Aktha Demochye

di Mannu
(/viewuser.php?uid=32809)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dell'uomo... ***
Capitolo 2: *** ...e del demone ***
Capitolo 3: *** Ambasciator non porta... ***
Capitolo 4: *** La paura ***
Capitolo 5: *** Corna, coda e pelle viola ***
Capitolo 6: *** Brutta da vedere, ma non cattiva ***
Capitolo 7: *** Vietato ai demoni ***
Capitolo 8: *** Vacanza studio e lavoro ***
Capitolo 9: *** Mercenari e balie ***
Capitolo 10: *** Vendetta breve ***
Capitolo 11: *** Io resto quando c'è il pericolo ***
Capitolo 12: *** Dura la vita del mercante ***
Capitolo 13: *** La sfera del demone ***
Capitolo 14: *** Malcant arde! ***
Capitolo 15: *** Gli umani sono tutti uguali ***
Capitolo 16: *** Cuore di demone ***
Capitolo 17: *** Io faccio il bene ***



Capitolo 1
*** Dell'uomo... ***


Flugzeug!
1. Dell'uomo...

Non aveva mai corso così tanto in vita sua.
Maledicendo a ogni passo ogni sorso di vino, ogni boccale di birra, ogni boccone di cibo mangiato oltre la sazietà, per il solo piacere del palato. Ora il suo corpo appesantito e goffo stentava a rispondere ai suoi comandi, nemmeno la paura gli metteva le ali ai piedi come avrebbe desiderato.
Inciampò e cadde più volte, graffiandosi mani e gomiti e ginocchia sui sassi del sentiero. Quando gli era stato chiesto di collaborare a mantenere le vie fuori del paese pulite dai sassi che occasionalmente il vulcano riusciva a far arrivare fin lì, aveva rifiutato ridendo. “Quando mai lascerò il comodo posto che ho alla taverna” aveva proferito tronfio, facendo tintinnare loro in faccia la borsa piena di monete.
Ora le monete erano finite, l'oste lo aveva cacciato in malo modo e pure i suoi concittadini, accusandolo di essere buono a nulla. E quelle pietre nere e sempre aguzze gli graffiavano le carni a sangue, laceravano i suoi miseri vestiti.
Lo avevano scacciato. Non si erano comportati così finché la sua borsa era stata colma. D'un tratto era divenuto un paria, disprezzabile perfino alla vista. Dopo mesi di umiliazioni, vagabondaggio ed elemosine era stato bandito dal paese ed intimato a non farsi più vedere, pessimo esempio che era per tutti i giovani e i bambini.
Ma non avrebbero potuto impedirgli di tornare, ora. Ora che aveva da riferire quanto i suoi occhi avevano da poco testimoniato! Ah, no! Mornus Siber sarebbe tornato rispettabile! Magari anche ricco!
Riuscì ad arrancare fino ai primi campi coltivati, allo stremo delle forze. Non c'era in vista nessuno, così cercò di forzare quel poco di fiato rimasto attraverso la gola per lanciare un richiamo, ma produsse solo un rantolo. Fece ancora qualche passo poi si lasciò andare lì dove si trovava, nel mezzo della strada segnata dai solchi delle ruote. Si accasciò sulle ginocchia, poi crollò carponi e si rotolò supino, ansimante. Ogni fibra del suo corpo gli urlava di fermarsi, mille voci di paura nella sua testa strillavano per farlo fuggire via più in fretta possibile.
Rimase a guardare il cielo plumbeo di nubi che da giorni non si decidevano a lasciare il loro carico di pioggia. Gli sembrò d'essersi ripreso e cercò di sollevare le sue pesanti membra gonfie di grasso e indebolite dal bere, ma ebbe un capogiro terribile. Si voltò sul fianco scosso da dolorosi conati e vomitò tossendo solo bava bianca perché era da due o tre giorni che non mangiava nulla e beveva solo acqua.
Voci.
Le aveva sentite veramente? Forse no. Altri conati lo squassarono, ma non c'era più nulla dentro il suo stomaco che tentava di rovesciarsi con dolore.
Avrebbe voluto fuggire, ma non riusciva nemmeno a sollevarsi per non vomitarsi addosso.
Si lasciò andare, sconfitto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** ...e del demone ***


Aktha Demochye
2. ...e del demone

Quando si riprese era seduto. Bagnato, infreddolito. Strana sensazione il freddo dopo aver eletto a dimora una tana d'animale a qualche decina di passi dal campo dei fumaioli. Abituandosi alla puzza, poi rimaneva da godersi il calduccio.
Il pensiero di quanto aveva visto gli evocò immediatamente il medesimo terrore e scattò in preda al panico, la mente già in fuga.
Ma il corpo era molto più lento e debole e lo tradì nuovamente. Cadde in avanti dopo nemmeno due passi inciampando nei suoi stessi piedi e non seppe rialzarsi.
Mani robuste e dure lo afferrarono per le braccia e lo rimisero seduto.
- Per Elzer, fermo!
Sedh il contadino. Lo riconobbe. Uno di coloro che sempre avevano disdegnato di sedersi al suo tavolo per brindare, nemmeno accettando mai un pegno qualsiasi offerto senza secondi fini.
- Bisogna scappare! Via! Subito!
La faccia schifata del contadino non fece una piega, scura e piena di solchi come la terra che quell'uomo coltivava.
- Chi ti ha dato da bere, vergogna? Non stai in piedi!
Mornus lo guardò in tralice. Come faceva a non capire? Certo, non poteva! Non aveva visto! Ma non aveva intenzione di raccontare subito tutto al primo che capita. Bisognava anche avvisare tutti in paese del tremendo pericolo!
Ma il testardo contadino non sembrava intenzionato a dargli alcun credito. Continuava a guardarlo con disprezzo. Certo puzzava e se l'era fatta addosso. Anche al più temibile guerriero si sarebbero sciolte le budella alla vista di quello che lui aveva appena veduto. Ma come l'avrebbe spiegato a un rozzo come Sedh?
Semplice. Non l'avrebbe fatto.
- Portami in paese, ti prego!
- Vuoi essere lapidato?
- Bisogna avvisare tutti del pericolo!
- Ma che pericolo? Cosa potrai mai aver visto in mezzo ai fumaioli dove ti sei rifugiato a svernare? Nemmeno un esercito passerebbe da lì. Predoni, forse?
- Ma no, ma no! Peggio! Portami in paese, presto! Stiamo perdendo tempo prezioso!
- Puah! - rispose schifato il contadino – avrai sognato! Il troppo vino ti ha fatto ammalare al cervello, e ora hai le allucinazioni anche da sobrio.
Implorando e insistendo, Mornus ottenne che il figlio maggiore di Sedh lo portasse fino al paese con la carriola, ma non oltre le prime case. C'era ancora un sacco di lavoro da fare prima che calasse il sole.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Ambasciator non porta... ***


Aktha Demochye
3. Ambasciator non porta...

Durante il viaggio il giovane e robusto figlio del contadino, Conrad, non fece altro che alternare scherno, risa e insistenti domande su quanto potesse aver visto il passeggero della carriola. Dal canto suo Mornus, ancora vittima di fastidiosi capogiri, non faceva altro che guardarsi intorno cercando di individuare ogni eventuale minaccia.
Poi, obbedendo al padre, non appena a distanza di voce dalle prime case di Malcant, paesino di edifici bassi di pietre e legno uguale a cento altri entro un giorno di cavallo, lo scaricò dalla carriola come avrebbe fatto con un carico di letame (ragion per cui Sedh aveva comprato una carriola) e lanciò un richiamo di sicuro effetto.
- Mornus Sidis è qui!
Le prime a uscire dalle case furono le donne. Armate di scope, battipanni, coltelli da cucina, quello che erano riuscite a trovare lì per lì avendo udito il nome di colui che avevano scacciato come incarnazione di malvagità e depravazione. Una addirittura impugnava un pesante ferro da stiro colmo di carbonella fumante.
Si avvicinarono minacciose, ma non più di tanto. Mornus aveva un aspetto orribile: da mesi viveva di ciò che trovava ed elemosinava, non si radeva né lavava, puzzava terribilmente anche perché se l'era fatta addosso da poco, si era vomitato sui miseri cenci che aveva per abito ed era stato trasportato con la carriola del letame. A peggiorare ulteriormente le cose il fatto che non riusciva a sollevarsi da terra. In un battibaleno erano tutti convinti che fosse ubriaco fradicio. Come se i vulcani eruttassero lava, cenere, lapilli e vino.
Mornus si lanciò a capofitto nell'unica cosa che poteva risparmiargli una bella ripassata di legnate: la storia del pericolo imminente. In fin dei conti era l'unica cosa davvero importante in quel momento: era anzi la dannata verità, si disse.
Non ebbe più fortuna che col contadino. Ogni sua parola fu contraddetta, contestata, respinta. Lo accusarono di essere un lurido bugiardo, di essere ubriaco ("nemmeno ti reggi in piedi", gli urlò una donna aggiungendo poi insulti già sentiti e risentiti cento volte) e di non essere degno di fiducia alcuna.
- Poi di che pericolo si potrà mai trattare? È da anni che non ci sono grandi guerre, e nemmeno piccole. Non si vedono soldati se non per scortare gli esattori. Non ci sono animali feroci. Non si vedono mercenari o avventurieri. E se non lo so io!
Mornus si voltò verso chi aveva parlato. Lo avrebbe riconosciuto tra cento altri senza nemmeno vederlo. L'oste Kontar. Giunto lo sciagurato giorno che lo aveva visto privo delle sue monete, l'oste si era trasformato dal suo miglior amico alla miglior spina nel fianco Mornus avesse mai avuto.
Decise quindi di vuotare il sacco. Era ormai chiaro che da quella gente non avrebbe avuto ospitalità alcuna, nemmeno un tozzo di pane raffermo.
- E sia! Perdiamo dunque ancora tempo a sentire la natura di questo allarme. Ma quando le mie parole avranno preso corpo sarà ormai troppo tardi, e rimpiangerete il tempo speso ad ascoltarmi anziché a fuggire!
- Rifiutiamo di credere che si tratti di una minaccia così grave! Piuttosto sarà un inganno da te ordito per tornare in paese e ricominciare a ingozzarti! - di nuovo l'oste all'attacco, raccolse il consenso della folla che si era ormai assiepata minacciosa.
- Come ben sapete me ne stavo tranquillo per i fatti miei ai fumaioli. Zona puzzolente ma il terreno è tiepido e si riesce a passare la notte con quelle poche coperte.
Mornus cercò di descrivere in che misere condizioni era costretto, ma fu minacciato di percosse se non fosse giunto in fretta al dunque.
Narrò quindi di aver sentito la terra tremare. Fatto non insolito vicino a un vulcano, tutti ne convennero. A Malcant la terra tremava spesso ed era il motivo per cui le costruzioni erano per la maggior parte di legno. Ma questa volta era stato diverso, garantì Mornus, tanto da spingerlo nella direzione del rombo che aveva accompagnato la scossa.
- Dopo poco il calore ha cominciato ad aumentare tantissimo, al punto da dovermi allontanare in tutta fretta!
- Ti conosciamo, cuor di leone – si alzò una voce.
Mornus con occhi spiritati cercò chi avesse parlato ma non trovandolo si rivolse a lui solo alzando un poco la voce.
- Parli bene tu che non c'eri! Non hai visto!
- Ma visto cosa? - fu di nuovo esortato a farla breve, con minacce e male parole.
Mornus raccontò di come avesse visto il terreno scuro e pietroso gonfiarsi come spinto dal di sotto. Gonfiarsi e creparsi, e dalle spaccature apparire il giallo bagliore della lava incandescente. Narrò di essere scappato: ben sapeva che il gas del vulcano era velenoso e che la pressione era tale che la bolla esplodendo poteva investire un'area abbastanza ampia con mortali schizzi di lava.
Ma nulla di tutto questo era accaduto. Incuriosito dall'esplosione che non arrivava mai, era tornato sui suoi passi. Aveva già sentito che in mezzo alle pietre roventi del vulcano si potessero trovare diamanti e pietre preziose. Invece scoprì che la terra squarciatasi lentamente aveva dato origine a una larga pozza di pietra fusa ribollente. Gialla, rossa, screziata di nero ai margini dove cominciava a raffreddarsi tornando a essere scura pietra lavica. L'afflusso di lava dal sottosuolo era lento e non c'era pericolo immediato: il calore era insopportabile ma la smania di trovare qualcosa di valore lo era stata di più e Mornus si era avvicinato ancora.
All'improvviso di nuovo la ribollente superficie del laghetto di lava aveva preso a gonfiarsi, anche se in misura molto minore. E drasticamente differente! Come se qualcuno stesse spingendo qualcosa dal sottosuolo... non era una bolla di gas!
Scorrendo via da quella figura, la lava svelava una affascinante e terribile sorpresa!
- Un demone! Con grandi corna d'ariete, la pelle viola e lo sguardo giallo d'un gatto! E la coda a punta! Anzi, tante punte!
Il clamore degli insulti si levò alto più che mai. La fama di ubriacone non aiutò affatto Mornus Siber che fu una volta di più maltrattato, insultato e deriso. Le più infervorate tra le donne, già armate, gli diedero addosso coi manici delle scope. Spossato dalla fuga al punto da non riuscire a far altro che gattonare per sottrarsi alle bastonate, Mornus finì col prenderne un sacco e coprirsi di ridicolo.
Fino a quando accadde.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La paura ***


Aktha Demochye
4. La paura

Grida lontane distrassero poco a poco tutti i presenti. Le donne smisero di infierire su Mornus che si rannicchiò su se stesso attendendo solo la mazzata che avrebbe posto fine alla sua vita. Gli abitanti del paese andarono verso i campi, da dove giungevano le urla.
Erano i contadini che lavoravano i campi intorno a Malcant. Correvano e urlavano, mulinando le braccia. Uomini, donne, bambini: correvano tutti come forsennati verso il paese e non si capiva cosa stessero gridando. Non potevano saperlo ma correvano, inciampavano, cadevano e si rialzavano come aveva fatto poco prima Mornus, che ora giaceva piangente e mugolante in mezzo alla strada, le braccia attorno alla testa e le ginocchia strette contro il ventre ancora oscenamente prominente nonostante il digiuno prolungato. Solo erano molto più agili e scattanti. Quel tipo di agilità e scatto dono di una gran paura.
Finalmente i paesani riuscirono a intendere cosa gridassero i loro concittadini.
- Il demonio! Il demonio!
Dopo i primi istanti di silenzio e di sguardi rivolti verso Mornus che piangeva sommessamente, cominciò a serpeggiare la paura.
Sbandati dal solo pensiero che l'ubriacone potesse aver ragione (qualcuno osservò che di tutte le puzze che emanava mancava proprio quella del vino), ansiosi di saperne di più ma già con la mente volta a come mettersi in salvo nell'eventualità fosse necessario, gli abitanti di Malcant persero coesione e si divisero in gruppetti.
Le donne, soprattutto le più anziane, già recitavano antiche rime di scongiuri che da filastrocche per bimbi ora balzavano a un livello di importanza e serietà che nemmeno era mai stato possibile intuire prima. Alcune se ne uscirono con frammenti distorti di leggende e profezie e subito furono accusate da altre di portare sventura e di stare dalla parte delle armate degli inferi, e cominciarono a litigare tra loro.
Gli uomini mandarono a chiamare il prefetto del villaggio. Nominato direttamente dai legati di Vorgo il Tiranno (che non si erano mai più fatti vedere, limitandosi a mandare gli esattori delle tasse), era incaricato di prendere tutte le decisioni importanti. Mastro Benner non era particolarmente più abile o sveglio degli altri cittadini di Malcant, ma sapeva leggere e scrivere. Quindi era in grado di applicare le leggi.
Apparvero le prime armi vere: chi si cingeva i fianchi con la vecchia spada di quando aveva prestato servizio presso le truppe di qualche signorotto locale, chi aveva conservato qualche picca arrugginita di quelle razziate dai campi di battaglia quando, molto tempo prima, la zona intorno a Malcant era stato un campo di battaglia. I più ricchi e i cacciatori si armarono di arco e frecce.
Quando i contadini giunsero trafelati in paese, i concittadini dovettero trattenerli con la forza e minacciarli per farsi dare qualche spiegazione.
Tutto quello che riuscirono a cavar loro, spaventati al punto da faticare a parlare, fu che avevano visto un demone.
- Fuggite, fuggite! Sta venendo qui! - strillò rauca una donna con la sottana tra le mani per correre più alla svelta. Paonazza in volto, stravolta per la corsa non accennò nemmeno a fermarsi né alcuno tentò di calmarla o di interrogarla per saperne di più.
Giunse infine Mastro Benner che volle sapere cosa stesse succedendo. Fu raggiunto da numerosi cittadini infervorati, spaventati e preoccupati. Sommerso di parole dovette cacciare diversi urli a squarciagola solo per respingere l'assalto dei suoi paesani. Ignaro di tutto si era fatto l'idea che fosse in corso un linciaggio poiché il ragazzo che era stato a lui inviato aveva saputo essere davvero confuso nell'esposizione dei fatti e l'unico nome che era stato in grado di pronunciare era quello di Mornus Siber, persona non gradita lì a Malcant e allontanata da tempo.
Proprio mentre cominciava a mettere insieme le tessere del mosaico strillato dai paesani spaventati, un stridente urlo di donna lacerò l'aria, seguito da parole urlate a squarciagola.
- Eccolo! Laggiù! Arriva!
Quel leggero velo che ancora si interponeva fra i cittadini di Malcant e il panico collettivo fu strappato e fatto a pezzi da quelle grida. Vi fu un fuggi fuggi generale: tutti corsero a rintanarsi nel posto che più ritenevano sicuro: chi in casa, chi l'aveva scavata perchè aveva da riporvi scorte di cibo e altro si tappò in cantina, chi credette che l'ultimo posto dove un demonio li avrebbe cercati sarebbe stato sul tetto.
Dapprima non successe nulla. Un silenzio irreale era calato su Malcant come una pesante coperta invernale. Sembrava che tutto si fosse fermato: non c'erano i cani in strada, non si sentivano uccelli cinguettare, perfino il sole, offuscato da nuvole sempre più grigie, sembrava fermo.
Qualcuno si decise a sbirciare dalle imposte, dalle fessure tra le assi di legno. Chi tese l'orecchio allo spasimo per cogliere anche solo un sussurro rivelatore poiché temeva che un solo movimento avrebbe potuto tradire la sua posizione.
Nulla. Solo Mornus giaceva in mezzo alla strada, rannicchiato, immobile. Qualcuno pensò di aver esagerato con le botte, qualcun altro che finalmente quel lurido personaggio avrebbe avuto ciò che si meritava. Essere mangiato da un demone era una giusta pena per uno come lui.
Ancora nulla. Il tempo passava e non si vedeva nulla. Evidentemente i demoni a piedi non sono tanto più veloci di noi, pensò Magda, la giovane moglie di Mastro Benner che non vedendo tornare il marito e sentendo tutte quelle grida, era scesa in strada a indagare per poi tornare in fretta e furia sui propri passi vista la folla di paesani in preda a una pericolosa follia. Si era barricata in casa non sapendo cosa stesse terrorizzando tutta la gente di Malcant, ma non le era sfuggita la parola "demone".
La stessa cosa pensava Agatha, una delle anziane che abitavano nelle prime case lungo la strada che portava in paese. Il demone sarebbe passato di certo da lì e lei, tremante di paura al punto da non riuscire a tenere ferme ginocchia, mani e labbra, l'avrebbe visto attraverso la fessura da cui nonostante tutto non riusciva a staccare l'occhio.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Corna, coda e pelle viola ***


