Fate/Parallel War

di Arthalmia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


~~Conrad Newwhite era abituato a vedersi chiudere una porta davanti fin da quando era bambino.

Prima fra tutti era stata quella della casa paterna, ad opera dello stesso uomo che l'aveva generato. Sua sorella minore guardava da dietro i finestroni del salotto, impassibile, con la sola consapevolezza che non l'avrebbe rivisto, mentre un uomo sconosciuto lo prendeva con sé e gli spiegava che da quel giorno lui e sua moglie si sarebbero presi cura di lui perché i suoi genitori non potevano più permetterselo. Conrad aveva faticato a crederlo, mentre si girava un ultima volta a guardare l'enorme magione e il giardino antistante, ricco delle più varie specie di fiori. Forse alla loro donna di servizio e all'autista era stato impedito di salutarlo perché col tempo nella sua memoria di bambino di cinque anni quella menzogna si imprimesse come verità universale, mentre i ricordi nebulosi lo avrebbero convinto davvero che una famiglia povera aveva dovuto darlo via per disgrazia. La vera disgrazia, invece, erano la sua intelligenza e la sua memoria sopra la media. Perché Conrad continuò a ricordare qualcosa, e mentre i volti dei suoi abominevoli familiari sparivano dalla sua mente e si convertivano in bianco fumo, quel singolo frammento di memoria recidivo si faceva forte, sempre più forte, giorno dopo giorno, man mano che chiuso nella sua cameretta lo coltivava prima dei compiti, dopo cena e a volte anche prima che tutti in casa fossero svegli. Agli occhi di una qualsiasi persona con più esperienza, quelle capacità non sarebbero state che un soffio comparato alla potenza di tanti tornado, ma per il piccolo era un'esperienza unica e privata, la sola cosa che gli appartenesse e a cui sapeva di appartenere. Man mano che cresceva si accontentava di riuscire a tenerla in vita e ogni giorno era una gioia scoprire che c'era ancora, che l'acqua era ancora lì ad ascoltarlo, ad obbedirgli e a piegarsi nelle più svariate forme, in giochi idrici che diventavano una festa per gli occhi, come gli aveva insegnato suo padre. Conrad sentiva dentro di sé la connessione con quel fenomeno, il suo potere su di esso e la consapevolezza che sì, che poteva farlo accadere ancora, ne aveva il potere. La vera disgrazia fu il suo ricordare, anche con il castello delle sue memorie infantili che crollava in pezzi, di essere un mago.

Non si chiese mai se anche la sorellina lo fosse, quanto grande fosse il suo potere e cosa riusciva a fare rispetto ad insignificanti giochi d'acqua in quanto erede dei segreti di famiglia; lui era l'unico a essere speciale, altrimenti perché darlo via?
Fu questa domanda il principio che fece maturare in Conrad l'idea che quel talento andava protetto e che forse un essere affine a lui avrebbe potuto comprendere, finalmente, il suo dilemma, la sua brama di simili con cui confrontare quella magnificenza. Sebbene la famiglia adottiva non gli avesse rivelato nulla sulle associazioni di maghi e sulle famiglie, la coscienza che il suo vecchio genitore fosse come lui durò abbastanza nella sua mente da fargli scoprire il suo primo cognome e a cosa fosse correlata la vecchia famiglia.

La seconda porta si era chiusa più violentemente, sbattutagli davanti in una Londra asfissiata dall'afa di una rara, calda giornata di luglio. Era giunto all'edificio chiamato Torre dell'Orologio dopo così tante ricerche, dopo aver setacciato ogni cartella o documento alla ricerca delle sue origini, che quel risultato gli parve quasi inverosimile. Si sentiva umiliato oltre ogni limite. Com'era possibile che un mago, autodidatta per giunta, venisse rifiutato dai suoi colleghi solo perché dotato di meno potenza interiore? Era nato con pochi circuiti magici, come li chiamavano loro, ma era comunque un magus. Era andato oltre quell'ostacolo, era riuscito a usare la magia, pur non eccellendo nell'uso pratico possedeva comunque una buona quantità di energia: perché allora non gli veniva data la possibilità di migliorare?

Il terzo portone era ebano, ottone, imponenza e diretta conseguenza del secondo. Una ragazza dagli occhi taglienti come i suoi si era scomodata ad aprirlo quanto bastava per guardarlo in volto e, quando si era presentato, lo aveva accostato ed era corsa al piano di sopra. Conrad aveva sentito borbottii sommessi, la voce apprensiva della giovane donna e un'affermazione ferma di cui però non aveva colto il contenuto.

Un uomo di corporatura esile ma incredibilmente alto gli era poi apparso davanti e il solo trovarsi a fronteggiarlo lo aveva messo in soggezione, ma non si era lasciato sconfiggere da quel timore e si era fieramente presentato al padre che lo aveva gettato via quindici anni prima. Sperava che nell'ascoltare quel discorso tanto fiero e orgoglioso, l'uomo si sentisse pervadere dal senso di colpa. Quel che immaginava, che aveva voluto prevedere, era che al suo cuore sarebbe giunto un messaggio forte e chiaro: "Ce l'ho fatta senza di te". Già pregustava il volto costernato del genitore, assalito dal rimorso, che lo pregava di perdonarlo per averlo sottovalutato e di accettare quel poco che poteva offrirgli: il suo sapere e soprattutto l'aiuto delle sue conoscenze alla Torre.

La reazione era stata più gelida dell'acqua d'inverno. Colui che lo aveva messo al mondo e poi se n'era sbarazzato appena trovata una sostituta si era limitato a scrollare le spalle. Gli aveva risposto che non poteva che fargli i suoi complimenti più vivi, ma doveva andarsene, non poteva far nulla per lui. Conrad non era più riuscito a trattenersi. Aveva urlato contro quella persona che a stento conosceva tutto ciò che si era tenuto dentro dall'umiliazione subita all'Associazione dei maghi e provato piacere nel constatare che le sue urla risuonavano dentro l'enorme costruzione in pietra nel quale era stato messo al mondo; tutti in quella famiglia di traditori dovevano udire il grido di rabbia del loro rifiuto, sapere cos'era diventato e dimostragli pentimento aiutandolo ad arrivare più in alto. Era un mago di famiglia, dopotutto, no? Non potevano rifiutare.

Suo padre non aveva mosso un dito nemmeno allora. Aveva ascoltato, taciuto e guardato il figlio con occhi gelidi, mentre questo gli ordinava di usare le sue conoscenze per correggere il malinteso della Torre.
Conrad aveva appena finito di parlare che finalmente si decise ad aprire bocca per pronunciare la peggiore sentenza che potesse aspettarsi, anche peggio del colpo di Londra.

"Vai. Corri lontano, viaggia, ma non farti più vedere. Se verrò a sapere che hai detto all'Associazione di avere un qualsiasi legame con me o con tua sorella, se metterai in dubbio la sua posizione, la mia unica premura potrà essere quella di non ucciderti davanti ai suoi occhi e farlo in modo indolore."

Era stato quello l'incantesimo che aveva decretato la chiusura della terza porta. Conrad, vagabondo, aveva orgogliosamente imposto a sé stesso di non rassegnarsi all'accogliente prospettiva di una vita umana con i genitori adottivi. L'umiliazione inflittagli dal padre era talmente cocente che lo avrebbe considerato solo il miserabile epilogo di un'opera in cui il suo ruolo era ancor più disgraziato. Ingenuamente, aveva continuato a sognare il riscatto mai arrivato, rifiutando invece l'amore di coloro che davvero avevano imparato ad amarlo col tempo. Quando sua madre adottiva era morta, sola in un letto d'ospedale, non aveva nemmeno preso in considerazione l'idea di stare accanto al padre.

Aveva cominciato a frequentare ogni zona di Londra in cui avesse individuato la presenza di maghi, nella speranza che qualcuno mettesse in discussione la diagnosi dell'Associazione e lo portasse a un livello superiore, ma la glaciale minaccia risuonava ancora nella sua testa, dunque si era guardato bene dal rivelare le sue origini; purtroppo, se anche lo avesse fatto i risultati non sarebbero variati. Nessun magus gli aveva dato risposta positiva e Conrad impiegò molto tempo ad accettare di essere destinato ad ascoltare sempre la stessa risposta, ad accettare i suoi pochi circuiti, il suo non essere l'erede, il fallimento.

Aveva trascorso due anni in una sorta di rassegnata trance. Dal basso della sporca umanità, al contrario di coloro che, con coraggio, guardano davanti a sé e affrontano il domani, Conrad Newwhite fissava il cielo, aspirando a un posto riconosciuto tra le altre creature superiori. Anche se l'avevano cacciato in tutti i modi, il ragazzo era sempre rimasto lì, poco fuori ai confini, in attesa dell'occasione, della sua possibilità. Dopo altri sei anni, per la prima e unica volta nella sua vita, una porta si era mossa davanti a lui in senso contrario, spalancandosi davanti ai suoi occhi esterrefatti. Il suo restare sempre ai margini gli aveva dato una chance di avvicinarsi, finalmente, e Conrad non se lo era fatto ripetere due volte; aveva accettato volentieri di entrare al servizio della nobile casata degli El-melloi, lieto di poter stare vicino a qualcuno da cui apprendere, segretamente, da cui assimilare anche la più piccola nozione. Non gli importava di essere ridotto a un maggiordomo, se così facendo poteva vivere in quell'ambiente. Il suo rifiuto di fare i conti con gli svantaggi di essere entrato in quel mondo dall'ingresso di servizio invece che da quello principale gli presentò il conto più tardi. Quella fu, in un certo senso, la sua seconda disgrazia e la sua malata benedizione.

Era stato l'erede stesso, lord Kayneth, a volerlo con sé durante il viaggio in Giappone. Nessuno in casa sapeva dei poteri magici di Conrad: in molti gli avevano fatto notare che nonostante la mancanza di talento possedeva un quantitativo discreto di mana, ma aveva imparato come nasconderli e aumentato la sua resistenza magica. Il suo compito durante la battaglia, la Guerra del santo Graal, sarebbe stato dunque quello di sempre: provvedere, con altri due ragazzi, al benessere e al comfort di lord Kayneth e della giovane Sola-Ui.

Il loro compito, tuttavia, era durato tanto poco quanto niente.

Conrad ricordava poco dell'esplosione, poiché dopo un lampo abbagliante che lo aveva investito col calore di mille soli, aveva a stento fatto in tempo a proteggersi con la magia prima di precipitare nel vuoto. Gli avevano raccontato in seguito di averlo estratto miracolosamente vivo dalle macerie dell'hotel Hyatt, in cui aveva perso tuttavia la normale capacità motoria ed era rimasto zoppo dalla gamba sinistra. A parte questo e la rottura di un braccio, con stupore dei medici, tutto era perfettamente funzionante e in ordine... forse troppo.

La porta scorrevole dell'ospedale di Fuyuki fu l'ultima di una lunga serie a chiudersi davanti a Conrad Newwhite, che dovette lasciarlo senza avere con sé neanche un bagaglio o un cambio di vestiti con cui proteggersi dal freddo invernale per quella notte.
Osservò il suo riflesso sul vetro. Non era vecchio, ma portava i suoi trentun'anni con un'inusuale serietà che gli conferiva un aspetto più adulto, signorile. Non si guardava allo specchio da quando aveva constatato che più il tempo passava, più diventava simile all'uomo che più di tutti giudicava ripugnante. I baffi rossicci erano cresciuti durante il breve ricovero, i capelli erano sporchi e spettinati e lui non aveva nulla se non un cappotto fornito dall'ospedale. Nessuno aveva chiesto di lui e aveva interpretato ciò come una possibile convinzione del padrone che fosse morto nella deflagrazione. Lord el-Melloi doveva essersi indubbiamente salvato, invece, date le sue infinite risorse magiche. Sospirò pensando invece a Margaret e Shawn, i suoi colleghi. La giovane ragazza non era che una semplice umana; Conrad ricordava le sue urla disperate inghiottite dalle macerie che precipitavano nel vuoto. Appena ventidue anni... uno in meno di Shawn. Lui aveva semplicemente avuto la sfortuna di trovarsi accanto a un esplosivo. Era stato vedendolo ardere che Conrad aveva realizzato appena in tempo di doversi proteggere come poteva la magia.

