguivano da dietro, monitorando ogni porta a cui i loro figli chiedevano dolcetti, e poi ringraziando quando filavano via.

Loz aveva pregato il fratellone di venire con lui a racimolare dolcetti, ma era impegnato altrove, ad una festa da grandi, una di quelle in cui di solito i sedicenni bevono per la prima volta. Jenova gli aveva dato il permesso per non sembrare una madre ossessivamente preoccupata, ma non si era sentita molto tranquilla vedendolo andare via in macchina con Genesis, neo patentato. Insieme, però, vestiti da Capitan America e Bucky, erano davvero adorabili.

Jenova scosse la testa, cercando di allontanare il pensiero del figlio maggiore che gradualmente le scivolava dalle braccia, e tornò a strattonare Loz, che si era fermato a guardare un uomo – anche se era impossibile dire l'età o il sesso a causa del costume – vestito da enorme cactus. Faceva ciao con la mano, e lei lo trovò inquietante abbastanza da accelerare il passo.

Arrivati a casa di Angie, Jenova diede un'ultima controllata a Loz, gli sistemò la maglietta strappata – per quanto una maglietta strappata si potesse sistemare – e gli consegnò la zucca di plastica ancora vuota.

- Ricordi cosa ci siamo detti? - gli chiese, seria.

Il bambino annuì, ma ripeté subito, perché sapeva che la mamma voleva essere tranquillizzata. - Quando faccio dolcetto o scherzetto devo rimanere con i miei amici, non mi devo allontanare da solo e non mi devo fermare. -

La donna sorrise e cercò di fargli una carezza sul visetto tondo senza rovinare il trucco. - Io sono dietro di te, d'accordo? Per qualsiasi esigenza basta che ti volti e mi troverai. -

Loz l'abbracciò si slancio, stretta stretta, dopo di che insieme salirono le scale e suonarono alla porta di casa di Angie.

La padrona di casa li accolse fasciata in un abito da Morticia Addams che le donava enormemente. Sorrideva e li fece subito entrare.

Il bambino schizzò verso i suoi compagnetti, mentre Jenova, con Yazoo nel passeggino che squadrava l'ambiente con gli occhi sgranati, raggiunse la “zona adulti”, dove giravano i cocktail e le battute sconce.

- Come mai non ti sei messa un costume anche tu? - chiese l'amica, porgendole subito un bicchiere di carta pieno di qualcosa che odorava pericolosamente di wodka.

- Non pensavo dovessi. - rispose lei, scuotendo la testa per rifiutare il bicchiere.

Quando Sephiroth era bambino festeggiavano Halloween quasi sempre a casa, oppure con Megan, portando lui e Genesis a chiedere dolcetti nel vicinato.

Non aveva mai partecipato ad una festa, una festa con altri genitori. Era tutto nuovo per lei, e si sentiva così in imbarazzo, così fuori luogo.

Yazoo mugolò qualcosa e lei cercò di nascondere il rossore al volto chinandosi su di lui per mettergli il ciuccio in bocca.

Non sapeva bene come cominciare la conversazione, per cui rimase per un po' ad ascoltare e a cullare spasmodicamente Yazoo mandando piano il passeggino avanti e indietro.

Le risate e gli strepiti dei bambini nel giardino sul retro erano una melodia confortante. Alcuni schizzavano in salotto rincorrendosi e venivano puntualmente sgridati dai genitori.

L'idea di avere lontano da sé Loz, di non vedere cosa stesse facendo, le metteva addosso una sottile ansia, e il pensiero di Sephiroth alla festa non l'aiutava a rilassarsi. Forse un sorso di wodka non le avrebbe fatto poi così male.

Dopo l'ora del cocktail, come ridendo la definì Angie, finalmente raggrupparono i bambini per andare a procacciarsi le tanto agognate caramelle. Anche se Jenova, guardando gli occhi dei bambini, era sicura che avessero già tutti fatto il pieno di dolci, e che sarebbero stati tutti assurdamente eccitati per le successive ventiquattro ore. Solo Loz, a cui era stato vietata l'ingestione di ogni tipo di dolciume, sembra il solito di sempre, solo più...felice del normale.

Il modo in cui parlava con tutti, il modo in cui lo chiamavano se per caso si tratteneva con un bambino piuttosto che un altro, il modo in cui riusciva a placare gli animi e a far andare d'accordo tutti faceva sorridere. Era un pacificatore, quando c'era lui, pirati e soldati andavano d'accordo, vampiri e lupi mannari andavano a braccetto, supereroi e cattivi facevano una tregua.

Aveva tanto buon cuore da poterne fare dono a chiunque avesse intorno.

Jenova trovò che fosse uno spettacolo adorabile, ma lo tenne per sé, per evitare di diventare una di quelle madri che adula il figlio per ogni stupidaggine. Anche se non riteneva affatto che quella fosse una stupidaggine.

Non appena fu dato loro il permesso, i bambini si lanciarono in strada – chiusa al traffico per la serata – per andare a bussare ad ogni porta fosse loro a tiro. Gli adulti rimasero indietro, chiacchierando o solo tenendo d'occhio i loro pargoli.

Finalmente Loz ebbe tra le mani la prima caramella. La mamma gli aveva vietato di mangiarne per tutto il giorno, perché altrimenti a sera si sarebbe sentito male, ma adesso che poteva non se la sentì di scartarla e infilarla in bocca, non senza avere prima il permesso. Per questo lasciò il gruppetto di bambini, che intanto proseguirono verso altre porte, e raggiunse la mamma.

L'abbracciò brevemente e lei gli rivolse una carezza con un sorriso.

- Va tutto bene, Lozzie? -

- Sì mamma. - le disse lui. Per quanto potesse essere truccato, spettinato e avvolto in quel cenci, non suscitava paura, e mai ne avrebbe suscitata. - Volevo solo chiederti se posso mangiare una caramella. -

Gli adulti intorno a loro sospirarono per la tenerezza, Jenova sentì qualcuno sussurrare che avrebbe tanto voluto che anche suo figlio chiedesse il permesso per quelle cose, invece di ingozzarsi di caramelle tanto da vomitare anche l'anima. Lei si sentì orgogliosa di quel figlio ubbidiente e buono e subito annuì, pizzicandogli il naso con due dita.

Loz si esibì in un sorriso più dolce delle caramelle che voleva mangiare e affondò la mano nella zucca di plastica. Il fondo tintinnava di dolci avvolti in carta colorata, lui scelse una caramella alla fragola e la porse alla mamma, poi ne prese una anche per sé. Solo dopo averla messa in bocca di fronte a lei – come per farle vedere che ne avrebbe mangiata una e una soltanto – la salutò e corse in avanti per raggiungere i suoi amichetti.

- Hai fatto un ottimo lavoro con lui. - le disse Angie, avvicinandosi a lei. C'era forse un po' di gelosia nelle sue parole, nel suo sguardo, come se la guardasse bene per la prima volta solo in quel momento.

- In realtà non ho fatto molto. - sorrise lei, imbarazzata. - Loz è un bambino davvero buono. -

- Sì, ho visto. -

Jenova non seppe se fosse un commento carico di invidia o solo...un commento.

Loz intanto sgambettava per raggiungere gli altri, che erano andati un bel po' avanti rispetto a lui. Il vestito che aveva addosso era ingombrante, tutto strappato e lacero com'era, rischiava di inciampare in un lembo dei pantaloni ad ogni passo.

Avrebbe gridato di fermarsi agli amici se solo alle sue orecchie non fosse giunto un lamento.

Si fermò per un attimo, guardandosi intorno, dimenticando quello che gli aveva detto la mamma riguardo il rimanere da solo, isolato dal gruppo.

Tra gli schiamazzi, la musica, le risate, colse nuovamente quel lamento, e degli incitamenti sommessi e divertiti.

Con le sopraccigli aggrottate mosse un passo verso la fonte del suono. Veniva da un angolo cieco dietro una casa, una specie di corridoio a L tra le due villette, circondato da una staccionata abbastanza alta da non permettere di vedere cosa stesse succedendo.

Si sentiva lo spiacevole olezzo della spazzatura, quindi doveva essere dove avevano piazzato i cassonetti della spazzatura perché non fossero sulla strada in bella vista.

Loz avvertì un brivido salirgli lungo la schiena ma continuò a camminare, incuriosito e, stranamente, per niente spaventato.

Più si avvicinava più gli era chiaro cosa stesse succedendo, e il cuore gli si strinse in una morsa.

Sentì i latrati bassi e sofferenti di un cagnolino, e poi vide, affacciandosi dall'angolo, vide alcuni ragazzini che lo punzecchiavano con un bastone, lo terrorizzavano lanciandogli pietre o lo spintonavano per farlo cadere.

Ai suoi occhi di bambino i ragazzi sembrarono enormi ma non dovevano avere più di tredici anni. Erano in due, e sembravano particolarmente soddisfatti delle torture che stavano rivolgendo al cagnolino.

Un piccolo, minuscolo cucciolo completamente nero, tranne per una macchia bianca sul petto e le zampine, altrettanto bianche come se indossasse guantini e calzini. Non doveva avere più di una settimana di vita, perché era davvero piccolo.

Uno dei ragazzi lo sollevò per la collottola e lo scosse, facendolo gemere per il dolore.

Loz capì subito che l'avrebbero ucciso, l'avrebbero ucciso ridendo e godendo dei suoi ultimi istanti di vita.

Pigiò la schiena contro il muro, strizzò gli occhi, il cuore gli martellava nel piccolo petto. Cosa doveva fare? Cosa poteva fare? Doveva correre dalla mamma e dirle cosa stava succedendo? E se i ragazzi se ne fossero andati? Non poteva lasciare che facessero del male al cagnolino!

Si chiese che cosa sarebbe successo se fosse saltato fuori in quel momento, urlando qualcosa ad effetto come facevano i poliziotti quando sorprendevano qualche criminale; si chiese se avrebbe pagato le conseguenze di quel gesto. Era da solo, era piccolo tanto quanto il cucciolo, e loro erano in due, ed erano così grandi.

Avvertì il cagnolino abbaiare di dolore e le risate dei ragazzi, e allora decise.

- FERMI! - strillò, la mano stretta intorno al manico della zucca di plastica, mentre usciva dal suo riparato nascondiglio.

I due ragazzi si fermarono davvero, non perché era stato lui a dirglielo, ma solo perché si sentirono colti sul fatto. Probabilmente pensavano di poter compiere quell'orrore in tutta sicurezza, e che nessuno sarebbe andato a disturbarli.

E invece, all'improvviso, un bambino vestito da zombie gli si parava davanti.

La prima reazione fu quella di ridere, ridere in faccia a Loz che non tremava solo perché si era imposto di non farlo.

- Sparisci moccioso. - lo apostrofò uno dei due. E dire che entrambi sembravano all'apparenza dei bravi ragazzi, vestiti bene, con espressioni pulite. Come potevano nascondere tutta quell'oscurità dentro?

- No! - fece Loz, che cominciava a sentirsi in pericolo, vagamente. Come una leggera scarica elettrica la paura gli attraversava il corpo, dalla testa ai piedi, rizzandogli i peli sulla nuca e sulle braccia. Ma non si mosse. - Lasciate stare quel cane, non vi ha fatto niente di male! -

A quel punto i due si guardarono in faccia, perplessi, come se non credessero alle loro orecchie.

- Ragazzino, fai meglio ad andartene prima che ti facciamo fare la stessa fine di questo bastardo. -

Loz avvertì una morsa allo stomaco mentre i due ridevano nuovamente, come per sottolineare la cattiveria di quello che avevano appena detto.

Respirò più forte, cominciò a sentire le mani sudare e dolere per quanto le stava stringendo a pugno. Eppure qualcosa dentro di lui si opponeva strenuamente, continuava a combattere per quello che riteneva giusto.

- No! Voi adesso lo lasciate stare o...o...corro a chiamare aiuto! -

- E chi ti dice che riuscirai a chiamare aiuto? -

I due ragazzi non erano grossi, non erano alti, ma quando uno dei due mosse si mosse verso di lui, Loz si sentì comunque sopraffare. L'avrebbero picchiato, l'avrebbero trattato come avevano fatto con il cagnolino, sarebbe stato lui a morire, come nei film dell'orrore che certe volte guardava con Sephiroth, e che non avevano nessun lieto fine.

Il suo istinto ebbe la meglio. Certo, sarebbe potuto scappare, avrebbe potuto lasciare il cucciolo al suo destino per salvare se stesso, ma non se lo sarebbe mai perdonato, mai.

Con tutta la forza che aveva nelle braccia scagliò la zucca di plastica contro il ragazzo che ormai gli era addosso. Il colpo non sarebbe stato mortale neanche se l'oggetto fosse stato di un materiale più duro, ma bastò per sorprenderlo e stordirlo: di certo non si aspettava che il bambino avrebbe mai potuto colpirlo.

Approfittando di quel momento di sbalordimento, Loz schizzò in avanti per prendere il cucciolo tra le braccia, perché nel frattempo il ragazzo che lo reggeva per la collottola l'aveva lasciato andare per raggiungere il compagno.

Loz sentì il corpicino dell'animale tremare contro il suo petto mentre, a testa bassa, si voltava su se stesso per guadagnare l'unica uscita del vicolo.

Gli sembrò assurdo esserci riuscito, la testa gli girava pericolosamente, leggera e piena di adrenalina. Ancora qualche passo e sarebbe stato in mezzo alla gente, lontano da quei mostri, salvo!

Non si aspettava però di venire afferrato per un brandello della maglietta stracciata e tirato indietro.

Rischiò di cadere ma rimase orgogliosamente in piedi facendo l'unica cosa che a quel punto poteva fare. Strinse più forte il cucciolo al petto, per evitare che glielo strappassero di mano, e urlò, urlò con tutta l'aria che aveva nei polmoni.

Chiamò aiuto, chiamò la mamma, e i due ragazzi si spaventarono a morte. Potevano essere dei criminali in erba, ma erano ancora giovani, troppo giovani, e l'idea di essere sorpresi a bastonare un cagnolino non era orribile come quella di essere sorpresi a fare del male ad un bambino. Le conseguenze sarebbero state enormi, e non erano pronte a prendersele.

Spintonandosi come dei codardi, scapparono via, cercando di uscire dal vicolo prima dell'altro. Non erano più complici, anzi, cercavano di farsi cadere a vicenda, così da lasciare un colpevole mentre l'altro si metteva in salvo.

I primi adulti accorsero mentre Loz ancora strillava, e solo quando gli dissero che era tutto apposto e che non c'era niente da temere riuscì a calmarsi. Non si era neanche accorto di stare piangendo, e che il cucciolo gli stava leccando le lacrime dalle guance.

Venne portato fuori dal vicolo che tremava e singhiozzava per la paura. Adesso che tutto era passato si rendeva conto di che pericolo avesse corso, di quanto stupido fosse stato. Voleva solo la sua mamma, e la cercava tutto intorno con gli occhi lucidi.

Non seppe esattamente cosa successe dopo, l'uomo che l'aveva trovato nel vicolo tentò di prenderlo per mano ma lui teneva il cucciolo tra le braccia con entrambe e non aveva intenzione di lasciarlo. Venne spinto dolcemente in avanti mentre lui chiedeva in giro di chi quel bambino fosse figlio, e finalmente, dopo quella che gli sembrò un'eternità, affondo il viso nell'abbraccio della mamma.

Come l'aveva trovato non lo sapeva, era solo felice di essere con lei.

Jenova era fredda, l'espressione congelata nel momento in cui si era resa conto che suo figlio non era nel gruppo di bambini e che nessuno aveva visto dov'era andato. Avrebbe voluto sgridarlo, forse dargli un ceffone come punizione – e per scaricare la tensione che aveva addosso – ma quando si ritrovò a stringerlo tra le braccia non riuscì a fare niente di quello che si era ripromessa. Ringraziò silenziosamente ogni divinità esistente per averle fatto ritrovare Loz, e sussurrò svariati ringraziamenti anche all'uomo che l'aveva trovato. Non voleva neanche sapere cos'era successo, voleva dimenticare, cancellare tutto quello che era successo e sprofondare nel sollievo di avere di nuovo con sé il suo bambino speciale.

- Perché ti sei allontanato? - gli chiese, senza smetterlo di stringerlo. Neanche si era accorta del piccolo animaletto pressato tra lei e il figlio.

- Mamma gli avrebbero fatto del male, gli avrebbero fatto del male! - piagnucolò il bambino.

Solo allora, spingendolo un po' indietro, Jenova vide il cagnolino che Loz teneva quasi convulsamente stretto al petto.

All'improvviso un'ondata di calore le invase il cuore e allora capì perché il suo bambino si era allontanato, perché aveva disubbidito. Non l'avrebbe fatto se non fosse stato per fare un gesto nobile, un gesto coraggioso, avventato ma buono.

Non gli chiese i dettagli, anche perché singhiozzava così forte che non sarebbe riuscito a parlare, gli accarezzò i capelli pian piano e tentò di fargli lasciare la presa sul cagnolino, per paura che nella foga di proteggerlo potesse al contrario fargli del male.

- Ti prego... - pianse il piccolo, lasciando che lei lo prendesse. - ...non ha una mamma...è tutto solo... -

- Tesoro non possiamo... - tentò lei, per quanto già sentisse gli occhi formicolarle per le lacrime.

Loz le si appese alla gonna, con foga.

Il cucciolo gemeva e abbaiava sottovoce, si muoveva poco ma quando lo faceva era per leccare con dolcezza le mani di Jenova che automaticamente gli carezzavano la testolina, ma non sembrava essere messo tanto male. Era spaventato, perché il pelo era tutto ritto sul corpicino, tremava ancora, ma si era risparmiato i veri tormenti grazie all'intervento di Loz.

- Dobbiamo almeno portarlo da un dottore! - disse Loz, la voce resa un pigolio sottile per colpa del pianto.

- D'accordo. - esalò alla fine, perché sarebbe stato immorale abbandonare quella piccola creatura quanto lo sarebbe stato dare quel dispiacere al bambino. - Lo terremo con noi stanotte e domani lo porteremo da un dottore. -

Loz si aprì in un tremolante sorriso di sollievo, e si strinse alla madre più forte per piangere le ultime lacrime gli gorgogliavano in gola.

Jenova divenne immediatamente consapevole del fatto che quel cucciolo non sarebbe mai più uscito dalle loro vite, soprattutto da quella di Loz.

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The Corner 

Ben trovati. Questo capitolo vi giunge un po' in ritardo (di solito pubblico di mattina) perché mi sentivo alquanto demoralizzata. Non ho molto seguito né molto successo e la cosa mi ha scoraggiato. Però, non voglio lasciare la stora che amo e che mi diverte per questa piccolezza, e grazie alla mia Musa ho trovato la forza di andare avanti.
Non mollerò.
Alla prossima!

Chii

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Capitolo 8
*** We fall from faith ***


« 3 »

We fall from faith

 

 

« Mamma. » davanti allo specchio, Sephiroth teneva la testa alta, lo sguardo fisso sulla propria immagine. Doveva apparire sicuro di sé, il più possibile. « Credo di essere grande abbastanza per decidere cosa è meglio per la mia vita. » rimase qualche secondo in silenzio, come se aspettasse, educatamente, che sua madre muovesse le sue rimostranze. « Mi sono preso cura d Loz, e poi di Yazoo, sono stato sempre presente per te quando ne avevi bisogno, ma adesso devo pensare a me. » forse sembrava troppo freddo? Quegli occhi verdi non erano esageratamente gelidi?

A diciassette anni Sephiroth ne dimostrava almeno venti, era un ragazzo impostato, che si muoveva con grazia assassina nonostante fosse tanto alto; i lunghissimi capelli argentei che portava con fierezza erano quasi sempre sciolti quando era fuori casa, ma rigorosamente legati in una coda quand'era dentro: erano un premio goloso per le manine voraci di Yazoo, che tirava, tirava forte. Era cresciuto in intelligenza quanto in forza, e nascondeva muscoli scattanti nella figura asciutta.

Ma non era ancora quello che voleva essere: un soldato.

« Ho intenzione di arruolarmi. » continuò, parlando al se stesso nello specchio ma immaginando di avere davanti sua madre. « Non appena avrò compiuto diciotto anni, cosa che succederà il prossimo gennaio. Non sarò da solo, con me verrà Genesis, ci siamo anche informati, guarda. » sventolò in aria un piccolo libretto che aveva per titolo “Servire il paese”.

Poi respirò, profondamente. Non era la prima volta che provava quel discorso, e sembrava diventare sempre più difficile.

Il pensiero corse ai suoi fratelli, a Loz, che era grande abbastanza per capire che se ne sarebbe andato per un tempo indefinito, a Yazoo, che forse non avrebbe avuto ricordi di lui. E poi, ovviamente, pensò a sua madre. Le avrebbe spezzato il cuore, anche se era certo che non gli avrebbe impedito di fare quello che desiderava. Non l'aveva mai fatto.

Quasi sobbalzò quando sentì un bussare compulsivo alla sua porta, e prima di sciogliersi in un sorriso nascose il libretto sotto il cuscino.

Loz sapeva rispettare le regole della casa, soprattutto quando quelle regole uscivano dalle labbra di Sephiroth, e la prima, la più importante di tutte, era: quando una porta è chiusa bisogna sempre bussare.

< Entra. » concesse, e la porta si aprì subito, rivelando il visetto tondo di Loz, e quello appuntito e curioso di Sunny.

Il bastardino era diventato il miglior amico di Loz in maniera così naturale che nessuno di loro ricordava un tempo in cui non fossero stati insieme.

Dopo la notte di Halloween di quasi un anno prima, Jenova non era riuscita a separarli, sembravano fatti per stare insieme, e dal momento che il cucciolo non aveva riportato danni gravi e, anzi, scorrazzava allegramente per tutta casa, nessuno si era preso la briga di dire al bambino che era arrivato il momento di trovargli un nuovo posto in cui vivere. Loz non aveva mai chiesto niente, e non chiese neanche di poterlo tenere, successe e basta, e la famiglia presto si adeguò all'idea di avere un cane.

Sephiroth aveva imposto una certa disciplina sul fratellino, perché il cane era suo e dipendeva da lui, e per quanto piccolo Loz si era preso subito la responsabilità, nei limiti che gli imponeva la sua età. Certo non lo lasciavano uscire da solo per portarlo a fare i suoi bisogni, ma quando era a casa si prendeva cura di lui con viscerale amore.

Loz stava cambiando, stava crescendo, ma sebbene fosse diventato più alto rimaneva comunque un tutto tondo di morbidezza, probabilmente dovuto al fatto che era un mangiatore compulsivo di dolcetti e merendine alla cioccolata che riusciva a trovare nonostante Jenova le nascondesse negli anfratti più irraggiungibili.

Quegli occhi dolci e il perenne sorriso lo rendevano un bambino solare e socievole, ed era tremendamente sensibile e impressionabile, a tal punto da poter scoppiare a piangere in modo disperato per una matita rotta.

« Che stai facendo? » chiese il fratellino, con quella vocetta pigolante.

Sephiroth sapeva già cosa significava quel tono.

Il sabato era un giorno speciale per Loz, perché non aveva scuola e neanche il suo adorato fratello maggiore l'aveva, e questo voleva dire che poteva porgergli la fatidica domanda. Sempre la stessa, tanto che ormai Sephiroth lo osservava divertito creare il momento adatto per fargliela. Era così adorabile.

« Stavo per mettermi a leggere un libro. » mentì, senza guardarlo, come se fosse talmente oberato da non potergli neanche dedicare uno sguardo.

Sentì nell'aria la delusione del fratellino, e quasi si sentì in colpa.

« Ah... » mormorò Loz, il broncetto già sulle labbra. « E il libro è una cosa per la scuola? »

« Mh, in effetti no. » volse appena lo sguardo e colse subito il cambiamento in Loz. Già saltellava, carico di aspettative.

« Puoi leggerlo più tardi? »

« Sì, posso. »

« Allora adesso... » eccola, la domanda. Sephiroth dovette trattenersi dal sorridere. « Giochi con me e Sunny? »

Non sarebbe riuscito a dirgli di no neanche se avesse avuto davvero qualcosa da fare, e non solo perché era difficile negarsi alla dolcezza di Loz, ma anche perché sentiva che quei momenti erano importanti: doveva ricordarsi che presto se ne sarebbe andato, e non avrebbe più potuto giocare con lui.

« D'accordo. » Loz alzò le braccia in alto in segno di vittoria. « A cosa volete giocare tu e Sunny? »

« Acchiapparella! » rispose subito, e il cagnolino mandò un latrato felice. Quei due avevano un legame così profondo da condividere persino la felicità.

« Bene, allora...correte! » e dicendolo Sephiroth fece un salto verso il fratellino che, con una risata acuta, si lanciò in corsa fuori dalla sua stanza, e poi giù dalle scale, per sfuggire alle grinfie del fratello maggiore, con il cane alle calcagna.

Sephiroth non sarebbe mai stato troppo grande per giocare ad acchiapparella con Loz.

Gli corse dietro, avvertendo i suoi passi frettolosi al piano di sotto, scese gli scalini a due a due. Si volse a destra e a sinistra per trovarlo e lui gli passò vicinissimo, quasi riuscì ad acciuffarlo. Sunny scodinzolava come un matto, un po' inseguiva Loz, un po' scappava da Sephiroth, poi si infilò sotto il tavolinetto del salotto, cercando di nascondersi.

Yazoo stava nel box. Il problema con il latte della mamma si era risolto, ma avevano scoperto che aveva allergie e intolleranze per la quasi totalità degli alimenti e dei tessuti sintetici. A causa della difficoltà di nutrirlo correttamente – perché era un campione di “sputo di omogenizzato” – aveva un corpicino sottilissimo, che appariva strano per essere quello di un bambino di tre anni e mezzo. Anche lui, come Loz alla sua età, parlava poco, ma a differenza del fratello, lui lo faceva per puro disinteresse. Alle volte appariva così apatico da far preoccupare Jenova. Ma nessun esame aveva riportato esiti positivi, quindi doveva solo avere un pessimo carattere. D'altronde, dalle premesse, avrebbero dovuto capirlo.

I suoi occhioni verdi si spostarono quasi pigramente verso i fratelli che correvano in cerchio intorno al divano, e per un attimo li guardò giocare, silenzioso come un gatto, dopo di che tornò a sedersi tra i giocattoli riciclati di Loz: era inutile comprargli qualcosa di nuovo, dato che subito si stancava e non sembrava piacergli niente in particolare. Non aveva granché simpatia neanche per Sunny, che era tollerabile solo perché era a pelo corto, e con attenzioni e cure non gli causava nessuna reazione allergica. La mamma era stata molto chiara con Loz su questo: Sunny poteva restare solo se era pulito e se non ci fossero stati suoi peli in giro per casa. E il bambino avevano preso molto seriamente quel compito, dal momento che si occupava personalmente di raccogliere ogni pelo caduto dal manto nero del suo cucciolo.

Loz gettò un urlo quando la mano di Sephiroth si chiuse intorno alla sua maglietta, tirandolo indietro tra le sue braccia.

