Arms. Di battaglie e di memorie

di avalon9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Anassa ***
Capitolo 3: *** 1. Schèthon ***
Capitolo 4: *** 2. Engaño ***
Capitolo 5: *** 3. Grahitṛ ***
Capitolo 6: *** 4. Brûlant ***
Capitolo 7: *** 5. Acolhedor ***
Capitolo 8: *** 6. Arricugghiutu ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


ArmS

ArmS

 

Di battaglie e di memorie

 

 

 

 

 

I loro pugni fendono l'aria e i loro calci spaccano la terra;

ma i loro corpi sono quelli di normali esseri umani.

 

 

 

 

 

Da questa frase.

Ho deciso di partire da questa frase e dal duplice valore che in inglese ha la parola arms: braccia e armi.

Perché è uno dei fulcri di Saint Seiya. Mani che sono fatte per combattere; armi che sono carne che si spezza, di rompe, di rovina. Mani (userò spesso il termine mano, invece di braccio) che avrebbero potuto fare molto, e invece imparano una sola cosa.

Una raccolta di drabble, rigorosamente di cento parole l’una. Cento parole per ogni cavaliere d’oro; per raccontare il ricordo delle mani e l’uso inaspettato che ne hanno fatto. Si spazierà nel tempo. Fra serie classica, Episode G, Lost Canvas e un’infanzia che è inventata (me ne scuso con i puristi).

Dodici drabble sui cavalieri d’oro; più una di apertura e di chiusura dedicate ad Atena. Perché da lei tutto parte. E un piccolo interludio al mezzo.

Questo il progetto. Con un aggiornamento abbastanza regolare di una drabble a settimana, secondo le mie speranze.

Perdonate in caso di mancata puntualità.

 

Alla vostra gentilezza.

 

 

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Capitolo 2
*** Anassa ***


Anassa

Anassa

[Atena]

 

 

 

Non c’è un giorno stabilito.

Una notte accade. Una bambina piange; perché sente forza, e tristezza e caldo e indifferenza. E non conosce ancora parole e pensiero. Ma sente diverso.

E la pietra è fredda; e la statua è grande; e il volto non ha espressione.

Accade.

E Lei riconosce l’aria (pesante) sulla pelle (mortale).

Di nuovo.

Le mani urlare e pianto e rumore e imperfezione.

Rivede. E la bambina ha gli occhi chiusi.

Accede per gioco. In una notte qualsiasi.

E mani (scelte) diventeranno armi. E le armi (che sono le mani) faranno male.

Perché la bambina non pianga.

 

 

 

 

 

Nota al titolo:


In greco antico, anassa era un epiteto formulare, probabilmente di origine micenea. Riservato all’ambito unicamente sacrale e religioso, si può tradurre con il termine regina ed è inteso a rendere omaggio ad una divinità prettamente femminile. Un po’ il corrispettivo del minoico potnia, insomma.

 

De verbis

Ab ovo.

Il primo personaggio non rientra realmente nella raccolta. E’ piuttosto la cornice. Il motore da cui scaturisce il tutto. Ma le mani (e le armi) quelle no, non potevo proprio tacerle.

Inizialmente, la drabble non avrebbe dovuto avere una collocazione spaziale precisa, ma complice questa immagine ho ceduto.

Trattare di Atena in cento parole (di lei e della sua reincarnazione) è stato strano. Perché mi sembrava di vedere una scena infinita. Nemmeno il Gran sacerdote cambiava.

Mi sono divertita, questo è certo.

Spero solo che questo primo frustulum sia accettabile (non dico apprezzabile perché io per prima non ne sono pienamente soddisfatta. È probabile che lo riprenda in mano prima della fine della raccolta).

Ho cercato di rendere, assieme, lo smarrimento inconscio di una bambina appena nata che avverte il cosmo entrare in lei e le sensazioni di Atena nel recuperare una natura terrena. Su tutto, naturalmente, veglia il volto inespressivo del Gran Sacerdote.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Remerciements per #Corniola in Ghirlanda]

 

 

Sabaku no Yugy: non è la continuazione di Ghirlanda (che è una raccolta un po’ irregolare, se vogliamo essere precisi^^), ma spero comunque che questo esperimento [tradizionale] risulti comunque di tuo gradimento. Ti ringrazio infinitamente per i complimenti che mi hai fatto ^////////^. Spero solo di non deluderti.

 

Miriel67: Poetessa?! Oddio! Tu mi sopravvaluti. Decisamente! Però, carissima, mi fa sempre un immenso piacere vedere il tuo nome. (e non è vero che sei svampita! Gli elfi non sono svampiti! Solo dilatati nel tempo). Ti abbraccio forte

 

Blackvirgo: la dedica era dovuta. Punto e basta! E sai benissimo il perché! Quanto a Shaka…Hai perfettamente ragione: volevo che facesse male. Che fosse umano e si vedesse (adesso sto esagerando: intuisse) quello che non lasciava trapelare. E grazie infinite anche per il secondo commento (ma guarda che deliri come questi sono davvero piacevoli XD).

 

 

 

Anticipazione:

Per chi fosse interessato, avverto che il prossimo capitolo di Ghirlanda, in uscita a tempomindeterminato, sarà dedicato a Kuran Kaname nel fandom Vampire knight.

 

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Capitolo 3
*** 1. Schèthon ***


1

1. Schèthon

[Sagitter no Aiolos]

 

 

 

Stringe il cielo nelle mani.

Da piccolo: abbraccia tutto il mondo. L’acqua bianca; la neve azzurra; il caldo giallo. E un fratellino che gattona. Gli piace stringere (tutto) con le mani. E il fratellino (che gattona) ha una mano piccola. E lui la culla.

