Ironborn Rising Volume II

di Kein_Pyke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** JAERON ***
Capitolo 2: *** VEREAH ***
Capitolo 3: *** KEIN ***
Capitolo 4: *** YOHAN ***
Capitolo 5: *** KEIN ***
Capitolo 6: *** SHIN ***
Capitolo 7: *** KEIN ***
Capitolo 8: *** TREGO ***
Capitolo 9: *** YOHAN ***
Capitolo 10: *** KEIN ***
Capitolo 11: *** SHIN ***
Capitolo 12: *** YOHAN ***
Capitolo 13: *** KEIN ***
Capitolo 14: *** ENYA ***
Capitolo 15: *** VALKJA ***
Capitolo 16: *** IL CAVALIERE ESILIATO ***



Capitolo 1
*** JAERON ***


JAERON

La Grande Fossa di Daznak era la più grande e la più bella delle fosse da combattimento di Meereen. Avevano fatto il loro ingresso dalla Porta del Fato, una gigantesca arcata formata da due guerrieri avvinti nell’atto di uccidersi a vicenda. Una scultura imponente, realistica, i muscoli dei contendenti tesi nello sforzo di infliggere la ferita mortale, la spada dell’uno e l’ascia dell’altro letalmente conficcate nelle carni di pietra dell’avversario. Con la coda dell’occhio Jaeron aveva notato una miriade di nomi incisi nelle mattonelle colorate accanto all’ingresso e il suo ospite, a cui non era sfuggita quell’occhiata, gli aveva spiegato che si trattava dei nomi di tutti i caduti che si erano susseguiti negli anni nell’arena.

Avevano attraversato l’enorme spiazzo fino a giungere alle panche rosse, situate nell’ordine di gradoni più vicino al centro dell’arena, e avevano preso posto nella tribuna d’onore, sotto un a struttura di legno sormontata da grandi teli di seta cotta variopinta che proteggeva gli illustri spettatori dagli impietosi raggi del sole del meriggio. Subito erano stati circondati da servitori che avevano portato cibi e bevande di ogni tipo, con grande opulenza: caraffe di vino ghiacciato e acqua addolcita, fichi, datteri, meloni, melagrane, noci pecan, peperoncini e, infine, una ciotola colma di locuste al miele che Jaeron aveva guardato con sospetto finché il suo ospite non ne aveva infilate in bocca una bella manciata.

Dopo un breve discorso di incitamento del monarca, erano iniziati i combattimenti. Come da tradizione, i combattenti si scontravano senza armatura, spesso coperti soltanto da indumenti intimi, la pelle abbronzata, coperta di cicatrici, che scintillava di olio e sudore sotto il sole cocente. Alcuni degli uomini scesi nell’arena erano talmente abili che a Jaeron parve uno spreco rischiarne la vita per il divertimento del popolino, altri erano semplici schiavi fatti prigionieri con le più svariate modalità e confluiti nella Baia che, di recente, aveva nuovamente cambiato nome. Dopo essere stata chiamata per secoli Baia degli Schiavisti era passata ad essere la Baia dei Draghi durante il regno di Daenerys Targaryen, la regina d’argento venuta da oltre il mare stretto – la Regina Puttana, sulla maggior parte delle lingue del continente orientale – e, ora, era nota come la Baia delle Piramidi.

Alcuni si erano battuti con onore, altri erano ricorsi ai trucchi più disparati pur di scampare alla sorte avversa. Tra una serie di combattimenti e l’altra si erano tenuti scontri tra belve feroci. In particolare, a Jaeron non era sfuggito il simbolismo di un nano lasciato nell’arena a vedersela contro un leone, munito, come unica arma di difesa, di una corta spada in legno da rappresentazione teatrale. Il mezz’uomo era stato divorato dall’enorme bestia dopo pochi minuti e la folla aveva riso fino alle lacrime. Al triarca, monarca ora, lo spettacolo non era risultato divertente. Non era un uomo dai mille scrupoli, ma nemmeno spietato e il rumore delle ossa del nano schiantate dalle zanne del leone gli avevano procurato una fastidiosa fitta allo stomaco. Jaeron aveva bevuto avidamente dalla sua coppa, soffocando il sapore di bile che gli era salito in bocca e aveva applaudito con elegante distacco. Si era ritrovato a pensare alla sua Nyenyezi, a chiedersi cosa avrebbe pensato lei di quella scena grottesca. Probabilmente, avrebbe gettato il vino in faccia al suo ospite e se ne sarebbe andata a testa alta… era sempre stata altezzosa, anche quando si era ritrovata a mordere la polvere. E per quanto odiasse il fratello, certamente non avrebbe permesso che uno straniero si prendesse gioco di un membro della sua famiglia. Jaeron amava quel lato ribelle, impudente e spregiudicato della sua donna, per quanto pericolo potesse risultare. Presto l’avrebbe rivista, sperava. Se n’era andata perché lui non poteva darle quello che il suo cuore agognava, se n’era andata con il pirata, un uomo che Maegyr trovava a dir poco disgustoso, rozzo, insignificante. “Un mezzo per uno scopo” l’aveva definito lei, e lui aveva accettato quella separazione temporanea, con la promessa, un giorno, di riunirsi sotto un unico vessillo in cui la tigre e il leone rampanti avrebbero garrito nel vento.

Il flusso di pensieri venne interrotto dall’annuncio di un nuovo combattimento, l’ultimo della giornata, tra due campioni. Si trattava di avversari molto famosi e amati dal pubblico, che si divise a metà acclamando chi uno chi l’altra. Molti puntarono del denaro, soprattutto negli ordini rosso, arancione e giallo, riservati alle famiglie nobili, anche se Jaeron vide passare monete di mano in mano anche nelle gradinate bianche, vedi e blu, quelle dei commercianti, mentre più in alto, sugli spalti viola e neri, gli schiavi e i paria si limitarono a fischiare e applaudire il loro beniamino.

Erano un uomo e una donna, estremamente diversi tra loro.
Lui, Harlaquo il Carnefice, aveva un aspetto imponente, massiccio. Alto poco più di sei piedi, Jaeron valutò che superasse abbondantemente le duecento libbre di peso. I muscoli, sotto la pelle color caramello, erano tesi, guizzanti, perfettamente visibili. Ben pochi erano i cheloidi che deturpavano il suo corpo, mentre abbondavano piccole cicatrici di una tonalità più chiara, come se il campione avesse ricevuto molti colpi di striscio ma poche ferite serie. A parte quelle lievi imperfezioni, la pelle era levigata, dorata, depilata. Perfino la grossa testa era perfettamente liscia e non c’era ombra di barba sulla mascella squadrata. Indossava soltanto un perizoma di pelle che a mala pena ne copriva le vergogne ed era equipaggiato con una grossa ascia da combattimento, dall’aspetto letale.

Per contro, la donna aveva un aspetto molto più esotico, perfino delicato. I capelli, rosso scuro e spettinati, le circondavano il viso come una fiamma ardente, catturando e riflettendo i raggi aranciati del tramonto. La pelle sarebbe stata chiara, ma il sole d’oriente l’aveva cotta e ora appariva come cuoio bollito, arrossata, indurita e le efelidi si erano moltiplicate fino a creare delle macchie scure sul volto, sulle braccia e sulle gambe. Eppure, i tratti del viso erano quasi gentili, il naso dritto, gli zigomi alti, gli occhi color nocciola grandi, con lunghe ciglia rossastre. “Una donna più adatta ad amare che a combattere” pensò Jaeron mentre la campionessa estraeva una spada da combattimento e la faceva mulinare fendendo l’aria con un fischio.

Ad un cenno del monarca, il combattimento ebbe inizio. A Jaeron fu subito chiaro il motivo per il quale alla donna era stato dato il soprannome di Danzatrice: si muoveva sinuosa, felina, danzando intorno all’avversario, saggiandolo e schivandolo con una serie di movimenti simili a quelli di una ballerina. Era rapida, insinuante, flessuosa. Scattava in avanti come una vipera e, altrettanto velocemente, si ritirava, mentre l’ascia del rivale sibilava a pochi centimetri dalla sua testa. Maneggiava la spada con la mancina, cosa che destabilizzava il Carnefice, sbilanciandolo.

«È stata data tre a uno» constatò il sovrano della Baia delle Piramidi, accarezzandosi la barba. Da buon Tyroshi la portava tinta, di un blu acceso, mentre i lunghi baffi erano spruzzati d’oro. A Jaeron, il suo aspetto sembrava più quello di un mercenario ripulito che quello di un monarca, ma, d’altra parte, non scorreva sangue nobile nelle sue vene, non doveva dimenticarlo. Ne studiò il profilo, il lungo naso ricurvo, il dente d’oro che scintillava ogni volta che apriva la bocca. “Un mezzo per uno scopo” ricordò. “Io discendo dall’antica Valyria e questo è uno schiavo assurto al trono per pura casualità. Ma il suo regno è durato fin troppo”.

«Sembra sappia il fatto suo, però» replicò, mentre la donna riusciva ad aprire uno squarcio nel muscolo pettorale dell’avversario. «Da dove viene? Non ha l’aspetto di una donna dell’est.»

«No, non ce l’ha. Ma ha talmente tante razze diverse nel sangue che non è possibile sapere con esattezza le sue origini; si sa solo che è nata nella tua città, Volantis. Storia interessante, la sua. Se sopravvive, e credo proprio che sarà così, potrai udirla direttamente dalle sue labbra al banchetto di stasera.»

Jaeron non fu affatto sorpreso nell’udire che i campioni sarebbero intervenuti alla festa. A quanto pareva, avevano cariche più o meno importanti in tutto il sistema politico e governativo della Baia e partecipavano ai combattimenti non per costrizione o necessità, ma per puro diletto, per mettersi in mostra, per dimostrare che gli agi non li avevano minimamente ammorbiditi.

«L’ascolterò volentieri» annuì, sorridendo educatamente.

«È molto sciolta di lingua, la Danzatrice. In più di un senso, se mi intendi» proseguì il sovrano, passando la propria sulle labbra e scoppiando a ridere. Jaeron non raccolse.

Nell’arena, il Carnefice sanguinava da parecchie ferite, più o meno profonde, mentre la donna aveva perduto la punta dell’orecchio sinistro. Si erano momentaneamente allontanati l’uno dall’altra, per riprendere fiato, e si muovevano circolarmente, studiandosi, pronti a balzarsi addosso come fiere.

«Hai pensato alla mia proposta?» domandò Jaeron. Lo spettacolo iniziava a stancarlo, erano più di sei ore che mangiava frutta secca e acqua addolcita ed era nauseato dall’odore del sangue che veniva dall’arena.

«Amico mio, perché non ti rilassi?» lo blandì il re, assestandogli un colpo amichevole alla spalla. «Ho fatto organizzare questi giochi in tuo onore. Stasera ci sarà una festa, delle danze, cibo delizioso e alcol a fiumi. Ti divertirai, mangerai, berrai, scoperai. E dopo, parleremo. Ora taci, guarda: sta per finirlo.»

Jaeron serrò la mascella. Non si era sobbarcato tutto quel viaggio per assistere alle buffonate del re-mercenario, ma, in quel momento, non poteva far altro che assecondarlo. Spostò di nuovo l’attenzione sull’arena, dove il Carnefice era a terra, praticamente dissanguato. La Danzatrice camminava in circolo, aizzando la folla che gridava e inneggiava il suo nome. Il danaro passava di mano in mano, gli scommettitori urlavano di gioia, chi poteva permetterselo brindava e beveva.

Per un momento, il combattente parve raccogliere le forze per sferrare un ultimo attacco all’avversaria: sollevò l’ascia e fendette l’aria, per falciare le lunghe gambe abbronzate di lei. Ma la Danzatrice, con un movimento sciolto ed elegante, superò la lama con un balzo, levò la spada alta sopra la testa e la calò con tutte le sue forze sulla schiena del rivale, facendola affondare fino a trapassarlo. La punta, stillante sangue vermiglio, spuntò dal petto di lui e andò a conficcarsi nella sabbia dell’arena. Un boato accolse la morte del Carnefice.

«È stato un gran bello spettacolo mio caro amico, non trovi?» domandò Daario Naharis facendo brillare il dente d’oro mentre rivolgeva a Jaeron un largo sorriso.

«Estremamente interessante, maestà.» replicò lui, con un educato cenno del capo.

«E ora andiamo. Il banchetto avrà inizio al calar delle tenebre.»

Jaeron si augurò che, conclusa quella farsa, si sarebbe siglato anche il loro accordo. Non voleva ripetere il teatro messo in atto con gli Elefanti. Non subito, per lo meno.

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Capitolo 2
*** VEREAH ***


VEREAH

Quella sera i suoni dell’intera città di Meereen provenivano da un solo punto, da un solo luogo, da una sola piramide, la Grande Piramide, illuminata all’esterno dal fuoco di innumerevoli torce, che ne esaltavano la gloria. La stessa luce, immensa e gloriosa, rischiarava all’interno la sala grande, addobbata da un numero spropositato di specchi dorati che riflettevano la fiamma dei numerosi focolai di tripodi d’oro e d’argento. Molteplici stendardi con stemmi di compagnie mercenarie e di antiche famiglie valyriane coloravano la sala.

Sotto gli occhi vigili di centinaia di neri Immacolati statuari, tutti i nobili delle città di Meereen, di Yunkai, di Astapor e tutti i capitani più importanti delle Compagnie del Re che erano stati invitati, presenziavano alla festa: lunghi tavoli imbanditi con ogni prelibatezza riempivano la sconfinata sala della Grande Piramide.

Pietanze da ogni dove, su piatti d’avorio, raggiungevano i tavoli. E vini occidentali e orientali, in ugual quantità, riempivano brocche e bicchieri.

Suoni e canti ghiscariani viaggiavano tra le mura della grande sala, raggiungendo gli ospiti ormai ubriachi e sazi, stravaccati sui loro pregiati e inestimabili scranni.

Ballerine seminude si destreggiavano tra i tavoli e tra i presenti, provocandoli e stimolandoli a ballare; i cantori, che si dilettavano in antiche canzoni d’amore, nell’incomprensibile lingua dell’antica Ghis, venivano quasi ridotti al silenzio dai canti di guerra dei mercenari ubriachi.

Gli stessi guerrieri delle Fosse, che fino a qualche ora prima combattevano tra loro, rumorosi e chiassosi, si comportavano come fratelli e sorelle, come se il destino di morte che li univa non fosse mai esistito. Bevevano, mangiavano e ridevano con le stesse persone che il giorno dopo, o quello successivo ancora, avrebbero potuto tagliare il sottile filo che li teneva ancorati alla vita.

Un impasto di genti e tradizioni, tanto disomogenee quanto buffe, componevano quel mosaico ricco e raffinato.

§§§

La Danzatrice, seduta al tavolo dei mercenari, beveva poco e mangiava ancor meno. Non era attratta da quei piatti e non aveva voglia di partecipare all’abbuffata imbarazzante che vecchi e giovani stavano mettendo in atto senza alcun ritegno. Non si sentiva a suo agio tra quei cortigiani buoni a nulla, gente che avrebbe potuto uccidere con un unico gesto preciso del polso. Non era il suo posto, quello. Avrebbe preferito continuare a danzare tra le sabbie della Fossa, sentire il suono di lame che si baciavano, osservare l’espressione dell’avversario che credeva di aver vinto, guardarlo negli occhi per vedere la sicurezza della gloria svanire, far bere alla sua lama il sangue del nemico e, infine, seguire l’anima degli occhi avversari andare via per sempre. Si sentiva viva, si sentiva libera, si sentiva se stessa, solo con la sua arma piantata nel cuore del rivale.

Continuava a volgere lo sguardo verso il Re Daario e il suo ospite d’onore: una tigre di Volantis, la stessa città dove schiavisti e aristocratici l’avevano marchiata con un segno indelebile, un segno che rammentava a tutti, ma a lei soprattutto, chi era stata e da dove proveniva.

Fin da bambina, una lacrima, tatuata proprio sotto l’occhio destro, la classificava, infatti, come schiava, come prostituta, come oggetto di piacere della città di Volantis. Non ricordava nulla di sua madre e di suo padre, anche se il colore dei suoi capelli e la pelle chiara indicavano che almeno uno dei due era stato di origini occidentali. I suoi primi ricordi erano legati alla sua padrona, la tenutaria di una famosa casa di piacere situata in un palazzo sul Lungo Ponte che l’aveva istruita fin dalla più tenera età all’arte amatoria. Aveva conosciuto il suo primo uomo a dieci anni e, in breve, era diventata la schiava più richiesta del bordello. Il suo valore era cresciuto a tal punto che dopo un lustro la sua padrona aveva valutato le proposte di diversi clienti interessati ad acquistarla e, alla fine, l’aveva venduta per una cifra spropositata ad uno schiavista di Meereen.

Ma la Danzatrice non era rimasta a lungo con lui: con l’avvento di Daenerys Targaryen, l’uomo aveva trovato una morte atroce e tutti i suoi schiavi, compresa lei, erano stati liberati. Non aveva ancora compiuto sedici anni e, nel pieno delle forze, si era appassionata ai combattimenti nelle fosse. Era rimasta affascinata dal fatto che ci fossero anche delle campionesse e aveva sentito subito un’affinità per quel tipo di esistenza sempre sul filo del rasoio. Era stanca di essere soltanto un oggetto del desiderio altrui, voleva essere lei, per una volta, a trarre piacere da ciò che faceva. E uccidere, le procurava un godimento che raramente a letto era riuscita a raggiungere.

Per questo motivo, in mezzo a migliaia di schiavi liberati, aveva cercato qualcuno in grado di insegnarle varie tecniche di combattimento. Soprattutto, istruita da un maestro sensibile ed esigente, si era applicata allo studio dell’arte della danza braavosiana, che ora padroneggiava senza difficoltà alcuna e che le era valsa quel soprannome.

Distolse lo sguardo dal re e rivolse l’attenzione al suo interlocutore. Era un uomo non più giovanissimo ma ancora prestante e, doveva ammetterlo, molto attraente. Aveva tratti aristocratici, intensi occhi smeraldo e una bocca sensuale nonostante il sorriso fosse decisamente di circostanza. Era evidente il disgusto che provava nel discorrere con un ex schiavo che non solo aveva riconquistato la propria libertà ma che era anche asceso alla massima carica possibile. L’ipocrisia di quell’uomo le fece scorrere il sangue più veloce nelle vene e la Danzatrice fu pervasa dal desiderio di aprirgli la gola.

Ma il suo Re non l’avrebbe perdonata. “Chissà quale strano nuovo intrigo sta organizzando in questo momento” pensò, guardandolo parlare intensamente con il triarca di Volantis, a cui Daario, presto, presentò anche Jaqonos il Rosso, così chiamato dal colore dei capelli e della barba, Illaro l’Ammazzanobili, per la sua attitudine a uccidere i guerrieri proveniente da antiche e nobili famiglie e Varar l’Orso Guerriero, un sacerdote barbuto di Norvos, ormai criminale tra le peggiori specie di mercenari. Un trittico variegato di uomini crudeli, risoluti, spietati. I capitani della Compagnia delle Aquile della Piramide.

Una Compagnia di ventimila validi e temerari guerrieri di tutta Essos e non solo. Fondata dal Re in persona, un paio di anni prima, una volta instaurato il suo regno nella Baia delle Piramidi. Compagnia di mercenari di cui lei era il quarto capitano, scelta e raccomandata da Daario stesso. Temuta e rispettata da tutti i suoi sottoposti che, pur di non incrociare la spada con lei, non se ne erano mai lamentati.

Il tempo trascorreva con incredibile lentezza e la donna era quasi tentata di abbandonare la sala e cercare tra le vie della città un avversario degno della sua lama, quando vide il re in persona alzarsi dal suo scranno e farle cenno di avvicinarsi. Obbedì e, ad un gesto di lui, tese la mano perché gliela baciasse. Non fu un bacio casto e formale come quello che avrebbe dato un qualsiasi altro nobile intervenuto al banchetto: quando le labbra calde e umide del sovrano incontrarono le sue dita, la Danzatrice si sentì avvampare. Quel bacio era la promessa di una notte di fuoco e Daario le sorrise ammiccante mentre la presentava al volantiano.

«Lei è la donna di cui ti parlavo, la ballerina che hai potuto ammirare quest’oggi alle fosse. Nonché una dei capitani delle Aquile della Piramide. Vereah la Danzatrice».

L’uomo la scrutò a lungo e il suo sguardo smeraldino si soffermò sulla lacrima tatuata sotto l’occhio destro di lei. Vereah sapeva che, da lontano, il tatuaggio si notava appena, perso tra le miriadi di lentiggini che le punteggiavano il naso e le guance, ma da vicino era impossibile non accorgersi del simbolo. Tuttavia, il volantiano non ne fece menzione. Si alzò a sua volta, imitando il sovrano, e le sfiorò appena le dita con un bacio di circostanza.

«Hai combattuto con grande coraggio oggi, Vereah» disse. Aveva una bella voce, profonda e sensuale. «E la tua tecnica è a dir poco perfetta. Non mi sorprende che tu sia uno dei capitani della più grande compagnia mercenaria che l’Est abbia mai visto»

«Merito di un buon maestro e di molta pratica» replicò lei, senza farsi ammaliare dai complimenti «la mia spada ha bevuto il sangue di molti nemici per arrivare a questi livelli, vostro…» si bloccò, perché non sapeva come rivolgersi correttamente al volantiano.

«Dimenticavo, il mio nome è Jaeron Maegyr, monarca di Volantis» le venne in soccorso lui.

«Vostro splendore» completò Vereah, chinando leggermente il capo. Poi cercò lo sguardo verde dell’uomo e sorrise con falsa ingenuità «Anch’io sono nata a Volantis e ci ho vissuto per quindici anni, ma, a quanto mi risulta, era un triarcato, non una monarchia.»

Maegyr strinse impercettibilmente le labbra, mentre Daario scoppiava in una risata sgangherata, facendo brillare il suo dente d’oro.

«Una forma di governo superata, mia cara» disse accarezzandosi la barba «Di recente la casta degli Elefanti ha, come posso dire? ceduto il passo ad un nuovo ed illuminato sovrano».

Vereah non aveva difficoltà ad immaginare le modalità con cui gli Elefanti erano stati indotti ad inchinarsi a quella Tigre, anzi, era più che probabile che la casta commerciante fosse stata letteralmente spazzata via.

«Le mie congratulazioni, vostro splendore» disse, conscia di quanto dovesse apparire forzato il proprio sorriso.

Jaeron non ebbe il tempo di replicare poiché l’animazione della serata stava giungendo al culmine. La musica crebbe d’intensità, i movimenti delle ballerine si fecero più rapidi e sincopati. I veli che a mala pensa le coprivano caddero strato dopo strato finché non rimasero nude, i corpi brillanti d’olio profumato. Come da tradizione, i danzatori si unirono a loro trasformando le coreografie in un consesso di corpi. Vereah conosceva quei passi, era stata introdotta anche a quel tipo di intrattenimento e dopo pochi minuti distolse lo sguardo, disgustata dai ricordi. Quando lo spettacolo si concluse, era evidente che ogni uomo intatto nella sala aveva desiderio di unirsi a una delle schiave e il sovrano scelse la più bella il suo ospite.

«Lascia che ti faccia dono di questa fanciulla, amico mio, per suggellare la nostra alleanza» disse a Maegyr, offrendogli la mano di una giovanissima schiava del piacere dalla pelle ambrata e gli occhi dolcemente allungati. Era poco più di una bambina e Vereah avrebbe voluto strapparla dalle grinfie del volantiano, ma era un dono, un oggetto di scambio, nulla di più. Jaeron accettò l’offerta con il suo solito sorriso tirato.

«Ti sono grato, maestà» rispose con affettazione «Per la tua ospitalità, il tuo dono e i tuoi uomini»

«Fanne buon uso» replicò Daario guardando dritto negli occhi il suo interlocutore. Aveva smesso di sorridere e Vereah, per un istante, ne ebbe paura.

§§§

Consumato un amplesso rapido ma soddisfacente, il sovrano si era staccato da Vereah per andarsi ad affacciare alla terrazza dalla quale si godeva un panorama mozzafiato della città. La donna lo raggiunse, nell’aria immobile, circondandolo da tergo con le braccia. Gli accarezzò i pettorali, i muscoli tesi dell’addome, giù fino al sesso.

«Non ne hai avuto abbastanza?» domandò lui, fermandole la mano.

«Sai che con te non è mai abbastanza» rispose Vereah, le labbra premute sulla schiena dell’amante. Era più bassa di quasi tutta la testa e dovette alzarsi in punta di piedi per lambirgli il lobo con la lingua. Lui si scostò, rientrò nella stanza e andò a versarsi una coppa di vino. Non ne preparò una anche per lei e Vereah si coprì con un gesto rabbioso.

Era noto che Daario Naharis avesse molte donne e correva voce che nessuna di queste avesse la benché minima influenza su di lui. Il cuore dell’ex mercenario aveva avuto un’unica regina, una regina che lo aveva abbandonato, lo aveva tradito ed era morta dando alla luce la figlia di un altro. “Con me, tutto questo non sarebbe accaduto” pensò la Danzatrice.

«Che accordo hai stipulato con quell’uomo?» chiese, giusto per rompere il silenzio.

«Commercio, economia, guerra. Sempre i soliti e monotoni accordi di un re con un altro re» rispose Daario, sorseggiando il rosso di Arbor.

«Ti ha ringraziato per gli uomini che gli hai concesso. Di quanti uomini si tratta e, soprattutto, di quali?» incalzò Vereah.

Daario era abituato alla sua lingua lunga e all’intraprendenza con cui era solita porgli domande a dir poco dirette, perciò soddisfò la sua curiosità senza tanti giri di parole. «I migliori. Le Aquile della Piramide, naturalmente» rispose, senza distogliere lo sguardo.

Vereah strinse le labbra, contrariata.

«Non il mio plotone, voglio sperare» lo sfidò.

«Anche il tuo, è ovvio». Il sovrano rise, prendendo dal tavolino accanto al letto lo stiletto di Myr che portava sempre con sé. Era la sua arma preferita, quello e un arakh Dothraki; le else di entrambi erano state forgiate a rappresentare due donne, nude e lascive. “Le mie ragazze” era solito chiamarle.
«Te compresa» proseguì «Certo, mi fido di tutti i miei alleati, ma solo fino a questa distanza» Fece un passo verso Vereah, alzando lo stiletto, la lama puntata al collo di lei ad indicare quanto breve fosse quella distanza. «Tu sarai la mia spada. Tu sarai il mio corpo, il mio sangue, i miei occhi.» Ormai l'aveva raggiunta e fatta indietreggiare verso la balconata. Lo stiletto ancora puntato alla gola, la cinse con il braccio sinistro e la spinse indietro, quasi nel vuoto. Un movimento soltanto e Vereah sarebbe precipitata da ottocento piedi d’altezza.

«Come tu comandi, mio signore» rispose.

Daario sorrise e la strinse a sé, riportandola all’interno della terrazza. Abbassò l’arma e Vereah poté finalmente tornare a respirare. Gli passò le braccia attorno al collo e aderì al corpo di lui. Questa volta, il re non la respinse: lasciò cadere lo stiletto, l’afferrò per la vita e la fece sedere sulla balaustra. Vereah gli avvinghiò le gambe attorno ai fianchi mentre lui la penetrava. Sotto di loro, le luci di Meereen brillavano come migliaia di piccole stelle.

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Capitolo 3
*** KEIN ***


KEIN

La Fortezza Insanguinata doveva l’inquietante aggettivo ad un evento accaduto migliaia di anni prima, ovvero quando i figli del Re dei Fiumi, che dormivano nella Fortezza, erano stati massacrati e rimandati al padre a pezzi. Non sembrava di buon auspicio, tuttavia era la costruzione dotata delle sale più grandi e meglio arredate di tutto il castello. Kein, quindi, vi si era stabilita dopo l’acclamazione della regina, mantenendo comunque una certa sobrietà. L’unico lusso che si era concessa era quello di un grande catino per le abluzioni: non le pareva vero di potersi lavare in acqua dolce ogni volta che voleva. Inoltre, le erano state regalate creme e unguenti, prodotti per i capelli e mille altre boccettine che contenevano rimedi femminili per esaltare la sua bellezza. La ragazza non aveva mai fatto molto caso al proprio aspetto, anzi. Era fin troppo consapevole degli sguardi che attirava su di sé e non voleva ulteriori sgradite attenzioni. Ora, però, le piaceva l’immagine fiera che rifletteva lo specchio e, soprattutto, le piaceva il modo in cui Shin pareva spogliarla con gli occhi ogni volta che si incrociavano. Era dura per entrambi non poter condividere l’alcova, ma tutti i suoi consiglieri avevano insistito affinché mantenessero segreta la loro relazione. O per lo meno, che non la sbandierassero in pubblico. Perciò, erano costretti ad amarsi in segreto, nei ritagli di tempo, nell’ombra. A volte, il rischio di essere scoperti diventava un elemento di irresistibile attrazione e i giovani si cercavano nei punti più impensati del castello. Da una parte era eccitante, dall’altra Kein sentiva frustrata e sarebbe volentieri tornata ad Harlaw, alla locanda dove lei e Shin passavano le giornate a fare l’amore, ridere, mangiare, dormire abbracciati. Quel letto era stato la loro isola e il loro mondo: un luogo di pura felicità al quale guardava con nostalgia.
 
§§§

Si era svegliata all’alba, e, quando gli uomini bussarono alla porta, era già in piedi.
 
«Avanti» disse, in risposta al rumore di nocche sul legno. Le guardie entrarono, trascinando dietro di sé una donna scalciante e urlante che spinsero verso di lei senza troppi complimenti.
 
«Ecco la donna che volevi vedere, maestà» disse uno dei due, con un profondo inchino.
 
Kein la squadrò: era sporca, aveva tracce di sangue al lato della bocca, tremava di paura e di rabbia… ed era quasi sicuramente incinta.
 
«Rammentami gli ordini, soldato» disse, gelida.
 
Quello la guardò, sconcertato, per un momento. «Hai detto di condurre questa donna al castello, mia regina» rispose.
 
«Molto bene, hai buona memoria. Ho detto “condurre”, non “trascinare” né tantomeno “arrestare” e men che meno “picchiare”. Ti sei accordo che ha un figlio dentro?»
 
La guardia non trovò nulla con cui giustificarsi. Kein sospirò. In fondo non era colpa sua, ad Euron quel modo di eseguire l’ordine sarebbe andato benissimo. Ci sarebbe voluto del tempo perché le cose cambiassero.
 
«Se vi do un compito, desidero che sia eseguito esattamente come ho chiesto. Se la violenza è necessaria, sarà mia premura darvi licenza di esercitarla. In caso contrario, vedete di tenere a posto le vostre armi, soprattutto con donne, vecchi e bambini. E che sia chiaro sia per voi sia per i vostri compagni. Disubbidite, e il dolore che avrete provocato ad un innocente vi sarà restituito al doppio. Ora andate. Fate portare qualcosa da mangiare alla mia ospite e, quando avremo finito il nostro colloquio, conducetela dal maestro.»
 
Le guardie annuirono e se ne andarono senza ulteriori commenti. Kein sapeva che non avevano apprezzato il rimprovero. Ma era regina, ora, e doveva imparare ad esercitare il potere a prescindere da ciò che pensavano i suoi sudditi.
 
«Accomodati» disse Kein alla donna, offrendole una poltrona accanto al focolare e una coppa di latte e miele. Quella rimase in piedi, sulla difensiva, senza accettare né di sedersi né di bere.
 
«Non voglio farti del male, Dwyn» la rassicurò la neo incoronata regina. Sospirò e si passò una mano sugli occhi, stanca. Poteva comprendere l’atteggiamento delle sua ex rivale, ma non aveva tempo né forze per i suoi giochetti mentali. «Siediti, per favore, e bevi qualcosa. Hai l’aria stanca e questo non fa bene al bambino».
 
Il riferimento al figlio funzionò: Dwyn si sedette e sorseggiò la bevanda calda che Kein le offriva. Quando, poco dopo, giunsero uova fresche, pane appena sfornato, pesce arrosto e birra chiara si lanciò famelica sul cibo. La regina, per contro, non toccò la sua colazione. Attese che l’altra si fosse rifocillata e poi parlò.
 
«Rordan non tornerà da te» disse, il più delicatamente possibile.
 
«Lo so» rispose Dwyn, pulendosi la bocca col dorso della mano. «Quando ha scoperto che avevo parlato con la spia di Euron causandoti tutti quei guai si è infuriato, mi ha picchiata e mi ha lasciata per sempre. Ha detto che non l’avrei rivisto mai più». Si asciugò le lacrime e tirò su rumorosamente col naso. «Ora capisco… che cosa se ne faceva di una stupida moglie di sale quando poteva avere una regina? » domandò, guardandosi intorno.
 
Kein non sapeva cosa fare: aveva pensato di dirle la verità, di offrirle un risarcimento per la morte del suo uomo. Ma ora, vedendola così pallida, il volto sporco rigato di lacrime, il ventre più morbido e il seno più pieno dell’ultima volta in cui si erano incontrate…
 
«Rordan è un uomo difficile… meraviglioso, ma difficile.» iniziò. Dwyn annuì e Kein si sentì incoraggiata a proseguire. «Non c’è mai stato nulla tra di noi, devi credermi. È mio amico e gli sono affezionata come ad un fratello, tutto qui. Mi ha aiutata in tante occasioni, ed ora vorrei ricambiare il suo aiuto. Se me lo permetterai, vorrei prendermi cura di te e del tuo bambino. Potrai venire a lavorare al castello, nelle cucine, oppure come cameriera… quello che più ti è congeniale. Non ti mancherà un tetto sulla testa, né cibo, né protezione. Non dovrai più preoccuparti di nulla.»
 
«Te l’ha chiesto lui?» domandò Dwyn, un lampo di speranza negli occhi.
 
Kein le prese le mani tra le sue, cercando di addolcire lo sguardo. «Non è uomo di grandi discorsi il nostro Rordan… diciamo che me lo ha fatto capire» replicò. Se le avesse raccontato che Rordan l’aveva pregata di occuparsi della sua moglie di sale, la donna avrebbe immediatamente subodorato la menzogna. “Da quando mentire mi è diventato facile tanto quanto respirare?” si chiese.
 
«Dov’è andato? Tornerà?» chiese ancora la moglie di sale. “La vedova…”
 
«Aveva bisogno di vivere nuove avventure, di allontanarsi da tutto questo. Forse lo rivedremo, o forse no» le toccò il ventre, con delicatezza. «Ma tu avrai sempre qualcosa a ricordo dell’uomo che ami».
 
§§§
 
Dopo che Dwyn fu condotta dal maestro di corte per la cura delle ferite provocate dalle guardie e per un controllo della gravidanza, Kein si preparò per la sua prima udienza ufficiale. Si sarebbe tenuta nella sala del Trono del Mare, sul quale lei si sarebbe assisa indossando la corona di legno. C’erano molte decisioni da prendere ed era imperativo che iniziasse il suo regno con giustizia, suscitando ammirazione e raccogliendo consensi. Non desiderava che la temessero, ma voleva che la rispettassero, questo sì. C’erano dei cambiamenti da apportare, delle strategie da definire, cariche da distribuire.
 
Si sentiva agitata, inadeguata, e fu felice quando vide comparire Enya Harlaw sulla soglia delle sue stanze. D’istinto, l’abbracciò come se fossero state amiche di vecchia data. La donna non si scostò, anzi, le accarezzò delicatamente i capelli. Di nuovo, Kein si chiese se era quella la sensazione che si doveva provare ad essere abbracciate dalla propria madre. Ultimamente si era resa conto che il modo in cui si era approcciata agli altri negli ultimi ventidue anni – violenza, guardia sempre alzata, disprezzo – non era l’unico modo, e tantomeno, quello giusto. Tra le braccia di Shin aveva imparato come un uomo poteva amare una donna, con delicatezza, passione, tenacia, generosità… tra quelle di Enya, trovava la serenità e la pace di un porto, sicuro come il seno di una madre.
 
