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I loro pugni fendono l'aria e i loro calci spaccano la terra;
ma i loro corpi sono quelli di normali esseri umani.
Da questa frase.
Ho deciso di partire da questa frase e dal duplice valore
che in inglese ha la parola arms: braccia e armi.
Perché è uno dei fulcri di Saint Seiya. Mani che sono fatte per
combattere; armi che sono carne che si spezza, di rompe,
di rovina. Mani (userò spesso il termine mano, invece di braccio) che avrebbero potuto fare molto, e
invece imparano una sola cosa.
Una raccolta di drabble,
rigorosamente di cento parole l’una. Cento parole per ogni cavaliere d’oro; per
raccontare il ricordo delle mani e
l’uso inaspettato che ne hanno fatto. Si spazierà nel tempo. Fra serie classica, Episode G, LostCanvas e un’infanzia che è inventata (me
ne scuso con i puristi).
Dodici drabble
sui cavalieri d’oro; più una di apertura e di chiusura dedicate ad Atena. Perché da lei tutto
parte. E un piccolo interludio al mezzo.
Questo il progetto. Con un aggiornamento
abbastanza regolare di una drabble a settimana,
secondo le mie speranze.
Una notte accade. Una bambina piange; perché sente forza, e tristezza e
caldo e indifferenza. E non conosce ancora parole e pensiero. Ma sente diverso.
E la pietra è fredda; e la statua
è grande; e il volto non ha espressione.
Accade.
E Lei riconosce l’aria (pesante) sulla pelle (mortale).
Di nuovo.
Le mani urlare e pianto e rumore
e imperfezione.
Rivede. E la bambina ha gli occhi chiusi.
Accede per gioco. In una notte qualsiasi.
E mani (scelte) diventeranno armi. E le armi (che sono le mani) faranno
male.
Perché la bambina non pianga.
Nota al titolo:
In greco antico, anassa era un epiteto formulare, probabilmente di origine
micenea. Riservato all’ambito unicamente sacrale e religioso, si può tradurre
con il termine regina ed è inteso a
rendere omaggio ad una divinità prettamente femminile.
Un po’ il corrispettivo del minoico potnia, insomma.
De verbis
Ab ovo.
Il primo personaggio non rientra realmente nella raccolta. E’ piuttosto la cornice. Il motore da cui
scaturisce il tutto. Ma le mani (e le armi) quelle no, non potevo
proprio tacerle.
Inizialmente, la drabble non
avrebbe dovuto avere una collocazione spaziale
precisa, ma complice questa immagine ho ceduto.
Trattare di Atena in cento parole (di lei e della sua
reincarnazione) è stato strano.
Perché mi sembrava di vedere una scena infinita. Nemmeno il Gran sacerdote
cambiava.
Mi sono divertita, questo è certo.
Spero solo che questo primo frustulum sia accettabile (non dico apprezzabile
perché io per prima non ne sono pienamente soddisfatta. È probabile che lo
riprenda in mano prima della fine della raccolta).
Ho cercato di rendere, assieme, lo smarrimento inconscio di
una bambina appena nata che avverte il cosmo entrare in lei e le sensazioni di
Atena nel recuperare una natura terrena. Su tutto, naturalmente, veglia il
volto inespressivo del Gran
Sacerdote.
[Remerciements per #Corniola in Ghirlanda]
Sabaku no Yugy: non è la continuazione
di Ghirlanda (che è una raccolta un
po’ irregolare, se vogliamo
essere precisi^^), ma spero comunque che questo esperimento [tradizionale]
risulti comunque di tuo gradimento. Ti ringrazio infinitamente per i
complimenti che mi hai fatto ^////////^. Spero solo di non deluderti.
Miriel67: Poetessa?! Oddio! Tu mi sopravvaluti. Decisamente!
Però, carissima, mi fa sempre un immenso piacere
vedere il tuo nome. (e non è vero che sei svampita!
Gli elfi non sono svampiti! Solo dilatati
nel tempo). Ti abbraccio forte
Blackvirgo: la dedica era dovuta. Punto e basta! E sai
benissimo il perché! Quanto a Shaka…Hai perfettamente
ragione: volevo che facesse male. Che
fosse umano e si vedesse (adesso sto
esagerando: intuisse) quello che non
lasciava trapelare. E grazie infinite anche per il secondo commento (ma guarda
che deliri come questi sono davvero piacevoli XD).
Anticipazione:
Per chi fosse
interessato, avverto che il prossimo capitolo di Ghirlanda, in uscita a tempomindeterminato,
sarà dedicato a KuranKaname
nel fandomVampire
knight.
Da
piccolo: abbraccia tutto il mondo. L’acqua bianca; la neve azzurra; il caldo giallo. E un
fratellino che gattona. Gli piace stringere
(tutto) con le mani. E il fratellino (che gattona) ha una mano piccola. E lui
la culla.
Vuole
stringere il vento, nelle mani. Vuole il mare. E il caldo, e
la neve e il sudore. E vicino un fratellino (che non gattona più).
Adesso stringe
la luce (sottile) di un tendine.
Stringe
una mano piccola – non è più il
fratellino.
E ha
imparato: a lasciare.
La luce
sottile; la mano (piccola) della
bambina.
Nota al titolo:
In greco antico, schèthonè il
participio nominativo maschile singolare del verbo schetho [schezho] e significa colui che trattiene. Viene impiegato per indicare sia l’azione di saper
trattenere un’arma in combattimento, sia di saperla respingere sia il saper
frenare sé stessi e la propria emotività.
De verbis
Non potevo iniziare se non da lui: Aiolos.