Aktha Demochye
5. Corna, coda e pelle viola

Infine il demone giunse. A piedi e di buon passo, com'era logico immaginare.
Tutti coloro i quali lo avevano atteso spiando da fessure e buchi rimasero sgomenti e senza fiato.
Era davvero un demone di qualche tipo.
Le corna erano davvero corna d'ariete come le aveva descritte Mornus Siber, curve e con le nere punte rivolte in avanti. Erano saldate alla fronte, solide e ampie tanto che non rimaneva posto per le sopracciglia. La pelle sembrava morbida e simile a quella umana ma era di una tonalità di rosso tendente al violaceo, che si scuriva in prossimità di ginocchia, gomiti, dita di mani e piedi dove si formavano spine corte e tozze. Come un gallo aveva anche corti speroni sopra il calcagno scuri e induriti anche quelli. E una orribile, muscolosa coda con due file di piccole spine scure che terminava piatta, a forma di punta di freccia.
Ma soprattutto era femmina.
Su questo non vi poteva essere alcun dubbio dato che camminava fiera e a testa alta, scuotendo di tanto in tanto il capo infastidita dai capelli scarmigliati, mostrando il volto dai lineamenti femminei reso però cruento da stretti occhi gialli come quelli dei gatti. E perché non indossava vestiti.
La osservarono fermarsi a un passo dal corpo immobile di Mornus. Quella si guardò in giro come se potesse scrutare attraverso le pareti di legno e pietra e poi allargò le braccia, i pallidi palmi in avanti.
- Io non faccio il male – disse senza enfasi e senza gridare. Tutti sentirono la sua voce: un po' cavernosa ma femminile.
Rimase a braccia aperte, leggermente abbassate per alcuni interminabili istanti, poi le distese lungo i fianchi.
- Voi sentite me? Capite me? Voi parlate la lingua di Elzer?
Ce lo si poteva attendere da un demone che non parlasse tanto bene la lingua, ma quel colto riferimento al semidio Elzer lasciò tutti spiazzati. Lasciava intuire che quella creatura sapesse parlare più d'una lingua, tra cui la loro. Tutti coloro a portata d'orecchio intesero che probabilmente il demone non era proprio come se l'erano immaginato, a partire dall'aspetto così... umano, nonostante tutto. Almeno non era un orrendo mostro con due teste, il collo da serpente e zanne ovunque.
- Non temete me, non faccio il male – ripeté quella. Molti intuirono una vaga nota di supplica nella voce profonda della creatura, come se fosse spiaciuta di quanto stava accadendo e volesse porre rimedio. Come se implorasse. Nessuno si mosse: per pura e semplice paura o, i più coraggiosi, sospettando un inganno.
Molti non seppero impedirsi di trasalire e temettero di essersi traditi con quel suono dal profondo della gola. Ma anche qualora la demoniaca presenza in strada li avesse sentiti, aveva fatto finta di nulla. Infatti era rimasta china sul fagotto di stracci che era Mornus Siber e lentamente vi posò la mano dalle dita nere e puntute. Il contatto tra i due durò diversi battiti di cuore, poi la creatura si rizzò in piedi e fece un passo indietro. Mornus si mosse.
Come se si destasse da un sonno, i suoi ex concittadini lo videro mettersi seduto dando le spalle alla sua benefattrice, stropicciarsi un po' la faccia e poi rizzarsi in piedi con una certa agilità. Stava bene, in apparenza. Molto meglio di come stesse quando poco prima si era presentato, scaricato in strada come letame da una carriola.
Lo videro spazzolarsi gli abiti luridi ottenendo scarsi risultati, incapace di avvedersi della grave minaccia dietro di lui. Poi finalmente si guardò intorno, e alle spalle.
La giovane Monia, che aveva la finestra più vicina tra tutte alla strada, fu molto sorpresa. Il demone aveva sorriso a Mornus. Un sorriso... buono, dolce. Aveva già colto molti dettagli insoliti. Può una pericolosa creatura demoniaca presentarsi sotto le sì temibili spoglie di un demone cornuto, ma con le membra di una giovane ragazza un po' sovrappeso come anche lei era? Vedeva chiaramente come braccia e spalle non fossero grosse per i possenti muscoli che era lecito aspettarsi da un demonio, ma carnose e ben tornite, morbide, come anche le cosce. Il ventre era rotondo e leggermente sporgente, i seni tondi e floridi, i fianchi larghi. Certo le doveva piacere stare a tavola! Monia vide il ritratto di se stessa ma più grande, più alta e con corna e coda.
Ma Mornus Siber non vide il sorriso. Vide solo la creatura torreggiare a un passo da lui, vide la pelle rosso-violacea, vide le grandi corna ricurve, denti aguzzi snudati e lo sguardo giallo.
Sfruttò le nuove energie che gli erano appena state donate per fuggire urlando disperato.
Monia vide un sincero dispiacere dipingersi sul viso della creatura degli inferi e se ne addolorò.

- Oh, per Elzer! - bisbigliò Agatha infrangendo il silenzio terribile. Subito la sua amica Gretchen le sibilò contro, ricordandole di tacere. Ma Agatha non tacque, anzi.
- Quella sciagurata di Monia! Ha aperto la finestra! Pazza, ha cinque bambini in casa!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Brutta da vedere, ma non cattiva ***


Aktha Demochye
6. Brutta da vedere, ma non cattiva

Li guardò fuggire, impotente. Abbassò la mano che aveva teso come per trattenerli, finendo con lo spaventarli di più. Era bastata la sua figura per scatenare il panico, come per il primo umano che aveva avuto la ventura di trovare ad attenderla all'uscita dal camino. Nonostante fosse stanco e denutrito era fuggito a gambe levate. La prossima volta non alzerò la mano, si ripromise.
I Prospettori le avevano indicato quel camino non solo perché di un vulcano attivo, che le avrebbe agevolato il rientro, ma anche perchè vicino a un piccolo insediamento. Sapeva che gli umani erano venuti più volte a contatto con la sua razza in passato, e sempre in modo piuttosto traumatico. Tali incontri avevano lasciato un profondo segno nella cultura popolare degli uomini. Negativo, per lo più. In cuor suo, da studiosa, sperava che i tempi fossero ormai maturi per iniziare un nuovo rapporto: pacifico, reciprocamente proficuo.
Era stata molto galvanizzata quando il Maestro era intervenuto presso il Consiglio per chiedere l'autorizzazione a stare nel Mondo Fuori. Non l'avrebbe mai detto che sarebbe stata autorizzata, e senza obbligo di camuffamento. Era chiaro che il Maestro e il Consiglio tutto si attendevano da lei la maturità sufficiente per non combinare guai. Oppure la pensavano come lei: era ora che si venisse a contatto con gli umani senza trucchi e senza sotterfugi.
Le era dunque spiaciuto molto d'aver spaventato l'uomo. Si era ripromessa di fare meglio all'incontro successivo, ma coloro che aveva trovato intenti a lavorare la terra (curiosa necessità quella umana: lavorare la superficie della terra per far crescere lentamente e faticosamente poco cibo) avevano avuto la medesima reazione. Sospirò, esalando una nuvoletta di fiato bianco davanti al viso. Faceva freddo da quelle parti. Il Maestro e i Tutori l'avevano avvisata che il clima era tutt'altro che stabile come a casa. Le avevano fatto assistere a una tempesta per prepararla un po' prima del viaggio da sola ma le era piaciuta. Aveva avuto freddo, sì, ma era durato poco e la tempesta con vento, pioggia sferzante (che gran stupore per l'acqua che cadeva dal cielo!), boati e fulmini era stata davvero divertente. E dire che gli umani temevano le tempeste! Se n'era chiesta la ragione, riproponendosi di indagare una volta in viaggio.
Ma quegli umani minacciavano di rendere il suo studio molto difficile: come avrebbe potuto far loro domande se nemmeno si lasciavano avvicinare? Doveva vincere secoli di pregiudizi verso la sua razza! Ecco, ecco cosa si attendevano da lei tutti quanti. Che tornasse sconfitta. I suoi studi avrebbero subìto una battuta d'arresto, la sua reputazione ne avrebbe risentito. A causa del fallimento le sarebbero state negate risorse, l'accesso alle scritture più importanti. L'avrebbero rimandata a ripassare le lezioni già seguite.
No, non sarebbe successo.
Io, Aktha Demochye farò tutto quello che posso per non tornare sconfitta. Questo viaggio non è un capriccio come qualche invidioso ha spifferato in giro, ma è meritato. E io lo dimostrerò.
Guardò i campi deserti, gli attrezzi abbandonati, le case vuote. Guardò il cielo: era così strano che i suoi occhi non incontrassero barriere rocciose quando volti in alto! Invero, non vi erano barriere affatto. Il suo sguardo era libero di vagare all'infinito. O fino alle nuvole, dato che il cielo era coperto e minacciava pioggia.
Inspirò di nuovo l'aria fredda e povera di gas (già si stava abituando, si sentiva molto meglio) e con ottimismo si incamminò di buon passo.
Giunse allegra e felice per aver potuto rimirare il paesaggio tutto nuovo e così estraneo, ma sentire da lontano quanto strillassero gli umani al suo approssimarsi le guastò la serenità raggiunta. In cima alla dolce salita già si scorgevano i bassi tetti delle prime case.
Una volta alle soglie del paese trovò solo porte sprangate, finestre sbarrate e silenzio. In mezzo alla strada quello che sembrava un fagotto di stracci era in realtà un umano raggomitolato. Si avvicinò, curiosa. Non poteva certo andare ad aprire le porte senza permesso. Poi sentiva che dietro le assi delle imposte, dai lucernai delle soffitte e dalle strette finestrelle delle cantine decine di occhi la spiavano. Poteva vederli: forme sfuocate per via del materiale che si frapponeva tra i suoi occhi e i paurosi umani nascosti. Erano tutti scappati in casa, lasciando sul terreno uno di loro. Forse lo avevano scelto come vittima sacrificale? Quale orribile rito pagano era permeato nella cultura di queste persone per far loro credere che lei fosse un demonio adirato da placare col sacrificio di una vittima? Davvero qualcuno di loro pensava che se lo sarebbe mangiato convinto che così avrebbe lasciato in pace gli altri?
Si rifiutò di crederlo. Non potevano essere così primitivi.
Dall'odore riconobbe lo stesso uomo che aveva trovato non appena uscita dal camino. Era sporco, puzzava di merda di almeno due tipi differenti ed era davvero malconcio. Non mangiava da tempo, era disidratato. Poteva chiaramente vedere che un osso della mano sinistra, portata a protezione della testa, era stato spezzato da pochissimo tempo. Aveva lividi e tumefazioni sulle braccia, sulle spalle, sulle gambe e anche sulla schiena. Da alcune ferite sanguinava e se non si fosse lavato presto si sarebbe infettato.
Cercò di convincere a parole che non era venuta per far del male a qualcuno, nella speranza che uscissero tutti e si predessero cura del loro simile.
Niente da fare. Li vedeva tutti lì, fermi dietro i loro ripari che si illudevano sufficienti a proteggerli, a spiare ogni sua mossa. Fermi, paralizzati.
Quindi prese la prima decisione importante: si chinò sull'umano in difficoltà e lo toccò per curarlo.
Senza una sfera sarebbe stato molto faticoso e poco efficace, ma meglio di nulla. Poi si sentiva davvero bene, forte come uno dei colossali Protettori a guardia dei passaggi strategici che portavano alla sua terra. Si sentiva in grado di spaccare una montagna a mani nude e non risparmiò energie per curare l'umano.
Quando fu soddisfatta interruppe il contatto e si drizzò guardandosi intorno alla ricerca di qualche reazione positiva. Non ne vide. Nemmeno dalle abitazioni più vicine, dove di certo chi spiava dalle fessure aveva visto bene cos'era accaduto.
Anche l'umano a un passo da lei si rimise in piedi. Deformato dal troppo cibo e dal troppo bere, barcollò un istante ma poi si mise bene in equilibrio per guardarsi intorno. Quando i loro sguardi si incrociarono gli sorrise dolcmente.
Per tutta risposta quello usò le energie che lei gli aveva appena infuso nelle membra per una fuga precipitosa e molto più efficace della precedente. In poco tempo fu lontano, lungo la via maestra, urlando di terrore.
Aktha ci rimase male. Si era attesa un po' più di gratitudine. Ci avrebbe messo del tempo a recuperare le energie spese per curare l'ometto grasso e puzzolente.
Poi accadde l'inatteso.
Alla sua destra la finestra più vicina si aprì. Una femmina umana la guardava come un coniglio terrorizzato, indeciso se rimanere ancora un istante o fuggire via a tutta velocità.
Si voltò verso di lei e le sorrise. Vide chiaramente la giovane umana perdere il controllo della vescica e inzupparsi fino ai piedi della propria paura. Ma non si mosse.
- Io non faccio il male. Faccio il bene – le disse ancora. Era la migliore del suo corso nella lingua di Elzer ma sapeva di doverla perfezionare ancora tantissimo.
Non ottenne risposta. L'umana, pallida in viso e tremante, era una muta sfidante. La più coraggiosa di tutti, l'unica che aveva osato mostrarsi. Ma non proferiva parola. Andava premiata.
- Io sono Aktha Demochye. Non sono pericolosa. Io so di essere brutta da vedere, ma non sono cattiva.
Aveva usato il tono di voce più dolce che poteva produrre. Se avesse parlato così a un amante lo avrebbe di certo molto invogliato. Ma quella umana rimaneva paralizzata. Senza nemmeno riflettere, Aktha crollò le spalle e con le mani si strofinò la pelle delle braccia. Alla lunga il freddo era fastidioso. I Tutori l'avevano messa in guardia dal freddo: avrebbe lentamente consumato le sue energie fino alla morte.
Stretta tra le sue stesse braccia in cerca di calore, Aktha trasalì. L'umana si stava muovendo, finalmente. Tremando si tolse dalle spalle uno degli indumenti che la ricopriva (sapeva che era grazie a quelli che gli umani preservavano la loro energia) e glielo tese. Attraverso la finestra aperta. I cuori le si scaldarono come pietra fusa nel petto, la sua gioia traboccò in un ampio sorriso. Si trattenne dal balzare incontro a quella mano tesa, a completare di slancio quel gesto unificatore e pacificatore. Misurando i passi, lenta e sorridente si avvicinò e teso il braccio a sua volta, badando bene a non toccare la mano dell'umana, ricevette l'indumento come se fosse la cosa più preziosa che avesse mai avuto in vita sua.
- Grazie! - disse ricordandosi d'un tratto cosa bisognava dire quando si riceve qualcosa in dono o in prestito. Accompagnò la parola con un accenno d'inchino, solo un accenno per non spaventare. Sapeva perfettamente che le corna in testa non erano una caratteristica degli uomini ma solo delle bestie, lì in superficie. Non era saggio agitarle troppo. Le sue splendide, adorate corna! Ora, con gli umani di mezzo, lavoravano contro di lei.
Armeggiò un poco, impacciata su come usare quel triangolo di morbido filo intrecciato a formare una maglia e decorato da fili di colori differenti e da frangette annodate alle estremità. Alla fine ci riuscì. La copriva meno di quanto coprisse l'umana ma era un inizio. Ne intuì subito le potenzialità come indumento termico. Se solo fosse stato più grande! Ma non è importante stare caldi adesso, si consolò.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Vietato ai demoni ***