« Preso! »

« NOOOO! »

Cominciò a fargli il solletico, la punizione adatta a chi si lascia catturare così facilmente. La risata cristallina del piccolo era un balsamo per le orecchie, anche se continuava ad agitarsi nel tentativo di allontanare le sue mani, urlicchiando strozzati “basta, basta!”. Sunny prese ad abbaiare piano, spaventato che stesse succedendo qualcosa di orribile al suo piccolo padroncino, ma poi Sephiroth lo lasciò andare e lui si gettò a leccargli la faccia come se avesse temuto di non poterlo fare mai più.

Poi avvertirono un tonfo, qualcosa che cadeva a terra e si rompeva al piano di sopra.

Sephiroth alzò gli occhi, perplesso, mentre Loz pian piano smetteva di ridere e allontanava il muso del cane dal suo viso.

« Lozzie rimani con Yazoo un attimo. » sussurrò il ragazzo.

Con Sephiroth non si discuteva, bisognava solo obbedire, e anche se Loz avrebbe voluto mugolare delle proteste, rimase immobile accanto al box con Yazoo, mentre il fratello saliva su per le scale.

Jenova era in casa, e come tutti i sabati si era alzata tardi rispetto a Hojo, sparito a lavoro con un po' troppa celerità per essere fine settimana. Era scesa in cucina per preparare la colazione ai figli, cambiare Yazoo, dopo di che era tornata in camera da letto, e da allora non era più uscita.

Origliare era una cattiva abitudine, il ragazzo lo sapeva da quando aveva sei anni, ma non si poté impedire di farlo, con l'orecchio accostato alla porta della stanza.

Sentiva sua madre sibilare velenose parole sottovoce. Non riuscì a distinguere cosa dicesse ma sembrava davvero arrabbiata. Poi ci fu un altro tonfo e lui sobbalzò.

« Non dirmi cazzate! » strillò lei. Sembrava completamente fuori di sé. « Sono mesi che ti comporti così. Lo so che c'è qualcosa sotto. » con chi stava parlando?

Il ragazzo avrebbe voluto non averne la certezza, ma sapeva per istinto che stava parlando con Hojo.

Persino lui aveva avvertito il cambiamento graduale nell'aria, il modo in cui il padre stava sempre meno in casa, la sua voce priva di intonazione quando diceva a Loz che gli voleva bene e lo metteva a letto la sera, la velocità con cui fuggiva ogni mattina per andare a lavorare, la poca attenzione che aveva nei riguardi di ciò che succedeva in quelle quattro mura. Ricordava ancora quando Hojo aveva gridato contro Sunny e l'aveva sbattuto fuori, chiedendo a Jenova com'era entrato quel randagio in casa loro: e dire che il cucciolo era diventato parte della famiglia ormai da due mesi. Lui neanche se n'era reso conto.

Certo, i soldi non mancavano, ed era merito del duro lavoro che stava facendo. Aveva pubblicato dei libri che avevano avuto un discreto successo, e non smetteva di investire per la famiglia. Aveva persino comprato una macchina a Sephiroth.

Non si poteva dire che fosse un cattivo padre, era solo un padre assente.

Ma quell'assenza per Jenova aveva tutt'altro sapore.

Sephiroth la sentiva piangere le notti in cui Hojo tornava tardi o non tornava affatto, la sentiva urlare quando credeva di essere sola in casa. Quella situazione la faceva soffrire, la rendeva irritabile, e quasi si dimenticava di avere due bambini a cui badare.

« Hojo giuro che se non torni a casa... » minacciò Jenova, senza però finire, perché seguì un altro tonfo. Sephiroth capì che aveva dato un pugno al muro.

Non poteva lasciarla in quelle condizioni, con suo padre trasformato in un'ombra, Loz e Yazoo in balia del nulla. Non poteva. Il proposito di dirle che voleva arruolarsi svanì in un istante.

 

 

Hojo non tornò per pranzo.

Sephiroth era turbato, non solo per la telefonata che aveva ascoltato, ma per tutto ciò che ne conseguiva.

Per quanto avesse tentato di fare finta di niente, soprattutto con Loz, alla fine il bambino capì comunque che qualcosa non andava. Si limitò a stargli il più vicino possibile, intimando a Sunny di fare il buono perché non aveva più voglio di giocare.

Jenova era un fascio di nervi, elettrica a tal punto che quando Yazoo fece cadere il bicchiere dal seggiolone cominciò a strillare e finì per far piangere entrambi i bambini.

A quel punto, Sephiroth avrebbe potuto andarsene. Era giovane, aveva la sua vita, i suoi amici, e un lunghissimo sabato disponibile per stare lontano da casa. Ma decise di portare con sé i suoi fratelli.

“Porto Loz, Yazoo e Sunny al parco!” aveva annunciato davanti alla porta chiusa della camera da letto dei suoi genitori. Jenova non aveva risposto, né in positivo né in negativo, ma a lui bastò sapere che ne fosse a conoscenza.

Era comunque una bel sabato pomeriggio di maggio, sarebbe stato crudele non farli uscire. Se le cose fossero state diverse, l'avrebbe fatto Jenova stessa.

Mentre Sephiroth vestiva Yazoo – sentendosi tremendamente a disagio con quegli occhi fissi su di lui come se il bambino lo stesse studiando e sondando i più profondi recessi della sua anima – Loz saltellava in giro, con Sunny scodinzolante proprio dietro di lui, dentro le sue scarpette nuove, tenendo tra le braccia il pallone con cui aveva intenzione di giocare al parco.

Era pazzo per il football, quello americano, quello inglese, quello europeo. Era in grado di rimanere delle ore davanti alla tv a guardare vecchie partite, e durante il Superbowl andava su di giri. Ancora non conosceva le regole e tante volte non capiva cosa stava guardando, ma la meraviglia sul suo visetto bastava.

Il pallone era un regalo di Sephiroth del Natale passato, un regalo da cui Loz non si era più separato, come fosse un'appendice del suo corpicino. Quando poteva, ci giocava nel giardino dietro casa, se c'era troppo freddo per uscire, lo teneva tra le braccia e lo faceva rotolare dolcemente sul pavimento del soggiorno – la mamma l'aveva sgridato più volte perché l'aveva fatto rimbalzare ovunque –, ma in giornate come quelle finalmente poteva correrci dietro, insieme a Sunny, che era ormai il compagno di un'immaginaria squadra formata solo da loro due.

« Pronto? » chiese il maggiore, mettendo il piccolo Yazoo nel passeggino.

Loz annuì così forte che non ci fu bisogno di altra conferma.

Sephiroth lanciò un'ultima occhiata verso l'alto, come se potesse vedere attraverso il soffitto sua madre chiusa in camera, poi uscì.

Il parco non era molto lontano, giusto un paio di isolati che potevano percorrere a piedi.

Il quartiere era così tranquillo che Loz poté cominciare a calciare il pallone già fuori casa, come un piccolo campione in erba.

Sephiroth si chiese se non fosse il caso di iscriverlo a qualche scuola sportiva per fargli fare corsi seri e insegnarli le basi del gioco. Ne sarebbe stato entusiasta. Poteva parlarne con la mamma quando sarebbe stata d'umore migliore, ma non si sarebbe dimenticato di farlo.

« Loz stai attento però, non tirare troppo forte. »

« Sì! » pigolò lui, già con l'affanno.

Anche se la strada non era trafficata, non poteva certo lasciare che giocasse nel bel mezzo della carreggiata e si mettesse in pericolo.

L'aria era fresca ma piacevole, il sole occhieggiava tra sparute nuvole, gli uccellini canticchiavano nascosti tra le fronde degli alberi: che magnifica giornata. Sephiroth, però, non riusciva a tranquillizzarsi.

Continuava a pensare a suo padre, al pranzo che aveva saltato, al legittimo malumore di sua madre. Più volte durante la sua infanzia aveva temuto per i suoi genitori, prima con una consapevolezza infantile, dettata solo dalla paura di perderli, poi da una coscienza tutta adulta.

Era ovvio che così non potevano andare avanti. Alternavano momenti di gioia ad altri di rabbia e rancore. Forse non si sopportavano più dopo tutti quegli anni, e tutti quei problemi.

Si chiese se le cose sarebbero andate diversamente se lui non fosse nato per sbaglio, se i suoi avessero deciso di non tenerlo. Gli venne un brivido, non per se stesso, ma per Loz e Yazoo: non riusciva ad immaginare una vita, un mondo senza di loro.

Quando arrivarono al parco Loz chiese solo con gli occhi il permesso di andare a correre sul prato, permesso che gli fu concesso con un sorriso. Sunny gli si gettò subito dietro, finalmente libero dal guinzaglio che non sopportava.

Sephiroth si sedette su una panchina vicino ai giochi per bambini. Poteva lasciare Yazoo nel box con la sabbia e nel contempo guardare Loz e Sunny giocare.

Per un momento si sentì come suo padre alla sua età. Anche lui lo portava a giocare in quel parco. Ricordava come gli sembrava grande lo scivolo e pericolosa l'altalena, e ricordava anche i pomeriggi passati a giocare a nascondino con Genesis.

Loz andò subito a trovare un terzo compagno di giochi. Sapeva che Sephiroth sarebbe stato impegnato a controllare Yazoo e non poteva chiedergli di giocare, ma non ebbe problemi a convincere un bambino ad unirsi a lui e Sunny. Continuava ad avere un'incredibile influenza su chi aveva intorno. Doveva essere grazie a quei sorrisi, o forse alla sincera dolcezza di cui erano pervasi.

Lo guardò giocare con l'altro bambino a tirarsi la palla, rincorrerla, urlare “GOOOOAL!” per averla fatta passare tra due sassi, poi guardò Yazoo, tutto impegnato a riempire di sabbia un secchiello con una paletta. Quando lo si coglieva alla sprovvista era più facile vederlo comportarsi come un bambino normale.

Sospirò e prese il telefono per scrivere all'unica persona che avrebbe voluto accanto in quel momento.

  • Ehi Gen, che stai facendo?

Qualsiasi cosa stesse facendo, gli rispose quasi immediatamente. Era sempre così con lui.

  • Mi preparo per uscire. Tu?

Sebbene si reputassero ancora migliori amici, nell'ultimo periodo Genesis si era allontanato silenziosamente da lui. Forse era un'impressione di Sephiroth, ma lui aveva cambiato tutto il suo piano di studi all'improvviso, e adesso non condividevano più alcun corso. Sembrava che lo ignorasse. Di contro gli assicurava che così non era, che era molto impegnato, che aveva solo cercato di conciliare le lezioni con gli allenamenti della squadra di atletica, e gli aveva assicurato che si sarebbero arruolati insieme senza dubbio. Già, senza dubbio. Ora di dubbi lui ne aveva parecchi.

  • Al parco dietro casa con i miei fratelli. Dove vai di bello?

Stavolta la risposta tardò ad arrivare. Che stesse pensando ad una scusa da inventare? No, Genesis non l'avrebbe mai fatto.

  • Mah, in giro, ceno con degli amici al Burger King.

Sephiroth si trattenne dal chiedergli di raggiungerlo. Aveva bisogno di lui, del suo conforto, del suo parere. Gli mancava, non gli era mai mancato così tanto prima. E se continuava a dirgli che era tutto nella sua testa e che era lì dov'era sempre stato sarebbe impazzito.

Non sapendo cosa dire alzò gli occhi dal telefono per controllare i suoi fratelli. Loz stava ancora giocando a calcio, Yazoo stava schiacciando con le ditina la forma che aveva costruito con la sabbia – era una fortuna che non fosse quel tipo di bambino a cui piace mettere tutto in bocca –.

  • C'è qualcosa che non va?

Fu il messaggio che lo fece quasi sobbalzare. Allora l'amico che era sempre stato al suo fianco capiva ancora quando non stava bene, pur attraverso lo schermo di un telefono.

  • I miei hanno litigato di brutto. Non sono riuscito a dire a mia madre dell'esercito.

  • Dove sei di preciso?

  • Su una panchina, davanti alle altalene. Perché?

  • Sto arrivando.

Sephiroth aggrottò le sopracciglia, confuso, ma non poté negare l'ondata di sollievo che gli scaldò improvvisamente il cuore.

Genesis impiegò dieci minuti per raggiungerlo, nei quali Loz vinse due partite su tre, ma acconsentì a farne un'ultima che avrebbe definito il vincitore assoluto, partita che perse apposta – Sephiroth ne fu certo – per non far rimanere male il suo nuovo piccolo amico, mentre Yazoo si mise a piangere per la fame e costrinse il fratello a prenderlo in braccio per propinargli un omogenizzato di frutta che non avrebbe mangiato neanche per un milione di dollari.

Quando l'amico arrivò, Sephiroth si stava ripulendo dall'omogenizzato sputato dal fratellino, con un'imprecazione sulle labbra e gli occhi pieni d'ira.

« Non sapevo che fossi diventato mamma. » esordì il rosso, avvicinandosi.

Sephiroth alzò la testa di scatto e fece una smorfia. Genesis aveva il talento di prenderlo di sorpresa nei momenti peggiori, quelli in cui non era perfetto.

Crescendo, Genesis era stato per un anno più alto di Sephiroth, e solo per quell'anno l'aveva guardato come se finalmente gli fosse superiore. Non lo umiliava pubblicamente, ma continuava a soffrire di un senso di inferiorità nei suoi confronti.

Che fosse questo il motivo per cui si era allontanato da lui?

« Ciao Gen. » gli disse invece il ragazzo, costringendo il rosso a fare una smorfia.

Sephiroth non rispondeva mai alle sue provocazioni, era una delle cose che più lo faceva arrabbiare.

Lui gli si sedette vicino, abbastanza perché le loro gambe si toccassero.

Yazoo si era assopito nel passeggino, e Loz doveva aver consumato buona parte delle sue energie perché correva arrancando dietro il pallone, mentre Sunny abbaiava al suo indirizzo nel tentativo di farlo andare più veloce.

« Quindi? Che è successo? » gli occhi blu di Genesis seguivano la palla di Loz. Si stava trattenendo dal girare lo sguardo su Sephiroth, lo sentiva.

L'albino sospirò, si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e poi si volse verso l'amico.

« Non lo so. Mio padre si comporta in modo così strano. Ho paura che... » poi si morse le labbra. Non era una cosa facile da dire, o anche solo da pensare.

« Che abbia un'altra? » concluse per lui Genesis. Il ragazzo si ritrovò ad annuire, lo sguardo serio. « Non deve essere per forza così. Sta lavorando tantissimo per ora, no? Non ha appena pubblicato un libro nuovo? »

« Sì ma per scrivere un libro non ha bisogno di stare fuori casa tutto il giorno, e non tornare neanche a dormire. »

« Beh, i tuoi fratelli sono rumorosi... »

« Gen. »

« Okay okay. »

Rimasero in silenzio per un po'. Potevano persino sentire il respiro di Yazoo, leggero e continuo.

Poi Genesis sbuffò pian piano. « Dico, non deve esserci per forza un'altra. Ci sono mille spiegazioni plausibili, no? Ha studiato tutta la vita per avere quel lavoro, e ora finalmente sta guadagnando bene, forse vuole solo assicurarsi di non perderlo. E poi vi vuole bene. »

« Lo so. » mormorò Sephiroth.

Il calore della sua gamba contro la propria era confortante. Non poté fare a meno di pensare, di nuovo, a quanto gli fosse mancata la sua presenza.

« Secondo me hai solo bisogno di staccare un po', e di uscire da quella casa. So che adori i tuoi fratelli e ti senti in dovere di prenderti cura di loro, ma cavolo hai diciassette anni. Dimmi quand'è stata l'ultima volta che sei andato al cinema. »

« La settimana scorsa, con te. » gli disse, con un sorrisetto.

Genesis alzò gli occhi al cielo, ma stava sorridendo anche lui. « Dai, hai capito cosa intendo. »

« Sì ho capito. Ma cos'altro potrei fare? Non posso lasciarli da soli. »

« Non è compito tuo. Puoi amarli, aiutarli, stargli vicino, ma non sono figli tuoi. »

« Già. »

Sephiroth abbassò la testa, i capelli formarono come una tenda sul suo viso, così lisci e brillanti, argento fuso.

Genesis non poté trattenersi, gli prese una mano e la strinse.

Ad entrambi sembrò di aver superato un limite che si erano imposti senza accorgersene.

« Ascolta. » continuò Genesis, cercando di dissimulare il tremore nella voce, le dita strette intorno al palmo gelido di Sephiroth. « Lo so che non è facile, e tu sei un testardo responsabile, ma promettimi che non rinuncerai ai tuoi sogni per questo. Anche se la tua famiglia è un disastro, verrai con me l'anno prossimo. »

« E perché dovrei, mi sembra di non essere neanche più amici. » buttò lì, spostando in fretta gli occhi su di lui e poi tornando a fissare le loro mani unite.

« Seph... »

Sephiroth contò fino a dieci, come alle volte sua madre diceva che si doveva fare per non comportarsi in modo troppo impulsivo.

Però quando afferrò il volto di Genesis – in parte per tenerlo fermo, in parte perché sentiva di stare tremando troppo e di avere bisogno di aggrapparsi a qualcosa – e lo baciò, pensò che fosse la cosa più impulsiva che avesse mai fatto in tutta la sua vita.

Genesis rimase immobile talmente a lungo che pensò di aver appena rovinato quel che rimaneva della loro amicizia, poi, piano, ricambiò il bacio, così timido rispetto alla persona che sapeva essere.

Quando si separarono Sephiroth capì perché l'aveva ignorato ed evitato nell'ultimo periodo, e capì perché a lui mancava così tanto la sua presenza.

« Seph, ho fame, possiamo andare a prendere qualcosa? Oh, ciao Genesis! »

I due ragazzi sobbalzarono quando Loz, sporco d'erba, bagnato di sudore, gli si materializzò davanti. Quando si era avvicinato? Aveva visto quello che era successo?

Sunny si avvicinò a Genesis e lo annusò tutto. Chissà che non sentisse quello che era appena successo dal suo odore. Era una fortuna che non potesse parlare, anche se quegli occhioni castani cetre volte sembravano dire più di mille parole.

« Sì, certo. » mormorò meccanicamente Sephiroth, alzandosi subito, le mani corsero sul passeggino. « Gen, tu vieni con noi? Posso offriti un gelato? »

« Non rifiuto mai quando posso scroccare un gelato. » come se niente fosse successo, si avvicinò a Loz e gli spettinò i capelli, diede persino una pacca sulla testolina di Sunny, anche se non era un simpatizzante dei cani. Era più un tipo da gatti. « Ehi campione, non ti stanchi mai di correre dietro alla palla? »

« Qualche volta mi stanco, però mi piace! »

« Fammi vedere come corri, dai. »

Mentre Loz ridacchiava contento e si destreggiava in calci e balletti intorno al pallone fatti per impressionare Genesis, lui aveva occhi solo per Sephiroth. E così altrettanto.

 

 

Sephiroth stava bene a casa, ma per la prima volta non aveva voglia di tornarci. Però non poteva farne a meno.

Yazoo doveva essere cambiato, Loz aveva bisogno di una doccia e di dormire, a giudicare da come si strusciava gli occhietti, Sunny era fin troppo sovreccitato e rischiava di diventare distruttivo.

L'idea di separarsi da Genesis non gli piaceva. Non si erano quasi guardati negli occhi da dopo il bacio, a malapena si erano parlati. Per fortuna Loz aveva riempito il loro silenzio con la sua esuberante allegria.

Anche il rosso non sembrava intenzionato ad andarsene, dal momento che aveva smesso di controllare il telefono e aveva rifiutato un paio di chiamate.

Percorsero insieme il tragitto verso il casa Crescent. Mentre Sephiroth spingeva il passeggino, Genesis tirava per una manina Loz, che ormai cotto dalla stanchezza stentava a camminare dritto.

Era da tanto che non passava una giornata come quella, aveva le pile scariche ma era felice.

Sulla soglia, imbarazzati, i due ragazzi si guardarono a lungo. Cosa dovevano dirsi, cosa dovevano fare?

Per quanto volessero fingere di essere adulti, di sapere come va la vita e come si conquista il mondo, nessuno dei due aveva la più pallida idea di come ci si dovesse comportare. Non avevano ancora mai avuto una ragazza, le loro conoscenze si limitavano a ciò che avevano visto nei teen movie in televisione.

« Mammaaaa ho fameeee. » proclamò Loz, entrando in casa con il suo fido amico a quattro zampe, del tutto inconsapevole di ciò che stava succedendo tra il fratello e Genesis.

Sephiroth si voltò di scatto verso il piccoletto, che ovviamente era corso dentro sperando di farsi dare qualcosa da mangiare anche dalla madre, e sbuffò. « Ha mangiato un gelato, ma'! Non dargli niente! »

Tutto quell'urlare svegliò Yazoo, ancora assopito nel passeggino, che cominciò a piagnucolare, scontento di essere stato disturbato e per chissà quale altra ragione.

Sembrava proprio che il momento magico fosse svanito. Forse era meglio così.

« Io andrei. » mormorò, sottovoce, l'albino, perché in fondo non voleva doversi congedare da Genesis.

« Sì, prima che a tuo fratello venga un embolo a furia di piangere. » ribatté lui, senza la solita carica di sempre. Gli occhi blu erano rivolti verso il basso e lo facevano sembrare più giovane e impacciato di quanto non fosse.

E in effetti Yazoo stava cominciando a piangere con più insistenza, frustrato dall'essere ignorato e, probabilmente, per il pannolino sporco.

Sephiroth guardò Genesis rivolgergli un cenno di saluto con la mano e volgere le spalle per andarsene, ma lo bloccò prima che potesse scendere il primo dei tre gradini che l'avrebbero portato lontano da lui, afferrandolo per un braccio. Fu un gesto talmente spontaneo che non riuscì a stupirsene. Doveva essere fatto, e non ci aveva pensato due volte.

Lui stava per dire qualcosa – di sicuro una lamentela riguardo al piagnucolio continuo e fastidioso di Yazoo che l'avrebbe fatto impazzire se fosse rimasto qualche altro secondo di più –, ma Sephiroth gli impedì di emettere un fiato piazzando le labbra su quelle di lui. Di nuovo, non si ritrasse, di nuovo, ricambiò lentamente.

Che sfacciato, in mezzo alla strada, di fronte la porta di casa! Chiunque avrebbe potuto beccarli. Il vicino, il postino, suo padre di ritorno dal lavoro...

Nessuno passò di lì però, e il bacio durò appena il tempo per capire che ne volevano molti altri.

« Ci vediamo domani? » chiese l'albino, serio, quegli verdi come due potenti, brillanti calamite.

Come si poteva sfuggire ad uno sguardo così? Come si poteva rimanere indenni quando strappavano pezzi di carne e anima insieme?

Sephiroth non era ancora consapevole delle armi in suo possesso.

« Domani ho gli allenamenti. » mormorò Genesis. Sentiva di avere il sapore dell'amico sulle labbra ed era meraviglioso. Sapeva un po' del gelato che avevano appena mangiato, e di un desiderio finalmente realizzato.

« Dopo gli allenamenti? »

« Sì, sarebbe perfetto. »

« Allora a domani. » anche se alla fine della frase c'era una leggera inflessione interrogativa della voce.

« A domani. » confermò Genesis. A quanto pareva doveva aver sentito quella domanda nascosta tra le sue parole.

Fu un'impressione di Sephiroth o l'amico ondeggiava come un ubriaco mentre si allontanava sul vialetto?

Non fece che pensarci una volta entrato in casa, preso in braccio Yazoo, salutato sua madre, rabbonito un affamato Loz. Non fece che pensarci.

 

 

Sephiroth spostava il peso del corpo da un piede all'altro. Di tanto in tanto si appoggiava al muro alle sue spalle, guardava frettolosamente l'uscita degli spogliatoi, poi tornava a fissare il cielo che andava via via scurendosi.

Era un po' in anticipo in effetti, ma non riusciva più a tollerare l'aria che si respirava in casa. Hojo – che ormai stentava a pensare come “padre” – non si era visto per tutto il giorno, Loz aveva dato qualcosa da mangiare a Yazoo mentre lui e Jenova non guardavano che gli aveva causato dolori allo stomaco e coliche, e un conseguente pianto disperato.

Non voleva sentirsi un padre, un marito ma soprattutto un uomo così presto, non era quello che voleva.

Così, era uscito un po' prima rispetto all'appuntamento – il termine “scappare” non gli piaceva, ma in fondo era quello che aveva fatto – e si era ritrovato a vagare nei pressi della pista di corsa, finché non si era piantato all'uscita degli spogliatoi.

Doveva considerarlo come il primo, vero appuntamento tra lui e Genesis? Non ne aveva idea, e sperava che la cosa si chiarisse durante la serata.

L'unica certezza che aveva era il folle, intenso desiderio di baciarlo ancora.

Perché negare e negarsi quei sentimenti? Certo, lo confondevano e portavano con sé tutta una serie di preoccupanti pensieri, ma lo facevano stare così bene. Se questo faceva di lui un gay, beh, non era poi tanto male.

Per un attimo immaginò di dirlo a sua madre. Che cosa strana, solo il giorno prima pensava di dirle dell'esercito, adesso invece di dirle che provava sentimenti per qualcuno del suo stesso sesso.

Avrebbe perso fiducia in lui? Sarebbe stata delusa? L'avrebbe scacciato?

Jenova non aveva quel genere di pregiudizi, ma il mondo sì, e il mondo spesso aveva il sopravvento su di lei.

Le risate dei ragazzi lo distolsero dai suoi pensieri. O forse fu Genesis a rapirlo completamente.

Era carino nella sua divisa del club d'atletica, con i capelli corti raccolti alla bell'e meglio in una piccolissima coda, il borsone a tracolla e il sorriso spocchioso di chi si sente il re del mondo. Era un sorriso che tornava umile quando incrociava lo sguardo di Sephiroth, ma non si era ancora accorto della sua presenza, e circondato dai ragazzi della squadra giocava a fare il leader.

Sephiroth lo trovò ancor più adorabile del solito e rimase nell'ombra per un po', ad osservarlo.

I ragazzi della squadra se ne andarono alla spicciolata, chi salutandolo, chi invitandolo a prendere qualcosa da mangiare fuori, chi chiedendogli se stava aspettando che qualcuno lo venisse a prendere. Lui rimase sul vago e sorrise strafottente dicendogli di avere un appuntamento e che qualsiasi altro impegno era rimandato.

A quel punto, Sephiroth uscì dall'ombra e lo sorprese alle spalle mormorandogli un: « Il tuo appuntamento è arrivato. » che suonava come una presa in giro.

Genesis non sobbalzò, quasi come se se lo sentisse, ma quando si voltò era cambiato, lo sguardo nei suoi occhi si era fatto più morbido, non c'era traccia di quel che aveva visto prima, quando parlava con gli altri.

« Seph. Da quanto tempo sei qui? »

« Abbastanza. »

Il rosso alzò gli occhi al cielo con un vago sospiro. « Tu e questo vizio. »

E, a dirla tutta, lo stupì. Perché gli gettò le braccia al collo e lo baciò con tale slancio da fargli cedere le gambe per un attimo.

Con gli occhi verdi spalancati si guardò intorno. E se qualcuno fosse tornato indietro perché aveva scordato qualcosa nello spogliatoio?

