Everything around you

di gattina04
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 
15 Novembre:
Certi giorni – ed oggi è uno di questi – penso di non essere come tutti gli altri. Non nel senso che sono pazza… in fondo tutti siamo un po’ pazzi, ognuno a modo proprio. E poi tu mi hai sempre detto che ho qualche rotella fuori posto, quindi ormai lo so. Quello che intendo dire è che il mio cervello non funziona come quello di tutti i membri della nostra famiglia. Ma forse tu hai sempre saputo anche questo.
Credimi ormai l’ho capito: non è sempre facile comprendermi, sono un groviglio insensato di idee, insicurezze ed emozioni; certe volte la mia mente parte per la tangente e comincia a creare film mentali così intricati che io stessa fatico a ricordare da dove siano iniziati. So di non essere una persona comune o forse di esserlo anche troppo, ma io sono fatta così… non potrò mai cambiare. Tu mi hai sempre detto che niente e nessuno può cambiare ciò che sono, ma come mai ho la netta impressione che ogni persona che mi circonda cerca di fare esattamente il contrario? Perché non posso andare bene così? Certe volte vorrei poter spengere il cervello per riuscire a fare esattamente ciò che mi chiedono…
Se vedi la mia scrittura vacillare, diventando sempre più incomprensibile, è perché sto ridendo da sola come una scema mentre ti scrivo queste parole; e lo sai per quale motivo sto ridendo? Perché ti vedo qui di fronte a me, con quell’espressione buffa sul viso. Sai quell’espressione che fai quando stai per dire qualcosa di solenne?
«È il peso da sopportare quando si è dei geni», diresti. Ne sono certa. Beh però su una cosa ti sbagli: io non sono un genio, sono solo una persona che si impegna tanto. E nonostante ciò sembra che il mio impegno non sia mai abbastanza…
 
«Linny, scendi la cena è pronta». La voce di mia madre interruppe il flusso dei miei pensieri. Quello era proprio un bel modo di terminare una frase: passare dal fruscio della penna sul foglio al monito di rimprovero nella voce di mia madre.
Sospirai e smisi di scrivere, non avrei potuto continuare oltre per il momento. Prima di chiudere il mio vecchio diario con un colpo secco, guardai un’ultima volta la mia grafia rotondeggiante fermarsi a metà di una delle tante pagine. Forse l’idea di tenere un diario, un diario per lui, era stupida; avevo quasi diciotto anni e avrei dovuto capire che quello che stavo facendo era solo un’inutile perdita di tempo. Ma l’idea di poter mettere tutto nero su bianco era in un certo senso confortante; era come se in qualche modo avessi potuto catturare tutto ciò che mi passava per la testa, tutto ciò che avrei voluto dirgli.
«So che mi hai sentita. Tua sorella è già qua, non farmelo ripetere due volte». La voce di mia madre tornò di nuovo a ricordarmi che stavo traccheggiando inutilmente.
Sbuffai e mi affrettai a nascondere il diario in un cassetto della scrivania. Non che avessi paura che qualcuno potesse leggerlo; per poterlo leggerlo avrebbero dovuto avere prima qualche interesse particolare nei miei confronti e su quello non c’era mai stato nessun problema.
Uscii dalla mia camera e scesi le scale proprio quando mia madre stava per urlare per la terza volta. «Kathleen Hannah Jefferson…».
«Sono qui», la interruppi prima che potesse finire la frase. «Sono qui, non c’è bisogno di urlare».
«Beh a quanto pare sì. Tua sorella era già scesa cinque minuti fa». Di sicuro non erano passati cinque minuti da quando mi aveva chiamato, ma era ovvio che per nostra madre il tempo di Queen scorresse in maniera diversa dal mio.
«E ti pareva», borbottai a mezza voce.
«Cosa hai detto?».
«Niente», replicai sferrando il mio più bel sorriso. «Solo scusa».
«D’accordo, vai a lavarti le mani e poi siediti, non vorrai fare aspettare tuo padre?».
«Certo mamma, arrivo subito», sbuffai dando un’occhiata a tutti i presenti, già comodamente seduti al tavolo.
Ed ecco a voi la mia famiglia “perfetta”: i miei genitori, mio nonno, io e mia sorella Queen. Ma lasciate che ve li presenti uno per uno.
David Jefferson, capofamiglia, cinquantadue anni, importante giudice della corte cittadina. Non era un cattivo padre, uno di quelli che si “porta il lavoro a casa”, ma non era mai neanche stato un padre particolarmente affettuoso. Aveva alte aspettative e voleva che noi mantenessimo elevato lo standard che lui ci aveva imposto. In casa nostra non c’erano gratificazioni se alla fine dell’anno ottenevi una media di voti stratosferica o qualche rinomato premio scolastico; il massimo che riuscivo a strappare a mio padre era un semplice: «molto bene» o «hai fatto il tuo dovere».
Dall’altra parte invece si trovava mia madre: Caroline Bones, divenuta poi Caroline Jefferson. Beh lei era la classica donna da Country Club e forse proprio per questo non riuscivamo ad andare d’accordo. Non avevo mai capito cosa potesse aver visto mio padre in lei,  fatto sta che si erano sposati abbastanza giovani e che il loro matrimonio non era mai vacillato nonostante i momenti difficili. Non sapevo se avessero superato tutto grazie all’amore o solo per il fatto che credevano talmente tanto nell’istituzione del matrimonio da ritenere impossibile l’idea di scinderlo.
Comunque ritornando a mia madre, visto che mio padre guadagnava abbastanza, lei poteva  permettersi di stare a casa a curare la sua perfetta manicure e a sorseggiare Martini a bordo piscina con le sue amiche tutte fatte con lo stampino. Avevamo una domestica per esimerla anche dai compiti di casa, e l’unico incarico che le restava da svolgere era semplicemente quello di chiamarci a tavola quando la cena era pronta. Oltre al compito assai gradito di darmi il tormento.
«Linny sistemati quei capelli».
«Linny, tesoro, non camminare in quel modo».
«Linny se proprio sicura di voler uscire con quel vestito addosso?».
«Queen non si è mai comportata così, Linny, dovresti imparare da lei».
Non che fosse cattiva o che non mi volesse bene: semplicemente non eravamo caratteri compatibili. Non mi era mai importato nulla del Country Club, della moda, del gossip, né di curare il mio aspetto come una di quelle tante frivole ragazze e questo mia madre non lo poteva sopportare. All’inizio mi ero sforzata di assecondarla, ma era stata una lotta contro natura. Ricordavamo tutti  l’estate in cui avevo acconsentito ad indossare uno dei vestitini principeschi che mi aveva comprato; sembravo una bambola di porcellana. Peccato solo che correndo per il giardino fossi inciampata e fossi finita dritta in una pozzanghera di fango. Le sue urla, quando mi aveva vista, erano arrivate a dieci isolati di distanza.
E là dove io purtroppo arrancavo, per somma gioia di mia madre, c’era Queen, la figlia perfetta. Pacata, dolce, sensibile, una cascata di boccoli d’oro, due immensi prati verdi al posto degli occhi: insomma la figlia che ogni genitore vorrebbe avere. Intelligente, studiosa, una media di voti alta quanto la mia, capo cheerleader, idolo della scuola e probabilmente la prescelta per tenere il discorso durante la nostra cerimonia dei diplomi. Eh già, per uno strano scherzo del destino tra me e mia sorella ci correvano solamente undici mesi e purtroppo, essendo nata lei a gennaio ed io a dicembre, avevo avuto la sfortuna di competere con lei anno dopo anno. Per quanto mi sforzassi non potevo essere la migliore, c’era già lei: se avevo ottenuto il massimo dei voti in tutte le materie, Queen aveva avuto una media alta quanto la mia e per di più era entrata nella squadra delle cheerleader; era un’attività extracurriculare importante che le portava via molto tempo, io d’altronde dovevo solo studiare. Se avevo vinto il concorso di scrittura creativa, Queen era stata eletta reginetta del ballo e quello per mia madre era sicuramente molto più importante.
Forse dal mio resoconto potrebbe sembrare che tra me e Queen ci fosse un rapporto d’odio, ma non era così. Non eravamo particolarmente legate, quel genere di sorelle inseparabili, ma ci volevamo bene, ci spronavamo e ci proteggevamo a vicenda, anche se più spesso io coprivo lei soprattutto quando rientrava tardi dopo il coprifuoco. Comunque in qualche modo eravamo complici: lei capiva la pressione a cui ero sottoposta, a cui entrambe eravamo sottoposte, e forse il fatto che lo capisse riusciva a renderla ancora più perfetta. E la invidiavo un po’ per questo; le veniva tutto così facile, così naturale. Invece per me mantenere quello standard era una fatica immane. Certe volte avrei voluto comportarmi come una ragazza normale, invece era da un bel po’ che non riuscivo più ad essere me stessa.
E per ultimo, ma sicuramente non per importanza, c’era mio nonno: il Generale. Aveva combattuto nell’esercito per molti anni, anche quando mio padre era piccolo, aveva conquistato medaglie fino a quando non lo avevano mandato in pensione con onore e dignità. Viveva con noi da cinque anni, da quando mia nonna era morta. Ecco, la nonna era una delle poche persone a cui mi sentissi intimamente legata: le raccontavo di tutto e lei mi ascoltava e mi capiva. Quando si era ammalata, per me era stato uno shock terribile; mi ero rifiutata di lasciarla da sola, di andare a scuola, persino di mangiare pur di stare con lei.
Inutile dire che con mio nonno non c’era lo stesso calore. Immaginatevi un uomo dell’esercito, un Generale, dubito che fosse mai riuscito a dimostrare affetto anche a suo figlio; penso che l’unica eccezione fosse stata mia nonna.
Ed eccola là tutta la mia famiglia. Beh non proprio tutta in realtà: poi c’era Jamie, ma di lui era difficile parlare. Lui era tutta un’altra storia, era sempre stato tutta un’altra storia.
«Linny ti sei incantata?». La voce di mia madre e la gomitata di mia sorella bastarono a riportarmi alla realtà. Non mi ero accorta di essermi persa nei miei pensieri per quasi tutta la cena.
«Cosa?».
«Eri partita per un altro dei tuoi film mentali?». Queen sorrise. «Papà ti ha chiesto se hai già pensato a quali materie vorresti studiare all’università».
«Ormai siete all’ultimo anno», confermò. «Dovrete scegliere in quale college andare e che cosa vorrete fare per il resto della vostra vita». Detta così suonava alquanto melodrammatica.
«Io ho detto a papà», continuò mia sorella, «che stavo pensando a legge, anche se non pensavo di seguire le sue orme, pensavo più a qualcosa come diritto per l’infanzia…». Ecco come si fa a non amarla? «E tu? Ci hai già pensato?».
Oh ci avevo pensato eccome, ma non avrei reso note le mie scelte, non prima di essermi messa a distanza di sicurezza. «Non lo so, sto vagliando le mie possibilità». Una risposta sicura, adatta ad ogni occasione. Ero un asso nel dare quel genere di risposte evasive.
«Un mio ex compagno di università, è diventato professore alla Princeton, potrebbe mettere una buona parola per entrambe».
“Non andrò alla Princeton”, avrei voluto gridare. Non sarei andata alla sua stupida università, senza considerare il fatto che era dall’altra parte del paese. Mi morsi un labbro per trattenermi e per fortuna mia sorella rispose per entrambe.
«Grazie papà, lo terremo in considerazione». Anche lei era brava le risposte “salvagente”.
Guardai il mio piatto e decisi che per quella sera avevo già sopportato abbastanza. «Sì papà, lo terremo in considerazione. Adesso se volete scusarmi vado a ripassare, domani ho un compito». Non aspettai risposta – sapevo che la carta dello studio era sempre un asso nella manica – e mi fiondai di nuovo in camera mia.
Mi chiusi in fretta la porta alle spalle e mi ci appoggiai sospirando. Eccomi là un concentrato di confusione e di problemi. Ero una bomba ad orologeria pronta ad esplodere e non tanto perché non ne potevo più di tutta quella situazione ma perché mio padre mi aveva appena ricordato quello che da settimane avevo tentato di reprimere in fondo al cuore.
Non sarei andata alla Princeton né a nessun altra università prestigiosa dell’Ivy League; avrei al massimo frequentato le lezioni dell’università pubblica della nostra insulsa cittadina del South Dakota. Non era un capriccio, né una ripicca, era stata una decisione sofferta e ponderata; ma non potevo allontanarmi, non in quel momento. Avevo messo in stand-by i miei sogni e mi andava bene così.
Sapevo cosa volevo fare e sicuramente non era legge: volevo scrivere, volevo dare voce ai miei pensieri, dare vita alla mia fantasia, far emozionare, far vivere storie incredibile solo con le mie parole. Era anche per questo che tenevo un diario e che annotavo tutto ciò che mi passava per la mente: amavo scrivere e mi faceva stare bene con me stessa. Ma non aveva più importanza, non da quando lui…
Sospirai di nuovo e mi staccai dalla porta scacciando via quei pensieri. Fui tentata di riprendere il diario ed avevo già aperto il cassetto, quando notai la mia immagine riflessa nello specchio appeso sopra la scrivania. Ero un ammasso di ricci né biondi né castani, di un colore indefinito a mio parere, fin troppo crespi e capaci di causarmi un bel po’ di problemi a pettinarli; avevo un viso paffuto, senza nessuna caratteristica particolare e due occhi nocciola, alquanto anonimi e per niente distintivi. Per non parlare della miriade di lentiggini che mi ricopriva il naso. Ero una ragazza normale, lo sapevo, niente a che vedere con mia sorella; tuttavia non mi era mai importato granché del mio aspetto. Non c’era mai stato un ragazzo che fosse stato interessato a me, e non solo per Queen, ma anche perché non ero mai stata brava a socializzare. Mi ci voleva un po’ prima di aprirmi con gli altri e questo mi aveva sempre in qualche modo emarginato dalla cerchia di ragazzi che volteggiava intorno a Queen. Comunque non avevo mai dato peso neanche a quello. Non ero una di quelle ragazzine che smania per avere il primo bacio o per attrarre l’attenzione del ragazzo che le piace. In fondo, da brava amante dei libri, sognavo un amore epico, di quelli che ti fanno battere il cuore a mille. Forse un giorno sarebbe arrivato ed io ero brava ad aspettare.
Abbassai lo sguardo dalla mia immagine riflessa e lo puntai sulla copertina colorata che faceva capolino dal cassetto aperto.
«Per stasera sarà meglio di no», sussurrai ad alta voce, come a dare una spiegazione della mia diserzione al mio fedele compagno. «Ho già messo a nudo un po’ troppi sentimenti per oggi». In fondo il giorno dopo avevo davvero un compito e avrei dovuto davvero ripassare: per una volta non avevo detto una bugia.
 
«Queen credi che dopo Sean ti potrà riaccompagnare?», domandai salendo al posto del passeggero dell’Honda che condividevo con mia sorella.
«Buongiorno anche a te sorellina». Lei era già seduta al posto di guida e mi stava aspettando. Erano le sei di mattina, lei aveva gli allenamenti delle cheerleader ed io avrei passato il tempo prima dell’inizio delle lezioni ciondolando in biblioteca. Avevamo una macchina sola e alzarmi all’alba era sempre meglio di farmi cinque chilometri a piedi di prima mattina – cosa che mi avrebbe comunque fatto alzare alla solita ora – o essere costretta a chiedere un passaggio ad uno dei nostri genitori.
«Sì sì buongiorno», la liquidai con un gesto della mano. «Allora credi che potrà riaccompagnarti?».
«Credo di sì. Non dovrebbe avere gli allenamenti. Penso che per Sean non ci siano problemi». Sean era il ragazzo perfetto della mia più che perfetta sorella, nonché quarterback della squadra di football della scuola. Un accoppiata da urlo e alquanto scontata, a mio parere.
«Bene perché mi serve la macchina dopo». Era tutto quello che volevo sapere, potevo ritenermi soddisfatta.
«Vai da lui?». La vidi stringere forte il volante tra le mani, tanto che le sue nocche diventarono bianche per lo sforzo.
«Lo sai che vado da lui». Mi sistemai meglio sul sedile e puntai lo sguardo dritto davanti a me. «E prima che tu possa aggiungere altro, ti conviene partire se non vuoi fare tardi agli allenamenti».
Queen sospirò ma fece come le avevo detto. Sapevo che non era finita lì e che lei era ancora pronta all’attacco, ma almeno sarebbe arrivata a scuola in orario.
«Lo sai che non puoi fare nulla per lui», borbottò all’improvviso, come volevasi dimostrare.
«Invece sì, gli fa bene vedermi».
«Linny, vorrei tanto che lui potesse capire, vorrei tanto che fosse come dici tu, ma non è così».
«Sì che lo è», la interruppi brusca. Era troppo presto per affrontare una conversazione del genere, la caffeina che avevo ingurgitato a colazione non era ancora entrata in circolo; tuttavia non le avrei permesso di dire una cosa del genere. «Non ti azzardare a dire ciò che stai pensando e lo so che lo stai pensando, perché sono tua sorella e ti conosco».
«Oh Linny…», sospirò mordendosi le labbra per non aggiungere altro.
«Io non l’abbandono, non l’abbandonerò mai», emisi in un sussurro.
«Nemmeno io lo farò, ma questo non cambia la situazione». Era vero, ma lei era diversa da me; il modo in cui gestivamo le cose, come affrontavamo la questione, era completamente differente.
«Fa bene anche a me Queen, come fa bene a lui, ti prego non insistere».
Fece un altro profondo respiro prima di cedere. «D’accordo, ma non credo che sia la cosa migliore almeno per te».
Non risposi non sapendo se avesse ragione o meno. Tuttavia non avrei cambiato idea: ciò che era meglio per me passava in secondo piano, soprattutto se così facendo avrei aiutato lui, anche in minima parte.
Il resto del viaggio trascorse tranquillo così come il resto della giornata. La scuola era, in un certo qual modo, il mio porto sicuro; non che fossi popolare o l’idolo della scuola, per quello c’era già Queen. Io ero piuttosto considerata la sua sorellina timida e tranquilla, forse anche un po’ strana. Però ero brava, i professori erano lieti di avermi nella loro classe; la bibliotecaria e le signore delle mense mi conoscevano talmente bene da riservarmi sempre qualche gentilezza e a me andava più che bene così. Non che fossi una di quelle sfigate che mangiano alla mensa tutte da sole, con la sola compagnia di un libro. Avevo il mio bel gruppo di amici – in realtà erano solo due: Lea ed Evan – e, anche se mangiavamo in un angolo appartato della sala, non eravamo noi il tavolo degli sfigati. O forse lo eravamo ma non ci importava.
Fatto sta che a scuola stavo bene, più che a casa; ero ormai all’ultimo anno, sapevo ciò che facevo e il fatto di essere la sorella di Queen in qualche modo mi premuniva da qualsiasi tentativo di sbeffeggiamento.
Ed era proprio per questo che quando mi sedetti al mio banco nell’aula di biologia, per l’ultima ora di lezione, la mia mente era già lontana mille miglia, ogni pensiero rivolto verso colui con cui di lì a poco avrei trascorso il resto del pomeriggio. E fu proprio per questo che non mi accorsi neanche del ragazzo che svettava in piedi in mezzo alla classe accanto al professore.
Fu solo quando sentii il mio nome uscire dalle labbra del prof Robbins che tornai coi piedi per terra.
«Puoi sederti lì, accanto alla signorina Jefferson». Vidi la sua mano indicare il posto vuoto accanto a me, che era rimasto tale fin dall’inizio dell’anno. E fu quando spostai lo sguardo accanto a lui che lo vidi per la prima volta.
Adesso, come in qualsiasi storia che si rispetti, dovrei dire che il mio cuore accelerò, che le farfalle cominciarono a girovagarmi nello stomaco, che quello che mi apparve davanti fu in assoluto il ragazzo più bello che avessi mai visto. Beh assolutamente no: quello che provai fu esattamente l’opposto. L’unica sensazione che mi trasmise il mio corpo fu un brivido lungo la schiena, e non fu certo un brivido di apprezzamento. Furono piuttosto sensazioni di paura e di disagio quelle che mi attanagliarono le viscere.
Il ragazzo che stava in mezzo alla classe e che presto avrebbe preso posto nel banco vuoto accanto al mio, aveva sicuramente due e tre anni più di me e dei miei compagni; era palese che fosse ripetente e che non dimostrasse semplicemente di più della sua età. Aveva delle spalle larghe e possenti, un fisico massiccio e muscoloso, capace di intimidire chiunque, e le braccia erano completamente ricoperte di tatuaggi. Spuntavano dalla maglietta a mezze maniche – chi diavolo se ne va in giro in quelle condizioni a metà novembre? – e arrivavano quasi fino alle mani, come un complicato intreccio di fili, lasciando pochissima pelle libera; i jeans a vita bassa erano strappati, i capelli mori erano tenuti indietro da un berretto da baseball, che non ne faceva intuire la lunghezza. E tutto questo sarebbe stato già abbastanza se non si fosse aggiunta la sua faccia: non erano tanto il piercing al naso, al labbro e al sopracciglio ad intimorirmi, era piuttosto la sua espressione. Aveva uno sguardo torvo e per niente rassicurante; si guardava intorno come un toro pronto a scattare.
Prima di continuare vorrei rassicurarvi sul fatto che io non ero e non sono tuttora una persona che discrimina in base al semplice aspetto fisico. Io di solito non sputo pregiudizi, non emetto sentenze, concedo a tutti il beneficio del dubbio. Tuttavia ero pur sempre cresciuta in una delle famiglie più rispettate ed agiate di quella piccola cittadina ed era naturale che la mia prima impressione fosse quella di sentirmi intimorita, e fu altrettanto normale che i miei primi pensieri non fossero proprio del tutto amichevoli.
“Che diavolo ci fa un tipo del genere nella nostra scuola? O meglio che cosa ci fa in un paese come questo?”. Non eravamo un paese minuscolo, ma neanche così grande da attirare quel particolare tipo di persone. Lui sembrava più un ragazzo da gang mafiosa di qualche assurda metropoli; non un semplice ragazzo da paese di campagna. Non ce l’avrei mai visto a cantare l’inno durante la parata del quattro luglio, o a raccogliere fondi per i bambini bisognosi durante le feste di Natale. Eppure era ciò che i nostri concittadini, me compresa, facevano ogni anno.
«Faresti meglio a chiudere la bocca se non vuoi che inizi a pensare che stai sbavando per me». Ero stata talmente presa dai miei pensieri da non essermi accorta che lui si era avvicinato e aveva preso posto al mio fianco, mentre io lo fissavo a bocca aperta come una perfetta idiota.
Serrai le labbra di scatto e voltai la testa dall’altra parte, sentendo le guance arrossire, non tanto per ciò che aveva detto ma per come l’aveva fatto.
«Comunque sono Trevor…». Con la coda dell’occhio notai che mi stava porgendo una mano, aspettando che io mi presentassi a mia volta.
«Kathleen», farfugliai stringendola.
«Piacere di conoscerti Kathleen». La sua voce era calda, così come la sua mano; non corrispondeva affatto alla figura che avevo davanti. Se fossi stata bendata non avrei mai associato una voce così profonda e roca ad un corpo come quello. Era come se tutta quella massa di tatuaggi e piercing avesse alterato l’aspetto naturale che avrebbe dovuto avere.
Prima che la mia mente partisse di nuovo per la tangente e prima che potessi fare altre figuracce, ritrassi la mano e puntai lo sguardo sul mio quaderno. Per tutto il resto del tempo mi concentrai sulla lezione, scribacchiando appunti incomprensibili e cercando di non fare caso al tipo inquietante seduto accanto a me. Non sapevo se lui mi stesse guardando o se avesse notato il mio disagio, ma l’unica cosa che volevo era terminare quella maledetta ora e poter sgommare via a bordo della mia Honda.
Proprio per questo sentire il suono della campanella fu un vero sollievo. Scattai in piedi quasi senza accorgermene e iniziai a rimettere i libri nello zaino alla velocità della luce. Stavo già per correre via verso la porta quando sentii di nuovo quella voce roca pronunciare il mio nome.
«Kathleen». Indugiava sulla “l” in modo particolare, dando a quella parola un suono leggermente diverso dal solito. E non ero sicura che fosse un diverso positivo.
Avrei tanto voluto far finta di non sentirlo, ma ero stata educata in un determinato modo e non ero il tipo da ignorare qualcuno che mi stava chiamando.
«Che c’è?», chiesi voltandomi di scatto. La domanda mi era uscita con un tono piuttosto scocciato.
«Volevo chiederti come pensi di organizzarci?». Lui era in piedi proprio davanti a me e solo in quel momento notai quanto fosse alto, almeno un metro e ottanta. Con una mano teneva una giacca di pelle appoggiata sulle spalle e mi stava fissando con aria interrogativa.
«In che senso?». Lo fissai perplessa domandandomi se la mia fervida immaginazione mi avesse fatto perdere qualche passaggio del discorso. Certe volte seguire il filo dei miei pensieri mi faceva sembrare un po’ svampita.
«Beh per il progetto». Si strinse nelle spalle come se fosse ovvio. «Immagino che tu l’abbia già iniziato».
Ah già il progetto di biologia! Ora era tutto chiaro. All’inizio di novembre il professore ci aveva assegnato un progetto a coppie sulla divisione cellulare; tuttavia visto che eravamo dispari ed io ero senza compagno di banco, avevo potuto scegliere se unirmi ad un altro gruppo oppure farlo da sola. Ovviamente, non essendo mai stata una grande amante della socializzazione, avevo scelto la seconda opzione, dato che comunque anche in tre persone avrei finito per fare io tutto il lavoro. Tutti sapevano che avevo una media altissima e che non volevo rischiare di sciuparla. Ecco come la domanda del mio nuovo “compagno” diventasse adesso più che lecita, anche se tutto mi sarei aspettata all’infuori del fatto che a un tipo come lui potesse in qualche modo importare dei compiti. Doveva aver già ripetuto l’anno, non poteva aspettare ancora un po’ prima di interessarsi all’argomento “scuola”?
«Senti Trevis», iniziai.
«Trevor», mi corresse.
Arrossii ma mi feci forza e continuai. «Non c’è bisogno che tu collabori. Ho già quasi finito».
«Immaginavo, ma dovremo farlo in coppie. Posso aiutarti…».
«Senti», lo interruppi, trovando più coraggio di quello che credevo di possedere. «Tu sei nuovo e dovrai ambientarti. Comunque metterò il tuo nome nel progetto, tranquillo, e dirò al prof che mi hai aiutato. Io ho una media di voti molto alta, se è questo che ti preoccupa. Tu avrai un voto alto senza nessuno sforzo e potrai concentrarti su qualsiasi altra cosa tu voglia».
La sua espressione si fece più truce e leggermente più spaventosa. «Ma…».
«Senti», lo interruppi di nuovo, con l’unico intento di scappare via da quella situazione. «Adesso devo proprio andare, ci vediamo eh». Senza dargli il tempo di ribattere corsi via dall’aula, disperdendomi nella folla che si stava riversando nei corridoi diretta al parcheggio.
Beh se non altro le lezioni di biologia non sarebbero più state tranquille come al solito. Avevo come la netta impressione che quel ragazzo avrebbe portato molti guai, e quelli erano proprio l’ultima cosa di cui avevo bisogno.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
Parcheggiai l’Honda nel primo posteggio libero che trovai di fronte allo stabile. Ormai quel posto mi era talmente famigliare che mi ci sarei potuta orientare anche ad occhi chiusi; avevo ripetuto ogni azione talmente tante volte da compierle ormai tutte in automatico. Sapevo, anche senza contarli, che c’erano dieci gradini che separavano la strada dalla porta di ingresso, mentre l’entrata per le barelle era situata sul retro. Sapevo che il lunedì, il mercoledì e il venerdì pomeriggio in portineria c’era Ross, mentre il martedì, il giovedì e il sabato lo sostituiva Carl; la domenica invece si alternavano a vicenda.
Conoscevo a memoria il tabellone con i piani e i reparti, sapevo dare indicazioni quasi meglio di un’infermiera. Avevo imparato che era più facile prendere l’ascensore di destra invece di quello di sinistra, anche se non ne capivo il motivo. Era sorprendente come arrivasse sempre prima dell’altro nonostante fossero identici.
Avevo anche imparato che una volta arrivata al terzo piano ci volevano solo dieci passi prima di ritrovarsi di fronte alla porta del reparto a lunga degenza, così come sapevo che una volta entrata dovevo percorrere quasi tutto il corridoio per poi svoltare a destra prima di ritrovarmi davanti al bancone dell’infermiere. Da lì dovevo proseguire per altri trenta passi per arrivare davanti alla sua porta. Era tutto così normale nella sua anormalità che avrei potuto farlo ad occhi chiusi.
«Ehi Kathleen, sei passata anche oggi?». L’infermiera che in quel momento stava sistemando varie attrezzature mediche in un carrello mi rivolse un sorriso gentile.
«Ciao Charlotte!», la salutai, contenta che per quel giorno ci fosse lei e non Lina. «Come sta la bambina? È guarita dall’influenza?».
«Sì per fortuna, anche se ora ad essersi ammalato è mio marito».
«Beh almeno tu resisti», le feci notare.
«Sì ed è un vero miracolo». Scoppiò a ridere ed io la lasciai a fare il suo lavoro, per dirigermi verso colui a cui non facevo altro che pensare.
Appena entrai nella stanza vidi subito i fiori sul comodino, segno che la mamma era stata lì. Per quanto potessimo non andare d’accordo, quello era forse l’unico fattore in comune che avevamo. Sapevo che passava da lui ogni mattina e che trascorreva là un paio d’ore, quelle stesse ore che probabilmente prima avrebbe speso a conversare con le sue amiche. Su quel punto non potevo dirle niente, era irreprensibile; non lo dava a vedere e non voleva che si sapesse, ma ero certa che una parte di lei fosse morta con lui il giorno dell’incidente, così come era morta una parte di me. D’altronde era il suo bambino ed era il mio fratellone, non sarebbe potuto essere altrimenti. Per quanto entrambe tentassimo, una parte di noi era rimasta con lui e non si era più staccata.
«Ciao Jamie, eccomi di nuovo qua». Feci un respiro profondo e spostai lo sguardo dal comodino al letto; non erano tanto i macchinari o l’attrezzatura medica a farmi impressione, quanto invece il notare quanto fosse dimagrito e smunto rispetto alla persona che conoscevo e amavo. Era solo l’ombra di quello che era un tempo.
L’avevano definito “stato vegetativo”; quando i medici ce l’avevano detto, avevo subito fatto ricerche su internet e sui libri di medicina della scuola. “Lo stato vegetativo è una condizione di possibile evoluzione del coma caratterizzata dalla ripresa della veglia, senza contenuto di coscienza e consapevolezza di sé e dell'ambiente circostante”, così recita Wikipedia. Beh un’approssimazione bella e buona dal mio punto di vista.
In medicina non erano contemplate molte possibilità di ripresa, non via via che il tempo passava; anche se si fosse risvegliato non sarebbe stato più lo stesso, non avrebbe più potuto condurre una vita normale. Era questo quello che cercava di ripetermi Queen in continuazione; lui era ancora vivo, ma era come se non lo fosse. Non sarebbe più tornato il mio Jamie, anche nell’eventualità che si fosse risvegliato; l’avevo perso per sempre anche se era esattamente lì accanto a me.
Questo lo capivo, ero consapevole che oramai non potevamo più fare nulla per lui se non aspettare. Ma il fatto che lo capissi non significava che lo accettassi. Sapevo che dal punto di vista razionale l’arrabattarsi ad andare da lui, a tenerlo legato a me, era inutile ma non riuscivo a fare altro. Lui era la persona che meglio mi capiva al mondo e non riuscivo a lasciarla andare e basta, non quando c’era ancora una minuscola scintilla di vita in lui.
Quando Queen aveva affermato che sarebbe stato meglio se James fosse morto nell’incidente, io mi ero arrabbiata così tanto che non le avevo rivolto la parola per settimane. Tuttavia capivo che aveva ragione: non era più vita per lui quella, anche se dal punto di vista medico e giuridico era esattamente il contrario.
Tuttavia una minuscola parte di me ci sperava ancora, andando contro a tutto il mio raziocinio. Avevo letto studi su persone che si erano risvegliate e che potevano in qualche modo riprendere la loro vita. Non sarebbe più stato Jamie al cento per cento, però avrei dato di tutto pur di sentire la sua voce o di vedere il suo sorriso. Probabilmente avrebbe avuto gravi deficit motori e altri gravi danni, ma sarebbe rimasto comunque il mio Jamie. Ero arrivata al punto di accontentarmi anche dell’ombra di quello che era.
Ricacciai indietro le lacrime come ero abituata a fare da più di due anni e mi diressi accanto al suo letto. Jamie aveva gli occhi aperti, a volte capitava visto che alternava i cicli di sonno veglia, ma il suo sguardo era assente. I suoi bellissimi occhi verdi erano due pozze inesistenti ormai.
Mi sedetti sul letto accanto a lui, scartando la sedia che c’era al lato e gli presi una mano.
Non sapevo se riuscisse o meno a sentirmi o se sentire la mia voce potesse in qualche modo aiutarlo o fosse solo un inutile spreco di fiato. Io però continuavo a farlo, era l’unica cosa che mi restava. «Lo so che dovrei essere a studiare a quest’ora, ma avevo voglia di vederti. Sto continuando il diario, devo leggerti cosa altro ho scritto. Ultimamente ho talmente tanti pensieri che mi frullano in testa che mi sa che finirò presto anche questo quaderno». Tirai fuori dalla borsa il mio fedele compagno, in modo tale da potergli leggere ciò che avevo buttato giù negli ultimi giorni.
«Oggi a scuola è arrivato un tipo stranissimo», aggiunsi prima di aprirlo. Non sapevo perché mi fosse venuto in mente proprio in quel momento, forse solo perché poteva essere una bella storia e a Jamie sarebbe piaciuta. «Dovresti vederlo: mette paura. È pieno di tatuaggi e piercing e ha una faccia; sembra uscito dal riformatorio. Frequenta con me biologia all’ultima ora, è il mio nuovo compagno di banco. Non ti devi preoccupare, però, farò attenzione fratellone, come sempre». Abbozzai un sorriso immaginando il suo fare protettivo; probabilmente sarebbe tornato indietro dal college solo per controllare che io fossi al sicuro da quel brutto ceffo. Jamie era sempre stato così buono, gentile ed iperprotettivo con me e anche con Queen.
Sorrisi di nuovo immaginando esattamente ciò che avrebbe detto o fatto, prima di abbandonarmi alla lettura. In quel momento purtroppo non mi restava altro: per fortuna avevo ottimi ricordi ed una fervida immaginazione.
 
«Allora, cosa si dice in giro?». Destreggiandomi col vassoio, presi posto al tavolo della mensa di fronte a Lea ed Evan, sentendo il mio stomaco borbottare.
«Dove l’hai presa quella?», mi domandò Evan indicando il mio pezzo di pizza fumante.
«Me l’ho lasciato da parte Claire, la signora della mensa. Perché?».
«Maledetta ragazza fortuna». Osservai il suo piatto dove faceva bella mostra qualcosa di indefinito. Ah già: era giovedì! Il giovedì non era mai un buon giorno se arrivavi in mensa leggermente in ritardo.
«Quello dovrebbe essere…». Lasciai la frase in sospeso, trattenendo un sorriso.
«Polpettone», borbottò lui. «Ripeto: maledetta ragazza fortunata».
«Lascialo stare Linny, o ricomincerà a lamentarsi», intervenne Lea.
Trattenni una risata e cambiai subito argomento. «Allora che novità ci sono? Lea cosa dice la tua fonte accreditata di gossip studentesco?».
«Beh dice che c’è una grossa novità, ed è proprio in coda alla mensa in questo momento».
Feci per voltarmi ma Evan mi trattenne per un braccio. «Linny, sei impazzita? Non ti voltare».
«Ma come faccio a vedere allora?», sbottai.
«Sii discreta», mi suggerì Lea, «anche se non ce ne sarebbe bisogno, penso che abbia già addosso gli occhi di tutta la scuola. Basta che ti volti leggermente verso destra».
Feci come mi aveva detto e riuscii a scorgere colui che aveva attratto l’attenzione generale. Non era difficile notarlo ed era palese che i miei amici stessero parlando di lui. Chi poteva fare tanto scalpore se non Trevor, il teppista appena comparso nella nostra scuola?
«Si chiama Trevor», dichiarai.
«E tu come fai a saperlo?». In un secondo avevo completamente attratto l’attenzione dei miei due amici. Di solito ero sempre l’ultima a sapere le cose, almeno quelle che riguardavano il gossip studentesco.
«Frequenta biologia all’ultima ora con me», spiegai addentando il mio pezzo di pizza.
«E…?». Lea mi guardò esasperata esortandomi a dire di più.
«E niente. È il mio nuovo compagno di banco, purtroppo». Scrollai le spalle e assunsi un’espressione corrucciata.
«Purtroppo?». Evan mi guardò come se avessi due teste. «Io direi grazie a Dio!».
«Stai scherzando? Ma l’hai visto?». Forse non aveva notato l’aria losca e l’espressione truce. Metteva i brividi e tutta la scuola se ne rendeva conto.
«Certo che l’ho visto, ragazza. Mi domandò se l’hai visto tu? Darei un rene per poter passare un’ora accanto a dei bicipiti del genere». Lo fissai sbigottita non riuscendo a trovare le parole giuste per replicare a quell’affermazione: certe volte i gusti del mio amico mi lasciavano molto perplessa.
«Non credo che tu possa essere il suo tipo Evan», intervenne Lea.
«Che ne sai tu? A volte sono i tipi più insoliti quelli che ti possano sorprendere. Potrei aiutarlo io a fare coming out».
«Credo proprio che il tuo gay radar sia rotto», commentai. «E comunque cosa ci trovi di tanto interessante? Mette i brividi».
Evan scosse la testa ed assunse la sua espressione saccente. «Povera innocente Linny. È proprio questo, è quell’aria da cattivo ragazzo, quel fare misterioso, sembra proprio il tipo che riuscirebbe a mandarti in paradiso e all’inferno nello stesso istante».
«Non capisco», ammisi, dando un altro morso alla pizza.
«Beh su questo Evan ha ragione», intervenne Lea. «Ha un che di tormentato e di ribelle che affascina, per non parlare del fatto che in fin dei conti resta un bel ragazzo».
«Non per me», ribattei.
«Linny, tu non fai testo», mi liquidò l’altro. Lea gli tirò una gomitata per farlo tacere, ma lui continuò imperterrito. «Tu non hai neanche mai baciato un ragazzo, o meglio non hai neanche mai voluto tentare di baciarne uno. Se solo volessi, ci sarebbero un sacco di ragazzi interessati a te; tu invece rifiuti senza neanche contemplare la possibilità. Ho più esperienza io di te, e sono un ragazzo gay in una piccola cittadina; questo è tutto dire».
Aveva ragione, ma lui sapeva anche come stavano le cose. A volte la schiettezza di Evan era difficile da sopportare. Abbassai lo sguardo e lo puntai sul mio vassoio, sentendomi improvvisamente demoralizzata. Sarebbe stata sempre così la mia vita? Io che restavo la stesa mentre tutti gli altri andavano avanti?
«Lo sai perché», mormorai con un filo di voce.
«Certo che lo sa il perché», intervenne Lea. «È solo talmente stupido da non ricordarsi di pensare prima di dare aria a quella boccaccia».
Vidi con la coda dell’occhio la mia amica tirargli un’altra gomitata per indurlo a parlare.
«Già Lea ha ragione», borbottò. «Non volevo che mi uscisse così; volevo solamente ricordarti che anche tu hai la tua vita e che vorrei che tu fossi felice. Non è detto che tu non possa esserlo senza tuo fratello».
Rialzai lentamente lo sguardo fino ad incrociare gli occhi neri del mio migliore amico. «Lo so, ma non è così semplice. Lo vorrei ma…». Non finii la frase perché entrambi sapevano come l’avrei conclusa. “Io non ci riesco”.
«Comunque», cambiò argomento l’altra con mio grande sollievo, «da quel che si dice in giro, pare che sia arrivato ieri in mattinata e per questo ha potuto seguire solo le lezioni del pomeriggio; ieri infatti a mensa non c’era, altrimenti l’avremmo notato. Pare che si sia trasferito qua da Boston: i suoi genitori sono divorziati e sembra che lui sia venuto a vivere qua col padre e con la sua nuova moglie, cioè la sua matrigna».
«E sei riuscita a scoprire tutto questo in una sola mattinata?», la guardai stupita non sapendo come diavolo facesse.
«Nell’ora di storia, a dire il vero. Karen Wilson è una rana dalla bocca larga e, per sfortuna di Trevor, frequentano entrambi matematica alla prima ora». Accennai un sorriso pensando a quella pettegola, non che la mia amica fosse da meno, ma almeno lei non se ne andava in giro a sparlare della gente.
«Durante la terza ora poi ho avuto il piacere di osservarlo con attenzione», continuò. «Come hai detto tu si chiama Trevor Simons, quindi immagino che suo padre sia Simons della ferramenta. Non sapevo che avesse avuto una prima moglie e addirittura un figlio, a quanto pare ci sarà molto da sparlare per i prossimi mesi».
«Certe volte le tue doti da stalker mi fanno paura», ammisi, ingurgitando l’ultimo pezzo di pizza e bevendo una sorsata d’acqua.
«Non è stalking è solo attenzione ai dettagli», si giustificò lei.
«Per me è stalking», commentò Evan. Purtroppo il suono della campanella interruppe la nostra conversazione. Lea si alzò controvoglia, pronta ad andare in palestra, mentre io ed Evan, che seguivamo insieme spagnolo, ci dirigemmo con molta calma verso la nostra lezione.
«Mi dispiace per prima», mi disse all’improvviso. «Certe volte dovrei stare zitto».
«Non importa». Gli rivolsi un sorriso e lo presi per mano. «So come sei fatto e so anche che in parte hai ragione».
«Come stava ieri?». Era carino che me lo chiedesse, d’altronde me lo domandava tutte le volte. Era per questo che gli volevo un mondo di bene.
«Al solito».
«È proprio uno schifo», commentò.
«Già è proprio uno schifo». Non c’era bisogno di aggiungere altro: era la pura e semplice verità e lo sapevamo entrambi.
 
Il resto delle lezioni trascorse tranquillo: passai dall’armadietto per cambiare i libri, ritrovai Lea ed Evan a lezione di inglese e poi mi diressi con tutta calma verso l’aula di biologia. Visto che l’aula di inglese era proprio nel corridoio dietro, fui una delle prime ad arrivare in classe e questo mi diede la possibilità di prendere il libro che avevo in borsa e di poter leggere per un po’. Beh il fatto che non fossi una di quelle persone che se ne sta a leggere un libro tutta sola durante la pausa pranzo, non escludeva che lo facessi negli altri ritagli di tempo. Era una sorta di mia ossessione: amavo leggere quasi quanto amavo scrivere.
Ero talmente presa dalla storia che non sentii nemmeno il rumore di alcuni passi avvicinarsi, né notai lo scostarsi della sedia accanto alla mia. Se non avevo sentito niente di tutto ciò come potevo accorgermi di due occhi fissi su di me? Ero nella mia bolla, completamente presa dalla vicenda che stavo leggendo.
«Ehm… ehm». Un colpo di tosse forzato vicino al mio orecchio, mi costrinse ad abbandonare la mia storia e a tornare alla realtà.
Quando alzai la testa mi ritrovai immediatamente catapultata in un oceano profondo. Trevor mi stava fissando ed era talmente vicino che riuscivo quasi a sentire il suo respiro sulla mia pelle. La sua espressione era seria e truce come il giorno prima, ma ciò che mi sorprese furono i suoi occhi; non avevo prestato punta attenzione al suo sguardo altrimenti mi sarei accorta prima di quelle iridi azzurre, così chiare da potercisi specchiare dentro. Erano in netto contrasto con il resto del corpo, esattamente come la sua voce.
«Ciao…», balbettai, trovandomi a corto di parole sotto quello sguardo indagatore.
«Ciao Kathleen». Qualcosa nel mio stomaco si contrasse sentendo la sua pronuncia e sentii le guance avvampare. Lui non sembrò farci caso e continuò a fissarmi con la stessa identica espressione.
«Vuoi qualcosa?», farfugliai, tirandomi inconsciamente indietro.
«Beh in realtà sì». Si spostò più avanti, rendendo vano il mio movimento e facendomi sentire ancora più a disagio. Inspirai col naso e sentii il suo odore avvolgermi completamente: aveva un buon profumo, una sorta di odore muschiato anche quello in contrasto con il suo aspetto. Tuttavia la mancanza di spazio tra noi mi fece sorvolare su quel particolare per concentrarmi sulla sua eccessiva vicinanza, i nostri corpi erano solo a qualche centimetro di distanza.
«Non è carino», sbottai senza accorgermene, dando voce ai miei pensieri.
Lui alzò un sopracciglio, quello col piercing, e mi guardò perplesso.
«Non è carino», continuai avvampando sempre di più, «invadere lo spazio personale. Le persone si sentono a disagio se invadi il loro spazio e adesso tu stai invadendo il mio, quindi mi fai sentire a disagio». Avevo parlato a macchinetta, come sempre quando qualcuno mi rendeva nervosa.
«D’accordo». Con mia grande sorpresa si tirò indietro, riprendendo il proprio posto e rendendomi di nuovo il mio spazio.
«Grazie», sussurrai, nascondendomi dietro i miei folti ricci. Certe volte i miei capelli erano anche un vantaggio, chi l’avrebbe mai detto!
«Volevo sapere se ci hai ripensato», continuò lui.
«Ripensato? A cosa?». Iniziai a giocherellare intrecciando le dita tra di loro, senza mai staccare lo sguardo da esse. Sentivo il cuore battermi forte nel petto e non sapevo bene come interpretare la cosa. Trevor mi metteva così in soggezione da farmi agitare a quel punto? In fondo non lo conoscevo neanche, sarebbe stato come parlare ad un perfetto estraneo. Di solito riuscivo a tenere una conversazione normale con chi non conoscevo, perché non potevo fare altrettanto?
«Al progetto», continuò rispondendomi. «Voglio collaborare, voglio aiutarti». Quella richiesta mi sorprese ancora di più: era probabilmente l’unico ragazzo della scuola che non volesse avere un voto alto senza dover fare nulla. Se me l’avessero offerto a me, io avrei accettato senza esitazioni.
«Perché?». La curiosità vinse la mia timidezza, tanto che mi voltai a guardarlo ritrovando quegli occhi mozzafiato. Un momento avevo appena definito i suoi occhi mozzafiato?
«Beh perché non credo che sia giusto che sia tu a fare tutto il lavoro. Io voglio fare la cosa giusta».
Carino da parte sua, decisamente insolito, ma carino. Forse il suo aspetto non diceva veramente tutto di lui.
«Senti, apprezzo l’offerta, ma non c’è davvero bisogno, okay? Ci penso io». Per fortuna l’ingresso del professore mi salvò da quella conversazione. Sapevo però che non era ancora finita: Trevor non sembrava un tipo da arrendersi facilmente.
Non capivo perché per lui fosse tanto importante: in fondo era appena arrivato, poteva benissimo ambientarsi invece di darmi il tormento per una cosa così insulsa. “Voglio fare la cosa giusta”, aveva detto. Beh non credevo che barare su un compito di biologia fosse poi così sbagliato. Quella frase sembrava significare molto di più, ma in fondo stavamo solo parlando di un insulso progetto scolastico. Chi non aveva copiato almeno una volta nella vita? A parte me, ovviamente, ma io ero un caso a parte.
Quel Trevor era davvero un mistero. Forse Evan non aveva sbagliato a definirlo misterioso, ma non ero sicura di voler essere io la ragazza costretta a far luce ai suoi scheletri nell’armadio, a tutte le ragnatele che si portava dietro. Ed oltre a questo c’era stata la reazione esagerata del mio corpo; non mi era mai capitato di sentirmi così, ma non pensavo fosse attrazione quella che provavo. Anzi tutt’altro: lui mi intimidiva.
Per fortuna, a salvarmi da un altro suo possibile attacco, intervenne proprio il prof Robbins, che al termine dell’ora, richiamò l’attenzione del mio compare.
«Signor Simons, se può trattenersi dopo la lezione, potremo fare un attimo il punto della situazione».
Salvata in extremis. Così non appena sentii il suono della campanella fui libera di sgusciare fuori dall’aula, mentre Travor fu costretto a rimanere al suo posto in balia del professore di biologia.
Visto che Queen aveva gli allenamenti con le cheerleader e che fuori faceva piuttosto freddo, decisi di rintanarmi in biblioteca a studiare, in attesa che anche lei fosse pronta a tornare a casa. D’altronde avevo anche molti compiti da fare, quindi starmene in un angolino appartato della biblioteca poteva avere i suoi vantaggi. Scrissi un breve messaggio a Queen avvisandola di farmi uno squillo quando avesse finito e mi immersi nello studio.
Studiare mi riusciva bene e non mi pesava; quando ero concentrata su qualcosa il tempo sembrava volare e così fu anche quella volta. Erano trascorse un paio d’ore quando il mio telefono vibrò, avvisandomi che mia sorella mi aspettava all’armadietto.
«Ciao Queen», la salutai quando arrivai da lei, affrettandomi a mettere tutti i libri al proprio posto. «Come è andata oggi?».
«Sono distrutta», ammise, trattenendo uno sbadiglio. «Gli allenamenti sono stati tremendi. Mi sento le gambe tutte indolenzite. Per fortuna avevo già fatto il compito di storia per domani».
«Io l’ho finito proprio adesso», ammisi. Storia era uno dei pochi corsi che frequentavamo insieme; non sapevo dire se fosse un bene o un male.
«Ti va di guidare? Ho promesso a Sean che l’avrei chiamato». Non aspettò una mia risposta e mi passò direttamente le chiavi.
Quando uscimmo nel parcheggio il cielo era già scuro e l’aria gelida di novembre ci fece rabbrividire, facendoci stringere nei cappotti. Ormai erano rimaste solo poche auto e individuammo subito la nostra, ma ciò che sicuramente non ci aspettavamo, né io né lei, fu lo scorgere un ragazzo seduto proprio sul cofano della nostra adorata Honda.
Non riuscimmo a capire subito di chi si trattasse, era troppo buio ed eravamo troppo lontane. Solo quando fummo a una decina di metri di distanza riuscimmo a scorgerne i tratti per quel tanto che bastava ad individuarne l’identità. E quando finalmente compresi chi avevamo davanti sentii il cuore in gola e un brivido risalirmi lungo la schiena. Non doveva essere un caso che avesse scelto di starsene seduto sulla mia macchina e il fatto che sapesse quale fosse era alquanto inquietante.
«Ma è chi penso che sia?», mi domandò Queen. Era ovvio che anche lei lo conoscesse, tutta la scuola aveva avuto in bocca il suo nome per tutto il giorno. «E che diavolo ci fa sulla nostra auto?».
«Trevor…», sbottai, non sapendo se essere infastidita o inquietata dalla sua presenza.
«Kathleen», fece lui scendendo dal cofano.
«È tuo amico?». Mia sorella guardò prima me e poi lui, non sapendo più cosa pensare.
«Frequentiamo biologia insieme», rispose lui prima che potessi farlo io. «E tu sei?».
«Queen, sua sorella». Avanzò graziosamente verso di lui per stringergli la mano. «Mi sa che abbiamo matematica alla stessa ora».
«Ah davvero? Non ti ho notata», la liquidò, puntando lo sguardo su di me. Vidi Queen accigliarsi; sicuramente era la prima volta che qualcuno prestava attenzione a me invece che a lei, ma di sicuro non era per i motivi che poteva immaginare.
«Cosa ci fai qua Trevor?», gli chiesi circospetta.
«Ti aspettavo, mi pare ovvio. Non abbiamo finito il nostro discorso».
«Come diavolo facevi a sapere che questa era la mia macchina?». Sottotesto: “sei uno stalker?”
«Beh ti ho visto ieri scappare di corsa e salire in auto. Non è stato difficile riconoscerla nel parcheggio».
«In realtà ci sono un sacco di Honda», gli fece notare Queen, «avresti potuto aspettare su quella sbagliata».
«Sono bravo con le macchine». Alzò le spalle e tornò a guardarmi. «Soprattutto quando ho un buon motivo per impegnarmi».
Mi sentii le guance andare a fuoco. Quella sua frase era alquanto equivoca, poteva quasi sembrare che fosse interessato a me e non solo al mio compito di biologia. Ed infatti vidi Queen assottigliare lo sguardo e studiarmi in maniera approfondita.
«Ed hai aspettato qua al freddo per più di due ore?», domandai con un filo di voce.
«Come ho detto avevo un buon motivo e il freddo non mi da fastidio». Alzò di nuovo le spalle come se fosse ovvio e come se la questione fosse ormai conclusa.
«Cosa vuoi Trevor?», borbottai di nuovo.
«Partecipare al progetto di biologia, mi pare ovvio. Con te». All’ultime due parole sentii il cuore perdere un colpo; non aveva bisogno di specificare quel particolare eppure l’aveva fatto.
«Perché per una buona volta non accetti il favore che ti sto facendo?». Era così difficile per lui o si divertiva solo a darmi il tormento?
«Perché no, non voglio».
«Dio! Sei impossibile», esplosi. Non mi era mai successo di sbottare in quel modo di fronte ad una persona che conoscevo così poco, ma Trevor, oltre ad innervosirmi, sapeva sicuramente esasperarmi.
«Beh tu sei impossibile», ribatté. «La mia è una richiesta più che lecita».
«Tu non sei normale», emisi in un sussurro. Ero talmente irritata da avere perso il controllo della mia bocca.
Trevor mi guardò per un attimo e poi sorrise, ed il suo era un sorriso vero e sincero. Era la prima volta che la sua espressione truce scompariva del tutto ed era sorprendente come potesse apparire diverso senza quella sua aria torva. «Non ho mai detto di esserlo».
«Beh Linny mi vuoi spiegare cosa sta succedendo?». Queen mi guardò aspettando una spiegazione che non arrivò perché Trevor riprese come se non lei non avesse parlato.
«Senti ti conviene arrenderti, ho io il coltello dalla parte del manico. Vedrai che non sarà così male collaborare con me».
«Cosa ti fa credere di avere il coltello dalla parte del manico?». Perché tanta sicurezza?
«Beh semplice: potrei andare dal professore e dirgli che tu non mi lasci collaborare. Credi che sarà contento di saperlo?».
Mi accigliai riconoscendo che aveva ragione. «Non oseresti».
«Mettimi alla prova».
«Tutti odiano i lecchini», gli feci notare.
«Dovrei essere lusingato dal fatto che ti preoccupi del mio status sociale, ma credo che non potrei scendere molto più in basso di così al momento». In effetti aveva ragione di nuovo.
«E va bene», sbottai infine. «Puoi aiutarmi».
«Fantastico», esultò e sul suo volto si disegnò un sorrisetto sprezzante. «Per oggi è tutto quello che volevo sapere, a domani Kathleen». Si voltò per allontanarsi incrociando le mani dietro la testa.
«Tutto per uno stupido compito», proruppi. «Sei proprio strano!».
Le sue spalle si alzarono e si abbassarono, come se fosse scosso da una risata. Quasi nello stesso istante alzò una mano in cenno di saluto ed io nonostante tutto non riuscii a trattenere un sorriso.
«Cosa diavolo è successo?», mi domandò Queen qualche secondo dopo.
«Niente lascia perdere», cercai di cambiare discorso. «Saliamo in macchina piuttosto. Qua fuori si congela». Fece come le avevo detto, ma sapevo che la tempesta Queen non era certo terminata.
«Allora mi vuoi spiegare?», mi domandò non appena fui uscita dal parcheggio.
«Niente è solo per uno stupido compito che io ho già quasi finito e che lui vuole a tutti i costi fare con me».
«Gli piaci?».
«Eh cosa?». Inchiodai ad un semaforo sentendo le sue parole. «Non dire sciocchezze».
«Beh se no perché avrebbe insistito tanto?». Il suo ragionamento non faceva una piega, ma non poteva aver ragione.
«Non lo conosco neanche. Ci ho parlato si e no cinque minuti, come posso piacergli?».
«Non lo so, dimmelo tu?».
«Beh ma l’hai visto?». Cioè ero così disperata da attrarre tipi del genere?
«È fico». Per poco non inchiodai di nuovo.
«Mi stai prendendo in giro?». Ma l’aveva guardato per bene?
«Beh sì è ovvio che alla mamma prenderebbe un colpo se lo portassi a casa, e che a prima vista possa sembrare un tipo poco raccomandabile, ma la sua insistenza per una cosa così stupida è carina».
«Ti ha snobbato», mormorai senza rendermene conto.
«Già», ammise con un pizzico di disappunto. «Mi ha snobbata ed è la prima volta che succede».
«Te l’ho detto è strano e inquietante ed io non gli piaccio, è solo… strano». Beh non trovavo altre parole per descriverlo.
«Un po’ inquietante lo è in effetti». Queen scoppiò a ridere, probabilmente ricordando il modo in cui Trevor si era appostato sulla nostra macchina.
«Un po’ tanto». Sorrisi anch’io e senza volerlo sentii di nuovo le gote scaldarsi al ricordo di ciò che lui aveva fatto o detto.
«Beh ricorda Linny: non sempre inquietante è negativo».
«Non sono sicura che sia questo il caso».
«E a volte», continuò come se non mi avesse sentito, «le cose non vanno sempre come si è programmato, a volte bisogna prenderle così come vengono». Che perla di saggezza! Eppure era la pura e semplice verità ed io avrei dovuto saperlo bene. Tuttavia non ero per niente brava a metterla in pratica. Ero perfetta nell’organizzare e programmare, ma affrontare gli imprevisti era tutto un altro paio di maniche. E Trevor era sicuramente qualcosa, o meglio qualcuno, che non avevo assolutamente pianificato.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
Il giorno dopo non passò molto tempo prima che ricevessi un altro “attacco” dal mio inquietante e misterioso stalker. Stavo prendendo i libri per le lezioni della mattina dall’armadietto quando ebbi la netta sensazione che qualcuno mi stesse osservando; ed infatti, pochi secondi dopo, un fisico possente si appoggiò all’armadietto accanto al mio.
«Buongiorno Kathleen». Trevor teneva la testa appoggiata ad una mano e mi stava studiando con uno sguardo indagatore.
«Buongiorno», balbettai e purtroppo sentii il viso avvampare involontariamente. Era sempre bello sapere di non avere un briciolo di controllo sul proprio corpo.
«Arrossisci spesso o sono io che ti faccio questo effetto?». Con l’altra mano mi sfiorò una guancia con il semplice risultato di farmi arrossire ancora di più. Se avessi continuato così, sarei diventata presto un pomodoro vivente.
«Io…», balbettai puntando lo sguardo sulla copertina del libro di matematica. Perché diavolo mi comportavo così? Perché perdevo l’uso della parola in sua presenza?
«Sì lo so, la questione dello spazio». Senza aggiungere altro, si tirò indietro e lasciò che tra di noi si ristabilisse la giusta distanza. Beh in quel caso non era solo quello il problema.
«Grazie», sussurrai non sapendo bene per che cosa lo stessi effettivamente ringraziando.
«Comunque sei tu che mi fai uno strano effetto», aggiunsi senza rendermene conto, «di solito non arrossisco». Di male in peggio: in sua presenza o perdevo l’uso del linguaggio articolato o mi si scioglieva la lingua dando voce a cose che avrei fatto meglio a tenere per me.
Trevor sorrise lasciando da parte la sua aria truce. «Beh di solito faccio questo effetto alle donne, è il mio fascino da cattivo ragazzo».
«Forse è solo per i piercing e i tatuaggi», aggiunsi di nuovo senza pensare.
«Certo, per i tatuaggi», ridacchio. «Oppure perché sono di una bellezza imbarazzante. Chiunque si sentirebbe in difetto di fronte a tutto questo ben di Dio». Con un gesto della mano indicò il suo corpo ed io, senza volerlo, mi ritrovai a sorridere, sentendo l’imbarazzo scivolare lentamente via.
«Comunque», aggiunse cambiando discorso, «volevo chiederti se ti andava di restare oggi dopo la scuola per il nostro progetto». Il mio cuore fece una capriola sentendo la parola “nostro”.
«Mi dispiace, non posso». Chiusi l’armadietto respirando a fondo e concentrandomi sull’inserire la giusta combinazione.
«Ehi hai promesso! Non vorrai mica rimangiarti la parola?».
Mi voltai verso di lui trovando finalmente il coraggio di guardarlo negli occhi; quella mattina erano ancora più chiari del giorno prima. «No certo. Solo che oggi non posso». O meglio avrei potuto, ma non volevo rimandare la mia abituale visita a Jamie.
Tuttavia Trevor si stava sforzando di essere gentile con me ed io dovevo cercare di fare altrettanto. «Perché invece non ci troviamo domattina?», proposi.
«Ma è sabato», protestò assumendo un’espressione corrucciata.
«Lo so, ma la scuola e la biblioteca sono aperte lo stesso».
«Sì ma ripeto: è sabato ed è mattina».
«Beh prendere o lasciare», affermai incrociando le braccia al petto.
«Il tuo impegno è davvero così importante? Non puoi rimandare?». Per un attimo mi ero scordata che lui, essendo nuovo, non era a conoscenza della storia di mio fratello, altrimenti avrebbe capito il motivo del mio diniego.
«No, mi dispiace». Gli rivolsi un sorriso sincero, sentendomi per una volta libera dalla compassione che leggevo sullo sguardo della maggior parte dei miei compagni da due anni a quella parte.
«Non posso fare nulla per convincerti?». Mi rivolse un sorrisetto malizioso prima di continuare. «Beh in realtà avrei in mente diverse cosette interessanti da proporti per farti cambiare idea, ma ho come l’impressione che non funzionerebbe con una ragazza come te».
Arrossii di nuovo, forse più imbarazzata di prima, ma stranamente un sorriso mi si disegnò sulle labbra. «No hai ragione, non funzionerebbe».
«E sia», acconsentì sfoderando uno sguardo da cane bastonato. Il contrasto tra il suo volto da duro e la sua espressione era talmente comico che mi scappò un risolino.
«A che ora?», aggiunse con voce roca.
«Alle otto?». O era troppo pesto?
«Dio! Kathleen Jefferson mi ucciderai ancor prima di conoscermi». E così dicendo si allontanò lasciandomi da sola, con un sorriso divertito stampato in faccia.
«È davvero chi credo che fosse?». La voce di Evan mi fece voltare, facendomi distogliere lo sguardo dalla schiena di Trevor che si stava allontanando tra la folla.
«Sì», ammisi. «Domani studiamo insieme».
«Ti ho già detto che sei una maledetta ragazza fortunata?». Almeno un milione di volte, ma forse quella era la prima in cui potevo quasi pensare che forse avesse ragione.
 
Nonostante fossi preoccupata per la mia sessione di studio con Trevor – non sapevo se preoccupata fosse il verbo giusto, forse intimorita? Agitata? Non volevo neanche ipotizzare il fatto che fossi semplicemente emozionata – il tempo volò via velocemente. Così velocemente che mi ritrovai a guidare in ritardo sulle strade ghiacciate diretta a quella sorta di appuntamento. Purtroppo per me non avevo previsto la gelata della notte e così avevo perso tempo a sghiacciare e a spannare la macchina. Essere in ritardo era una cosa che normalmente mi infastidiva; esserlo in quell’occasione mi irritava ancora di più.
Quando finalmente arrivai a scuola, trovai Trevor ad aspettarmi appoggiato sulla soglia d’ingresso con indosso la stessa espressione truce che gli avevo visto il primo giorno. Non portava il cappello e i suoi capelli li ricadevano sulla fronte in ciocche scompigliate; erano neri come la pece, né lunghi né corti, ma il modo in cui vi passò le dita fece fare una sorta di capriola al mio stomaco. Era possibile che anche una semplice capigliatura potesse renderlo ancora più sexy e misterioso? Un momento avevo appena usato la parola “sexy”? Dovevo assolutamente smetterla con quei pensieri prima di partire per la tangente; avevo già accumulato abbastanza figuracce con lui da bastarmi per una vita intera.
«Finalmente sei arrivata!», esclamò. «Per un attimo ho pensato che mi avresti dato buca».
Guardai l’orologio: segnava le otto e venti. Non ero in ritardassimo, però lui aveva tutte le ragioni per essere infastidito. «Mi dispiace, non avevo considerato il ghiaccio».
«Non ho il tuo numero di telefono e non sapevo come contattarti», mi fece notare. «E poi se mi avessi dato davvero buca per farti dispetto avrei proprio voluto svegliarti dal tuo sonno rigenerante con una bella e fastidiosa chiamata».
«Scusa», ripetei sentendo le labbra piegarsi all’insù.
«Per farti perdonare devi consegnarmi immediatamente il tuo telefono», dichiarò.
«Cosa?».
«Dammi il tuo telefono Kathleen». Feci una smorfia tuttavia obbedii a quella sua assurda richiesta.
Gli consegnai il cellulare e lo vidi digitare qualcosa sullo schermo. «Ecco fatto», mi disse riconsegnandomelo, «così hai il mio numero. Adesso muoviamoci, visto che mi hai fatto alzare all’alba di sabato mattina». Si girò di scatto e mi fece strada fin dentro la scuola.
«Che cosa mi avresti detto?», gli domandai mentre ci dirigevamo in biblioteca. Nonostante lui mi intimidisse, quel giorno volevo mettercela tutta per riuscire ad avere una conversazione normale con lui. Niente parole farfugliate, né frasi senza riflettere, né tantomeno rossori vari.
«Quando?», mi chiese non capendo. Aggrottò le sopracciglia, facendo spostare il suo piercing.
«Che cosa mi avresti detto se ti avessi dato buca?».
Si portò una mano al mento riflettendo «Beh probabilmente ti avrei detto che non saremmo più potuti essere amici».
«Wow che minaccia! Da te mi sarei aspettata molto peggio».
«Beh in realtà ti avrei infamata pesantemente, ma siccome sono un gentiluomo ho evitato di dirlo».
«Non hai l’aspetto di un gentiluomo». Ed ecco che già dicevo addio al mio proposito di non parlare a sproposito.
«Ciò non significa che non lo sia Kitty». Mi irrigidii immediatamente sentendo quel diminutivo, col risultato di fermarmi nel bel mezzo del corridoio mentre Trevor continuava a camminare. C’era solo una persona che mi chiamava così ed era molto tempo che non lo faceva più. Nessun altro poteva farlo, era troppo doloroso. Sentire quella parola, pronunciata da tutto un altro timbro di voce, era comunque come riportare a galla tutti i ricordi dei momenti felici trascorsi insieme.
«Ehi che succede?». Trevor si rese conto che non lo stavo più seguendo e si voltò a guardarmi.
«Non chiamarmi così», emisi in un sussurro, puntando lo sguardo a terra. Cercai di prendere un respiro profondo in un vano tentativo di calmarmi e di riprendere il controllo delle mie emozioni.
«Così come? Kitty?».
«Sì». Ecco un’altra stilettata al cuore.
«Beh Kitty è carino. E poi tu hai proprio la faccia da Kitty, come un dolce gattino arruffato. Tu sei così, Kitty».
«Smettila!». Avevo urlato talmente forte che la mia voce aveva rimbombato per i corridoi deserti. Per fortuna non sembrava esserci nessun altro all’interno della scuola, gli unici studenti lì di sabato dovevano trovarsi sicuramente in palestra o sul campo da football.
«D’accordo». La voce di Trevor fu solo un sussurro e ciò mi costrinse ad alzare lo sguardo su di lui. Sapevo benissimo che stava soltanto scherzando con me, ma non sopportavo che lo facesse in quel modo.
Trevor era a qualche metro di distanza e mi stava fissando con un’espressione indecifrabile. Non aveva quella sua solita aria truce e neanche quel sorrisetto impertinente. Aveva un’espressione dura e circospetta, le iridi più scure di prima, le sopracciglia tese in una linea rigida.
«Smettila ti prego», ripetei in un tono normale.
«Okay, non ti chiamerò più così. Non volevo farti arrabbiare, stavo solo scherzando».
«Lo so». Avrei dovuto dargli una spiegazione per quella mia reazione, ma volevo dimenticare quel momento al più presto. Per questo mi affrettai a superarlo per dirigermi verso la biblioteca senza aggiungere altro.
Sentii che lui mi seguiva ma non ebbi più il coraggio di guardarmi indietro. Mi diressi verso uno dei grandi tavoli liberi e cominciai a tirare fuori tutto il materiale. Dovevo sembrargli completamente fuori di testa; sapevo di aver reagito in maniera esagerata, ma non potevo spiegargli perché l’avevo fatto. Se lui me l’avesse chiesto quasi sicuramente sarei corsa via; non sarei mai riuscita a dirglielo. Probabilmente Trevor rimaneva l’unica persona che non sapesse di mio fratello in tutta la città e non me la sentivo di affrontare quell’argomento con nessuno, figuriamoci con uno sconosciuto.
«Allora, ho diviso il materiale per argomenti». Iniziai a parlare a macchinetta, sistemando gli appunti sul tavolo. «Nella cartellina verde c’è la mitosi, in quella rossa la meiosi, in quella blu invece ho riportato alcuni esempi di divisione cellulare nei batteri. Ho pensato che potevamo partire dalla scissione binaria dei procarioti, con alcuni esempi per poi arrivare ad affrontare la divisione cellulare negli eucarioti, con tutte le varie fasi. L’unica cosa che devo sistemare sono alcuni esempi caratteristici delle cellule…».
«Kathleen». La mano di Trevor sulla mia fermò il flusso delle mie parole; le sue dita erano calde e più ruvide di quanto avessi immaginato.
«Scusa». Quella semplice parola pronunciata con la sua voce roca fu sufficiente a farmi alzare la testa per ritrovarmi completamente catturata dal suo sguardo ipnotico. Era vicinissimo, ma la mancanza di spazio era l’ultima cosa che mi preoccupava. Le sue sopracciglia erano contratte e si stava inconsciamente mordicchiando il piercing che aveva sul labbro, ma tutto il resto perdeva di importanza di fronte ai suoi occhi. Erano due pozze d’acqua così trasparenti e sincere da farmi perdere completamente il controllo del mio corpo. Come diavolo facevano a cambiare colore in quel modo? Mentre mi perdevo nei suoi occhi il mio cuore perse un colpo per poi iniziare a battere all’impazzata, più veloce di come avesse mai fatto; il mio stomaco si contrasse e all’improvviso compresi cosa si intendesse con il termine “farfalle nello stomaco”.
Sicuramente era la prima volta che un ragazzo, che non avesse con me nessun legame di parentela, mi guardava in quel modo e di certo era la prima volta che io mi sentivo così. Ero spaventata, emozionata, agitata, confusa, tutto insieme; ero un intreccio di emozioni che si susseguivano le une sulle altre in un ciclo continuo.
«Scusa per prima», continuò, mentre il mio sguardo si spostava dai suoi occhi alle sue labbra, «per qualsiasi cosa che sia successa».
Non trovai la forza di parlare ma riuscii soltanto ad annuire prima che lui si allontanasse. Stava ristabilendo la giusta distanza tra noi, allora perché mi sembrava che si fosse staccato troppo presto?
 