Il primo. Per molti aspetti, il
motore della storia come Atena è il motore della vicenda in sé.
Avevo chiara nella mente l’idea di dare di Aiolos non l’immagine stereotipata di chi da sempre è
pronto al sacrificio. Al contrario, io sono convinta che Aiolos
non sia una vittima; almeno non nel
senso comune del termine. E per questo mi rifiuto (categoricamente – quasi - ) di disegnarlo come arrendevole al suo destino.
Mi sono imbattuta in una frase di MidrashRabba e l’ho fusa con quest’immagine (ebbene sì:
molti di questi frammenti hanno un corrispettivo iconografico). Il risultato, è stato questoAiolos.
Un cavaliere che forse è più simile a un bambino che sogna.
Ho immaginato Aiolos immerso nel
suo mondo infantile, e con quei piccoli strani sogni propri di un bambino.
Voleva fare il marinaio, il mio Aiolos. E stringere
cielo, mare e vento. E avere il suo fratellino accanto.
Il vento ha imparato a stringerlo.
Così ho deciso di rappresentare il suo arco (il tendine è quello
di bue che anticamente si usava come filamento dell’arma). E la mano di Aiolia trapassa in quella di Atena infante.
Il titolo?
Deriva dalla frase cui facevo riferimento:
Quando l’uomo viene al
mondo, le sue mani sono chiuse, come per dire: il mondo intero è mio, voglio
tenerlo per me. Quando lascia il mondo, le sue mani sono aperte, come per dire:
non ho conservato niente di ciò che esiste in questo mondo.
QuestoAiolos
potrebbe trattenere quello che
desidera. Da bambino, stringe tanti sogni. Da ragazzo, stringe una declinazione
del suo sogno (l’arco e la freccia).
E in morte stringe la cosa più profonda: se stesso. E stringendo, lascia andare. E qui si ritorna al
titolo e alla frase: la mano chiusa che stringe per abbandonare.
Temo sia un po’ macchinosa, ma l’idea che volevo trasmettere
era quella di un Aiolos che alla vita è legato, e
lasciarla andare, accettare di trattenersi
dal vivere, gli costa sacrificio. Questo
credo sia il vero sacrificio di Aiolos: trattenere se
stesso.
[Remerciements]
NinfaDellaTerra: Ti ringrazio infinitamente per i complimenti che mi rivolgi. In
effetti, le drabble, ma soprattutto i cavalieri, sono
terreno fertile. E scavare dentro di
loro, analizzarli, quasi vivisezionarli, è sempre difficile (maledettamente difficile) e strano.
Sono felice che il “piano del lavoro” ti sembri sensato. Ci vorrebbe essere un
filo logico globale, ma adesso come adesso a volte sfugge anche a me XD. Scherzi a parte, un’articolazione interna è
effettivamente presente, e per questo certi frammenti, oltre a rispecchiare mie
letture dei personaggi (discutibili, per carità. Assolutamente discutibili),
vanno letti proprio nell’architettura generale (soprattutto per i titoli).
Per il frammento di
Atena, sono contenta che la descrizione sia stata soddisfacente. Rendere la
natura duplice è stata una piccola sfida; e se il risultato è piacevole ne sono davvero contenta. Spero che questa seconda
non ti deluda, invece.
Kagura92: Lusingata. Davvero. Soprattutto di esser riuscita a farti piacere Saori.
Per me, è un personaggio che, purtroppo, il manga e l’anime
hanno un po’ appiattito per (diciamo così) esigenze narrative, ma che ha un
potenziale psicologico immenso. Merci merci.
Miriel67: Speriamo davvero,
carissima, che queste drabble possano risultare piacevoli. Intanto: questa è la prima volta che mi
arrendo e adotto un titolo inglese.
Di solito, rifuggo questa lingua; nulla contro la
lingua in sé e per sé. Tutto contro il dilagare di un inglese maccheronico e rimpiazza-italiano. Ma qui. Qui ci
voleva, ecco. Per una volta sì, ci voleva. Significati in divenire? Kami! Kamikami! Mi fai
preoccupare! Spero di riuscire a non “scivolare” in modo deludente. Merci, macherì. Un abbraccio.
Blackvirgo: Ma io adoro i deliri, carissima. Soprattutto i
tuoi. Come vedi: persevero. Parentesi e corsivi; non così abbondanti come in Ghirlanda né come in Suite ducorailblue, ma rimangono.
Qui si gioca sulle allusioni (speriamo
sensate). La speranza è che la mia
testa non si produca in elaborazioni fin troppo “irrazionali”.
E sono d’accordo: il
nostro amato italiano ha una potenzialità espressiva immensa; purtroppo,
talvolta, la parola scritta ne è minata, perché, naturalmente, perde le
inflessioni, le sfumature della voce.
Oddio! Scrivere quadri è degli ellenisti.
Diciamo che io scarabocchio con il carboncino qualche cosina-ina.
Se non ne risulta un insieme di rigacce…Grazie
per le belle parole. Di cuore.
Dialogando
Con un giorno
(poco più) di anticipo, ecco quindi la seconda drabble. La cadenza, al momento, resta
regolare sulla settimana circa. Ho anticipato per sicurezza: non volevo esser
costretta a mancare già al secondo
appuntamento.
Ho già detto quanto relativo alla drabble in nota, e quelle
due parti ormai sono persuasa che resteranno
fisse. Forse alla fine riassumerò tutto in un’unica nota conclusiva riassuntivo-illustrativa (come se ci fosse qualcosa da
illustrare), ma per il momento ho deciso: restano.