Aktha Demochye
7. Vietato ai demoni

Il Siniscalco piombò nella sala dove la coda dei richiedenti udienza arrivava già alla porta d'ingresso. Fece uno svelto cenno alle guardie, che stessero pronte. Poi ordinò ai cittadini di abbandonare l'aula poiché a causa di un'emergenza il Lord non li avrebbe ricevuti.
- Tutti i richiedenti udienza vadano fuori, vi prego! Pazientate, il Lord vi riceverà non appena sarà possibile.
Tra mormorii risentiti e seccati commenti a bassa voce l'aula si svuotò. Rimasero le guardie, trattenute all'ultimo momento da un cenno del Siniscalco stesso. Dalla medesima porta da lui varcata qualche momento prima irruppe Lord Hermann Gerben, signore per volontà del Tiranno delle povere terre comprese tra il vulcano Maas e il corso settentrionale del fiume Les, note come Provicia di Maas, o del vulcano. Seguito dalla sua guardia del corpo, un vero bruto di cui si diceva fosse più facile sorprenderlo senza pantaloni piuttosto che senza un'arma.
- Siniscalco! - esclamò adirato – Veniamo dunque a questa faccenda, facciamola finita in fretta prima che la voce si sparga e noi qui si diventi lo zimbello di tutto il regno!
- Entri il messaggero! - volto verso la porta principale il Siniscalco fece un cenno e il comandante delle guardie entrò scortando un tale in abiti da mercante.
I due attraversarono a grandi passi l'aula fino a giungere a rispettosa distanza dal Lord che li attendeva in piedi, impaziente.
Il mercante si presentò educatamente e rispettoso dell'etichetta come Jonas Jarven, commerciante itinerante. Stimolato a giungere al dunque in fretta, non esitò a descrivere senza mezzi termini come i cittadini di Malcant, un piccolo paese alle pendici del vulcano, venerassero un demonio ricevendo in cambio favori e intercessioni presso l'Arcidiavolo in persona. Non si poteva spiegare infatti come mai non fosse più possibile vendere a costoro medicine e rimedi di alcun tipo poiché godevano tutti di ottima salute.
- Siamo al termine dell'inverno e a Malcant nemmeno un raffreddore, una tosse, una febbre, mio Lord! Se non è un artificio demoniaco questo!
- E tu hai visto questo demonio?
- Io no, mio Lord. Ma ho... ehm... convinto, con le buone maniere ovviamente, un paesano a parlarne a lungo e approfonditamente. Sempre si è riferito a questo demonio come a una persona reale, descrivendolo fin nei dettagli i più difficili da inventare. Giungendo a precisare che il demonio si palesi con le forme, seppur demoniache, di una giovane fanciulla!
Il Lord, il Siniscalco e il comandante delle guardie si scambiarono un'occhiata carica di dubbi. Il mercante se ne avvide e si affrettò ad aggiungere dettagli importanti come la coda, le corna e il colore decisamente insolito della pelle del demonio.
- Che vi siano femmine dall'aspetto discutibile è noto a tutti – ironizzò il Lord – ma solitamente vengono definite streghe, non demoni. Tuttavia è altresì noto che vi siano femmine simili a demoni, ma non certo per il loro aspetto.
Nessuno azzardò nemmeno un sorriso. Ormai erano tutti ben avvezzi ai modi permalosi di Lord Gerben, e quello non era il momento giusto per ridere a una battuta.
- Assicuro che sono stato ben attento mentre versavo il vino, mio Lord. Sono certo che dei due quello alticcio fosse il mio interlocutore, e non tanto da straparlare fino a questo punto. E nemmeno è stato l'unico a farsi sfuggire qualcosa a riguardo... ho trovato conferme in altre involontarie testimonianze. Magari non vi è un demonio in carne e ossa, ma di certo non è più Elzer il primo dio venerato a Malcant.
Pensieroso il Lord Gerben stette col mento in mano. Di riflesso il Siniscalco assunse la medesima posizione, tormentandosi la barbetta a due punte.
- Questa tua ultima osservazione è la cosa più sensata che hai detto, mercante. Ho lasciato libertà di culto per tutti: chi vuole adorare Elzer è libero di farlo al pari di chi desidera venerare la dea Seleiah, la Morte o Zorast luminoso portatore di vita. È dunque questo il ringraziamento? A tutti è consentito innalzare altari, purché vengano pagate le dovute tasse. Ma non tollero che vi siano disuguaglianze. Non tollero che vi sia mancanza di rispetto reciproco. E soprattutto non tollero che vi siano pericolosi demoni cornuti, in figura o in carne e ossa nella mia provincia, figuriamoci come potrei essere felice se qualcuno li adora, perfino! I legati dell'Arcidemonio qui, nella mia provincia, a creare sette e fare proseliti! Mercante, hai reso un buon servigio. Verrai ricompensato, se questa tua denuncia dimostrerà di avere un fondamento solido. Altrimenti...
Jarven il mercante si irrigidì. Il Lord non finì la frase, ma non era difficile immaginare cosa intendesse. Era una provincia piccola e povera, ma non mancavano una solida prigione, bravi sgherri e nemmeno un boia ispirato. Lord Gerben congedò il mercante che fu scortato fuori dall'aula delle udienze da una guardia.
- Gul – disse il Lord rivolto alla sua guardia del corpo – manda due o tre dei tuoi, che non si facciano impressionare da storielle per spaventare i bambini. Facciano ciò che credono per ripristinare l'ordine a Malcant, cercando di evitare gli spargimenti di sangue innocente. Non voglio sentire parlare di vecchi e bambini sgozzati e donne violentate, chiaro?
- Mio Lord! - interloquì il comandante della guardia – credo sia meglio inviare uno dei miei esploratori prima, in modo da stabilire esattamente con chi abbiamo a che fare. Quanti sono, come sono organizzati. Due o tre soli guerrieri potrebbero trovarsi in difficoltà di fronte a un gruppo numeroso e ben capitanato!
In realtà il capitano Robert Harge, comandante della guardia e della guarnigione di soldati regolari, non poteva soffrire Gul il mercenario. Non ci teneva affatto a preservare lui e i suoi uomini da una brutta fine, anzi. Non aveva mai digerito che Lord Gerben avesse scelto un vile, rozzo mercenario della peggior specie, un violento e sanguinario bruto tutto muscoli e senza cervello come sua guardia del corpo. Sperava ardentemente che i tre sgherri da quello capitanati venissero fatti a pezzi da un'orda di demoni, o anche solo da una di contadini in rivolta. Tali infatti erano gli abitanti di Malcant: poveri contadini che passavano la vita curvi a coltivare la terra e a pagare pesanti tasse. A voler essere del tutto sincero, sperava che il decerebrato la prendesse come una sfida e si recasse sul posto di persona. Con tanti auguri di trovare l'Arcidemone in persona a fargli una bella festa.
- No. Tre uomini basteranno a ripristinare l'ordine. Se dovessero trovare un focolaio di rivolta non saranno così stupidi da cercare di soffocarlo da soli, tre contro tutti, e torneranno a riferire. Ma un solo uomo in ricognizione, trovandosi di fronte a pochi straccioni inchinati di fronte a chissà quale simulacro non potrebbe intervenire senza rischiare troppo. Tre uomini abili e determinati, ben armati e motivati invece non incontrerebbero difficoltà. È deciso. Gul, partenza appena pronti.
Il mercenario si batté il petto col pugno destro scimmiottando il saluto militare e mandando il sangue agli occhi del capitano, che della disciplina e della gerarchia faceva due incrollabili capisaldi del suo piccolo ma organizzato esercito. Anche lui non poteva soffrire il suo antagonista e non perdeva occasione di punzecchiarlo nel tentativo di fargli perdere le staffe e mandare all'aria disciplina e addestramento di cui si fregiava come medaglie. Gul era convinto che, nemmeno tanto in fondo, Harge fosse un bastardo figlio di cento padri come lui stesso era, solo con molte più arie da soldato e una divisa in ordine, coi colori esattamente coordinati con lo stendardo del signore che serviva.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Vacanza studio e lavoro ***


Aktha Demochye
8. Vacanza studio e lavoro

Soddisfatta.
Non trovava un'altra parola. Stava passando molto tempo tra gli umani e poteva dire di essere soddisfatta. Lavorava con loro, condivideva cibo, sonno e anche lo svago. Certo non era stato facile. La prima notte l'aveva trascorsa all'aperto, fuori dal paese poiché temeva per la propria vita e per non creare inutili tensioni. Aveva sofferto molto freddo col corpo, e pianto per il freddo nell'anima. Poi si era nascosta in una stalla. Le bestie da soma non ebbero nulla da obiettare; forse per via delle corna che avevano in comune, anche se le sue erano di gran lunga più sviluppate di quelle dei bovini. Aveva pianto ancora: era più facile farsi accogliere dai buoi che dagli umani. Bestie miti le prime, ma pur sempre bestie, esseri intelligenti e raziocinanti gli altri. L'episodio dell'indumento ricevuto dalla femmina umana era probabilmente destinato a rimanere un brillante episodio isolato.
Pian piano le cose erano migliorate. Avevano scoperto dove trascorreva le notti e dapprima si adirarono. Soprattutto il padrone della stalla. Poi, dopo aver speso molte energie cercando di argomentare con loro, forte del fatto che non fosse successo nulla di male a nessuno, riuscì dapprima a ottenere il permesso di dormire insieme alle bestie nella stalla. Fu costretta a cambiare stalla più volte poiché i contadini temevano che le vacche cessassero di fare latte a causa della sua presenza. Poi ebbe il permesso da Mastro Benner di entrare in paese, ma solo se c'era qualcuno a sorvegliarla. Peccato non si trovasse mai qualcuno disposto a stare vicino a lei.
Aveva saputo aggirare anche questo ostacolo: si era fatta vedere preparare un piccolo orto. Incuriosita dall'attività umana di lavorare il terreno, si era scelta un fazzoletto di terra incolta dove poteva essere facilmente vista dalle case e dalla strada principale e, copiando ciò che facevano gli umani, con un piccolo aiuto extra fece crescere rigoglioso un gruppetto di piante medicinali. Tra quelle che crescevano selvatiche nei dintorni le aveva riconosciute dall'odore del principio curativo che contenevano, identico al nekta che si coltivava in modo drasticamente più efficiente a casa sua, negli inferi. Sorrideva ancora ripensando a quell'orticello, come lo chiamavano gli umani. Era divenuto la delizia della vecchia Agatha che si faceva aiutare dai bambini per mantenerlo curato e produttivo. L'aveva perfino ingrandito.
Erano quindi venuti a chiederle cosa stesse facendo, incuriositi ma ancora tanto timorosi da mantenere una bella distanza di sicurezza. Tanta da dover alzare la voce per parlarle. Ma una volta visto cosa stava crescendo, le cose avevano cominciato a cambiare.
Certo, qualcuno se n'era approfittato. Molti, per meglio dire. Si era offerta di aiutare nei lavori e il contadino di nome Sedh l'aveva incaricata di spingere l'aratro. Dimenticando (per così dire) di dirle che a esso si doveva aggiogare il bue per il traino. Aktha aveva spinto il vecchio aratro accantonato da Sedh perché ormai insufficiente e sorpassato da un tipo più nuovo, migliore e con lame più affilate. Lo aveva spinto da sola, mettendoci la forza, pensando fosse giusto così. Si era impegnata per dimostrare la propria buona volontà, per farsi ben volere. Ma si era fermata, dubbiosa alla vista di Sedh impalato in mezzo al campo al timone del suo bell'aratro più moderno e trainato dal bue. L'espressione sgomenta sul viso dell'uomo l'aveva turbata. Non l'aveva compresa subito, così era andata avanti a lavorare pensando che il contadino non fosse contento del lavoro che stava facendo. Si era impegnata di più per fare il solco dritto e profondo come le era stato detto. Era giunta a sera davvero stanca, assetata e affamata. Quando Monia, con cui aveva cominciato a fare la prima amicizia, le ebbe portato la cena (ancora non le era consentito di entrare nelle case quindi cenava subito fuori dalla stalla) le chiese spiegazioni. L'umana, la più coraggiosa di tutte nonostante i primi giorni si bagnasse sempre di paura fin dentro le scarpe in sua presenza, le chiese per tre volte conferma di ciò che era successo. Si era meravigliata di quell'incredulità ma comprese bene tutto quando Monia, stupita a sua volta, le ebbe spiegato come avesse dimostrato di essere più forte di Sedh e del bue messi insieme. Molto più forte. Il giorno dopo, nonostante i dolori a tutte le membra per la fatica, aveva lavorato ancora nel campo di Sedh ultimando il lavoro davanti agli occhi increduli di molti paesani. In seguito molti si erano presentati da lei, timidi ma improvvisamente non più così paurosi, chiedendole aiuto nei campi. Sorrise pensando che sebbene fosse stancante, non aveva negato il suo aiuto a nessuno facendo molti lavori di fatica. Ben misero prezzo da pagare per guadagnarsi la fiducia degli abitanti di Malcant, che si erano fatti sempre più vicini.
Era stato Mastro Benner a mitigare il suo sfruttamento, rimproverando ai suoi concittadini di stare sfruttando come una bestia da soma colei che invece avrebbe dovuto essere trattata come un'ospite d'onore. Da quel giorno aveva cominciato, con sua grande gioia, a entrare nelle case e a sedersi alle tavole degli umani per mangiare. Ancora ve n'erano molti sospettosi, timorosi o impauriti, e si tiravano indietro spaventati. Per lo più erano coloro che non avevano potuto sfruttarla per i loro lavori. Ma altri avevano cominciato a farsi avanti, incoraggiati da Monia che certo non aveva la stoffa della combattente ma era la più coraggiosa. Le stava sempre più vicina coi suoi cinque figli cui permetteva di avvicinarsi. Solo due erano davvero suoi: Aktha era felice che che gli umani avessero in comune con la sua gente l'usanza di accollarsi i figli altrui rimasti orfani. Tutti gli altri preferivano tenere i bambini ben nascosti.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Mercenari e balie ***


Aktha Demochye
9. Mercenari e balie

Soddisfatta, dunque. Tutto sembrava volgere al meglio. Come quella mattina. Addirittura il clima era cambiato: gli interminabili giorni di freddo, di cielo completamente ingombro di nubi, di luce plumbea e pioggia che rammolliva il terreno e raffreddava perfino le ossa parevano vicini al termine. Quella mattina le nubi si erano spaccate mostrando strappi di cielo azzurro e il sole aveva fatto capolino più volte. Aveva avuto le vertigini tanto improvvisa la rivelazione che dietro le nubi l'attendeva davvero l'infinito. Non c'era bisogno di lei nei campi o negli orti, non c'era acqua da tirare su in pesantissimi secchi dal profondo pozzo. Il falegname aveva fatto apposta per lei un secchio per l'acqua rinforzato da anelli di ferro, grande più del doppio di quello che usavano gli umani.
Perciò Monia le aveva chiesto di badare ai bambini mentre lei sbrigava le faccende. Strana parola quella che includeva in modo generico molte attività anche diversissime tra loro, come per esempio pulire il pavimento o fare gli acquisti al mercato.
Si sentì tirare per la tunica di pesante lana dalla parte della schiena. Realizzata su misura per lei in cambio di qualche giorno di duro lavoro, era bella calda e insieme a spessi pantaloni la difendeva bene dal freddo, a patto di starsene al riparo delle mura domestiche e non uscire se non per poco tempo. Niente da fare per le calzature: nessun paio di quelle già pronte le stavano comode, nemmeno un po'. Colpa dei suoi piedi così diversi e delle corte ma robustissime unghie ad artiglio. Ma nemmeno a casa lei usava spesso calzature. Il problema aveva portato alla luce una curiosa differenza anatomica: gli umani avevano cinque dita anche ai piedi, non quattro.
Sapeva cosa sigificava quel piccolo strattonare ed ecco che puntuale sentì un peso sulle corna. Il più piccolino, un bimbo con nemmeno tre stagioni di vita, l'aveva sorpresa alle spalle, seduta sul pavimento di assi piallate al centro della stanza più calda della casa, quella coi fuochi della cucina. A stento stava in piedi ma, affascinato dalle corna, non perdeva occasione per aggrapparsi a esse con tutto il suo peso e rimirarle muto ed estasiato, strattonandola all'indietro senza remore per avvicinarsele alla bocca.
- Andreas, non così che le fai male! - esclamò Iris, la più grandicella dei cinque. Monia le aveva detto che aveva dieci primavere ma Aktha già leggeva negli occhi di quella la giovane adulta che presto sarebbe divenuta.
- Ma no, lascia che lui tiri... non fa male – rispose Aktha mantenendo la brutta piega del collo per non sottrarre al piccolo Andreas l'oggetto della sua così assidua attenzione. I muscoli del suo collo erano abituati a tormenti molto peggiori e meno dolci di quello e per far dolere le sue ossa sarebbe stato necessario un peso di gran lunga maggiore.
- Ma figuriamoci! - Iris si alzò dal cerchio che avevano formato sedendosi insieme sul pavimento per acciuffare il piccolo invadente. Tornò a sedersi e se lo mise in braccio, ma quello continuava a tendere le braccia verso le corna di Aktha e a dimenarsi per raggiungerle.
- Niente da fare, gli piacciono davvero le tue corna – Eloise, sette primavere appena compiute, paffuta e invadente, sempre desiderosa di giocare e di essere al centro dell'attenzione.
- Poi ce le fai toccare anche a noi?
- Sì, dai... è da tanto che non lo facciamo!
Bart e Ben, sette e cinque primavere rispettivamente. Tanto buono e gentile Bart quanto vivace e dispettoso Ben. Il suo “è da tanto” corrispondeva al giorno precedente. Non passava mai una giornata intera senza che Ben chiedesse con insistenza di essere preso in braccio, di fare l'altalena tra le lunghe gambe di Aktha o di poterle toccare coda e corna.
- Va bene – si arrese lei, chinando la testa in avanti per offrire loro le corna. Tutti vi si attaccarono carezzandole più o meno delicatamente e commentandole scioccamente, ridendo sguaiati. Per un motivo che lei non riusciva a capire le sue corna erano gradite a quei mocciosi, come Monia affettuosa li chiamava quando era certa che non la potessero sentire.
- Noi non vogliamo più cantare, forse? - chiese Aktha risollevando la testa e ponendo fine al gioco tocca-le-corna-e-ridi.
Tutti squittirono contemporaneamente e corsero di nuovo a sedersi in cerchio insieme al demone, ai loro occhi solo una strana ragazza... un bel po' più strana di altre, invero.
- Cosa volete cantare? Elpi dreils?
Di nuovo assenso all'unisono, strillato acutamente. Per fortuna sono intonata a sufficienza, Aktha pensò congratulandosi con se stessa. Monia dice che li strego con le mie filastrocche... dev'essere perché non conoscono le parole.
Divise i bambini in due gruppi assegnando loro i diversi ritornelli. Lei li avrebbe guidati, indicando di volta in volta il momento giusto per cantare. Se il gioco fosse riuscito, il coro sarebbe stato intonato e la canzone avrebbe suonato molto bene alle orecchie. C'erano poi modi per rendere più impegnativo cantare la filastrocca e per qualche ragione che non capiva se i bimbi si impappinavano e sbagliavano, scoppiavano a ridere a crepapelle. Come se sbagliare fosse più divertente e soddisfacente che fare bene.
- Pronti? - chiese. Poi indicò i maschietti e cominciò cantando con loro:

Bon-badira, bon-badira
Bon-badira, bon-badira-ira


Al momento giusto lasciò andare da soli i due maschi e accompagnò le due femmine:

Elpi dreils du-iu
Undi vi-mii eghéll
Elpi dreils du-iu
Ip sai lim-o tii énn


Ora veniva la parte difficile. Di solito l'impegno e la concentrazione dei piccoli a questo punto era già esaurita e sebbene avesse insegnato loro anche la seconda metà era raro che vi arrivassero coordinati. Fece loro segno di fermarsi e proseguì da sola:

Uuh-ker alotte sauds 'en ir utt'éller
Jàstsìn gason'na-fin ba-san li étter
Elpi dreils du-iu
Tillì vi-lii eghéll


La guardarono emozionati, batterono le mani. Perfino Iris, avvezza anzi abile a nascondere le proprie emozioni aveva una scintilla di ammirazione negli occhi.
- La ricordate voi? Credete di cantare tutto in una volta? Senza sbagliare?
Provarono e riprovarono ma non ci riuscirono. Preferivano sbagliare di proposito, stuzzicarsi e farsi i dispetti, strillare, interrompersi per chiedere il significato delle parole e ricominciare meno attenti di prima. La filastrocca venne bene solo un'altra volta e solo fino a metà. Si applaudirono e schiamazzarono tanto da sembrare ve ne fossero dieci di loro. C'era un gran baccano in casa ma nessuno dei bimbi si allontanò mai più di tre passi da Aktha. Monia non vista li osservava, gli occhi gonfi e lucidi di felicità, non osando interrompere.
Bloccò Tobias, il figlio del mugnaio, un attimo prima che trafelato facesse irruzione in casa. Ma fu notato e il momento idilliaco giunse lo stesso al termine.
Aktha si alzò da terra circondata dai bambini vocianti che la imploravano di restare poiché non li aveva ancora accarezzati con la coda. Ciò che ancora rendeva sgomenti gli adulti, deliziava i bambini. Aktha non capiva come ciò potesse essere possibile ed era certa che quando avrebbe riferito tutte quelle scoperte al Maestro e ai Tutori, avrebbero avuto di che discutere e studiare a lungo. Promise che li avrebbe accarezzati più tardi, come piaceva a loro. Adoravano sedersi al suo fianco e farsi toccare le spalle, la nuca, le guance dalla punta della coda, da dietro. Trovavano il gioco divertentissimo poiché la coda li solleticava all'improvviso: non la vedevano arrivare e non sapevano dire dove li avrebbe toccati di volta in volta. Promettevano di non guardare e anche Aktha si divertiva molto osservando gli sforzi che facevano per non farsi vedere da lei nel tentativo di sbirciare.
Ci volle che Monia facesse la voce grossa per farli calmare e far sì che lasciassero in pace il povero demone dalla pelle purpurea. Il figlio del mugnaio si unì a loro e uscirono a giocare in strada.
- Ma come fai a sopportarli? Non ti fanno venire male alla testa?
Aktha sorrise aggiustandosi i capelli color della cenere e dai vaghi riflessi dorati, ora ben spazzolati e acconciati a modo: una vezzosa frangia affusolata le scendeva sbieca sulla metà destra della fronte a coprire l'attaccatura del corno. No, non le spiaceva far divertire i bambini. Era impegnativo, stancante ma piacevole. Non aveva abbastanza parole nel suo vocabolario per spiegare a Monia quanto la allietasse darle una mano coi piccini. Vedeva bene quanta fatica e sacrifici le costasse accudirli. Monia era senza marito, perfino. Così fece spallucce e scelse una risposta sintetica.
- No, non succede a me. Forse perché le corna rendono la mia testa più dura della tua.
Risero, poi Monia fece una cosa che non aveva mai fatto prima. Le afferrò un braccio e si fece di colpo seria e vicina come per una confidenza importante.
- Aktha, ascoltami. Tobias è stato mandato qui da Mastro Benner. Sono appena giunti tre straneri e si vede da mille passi di distanza che stanno cercando guai. Sono mercenari. Non devono trovarti. Non nasconderti qui, allontanati dal paese. Vai lontano. Verremo a cercarti ai fumaioli quando il pericolo sarà passato. Non farti vedere da nessuno, intesi?
- Io resto quando c'è il pericolo – risoluta, puntò i propri occhi che sapeva temibili per gli umani in quelli scuri della giovane. Non era sicura di quanto aveva appena detto, ma ormai era stato detto.
- Non se ne parla nemmeno, sono degli attaccabrighe e armati fino ai denti. È più prudente se non ti fai vedere.
Era già successo che qualche visitatore estemporaneo l'avesse vista in passato. I più entusiasti tra i cittadini di Malcant, desiderosi di condividere quella nuova e inebriante esperienza, non si erano trattenuti dal parlare di quanto era successo con lei. Ottenendo però solo di far fuggire a gambe levate i visitatori, non preparati a qualcosa del genere. La maggioranza degli abitanti del paese non aveva ancora nemmeno iniziato a digerire la sua presenza lì, come avrebbe potuto un mercante giunto da fuori accettarla da un momento all'altro e considerarla come un umano qualsiasi? Mastro Benner aveva ordinato ai suoi concittadini di non fare più parola con nessuno della sua presenza. Almeno fino a quando avrebbero trovato un modo per evitare il panico, lo stesso che loro ancora dovevano superare.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Vendetta breve ***