Studiare con Trevor non fu così terribile come avevo immaginato. Notavo che certe volte faticava a seguirmi, ma si impegnava; ce la metteva tutta per riuscire a tenermi testa. Se non capiva qualcosa mi faceva delle domande e cercava di comprendere i miei ragionamenti; era attento e concentrato e questo un po’ mi sorprendeva. Non me l’ero aspettato, ma d’altronde erano parecchie le cose di lui che mi avevano sorpreso: la voce, lo sguardo, le mani, i modi e soprattutto la gentilezza. Sì perché nonostante lo conoscessi da poco, era stata molto più che gentile a chiedermi scusa, in modo particolare dopo quella mia assurda reazione esagerata.
«Oddio», sbadigliò stiracchiandosi, dopo diverse ore che eravamo chini sui libri. «Dimmi che abbiamo finito perché ho proprio bisogno di una pausa».
Controllai per un’ultima volta gli appunti prima di rispondergli. «Direi di sì, adesso sei libero di andare».
«Oh non ci posso credere». Allungò le braccia sul tavolo, mettendo in bella mostra tutti i suoi tatuaggi. Era assurdo come continuasse a portare magliette a maniche corte, sotto quella sua onnipresente giacca di pelle.
«Abbiamo finito tutto, direi che siamo stati bravi». La sorpresa nel mio tono fu maggiore di quanto volessi in realtà far trasparire.
«Sembri stupita. Io invece non lo sono per niente: l’avevo capito subito che eri una secchiona».
«Beh adesso comunque sei libero di goderti il tuo sabato. Non sei contento di esserti alzato così presto? Almeno adesso hai tutta la giornata a disposizione».
«Neanche per sogno», ribatté. «Non sarò mai contento di essermi alzato presto quando avrei potuto dormire. E poi non abbiamo ancora finito io e te». Con un dito indicò prima lui e poi me, mentre un sorrisetto gli spuntava sul volto.
«Che cosa intendi dire?», domandai circospetta, iniziando a riordinare.
«Beh è quasi ora di pranzo Kathleen, abbiamo studiato per quasi quattro ore senza interruzioni. Mi sono comportato bene e adesso ho bisogno della mia ricompensa e tu non puoi tirarti indietro».
Alzai immediatamente lo sguardo su di lui, sentendo il mio cuore accelerare e le mie guance arrossire. Che cosa intendeva per ricompensa? Non ero abituata a studiare con dei ragazzi – l’unico era Evan e non potevo considerarlo proprio tale – e, anche se non credevo di dovergli nulla, poteva darsi che lui avesse frainteso i miei comportamenti e si aspettasse qualcosa di diverso dal semplice studio. Trevor non sembrava il tipo, eppure anche Queen aveva detto che forse io gli piacevo. E lui mi piaceva? Beh sicuramente l’avevo rivalutato dalla prima volta in cui l’avevo visto, ma ancora non lo conoscevo bene, o meglio non lo conoscevo quasi per nulla.
Voleva un bacio o addirittura qualcosa di più? Beh se anche era strano, poteva essere no? In fondo lui non era di quelle parti, chissà come si comportavano nella sua vecchia scuola! Ma se avesse voluto soltanto un bacio io mi sarei tirata indietro?
«Ehi Kathleen ferma quella tua testolina, o comincerà ad uscirti il fumo dalle orecchie».  Mi picchiettò le dita sulla fronte, facendomi tornare alla realtà.
«Volevo solo dire che devi portarmi a pranzo, me lo devi», mi spiegò. «Per non parlare del fatto che sto morendo di fame e che probabilmente potrei svenire per mancanza di zuccheri e per troppo studio. E in quel caso tu mi avresti sulla coscienza; vuoi davvero avermi sulla coscienza Kathleen?».
«Oh», fu l’unica cosa che riuscii a dire. Se non fossi già stata completamente rossa, sarei andata a fuoco per l’imbarazzo; certe volte i film mentali che prendevano vita nella mia testa erano più pericolosi e inopportuni che mai.
«Già oh», sorrise. «Che cosa stavi pensando ragazzaccia? Ti ho già detto che sono un gentiluomo».
Il fatto che continuasse a scherzarci sopra, però, non diminuiva il mio imbarazzo. E il fatto che avessi di nuovo perso l’uso del linguaggio articolato ne era una prova più che valida.
«Sei proprio buffa», ammise divertito. «Un attimo prima non hai peli sulla lingua e quello dopo diventi così timida da non riuscire neanche a parlare».
«Io…». Aveva ragione ma era la prima volta che mi capitava e non sapevo proprio come spiegarmelo.
«Dai Katy. Sono nuovo in città, mostrami dove la maggior parte dei decerebrati di questa scuola va di solito a mangiare». Aveva di nuovo accorciato il mio nome, ma questa volta non mi aveva dato fastidio, anzi. Il diminutivo “Katy” non mi era mai piaciuto granché, ma pronunciato da lui sembrava avere un suono tutto particolare.
«Non credo di essere la persona adatta», ammisi ritrovando la voce. «Non sono proprio la regina della popolarità…».
«Ma non mi dire? Non l’avrei mai detto». Mi stava prendendo in giro, ma il suo tono non era offensivo. «Dai Katy conoscerai almeno un posto dove possiamo pranzare decentemente?».
«Sì certo».
«Allora muoviamoci». Senza perdere altro tempo mi prese per mano guidandomi verso l’uscita.
 
L’unico posto degno di nota nella nostra piccola cittadina era da Harold; era un vecchio fast-food, che tutti conoscevano e che faceva i panini più buoni del mondo. Con mio fratello ci andavamo spesso, soprattutto per sfuggire dalle cene sofisticate che certe volte la mamma ordinava alle domestiche. Dopo l’incidente di Jamie ci ero tornata qualche volta, soprattutto con Lea e con Evan, ma non era più la stessa cosa; ogni tavolo, ogni piatto me lo ricordava. Tuttavia non c’era molta altra scelta, era probabilmente l’unico ristorante aperto a pranzo in cui potevo permettermi di portare Trevor.
Visto che lui era venuto a piedi – avevo scoperto che abitava a dieci minuti dalla scuola – prendemmo la mia macchina. Durante il tragitto Trevor non disse una parola sulla mia guida, anche se continuavo ad andare pianissimo e ad inchiodare per la possibilità che la strada fosse ghiacciata. Si limitò ad armeggiare con la radio passando da una stazione all’altra.
Quando finalmente posteggiammo ed entrammo nel locale, l’aria calda e l’odore invitante di patatine fritte ci colpì in pieno.
«Non male come inizio», commentò, guidandomi verso uno dei tavoli liberi. Lasciò che io mi sedessi sul divanetto mentre lui si accomodò dall’altro lato, proprio di fronte a me.
La cameriera arrivò subito a portarci i menù, lanciandoci un occhiata piuttosto impertinente. Era una ragazza della nostra scuola, di cui non ricordavo il nome, e che doveva essere al terzo anno; ovviamente sapeva chi fossi e di certo aveva sentito parlare di Trevor. Ciò significava che con molta probabilità entro lunedì all’ora di pranzo sarei finita a far parte del gossip studentesco. Non che mi importasse, ma il mio nome ero già stato sussurrato spesso soprattutto dopo l’incidente. I pettegolezzi certe volte erano fastidiosi, e ancora più irritante erano le frasi bisbigliate credendo di non essere sentiti.
“Povera ragazza” o “deve essere completamente andata fuori di testa” sussurrati a mezza voce erano ancora peggio della compassione che leggevo sul volto di tutti i primi tempi.
«Stupide piccole cittadine», borbottò Trevor a denti stretti. «A volte dimentico che qua vi conoscete tutti». Alzai lo sguardo su di lui e notai che stava fissando la cameriera che continuava a lanciare sguardi furtivi nella nostra direzione.
«Pensavo che non ti desse fastidio essere sulla bocca di tutti». D’altronde non faceva nulla per cercare di passare inosservato.
«Oh non mi da fastidio. Solo che da dove vengo io non si corre questo pericolo. Ci sono talmente tanti locali che hai l’imbarazzo della scelta se vuoi essere sicuro di non incappare in qualcuno che conosci». Lea aveva detto che era di Boston, quindi era facile immaginare come la sua realtà fosse completamente diversa dalla mia. Ero stata a Boston solo una volta, proprio prima che Jamie cominciasse il college…
«Comunque», interruppe di nuovo il flusso dei miei pensieri. «Credo che si possa capire molto di una persona osservando ciò che mangia. Quindi fai molta attenzione Kathleen perché ciò che ordinerai potrebbe influenzare tutto l’intero futuro della nostra relazione».
Cercai di non prestare attenzione alla reazione del mio corpo alle sue parole e di rispondere invece in modo normale. «Sembra tutto molto apocalittico».
«Oh lo è. Non credo di poter continuare ad essere tuo amico se ordini la cosa sbagliata. E questo potrebbe essere un problema: non potrei più farmi vedere in giro con te, ne andrebbe della mia reputazione. Dovrei cambiare compagno di biologia, forse addirittura farmi spostare di ora, e non credere che sia facile trovare un altro posto libero nell’ora di biologia. Sarebbe una gran seccatura sia per me che per il prof Robbins, per non parlare delle signore della segreteria. Lo vedi quanti problemi causeresti?».
Scoppiai a ridere nello stesso istante in cui la cameriera tornò per prendere le nostre ordinazioni. «Siete pronti ragazzi?». Trevor alzò il sopracciglio col piercing facendomi capire che era tutto nelle mie mani.
Studiai il menù per un secondo prima di parlare, sapevo benissimo cosa ordinare. «Un bacon cheeseburger con doppia porzione di patatine e una coca cola». Puntai lo sguardo su Travor chiudendo il menù e aspettando il suo verdetto.
Lui scoppiò a ridere prima di rivolgersi anche lui alla cameriera. «Due per favore».
«Allora prova superata?», gli domandai una volta soli.
«Sì, direi proprio di sì. A pieni voti. Sei fortunata Kathleen, adesso possiamo essere amici».
«Oh che onore», scherzai.
«Devi considerarti fortunata invece. Se fossi stata una di quelle ragazze capace di ordinare un insalata in un fast-food avrei probabilmente inventato una scusa improbabile per poter scappare a gambe levate».
«Queen l’avrebbe fatto», gli rivelai. «Io e Jamie la prendiamo sempre in giro per questo». L’avevo detto senza pensare e mi era uscito del tutto naturale; di solito non mi veniva spontaneo parlare di mio fratello con nessuno, ma con lui era stato diverso. Era in qualche modo liberatorio pronunciare il suo nome senza doversi aspettare uno sguardo pieno di pietà e compassione subito dopo. Trevor non sapeva e rimaneva quindi un territorio neutrale, potevo parlare di Jamie senza preoccuparmi del resto.
Ed infatti Trevor continuò la conversazione come se nulla fosse. «Allora devo essere io a ritenermi fortunato ad aver scelto la sorella giusta». Mi guardò con il suo sguardo magnetico facendomi di nuovo arrossire; tuttavia le mie labbra si piegarono in un sorriso timido.
«Facciamo un gioco Katy, che ne dici?», mi propose appoggiandosi di più allo schienale. «So che come tutti avrai un sacco di domande da farmi, chiunque al tuo posto mi tempesterebbe».
«Non è vero», tentai di negare l’evidenza.
«Bugiarda», scherzò. «Perciò facciamo un gioco: una domanda a testa per conoscerci meglio, che ne dici?». Non ero sicura di voler partecipare a quella sua proposta: c’erano cose di me e della mia famiglia di cui non volevo parlare né tantomeno volevo che lui le venisse a sapere. D’altra parte ero anche curiosa di conoscere di più sulla sua storia. Era un’arma a doppio taglio.
Trevor, tuttavia, sembrò leggermi nel pensiero. «Non dobbiamo rispondere per forza, anche le risposte vaghe vanno bene. Se qualcosa che ti chiedo ti infastidisce, tu dammi una risposta vaga, banale ed io giuro che non indagherò oltre e lo stesso vale per te. Ci stai?».
Ero la regina delle risposte indefinite; avevo avuto una vita per esercitarmi per cui non sarebbe stato un problema. «D’accordo».
«Prima le signore allora». Con un gesto della mano mi fece cenno di cominciare.
Partii dalla prima cosa che mi venne in mente. «Quanti anni hai?».
Trevor ridacchiò. «Si nota tanto che sono più grande? Venti, ventuno il prossimo maggio. E tu?».
«Diciassette, ne faccio diciotto tra un paio di settimane».
«Quando?», mi chiese a bruciapelo. «E no, questa non vale come un’altra domanda».
«Il 5 dicembre», risposi, proseguendo subito il mio interrogatorio. «Hai dovuto ripetere qualche anno?». Sarebbe dovuto essere al college e non ancora al liceo; sapevo che non era una richiesta educata, ma ero curiosa.
«No in realtà. Negli ultimi due anni ho avuto dei problemi che non mi hanno permesso di frequentare l’ultimo anno, per questo sono ancora qua». Sapevo riconoscere una risposta vaga e lui me l’aveva appena data una, perciò non avrei insistito e poi era il suo turno. «Domanda di cui credo di sapere già la risposta: tu e Queen siete gemelle?».
«No, ci corrono undici mesi. In pratica io sono stata un incidente di percorso». Mia madre non ne aveva mai fatto un mistero.
«Un bellissimo incidente, a mio parere».
Mi sentii arrossire ma continuai con le mie domande, cambiando argomento. «Sei di Boston?».
«Sì e no. Ho vissuto là da quando avevo nove anni. Prima io e mia madre ci siamo spostati per un po’».
«E come mai hai deciso di venire a vivere qua con tuo padre?», domandai di impulso.
«E no Kathleen, prima sta me. Dopo risponderò anche a questa; ma dimmi: qual è la cosa che più ami? Nel senso qual è la cosa che ti fa stare bene e a cui non potresti mai rinunciare?».
Era una strana domanda, però la risposta era facile. «Scrivere. Scrivere è in assoluto la cosa che mi fa stare meglio».
Puntai lo sguardo su di lui aspettando che rispondesse a ciò che già gli avevo chiesto. «Beh Katy mi sono trasferito qua perché avevo bisogno di cambiare aria. Non potevo più restare a Boston, dovevo allontanarmi».
«E allora hai deciso di venire qua da tuo padre?». Sembrava sensata come idea.
«Beh sì. Non c’è di meglio per cambiare aria di trasferirsi da una metropoli ad una piccola cittadina di provincia». La sua risposta mi aveva fatto venire in mente almeno un altro migliaio di domande, tuttavia essendo il suo turno, mi morsi le labbra per trattenermi.
«Mi hai detto che ami scrivere, qual è invece la cosa che odi di più al mondo, quella cosa che nessuno potrebbe costringerti a fare nemmeno se ti pagassero?».
«Correre», risposi sorridendo. «Non sono un’amante degli sport, ma la corsa proprio la odio». Sicuramente le sue domande erano molto più facili di quelle che gli stavo ponendo io; ero fortunata che non indagasse più a fondo, io invece volevo sapere tutto. «Sei sempre andato d’accordo con tuo padre? Non sapevo che il signor Simons avesse un figlio».
«Non lo vedevo da quando ha lasciato me e mia madre. Io avevo circa quattro anni».
«E hai ripreso i contatti con lui dopo tutto questo tempo?», proruppi di scatto.
«Non riesci proprio a stare alle regole del gioco eh? Comunque ti risponderò lo stesso. Come ti ho detto ero arrivato ad un punto della mia vita in cui dovevo andare via; mia madre non mi aveva fatto mistero su chi fosse mio padre perciò l’ho rintracciato e gli ho chiesto di poter venire qua».
«E non è stato strano? Voglio dire, non gli è sembrato strano che suo figlio dopo tutto quel tempo lo contattasse per chiedergli una cosa del genere?». Come aveva iniziato quella telefonata? “Ciao papà, sono Trevor, ricordi il figlio che hai abbandonato quando aveva quattro anni? Volevo solo chiederti se potevo trasferirmi a casa tua?”.
«Beh immagino di sì», ammise. Non fece a tempo ad aggiungere altro perché la cameriera arrivò con i nostri piatti. Per un po’ mangiammo in silenzio, ma io avevo ancora un milione di domande.
«E ti trovi bene con il signor Simons?», chiesi mandando giù un morso del panino.
«Direi di sì. Non è facile ricucire i rapporti con mio padre, però sua moglie sembra una donna per bene ed ho una sorellina, Linda. Ha otto anni ed è una bambina sveglia e simpatica». Notai un piccolo sorriso comparire sul suo volto mentre parlava della sorella; era una cosa tenera e mi ricordò involontariamente Jamie.
«E tu? Vai d’accordo con tua sorella?». Addentò il suo panino, non staccando lo sguardo da me.
«Sì, più o meno. Non è sempre facile; il confronto pesa quando hai una sorella perfetta in tutto e per tutto». Competere con Queen era pressoché impossibile.
«Secondo me lei non è poi così perfetta».
«Non la conosci neanche», gli feci notare. «Ti posso garantire che lei riesce ad eccellere in qualsiasi cosa che fa».
«Beh io rimango della mia opinione. Non ho mai avuto molta simpatia per le cheerleader, ho sempre preferito le ragazze dall’aria più intellettuale». Arrossì di nuovo perché era evidente che stesse in qualche modo flirtando con me. Ed io non c’ero proprio abituata.
«Grazie», sussurrai affrettandomi a cambiare argomento. «E di tua madre invece cosa mi dici? Non credo che sia stata contenta del tuo trasferimento».
Vidi la sua mascella contrarsi e la sua bocca assottigliarsi in una linea rigida. «Mia madre è rimasta a Boston con il suo compagno. È una brava madre anche se ha preso un bel po’ di decisioni sbagliate». Non aggiunse altro, ma era evidente che fosse accaduto qualcosa tra loro, qualcosa che magari l’aveva spinto a trasferirsi. Forse non andava d’accordo col suo patrigno, capitava spesso; eppure dalla sua espressione sembrava trattarsi di qualcosa di più serio.
Trevor ingurgitò il suo panino e si affrettò a cambiare completamente argomento. «Quindi se ho capito bene sei una di quelle ragazze che ha già tutto programmato. Scommetto che in camera hai il poster con il logo di qualche college dell’Ivy League, tipo Harvard o Yale, e direi che in questi cinque anni non hai fatto altro che accumulare una media altissima per essere ammessa. Una volta là, poi frequenterai lettere con l’intento di diventare una giornalista oppure osando di più una vera e propria scrittrice». Non poteva essere più lontano della verità.
«Non andrò al college», risposi senza pensarci. «Al massimo andrò all’Università pubblica qua vicino». Era la prima volta che lo dicevo a qualcuno, in realtà era anche la prima volta che lo ammettevo ad alta voce. Non avrei dovuto dirlo, ma avevo come la netta impressione che avrei potuto fidarmi di Trevor almeno su quel punto.
Lui sbatté le palpebre sorpreso da quella mia risposta, per una volta a corto di parole. Per questo ne approfittai per cambiare di nuovo argomento. «Hai sprecato la tua domanda, adesso tocca a me. Quanti tatuaggi hai? Hanno tutti un significato particolare?».
Trevor sbuffò ma capì di non dover insistere. «Parecchi», rispose passandosi inconsciamente una mano sul braccio. «Non tutti hanno un significato, alcuni mi piacevano e basta. Altri invece hanno una storia dietro, un giorno magari te la racconterò. E tu, hai tatuaggi nascosti?».
Gli fui grata della domanda: semplice e senza complicazioni. «No, è già tanto se ho il buco alle orecchie».
Continuammo così finendo di mangiare, ordinando il dolce, e ponendoci domande più semplici a cui era facile rispondere, come la musica, i film, i libri. Scoprii che Trevor amava la musica rock anche un po’ datata, che il suo libro preferito era “La fattoria degli animali” di Orwell, che la sua passione erano le macchine e i motori in generale. Aveva lavorato in un’officina qualche anno prima e, anche se non l’aveva detto apertamente, capii che avrebbe voluto lavorarci di nuovo un giorno.
Quando lo riaccompagnai a casa – dopo averlo convinto con una certa insistenza – mi resi conto che buona parte del pomeriggio era trascorsa; era volata senza neanche accorgermene. Ero stata così bene in sua compagnia che il tempo era passato in un soffio.
«Grazie del passaggio Kathleen», mormorò prima di scendere dall’auto. Senza che me l’aspettassi si avvicinò e mi dette un bacio sulla guancia. «Ci vediamo lunedì». Scese dalla macchina e percorse il vialetto di casa sua senza voltarsi indietro, mentre io con la mano toccavo il punto in cui aveva posato le sue labbra. Riuscivo a percepirne ancora il calore e la consistenza e dubitavo che avrei smesso di sentire quelle sensazioni molto presto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 
Stavo scrivendo sul mio diario, cercando di spiegare a Jamie tutti gli eventi accaduti con Trevor, quando il mio cellulare vibrò. Già la sera prima sia Lea che Evan mi avevano tempestato di domande, tuttavia io avevo rivelato loro solo lo stretto necessario; non avrei sopportato un altro attacco, piuttosto avrei continuato ad ignorarli pur sapendo che non avrei potuto evitare le loro domande il giorno dopo a scuola.
Ciò nonostante quando osservai lo schermo del cellulare vidi che non si trattava di nessuno di loro. Avevo appena ricevuto un messaggio da “Il Fantastico Trev”. Sorrisi come una stupida, ricordando che mi aveva dato il suo numero ed io, da perfetta idiota, non avevo neanche notato come si fosse salvato. Non mi ero neppure accorta che avesse memorizzato il mio numero, probabilmente doveva essersi fatto uno squillo.
Non so se sentirmi offeso per il fatto che sono passate più di 24 ore e tu non mi abbia ancora scritto niente.
Sorrisi ancora di più mentre digitavo in fretta una risposta.
Non pensavo di doverti scrivere. È qualcosa che avrei dovuto sapere se avessi letto il manuale dei buoni compagni di biologia?
Così mi ferisci! L Ciò significa che non sei stata a sospirare di fronte al mio numero di telefono, indecisa se chiamarmi o meno. :_(
Non ero stata a fissare il suo numero, ma ciò non significava che non avessi pensato a lui. In effetti non avevo fatto altro; era una persona totalmente diversa da come avevo immaginato e mi piaceva, mi piaceva davvero. E anche se, da ciò che ho appena affermato, potrebbe sembrare, non avevo iniziato a pensare a lui in modo romantico; mi piaceva la sua amicizia e mi era piaciuto passare il tempo con lui. Fine, solo questo.
“Il fantastico Trev”… Ma davvero?
In realtà avevo pensato a “Trevor, colui che popola le fantasie di ogni donna” ma era troppo lungo.
Scoppiai a ridere. XD XD
Allora ho accorciato, in fondo nella mia crasi ho raccolto tutto il significato.
Solo per il fatto che tu abbia usato la parola “crasi”, anche ignorandone la vera accezione, ti sei guadagnato dei punti.
Ti ho colpita, non è vero?
In pieno XD Come un tram a tutta velocità!
XD Lo so che hai sempre sognato un uomo che riuscisse a mandarti messaggi sconci usando un linguaggio forbito!
Arrossii ma almeno per una volta lui non poteva vederlo. Non aspettavo altro.
Potrei scommettere che in questo momento sei rossa come un peperone. O forse no.
Non è vero!
Il fatto che tu lo stia negando è una prova a mio favore.
Sei odioso! Non sono sicura di voler essere tua amica. :-P
Oh certo che lo vuoi!
Sei molto sicuro di te, signor Fantastico.
E tu sei molto più spigliata via messaggio, mi piace questa Katy ;)
Era vero, ma era perché averlo davanti mi faceva perdere ogni sorta di lucidità che di solito mi contraddistingueva.
Stavo per rispondere quando sentii che mia madre mi chiamava. Dovevo assolutamente scendere prima che cominciasse con la sua solita tiritera; quel giorno non avevo proprio voglia di ascoltarla.
Adesso devo andare. Ci vediamo domani a scuola? Era ovvio che ci saremo visti e, una volta inviato, mi detti della stupida per aver scritto quel messaggio.
Certo! Buona serata Katy. xo xo
Mi aveva appena mandato baci e abbracci? Restai a fissarli con lo stomaco in subbuglio e uno strano sorriso disegnato sul volto, dimenticandomi perfino il motivo per cui l’avevo congedato.
 
Come avevo previsto non riuscii ad evitare l’assalto di Lea ed Evan per molto. Fecero irruzione mentre stavo aprendo il mio armadietto per prendere i libri della giornata.
«Adesso che siamo faccia a faccia devi raccontarci tutto», iniziò Lea senza neanche salutarmi.
«Buongiorno ragazzi», li apostrofai scherzosamente.
«Lasciamo stare i convenevoli», incalzò Evan. «Vieni al sodo. Sei stata vaga per tutto il finesettimana ma adesso non puoi più sfuggirci».
«Beh non c’è niente da dire», replicai chiudendo lo sportello. «Abbiamo studiato e poi siamo andati a pranzo, tutto qui».
Lea studiò la mia espressione prima di parlare. «Mm non ce la racconti giusta, c’è qualcos’altro».
«No niente, a parte qualche messaggino che ci siamo scambiati ieri». Sganciai la bomba per poi svignarmela a gambe levate. Il suono della campanella e il fatto che la mia aula fosse proprio lì accanto riuscirono a salvarmi temporaneamente da un loro attacco.
Sapevo, però, che a mensa avrei scontato tutte le mie pene. Ma d’altra parte cosa dovevo raccontare? Io e Trevor stavamo facendo amicizia, non c’era molto altro da dire. Lui era il ragazzo nuovo e misterioso, ma non capivo tutto quel morboso interesse per lui e per ciò che stava accadendo tra di noi. Anche perché, a parte il fatto che stesse nascendo un’amicizia, non stava succedendo altro. Era una cosa del tutto naturale: essendosi trasferito da poco, era ovvio che dovesse farsi dei nuovi amici, ed io non ero altro che una nuova amicizia.
Stavo rimuginando su queste cose in fila alla mensa, quando una voce roca mi riportò alla realtà.
«Ehi splendore! Perché la roba sul tuo vassoio sembra più invitante della mia?». Trevor era esattamente dietro di me e stava guardando i miei piatti da sopra la mia spalla.
«Perché sono una brava ragazza e sono gentile con le signore della mensa».
«Nah non credo». Trevor si infilò nella fila mettendosi alla mia sinistra e passando avanti ad un bel po’ di persone. Sentii delle proteste a mezza voce – nessuno che avesse il coraggio di affrontarlo faccia a faccia ovviamente – ma lui non sembrò farci caso.
«Anch’io sono gentile», continuò guardando corrucciato il pezzo di pollo nel suo piatto.
«Forse per chi ti conosce, ma la tua faccia e il tuo aspetto dicono tutt’altro».
«Mm, può darsi. Ma io sono un gentiluomo racchiuso nell’aspetto di ragazzo dannato».
«Diciamo piuttosto nell’aspetto di teppista», scherzai, sentendomi già meno impacciata rispetto ai giorni prima.
«Ahi Katy, fa male». Fece una faccia accigliata in netto contrasto con i suoi piercing che mi fece sorridere.
«Piuttosto», cambiai argomento. «Con chi pranzi?». Non l’avevo mai visto mangiare al tavolo con qualcuno; in realtà non l’avevo mai visto seduto a mensa, solo in coda lungo il corridoio.
«Due oche mi hanno invitato a pranzare con loro», mi rivelò.
«Due oche?», ridacchiai per la sua buffa descrizione.
«Sì, Guendalina e Adelina Qua Qua laggiù». Mi indicò con un cenno del mento due ragazze in cima alla fila; mi sporsi per riuscire a vedere e notati Kimmy e Sherry intente ad osservare Trevor sbattendo le ciglia. In effetti un po’ oche lo erano, non aveva tutti i torti.
«Hai appena citato “Gli Aristogatti”?», ridacchiai tornando a guardarlo.
«Ehi Walt Disney è un mito».
«Penso che con questa affermazione ti sia appena conquistato un posto nel mio cuore». Parlai di slancio, accorgendomi solo dopo di ciò che si sarebbe potuto intendere.
«Bene Katy, è sempre stata la mia aspirazione conquistare un posto nel cuore delle belle ragazze». Arrossii di colpo, sentendo improvvisamente caldo. Avevo resistito più di cinque minuti senza che accadesse, era già un progresso.
Non sapendo come replicare restai in silenzio per il resto della fila, finché non pagai e anche Trevor non ebbe terminato il suo conto.
«Bene, adesso mi sa che devo andare incontro al mio destino», sospirò con aria afflitta, guardando verso il tavolo a cui si erano sedute Kimmy e Sherry, che avevano cominciato a sbracciarsi verso di lui non appena aveva finito di pagare.
«Puoi venire al nostro tavolo», gli proposi d’impulso. «Al mio e a quello dei miei amici».
Trevor mi guardò sorpreso, ma anche piuttosto felice dell’idea. «Davvero? Sei sicura?».
«Sì, certo. Almeno che tu non voglia deludere Guendalina ed Adelina».
«Oh, penso che se ne faranno una ragione. Ma per i tuoi amici non sarà un problema?». Oh no, anzi avrebbero fatto i salti di gioia ed io in quel modo avrei evitato il loro interrogatorio.
«No, certo che no. Seguimi». Gli feci strada verso il nostro solito tavolo in fondo alla mensa. Quando Lea ed Evan mi videro furono sul punto di iniziare la loro raffica di domande, ma si bloccarono notando Trevor dietro di me.
«Ragazzi, non so se già conoscete Trevor di persona», iniziai cercando di far scomparire quell’espressione attonita sul viso dei miei amici.
«Ciao», disse lui allegramente.
«Loro sono Evan e Lea», presentai. «Ragazzi vi va bene se Trevor mangia con noi?».
«Certo». Evan fu il primo a riprendersi, spostandosi per far sedere Trevor accanto a lui. Io invece andai a sistemarmi accanto a Lea, che intanto aveva assunto nuovamente la sua espressione impassibile.
«Lo sai», mi sussurrò quest’ultima all’orecchio, «che tutta la scuola parla già di voi due? Dopo che sabato Nancy vi ha visto da Harold…».
«Lo so», sospirai. O almeno lo avevo immaginato; non c’era modo di evitare le voci in una piccola cittadina.
«Immagina cosa diranno adesso? Ci sarà da divertirsi». Dubitavo che io e Trevor ci saremmo divertiti a stare sulla bocca di tutti, ma in fin dei conti aveva importanza? La risposta era facile: no, non importava. Ciò che contava davvero era che desideravo passare il tempo con lui nonostante ciò che la gente avrebbe pensato di noi.
 
Come Lea aveva previsto i pettegolezzi furono fiorenti: c’era chi diceva che io e Trevor stavamo insieme, chi speculava su una nostra relazione segreta, chi semplicemente pensava che fossimo amici di letto – arrossivo anche alla sola idea – chi credeva che Trevor avesse fatto una scommessa per togliermi la verginità e così via. Insomma tutta la scuola aveva cominciato a speculare sulla mia vita sessuale e questo un po’ mi disturbava. Ero stata sulla bocca di tutti per via di Jamie ma esserlo per chi frequentavo e – testualmente – per chi avrei potuto aprire le gambe era una cosa diversa.
Per fortuna la storia di Jamie e la fama di Queen attutirono un po’ la portata delle voci; o almeno io non ne sarei venuta mai a conoscenza se Lea non mi avesse riportato i più nascosti gossip studenteschi. Tuttavia a Trevor non sembrava importare ed effettivamente neanche a me. Io e lui sapevamo come stavano le cose e questo ci bastava.
Nell’ultime settimane avevamo istaurato un bel rapporto: eravamo diventati davvero amici, non più solo semplici conoscenti. Lui veniva a darmi il buongiorno ogni mattina appena arrivava a scuola, trovandomi puntualmente al mio armadietto, pranzava sempre al nostro tavolo, che ormai era diventato anche il suo, collaboravamo più che volentieri a biologia, ci mandavamo messaggini sugli argomenti più disparati. Insomma ridevamo, parlavamo e scherzavamo come due normali ragazzi della nostra età. La prima impressione che avevo avuto di lui era completamente sparita per far posto a sentimenti sempre più benevoli; purtroppo non potevo dire la stessa cosa del mio imbarazzo visto che continuavo ad arrossire in sua presenza ogni tre per due.
Quindi, nonostante tutto, i giorni passarono velocemente e presto arrivò il mio compleanno: il mio diciottesimo compleanno. Avrete già capito che non ero – e non sono – propriamente un tipo da feste. Proprio per questo per quella data importante non avevo voluto nessuna manifestazione sfarzosa, niente che potesse attirare i riflettori su di me ancora di più: tra mio fratello e Trevor avevo avuto fama in abbondanza. Avrei trascorso la giornata come al solito: sarei andata a scuola e poi sarei andata a trovare Jamie. L’unica differenza sarebbe stata che Queen mi avrebbe accompagnata, più per far piacere a me che per il nostro fratellone; purtroppo su quel punto la pensavamo molto diversamente.
Inoltre la sera mi aspettava una sfarzosa cena in famiglia dove avrei aperto regali che, con molta probabilità, non mi sarebbero piaciuti, ad eccezione di quello di mia sorella. La speranza di ricevere dei soldi invece di qualcosa che sicuramente non era proprio adatto a me c’era sempre, ma conoscendo mia madre dubitavo che anche per quell’anno il mio sogno si sarebbe realizzato.
Per me si trattava di un giorno come un altro; non capivo tutta quella frenesia nel voler festeggiare. Avevo solo un anno in più, un giorno in più che non avrei potuto condividere a pieno con James. Se Jamie si fosse svegliato, fosse stato lì con me, avrei dato la più grande festa che si fosse mai vista in tutti gli Stati Uniti d’America; ma siccome quella eventualità era talmente rara quanto la possibilità che mia madre uscisse con addosso dei pantaloni della tuta, avrei trascorso quel giorno come meglio credevo. E ciò consisteva nel non pensare a cosa avrebbe organizzato per me il mio fratellone, a come mi avrebbe svegliato la mattina cantandomi tanti auguri, a come sarebbe potuto essere presente anche a mille chilometri di distanza.
Stavo giusto tradendo il mio primo e unico proposito, in piedi di fronte al mio armadietto, quando improvvisamente due mani mi coprirono gli occhi, oscurandomi del tutto la vista.
«Tanti auguri Katy». Se le dita fredde sulla mia pelle non mi avevano dato nessun indizio, quella voce roca era ormai per me inconfondibile.
«Grazie», sussurrai sorpresa che lui se lo fosse ricordato. In fondo glielo avevo detto di sfuggita solo quando avevamo pranzato da Harold, non mi aspettavo che se lo rammentasse; d’altra parte avrebbe potuto vederlo semplicemente da Facebook e da quelle stupide notifiche che ti segnalavano il compleanno degli amici.
«Adesso nella maggior parte dei paesi del mondo risulti maggiorenne», continuò tenendomi sempre le mani sugli occhi.
«Tecnicamente ancora no, visto che sono nata alle cinque di pomeriggio, ma comunque perché mi stai coprendo gli occhi?».
Trevor rise, decidendo finalmente di allontanare le sue dita gelide dalla mia pelle. «Solo per fare più scena». Mi voltai per riuscire ad essere faccia a faccia e nel farlo un riccio ribelle mi ricadde sul viso. Non feci a tempo a scostarlo perché la mano di Trevor mi precedette sistemandomelo dietro l’orecchio, in un gesto nuovo ed intimo allo stesso tempo.
«Beh ancora tanti auguri Kathleen, ci vediamo a pranzo». Se il sistemarmi i capelli era stato un gesto improvviso e impulsivo, ciò che successe dopo fu del tutto inaspettato. Trevor avvicinò il viso al mio e mi lasciò un bacio sulla fronte; non c’era niente che potesse essere frainteso, era solo un candido bacio che io non sapevo come interpretare e che probabilmente per lui aveva avuto un significato ben preciso.
Restai impietrita guardandolo allontanarsi, portandomi istintivamente la mano sulla fronte, là dove le sue labbra si erano posate.
«Che cosa ho appena visto?». La voce di Queen vicino al mio orecchio mi riportò alla realtà.
«Non ne ho la minima idea», risposi con sincerità e non ero sicura che sarei riuscita a scoprirlo durante quella giornata.
 
Le lezioni della mattina trascorsero tranquille, senza nessun particolare intoppo. Conoscendo i miei amici, però, avrei dovuto sapere che la pausa pranzo sarebbe andata diversamente. Lea ed Evan mi avevano portato un muffin con una candelina sopra e iniziarono a cantare tanti auguri a squarciagola non appena mi videro, facendomi inevitabilmente diventare rossa come un peperone. Trevor era con loro, nonostante non prendesse parte a quell’assurdo spettacolino, e sorrise osservando la mia reazione. Queen e Sean, che passavano casualmente dietro di me, si unirono per mia sfortuna a quella orrenda messinscena; purtroppo quando il quarterback e la capo cheerleader prendevano parte in qualche attività riuscivano a coinvolgere buona parte della scuola. E fu così che tutta la mensa si ritrovò ben presto unita nel cantarmi tanti auguri.
Non appena finirono spensi con un soffio la candelina, afferrando il muffin che mi stavano offrendo e correndo velocemente verso il nostro riparato tavolo in fondo alla sala.
«Vi odio», dissi loro quando presero posto accanto a me.
«Oh lo sappiamo», rispose Evan, facendo sghignazzare Trevor.
«E tu non ti azzardare a ridere!», lo accusai puntandogli un dito contro.
«D’accordo». Alzò le mani in segno di resa. «Ma penso che sia stato un gesto molto carino da parte loro».
«Non userei sicuramente la parola “carino” per descrivere una scena così umiliante».
Lea alzò gli occhi al cielo, credendo di non essere vista. «Trevor devi sapere che Linny ha dei seri problemi di autostima».
«Io non ho dei seri problemi di autostima». Odiavo essere al centro dell’attenzione, non c’entrava nulla l’autostima.
«Oh sì che ce l’hai», concordò Evan. «Altrimenti non saresti qui con noi, visto che non hai niente di meno di tua sorella».
«Concordo», intervenne l’altro. Fulminai sia Evan che Trevor con lo sguardo, sapendo benissimo che si stavano sbagliando. Queen era perfetta, ed io ero semplicemente Linny: una ragazza timida e impacciata.
«Comunque», continuò Trevor, cambiando argomento, «cosa farai oggi per festeggiare?». Da una parte gli fui grata per quella domanda e per il cambiamento che stava apportando alla conversazione; dall’altra non era altrettanto facile rispondergli sinceramente.
«Le solite cose». Optai per quella che sembrava la risposta più veritiera, visto che Trevor non sapeva ancora nulla dell’ospedale e di Jamie e per il momento volevo che la cosa restasse tale.
«Ma dai! Dovresti festeggiare», protestò. «Non dico che dovresti dare una festa, ma dovresti fare qualcosa di grandioso o come minimo di particolare».
«Infatti», intervenne Evan. «Non posso credere che tu passerai la giornata rinchiusa in quell’osp… Ahi!». Gli tirai un calciò da sotto il tavolo prima che potesse concludere la frase.
«Sai benissimo dove passerò la giornata», risposi secca fulminandolo con lo sguardo. Trevor guardò prima lui poi me con sguardo confuso e poi assunse un’aria truce, calendo in uno strano silenzio. Era ovvio che avesse intuito qualcosa, ma, al contrario di molti altri, non indagò più a fondo e sembrò perdersi invece nei propri pensieri.
«Certo che lo sa», intervenne Lea per calmare le acque. «Solo che credo che Trevor abbia ragione. Dovresti fare qualcosa di diverso dal solito, diciotto anni non si compiono tutti i giorni».
«Beh stasera ho una grande cena in famiglia», borbottai. «Tutti mi daranno i regali e presteranno attenzione a me; è una cosa piuttosto particolare a casa Jefferson».
«Ma forse hai ragione tu», continuò Lea cercando di rabbonirmi. «Dovresti fare quello che vuoi, sia studiare o stare un pomeriggio insieme a chi ti fa stare bene». Le fui grata per quelle parole che misero definitivamente fine a quell’assurda discussione, passando poi ad argomenti più leggeri.
Trevor non aggiunse altro per tutto il pranzo e quando la campanella suonò scappò via di corsa, inventando la scusa di un compito da riguardare. Per tutto il tempo la sua espressione non era cambiata: non aveva riso ad alcune battute di Evan né aveva tirato fuori quel carattere che avevo imparato a conoscere in quelle due settimane. Sembrava tornato il Trevor del primo giorno: l’aria truce, le labbra tese in una linea rigida, lo sguardo pensieroso e l’aspetto minaccioso.
Quando lo rividi a biologia fui però contenta di costatare che il suo cambiamento era stato solo temporaneo. Nel momento in cui entrai in classe lo trovai ad aspettarmi al nostro banco e non appena mi vide sul suo volto si disegnò un meraviglioso sorriso.
«Ciao, sei già arrivato!», dissi notando quella particolarità. Di solito ero io quella che arrivava per prima in classe e guardava come un’ossessa verso la porta in attesa che lui facesse la sua comparsa. Insomma la perfetta descrizione di una stalker.
«Avevo un’ora di buco», rispose, «la Prof Rivers ha avuto un imprevisto».
«Ah non lo sapevo». Mi sedetti al mio posto, appoggiando il quaderno sul banco.
«Così ne ho approfittato per andare a prendere una cosa». Alzai lo sguardo su di lui e notai che stava tirando fuori un pacchetto da sotto il banco. «Non volevo dartelo né stamani davanti a tutti né prima di fronte ai tuoi amici».
«Mi hai fatto un regalo?», domandai sorpresa guardando la carta colorata del pacchetto che teneva tra le mani.
«Non è niente di speciale», si schermì.
«Oh Trevor non dovevi. Non eri tenuto…». Era un gesto così inaspettato e così gentile che mi aveva lasciato senza parole. Quel ragazzo era davvero assurdo: un attimo prima aveva un’espressione che avrebbe fatto scappare chiunque a gambe levate e quello dopo se ne usciva con un gesto talmente dolce da farmi battere il cuore a mille.
«Lo so», ammise, «ma ne è valsa la pena. La tua espressione in questo momento è la cosa più bella che ci possa essere». Arrossii alle sue parole e puntai lo sguardo sui disegni colorati del pacchetto.
«Ecco ed adesso è ancora più bella». La sua mano mi accarezzò la guancia, sfiorandomi i ricci che mi incorniciavano il viso. «Non saresti stata la mia Kathleen se adesso non fossi arrossita». Il mio cuore fece una capriola alla parola “mia”.
«Posso aprirlo?», mi sforzai di parlare.
«Preferirei che lo aprissi stasera a casa, insieme a tutti gli altri regali. Non è niente di che, comunque, è solo un pensiero».
«Non è vero». Ed ero certa che lo sapesse benissimo: era molto di più di un semplice pensiero. «Grazie». Sorprendendo anche me stessa mi allungai verso di lui e lo baciai sulla guancia; Trevor fu stupito dal mio gesto, ma il sorriso che gli comparve dopo sul volto rese i suoi occhi azzurri ancora più intensi.
Anche se ero estremamente curiosa di scoprire cosa contenesse, feci come mi aveva detto; riposi il regalo nella borsa proprio prima che il resto degli studenti prendessero posto e che la lezione cominciasse.
Il resto della giornata trascorse senza altri intoppi o imprevisti; a parte la scena della mensa, era stato un bel giorno. Queen era venuta con me dal nostro Jamie ed aveva trascorso il pomeriggio ascoltando ciò che avevo da dirgli e parlandogli a sua volta. Sapevo che per lei era uno sforzo restare là con lui e credere che potesse davvero sentirci, ma le ero grata che lo facesse, almeno per me.
La cena in famiglia non fu traumatica come avevo previsto. Mia madre aveva fatto cucinare i miei piatti preferiti e per una volta aveva azzeccato i miei gusti senza intoppo, anche se immaginavo che mia sorella avesse in qualche modo contribuito. E ne ebbi l’assoluta conferma quando scartai il regalo dei miei genitori: era una parure, collana, bracciale ed orecchini, con dei piccoli brillanti, così semplice da rispecchiarmi perfettamente. Era la prima volta che un regalo di mia madre mi lasciava positivamente senza parole. I miei peggiori propositi non si erano avverati.
«Wow, è bellissima. Grazie». Mi alzai da tavola per andare ad abbracciare entrambi.
«Sono sicura che starà benissimo con il vestito che compreremo la prossima settimana per il ballo d’inverno». Ed ecco il modo di rovinare tutto: il ricordarmi dell’imminente ballo della scuola a cui ero inevitabilmente obbligata a partecipare.
Scacciai quel pensiero e continuai aprendo la busta che mi aveva dato mio nonno. Sapevo che conteneva dei soldi ancor prima di scartarla, d’altronde, da quando era morta la nonna, era sempre stato così.
«Grazie mille nonno». Niente gesti di affetto con il Generale.
«Spendili bene». Oh, non c’erano problemi su quel fronte: stavo già pensando a quali libri poter comprare.
«Signor sì, signore». Feci il gesto dell’attenti, guadagnandomi un suo cenno di assenso. Era il massimo che potevo sperare.
«Oppure potresti metterli da parte», intervenne mio padre. «Per il college, sai». Feci una smorfia sentendo le sue parole, ma Queen intervenne mettendo fine alla discussione prima che potesse iniziare.
«Sono soldi di Linny, papà, lei farà ciò che meglio crede. Adesso, però, apri il mio».  Mi passò una busta molto simile a quella che mi aveva dato mio nonno, sia per forma che per dimensione. Quando l’aprii, tuttavia, non potei credere ai miei occhi: erano due biglietti per la prima, che si sarebbe tenuta a febbraio, di “Romeo e Giulietta” in uno dei principali teatri di Watertown; le avevo fatta impazzire ripetendole quanto avrei voluto vedere quello spettacolo per via del cast e della particolare reinterpretazione del testo. Non potevo credere di aver un tale tesoro tra le mani.
«Oh mio Dio! Sei incredibile». Mi alzai e corsi ad abbracciarla, facendola sbilanciare all’indietro.
«Sean ha contribuito», mi rivelò ridendo.
«Pensavo che fossero introvabili. Oh mio Dio! Grazie, grazie. È il miglior regalo del mondo». La baciai sulla guancia stringendola ancora più forte. «Forse dovrei chiamare Sean e ringraziare anche lui».
«Non ti preoccupare Linny potrai farlo di persona domani a scuola. Per il momento gli dirò che ne sei entusiasta».
«Oh entusiasta è dir poco». Non potevo credere che mi avesse regalato una cosa del genere: era o non era la sorella perfetta?
«Se non sai chi portare, possiamo andarci insieme», mi suggerì.
«Certo che ci andremo insieme». Ero così felice di poterlo vedere che lo sarei stata anche se mi avessero costretta a portarci mia madre.
«Basta con tutti questi schiamazzi Linny», intervenne quest’ultima. «In fondo è solo uno spettacolo». No che non lo era, ma mi guardai bene dal dirglielo.
«Hai finito di aprire i tuoi regali?», mi domandò mio padre. «Possiamo tagliare il dolce?».
«Sì, certo».
«In realtà», mi fece notare Queen. «Qua ce n’è un altro». Guardai sul tavolino dove avevano appoggiato tutti i miei pacchetti e notai la carta colorata del regalo di Trevor. Non mi ricordavo di averlo messo là e, in realtà, non avevo detto a nessuno della sua esistenza. Probabilmente Queen doveva averlo visto nella mia borsa quando eravamo all’ospedale e doveva averlo messo insieme agli altri per farmi un piacere.
«Di chi è?», mi domandò facendomi un sorrisetto furbo. Per fortuna non c’era nessun biglietto.
«Di un amico», mi limitai a dire prendendolo. Sentii il mio cuore battere più forte mentre con delicatezza strappavo la carta; ero curiosa di scoprire di che si trattasse e non avevo la benché minima idea di cosa potesse essere. Dalla forma poteva sembrare un libro, ma dubitavo che Trevor mi conoscesse già così bene da capire il mio genere o tentare la fortuna sperando di regalarmi un libro che già non avessi.
Quando però lasciai cadere via la carta, scoprii che non mi ero sbagliata o almeno non del tutto. Non era propriamente un libro, ma un quaderno con la copertina di pelle le cui pagine all’interno erano tutte completamente bianche.
La sorpresa mi lasciò senza parole: era il regalo perfetto. Non poteva capirmi meglio di così e la cosa mi spaventava e mi emozionava allo stesso tempo.
Con una mano accarezzai la copertina e poi lo aprii alla prima pagina. Là, in bella mostra, nella calligrafia svolazzante di Trevor c’era una dedica.
Volevo trovare le parole giuste per riempire con onore questa prima pagina, ma io non sono bravo come te con le parole, mia dolce Kathleen. Non sarei mai capace di riempire questo quaderno come sono sicuro farai tu. Per questo lascerò che siano le parole di altri a spiegare ciò che queste pagine bianche vogliono rappresentare.
I due giorni più importanti della tua vita sono quello in cui nasci e quello in cui scopri perché sei nato. - Mark Twain
Chi sogna di giorno è consapevole di tante cose che sfuggono a chi sogna solo di notte. - Edgar Allan Poe
La sconfitta non è il peggior fallimento. Non aver tentato è il peggior fallimento. - George Edward Woodberry
Penso di aver detto tutto; interpreta queste citazioni come meglio credi, basta solo che tu mi prometta di non lasciare che la mia pessima calligrafia sia l’unica a colorare queste pagine.
Il tuo “fantastico” e nonché più accanito ammiratore
Se il mio cuore aveva accelerato osservando il quaderno, leggendo le sue parole era letteralmente impazzito. Probabilmente fu quello l’esatto istante in cui qualcosa dentro di me iniziò a cambiare. Non me ne resi conto allora, ma non avrei più guardato Trevor nella stessa maniera. Quel semplice gesto era riuscito a fare breccia in tutte le mie difese ed era arrivato dritto al centro del mio cuore. Nessuno mi aveva mai considerato così, né mi aveva fatto provare un’emozione del genere con un semplice oggetto di cartoleria.
«Allora cos’è?», mi riportò alla realtà Queen.
«Solo un quaderno», risposi chiudendolo prima che lei potesse leggere ciò che c’era scritto. «Adesso credo che possiamo tagliare il dolce». Probabilmente mia sorella, al contrario del resto della mia famiglia, si accorse del mio cambiamento, ma non avevo voglia di darle nessuna spiegazione, soprattutto in quel momento. Liquidai il dolce e i festeggiamenti nel minor tempo possibile e appena ne ebbi l’opportunità mi ritirai in camera mia.
Una volta sola, al sicuro tra le mie quattro mura, presi il telefono e chiamai l’unica persona che volevo sentire. Era abbastanza tardi, ma sapevo che l’avrei trovato sveglio ed io non potevo aspettare.
«Katy…», rispose al terzo squillo.
«È bellissimo». Era l’unico commento appropriato.
«Sono contento che ti sia piaciuto».
«No», lo interruppi. «Trevor è talmente bello che non potevo aspettare domani per dirtelo. E le parole che mi hai scritto sono così…».
«Non sono mie», mi fece notare.
«È come se lo fossero». Lui mi aveva capito più di quanto credessi e quelle citazioni andavano a toccare tutte le corde giuste. Avevo capito benissimo cosa intendeva e nessuno era mai stato talmente sincero con me.
«Sei ancora lì?», dissi dopo qualche secondo di silenzio.
«Sì, sono ancora qui».
«D’accordo». Ascoltai il suono regolare del suo respiro e non seppi cosa aggiungere. Quel flebile suono era tutto quello che volevo sentire.
«Voglio che tu sia felice Kathleen», ammise dopo un po’. «Voglio che tutti i tuoi sogni si realizzino».
«Lo stesso vale per te Trevor». Adesso che lo conoscevo e che avevo capito chi si nascondesse dietro la sua maschera dura non volevo altro che far sparire per sempre quell’aria truce dal suo volto. Avrei voluto spazzare via qualunque cosa l’avesse ferito in passato e qualsiasi altra che avrebbe tentato di ferirlo in futuro.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5
  
Tre parole al liceo bastavano per mettere in fermento l’intero corpo studentesco durante il mese di dicembre: ballo di inverno. Se per il resto dei miei coetanei quello era un evento immancabile dove divertirsi, sbronzarsi con il lecito permesso di genitori e docenti, per me era una vera e propria tortura. Come ormai saprete, non sono il tipo da feste ma purtroppo mia madre non è mai stata della stessa opinione. Per lei questi eventi erano sacri, una vera e propria manna dal cielo; e per questo non mancava di spendere fior fiore di quattrini per comperare a me e a Queen gli abiti più belli e, come ogni anno, non mancava di lanciarmi il suo sguardo di disapprovazione quando notava che il mio accompagnatore era Evan.
Non fraintendetemi, mi piaceva ballare e mi piaceva la musica, ma quello che si creava a questi eventi studenteschi era solo un ammasso di caproni con cui non riuscivo a trovare niente da spartire. Per non parlare del fatto che non ero proprio “miss socializzazione” e che i vestiti che mia madre mi costringeva ad indossare attiravano su di me più sguardi di quelli che avrei voluto. Proprio per questo passavo quasi tutto il tempo ai margini della sala – che nel nostro caso era la palestra abbellita per l’occasione – rossa come un peperone, cercando di sembrare invisibile nonostante lustrini e perline. Più di una volta avevo cercato di convincere mia madre a comprarmi un abito più semplice, magari un tubino nero o qualcosa di più classico e comune, ma le lamentele e le liti che erano scaturite mi avevano insegnato ad accettare il mio destino. Per il mio quieto vivere dovevo lasciarle fare di testa sua almeno in quell’occasione.
Quell’anno, tuttavia, oltre alla mia totale incapacità di emulare il comportamento spensierato e festaiolo dei miei coetanei, si era creato un ulteriore problema. Evan, il mio fedele accompagnatore da sempre – chi meglio del ragazzo gay e dell’emarginata sociale potevano fare coppia fissa? – non avrebbe potuto partecipare al ballo. Durante le vacanze estive il mio migliore amico aveva conosciuto un ragazzo più grande, che frequentava il college in California; fatto sta che non avevano molte occasioni di vedersi e per pura coincidenza quel finesettimana era risultato una di queste. Evan sarebbe stato via tutto il weekend, visto che avevano programmato di incontrarsi a metà strada.
Per quanto non approvassi le relazioni a distanza, ero contenta per il mio amico. Essere un ragazzo gay in una cittadina come la nostra non era facile e se lui era felice così io lo sarei stata per lui. D’altronde non avevo nessun esperienza di relazioni, sia a distanza che non, quindi che ne potevo sapere?
Comunque visto che il mio solito accompagnatore era fuori gioco mi trovavo di fronte ad un grosso problema. Conoscendo mia madre, dirle che ci sarei andata da sola era fuori discussione, così come dirle che avrei disertato all’evento; avevo pensato di proporre a Lea di andarci insieme come amiche, ma Paul Witney le aveva chiesto di accompagnarla e lei sorprendentemente aveva accettato. Dovete sapere che Paul aveva una cotta per Lea dai tempi delle medie, ma lei non l’aveva mai preso in considerazione; non sapevo cos’era cambiato, forse semplicemente la perseveranza aveva dato i suoi frutti, ma avevo notato uno strano luccichio negli occhi di Lea quando mi aveva dato la notizia. Qualunque cosa fosse successa era felice di andarci con lui ed io non potevo intromettermi.
Un’ulteriore possibilità che avevo scartato subito era di andarci con Queen e Sean, non che lei non me lo proponesse tutti gli anni. Quella però era proprio l’ultima cosa che avrei voluto fare e avevo diversi punti a mio favore: prima di tutto sarei stata con il re e la regina del ballo, attirando più sguardi di quelli che avrei voluto; secondo sarei stata il terzo incomodo, non che fossero la coppia più appiccicosa del mondo, ma non volevo mettermi nel mezzo; terzo andarci con la sorella e il suo fidanzato era proprio da sfigati, persino per i miei standard.
In realtà mi rimaneva un’ultima possibilità e il cuore iniziava a martellarmi forte nel petto quando ci pensavo. Quell’anno avevo un’opportunità del tutto nuova: potevo inaspettatamente andarci con un ragazzo che non fosse gay e che forse poteva essere attratto da me; naturalmente capirete che sto parlando di Trevor. Quando ci pensavo, quando immaginavo noi due al ballo, sentivo le farfalle nello stomaco e arrossivo senza ragione. Dopo ciò che era accaduto per il mio compleanno cominciavo a pensare che forse io potevo piacergli e che probabilmente io provavo le stesse cose. Sapevo di aver affermato che quello che c’era tra noi era una semplice amicizia, tuttavia il mio cuore iniziava a martellare quando ero con lui e mi sentivo stranamente nervosa e felice allo stesso tempo. Non avendo mai avuto una cotta per nessuno, non sapevo cosa si provava; forse era proprio quello?
Comunque andare al ballo con Trevor avrebbe reso quella serata meno terribile di come si prospettava. Sapevo che lui non sarebbe mai stato giudicato un accompagnatore ideale da mia madre, ma era un ragazzo e non era gay, lei non avrebbe potuto lamentarsi; e poi l’avrebbe visto solo quando sarebbe stato troppo tardi e non sarebbe più potuta intervenire.
Tuttavia il fantasticare sull’andare al ballo con lui e l’andarci realmente erano due cose ben diverse. Trevor non sembrava intenzionato ad invitarmi e non voleva neanche sentir parlare della questione “ballo”. Ogni volta che accennavo l’argomento chiudeva il discorso con due parole, catalogandolo subito come un evento stupido. Ero d’accordo con lui al cento per cento, ma visto che dovevo andarci dovevo per forza tentare di sondare il terreno. Non ero così spigliata da invitarlo di mia iniziativa, tuttavia il tempo si stava stringendo. Mancava meno di una settimana ed io non avevo un accompagnatore e la cosa era alquanto preoccupante se non volevo andarci davvero con Queen.
«Allora», buttai lì lunedì a pranzo, mentre aspettavamo che Lea ed Evan ci raggiungessero. «Sabato sera ci sarà il ballo; dopo tutta questa follia sarà finita».
«Non vedo l’ora», borbottò con aria truce.
«Già anch’io». Mi presi un riccio tra le dita e cominciai ad attorcigliarlo ancora di più.
Siccome Trevor taceva cercai di prendere coraggio e di tastare il terreno in maniera più esplicita. Sentii le guance avvampare ancor prima di parlare, ma ero alle strette e dovevo avere delle risposte. «Trevor… mi… mi chiedevo… tu… tu ci vai?». Perfetto: ora avevo iniziato anche a balbettare!
«Dove al ballo?». Sentii i suoi occhi su di me anche se i miei erano fissi sul mio vassoio. «No, certo che no».
«Ah». Quello sì che era un bel problema. Non ci andava per partito preso o perché era nuovo? E se gli avessi chiesto di accompagnarmi avrebbe cambiato idea? Ma soprattutto avrei mai avuto il coraggio di chiedergli di accompagnarmi?
«È solo una stupida festa», continuò, «in cui il punch contiene più alcool di quello permesso in una distilleria, anche se i professori fanno finta di niente. I ragazzi si vestono da pinguini solo con la speranza che la loro accompagnatrice sia abbastanza soddisfatta o abbastanza sbronza da aprire le gambe per loro a fine serata e concedergli la scopata che tanto desiderano. E le ragazze indossano tacchi e vestiti solo con l’illusione di vincere un titolo che è stato già assegnato in partenza. In poche parole la musica non è un granché, l’alcool scorre a fiumi di qualità scadente e le ragazze sono così sciocche da non capire che se un ragazzo le ha invitate al ballo non è per via di meritevoli sentimenti, ma solo per cercare di concludere a letto la serata».
Era uno dei discorsi più lunghi e più crudi che gli avessi sentito fare. Non che ciò che aveva affermato non fosse vero, ma l’aveva descritto come una cosa squallida e il fatto che una minima parte di me desiderasse andare al ballo con lui, e non solo perché ero obbligata a partecipare, rendeva squallida anche me.
All’improvviso sentii gli occhi bruciare e sarei tanto voluta scomparire o come minimo scappare via per starmene un po’ da sola. Per fortuna l’arrivo dei miei amici servì a concludere quel discorso e a cambiare argomento.
Non parlai più per il resto del pranzo, attirando gli sguardi preoccupati di Lea ed Evan; tuttavia non avevo voglia di aggiungere altro. Trevor mi aveva appena fatto capire come l’idea di andare al ballo lo aborrisse e così anche tutta la gente stupida che si emozionava per una cosa del genere. Ed io, anche se solo per un momento, mi ero emozionata al pensiero di andarci con lui. Era ovvio che quella sua opinione non avesse niente a che fare con me, ma non riuscivo ad evitare di sentirmi ferita lo stesso. D’altra parte aveva appena dato della stupida a mia sorella e a persone come mia madre, Sean, Lea e buona parte dei miei conoscenti.
Le sue parole mi continuarono a tornare in mente per tutta la sera, impedendomi di essere la solita me stessa. Andai a trovare Jamie e riuscii a leggergli a stento il mio diario, spiccicando sì e no altre due o tre parole. A cena non parlai, ma quella non era una novità e subito dopo mi ritrovai distesa sul letto con il cuscino tra le braccia. Non avevo né voglia di scrivere né di studiare e la voce di Trevor continuava a ronzarmi nell’orecchie. Sapevo che era stupido sentirmi offesa per un’accusa che neanche era rivolta a me ma non riuscivo ad evitarlo.
«Posso entrare?». All’improvviso qualcuno bussò alla porta e la testa di Queen fece capolino da uno spiraglio.
«Mmm», mugolai affondando la testa nel cuscino.
«Linny che succede?». Queen entrò, chiudendosi la porta alle spalle, e si venne a sedere sul mio letto.
«Non ho un accompagnatore per il ballo». La mia voce uscì attutita dalla federa del guanciale. Quello era il problema di fondo, anche se non era il motivo per cui mi sentivo a terra.
«Beh per fortuna sono qui proprio per questo».
«Non verrò al ballo con te e Sean», risposi secca.
«Non è quello che sono venuta a proporti». Queen passò una mano tra i miei capelli cercando inutilmente di districarli. «Si da il caso che un amico di Sean sia proprio senza dama».
«E chi è questo sfigato?». Doveva essere messo peggio di me, visto che era arrivato a chiedere a Sean e Queen una mano per trovare una ragazza.
«In realtà non è che non abbia trovato una ragazza, ma vorrebbe tanto andarci con te».
Voltai la testa per riuscire a guardarla e a lanciarle uno sguardo perplesso. Io non ero il tipo di ragazza che faceva perdere la testa a qualcuno e l’idea che quel qualcuno non avesse invitato ragazze più carine e spigliate solo per me era ridicola.
«Sai Linny, certe volte ti sminuisci troppo», continuò Queen leggendomi nel pensiero. «Sei una bella ragazza e sei intelligente, più di molti altri. Sei un po’ timida e riservata, ma sei molto sensibile e altruista. È normale che tu possa piacere ad un ragazzo e credimi a lui piaci davvero».
Dubitavo che fosse così, ma d’altronde erano le stesse cose che anche Lea ed Evan mi ripetevano in continuazione; forse dovevo solo avere più fiducia in me stessa e nelle mie potenzialità.
«E chi sarebbe?», domandai in un sussurro.
«John Shane». John era un compagno di squadra di Sean e sicuramente era un bel ragazzo; non avrebbe avuto problemi ad invitare qualsiasi altra persona. Eppure da ciò che diceva Queen, sembrava volerci andare proprio con me. Non lo conoscevo bene ma quando ci avevo parlato era sempre stato gentile, il classico bravo ragazzo come Sean.
«E sei sicura che voglia portare proprio me?».
«Certo Linny, al cento per cento». Sicuramente John sarebbe stato un’alternativa meravigliosa rispetto alla prospettiva di andarci da sola o con mia sorella; per non parlare dell’approvazione che avrebbe suscitato in mia madre. Sarei dovuta essere contenta di quell’alternativa, ma allora perché continuavo a pensare che non era con lui che volevo passare la serata?
«Allora cosa faccio?», continuò Queen, accarezzandomi i capelli. «Gli dico che accetti?».
Sospirai facendo sprofondare di nuovo la testa nel cuscino. «Sì». D’altronde cos’altro potevo fare?
 