«Ti ringrazio per essere venuta, mia signora» la accolse.
 
«Sono ai tuoi ordini, maestà» rispose la lady. Alle orecchie di Kein, quell’appellativo suonava ancora alieno, estraneo.
 
«Ti prego, lady Enya, almeno in privato potresti usare il mio nome? Non mi trovo a mio agio ad essere chiamata di continuo “maestà” o “vostra grazia”… il più delle volte non mi giro nemmeno» concluse, con un’alzata di spalle che fece scoppiare a ridere la signora di Giardino Grigio.
 
«Come desideri, Kein.» disse, tornando seria. «In queste stanze puoi essere ciò che vuoi: una mia amica, la donna di Shin Estren, la sorella maggiore dei tuoi ragazzini. Ma ricorda che fuori di qui sei la regina: devi indossare sempre una maschera, devi apparire sicura, invulnerabile. Devi far sì che gli uomini si fidino di te e ti seguano ciecamente. Non devi mostrare il minimo cedimento, né dubbio. Le tue decisioni devono essere inappellabili».
 
«E se sbagliassi qualcosa? Tutta l’educazione che ho ricevuto viene da un vecchio Septon troppo dedito ai piaceri della carne che durante gli anni di egemonia dell’Alto Passero ha trovato rifugio a Pyke, tra le lenzuola di mia madre. Non ho mai assistito ad un’udienza, né partecipato ad un concilio ristretto. Nelle nobili case è uso che gli eredi assistano i loro genitori in queste attività per poter apprendere i segreti di corte e l’arte della guerra. Io vengo dai vicoli del porto, dal mare, dalla povertà.»
 
«Per questo oggi è importante che tu scelga bene i tuoi consiglieri. Nessuno può essere un buon re, per quanta educazione abbia ricevuto, se non ha accanto dei buoni delegati. Hai già in mente qualche nome per le cariche più importanti?» domandò.
 
Kein qualche idea ce l’aveva. Aveva ripassato mentalmente mille e mille volte l’acclamazione di re, i discorsi dei suoi avversari, le facce di chi aveva applaudito o fischiato i vari pretendenti… Mentre Enya si occupava di intrecciarle i capelli con fili d’oro, come era ormai diventata sua abitudine portarli, la giovane sovrana prese ad elencare le varie possibilità. Per ogni carica, indicava la relativa funzione e il nominativo della persona che le sembrava più adatta per ricoprirla. Enya ascoltava in silenzio, annuendo, mentre le stringeva le stringhe del busto di cuoio nero. Kein aveva deciso di indossare quel colore come omaggio, in ricordo della morte del padre. Inoltre, era il colore predominante della sua Casata e quindi si era fatta cucire abiti nuovi oscuri come ali di corvo, ravvivati solo da delicati inserti dorati che si allargavano come le spire del kraken dalla spalla verso il petto.
 
«Che cosa ne pensi, mia lady?» domandò. Enya rifletté qualche istante, mentre intingeva un dito nel nero di seppia e iniziava a decorarle le orbite. Lo aveva fatto anche per l’acclamazione di re, dandole un’aria sensuale e pericolosa, molto simile alla sua, della quale Kein era stata grata.
 
«Per essere una che viene “dai vicoli del porto, dal mare, dalla povertà”» sorrise citando le sue stesse parole «mi sembri molto saggia. Kaplan e Yohan ti appoggeranno, stanne certa. Se qualcuno dovesse intervenire, perdendoti di rispetto – e bada che può capitare – cerca di non perdere la calma. Sii dura e ferma sulle tue posizioni. Se invece qualcuno chiede la parola ed interviene educatamente con argomentazioni intelligenti, ringrazialo per le sue parole e, se non sai come gestire la cosa, digli che hai bisogno di rifletterci. Tu sei la regina, tu detti le regole e i tempi. Questo non devi dimenticarlo mai.» concluse, sfiorandole un’ultima volta le palpebre. Sotto la pelle nera come il carbone, gli occhi dorati parevano brillare come un filone d’oro in una miniera.
 
«Sei pronta, Kein?» domandò Enya, offrendole la destra. Kein la prese e si alzò.
 
«Andiamo, mia signora».
 
«Andiamo, mia regina».

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Capitolo 4
*** YOHAN ***


YOHAN

La lunga sala non era più fumosa. Da quando Euron era moribondo, qualcuno doveva aver provveduto a cacciare i fumo che solitamente riempiva la lunga sala del Trono di Pyke. Si trovava all’interno della Grande Fortezza, situata sull’Isola più grande, che componeva quell’inusuale sequenza di rocche e torri costruite su scogli. In fondo, quattro seggi, due a desta e due a sinistra, affiancavano il podio regale. Il Trono del Mare si stagliava al centro, scolpito nella pietra da un unico immenso blocco nero lucido, dalla forma di una maestosa Piovra Gigante. Secondo la leggenda erano stati i Primi Uomini a trovarlo sulle coste di Vecchia Wyk quando erano arrivati alle Isole di Ferro. Era vuoto.
 
Yohan, a braccia conserte, era appoggiato con la schiena a un muro laterale e osservava i lord e i capitani che affollavano la stanza. Erano almeno in 400 ad affollarla, tutti lord e comandanti che avrebbero dovuto giurare fedeltà alla nuova Regina. C’erano gli Harlaw da Harlaw, i Blacktyde da Blacktyde, i Tawney e gli Orkwood da Orkmont, gli Stonehouse e i Drumm da Vecchia Wyk, gli Sparr, i Merlyn, i Farwynd di Pelle di Foca e i Buonfratello da Grande Wyk, i Sunderly e i Saltcliffe da Saltcliffe, e i Wynch da Pyke. Mancavano solo i Botley.
 
Ai tempi di Balon ed Euron quella sala sarebbe stata inondata da birra, rum e vino, con serve dal seno e fianchi prosperosi che avrebbero continuato a versarne a fiumi. Ci sarebbe stata musica: archi fiati e tamburi avrebbero scosso le pareti. Gli uomini avrebbero parlato di guerre, razzie, donne e giocato la danza delle dita. Infine, il fumo delle braci, sempre acceso per arrostire pesce e carne, avrebbe offuscato l’aria. Ma non quel giorno.
 
Yohan volse lo sguardo al palco dei nobili, constatando che era stato aggiunto un posto anche per i Farwynd di Luce Solitaria, ma il suo lord non era presente. “Chissà che fine avrà fatto Yohn?” si chiese Yohan guardando il vuoto lasciato dalla sua assenza. Poi, la sua attenzione fu catturata dalla nobile figura di Cersei che sedeva, altera, affiancata da un cavaliere astante, lo stesso che Yohan vide andare incontro a Kein, quando lei rinacque dal mare per volere del dio Abissale.
 
Il vociare della folla era aumentato e i gruppi che circondavano Harras Harlaw, iniziavano a rumoreggiare sempre con più decisione, quando all’improvviso gli enormi battenti della porta d’ingresso si aprirono con un suono forte e impetuoso.
 
Comparve per primo il sacerdote Onda Impetuosa, che con la corona di legno ben in vista, apriva un varco tra la folla, che si scostava con reverenza al suo passaggio. Era seguito dalla Regina Kein e dal suo seguito. Alla sua vista, i nobili, sul palco riservato, si alzarono. Tutti eccetto Harras Harlaw.
 
Non si sentiva altro rumore all’infuori dei passi della regina, che ad ampie falcate, solennemente, raggiungeva il trono, seguita a pochi passi da Enya Harlaw.
 
Erano entrambe tanto belle quanto diverse. Kein vestiva completamente di nero, oscura come l’ala di un corvo o una notte senza luna. Il farsetto, i calzoni aderenti, gli stivali di cuoio col tacco che ne slanciavano la figura, tutto era buio. Soltanto un ricamo dorato nasceva sulla sua spalla, la testa della piovra, che allungava i suoi brillanti tentacoli sul petto di lei, spire che andavano ad attorcigliarsi sotto il suo seno sinistro. Mentre camminava, impettita e a testa alta, dietro di lei ondeggiava un mantello dello stesso colore. Sembrava avvolta nella notte e sul suo viso impassibile, gli occhi dorati circondati dal nero di seppia brillavano come stelle. Ogni sguardo si fermò su quella visione, tranne quello di Yohan. I suoi occhi persero ben presto interesse per la ragazza e si spostarono sulla compagna della regina. Enya era alta e snella come la regina, ma pareva brillare. Kein assorbiva la luce nella sua oscurità, la dama di Giardino Grigio, invece, era come un prisma che catturava la luce soltanto per un istante, per poi restituirla in un caleidoscopio di colori: il giallo sole, blu intenso e acquamarina del farsetto, il bianco delle brache aderenti che poco lasciavano all’immaginazione, il biondo cenere dei suoi capelli raccolti sensualmente dietro alla nuca, il verde ipnotico dei suoi occhi anch’essi risaltati dal nero di seppia…
 
Questo particolare riuscì a fargli provare un moto di tenerezza: intuiva che era stata Enya a truccare la regina, poteva immaginarla immergere le dita nel pigmento e poi passare il polpastrello delicatamente sull’orbita della fanciulla.
 
Una volta che la regina si sedette regalmente sul trono, con gli enormi tentacoli neri a proteggerla, Norjen Onda impetuosa ripeté il rituale dell’incoronazione, avvenuto all’acclamazione. Con sacralità le cinse la testa con la corona di legno pronunciando <
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    I nobili, i lord e i capitani riuniti, risposero come da tradizione e si inchinarono per fare reverenza. Tutti eccetto Harras Harlaw.
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    Capitolo 5
    *** KEIN ***


    KEIN 

    Nel silenzio più assoluto, Kein volse lo sguardo sulla folla, lentamente, deliberatamente, come a sondare il cuore di ognuno, fermandosi sul volto del fratello di Enya. Lei l’aveva avvertita: non si sarebbe inginocchiato. Quell’atto era una mancanza di rispetto che non avrebbe potuto tollerare. Pensò a suo padre, a come si era comportato con Sawane Botley. “Dovrei far annegare in un barile d’acqua salata anche quest’uomo?” si domandò, retorica.
     
    «Benvenuti, nobili lord» scandì. Si rivolgeva a tutti e a nessuno in particolare, ma il suo sguardo e quello di Harras erano allacciati. «Venti impetuosi sono spirati quest’anno, venti di rivolta che hanno rischiato di travolgerci, di metterci gli uni contro gli altri. Venti dolorosi, inviati dal dio della Tempesta, che ci hanno strappato il nostro sovrano. Ma il dio Abissale, colui che è affogato per noi, ci ha restituito la pace e a me ha dato il compito di guidarvi verso un mondo nuovo. Ci aspettano tempi difficili, non voglio mentirvi. Gli Ironborn non hanno mai ricevuto nulla in regalo, anzi, hanno sempre dovuto conquistare ogni cosa col prezzo del ferro e del sangue. E ancora sarà così, finché questa guerra non sarà conclusa e noi non otterremo i territori che ci spettano di diritto e che da trecento anni ci sono stati ingiustamente sottratti obbligandoci a razziarli come se non fossero roba nostra. Beh, lo sono, e li riavremo. Quando il trono di Spade sarà nelle mani dei nostri alleati, finalmente gli Uomini di Ferro avranno il rispetto che meritano e solo allora potrà essere mantenuta la pace della Regina.»
     
    Fece una pausa, accolta dagli astanti con mormorii di assenso.
     
    «Ma per fare questo, dobbiamo essere uniti. Guai a chi rivolgerà l’arma contro un fratello. Per questo vi chiedo, siete disposti a giurare fedeltà, consapevoli di quello che comporta?» domandò.
     
    Il primo ad alzarsi ed avvicinarsi al trono fu Gran Buonfratello, lo stesso che le aveva fatto da campione all’acclamazione di re. Sfoderò la spada lunga da combattimento, l’appoggiò ai piedi del trono e si inginocchiò, chinando il capo. «Giuro fedeltà a Kein Greyjoy, regina delle Isole di Ferro: la mia spada e la mia vita sono tue, da oggi fino all’ultimo dei miei giorni» disse, con voce abbastanza forte da farsi udire fino in fondo alla sala sovraffollata.
     
    Kein ricevette il suo giuramento con un inchino e rispose: «Alzati, ser Buonfratello: che il dio Abissale guidi il tuo braccio. Ciò che è morto non muoia mai! »
     
    «Ciò che è morto non muoia mai!» rumoreggiò la folla.
     
    Subito dopo di lui, sfilarono, con modalità e parole più o meno simili, lord Orkwood, lord Sheppard, figlio di Donnor il Pastore, i Saltcliffe, gli Humble, i Farwynd di Palle di Foca. Kein notò che il lord di Luce Solitaria, fratello di Yohan, non era presente.
     
    Accettò il giuramento di tutti, con le parole di rito, mentre volti e vessilli si confondevano davanti ai suoi occhi. Alcuni li conosceva di vista, altri grazie agli stemmi; aveva bevuto con gli equipaggi di qualcuno di quegli uomini, ascoltato le loro canzoni… quasi si perse nei ricordi, finché venne al suo cospetto qualcuno che non si aspettava.
     
    Alon Wynch si fece avanti, sfilò dalla cintura le due asce da combattimento e le appoggiò ai suoi piedi. Si inchinò e prestò brevemente il suo giuramento, terminato il quale rimase a testa bassa. Un mormorio percorse la sala.
     
    «Capitano» lo apostrofò Kein. «Giurasti anche davanti a mio padre, ma un giorno dimenticasti questo giuramento. Come molti dei bravi lord che ci sono in questa stanza. Fa’ che non accada di nuovo, perché il ricordo degli anni trascorsi al tuo servizio non ti salverà. Ora alzati, e che la benedizione del dio Abissale ti accompagni».
     
    Wynch si ritirò.
     
    Dopo di lui vennero i Blacktyde, Denis Drumm che posò ai suoi piedi Pioggia Rossa, gli Sparr, i Merlyn, i Sunderly e gli Stonehouse. Perfino Thormor Ironmaker, uno dei pretendenti durante l’acclamazione, posò la sua terribile mazza ai piedi della Regina e prestò il suo giuramento.
     
    Lord Kaplan e Yohan Farwynd giurarono uno dopo l’altro, il primo con grandi giri di parole e sfoggio di eloquenza, il secondo con frasi brevi e secche. Kein preferì l’atteggiamento di Yohan, ma rispose educatamente ad entrambi.
     
    Per ultimi, vennero gli Harlaw di Harlaw, quelli che si ero schierati con Harras solo pochi giorni prima.
     
    Kein li benedisse con le parole di rito, ringraziandoli, reiterando promesse di perpetua alleanza e gloria futura.
     
    Tutti prestarono giuramento: prima i nobili, i lord e poi i capitani riuniti, tutti piegarono il ginocchio e tutti deposero le armi. Tutti, eccetto Harras Harlaw.
     
    Kein iniziava ad essere stanca di tutto quel teatro. Sapeva che si trattava di un braccio di ferro e sapeva che avrebbe dovuto vincerlo per evitare che il suo regno iniziasse con un atto di debolezza che l’avrebbe segnata a vita. Poteva essere misericordiosa, poteva essere umile. Ma arrendevole, non lo era mai stata. Volse gli occhi sull’uomo che si era fatto avanti ma permaneva in piedi, senza accennare a voler piegare il ginocchio. La mano, sull’elsa della spada, pareva più pronta a brandirla che a deporla ai suoi piedi.
     
    «Lord Harlaw» disse. «All’acclamazione di re hai detto che la genia della piovra aveva visto la fine con la morte di Euron Greyjoy. Ti sbagliavi. Inginocchiati, presta giuramento e segui insieme ai tuo fratelli la via della gloria»
     
    Harras Harlaw scosse la testa. Il viso, lungo e austero, era una maschera di disprezzo.
     
    «Euron Greyjoy era un folle e un bugiardo. Nessuna delle sue promesse è stata mantenuta. E dovrei credere alle parole di una bastarda, nata dai lombi di un pazzo traditore della sua stirpe e di una puttana?» gridò sguainando Crepuscolo, la spada lunga in acciaio di Valyria e puntandola verso il trono. Tutti restarono immobili per un istante, ma un attimo dopo Harlaw si trovò circondato da spade. Shin Estren fu il primo a puntargli l’arma contro, minacciandolo con un sibilo di abbassare la sua. Nel giro di pochi secondi, Enya Harlaw, Yohan Farwynd, Gran Buonfratello e un’altra mezza dozzina di uomini gli furono addosso.
     
    «Fermi!» ordinò Kein. Si alzò dal trono del mare e andò incontro a lord Harras. Le spade erano ancora tutte levate, compresa Crepuscolo che, quando la regina si avvicinò, era sospesa a pochi centimetri dal suo petto.
     
    «Quello che dici potrebbe essere interpretato come tradimento e punito con la morte, mio lord» disse. Una calma glaciale permeava le sue parole che cadevano come neve nel silenzio della sala. «Mio padre ti avrebbe fatto annegare in un barile pieno d’acqua salata. Oppure avrebbe inventato qualche altra tortura altrettanto fantasiosa. Ringrazia il dio Abissale che vengo anche dei lombi di una prostituta, poiché mia madre mi ha insegnato la clemenza. Ogni capitano è re sulla sua nave, così dice la legge del mare, così gli Uomini di Ferro vivono da generazioni e generazioni. Prendi dunque la tua Canto del Mare e vattene. Sii il re della tua nave e della tua ciurma. Lascerai il tuo castello, i tuoi possedimenti e ricchezze e in cambio avrai la tua vita. Posa a terra la tua spada e vattene, mio lord di Harlaw.»
     
    «La mia spada?» rispose lui, sprezzante «Durante la Battaglia delle Isole Scudo sconfissi sette nemici della Casa Grimm con questa spada! Non la lascerò a una bastarda!»
     
    La mano sinistra di Kein scattò verso l’alto e afferrò la lama di Valyria. L’uomo, preso alla sprovvista, allentò la presa e la giovane, con un gesto secco, allontanò la spada dal proprio petto. Si ritrovarono a stringerla da entrambi i lati, Harlaw dall’elsa in pietra di luna, Kein dalla lama. Nonostante indossasse spessi guanti di cuoio, l’acciaio di Valyria era talmente affilato che nel giro di pochi istanti piccole gocce cremisi cominciarono a stillare dal suo palmo.
     
    «È la seconda volta che mi chiami bastarda, mio signore. Ti sconsiglio di ripeterlo una terza. Te lo ripeto: posa la spada, prendi la tua nave, vattene e non fare più ritorno. Scegli: l’esilio o la morte!»
     
    Il dolore era quasi insopportabile, ma non mollò la presa, anzi, riuscì ad allontanare la punta della spada ancora qualche centimetro. Lo guardò con risolutezza, ma senza odio e, finalmente Harras cedette. Aprì le dita e lasciò l’elsa di Crepuscolo. Kein riuscì a trattenerla abbastanza da non farla schiantare a terra, ma con estrema fatica riuscì a poggiarle l’elsa sul pavimento di pietra. Enya si precipitò a togliergliela di mano: dalla punta il sangue continuava a stillare, così come dal palmo squarciato della regina.
     
    «Guardie» ordinò «Accompagnate lord Harras alla sua nave. Che l’equipaggio possa scegliere se seguirlo o rimanere a Pyke. A chi decidesse di rimanere, che venga dato un posto sulla Silenzio. Addio mio lord. Che il dio Abissale ti accompagni». Si voltò e fece ritorno al trono. Con la coda dell’occhio scorse Shin che subito represse l’istinto di accompagnarla. Enya le porse un pezzo di stoffa e lei se lo legò alla buona sulla mano mentre lord Harlaw veniva scortato all’esterno.
     
    «Se qualcun altro preferisce essere il re della propria nave, non vi tratterrò» disse agli astanti. «Ma se rimarrete, eseguirete i miei ordini. Sono nata bastarda, è vero, ma mio padre, tra tutti i suoi bastardi, ha scelto me perché portassi il nome della sua nobile casa. Questo fa di me un marinaio e un comandante allo stesso tempo, un mozzo e una regina. Questo significa che ho a cuore il mio popolo, dal primo all’ultimo degli uomini. Ascolterò ognuno di voi, ma non accetterò il tradimento di nessuno. Ora se qualcuno vuole andarsene, è il momento per farlo».
     
    Nessuno si mosse. Nel silenzio, Kein riuscì a percepire qualcosa di nuovo, un sentimento potente che suo padre non era mai riuscito a suscitare: il rispetto.
     
    §§§
     
    Il silenzio fu spezzato dal sacerdote del dio Abissale, Norjen Harlaw Onda Impetuosa, il quale annunciò che la regina avrebbe ora distribuito le cariche di corte. Un mormorio incuriosito percorse la sala.
     
    «Lord Kaplan, fatti avanti». La spia obbedì, cerimoniosa. Era vestito in maniera sobria, come si addiceva allo stile della nova sovrana. «Sei stato il maestro dei sussurri per molti anni sotto il regno di mio padre e prezioso è il tuo contributo. Vorrei che mantenessi il tuo ruolo a corte».
     
    «Se così compiace vostra grazia, sarà un onore per me, maestà» rispose, inchinandosi.
     
    «Accetta questa spilla come simbolo della tua carica e della fiducia che ripongo in te mio lord» disse Kein, porgendogli un fermacappa d’argento ornato da un diamante. La pietra, trasparente, simboleggiava il fatto che nessun segreto sarebbe sfuggito all’occhio attento della spia.
     
    Quando Kaplan ebbe preso il suo posto, dopo molti altri inchini, Kein passò alla carica successiva.
     
    «Lord Thormor Ironmaker» chiamò. Il gigante si fece avanti, con in spalla l’enorme e minaccioso martello appartenuto a suo nonno. «Se ti compiace, sarai il mastro navale di Pyke» lo nominò, senza troppi giri di parole.
     
    «È un grande privilegio, mia regina» rispose quello, con altrettanta semplicità, accettando un fermaglio ricavato da un dente di squalo. Nulla di delicato come quello riservato a Kaplan, ma molto più adatto a un uomo grande e grosso come lui.
     
    «Lord Buonfratello» chiamò Kein, di nuovo e il campione si avvicinò, sorridendo. «Ti nomino maestro del tesoro.»
     
    Il sorriso si spense e l’uomo la guardò, sconcertato, senza rispondere. Un mormorio perplesso serpeggiò tra la folla.
     
    «So che è una carica tipica delle Terre Verdi, ma ho dei progetti per il futuro e avrò bisogno che qualcuno si occupi delle casse della corona».
     
    «Vostra Grazia, e da dove…» balbettò Buonfratello, incerto. I suoi occhi erano bassi, tutta l’attenzione concentrata sulla macchia vermiglia che andava espandendosi sulla tela chiara avvolta intorno alla mano della sovrana. «Da dove verrà il conio per il tesoro?» riuscì a chiedere, alla fine.
     
    Kein sapeva che quella era una decisione scomoda e soltanto l’appoggio di Enya l’aveva fatta propendere per l’annuncio della carica fin da quel momento.
     
    «Inizialmente, dalla mia eredità. Le ricchezze di mio padre sono passate a me, ma non mi appartengono veramente perché non le ho conquistate con il ferro. Perciò passeranno al tesoro reale e verranno utilizzate per costruire navi, forgiare armi ed equipaggiare l’esercito. Più avanti ti spiegherò ciò che voglio da te>> disse, preferendo tacere ciò che avrebbe potuto seminare discordia tra gli astanti. «Ora, se ti compiace, ho bisogno di una risposta» concluse, più duramente. Non voleva essere messa in discussione dal suo consigliere ancora prima che venisse investito ufficialmente.
     
    «Accetto volentieri, maestà» concordò a quel punto Buonfratello, ricevendo una spilla d’oro massiccio.
     
    «Lady Enya Harlaw» chiamò Kein e la bellissima Donna di Ferro andò ad inginocchiarsi di nuovo di fronte a lei. «La tua spada è scattata in mia difesa contro il tuo stesso fratello. Vuoi essere il capitano della guardia reale?»
     
    «Non chiedo altro, mia regina» rispose la lady e accettò una spilla su cui centinaia di minuscole perle perfette formavano una coda di pavone aperta.
     
    In ultimo, Kein aveva tenuto la carica più importante, quella che aveva promesso al suo terzo campione in un vicolo di Lordsport settimane prima.
     
    «Capitano Yohan Farwynd» chiamò. Lui le si avvicinò, i capelli e la barba, scuri e disordinati come sempre, incutevano timore. «Mio signore, hai dimostrato di essere un uomo devoto, non solo al nostro dio, ma anche al nostro popolo. Non riesco ad immaginare nessuno di più adatto a ricoprire il ruolo di Lord Comandante della Flotta di Ferro» disse, alzandosi, e gli appuntò personalmente al farsetto una spilla fatta di semplice acciaio forgiato a guisa di vela di nave. Gocce di sangue macchiarono la spilla e il farsetto, ma Farwynd non diede segno di accorgersene.
     
    «Ai tuoi ordini, mia regina» rispose, ermetico come sempre. Era uno degli aspetti che più apprezzava di quell’uomo: niente giri di parole, niente giochetti, perfino poco umorismo. Ma era un uomo vero, trasparente e degno di fiducia.
     
    «Infine, miei lord e capitani» concluse, restando in piedi «Vi invito ad unirvi a me in una preghiera al nostro dio Abissale. Colui che è annegato per noi ci conduca verso la vittoria. Renda il nostro animo saldo, il nostro braccio forte, il nostro cuore impavido. Che gli Ironborn rinascano, più forti che mai! Ciò che è morto non muoia mai!»
     
    «Ciò che è morto non muoia mai! Ciò che è morto non muoia mai!»
     
    Kein si voltò verso Cersei Lannister, che si era mantenuta immobile e silente per tutta la cerimonia. La leonessa le sorrise. Un sorriso algido, distante, che nemmeno per un momento raggiunge i suoi occhi, smeraldi senz’anima.

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    Capitolo 6
    *** SHIN ***


    SHIN

    Gli occhi del cavaliere erano fissi sulle braci del caminetto, dove le fiamme stavano consumando gli ultimi brandelli del suo mantello bianco. Fuori era calata l’oscurità e la stanza era rischiarata solo dalle lingue vermiglie che si alzavano, sempre più deboli, dal mucchio di stracci che si stavano lentamente riducendo in cenere. Si girò, e giacque supino, nudo a parte il ciondolo con l’aquila a due teste simbolo della sua nobile casa, che non toglieva mai, e il fazzoletto di Kein legato al polso sinistro. Il primo, rappresentava il passato, il luogo da dove veniva; il secondo il suo presente e, sperava, il suo futuro, la donna che amava e con la quale avrebbe voluto trascorrere la vita.
     
    Era da poco stato ammesso al castello, gli erano state riservate delle stanze, sobrie ma confortevoli, nella stessa fortezza in cui si trovavano i quartieri della regina. Delle regine, in realtà, dal momento che anche Cersei Lannister alloggiava ancora a Pyke. Ripensò a quella mattina, quand’era andato a prendere la leonessa per scortarla all’udienza che avrebbe avuto luogo nella sala del trono. Non la vedeva da quella notte di dieci anni prima… la notte fatale che aveva cambiato per sempre il corso della sua vita.
     
    Aveva bussato alla porta e, ad una parola assenso di lei, era entrato nelle sue stanze. Non sapeva bene cosa aspettarsi mentre le annunciava che era attesa nella sala del trono per la cerimonia del giuramento. Come avrebbe reagito Cersei? La sua colpa era così grande, troppo grande da dimenticare. Eppure, la leonessa di Lannister l’aveva accolto un sorriso. «Shin...che bello vedere una faccia familiare...» aveva detto, intrecciando il braccio al suo e incamminandosi.
     
    «E per me è bello rivedere voi, vostra grazia. Non avrei mai pensato...» si era interrotto, improvvisamente a corto di parole. Non era in vena di convenevoli, doveva sputare quel grumo di colpa che da un decennio rischiava di soffocarlo. «Ho fallito il mio compito. Sono dieci anni che mi porto dentro questo fardello. Vi chiedo di perdonarmi.»
     
    «Cosa poteva un giovane ragazzo come te?» aveva domandato lei, accarezzandogli il viso con fare quasi materno. «Nonostante il mio passato sia costellato di amare delusioni e ricordi che vorrei sparissero dalla mia mente, tu mi hai fatto tornare alla mente che c'era anche bellezza... La corte, gli abiti sfarzosi, le vostre armature e i vostri mantelli candidi...» aveva volto lo sguardo all'ambiente spoglio e cupo che li circondava prima di proseguire «E’ grazie a questi ricordi che trovo la determinazione»
     
    Nei suoi occhi, Shin aveva letto qualcosa di più di ciò che le sue labbra dicevano. Non erano soltanto gli agi e il lusso ciò che bramava quella donna. C’era qualcos’altro, qualcosa che di certo non avrebbe detto a lui perché Cersei non era mai stata una che portasse i propri sentimenti appuntati al petto come una spilla visibile a tutti. Nascosto nel suo cuore, qualcosa c’era. Qualcosa che, forse proveniva da oltre il Mare Stretto, insieme a quell’armata di cui Kein aveva parlato all’Acclamazione.
     
    «Torneranno quei tempi, maestà» aveva risposto Shin «Il trono di spade sarà di nuovo vostro.» e lei, ammiccando, gli aveva risposto un “Oh, lo so, lo so” carico di sottintesi.
     
    La conversazione si era interrotta davanti alla sala del trono, dove avevano fatto il loro ingresso avvolti dallo sguardo incuriosito dei presenti.
     
    Dopo la cerimonia, Shin l’aveva riaccompagnata nelle sue stanze, poi era tornato al suo alloggio, aveva acceso il camino e vi aveva gettato il vecchio mantello. Era stato felice di rivedere Cersei Lannister, sapere che era viva aveva lenito in parte il senso di colpa che l’aveva schiacciato per lungo tempo. E sebbene si sentisse pronto a scendere in campo al suo fianco, spada in pugno, verso il trono di spade, in fondo al cuore sapeva che il suo braccio non era più al servizio della vecchia regina… ma di quella nuova.
     
    Mentre lasciava scorrere i pensieri, finì per assopirsi. Enya Harlaw, fresca di nomina, era passata a trasmettergli gli ordini di servizio e aveva approfittato per lasciargli un messaggio di Kein in cui gli dava appuntamento per quella notte nelle stanze di lui. Era strano essere di nuovo una guardia reale e soprattutto era strano prestare servizio sotto il comando di una donna, per quanto bella e capace come la lady di Giardino Grigio. Ma capiva perfettamente la scelta di Kein: stava distribuendo il potere e le cariche tra gli Ironborn escludendo i figli delle Terre Verdi per non creare dissapori tra lord e alfieri. Inoltre, la donna sarebbe stata una complice perfetta che avrebbe provveduto a coprire gli incontri segreti della regina.
     
    Sognò la notte della scomparsa di Cersei Lannister, la formazione delle guardie pronte alla battaglia, la notizia che la regina aveva perso la vita per mano dello Sterminatore di Re… nel sogno, il suo mantello bianco diventava improvvisamente porpora e poi volgeva al nero. I capelli biondi della leonessa diventavano fili d’oro che si avvolgevano in spire di kraken sul seno di Kein, mentre l’angoscia per la morte della regina lasciava il posto a una sensazione di pace e benessere, e il mare in tempesta che aveva inghiottito Cersei diventava un oceano calmo, suadente, che lambiva il suo corpo come una carezza di donna.
     
    Nel dormiveglia, gli ci volle qualche istante per rendersi conto che erano davvero mani di donna quelle che lo accarezzavano e labbra gentili quelle che sfioravano la sua pelle. Allungò la mano e incontrò la chioma nera di Kein china su di lui. Le accarezzò i capelli, lasciando che lei lo esplorasse, assaporando la sensazione della sua bocca umida, morbida e accogliente. Crebbe dentro di lei in una spirale di piacere, il culmine del quale, però, non si concesse. Voleva prolungare quell’istante all’infinito. Le strinse le dita sulla nuca e la guidò verso l’alto. Lei gli offrì la lingua, poi i seni, infine si inginocchiò sul suo viso. Era raro che la giovane si comportasse in modo tanto sfacciato, ma al cavaliere non dispiacque. Mentre affondava in lei ripensò al gesto imperioso con il quale quella mattina aveva afferrato la lama della spada di Harras Harlaw, scostandola da sé. In pubblico, la dolcezza e la timidezza di Kein non trasparivano mai: era una fiera, una vera Ironborn. In privato, poteva essere entrambe le cose: una fanciulla inesperta, delicata, oppure una regina di ferro. Mentre si muoveva sopra di lui, Shin percepì che l’adrenalina accumulata quella mattina dalla sua signora non si era ancora esaurita. Il corpo di lei era pura fiamma, una fiamma nera, avvolgente come il manto della notte. I suoi movimenti erano rapidi, sincopati, quasi egoisti. Le strinse le mani intorno alla vita sottile e l’assecondò finché non udì il suo grido soffocato e percepì il suo sapore di donna. Allora la fece stendere poggiando il petto alla schiena di lei e la lasciò riposare.
     
    «Hai tardato molto, mia regina» le sussurrò all’orecchio qualche tempo dopo, entrando in lei. «Ti ho atteso a lungo». Le posò una mano sul seno, per sentire il suo cuore accelerare. Gli piaceva la sensazione di potere che gli dava percepire i cambiamenti nel suo corpo, cambiamenti dei quale era responsabile.
     
    «Non la finivano più di congratularsi» sospirò Kein, più di piacere che per la contrarietà suscitata dal ricordo. «E poi ho dovuto vedere il… il maestro» sussultò posando la mano ferita sulla sua. Shin sentì le bende umide di sangue e le dita di lei, rigide.
     
    «Sciocca ragazza» la redarguì «Sciocca, altezzosa ragazza». Eppure, se avesse potuto, l’avrebbe presa lì, nella sala del trono, davanti a tutti. Avrebbe ucciso quell’uomo, avrebbe bevuto il sangue di lei, l’avrebbe posseduta sul trono del mare. Quella fantasia fu troppo per il cavaliere che si aggrappò alla sua donna, scosso dal piacere.
     
    Restarono allacciati fino alle prime ore del mattino quando un bussare delicato alla porta li riportò alla realtà. «Dev’essere Enya» sussurrò Kein, ancora mezza addormentata. «Ho convocato la prima seduta del concilio ristretto. Che il dio Abissale mi assista».
     
    Shin si chiese quando avrebbero avuto di nuovo una notte tutta per loro. Aveva la sensazione che presto tutto sarebbe cambiato, tanto rapidamente quanto radicalmente.

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    Capitolo 7
    *** KEIN ***


    KEIN
     
    Il solarium della regina era situato nella Torre del Mare, una costruzione slanciata e tondeggiante ubicata sull'isola più lontana dal promontorio. La stanza era umida e piena di spifferi, riscaldata soltanto da un braciere. La regina vi si era recata per prima, scortata da lady Harlaw, per raccogliere i pensieri mentre consumava una frugale colazione. In breve, venne raggiunta da lord Kaplan, che accettò di condividere con lei un corno di birra e del pesce salato. Poi fu la volta dei lord Buonfratello e Ironmaker, che arrivarono insieme e pure non disdegnarono l’offerta. Il Capitano Farwynd, invece, si sedette in silenzio, senza partecipare né alle chiacchiere né alla convivialità degli altri. Per ultima, li raggiunse Cersei Lannister, scortata da Shin Estren.
     