Dal momento che intorno a loro c'erano solo tenebre, chiuse le palpebre e godé di quel bacio per un tempo che gli sembrò infinito.

« Non credi che dovremmo parlare di questa cosa? » gli chiese, quando si separarono e riuscì a tornare in possesso delle sue facoltà cognitive.

« Al fatto che bacio meglio di te, Crescent? »

Sephiroth gli diede un pungo sulla spalla che se fosse stato un po' più forte l'avrebbe fatto gemere di dolore. « Stupido. Non ti sei fatto qualche domanda? Non hai paura? Ti va bene e basta? Fino a ieri eravamo amici e adesso...adesso cosa siamo? »

Dovette aver toccato un tasto dolorante, perché Genesis finalmente abbandonò la maschera che aveva addosso e poté vedere il suo viso imporporarsi, lo sguardo blu fuggire al suo, l'imbarazzo farsi strada in lui.

« Camminiamo, ti va? » ma in ogni caso non aspettò la risposta, cominciò a camminare e lui dovette soltanto andargli dietro. « Penseresti male di me se...ti dicessi che avevo questa fantasia da un po' di tempo ormai? » non gli rispose, non perché non volesse ma perché non gliene diede modo.

Stava così, con le mani in tasca, come se cercasse di evitare ogni contatto con Sephiroth. Un po' tardi dal momento che le labbra bruciavano di lui.

« Credevo di essere...impazzito. Cioè, io non sono gay. Non mi sento gay. Non ho mai guardato nessun ragazzo a parte... » “te”, ma non lo disse, e a Sephiroth quel non detto suscitò un sorrisino divertito.

Gli piacque vedere come cercava in tutti i modi di giustificarsi, incespicando nelle sue stesse parole e lanciandogli allarmati sguardi per testare la sua reazione.

« Quindi ho...stupidamente creduto che allontanandomi da te le cose sarebbero migliorate. »

« E io che credevo di averti offeso la mamma. »

« Oh sta' zitto, mia madre non fa che chiedermi di te. »

« Sì? » divertito, Sephiroth si fermò, lasciando che Genesis camminasse ancora qualche passo, superandolo. « A lei hai detto niente di...questo? » il rosso non rispose, anzi, incassò la testa tra le spalle, colpevole. « Oh non ci credo! L'hai detto a tua madre?! »

« Ero confuso! » a quel punto si volse, e con il viso completamente paonazzo di vergogna sembrava un bambino. « Ed era abbastanza palese che mi mancassi, solo tu non te ne sei accorto.»

« Io ti ho scritto tutti i giorni, anche quando non ottenevo risposta. Com'è che invece non hai capito che mancavi a me? »

Rimasero a fissarsi, quegli sguardi brucianti come gemme preziose. Da una parte gli smeraldi di Sephiroth, dall'altra gli zaffiri di Genesis.

Una lotta silenziosa che il rosso aveva perso in partenza.

Abbassò la testa e si lasciò andare ad un enorme sospiro. « D'accordo, okay, ho sbagliato, va bene? Ti ho evitato perché pensavo che fosse la cosa migliore, e giusto per la cronaca mia madre mi aveva detto di smettere di farlo. Mi perdoni? »

« Che moccioso che sei. » esalò, esasperato, Sephiroth. Gli ricordava Loz, quando combinava qualche guaio e lo faceva arrabbiare, e poi veniva con i suoi occhioni tondi tondi e pieni di lacrime e lo supplicava di perdonarlo. Tra lui e Genesis non c'era alcuna differenza. Anzi, una sì, una piccola differenza fondamentale: Loz era sincero, Genesis no.

« Vedrò. Al momento non ho motivo di perdonarti. » altezzoso, con il naso leggermente all'insù. Guardava l'amico dall'alto in basso, ben sapendo quanto lo infastidisse essere più basso di lui.

Fu il turno di Genesis di dargli un pugno sulla spalla, anche se la sua occhiataccia ne smorzò l'effetto.

Quindi continuarono a camminare, in silenzio.

Il rosso alzava gli occhi su Sephiroth ogni quindici passi, li aveva contati, e per questo faceva in modo di non farsi mai sorprendere a guardarlo, come invece faceva per il tempo restante.

Finirono con il gironzolare tra le luci dei negozi ancora aperti e lampioni occhieggianti dall'alto. Nonostante ciò che stavano nascondendo, non si sentivano a disagio, anzi. Non gli importava di avere gli occhi della gente addosso, non gli importava che qualcuno dicesse qualcosa. Che pensassero quel che volevano: non era affar loro.

Fu lento ma naturale il loro avvicinarsi, il cercarsi delle loro mani, intrecciate nella tasca della giacca di Sephiroth. C'era elettricità tra loro, la voglia di scoprire fino a che punto i loro corpi accettavano quella novità, se gli fosse piaciuto tanto quanto immaginavano. Era eccitante avere quegli strani pensieri mentre passeggiavano tranquillamente.

« Penso che possiamo farla funzionare. » disse Sephiroth, così all'improvviso che Genesis quasi sobbalzò.

Il rosso non poté negarsi un sorriso, vittorioso e speranzoso insieme e...strinse più forte la sua mano.

Avrebbero avuto modo di scoprirsi e capirsi, insieme. Sempre.

 

 

Sephiroth tornò a casa veramente tardi. Non aveva un coprifuoco, perché non ne aveva mai avuto bisogno, e quando l'orologio del cellulare gli disse che era mezzanotte passata capì da solo che era il momento di tornare.

Sua madre non aveva protestato, si erano scambiati dei messaggi su WhatsApp solo per accertarsi che lui fosse ancora vivo, dopo di che l'aveva lasciato libero. Questo era il bello di avere una madre giovane, in un certo senso, ma anche di essere un figlio eccezionalmente responsabile.

I due ragazzi fecero la strada insieme finché poterono, poi, scambiatisi un velocissimo bacio di saluto, si separarono.

Sephiroth saltò in macchina e prese la strada di casa.

Fu felice di essere in grado di guidare senza porre troppa attenzione alla strada, lasciando che i suoi piedi e le sue mani si muovessero in autonomia. Così poté pensare alla serata appena trascorsa.

Ad una prima, superficiale occhiata, sembrava un'uscita come tante altre. Erano andati a mangiare un hamburger alla prima panineria non troppo affollata che avevano trovato, avevano guardato le vetrine del GameStop sognando di comprare una console nuova, poi erano passati alla libreria café non per prendere qualcosa da bere ma solo per spulciare libri che non avevano soldi per comprare. Niente di diverso o insolito o strano.

Se solo non fosse stato per come i loro occhi si cercavano, o per i sorrisi nascosti che di tanto in tanto si scambiavano.

Si respirava nell'aria qualcosa di diverso, qualcosa ancora in fase larvale che avrebbero capito solo dopo aver superato l'imbarazzo.

Avevano deciso, però, di non darsi etichette. Erano amici? Fidanzati? Si frequentavano? Tutte quelle cose insieme? Niente calzava per la loro situazione, quindi avevano solo rinunciato a darsi una definizione. Andava bene così, lo avrebbero capito con il tempo.

Era quasi arrivato a casa quando l'inconscio di Sephiroth – quella parte di lui che stava guidando mentre la parte cosciente si deliziava nel ricordo della serata con Genesis – registrò una presenza anomala di fronte casa sua.

Tornò presente a se stesso in un attimo, corrugando le sopracciglia.

Una macchina sconosciuta aveva parcheggiato davanti al vialetto di ingresso. Non era la macchina di suo padre, ed era abbastanza sicuro che nessuna delle persone che conoscevano ne aveva una simile. Ma la sua memoria poteva anche ingannarlo, no?

Si fermò a cento metri di distanza. La macchina aveva le luci di posizionamento accese, quindi doveva esserci qualcuno all'interno.

Spense il motore e scese dall'auto con una strana sensazione in petto. Un presentimento, forse. Cominciavano così tutte le storie di ragazzini scomparsi o di omicidi efferati. Ma non aveva paura.

Cercò di avvicinarsi in modo che chiunque fosse all'interno della macchina non lo vedesse arrivare, ma ben presto si rese conto che tutte quelle precauzioni erano futili: i vetri erano appannati, e l'auto sobbalzava leggermente.

Il cuore cominciò a batterli forte in petto, le mani gli formicolavano. Due pervertiti facevano sesso in macchina di fronte a casa sua! Forse doveva chiamare la polizia. Digitò 911 sul cellulare per essere pronto, e con una mano a coppa sul finestrino sbirciò dentro.

Tutto si sarebbe aspettato meno che quello.

Riconobbe immediatamente l'uomo seminudo che si muoveva lentamente sopra una donna sconosciuta che gemeva sottovoce. I lunghi capelli neri, spettinati, gli ricadevano sul viso, ma il profilo del naso, gli occhialetti, la forma della mandibola, erano inconfondibili: suo padre.

Hojo dovette sentirsi osservato perché alzò lo sguardo e colse il figlio in flagrante. Che strano, era stato lui a coglierlo in flagrante per primo.

In un concitato istante Hojo si ritrasse dalla donna, afferrò la giacca e quasi ruzzolò fuori dall'auto per raggiungere Sephiroth, rimasto immobile, sconvolto, con il telefono con lo schermo acceso su cui lampeggiava 911 ancora tra le mani, gli occhi spalancati e increduli.

« Seph. » mormorò l'uomo. Si stava ancora abbottonando i pantaloni. Il ragazzo non vide rimpianto sul suo volto, solo un politico distacco. « Figliolo, non è come sembra. »

Qualcosa nel petto di Sephiroth si incrinò, con tale intensità da fargli storcere le labbra in una smorfia di dolore.

« Da quanto tempo. » disse, con una calma gelida venuta chissà da dove.

« Seph, ti prego, ti ho detto che non è come sembra, e... »

« DA QUANTO TEMPO. » urlò quindi.

Il padre tremò a quell'urlo, sembrò farsi piccolo e finalmente mostrò sdegno e vergogna per se stesso. Era ora.

« Un paio d'anni. » confessò quindi, passandosi disperato una mano tra i capelli. Forte, li afferrò forte, cercando di scacciare il dolore che sentiva al cuore.

« Mi fai schifo. » sputò Sephiroth.

Hojo tentò anche di giustificarsi, cercò le parole adatte per spiegargli il perché delle sue azioni, balbettò come un ebete scivolando sullo specchio di ghiaccio che era l'espressione del figlio.

Lui però non ascoltò una sola parola. Gli rimbalzavano addosso, non riusciva a provare nessuna empatia per il suo tremante padre. Non c'era compassione nei suoi occhi.

« Farai meglio a dirlo alla mamma, prima che lo faccia io. » annunciò, poi girò i tacchi per tornare alla sua auto.

Salì al posto di guida, l'accese, passò di fianco all'auto con la donna che intanto si era rivestita e che appariva minuscola e spaventata tanto quanto Hojo. Girò sul vialetto per parcheggiare in garage.

Rientrò in casa e volse lo sguardo indietro un attimo per guardare suo padre. Fu l'ultima volta che lo fece.

 

*

 

In vita sua non credeva di poter provare un dolore tanto forte. Pulsava come fosse vivo dentro il suo petto, ma non era il cuore, oh no, il cuore era morto, fermo, nero come l'inchiostro.

Non riusciva neanche a piangere, tanto era sconvolta.

Seduta al tavolo della cucina, di fronte al marito che l'aveva tradita, Jenova aveva l'espressione piatta e vacua di chi non sa più cosa pensare, cosa provare, come reagire.

Era tutto così assurdo che non riusciva a crederci.

Il nome della donna che gli aveva rubato l'amore era Lucretia. Jenova si ricordava di lei vagamente. Ricordava capelli castani, un corpo attraente fasciato in un camice, occhi vispi.

Una collega di lavoro con cui Hojo si era ritrovato a vivere fianco a fianco negli ultimi cinque anni.

Cinque. Yazoo non era neanche nato, Loz era a malapena un bambino, Sephiroth un piccolo adolescente.

Cinque.

Ma, gli aveva assicurato l'uomo piangendo, la loro storia era cominciata solo da due.

Sì, questo la rassicurava davvero.

Aveva pensato a lei tutte le volte che avevano avuto rapporti? Aveva cercato il viso di lei nel suo addormentato?

Avrebbe voluto che Yazoo fosse il figlio della loro unione?

Il dolore era tanto forte che non riusciva a respirare, ma nonostante questo rimase immobile e inespressiva mentre l'uomo che credeva di amare piangeva pateticamente, il volto nascosto tra le mani.

Chissà se i bambini stavano bene. Sephiroth era via con loro ormai da diverse ore.

Dalla sera in cui era tornato dall'uscita con Genesis era strano, particolarmente silenzioso, scostante, nervoso, sembrava di parlare con un'altra persona. E Jenova, adesso, non stentava a capire perché.

Hojo non avrebbe confessato se lui non l'avesse scoperto.

E dire che per tutti quegli anni era stato così bravo a nascondersi. Quante volte, tornando a casa con la sua amante, era finito dentro le sue mutandine proprio lì, sul vialetto.

Peccato che gli fosse sfuggito che Sephiroth quella sera sarebbe tornato tardi. Tutta colpa della sua assenza da casa. Se fosse stato più presente l'avrebbe saputo, e sarebbe stato più cauto nell'essere un porco.

Il solo pensiero di tutte le volte che Jenova avrebbe potuto scoprirlo mentre stava a letto sconvolta dai dubbi e dalla rabbia la faceva impazzire. Era a pochi metri dalla verità e se l'era fatta sfuggire così. Avrebbe dovuto capirla da sola.

La donna sospirò, si massaggiò la radice del naso con indice e pollice. Non ne sapeva abbastanza di come si vive per sapere come comportarsi adesso.

Perché nonostante tutto quel dolore continuava ad amare il padre dei suoi figli?

Il loro rapporto non era mai stato facile da gestire, avevano vissuto tanti alti e bassi da far invidia alle montagne russe, ma, credeva, l'amore tra loro non era mai sparito. C'erano sempre due ragazzini impacciati e timidi dietro le maschere da grandi che il mondo aveva imposto loro.

« Cos'hai intenzione di fare? » gli chiese, senza sapere che era una domanda per lo più riferita a se stessa.

Hojo rimase con la testa bassa, ma per lo meno aveva smesso di piangere. Proprio non sopportava la sua mancanza di spina dorsale. Se aveva avuto il coraggio di tradirla, almeno che avesse la forza di comportasi da uomo.

« Non voglio che la nostra famiglia si sfasci per questo. » disse lui, e per la prima volta da quando avevano cominciato a parlare alzò lo sguardo su di lei.

Sì, quegli occhi verdi avevano ancora il potere di farla rabbrividire. Stupido cuore, proprio adesso tornava a battere?

Doveva odiarlo, non provare quella punta di amore e pietà.

« Avresti dovuto pensarci prima di sfasciarla allora, non trovi? » non avrebbe voluto rispondere con tanta acidità, ma quel tono le scivolò fuori dalle labbra tanto spontaneamente che neanche se ne pentì. Aveva perso il controllo del suo corpo, del suo cuore, della sua anima, non era più in sé.

Hojo annuì, colpevole, un cane bastonato. Era giusto che fosse così.

« Non voglio...non voglio perdervi, perderti. »

« È complicato. »

« Ti prego. »

Gli occhi di Hojo erano così sinceri, così reali, non li vedeva in quel modo da tanto, tanto tempo.

Jenova respirò a fondo. La testa le scoppiava, avrebbe solo voluto dormire e dimenticare quella sera, quel momento terribile della sua vita.

Ma, concluse con se stessa, purtroppo poteva perdonarlo. Sapeva che con il tempo l'avrebbe fatto, il suo cuore non rifiutava la possibilità. Avrebbe fatto più male vederlo andare via. Era ancora il ragazzo che a sedici anni si era preso la responsabilità di una gravidanza inaspettata, e che l'aveva presa con sé senza dire una sola parola di più.

Poteva perdonargli un unico errore, per quanto terribile.

« Non devi rivederla mai più. » cominciò, la voce le tremava più di quanto avrebbe voluto. Anche se i suoi occhi erano aridi di lacrime, qualcosa dentro di lei piangeva. « Non voglio controllarti come se fossi un bambino. Dovresti sapere cos'è giusto e cos'è sbagliato. Posso fare questo ultimo atto nei tuoi confronti, ma se mi darai modo di pensare che mi stai tradendo ancora, se ti vedrò assente, se non ti vedrò intenzionato a ricostruire qualcosa tra noi, se i nostri figli sentiranno la tua mancanza, non ti perdonerò una seconda volta. »

« Sì. » rispose lui, tutto accartocciato in se stesso. Sembrava la metà di quello che era, umiliato di fronte a quella piccola donna che aveva dato tutto per lui.

Come aveva potuto tradirla?

Pensandoci adesso nessuna delle giustificazioni che si era dato erano valide. Niente, niente avrebbe potuto dargli il permesso di farlo. Avrebbe dovuto parlarle molto tempo prima, cercare di spiegarle come si sentiva e risolvere quel nulla che sentiva nel cuore prima che diventasse una presenza molesta per il loro matrimonio. Come alla fine era successo.

Avrebbe voluto alzarsi da quella sedia, stringerla di nuovo a sé, riscoprire che il suo corpo, il suo profumo, la sua presenza, gli piaceva ancora, ma aveva paura del suo – giusto – rifiuto. Per cui rimase immobile, le mani poggiate sul tavolo in segno di resa.

Poi Jenova fece qualcosa di inaspettato. Come mossa da una forza più grande di lei gli prese una mano, lentamente, timidamente, neanche fosse la prima volta.

Ritrovò il suo calore nel modo in cui le loro dita si intrecciarono.

Un giorno sarebbe riuscita persino a tornare a fidarsi di lui.

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The Corner 

Ancora una volta mi scuso per il ritardo, ma stamattina proprio non ho avuto modo di pubblicare il capitolo.
E così, Hojo è uno sporco traditore, c'è da biasimarlo, con la caotica famiglia che si ritrova? Chi lo sa! 
Bacio fortissimo la mia piccola Musa che in questi giorni sta sgobbando dalla mattina alla sera e non riesce neanche a respirare.

Chii

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Capitolo 9
*** Smallest Miracle ***


Part Four: Poison Green

 

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Smallest Miracle

 

 

Era passato un anno e un mese da quando Hojo aveva confessato il tradimento. Quando Jenova si guardava allo specchio le sembrava assurdo che fosse passato così tanto tempo.

Il suo corpo che cambiava, però, la rendeva più consapevole dello scorrere dei mesi.

Il primo periodo dopo quel terribile giorno Hojo aveva dormito sul divano, poi su una branda nel suo studio, ma mai nello stesso letto di Jenova.

Però, era stato un uomo di parola. Aveva smesso di vedere Lucretia, si era licenziato dal vecchio lavoro a favore di un nuovo posto con una retribuzione migliore – e che soprattutto gli lasciava più libertà – e aveva fatto tutto il necessario per rimettere insieme i pezzi in frantumi della sua vita.

Avevano trascorso un'inaspettata bellissima estate. Loz finalmente nuotava, avevano scoperto che Yazoo era allergico anche alla maggior parte delle creme solari – cosa che l'aveva reso pallido come un vampiro e per lo più relegato sotto l'ombrellone con un enorme cappello sulla testolina –, Sephiroth aveva mandato la sua candidatura per l'arruolamento, ed Hojo era stato presente in ogni istante.

Anche se il figlio maggiore, a differenza della madre, non riusciva a perdonarlo, il suo rapporto con lui era diventato più cortese.

All'inizio di settembre si erano trasferiti, cosa che aveva provocato nei bambini divertenti reazioni. Avevano bisogno di cambiare aria, e Sunny aveva bisogno di spazi più ampi per correre e sentirsi libero, dal momento che sembrava non voler smettere di crescere.

Arrivati nella casa nuova, Yazoo aveva vagato con il naso all'insù, spaurito come in un museo, cercando di orientarsi nei nuovi ambienti, mentre Loz aveva avuto una crisi di pianto dovuta all'impossibilità di scegliere la sua nuova cameretta: gli sembravano tutte belle allo stesso modo. La casa era più grande, ma soprattutto era nuova: l'odore della pittura fresca sembrava promettere un futuro migliore.

Il compleanno di Loz fu un'ottima occasione per organizzare la prima festa in quella bella casa. Il piccoletto, a differenza di Sephiroth alla sua età, era pieno di amici, e in un attimo ogni spazio si era riempito di risate scampanellanti, sorrisi, coriandoli e faccette sporche di torta. In Jenova si era mosso qualcosa.

Quella notte, per la prima volta, permise a Hojo di dormire con lei. Quel che successe subito dopo fu una naturale conseguenza della loro ritrovata intimità.

Dopo tre figli, Jenova sapeva riconoscere i sintomi di una gravidanza.

L'annuncio fu il regalo di Natale per la famiglia.

Sephiroth reagì nel peggiore dei modi, chiudendosi un silenzio astioso che durò ben oltre il consentito, e che poi sfociò in una lite aggressiva che l'aveva portato ad andarsene da casa. Per un paio di giorni era rimasto da Genesis, e solo l'influenza di Megan aveva potuto sciogliere un po' il nodo di rabbia che gli stringeva lo stomaco.

Però continuò a non condividere la scelta della madre, e quando compì diciotto anni, proprio come aveva annunciato l'estate prima, si arruolò nell'esercito con Genesis. Fu il primo uccellino a lasciare il nido.

Loz avrebbe ricordato quell'ultimo abbraccio, il più forte, il più dolce, il bacio che il fratello gli diede sulla testolina, e la luce nei suoi occhi. Gli sarebbe mancato per sempre.

La vita trovò il suo modo di riempire il vuoto che Sephiroth aveva lasciato, grazie all'arrivo del nuovo bambino. Arredare la sua stanzetta insieme alla mamma aveva reso Loz più consapevole del suo nuovo ruolo di figlio più grande, di cui divenne immediatamente entusiasta. Doveva essere come Sephiroth, responsabile, forte, serio, e proteggere Yazoo, il nuovo fratellino e la sua mamma, e insegnava a Sunny a fare la guardia alla stanzetta del neonato, per prepararlo al suo arrivo. Era suo dovere, lui era il maggiore.

A subire maggiormente un influsso negativo fu Yazoo. All'improvviso tutti sembravano così felici di mettere le mani sulla pancia della mamma, e nessuno lo guardava più, quando venivano ospiti a casa non portavano regali per lui: tutti avevano qualcosa per il bambino, ma per lui più niente.

Diventato insofferente e non comprendendo il perché di quei cambiamenti, cominciò a comportarsi in maniera capricciosa, appiccicosa, assillando la mamma a tutte le ore del giorno e della notte per qualsiasi bisogno, impellente o meno.

La fine della gravidanza sarebbe dovuta essere a metà agosto, e mai a Jenova era sembrata più lunga e impossibile da sostenere. Per di più, era una gravidanza difficile. Aveva avuto minacce di aborto che l'avevano fatta finire in ospedale più di una volta, e le visite continue dal ginecologo l'avevano resa nervosa e spaventata: se fosse successo qualcosa al bambino, sarebbe morta dentro. Aveva amato tutti i suoi figli e portarli in grembo l'aveva resa felice in modi sempre diversi, ma questa volta era diverso, era speciale, sentiva di avere con con il piccolo un legame del tutto nuovo e meraviglioso, e fremeva dalla voglia di stringerlo.

Da un punto di vista puramente cartaceo l'estate era ancora lontana, ma la prima settimana di giugno si era presentata con un caldo asfissiante e un cielo tanto azzurro da far male.

Alla donna sembrava impossibile sopravvivere fino ad agosto con quelle temperature, aveva come l'impressione che il bambino sarebbe soffocato per colpa di quel caldo.

Quel giorno era stata particolarmente male. Fitte terribili all'addome l'avevano costretta a letto nel terrore di perdere il bambino. Sdraiata con una pezza fredda sulla fronte cercava di respirare profondamente, nella speranza che la crisi di panico passasse o...quanto meno si affievolisse.

« È ancora troppo presto, Kadaj. » disse, massaggiandosi la pancia così piccola. Durante l'ecografia era saltato fuori che il bambino era di minuscole dimensioni, e che se fosse arrivato a due chili alla nascita sarebbe stata una sorpresa. Nonostante lei mangiasse e prendesse integratori di tutti i tipi per cercare di farlo aumentare di peso, il piccolo si rifiutava di crescere, o almeno così sembrava. « Devi rimanere qui altri due mesi, puoi farlo per me? Puoi farlo per la tua mamma? »

Per un attimo Jenova sentì un piccolo movimento, un calcetto, venire dal bambino, e sorrise. Chissà che non l'avesse sentita.

Kadaj aveva ricevuto una quantità di stimoli esterni che sfiorava il disturbo della quiete pubblica. Essendo così piccolo – e problematico – il medico aveva consigliato ai genitori di stare letteralmente con l'orecchio teso. Non sentirlo muoversi per un lungo periodo di tempo poteva essere sintomo di insofferenza fetale, per questo c'era sempre qualcuno che gli parlava, che appoggiava un giocattolo sonoro contro la sua pancia, che la toccava nella speranza di sentirlo muovere.

Jenova gli aveva fatto ascoltare così tanta musica durante quei mesi, appoggiandosi un paio di cuffie sull'addome, che ormai sapeva cosa piaceva al piccolo e cosa no. Magari da grande sarebbe diventato musicista.

« MAMMA! »

Quasi sobbalzò per l'urlo. Era la piccola, morbida vocetta di Yazoo, che sapeva trasformarsi in un grido stridulo in un attimo.

La donna, esausta, si alzò a sedere, senza però essere in grado di mettersi in piedi. Era stremata e il dolore non scemava.

« Che c'è, tesoro? » provò, senza però muoversi dal letto. Davvero non riusciva ad alzarsi.

Considerò l'idea di chiamare il medico e capire se fosse il caso di andare in ospedale.

Yazoo, dopo un lungo silenzio, decise di andare a vedere cos'è che stesse facendo di così importante la mamma che le impedisse di andare da lui.

Quando apparve sulla soglia, Jenova sorrise. Nonostante il caratteraccio, Yazoo era un bambino bellissimo. A quattro anni sembrava una bambola di porcellana, con quei capelli lunghi e setosi, gli occhi sottili quasi a mandorla, la pelle nivea e le piccole, perfette labbra rosee.

Persino quand'era scontento e una piccola ruga si formava tra le sopracciglia risultava irresistibile.

« Mamma ho fame. » annunciò, come fosse un ordine.

Erano le quattro di pomeriggio, l'orario in cui normalmente il bambino faceva merenda.

Se c'era qualcosa che Yazoo padroneggiava alla perfezione era lo scorrere del tempo. Riusciva ad essere più puntuale di un orologio e ormai la famiglia si era abituata a muoversi in base alle sue richieste. Quando aveva fame, era ora di mangiare, quando aveva sonno, era ora di dormire. Una cosa che aveva smesso di succedere con la gravidanza, però: i suoi, di bisogni, ruotavano intorno a ciò che Kadaj chiedeva, e molto spesso le chiedeva di rimanere a letto. Questo Yazoo non poteva perdonarlo al fratellino, soprattutto perché non era ancora nato e già gli portava via la sua mamma.