La sera del ballo arrivò presto. Come da copione indossai il vestito che mia madre aveva scelto – un abito blu elettrico con scollatura a cuore con pailette e brillantini e una gonna svasata fin troppo corta – e lasciai che lei e mia sorella si divertissero a truccarmi ed ad acconciarmi i capelli. Alla fine del loro lavoro i miei ricci, perennemente in disordine, mi ricadevano in ordinati boccoli sulle spalle e il colore dei miei occhi risaltava grazie all’ombretto. L’opera di trasformazione fu completa quando montai sui quei trampoli che venivano comunemente chiamati tacchi. Alla fine guardandomi allo specchio non sembravo più neanche la stessa; vedevo una bella ragazza, davvero molto carina, ma che purtroppo non mi rappresentava e che aveva ben poco a che fare con me. Per quanto l’immagine che vedevo potesse piacermi ero certa che quella non fosse la vera me. Io ero un ammasso di ricci in disordine, senza un filo di trucco e con larghi maglioni; non ero la ragazza attraente che vedevo riflessa nello specchio.
Tuttavia non ebbi molto tempo per rimuginare sul mio aspetto perché John e Sean arrivarono puntuali a prenderci. John mi salutò con gentilezza e mi consegnò il bouquet che avrei dovuto indossare al polso, coordinato al colore del mio vestito. Ovviamente Queen doveva averglielo comunicato; non mi era passato neanche per la mente che forse avrei dovuto farlo io.
Dopo le varie foto che mia madre ci obbligò a scattare, come ogni anno d’altronde, fummo liberi di salire sulla limousine che i ragazzi avevano noleggiato – una vera pacchianata a mio parere. Sean e Queen si misero a parlottare o ad amoreggiare da una parte mentre io e John ci sistemammo dall’altra. Mentre l’auto ripartiva sentii crescere dentro di me l’imbarazzo, non sapendo minimamente come relazionarmi con un ragazzo come lui in quella situazione. Avrei dovuto cercare di fare conversazione? Dovevo ringraziarlo per avermi portata al ballo? Cosa era appropriato dire ad un primo appuntamento? Perché quello poteva essere considerato un primo appuntamento, giusto? Ma forse per lui non era così e neanche io sapevo come sentirmi riguardo a tutta quella situazione. Una parte di me sapeva benissimo che non era con lui che avrei voluto passare il resto della sera; tuttavia la Kathleen orgogliosa non l’avrebbe mai ammesso.
Per fortuna fu John a rompere il ghiaccio. «Sei molto carina stasera».
Arrossii ma riuscii a rispondere prontamente. «Grazie». Non sapendo come continuare non aggiunsi altro e tra di noi calò di nuovo quel silenzio glaciale. Ero così nervosa e imbarazzata che iniziai a torturare l’orlo della mia gonna, concentrandomi profondamente sulla punta delle mie scarpe. Dall’altra parte anche John non sapeva cosa dire, ma era evidente che ero io a rendergli le cose difficili. Ma di cosa avrei potuto parlare con un ragazzo con cui avevo poco o forse niente in comune? Siamo obbiettivi: lui era tutto sport, cheerleader, feste e popolarità; io ero l’esatto opposto.
Qualcuno di voi potrebbe dirmi che avrei potuto parlare di argomenti generici, come il tempo o qualcosa come la scuola, l’unico forse elemento in comune tra noi. Tuttavia la mia mente non sembrava funzionare al massimo quando ero in imbarazzo, quindi quel genere di argomenti non mi passarono neanche per l’anticamera del cervello.
All’improvviso John estrasse qualcosa da dentro alla giacca e il suo movimento attirò la mia attenzione. Tirò fuori una fiaschetta, quella da liquori, che avevo visto solo in qualche serie tv di adolescenti. Dio! Tutta quella serata stava diventando un vero cliché.
«Vuoi un goccio?», mi chiese notando che l’osservavo.
«No», balbettai, arrossendo ancora di più e tornando a guardarmi le scarpe. Certe volte odiavo quando la Kathleen timida prendeva il sopravvento, ma non riuscivo ad evitarlo. Dovevo sembrare una stupida vista da fuori!
«Beh ti aiuterebbe a scioglierti un po’», dichiarò svitando il tappo e bevendo una lunga sorsata.
Lo guardai sapendo benissimo che l’alcool non era la soluzione; sbronzarmi era l’ultima cosa che volevo fare quella sera, però se fossero proseguite così quelle sarebbero state delle ore interminabili. Magari aveva ragione lui e mi serviva solo la spinta gusta per poter vincere l’imbarazzo e cominciare ad essere una persona normale.
«D’accordo, forse solo un sorso», sussurrai in un tono appena udibile.
«Come?».
«Solo un sorso», ripetei un po’ più forte. Lui mi sorrise e mi passò la fiaschetta. Prendendo un profondo respiro bevvi una sorsata e subito sentii la mia gola bruciare. Iniziai a tossire l’istante dopo: qualsiasi cosa fosse era dannatamente forte ed aveva un sapore orribile.
John rise, riprendendo la fiaschetta e riponendola al sicuro nella sua giacca. «Si vede proprio che non sei abituata a bere».
«Eh già».
«La prima sorsata è dura per tutti, dopo migliora e non ne puoi più fare a meno». Dubitavo che ne avrei preso un secondo sorso, ma comunque annuii e sorrisi.
Per mia fortuna il viaggio in limousine non durò ancora a lungo e una volta a scuola fummo presto circondati da frotte di studenti tutti eleganti che si dirigevano verso la palestra. L’opera di trasformazione che il comitato studentesco aveva apportato all’edificio era stupefacente come ogni anno. Non sembrava più nemmeno di essere all’interno della scuola: fiocchi di neve brillanti, finte statue di ghiaccio, tutto sembrava studiato alla perfezione.
Una volta dentro alla palestra John e Sean trovarono i loro compagni di squadra, con le rispettive accompagnatrici, e si misero a parlare dell’ultima partita. Queen e le altre ragazze iniziarono invece a chiacchierare di argomenti più frivoli, ma che mi consentivano benissimo di restare in silenzio o di annuire semplicemente.
Non fu così facile invece quando John mi invitò a ballare. Accettai volentieri, perché in fin dei conti era una cosa che mi piaceva, ma continuavo a sentirmi a disagio; non tanto durante i balli più moderni, ma soprattutto durante un paio di lenti, che il DJ propinava per spezzare un po’ il ritmo. Il modo in cui John mi stava vicino, mi stringeva, non mi sembrava giusto. Non che mi palpasse o qualcos’altro, solo che era evidente l’imbarazzo che c’era tra di noi, o almeno quello che provavo io. L’unico altro ragazzo con cui avevo ballato, ad eccezione di mio fratello, era Evan e con lui mi ero sempre sentita libera, me stessa. Non era la stessa cosa con John e non c’entrava nulla il fatto che Evan fosse gay; era una questione di “pelle” e da quando ero uscita quella sera non c’era stato un solo istante in cui mi fossi sentita la vera Kathleen.
Dopo un lento John incontrò un gruppo di amici ed io ne approfittai per andare in bagno. Una volta sola, mi sciacquai le guance, facendo attenzione a non struccarmi, e mi guardai allo specchio. La persona che vedevo non ero io: non ero la ragazza con i capelli acconciati ad arte e il trucco perfetto, né la stupida bambina timida che era uscita fuori in limousine. Ero una persona completamente diversa e chi mi conosceva bene lo sapeva; ci voleva un po’ ma alla fine uscivo dal mio guscio. Il problema con John era che sentivo che probabilmente con lui quel guscio non si sarebbe mai aperto. Con Trevor invece ero sbocciata e, nonostante continuassi ad arrossire, riuscivo a parlare e scherzare con lui come con pochi. Tuttavia Trevor aveva detto chiaro e tondo quanto fosse stupido essere lì quella sera e aveva espresso la sua opinione senza possibilità di fraintendimento.
Quando mi decisi ad uscire dal bagno per tornare da John fui sorpresa di vederlo nel corridoio adiacente alla palestra. Stava parlando con un paio di ragazzi di cui non ricordavo il nome. La musica arrivava attutita e riuscivo a sentire le loro parole e, quando capii di essere io il loro argomento di conversazione, mi nascosi dietro un armadietto per non essere vista.
«Ehi amico dove hai messo la tua accompagnatrice?», gli stava chiedendo il ragazzo più tarchiato.
«E che ne so!», gli rispose. «Credo sia andata in bagno».
«Non credevo che ti piacessero i casi pietosi», commentò il terzo.
«Oh non mi piacciono credimi».
«E allora perché sei venuto con lei?», gli domandò tarchiato.
«È la sorellina di Queen, lei e Sean mi hanno praticamente implorato non volevano averla tra i piedi tutto il tempo».
Gli altri due scoppiarono a ridere. «E tu cosa ci guadagni?».
«Oh non faccio niente per niente, credetemi. Sean l’anno prossimo se ne andrà, mentre io resterò qui per l’ultimo anno. Beh avete davanti a voi il futuro capitano della squadra».
«Pensavo che il coach avesse già quasi deciso di nominare Max, d’altronde è il vicecapitano».
«Oh sì, ma non se Sean presserà il coach convincendolo che io sono la scelta migliore».
«Eh bravo John!». Tarchiato gli sferrò un pugno amichevole sulla spalla. «E quindi tu dovrai solo sopportare la sorellina di Queen per questa sera e dopo avrai il titolo di capitano in tasca!».
«Cazzo lo farei io al tuo posto», commentò l’altro ragazzo.
«Oh credimi non è una passeggiata come sembra», continuò John. «Kathleen è proprio una sfigata; magari stasera può essere anche carina, d’altronde è la sorella di Queen, ma non ha preso proprio nulla da lei. È una lagna, talmente imbranata e impacciata da non riuscire a mettere due parole in fila; non mi sorprende che stia sempre con quegli altri due sfigati. D’altronde gli unici sguardi che è stata capace di attirare su di sé sono quelli di una checca e di un tossico teppista».
Gli altri risero, ma John non aveva ancora finito. «Forse potrà essere una secchiona ma è evidente che non è altro. D’altronde il fatto che si disperi ancora per il fratello spiega tante cose. Solo una che ha qualche rotella fuori posto continuerebbe a credere che James non sia già completamente tutto andato».
Gli altri due risero di nuovo e gli dettero delle pacche sulle spalle. Sembravano completamente d’accordo con lui e, visto che non avevano altro da aggiungere, rientrarono tutti e tre nella palestra.
Io invece ero completamente impietrita, appiattita contro gli armadietti, la schiena a contatto con il metallo freddo. Sentivo gli occhi bruciare e le guance avvampare, stavolta non per imbarazzo ma per rabbia. Sarei solo voluta scoppiare a piangere per poi correre via, ma la parte orgogliosa di me non me lo permetteva e mi faceva rimanere là immobile.
Le cose che aveva detto John erano state cattive; non c’era stata una sola frase che non mi avesse offesa o ferita. Aveva parlato male di me, dei miei amici, di mio fratello, di come io insistessi con lui; ma non era quella la cosa che mi aveva ferita di più. Sapevo che lui non poteva capire, che nessuno poteva capire: il rapporto tra me e James, il mio Jamie, era qualcosa di unico e neanche Queen riusciva a comprendere il legame che ci univa perché purtroppo con lei non c’era mai stato. Quindi era abituata a sentirmi parlare alle spalle riguardo a mio fratello.
Ciò che mi aveva veramente ferito era stato scoprire il tradimento di Queen. Lei era venuta nella mia stanza, facendo tutta la carina, e mi aveva fatto credere che John fosse davvero disponibile ad uscire con me quella sera. Invece era stato tutto un suo piano architettato per non avere tra i piedi quella zavorra della propria sorellina. Erano arrivati a scambiare un appuntamento con me con una promessa e una ricompensa futura: ero stata messa all’asta, barattata, usata solo per ottenere qualcosa da entrambi le parti. Nessuna delle due parti ovviamente ero io.
Presi un profondo respiro e mi asciugai una lacrima che tentava di uscire. Con tutta me stessa volevo correre a casa, volevo trovare Lea in quel marasma di gente e chiedere a lei e Paul di darmi un passaggio. Tuttavia l’avevo vista in mezzo alla sala, persa tra la folla danzante, e mi era sembrata così felice; non volevo rovinare anche la sua serata. E poi se fossi andata via allora avrei ribadito ancora una volta ciò che John aveva detto di me; se volevo dimostrare che si sbagliava, che avevano tutti torto marcio, dovevo restare ed essere superiore. Ero stranamente passata in vantaggio perché io sapevo la verità su quella sera, mentre tutti gli altri ignoravano che io ne ero a conoscenza.
Fu proprio per questo, tirando fuori la Kathleen orgogliosa e coraggiosa, che tornai nella palestra. Mi diressi subito verso il tavolo del buffet; se volevo continuare quella serata con John avevo sicuramente bisogno di qualcosa che alleggerisse la mia testa. Presi un bicchiere di punch e lo bevvi tutto di un fiato; aveva lo stesso retrogusto di quello che avevo bevuto dalla fiaschetta in limousine, ma era molto attenuato dal sapore della frutta. L’insieme risultava molto più gradevole di quanto mi aspettassi. Me ne versai subito un altro, che mandai giù con la stessa velocità.
Ritrovai John dopo il terzo bicchiere e devo decisamente dire che fu molto più facile relazionarmi con lui nonostante tutto ciò che avevo sentito. L’alcool stava velocemente spengendo molti interruttori nel mio cervello, per primo quello che continuava a porsi domande. E prima che possiate aggiungere altro voglio dirvi che lo so che l’alcool non è una soluzione. Ma cosa avreste fatto al mio posto? Cosa avrei dovuto fare? Come avrei potuto continuare a guardarlo in faccia – si fa per dire visto che anche prima riuscivo a sostenere a stento il suo sguardo per più di un minuto – dopo tutto ciò che avevo scoperto? Come potevo trascorrere il resto della serata al suo fianco senza qualcosa che mi annebbiasse la mente? Ovvio non potevo, non senza sembrare una schizofrenica bipolare.
E così mi ubriacai: ufficialmente ecco la mia prima sbronza. Ed  era avvenuta ad un ballo dove teoricamente non dovevano esserci alcolici, sotto il controllo di professori che avrebbero dovuto vigilare sulla quantità di alcool presente nel punch.
Stavo ballando con John, che doveva essersi sicuramente accorto che avevo bevuto, ma aveva accolto la cosa piuttosto felicemente, quando all’improvviso lo sentii irrigidirsi. Ora devo confessare che l’alcool mi aveva resa molto più esplicita e lasciva, su quello John aveva avuto ragione. Vorrei inoltre aggiungere che non ero una di quelle ubriache così perse da non rendersi conto di cosa le succede intorno. Io ero assolutamente consapevole di ciò che stavo facendo, ma non mi importava. Probabilmente era merito del punch, ma per una volta ero libera da tutti i miei mille paletti, da tutti i muri che mi frenavano costantemente.
Comunque, all’improvviso John smise di ballare e si immobilizzò, nonostante io continuassi a strusciarmi a lui. Quando alzai gli occhi per vedere cosa stesse succedendo mi ritrovai catapultata dritta dritta in due pozze azzurre ormai per me fin troppo famigliari.
«Trevor…», balbettai sbattendo le palpebre. Lui mi stava squadrando con aria truce e con un’espressione imperscrutabile. Tuttavia la sorpresa e la gioia per il fatto di averlo lì furono così improvvise da travolgermi come un treno in corsa.
«Ehi amico stavamo ballando», azzardò John, ma io lo precedetti e mi tuffai sul petto di Trevor lanciandogli le braccia al collo.
«Credo che lei non la pensi allo stesso modo», rispose stringendomi. Il suo petto vibrò pronunciando quelle parole, riuscendo nella mia testa a sovrastare il frastuono della musica. Non so bene cosa fece desistere John, ma non ci fu nessuna replica e con molta probabilità si allontanò lieto di essersi sgravato da quel fardello che era l’imbranata Linny.
«Oh Trevor», sussurrai stringendolo più forte. «Sei qui». Vederlo lì davanti a me aveva annientato tutte le mie difese; avevo desiderato la sua presenza per tutta la sera e alla fine lui era arrivato, stravolgendo ogni probabilità, proprio quando mi ero resa più vulnerabile.
Trevor mi fece alzare il viso dalla sua spalla, posandomi due dita sotto il mento, e mi costrinse ad incrociare il suo sguardo. I suoi occhi azzurri erano freddi come il ghiaccio; sembrava furioso come se ce l’avesse con me.
«Sono così felice che tu sia qui», sussurrai nella speranza di sciogliere quel mare gelato.
«Sei ubriaca». Non era una domanda, ma un’affermazione.
«Sì… mi dispiace». E poi senza rendermene conto iniziai a piangere. L’attimo prima stavo guardando gli occhi di pietra di Trevor e quello dopo la mia vista era completamente offuscata dalle lacrime. Era come se, tutto ad un tratto, avessi perso il controllo del mio corpo. La presenza di Trevor aveva riportato a galla tutte le fragilità e le ferite di quella sera.
«Merda!». Probabilmente Trevor inveì con espressioni più colorite, che però furono coperte dal suono della musica. «Andiamocene da qua». Mi prese per mano e mi guidò fuori dalla palestra; senza aggiungere altro mi aiutò a recuperare la mia borsa e il mio cappotto, mentre io cercavo inutilmente di trattenere le lacrime che invece continuavano ad uscire libere, una dietro l’altra.
Una volta nei corridoi deserti di fronte all’ingresso della scuola, si fermò e mi fece appoggiare agli armadietti.
«Vieni qui». Aveva tra le mani un fazzolettino, che probabilmente doveva aver trovato nella mia borsa, e cominciò delicatamente ad asciugarmi gli occhi, cercando di eliminare le strisciate di trucco che dovevano essere sicuramente colate. Lo lasciai fare cercando in qualche modo di calmarmi, ma non riuscendoci e continuando invece a singhiozzare.
«Respira profondamente», mi consigliò, passandomi il fazzolettino sotto la palpebra. Cercai di fare come mi aveva detto e lentamente i miei singhiozzi diminuirono e le mie lacrime cessarono. Quando fui di nuovo capace di vedere con chiarezza incrociai nuovamente i suoi occhi, ma stavolta ciò che vi trovai non fu rabbia o freddezza. Trevor aveva l’espressione più dolce che gli avessi visto ed anche la più preoccupata.
«Vuoi dirmi cosa è successo?», mi domandò sfiorandomi la guancia con il pollice.
Scossi la testa ancor prima di parlare. «No, voglio solo andare via».
«D’accordo ti porto a casa». Mi riprese per mano e, aiutandomi ad agganciarmi il cappotto, mi guidò fuori lungo il parcheggio. Solo allora notai che era vestito esattamente come al solito, con la sua immancabile giacca di pelle, segno evidente che non aveva avuto nessuna intenzione di venire al ballo. Cosa gli avesse fatto cambiare idea restava un mistero.
Senza dire una parola superammo tutte le fila di macchine dirigendoci verso una stradina laterale.
«Dove stiamo andando?», gli chiesi, tentando di non barcollare. Ero ubriaca e in più avevo i tacchi, non era certo una cosa facile.
«Ti porto a casa mia, sono venuto a piedi. Poi se sarai abbastanza sobria potrò considerare l’idea di riportarti a casa». Sapevo di non poter tornare a casa in quelle condizioni perché probabilmente avrei trovato mia madre ancora alzata e avrebbe cominciato a tempestarmi di domande sul come mai non fossi con John. Tuttavia una passeggiata non era proprio nelle mie corde, soprattutto in quelle condizioni.
«Trevor non ce la faccio», mi lagnai, fermandomi e accucciandomi a terra. Sapevo che era l’alcool a rendermi così capricciosa, ma non potevo farci nulla. «Mi fanno male i piedi, non posso camminare con queste scarpe».
Lui abbassò lo sguardo sui miei piedi e imprecò a mezza voce. «Toglile». Si accovacciò al mio fianco ed iniziò a slacciarmele.
«No!». Balzai indietro andando a sbattere col sedere per terra. «Ahi».
«Kathleen, togliti le scarpe», ripeté perentorio.
«Non posso camminare senza». Ero ubriaca ma non avrei camminato scalza in mezzo a chissà quale sporcizia.
«Katy». Il suo sguardo non ammetteva repliche. «Non morirai per questo, e poi casa mia è vicina te lo prometto». Non riuscendo a trovare altra soluzione e non avendo più voglia di stare col sedere per terra feci come mi aveva detto. Trevor prese le mie scarpe con la mano che reggeva anche la borsa e con l’altra mi aiutò a rialzarmi.
Per qualche minuto camminammo in silenzio, o meglio io barcollai al suo fianco cercando di mettere un piede dietro l’altro in un’andatura che risultasse più salda possibile. Trevor aveva posato una mano sul mio fianco e mi sosteneva più di quanto me ne rendessi effettivamente conto.
Quando il silenzio divenne troppo pressante, sentii le parole uscirmi da sole. «Mi hai offesa».
«Cosa?». Trevor si fermò di scatto voltandosi a guardarmi.
«Mi sono sentita offesa l’altro giorno a scuola quando hai ridicolizzato chiunque volesse in qualche modo partecipare al ballo. Io volevo andarci con te». Era una cosa che da sobria non avrei ammesso neanche sotto tortura, ma era l’alcool a parlare per me.
«Oh Kathleen, io non mi riferivo a te». Abbassai la testa osservando i miei piedi, coperti solo da un paio di calze velate, a contatto con l’asfalto freddo del marciapiede. «Katy». Mi costrinse di nuovo ad alzare la testa, posandomi due dita sotto il mento.
«Io non pensavo in nessun modo a te», disse. «Non credevo che tu potessi sentirti compresa nel mio discorso. Era solo… Katy io non volevo partecipare al ballo ma per una questione che riguarda solo me, tu non c’entravi niente».
«Però c’entravo invece». La mia testa era annebbiata e non riuscivo a spiegare il mio punto di vista. Cercare di farmi capire era assai difficile se non trovavo nemmeno le parole per esprimermi.
«No, per niente. Sono io che non dovrei partecipare ad eventi come questo e se fossi diverso credimi saresti stata l’unica ragazza che avrei voluto invitare».
«Però alla fine sei venuto». Alzai la testa e gli rivolsi un sorriso. «Mi hai salvata».
Trevor scoppiò a ridere. «Credo che in questo momento l’alcool ti stia decisamente annebbiando la capacità di giudizio».
«Non è vero, mi hai salvata», affermai convinta, guardandolo negli occhi. Ed ero certa di non essere lontana dalla verità.
«Dio Kathleen!». Trevor mi sfiorò la guancia con le dita. «Cosa diavolo è successo stasera?».
«Non ha importanza», ribattei distogliendo lo sguardo.
«Non vuoi dirmelo e lo accetto. Ciò non significa che non lo scoprirò. Adesso però andiamo». Trevor mi prese per mano e ricominciammo a camminare. La testa mi girava parecchio, anche se mantenevo un minimo di lucidità, e ciò mi portava a barcollare. All’improvviso dopo un passo gli andai completamente addosso e lo sentii ridere della mia goffaggine. In effetti doveva essere una scena molto comica a vederla da fuori; dovevo essere ridicola ma poco mi importava anche se c’era Trevor proprio davanti a me.
E come se non fossi già abbastanza goffa, tutto ad un tratto misi il piede su qualcosa di scivoloso, forse una pozzanghera che iniziava a ghiacciare, e in meno di un secondo mi ritrovai con il sedere per terra senza che Trevor potesse in qualche modo intervenire.
«Katy! Ti sei fatta male?». Si chinò subito a controllare, ma la mia mente era rallentata e stavo ancora realizzando di essere scivolata. Doveva essere sembrata come una scena di quelle tipiche con la buccia di banana dei cartoni animati, di quelle da sbellicarsi dalle risate. E così senza preavviso anch’io iniziai a ridere, a ridere a crepapelle, come non facevo da tanto tempo.
«Ehi». Anche Trevor sorrise, spostandomi una ciocca di capelli dal viso.
«Deve essere stato così buffo», sghignazzai. Probabilmente la Kathleen ubriaca doveva essere un vero spasso da vedere; James sarebbe morto dalle risate. Quel pensiero mi attraversò la mente come un fulmine, ma non c’era nostalgia, anzi era qualcosa di dolce e tenero. Jamie mi diceva sempre che prima o poi mi avrebbe fatto sbronzare e che allora ci saremmo divertiti davvero. Se mi avesse visto in quel momento sarebbe stato felice, preoccupato, orgoglioso, tutto insieme.
«Vieni ti aiuto ad alzare». Trevor mi porse la mano, ma io invece di afferrarla iniziai a confessargli ciò che avevo tentato di tenergli nascosto fino ad allora.
«Ho un fratello», gli rivelai.
«Cosa?». Sbatté le palpebre non capendo dove volessi andare a parare.
«Ho un fratello più grande di nome James, Jamie per me. Dovrebbe essere al college adesso, dovrebbe stare per laurearsi». L’espressione di Trevor si incupì e lui riacquistò la sua aria truce.
«Dovrebbe?». Non gli era sfuggito il condizionale.
«Circa due anni e mezzo fa ha avuto un incidente. Lo hanno investito vicino all’ingresso di Harvard, a Boston. Nella tua città, non è buffo?». Sorrisi ma l’espressione di Trevor divenne ancora più cupa, come se la coincidenza non lo divertisse affatto. «Non è morto, comunque, anche se per molti, compreso buona parte della mia famiglia, sarebbe stato meglio così. È entrato in coma e non si è più risvegliato; adesso lo chiamano stato vegetativo». Arricciai le labbra e sentii di nuovo voglia di piangere. La Kathleen ubriaca era un’altalena di emozioni.
«Non so che dire Katy. Mi dispiace, mi dispiace tanto». Sapevo che era sincero e che non era il semplice convenevole pieno di compassione.
«Non te l’ho detto perché ti dispiacessi».
«Allora perché lo hai fatto?».
«Non lo so», ammisi. Forse se non fosse stato per l’alcool avrei impiegato più tempo a confessarglielo, ma alla fine l’avrei fatto. Sentivo di potermi fidare di lui e dirglielo era l’unica cosa giusta da fare.
«Mi si sta ghiacciando il sedere», dichiarai ricordandomi di essere ancora seduta per terra.
«Allora andiamo». Con un unico gesto mi tirò su per la mano aiutandomi a rimettermi in piedi. Forse fu dovuto al movimento repentino, ma all’improvviso sentii lo stomaco sotto sopra, in completo subbuglio, e l’istante dopo fui di nuovo costretta ad abbassarmi per permettere al mio corpo di espellere nell’unico modo possibile tutto l’alcool che avevo incorporato. Ed ecco che la mia prima sbronza finiva con il più plateale dei cliché.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6
 
Quasi certamente i postumi di una sbornia potevano essere inseriti nell’elenco dei contro che non mi avrebbero fatto più toccare un goccio d’alcool in vita mia. Quella mattina a svegliarmi non fu il normale suono della sveglia o qualche rumore particolare, ma una fitta lancinante alla testa. Tenendo gli occhi chiusi riuscivo comunque a sentire le tempie pulsare; non osavo immaginare cosa sarebbe successo quando avrei scorto la luce del mattino filtrare dalla finestra.
Cercando in tutti i modi di placare quel tremendo mal di testa mi rigirai nel letto, rifiutandomi di aprire gli occhi. Sentii le mie cosce nude strusciare contro le coperte e subito mi domandai perché mai non indossassi i pantaloni del pigiama. Ricordavo ben poco di ciò che era successo dopo che avevo vomitato; gli eventi avvenuti durante la serata mi erano più o meno chiari, ma tutto diventava confuso dopo quel punto. Sicuramente non era stato bello e forse la mia mente l’aveva rimosso proprio per quello.
Mi raggomitolai sul fianco cercando di riaddormentarmi, nonostante il dolore persistente, ma oltre a quello sentii il bisogno piuttosto urgente di andare in bagno. A quel punto potevo anche dire addio ad ogni possibile temporeggiamento.
Prendendo coraggio aprii gli occhi, ma dovetti sbattere le palpebre un paio di volte per essere sicura di ciò che avevo davanti. Quella non era sicuramente camera mia; invece di ritrovare la mia amata scrivania, al lato del mio letto, davanti mi apparve un anonimo armadio beige, così asettico e impersonale da non darmi nessunissimo indizio su dove mi trovassi.
Dove diavolo ero? E soprattutto come avevo fatto a svegliarmi in un letto che non era il mio? Oltre all’evidente figura che avevo fatto ieri sera – quella che almeno ricordavo – cos’altro avevo combinato? Basandomi sul fatto che mi trovavo in chissà quale letto e mezza nuda tra l’altro, potevo aver davvero fatto di tutto.
Prima che potessi avere un vero e proprio attacco di panico, mi tirai su a sedere e cercai di ispezionare la stanza alla ricerca di possibili indizi. Oltre all’armadio, accanto al letto c’era un comodino, con una lampada e niente altro sopra. La finestra, dalla quale filtrava la luce, si trovava proprio sopra una scrivania, sulla quale era appoggiato un portatile chiuso. Nessuna foto, nessun indizio, niente che potesse suggerire se quella camera fosse di un uomo o di una donna.
Solo quando mi rigirai completamente, per poter osservare dalla parte opposta, compresi finalmente chi fosse il proprietario della stanza, visto che si trovava proprio lì profondamente addormentato. Trevor era seduto su una poltrona al lato di quello che doveva essere il suo letto; aveva le gambe distese sopra il materasso, là dove la punta dei miei piedi non arrivava, e la testa gli ricadeva pesantemente sul petto in quella che con molta probabilità doveva essere una posizione scomodissima.
Non potevo credere ai miei occhi: stando a ciò che vedevo lui mi aveva ceduto il letto, il suo letto, e aveva scelto di dormire su una scomoda poltrona, senza coperte né altro. Qualunque altro ragazzo non avrebbe fatto altrettanto e probabilmente avrebbe approfittato della situazione. Non sapevo se essere più commossa o stupita. Cosa significa quel gesto così dolce?
Comunque i miei bisogni fisiologici mi ricordarono il motivo per il quale mi ero decisa ad alzarmi. Tuttavia, non trovandomi nella mia camera, non sapevo bene come dovevo comportarmi; non volevo svegliare Trevor ma non potevo neanche gironzolare per casa sua alla ricerca del bagno.
Non ebbi però bisogno di pormi ulteriori domande perché, nel tirare fuori le gambe da sotto le coperte, sentii Trevor svegliarsi, probabilmente ridestato dal mio stesso movimento.
Emise un mugolio e allungò contemporaneamente braccia e gambe per stiracchiarsi. «Ehi». Quando alzò la testa i capelli arruffati gli ricaddero disordinatamente sulla fronte e i suoi occhi ancora assonnati mi scrutarono più belli che mai.
«Scusa non volevo svegliarti», sussurrai.
«Non importa». Si passò le dita tra i capelli cercando di sistemarli. «Come ti senti?».
«Uno schifo». Era l’unico modo per descrivere come mi sentissi, almeno fisicamente.
«La testa?». Annuii sapendo che non c’era bisogno di aggiungere altro.
«Resta qui, vado a prenderti un antidolorifico». Buttò giù le gambe e fece per alzarsi, ma io lo fermai prima che potesse muovere un passo.
«Aspetta… io devo… andare in bagno». Abbassai la testa guardandomi le mani e sentendo la famigliare sensazione delle guance avvampare.
Trevor rise. «Sei tornata ad arrossire, questo significa che la sbronza ti è passata. Il bagno è la seconda porta a sinistra». Mentre lui scendeva al piano sottostante io mi fiondai nella stanza che mi aveva indicato. Solo dopo, mentre mi stavo lavando le mani, nell’osservarmi allo specchio mi accorsi effettivamente di cosa avevo addosso. Senza considerare il fatto che i miei capelli solitamente arruffati sembravano un vero e proprio nido per uccelli, il mio corpo era messo in bella mostra da quella che senza ombra di dubbio doveva essere una maglietta di Trevor. Mi stava grande e larga ed era intrisa dal suo odore, ma ciò che aveva importanza era che rimaneva abbastanza corta da lasciare scoperta buona parte delle mie cosce. E poco contava che sotto avessi ancora le mutandine ed il reggiseno: non ero certa di essere stata in grado di spogliarmi e rivestirmi da sola la sera prima e ciò significava che doveva per forza essere stato Trevor.
Se prima l’avevo giudicato teneramente vedendolo sulla poltrona, adesso il mio parere non era poi così benevolo. Lui con molta probabilità mi aveva spogliata e quindi mi aveva visto mezza nuda. Altro che non approfittarsi della situazione! Dove diavolo era finito il mio vestito e perché non mi aveva lasciato dormire con quello? Quasi come la sera prima, i miei sentimenti mutarono in un istante. Mi sentivo arrabbiata per quell’intromissione e allo stesso tempo in profondo imbarazzo. Come potevo essermi ridotta in una condizione tale da ficcarmi in una situazione del genere, con un ragazzo che riusciva a spogliarmi senza che me ne accorgessi?
Oltre al malessere per la sbronza in generale si poneva anche l’imbarazzo di quel momento stesso. Sarei forse dovuta tornare in camera sua, davanti a lui, con indosso solo quella maglietta? Era ovvio che lui avesse visto di più quando me l’aveva infilata, ma io mi sentivo comunque mezza nuda e vulnerabile. Avrei voluto qualcosa per coprirmi, ma sarei sembrata ridicola e di certo non potevo restare barricata in bagno per sempre. Prima o poi lui sarebbe venuto a cercarmi.
Cercai di guadagnare tempo lavandomi il viso, sciacquandomi la bocca e provando a  sistemare inutilmente i miei ricci con le dita. Tuttavia quando compresi che i miei capelli non sarebbero migliorati senza l’uso di un pettine non trovai più nessuna scusa per restare confinata là dentro.
Prendendo coraggio e facendo un profondo respiro aprii la porta e tornai in camera di Trevor. Lui era seduto sul letto, dove poco prima mi trovavo io, con la testa appoggiata al muro e stava osservando il corridoio attraverso l’uscio aperto, aspettando il mio arrivo.
«Ce ne hai messo di tempo», disse non appena mi vide, mentre io abbassavo la testa di scatto e mi concentravo sui miei piedi. «Credevo che non avresti più trovato il coraggio di uscire». Scoppiò a ridere e la sua risata fece scattare un interruttore dentro di me. Ero in imbarazzo e lui lo sapeva e si stava comunque divertendo, tuttavia più che essere intimidita in quel momento ero arrabbiata e per una volta la rabbia vinse sull’imbarazzo.
Alzai la testa di scatto e gli puntai contro un dito. «Non avevi nessun diritto di spogliarmi, né di prestarmi la tua maglia come se fossi una delle tante ragazze che ti porti a letto». Mi resi conto di ciò che avevo detto troppo tardi come sempre.
«Uou, la piccola Katy che tira fuori gli artigli! Questa sì che è una novità».
«Smettila di prendermi in giro», sbottai. «Dov’è il mio vestito? Non c’era bisogno che me lo togliessi, né che mi facessi dormire nel tuo letto. Tu… tu…». Non riuscii a finire la frase perché fui interrotta da una fitta lancinante alla testa. Mi portai la mano alla fronte e chiusi gli occhi, rendendomi conto che litigare era proprio l’ultima cosa che il mio corpo voleva fare.
«Ehi io volevo solo essere gentile». Sentii il materasso cigolare e subito dopo la mano di Trevor che con delicatezza mi faceva sedere sul letto. «Prendi questa, dopo starai meglio». Mi passò una piccola pillola che io ingurgitai senza neanche domandarmi cosa diavolo fosse. Con molta probabilità lui aveva molta più esperienza di me in quel genere di situazione ed io, nonostante qualsiasi cosa fosse successa quella notte, mi fidavo di lui.
«Non per ritornare sull’argomento», disse mentre riprendeva il bicchiere dal quale avevo appena bevuto. «Però vorrei difendermi dalle tue accuse».
Si accucciò davanti a me in modo tale che io potessi guardarlo negli occhi anche puntando lo sguardo a terra. «Non so quanto ti ricordi di ieri sera, ma io ti ho portata via dal ballo e ci siamo incamminati verso casa mia».
«Questo me lo ricordo», mormorai. All’improvviso ricordai anche di cosa avevamo parlato; gli avevo raccontato la verità su James e stranamente non mi dispiaceva di averlo fatto.
«Bene. Ti ricordi anche dopo che hai vomitato?».
Aggrottai la fronte cercando di focalizzare qualche ricordo, ma era come se la mia mente avesse cancellato tutto ciò che era avvenuto dopo. «No… niente».
«Lo immaginavo». Trevor sorrise ed io avvampai iniziando a comprendere che forse la mia rabbia era stata prematura e potevo essere stata proprio io a mettermi in ridicolo. Cosa diavolo potevo aver fatto? Essermi spogliata davanti a lui? Non c’era da escluderlo. Poteva l’alcool avermi resa tanto diversa dalla persona che ero veramente?
«Tranquilla, non hai fatto niente di irreparabile», sembrò leggermi nel pensiero. «Hai vomitato per un bel po’ e nonostante sia riuscito ad evitare che ti sporcassi i capelli, lo stesso non si può dire del tuo bel vestito. Comunque dopo non riuscivi a reggerti in piedi e avevi freddo, per fortuna mancava poco. Perciò ti ho presa in braccio e ti ho portata qua. Eri così stanca che quando ti ho messa sul letto ti sei addormentata di colpo. Il tuo vestito puzzava ed era sporco e per questo te l’ho tolto e ti ho messo la prima cosa che ho trovato».
L’imbarazzo ebbe di nuovo il sopravvento ed io mi sentii uno schifo per il fatto di averlo accusato e giudicato senza neanche conoscere i fatti. Puntai lo sguardo proprio dritto nei suoi occhi e dissi l’uniche parole che erano necessarie. «Scusa, non avrei dovuto accusarti».
«Non fa niente». Trevor abbandonò la sua posizione accucciata e si sedette sul letto al mio fianco. «È naturale che tu abbia pensato male di me, penso che chiunque nella tua situazione l’avrebbe fatto». Era una frase aspra e cruda anche se l’aveva pronunciata in tono scherzoso.
«Non è naturale», lo corressi. «È solo sbagliato».
«Comunque non ti ho toccata se proprio lo vuoi sapere, cioè non più di quanto fosse necessario».
«Grazie».
«Non posso dire la stessa cosa per la vista, però; mentirei se ti dicessi che ho distolto lo sguardo; ti ho guardata, Katy, e ti ho guardata davvero bene. Hai tutte le potenzialità per far girare la testa ad un uomo e credimi se ti dico che non hai niente, ma proprio niente, da invidiare a tua sorella». Le sue parole mi fecero arrossire ma era diverso dal solito imbarazzo: mi aveva in qualche assurdo modo definita bella ed io volevo davvero esserlo per lui. Nessuno che non fosse mio parente, o gay, o la mia migliore amica, mi aveva mai fatto un complimento del genere.
Tuttavia la fine del suo discorso mi riportò alla mente un altro importante dettaglio. «Queen…». Chissà quale storia le aveva rifilato John e cosa aveva detto a nostra madre per giustificare la mia assenza. Un momento: Queen mi aveva davvero coperta o mi aveva tradito di nuovo?
«Tranquilla ho chiamato Lea per spiegarle la situazione e lei ha detto a Queen che avresti passato la notte a casa sua». Beh quello sicuramente era un problema in meno, anche se avrei scontato comunque l’ira di mia madre per non essere rimasta al ballo con John e per aver rovinato il vestito.
«Che cosa le avrà raccontato John?». Avevo parlato ad alta voce, rendendo partecipe anche Trevor di quel pensiero, ma ero curiosa di sapere quale assurda spiegazione aveva apportato per perorare la sua causa. Queen gli aveva creduto e Sean avrebbe mantenuto la sua parte dell’accordo? Il solo pensiero di essere stata barattata come merce di scambio mi fece contrarre lo stomaco. Potevo credere chiunque capace di una cosa del genere, ma non mia sorella; non sarebbe dovuta essere la prima a correre in mia difesa? Invece era stata proprio lei a mettere in scena tutta quella farsa.
«Che cosa diavolo ti ha fatto quello stronzo?». Trevor sfiorò con le dita un mio sopracciglio che si era corrugato al solo pensiero della sera precedente. Probabilmente non era la prima volta che me lo domandava.
«Non ha importanza». Sospirai sapendo di non poter essere altrettanto meschina da esporre Queen al giudizio di Trevor. Si sarebbe arrabbiato, e a ragion veduta, ma Queen era mia sorella ed era una questione tra noi due che dovevo risolvere da sola.
«Continui a ripeterlo, ma non credo che sia così. Qualunque cosa ti abbia fatto vorrei ucciderlo». Stava parlando di John ovviamente e per quanto cattive fossero state le parole che mi aveva detto alle spalle, la mia rabbia non era rivolta contro di lui. Era solo un ragazzino immaturo che credeva di farsi grande dando aria alla bocca. Era il tradimento invece ciò che mi bruciava di più.
«Non mi ha fatto niente di così trascendentale», conclusi cercando di cambiare argomento. «Piuttosto alla fine perché sei venuto? Cosa ti ha fatto cambiare idea?». Era l’unica domanda a cui volessi dare una risposata in quel momento.
«Non ho cambiato idea. Non avevo nessuna intenzione di mettere piede in quella scuola ieri sera».
«E allora cosa è successo?». Qualcosa doveva essere accaduto per farlo presentare là così all’improvviso e non ero sicura che riguardasse esclusivamente me.
Trevor sospirò e si buttò giù appoggiando la schiena sul materasso. «Lea mi ha mandato un messaggio».
«Lea ti ha mandato un messaggio?», ripetei incredula. Credevo che fosse così presa dal suo accompagnatore da non avermi neanche notata. Ma dovevo sapere che la mia amica aveva sempre un occhio per me.
«È quello che ho detto». Non aggiunse altro anche se sapeva che stavo morendo dalla curiosità.
Mi sporsi sul letto in modo da portare la faccia proprio sopra la sua. «E cosa diceva?».
«”SOS Linny, vieni subito”. Lea sa essere molto concisa».
«E quando te l’ha mandato? E tu sei venuto subito?». Non sapevo cosa pensare, se essere lusingata o grata, o forse anche un po’ offesa per quella loro tacita intesa.
«Non so che ora era, ma cosa avrei dovuto fare? Certo che sono venuto subito».
«Ma avevi detto che non avresti mai voluto mettere piede al ballo!». Era solo per venire in mio soccorso che non aveva mantenuto fede ai suoi propositi?
«Oh Katy». Si alzò di scatto facendomi schizzare indietro per evitare di prendere una testata. Si prese la testa tra le mani, appoggiando i gomiti alle ginocchia. Era tornato ad assumere la sua aria truce e tormentata in meno di un secondo; a volte i suoi cambi repentini di umore mi destabilizzavano.
«Katy… Katy…». Continuò a ripetere il mio nome come un mantra, come se stesse ponderando su qualcosa di enorme importanza.
«Cosa ho detto?», domandai non capendo. Spontaneamente gli posai una mano sul collo, accarezzandogli l’attaccatura dei capelli. All’improvviso, anche se non capivo come e perché, sembrava così vulnerabile, così angosciato che l’unica cosa che avrei voluto fare era consolarlo.
Trevor non rispose subito, ma lasciò che le mie dita alleviassero la tensione sul suo collo. Era un contatto che sembrava far bene ad entrambi, perché in fondo anch’io non mi sentivo così a mio agio con nessuno da tanto tempo. Quello era un gesto che facevo sempre a Jamie quando lo vedevo preoccupato e in quel momento mi sembrava giusto averlo condiviso anche con Trevor.
Fu lui a parlare dopo qualche minuto di silenzio. «Ieri sera mi hai raccontato di tuo fratello». Rimasi sorpresa che tirasse fuori l’argomento proprio quando io avevo pensato a lui.
«Lo so, me lo ricordo e sono contenta di averlo fatto».
«Perché?». Non era una domanda difficile, sapevo già la risposta.
«Volevo essere sincera con te, cioè lo voglio ancora. Penso che mi ci volesse un po’ di coraggio per tirare fuori un segreto così pressante. Sai a volte era una sorta di liberazione sapere che tu eri l’unico in città a non conoscere la tragica storia della mia famiglia. La gente non ci guarda più allo stesso modo, soprattutto non guarda me allo stesso modo da quando…».
«Capisco ciò che vuoi dire». Trevor alzò la testa e mi fissò con uno sguardo talmente intenso da farmi mancare il respiro. «Ed io vorrei davvero essere sincero con te, così come tu lo sei stata con me, ma…».
«Ma?». La sua espressione si fece ancora più tormentata e per questo distolse lo sguardo.
Si alzò e iniziò a camminare avanti ed indietro, tenendosi la testa fra le mani. «Ma ho paura che se ti dico la verità tu non mi guarderai più come fai adesso ed io ho davvero bisogno che tu continui a guardarmi così».
Non capivo come tutto questo fosse uscito fuori così all’improvviso, come poteva essere legato a mio fratello o all’essere venuto ballo, o cosa potesse mai tormentarlo tanto. Era un segreto così inconfessabile?
Però una cosa la sapevo: conoscevo abbastanza di lui da comprendere che non avrei cambiato opinione così facilmente. È vero, l’avevo accusato di essersi approfittato di me, ma non avevo riflettuto; Trevor era sempre stato più di un buon amico e questo non sarebbe cambiato.
«A volte bisogna solo buttarsi», lo incoraggiai. «Bisogna avere fiducia nella persona che si ha davanti».
«E tu hai avuto fiducia in me?».
Che domande! Non era ovvio? «Sì, certo».
«D’accordo». Trevor si sedette di nuovo sulla poltrona dove aveva passato la notte e alzò la testa per guardarmi. «Promettimi solo che mi starai a sentire senza pregiudizi».
Mi accucciai meglio sul letto, sedendomi sui talloni, per poter ascoltare liberamente la sua storia. «Lo prometto». Anche se in effetti non capivo minimamente di cosa potesse trattarsi.
«Okay, non so se ti ricordi ma ho già ammesso che io non è che proprio non volessi andare al ballo, semplicemente non ci dovevo andare. Era un luogo dal quale avrei fatto meglio a stare lontano; ne avevo parlato anche con Fred, cioè con mio padre, e avevamo deciso che avrei fatto meglio a stare a casa. Per questo ho detto quelle cose a scuola, volevo farti credere che odiassi il ballo per la sua superficialità e non semplicemente perché mi era proibito andarci. Mi dispiace se ti sei sentita in qualche modo tirata in causa».
«L’ho capito. Quindi alla fine ci sei venuto solo per me?». Ecco come tutto tornava a legarsi alla questione principale.
«Sì non sopportavo l’idea che tu fossi là con quel tizio e quando ho visto il messaggio di Lea, ho trovato il pretesto per non tenere fede alle regole che io stesso mi ero imposto». Avrei voluto chiedergli perché considerava il ballo un luogo così pericoloso, ma sapevo che dovevo concedergli i suoi tempi; era evidente che si stesse sforzando di essere sincero e che fosse alquanto difficile.
«Alla fine non è successo niente di grave venendoti a prenderti», continuò, «ma siamo andati via subito e vederti ubriaca mi ha in qualche modo mantenuto lucido. Però credermi restare là tutta la sera sarebbe stata una tentazione troppo grande, anche se non ho passato un solo secondo qua a casa senza desiderare di essere là con te». Sapere che anche lui voleva le stesse cose che volevo io fece iniziare il mio cuore a battere all’impazzata; sembrava volermi uscire fuori dal petto.
Trevor tacque ancora qualche secondo e quando riprese a parlare aveva lo sguardo puntato fuori dalla finestra. «Quando ti ho detto di non aver potuto frequentare la scuola negli ultimi due anni è perché ero in un centro di disintossicazione ad Aberdeen». Non potei evitare che un’espressione di sorpresa si disegnasse sul mio volto, ma quella confessione spiegava molte cose. Al ballo l’alcool scorreva a fiumi e adesso era ovvio come Trevor volesse tenersi lontano da un evento del genere. Se era dovuto andare in un centro di disintossicazione era chiaro che il suo problema fosse grave e che fosse facile per lui ricadere nelle vecchie abitudini in un ambiente non protetto. Ecco spiegato anche il motivo del suo trasferimento improvviso, del voler cambiare ambiente.
«Ti prego di’ qualcosa». Puntò di nuovo lo sguardo su di me, guardandomi con occhi imploranti.
Non sapevo bene cosa dire se non ammettere l’ovvio. «Eri un alcolizzato?». Non trovai un modo più carino per dirlo e me ne pentii subito.
Trevor fece una risata amara. «Oh piccola innocente Kathleen, l’alcool era solo la punta dell’iceberg. Non sarei finito in un centro di disintossicazione a diciotto anni se fosse stato solo per quello».
«Oh». Ero senza parole: stavamo parlando di droghe? Trevor era stato davvero capace di toccare il fondo in quel terribile modo?
«Ho iniziato a bere a tredici anni, credo», riprese tornando a distogliere lo sguardo. «Comunque a quindici anni bevevo così tanto da avere avuto già da tempo la mia prima sbronza, un po’ come è capitato a te ieri sera. Praticamente non c’era finesettimana dove non mi sbronzassi; da quando uscivo da scuola il venerdì fino al lunedì non facevo altro. Tutti i miei amici erano principalmente ragazzi più grandi; furono loro a procurarmi il primo documento falso e a indicarmi i luoghi migliori dove un minorenne potesse comprare da bere senza problemi.
Tuttavia con il tempo l’alcool perse le sue attrattive: ormai ero talmente esperto di sbronze da voler provare cose nuove. Nel nostro gruppo iniziarono a girare alcune pasticche; non ricordo quanti anni avessi quando provai la prima, ma mi sballò talmente tanto da non poterne più fare a meno. Tuttavia la droga non era a buon mercato come l’alcool e con i soli soldi che potevo chiedere a mia madre non riuscivo a permetterla. Per questo mi procurai un lavoro in un officina dopo la scuola; la meccanica è qualcosa che ho sempre amato e lavorare in un officina mi permetteva di imparare più di qualsiasi libro. Facevo qualcosa che mi piaceva e avevo soldi facili per comprarmi roba buona; fui ancora più felice quando scoprii che il mio collega arrotondava lo stipendio con un traffico illecito di sostanze stupefacenti. Per me procurarmi la droga divenne così semplice! Chi avrebbe mai detto che un ragazzo di diciassette anni potesse drogarsi tanto facilmente!».
Non sapevo che dire e non era perché lo consideravo in qualche modo diverso. Era perché non riuscivo ad immaginare come un ragazzo della sua età avesse potuto sopportare tutto questo. Come era riuscito a tirarsi fuori da una situazione del genere? Ci doveva essere voluto molto coraggio per compiere un cambiamento del genere.
«Ho provato di tutto Katy. Le pasticche sono state solo l’inizio; non hai idea delle schifezze che mi sono fatto. Posso considerarmi soltanto fortunato per non averci rimesso la vita con un’overdose».
«Cosa è successo poi?», domandai in un sussurro. «Cosa ti ha fatto smettere?».
Trevor si passò una mano tra i capelli, lasciando la fronte appoggiata sul palmo. «Beh ero arrivato ad un punto in cui mi risvegliavo la mattina senza avere la minima idea di cosa avessi fatto. Avevo solo dei flash che non sapevo neanche se fossero veri o solo un effetto della droga. Mi è capitato di risvegliarmi in mezzo alla strada, come un barbone, senza sapere bene in che punto di Boston fossi. Dio potevo essere anche in un’altra città per quanto ne sapessi! Avrei potuto uccidere qualcuno mentre ero fatto e probabilmente non me lo sarei ricordato. Ecco penso che sia stata questa la cosa che mi ha fatto più paura. Sarei potuto essere un assassino, un violento, aver fatto del male a qualcuno e non l’avrei mai saputo».
«Tu non avresti potuto uccidere nessuno», affermai convinta. Per quanto potesse essere fuori di sé, Trevor era buono; non avrebbe pensato una cosa del genere altrimenti, non si sarebbe sentito in colpa per la sola idea di qualcosa che avrebbe ipoteticamente potuto fare.
«Tu non sai come ero Katy. Tu conosci solo me adesso, probabilmente avresti avuto paura di me a Boston, e avresti avuto tutte le ragioni».
«Ho avuto paura di te la prima volta che ti ho visto», ammisi.
Trevor fece un mezzo sorriso. «Appunto».
«Ma era solo la prima impressione», mi giustificai. «A priori».
«Comunque sia, è scattato qualcosa in me dopo quel giorno. Ho provato a smettere da solo; ho resistito tre giorni, ma le crisi di astinenza sono… Katy non riesco neanche a descrivertele; il terzo giorno ero punto e da capo. Ho riprovato, ma è andata anche peggio: due giorni ed ero di nuovo completamente fatto. Ormai saltavo la scuola, non frequentavo neanche più; anche se avessi finito l’ultimo anno probabilmente mi avrebbero bocciato.
Così ho riempito lo zaino e senza dire niente a nessuno sono andato in un centro di disintossicazione a Boston. Avrei compiuto diciotto anni tre giorni dopo; avrei potuto aspettare e nessun avrebbe avvisato i miei genitori, ma avevo bisogno che lo facessero».
«Loro lo hanno detto a tua madre e lei poi ha contattato tuo padre?». Sembrava una spiegazione plausibile, l’unico modo per allontanare il figlio da quella orribile situazione.
«No». Trevor scosse la testa e il dispiacere si dipinse sul suo volto. «Vorrei poter difendere mia madre e dire che lei non sapeva niente. Ma Katy lei lo sapeva, non era difficile accorgersene, ma era così impegnata col suo nuovo fidanzato, anche lei persa in quel mondo di merda, che probabilmente anche se le avessi chiesto aiuto a gran voce non mi avrebbe ascoltato».
Lo guardai cercando di assimilare ciò che mi aveva detto. Non potevo concepire come una madre potesse lasciare così allo sbando il proprio figlio; per quanto criticassi la mia, il suo comportamento non era minimamente paragonabile. Con che razza di famiglia era cresciuto, se neanche a sua madre, l’unico genitore su cui poteva contare, importava di lui? Era naturale che nessuno l’avesse difeso e protetto, impedendogli di intraprendere quella strada tossica e deleteria.
«Ho dato il nome di mio padre. Sapevo solo quello e che viveva in questa minuscola città del South Dakota; ho detto che era l’unico parente che avevo. L’hanno chiamato e l’hanno fatto venire urgentemente. Immaginati la sorpresa quando dopo quattordici anni si è ritrovato me davanti in condizioni pessime, in piena crisi di astinenza in un centro di disintossicazione di Boston». Al signor Simons doveva essere sicuramente venuto un infarto! Veder riaperto un capitolo della vita che ormai considerava chiuso, doveva essere stato un bel colpo da sopportare.
«E lui cosa ha fatto? Cosa ti ha detto?».
«Mi ha chiesto che fine avesse fatto mia madre, ma io non gliel’ho detto. Per quanto volessi il suo aiuto, mi rifiutavo di parlare con lui. Lo incolpavo di avermi abbandonato, in parte lo incolpo ancora credo. In quel momento non volevo assumermi le mie responsabilità e pensavo che era per colpa sua se ero arrivato a quel punto, se mia madre mi aveva permesso di arrivare a quel punto».
Era compressibile il suo odio, ma d’altronde non era stato proprio lui a chiamarlo? Era un comportamento un po’ contorto e contradditorio. In fondo però non avevo idea di cosa aveva dovuto sopportare; non potevo neanche immaginare come si fosse sentito.
«Visto che mi sono rifiutato di parlargli lui se ne è andato. Pensavo che se ne sarebbe semplicemente fregato di me come aveva fatto tanti anni prima, invece è tornato tre giorni dopo, con tutta la mia roba. Immagino abbia trovato mia madre anche se non so cosa sia successo tra di loro. Mi ha detto che ormai avevo diciotto anni, anche se da pochissimo e che avrei potuto scegliere: potevo restare lì, sapendo che una volta pulito mi avrebbero ributtato fuori, esattamente dove tutto era cominciato, oppure potevo andare con lui».
«E tu hai scelto di andare con lui». Non era una domanda, sapevo che l’aveva fatto.
«Mi ha detto che aveva trovato un centro privato ad Aberdeen, dove avrei potuto passare un po’ di tempo. È stato sincero e mi ha detto che non mi avrebbe accolto a casa sua, non prima di essere sicuro che io non fossi un pericolo per me e per gli altri. Aveva una bambina piccola e anche se aveva sbagliato con me, voleva essere per lei un padre migliore di quanto lo fosse stato in passato. E nonostante volessi odiarlo, dargli dell’ipocrita, ho capito quel discorso meglio di qualunque altro. Linda è la sua seconda possibilità e non permetterebbe a nessuno di rovinarla ed io l’avrei rovinata, in quel momento avrei rovinato qualsiasi cosa».
«Ed hai passato gli ultimi due anni in quel centro?». Era tanto tempo, anche se non sapevo quanto occorresse a disintossicarsi completamente.
«Beh più o meno. Sono uscito dopo un po’ ma ho avuto una ricaduta; diciamo che ho avuto alti e bassi, entrate e uscite. Per un po’ mi sono rifiutato di studiare, di fare qualsiasi cosa, persino di tornare nel mondo reale. Credo di aver avuto paura di me stesso per un bel po’. Mi bastava un niente, solo un piccolo sbalzo di umore, per farmi ricadere in tentazione e per sentirmi di nuovo così debole. È difficile ammetterlo, ma ero terrorizzato.
A giugno di quest’anno ho lasciato definitivamente il centro; sono venuto qua e ho conosciuto Linda. Susan, la nuova moglie di mio padre, l’avevo già vista ma non quella piccola peste! Ho passato l’estate con lei a casa dei miei nonni e sono rimasto là a settembre. Sai pensavo che avrei odiato la famiglia che mi aveva abbandonato e che loro avrebbero rifiutato me per ciò che ero diventato; invece mi hanno accolto a braccia aperte e questo mi ha un po’ destabilizzato. Non avevo mai avuto dei nonni e mi sono trovato davvero bene con loro, nella loro casa immersa nella campagna; così quando ho detto a mio padre che non me la sentivo di tornare a scuola sono rimasto con loro finché non mi hanno convinto a fare un tentativo. E questo penso che sia tutto».
Sospirai cercando di assimilare tutte le informazioni che mi aveva dato. Il mio segreto in confronto sembrava una storiella per bambini. Lui ne aveva passate così tante e aveva trovato il coraggio di uscirne e di poter avere una seconda possibilità. Anche se mi aveva confessato di essersi drogato, non aveva fatto che aumentare la stima che provavo nei suoi confronti. Non aveva importanza di cosa si fosse fatto o quale sostanze avesse assunto; ciò che contava era che aveva capito di stare sbagliando ed era stato capace di chiedere aiuto. Certe volte ammettere le proprie debolezze e abbassarsi a domandare soccorso è la cosa più difficile da fare. E Trevor l’aveva fatto, l’aveva fatto proprio con la persona che odiava di più.
Restai in silenzio cercando di trovare le parole giuste per comunicare il tumulto di sentimenti che le sue confessioni avevano provocato dentro di me. Tuttavia lui interpretò il mio silenzio in maniera sbagliata, considerandolo una sorta di rifiuto invece che una completa accettazione e una più che totale stima nei suoi confronti.
«Merda», mormorò alzando timidamente lo sguardo per incrociare i miei occhi. «Adesso non vorrai più avere niente a che fare con me. Penserai che sono una persona orribile».
«Tu non sei assolutamente una persona orribile». Mi alzai dal letto e mi accucciai di fronte a lui, come aveva fatto poco prima con me. «Non è colpa tua… tua madre avrebbe…».
«So che dopo ciò che ti ho detto penserai male di lei», mi fermò. «Ma non è sempre stata così, è stata una buona madre un tempo, mi ha cresciuto da sola, sacrificandosi per me. Purtroppo però non ha avuto al suo fianco brave persone ed è sempre stata molto condizionata dagli uomini della sua vita, da me per primo».
«La difendi». Abbozzai un sorriso, scorgendo bontà anche in quel semplice gesto.
«No, dico solo che ha delle attenuanti. In fondo non è stata lei a drogarsi. Sono stato io; io ho iniziato ed io mi sono quasi ucciso facendomi di quella merda. È solo colpa mia, sono io lo schifoso drogato».
«Tu non sei più quella persona». Appoggiai la mano sulla sua guancia e lo costrinsi a guardarmi negli occhi. Era un bel ribaltamento della situazione dato che di solito accadeva il contrario.
«Vorrei poterlo credere», ammise tristemente.
«Trevor tu non sei più quella persona, non lo sei più da quando hai deciso di smettere e di farti aiutare. Hai avuto più coraggio di molti altri ed io ti ammiro davvero tanto per questo. Sei la persona più coraggiosa che io abbia mai incontrato». Le mie parole riecheggiarono nella stanza, mentre leggevo negli occhi di Trevor l’effetto che avevano provocato. Vidi il sollievo e la consapevolezza di ciò che avevo appena affermato disegnarsi sul suo volto e quello fece cadere ogni sorta di barriera che io e lui avevamo eretto fino ad allora.
Non eravamo mai stati così vicini come in quel momento; e non era solo una vicinanza fisica, era più che altro qualcosa di emotivo e di intimo. Era come se adesso che non c’erano più segreti fra noi tutto fosse tornato al posto giusto ed anche noi avessimo trovato il nostro spazio nello stare l’uno vicino all’altra.
E fu così che, mentre sotto le dita sentivo la sua pelle ruvida per un accenno di barba, avvicinai lentamente il viso al suo. Lo vidi chiudere gli occhi e inclinare la testa, mentre io facevo altrettanto; sentii il suo respiro caldo poco prima che le sue labbra sfiorassero le mie e sentii il battito del suo cuore prepotente sotto l’altra mia mano; sembrava volergli uscire fuori dal petto, proprio come il mio. Percepii il suo piercing sulla mia pelle mentre le nostre labbra si accarezzavano per la prima volta, avvicinandosi sempre più per suggellare il nostro primo bacio.
«Trevooor!». Una voce infantile e la comparsa di una piccola figura sulla soglia della porta ci costrinsero ad allontanarci di scatto. Ricaddi goffamente col sedere per terra, mentre una bambina con un paio di codini biondi ci guardava sgranando gli occhi.
«Linda! Quante volte ti ho detto che devi bussare». Trevor si alzò come una molla porgendomi una mano per tirarmi su, mentre quella che doveva essere la sua sorellina continuava a studiarmi con uno sguardo furbetto.
«La mamma mi ha mandato a chiamarti dicendo che è l’ora di smetterla di poltrire. Ma tu non stavi dormendo». Il suo sorriso si allargò e i suoi occhi si fecero ancora più furbi.
«Linda non…». Non fece a tempo a finire la frase che lei era già schizzata via della stanza urlando a squarciagola.
«Mamma! Trev non sta dormendo, si sta baciando con una ragazza mezza nuda in camera sua».
«Merda!». Trevor imprecò mentre io arrossivo come al mio solito. Quella volta non c’era molto da dire: era esattamente ciò che stava succedendo e quella bambina era arrivata proprio quando ci stavamo per baciare, quando stavo per dare il mio primo vero bacio. Arrossii ancora di più riflettendo su quel particolare.
«Dobbiamo scendere, non abbiamo scelta». Trevor mi riportò alla realtà e solo dopo aver sbattuto le palpebre un paio di volte mi resi conto che lui mi stava ancora tenendo per mano. Le sue dita erano intrecciate alle mie, in una presa salda e forte.
«Non posso scendere in queste condizioni», gli feci notare, ricordandomi del mio abbigliamento. Come aveva detto Linda ero “una ragazza mezza nuda” e non era appropriato che mi presentassi ai suoi in quello stato.
«Aspettami qua, vado a vedere se riesco a trovare qualcosa». Mi lasciò sola nella stanza, con la mente ed il cuore in subbuglio. Non potevo credere a ciò che era quasi accaduto. Se quella bambina non fosse entrata noi ci saremmo baciati e…. Non sapevo cosa sarebbe accaduto ma sembrava che Trevor lo volesse almeno quanto lo volevo io.
Non ebbi il tempo di rimuginare a lungo perché Trevor tornò portandomi dei pantaloni di una tuta e una maglietta probabilmente molto più vicina a quella che doveva essere la mia taglia.
«Sono di Susan», mi disse porgendomeli. Si voltò per permettermi di cambiarmi, ma io nonostante capissi che aveva già visto molto di più del mio corpo, lo sorpassai e mi diressi verso il bagno. Sapevo che aveva alzato gli occhi al cielo anche senza vederlo. Mi seguì e si fermò appoggiandosi alla parete di fronte.
«Sbrigati», mi disse mentre chiudevo la porta. Sospirai e mi affrettai a cambiarmi.
«Come hai avuto i vestiti?», domandai attraverso la porta chiusa. «Le hai detto qualcosa?». Cosa le aveva raccontato di me? Cosa mi dovevo aspettare?
«Niente, solo che ti sei addormentata qua stanotte e che non è successo nulla».
«E come hai spiegato il fatto che fossi senza vestiti?». Vista in quella situazione potevo davvero passare per una ragazza facile. Poteva benissimo credere che io e Trevor avessimo “trascorso” la notte insieme ed anche se avevamo solo dormito avrebbe davvero stentato crederlo. «Le hai detto che ero sbronza?».
«Sei impazzita!», quasi urlò. «Ci manca solo che le dica una cosa del genere. Sono pulito da undici mesi, credi che mi permetterebbe di frequentare qualcuno di così alcolizzato da sbronzarsi al ballo della scuola? Le ho detto che sei passata dopo il ballo, ma che purtroppo ti eri sporcata il vestito scivolando sul ghiaccio».
«Trevor!», protestai un po’ per avermi dato scherzosamente dell’alcolizzata, un po’ per quella scusa ridicola. «Non ci avrà mai creduto o penserà che io sia tremendamente goffa».
«Beh sei un po’ goffa e comunque sempre meglio della verità». Mi infilai la maglietta e mi guardai allo specchio, costatando di aver un aspetto decisamente migliore. Uscii dal bagno giusto in tempo per tirargli uno schiaffetto sonoro sul braccio: era l’unica protesta che potevo permettermi.
«Scendiamo, prima che mi arrabbi sul serio». Trevor sorrise e mi fece strada in una piccola e graziosa cucina, dove seduta al tavolo c’era Linda che stava facendo colazione. Susan, la signora Simons, una bella donna bionda di mezza età, indossava un grembiule ed era indaffarata con pentole e tegami. La conoscevo già, anche se in effetti non ci avevo mai scambiato più di due parole, ma era normale in una cittadina come la nostra.
«Susan», intervenne Trevor attirando la sua attenzione. «Ti vorrei presentare…».
«Kathleen», finì lei non appena mi vide, l’espressione colma di sorpresa. «Non sapevo che fossi tu l’amica di Trevor».
«Salve signora Simons», la salutai alzando timidamente la mano.
«A volte dimentico che in questa cittadina vi conoscete tutti», borbottò Trevor a mezza voce.
«Perché non ti siedi e non fai colazione con noi?». Annuii e presi posto timidamente davanti a Linda. In effetti ora che il mal di testa cominciava a svanire, iniziavo a sentire un po’ di fame.
«Mamma lei e Trevor…», iniziò Linda.
«Zitta pulce». Trevor le puntò contro un dito, sfoderando la sua aria truce. «Abbiamo un patto ricordi?». Linda spalancò gli occhi come folgorata da qualcosa che solo loro due dovevano conoscere e non aggiunse altro. Sorrisi vedendo che lui ricambiava quell’improvviso silenzio facendole l’occhiolino; era un contrasto interessante rispetto al suo solito cipiglio.
Quella scena fu come un déjà-vu: mi ricordò tremendamente me e mio fratello. Con Jamie avevamo sempre avuto i nostri segreti che non condividevamo con nessuno ed anche se avevo visto solo uno scorcio, potevo intuire che anche per Trevor e Linda fosse così. Trevor riusciva ad essere un fratello affettuoso anche verso una bambina che non era del tutto sua sorella e verso la quale avrebbe potuto essere geloso. Questo mi dimostrava ancora una volta che persona meravigliosa si nascondeva dietro quella sua aria da duro. Era ancora buono, nonostante tutto.
«Ehi ti senti bene?». Trevor sembrò accorgersi del mio stato d’animo e mi passo inconsciamente una mano sulla guancia. Dopo il quasi bacio era cambiato qualcosa tra noi e quel suo gesto, per una volta, non mi fece arrossire.
«Sì, tutto bene». Gli rivolsi un sorriso sincero e riuscii a scorgere la sua fronte rilassarsi mentre lo stesso sorriso sincero si disegnava sul suo volto.
«Adesso mangia cara», intervenne Susan mettendomi davanti un piatto di pancake.
«Così poi potrò riportarti a casa», concluse Trevor, «prima che la tua famiglia ti dia per dispersa».
Annuii e feci come mi avevano detto, anche se dubitavo che avrei trovato un’accoglienza altrettanto famigliare al mio rientro. Era strano come a volte dei semplici conoscenti riescano a farti sentire a casa più della tua stessa famiglia; eppure non avevo più sentito quel calore famigliare da quando Jamie se ne era andato.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7
 