    «Benvenuta maestà, la tua presenza tra noi è un onore» la salutò Kein, alzandosi, imitata dai suoi lord e lei rispose inclinando graziosamente il capo prima di prendere posto tra loro. Con un cenno della mano accettò del vino da un servitore, portato apposta per lei dal momento che gli altri avevano preferito birra chiara e leggera, ma non toccò il cibo.
     
    Quando fu chiaro che il momento dei convenevoli era giunto al termine, le guardie lasciarono la stanza con un inchino: sarebbero rimaste ad attendere all’esterno. Kein avrebbe preferito averli al suo fianco, perfino seduti al tavolo. Senza la presenza rassicurante di Enya, senza il calore emanato dal corpo di Shin, si sentiva sola, vulnerabile, molto più spaurita che in qualsiasi battaglia nella quale si fosse ritrovata a combattere. Con la spada in pugno, circondata dalla sua ciurma, si sentiva nel suo elemento. In quella stanza, invece, era una bambina travestita da principessa, un guitto dipinto.
     
    “Sono una donna di ferro” si ripeté, per farsi coraggio. Poi prese la parola.
     
    «Molto bene, miei lord, vostra grazia. Per prima cosa voglio ringraziarvi per la fiducia che mi avete concesso, e che ricambio. Come sapete le mie origini sono umili e la mia educazione lacunosa. Perciò sentitevi pure liberi di esprimere ogni vostro parere e dubbio, sarà mia cura ascoltare e vagliare ogni vostro consiglio. Ma non crediate di avere a che fare con una stupida, un’ingenua o una donna facilmente manipolabile: non sono alcuna di queste tre cose» li guardò negli occhi, ciascuno di loro, saggiandone le reazioni. Buonfratello sorrise imbarazzato, Ironmaker le restituì uno sguardo limpido, da pari a pari, Kaplan annuì, Farwynd restò imperscrutabile. Gli occhi di Cersei Lannister erano come ghiaccio. Nessuno parlò. «Fatta questa premessa, possiamo cominciare. Lord Gran, vorrei iniziare con la tua nomina. Come saprete è una carica nuova, tipica delle Terre Verdi, che ho deciso di introdurre poiché il mio obiettivo è un graduale allontanamento dall’Antica Via. Come ho detto, inizialmente il tesoro sarà costituito con parte del patrimonio ereditato da mio padre. Mio signore, ti coordinerai con lord Ironmaker per quanto riguarda le esigenze della flotta, i vettovagliamenti e l’equipaggiamento delle milizie. Dobbiamo prepararci al conflitto al meglio possibile. Inoltre, desidero che venga istituito un fondo per le vedove e gli orfani di sale. Ho visto troppa povertà, troppa miseria negli anni trascorsi di stanza sulle galee della Flotta di Ferro. Quei ragazzini saranno soldati, un domani, dobbiamo garantire la loro sopravvivenza. A tale scopo, verrà istituita una tassa del dieci percento su tutti i bottini, percentuale che verrà ridotta successivamente quando avremo proventi derivati dai balzelli e dalle imposte che ricaveremo dai nuovi territori conquistati. Ti è tutto sufficientemente chiaro?»
     
    Buonfratello e Ironmaker si guardarono tra loro imbarazzati e indecisi su chi dovesse prendere la parola. Poi fu il mastro navale a parlare, con un timbro chiaro e profondo. «Vostra maestà, non credo che le isole abbiano sufficienti risorse. Ne serviranno altre, risorse che, anche volendo, non possono essere acquistate con il conio.»
     
    A quel punto anche lord Gran si sentì in diritto di contraddire la sovrana «Un uomo di ferro non accetterà mai di pagare tasse, ciò che conquista con il ferro è suo di diritto» affermò.
     
    “Non avevo dubbi” pensò Kein, ma non si lasciò scoraggiare.
     
    «Conosco la geografia delle nostre isole e so che dopo la guerra intrapresa da mio padre il disboscamento non è stato ancora superato. Non voglio ridurre ulteriormente le nostre già scarse risorse, anzi, sarà meglio che prendiate in considerazione un piano di ripopolamento boschivo, ma le navi vanno rese il più resistenti possibili ed equipaggiate, e in fretta. Se non possiamo razziare e depredare la terraferma, assalteremo mercantili, maledizione! Cercate una linea di commercio con l’est, presto avremo chi garantirà per noi. Ci stiamo riducendo all’osso, non ve ne rendete conto?» domandò, cercando di non perdere la calma. «Per quanto riguarda la tassazione, sono irremovibile. Se ognuno pensa per sé, saremo sempre nemici tra noi. Dobbiamo invece essere uniti, utilizzate i sacerdoti, fate leva sul dio Abissale, quello che volete. È soltanto una soluzione temporanea finché non riavremo indietro i territori che storicamente ci appartengono. A quel punto, sfrutteremo quelli.»
     
    Sapeva che non sarebbe stato facile far digerire le sue idee ai lord, ma che alternativa aveva? Erano troppo ciechi per rendersi conto che l’Antica Via era ormai impraticabile e troppo orgogliosi per ammettere di essere un popolo finito, a meno di non abbassarsi a fare ciò che per centinaia di anni avevano rigettato come umiliante e inferiore: seminare.
     
    “Dovrei cambiare il motto della casata. Noi ci estinguiamo, o qualche stronzata simile” pensò.
     
    «Siete in grado di tracciare le rotte dei mercantili? Lord Kaplan, avete notizie di quali navi e con che merci attraccheranno sulle coste dell’ovest e delle terre dei fiumi?» domandò.
     
    «Certamente Vostra Maestà. I miei informatori posseggono già le risposte ai vostri quesiti. Un mio ulteriore incontro con questi vostri servitori e potrò farvi avere dettagliatamente tutto ciò che chiedete. Vi porterò io stesso un rapporto a riguardo» rispose il maestro dei sussurri.
     
    «Molto bene, appena lo avrete pronto lo esamineremo con lord Ironmaker e il capitano Farwynd e organizzeremo gli assalti. Occorre una manovra coordinata, di più navi. Non possiamo continuare a disperdere le forze, è un metodo obsoleto e ci indebolisce. Capitano, questo sarà compito tuo: riunire la flotta, far sì che ogni nave sia parte di un unico, grande organismo che lavora in armonia». Sapeva di stargli chiedendo molto, i capitani erano re delle loro navi e questo significava che, per la maggior parte del tempo, erano nemici tra loro. Ma questo era anche il problema principale delle Isole di Ferro, la mancanza di un governo centrale forte, cosa che, invece, rendeva i Sette Regni una potenza tanto difficile da scardinare. Pur mantenendo la propria identità territoriale, era necessario imitare il nemico in tutte quelle strategie che lo rendevano temibile.
     
    «Ora, se non avete altre questioni da sottoporre all’attenzione del concilio» concluse «direi di passare alla trattazione di quello che è forse il punto cruciale di questa seduta. Come ho detto durante l’acclamazione di re, c’è un accordo tra la corona del mare e Cersei della casa Lannister». Guardò la leonessa che annuì quasi impercettibilmente. «la quale, a sua volta, ha degli alleati oltre il Mare Stretto. Vostra Maestà, se ti compiace esporre la situazione agli altri membri del concilio, sicuramente sarai più esaustiva di quanto non possa esserlo io.»
     
    Cersei vuotò la coppa con un unico, lungo sorso prima di iniziare a parlare. Quella sua tendenza a Kein non piaceva per niente. Sapeva bene quanto l’alcol annebbiasse il cervello, abbassasse la reattività in situazioni di pericolo, riducesse la capacità di valutare l’ambiente circostante. Inizialmente, aveva pensato che la regina decaduta bevesse per sopportare di essere sposata con Euron Greyjoy, ma ormai era evidente che quella cattiva abitudine l’accompagnava da ben prima dell’infausto matrimonio.
     
    «Come alcuni di voi sanno» esordì, lo sguardo rivolto a Kaplan «Dopo la mia presunta dipartita da questo mondo ho passato svariati anni in esilio nel Continente Orientale. Più precisamente, ho trovato rifugio a Volantis, presso la più antica e nobile delle famiglie della fazione delle Tigri, i Maegyr. A quei tempi, il Triarca era Malaquo, e fu lui ad accogliermi. Era un uomo anziano, moderato, il cui carattere si era ammorbidito negli anni, permettendogli di instaurare buoni rapporti di collaborazione con la fazione degli Elefanti. Recentemente, dopo la sua morte, le elezioni sono state vinte da suo nipote, Jaeron Maegyr. È un uomo nel fiore degli anni, molto forte e determinato. In lui, il sangue dell’antica Valyria scorre ancora incontaminato e questo lo porta a perseguire una politica fortemente espansionistica. Se ciò che mi aveva promesso prima della mia partenza per Westeros si è avverato, probabilmente al momento sarà diventato monarca di Volantis.»
     
    «Ho raccolto alcune voci, in proposito» si intromise Kaplan «E sua maestà non si sbaglia. Volantis non è più un triarcato, ma una monarchia.»
     
    «È cosa certa?» domandò Kein e il maestro dei sussurri annuì. «Immagino sia una buona notizia.»
     
    «Lo è.» confermò Cersei «Questo significa che non si dovrà più preoccupare degli scrupoli dei commercianti. Si tratta di una casta alla quale importa solo delle ricchezze, ma non tengono in alcun conto il prestigio e non hanno altra preoccupazione che aumentare le loro riserve d’oro e preziosi. Jaeron, per contro, è un uomo estremamente volitivo e sa come ottenere ciò che desidera.»
     
    «Cosa vi spinge a credere che accetterà davvero di essere un nostro alleato?» domandò Kein. Era una domanda rischiosa, si stava esponendo poiché all’acclamazione aveva dato il sodalizio per certo, ma doveva avere la certezza che la leonessa di Lannister non stesse bluffando. «In fondo, la sua politica espansionistica si potrebbe limitare alle città libere di Essos.»
     
    «Ad un altro uomo, basterebbero» concesse Cersei. «Ma non a Jaeron. Sin dal primo momento in cui ho fatto il mio ingresso nel palazzo di suo nonno è stato chiaro che era rimasto affascinato da questa parte di mondo… e da ciò che poteva offrire». Nella pausa che seguì, Kein non ebbe difficoltà ad intuire ciò che sottintendeva la sua interlocutrice. «Ci darà gli uomini che chiediamo, che io chiederò, non devi dubitarne.»
     
    «Molto bene, allora vi invito a scrivergli quanto prima e a fare richiesta di almeno ventimila soldati.»
     
    «In realtà» interloquì Cersei «sarebbe più opportuno che io mi recassi personalmente a Volantis per perorare la nostra causa».
     
    “Dunque è questo che vuole. Allontanarsi dalle Isole per fare il suo comodo.” Pensò Kein, contrariata. L’istinto le suggeriva di impedire alla donna di partire, ma non voleva inimicarsela. Decise di prendere tempo.
     
    «È comunque necessario che gli scriviate, in modo che sia avvertito delle nostre necessità e che abbia il tempo di approntare le risorse occorrenti» insistette e a Cersei non restò che annuire.
     
    «Bene, è tutto. Lord Kaplan, ricorda quel rapporto, è urgente. Lord Gran, prepara un editto reale sulla questione della tassazione. Mi raccomando, che sia inappellabile, non voglio sedare altre ribellioni. Lord Ironmaker, predisponi un elenco dei materiali necessari per rimettere a nuovo la flotta, vediamo che cosa ci possiamo procurare in patria e cosa dovremo recuperare con altri mezzi» ordinò. I membri del concilio si alzarono e si congedarono con un inchino e lord Kaplan si offrì di scortare Cersei Lannister nelle sue stanze.
     
    “Devo tenerli d’occhio” pensò Kein “non mi piacciono gli sguardi d’intesa che si scambiano”.
     
    «Capitano, non tu. Ho bisogno di scambiare altre due parole» lo richiamò quando anche Farwynd accennò a lasciare il solarium «e, per favore, fa’ entrare Shin ed Enya.»
     
    Era ora di parlare chiaramente con le uniche persone di cui si fidava.
     
    §§§
     
    Attese che Kaplan e Cersei, Buonfratello e Ironmaker si fossero incamminati giù per la scala che li avrebbe condotti ai piedi della Torre del Mare fino al camminamento sospeso per lasciarsi cadere di nuovo sulla sedia. Si sentiva stanca, come se fossero passate delle ore dall’inizio della riunione. Con la mano fece cenno anche agli altri di prendere posto e loro obbedirono, in silenzio. Shin poggiò i gomiti sul tavolo e, per un attimo, Kein pensò che le avrebbe preso la mano. Ma poi lui strinse il pugno, e il momento passò. Farwynd attese, impassibile come sempre. Enya, dal canto suo, cercò lo sguardo della regina e annuì, invitandola a parlare.
     
    «Capitano, ti ho chiesto di rimanere perché ho necessità di discutere alcuni argomenti in privato. In quanto a voi» spostò lo sguardo sulle sue guardie «siete le uniche persone in tutte le isole a cui affiderei la mia vita. Enya, tu conosci questa gente, sai come trattarla. E tu, Shin, hai servito Cersei Lannister. Ho bisogno di sapere se mi posso fidare di lei.»
     
    «Ero poco più di un bambino quando sono entrato nella guardia reale. Avevo appena compiuto quindici anni e devo ammettere che ciò che più ammiravo in Cersei Lannister era la spregiudicatezza. Non si è mai fatta scrupoli a falciare i propri nemici e questo l’ha portata molto in alto.»
     
    «Anche molto in basso» sottolineò Enya.
     
    «Non posso negarlo» assentì Shin «ciò non toglie che sia un’alleata preziosa in questa battaglia.»
     
    «A quanto mi risulta, la leonessa di Lannister in passato non è stata con gli amici più leale che con i nemici. O le mie conoscenze sono sbagliate?» domandò Kein.
     
    «Era diverso» replicò Shin «da quella guerra Cersei non avrebbe tratto alcun vantaggio. Da questa, invece…»
     
    «Capitano, qual è la tua opinione?» fece, rivolta a Farwynd. Quell’uomo parlava poco, ma, ne era certa, nulla sfuggiva ai suoi occhi in tempesta.
     
    «Non possiamo fidarci di una donna simile, né qui, né tanto meno lontano dalle isole.» replicò lui, scuotendo impercettibilmente la testa. Dal suo tono, era chiaro che aveva ragionato sulla questione e che la conclusione alla quale era giunto era insindacabile. «Dobbiamo allontanarla da noi, ma, allo stesso tempo, avere la certezza di ottenere ciò che avete pattuito.»
     
    «In tutta onestà, credo che sia meglio tenerla il più lontano possibile da Kaplan» confermò Kein. «So che è stato lui a mettermi sul trono» proseguì, prevenendo eventuali osservazioni sull’argomento «ma serviva mio padre, e lo ha ucciso. Ha scelto me perché pensava che fossi facilmente manipolabile e, purtroppo, non sono sicura di essere abbastanza scaltra per batterlo sul suo stesso terreno. Per questo ho bisogno di voi. Ora, Cersei non vede l’ora di ricongiungersi con il monarca di Volantis. Mi pare evidente che ne abbia conquistato i favori esibendo ben più che il suo nome e il suo denaro, perciò può darsi che giovi alla nostra causa concederle di perorarla personalmente e con tutti i mezzi a sua disposizione. D’altro canto, lasciarla andare da sola sarebbe follia pura. Dobbiamo essere sicuri che sia obbligata a mantenere le sue promesse. Obbligata» ripeté.
     
    «Assecondiamola» propose Enya «scortiamola fino ad luogo da noi prestabilito e poi consegniamola solo una volta che avremmo la certezza di avere i mercenari»
     
    «Orange Shore potrebbe essere il luogo adatto» intervenne Yohan «C’è un’isola a ovest di Volantis. Lì potremmo assicurarci la presenza dei mercenari e infine consegnare Cersei stessa a Maegyr. Posso mettermi subito all’opera per tracciare una rotta sicura.»
     
    «Potrebbe essere una soluzione, ma c’è bisogno di qualcuno che l’accompagni» approvò Kein. In realtà, sapeva benissimo chi sarebbe stata la persona più adatta per qual compito, ma non voleva privarsene. Quando Kaplan le aveva offerto la corona, lei, come una sciocca, aveva pensato che ciò avrebbe significato pace e sicurezza per la sua famiglia e, per lei, il coronamento della sua storia d’amore. Ma si era dovuta ricredere in fretta e, ora, non aveva intenzione di cedere altro terreno su questo piano. «Capitano, chi potremmo mandare con lei? Ci vuole una compagnia fidata, uomini la cui lealtà alla corona sia indiscutibile.»
     
    Farwynd rifletté a lungo, evitando lo sguardo di Enya. A Kein la cosa non passò inosservata e non si stupì di sentirlo parlare in questo modo: «Balaq Rematore Nero può essere un capitano valido e di certo devoto all'Antica Via. Con lui non rischiamo tradimenti». La lady di Giardino Grigio strinse le labbra, ma non disse nulla. Tutti sapevano che l’ex schiavo ed Enya erano amanti ed era altrettanto palese che qualcosa ci fosse anche tra lei e il lord comandante. Kein si chiese se quello non fosse solo un tentativo di Farwynd di togliersi l’avversario dai piedi, ma giudicò che sarebbe stato altrettanto efficace e ben più definitivo farlo fuori. Non essendo un Uomo di Ferro, non ci sarebbero stati pregiudizi o dogmi religiosi a fermare la sua ascia. Quindi era probabile che il gigante nero fosse davvero un leale servitore.
     
    «Sta bene, ma non è sufficiente. Non possiamo lasciare tutto nelle mani di un solo uomo» disse.
     
    «Ti proporrò qualche altro nome, un piccolo gruppo. Tuttavia, una volta sbarcati i mercenari sulle nostre coste senza destare sospetti, dobbiamo inviare loro qualcuno in grado di guidarli attraverso il continente, incontro a noi che ci muoveremo dalla parte opposta» disse, spostando il suo sguardo su Shin.
     
    Questa volta fu la regina a stringere le labbra. «Una manovra a tenaglia. È una buona idea, difficilmente si aspetteranno di essere attaccati contemporaneamente di fronte e alle spalle. Faremo come tu dici. Ora, come pensi di procedere per il viaggio? Attraversare il continente è troppo rischioso e comunque non accorcerebbe poi di molto i tempi di navigazione.»
     
    «Si potrebbe ipotizzare di fare rotta verso sud, superare il mare del Tramonto, costeggiare Dorne e poi proseguire dritti verso Volantis» propose Enya indicando con il dito il percorso su una delle mappe sparse sul tavolo.
     
    «Eviterei le vostre navi lunghe» s’intromise Shin. «Ci vuole un mercantile, un’imbarcazione che passi inosservata, magari battente bandiera orientale».
     
    «Ottime idee, entrambe» approvò Kein. Con quelle persone si sentiva a proprio agio, le idee fluivano, c’era una connessione tra loro e lei sentiva di avere una possibilità di riuscita se li avesse avuti a fianco. «Dorne…» disse pensierosa, quasi tra sé e sé.
     
    «A che pensi?» domandò Shin.
     
    Dorne era sempre stata una spina nel fianco per i Sette Regni, quasi come le Isole di Ferro. Il motto di casa Martell di Lancia del Sole, “Mai inchinati, mai piegati, mai spezzati”, derivava dal fatto che di tutti i regni, quello più a sud era stato l’unico acquisito dai Targaryen non con la forza, ma tramite un’alleanza matrimoniale, e la diceva lunga sul carattere sanguigno dei dorniani che, da sempre, avevano bramato l’indipendenza, tanto quanto gli Ironborn stessi.
     
    Durante gli scontri precedenti la Lunga Notte vi era stata una guerra interna tra l’ultima discendente della casata, Arianne Martell, che avrebbe voluto vedere la secondogenita di Cersei Lannister sul trono di spade, e le figlie bastarde di Oberyn, fratello del principe Doran e zio di Arianne, che invece bramavano vendetta contro la corona. Le Serpi delle Sabbie, dopo aver assassinato la principessa Myrcella, avevano finito per allearsi con i cugini di Kein, Yara e Theon Greyjoy, ma erano state sconfitte e sterminate da Euron e Cersei. Dopo la terribile battaglia che aveva posto fine alla Lunga Notte, Arianne, che da tempo aveva fatto perdere le sue tracce dopo l’uccisione del padre e dei fratelli, era tornata a reclamare il suo posto e aveva ottenuto dal reggente Tyrion Lannister il perdono per la ribellione delle sue congiunte. Tuttavia, Kein non pensava che la situazione a sud fosse completamente tranquilla e che le spinte indipendentiste delle frange più estreme fossero del tutto sedate.
     
    «Arianne Martell» rispose dopo una lunga riflessione «Cosa sappiamo di lei? A parte il fatto che ha tramato per far ascendere al trono Myrcella Baratheon, la figlia di Cersei?»
     
    «Non molto» fu Shin a rispondere «Le sue tracce si sono perse durante la Lunga Notte. Di certo, è noto che a Dorne la linea di successione non fa differenza tra maschi e femmine e questo ha portato al tentativo di colpo di stato cui hai accennato. Immagino che Arianne potrebbe essere ben disposta verso una figura femminile forte e progressista» concluse con un mezzo sorriso. Lo sguardo di lui pareva trapassarla e Kein abbassò gli occhi sulle carte sparpagliate davanti a sé e la cascata di capelli neri nascose il rossore che le aveva imporporato le guance.
     
    «Abbiamo qualcuno all’altezza di trattare con la principessa di Dorne?» chiese a Yohan rialzando lo sguardo, dopo essersi ricomposta.
     
    Farwynd rifletté a lungo prima di rispondere. A Kein non sfuggì che il capitano evitasse di guardare la lady di Giardino Grigio e comprese che la donna era l’unica secondo lui adatta per quel compito delicato. Decise de venirgli in aiuto.
     
    «Non voglio privarmi di lady Enya, per il momento, anche se comprendo che lei avrebbe sicuramente un ascendente su Arianne Martell, data la descrizione che ne ha fatto Shin» disse. «Qualcun altro?»
     
    A quel punto, Lady Harlaw intervenne. «A mio parere, nella ciurma dell'Abisso ci sono due sorelle all'altezza di questa missione. Arwyn Netley è la più grande e penso che non si tirerà indietro quando le proporremo di andare a Dorne. Posso istruirla in modo che tocchi le giuste corde durante l’udienza con la principessa».
     
    «Sì, una delle due sorelle, o entrambe possono andar bene» confermò Yohan «Mi assicurerò che non siano agli ordini di Kaplan, ma fedeli solo a voi, mia regina». Il suo sguardo cangiante sembrava limpido, come il giorno in cui aveva accettato di essere il suo campione.
     
    «Se mi è concesso» aggiunse ser Estren «Sarebbe opportuno munire la ragazza di un documento ufficiale che la indichi come ambasciatrice della regina delle Isole di Ferro, nonché di Cersei Lannister. Sono sicuro che la leonessa non ha dimenticato quanto Arianne si sia prodigata, seppur con miseri risultati, per l’incoronazione di Myrcella. Era molto legata a quella ragazzina, ricordo bene il suo volto quando venne a sapere che era morta… e rammento la sua vendetta. Sono certo che sarà lieta di apporre il suo sigillo assieme al tuo su una proposta di alleanza. Inoltre, ricordo che Tyrion era costretto ad inviare spesso delegazioni che mantenessero la pace, sempre più spesso negli ultimi tempi. Le probabilità che i dorniani accettino di unirsi alla rivolta è decisamente alta».
     
    «Molto bene» annuì Kein. Si passò le dita tra i lunghi capelli corvini, spingendoli indietro sulla fronte leggermente imperlata di sudore. Non conosceva personalmente nessuno dei prescelti e non le restava altro da fare che porre completa fiducia nei suoi consiglieri. «Amici miei, la corona del mare è di legno leggero, ma, credetemi, pesa come piombo sulla mia fronte. La posta in gioco è altissima e io ho bisogno di fidarmi ciecamente di voi tutti perché il mio giudizio può essere fallace. Non lo ammetterò mai davanti al concilio e men che meno in udienza, ma non si impara ad essere regine da un giorno all’altro e senza di voi sono perduta. So che chiedo a tutti dei grandi sacrifici, ma non c’è un’alternativa: è l’ultima chance per il nostro popolo, sono sicura che ve ne rendete conto.» si sfogò volgendo intorno uno sguardo carico di stanchezza.
     
    «Ti sei comportata bene oggi, maestà» la rassicurò Yohan e Kein fu felice di quelle parole. Sapeva che non era uomo da sprecarne molte e, di conseguenza, le accettò con gratitudine.
     
    «E sai che puoi contare su di noi» aggiunse Enya, sporgendosi verso di lei. Le prese una mano e la strinse delicatamente tra le sue. «Ora, con il tuo permesso, andrò a parlare con Balaq e con le sorelle Netley».
     
    Kein annuì. Sapeva che quella conversazione non sarebbe stata per niente facile per lady Harlaw.
     
    Farwynd seguì Enya fuori dal solarium, in silenzio, e Kein rimase sola con Shin, che andò a mettere il chiavistello alla porta.
     
    «Che intenzioni hai?» gli domandò soffocando una risata. Quell’uomo riusciva a ridurla ad una sciocca ragazzina con un solo sguardo e se da un lato la cosa la divertiva, dall’altro la spaventava. Spesso, troppo spesso, giocavano con il fuoco e il fatto che Kaplan conoscesse perfettamente la loro situazione era un pensiero assillante per lei.
     
    «Voglio toglierti la corona» sussurrò il cavaliere, attirandola a sé «E non solo quella…»
     
    Le mappe, i cartigli e le statuine a forma di lupo, leone, piovra e drago si sparpagliarono sul pavimento.

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    Capitolo 8
    *** TREGO ***


    TREGO 

    Il sole era appena sorto, e il chiarore della mattina ancora fresca illuminava due rampanti cavalli neri e i loro cavalieri che, armati alla leggera, percorrevano al trotto una strada appena visibile di una landa desolata.
     
    Ma non era sempre stato così. Un tempo, quella regione era ricca di prati e boschi verdi, con fiumi rigogliosi e campi fertili, o almeno questo era quello che veniva tramandato dagli anziani. Da secoli, ormai, le terre contese, questo era il nome di quella regione, erano devastate dalle ininterrotte guerre delle tre città sorelle, Myr, Tyrosh e Lys.
     
    Fin dalla sua nascita Trego, il più giovane dei due cavalieri, ma anche il più alto in grado, aveva visto intorno a sé una landa deserta, disseminata di ossa, ceneri e campi salati. Le conosceva a menadito quelle terre, così come conosceva tutti i loro percorsi nascosti e tutti i loro più oscuri segreti. Cresciuto e svezzato tra i rozzi soldati che ingrossavano le fila delle innumerevoli compagnie di mercenari della zona, era l’orfano di uno di questi guerrieri, forse proveniente da una nobile famiglia del Continente Occidentale o forse un povero squattrinato in cerca di fortuna, e di una donna dothraki da cui aveva ereditato la pelle olivastra, gli occhi scuri a mandorla e i capelli neri. I suoi fratelli erano sempre stati i cavalieri e i soldati che si erano occupati di lui fin dall’infanzia, sia durante le tregue, sia durante le guerre. Grazie a loro, aveva coltivato fin da bambino la passione per i cavalli e aveva imparato a cavalcare alla maniera dothraki, mostrando fin da subito un’abilità esemplare nell’uccidere i suoi nemici a dorso di cavallo con arco o arakh. Prima stalliere e poi cavaliere leggero della piccola Compagnia di mercenari delle Iene Maculate, si era ritrovato, con pochi compagni, sopravvissuto ad un agguato di un’altra Compagnia, che voleva espandere i propri domini in quelle terre. Quando tutto sembrava perduto, Loren, il comandante del plotone superstite delle Iene Maculate, sollecitato dai reduci rimasti, aveva riorganizzato il battaglione stesso, e nel giro di pochi mesi aveva ridato dignità e fama a quei vagabondi e anche a Trego, nominandolo comandante del reparto di cavalleria leggera della Compagnia. Dopo tre anni da quella disfatta, il battaglione superstite era diventato una nuova, vera e propria Compagnia di mercenari, “I Leoni del Deserto”, forse ancora numericamente piccola per rivaleggiare con le grandi compagnie della Baia delle Piramidi, ma, dei tremila uomini che ne facevano parte, il reparto di cavalleria contava mille cavalieri, ed essa era diventata la forza indiscussa di tutte le Terre Contese. Trego, infatti, su consiglio di Loren, aveva addestrato, e addestrava ancora, i nuovi cavalieri alla maniera dothraki, e riuscivano sempre ad avere la meglio sui nemici; questo, anche grazie all’abilità militare del suo comandate, nata, pensava Trego, da esperienze tragiche e dure sconfitte del passato, di cui Loren non parlava mai.
     
    §§§
     
    Quel giorno, come ogni mattina, il giovane comandante andava, di pattuglia, a controllare gli avamposti dell’accampamento della compagnia. Aveva già raggiunto e ricevuto informazioni dalle sentinelle degli avamposti situati a nord, ovest e sud rispetto all’accampamento principale.
     
    Giunse verso mezzogiorno all’ultimo avamposto mancante, quello situato più a est. Vi trovò le sentinelle nel mezzo di un’animata discussione su un possibile nuovo ingaggio da cogliere al volo. Quei mercenari, infatti, erano settimane che non ricevevano il pagamento pattuito, e gli uomini iniziavano a lamentarsene; anzi, se non fosse stato per il timore e rispetto che portavano verso il comandante Loren, molti avrebbero già disertato dalla compagnia e avrebbero trovato un altro padrone da servire e da cui ricevere il denaro da sperperare in alcol e schiave di piacere.
     
    «Si tratta di Volantis!» argomentò una delle vedette, quando Trego gli chiese se c’erano novità «La città è passata nuovamente sotto il dominio delle tigri e i nuovi padroni preparano già nuove espansioni, ci sarà da menare le mani.»
     
    «E dove vogliono espandere i loro domini?»
     
    «Verso Valyria, vogliono far rinascere le città antiche. Si sa come sono fatti questi volantiani, vivono nel passato, credono di avere il sangue ancestrale dei draghi, pensano solo a dominare il mondo e riportare lustro alle loro antiche famiglie»
     
    «Valyria? Ma non c’è nulla in quelle terre, stesse rovine, stessa desolazione, e una morte ancor peggiore di questa regione» Trego si riferiva al morbo grigio, malattia che si diceva infestare quelle zone ormai da secoli.
     
    Ma l’uomo alzò le spalle, indifferente alla costatazione del suo superiore «Pagano profumatamente. Monete volantiane e oro di Meereen» disse e, a quelle parole, gli occhi dei pochi presenti brillarono di cupidigia.
     
    Denaro. Oro. Argento. A quegli uomini non importava chi lo elargiva o da dove proveniva. Volevano solo essere pagati per poi spassarsela.
     
    «Dove sono accampate queste tigri?»
     
    «Oltre il confine. Abbiamo già visto tre compagnie minori smobilitare i loro campi e dirigersi verso est. Molti altri piccoli gruppi di disertori seguono la stessa strada»
     
    «Continuate a pattugliare la zona. Torno ad avvisare il comandante, presto avrete mie notizie».
     
    §§§
     
    Trego se ne tornò all’accampamento ancora dubbioso. Tuttavia, la politica espansionistica di Volantis era più che credibile: le tigri di quella città conoscevano solo fuoco e sangue. E quei sogni di gloria si tramutavano in oro prezioso nelle tasche dei mercenari. Myr, Tyrosh e Lys non erano mai state davvero interessate alle Terre Contese, e se lo erano, riversavano le loro infinite risorse sulle flotte e lasciavano gli avanzi alle compagnie di mercenari, scommettendo da lontano, al sicuro dentro i loro palazzi, sulla sorte di quei poveri disperati alla ricerca di un riscatto. Ma stavolta, forse, i mercenari avrebbero avuto anche loro la possibilità di ritagliarsi uno straccio di fama.
     
    Trego avrebbe aggiornato il comandante su questa novità, e lui avrebbe poi saputo scegliere la strada migliore da seguire per tutti i suoi compagni. Lo raggiunse all’interno della sua modesta tenda, sulla quale campeggiava uno stemma raffigurante un leone su un campo giallo sabbia.
     
    Loren il Giusto, era un uomo vissuto, dagli occhi verdi e dai capelli sempre tinti di un color turchese, come la barba, con cui, probabilmente, voleva seguire la moda tyroshi o nascondere la natura brizzolata della sua età.
     
    Doveva essere stato un vagabondo, o un pellegrino, prima di darsi al mercenarismo. Era un uomo silenzioso, cupo, la cui vivacità veniva fuori prepotentemente solo in battaglia, quando, con un’antica e nobile spada valyriana nella mancina e un uncino a destra, in sostituzione della mano ormai mancante, si gettava contro tutti e tutto, quasi volesse cercare la morte a tutti i costi. Giunto dal nulla, senza un cognome e senza un passato, si era fatto presto largo tra l’alto comando delle Iene Maculate, e ora comandava e guidava la compagnia, da lui fondata, con astuzia e intelligenza. Grazie all’uso impeccabile della cavalleria, forse seconda solo a quelle dei grandi khalasar del Mare Dothraki, era sempre riuscito a vincere tutte le battaglie che aveva affrontato. Pur non provando mai interesse per i giochi politici e gli intrighi di sovrani e triarchi, era continuamente ricercato e assoldato da tutte e tre le città sorelle, che ne volevano i servigi. Ma lo stipendio tardava ad arrivare e probabilmente non sarebbe più giunto. La compagnia, quindi, era in quel momento senza padroni.
     
    I veri padroni delle terre contese, erano le compagnie di mercenari stesse. Chi più, chi meno, tutte anelavano ad allargare i propri confini e a scontrarsi senza tregua e senza pretesti con altri mercenari, al fine di farsi un nome che potesse richiamare la gloria dei grandi comandanti della Compagnia Dorata, dei Secondi Figli o dei Corvi della Tempesta, che da anni avevano lasciato quelle terre per dirigersi verso la baia degli Schiavisti prima, dei Draghi poi e delle Piramidi infine.
     
    L’accampamento dei Leoni del Deserto era situato non molto lontano dal confine orientale delle terre contese. Nell’entroterra, arroccato su di una collina, vicino ad un piccolo lago di acqua dolce. Un fossato ai piedi della collina, una palizzata e piccoli avamposti tutt’intorno, lo rendevano inespugnabile.
     
    Quando Trego fece il suo ingresso nella tenda, Loren stava mangiando, da solo, un cena povera e frugale con birra ormai calda.
     
    «Comandante, scusate l’interruzione, torno dagli avamposti. Le sentinelle non hanno riportato novità durante i pattugliamenti di questa notte. Tranne quelle mandate a est, che hanno avvistato compagnie di mercenari smobilitare i propri campi e marciare verso oriente».
     
    «Bene. Siediti, serviti se vuoi» rispose Loren, indicando la birra.
     
    «Grazie Comandante, ma preferisco non bere fino alla fine del mio turno».
     
    «Come preferisci. Se non hai altro da riferire puoi anche prenderti la serata libera» fece un cenno con la mano, per congedarlo.
     
    Trego rimase qualche istante in silenzio, non ancora pronto a prendere congedo. Spostò il peso da un piede all’altro, poi prese coraggio. «Ci sarebbero delle voci» esordì. Il comandante, continuando a sorseggiare birra, non molto sorpreso, attese che continuasse «Le tigri di Volantis vogliono espandere i loro territori verso l’antica Valyria, e stanno assoldando mercenari da tutte le Terre Contese. Si dice che paghino con oro di Meereen» proseguì il ragazzo.
     
    «Valyria… Che opinione ti sei fatto?» chiese pensieroso Loren.
     
    Trego era sempre onorato dal fatto che il Comandante, sempre più spesso, chiedesse la sua opinione in merito a svariati argomenti. Rispose brevemente, con onestà. «Siamo a corto di rifornimenti. Abbiamo bisogno di denaro per mantenere la cavalleria e gli uomini vogliono essere pagati, signore».
     