Scacciò questi pensieri e con il braccio si abbottonò il cappotto. A pregare per le loro anime poteva pensare dopo;a sua preoccupazione primaria era tornare a Londra. Tutto il denaro di cui Lord Kayneth disponeva, se anche fosse rimasto qualcosa, era fra le macerie dello Hyatt. Se gli sciacalli non avevano già pensato a ripulire la zona, dovevano averlo fatto le autorità incaricate di rimuovere i resti. Nessuno l'avrebbe assunto neanche per mezza giornata, nelle sue condizioni, e come se ciò non fosse bastato, non parlava giapponese e non avrebbe saputo come rintracciare il padrone.

Si trascinò nervosamente lungo il vialetto che conduceva all'ospedale con l'unica gamba sana. Ad ogni passo cresceva in lui la rassegnazione ad un'unica verità: la sola possobilità di rimpatriare era affidarsi a quelle stesse persone che un tempo lo avevano già umiliato. Suo padre adottivo non aveva le disponibilità economiche per aiutarlo... o almeno cosí ricordava, visto che aveva troncato i ponti anche con lui da quando era stato assunto nella casata.
Essendo quasi notte, impiegò un'ora prima di trovare qualcuno che parlasse inglese e fosse disposto a prestargli il telefono. Le dita congelate, digitò nervosamente il numero della famiglia che serviva.

- Chi parla? - Una voce femminile gli porse la domanda in tono scocciato. Conrad inarcò un sopracciglio. Gli era familiare, ma non ricordava assolutamente a chi appartenesse. Se fosse stata una cameriera, l'avrebbe riconosciuta. Questa persona gli sembrava troppo giovane, quasi una bambina.

- Onegai, hayaku. - La donna che gli aveva prestato il cellulare sbuffò e picchiettò il dito sul polso sinistro.

- Sono Conrad. Chiamo per avere notizie di Lord Kayneth e sapere come rintracciarlo, purtroppo dopo l'inci...

- Chiunque sia, spero tu stia scherzando. Ah, imbecille! - La ragazzina riattaccò bruscamente e la giovane signora si riprese il telefono.

- No, aspetti, per favore... mi lasci ritentare solo una volta... - tentò di persuaderla il maggiordomo.

- Sumimasen, keredo dekinai! - gli gridò, incamminandosi di nuovo lungo il viale illuminato.

- Va' al diavolo - la insultò. Si guardò attorno: a Londra dovevano essere le quattro di pomeriggio, ma a Fuyuki gli orologi avevano da poco battuto la mezzanotte e tra un paio d'ore persino le izakaya avrebbero chiuso i battenti.
Dovunque andasse, non trovava che insegne spente. Cominciò a pensare a qualche posto dove passare la notte, chiedendosi se la stazione dei treni avesse un angolo di pavimento anche per lui.
La gamba lanciava fitte di dolore ogni volta che tentava di utilizzarla per muoversi più in fretta e Conrad cominciò presto ad avvertire le goccioline di sudore che si stavano formando sulla fronte. Si appoggiò a più riprese alle vetrine dei negozi per riprendere fiato.

Fu in una di queste pause che la vide. La luce.
A poche centinaia di metri da lui, era il caos. Una densa colonna di fumo si levava nel cielo notturno e gli edifici nel suo campo visivo ardevano come lanterne, mentre alle sue narici giungeva un odore che sorpassava il bruciato: quello della morte.
Conrad trattenne il respiro, inorridito. Le sue membra erano paralizzate, ma non dal terrore. Era un'altra forza quella che lo aveva bloccato, il solo percepirla era stato un colpo durissimo. Come umano sapeva quanto quel disastro fosse diverso dall'esplosione che già lo aveva coinvolto, ma lo sapeva ancor di più in qualità di magus; la potenza magica emanata da quel tappeto di morte e desolazione era mille volte superiore anche a quella del miglior esponente della casa el-Melloi. Finalmente, capì.

Poco a poco recuperò la mobilità e, con essa, un gelido raziocinio. La sua mano si allungò verso il disastro. Non era più tempo di compassione e pietà, nel suo cuore. Come avrebbe potuto essere così umano davanti a quella cosa che più di tutte rappresentava la magia?

Conrad Newwhite iniziò a correre, per quanto la gamba glielo permettesse. Corse, a perdifiato, la fronte ormai madida. Non sprecò nemmeno un istante a guardare la costellazione di cadaveri che ornavano in modo macabro il quadro di macerie e cenere attorno a lui, i suoi occhi erano puntati solo sul davanti. Continuò ad avanzare fra le rovine, il fiato corto. Per il caldo dovette sbottonare il cappotto.
Trovò quello che cercava una cinquantina di metri più avanti; il suo tesoro si era posato sopra le pietre come se queste fossero state un tappeto rosso srotolato al suo passaggio. Un luccichio aureo si riflesse negli occhi castani dell'uomo, le cui labbra si incurvarono all'insú in una smorfia inquietante.

Ridacchiò. Lord Kayneth si era davvero per qualcosa di grosso, dunque. A giudicare da quel disastro, tuttavia, Conrad dubitava che l'avesse vinto. Per quanto arrogante e vigliacco sapesse essere, il padrone faceva le cose in grande, come mago, e sapeva gestirle altrettanto bene...

Rise. Stava ancora elogiando quell'uomo senza onore. Lord Kayneth el-Melloi Archibald era un ottimo magus? Forse. Ma aveva fallito, buttato via la sua occasione. Ora era tardi.
Conrad fissò il frammento iridescente e lo prese fra le mani. La forza del mana che irradiava quasi lo stordí.

Forse all'Associazione portare indietro dal Giappone quell'artefatto sarebbe interessato tanto da accollarsi il povero mago storpio che lo aveva raccolto, dopotutto.

O da premiarlo.

Ciaoo!
Approfitto di questo spazio per fare un paio di chiarimenti prima di cominciare effettivamente con la storia vera e propria!
Ho messo questa storia nella categoria "Stay night" poiché gli eventi sono contemporanei a quelli dell'anime e si parlerà anche della nostra quinta guerra -sebbene intenda concentrarmi su quella inglese, come dice il titolo-, tuttavia alcuni dei personaggi presenti provengono da Fate/zero, mentre la maggior parte è totalmente di mia invenzione.
Ho anche fatto alcuni cambiamenti rispetto alla trama che tutti conosciamo, un po' per comodità, un po' per variare il corso degli eventi. Il primo e più importante, come dico nella trama, è che gli Einzbern sono riusciti ad aprire un nuovo collegamento al Graal maggiore. Non so infatti se ciò sia attualmente possibile per loro.
Ce ne sono altri, ma li dirò quando necessario, non voglio dilungarmi troppo!
Il prossimo capitolo dovrebbe arrivare la settimana prossima, spero che il prologo non risulti noioso e la storia piaccia!
-Arthalmia

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Il rumore di brusii e continui mormorii degli studenti riempiva l'aria. L'atrio era sempre gremito il mattino presto e a quell'ora del pomeriggio, quando i ragazzi sprecavano gli ultimi minuti di libertà per fare due chiacchiere con gli amici o scambiare appunti coi propri compagni, e la colonna sonora di quei momenti, un parlottare sommesso ed uniforme, col tempo diventava rilassante alle orecchie di chi quotidianamente si ritrovava ad attraversare l'enorme stanza.
Sulla giovane figura slanciata e dai capelli corvini che si ritrovò ad entrarvi con signorile calma, invece, non sembrò sortire alcun effetto. Nulla avrebbe potuto renderlo più tranquillo o felice, quella mattina, e calcare l'antichissimo pavimento in pietra fu quasi come entrare in città in trionfo dopo una guerra.

- Buongiorno, professore - si rivolsero a lui un paio di ragazzi del secondo anno. Waver Velvet, o meglio come nell'intimo della sua coscienza si concedeva ancora il lusso di pensare a sé stesso, ricambiò con un cenno del capo e un abbozzo di sorriso.
Sì, è veramente un buon giorno, oggi.

- A voi - rispose pacatamente.

- Di cosa parlerà la lezione di oggi, se possiamo saperlo in anticipo?

- Questo lo chiederete al mio supplente, Reinhold. Mi spiace, ma oggi non sarò io a tenere la lezione - affermò, anche se in realtà non gli dispiaceva per niente. - Ho un grattacapo piuttosto importante ai... piani alti. Se volete scusarmi...

- Un'altra giornata con quel cadavere?!

Si voltò, lasciando ondeggiare i lunghi capelli neri al vento, il volto inespressivo.
Tom Reinhold non aveva tutti i torti a definire Bruce Wines in quel modo, visti i settant'anni abbondanti e l'incredibile capacità di non riuscire a spiccicare più di dieci parole al minuto. Ultimamente, gli stava quasi cedendo definitivamente la cattedra di conferente, ma i suoi studenti avrebbero dovuto pazientare un paio di settimane, nel peggiore dei casi.
Scrollò le spalle, divertito dalle lamentele del giovane allievo. Tutto sommato provava una punta di invidia per una vita da studente così caotica come quella dell'esuberante Reinhold, sempre con la battuta pronta e che riusciva a cavarsela negli esami grazie alla pura simpatia unita a un pizzico di bravura. Tuttavia, se aver speso gli anni migliori sui libri lo aveva portato lì, non poteva lamentarsi.
Oggi non era giornata per rimpianti e lamentele, del resto, ricordò a sé stesso mentre camminava a passo svelto per gli antichi corridoi della Torre dell'orologio. Oggi, dal passato non poteva che rievocare cose buone.

***** *****

L' "impegno ai piani alti" si rivelò una faccenda ben più breve del previsto.
L'ufficio di Rocco Belfeban, responsabile del dipartimento di evocazione, lo accolse con il suo abituale odore di vecchie carte pregne d'inchiostro. I libri erano in ogni dove: dalle mensole a loro predestinate, ai cassetti, alla scrivania del vecchio Rocco, arrivando persino a occupare i sofà. Waver dovette spostarne una grossa pila pur di sedersi.

- Come se fossi a casa tua - ironizzò il vecchio. Belfeban era un vecchio ricurvo, dal viso spigoloso ai cui zigomi la pelle in eccesso si appendeva come persone in procinto di cadere in un burrone. Sopra il lungo naso all'ingiù, due inquietanti e grandi occhi color dell'oro erano pronti ad accogliere incauti spettatori, anticipando una voce cordialmente gioviale. Tuttavia, nonostante le iridi feline, l'idea di nonnetto innocente che ci i poteva fare di lui al primo sguardo non era del tutto sbagliata; da che Waver ricordava, non lo aveva mai sentito alzare una volta la voce con uno dei suoi studenti.

