Sala professori

di Elisa_Pintusiana_Snape
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Marco e James pt.1 ***
Capitolo 2: *** Marco e James pt.2 ***
Capitolo 3: *** Marco e James pt.3 ***
Capitolo 4: *** Marco e James pt.4 ***



Capitolo 1
*** Marco e James pt.1 ***


Marco e James

“E da allora sono perché tu sei,
e da allora sei, sono e siamo,
e per amore sarò, sarai, saremo.” 



Capitolo 1


La sera del loro primo incontro si trovavano presso uno di quei club boriosi e privi di attrattiva agli occhi di Marco. Una bella stanza riccamente decorata stracolma di soggetti intenti a darsi una certa importanza, desiderosi di ostentare la loro ricchezza e la loro posizione sociale “di un certo livello”, come diceva suo padre. Marco li guardava sorseggiando dal suo bicchiere di cristallo, disprezzandoli uno dopo l’ altro. Parlavano in piccoli gruppi, bicchieri sempre pieni di super alcolici, il petto gonfio e fiero mentre snocciolavano nomi di capitali europee che avevano visitato e celeberrimi nomi di persone che avevano conosciuto. Una fiera del ridicolo dove, come pavoni vanitosi, si mettevano in competizione su chi avesse la collana di perle più costosa, l’ affare in Borsa più proficuo, il cognome più altisonante, la villa più grande. Marco li guardava e non poteva trattenersi dal sospirare amareggiato di fronte a tale attaccamento al denaro, quel dio pagano tanto invocato.

In mezzo a quell’ accozzaglia di vanesi assoggettati dal desiderio di ricchezza, i suoi occhi avevano incrociato il signor Morrison. Era un bell’ uomo, elegante, prestante, gli occhi azzurri e i capelli brizzolati gli conferivano un’ aria severa e, nonostante avesse circa una ventina di anni più di lui, non sembrava per niente vecchio. Il signor Morrison sembrava immune al vecchiume che si respirava in quella sala. Lo aveva già visto a incontri del genere, ma raramente prendeva parte ad una delle conversazioni per più di cinque minuti, slittava fra i vari gruppi fluidamente senza soffermarsi troppo sul contenuto delle effimere conversazioni: era evidente che non gli interessassero più di tanto e che, come Marco, avrebbe preferito essere da un’ altra parte.

Marco spostò gli occhi da quelli del signor Morrison che aveva uno sguardo deciso e piuttosto difficile da sostenere, ma quando tornò a guardare alla sua destra notò che Morrison era più vicino e gli sorrideva.  Aveva un sorriso rassicurante, il sorriso del politico che, abituato a trattare con le persone, sapeva essere estremamente convincente; esattamente come un uomo di politica deve essere. Si avvicinò a Marco e con un accento lievemente inglese gli chiese se si stesse annoiando, Marco non sapeva se rispondere onestamente fidandosi di quel perfetto sconosciuto o far finta di divertirsi per non offenderlo “Mm sì, sono piuttosto annoiato” rispose, il signor Morrison sorrise e Marco temette di aver commesso una figuraccia “Ha organizzato lei… Il tutto?” “No, figuriamoci”.
Era un bel tipo, non se ne stava fiero col petto in fuori a mostrare quanto fosse ricco, e Marco si rese conto che non ne aveva bisogno: tutti lo conoscevano. Persino suo padre, che lo aveva trascinato in quel luogo mortalmente noioso, dava segno non solo di sapere chi fosse, ma di stimarlo molto. O temerlo, che in un ambiente così è la stessa cosa. Era piuttosto evidente che chiunque in quella stanza gli mettesse gli occhi addosso desideroso di parlargli, di accoglierlo nel proprio gruppo di conversazione ed era altrettanto evidente che all’ uomo non importasse di partecipare.
“L’ atmosfera qua è davvero pesante, che ne diresti di andare in un’ altra stanza?”