    Loren assentì con un cenno del capo, visibilmente d’accordo con quelle parole e il ragazzo trattenne a stento un sorriso. «Ordino agli uomini di smobilitare e prepararsi a marciare verso l’Orange Shore, signore?» domandò.
     
    «Non serve, gli uomini rimangono qui. Il comando passa ad Adrian il Giovane. Andremo solo noi due. Prepara il mio cavallo, ho intenzione di partire subito».
     
    §§§
     
    Una notte, dopo una decina di giorni dalla loro partenza, Trego era intento ad aggiungere legna al fuoco del bivacco accanto al quale lui e Loren si stavano scaldando, quando lo sguardo gli cadde, come spesso succedeva, sull’uncino che il comandante portava agganciato al polso destro. Erano anni che il ragazzo si chiedeva come il superiore avesse perso l’arto, e, più che una curiosità, saperlo era diventata un’ossessione. Durante i lunghi giorni trascorsi a cavallo, fianco a fianco, il ragazzo aveva spesso intavolato discorsi più o meno personali e Loren aveva assecondato il suo chiacchiericcio senza però partecipare attivamente alla conversazione. Eppure, Trego aveva sentito crescere tra loro una sorta di muto cameratismo e, ora, si sentiva pronto a porre il quesito sul quale si arrovellava fin da quando i due si erano conosciuti nelle Iene Maculate. Si schiarì la voce, sperando che non gli tremasse troppo.
     
    «Comandante… io…» si interruppe. Loren seguì il suo sguardo e con un cenno della mancina, nella quale reggeva una bisaccia di vino, lo invitò a proseguire. «Ecco, mi domandavo… come avete perso la mano?» chiese alla fine.
     
    L’uomo alzò l’uncino che, alla luce del fuoco, mandava sinistri bagliori. Rimase in silenzio per un pezzo e Trego pensava che non gli avrebbe più risposto quando infine si decise a parlare. «E’ una lunga storia. Vecchia e sepolta nel tempo.»
     
    «Mi piacciono le storie» lo incoraggiò il ragazzo «Soprattutto quelle antiche. Quand’ero piccolo i mercenari si divertivano a raccontarmene… anche se credo che la maggior parte fossero inventate.»
     
    «Questa è vera, ragazzo» replicò Loren. Il suo sguardo si perse nuovamente nei bagliori rossastri delle fiamme che rischiaravano una piccola porzione di campo. Tutt’attorno, le tenebre erano più fitte che mai.
     
    «Da dove cominciare? Sai, la perdita della mano è stata quasi banale, a dire il vero. Ma il punto è che quello è stato solo il culmine di una serie di eventi concatenati tra loro. Tutto è iniziato con una guerra. Una guerra per una donna, per la verità. Che ragione più antica, più pura dell’amore di una donna? Sei mai stato innamorato, Trego?»
     
    Il ragazzo scosse la testa. Aveva giaciuto con alcune donne, alcune dietro compenso e altre per il semplice fatto che il sangue dei suoi genitori si era mescolato in lui generando un volto dai tratti armoniosi, mentre il costante allenamento e le molte battaglie avevano forgiato un corpo tonico e muscoloso, desiderabile per le fanciulle. Ma l’amore no, non sapeva che sapore avesse.
     
    «Un giorno, capirai. Non c’è nulla che un uomo non farebbe per amore, ragazzo. Nulla.»
     
    «Muovere una guerra, per esempio?»
     
    «Quello. Mentire. Uccidere un innocente. Andare contro ogni legge degli dei e degli uomini. Io l’ho fatto.»
     
    «E lei com’era, comandante?». Trego ormai pendeva dalle labbra di Loren.
     
    «Bella, inutile dirlo. La più affascinante che si sia vista nei continenti conosciuti e anche nelle terre inesplorate, sarei pronto a scommetterci. Era sensuale, forte, volitiva… una leonessa.»
     
    «Per questo avete scelto il leone come simbolo della vostra compagnia?»
     
    «Cosa?» per un attimo Loren parve disorientato. «Oh sì, per questo, naturalmente.»
     
    «E poi, cosa accadde? Quella guerra, la vinceste?»
     
    «Alla fine, sì, la vincemmo. Ma a quel punto avevo già perso la mano della spada e anche molto, molto altro, anche se all’epoca ancora non lo sapevo. Dammi da bere, Trego. Questa storia dev’essere accompagnata da un po’ di vino.»
     
    Il ragazzo obbedì, andò a riempire la bisaccia ormai vuota e la passò al comandante che bevve un lungo sorso prima di restituirgliela. Anche Trego bevve, ma poche gocce soltanto.
     
    «Ci fu una battaglia… avevo sottovalutato il mio avversario, il lupo grigio. Era poco più di un cucciolo, maledetto lui. Eppure, riuscì a giocarmi e mi fece prigioniero.»
     
    «E fu lui a mozzarvi la mano?» chiese il giovane, incapace di trattenersi.
     
    «No, lui no. Era onorevole, lui» Loren sputò la parola come un insulto «come suo padre, come tutta la sua dannata stirpe. Ma fu proprio questo a farmi riconquistare la libertà. L’onore di una lupa che voleva indietro le sue lupacchiotte.»
     
    Trego si sentiva un po’ confuso dal racconto, ma non osava chiedere spiegazioni. Intanto, gli occhi del comandante, man mano che attingeva dalla bisaccia, si andavano appannando.
     
    «La vergine… l’orso» sussurrò dopo una lunga pausa, rivolto più a se stesso che al ragazzo.
     
    «Fu l’orso a strapparvi la mano?» insistette Trego, che stava perdendo il filo del discorso.
     
    «L’orso? No, fu il caprone… un misero caprone nero di Qohor.»
     
    «E il lupo grigio?» volle sapere il giovane. La dinamica della perdita dell’arto non gli era per niente chiara, ma almeno voleva sapere che fine aveva fatto un avversario tanto abile da riuscire, nonostante la giovane età, a mettere nel sacco il suo comandante.
     
    «Era tanto audace, quanto stupido. È morto per amore… te l’ho detto, gli uomini farebbero di tutto per amore» rispose Loren.
     
    «E la leonessa?» domandò ancora il giovane, incapace di trattenersi.
     
    «Perduta… perduta per sempre» La voce del comandante era colma di autentico dolore. Scosse la bisaccia, di nuovo vuota. «Adesso dormi, domani raggiungeremo l’accampamento delle tigri. Faccio io il primo turno di guardia».
     
    Trego avrebbe voluto sapere di più, ma il tono di Loren non permetteva repliche, così andò a coricarsi. La stanchezza del viaggio ebbe la meglio sui suoi pensieri e, in breve, il ragazzo si addormentò. I suoi sogni quella notte furono strani e confusi, popolati dai più svariati animali.
     
    §§§
     
    La mattina seguente raggiunsero l’accampamento delle tigri, situato lungo la riva. Decine di compagnie e di mercenari solitari erano accampati sulla spiaggia e continuavano ad arrivarne di nuovi con l’intento di farsi assoldare dai volantiani.
     
    Trego annunciò ad una sentinella che il comandante dei Leoni Dorati voleva incontrare chi dirigeva le operazioni. Dopo una rapida occhiata, l’uomo si allontanò in direzione di un padiglione regalmente addobbato che, dall’alto di una piccola duna, controllava tutta la costa. Dovettero aspettare ore prima di essere ricevuti da Jaeron Maegyr ma, alla fine, fu loro concesso l’ingresso nella tenda.
     
    «Abbiamo saputo che assoldate mercenari» esordì Trego, senza troppi preamboli. Era sicuro che quell’uomo fosse stanco di ascoltare gli interminabili sproloqui di tutti coloro che andavano a proporgli i propri servigi. Il ragazzo aveva imparato che il potere degli uomini spesso era inversamente proporzionale alla loro pazienza, quindi andò subito al sodo: «Veniamo a nome dei Leoni del Deserto. Questi, è il comandante della Compagnia, Loren il Giusto. Io sono al comando della cavalleria, la più temuta di tutte le terre contese. Siamo qui per chiedervi le vostre condizioni, mio signore»
     
    «Maestà» lo corresse l’uomo, con un sorriso affilato «Avete l’onore di parlare direttamente con il monarca di Volantis»
     
    A quanto ricordava Trego, Volantis era un triarcato, non una monarchia. Si sentì spiazzato e, non essendosi mai trovato di fronte ad un sovrano, non sapeva bene come comportarsi. Fu quasi sul punto di piegare il ginocchio, ma il comandante gli afferrò il gomito appena prima che si chinasse. Fece un passo avanti e prese la parola, con autorevolezza. « Le vostre condizioni, Maestà» disse, chinando leggermente il capo.
     
    Il volantiano rimase per un momento in silenzio, scrutando Loren come a valutarne le capacità, mentre continuava a sorseggiare vino da una coppa cesellata in argento. «Quanti uomini avete nella vostra compagnia?» lo interrogò alla fine.
     
    «Tremila uomini, maestà. Duemila fanti e mille cavalieri, se ti compiace»
     
    «Numero interessante per una compagnia delle terre contese, immagino abbiate già chi vi paga per mantenere un così alto numero di mercenari» rifletté Maegyr, quasi parlando a se stesso.
     
    «È così» fece Loren, laconico, e Trego non poté fare a meno di ammirare il contegno del suo comandante.
     
    «E venite da me a chiedere un ingaggio? Quale garanzia ho, che mi rimaniate fedeli?» domandò il monarca, con tono leggermente provocatorio.
     
    «Il tuo oro, maestà» rispose Loren, senza alcun tentennamento. Guardava il suo interlocutore dritto negli occhi, verdi come i suoi ma di una tonalità più scura, meno brillante. Il monarca ne sostenne lo sguardo, rifletté, poi sorrise.
     
    «Molto bene. A queste condizioni posso offrirvi il doppio di quanto abbiate mai preso dalle città sorelle.»
     
    Era un’offerta generosa e Trego rimase allibito quando il comandante osò rilanciare.
     
    «Tre volte tanto» disse «Il morbo grigio di Valyria ha un prezzo»
     
    Jaeron Maegyr lo fissò a lungo e Trego si domandò se Loren non avesse tirato troppo la corda, perdendo l’ingaggio. Alla fine, però, il monarca fece un cenno affermativo.
     
    «Fatevi dare un anticipo. Accampatevi dove preferite, ma tenetevi pronti la partenza non tarderà» disse, congedandoli con un molle gesto della mano, ma Loren lo soprese con la sua risposta.
     
    «I miei uomini sono già accampati nelle terre contese, in attesa, vostra maestà» disse il comandante dei Leoni delle Sabbie, chinandosi e voltandosi per andarsene.
     
    Per l’ennesima volta, Trego pensò che Jaeron Maegyr fosse sul punto di perdere la pazienza e, in effetti, il monarca stava per replicare quando fu interrotto dall’ingresso non annunciato di tre bellissime donne. Entrarono nella tenda come se fossero state le padrone di quel luogo e quella dall’atteggiamento più spavaldo e quasi indolente si avvicinò al sovrano, senza degnare di uno sguardo alcuno dei presenti.
     
    «Ecco il tigrotto addomesticato del re» esordì, muovendosi come una pantera verso Jaeron «Da parte di Daario Naharis». Gli porse una lettera, fissandolo sfrontatamente negli occhi. Il volantiano la prese con un gesto brusco.
     
    «Chiamami ancora in quel modo e te ne pentirai» ringhiò Maegyr «In quanto a voi, siete congedati» fece, rivolto a Loren e Trego. Solo in quel momento anche la donna parve rendersi conto della loro presenza. Si voltò e squadrò il comandante «Un tyroshi… ho già assaggiato un tyroshi dai capelli blu» disse, annoiata, rivolgendo la sua attenzione sul ragazzo «Ma un giovane meticcio dothraki…» Gli si avvicinò fino ad accarezzare il volto di lui con la sua guancia. Si passò lentamente la lingua sulle labbra carnose e, con voce calda e suadente, gli parlò all’orecchio «Ho voglia di te. Perché non mi raggiungi sulla mia nave questa notte?» disse mentre con la mano sinistra raggiungeva e accarezzava lentamente, senza vergogna, le qualità di Trego.
     
    «Ora basta!» tuonò il re. La donna proseguì imperterrita il suo massaggio per qualche altro secondo prima di allontanarsi di malavoglia dal guerriero. «Ragguagliami»
     
    Loren ne approfittò per prendere Trego per un braccio e condurlo fuori dalla tenda. Mentre uscivano, udirono la donna riferire qualcosa a proposito di una flotta della Rhoyne e di un compito portato a termine a nord.
     
    «Non ti consiglio di accettare il suo invito» fece Loren, una volta che furono di nuovo all’aperto.
     
    Trego si portò le mani al basso ventre per nascondere l’erezione, arrossendo.
     
    «La conoscete, comandante?» domandò.
     
    «Lady Korra, capitano di una nave di bellissime fanciulle pirata, che evirano ogni uomo che cade nelle loro grinfie» lo informò Loren, sorridendo appena. Trego sentì l’eccitazione scemare rapidamente.
     
    «Ma a cosa si riferiva? Parlava di un altro Re e di un compito portato a termine nel Nord»
     
    «Quanti altri re pensi possano essere tanto potenti da dare ordini al monarca della più grande città di Essos?» lo interrogò il comandante e Trego non dovette riflettere a lungo.
     
    «Daario Naharis, nessun altro» rispose con sicurezza. Loren assentì con un cenno.
     
    «Esattamente. E cosa c'è a Nord lungo la Rohyne che può meritare l'attenzione di due grandi sovrani del sud?» domandò ancora. Di nuovo, Trego non ebbe difficoltà a trovare la risposta.
     
    «Lorath, Norvos, Qohor, Braavos… le città libere. Ma se il sovrano della Baia punta alla conquista delle città libere, che cosa c’entra Maegyr? E Valyria?»
     
    «Valyria non c’entra nulla» spiegò Loren «con tutta probabilità le nostre sentinelle hanno udito delle voci e le voci, si sa, man mano che si spandono perdono aderenza con la realtà. Per il resto… probabilmente i due sovrani si sono alleati per la conquista e la spartizione del territorio, ma dubito che al momento di ripartirsi bottino e città riusciranno ad addivenire ad un accordo soddisfacente.»
     
    «Pensate che si tradiranno?» chiese Trego, gli occhi spalancati per lo stupore.
     
    «Ne ho praticamente la certezza, mio giovane amico.»
     
    «E a quel punto che faremo?»
     
    «Quello che fanno da sempre gli uomini con un minimo di cervello. Ci alleeremo con quello che ha più probabilità di vincere. E adesso basta perdere tempo in chiacchiere: abbiamo del denaro da ritirare. Una montagna di denaro.»

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    Capitolo 9
    *** YOHAN ***


    YOHAN
     
    Le Rills erano una distesa pianeggiante del Nord occidentale, bagnata dalla Baia Infuocata e chiusa da due fiumi che la separava a nord dalla costa pietrosa e a sud dalle Terre dei Tumuli. Si trattava di una regione dai litorali uniformi rispetto alle tozze e frastagliate insenature di Capo della Piovra. Le due foci dei fiumi principali, il cui corso raggiungeva l’interno, fino alle foreste, erano gli sbocchi da cui le chiatte mercantili trasportavano il legname delle foreste settentrionali, verso il lungo estuario di Lancia di Sale, la strada marittima del Moat Cailin. L’estuario ospitava i principali porti che poi avrebbero accolto e trasportato il legame in tutto il continente.
     
    Per intercettare le rotte dei mercantili e delle chiatte di legname, della regione, una ventina di navi lunghe del Lord Comandante della Flotta di Ferro perlustrava quelle acque, in attesa di poter cogliere l’attimo migliore. Yohan aveva mandato Capelli Verdi di vedetta su di un’altura della costa, affinché avvisasse i compagni, appena all’orizzonte fosse comparso un convoglio notevole da poter assaltare. Le navi di Ferro erano spiaggiate e nascoste all’interno di un’insenatura, pronte ad uscirne all’improvviso e attaccare di sorpresa i vascelli che navigavano lungo la costa.
     
    Aspettarono per diversi giorni, nascosti e lontano dai villaggi, senza essere avvistati o avvicinati da nessuno.
     
    Yohan era sempre il primo ad alzarsi, l’ultimo a sedersi attorno al bivacco per consumare un pasto frugale, e prima di coricarsi si assicurava che tutti i suoi uomini avessero mangiato abbastanza e bevuto il giusto da non essere ubriachi o scontenti per quell’inattività. Non lontano da loro probabilmente sorgevano villaggi facili da razziare, ma che nulla di buono avrebbero dato alla rinascita del popolo di Ferro. Doveva tenerli calmi e assetati allo stesso tempo, sorvegliarli costantemente, ma lasciarli audaci e arditi. Forse si comportava come fa un padre con i suoi ragazzi, ma non lo era mai stato un padre, e non poteva saperlo. Si era ritrovato sull’ Abisso un equipaggio stravolto e rivoluzionato: prima della partenza da Pyke, ad alcuni uomini e donne della sua ciurma erano stati affidati compiti diversi che li avevano portati a lasciare la nave. Altri erano arrivati. Non potendo contare sui Farwynd di Luce Solitaria, di cui non aveva più avuto notizia, non che l’avesse cercata, e non conoscendo abbastanza i Farwynd di Vecchia Wyk, i nuovi marinai erano per lo più parenti e amici dagli Harlaw di Giardino Grigio, sui cui, anche se indirettamente, poteva confidare con più sicurezza, come Devyn e Layca, guerriere di ferro di Harlaw, che bevevano tanto alcol quanto gli uomini di ferro, senza esclusione del rum, l’intruglio violento che incitava alla guerra tutti i pirati del mondo conosciuto. Due ragazze, ormai donne, che andavano a rimpiazzare i vuoti delle figlie di Hotho Netley, Valkya e Arwyn, che con altri cinque o sei uomini e Balaq Rematore Nero erano partiti per Essos. Non poteva certo dirsi rammaricato, vedere Balaq allontanarsi definitivamente da Enya, lo aveva fatto, egoisticamente, gioire. Una felicità che non durò a lungo, quella donna, a cui il suo cuore era tornato ad appartenere più forte di prima, era entrata al servizio della nuova regina e Yohan non faceva altro che pensare che l’affetto che stava nascendo tra le due donne, avrebbe condotto Enya in un baratro ancora più profondo. Sembrava quasi voler sostituire il figlio, ormai perduto, con Kein. Una regina sfrontata, spontanea e affascinante, che il Dio degli Abissi aveva graziato e riportato in vita, lo stesso Dio che non aveva concesso clemenza ad Enya.
     
    Quei pensieri e quelle preoccupazioni, erano fortunatamente attenuati dal nuovo compito. Assaltare le navi del Nord non era poi così difficile: quegli uomini difficilmente si sarebbero aspettati di trovare una flotta di ferro nelle loro acque e probabilmente le avrebbero trovate indifese. L’obiettivo era quello di non permettere che qualcuno desse l’allarme. Pur di non far arrivare la notizia di un possibile attacco degli uomini di ferro in quei mari, l’ordine era di non lasciare testimoni. Ma per il momento, erano state avvistate solo piccole imbarcazioni solitarie, o piccoli gruppi di chiatte fluviali, che, da sole, rasenti la riva si immettevano nella Lancia del Sale. Miseri bottini.
     
    Dopo una settimana lontano dalle Isole, la fortuna andò loro incontro.
     
    Ad informare Yohan fu il nocchiere Charun, accompagnato da un nuovo membro dell’Abisso Ryden l’Orso di Ferro, poiché si diceva che la sua famiglia provenisse dall’Isola dell’Orso, quando ancora erano gli Uomini di Ferro a governare su quell’isola. «Capitano, un convoglio di almeno cinque lunghe galee mercantili, e altre chiatte minori al seguito, si dirigono verso di noi. Navigano a distanza dalla riva delle Rills, non riusciremo a prenderli di sorpresa»
     
    «Attacchiamo subito al suono dei tamburi di guerra, avanziamo velocemente e coi i rostri di ferro sfondiamo i loro scafi» aggiunse Ryden eccitato dall’imminente scontro.
     
    «Speronare quelle navi non ci porta vantaggio, ci servono integre, magari con gli equipaggi incolumi» rispose Yohan pensieroso sul da farsi «Dobbiamo mostrarci amichevoli e cordiali, abbiamo i vessilli del Nord?» chiese con un sorriso beffardo a Charun.
     
    «Certo Capitano» rispose quello, complice, poi la sua treccia bianca andò ad impartire ordini a tutti i vascelli, che issarono vele anonime e stendardi di vecchie e, forse, ormai estinte, antiche famiglie del Nord, che erano stati razziati e conservati come trofei durante i saccheggi commessi dal Re Balon Greyjoy.
     
    Ryden rimase ancora basito a quelle parole, non capendone il significato. Yohan non sprecò tempo per spiegargliele e si allontanò per raggiungere l’Abisso. Si rendeva conto che i Predoni delle Isole non erano i Pirati dell’Estate. Razziatori e saccheggiatori i primi, erano sempre pronti ad attaccare, a testa bassa, villaggi, porti e città. Ma Yohan aveva vissuto abbastanza a lungo nei mari orientali per imparare e capire un mondo che faceva dell’inganno e del tradimento i propri punti di forza. Soprattutto quando ad opporsi non erano popoli temprati dal freddo e dall’odio, come potevano essere gli Ironborn e gli uomini del Nord, ma grandi velieri alberati, equipaggi e capitani con la stessa cultura e la stessa origine, il cui obiettivo era una ricchezza duratura e commerciale e non cimeli da riportare ed esibire nella propria terra d’origine.
     
    Le navi lunghe, con l’Abisso, la Maelstorm e la Maremoto al centro, avanzavano lentamente e pacificamente verso i mercantili, ponendosi a mezza luna tra la costa e le loro prede. Quelle rimasero docili alla vista degli stendardi, che riconoscevano come amici e alleati. Una scorta, o una piccola flotta del nord diretta a Seagard, stava andando loro incontro e questo li faceva sentire al sicuro. Uno svago diverso e, forse, una storia da raccontare ai figli e agli amici, diversa dalla monotonia della loro giornata di lavoro.
     
    Lontani erano quegli anni passati a difendersi e subire gli attacchi delle navi lunghe della piovra.
     
    Giunti ad una distanza che permetteva agli equipaggi di salutarsi, i medesimi marinai che sopraggiungevano, privi delle tipiche armature ferrose natie, dagli stessi lineamenti e volti delle ciurme mercantili di quella regione del Nord, salutavano felici i compagni a cui andavano incontro. Dopotutto il sangue di ferro e il sangue di quegli uomini, nati lungo tutta la costa occidentale del nord, era così affine, che gli uomini del Nord di Winterfell, di Karhold, di Forte Terrore o di Porto Bianco, in confronto erano alla stregua di forestieri di una stirpe diversa.
     
    Quando comparvero le lame degli Uomini di Ferro, fu troppo tardi per i capitani e gli equipaggi delle galee e delle chiatte mettersi in salvo. Come artigli di un lupo, gli Ironborn afferrarono le loro vittime e bevvero il loro sangue. Yohan, seguito dai suoi uomini sul ponte della nave nemica, iniziò a mulinare fendenti verso i pochi avversari che si gettavano contro di lui. Asce e spade si immergevano nella carne nemica senza duelli onorevoli o danze armoniose. In pochi minuti, i guerrieri, e i predoni di ferro, piovvero addosso a quei mercanti sorpresi e indifesi. Gli esigui difensori armati delle galee, che tentarono una disperata offensiva, furono accolti dal Dio Abissale, gli altri, inermi, resi prigionieri. Una vita di servitù nelle miniere o nei campi delle isole avrebbe riempito le loro future giornate. Le poche donne presenti, stuprate e forse poi sposate, avrebbero vissuto la loro vita ad annidare terrore e covare odio nei loro occhi.
     
    La stessa sorte toccò alle altre galee assaltate dalle altre vascelli di ferro. Le chiatte rimasero legate alle navi principali, mentre i marinai, di quelle, si gettarono in acqua con la speranza di raggiungere la costa. Ma per quanto nuotassero velocemente, il ferro delle isole li raggiunse prima.
     
    «Capitano, qui non c’è nulla. Stive piene di assi di legno, niente che abbia valore» disse Ryden, raggiungendo Yohan sulla tolda.
     
    «Oggi è quel legno ad essere l’oro che noi uomini di ferro aneliamo»
     
    «Navi… nuove lunghe navi di ferro» disse il ragazzo, ora incantato alla vista di quel bottino.
     
    In quei giorni altre piccole flotte di ferro assaltarono e catturarono mercantili, per lo più solitari, che trasportavano legna o altre merci che dal nord partivano per raggiungere i mercati e i porti del sud.
     
    Nei mesi seguenti altri vascelli, sempre in numero trascurabile e in modo e misterioso, sparirono lungo la costa occidentale del Nord. Nessun testimone tornava a raccontare l’accaduto. Rimanevano solo voci di fantasmi e demoni, sorti dalle onde per reclamare le loro prede, che divennero oggetto di discussione dei marinai ubriachi delle taverne della Costa Pietrosa.

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    Capitolo 10
    *** KEIN ***


    KEIN
     
    Il fendente piovve dall’alto come un fulmine a ciel sereno e Kein fece appena in tempo ad alzare il braccio dello scudo. Una pioggia di schegge di legno schizzarono tutt’intorno e la potenza del colpo le si riverberò fino alle spalle. Riuscì a respingere a mala pena l’attacco e si spostò di lato per prendere l’avversario al fianco, ma lui fu lesto ad intercettare il colpo e le spade si incrociarono con un secco rumore di acciaio contro acciaio. Fu costretta a passare di nuovo in difesa, parando una serie di affondi, rapidi e precisi, una pioggia che sembrava provenire da ogni direzione. Strinse i denti, cercando di dimenticare il dolore lancinante alla mano sinistra, non ancora guarita, che si faceva più intenso ogni volta che stringeva le cinghie dello scudo di quercia bordato di ferro, il sudore che le colava negli occhi e la spossatezza generale. Cercò di ricordare ogni insegnamento, ogni trucco: prese fiato e partì al contrattacco, compensando l’inferiorità fisica con l’agilità e la velocità. Aveva imparato a sfruttare la snellezza e flessuosità del suo corpo per confondere l’avversario, invitandolo ed esponendosi per poi togliersi all’ultimo istante dalla linea di tiro, ruotare su se stessa e attaccare il nemico nel momento in cui era più vulnerabile e sbilanciato. Provò a mettere a segno un colpo fingendo di buttarsi a destra e poi scartando all’improvviso a sinistra e la lama riuscì a colpire l’armatura di piatto, con clangore.
     
    «Molto bene mia regina» si congratulò il cavaliere. «Con una spada vera e un attacco di taglio mi avresti procurato una bella ferita.»
     
    «Ho bisogno di una pausa» ansimò Kein, andando a posare spada e scudo sulla rastrelliera, seguita da Shin. Andarono a sedersi in un angolo del cortile, all’ombra, e la ragazza mandò un servitore a prendere acqua fresca addolcita e qualcosa da mangiare. Si lasciò cadere pesantemente a terra, con un gesto molto poco regale, distese le gambe e chiuse gli occhi, godendosi quel raro momento di pace.
     
    Dalla cerimonia dell’incoronazione e giuramento di fedeltà, non c’era stato un attimo di tregua per Kein. Innanzitutto, c’erano stati i preparativi per la partenza di Cersei Lannister: Yohan aveva messo a disposizione la nave mercantile sulla quale era giunto alle Isole di Ferro mesi prima, un’imbarcazione orientale, facilmente camuffabile, sulla quale si erano imbarcati anche Balaq e le sorelle Netley oltre a un manipolo scelto di uomini di fiducia, fedeli alla corona, almeno sulla carta. Kein non avrebbe messo la mano sul fuoco per nessuno, soprattutto non per la leonessa di Lannister. Dopo il concilio, aveva provato nuovamente a parlare di lei con Shin, ma questo non aveva contribuito affatto a rassicurarla. Era evidente che il suo uomo provava molto rispetto per la ex regina, ma questa ammirazione derivava più che altro dalla spregiudicatezza con la quale Cersei era riuscita ad ottenere tutto ciò che bramava… e questo, a Kein, non piaceva per niente. Quello di cui lei aveva bisogno era la certezza di non essere pugnalata alle spalle nel momento del bisogno e, sfortunatamente, era proprio l’atteggiamento che aveva permesso a quella donna di prendere e mantenere il trono di spade. Si augurava che Jaeron Maegyr, al quale nel frattempo era stata inviata una missiva che Kein aveva personalmente esaminato, fosse un uomo d’onore, ma la giovane non sapeva nulla di lui e la speranza era un terreno insidioso e cedevole su cui poggiare i piedi.
     
    Un’altra grave preoccupazione riguardava i Farwynd di Luce Solitaria. Era passato parecchio tempo, ormai, troppo per imputare la loro assenza a qualche intoppo di viaggio o qualsiasi altra scusa per non essersi ancora presentati a prestare giuramento, ma Kein non osava interrogare Yohan in proposito. In tutta onestà, poteva capire che la famiglia dell’uomo che aveva assassinato non avesse fretta di mettersi al suo servizio. Tuttavia, aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile e, soprattutto, non poteva permettersi altri nemici. Anzi, cominciava a chiedersi se avesse fatto la scelta giusta a lasciare libero Harras Harlaw… sperò che in quell’uomo fosse rimasto abbastanza onore da non permettergli di mettere in pericolo i suoi fratelli solo per vendicarsi di lei.
     
    Questi crucci, uniti alle udienze, gli allenamenti e le sedute del concilio le stavano togliendo le forze. Sempre più spesso si chiedeva se non fosse stata avventata ad accettare l’accordo con Kaplan, ma per quanto ci riflettesse, non riusciva a pensare a che altra scelta avrebbe potuto fare. Eppure, la responsabilità che le gravava sulle spalle era così grande… stava facendo la cosa giusta? O stava per mandare a morte la sua gente? Avrebbe condotto il suo popolo verso la gloria o verso lo sterminio? Questi interrogativi la tormentavano come acciaio rovente sulla pelle. Gli unici momenti in cui riusciva ancora a provare un poco di serenità erano gli attimi rubati tra le braccia di Shin. Kein sentiva l’amore per il cavaliere crescere dentro di lei in maniera lenta e costante, permeando ogni fibra del suo essere. Il desiderio di averlo accanto ufficialmente e non solo tra le lenzuola era un altro tarlo che la rodeva. Ogni volta che gli impartiva un ordine davanti al concilio si sentiva in colpa e nonostante lui ne ridesse nell’intimità, Kein gli leggeva negli occhi il desiderio di dichiararla sua, una volta e per sempre. Né a lui né a Kein, infatti, erano sfuggiti gli sguardi degli alti lord delle Isole. Non erano riusciti a mettere le mani sulla corona del mare con l’acclamazione di re, ma avrebbero potuto ottenere parte del potere tramite matrimonio.
     
    “Non posso pensarci, non ora…” accantonò il problema. Una cosa per volta, si disse.
     
    «Vostra grazia». La voce del servitore la riscosse dai suoi pensieri. «Si avvicina l’ora delle udienze.»
     
    Incrociò lo sguardo di Shin. «Bene, cavaliere, direi che per oggi il nostro allenamento si conclude qui. Fa’ schierare le guardie nella sala del trono. Tu» disse all’uomo che le aveva portato la notizia «va’ a dire alle mie ancelle che mi preparino un bagno. Non posso presentarmi in queste condizioni.»
     
    Era sporca, sudata e impolverata e aveva bisogno di rendersi presentabile. Ogni volta che compariva in pubblico si rendeva conto dello sguardo dei nobili che la frugavano in cerca di un pretesto qualsiasi per mettere in discussione le sue decisioni e il suo modo di gestire il regno.
     
    Si alzò controvoglia, sentiva la testa pesante e una grande stanchezza, come spesso accadeva negli ultimi tempi; ma appena si fu tirata in piedi, tutto intorno a lei prese a girare vorticosamente. Shin l’afferrò per le spalle, appena prima che cadesse.
     
    «Mia regina!» disse ad alta voce mentre la sorreggeva. Lei gli si appoggiò al petto, con gli occhi chiusi, cercando di riprendere l’equilibrio.
     
    «Maestà, state bene?» anche il servitore accorse.
     
    «Presto, va’ a prendere dell’acqua addolcita» ordinò Shin «Muoviti!»
     
    Attese che quello si fosse allontanato di gran carriera per stringerla a sé. Le passò una mano sulla fronte, imperlata di piccole gocce di sudore, e sulle guance, più pallide del solito.
     
    «Kein, sei gelata» disse. «Che hai? Vuoi che faccia chiamare il maestro?»
     
    Lei aprì gli occhi, lentamente. Il cuore le batteva ancora troppo forte, ma il cortile aveva smesso di vorticare e il peggio era passato.
     
    «Lascia perdere il maestro» disse «Ci manca solo che giri voce che sono debole o malata. Era solo un piccolo capogiro, ci siamo allenati a lungo e fa decisamente troppo caldo.»
     
    Si allontanò da Shin, con riluttanza, mentre il servo tornava con una brocca d’acqua e una coppa. Bevve avidamente il liquido fresco, dolce, e si sentì subito meglio. Rifiutò il braccio che il cavaliere le offriva e si diresse con passo sicuro all’interno del castello. Sulla schiena sentiva gli occhi dell’uomo che la fissavano: aveva la sensazione che, non appena si fosse ritirata nelle sue stanze, quello sarebbe corso da Kaplan a riferire l’accaduto.

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    Capitolo 11
    *** SHIN ***


    SHIN

    Kein lo aveva congedato davanti alla porta delle sue stanze, dove l’attendevano le ancelle per il bagno e la vestizione, e Shin era rimasto di guardia dietro la soglia, desiderando, invece, di trovarsi all’interno degli appartamenti regali, accanto.
     
    Sotto le dita sentiva ancora la pelle di lei, imperlata di sudore freddo, ghiacciata come quella di un cadavere. La sensazione del suo corpo esangue, abbandonato, permaneva sulle sue braccia, sul petto dove lei aveva poggiato il capo e Shin era pervaso da un senso di impotenza, come se quell’episodio fosse il preludio o il presagio di qualcosa di terribile.
     
    Dalla notte in cui si erano parlati per la prima volta, Kein era stata più volte in pericolo di vita e lui avrebbe dovuto essersi ormai abituato al fatto che la sua donna non era una delle lady del Continente alle quali era abituato, ma una guerriera, una regina che avrebbe sempre combattuto in prima fila con i suoi uomini, con la spada in pugno, fino alla vittoria. “O alla morte” pensò, appoggiandosi alla parete.
     
    Eppure, il desiderio di proteggerla era sempre presente nel suo cuore. Per quanto lei i mostrasse forte e determinata, per quanto abile stesse diventando con la spada, agli occhi di Shin restava sempre la fanciulla che aveva pianto raccontando la propria storia, che aveva tremato fra le sue braccia, che con la sua fragilità nascosta aveva risvegliato la parte migliore di lui, un pezzo di sé che Shin, fino a quel momento, non sapeva nemmeno esistesse.
     