- Nella speranza di togliere subito il disturbo - replicò, con lo stesso sarcasmo. - Ho preso un permesso a partire da oggi, ma vengo solo a controllare che tutto sia definitivamente in regola. - Belfeban si alzò dalla sedia girevole, dandogli le spalle e guardando fuori dalla finestra. Rimase così per qualche minuto, fin quando il giovane non iniziò a temere che si fosse addormentato in piedi.

- Un messaggio degli Einzbern è giunto qui stamattina - disse poi improvvisamente. - L'ultimo, suppongo, almeno l'ultimo che tu debba sapere... sempre che tu sia ancora intenzionato ad avere un ruolo in questa storia.

- Formalmente, non ce l'ho - gli ricordò Waver. - Il Master che il Graal ha scelto per gli El-melloi non sono io.

Rocco ridacchiò. Si girò di nuovo verso di lui; sorrideva appena, ma la pelle raggrinzita agli angoli della bocca formava già un'indistricabile ragnatela di rughe.

- Come ti pare. Ad ogni modo, la quarta evocazione è stata completata stamattina. Gli Einzbern ci tenevano solo ad annunciare l'entrata definitiva in guerra del loro partecipante. Molto gentile, da parte loro! 

- Hai voglia di scherzare, stamattina... - Waver prese a torcersi l'un l'altra le dita con fare nervoso. - Tutto qui? Nessuna complicazione?

- Quale complicazione vuoi che ci sia, con un lavoro svolto dai maggiori artigiani in questo campo? Il Graal minore funziona alla perfezione e non rischia certo di spegnersi come una lampadina rotta, mio giovane lord. - L'uomo dai capelli neri schioccò la lingua, ma il movimento frenetico delle mani si arrestò. - La guerra inizierà in un paio di giorni, le sole classi mancanti sono Lancer, Caster e Rider. Consiglierei alla tua adorabile moglie di sbrigarsi, se desidera un Servant in particolare. Ha già perso l'ottima occasione di accaparrarsi un Berserker.

- Siamo preparati - lo rassicurò Waver. - Venivo semplicemente ad assicurami di nuovo che tutto fosse a posto. Il supervisore inviato dalla Chiesa non è ancora arrivato?

- E' giunto qui ieri sera dall'Italia, anche se al momento non ricordo l'ubicazione della sua parrocchia. La comunicherò a tua moglie non appena avrà eseguito il rituale. D'altronde, per te che non formalmente non sei che uno spettatore sarà meglio evitare un altro grattacapo, no?

Ma che gentile, pensò. Non disse niente, però: si limitò a sospirare. Non era irritato, nonostante le conversazioni col sarcastico Belfeban non fossero i suoi passatempi preferiti. Nulla avrebbe potuto farlo arrabbiare, quel giorno, nemmeno essere schernito da Reines per un intero pomeriggio. Salutò dunque educatamente e lasciò per l'ultima volta quello statico ufficio in cui il tempo sembrava fermarsi, rendendosi conto che in realtà vi aveva speso tre quarti d'ora buoni quando controllò l'orologio digitale che portava al polso, unica nota moderna che stonava col suo formale completo da lavoro, per venire a sapere che erano le quattro di pomeriggio. Affrettò il passo; doveva sbrigarsi, l'energia magica di Charity raggiungeva il picco massimo fra le sei e le sette. Per una maga del calibro di sua mogli sarebbe stata abbastanza anche metà del mana, ma quel giorno voleva che tutto andasse bene. Non dovevano esserci errori. Non potevano permettersene.

***** *****

Nevicava pacatamente. Dalla finestra, poteva scorgere i fiocchi cadere con meno foga, quasi volteggiando nell'aria, come le fate della neve che la signorina Illya creava come famigli quando si annoiava. Era divertente quando gli chiedeva di aiutarla a farle danzare con un po' di vento o di giocare con lei: per qualche ora aveva la sensazione di essere davvero di famiglia.
Ma la signorina Illya era partita col suo gigante folle su un aereo diretto in Giappone la settimana prima, e lui dubitava che sarebbe mai tornata. Tutti al castello di affannavano a nasconderglielo, ma non era stato difficile per il ragazzino scoprire cosa fosse in realtà la sua sorellastra. Di notte, se il silenzio era perfetto, riusciva a sentire i gemiti di dolore del piccolo Graal fino alla sua camera, nell'ala opposta del palazzo.

Albwin von Einzbern si aggiustò il bavero dell'elegante completino blu scuro, sedendosi sul muretto e tornando a guardare fuori dal finestrone verso il mondo esterno. Illya non poteva recarvisi, ma a lui nessuno aveva proibito di farlo. La città non era così lontana, se le tormente perenni decidevano di essere clementi, ed aveva spesso accompagnato miss Sella al mercato o miss Leysritt in qualche bottega magica, pur di prendere aria.
Poteva andare anche da solo, volendo. Non era il ricettacolo del Graal, nessuno lo rimproverava se oltrepassava la barriera. Probabilmente sarebbe anche potuto fuggire, correre via attraverso le colline innevate e sparire.
Non lo aveva mai fatto. Ci aveva pensato, una volta, a cosa avrebbe potuto fare se fosse scappato. Tutto ciò che gli era venuto in mente era il vuoto. Aveva riso.

Scappare dove? Aveva fosse qualcuno che lo aspettasse?
Gli Einzbern erano probabilmente gli unici a considerare la sua esistenza.
Il ragazzo sospirò. Non si lasciava mai troppo andare, ogni sua emozione veniva espressa in modo contenuto per il semplice fatto che non si lasciava mai coinvolgere eccessivamente da niente. Era come se il gelido ghiaccio tedesco avesse eretto un muro magico al suo interno che attutiva ogni notizia, bella o brutta che fosse. Come la neve che ora scendeva al suolo, era stato un bambino pacato, silenzioso, il figlio che non chiedeva nulla ma proprio per quello riceveva tutto. Probabilmente si sarebbe aperto col tempo. Lo ricordava perché era una delle frasi che sua madre diceva più spesso. Probabilmente era vero.
Poi c'era stato l'assalto.
Di quello non ricordava niente per il semplice fatto che non lo aveva visto. Nelle sue memorie di piccolo di sei anni rintanato in un armadio c'era solo il suono delle grida di uno dei suoi fratelli, forse Jan. La sua famiglia aveva tanti figli, ormai aveva persino scordato i nomi di alcuni bambini.
Che erano stati i sicari, questo lo sapeva. L'assassinio di maghi scomodi, lo avrebbe appreso con gli anni, era ben retribuito. C'erano molte persone disposte a fare il lavoro sporco per un fascio di banconote in più, come se con esso avessero potuto pulire la loro lurida anima.
Albwin era rimasto in quell'armadio per ore, anche dopo che i rumori in casa erano cessati. Quando le ante si erano aperte, stava tremando. Una giovane donna dai capelli color della neve rubini al posto degli occhi gli aveva offerto una mano. Il nome dell'omuncolo era Sianna, quello non lo avrebbe mai scordato. Era venuta a mancare due anni prima; come tutti i domestici Einzbern, la sua vita durava un massimo sei. Albwin l'aveva persino seppellita in giardino, da solo, con la signorina che guardava silenziosa.

Si alzò, rabbrividendo per il freddo sebbene la camera fosse perennemente riscaldata. A chiunque sarebbe parsa una follia anche solo pensare di lasciare quella dimora, dopo aver visto la sua stanza: era grande quanto il salotto di una normale abitazione, e costruita su due livelli. Per raggiungere il letto a baldacchino, sul quale erano sempre posate morbide coperte di velluto vermiglio, bisognava salire tre scalini coperti di un tappeto anch'esso rosso. Il suo comodino era grosso quasi quanto un armadio, più alto di lui; l'armadio raggiungeva le dimensioni di una libreria a parete, composto di quattro sezioni (tutte semivuote, vista la scarsa passione di Albwin per il rinnovo del guardaroba).
Fu all'armadio che si diresse. Ne prese un mucchio di indumenti che buttò sul letto distrattamente, gettando poi uno sguardo alla valigia. Sebbene fosse incoerente, quella vista gli dava un minimo di sollievo.
Prima della partenza della signorina Illya, la sua vita era stata vagamente piacevole. Aveva trascorso otto anni da Albwin von Einzbern in cui essa s'era dimostrata estremamente gentile con lui. Sua sorella aveva sei anni in più, ma il fatto che le fosse stata rubata buona parte dell'infanzia la faceva sembrare più infantile, per cui si erano tenuti di buon grado compagnia a vicenda. Il Nonno non parlava spesso, se non quando lo addestrava. Essendo un aerocineta, un alchimista doveva lavorare abbastanza per ottenere risultati da un tale bambino. Non era tuttavia un cattivo mago, e forniva soddisfazioni alle volte. Poter lottare senza fare affidamento su un famiglio, ad esempio.
Era stato proprio l'addio della sorellastra a peggiorare tutto. Il vecchio Acht a stento gli rivolgeva la parola, ora. Non che lo odiasse, ma Albwin intuiva facilmente il motivo di tale comportamento. Illya era andata in Giappone non per partecipare alla Guerra, ma per vincerla. Era stata concepita col solo scopo di quella vittoria e lo sapeva. Lui sarebbe stato spedito a Londra semplicemente per non sprecare un'occasione. Sianna lo aveva portato al castello e accudito col permesso del Nonno semplicemente perché egli aveva visto in quel piccolo mago un'occasione per inviare un Master più competente in combattimento senza dover rischiare che il Graal minore venisse sconfitto. In poche parole, una ruota di scorta. Albwin ruota-di-scorta von Einzbern.
Da quando lo avevano adottato, naturalmente anche a lui era stato comunicato il suo ruolo. Illyasviel e Berserker avrebbero vinto il Graal in Giappone, quello era certezza. Ma se anche la statistica avesse fallito, lui avrebbe dovuto compiere il miracolo. E il Nonno non gli parlava semplicemente perché non aveva più bisogno di dire niente. Il suo stesso silenzio era abbastanza, poiché serviva a ricordargli un'ultima volta la sua missione e quale sarebbe stato il suo destino in caso di fallimento; meglio che non tornasse, se non era con il Graal.
Per questo avevano trafugato quella tomba in Francia e gli avevano dato il Servant.

Il Servant. Saber, d'Artagnan, il capo dei moschettieri. Non un Servant formidabile come il bestiale Eracle, ma un'ottima unità se sfruttata a dovere, così gliel'aveva presentata il Nonno.
Probabilmente ora era a fare un giro per il palazzo come Albwin gli aveva concesso. Lo avrebbe richiamato solo al momento definitivo della partenza, decise infilando gli ultimi abiti in valigia. Acht doveva ancora consegnargli il bagaglio più importante, quello che avrebbe dovuto sorvegliare ventiquattr'ore al giorno. Quello che lui aveva amabilmente sostituito otto anni prima.
Chiuse la valigia. Rimase per un po' sulla porta della camera che r così tanto lo aveva ospitato, chiedendosi se sarebbe mai tornato a rimettervi piede. Scosse la testa. Avrebbe vinto, indipendentemente da Illyasviel. Avrebbero reso il Nonno doppiamente fiero e forse loro due, una volta tornati, sarebbero potuti essere una famiglia. Lo pensò senza abbandonarsi a fantasie puerili, come un monito a non fare il minimo errore.
Gli servì  trovare il coraggio di chiudere a chiave quella porta e a portare l'oggetto con sé.