Marco non aveva idea di cosa rispondere ad un invito del genere, lo guardava con aria stranita e l’ uomo rinnovò la proposta “Ti prego”.
Marco lo seguì in una stanza vicina, piccola e accogliente, due poltrone in pelle ed un tavolo. Il signor Morrison fece cenno ad un cameriere e questi entrò poco dopo con una bottiglie di liquore e due bicchieri per poi lasciarli soli, la porta chiusa.
Il signor Morrison versò il liquido ambrato nei bicchieri di entrambi e si fece comodo sulla poltrona sorseggiando con gusto il whisky e invitò Marco a fare lo stesso.
“Non sono un gran bevitore..” ammise Marco piuttosto imbarazzato dalla situazione, il signor Morrison di rimando sorrise e Marco cominciava a detestare quel sorriso di cortesia che sembrava in grado di stregare chiunque. Il sorriso evidentemente stregava davvero poiché Marco prese il bicchiere, anche se dopo due sorsi sentì la gola infiammarsi e iniziò a tossicchiare vergognandosi da morire. L’ uomo lo stava fissando coi suoi occhi azzurri, in silenzio e quando Marco alzò lo sguardo su di lui lo vide sorridere, ma non come prima, era un sorriso meno neutro e costruito: era vero e lasciava trasparire del reale divertimento. Sarebbe sprofondato dalla vergogna, ma quell’ uomo lo faceva sentire tranquillo.
“So che stai studiando all’ Università, che facoltà?” domandò Morrison tranquillo posando il bicchiere e versandosi altro whisky “Lettere” “Interessante..” “Come mai è interessante?”. Morrison non rispose subito, bevve prima un paio di sorsi e poi riprese la parola “Mi aspettavo un’ altra facoltà” “Ad esempio?” “Dato il campo di lavoro di tuo padre pensavo a economia o giurisprudenza, cosa di questo genere”, ci fu un attimo di silenzio imbarazzante poi il signor Morrison continuò “Mi piace”.

Iniziarono così a chiacchierare molto più liberamente: Morrison parlò dei suoi viaggi, delle grandi città che aveva visitato, ma senza quella vanità che Marco aveva riscontrato nelle persone presenti nell’ altra sala, Morrison parlava di Parigi, di Madrid, di  Praga con dolcezza. Aveva raccontato quei viaggi nel dettaglio, ricordava gli odori che aveva respirato a Nuova Dehli, le emozioni che aveva provato di fronte alla Torre Eiffel, la magnificenza della Reggia di Caserta, lo spettacolo offerto dal  Castello di Schonbrunn a Vienna. Era entusiasta quando parlava di tutte queste esperienze, ne snocciolava una dietro l’ altra con un sorriso stampato in faccia, e no, non quello di cortesia. Invitò anche Marco a parlare e lui, che nei suo vent’ anni si sentì così piccolo e inesperto, iniziò a parlare delle prime cose che gli venissero in mente: parlò di Firenze, ammaliato da quella splendida città dove tutto gli sembrava pieno di vita, di Edimburgo e così via.
Il passo tra le città e l’ arte fu breve: si ritrovarono a parlare di opere famosissime, di scultori, pittori e poi scrittori, il campo in cui Marco era decisamente più ferrato. Passarono così ore, seduti sulle loro poltrone senza rendersi conto del tempo che passava, fino a quando l’ orologio a pendolo posato su una mensola non batté la mezzanotte. Uscirono così dalla stanza, un po’ controvoglia e decisero di salutarsi.

“Spero di rivederti presto, Marco”
 “Lo spero anche io”





Nota autrice: Questa storia è nata totalmente per caso, ma mi ha appassionata e così ho continuato a scrivere di tutti questi personaggi che esistono da ormai più di un anno e che, se vorrete continuare a leggere, potrete conoscere. Devo ringraziare una persona molto cara che mi ha sostenuta in questo progetto che è Giulia, senza di lei non so quanto avrei scritto di questo mio piccolo mondo felice.
Spero la storia vi sia piaciuta, ci vediamo nel prossimo capitolo.

Elisa_Pintusiana_Snape    
    

 

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Capitolo 2
*** Marco e James pt.2 ***


Capitolo 2

"Fra i rumori della folla ce ne stiamo noi due,
felici di essere insieme,
parlando piano,
 forse nemmeno una parola"  
-Walt Withman




“Il signor Morrison verrà a cena da noi” così aveva detto suo padre e Marco, che aveva interrotto lo studio solo per scendere in cucina e bersi un bicchiere d’ acqua, si era ritrovato davanti all’ armadio, indeciso su cosa indossare come una quindicenne al primo appuntamento. A risolvere il quesito si era presentata sua madre che, entrata in camera, aveva frettolosamente tirato fuori dall’ armadio un completo decisamente elegante “Mamma, è solo una cena a casa..” “Una cena col signor Morrison”- aveva detto sua madre –“Ordini di papà” e Marco aveva eseguito in silenzio, come sempre. Non capiva il perché di tanta agitazione, in quella villa erano passate diverse persone importanti, eppure attorno a Morrison sembrava essere presente una sorta di aura di onnipotenza, un’ aura che lo rendeva intoccabile. Morrison riusciva a rendere nervoso persino suo padre, il Conte dallo sguardo in grado di fulminare all’ istante, il genio della finanza, persino lui si aggirava per la villa pieno di agitazione, allentando la cravatta di tanto in tanto che sembrava soffocarlo.