Invece (e qui chiedo la vostra
opinione), di seguito inserisco il nome del personaggio della drabbledella prossima settimana. È
sotto spoiler, così che volesse la sorpresa non
resterebbe deluso. Ma vi chiedo di avvertirmi se
comunque desse fastidio e se sarebbe meglio tacere completamente.
Sulla
mano (piccola) legge: taglierà. E la
linea (che dovrebbe esser lunga) è a
metà. E la bruja
è seria, mentre guarda e nella mano
(con la linea spezzata) vede desperaciòn. Ma ci sono churros (dolci dolci), e i tori e chupinazo alti e
alla mano (che taglierà) non ci pensa. Non ci crede.
Perché la Spagnaèroja; e il
rosso è vida.
Ma il rojo è sulla mano
(che ha tagliato). E la linea (a metà) non si vede, ma brucia.
E capisce: la mano (una spada roja) sa uccidere.
Ma può sbagliare.
Nota al titolo:
In spagnolo, engañoè (dovrebbe
essere) il participio nominativo maschile singolare
del verbo engañar, e significa colui che si inganna.
De verbis
Seconda drabble, secondo personaggio. E dopo Aiolos,
la vittima, Shura:
il carnefice.
Anche se, in verità, penso che su Shura
pesi una malesi dizione ben più complessa e ossessiva
che su Aiolos.
Di nuovo, c’è un riferimento “iconografico”,
più precisamente questo. Partendo da qui, ho provato a creare l’antefatto (se
si può chiamare così)
Volevo rendere un’infanzia leggera, ma al tempo stesso minata da qualcosa di preannunciato e ignorato. Da qui l’idea
della bruja
(strega in spagnolo) e della chirologia, con la linea della vita spezzata.
Perché la vita di Shura è spezzata: dal tradimento di Aiolos prima,
con l’altalenante convinzione di essere nel giusto e l’impossibilità di vedere
l’esempio infangato; dalla verità che
gli crolla addosso con Shiryu e dalla morte poi.
Questa realtà di divisione che, ho immaginato, viene ritenuta uno scherzo da Shura
ancora bambino; un gioco durante una fiesta.
Tagli e lame da una parte, quindi; e
rosso (rojo)
dall’altra: il colore della Spagna, il colore della corrida e del sangue dei tori. Per Shura, ho immaginato
che il rosso fosse, nella sua infanzia, il simbolo della vita, della vitalità nella sua essenza più violenta
e pregna. E accanto c’è la nuova realtà: la mano sporca del sangue di Aiolos (e non è più vita)
e l’ultima consapevolezza, quando la spada
è ormai persa.
Il mio Shura è tagliato. Ma
non è questa, ritengo la sua essenza. Credo che piuttosto sia l’inganno, motivo per
cui ho scelto il titolo sopra specificato.
Fin da bambino, il mio Shurasi inganna. E
continua a vivere nell’inganno, anche se lo avverte; lo ignora semplicemente. E
ritengo che questo sia il suo dramma.
Infine: i churros sono dei tipici dolci spagnoli, prevalentemente
carnevaleschi, ma diffusi tutto l’anno; chupinazo invece è il nome di un particolare fuoco d’artificio
che viene fatto scoppiare a Pamplona in Luglio, il
primo giorno della festa dedicata a San Firmino.
Rileggendo, mi sono accorta di
aver abbondato un po’ con lo spagnolo. Ho comunque deciso di mantenere;
non tanto per realismo; piuttosto per ispirare l’aura ispanica.
[Remerciements]
NinfaDellaTerra: Grazie infinite! Sono davvero contenta che il mioAiolos sia stato di tuo gradimento
[era un esperimento, ma vedere che se
non riuscito è stato almeno apprezzato, mi lascia ben sperare]
Miriel67: I miei ragazza XD Grazie davvero ma cherì. La drabble forse, di suo, è una poesia: ermeneutica. Perché obbliga
ha raccogliere in cento parole l’essenza delle scene; e i fili logici sono
sottesi, quasi svolazzanti o affidati alla mente del lettore. Così, ognuno può costruire nel seminato.
Adesso Shura. Il tuo segno. Speriamo passabile.
Un abbraccio.
[Remarciements per Swansdraumar]
Ringraziamenti doverosi, perché era
un prodotto un po’ azzardato.
Amo Hyoga(ma in realtà li amo tutti, i miai
ragazzi. Ciascuno a modo suo; perché sono stupendi e dannati da analizzare), e riuscire a leggerlo
è molto difficile. Non che abbia la presunzione di riuscirci; mi piace
cimentarmi. E coinvolgere Frejia era un qualcosa di particolare.
Miriel67:Un Santa Lucia un po’ anormale
XD Come sai, adoro la mitologia, e riuscire a sottenderla nelle storie è un
piccolo gioco e un omaggio antropologico
al mio mondo di studi. E uno strizzare l’occhio a chi legge. In alcune storie
che ho letto, Frejia e Hyogavengono definiti uguali,
perché vivono in un mondo che è fatto di ghiaccio e neve. Di mio, invece, sono
convinta che la neve è l’unica cosa che li possa
legare, a livello geografico. Li vedo diversi,
ma non per questo non possono parlarsi e capirsi. Hyoga
è l’elemento di disturbo nell’universo
di Frejia; e Frejia è un
nuovo modo di vedere per Hyoga. Diverso da quello dell’infanzia;
più sereno rispetto a quello della giovinezza. E opposto, ma forte rispetto a Camus.
Grazie mille per le splendide
parole.