    Quando Enya Harlaw giunse a dargli il cambio, il cavaliere si incamminò di mala voglia verso la sala del trono. Da quando Kein aveva cominciato a tenere udienza, quasi ogni giorno affluivano al castello uomini e donne di ogni ceto e rango a chiedere favori, giustizia, cariche, consigli… qualsiasi cosa. La pazienza di Shin, durante quei colloqui, si esauriva dopo pochi minuti, ma restava ogni volta colpito dalla buona grazia con cui la regina ascoltava le suppliche, le rimostranze, le richieste di ognuno. Raramente alzava la voce e, di solito, quasi tutti se ne andavano soddisfatti o, per lo meno, placati. A letto, Kein diceva ridendo che con cinque fratelli più piccoli aveva dovuto imparare per amore o per forza a sedare liti e aggiustare le controversie, ma a Shin sembrava incredibile che una ragazza cresciuta per strada e sul mare riuscisse a gestire quella pletora con tanta assennatezza. L’ammirava, l’amava sempre di più, ma, allo stesso tempo, era insofferente per quella situazione. L’avrebbe voluta tutta per sé e non gli piacevano gli sguardi che gli alti lord le riservavano, sguardi spesso carichi di concupiscenza, o di invidia o, perfino, di disprezzo.
     
    Le udienze, per volere della regina, erano pubbliche; quindi, anche quel giorno, la sala del trono era gremita di spettatori. Shin scrutò i volti dei lord e dei capitani mescolati a quelli dei marinai e della plebe. In certi casi, era difficile perfino distinguerli tanto erano rozzi gli Uomini di Ferro. Eppure, quello era il popolo di Kein, la gente per la quale lei avrebbe sempre lottato. Non doveva dimenticarlo.
     
    Come al solito, il brusio si spense nel momento in cui la sovrana fece il suo ingresso nella sala. La folla si divise per farla passare e Kein camminò nel mezzo, per raggiungere il trono del mare accanto al quale, in piedi, l’attendeva Shin. Era vestita con sobria eleganza, sempre a lutto. Aveva rinunciato al nero di seppia intorno agli occhi perché il viso era talmente emaciato che le orbite scure avrebbero ricordato un teschio e il cavaliere si domandò come avesse potuto non accorgersi del suo deperimento. “Se fosse malata?” si domandò. E subito dopo: “Se Kaplan la stesse avvelenando?” Non era un’ipotesi poi tanto remota, non si fidava di quell’uomo, anche se si rendeva conto che, almeno per il momento, era necessario tenerlo vicino.
     
    Kein raggiunse lo scranno e gli rivolse un impercettibile sorriso. Era soltanto un piccolissimo movimento, ma lui vide chiaramente le labbra morbide di Kein inarcarsi e i suoi occhi dorati scintillare. Non mancava mai di rivolgergli uno sguardo o un cenno, sempre in modo che lui fosse il solo ad accorgersene, come a dire “Tu sei mio e io sono tua, non importa quello che credono gli altri, questa è la realtà”. Si ritrovò a pensare alla formula utilizzata nel rito dei Sette: “Padre, fabbro, guerriero, madre, fanciulla, vecchia, sconosciuto, io sono suo e lei è mia da questo giorno fino all’ultimo dei miei giorni” e si domandò se sarebbe mai riuscito a pronunciare quelle parole all’unisono con lei. Batté le palpebre per scacciare quell’immagine, come se chiunque potesse leggergli sul volto i pensieri che faceva sulla regina.
     
    Un araldo si schiarì la voce e diede inizio formale all’udienza. Il primo a farsi avanti fu un prete del culto del dio Abissale. Era molto in là con gli anni, canuto e quasi stempiato, tuttavia ancora solenne e fiero mentre se ne stava in piedi davanti al trono stringendo con forza un lungo bastone di legno.
     
    Fece un lungo e faticoso inchino alla regina e la salutò come si conveniva alla sua posizione: «Ciò che è morto non muoia mai, Vostra Grazia» disse, tenendo la mano destra chiusa a pugno sul cuore.
     
    «Ma risorga, più duro e più forte» rispose la regina, con il medesimo gesto.
     
    «Il mio nome è Polpo Rosso, sono nato qui a Pyke, maestà» esordì, con voce carezzevole.
     
    «Ogni servitore del nostro dio è il benvenuto» replicò Kein, seguendo il protocollo. «E ora dimmi pure cosa ti ha portato al mio cospetto.»
     
    «Sono qui per servire voi e il dio Abissale, mia regina, con le mie umili forze» a quelle parole mostrò le braccia facendo intravedere, tra le logore maniche della tunica che portava, due arti esili e tremanti «Nubi oscure hanno coperto un piccolo villaggio occidentale dell’isola di Pyke, e temiamo che possano diffondersi su molti altri piccoli villaggi in tutte le più grandi e importanti Isole dell’arcipelago se non corriamo ai ripari in fretta. I miei compagni ed io siamo stati testimoni di inenarrabili eresie» si interruppe.
     
    «Va’ avanti, ti ascolto» lo esortò Kein quando fu chiaro che il vecchio era in attesa di un incoraggiamento. Shin sapeva che Kein non era mai stata una donna devota, come lui, del resto, tuttavia era necessario che in pubblico mantenesse sempre un atteggiamento di timore e reverenza nei confronti del dio Abissale.
     
    «Ecco, vedete, accade che di nascosto contadini e pescatori, pratichino culti stranieri» disse disgustato «Il Dio della Tempesta li ha circuiti e ha portato la loro mente in un caos corrotto e malvagio. Bisogna estirpare la radice, fin quando è tenera, ma noi poveri preti nulla possiamo fare contro uomini infedeli grossi e forti» si inginocchiò lentamente e con fatica «Vi prego, aiutateci a sconfiggere questa malerba, mia regina» concluse chinando il capo.
     
    Kein fece cenno di avvicinarsi a Norjen Harlaw Onda Impetuosa, l’Annegato che aveva presieduto l’acclamazione di re e la cerimonia dell’incoronazione, e parlò con lui a bassa voce qualche istante. Lui annuì più volte alle parole della regina, poi si raddrizzò.
     
    «È importante che il culto del nostro dio non venga mai adombrato da quello dei falsi dei e la nostra regina è stata riportata indietro da Lui perché compia il Suo volere. Per questo motivo, nel nome di sua maestà Kein Greyjoy, regina delle Isole di Ferro, ti saranno concessi cinque giovani Annegati, forti e in buona salute, che ti aiutino a riportare sulla retta via gli uomini del tuo villaggio.»
     
    Il sacerdote sembrava grato per le parole di Norjen e si profuse in ringraziamenti mentre si rialzava faticosamente «Ciò che è morto non muoia mai, Vostra Maestà» ripeté, accomiatandosi, e fu scortato all’uscita da due guardie.
     
    Il successivo era, al contrario del prete, un uomo forte e vigoroso, un Lord di Ferro, Hamon Buonfratello, cugino dei gemelli Buonfratello di Hammerhorn.
     
    «Vostra maestà» disse, inchinandosi profondamente «Hamon Buonfratello, al vostro servizio. Sono lieto di vedervi sul trono del Mare. Io e la mia famiglia siamo stati vostri fedeli sostenitori fin da subito, e già lo eravamo sotto il governo illuminato di vostro padre Euron. Vi vedo in splendida forma e la vostra superba bellezza è seconda solo al giorno in cui foste acclamata regina»
     
    Shin strinse la sinistra sull’elsa della spada. Spesso i lord iniziavano i loro discorsi con simili, sperticati complimenti e Kein era costretta, per non offenderli, a replicare sempre con cortesia e questo gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Sapeva che, prima o poi, sarebbe iniziata una caccia grossa per la mano della sovrana e non riusciva a sopportare l’idea di tutti quei bifolchi intenti a lottare per le grazie della sua donna.
     
    «Tu sei troppo buono mio signore» tagliò corto Kein, con un sorriso di circostanza. «A cosa dobbiamo la tua gradita presenza a corte?»
     
    «Vengo come emissario e rappresentante dei proprietari di miniere di Grande Wyk. Sono stato scelto come messaggero per informare vostra maestà che sull’isola sono in atto continue piccole sommosse. Le teniamo a bada, questo sì, ma questo mette in pericolo l’economia non solo della nostra isola, ma di tutto l’arcipelago»
     
    «E chi sarebbero i capi di questi rivoltosi? Avete catturato qualcuno che possa essere interrogato?» domandò Kein. Si era fatta più attenta e Shin colse la sua tensione. Una rivolta era stata appena sedata e, con una guerra di conquista alle porte, un’altra ribellione avrebbe inflitto danni forse irreparabili.
     
    «Si tratta più che altro di minatori, vostra grazia» replicò Buonfratello «Creano disordini, attaccano le guardie, rifiutano il lavoro…»
     
    «Forse desiderano solo condizioni più umane, mio signore» disse la regina. Né a Shin né, ci avrebbe scommesso, a nessuno dei presenti sfuggì la reazione di Hamon che si irrigidì come se fosse stato colpito in pieno volto.
     
    «Vostra Maestà?» domandò, come se non avesse ben compreso.
     
    «Mi hai sentito, mio lord. Come tu hai detto, la tua famiglia è buona amica della corona, e questo non lo dimentico. Ma non sono regina soltanto dei lord e dei capitani. Sono regina di ogni uomo e donna di ferro e non posso darti dei soldati di supporto se non conosco i motivi che spingono i miei sudditi a ribellarsi. Manderò quindi qualcuno di fiducia a controllare la situazione, qualcuno che mi riferisca. Se sei nel giusto, avrai gli uomini necessari per ridurre al silenzio i ribelli. In caso contrario, troveremo un accordo. È tutto mio signore» concluse. Buonfratello strinse le labbra, si inchinò rigidamente e lasciò la sala del trono.
     
    Shin non aveva mai provato grande empatia per la plebaglia. Ricordava il cammino della vergogna di Cersei Lannister, i sudditi di Approdo del Re che le gettavano addosso frutta marcia ed escrementi, che sputavano ai suoi piedi… le donne la insultavano, gli uomini si toccavano le parti intime al suo passaggio urlando frasi oscene. Era la loro regina e quei bifolchi l’avevano trattata come feccia. Ma lei si era presa la sua vendetta.
     
    Si domandò se quegli uomini, i ribelli di Grande Wyk, avrebbero mai provato gratitudine per la regina che aveva rischiato di inimicarsi il loro lord per difenderli. Oppure sarebbero stati pronti a sputarle addosso, come avevano fatto gli abitanti della Capitale con la leonessa di Lannister? Shin non avrebbe mai compreso fino in fondo l’atteggiamento di Kein, il suo desiderio di prendersi cura di quella gente come se si fosse trattato della sua famiglia. La rivide uscire dalla locanda in fiamme, la giovane prostituta morente tra le braccia… l’avrebbero amata? o sarebbe stata la sua rovina?
     
    Fu riscosso dai suoi pensieri dall’entrata del seguente postulante. Era un uomo di statura media, i cui muscoli e la cui pelle lo identificavano come un esperto capitano di mare. Si presentò con tono deciso, risoluto ma rispettoso: «Vostra maestà, sono Anthor Merluzzo Nero. Vengo da Pebbleton di Grande Wyk, dal villaggio dei pescatori. Sono qui per denunciare le navi del continente. Io e i miei figli pescavamo ormai da giorni nel Golfo, ma poi sono venute le navi del Cipollaro e hanno confiscato tutto il nostro pescato, tutto il nostro lavoro è andato in fumo. E non sono l’unico a cui è capitato, i pescatori che si spingono oltre la vista dell’arcipelago, incontrano tutte, le navi dei ladri delle terre verdi. Io e la mia famiglia siamo poveri, ogni giorno con i miei fratelli e figli prendiamo le nostre piccole barche e ci allontaniamo a pescare i merluzzi del Golfo, vostro padre non ci forniva protezione, sono qui per chiederla a voi, mia regina»
     
    «Ho avuto anch’io i miei problemi con quell’uomo» ringhiò Kein. Non gli aveva mai raccontato nel dettaglio che cos’era successo esattamente, ma Shin sapeva che erano stati i soldati di Seaworth ad ammazzare suo fratello Roan e lei non lo aveva mai dimenticato, anzi, aveva giurato vendetta.
     
    «Abbiamo provato a pescare più vicino alle coste dell’arcipelago» proseguì Anthor «Ma ormai i banchi di merluzzi si allontanano sempre di più dalle Isole, e noi pescatori siamo costretti ad inseguirli fino al continente»
     
    «Parlerò con il lord comandante della flotta di ferro. Organizzeremo delle pattuglie che proteggano i nostri pescherecci» assicurò la regina e l’uomo se ne andò contento, profondendosi in ringraziamenti ed inchini.
     
    Shin spostò il peso da un piede all’altro, gettando un’occhiata a Kein. Il viso di lei era ancora smunto, ma gli occhi, seppur stanchi, brillavano. Fece cenno che entrasse il successivo e fece il suo ingresso Malcolm di Pyke, un fabbro di Lordsport, uno dei tanti artigiani dell’isola costretti a farsi arrivare la materia prima dalle Isole più ricche.
     
    «Vostra maestà, per l’ennesima volta Jon Faccia Ossuta Myre di Harlaw mi ha fatto arrivare un quantitativo errato di metallo. Dice sempre che non ne ha più, ma Harlaw è l’isola più ricca. Non può non averne. Deruba me e deruba voi, vostra maestà. È stato un sostenitore di vostro padre e alla vostra acclamazione l’ho visto sostenere voi. Forse potete parlargli, a voi darà maggior ascolto»
     
    Kein si voltò verso Enya e la lady di Giardino Grigio annuì impercettibilmente.
     
    «Mi assicurerò che ti invii tutto il metallo pattuito» promise.
     
    L’ultimo postulante era un ragazzino cencioso dell’isola di Harlaw. Si fece avanti a piccoli passi impacciati, lo sguardo basso, intimidito dalla folla e dalla sala così grande e ricca, che vedeva per la prima volta. Shin giudicò che potesse avere come massimo undici anni e vide l’espressione di Kein addolcirsi man mano che il piccolo si avvicinava al trono.
     
    Il bambino rimase a lungo in silenzio, in piedi davanti a lei, senza guardarla negli occhi, le mani che, imbarazzate, bisticciavano tra loro. Alla fine, fu Kein ad alzarsi e avvicinarsi a lui e il piccolo finalmente alzò lo sguardo, meravigliato, mentre la regina si chinava per essere alla sua stessa altezza.
     
    «Quanti anni hai?» gli chiese, con un sorriso.
     
    «Un-undici… mia signora» rispose balbettando, le guance rosse come mele mature.
     
    «Anche mio fratello Joryn ha undici anni. È alto più o meno come te. Forza, raccontami come mai sei qui» lo incoraggiò.
     
    «Mi chiamo Jasper, mia signora. Vengo da Harlaw, aye. Mio padre non è potuto venire, è senza una gamba. Ho un piccolo gregge, cioè il gregge è di mio padre, che faccio pascolare in un terreno di proprietà della mia famiglia non lontano da Harlaw Hall. Ormai tre lune fa, i signori del castello hanno oltrepassato i confini del nostro terreno per far pascolare i loro pony, ma non ci lamentiamo di questo» buttò fuori tutto d’un fiato il ragazzino, con aria di scuse «cavalli e pecore si trovano bene tra loro e non si danno fastidio. Ma, poi i signori hanno recintato i campi del nostro terreno e li hanno consegnato ai loro contadini. Adesso, non abbiamo più un terreno grande abbastanza per pascolare il mio gregge. Ma i contadini li conosco, sono brava gente, aye. Poveri quanto noi, o peggio. I nonni di Robin l’orbo, con cui gioco sempre, vengono dal continente, o meglio i loro genitori vengono dal continente, credo. Mio padre vuole restituito il terreno, ma quando siamo andati dal lord, ci ha cacciato dicendo che è una sua proprietà, ma non è vero, mia signora, in quel terreno ci pascolava il gregge mio nonno, e anche il padre di mio nonno»
     
    «Non preoccuparti, riavrete indietro il vostro pascolo. Se i signori del castello vorranno continuare a far pascolare i loro pony allora dovranno darvi qualcosa in cambio.»
     
    Jasper sgranò gli occhi, come se non potesse credere alle proprie orecchie. Kein gli scompigliò i capelli, si alzò e domandò se c’era ancora qualcuno che chiedeva udienza. Aveva l’aria provata e, ormai, la luce che filtrava dalle alte finestre era quella aranciata del tramonto.
     
    «Nessuno, mia regina, ma abbiamo un prigioniero» disse l’araldo.
     
    «Fatelo entrare»
     
    Si trattava di Kemmet, il capitano della Razziatrice di Fanciulle, nome che la nave aveva preso dopo che, alle Isole Scudo, durante la guerra di Euron, equipaggio e comandante avevano rapito dodici fanciulle che erano diventate altrettante mogli di sale.
     
    «Di che cosa è accusato?» domandò Kein, che era tornata ad accomodarsi sul trono. Sembrava che i pochi minuti in piedi l’avessero stremata. Shin avrebbe preferito che avesse rimandato almeno il processo: che sbattesse in galera quel tizio senza troppi complimenti. Lei, invece, era decisa ad ascoltare le testimonianze.
     
    «Ha effettuato delle razzie su Isola Bella, mia regina, ma rifiuta di cedere la percentuale che tu hai stabilito» riferì un soldato.
     
    «È così, capitano?» domandò Kein.
     
    «Certamente» rispose Kemmet, con disprezzo «Non cederò una sola moneta dei miei bottini che io e la mia ciurma abbiamo faticosamente razziato e conquistato onorevolmente. L’Antica Via mi è testimone, il Credo anche. Ciò che è mio, è mio di diritto. Non donerò o pagherò mai una tassa che contravvenga alla Legge»
     
    «Ti è stato letto l’editto con il quale ho stabilito la percentuale?»
     
    «Lo hanno fatto, maestà»
     
    «Allora saprai che si tratta di una misura d’emergenza che non va contro l’Antica Via e che si è resa necessaria perché per troppo tempo ci siamo indeboliti pestandoci i piedi a vicenda nelle razzie. È uno sforzo che tutti devono compiere, nessuno escluso, altrimenti non ne trarremo alcun giovamento. Ora, capitano, a te la scelta. Puoi cedere la metà del tuo bottino per fare ammenda per il tuo comportamento che, in verità, assomiglia pericolosamente al tradimento. Oppure mantenere la tua posizione… e andare incontro alle conseguenze». Dal tono, era chiaro che le conseguenze non sarebbero state piacevoli.
     
    «Aye maestà» fece Kemmet, di malavoglia «Ho sbagliato, ti prego di perdonarmi». Si inginocchiò ai piedi del trono.
     
    «Quindici giorni nelle celle del mare ti aiuteranno a rendere la tua contrizione più autentica» sentenziò Kein «Portatelo via e riferite al suo secondo che il capitano Kemmet ha dato ordine di cedere al tesoro della corona la metà del bottino. Tra due settimane spero le tue scuse saranno più sincere.»
     
    I soldati lo portarono via e l’araldo dichiarò conclusa l’udienza. Kein si alzò dal trono del mare e lasciò la sala con il suo seguito. Shin le camminava al fianco, adeguando il passo a quello lento e stanco di lei, pronto a sorreggerla se avesse nuovamente dato segni di essere sul punto di perdere i sensi, ma arrivò alle sue stanze senza intoppi. Congedò tutti e Shin attese mezz’ora prima di scivolare oltre la pesante soglia di quercia. La trovò distesa sull’alcova, ancora vestita, gli occhi chiusi e i capelli corvini sparsi sul cuscino. Si tolse gli stivali e andò a sdraiarsi accanto a lei. La chiamò per nome, a bassa voce, ma si accorse che era caduta in un sonno profondo, così si limitò ad abbracciarla delicatamente, per non svegliarla. Le sfiorò le guance, che avevano ripreso un po’ di colore, e la fronte, fresca e asciutta. Ascoltò il suo respiro, lieve e regolare, e le poggiò una mano sotto il seno: il cuore batteva tranquillo, lento. “Forse è soltanto stanca” rifletté mentre la stringeva dolcemente tra le braccia. Rimase a lungo sveglio a vegliarla finché nel cielo non iniziarono ad accendersi le prime stelle. Solo allora, vinto dal sonno, chiuse gli occhi e si abbandonò ai sogni, sogni in cui non esisteva nessuno al mondo a parte lui e Kein.

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    Capitolo 12
    *** YOHAN ***


    YOHAN

    Da quando la nuova regina si era insediata a Pyke, il porto di Lordsport era più attivo che mai. Lord Ironmaker, il nuovo mastro navale di Pyke, aveva, con i fondi ricevuti dal tesoro e con le nuove risorse di materie prime, ma anche dai vascelli catturati, ricostruito l’arsenale navale, affinché le navi della Flotta di Ferro potessero essere riparate e riconsegnate al mare, nel minor tempo possibile. Nonostante i limiti di Pyke e della sua popolazione, Thormor Ironmaker aveva traslocato l’efficacia delle officine metallurgiche della sua famiglia al cantiere navale, assumendo maestranze specializzate, i fabbri della sua casata in primis, per le singole operazioni svolte all’interno dell’arsenale stesso. La velocità e la qualità del lavoro non raggiungeva, e mai, probabilmente, avrebbe raggiunto i livelli degli arsenali di Braavos o delle altre città marittime di Essos, ma in tutta Westeros, forse solo Vecchia Città poteva gareggiare con l’attività febbrile degli artigiani delle Isole.
     
    Fumi densi e grigi si levavano alti e suoni duri e martellanti si diffondevano dal cantiere che Lord Ironmaker aveva sviluppato, da quando era in carica, in modo impeccabile. Yohan si diresse, quindi, verso la fabbrica per osservare i lavori. La Leviatano, la Vento Mietitore, la Sventura e la Lamentazione, navi lunghe con seri danni che si portavano dietro dalla Lunga Notte, potevano ora rivedere il mare. Yohan le vide ancorate e pronte alla partenza.
     
    «Come procedono le riparazioni Lord Thormor?» chiese quando raggiunse, a uno dei cantieri, il Lord, intento a controllare le svariate operazioni.
     
    «Molto bene Commodoro, qui a Pyke lavoriamo incessantemente a tutte le navi che erano rimaste alla fonda durante il regno di Occhio di Corvo. Stiamo, al contempo, rifornendo tutte le isole e le fortezze più importanti con il legno che arriva sull’Isola»
     
    «Ne avanza altro? »
     
    «Aye Commodoro, molto altro» rispose soddisfatto.
     
    «Allora inizia a lavorare anche sulla Silenzio e prepara i progetti per nuove navi»
     
    «Lo farò subito, Silenzio e nuove navi lunghe che possano solcare e fendere le onde del mare, Commodoro Farwynd» disse felice, pregustando gli onori che avrebbe ottenuto.
     
    «Fiumi. Navi lunghe che possano risalire le docili acque dei fiumi»
     
    «Aye Commodoro, presto una nuova Flotta di Ferro sarà varata dall’arsenale di Pyke e i preti potranno battezzare le nuove figlie del Dio degli Abissi»
     
    «Ciò che è morto non muoia mai, Mastro Navale»
     
    «Ciò che è morto non muoia mai, Capitano Farwynd»
     
    §§§
     
    La luna, quella sera, era la regina del firmamento e illuminava incontrastata il cielo, quando Yohan si diresse verso Lordsport, insieme ad Enya. Il loro tempo insieme si era ridotto ad attimi fugaci e troppo brevi, da cui cercavano di ottenere il massimo e di offrirsi generosamente, per non lasciarsi sfuggire quei momenti felici.
     
    Lord Ironmaker aveva organizzato una sfarzosa festa per celebrare i bottini che arrivavano all’arcipelago, ma, soprattutto, per celebrare quelli che raggiungevano il suo arsenale, permettendogli, ogni giorno, di riparare e varare vecchie e nuove navi lunghe di ferro. Eppure, erano giunti grandi e piccoli lord da tutto l’arcipelago, con un obiettivo ben diverso da quello di festeggiare. Avrebbero colto l’occasione, per mostrarsi alla nuova regina e proporsi come pretendenti al trono. Perché, per quanto la ragazza fosse stata benedetta dal Dio Abissale e Acclamata da tutti i lord e capitani, una donna, sola, sul Trono del Mare andava apertamente contro la tradizione dell’Antica Via. Tutti i Lord di Ferro ritenevano che la Regina si sarebbe dovuta sposare, e, tra questi, numerosi erano quelli che si ritenevano all’altezza di affiancarla come Re e marito. Bastava un solo giorno seduti sul seggio reale e gloria e potere sarebbero passati al Re, o, almeno, questo era ciò che pensavano.
     
    «Penso che i festeggiamenti siano già iniziati, potremmo starcene alla larga ormai, nessuno si accorgerà della nostra assenza»
     
    «È nostro dovere esserci. Ci sarà da bere e da mangiare, non sarà poi così male» disse Enya strattonando Yohan, che stava rallentando il passo e si faceva, letteralmente, trascinare «Ci saranno anche i tuoi preti: mormoreranno preghiere, verseranno e offriranno acqua di mare da bere e benediranno tutti gli invitati, non puoi perderteli».
     
    «Preferirei benedire te, con il caldo fluido dei nostri lombi» disse Yohan che, fermatosi di colpo, senza lasciarle il tempo di rispondere, le afferrò l’avambraccio e la trasse prepotentemente verso di sé per baciarla appassionatamente.
     
    Una volta che si sciolsero da quel bacio, di interminabili secondi, la vide sorridere raggiante, mentre gli occhi, verde smeraldo di lei, scintillavano. Da quando aveva iniziato ad affiancare Kein, si dedicava alla regina più del dovuto e sembrava non sentirne la fatica. La sua felicità cresceva di giorno in giorno. La volontà di Yohan, di farle presente i suoi dubbi sulla regina, scemò. Non ebbe la forza né il coraggio di parlarle di come aveva iniziato a preoccuparsi per lei, che, a parer suo, si era avvicinata troppo alla ragazza che sedeva sul trono.
     
    «E sia, andiamo» concluse Yohan fingendo di arrendersi e sorridendole di rimando per nascondere la sua inquietudine.
     
    §§§
     
    Il Porto dei Lord era illuminato dal bagliore rosso arancio del fuoco di infinite torce e lumi, che proiettavano oscure ombre sulle pareti degli edifici portuali. Sui moli i vascelli, dagli svariati vessilli, venivano cullate, dal moto ondoso, lento e tranquillo del mare.
     
    Yohan, attardandosi ai pontili, osservò e riconobbe navi e stendardi delle famiglie delle isole più in vista. C’era il corno dei Buonfratello, la mano ossuta dei Drumm sulla Tonante, la mano del Dio della Tempesta dei Kenning, i nodi scorsoi dei Myre, i pini di Orkwood, la luna insanguinata dei Wynch, il flagello d’ortica dei Tawney e le falci degli Harlaw, ma una sola nave e un solo vessillo catturarono l’attenzione del Lord Comandante. Yohan, infatti, rimase colpito nel vedere una nuova nave che innalzava un emblema sconosciuto, ma, allo stesso tempo, in parte già visto: rappresentava, su un campo verde, un mostruoso basilisco nero dalle scaglie argentate con la lunga coda che si attorcigliava all’asta della nota falce di Morte, color argento, degli Harlaw. Non ebbe il tempo di interrogare Enya, che, già, era sparita in mezzo alla folla. Su quella nave, due uomini alti e muscolosi, sfregiati da più cicatrici sul lato sinistro del volto e dalla pelle di un lucido color ebano, erano di guardia ad una gabbia di solido ferro, grande quanto bastava per rinchiudere un leone, e coperta da una vecchia vela scura e consumata, che ne nascondeva il contenuto.
     
    Yohan si avvicinò ai forestieri e li interpellò con tono autoritario «Chi è il capitano di questa nave e cosa trasportate in quella gabbia?» chiese indicandola con la mano sinistra, mentre portava la mano destra all’ascia che portava al fianco. Sentì mugolii strani provenire dall’interno della gabbia, ma gli uomini, che dovevano essere orientali, nati in qualche sperduta isola del mare dell’estate, non si mossero né risposero; probabilmente neanche avevano capito la domanda che era stata loro posta. Irremovibile, Yohan ripeté le medesime domande dette, ma, questa volta, nel valyriano imbastardito che si era solito parlare nelle terre degli schiavisti.
     
    Quell’idioma fu compreso e i due uomini risposero nominando il capitano della nave, e al contempo scostando parte della vela per mostrare il misterioso contenuto. Stavolta fu Yohan a rimanere senza parole. I suoi occhi, pazzi e mutevoli, osservavano ciò che, solo tramite storie e leggende, un uomo poteva immaginare. Rimase a lungo a parlare con quegli uomini prima di raggiungere Enya.
     
    §§§
     
    «Ti sei già ubriacata? Possiamo andare?» chiese Yohan quando la trovò, appoggiata ad un barile di birra mentre beveva pigramente da un corno. Era già stanco di tutto quel baccano: Kein aveva rifiutato una festa sobria al castello e aveva insistito perché i festeggiamenti si tenessero in città, sulla piazza principale e nelle stradine che si diramavano fin sul porto. Voleva che tutti, anche i pescatori e le prostitute, i mercanti e gli stallieri, i fabbri e le sguattere godessero dell’atmosfera, dei canti, dei balli, dei cibi e delle bevande. Orgogliosa delle sue origini, voleva essere la regina di tutti e questo si traduceva in piccoli e grandi gesti come quello. Naturalmente, organizzare la sicurezza per un evento del genere era stata impresa di non poco conto, ed Enya era stata costretta a mettere in campo quasi tutte le risorse a sua disposizione. Ma non sembrava irritata o infastidita, al contrario, c’era un sorriso dolce sul suo viso mentre osservava Kein danzare. Per l’occasione, la fanciulla aveva abbandonato brache e farsetto in favore di un lungo e ampio abito femminile, color pergamena con intarsi dorati, maniche lunghe e una scollatura generosa sul davanti. I capelli erano stati pettinati e acconciati alti sul capo mentre lunghi riccioli neri le incorniciavano il volto. Sulle guance era stato passato un qualche pigmento che le faceva apparire rosee e sane e anche le labbra erano state valorizzate. Era indubbiamente splendida, ma a Yohan non piaceva lo sguardo con cui Enya la accarezzava.
     
    «La regina ha bisogno di me, sono la sua guardia personale, lo sai» rispose infatti, senza staccare gli occhi dalla sovrana.
     
    «Sì, ma stasera toccava al soldatino delle Terre Verdi. Eccolo, guardalo là, come un gufo appollaiato su un albero, ha tutto sotto controllo» fece Yohan indicando Estren, anche lui appoggiato ad un barile di birra, ma in atteggiamento molto meno rilassato di quello di Enya. I tratti del suo viso, normalmente delicati ed armoniosi, erano tesi, quasi deformati dalla rabbia e dalla gelosia.
     
    «Sento grande stima nelle tue parole» rispose lei, ironica.
     
    «È uno a cui piace mettersi nei guai, non durerà a lungo sulle Isole di Ferro. Testa calda, sventato e temerario, senza alcun dubbio» sentenziò Yohan.
     
    «Coraggioso, sognatore e leale» fece Enya, suadente.
     
    «Questo è quello che pensi di lui?» Ora era il volto di Yohan quello deformato dalla rabbia e dalla gelosia «Li vedi questi scapolottini attorno a noi? Prima o poi si faranno avanti per chiedere la mano della Regina, e lei non potrà rifiutarsi per sempre. E se lo farà» a quel punto, abbassò la voce, affinché solo lei lo sentisse «Non potrà mai sposare il suo spasimante. Come pensi che reagirà il bel cavaliere dell’Aquila?»
     
    «La ama, troverà il modo di superare ogni avversità» rispose la lady, convinta. «Guarda i suoi occhi. È geloso, questo sì, ma darebbe la vita per Kein. Non ho mai visto nessuno accarezzare una donna con uno sguardo simile»
     
    Yohan strinse le labbra, risentito. «Nessuno, dici?»
     
    «Shh» lo zittì lei. «C’è un nuovo pretendente»
     
    Mentre fiumi di birra, rum e vino scorrevano tra gli invitati, cornamuse, flauti e corni intonavano musiche allegre e capitani ubriachi strillavano le parole lascive di antichi canti, un uomo di grossa stazza si avvicinò alla regina, che accettò con un sorriso di circostanza di danzare con lui.
     
    «Balla bene il ragazzo» disse Yohan sarcastico, deridendo Denys Drumm di Vecchia Wyk, che, impacciato dalla sua corporatura grande e grossa e ostacolato dall’armatura di ferro scintillante, cercava di stare dietro a Kein. Per l’occasione si era privato della spada di Valyria della sua famiglia, affidandola a chissà quale dei suoi compagni. Quel compagno, scoprì poi Yohan, era il fratello Donnel, che, circondato dai suoi uomini, guardava a vista Pioggia Rossa.
     
    «Era uno dei campioni di mio fratello all’acclamazione di re. Strano che non sia partito con lui» disse pensierosa Enya nell’osservare il Lord di Casa Drumm.
     
    «Che fine ha fatto tuo fratello? Dovresti tenerlo d’occhio, visto l’amore con cui ha salutato la Regina» disse Yohan disapprovando l’inconsapevolezza sulla posizione di un ipotetico nemico del regno.
     
    «Ha fatto la stessa fine di tuo fratello» rispose indifferente Enya, mentre continuava ad osservare e giudicare gli uomini che attorniavano la regina. Colto in fallo, Yohan tornò a bere senza aggiungere altro.
     
    «Denys potrebbe avere il sostegno dei Buonfratello» constatò Enya, rivolta più a sé stessa che a Yohan, guardando come alcuni uomini dei Drumm e i gemelli Buonfratello fossero appartati a parlare fitto tra loro.
     
    Quando terminò la musica. Un altro uomo, più anziano e più in carne, si avvicinò alla regina, chiedendole la mano per ballare. Anche questa volta, Kein non si sottrasse. In tutta la sera non aveva respinto nessun lord e nessun capitano ma, d’altro canto, per alcuno aveva mostrato il benché minimo interesse al di là di una fredda e regale cortesia.
     
    «Ecco lui sarebbe un ottimo pretendente. Metterebbe a disposizione almeno venti navi per la flotta di ferro, e, di certo, l’alcol lo fa ballare meglio di Lord Denys» disse Yohan, osservando come anche il vecchio Alyn Orkwood di Orkmont, Lord e capo della casata Orkwood, danzasse ubriaco facendo ridere i presenti.
    «Ed è abbastanza vecchio da non poter vivere ancora per molto» constatò Enya, sorprendendo Yohan, che rimase meravigliato di non sentire una risposta acida, che lo attaccasse in qualche e modo, e continuò ad assecondarla nei suoi ragionamenti, senza interferire a fondo «Ma…»
     
    «La perenne ubriachezza, e il fatto di essere un saccente, lo porterebbe ad essere scomodo e molesto, e poi potrebbe anche allearsi con Kaplan… A proposito, dov’è finito quell’uomo?» domandò mentre girava la testa alla ricerca della spia. Fece la medesima cosa anche Yohan che, appena incontrò con gli occhi la figura di Shin, si soffermò sul cavaliere e ne colse lo sguardo altero e geloso, che divampò non appena Kein cambiò compagno di ballo. Adesso, ad accompagnarla c’era un giovane alto e bello.
     
    Quenton Tawney, figlio di Balon Tawney. Capitano di nave fin dall’età di diciott’anni, si diceva che suonasse la cornamusa e si dilettava con Lenwood Tawney il Piccolo, che suonava il flauto, in canti e danze fin dalla tenere età di sei. Aveva navigato fino al Porto del Loto, nelle Isole dell’Estate, da dove era tornato pieno di bottini, merci preziose e svariati piante e fiori di specie diverse. Si diceva che le avesse barattate e non pagate con il prezzo del ferro, ma nessuno aveva prove a riguardo. Originario anche lui, come Lord Alyn, dell’Isola di Orkmont.
     
    «Un altro da Orkmont. Il solo fatto di essere figli di quell’Isola li rende re? Greyiron e Hoare saranno anche state grandi dinastie reali delle Isole di Ferro e delle Terre dei Fiumi, ma questo non fa di quelle famiglie delle casate regali, dovrebbero capirlo» sentenziò Yohan, già stanco di quella farsa.
     