Quando il campanello suonò, il maggiordomo corse ad aprire e scortò Morrison nel salotto principale dove tutta la famiglia era perfettamente disposta come se stessero posando per un dipinto, nel tentativo, fallimentare, di mostrare naturalezza. La villa del Conte era davvero sublime: decorata in ogni suo minimo dettaglio con raffinatezza ed eleganza. Essendo una delle ville della famiglia, di quelle che i nobili si trasmettevano da generazioni, era molto antica e possedeva tutto il fascino dei vecchi palazzi del 1700. Entrandovi ci si ritrovava catapultati in un’ altra epoca, quasi ci si potesse aspettare di veder scendere dalle scale una nobile dama col il suo abito a la francaise degno della corte di Luigi XV.
 Perso lo sguardo per un momento nella bellezza della villa, questo cadde immediatamente su Marco che sembrava essere l’ unico non disposto a sottostare a quel teatrino, non si sentiva inferiore a James, non dopo che avevano parlato insieme a cuore aperto. Pietro, in quanto capo della famiglia, si alzò per primo fingendo una sorta di stupore nel vedere il signor Morrison nel suo salotto, gli strinse la mano e lo fece accomodare a tavola. “Questa è Maria, mia moglie” James, con grande classe e stile inglese baciò la mano della donna “Incantato” sussurrò, “Questi sono i miei figli, Marco, che ha già avuto il piacere di parlare con lei ed  il minore: Andrea”, gli occhi di James però scrutavano Marco da cima a fondo, senza quasi considerare tutto il resto. Se lo era ritrovato davanti così, nella sua eleganza così giovane e un po’ ribelle, nella compostezza di un ragazzo pieno di misteri e passioni. Non poteva fare a meno di immaginarselo fuori da quell’ ambiente di false lusinghe e lusso smanioso, non che James ripudiasse il lusso, anzi, ma avrebbe tanto voluto vedere Marco fuori da quegli schemi così rigidi e impostati, vederlo essere realmente sé stesso, umano, scomposto e felice, come quella sera in cui avevano a lungo parlato.

Iniziarono a mangiare mentre James conversava principalmente col padrone di casa, lanciando di tanto in tanto sguardi verso Marco che, educatamente, mangiava gli antipasti appena serviti. James non poté fare a meno di notare quanta timidezza, quasi riserva, avesse Marco nel compiere il semplice atto di mangiare. “…Il mio ragazzo qui ha però deciso di laurearsi in letteratura” disse Pietro alla fine di un discorso del quale James si era perso l’ inizio e accompagnò la frase finale con una forte pacca sulla spalla, una di quelle pacche che i padri tirano ai propri figli per trasmettere il loro orgoglio, il classico gesto d’ amore fra padre e figlio. Quella semplice pacca, in realtà, trasmetteva più rancore che orgoglio, Marco se ne era accorto dall’ insolita intensità del colpo. “Trovo che sia delizioso” esordì James sorseggiando del pregiato vino e rivolgendo lo sguardo verso Marco che se ne stava a capo chino aspettando le battute del padre sull’ inutilità della letteratura e delle scienze umanistiche nella vita reale. Invece suo padre tacque e Marco alzò lo sguardo ritrovandosi di fronte le iridi chiarissime di James “Trovo” – proseguì l’ uomo –“ Che sia oltremodo lodevole un tale ardire nella realizzazione dei propri desideri. Trovo affascinante qualsivoglia forma artistica, ma ciò che mi affascina di più è la capacità di seguire le proprie vocazioni, non è da tutti” e concluse regalando un sorriso a Marco.