« Tesoro, puoi aspettare un po'? La mamma non si sente per niente bene, ha bisogno di riposare in questo momento. »

« Ma io ho fame. » ribadì Yazoo, come se fosse una cosa consequenziale il suo doversi alzare e dargli qualcosa immediatamente.

« Ci sono i tuoi cracker sul mobile, te li ho lasciati pronti. Puoi prendere quelli? » c'era un tono...supplicante nella voce di Jenova. Sentiva che il bambino era molto vicino ad una crisi, glielo leggeva negli occhi, ed era sola in casa con lui, dato che Loz era da un amichetto e Hojo finiva di lavorare alle sei. Doveva stare attenta a ciò che diceva e a come lo diceva se non voleva che si aprissero le porte dell'inferno.

Come poteva un bambino così bello, così etereo, nascondere un'orda di demoni nel suo piccolo petto?

« Non li voglio. » disse ancora, la mascella leggermente spinta in avanti, un atteggiamento che supponeva che sì, li voleva, ma non voleva andare a prenderseli da solo.

« Vieni qui, stenditi con la mamma. » provò lei, toccando con una mano il posto vuoto a fianco a lei. « Tra dieci minuti quando mi sentirò meglio andremo insieme a fare merenda. »

Era una proposta ragionevole, no? Perché Jenova non aveva la più pallida idea di cosa Yazoo ritenesse ragionevole e cosa no. A pensava di aver sbagliato tutto con lui. Forse non l'aveva amato abbastanza? Non gli aveva dato le giuste attenzioni? O, al contrario, gliene aveva date troppe?

Eppure non le sembrava di essersi comportata diversamente, come aveva cresciuto Sephiroth e Loz aveva cresciuto lui.

Non si attribuiva nessuna colpa, perché era esasperata, a mente lucida probabilmente avrebbe capito cos'è che aveva sbagliato.

« No. » batté un piedino sul pavimento. « Voglio mangiare adesso. »

« Adesso non è possibile, tesoro. » il suo tono di voce continuava ad essere condiscendente, perché non voleva perdere le staffe con il piccolo per un capriccio che poteva essere arginato invece che ingigantito. « Non mi sento bene, capisci? La mamma vuole solo evitare che qualcosa di brutto succeda al tuo fratellino e ha davvero davvero bisogno di riposarsi a letto ancora qualche minuto. »

« Perché? » Yazoo suonava improvvisamente incuriosito, aveva abbandonato l'espressione aggressiva. Forse aveva preso la strada giusta per evitare il peggio.

« Perché è molto pericoloso per il bimbo se adesso mi alzo. » si accarezzò il ventre, e cercò di ignorare la fitta di panico al cuore quando sentì che Kadaj non si muoveva, tanto che cominciò a premersi la pancia tentando di convincerlo a scalciare. « Il dottore ha detto che bisogna riposarsi tanto, finché non passa la bua, come quando ti sei slogato la caviglia correndo in giardino, ti ricordi? »

« Sì. »

In effetti ricordava. Era successo poco tempo prima, giocando con Loz a rincorrere la palla. Sunny, senza volerlo, gli aveva fatto lo sgambetto, e lui era caduto battendo un ginocchio. Niente di grave, anche se aveva pianto più del dovuto solo per essere preso in braccio dalla mamma, che poi l'aveva tenuto stretto a sé per tutto il pomeriggio. Il dolore al ginocchio era andato subito via, quello alla caviglia era durato qualche giorno, in cui era rimasto a letto, sollevato ora da Jenova ora da Hojo perché si muovesse il minimo indispensabile. In realtà gli era piaciuto che tutti si prendessero cura di lui in quel modo, non succedeva più ormai.

« Ecco, è la stessa cosa! Basta un po' di riposo e poi potremo fare tutto quello che vuoi. »

« Io voglio mangiare... » gli occhioni di Yazoo si riempirono di lacrimoni, falsi e forzati come solo lui sapeva fare, anche se la madre non sempre riusciva a distinguerli da quelli veri.

« Più tardi, Yazoo. » disse Jenova, più decisa, quasi arrabbiata. Non reggeva più quei suoi capricci, e insieme quella sua testardaggine.

Il bambino rispose come rispondeva tutte le volte che qualcuno gli negava quello che voleva: cominciò a piangere. Accoratamente, con le manine che andavano ad asciugare le lacrime e gli occhi che cercavano quelli della mamma per capire se la messa in scena stava sortendo l'effetto desiderato.

La risposta era ovviamente no, quel pianto non intenerì la mamma, anzi, la fece solo arrabbiare di più. Se non fosse stata una donna intelligente avrebbe scacciato il bambino con poco riguardo, ma tentò nuovamente di convincerlo a sedersi accanto a lei, di guardare la tv insieme e di aspettare solo dieci minuti. Solo dieci minuti!

Yazoo batté i piedi e, indignato, se ne andò. Jenova sapeva cosa sarebbe successo adesso: la prima cosa che gli sarebbe capitata tra le mani l'avrebbe gettata a terra per romperla. Era così che esprimeva il suo scontento, ed era anche il motivo per cui non c'erano quasi più suppellettili sui mobili, non su quelli che le sue manine potevano raggiungere almeno.

Qualcosa da rompere, però, riusciva a trovarla sempre.

« Yazoo! » strillò la donna, mentre sentiva i passetti del bambino raggiungere il salotto. La sua mente lavorò freneticamente pensando a cosa aveva lasciato fuori posto, cosa il piccolo potesse rompere. « Yazoo torna subito qui! »

Lui non rispose, non con le parole. Doveva aver gettato i telecomandi della tv a terra, il rumore sembrava quello. Già immaginava il salotto a soqquadro per colpa di quelle maledette, diaboliche manine.

Lo sentì urlare, forse frustrato perché non trovava niente da spaccare, e salì furiosamente le scale per andare a fare qualche disastro nella stanzetta di Kadaj: la sua attività preferita.

« YAZOO! »

Quando sentì il rumore della plastica che veniva battuta ripetutamente contro il pavimento e il suono di un povero, morente giochino per bambini, Jenova dovette alzarsi.

Una fitta all'addome quasi la fece piegare in due e dovette reggersi l'addome per un lungo attimo. Ma Yazoo continuava a battere e battere e battere, avrebbe distrutto tutti i nuovi giocattoli di Kadaj se non l'avesse fermato.

Furiosa, ignorò il dolore e andò nella stanzetta.

Sulla soglia vide il piccolo accanirsi con il pianoforte musicale che Aaliyah gli aveva regalato neanche una settimana prima, e senza pensarci due volte si lanciò su di lui per afferrargli il braccino, una mano alzata già pronta per dargli uno schiaffo.

Un'altra fitta, però, le impedì di fare qualsiasi cosa. Dovette lasciarlo per reggersi l'addome, come se la cosa potesse effettivamente giovarle.

Solo quando Yazoo la guardò con gli occhi sgranati capì che c'era qualcosa che non andava.

Abbassò lo sguardo e il cuore si gelò: c'era sangue tra le sue gambe.

Una stilettata di dolore la fece cadere in ginocchio, un urlo smorzato tra le labbra.

« Mamma...! » pianse Yazoo, senza avere il coraggio di avvicinarsi a lei.

« Yazoo, il telefono, prendimi il telefono. » riuscì a biascicare la donna, anche se il dolore stava diventando soverchiante e il sangue cominciava ad inzupparle i pantaloni.

Nei pochi istanti in cui il bambino cercò freneticamente il cellulare nella stanza della madre, Jenova riuscì a pensare ad ogni possibile, terribile scenario. Immaginò che i medici le dicessero che per il suo piccolo Kadaj non ci fosse più speranza, che ormai era morto e che non potevano fare più niente, immaginò il dolore della perdita dopo tanta gioia, immaginò di tenere il suo corpicino senza vita tra le braccia prima che le venisse portato via per sempre.

Quando Yazoo le porse il telefono e lei chiamò un'ambulanza stava piangendo, ma non se ne rese conto.

 

 

Sephiroth riuscì ad arrivare a cento prima di gettare i pesi sul pavimento per massaggiarsi le braccia doloranti. Quella sessione di allenamento era stata la più dura della settimana, aveva dolori ovunque ma era soddisfatto del risultato.

Quasi sei mesi di servizio militare avevano forgiato il suo corpo e ormai somigliava sempre più all'uomo che voleva essere.

Si terse il sudore dalla fronte per poi gettarsi l'asciugamano su una spalla.

Genesis, ancora sulla panca, cercava la forza di arrivare almeno ad ottanta. Aveva il viso contratto in una smorfia, rosso fuoco, le vene sul collo sembravano sul punto di scoppiare.

« Così ti ammazzi. » gli disse, avvicinandosi a lui con qual suo fare meschino, che sapeva l'avrebbe fatto arrabbiare.

« Ce la faccio. » rispose, sputando tra i denti nel tentativo di non perdere la concentrazione.

Sephiroth rimase ad osservarlo con le braccia incrociate sui pettorali gonfi. Una visione che Genesis avrebbe trovato assolutamente affascinante se non l'avesse odiato così tanto. No, non poteva odiarlo sul serio, era solo la frustrazione del momento.

Il suo ragazzo riusciva ad essere migliore di lui anche in quello. Era più forte, più atletico, più muscoloso, e soprattutto era il candidato ideale a diventare cadetto dell'anno. Inutile rivaleggiare con lui, e non solo perché l'amare il modo in cui scattava sull'attenti quando indossava l'uniforme gli annebbiava la mente e incasivana i pensieri.

Quand'erano ufficialmente diventati una coppia non avrebbero saputo dirlo, tutto era successo in modo graduale e naturale e loro se n'erano resi conto a malapena. Tra il tradimento, il trasferimento, la nuova gravidanza e l'esercito avevano avuto davvero poco tempo per definire quella relazione. Quindi era successo e basta, senza bisogno di dirlo.

D'altronde, c'era una quantità enorme di cose che potevano dirsi senza esprimerle a voce, bastava guardare come si muovevano, come si guardavano, come si toccavano.

Ah, essere lontani da casa aveva reso i loro rapporti intimi molto più eccitanti, per quanto le prime volte fossero stati conditi con una dose eccessiva di vergogna.

Per loro fortuna non erano l'unica coppia, né gli unici gay lì dentro, e avevano ricevuto il conforto e i suggerimenti necessari perché capissero come amarsi.

Prima o poi sarebbe saltato fuori che l'esercito degli Stati Uniti era formato da un'intera generazione di omosessuali. Chissà che colpo al cuore per il Presidente.

Sephiroth e Genesis, in ogni caso, avevano trovato nell'esercito una nuova famiglia.

Per quanto volesse negarlo a se stesso, però, Sephiroth sentiva la mancanza dei suoi fratelli e di sua madre, delle giornate passate ad oziare nella vecchia casa, persino dei rumori che facevano le scale quando rincasava di sera tardi e tutti già dormivano. Erano le piccole cose, per lo più, a mancargli. La risata di Loz, il visetto di Yazoo, le dolci occhiate di sua madre, persino le palline di plastica coperte di bava che Sunny gli metteva tra le mani perché le lanciasse. Cose così, per quanto bene si trovasse nell'esercito, non poteva dargliene nessuno.

« Ci sono. » disse Genesis, la voce strozzata nel tentativo di sollevare il bilanciere. « Ottant...uno! » poi si arrese, e Sephiroth lo aiutò a riporlo.

Sudato, e sul punto di avere una crisi respiratoria, il ragazzo si alzò e gonfiò i bicipiti, solo per mostrarli, come la ruota di un pavone, a Sephiroth che sorrideva. « Ottantuno. Quanti ne hai fatti tu? »

L'albino finse di contare, gli occhi verdi puntati al soffitto, per poi tornare su di lui. « Cento. »

Genesis spalancò la bocca, scioccato e...subito tornò a sdraiarsi sulla panca. « Non è possibile! Cento! Ah, ne farò centoventi! »

Sephiroth ridacchiò e scosse la testa.

« Crescent? » si volse subito quando un soldato corse da lui chiamando il suo nome. Essendo di un grado maggiore di lui, non solo si stupì della sua presenza in palestra, ma in automatico scattò sull'attenti per salutarlo.

« Posso aiutarla, signore? »

L'uomo – che in realtà doveva avere solo pochi anni in più rispetto a lui – scosse la testa, desolato, e allora Sephiroth capì che qualcosa non andava. Non fu la sua espressione a dirglielo, ma il modo in cui le sue mani continuavano ad agitarsi e intrecciarsi le une alle altre, come chi non sa come dare una brutta notizia.

« Hanno chiamato da casa, Crescent. Tua madre è in ospedale, pare sia grave. Se vuoi andare, il Maggiore ha già predisposto un congedo per te. »

« Seph? » chiamò allarmato Genesis. Ovviamente aveva ascoltato tutta la conversazione.

Lui però non si voltò, non gli rispose neanche. Rivolse all'uomo il saluto e poi corse, corse più veloce che poté.

 

 

« Vi prego non lasciate che muoia, vi prego non lasciate che muoia... » Jenova non faceva che ripeterlo da quelle che ormai le sembravano ore.

Aveva perso la concezione del tempo dal momento in cui era salita sull'ambulanza.

Era una pessima madre, lo sapeva, ma non riusciva a ricordare cos'era successo a Yazoo subito dopo. I medici l'avevano fatto salire con lei? Avevano chiamato Hojo?

Nella sua memoria tutto si era fatto sfocato e lontanissimo. Riusciva solo a pensare alla piccola, sofferente creaturina che aveva nell'addome, e che stava lentamente morendo.

Era circondata da medici e infermieri, donne e uomini concitati che si alternavano in una girandola di visi, ora preoccupati, ora affabili, ora coperti da una mascherina.

Non capiva cosa le stava succedendo, le sembrava però che stessero perdendo tempo. Perché non facevano qualcosa di utile? Perché non volevano salvare il suo bambino?

« Vi prego... » sussurrò ancora, prima di scivolare nell'incoscienza.

Aveva perso tanto sangue, troppo.

Le macchine urlarono con i loro bip bip bip acuti che qualcosa non andava e in un attimo un'orda di medici fu su di lei.

Lei tornò presente a se stessa e per un attimo ebbe l'impressione di essere finita in un film. Aveva visto tante puntate di Grey's Anatomy, ma non avrebbe mai pensato di entrare a farne parte.

Provò a chiamare aiuto, anche se una parte di lei era consapevole del fatto che le stavano dando tutto l'aiuto possibile, ma aveva paura, una paura folle. Voleva vedere suo marito, voleva riabbracciare i suoi figli.

Il nome di Sephiroth scivolò fuori dalle labbra secche più volte.

Finalmente la portarono in sala operatoria, o almeno, a lei sembrava una sala operatoria. Con quelle strane luci sul soffitto non poteva essere altro, a meno che quella non fosse la porta del Paradiso.

Non voleva che il suo Kadaj morisse, non voleva che il suo amato e non nato piccolo angelo finisse per il morire ancora prima di capire come fosse bella la vita. Voleva sentirlo pronunciare le sue prime parole, voleva vederlo camminare, voleva insegnargli a usare il vasino, voleva lasciarlo sulla soglia il primo giorno di scuola. Voleva vederlo vivo. Voleva vederlo e basta.

Cercò di chiedere ai medici che almeno glielo facessero tenere in braccio, non le importava se fosse morto, voleva tenerlo in braccio. Se proprio doveva lasciare che quella creatura smettesse di respirare prima di esserne cosciente, voleva farlo tenendolo stretto al seno.

Avvertì una puntura al ventre e poi più niente. Dovevano averle fatto l'anestesia per poterla operare.

Lo tiravano fuori? Ma non era troppo piccolo per nascere adesso?

Assurdamente non riusciva a ricordare a che mese fosse. Poteva essere il primo come il milionesimo: non ragionava più lucidamente.

Non avrebbe potuto dire di sentire il bisturi che le lacerava la pelle, o le clamp che si occupavano di dilatare il suo addome perché le mani dei medici potessero infilarsi nel suo utero per strapparle via il suo bambino, ma in qualche inconsapevole maniera fu cosciente di tutte quelle cose insieme, anche se non provava alcun dolore.

Mentre la ricucivano poté scorgere con la coda dell'occhio un gruppetto di medici intorno ad un piccolo tavolo. Seppe subito che Kadaj era lì, che stavano cercando di farlo respirare, di salvargli la vita.

« Fatemelo vedere, per favore... » mormorò, con le poche forze che aveva. Se non avesse avuto le gambe insensibili si sarebbe alzata subito per andare da lui. Il suo piccolo. « Il mio bambino...Kadaj...Kadaj... »

Proprio in quel momento si alzò un vagito sottile come un pigolio. Il bambino piangeva, Kadaj piangeva! E se piangeva...voleva dire che era vivo, e che stava bene.

Jenova percepì un sospiro sollevato generale in tutti i medici presenti, mentre il piccolino piangeva – per quanto un neonato prematuro potesse farlo – poi una dottoressa lo portò vicino a lei.

Era avvolto in una coperta troppo grande per lui, il visetto, le manine, le braccine, erano così piccole da sembrare fatte di vetro, troppo fragili per sopravvivere in quel mondo crudele; aveva un tubicino nel naso, ma respirava, piangeva, con gli occhietti serrati, non ancora pronti per aprirsi.

« Signora, suo figlio sta bene. » disse la dottoressa, e anche da sotto la mascherina poté intuire che stava sorridendo. « Ma è prematuro e avrà bisogno di rimanere in incubatrice per un po', volevamo solo farglielo vedere prima di portarlo via. »

« Grazie, grazie... » Jenova piangeva, di nuovo, ancora, chi l'avrebbe potuto dire. Riuscì a sollevare un braccio per sfiorare le minuscole guance del neonato con un dito. Aveva il terrore di romperlo. « La mamma ti ama Kadaj, ti ama tanto. »

« Adesso dobbiamo andare, potrà vederlo domani, d'accordo? »

Jenova non ascoltava più, aveva il sorriso sulle labbra e il cuore leggero.

 

*

 

Loz stava letteralmente appiccicato a Sephiroth. Gli era mancato il suo fratellone e non sarebbe rimasto con loro ancora per molto: voleva godersi ogni momento insieme. E lui, d'altro canto, era bisognoso del suo affetto abbastanza da non scacciarlo via.

Hojo faceva dondolare Yazoo su un ginocchio canticchiando una canzoncina per intrattenerlo.

Aspettavano che gli permettessero di entrare a vedere Jenova.

Sephiroth aveva scoperto che era stato Hojo a chiamare perché lo avvertissero dell'emergenza, e nonostante le emozioni contrastanti che provava per lui quando l'aveva visto non aveva potuto fare a meno di abbracciarlo. Rimaneva pur sempre suo figlio, aveva bisogno di un padre.

Poi i suoi fratelli gli erano saltato addosso e il momento per essere un ragazzo spaventato era finito così com'era iniziato.

Jenova aveva rischiato di perdere il bambino, ma dopo un parto cesareo d'urgenza entrambi si erano salvati.

Kadaj era nato il pomeriggio del 10 giugno, con due mesi di anticipo, raggiungeva a malapena un chilo di peso ma era sano. Nonostante il modo traumatico in cui era venuto al mondo, tutto era dove doveva essere, i suoi polmoni erano abbastanza sviluppati da permettergli di respirare da solo, anche se l'avrebbero tenuto attaccato al respiratore e sotto farmaci per un paio di settimane – solo per essere sicuri –.

Era un bambino estremamente forte, le infermiere e i medici continuavano a dirlo a Jenova per rassicurarla. Presto avrebbero potuto portarlo a casa.

Hojo, Sephiroth e i bambini l'avrebbero visto per la prima volta proprio quel giorno, dopo quattro dal parto.

« Ehi, ragazzi. » gli uomini di casa Crescent alzarono lo sguardo su Jenova. Camminava dolorosamente tirandosi dietro una gruccia a cui era attaccata la flebo. La ferita del cesareo era ancora fresca e faceva male, ma si stava riprendendo bene: i medici erano stati eccezionali.

« Mammina! » Loz le andò incontro, azzardandosi a separarsi da Sephiroth dopo essersi assicurato che voltando gli occhi lui non sarebbe sparito.

Gli avevano spiegato che la mamma non stava tanto bene e che aveva avuto dei problemi con il fratellino, per questo non fu il solito esuberante bambino, ma la abbracciò pianissimo.

Yazoo, in braccio ad Hojo, non la guardava. Era troppo piccolo per capire di sentirsi in colpa per tutto ciò che era successo, e pativa la mancanza di Jenova più di tutti. Aveva persino smesso di fare le sue scenate: erano state quelle a costringere la mamma a stare in ospedale, tutto ciò che voleva era che tornasse da lui.

Sephiroth si avvicinò alla madre e le rivolse un morbido abbraccio.

« Sei corso subito. » gli disse lei, spostandogli una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

Per lui, era anche la prima volta che rivedeva sua madre da quando si era arruolato.

« Appena mi è arrivata la notizia. »

« Sei dimagrito tesoro, mangi abbastanza? » preoccupata, gli tastò il viso, squadrandolo da capo a piedi. Quando si era fatto così grande? Gli sembrava diventato uomo tutto d'un tratto.

« Sì mamma, è solo che facciamo molto allenamento. »

Lei sorrise, perché sapeva che si trattava di una mezza verità.

« Allora, volete conoscere il fratellino nuovo? » chiese poi, soprattutto a Yazoo e Loz.

Loz saltellò, eccitato, annuendo forte, Yazoo affondò il visetto nell'incavo della spalla di Hojo. Era anche un po' a causa di quel fratellino nuovo se la mamma stava male, no?

« Andiamo, su. »

Come una processione, silenziosa e ordinata, la famiglia seguì Jenova nei corridoi dell'ospedale.

La terapia intensiva neonatale era vicina al reparto di ostetricia dov'era ricoverata la donna, per cui non dovettero camminare troppo.

Era un reparto triste, non per l'arredamento, ma per l'aria che si respirava. Molti neonati ricoverati lì non avrebbero superato la notte, altri erano talmente piccoli da entrare nel palmo di una mano.

Per fortuna Kadaj non era così grave, aveva solo avuto...un po' troppa fretta di cominciare a vivere.

La sua incubatrice era stata spostata in una stanza più grande, in modo che la numerosa famiglia, e gli emozionati fratelli, potessero guardarlo senza doversi spintonare.

Il piccolo era steso sulla schiena, con indosso un pannolino così grande da farlo sembrare buffo, aveva una piccola mascherina sul visino ed elettrodi sul petto nudo.

Loz quasi attaccò il naso contro il vetro dell'incubatrice. Non aveva ricordi di Yazoo neonato, e Kadaj gli sembrò subito meraviglioso. Era piccolo, magrolino, con i pugnetti raccolti contro il petto come per difendersi e gli sembrò come uno di quei bambolotti che vedeva nei negozi di giocattoli. Se ne innamorò all'improvviso, proprio come lui era nato. Dentro di sé, quella piccola, minuscola creatura, acquistò immediatamente un'importanza assoluta. Avrebbe dovuto proteggerlo, avrebbe dovuto aiutarlo a diventare grande, sarebbe stato per lui tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Fu così strano per il suo cuore di bambino che afferrò la mano di Sephiroth e la scosse piano piano per attirare la sua attenzione.

« Seph, Kadaj sente male stando lì dentro? »

Il maggiore non riusciva a distogliere lo sguardo da quel minuscolo fagottino, e suo malgrado dovette riconoscere di avere gli occhi lucidi. Che piccolo prepotente, nascere in quel modo facendo preoccupare tutti. « No Lozzie, anzi sta al caldo bello comodo, è come se fosse ancora nella pancia della mamma. »

« Non lo possiamo toccare adesso, vero? »

« No, deve stare lì finché non sarà un po' più forte. »

« Posso dargli un po' della mia forza così si sente meglio e possiamo portarlo a casa. » con un ditino toccò il vetro dell'incubatrice, il piccino però non si mosse.

« Oh Lozzie, vedrai che Kadaj ce la metterà tutta per venire da te. » intervenne Jenova, spettinando i corti capelli del figlio. Anche lui, davanti ai suoi occhi di madre, stava diventando grande. Più alto, più intelligente, più...intenso. Qualsiasi cosa facesse, la faceva con intensità. Non sarebbe riuscita a trovare altro modo per definire quello che Loz era.

« Voglio vedere il fratellino. » squittì Yazoo, con la sua piccola, flautata vocina, tendendo le braccia verso Sephiroth perché lo prendesse.

Il fratello lo accontentò e lo fece sporgere quel tanto che bastava per poter osservare il piccolo dentro l'incubatrice.

Non era poi così carino, con tutti quei tubi, quei cosi attaccati sulla pelle, quelle mani così piccole. E poi si muoveva appena. Se fosse rimasto così tutto il tempo a Yazoo sarebbe anche potuto piacere.

In ogni caso strinse le braccine al collo di Sephiroth, sperando che fosse ben chiaro al fratellino nuovo che quelli erano i suoi fratelli, la sua famiglia, e che non glieli avrebbe portati via.

Hojo prese la mano di Jenova che, stanca, poggiò la testa contro la sua spalla. Vedere i tre figli in contemplazione di Kadaj faceva ad entrambi uno strano effetto. Era una situazione già vista, già provata, eppure del tutto nuova.

La sua nascita, la sua sola esistenza, era stata il collante che aveva rimesso insieme i pezzi di una famiglia cedevole, sul punto di crollare.

Kadaj era un miracolo, il più piccolo dei miracoli.


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The Corner 

Scusate per il ritardo, sono imperdonabile!
Queste sono le novità: Easy diventerà a cadenza settimanale e non bisettimanale. Quindi l'appuntamento è per giovedì prossimo!

Chii

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Capitolo 10
*** Hungry Jealousy ***


« 2 »

Hungry Jealousy

 

 

Kadaj fu l'unico, tra i fratelli, a considerare il ciuccio come diretta estensione del suo corpo. Non se ne separava mai, per nessuna ragione, e proprio per questo motivo la mamma gli aveva comprato diverse catenelle a cui attaccarlo da appuntare ai vestiti in modo da non tenerlo sempre in bocca con il terrore di appoggiarlo da qualche parte e perderlo. Anche se, a tre anni, sapeva prendersi cura delle sue cose con una responsabilità adatta ad un bambino grande il doppio dei suoi anni.

E d'altronde, il ciuccio era il suo bene più prezioso.

La sua nascita difficile non l'aveva reso un bambino difficile, nonostante fosse all'apparenza fragile come fuscello. Non aveva mai recuperato il peso e l'altezza “persi” venendo al mondo prematuramente, e i dottori prevedevano che da grande sarebbe stato più basso della media. Ma se quella era l'unica conseguenza che il trauma della sua nascita avrebbe lasciato sulla sua vita, potevano ritenersi fortunati.

Kadaj era un raggio di sole, ovunque andasse suscitava sorrisi e affetto, e non solo perché era tanto piccolo da risvegliare l'istinto di protezione di chi aveva attorno, ma anche perché era un bambino assolutamente meraviglioso.