***** *****

La scalinata principale del castello gli apparve ancora più solenne quel giorno, immersa nella penombra azzurrata data dal portone ancora accostato. Solo un raggio di luce ne feriva trasversalmente i gradini alla base.
Jubstacheit von Einzbern lo attendeva alla base di quest'ultima, nella solita tunica bianca, come i suoi capelli. Aveva l'aspetto di un templare invecchiato. L'espressione solenne sul suo volto sembrava esservi stata scolpita al momento della nascita: non una volta Albwin ne aveva visto le rughe della fronte distendersi o gli angoli della bocca inclinarsi in un sorriso, nemmeno con sua nipote.
Il Nonno aveva sempre diretto la famiglia con la massima dignità, senza lasciar trasparire in alcuna occasione le proprie emozioni; in questo il ragazzino si sentiva di assomigliargli. Aveva sempre compiuto le scelte necessarie per il bene superiore degli Einzbern, mai per il proprio.

- Buongiorno, Nonno - salutò educatamente Albwin. Solo allora si concesse di guardare alla destra del vecchio, laddove si trovava la sua silenziosa accompagnatrice. Non fosse stato per gli eleganti vestiti arancioni che portava, nulla l'avrebbe differenziata dalle cameriere e dalle cuoche. Possedeva i tratti tipici di ogni abitante del castello: capelli candidi come neve e grandi occhi cremisi. Era bassa, magrolina e il giovane sapeva già che sarebbe stata di costituzione gracile e salute cagionevole, non avrebbe mai provato l'emozione di una corsa sfrenata né quella di giocare con i suoi coetanei. Dimostrava dodici o tredici anni, ma probabilmente non aveva più di dodici ore di vita. Sarebbe stata una maga eccelsa, ma mai una combattente. E soprattutto, sarebbe stata un Santo Graal.

- Buongiorno, Albwin. - La voce del Nonno riecheggiò per l'atrio in un rimbombo che faceva male alle orecchie.

- Buon...gior...no - esalò l'omuncolo con voce cristallina, rivolgendogli per la prima volta uno sguardo. - Fra...tel..lo.

- Sì... sì, fratello - le rispose lui, per essere educato. Scese i gradini e li raggiunse. La sua attenzione tornò ad Acht. - E' tutto pronto... posso chiamare il Servant e partire in ogni momento. - L'altro annuì:

- Prima che tu lo faccia però è opportuno scegliere la dama che accompagnerà te e tua sorella. - La piccola inclinò impercettibilmente gli angoli della boccuccia rosea, producendo un maldestro e tremolante sorriso.

- So..rel..la... sorella! Sì! - Esclamato ciò, sussultò e si strinse nelle spalle. - Yan...nah...

- Yannahviele - concluse per lei il Nonno. - Ho speso l'ultima settimana per crearla, ma deve ancora imparare bene a parlare. A parte questo, non dovrebbe avere problemi. Tuttavia, la qualità di Illyasviel non è raggiungibile da un omuncolo comune... appunto di ciò volevo parlarti prima di lasciarti partire. Mi pare scontato dirti che da questo momento Yannahviele sarà la tua più grande responsabilità, dopo il vincere la Coppa.

- Sì... ma certo.

- Per non gravare sulle tue spalle, ho scelto una domestica in grado di lottare per difenderla in caso di pericolo, se tu fossi impegnato. Tuttavia, se tu e il tuo Servant foste presenti in un momento del genere, mi sembra altrettanto scontato rammentarti che dovrai fare di tutto per combattere, anche sacrificare lo stesso spirito. Sono stato chiaro, Albwin? - Quell'ultima frase fece quasi tremare i muri.

- Chiarissimo, Nonno. - Abbassò lo sguardo, concentrandosi sui fronzoli della gonna di quella bambina. Era grato della concessione di una serva. Se per badare a quella ragazzetta avesse dovuto distrarsi dalla Guerra, non e lo sarebbe mai perdonato. Se avesse perso il Graal per causa sua l'avrebbe uccisa come lei avrebbe distrutto la sua, di vita. - Ordinerò a d'Artagnan di tenerlo a mente.

Tu, è ora. Hai finito la tua esplorazione?

Bastarono pochi secondi perché la risposta giungesse.
In una tenue luce azzurrata, un uomo di circa trent'anni comparve improvvisamente fra loro. I lunghi capelli castani ondeggiarono per poi ricadere sul candido mantello che copriva la divisa azzurra e gialla. Sopra di essi, su di un grosso cappello blu a falda larga, una piuma verde faceva bella mostra di sé.

- Cappel...lo! Che bello! - si complimentò Yannah. Charles d'Artagnan si inchinò al cospetto della giovane con signorile grazia. Ad Albwin piaceva. Non aveva un temperamento troppo esuberante, ma nemmeno era troppo simile al suo Master; sapeva essere un ottimo conversatore e vantava una spiccata simpatia ed un educazione impeccabile, ciò che ne amava maggiormente.

- Ciò mi lusinga. Qual è il nome della fanciulla che mi reca tanta felicità? - L'omuncolo sgranò gli occhi, confuso.

- Lu...sin...ga... cosa signi..fi... - Il Servant guardò Albwin, perplesso.

- Ho per caso esagerato, Master?

- Ha poche ore di vita. Non sa parlare - replicò lui. - E' la mia nuova sorella, Yannahviele. - Non gli piaceva quel nome, ma sapeva che non avrebbe potuto abbreviarlo davanti al Nonno. - A partire da ora sarai al suo servizio come al mio. Intesi, Saber? Non devono farle male per alcun motivo.

Jubsacheit von Einzbern annuì soddisfatto. Saber si inchinò nuovamente, stavolta al cospetto di Albwin.

- Eseguire gli ordini è per me un onore.

- In questo caso - riprese la parola il vecchio. - Direi che non abbiamo più nulla da dirci, Albwin von Einzbern. Che Dio ti sia favorevole.

Albwin a Dio nemmeno credeva, ma fece uno sforzo, per quella volta. Se non lo avesse aiutato Lui, dubitava avrebbe mai più avuto ragion di vita.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Per un attimo le girò la testa, ma riuscì a reggersi in piedi.
La luce color blu elettrico in cui era avvolta svanì poco a poco, permettendole di vedere qualcosa senza avere fastidio agli occhi... o almeno così credeva. L'illuminazione era minima: la sola fonte di luce, in quella che pareva essere una grossa sala, erano tre candele mezzo consumate poste su un tavolo al centro della stanza.

Gatto.

Di riflesso, a rivestire i suoi occhi comparve una brillante pellicola color oro. Avvertì le pupille restringersi e allungarsi; ora poteva finalmente osservare l'ambiente circostante, arredato con sfarzo, a partire dalle pesanti tende di velluto che coprivano finestroni alti il triplo di lei. Si accorse solo in quel momento di star poggiando i piedi nudi su un morbido e pregiato tappeto. Sulle interminabili librerie disposte lungo le pareti, davanti ad enormi libri, facevano bella mostra di sé statuine d'argento e fermacarte di cristallo.
Era una biblioteca, non una sala. 

Il tavolo si rivelò essere una scrivania in mogano con accanto un unica sedia imbottita. Su di essa si accasciò una donna dall'aria stanca. Aveva di gran lunga passato la mezza età, a giudicare dalla cascata d'argento che indomabile ricadeva sulle spalle, coperte a loro volta da uno scialle di lana. Era ancora bella però, ed il fisico ben curato. Non mostrava rughe molto profonde, se non ai lati del naso sottile, e i piccoli occhi scuri trasmettevano una fredda ma sincera vitalità. Fu proprio per osservare questo particolare che la ragazza si accorse che la stava osservando con un sopracciglio inarcato, quasi ad aspettarsi qualcosa... quasi a volere che fosse lei a fare la prima mossa. 

Si riscosse. In effetti era suo dovere farlo, dire come si chiamava. Presentarsi col suo nuovonomeufficiale, insomma, quello che il Graal le aveva messo nella testa appena qualche secondo fa. Molto bene, allora. Signore e signori, che partano gli applausi.

- Servant Caster! - Non avrebbe voluto metterci tanto entusiasmo, non le piaceva come appellativo; tuttavia, sarebbe servito da preannuncio al vero spettacolo. Sì, perché mai avrebbe mai provato più orgoglio che nel pronunciare quanto seguì: - Circe, terribile maga, figlia di Helios e sorella del re Eete. Sei tu, o donna, colei che ha richiesto i miei servigi sotto forma di tuo famiglio?

Si aspettava una risposta gentile o, quanto meno, una risposta, e invece l'anziana si alzò sospirando e prese a girarle intorno con fare lento.

- Ehi, ma ci senti? - L'ultima cosa che ci mancava era un Master sordo ora. Dopo qualche altro passo, la donna sentenziò:

- Parli troppo, ragazza...

Rimase pietrificata. Un vulcano in eruzione, Circe avvertì la rabbia montarle su dallo stomaco e il viso incendiarsi. Come osava quella mera umana parlare in quel modo? A lei, poi!

- T-ti consiglio di moderare le parole! Bada bene, potrei incenerirti in un istante, donna, fare di te il più mansueto degli animali da latte, il più codardo dei polli, la più fetente fra i porci! Mi basta schioccare le dita e ti ritroverai a leccare il pa...

- Accidenti, questa guerra non farà che peggiorare le mie emicranie... - L'altra la interruppe portandosi due dita alla tempia. La giovane, che avrebbe volentieri continuato il suo elenco di minacce, decise di tacere. Ok, forse era logorroica... e magari non era il caso di iniziare un litigio con qualcuno appena arrivata in un'epoca. Ma principalmente, se quella donna aveva appena nominato la sacra Guerra significava solo una cosa, e se Circe aveva ricavato un insegnamento utile dalla sua vita passata era che giocare con chi avesse anche il minimo vantaggio su di lei non portava a nulla di buono. Meglio evitare la disgrazia, per gli scherni avrebbe atteso i pezzenti. Quelle magie di comando sul polso della vecchia, per l'appunto, furono immediatamente riconosciuti come vantaggio. Abbassare i toni era conveniente.

- Hai appena parlato della guerra del Santo Graal. Sei dunque davvero la mia Master...

- Spero di non pentirmene - scherzò aspramente. - E tu sei Caster, hai detto. Credo sia meglio iniziare fin da subito a esporre i tuoi punti forti. 

- A-aspetta, Master. Voglio sapere almeno il tuo nome! Non posso ritenere valido il nostro contratto, altrimenti.

- Sì, senz'altro. Chiedo perdono, lo avevo dimenticato, presa dal tuo sproloquio. Sono Eleanor Willow, ex insegnante della Torre dell'Orologio. Specializzata nell'elemento fuoco e nella necromanzia. - Le porse una mano pallida. Il gesto sorprese la ragazza, che la accettò con riluttanza.
- Siamo a posto, dunque. Possiamo passare a cose più importanti, adess...

- Sì, in effetti, quelle tende sono davvero disturbanti! Vedere con l'ausilio della magia è stancante, alla lunga, lo sapevi? - Eleanor sbuffò, stavolta pesantemente, ma non sembrò arrabbiarsi. Un secco gesto della mano destra bastò a sollevare i pesanti tendaggi, permettendo a una luce tenue ma estremamente gradevole di penetrare nella stanza.
Circe si avvicinò al finestrone, rinunciando agli occhi felici, e quando si accostò al vetro dalle sue labbra sfuggì un gridolino di stupore.
Gran parte del visibile era occupato dalla proprietà confinante, ma c'era ancora spazio per scorgere un'enorme palla infuocata che dava l'addio al mondo, per quel giorno, sporcando il cielo del suo arancio acceso.

- Ti piacciono i tramonti? - Fu la prima volta che sentì la sua Master parlarle in tono gentile, finalmente. Annuì.