Aktha Demochye
10. Vendetta breve

Un potente urlo rauco e il tavolo di legno massiccio fu rovesciato con tutto quello che c'era sopra. Il frastuono richiamò l'attenzione di un contadino che ancora non sapeva cosa stesse succedendo, anche se alla vista dei cavalli da battaglia si era insospettito. Non esitò a entrare nella taverna dell'oste Kontar pensando di aiutare ma non appena varcata la soglia due mani dure come le tenaglie del fabbro lo afferrarono e lo scaraventarono a terra tra sedie rovesciate e pesanti panche spostate. Sembrava una rissa, ma nessuno lottava.
Due stranieri molto ben armati stavano tormentando l'oste. Uno dava in escandescenze accanendosi sull'arredamento, l'altro strattonava il povero commerciante per gli abiti sventolandogli un pauroso pugnale davanti al viso. Il terzo sorvegliava la porta ed era colui che aveva scagliato a terra il contadino ignaro non appena entrato, facendolo ruzzolare vicino a un concittadino seduto sul pavimento in posizione defilata e che non osava muoversi o rimettersi in piedi.
Tutti e tre mercenari, canaglie di mestiere più simili ai banditi che avrebbero dovuto contrastare piuttosto che alla fanteria regolare.
- Bestemmiatori! Voi adorate i demoni, ma finisce qui, oggi!
Il muscoloso combattente afferrò una sedia e la lanciò lontano facendo un gran baccano.
- Dov'è dunque il vostro cornuto protettore? Perché non si fa vivo per fermarmi?
Di nuovo la porta d'ingresso della fumosa taverna si aprì e un terzo abitante di Malcant colto alla sprovvista ruzzolò a far compagnia agli altri due.
- Dimmi dov'è... - il mercenario che sbraitava in preda alla collera spintonò via il collega che minacciava l'oste Kontar col pugnale e da sopra il bancone devastato gli mise le mani in faccia.
- Dimmi che aspetto ha, da che inferno è sbucato, com'è armato!
I bicipiti gonfi per vincere gli sforzi che l'oste faceva per liberarsi da quella dolorosa presa, il mercenario che dei tre doveva essere il capo strinse la presa per fare più male possibile.
- Perché non appare questo vostro demone? Ha forse finito lo zolfo? Oppure adorate un pupazzo, un vuoto e inutile simulacro di legno?
Sbavando di rabbia per il silenzio ostinato dell'oste, quello volse gli occhi iniettati di sangue e veleno verso i tre sul pavimento. Quelli si strinsero come a cercare conforto, come conigli in una gabbia.
- E voi? Badate, ho terminato la pazienza!
Mise mano alla spada.
Come a un segnale convenuto, la porta si aprì di nuovo. Il terzo mercenario, imponente e muscoloso anche più degli altri due, si mosse per afferrare il malcapitato e aggiungerlo alla tremante collezione che ancora se ne stava sul pavimento lì dov'era atterrata, a diversi passi di distanza dalla soglia.
Appena serrata la mano sull'impugnatura della spada, il capo dei mercenari udì un suono nuovo. Invero lo conosceva benissimo, ma non l'aveva ancora sentito da quando aveva messo piede in quel paese di gratta-terra, come lui chiamava con disprezzo chi si guadagnava da vivere con l'agricoltura.
Era il suono di un guanto di ferro sbattuto con violenza sul grugno di qualcuno.
Con sua massima sorpresa vide il collega, da lui personalmente scelto per quella missione perché forte e abile picchiatore, barcollare per il colpo. Il naso era stato rotto tempo prima, i denti erano andati persi in anni di zuffe, risse e furiosi combattimenti. Le labbra erano come cuoio. Non c'era molto che potesse sanguinare tanto, anche se dal rumore il colpo era stato davvero forte. Eppure già sanguinava.
Controluce sulla soglia una figura in armatura composita, di tipo piuttosto pesante. Diverse parti erano mancanti, perdute o staccate per agevolare i movimenti. Si intuiva che proteggesse un corpo muscoloso e molto allenato. Un corpo che tornava in posizione di guardia, i pugni alzati. Un veterano come lui afferrò al volo cosa stava per succedere ma non poté farci nulla. Il secondo guanto ferrato impattò il viso del mercenario sanguinante non lasciandogli nemmeno il tempo di un fiato, un lamento o un gemito. Saliva sanguigna descrisse un arco contro la luce che entrava dalla porta e si perse nella polvere. Un terzo colpo, un destro dritto come un colpo d'ariete e potente come un maglio finì di abbattere il gigantesco mercenario che stette a terra stordito, senza più muoversi. Certe cose le ho viste solo nell'arena, fu il pensiero che attraversò la mente del capo mercenario mente la furia della rabbia si tramutava nella fredda ira del combattimento. Finalmente la sua mano completò la presa sulla spada e poté cominciare a estrarre. Era successo tutto in un solo battito di cuore ma non aveva perso un solo gesto di quanto accaduto, come in combattimento. E proprio un combattimento è questo ora, pensò accettando l'ineluttabile. Avrebbe fatto uscire fiato e anima di quello sconosciuto dal suo petto, dopo avergli infilato la spada tra le costole.
Qualcosa accadde alla sua destra. Non volle distrarsi, ma udì un altro rumore ben noto e la sua testa si voltò da sola. Il suo secondo compagno allentava la presa sul pugnale alto lasciandolo cadere. Non era da lui. Nemmeno quell'espressione di incredulità e dolore l'aveva mai vista prima stampata così profondamente sul viso di quello, così indurito dalle molte campagne militari. L'asta di una freccia da guerra gli spuntava per più di una spanna dalla corazza, trapassato per intero lo spesso cuoio rinforzato e il poderoso muscolo da lanciatore di coltelli. Proprio nell'atto di caricare il braccio era stato colto dalla punta biforcuta, studiata per tagliare la carne e provocare il maggior sanguinamento possibile. Alle spalle del suo uomo, attraverso una piccola finestra aperta, l'arciere affacciato stava già incoccando la seconda freccia.
- Fossi in te non lo farei.
Voce di donna! Tutti i presenti rimasero basiti, compresi i mercenari. Il capo se ne stava immobile, ansimante per la foga di cominciare a combattere, l'arma estratta a metà dal fodero; il lanciatore di coltelli si piegò su se stesso cercando di premere la sinistra sulla ferita, ma non osava toccare il legno della freccia che sgocciolava le prime, grosse lacrime scure. Con le orecchie il capo sentì l'arco scricchiolare: era l'arciere che tendeva allo stremo. Da quella distanza una freccia biforcuta scagliata con quella forza lo avrebbe passato da parte a parte devastando tutto lungo il percorso e provocandogli ferite mortali. Era rimasto l'ultimo: da un vantaggio di tre contro uno a soccombere uno contro due, tutto in due o tre battiti di cuore; sarebbe stato meglio trovare un modo molto convincente di riferire l'accaduto al capitano Gul, ammesso di riuscire a fare ritorno.
Il guerriero in armatura fece il suo ingresso. La luce delle fumose lampade a olio, sempre accese in abbondanza in ogni taverna che si rispetti, avvolsero con la loro luce gialla e morbida una figura sorprendente. Molto mascolina, ma indubbiamente una femmina. Armata come un uomo, forte come un combattente veterano di cento campagne, sempre pronto a combattere in un solo momento.
- È da due giorni che vi stiamo seguendo, poco di buono che non siete altro. Vi abbiamo riconosciuti.
- Chi sei per intrometterti? - sibilò l'unico mercenario rimasto in piedi. La guerriera con la corazza pesante fece ancora un passo avanti nella luce delle lampade.
- Ti ricordi dello scontro di questa estate sul torrente, mercenario?
L'uomo strizzò gli occhi come se portare alla mente i ricordi gli costasse fatica fisica.
Rammentò all'improvviso, come un fulmine che d'un tratto illumina la sera piovosa. Una scaramuccia che si rivela un tranello, scoperto in tempo e attuato troppo in anticipo dal nemico. Una scaramuccia che diventa uno scontro cruento, diverse le perdite da entrambe le parti. Sorgar, il vice comandante della brigata mercenaria di Gul, mandata in supporto a una spedizione di truppe di regolari imperiali, ordina di ripiegare. Il tenente a capo delle truppe imperiali non intende abbandonare il combattimento intravedendo una facile vittoria, illuso di aver eluso l'imboscata. Nel tempo necessario a voltare un tiro di buoi si trova senza l'appoggio dei mercenari che gli coprivano un fianco. Non desiste dal tentare di tener testa al nemico, ma essendo d'un tratto in inferiorità numerica non può farcela. Il nemico, vista la ritirata dei mercenari, contrattacca subito, più motivato. I tamburi nemici riempono l'aria del loro cupo, ritmico rullare. Gli imperiali si ritirano, costretti a lasciare morti, feriti ed equipaggiamento sul terreno. Lui non esita a camminare sui cadaveri per riguadagnare la terra asciutta, lontano dal torrente, e riunirsi ai suoi. Voltandosi un'ultima volta verso il campo di battaglia scorge il tenente, la sua scorta e un gruppo di sopravvissuti che a stento, e a caro prezzo, riescono a battere in ritirata senza nemmeno i cavalli. Uno dei soldati della scorta ha perso l'elmo e la sua lunga chioma rossa stretta in una coda scarmigliata e quasi sciolta riflette la luce del sole attirando la sua attenzione. Una donna, l'armatura sporca di fango e sangue; fango e sangue anche sul suo viso, sui bei capelli rossi. Ha una freccia conficcata nella piastra pettorale della corazza, si batte con sorprendente forza e ferocia contro i nemici ormai a portata di spada. La vede alzare lo sguardo sui mercenari in ritirata, già lontani. Aiutateci, grida disperata. Venti passi la distanza. Un abisso, se il tuo comandante minaccia di morte chiunque pensi di fare l'eroe. Distanza che non gli impedisce di notare ferite sanguinanti al viso e occhi carichi di odio e disprezzo.
I medesimi occhi, il medesimo disprezzo sul viso della femmina in armatura che si stava avvicinando minacciosa. Ci aveva visto giusto: una cicatrice verticale le deturpava lo zigomo sinistro, si avvicinava pericolosamente all'occhio e divideva in due con un breve tratto pallido il sopracciglio rossiccio. Della lunga chioma fulva restava solo una corta lanugine uniforme alta un dito. Un normale taglio militaresco.
- Siete scappati.
- Non so di che parli – mentì il mercenario. Se la donna aveva voglia di ciarlare, tanto meglio. A lui sarebbe bastato un attimo per estrarre il pugnale nascosto. Aveva già trovato un varco nell'armatura attraverso il quale infliggere una ferita mortale. Avrebbe solo dovuto attendere che l'arciere si stancasse ancora un po'... la distanza non era molta ma non conosceva arciere che fosse in grado di tendere l'arco a lungo e conservare la precisione al momento di scoccare.
Il mercenario fece male i suoi calcoli. Senza preavviso alcuno la donna lo scalciò tra le gambe facendolo piegare, lo colpì in viso con un pauroso pugno corazzato, accorciata ancora la distanza lo scalciò ancora e poi, poste le mani dietro la nuca, gli schiacciò la testa sul ginocchio che si alzava di scatto. Le punte e i bordi metallici della spessa corazza fecero il resto. Anche il terzo mercenario si abbatté a terra, sanguinante.
Un breve grido, un rumore come di un sasso lanciato contro un asse di legno. La guerriera in armatura si voltò già in guardia, ma ai suoi piedi crollava il mercenario lanciatore di coltelli. Stavolta la freccia gli spuntava dalla schiena. In mano un pugnale.
Guardò intorno, controllando se qualcuno avesse avuto la pessima idea di dar man forte ai tre, ma oltre l'oste che nemmeno era riuscito a fuggire, nessun altro.
Dalla porta entrò una figura snella. Quando la luce delle lampade l'ebbero raggiunta, apparvero l'arco e la faretra. Guardò la donna in armatura e le fece un breve cenno con tre dita alzate. Quella le indicò la porta e l'arciere, donna anch'essa, andò a chiuderla restituendo la taverna al dominio delle sole lampade a olio. Infatti l'arciere andò a mettersi alla finestra dalla quale aveva scoccato prima e chiuse le imposte lasciando solo una fessura, prese a spiare l'esterno.
- Qualcosa da bere! - esclamò la guerriera rivolta all'oste. Quello con mani così tremanti da versare molto vino fuori dal bicchiere di coccio, la servì con ciò che riuscì a trovare in fretta. Si meravigliò quando vide che le mani della donna, chiuse dentro i guanti metallici, tremavano anche di più.
Quella trangugiò il vino che le andò per traverso facendola tossire. Il viso, già non bello e deturpato dalla cicatrice ancora giovane e dai segni lasciati da altre ferite meno importanti, era contratto in una smorfia dura. Le labbra sottili e rovinate erano strette fino a sbiancare e rughe precoci formavano solchi agli angoli di occhi, naso e bocca.
- Fetide carogne – sibilò, aggiungendo un'atroce bestemmia e un calcio al viso del primo mercenario. Dapprima quello non reagì, poi scattò afferrandole il piede e cercando di farla cadere. Ma era intontito per i colpi ricevuti e i suoi riflessi appannati permisero alla guerriera di sfuggire alla presa e sferrare un calcio molto più potente del primo. Colpito alla testa l'uomo si immobilizzò di nuovo.
- Proprio nessuno viene a darmi una mano qui? Forza! Sbatteteli fuori!
Fu dura con l'oste e i tre paesani, ma riuscì a destarli dal torpore della paura. Presero il picchiatore per i piedi e lo trascinarono fuori. Poi toccò al cadavere del lanciatore di coltelli, ma non prima che l'arciere, una donna dal viso fine e dai capelli neri raccolti in una corta treccia sotto la nuca ebbe recuperate le sue frecce. C'erano già strie scure di sangue sul pavimento e altre se ne aggiunsero quando anche il terzo fu portato fuori, trascinato in malo modo per braccia e gambe.
- Ancora... - disse all'oste mostrandogli il bicchiere quando quello rientrò chiudendosi la porta alle spalle. L'oste riuscì a versare il vino senza spargerlo tutto intorno.
Ebbe appena bevuto anche l'ultima goccia quando la porta si aprì nuovamente. Subito l'arciere afferrò arco e frecce e la donna in armatura corse con la destra alla spada che ancora non era uscita dal fodero.
- Signora! - disse uno dei tre che aveva appena salvato dalla furia dei mercenari – uno è ancora vivo! - Brutti rumori di conati le giunsero attraverso la porta aperta.
Incuriosita uscì al chiarore della giornata. Il più grosso dei tre stava carponi e vomitava un malloppo giallo grumoso e sangue schiumoso. Riconobbe le conseguenze di un bel colpo alla testa e si congratulò con se stessa. Quel bastardo non sarebbe morto, non subito, e nel caso ci avrebbe messo del tempo a riprendersi dal colpo ricevuto.
- Legateli alle selle e sciogliete i cavalli... ci penseranno loro a recapitare il messaggio.
- Ma signora! Torneranno in forze! - obiettò l'oste, il più lesto dei tre a smaltire la paralisi da paura.
- Forse. O forse no. Se non li vedranno arrivare, manderanno di certo qualcuno a cercarli. E lo manderanno qui. Scegliete voi, dunque.
A fatica i tre mercenari furono issati sui cavalli, assicurati alle selle perché non cadessero e portati nella direzione da cui erano giunti. I contadini spaventarono i cavalli correndo loro dietro e gridando per non farli fermare subito. Fuori dalla taverna si era formata una discreta folla. Ma la donna in armatura tornò dal suo boccale di terracotta.
L'arciere le si sedette accanto e le circondò le spalle corazzate con un abbraccio.
- Giustizia è fatta – disse dolcemente.
- No. Solo vendetta. Sanguinosa, merdosa vendetta. Non fatta: appena cominciata – fremeva ancora, il tremito delle mani tradito dal boccale portato alle labbra.
- Non potrai ucciderli tutti – obiettò l'arciere.
- Forse sì, forse no. Certo è che ci proverò.
Poi trangugiò altro vino.
L'oste, dopo aver confabulato a lungo coi suoi concittadini, si avvicinò.
- A nome mio e dei miei... ehm... paesani, vorremmo porgere a... alla Vostra Graz... Illustre Grazia...
Qualcuno alle sue spalle lo corresse sibilandogli “Illustrissima” e tartagliando ancora l'oste si corresse.
- …a nome di tutti, ecco, vorremmo ringraziare meglio che possiamo...
La donna guerriero e l'arciere sua compare si alzarono dal tavolo dove s'erano sedute e affrontarono la gente che stava assiepandosi dentro la taverna.
- Io sono Viola Varrig e questa è la mia compagna di ventura e d'arme Samira Zilim. Non intendiamo farvi alcun male e vi chiediamo umilmente ospitalità per la notte.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Io resto quando c'è il pericolo ***


Aktha Demochye
11. Io resto quando c'è il pericolo

- No, Akta! No!
Monia si aggrappò alla cintura che stringeva la spessa veste in vita, ottenendo solo che il demone la trascinasse senza sforzo, facendole scavare a piedi uniti un solco nella polvere della strada.
- Il mio nome si dice Aktha, con la “th” che è a metà tra una “t” aspirata e la “z” dolce.
- Non andare! Sono armati!
- Anche io – ribatté risoluta il demone. Le appoggiò delicatamente sulla fronte la punta piatta e carnosa della coda e la spinse un poco, quel che bastò a farle mollare la presa sulla cintura.
- Testarda! - sbottò Monia rossa in viso. Poi ebbe un'idea.
- Bambini! - cominciò a strillare – Andiamo tutti con Aktha, forza!
Non ci fu bisogno di dirlo due volte. In breve il demone fu circondata da bambini festanti e chiassosi, in gara tra di loro per ottenere la sua attenzione, per giocare con la sua muscolosa coda nonostante le pericolose spine; i più piccoli imploravano di essere presi in braccio o portati in spalla, posizione invidiata e privilegiata per poter giocare con le grosse corna ritorte come quelle di un ariete. Anche Monia le fu accanto, ammiccando all'occhiataccia di rimprovero che il giovane demone riuscì a lanciarle.
Contrariamente all'intenzione di Monia il gioviale corteo non si arrestò. Aktha portò tutti con sé fino alla locanda, non lasciando altra scelta che seguirla. Monia sorrideva, ma dentro di sé il terrore che i tre mercenari potessero far del male ai bambini montava come una tempesta.
In realtà vi era calma. Anche i cavalli dei tre non erano più legati fuori dell'unico locale pubblico di Malcant, né erano in vista lì intorno. Il vociare dei bambini, i cinque di Monia più diversi altri che avevano avuto dai genitori il permesso di stare con l'insolita compagnia, copriva ogni rumore che poteva giungere dalla taverna che, come sempre, aveva la porta chiusa e le imposte accostate. Dalle case intorno le donne cominciavano ad affacciarsi, intimorite e incuriosite al tempo stesso. Le mamme più apprensive ingrossarono confuse il corteo, temendo per i propri figli. Dopo i paurosi rumori di schianti uditi in precedenza, ora bimbi festosi?