Prima di tornare a casa dall'ospedale era dovuto rimanere per due settimane nell'incubatrice, dopo di che una spaventatissima Jenova e un apprensivo Hojo gli avevano fatto attraversare la soglia della sua stanza per la prima volta. Nella culla sembrava scomparire, minuscolo come una bambola e con il pianto simile ad un miagolio.

Loz passava quanto più tempo possibile accanto a lui, faceva i compiti sul tappeto della sua stanza, si addormentava sulla poltrona dove la mamma lo allattava, gli faceva la guardia come un cagnolino adorante, e scattava in piedi al minimo suono. Aveva cominciato a trascurare Sunny pur di stare con lui, e certe volte il povero cane, intristito per la sua assenza, si accucciava davanti alla porta della stanzetta aspettando il padroncino. Non lo lasciavano avvicinare al nuovo cucciolo di casa, perché era così piccolo da avere paura che potesse fargli del male.

Kadaj era un neonato tranquillo, com'era stato Sephiroth prima di lui, non aveva particolari esigenze, dormiva e mangiava regolarmente, e solo di rado disturbava le notti della famiglia.

Inutile dire che dopo Yazoo, a Jenova sembrava di essere in paradiso.

Il piccolo aveva dimostrato di avere fretta non solo nel nascere ma anche nell'imparare. Era curioso, vigile, sveglio, e soprattutto affamato. Aveva cominciato a parlare ancora prima che a camminare e sembrava voler conoscere tutte le parole del mondo, anche senza capirne il senso. Quando non conosceva il nome di un oggetto lo indicava quasi rabbiosamente, così che gli potessero spiegare cosa fosse, come funzionasse, perché fosse lì.

“Perché?” era la parola che più spesso gli si sentiva pronunciare, con un misto di confusione e meraviglia.

Il suo unico vizio, oltre alla sua ossessione per il ciuccio, era che non lo si poteva lasciare solo con qualcosa perché subito la infilava in bocca: poco importasse cosa fosse, era il suo modo per “farci conoscenza”. La ciotola di Sunny e i suoi giocattoli, perennemente a portata di mano, erano stati i primi a essere riposti in luoghi più sicuri.

Jenova aveva finalmente capito il valore degli sportelli chiusi a chiave, infatti aveva fatto montare serrature su quasi tutti i mobili bassi, onde evitare che Kadaj mordicchiasse o bevesse o mangiasse i detersivi di bagno e cucina. Aveva dovuto togliere persino le saponette in bagno, perché il piccolo aveva lasciato la sua impronta dentaria su di esse come fossero panini dolci. Si era persino mangiato un rossetto, quando Jenova era stata così sciocca da lasciare la sua borsetta sul divano in salotto.

Non lo faceva perché aveva fame, ma solo perché era affascinato dai sapori e dalle consistenze. Perché il sale e lo zucchero sembravano così simili ma in bocca erano del tutto diversi? Perché l'imbottitura dei cuscini assomigliava alla mollica del pane ma non si poteva mangiare? Perché la farina gli impastava la lingua e il limone gliela faceva bruciare?

Chiunque fosse alla sua portata veniva bombardato dalle sue ingenue e curiose domande, anche se per lo più non riceveva risposte che lo soddisfacevano a pieno.

L'unico che davvero sapeva cosa dirgli e in che modo dirglielo era suo fratello Sephiroth.

Nonostante Loz fosse per lui importante e passasse la maggior parte del suo tempo con lui, Sephiroth era la sua guida, il suo modello. Era sempre disposto a rispondere con calma alle sue domande, non perdeva mai la pazienza con lui, lo trattava come il bambino che era ma non gli negava le risposte. Con quell'intelligenza vivace spesso si dimenticavano che avesse solo tre anni.

Il maggiore dei Crescent non passava più molto tempo a casa. La carriera militare l'aveva assorbito completamente, e ormai era del tutto indipendente. Tornava per le feste di compleanno dei suoi fratelli e per Natale, immancabilmente, e sempre con un regalo adatto come se fosse stato presente e avesse ascoltato i desideri del loro cuore ogni giorno. Amava quelle tre piccole pesti sopra ogni cosa.

Spesso aiutava Loz con i compiti in video-chiamata su Skype, e nel limite del possibile rimaneva in contatto con la madre che non aveva mai smesso di amare e supportare.

La sua assenza sarebbe stata per sempre dolorosa per tutti, ma lui faceva di tutto perché non ne soffrissero troppo.

Se i genitori e i due fratelli maggiori andavano pazzi per il piccolo Kadaj, c'era qualcuno a cui il solo fatto che respirasse faceva storcere il naso: Yazoo.

Yazoo aveva da poco compiuto sette anni, e adesso che era più consapevole del mondo che aveva intorno, capiva di odiare Kadaj. Non era un odio cattivo, adulto, aggressivo, era quello senza freni di un bambino geloso.

Sentiva i discorsi che faceva la mamma quando pensava di non essere ascoltata, sentiva come elogiava Kadaj, come diceva a tutti che bravo bambino fosse...e che terribile periodo aveva passato con lui.

Si sentiva d'intralcio, non voluto, e i grandi non facevano neanche finta di nasconderlo. Non sopportava i gesti d'affetto che Jenova e Hojo rivolgevano a Kadaj, il modo in cui lo guardavano o si prendevano cura di lui.

Perché la mamma quando usciva a fare spese tornava sempre con qualcosa da mangiare per il fratello e non per lui? Certo, era per via delle sue allergie, del suo continuo dover stare attento a quello che metteva in bocca, mentre a quanto pareva Kadaj poteva mangiare anche le sedie della cucina e a nessuno sarebbe importato niente.

Non lo sopportava.

Le vacanze di Natale erano appena cominciate, Hojo aveva portato l'albero pochi giorni prima e la casa profumava ancora di resina e aghi di pino: un albero vero, per la prima volta in tanto tempo.

Le lucette intermittenti brillavano tra i rami a tutte le ore del giorno e l'atmosfera calda rendeva tutti felici.

Tranne Yazoo.

Seduto sul divano cercava di guardare i cartoni animati, ma finiva sempre con il far cadere l'occhio su Kadaj, seduto nel box e tutto concentrato a costruire qualcosa con i blocchi di legno. Non sapeva neanche metterne due uno sull'altro, perché la nonna glieli aveva regalati? A lui piaceva costruire, era bravo anche con i LEGO, un regalo del genere sarebbe stato più adatto per lui. Poco importava che avesse scatole piene di costruzioni nella sua stanza, a far polvere sotto il letto perché aveva perso interesse: non erano quelle di Kadaj, decisamente più belle e allettanti di qualsiasi altra avesse mai avuto.

Loz era in cucina con la mamma, stavano facendo i biscotti di Natale. Lei aveva proposto anche a Yazoo di partecipare, salvo poi ricordarsi che era allergico alla cannella e che non doveva assolutamente toccarla. Per questo era finito sul divano, imbronciato e infelice. La mamma si sarebbe ricordata di fare qualche biscotto senza cannella per lui o gli sarebbe toccato guardare Kadaj mangiare davanti ai suoi occhi?

« Yasù! » Kadaj si era alzato sulle gambette e si sporgeva tutto verso di lui, mostrandogli orgoglioso un blocchetto di legno.

Il piccoletto era riuscito a sviluppare l'abilità di parlare e farsi capire anche quando aveva il ciuccio in bocca, stringendolo con i dentini per non farselo sfuggire. Certo, faceva ridere sentirlo parlare così la prima volta, ma la mamma lo trovava ingegnoso, come tutte le cose che faceva. Persino quando si era mangiato un pomello del cassetto vantava le sue straordinarie capacità mentali. A Yazoo sembrava solo scemo.

« Che vuoi? » gli disse, irritato, le braccine strette al petto.

Kadaj gli mostrò di nuovo il blocco di legno, agitandosi tutto per cercare di porgerglielo, e bofonchiò qualcosa che Yazoo non si sforzò di decifrare.

Era talmente basso che doveva stare sulle punte aggrappato al bordo del box.

A Yazoo venne in mente un'idea.

Si alzò per raggiungere il fratellino e poggiò le mani sulla gomma morbida – ma vecchia, dal momento che aveva visto crescere quattro bambini – del box. « Non ti capisco, che vuoi? » gli ripeté, lentamente, come se fosse quello il problema. Sunny alzò la testa per controllare che cosa stessero facendo i due piccoli umani, ma sbuffò e tornò a dormirsene con il muso tra le zampe.

Kadaj era davvero un bambino sveglio e dotato, e quando un adulto, o uno dei suoi fratelli, gli diceva che non riusciva a capirlo, invece di indispettirsi o piagnucolare si toglieva il ciuccio e ripeteva la sua richiesta.

« Giochi con quesso? »

Kadaj aveva occhi magnetici, grandi come quelli di un gatto, del verde più brillante che ci fosse; i capelli, argentei come quelli dei suoi fratelli e della mamma, gli andavano continuamente sul visetto tondo, dando l'impressione che volesse nasconderlo; se questo non fosse bastato a dargli un aspetto adorabile che faceva venire voglia di strizzarlo in un abbraccio, c'erano i suoi leggerissimi difetti di pronuncia, dovuti forse al suo precoce imparare a parlare, ai dentini davanti un po' storti per colpa del cuccio, o solo perché ancora non sapeva scandire e riconoscere bene tutti i suoni.

Avrebbe sciolto il cuore di chiunque, con quelle ciglia lunghe e folte, la manina tesa con il blocco di legno stretto tra le dita e il ciuccio ancora umido appeso alla catenella appuntata sul pigiamino, l'espressione fiduciosa sul visetto. Il cuore di chiunque, tranne quello di Yazoo.

Rispetto a quando l'aveva visto la prima volta, secco come un rametto, senza capelli, raggrinzito nell'incubatrice, era molto cambiato. Era più carino di lui.

« No, non mi piacciono i tuoi giocattoli. » gli rispose, sbuffando dal naso e alzando gli occhi al cielo.

Il bambino, senza capire l'astio nella voce del fratello, si abbassò per prendere un altro giocattolo. Un cagnolino di plastica con dentro un fischietto che suonava quando lo si premeva.

« Con quesso? »

Yazoo si avvicinò di più. « No. »

Kadaj si guardò intorno, cercando qualcosa che potesse piacere al fratello, qualsiasi cosa, e nel farlo si distrasse abbastanza perché Yazoo potesse afferrare il ciuccio e strapparglielo via.

Il piccolo non se ne accorse subito, solo quando lo cercò con la manina per rimetterlo in bocca capì che non c'era più.

Yazoo godette della scena nascondendo il ciuccio dietro la schiena, mentre il piccolo mugolava come un cucciolo spaventato, a quattro zampe spostando i blocchi di legno per cercarlo.

Prima che Kadaj scoppiasse a piangere, Yazoo era già scappato su per le scale, diretto alla sua stanza: avrebbe nascosto l'amato ciuccio di Kadaj dove nessuno avrebbe potuto trovarlo.

Jenova sentì subito il pianto del figlio, e corse a vedere cosa non andasse: Kadaj non piangeva mai per niente.

La accolse un viso disperato e occhi lucidi, pieni di panico.

« Tesoro mio, cos'è successo, perché piangi? » preoccupata, lei lo sollevò tra le braccia.

« Susso! » le disse, con due lacrimoni che gli rotolavano sulle guanciotte.

« Il ciuccio? » Kadaj annuì, tirando su col naso così profondamente che sembrò aver perso l'anima e non un pezzo di plastica da succhiare. « Oh piccolo, ti sarà solo caduto. Adesso lo cerca la mamma, d'accordo? »

Il bambino annuì di nuovo e, per sostituire temporaneamente il ciuccio, si infilò il pollice in bocca per calmarsi. Funzionava abbastanza bene, ma non era il suo ciuccio.

Jenova lo tenne in braccio mentre si abbassava per frugare tra i giocattoli, e ogni secondo che passava senza trovarlo Kadaj piagnucolava più forte.

« Shh shh. » cercò di consolarlo, cullandolo un po', mentre i suoi occhioni cercavano insieme alle mani di lei. « Assurdo. » con uno sbuffo, tornò dritta e controllò la magliettina del pigiama di Kadaj.

La catenina era ancora appuntata sulla stoffa, ma il ciuccio no, il che era strano, dal momento che era più probabile che la molletta del porta ciuccio si sfilasse piuttosto che il gancio che lo teneva si aprisse e lo facesse cadere. Che Sunny glielo avesse strappato? Ma no, il cane dormiva sul tappato tutto acciambellato, e in ogni caso era abituato a non toccare niente dei bambini.

« Mamma... » pianse Kadaj, disperato, inconsolabile, con le labbra piegate all'ingiù che sembravano non poter mai tornare a farlo sorridere.

« Stai tranquillo, lo ritroveremo. Vuoi assaggiare l'impasto dei biscotti? » sempre, quando lo pungolava proponendogli qualcosa di nuovo da assaggiare, Kadaj la guardava di sottecchi, indeciso se lasciarsi coinvolgere o meno. « Sai, Loz è stato molto bravo, è venuto molto buono questa volta. »

« ...okay. » cedette alla fine, in parte ancora reticente, perché l'idea di non avere con sé il ciuccio lo faceva sentire strano.

Jenova gli stampò un bacione sulla guancia che lo fece ridere e lo portò con sé in cucina.

Loz era tutto intento a tagliare biscotti con formine di plastica a forma di animaletti, la linguetta tra i denti, e la speranza che la mamma gliene lasciasse mangiare qualcuno prima di cena, ma lasciò stare tutto quando Kadaj si sporse verso di lui urlando un entusiasta “Looooossi!”.

Il bambino era diventato grande abbastanza da tenere in braccio il fratellino e, dopo essersi pulito le manine sul piccolo grembiule che aveva legato ai fianchi, prese Kadaj dalle braccia della mamma, ben contento di stringerlo a sé. Era così minuscolo che non sentiva neanche il suo peso.

« Lossi fa i biccotti? » chiese il piccolo, gli occhioni sgranati come se fosse in contemplazione di un complesso fenomeno metafisico.

« Sì! Vuoi assaggiare? »

Kadaj rivolse un ubbidiente sguardo alla mamma. Sì che era stata lei a proporgli di provare l'impasto che aveva fatto il fratello, ma senza ulteriori conferme non si sarebbe mai permesso di farlo. Faceva sempre quello che gli diceva di fare la mamma, era ubbidiente, un bravo bambino.

Lei, divertita, annuì, così Loz poté prendere con due dita una piccola pallina di impasto e porgerla a Kadaj, che accompagnandosi con un “aaaaahm” la mise tutta in bocca.

Per un po' rimase in silenzio a valutare il sapore della pallina, poi incontrò una goccia di cioccolato e un sorriso si aprì meraviglioso sulle sue labbra.

« Buono! » strepitò, tutto felice, alzando le braccia in alto.

Loz e Jenova scoppiarono a ridere. Era facile scacciare il malumore di Kadaj, bastava dargli qualcosa da mettere in bocca.

 

 

Quella sera, Kadaj non riusciva ad addormentarsi. Piagnucolava, si rigirava a letto, chiamò diverse volte la mamma per farsi consolare.

Non erano stati in grado di ritrovare il ciuccio e se durante la giornata il piccolo era stato ragionevole, adesso che era venuta l'ora della nanna proprio non ne voleva sapere.

A nulla era servito provare a dargliene uno nuovo, non era nelle condizioni di accettare il cambiamento: voleva solo il suo vecchio, consumato ciuccio.

Loz e Hojo, disperati tanto quanto il bambino, avevano dato una mano a Jenova nelle ricerche, ma niente, era scomparso nel nulla.

Solo Yazoo sembrava totalmente disinteressato alla cosa, anzi, un paio di volte Jenova l'aveva sorpreso a guardare nella direzione del fratellino con uno strano, soddisfatto sorrisino. O magari era stata solo sua impressione.

La donna aveva appena rimboccato le coperte a Loz, spento la luce nella sua stanza – e cacciato Sunny che aveva preso l'abitudine di dormire ai piedi del suo letto, anche se sapeva che non appena avrebbe voltato le spalle sarebbe tornato lì – quando Kadaj chiamò di nuovo.

Aveva creduto di essere riuscita a calmarlo ma a quanto pare si era sbagliata.

La nuova casa era più grande e accogliente, e adesso i bambini avevano ognuno la sua cameretta. Quella di Sephiroth era l'unica vuota, ovviamente, ma Jenova la teneva fresca e pulita ogni giorno, così che la trovasse pronta per quando tornava.

« Amore. » esalò, leggermente esasperata, vedendo il bambino seduto tra le coperte con il visino stravolto dalla stanchezza. « Lo so che sei triste, ma adesso non possiamo fare più niente. » gli occhioni verdi di Kadaj si puntarono su di lei che sentì una fitta di tremendo dolore al cuore. Come si potevano dare brutte notizie a quel batuffolino. « Dai, adesso dormi, domani lo cercheremo meglio e vedrai che lo troveremo. »

Il labbro inferiore di Kadaj tremò, e due lacrimoni gli scesero lungo le guance. Era stanco, stanco e triste, proprio come aveva detto la mamma, e avrebbe voluto continuare a piangere tutta la notte ma...annuì, e lasciò che lei gli rimboccasse le coperte per l'ennesima volta e gli desse un bacio sulla fronte, scostandogli quei capelli troppo lunghi.

« Vuoi che ti racconti una storia? » il piccolino scosse la testa. Aveva le palpebre pesanti e stringeva la copertina convulsamente, era ovvio che gli mancasse il conforto di quel qualcosa che gli avrebbe fatto prendere sonno.

A Jenova venne subito un'idea.

« Aspetta, torno subito. »

Kadaj non emise un fiato, mentre la mamma si allontanava.

Andò nella stanza di Sephiroth, con quel letto dalle lenzuola talmente tirate e lisce da fargli venire le vertigini, e prese dalla mensola in alto uno dei giocattoli del figlio maggiore. Sapeva che il piccolo stravedeva per il suo fratellone e che attendeva il suo ritorno come un cucciolo quello del padrone. Pensò che forse, dandogli qualcosa di suo, avrebbe trovato quello che cercava.

Scelse un piccolo peluche sdrucito, vecchio almeno quanto il ragazzo – la donna ricordava di averlo messo nella sua culla quand'era ancora un neonato –, e lo portò a Kadaj.

« Questo era di Sephiroth. » gli disse, e ottenne immediatamente la sua attenzione. « Lo proteggeva da qualsiasi cosa. »

« Quassiasi? » mormorò il piccino, già allungando le mani sul peluche.

Era un orsetto, bianco, con occhi verdissimi: una versione giocattolo di Kadaj a dirla tutta.

« Sì, qualsiasi. È grazie a lui che è diventato forte e coraggioso, sai? »

Lui guardò il peluche come se avesse tra le mani qualcosa di magico e subito lo strinse al piccolo petto, pensando al suo fratellone. Non aveva paura di niente, e Kadaj voleva somigliargli.

« Per stanotte tienilo con te, okay? Facciamo un tentativo! Magari non hai bisogno del ciuccio. »

Kadaj non stentava a crederlo, perché quel piccolo animaletto peloso era di Sephiroth, e Sephiroth non aveva bisogno del ciuccio.

Annuì alla mamma e strinse di più a sé il peluche, chiudendo finalmente gli occhi.

« Buonanotte amore. »

Rimase qualche altre istante a guardare il bambino, in attesa, ma passati tre minuti le fu chiaro che era riuscita a tranquillizzarlo e che si fosse addormentato una volta per tutte. Non riusciva a essere arrabbiata con lui per quella sceneggiata, era sempre un bambino così buono e così docile che una volta ogni tanto poteva lasciarlo fare i capricci.

Con un sospiro accese la piccola luce da notte e uscì dalla stanzetta.

Cominciava ad avvertire in lontananza i principi di un mal di testa, ma c'era ancora Yazoo da mettere a letto.

Il figlio di mezzo stava seduto dritto sul letto, le coperte tutte accartocciate ai piedi, lo sguardo fisso sulla porta. Certe volte Jenova provava un brivido quando incontrava quegli occhi vuoti, spenti.

Yazoo era una bellissima bambola, ma non aveva niente dentro. A volte si chiedeva se non dovesse farlo vedere da un medico, uno bravo, uno che controllasse che dentro la sua testa tutto fosse al posto giusto.

Quel figlio strano e problematico la spaventava, ma non per questo lo amava di meno.

Quando gli si avvicinò lui si sdraiò subito, pronto ad essere infagottato nelle coperte. I suoi movimenti meccanici sembravano programmati, come se avesse recitato quella scena diverse volte nella sua testa prima di esibirsi di fronte a lei.

Stava diventando paranoica?

Fece in modo che il figlioletto fosse coperto fin sotto il mento, poi si sedette sulla sponda del letto, per guardarlo e accarezzargli il viso come faceva sempre.

« Va tutto bene, Yazoo? » gli chiese.

A dirla tutta, era più strano del solito, il che detto di lui faceva temere ancor di più.

Il piccolino non cambiò espressione, raramente lo faceva, era come protetto da quel guscio bellissimo e splendente come un diamante. Ma i suoi occhi tradivano pensieri in tumulto.

« Sì, mamma. » rispose, angelico come sempre.

A Jenova non sembrava convincente. Non poteva dire di essere la mamma del secolo e di capire con un solo sguardo cosa pensavano i suoi figli, ma spesso indovinava, per intuito o fortuna chi avrebbe potuto dirlo.

Aggrottò le sopracciglia, guardandolo come se potesse vedergli dentro, attraverso, in quella testolina di cui troppo spesso non riusciva a comprendere il funzionamento.

« Yaz, se qualcosa non va puoi parlarne con me, lo sai? Di qualsiasi cosa si tratti. »

Il bambino fece vagare lo sguardo per la stanza per un momento, sembrava resistere alla tentazione di guardare in un punto preciso. Nascondeva qualcosa, Jenova ne fu subito convinta.

« Certo mamma. » rispose lui, annuendo pian piano, come se questo bastasse.

Doveva farlo parlare, doveva farlo parlare subito.

Prese un profondo respiro e gli accarezzò i capelli, lentamente.

Con il passare del tempo si era resa conto che la manina di Yazoo era scivolata lontana dalla portata della sua, e che aveva l'aveva trascurato, forse perché era stanca, stressata, sommersa da mille altri pensieri. Questo però non la giustificava.

Era forse il più impegnativo dei suoi figli, quello per cui temeva di più, quello che non poteva lasciare mangiare da solo e gestirsi da solo, perché sarebbe potuto incorrere in terribili conseguenze.

Stava crescendo in una bolla, sottile ma sterile, e non doveva essere facile neanche per lui.

« Ti voglio bene tesoro. » gli disse, con quanto più amore fosse in grado di esprimere.

Sul volto di Yazoo passò, improvviso, come un lampo, che lei scorse appena in tempo. Il bambino apparve affranto, con le sopracciglia appena appena strette tra loro e le labbra schiuse, pronte alla confessione. Poi però si accoccolò sotto le coperte, un broncetto a deturpare la bellezza del suo visino.

« Non è vero. » disse, tutto d'un fiato, senza guardarla. « Non è vero che mi vuoi bene. »

Non avrebbe mai pensato che le parole di un bambino di sette anni avrebbero potuto farle così male. Certo, non si aspettava di sentirle dal suo bambino. Sapeva che non lo intendeva davvero, che neanche riusciva bene a comprendere il peso di ciò che gli usciva di bocca, ma per lei fu come una coltellata allo stomaco.

Odiò provare la netta sensazione di capire sua madre. Erano anni che non pensava a lei, o a qualcosa che riguardasse lei.

« Tesoro, perché dici così? »

« Io ti ho visto. » la vocina non era più tanto sicura, anzi, tremava appena. Era la prima volta che riusciva a dare fiato a ciò che provava, ed era inaspettatamente semplice farlo. « Quando giochi con Kadaj sei felice. Quando sei con me no. »

« Non...non è vero. » spiazzata, spiazzata davanti ad un bambino. Non sapeva neanche cosa fosse giusto dire e cosa no. Era un discorso troppo difficile per lui quanto per lei. Come poteva spiegargli? Cosa c'era da spiegare?

« Sì che è vero. » a quel punto già piangeva.

Yazoo aveva smesso di piangere urlando e svegliando tutto il vicinato con i suoi strepiti. Quando piangeva, piangeva in silenzio, rapide lacrime, asciugate ancor più rapidamente, in modo così maturo e adulto da chiedersi se fosse davvero solo un bambino, senza singhiozzi, senza cambiare espressione: la statua di un angelo che all'improvviso scoppiava in lacrime.

Jenova non esitò a prenderlo tra le braccia e stringerlo al petto. Lui non oppose resistenza, d'altronde era quello che aveva voluto dall'inizio di quella storia: che la mamma lo amasse, lo stringesse, gli dedicasse del tempo.

Timidamente le avvolse le braccia intorno al collo e si schiacciò contro di lei. Avrebbe voluto essere un tutt'uno con il suo corpo. Profumava sempre di pulito, come aspirare una fredda, limpida giornata d'inverno. La neve non l'aveva mai lasciata, né il suo sentore.

« Ti voglio bene invece, Yazoo. Tantissimo. Sei il mio bambino, non hai idea di quanto ti ami. » sussurrò sottovoce, come fosse un segreto. Mandò il cuoricino del piccolo a mille. Era come una confessione, qualcosa che sarebbe stato solo loro per sempre, e che nessuno dei due avrebbe mai dimenticato. « Mi dispiace di averti lasciato pensare una cosa così orribile. Non succederà più, te lo prometto. Mi impegnerò, d'accordo? »

Non succedeva tutti i giorni che ammettesse le sue debolezze, non con i bambini. Ai loro occhi doveva sembrare indistruttibile, incorruttibile, mai triste, mai cedevole. Era questo che doveva essere una madre, no? Un muro a cui appoggiarsi sempre, senza sapere quanto fossero friabili i mattoni di cui era composto.

Non riusciva più a fingere però, soprattutto se quella finzione rendeva infelice uno dei suoi figli. Non poteva permetterlo.

« Ho preso io il ciuccio di Kadaj. » confessò alla fine il bambino, dopo un lungo, contrito silenzio. Aveva paura delle conseguenze di quella confessione, certo, ma la mamma era stata così buona e sincera con lui...

Incassò la testolina tra le spalle, pronto a ricevere la sua punizione, ma lei sospirò soltanto e continuò a stringerlo con la stessa forza.

« Grazie per avermelo detto. » mormorò lei. Non aveva bisogno di sapere perché l'aveva fatto, le appariva abbastanza chiaro senza dover approfondire.

Yazoo era geloso del fratellino, e sebbene non avesse mai del tutto nascosto la cosa, adesso era arrivata ad un nuovo livello. Forse si sarebbe sentito così per sempre, forse no, ma in ogni caso punirlo per quello che aveva fatto non avrebbe migliorato le cose.

Senza che Jenova glielo chiedesse, Yazoo sciolse l'abbraccio e recuperò il ciuccio da sotto il letto. L'aveva infilato nella scatola dei suoi vecchi, impolverati LEGO. Glielo diede, tenendo lo sguardo basso, colpevole.

Aveva come l'impressione che la mamma non l'avrebbe amato mai più, non dopo quello.

Jenova gli sollevò il visetto tenendolo per il mento, ignorando momentaneamente il ciuccio.