La serata proseguì tra argomenti di economia estera, commenti su qualche azione politica, tutto nell’ interesse di coinvolgere Mr. Morrison e farlo partecipare attivamente alla discussione in un campo di cui il Conte fosse estremamente pratico. Dal canto suo Marco tendeva soltanto qua e là l’ orecchio per ascoltare ciò che veniva detto a tavola; trovava la conversazione poco stimolante poiché tutto sembrava detto per assecondare le idee di Morrison. Fortunatamente la cena si concluse e il signor Conte decise che avrebbe lasciato James e Marco soli al piano di sotto “So che avevate desiderio di parlare nuovamente con mio figlio” –aveva detto alzandosi “Non andiamo di sopra” e detto questo strinse la mano di Morrison per congedarsi, seguito dalla moglie e dal secondogenito.
Rimasero lì a fissarsi per una manciata di secondi, sommersi da un silenzio che per Marco era assolutamente imbarazzante “Non starebbe a te” –esordì James –“Fare gli onori di casa?” Marco si risvegliò dal suo momentaneo torpore senza però abbandonare la sua rigidità e si alzò velocemente “Ehm… Certo, desidera da qualcosa, signor Morrison?” James sorrise constatando quanto Marco assomigliasse più ad un maggiordomo inesperto piuttosto che ad un ricco conte ereditario che intrattiene un ospite “Desidero che tu la smetta di chiamarmi signore” –disse James sorridendo –“E del whisky, grazie”. Marco sorrise mentre le sue guance si coloravano di rosso e iniziò a versare il liquido ambrato all’ interno di un bicchiere. Lo porse a James e si sedette in una poltrona vicino alla sua, osservò James sorseggiare con grazia il distillato “Sei così  particolare, Marco” disse James guardando davanti a se “C..Come?” “Non fraintendermi, è una cosa che ammiro” Marco arrossì ancora di più, se possibile “Non ho niente degno di nota” “Credimi” –rispose James svuotado il bicchiere – “Sei vero, ti pare poco?” Marco in tutta risposta sorrise “Ecco!” –esclamò James facendo sobbalzare Marco –“Dovresti sempre sorridere invece di rimanere serio” e Marco inevitabilmente sorrise di nuovo.

Passarono così almeno due ore tra alcool e risate nel tentativo di darsi un tono, ma senza volerlo davvero fare: stavano bene così, sbrigliati da ogni etichetta.
Data l’ ora il signor Conte discese le scale e propose a Morrison di fermarsi per la notte. Lui accettò la proposta di buon grado e si alzò dalla comoda poltrona per seguire il maggiordomo, Alberto, a cui era stato poco prima ordinato di preparare una stanza. Salì le sontuose scale e seguì Alberto che gli indicò la sua stanza: inutile dire quanto fosse sontuosa e quanto le sue decorazioni ricordassero la camera di una reggia. Poco dietro di loro c’ era Marco e James notò con piacere che le loro camere fossero una di fronte all’ altra. Lo vide strofinarsi gli occhi e scompigliarsi i capelli, evidentemente molto stanco “Non mi dai la buonanotte?” domandò James senza pensare nemmeno a cosa stesse facendo, Marco sorrise dolcemente e si avvicinò verso la camera dell’ uomo che lo trascinò dentro chiudendosi la porta alle spalle. Marco lo guardò inizialmente perplesso, ma poi scoppiò a ridere e, udendo quel suoni, le pupille di James si allargarono e sentì il cuore mancare un battito, forse anche due. La risata di Marco era semplicemente sublime, cristallina, viva, un’ esplosione nel silenzio assordante della sua stanza e della sua anima. Guardando gli occhi lucidi del ragazzo che si trovava di fronte, James si promise che avrebbe fatto di tutto per riascoltare quel suono, che avrebbe fatto qualsiasi cosa si sarebbe rivelata necessaria per poter di nuovo provare la gioia di ascoltare la sua risata freschissima. Fresca, sì, come l’ improvvisa folata di vento che ti fa tramare… “Ch’ ella mi fa tremar le vene e i polsi” pensò istintivamente James, come se quello fosse il momento di pensare a Dante. Forse lo era, forse era proprio in quei momenti che la letteratura accorre in tuo soccorso, nel momento in cui grandi autori sanno esprimere ciò che senti ed esprimerlo al posto tuo. “Dannazione” sussurrò James “Perché non ridi sempre così?” Marco sorrise “Non trovo le persone giuste”. James lo cinse per i fianchi, poggiando la testa su una spalla del ragazzo che non temeva o respingeva il suo corpo, ma lo accoglieva in un dolce abbraccio “Fammi essere una delle persone giuste” disse James, quasi implorando, come se fosse impegnato nella preghiera più intensa della sua vita. Appoggiarono le fronti e sorrisero “Lo sei già” “Dio, ridillo” sussurrò James socchiudendo gli occhi senza smettere di sorridere e Marco scoppiò a ridere, regalando a James un altro idilliaco momento.