Viola Varrig lasciò il boccale sul tavolo, guardando in tralice in direzione della porta chiusa. Il chiasso da orfanotrofio si udiva ben distinto.
- E ora? - disse cavando dalla borsa appesa alla cintura le monete per quanto aveva mangiato e bevuto. Samira, che non aveva abbandonato le armi nemmeno per pranzare, si strinse nelle spalle. Viola afferrò la parte superiore della corazza pesante che aveva tolto per stare più comoda, sicura che il pericolo fosse cessato, e si alzò dalla panca, il cinturone con la spada nell'altra mano. Intenzionata a scoprire il motivo di tutto quel baccano, uscì.
Di tutto si sarebbe attesa meno che un comitato proprio fuori dalla taverna, formato da una torma di bambini, qualche mamma e un demonio.
Per lo stupore la corazza le sfuggì di mano cadendo con un tonfo sul legno della veranda.
Un autentico demonio. Ne aveva visti raffigurati diversi: cavalcioni a draghi o appiedati, imponenti guerrieri cornuti e zannuti, armati fino ai denti, bellicosi e temibili, dallo sguardo infuocato e assetati di sangue e sempre nell'atto di massacrare, distruggere, incendiare e divorare.
A paralizzarla fu non l'aspetto feroce e bellicoso, che pure era suggerito dagli occhi gialli, dalla vistosa coppia di corna curve, dalla pelle violacea e dalla coda irta di spine. Perfino la statura la rendeva una figura imponente, alta com'era al pari di un uomo massiccio e ben sviluppato.
Il demone era vestito da contadino, con abiti troppo corti: pantaloni spessi e una ruvida tunica che lasciava intravedere due spicchi di seno stretta com'era solo da una grossolana cintura in vita. Circondata da bimbi che la tormentavano di richieste per essere presi in braccio e cullati, alcuni giocavano ad afferrarle la coda tutt'altro che impauriti o intimoriti dalle corte ma robuste spine di cui era dotata. Anche le donne che l'accompagnavano sembravano tranquille, anzi. Le occhiate dubbiose e cariche di timore non erano rivolte al demone, ma a lei.
- Loro non sono tre – disse il demone con voce bassa e cupa per essere una femmina.
- Non è dei loro, infatti – rispose tremante la giovane madre facendosi più vicina al demone, come fosse un baluardo.
- Io non faccio il male – esordì poi l'essere demoniaco rivolto a lei – e neanche voi due farete il male a qualcuno qui.
Sembrava una minaccia. Di certo la curiosa femmina di demonio non era aggiornata sui recenti sviluppi.
- Due? - bluffava. Era certa che Samira si trovasse al riparo, dietro gli scuri di una finestra pronta a scoccare una freccia mortale anche per un demonio. Lo faceva sempre. Era impossibile coglierla di sorpresa, aveva lo stesso sangue freddo del più velenoso tra i serpenti. Ed era anche più letale.
- Io vedo l'arciere dietro la finestra. Che posi l'arco. È pericoloso.
Viola non credeva ai propri occhi. Sentì l'arco scricchiolare come sempre quando Samira lo tendeva allo spasimo per forare le corazze più dure.
- Vi prego, vi prego! Basta violenza! - alle spalle sentì l'oste che le ricordò quanto pericoloso fosse lasciare le spalle scoperte. Ma il tono implorante stavolta la fermò, combinato con l'insolita apparizione che le aveva sì accelerato i battiti come in combattimento, ma che aveva poco di minaccioso.
- Samira! No! - l'arciere allentò la tensione e abbassò l'arco, non senza stupore per le parole di Viola.
- Davvero sei un demone? - si decise a rivolgersi alla creatura dalla pelle viola e si maledisse per averlo fatto, poiché la sua voce tremò.
- Voi chiamate me demone – quella fece spallucce come a sottolineare che si trattasse di un errore. Grossolano, perfino.
- E voi altri permettete a un demone di stare... - Viola non riuscì a finire la frase. Era inconcepibile. Esistevano dunque demoni femmina... e demoni buoni?
- Lavora bene, non scansa le fatiche – disse una madre.
- Gioca sempre coi bambini, li fa ridere e cantare – si aggiunse un'altra.
- Sa molte cose e parla la nostra lingua – una terza interloquì facendo un passo avanti come a dare maggior peso a quanto detto.
- È fortissima, anche più di te! - la sbeffeggiò una bimba che le arrivava sì e no all'inguine.
Viola, combattuta tra il desiderio di uscire da quel pericoloso stallo e l'istinto di sfoderare la spada e attaccare il demone alla gola, prese infine la sua decisione.
Sorrise. Al bimbo che tra le braccia della madre si protendeva tutto verso il demone. Sorrise alla madre che piena di timore esitava ad avvicinarsi. Sorriso ricambiato quando finalmente il bimbo afferrò un corno del demone con entrambe le manine e cominciò a tirare con tutte le sue forze per avvicinarselo alla bocca. Il demone lasciò fare paziente, ma senza staccare gli occhi gialli da lei.
- Ecco una cosa che non potrò mai raccontare – commentò a bassa voce. Fece un passo in avanti facendo sussultare tutti gli umani. Mostrò le palme vuote, gesto pacificatore universale. Restava in allarme, pronta a scattare al primo segno di aggressione ma c'era qualcosa in quella situazione a suggerirle che non vi era pericolo. Sarebbe stata la prima volta che qualcuno l'avrebbe attaccata usando le donne e bambini di un villaggio di contadini. Samila era vigile e ciò la tranquillizzava.
- Sarebbe opportuno – ribatté subito la giovane donna più vicina al demonio. Buone orecchie; oppure Viola non aveva tenuto poi così bassa la voce.
- Troppo tardi! I tre mercenari hanno chiesto del demone! Sono certi che noi del villaggio siamo adoratori del demonio ed erano qui per ripristinare il culto di Elzer. Qualcuno ha già fatto la spia! Come ho detto prima, i mercenari torneranno! O per vendetta, o per il demone, ma torneranno...
Tutti si volsero verso il candriano gestore della taverna. Un uomo robusto e ben piazzato, eppure piagnucolava e tremava ancora come gelatina al solo nominare i tre mercenari. Non poteva biasimarlo troppo: un coltello alla gola non è mai una buona cosa per nessuno, nemmeno per chi è avvezzo alla violenza.
Viola si sentì in dovere di aggiungere la sua parte. Aveva notato il terzetto allontanarsi dall'accampamento fuori Karmath, la più grande e popolosa città della provincia di Maas. Insospettita dal limitato numero dei componenti il manipolo, dopo due giorni di inseguimento a distanza si era ritrovata davanti le case di Malcant. Sapendo quanto poco di buono potessero essere i mercenari, aveva deciso di insistere. Il resto era già noto a tutti. E quanto accaduto prima non era necessario né utile che si sapesse, disse tra sé.
- Io non posso stare qui ancora.
La voce del demone, già profonda ancorché femminile, fu cupa. Sollevò numerose e insistenti proteste da parte di tutti i presenti: bambini soprattutto, ma anche mamme, contadini, le anziane donne presenti. Viola osservò, sempre badando a non farsi sfuggire una sola sillaba né anche un accenno di smorfia, che a giudicare dalle case e dai campi coltivati che aveva visto c'erano più di mille persone a Malcant. Basandosi su quanti erano lì in quel momento, il demone aveva fatto breccia nei cuori di non più di un quarto degli abitanti.
Vi furono discussioni interminabili, ma il demone si mostrò incrollabile. Era certo che i contadini fossero a repentaglio per colpa sua e stavano rischiando molto per quanto era già successo. Due mercenari tornati morti da Malcant non sarebbero passati inosservati. Vi sarebbero state pesanti conseguenze. Il demone aveva ragione e nemmeno sapeva quanto poiché non conosceva quella bestia rabbiosa di Gul, il comandante dei mercenari. Lei sì, invece.
- Non c'è scelta. Io devo andare via, per un po' almeno. E voi due – il demone l'additò con una nera unghia appuntita come una delle frecce di Samira – dovete fare la vostra parte. Intercetterete chi minaccerà il villaggio e devierete la loro attenzione. Portate i mercenari lontano da qui.
Oh, adesso prendo ordini da un demone femmina, si disse Viola. Stavolta tutto il suo disappunto trasparì dal suo volto e la tensione salì subito. Vide il demone irrigidirsi, le donne si scambiarono occhiate di paura e cominciarono a chiamare a sé i figli.
I bambini furono presto allontanati e Viola si convinse a invitare il demone dentro la locanda per meglio discutere. Era in presenza di un demone cornuto (femmina e demone, doppiamente temibile) e ancora non era stato sparso sangue, ma solo parole. Era una situazione incredibile e bella, inebriante. Troppo bella perché avesse fine. Poi aveva un'idea nuova in mente.
Si sedettero una di fronte all'altra. Nell'ombra Samila aspettava solo che Viola fosse in pericolo per tendere e scoccare.
- Bevi? - Viola offrì un boccale al demone, ma quella la guardò severa.
- Io sono Aktha Demochye – le porse la mano.
- Sono Viola Varrig e sono lieta di conoscerti – la stretta del demone era forte, asciutta e calda. Sincera.
- Dimmi dove posso andare. Da che parte. Ho... bisogno di... stare col popolo di Elzer. Io starò più... attenta. Ma voi dovete aiutare ancora. La gente di Malcant è in pericolo.
- Sei una guerriera?
Il demone era dunque capace di esprimersi: quello apparso sul suo volto le sembrò autentico stupore.
- Io sono guerriera? Io sono studentessa!
- Non sai combattere? Non sai impugnare un'arma?
Il demone esitò a rispondere. Viola attese con calma. Le piaceva il gioco del gatto col topo. Le piaceva la parte del gatto, naturalmente.
- Tutti noi veniamo addestrati all'uso delle armi. Ma il mio ruolo in battaglia è magico.
- Che ruolo è esattamente?
- Io sono un mago del controllo. Uso la magia per rallentare e danneggiare dalla distanza. Indebolisco le truppe nemiche col freddo, le ferisco col fuoco o con dardi psi.
- Allora combatti. Aiuta anche tu i contadini di questo posto. Dovrei farlo io? Sola? - Viola si protese attraverso il grezzo tavolo di legno.
- Siete in due – la imbeccò il demone indicando dietro di sé col pollice.
- Conosco i mercenari. Ne manderanno qui così tanti che in due finiremo solo col farci uccidere. Ma non credo vi siano maghi da guerra tra le file dei mercenari... tu faresti una grande differenza.
- Dubito. Senza una sfera i miei poteri funzionano poco, per lo più a contatto.
Viola appoggiò la schiena contro le assi della parte alle sue spalle. Perplessità, dubbi e timori si rincorrevano in girotondo nella sua testa.
- Poi – riprese Aktha – a che servirebbe? Ne hanno mandati tre, ne manderanno dieci? Se li respingessimo ne manderanno ancora di più. Un solo mago del controllo non basterà più.
- E questa sfera dove si trova?
Aktha si strinse nelle spalle, sul viso l'espressione di chi sta per dire una banalità.
- Le sfere si comprano.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Dura la vita del mercante ***


Aktha Demochye
12. Dura la vita del mercante

Gambrath il mercante borbottando tra sé si lamentava della sorte avversa. Per un mercante c'era sempre qualcosa che non andava da qualche parte: merci brutte o comprate male, guadagni troppo ridotti, poca fortuna nelle vendite. Grazie alla sua abilità ed esperienza aveva diversificato la sua merce. Sul suo carro a due ruote trainato da Oslob, il bue grigio, si poteva trovare dal tappeto alla frutta secca, dalle pezze di tessuto alla bigiotteria. Aveva merci per contadini e per cittadini, per ricchi e per i meno abbienti. Non faceva azzardi come altri mercanti che, ottenuto un buon prezzo si riempivano di un solo tipo di merce per poi essere costretti a correre dappertutto per venderne il più in fretta possibile la maggior quantità possibile. Fino a quel momento aveva funzionato. Certo, non sempre le cose andavano bene, ma mai del tutto male. Per questo ora guardava storto la cassa acquistata al grande mercato di Karmath dietro suggerimento di Lerea. La bella Lerea! Una candriana considerata deforme dalla sua stessa gente poiché florida e prosperosa (strani i candriani, amanti solo delle donne alte, dal fisico asciutto e longilineo) da lui acquistata come schiava con l'intenzione di rivenderla a buon prezzo. Quanto poco ci aveva messo a fargli cambiare idea, dolce e affettuosa com'era. Era divenuta la sua compagna di vita. E quanto poco per convincerlo a comprare, per poche monete fortunatamente, quella cassa! Oggetti magici, gli aveva sussurrato. Gambrath aveva già sperimentato in passato un certo talento di Lerea: sogni premonitori. Sognava la pioggia e, per Elzer, si era certi di arrivare a sera ben inzuppati e infreddoliti se non si era svelti o fortunati a trovar riparo. Lei sognava grandi città e poteva star sicuro che la mattina seguente avrebbe venduto molta merce in un affollatissimo mercato.
Quindi non si era posto ulteriori domande e aveva avviato le trattative. Quelle erano affar suo e Lerea non ci metteva becco, anche se in passato aveva dimostrato fiuto per gli affari, sebbene meno marcato. La cassa di oggetti magici, per lo più sfere di vari materiali e diverse dimensioni, aveva infine cambiato proprietario.
Lasciata Lerea sola al mercato col carro e il bue e il compito di cercare di fare qualche affare in quella piccola città con pochi abbienti e tanti contadini, aveva preso sottobraccio la cassa e, seguendo le tracce captate grazie al suo fine orecchio di mercante, stava cercando la taverna detta del Corvo. Curioso come quasi ogni città, paese o borgo avesse una taverna con un nome simile.
Lì infatti, a sentire i due mercanti che aveva origliato di nascosto, c'erano tre strani personaggi che avevano messo in giro la voce d'essere interessati a oggetti di magia.
Se davvero quelle sfere che aveva sottobraccio fossero magiche non poteva dirlo, ma venderle poteva essere la vera magia per lui. A guardarle infatti non avrebbe detto fossero granché. Una sola sembrava valere qualcosa: era fatta di vetro, grande come un pugno, pesante, rugosa e sbeccata per essere caduta un paio di volte di troppo. Altre erano di liscio legno verniciato, di terracotta crepata ma decorata in modo interessante con astratti disegni colorati ma sbiaditi, forse simboli magici consumati. Altre erano grandi ma leggere, fatte forse di polvere di gesso e calce impastata con acqua e non si erano ancora sgretolate forse proprio grazie a qualche virtù magica che possedevano. Chissà, si disse.
Avvistò poi la taverna del Corvo. Era la terza che incontrava e, per Elzer, la peggio combinata. La classica taverna: un edificio a due piani metà in muratura, pietre cementate tra loro, con poche, piccole finestre sempre sbarrate da pesanti imposte di legno massiccio rinforzate con ferro rugginoso. Il piano superiore, dove di solito si trovavano le stanze da letto per gli ospiti che se ne potevano permettere una, tutto di scomposte assi di legno e sovrastato da un tetto spiovente mal catramato. Addossato a un fianco la stalla, in questo caso una malconcia tettoia che riparava tre cavalli di bell'aspetto, troppo belli per essere di qualcuno lì intorno.
Infatti ciondolavano sulla veranda dei brutti ceffi che avevano l'aria di stare aspettando qualcuno con cui valesse la pena di attaccar briga. Tremando Gambrath, noto non certo per il cuore intrepido, varcò la soglia cercando disperato un posto dove volgere lo sguardo senza offendere qualcuno. Tanto poco infatti bastava in certi posti dimenticati da Elzer per trovarsi ad avere a che fare con permalosi spacconi alticci desiderosi di piantar grane a qualcuno per il solo gusto di farlo.
Andò bene e si trovò all'interno della fumosa taverna. Il banco dietro il quale l'oste lo guardava torvo, le luci a olio accese ovunque, i tavoli dove gente poco raccomandabile beveva vino e giocava d'azzardo incurante del fatto che l'ora di pranzo fosse ancora lontana. L'acre odore della combustione dell'olio si mescolava al fumo del camino che tirava male e a quello della birra rancida e del sudore. Colse un gesto dell'oste, lento e infastidito, che gli indicava la scala che saliva sopra, alle stanze. Gambrath, che vestiva i panni del mercante e lì spiccava come una mosca nel latte, ringraziò con un cenno della testa riproponendosi di acquistare qualcosa in quella taverna per non incorrere nell'ira dell'oste.
Al piano di sopra la situazione pareva migliore: nessuno in vista se non un mercenario appoggiato allo stipite della porta di una stanza.
- Vieni, mercante.
Stupore! Gambrath sperò che il suo lieve esitare passasse inosservato. Il mercenario, protetto da una incompleta corazza composita, era in realtà una mercenaria! I capelli corti, le armi e l'aspetto piuttosto mascolino venivano traditi da una voce di donna. Da vicino i tratti femminili apparivano più evidenti così come i muscoli smisurati per una donna e le cicatrici lasciate dai combattimenti.
Lo fece entrare nella stanza. In fondo c'era una donna seduta su uno sgabello che sembrava intenta a saggiare il bilanciamento di un coltello da lancio. Appoggiati a portata di mano un arco da guerra e la faretra. Come se si trattasse di un passatempo interrotto c'erano alcune frecce infisse nel pavimento di legno. Gambrath sapeva che stavano lì perché erano più svelte da afferrare rispetto a quelle nella faretra, che pure non era lontana. Si sentì accerchiato.
La stanza era stata divisa in due. Un lenzuolo ne isolava una parte: appeso al soffitto con cordicelle annodate impediva di vedere chi o cosa ci fosse al di là. Una luce tremolava oltre il lenzuolo cancellando le ombre.
- Mostraci la tua merce, dunque.
Non perse un istante. Posò la cassa e tolse il coperchio, esponendo le sfere alla luce delle lampade a olio. La mercenaria con l'armatura scostò il telo dalla propria parte e gettò uno sguardo. Era evidente che vi fosse qualcuno dietro il lenzuolo. Qualcuno che desiderava la cassa più vicina a sé.
Gambrath obbedì all'ordine della mercenaria e spinse la cassa in avanti, verso il telo appeso. Era impossibile vedervi attraverso.
- Ancora – disse la mercenaria. Gambrath sospinse la cassa finché quella giunse a toccare il lenzuolo.
Poi accadde l'inatteso.
Una delle sfere di terracotta, quella più scolorita di tutte e di maggior peso, prese a tremare e dopo pochi istanti balzò su dalla scatola. Più veloce di un gatto spaventato schizzò in direzione del telo staccandolo da una delle corde che lo sosteneva alla trave del soffitto. Il lenzuolo si afflosciò addosso a chiunque vi fosse nascosto dietro svelandone in buona parte la sagoma. Gambrath già teso per cento motivi sentì il proprio cuore che cercava di aprirsi la via attraverso la gola. Paralizzato dalla paura, le gambe molli lo tradirono facendolo cadere seduto sul pavimento di assi lisciate da mille stivali. Che Elzer lo prendesse subito con sé se quella che stava intuendo sotto il lenzuolo non era la testa cornuta di un demone seduto sul pavimento, con la sfera balzata dalla scatola che galleggiava dondolando nell'aria e il bagliore giallastro di due occhi diabolici attraverso il tessuto.
Poi il mercante si sentì venir meno e tutto si fece grigio e lontano.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** La sfera del demone ***