« Sei un bravo bambino, e apprezzo moltissimo quello che hai fatto. » sorrideva, anche se lui era comunque terrorizzato e tremava appena. « Sarà il nostro segreto, d'accordo? Kadaj comincia ad essere grande per il ciuccio, e prima o poi avremmo dovuto toglierglielo. Approfitteremo di questo per farlo, mh. » Yazoo non poteva credere alle sue orecchie e si ritrovò ad annuire. « Però, promettimi che non lo rifarai più. Non prenderai più le cose dei tuoi fratelli di nascosto per fargli dispetto. »

« Sì... »

« E poi... » ma la voce della mamma era di nuovo morbido. « ...non devi pensare che non ti voglia bene. Vi amo tutti e quattro, solo in modi diversi. »

« Quindi... » disse talmente piano Yazoo che quasi Jenova stentò a sentirlo. « ...non vuoi più bene a Kadaj...? »

« No sciocchino. » gli pizzicò il naso con due dita, per poi abbassarsi a baciargli la fronte.

La donna ebbe l'impressione che il bambino stesse per ricominciare a piangere, più forte stavolta, ma invece si strinse tanto forte a lei che quasi le mancò il fiato.

Solo dopo diversi minuti riuscì a convincerlo a sdraiarsi e tornare sotto le coperte.

Non fu avara di baci e carezze, gli raccontò persino una favola su misura per lui, finché fu sicura che quell'affamata gelosia si fosse calmata. Sapeva che non sarebbe sparita tanto facilmente, ma poteva tenerla a bada, saziarla con una dose extra del suo amore.

Non gli aveva mentito, non aveva preferenze tra i suoi figli, solo che alle volte uno di loro aveva più bisogno di lei di un altro.

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The Corner

Ciao a tutti e ben trovati in questo nuovo capitolo di Easy (oddio comincio a sembrare una youtuber).
Yazoo è follemente geloso di Kadaj, ma posso capirlo, povero bambino, il suo fratellino minore è così carino che farebbe dubitare chiunque.
Ma la sua mamma lo amerà per sempre, come io amo la mia dolce Musa <3
A giovedì prossimo,

Chii

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Capitolo 11
*** Grey ***


- 3 -

Grey

 

 

« Pronto? » Loz rispose solo con un vago cenno del capo. Sephiroth aumentò la presa sul pallone ormai consumato. Il fratello gli si sarebbe gettato addosso come un treno in corsa, lo vedeva già smaniare.

L'estate dell'anno prima, improvvisamente, Loz era cresciuto. Da morbido, rotondo tredicenne, si era trasformato in un gigantesco, meraviglioso piccolo uomo, e quando aveva compiuto quattordici anni era parso chiaro a tutti che sarebbe diventato un colosso, massiccio ma scattante.

Nonostante l'età, gareggiava per diventare alto quanto o più di Sephiroth, e anche se aveva da smaltire un po' di ciccia infantile, ormai i muscoli di braccia e spalle cominciavano a intravedersi dai vestiti.

Tutto merito del football.

Loz, che non aveva mai tenuto nascosto il suo amore per quello sport, aveva cominciato a praticarlo il primo anno di liceo. Contro tutti i pronostici, che lo vedevano come un ragazzino troppo pesante e insieme troppo buono per potersi lanciare tra i compagni di squadra e abbattere gli avversari con una spallata, si era poi rivelato essere un toro dalla carica bassa e inarrestabile. E dire che Jenova l'aveva portato ai provini per la squadra solo per soddisfare la sua richiesta e non perché ci credesse davvero. Persino il coach era rimasto basito.

Solitamente a quelli del primo anno toccava la panchina, la pulizia dei sospensori, la sistemazione degli spogliatoi, il costume della mascotte, o il diventare schiavetti degli altri giocatori, non fu così per Loz. La sua naturale inclinazione per il football l'aveva subito fatto scivolare nella divisa della squadra, e la sua testardaggine, insieme con il suo buon cuore e la capacità di farsi amico chiunque, aveva aumentato la sua popolarità. In poco tempo era diventato il beniamino della squadra, il giocatore più giovane della storia della scuola, e il destinatario dei sospiri delle ragazzine nei corridoi.

Un primo anno meraviglioso, per lui, che prospettava un futuro altrettanto meraviglioso.

Piegato in avanti e pronto a placcare Sephiroth per ottenere il pallone e scagliarlo oltre la linea che Kadaj aveva fatto con i gessetti – quella che, superata, gli avrebbe fatto fare touchdown – sembrava un vero e proprio giocatore, di quelli che si vedono alla tv.

« Hut hut hut! » urlò Sephiroth, pochi secondi prima di essere gettato a terra dalla foga del fratello.

Ruzzolò all'indietro ma non si lasciò sfuggire il pallone. Loz poteva essersi irrobustito, poteva essere cresciuto, ma non sarebbe mai stato all'altezza di Sephiroth.

Genesis sorseggiava una limonata ghiacciata sotto la tettoia, e guardava quei due rotolarsi sull'erba per accaparrarsi il pallone.

Di lì a qualche giorno sarebbe stato il compleanno di Kadaj, il pupillo di casa Crescent, e sia lui che Sephiroth avevano preso un congedo dall'esercito per poter festeggiare insieme.

Nonostante gli anni passassero, Sephiroth continuava ad amare i suoi fratelli più di ogni altra cosa. Avrebbe dato un arto per loro, e non era detto che non sarebbe successo, dal momento che Loz si era aggrappato al suo bacino per tirarlo nuovamente a terra violentemente per strappargli di mano il pallone. Quel ragazzino giocava pesante, Genesis era contento di essersi rifiutato di unirsi a loro. C'era obbiettivamente troppo caldo per gettarsi nella mischia, e poi Sephiroth sudato, piegato a 90, con i muscoli gonfi per lo sforzo era uno spettacolo che voleva godersi dalla panchina, sì, dalla panchina.

« Ehi Gen. » il ragazzo volse, suo malgrado, lo sguardo per incrociare quello furbetto di Kadaj.

Il bambino – che andava orgoglioso in giro dicendo di avere ormai sette anni e di essere grande – era tanto bello quanto perfido. Genesis provava un istintivo distacco nei suoi confronti.

Temeva che, se solo avesse abbassato la guardia, sarebbe finito con il cadere nella trappola ipnotica dei suoi grandi occhi, e diventare il suo servitore, come Sephiroth, come Jenova, come tutta la famiglia.

Il minore dei Crescent era indubbiamente il più coccolato e viziato, soprattutto perché era tanto piccolo e minuto da avere paura a lasciargli fare qualsiasi cosa da solo. Ovviamente, non era così, come tutti i suoi fratelli era fatto di una sostanza inflessibile e indistruttibile, solo...non lo lasciava a vedere.

Si sedette accanto a lui, le gambine penzoloni dalla sedia perché era troppo basso per toccare a terra.

Gli occhi verdi, brillanti e divertiti, guardavano i fratelli combattere sull'erba.

« Chi vince? » chiese, cristallino. Aveva una vocetta adorabile, pienamente in armonia con la sua eterea apparenza.

Genesis era più volte giunto alla conclusione che il DNA di Jenova doveva essere eccezionale, perché aveva creato quattro divinità semoventi, e di certo non poteva essere merito della collaborazione di Hojo.

« Al momento Seph è in vantaggio. » rispose quindi, tornando a guardare il culo del compagno. Il sedere del compagno. Il posteriore del compagno. Oh, comunque la mettesse, non riusciva a smettere di guardarlo.

« Lui è sempre in vantaggio. » sospirò il piccolo, sognante. Che fosse innamorato di Sephiroth era chiaro come il sole, tanto che Genesis sentì montare dentro un pizzico di gelosia.

Certo, Sephiroth gli apparteneva, da ben prima che quel piccoletto esistesse, eppure se avesse dovuto scegliere, lui avrebbe sempre preferito il suo fratellino.

Avrebbe storto la bocca in una smorfia se non avesse imparato da tempo a reprimere quei pensieri. Avercela con Kadaj per qualcosa che non dipendeva da lui era ingiusto, no? D'altronde non poteva aver gettato volontariamente un incantesimo sulla famiglia perché tutti lo amassero. Era un pensiero assurdo.

Kadaj dondolò le gambe avanti e indietro per un po', guardando come Sephiroth otteneva finalmente il pallone e schizzava oltre le linea di touchdown segnando il punto decisivo. Poi spostò pian piano lo sguardo su Genesis, pensando forse che non si sarebbe accorto che lo stava fissando.

« Che c'è? » gli disse il rosso, infastidito dal modo in cui lo squadrava. Sembrava che stesse prendendo le misure per chissà quale secondo fine.

« Niente. » trillò, sincero, senza però smettere di guardarlo. « Mi piacciono i tuoi capelli. »

Nonostante fosse un commento genuino, quello di un bambino sinceramente in ammirazione, Genesis avvertì un brivido percorrergli la schiena, così inaspettato che quasi se ne stupì.

« Grazie. » rispose solo, perplesso, le sopracciglia aggrottate.

« Okay okay, time out. » annunciò Sephiroth, tergendosi il sudore dalla fronte.

Loz si espresse in mugolii di disapprovazione, ma il fratello gli scompigliò i capelli e gli sorrise, duro e gentile al tempo stesso.

Sephiroth sapeva imporsi così naturalmente sui suoi fratelli che anche sua madre se ne stupiva. Nessuno di loro, una volta che lui si era espresso, aveva il coraggio di contestarlo.

Era più autorevole di suo padre.

Loz si avvicinò a Kadaj e Genesis, sudato ma felice, con i capelli cortissimi spettinati. Nascondeva dietro il sorriso dolce un potere attrattivo secondo solo al fratello maggiore, di cui forse non sarebbe mai venuto a conoscenza: aveva un cuore troppo buono e troppo ingenuo per poter usare il suo charme per piegare le persone.

« Ci hai visti giocare, Kaddie? » chiese, tutto eccitato. Sarebbe rimasto per sempre un bambinone, non importava quanto crescesse in altezza.

« Sì! Sephiroth ti ha battuto anche stavolta. » ridacchiò il bambino.

« Prima o poi sarò io a batterlo. »

« Sogna pure, fratellino. » il maggiore lo sovrastava. Non era solo la differenza di altezza a farlo sembrare un gigante, era qualcosa nella sua aura, nel modo in cui si muoveva, nel viso scolpito come nel marmo bianco, nella luce intensa che scaturiva dalle sue iridi.

Sephiroth poteva essere un meraviglioso angelo vendicatore.

« Potresti far vincere Loz almeno una volta. » lo punzecchiò Genesis, con quello sguardo blu affilato come una lama.

Il loro rapporto era come una danza di spade, d'argento vivo e rosso scarlatto.

« Poi dovrei fare lo stesso anche con te, amore. »

Lui avrebbe anche ribattuto, se solo Jenova non li avesse chiamati tutti a tavola per il pranzo.

L'aria che si respirava in casa Crescent era sempre deliziosamente leggera quando Sephiroth era presente. Era come se un tassello mancante fosse finalmente stato messo al suo posto.

Jenova diventava felice come non mai ad avere al tavolo tutta la famiglia, compreso Genesis, sì.

Lui e Sephiroth non avevano fatto un coming out ufficiale neanche con loro stessi, figurarsi con i genitori, ma non era stato necessario farlo. Tutti quei dubbi, tutte quelle discussioni si erano riassunte in una pacca sulla spalla e un sorriso da parte della madre, e Sephiroth aveva capito che ogni parola sarebbe stata inutile.

Per quanto riguardava Megan, beh, era stata lei a gettare Genesis tra braccia di Sephiroth ancora prima che lui capisse che lì voleva passarci il resto della vita.

Hojo, invece, viveva il loro rapporto in maniera passiva: non se ne interessava e il figlio non gliene parlava. D'altronde, non parlavano quasi di niente in quasi nessuna situazione se non erano quasi costretti, non c'era alcun bisogno di cambiare le cose.

Seduti a tavola, tutti insieme, formavano uno strano quadretto.

Kadaj, che di lì a poco sarebbe stato Il Festeggiato, era seduto a capotavola com'era usanza – usanza per lui ovviamente –, Yazoo lo guardava con evidente invidia mentre rimestava nel suo squallido piatto di verdure biologiche cercando di non storcere il naso per il puzzo di sudore emanato da Loz, che si era seduto a mangiare senza neanche cambiarsi la maglietta; Sephiroth e Genesis chiacchieravano quietamente con Jenova, che non poteva far altro che riempirsi gli occhi di quella vista.

A conti fatti, tutto funzionava meravigliosamente perché Hojo non era in casa, ma nessuno di loro aveva voglia di dirlo, o di pensarlo.

« Dopo pranzo pensavo di portare i ragazzi a fare un giro in bici. » disse Sephiroth, che avrebbe potuto avere anche quarant'anni, ma avrebbe aspettato sempre l'ultima parola della madre.

Lei storse un po' le labbra, guardando il minuscolo Kadaj. Era sempre preoccupata per la sua salute fisica e raramente lo lasciava uscire per svolgere qualche attività sportiva pericolosa senza i suoi occhi a controllarlo costantemente. A meno che non ci fosse Sephiroth, che sapeva prendersi cura di lui anche meglio di quanto facesse lei.

« Certo, perché no. » rispose però. Essere apprensiva non avrebbe aiutato Kadaj a crescere consapevole dei pericoli, anzi.

« Mammina posso togliere le rotelle? » quando faceva le sue richieste, Kadaj batteva piano le palpebre e appariva come una bellissima, orientale bambola di porcellana. Genesis non stentava a credere perché i fratelli cadessero con entrambi i piedi nelle sue trappole.

« Non saprei, tesoro. » tentò la donna, che già cominciava ad agitarsi sulla sedia. Senza rotelle, per la prima volta, lontano da casa, lontano da lei. Sentiva il panico cominciare a stringerle lo stomaco. « Non è il caso che prima impari qui vicino casa? »

« Ma mammaaaa. » si lagnò Kadaj, con quell'espressione da cucciolo bastonato. « Con Sephiroth ho già fatto qualche prova, ormai sono grande, posso toglierle del tutto! »

Jenova cercò lo sguardo del figlio maggiore come per avere un aiuto da lui, ma la sua risposta fu stringersi nelle spalle con un mezzo sorriso: Kadaj aveva già vinto.

« D'accordo. » esalò lei. « Ma devi metterti tutte le protezioni. »

« Anche il caschetto?! »

« Soprattutto il caschetto. »

Seguirono lamentele e capricci messi a tacere dalla promessa di Sephiroth di comprargli un enorme gelato di ritorno verso casa.

Tutto sommato, Kadaj si poteva ancora tranquillizzare offrendogli qualcosa da mettere in bocca.

 

 

Kadaj sembrava una piccola, ingessata mummia. Con il caschetto, le gomitiere e le ginocchiere più che andare in bici senza rotelle sembrava essere pronto ad affrontare l'apocalisse. Pedalare era difficile e non solo perché doveva mantenere l'equilibrio e stare dietro ai suoi fratelli – soprattutto Loz e Yazoo che sfrecciavano sulla strada gareggiando tra loro – ma anche perché tutta quella bardatura gli bloccava le giunture.

Sephiroth gli si affiancò, rallentando il ritmo della pedalata mentre Genesis teneva d'occhio gli altri due.

« Tutto okay, Kaddie? »

« S-sì! » bofonchiò il piccolo, ondeggiando pericolosamente.

« Fermati un attimo, su. »

Kadaj tentò di fermare la bici, tentò perché le polsiere rigide gli rendeva difficile manovrare i freni.

Riuscì, e non cadde neanche, ma aveva un broncio così profondo che sembrava impossibile vederlo felice di nuovo.

« La mamma ha un po' esagerato, vero? » Sephiroth si inginocchiò all'altezza del fratellino. Così piccolo, così fragile, eppure così testardo. Non rispose alla sua domanda, perché di solito non contestava quello che la mamma gli diceva, però sì, pensava che avesse davvero esagerato. « Facciamo così. Adesso togliamo questa roba e provi a pedalare senza. »

« Davvero? » Sephiroth dovette trattenere un singhiozzo: Kadaj aveva gli occhi così grandi, così belli, così pieni di speranza.

Gli sorrise e annuì, dopo di che cominciò a togliergli le ingombranti protezioni. Tutte tranne il caschetto.

Gli diede una pacchetta sulla testa e lo guardò sornione.

« Non dovevamo togliere tutto? » chiese il piccino, battendo gli occhi un po' stizzito.

« Tutto tranne questo, dobbiamo proteggere questa bella testolina. »

« Seeeeeph! » finse di dargli dei pugnetti, ma con quelle piccole manine era più adorabile che altro.

« In medio stat virtus. »

« C-che? »

« Tieniti il caschetto e salta in sella o niente gelato. »

Sephiroth inforcò la bici – dopo aver sistemato le protezioni del bambino nello zaino –, sorridendo, e partì lasciando il piccolo indietro. Ovviamente, non si sarebbe allontanato troppo, per averlo sempre nel proprio campo visivo, ma Kadaj, terrorizzato e insieme arrabbiato dalla sola idea di essere lasciato solo, saltò sulla piccola bici e cominciò a pedalare più forte di prima, ignorando il fatto che adesso era più sicuro e che non ondeggiava neanche un po'. Probabilmente non avrebbe più avuto bisogno delle rotelle, ma questo glielo avrebbe detto in un secondo momento.

 

 

Mentre i ragazzi erano via, Jenova fece quello che le riusciva meglio: rassettare il loro disordine. Sephiroth, nonostante fosse ormai un uomo adulto, aveva accettato il compromesso della madre e dormiva nella sua stanza mentre il compagno si era sistemato nella stanza degli ospiti. Entrambe erano ordinatissime, e Jenova dovette solo appiattire le poche pieghe lasciate sul copriletto.

Un po' più impegno dovette mettere nell'ordinare la stanza di Loz. Era in quella fase della vita in cui non era né un bambino né un adolescente e oscillava perennemente tra le due, e questo rendeva adorabile il suo disordine. Tra le maglie della squadra di football della scuola, Jenova trovò diverse macchinine e sistemò entrambe le cose sorridendo dolcemente.

« Sono a casa. » sentì dal piano di sotto.

Si affacciò dalla stanza di Loz e vide Hojo appendere le chiavi al gancio di fianco alla porta. Non sembrava molto contento, ma era così da tempo ormai.

« Bentornato amore. » si sforzò di dire lei. Cosa gli aveva detto la sera che le aveva confessato il tradimento? Non riusciva neanche a ricordarlo, era passato così tanto tempo. « Tutto bene? »

« Sì. Dove sono i ragazzi? » l'uomo salì le scale per andarla a salutare con un bacio sulla fronte. Standard, come tutti i gesti d'affetto che le rivolgeva.

Stavano scivolando lentamente nell'oblio da cui erano sfuggiti numerose volte. Forse per loro c'era un solo modo per far funzionare la cosa, e non comprendeva il rimanere insieme.

Ma Hojo si era comportato bene negli ultimi anni, non aveva dato modo a Jenova di credere che la stesse tradendo di nuovo. Se solo non fosse stato così visibilmente infelice forse avrebbe potuto sorvolare sul fatto che non provava più amore per lui.

« Sephiroth e Genesis li hanno portati a fare un giro in bici. »

« Bene, bene. » commentò solo Hojo, andando verso la loro stanza da letto.

Aveva ancora addosso il camice, che ormai era diventato una seconda pelle. La sua fama come scrittore era seconda solo a quella del suo lavoro da scienziato. Nell'ambiente si vociferava che fosse in lista addirittura per un premio nobel, e gli introiti degli articoli pubblicati su giornali prestigiosi, insieme con quelli dei libri gli permettevano di dare alla sua famiglia la sicurezza economica che avevano sempre sognato, a tal punto che Jenova non aveva più bisogno di lavorare nel negozio d'abbigliamento, che ormai aveva lasciato in mano a collaboratrici fidate.

Hojo era stato sincero con sua moglie, aveva allontanato le tentazioni e si era gettato nel suo lavoro a capofitto. Provava ancora vergogna per quello che aveva fatto e non si sarebbe mai perdonato, perché ogni volta che credeva di averlo superato, lo sguardo accusatore del figlio maggiore lo faceva precipitare in torbidi pensieri. Se Jenova era riuscita a dimenticare quel suo sbaglio, Sephiroth non l'avrebbe mai fatto.

« Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa? » chiese la donna, appoggiandosi allo stipite della porta mentre Hojo si gettava stanco sul letto, con un sospiro.

Per un po' rimase in silenzio, si pulì gli occhiali con un lembo della camicia, si passò una mano sui capelli che ormai avevano cominciato a imbiancarsi.

« Jenova, che cosa stiamo facendo? » disse poi, spezzando il silenzio.

La donna aggrottò le sopracciglia, confusa.

Lui alzò lo sguardo, quegli occhi verdi non avevano mai perso la grinta, eppure adesso sembravano spenti, luminosi come una stella morente. « Perché fingiamo che tutto questo ci vada bene? »

« Di cosa stai parlando? » chiese lei, cercando di abbozzare un sorriso. Credeva che la stesse prendendo in giro, credeva che non avrebbero mai davvero parlato di quello, che sarebbe rimasto un non detto tra loro.

« Sto parlando di noi. » sospirò Hojo, le mani sulle ginocchia che stringevano in una morsa la stoffa dei pantaloni. « Tu sei...felice? »

« Certo che sono felice. » rispose lei subito, con troppa foga, senza pensarci. Aveva paura che, soffermandosi, avrebbe scoperto di non esserlo affatto.

« Lo so che sei felice con i ragazzi. » precisò lui, un calcolato tono di voce, come se stesse parlando d'affari. « La mia domanda è se sei felice con me. »

Stavolta Jenova non riuscì a rispondere, non subito almeno. Prese fiato per ribadire il concetto ma la voce non uscì dalle sue labbra.

Non era quello che ormai pensava da tempo? Certo, era un pensiero che aveva volontariamente nascosto sotto strati e strati di istinto materno, e i suoi figli le avevano facilitato il compito. Kadaj con la sua fragilità, Yazoo con le sue allergie, Loz con i suoi problemi di peso, Sephiroth con la sua assenza: così tante cose su cui concentrarsi che aveva potuto ignorare il resto.

« Non è così...semplice. » mormorò lei, abbassando lo sguardo. Non si aspettava di dover affrontare la discussione adesso e le sembrava che il cuore non potesse reggere tutto quell'improvviso dolore.

« Lo so. » sospirò lui. « Lo so. Però credo che sia il caso di... »

Il telefono squillò, facendo trasalire entrambi.

Quando i figli erano fuori casa, telefonavano o scrivevano al cellulare della madre per tenerla informata degli spostamenti. Aveva giustappunto ricevuto un messaggio di Sephiroth con un selfie di tutti loro con i volti sorridenti.

Qualcosa nello squillare insistente del telefono di casa mise in agitazione Jenova. Da qualche parte pensò che volesse solo cercare una scappatoia per non continuare la conversazione con il marito e per questo rimase immobile mentre quel drin drin drin le riempiva le orecchie.

Hojo la guardò a lungo, cercò in lei l'amore che l'aveva sempre mosso, e fu con orrore che capì di aver smesso di amarla in giorno in cui aveva cominciato a tradirla. Tutto ciò che era seguito era solo un inutile tentativo di ricucire un vestito che ormai non andava bene addosso a nessuno dei due.

« Rispondi a quel dannato telefono. » disse, senza nessun particolare tono.

Jenova annuì. Nonostante avesse lasciato la stanza e lo sguardo gelido del marito, non si sentiva meglio, anzi, la sensazione che aveva provato quando il telefono aveva cominciato a squillare si fece più prepotente.

« Pronto? » rispose, con il fiatone e il cuore che le martellava in petto. Per un po' sentì solo scariche statiche, e temette che la trasmissione fosse disturbata. « Pronto? » chiese ancora, le dita che andarono ad intrecciarsi intorno al filo del telefono.

Poi sentì un sospiro, un profondo, umido sospiro fatto di lacrime.

« Casa Crescent? » chiese una voce, ben troppo familiare per Jenova che sentì all'improvviso una morsa allo stomaco.

Erano passati ventiquattro anni e la voce era invecchiata, si era arrochita, era diventata un po' più profonda, o forse era il dolore a renderla così?

« S-sì, sì, casa Crescent. » balbettò Jenova, confusa. Le orecchie le fischiavano, sentiva scorrere il sangue con violenza, come un fiume in piena. Poteva essere? Non si stava sbagliando?

« Sto cercando...sto cercando Jenova, è in casa? »

Lei dovette inghiottire il magone, insieme con il cuore che le era salito in gola, prima di poter rispondere. « Sono io. »

Un altro lunghissimo istante di silenzio, in cui Jenova poté sentire la persona dall'altro capo del telefono che emetteva un lungo sospiro.

« Sono...sono...sono la mamma, Jen, sono la mamma. »

La donna sentì una stilettata gelida attraversarle l'anima.

Non si era sbagliata.

Non sentiva la voce di sua madre da quando l'aveva cacciata di casa, incinta e ripudiata.

Molte volte, durante tutti quegli anni, aveva immaginato di parlare con i suoi genitori. Certe volte la discussione era pacata, altre volte era un litigio furioso, altre volte ancora piangevano e si abbracciavano: la sua mente aveva vagliato tutti i possibili scenari, e se all'inizio la cosa le faceva venire le palpitazioni, con il tempo era diventato un pensiero vago, avvolto nella nebbia, finché aveva smesso di farle effetto. Credeva con tutto il cuore che non avrebbe mai, mai più sentito i suoi genitori.

« Sì. Mamma. » sputare quella parola fu un grande sforzo per lei, ancora divisa tra rabbia e odio. Non c'era spazio per altre emozioni nel suo animo ferito. « Che piacere sentirti. Sai che sono passati quasi venticinque anni dall'ultima volta che ci siamo fatte una chiacchierata? »

Non pensava di avere tutto quel rancore, né che sarebbe riuscita a riversarlo fuori con tale foga. Realizzò che ormai era una donna adulta, e che se prima aveva paura di sua madre, della figura autoritaria che era stata durante l'infanzia, adesso che era madre a sua volta aveva perso qualsiasi potere avesse su di lei. Soprattutto adesso che sentiva di dover difendere i suoi figli dalla donna che l'aveva abbandonata.

« Lo so. » disse la madre, la voce rotta dal pianto. « Non ho nessun diritto di tornare nella tua vita così ma... »

« Ma cosa? Non abbiamo niente da dirci. Se vuoi chiedermi scusa, non accetto le tue scuse. Grazie per avermi cercata, avrebbe avuto un senso all'incirca una ventina d'anni fa, adesso è troppo tardi. »

Stava per mettere giù il telefono quando la madre urlò: « È per papà. Ha avuto un infarto. È morto stamattina. »

Jenova sentì il respiro mozzarsi in gola, e la cornetta le scivolò dalle mani.

 

 

Faceva caldo, un caldo asfissiante. Sephiroth teneva Kadaj in braccio perché non c'era posto nel banco per tutta la famiglia, e Jenova aveva preteso che rimassero tutti insieme.

Nessuno di loro era mai entrato in chiesa, e Jenova stessa non ci metteva piede da molto tempo.