    «Un ragazzo di ferro, docile e inesperto, se paragonato ai capitani che si sono riuniti stasera. Penso possa essere un buon pretendente. Forse, potrebbe anche risultare facile per noi da manipolare» concluse la Lady di Giardino Grigio e Dieci Torri.
     
    «Così come potrebbe essere facile da manipolare per Kaplan»
     
    «Kaplan ha le sue spie, noi le nostre» rispose Enya, misteriosa «E Kein ascolta le mie parole e ne fa tesoro. Dammi retta, nel caso in cui fosse costretta a prendere marito, e bada, non credo accadrà, Quenton potrebbe essere preso in considerazione. Guardalo, è rapito dai suo occhi»
     
    «Non mi sembra siano gli occhi quelli che osserva il giovane Tawney con tanto interesse» sottolineò Yohan, guadagnandosi una gomitata nelle costole. Ma Enya sorrideva e lui andò a procurarsi due corni di vino ad un banchetto costruito in fretta e furia fuori da una taverna lì vicino. Molte botteghe avevano spostato le loro merci all’esterno in occasione della festa, e i commerci prosperavano. Quando fece ritorno, la regina volteggiava tra le braccia di un giovane forestiero, dall’aspetto tipico delle Isole, ma dai modi e dalle vesti esotiche. Più un corsaro che un predone. Alto, dai capelli lunghi, castani e fluenti e una corta barba scura, ben curata; la pelle, abbronzata dal sole, permetteva agli occhi brillanti e castani di risaltare. I suoi movimenti erano dolci e fluenti, e non venivano ostacolati dalla lunga cappa verde scuro, in cui spiccava la raffigurazione di un basilisco nero, dalle scaglie argentate, che, con la coda, attorcigliava l’asta della falce Harlaw. Per la prima volta, in quella serata, era Kein a farsi guidare completamente.
     
    «Chi è quello?» domandò Enya, con interesse.
     
    «Uno che corteggerò io, se Kein lo rifiuta» rispose Yohan divertito, continuando a bere vino. Lei lo guardò accigliata, aspettando che si degnasse a risponderle chiaramente. «Un Harlaw… dovresti conoscerlo…» continuò Farwynd, pregustando quel momento di conoscenza nei confronti di Enya, ma, ancora una volta, lei non colse la provocazione, continuando a guardarlo negli occhi, indispettita. Alla fine Yohan, si arrese e le presentò brevemente il profilo di quell’uomo «Harwyn Pyke, Capitano della Canto della Viverna, nave lunga approdata questa mattina al molo di Lordsport. Giunta dalle lontane terre delle Isole del Basilisco, le terre dei corsari e degli schiavisti dell’Est» disse riportando la mente a quelle terre, ma non si soffermò molto su quei ricordi e continuò ad informarla. «E, come ti dicevo, un Harlaw, un tuo cugino. Forse il figlio bastardo di Rodrik il Lettore. Posso assicurarti che ha avuto più fortuna di me tra quelle paludi e se ne è tornato con dei bei bottini… In qualche modo deve aver saputo della dipartita dei fratellastri, del padre e dell’erede più prossimo di Dieci Torri, tuo fratello. Inoltre, se continua a toccare la nostra regina in quel modo» si soffermò ad osservare come i due danzassero in modo affiatato «tra pochi secondi, potremo assistere anche ad un bel duello e scoprire chi, tra il bastardo dell’Est e il cavaliere del Continente, è più abile con la spada».
     
    Shin, infatti, in quel frangente si tratteneva a fatica. Un colore rossastro si diffondeva sempre più sul suo volto e la mano sinistra, stretta sull’elsa della sua spada, erano i sintomi di un’ira imminente. Fortunatamente, la penombra della festa, nascondeva la sua figura.
     
    La musica crebbe d’intensità e il ballo si fece sempre più sincopato. I danzatori si misero in cerchio e le dame volteggiarono tra le braccia di un cavaliere diverso ad ogni battito. Yohan perse interesse, non ne poteva più di quel baccano, dell’odore di cibo e di alcol, delle grida degli invitati, dei canti sguaiati. Non vedeva l’ora che tutto finisse per potersi appartare con Enya.
     
    Fu riscosso dalla voce di lei, urgente. «Sta male!»
     
    «Chi?» domandò Yohan, stolidamente. Per un attimo, perso nelle sue fantasie, si era completamente dimenticato della regina. La cercò tra la folla di danzatori e vide che si reggeva a stento in piedi e, faticosamente, cercava di portare a termine il ballo.
     
    «Kein, chi altri?» lo rimbeccò Enya «Va’ da lei, io mi occupo di Shin»
     
    Yohan ubbidì, si fece largo tra gli spettatori che battevano le mani a ritmo e, al giro successivo, fece in modo di trovarsi di fronte alla sovrana. L’afferrò saldamente per la vita e, nel farla roteare, l’allontanò dal centro della folla. Fingendo di danzare, la condusse ai margini della piazza.
     
    «Stai bene, maestà?» le sussurrò all’orecchio, sorreggendola.
     
    «Mi gira la testa, capitano… forse ho ballato troppo…» rispose lei. Le dita che Yohan stringeva erano gelate. Con circospezione, appoggiò la fronte a quella di lei e la sentì umida di sudore freddo. “Sta per svenire” pensò.
     
    «Hai bevuto molto, mia regina?» chiese. Se non era abituata a vino, birra e, soprattutto rum, quella poteva essere la spiegazione.
     
    «Nemmeno un corno di birra» negò Kein, sempre più abbandonata tra le sue braccia. In effetti, standole così vicino, Yohan non percepiva odore d’alcool, ma solo il leggero profumo dei suoi capelli.
     
    «Torniamo al castello» le disse «devi riposare» e lei assentì.
     
    A poca distanza, Enya era riuscita ad impedire a Shin di gettarsi tra la folla e lo aveva condotto in un vicolo buio dove Yohan li raggiunse con la regina tra le braccia. Il cavaliere delle Terre Verdi quasi gliela strappò di mano, la strinse a sé e cominciò a tempestarla di domande, accarezzandole il volto e i capelli. Lui scambiò uno sguardo con Enya, scuotendo la testa, e lei intervenne di nuovo.
     
    «E’ meglio riportarla a Pyke» disse «Va’ a prendere i cavalli»
     
    Shin obbedì, riluttante, e tornò poco dopo con le cavalcature. Nella piazza, la festa andava scemando; l’ora era tarda e, ormai, erano molti di più gli uomini ubriachi seduti ai tavoli di quelli semi sobri e desiderosi di ballare. Anche i musicisti avevano rallentato il ritmo e Yohan giudicò che, di lì a poco, la città si sarebbe svuotata. Gli abitanti di Lordsport avrebbero fatto ritorno alle loro case, mentre tutti gli altri avrebbero riempito le locande e i bordelli, oppure sarebbero tornati a bordo delle proprie navi.
     
    Ripensò a Harwyn Pyke e alla sua gabbia… non avrebbe dormito volentieri su quella nave, questo era certo.
     
    §§§
     
    Lasciarono la regina alle cure di Shin e raggiunsero l’altura di una scogliera che dominava l’intero porto di Pyke. Dall’arenile provenivano odori di pece e resina, che si mischiavano a quelli dell’aria salata. I suoni della città si attenuavano e Yohan ed Enya restarono ad osservare, in silenzio, i fuochi che si spegnevano a poco a poco, uno dopo l’altro, finché la città si oscurò del tutto. Rimasero abbracciati a lungo, sdraiati a guardare il cielo limpido e stellato. Yohan cingeva Enya con le sue braccia. Lei appoggiata con la testa su di lui, gli accarezzava il petto, respirando lentamente e assaporando quel momento di pace.
     
    Fu Yohan ad interrompere il silenzio «Prima o poi dovrà sposarsi…»
     
    «Non è costretta. È forte e caparbia, può tenere testa ad ogni uomo di ferro o del continente» rispose Enya, sulla difensiva.
     
    «I lord non accetteranno mai una regina senza Re» insistette Farwynd.
     
    «Avresti mai pensato che avrebbero acclamato una donna? Non solo, una bastarda naturalizzata?»
     
    «Andiamo, sai benissimo che c’era lo zampino di Kaplan»
     
    «Quindi non le riconosci alcun merito? Pensi sia solo la bambola di Kaplan? Che mi dici del modo in cui ha affrontato mio fratello, il modo in cui ha afferrato la lama di Crepuscolo? Quanti uomini avrebbero dimostrato tanto ardore, tanta dignità? E la sua preoccupazione per i più piccoli, per gli orfani, per la gente comune? Non credi che questo popolo abbia bisogno finalmente di qualcuno che non pensi soltanto a riempirsi le tasche e ad accrescere il proprio potere, ma anche al benessere dei propri sudditi?» domandò Enya, accalorandosi. Le stelle si riflettevano nei suoi occhi, verdi e appassionati, toccando il cuore di Yohan. 
     
    «Enya» disse, tirandosi su e aiutandola delicatamente ad alzarsi in piedi. Attese qualche secondo, mordendosi il labbro, indeciso se continuare. Alla fine parlò, ma, senza volerlo, lo fece con poco tatto «Non affezionarti troppo a quella ragazza. Non è tua figlia».
     
    Un manrovescio, forte come una cascata di enormi macigni, piovve e si stampò sulla guancia barbuta di Yohan, lasciandolo sul posto, in precario equilibrio. Enya si allontanò a grandi passi.
     
    La guardò allontanarsi, indeciso se seguirla o meno. Poi decise di lasciare che la rabbia sbollisse: le avrebbe parlato con calma in un altro momento. Massaggiandosi la guancia nel punto dove lei lo aveva colpito, ripensò al corpo della regina, abbandonato tra le sue braccia, alla pelle ghiacciata, pallida, al fatto che non avesse bevuto. “Si sposerà presto” pensò “Ma non con il suo cavaliere”.

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    Capitolo 13
    *** KEIN ***


    Shin aveva mandato via le ancelle, bruscamente. Kein si era resa vagamente conto che era un errore, ma non aveva avuto la forza di contraddirlo. Aveva cercato di sorridere alle ragazze, spaventate, per rassicurarle e, quando se ne erano andate, si era abbandonata sull’alcova. Il cavaliere le allentò i lacci del corpetto per farla respirare meglio e, piano piano, la liberò di strati e strati di veli e seta. Quando fu nuda, lasciò cadere l’elegante abito da cerimonia in un angolo e andò a riempire una coppa di latte freddo nella quale fece sciogliere del miele e gliel’accostò alle labbra. Le passò una mano dietro le spalle per sorreggerla, delicato come una madre che veglia il figlio malato, e si assicurò che, a piccoli sorsi, mandasse giù tutto il liquido addolcito. «Come ti senti?» domandò, sistemandole i cuscini dietro alla testa. «Stanca… tanto stanca» rispose Kein, lasciandosi andare. «Non capsico… ho sempre dormito poco e lavorato tanto, ho fatto una vita dura, eppure non mi sono mai sentita così spossata come negli ultimi tempi. È vero, ho tanti pensieri e adattarmi all’etichetta mi sta dando il tormento, per non parlare dei concili e delle udienze. Ma non capisco questi svenimenti.» «Mangi abbastanza?» chiese il cavaliere, liberandosi degli stivali e del farsetto a andando a sdraiarsi accanto a lei. Kein, anziché raggomitolarglisi addosso come faceva di solito, gli voltò le spalle. «Non sei né un maestro né mia madre» rispose, più per abitudine che realmente infastidita. «So prendermi cura di me stessa» Shin, abituato a quell’atteggiamento, non si scompose. L’attirò a sé, piegò le ginocchia e aderì con il suo corpo a quello di lei. Prese a giocare il suo seno destro, prendendolo nella mano a coppa. Lei non si oppose: nonostante la stanchezza, il desiderio di lui era sempre fortissimo. Attese che il cavaliere approfondisse le carezze o le titillasse il capezzolo, ma lui continuò semplicemente quella carezza leggera. Alla fine, non le restò altro da fare che dargliela vinta, voltarsi e cercargli le labbra. Normalmente, Shin era impetuoso, pieno di desiderio, virile; ma quella sera, forse, era troppo preoccupato per abbandonarsi all’amore. Kein gli parlò a fior di labbra, ogni parola produceva leggeri sfioramenti e i loro respiri si intrecciavano. «Mio signore…» disse «Non devi preoccuparti per me. Sono forte, non c’è tempesta capace di abbattermi.» Lo baciò dolcemente, mentre gli accarezzava le guance e i capelli, a lungo, come la notte del loro primo incontro. Pose delicatamente le labbra su quelle di lui e le mosse piano, dischiudendole in modo quasi impercettibile. Dopo un tempo infinito avventurò la lingua alla ricerca della sua: la trovò e l’accarezzò quasi con timore. Kein sentiva il desiderio crescere, un formicolio che dal sesso si irradiava al resto del corpo. Capiva che Shin, quella sera, aveva bisogno di tranquillità e dolcezza, ma lei sentiva un fuoco farsi strada nelle viscere. “È preoccupato per me” pensò “per questo non riesce a lasciarsi andare”. E la tenerezza, la gratitudine, l’amore immenso che provava per lui anziché lenire il desiderio lo accrebbero. Continuò ad esplorarlo lentamente, finché finalmente lui non cominciò a rispondere. La strinse a sé, le scostò i capelli dal viso, la guardò a lungo negli occhi prima di ricominciare a baciarla, con veemenza, ora. «Sei sicura?» le domandò, affannato, prima di perdere il controllo e Kein rispose traendolo a sé. Ora riconosceva il suo uomo, le labbra calde di lui che le percorrevano il collo, i denti che dolcemente assaggiavano la sua pelle delicata. Gemette di piacere in attesa che Shin arrivasse al suo seno, ma quando le mordicchiò il capezzolo, il dolore le strappò un grido. Il cavaliere si staccò da lei, di colpo. «Ti ho fatto male? Perdonami» si scusò. «Un po’» minimizzò Kein, ma sentiva il capezzolo pulsare fastidiosamente. Eppure lui era stato delicato, come sempre. «Non fa niente, è già passato» lo tranquillizzò, ma sentiva che qualcosa si era spezzato. «È stata una serata movimentata mia regina» disse Shin, infatti «forse è meglio se ti riposi». Si alzò dal letto, recuperò stivali e farsetto e si ricompose. «Non avrei dovuto mandare via le tue ancelle prima… sarà meglio che monti di guardia fuori dalla stanza. Buonanotte dolce fanciulla». La salutò con un casto bacio sulla fronte e uscì. La giovane avrebbe voluto ribattere, ma sapeva che, in fondo, lui aveva ragione. Senza Enya a coprirli, era pericoloso trascorrere la notte insieme. Si tirò a sedere: il capogiro le era passato e, tutto sommato, si sentiva abbastanza bene, anche se l’eccitazione faticava a svanire. Si sfiorò il seno sinistro, che bruciava, poi lo soppesò. Ultimamente era più pieno, più turgido e, nonostante il dolore, la sensazione tra le dita era piacevole. Non senza un senso di vergogna lasciò che l’indice della destra cercasse il punto più sensibile del suo sesso e prese ad accarezzarsi come spesso aveva fatto Shin, con gli occhi chiusi, immaginando che fosse il cavaliere a toccarla. Nel giro di pochi minuti sentì la familiare sensazione del climax farsi strada ed esplodere. Era meno intensa rispetto a quella che riusciva a raggiungere con Shin, ma fu sufficiente a far scendere sulle sue membra un senso di spossatezza e torpore e Kein scivolò nel sonno. §§§ Enya si presentò il giorno successivo con un vassoio carico di leccornie. C’erano tortine al miele, alle spezie, frutta fresca, birra chiara, latte addolcito. Posò tutto sul tavolinetto accanto al camino, mentre Kein si infilava una vestaglia. «Come ti senti?» le domandò mentre la regina sbocconcellava un dolce senza troppo entusiasmo. «Bene» rispose Kein, laconica. Continuava a pensare al volto di Shin, a come si era staccato da lei la notte prima. E se non fosse stato semplicemente preoccupato, ma anche geloso o arrabbiato per il fatto che lei aveva ballato tutta la sera con lord e capitani? Il cavaliere sapeva quali erano i suoi obblighi di sovrana e Kein non aveva fatto nulla di male: si era limitata a danzare, mantenendo il più possibile le distanze senza risultare scortese. «Ho incontrato Shin fuori dalla porta. Ha rifiutato il cambio, è rimasto di guardia tutta la notte. È molto preoccupato per te» insistette la lady di Giardino Grigio. Kein abbandonò il dolce, che aveva mangiato solo per metà. «Non molto tempo fa avrei dato qualsiasi cosa per poter condividere questi cibi con i miei fratelli. Ciara ama le tortine al miele, ma non avevamo mai abbastanza denaro per comprarle. Mi mancano, i bambini.» «Sono ad Harlaw, stanno bene. Ho dato ordine che non gli manchi nulla e quando la guerra sarà finita e avremo raggiunto i nostri obiettivi potrai prenderli al castello con te. Non cambiare argomento, maestà: ora dobbiamo parlare della tua salute.» «Non c’è niente di cui preoccuparsi» si intestardì la regina. «Non ho mai sentito di nessuno che sia morto per un po’ di stanchezza» «Non è solo la stanchezza. Svieni, non hai fame» Enya si sporse verso di lei, le prese delicatamente il volto tra le lunghe dita affusolate e la obbligò ad alzare lo sguardo. Il suoi occhi verdi erano dolci, ma fermi. «Devi vedere il maestro.» «Parli come Shin, ma non capite» Kein scosse la testa, liberandosi della stretta. «Hai visto tutti gli uomini con cui ho ballato ieri sera? Erano come avvoltoi, pronti a calare sulla preda. Tutti aspirano alla mia mano e sono certa che molti non si farebbero scrupoli ad eliminarmi per ottenere la corona del mare. Se avessero anche il minimo sentore che sono debole, o ammalata non avrei scampo.» «Se non ti fidi, e ti capisco, potrei far venire da Harlaw il maestro della mia famiglia. Ti curò le ferite alla schiena, rammenti?» propose Enya, con tutta la dolcezza di cui era capace. Kein pensò che sua madre, a quel punto, le avrebbe già mollato una sberla. Si chiese se lady Harlaw portasse pazienza perché le si era affezionata o, semplicemente, perché era pur sempre una regina. «È stato buono con me» ammise, con un sorriso, al ricordo del giovane maestro imbarazzato. Sembravano passati anni… «Bene, allora. Ci muoveremo con circospezione e se Kaplan o qualcun altro dovesse fare domande potremo sempre dire che l’ho mandato a chiamare per me. Invierò un corvo messaggero, nel giro di un paio di giorni sarà qui. Nel frattempo, cerca di riposare e di mangiare qualcosa» Enya, soddisfatta per aver raggiunto il suo obiettivo, fece scivolare di nuovo il vassoio in direzione di Kein, che riprese il dolce e una coppa di latte e miele. «Per quanto riguarda i pretendenti… Io non mi preoccuperei troppo d Drumm e Orkwood, e Quenton Tawney è soltanto un ragazzo. Ma ho visto come ti faceva danzare Harwyn Pyke e non era solo la tua mano ciò che bramava.» «È un uomo sfrontato, e affascinante» ammise Kein con una mano davanti alla bocca «Ma non può seriamente pensare di diventare re» «Perché è un bastardo? Anche tu lo eri» puntualizzò lady Harlaw, prendendo a sua volta un dolcetto. «Io sono stata naturalizzata da mio padre. Rodrik non può farlo da dove si trova» «Un sovrano ha il potere di naturalizzare un bastardo» fece notare Enya, sorvolando sull’imprecisione. «Naturalizzare Harwyn per poi sposarlo? Ah!» fece Kein, con disprezzo «Tanto varrebbe sposare Shin, i lord e i capitani la prenderebbero altrettanto male. E lui, lo amo» concluse, in un soffio. Rimasero in silenzio per un lungo momento, mentre quella dichiarazione volteggiava nell’aria come pulviscolo e si depositava tra loro. «Questo è evidente» disse Enya, prendendole la mano «Ed è chiaro che il sentimento è reciproco. I suoi occhi, ieri sera… e sapessi quanto è stato accorato nel chiedermi stamani di occuparmi di te» «Credevo che una volta ottenuta la corona avrei potuto decidere per me stessa» si sfogò Kein, con gli occhi improvvisamente lucidi «invece non sono padrona di nessun aspetto della mia vita. La mia famiglia è lontana, devo nascondere la relazione con l’uomo che amo e adesso mi tocca anche tenere a bada una selva di pretendenti che mi guardano come un cane sbava su un osso. Volevo solo una vita semplice, mia signora» Batté le palpebre e una singola lacrima le rotolò giù per la guancia. Enya la asciugò con il pollice, accarezzandola. «Tieni duro, Kein. Hai preso il potere da poco e lo hai preso con l’appoggio di un uomo che non merita fiducia. Per mantenerlo, devi dimostrare quanto vali. Stai facendo un ottimo lavoro, sei decisa e autoritaria, ma sai mostrare misericordia. Il popolo ti apprezza e i lord stanno imparando a temerti e rispettarti. Sposando Shin in questo momento, perderesti questo vantaggio e non sarebbe un bene per nessuno, nemmeno per lui. Ti aspetterà, ne sono certa. Appena avremo gli uomini di Volantis inizieremo l’offensiva. Con un po’ di fortuna, sarà una guerra lampo, il Continente non avrà il tempo di smobilitare l’esercito: dopo tanti anni di pace hanno perso l’abitudine, e Tyrion Lannister non è uno stratega da questo punto di vista. Una volta presa Delta delle Acque e consolidato il dominio sulle Terre dei Fiumi, potrai pensare al vostro futuro.» Come sempre, le parole della signora di Giardino Grigio furono un balsamo alle orecchie della regina. La fiducia che quella donna riponeva in lei la spronava a non cedere nei momenti di tristezza e smarrimento, quando si sentiva sola e inadeguata, quando l’antica fiamma ribelle che tante volte l’aveva messa nei guai si riaccendeva sotto le braci. «Farò come tu dici mia signora. Fa’ venire il maestro, non ne posso più di sentirmi così.» «Come comandi, maestà.» Quando Enya uscì dalla stanza, Kein si sforzò di finire la colazione. Riuscì a mangiare un paio di dolcetti e a bere un’intera coppa di latte, ma quando si alzò per vestirsi la stanza cominciò a girare. Sentì in bocca il sapore della bile e del cibo e non riuscì a trattenersi. Rigettò ogni cosa. Rimase in ginocchio per qualche minuto, cercando di riprendere le forze. Quando iniziò a sentirsi meglio, prese l’acqua dal il catino delle abluzioni e ripulì tutto quanto. Non voleva che le sue ancelle vedessero… mentre strofinava con forza il tappeto, le lacrime cadevano come pioggia sulle sue mani.

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    Capitolo 14
    *** ENYA ***


    Maestro Beren era giunto al porto poco prima del sorgere del sole, ed Enya lo aveva fatto scortare in segreto al castello. Non aveva nemmeno trent’anni, giovane per essere considerato un sapiente, ma si era distinto alla Cittadella per la sua precoce intelligenza e la catena del suo ordine culturale era già appesantita da diversi anelli di svariati materiali. Era un uomo di bassa statura, magro, dal volto scavato e un po’ triste. I capelli si andavano già diradando e la fronte, troppo ampia, era perennemente aggrottata. Tuttavia, era gentile e rassicurante e aveva già stabilito in passato un rapporto con la fanciulla. Considerando la naturale ritrosia di Kein per il contatto fisico con gli sconosciuti e il terrore che le sue condizioni divenissero di dominio pubblico, Beren era la persona ideale per occuparsi di lei. Enya aveva lasciato le proprie stanze al maestro affinché vi visitasse la regina e, siccome si era già premurata di spiegargli i sintomi manifestati dalla sovrana, quando lui dichiarò la necessità di esaminarla più intimamente, la donna preferì lasciarli soli. Si era sottoposta, in passato, ad esami di questo tipo e sapeva bene quanto potessero risultare umilianti, soprattutto per una giovane. Così, lady Harlaw si chiuse la porta alle spalle e rimase in attesa, persa nei suoi pensieri. Ricordò le parole di Yohan, che l’avevano irritata a tal punto da colpirlo: “Non affezionarti troppo a quella ragazza. Non è tua figlia.” Che cosa ne sapeva, lui, dell’affetto che si prova per un figlio? Dell’infinita dolcezza di stringerlo al seno, della tenerezza immensa ispirata da ogni sorriso, della sensazione delle piccole dita di un bimbo strette intorno alle sue? Cosa ne sapeva dell’orgoglio di un genitore quando vede il sangue del suo sangue muovere i primi passi, salire su un pony, imparare a leggere, impugnare la prima spada di legno? “Avrebbe la sua età, ora” pensò, con tale struggente tristezza che quasi riuscì a risentire la sua voce, la sua risata, la sensazione del suo corpicino abbracciato a quello di lei. Si portò una mano al ventre, ricordando quando il bambino era lì, al sicuro, protetto dal grembo di lei, dal suo amore, e sentì una fitta dolorosa, come un pugnale che affonda nella carne. Yohan aveva ragione, almeno in parte: Enya si stava affezionando molto alla ragazza. Ma non era per via del figlio perduto, non solo, almeno. La regina le piaceva sul serio. L’aveva vista sacrificarsi per la sua famiglia e per il suo popolo, lottare con tenacia, andare incontro alla morte per tenere al sicuro le persone che amava. E, come sovrana, si comportava alla stessa maniera, suscitando l’ammirazione del capitano delle guardie. Enya sapeva che non c’era traccia di egoismo nelle azioni di Kein e, questa, era una novità su quelle Isole dimenticate da dio. Si ripromise di restarle accanto, qualunque cosa fosse accaduta, e di proteggerla. “Sì, come una madre” pensò “Al diavolo quello che dice Yohan, la ragazza ha bisogno di me”. In fondo al cuore, sapeva di amare il capitano dell’Abisso. Da quando era tornato dall’esilio, Enya non aveva più trovato pace. L’equilibrio che aveva costruito con Balaq si era spezzato nel momento stesso in cui Farwynd l’aveva toccata e, per quanto sentisse la mancanza del gigante nero, una parte di lei era quasi contenta di essersene liberata. Si sentiva in colpa, naturalmente, ma, ciononostante, non riusciva nemmeno a pensare di allontanarsi da Yohan. Per quanto quell’uomo riuscisse a darle sui nervi, il desiderio aveva sempre la meglio. Quasi arrossì quando lo vide arrivare da lontano, a passo svelto, muovendosi silenzioso come un gatto. Dalla sera della festa, dopo che l’aveva schiaffeggiato, non si erano scambiati più di qualche parola di circostanza, e solo se costretti dalla presenza di terzi. «Che vuoi?» domandò, brusca, nascondendo il volto tra i lunghi capelli biondi. «Buongiorno anche a te» rispose lui, con un sorriso che Enya non seppe interpretare. La mutevolezza dei suoi occhi non era di alcun aiuto. «Cercavo Kein, sai dove si trova? Nelle sue stanze non c’è traccia né di lei né del suo cavaliere» domandò. Lei non rispose. La irritava il modo in cui parlava della regina e di Shin. Cosa lo urtava tanto di quei due ragazzi? Il fatto che si amavano e che non riuscissero a nasconderlo bene come ci riuscivano loro? «Andiamo, Enya» insistette lui, più cortese «voglio solo sapere come si sente.» Questa volta, sembrava sincero. «L’ho convinta a farsi vedere da un maestro. È nelle mie stanze con Beren, l’ho fatto venire da Harlaw per tenere la cosa riservata» rispose, alzando finalmente lo sguardo su di lui. Yohan volse gli occhi alla porta chiusa, poi lungo i corridoi vuoti e infine incrociò di nuovo quelli di Enya «Tu come stai? Senti... io... la notte della festa…» mormorò «Lascia perdere» lo interruppe la donna. Sapeva che per lui non era semplice chiedere scusa, non lo era mai stato, e per lei nemmeno. Perciò, quel sussurro fu sufficiente a placare la sua irritazione. «Sto bene e in fondo è vero, mi sono affezionata a lei. E sono preoccupata, non poco.» Il suo capitano scosse la testa e la fissò intensamente, mordendosi il labbro inferiore. Sospirò, esasperato ma, allo stesso tempo, partecipe, sfiorandole la guancia. «Te l’ho detto, mia signora, tu non…» attaccò, ma venne interrotto di nuovo. «Yohan, credo sia incinta» buttò fuori Enya, d’un fiato. «Incinta?» sibilò lui «La regina aspetta un figlio dal bel cavaliere immagino. La furbizia la insegnano all'età di sei anni nelle terre verdi?» La sua voce era fredda, il tono ironico, e ad Enya non piacque. Aveva forse dimenticato il primo amore? I momenti magici in cui ci si scopriva per la prima volta, il desiderio struggente dell’altro che nulla poteva placare se non possederlo e lasciarsi possedere? «Siamo gli ultimi a poter dare lezioni sull’argomento, mi sembra» lo rimbeccò. Si erano appena riappacificati e già quell’uomo era riuscito a darle sui nervi un’altra volta. “È una condanna, il suo sapore sarà sempre dolceamaro sulle mie labbra”. «Forse. Ma tu non eri regina, mentre lei rischia di far scoppiare un’altra ribellione mettendo al mondo un figlio bastardo» fece notare Yohan e lei non poté che dargli ragione. «Questo perché un uomo può mettere al mondo tutti i bastardi che gli pare, mentre una donna invece no» ringhiò, esasperata. Kein sarebbe stata un’ottima regina e un’ottima madre con o senza un marito al suo fianco. Nessuno si era mai preoccupato dei bastardi di Euron, allora perché tanto scalpore per la gravidanza della nuova sovrana? Prima che il capitano potesse controbattere Enya alzò una mano, prevenendolo «Lascia perdere, so già cosa stai per dire, e non voglio sentirlo. Hai ragione, non possiamo permetterci un’altra rivolta e Kein non può unirsi ufficialmente a Shin» «Infatti. E non credere che tutti abbiano preso di buon grado la nuova legge tributaria. Ho parlato di recente con lord Buonfratello, sono molti i capitani che non vogliono pagare le decime imposte dalla regina e non può certo sbatterli in galera tutti quanti come ha fatto con Kemmet della Razziatrice di Fanciulle.» Enya si morse il labbro dalla rabbia. Possibile che non capissero l’importanza di quella legge? Erano così miopi da non comprendere che occorreva una visione a lungo termine e che andare avanti a pensare solo per sé stessi non li avrebbe portati da nessuna parte? Stava per dare sfogo al suo disappunto quando vide appropinquarsi una figura bassa e scura che si muoveva come un’ombra. «Zitto, c’è il maestro dei sussurri» avvertì Yohan. «Lord Kaplan, buongiorno.» «Buongiorno a te, mia signora» replicò l’altro, untuoso, con un leggero inchino «Lord comandante.» Come sempre, Yohan si limitò ad un brusco cenno del capo e Kaplan tornò a rivolgersi ad Enya. «Come ti senti, lady Harlaw?» domandò. La donna scambiò una rapida, perplessa occhiata con Farwynd prima di comprendere il motivo della domanda. “Il bastardo ha mille occhi” pensò. «Splendidamente, mio lord» rispose, educata al limite della pedanteria «è gentile da parte tua informarti sulla mia salute». «Oh, è il minimo. Quando ho saputo dell’arrivo di maestro Beren mi sono preoccupato per te. Naturalmente, il maestro del castello è a tua completa disposizione» «Non devi darti pensiero, mio signore» tagliò corto la lady. La sua pazienza si andava rapidamente esaurendo. «Ma dimmi, sei venuto fin qui soltanto per rassicurarti sulla mia salute?» «No, in effetti» replicò l’altro, rinunciando ad insistere ulteriormente sull’argomento. Il suo sorriso, però, lasciava intendere che le conoscenze in suo possesso fossero di più di quelle che aveva appena condiviso. «Ho appena ricevuto informazioni su vostro fratello, mia signora. E la presenza del capitano Yohan è quanto mai una felice coincidenza, dal momento che avrei dovuto informare anche lui che Harras è stato visto dirigersi a ovest, verso Luce Solitaria» disse, spostando lo sguardo su Farwynd. «Quanto tempo fa?» domandò lui. «Settimane fa, ormai. Ma, ahimè, sono stato informato soltanto ora» si scusò Kaplan. “Ci scommetto” pensò Enya “Grandissimo figlio di puttana!” «Informeremo immediatamente la regina, mio signore» disse con un tono che, sperava, mettesse un punto fermo alla conversazione. «A proposito, sono passato personalmente nelle sue stanze e…» «Si è alzata presto, voleva passeggiare» lo prevenne Enya. «Immagino ser Estren sia con lei, visto che tu sei qui, mia signora. Bene, è in buone mani. I miei rispetti, lady Harlaw. Comandante Farwynd» e, senza attendere risposta, si allontanò. Enya attese che non fosse più a portata d’orecchio per sfogarsi. «Figlio di un kraken! Hai sentito il suo tono? Un giorno o l’altro gli aprirò la gola, stanne certo!» «E io sarò in prima fila a godermi lo spettacolo, ma adesso calmati, non è ancora giunto il suo tempo. Piuttosto, che cosa pensa di ottenere tuo fratello dal mio? Yohn avrà sì e no tre navi…» «Di certo non per avere un tetto sopra la testa… Harras non può dimenticare quello è accaduto nella sala del trono» rifletté Enya, ripensando alla scena, al volto del fratello contratto dall’ira «Se Yohn vuole vendetta per Ygon, probabilmente Harras cercherà un’alleanza.» «Sì, ma con chi altri? I rami cadetti degli Harlaw?» le chiese Yohan. «Penso di no, senza mio fratello hanno più potere» rispose lei, pensierosa, scuotendo la testa. «Con i Drumm? Potremmo sfruttare il matrimonio di Kein per togliergli alleati e placare le acque» Enya fu sul punto di colpirlo nuovamente. «Ma allora non vedi proprio l’ora di rovinare la vita a quella povera ragazza?» si imbestialì. «Non ti…» cominciò Yohan, ma fu interrotto da Beren che stava uscendo dalla stanza. Enya ne scrutò il volto scavato, la fronte aggrottata. Niente di buono. «Ho concluso la visita, mia signora» disse rivolto ad Enya «La regina richiede la vostra presenza» «Vengo con te» fece Yohan, seguendola all’interno della stanza, e lei non ebbe il tempo di replicare perché il capitano si era messo di traverso sulla soglia. Ne sostenne per qualche momento lo sguardo, poi, con un sospiro, lo lasciò passare. Kein era seduta sul letto, con addosso una semplice tunica bianca. I capelli scuri, sciolti, le ricadevano sulle spalle in morbide onde, incorniciando il volto pallido. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso leggero e teneva le mani incrociate sul ventre. Quando si accorse della presenza di Enya e Yohan si alzò e andò loro incontro. Il capitano delle guardie aprì le braccia e la accolse, stringendola a sé, proprio come avrebbe fatto qualsiasi madre e si sciolsero soltanto quando maestro Beren si schiarì la gola. «Mia regina, vi lascio soli» mormorò, ossequioso. «Ti ringrazio, maestro» gli rispose Kein, con un sorriso, e quello uscì, accompagnato dal tintinnio della sua catena. «Vieni, sediamoci» disse Enya, conducendo la regina verso il salottino. Kein si lasciò guidare, docile, si appollaiò sulla poltrona e si portò le ginocchia al petto. Senza trucco, senza armi, senza gli abiti neri sembrava una bambina. Gli occhi dorati brillavano febbrili, di gioia e di terrore. «Di quanto sei?» domandò la lady di Giardino Grigio. Non c’era bisogno di chiedere una conferma ufficiale dei suoi sospetti, l’atteggiamento di Kein era inequivocabile. «Un paio di mesi, come massimo… così dice il maestro. Ho avuto l’ultima luna poco prima della partenza di Cersei. Credevo…» si interruppe e distolse lo sguardo, imbarazzata «Non so a cosa stavamo pensando. Ci amiamo…» Yohan si massaggiò le tempie. Era evidente che stava cercando di non sbottare. Tirò un sospiro e poi disse: «Evidentemente non stavate pensando... L'amore non vi è concesso mia regina» Kein si voltò come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. «Tu non capisci, capitano» sussurrò «Shin… lui è tutto quello che ho» Prima che Enya potesse intervenire, Yohan parlò, con durezza: «Tu hai un intero regno. Un arcipelago di numerose isole e infiniti sudditi ti cui prenderti cura. Sei una regina e come tale ti devi comportare. Non hai scelta, ora: devi sposarti, che tu lo voglia o no. E non con Shin.» «Yohan!» lo apostrofò Enya, incapace di trattenersi oltre. Aveva visto il volto di Kein accartocciarsi di dolore alle parole del capitano. Tutta la gioia per la vita che stava nascendo in lei spazzata via da quell’ordine così perentorio. «Perdonate la mia irruenza, vostra maestà» riprese, più calmo. «Tenete nascosto il vostro stato, in special modo a Kaplan. E pensate al più presto ad un uomo che possa affiancarvi sul trono del mare. Nasconderemo la gravidanza fingendo che vostro figlio sia di un lord di ferro.» «Dannazione» sibilò Enya, prendendolo per un braccio «Ha appena scoperto di aspettare un figlio! Non riesci a provare un po’ di empatia? Non puoi aspettare che ne abbia parlato col suo uomo?» «Più tempo aspettiamo, più sarà difficile far passare il bambino per legittimo» replicò Yohan, cercando di non scomporsi. «Possiamo cercare di rimediare trovando un pretendente facilmente manipolabile, qualcuno che non si faccia troppe domande» «Come puoi pretendere…?» si bloccò a metà della domanda, disgustata da quel pensiero. Si sorprese del dolore che le stava artigliando il cuore, quasi quella ragazza fosse davvero sua. «E tu come puoi non capire? L’amore, l’amore, che cos’è l’amore di fronte alle responsabilità di un regno? Dici che è una buona regina, diversa da ogni altro sovrano delle Isole perché sa sacrificare se stessa per gli altri. Ebbene, questo è il sacrificio che le viene richiesto ora!» «Enya…» intervenne Kein. La donna, che stava per scagliarsi nuovamente contro Farwynd, si voltò e andò ad inginocchiarsi accanto a lei. «Io non posso stare con un altro uomo. Non potrei, nemmeno se lo decidessi» dichiarò in un sussurro appena udibile. «Il capitano ha ragione. Sono stata una sciocca, un’irresponsabile e una sventata. Lo amo così tanto che mi manca il respiro al pensiero di perderlo, ma devo agire per il bene del mio regno o non sarò diversa da mio padre. Farò come dite ma…» abbassò ulteriormente la voce «… non posso giacere con un altro uomo. Non posso.» «A questo possiamo trovare rimedio» assicurò Yohan, prima che Enya potesse dissuadere la regina. «Dobbiamo solo trovare il candidato più adatto.» Kein annuì. Aveva l’aria sconfitta e affranta, le mani strette in grembo. La lady di Giardino Grigio provò un dolore, una pena immensi per lei, e una rabbia cieca, contro il destino, con il dio, contro Yohan, contro l’universo intero. “Perché mio figlio è morto? E perché il suo non potrà mai conoscere il vero volto del padre?” si domandò mentre sentiva le lacrime premere contro le palpebre. Aveva voglia di urlare, di distruggere ogni cosa in quella stanza, di colpire Farwynd. «Avete in mente un nome, capitano?» domandò la regina. Yohan, lentamente, annuì.