Vuole stringere il vento, nelle mani. Vuole il mare. E il caldo, e la neve e il sudore. E vicino un fratellino (che non gattona più).

Adesso stringe la luce (sottile) di un tendine.

Stringe una mano piccola – non è più il fratellino.

E ha imparato: a lasciare.

La luce sottile; la mano (piccola) della bambina.

 

 

 

 

 

Nota al titolo:


In greco antico, schèthon è il participio nominativo maschile singolare del verbo schetho [schezho] e significa colui che trattiene. Viene impiegato per indicare sia l’azione di saper trattenere un’arma in combattimento, sia di saperla respingere sia il saper frenare sé stessi e la propria emotività.

 

De verbis

Non potevo iniziare se non da lui: Aiolos. Il primo. Per molti aspetti, il motore della storia come Atena è il motore della vicenda in sé.

Avevo chiara nella mente l’idea di dare di Aiolos non l’immagine stereotipata di chi da sempre è pronto al sacrificio. Al contrario, io sono convinta che Aiolos non sia una vittima; almeno non nel senso comune del termine. E per questo mi rifiuto (categoricamente – quasi - ) di disegnarlo come arrendevole al suo destino.

Mi sono imbattuta in una frase di Midrash Rabba e l’ho fusa con quest’immagine (ebbene sì: molti di questi frammenti hanno un corrispettivo iconografico). Il risultato, è stato questo Aiolos.

Un cavaliere che forse è più simile a un bambino che sogna.

Ho immaginato Aiolos immerso nel suo mondo infantile, e con quei piccoli strani sogni propri di un bambino. Voleva fare il marinaio, il mio Aiolos. E stringere cielo, mare e vento. E avere il suo fratellino accanto.

Il vento ha imparato a stringerlo. Così ho deciso di rappresentare il suo arco (il tendine è quello di bue che anticamente si usava come filamento dell’arma). E la mano di Aiolia trapassa in quella di Atena infante.

Il titolo?

Deriva dalla frase cui facevo riferimento:

 

Quando l’uomo viene al mondo, le sue mani sono chiuse, come per dire: il mondo intero è mio, voglio tenerlo per me. Quando lascia il mondo, le sue mani sono aperte, come per dire: non ho conservato niente di ciò che esiste in questo mondo.

 

Questo Aiolos potrebbe trattenere quello che desidera. Da bambino, stringe tanti sogni. Da ragazzo, stringe una declinazione del suo sogno (l’arco e la freccia). E in morte stringe la cosa più profonda: se stesso. E stringendo, lascia andare. E qui si ritorna al titolo e alla frase: la mano chiusa che stringe per abbandonare.

Temo sia un po’ macchinosa, ma l’idea che volevo trasmettere era quella di un Aiolos che alla vita è legato, e lasciarla andare, accettare di trattenersi dal vivere, gli costa sacrificio. Questo credo sia il vero sacrificio di Aiolos: trattenere se stesso.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Remerciements]

 

 

NinfaDellaTerra: Ti ringrazio infinitamente per i complimenti che mi rivolgi. In effetti, le drabble, ma soprattutto i cavalieri, sono terreno fertile. E scavare dentro di loro, analizzarli, quasi vivisezionarli, è sempre difficile (maledettamente difficile) e strano. Sono felice che il “piano del lavoro” ti sembri sensato. Ci vorrebbe essere un filo logico globale, ma adesso come adesso a volte sfugge anche a me XD. Scherzi a parte, un’articolazione interna è effettivamente presente, e per questo certi frammenti, oltre a rispecchiare mie letture dei personaggi (discutibili, per carità. Assolutamente discutibili), vanno letti proprio nell’architettura generale (soprattutto per i titoli).

Per il frammento di Atena, sono contenta che la descrizione sia stata soddisfacente. Rendere la natura duplice è stata una piccola sfida; e se il risultato è piacevole ne sono davvero contenta. Spero che questa seconda non ti deluda, invece.

 

Kagura92: Lusingata. Davvero. Soprattutto di esser riuscita a farti piacere Saori. Per me, è un personaggio che, purtroppo, il manga e l’anime hanno un po’ appiattito per (diciamo così) esigenze narrative, ma che ha un potenziale psicologico immenso. Merci merci.

 

Miriel67: Speriamo davvero, carissima, che queste drabble possano risultare piacevoli. Intanto: questa è la prima volta che mi arrendo e adotto un titolo inglese. Di solito, rifuggo questa lingua; nulla contro la lingua in sé e per sé. Tutto contro il dilagare di un inglese maccheronico e rimpiazza-italiano. Ma qui. Qui ci voleva, ecco. Per una volta sì, ci voleva. Significati in divenire? Kami! Kamikami! Mi fai preoccupare! Spero di riuscire a non “scivolare” in modo deludente. Merci, ma cherì. Un abbraccio.

 

Blackvirgo: Ma io adoro i deliri, carissima. Soprattutto i tuoi. Come vedi: persevero. Parentesi e corsivi; non così abbondanti come in Ghirlanda né come in Suite du corail blue, ma rimangono. Qui si gioca sulle allusioni (speriamo sensate). La speranza è che la mia testa non si produca in elaborazioni fin troppo “irrazionali”.

E sono d’accordo: il nostro amato italiano ha una potenzialità espressiva immensa; purtroppo, talvolta, la parola scritta ne è minata, perché, naturalmente, perde le inflessioni, le sfumature della voce.

Oddio! Scrivere quadri è degli ellenisti. Diciamo che io scarabocchio con il carboncino qualche cosina-ina. Se non ne risulta un insieme di rigacce…Grazie per le belle parole. Di cuore.

 

 

 

Dialogando

 

Con un giorno (poco più) di anticipo, ecco quindi la seconda drabble. La cadenza, al momento, resta regolare sulla settimana circa. Ho anticipato per sicurezza: non volevo esser costretta a mancare già al secondo appuntamento.