L'odore d'incenso, le statue con lo sguardo vacuo ma crudele, le vetrate colorate che gettavano luci allegre sulla bara di fronte all'altare: era qualcosa per cui non era pronta.

Eppure, la donna riusciva a trattenere le lacrime. Il gelo che le avvolgeva il cuore si era solidificato e non riusciva più a sentirlo battere.

Hojo le teneva la mano così stretta che le parve di sentirlo vicino per la prima volta in tanti anni. La discussione che avevano avuto soltanto il giorno prima sembrava lontanissima e vaga: non poteva essere più contenta di avere suo marito al suo fianco in quel momento.

Yazoo e Loz, entrambi vestiti di nero – come i genitori e gli altri fratelli – stavano seduti stretti stretti, e confusi, guardandosi intorno senza capire esattamente cosa stesse succedendo.

Non avevano mai conosciuto il nonno, anzi, non ne avevano neanche mai sentito parlare. Gli unici nonni per loro erano i genitori di Hojo, non contemplavano neanche l'esistenza di nonni materni.

Yazoo occhieggiò in direzione di quella che aveva capito essere la nonna. Non l'aveva mai vista prima, ma la riconobbe subito perché somigliava moltissimo alla mamma. Come lei, aveva capelli bianchi, che era sicuro non dipendessero dall'età, e aveva gli stessi occhi rossicci, solo che erano circondati da rughe fitte e umide di lacrime. Era vecchia, ma agli occhi di un bambino di undici anni qualsiasi persona più grande di suo fratello maggiore appariva vecchia.

La chiesa era disseminata di anziani che piangevano più o meno mestamente, con le teste chine sui libretti dei canti; l'aria era satura, sia per il caldo che per l'incenso.

I bambini cominciavano ad essere inquieti.

Kadaj, aggrappato al collo di Sephiroth, si guardava intorno con circospezione, come spaventato da quel nuovo, inquietante luogo.

Jenova non aveva imposto loro nessuna credenza religiosa, dopo essere stata costretta a seguire un regime cattolico che le aveva portato solo sofferenza, ed erano ancora troppo piccoli per parlargli della morte, delle sue implicazioni, spirituali o biologiche.

Per Kadaj, come per Yazoo e Loz, era tutto mostruosamente nuovo e spaventoso.

Il piccolo appoggiò la testina sulla spalla del fratello. L'unica persona che sembrava autorizzata a parlare ad alta voce in chiesa era l'uomo con la tunica sull'altare, che però diceva cose per lui senza alcun senso. In ogni caso, fu con un mormorio sottile che parlò al fratello, come se intuisse per istinto di dover fare meno rumore possibile.

« Seph...ho caldo, voglio andare a casa. »

Sephiroth non stentava a crederlo. Costretto ad indossare giacca e cravatta, come un uomo in miniatura, Kadaj era già zuppo di sudore, e i bracieri fumanti incenso non rendevano più fresca l'aria, solo più pesante, nonostante i ventilatori che giravano a pieno ritmo.

« Tra poco Kaddie, dobbiamo rimanere fino alla fine della messa. » rispose il fratello. Provò a soffiargli sul collo per rinfrescarlo, spostandogli i capelli da un lato, ma capiva bene cosa provava: anche lui, nell'abito nero da funerale, cominciava a non respirare più.

Il bambino avrebbe voluto chiedergli cosa fosse una “messa”, ma non era la più impellente delle domande: la grande cassa scura di fronte all'altare, cosparsa di fiori e ghirlande, attirava per lo più la sua attenzione.

La mamma non aveva dato nessuna spiegazione a riguardo, nessuna che fosse soddisfacente, e tutto ciò che Kadaj sapeva delle casse da morto veniva dagli sparuti sceneggiati televisivi che di tanto in tanto riusciva a guardare quando nessuno lo controllava. Non che la morte fosse un tabù in casa Crescent, semplicemente cercavano di tenerlo al sicuro.

Più che altro, Kadaj era irritato dal fatto che dovesse passare quella giornata in chiesa, al caldo, circondato da persone che non conosceva, con la mamma ridotta ad una fredda statua di ghiaccio, quando avrebbe potuto divertirsi sul prato lanciandosi gavettoni con i palloncini per festeggiare il suo compleanno, che per la cronaca era il giorno dopo. Non poteva immaginare un peggiore pre-compleanno di quello.

« Là dentro c'è il nonno? » chiese, sempre sottovoce, sapendo che Sephiroth avrebbe capito e che gli avrebbe risposto, come faceva sempre, senza farlo sentire fuori luogo o troppo piccolo per avere quell'informazione.

« Sì. » infatti disse, mentre gli occhi verde intenso scivolavano sull'opulenta bara.

Sephiroth non poté fare a meno di chiedersi quanto fosse costato quel funerale, quanto fossero pregiati i fiori che abbellivano altare e bara, e quanto di tutto quello rendesse davvero felice l'uomo morto al suo interno, o se fossero solo per la soddisfazione di chi era ancora in vita.

Si chiese anche se sua nonna si rendesse conto di quanto stupido fosse tutto quello, e di quanto fossero lontani dalla concezione cristiana di vita religiosa.

Kadaj mosse la testolina per guardare il feretro, le piccole sopracciglia aggrottate. « E perché è lì dentro? »

« È il modo in cui i vivi rendono omaggio ai morti, Kaddie. » cercò di spiegargli, sottovoce, imbrigliando nel fondo della gola tutte le sue idee sulla religione e la stupidità umana: era giusto che il fratellino traesse le sue conclusioni, senza la sua influenza.

« Al nonno piacevano i fiori e questa puzza brutta? »

In effetti, l'odore dell'incenso era così pungente da far lacrimare gli occhi, e una nebbia fitta cominciava ad oscurare la luce che proveniva dalle vetrate.

Sephiroth stentò a trattenere un sorriso. « Non saprei, non l'ho mai conosciuto. Ma penso di sì. »

Il bambino respirò a fondo, fece una smorfia per quel puzzo acre che prendeva alla gola, e si sistemò meglio sulla spalla di Sephiroth. Aveva caldo e cominciava a spazientirsi, ma l'abbraccio del fratello era il posto migliore in cui stare.

Il monotono ciarlare del prete fece ben presto annoiare i bambini. Yazoo tirò la manica della madre più volte per chiederle quand'è che sarebbero andati via, ma senza successo: sembrava diventata sorda e cieca a qualsiasi cosa.

Così, il piccolo ingaggiò una furiosa battaglia a sasso, carta e forbici con Loz, e improvvisamente la celebrazione risultò più sopportabile ad entrambi.

Loz fece vincere Yazoo diverse volte, dal momento che sapeva bene quanto la sconfitta lo infastidisse, poi gli propose di giocare a pollice contro pollice. Per questo si beccò una gomitata da Sephiroth, forse aveva alzato un po' troppo il volume della voce. Ci si aspettava da lui che seguisse con diligenza la messa molto più di quanto non se lo aspettassero da Yazoo e Kadaj: essere grandi aveva i suoi svantaggi.

Quando il prete, dopo quasi due ore, finalmente disse “andate in pace”, Jenova sembrò rianimarsi. Aveva gli occhi pieni di lacrime non versate, e di una rabbia incontenibile quanto ben nascosta, a tal punto che solo Sephiroth, che la conosceva quasi meglio di se stesso, riuscì a coglierla.

« Forza, andiamocene. » disse solo, secca. Stringeva ancora la mano del marito, tanto forte da far male ad entrambi.

Il figlio maggiore le rivolse un cenno di assenso. Teneva stretto a sé Kadaj con un braccio, e porse la mano libera a Yazoo perché la prendesse, mentre Loz quasi gli si aggrappava alla giacca.

Il loro modo di tenersi vicini, stretti l'uno all'altro, era un inconscio bisogno di sicurezza e protezione, come gli aquilotti in un nido freddo che aspettano il ritorno della madre stando tra loro il più vicino possibili. Era anche un modo di schermarsi da tutte le occhiate strane che la famiglia materna gli rivolgeva, occhiate che andavano dall'incuriosito allo sdegnato.

Se c'era qualcosa che Jenova conosceva bene erano i giudizi della comunità da cui era stata cacciata. Quanto più si è vicini a Dio, tanto più crudeli si diventa: un paradosso che non aveva mai realmente capito.

Esortò i figli a muoversi, con voce tesa.

Se aveva accettato di andare al funerale era solo perché aveva ancora del buon senso, e perché dentro di sé sapeva che se non avesse dato l'ultimo saluto al padre se ne sarebbe pentita per il resto della sua esistenza.

Non provava dolore all'idea di non poterlo più rivedere, non provava odio nei suoi confronti, né affetto: onora il padre e la madre, dicono i comandamenti, e lei era lì solo per quello.

D'altronde non era lei ad essere morta senza aver mai perdonato l'unica figlia, senza aver mai partecipato alla sua vita, senza aver mai conosciuto i suoi nipoti.

In cuor suo, in un minuscolo anfratto nero e crudele, sperò nell'esistenza di una vita dopo la morte solo per vedere il padre sofferente e consapevole dei suoi errori, poi la parte razionale di sé le ricordò che non c'era nessun aldilà, e riuscì a rilassarsi.

Quasi spinse i figli lungo la navata per uscire dalla chiesa il più velocemente possibile.

Aveva fatto il suo dovere, non aveva più alcun motivo per rimanere lì.

Quando finalmente uscirono all'aria aperta a Kadaj parve di non riuscire più a sopportare la luce del sole e l'aria fresca. Quanto tempo era rimasto dentro la chiesa? Gli sembrava un'eternità.

Gli occhietti misero a fuoco un mondo ben più colorato e allettante di quello che aveva visto là dentro, e subito la sua mente fu pervasa dalla felicità: era estate, il suo compleanno sarebbe stato l'indomani, il cielo era azzurrissimo e niente, niente esisteva di più bello al mondo.

Jenova diede un buffetto sulla spalla di Sephiroth, come a volerlo ringraziare, e lui le rivolse un veloce sorriso.

Tutti insieme si diressero verso le macchine, e nessuno degli adulti presenti sembrava intenzionato a voltarsi indietro.

Se non fosse stato per il lamentoso, sofferente richiamo che giungeva dalle sue spalle, Jenova non si sarebbe assolutamente fermata.

Ma lo fece, e se ne pentì un attimo dopo averlo fatto.

Yazoo vide la nonna avvicinarsi, stanca e lenta. Sembrava soccombere sotto il peso del vestito nero che indossava, e suoi occhi apparivano più rugosi che mai.

La donna si fermò di fronte a Jenova, che rimase impassibile e fredda com'era stata per tutta la celebrazione.

« Hai portato tutta la famiglia. » tentò la nonna, con quella voce spezzata che voleva cercare in loro una spiaggia di felicità, senza sapere che per lei c'erano solo lidi ostili.

« Ce ne stavamo andando. » fu la risposta secca di Jenova. Hojo ricambiò la stretta che lei gli rivolse, sapendo che aveva bisogno della sua forza ora più che mai.

« Sono i miei nipoti, questi? » evidentemente, la nonna non aveva ben capito le parole di Jenova, che dovette serrare la mascella per non mettersi a urlare.

Non vedeva sua madre da talmente tanto tempo che era riuscita a renderla un'estranea alla vista. Era cambiata in un modo che non avrebbe saputo esprimere a parole, eppure era la stessa donna, la stessa madre, che l'aveva tenuta per mano tante volte, che le aveva rimboccato le coperte. E che le aveva sbattuto la porta alle spalle senza pensarci due volte.

I sentimenti laceranti che si contendevano la sua anima le inumidirono a tal punto gli occhi da farle vedere tutto grigio. Grigio il cielo, grigi i fiori, grigia la facciata della chiesa deliziosamente opprimente sullo sfondo.

« Sì. » rispose Jenova, meccanicamente, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla madre. « Questo è Sephiroth. » le disse, con la mano nuovamente sulla sua spalla come a cercare da lui la forza che le mancava, e insieme come a indicare alla donna che un tempo era stata sua madre che lui era il motivo per cui l'aveva cacciata. « Il piccolo è Kadaj. » ancora appeso come un koala al fratello maggiore. « Questi sono Yazoo e Loz. » appoggiando poi una mano sulle loro teste mentre li presentava.

Non aveva il coraggio di dire loro di salutare la nonna, pensò invece che la loro reazione priva di entusiasmo fosse sufficiente per farla soffrire: per loro era una sconosciuta, e tale doveva rimanere.

« Sono proprio dei bei giovanotti. » disse la nonna, senza riuscire a trattenere le lacrime.

A Yazoo apparve come una strana, singhiozzante tartaruga, di quelle che aveva visto solo nei documentari di NatGeo.

Jenova assistette a quella pietosa scenata senza neanche guardare in faccia sua madre, aveva lo sguardo perso oltre la sua spalla, in attesa che smettesse o che le desse una buona ragione per trattenersi ancora.

Il disagio di trovarsi davanti quella donna piangente e gemente cominciava a diffondersi, e Kadaj pigolò uno stanco “possiamo tornare a casa?” appena più forte dei suoi singhiozzi, tanto da obbligarla a smettere. Non voleva vederli andare via, non ora che era rimasta da sola. Era vecchia, ed egoista.

« Potresti portare i bambini a vedere la casa dove sei cresciuta, che ne dici? » tentò, abbozzando un sorriso malandato. Jenova pensò vagamente che i rimpianti facevano invecchiare molto più in fretta.

« Non credo. Abbiamo altri impegni. » disse, e, presa la manina ora libera di Yazoo, fece per voltarle le spalle e andarsene.

Nessuno avrebbe osato dirle che stava sbagliando, perché nessuno pensava che stesse sbagliando. Il suo gelido comportamento era ciò che sua madre meritava.

Hojo ricordò quell'unica volta in cui aveva proposto alla moglie di contattare i suoi genitori. Si chiese cosa sarebbe successo allora se avesse insistito, se avessero portato Sephiroth ancora neonato a vedere i nonni, se quel giorno, quel funerale, avrebbe acquisito tutto un altro senso. Sconsolato, realizzò che no, non sarebbe cambiato niente. Non seppe da dove venisse quella realizzazione, ma era così opprimente che fu il primo a desiderare di essere già seduto in macchina.

« Sono rimasta sola, Jen. » pianse la donna, le mani rugose corsero al viso per nascondere le piaghe create dal dolore. « E so di aver avuto esattamente quello che mi meritavo, ma non voglio morire come tuo padre, non voglio perderti. »

« Mi hai perso molto tempo fa. » fu la semplice risposta, così leggera che non costò a Jenova nessuno sforzo. « Hai avuto tante occasioni per tornare sui tuoi passi in questi anni, e non ne hai colta nessuna. »

« Perché non sei tornata tu da me! Perché avrei dovuto fare io il primo passo! »

Il fatto di tenere la manina di Yazoo impedì a Jenova di mettersi a urlare: sapere che c'erano i suoi figli presenti e che tutto ciò che sarebbe uscito dalle sue labbra avrebbe influito su di loro ridimensionò la sua rabbia, ma le riempì di bile lo stomaco.

« Tu e papà mi avete abbandonata quand'ero solo una ragazzina. Sono stata vagabonda per mesi disprezzando me stessa e quello che avevo fatto. E intanto una vita cresceva dentro di me, e non sapevo assolutamente come prendermene cura. Tutto ciò che mi avete insegnato mi si era ritorto contro, non ho trovato nessun amore cristiano e nessuno disposto ad aiutarmi. Avevo paura, io ero sola. Finché Sephiroth non è nato e mi ha reso così felice che mi sembrava di esplodere. » rivolse solo un piccolo sguardo al figlio, eppure bastò per riempirle il petto di una sensazione calda. « La famiglia di Hojo mi ha presa con sé senza neanche pensarci, e se oggi sono qui è solo per merito loro, loro, e di nessun altro. In tutti questi anni ti sei mai chiesta che fine avessi fatto? Hai pensato a che cosa ne era stato di me? Hai mai pensato a tuo nipote? Se fossimo sopravvissuti o se fossimo diventati solo altre due facce sporche sedute in un angolo di strada a chiedere le elemosina? » non erano domande che volevano una risposta, ma nonostante questo la donna boccheggiò alla ricerca di qualcosa da dire. Fu subito interrotta da Jenova, senza pietà. « Questa è la famiglia che mi sono creata con tanti sacrifici, non siamo perfetti, ma c'è una cosa che tu e il tuo Dio evidentemente non avete: l'amore. Imprimiti bene il volto dei miei figli, perché è l'unica volta che li vedrai. Addio mamma. »

Poi strattonò Yazoo perché cominciasse a camminare. Il bambino, intontito da quanto era successo, come tutti i presenti d'altronde, sgambettò per stare al suo passo. Hojo e Loz quasi dovettero correrle dietro.

Ma Sephiroth rimase immobile al suo posto, con Kadaj che occhieggiava verso la nonna, ora ridotta ad un cumulo nero di lacrime.

Per un lungo, lunghissimo tempo, rimasero in silenzio, mentre il piazzale lentamente si svuotava e la bara veniva portata fuori al rintocco di tetre e pesanti campane. Il carro funebre attendeva solo un ordine della vedova per far partire il corteo che avrebbe accompagnato il defunto fino al cimitero dove lo aspettava la sua ultima dimora.

Ma lei era immobile, ferma davanti alla ragione per cui aveva perso sua figlia.

Provava gioia mista a odio nei confronti di quel bel ragazzo dalle spalle larghe. Si rallegrava che avesse preso i capelli bianchi di Jenova e che fosse alto, alto come suo nonno. Eppure una parte di lei, quella sprofondata nel dolore della perdita, lo odiava: se non fosse stata per lui, sua figlia avrebbe potuto aspirare a qualcosa di meglio.

Forse Jenova aveva ragione, lei e il suo Dio non contemplavano l'amore.

Sephiroth non sapeva bene cosa si aspettasse da lei, cosa volesse sentirle dire, o se fosse lui a volerle dire qualcosa.

Non provava quella donna niente che non fosse un nulla senza emozioni.

Quand'era un bambino, quasi in automatico, aveva creduto che i suoi nonni materni semplicemente non esistessero, e non era un pensiero così assurdo dal momento che non era difficile imbattersi in bambini che non avevano mai conosciuto neanche uno dei nonni. Crescendo, e apprendendo la verità su sua madre, aveva provato rabbia nei loro confronti, e aveva contemplato l'idea di contattarli solo per urlare loro in faccia e sfogare le sue frustrazioni. Si era sentito rifiutato tanto quanto la madre.

Adesso, adulto e consapevole di dover difendere la sua famiglia, con in braccio Kadaj che continuava sommessamente a pregarlo di portarlo a casa, non sapeva cosa pensare.

Aaliyah e Lewis non gli avevano fatto mancare niente, anzi, lo avevano viziato più di quanto fosse necessario quand'erano lontani dallo sguardo di Jenova.

Pensò a come sarebbe stato perdere Lewis, suo nonno, il suo unico nonno, e sentì immediatamente un'ondata di lacrime risalirgli agli occhi. Era questo che si provava quando si temeva di perdere qualcuno che si ama, e non era ciò che provava verso quella donna, o l'uomo morto dentro la bara.

Sentì da lontano sua madre chiamarlo, non con urgenza, non con rabbia, un richiamo pacato per ricordargli che lo stavano aspettando per tornare a casa.

Volse un ultimo sguardo alla donna prima di dire: « Kadaj, saluta la nonna. »

« Ciao ciao nonna. » cinguettò il bambino, muovendo la piccola mano verso di lei.

Poi le volse le spalle. I suoi singhiozzi disperati lo perseguitarono a lungo.



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The Corner 

Ciao a tutti e ben trovati.
Ammetto che questo capitolo ha per me un sapore strano, in parte mi ha davvero fatto soffrire.
Sono contenta, però, di aver trovato il tempo di scriverlo, non pensavo di riuscire a mettermi in pari in tempo per la pubblicazione del giovedì, e invece! 
Tutto questo merito della mia persona speciale, a cui dedico davvero tutto, tutto tuto tutto. 

Chii

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Capitolo 12
*** I don't want you to go ***


- 4 -

I don't want you to go

 

 

Nello spogliatoio il caldo era quasi opprimente, oppure era solo il panico a stringergli la gola così forte da non lasciare passare un filo d'aria.

Loz continuava a rigirarsi tra le mani il caschetto rosso fuoco. Come quarterback della squadra il suo compito principale era non farsi prendere dal panico, cosa che adesso gli risultava particolarmente difficile.

Di norma non aveva problemi a concentrarsi, a ritagliarsi cinque minuti per respirare piano, profondamente, e ripassare lo schema della partita che stava per andare a giocare. Ma questa volta la posta in gioco era talmente alta che il solo pensiero gli faceva venire le vertigini.

Loz non era uno studente modello, per quanto si impegnasse. Gli piaceva studiare quanto può piacere ad un ragazzo alle soglie del diploma, ma gli allentamenti con la squadra e le sessioni in palestra gli toglievano tutto il tempo messo da parte per lo studio.

Questo perché, ad un certo punto durante la stagione, il coach l'aveva preso da parte, gli aveva fatto i complimenti, gli aveva dato una pacca sulla spalla, e gli aveva detto che se si fosse impegnato a fondo, davvero a fondo, avrebbe vinto la borsa di studio per andare al college.

Per un po' non ne aveva parlato con la sua famiglia. In realtà non era neanche sicuro di volerci andare al college, non si sentiva portato per lo studio disperato e la pressione degli esami.

Alla fine, l'assenza del suo normale entusiasmo e del suo buon umore avevano fatto capire a tutti che qualcosa non andava, e aveva vuotato il sacco con sua madre.

Lei, a differenza sua, aveva fatto i salti di gioia, e non solo perché voleva che i suoi figli avessero la migliore istruzione possibile, ma anche perché Loz era davvero bravo in quello che faceva, e aveva tutte le carte in regola per diventare un giocatore professionista. Cosa c'era di meglio che seguire le proprie naturali inclinazioni?

Il pensiero era maturato in lui lentamente, quasi senza accorgersene. Molto più spesso si ritrovava a immaginare la vita al college e cominciava a piacergli l'idea.

Così si era gettato a capofitto negli allenamenti, aveva reso la sua dieta ancor più stretta, aveva investito tutto nel migliorare le sue prestazioni sportive.

Era stata dura, pioggia, vento o freddo che fosse, ogni mattina alle quattro prima di andare a scuola si alzava per fare due ore di riscaldamento, aveva tagliato quasi tutti i carboidrati, era andato avanti per settimane con bibitoni energetici dai gusti più svariati: da calzino sporco ad ascella sudata. Ma ne era valsa la pena.

Il suo corpo non era mai stato tanto tonico, i muscoli si erano irrobustiti, e l'aver guadagnato altri centimetri in altezza lo rendevano il perfetto giocatore di football.

E adesso, a pochi minuti dall'inizio della sua partita più importante, cominciava a rivedere tutte le sue scelte, a rimpiangerle, persino a pentirsene.

Lo scout dell'università seduto tra gli spalti avrebbe guardato ogni sua azione, ogni movimento, persino il modo in cui avrebbe urlato lo schema ai suoi compagni di gioco, e avrebbe deciso se fosse o no la persona adatta.

Il suo futuro dipendeva dalla prossima ora, da come avrebbe maneggiato quello stupido pallone.

Assurdo, no?

Ma il pensiero che gli faceva stringere lo stomaco in una morsa e allo stesso tempo salire la nausea era sapere che sua madre e i suoi fratelli – compreso il maggiore – fossero seduti sugli spalti a guardarlo tanto quanto avrebbe fatto lo scout.

Certo, la loro presenza non era strana, anzi, partecipavano tutti molto volentieri alle sue partite, Kadaj, poi, si dipingeva persino il visetto con i colori della squadra e certe volte lo sentiva urlare il numero della sua maglia con tutta la forza che aveva.

Però...però...quel giorno era tutto diverso. Era tutto troppo importante, gli tremavano le mani per la paura.

« Loz! » non sobbalzò, alzò solo la testa. Mike, uno dei compagni di squadra, gli si sedette a fianco offrendogli un pezzo della sua barretta di cioccolata. Lui rifiutò abbozzando un sorriso.

Con tutta l'attrezzatura addosso sembravano quasi guerrieri in armatura, molto più grossi di quanto in realtà non fossero, anche se lui era tra i più grossi della squadra, pur senza nulla addosso.

« Nervoso? » gli chiese il compagno, mangiucchiando la barretta come se neanche ne sentisse il sapore. La mangiava per gola, solo per avere qualcosa da fare mentre aspettava che li mandassero a chiamare.

« Sì, potrei vomitare da momento all'altro. » confessò, a cuor leggero.

Loz era così, sempre sincero, un libro aperto, mite e gentile con chiunque, il suo carattere non era cambiato crescendo, probabilmente si era addolcito di più. Che poi sul campo da gioco placcasse gli avversari come un treno in corsa era un altro conto.

« I tuoi ci saranno? »

« Certo, ci sono sempre. » con un vago ma innamorato sorriso, che poi si trasformò in una smorfia di terrore allo stato pure. Ci sono sempre. Non voleva che lo vedessero fallire.

« Il tuo fratellino, il minore, com'è che si chiamava? »

« Kadaj. »

« Ah, Kadaj! Quel piccoletto è davvero forte. Quanti anni ha adesso? »

« Ne compie dieci a Giugno. » a quel punto, il pensiero del fratellino lo sciolse abbastanza da lasciarsi andare in un sorriso più largo. « È davvero forte. »

« Vinci per lui o per qualche bella ragazza? » Mike gli diede il gomito, facendolo mugolare per l'imbarazzo.

Loz avrebbe potuto avere letteralmente qualsiasi ragazza della scuola. Per quanto svampito e immune ai flirt fosse, si accorgeva di come lo guardavano quando attraversava i corridoi, o delle risatine che risuonavano alle sue spalle quando si abbassava per raccogliere qualcosa a terra, o di come sospirassero le cheerleader tutte le volte che si sfilava il casco e si passava una mano tra i capelli.

Eppure nessuna si era dichiarata apertamente, e lui non aveva particolare interesse nell'avere una relazione amorosa con qualcuno, o una relazione di qualsiasi genere.

Questo aveva fatto girare la voce che fosse gay, dal momento che anche il fratello maggiore lo era. La voce era stata messa a tacere quando il suo pugno aveva incontrato quello di chi l'aveva messa in giro: l'unico vero guaio in cui si era messo durante i quattro anni di scuole superiori.

Non l'aveva infastidito il fatto di essere definito gay, ma il sentire cattiverie sul conto di Sephiroth: quello l'aveva davvero fatto imbestialire.

Quando mettevano in mezzo i suoi fratelli, la vista gli si tingeva di rosso, per questo il quattordicenne Yazoo viveva una vita assolutamente tranquilla, e tale sarebbe rimasta, finché Loz non si fosse diplomato.

« I ragazzi stanno organizzando una grande, gigantesca festa per la vittoria. » continuò Mike, sempre più esaltato. Come se avessero già vinto. Beh, non perdevano una partita dall'inizio delal stagione, quella non sarebbe stata di certo la prima. « Con alcool, musica, e la casa di Joseph completamente li-be-ra. Ci stai, vero? »

Mike aveva uno sguardo così implorante che quasi gli dispiaceva dirgli che no, non sopportava quel genere di feste, che bere non gli piaceva più di tanto, e che dopo mesi di ristrettezze avrebbe preferito strafogarsi di Mc Donald's con i suoi fratelli.