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    Capitolo 15
    *** VALKJA ***


    Lo sguardo di stupore e interesse di Valkja era lo stesso di sua sorella Arwyn, che assaporava e memorizzava ogni dettaglio che le circondava. Planky Town era il primo porto che poteva definirsi tale in cui ancorarono, dopo la lunga traversata per doppiare l’isola di Arbor e dopo la perigliosa e tempestosa costa meridionale di Dorne. Con la Luce Solitaria, la piccola barca orientale fornita dal capitano Farwynd, lei e i suoi compagni Ironborn, scelti tra meticci orientali e donne di ferro di madre dal sangue continentale, avevano messo piede nel territorio dei principi delle Sabbie senza che nessuno li fermasse, ostacolasse o arrestasse. L’imbarcazione, infatti, si mimetizzava perfettamente con i vascelli mercantili provenienti da Essos ancorati al porto. Mentre Balaq, fingendosi un mercante dell’Estate, si mescolava ai venditori locali facendo domande sulla lunghezza del fiume e sulle terre fertili che il Sangue Verde assetava, Valkja fantasticava sulle navi lunghe degli Ironborn, immaginandole giungere al Delta del Sangue Verde, linfa vitale di tutto il paese, e iniziare a risalirne il letto, razziandone i tesori. «So cosa stai pensando, Val» le disse Arwyn, dandole una leggera spinta «Ma ricordati che sei qui per incontrare la principessa e consegnare il messaggio della nostra regina. Non fare sciocchezze, non metterti nei guai e tieni gli occhi sull’obiettivo» «Non sono una sprovveduta» ribatté lei, piccata. Avevano solo cinque anni di differenza, ma a volte la sorella maggiore si atteggiava a donna matura e navigata e questo le dava sui nervi. «Sono stata scelta per portare a termine questo compito dalla regina e sono sicura che sia stato il capitano in persona a fare il mio nome» Sapeva che sua sorella si trastullava con Farwynd e si divertiva a stuzzicarla sull’argomento. «A proposito…» proseguì, con finta noncuranza «Non ti sei chiesta come mai sia tu sia Balaq siete stati scelti per questa spedizione?» La ragazza non rispose, ma le sue guance si imporporarono di rabbia. «Non prendertela, sorellina» fece Valkja, scherzosa «Sono sicura che Essos è piena di uomini interessanti. Potresti puntare a qualcuno di più giovane e aitante. Tipo quello…» Arwyn seguì lo sguardo della sorella, fino a posarsi su un uomo snello ma muscoloso dalla pelle olivastra e lunghi capelli neri come la notte che, a torso nudo, stava scaricando alcune casse da un’imbarcazione. Ad ogni movimento, i muscoli guizzavano sotto la pelle lucida di sudore. «Occhi sull’obiettivo, Val» ripeté, ma alla sorella minore non sfuggì un guizzo di malizia nei suoi occhi chiari. Non poterono continuare la conversazione perché, in quel momento, Balaq fece ritorno. «Scoperto qualcosa di interessante?» chiese Arwyn al gigante nero. «Aye. C’è un convoglio di mercanti che parte per Lancia del Sole al tramonto» rispose lui. Poi si diresse a Valkja «Ti consiglio di aggregarti a loro. Sanno come muoversi; inoltre, avrai più probabilità di passare inosservata se ti mescolerai alla gente del posto» «Procurati un cavallo» aggiunse Arwyn, allungandole una sacca di pelle tintinnante di monete. La ragazza la respinse, schifata. «Non essere sciocca. Prendi l’argento e paga per ciò di cui hai bisogno: l’importante è arrivare a palazzo, possibilmente non in catene.» A Valkja non restò altro da fare che accettare controvoglia il denaro. Afferrò la sacca e se l’assicurò alla cintura. «Meglio andare» disse Balaq. «Alla leonessa non piace aspettare.» «A presto, sorellina» disse Arwyn, stringendo la giovane in un rapido ma affettuoso abbraccio. Per quanto battibeccassero e si punzecchiassero di continuo, le Netley erano molto unite. «Mi mancherai» «Non fare la svenevole» la rimbeccò Valkja, allontanandola «Sono sicura che entro sera avrai altro a cui pensare. E, probabilmente, pure io.» Le fece l’occhiolino, si portò le dita alle labbra e le lanciò un bacio. Poi girò sui tacchi e scomparve tra la folla. §§§ Planky Town era un villaggio commerciale, l’unico, in tutta Dorne, che poteva considerarsi quasi una città. La mattina in cui Valkja si separò dalla sorella il porto, come ogni giorno, iniziava a popolarsi di pescatori e marinai, di commercianti e signori, di vascelli grandi e piccoli. Mercantili di ogni provenienza e di ogni forma, cocche, caracche e galee, trovavano ospitalità nei suoi moli. Perlopiù, navi arrivate dalle Città Libere di Essos, che si trovavano oltre il Mare Stretto. Accanto a queste imbarcazioni dell’Est, fluttuavano sull’acqua pescherecci e stravaganti barche, ignote ai mari delle Isole, più simili a zattere, con tetti bassi e travi larghe, alcune meravigliosamente dipinte e intagliate, che la ragazza scrutò con meraviglia e curiosità. Altre, invece, appartenenti ai piccoli e poveri commercianti del fiume, sembravano essere miseramente abitate. Tutte quelle chiatte e mercantili, legati tra loro da robuste corde, ondeggiavano dolcemente sulla foce del fiume. Le imbarcazioni fluviali sembravano, anche, essere la fonte primaria da cui veniva ricavato il materiale per gli edifici e le strade, tavole di legno, di quella strana città. Infatti, case, palazzi e negozi erano ricavati dal legno e dai medesimi scafi delle navi che solcavano quelle acque. Val passeggiò, gli occhi che vagavano sulle merci che imbandivano i tavoli delle bancarelle portuali: pesce meridionale e orientale, agrumi esotici, tra cui spiccava l’abbondanza di arance rosse, limoni, ma anche melograni e olive. Non mancavano datteri e fichi, e, ancora, spezie dai profumi forti e piccanti. Chiusi in piccole gabbie di legno, venivano vendute numerose specie di scorpioni, e, per chi non osava avvicinarsi a quelle creature, in piccole e ed eleganti boccette di vetro, potevano essere acquistati i veleni dei medesimi. Infine, i celebri vini rossi di Dorne, le sete e i tessuti preziosi del Sud, che dall’entroterra, lungo il corso del Sangue Verde, giungevano alla foce per essere esportate in tutto il mondo conosciuto. Dopo aver vagato, alla cieca, tra le strade di quella grande e popolosa città e tra i flessuosi pescatori e marinai dalla pelle olivastra e dai lunghi capelli neri, raggiunse il quartiere settentrionale, dove i nitriti di puledri e puledre si fecero più forti e decisi. Si trovò, infine, davanti a quella che doveva essere una ricca scuderia o una stalla, che ospitava magnifici cavalli, che nulla avevano in comune con i piccoli, tozzi pony dal manto arruffato a cui era abituata. Uno in particolare catturò l’interesse di Valkja: un cavallo dal collo lungo, il muso stretto e sottile, il manto pallido come i capelli di lei e il corpo snello, atletico. Un uomo alto, dalla pelle scurissima, la vide e le andò incontro. Doveva essere il proprietario di quei cavalli, poiché si lanciò immediatamente in una perorazione della sua merce. «Questi sono i miei figli, l’oro più prezioso che ho» disse indicando con la mano, in modo teatrale, gli animali dietro di lui «non ti far ingannare dalla loro piccola statura, mia signora. Sono veloci, agili e instancabili, capaci di cavalcare per giorni con poco acqua. Sono i Destrieri delle Sabbie, i migliori cavalli di tutto il Continente Occidentale. E io sono Olyvar l’Orfano delle Sabbie, il miglior allevatore, e commerciante, di tutta Planky Town» disse trascinando alcuni suoni, arrotondandone altri, accentuandone altri ancora in strane posizioni. Per poco, tutto quel discorso non parve incomprensibile a Valkja. «Orfano delle Sabbie?» chiese, fingendosi incuriosita. Si pentì presto di quella domanda poiché l’allevatore, affetto da evidente verbosità, riprese a discorrere in un monologo senza sosta. «hai udito bene, mia signora» rispose infatti «mia madre era una dorniana delle sabbie, la cui nobile famiglia del deserto allevava gli splendidi destrieri in un terreno, bagnato dal Sangue Verde, non molto lontano da dove si forma la confluenza del Vaith e del Flagello, vicino a Grazia degli Dei. Donna devota mia madre. Mio padre era, invece, un Rohynar della costa, un Orfano del Sangue Verde, devoto anche lui sì, ma non alla madre dei Sette, bensì alla dea Madre Rhoyne. Come tutti i Rohynar di Dorne viveva in una barca mercantile, zattera da lui costruita, con cui viaggiava su e giù per tutto il corso d’acqua» ne parlava orgoglioso, ma, allo stesso tempo, sembrava che ripetesse un discorso preparato. Una manfrina che rifilava a tutti i clienti per accalappiarli e abbindolarli «fu così, che un giorno, mio padre, che navigava sulle acque tranquille e fangose del fiume, vide, sulla riva, una bellissima figlia delle sabbie…» Valkja smise presto di ascoltarlo, catturata invece dal destriero. Gli avvicinò la mano al muso e quello, docilmente, si lasciò accarezzare. Aveva grandi occhi scuri e dolci e la sua criniera era morbida e setosa al tatto. La giovane pensò che sarebbe stato bello cavalcarlo. «… Ho continuato l’attività della famiglia di mia madre, ma espandendola, con le mie sole forze e grazie al sangue rohyniano che scorre nelle mie vene, a tutta Planky Town, così che anche pellegrini bisognosi e giovani dame possano usufruire dei miei bellissimi cavalli» stava continuando l’altro a blaterare, con un sorriso lascivo «un giorno potrò anch’io, con la benedizione della Madre, fare ritorno alla Rohyne» concluse, drammatizzando la recitazione. «E quanto è il valore di questi insuperabili destrieri» chiese alla fine Valkja, tagliando corto. «Il valore è inestimabile, si intende. Ma per te, mia lady dalla bellezza raffinata e rara, sconosciuta ad ogni buon dorniano, io Olyvar l’Orfano delle Sabbie, farò un prezzo speciale e con poche monete d’argento vi regalerò il destriero da voi scelto» «Perché pagare con l’argento ciò che si può ottenere con il ferro?» domandò, incapace di trattenersi e godendosi l’espressione confusa e spaventata che si era dipinta sul volto di Olyvar a quelle parole. «Mia signora» balbettò «Qui… qui non siamo sulle tue Isole… se ti compiace, soltanto due monete per te. È un prezzo onesto, quasi un regalo» offrì, sorridendo untuoso. Val gli avrebbe volentieri aperto un altro sorriso, sulla gola, però. Sentiva l’acciaio premerle contro il fianco, acciaio che da troppo tempo non beveva sangue nemico, ma ricordò le parole della sorella e, invece che al pugnale, diresse la sua mano al sacchettino di pelle che conteneva il suo piccolo tesoro. Ne estrasse due monete d’argento e le lanciò al venditore. «Grazie della bellissima storia, buon uomo» sorrise «e perdonami se ti ho spaventato» Prese il cavallo per le briglie e, senza aggiungere altro, si allontanò. §§§ Come aveva detto Balaq, al tramonto Valkja trovò un piccolo convoglio di mercanti, riunito nella piazza principale, che si preparava alla partenza. La ragazza, conducendo per le briglie la sua cavalcatura, uscì dalla città a passo lento, fingendosi una comune viaggiatrice tra pellegrini e viandanti, senza dare nell’occhio, in direzione del seggio della Casa Martell. La breve strada, che da Planky Town si allontanava per raggiungere Lancia del Sole, costeggiava la costa sabbiosa del braccio di Dorne e si diramava tra basse dune di sabbia bianca e rossa. Al calar della notte, il convoglio raggiunse Lancia del Sole, città che portava il medesimo nome della riproduzione raffigurata nel vessillo della casa protettrice della regione. L’Emblema era nato quando Casa Martell aveva unito la propria lancia al sole dei Rohyne, nel giorno in cui, arrivata da Essos con le sue mille navi, la principessa Nymeria aveva sposato Mors Martell. Così, Valkja poté vedere la fortezza, che era costruita su uno sperone di terra allungato sul mare, che la circondava da tre lati. Sul quarto lato si ergeva la città ombra, un labirintico e polveroso villaggio di edifici di mattoni di fango addossati alle mura. Mura serpeggianti che avvolgevano palazzi e torri e che si snodavano sinuosi al suo interno. La fortezza era formata da una brutta, tozza costruzione grigia, dalla forma di un dromone, circondata però da magnifiche torri. Un imponente triplice portale, fortunatamente, permetteva l’accesso diretto al castello, evitando così di perdersi nel dedalo caotico del villaggio. Valkja, separatasi dal convoglio diretto alla città ombra, raggiunse al trotto i cancelli, ma, lì, fu respinta dalle guardie alte, severe e algide, che, armate di lunghe lance e spade larghe e curve, la cacciarono via in malo modo: «Questa è Lancia del Sole. Qui non sei desiderata senza invito, straniera». Val pensò di farsi largo con l’acciaio, oppure di tirare fuori le missive che custodiva gelosamente in una tasca segreta, ma sua sorella le aveva raccomandato di mostrarle solo alla principessa Arianne in persona. Fissò per qualche istante le guardie, con aria di sfida, per imprimersi i loro lineamenti nella memoria: se ne sarebbe occupata prima o poi. Alla fine, però, fu costretta a battere in ritirata. Respinta, stanca e spossata, cercò rifugio tra le case di paglia e fango, abbarbicate alle mura fatiscenti. Alla fine, vinta dal sonno e dalla stanchezza, trovò riparo nella stalla di una locanda, dove si infilò in silenzio con il suo cavallino. Venne svegliata alle prime luci dell’alba, dopo poche ore di sonno, da uno stalliere che era venuto ad occuparsi dei cavalli degli avventori. Era un bel ragazzo, alto e muscoloso; aveva occhi e capelli chiari, un aspetto molto diverso dallo scaricatore che aveva catturato la sua attenzione al porto il giorno precedente, ma era comunque interessante. “Dev’essere un dorniano di roccia” pensò mentre sbadigliava e stirava i muscoli. «Chi sei? Che ci fai qua?» domandò lo stalliere, più incuriosito che infastidito dalla presenza dell’intrusa. Val si alzò lentamente, con un movimento sinuoso e felino, e regalò allo sconosciuto il suo sorriso più sensuale. «Sono solo una viaggiatrice stanca» rispose «che questa notte ha cercato rifugio» «La stalla è per i cavalli, non per le giovani fanciulle. E di certo non è gratis. Se il mio padrone scopre che hai trascorso la notte qui a sbafo…» iniziò il ragazzo, ma Valkja lo interruppe. «E perché dovrebbe scoprirlo? Inoltre» proseguì avvicinandosi allo stalliere e abbassando la voce quasi in un sussurro «ho intenzione di pagare… il dovuto» Il dorniano era sveglio e capì subito che gli conveniva di molto riscuotere il dovuto di persona anziché lasciare il padrone mettesse le mani sul conio. Le sorrise con cupidigia e la condusse in un luogo appartato dove, senza perdere tempo, le tolse i vestiti. «Non abbiamo molto tempo» si scusò mentre le sfilava la camicia esponendo i seni che subito prese a massaggiare. «Non sono una che ama perderne» rispose Valkja, gli abbassò le brache e gli prese il membro in bocca. Non ci volle molto per portarlo all’orlo del piacere, così si staccò da lui, si voltò e lasciò che la penetrasse da dietro. Consumarono l’amplesso in modo rapido ma abbastanza appagante e il ragazzo, alla notte nella stalla, aggiunse un paio di tortine al limone in cambio di quei pochi minuti di godimento. La giovane Ironborn recuperò il suo cavallino, lo strigliò, gli diede un po’ di biada da mangiare e fece per allontanarsi. «Aspetta!» la richiamò lo stalliere «Non vuoi dirmi il tuo nome?» «Il mio nome è lussuria» replicò Val, ammiccando. «Se dovessi ripassare da Lancia del Sole, lady lussuria, fermati pure alla Locanda della Sabbia Bianca» le gridò dietro mentre lei si allontanava. Iniziò a girovagare e ben presto si perse tra miriadi di stretti vicoli, cortili nascosti, strane e informi abitazioni e tuguri senza finestre, che si raccoglievano sotto il palazzo. Superate infinite botteghe, colme di spezie di Dorne e dell’Est, trovò una piccola fontana di acqua limpida e fresca, al centro di quella che doveva essere una piccola piazza, dove mendicanti chiedevano l’elemosina e bambini vendeva cianfrusaglie o tessuti di qualità dubbia. Altri, cupi e fetidi, scrutavano i passanti in cerca di un pollo da spennare e derubare. Ragazzini e giovani fanciulle, alla vista della ragazza bionda e straniera, per via degli abiti inusuali per resistere al caldo cocente e afoso della città, circondarono Valkja, che si ritrovò senza via di fuga. “Che gli estranei si portino mia sorella e i suoi dannati consigli” pensò, ed estrasse la lama. La fece roteare con la destra, mentre con la sinistra teneva saldamente le redini del cavallo, per evitare che quella marmaglia se ne approfittasse per portarglielo via. I ragazzini, alla vista dell’acciaio e, soprattutto, di qualcuno che sembrava in grado di usarlo, arretrarono di un passo. Una soltanto ebbe il coraggio di avanzare, una ragazzetta cenciosa, dalla pelle scurissima e occhi piccoli e feroci, armata di un bastone. «Non siate vigliacchi!» esortò i suoi compagni «Lei è una sola, noi siamo tanti! All’attacco!» A quel grido le si gettò addosso e cercò di colpirla con il bastone, la giovane Ironborn era molto più alta, robusta ed esperta e l’assalitrice si trovò in un attimo con la faccia nella polvere e una ferita aperta sulla guancia. «Andate a tormentare qualcun altro» disse Valkja e il gruppo si disperse, lasciando la loro leader sola e sanguinante. Val cerò nella borsa, prese qualche moneta di rame e le gettò nella povere. La ragazzina afferrò il conio e, senza una parola, scappò via. “Che strano paese” pensò la giovane, proseguendo nel suo pellegrinaggio alla cieca. Doveva assolutamente trovare un modo per entrare a Lancia del Sole e incontrare Arianne… ma come? Andò a dissetarsi alla fontana, poi proseguì nel suo vagabondaggio. Non passò molto tempo che, ancora una volta, si senti stanca e assetata. Si accorse che i suoi indumenti, e, in particolare, il suo pesante mantello marinaresco, adatto contro i venti sferzanti e le tempeste del mare, erano poco adatti a quelle temperature desertiche. I suoi abiti, infatti, erano pesanti e non ventilavano il corpo. Alla fine, superate stalle e locande, osterie e bordelli, trovò ed entro in un grande, e anch’esso labirintico, bazar rumoroso, che si sviluppava all’interno di un enorme edificio colonnato ad un solo piano, con pareti scavate, che formavano numerose alcove che, a loro volta, ospitavano bancarelle e negozi. Le pareti di fango rendevano quel luogo fresco e arieggiato. «Prelibatezze dorniane! Venite! Assaggiate le mie prelibatezze dorniane!» A parlare era un piccolo uomo, non più alto di cinque piedi, con il petto scoperto che mostrava una pelle rossa scarlatta bruciata dal sole, con un lungo e grosso naso e dal mento prominente. Portava un leggero pezzo di stoffa bianco e rosso attorno alla vita e un cappuccio, sul capo, dello stesso colore. Sedeva accanto ad un banco pieno di cibo, strano ma stuzzicante agli occhi di Valkja. «Mia lady, siete forse giunta dalle dorate terre dell’ovest? Tenete provate questa leccornia che ho fatto con le mie mani. L’ho chiamato il “mortale bignè”» le porse il pasticcino «non vi spaventate dai nomi altisonanti degli ingredienti: i maccheroni fulminanti, i funghi velenosi, le pasticche al curaro e il budino all’arsenico sono solo falsi appellativi» poi continuò canticchiando «In un grande pentolon, metto zampe di scorpion, ed aggiungo con piacer, di olio un bel bicchier, oh, meglio metterne due. Sublimato in quantità, di vino una metà, stricnina a non finir. Di alcolico si sa, ne mettiamo qua e là, vetriolo quanto vuoi, ed arsenico se vuoi, comunque meglio metterne parecchio. Pepe rosso a profusion, poco sangue di monton, vermi fritti al maraschin, e di sale un pizzichin!» terminò il piccolo uomo affabulatore. «Nooo!» strillò un uomo alto, dalla pelle olivastra, giunto all’improvviso alla bancarella. Ma mentre l’ometto terminava la strofa, una ventata di fuoco si sprigionò dalla gola di Valkya, e si diffuse per tutta la bocca. Iniziò a tossire, e gli occhi le lacrimarono. Cercò disperatamente acqua fresca da bere per fermare l’infiammazione, ma prima che riuscisse a prendere una brocca per assetarsi e spegnere il fuoco, l’uomo, appena arrivato, la bloccò e le diede velocemente un boccale di succo di arancia rossa. «Tu, piccola canaglia, sparisci!» urlò dietro all’omuncolo senza nome, che, sghignazzando, corse via e si dileguò tra la fiumana umana che si trovava al bazar. Il salvatore portava una barbetta nera che gli incorniciava il volto, e indossava un chitone blu, lungo fino ai piedi. «Non siete di queste parti, devo presumere» disse mentre Valkja, aiutata dal sapore dolce e rinfrescante dell’arancia, riprendeva fiato. «I cibi dorniani sono molto speziati, questo in particolare è condito da peperoncino di drago, brucia la bocca ovviamente» le disse con un sorriso «ma il segreto per renderlo unico, è mescolarlo al gran veleno di cobra» Valkja, che si stava appena riprendendo, rimase sbigottita nel sentire quell’ingrediente, e il succo d’arancia le andò di traverso. L’uomo se ne accorse e la rincuorò subito cordiale «non vi preoccupate, mia signora, non è velenoso se utilizzato in piccole quantità. Qui torte prepariam, ed in dono le portiam, e chi le mangerà, certamente non creperà!» concluse canterellando allegro, sulle stesse note usate dall’ometto poco prima. Valkja colse l’occasione di avere davanti a sé un uomo che pareva loquace, e cercò di carpirne informazioni per lei vitali «Anche le principesse di Dorne si sottopongono a questo dolce dolore?» disse sorridendogli e ringraziandolo calorosamente per averla salvata dal soffocamento con il nettare all’arancia. «Questo e altri ben peggiori. Io stesso fornisco i cibi speziati alle cucine del castello» Una bugia, con ogni probabilità. Eppure perfetta per Valkja, che imperterrita continuò a fingere di elogiare l’uomo. «E quest’oggi, le avete voi stesso preparato la colazione?» «Non oggi» rispose imbarazzato «Da almeno un mese, ormai, la principessa si è ritirata ai Giardini dell’Acqua. Purtroppo in quel palazzo hanno già cuochi e cuoche scelti. Noi, del popolino, veniamo spesso esclusi e dimenticati» «Scommetto che difficilmente supereranno le vostre prelibatezze, questi cuochi di…» finse di aver dimenticato il nome del luogo. «Giardini dell’Acqua, il palazzo di Casa Martell» ribadì il suo interlocutore. «Dista parecchie miglia da qui immagino» fece Val, fingendo di esaminare le merci. «Oh no, mia signora. Si trova lungo la costa, a sole tre leghe a nord-ovest di Lancia del Sole» «E voi, invece, dove abitate, buon uomo?». D’improvviso, la giova donna abbandonò le cibarie e diresse tutta la sua attenzione al venditore. Il suo sorriso, sfacciato e sensuale, ebbe l’effetto desiderato. «Non lontano da qui, in realtà… perché me lo domandate, mia signora?» domandò infatti, rapito. «Perché non mi mostrate la vostra casa? Ho fatto un lungo viaggio. Sono stanca e assetata. Di certo potrei riposare con voi al fianco» fece Val, ammiccante. Incredulo che una donna tanto bella potesse essere interessata a lui, il mercante balbettò poche parole «Certo... il tempo... di chiudere...». ma appena si voltò per sistemare i suoi averi che teneva al sicuro dietro la bancarella, Valkja volò via, in direzione dei Giardini dell’Acqua. Quando si voltò, la donna era sparita e così anche una cesta piena di viveri. §§§ Per l’ennesima volta, intraprese un viaggio che affrontò impreparata. Sopravvalutò la calura del sole e della strada del deserto, che per quanto potesse essere visibile e facile da seguire, era accompagnata da una fine sabbia bollente che il vento insinuava crudelmente tra i suoi abiti senza pietà. L’aria del mare nulla poteva contro l’aria che soffiava da ovest. A differenza del tratto percorso da Planky Town a Lancia del Sole, adesso, non aveva compagni con cui condividere la fatica del viaggio. Il cavallino delle sabbie, fortunatamente, era più abituato di lei a quei percorsi, e camminava con passo lento e costante sotto il sole impietoso. A metà percorso, con il sole che si faceva sempre più scottante, Val stava iniziando, ingenuamente, a spogliarsi del suo mantello e dei veli in eccesso, non sopportandoli più, quando incrociò un gruppo di cavalieri, armati alla leggera che cavalcava destrieri delle sabbia, spingendoli al massimo, in senso opposto al suo. Li vide a fatica, non riuscendo, a causa del vento sabbioso, a soffermarsi bene su di loro. Pensò di seguire i segni lasciati dagli zoccoli dei cavalli che probabilmente giungevano dai Giardini dell’Acqua, ma non ci riuscì per molto. Presto, infatti, il vento li cancellò. La strada, che aveva di fronte a sé, inizio a confondersi e le sabbie rosse e bianche si fusero all’azzurro del cielo. Poi mal di testa e vertigini presero possesso del suo corpo. Le immagini si facevano più appannate e la concentrazione sui suoi passi svanì. Non fu più in grado di pensare con lucidità. Respirava ormai con fatica, tossendo ripetutamente, la sabbia le entrava dal naso e dalla bocca per ostruirle le vie respiratorie. Forti raffiche di vento iniziarono a soffiare con maggior potenza e la sabbia vibrò e iniziò a saltare per poi sollevarsi sempre più. Fino a quando, alla sua sinistra, un muro giallo, rosso e arancio oscurò l’orizzonte. Una gigantesca onda, pari solo ai maremoti del Dio Abissale, si avvicinava verso Valkja, la cui unica via di fuga rimase il mare. Pietrificata a quella vista, fu capace di riscuotersi per un breve momento e indirizzò il destriero verso l’elemento che meglio conosceva nella speranza di scappare all’incubo che stava vivendo. Ma tra la sabbia che scottava e l’accecava, la stanchezza, i muscoli che causavano dolore ad ogni minimo movimento e la disidratazione, non riuscì a rimanere in sella a lungo. Si accasciò sul collo del cavallino e cercò di afferrarsi alla criniera ma fu tutto inutile. Perse i sensi e cadde di sella. Tutto divenne buio. §§§ Si svegliò con la luce del mattino, riposata e in forze, in un soffice letto circondata da morbidi cuscini. Accanto a lei, una brocca e una bacinella erano ricolme di acqua fresca e limpida. Pulita e profumata, vestiva una leggera tunica di seta, che nulla lasciava all’immaginazione. Si guardò intorno: si trovava in una lussuosa e ricca stanza nobiliare, dalle pareti chiare e addobbata da numerosi veli di seta trasparenti. Tappeti colorati e dalle incredibili fantasie accarezzavano i suoi piedi nudi, mentre camminava alla ricerca di qualcosa che le fosse familiare. Non vedeva traccia degli abiti che ricordava di portare, né della lama che portava con sé e, peggio che peggio, della pergamena con il simboli della piovra dei Greyjoy impressa sul sigillo. Si diresse verso la porta, nel tentativo di aprirla, ma la trovò sbarrata dell’esterno. Si voltò quindi verso la terrazza della stanza, che si apriva, oltre un tendaggio avorio, su un grande e ombreggiato giardino. Grandi fontane con improbabili giochi d’acqua riempivano e bagnavano altrettante, grandi piscine, dove bambini veloci e chiassosi giocavano a spruzzarsi d’acqua. Altri ancora, si rincorrevano tra loro su freschi pavimenti di pallido marmo rosa. Dolce ombra amichevole veniva proiettata da alberi di arance rosse e da lunghe gallerie ad arco e colonnati che circondavano tutto il giardino. Il color sabbia danzava armonioso son l’azzurro di tutta quell’acqua e con il verde smeraldo delle foglie degli alberi. Tuttavia, Val calcolò di trovarsi troppo in alto per cercare una via di fuga dalla terrazza. Rientrò quindi nella stanza, dove notò un tavolo dipinto a scacchi di colore diverso, onice e avorio, con strani pezzi poggiati, ordinatamente, su di esso. I pezzi raffiguravano diversi soggetti: lanciere, balestriere, cavalli, armi d’assedio, elefanti, draghi e Re. Stava ancora osservando quella insolita composizione d’arredo incuriosita e confusa, quando una donna, formosa e bellissima, dalla pelle olivastra, con capelli lunghi e neri che cadevano in morbide ciocche ad incorniciarle il volto e dai seni rotondi e pieni che non venivano nascosti dalla veste leggera che portava, seduta sul letto, con le gambe nude e accavallate, parlò fissando con i suoi grandi e profondi occhi scuri il tavolo da gioco: «Quello è il Cyvasse, un gioco da tavolo giunto a Dorne dalle terre di Volantis anni or sono. Mio padre voleva che imparassi a giocarci, ma avevo altri interessi da ragazza. Solo più tardi ho imparato che è un ottimo modo per scambiare informazioni e fare scommesse» disse senza trasporto, mentre scrutava il corpo di Valkja, appena nascosto dal velo che portava. Val rimase attonita: era sicura che, prima, la donna non fosse nella stanza. Quando si era svegliata era sola, di questo aveva la certezza. Da dove era sbucata? Restò immobile, attonita, senza parlare e l’altra continuò come nulla fosse: «Voi sulle Isole giocate a Cyvasse?» le domandò quando il suo sguardo incrociò gli occhi di Valkja. «Noi Danziamo con le dita» rispose Valkja alla sua ospite, senza sbilanciarsi. Avrebbe voluto chiederle chi fosse e come avesse fatto ad entrare, ma ritenne più opportuno tenere la bocca chiusa e aspettare che fosse l’altra a scoprire le sue carte. «Sì, ho sentito parlare della vostra danza» disse pensierosa. Non c’era passione né curiosità nella sua voce, mentre si avvicinava al tavolo, iniziando ad accarezzare con le dita un pezzo del gioco, scolpito in onice nero notte: uno dei draghi. Per un lungo momento, parve perdere interesse in qualsiasi altra cosa, gli occhi fissi e rapiti dal drago nero. Dopo un po’, Val non resistette e ruppe il silenzio. «Mia signora…» esordì «Non ricordo come sono arrivata qui… ad essere sincera, non so nemmeno dove mi trovo di preciso. Ero in viaggio verso i Giardini dell’Acqua quando sono incappata in una tremenda tempesta di sabbia. Devo aver perso i sensi perché non rammento altro…» «Beh, direi che sei riuscita ad arrivare alla tua meta, Valkja Netley» sorrise la sua ospite, rialzando finalmente lo sguardo dal gioco. «Come conosci il mio nome, mia signora?» domandò. «Era scritto nella lettera della tua regina» rispose la dorniana. Stava per aggiungere qualcosa, ma Val, infuriata, la interruppe. «Quelle lettere erano per la principessa Arianne! Voi non… oh…» Si era resa conto, troppo tardi, dell’identità della sua ospite. Arrossì violentemente, ma la principessa non diede segno di essersi inquietata. Anzi, sorrise condiscendente. «Le mie guardie ti hanno incrociato sulla strada la Lancia del Sole. Uno di loro, Ryon, si è accorto che eri in difficoltà, è tornato indietro e ti ha soccorsa. Quando siete arrivati qui, mentre il maestro ti visitava, ha trovato le pergamene e me le .ha consegnate» «Chiedo scusa, mia signora, la vostra bellezza… avrei dovuto riconoscervi subito» si scusò la giovane Ironborn. «Non preoccuparti, mia cara» la rassicurò Arianne Martell alzandosi per andarle ad accarezzare il viso. Val rimase di sasso mentre le dita sottili e scure della donna le sfioravano la pelle. Un brivido le corse lungo la schiena, ma cercò di rimanere impassibile. «Ora devo andare, ho delle faccende urgenti da sbrigare. Tu riposa, ci vedremo questa sera a cena e parleremo delle missive che mi hai portato e che ti sono quasi costate la vita. A tal proposito, avrai anche l’occasione di incontrare Ryon. È rimasto molto colpito da te» aggiunse, misteriosamente. Valkja rimase di sale, incapace di muoversi: Arianne era così vicina che riusciva a sentirne il profumo e anche il respiro lieve che le sfuggiva dalle labbra. Erano talmente vicine che l’immagine della principessa si confuse davanti ai suoi occhi. Per un lungo momento rimasero così, a un respiro di distanza, poi Arianne le posò un leggero bacio sulla guancia e si diresse alla porta. Val rimase sorpresa: la sua pelle, là dove era stata baciata, bruciava. §§§ Quando le guardie andarono a chiamarla, Valkja pensò che sarebbe stata condotta in una sala per ricevimenti, con lunghi tavoli di legno grezzo e panche e un desco di maggior pregio posto in posizione rialzata per la nobile famiglia ospitante. Oppure, immaginava un luogo appartato, un solarium, per esempio, o addirittura le stanze stesse della principessa. Invece, venne condotta nei giardini che aveva visto la mattina dalla sua finestra. Alti palmizi facevano ombra ad aranci selvatici, il ruscellare costante delle fontane si intrecciava al canto degli uccelli e i bambini sciamavano verso l'interno del palazzo. Val seguì i soldati nell'intricato labirinto, nel dedalo di arbusti fino a una radura in mezzo alla quale si ergeva uno splendido gazebo in muratura, ricoperto di meravigliosi mosaici in cui il color oro predominava su ogni altro. Distesa un divanetto dalla forma esotica, la principessa Arianne si godeva il calore del tramonto, sorseggiando una coppa di vino. Era ancora più nuda di quella mattina, coperta solo da pochi strati di veli color carminio e arancio che sottolineavano la sua splendida figura. La giovane ironborn, a quella vista e al ricordo del bacio ricevuto quella mattina, arrossì. «Mia signora» disse, con un inchino, sperando che la luce aranciata del tramonto avesse coperto il rossore delle sue guance. «Ti sono grata per il tuo gentile invito.» Mentre parlava, notò che dall'ombra, alle spalle della principessa, era emerso un uomo dalla pelle scura, di bell'aspetto, la cui fisionomia le sembrava vagamente familiare. Rimase incantata ad osservare i suoi occhi d'onice, dello stesso colore dei pezzi del Cyvasse. Arianne, accorgendosene, disse sorridendo: «Questi è Ryon, una delle mie guardie. E' stato lui a trarti in salvo ieri.» Il soldato si inchinò, mantenendo però lo sguardo fisso in quello di Val. Era magnetico, pareva spogliarla. «Ti ringrazio, mio signore» sussurrò per nascondere il tremito della voce. «Ci sono così pochi fiori nel deserto» replicò lui «sarebbe stato uno spreco terribile lasciare che la tempesta ne distruggesse uno così bello.» «E io non ti avrei mai perdonato se ciò fosse accaduto» gli rispose Arianne sorridendogli lasciva. In quel momento, confusa da quelle parole e da quegli sguardi, Val fu certa di avere il volto in fiamme e svelta distolse lo sguardo. «Serviti e accomodati pure dove vuoi, mia cara» le disse fissandola con occhi divertiti. «Assaggia il dolce nettare dorniano. Il sapore che scorre nel nostro Sangue è delizioso». Arianne bevve lentamente un altro sorso di vino dalla sua coppa, poi protese la mano offrendole la stessa coppa da cui aveva appena bevuto. Il velo che copriva tutto il suo corpo e non nascondeva nulla, si mosse leggermente, tanto da scoprirle parte del seno. Valkja afferrò il bicchiere con mano tremante e bevve un piccolo sorso. Dopo l'esperienza con il bignè diffidava di qualsiasi cibo e bevanda di quel luogo, tuttavia il sapore del vino era dolce e rinfrescante e la ragazza vuotò la coppa. Poi andò a sdraiarsi su uno di quegli strani divani, posizionato perpendicolarmente a quello della principessa, così che le loro teste fossero vicine. «Valkja, che nome insolito... è un nome comune nelle Isole di Ferro?» chiese la principessa. Il tono indifferente era accompagnato da uno sguardo concentrato non sul volto di Val, ma sulle curve di lei, che sdraiata risultavano essere sinuose e sensuali. «Non molto mia signora, no. Potete chiamarmi Val, se vi compiace. Mia sorella mi chiama così.» «Siete affezionata a vostra sorella, Val?» Valkja ci pensò su. Certo, era molto legata ad Arwyn, tuttavia... «Siamo molto competitive» rispose alla fine «ma ci vogliamo bene, naturalmente». Non accennò ai fratelli della principessa: sapeva che tutti avevano incontrato una fine tragica. «Ho sempre desiderato avere una sorella». La ragazza di ferro fissò gli occhi scuri e profondi della donna delle sabbie per cercare quanta verità c'era in quelle parole, ma fu presto distratta dalla posizione in cui si trovava, che trovava insolita e difficile. «Mi ha insegnato molte cose» rispose, cauta «Perché ha cinque anni più di me. Ma a volte è un'insopportabile so-tutto-io» Le labbra della principessa si riaprirono in un dolce sorriso poi si rivolse a Ryon che imperturbabile era rimasto ad osservare le due donne «A volte penso di esserlo anche io» rise provocatoriamente verso l'uomo «Ser, ritenete che lo sia anche io? Fate attenzione a come risponderete» gli disse fingendo un avvertimento minaccioso. «Nessuna rosa è libera da spine, mia signora» rispose lui, pragmatico «Ma lasciarsi pungere dalle vostre è un dolore estremamente dolce» «Te ne sono sempre grata, Ryon» la voce della principessa si era fatta melliflua e per un attimo a Valkja parve di essere stata dimenticata dai suoi ospiti. Poi Arianne riprese a parlare con lei «Avete anche fratelli con cui condividere la vostra bellezza, Val?» «Potrebbe essere...» rispose la giovane Ironborn «Sulle isole non ci facciamo molti scrupoli. Siamo piuttosto... liberi, se mi capite. Un'usanza che credo condividiamo con le vostre terre, se non vado errata» La principessa annui compiacente, rischiarata dalle ultime luci del tramonto. Subito vennero servitori che trasportarono grandi calderoni bronzei, le cui braci interne illuminarono il gazebo. Poi, meticolosamente, sciolsero tendaggi riccamente decorati che separarono i tre dall'esterno. La calura del giorno stava scemando, ma il corpo di Valkja continuava ad ardere da dentro. «Sì esatto» continuò Arianne appena i servitori se ne furono andati «Mio zio e la sua compagna mi hanno insegnato molto su questo paese. Mi hanno fatto vedere e conoscere le dune dolci e armoniose e le terre fertili e generose» mentre parlava i suoi occhi erano tornati ad accarezzare il corpo di Valkja «Amo tutti i suoi segreti più intimi, li bramo e li proteggo» dopo una breve pausa che sembrò un'eternità continuò «dovresti vederle anche tu, sarei felice di guidarti e mostrarti le mie passioni» «Anche io amo le mie terre, principessa, il mio mare, soprattutto». Finalmente, Valkja intravedeva uno spiraglio che le permettesse di parlare di ciò per cui era andata a Dorne «Ed è questo amore che mi ha portata fin qui.» «Parlami del tuo amore, Val» «Sono delle isole lontane, mia signora» disse. Mentre parlava, quasi poteva sentire l’odore della salsedine sulla spiaggia di Pyke «luoghi impervi, desolati, eppure meravigliosi, abitati da gente dura, per cui la sopravvivenza è questione di lotta quotidiana. Gli ultimi anni sono stati duri… ero solo una bambina quando è iniziata la Lunga Notte… ma ora, sapete, le cose potrebbero cambiare. Abbiamo una nuova sovrana, una donna di umili origini ma forte e determinata. Una donna che sa ciò che vuole… una come voi» «La conoscete bene la vostra regina?» domandò Arianne. «Quanto basta per…» iniziò Val, ma furono interrotte di nuovo dai servitori che portarono piatti ricolmi di pietanze che servirono alla principessa e alla sua ospite. Vi era una zuppa con uova e limoni, e lunghi peperoni verdi ripieni di formaggio e cipolle. Ma la pietanza principale era uno stufato contenente quelli che Valkja riconobbe come serpenti lacerati e riempiti con peperoncini di drago e arance sanguinelle. “Senza alcun dubbio avranno aggiunto veleno per rendere il tutto più saporito e gustoso” pensò raccapricciata Val “Lo stufato era di certo piccantissimo”. L’unica pietanza che catturò l’attenzione della ragazza di ferro fu il sorbetto, che già pregustava per salvarsi da quei cibi piccanti e velenosi. Infine, prima di congedarsi, i servitori rabboccarono le brocche di vino. Attese che i servitori si fossero allontanati per continuare: «Kein Greyjoy è una donna di ferro, mia signora. Nonostante questo, non è l’antica via ciò che brama» «Tu che cosa brami Val?» domandò Arianne. Valkja ci pensò un po’ su. Era una domanda strana. «È la prima volta che qualcuno me lo chiede» rispose, stringendosi nelle spalle. «Vivere intensamente ogni giorno, credo.» «È per questo motivo che ti trovi qui?» le chiese continuando a sorseggiare altro vino. «Per vivere l’avventura più grande, principessa. Quella della libertà.» «Libertà, avventura…» disse la dorniana sussurrando «qual è la tua più grande fantasia di questa libertà, Val?» Valkja non poté non concentrarsi sulla labbra di lei, carnose e perfette, fatte per baciare. “Non è questo lo scopo per cui sono venuta” pensò, cercando di mantenere il controllo. Arianne iniziò a toccarsi il petto delicatamente, seguendo la curva del suo seno lentamente. Un sorriso perverso le comparve sul volto e Valkja si accorse di desiderare di toccare e succhiare i capezzoli della principessa che diventavano duri sotto la leggera e trasparente veste. «Ryon, qual è la tua più grande fantasia?» continuò poi la lady delle Sabbie. «Servire voi e chiunque altra voi desideriate, mia principessa» «Servire me e una mia ancella ad esempio?» «Sì» annuì lui, lasciando chiaro il significato del suo desiderio. «È anche una mia fantasia» fece Arianne, pensierosa, quasi distratta. «Una rosa del deserto… e un anemone di mare» disse il soldato. La principessa si alzò e si avvicinò al triclinio di Valkja e le prese le mani. La sua pelle era liscia soffice e rovente come la sabbia del deserto. Poi, la baciò delicatamente sulle labbra. «Devo andare dolce amica» si accomiatò «A più tardi. Ryon, con me.» Seguita dalla sua guardia, Arianne se ritirò nelle sue stanze. La lasciò lì, da sola. In preda ad un’inestinguibile desiderio e gelosia. §§§ Valkja fu svegliata nel cuore della notte dal soffice tocco di una mano femminile che le accarezzava il viso. Si voltò lentamente, ancora intontita, socchiudendo gli occhi. Accanto a lei giaceva la principessa Arianne, coperta soltanto di pochi strati di veli rosso scuro che, più che celare, rendevano evidenti le curve sensuali e piene del suo corpo. «Mia giovane amica» sussurrò la donna, gli occhi scintillanti di malizia nella luce pallida della luna che filtrava dalle grandi finestre decorate «ho pensato che ti sentissi sola… un letto sconosciuto in una terra straniera…» Lasciò la frase in sospeso e le passò le dita tra i corti capelli biondi, scendendo poi sulla nuca, fino ad accarezzarle le spalle nude. Val sentì un brivido lungo la schiena. Non era mai stata in intimità con una donna, ma quando Arianne la guardava si sentiva sempre come se, anziché con gli occhi, la dorniana la stesse frugando con quelle dita scure e affusolate. «Mia signora…» sussurrò, la voce resa roca dall’emozione. Lentamente, sollevò la mano, fino a sfiorare il viso della principessa. Le scostò i lunghi capelli scuri dal volto, poi le passò i polpastrelli sulla pelle morbida della guancia, giù fino alle labbra. Arianne le prese delicatamente l’indice in bocca, lo mordicchiò, e Valkja sentì la sua lingua umida e calda esplorarla. Desiderò assaporarla e, come se le avesse letto nel pensiero, la principessa l’attirò a sé e le cercò le labbra. La giovane Ironborn si abbandonò al volere dell’altra: si lasciò guidare in quella danza sensuale e premette il suo corpo contro quello di Arianne. Persa in quel vortice di sensazioni, Valkja trasalì quando sentì un altro corpo premere contro il suo, da dietro, e mani maschili percorrerle i fianchi e il ventre, su fino ai seni. «Non preoccuparti dolce Val» sussurrò Arianne, divertita «è solo Ryon. Non vuoi che partecipi anche lui ai nostri giochi?» domandò, fingendo innocenza, mentre la guardia intensificava le carezze. Le mani dei dorniani si incontrarono e si rincorsero sul corpo della fanciulla finché la principessa non si sporse sopra di lei per raggiungere le labbra dell’amante. Valkja ne approfittò per scostare i veli dal suo petto e succhiarle un seno. Sentì il capezzolo inturgidirsi tra le sue labbra e i gemiti della donna soffocati dai baci di Ryon e questo la fece eccitare ancora di più. Prese a stuzzicare, baciare e perfino mordere delicatamente il corpo di Arianne, ora al centro del triangolo, tanto da richiamarla a sé. La principessa, ridendo, l’assecondò: i loro seni si accarezzavano, mentre le loro labbra e le loro lingue continuavano a rincorrersi. Le calde e soffici mani esploravano i corpi nudi, torridi e vogliosi, come in una versione erotica di una battaglia in cui tutti assalivano gli altri. Poi Arianne le divaricò le gambe, quasi con prepotenza, si chinò sui di lei e si concentrò sul suo sesso, assaporandola e godendosela con la bocca. Val, la schiena inarcata, le dita strette sulla nuca della principessa per spingerla ancora più a fondo dentro di sé, si accorse appena della figura muscolosa di Ryon che si era portato dietro alla sua amante per possederla. I gemiti di Arianne, soffocati all’interno della sua intimità, le fecero perdere il controllo e Valkja venne scossa da un tremito irrefrenabile che si propagò dal suo corpo a quello dei dorniani. La giovane si rilassò, godendosi la sensazioni ancora fresca sulla pelle, mentre la principessa leccava via delicatamente i suoi fluidi di donna. Poi sentì le braccia di Ryon sollevarla a sedere e cominciarono daccapo il gioco delle parti: le lingue si incrociavano come spade, i corpi si avvinghiavano in una lotta in cui tutti erano vincitori. Finalmente, la guardia si coricò; la principessa si accovacciò sul volto di lui, muovendosi ritmicamente, e invitò Valkja a imitarla. La giovane non si fece pregare, poiché, nonostante la piacevolezza del corpo di Arianne, desiderava ardentemente sentire Ryon dentro di sé. E quando si sentì penetrare, il piacere fu così intenso che dovette riversarlo in Arianne. Le cercò la bocca, i seni, la baciò, la succhiò e la morse con bramosia finché, nuovamente, i tre amanti non vennero e breve distanza l’uno dalle altre. Alla fine, estenuati ma appagati, caddero in un sonno profondo, ancora avvinghiati tra loro. Valkja si addormentò dolcemente, stretta tra le braccia di Arianne e con il volto poggiato al seno della principessa di Dorne.