Dopo ciò che era quasi successo in camera di Trevor, tra noi non si erano ripetute scene simili, anche perché né io né lui avevamo più fatto accenno alla cosa. Tuttavia dopo la sua confessione, dopo che ci eravamo vicendevolmente messi a nudo, qualcosa tra noi era cambiato. Non sarei riuscita a spiegarlo, era solo una sensazione, la consapevolezza di come l’aver condiviso quei segreti ci avesse unito ancor di più.
Non avevamo più parlato né di Jamie né del suo problema, non più di quanto fosse strettamente necessario. L’unico accenno a mio fratello era stato quando mi aveva chiesto se era con lui che trascorrevo molti pomeriggi; io avevo soltanto annuito sfoderando un sorriso triste, sapendo di non dover aggiungere altro.
Tuttavia sentivo con Trevor un legame sempre più forte. Noi eravamo sempre gli stessi, i nostri comportamenti non erano cambiati nonostante il quasi bacio, eppure era come se tra noi si fosse creato qualcosa di così forte da non poter più essere estirpato. Erano un insieme di sensazioni, che non sapevo se provasse anche lui, eppure era come se ciò che sentivo per Trevor si fosse amplificato. E non erano necessariamente sentimenti romantici; non era solo amore, anche se iniziavo a capire che con molta probabilità mi stavo completamente e irrimediabilmente innamorando di lui. La stima, il rispetto, la più totale fiducia ed anche una sorta di empatia erano andati ad accrescere ogni idea che fino a quel momento mi ero fatta di Trevor. Provenivamo da realtà che potevano definirsi agli antipodi eppure non avevo trovato nessuno che mi capisse o che io capissi come lui. Non riuscivo neanche a spiegarlo a me stessa, non riuscivo neanche a metterlo per iscritto, eppure ogni istante che passavamo insieme rafforzava quella sensazione.
È questo che si prova innamorandosi?, scrissi sul diario di Jamie qualche giorno dopo. Perché fratellone credo che se non è questo, io probabilmente sto diventando sempre più pazza. Trevor certe volte mi fa dare i numeri e mi imbarazza da morire, ma è anche la persona con cui più riesco a sentirmi me stessa. Vorrei davvero che tu potessi conoscerlo e che potessi darmi un giudizio. Vorrei che ti piacesse oppure che ti comportassi da fratello iperprotettivo. Come sempre vorrei che tu fossi qui, anche se adesso comincio a pensare che forse non sei più l’unico di cui ho veramente bisogno.
Comunque a prescindere dai miei sentimenti sempre più evidenti, i giorni proseguirono in assoluta normalità. La settimana dopo il ballo era anche l’ultima di scuola prima delle vacanze di Natale e la sola idea di passare le feste con la mia famiglia e di conseguenza di vedere meno Trevor mi dava la nausea. Non avevo parlato con Queen, non avevo il coraggio di affrontarla, anche se ero certa che lei si fosse accorta di qualcosa. Ero distante e fredda come non lo ero mai stata e non era difficile notarlo; non sapevo a cosa imputasse quel mio cambiamento, ma anche se aveva dei sospetti non ne aveva fatto parola con me.
Avevo raccontato ciò che era effettivamente successo al ballo solo a Lea; sapevo che era l’unica di cui potevo fidarmi e che potevo anche controllare. Evan non aveva mai saputo fingere e avrebbe finito per far capire ai diretti interessati la verità, mentre Trevor era troppo impulsivo e per questo l’avevo scartato subito. Lea invece, nonostante volesse prendere per i capelli Queen e sbatterla contro gli armadietti non appena saputo della cosa, era riuscita a calmarsi ed aveva accettato di mantenere il segreto. Avevo provato gestire quel tradimento tutto da sola, ma era stato troppo difficile e la mia prima sbronza ne era una prova. Avevo bisogno della mia migliore amica e dei suoi insulti verso mia sorella, John e Sean o chiunque fosse minimamente coinvolto.
Non avevo scritto niente neanche nel diario di Jamie, non che lui potesse alzarsi e andare a parlare con Queen. Spesso mi chiedevo cosa avrebbe fatto se non fosse stato confinato in un letto come un vegetale; l’unica risposta che sapevo darmi era che probabilmente non gliel’avrei detto nemmeno in quel caso. Non volevo metterlo nella posizione di dover scegliere quale sorella difendere, anche se non avrei avuto dubbi sulla sua lealtà.
Comunque l’idea di passare le vacanze a stretto contatto con Queen non mi allettava per niente; per quanto potessi evitare la sua compagnia, c’erano fin troppe cene e ricorrenze che chiedevano la presenza di entrambe. Per non parlare del fatto di dover sottostare alle richieste e alle lamentele di mia madre e alle continue pressioni di mio padre riguardo l’università.
Con tutti i pensieri che mi frullavano per la testa, i giorni volarono e Natale si fece sempre più vicino senza che io avessi trovato un regalo per Trevor. Mentre con gli altri miei amici era stato semplice – quel nuovo cd per Lia, un biglietto ferroviario per Evan – con lui non sapevo proprio da che parte iniziare. Volevo trovare per Trevor un regalo perfetto come lo era stato il suo quaderno per il mio compleanno; volevo sorprenderlo, non risultando banale, ma ero del tutto priva di idee. Avrei potuto regalargli un libro di meccanica, la sua passione, ma sarebbe stato scontato, impersonale; invece volevo dargli qualcosa che lo facesse pensare a me.
Provai a chiedere consiglio a Lea ed Evan, ma iniziarono subito a lanciarmi frecciatine sul fatto che mi fossi presa una bella cotta; il fatto che fosse vero rendeva la cosa ancora più fastidiosa.
Stavo camminando per il centro commerciale insieme a Lea, il giorno prima della vigilia, in un ultimo disperato tentativo, quando la vidi. Era una stupida cornice da bambino con delle macchinine, ma attirò la mia attenzione più di ogni altra cosa. Quando ero stata in camera di Trevor mi era sembrata così spoglia, così anonima, mi era parsa quasi una camera di albergo; invece io volevo che lui si sentisse a casa. Probabilmente era un regalo stupido, ma era anche l’unica cosa con la quale avevo sentito un legame. Era qualcosa di insolito e che probabilmente mi rispecchiava.
Per questo il giorno dopo andai a casa sua, tenendo stretto il pacchettino tra le mani. Quando parcheggiai la macchina di fronte al suo vialetto, mi resi conto di essere stata così stupida da non averlo avvisato. Poteva non essere a casa ed io potevo aver fatto un viaggio a vuoto, tuttavia era la mia ultima possibilità di dargli il mio regalo, visto che era ormai la vigilia. Non mi aveva detto molto sui suoi piani per Natale, ma a quanto avevo capito avrebbe passato le feste a casa con la famiglia dato che i suoi nonni si sarebbero trattenuti là per tutto il periodo natalizio.
Non sapendo cosa altro fare, presi un profondo respiro e facendomi coraggio composi il numero di Trevor. Il mio cuore batteva forte mentre il telefono squillava e sentii le farfalle nello stomaco quando finalmente rispose.
«Ehi Katy», mi salutò. «Stavo giusto pensando a te».
«Davvero?», domandai percependo un sorriso ebete disegnarsi sul mio viso.
«No, ma ti avrebbe fatto piacere non è vero?».
«Scemo», ridacchiai.
«Lo so che è così».
«Presuntuoso».
«Un po’», ribatté, «ma solo quando si tratta di te. In tal proposito perché mi hai chiamato?».
«Mi chiedevo se fossi in casa adesso». Arrossii sentendomi scema nel chiederglielo, ma almeno lui non poteva vedermi.
«Sì, perché?».
«Perché sono in macchina di fronte al tuo vialetto». Ammetterlo mi fece imbarazzare ancora di più ma ero felice di sapere di non aver fatto un viaggio a vuoto.
«Scendi allora, cosa aspetti? Sono nel cortile sul retro». Felice della sua risposta e stando attenta a non scivolare sul ghiaccio, scesi di macchina e mi avviai sul retro della casa. Per mia fortuna qualcuno aveva spalato la neve dal vialetto, altrimenti la mia onnipresente goffaggine mi avrebbe fatto fare un bel capitombolo.
Quando arrivai sul retro trovai Trevor con la testa infilata nel cofano di una vecchia auto rosso fuoco che sembrava non messa troppo bene. Qualsiasi cosa stesse tentando di fare pareva, almeno ai miei occhi, un ultimo disperato tentativo.
«Ehi». Trevor alzò la testa dal cofano e si pulì la fronte con il braccio. Indossava solo una leggera maglietta nonostante la temperatura fosse vicina allo zero.
«Non stai congelando?», domandai di impulso.
«No finché lavoro». Si sfilò i guanti sporchi di grasso e mi rivolse un sorriso mozzafiato.
«Cosa stai cercando di fare su questo rottame?», domandai indicando la macchina con un dito.
«Oh questa fa male Katy. Pensavo che una ragazza come te sapesse riconoscere un oggetto di classe quando ne vede uno».
«Di classe?». Alzai un sopracciglio con aria scettica. Non me ne intendevo di auto, ma quella mi sembrava solo un ammasso di ferraglia.
«Beh si da il caso che il rottame, come tu l’hai appena definito, è la mia vecchia e fedele Mustang. È una signora auto, dovresti informarti meglio prima di offenderla».
«Che era vecchia l’avevo capito», scherzai studiando la sua espressione.
«Oh Katy non credo che potrò sostenere a lungo questa conversazione se continui ad insultare così la mia piccola».
«La tua piccola?». Per poco non scoppiai a ridere.
«Ce l’ho da quando ho sedici anni, praticamente sono stato io a rimetterla a nuovo quando il vecchio proprietario non la voleva più».
«E poi cosa le è successo?», domandai sorridendo. «Perché le opzioni sono due: o sei un meccanico piuttosto scadente oppure deve esserle successo qualcosa».
Trevor scoppiò a ridere, facendo partire a mille il mio cuore. «Credo di preferire la Kathleen timida a quella con la lingua biforcuta. Oddio Katy, sai essere così imprevedibile! Certe volte arrossisci con niente ed altre tiri fuori una dialettica che farebbe invidia ad un avvocato».
Arrossii non sapendo bene cosa rispondere anche perché in effetti era la pura verità, soprattutto con lui. Mi sentivo me stessa e questo tirava fuori tutta la mia “follia”.
«Ecco come adesso». Si avvicinò e mi rivolse uno di quei sorrisi capace di far cascare qualsiasi donna ai suoi piedi. Lea li aveva definiti “sorrisi strappa mutande”, adesso capivo al cento per cento cosa intendeva.
«Comunque», continuò andandosi a rimettere un giaccone che aveva sostituito da poco la sua immancabile giacca di pelle, «è stata ferma per un bel po’. Non la guido da prima… si insomma pensavo di averla persa, invece eccola qua».
«Eccola qua?». Un’auto non compariva così magicamente dal nulla, doveva spiegarsi meglio.
«Mia madre l’ha tenuta per me», confessò, guardandomi con circospezione.
«Oh». Non mi aspettavo una dichiarazione del genere, soprattutto dopo quello che mi aveva detto su di lei.
«Non so cosa è successo con precisione alla mia bambina, ma so che per il momento ha bisogno di un controllo generale e di qualche pezzo di ricambio. Penso che presto però potrà tornare a far scintille sulla strada».
Aveva cambiato argomento, per distrarmi dalla questione principale. «Hai parlato con tua madre?», gli chiesi fregandomene altamente del suo discorso sulla macchina.
«Sì, ha chiamato qualche giorno fa. Era da più di due anni che non la sentivo».
«E non hai pensato di dirmelo?». Non so perché gli feci proprio quella domanda, sicuramente non potevo pretendere che lui mi confidasse tutto, ma mi ero aspettata che mi rendesse partecipe di una cosa così importante.
«Volevo parlartene», ammise. «Subito dopo la sua chiamata sono venuto a casa tua, ma poi quando sono arrivato al tuo vialetto non ce l’ho fatta. Ero di fronte alla tua enorme casa bianca, ho visto le luci accese, le macchine parcheggiate e non me la sono sentita di entrare».
«Potevi chiamarmi, potevi suonare. Io sarei scesa subito».
«Lo so. Comunque non ci sarebbe stato molto da dire; abbiamo parlato del più e del meno, non come facevamo prima e poi lei mi ha detto della Mustang. Mi ha detto che sarebbe arrivata nel giro di qualche giorno. L’ha definita il mio regalo di Natale per farsi riscattare di questi due anni di silenzio».
«E a te sta bene?».
«No penso proprio di no. Anche se non ho molte certezze per quanto riguarda i miei genitori in questo momento, so che sono arrabbiato con entrambi. Con mia madre non parlavo fino a tre giorni fa e anche se mi faceva male almeno potevo evitare di pensarci. Con mio padre invece preferirei tanto non parlare mentre lui continua a tenermi sottopressione e questo ci porta inevitabilmente a litigare. Paradossalmente mi trovo quasi meglio con Susan e Linda, anche se non sono miei parenti».
«Tuo padre ti tiene sottopressione?». Avevo colto l’essenziale di tutto il suo discorso; in fin dei conti io non sapevo come si trovasse Trevor nella sua nuova famiglia ed era comprensibile che si sentisse a disagio. Ma addirittura sottopressione?
«Beh non proprio sottopressione. Mi controlla come se avessi tre anni e questo mi infastidisce, dato che ho deciso io di venire a vivere con lui. Potrei andarmene da un giorno all’altro e lui non potrebbe fare nulla per fermarmi. Non capisce che ogni giorno che resto non lo faccio certo per far piacere a lui? Certe volte penso che dovrei andarmene e ricominciare tutto da capo, così da non dover più affrontare la sua smania di fare il padre. Sicuramente se continua così sarà ciò che farò. Ma ciò che mi da più fastidio è che sta tentando con tutte le sue forze di farsi perdonare ed è un atteggiamento che non sopporto. Non c’è stato per tutta la mia vita ed è da ipocrita pensare di poter recuperare adesso, ormai quel treno è partito, almeno per me».
Di tutto ciò che aveva detto d’importante solo un concetto aveva occupato la mia mente facendo passare in secondo piano tutto il resto. Le sue parole mi risuonavano ancora nella testa: “potrei andarmene da un giorno all’altro e lui non potrebbe fare nulla per fermarmi”, “sicuramente se continua così sarà ciò che farò”. Era la pura verità, non c’era niente che tratteneva Trevor là; visto che stava ricostruendo la sua vita poteva benissimo farlo altrove, non era costretto a restare. Non aveva legami, non era più un ragazzino, se la sarebbe cavata ovunque; anche se lui si credeva debole io sapevo che era più forte di molti altri. Aveva superato le sue dipendenze e anche se aveva avuto delle ricadute dubitavo che avrebbe di nuovo percorso quella strada, almeno non in modo così distruttivo. Quindi effettivamente cosa lo tratteneva dal partire per un paese lontano dove ricominciare tutto da capo? Se non era lì per recuperare il rapporto con suo padre, cosa avrebbe garantito la sua permanenza anche domani? Poteva partire ed andarsene ed io non avrei potuto fare nulla se non rimanere là senza di lui.
«Kathleen? Katy ti senti bene?». La mano di Trevor sul braccio mi riportò alla realtà; probabilmente mi ero assentata per qualche secondo e stando all’espressione preoccupata sul viso di Trevor dovevo anche essere sbiancata.
«Sì sto bene», mormorai appena, cercando di riprendermi.
«Perché non ti siedi?». Mi aprì lo sportello della macchina, facendomi sedere al posto di guida. Subito dopo lo richiuse e mi raggiunse salendo sull’altro lato.
«Ehi». Mi sfiorò la guancia con la mano mentre io fissavo il volante davanti a me, nel tentativo di dominare le mie emozioni. «Sei pallida. Sicura di stare bene?».
«Sì, sono solo…». Mi portai la mano all’orecchio per potermi sistemare i capelli e solo allora mi ricordai che nell’altra stringevo ancora il suo regalo.
«Sono passata per portarti questo», cambiai argomento mostrandogli il pacchettino.
«Oh». Trevor non disse altro, ma sentivo il suo sguardo addosso anche se io continuavo ad evitare di incrociare i suoi occhi. Mi stava studiando e probabilmente stava cercando di capire cosa diavolo mi fosse preso; se volevo risultare una persona almeno un minimo normale dovevo sforzarmi di dimenticare ciò che aveva appena detto e aver il coraggio di affrontarlo faccia a faccia.
Proprio per questo facendo un profondo respiro, voltai la testa e alzai lo sguardo perdendomi subito nel suo. «È il tuo regalo di Natale».
«Beh grazie. In effetti anche io ho qua il tuo. Non sapevo bene quando dartelo». Con un rapido gesto aprì il cruscotto e tirò fuori un piccola scatolina quadrata. Me la passò scambiandolo con il suo regalo e rivolgendomi un sorriso sincero, ma non completamente sereno. Era come se riuscisse a leggere il mio stato d’animo e avesse capito che c’era appena stato qualcosa che mi aveva profondamente turbata.
«Posso aprirlo?», mi domandò studiando il pacchetto.
«Non dovresti aprirlo domani?». In quel momento volevo solo andarmene e lo scarto dei regali avrebbe solo ritardato la mia ritirata.
«Sì, ma sono curioso. Però posso aspettare se vuoi». Vidi dal suo volto che, anche se me l’aveva proposto, non era ciò che voleva e lasciai che fosse la mia parte altruistica a prevalere.
«No, va bene», affermai in un sussurro. «Ma non è niente di che». Dopo quello che aveva detto, il mio regalo risultava addirittura ridicolo. Era ovvio che la sua camera fosse così impersonale, visto che sarebbe potuto scappare via da un giorno all’altro. Era stata stupida a pensare che un tipo come lui avrebbe potuto adattarsi ad una vita in una minuscola cittadina come quella. Lui non sarebbe rimasto e la sua camera esprimeva chiaramente le sue intenzioni. Dovevo capirlo prima.
«D’accordo. Perché non apri anche il mio? Vorrei sapere se ti piace». Continuò a guardarmi, rigirandosi un mio ricciolo tra le dita e aspettando a scartare il suo, e mettendomi così alle strette. Sapevo che non ero brava a gestire le mie espressioni e che doveva essere palese dal mio volto che ci fosse qualcosa che non andava. Lui l’aveva capito, ma non voleva lasciar perdere.
«Okay». Iniziai a scartarlo, concentrandomi su quel gesto invece che su di lui, tentando di apparire più naturale possibile.
«Katy», mormorò, mentre toglievo accuratamente la carta, «non ti sarai mica offesa perché non ti ho parlato di mia madre? Perché ti ho detto che volevo farlo».
«No certo». Continuai a concentrarmi sul pacchetto finché non apparve un piccolo cofanetto di velluto.
«E allora cosa ho fatto? Perché io proprio non capisco».
Non risposi perché la scatolina, o meglio il suo contenuto, aveva attratto tutta la mia attenzione. All’interno c’era un braccialetto con tanti piccoli ciondoli a forma di libro; era semplice e bellissimo, perfetto per me. E probabilmente se me l’avesse dato prima della sua non voluta affermazione avrei fatto i salti di gioia, avrei avuto una tremenda voglia di baciarlo e mi sarei innamorata di lui ancora un po’. Ma in quel momento non potevo permettermi di farlo visto che avevo appena scoperto quanto Trevor fosse una variabile impazzita. Sarebbe potuto scomparire da un momento all’altro e l’unica a soffrire sarei stata io.
«È bellissimo», mormorai sfiorandolo.
«Sono contento che ti piaccia». Sorrise ma non del tutto. «Vuoi che ti aiuti a metterlo?».
«No. Apri il tuo». Volevo andarmene il prima possibile e aprire il suo regalo era l’unico modo per accelerare i tempi. Restare ancora sarebbe stato un suicidio.
Trevor non replicò e per una volta fece come gli avevo detto, strappando la carta senza cura e ritrovandosi tra le mani la mia stupida cornice portafoto con le macchinine.
«Che carina», commentò e nella sua voce non c’era traccia di nessuna falsità o presa in giro. Sembrava piacergli davvero.
«Ho pensato che sarebbe stata bene in camera tua. Qualcosa di più personale». Mi voltai di nuovo e guardai la cornice tra le sue mani. «È stata un’idea stupida».
«No invece». Mi mise due dita sotto il mento alzandomi il viso per incrociare il suo sguardo. «Mi piace, mi piace davvero».
Accennai un sorriso e non riuscii ad evitare di perdermi nel mare dei suoi occhi. «La tua camera sembra così spoglia». Era il motivo per cui l’avevo comprata, ma adesso che sapevo la vera ragione di quell’essenzialità non potevo che darmi della sciocca per non esserci arrivata subito.
«Hai fatto bene. Beh se ci avessi messo dentro una tua foto avrei gradito ancora di più». Aveva cercato di farmi ridere o di farmi arrossire, ma stranamente non era riuscito nel suo intento.
«Katy…». Lessi nel suo sguardo le sue intenzioni ancor prima che si avvicinasse. Il momento prima mi stava guardando e quello dopo stava accostando il suo viso al mio, nell’evidente intento di baciarmi. E se solo dieci minuti prima mi sarei fiondata sulle sue labbra, in quel momento non lo volevo né mi sentivo pronta. Il mio primo bacio non poteva essere così: non potevo sentirmi così abbattuta né potevo darlo ad una persona che sarebbe potuta sparire nel giro di un minuto. Ero già troppo coinvolta per poter trascurare quello che non era neanche da considerare un piccolo dettaglio. Avevo bisogno di stabilità, avevo già perso troppe persone, non potevo perderne altre.
Proprio per questo voltai la testa dall’altra parte un istante prima che le sue labbra mi sfiorassero. Trevor si fermò come paralizzato, non aspettandosi quel mio rifiuto e probabilmente non sapendo neanche spiegarsene il motivo. Qualsiasi cosa gli passasse per la testa non volevo saperla.
«Devo andare», mormorai liberandomi dalla sua presa e scendendo di macchina.
«Kathleen…». Trevor scese a sua volta cercando di capire cosa stesse succedendo. Non fece a tempo a domandarmi altro perché fu interrotto dall’apparizione in giardino di suo padre.
«Trevor dovresti andare a…». Il signor Simons fece la sua comparsa e si fermò a metà frase non appena mi vide. «Non sapevo fossi in compagnia».
«Non adesso», ringhiò Trevor non distogliendo lo sguardo da me.
«Salve signor Simons», salutai cortesemente, notando solo in quel momento la netta somiglianza con suo figlio. Per quanto l’avessi visto più volte in negozio solo vedendoli l’uno vicino all’altro mi pareva evidente.
«Non volevo interrompere», disse studiando l’espressione truce ed omicida del figlio.
«Non ha interrotto niente, stavo giusto andando via». Feci per voltarmi ma la voce di Trevor mi fermò.
«Non puoi, non così». Erano solo quattro parole ma il tono con cui l’aveva pronunciate metteva i brividi. Era arrabbiato e anche ferito nell’orgoglio per il mio rifiuto. Probabilmente se la sarebbe rifatta con il padre per colpa mia ed io non volevo complicare ancora di più quel precario rapporto.
«Trevor davvero devo andare, mi aspettano a cena». Assunsi la mia espressione contrita e mi costrinsi a guardarlo negli occhi.
«No». Fu solo un sussurro ma io lo sentii forte e chiaro. E se non fosse bastato questo l’espressione dardeggiante dei suoi occhi era più che sufficiente.
«Trevor dovresti lasciarla andare e poi anche tu devi andare a prepararti per la cena». Sapevo non appena aveva aperto bocca che aveva fatto un grosso errore. Trevor era una bomba ad orologeria e lui aveva appena dato l’input per farla esplodere.
«Non me ne frega un cazzo della cena». Come una molla si voltò trafiggendo suo padre peggio di una mitragliatrice. «Potete andare a fanculo tu, la tua cena e tutti quanti. Fottetevi tutti per quanto me ne importa. Io non devo fare proprio niente per te Fred, mettitelo bene in testa: tu non sei e non sarai mai mio padre anche se il test del DNA dice il contrario. Proprio per questo faresti bene a lasciarmi in pace e a smettere di scassarmi i coglioni». Così dicendo se ne andò come una furia, sbattendo violentemente la porta sul retro, lasciando me e suo padre alquanto basiti.
«Mi dispiace, devi scusarlo». Il signor Simons fu il primo a riprendersi. «Vorrei dire di non sapere cosa gli è preso, ma non è così».
«È colpa mia», affermai, «ce l’aveva con me non con lei». Era la verità e anche se non avrei voluto complicare il rapporto con suo padre ci ero riuscita anche non facendo niente.
«No ti sbagli, è arrabbiato con me e purtroppo non è una novità».
«E lo può biasimare?». Non volevo mettere il signor Simons in difficoltà, ma volevo anche difendere il comportamento di Trevor anche se era stato pessimo.
Lui mi studiò a lungo prima di parlare. «Cosa ti ha raccontato Trevor?».
Optai per la verità anche se il diretto interessato mi avrebbe odiato ancora di più per la mia schiettezza. «Tutto quanto, Trevor mi ha detto tutto».
«Tutto?».
«Sì, tutto; dell’alcool, della droga, della madre, di lei».
«Dio!». Il signor Simons si passò una mano tra i capelli, più grigi e stempiati di quelli del figlio, ma in un gesto del tutto identico. «Non pensavo che… Susan mi ha detto che hai passato la notte a casa nostra, ma non credevo… io pensavo…». Era ovvio cosa pensasse: che fossi andata a letto con Trevor o comunque che noi fossimo solo dei trombamici. Per quanto fossi considerata una brava ragazza, innocente ed ingenua, solo chi mi conosceva bene poteva sapere se quella descrizione corrispondesse o meno alla verità.
«Siamo amici», ammisi. «Per questo si è confidato con me».
«No non l’avrebbe fatto se tu per lui fossi solo un’amica. Potrò non conoscere mio figlio, ma una cosa in quest’ultimi mesi l’ho capita: Trevor non è il tipo che si apre facilmente, almeno non così».
Spostai il peso da un piede all’altro a disagio per quella conversazione. «Comunque era arrabbiato con me, lei è solo arrivato nel momento sbagliato. Adesso sarà meglio che torni a casa, prima che mia madre vada fuori di testa».
«Certo». Lui mi studiò per un secondo, decidendo alla fine di non indagare oltre. «Buon Natale Kathleen e fai gli auguri anche a tutta la tua famiglia».
«Grazie e buon Natale anche a lei». Approfittai di quel momento per voltarmi e scappare via. Volevo allontanarmi il più possibile da quella casa e soprattutto da quell’unica persona che volevo con tutta me stessa, ma che avevo scoperto di non poter avere. Come potevo innamorarmi di lui se sarebbe potuto partire senza neanche salutarmi?
 
Le feste furono uno schifo: oltre al dover passare del tempo con la mia famiglia al completo, sotto lo sguardo costante dei miei genitori, si aggiungeva anche la storia di Trevor. Avevo chiuso il bracciale in un cassetto, nella speranza di chiudere in quello anche colui che me l’aveva regalato, ma ovviamente non aveva funzionato. Per quanto cercassi di non pensarci, la mia mente tornava sempre su di lui, su ciò che aveva detto, su ciò che aveva fatto dopo e persino su quello che aveva affermato il signor Simons.
Trevor aveva provato a baciarmi, su quello non potevano esserci dubbi; ma adesso non era più solo una semplice questione di piacere o meno ad un ragazzo. Dopo quello che aveva detto non potevo più comportarmi con lui allo stesso modo. Ero già troppo coinvolta e insistere mi avrebbe distrutto ancora di più. Non ero pronta a perdere qualcun altro e per questo non potevo permettere che una persona con l’idee di Trevor diventasse per me così importante. Ero già a pezzi e non l’avevo neanche baciato, cosa avrei fatto quando se ne sarebbe andato? Il problema era proprio quello: alla fine lui se ne sarebbe andato, che fosse stato tra un giorno o alla fine dell’anno scolastico, mentre io non potevo fare altrettanto. Come aveva detto non c’era nulla che lo tratteneva, mentre io là avevo tutto. Era una questione di prospettiva e conoscendomi sapevo fin dove potevo spingermi. Nonostante volessi lui con tutta me stessa dovevo proteggermi e impedirgli di spezzarmi il cuore. Non potevo stare con lui sapendo che se ne sarebbe andato.
A complicare il tutto c’erano i suoi messaggi e le sue chiamate. Erano partiti dal giorno dopo; non mi aveva fatto neanche gli auguri di Natale, ma aveva solo scritto “dobbiamo parlare”. Io non avevo risposto e lui non si arreso. Dopo i messaggi aveva provato a chiamarmi e anche se silenziavo le sue telefonate, avevo paura di ritrovarmelo direttamente appostato sotto casa.
Un pomeriggio vidi passare la sua macchina – quella di Susan in realtà, quella con cui mi aveva riaccompagnato dopo il ballo – di fronte al vialetto di casa. Accostò là davanti,  ma per mia fortuna Queen era uscita con la nostra auto. Poteva sembrare che non fossi in casa anche se stavo appostata dietro alla finestra. Trevor scese, fece avanti ed indietro un paio di volte e poi risalì in auto sbattendo la portiera.
Oltre a questo c’era anche la questione del capodanno a stressarmi. Odiavo le feste, ma quella era per me la più inutile di tutte: perché bisognava festeggiare per forza l’arrivo del nuovo anno? Cosa c’era di così tanto speciale?
Sean dava sempre una festa e Queen ovviamente ci andava; io ero invitata ma se già normalmente non avrei partecipato, figuriamoci dopo ciò che era successo al ballo. Erano due anni che riuscivo a scampare a quella maledetta festività, ma sapevo che per quel capodanno non sarei stata così fortunata. Due anni prima sia Queen che io avevamo trascorso la notte in ospedale con Jamie insieme ai nostri genitori, era il primo anno dopo l’incidente e le sue condizioni erano instabili, la nostra ferita ancora troppo fresca. Le speranze erano tante e nessuno ci aveva criticato per quella scelta. Anzi tutti non avevano fatto altro che lodare la nostra famiglia, considerandoci perfetti quando in realtà la nostra era solo una maschera ben costruita.
L’anno dopo ero stata furba: avevo detto a Queen che avrei trascorso il capodanno con Lea ed Evan, e avevo detto a loro il contrario; così avevo potuto passare la serata in perfetta solitudine con Jamie leggendo e scrivendo. I miei amici tuttavia non ci erano cascati fino in fondo e mi avevano raggiunto poco prima della mezzanotte, trascorrendo la serata con me e mandando a monte i loro progetti. Era anche per questo che li amavo così tanto.
In quel momento però non potevo più fare la stessa cosa: ormai era un trucco superato e inoltre Lea sapeva di Queen, quindi non mi avrebbe mai creduto. Paul – che probabilmente avrei già potuto definire il suo ragazzo anche se lei non voleva ammetterlo – aveva organizzato una cena a casa sua. Niente di così gigantesco come la festa di Sean, ma ci sarebbe stato un bel gruppo di persone, quelle meno popolari diciamo. Lea ed Evan mi ci avrebbero trascinato a forza ed ormai ero rassegnata. Ma non fu quello ad agitarmi bensì la telefonata che Lea mi fece il giorno prima.
«Non indovinerai mai con chi ho parlato fino ad adesso», attaccò senza neanche salutarmi.
«Con chi?». Mi buttai sul letto per poter parlare comodamente con la mia amica.
«Con Trevor».
«Cosa?». Mi rialzai in piedi di scatto.
«Sì proprio lui. E non indovinerai mai cosa mi ha chiesto».
«Cosa?». Avevo paura di saperlo ma ero anche curiosa. Mi sedetti di nuovo sul letto cercando di mantenere la calma.
«Mi ha chiesto se può festeggiare il capodanno con noi domani sera». Il mio cuore partì in quarta, calcolando tutte le possibili conseguenze di quell’affermazione, e ce n’erano davvero tantissime.
«E tu che gli hai risposto?», mormorai. Non sapevo neanche io se avrei preferito un responso negativo o positivo.
«Senti anche se tu non mi dici nulla, so che tra voi due è successo qualcosa. Proprio per questo l’ho domandato a lui».
«Che hai fatto?!». Mi tappai la bocca con la mano quando mi accorsi di aver urlato.
«Mi hai appena rotto un timpano lo sai?», protestò. «Tranquilla non mi ha detto niente, solo che ha bisogno di parlarti e che tu non gli stai rendendo le cose facili».
«Dio!». Mi ributtai giù appoggiando la schiena al materasso.
«Kathleen che diavolo stai facendo?». Lea assunse il suo tono autoritario. «Lui ti piace e tu piaci a lui e tanto. Perché stai mandando tutto all’aria in questo modo?».
«È complicato». Risposta standard numero uno.
«D’accordo». Lea si arrese intuendo dalla mia affermazione che era inutile insistere. «Comunque gli ho detto che può venire. Paul ha comprato cibo per un reggimento, una persona in più non farà differenza».
«Lea…», mugolai.
«Senti Linny, so che odi il capodanno e tutto il resto, ma mi sembrava un po’ cattivo dirgli di no senza una ragione e non volevo che fosse lo sfigato che passa l’ultimo dell’anno da solo. Se vuoi che non venga potevi darmi un motivo valido per non invitarlo».
«E tu potevi almeno chiedermelo prima di accettare», protestai.
«E che differenza avrebbe fatto? Mi racconti solo ciò che vuoi, sul fronte Trevor sei muta come una tomba ed io devo cercare di capire cosa accade tra di voi cogliendo segnali impercettibili».
«È che non mi va di parlarne». Aveva ragione, ma c’erano troppe cose che non avrei potuto dirle liberamente; erano troppi i segreti di Trevor che non avrei potuto rivelare.
«Bene e a me non va di discutere sul fatto che domani Trevor verrà al cenone. Questione chiusa, fattene una ragione e non provare a darmi buca».
«Io…», tentai di protestare ma lei mi fermò.
«Non provare a negare. Non hai scuse e forse ti farà bene affrontarlo faccia a faccia. Lo sai che sono sempre dalla tua parte ma stavolta non credo di voler dar spago alla tua testardaggine».
«Ma Trevor…».
«Niente ma», si intromise di nuovo. «Non devi preoccuparti per lui, credo che sia testardo almeno quanto te. Quindi domani sera, qualunque cosa sia successa tra voi, vi parlerete, vi chiarirete e vi godrete il cenone che io e Paul stiamo organizzando. Non dovrai pensare a niente fino ad allora, Trevor mi ha persino detto del suo problema».
«Cosa?». Il mio urlò fu talmente assordante che ero certa che qualcuno sarebbe entrato in camera mia per controllare da un momento all’altro.
«Ma sei impazzita? Vuoi farmi diventare sorda prima dell’anno nuovo?». Aveva ragione ma il fatto che Trevor le avesse parlato del suo problema metteva in ombra tutto ciò che aveva ipotizzato il signor Simons. In effetti non avevo pensato a quanto un evento del genere potesse essere un problema per qualcuno come Trevor: cosa avrebbe fatto quando tutti avrebbero brindato? Ed il vino a tavola? Era ovvio che ad un cenone fosse contemplato un minimo di alcool ed io non avevo pensato neanche a quella eventualità. Se non era venuto al ballo proprio per quel motivo perché adesso decideva di mettersi in gioco in quella assurda maniera? Solo per affrontarmi? E poi cosa mi avrebbe detto? Come poteva sentirsi pronto ad affrontare un cenone se fino ad allora non lo era stato? Era ovvio che lo facesse perché io continuavo ad ignorarlo.
«Terra chiama Linny, terra chiama Linny». La voce di Lea mi riportò alla realtà, ricordandomi di avere ancora il cellulare attaccato all’orecchio.
«Sì?», balbettai.
«Non hai sentito una parola di ciò che ho detto, non è vero? Potevo sentire il rumore delle rotelle dentro la tua testa che giravano all’impazzata».
«Eh già». Lea mi conosceva così bene da capirmi anche non vedendomi in faccia.
«Comunque dicevo, che Trevor mi ha detto del suo problema. Insomma poverino, che brutta cosa non poter mai bere un bicchiere di vino o di qualsiasi altra cosa un po’ più forte».
«Come?».
«Sì, insomma questa cosa dell’intolleranza all’alcool è proprio una sfiga assurda».
«Cosa? Intolleranza all’alcool?». Non stavo più capendo di cosa stessimo parlando.
«Sì, non lo sapevi? Pensavo che l’avesse detto anche a te».
«Detto cosa?», domandai infervorandomi. Ero io che mi stavo perdendo parte del discorso?
«Stai calma. Mi ha detto che ha questa intolleranza all’alcool e che quindi non può bere né vino né spumante, né nient’altro di alcolico e mi ha chiesto se questa cosa poteva essere un problema per la cena. Ovviamente gli ho detto di no, che non c’era nessun problema. Ma ti rendi conto che sfiga? Non ha mai potuto bere! Cioè mi ha raccontato che quando l’ha scoperto aveva circa quattordici anni ed è finito all’ospedale perché aveva bevuto tipo un bicchiere di vino… è assurdo, dice che è un’intolleranza piuttosto rara e che potrebbe passare col tempo, ma lui preferisce non rischiare».
Ascoltai tutto il suo discorso, riuscendo pian piano a comprendere quale fosse stato il fraintendimento. Trevor non le aveva detto della tossicodipendenza, aveva soltanto inventato una storia che potesse giustificare il fatto che durante tutta la serata non avrebbe toccato un goccio d’alcool. Era stato furbo, perché così non solo aveva impedito di risultare strano, ma confessando una bugia del genere si auto-obbligava a recitare quella parte, allontanando ogni possibile tentazione. Come fosse arrivato ad architettare una storia simile o se l’avesse fatto solo per vedermi rimaneva un mistero.
«Non lo sapevo», mentii per risultare credibile. «Mi aveva accennato qualcosa ma non così nello specifico».
«Beh adesso lo sai, quindi non stare troppo a rimuginarci sopra. E soprattutto non pensare al fatto che domani sera lui sarà lì».
«La fai facile. Lo sai come sono fatta». Era impossibile per me evitare di pensare e di crearmi assurdi film mentali.
«Lo so, per questo ti sto dicendo di smetterla di fare la scema. Adesso comunque devo andare, ma ci vediamo domani, alle sette; devi aiutarmi a preparare e sappi che se non sei arrivi entro le sette e dieci, vengo di volata a cercarti e ti trascino a casa di Paul con la forza. E tu lo sai Linny che riuscirei a scovarti ovunque se mi impegno».
Non potei evitare di sorridere perché sapevo che era vero. «D’accordo. Ci vediamo domani allora». Riattaccai sentendomi ancora più scombussolata di prima. Cosa avrei fatto quando me lo sarei ritrovato davanti? E soprattutto cosa avrebbe fatto lui? Io sapevo come mi sentivo e anche cosa non volevo; ma tutti i miei buoni propositi sarebbero vacillati una volta di fronte a quell’oceano cristallino dei suoi occhi?

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
 
Mi guardai allo specchio e scrutando la mia figura sentii crescere l’agitazione sempre di più. Da lì a poche ore avrei visto Trevor ed io non ero affatto pronta ad affrontarlo. Potrò essere definita una codarda, ma odiavo il fatto di essere costretta a vederlo e soprattutto odiavo non avere scelta.
A complicare il tutto c’era anche la questione del mio abbigliamento, come se non fossi già stata abbastanza a disagio per tutta quella situazione! Avevo comprato quei vestiti insieme a Lea – una gonna nera a palloncino, fin troppo corta per i miei gusti, e una blusa bianca – ma in quel momento mi sembravano del tutto inappropriati. Non erano da me e anche se stavo bene mi sentivo maledettamente impacciata. Le calze erano troppo sottili per coprirmi le gambe e la camicetta con la giusta luce poteva risultare un po’ troppo trasparente.
Mi ero truccata, cosa rara per me, con il risultato che i miei occhi parevano ancora più grandi del solito. In più i miei ricci erano gonfi dopo la doccia e sembravano una specie di criniera leonina; non che la cosa mi dispiacesse, visto che il risultato finale era più che gradevole. Tuttavia, come per il ballo, non mi sentivo me stessa. Non ero io quella carina che attirava lo sguardo dei ragazzi, quel ruolo l’avevo sempre lasciato a Queen, e il doverlo ricoprire mi spaventava terribilmente.
Come se non stessi pensando alla diretta interessata, in quel momento sentii dei colpi alla porta e l’istante dopo Queen entrò nella stanza.
«Ehi Linny posso entrare?».
«Sei già dentro», borbottai voltandomi verso di lei. Fui sorpresa e infastidita notando che eravamo quasi del tutto vestite uguali. Avevamo una gonna simile a cui lei aveva abbinato un top argento con una giacca nera. Quella era proprio la dimostrazione del fatto che avevo scelto l’abbigliamento sbagliato.
«Ma guarda! Abbiamo quasi la stessa mise», esclamò. «Stai benissimo».
«Adesso sì che ho proprio voglia di cambiarmi», dissi a mezza voce. «Cosa vuoi Queen?». La fissai negli occhi sperando di farla andare via il prima possibile.
«Oh Linny, non capisco proprio perché fai così. Volevo risolvere questa cosa tra noi prima della fine dell’anno. Perché ce l’hai tanto con me? Cosa ti ho fatto?». Non sapevo se essere più sorpresa per la sua faccia tosta o più arrabbiata.
«E me lo chiedi anche? Sei proprio…». Non trovai la parola giusta per definirla e lasciai la frase incompleta.
«Linny io non so proprio cosa ti prende, ma da quando frequenti quel troglodita…».
«Troglodita?», la fermai prima che potesse proseguire. «Hai definito Trevor un troglodita?».
«Beh ringrazia che sono stata gentile, potevo usare aggettivi peggiori».
Dovetti usare tutte le mie forze per cercare di mantenere la calma. Non volevo litigare con lei, ma tantomeno volevo che insultasse i miei amici. «Beh se devi definire qualcuno un troglodita penso che faresti meglio a dare un’occhiata ai tuoi di amici. Per esempio John».
«John? Mio Dio Linny ti ha fatto qualcosa la sera del ballo? Giuro che se è così, lo ammazzo con le mie stesse mani». Era incredibile come riuscisse ad essere falsa, mostrandosi perfino preoccupata per me. Era un’attrice nata, dovevo riconoscerlo.
«Lui non mi ha fatto proprio nulla. È solo uno stupido e posso definirmi stupida quanto lui per non aver capito quanto io sia sempre stata un peso per te».
«Cosa stai dicendo Linny? Sei mia sorella, non sarai mai un peso per me». Sentii gli occhi bruciare perché sapevo che le sue parole non erano vere. Come faceva a negare l’evidenza?
«È per questo che hai supplicato John di portarmi al ballo? È per questo che tu e Sean gli avete promesso la maglia di capitano se passava la serata con me? Mi hai barattata come merce di scambio pur di non avermi tra i piedi».
Queen ammutolì di colpo sentendo le mie parole, confermando che quella era la verità. «Te lo ha detto lui?».
«No, ma l’ho sentito vantarsi con i suoi amici. Vuoi ancora negare Queen? Sei venuta in camera mia, fingendoti la sorella perfetta, buona e sensibile, e mi hai ingannata. Sai la cosa buffa è che ti sarebbe bastato dirmelo; io non avevo la minima intenzione di essere d’intralcio a te e Sean. Avrei preferito beccarmi le ire della mamma piuttosto che passare l’intera serata con voi due. E se proprio vuoi saperlo non ho più due anni e non sono neanche un cagnolino che ha bisogno della baby-sitter. Potevo cavarmela da sola, invece ti sei solo presa gioco di me». Era tutto ciò che mi ero tenuta dentro fino a quel momento e tirarlo fuori mi faceva stranamente sentire meglio.
«E come te la saresti cavata? Facendo la sfigata e facendo sì che la mamma mi costringesse ad intervenire. Volevo solo evitarti di essere ancora una volta classificata come una perdente».
«No!». Le puntai un dito contro avvicinandomi ad un centimetro dalla sua faccia. «Non venirmi a dire che lo hai fatto per me perché lo sai benissimo che non mi interessa cosa pensano gli altri. Credano che sia una sfigata? Ben venga! E per quanto riguarda la mamma, sappiamo benissimo entrambe chi delle due preferisce. Qualsiasi cosa tu faccia per lei non sbaglierai mai; quindi non dire che l’hai fatto per me o per evitarmi le ire della mamma. Tu l’hai fatto per te, perché non sopporti l’idea che quella sfigata di tua sorella ti infanghi la reputazione».
«Ma cosa stai dicendo?». Queen alzò la voce, gli occhi fiammeggianti di rabbia quanto i miei. «Ma ti ascolti? È assurdo! Come puoi pensare una cosa del genere? Come puoi pensarlo di me?».
«Certo che mi ascolto e per la prima volta nella vita ti vedo per quella che sei realmente. Ho sempre pensato che tu fossi perfetta, invece sei soltanto un’oca egoista e presuntuosa».
«Un’oca egoista e presuntuosa?». Queen strillò alzando la voce di un ottava. «Dio Linny! Io non ti riconosco proprio più».
«Neanche io ti riconosco più, ma forse non ti ho mai conosciuto». Così dicendo afferrai la borsa e il cappotto che avevo appoggiato sul letto e corsi via da lei e da qualsiasi altra cosa potesse aggiungere. Presi le chiavi della Honda dal mobile e partii sgommando prima che lei potesse raggiungermi.
Guidai come in trance, prestando la minima attenzione alla strada, mentre la mia mente ripercorreva ogni parola della litigata con mia sorella. Sentivo ogni istante il magone nella mia gola farsi più gigantesco, mentre gli occhi cominciavano a bruciarmi nello sforzo di non piangere. Odiavo litigare con Queen ma le cose che ci eravamo dette erano vere, per quanto crude e cattive potessero essere; era ciò che avevo iniziato a pensare dalla sera del ballo e che non avevo mai voluto far uscire. Mi sentivo in colpa per ciò che le avevo detto, non era da me essere così schietta e perfida, ma era stata lei la prima a ferire, la prima a farmi male.
Quando arrivai a casa di Paul e suonai alla porta ero ormai sull’orlo delle lacrime, con le labbra tremanti e il cuore in mille pezzi. Per fortuna fu Lea a venirmi ad aprire.
«Ehi Linny!». La sua espressione cambiò subito non appena notò la mia. «Cosa è successo?».
Per tutta risposta mi tuffai tra la sue braccia scoppiando in un pianto liberatorio. Lea mi lasciò sfogare trascinandomi in una stanza al piano sovrastante. Piansi singhiozzando per un paio di minuti, senza riuscire a dire una parola, tutta la rabbia e il dolore che uscivano sottoforma di lacrime.
Poco prima che il mio sfogo terminasse Evan ci raggiunse, evidentemente chiamato dalla nostra stessa amica come sostegno morale. Mi posò una mano sulla schiena e lasciò che mi rifugiassi nel suo caldo abbraccio. Tutti e due sapevano che quando mi sentivo così, Evan era una delle poche persone in grado di farmi sorridere.
Quando mi fui calmata abbastanza da riuscire a parlare, spiegai loro cosa era successo, ripercorrendo per filo e per segno quello che io e Queen ci eravamo dette.
«Mi dispiace essere scoppiata in questo modo, non so cosa mi è preso». Mi asciugai gli occhi con la mano, peggiorando così ulteriormente la situazione del mio trucco.
«Non dirlo neanche per scherzo». Lea mi passò un fazzolettino di carta in modo che potessi soffiarmi il naso. «È naturale che tu sia esplosa».
«Certo!», concordò Evan. «Solo volete spiegarmi perché diavolo io non sapevo nulla di Queen e di ciò che è successo la sera del ballo?».
«Perché tu non sei certo un tipo discreto», rispose Lea prima di me. «Non sai fare buon viso a cattivo gioco, Linny non se la sentiva di affrontarla e tu avresti solo peggiorato le cose».
«Tanto adesso non ha più importanza», puntualizzai. «Ormai è stata lei stessa a costringermi ad affrontarla».
Evan mi accarezzò la testa, passandomi le dita tra i ricci. «Sono sicuro che è stato meglio così».
«Mi dispiace di non averti detto niente». Gli diedi un bacio sulla guancia stringendomi di più tra le sue braccia. «Vi voglio un mondo di bene lo sapete?».
«Certo». Lea mi strinse la mano, rivolgendomi il suo sorriso più dolce. «Anche noi».
«Non posso credere che tu le abbia dato di oca egoista e presuntuosa», tentò di sdrammatizzare Evan scoppiando a ridere. Ed in effetti la sua risata fece sorridere anche me; stentavo ancora a credere di averlo fatto davvero.
«Qualcuno finalmente glielo ha detto», concordò Lea con una risata.
«Di certo non si aspettava che fossi proprio io». Un bel cambiamento dal titolo di “miss perfezione” che le avevo sempre affibbiato.
«L’ho sempre detto che l’hai messa su un piedistallo che non ha mai meritato», continuò Evan. «Altrimenti come sarebbe possibile che io sono tuo amico e non suo? Lo sanno tutti che concedo la mia amicizia solo ai migliori».
Scoppiai a ridere e dentro di me ringraziai il mio migliore amico per la sua spontanea vivacità.
«Vieni adesso». Lea mi tirò per la mano, facendomi alzare. «Andiamo a darci una ripulita prima che la cena cominci». Mi guidò verso il bagno, dove una volta sciacquato il viso, mi aiutò di nuovo a truccarmi. Evan si appoggiò al bordo della vasca, assistendo all’opera che Lea stava pian piano operando al mio trucco disastrato.
«Adesso sì che va meglio», concordò alla fine. «Ti ho già detto che se fossi etero ti starei già sbavando dietro?». Gli sorrisi ma alzai gli occhi al cielo per quella esagerazione.
«Evan ha ragione. Sei bellissima stasera». Guardai la mia migliore amica stretta nel suo tubino nero e non potei notare quanto invece fosse bella e sexy lei. Altro che io, non c’era confronto.
«Tu sei bellissima», replicai. «Paul non potrà resisterti».
Lea arrossì e mi rivolse un sorriso timido. «Lo spero». Lea non era mai timida e questo significava che Paul le piaceva sul serio. «Anche se io e lui in realtà siamo già a quel punto».
Non fui affatto sorpresa, ma per lei finsi di esserlo. «Oh mio Dio! State insieme? Cosa aspettavi a dircelo?!».
«Volevo esserne sicura, diciamo».
L’abbracciai sentendomi davvero contenta per quella notizia. «Sono così felice per te».
«Non posso credere», intervenne Evan, «che presto tutti e tre saremo dei ragazzi impegnati con delle relazioni serie e mature. Mi dispiace solo che Phil non possa essere qui con me stasera».
Lo guardai, non riuscendo a capire il suo discorso. «In che senso?».
«Beh mia cara Linny, non credo che Trevor riuscirà a resisterti, non quando ti vedrà così». Feci una smorfia sentendo le sue parole e ricordarmi l’eminente problema che la lite con mia sorella aveva offuscato.
«Ecco a proposito di questo…», iniziai cercando le parole giuste. «Io e Trevor abbiamo litigato prima di Natale e preferirei che stasera tu mi facessi da scudo». Guardai Evan con sguardo implorante, aspettando una sua reazione.
«Cosa?». Si alzò in piedi sorpreso dalla mia affermazione. «Perché diavolo hai litigato con lui?».
«È complicato», mormorai, guardandomi le scarpe.
«Traduzione: non vuole dircelo», intervenne Lea.
«Tu lo sapevi?». Evan si voltò verso di lei fulminandola con lo sguardo. «Perché sono sempre l’ultimo a sapere le cose?».
«Perché sei sempre anche il primo a spifferarle», rispose Lea. «Comunque l’ho saputo solo perché ho detto a Linny che avevo invitato Trevor».
Feci un profondo respiro prima di riprendere a parlare. «Sentite vi dirò cosa è successo, ma per il momento non ho voglia di parlarne, così come non voglio parlare con lui. Ho già litigato con mia sorella oggi, quindi Evan puoi per piacere aiutarmi? Sii il mio scudo, almeno per stasera, ti prego».
Evan mi guardò per qualche secondo e alla fine sospirò. «E va bene, ma sappi che ad anno nuovo vorrò essere informato su tutto».
«Grazie». Mi avvicinai a lui per stampargli un altro bacio sulla guancia.
«Non c’è di che, piccola ruffiana». Mi mise una mano intorno alla vita, con fare protettivo.
«Lo sai», gli sussurrai all’orecchio, «che se tu fossi etero non ci sarebbe nessun Trevor? Io sarei perdutamente innamorata di te».
«Oh ragazza, se io fossi etero saremo la coppia più invidiata di tutta la scuola». Sorrisi e sentendomi più leggera mi preparai a scendere.
Una volta giù notai che, essendo trascorsa quasi un’ora dal mio arrivo, buona parte degli invitati era già arrivata. Saremo stati in totale una ventina di persone e, anche se avevo avuto i miei dubbi su dove potessero cenare un tal numero di persone, la casa di Paul sembrava adatta allo scopo; o almeno lui e Lea l’avevano resa tale per quella sera.
La mia amica si volatilizzò non appena scendemmo, andando a cercare il suo ragazzo e ad occuparsi di tutto ciò che aveva trascurato per colpa mia. Io invece rimasi con Evan che nel frattempo mi aveva preso per mano e mi aveva guidato verso un gruppo di suoi amici.
Mentre loro chiacchieravano, io continuavo a guardarmi intorno alla ricerca dell’unico volto che mi interessava vedere. Tirai un sospirò di sollievo quando capii che Trevor non era ancora tra i presenti. Tuttavia il mio conforto durò ben poco perché, qualche secondo dopo, suonarono alla porta e nel corridoio apparve Trevor, con la sua solita aria truce e stavolta anche guardinga.
Di istinto mi nascosi subito dietro Evan, mentre Trevor studiava la stanza e i vari invitati. Era ovvio  che il mio nascondiglio fosse inutile, dato che comunque risultavo in parte ben visibile per uno della sua altezza ma non riuscii a farne a meno.
«È qui», sussurrai ad Evan stringendomi contro il suo petto. Lui voltò la testa per riuscire a vederlo e subito dopo mi appoggiò un braccio sulle spalle con fare possessivo. Io mi concentrai sulla punta delle mie scarpe fino a quando non sentii la sua voce proprio davanti a me.
«Ehi ciao».
«Ciao», rispose Evan con tono sospettoso. Non sapeva il motivo del nostro litigio e con molta probabilità si stava domandando se la colpa fosse mia o sua. In ogni caso sapevo che sarebbe sempre stato dalla mia parte.
«Ciao Kathleen». Pronunciò il mio nome con quel suo accento che mi faceva impazzire ogni volta.
Facendomi coraggio alzai la testa per rispondere al saluto. «Ciao». Lo vidi strabuzzare gli occhi incrociando i miei; il suo mare azzurro si spostò velocemente dal mio viso a giù, lungo il mio corpo. Prima di quel momento non avevo mai capito fino in fondo l’espressione “mangiare con gli occhi”. Trevor mi stava letteralmente divorando. E la cosa avrebbe dovuto farmi piacere se non fossi stata me stessa, qualsiasi altra ragazza avrebbe gradito; ma io ero fin troppo pazza e contorta per poter gioire nel aver fatto girare la testa al ragazzo che mi piaceva.
«Vado a dare una mano a Lea», proposi per allontanarmi.
«No». Trevor sembrò riprendersi tutto di un colpo. Fece per fermarmi aggiungendo altro ma la mia amica venne per fortuna in mio soccorso.
«Linny, mi servi in cucina». Lea si avvicinò a me, probabilmente avendo notato la presenza di Trevor, e mi trascinò via prima che lui potesse aprire di nuovo bocca.
Anche durante la cena fui abbastanza fortunata, riuscii a sedere tra Evan e Lea ad un angolo della tavolata, abbastanza lontana da lui da impedirgli di parlarmi liberamente. Tuttavia anche se non poteva parlare con me, ciò non gli impedì di lanciarmi occhiate infuocate per tutta la sera. Ogni volta che mi voltavo nella sua direzione mi fulminava con lo sguardo, fregandosene altamente se qualcuno stava parlando con lui. Trevor guardava solo me e il suo sguardo non prometteva niente di buono; sapevo che era arrabbiato e la sua aria truce lo dimostrava.
«Il tuo ammiratore sembra piuttosto di cattivo umore», mi sussurrò Evan all’orecchio. «Perché non ci parli e non risolvi la faccenda?».
«Perché non credo che si risolverebbe», mormorai. «E poi non è solo colpa mia se è di cattivo umore». Era una bugia bella e buona e lo sapevamo entrambi.
«Ah sì? Stai a vedere». Evan spostò la mia sedia per tirarmi più vicino a lui e subito dopo mi lasciò una scia di baci sul viso, infilando le dita nei capelli. Se non avessi saputo con certezza che quel gesto era puramente fraterno per lui, sarei stata in tremendo imbarazzo; nonostante ciò sentii comunque le mie guance avvampare.
Lanciai uno sguardo a Trevor che stava letteralmente stritolando un pezzo di pane tra le dita. I piercing sulla sua faccia servivano a renderne l’espressione più minacciosa del solito; con molta probabilità, nonostante Evan fosse gay, avrebbe volentieri voluto prenderlo a pugni. Dal suo viso sembrava che avesse voglia di picchiare qualcuno e non era escluso che io non fossi nella lista.
Dopo cena, mentre aspettavamo mezzanotte, tuttavia non fui così fortunata. Trevor mi attaccò un paio di volte, dicendomi che dovevamo parlare, che ne aveva assoluto bisogno. Io lo liquidai mettendomi a fare altre cose o iniziando a parlare con altre persone. Arrivai perfino a chiedere ad Evan di ballare sul ritmo della musica che qualcuno aveva messo.
Poco prima dell’ora ics, in un momento di distrazione di Trevor che stava insolitamente parlando con Paul, approfittai per andare in bagno. Tuttavia quando riscesi le scale, sentii qualcuno afferrarmi la mano e tirarmi verso la cucina che per puro caso era deserta. Non avevo bisogno di vederlo per sapere che era lui: il contatto con le sue dita calde era più che sufficiente.
«Adesso parliamo». Trevor si mise di fronte alla porta con le mani sui fianchi, impedendomi qualsiasi via di fuga.
«È quasi mezzanotte, dovremmo tornare di là», azzardai pur sapendo che era un tentativo inutile.
«Dio Katy sei impossibile! Sono così…». Cominciò ad andare avanti ed indietro nel tentativo di calmarsi. «Questi giorni sono stati orribili, ero così furioso. Linda è arrivata perfino a definirmi “il Grinch”. Speravo che questa sera potesse cambiare qualcosa, ma per ora sta facendo schifo e stranamente il fatto che non posso bere non è la cosa che mi da più fastidio».
Anche se non avrei dovuto desiderai chiedergli come si sentisse al riguardo. Non ne avevo nessun diritto, soprattutto dopo come mi stavo comportando, ma volevo sapere se stava bene. «Come sta andando con la tua… intolleranza alcolica?». Feci il gesto delle virgolette con le mani e gli lanciai un’occhiata attenta.
«Ecco non puoi fare così!», proruppe. «Non puoi ignorarmi per giorni, per una serata intera, e poi chiedermi questo».
«Volevi parlare», mi giustificai, «allora parliamo: come va?».
«Non è di questo che volevo parlare e tu lo sai benissimo».
«Ti sei inventato proprio una bella storia», continuai tornando sull’argomento. «Non potevi semplicemente dire che eri astemio? E comunque come sta andando stasera riguardo all’alcool? Non sembra così male, vero?».
Trevor non ascoltò nemmeno una delle mie domande. «Perché fai così? Perché continui ad ignorarmi e a cambiare discorso?».
«Trevor…», sospirai non sapendo come continuare.
«Cosa ti ho fatto?». Il tono della sua voce era supplicante.
«Niente. Tu non hai fatto niente». In effetti era così: aveva solo detto la verità senza neanche accorgersene; era quella che mi bruciava e che mi aveva ferita.
«No!». Passò dalla disperazione alla rabbia in un solo istante. «Cazzo, lo sappiamo tutti e due che non è così! Qualcosa devo pur aver fatto o detto, qualcosa deve pur essere successa perché non era così prima».
Non risposi ma lasciai che lui continuasse sfogando tutta la sua ira. «Non sono stupido Katy. Quella mattina dopo il ballo tu mi stavi per baciare, lo so io e lo sai anche tu; e poi per la vigilia sei venuta da me e ridevi e scherzavi; hai persino preso in giro la mia auto. E dopo, in un attimo, ti sei ammutolita e sei diventata distante; così quando ho provato a baciarti tu sei scappata via come se avessi la lebbra. Sono così arrabbiato Kathleen e frustrato. Io proprio non ti capisco e il fatto che tu non mi dia nessuna spiegazione mi manda fuori di testa. Perché diavolo non mi parli?».
Era ovvio che lo stessi ferendo con il mio comportamento, ma non sapevo in che altro modo gestire la delusione per ciò che aveva detto.
«Trevor io…», tentai. Ma invece di finire la frase puntai lo sguardo a terra.
«Ci ho pensato e ripensato», proseguì come se io non avessi parlato. «Mi sono lambiccato il cervello alla ricerca di una spiegazione. Io lo so che tu sei diversa da me e che certe cose che escono dalla mia boccaccia possono involontariamente offenderti, ma se tu non mi dai una spiegazione non riuscirò mai a capire i miei errori. Dove ho sbagliato con te Katy? Perché io lo so che ti piaccio o almeno ti piacevo prima».
Lui aveva perfettamente ragione; non potevo tagliarlo fuori senza spiegarne il motivo. Ero dalla parte del torto, ma mi ero comportata così per proteggermi. Avevo avuto paura di rimanere ferita e così facendo avevo finito per ferire lui.
«Hai detto che te ne andrai», mormorai in maniera appena udibile.
«Come?». Il suo tono risultò sorpreso come se non si aspettasse veramente una risposta da me.
Feci un profondo respiro e, prendendo coraggio, alzai la testa per guardarlo negli occhi. «Hai detto che potresti andartene da un giorno all’altro senza voltarti indietro».
Trevor sbatté le palpebre cercando di ricordare l’esatto istante in cui aveva pronunciato quelle parole. «Io…».
«Hai detto che tuo padre non può fare niente per fermarti», continuai, «che potresti andare via e ricominciare la tua vita da un’altra parte, dove nessuno ti conosce. Hai detto che se tuo padre continuerà così alla fine lo farai».
«Ed è per questo che…?».
Lo fermai prima che potesse finire. «Tu non lo sai come mi sono sentita mentre dicevi queste cose. Non ti sei neanche reso conto che potevano turbarmi, che l’idea che tu potessi andartene potesse turbarmi. Io ho già perso troppe persone Trevor, non voglio aggiungerne altre alla lista. Non posso legarmi a qualcuno che non ha intenzione di restare».
Trevor sospirò e la sua espressione truce fu sostituita da una più dolce. «Oh Katy, perché diavolo interpreti sempre male le mie parole?».
«È quello che hai detto, non sono io che ho interpretato male».
«È vero», ammise, «ho detto che potrei andarmene, che mio padre non potrebbe fermarmi. Ma  Katy ho detto che “potrei” non significa necessariamente che lo farò».
«Non fa nessuna differenza», ribattei. «Anzi è anche peggio; significa che da un giorno all’altro, a seconda di ciò che capiterà nella tua vita, potresti decidere di partire. Non da nessuna garanzia che tu voglia restare, sembra proprio che se qualcuno ti farà incavolare tu per tutta risposta ti sentirai in diritto di andartene».
«No, non capisci Kathleen. Oddio non posso credere che tu abbia pensato una cosa del genere».
«Invece capisco benissimo». Feci per andarmene visto che non aveva altro da aggiungere ma lui era ancora davanti alla porta a bloccarmi la strada. Vidi da un orologio appeso alla parete che mancavano due minuti a mezzanotte e tentati un’altra strada.
«È quasi mezzanotte, dovremmo tornare di là. Lasciami passare Trevor».
«D’accordo». Pensai che stesse acconsentendo alla mia richiesta, invece rimase immobile inchiodandomi con i suoi occhi azzurri. «Kathleen mettiamo che tu abbia ragione. È vero potrei andarmene, potrei averlo già fatto. Chiedimi allora perché sono ancora qui».
«Cosa?». Sbattei le palpebre non capendo dove diavolo volesse andare a parare.
«Chiedimi perché sono rimasto, chiedimi perché, anche se ne ho la possibilità, non ho nessuna intenzione di andarmene».
«Perché?». Lo fissai con circospezione non capendo a pieno il suo discorso.
«Per te». Il mio cuore perse un colpo a quelle parole per poi ricominciare a battere all’impazzata.
«Per te Kathleen», continuò, «per chi altrimenti? Sei l’unica persona che mi fa sentire bene, che mi fa sentire me stesso e non mi fa vergognare del mio passato. Ho detto che potrei prendere e partire ma non lo farò perché non ho la minima intenzione di allontanarmi da te».
Lo fissai a bocca aperta mentre assimilavo il significato delle sue parole. Era una dichiarazione vera e propria e non potevo credere che lui avesse detto quelle cose proprio a me. Qualsiasi dubbio, qualsiasi remora che mi tratteneva, qualsiasi paura fu cancellata in un istante. Trevor aveva detto esattamente ciò che volevo sentire. Lui restava per me e nessuno mai aveva fatto altrettanto; nessuno aveva provato dei sentimenti per me così forti da indurlo a rimanere in un ambiente in cui non si trovava bene. Neanche Jamie l’aveva fatto: appena ne aveva avuto l’occasione era scappato al college e la sua era stata una scelta più che comprensibile.
Mentre digerivo ciò che mi aveva appena rivelato, sentii dal salotto provenire i rumori del countdown. L’anno vecchio stava per finire, i festeggiamenti per quello nuovo stavano per iniziare, eppure non me ne sarebbe potuto importare di meno. Era come se il tempo per me e Trevor si fosse fermato, lasciando in sospeso il profondo valore delle sue parole.
«Ti prego Kathleen di’ qualcosa». I suoi occhi mi pregarono più della sua voce, annientandomi definitivamente.
Per tutta risposta mi fiondai sulle sue labbra e lo baciai. Sentii il suo piercing sfiorarmi la pelle mentre la mia bocca aderiva alla sua e lui ricambiava il bacio. Gustai il dolce sapore delle sue labbra mentre si dischiudevano sotto le mie per la prima volta, mandando in visibilio il mio cuore.
Le mani di Trevor mi strinsero, spingendomi  di più contro il suo petto e le mie si persero tra i suoi capelli. Sentii i festeggiamenti provenire dall’altra stanza, ma quel particolare fu subito accantonato in un angolo della mia mente, dato che Trevor mi stava baciando in un modo che sarebbe dovuto essere definito illegale. Mentre le mie labbra, leggermente dischiuse, erano intente a studiare le sue in ogni minima sfaccettatura, la sua lingua si fece strada nella mia bocca andando a stuzzicare la mia. Nel esatto istante in cui le nostre lingue entrarono in contatto, il mio cervello si spense completamente ed il mio corpo fu pervaso da mille emozioni. Sentii un fremito nel basso ventre e desiderai che quel bacio non finisse mai, che lui continuasse a baciarmi così per l’eternità.
Mi strinsi ancora di più a lui, passandogli una mano sulla guancia fino al collo e sfiorando con le dita l’accenno lieve di barba. A quel mio tocco anche la sua mano si spostò, giù lungo la mia schiena fino a posarsi in una posizione non del tutto casta, sopra la mia gonna. L’altra mano invece mi teneva la testa con le dita aggrovigliate tra capelli in modo che non potessi più allontanarmi; non che fosse mia intenzione, anzi se fosse dipeso da me sarei rimasta lì per sempre.
Senza rendermene conto Trevor mi fece indietreggiare fino a farmi appoggiare al tavolo della cucina e con un movimento fluido mi ci fece sedere sopra, in quella che doveva essere una posizione più comoda per entrambi vista la differenza di statura. Continuò a baciarmi come se fosse la cosa che più desiderava al mondo e realizzai che anche per me era così. Volevo Trevor come non avevo mai voluto nessun altro e solo la paura di perderelo mi aveva indotto ad allontanarlo.
Dopo quello che mi sembrò un tempo infinito e allo stesso tempo troppo breve Trevor si staccò da me per riprendere fiato, appoggiando la fronte sulla mia, ma rimanendo comunque ad un centimetro dal mio viso. Potevo sentire il suo respiro caldo sulla pelle, così come avevo nelle orecchie il rumore assordante del mio cuore che batteva all’impazzata. Arrossii leggermente notando la sua posizione tra le mie gambe e a quella mia reazione le dita di Trevor si spostarono sulla mia guancia, accarezzandola teneramente.
«Buon anno», sussurrai ascoltando i festeggiamenti provenienti dall’altra stanza.
«Direi che non poteva cominciare in maniera migliore». Trevor sorrise, un sorriso così caldo e sincero da farmi sciogliere il cuore. Non ebbi il tempo di aggiungere altro perché lui mi baciò di nuovo facendomi dimenticare tutto ciò che volevo dire.
Le nostre labbra stavano danzando insieme lentamente, facendo una conoscenza sempre più approfondita, quando qualcuno entrò in cucina.
«Linny? Dove sei finta? Vieni a festeggiare». Non feci a tempo a spostarmi che Evan, Lea e Paul comparvero sulla porta, cogliendoci in fragrante.
«Oh scusate». Il sorriso che si dipinse sul volto di Lea era esplicativo di quanto approvasse quel cambiamento di scena.
«A quanto pare ci sbagliavamo», intervenne Evan, «la nostra Linny stava già festeggiando come si deve, chi l’avrebbe mai detto!». Mi sentii avvampare ed invece Trevor ridacchiò.
«Non volevamo interrompervi», continuò l’altra tirandogli una gomitata.
«Se volete ce ne andiamo subito e vi facciamo riprendere da dove eravate rimasti».
«Evan!», gridammo io e Lea contemporaneamente, mentre Paul e Trevor scoppiavano a ridere. L’esultanza del mio amico era evidente e nonostante mi stesse mettendo sempre più in imbarazzo ero davvero lieta di saperlo felice per me. Avere l’appoggio di Lea ed Evan era una delle cose a cui non avrei potuto rinunciare.
«Non importa», disse Trevor al mio posto per toglierci da quella scomoda posizione. «Buon anno ragazzi». Mi aiutò a scendere e mi prese per mano, intrecciando le dita alle mie.
«Buon anno», sussurrai portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Andiamo a festeggiare, okay?». Lea mi sorrise, mentre Paul la stringeva passandole una mano intorno alla schiena, ed Evan mi fece l’occhiolino.
«E così mentre l’anno vecchio se ne andava», mi sussurrò quest’ultimo all’orecchio, mentre tornavamo dagli altri, «la mia dolce Linny è cresciuta e ha dato il suo primo bacio. Complimenti ragazza mia». Sorrisi sentendo le sue parole e riconoscendo che era vero. Avevo dato il mio primo bacio ed era stato meraviglioso; ma lo era stato perché era Trevor stesso ad essere fantastico.
Quando tornammo in salotto tutti erano intenti a brindare e a festeggiare l’arrivo di quel nuovo giorno. Sentii Trevor irrigidirsi accanto a me e capii subito che era dovuto alla presenza nella stanza di vino in gran quantità.
Strinsi più forte la sua mano nella mia, accarezzandogli il dorso con il pollice. «Se vuoi andiamo via», gli sussurrai all’orecchio.
«No va bene», mi rispose altrettanto piano. «Finché sei qui con me va bene». Quelle parole liberarono mille farfalle nel mio stomaco.
«Ecco a voi». Lea, che si era momentaneamente allontanata, tornò con in mano vari bicchieri per tutti  noi. «Facciamo un brindisi».
Alzai un sopracciglio chiedendomi se scherzasse; per caso non si ricordava la storiella di Trevor?
«Tranquilli è coca cola», si difese lei. Mi si avvicinò all’orecchio in modo che solo io la potessi sentire. «Ho pensato che anche per te lo spumante fosse fuori questione se dopo vorrai continuare a fare quello che stavate facendo in cucina. Meglio non rischiare giusto?».
Arrossii come un peperone sentendo le sue parole e l’unica cosa che fui in grado di balbettare fu un patetico «grazie».
«Beh auguri a tutti quanti». Evan si avvicinò tenendo il suo bicchiere alzato. «Direi di brindare agli unici due esemplari maschili di tutta la scuola, escluso il sottoscritto naturalmente, che hanno capito quali sono a tutti gli effetti le due ragazze migliori». Paul e Trevor si diedero una pacca sulla spalla, mentre io e Lea scoppiammo a ridere.
Trevor avvicinò le sue labbra al mio orecchio, lasciandomi un piccolo bacio sul lobo. «Auguri Katy». Il sorriso che mi si disegnò sul volto fu una risposta più che sufficiente.
Passammo un altro po’ di tempo ridendo e scherzando, ballando alla musica improvvisata che qualcuno stava in qualche modo proponendo. Fui lieta di vedere Trevor rilassarsi lentamente sebbene ci fossero ancora bottiglie di spumante sparse ovunque e nonostante che l’euforia generale fosse dovuta alla sbornia piuttosto che al nuovo anno.
Stavamo ballando vicini – non riuscivo proprio a strusciarmi con lui come avevo fatto da ubriaca con John – quando Trevor mi avvicinò stringendomi forte al petto e passandomi le labbra sul collo.
«Ho una voglia matta di baciarti di nuovo», sussurrò sulla mia pelle, «che ne diresti di trovare un posto un po’ più appartato?». Il mio cuore partì a mille sentendo le sue parole e non tanto per ciò che implicavano, quanto per il fatto che anch’io non desideravo altro.
«D’accordo», mormorai sorridendo.
«Andiamo di sopra allora». Trevor mi prese per mano iniziando a guidarmi verso le scale.
«Aspetta», lo fermai trattenendolo. «Paul ha chiuso buona parte delle camere in modo da evitare che qualcuno…». Non finii la frase perché mi resi conto che era proprio per qualcuno con le nostre stesse intenzioni che l’aveva fatto.
«Oh». La delusione apparve chiara sul volto di Trevor. «Non penso che tu sia il tipo di ragazza che limona in pubblico, vero?».
Avvampai alle sue parole, ma cercai di rispondere comunque. «No infatti… però potremmo… uscire sulla veranda a prendere una boccata d’aria. Non credo che con questo freddo là fuori ci sia molta gente». Puntai lo sguardo a terra, sentendomi in imbarazzo per quella mia assurda proposta.
«Okay». Trevor mi posò due dita sotto il mento facendomi rialzare lo sguardo. «Andiamo allora». Lasciò un bacio leggero sulle mie labbra e mi guidò verso la stanza che era stata adibita a guardaroba per prendere i nostri cappotti.
Come avevo previsto fuori faceva freddo e non c’era molta gente. Quando arrivammo nel giardino sul retro scoprimmo, con nostro grande piacere, che era deserto.
Non ebbi neanche il tempo di parlare perché Trevor mi travolse con un bacio appassionato, guidandomi lentamente verso un vecchio dondolo posizionato sotto il portico. Le sue labbra cercarono le mie con voracità, la sua lingua ormai era un ospite ben accetto nella mia bocca, mentre le sue mani iniziarono a salire e a scendere frenetiche lungo la mia schiena.
Se prima i suoi baci mi erano sembrati meravigliosi in quel momento furono anche meglio. Affondai le dita tra i suoi capelli tirandone una ciocca, mentre con l’altra mano sfiorai il piercing che aveva sul sopracciglio. Sentivo quello sul labbro sfregare in un punto imprecisato della mia bocca e non era affatto una sensazione spiacevole, così come non lo era il sapore intenso della sua lingua.
Nonostante la rigida temperatura invernale io stavo letteralmente andando a fuoco; Trevor stavo risvegliando zone del mio corpo che non sapevo neanche potessero essere risvegliate. Ogni secondo che passava mi accorgevo di voler sempre di più, di voler Trevor sempre più vicino, di voler continuare a baciarlo così e sempre più a fondo.
Dalla mia bocca sfuggì un gemito basso quando le sue labbra si spostarono sul mio collo, facendosi strada attraverso il bavero del cappotto e non era di certo un mugolio di protesta.
«Dio Kathleen», sospirò aprendo gli occhi e tornando ad inchiodarmi con lo sguardo. Aveva il respiro leggermente affannato ma la sua espressione era colma di desiderio.
«Wow», mormorai assumendo quello che con molta probabilità risultò essere un sorriso ebete.
«Oh Katy sarai la mia rovina», bisbigliò sorridendo e riprendendo fiato.
«Perché?». Sapevo dalla sua espressione che quello era una sorta di complimento.
«Lo sai quanto io possa essere incline alle dipendenze», scherzò, «e credo di averne appena sviluppata un’altra: le tue labbra saranno la mia nuova droga».
Sorrisi, felice anche per il fatto che con me si sentisse libero di prendersi in giro così. «Beh penso che in questo caso non ci saranno grossi problemi».
«Davvero?». La sua espressione si fece più maliziosa. «Perché sappi che d’ora in poi vorrò baciarti a qualsiasi ora del giorno e della notte».
«Me ne farò una ragione», ridacchiai mentre sentivo una sorta di calore nuovo nel basso ventre e uno più familiare tingermi le guance.
«Ah sì?». Per tutta risposta si rituffò sulle mie labbra, ricominciando da dove si era interrotto.
Fu dopo un’altra serie di baci che parlai di nuovo; non mi resi conto neanche di star pensando ad alta voce, le mie labbra si mossero da sole mentre quelle di Trevor stavano facendo miracoli sulla mia pelle. «Non credevo potesse essere così bello».
Trevor si fermò sentendo la mia voce, rimanendo con il naso sul mio collo e le mani sotto il mio cappotto. «Come?».
Avvampai rendendomi conto di ciò che avevo appena ammesso, ma non avendo altra via di uscita optai per ripetere la verità che avevo appena affermato. «Non credevo che baciare un ragazzo potesse essere così bello». La mia voce fu talmente flebile che anch’io faticai a sentirla e subito dopo il mio sguardo andò a concentrarsi sulla cerniera del mio cappotto.
«Uou». Trevor si staccò da me, forse per riuscire a guardarmi meglio. «Intendi dire che non avevi mai baciato nessuno prima di me?».
Annuii senza dire una parola e mordendomi le labbra. Di sicuro doveva sembrargli strano: avevo diciotto anni era normale aver già compiuto quelle tappe, invece io ero del tutto inesperta.
«Beh questo cambia le cose». Era ovvio che le cambiasse e il mio umore crollò a terra nel giro di un secondo.
«Eh non come pensi tu mia dolce Katy». Mi fece alzare il viso in modo da incrociare il suo sguardo. «Questo significa solo che dovrò ridimensionare le mie idee, non posso certo farti tutte le cose che ho in mente in questo momento, almeno non subito».
«Perché no?». Studiai la sua espressione ma ci trovai solo un sorriso sincero, in netto contrasto con le sue parole.
«Perché Kathleen sei ancora inesperta». Si bloccò un attimo notando la mia smorfia. «E no, non l’ho capito dai tuoi baci. Anzi se devo essere sincero baci divinamente Katy, sei un vero talento naturale».
Un piccolo sorriso mi increspò le labbra, mentre sentivo di nuovo le farfalle nello stomaco. Era stranamente riuscito a cogliere in anticipo i miei dubbi e le mie domande.
«Comunque sia, mi hai appena rivelato che stasera hai dato il tuo primo bacio e proprio per questo non possiamo esagerare; dobbiamo andare per gradi. Non voglio bruciare nessuna tappa con te Kathleen, voglio fare le cose per bene».
«Fare le cose per bene?», ripetei sbattendo le palpebre.
«Sì». Mi lasciò un casto bacio sulle labbra prima di continuare. «Te lo dice uno che di tappe ne ha bruciate anche troppe e non voglio che tu faccia altrettanto. Per questo per adesso ci limiteremo a baciarci, ci daremo tanti tanti tanti dolci baci e poi piano piano arriveremo anche al resto, che ne dici?».
Il mio sorriso fu a trentadue denti. «D’accordo». E non vedevo davvero l’ora di scoprire in che cosa consistesse quello che lui aveva appena definito “resto”. 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9
 