“Voglio sentirti ridere così per tutta la vita, Marco”

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Capitolo 3
*** Marco e James pt.3 ***


Capitolo 3


"Un sorriso è felicità, due sono complicità"


Desiderare di vedersi era diventata una cosa sempre più urgente e necessaria, come se i due non riuscissero ormai a vivere senza godersi l’ uno la compagnia dell’ altro. James era spesso in viaggio e quando poteva, tra un incontro a Londra e un comizio a Bruxelles, cercava in tutti i modi di vedere Marco, anche per passare solo mezz’ ora insieme. Mezz’ ora, il tempo di un caffè e quattro chiacchiere. Difficile contare le volte in cui James si era privato di qualche ora di sonno per vederlo, di quante volte si erano seduti al tavolino di un bar con l’autista di Morrison appoggiato alla berlina nera, prontissimo a scortarlo in aeroporto al segnale del suo capo. Il tempo non lasciava loro pietà e più si vedevano più era difficile resistere alla lontananza. Si mandavano tantissime lettere, email e James spesso spediva delle cartoline dei luoghi che visitava. Una volta James, partito alla volta di  New York per lavoro, andò al Museum of Modern Art, il famosissimo museo della Grande Mela e inviò a Marco una cartolina proprio acquistata in quel museo dove era raffigurato uno dei dipinti più famosi di Van Gogh “Notte stellata”, simbolo del grande pittore. Sul retro della cartolina James scrisse:

3 aprile 1998
“Non so nulla con certezza, ma la vista delle stelle mi fa sognare”
Vincent Van Gogh


A volte anche solo questo, solo una frase bastava per capirsi. La chimica straordinaria che c’ era fra loro affondava le sue radici nell’ incredibile capacità di sapersi dire tutto senza doverlo fare davvero. Riuscivano a capire cosa pensasse l’ altro attraverso gli argomenti finemente scelti appositamente perché l’ altro ne comprendesse il significato. Perché concludere una lettera con un verso di Montale piuttosto che di Thomas Hardy? Tutto aveva un perché, tutto era raffinatamente scelto. Era come un gioco, una caccia sapientemente portata avanti dove si attirava l’ altro nella propria tela, lo si imprigionava nei significati di quelle parole e lo si vedeva districare la tela raffinatamente cucita. Erano reciprocamente necessari.

La vita di Marco non era felice come la si potesse immaginare, tanto giovane quanto carico di sofferenza. Una malattia lo aveva costretto a ritmi che non appartengono ad un bambino il cui unico compito è quello di correre, giocare, sporcarsi di fango i pantaloncini appena comprati, affondare le tenere manine nella terra alla ricerca di vermiciattoli, intrugliarsi le labbra con la marmellata e inseguire un aquilone od un pallone. Le cose per Marco erano andate diversamente, affetto da una grave malattia al cuore aveva passato l’ infanzia a osservare il cielo fuori da una finestra, circondato da personale nella sua grande villa che cercava in tutti i modi di tenerlo in casa. Avrebbe voluto così tanto lanciarsi in quelle corse sfrenate con il suo fratellino nei bellissimi giardini, prendere la bici e sfrecciare per la strada sterrata che portava al boschetto vicino.

“Da ragazzo spiare i ragazzi giocare 
al ritmo balordo del tuo cuore malato 
e ti viene la voglia di uscire e provare 
che cosa ti manca per correre al prato, 
e ti tieni la voglia, e rimani a pensare 
come diavolo fanno a riprendere fiato”


Così cantava Fabrizio De Andrè e sono le parole esatte per illustrare la vita di Marco che spiava il mondo. Mentre tutti i bambini il mondo non lo spiavano ma lo vivevano, facevano una grande scorpacciata di vita, si facevano baciare dal sole per ore ed ore, Marco la vita la assaggiava piano piano.

“e mai poter bere alla coppa d'un fiato 
ma a piccoli sorsi interrotti”


Anche in questo caso le parole di altri esprimevano perfettamente la vita e le emozioni di Marco, il piccolo conte che sognava la vita dalla finestra della sua camera, con un libro in grembo e la morbida guancia poggiata sul palmo della mano.