Ho già detto quanto relativo alla drabble in nota, e quelle due parti ormai sono persuasa che resteranno fisse. Forse alla fine riassumerò tutto in un’unica nota conclusiva riassuntivo-illustrativa (come se ci fosse qualcosa da illustrare), ma per il momento ho deciso: restano.

Invece (e qui chiedo la vostra opinione), di seguito inserisco il nome del personaggio della drabble della prossima settimana. È sotto spoiler, così che volesse la sorpresa non resterebbe deluso. Ma vi chiedo di avvertirmi se comunque desse fastidio e se sarebbe meglio tacere completamente.

 

Prossimo personaggio: Shura di Capricorn

 

 

Alla vostra gentilezza

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** 2. Engaño ***


2

2. Engaño

[Capricorn no Shura]

 

 

 

La bruja non sa scherzare.

Sulla mano (piccola) legge: taglierà. E la linea (che dovrebbe esser lunga) è a metà. E la bruja è seria, mentre guarda e nella mano (con la linea spezzata) vede desperaciòn. Ma ci sono churros (dolci dolci), e i tori e chupinazo alti e alla mano (che taglierà) non ci pensa. Non ci crede.

Perché la Spagna è roja; e il rosso è vida.

Ma il rojo è sulla mano (che ha tagliato). E la linea (a metà) non si vede, ma brucia.

E capisce: la mano (una spada roja) sa uccidere.

Ma può sbagliare.

 

 

 

 

 

Nota al titolo:


In spagnolo, engaño è (dovrebbe essere) il participio nominativo maschile singolare del verbo engañar, e significa colui che si inganna.

 

De verbis

Seconda drabble, secondo personaggio. E dopo Aiolos, la vittima, Shura: il carnefice.

Anche se, in verità, penso che su Shura pesi una malesi dizione ben più complessa e ossessiva che su Aiolos.

Di nuovo, c’è un riferimento “iconografico”, più precisamente questo. Partendo da qui, ho provato a creare l’antefatto (se si può chiamare così)

Volevo rendere un’infanzia leggera, ma al tempo stesso minata da qualcosa di preannunciato e ignorato. Da qui l’idea della bruja (strega in spagnolo) e della chirologia, con la linea della vita spezzata. Perché la vita di Shura è spezzata: dal tradimento di Aiolos prima, con l’altalenante convinzione di essere nel giusto e l’impossibilità di vedere l’esempio infangato; dalla verità che gli crolla addosso con Shiryu e dalla morte poi.

Questa realtà di divisione che, ho immaginato, viene ritenuta uno scherzo da Shura ancora bambino; un gioco durante una fiesta.

Tagli e lame da una parte, quindi; e rosso (rojo) dall’altra: il colore della Spagna, il colore della corrida e del sangue dei tori. Per Shura, ho immaginato che il rosso fosse, nella sua infanzia, il simbolo della vita, della vitalità nella sua essenza più violenta e pregna. E accanto c’è la nuova realtà: la mano sporca del sangue di Aiolos (e non è più vita) e l’ultima consapevolezza, quando la spada è ormai persa.

Il mio Shura è tagliato. Ma non è questa, ritengo la sua essenza. Credo che piuttosto sia l’inganno, motivo per cui ho scelto il titolo sopra specificato.

Fin da bambino, il mio Shura si inganna. E continua a vivere nell’inganno, anche se lo avverte; lo ignora semplicemente. E ritengo che questo sia il suo dramma.

Infine: i churros sono dei tipici dolci spagnoli, prevalentemente carnevaleschi, ma diffusi tutto l’anno; chupinazo invece è il nome di un particolare fuoco d’artificio che viene fatto scoppiare a Pamplona in Luglio, il primo giorno della festa dedicata a San Firmino.

Rileggendo, mi sono accorta di aver abbondato un po’ con lo spagnolo. Ho comunque deciso di mantenere; non tanto per realismo; piuttosto per ispirare l’aura ispanica.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Remerciements]

 

 

NinfaDellaTerra: Grazie infinite! Sono davvero contenta che il mio Aiolos sia stato di tuo gradimento [era un esperimento, ma vedere che se non riuscito è stato almeno apprezzato, mi lascia ben sperare]

 

Miriel67: I miei ragazza XD Grazie davvero ma cherì. La drabble forse, di suo, è una poesia: ermeneutica. Perché obbliga ha raccogliere in cento parole l’essenza delle scene; e i fili logici sono sottesi, quasi svolazzanti o affidati alla mente del lettore. Così, ognuno può costruire nel seminato.

Adesso Shura. Il tuo segno. Speriamo passabile.

Un abbraccio.

 

 

 

 

[Remarciements per Swans draumar]

 

 

Ringraziamenti doverosi, perché era un prodotto un po’ azzardato.

Amo Hyoga (ma in realtà li amo tutti, i miai ragazzi. Ciascuno a modo suo; perché sono stupendi e dannati da analizzare), e riuscire a leggerlo è molto difficile. Non che abbia la presunzione di riuscirci; mi piace cimentarmi. E coinvolgere Frejia era un qualcosa di particolare.

 

Miriel67: Un Santa Lucia un po’ anormale XD Come sai, adoro la mitologia, e riuscire a sottenderla nelle storie è un piccolo gioco e un omaggio antropologico al mio mondo di studi. E uno strizzare l’occhio a chi legge. In alcune storie che ho letto, Frejia e Hyoga vengono definiti uguali, perché vivono in un mondo che è fatto di ghiaccio e neve. Di mio, invece, sono convinta che la neve è l’unica cosa che li possa legare, a livello geografico. Li vedo diversi, ma non per questo non possono parlarsi e capirsi. Hyoga è l’elemento di disturbo nell’universo di Frejia; e Frejia è un nuovo modo di vedere per Hyoga. Diverso da quello dell’infanzia; più sereno rispetto a quello della giovinezza. E opposto, ma forte rispetto a Camus.