Blackvirgo: Prendo un
bel respiro. Kami! Non cadere nel mieloso, mi scrivi. Era davvero la mia paura.
Risultare troppo attaccata alla scena
romantica tipo. Davvero ne ero terrorizzata. Ma da
quello che mi scrivi, posso trarre un respiro. Le lacrime di Hyoga. Non le ho mai viste come un segno della sua
debolezza; mi sono trovata a chiedermi, di recente, cosa potessero
significare per lui. Tristezza e dolore, certo. Ma non
solo quello, credo. Sono una valvola di sfogo; ma lo ho
percepite soprattutto come un filtro.
Azzardato forse. Non so.
Grazie
infinite per lo splendido commento.
ArabianPhoenix: Felice che sia stata di tuo
gradimento. Come già accennato, Hyoga e Frejia per me sono
una coppia. Purtroppo non ne esistono molte fan fiction incentrate su di loro. Grazie
infinite!
Perché
la voce è pericolosa, fuori dal mantra. Mentre lo juzu si sgrana nella mano e la
voce (una litania) è potere.
Ma al potere (brutto) della voce non ci crede.
E il silenzio non gli piace.
Perché
è curioso e vuole parlare. Anche se
nella stupa
l’acarya
ripete silenzio. E allora impara: un’altra voce (per sapere). Le mani si muovono; e le parole (le
mani) raccontano.
L’acarya ripete: silenzio; ma le sue mani (silenziose) chiedono e danzano. E dicono ohm e
insegnano e pensano, le mani (pericolose)
che parlano.
E scoprono di saper dire anche: khan.
Nota al titolo:
In sanscrito, grahitṛè una
parola religiosa, derivata dalla cristallizzazione del participio e significa colui che comprende.
Il sanscrito è la più antica lingua dell’India; appartenente
al ceppo definito indo-europeo, e secondo vari filologi è la lingua da cui
deriverebbero i vari idiomi indiani moderni e le stesse lingue europee, fra cui
il greco e il nostro italiano.
De verbis
Terza drabble: l’equilibrio, se vogliamo. Anche se, in
origine, lo scopo della drabble era proprio di
rendere l’idea dello spezzato.
E in parte credo di esserci riuscita. Anche se, in verità,
penso che Shaka sia troppo sfaccettato per esser racchiuso in cento parole. Questo è davvero uno spaccato, concentrato su un particolare
ben preciso: la gestualità.
Di nuovo, c’è un riferimento “iconografico”, più
precisamente questo, cui va sommata una mia modesta riflessione sulle puntate
di Hadesrelative al
cavaliere. Mani. Mani, mani e mani riprese in varie pose e angolazioni.
Mani in continuo movimento. Shaka non parla; Shaka è gesto che si
esprime.
Sono i mundra, le posture che nella dottrina buddhista
corrispondono a un discorso intero. E mi sono chiesta: perché un asceta (se
vogliamo chiamarlo così) si concentra sul gesto?
Ecco: sono partita da qui.
Volevo dare un senso più specifico al ricorrere di Shaka alle mani. Certo, la sua fede;
certo, le armi. Ma anche il solo modo che ha di
parlare, di comunicare durante
l’infanzia trascorsa nel silenzio del tempio (il silenzio di Buddha).
Il mio Shaka è curioso. Principalmente perché è un
bambino; e come ogni bambino, davanti ad un divieto,
cerca la scappatoia.
E io gliel’ho data nelle mani, la
fuga. Adattandomi anche alla simbologia indiana che carica la voce di retaggi
magici e sottintende al gesto un potere mistico ed evocativo. La danza stessa
(e le mani di Shakadanzano) è formata di gesti che parlano.
Non testo; solo gesti. Altrimenti sarebbe come avere due canzoni in sincrono.
Mani, silenzi e parole da una parte;
e dall’altra la comprensione. Il mio Shakacomprende. Ma non intendo il sapere
che lo porta ad essere il cavaliere più vicino agli
dei, l’illuminato. Credo che piuttosto sia la
comprensione di non essere vincolati, di poter aggirare un ostacolo in
qualche modo. Ecco il motivo per cui ho scelto il titolo sopra specificato.
Fin da bambino, Shaka dimostra di comprendere che non c’è una sola faccia
del reale. Puoi vedere senza gli occhi; puoi parlare senza
usare la voce.
Ritengo proprio che una delle grandezze di questo
personaggio sia la profondità ingenua e disarmante che lo caratterizza. Quasi
un bambino troppo cresciuto, ma che resta un bambino. E si stupisce e spaventa
di saper raffigurare nelle mani l’inizio
della vita (ohm) e di poter dare realmente
la morte, con le mani (khan).
Infine: acarya è uno dei due maestri che seguono la crescita di un
novizio nel buddhismo, mentre il mantra
è una litania religiosa, recitata con lo juzu (termine giapponese per
indicare il rosario a 108 grani proprio del credo buddhista) nella stupa, il luogo
sacro dove si conservano le reliquie del Buddha. Per ultimi: ohm e khan, rispettivamente, inizio
e apertura o vuoto (riducendo
all’essenziale i due termini, che possono corrispondere in una certa
banalizzazione all’ alpha e
all’omega, alla vita e alla morte) sono due formule proprie del mantra. In esse
ho voluta rappresentare la capacità di Shaka di essere in sospeso fra i due mondi.
[Remerciements]
NinfaDellaTerra: lieta che il mio Shura sia stato di tuo gradimento. Concordo con te: Shura è un personaggio estremamente
complesso (non il solo, per fortuna. O sfortuna nera XD), e se ci si aggiunge
quel suo carattere schivo, ben in opposizione all’idea caliente
che si ha degli ispanici…Sì. Direi proprio che c’è abbastanza materiale per fare di Capricorn un
interessante soggetto da lettino di psicoterapia.