Per la prima volta nei sue vent’ anni Marco aveva trovato qualcuno che lo facesse sentire davvero vivo, come se niente potesse fargli del male e il suo cuore battesse un ritmo esatto, a tempo con quello di James, una sinfonia solo loro. Tutto questo non se lo erano mai detti, Marco temeva il solo pensiero di provare attrazione per un uomo, immaginarsi la reazione del padre gli faceva accapponare la pelle. Qualunque cosa fosse quella che sentivano non se la erano mai detta, ma avevano fatto sì che quadri, melodie e parole esprimessero al posto loro questo sentimento mai provato prima. Al ritorno di un viaggio a Berlino James aveva deciso di invitare Marco a casa sua per poter restare un po’ soli, niente intromissioni, niente di niente. Loro due, un divano e una bevanda calda. Era il 4 novembre 1999, Milano aveva assaporato la prima vera gelata dell’ anno e per le strada le persone già indossavano pesanti cappotti e berretti di lana scaldavano le orecchie di centinaia di milanesi. James non aveva sentito repliche e aveva trascinato Marco a casa sua facendogli posare i pesanti tomi universitari “James, devo studiare è davvero import..” James non gli fece terminare la frase, chiuse il pesante libro di Contini e gli sorrise “Hai tutto il tempo che vuoi per studiare quando io non sono qui, ma adesso vieni con me”, Marco si fece convincere e lo seguì . “Posso trattenermi poco” aggiunse mentre erano in auto “Ho frequentato Oxford” disse in tutta risposta James e, quando si rese conto che Marco non capiva cosa intendesse, sorrise dolcemente “So perfettamente cosa vuol dire dover studiare molto, Oxford è un’ Università estremamente prestigiosa”. Non era tipo da vantarsi James Morrison, ma vedere gli occhi di Marco brillare di ammirazione per lui fu una grande vittoria “Ci sono tante cose di me che non sai e altrettante poche  io ne so di te. Intendo conoscere tutto ciò che devo sapere su di te, Marco” i due si sorrisero. La casa di Morrison era molto grande, ma se la villa di Marco ricordava gli antichi palazzi nobili, anzi, era uno di essi, la villa di James sprigionava innovazione e ultime tendenze da ogni parte. Un po’ asettica e non solo per la presenza quasi insistente del colore bianco che dava un senso di pulizia, ma perché quella casa trasmetteva la freddezza di un edificio il cui proprietario ha vissuto ben poco. Non era una casa, era un’ abitazione. Casa è famiglia, amore, quell’ edificio era pieno di costosi mobili scelti con grande cura, ma non c’ erano foto, non c’ era niente che attestasse l’ effettiva appartenenza di James a quel posto. “Non sono tipo da riempire la casa di foto e souvenir” disse semplicemente James togliendosi cappotto e giacca. Marco fece lo stesso stupito, ma neanche così tanto ormai, che James gli leggesse nel pensiero. “Come mai?” “Non ho dei ricordi che valgano la pena di essere conservarti e poi, guardati intorno” Marco seguì con lo sguardo l’ ampio gesto delle mani di James “Qui è tutto come se fosse nuovo, una casa di cristallo” “Tutti hanno dei bei ricordi” “Sì, ma conservarli in un posto dove non vengo mai che senso avrebbe? Che ci faccio col diploma appeso se nessuno, nemmeno io, può guardarlo e ricordarsene?”. James sorrise vedendo lo sguardo un po’ perso di Marco che si era focalizzato all’ analisi delle mura immacolate della casa.

Si accomodarono sul divano e iniziarono a parlare, come era loro consuetudine, di qualunque cosa passasse loro per la mente, ma senza banalità, quella la lasciamo a chi non possiede arte dentro di sé. “Devo andare, James” disse Marco ad un certo punto con un tono di voce che esprimeva la poca voglia che aveva di tornare a casa “No, resta” rispose James “Ti prego”. Detto questo strinse il giovane in un abbraccio passando di tanto in tanto la mano sul suo viso “Non andartene, non adesso” “Non voglio andarmene, ma..” non riuscì nemmeno a completare la frase, non voleva sottrarsi a quell’ abbraccio. Per quanto tutti lo avrebbero trovato sbagliato a lui piaceva stare fra le braccia di James, gli piaceva il calore della sua pelle, il suo profumo, era tutto perfetto.