Aktha Demochye
13. La sfera del demone

- Dunque ora sei armata. Puoi combattere.
Vi fu silenzio. Lo scalpicciare dei cavalli sul sentiero polveroso si protrasse prima dell'arrivo della risposta.
- Questa sfera è piuttosto buona. Sì, ora posso colpire.
- E che tipo di colpi puoi infliggere?
Ancora scalpicciare di zoccoli. La domanda di Viola restava come sospesa a mezz'aria, palpabile.
- Fuoco. Gelo. E dardi psi.
Viola guardò la figura bardata da capo a piedi per celarne il vero aspetto. Avevano acquistato un telo e ne avevano ricavato un grosso turbante azzurro. Era stato realizzato come quello dei Tarreggh, gli abitanti del deserto: non solo celava le corna, ma i lembi che pendevano potevano essere usati per coprire il viso. Poiché ancora si scorgevano gli occhi demoniaci brillare di giallo attraverso il tessuto, avevano acquistato un fantasioso telo usato dalle donne Tarreggh per coprirsi da capo a piedi. Così acconciate se ne andavano in pubblico quando costrette a stare in mezzo ai gaiadenni, parola che loro usavano, spesso con disprezzo, per indicare chiunque non fosse un Tarreggh. Contrariamente alle donne Tarreggh, Aktha vedeva attraverso molteplici strati di tessuto senza troppi problemi.
Chiaro che da lì al nascere della leggenda che le donne Tarreggh fossero bellissime il passo era breve. A nulla era valso lo spirito di qualche bardo buontempone che aveva insinuato fosse vero il contrario. Aggiungendo che da quelle parti i Tarreggh non erano un incontro tra i più frequenti, si aveva un'idea dei problemi che quel camuffamento, l'unico possibile, aveva creato in città.
- E cosa sarebbe un dardo psi?
- Come la freccia. Più pesante, più potente.
- Come un quadrello? - Samira non era solita interloquire. Preferiva cavalcare in silenzio, attenta a quanto la circondava. Sospettosa di natura, restava sempre in guardia. Spesso anche quando non ve n'era alcun bisogno.
- Non sono certa. Forse.
La cupa voce del demone non pronunciò parole soddisfacenti la curiosità dell'arciere che con una smorfia si rintanò nel suo silenzio. Spronò per allontanarsi in ricognizione. Lo faceva spesso.
- Ma è preciso? Che distanza raggiunge?
- Dipende. Quanto a lungo sei capace di odiare?
Viola non si aspettava quella domanda. Per Elzer: che la femmina di demone le leggesse la mente? Ne era capace? Si era resa conto che l'odio in lei traboccava come l'acqua da un secchio dimenticato sotto la fontana? Doveva scoprirlo.
- Non capisco.
- La magia di attacco consuma. Per questo si usa la sfera. La sfera aiuta la concentrazione. Più concentrazione, più potenza. Più a lungo la mente si concentra, maggiore la distanza.
- Vuoi dire che a corta distanza potresti uccidere con l'odio? - Viola voleva scoprire l'effettiva efficacia del demone in combattimento. Era meglio saperne il più possibile: non si era mai certi di nulla, l'aveva imparato con una dura lezione.
- Fino a venticinque passi congelare il cuore, far scoppiare la testa con il fuoco. Alzare un muro di fiamme mistiche, incendiare solo gli stivali. O rinfrescare la tua birra. La risposta è sufficiente per te?
Se le cose stavano in quel modo, pensò Viola, era decisamente meglio evitare che il demone si schierasse per un fazione qualsiasi opposta alla propria. Prometteva di essere un valido alleato e tale doveva restare. Altrimenti avrebbe dovuto essere eliminato.
- E quanto a lungo riesci a sostenere un combatt... - si interruppe. Samira tornava al galoppo.
- Una dozzina. A cavallo. Vengono verso di noi, sanno che ci siamo.
- Quanto tempo abbiamo? - Viola si guardò intorno. Troppo lontana dalle mura della città abbandonata quella mattina. Campo aperto, terreno piatto senza ripari.
Samira scosse la testa in segno di diniego.
- Non ci lasciano scelta... - controllò che le cinghie della sua armatura fossero tese il giusto. Samira già sceglieva le frecce. Pareva che il suo desiderio stesse per essere esaudito, sebbene nel modo peggiore. Avrebbe visto come combatte un demone mago.
I cavalieri giunsero al galoppo di lì a pochi istanti. Una banda di poco di buono, appariva chiaro dal primo sguardo. Viola aveva raccomandato ad Aktha di tacere fino all'ultimo: avrebbe provato a evitare il combattimento. Lottare dodici contro tre non sarebbe stato facile nemmeno per il grande Qarago.
Come ogni altra banda armata male in arnese che infestava quelle zone ricche di contadini da depredare, anche questa aveva un capo. Il più grosso o il più astuto, oppure il più carogna tra tutti: avrebbe dovuto capire se abbattendo lui il resto delle bestie che lo accompagnavano se la sarebbe data a gambe o no. Forse così avrebbe avuta salva la propria vita, quella di Samira e quella di Aktha che le si era presentata come una studentessa e non una combattente.
Presto furono accerchiate ma alla vista delle armi quelli mantennero una distanza di qualche passo. I loro cavalli sbuffavano per il tratto al galoppo e il loro alito era visibile come nuvole bianche.
- Sono tre femmine! - esclamò qualcuno. Viola desiderò i poteri di Aktha per fargli scoppiare la testa all'istante, con un solo sguardo. Ma si sarebbe accontentata di sbudellarlo e regalargli così la più lenta tra le morti in combattimento.
- È il nostro giorno fortunato – latrò un altro – una è Tarreggh! Varrà il suo peso in oro venduta con un bracciale!
- Idiota! - berciò un altro ancora – Non valgono nulla perché si uccidono alla prima occasione se rese schiave. O si lasciano morire di fame! Io dico portiamola al villaggio e teniamocela per noi finché dura!
La proposta sollevò un ululato di approvazione. Nemmeno un branco di cani selvatici avrebbe fatto di peggio. Davanti alle loro bocche spalancate il fiato si condensò in vapore bianco che si dissolse subito. Viola trattenne il sorriso.
- Che ne dite di gettare le armi? Renderete la vostra vita più facile e più lunga senza dubbio. Potreste anche diventare dei nostri!
Viola li osservò di nuovo tutti, fingendo che il proprio cavallo fosse innervosito per potersi guardare alle spalle. Samira faceva lo stesso. Aktha e la sua cavalcatura invece erano immobili come una statua.
Ridevano, ma alcuni già si strofinavano le braccia in cerca di calore, lamentandosi per il freddo. Il loro respiro era visibile, come quello dei loro cavalli inquieti.
Poi trasalì. Un guerriero non smette mai di avere paura sul campo di battaglia, ma quella paura non l'aveva mai provata prima. Guardando a terra, tra le zampe dei cavalli dei loro aggressori, il terreno era brinato. Coperto dal bianco manto cristallino, la forma di un anello. Il medesimo formato dalla banda per circondarle. Il terreno all'interno e all'esterno di quel circolo era del tutto normale.
- Ma che razza di freddo improvviso! - si lamentò uno di loro a voce alta.
- Guardate! - un altro stendeva il braccio indicando il suolo tra le zampe dei loro cavalli. Il terreno prese a coprirsi di ghiaccio a vista d'occhio.
Viola conobbe un nuovo livello nella scala del terrore. Gli uomini voltarono i loro cavalli scivolando sul ghiaccio e fuggirono a gran velocità gridando alla stregoneria.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Malcant arde! ***


Aktha Demochye
14. Malcant arde!

Scollinarono e i loro peggiori timori ebbero conferma. Il vento aveva portato lontano da loro l'acre odore, ma il cielo della sera era screziato dal nero fumo dell'incendio. Ad ardere era la casa del prefetto, distinguibile perché era la seconda costruzione in ordine di grandezza. La prima era la taverna, che pareva intatta. Giaceva in un lago d'ombre e non si poteva distinguere molto. Forse il demone avrebbe potuto: chissà se oltre a vedere attraverso muri e vestiti era in grado di vedere nel buio come i gatti.
- Vedi qualcosa, demone?
- Alcune case bruciate – era una sensazione solo sua o la voce della creatura infernale era incrinata?
- Uomini? Cavalli? Movimenti?
- Nulla, da questa distanza.
Viola vide il demonio liberare le braccia per togliersi il copricapo prima e l'abito Tarreggh poi, tornando a essere un demone-contadino in abiti troppo piccoli. Non senza che il cuore le balzasse nel petto come fosse la prima volta, vide la sfera balzare dalla borsa dove Aktha l'aveva riposta e levitare sospesa nel vuoto alla sinistra delle corna di quella.
Scesero piano dal fianco della collina, timorosi che la pur scarsa vegetazione celasse pericoli. Ma arrivati al limitare del paese di contadini che il sole aveva ormai spento gli ultimi raggi, ancora non si era vista anima viva.
- Saranno scappati tutti – commentò Viola. Non sarebbe stata né una novità, né la cosa più sbagliata da fare. Difficilmente una città di agricoltori così piccola aveva la possibilità di formare una forza di difesa qualsiasi. Forse nemmeno possedevano armi. Escluse mannaie, coltelli e forconi, ovvio.
- Poche case sono bruciate – osservò Aktha – perché abbandonare tutto?
- Per paura – rispose rapida Viola. Si guardò intorno e pensò che non si sarebbe fatto vivo nessun abitante di Malcant almeno fino alle luci del giorno successivo.
- Accampiamoci fuori dal paese. Tra poco sarà tutto buio – propose cercando con gli occhi un posto adatto.
- Anche questo è per paura?
Ciò detto il demone schioccò con la bocca e il suo cavallo si mosse lentamente, diretto verso la strada maestra di Malcant.
Insolente, perfino. Anche lei spronò per stare dietro Aktha. Non poteva certo essere da meno di quella ragazzona dalla pelle viola solo perché era priva di robuste corna d'ariete.
Man mano che si addentravano in Malcant deserta in Viola crebbe il presentimento che qualcosa stesse per accadere. Troppa calma. Nessuno che nemmeno avesse tentato di spegnere gli incendi. Le fiamme che consumavano le travi del tetto della casa del prefetto ormai languivano. I focolai all'interno, che avevano arso ormai tutto lasciando le pareti di nuda pietra, avevano perso ogni forza e si stavano esaurendo. Altre case bruciate e crollate perché costruite col solo legno si limitavano a fumare, spandendo nell'aria un puzzo acre e insopportabile. Ogni minimo alito di vento sollevava cenere soffocante che faceva bruciare la gola. Fortunatamente gli incendi erano stati piuttosto pochi altrimenti sarebbe stato impossibile entrare in paese per un giorno almeno.
Vide il primo sasso solo quando era ormai troppo tardi: un'ombra nera contro il cielo sempre più cupo. Mancò Aktha di poco e lo sentì rotolare lontano alla loro sinistra. Aguzzò la vista ma non scorse nulla: troppo buio. Poi Aktha si chinò sul cavallo senza una ragione evidente. Viola pensò il peggio, ma non aveva udito nulla. Un attimo dopo sentì un'altra pesante pietra colpire il terreno poco più lontano.
- Fermi, che fate? Sono Aktha!
Invece che sciogliere l'equivoco quella frase scatenò una vera e propria sassaiola. Il demone fu colpito ripetutamente e una violenta sassata centrò Viola in pieno petto mentre un altro colpo andò a segno sul cavallo. Cercando di controllarlo e voltarlo per uscire da quella trappola primitiva ma pericolosa, fu centrata ancora una volta da una pietra grossa. Colpita alla spalla e di rimbalzo alla testa, stavolta sentì dolore. Ma dai rumori che sentiva dietro di sé era chiaro che il bersaglio principale era il demone.
- No, non ho colpa! Sono qui per aiutare!
La frase provocò una scarica di insulti, minacce e grida. Erano tanti, al riparo e ben forniti di munizioni. Vigliacchi, pensò Viola. Presi uno a uno si pisciano nei pantaloni. In gruppo, nascosti nel buio con armi da lancio si sentono forti da sfidare un demone.
- Aktha, con me! Ritirata! - le gridò voltandosi a vedere se eseguisse l'ordine. Nonostante il buio la vide mentre impacciata tentava di spronare al centro di una pioggia di pietre, riparandosi con un braccio e tirando le redini con l'altro. Ci pensò il cavallo a trarla fuori dai guai. Viola vide una pietra aguzza colpire la cavalcatura del demone dietro la sella. Ciò infuse la giusta dose di paura nell'animale che iniziò a galoppare. Elzer volle che la direzione fosse quella giusta.

Viola non credeva ai propri occhi. Samira! Silenziosa compagna di viaggio! Cento volte le doveva la vita. Tacendo come sempre si era buscata una brutta sassata alla testa e aveva perso sangue. Tanto che metà del cranio ne era coperto, aveva inzuppato e incollato i capelli ed era colato dentro gli abiti dal collo. Samira si era premuta una mano sulla ferita ma aveva gradualmente perso le forze fino a cadere da cavallo. Viola aveva sentito lo strano rumore alle sue spalle, nel buio e aveva chiamato. Solo il demone aveva risposto. Poi il cavallo scosso dell'arciere le si era avvicinato. Erano ancora troppo vicini a Malcant per i suoi gusti, ma Samira aveva bisogno di essere curata e le tenebre erano ormai scese da non poter più distinguere quasi nulla. Sorprendendola ancora una volta il demone in un baleno aveva acceso un fuoco di fiamme mistiche solo imponendo una mano. Senza che ci fosse nulla da bruciare. Fiamme che ardevano, scaldavano e illuminavano come quelle normali ma che andavano alimentate di frequente dal demonio stesso. Alla luce di quelle fiamme il sangue di Samira scintillò rosso e vivo.
- Bisogna tagliare i capelli e cucire subito la ferita – esclamò Viola estraendo il pugnale. Povera Samira! I capelli erano l'unico vezzo femminile che l'aveva mai vista concedersi. Appena era abbastanza tranquilla da poterlo fare li scioglieva e li curava con amore, lavandoli e pettinandoli. Neri, lunghi e lucenti, erano davvero belli.
Quando si voltò verso Samira distesa a terra e pallida come uno straccio, Viola fu tentata di usare il pugnale in altro modo. Il demone inginocchiato aveva la testa di Samira in grembo e la teneva tra le mani scure, armate di paurosi artigli neri. Il sangue rosso era sulla pelle scura. Aveva tinto i ruvidi pantaloni da contadino e lambito anche le maniche della casacca.
- È fatto – disse infine con la voce profonda e cavernosa che la distingueva.
- Fatto cosa, demone? - Viola temette il peggio e lasciò che la sua rabbia venisse annunciata da quelle parole. Strinse il pugnale pronta a saltare alla gola della creatura demoniaca.
- La ferita è chiusa.
L'arciere si sollevò a sedere massaggiandosi la testa dov'era stata colpita.
- Non sento più dolore – disse sfregando via il sangue fresco dai polpastrelli.
La guerriera strabiliò. Come se nulla fosse accaduto Samira era di nuovo in piedi e alla tremolante luce delle fiamme evocate stava contando i danni.
- Tocca a te.
Le parole del demone erano per lei.
- Non sono ferita – ribatté. L'ombra del sospetto faticava a sparire. Aveva visto maghi in battaglia, ma un chierico mai. Si diceva che potessero salvare dalle ferite più orribili, che potessero addirittura sanare a distanza e infondere nuova forza in truppe esauste con il loro potere magico. Non avrebbe mai detto che un demone potesse essere chierico e quando Aktha l'aveva detto... beh, non le aveva creduto. Ma il ghiaccio prima e la ferita di Samira ora. I poteri magici del demone femmina erano reali!
- Vieni vicina a me. Tu dovrai curare, ora.
Aktha si alzò in piedi e rinvigorì le fiamme. Apparvero tagli, lividi e sangue. Le pietre dei contadini l'avevano colpita duramente in più di un punto e il cupo sangue del demone stillava lento, denso e incessante.
- Prendo ago e filo – disse Viola, turbata al pensiero di avvicinarsi così tanto a quella creatura cornuta e poderosa.
- Non serve. Avvicinati, non avere paura.
Difficile non averne. La guerriera lasciò perdere ago e filo e seguì le istruzioni di Aktha.
Per uno strano limite magico, Aktha non era in grado di curare se stessa. Quindi afferrata una mano di Viola, vi infuse il potere magico quella guarigione e usando la punta delle dita della guerriera sulle proprie ferite, curò le più gravi e dolorose. Viola dal canto suo rimase estasiata. Poteva letteralmente sentire la magia permeare la carne, la sentiva scorrere nel corpo. Era bellissimo: stava bene. Anzi: non era mai stata così bene. Fresca e riposata come appena alzatasi da un lussuoso e morbido giaciglio, sazia come dopo una buona colazione, piena di energia come prima di una battaglia. Inebriata come dopo un calice di nettare divino. Finché il demone le tenne la mano sperimentò così intensamente la paradisiaca sensazione del potere di guarigione che quando il demone le ebbe lasciato la mano, la privazione improvvisa le fece sgorgare calde e dolorose lacrime. Inarrestabili come quelle di un bimbo. Dovette farsi forza per non soccombere alla disperazione e al pianto.
- È questa la magia? - si chiese da dove le arrivasse l'improvviso desiderio di stringersi al petto Aktha e di coprirle di baci il seno.
- Anche – le rispose quella.