Grazie mille per le splendide parole.

 

Blackvirgo: Prendo un bel respiro. Kami! Non cadere nel mieloso, mi scrivi. Era davvero la mia paura. Risultare troppo attaccata alla scena romantica tipo. Davvero ne ero terrorizzata. Ma da quello che mi scrivi, posso trarre un respiro. Le lacrime di Hyoga. Non le ho mai viste come un segno della sua debolezza; mi sono trovata a chiedermi, di recente, cosa potessero significare per lui. Tristezza e dolore, certo. Ma non solo quello, credo. Sono una valvola di sfogo; ma lo ho percepite soprattutto come un filtro. Azzardato forse. Non so.

Grazie infinite per lo splendido commento.

 

ArabianPhoenix: Felice che sia stata di tuo gradimento. Come già accennato, Hyoga e Frejia per me sono una coppia. Purtroppo non ne esistono molte fan fiction incentrate su di loro. Grazie infinite!

 

 

 

 

Anticipazione

 

Prossimo personaggio: Virgo no Shaka

 

 

Alla vostra gentilezza

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** 3. Grahitṛ ***


3

3. Grahit

[Virgo no Shaka]

 

 

 

L’acarya ripete silenzio.

Perché la voce è pericolosa, fuori dal mantra. Mentre lo juzu si sgrana nella mano e la voce (una litania) è potere.

Ma al potere (brutto) della voce non ci crede.

E il silenzio non gli piace.

Perché è curioso e vuole parlare. Anche se nella stupa l’acarya ripete silenzio. E allora impara: un’altra voce (per sapere). Le mani si muovono; e le parole (le mani) raccontano.

L’acarya ripete: silenzio; ma le sue mani (silenziose) chiedono e danzano. E dicono ohm e insegnano e pensano, le mani (pericolose) che parlano.

E scoprono di saper dire anche: khan.

 

 

 

 

 

Nota al titolo:


In sanscrito, grahitṛ è una parola religiosa, derivata dalla cristallizzazione del participio e significa colui che comprende.

Il sanscrito è la più antica lingua dell’India; appartenente al ceppo definito indo-europeo, e secondo vari filologi è la lingua da cui deriverebbero i vari idiomi indiani moderni e le stesse lingue europee, fra cui il greco e il nostro italiano.

 

De verbis

Terza drabble: l’equilibrio, se vogliamo. Anche se, in origine, lo scopo della drabble era proprio di rendere l’idea dello spezzato.

E in parte credo di esserci riuscita. Anche se, in verità, penso che Shaka sia troppo sfaccettato per esser racchiuso in cento parole. Questo è davvero uno spaccato, concentrato su un particolare ben preciso: la gestualità.

Di nuovo, c’è un riferimento “iconografico”, più precisamente questo, cui va sommata una mia modesta riflessione sulle puntate di Hades relative al cavaliere. Mani. Mani, mani e mani riprese in varie pose e angolazioni. Mani in continuo movimento. Shaka non parla; Shaka è gesto che si esprime.

Sono i mundra, le posture che nella dottrina buddhista corrispondono a un discorso intero. E mi sono chiesta: perché un asceta (se vogliamo chiamarlo così) si concentra sul gesto? Ecco: sono partita da qui.

Volevo dare un senso più specifico al ricorrere di Shaka alle mani. Certo, la sua fede; certo, le armi. Ma anche il solo modo che ha di parlare, di comunicare durante l’infanzia trascorsa nel silenzio del tempio (il silenzio di Buddha).

Il mio Shaka è curioso. Principalmente perché è un bambino; e come ogni bambino, davanti ad un divieto, cerca la scappatoia.

E io gliel’ho data nelle mani, la fuga. Adattandomi anche alla simbologia indiana che carica la voce di retaggi magici e sottintende al gesto un potere mistico ed evocativo. La danza stessa (e le mani di Shaka danzano) è formata di gesti che parlano. Non testo; solo gesti. Altrimenti sarebbe come avere due canzoni in sincrono.

Mani, silenzi e parole da una parte; e dall’altra la comprensione. Il mio Shaka comprende. Ma non intendo il sapere che lo porta ad essere il cavaliere più vicino agli dei, l’illuminato. Credo che piuttosto sia la comprensione di non essere vincolati, di poter aggirare un ostacolo in qualche modo. Ecco il motivo per cui ho scelto il titolo sopra specificato.

Fin da bambino, Shaka dimostra di comprendere che non c’è una sola faccia del reale. Puoi vedere senza gli occhi; puoi parlare senza usare la voce.

Ritengo proprio che una delle grandezze di questo personaggio sia la profondità ingenua e disarmante che lo caratterizza. Quasi un bambino troppo cresciuto, ma che resta un bambino. E si stupisce e spaventa di saper raffigurare nelle mani l’inizio della vita (ohm) e di poter dare realmente la morte, con le mani (khan).

Infine: acarya è uno dei due maestri che seguono la crescita di un novizio nel buddhismo, mentre il mantra è una litania religiosa, recitata con lo juzu (termine giapponese per indicare il rosario a 108 grani proprio del credo buddhista) nella stupa, il luogo sacro dove si conservano le reliquie del Buddha. Per ultimi: ohm e khan, rispettivamente, inizio e apertura o vuoto (riducendo all’essenziale i due termini, che possono corrispondere in una certa banalizzazione all’ alpha e all’omega, alla vita e alla morte) sono due formule proprie del mantra. In esse ho voluta rappresentare la capacità di Shaka di essere in sospeso fra i due mondi.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Remerciements]

 

 

NinfaDellaTerra: lieta che il mio Shura sia stato di tuo gradimento. Concordo con te: Shura è un personaggio estremamente complesso (non il solo, per fortuna. O sfortuna nera XD), e se ci si aggiunge quel suo carattere schivo, ben in opposizione all’idea caliente che si ha degli ispanici…Sì. Direi proprio che c’è abbastanza materiale per fare di Capricorn un interessante soggetto da lettino di psicoterapia.