I giorni dopo capodanno trascorsero in una sorta di annebbiamento paradisiaco. Io e Trevor ci vedevamo ogni giorno, nonostante fossimo ancora in vacanza, ed è inutile specificare che trascorrevamo il tempo in maniera nettamente diversa rispetto a prima. Passavamo ore a baciarci e, anche se per il momento ci limitavamo solo a quello, non ne avevamo mai abbastanza l’uno dell’altra.
Era strano per me: io che avevo sempre avuto lo studio come priorità fondamentale, in parte per non deludere i miei genitori o per essere anche solo considerata da almeno uno di loro, adesso mi ritrovavo a mettere tutto in secondo piano. Beh non che l’avere un ragazzo mi avesse fatta cambiare così radicalmente; ero sempre io, sempre la solita secchiona, ma quando ero con lui era difficile restare indifferente. Per esempio io e Trevor ci ritrovavamo a casa sua per studiare, io prendevo i libri ed iniziavo con i miei soliti schemi e riassunti; per i primi cinque minuti lui mi guardava lavorare, anche se il suo sguardo penetrante rendeva la cosa fastidiosamente difficile. Ma poi, senza preavviso, mi avvicinava a sé e iniziava a baciarmi ed io non riuscivo proprio a resistere, soprattutto quando ce la metteva tutta per mandarmi fuori di testa utilizzando solo una così piccola parte del suo corpo. Non era colpa mia se avevo momentaneamente messo in stand-by tutto ciò che riguardava la scuola, lo studio o persino il resto del mondo.
In quella idilliaca settimana Trevor mi invitò ad uscire – il nostro primo vero appuntamento – e mi portò al cinema, come se fossimo stati una coppia di adolescenti del tutto normali. E come ogni teenager che si rispetti non seguii il film neanche per un minuto. All’inizio, il fatto che Trevor avesse appoggiato il braccio sopra la mia spalla aveva attratto tutta la mia attenzione, facendo partire a razzo sia il mio cuore che la mia immaginazione. Quando poi lui aveva cominciato a farmi i grattini sul polso con l’altra mano, la mia concentrazione era stata canalizzata tutta sui lenti movimenti dei suoi polpastrelli. Immaginatevi quando inaspettatamente si era avvicinato per annusarmi i capelli per poi baciarmi! Per fortuna eravamo nell’ultima fila e nessuno aveva potuto notare quel nostro scambio di effusioni.
Dopo il cinema mi aveva portata a cena: eravamo andati da Harold ed era stata una scelta molto carina considerando che tutto tra noi era iniziato con una mattinata di studio terminata proprio con un pranzo in quel locale. Non che le cose lì fossero andate decisamente meglio, o peggio, a seconda dei punti di vista. Trevor invece di sedersi di fronte a me, aveva preso posto al mio fianco, con la sua immancabile mano sulle spalle e così tutte le mie capacità mentali erano andate a farsi friggere.
Il problema era che la maggior parte delle volte mi sentivo impacciata; essere la ragazza di qualcuno non era un ruolo che avevo mai ricoperto e questo mi portava a farmi mille domande mentali. Spesso il mio cervello partiva in quarta e ciò mi portava involontariamente ad isolarmi ed irrigidirmi. Trevor mi aveva detto che dovevo smetterla di pensare e che dovevo semplicemente vivere il momento, ma era una cosa più facile a dirsi che a farsi, almeno per me. Tuttavia dovevo riconoscere che aveva ragione, perché quando mi baciava mandando completamente in pappa il mio cervello, tutto il mio imbarazzo e la mia goffaggine sparivano e ricambiare i suoi baci diventava un’azione del tutto naturale.
Comunque nonostante mi sentissi al settimo cielo per l’inizio della nostra storia – cosa che non avevo fatto che scrivere/ripetere anche a Jamie, tanto che se avesse potuto mi avrebbe urlato di smetterla – c’era qualcosa che offuscava quei bellissimi giorni. Queen non mi aveva più rivolto la parola dalla nostra litigata, praticamente nell’anno nuovo ci eravamo scambiate solo quelle due o tre frasi che evitavano di far sorgere sospetti nei nostri genitori.
«Buongiorno» o «è un problema se domani prendo la macchina?» oppure «ho fatto io benzina e ho rimesso le chiavi al solito posto», erano il massimo della comunicazione che avevamo.
Quella situazione mi pesava, odiavo essere in collera con lei e soprattutto sapere che anche io avevo fatto la mia parte per creare quella condizione. Tuttavia quando avevo cercato una sorta di riappacificazione Queen mi aveva letteralmente sbattuto la porta in faccia; in pratica mi ero ritrovata davanti ad un muro di cemento armato e non avrei potuto abbatterlo nemmeno usando tutte le mie forze.
Alla fine avevo anche parlato a Trevor della mia lite con Queen; ero stata costretta a farlo dato che evitavo il più possibile casa mia. Non dargli una spiegazione sarebbe sembrato strano, soprattutto quando ero io ad andare sempre a casa di Trevor, mentre lui paradossalmente non aveva ancora messo piede nella grande villa Jefferson. Ovviamente aver parlato della lite con mia sorella aveva portato a galla anche ciò che era successo la sera del ballo.
Quando gli avevo rivelato ciò che John aveva detto, tutte le cattiverie che aveva pronunciato e ciò che quindi mia sorella aveva orchestrato, Trevor aveva serrato la mascella e stretto i pugni; aveva assunto un’aria minacciosa, tanto che avevo paura che rompesse qualcosa per sfogare la sua rabbia. Mi ci era voluto un po’ per calmarlo e per far riapparire una sorta di sorriso sulle sue labbra; avevo dovuto ripetergli all’infinito che ormai la questione era sistemata, che John era solo uno stupido e che io stessa avevo rimesso Queen al suo posto.
Dopo quel giorno non ne avevamo più parlato, ma dubitavo che Trevor avesse dimenticato l’accaduto. Il fatto che accettasse di considerare casa mia off-limits, almeno per il momento, non significava che non capisse l’implicazione che ciò comportava. Infatti oltre ad evitare Queen in quel modo riuscivo anche a ritardare il possibile incontro tra lui e miei genitori. Non era per sminuire Trevor o il nostro rapporto, ma sapevo che non li sarebbe piaciuto; non era proprio il prototipo di ragazzo che mia madre avrebbe accettato: vedendo tutti quei piercing e quei tatuaggi sarebbe andata fuori di testa! In fin dei conti anch’io l’avevo giudicato male prima di conoscerlo: a prima occhiata Trevor sembrava il ragazzo meno raccomandabile del mondo, anche se in realtà era l’esatto opposto. Era maturato molto negli ultimi anni ed era più serio e affidabile di molti altri ragazzi della sua età. Tuttavia la mia famiglia non era composta da persone che andavano oltre la prima impressione: l’avrebbero visto, l’avrebbero giudicato e l’avrebbero disapprovato.
A parte questo, il fatto che Trevor non avesse dimenticato ciò che gli avevo detto del ballo, fu dimostrato il primo giorno di scuola dopo le vacanze. Queen, quella mattina, si era fatta venire a prendere da Sean, per evitare di dover fare il viaggio in macchina con me. Così avevo preso la Honda con tutta calma e quando ero arrivata avevo trovato Trevor ad aspettarmi davanti all’ingresso. Mi aveva salutata con un casto bacio sulle labbra e ciò mi aveva fatto arrossire. Quella era una sorta di dichiarazione vera e propria: “noi stiamo insieme” gridato a gran voce, e significava che presto tutta la scuola l’avrebbe saputo, compresa Queen stessa.
Trevor mi aveva accompagnato all’armadietto, tenendomi per mano e si era appoggiato con la schiena a quello a fianco, aspettando che io prendessi tutti i libri necessari. Stavo parlando di qualcosa che mi aveva detto Lea, di un film che dovevamo assolutamente andare a vedere ma mi accorsi subito che Trevor non mi stava ascoltando.
«Lea mi ha detto che ci è andata con Paul e che le è piaciuto molto. Penso che dovremo andarci, però magari stavolta cerchiamo di non distrarci troppo e di riuscire a seguire il film, altrimenti cosa le dico dopo?». Avevo abbassato lo sguardo nel dirlo – sai che novità – ma stavo facendo progressi: avevo appena fatto un’allusione al nostro scambio di effusioni, chiamiamolo così, durante il nostro primo appuntamento ed ero certa che Trevor non si sarebbe lasciato sfuggire quell’occasione per punzecchiarmi almeno un po’.
Invece niente: l’assoluto silenzio; dubitavo anche che avesse ascoltato una sola parola, visto che aveva lo sguardo puntato dall’altra parte. Con la testa voltata in quel modo non potevo vederlo in faccia, ma riuscivo solo a scorgere la sua mascella tesa.
Infastidita per quella mancanza di attenzione, puntai anch’io lo sguardo in quella direzione e capii chi stesse fissando. Nel suo mirino c’erano buona parte della squadra di football e delle cheerleader compresi Queen, Sean e John.
«Trevor», tentai assumendo un tono più autoritario possibile. In realtà il suo nome mi uscì piuttosto implorante.
«Trevor», provai di nuovo, appoggiandogli una mano sulla spalla. «Trev davvero lascia perdere». Forse se mi fossi rivolta ad un muro avrei avuto più considerazione.
Per tutta risposta lui si staccò dagli armadietti e puntò nella loro direzione. «Aspettami qui».
«No! Fermo! Dove stai andando?». Ma ormai era già a qualche metro di distanza e a me non restò altro da fare che assistere alla scena sentendomi del tutto impotente.
Lo guardai avvicinarsi a loro e richiamare l’attenzione di John con una pacca sulla spalla. Non appena l’altro si fu voltato Trevor gli sferrò un pugno dritto in faccia: fu talmente veloce che non vidi neanche il suo braccio muoversi. Vidi soltanto John cadere a terra coprendosi il naso con le dita, urlando di dolore, mentre tutt’attorno la gente ammutoliva.
Trevor disse qualcosa, ma ero troppo lontana per sentire, poi si voltò e tornò verso di me.
«Adesso possiamo andare», mi disse passandomi accanto. «Hai finito di prendere i libri?».
Ero talmente sotto shock che non riuscii a rispondere e restai lì a guardare prima lui e poi John a terra con le gocce di sangue che si spargevano sulla sua maglia e sul pavimento.
Ovviamente tutto ciò ebbe delle conseguenze: durante la prima ora Trevor fu chiamato in presidenza; la cosa non mi sorprese però mi fece preoccupare terribilmente, tanto che fui quasi tentata di saltare il resto delle lezioni della mattina. Purtroppo il mio senso del dovere ebbe la meglio.
Come scoprii solo a pranzo, John con quel solo pugno si era rotto il setto nasale. Non avevo mai messo in dubbio la letalità di Trevor, doveva essere abituato alle risse e quella ne era la dimostrazione. Furono chiamati subito i genitori di entrambi e il preside riuscii a non far sporgere denuncia contro Trevor solo affibbiandogli una settimana di sospensione. Mi sorpresi di come la cosa fosse stata liquidata velocemente, ma evidentemente il signor Simons doveva essere intervenuto, o forse anche John stesso sapeva di non essere proprio del tutto immacolato.
Per questo non trovai Trevor all’ora di pranzo e fui io, insieme ad Evan, a raggiungerlo nel parcheggio, poco prima che andasse via con suo padre. Il signor Simons lo aspettava in macchina e sembrava furioso almeno quanto lo ero io con lui.
Non avevo fatto altro che rimuginarci sopra tutta la mattina e tutta la rabbia si era accumulata dentro di me come una mina inesplosa. Ero furibonda per il fatto che avesse picchiato John e si fosse fatto sospendere, per non avermi ascoltata, per essersi comportato da uomo delle caverne e avermi considerata una donzella in difficoltà; per non essersi fidato del mio giudizio, per aver confermato a tutta la scuola quello che la sua prima impressione suggeriva. La lista sarebbe potuta continuata per ore dato che Trevor non aveva neanche una buona ragione per spiegare il suo comportamento immaturo.
«Sono così furiosa con te», proruppi subito puntandogli un dito contro. «Cosa diavolo ti è saltato in mente?».
«Se l’è meritato», fu la sua sola risposta.
«Sei stato grande», intervenne Evan, beccandosi un’occhiataccia da parte mia. Dopo avrei fatto i conti anche con lui.
«Ti sei completamente bevuto il cervello?», continuai. «Mi pareva di averti detto che la questione era ormai chiusa».
«Beh non era chiusa, adesso lo è», ribatté. «Così ci penserà due volte prima di aprire quella sua maledetta boccaccia».
«Trevor». Feci un profondo respiro prima di continuare. Avevo la forte tentazione di prenderlo a schiaffi e non mi era mai successo, almeno non con lui. «Non puoi andare in giro a picchiare tutti quelli che dicono cattiverie sul mio conto, perché altrimenti dimezzeresti l’intera popolazione della scuola. E francamente non era nemmeno lui il problema principale».
«Queen è solo fortunata ad essere una donna», sibilò tra i denti.
«Trevor! Quando ti ho detto che avevo risolto io la questione, intendevo dire che l’avevo fatto davvero. Non dovevi farti sospendere, non per una cosa del genere! Capisci almeno cosa vuol dire una sospensione di una settimana?».
«Sì lo capisco». La sua espressione si fece cupa e con la coda dell’occhio osservò suo padre che in quel momento stava inveendo al telefono con qualcuno.
«No! Non lo capisci. Altrimenti non saresti intervenuto!». Era stato stupido a fare una cosa del genere, andandoci di mezzo; ma ciò che mi faceva infuriare ancora di più era che non aveva creduto che io potessi vincere le mie battaglie da sola.
«Mi dispiace, non essere arrabbiata». Mi fece gli occhi dolci, ma per una volta non funzionarono.
«Invece non ti dispiace per nulla». Lo fissai puntandogli un dito contro. «Beh sappi che se tuo padre adesso è furioso ne ha tutte le ragioni e sappi che lo sono anch’io. Quindi finché non sarai pronto a riconoscere la stupidità delle tue azioni sarà bene che tu non ti faccia più sentire». Così dicendo me ne andai e tornai a scuola, talmente scombussolata che sarebbe stato un vero miracolo riuscire a capire qualcosa durante le lezioni successive. Evan mi seguì solo un paio di minuti dopo: non sapevo cosa gli avesse detto, ma capì subito che era meglio non tornare sull’argomento almeno per quel giorno.
E così il nostro inizio idilliaco era durato all’incirca una settimana. Una settimana in paradiso seguita da un silenzio di tomba. Altro che non bruciare le tappe! Noi stavamo dando fuoco a tutto.
Non sentii Trevor per i tre giorni successivi e, anche se avrei voluto chiamarlo, non sarei certo stata io la prima a cedere. Eravamo entrambi testardi ma non ero io quella che aveva sbagliato e che doveva chiedere scusa. Così in quel momento la cerchia di persone con cui parlavo si stava riducendo sempre più e sicuramente non solo per colpa mia.
Fu solo il giovedì sera, mentre stavo facendo i compiti, che sentii il telefono squillare e sulla schermata apparve la scritta “Il Fantastico Trev”. Non avevo avuto il coraggio di rinominare il suo contatto in nessun altro modo.
«Pronto», mormorai circospetta.
«Sono fermo in macchina sotto casa tua. Possiamo parlare?». Né un “ciao”, né un “come va?”, solo quello.
Feci un profondo respiro, sapendo che c’era un’unica cosa da fare. «Scendo subito». Mi infilai il cappotto di soppiatto e riuscii ad uscire di casa senza essere vista da nessuno.
«Non ho molto tempo», mi disse non appena fui salita sull’auto di Susan. La sua mustang era ancora ben lontana dal partire. «Tecnicamente sarei in punizione, sono riuscito ad uscire solo perché a Susan servivano alcune cose al supermercato, ma devo rientrare prima che arrivi mio padre».
«E a te sta bene?». Dubitavo che accettasse di buon grado l’idea di essere punito come un ragazzino; ma in quel caso si era comportato da ragazzino ed ero completamente d’accordo col signor Simons.
«No… cioè insomma… forse. Beh è complicato». Prese un profondo respiro prima di continuare. «Senti Katy ci ho pensato molto in questi giorni, non ho fatto altro praticamente, e ho capito che mi sono comportato da stupido. Ti chiedo scusa, non avrei dovuto attaccare John in quel modo, non dopo che tu mi avevi detto che la questione era chiusa».
«Già non avresti dovuto», concordai.
«È che non sopporto l’idea che qualcuno ti offenda o ti ferisca». Era una cosa dolce, ma doveva capire che, anche se potevo sembrare fragile, non doveva essere il mio protettore. Avevo passato gli ultimi due anni senza di lui e senza neanche James, ed ero sopravvissuta. Avevo imparato a difendermi, anche se non nel modo in cui voleva lui.
«Essere il mio ragazzo non significa che devi combattere le mie battaglie al posto mio».
«L’avrei fatto anche se non fossi stato il tuo ragazzo», ammise. «Se me l’avessi confessato subito, sarei tornato al ballo solo per spaccargli la faccia».
«Trevor», mugolai.
«E l’ho capito che è sbagliato Katy, perché credi che me ne stia segregato in casa come mi ha ordinato mio padre, altrimenti? So che sono dalla parte del torto, che tu e lui avete tutte le ragioni per essere arrabbiati, ma francamente sono fatto così Kathleen e credo che se potessi tornare indietro farei esattamente la stessa cosa». Non era proprio ciò che volevo sentirmi dire.
«Trevor forse non capisci….», iniziai ma lui mi fermò.
«No ascoltami Kathleen. Io capisco, capisco che non si fa, che non si risolve una situazione prendendo a pugni qualcuno. Mio padre me l’ha ripetuto talmente tante volte in questi giorni che l’avrei capito anche se fossi sordo. Però l’idea che qualcuno possa ferirti mi manda fuori di testa e lo so che sai difenderti da sola, so che quando vuoi sai tirare fuori gli artigli. È che l’ho visto lì a parolottare con quel branco di deficienti e non ce l’ho fatta a lasciar perdere».
«John è solo uno stupido. Non dovevi abbassarti al suo livello e passare così dalla parte del torto».
«Lo so, ma forse io sono stupido quanto lui». Appoggiò la testa contro lo schienale e chiuse gli occhi.
«Tu non sei stupido», sospirai voltandomi verso di lui.
«Beh ho mandato tutto a puttane». Aprì gli occhi e mi guardò con uno sguardo triste e abbattuto. Era ovvio che si riferisse a noi e non poteva essere più lontano dalla verità. Per quanto fossi infuriata, quello che provavo per Trevor era comunque rimasto immutato.
«Non hai mandato tutto a puttane», sospirai rivolgendogli un piccolo sorriso. «Mi hai solo fatto molto arrabbiare».
La sua espressione mutò di colpo, aprendosi in un meraviglioso sorriso. «Cosa intendi?».
«Sai non sono un’esperta di relazioni, dato che tu sei il mio primo ragazzo, ma secondo il mio metro di giudizio mi sa che abbiamo appena avuto la nostra prima lite».
«E mia dolce signora qual è il verdetto della corte nei miei confronti?». Mi prese una ciocca di capelli iniziando a rigirarsela tra le dita.
Finsi di pensarci su. «Direi che sei colpevole, ma che potrai essere perdonato se d’ora in poi prometti di comportarti bene. Diciamo che per il momento sei in libertà vigilata».
«Se sarai tu a vigilarmi a me sta più che bene». Sorrisi e lasciai che lui premesse le sue labbra sulle mie per darmi uno dei suoi baci mozzafiato.
«Che ne dici adesso riguardo al mio perdono?», sussurrò sulla mia bocca.  
«Beh credo che potremo lavorarci su». Lo baciai di nuovo costatando che nonostante fossero passati solo tre giorni mi era mancato terribilmente. Era una situazione nuova e pericolosa ma non potevo impedire ai miei sentimenti di crescere in maniera esponenziale in ogni secondo che passavo con lui.
 
La settimana dopo Trevor tornò a scuola: i pettegolezzi erano fioriti nel giro di quei sette giorni, tuttavia quando lui fece di nuovo la sua comparsa per i corridoi, ogni voce ammutolì di colpo. Nessuno aveva più il coraggio di dire nulla per paura di scatenare l’ira di quello che a tutti gli effetti era diventato il teppista della scuola, se non dell’intera cittadina. Ciò che prima veniva solitamente sussurrato, in sua presenza perdeva di significato e veniva rimandato ad un successivo e più sicuro ascolto.
John, che aveva fatto il martire per tutta la settimana, al suo ritorno fu almeno abbastanza furbo da girargli alla larga. D’altronde era ciò che faceva tutta la scuola; gli unici immuni a quella generale fobia eravamo io, Lea, Paul ed Evan. Ero grata che anche Paul avesse accettato il comportamento di Trevor senza farsi troppi problemi; non so se l’aveva fatto per Lea o semplicemente perché non gli importava, comunque la mia stima nei suoi confronti aumentava ogni giorno di più.
Quindi immaginate il mio stupore quando quel venerdì, dopo giorni di quasi assoluto silenzio, sentii un colpo di tosse familiare alle mie spalle. Io e Trevor stavamo parlando con Evan dell’imminente finesettimana – il primo dopo la sospensione in cui Trevor sarebbe potuto uscire almeno per un paio d’ore – di fronte agli armadietti, dando le spalle al gruppo di cheerleader. Proprio per questo non ci aspettavamo minimamente che miss capo cheerleader in persona venisse ad interrompere la nostra conversazione.
«Ehm ehm». Mi voltai e spalancai la bocca in un evidente espressione di stupore, non riuscendo a proferire parola.
«Non essere così sorpresa Linny. Sono tua sorella ho tutto il diritto di parlarti». Si passò una mano tra i capelli rendendoli più voluminosi di prima. Se l’avessi fatto io avrei finito solo per arruffare i miei ricci ancora di più.
«Cosa vuoi?», le domandai con diffidenza.
«Volevo solo dirti che stasera Sean verrà a cena», rispose in tono distaccato. «Pensavo solo che sarebbe il caso che anche tu presentassi il tuo ragazzo ai nostri genitori». Il modo in cui pronunciò “il tuo ragazzo” e in cui guardò Trevor non annunciava niente di buono.
«Cosa?», balbettai. «Perché dovrei?». Non era la domanda giusta e me ne resi conto subito.
«Perché no?», intervenne Trevor. Ecco: come spiegargli che non era per lui quanto per i miei genitori che cercavo in tutti i modi di evitare quel confronto?
«Ho notato», continuò Queen, «che continui a non invitarlo a casa e ad andare tu da lui». Davvero? E quando aveva avuto il tempo di farlo visto che mi evitava come se avessi avuto la peste? «Credo che alla mamma farebbe piacere conoscerlo».
Oh certo alla mamma avrebbe fatto piacere conoscere il mio ragazzo se fosse stato un tipo preciso e perfetto come Sean. Trevor era proprio all’estremità opposta.
«Non osare farmi una cosa del genere», sibilai tra i denti. Sapevo che lo stava facendo apposta e che le sue intenzioni erano tutt’altro che meritevoli. Conosceva i nostri genitori e sapeva che avrebbero disapprovato; invitarlo a cena era come mandare un agnello al macello.
«Io penso invece che sia una buona idea», intervenne di nuovo Trevor lasciandomi ancora di più a bocca aperta. «Tu conosci già mio padre, credo che anch’io dovrei conoscere i tuoi».
«Fantastico!». Queen batté le mani in un gesto di esultanza. «Allora dopo chiamo la mamma e le dico che stasera avremo un ospite in più. Ceniamo alle otto, a più tardi allora». Si girò saltellando trionfante per tornare con il suo passo danzante dalle sue compari alle prese con pon-pon e discorsi frivoli.
«Come diavolo ti è venuto in mente?». Mi girai verso Trevor con aria sconvolta.
«Ahi ahi sei nei guai», intervenne Evan che era rimasto in silenzio fino a quel momento. «Sarà meglio che vi lasci soli». Così dicendo prestò fede alle sue parole per evitare di rimanere coinvolto.
«Beh non vedo cosa ci sia di male. Dovrai prima o poi presentarmi ai tuoi».
«Tu non capisci», sbottai.
«Capisco invece. Katy non vuoi che li incontri perché ti vergogni di me?». Era assolutamente il contrario: mi vergognavo della superficialità della mia famiglia non di lui.
«No», sospirai arrendendomi. «Non pensarlo neanche per scherzo. È solo che loro…».
«Pensi che non gli piacerò».
«Beh non è solo questo. È più complicato di così». Se ci fosse stato Jamie a farmi da scudo sarebbe stato diverso; invece c’era solo Queen e sicuramente il suo non era stato un invito cortese. Era una trappola e dovevo fidarmi di lei meno che mai.
«So che è complicato, ma dobbiamo farlo. Sono il tuo ragazzo, non ti pare?». Stava giocando sporco e lo sapeva.
Tirai fuori l’ultima carta che mi rimaneva. «E tuo padre? Non sei ancora in punizione?».
«Punto primo», replicò con una smorfia, «sono in una punizione autoimposta. Non è per mio padre che rispetto le sue stupide regole. E secondo non avrà niente da ridire se gli dirò dove ho intenzione di andare. Sarò impeccabile Kathleen, vedrai». Mi fece i suoi occhi dolci ed io mi sciolsi.
«Lo so, ma Queen…». Gli posai una mano sulla guancia e sfiorai con le dita il suo sopracciglio.
«Queen non potrà fare nulla. Se mi ci metto posso essere davvero perfetto, lo sai?».
«Lo so». Lo baciai e sperai davvero che avesse ragione.
 
Quando arrivò l’ora di cena non stavo più in me dall’agitazione. Mi ero messa uno dei vestiti che mia madre mi aveva comprato solo per cercare di compiacerla. Le avevo perfino accennato che quella sera avrei dovuto presentarle una persona; probabilmente glielo aveva già detto Queen, ma per evitare un suo rimprovero mi sarei comportata alla perfezione.
Sean era arrivato dopo gli allenamenti assieme a Queen, perciò quando suonarono alla porta andai io ad aprire. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte per essere sicura della persona che effettivamente mi stava davanti. Beh Trevor era a dir poco sorprendente: era così diverso dal solito che se non fosse stato per i suoi meravigliosi occhi celesti e i suoi lineamenti marcati avrei stentato a riconoscerlo.
«Ciao Kathleen. Mi fai entrare?». Mi sorrise notando l’espressione sorpresa sulla mia faccia. Avevo praticamente la mascella che toccava terra. Come scoprii quando si tolse il cappotto, indossava una camicia blu elegante e dei jeans altrettanto eleganti che fasciavano il suo fisico alla perfezione. La camicia aveva le maniche lunghe e copriva tutti i tatuaggi che aveva sulle braccia e grazie al colletto anche quelli sul collo erano al sicuro: si riuscivano a intravedere solo se si prestava la massima attenzione. Non avendolo mai visto, nessuno avrebbe sospettato della quantità di inchiostro presente sulla sua pelle.
Ma ciò che più mi sorprese fu il suo viso: aveva tolto tutti e tre i piercing e il suo volto appariva come quello di ogni altro normale ragazzo. Per non parlare del fatto che i cappelli neri leggermente mossi, un effetto naturale che gli invidiavo da morire, e quegli occhi celesti lo rendevano terribilmente attraente.
«Puoi anche smettere di sbavarmi dietro Katy», scherzò. «O finirai per sporcarti il vestito».
«Sei…». Tentai di parlare, per riprendermi da quello stato di stordimento, ma con scarsi risultati.
«Ti piaccio?». Beh ovvio! Non era chiaro dalla mia espressione inebetita?
«Sì», mormorai sorridendo a mia volta.
«Più così o più nell’altro modo?». Beh mi piaceva sempre solo che…
«Sei diverso», ammisi.
«Lo so, ma l’ho fatto solo per te». Il mio cuore partì come un tamburo in mezzo ad una fanfara.
Non potei aggiungere altro perché dei passi risuonarono lungo il corridoio proprio nella nostra direzione. Quel rumore di tacchi era per me inconfondibile.
«Linny cosa stai combinando? Oh». Mia madre si fermò di colpo vedendo Trevor e assunse un’espressione sorpresa. Se Queen le aveva detto qualcosa a riguardo di sicuro non si aspettava di ritrovarsi un ragazzo del genere davanti. La descrizione di Queen doveva essere molto lontana dalla verità, almeno in quel momento.
«Mamma ti presento Trevor», intervenni. «Trevor questa è mia madre».
«Piacere di conoscerla signora». Le strinse la mano in un gesto da perfetto gentiluomo.
«Chiamami pure Caroline», gli rispose cinguettando. Il suo tono sorprese anche me e ciò mi diede il coraggio per ammettere quello che più temevo.
«Trevor è il mio ragazzo mamma».
«Oh Linny cara, tua sorella mi aveva accennato qualcosa ma non avevo capito… sono molto lieta di conoscerti Trevor». Da quando ero “Linny cara” e con quel tono soprattutto? Ed era approvazione quella che riuscivo a scorgere nel suo sguardo? Trevor le piaceva? Beh considerando il suo metro di giudizio quella versione di Trevor doveva piacerle per forza: bello, alto, vestito elegantemente, senza un capello fuoriposto. Si sarebbe ricreduta non appena visti piercing e tatuaggi.
«Ma prego accomodati, gli altri sono già tutti di là». Ci fece strada verso il salotto, lasciando che io e lui la seguissimo mano nella mano.
«Tua madre non sembra così male», mi sussurrò in un orecchio.
«Solo perché tu non la conosci», replicai. «Prova a presentarti con il tuo vero aspetto la prossima volta, dopo ne riparliamo».
Quando arrivammo in salotto notai subito l’espressione di sbigottimento sul volto di Queen e di Sean e non potei evitare che una certa soddisfazione si disegnasse invece sul mio.
«Trevor mio Dio!». Queen si avvicinò con il suo passo danzante. «Sembri così… diverso».
«Già amico», intervenne Sean. «Quasi non ti riconoscevo». Solo io notai l’impercettibile mutamento nell’espressione di Trevor: sarà durato un secondo, ma in quell’istante aveva riassunto la sua espressione omicida. Di sicuro Sean non era suo amico, dubitavo che gli avesse mai rivolto più di una parola, e di certo quella falsità e quell’ipocrisia gli davano fastidio almeno quanto a me.
«Beh so essere molto diverso quando voglio».
«Lascia che ti presenti mio padre», intervenni tirandolo verso la poltrona dove quest’ultimo stava discutendo di chissà quali affari con mio nonno. «Papà, nonno, vi presento Trevor».
Mio padre lo scrutò da capo a piedi ma la sua espressione rimase impassibile, difficile capire cosa gli passasse per la testa. Del giudizio di mio nonno invece non mi importava granché.
«Molto piacere signore sono Trevor Simons». Trevor alzò la mano in un gesto di salutò ma lui non ricambiò e lasciò che la mano di Trevor restasse vuota e ferma a mezz’aria.
«Simons hai detto? Sei il figlio di Fred della ferramenta?».
«Sì sono io». Trevor fece ricadere la mano, mentre io mi sentivo mortificata per quell’iniziale gesto di scortesia. Se con mia madre era andata meglio del previsto, con mio padre stava andando peggio di quanto avessi immaginato.
«Quello stesso figlio di cui nessuno aveva mai saputo l’esistenza?». Peggio?! Stava diventando una catastrofe assicurata.
«Lui lo sapeva, glielo assicuro signore», replicò Trevor serrando la mascella. Suo padre non era un argomento felice nemmeno per lui.
«Non siamo certo qua per giudicare il comportamento dei genitori altrui», intervenni trovando più coraggio di quanto credessi. «In fondo mi pare che si dica che le colpe dei genitori non dovrebbero mai ricadere sui figli».
«In realtà nella Bibbia si afferma proprio il contrario», intervenne mio nonno, andando a complicare una situazione già abbastanza spinosa.
«Oh Generale!», si intromise miracolosamente mia madre. «Non vorrai parlare di questi argomenti così pesanti proprio a questo ora. Andiamo a tavola, la cena è pronta». Con mia grande sorpresa pese Trevor sotto braccio e lo guidò al tavolo. Io li seguii sospirando, sapendo però che l’inquisizione di mio padre non era finita. Se l’aveva accolto così significava che sapeva qualcosa: se fosse stata Queen o le semplici voci di paese ad informarlo non potevo saperlo, tuttavia era prevenuto nei suoi confronti, nonostante si fosse presentato in modo impeccabile. Per nostra sfortuna mio padre non si soffermava sull’aspetto esteriore quanto mia madre. Se credeva che fosse un teppista o una cattiva influenza l’avrebbe trattato come tale anche se si fosse presentato vestito in smoking.
Prima che potessi mettermi a sedere, in modo da poter vigilare sulla situazione, mia madre mi richiamò in cucina. «Linny cara, verresti a darmi una mano?». Di sicuro non aveva bisogno di nessun aiuto, probabilmente era già tutto pronto per essere servito e non per merito suo, e quella era solo una scusa per parlarmi.
Non potei fare altro che acconsentire. «Certo mamma».
La seguii in cucina e una volta sola le sue parole mi sorpresero come una doccia fredda. «Mio Dio Linny! È così carino! Non capisco perché hai dovuto aspettare che Queen insistesse prima di presentarcelo». Il suo tono traboccava di approvazione ad ogni parola.
«Io…», balbettai.
«Stando a tua sorella, beh credevo che fosse… invece sembra proprio un bel ragazzo».
«Queen non lo conosce bene». O meglio non lo conosce affatto.
«Anche da quello che avevo sentito in città, sembrava che il figlio di Simons fosse una specie di teppista. È proprio vero che certe volte i pettegolezzi distorcono la verità in maniera incredibile».
«Eh già». Ero a corto di parole, ma era la prima volta che mia madre sembrava schierata dalla mia parte; era un evento da segnare sul calendario. Tuttavia sapevo che la sua collaborazione sarebbe stata vana se mio padre si fosse dimostrato contrario.
«D’altronde povero ragazzo che colpa ne ha lui se è cresciuto senza conoscere suo padre? D’altra parte non conosciamo tutta la storia». Stava davvero difendendo Trevor? Tra poco ci sarebbe stata l’Apocalisse.
«Già non conosciamo tutta la storia». Anche se io ne conoscevo una buona parte.
«Bene», concluse. «Sono molto contenta per te Linny». Sbattei le palpebre osservandola tornare di là, ancora non del tutto certa di aver sentito bene.
Tuttavia se da una parte mia madre sembrava per una volta schierata a mio favore, dall’altra mio padre, probabilmente sotto la guida di Queen, dimostrò tutta la sua scortesia.
«Allora Trevor», attaccò durante la cena, «sai già che college frequenterai dopo il diploma?».
Vidi Trevor fare una piccola smorfia sentendo quella domanda, decidendo poi con esattezza cosa rispondere. Alla fine optò per la verità, purtroppo sapevo che nella mia famiglia non era proprio la scelta migliore. «Non so se andrò al college signore». Un silenzio di tomba calò sull’intera tavolata. Quell’affermazione era una vera e proprio eresia a casa Jefferson.
«Cioè voglio dire», tentò di riprendersi avvertendo lo sbigottimento generale, «non sono un candidato ideale. Visto che per problemi di salute non ho potuto frequentare la scuola per due anni, adesso sono come dire… in ritardo sulla tabella di marcia. Ciò non significa che non abbia delle ambizioni o dei sogni da realizzare».
«E quali sarebbero le tue ambizioni Trevor visto che scarti solo per questione di tempistica la possibilità di andare all’università?». “Ti prego non dire delle auto, ti prego non dire delle auto”.
Purtroppo non ero dotata di poteri telepatici. «Mi piacciono la meccanica e le automobili. Vorrei che potesse diventare il mio lavoro un giorno».
«Il tuo lavoro?». Il tono di disprezzo nella voce di mio padre era più che evidente.
«Sono piuttosto bravo. Ultimamente sto riparando la mia mustang e ho già lavorato prima in un'officina, quando ero a Boston». Un campanello di allarme risuonò ininterrotto nella mia testa: se c’era qualcosa che mio padre non avrebbe accettato era proprio questo. Forse poteva chiudere un occhio sulle strane vicissitudini della sua famiglia, ma non sul fatto che Trevor sognasse di fare un lavoro umile e modesto come quello di un meccanico. Lo stava considerando privo di ambizioni, anche se io sapevo che non lo era.
«Sean», quasi urlai prima che qualcun altro potesse aggiungere altro. «Ho saputo che hai ottenuto la borsa di studio per il football. In quale università, non riesco a ricordare?». Sapevo che la mia affermazione avrebbe sminuito ancora di più la posizione di Trevor, ma avrei fatto di tutto pur di spostare l’attenzione che si era creata su di lui.
«A Providence, per il momento. Non è ancora una notizia ufficiale, ma ci conto molto». Il modo in cui mio padre si prodigò immediatamente a complimentarsi con lui mi fece rivoltare lo stomaco. In un solo momento mi era passato tutto l’appetito. Purtroppo era proprio per questo che non avevo voluto presentare Trevor ai miei; mia madre, per quanto potesse essere benevola, non aveva voce in capitolo quando David Jefferson aveva espresso il suo parere negativo.
Per tutta la serata non fece altro che sminuire Trevor in ogni modo possibile e per quanto io potessi intervenire non avevo molti modi per farlo in suo favore. Pensavo di aver toccato il fondo con la storia del college, invece mi sbagliavo.
«Trevor», domandò Sean candidamente, forse istruito dalla mia stessa sorella. «Come sta andando il rientro?».
Mio padre si fece subito interessato. «Il rientro?». Certo: perché non infilare il dito nella piaga?
«Sì». Trevor abbassò lo sguardo preso in contropiede. Era la prima volta che lo vedevo in imbarazzo, ma sapeva bene quanto me che dopo quell’affermazione le cose sarebbero andate ancora peggio. «Sono stato sospeso per una settimana». La sua voce fu solo un sussurro.
«E come mai? Si sarà sicuramente trattato di un malinteso». Il tono ironico di mio padre non sfuggì a nessuno, tantomeno a Trevor.
«No. È stata colpa mia». Era un’ammissione coraggiosa, ma inutile.
«Trevor ha preso a pugni John», intervenne Queen innocentemente.
«Oh mio Dio!». Mia madre si portò le mani alle bocca. Così potevo dire addio alla sua benevolenza: era durata più di quanto mi aspettassi.
«È vero?». Mio padre aveva il suo tono impassibile da giudice.
«Sì, ma ho sbagliato». Trevor aveva lo sguardo fisso sulla sua mano stretta a pugno; sapevo che la sua espressione da prima abbattuta stava diventando sempre più infuriata; la sua aria truce e minacciosa riusciva ad uscire fuori anche con quel suo nuovo aspetto. Era arrabbiato per quell’accoglienza fredda e inospitale, soprattutto quando lui aveva fatto di tutto per farsi ben volere. Si era comportato alla perfezione eppure non era valso a nulla.
«Lo ha fatto per difendermi», parlai senza riflettere e forse complicai la situazione.
«Ah sì?», intervenne Sean, difendendo il suo amico, «perché non mi pareva che John ti stesse infastidendo quando lui lo ha preso a pugni».
Alzai lo sguardo e lo puntai su di lui con aria di sfida. Sapevo che Trevor moriva dalla voglia di prenderlo a schiaffi e per una volta avevo anch’io quella tentazione. «Per ciò che è successo al ballo», precisai.
«Cosa è successo al ballo?», domandò mia madre, sorpresa e interessata.
«Niente», rispose Queen in fretta, sapendo che era meglio chiudere subito la questione. «Immagino che adesso Trevor abbia capito la lezione, non è vero?». Comodo no, schierarsi dalla mia parte solo per non rivelare il suo meschino piano?
Dopo quella catena di insuccessi, sempre più clamorosi ed eclatanti, riuscii a chiudere la serata al più presto e a mandare via Trevor prima che potesse esplodere di fronte a tutti. Non che la sua posizione potesse essere ulteriormente compromessa. «Mi dispiace per stasera, mi dispiace davvero tanto».
«Non è colpa tua Katy». Già non lo era: ero stata contraria a quella cena fin dall’inizio.
«Adesso vai. Ti chiamo dopo, okay?». Mi alzai sulle punte per baciarlo sulle labbra, in un vano tentativo di scacciare via la sua rabbia e la sua frustrazione. Non che io fossi meno in collera; quando richiusi la porta alle sue spalle e tornai di là, ero carica come non mai. Non avevo mai contraddetto mio padre, ma il modo in cui si era comportato era stato imperdonabile.
Andai dritta verso di lui puntandogli un dito contro. «Come hai osato trattarlo in quella maniera?».
«Linny». Racchiuse nel mio nome tutta la sua disapprovazione per il tono che avevo appena usato. In fondo Sean era ancora lì e non voleva fare brutte figure. Come se la cena non fosse stata un vero esempio di scortesia! Peccato che a me non importava, visto che Sean stesso aveva fatto la sua parte in quell’assurda recita.
«Non ti aveva fatto niente», continuai alzando la voce. «Era venuto qua con le migliori intenzioni e tu invece l’hai trattato come un criminale. Hai messo in dubbio la sua famiglia, il suo futuro, i suoi sogni, tutto!».
«Oh i suoi sogni! Linny non dire sciocchezze». Scoppiò a ridere, di una risata amara. «Quel ragazzo non ha ambizioni, non posso credere che tu pensi il contrario».
«Solo perché non sogna di andare all’università non vuol dire che anche lui non sia ambizioso. Non tutti sogniamo le stesse cose, papà. Ma ciò non cambia il fatto che sei stato incivile stasera».
«Linny!». Alzò la voce per impressionarmi, ma ero troppo furiosa. Sentivo lacrime di rabbia pungermi per uscire. «Mi pare evidente che quel ragazzo non ha una buona influenza su di te, visto che stai facendo una scenata del genere di fronte a degli ospiti».
«Da quando abbiamo rispetto degli ospiti?», ribattei. «Mi pare che stasera l’unica ed essersi comportata in maniera civile con Trevor sia stata la mamma».
«Non tirare in ballo tua madre», mi apostrofò con tono minaccioso. «Tua sorella me l’aveva detto che quel ragazzo ti stava cambiando, adesso mi pare evidente che avesse ragione. Anzi la situazione è più grave di quanto pensassi».
«Certo come no! Queen ha sempre ragione». Mia sorella provò ad intervenire ma le puntai un dito contro prima che potesse parlare. «Tu stai zitta, non osare dire una parola».
«Kathleen, non parlare così a tua sorella». Aveva usato il mio nome completo per intimorirmi, ma non mi sarei fatta mettere i piedi in testa, non quella sera. Ne avevo abbastanza di tutta quella pantomima della mia famiglia.
«Non è così che si comporta una sorella», ribattei.
«Kathleen», ripeté prima che potessi attaccare di nuovo. «Smettila immediatamente! Ecco cosa farai d’ora in poi: ti concentrerai sullo studio, visto che devi diplomarti e prepararti per andare al college. Non penso sia il caso che tu perda più tempo con quel ragazzo». Cosa stava cercando di dirmi? Mi stava vietando di vedere Trevor?
«Non osare tirare in ballo lo studio, papà. Lo sai anche tu che la mia media è perfetta».
«Per il momento e, proprio perché voglio che rimanga tale, ti proibisco di vedere quel ragazzo».
«Tu non puoi farlo», urlai. «Ho diciotto anni».
«Beh non sembra visto che ti stai comportando come una bambina».
«Ah certo io sono una bambina», sbottai. «Queen è perfetta, per questo lei può stare con Sean».
«Sean è un bravo ragazzo». Mio padre rivolse un cenno di assenso a quest’ultimo che era rimasto in un angolo ad osservare tutta la scena.
«Certo! Qual è il prossimo passo? Comprerai loro i preservativi? Basta che continuino a fare sesso protetto e potranno farlo anche qui a casa mentre ci siamo noi?». Se mio padre non sapeva con certezza che la verginità di mia sorella se ne era andata da molto tempo, ne aveva appena avuto la conferma.
«Linny!». Stavolta Queen si rivoltò contro di me come una iena. «Sei… sei…».
«Cosa sono Queen? Cosa? Beh ti dico quello che sei tu: una stronza». Non le avevo mai rivolto una parola così dura, ma aveva organizzato tutto lei ed io non lo potevo dimenticare.
«Sei irriconoscibile», proruppe fingendosi sull’orlo delle lacrime. «Non credevo che tu fossi quel tipo di persona. Solo perché un ragazzo finalmente ha dimostrato interesse per te, tu sei cambiata radicalmente. Non credevo che fossi così disperata di attenzioni da tradire la tua stessa famiglia».
«Sei impossibile», sospirai. «Siete tutti impossibili. Non sono io che sono cambiata, siete voi che non mi avete mai conosciuta». Così dicendo mi diressi a passo svelto verso la porta senza guardarmi indietro.
«Linny», intervenne mia madre. «Linny dove stai andando?».
«Via, lontano da tutti voi». Così dicendo uscii di casa correndo, sbattendomi la porta alle spalle con il solo intento di mettere più distanza possibile tra me e quella che doveva essere la mia famiglia.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10
 
Camminai per cinque minuti, con l’adrenalina ancora in circolo, prima di accorgermi di essere senza cappotto. La rabbia doveva sicuramente avermi fatto scaldare così tanto da non farmi percepire il clima polare di gennaio. Indossavo solo un vestito, neanche piuttosto pesante, delle calze fin troppo fini e degli stivaletti; non era proprio l’abbigliamento adatto per temperature che stavano scendendo in picchiata sotto lo zero.
Tuttavia non sarei tornata indietro, non sarei tornata a casa strisciando con la coda tra le gambe; piuttosto avrei preferito morire congelata. Ero troppo arrabbiata, troppo delusa, troppo amareggiata per dare loro la soddisfazione di vedermi umiliata.
Ciò nonostante, ragionando lucidamente, notai che oltre al fatto di essere senza cappotto, andavano ad aggiungersi tutta un’altra serie di effetti collaterali. Non avevo né chiavi, né cellulare, non potevo prendere l’Honda a meno che non commettessi un furto con scasso; ero a piedi, sull’orlo di un congelamento, senza poter chiamare nessuno e senza un posto dove andare. In realtà Evan e Lea abitavano nella mia stessa zona, non sarebbe stato un problema rifugiarmi a casa di uno di loro. Ma Lea doveva essere con Paul e anche se Evan poteva essere in casa, non erano loro le persone che volevo vedere. Non si trattava solo di dover spiegare tutto il disastro appena avvenuto, sapevano come era la mia famiglia, avrebbero capito; ma era una questione privata, una macchia che mi imbarazzava terribilmente
C’era solo una persona di cui avevo disperatamente bisogno e purtroppo era anche l’unica che non avrebbe potuto aiutarmi. Avevo bisogno di Jamie: lui avrebbe capito subito, sapeva cosa si provava a vivere in una famiglia come la nostra e a non essere nati preformati con lo stampo Jefferson. Non avrei dovuto spiegargli niente, avrebbe capito e basta. Se lui fosse stato presente non avrebbe permesso a mio padre di comportarsi in quel mondo, non gli avrebbe fatto umiliare Trevor, sarebbe stato il mediatore della serata; era l’unico Jefferson che avrebbe giudicato il mio ragazzo solo dopo averlo conosciuto realmente. Lui sarebbe stato dalla mia parte, come ogni fratello che si rispetti; Queen invece non aveva neanche provato ad essere comprensiva, non si era preoccupata affatto di come mi sentissi. Quale sorella non si interessava della prima storia d’amore dell’altra? Quando si era messa con Sean io ero stata così felice ed emozionata per lei, avevo passato ore ad ascoltarla nonostante avessi di meglio da fare. Il suo primo bacio, la sua prima volta: io le avevo chiesto come si era sentita. Lei non aveva fatto altrettanto e quello mi faceva più male del suo tradimento la sera del ballo.
Tuttavia, nonostante James fosse l’unica persona con cui volessi stare, andare all’ospedale mi era fisicamente impossibile. Ci impiegavo già abbastanza con la macchina, fare il tragitto a piedi in quelle condizione mi avrebbe davvero fatto morire congelata. Per non parlare della questione dell’orario: non sarei neanche riuscita ad entrare nel reparto.
Mi fermai sul ciglio della strada sfregando le mani una sull’altra, mettendo fine a quel mio tragitto senza meta. C’era solo un altro posto dove potevo andare e dove ero certa di trovare una persona arrabbiata almeno quanto me. La scuola non era lontanissima a piedi e Trevor abitava là vicino; gli avevo promesso di chiamarlo e probabilmente si sarebbe preoccupato se non l’avessi fatto. Dovevo arrivare da lui prima che tentasse di telefonarmi; se avessero risposto Queen o mio padre cosa sarebbe successo? Gli avrebbero detto della fuga? L’avrebbero accusato di nuovo?
Con quella determinazione mi incamminai di nuovo lungo la strada, sempre più buia, stringendomi tra le braccia per evitare che il freddo mi penetrasse fin dentro le ossa. Ad ogni passo sentivo i piedi e le mani congelare, perdendo lentamente di sensibilità; il mio viso era un blocco di ghiaccio e le nuvolette che emettevo respirando erano l’unica forma di calore che mi circondava. Ogni stilettata di freddo mi ricordava ciò da cui ero appena scappata e sebbene fuori fossi ormai ibernata, dentro stavo ancora ribollendo di rabbia. Forse fu proprio la rabbia e la delusione a darmi la forza di mettere un piede dietro l’altro fino alla casa di Trevor. Il buio e il freddo non avrebbero avuto la meglio, non dopo che ero sopravvissuta a quella serata infernale.
Quando finalmente arrivai davanti a casa sua, provai un senso di sollievo seguito subito da una cocente delusione. Da fuori tutte le luci sembravano spente e pareva che l’intera casa già dormisse; di certo suonare il campanello non sarebbe stata una grande idea: avrei svegliato tutti compreso la bambina e il padre di Trevor; non ero certa di volerlo coinvolgere. Eppure non avevo molte altre alternative visto che ero arrivata fin lì e non avrei avuto la forza di tornare indietro.
Ero stanca e congelata, volevo solo sedermi in un angolo e non dover più pensare a nulla; però non potevo certo farlo lì in mezzo alla strada, al buio, di notte e a pochi metri di distanza da una delle poche persone che mi avrebbe consolata tenendomi al sicuro tra le sue braccia.
Facendo uno sforzo immane, mi incamminai verso il giardino sul retro, dove la mustang occupava ancora la maggior parte dello spazio. Con mio grande sollievo scoprii che non era chiusa, così quando provai ad aprirla, lo sportello del guidatore si spalancò mostrandomi il suo invitante sedile. Una volta dentro, sentendomi più tranquilla nonostante il freddo sempre più pungente, osservai le finestre del piano di sopra; non ricordavo quale fosse quella di Trevor, ma in una c’era una luce accesa. Per vedere meglio mi distesi sul volante, con il solo risultato di premere forte il clacson.
“Bella prova, tanto valeva suonare il campanello”. Che ironia, battuta dalla mia stessa goffaggine!
Notai un movimento nella stanza e subito dopo la luce si spense; mi accasciai sul volante in attesa, pronta a scoprire se quell’involontario rumore avesse rivelato la mia presenza.
Passò meno di un minuto prima che la porta sul retro si aprisse.
«Chi c’è? C’è qualcuno?». Feci un sospiro di sollievo riconoscendo la voce di Trevor. Provai ad riaprire lo sportello ma avevo le dita intorpidite e in quello stato non era un’impresa facile.
Per fortuna lui si avvicinò alla sua auto quel tanto da scorgere qualcuno all’interno grazie alla flebile luce che arrivava dalla porta di casa. Lo vidi partire in quarta verso di me – probabilmente avendomi scambiato per un intruso qualunque – per poi fermarsi di colpo riconoscendomi.
«Katy, mio Dio! Mi hai fatto prendere un colpo». Aprì la portiera per aiutarmi ad uscire e non appena la sua mano prese la mia, la differenza di temperatura lo fece sussultare.
«Merda! Ma sei congelata». Mi aiutò a rimettermi in piedi, studiandomi con attenzione nonostante l’oscurità. La sola luce della porta sul retro non permetteva di scorgere un bel niente.
«Mi dispiace di essere… piombata qua a… quest’ora». Le parole mi uscirono balbettate perché senza accorgermene avevo iniziato a tremare. Mi resi conto di non riuscire a fermare il mio corpo e la cosa era alquanto ridicola, visto che avevo resistito per tutto il tragitto. Avevo fatto tutta quella strada e stavo cedendo proprio a due metri dalla meta.
«Mio Dio! Vieni dentro». Non aspettò che rispondessi, semplicemente mi sollevò e mi portò in casa. Mi accucciai contro il suo petto, meravigliandomi di quanto potesse sembrare caldo il suo abbraccio. Il tepore del suo corpo era davvero confortevole dopo tutto quel freddo.
«Trevor cosa succede?». Con il viso schiacciato contro il suo petto non riuscii a vedere di chi si trattasse, ma essendo una voce femminile intuii che dovesse essere Susan.
«Mi servono delle coperte», ordinò lui invece di rispondere. Mi depositò sul divano prendendo subito le mie mani tra le sue e cominciando a sfregarle.
«Oh mio Dio Kathleen! Stai bene?». Non so se rivolse direttamente a me la domanda oppure se lo chiedesse a lui. Di certo dovevo avere un aspetto orribile, le mie labbra dovevano essere blu, e già smetterla di tremare sarebbe stato un passo avanti.
«Freddo», sussurrai con un filo di voce.
«Lo so piccola. Adesso ci penso io a scaldarti».Trevor mi prese di nuovo in braccio, facendomi sedere sopra di lui sul divano. Mi strinse in un abbraccio possente, continuano a strusciare le sue mani su tutto il mio corpo. Infilai la testa nell’incavo del suo collo e appoggiai il naso sulla sua pelle; lo sentii sussultare a quel contatto, ma ben presto sembrò abituarsi. Mi baciò sulla testa continuando a stringermi forte per infondermi tutto il suo calore.
«Ecco dalle queste». Susan mi appoggiò sopra un paio di coperte che ci avvolsero entrambi e si sedette vicino a me, passandomi una mano sulle spalle. Con le coperte e la vicinanza del corpo caldo di Trevor, la mia temperatura tornò piano piano a regolarizzarsi; avevo ancora i piedi ghiacciati, ma riuscii a smettere di tremare e a ragionare più lucidamente.
Trevor appoggiò la guancia sulla mia testa, sospirando di sollievo sentendo cessare i miei tremiti. «Cosa è successo Katy? Pensavo che questa sera non potesse andare peggio di così…».
«Ho litigato con mio padre e con Queen dopo che sei andato via», confessai, continuando a tenere il viso premuto contro il suo collo. «Sono uscita di casa furiosa con loro; non volevo tornare indietro, per questo sono venuta qua…».
«Aspetta un attimo». Trevor sembrò riflettere su tutte le implicazioni del mio discorso. «Sei uscita di casa in queste condizioni?».
«Beh ero furiosa, quindi ho preso la porta e me ne sono andata. Così com’ero…». Era stato stupido, ma non potevo semplicemente ritirarmi in camera mia, ci voleva un gesto più deciso.
«Non potevi chiamarmi?», borbottò cercando di vedere il mio viso nonostante la posizione.
«Non avevo niente con me, per farlo sarei dovuta tornare a prendere il cellulare».
«Ti prego dimmi che non sei venuta qua a piedi, vestita così?».
«Fuori la temperatura sta andando sotto zero», intervenne Susan. «È ovvio che fosse congelata».
«Non sapevo cos’altro fare», ammisi sapendo che era stato sciocco.
Trevor mi staccò da lui, rimettendomi sul divano, e mi prese il viso tra le mani, per potermi guardare negli occhi. «Evan o Lea? Non stanno vicino a casa tua, giusto cinque minuti di strada?».
«Volevo vedere te», mormorai, sapendo che non era esattamente la verità. Volevo vedere James ma lui era stata l’unica altra alternativa accettabile. Trevor sospirò ma la sua espressione si addolcì a quell’affermazione. Notai che i piercing erano tornati al loro posto: era di nuovo il mio Trevor, il ragazzo per bene che piaceva a mia mamma era scomparso.
«La serata è andata proprio così male?», intervenne Susan. Mi voltai verso di lei, sorprendendomi che Trevor le avesse accennato anche solo qualcosa riguardo alla cena.
«Male è un eufemismo», rispose l’altro. «Io ce l’ho messa tutta, ma è stata un disastro».
«Non è stata colpa tua», dissi di slancio. Lui era stato perfetto, la mia famiglia era stata malvagia.
«Nemmeno tua Katy. Me l’avevi detto che non era una buona idea».
«È per questo che ti sei chiuso in cantina prima?», gli domandò Susan. Per un attimo pensai di aver capito male, ma poi notai Trevor fare spallucce, in un cenno di assenso.
«Devi sapere Kathleen che ho detto a Trevor che la prossima volta che avrebbe avuto la tentazione di prendere a pugni qualcuno, poteva scendere in cantina e cominciare a tirare pugni là. A quanto pare mi ha preso alla lettera».
«Pugni là?», ripetei cercando di capire il senso delle sue parole.
«Susan mi ha comprato un sacco da boxe», mi spiegò Trevor. «L’ha nascosto in cantina in modo che Fred non lo scopra».
«Suo padre non vede di buon occhio che si alleni a combattere; io penso invece che possa servigli a sfogare la rabbia». Mi fece un occhiolino e notai Trevor accennare un sorriso. Era un gesto molto carino e materno: lui non mi aveva mai detto molto di Susan, ma da quella scena immaginai che si trovasse bene con lei almeno quanto con la sua sorellina.
«Servirebbe anche a me adesso», dichiarai, «vorrei tanto prendere a schiaffi qualcuno». Mi strinsi la coperta intorno, continuando a sentire i piedi congelati. Avrei voluto scaldarli, ma avevo ancora le scarpe e la mia educazione mi imponeva di resistere.
«Tu non sei il tipo che prende a schiaffi la gente», ironizzò Trevor. «Tu non faresti del male ad una mosca». Come se sapesse leggermi nel pensiero, mi tolse gli stivaletti e lasciò che appoggiassi i piedi sulle sue gambe, iniziando a massaggiarmeli lentamente. «Comunque posso prestartelo quando vuoi».
«Grazie», sospirai appoggiandomi allo schienale.
«Di nulla, basta che tu non ti faccia male tirando tutti quei pugni con le tue manine delicate».
«Non mi riferivo a quello», sospirai chiudendo gli occhi.
«Ti preparo una tazza di tè, d’accordo Kathleen?». Susan si alzò per andare in cucina, ma io non volevo disturbarla soprattutto a quell’ora.
«Non importa, non si deve preoccupare». Feci per alzarmi, ma il mio massaggiatore personale non aveva nessuna intenzione di permettermelo.
«Figurati Kathleen. E poi ti ho detto di darmi del tu».
«Susan invece del tè, ci scalderesti un po’ di latte e magari potresti portarci anche un po’ di quei biscotti che hai fatto stamattina?».
Susan sorrise e non sembrò offesa dalle pretenziose richieste del figliastro. «Come si dice?».
«Per piacere», rispose lui neanche fosse stato un bambino di tre anni.
«Katy preferisci tè e biscotti o latte e biscotti come ha preteso il saputello lì accanto a te?».
«Latte e biscotti è la scelta migliore piccola, devi credermi».
«Okay, latte e biscotti allora, per favore», risposi sorridendo, mentre lei andava in cucina. Quella era una scena famigliare a cui purtroppo non era abituata. Mia madre che prepara latte e biscotti: una scena apocalittica sicuramente! Nessuno dei miei genitori avrebbe fatto una cosa del genere; era un gesto semplice ma anche ricco di significato. Valeva più di mille parole o di tutto l’oro del mondo. È incredibile come a volte basti solo del latte con dei biscotti per farti sentire amato.
«Mi piace la tua famiglia», sospirai sprofondando nel divano per godermi a pieno il suo massaggio.
Lui sbuffò ma poi sorrise. «Non dirlo a nessuno, ma piace anche a me, con l’unica eccezione di chi qua dentro ha il mio stesso sangue».
«A proposito: dov’è tuo padre?». Se avevo svegliato Susan con molta probabilità dovevo aver svegliato anche l’altro.
«Dorme», fece spallucce. «Domattina deve alzarsi alle quattro per ricevere i fornitori, quindi è andato a letto presto. A lui e Linda non li sveglierebbero neanche le cannonate». Non aggiunse altro ed io ne approfittai per tornare sull’argomento clou della serata.
«Trevor», cominciai, «non so neanche da che parte iniziare… il comportamento della mia famiglia è stato inaccettabile. Mai avrei pensato che mio padre potesse raggiungere un tale livello di maleducazione».
«Non importa Katy. Mi avevi avvertito e da una parte capisco anche perché tuo padre mi abbia attaccato in quel modo».
«No!». Ritrassi i piedi di scatto, completamente contraria a quell’affermazione. «Non devi dirlo».
«Kathleen tuo padre mi considera un teppista, uno sbandato e beh non posso dargli tutti i torti. Un tempo lo sono stato ed anche se ora sto mettendo la testa a posto io capisco che…».
«Tu non sei uno sbandato», lo interruppi. «Sei il mio Trevor». L’avevo detto di slancio ma era la verità; io lo conoscevo come pochi e solo io sapevo veramente fino in fondo che ragazzo fosse.
Lui sorrise, tirandomi verso di lui sul divano. «E tu sei la mia Katy». Mi baciò dolcemente, facendomi dimenticare almeno per un momento ciò che era successo quella sera.
«Ma ciò non cambia le cose Kathleen». Ecco, giusto per un momento. «Io sarò sempre quel ragazzo, quello che fa scelte sbagliate, quello che prende a pugni la gente, quello che rovina sé stesso. È il mio passato, non lo posso cambiare e capisco che tuo padre voglia proteggere la tua innocenza da una persona come me, anche se il modo in cui l’ha fatto è stato meschino».
«Lui non può impedirmi di vederti», protestai appoggiando la testa sulla sua spalla.
«È questo che ha fatto?». Tecnicamente sì, ma non avrei obbedito, non stavolta.
«Non ha importanza se lo ha fatto», replicai. «Non può più prendere decisioni per me. Non sono più una bambina».
«Non voglio essere una causa di rottura con la tua famiglia», mormorò, passandomi le dita lungo il braccio.
«Non lo sei. Penso che da quando Jamie… insomma qualcosa nella mia famiglia si è rotto. Non siamo più gli stessi, era come se James fosse il collante che riusciva ad unire tutti noi, me specialmente. In questo momento invece sento che a casa mia non c’è più nessuno che merita quel titolo e dopo stasera li odio. Odio Queen e mio padre per come ti hanno trattato».
«Tu non li odi», protestò lasciandomi un bacio sulla testa. «Sei geneticamente impossibilitata ad odiare qualcuno. Non è nella tua natura».
«Invece sì». Mi voltai per poterlo guardare in faccia e fargli vedere la mia determinazione.
«Mmm invece no». Studiò la mia espressione con attenzione, portandomi un ricciolo dietro l’orecchio. «Forse vorresti odiarli, ma non credo che tu ci possa riuscire. Sei troppo buona, innocente e pura per farlo».
«Non credo che dovrei prenderlo come un complimento», mormorai con una smorfia. Di sicuro quei tre aggettivi erano più appropriati a descrivere una bambina che una donna; ed io volevo che lui mi considerasse una donna al cento per cento. Volevo essere sexy e attraente, non casta e immacolata come una vergine, anche se in effetti lo ero.
«Oh invece lo era, lo era eccome».Trevor sorrise avvicinando le labbra ad un centimetro dalle mie. «Ultimamente ho scoperto che le ragazze innocenti sono proprio il mio tipo». Mi baciò con passione, dimostrandomi con la bocca ciò che aveva già espresso a parole.
Ci stavamo baciando appassionatamente sul divano – di sicuro non in modo tanto casto – quando sentimmo un colpo di tosse alle nostre spalle.
«Ehm ehm». Susan era in piedi dietro al divano e reggeva in mano una tazza fumante. «Il latte è pronto, anche se credo che il freddo ti sia passato Kathleen». Arrossii fino alla punta dei capelli, accorgendomi che le coperte erano scivolate a terra ed io ero praticamente sopra Trevor.
«Veniamo subito», risposi di scatto alzandomi.  Marciai spedita verso la cucina per porre fine a quella situazione imbarazzante, senza mai alzare lo sguardo da terra. Come potevo riuscire a guardarla negli occhi dopo ciò che era appena accaduto?
«Trevor», la sentii mormorare prima di seguirmi. «Non tirare troppo la corda, va bene?».
«Come ti pare», biascicò lui, superandola ed entrando in cucina prima di lei.
Aspettai che Susan mi facesse cenno di sedermi e poi presi posto al tavolo, dove erano appoggiate due tazze e un vassoio pieno di biscotti dall’aspetto invitante. Dopo aver bevuto un sorso di latte, sentendo improvvisamente lo stomaco borbottare, ne assaggiai uno: era delizioso; era incredibile che fosse stata proprio Susan a farli. Appena dato il primo morso il mio stomaco mormorò di nuovo, chiedendone ancora; era più che naturale che avessi fame visto che a cena, per la tensione, avevo a malapena toccato cibo.
«Se li inzuppi nel latte sono ancora più buoni», mi informò Trevor mettendosene in bocca un paio. Feci come mi aveva detto, anche se non pensavo che potessero sembrare più buoni di così;  invece con mia grande sorpresa scoprii che aveva ragione.
«Sono meravigliosi», mormorai dopo averne ingoiato un altro, ricordandomi delle buone maniere.
«Sono contenta che ti piacciono». Susan si sedette accanto a me e mi guardò con un espressione seria prima di continuare a parlare. «Kathleen non vorrei dovertelo dire, soprattutto dopo ciò che è successo, ma dovresti chiamare i tuoi genitori per informarli che stai bene e che sei qui da noi».
Feci una smorfia sentendo le sue parole, dato che quella era proprio l’ultima cosa che volevo fare. Non volevo chiamarli, né far sapere loro dove mi trovassi e con chi. Non si meritavano di saperlo, né tanto meno sarei stata io la prima a farmi viva.
Non sapendo rispondere educatamente alla domanda di Susan, restai zitta, continuando a mangiucchiare un biscotto. Speravo solo che lei non insistesse o che non decidesse di chiamarli lei da parte mia.
«Lo so che sei arrabbiata», continuò. «Ma sei arrivata qua mezza congelata, a piedi, senza cappotto né niente. Non pensi che saranno in pensiero per te?».
«No». Non lo sarebbero stati e purtroppo non era una novità. La mia considerazione era sempre stata pari a zero.
«Se mia figlia scappasse di casa dopo aver litigato con me e dopo un po’ non tornasse indietro, io morirei dalla paura». Certo, perché lei era un esempio di genitore sano e normale.
«Tu non sei come loro», replicai in un sussurro. «Per loro io non ho tutta questa importanza».
«Certo che hai importanza», protestò come se avessi detto una sciocchezza. «Sei la loro figlia».
Stavo per ribattere quando Trevor intervenne. «Penso che Susan abbia ragione». Mi voltai di scatto verso di lui, con la bocca spalancata e lo sguardo sconcertato. Pensavo che sarebbe intervenuto in mia difesa, non per darmi contro.
«Calma», mi frenò posando una mano sopra la mia. «Dopo ciò che ho visto stasera, penso solo che in fondo a te ci tengono almeno un po’, altrimenti non si sarebbero comportati così».
«Queen? Mio padre?», domandai scandalizzata. «Forse ti sei perso la parte in cui ti hanno praticamente dato del fallito, senza dirtelo apertamente in faccia».
Trevor fece una smorfia, ma proseguì. «Lo so, ma non l’avrebbero fatto se non tenessero a te. A loro importa chi frequenti perché tengono a te».
«No, ti sbagli. A loro importa chi frequento perché tengono alle apparenze; non vogliono macchie nella loro famiglia, vogliono che tutti siano perfetti, anche chi non lo è».
«Katy non puoi non dire loro dove sei, soprattutto se sei scappata in quel modo». Mi squadrò con i suoi occhi celesti, fino quasi a farmi cedere.
«Dammi il telefono», lo esortai decisa, «chiamerò Evan, gli chiederò di coprirmi».
«Kathleen». Il tono di Trevor fu piuttosto autoritario e il suo sguardo truce. «È tardi, probabilmente lo sveglieresti ed anche se lo trovassi sveglio non sarebbe il modo giusto. Lo so che sei arrabbiata e lo sono anch’io; non credere che non sia offeso o umiliato per ciò che è successo stasera, ma devi chiamarli, non puoi sparire in questo modo».
«Kathleen», intervenne Susan. «Se non lo fai tu sarò costretta a farlo io».
«D’accordo», ripetei. «Dammi il telefono». Trevor tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni e me lo passo, accarezzandomi il braccio con l’altra mano. Le sue coccole non avrebbero avuto grande effetto, visto che mi aveva appena messo con le spalle al muro.
Facendo un respiro composi l’ultimo numero che avrei pensato di chiamare.
Rispose al terzo squillo. «Pronto?».
«Pronto mamma, sono io, Linny». Odiavo di essere stata costretta a chiamarla, ma d’altra parte lei era l’unica con cui avevo voglia di parlare. Un altro evento da segnare sul calendario.
«Oh Dio Linny! Dove diavolo sei? Stai bene?». La sua voce non suonava come preoccupata, solo arrabbiata, ma almeno mi aveva chiesto come stavo.
«Sì, sono a casa di Evan», mentii beccandomi un’occhiataccia dagli altri due.
«Non è vero, non sei da Evan. Sei da lui». La sua non era una domanda, solo un affermazione.
«E se anche fosse? Cosa potete fare? Venirmi a prendere con la forza?».
La sentii sospirare. «Linny tuo padre lo fa solo per il tuo bene». Non ci credevo neanche un po’.
«Lui non sa cosa è per il mio bene, e neanche tu». Non mi conoscevano, non più.
«Forse è così, però so cosa significa essere adolescenti ed essere alle prese con la prima cotta».
«Lui non è…», ribattei subito, ma non finii la frase. Trevor era molto di più di una semplice sbandata da ragazzina ed era anche lì davanti ad ascoltare ogni mia singola parola.
«Non è solo una cotta, Linny? Così è anche peggio. Comunque cosa vuoi fare? Vuoi continuare a comportarti come stasera? Noi siamo la tua famiglia, i tuoi genitori».    
«E ti sembra giusto il modo in cui è stato trattato Trevor?».
Aspettavo che negasse invece mi sorprese. «No, non lo è stato. Tuo padre può aver sbagliato approccio, ma ciò che ha detto è stato solo per proteggerti. Non è il ragazzo giusto per te Linny».
«Non è vero e non mi importa», tagliai corto. «Volevo solo dirti che passerò qua la notte e che domani tornerò a casa, quando mi sentirò pronta». Riattaccai senza darle modo di replicare.
Restituii il telefono a Trevor, guardandolo male. «Siete contenti adesso?».
«Lo so che non volevi Kathleen, ma dovevi farlo», mi disse Susan, stringendomi la mano. «Adesso sarà meglio che vi lasci da soli, buonanotte ragazzi».
Biascicai un “’notte” più per educazione che per altro.
«Trevor». Susan lo guardò con sguardo serio. «Lo sai, vero? Non mi far pentire».
«Sì non ti preoccupare lo so. Buonanotte».
«Sai cosa?», domandai cercando di carpire qualcosa sul loro tacito discorso.
«Niente di importante. Comunque mi dispiace di averti costretta a chiamare tua madre, non volevo schierarmi contro di te». Però era quello che aveva appena fatto. Non risposi e inzuppai un altro biscotto nel latte, concentrandomi su quello.
«Kathleen». Il suo tono mi costrinse di nuovo ad alzare lo sguardo. «Non voglio costringerti a scegliere tra me e la tua famiglia».
«Non sei tu quello che mi costringe». Era esattamente il contrario.
«Lo so, ma…».
«Trevor io non smetterò di vederti solo perché mio padre me l’ha ordinato», ammisi. «E non c’entra niente nessuna possibile ribellione adolescenziale, come può pensare lui. Non mi sto innamorando di te solo perché voglio fare un dispetto alla mia famiglia; perciò non conta ciò che pensano loro».
Gli occhi di Trevor brillarono sentendo le mie parole. «Ti stai innamorando di me?». Soltanto allora mi resi conto di ciò che avevo appena confessato; ma era la verità e lui doveva immaginarlo anche senza quella mia spontanea ammissione.
«Non è ovvio?», risposi arrossendo e tornando a concentrarmi sulla mia tazza.
Trevor mi posò un dito sotto il mento e riportò il mio sguardo nel suo. «Anch’io mi sto innamorando di te Kathleen, tanto». Se il mio cuore aveva raggiunto in passato velocità da record, in quel momento probabilmente aveva appena conquistato un primato. Era un vero miracolo che non fossi già collassata; ma almeno anche se di lì a poco avessi avuto un infarto, sarei morta felice.
Era incredibile come solo poche parole avessero potuto cancellare tutti gli orribili eventi di quella sera. Non mi importava più se mio padre era stato scortese, se mi aveva vietato di vederlo, se Queen era stata cattiva e aveva indissolubilmente compromesso il nostro rapporto di sorelle; non mi importava più di niente perché Trevor si stava innamorando di me, proprio come io di lui. Eravamo innamorati come molti degli eroi dei libri che leggevo: ma stavolta ero io la protagonista, era mio il cuore che stava esplodendo, mia quella inebriante sensazione di felicità, mio quel pressante desiderio di lui. E proprio come ogni eroina che si rispetti feci ciò che ogni lettore si sarebbe aspettato: lo baciai, facendogli capire quanto le sue parole avessero toccato le corde più profonde del mio cuore. 
 