« Certo, ci sto. » rispose invece, d'altronde poteva non esserci nessuna festa, potevano non vincere affatto.

Una parte della sua mente si deliziò nel pensiero di far perdere la squadra apposta per non essere costretto ad andare a quel party, poi tornò in sé e si rese conto di quanto stupido fosse quel pensiero.

« Ragazzi! Tutti su, si comincia! Muovete quei culi! » la voce del coach, fin troppo rude, e poi il suo fischietto.

Il cuore di Loz si ridusse alla grandezza di uno spillo. Indossò il caschetto e si lanciò dietro i compagni.

Adesso o mai più.

 

 

Le urla della folla erano così intense da perforare i timpani, eppure Loz le sentiva a malapena. Gli sentiva di avere il corpo immerso nella melassa mentre correva, lo sapeva, alla velocità massima consentita dai suoi muscoli.

Gli sarebbero scoppiati i polmoni, ne era sicuro, mancava poco al collasso. Era così sudato da sentire la divisa attaccata alla pelle, e non era certo che sarebbe riuscito a scollarla.

Ma aveva il pallone, così saldamente stretto tra le braccia da provare dolore.

Scartò da un lato quando un avversario tentò di tuffarglisi contro, e per un attimo esitò sulla direzione da prendere. Gli occhi verdi schizzarono da un lato e dall'altro, per poi trovare un buco nella difesa.

Sentiva dagli spalti urlare “TOUCHDOWN TOUCHDOWN!” ed era proprio quello che intendeva fare.

Aveva tutti gli occhi addosso e aveva come l'impressione che lo stessero spingendo.

Aveva visto dov'era seduta la sua famiglia quand'era sceso in campo, ma adesso, nella furia della corsa, non aveva idea di dove fossero.

Rivolse il pensiero a loro mentre si gettava sulla end-zone, la superava con una capriola, e piantava il pallone nell'erba morbida.

La folla esplose in ovazioni, l'arbitro fischiò: la partita era finita, e lui aveva portato la squadra alla vittoria.

Prima ancora di rialzarsi in piedi un'orda di giocatori festosi si lanciò su Loz schiacciandolo a terra con il loro peso in un piuttosto rozzo tentativo di abbracciarlo e gioire con lui.

Poi fu sollevato di peso e lanciarlo verso l'alto. Urlavano il suo nome, ridevano, fischiavano, e quando lui si tolse il casco ulularono all'unisono: non ci si aspettava niente di meno dai Lupi dell'Est.

Depositarono Loz all'ingresso degli spogliatoi soltanto perché non c'era abbastanza spazio per continuare a portarlo in groppa e avrebbero rischiato di farlo cadere, ma continuarono a inneggiare e ululare come fossero impazziti.

Il ragazzo aveva sul volto un'espressione inebetita, quasi non ci credeva. Non riuscì ad esultare del tutto finché, attaccati alla balaustra che tentavano di sporgersi verso il basso, non vide i due fratelli minori.

Kadaj e Yazoo avevano entrambi le facce pitturate, e con i capelli legati e i sorrisi stampati sulle labbra sembravano praticamente gemelli. Agitavano bandierine verso di lui, le braccia teste verso l'alto.

Loz rivolse loro il sorriso più ampio che poté e un cenno con la mano. Dietro di loro, Jenova e Sephiroth salutavano a loro volta.

Li aveva resi fieri, lo sapeva, e questo colmò il suo cuore di gioia molto più di quanto non l'avesse fatto la partita appena vinta.

Corse poi allo spogliatoio, voleva togliersi di dosso tutta quella roba e correre da loro.

« Loz? Loz Crescent? » il ragazzo si fermò a metà del corridoio, un uomo in jeans e maglietta, con la faccia di uno che la sa più lunga del Diavolo, sbucò dalle ombre. « Ti stavo aspettando ragazzo.»

« Mi sono fermato a salutare la famiglia. » rispose lui, in automatico, come se avesse dovuto giustificarsi in qualche modo.

« Hai fatto bene, la famiglia è importante. » l'uomo si prese una sigaretta da un pacchetto che teneva nella tasca del jeans, e una la offrì a lui, che rifiutò con un cenno della testa. « Ti ho visto giocare, sei fantastico. »

« Grazie, signore. » Loz cercò di mantenere la calma ma, esattamente come prima della partita, il panico tornò a stringerlo, tanto forte da rendergli le gambe molli come gelatina. Come aveva potuto affrontare quei 60 minuti di gioco senza crollare se adesso a malapena si reggeva in piedi?

« Il tuo coach ti ha detto che sarei stato qui oggi? »

« Sì signore, me l'aveva detto. »

« Hai dei numeri non indifferenti. La tua squadra non ha mai perso una partita e hai segnato più touchdown tu di quasi tutti i tuoi compagni messi insieme. »

Loz sentì un sorrisetto nascergli sulle labbra. « Amo questo sport, signore, e mi impegno al massimo. »

« Ho visto, ho visto... » continuò l'uomo, con un sorriso accondiscendente. « ...e dimmi, hai già pensato a che college vuoi frequentare? »

Un formicolio piacevole percorse tutto il corpo del ragazzo, e a quel punto non poteva fare a meno di sorridere.

« No, non ci ho pensato. »

« Magari una borsa di studio potrebbe cominciare a farti pensare? »

Un improvviso nodo alla gola resero le successive parole un po' balbettanti, tanto che l'uomo si intenerì: quel ragazzo grande e grosso in fondo aveva il cuore di un bambino. « C-credo proprio di s-sì. »

« Allora congratulazioni per la tua borsa di studio, Loz. »

L'uomo gli rivolse una pacca sulla spalla, lui però aveva la mente già altrove: sarebbe dovuto andare al party di Joseph, e avrebbe dovuto dire ai suoi fratelli che partiva per il college.

 

 

In casa Crescent l'aria era carica di elettricità. Jenova non aveva esitato ad addobbare il salotto con striscioni colorati e stendardi dei Lupi dell'Est per festeggiare la vittoria della squadra.

Il piccolo Kadaj faceva del suo meglio per aiutarla a sistemare le ciotole dei salatini sul tavolo, anche se Sunny continuamente lo punzecchiava con il muso nel tentativo di farsi dare qualcosa da mangiare. Il cagnolone era già riuscito a scroccare due mini wurstel e una patata dolce.

Sephiroth si stava occupando di grigliare la carne in giardino.

A conti fatti, era lui adesso l'uomo di casa. Erano ormai due anni che Hojo era andato via.

Le carte del divorzio erano state firmate da entrambi velocemente e senza guardarsi in faccia, dopo di che non si erano più parlati, se non quando si trattava di discutere dei figli.

Nonostante tutto, Hojo voleva ancora essere il loro padre. Non tardava a far arrivare gli alimenti, compresi di extra o piccoli regali, e alle feste di compleanno faceva la sua apparizione come uno spirito inquieto. Questo perché, ora più che mai, non tollerava lo sguardo accusatore di Sephiroth.

Kadaj era troppo piccolo per soffrire la mancanza di un padre che per lui non c'era mai stato, e anche se di tanto in tanto chiedeva dove fosse, bastava rispondergli senza nascondere niente perché smettesse di interessargli; se Yazoo aveva sofferto non l'aveva dato a vedere, ma era difficile capire cosa gli passasse per la testa. Era diventato un teenager schivo e introverso, per quanto bellissimo: sembrava quasi una bambola priva d'anima; Loz era forse quello a cui la partenza del padre aveva fatto più male, perché il suo cuore era troppo grande e troppo ingenuo per poter capire le motivazioni dietro quella scelta.

Però, si facevano forza l'un l'altro, come colonne di un tetto che non può crollare finché rimangono in piedi. In più, era semplice ignorare l'assenza del padre quando ben altri pensieri occupavano le menti.

Come ad esempio il college.

Loz cercò di seminare Kadaj, che voleva saltargli in groppa, e uscì di corsa in giardino, raggiungendo il fratello maggiore.

Benché il ragazzo avesse raggiunto il suo potenziale massimo di crescita, Sephiroth rimaneva più alto e statuario di lui. Alla soglia dei trent'anni ne dimostrava sempre dieci di meno, ma il suo sguardo aveva la profondità di un pozzo scuro.

Non c'era persona più saggia e intelligente al mondo, dal punto di vista di Loz.

Il fatto che fosse diventato Generale, poi, lo rendeva ancor più degno di stima: era il più giovane cadetto della storia ad aver mai raggiunto quel titolo.

Loz si lasciò cadere sulla sedia accanto al fratello. Il profumo della carne che sfrigolava sulla griglia gli fece subito venire l'acquolina in bocca, ma lo stomaco era ancora chiuso per l'ansia.

« C'è qualcosa che non va, Lozzie? » Sephiroth non si era neanche voltato per rivolgergli quella domanda. Rivoltò un hamburger, schiacciandolo bene con la paletta perché si colorasse, poi lo mise sul piatto di fianco, già ingombro di carne succulenta.

Loz fece una smorfia e poi un gran sospiro. « In effetti sì. »

Se avessero chiesto a Sephiroth come i suoi occhi vedevano il suo più grosso fratello minore, avrebbe risposto che nella retina gli era rimasta impressa l'immagine di quel bambino cicciottello che tendeva le mani verso l'alto per essere preso in braccio. Sembrava assurdo che fosse diventato così grande, che non potesse più stringerlo al petto o portarlo sulle spalle.

Si capisce di essere diventati adulti quando si hanno pensieri del genere, e Sephiroth li aveva molto spesso. Forse per questo Genesis faceva tutto il nervoso quando gliele parlava: a differenza sua, lui non era ancora pronto ad avere un figlio.

« E vuoi dirmi cos'è? » chiese ancora, dolcemente.

Tutto sommato, Loz era rimasto quel bambino. Lo si vedeva da come storceva le labbra per fare smorfie, o come gli si inumidivano gli occhi quand'era preoccupato, o dai suoi sorrisi ingenui. Il suo fratellino eternamente bambino.

« C'era uno scout oggi, a guardare la partita. » disse quindi, le mani intrecciate le une alle altre tanto da farsi male. « Era venuto per me, mi stavo preparando per questa cosa da tipo...tutta la stagione. »

Sephiroth provò un moto di tenerezza, e se non avesse imparato che i ragazzi s'imbarazzano ad essere abbracciati, o a essere soggetti di dimostrazioni d'affetto, probabilmente l'avrebbe stretto o gli avrebbe rivolto una pacca sulla testa.

« E? » lo incoraggiò.

Tolse l'ultimo hamburger dalla griglia e finalmente si volse a guardare il fratello.

Sembrava afflitto come se un'enorme, gigantesca pena gli curvasse la schiena, e non aveva il coraggio di guardare in faccia il maggiore, come temendo che potesse giudicarlo.

« E...mi ha detto che sono stato fantastico e mi ha offerto una borsa di studio per il college. »

Sephiroth inarcò le sopracciglia per la sorpresa. Una così buona notizia presa così male poteva significare solo una cosa: Loz aveva paura di partire, di lasciare tutto quello che conosceva, i suoi affetti, per affrontare l'avventura più difficile di un giovane adulto.

Come biasimarlo, anche lui aveva avuto paura, solo che era stato molto più semplice lasciare casa e non voltarsi indietro: non era solo.

« Beh, a me sembra una notizia fantastica. »

Loz alzò la testa, aveva le labbra piegate all'ingiù e sembrava sul punto di scoppiare a piangere. Sephiroth non si sarebbe sorpreso se l'avesse fatto. « Come faccio con Kadaj e Yazoo? E la mamma? Non voglio lasciarla sola. »

« Oh Loz. » sospirò il maggiore.

Lui nascose il viso tra le mani, non per piangere, ma per tenere per sé la vergogna che provava per aver detto quelle parole.

Doveva sembrare un vero codardo al fratello.

Dipendeva tutto dal fatto che quando lui se n'era andato, Loz aveva patito le pene dell'inferno. Aveva vissuto tutta la sua vita di bambino al suo fianco, sapendo di trovare il fratello nella stanza accanto per qualsiasi necessità, e vederlo andare via gli aveva spezzato il cuore.

Non voleva dare quel dispiacere anche a Kadaj e Yazoo, soprattutto a Kadaj, che era decisamente troppo piccolo per sopportare un'altra partenza.

« Sai, sono giunto a queste stesse conclusioni quando ho cominciato a pensare di arruolarmi nell'esercito. » era la prima volta che lo diceva a qualcuno, qualcuno che non fosse Genesis ovviamente. Sentiva che era la cosa giusta da fare perché il fratello smettesse di angustiarsi, o si mettesse sulla buona strada per farlo. « Ti va una birra? »

Loz lo guardò tra le dita come se avesse appena detto un'eresia o qualcosa del genere. Avendo sempre avuto il fratello come punto di riferimento e vera figura paterna, sentirgli dire quelle cose gli metteva addosso una strana sensazione. D'altronde, anche se era maggiorenne, l'età legale per bere era ancora lontana.

Era come infrangere un tabù sapendo di averne il permesso.

Annuì, e il fratello gliene stappò subito una, mentre un'altra la tenne per sé.

Per un po' si rigirò la bottiglia tra le mani, poi imitò Sephiroth quando lui diede il primo sorso.

Non era per niente male, e quel fresco sapore gli fece subito girare la testa. Si guardò intorno spaventato, temendo che qualcuno potesse vederlo infrangere la legge, ma a parte loro non c'era nessuno in giardino.

« Dovresti ricordarti quel giorno. » riprese Sephiroth. Lui se lo ricordava eccome, e non solo perché aveva scoperto il tradimento del padre. « Avevo portato te e Yazoo al parco. Tu continuavi a correre dietro a quel pallone, sembrava che avessi energie da vendere. » Loz scavò nella sua memoria. Ricordava di essere andato molte volte al parco con Sephiroth, lui lo portava sempre ovunque. « Guardando il tuo entusiasmo mi sono detto subito che eri portato. D'altronde conoscevi tutti i risultati del Superbowl a memoria con tanto di schemi di gioco! » il ragazzo fece un sorrisetto imbarazzato e tracannò un altro sorso di birra solo per non dover fissare gli occhi del fratello maggiore. « Sei portato per questo, è un dono della natura. Ti ho visto giocare come non ho mai visto nessun professionista giocare. Ti piace, ti diverti, i compagni di squadra pendono dalle tue labbra. Potrebbe essere il tuo futuro. »

« Sarebbe bello... » fu il suo mormorio sognante in risposta a quell'immagine che gli offriva Sephiroth.

Il suo nome nella lista dei giocatori di qualche squadra prestigiosa: un sogno.

« Sarebbe possibile. » ribatté il fratello, più duro, ma solo per aiutare Loz a capire. « Sai cosa mi ha detto Genesis quando gli ho esposto i tuoi stessi, identici dubbi? » il minore scosse la testa, ovviamente non lo sapeva. « “Non è compito tuo. Puoi amarli, aiutarli, stargli vicino, ma non sono figli tuoi.” E ora mi rendo conto che aveva ragione. So che ami Kadaj e Yazoo, e che ti si spezza il cuore a lasciarli, perché ho provato lo stesso quando io ho lasciato te, ma non sono i tuoi figli, non è compito tuo prendertene cura. E se lo dicessi alla mamma lei ti direbbe lo stesso. Vuole solo vederti felice, lo vogliamo tutti. »

« Ma non so se questa cosa potrà rendermi felice. »

« Se non cogli al volo quest'occasione potrebbero non essercene altre, e allora te ne pentirai, ma sarà troppo tardi. »

Loz abbassò la testa, quasi vergognandosi. Eppure, aveva scelto di parlare con Sephiroth proprio perché lui sapeva come ci si sentiva a lasciare tutto e cominciare una nuova vita altrove.

Respirò a fondo e si strofinò gli occhi. Bruciavano come se avessero intenzione di piangere, ma al momento non c'era una sola lacrima a bagnarli.

« Hai ragione. » disse alla fine, annuendo come per darsi forza.

Sephiroth gli diede una pacca sulla spalla, finì di sorseggiare la sua birra, poi prese il piatto con la carne ancora calda. « Andiamo a mangiare, a stomaco pieno tutto sembra meno brutto. »

Loz ridacchiò e annuì.

Quando misero piede in casa, Kadaj saltò addosso a Loz come non era riuscito a fare poco prima. Aveva ancora il viso sporco di azzurro, e la piccola L di “Lupi” ancora sulla guanciotta.

Rimaneva piccolo ed esile, nonostante fosse un buongustaio e un goloso come pochi al mondo, e a dieci anni era di diversi centimetri sotto la media dei bambini della sua età. Il pediatra aveva preparato la famiglia all'eventualità che non crescesse più di tanto già quand'era molto piccolo, ma adesso la differenza di statura cominciava ad essere evidente: la maggior parte dei suoi compagni di classe lo superavano quasi di dieci centimetri. Per fortuna ovviava alla statura con il suo pericoloso charme. Avrebbe potuto convincere chiunque a fare qualsiasi cosa con una sola occhiata.

« Lozzieeee! » quasi strillò, affondando il visetto nella sua spalla.

Il fratello sentì il cuore ridursi alle dimensioni di un ago, però lo strinse e lo coccolò finché la mamma non chiamò tutti a tavola.

Sephiroth era venuto da solo, questa volta, e a tavola, dopo tanto tempo, si ritrovarono solo i membri della famiglia Crescent.

Tutti insieme, nonostante tutto.

Jenova mise in tavola insalata di pomodori, patatine fritte, e tutto quanto potesse accompagnarsi con gli hamburger che aveva grigliato il figlio maggiore.

Sembrava un meraviglioso pomeriggio estivo, nonostante la primavera stentasse ancora ad ingranare.

« Facciamo un bell'applauso alla nostra stella del football? » propose la madre, gli occhi le brillavano di orgoglio. Aveva dei figli meravigliosi, ognuno di loro avrebbe trovato al propria strada, lei doveva solo fare in modo che avessero tutto il necessario per cercarla.

Il più caloroso degli strepiti venne ovviamente dal più piccolo Crescent, mentre gli altri si limitarono a ridere e battere le mani normalmente.

« Ahm posso...posso avere un attimo di attenzione? » chiese poi Loz, con un filo di voce che lo faceva sembrare più giovane di quanto non fosse.

Kadaj aveva già aggredito un hamburger e fu abbastanza difficile convincerlo a fermarsi.

« C'era...c'era... » cercò lo sguardo di Sephiroth che gli rivolse un cenno d'assenso. « C'era uno scout oggi alla partita e... » guardò sua madre, che stava stringendo così forte il tovagliolo da sformarlo, suo fratello Yazoo, con la testa inclinata da una parte e la forchetta ancora sollevata, Kadaj, con il musino sporco di carne. « ...mi ha offerto una borsa di studio per il college. »

« Davvero? » chiese la mamma, gli occhi sgranati per la sorpresa.

« Sì, davver-... » non riuscì neanche a finire la parola perché Jenova di slanciò lo abbracciò, trattenendo un urlo di felicità.

Confusamente l'avvertì fargli i complimenti e mormorare “il mio bambino!” con il cuore colmo di gioia.

Lo riempì di baci, ovunque, sulle guance, sulla fronte, squittendo come una ragazzina.

Era probabilmente la più felice lì dentro, dal momento che i fratellini si guardavano con un'aria abbastanza perplessa.

Yazoo sapeva cosa significava andare al college e attualmente non aveva nessuna intenzione di proseguire gli studi, si faceva andare bene la scuola solo perché era obbligato, e l'idea si continuare a studiare gli piaceva quanto gli piacevano le iniezioni di antistaminico durante la stagione del polline.

Mentre Kadaj non aveva ancora ben chiaro il concetto, per questo rivolse un'occhiata confusa al fratello. « Che vuol dire? »

Loz dovette inghiottire all'improvviso un'ondata di panico, l'espressione di Kadaj era così innocente e deliziosa che era difficile dire quanto stava per dire.

Anche Jenova dovette aver capito, per questo tornò a sedersi, rossa in volta e dandosi della stupida per l'eccessiva reazione.

« Significa... » tentò Loz, la lingua che si incollava sul palato. « ...che dopo il diploma partirò per andare a studiare al college. »

« Partire? » chiese il piccolo, prendendo a punzecchiare la carne rimasta nel suo piatto.

« Sì...ecco, il college è fuori città. »

« Quindi te ne andrai? » la domanda, stavolta, ebbe il potere di congelare il respiro di tutti nella stanza.

Oh, certo, Kadaj aveva affrontato con tranquillità la partenza del padre, ma per Loz era diverso. Loz avrebbe lasciato in lui un vuoto difficile da colmare, qualcosa che gli avrebbe portato via parte dell'infanzia.

« Non starò via molto. » mormorò il ragazzo, tentando persino di abbozzare un sorriso. « Tornerò durante le vacanze di primavera e avrò del tempo mentre preparo un esame e... »

Kadaj allontanò la sedia del tavolo e si alzò. Sembrava sul punto di piangere, però era anche pieno di rancore e rabbia.

Suo fratello voleva lasciarlo, come Sephiroth aveva fatto prima di lui. L'avrebbero lasciato tutti!

« Non ho più fame. » scappò via, su per le scale.

Sentirono la porta della sua stanza sbattere e poi silenzio.

Jenova poggiò una mano sul braccio del figlio, cercando di sembrare confortante. « Capirà, tesoro. È una notizia bellissima e sono fiera di te. »

Loz annuì, però si alzò. « Mamma, scusami. » perché sapeva che lei si era impegnata tanto per organizzare quella piccola festicciola. Ma le rivolse comunque un sorriso, stentato, ma pur sempre un sorriso.

Salì su per le scale e con il cuore in gola bussò alla porta di Kadaj.

Per un po' non ricevette risposta, e allora provò di nuovo.

« Se non ti ho risposto la prima volta è perché volevo che te ne andassi! » strillò il bambino da dentro la stanza.

Loz, allora, abbassò la maniglia e spinse. Fu più difficile del previsto aprirla, questo perché il fratellino si era seduto davanti ad essa.

« Kaddie, togliti di lì, dai. »

« No, non puoi entrare. » bofonchiò lui, con il broncio più arrabbiato – e adorabile – del mondo sulle labbra.

« Possiamo almeno parlare? »

« Non voglio parlare con te! »

Loz sentì il cuore andargli in pezzo ma...non poteva che capire la frustrazione del fratellino. Tutto ciò rendeva solo più difficile decidere se accettare o meno la borsa di studio.

« Fosse per me non ti lascerei mai. » si ritrovò a sussurrare.

Se avesse spinto con più forza avrebbe potuto benissimo spostare l'esiguo peso del fratello ed aprire la porta del tutto, ma non voleva violare la sua confort zone e farlo innervosire.

« Non è vero, altrimenti non mi lasceresti! E invece! »

Aveva la voce tremula, forse una volta arrivato in camera era scoppiato il lacrime. Loz si maledisse, maledisse tutti i suoi sogni, tutti i suoi desideri: voleva solo rimanere con suo fratello.

« Kadaj. » cominciò, più serio stavolta, più ragionevole, nonostante tutto. « A te piace vedermi giocare, vero? Ti piace venire alle mie partite e fare il tifo per me? »

« Sì. » sibilò lui, dopo un lungo silenzio. Era un'ammissione difficile considerando la sua posizione.

« Bene. Se non parto per il college potrei non giocare mai più! E questo mi renderebbe infinitamente triste. Tu vuoi che io sia triste? »

Oh stava giocando sporco, Kadaj lo sapeva. Gli tremava il labbro inferiore quando rispose. « No. »

Poi si scostò quel tanto che bastava perché Loz potesse entrare nella stanza. Prima che potesse anche solo pensare di fare qualcosa, fu il piccolo ad abbracciarlo stretto, gettandogli le braccia al collo. Era così fragile da sembrare un uccellino appena uscito dall'uovo.

Si dovette ripetere le parole che gli aveva detto Sephiroth per non decidere di gettare tutto all'aria e rimanere lì a fargli da padre. Ma non lo era, e non doveva prendersi l'onere, per quanto potesse amarlo.

« Non voglio che tu vada via. » pigolò il fratellino, con la voce così sottile da essere difficile sentirla.

Loz lo strinse più forte. Sentiva il suo cuoricino battere come un forsennato contro il petto, e sentiva che stava trattenendo i singhiozzi.

Solo qualche ora prima era il bambino più felice del mondo, e adesso a malapena s'impediva di piangere.

« Non sarà per sempre. È solo per un periodo. E ci saranno ancora tante partite a cui potrai partecipare, e tornerò più spesso che posso, come Sephiroth. »

« Sephiroth mi manca. » disse lui, e tirò su col naso profondamente.

« Io non ti mancherò. »

« Me lo prometti? »

« Te lo prometto. » per un po' rimasero solo abbracciati in silenzio. Kadaj si lasciò cullare dal respiro del fratello e dalle carezze che gli rivolgeva. « Tu però devi promettermi una cosa. » il piccolo alzò gli occhi su di lui. « Mentre sarò via ho bisogno che qualcuno badi a Sunny. Lo sai, lui è il mio cane, e non posso affidarlo a nessuno che non sia tu. Te ne prenderai cura? » gli occhioni di Kadaj tornarono ad inumidirsi, ma poi annuì fortissimo e tornò a stringersi a lui. « Torniamo a tavola? Quegli hamburger sembravano buonissimi. »

« Lo erano. »

« E allora andiamo a riempirci la pancia! »

« Non sei a dieta? » con quella flautata, ingenua vocetta da bambino.

« No, per oggi no. » gli pizzicò il nasino, ignorando quella che poteva essere solo un'involontaria frecciatina.

Lo tenne in braccio mentre tornavano nella sala da pranzo. Jenova gli sorrise, e così anche Sephiroth.

 

*

 

La sera della partenza di Loz, Kadaj cercò di non piangere. Difficilissimo dal momento che vedeva la mamma con il viso coperto di lacrime.

Ma quando la macchina sparì oltre il vialetto e non riuscì più a vedere le luci all'orizzonte, non poté fare a meno di sciogliersi in un pianto disperato.

Nessuno riuscì a consolarlo, e si rifugiò nella sua stanza.

Non si accorse, però, che nello spiraglio di porta socchiusa si era infilato Sunny.

Non scodinzolava, ma uggiolava pian piano.

Saltò sul letto e si acciambellò accanto al bambino. Senza pensarci, Kadaj gli strinse le braccine intorno al collo. Sunny tentò di leccargli la faccia solo una volta, come per confortarlo.

Rimasero abbracciati così finché entrambi non si addormentarono.

Anche se Loz l'aveva promesso, Kadaj avrebbe sentito da morire la sua mancanza.

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The Corner 

***AVVISO IMPORTANTE***
Easy si prende una settimana di pausa, dal momento che non sarò fisicamente a casa per scrivere lol
Il prossimo capitolo uscirà giovedì 11 aprile!
Io me ne vado dalla mia dolce Musa <3
Buona Pasqua a tutti 

Chii

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