Adoro certi aspetti della chiromanzia, e avendo deciso di avere le mani come trait d’union della raccolta, mi è parso che Shura e la cultura spagnola fosse la più indicata ad un simile riferimento.

Grazie infinite per i complimenti. Mi imbarazzano tanto^/////////////////////////^ (e non è falsa modestia!)

 

Miriel67: Merci, ma cherì! Sono contenta che Shura sia stato di tuo gradimento. Se non si va d’accordo fra affini (di segno). L’idea della linea della vita (ripensandoci) mi è venuta un po’ da Saiyuki (non il Reload), ma cambia di qua, metti un po’ di Spagna di là…Alla fine quella piccola idea s’è dispersa, e non ho nemmeno messo in nota il riferimento. Troppo diverso.

 

Kagura92: Grazie! Sono davvero contenta che ti sia piaciuta. Anch’io è da poco che sto rivalutando Shura (e non solo), ma temo che sia l’età che avanza XD. Crescere con i cavalieri ha vantaggi e svantaggi, eh già! L’idea di inserire lo spagnolo è stata un po’ un’incognita fino all’ultimo. In sostanza, tendo nelle drabble a far evocare lo sfondo mediante le parole (esotiche, temo di dover dire); ma per Shura avevo paura di essermi lasciata prendere un po’ troppo la mano. Anche se, alla fine, mi sembrava di sentire una specie di musicalità. Non perché fosse bella la storia, ma perché le parole mi mettevano davanti delle immagini: così.

 

Blackvirgo: Una corrida…Oddio! Sai che questo commento mi ha investita? Perché all’inizio avevo l’intenzione di inserircelo, un riferimento diretto alla corrida, ma poi complice la facilità di scadere nel retorico e la difficoltà di astrarre in allusione, avevo fatto cadere. E adesso: tu dici che tutto è una corrida. E sì, mi piace. Mi piace molto!

E adesso…Un tuo vecchio amico XD

Speriamo! Dopo la tua drabble, ho un po’ (tanta) paura che questo Shaka risulti una macchietta (non che mi aspetti di riuscire a renderlo bene, per carità. Ma con la tua davanti agli occhi…)

 

Ti con zero: Merci! Mi onori molto con le tue parole. Grazie davvero

 

 

 

 

 

 

 

Dialogando

 

Riprendo oggi, dopo la pausa natalizia (forzata).

Con la drabble promessa sul Cavaliere di Virgo. Una vera impresa, se mi è concesso. La parte più difficile è stato raccogliere tutto il materiale relativo alla simbologia della voce e della parola in India, e rispolverare la mia grammatica sanscrita.

Alla fine, questo è il risultato. Spero che sia accettabile.

Un’ultima piccola annotazione: so bene che Khan indica anche una delle maggiori tecniche difensive di Shaka di Virgo, ma qui intende la capacità del cavaliere di creare il vuoto (nel movimento delle mani e nella voce) e quindi di dare la morte con quelle stesse mani che chiedono e si interrogano sulla vita.

 

Prossimo personaggio: Aquarius no Camus

 

 

Alla vostra gentilezza.

 

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Capitolo 6
*** 4. Brûlant ***


4

4. Brûlant

[Acquarius no Camus]

 

 

 

L’izba è calda.

Mentre la neve si distende; mentre il samovar borbotta. E la stufa (oranževij) abbrustolisce il kalač. E c’è uchityep nell’ izba. Con il kvas (dolce) e quella parola strana: capirai.

Perché la kosovorotka (di neve) non riscalda. Perché le mani (blu) alla stufa (che borbotta) non gliele avvicina. Uchityep ripete: capirai

Ma capirai non lo connaît. E le mani (fredde) restano blu, nell’izba (calda). E fanno male. Perché il ljod (blu) è cattivo e le mani se le mangia.

E del bleu (delle mani) ha paura. Perché significa: mort.

Ma capirà.

E le mani (calde) diranno: vivi.

 

 

 

 

 

Nota al titolo:


In francese, brûlant è il participio presente del verbo brûler, e significa colui che brucia.

 

De verbis

Quarta drabble.

Complessa, ad esser sincera. Perchè ci sono tanti elementi che concorrono. Camus non appartiene a un solo mondo; e in più è magnetico. Proprio come il ghiaccio.

Di nuovo l’infanzia. La primissima infanzia, in specialmodo. E il gioco dei termini, francese e russo, che si rincorrono.

Di nuovo, l’idea è nata da quest’immagine. Assieme ad una mia (opinabile) idea su Camus.

Il mio Camus è ribelle; ma soprattutto è un bambino spaventato. Da una lingua che non conosce e non capisce. Da un mondo che non ha mai visto. E dalla morte. Soprattutto dalla morte. Che sente (forte) nelle mani fredde e semiassiderate.

É un Camus ribelle, il mio. Che di capire, in fondo, non ne ha molta intenzione. E rimpiange la sua lingua madre, il suo mondo dove le mani non diventano mai così fredde. E il blu e il bianco non sono morte, ma cielo e mare e nebbie e gabbiani. Forse l’impressione che posso dare è di non apprezzare molto il personaggio: la freddezza che lo caratterizza.

In realtà, è uno degli elementi che più mi attira. L’ho detto: Camus, per me, è un magnete.