Fu diverso tempo dopo, e soprattutto molti baci dopo, che la stanchezza iniziò a farsi sentire. Involontariamente sbadigliai, sentendo le palpebre pesanti, proprio mentre le labbra di Trevor stavano facendo magie sul mio collo.
«Mmm». Alzò la testa e i suoi occhi celesti mi scrutarono attentamente. «Direi che è l’ora di andare a letto. Qualcuno qua comincia ad essere stanca e non apprezza più i miei baci».
«Io apprezzo sempre i tuoi baci», protestai trattenendo un altro sbadiglio. «Comunque non voglio disturbare, posso dormire qua sul divano». Non ricordavo con esattezza quando ci eravamo di nuovo spostati nel salotto, ma sicuramente ciò aveva reso molto più comodo quel nostro incessante scambio di effusioni.
«Non dire sciocchezze Katy», ridacchiò Trevor. «Tu dormirai nel mio letto».
«Ma non voglio cacciarti dal tuo letto», replicai scrutandolo negli occhi.
«Infatti». Trevor mi guardò intensamente, aspettando che il mio cervello elaborasse ciò che per lui risultava evidente. «Non lo farai».
«Oh». La mia bocca si spalancò e le mie guance avvamparono capendo che lui aveva tutte le intenzioni di dormire con me, nello stesso letto.
«Dormiremo e basta Kathleen, non c’è bisogno di arrossire». Mi passò il pollice sulla guancia, là dove la mia pelle doveva essersi tinta di rosso.
«Non ho mai dormito con un ragazzo, se si esclude mio fratello», confessai.
«Lo immaginavo, ma ti dirò un segreto: è una prima volta anche per me».
«Non hai mai dormito con una ragazza?», domandai confusa. Non lo sapevo con certezza, ma era ovvio che lui avesse molta esperienza in questo genere di cose.
«Non senza essermele portate a letto». Ah ecco.
Dovette percepire il mio sguardo incupirsi, perché subito riportò i miei occhi nei suoi. «Ma con te Katy è diverso. Vorrei dormire accanto a te tutte le notti, credimi, anche limitandomi a quello».
«D’accordo», sorrisi. Senza aggiungere altro mi prese per mano e mi guidò in camera sua. Sentivo il cuore battere all’impazzata e, anche se ero fisicamente esausta, l’improvvisa consapevolezza di stare nello stesso letto con lui aveva distolto la mia mente da quella stanchezza. Era come se mi avessero appena iniettato un litro di caffeina, dubitavo che sarei riuscita più a prendere sonno.
«Susan ti ha lasciato questo». Prese un pigiama che era appoggiato sul suo letto e me lo passò.
«Grazie». Stavo per dirgli che andavo in bagno quando la mia attenzione fu attratta dai suoi pantaloni che si abbassavano.
«Che… che stai facendo?», balbettai. Dentro di me prese piede un conflitto di emozioni: ero imbarazzata, sconvolta, estasiata, eccitata, emozionata. Vedere i suoi boxer, le sue gambe nude, mi faceva diventare bordeaux e allo stesso tempo mi accendeva come un fuoco.
«Mi spoglio, mi pare evidente», rispose alzando un sopracciglio.
«Questo… questo l’avevo capito. Solo che non ero preparata a vedertelo fare davanti a me».
Trevor ridacchiò. «Katy è un problema per te se dormo solo con i boxer? Non sono abituato a mettere il pigiama». Oh mamma! Ora si che era certo che avrei passato la notte insonne.
«Okay!», risposi alzando la voce di un’ottava. «Adesso vado in bagno». Mi fiondai fuori da camera sua, chiudendomi in fretta la porta alle spalle per cercare di riguadagnare un certo contegno.
Non avevo mai visto Trevor senza maglietta, figuriamoci con indosso solo un paio di mutande. Avrei potuto ammirare tutti i suoi tatuaggi, ma non era proprio su quell’aspetto che la mia mente si stava concentrando. Improvvisamente mi sentii andare a fuoco: dopo tutto il freddo che avevo preso quella sera avevo paradossalmente bisogno di una doccia ghiacciata.
«Sta calma Kathleen», mi dissi guardandomi allo specchio, dopo essermi messa il pigiama. «Sta calma, in fondo dormirete e basta». Dormire: come potevo riuscirci quando il mio cuore era intento a fare una corsa infinita da velocista?
«Sono stanca», cercai di auto-convincermi. «Prima sbadigliavo, posso farcela». Non ero sicura delle mie parole proprio per niente. Il sonno mi era completamente passato al pensiero di avere Trevor mezzo nudo accanto a me.
Mi ci volle un bel po’ per cercare di mettere a tacere il panico/eccitazione e riuscire a trovare il  coraggio per uscire dal bagno e tornare da lui.
Quando rientrai in camera Trevor era nel letto, aveva spento la luce e acceso la piccola abatjour sul comodino. Proprio là accanto c’era la cornice con le macchinine che gli avevo regalato, con all’interno una foto di noi due che avevamo scattato al nostro primo appuntamento. Sorrisi nel vederla, stringendomi i vestiti al petto, ed il mio cuore inaspettatamente rallentò, riuscendo finalmente a capire ciò che la mia mente gli stava suggerendo. Era il mio Trevor, non avevo niente da temere, se non il fatto che forse sarei stata io quella incapace di tenere le mani a posto.
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta», disse seguendo il mio sguardo. Fu quando tornai a guardarlo che notai ciò che avrebbe dovuto attirare la mia attenzione per primo. Trevor era nel letto, con le coperte che gli arrivavano alla vita, e il petto completamente nudo in bella mostra. La luce della lampada illuminava i suoi tatuaggi in modo tale che io potessi distinguerne le forme. Inclinai la testa cercando di decifrare quello che dalla spalla destra, continuava sul suo pettorale e di capire cosa rappresentasse tutto quell’inchiostro sulla sua pelle.
«Stai guardando i miei tatuaggi?», ridacchiò. «Vieni ti faccio vedere». Batté sul materasso accanto a lui in modo tale che lo raggiungessi. Mi affrettai a posare i vestiti sulla sedia, accanto ai miei stivali – che Trevor doveva aver raccattato al piano di sotto – e feci come mi aveva detto. La sua pelle era un intrico di inchiostro in alcune parti ed assolutamente intonsa e candida in altre. Era un mosaico sorprendente.
«Questo», disse indicandosi il braccio destro, «è un simbolo cinese che significa “tentatore”. È il primo tatuaggio che ho fatto. Sotto dovrebbe esserci una bussola». Passò il dito su quello sotto, arrivando poi fino al polso. «Qua c’è tutta una serie di catene rampicanti che mi imprigionano l’avambraccio. Credo di averlo fatto nel mio periodo un po’ più dark, mentre sull’altro braccio ci sono tutta una serie di tatuaggi maori». Erano dei tatuaggi geometrici con forme nette e definite.
«Questa», si indicò il pettorale destro, «è una fenice che rinasce dalle ceneri. L’ho fatta a settembre, dopo che ero rimasto pulito per otto mesi. Non ero mai arrivato a così tanto».
«È bellissima», commentai. Le piume della fenice arrivavano fino al suo collo ed era realizzata con un chiaro scuro sorprendente. Avrei tanto voluto toccarla, ma non volevo essere inopportuna.
Trevor continuò la sua spiegazione, osservando attentamene ogni mia reazione. «Qui c’è l’ancora». Si indicò il fianco destro per poi passare al sinistro. «E questo tatuaggio significa libertà, beh ma penso che tu sappia leggere». Sul suo fianco era rappresentato un enorme veliero con sotto la parola “freedom”. Le ombreggiature erano davvero bellissime, come quelle della fenice.
«Qua invece». Si voltò per indicarmi la spalla destra, «dovrebbe esserci un geco, sempre in stile maori. In molte colture indica la capacità di sopravvivenza alle avversità della vita; mentre più sotto c’è il pugnale avvolto dal serpente. Vorrei dirti che quel tatuaggio ha un bel significato, ma non ce l’ha; l’ho fatto quando ero così drogato da ricordarmi a stento il mio nome». Era bello in effetti, ma anche piuttosto inquietante.
«E questo?», domandai indicando l’ultimo che rimaneva, sul suo fianco sinistro.
Trevor voltò leggermente la testa per poterlo scorgere. «Oh quello, me l’ero quasi scordato. È ebraico, significa “anima sola”. L’ho fatto dopo che… quando ho… quando non ce l’ho fatta».
Lo guardai intuendo cosa volesse dire. «Quando hai bevuto di nuovo?».
«Sì. Avevo resistito due mesi, poi è venuto a trovarmi mio padre, abbiamo litigato. Io volevo uscire da quel centro, anche solo per un paio di giorni, lui diceva che era troppo presto. Fatto sta che ho vinto io, ma purtroppo aveva ragione lui. Era troppo presto».
«Mi dispiace». Era triste che si fosse fatto un tatuaggio per ricordare quella sconfitta, ma d’altra parte sapevo che Trevor era più profondo di quanto si potesse immaginare.
«Lo so. Comunque non ne ho altri». Si rimise a sedere e mi guardò sorridendo. «Ti piacciono?».
«Sì, molto». Ed era la verità. «Posso farti una domanda», azzardai continuando ad osservarlo. «Perché in alcuni non hai lasciato tanto spazio, mentre sulla sinistra non hai niente? E anche sulle gambe». Gli indicai il pettorale, non capendo quello spazio vuoto. Aveva già in mente qualcosa?
«Beh sulle gambe ho intenzione di farne, mentre per qua c’è un motivo. Forse ti sembrerà stupido», mormorò, facendosi improvvisamente timido, «ma  non volevo che ci fosse niente sopra il mio cuore. Non c’era niente di così importante da aver il posto d’onore là sopra». Era un pensiero intenso e avevo anche notato l’uso del tempo passato.
«Adesso che ne dici di venire a dormire?», tagliò corto. Trevor si distese e mi fece cenno di fare altrettanto, chiudendo così definitivamente la questione. Feci come mi aveva detto e mi sistemai su un fianco proprio sul bordo del materasso, non sapendo bene a che distanza posizionarmi.
«’Notte Katy». Si allungò per spengere la luce e subito dopo la stanza sprofondò nel buio. Sentii il fruscio delle coperte e il battito prepotente del mio cuore ricominciare ad accelerare. Anche se tra di noi non c’era nessun contatto la mia mente iniziò a viaggiare a mille all’ora e non per paura.
«Ehi». La mano di Trevor si posò sul mio fianco, scorrendo giù fino al mio bacino. «Vieni qui». Mi tirò al centro del letto facendomi voltare ed appoggiare la testa vicino alla sua spalla. «Eccoti qua».
Intrecciò le gambe alle mie e mi passò una mano sotto la schiena, stringendomi di più contro il suo petto. Riuscivo a sentire il calore della sua pelle anche attraverso la stoffa del pigiama e all’improvviso tutti quegli indumenti mi sembrarono superflui. Posai una mano sul suo petto, sentendo con le dita i suoi addominali scolpiti e desiderai tracciare con le dita il contorno di tutti i suoi tatuaggi. Volevo sentire la sua pelle e non solo con le mani, con tutto.
Per questo, sorprendendo anche me stessa, alzai la testa e cercai la sua bocca. Lo baciai avidamente, passandogli la lingua sulle labbra per fargliele schiudere. Succhiai il suo piercing e per tutta risposta Trevor emise un mugolio basso. Incoraggiata da quel suono, continuai ad esplorare la sua pelle lasciando una scia di baci incandescenti. Nel frattempo le mie mani continuavano ad ispezionare avidamente il suo torace e la sua schiena. In tutta la mia vita non avevo mai provato un desiderio come quello: volevo lui e lo volevo completamente.
«Katy…», mugolò mentre mi spostavo con la bocca lungo il suo collo, copiando il gesto che a parti invertite mi faceva letteralmente impazzire. Senza aggiungere altro guidai le sue mani, che erano rimaste immobili sui miei fianchi, sotto la maglia del mio pigiama, cercando di fargli capire ciò che volevo. Non sapevo ciò che stavo facendo, ma dai respiri e dai gemiti di Trevor immaginai di stare andando bene.
Mi strusciai su di lui, con tutto il corpo, facendogli uscire un rantolo basso. «Cazzo… Katy». Ero certa che riuscisse a sentire il mio seno, completamente libero e turgido, attraverso la stoffa del pigiama ed ero anche sicura che la cosa gli piacesse. Per questo mi strusciai di nuovo su di lui, nell’esatto istante in cui gli mordicchiai il lobo dell’orecchio.
«Dio Kathleen… fermati». Aveva pronunciato l’ultima parola in un sussurro con tono supplicante, ma io ero troppo presa dal suo corpo per accorgermene. Intrecciai ancora di più le mie gambe alle sue, avvicinando sempre più il mio bacino al suo e fu allora che lo senti: la sua eccitazione mi premeva prepotente contro la coscia, tirando sempre più la stoffa dei suoi boxer.
Mi fermai di scatto sbattendo le palpebre, scioccata dal mio stesso comportamento e dalla prorompete presenza che ero riuscita a scatenare.
«Ferma ti prego», ansimò Trevor. «Se ci tieni a mantenere la tua verginità ancora per un po’, credo che dovresti scendere». Mi resi conto di essere completamente sopra di lui e che le sue mani non erano più sul mio corpo, ma arpionate al materasso in un tentativo di resistere ai propri impulsi. Beh almeno lui c’era riuscito.
«Oh mio Dio!», mormorai arrossendo e riprendendo il mio posto nel letto. «Mi dispiace tanto».
«Oh non scusarti», sussurrò facendo un respiro profondo, «perché quello che stavi facendo era davvero fantastico».
«Io… io non so cosa mi è preso». Ero stata preda dei miei impulsi dimenticandomi di tutto il resto.
«Io sì, invece», ridacchiò. «Hai voglia di me piccola, non è una cosa negativa. Anzi… solo che penso che dovremo arrivarci per gradi. È una notte di prime volte, ma non sarà quella della tua prima volta».
«Prime volte?», mormorai.
«Beh è la prima volta che mi fai quasi perdere il controllo, ed è la prima volta che fermo una ragazza quando me lo ha fatto venire… sì insomma hai capito».
Mi sentii mortificata e mi coprii la testa con le coperte, sentendo le mie guance andare a fuoco. Non capivo come avevo fatto a passare dal temere di passare la notte con Trevor a quello. Gli ero praticamente saltata addosso, come una delle peggiori sgualdrine; tutti i miei freni inibitori erano andati a farsi friggere non appena mi aveva stretta e non avevo neanche capito come.
«Katy?». Trevor scostò le coperte per poter riuscire a scorgere il mio viso nonostante l’oscurità. «Non vergognarti, ti prego. Ci arriveremo okay? Sappi solo che ti ho fermata perché non sarebbe stato giusto continuare, non perché non lo volessi. Lo voglio, credimi, lo voglio da morire».
«Okay», balbettai con un sospiro.
«Bene». Con uno scatto si alzò dal letto e si diresse verso la porta.
«Dove vai?», domandai perplessa. Ero stata capace di cacciarlo dal suo stesso letto?
«A farmi una doccia fredda, non credo di riuscire a restare nello stesso letto con te se prima non mi calmo». Beh la doccia fredda non sarebbe servita solo a lui, visto che i miei bollenti spiriti erano quelli che avevano preso il sopravvento.
«Tu intanto dormi Kathleen». Ritornò verso il letto per darmi un bacio sulla fronte. «È stata una giornata lunga, io non ci metterò molto».
Annuii anche se dubitavo che al buio lui potesse vedermi e lo lasciai andare. Una volta sola, mi voltai a pancia in giù e sprofondai con la testa nel cuscino. Non potevo ancora credere di essergli saltata addosso in quel modo. Cosa mi era passato per la testa? Probabilmente nulla, visto che dovevo aver spento momentaneamente il cervello per iniziare a ragionare con tutta un’altra parte del corpo. Per fortuna Trevor aveva dimostrato ancora una volta di essere perfetto; non aveva approfittato e mi aveva fatto capire di non essere stata respinta. Mi aveva fatto notare che stavo accelerando i tempi ed era lui per primo che non voleva bruciare le tappe tra noi.
Ma io? Io volevo bruciare le tappe? Se lui non mi avesse fermata sarei andata fino in fondo? Avevo paura di rispondere a quella domanda, perché molto probabilmente avrei dato una risposta affermativa. Fino a poco tempo prima pensavo che avrei aspettato, che perdere la verginità doveva essere un passo importante; ma in quel momento era diverso. Non che lo considerassi meno importante, ma era come se sapessi che Trevor era quello giusto. Era con lui che doveva essere la mia prima volta e il fatto che ne fossi consapevole, faceva prendere il sopravvento ai miei istinti più primordiali.
Mi rigirai su un fianco cercando di calmarmi, facendo dei profondi respiri. Dovevo stare tranquilla: sapevo che sarebbe successo, però doveva accadere con i tempi giusti e, visto che Trevor per primo avrebbe rispettato quei tempi, dovevo farlo anch’io. Proprio per questo quando lui ritornò a letto finsi di dormire e lasciai che lui si addormentasse al mio fianco. Sentendo il suo respiro farsi più pesante e regolare, il mio cuore rallentò e anche i miei occhi si fecero più pesanti. Avevo pensato che sarebbe stato difficile dormire accanto a lui, ma ascoltando il ritmo lento e regolare dei suoi respiri fui presto cullata anch’io nel mondo dei sogni.
Quando quella mattina mi risvegliai, non fu tanto per via della luce, quanto  per il calore immenso che si sprigionava da sotto le coperte. Fu solo dopo aver aperto gli occhi e aver messo a fuoco ciò che avevo attorno, che mi resi conto che quel calore era dovuto al corpo caldo di Trevor appiccicato al mio. Lui aveva la testa appoggiata accanto alla mia, immersa nei miei capelli, tanto da domandarmi come diavolo facesse a respirare; stava su un fianco e aveva una mano posata sulla mia pancia, in modo tale da imprigionarmi in un abbraccio proprio contro il suo petto. Le nostre gambe erano intrecciate, formando una sorta di groviglio confuso. Era una posizione scomoda, sia per me che per lui, eppure continuava a dormire profondamente, russando piano tra i miei capelli. Non ricordavo quando lui nella notte mi avesse abbracciato, ma con molta probabilità l’aveva fatto inconsciamente o mentre io ero profondamente addormentata.
Cercai di muovermi ma la presa di Trevor era ben salda; non volevo svegliarlo e, anche se in quella posizione mi iniziava ad intorpidirsi un braccio, lasciai che dormisse ancora un po’. Sentivo il suo respiro regolare e avrei tanto voluto osservare la sua espressione, ma purtroppo non potevo girare la testa abbastanza da riuscirci. Posai la mano sulla sua, appoggiata sulla mia pancia, accarezzandone dolcemente il dorso e per la prima volta mi sentii completamente in pace. Ero scappata di casa, dopo aver litigato con tutta la mia famiglia, umiliata ed arrabbiata, eppure in quel momento ero in completa armonia; sapere che lui era lì e che era al mio fianco era l’unica cosa che mi importava veramente. Trevor stava diventando la persona più importante della mia vita ed era successo solo con un’altra prima di lui. Sapevo che era giunto il momento di farli conoscere, visto che ciò che provavo per lui era sempre più forte minuto dopo minuto. Dovevo far incontrare le due persone più importanti della mia vita: dovevo presentare a Trevor l’unico membro della mia famiglia che non l’avrebbe offeso, e non solo perché fisicamente impossibilitato.
Fu per questo che lentamente e con delicatezza mi rigirai tra le sue braccia, causando inevitabilmente il suo risveglio. Lo sentii mugolare e potei osservare i suoi splendidi occhi aprirsi, ancora assonnati e fissarsi su di me.
«Buongiorno», sussurrai, accarezzandogli una guancia.
«’Giorno», biascicò, sbattendo le ciglia. «Dimmi che non è prestissimo».
«Non è prestissimo». Sorrisi accorgendomi di non sapere minimamente che ora fosse.
«Bugiarda». Fece una faccia imbronciata che si trasformò subito in un sorriso. «Dormito bene?».
«Sì». Più che bene, in effetti, visto come era iniziata la nottata. «E tu?».
«Benissimo, tanto che potremmo tornarcene a dormire un altro po’».
«Trevor», dissi prima di cambiare idea e assecondarlo. «Voglio farti conoscere mio fratello».
La sua espressione passò da assonnata a seria nel giro di un secondo. «Sei sicura?».
«Sì, voglio portarti da lui. Voglio presentarti alla persona a cui tengo di più al mondo». James era la persona che più amavo al mondo, ma ammetterlo di fronte a Trevor mi fece capire che probabilmente quel primato non gli sarebbe appartenuto ancora a lungo.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11
 
Portare Trevor a conoscere James era un grosso passo avanti. Poteva sembrare stupido, ma per me era qualcosa di fondamentale. Di certo mio fratello nelle sue condizioni non poteva esprimere pareri o dare giudizi, ma il modo in cui Trevor si sarebbe comportato avrebbe influito molto su quello che già provavo per lui.
Tante persone mi definivano pazza a continuare ad insistere, ad illudermi, ma non potevo farci niente. Era troppo difficile per me lasciarlo andare; nella mia vita non avevo mai amato nessuno quanto Jamie e capivo che questa mia difficoltà ad accettare ciò che gli era capitato era principalmente dovuta al fatto che nella mia vita non ci fosse nessun altro che potesse prendere il suo posto. Almeno fino a che non avevo conosciuto Trevor.
Quello che stava nascendo con lui, stava riaccendendo una parte di me che si era spenta con mio fratello. Ridere, scherzare, essere spontanea, erano cose che non mi riuscivano più completamente senza James. Non che con Evan e Lea fingessi o non mi divertissi, ma non mi sentivo mai completamente coinvolta; c’era sempre una parte di me – seppur ben nascosta – triste  e taciturna. Invece con Trevor scoppiavo a ridere senza accorgermene, il cuore mi esplodeva e mi sentivo viva come non lo ero da anni.
Per questo quell’incontro era di vitale importanza. Vedendolo con Jamie avrei capito se era l’uomo che mi ero immaginata, avrei potuto vedere il vero lui, come in nessun altra occasione. Molte persone vedendo James assumevano comportamenti di circostanza, ma io riuscivo a capire quando fingevano o quando erano sinceri. Lea ed Evan erano stati gli unici che avevano trattato mio fratello normalmente, non solo per un semplice desiderio di assecondarmi, ma considerandolo lui al cento per cento. Sean non aveva fatto altrettanto, era stato freddo anche se cordiale; inutile dire che, quando glielo avevo fatto notare, Queen si era arrabbiata. Anche per gli amici di James era stato lo stesso: magari all’inizio ci credevano, ma poi si erano semplicemente arresi, come tutti. Anche Margot, la sua ex fidanzata del liceo, non era riuscita a resistere: alla fine tutti perdevano la speranza e cominciavano a trattarlo come un caso pietoso. Tutti tranne me e mia madre; per quanto detestassi ammetterlo lei soffriva quanto me.
Durante tutto il tragitto verso l’ospedale rimasi in silenzio, sentendo lo stomaco in subbuglio per quell’imminente incontro. Trevor doveva aver capito la serietà dell’evento perché, a parte chiedermi delle semplici indicazioni stradali, si limitò a guidare in silenzio. La sua espressione era tesa e seria mentre fissava la strada, quasi riuscisse a percepire tutta la mia tensione.
Se Trevor si fosse in qualche modo rivelato falso, avesse trattato mio fratello con pietà, con la compassione tipica del volto di tutti, cosa avrei fatto? Quel semplice dato avrebbe influenzato quello che provavo per lui? Potevo amarlo comunque se… Scossi la testa scacciando via quei pensieri e sperando di non dovermi porre davvero quelle domande.
«Puoi parcheggiare qui», dissi una volta arrivati, indicando un posto vuoto. Scesi dalla macchina rabbrividendo e stringendomi di più nel cappotto che Susan mi aveva prestato. Non sapevo se i brividi erano dovuti più al freddo o all’ansia che mi stava completamente travolgendo. Dall’altra parte neanche Trevor sembrava del tutto rilassato: stava studiando l’edificio e, dalle spalle rigide e la mascella tesa, si intuiva che anche lui era sulle spine almeno quanto me. Era strano vederlo così nervoso, ma ero grata per il fatto che capisse quanto importante fosse per me.
Ci incamminammo mano nella mano verso l’ingresso e, senza dire una parola, lo guidai verso il reparto che ormai conoscevo a menadito. Come sempre mi fermai a chiacchierare con le infermiere, presentando Trevor come il mio ragazzo; tuttavia non era il solito gioviale scambio di battute. Ero frettolosa e nervosa e forse questo traspariva anche dalla mia conversazione.
«Ecco». Mi fermai di fronte alla porta della sua stanza e mi voltai per poterlo guardare negli occhi e prendergli entrambe le mani. «Jamie è qua dentro».
«Okay». Trevor rispose al mio sguardo, anche se la sua espressione rimase indecifrabile.
«So che ti ho parlato di lui», cominciai, «ma non vorrei che ti impressionassi. Certi giorni capita che abbia gli occhi aperti, e ci sono i macchinari. E poi è magro, molto magro, è solo l’ombra del bellissimo ragazzo che era».
«D’accordo», acconsentì facendosi ancora più serio.
«E poi io gli parlo, cioè voglio dire io credo che lui mi possa sentire anche se non può rispondere. Quindi è importante rivolgersi a lui, coinvolgerlo; niente commenti, e anche l’espressioni…».
«Katy». Mi fermò accorgendosi che stavo andando in iperventilazione.
«Voglio solo che vada bene», mi giustificai. Era per questo che avevo iniziato a spiattellare per filo e per segno come si sarebbe dovuto comportare. Una facilitazione non da poco.
«Lo so», ammise in un sospiro. «Posso farcela». Perché sembrava voler convincere più sé stesso che me?
«D’accordo». Prendendo un profondo respiro aprii la porta e lasciai che mi seguisse nella stanza. James aveva gli occhi chiusi, forse per un semplice caso o per pura fortuna; riconoscevo io stessa che era più inquietante e difficile comportarsi con naturalezza osservando le sue iridi verdi, senza un’ombra di vita dentro. Non c’era molto altro da dire su di lui: era sempre uguale, giorno dopo giorno. Lo stesso corpo smunto attaccato alle macchine, che non poteva muoversi né parlare, né dare nessun cenno di vita.
«Jamie oggi ho una sorpresa per te», iniziai avvicinandomi al letto. «Ti ho portato una persona». Mi voltai per osservare Trevor che era rimasto fermo sulla soglia. Gli feci cenno di venire avanti e continuai a parlare.
«So che ti ho fatto impazzire a forza di raccontarti di lui, però finalmente te l’ho portato a far conoscere. E so cosa stai per dire: “era l’ora, pensavo che ti stessi inventando tutto”. Proprio per questo, ecco qua: Trevor questo è James. James lui è Trevor, il mio ragazzo». Visto che era rimasto fermo alla porta andai da lui e, prendendolo per mano, lo trascinai vicino al letto.
«Ciao…», balbettò, mentre io mi voltavo per studiarne ogni espressione. Trevor osservò attentamente il corpo di James disteso davanti a lui e lo vidi impallidire ogni secondo di più. Notai il suo pomo d’Adamo scendere su e giù mentre deglutiva a fatica e mentre cercava di mantenere un’espressione impassibile. Tuttavia per quanto avesse assunto la caratteristica faccia da giocatore di poker, i suoi occhi erano tutta un’altra storia. Era evidente che fosse impressionato e, anche se non erano colmi di compassione, sembrava che ci fosse del rimorso in quel profondo oceano. Non era esattamente l’espressione che avevo sperato, ma avrei dovuto accontentarmi.
«Su avanti non fare il timido», lo incitai. «Digli qualcosa, non vorrai fare una cattiva impressione a mio fratello». Sebbene avessi usato un tono scherzoso speravo che la mia supplica fosse evidente. Se Trevor si fosse ripreso e avesse rotto il ghiaccio sarebbe andato tutto bene, avrei avuto l’ennesima conferma di quanto fosse meraviglioso.
«Io… io…», iniziò facendo dei respiri profondi per incamerare aria. «Io… io non ce la faccio Kathleen». In meno di un secondo sfilò la mano dalla mia e corse via dalla stanza in tempo record. Io restai ad osservare la porta aperta con un espressione di stupore disegnata sul viso ed un dolore sempre più lancinante al petto.
Non c’erano spiegazioni per il suo comportamento, né c’erano giustificazioni. Potevo aspettarmi compassione, pietà, scarsa collaborazione, ma non quello. Non scappare come un aracnofobico di fronte ad un ragno! Non c’era nessun motivo che potesse spingerlo a correre via in quel modo alla vista di mio fratello. Era vero che James non aveva un bell’aspetto, ma Trevor non era un tipo facilmente impressionabile; e poi dove erano finiti i suoi sentimenti per me? Se davvero provava qualcosa per me perché non cercare almeno di fingere?
Il suo comportamento era stato peggio di una coltellata in pieno petto. Mi sentivo tradita e delusa, e forse mi sentivo così solo perché avevo riposto in lui una fiducia che ovviamente non meritava.
Tornai a guardare James e cercai di riprendere almeno in parte un giusto contegno. «Beh fratellone ho sempre temuto che avresti fatto scappare i miei ragazzi a gambe levate». Cercai di ridere ma invece dalla mia bocca uscì un singhiozzo.
Siccome non volevo piangere di fronte a lui – era una delle stupide regole che mi ero imposta – mi affrettai a passarmi una mano sugli occhi. «Vado un attimo in bagno, d’accordo? Tu resta lì». Eh certo dove diavolo poteva andare?!
Mi affrettai ad uscire dalla stanza chiudendo la porta e mi diressi velocemente verso il bagno delle donne. Una volta dentro mi chiusi a chiave e mi sedetti sul water prendendomi le ginocchia tra le braccia. Tutte le lacrime che ero riuscita a trattenere si riversarono fuori in un solo colpo.
Era andata peggio di quanto avessi potuto immaginare. Potevo gestire la compassione, il disgusto, il fatto che non capisse il mio comportamento, ma non quello. Non sapevo neanche come definirla: paura? Ma di cosa? Cosa era successo di così terribile da farlo scappare a gambe levate? Forse non mi ero spiegata abbastanza bene, ero stata poco specifica?
Scossi subito la testa per scacciare quella idea. Di sicuro non era colpa mia, io non avevo mai detto che sarebbe stato facile e avevo messo ben in chiaro in che condizioni si trovasse mio fratello. Il gesto di Trevor era stato una vera e propria mancanza di rispetto nei miei confronti. Soltanto la sera prima ci eravamo quasi confessati di essere innamorati ed in quel momento era bastato la vista di James per fargli ferire i miei sentimenti. Cosa diavolo gli era passato per la testa? Probabilmente niente, perché nessuna persona sana di mente, seppur impressionabile, sarebbe scappata in quel modo sapendo quanto quell’incontro fosse importante per me.
Mi passai una mano sugli occhi cercando di asciugare le lacrime che purtroppo continuavano a cadere. Non riuscivo neanche ad immaginare cosa avrebbe detto per giustificarsi e soprattutto cosa gli avrei risposto io. Potevo accettare il suo comportamento anche se mi aveva ferita e umiliata? Avrei tanto voluto rispondere di no, ma sapevo che quando Trevor sarebbe venuto a cercarmi, con o senza delle scuse fasulle o forse anche sincere, io l’avrei perdonato senza battere ciglio. Chi volevo prendere in giro? Era ovvio che io non mi stessi soltanto innamorando, io l’amavo già e da morire. E forse, visti in quest’ottica, i discorsi dei miei genitori non sembravano poi del tutto insensati. Trevor mi stava davvero cambiando, o meglio io stavo cambiando per potermi adattare a lui? Io mi sentivo sempre me stessa, ma forse il fatto che potessi tralasciare su una cosa del genere diceva molto di più di quanto credevo. Se un’altra persona fosse scappata in quel modo da James non gli avrei più rivolto la parola, ma la sola idea di escludere Trevor dalla mia vita mi terrorizzava come non mai. Ero patetica.
Proprio mentre stavo tirando su con il naso, sentii la porta dell’antibagno aprirsi e, per evitare di svelare la mia presenza, mi zittii all’istante. In fondo c’erano tre bagni, chiunque fosse poteva sfruttare uno degli altri due lasciandomi in santa pace.
«Linny, tesoro, sei qua dentro?». Era proprio l’ultima voce che mi sarei aspettata di sentire, anche se dovevo immaginare che sarebbe venuta anche lei a trovare James quella mattina.
«Kathleen lo so che sei qui. Me l’ha detto Trevor». Il fatto che avesse parlato con lui avrebbe dovuto preoccuparmi, ma in quel momento nella mia mente passò in secondo piano. Mia madre era proprio l’ultima persona che avevo intenzione di vedere. Trovandomi così avrebbe esultato ed esclamato che in fondo aveva sempre avuto ragione lei.
«Va bene, fai come vuoi, ma dovresti uscire da qua», continuò.
«Vattene via mamma», sbuffai, sapendo che era inutile rimanere in silenzio. «Lasciami in pace».
«A fare cosa? Ad autocommiserarti? A piangerti addosso?».
«Cosa vuoi che ti dica mamma?», sbottai. «Che avevi ragione? Beh probabilmente avevi ragione».
«No invece». Sbattei le palpebre stentando a credere alle mie orecchie. Mi ero immaginata quelle due parole?
«Non avevo ragione Kathleen», ripeté quasi riuscisse a percepire la mia incredulità. «E dovresti uscire fuori per vedere tu stessa».
Ero talmente allibita dalle sue parole che inconsciamente feci come mi aveva chiesto ed aprii la porta del mio momentaneo rifugio. Là davanti a me si ergeva Caroline Jefferson in tutta la sua statuaria bellezza, avvolta in uno dei suoi tanti completi firmati, con un trucco perfetto, senza neanche un capello fuori posto. Notai una scintilla di disapprovazione nel suo sguardo nello scorgermi con gli occhi rossi, senza un filo di trucco, con i ricci talmente crespi da sembrare una matassa inestricabile. Tuttavia non disse una parola sul mio aspetto e quella scintilla si estinse subito, sostituita da un’espressione che non ero abituata a ricevere: della comprensione.
«Adesso dovresti sciacquarti il viso e venire con me da tuo fratello». Aveva usato il condizionale, ma il suo tono era stato perentorio. Non mi lasciava molte alternative e per questo obbedii silenziosamente al suo ordine, non sapendo bene cosa dire.
Fu lei a parlare mentre mi asciugavo il viso. «Ho trovato Trevor di fronte alla stanza di tuo fratello», buttò lì. «All’inizio ho stentato a riconoscerlo, devo essere sincera». Ovvio, non era preparata per tutti quei piercing e sicuramente era molto diverso da come gli era apparso la sera prima.
«Mi ha spiegato cosa è successo». Anche se ero curiosa di sapere cosa le avesse detto continuai a restare zitta. Quale era la versione dei fatti di Trevor? Cosa si era inventato per giustificare il suo comportamento? E soprattutto era tornato lì a cercarmi? Per parlarmi?
«Sapevo di trovarti qua», continuò sicura di sè.
«Come facevi a saperlo?». Era la prima volta che azzeccava qualcosa che mi riguardasse.
«Credi che io non ti consideri Linny, ma ti sbagli, non sai quanto». La guardai sbattendo le palpebre, sapendo bene che quella era sicuramente la più grossa dichiarazione di affetto che mi avesse fatto da quando ero bambina.
«Vieni a vedere Linny», tagliò corto uscendo dal bagno e aspettando che io la seguissi. Mi riportò da James e quando entrai nella stanza quello che vidi mi lasciò letteralmente a bocca aperta. Trevor era lì, seduto sulla sedia accanto al letto di Jamie e sembrava intento a parlare con lui. Un bel cambiamento dalla sua fuga di prima! Una vera e propria inversione di marcia.
Quando entrammo nella stanza, il rumore dei tacchi di mia madre attirarono la sua attenzione, facendolo voltare. Mi trafisse con i suoi penetranti occhi celesti, fissandomi con l’espressione più colpevole e dispiaciuta che potesse assumere.
«Ciao…», mormorò scrutandomi attentamente. Io rimasi in silenzio, guardandolo senza sapere cosa dire o cosa pensare. Non sapevo bene neanche cosa provavo: ero arrabbiata con lui o ero sollevata che fosse tornato? Forse un po’ tutte e due.
«Mi stavo scusando con tuo fratello», continuò, studiandomi attentamente. «Il modo in cui mi sono comportato è stato inaccettabile. Sono stato imperdonabile… un vero cafone. Non ci sono scuse che possano giustificare il mio gesto». Era sincero, glielo leggevo negli occhi e sentii il mio cuore alleggerirsi un pochino.
«Comunque per quel che vale, scusami Katy». E poi fece qualcosa che mi lasciò letteralmente senza fiato. Si voltò verso il letto e si rivolse direttamente a mio fratello. «Scusa James».
Mi si mozzò il respiro in gola e una serie di emozioni mi si cominciarono ad agitare dentro, non riuscendo bene a distinguerle le une dalle altre. E fatto ancora più eclatante, sentii la mano di mia madre appoggiarsi sulla mia schiena, come se capisse quanto quel gesto fosse importante e fosse lì per sostenermi e capirmi come non aveva mai fatto.
«Stavo inoltre dicendo», continuò Trevor tornando a guardarmi, «e James ne è testimone, che io ci tengo davvero tanto a te Kathleen, anche se certe volte mi comporto da stupido».
Il mio cuore partì in quarta e le farfalle iniziarono a danzarmi nello stomaco. Sapevo già che l’avrei perdonato, ma come non farlo dopo ciò che aveva detto o fatto? Era scappato e mi aveva ferito, ma era anche tornato sui suoi passi e stava facendo di tutto pur di fare ammenda. Mi stava dimostrando che non mi ero sbagliata del tutto su di lui, che era davvero il ragazzo dolce e profondo che amavo; mi stava provando che una semplice azione sbagliata non doveva offuscare tutto quello che di bello e giusto c’era stato.
«Beh certe volte anch’io mi comporto da stupida», ammisi sentendo gli angoli delle labbra tendersi all’insù. Il sorriso che comparve sul volto di Trevor non era minimamente paragonabile: era abbagliante.
«Molto spesso direi, non solo a volte», intervenne mia madre, andando a sedersi sulla poltrona dall’altra parte del letto. «Giusto Jamie?». Gli prese la mano e gli rivolse il suo sorriso più sincero.
«Non è vero», borbottai avvicinandomi al letto e sedendomi a mia volta.
«Oh invece sì», continuò lei. «Sei una ragazza molto intelligente Linny ma a volte ti lasci un po’ offuscare dalle piccole cose». Stavo per ribattere ma mi resi conto che alla fine dei conti era vero. Da quando mia madre mi capiva così? Ero stata davvero così cieca e piena di pregiudizi nei suoi confronti da non accorgermi che alla fine non era quel mostro che credevo?
E proprio quando pensavo di riabilitarla un poco, tirò fuori uno degli argomenti di conversazione più spinosi che ci fosse. «Allora Trevor, parlaci un po’ di te. Io e James siamo curiosi di sapere un po’ di più, dobbiamo capire chi frequenta la nostra piccola Linny».
Trevor tuttavia non si scompose, ma rimase impassibile, quasi si aspettasse una domanda del genere. «In realtà non c’è molto da dire, oltre a quello che è già emerso ieri sera». Guardò per un attimo mio fratello per poi tornare a posare lo sguardo su mia madre. «Ma visto che James non c’era, farò un breve sunto: vengo da Boston, dove vivevo con mia madre. Mio padre, il signor Simons, ci ha lasciati quando io avevo quattro anni; mia madre non ha mai voluto nulla da lui, ce la siamo cavata sempre io e lei. Negli ultimi anni ho avuto dei problemi di salute, di cui non parlo molto volentieri, e che mi hanno costretto, diciamo così, a rintracciare mio padre. Mi sono trasferito qua per poter finire la scuola e diplomarmi, ero stanco di Boston e dovevo assolutamente cambiare ambiente». Mi chiesi quante altre volte avesse recitato quella parte: i problemi di salute, cambiare aria; era il suo copione, ma io sapevo la verità. Senza farmene accorgere allungai la mano e strinsi la sua, facendogli capire che io ero al suo fianco sempre e comunque.
«Immagino che non sia stato facile crescere senza un padre», commentò mia madre.
«Non sono in grado di fare un confronto perché, nonostante che io sia qua e che viva a casa sua, non riesco a considerarlo mio padre, non si merita questo titolo». Era stato sincero e mi sorprese che avesse scoperto così le sue carte, ma mia madre, al contrario, non sembrò affatto turbata.
«È comprensibile», ammise. «Anche io non ho mai conosciuto mio padre». La fissai sbigottita da quell’affermazione: di solito lei non parlava mai della sua famiglia prima di essere diventata una Jefferson. Eravamo abituati a vedere la nonna materna solo una volta all’anno, se andava bene, e lei evitava scaltramente ogni minimo contatto.
«Cosa?», balbettai. «Pensavo che il nonno fosse morto quando eri piccola».
«Beh è quello che alla nonna piace raccontare, non vuole ammettere che semplicemente se ne andato lasciandola incinta e sola».
«Io… io non lo sapevo», ammisi e mi sentii terribilmente in colpa per quello.
«Lo so», ammise ridacchiando. «Tuo padre è sempre stato l’unico a saperlo».
«E perché ce l’hai detto adesso?». Perché scoprirsi in questo modo, soprattutto con me?
«Perché capisco ciò che Trevor ha detto e so cosa vuol dire». Perché nonostante la nostra conversazione telefonica della sera prima sembrava comportarsi in maniera più che amichevole con Trevor? Perché era così gentile e comprensiva, come non lo era mai stata, con chi avrebbe dovuto disapprovare?
«Grazie signora Jefferson lo apprezzo molto», rispose l’altro rivolgendole uno sguardo sincero.
«Chiamami pure Caroline, Trevor». Sbattei le palpebre ancora incredula, non riuscendo a riconoscere la persona che avevo davanti. Perché tutto ad un tratto mi sembrava di aver sempre giudicato in maniera sbagliata mia madre? Da quando non era più la persona superficiale e pignola che conoscevo così bene? Ero stata io cieca o era lei ad essere diversa?
 
Trascorremmo con James ancora un po’ di tempo, parlando di argomenti meno pesanti, come del fatto che sia mio fratello che Trevor amassero le macchine da corsa, o che detestassero il tennis – non che mia madre non avesse provato a farlo piacere a Jamie. Io, riguardo a quel punto, ero stata purtroppo destinata a delle lezioni private con Queen che erano terminate con una corsa al pronto soccorso e un braccio rotto.
Sapendo che mia madre mi avrebbe direttamente riaccompagnato a casa, lasciai che lei salutasse Jamie da sola e accompagnai Trevor fuori dalla stanza per poter parlare da sola con lui.
«Oh Katy», iniziò una volta che fummo lontani da orecchie indiscrete. «Mi dispiace tanto, io non avrei dovuto… non so neanche cosa mi è preso. Non so neanche spiegartelo, è solo complicato. Mi sono comportato da sciocco e lo so che ti ho ferita».
«Non fa niente Trevor». Aveva in parte rimediato al suo sbaglio iniziale.
«Non è vero. Io ti ho fatto piangere e mi odio per questo. Sono proprio uno stupido, è stato più forte di me e anche se sapevo che era profondamente sbagliato non sono riuscito a fermarmi. È incredibile come riesca a mandare tutto a puttane e a rovinare tutto».
«Non hai rovinato niente», lo fermai, prendendogli una mano. «Sei tornato, è questo l’importante».
«Non sarei dovuto nemmeno scappare».
«Ma sei tornato, hai fatto la cosa giusta e dopo sei stato fantastico». Mi alzai sulle punte e lo baciai sulla guancia per fargli capire che era tutto a posto.
«Non sono fantastico e, per quanto tu ti ostini a vedermi in quel modo, non sono perfetto e meraviglioso come credi. Sono solo un concentrato di problemi non indifferente». Si stava sottovalutando, anche se immaginavo che in parte avesse ragione.
«Beh allora è una vera fortuna che anch’io sia un concentrato non indifferente di problemi». Gli sorrisi e lo guardai in modo rassicurante. Proprio in quell’istante vidi mia madre uscire dalla stanza di James e individuarci con lo sguardo.
«Allora è tutto a posto tra di noi?», continuò. Essendo di spalle non poteva vedere che mia madre ci stava guardando e perciò mi passò una mano dietro la schiena attirandomi di più a sé.
«Sì, è tutto a posto», confermai cingendogli il collo con le braccia e guardando sopra la sua spalla.
«Tua madre ci sta osservando?». Assunse un’espressione divertita, notando il mio sguardo perso altrove.
«Sì». Emisi un lungo sospiro, non tanto perché lei era lì a guardarci quanto perché non sapevo più cosa diavolo pensare sul suo conto.
«Vuoi che ti baci?». Dal suo tono e dai suoi occhi capii che non si riferiva solo ad un semplice bacio a stampo. Era troppo malizioso per accontentarsi solo di quello.
«Oh sì», ridacchiai, non resistendo alla tentazione di far uscire una bella espressione di disapprovazione sul volto di mia madre.
In meno di un secondo mi ritrovai in punta di piedi con le labbra di Trevor premute sulla mie e la sua lingua come ospite ben voluto nella mia bocca. Affondai le dita nei suoi capelli mentre lui mi dava uno dei suoi baci mozzafiato. C’era un motivo se il mio cervello smetteva di ragionare in momenti come quello ed il fatto era che Trevor era dannatamente bravo.
Quando ci staccammo per riprendere fiato appoggiò la fronte sulla mia, facendo strusciare insieme i nostri nasi.
«Devo andare», sospirai.
«Ti chiamo più tardi. Va bene?».
«Ci conto». Lo baciai dolcemente sulla guancia e lasciai che si avviasse lungo il corridoio, verso le scale, mentre io tornai da mia madre.
«Linny stai mettendo a dura prova la mia pazienza, lo sai?».
La guardai assumendo un’espressione innocente, anche se sapevo benissimo a cosa si riferiva.
«Non avresti dovuto baciarlo in quel modo, soprattutto in un luogo pubblico».
«Probabilmente è vero», ammisi. «Ma non mi importa». Mi resi conto che solo poco tempo prima non avrei avuto il coraggio di risponderle in quel modo. Forse Trevor mi stava facendo davvero cambiare, ma non era una cosa negativa. Ero più sicura di me, più intraprendente, più coraggiosa.
Ne ebbi la prova quando mi ritrovai da sola con lei nello stretto abitacolo della sua auto. Volevo sapere cosa era successo per farla comportare in quel modo, cosa diavolo aveva in mente e come mai aveva cominciato ad essere una persona completamente diversa da quella che conoscevo. Preferivo al cento per cento quella versione, intendiamoci, ma non era la madre che ero abituata a vedere. Volevo delle risposte e non avrei atteso oltre.
«Perché lo hai fatto?», domandai interrompendo il silenzio.
«Fatto cosa?».
«Perché ti sei comportata così oggi con Trevor? Pensavo che dopo ieri sera avessi messo in chiaro che lui non fosse adatto a me, che papà e Queen avevano ragione su tutto».
«Lo pensavo», ammise. «Dopo che hai dato di matto, facendo quella scenata ridicola e scappando di casa senza giacca né telefono, lo pensavo davvero».
«E allora cosa è cambiato?».
«Sono andata in camera tua», buttò lì. La mia mente fu catapultata nella mia stanza dove il mio diario (o meglio quello destinato a Jamie) faceva bella mostra di sé sopra il mio letto.
«Non avrai letto il mio diario!», urlai avvampando per la rabbia. Se l’avesse fatto…
«No, certo che no», mi zittì con tono risoluto.
«Ah». Mi rilassai di nuovo contro lo schienale e aspettai che continuasse.
«Ho trovato il tuo cellulare», confessò.
«Hai ficcato il naso nel mio cellulare?». Tornai a voltarmi sconvolta verso di lei alzando la voce.
«Mio Dio Linny, no. Non ce n’è stato bisogno, sei un po’ troppo possessiva nei confronti delle tue cose. E anche se l’avessi fatto, in fin dei conti, ne avrei avuto tutto il diritto, visto che non sapevo dove fossi o come rintracciarti».
Sospirai, riconoscendo che in parte aveva ragione. Non era stata una grande idea quella di andarmene senza voltarmi indietro neanche per prendere il cappotto. «Continua».
«Non ho ficcato il naso nel tuo telefono perché non sapevo come sbloccarlo. Comunque non mi è servito perché mi è bastato vedere questa». Tenendo il volante con una sola mano, frugò nella sua borsa ed estrasse il mio cellulare. Le bastò premere il tasto laterale affinché lo schermo si illuminasse e apparisse una foto di me e Trevor. Era una che mi aveva mandato Evan: non sapevo minimamente quando l’avesse scattata, ma Trevor mi abbracciava, sussurrandomi qualcosa all’orecchio, ed io sorridevo non rivolta all’obbiettivo ma da un’altra parte. Era una foto spontanea e mi era piaciuta a tal punto che l’avevo messa come sfondo per la schermata di blocco.
Afferrai il cellulare per permetterle di riprendere il volante e la guardai non riuscendo ad afferrare ciò che mi stava suggerendo. «Non capisco, cosa c’entra questa foto?».
Sospirò e, prima di continuare a parlare, mise la freccia e accostò sul ciglio della strada. Si slacciò la cintura e si voltò leggermente verso di me. «Linny lo so che io e te siamo diverse. Abbiamo due caratteri che difficilmente riescono ad andare d’accordo. So che sono severa con te certe volte e che tu mi consideri solo una persona superficiale».
Stavo per negare, ma mi fermai riconoscendo che avrei detto una bugia. Era così e mi sorprendeva che la cosa fosse chiara ad entrambe.
«Appunto lo sappiamo. È vero penso molto all’aspetto fisico, ai vestiti, all’apparenze, a quello che la gente pensa di noi e a fare bella figura. Queen è perfetta in questo, è capo cheerleader, reginetta del ballo, è la ragazza più popolare della scuola, è quello che avrei voluto essere io. E poi ci sei tu che sei diametralmente opposta a me e a lei e tu pensi che per questo io non ti veda; è ovvio che vorrei che su alcune cose assomigliassi di più a tua sorella, nel modo di vestire o anche solo come carattere, ma solo per riuscire ad avere un punto di contatto. Io non so come relazionarmi con te se non cercando di farti avvicinare a quello che è il mio mondo». Era una spiegazione che non mi sarei mai aspettata, però le sue parole avevano un senso. Adesso capivo in parte il suo comportamento nei miei confronti e ne ero davvero sollevata.
«Tuttavia», continuò, «tu credi di scomparire in confronto a Queen, di non avere più importanza per me».
«Non è così? Secondo te Queen è perfetta ed io non sarò mai alla sua altezza». Non ero mai stata così sincera con lei, ma d’altronde era stata lei la prima ad essere onesta.
«No, tu non scompari Kathleen. Non so da dove ti sia uscita questa idea che preferisca lei a te. Siete mie figlie tutte e due e il fatto che io e te non andiamo d’accordo non vuol dire che ti consideri di meno. Non sono un tipo affettuoso Linny, non sono quel genere di persona capace di amare senza limiti, come invece sai fare tu, ma non vuol dire che non ti voglia bene».
Ero rimasta senza parole, mentre una strana emozione mi stringeva il petto. Se mi avessero raccontato che avrei assistito ad una dichiarazione del genere da parte di mia madre, probabilmente sarei scoppiata a ridere e non ci avrei creduto. Eppure era la verità.
«E questo cosa c’entra con Trevor e la foto?», mi sforzai di parlare.
«C’entra perché tu pensi che io non ti noti nemmeno, ma non è così. Linny da quando James è in quell’ospedale, fermo in quel letto, la nostra vita è cambiata radicalmente. E mentre tuo padre e Queen cercando di superare la cosa, io e te non abbiamo nessuna intenzione di arrenderci. Lottare per James è forse l’unica cosa in comune che abbiamo. Comunque arrivo al punto: da quando James ha avuto l’incidente tutti noi abbiamo perso qualcosa e per te quel qualcosa è il tuo sorriso. Tu non sorridi più; forse non te ne accorgi neanche, ma io sì. Se ridi o sorridi, non lo fai mai con tutta te stessa, con quella spontaneità con cui lo facevi con tuo fratello.
E poi ieri sera, dopo che mi hai chiamato, ho preso il tuo telefono e ho visto questa foto. Linny sei così felice là tra le sue braccia, del tutto spontanea, con un sorriso sincero che credevo che non avrei più rivisto. Io non so se sia lui oppure altro a renderti felice in questo periodo, ma non voglio prendere posizione a riguardo».
Sbattei le palpebre cogliendo il senso di tutto il suo discorso. «Non sei d’accordo con papà? Non credi che Trevor sia una cattiva influenza solo perché ha commesso degli errori e non ha le stesse ambizioni della nostra famiglia?».  
«Beh ammetto che il suo aspetto non è rassicurante, anche se devo riconoscere che il suo sforzo per piacerci ieri sera è stato enorme. Tutti quei piercing e quei tatuaggi sono qualcosa che mi fa un po’ rabbrividire e spero bene che tu non voglia rovinare il tuo corpo come ha fatto lui».
«Oh no, tranquilla», la rassicurai sorridendo.
«Bene, detto questo, posso dirti che se per merito suo tu sei felice, finché continuerai a comportarti come si deve, ad avere una media eccellente per poter entrare in uno dei migliori college, io non avrò niente contro di lui».
«Vuoi dire che non mi stai vietando di vederlo? Che approvi?». Era qualcosa di talmente inaspettato che ero rimasta a corto di parole, del tutto sbalordita.
«Tuo padre mi ucciderà per questo, ma io non mi schiererò contro di te o contro il tuo ragazzo».
Ero così commossa da quell’improvvisa e inaspettata connessione che l’abbracciai di slancio, travolgendola con un gesto a cui entrambe non eravamo abituate. «Grazie».
«Di sicuro non lo inviterò alle feste di famiglia», ironizzò lasciandomi andare.
«Non credo che sarà un problema, penso che gli farai un favore», scherzai.
«Immagino già cosa direbbero le mie amiche vedendolo. Sono così pettegole, non smetterebbero di parlarci dietro».
«Come se già non lo facessero». Doveva saperlo bene anche lei.
«Lo so che lo fanno, ma conosco segreti che potrebbero compromettere tutte quante». Non conoscevo quell’aspetto di mia madre, ma iniziavo a capire che forse avevo visto solo una parte di lei e che il suo carattere così diverso dal mio mi aveva fatto erigere una barriera che mi aveva impedito di comprendere veramente chi fosse.
«Mamma», iniziai volendo essere sincera almeno quanto lei, «Trevor non è una cotta passeggera. Non sto con lui per ribellarmi, o per una qualche fisima adolescenziale».
«Lo so. Non ho mai pensato che fosse una semplice ribellione nei nostri confronti».
«Quindi è appurato che non è per spirito di contraddizione che sto con lui. Se tu approvi, io non smetterò automaticamente di provare interesse per lui».
«Certo che no».
«Io ne sono innamorata e non so se pensi che lui mi stia cambiando o che io stia cambiando per piacere a lui. Io non so se è così, ma mi sento me stessa quando sto con Trevor ed era tanto tempo che non mi sentivo così con nessuno».
«Lo capisco e penso che per lui sia lo stesso».
«Lo è». Non ne ero certa, ma lui non aveva mai detto il contrario.
«Allora mi sa che dovremo iniziare a discutere di argomenti importanti. Come per esempio il fatto che dovremo fissare un appuntamento dalla ginecologa».
Arrossii di colpo, non aspettandomi quella piega improvvisa del discorso. Tuttavia ripensando alla notte precedente non potevo negare che avesse ragione. Prima o poi – forse più prima che poi – io e Trevor saremo diventati più intimi ed era bene che io ci arrivassi preparata. «Penso di sì», sussurrai talmente piano che lei riuscì a stento a sentirmi.
«Ti farò la stessa domanda che feci a Queen dopo che si era messa con Sean: è già successo?».
«No», balbettai, aggiungendo poi la cosa più importante, «non ancora».
«Bene, allora fisserò un appuntamento. E adesso possiamo dimenticare la parte imbarazzante e tornare a casa prima che tuo padre cominci ad andare su tutte le furie». Così dicendo riaccese la macchina e si immise di nuovo nella carreggiata. Quello che era appena successo aveva dell’incredibile: avevamo appena avuto un momento madre/figlia, uno di quei momenti che mai avrei pensato di condividere con lei. Non sapevo come gestire questo improvviso cambiamento, ma non potevo che esserne felice. Felice di essermi sbagliata e di averla giudicata male.
Mi tornarono alla mente le parole che Jamie mi diceva sempre quando litigavo con lei. “So che può essere difficile Kitty ed insopportabile, ma ti ostini a vedere solo una parte della mamma, quella che non ti piace”. Io gli rispondevo sempre che era facile parlare per lui visto che era il primogenito nonché il suo preferito. Tuttavia solo in quel momento mi accorsi che con molta probabilità James aveva sempre avuto ragione.
 