Samira la svegliò come sapeva fare senza farsi tagliare la gola. Colse subito la differenza di luminosità. Le tenebre non erano fitte come prima: il cielo si stava schiarendo sempre più. Le fiamme arcane si erano esaurite e dato che il demone femmina dormiva, non era stato possibile mantenerle. Faceva piuttosto freddo e la nebbia cancellava l'orizzonte.
Scattata col pugnale pronto, Viola scandagliò tutto intorno. C'era solo Samira, arco e frecce pronti, a debita distanza. Le fece un cenno: aveva sentito qualcosa.
Accampandosi al buio non avevano potuto scegliere la posizione migliore. Probabilmente la luce del loro fuoco era stata visibile a mille passi di distanza. Solo grazie alla vista del demone prima e ai sensi acuti dell'arciere poi, sentinelle insostituibili, si era evitata la morte nel sonno.
Il rumore. L'aveva sentito anche lei ora. Un respiro, o uno strisciare. Qualcuno che non temeva di essere scoperto? Com'era possibile attaccare di sorpresa senza curarsi del rumore?
Samira incoccò e Viola si guardò intorno nella speranza di scorgere qualcosa. Solo la sua esperta compagna di viaggio poteva sperare di cogliere un bersaglio con così poca luce. Ma il sole stava sorgendo e istante dopo istante la luce nel cielo opaco aumentava.
Silenziosa come un gatto Viola raggiunse la spada e la sguainò. Gli arbusti che li circondavano non offrivano riparo ma schermavano chiunque procedesse carponi. All'occhio acuto l'ondeggiare della vegetazione avrebbe tradito chiunque fosse in avvicinamento.
- Siete lì? Dico a voi... ci siete? Aktha!
La voce disorientò Viola ma non Samira che tese ancor più la corda. La voce di una vecchia.
- Aktha! Aktha! Oh, per Elzer! Rispondetemi!
Aveva individuato con precisione la direzione. Temeva un tranello ma nulla sembrava muoversi intorno a loro. Si convinse a dare uno sguardo nella direzione della voce e vide una sagoma scura. Una sagoma umana un po' ingobbita. Poteva essere davvero una vecchia. Aktha si mosse alzandosi dal proprio giaciglio improvvisato. Viola la vide strofinarsi le braccia in cerca di calore. Un gesto così... umano eppure così insolito se compiuto da un demone.
- Aktha! - gracchiò di nuovo la vecchia, sempre più vicina. Il demone sentendosi chiamare balzò in piedi.
- Agatha! - esclamò correndole incontro.
Una freccia che la trafiggesse in pieno petto, seguita da diverse altre. Un quadrello che le schiantasse le ossa del torace: per quanto forti potessero essere le ossa dei demoni, non avrebbero mai potuto resistere a un tiro di balestra da guerra. Una lancia, un giavellotto, il preciso e potente proiettile scagliato da un fromboliere esperto. Di tutto queste minacce che Viola si immaginava il buio celasse tutto intorno a loro, nulla. Guardò bene in ogni direzione, più e più volte. Nulla si muoveva se non Aktha che andava incontro alla vecchia di nome Agatha.
Sorpresa Viola vide tornare Aktha sostenendo tra le braccia l'esile e anziana donna.
- Aktha cara, mettimi giù. Sto meglio, davvero – gracchiò mentre il demone le obbediva.
Credo di sapere il perché, pensò Viola. Era invidiosa del potere curativo del demone e gelosa della vecchia che l'aveva appena assaggiato.
- Hai rischiato molto, Agatha! - la rimproverò il demone, ma con dolcezza. L'indulgenza che si deve all'età e a una mente non più lucida, pensò Viola. Età che lei forse non avrebbe mai raggiunto.
- Oh, Aktha! - lacrime rigarono il viso sciupato dalla vecchiaia – non ne potevo più di stare senza fare nulla! Sono arrivati, sono arrivati come avevate detto!
- Chi?
- I soldati! Cercavano te, ma non gli abbiamo detto nulla, non io, certo che no! Sono andati su tutte le furie! Hanno devastato tutto, hanno rapito le donne! Hanno rapito Monia!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Gli umani sono tutti uguali ***


Aktha Demochye
15. Gli umani sono tutti uguali

Non capiva. Più ci pensava, meno comprendeva quale potesse essere l'indole che spingeva gli umani a farsi a pezzi a vicenda. Certo: anche fra la sua gente covavano invidie, rancori e conflitti. Ma a stento raggiungevano la metà dell'intensità di cui gli umani erano capaci.
Aveva ascoltato coi cuori stretti in una morsa la vecchia Agatha mentre raccontava la barbarie dei soldati capeggiati da Gul il mercenario al soldo di Lord Gerben. Avevano dato fuoco ad alcune case per convincere il demone a mostrarsi, convinti che si nascondesse per proteggere i contadini.
Per colpa sua gli abitanti di Malcant avevano sofferto! Per colpa sua avevano subito gravi danni!
Aktha si sentiva ardere dentro. Collera incandescente, e tanto amaro rammarico. Fu impossibile trattenere la sfera nella sacca dov'era nascosta e a metà del racconto di Agatha quella balzò fuori con grande sgomento dell'anziana donna. Ci volle un po' perché si calmasse e terminasse la storia. La sfera era sensibile al suo tempestoso stato d'animo e purtroppo Aktha non fu in grado di rimetterla a posto.
- Ci hanno raggiunti mentre cercavamo di nasconderci nel campo dei fumaioli, ci sono delle grotte là. Hanno acceso le fiaccole con le fiamme delle nostre case incendiate e anche dopo il tramonto sono venuti a prenderci. Hanno trovato dove si erano rifugiati la maggioranza di noi e hanno preso solo le donne! Hanno picchiato e minacciato gli uomini e colpito tutti quelli che hanno provato a fermarli.
- Hai visto dove hanno portato le donne? - la interruppe Aktha.
- No, ma non sono tornati al paese. Non ci sono molti altri posti oltre le grotte dei fumaioli per nascondersi.
- Vigliacchi. Hanno preso chi non può difendersi.
- Ma questo giocherà loro contro. Le donne li rallentano, non possono essere andati lontano di notte. Li troveremo presto – intervenne Viola mentre già indossava le sue armi.
- Ti scorteremo fino a Malcant – riprese Aktha rivolta all'anziana donna – purtroppo io non posso entrare...
Abbassò gli occhi a terra ripensando alla sassaiola della sera prima. Sentì una mano calda stringerle il braccio.
- Povera cara... ho saputo. Che bel ringraziamento per tutto l'aiuto che hai dato a quegli ingrati! Mi dispiace...
La voce di Agatha si incrinò per l'emozione. Aktha sentì dentro di se la tensione salire. Sentiva di dover fare qualcosa, subito.
Aprì le braccia. L'anziana Agatha si avvicinò senza timore e l'abbracciò. Aktha se la strinse al petto come permetteva la differenza di altezza. Le infuse conforto donandole un po' della propria energia: ne avrebbe avuto bisogno per arrivare a Malcant a cavallo.

- Niente?
Aktha guardò la mercenaria dai corti capelli rossi e scosse la testa. Non sentiva niente, non vedeva tracce. Samira si era allontanata come suo solito e non era ancora tornata. Se nemmeno lei avesse trovato una pista da seguire, beh... allora aveva sottovalutato i mercenari di Gul.
- Se solo potessimo avvicinarci di più a Malcant... - recriminò la combattente stringendo le labbra fino a farle scolorire.
Ci avevano provato. Vigili e reattivi come forse non lo erano mai stati, i cittadini li avevano avvistati e fatti segno di una nuova, intensa sassaiola. Di nuovo a nulla erano valse le rassicurazioni che Aktha aveva gridato a gran voce. Nemmeno gli strilli della povera Agatha erano valsi a fermare la pioggia di pietre.
- Proviamo a salire una di quelle colline. Forse da lassù vedremo più lontano.
Il cielo non le aiutava. Una coperta di nuvole grigie e uniformi si era distesa su di loro e la nebbia stentava a diradarsi. L'umana si dichiarò contraria.
- Vedremo meglio la nebbia e basta – obiettò.
- Che faresti, dunque? Il tempo passa.
- Quell'accozzaglia di ingrati non è capace di far altro che darti la colpa di quanto è accaduto. E scagliarci contro sassi! Io per loro farei un bel niente; giunti a questo punto me ne andrei lasciandoli al loro destino. Anzi: è proprio questo che farò.
- Io resto – Aktha sentì la propria collera raggiungere vette di calore insopportabili. Anche il voltafaccia della mercenaria e dell'arciere sua amica! Si sentiva colma di energia pronta a sprigionarsi: nemmeno si accorgeva del freddo di quella grigia mattina. Se avesse potuto, avrebbe spazzato via con un sol colpo Gul e tutta la sua banda di codardi. Ma nemmeno un potente mago da guerra avrebbe potuto una cosa simile. E poi le donne! Monia! No, avrebbe dovuto fare qualcosa per loro. Avrebbe dovuto porre rimedio al danno loro arrecato.
- Beh, buona fortuna allora – disse Viola.
- Anche a te.
Incredula e ancor più confusa, Aktha si diresse verso la più vicina collina non sapendo cosa fosse meglio fare. Proprio non capiva come potevano gli umani ragionare in quel modo incostante e bislacco. Era normale attendersi la riparazione di un danno, come normale era fornire aiuto in un'impresa benefica. Le due mercenarie avevano ucciso i malvagi soldati di Gul; ora costui era in cerca di vendetta e aveva infierito contro degli innocenti. C'era forse da chiedersi cosa fosse giusto fare? Era forse necessario fermarsi a valutare cosa andasse intrapreso? Semmai il come era da studiare, per evitare ulteriori danni. Le donne di Malcant erano prigioniere: loro dovevano essere salvate. Non vi era da discutere se farlo o no, ma solo da determinare come. In base a quale oscuro calcolo Viola aveva determinato di ritirarsi dall'impresa? Non lo immaginava.
Sarebbe stato difficile in tre, ora da sola come avrebbe fatto? Aktha non riusciva a pensare. Certo finché non li avesse trovati, non avrebbe potuto fare nulla.
Individuò un sentiero che si arrampicava sul fianco della collina e decise che poteva andare bene. Con un po' di fortuna avrebbe scollinato in fretta e avrebbe potuto vedere cosa c'era dall'altra parte. Se la memoria non l'ingannava, avrebbe visto a destra il terreno vulcanico dove si trovava il camino da cui era entrata in quel mondo, e dove gli abitanti di Malcant avevano inutilmente cercato rifugio; a sinistra una piana desolata.
Da poco aveva intrapresa la salita quando udì lo scalpicciare frettoloso di un cavallo. Coi suoi sensi raffinati fu questione di un attimo individuare la direzione: qualcuno procedeva verso di lei scendendo il sentiero. Si preparò a far uso della sfera, chiedendosi se avesse avuto il coraggio di spegnere una vita per difendere la propria. O quella di qualcun altro a lei caro. Non aveva mai ucciso nessuno.
Attese nell'ombra di una curva, in un punto da cui poteva vedere un buon tratto del sentiero.
Samira!
Non fu necessario che la giovane arciere parlasse: poté leggerle negli occhi la domanda inespressa.
- Viola ha deciso che questa impresa non è degna di essere compiuta. Ti attende a poca distanza da dove ci hai lasciate stamane.
Vide diverse emozioni increspare il volto dell'arciere. Stupore, delusione. Forse anche rabbia. Celate in profondità sotto una scorza troppo presto indurita, ma al suo occhio visibili e nitide a sufficienza.
- Oltre questa collina. Stanno togliendo l'accampamento. Bada, sei loro addosso. Le donne sono con loro, legate. Vai velocemente ma non in fretta.
Aktha ebbe un tuffo ai cuori. Temette che la sfera sfuggisse al suo controllo, ma la riprese in tempo. Samira li aveva trovati! Avrebbe fatto meglio a girare intorno alla collina piuttosto che a scavalcarla, ma ormai era fatta.
- Grazie! Ti devo molto.
- Non ringraziarmi. Potrei averti condotto alla tua morte se non starai attenta, demone. Sei sola contro trenta o più.
- Non morirò. Non oggi – Aktha lo intese come un augurio: non aveva idea di come affrontare trenta armati usi a combattere lei che non aveva altra esperienza che l'addestramento militare obbligatorio.
- Buona vita, demone – Samira le tese la mano. Aktha ormai conosceva quell'usanza umana di stringersi la mano in segno di saluto. Ma Sanira scattò in avanti e le afferrò l'avambraccio vicino al gomito. Aktha sorpresa fece altrettanto per istinto. Quella infatti era l'usanza del suo popolo per scambiarsi un segno di saluto.
Durò pochi battiti dei suoi cuori. Le pallide dita dell'umana strette contro la propria carne, i muscoli piccoli ma duri come le corde di una nave sotto le lunghe e robuste dita viola: era uno scambio di energia, un'emozione intensa. Ne avrebbe avute di cose da riferire al Maestro e ai Tutori, anche solo in merito a quel saluto!
All'unisono com'era iniziato, il contatto fu interrotto. Samira dette di sprone senza aggiungere una sola parola, uno sguardo. Aktha sapeva che l'umana si comportava così. Si erano già salutate bene, non c'era bisogno di altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Cuore di demone ***