- Mi ricorda quelli che ammiravo con mio figlio sulla mia isola. Non è lo stesso di un tramonto sul mare, ma l'effetto che fa è comunque molto bello. - Per qualche secondo, la donna non rispose. Ebbe il sentore che stesse per tornare alla vecchia glaciale che aveva conosciuto finora, ma alla fine la udì rispondere:

- In effetti li gradisco molto anche io... ma ora non è il caso. Dovremmo parlare di cosa sei in grado di fare e se stai lì conciata in quel modo e qualcuno ti vede, avrò un altro problema per le mani. Dovresti stare in forma spirituale, quando usciamo. Sempre che tu non abbia in mente qualcosa e debba cambiarti... 

- Vuoi conoscere i miei... poteri? - Circe osservò la cappa color sangue che aveva indosso, su cui si posavano ciocche sparse di capelli bianchi come nuvole. Non avrebbe avuto a che fare con essi... ed era tanto carina, era un peccato doverla togliere, uffa!

- Sì, esatto. Non ero preparata all'idea di vedermi affidare un mago. Il catalizzatore che mi avevano fornito sarebbe dovuto servire ad evocare un eroe... senza offesa, ovviamente. Il Graal deve avermi giocato uno scherzo, non è colpa tua. Tuttavia, resta il fatto che non so come muovermi con un Servant che non lotta, per di più una donna di del tuo periodo... Sarai inabile al corpo a corpo. Per quello vorrei conoscere i tuoi...

- Master! - La furia di adesso era diversa da quella che l'aveva assalita quando le aveva dato della logorroica; questa era ben peggiore. Stavolta, superò perfino l'accortezza di stare sulla difensiva se svantaggiata. - Non mi aspettavo nulla dalla vostra lurida epoca, assolutamente nulla! La sola cosa che ero certa di trovare era una briciola di maschilismo in meno! Se l'umanità non è riuscita a progredire in questo, ogni vostra scoperta o invenzione è del tutto irrilevante! - Orso! La delicata manina della maga impiegò un secondo a diventare una zampa artigliata capace di uccidere all'occorrenza. - Credi ancora che solo perché sono più piccola e la mia anatomia è differente non riuscirei a far fuori qualcuno ora?! Rispondi, Master!

- Caster...- cominciò pacatamente l'altra, indicandole la sedia. - Ti pregherei di calmarti. Siediti, e rimetti a posto quella... mano. Non era assolutamente mia intenzione offenderti...

- Hai offeso me e ogni donna che ha sudato per ottenere un briciolo di quello che ai maschi viene offerto su un piatto d'argento, con quelle frasi. - Circe non rifiutò tuttavia la sedia, che la accolse in un morbido abbraccio.

- Sarei incoerente, se quello fosse stato il mio intento. Noi maghi abbiamo meno problemi, in questo campo, ma nonostante tutto io sono stata una di quelle donne, disgraziatamente. La mia posizione all'interno della loro società è frutto del mio impegno. Quelle affermazioni sono dettate dalle conoscenze che ho del tuo tempo e della tua leggenda, giovane maga. Sei conosciuta da tutti come la strega formidabile che solo Odisseo riuscì a sopraffare con astuzia, ma non come una combattente. Il tuo tratto peculiare sono i farmakoi con cui tramutavi le persone in maiali. Nessun libro in nessuna biblioteca accenna ad altre tue abilità.

Il Servant abbassò il capo, riottenendo una mano con fattezze umane. Quel che la Master aveva appena detto era deprimente.

- Tutti uguali... a meno che non sia strettamente necessario, nessun uomo parlerà mai dei pregi di una ragazza. Hanno messo in risalto proprio il particolare di me che è stato causa della mia sconfitta. - Guardò Eleanor e all'improvviso scorse il suo viso rabbuiarsi. - Ma...ster?

- Sì... sai, hai ragione. Vedo che abbiamo opinioni in comune, per certi aspetti. Ad ogni modo, mi scuso per aver in qualche modo urtato la tua sensibilità, Caster. Alla luce di questi fatti, non mi permetterò più di parlare di te alla leggera.

- Beh... grazie. Anche io ho esagerato, forse - ammise la ragazza. - L'unico che non mi ha mai fatto pesare il mio sesso è stato lui. Il mio amato Odisseo. Gli altri uomini erano tutti stupidi, come i porci. Per quello li trasfiguravo. Ma non so fare solo quello.

- Ho notato. E dunque, tornando al discorso di prima... parlami un po' di quella mano. Oh, e già che ci sei, cos'è quel segno sul tuo volto?

- Uh? Quale segno? - L'anziana si alzò e uscì dalla stanza per tornare con un piccolo specchio. Circe poté finalmente osservarsi. In effetti, nulla era cambiato. Gli occhi color sangue, i capelli bianchi, i canini appuntiti e... il "segno" cui Eleanor aveva accennato. Ci si era abituata col tempo, anche se all'inizio non le piaceva, quando molti avevano iniziato a dirle che comunque non deturpava la sua bellezza. Era una specie di vena scarlatta in evidenza sulla guancia sinistra, che partiva da metà collo e finiva in tre prolungamenti che si aggrappavano alla carne intorno all'occhio. Ridacchiò.
- Oooh, quello! Quel "segno" altro non è che un prolungamento visibile del mio circuito magico! - dichiarò fiera. - E' ciò che mi permette di attivare con facilità l'arma nobile. Peserò anche meno sulla tua energia, usandolo.

- Un prolungamento? Ma casi simili non si registrano da...

- Dall'età degli dei, esatto! Ma io in origine ero temu... venerata come tale! La fama di strega mi venne attribuita dopo, ma anche allora i miei circuiti erano troppo numerosi e potenti. Ero una dea maga, sissignore!

- Capisco... In questo caso, potrò affidarmi al Noble Phantasm più spesso, deduco. In cosa consiste esattamente? 

Circe distese le labbra in un sorriso da orecchio a orecchio e si alzò. Oh, quanto amava quella parte!

- Meglio se ti siedi tu, Master. Lascia che mi occupi io di usare questo potere, e ti consegnerò il Graal nel giro di una settimana!

***** *****

- Servant Lancer, dunque... - Myra Edgeworth troneggiava su di lui di almeno venti centimetri, grazie ai vertiginosi tacchi. Indossava come tutti i giorni un vestito nero, lungo e aderente, che ne metteva in risalto le abbondantissime forme e faceva risplendere i suoi capelli dorati, come diceva lei.

Charles annuì. Accanto a lui c'era l'appena nominato Lancer, un uomo sui quarant'anni, dai lunghi capelli castani e l'armatura in bronzo.

- Sembra vecchio per combattere. Sei certo che un simile fossile del campo di battaglia sia di una qualche utilità, razza di figlio scellerato?

- Siete... siete stata voi a darmi il catalizzatore, madre.

- Ma certo, senza dubbio. Io ti fornisco una reliquia eccezionale, la prima copia dell'Iliade mai trascritta, piena di eroi di ogni genere, e tu evochi questo qua? - Charles avrebbe voluto ribattere, anche se aveva paura, ma Lancer lo anticipò, brandendo la lunga lancia.

- Non accetterò altri affronti, mia signora. Ho giurato di essere il corpo e le armi del mio padrone e di aiutarlo fino all'ultimo, non di sopportare queste offese senza aver potuto mostrare il mio potenziale.

- Oh oh... abbiamo la lingua lunga, vedo. E sia. Ti darò una possibilità: sia mai che abbia parlato troppo presto, in effetti. - Myra, con fare teatrale, alzò un braccio e guardò verso il soffitto. - Che tu possa essere uno spirito eroico all'altezza della tua fama a discapito dell'aspetto: questo te lo ordino, Lancer!  Patroclo che guida i cavalli, sappi tu condurre questo mio misero figlio alla vittoria!

Charles annuì nuovamente.

- Master?

- Andiamo, Lancer.

Lasciarono la sala da pranzo nel più completo silenzio. La odiava. Charles odiava sua madre come un figlio non dovrebbe mai odiare chi lo ha messo al mondo, ma anche lui, fra i tre figli di Myra e Terence Edgeworth, era il più detestato dalla donna.
Terence non era un mago, ma un semplice uomo dalle ottime rendite e dal soddisfacente lavoro. Myra lo aveva sposato solo per condurre una vita agiata. Nessuno le avrebbe trovato un marito mago, dopotutto, vista la sua attitudine alla magia praticamente nulla. Non ne valeva la pena. E sempre nessuno avrebbe scommesso che da quella unione sarebbe nato un mago.
La scommessa l'avrebbero persa.
I due fratelli minori, Daria e Walter, erano praticamente umani, ma un ultimo miracolo aveva decretato che il sangue di mago della famiglia Fareneith doveva vivere ancora. In quanto primogenito, Charles era stato il destinatario unico di quel miracolo, e i suoi circuiti magici avevano superato persino il numero di quelli del suo bisnonno, ultimo magus degno di nota della casa. Myra, che avrebbe dovuto essere la più felice della famiglia per un simile evento, era stata invece disgustata. L'invidia aveva cominciato a corroderla e Charles era cresciuto cercando di evitare gattonando insulti sputati che piovevano come saliva acida. Sua madre non perdeva mai l'occasione di mortificare ogni suo gesto per auto convincersi che in realtà era lui l'essere inutile. Il padre lo difendeva come poteva, ma la sua bellissima moglie lo aveva avuto in pugno, fra i grossi seni, fin dal primo incontro. I suoi fratelli, neanche a parlarne. Non sapevano della magia, ma essere i cocchi di mamma non dispiaceva loro nemmeno un po'. Era solo, in casa come fuori.

- Master, stai bene? Dove vai? - Si rese conto solo in quel momento di aver continuato a camminare senza meta lungo i corridoi di casa.

- Perdonami, Lancer. Ero sovrappensiero.

- Questo lo vedo, mio giovane amico. Le parole di quella donna ti turbano non poco.

- No... no, ci sono abituato - mentì lui. Non si sarebbe mai abituato a sentire quelle stronzate senza avere voglia di schiaffeggiarla. - Piuttosto, tu non farci caso. Tra poco non dovrai più sentirla. Ho deciso di stabilire la nostra base in un piccolo appartamento a Soho, nemmeno lei è riuscita a farmi desistere stavolta. Ci trasferiamo domattina presto.

- Master... va bene. Credo che cambiare aria non ti farà male. Fortificare le tue ossa lontano da questo ambiente malato sarà ottimo, amico. E domani, finalmente, parleremo indisturbati dell'arma nobile. 

- Sì... meglio domani - concordò Charles. Il giovane venticinquenne sbadigliò. - Sebbene non sia un cattivo mago evocarti mi ha un po' stancato ed è tardi. Puoi ritirarti, Lancer, buonanotte.

- Buonanotte, amico mio.

***** ****

Chiuse gli occhi, premendo ancor di più il volto sulla morbida stoffa della giacca di Waver. Avrebbe quasi potuto addormentarsi lì, senza preoccupazioni, come faceva le sere in cui lo implorava di restare alzato fino a tardi per vedere un film che le interessava tanto ma alla fine era sempre la prima a crollare.
Le pieghe della giacca costituivano un appoggio soffice, ma il torace di suo marito era spesso rigido in quei momenti. La faceva ridacchiare il fatto che su certe cose fosse ancora timido.

- Di' un po', quando la smetterai di usarmi come cuscino? - domandò gentilmente lui.