Più tardi quella sera, come promesso, ricevetti la chiamata di Trevor.
«Ehi piccola che stai facendo?», mi domandò mentre io lasciavo perdere i libri e mi distendevo sul letto, per poter chiacchierare liberamente con lui.
«I compiti». Era scontato, ma anche la verità.
«Dovevo immaginarlo», ridacchiò.
«E tu? Non dovresti studiare anche tu?».
«Sì, beh un po’ ho studiato», mentì spudoratamente.
«Bugiardo».
«Non puoi saperlo», ribatté. «La mia media è molto migliorata da quando ti conosco».
«Tecnicamente mi conosci da quando hai ricominciato la scuola, quindi è ovvio che la tua media sia migliorata visto che prima non ci andavi. E comunque da ciò che mi hai detto non credo che i tuoi voti fossero la tua principale priorità neanche prima».
«E va bene. Hai vinto tu Katy. Studierò». Ero pronta a scommettere che avesse alzato gli occhi al cielo anche se non potevo vederlo.
«Bravo. Ma comunque che stavi facendo se non studiavi?».
«Lavoravo alla mustang, non manca molto, lo sai?». L’eccitazione nella sua voce era palpabile.
«Mi porterai a fare il giro di inaugurazione?». Conoscevo già la risposta, ma sapevo che sarebbe stato felice della mia domanda.
«Ovvio Katy. L’onore spetta solo a te, e a me naturalmente. Comunque come è andata con tua madre? Tutto bene?».
«Sì», risposi con sincerità. «Sì tutto bene. È strano, ma alla fine penso di aver trovato un punto di contatto con lei».
«Buon per te Kathleen».
«Lei ci approva Trevor», gli rivelai.
«Cosa?».
«Noi due, Trev. Per lei va bene, non ci ostacolerà. Credo che alla fine tu le piaccia».
«Sul serio?». Sembrava incredulo almeno quanto lo ero stata io.
«Già. Non avrei mai pensato che tra tutti, fosse proprio mia madre a vederti per quello che sei realmente e non solo per il tuo aspetto o per i pettegolezzi».
«Mi piace tua madre», disse. «Nel senso buono del termine intendiamoci, visto che ha messo al mondo la mia bellissima e dolcissima ragazza».
Scoppiai a ridere, sentendomi molto più leggera e rilassata. «Non starai esagerando?».
«Per niente. Tuo padre invece?». La sua voce era tornata di nuovo seria, sapendo che il verdetto doveva per forza essere negativo.
«Beh con mio padre è un’altra storia», affermai. «Quando sono tornata a casa ho ritenuto opportuno, per il quieto vivere, scusarmi per essere scappata in quel modo. Tuttavia gli ho detto che non mi scusavo per ciò che avevo detto e che non avrei obbedito al suo divieto. Ho messo in chiaro che non smetterò di vederti a prescindere da ciò che dice lui e che, finché il mio rendimento a scuola rimarrà invariato, lui non potrà mettere bocca sulle mie relazioni».
«E lui?».
«Non gli è piaciuto, ma d’altra parte cosa potrebbe fare? Ha borbottato qualcosa e si è chiuso nello studio».
«Beh credo che dovrei essere lieto di aver avuto l’approvazione di due quinti della famiglia, non considerando tuo nonno ovviamente».
«Hai l’approvazione di tre quinti», lo corressi.
«Come?».
«Jamie. Nonostante l’inizio davvero tragico, ti sei riscattato bene alla fine».
«Katy io…». Sapevo che stava per scusarsi di nuovo, ma davvero non ce n’era bisogno.
«Trevor», lo fermai. «Lo so, non scusarti più. Qualsiasi cosa sia successa adesso è passata».
«D’accordo. Allora perché non parliamo del fatto che mi manchi già e che vorrei tanto baciarti e passare di nuovo la notte con te».
«La tua frase suona un po’ ambigua, dato che abbiamo solo dormito».
«Solo per merito mio piccola, solo per merito mio». Arrossii riconoscendo che aveva ragione.
«Beh forse sì», ammisi in un sussurro.
«Non vedo l’ora di arrivarci Kathleen», mi confessò mandando in fibrillazione il mio cuore. «Voglio tutto di te». Ed era proprio quello che volevo anch’io.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12
 
I giorni passarono velocemente in quel freddo inverno, portandosi con loro alti e bassi. Nonostante le continue pressioni da parte di mio padre, continuai ad uscire con Trevor proprio davanti ai suoi occhi, senza che lui potesse fare nulla per impedirlo. Proprio per questo iniziò a tartassarmi sempre più spesso con domande sull’università e sul college e, purtroppo, anche quello era per me un argomento spinoso. Avevo deciso che non mi sarei allontanata da casa una volta finito il liceo e sfortunatamente nessuna università prestigiosa rientrava nella zona desiderata; questo mi avrebbe impedito di frequentare le sue amate accademie, per scegliere invece un istituto pubblico che per lui non era all’altezza della mia istruzione. Forse su quel punto aveva ragione – come mi aveva fatto notare anche Trevor quando gli avevo rivelato di non aver spedito nessuna domanda ai college dell’Ivy League – ma io non me la sentivo di allontanarmi da James, ne ero ancora troppo legata. Oltre a questo, il fatto che Trevor sarebbe rimasto in città era un incentivo a non partire e a non andarmene dall’altra parte del paese.
Per nostra sfortuna quando la verità sarebbe venuta a galla, mio padre avrebbe dato inevitabilmente la colpa a Trevor, anche se era stata una mia decisione presa ancor prima di conoscerlo. Anzi Trevor stesso si era risentito e arrabbiato quando glielo avevo confessato, dicendo che era davvero assurdo sprecare un’intelligenza come la mia; capiva le mie motivazioni, ma aveva definito la mia decisione stupida e sciocca. Mi aveva detto che stavo sprecando la mia vita per qualcosa di inutile ed erano state davvero le parole più dure che mi avesse mai rivolto. Tuttavia, una volta calmo, si era scusato e aveva aggiunto che la decisione era soltanto mia e che se ne ero davvero sicura lo avrebbe accettato. Se restare là era ciò che desideravo, non avrebbe più detto una parola sull’argomento. E così era stato, anche se sapevo che non era d’accordo.
Quindi nonostante alti e bassi gennaio volò via e ancor prima di rendermene conto arrivò febbraio con il nostro primo mesiversario. Quella mattina Trevor arrivò a scuola con una bellissima rosa rossa che mi fece arrossire, ma che mi rese anche immensamente orgogliosa; non notai neanche che molti ci fissavano mentre me la porgeva di fronte agli armadietti e mi baciava con passione.
Ero certa che se ne sarebbe ricordato ma vederlo compiere un gesto così romantico, mi aveva praticamente sciolto. Comunque anch’io non ero rimasta con le mani in mano e prima di entrare a scuola ero passata a comprargli un muffin cioccolato e banana, il suo preferito. Non era niente di particolare, ma avevamo deciso di comune accordo di non fare gesti eclatanti anche se era una ricorrenza importante.  Il fatto che cadesse proprio nel mezzo della settimana, prima di un compito difficile – come gli avevo fatto notare – ci aveva trattenuti dall’uscire a festeggiare quella sera, sapendo però che avremo recuperato durante il finesettimana.
Infatti quel sabato ci sarebbe stata la prima dello spettacolo di Romeo e Giulietta di cui Queen mi aveva regalato i biglietti per il compleanno.  A quel tempo le avevo promesso di andarci con lei, ma mi pareva ovvio che, dopo ciò che era successo, quell’offerta non fosse più valida. Così quando Trevor si era offerto di accompagnarmi, nonostante non fosse esattamente il suo genere, tanto che avrebbe rischiato di addormentarsi a metà spettacolo, avevo accettato volentieri proponendogli di festeggiare così il nostro mesiversario. Saremmo andati a cena fuori ad Watertown e poi al teatro: sarebbe stato perfetto.
Fu per questo che, quel sabato, mi ritrovai eccezionalmente a chiedere aiuto a mia madre per acconciarmi i capelli in modo che non sembrassero la mia solita criniera leonina. Avevo indossato un tubino nero, un po’ troppo corto e stretto per miei gusti ma che Trevor avrebbe sicuramente apprezzato; mi ero truccata e ci avevo abbinato la parure che i miei genitori mi avevano regalato per il compleanno. Per una volta nella vita mi sentivo sexy e desideravo davvero esserlo; volevo che Trevor mi guardasse a bocca aperta e non riuscisse più a staccarmi gli occhi di dosso. Era un bel passo avanti per una che non aveva mai voluto essere al centro dell’attenzione.
Proprio mentre mia madre mi stava finendo di sistemare i capelli, Queen entrò nella stanza, tenendosi un asciugamano sopra la testa.
«Linny hai preso la mia piastra?». Si bloccò trovandomi con la mamma; dovevamo essere una strana visione: io e la mamma nella stessa stanza senza litigare, ma intente in attività che rendevano nostra madre estremamente felice.
«Scusami tanto Queen, l’ho presa io per sistemare i capelli a tua sorella».
«Oh non fa niente», mormorò studiandomi attentamente. «Sei già pronta Linny?». Sembrava stupita, ma non ne capivo il perché. Visto che dovevamo anche cenare io e Trevor avevamo deciso di partire presto per non rischiare di arrivare tardi poi allo spettacolo. Ma a Queen di tutto quello non doveva importare proprio nulla.
«Trevor viene a prendermi tra dieci minuti», affermai mantenendo un tono neutrale.
«Trevor?». Mi guardò sbalordita, sbattendo più volte le sue folte ciglia. «Mi sono persa qualcosa? Non c’è lo spettacolo stasera? Dovevamo andarci insieme, in fondo i biglietti sono un mio regalo». Non sapevo se scoppiare a ridere oppure cominciare ad urlarle contro. Davvero aveva creduto che ci saremmo andate come due brave sorelle dopo tutto ciò che aveva fatto al ballo? Per non parlare del suo tentativo di screditare Trevor agli occhi dei nostri genitori! Anche se non le avevo detto nulla, credevo fosse chiaro che il nostro accordo era saltato. Non era stupida, l’avrebbe capito anche un bambino!
«Mi pare ovvio che abbia deciso di non andarci con te», replicai, cercando di restare calma.
«Ovvio?». Al contrario di me Queen sembrava sul punto di perdere la pazienza.
«Non ti sarai mica aspettata che passassi la serata con te dopo tutto ciò che è successo? Non ti facevo così stupida». Ero stata cattiva, ma ero arrivata al limite con lei. La gentilezza non ci aveva portato da nessuna parte.
«Linny!», mi rimproverò mia madre.
«Va bene», borbottai. «Scusa, ma davvero Queen come puoi pensare che voglia passare la serata con te dopo ciò che hai detto e fatto a me e a Trevor?». Non nominai il ballo per evitare che mia madre sapesse tutta la verità, comunque mia sorella poteva ben cogliere il mio riferimento.
«Ho detto a Sean che stasera poteva uscire con i ragazzi, visto che io e te avevamo fissato già da tempo questo impegno. Cosa dovrei fare adesso?».
«Beh guarda un film», risposi scrollando le spalle. «Leggi un libro, non lo so».
«Mamma!». Queen si rivolse direttamente a lei, sapendo che avrebbe trovato un alleato sicuro. «Linny aveva chiesto a me di andarci, a suo tempo, e ho comprato io i biglietti, mi pare ovvio che debba dire a Trevor di tornare a casa. Diglielo anche tu».
«Beh Queen i biglietti sono un regalo per tua sorella, quindi spetta a lei decidere chi portare. Magari doveva dirti che aveva intenzione di andare con Trevor, ma d’altra parte è un suo diritto scegliere». Lo stupore sul volto di Queen era così evidente che avrei voluto scattarle una foto per tenerla come ricordo. Era la prima volta che nostra madre si schierava con me e non con lei; sicuramente Queen non ci era abituata e neanche io.
«Scusami tanto Queen», continuai candidamente. «Credevo che fosse chiaro che ci sarei andata con il mio ragazzo; quando ti ho chiesto di accompagnarmi era perché ancora io e Trevor non stavamo insieme. Mi dispiace se non ho specificato che la situazione era cambiata. Passa una buona serata». Così dicendo mi alzai prendendo la borsa e il cappotto sul letto e decidendo che sarebbe stato molto più saggio andare ad aspettare Trevor sul vialetto di ingresso.
Per fortuna mentre scendevo le scale sentii il cellulare vibrare, segno che lui era arrivato e che mi stava aspettando. Ed infatti quando uscii lo trovai proprio là davanti appoggiato a quella che a tutti gli effetti era la sua mustang.
«Oh mio Dio!», esultai vedendola. «È pronta?».
«Proprio così», mormorò soddisfatto sfoderando il suo migliore sorriso.
«E funziona?», gli domandai avvicinandomi e studiando attentamente l’auto.
«Se sono arrivato fin qui…».
«Cioè ce la fa ad andare ad Watertown e tornare? Non è che ci lascia a piedi?».
«Katy è davvero un sollievo sapere che hai così tanta fiducia nelle mie capacità di meccanico». Arrossii accorgendomi della mia gaffe e cercai in qualche modo di rimediare.
«No, è che sembra incredibile che tu sia riuscito a ripararla da solo. Io non ce l’avrei mai fatta».
Trevor rise, per niente offeso dalle mie parole. «Ti stai arrampicando sugli specchi».
«Stai molto bene vestito così», cambiai argomento, studiando il suo abbigliamento. Indossava camicia e pantaloni neri ed era molto elegante. I suoi piercing erano al loro posto ma nonostante ciò era perfetto per la serata che ci aspettava.
«Sei molto brava a cambiare discorso», scherzò. «Comunque anche tu sei uno schianto Katy».
«Aspetta di vedere il vestito», sorrisi mordendomi il labbro, contenta per le sue parole.
«Non vedo l’ora». Senza aggiungere altro andò ad aprirmi la portiera del passeggero come un perfetto cavaliere e mi fece accomodare.
Il viaggio per arrivare a Watertown era di circa un’ora; non era lontana, ma neanche vicinissima. Durante tutta la strada lui lasciò che giocherellassi con la radio, cambiando da una stazione all’altra e facendogli ascoltare canzoni improponibili; ci divertimmo a prenderle in giro e a scimmiottare le voci dei cantanti. Lungo l’autostrada Trevor prese la mia mano e la portò sul cambio insieme alla sua. Intrecciò le sue dita alle mie e non mi lasciò andare fino a destinazione.
Anche se eravamo usciti molte volte nel corso di quel mese ed avevamo avuto molti momenti di intimità, non mi ero mai sentita così felice. Non era solo per il fatto che stavo per andare a vedere una delle mie opere preferite, in compagnia di un ragazzo assolutamente perfetto, c’era molto di più. Io e Trevor non eravamo mai stati così vicini come in quel momento: eravamo sulla stessa lunghezza d’onda e quasi sicuramente follemente innamorati. Avevo letto molto sulle storie d’amore e avevo sempre creduto che ciò che descrivevano fosse un semplice cliché; stavo invece scoprendo sulla mia stessa pelle quanto mi fossi sbagliata e quanto quelle descrizioni fossero meravigliosamente reali.
«Per cena ho prenotato in un ristorante proprio dietro il teatro», mi informò Trevor, mentre entravamo in città.
«Ma il teatro non è nella zona più chic? Là ci sono solo ristoranti eleganti». Né io né lui eravamo persone da locali stellati, anche se purtroppo io ero abituata a frequentarli.
«Lo so, ma volevo che fosse tutto perfetto stasera». Mi guardò con la coda dell’occhio per studiare la mia reazione e poi tornò a fissare la strada.
«Pensavo che avessimo deciso di non fare niente di eclatante per il nostro mesiversario». Da quando aveva pianificato il contrario? Anche se il nostro viaggetto ad Watertown era forse stato la prima eccezione.
«Tecnicamente non è più il nostro mesiversario», mi fece notare.
«Trevor», lo rimproverai dolcemente. «Potevi portarmi a mangiare un panino prima dello spettacolo, non mi sarei offesa».
«Sì lo so». Si fermò ad un semaforo e si voltò per guardarmi. «Ma volevo regalare una serata speciale alla ragazza più speciale che conosco». Non riuscii ad evitare che un sorriso ebete mi comparisse sul viso.
Mi avvicinai a lui e lo baciai dolcemente. «Grazie».
Un colpo di clacson dietro di noi, ci informò che il semaforo era diventato verde e che stavamo ovviamente intralciando il traffico.
Il ristorante che Trevor aveva scelto era proprio dietro al teatro, ed era davvero in una posizione comoda considerando che una volta parcheggiata la macchina non avremo più dovuto preoccuparci di spostarla.
Una volta scesi, Trevor mi prese per mano e mi guidò nel locale dove un cameriere servizievole ci accompagnò al nostro tavolo. Mi tolsi il cappotto, appoggiandolo sulla sedia, e solo quando mi voltai notai lo sguardo di Trevor. Si era bloccato nell’azione di scostare la sedia e mi stava fissando con espressione che lasciava trasparire chiaramente i suoi pensieri. Di sicuro non erano affatto casti e molto probabilmente erano vietati ad un pubblico di minori.
«Oh Kathleen», sussurrò. «Sei bellissima». A chiunque altro mi avesse fatto un complimento del genere gli avrei dato del bugiardo e non gli avrei creduto. Ma la sincerità nei suoi occhi era così evidente che non potei che sentirmi gratificata. Non ero me stessa con quegli abiti, ma per una volta li avevo indossati proprio per ottenere quell’effetto. Mi sentivo bella e sexy, proprio come volevo essere per Trevor.
«Grazie», sussurrai arrossendo. Era bello sapere che certe cose non sarebbero mai cambiate.
«Non so come sia possibile che nessun ragazzo ti abbia notata prima di me».
«Beh sai non sono molte le occasioni in cui mi vesto in questa maniera. L’assenza di trucco e la criniera di capelli che mi ritrovo devono aver fatto da deterrente». Mi sedetti e lasciai che lui facesse lo stesso.
«No invece. Non sono il trucco, gli abiti o i capelli. Sei tu». La serietà con cui l’aveva detto mi fece battere il cuore all’impazzata. «Non so ancora come diavolo possa essere così fortunato».
Allungai una mano sul tavolo per prendere la sua. «Posso dire lo stesso lo sai. Ti sottovaluti un po’ troppo».
«Beh vuol dire che ci siamo trovati: due persone con l’autostima a terra».
Stavo per aggiungere altro, ma il cameriere arrivò per portarci il menù, mettendo fine a quel momento magico. Tuttavia quella serata era appena all’inizio e si stava rivelando davvero speciale come aveva voluto Trevor.
 
Dopo esserci rimpinzati per bene – Trevor aveva insistito per farmi prendere anche il soufflé al cioccolato – e dopo aver pagato – tutto lui nonostante le mie numerose proteste – ci dirigemmo verso il teatro. Trovammo subito i nostri posti e ci accomodammo in platea. I posti che aveva scelto Queen erano tra i migliori e, nonostante la nostra diatriba, avrei dovuto ringraziarla ancora una volta per quella serata. Avrei davvero voluto ritrovare un punto di contatto con lei, per chiederle consigli o anche solo cose di ragazze. Per quanto ci fosse sempre Lea per quello, mi mancava il nostro rapporto tra sorelle; anche se non eravamo mai state legate come due gemelle siamesi, quel continuo litigare e il rivolgerci a stento la parola mi stava sfiancando. E il fatto che entrambe avessimo contribuito a creare quella situazione non migliorava le cose: dovevamo scusarci sia io che lei ma non ero certa che fossimo tutte e due pronte a farlo.
«A cosa stai pensando?», la mano di Trevor mi scostò una ciocca di capelli, sistemandomela dietro l’orecchio. Sarebbe stato inutile mentire, lui mi capiva ormai troppo bene.
«A Queen», risposi con sincerità. «Non mi piace la nostra situazione, vorrei che tornassimo ad essere come prima».
«Magari dovresti solo provare a dirglielo». Era un buon consiglio e forse gli avrei dato ascolto, ma non volevo rovinare la nostra serata pensando a mia sorella.
«Comunque», cambiai discorso, «questo teatro è bellissimo. Grazie di essere venuto con me nonostante non sia proprio il tuo genere».
«Se serve per far apparire il tuo meraviglioso sorriso, verrò ovunque tu voglia».
Non riuscii ad evitare di sorridere di nuovo e di guardarlo con sguardo trasognato. «La prossima volta andremo dovunque vorrai tu, magari a qualche mostra di auto».
«Se dovesse dipendere da me non usciremmo dalla camera da letto Katy, soprattutto dopo averti vista con questo abito». Arrossii di colpo, cogliendo il senso delle sue parole e non seppi cosa altro replicare. Ancora non ero brava a gestire affermazioni scottanti come quella.
«Adoro quando diventi tutta rossa», sussurrò avvicinando la bocca al mio orecchio. «E soprattutto adoro il fatto di esserne io la causa».
«Beh non puoi dire una cosa del genere e aspettarti che io non arrossisca», mormorai.
«Oh Katy devo forse ricordarti che sei stata tu la prima a saltarmi addosso?». Per mia fortuna non ebbi il tempo di replicare perché le luci si abbassarono, invitando il pubblico a fare silenzio per assistere all’inizio dello spettacolo.
«Salvata in calcio d’angolo», bisbigliò lui vicino al mio orecchio.
«Sta’ zitto», scherzai sorridendo. Per tutta risposta Trevor mi prese la mano intrecciando le dita alle mie e iniziò ad accarezzarmi il dorso con il pollice.
Nonostante le coccole di Trevor, grazie all’interesse che avevo per lo spettacolo, riuscii a non distrarmi. Ero così entusiasta, così estasiata dall’esibizione degli attori che interpretavano Romeo e Giulietta, dalle parti cantate e da quelle recitate, dai costumi e dalle scene, praticamente da tutto, che niente avrebbe potuto farmi perdere neanche un minuto di quella rappresentazione. Mi voltai più volte verso di lui per commentare qualche scena particolare e, trovandolo intento a fissarmi, con un sorriso e uno sguardo che valevano più di mille parole, sentii letteralmente il cuore esplodermi nel petto. Non credevo di essere mai stata più felice di così.
Fui talmente soddisfatta ed emozionata per la bellezza dello spettacolo che non smisi di parlare per tutto il viaggio di ritorno. Trevor mi ascoltava commentando ogni tanto e lasciando che dessi libero sfogo al fiume di parole che stavo cercando di buttare fuori. Nel mezzo di quel mio blaterare entusiasta riuscii a capire che anche a lui lo spettacolo era piaciuto, o almeno così credevo, visto che l’aveva seguito tutto senza addormentarsi e continuava a sorridere soddisfatto ascoltandomi parlare. Non ero una persona molto logorroica, ma quando qualcosa mi colpiva non riuscivo più a tenere a freno la lingua, soprattutto se mi trovavo con persone con cui potevo essere me stessa.
Non prestai molta attenzione alla strada durante il viaggio di ritorno e non mi accorsi neanche dello scorrere del tempo, fino a che lui non spense la macchina e si sganciò la cintura per voltarsi a guardarmi. Accese la luce nell’abitacolo e mi fissò con un sorriso sulle labbra.
«Non posso ancora credere che siano riusciti a rendere la scena del balcone in quel modo. Era così… oh io adoro quella scena! L’avrò riletta centomila volte, ma vista così. Dio! Non riuscirò più a dimenticarla, mi è sembrato di viverla in prima persona. Immaginavo che sarebbe stato bello, ma non fino a questo punto; gli attori sono stati eccezionali, l’interpretazione, la musica, le scene… oh Trevor mi è piaciuto così tanto. Tu che ne pensi?». Mi fermai per riprendere fiato, voltandomi di più verso di lui, con gli occhi scintillanti di emozione.
Trevor allungò una mano per afferrarmi un riccio ribelle rigirandoselo tra le dita e mi guardò con un’espressione talmente intensa che in altre situazione mi avrebbe lasciato senza fiato. «Ti amo Kathleen». Se non era bastata la sua espressione quelle tre parole furono sufficienti per zittirmi completamente.
Sentii il ritmo del mio cuore accelerare mentre realizzavo quello che lui mi aveva appena detto. Non mi ero immaginata che sarebbe stato lui il primo a fare proprio quella confessione, anche perché sempre più spesso ero io che mi ritrovavo ad associare la parola amore a lui. Ero del tutto impreparata al fatto che i suoi sentimenti fossero intensi quanto i miei, talmente intensi da fargli dichiarare una cosa del genere.
Se prima avevo pensato di non poter essere più felice mi ero sbagliata, perché se fino a quel momento la serata era stata perfetta, con la sua dichiarazione anche la perfezione di poco prima perdeva di valore. Non c’era mai stato in tutta la mia vita un momento in cui mi ero sentita come nell’esatto istante in cui Trevor aveva confessato di amarmi: ero al mio posto, a casa, e non c’era nulla che avrei cambiato né di me né del resto del mondo.
«Ti amo Katy», ripeté visto che avevo cessato di parlare ed ero rimasta a bocca aperta. «E non te lo sto dicendo perché voglio che tu faccia altrettanto; va bene così, non devi farlo se non sei pronta o non senti lo stesso, sono parole importanti». Mi passò il pollice sulla guancia prima di continuare. «Te l’ho detto perché è quello che provo e non ce la facevo più a tenerlo dentro. Vederti così felice stasera, così su di giri per un semplice spettacolo è… non so come dire, è meraviglioso. Vorrei vederti così sempre».
«Trevor…», iniziai riprendendo il controllo della mia voce.
«E lo so che forse è presto», non mi lasciò continuare. «Ma quello che provo per te Katy io non l’ho mai provato per nessuna. Sono stato con tante ragazze ma non c’è confronto, perché non mi sono mai sentito così felice o così bene come quando sto con te. E non posso che ritenermi fortunato visto che non riesco a capire cosa diavolo tu abbia visto in me da piacerti così tanto». Tacque e mi fissò con l’espressione più dolce che avessi mai visto, aspettando che io dicessi o facessi qualcosa. Non avevo il minimo dubbio su quale sarebbe stata la mia prossima mossa.
Posai una mano sulla sua guancia, sfiorando il labbro con il pollice, mentre gli aprivo totalmente il mio cuore. «Ti amo anch’io Trevor». Alla tenue luce dell’abitacolo vidi i suoi occhi spalancarsi colmi di stupore e di emozione e fui ancora più certa dei sentimenti che provavo. Vedere il solo effetto che le mie parole avevano fatto sul suo volto mi aveva ripagato di qualsiasi altra cosa. Sapere che io riuscivo a renderlo così felice dava una spinta enorme alla mia autostima. Lui mi amava, mi amava davvero, anche se per me la cosa poteva sembrare incredibile.
In meno di un secondo la bocca di Trevor trovò la mia per poter esprimere con i gesti quello che già avevamo detto a parole. Ci scambiammo una serie di baci dolci e appassionati allo stesso tempo, che erano in grado di esprimere a pieno tutti i nostri sentimenti.
Solo quando Trevor strusciò il naso contro il mio, accarezzandomi il collo con la mano, il mio sguardo volò oltre il vetro, notando ciò che ci circondava. Non eravamo a casa mia, quello era certo; ci trovavamo in una specie di piazzale, talmente poco illuminato da riuscire a stento a distinguere quello che ci circondava.
«Dove siamo?», sussurrai sul suo viso.
«Beh è un posto che mi ha suggerito Evan», confessò passandosi una mano tra i capelli. «Mi ha detto che da qua si vedono bene le stelle, è a una decina di minuti da casa».
«Oh». Era davvero un’idea molto romantica quella di portarmi a vedere le stelle, un’ottima conclusione per quella serata.
«In realtà Paul mi ha rivelato che qua ci vengono di solito le coppiette per sco… insomma per avere un po’ di privacy. Evan mi ha fatto uno scherzo per stuzzicarmi e per vedere cosa avrei fatto nel caso in cui me ne fossi accorto troppo tardi». Beh dopo quella rivelazione l’idea romantica perdeva un po’ di valore, anche se non mi dispiaceva affatto che lui mi avesse portato lì lo stesso.
«È proprio da Evan», confermai, passandogli le dita tra i capelli.
«Sì però adesso è tardi e non c’è nessuno; le stelle si dovrebbero vedere davvero bene. Se ti va possiamo uscire a guardarle». Era evidente che stesse cercando in tutti i modi di essere un gentiluomo, anche se il suo interesse per l’astronomia doveva essere abbastanza scarso in quel momento.  Inoltre, a semplificare la situazione, quando ero con lui ero io quella che non riusciva a mantenere il controllo. E in quel momento, da sola in macchina con Trevor, in un luogo isolato, di vedere le stelle non me ne importava proprio nulla. Io che avevo sempre creduto di essere un’eterna romantica, mi scoprivo in realtà molto più interessata all’aspetto carnale della situazione.
«Non mi interessa molto l’astronomia», confessai avvicinando la mia bocca alla sua. «Non adesso almeno».
«Speravo proprio che lo dicessi», ammise poco prima di baciarmi. In meno di un secondo ci ritrovammo avvinghiati, ognuno intento a togliere il cappotto dell’altro. Avevo sempre sentito parlare dei rapporti in auto, ma in quel momento proprio non capivo come la gente potesse trovarli soddisfacenti. Più tentavo di avvicinarmi a Trevor, per toccarlo, baciarlo o anche solo per sbottonargli la camicia, più sbattevo contro il cambio o contro il cruscotto o mi ritrovavo in una posizione talmente scomoda da doverla assolutamente cambiare. Sicuramente sarei tornata a casa piena di lividi e mezza indolenzita.
«Aspetta…», mormorò Trevor mordicchiandomi il labbro inferiore. Le sue mani stavano scorrendo su e giù lungo il mio corpo, ma era evidente che avrebbero voluto insinuarsi sotto il vestito.
«Che c’è?», sussurrai con il fiato corto.
«C’è una leva, sulla tua destra. Dovresti tirarla». Con riluttanza allontanai le mani dal suo petto per fare ciò mi aveva detto. Non trovai subito la leva a cui si riferiva, ma quando la tirai lo schienale si abbassò di colpo, portandomi giù con lui.
«Oh». Arrossii e sfoderai il mio migliore sorriso.
«Molto meglio, no?». Annuii nell’esatto istante in cui lui scavalcava il cambio per portarsi sopra di me. Appoggiò un gomito accanto alla mia testa per potersi sorreggere, ed evitare così di schiacciarmi, e riportò l’altra mano sul mio fianco.
«Dove eravamo rimasti?», mormorò baciandomi di nuovo. La sue dita risalirono lungo la mia coscia, tirando su il vestito fino al bordo dei collant, proprio mentre io riprendevo a sbottonargli la camicia. Non ci eravamo mai spinti così oltre o almeno non con l’evidente e pressante sensazione di volere molto di più.
«Posso?», domandò spostando la bocca sul mio collo, riferendosi ovviamente alle mie calze. Era chiaro che volesse il contatto con la mia pelle almeno quanto lo bramavo io. Proprio per questo, annuii senza parlare ed alzai il bacino spingendomi di più contro di lui, in modo che potesse tirarmele giù. Percepii chiaramente il suo pressante desiderio e probabilmente il doversi frenare lo stava facendo impazzire.
«Non trattenerti Trevor», mormorai mentre mi sfilava le scarpe e le calze dai piedi.
«Oh Kathleen, lo vorrei, ma devo farlo», rispose, ritornando sulle mie labbra. «Altrimenti perderesti la verginità qua sul sedile della mia auto».
«E cosa ci sarebbe di male?». Mio Dio! L’avevo detto davvero? Dovevo sembrare una ninfomane, considerando anche il fatto che le mie mani non riuscivano più a smettere di accarezzare la pelle calda del suo petto.
Trevor rise e si fermò per potermi guardare negli occhi. «Non dovrebbe essere l’uomo quello costantemente eccitato e la donna quella più restia ad essere deflorata?».
«Credo di aver aspettato a sufficienza», risposi avvampando. «Voglio fare l’amore con te». Non mi sarei mai immaginata di dire una cosa simile, ma i miei istinti stavano prendendo il sopravvento senza che io potessi farci nulla. E poi se Trevor non era quello giusto, chi altro poteva essere?
«Ci arriveremo amore, presto, te lo prometto. Ma la nostra prima volta non sarà su una mustang in mezzo al nulla». Sentii una fitta di delusione, dissipata subito dal fatto che mi avesse chiamato amore. Da una parte volevo Trevor completamente, dall’altra gli ero grata per il fatto che volesse concedermi una prima volta degna di tale nome.
«Sei peggio di una donna», scherzai sorridendogli.
«Eh già! Mi devo essere proprio rammollito», sospirò. «In passato non avrei esitato a scoparti come si deve su questo vecchio sedile». Avvampai sentendo il suo linguaggio, tuttavia le sue parole mi fecero anche fremere di piacere.
«Dovrei sentirmi offesa?». Sapeva benissimo che lo stavo prendendo in giro e che capivo perché si stesse in qualche modo frenando. Alla fine dei conti ci voleva nella coppia uno che rimanesse con i piedi per terra; non ero mai stata brava a farlo, ma per fortuna c’era lui.
«Oh Kathleen non sai quanto vorrei essere dentro di te in questo momento, scoparti con la bocca, con le dita…». Si fermò un attimo guardandomi con una scintilla maliziosa negli occhi.
«Tuttavia anche se adesso non andiamo fino in fondo, non è detto che non possiamo divertirci un po’», continuò. «Dimmi Katy sei mai stata ad orgasmolandia?».
«Dove?». Sbattei le palpebre cercando di seguire il filo del suo discorso.
«Se ci fossi stata, lo sapresti», ridacchiò. «Bene Kathleen preparati perché ho intenzione di regalarti il tuo primo orgasmo».
I miei occhi si spalancarono riuscendo finalmente a capire cosa intendesse. «Oh».
«Già, oh. Dimmi di sì Katy». Avrei mai potuto negargli nulla, soprattutto quando usava quel tono basso ed eccitante?
«Sì», sospirai. Non se lo fece ripetere due volte; la sua mano si insinuò tra le mie cosce, iniziando ad accarezzare il bordo delle mie mutandine.
«Pizzo?», mormorò sorpreso sulla mia pelle. «Non l’avrei mai detto».
«Nero», farfugliai cominciando già a faticare a mettere una parola dietro l’altra. La sua mano era in una zona del mio corpo inesplorata e quella vicinanza mi stava facendo letteralmente impazzire. «In coordinato con il reggiseno». Avrei dovuto ringraziare mia madre per quella lezione di stile.
Trevor alzò un sopracciglio e mi guardò sensualmente. «Interessante». Mi baciò dolcemente prima di scostare l’elastico dei miei slip per farsi strada verso il mio centro.
Le sue labbra scesero sul mio collo fino al mio orecchio per darmi istruzioni. «Adesso apri le gambe piccola, sto per regalarti un viaggio di sola andata per orgasmolandia». Come non avrei potuto obbedire?
 
Appoggiata al petto di Trevor stavo cercando di rallentare il battito del mio cuore, mentre tentavo in qualche modo di riprendere fiato. Dire che le sue dita avevano fatto magie sul mio corpo era troppo riduttivo. Se già così mi aveva mandato in paradiso come sarebbe stato fare l’amore con lui? Se prima ero desiderosa di farlo, adesso non vedevo proprio l’ora.
Con la testa appoggiata sul suo petto riuscivo a sentire il suo cuore che batteva veloce, anche se non tanto quanto il mio. Aveva i pantaloni leggermente abbassati e la camicia totalmente sbottonata, per permettermi l’accesso completo a parti decisamente interessanti del suo corpo; io ero invece rimasta con il vestito arrotolato sopra l’ombelico e sotto al petto, e avevo scoperto che a Trevor il mio reggiseno di pizzo piaceva particolarmente; o più presumibilmente, della stoffa e del modello non gli importava granché ed era semplicemente incantato dal suo contenuto, come la maggior parte degli uomini. I miei slip erano tornati al loro posto e, non so come, mi ero ritrovata completamente distesa a pancia in giù sopra di lui; con molta probabilità mi ci aveva messo lui proprio quando il mio cervello, in preda al piacere, si era del tutto svuotato, risultando incapace di concentrarsi su alcunché.
«Wow», sospirai mentre la sue dita mi pettinavano i capelli.
«Già wow. E questo è stato solo il primo, ho intenzione di regalartene molti altri». Sorrisi e chiusi gli occhi lasciando che lui mi coccolasse.
Non sapevo bene comportarmi in una situazione del genere, mi aveva appena fatto venire e non sapevo cosa comportasse quel gesto. Tuttavia per una volta lasciai da parte le mie mille domande, perché sapevo che per qualsiasi cosa Trevor sarebbe stato il primo a parlare chiaro. Era evidente che per il momento quello che avevamo fatto era ciò che voleva anche lui, niente di più, niente di meno.
«Sono stata dalla ginecologa», confessai, mentre mi accarezzava la schiena. «L’altro giorno quando sono andata via di corsa da scuola».
«Ecco quale fosse l’impegno tanto urgente! Perché non mi hai detto niente e lo stai facendo ora?».
«Beh mi è venuto spontaneo, dopo questo». Indicai i nostri corpi con la mano, e lasciai un bacio sul suo petto. «Voglio che tu sappia che mi sento pronta, probabilmente da quando ti conosco lo sono sempre stata». Non ero una di quelle ragazzine timorose di perdere la verginità; in fin dei conti non ci avevo mai riflettuto molto sopra, ma immaginavo venisse normale voler fare l’amore quando avevi una relazione con qualcuno.
«Beh a proposito di questo, vorrei anch’io farti vedere una cosa». Fece per alzarsi, ma il mio corpo gli impediva di muoversi. «Ricomponiamoci prima d’accordo? È molto tardi e dovrei già averti riportato a casa». In effetti dovevano essere passate le due o forse anche le tre; per fortuna mia madre non era il tipo da aspettarmi in piedi, con l’orologio in mano.
Un paio di minuti dopo eravamo di nuovo presentabili e le sue parole tornarono ad assumere significato. Aveva detto di voler farmi vedere qualcosa  e non avevo la minima idea di cosa si trattasse; non capivo come la cosa fosse collegata al sesso, ma avrei soltanto dovuto aspettare per potermi chiarire le idee.
«Ecco». Trevor si risistemò al posto di guida ed estrasse qualcosa dalla tasca interna del suo cappotto. «Non sapevo bene quando dartela, ma immagino che adesso sia il momento migliore». Mi passò una busta da lettere intestata ed aspettò che io la prendessi.
«Cos’è?», domandai perplessa, cercando di leggere da dove venisse.
Trevor fece un profondo respiro prima di rispondere. «Vedi Kathleen tu lo sai che in passato io ho diciamo avuto una vita piuttosto dissoluta e movimentata e questo vale anche per quanto riguarda l’aspetto sessuale. Vorrei dirti che non sono stato con molte ragazze, ma sarebbe una bugia, come lo sarebbe dirti che ho sempre avuto rapporti protetti. In più Katy ho un passato che mi mette a rischio ancora di più: la droga, il fatto che sia stato un incosciente totale…». Alla flebile luce dell’abitacolo mi sembrò di vederlo arrossire mentre cercava di spiegarmi il contenuto di quella busta. «Per questo ho fatto tutte le analisi».
«Le analisi?», ripetei cercando di cogliere il senso delle sue parole.
«Sì per l’HIV, l’epatite e per tutte le altre malattie sessualmente trasmissibili».
«Oh». Adesso sì che le sue parole avevano un senso. Era un gesto molto coscienzioso e anche molto dolce, proprio quello che mi sarei aspettata da lui.
«Sono pulito Katy, completamente e questi sono i risultati». Indicò la busta che tenevo in mano e mi sorrise. «Volevo che lo sapessi e che sapessi anche che la sola idea di poterti attaccare qualcosa mi terrorizzava; per questo li ho fatti, anche se useremo il preservativo, per sapere se poteva essere pericoloso per te». Dove diavolo l’avevo scovato un ragazzo così? Era la riprova che i ragazzi perfetti esistevano davvero. Chi altro avrebbe fatto una cosa del genere?
«Ti amo», mormorai baciandolo e confermandogli che quella era l’unica cosa su cui non avrebbe mai dovuto avere dubbi.
 
Quella notte faticai ad addormentarmi; dopo essere tornata a casa ed essermi infilata nel letto, la mia mente tornò alle mille emozioni che avevo vissuto quella sera. Da prima mia madre che si era schierata con me invece che con Queen, poi il viaggio, la cena, lo spettacolo, Trevor che mi confessava di amarmi, la nostra intimità, la busta con i risultati delle analisi; era stato tutto così intenso che non potevo evitare di riviverlo ancora e ancora nella mia mente. Continuavo a sentire la voce di Trevor che ripeteva di amarmi, pronunciando il mio nome con quel suo accento che tanto adoravo. Era davvero troppo: troppo bello, troppo intenso, troppo emozionante e tutto in senso positivo.
Capivo che finalmente stavo scoprendo una parte di me finora inesplorata e che il fatto che stessi cambiando doveva essere l’inevitabile risultato della mia crescita. Stavo diventando una donna a tutti gli effetti e non era per via della verginità che presto avrei perso o per altro. Era il modo in cui Trevor mi faceva sentire a rendermi tale. Lui era già un uomo, non più un ragazzo, aveva esperienze che l’avevano reso tale e stava tirando fuori la donna che era in me. Peccato solo che prima di diventare una splendida farfalla dovessi passare da tutte le fasi intermedie, come quella della ragazzina eccitata alle prese con i suoi primi rapporti.
Fu solo dopo varie ore che riuscii a prendere sonno e fu decisamente troppo presto quando la finestra di camera mia si aprì di colpo, lasciando entrare una tremenda e fastidiosa luce.
«Svegliati». La voce di Queen perentoria, mi costrinse ad aprire gli occhi ed affrontare la realtà.
«Queen che diavolo vuoi?», mugolai. «Che ore sono?».
«Quasi le dieci». Considerando che mi ero addormentata solo dopo le cinque era comunque troppo presto.
«Lasciami dormire», protestai, coprendomi la testa con le coperte. «È troppo presto per litigare con te». Non riuscivo bene a connettere, ma quale altro motivo avrebbe avuto per svegliarmi in quel brusco modo se non per farmela pagare per la sera prima?
«Ti sembrerà strano, ma non sono qui per litigare», mi informò sedendosi sul letto. Buon per lei, ma io non avevo neanche voglia di parlare; dovevamo farlo ma non con me in quello stato pietoso.
«E a te sembrerà strano questo: ma per una volta nella mia vita vorrei continuare a dormire». Di solito ero abbastanza mattiniera, ma non avevo dalla mia neanche cinque ore di sonno.
«Trevor è giù nel giardino», mi avvisò, «sta facendo avanti e indietro come un matto». Ci misi un secondo ad elaborare quello che mi aveva detto.
«Cosa?». Mi alzai di scatto, facendo cadere le coperte. Sbattei le palpebre stordita da tutta quella luce, cercando di mettere a fuoco la figura di Queen seduta in fondo al mio letto. Andai di corsa alla finestra per verificare la veridicità delle sue parole. Lo notai subito là in giardino, troppo inquieto e nervoso rispetto a come l’avevo lasciato quella notte.
«Ha iniziato a tirare sassolini alla finestra», mi informò. «Peccato che abbia scambiato la tua finestra con la mia». Questo spiegava perché lei sapesse della sua presenza, ma ancora non capivo come mai era stata così gentile da venire a dirmelo e cosa diavolo ci facesse là sotto Trevor. E soprattutto cosa era successo da agitarlo così tanto da venirmi a cercare?
«Credo che abbia provato anche a chiamarti», continuò Queen. «Ma probabilmente hai il telefono spento». Non le prestai ascolto e iniziai a infilarmi i primi vestiti che mi capitarono sotto mano.
«Quando ho aperto la finestra gli ho detto che ti avrei svegliata, anche se ha imprecato quando ha visto me e non te».
«Perché l’hai fatto?», le domandai cercando un paio di calzini. «Pensavo che lo odiassi».
«Non lo odio Linny», rispose piccata, «e sono stanca di litigare». Ma guarda! Quella era forse la prima cosa su cui ci trovavamo d’accordo da quando era iniziato l’anno!
«Grazie per avermi svegliata», mormorai, infilandomi le scarpe. «Ma non pensare che questo sistemi le cose».
«Certo che no, sono ancora arrabbiata con te», specificò. «Ci siamo dette troppe cose per dimenticarle solo con un semplice gesto gentile». Incredibile: un’altra cosa su cui ero d’accordo.
«Già». Non aggiunsi altro e mi affrettai a scendere. Per fortuna mio padre la mattina si ritirava sempre nel suo studio a leggere il giornale, così io riuscii ad uscire passando inosservata.
«Trevor», mormorai appena mi fui chiusa la porta alle spalle. «Che succede?». Dovevo avere un aspetto orribile, ma anche lui non se la passava meglio. Appena si voltò verso di me, notai i capelli in disordine, le occhiaie e soprattutto l’espressione truce e sconvolta.
«Non volevo suonare e rischiare di incontrare tuo padre ma dovevo assolutamente vederti; ho provato con la finestra ma da perfetto stupido ho tirato sassi a quella sbagliata». Andò avanti e indietro passandosi le mani tra i capelli.
«Va tutto bene amore, adesso sono qua». Mi era venuto naturale chiamarlo con quel vezzeggiativo ma lui non sembrò neanche farci caso.
«Mi dispiace averti svegliato», mormorò fermandosi e voltandosi a guardarmi. «Ma…».
«Va bene, non importa. Dimmi che succede». Mi avvicinai a lui e gli presi le mani tra le mie.
I suoi occhi, turbati e colmi di rabbia, si incatenarono nei miei prima di parlare. «Mia madre, è qui».

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13
 
«Mia madre, è qui». Ci misi un secondo a capire il senso delle sue parole. Trevor non mi aveva detto molto su di lei, ma da quello che mi aveva raccontato aveva tutte le ragioni per essere sconvolto e arrabbiato per la sua apparizione improvvisa.
«Come? Quando?», domandai cercando di restare lucida. Il sonno mi era di colpo passato.
«È arrivata stamattina, cioè ieri sera. Oddio Katy ho bisogno di…». Non finì la frase e si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli ancora di più. Non era necessario che aggiungesse altro affinché io capissi. Mi bastava solo uno sguardo per comprendere cosa gli passasse per la mente e avevo tutte le intenzioni di dargli il maggior appoggio possibile.
Proprio per questo lo presi per mano e lo tirai verso la porta di casa. «Vieni».
«Cosa? E tuo padre?». Era evidente che volesse seguirmi ma che non avrebbe sopportato uno scontro faccia a faccia con mio padre; non a quell’ora di mattina, non in quello stato d’animo.
«Lascia perdere mio padre. E poi è nel suo studio, se siamo fortunati non ti vedrà neanche entrare».
«Non voglio compromettere ulteriormente la….».
«Trevor», lo interruppi brusca. «Smettila di parlare e seguimi». Senza aggiungere altro ritornai verso la porta e lo guidai silenziosamente lungo i corridoi fino a camera mia. Mia padre era ancora nello studio, mia madre sembrava essersi volatilizzata, così come mio nonno, per questo il nostro percorso fu abbastanza privo di ostacoli. Fu solo quando arrivai nel corridoio di fronte alla mia porta, che vidi Queen affacciata dalla sua camera. Il suo sguardo era circospetto, ma era evidente che avesse assistito alla scena dalla finestra.
«Ti prego non dire niente Queen», la scongiurai, sperando che la preoccupazione nella mia voce fosse palese. Non capii cosa fu a convincerla, ma semplicemente annuì tornando nella sua stanza.
Dopo aver fatto altrettanto e aver chiuso la porta, per concederci la giusta privacy e sicurezza, lasciai la mano di Trevor per poterlo abbracciare e stringere forte. Lo sentii sospirare tra le mie braccia e affondare la testa sulla mia spalla, sprofondando nella matassa informe dei miei capelli.
Gli accarezzai il collo con le dita e lasciai che restasse così per un po’, riprendendo la calma e trovando la forza di raccontarmi ciò che era successo. Sapevo che non sarebbe servito a nulla inondarlo di domande e, anche se morivo dalla voglia di farlo, dovevo concedergli i suoi tempi. Aveva bisogno di qualche minuto per elaborare la cosa e aveva bisogno di sapere che io avrei aspettato fino a che non si fosse sentito pronto.
«Sono qui, amore. Va tutto bene», sussurrai baciandogli l’orecchio.
Sospirò e mi strinse ancora di più. «Mi piace quando mi chiami amore». Sorrisi e lasciai un altro bacio sulla sua tempia, continuando a coccolarlo tra le mie braccia.
«Anche a me piace quando lo fai», gli confessai accarezzandogli l’attaccatura dei capelli. Trevor fece un altro profondo respiro e poi alzò la testa dalla mia spalla. I suoi occhi trovarono subito i miei, facendomi capire che era più o meno pronto a parlare.
«Vuoi raccontarmi di preciso cosa è successo?», lo spronai, prendendolo per mano e portandolo verso il letto. Lo feci sedere e mi misi al suo fianco continuando a massaggiargli il collo con le dita.
«Stamattina è arrivata mia madre», ripeté puntando lo sguardo su un punto indefinito del pavimento. «Saranno state le otto e mezzo, credo, quando è suonato il campanello. Ovviamente il rumore mi ha svegliato, ha svegliato tutti. Non volevo alzarmi, pensando che fosse qualche scocciatore; eravamo tornati tardi e francamente volevo solo continuare a dormire. Poi però ho sentito delle voci, sempre più concitate, come se stessero litigando. Quando sono uscito di camera per andare a vedere cosa diavolo stesse succedendo Linda mi ha detto che era tornata una signora che era passata la sera prima a cercarmi; e così quando sono arrivato giù me la sono ritrovata davanti senza preavviso».
«Oh Trevor», sospirai stringendogli una mano. «E lei cosa ti ha detto?».
«Beh non molto. Mi ha visto e le si sono illuminati gli occhi, come se non avesse mai desiderato altro. Un po’ ipocrita da parte sua, non trovi?».
«Forse sì», constatai. «Ma era tanto tempo che non ti vedeva, le sarai mancato».
«No!». Si alzò di scatto, allontanandosi di qualche passo per poi voltarsi a guardarmi. «No Kathleen non è così. Sono passati più di due anni dall’ultima volta che l’ho vista; io sono stato chiuso in un centro di disintossicazione per la maggior parte del tempo. Ero bloccato lì e se lei avesse voluto sarebbe potuta venire a trovarmi, se avesse voluto scusarsi, se avesse voluto farsi perdonare non mi avrebbe lasciato nel momento più difficile della mia vita. Non avrebbe permesso a niente e nessuno che tra di noi calassero due anni di silenzio assoluto». Beh non aveva tutti i torti, anzi, vedendola dal suo punto di vista, aveva perfettamente ragione ad essere arrabbiato o sconvolto.
«È questo che vuole?», domandai. «Il tuo perdono? Scusarsi e fare ammenda?».
«Non lo so. Non le ho dato il tempo di spiegarmi. Le ho chiesto che diavolo ci facesse là e lei mi ha detto che era venuta per me, per parlarmi. Allora io le ho risposto che poteva benissimo tornarsene a Boston perché non avevo niente da dirle e nessuna voglia di ascoltarla».
«Trevor…», lo rimproverai bonariamente.
«Lo so, ma non mi aspettavo un assalto così improvviso. Non ho nemmeno sentito cosa mi ha risposto perché ho preso e sono venuto via. Ho fatto un giro in macchina per cercare di calmarmi, ma più guidavo e più mi accorgevo che volevo solo vedere te».
Mi alzai e andai verso di lui, riprendendolo per mano. «Hai fatto bene. Lo sai che puoi sempre contare su di me amore». Lo baciai e lo strinsi forte tra le braccia.
«Sarebbe potuta venire da me, tanto tempo fa, quando ancora stavo lottando per rimanere a galla. Avrebbe potuto scusarsi per essersi voltata dall’altra parte quando io stavo toccando il fondo, per non avermi aiutato, per avermi costretto a cavarmela da solo e a chiamare Fred. Ed io l’avrei perdonata Katy, senza battere ciglio. Lei è stata tutta la mia famiglia per tutta la mia vita, si è sacrificata per farmi crescere e per non farmi mancare nulla quando mio padre se ne è andato. Era la persona che più amavo al mondo e nonostante mi avesse voltato le spalle io l’avrei accolta a braccia aperte». Non parlai sapendo che il suo sfogo non era ancora finito e perciò mi limitai ad accarezzargli il collo e i capelli.
«Non sai quanto ho sperato di vederla comparire in quel maledetto centro, quanto volte ho desiderato che si accorgesse dei suoi errori e che venisse da me, colma di rimorsi e di scuse. Avevo bisogno di lei Kathleen, io avevo bisogno della mia mamma e sembra stupido ammetterlo visto che a quel tempo ero già adulto, grande e grosso, ma io avevo davvero bisogno di lei».
«È naturale Trevor». Era più che naturale. «Ognuno ha bisogno della propria mamma». Io avevo cercato di essere accettata dalla mia per tutta la vita, e il fatto di esserci riuscita in quel momento mi sembrava ancora incredibile.
«Lei è stata l’unica persona che mi ha sempre voluto bene, tutta la mia famiglia. In tutta la mia vita ci siamo stati sempre io e lei, era una costante, fin da bambino. Crescendo mi sono un po’ allontanato, ma non ho mai smesso di considerarla la persona più importante». Capivo cosa stava cercando di fare anche se lui non se ne accorgeva neanche: stava cercando di dirmi che era stata una buona madre nonostante tutto, che aveva fatto il possibile per crescerlo come si deve. Non voleva che fossi prevenuta nei suoi confronti conoscendo solo ciò che lei aveva combinato negli ultimi anni.
«Sono così arrabbiato Kathleen», confessò, guardandomi negli occhi. «E non perché non mi ha aiutato quando poteva farlo, penso che comunque non sarebbe riuscita a fare granché. Sono arrabbiato perché ha deciso di voltarmi le spalle quando ero finito in un baratro da cui non riuscivo ad uscire. Lei sapeva dove ero, mi sarebbe bastato sentire la sua voce, avrei voluto…».
Non finì la frase, ma io sapevo come concluderla. «Che lei ti dicesse che sarebbe andato tutto bene». Annuì e mi abbracciò di nuovo, strusciando il naso sul mio collo.
«Andrà tutto bene Trevor». Erano le uniche parole che aveva bisogno di sentire e anche le uniche che avessero un senso. Mi strinse più forte e proprio in quell’istante sentii qualcosa vibrare contro la mia coscia.
«Ti vibrano i pantaloni», mormorai vicino al suo orecchio.
«Lo so. Fred ha già provato a chiamarmi tremila volte».
«Forse dovresti rispondere». Sapevo che era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, ma d’altronde avrebbe dovuto dire a sua madre quello che mi aveva appena confidato. Era la cosa giusta da fare ed io dovevo cercare di indirizzarlo in quella direzione senza fargli troppe pressioni. Avevo scoperto sulla mia pelle che certe volte parlare chiaro era l’unica soluzione per spiegarsi definitivamente.
«Non ho voglia di parlare né con lui né con mia madre», borbottò.
«Lo so, ma certe volte dobbiamo fare cose che non ci piacciono». Trevor si staccò e mi guardò con espressione truce.
«Credi che dovrei andare da lei?».
«Io credo che dovresti dirle quello che hai appena detto a me e che dovresti ascoltare ciò che ha da dire. Dopo sarai libero di mandarla a quel paese se vuoi». Lui sospirò e si rimise a sedere sul letto, prendendosi la testa tra le mani.
«Non voglio forzarti Trevor». Mi sedetti accanto a lui, posandogli una mano sulla schiena. In quel momento il suo telefono, che aveva smesso giusto un attimo prima, riprese a vibrare. Trevor sbuffò e poi con un gesto repentino lo tirò fuori, rispondendo alla chiamata.
«Che vuoi?». Il suo tono avrebbe spaventato chiunque non lo conoscesse. Non riuscivo a sentire ciò che diceva il suo interlocutore, ma immaginai che fosse piuttosto sorpreso.
«Lo sai benissimo dove sono», continuò. «Non c’è bisogno che te lo dica». Beh anche se non fossi stata la sua ragazza probabilmente sarebbe venuto da me lo stesso. Ero il suo porto sicuro in quella cittadina per lui relativamente nuova.
«Io non lo so», rispose ad un’altra domanda. Di nuovo silenzio. «Fred io non ho… io non voglio…». Non finì la frase e mi passò direttamente il telefono, mentre suo padre dall’altra parte continuava a parlare.
Lo presi titubante, non sapendo bene neanche io cosa fare o dire. «Pronto? Signor Simons?».
«Kathleen…», sospirò.
«Mi dispiace molto, ma Trevor non se la sente di parlare con nessuno in questo momento». Era la verità, anche se avevo appena cercato di convincerlo a fare il contrario.
«Sì lo so e purtroppo non ha neanche tutti i torti. Sua madre… vederla arrivare qua ieri sera ha complicato le cose non solo a lui. Speravo di avere il tempo di avvisarlo stamattina, invece Claire ha deciso di fare la sua comparsa appena sveglia».
«Lei sa perché è qui?», domandai.
«Più o meno, per scusarsi in parte e per chiarirsi con lui. Vuole parlargli Kathleen, ed io non posso impedirlo: è suo figlio e l’ha cresciuto lei.  So che Trevor è arrabbiato e ferito e che è venuto da te a leccarsi le ferite, e so di chiederti molto, ma potresti convincerlo ad incontrarla?». Sapevo di poterci riuscire, ma non mi andava molto di costringerlo; tuttavia il tono di lui era supplicante.
«Sì, penso di sì», risposi sospirando.
«Lo so che ti sto mettendo in una posizione difficile, ma sei l’unica a cui da davvero ascolto». Era vero, almeno lo riconosceva. «Portalo a casa quando sei riuscita a convincerlo. Adesso devo andare perché ho lasciato Claire con Susan e non sono sicuro di ritrovarle entrambe vive». Riattaccò ed io feci altrettanto. Mi alzai e mossi qualche passo per la stanza, per poi voltarmi a guardarlo.
Trevor alzò la testa e mi fissò con uno sguardo profondo. «Dobbiamo andare?». Avrei tanto voluto dirgli di no, ma quello era l’unico modo per chiudere la questione.
«Penso proprio di sì». Andai da lui, afferrandogli la mano e stringendola forte nella mia. «Io sarò accanto a te, ad ogni passo».
Mi tirò verso a sè in modo da appoggiarmi l’altra mano sulla guancia. «Te l’ho già detto che ti amo, vero?».
«Ed io amo te». Era tutto quello che ci occorreva sapere.
 
Dopo essermi preparata e aver fatto sgattaiolare via Trevor di casa, ci ritrovammo sulla sua mustang e ben presto parcheggiammo di fronte al vialetto di casa sua. Linda ci corse incontro, tutta imbacuccata con cappello, sciarpa e guanti.
«Trevor!», gridò abbracciandolo.
«Ehi peste». Lui gli rivolse un magnifico sorriso, anche se era evidente che il suo umore era decisamente l’opposto. «Dove sono tutti?».
«Sono dentro. La mamma mi ha detto che potevo andare fuori a giocare con la neve se mi fossi coperta per bene e se fossi rimasta nel vialetto». In altre parole avevano evitato che Linda si trovasse immischiata in quella difficile situazione.
«Giochi con me?», gli chiese prendendolo per mano e guardandolo con occhi da cucciolo.
«Oh non sai quanto vorrei. Ma immagino che debba andare dentro, giusto?». Mi guardò aspettando una mia conferma. Mi ritrovai ad annuire mentre gli rivolgevo il migliore sorriso di incoraggiamento che riuscissi a sfoggiare.
«La tua mamma ti sta aspettando? Non mi avevi detto che veniva a trovarti».
«Beh diciamo che mi ha fatto una sorpresa». Tutt’altro che gradita, ma questo non gliel’avrebbe detto. Diciamo che il suo era stato un vero attacco a sorpresa. «Comunque facciamo una cosa: tra un po’ ti prometto che verrò a giocare con te, giusto il tempo che la situazione là dentro diventi insostenibile. Sarà un vero sollievo fare a pallate con te mostriciattolo».
Linda gli rivolse un enorme sorriso e saltellò di gioia. «E anche Kathleen giocherà con noi?».
«Certamente», risposi sorridendole.
«Ma ti avverto Linda, Kathleen è del tutto inesperta, dovremo insegnarle tutto». Gli tirai una gomitata, ma vidi comunque un piccolo sorriso sincero comparire sul suo volto. Era meglio di niente.
«Andiamo, mio dolce e presuntuoso ragazzo». Lo trascinai verso la porta, lasciando che Linda tornasse a divertirsi con la neve.
Non appena entrammo in casa sentimmo delle voci provenire dalla cucina e per questo, dopo esserci tolti i cappotti, ci dirigemmo in quella direzione. Sentii Trevor irrigidirsi mentre ci avvicinavamo, sospirare e stringere più forte la mia mano. Per tutta risposta intrecciai di più le dita alle sue e gli posai un bacio sulla guancia.
«Dov’è?», stava chiedendo una voce femminile. «Fred perché non me lo vuoi dire?».
«Ti ho detto che arriverà Claire. Dagli tempo».
«Tempo?», continuò la donna. «È mio figlio, è assurdo che io voglia vederlo e parlargli?».
«Beh ti sembra tanto strano che lui non voglia?», intervenne Susan.
«Oh se l’avete messo contro di me…».
«Nessuno mi ha messo contro di te», intervenne Trevor entrando in cucina. «Hai fatto tutto da sola».
«Oh Trevor». Una donna alta e giovanile gli andò incontro ma lui indietreggiò stringendosi di più a me. La madre di Trevor era davvero molto bella: magra ma formosa, capelli scuri ed occhi chiari, carnagione perfetta nonostante qualche ruga naturale; era facile capire da chi il figlio avesse preso l’avvenenza ed era anche facile capire cosa ci avesse trovato il padre.
«Sono così contenta che tu sia tornato», continuò non perdendosi d’animo. «Abbiamo così tante cose di cui parlare».
«E non potevi telefonarmi? Mi pare che non ti sia sprecata negli ultimi tempi». Il suo tono era tagliente e anche se non potevo vedere il suo sguardo immaginai che fosse freddo come il ghiaccio.
«Trevor lo so che hai passato un periodo davvero difficile…».
«No», la fermò alzando la voce. «Tu non lo sai. Sei proprio l’ultima persona che lo può sapere».
«D’accordo». Sospirò e si guardò intorno in cerca di un appiglio; solo in quel momento sembrò notare la mia presenza, minuscola dietro la spalla di Trevor. «E lei chi è?». Non lo chiese direttamente a me, ma si rivolse al figlio.
Trevor mi tirò leggermente avanti facendo aderire il suo braccio al mio, le mani sempre intrecciate. «Lei è la mia ragazza, anche se non penso che la cosa ti importi veramente».
«Piacere sono Kathleen», mi presentai allungando l’altra mano.
«Che sciocchezze, certo che mi importa Trevor. Tanto piacere Kathleen, sono Claire». Strinsi la sua mano e le rivolsi un sorriso tirato non sapendo ancora come sentirmi a suo riguardo. Dovevo ancora capire chi fosse per esprimere un giudizio su di lei.
«Non perdiamo tempo», tagliò corto Trevor. «Perché diavolo sei qui? Cosa c’era di tanto urgente da dirmi da non poterlo fare al telefono?».
«Volevo vederti Trevor», sbottò lei tornando a guardarlo. «E poi volevo parlarti da sola».
«Beh qualunque cosa tu abbia da dire, puoi farlo benissimo anche di fronte a loro».
«Trevor…», lo supplicò. «Solo cinque minuti».
«No mamma. Sono troppo arrabbiato per restare solo con te».
«E ne hai tutte le ragioni, ma sono tua madre…».
Non riuscì a terminare la frase perché Trevor la interruppe. «Non sei stata mia madre negli ultimi due anni, non sei stata proprio nessuno. Si può dire che negli ultimi sei mesi Susan si sia comportata più da madre di te». Era una cosa pesa da dire, ma era la verità, anche se cattiva.
«Trevor!», lo rimproverò Claire.
«Trevor», intervenne contemporaneamente Susan. «Chiedi scusa a tua madre, immediatamente». Non mi aspettavo che lei difendesse la sua rivale, ma l’affermazione di Trevor era stata maligna.
«No, perché è la verità anche se le fa male».
Susan sospirò e si alzò dal posto dove era seduta. «Vado a controllare Linda, non voglio essere coinvolta in questa discussione». Era un gesto molto maturo e coscienzioso da parte sua; non sapevo se sarei riuscita a fare altrettanto al suo posto.
«D’accordo», sospirò Claire, una volta che Susan fu uscita. «Almeno una persona in meno… immagino che lei debba restare?». Mi indicò con un cenno del capo.
«Se va via lei, vado via anch’io», affermò Trevor, lasciando la mia mano e passandomi un braccio dietro la schiena.
«Va bene», acconsentì. «Perché non ti siedi adesso e ascolti quello che ho da dire?». Per una volta Trevor fece come le aveva detto e si accomodò dall’altra parte del tavolo facendomi sedere accanto a lui. Fred invece rimase appoggiato al mobile della cucina con le braccia incrociate.
«Beh per prima cosa sono qui per scusarmi Trevor», iniziò. Era ovvio che fosse quella la ragione.
«Un po’ tardi per le scuse non ti pare?». Lui non aveva provato neanche ad essere gentile.
«Lasciami finire ti prego. Lo so che hai tutte le ragioni per essere arrabbiato con me, io ti vedevo, immaginavo che…». Si fermò e posò lo sguardo su di me, non sapendo quanto sapessi di quella storia. Probabilmente molto più d lei.
«Puoi parlare liberamente di fronte a Katy, sa tutto». Trevor si voltò un secondo verso di me per lanciarmi uno dei suoi sguardi che valevano più di mille parole.
«Oh d’accordo». Claire mi studiò per un momento prima di ricominciare a parlare. «Ti vedevo Trevor, vedevo il baratro in cui stavi cadendo ma ho fatto finta di non sapere ed è stato imperdonabile da parte mia. Ma ho avuto paura e non avevo la minima idea di come fare ad aiutarti, ad aiutare anche me stessa; preferivo fare finta di non vedere e non sapere».
«Mamma io questo lo capisco», intervenne sorprendendo tutti. «Non credo che tu avresti potuto fare molto da sola».
«Davvero?». La sua espressione era incredula, e penso che anche la mia fosse piuttosto simile.
«Sì non è colpa tua se ho iniziato a drogarmi, è solo colpa mia». Non aveva mai ammesso una cosa del genere neanche con me; avevo sempre creduto che ritenesse i genitori, soprattutto il padre, responsabili di ciò che gli era capitato. Vidi il signor Simons alzare la testa e osservarlo piuttosto sorpreso dalle sue parole, ma d’altronde, quella confessione, aveva colto tutti alla sprovvista.
Inconsciamente gli presi la mano che aveva appoggiato sul tavolo e la strinsi forte, dandogli una sorta di conforto con quel piccolo contatto.
«Lo so che è colpa mia, nessuno mi ha costretto a drogarmi. Forse all’inizio ero arrabbiato con te per questo, ma poi ho capito. Adesso non è questo il motivo per cui sono arrabbiato».
«Ah no?». Gli occhi di Claire si illuminarono e riuscii a scorgere sul suo volto le stesse identiche espressioni che avevo più volte visto su quello del figlio.
«No. Sono infuriato perché mi hai lasciato solo nel momento più difficile della mia vita. Avevo bisogno di te e tu non c’eri, non ti importava di sapere come me la stessi cavando? Quanto fosse dura disintossicarmi? Quanto avessi davvero bisogno dell’unica persona che credevo mi volesse bene?».
«Oh Trevor certo che ti voglio bene, ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Come puoi dubitarne?».
«Allora perché non sei venuta a trovarmi? Perché non mi hai anche solo telefonato? Perché sono passati più di due anni prima che trovassi il coraggio di alzare quella dannata cornetta?».
Lei sospirò e alzò lo sguardo, lanciando una fugace occhiata al suo ex marito. Fu solo un attimo ma io me ne accorsi e notai anche l’espressione di lui farsi più truce, quasi come quella del figlio. «Ho avuto paura Trevor, ho pensato che dopo quello che avevo fatto non avresti voluto vedermi».
«Beh non è così. Potevi almeno telefonarmi per chiedermelo, per sapere come stavo e non farmi sentire una merda ancora di più. Già stavo da schifo, dover affrontare anche l’idea che non contassi nulla per te ha reso tutto peggiore».
«Io… io…». Claire tornò a guardare Fred e questa volta riuscii a leggere una supplica nei suoi occhi. C’era qualcosa che non ci stavano dicendo e probabilmente era anche qualcosa che avrebbe ferito ulteriormente Trevor. Per quanto fosse giusto sapere tutta la verità, non volevo che niente gli facesse del male, ma d’altronde sembrava inevitabile.
«Diglielo Claire, tanto peggio di così non può andare», mormorò Fred, portandosi una mano tra i capelli. Sembrava frustato e sfinito.
«Dire cosa?», domandai visto che Trevor stava osservando quello scambio di battute in silenzio.
«Quando dal centro hanno rintracciato tuo padre», spiegò Claire, «e lui ti ha trovato in quelle condizioni, è venuto subito da me. Diciamo che non è stata una discussione amichevole; appena me lo sono trovato davanti ha iniziato ad urlarmi contro e ad accusarmi». Era comprensibile che l’avesse fatto; in fondo per andarsene doveva aver creduto che il figlio fosse in buone mani.
«Ero fuori di me e furioso con tua madre», continuò lui. «Volevo sapere cosa diavolo fosse successo e perché mai lei non aveva fatto nulla per impedirlo».
«E perché diavolo ti sarebbe dovuto importare di me?», domandò Trevor puntando lo sguardo dritto verso di lui. «Te ne sei andato quando avevo quattro anni senza mai più una parola».
«Questo non ha importanza», tagliò corto la madre. «Comunque tuo padre ha preso la tua roba e mi ha minacciato di stare lontana, visto che avevo combinato già abbastanza guai. Mi ha detto che sarebbe stato meglio per te se non mi fossi fatta viva fino a quando non avessi capito la gravità della situazione. Così dopo, quando ho realizzato fin dove ti eri spinto, mi sono sentita morire per il modo in cui mi sono comportata, ma ascoltando le minacce di tuo padre ho preferito lasciarti spazio, anche perché avevo paura che tu mi avresti colpevolizzato. So che forse è stato stupido, ma avresti avuto tutto il diritto di accusarmi ed io non me la sono sentita di affrontarti».
Trevor ascoltò tutto il discorso, irrigidendosi di più. Sentivo che stava faticando a mantenere la calma e purtroppo sapevo anche contro chi l’avrebbe canalizzata. «Che cosa diavolo ne sapevi tu di cosa avevo bisogno? Chi eri tu per impedire all’unico genitore che ho mai avuto di starmi vicino?». Lo sguardo di Trevor era puntato dritto verso suo padre ed era freddo come il ghiaccio.
«Hai chiamato me Trevor», ribadì lui. «Hai chiesto il mio aiuto ed io ho fatto quello che ritenevo necessario».
«Necessario?», sibilò. Strinsi la sua mano cercando di trattenerlo, ma era furioso e all’improvviso lo era solo verso suo padre. Capivo che potesse avercela con lui, ma se avesse ragionato più lucidamente avrebbe compreso che delle semplici minacce non sarebbero dovute bastare per impedire ad una madre di vedere il proprio figlio. Io non conoscevo Claire ma non doveva essere una donna debole che si lascia soggiogare facilmente dagli uomini, visto che era riuscita a crescere Trevor da sola.
«Tu non sapevi un bel niente di me», continuò, «come non lo sai tuttora. Tu non hai idea di come sia stata la mia vita e per questo non avevi nessun diritto di fare minacce, non conoscendo neanche i fatti. Tu non c’eri ed io sono cresciuto solo con la mamma. Tu non lo sai cos’è successo visto che mi hai abbandonato e mi hai voltato le spalle». Ed eccolo là il nocciolo della questione: Trevor non riusciva a superare il fatto che il padre se ne fosse andato preferendo di non crescerlo.
«Non è stata solo colpa mia», soffiò lui a mezza voce.
«Come?». Ero stata io a parlare ma non ero certa di aver sentito bene. Se dovevano tirare fuori la verità era bene che lo facessero fino in fondo. Sembrava che quell’affermazione fosse sfuggita al signor Simons senza neanche accorgersene.
«Beh certo la sincerità prima di tutto, non è vero Claire?», sbottò Fred. Non l’avevo mai visto così minaccioso. «Perché sono io l’unico che deve sopportare l’ire di nostro figlio, giusto?».
Lei lo guardò storcendo le labbra. «Se avessi voluto dirglielo lo avresti già fatto».
«No, invece solo perché non volevo riaprire una ferita non ancora del tutto rimarginata. In fin dei conti per lui è più semplice avercela con me invece che con te».
«Si può sapere di cosa accidenti state parlando?», scattò Trevor alzandosi in piedi e lasciando le mie dita. Guardò prima sua madre che abbassò lo sguardo e poi si fermò su suo padre. «C’è altro che dovrei sapere? Dimmelo».
«Non avrei voluto che tu lo scoprissi, non così almeno». Abbassò lo sguardo e sospirò. Quando rialzò la testa riuscii a leggere solo una profonda tristezza. «Tu mi accusi di essermene andato, di aver lasciato te e tua madre, ma non è del tutto vero. Sì sono andato via, ma non è mai stata solo una mia iniziativa. Non volevo abbandonare te Trevor, non l’ho mai voluto».
«Non capisco». Trevor si rimise a sedere e afferrò la mia mano, stringendola forte.
«Il matrimonio tra me e tua madre non è mai andato bene», iniziò lui assumendo un’espressione seria. «Non eravamo felici, non lo siamo mai stati. Tua madre mi tradiva Trevor e purtroppo lo ha sempre fatto».
Lo sentii trasalire e voltarsi di scatto verso di lei. «È vero?».
«Pensavo te l’avesse già detto e che fosse anche per questo che non volevi parlarmi».
Trevor boccheggiò e poi cercò in qualche modo di riprendersi. «D’accordo, ma questo non giustifica il fatto che te ne sia andato».
«No è vero. Sapevo che tua madre mi tradiva, ma facevo finta di non vedere perché l’amavo. Ma ero infelice, molto infelice, e poi c’eri tu e continuavo a illudermi che le cose potessero migliorare. Poi un giorno abbiamo litigato come non ci era mai capitato prima; tua madre non voleva più continuare ed aveva ragione: io la rendevo infelice e il mio accanirmi in una relazione già chiusa da tempo era stupido, adesso lo riconosco. Quel giorno mi disse che era colpa mia se non mi era stata fedele, e ripensandoci so che forse in parte aveva ragione. Mi ha detto che la soffocavo e che te e lei sareste stati meglio senza di me, che avrei fatto meglio a lasciarvi e a non essere più invischiato in quel matrimonio fallito».
«E tu le hai obbedito? Non hai nemmeno opposto resistenza?».
«Certo che l’ho fatto! Ho urlato, ho detto cose orribili ma poi… poi mi ha detto che tu non eri mio figlio». Trevor vacillò sentendo quella bomba, non riuscendo a credere alle proprie orecchie; d’altronde anch’io ero piuttosto incredula. Chiunque avesse visto Fred e Trevor, almeno in quel momento, avrebbe scorto una sorta di parentela; erano molto simili e sospettavo non solo fisicamente. Stessi occhi, stessi tratti, talvolta stesse espressioni: erano padre e figlio senza ombra di dubbio. Ma forse all’epoca era stato diverso?
«Non sono tuo figlio?». Trevor si passò la mano libera tra i capelli. «Questo non ha senso».
«Certo che sei mio figlio Trevor, ma all’epoca quell’insinuazione bastò per farmi vacillare. Non mi somigliavi molto e sapevo per certo dell’infedeltà di tua madre, quindi poteva essere accaduto anche prima. E forse Trevor io ho voluto crederci per salvarmi, nonostante amassi ancora tua madre quel matrimonio mi stava uccidendo. Andarmene era la scelta più semplice e tua madre mi stava offrendo la soluzione per uscire da quell’inferno su un piatto d’argento». Era plausibile che avesse creduto a quella bugia, soprattutto in un momento simile, ma poi come aveva fatto a capire la verità? Se credeva che Trevor non fosse suo figlio perché rispondere al suo appello quattordici anni dopo? Solo perché aveva cresciuto quel bambino per quattro anni pensando che fosse suo? Sarebbe stato molto cavalleresco e nobile, ma sospettavo che ci fosse dell’altro.
«E come l’ha scoperto poi?», intervenni. «Voglio dire come ha saputo che sua moglie aveva mentito?».
«Quando volevo sposare Susan, ho avuto dei problemi con i documenti del divorzio e fui costretto a rintracciare Claire. Quando la trovai le chiesi di te, come ve la stavate passando e se potevo vedere almeno come eri cresciuto. Avrai avuto circa dodici, tredici anni».
«Visto che stava per sposare un’altra donna», intervene lei, «non trovai una scusa valida per non mostrargli una tua foto. Non avrei potuto evitarlo, prima o poi l’avrebbe scoperto e, visto che eri a scuola, non volevo che lo incontrassi rientrando a casa».
«L’ho capito al primo sguardo che eri mio figlio e che tua madre mi aveva mentito. E forse là ho sbagliato di nuovo a non restare, a non insistere; ma c’era Susan, la possibilità di una nuova famiglia e tu sembravi felice. Entrare di nuovo nella tua vita avrebbe portato solo scompiglio». 
«E quindi te ne sei andato di nuovo», sussurrò Trevor ma non ero certa che lui l’avesse sentito. Era scosso e confuso ed io cominciavo ad averne abbastanza di tutta quella storia. La mia famiglia in confronto sembrava perfetta, considerando il fatto che nessuno sembrava capire l’impatto che quelle parole avevano avuto su loro figlio.
«Va tutto bene», mormorai avvicinandomi al suo orecchio. «Andrà tutto bene». Trevor mi guardò con la coda dell’occhio, quasi sorpreso di trovarmi lì, come se non si aspettasse che io sarei stata al suo fianco in ogni istante.
«Mamma», parlò questa volta in un tono udibile. «Perché l’hai fatto? Perché mi hai fatto credere che lui ci avesse abbandonato?».
«Perché non avresti capito Trevor e ce l’avresti avuta anche con me. Ma non l’ho fatto con cattive intenzioni devi credermi».
«E cosa dovrei pensare? Sono cresciuto senza un padre, pensando che lui non ci avesse voluto!».
«Non volevo farti crescere senza tuo padre», replicò lei, «ma non volevo neanche che crescessi in mezzo a genitori in lite o costretti in un matrimonio infelice. Non volevo che fossi costretto a frequentare tribunali, a scegliere con chi restare, chi dei due amare di più. Conoscevo abbastanza tuo padre da sapere che continuava ad amarmi nonostante i miei sentimenti per lui si fossero spenti. Lui era infelice eppure non demordeva, io ero infelice ed invece lo tradivo; ma nonostante tutto lui restava lì. Non lo faceva solo per me, ma anche per te Trevor. Perciò, nonostante quello che tu adesso possa pensare di me, dissi lui l’unica cosa che l’avrebbe fatto allontanare senza voltarsi. In fondo non ce la siamo cavata male da soli io e te?».
Trevor non rispose e strinse più forte la mia mano. Capivo benissimo ciò che stava provando: aveva passato tutta la sua vita ad odiare suo padre, a dargli la colpa di tutto, e in quel momento, all’improvviso, scopriva che non era del tutto colpevole come aveva creduto. Certo sarebbe potuto restare, avrebbe potuto lottare invece di scegliere la via di fuga più facile, tuttavia non era stata sua intenzione abbandonarlo.
«So che ho molte colpe da espiare Trevor», continuò Claire. «Sono qui anche per questo. Voglio che tra noi le cose tornino come prima».
«Non torneranno mai come prima», rispose atono. «Sono successe troppe cose perché possano tornare come prima, non credo neanche di volerlo in fin dei conti».
«Trevor, ti prego, dammi una possibilità». Potevo leggere nei suoi occhi la supplica, ma speravo proprio che Trevor non cedesse. Ero stata prevenuta nei confronti di sua madre, anche se avevo fatto di tutto per non esserlo, sin dai suoi primi racconti, ma avevo scoperto che non mi ero sbagliata. Non era la persona che pensava lui, o almeno non lo era in quel momento. Non riuscivo a scorgere in Claire la madre amorevole che cresce un figlio da sola, vedevo solo una donna debole ed egoista che continuava ad insistere con lui, nonostante la cosa lo ferisse.
«Sono cambiata Trevor», continuò, «non sono più la stessa persona che ha permesso tutte quelle cose. Ho commesso molti sbagli, ma in questi anni ho capito i miei errori. Ho conosciuto una persona e ho rimesso in piedi la mia vita e vorrei davvero che tu la conoscessi e che…».
«Adesso basta!». Mi ritrovai in piedi prima ancora di rendermene conto. «Basta così! Trevor ne ha abbastanza. E, visto che è sua madre, lei dovrebbe accorgersene».
«Kathleen», intervenne il signor Simons cercando di mettermi in guardia.
«No!», sbottai. «Adesso ascoltate me tutti quanti. Forse a voi non importa di come possa sentirsi Trevor in questo istante ma a me sì. Quindi smettetela di parlare: mi pare ovvio che nessuno dei presenti sia da eleggere come genitore dell’anno e mi pare altrettanto evidente che non sapete affatto chi Trevor sia, o sia diventato, dopo tutto ciò che ha passato. Lei signor Simons deve smetterla di trattarlo come se potesse sbagliare ad ogni passo; Trevor è forte e stargli addosso non risolverà i vostri problemi, non finché non si fiderà di lui come mi fido io».
Mi voltai verso sua madre, nonostante Trevor si fosse alzato e mi avesse appoggiato una mano sulla spalla, come per trattenermi. «E lei… lei… signora Claire dovrebbe vergognarsi. Non è tanto difficile comprendere che dopo due anni di silenzio suo figlio possa non volerla vedere, così come non è difficile capire per una madre quando suo figlio ha bisogno di lei. Mi dica dov’è la donna forte che è stata capace di crescere questo ragazzo meravigliosamente dolce e gentile? Dov’è finita se bastano delle semplici minacce ad allontanarla dal proprio unico figlio nel momento in cui lui ha più bisogno di lei?». Avevo parlato senza quasi riprendere fiato, ma avevo buttato fuori tutto quello che avevo da dire.
«Adesso basta Katy». Fu Trevor a parlare passandomi un braccio intorno alle spalle, mentre gli altri due mi guardavano attoniti. Non era da me reagire in quel modo di fronte a persone quasi del tutto estranee, ma avevano ferito Trevor ed io non avrei più permesso a nessuno di far del male apertamente alle persone che amavo.
«Penso che non ci sia nient’altro da aggiungere», proseguì Trevor. «Ho promesso a Linda che avremo giocato con lei, quindi adesso ho decisamente finito tutta la pazienza che avevo per potervi ascoltare ancora. Ho cose più importanti da fare». Senza aspettare una risposta mi portò via della cucina e si fermò soltanto quando fummo di fronte alla porta di ingresso.
Stavo ancora realizzando quanto repentina fosse stata la nostra uscita di scena, quando le labbra di Trevor si posarono sulle mie, travolgendomi in un bacio appassionato.
«E questo per cosa era?», mormorai quando si staccò per riprendere fiato.
«Grazie», disse soltanto appoggiando la fronte sulla mia.
«Per cosa?». Non capivo esattamente a cosa si riferisse; non avevo fatto granché oltre a perdere la pazienza in quel modo.
«Per essere stata lì, per essere scattata in quel modo, per aver detto quello che avrei voluto tanto dire io. Adoro quando tiri fuori gli artigli Katy».
Arrossii ma non per l’imbarazzo; per una volta mi sentivo orgogliosa di me ed evidentemente anche quella sensazione, per me del tutto nuova, mi faceva avvampare. «Chi vuole farti del male dovrà passare prima sul mio cadavere».
Lui accennò un sorriso, anche se non era abbagliante come al suo solito. «Sembri molto minacciosa Katy».
«Ma è la verità», ammisi perdendomi nel suo sguardo.
«E nessuno può farne a te, senza passare sul mio», affermò. «Adesso andiamo da Linda, ti prego, perché ho davvero bisogno di non pensare e giocare con quella peste mi sembra un ottima alternativa». Annuii e lasciai che lui prendesse i cappotti per poter raggiungere la sua sorellina.
Sapevo benissimo che avremo dovuto parlare, che Trevor avrebbe dovuto digerire tutta quella storia, che per lui la strada dei ricordi non era ancora finita; tuttavia visto che quella giornata era stata dolorosa quanto essere travolti da un treno in corsa, sapevo anche che aveva bisogno di essere lasciato in pace almeno per un po’. C’erano già troppe persone a metterlo sottopressione, ed io non sarei mai stata una di quelle.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14
 