Adoro certi aspetti della
chiromanzia, e avendo deciso di avere le mani
come trait d’union
della raccolta, mi è parso che Shura e la cultura
spagnola fosse la più indicata ad un simile
riferimento.
Grazie infinite per i complimenti. Mi imbarazzano tanto^/////////////////////////^
(e non è falsa modestia!)
Miriel67: Merci, macherì! Sono contenta che
Shura sia stato di tuo gradimento. Se non si va d’accordo
fra affini (di segno). L’idea della linea della vita (ripensandoci) mi è venuta
un po’ da Saiyuki
(non il Reload), ma cambia di qua, metti un po’ di
Spagna di là…Alla fine quella piccola idea s’è dispersa, e non ho nemmeno messo
in nota il riferimento. Troppo diverso.
Kagura92: Grazie!
Sono davvero contenta che ti sia piaciuta. Anch’io è da poco che sto
rivalutando Shura (e non solo), ma temo che sia l’età
che avanza XD. Crescere con i cavalieri ha vantaggi e svantaggi, eh già! L’idea di inserire lo spagnolo è
stata un po’ un’incognita fino all’ultimo. In sostanza, tendo nelle drabble a far evocare
lo sfondo mediante le parole (esotiche, temo di dover dire); ma per Shura avevo paura di essermi lasciata prendere un po’
troppo la mano. Anche se, alla fine, mi sembrava di sentire una specie di musicalità. Non perché fosse bella la storia, ma perché le parole mi
mettevano davanti delle immagini: così.
Blackvirgo: Una corrida…Oddio! Sai che questo commento mi ha investita? Perché all’inizio
avevo l’intenzione di inserircelo, un riferimento diretto alla corrida, ma poi complice la facilità di scadere nel
retorico e la difficoltà di astrarre in allusione, avevo fatto cadere. E
adesso: tu dici che tutto è una corrida. E sì, mi piace. Mi piace molto!
E adesso…Un tuo vecchio amico XD
Speriamo! Dopo la tua drabble, ho un po’ (tanta) paura che questo Shakarisulti una macchietta (non
che mi aspetti di riuscire a renderlo bene, per carità. Ma
con la tua davanti agli occhi…)
Ti con zero: Merci! Mi onori molto con le tue
parole. Grazie davvero
Dialogando
Riprendo oggi, dopo la pausa
natalizia (forzata).
Con la drabble
promessa sul Cavaliere di Virgo. Una vera impresa, se mi è concesso. La parte più
difficile è stato raccogliere tutto il materiale
relativo alla simbologia della voce e della parola in India, e rispolverare la
mia grammatica sanscrita.
Alla fine, questo è il risultato.
Spero che sia accettabile.
Un’ultima piccola annotazione: so
bene che Khan indica anche una delle
maggiori tecniche difensive di Shaka di Virgo, ma qui intende la capacità del cavaliere di creare
il vuoto (nel movimento delle mani e
nella voce) e quindi di dare la morte con quelle stesse mani che chiedono e si interrogano sulla vita.
Mentre la neve si distende;
mentre il samovar borbotta. E la
stufa (oranžev’ij)
abbrustolisce il kalač. E c’è uchityep’nell’ izba. Con il kvas (dolce)
e quella parola strana: capirai.
Perché
la kosovorotka (di neve) non riscalda. Perché
le mani (blu) alla stufa (che borbotta) non gliele avvicina.
Uchityep’ ripete: capirai
Ma capirai non loconnaît. E le
mani (fredde) restano blu, nell’izba
(calda). E fanno male. Perché il ljod (blu) è cattivo
e le mani se le mangia.
E del bleu
(delle mani) ha paura. Perché significa: mort.
Ma capirà.
E le
mani (calde) diranno: vivi.
Nota al titolo:
In francese, brûlant è il participio presente del verbo brûler, e significacolui che brucia.
De verbis
Quarta drabble.
Complessa, ad esser
sincera. Perchè ci sono tanti elementi che
concorrono. Camus non appartiene a un solo mondo; e in più è magnetico. Proprio come il ghiaccio.
Di nuovo l’infanzia. La primissima infanzia, in specialmodo. E il gioco dei termini, francese e russo, che
si rincorrono.
Di nuovo, l’idea è nata da quest’immagine. Assieme ad una mia (opinabile) idea su Camus.
Il mio Camus è ribelle;
ma soprattutto è un bambino spaventato.
Da una lingua che non conosce e non capisce. Da un mondo che non ha mai
visto. E dalla morte. Soprattutto
dalla morte. Che sente (forte) nelle mani fredde e semiassiderate.
É un Camus ribelle,
il mio. Che di capire, in fondo, non
ne ha molta intenzione. E rimpiange la sua lingua madre, il suo mondo dove le mani non diventano mai così fredde. E il blu e il bianco non sono morte, ma cielo e mare e nebbie e
gabbiani. Forse l’impressione che posso dare è di non apprezzare molto il
personaggio: la freddezza che lo
caratterizza.
In realtà, è uno degli elementi che più mi attira. L’ho
detto: Camus, per me, è un magnete.
Non amo la freddezza in sè; ma
sono convinta che l’atteggiamento di Camus sia costruito. Non per tenere lontani gli altri (certo: il risultato è
quello), ma per avvicinarela Siberia, per cercare
(imparare) ad amare quella terra dove deve vivere. Perchè
il mio Camus ha bisogno di affetto e
di capire. In mdo disperato (quasi). E mi sono
divertita a immaginare come fosse prima, appena arrivato in Siberia. E il
risultato è questo bambino terrorizzato.