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Capitolo 4
*** Marco e James pt.4 ***


Capitolo 4

La relazione di Marco e James era iniziata da poco, si godevano ancora i primi momenti dolci come coppietta, scoprendosi sempre di più e rendendosi conto che le braccia dell’ altro erano il posto più bello di sempre. Marco stava continuando i suoi studi alla grande con degli ottimi voti, dedicando anima e corpo e quegli spessi tomi universitari deciso a diventare professore. La relazione di Marco e James non era ufficiale, ma in famiglia tutti lo sapevano e il padre non l’ aveva digerita benissimo. Marco era il figlio alternativo, diverso, sembrava non aver niente a che fare con suo padre e questo il conte non lo apprezzava particolarmente.

Un pomeriggio, verso la fine di novembre, Marco sentì suo padre urlare al telefono e accorse in salotto, “Vattene” sibilò suo padre scolandosi un bicchiere di liquore tutto d’ un fiato. Marco tornò in camera e poco suo fratello entrò sedendosi sul letto “Mi fa paura” sussurrò Andrea abbassando lo sguardo “Chi è stato? Ruggeri?” domandò Marco scribacchiando qualcosa sul suo quaderno “Credo sia Pellicci, quello nuovo. Marco perché non mi degni di attenzioni?!” Marco allora si girò e notò il terrore negli occhi del fratello: loro padre arrabbiato non era affatto uno scherzo, così Marco si sedette vicino a suo fratello abbracciandolo “Ho più paura di te” –disse Marco –“Almeno a te non rinfaccia di essere gay”. I due rimasero così per un po’ fin quando Andrea non uscì lasciando studiare il fratello. Il padre entrò in camera di Marco dopo una ventina di minuti, una mano ferita avvolta in un fazzoletto di stoffa macchiato di sangue e nell’ altra mano una bottiglia ormai vuota “Papà.. Come stai? Ti sei fatto male?” il conte  scosse la testa “Questo?” domandò alzando la mano ferita “Questo non è niente”, bevve un sorso dalla bottiglia e Marco gli domandò se a lavoro fosse tutto ok, la Borsa era un ambiente infido: un giorno potevi essere ricco come un dio e il giorno dopo fare la fame sommerso dai debiti. Si fidavano tutti quanti delle abilità del signor conte, era un uomo intelligente, coscienzioso ed estremamente bravo nel suo lavoro, ma molto stressato.

“Non preoccuparti” –rispose il conte –“Potrai ancora vivere a mie spese per molti anni, nessun danno grave” Marco abbassò lo sguardo ferito “Io.. Sto studiando per.. Cercare un lavoro mio, lo sai” suo padre rise, una di quelle risate di scherno pungenti come mille aghi “E così è questa la tua idea? Fare il professore?” –ed evidenziò la parola professore con un tono di voce sarcastico e volgare –“Davvero è questo quello che vuoi?” Marco deglutì “Sì”.
Pietro guardò il soffitto e poi scosse la testa “Cielo..” –sussurrò –“Il professore.. Vuoi davvero insegnare a degli stupidi ragazzini cose che non useranno mai?! E per cosa?! Per uno stipendio da fame. Il conte ormai stava urlando, prendendosi gioco del figlio “Voglio insegnare.. Letteratura” “Ah!” –esclamò il conte –“Letteratura! E come pensi che la useranno la tua stupida letteratura?” Marco abbassò lo sguardo e sentì una lacrima scendere sul suo viso, strinse i pugni “Sai” –disse suo padre –“Se vuoi continuare con questo tenore di vita puoi sempre affidarti a Morrison, come la puttana che sei” Marco sentì un colpo al cuore, sapeva che suo padre era ubriaco, arrabbiato, stressato e che odiava la sua omosessualità, ma queste parole lo ferirono in un modo che non seppe spiegarsi. “Goditela finché dura, un giorno potrebbe stancarsi di te” .

Marco, per quanto cercasse di frenarle, sentì le lacrime scendere copiosamente. James era un uomo affascinante, ricco e aveva avuto tantissimi amanti, sia donne che uomini, tutti degni di nota, con posizioni importanti. Cosa poteva offrirgli un ragazzino appena ventenne? “Lui.. Lui mi ama” disse Marco fra i singhiozzi più a se stesso che a suo padre “Me lo ha detto, mi ama!”. Suo padre lo afferrò per le spalle “Ti sognavo come me.. E invece.. Vuoi fare il prof di lettere.. E sei gay.. Perché sei così diverso?” Marco lo guardò dritto negli occhi anche se ormai i suoi erano colmi di lacrime “Non lo so perché, sono solo così… Prova ad.. Ad amarmi per ciò che sono”.