- Il giorno in cui smetterai di essere nel posto giusto al momento giusto quando avrò voglia di sdraiarmi un po'. Mmm - gemette, stanca. - A dire il vero, voglio passare con te più tempo possibile, visto che siamo agli sgoccioli. - Non ebbe bisogno di guardare l'orologio a pendolo del salotto per sapere che le sei erano vicine. Charity e Waver non avevano figli, ma da come aveva visto l'atteggiamento del marito mutare in meglio da quando aveva accettato una certa reliquia per l'evocazione del Servant, le sembrava quasi che in quella casa stesse per arrivare un bambino anziché il Re dei conquistatori.

- Non ce n'è bisogno... - tentò di rassicurarla lui. - Non vado da nessuna parte, lo sai. Starò al tuo fianco in questa battaglia, per questo sono qui.

Charity non rispose. Proprio perché vuoi starmi vicino ho ancor più paura per te, sciocco. Lo strinse ancor di più a sé, raddrizzandosi sul morbido divano. Essere da soli nel cottage di periferia che avevano scelto come base le piaceva. Per lei che era cresciuta in campagna, vivere anche solo da qualche giorno lì in compagnia dell'uomo che amava era già diventato la felicità. Il dubbio di non volere il Graal si era trasformato in certezza nella prima notte che avevano trascorso nella nuova camera. Che Waver ne facesse quel che voleva, se ciò gli dava gioia: a lei bastava che ciò gli facesse piacere per star bene.
La battaglia la intrigava, quello sì: la magia la divertiva da quando era piccola e non aveva dubbi che se la sarebbe cavata nella guerra. Aveva scelto di partecipare dal momento in cui aveva visto le magie di comando apparirle sul dorso della mano. 
Ma stando lì, la sua mente era ormai talmente proiettata verso il futuro... quella villetta era perfetta. Non era eccessivamente grande come la casa di città della famiglia El-melloi, che sembrava vuota anche se erano in sette a risiedervi, ma neppure piccola. Il caminetto nel salotto dove si trovavano lei e Waver aspettava solo che qualcuno lo accendesse in inverno, fra due o tre mesi, per diventare un perfetto punto dove sedersi a raccontare storie come suo padre faceva con lei e i fratelli. Le stanzette di sopra erano accoglienti e calde, ideale rifugio dove sedersi a osservare una nevicata, e la soffitta, se l'avesse scoperta da bambina, sarebbe stata un paradiso per svolgervi una caccia al tesoro con tutte le cianfrusaglie che conteneva. Una casa da sogno, per le vacanze. Una casa da sogno... per una famiglia.

Non si mosse per alcuni minuti che però le sembrarono brevi istanti. Fu il suono del pendolo a ricordarle che era ora, ormai. 
Si alzò controvoglia e così fece Waver. Quando camminavano sembrava che il suono dei loro passi riecheggiasse fra le pareti di legno. Nessun domestico li aveva seguiti, su ordine preciso della Lady; Reines El-melloi Archisorte, la giovane cognata acquisita, aveva sbottato che neanche morta si sarebbe fatta coinvolgere in un conflitto che già dieci anni prima aveva rovinato la sua famiglia. Si diressero entrambi verso le scale, prendendo quelle che conducevano giù, verso la cantina. L'avevano preparata il giorno prima, per evitare imprevisti dettati dalla fretta, senza nemmeno chiuderne a chiave la porta. Con le misure di sicurezza che avevano posto a guardia del cottage, un incauto intruso sarebbe potuto morire a dieci metri dalla porta di casa se solo lei avesse voluto.

Lord El-melloi II spinse piano l'anta di legno, facendola cigolare in uno stridere acuto. Entrarono. Charity sentì il fresco e gradito odore di muffa penetrarle le narici. Con i pomeriggi che aveva speso a nascondersi in cantine e sotterranei da bambina, persino quella che per molti era una tremenda puzza le ricordava qualcosa di bello.
Pronunciò qualche parola sommessamente e le lanterne posizionate ai quattro angoli della stanza si accesero. Era un ambiente relativamente spoglio, con dei ripiani scavati nelle pareti a fungere da mensole e un tavolo in legno quasi marcio spinto contro il muro in fondo. Lì Waver aveva posto un cofanetto ancora chiuso. 
Accanto al tavolo, a terra, una gabbia con due galline ancora addormentate. Furono i loro passi a svegliarle, provocando un frullio di ali e piume misto a un coro di starnazzi.

- Vuoi che le uccida io? - propose Waver. Charity scosse la testa.

- L'ho già fatto, quando vivevo con i miei genitori. Avevamo un pollaio.

- Da come mi descrivi la tua infanzia, sembra che i tuoi avessero un parco naturale più che una villa.

- Eravamo dei selvaggi - ammise sorridendo. C'era un coltellaccio sul tavolo. Lo afferrò. Voleva finirla il prima possibile. Non le dispiaceva ammazzare un animale, era l'odore del sangue a disgustarla. Cercò di pensare ad altro e respirare il meno possibile mentre la lama bucava la gola del primo pollo, recidendo le vene e tingendo il legno marcio di una indesiderata mano di vernice vermiglia. I versi del volatile si interruppero in un suono strozzato quando soffocò nel suo stesso sangue e la ragazza, le mani ancora imbrattate, finì il lavoro ancor più velocemente col secondo.
Solo quando anche quello fu morto e poté appartarsi il più lontano possibile si concesse una bella boccata d'aria. Waver prese i cadaveri degli uccelli per le ali, lasciando cadere una manciata di piume per terra. Glieli porse senza dire una parola e tornò al tavolo. La delicatezza con cui sollevò lo scrigno intarsiato fu pari alla noncuranza che aveva usato per maneggiare le galline. Aprì il cofanetto e ne estrasse quello che a sua moglie, nella penombra della cantina, sembrò uno scampolo di stoffa, e inginocchiandosi lentamente lo poggiò con somma cura sul pavimento, proprio davanti a dove lei stava allestendo il cerchio magico. 

- E'... tutto pronto. - Probabilmente non avrebbe detto altro, né ce ne sarebbe stato bisogno. 

Charity gli sorrise. Non aveva aspettato quel momento per soli due mesi, da quando era stata scelta come Master, ma per dieci anni. Fece gocciolare il sangue dei polli per terra. Ormai era tutto pronto. Le sole parole necessarie erano le sue.

Il cerchio magico si illuminò all'entrare in contatto col sangue. una miriade di intricati ghirigori brillarono di luce scarlatta, mentre il liquido continuava a cadere.

- All'origine, l'argento ed il ferro! - dichiarò la donna, dopo essersi posizionata al centro di esso. - Come fondamenta la pietra, e l'arciduca dei contratti. Come antenato, il mio predecessore, Wihelm! I cancelli delle quattro direzioni si chiudano, e dalla Corona discenda al Regno lungo il percorso triforme! Riempiti. Riempiti. Riempiti. Riempiti. Riempiti. Cinque volte per ogni ripetizione: basta che tu distrugga il ciclo una volta colmo. Set!

La luce cambiò tonalità. Un'onda arancione la avvolse. Chiuse gli occhi. Non c'era più. Charity Rosewood non era più un nome al quale avrebbe risposto. C'era solo un corpo femminile, un circuito magico e un lavoro da svolgere. Il corpo si ritrovò a essere colmato di energia magica e la assorbì non differentemente da come farebbe una spugna. Faceva caldo e faceva male non essere più umana. Faceva male perdersi nel buio, affogare in un oceano, avvertire la terra mancare sotto i piedi e bruciare nelle fiamme dell'inferno. L'anima soffriva.

Ma non si fermò.

- Lo dichiaro. Che il tuo corpo venga posto ai miei comandi, e che il mio destino sia affidato alla tua spada! Obbedisci alla chiamata del Santo Graal, e se accetti di obbedire a ogni mio comando rispondi! Qui lo giuro: io diverrò il bene dell'immutabile aldilà; dominerò il male dell'immutabile aldilà. Tu sei i sette cieli avvolti da tre sacre parole. Lascia il circolo che ti vincola: vieni a me, protettore dell'equilibrio!

Un flash rischiarò a giorno lo scantinato, ma lei non se ne accorse. In quello stesso istante, Charity Rosewood era tornata fra i comuni mortali e la prima cosa che vide come tale fu il pavimento su sui era china la sua testa. Era in ginocchio. C'era polvere nell'aria.
Tossì. Riuscì a usare un ultimo briciolo di magia perché quella insopportabile barriera di pulviscolo si diradasse, ma si ritrovò davanti una montagna ben più grossa.

L'uomo che le stava davanti non aveva quarant'anni, lo sapeva bene, ma la sua mole e i tratti rudi del volto lo facevano sembrare più adulto ed estremamente più minaccioso. Capelli rossi e corti andavano tutte le direzioni, come in una nuvola diabolica. L'armatura lasciava intravedere addominali scolpiti e un fisico temprato da anni di duro addestramento militare. Waver glielo aveva descritto, ma vedere con i suoi occhi un simile individuo era infinitamente diverso. Alessandro Magno batté un piede a terra e Charity avvertì questa tremare.

- E allora! - Il grido del Servant sarebbe stato paragonabile a un rombo di tuono.- Io rivolgo a te, giovane umana, questa domanda: sei stata tu che mi hai convocato qui con l'aiuto del Santo Graal, collocandomi nella classe Rider?

- S-sì - rispose lei, ancora frastornata dal vocione di quello. - Precisamente. Sono io la tua Master. E tu sei Alessandro, Re dei conquistatori cui è valso l'appellativo di magno. Mi sbaglio, forse? 

- Tsk! Se la mia fama mi precede, non ho che aggiungere! Solo una cosa manca perché possiamo stringere un contratto, visto che ti vedo tanto preparata! - Rider si inginocchiò davanti alla donna. - Qual è il tuo nome, graziosa maga?

- Io... sono Charity... - esitò per un istante, ricordando solo ora dell'uomo nell'angolo. Fece un cenno col braccio, intimandogli di raggiungerli. Iskandar la guardò, inarcando un sopracciglio fulvo. - Su, dai! Non vieni?

- Mmm? Perché guardi le ombre, donna? Cosa vi hai scorto? - Charity non rispose. Waver mosse qualche passo, riluttante, per mostrarsi finalmente alla luce di una lanterna. Gli occhi scuri erano fissi sull'omone. Era rigido come non l'aveva mai visto, ma sua moglie notò che una mano tremava lievemente. Sorrise. Non appena Rider l'avesse riconosciuto probabilmente gli sarebbe saltato addosso.

- Servant Rider... - biascicò. - V-voglio dire, Rider... - Proprio questo incrociò le braccia al petto, con espressione corrucciata.

- Ngh? E tu chi eri, uomo che ci osservava dalle ombre? Master, è forse un tuo conoscente, o devo sbarazzarmene? - Senz'attendere risposta, Iskandar estrasse dalla cintola una grossa spada.

- Fermo lì, idiota! - strepitò lei. - Non t' azzardare! Lui è... - Charity esitò. Waver continuava ad avere la stessa, identica faccia. Il suo sguardo non aveva vacillato. Le ricordò per un secondo il lord dai modi freddi che aveva incontrato alla Torre dell'orologio, il professore amato da tutti proprio per essere una roccia. La spalla su cui contare. Quella che non poteva permettersi di mostrare crepe. Proprio perché vide riemergere quel Lord El-melloi II, la giovane seppe che suo marito era appena andato in pezzi, dentro, e la colpa era sua. Lei aveva evocato quel gigante e gli stava causando quel dolore.
- E' mio... - stava per completare la frase e presentarlo col nome di Waver, sperando che ciò rievocasse in Rider anche la più piccola delle memorie, ma venne interrotta.

- Lord El-elloi II. Marito della Lady tua master e vostro aiutante e stratega, se me lo permetterete. E' un piacere fare la tua conoscenza, mio re.