Non voglio sminuirlo. Al contrario. Credo fermamente che
Camus sia uno di quei personaggi la cui profondità sia immensa,
madifficile da cogliere. Perchè è facile bloccarsi al ghiaccio e vederlo freddo.
Io non credo che
Camus sia freddo; non nel senso di indifferente, almeno. In fondo, ritengo
che la chiave di lettura (della drabble, ma anche del
personaggio) sia nel ghiaccio
stesso.
Schermo, muro invalicabile, indica la lontananza da qualcosa e la perdita della – di una – vita (qui è la Francia e la vita di prima, dell’infanzia). Ma è anche immagine di rinascita,
di continuità, di volontà
di vivere. Solo che il ghiaccio cela, nasconde, gioca. E la forza che possiede emerge solo alla
fine, quando si scioglie, e consegna, in morte (e solo
in morte) i suoi segreti.
Le mani di Camus sono fredde (lo dice di riflesso la Taizen,
dove afferma che le armature dei ghiacci, con una temperatura inferiore alle
normali corazze, sono solitamente indossate da chi è temprato al gelo e ne ha
buona resistenza); nelle mani Camus concentra sovente il suo potere. E con le
mani uccide e insieme sa dare vita: il
sarcofago di ghiaccio non lo intendo come una tomba, ma come vita.
E mi piace pensare che le mani fredde di Camus, il suo ghiaccio, sia in realtà caldo. E che quando muore contro Hyoga non fa altro che insegnarli
che bisogna continuare, consegnandoli
la fertilità dei suoi segreti.
Camus, per me, brucia.
Per questo ho scelto il titolo sopra indicato. Camus arde: di paura all’inizio;
di freddezza (e no, non lo vedo come ossimoro); di orgoglio; di determinazione.
Di vita. Di voglia di vivere
appieno; nonostante il suo mondo freddo.
Perchèla
Siberia non è riuscita a togliergli tutto il caldo della
Francia.
Per questo l’altalena linguistica. Il russo all’inizio, dove
l’attenzione è concentrata sul maestro; il francese dopo, quando Camus si
presenta in scena direttamente. Perchè Camus è ancora
un bambino e la nuova lingua ancora non la conosce e i suoi ragionamenti e le
sue parole sono francesi.
Infine, con ordine. L’izba
è la tradizionale casa contadina russa, costruita in tronchi e con tetto (di
solito) di paglia, mentre il samovar
indica una particolare teiera usata per scaldare l’acqua, soprattutto per il
tè. Il kalač [калач]
è un tipo di pane russo bianco, fatto con farima di
frumento e a forma di maniglia; il kvas
[Квас] è una bevanda russa
fermentata a bassa gradazione alcolica, di origine vegetale, prodotta in casa.
La kosovorotka [косоворотка]
è la tipica casacca russa maschile a maniche lunga,
asimmetrica e abbottonata laterale, mentre uchityep’ [учитель] significa maestro, ljod[лёд]
ghiaccio e oranžev’ij [оранжевый] arancio (il
colore) in lingua russa.
In francese, invece, connaît è la terza persona
singolare del verbo connaître,
che significa conoscere; bluesignificablu e mort un
sostantivo, che significa morte.
[Remerciements]
NinfaDellaTerra: lieta di sapere che il piccolo Shaka
ha riscosso la tua approvazione. Vedremo adesso con Camus (un
parto! Un vero parto!). Mi sono divertita molto nel disegnare questo piccolo furbetto (e
dirlo di lui è, a volte, incredibile).
E sì. Lo vedo proprio bene, quel sorrisino discreto: di chi la saluuunga e della vita a già
capito tanto (forse troppo). Felice anche che il sanscrito sia stato
apprezzato. Per me è abituale, ormai (Oddio! Non che
lo mangi anche a colazione, ma ritorna. Ritorna [molto] spesso). Grazie infinite!
Ti con zero: ma io adoro chi è orientalista (condizione
non necessaria, ma se c’è, ben venga!). E hai ragione: imprigionare Shaka in cento misere paroline è quasi un attentato alla
sua essenza. Ma sono contenta che
comunque questo accenno fuggevole alla filosofia del silenzio e il gioco delle
mani sia stato di tuo gradimento. Grazie infinite per i complimenti [*imbarazzo-imbarazzo-imbarazzo*]!
Mentre
nel terreiros (profumato) l’atabaque tossisce; mentre foglie (brilhantes) tremano fremono sotto le gonne. Perché Orixá
viene e il profumo (terreiros)
sorride. E c’è una vela nel tempio; e
mão de santo dice: cavalo.
E ai santi (verdadeiros) ci crede la mão de santo;
e ripete: escolhido.
Ma Shango fa medo e nella mano (grande e scura) la
conchiglia (branca) trema. Perché una divinidade dice: lutarás.
Ma la mano (una concha) tirita e a combattere não, non ci
vuole pensare. Perché oxé è solo un desenho e nella mano (che trema) non c’è; ancora.
Mas terá.
Si ringrazia Isabel di
Thule per l’aiuto e le correzioni al portoghese.
Nota al titolo:
In portoghese, acolhedor
è il participio presente del verbo acolher, e significacolui che accoglie.
De verbis
Quinta drabble.