 Suo padre lo guardò sprezzante e gettò a terra uno dei suoi libri “Sei sprecato Marco, avresti potuto essere tutt’ altro. Avevo grandi ambizioni per te quando eri piccolo” e se ne andò trascinandosi alla porta e lasciando suo figlio a piangere disperato in camera sua.
Fu Alberto, il maggiordomo, ad entrare per primo in camera di Marco, preoccupatissimo nel sentirlo piangere così. Lo invitò a stendersi sul letto mentre chiamava la persona di cui probabilmente aveva più bisogno Marco in quel momento: James.

L’ uomo, appena saputo che il suo ragazzo stava male, si precipitò presso la villa più velocemente che poté e in pochi minuti stava già salendo le scale. Arrivato in camera trovò Marco steso sul letto in lacrime, rannicchiato come un bambino piccolo che nasconde il viso, come se si stesse proteggendo e Alberto accanto a lui che gli accarezzava la schiena cercando di rassicurarlo. Appena vide James si alzò con molta deferenza e una malcelata preoccupazione “Grazie Alberto” –disse James dando una pacca sulla spalla all’ uomo –“Adesso ci penso io”. Si sedette al fianco del ragazzo “Va tutto bene, ci sono io adesso” Marco continuava a singhiozzare “Vuoi dirmi cosa è successo?” “Mio..Padre..” James scosse la testa, se lo aspettava, ma non credeva che avrebbe ridotto Marco fino a questo punto “Adesso prova a calmarti, okay? Non hai assolutamente niente da temere, ci sono qua io”.

Quando si rese conto che Marco si era un po’ calmato, il respiro era regolare e sembrava in procinto di addormentarsi, decide di andare a parlare con l’ uomo. Non si aspettava di trovarlo così in fretta in quella grande casa, ma lo vide in una stanza, la porta socchiusa. Entrò e vide che era steso su un divanetto, la bottiglia ormai vuota a terra, le mani sul volto e James pensò che era patetico. Aveva insultato suo figlio, lo aveva denigrato e fatto piangere solo perché non si era trasformato nella sua copia in miniatura e, oltre a tutto questo, era un uomo di mezza età ubriaco. “Marco non può più vivere qui” esordì James e l’ uomo poco dopo si voltò nella sua direzione, i capelli ormai del tutto bianchi scompigliati, gli occhi arrossati e un’ espressione indecifrabile sul viso, un miscuglio di pietà e rancore. “Hai ragione, portalo via.. Gli sto solo facendo del male”, James rimase sorpreso da quelle parole e notò con suo grande stupore che l’ uomo sembrava veramente pentito. Aldilà della retorica, di qualsiasi discorso si possa fare sulla coerenza, sull’ amore, sull’ ipocrisia, aldilà di tutto anche quell’ uomo soffriva. James avrebbe voluto capire, ma adesso doveva occuparsi di Marco, suo unico pensiero.


La verità è che tutti noi coviamo nel nostro più profondo essere segreti, sofferenze che sono solo nostri. Insicurezze, tormenti, paure, dolori, ricordi. Tutti soffriamo, tutti nascondiamo qualcosa che non è dato sapere agli altri, che riguarda una parte che non mostriamo mai a nessuno, che non mostriamo mai a noi stessi. Non ci prendiamo mai due minuti per guardarci allo specchio se non per sistemarci i capelli prima di uscire. Non sappiamo più chi siamo perché questi dolori li nascondiamo, come cicatrici imbarazzanti che vanno nascoste alla luce, per proteggerci, per non mostrarle a chi non capirebbe. Basterebbe spogliarsi, ogni tanto, delle nostre corazze e guardare dentro, perché dentro siamo pieni di cose che necessitano di essere ascoltate: fanno rumore contro le pareti del cuore e scalciano, gridano, si arrabbiano. Dobbiamo essere ascoltati con tutti i nostri dolori. Tutti i personaggi del mio racconto hanno una storia più o meno facile, fatta di scelte, di dolore, di amore, di piccole certezze  e ancora di sorrisi, sguardi, pianti. I protagonisti, anche quelli che non sono ancora comparsi hanno una storia da raccontare che è solo loro e, anche se sembra un film già visto, questa è la loro storia.

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