Non amo la freddezza in ; ma sono convinta che l’atteggiamento di Camus sia costruito. Non per tenere lontani gli altri (certo: il risultato è quello), ma per avvicinare la Siberia, per cercare (imparare) ad amare quella terra dove deve vivere. Perchè il mio Camus ha bisogno di affetto e di capire. In mdo disperato (quasi). E mi sono divertita a immaginare come fosse prima, appena arrivato in Siberia. E il risultato è questo bambino terrorizzato.

Non voglio sminuirlo. Al contrario. Credo fermamente che Camus sia uno di quei personaggi la cui profondità sia immensa, ma difficile da cogliere. Perchè è facile bloccarsi al ghiaccio e vederlo freddo.

Io non credo che Camus sia freddo; non nel senso di indifferente, almeno. In fondo, ritengo che la chiave di lettura (della drabble, ma anche del personaggio) sia nel ghiaccio stesso.

Schermo, muro invalicabile, indica la lontananza da qualcosa e la perdita della – di una – vita (qui è la Francia e la vita di prima, dell’infanzia). Ma è anche immagine di rinascita, di continuità, di volontà di vivere. Solo che il ghiaccio cela, nasconde, gioca. E la forza che possiede emerge solo alla fine, quando si scioglie, e consegna, in morte (e solo in morte) i suoi segreti.

Le mani di Camus sono fredde (lo dice di riflesso la Taizen, dove afferma che le armature dei ghiacci, con una temperatura inferiore alle normali corazze, sono solitamente indossate da chi è temprato al gelo e ne ha buona resistenza); nelle mani Camus concentra sovente il suo potere. E con le mani uccide e insieme sa dare vita: il sarcofago di ghiaccio non lo intendo come una tomba, ma come vita.

E mi piace pensare che le mani fredde di Camus, il suo ghiaccio, sia in realtà caldo. E che quando muore contro Hyoga non fa altro che insegnarli che bisogna continuare, consegnandoli la fertilità dei suoi segreti.

Camus, per me, brucia. Per questo ho scelto il titolo sopra indicato. Camus arde: di paura all’inizio; di freddezza (e no, non lo vedo come ossimoro); di orgoglio; di determinazione. Di vita. Di voglia di vivere appieno; nonostante il suo mondo freddo. Perchè la Siberia non è riuscita a togliergli tutto il caldo della Francia.

Per questo l’altalena linguistica. Il russo all’inizio, dove l’attenzione è concentrata sul maestro; il francese dopo, quando Camus si presenta in scena direttamente. Perchè Camus è ancora un bambino e la nuova lingua ancora non la conosce e i suoi ragionamenti e le sue parole sono francesi.

Infine, con ordine. L’izba è la tradizionale casa contadina russa, costruita in tronchi e con tetto (di solito) di paglia, mentre il samovar indica una particolare teiera usata per scaldare l’acqua, soprattutto per il tè. Il kalač [калач] è un tipo di pane russo bianco, fatto con farima di frumento e a forma di maniglia; il kvas [Квас] è una bevanda russa fermentata a bassa gradazione alcolica, di origine vegetale, prodotta in casa. La kosovorotka [косоворотка] è la tipica casacca russa maschile a maniche lunga, asimmetrica e abbottonata laterale, mentre uchityep [учитель] significa maestro, ljod [лёд] ghiaccio e oranževij [оранжевый] arancio (il colore) in lingua russa.

In francese, invece, connaît è la terza persona singolare del verbo connaître, che significa conoscere; blue significa blu e mort un sostantivo, che significa morte.

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Remerciements]

 

 

NinfaDellaTerra: lieta di sapere che il piccolo Shaka ha riscosso la tua approvazione. Vedremo adesso con Camus (un parto! Un vero parto!). Mi sono divertita molto nel disegnare questo piccolo furbetto (e dirlo di lui è, a volte, incredibile). E sì. Lo vedo proprio bene, quel sorrisino discreto: di chi la sa luuunga e della vita a già capito tanto (forse troppo). Felice anche che il sanscrito sia stato apprezzato. Per me è abituale, ormai (Oddio! Non che lo mangi anche a colazione, ma ritorna. Ritorna [molto] spesso). Grazie infinite!

 

Ti con zero: ma io adoro chi è orientalista (condizione non necessaria, ma se c’è, ben venga!). E hai ragione: imprigionare Shaka in cento misere paroline è quasi un attentato alla sua essenza. Ma sono contenta che comunque questo accenno fuggevole alla filosofia del silenzio e il gioco delle mani sia stato di tuo gradimento. Grazie infinite per i complimenti [*imbarazzo-imbarazzo-imbarazzo*]!

 

Un grazie particolare a Blackvirgo e Miriel67.

 

 

 

Anticipazione

 

Prossimo personaggio: Tauros no Aldebaran

 

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Capitolo 7
*** 5. Acolhedor ***


5

5. Acolhedor

[Taurus no Aldebaran]

 

 

 

La concha è bianca.

Mentre nel terreiros (profumato) l’atabaque tossisce; mentre foglie (brilhantes) tremano fremono sotto le gonne. Perché Orixá viene e il profumo (terreiros) sorride. E c’è una vela nel tempio; e mão de santo dice: cavalo.

E ai santi (verdadeiros) ci crede la mão de santo; e ripete: escolhido.

Ma Shango fa medo e nella mano (grande e scura) la conchiglia (branca) trema. Perché una divinidade dice: lutarás.

Ma la mano (una concha) tirita e a combattere não, non ci vuole pensare. Perché oxé è solo un desenho e nella mano (che trema) non c’è; ancora.

Mas terá.

 

 

 

 

 


Si ringrazia Isabel di Thule per l’aiuto e le correzioni al portoghese.