A più di dieci mesi di distanza; ha dovuto maturare molto, questa drabble. Perché
ha continuato a ronzarmi in testa, ma non riuscivo ad afferrare la conclusione
– soprattutto la conclusione. E il
tema, ormai consolidato, è l’infanzia. Un’età non precisa, fra i quattro e i
cinque anni. Prima dell’addestramento vero e proprio, quindi. Un rituale; una
religione propria del Brasile. La sua
anima; quasi.
E Aldebaran è un bambino cui è letto il destino. E come tutti i bambini percepisce e trema. Ho immaginato che la mano di Aldebaran (grande)
sia come una conchiglia: pronta ad
accogliere.
Non credo che l’indole di Aldebaran sia combattiva; non nel
senso di chi ricerca lo scontro. Ritengo piuttosto che questo personaggio,
purtroppo spesso sacrificato, sia magnifico nel suo umile desiderio di seguire
giustizia.
Lo sfondo, come ho accennato, è il candomblè, una religione afrobrasiliano praticata soprattutto in
Brasile. Ho immaginato in modo forte, per la prima volta, una predestinazione. Aldebaran è predestinato a diventare un cavaliere (santo), ma da bambino, mentre
stringe quella conchiglia e sente la
forza di un dio eleggerlo e sceglierlo, ha
paura. Mi sono sempre chiesa come i cavalieri possano aver reagito, da
bambini, al pensiero di un avvenire prefissato. E mi sono detta: un bambino non capisce. Aldebaran non capisce. E può solo tremare e aspettare. Perché è il toro, e il toro è terra: pronto ad accogliere, a pazientare e ad aspettare. Finchè
quello che racchiude dentro di sé non germoglierà.
Aldebaran, per me, è come la terra: resistente, forte, eterna, incrollabile; ma al tempo stesso
rassicurante e pronta a racchiudere, a sedimentare e correggere. Quindi: ha paura, non capisce e la mano trema mentre
guarda il suo destino; ma non rifiuta. Il no (não) c’è,
doveva esserci. Ma non è una chiusura;
è piuttosto la reazione logica e necessaria. Aldebaran accoglie, anche se non capisce. Ma è convinto (e la conchiglia la
tiene) che capirà.
Mi piace pensare che la mano di Aldebaran sia
proprio come una conchiglia: accogliente.
Pronta a sorreggere, a raccogliere, a stringere, ad accettare.
La difficoltà maggiore, ad esser sinceri, è
stata la lingua. Il portoghese parlato in Europa e quello parlato in Brasile
differiscono fra loro, oltre per la grande varietà di dialetti presenti in
Brasile, anche per il vocabolario, la pronuncia e la sintassi, soprattutto a
livello parlato, mentre nello scritto le differenze diminuiscono. La divisione
dei dialetti brasiliani non è molto chiara, e inoltre, per l’universo dei
cavalieri, non c’è una precisa indicazione di origine di Aldebaran. Di
conseguenza, ho preferito impiegare un linguaggio neutro, più scolastico. La storia ne risente a livello di realismo, se vogliamo, ma non sono
riuscita a ovviare diversamente.
Infine, con ordine: concha
significa conchiglia ed è il
principale strumento di divinazione usato nel jogo de Buzios: in numero variabile da dodici a ventuno. La
consultazione avviene davanti ad un bicchiere d’acqua e ad una candela (vela), con il primo che rappresenta la
forza vitale e la seconda che favorisce la concentrazione. Il terreirios invece è il nome dato al
santuario del candomblè. Durante le cerimonie, il pavimento è cosparso di
foglie lucide (brilhantes) e viene
suonato l’atabaque,
un particolare tamburo rituale. Gli Orixá,
invece, è il nome collettivo con cui vengono designate le divinità o
semidivinità del culto, spesso messi in relazione con i santi cristiani e per
questo chiamati anche, appunto, santi.
La mão de santo è il
nome con cui viene designata la sacerdotessa dei riti, mentre cavalo
significa cavallo e indica lo stato di possessione dell’adepto da parte di un
Orixá. Verdadeiros significa reali,
ovvero con corpo reale, mentre escolhido vuol dire scelto. Medo
significa paura e branca bianca. Shango è una delle
innumerevoli divinità (divinidade) ed è il protettore del fuoco e del
tuono, oltre che della giustizia. È spesso raffigurato con in mano un’ascia
bipenne, che prende il nome di oxé. L’ho scelta fra tante, oltre per il
fatto che la sua maschera raffigura una testa d’ariete (e il riferimento è al
legame che intercorre fra Aldebaran e Mur), perché nel mito greco uno dei tori
per eccellenza è il Minutauro, sovente raffigurato con un’ascia in mano, che
era anche l’emblema della famiglia reale di Cnosso. Luteràs e trita
sono due verbi e significano rispettivamente combatterai e trema,
mentre desenho è la raffigurazione, il disegno. Infine mas
terá significa ma sarà.
[Remerciements]
Ninfadellaterra: ti ringrazio infinitamente per le tue parole. Personalmente, adoro
Camus e adoro la fragilità che non vuole assolutamente mostrare. Come il
ghiaccio. Sembra dura e compatto, ma se lo lasci al sole si scioglie. Non
intendo dire che Camus sia congelato
nei sentimenti; al contrario. Per me, semplicemente, ha interiorizzato troppo
la paura, è come se un tremito lo percorresse di continuo. E se tremi non ti
arrischi. E adesso, finalmente, posto Aldebaran. Spero di non deluderti^^
Blackvirgo:
io non ho mai parole per dirti grazie.