Ciao a tutti! In questo capitolo ho voluto focalizzare l'attenzione sui personaggi di Caster e di Lady El-melloi. L'apparizione del master di Lancer è solo un breve spezzone, la vera caratterizzazione di Charles verrà approfondita più avanti! L'evocazione di Iskandar cronologicamente risulta essere l'ultima, non parlerò di quelle di altri servant. Dal prossimo capitolo di passerà all'azione, di conseguenza! Spero che questo vi sia piaciuto, intanto, e se così non è fatemi sapere perché, mi sareste di grande aiuto, davvero.
Alla prossima,
-Arthalmia

P.S. DISCLAIMER: il Caster di cui leggete non ha nulla a che vedere col Caster apparso da poche settimane su Fate/Grand order. L'ho inventata verso il mese di settembre, mentre ho scoperto della sua comparsa ufficiale solo poco tempo fa. Tuttavia l'avevo già caratterizzata e siccome mi piaceva l'ho tenuta

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Luce cremisi.
Il pianto della notte mette in mostra uno spettacolo crudele.
La madre terra accoglie ingorda l'ultima scintilla del suo figlio
martoriato, straziato.
La natura geme.
Rossa di vergogna, la luna regala una tinta scarlatta agli ultimi secondi di lui.
E vermiglia è la terra e il cielo e l'aspro aere notturno.
Luce di lama che infilza la terra.

Lanciò il foglio stropicciato davanti a sé e questo, come controllato da una forza mistica, si arrestò a mezz'aria e si distese ai lati con schiocchi sordi.

- Noto un lieve miglioramento...
Non rispose. Era una frase offerta con voce gentile, quasi un complimento, ma non poteva ignorare il tono del Servant nello scandire quelle parole.
Sufficienza.
Dopo tutto quel lavoro. Dopo un'ora di estenuante combattimento per entrambi, un'ora di fatica per ottenere quello spettacolo. Solo un certo miglioramento?

Le mani incrociate dietro la schiena, fece qualche passo in avanti e osservò il defunto.

Era la vista più bella degli ultimi dieci anni, come minimo; non avrebbe mai immaginato che già al primo giorno della guerra del Santo Graal avrebbe avuto l'occasione di provare una simile gioia, una tale euforia nel petto mista a strabiliante serenità.

Si era impegnato in quella poesia, ma nemmeno così era riuscito a rendere appieno le emozioni che il corpo sventrato suscitava.
Aveva scritto che la luna era rossa di vergogna; non era del tutto esatto. Cosa non si sarebbe tinto di cremisi, con il sangue sgorgato da quell'uomo ormai cibo per vermi? La luna, il cielo... se fosse stato possibile, avrebbe affermato che gli schizzi avevano colpito Dio in persona.
Si chinò sul corpo come un bambino si inginocchia al parco ad osservare le lumache fra i fili d'erba.
Le interiora fuoriuscite dagli squarci nel ventre erano disposte attorno al mago in uno strano, confortante disegno di morte illuminato dai primi raggi di sole. Le toccò delicatamente: erano ancora calde.

L'odore di sangue era intenso, inebriante.
La maggior parte era fuoriuscita dalla carotide, l'arteria che aveva subìto il destino peggiore, venendo recisa di netto. Probabilmente la morte era sopraggiunta per soffocamento una volta che il liquido scarlatto era entrato nei polmoni...
Tuttavia, aveva avuto il tempo di soffrire.
Il volto dell'uomo che era stato un Master era congelato, a causa del rigor mortis, in un ghigno di terrore. Le sue urla suine si erano fermate solo pochi istanti prima di crepare.
A ripensarci una morsa gli attanagliava lo stomaco. Erano state la sola cosa che gli avesse davvero dato fastidio, durante tutto il loro confronto. Odiava il rumore. Lui stesso parlava il meno possibile.
Tutto ciò che di bello c'era al mondo era comunicabile, secondo lui, in poesia: era sufficiente scrivere su carta le emozioni giuste, le menti di coloro che erano degni e minimamente in grado di capire avrebbero tratto dal componimento tutto ciò che c'era da carpire. La parola era per gli stolti.
Quando una vittima gridava, implorava o bestemmiava il solo risultato che otteneva era rendersi destinataria di torture ancora più atroci. 

- Master... non voglio credere che mi ignori, ma l'assenza di una tua risposta non mi lascia dedurre altrimenti.

- Ma no, non ti ignoravo. Riflettevo solo su cosa fare di questo porco.

A pensarci bene, non ne conosceva nemmeno il nome. Sapeva solo, dal suo accento, che veniva dal nord Europa. Si era presentato nel posto sbagliato al momento sbagliato; lui e Assassin erano dentro casa, indisturbati. Stavano parlando proprio dei piani da attuare per la guerra del Graal, quando il Servant aveva captato la presenza di un suo avversario.
Non avrebbe neanche voluto scontrarsi con qualcuno a quell'ora della notte, ma non aveva avuto scelta. Quell'imbecille aveva spudoratamente dichiarato di aver scoperto ogni sua intenzione e futura mossa. Se avesse taciuto, probabilmente se la sarebbe cavata, almeno per qualche altra settimana.

Il mago non si era scontrato con lui direttamente, se si escludeva uno scambio di incantesimi offensivi poco prima della vera battaglia. Nessuno dei due era realmente interessato ad attaccare l'altro. Gli aveva subito sguinzagliato contro il suo spirito eroico e lui non aveva esitato a fare lo stesso, dopodiché si era goduto lo spettacolo nel più completo silenzio.
L'altro, invece, era profondamente irritante. Non troppo alto, non troppo magro, aveva il timbro di voce borioso e gioviale di chi generalmente ama solo godersi la buona cucina e sfogliare libri fra un pasto e l'altro. Non aveva fatto altro che decantare il proprio Archer con tono di scherno ogni volta che quel dannato famiglio metteva a segno un colpo decente. Non si era nemmeno penato di nasconderne il vero nome. Un mago indegno.

- Non lo lasciamo qui?

- Qualcuno potrebbe scatenare un putiferio se lo trovasse in un luogo come questo. Ho cercato di allontanarlo in vista del combattimento, ma da bravo maiale è stato pigro e stolto. Mi dispiace solo non aver potuto esaminare meglio il suo Archer. Tutto sommato, se fossi riuscito a strapparglielo sarebbe stato un buon supporto per te. - Rubare il Servant nemico era una buona idea, ma a quanto pareva le urla di paura di quell'essere non erano ben tollerate nemmeno dal suo Assassin. Ci aveva impiegato tre minuti a dipingere il quadro di morte che avevano davanti, una volta avuto campo libero.

- Non definirei scagliare due o tre frecce combattere, tsk... non ho nemmeno mai sentito il suo nome. Come si chiamava, Örvar Oddr? Un guerriero dal nome sconosciuto meritava di tornare alle ombre. Ah, se mio fratello fosse stato qui, lo avrebbe sistemato in ancora meno tempo! Lui era un vero guerriero. Uno spadaccino, il migliore. E' da lui che ho imparato quel che so e ho avuto il Noble Phantasm che ho usato prima.

Come al solito, si perse in uno sproloquio sulla sua famiglia d'origine. La devozione di quel particolare spirito a cose come le radici era ammirevole, doveva ammetterlo.
Aveva sentito una volta la storia di Oddr l'arciere, l'eroe norvegese dalle magiche frecce che poco prima aveva usato come arma nobile. Örvar Oddr, un tiro che una volta scagliato trapassa ogni armatura non abbia resistenza magica di rango A. 
Con una magia di comando del suo Master aveva potuto usarla tre volte. Uno spettacolo di luce, una cometa che indicava la via per l'aldilà a chi avesse la malasorte di incapparvi. Un vero peccato che il suo, di Servant, avesse resistenza massima pur essendo stato in vita un mago mediocre. Nessuno di quei due idioti era stato in grado di pensare di mirare a lui, al Master. Scrollò le spalle. Dio li fa...

Assassin aveva neutralizzato ogni loro difesa in poco tempo. Nemmeno lui sapeva il perché. D'un tratto, Oddr l'arciere si era accasciato a terra e l'energia magica percepibile nell'aria era calata di oltre la metà. Il resto era facilmente intuibile. Dopo aver fatto fuori lo spirito, uccidere il Master, un mago dotato ma senza dubbio impreparato a un simile scontro, era diventato oltremodo semplice. Quasi divertente, a giudicare dalle risa dello spirito eroico.

Ed ora, la notte aveva regalato loro, oltre a una visione magnifica, anche quel fardello di cui occuparsi. Rifletté sul da farsi. Rimase lì, fermo, con aria pensierosa e con lo sguardo accigliato, per circa cinque minuti, mentre l'alba conferiva al cadavere una nuova, bizzarra sfumatura di luce rosata.

- Devo seppellirlo. Mi occuperò delle formalità dopo - annunciò, destando il Servant, ancora in forma spirito, dai suoi dolci ricordi.

- Beh... come vuoi, va bene - commentò con disapprovazione.

- Non voglio fare vittime, non inutilmente. - Non ci sarebbe stato alcuno sfizio. -Tu starai di guardia al cancello, a badare che nessuno venga a curiosare. Ma prima...

Alzò la testa. Il suo foglio con su scritta la poesia era ancora sospeso in aria. Con una mossa fulminea, lo afferrò e lo strinse nel pugno fino a sentire le unghie oltre il sottile strato di carta.

- Sappi che ti farò rimangiare ogni tua presa in giro, Assassin, fino all'ultima parola. Te lo giuro sul mio onore.

***** *****

- Non è che mi convinca molto, sai? - osservò la giovane ragazza, mentre per la ventesima volta si rimirava nel grosso specchio che aveva di fronte, il volto perplesso. 

- E' la decima cosa che non ti convince... o l'undicesima. Hai voluto fare tu questa cosa, dovrai accontentarti - stabilì Eleanor. Erano salite nella sua stanza dopo una lenta e rilassante colazione, per procurare alla Servant qualcosa che non desse nell'occhio in giro per la città. Era stata Circe ad insistere su quel particolare, asserendo che aveva il diritto di vestire come una signorina del ventunesimo secolo "per una volta che era là".
Eleanor si era fatta convincere abbastanza presto. Cosa le costava, dopotutto? Non aveva piani per la giornata. Così come lei era piombata in un'era sconosciuta, quella ragazza aveva portato una ventata di novità anche nella sua, di vita. La vita di una pensionata... di una donna sola.

Circe aveva fatto quella speciale richiesta anche per motivi legati alla battaglia, ma una volta spiegatole i motivi, la donna aveva preferito apportare una piccola variazione al piano. Per quello si stavano trattenendo così a lungo nella spaziosa camera da letto, come due ragazzine intente a vestire le bambole.

- Perché è la decima o undicesima gonna a tubino che mi fai abbinare alla decima o undicesima maglia dai motivi stravaganti - ribatté lei, sarcastica. Poche volte aveva conosciuto un individuo simile: era capricciosa, testarda e superba. In poche parole il genere di allieva che alla Torre dell'orologio aveva sempre cercato di approcciare il meno possibile; solitamente anche quelle ragazze la evitavano. Caster sembrava diversa, però. Alternava quei momenti infantili a riflessioni molto mature. Tutto sommato stava iniziando ad apprezzarla vagamente.
Si portò un dito alla tempia. Eleanor soffriva di emicranie da un paio d'anni circa. Il suo corpo era fisicamente in ottima forma anche a causa dell'uso costante della magia, ma contro quelle non aveva potuto fare niente. La natura doveva in qualche modo chiedere il conto a tutti, forse?