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    Capitolo 16
    *** IL CAVALIERE ESILIATO ***


    Ser Harras, il cavaliere esiliato. Eppure, in una passata prima vita, era stato il Lord di Giardino Grigio, ma soprattutto era stato l’Erede, l’erede di Dieci Torri, il seggio della nobile e ricca casa Harlaw. Adesso vagava per il Mare in cerca di giustizia. «Capitano, siamo arrivati» Harras Harlaw si destò dai suoi pensieri dopo giorni di navigazione nel Mar del Tramonto. Cacciato dall’usurpatrice, tradito dalla sorella, costretto a partire da Pyke, non aveva trovato altra soluzione che cercare alleati, compagni e nemici, per opporsi alla nuova regina delle Isole di Ferro. La Canto del Mare, la sua nave lunga, infatti, era seguita adesso da altre imbarcazioni, i vascelli di Lord Farwynd di Luce Solitaria. Yohn, senza esitazione, alla ricerca di vendetta verso i bastardi di Pyke che avevano ucciso il fratello Ygon, aveva messo a disposizione le sue poche navi, che aveva raccolto nel misero arcipelago dell’ovest che precedeva l’isola di Luce Solitaria, la terra più occidentale del mondo conosciuto. Un’alleanza debole al momento, ma Harras la riteneva fondamentale, infatti contava sul fatto che Yohan Farwynd, fedele servitore dell’Antica Via e Lord Comandante della Flotta di Ferro, non avrebbe mai impugnato le armi contro altri Ironborn e soprattutto non contro il fratello maggiore. “Non ho rivali” questo era il motto della famiglia di sua madre. Ma in quel momento non era così. Il volto del capitano era una maschera fredda e impassibile: il viso, lungo e austero, gli occhi, gelidi. Lo sguardo, perso nel vuoto, era penetrante come i ferri delle lance. Solo la ricerca della vendetta abitava la mente del cavaliere. Ser Harras, il cavaliere esiliato. Eppure, in una passata seconda vita, era stato il Campione di Asha Greyjoy, rappresentante di tutta la Casa Harlaw, rappresentante di tutta l’Isola di Harlaw. Adesso era in cerca di altri alleati. Più numerosi, più potenti e più ricchi. Le navi, spinte dal vento, cominciarono ad avvicinarsi alla costa. La vista divenne più gloriosa. Un enorme promontorio di pietra giallastra, dalla forma di un leone a riposo, sovrastava il porto di Lannisport. La Roccia, sulla cui sommità si ergeva l’alto torrione di Castel Granito, svettava minacciosa contro le sette navi lunghe che lentamente si avvicinavano alle grotte occidentali, aperte sul mare. Harras guardò quel grandioso spettacolo approssimarsi lentamente e innalzarsi sul profilo delle onde a mano a mano che la nave, oramai disalberata, perdeva velocità. Già si vedevano distintamente le feroci fauci di quella fortezza di roccia granitica, e da lì si sentivano emettere echi di suoni indomabili, che si propagavano come i ruggiti di un leone. In pochi secondi, dalle medesime aperture, sputarono galee e dromoni da guerra che andarono in contro ai nuovi venuti, e scortarono le navi di ferro all’interno della Roccia. Alla base del promontorio, l’acqua del mare aveva scavato grotte e gallerie profonde, in cui i Casterly prima, e i Lannister poi, avevano costruito moli, banchine, pontili e cantieri navali. Le onde si infrangevano sulle rocce diffondendo un rumore simile al tuono. Alla fonda, c’erano navi lunghe e dromoni. Grandi navi da trasporto stavano scaricavano la loro merce, quando Harras e i suoi settantasette uomini, approdati, vennero circondati e arrestati. Settecento miglia marine per ritrovarsi rinchiuso in una buia e fredda prigione scavata nella roccia di Castel Granito. Ser Harras, il cavaliere esiliato. Eppure, in una passata terza vita, da solo aveva affrontato i sette campioni di Scudo Grigio, da solo aveva sconfitto per sette volte i sette campioni di Scudo Grigio, da solo aveva conquistato un intero castello. Adesso, solo e prigioniero, si trovava tra le fauci di un Leone, anzi, ne era diventato il pasto del mattino di sua spontanea volontà. Appena scorti i vessilli delle Isole di Ferro, i soldati Lannister non vollero sentire storie: sotto la minaccia delle armi, li trascinarono nelle segrete della fortezza. Percorsero sette lunghi, antichi tunnel di giacimenti minerari, le cui vene erano state dissanguate senza sosta per secoli, ora riutilizzati come stanze per gli ospiti non graditi. Decine o forse centinaia di Uomini di Ferro erano stati torturati, uccisi o lasciati morire tra quelle pareti. Anche Harras poteva ora essere uno di quei tanti Uomini di Ferro. Non aveva combattuto, né si era opposto ai soldati, che lo avevano spogliato delle sue armi. Anche se la sua unica arma l’aveva già persa settimane prima. Gli era stata rubata. Il suo bene più prezioso. Simbolo del suo coraggio e della sua nobile casata. Crepuscolo, la lama di Valyria, era adesso nelle mai della bastarda usurpatrice del suo trono. Non seppe realizzare quanto tempo passò, quando all’improvviso, dal lungo corridoio, sette lunghe ombre scure si diressero verso la sua alcova rinchiusa. Sette soldati lo presero in custodia e lo guidarono per infinite gallerie e infiniti scalini fino ad una grande e luminosa stanza, austera e povera di mobilio. Erano presenti solo una donna e sette uomini al lato della stanza, forse consiglieri, perlopiù anziani. Harras riconobbe un maestro della Cittadella dalla pesante collana di anelli di materiali diversi che portava sopra una lunga, vecchia e scura tunica, e un septon attempato dall’aria familiare, la cui ricca e ricamata veste era decorata con il simbolo dei Sette Dei, una stella a sette punte scarlatta. La donna era affacciata ad una spaccatura che dava sul mare. Grassa, dai lunghi, folti e ricci capelli biondi e gli dava le spalle. Genna Lannister, zia di Tyrion Lannister, Lady di Castel Granito e protettrice di tutte le Terre dell’Ovest. Quando si voltò, il cavaliere poté osservarne la faccia squadrata, ampia e liscia. «Sedetevi Ser Harras Harlaw» lo interpellò senza tante storie con un tono più materno che ostile, quasi condiscendente e, quindi, irritante alle sue orecchie. «Siete stato arrestato in quanto Uomo di Ferro e suddito fedele del Re Euron Greyjoy. Vi siete avvicinato alle nostre coste con una ben misera flotta… Non so cosa vi abbia spinto ad un’azione tanto stupida, ma non troverete pietà tra queste mura. Per favore cercate di essere breve e coinciso, ho molto da fare e poco tempo da perdere» concluse con un cenno di mano per invitarlo a parlare. «Lady Frey, mia signora» replicò il cavaliere chinandosi per renderle riverenza «Devo dirvi, innanzitutto, che Euron Greyjoy non è più Re delle Isole di Ferro». Il volto stupefatto e il silenzio della donna e di tutti i presenti non lasciarono spazio al dubbio: aveva conquistato immediatamente la loro attenzione. Ser Harras, il cavaliere esiliato. Eppure, in una passata quarta vita, era stato il Lord di Giardino Grigio, Erede di Dieci Torri, e sempre nello stesso tempo, Lord di Scudo Grigio. Tutte le terre dell’’Altopiano bagnate dal Mander lo temevano. Adesso doveva giocare bene le sue carte per porsi come mediatore, uomo di fiducia e spada di guerra di tutto il Continente, e infine riprendersi le sue Isole. «Euron Greyjoy è morto. Così come il fratello Aeron Capelli Bagnati. Sul Trono del Mare siede adesso la figlia di Occhio di Corvo, che con l’inganno e disonestà ha conquistato il potere» «Figlia?» lo interruppe Lady Frey, ancora incredula a quelle parole. «Sì, una bastarda. Si è fatta naturalizzare con l’inganno appena prima della morte del sovrano» «Una donna sul trono del mare! E i vostri lord, lo hanno permesso?» domandò Genna, con un sorriso di scherno. «C’è stata un’Acclamazione di Re, ma l’esito è stato falsato. La corona è stata comprata con la corruzione» ringhiò Harras, furioso a quel ricordo. A quelle parole, la Lady di Castel Granito, calma e rasserenata si sedette su un comodo seggio dorato e guardò il suo ospite con benevole ironia «Quindi, qualcun altro ha perso l’opportunità di succedere ad Euron, presumo» gli disse di sottecchi e divertita. «Non è questo il punto, mia signora» replicò, cercando di mantenere la calma che quella donna stava mettendo a dura prova. «Ah no?» fece lei, senza cambiare né tono né espressione. «L’usurpatrice vuole continuare la politica offensiva ed espansionistica di Euron Greyjoy…» cominciò Harlaw, ma venne interrotto. «Le nostre coste son ben protette, abbiamo respinto voi pirati prima e vi respingeremo ancora se dovremo farlo» intervenne ancora la donna. «Ha degli alleati potenti. Le vostre difese non basteranno…» la ammonì lui. «Ser» lo interruppe Genna quasi spazientita da quel lungo ed eccessivo prologo «Voi venite qui, tradendo la vostra regina, e vi aspettate che faccia per voi che cosa di preciso? Devo forse credere a un pirata delle Isole di Ferro? Quante volte, i vostri compagni razziatori e stupratori hanno attaccato e saccheggiato Lannisport?» «Mia signora, io sono un cavaliere. Non un rozzo, rude e comune uomo di ferro. Le mie origini risiedono nelle vostre Terre dell’Ovest. La famiglia di mia madre è Casa Serret di Sala d’Argento, una delle principali casate fedeli a Castel Granito. Avrete sentito delle mie stimabili gesta, ho…» «Sì, sì. Ho sentito. Avete combattuto contro rose appassite e scudi marci e ne siete uscito vincitore. Congratulazioni. Quindi?» «All’acclamazione, davanti a tutto il popolo di ferro, la bastarda ha parlato di alleati forti e pericolosi. Leoni e Tigri. Se non fossi certo di quello che ho sentito non sarei qui» «Stai forse insinuando che i Lannister sostengano la nuova regina per predare le loro stesse coste?» chiese lei, deridendolo «Mio caro cavaliere, posso assicurarvi che nessun leone Lannister, né alcun uomo o donna del Continente, aiuteranno mai un uomo o donna di ferro». «Gli alleati vengono dall’est, Essos di certo. Il regno di Westeros non ha i mezzi per contrastare nuovi eserciti. La lunga notte ha distrutto e indebolito tutti. Io posso aiutarvi. Con pochi uomini scelti, posso salvare il Continente tutto. Sono l’uomo giusto per sedere su quel trono e riportare la pace tra i due regni. Sono un cavaliere e ho sempre combattuto onorevolmente. Mai tradirei la parola data, mia signora» perorò Harlaw. Ser Harras, il cavaliere esiliato. Eppure, in una passata quinta vita, era stato Lord di Dieci Torri, capo famiglia dell’intera casa Harlaw di Harlaw, unico grande e solido oppositore di re Occhio di Corvo, unico a tenere testa alla casa Greyjoy. E adesso non riusciva ad opporsi ad una vecchia, grassa leonessa. «Non lo metto in dubbio, Ser. Ma non potrei mai aiutarvi o allearmi con voi, e di certo non metterò a vostra disposizione nessun uomo e nessuna nave dei miei lord. Al momento, siete e rimanete un Uomo di Ferro, nemico del Continente e nemico del Regno di Lyanna Targaryen.» Harras era sul punto di interromperla, ma la donna, imperiosa, avvicinatasi a lui, gli mise una mano sulla spalla e con tono calmo e rassicurante continuò «Tuttavia, le vostre parole non saranno dimenticate. Il reggente del regno, mio nipote, ne sarà presto informato. Vi ringrazio ancora per essere venuto qui. Sarete riportato alla vostra cella, ma non dubitate, presto, vi farò avere una dimora più confortevole». Nuovamente incatenato, ritornò alla sua fredda, buia e funebre cella. §§§ I giorni passavano, ma Harras continuava a non ricevere notizie. L’unico contatto era quello con i visi rozzi e taglienti, ma dai capelli dorati, delle guardie, che gli portavano i pasti. Non sentiva né udiva più i suoi compagni da quando erano stati arrestati lungo le banchine della Roccia. Per quanto ne sapeva, pure i Farwynd di Luce Solitaria erano scomparsi tra le profondità di quelle miniere. Lady Frey e Lannister di Castel Granito credeva alle sue parole? Credeva alla minaccia che avrebbe potuto portare Kein Pyke? Stava forse preparando un’offensiva senza di lui? Aveva avvertito il nipote Tyrion? Domande, queste, che continuava a farsi senza ricevere risposta. «Per l’Abisso!» imprecò tra sé, quando vide arrivare un septon accompagnato da sette guardie. Erano passati probabilmente sette giorni, da quando aveva incontrato Lady Genna Lannister. Quattordici discreti pasti, due per giorno, appropriati per un cavaliere. Tuttavia, la reclusione era ancora limitata alle pareti dell’antica miniera. Lì lo raggiunse il vecchio. Numerose e profonde rughe solcavano il volto glabro e pallido del prete, mentre una corona di capelli grigi e ispidi gli cingeva la testa pelata. Un naso lungo e aquilino continuava ad alzarsi involontariamente per tenere su leggere e sottili lenti di Myr, che permettevano, a due occhi stanchi e bianchi, di leggere e vedere meglio. «Ser Harras, prego seguitemi» disse mentre i soldati aprivano la cella in cui era rinchiuso. Harras finalmente poté uscire da quel lugubre posto e senza dire una parola seguì l’anziano septon che camminava, lentamente e incurvato, aiutandosi con un bastone. «Perdonate l’attesa, ma stavo preparando il vostro trasferimento. La lady non ha voluto recarvi offesa tenendo voi e i vostri compagni nelle segrete di Castel Granito, anzi, si è preoccupata di trovarvi un alloggio più confortevole e adeguato al vostro titolo. Per sette volte ho proposto la soluzione che ritenevo più appropriata e solo alla settima perorazione i Sette hanno dato forza alle mie parole affinché anche la Lady le ascoltasse» concluse voltandosi e sorridendo verso Harras. Avevano percorso solo pochi metri, forse sette. “Chissà quanto tempo impiegheremo ad arrivare a destinazione” pensò imperturbabile Ser Harlaw. «Quale sarà la mia nuova prigione dunque?» Con un po’ di fortuna, magari, lo avrebbero mandato a Silverhill, dai Serret, pensò speranzoso. «Nessuna prigione, Ser. Vi trasferiremo a Grimmston, vostro castello per diritto divino» «Dopo la lunga notte, Scudo Grigio è tornata a casa Grimm. L’ultima volta che ho visto quel castello, in cima alle torri sventolavano i vessilli di Lord Gunthor» «Avete ragione, ma il Guerriero ha donato a voi quel castello e nessuna legge umana può togliervelo. Non dimenticherò mai il giorno in cui avete sconfitto i sette campioni dell’Isola. Un messaggio divino è giunto tramite voi. Il Guerriero ha guidato la vostra spada di Valyria…» a sentire quelle parole, una fiammata d’odio lo pervase. Crepuscolo gli era stata rubata! Sottratta a tradimento dalla bastarda Greyjoy. «…anche lord Grimm è d’accordo con me. Voi siete il nostro signore». “Altri folli religiosi” fu l’unica cosa a cui pensò in quel momento Harras, che continuava ad avanzare lentamente, al passo con il sacerdote. «Vedete, oggi sono solo un vecchio e devoto septon. Ma anche io una volta era un cavaliere: giovane e devoto soldato del Guerriero, ma ahimè la vecchiaia è dura da combattere.» «E’ dura è certo..» lo assecondò Harras con poca convinzione «Ma non comprendo. Lady Genna ha fatto di me il Lord di Scudo Grigio dopo quello che ho rivelato sulle Isole di Ferro?» «Purtroppo no. È rimasta, sì, colpita da quello che avete detto, non temete. Ma non muoverà un dito senza prima consultarsi con suo nipote e, si sa, Lord Tyrion Lannister è un diplomatico e un politico, non un guerriero. Stanco della Guerra dei Cinque Re e della Lunga Notte, non darà ascolto ai Sette Dei. Il mio unico potere, con Lady Frey, è stato quello di mostrare come i Sette volessero che voi e i vostri uomini foste riportati a Scudo Grigio. Ed è lì che ora vi condurrò». Ser Harras, il cavaliere esiliato. Eppure, in una passata sesta vita, era ad un passo dall’essere Re di tutte le Isole di Ferro. Adesso era diventato uno strumento di potere e un ostaggio, trasferito da una prigione ad un'altra. Dopo lunghi secondi di silenzio, il Septon riprese a parlare «Sapete, i sette mesi in cui avete governato voi, il Guerriero era felice del vostro operato». Harras rimase basito nel sentirgli dire quell’affermazione. Non lo diede a vedere, ma non era certo che, durante la guerra guidata da Euron, le isole scudo avessero passato un bel periodo. «…poi vi ho visto dalla sommità della fortezza del Leone. Sette giorni or sono, sette navi, da voi condotte, erano entrate nel porto di Castel Granito. In quel momento ho compreso che il Guerriero mi stava mandando un messaggio. Ho capito quale fosse il volere dei Sette e che il mio compito era quello di aiutarvi» “Come potrebbe mai aiutarmi un vecchio septon” pensò Harras avvilito. «Vi chiederete come io possa aiutarvi» sorrise tra sé il prete «Dovete sapere che il potere dei Sette è sconfinato. Umili e devoti servitori del Guerriero sono pronti per ascoltare ed essere guidati dal Dio» Harras iniziò a ragionare tra se e sé e cercò di capire dove voleva andare a parare il septon che lo accompagnava. L’anziano sacerdote, senza alcun dubbio, si riferiva ai Figli del Guerriero: probabilmente i guerrieri e i cavalieri erranti, veterani della guerra, si erano uniti in quella sacra confraternita e senza più nulla da perdere, era divenuti fedeli servitori del Guerriero. Voleva forse radunare quei vagabondi di guerra per aiutarlo a riprendersi le Isole? Ma quanti potevano essere questi soldati, ma soprattutto perché faceva tutto questo? «In più i quattro lord delle Isole Scudo e i loro figli ed eredi, ahimè sapete che lord Grimm non ha eredi, sono tutti e sette propensi e volenterosi di combattere per il Guerriero». Come no. Quei lord non vedevano l’ora di combattere certo, ma non per un qualche sentimento religioso. Volevano vendetta per loro, per le loro famiglie e per i loro sudditi. Spazzare via, una volta per tutte, tutti i pirati, saccheggiatori e stupratori dalle Isole di Ferro, doveva essere un premio più che soddisfacente. Tuttavia non era una cattiva idea. Quel vecchio gli stava offrendo navi e guerrieri per riprendersi il Trono. «Chi lo sa. Magari anche i lord di Isola Bella, del Crag e di Banefort potrebbero unirsi alla nostra rotta» proseguì convinto il sacerdote. «Lady Frey ha ribadito chiaramente che nessun lord delle Terre dell’Ovest prenderà le armi per seguirmi» «Certo, e senza alcun dubbio la Lady ha anche ragione. Ma voi pensate che si rifiuteranno di unirsi ad una Guerra Santa per volere dei Sette dei?» Una crociata per estirpare il Dio degli Abissi dal Mondo Conosciuto. Ecco che cosa voleva quell’uomo. Un devoto figlio del Guerriero alla ricerca di una egoistica reputazione personale: voleva l’immortalità, essere ricordato nel tempo come il septon che era riuscito a sconfiggere la religione del Dio degli Abissi. Voleva passare alla storia come l’unico ad essere riuscito a convertire gli Uomini e le Donne di Ferro. Voleva servirsi di lui, quello era certo, e forse era davvero convinto che quello era il volere dei Sette e che lui, Ser Harras, era il guerriero scelto dagli Dei per guidare la vittoria. E se quella vittoria gli avesse consegnato il Trono del Mare, perché rifiutare una simile alleanza? Ser Harras, il cavaliere esiliato. Adesso, all’alba della sua settima vita, sarebbe diventato Re delle Isole di Ferro.

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