E questo grazie – lo sai – è una
briciola di quello che vorrei riuscire a esprimerti. All’inizio Arms non doveva riguardare i cavalieri
bambini, ma più passa il tempo, più le scenette che mi si affacciano alla mente
riguardano bambini. Forse perché è dei bambini creare correlazioni e attribuire
valori inaspettati alle cose. Come le mani di Camus che vogliono dire morte. Grazie ancora, carissima.
LaBelleDame:
sono davvero lusingata per il magnifico e critico
commento che mi hai lasciato. E dire grazie
mi sembra davvero riduttivo. Hai fatto una vera e propria analisi, e migliore
di qualsiasi parola che io stessa avrei potuto usare. Hai capito; hai sentito. Quello che speravo di riuscire a trasmettere; quello che lasciavo
all’intuizione. Mi hai aiutata tantissimo; per vedere risvolti che avevo
scritto come impressione e non
afferravo appieno nella loro economia. Grazie infinite.
E da picciriddu le
mani avevi imparato a usarle: per menare e per arrubari a focaccia. O il tabacco da rollare. Avevi imparato ad armare un cane,
colle mani; e anche a farli fuori, i cani. Di quelli a due zampe.
C’erano
cose che potevi fare solo con le tue, di mani. E altre, che avresti imparare: a
romperle e a baciarle, le mani. E c’avevi fattu ‘u caddu a quella vita.
Ma tenevi
una capa dura: per questo Saro
ti ha pigliato.
Chè tu volevi pigliarilucelu cu li mani.
Un grazie di cuore a Italo per l'aiuto con la lingua e per il proverbio, fonte di ispirazione.
Nota al
titolo:
In dialetto catanese, arricugghiutu è il participio
passato del verbo arriccogniri
che significa sia raccogliere sia morire.
De verbis
Sesta drabble.
Sono passati quasi dieci anni, dall’ultima
volta che ho aggiornato questa raccolta. E sono passati molto veloci. Confesso
che è strano tornare a scrivere qualcosa che si era lasciato in sospeso a così
tanto tempo di distanza.
Sono cambiata io; è cambiato il mio stile. Il
modo che ho di scrivere e il modo che ho di voler scrivere. Forse più diretto;
forse più smaliziato.
Quello che non è cambiato, per me, è la
voglia che ho di creare gli ambienti. Di creare quel substrato culturale in cui
si muovono i personaggi. Arms
l’avevo dovuto lasciare anche per questo. Perché non riuscivo a trovare nulla
che si adattasse alla nostra italianità. Alla nostra tradizione sicula.
Poi. L’ho detto: sono cresciuta io. E forse. Forse
sono cresciute anche le mie idee. E quindi. Ecco. Ecco che è nata questa sesta drabble. Dopo una gestazione di anni. Meglio tardi che mai.
Death Maskè un personaggio complesso,
un personaggio che non si riesce a capire se sia buono o cattivo. Un personaggio
che forse è solo la faccia più squallida che la guerra si porta dietro: quella
del soldato senza illusioni, ma che fa comunque il suo dovere. Quella del
soldato che raccoglie ciò che semina: la morte. E lo fa senza raccontarsi
ideali e belle parole. Lo fa sputandoti in faccia quello che è semplicemente la
realtà.
Per questo ho scelto di dargli un backgroud di
violenza. La violenza di Brancaccio,
che è uno dei quartieri tristemente famosi di Palermo per le lotte interne mafiose
e di territorio. Siamo negli anni Settanta (sì: niente tablet,
smarphon e simili. I miei cavalieri si muovono nell’universo
cronologico che appartiene loro): l’Italia vive il terrorismo bianco e rosso e
gli anni di piombo. Non era Woodstock e nemmeno la libertà del Sessantotto, la
Palermo di piombo. Era una città violenta, dove Cosa Nostra aveva ripreso ad
avere potere. E il potere voleva dire controllo e lotta per restare a galla.
Angelo, al secolo il nome
del mio Death Mask, si muove nei rioni di questa
guerra. Si muove come un picciriddu, un
ragazzino, che vuole solo sopravvivere. Si muove rubando e sgraffignando (arrubari) quello che può e gli serve.
L’ho ricostruito sulla scia dei ragazzi di
vita di Pasolini: quei ragazzi dai sorrisi caldi, mediterranei, quasi
sfrontati, affamati di vita. Quei ragazzi che erano quattro ossa e un po’ di
pelle e tanta disperata energia.
Ecco come vorrei che fosse il mio Angelo: un
ragazzino che combatte a fare l’adulto, con le sue sigarette fumate a nove anni
e una pistola in mano. E la disillusione che, per sopravvivere, nella vita devi
uccidere (sì: il mio Angelo aveva già ucciso, prima del Santuario. Ragazzini
come lui. Ma in quell’epoca e in certi contesti o ammazzi o sei ammazzato. È l’unica
legge).
Ed era l’unica vita che poteva, che immaginava
che avrebbe fatto. Fin quando è arrivato Saro. Un metro e sessanta di nervo
e pelle bruciata dal sole, con una barba ispida di cinque giorni e una braccio
in meno.
Saro è l’uomo che cresce
Death Mask. È l’uomo che se lo trascina da Palermo a
Catania e gli insegna cosa significhi davvero usarle, le mani. Che lo trasforma
senza togliergli l’anima cresciuta in fondo ai qanat
e nelle occhiatacce di paese. Saro è l’uomo che si
accorge che Angelo vuole e può prendere
il cielo con le mani, può fare quel qualcosa di impossibile che altrimenti
sarebbe solo talento sprecato.
E perdonate: non ho resistito nel citare il baciamo le mani di padriniana
memoria.