 

 

Nota al titolo:

In portoghese, acolhedor è il participio presente del verbo acolher, e significa colui che accoglie.

 

De verbis

Quinta drabble.

A più di dieci mesi di distanza; ha dovuto maturare molto, questa drabble. Perché ha continuato a ronzarmi in testa, ma non riuscivo ad afferrare la conclusione – soprattutto la conclusione. E il tema, ormai consolidato, è l’infanzia. Un’età non precisa, fra i quattro e i cinque anni. Prima dell’addestramento vero e proprio, quindi. Un rituale; una religione propria del Brasile. La sua anima; quasi.

E Aldebaran è un bambino cui è letto il destino. E come tutti i bambini percepisce e trema. Ho immaginato che la mano di Aldebaran (grande) sia come una conchiglia: pronta ad accogliere.

Non credo che l’indole di Aldebaran sia combattiva; non nel senso di chi ricerca lo scontro. Ritengo piuttosto che questo personaggio, purtroppo spesso sacrificato, sia magnifico nel suo umile desiderio di seguire giustizia.

Lo sfondo, come ho accennato, è il candomblè, una religione afrobrasiliano praticata soprattutto in Brasile. Ho immaginato in modo forte, per la prima volta, una predestinazione. Aldebaran è predestinato a diventare un cavaliere (santo), ma da bambino, mentre stringe quella conchiglia e sente la forza di un dio eleggerlo e sceglierlo, ha paura. Mi sono sempre chiesa come i cavalieri possano aver reagito, da bambini, al pensiero di un avvenire prefissato. E mi sono detta: un bambino non capisce. Aldebaran non capisce. E può solo tremare e aspettare. Perché è il toro, e il toro è terra: pronto ad accogliere, a pazientare e ad aspettare. Finchè quello che racchiude dentro di sé non germoglierà.

Aldebaran, per me, è come la terra: resistente, forte, eterna, incrollabile; ma al tempo stesso rassicurante e pronta a racchiudere, a sedimentare e correggere. Quindi: ha paura, non capisce e la mano trema mentre guarda il suo destino; ma non rifiuta. Il no (não) c’è, doveva esserci. Ma non è una chiusura; è piuttosto la reazione logica e necessaria. Aldebaran accoglie, anche se non capisce. Ma è convinto (e la conchiglia la tiene) che capirà.

Mi piace pensare che la mano di Aldebaran sia proprio come una conchiglia: accogliente. Pronta a sorreggere, a raccogliere, a stringere, ad accettare.

La difficoltà maggiore, ad esser sinceri, è stata la lingua. Il portoghese parlato in Europa e quello parlato in Brasile differiscono fra loro, oltre per la grande varietà di dialetti presenti in Brasile, anche per il vocabolario, la pronuncia e la sintassi, soprattutto a livello parlato, mentre nello scritto le differenze diminuiscono. La divisione dei dialetti brasiliani non è molto chiara, e inoltre, per l’universo dei cavalieri, non c’è una precisa indicazione di origine di Aldebaran. Di conseguenza, ho preferito impiegare un linguaggio neutro, più scolastico. La storia ne risente a livello di realismo, se vogliamo, ma non sono riuscita a ovviare diversamente.

Infine, con ordine: concha significa conchiglia ed è il principale strumento di divinazione usato nel jogo de Buzios: in numero variabile da dodici a ventuno. La consultazione avviene davanti ad un bicchiere d’acqua e ad una candela (vela), con il primo che rappresenta la forza vitale e la seconda che favorisce la concentrazione. Il terreirios invece è il nome dato al santuario del candomblè. Durante le cerimonie, il pavimento è cosparso di foglie lucide (brilhantes) e viene suonato l’atabaque, un particolare tamburo rituale. Gli Orixá, invece, è il nome collettivo con cui vengono designate le divinità o semidivinità del culto, spesso messi in relazione con i santi cristiani e per questo chiamati anche, appunto, santi. La mão de santo è il nome con cui viene designata la sacerdotessa dei riti, mentre cavalo significa cavallo e indica lo stato di possessione dell’adepto da parte di un Orixá. Verdadeiros significa reali, ovvero con corpo reale, mentre escolhido vuol dire scelto. Medo significa paura e branca bianca. Shango è una delle innumerevoli divinità (divinidade) ed è il protettore del fuoco e del tuono, oltre che della giustizia. È spesso raffigurato con in mano un’ascia bipenne, che prende il nome di oxé. L’ho scelta fra tante, oltre per il fatto che la sua maschera raffigura una testa d’ariete (e il riferimento è al legame che intercorre fra Aldebaran e Mur), perché nel mito greco uno dei tori per eccellenza è il Minutauro, sovente raffigurato con un’ascia in mano, che era anche l’emblema della famiglia reale di Cnosso. Luteràs e trita sono due verbi e significano rispettivamente combatterai e trema, mentre desenho è la raffigurazione, il disegno. Infine mas terá significa ma sarà.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[Remerciements]

 

 

Ninfadellaterra: ti ringrazio infinitamente per le tue parole. Personalmente, adoro Camus e adoro la fragilità che non vuole assolutamente mostrare. Come il ghiaccio. Sembra dura e compatto, ma se lo lasci al sole si scioglie. Non intendo dire che Camus sia congelato nei sentimenti; al contrario. Per me, semplicemente, ha interiorizzato troppo la paura, è come se un tremito lo percorresse di continuo. E se tremi non ti arrischi. E adesso, finalmente, posto Aldebaran. Spero di non deluderti^^

 

Blackvirgo: io non ho mai parole per dirti grazie. E questo grazie – lo sai – è una briciola di quello che vorrei riuscire a esprimerti. All’inizio Arms non doveva riguardare i cavalieri bambini, ma più passa il tempo, più le scenette che mi si affacciano alla mente riguardano bambini. Forse perché è dei bambini creare correlazioni e attribuire valori inaspettati alle cose. Come le mani di Camus che vogliono dire morte. Grazie ancora, carissima.