- Erano i miei abiti di quando avevo circa la tua età. Non me ne sono rimasti molti, purtroppo.

- Certo che eri monotematica, Master. Ma davvero posso andare in giro vestita così? Non rideranno di me, vero?

- Sono considerati abiti eleganti oggi... - Si interruppe un attimo per il dolore alla testa. - Ma non credo avrai problemi...

- Qualcosa non va? Ho notato da ieri sera che ogni tanto non riesci a parlare. - Il tono di Circe tradiva sincero interesse.

- Non è nulla, ci sono abituata. Soffro di mai di testa da un po'. Ho delle medicine che mi aiutano, quando il dolore si fa insopportabile, ma non è questo il caso.

- Mmm... deve essere dura... Ehi, idea! Dov'è il tuo laboratorio?

- Vuoi vederlo? - domandò l'anziana.

- Voglio usarlo. - Negli occhi della maga dai capelli color della neve riluceva una luce maliziosa ora. Sospirò. Mentre alzava gli occhi al cielo Eleanor decise che, a meno che le cose non prendessero una brutta piega, per quel giorno non avrebbe discusso. Così facendo di sera sarebbe stata di nuovo in forma per partecipare attivamente al conflitto... e magari Caster sarebbe stata buona per un po'.
Si mise in piedi e, lo sguardo basso, precedette l'altra fuori dalla stanza e le fece strada per i corridoi della vecchia villa. Per un po', il solo rumore che giunse, ovattato, alle sue orecchie, fu il leggero passo della ragazza che accompagnava ritmicamente il suo.

- Sai che questa casa è proprio enorme? E' persino più grossa della mia! - Esclamò divertita Circe.- Uno di questi giorni potrei esplorarla tutta?

- Se prometti di non rompere nulla, forse.

- Chiaro, chiaro! Non sono mica maldestra! E poi hai un sacco di oggettini dall'aria preziosa, sarebbe un peccato romperli. Sai, mi ricordano i miei... i miei gioielli! Posso vedere i tuoi, eh, Master? Mi mancano terribilmente l'oro e le pietre preziose, il mio adorato Odisseo mi aveva donato tante belle gemme e...

- Caster - la supplicò l'anziana, gemendo. - Se continui così, la mia testa finirà per scoppiare...

- Oh. - Improvvisamente calma, la Servant tacque. - Scusa, Master. 

Eleanor trasse un sospiro di sollievo mentre scendevano l'ampia scala che conduceva al piano di sotto. Si fermò proprio alla base di essa, indicando una porticina che vi era nascosta sotto.

- Il laboratorio è lì sotto. Posso fidarmi di te, giovane maga? - La signora si sentì improvvisamente afferrare un braccio. La mano pallida di Circe la tirò per la manica fino al sottoscala. 

- Certo, ma vorrei che tu venissi! Appena finito il filtro, mi servirai. Inoltre, è pur sempre il tuo laboratorio... dovrai pur dirmi dove sono i vari ingredienti, se vuoi che faccia in fretta... Master? Posso sapere perché quel sorriso?

Era vero, stava sorridendo vagamente. Era da tanto che non incontrava qualcuno di tanto travolgente; essendo una vecchia signora, anche le compagnie di Eleanor erano per lo più anziane ormai prive di vigore.

- Semplicemente, per come sei credevo fossi molto gelosa della tua autonomia e volessi lavorare da sola.

- In effetti è vero - confermò lo spirito eroico. - Nessuno mi ha mai vista all'opera... ma i visitatori che arrivavano alla mia isola erano soltanto navigatori rozzi e ignoranti. Mi sarei infuriata se avessero preteso di osservare una cosa tanto complicata e bella quale è la magia. Tu sei una maga e sei anche una donna: sei il genere di persona che più sognavo di incontrare in un certo senso. Quindi, lavorare con te in un laboratorio mi farebbe davvero piacere, Master!

Sei una maga e sei anche una donna. Eleanor dovette fare del suo meglio per mantenere l'espressione sul suo volto inalterata, stavolta. Quella ragazza non lo aveva fatto intenzionalmente, ma aveva toccato un tasto piuttosto dolente. Nessuno nella sua vita, in nessuna occasione, aveva mai fatto quell'accostamento in senso positivo. Per quello, per un istante soltanto, si trovò a voler bene a quel Servant così ambiguo e vivace. Forse sentirsi dire quelle cose a quell'età, dopo anni di speranze mai avveratesi, le aveva restituito un briciolo del calore che la sua carriera le aveva portato via.

- Ti ringrazio, Caster. - Quel grazie non era solo per averla voluta accanto. - Sai, anche a me interesserebbe imparare qualcosa da te. Vieni dall'era degli dèi, dopotutto: immagino tu possieda conoscenze straordinarie per me, che sono nata in questa epoca.

- Puoi scommetterci! Dai, Master, andiamo!

Sempre tirandola per il braccio, la maga Circe spalancò la porta e si precipitò delle scale, evidentemente non curandosi del fatto che a differenza sua Eleanor non era capace di vedere al buio così in fretta. Rischiò almeno due volte di precipitarle addosso e rompersi qualcosa. E' la volta buona che finisco in sedia a rotelle, come le mie coetanee.

Il laboratorio era freddo e umido. La Master non lo usava da giorni e aveva lasciato la porta chiusa; essendo un sotterraneo, non c'erano finestre. L'ambiente, vasto e difficile da riscaldare, odorava a momenti alternati di muffa e infusi alle erbe. Eleanor riusciva ad ambientarvisi con facilità anche al buio ormai, ma essere lì e restare immersa nella più completa oscurità non era ciò a cui anelava.

- Caster, ti spiacerebbe accendere la luce sulla parete accanto a te e permettere anche a noi comuni mortali di vedere qualcosa? - chiese, tornando al suo tono di scherno.

- Sì, sì... che spreco di energia, accidenti! Avrei potuto usare delle fiamme per illuminare il tutto... ehi, ma non sei una maga del fuoco?

- L'elettricità mi permette di concentrarmi sulle pozioni senza sprecare la mia, di energia. E sono ufficialmente un'alchimista, il fuoco è semplicemente il mio attributo.

- Mmm...pff, va bene! - Rumore di passi. Pochi secondi dopo, la Master poté finalmente avere una visuale del glaciale scantinato. Era la stanza più grande di casa, sebbene fosse la meno usata. Lunga circa venti metri e larga quindici, la sua area copriva quasi metà dell'ancor più enorme piano inferiore della villa. Fra un minuscolo labirinto di librerie e mensole in cui erano riposti antichi tomi e svariati ingredienti, erano disposti verticalmente due tavoli da lavoro. Lungo la parete in fondo, invece, erano stipati alcuni bauli, lampade rotte e un paio di vecchie sedie. Non c'era una soffitta in quell'enorme abitazione. Eleanor aveva stipato il suo poco ciarpame lì, dove era poco visibile. Meno lo aveva davanti, meno si innervosiva all'idea che quella centenaria spazzatura creasse disordine nell'ambiente in cui avrebbe dovuto regnare più che negli altri la calma perfetta. Persino il modo in cui li aveva accantonati era maniacalmente preciso.

- Brr! - rabbrividì Circe. - E' b-bellissimo ma diavoli, un fuoco servirebbe davvero!

Lei si strinse nella cappa di lana viola e scrollò le spalle.

- Mi sono abituata. E' tutto a tua disposizione, prego.

- Grazie! - La ragazza corse subito a uno dei tavoli. Passeggiò a passo svelto fra gli scaffali, ignorando completamente i libri di magia ma osservando con attenzione ogni singola ciotola, boccetta o bottiglia.
- Dove si trova la malva?

- Alla tua sinistra, poco più avanti.

- Mhm... ah, trovata! E il rafano?

- Lo scaffale accanto. Lato destro, verso il centro.

- Sì, sì... hai mica degli zaffiri?

- Sopra la tua testa.

Andò avanti così per circa cinque minuti. Circe chiedeva, lei indicava e il Servant si metteva fra le braccia già colme un altro, improbabile ingrediente per un intruglio di cui lei non era riuscita a intuire in alcun modo la finalità. Alla fine, senza più spazio nemmeno per una piccola pietra preziosa, la maga posò tutto delicatamente -se proprio si voleva esagerare- sul tavolo, affrettandosi subito dopo a procurarsi mortai, pestelli e ciotole di legno.

-Cosa vuoi preparare?

- Uhm... è una cosa da nulla, ma se solo avessi una lama d'argento, non la trovo! Che sia là? - Senza aspettare la risposta di Eleanor, Circe si avvicinò a uno dei bauli nell'angolo e lo aprí.

- Caster, quella è solo spazzatura! - tentò di fermarla lei. - Non ci troverai nulla di utile.

- Ah... davvero? In questo caso va bene. Oh! - Nel tentativo di richiudere il forziere, un foglio volò danzando sul pavimento. Caster lo raccolse distrattamente e si fermò a osservare ciò che vi era sopra.
- Che bel giovane - commentò. - Tuo figlio?

Eleanor le prese di mano il ritratto e rimase immobile. Pietrificata. 
Fissò senza espressione. Era effettivamente un uomo bellissimo. Il più bello dell'Associazione, ricordò nostalgica. Di quanti sospiri femminili colmi di ammirazione e infatuazione era stato la causa?
Li meritava tutti; con gli occhi verde chiaro e i capelli neri, lo sguardo fiero e i lineamenti cosí perfetti da non sembrare umani, i pensieri di ogni donna non potevano che rivolgersi a lui. In quel ritratto doveva essere nel suo periodo migliore, circa venticinque anni. Lei lo aveva conosciuto dopo. Se n'era innamorata quando ormai chiunque lo considerava un inguaribile scapolo amante del divertimento, che alla soglia dei trenta non aveva ancora neanche considerato di prender moglie. Una sfida ben accetta.
Si costrinse a non guardare da un'altra parte, a fissarlo per bene e imprimere quel bel ricordo di nuovo nella memoria, nella speranza che cancellasse quelli di ogni disgrazia, per l'ennesima e inutile volta.

- No - replicò calma. - Era mio marito. Qui era molto giovane. Questa casa, sai, era originariamente sua. Ma ora, lui è morto... è tanto che non c'è piú.

- È un peccato, Master... mi dispiace. Sai, so cosa si prova quando perdi l'amore della tua vita.

- Non fa nulla. Ho avuto il tempo di abituarmi, sta' tranquilla. Lo... lo rimetto a posto io. Tu va' tranquillamente a finire la tua pozione.

- Agli ordini! - La ragazza le rivolse un sorriso splendente. Anche con quel segno sul volto, raramente aveva visto donne tanto belle.
- Sai, spero che le tue emicranie migliorino: questo rimedio non ha mai fallito finora!

Eleanor fu grata d'un tratto di avere quella ragazza davanti. L'essere accanto a qualcuno con cui mantenere il contegno le diede la forza necessaria a non stracciare quel foglio in preda alla disperazione e alla rabbia.
Quanti anni erano che non apriva quei bauli? Troppi, a giudicare dalla polvere che il movimento dei ganci aveva lasciato sul pavimento. Sempre troppo pochi, però, per il suo cuore.

Più tardi, poco prima di addormentarsi, finalmente libera dal mal di testa grazie al siero prodotto da Caster e stesa sopra le coperte sul suo letto, ripensò a quelle parole.

Lui è morto, è tanto che non c'è piú.

Morto...
Morto... 
Morto.

Stava scivolando nel sonno, distrutta, eppure riuscí senza sforzo ad augurarsi che fosse davvero così.

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