Aktha Demochye
16. Cuore di demone

Samira aveva visto bene. Per aver percorso così poca distanza, dovevano aver tolto il campo da poco. E le donne! Legate tra loro per le mani con corde, formavano una lunga catena che li rallentava poiché procedevano a piedi e molte erano scalze.
Non sapeva che fare. La vegetazione della collina che l'aveva celata ai loro occhi presto sarebbe venuta meno. La piana offriva ben pochi ripari se non radi arbusti e pochi alberi. A giudicare dai numerosi tronchi segati, i contadini si rifornivano di legna da quelle parti. Strano a dirsi i fusti giovani erano ben pochi. Così facendo presto non sarebbe rimasto nulla da abbattere per ricavare legname.
Li guardò allontanarsi mentre se ne stava al riparo degli ultimi tronchi. Colpirli uno a uno dalla distanza? Era un tiro difficile e poi dopo che il primo di loro fosse caduto per un dardo psi, gli altri si sarebbero allarmati. L'avrebbero cercata, trovata e di certo uccisa. In uno scontro frontale aveva poche speranze: anche avvolgendosi in un manto di fuoco o di gelo, ai suoi avversari sarebbe bastato attendere a debita distanza che la sua magia si esaurisse. Non aveva risorse per difendersi a lungo né poteva immobilizzarli tutti abbastanza in fretta.
Ucciderli? Avrebbe potuto. L'idea le ripugnava. Anche i malvagi avevano il diritto di vivere, secondo lei. Non ne era certa né la questione era stata debitamente affrontata dai suoi Tutori e il Maestro aveva risposto alla domanda “quando è giusto e opportuno uccidere?” con un'altra domanda: “quando la vita di uno, o di molti, vale meno di altre vite?”. Facile rispondere se la vita in gioco è quella della selvaggina. Ma gli umani che aveva di fronte erano avversari, non cibo. La difficile domanda restava senza una risposta.
Alla fine dovette uscire allo scoperto per non perderli di vista. Era una studentessa e non un'esploratrice, non era così brava a leggere le tracce. Anche se i suoi opponenti non badavano a coprirle, le tracce lasciate erano poche e labili su quel terreno duro coperto di coriacea vegetazione che si sviluppava soprattutto in senso orizzontale. La vecchia Agatha imprecava contro quelle piante infestanti e le strappava dal proprio orto con ardore, quasi infuriata. Come se fossero un'offesa personale e non solo una minaccia per le verdure coltivate.
Anche se procedeva a piedi tenendo il cavallo per le briglie, anche se manteneva la distanza tanto elevata da rischiare di perdere il contatto a ogni passo, finì per essere individuata dalla loro retroguardia.
Le vennero incontro tutti, con calma, portandosi dietro anche le donne. Lei li attese ferma, in piedi. Mandò via il cavallo per avere piena libertà di usare ogni magia senza coinvolgere l'animale innocente.
Erano tanto vicini che li sentiva parlare tra loro. “Attenti al gelo”, “è davvero un demone”, “è femmina” erano le parole che più spesso volavano di bocca in bocca. Alcuni alla distanza di cento passi avevano già sguainato la spada e incoccato le frecce. Aktha cercò di ricordarsi la protezione contro i proiettili, ma non le venne in mente la procedura completa. Se una freccia fosse stata scoccata, le avrebbe morso la carne di certo. Quando furono abbastanza vicini da distinguere i volti, si fermarono. Gli arcieri in gruppo e gli altri scostati, per non finire trafitti. Tra di loro vi erano anche i balordi che aveva accarezzato col gelo il giorno prima.
Le donne! Erano lì con loro, vicine. Poteva vedere le loro ampie gonne attraverso le gambe dei cavalli. Le sentiva ansimare, lamentarsi. Vedeva i loro piedi sporchi e feriti. Vedeva i tratti di corda che le legava in una fila. Le umane erano lì per impedirle di usare di nuovo il gelo: avrebbe colpito anche loro. Erano gli scudi di carne usati dai vigliacchi per difendersi da lei.
Mi temono, dunque, pensò Aktha. Sono più alta, più grossa, ho le corna e la coda, ho la pelle di un colore diverso dalla loro. Ho la magia, ho la sfera. Mi temono.
Il pensiero la consolò per pochi battiti: ciascuno si faceva forte della vicinanza degli altri e nessuno pareva pronto a cedere, ma anche ad avanzare di un solo passo prima di altri. Forse temono più per il loro orgoglio e reputazione che per la loro vita, pensò.
Ne contò trentanove. Troppi. Samira era brava anche in quello.
Avrebbe potuto neutralizzarne due o tre ghiacciando loro una mano. Avrebbe potuto spendere le sue energie per gelare gli arcieri che si erano gentilmente messi tutti insieme. Avrebbe potuto, ma poi? Avrebbe dovuto affrontare gli altri con la magia ridotta al lumicino, potendo contare solo sulla propria forza fisica, la mente però provata dallo sforzo.
Forse sfidare e abbattere il loro capo l'avrebbe salvata. Sarebbero stati stupidi abbastanza da affidare le sorti di uno scontro vinto in partenza alle sorti incerte di un duello? Da quello che aveva imparato sugli umani fino a quel giorno, beh... era una possibilità da non trascurare.
- Beh! Che Elzer mi punisca ora se questo non è un demonio!
A parlare era stato il più grosso e il più brutto di tutti. Sin dall'aspetto si annunciava come una creatura bieca, brutale e senza scrupoli. La sua armatura era acciaccata e sporca, stretta su un corpo muscoloso e di certo molto forte. Era armato di ascia pesante e spada bastarda, segno che prediligeva lo smembramento del nemico. Quella che aveva intorno al collo sembrava proprio una collana fatta di denti. Zanne di belve, ma molti erano denti umani. Puzzava più degli altri e lei aveva l'olfatto abbastanza fine da distinguerlo anche a quella distanza.
- Dimmi, demone: ce ne sono altri come te? Sei il più strano tra quelli che ho visto, e l'unico femmina.
- Altri verranno dopo di me – azzardò Aktha. Era una finta, ovvio. Non ne sapeva nulla ma con un po' di fortuna forse avrebbe ottenuto qualcosa.
- Sì, certo. Come no. Ho una proposta per te, creatura degli inferi: avrai salva la vita se ti arrendi e ti consegni in catene. Sarai il mio trofeo vivente, e sottolineo vivente.
- Rendi la libertà alle donne di Malcant e io verrò con te.
Aktha se la vedeva davvero brutta ora. Da sola contro trentanove e si era appena offerta come prigioniera. O peggio, come schiava. O forse essere un trofeo era anche peggio della schiavitù? Non aveva un'idea di cosa significasse “trofeo” per gli umani. La mia bocca si è mossa prima del cervello, povera me.
- Non hai capito, demone – abbaiò l'umano quando ebbe finito di latrare i suoi sghignazzi – con le donne qui non abbiamo ancora finito! Tu verrai con me in tutti i casi. Io, Gul il magnanimo mercenario, ti offro la scelta se farlo da viva o da morta. Ah-ha!
- Vieni tu a mettermi i ceppi, dunque – Ma cosa sto dicendo, me misera! Aktha strinse forte le natiche per non tremare ma soprattutto per evitare che il suo intestino si svuotasse di colpo lì dove lei si trovava.
Tra i mercenari vi fu un attimo di incertezza. Timore. Ne era certa, ormai. Gli sbandati che si erano uniti agli scagnozzi di Gul avevano seminato il dubbio e la paura. Avevano provato sulla loro pelle il gelo mistico che era in grado di evocare. Senza volerlo l'avevano aiutata. Sempre più sfacciata, tese le braccia in avanti e unì i polsi, un chiaro invito a essere incatenata.
- Beh, che aspettate? Razza di randagi pulciosi, avete paura di una femmina? Si sta offrendo, andate a prenderla!
Nemmeno l'imperiosa voce del loro comandante valse a dar loro coraggio. Chi si mosse a cavallo, chi preferì scendere e procedere a piedi, armi in pugno. C'erano venti o venticinque passi di distanza da colmare. Saranno i più lunghi della vostra vita, si ripromise Aktha.
Scagliò una tempesta di aghi di ghiaccio contro gli arcieri. Un soffio pericolosissimo a quella distanza, ma non mortale. Due battiti dei cuori, non oltre. Poi alzò un muro di fiamme mistiche, nulla da meno di quelle che gli umani ben conoscevano. Gelò una mano al più vicino che prese a urlare come se lo stessero scuoiando vivo. Il dolore era fortissimo, lo sapeva bene: il gelo bruciava lento, non come le fiamme ma la sofferenza era la medesima.
Ne gelò un altro dalla mano fino alla spalla: aveva alzato la spada e la stava caricando di corsa. I più audaci tra gli arcieri si stavano riprendendo e lei rinnovò dapprima le fiamme mistiche che la riparavano da un assalto diretto, poi soffiò altri aghi gelidi contro gli arcieri che tornarono a cercar riparo faccia a terra lamentandosi con le mani sul viso.
Uno azzardò saltare attraverso il muro di fiamme e ne sperimentò il morso. Le aveva credute un'illusione? I suoi abiti presero fuoco trasformandolo in una torcia umana impazzita e urlante. Qualcosa le passò vicino alla testa: un coltello da lancio. Scagliato alla cieca attraverso le fiamme, per poco non aveva trovato il bersaglio. Aktha si trovò costretta ad aumentare l'intensità delle fiamme e a proiettarle verso il gruppo di mercenari che, più nutrito e ancora compatto, era rimasto di là dalla barriera fiammeggiante.
Sentì i cavalli nitrire spaventati e gli uomini gridare. Anche urla di donna. Le donne di Malcant! Non doveva dimenticarsi di loro!
Attraversò indenne le fiamme e gettò uno sguardo tutto intorno. Colse appena in tempo un attaccante gelandogli entrambe le mani a pochi passi da lei. Aveva perso un po' la concentrazione e il gelo lo raggiunse anche al petto e al viso: quello stramazzò a terra senza un lamento, le labbra irrigidite in una smorfia orrenda.
Scagliò dardi psi senza punta contro alcuni uomini tramortendone uno e sbandando gli altri, che non sapevano cosa li stesse colpendo né da quale direzione. Aktha infatti sapeva tirare con traiettoria dritta e anche curva, per superare ripari e scudi. Individuò chi teneva la fune e, una volta protetta dal manto infuocato, lo tempestò di dardi psi fino a disarcionarlo, lasciandolo a terra intontito. Corse dalle donne lasciandosi dietro una scia bruciacchiata e fumante, nessuno osava avvicinarsi a distanza di lama. Un istante prima si ricordò degli arcieri e donò loro ancora aghi gelidi, ma con molta meno forza e intensità di prima. La presenza delle donne di Malcant a poca distanza la stava distraendo e la sua magia andava esaurendosi. Si sentiva stanca e solo l'ira provocata dalla vista della ruvida corda che faceva sanguinare i polsi delle umane impedì alla sua magia di venire meno di lì a poco.
Bandì il manto di fiamme e gelò le mani dei primi due mercenari che vide vicino a sé. Gli altri indietreggiarono. Con una mano toccò la corda che imprigionava le femmine umane e quella arse senza fiamma liberandone una.
- Slega le altre e scappate!
Affrontò quattro mercenari che l'attaccarono insieme, uno era Gul. Un gigante, alto tanto quanto lei e di gran lunga più muscoloso.
Senza sapere come schivò un fendente dell'ascia di quello, menata orizzontale. Gli gelò una mano costringendolo a ritirarsi ululando, ma dovette fare i conti con altri giunti a soccorso del loro comandante. Ne dissuase un paio appiccando le fiamme ai loro stivali, ma ne ebbe addosso uno armato di pugnale che la costrinse a terra.
Aktha scoprì la differenza di forza tra lei e gli umani: con le sole braccia spinse via l'umano che ricadde a due passi di distanza. Rotolò senza nemmeno sapere perché e si rimise in piedi, solo per trovarsi faccia a faccia con un altro mercenario che aveva la spada già alta sulla testa. Aktha si sentì spacciata. Sfinita, la sua magia quasi esaurita: abbozzò una difesa gelida e attese il colpo sperando si infrangesse sul suo scudo di ghiaccio improvvisato.
L'attacco non giunse. Una punta di freccia era sbucata nella parte alta del petto dell'attaccante, subito sotto la gola. Franò a terra gorgogliando e rimase lì a morire. Un istante dopo un'altra freccia colse il suo bersaglio poco distante da lei, fulminandolo. Con un urlo disumano una furia a cavallo piombò in mezzo alla mischia menando fendenti per tagliare, sgozzare, uccidere. Aktha si sentì venire meno: uccisioni! Le aveva evitate fino a quel momento. Ma gli umani parevano propensi a preferirle a ogni altra soluzione. Come un demonio spietato dunque sarebbe stata ricordata, per aver fatto il male ovunque avesse posato il piede! A Malcant, ove per causa sua si erano sofferte perdite materiali e chissà, forse anche vite umane; lì tra i pur indegni mercenari, giunti a saccheggiare e rapire, nuove vittime erano cadute a coprire col sangue il terreno.
La disperazione la sopraffece. China sul mercenario trafitto cercò di salvargli la vita ma le ferite erano troppo gravi e quello morì tra le sue mani. Un umano urlante si piegò su se stesso trattenendo le proprie viscere con le mani, il ventre squarciato da un fendente un istante prima che quello calasse la scure che di certo l'avrebbe decapitata.
- Sveglia! - l'urlo proveniva dalla gola di Viola. Il viso sfigurato dalla violenza del combattimento, la voce gutturale e potente simile a quella di un maschio. Aktha si scosse. Nuova collera le fluiva nel sangue. Nuova energia da focalizzare grazie alla fedele sfera che ancora lì galleggiava, alla sinistra delle sue corna d'ariete. Uno, due, tre battiti dei suoi cuori accelerati e fu pronta.
Col primo dardo psi rese il favore a Viola spaccando la testa di un mercenario che stava per attaccarla alle spalle. In rapida successione altri tre dardi stroncarono sul colpo l'ignobile vita di altrettanti umani che si apprestavano ad attaccarla all'unisono da tre direzioni diverse. Fatto il vuoto intorno a sé Aktha, gli occhi fiammeggianti di collera per tutto quel sangue versato per nulla, scelse il suo bersaglio sperando che fosse l'ultimo. Con un getto di brillanti fiamme che squarciò il terreno lo scagliò in alto in modo che tutti potessero vederlo e poi lo smembrò dall'interno con una vampata di fiamme arcane.
L'orrenda visione gettò tutti gli umani nello sgomento, nemici e alleati. Brandelli di cadavere incendiati, poltiglia orribile e schizzi di sangue bollente erano piovuti tutto intorno con disgustosi rumori provocando un parapiglia. I mercenari sbandati si dettero alla fuga disordinata e Aktha rimase sola con le donne di Malcant e Viola che la guardavano orripilate. Perfino la fredda Samira che a distanza aveva tolto tante vite se ne stava a cavallo, ferma e attonita, con l'arco vuoto dimentica perfino di incoccare.
Solo allora Aktha si rese conto che dalla sfera e dalle sue mani strette a pugno si sprigionavano lunghe lingue di fiamme mistiche. Normale per lei, dato ciò che aveva appena fatto. Ma non per gli umani.
Le estinse subito. Con esse si estinse anche la furia che l'aveva animata, la collera che aveva reso forte la sua magia. Svuotata, Aktha cadde in ginocchio e pianse.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Io faccio il bene ***


Aktha Demochye
17. Io faccio il bene

Dette due colpetti al chiodo per affondarne meglio la punta e metterlo ben dritto e poi con un solo colpo lo mandò al suo posto, preciso e senza piegarlo. Aveva quasi imparato ormai. Era diventata abbastanza brava da far nascere spontanea una competizione tra lei e gli altri due umani che insieme inchiodavano le assi del tetto. Nessuno di loro riusciva a piantare i lunghi e spessi chiodi con un solo colpo di martello come faceva lei. D'altro canto loro erano molto più lesti a trovare il punto giusto e a posizionare le assi di copertura. Più in là, dove il tetto era già stato inchiodato a puntino, un altro umano stendeva il puzzolente catrame caldo.
Erano stati giorni brutti, con pioggia e freddo inconsueti per quella stagione e quindi si erano affrettati a costruire quella capanna. Avevano cominciato con una piccola, per fare in fretta e dare un tetto a quelle tre famiglie che avevano avuta la casa bruciata. Presto però le donne rapite dai mercenari avevano chiesto di stare tutte insieme e lontane dai mariti. Dai maschi in generale. Non era certa di capire, ma gli umani si erano dimostrati più volte meno semplici di come sembravano a prima vista. La stessa Monia, che pareva tra tutte quella che meglio avesse affrontato l'orribile esperienza, era divenuta più fredda e distaccata perfino nei suoi confronti. Le era capitato di stare da sola con lei ma non aveva voluto dirle nulla. Il suo cuore era divenuto un pozzo di ombre nere.
- Aktha!
Eccola, la dolce voce di Monia la chiamava e le chiedeva di scendere dal tetto.
- Bevi troppa poca acqua! - la rimproverò.
Quella giornata era la prima che davvero appartenesse alla stagione: bella e luminosa, con poche nuvole candide che correvano nel cielo azzurro che ancora le dava le vertigini a guardarlo. Gli umani sotto i raggi del sole ora più intensi soffrivano il caldo eccessivo, sudavano e bevevano tanta acqua per compensare i liquidi perduti, così preziosi per il loro corpo. Lei invece finalmente assorbiva avida ogni raggio del sole cercando il calore di cui il Mondo Fuori era così avaro.
Aktha sorrise e bevve dal secchio a lei riservato. Gli umani condividevano tra loro l'acqua e perfino il coccio per bere, ma non con lei.
- Come stai? Le tue ferite ti fanno ancora male?
- No, non tanto.
Era stata ferita tre volte in combattimento e nemmeno se n'era accorta. L'ascia di Gul il mercenario non aveva del tutto mancato il bersaglio, ma lei si era resa conto del proprio sangue purpureo che le aveva inzuppato i ruvidi pantaloni fino alle cosce solo quando glielo avevano fatto notare. Anche il mercenario che era riuscito ad atterrarla intenzionato a trafiggerle il petto col pugnale era riuscito a ferirla, sebbene solo superficialmente, tra la spalla e il collo. Era riuscita a deviare in tempo la sua lama prima di scrollarselo di dosso. Aveva anche una ferita alla schiena: qualcuno l'aveva attaccata alle spalle, non sapeva dire quando. Il taglio inferto dalla lama mercenaria iniziava sulla scapola e proseguiva dritto sul muscolo del braccio da dove aveva sanguinato molto. Era stato proprio usando le mani di Monia per curarsi che aveva scoperto l'orrore da lei vissuto. Un genere di violenza a lei noto, perversa e schifosa, ma ignorava che gli umani la vivessero così intensamente e che ne abusassero a tal punto, ben sapendo quanto profonde potevano essere le ferite così inferte. Ferite che lei non riusciva a curare. Meschini e depravati! A tutte le donne rapite era stato riservato quel trattamento, quasi peggio che essere passate a fil di spada. Aktha si sentiva fortunata. Le sue ferite erano solo nella carne.
- Come ti trovi con la nuova casacca? Ti sta bene, sai?
In combattimento la vecchia casacca e i pantaloni non avevano resistito. Sporchi di sangue, lacerati e bruciati dalle fiamme arcane da lei stessa evocate. Gli sguardi attoniti e spaventati che tutti le rivolgevano a battaglia finita erano per quello che aveva fatto. Era certa che fosse così ma riprendendosi piano piano dall'orribile esperienza appena vissuta riacquistava la consapevolezza di ciò che la circondava. Come se mentre lei era in battaglia un genio dispettoso si fosse divertito a spostare e cambiare le cose. Non di molto però. Notava dettagli che non ricordava d'aver visto prima come le borchie lucide della corazza di Viola sporca di poltiglia rossastra, o il bianco screziato degli impennaggi delle frecce di Samira, il rumore di cose umide strappate quando l'arciere recuperava le frecce dai cadaveri. In ultimo aveva notato i propri abiti a brandelli, puzzolenti, bruciacchiati qui e là che la lasciavano più nuda che vestita, sporca da capo a piedi di sangue e pezzetti del mercenario che aveva fatto esplodere.
- A me piace molto – l'indumento era stato fatto su misura in poco tempo: senza maniche per adattarsi alla bella stagione ormai giunta e con molti lacci di cuoio sul petto per scongiurare aperture accidentali. Era di tessuto ruvido e le pizzicava la pelle ma andava bene lo stesso.
- Sono contenta – le rispose Monia con la voce incrinata. Un attimo dopo una lacrima le rotolò sulla guancia, subito seguita da un'altra. Si sforzò di sorridere ma apparve chiaro che tratteneva a stento i singhiozzi. Aktha si sentì in colpa. Colpa mia, tutta questa sofferenza è giunta qui per colpa mia. Quando lo diceva tutti negavano, ma lo pensavano anche loro. Aveva faticato perfino per farsi dare del lavoro da fare per riparare i danni.
- Vai da Mastro Benner – si asciugò gli occhi, ma nuove lacrime caddero.
Aktha era confusa. Lasciò il martello e la scodella con i chiodi e attraversò la strada maestra di Malcant per giungere alle rovine della casa del prefetto. Lo trovò mentre rovistava tra le macerie annerite e fumanti. A mani nude spostava travi ancora calde cercando chissà cosa: era nero di fuliggine fin sul viso. Da giorni non faceva altro. Era solo.
- Aktha! - le rivolse un cenno di saluto – Sai dove si trova la casa di Sedh?
Aktha rispose che sì, lo sapeva. Era stata la prima casa umana da lei avvistata al suo arrivo. Aveva arato i suoi campi.
- Vai da Sedh e da lì dirigiti ai fumaioli. È importante.
Chiese maggiori informazioni, ma il prefetto fu insondabile. Non poteva aggiungere altro, se non calorose esortazioni a fare presto.
Di buon passo Aktha uscì dal Malcant e si diresse dapprima verso i campi coltivati, dove con suo stupore non trovò nessuno al lavoro, e poi verso i fumaioli. Il terreno si fece scosceso e nero, le pietre scure aguzze sotto i suoi piedi scalzi. In alcuni punti già si vedeva fumo bianco salire dal terreno in lente spirali e l'odore di zolfo e pietre arroventate si faceva strada verso le sue narici. Poi li vide.
Due demoni, senza dubbio. Ma non due qualunque.
Uno era il Maestro Dorn. Lo avrebbe riconosciuto tra mille. La sua barba bianca splendeva sotto i raggi dello strano sole del mondo esterno e le sue lunghe corna ritorte erano come quello che gli umani chiamavano “firma” o “sigillo”. Un segno di riconoscimento unico.
Proprio dalle corna e dalla stazza si fece un'idea di chi potesse essere il suo accompagnatore. Alto e muscoloso, le corna ampie e curve all'indietro. Dopo poco ne fu certa: era quel noioso di Tarin. Tanto generoso era stato con lui l'Antico nel dargli membra forti e potenti, tanto avaro nel donargli un cervello sveglio e acuto.
- Aktha! Va tutto bene, sembra.
Salutati come dovuto i suoi simili, intraprese subito una descrizione della situazione, ansiosa di fare bella figura col Maestro, scomodatosi per lei. E che strana sensazione poter parlare di nuovo la propria lingua dopo tanto tempo!
- Fermati, Aktha. Non sono qui per indagare il tuo operato. A tempo debito faremo anche questo. Già il tuo amico qui mi ha reso sordo un orecchio implorandomi di accompagnarmi alla tua ricerca... non ti ci mettere anche tu, ora.
Aktha non stentava a crederlo. Tarin era invaghito di lei al punto da assillarla tanto che aveva dovuto accarezzarlo col gelo per mantenerlo alla distanza minima. Non aveva intenzione alcuna di accoppiarsi, meno che mai con lui. Ma Tarin non si era dato per vinto e, sebbene timoroso di buscarsi ancora un colpo di gelo, rozzo e impetuoso le ronzava sempre intorno.
- È per quanto è accaduto, allora? - chiese timorosa. Il Consiglio le avrebbero revocato il permesso, ne era certa.
- Ne abbiamo avuta notizia. Sebbene vi sia diffuso rammarico per la perdita di vite umane, è anche opinione comune che tu abbia agito per il meglio date le circostanze. Il tuo maestro d'armi avrà da ridire sulla tua prestazione in combattimento, ma nemmeno questo è in discussione ora.
- Dunque dove ho sbagliato? - Aktha era sempre più preoccupata.
- Non puoi sapere che i legati di Vorgo il Tiranno hanno recato un'ambasciata accusandoci di sconfinare con le nostre truppe nei suoi territori. Ci accusa di aver attaccato e distrutto alcuni insediamenti umani, la maggior parte a grande distanza da qui.
- Ed è la verità?
L'anziano Maestro scosse la testa.
- Non ve n'è certezza. Nessun comandante è stato autorizzato ad attaccare bersagli umani e non sono in corso campagne di alcun tipo in questo mondo freddo e ostile. Ma come sai vi sono fazioni che sostengono l'intervento militare contro gli umani. Stanno occupando territori sempre più vasti e spesso si dedicano con intensità ad attività sotterranee per estrarre materiali preziosi dal sottosuolo. Non vi è certezza che non vi possano essere stati... attriti con le nostre comunità più vicine alla superficie.
Sempre diplomatico, il Maestro Dorn. Aktha rabbrividì. L'incendio del villaggio poteva essere messo facilmente in collegamento con la sua presenza lì, e nel modo sbagliato. Strumentalizzata la sua posizione e stigmatizzato il suo operato, nessuno avrebbe potuto fare niente per dimostrare com'erano andate davvero le cose. Perfino i cittadini di Malcant che avevano avuto l'occasione di conoscerla di persona erano contro di lei. Solo una minoranza l'aveva accolta con benevolenza. Il Maestro si dichiarò d'accordo con quell'analisi.
- La cosa migliore che io possa fare è tornare a casa. Non vedo altre soluzioni.
- Sono contento che tu sia giunta alla mia stessa conclusione.
- Ne va della mia incolumità, di quella degli umani di Malcant e delle relazioni diplomatiche con il regno del Tiranno umano.
Il demone anziano assentì con un cenno del capo.
- Vorgo non è umano, però. Sappilo.
- E sia. Aspettatemi qui: renderò questi abiti che mi sono stati donati e tornerò insieme a voi.
Non dovette fare molta strada. Monia l'aveva seguita fin lì. Non fu necessario dire nulla: Maestro Dorn e Tarin erano ancora in vista e l'umana aveva capito.
Aktha si spogliò degli abiti e li tese a Monia, imbambolata. Un paio di battiti dei cuori e l'umana, lasciati cadere gli indumenti, abbracciò stretta il demone, piangendo. Lentamente, con delicatezza, il demone dalla pelle viola e dalle corna d'ariete ricambiò l'abbraccio.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3740823