 

LaBelleDame: sono davvero lusingata per il magnifico e critico commento che mi hai lasciato. E dire grazie mi sembra davvero riduttivo. Hai fatto una vera e propria analisi, e migliore di qualsiasi parola che io stessa avrei potuto usare. Hai capito; hai sentito. Quello che speravo di riuscire a trasmettere; quello che lasciavo all’intuizione. Mi hai aiutata tantissimo; per vedere risvolti che avevo scritto come impressione e non afferravo appieno nella loro economia. Grazie infinite.

 

 

 

Anticipazione

 

Prossimo personaggio: Cancer no Death Mask

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** 6. Arricugghiutu ***


A Francine.

Tu sai il perché.

 

 

 

6. Arriccoghniru

[Cancer no Death Mask]

 

 

 

Le mani sono tutto quello che hai, a Brancaccio.

E da picciriddu le mani avevi imparato a usarle: per menare e per arrubari a focaccia. O il tabacco da rollare. Avevi imparato ad armare un cane, colle mani; e anche a farli fuori, i cani. Di quelli a due zampe.

C’erano cose che potevi fare solo con le tue, di mani. E altre, che avresti imparare: a romperle e a baciarle, le mani. E c’avevi fattu ‘u caddu a quella vita.

Ma tenevi una capa dura: per questo Saro ti ha pigliato.

Chè tu volevi pigliari lu celu cu li mani.

 

 

 

 


Un grazie di cuore a Italo per l'aiuto con la lingua e per il proverbio, fonte di ispirazione.


Nota al titolo:

In dialetto catanese, arricugghiutu è il participio passato del verbo arriccogniri che significa sia raccogliere sia morire.

 

De verbis

Sesta drabble.

Sono passati quasi dieci anni, dall’ultima volta che ho aggiornato questa raccolta. E sono passati molto veloci. Confesso che è strano tornare a scrivere qualcosa che si era lasciato in sospeso a così tanto tempo di distanza.

Sono cambiata io; è cambiato il mio stile. Il modo che ho di scrivere e il modo che ho di voler scrivere. Forse più diretto; forse più smaliziato.

Quello che non è cambiato, per me, è la voglia che ho di creare gli ambienti. Di creare quel substrato culturale in cui si muovono i personaggi. Arms l’avevo dovuto lasciare anche per questo. Perché non riuscivo a trovare nulla che si adattasse alla nostra italianità. Alla nostra tradizione sicula.

Poi. L’ho detto: sono cresciuta io. E forse. Forse sono cresciute anche le mie idee. E quindi. Ecco. Ecco che è nata questa sesta drabble. Dopo una gestazione di anni. Meglio tardi che mai.

Death Mask è un personaggio complesso, un personaggio che non si riesce a capire se sia buono o cattivo. Un personaggio che forse è solo la faccia più squallida che la guerra si porta dietro: quella del soldato senza illusioni, ma che fa comunque il suo dovere. Quella del soldato che raccoglie ciò che semina: la morte. E lo fa senza raccontarsi ideali e belle parole. Lo fa sputandoti in faccia quello che è semplicemente la realtà.

Per questo ho scelto di dargli un backgroud di violenza. La violenza di Brancaccio, che è uno dei quartieri tristemente famosi di Palermo per le lotte interne mafiose e di territorio. Siamo negli anni Settanta (sì: niente tablet, smarphon e simili. I miei cavalieri si muovono nell’universo cronologico che appartiene loro): l’Italia vive il terrorismo bianco e rosso e gli anni di piombo. Non era Woodstock e nemmeno la libertà del Sessantotto, la Palermo di piombo. Era una città violenta, dove Cosa Nostra aveva ripreso ad avere potere. E il potere voleva dire controllo e lotta per restare a galla.

Angelo, al secolo il nome del mio Death Mask, si muove nei rioni di questa guerra. Si muove come un picciriddu, un ragazzino, che vuole solo sopravvivere. Si muove rubando e sgraffignando (arrubari) quello che può e gli serve.

L’ho ricostruito sulla scia dei ragazzi di vita di Pasolini: quei ragazzi dai sorrisi caldi, mediterranei, quasi sfrontati, affamati di vita. Quei ragazzi che erano quattro ossa e un po’ di pelle e tanta disperata energia.

Ecco come vorrei che fosse il mio Angelo: un ragazzino che combatte a fare l’adulto, con le sue sigarette fumate a nove anni e una pistola in mano. E la disillusione che, per sopravvivere, nella vita devi uccidere (sì: il mio Angelo aveva già ucciso, prima del Santuario. Ragazzini come lui. Ma in quell’epoca e in certi contesti o ammazzi o sei ammazzato. È l’unica legge).

Ed era l’unica vita che poteva, che immaginava che avrebbe fatto. Fin quando è arrivato Saro. Un metro e sessanta di nervo e pelle bruciata dal sole, con una barba ispida di cinque giorni e una braccio in meno.

Saro è l’uomo che cresce Death Mask. È l’uomo che se lo trascina da Palermo a Catania e gli insegna cosa significhi davvero usarle, le mani. Che lo trasforma senza togliergli l’anima cresciuta in fondo ai qanat e nelle occhiatacce di paese. Saro è l’uomo che si accorge che Angelo vuole e può prendere il cielo con le mani, può fare quel qualcosa di impossibile che altrimenti sarebbe solo talento sprecato.

E perdonate: non ho resistito nel citare il baciamo le mani di padriniana memoria.


 

 

Anticipazione

 

Prossimo personaggio: Interludio

 

 

 

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