Nonostante la stravolgente visita della madre e le sconvolgenti verità scoperte in quel fine settimana, ben presto arrivò a scuola una novità capace di distrarre perfino Trevor da quel brutto periodo. Era prevista per la terza settimana di febbraio una gara di cheerleading a Chicago che avrebbe coinvolto molte scuole di vari paesi compresa la nostra. Erano anni che la nostra scuola gareggiava per poter accedervi e sembrava proprio che, grazie alla guida di mia sorella, ci fosse finalmente riuscita.
La cosa non sarebbe stata tanto eccitante o emozionante, almeno per me, se non per il fatto che gli studenti dell’ultimo anno avrebbero partecipato al ritiro insieme agli altri membri delle cheerleader e a quelli della squadra di football. In poche parole il preside della scuola aveva preso due piccioni con una fava: aveva organizzato la nostra gita scolastica nella città ventosa facendola coincidere con il campionato. E visto che al massimo la nostra gita sarebbe stata di un paio di giorni in qualche località sperduta di montagna, o roba del genere, noi studenti avevamo accolto la proposta più che volentieri. Avremo avuto quattro giorni da trascorrere a Chicago, a fare il tifo per la nostra scuola oltre che a visitare la città, ma erano pur sempre quattro giorni, lontano da casa e da qualsiasi altro problema.
Il fatto poi che la mia verginità fosse ancora al suo posto, del tutto integra, andava ad aumentare l’impazienza per quell’imminente partenza. Io e Trevor avevamo avuto altri momenti intimi, molti proprio sulla sua stessa mustang in quello stesso spiazzo, tuttavia era stato difficile andare oltre. Non avevamo un posto nostro, dove poter sfuggire al controllo dei genitori, o una casa vuota dove poter consumare in maniera dignitosa la nostra prima volta; ma a Chicago sarebbe stato tutto diverso. Non c’erano genitori, i professori potevano essere aggirati e saremo stati solo io e lui.
Erano ovviamente discorsi da innamorata persa, considerando il fatto che io – l’onesta e ligia Kathleen – ero arrivata a pensare di beffare i nostri stessi insegnanti; era una cosa che prima di Trevor non avrei mai considerato ed anzi mi sarei scandalizzata alla sola idea. Tuttavia il pensiero di ciò che sarebbe potuto succedere, di ciò che molto probabilmente sarebbe successo tra noi due, faceva scomparire ogni dubbio.
Così i giorni prima della partenza trascorsero in una sorta di incantata euforia. Tutta la scuola, non solo quelli dell’ultimo anno, sembrava eccitata ed esaltata; le cheerleader, Queen per prima, raddoppiarono gli allenamenti, spronate da un cameratismo mai visto. E così anche le tensioni tra me e Queen passarono in qualche modo in secondo piano; non sparirono ovviamente, ma l’ostilità fu messa da parte sostituita da un silenzio che dopo tanti contrasti poteva definirsi quasi tranquillo.
Ogni pettegolezzo che non riguardasse il torneo o Chicago fu messo momentaneamente a tacere; si parlava delle altre scuole in competizione, delle debolezze o dei punti di forza che chissà come si erano scoperti, del campo dove si sarebbero svolte le gare, dell’hotel dove avremo alloggiato. Dio solo sa come fosse venuto fuori il fatto che nell’hotel avremo potuto usufruire della piscina interna, utilizzata per permettere a molte ragazze di allenarsi. Come se a delle cheerleader servisse una piscina! Comunque quello era un surplus non da poco: avremo alloggiato in un hotel di classe e tutto per vedere delle ragazze agitare dei pon pon. La cosa mi andava più che bene anche se era ovvio che stavamo sfiorando il ridicolo.
E come per ogni gita che si rispetti, i professori iniziarono a tenerci sotto torchio già dalla settimana prima: dovevamo comportarci bene, non creare problemi, chiunque avesse infranto anche una sola regola se ne sarebbe pentito amaramente una volta tornati a casa. Insomma le solite minacce che non sarebbero certo servite ad intimorire degli adolescenti in piena tempesta ormonale, me compresa.
Fu per questo che mi ritrovai a bisbigliare con Trevor durante l’ora di biologia, il giorno prima della partenza. «Domani dovrai riuscire a stare in camera con Paul. Succeda quel che succeda».
«Come vuoi, è già un miracolo che Fred mi abbia pagato il viaggio senza storie. Credevo che avrei dovuto litigare con lui per poter venire a Chicago… anche se ovviamente non avrebbe potuto fare niente per impedirlo». Almeno su quel punto ero contenta che il signor Simons non avesse obbiettato e avesse evitato un litigio con il figlio; un litigio che si sarebbe rivelato del tutto inutile, dato che Trevor aveva l’età per prendere le proprie decisioni da solo.
«Comunque», continuò lui, aspettando che il professore si rigirasse e iniziasse a scrivere qualcosa sulla lavagna. «Non è che avrei molta scelta, non sono molte le persone che vogliono stare in camera con me. Quindi immagino che starò con Paul ed Evan».
«No!», scattai attirando l’attenzione del signor Robbins. «Cioè volevo dire non mi è chiaro quel passaggio». Arrossii e aspettai che il prof ripetesse concetti a cui non stavo prestando la minima attenzione. Non appena tornò alla lavagna e ad altri nozioni, di cui difficilmente avrei afferrato il senso in quel momento, iniziai di nuovo a bisbigliare.
«Non puoi stare in stanza con Evan, devi stare solo con Paul».
«E perché mai? Hai paura che Evan possa approfittare di me?», ridacchiò. «Mi dispiace piccola, ma anche se io gli piaccio lui non è il mio tipo, penso che riuscirò a mantenere la mia virtù».
Alzai gli occhi al cielo esasperata. «Imbecille. Beh comunque proprio di una virtù stiamo parlando».
«In che senso?». Ma andiamo! Davvero non ci aveva pensato? Da quando ero io la ninfomane? Oddio in effetti lo ero stata fin dall’inizio del nostro rapporto.
«Io starò in camera con Lea», lo informai. Io e la mia amica avevamo già organizzato tutto.
«E con ciò?». Si voltò leggermente verso di me e io fui tentata di sbattere la testa contro il banco. Mi stava prendendo in giro? Da quando un ragazzo non pensava alle implicazioni del sesso?
«Io e Lea, tu e Paul», sussurrai diventando rossa. «Io e Paul o tu e Lea potremo scambiarci di camera». All’improvviso la comprensione si disegnò sul suo volto.
«Oh». Mi rivolse uno dei suoi più bei sorrisi che mi facevano letteralmente sciogliere. «Allora credo proprio che Evan dovrà cercarsi un altro compagno di stanza». Sorrisi e mi morsi involontariamente il labbro inferiore.
«E credo anche», aggiunse in un sussurro, «che dovrò passare a rifornire la mia scorta di preservativi». Ed eccolo di nuovo là: il ragazzo capace di farmi diventare rossa come un peperone nel giro di un secondo.
 
La notte della partenza io e Queen, caricammo i bagagli sulla nostra Honda e ci dirigemmo verso la scuola, dove era stato fissato il punto di ritrovo. Visto che i nostri genitori non erano i tipi da accompagnare le loro figlie, in piena notte per giunta, al pullman per poter dare loro un ultimo abbraccio prima di partire, li avevamo salutati la sera prima e ci eravamo arrangiate da sole. Il viaggio fu tranquillo e silenzioso; Queen era un po’ nervosa per l’imminente gara e proprio per scaricare la tensione mi aveva chiesto di poter guidare. Io non avevo avuto niente in contrario, accettando quella tregua momentanea e silenziosa ben volentieri. Sapevo che una volta tornati a casa le cose non si sarebbero mantenute così: non ci sarebbero state più gare né tentennamenti e avremo dovuto chiarirci. Tuttavia accettavo quell’armistizio momentaneo con un certo sollievo.
Quando parcheggiammo l’Honda accanto ad una lunga schiera di macchine, notai subito Trevor scorgermi da vicino al pullman e rivolgermi un ampio sorriso. Non aspettò neanche che scendessimo di macchina per dirigersi a grandi falcate verso di noi.
«Ciao», mi salutò baciandomi sulle labbra e rivolgendomi il suo sorriso migliore. Sembrava che la tensione dovuta alla visita della madre fosse in quel momento stata del tutto accantonata.
«Ciao». Un sorriso ebete mi si disegnò sulla faccia, ma ero così felice in quel momento, per la nostra vacanza e tutto quello che sarebbe potuto accadere, da non riuscire a trattenermi.
Notai Queen studiarci con la coda dell’occhio, mentre si affrettava a prendere le valige dal bagagliaio. Qualsiasi cosa pensasse non disse niente e si limitò ad armeggiare con il suo trolley e il suo borsone.
Senza che glielo chiedessi Trevor andò a prendere la mia valigia e trascinandosela dietro tornò a riprendere la mia mano. Guardai Queen faticare con le sue due borse, avendo con sé anche tutta l’attrezzatura che le sarebbe servita per la gara. Lanciai uno sguardo al pullman dove vidi Sean intento a parlare con i suoi compagni di squadra; non doveva neanche essersi accorto del nostro arrivo e quindi sperare che arrivasse in soccorso della sua ragazza sembrava ridicolo.
Conoscevo abbastanza Queen da sapere che, a prescindere dalla nostra tregua, non si sarebbe mai abbassata a chiedere aiuto, al costo di fare due viaggi o di caricarsi come un mulo da soma. Tuttavia le cose tra di noi erano state relativamente tranquille e volevo che quella pace durasse almeno fino al nostro ritorno; per questo stavo per andare ad aiutarla, quando Trevor, seguendo il mio sguardo mi anticipò e senza dire una parola sollevò il suo borsone mettendoselo in spalla.
Queen rimase un attimo interdetta, sbattendo le sue folte ciglia, del tutto stupita per quel gesto gentile da parte di una persona che teoricamente avrebbe dovuto odiarla. «Oh grazie».
«Non c’è di che». Lui alzò le spalle e iniziò ad avviarsi a grandi falcate verso il pullman.
Trotterellai dietro di lui che, nonostante il peso di due valige, camminava molto più veloce di me, anche per via delle sue lunghe gambe. «È stato un gesto molto gentile», dissi quando lo raggiunsi.
«Non voglio che niente rovini questi quattro giorni», affermò. Si voltò a guardarmi facendomi gli occhi dolci ed io non potei che sciogliermi ancora di più. Sarebbero stati dei giorni magnifici e avevo come la netta impressione che non sarei più stata la stessa al ritorno da quel viaggio, che noi non saremmo più stati gli stessi.
Dopo aver sistemato i bagagli nella stiva del pullman, raggiungemmo Evan che nel frattempo era già salito e aveva miracolosamente conquistato i posti in fondo. Si sbracciò subito appena comparimmo all’inizio del corridoio, facendoci cenno di raggiungerlo.
«Chi hai corrotto per questi posti?», gli domandò Trevor dopo aver faticosamente percorso tutta la stretta corsia tra i seggiolini.
«Ho i miei agganci», rispose stendendo le gambe su i sedili finali.
«Ben fatto amico». Batterono il pugno ed io non potei che sorridere.
«Finestrino o corridoio?», mi chiese Trevor, passandomi le dita tra i capelli e portandomi un ricciolo dietro l’orecchio. Quello era un gesto che compiva in automatico ogni volta che i miei ricci, per qualche strana forza esterna, ripiombavano in avanti sul mio viso.
«Corridoio. Non sopporto di non riuscire ad allungare le gambe».
«D’accordo». Si sedette di fronte a Evan proprio mentre alle nostre spalle comparivano Paul e Lea.
«Non oso neanche chiedere che cosa tu abbia fatto per ottenere questi posti», disse subito lei, avvicinandosi a me per darmi un bacio sulla guancia. «Buongiorno splendore».
«Ce lo stavamo chiedendo anche noi», ridacchiai, «ma forse è meglio non sapere».
«Quasi mi dispiace di lasciarti solo in camera», commentò Paul, beccandosi subito una gomitata da parte di Lea. Di certo io e lei avevamo progettato tutto, ma avevamo aspettato a comunicare la notizia al nostro amico. Anche perché non eravamo sicure al cento per cento di riuscire ad ottenere due camere doppie tutte per noi.
«Cosa c’è ragazze?», intervenne Evan. «Forse non dovrei sapere che avete già progettato di lasciarmi senza compagni di stanza?».
«Glielo hai detto?». Lea si girò verso Paul che aveva cominciato a sistemarsi al suo posto.
«Veramente è stato Trevor», la smentì l’altro. Mi voltai verso di lui mentre il diretto interessato faceva di tutto per non essere coinvolto nella conversazione.
«Trev», mugugnai come una specie di rimprovero.
«Beh che c’è?». Mi guardò come se non capisse quale fosse il problema. «Mi dispiaceva per lui e volevo che cominciasse a cercare delle alternative».
«Beh almeno lui è stato onesto», confermò. «E comunque potevate dirmelo, non me la sarei presa. Soprattutto considerando il fatto che si tratta della tua verginità Linny». Diventai bordeaux in meno di un secondo, non aspettandomi per niente un’affermazione del genere soprattutto da lui.
«Evan!», strillai con un tono piuttosto acuto.
«Che c’è? Non è forse vero?».
«Io… io». Non riuscendo ad articolare parola mi voltai subito verso colui che sarebbe dovuto intervenire per difendermi. «Trevor!».
Lui alzò le spalle, trattenendo un sorriso. «Che c’è? Non gliel’ho mica detto io».
«Beh non ce n’era bisogno e, anche se non l’avessi saputo, dalla tua reazione è stato facile capirlo. Comunque non era difficile da indovinare, visto che quella nave per Lea è già partita, giusto Paul?». Evan gli rivolse un cenno del capo, Trevor ammiccò nella sua direzione e Paul si limitò semplicemente a sorridere alzando il pollice. Vidi Lea portarsi una mano alla fronte, mentre io mi sentii travolgere dall’imbarazzo. Era ovvio che Lea ed Evan, essendo i miei due migliori amici, sapessero o perlomeno immaginassero fin dove fosse progredita la mia vita sessuale, ma metterlo in piazza così era alquanto umiliante, almeno per me.
«Adesso sarà meglio sedersi», borbottai, prendendo posto accanto a Trevor e stringendomi le braccia al petto.
«Dai non te la prendere Katy», sussurrò lui avvicinandosi al mio orecchio. «Evan stava solo scherzando».
«E manifestando la mia più completa approvazione», intervenne il diretto interessato.
«Lo so», sbuffai alzando gli occhi al cielo. Purtroppo lo conoscevo bene e avevo ormai imparato che in alcune occasioni la sua schiettezza era sia un difetto che una virtù.
«Credo di aver un metodo infallibile per far sparire quel broncio». Trevor mi passò un dito sulle labbra e mi guardò con fare provocante. Senza aspettare una risposta posò le sue labbra sulle mie, in uno dei suoi baci che mi faceva immediatamente smettere di pensare a qualsiasi altra cosa. E come volevasi dimostrare, passai subito la lingua sulla sua approfondendo il bacio, afferrandogli alcune ciocche di capelli con le dita; lo sentii mugolare leggermente quando gliele tirai, mentre le sue mani si fecero strada lungo il mio corpo.
«Ehi ragazzi! Datevi una calmata», intervenne Evan riportandoci al presente e mettendo fine a quel bacio mozzafiato. «Sarà un viaggio davvero molto lungo se vuoi due iniziate a copulare così proprio davanti a me già da ora».
«Sta’ zitto», lo ammonì scherzosamente Trevor mentre io arrossivo di nuovo e mi coprivo la faccia con le mani.
 
Per nostra fortuna – e forse anche di Evan – il viaggio non fu così lungo come prospettato e fu invece decisamente piacevole. Dopo per aver dormito per qualche ora, Evan iniziò a scherzare, sapendo essere davvero un buon intrattenitore, anche se un po’ fastidioso alle volte. In più Trevor mi teneva stretta tra le braccia, continuando a farmi i grattini sul braccio – il massimo consentito dal nostro comune amico. Ogni tanto mi sussurrava qualcosa all’orecchio che mi faceva o scoppiare a ridere o arrossire senza preavviso.
Quel viaggio era esattamente quello che ci voleva sia me e soprattutto a lui: ci stavamo allontanando da tutti i problemi e gli stavamo accantonando da una parte almeno per il momento. E se, qualche mese prima, non avrei fatto altro che pensare a James, adesso ero in qualche modo riuscita a non farmi sopraffare e avevo messo me al primo posto. Ed era davvero un grosso passo in avanti, visto che avevo smesso di pensare al mio benessere nell’esatto istante in cui James era finito in quel letto d’ospedale. Ma forse anche allora non stavo semplicemente pensando a me, bensì a noi, a me e Trevor, ed era soprattutto grazie a lui e per lui che ero arrivata a quel punto.
Quando giungemmo a Chicago, dopo aver scaricato i bagagli, la fortuna sembrò girare ancora dalla nostra. C’erano poche camere doppie, ma sia io e Lea che i ragazzi riuscimmo ad accaparrarcene una. Evan, inaspettatamente, finì in camera con alcuni giocatori della squadra di football e ci promise che si sarebbe impegnato a rendere la loro vacanza un inferno; ovviamente in cambio dovevamo garantirgli ospitalità qualora l’avessero cacciato dalla stanza.
Visto che prima di fare un giro in città, avemmo giusto il tempo di posare i bagagli in camera, io e Lea decidemmo di effettuare lo scambio subito dopo il nostro rientro. Sapevamo per esperienza che i professori non ci avrebbero controllato, o almeno noi non saremmo state nel loro mirino. Per nostra fortuna cheerleader e giocatori di football sarebbero stati più soggetti a controlli ed ispezioni e se avessimo giocato d’astuzia, non avremo avuto problemi, considerando che per puro caso avevamo ottenuto due camere sullo stesso piano, anche se da parti opposte.
Così passammo quel resto del primo giorno a visitare la città, almeno noi che non partecipavamo alla gara. Queen e le altre cheerleader erano state reclutate subito per esplorare la palestra ed allenarsi visto che l’esibizione della nostra scuola si sarebbe tenuta il giorno dopo. Quando rientrammo era tardo pomeriggio, e nonostante la giornata appena trascorsa non mi sentivo affatto stanca, anzi il solo pensiero di ciò che sarebbe accaduto da lì a poche ore mi rese ancora più iperattiva.
Trevor riuscì a sgattaiolare nella mia stanza inosservato, prendendo il posto di Lea e, quando chiuse la porta alle sue spalle, sentii il cuore iniziare a battere all’impazzata. Avevamo per noi un’intera camera a disposizione, senza nessuno che potesse entrare senza bussare e con tutta l’intimità che ci occorreva. E all’improvviso quella consapevolezza mi travolse come un treno in corsa.
«Eccoci qua», mormorò rivolgendomi un sorriso a trentadue denti.
«Già eccoci qua», balbettai. Senza riuscire ad evitarlo, sentii la tensione crescere dentro di me; se fino a quel momento ero stata calma, rilassata e molto emozionata, adesso mi ritrovavo stranamente tesa e preoccupata. Non che avessi paura o non volessi, solo che stavo realizzando che il momento tanto atteso era finalmente giunto ed io non sapevo minimamente da che parte iniziare. Con molta probabilità sarei stata inadeguata ed inesperta anche se volevo davvero che la nostra prima volta, la mia prima volta, fosse speciale ed indimenticabile, in senso positivo ovviamente, e non solo per me.
Trevor sembrò leggere l’incertezza sul mio volto e ancora una volta non fece pressioni, ma mi presentò un compromesso che mi avrebbe concesso il tempo necessario per riprendere la calma. «Evan voleva andare a vedere se la storia della piscina è realmente vera. Che ne dici se ci mettiamo il costume e lo raggiungiamo? Potremo farci una nuotata prima di cena, per scaricare un po’ la tensione».
Emisi un sospiro di sollievo che fece trapelare un po’ troppo le mie emozioni. «Sì, grazie». Era paradossale: avevo desiderato quel momento fin da subito eppure una strana ansia mista a nervosismo stava prendendo possesso di me proprio quando tutto era a portata di mano.
Proprio per questo dieci minuti dopo ci ritrovammo nell’hall dell’hotel insieme ad Evan, Lea e Paul e scoprimmo che le voci circolate erano realmente corrette. Quell’albergo era provvisto di piscina annessa, visto che era una struttura che solitamente ospitava gli atleti più disparati per via della vicinanza all’impianti sportivi di uso olimpionico. Scoprimmo anche che l’ingresso era riservato solo ai clienti dell’albergo e che la maggior parte dei nostri compagni, così come quelli provenienti da altre scuole e alloggiati nel nostro stesso hotel, avevano avuto la nostra stessa idea, cosa che rese la piscina particolarmente affollata e caotica. Comunque, visto che il mio stomaco continuava ad essere in subbuglio e il mio cuore continuava ad avere le palpitazioni, accettai quella confusione di buon grado. Era come se soffrissi di una sorta di ansia da prestazione, ed era del tutto ridicolo considerando il fatto che, se non fosse stato per Trevor, sarei stata disposta a perdere la mia verginità su una mustang in mezzo al nulla.
Scossi la testa scacciando quel pensiero e tirai fuori l’asciugamano, che avevo infilato in borsa, stendendolo sul bordo piscina. Mentre lo sistemavo, insieme a Lea, la mia attenzione fu attratta dai vestiti di Trevor che cadevano per terra e dal suo corpo, coperto solo dal costume, che si manifestava in tutta la sua bellezza. Se avevo pensato che la piscina sarebbe stata una distrazione mi ero decisamente sbagliata: mi sarei mai abituata a vederlo così? Il pensiero che di lì a poche ore l’avrei visto completamente nudo, condividendo un’intimità profonda che a stento riuscivo ad immaginare, mi fece agitare ancora di più.
Arrossii senza poter far nulla per evitarlo e cercai di concentrarmi sulle pieghe dell’asciugamano.
«Ehi hai più tatuaggi di quanto mi aspettassi», commentò Lea alzando lo sguardo. «Hanno delle storie particolari dietro?». Mi irrigidii pensando ad alcune storie che mi aveva raccontato a riguardo; di certo non era pronto per fare le stesse confessioni anche agli altri.
«Nah niente di particolare», la liquidò con gesto della mano. Si girò verso Evan che lo stava osservando spudoratamente. «Evan te l’ho già detto, sono un uomo impegnato; non mangiarmi con gli occhi di fronte alla mia ragazza». Quell’affermazione mi strappò un sorriso, nonostante il subbuglio interiore, mentre gli altri iniziarono a ridere.
«Beh non faccio niente di male», si difese l’altro. «Guardo e basta».
«Guardare ma non toccare, giusto amore?». Trevor si avvicinò a me, che nel frattempo mi ero rialzata, e mi baciò sulla guancia. Mi posò una mano sulla schiena, come se avesse intuito la confusione e il tumulto che si agitavano dentro di me.
«Dovrei sentirmi offeso dal fatto di non attrarre l’attenzione di nessuno?», intervenne Paul. «Eppure sono in qualche modo sollevato».
«Hai la mia», aggiunse Lea guardandolo dolcemente. «L’importante è quello». Sorrisi osservando quanto la mia amica fosse innamorata e scorgendo in lei gli stessi sentimenti che provavo io.
Con un po’ di titubanza cercai di mettere a tacere i pensieri dentro la mia testa, ed iniziai a spogliarmi, non sentendomi inoltre del tutto a mio agio col bikini che avevo indossato; era di mia sorella e proprio per questo era più succinto di quanto avessi immaginato, ma l’avevo preso, o meglio rubato, perché il mio repertorio di costumi da bagno era terribile. Per non parlare del colore rosso acceso che attirava l’attenzione su di me come una lampadina gigante.
«Merda…», borbottò Trevor a mezza voce spalancando gli occhi e non riuscendo più a distogliere lo sguardo dal mio corpo. «Tu mi vuoi fare impazzire Katy».
Evan proruppe in un fischio di apprezzamento facendo voltare alcuni ragazzi lì vicino, il che mi fece raggiungere tonalità di rosso che facevano concorrenza al mio costume. «Eccola qua la mia ragazza».
«Beh ti sbagli perché è la mia ragazza», intervenne Trevor con fare possessivo. «Ed in questo momento ha un po’ troppi occhi puntati addosso». Mi abbracciò cercando di farmi scudo con il suo corpo da chi intorno a noi mi stava fissando; mi sentivo al centro dell’attenzione come se fossi stata in topless o addirittura nuda e non ero certo abituata a quel genere di sguardi. Non avevo mai pensato di poter sembrare attraente con quel bikini, almeno non come Queen.
«Da quando rubi i costumi a tua sorella?», mi domandò Lea, mentre si liberava dei suoi vestiti per sfoggiare un semplice costume nero.
«Come fai a sapere che è di Queen?», chiesi anche se era ovvio che la mia domanda risultasse sciocca. Era così evidente, per chi almeno mi conosceva.
«Me lo stai chiedendo davvero?». Lea alzò un sopracciglio con espressione esplicativa. «Beh non è intero e già sarebbe un indizio sufficiente, per non parlare del fatto che è appena adatto a coprire ciò che non si dovrebbe vedere».
«È troppo succinto», mormorai stretta nell’abbraccio di Trevor, poggiando la fronte sul suo petto.
Lea e Trevor risposero contemporaneamente. «No».
«Sì».
«No», ripeté Lea lanciando un’occhiataccia all’altro. «Sei sexy».
«Un po’ troppo», aggiunse lui. «Non che la cosa mi dispiaccia ma stai mettendo in mostra cose che vorrei poter vedere solo io. Katy stai sopravvalutando la mia pazienza».
«Forse dovrei rivestirmi», azzardai alzando la testa per studiare l’espressione di Trevor. Mi stava abbracciando, ma il suo sguardo scrutava minaccioso intorno a noi.
«Non dire sciocchezze», intervenne Evan. «Era l’ora che iniziassi a mettere in mostra quel corpicino che ti ritrovi».
«Sì», confermò Paul. «Stai benissimo Kathleen, Trevor è soltanto un po’ geloso. Attiri lo sguardo di un po’ troppi ragazzi per i suoi gusti, ha solo bisogno di marcare il territorio».
«Le metterei in testa un cappello gigante con su scritto “proprietà privata” se servisse a far distogliere lo sguardo a tutta la popolazione maschile presente qua dentro».
«Non posso credere che stia succedendo davvero», mi rammaricai contro il suo caldo petto.
«Beh io si invece», intervenne lui passandomi una mano su e giù lungo la schiena. «Sei uno schianto Katy: io l’ho sempre saputo, Lea ed Evan l’hanno sempre saputo. Solo tu parevi non essertene accorta». Le sue parole mi fecero sorridere nonostante l’imbarazzo, anche se stentavo ancora a ritenerle vere. Sembrava più probabile che attirassi gli sguardi perché risultavo ridicola piuttosto che sexy; tuttavia i miei amici avevano appena affermato il contrario e forse io avevo davvero una visione distorta del mio corpo.
Tuttavia Trevor mi distolse dai miei pensieri, sollevandomi di peso e mettendomi sulla sua spalla. «Adesso basta, ci sono un po’ troppi sguardi». Pensai che volesse portarmi via di peso, ma invece si diresse verso il bordo della piscina e senza preavviso si tuffò di colpo. Feci giusto a tempo a chiudermi il naso con la mano, per evitare di bere, prima di piombare nell’acqua che mi sembrò terribilmente fredda rispetto al calore dell’ambiente circostante.
«Sei impazzito?», sputacchiai una volta che fui riemersa. Nuotai verso il bordo con i capelli che mi ricadevano disordinatamente sugli occhi e che sarebbero diventati crespi fino all’inverosimile.
«Scusa», mormorò nuotando al mio fianco e raggiungendomi con due veloci bracciate. «Ma almeno finché resti dentro l’acqua gli sguardi non riusciranno a raggiungerti». Era vero, ma era stato un assalto a sorpresa a cui non ero per nulla preparata.
«Scusa amore», ripeté di nuovo incastrandomi tra il suo petto ed il bordo della piscina e scostandomi i capelli dagli occhi. «Non ti ho tuffata in acqua per farti un dispetto ma per tre validissime ragioni: primo avevi troppi occhi puntati addosso, secondo avevo anch’io bisogno di calmare i miei bollenti spiriti prima che diventassero palesi a tutti i presenti e terzo mi piaci ancora di più tutta bagnata». La malizia era evidente sia nella sua voce che nel suo sguardo, e dopo ciò che aveva appena detto mi risultava difficile avercela ancora con lui, anche perché la sua trovata era riuscita finalmente a distrarmi da tutta la tensione che avevo provato fino a quel momento.
«D’accordo», sussurrai strusciando il naso contro il suo ad un centimetro dalle sue labbra. «Mi sembrano tre buonissime ragioni». Lo baciai dolcemente, dimenticandomi del resto del mondo almeno per un momento.
Purtroppo fummo interrotti dal bagnino che ci ricordava l’uso delle cuffie, cosa che a quanto pareva era obbligatoria e che avrebbe risparmiato ai miei capelli di diventare una matassa ingestibile. Dopo aver docilmente obbedito – Trevor aiutandomi a metterla senza farmi uscire dall’acqua – fummo raggiunti dai nostri amici e iniziammo a nuotare, ridere e scherzare tutti insieme. Sembrava davvero impossibile che fosse metà febbraio e che ci trovassimo a fare il bagno nella ventosa Chicago, totalmente liberi di divertirci, senza sentire la pressione costante dei professori a vigilarci. Anche se ne avevo visti un paio a bordo vasca, compreso il coach e l’allenatrice, sembravano lasciarci la nostra libertà ed era davvero un miracolo. Forse sarà stato il fatto che fossimo all’ultimo anno, alla nostra ultima gita, o che ci fosse una competizione imminente ad attrarre la loro attenzione; comunque mi stavo divertendo come mai prima di allora, soprattutto negli ultimi  anni.
Stavo ridendo stretta nell’abbraccio di Trevor per qualcosa che aveva detto Evan, quando voltandomi leggermente notai mia sorella intenta a fissarmi con sguardo imperscrutabile. Era ad una decina di metri da noi, in piedi sul bordo vasca, avvolta nel suo costume verde smeraldo, bella e perfetta come al solito. Soltanto la sua espressione sembrava indecifrabile: non riusciva a distogliere lo sguardo da noi, ma sul suo volto non sembrava esserci nessun risentimento, cosa assai insolita. Non si era fatta scrupolo di manifestare la sua disapprovazione per Trevor sia a parole che con gesti; invece quella sera sembrava solo triste e la cosa mi sorprese.
Svicolandomi dall’abbraccio di Trevor, nuotai verso di lei in modo tale da raggiungerla al bordo. Lei non si mosse, ma mi guardò avvicinarmi lentamente, mantenendo la sua espressione pensierosa.
«Ciao», mormorai, fermandomi e alzando la testa per guardarla negli occhi.
«Ciao».
«Scusa se ti ho rubato il costume senza neanche chiedertelo». Era la prima cosa che mi fosse venuta in mente e probabilmente anche una delle cose più inutili per cui mi sarei dovuta scusare.
«Non fa niente, ti sta bene». Era una risposta gentile, una di quelle che ci saremmo date qualche mese prima, prima ancora che la nostra faida iniziasse.
«Vi siete allenate?», domandai non sapendo cos’altro dire.
«Sì, ma adesso la Miller ci ha detto di rilassarci». Ecco spiegata la sua presenza là. Chissà da quanto mi stava osservando senza dire una parola.
«In bocca al lupo per domani, se qualcuno può far vincere la  squadra quella sei tu». E lo pensavo davvero, non avevo mai avuto dubbi sulle sue capacità.
«Crepi», mormorò accennando un piccolo sorriso.
«Sarò lì a fare il tifo per te», aggiunsi di slancio. Nonostante ciò che era accaduto tra noi, sapevo quanto Queen ci tenesse a quella gara e alle cheerleader in generale e volevo che sapesse che io l’avrei sostenuta sempre, a prescindere da quale fosse il nostro rapporto.
«Grazie», mormorò alzando lo sguardo per osservare il punto dal quale ero appena venuta. «Credo che il tuo ragazzo si stia un po’ innervosendo vedendoti socializzare col nemico». Era quella la Queen che conoscevo: la ragazza capace di scherzare e di ironizzare con estrema facilità. Ed era anche la sorella che più mi mancava.
Mi voltai a guardare Trevor, rivolgendogli uno sguardo rassicurante, per poi tornare a dirigere la mia attenzione su di lei. «Dov’è Sean?». Era strano che non fossero insieme e quella mancanza avrebbe dovuto risaltarmi prima agli occhi.
«Da qualche parte qua in giro», rispose frettolosamente. «Adesso devo andare, ci vediamo Linny». Così dicendo si allontanò lasciando che io tornassi dai miei amici e continuassi a divertirmi.
 
Restammo in acqua ancora un po’, fino a quando gli insegnanti vennero a chiamare ordinandoci di asciugarci e andare a cena. Dopo aver mangiato ci venne imposto una sorta di coprifuoco che ci rispedì nelle nostre stanze, anche se era più che altro rivolto a chi il giorno dopo avrebbe dovuto gareggiare. Quando mi ritrovai nell’ascensore con i miei amici diretti al nostro piano, sentii di nuovo la tensione crescere dentro di me. Se avevo dimenticato, almeno per un po’, ciò che sarebbe successo in quel momento tornò ad occupare in pieno la mia attenzione.
L’ascensore si fermò per fare scendere alcuni ragazzi alcuni piani sotto di noi, compreso Evan.
«Buonanotte», ci salutò con un gesto della mano. Stava per uscire quando il suo sguardo si posò su di me, rannicchiata in un angolo con lo sguardo basso persa tra i miei pensieri. Se c’era una cosa che lui sapeva fare era capirmi con un solo sguardo, anche se a volte sembrava fare di tutto per far credere il contrario. E probabilmente capì meglio di quanto riuscissi a fare io ciò che mi stava agitando e che attirava tutta la mia concentrazione.
Proprio per questo ritornò di slancio indietro e mi posò un bacio sulla guancia. «Andrà bene», sussurrò. «Devi smetterla di rimuginarci sopra».
Alzai gli occhi su di lui grata per quel sostegno del tutto inaspettato. «Grazie».
Fece un gesto con la mano prima di uscire e vidi Trevor accanto a me sorridergli riconoscente, probabilmente avendo colto il senso del nostro scambio di battute. Infatti, una volta che le porte si furono richiuse, le sue dita cercarono subito le mie, intrecciandosi saldamente. Non mi lasciò andare fino a che la porta della camera non si richiuse alle nostre spalle e noi rimanemmo finalmente da soli.
Restammo per qualche secondo in silenzio, non sapendo bene cosa dire o fare. Non c’era mai stato imbarazzo tra noi, a parte quello che avevo provato io nell’approfondire il nostro rapporto; tuttavia le implicazioni di ciò che stava per succedere, il fatto che lui lo desiderasse e se lo aspettasse, rendevano tutto più difficile. Non che volessi tirarmi indietro, ma era ovvio che l’avremo fatto e quella imposizione, per quanto desiderata, ci portava ad essere più impacciati del solito e a rendere la nostra prima volta meno naturale di quanto avrei voluto. Forse avevo sbagliato a voler programmare tutto, ma in quel momento non potevo, e non volevo tirarmi indietro.
«Credo che dovrei farmi una doccia», mormorai cercando di sembrare più naturale possibile. «I miei capelli sono un disastro».
«D’accordo. Ti aspetto qui». Si sedette sul letto e mi osservò mentre prendevo velocemente il beautycase e mi avviavo verso il bagno.
«Katy», mi fermò prima che potessi chiudere la porta. Il suo sguardo era più chiaro e limpido che mai. «Prenditi tutto il tempo che vuoi». Trassi un profondo respiro, come se avessi trattenuto il fiato fino a quel momento, e annuii chiudendomi la porta alle spalle. Gli ero grata per quelle parole, perché significava che mi capiva e che, come sempre, mi stava concedendo i miei tempi senza farmi pressioni.
Lasciai che la doccia, oltre al cloro, lavasse via anche tutte le mie tensioni, e anche se continuavo a sentire il cuore battere a mille all’ora, in parte riuscii a riconquistare un minimo di calma. Quando mi avvolsi nell’immacolato accappatoio bianco dell’albergo sentii una strana consapevolezza prendere il sopravvento. Non avevo nulla per cui essere spaventata, d’altronde era Trevor: il ragazzo, o meglio l’uomo, che amavo con tutta me stessa, lo stesso che mi aveva sempre rispettata e che mi guardava con un’adorazione tale da sembrarmi quasi impossibile. Era amore quello che c’era tra noi e il passo che stavamo per compiere era solo un’altra dimostrazione di quell’amore.
Guardandomi nello specchio, con una determinazione del tutto nuova, scorsi una Kathleen diversa, più matura, pronta a fare quel passo. Mentre mi asciugavo i capelli, cercando di non farli arricciare ancora di più, sentii maturare in me una nuova forza e una nuova emozione; stavolta non era ansia, ma trepidazione. In fondo Trevor era quello che avevo sempre voluto, anche se non lo sapevo, e presto lo avrei avuto completamente. La mia tensione di poco prima era stata sciocca e riflettendoci bene anche del tutto ingiustificata.
E proprio grazie a questa nuova me stessa, non andai nel panico quando mi accorsi di non aver portato con me niente per cambiarmi. I completini intimi che avevo comprato con Lea erano rimasti ripiegati in valigia, ma capii che non avrebbe avuto importanza, che lui voleva me a prescindere da cosa indossassi, esattamente come io volevo lui.
Fu per questo che aprii la porta avvolta solo dall’accappatoio e tornai da colui che desideravo con tutta me stessa. Trevor era sul letto ed indossava solo dei pantaloni della tuta, i suoi tatuaggi in bella mostra davanti a me. Appena mi vide si alzò lentamente, studiando la mia espressione e il mio corpo con sguardo attento.
«Ciao», mormorai rivolgendogli un sorriso emozionato.
«Ciao». Lo stesso sorriso emozionato si disegnò anche sul suo volto.
«Ho dimenticato i vestiti nella valigia».
«Non importa», rispose accarezzandomi la guancia con le dita per poi baciarmi dolcemente. Lasciai che fossero le mie labbra a parlare, mentre portandogli le braccia al collo mi stringevo a lui. Assaporai il suo sapore, ormai famigliare, e fui inondata dal suo odore, così buono da farmi perdere la testa. Portai una mano sul suo petto, posando il palmo proprio dove il suo cuore batteva prepotente in una perfetta imitazione del mio.
Trevor appoggiò la fonte sulla mia, lasciando solo un centimetro tra le nostre labbra, e riaprì gli occhi per travolgermi con quel suo mare azzurro. «Ti amo».
«Ti amo», ripetei stentando a credere a quanto quelle parole risultassero vere.
«Posso?», domandò indicando la cintura del mio accappatoio. Annuii, incapace di parlare, e osservai la sua espressione mentre con estrema calma slacciava quell’unico oggetto che celava la mia nudità. Con movimenti lenti fece scivolare il tessuto di spugna giù dalle mie spalle, lungo le mie braccia, fino a che non si afflosciò a terra silenziosamente.
Il suo sguardo sembrava volermi divorare. «Sei bellissima». Per quanto quel complimento fosse di parte, gli fui davvero grata per averlo fatto: ero lì esposta, nuda e vulnerabile, di fronte a lui e Trevor riusciva comunque a farmi sentire la regina del suo mondo. E la cosa più incredibile era che  probabilmente per lui era davvero così.
Mi alzai sulle punte per baciarlo di nuovo, posandogli le mani sulle spalle. Le sue dita iniziarono a percorrere lentamente la mia pelle, su giù lungo la schiena, sul fianco, sulla pancia, sul mio seno. Senza rendermene conto mi guidò verso il letto, facendomi distendere e portandosi lentamente sopra di me. Mentre ci baciavamo le mie mani scesero giù lungo il suo petto fino ai suoi fianchi tirandogli giù i pantaloni e lasciandolo solo con i boxer. Si alzò un attimo per calciarli via e poi riprese a baciarmi da dove si era interrotto.
Le sue labbra iniziarono a percorrere ogni centimetro della mia pelle: partì dai miei piedi, su per le gambe, sulle cosce, assaporando ogni parte di me. Si soffermò un attimo nel mio centro, ma poi proseguì il suo percorso. Passò la lingua nel mio ombelico e poi salì fino al mio seno; iniziai a gemere ancor prima che con le labbra circondasse un capezzolo, accendo un fuoco dentro di me. Infilai le dita tra i suoi capelli iniziando a tirargli alcune ciocche mentre lui continuò il lavoro sul mio seno, concentrandosi prima su uno e poi sull’altro. Mi inarcai contro di lui sorpresa che riuscisse a farmi provare un piacere tale, soltanto così.
A quel mio movimento, che mi portò a percepire distintamente la sua eccitazione premere contro la mia pelle, Trevor alzò la testa e riprese il suo percorso sul mio collo fino al mio orecchio.
«Non credo che durerò a lungo se continuiamo così. Devo averti Kathleen, non resisto più». La sua voce era roca e sensuale e aveva un tono supplicante del tutto inutile. Volevo esattamente la stessa cosa.
«Sì», mormorai, dandogli un consenso che era già più che palese. Trevor mi sorrise e lasciò un dolce bacio sulle mie labbra prima di rialzarsi. Si sfilò velocemente i boxer, rimanendo completamente nudo di fronte a me, e si allungò per prendere un preservativo, che evidentemente aveva posato sul comodino. Quando strappò la bustina per poterselo infilare, sentii un familiare rossore tingermi le guance che purtroppo non riuscii ad evitare.
Trevor sorrise quando tornò a guardarmi. «Eccola qua la mia Kathleen. Mi chiedevo quando saresti arrossita di nuovo. Sei pronta?». Si posizionò tra le mie gambe, allargandomele dolcemente. Mi osservò distesa sotto di lui e il suo viso si illuminò quando annuii leggermente; intrecciò le sue dita alle mie poco prima di entrare dentro di me. Istintivamente chiusi gli occhi quando sentii una fitta di dolore, fu solo un secondo, che però mi lasciò una specie di bruciore.
«Mi dispiace», sussurrò vicino al mio orecchio. «Ha fatto molto male?».
«No», sussurrai riaprendo gli occhi e trovandomi catapultata direttamente in quelli di Trevor.
«Lascerò che ti abitui a me amore». Mi baciò sulla guancia cercando di non muoversi.
«Mi riempi», mi sfuggì detto, ma era la sensazione predominante. Era come se fossi finalmente completa. Era la prima volta in vita mia che mi sentivo così intera, senza crepe né imperfezioni.
«E tu sei così stretta Katy. La mia immaginazione non avrebbe potuto renderti giustizia».
Sorrisi sentendo il bruciore sparire piano piano; così quando mi allungai per baciarlo, Trevor capì che ero pronta ed iniziò a muoversi lentamente, facendo di me una vera donna e creando tra di noi un’intimità e una complicità sempre più profonda.
 
Diverse ore e tre preservativi dopo, mi ritrovai avvolta nel caldo abbraccio di Trevor; le nostre gambe erano intrecciate e i nostri corpo nudi e accaldati erano avvinghiati sotto le coperte. Lui aveva una mano sopra la mia pancia, dove io stavo accarezzando le sue dita, e mi stava dolcemente baciando un punto imprecisato dietro l’orecchio, immerso tra i miei ricci.
La mia mente era ancora in subbuglio, il mio cuore batteva forte e, per quanto fossi effettivamente stanca, ero preda di una miriade di emozioni che non mi avrebbero mai concesso di dormire. Non trovavo parole per descrivere quello che avevamo appena fatto: tra noi si era creato un legame ancora più profondo, una confidenza, una fiducia ancora più grande. Trevor, all’inizio dolce e attento, era diventato sempre più passionale, animalesco e prorompente, facendomi capire quanto mi avesse desiderato e quanto invece si fosse trattenuto. Ed io avevo tirato fuori una parte di me che non credevo di avere: avevo risposto alla passione con ancora più partecipazione e irruenza di lui, cosa che ci aveva mandato letteralmente in paradiso più volte.
«A cosa stai pensando?», mi domandò respirando vicino al mio orecchio. Sentii il suo piercing sul lobo, una sensazione ormai del tutto familiare.
«A tutto e a nulla, a noi». Le immagini di poco prima erano ancora vivide e le emozioni mi stavano ancora sopraffacendo per riuscire a spiegare tutto quello che mi passava per la testa.
«A noi», ripeté sorridendo quasi fosse una qualche parola magica.
«E tu a cosa stavi pensando?». Seguii il contorno delle sue dita sulla mia pelle, per poi posare la mano sulla sua.
«A qualcosa di molto sdolcinato che se detto ad alta voce metterebbe sicuramente in dubbio la mia virilità».
Feci una risatina. «Niente può mettere in dubbio la tua virilità, non dopo ciò che abbiamo fatto».
Lo sentii ridere contro la mia schiena. «Direi proprio di sì». Tuttavia non aggiunse altro, lasciandomi preda della curiosità.
«Allora questa cosa sdolcinata, me la vuoi dire o no?».
«Mmm, potrei…».
«Non lo dirò a nessuno promesso». Mi strinsi ancora di più a lui, reclinando il capo in un tentativo di guardarlo. «Anzi te ne dirò una anche io: è stata la notte più bella di sempre». Sapevo che poteva sembrare un luogo comune o una frase fatta, ma era davvero così; e anche se all’inizio mi ero sentita un po’ impacciata, dopo era stato tutto assolutamente perfetto.
«Anche per me Katy, anche per me». Sorrisi felice di aver un’ulteriore conferma che lui aveva provato esattamente le stesse cose, che eravamo insomma sulla stessa lunghezza d’onda.
«Era questa la cosa sdolcinata a cui stavi pensando?».
«No». Esitò un secondo prima di continuare. «Sei la persona più importante di tutta la mia vita; non c’è niente che non farei per te Kathleen». Le sue parole penetrarono nel mio profondo, radicando saldamente il loro significato.
Mi scostai leggermente, quel tanto che bastava per voltarmi e poterlo guardare negli occhi. Passai un dito sul suo labbro, soffermandomi sul contorno del suo piercing. «Anche per me sei la persona più importante». Mi accorsi mentre pronunciavo quelle parole che erano vere. Fino ad allora James era stato quella persona, ma nell’esatto istante in cui Trevor era entrato nella mia vita qualcosa dentro di me ero cambiato; le mie priorità erano cambiate e avevo lentamente iniziato ad accettare il fatto che, nonostante la speranza ancora viva, James come lo conoscevo io, come era prima, non ci sarebbe più stato e con lui non ci sarebbe più stata neanche la vecchia Kathleen. La nuova Kathleen era diversa, più forte, più matura, forse proprio grazie a quel dolore sordo che non se ne sarebbe mai andato del tutto; la nuova Kathleen aveva conosciuto Trevor e se ne era innamorata perché aveva visto in lui lo stesso dolore, la stessa sofferenza, e una personalità prorompente che lottava con tutte le sue forze per riemergere; un coraggio che io non avevo mai avuto fino ad allora.
«Voglio che sia per sempre Katy», mormorò, gli occhi così limpidi e sinceri. «Questa notte, noi due, tutto quanto».
«Noi per sempre», confermai prima di baciarlo dolcemente. Avevamo appena detto tutto: non c’era nient’altro da aggiungere.
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15
 
Dopo la notte appena trascorsa ero riuscita faticosamente a prendere sonno solo verso l’alba. Avevo sentito il respiro di Trevor, vicino al mio orecchio, farsi via via sempre più pesante, il suo corpo nudo avvinghiato al mio come una calda coperta. Invece il mio cuore aveva continuato a martellare in maniera frenetica, mentre nella mia testa seguitavano a susseguirsi le immagini dei nostri baci, delle carezze, dell’intimità di poco prima.
Quando finalmente le mie palpebre si decisero a chiudersi fu solo per poco tempo, perché presto un rumore sordo venne a disturbare il mio dolce riposo. Era un martellare ripetuto sempre più forte e sempre più concitato.
«Linny! Apri!». Una voce femminile e familiare fece capolino nella mia testa, ma io avevo troppo sonno per darle ascolto. Mi sembravano passati appena due minuti da quando avevo chiuso gli occhi.
Il martellare si ripeté insistente, sempre più forte. «Per la miseria! Kathleen vieni ad aprire». Quelle parole sembravano implicare il fatto che avrei dovuto alzarmi e io proprio non ne avevo nessuna intenzione. Accantonai quel pensiero e cercai di tornare nel mondo dei sogni; del resto Trevor era ancora accoccolato contro di me e sembrava che tutto quel fracasso non l’avesse per niente disturbato.
«Kathleen Jefferson! Se non apri subito la porta io… io…». La voce si interruppe con una nota di rabbia e frustrazione. «Svegliatevi cazzo!». Fu quella parola, pronunciata da quella voce femminile del tutto in disaccordo con il suo reale significato, a farmi svegliare e a farmi aprire gli occhi.
La prima cosa che notai fu la luce. Il bagliore filtrava dalla finestra: era bel tempo e il sole era già alto, probabilmente un po’ troppo alto. Mi resi immediatamente conto dell’implicazioni che quel semplice dato comportava: avremmo dovuto essere a fare colazione già da un pezzo e non vedendoci scendere gli insegnanti sarebbero potuti venire a controllare, trovando Trevor al posto di Lea e mandando a rotoli il nostro sotterfugio. Ed era proprio Lea quella che stava letteralmente cercando di buttare giù la porta nel tentativo di svegliarci.
Mi alzai di scatto a sedere con il cuore in gola, mentre Trevor continuava a dormire beatamente come se niente fosse. Avrebbe potuto franargli il soffitto addosso e lui non se ne sarebbe accorto.
Visto che Lea aveva ricominciato a bussare, mi affrettai ad alzarmi dal letto e, ritrovandomi nuda, cercai qualcosa per coprirmi prima di andarla ad aprire. Mi guardai intorno, ma i miei vestiti erano rimasti in bagno e non avevo certo tempo per frugare nella mia valigia. Istintivamente tirai via il lenzuolo dal letto e mi ci avvolsi, lasciando Trevor completamente scoperto. Lui mugolò per quel cambiamento, ma neanche quello riuscii a svegliarlo. Mi chiesi come diavolo facesse ad alzarsi per andare a scuola se neanche quel baccano o il freddo riuscivano a farlo uscire dal mondo dei sogni.
«Linny! Apri ti prego». Lea continuò a bussare, la sua voce sempre più scoraggiata.
Mi affrettai alla porta inciampando nel lenzuolo e nel miei stessi piedi. «Arrivo».
Quando aprii, Lea era fremente di rabbia, ma trasse comunque un respiro di sollievo. «Era l’ora! Fammi entrare presto». Si richiuse velocemente la porta alle spalle e, solo una volta al sicuro nella stanza, si soffermò a guardarmi. Non dovevo essere un bello spettacolo, avvolta nel lenzuolo, completamente nuda, con le labbra gonfie e i capelli arruffati.
Fece un profondo respiro per calmarsi prima di rivolgermi un piccolo sorriso e di riprendere a parlare. «Come è possibile che stavate ancora dormendo?».
«Ci siamo scordati di mettere la sveglia. Scusa». Mi accomodai il lenzuolo facendo in modo che non cadesse e che mi coprisse in maniera decente.
Lea sospirò di nuovo. «Va bene, ma guardate di sbrigarvi. Dov’è Trevor?». Il suo sguardo vagò per la stanza fino a che non si fermò sul letto, dove il diretto interessato continuava a dormire completamente nudo e con la mercanzia in bella mostra.
«Porca miseria!». Lea si girò di scatto diventando completamente rossa. Era una vera rarità vederla arrossire, al contrario della sottoscritta, ma purtroppo la situazione era alquanto strana e imbarazzante. Ora più che mai era evidente il motivo per cui non ci eravamo crollati e per cui non ci eravamo alzati in tempo.
Arrossii anch’io e mi affrettai ad andare a svegliare il diretto interessato. «Trev, svegliati!». Mi allungai su di lui afferrando un angolo del piumone per posarlo sulle sue parti intime. «Dai è tardi». Lo scossi più bruscamente, visto che le maniere gentili non funzionavano.
Lui finalmente iniziò a sbattere le palpebre mugolando qualcosa di incomprensibile. «Mmm Katy».
«Alzati! È tardissimo, dobbiamo scendere a fare colazione».
Quando finalmente comprese il senso delle mie parole si mise a sedere portando un braccio intorno alla mia vita per tirarmi a sé. «Buongiorno». Il suo tono era dolce ma anche roco, con un accento che mi ero decisamente abituata a sentire nell’ultimo periodo, soprattutto quella notte. Evidentemente avevo pensato troppo presto che avesse capito in che tremendo ritardo ci trovavamo. «Credo che diventerà uno dei migliori risvegli di sempre», continuò passando le dita lungo la mia schiena.
Solo quando alzò il sopracciglio col piercing e abbassò lo sguardo, capii che tremendo errore avessi commesso. Seguii i suoi occhi fino ad arrivare alla mia mano, che era ancora posata sulla coperta sopra le sue parti intime ed era evidente che in quel momento Trevor era completamente sveglio, in tutto e per tutto. Ogni parte di lui si era svegliata grazie a me e per quanto potesse essere gratificante avere quell’effetto su di lui, non era decisamente il momento adatto.
«Insomma volete sbrigarvi!». La voce di Lea ancora voltata di spalle mi riportò alla realtà, facendomi allontanare di lui con uno scatto.
L’effetto che ebbe su Trevor fu invece del tutto esilarante. Con molta probabilità non si era accorto che non eravamo più soli in camera e per questo lo vidi sussultare sentendo un’altra voce. Quando finalmente inquadrò Lea nella stanza, con lo sguardo fisso alla parete, lo vidi avvampare e, per la prima volta da quando lo conoscevo, diventare rosso come un peperone, raggiungendo tonalità che di solito facevano concorrenza alle mie. Era davvero comico che un ragazzo con molta esperienza come lui potesse sentirsi in imbarazzo trovandosi nudo e pronto all’azione con due donne in una stanza. Non era il sogno di ogni uomo un ménage à trois?
Appena formulai quel pensiero scoppiai a ridere senza più riuscire a fermarmi. Era paradossale che io, la regina delle guance rosse e dell’imbarazzo, mi trovassi in ogni caso più a mio agio di due persone decisamente disinvolte e spigliate.
«Non è divertente», borbottò Trevor alzandosi per andare alla sua valigia e tirandosi dietro il piumone per coprirsi.
«Sì che lo è», sghignazzai con le lacrime agli occhi.
«Che cosa hai da ridere Linny?», intervenne Lea. «Comunque se non vi sbrigate saremo nella merda tutti quanti».
«Sono riuscita a farvi arrossire tutti e due!», mi sbellicai. Cercai di riprendere fiato, mentre sentivo la pancia che iniziava a farmi male. Non ridevo così di gusto da tanto tempo. «La tua espressione è stata così buffa Trevor».
«Vado in bagno», bofonchiò lui, afferrando qualche vestito dal suo borsone, per poi chiudersi velocemente nell’altra stanza.
Solo quando sentì la porta sbattere, Lea si azzardò a voltarsi di nuovo. Mi osservò mentre mi sedevo sul letto, ancora ridendo e vedendo la mia espressione scoppiò a ridere anche lei. «È appena successo quello che immagino?».
«Sì. Prometto che non dirò una parola a Paul». Mi asciugai gli occhi e cercai di fare mente locale su ciò che mi serviva, eppure non riuscivo a smettere di pensare al modo in cui lui era arrossito.
«Oh non importa», mormorò Lea, aiutandomi e dirigendosi verso la mia valigia al mio posto. «Non gli interesserà cosa ho visto sentendo il resto, ricatterò Trevor per tutto la vita con questa storia». Così dicendo mi tirò dei vestiti aiutandomi a rendermi almeno un minimo presentabile.
 
Contro ogni aspettativa un quarto d’ora dopo riuscimmo ad arrivare nell’hall dell’albergo. Visto che era tardi fummo costretti a saltare la colazione – Lea compresa, visto che non era potuta scendere per non dare nell’occhio. Paul era sceso da solo e ci aveva coperto adducendo la scusa che Trevor si era fermato ad aspettarci dato che non avevamo sentito la sveglia; oltre a questo, riuscì a trafugare una brioche per Lea, ma come era prevedibile non ebbe la stessa accortezza per noi. Così oltre ad essere in deficit di sonno mi ritrovai anche affamata, con un enorme buco nello stomaco; immaginai che anche per Trevor la situazione dovesse essere altrettanto tragica.
Per nostra fortuna quella mattina si sarebbe svolta la gara di cheerleading per cui, chiunque non partecipasse attivamente alla competizione fu spedito sugli spalti di una palestra piuttosto affollata, ma per fortuna provvista di bar. Proprio per questo mentre io, Lea ed Evan sceglievamo i posti migliori per poter assistere alla competizione, ma anche per estraniarci liberamente dalla gara una volta che Queen avesse concluso la prova, i ragazzi andarono a procacciarsi del cibo. Così quando Trevor tornò con una tazza di caffè fumante ed un gigantesco cornetto ripieno di cioccolata il mio stomaco brontolò rumorosamente ed io mi illuminai.
«Ti amo tantissimo in questo momento», affermai facendo gli occhi a cuoricino più alla mia colazione che a lui.
«Lo stai dicendo a me o al cornetto?», mi domandò rivolgendomi un sorriso.
«A lui ovviamente, anche se penso di amare in egual misura anche il caffè». Trevor scoppiò a ridere e mi passò la mia adorata colazione, posizionandosi accanto a me. Bevvi subito un lungo sorso di caffè e poi mi tuffai con voracità sulla mia brioche, divorandola in tempo record.
«Qualcuno è molto affamato», scherzò Evan. «Deve aver bruciato tante calorie stanotte».
«Talmente tante da non riuscire neanche ad alzarsi stamattina», rincarò la dose Lea scherzosamente. Fino ad allora sarei arrossita e avrei balbettato qualche sciocchezza, ma dopo quello che era successo e ciò che era stato detto, anch’io avevo imparato ad essere più aperta. Per questo mi limitai a rivolgere loro una linguaccia e a finire il mio caffè.
«Sei sporca di cioccolata», mi fece notare Trevor, passandomi un dito là dove la mia faccia doveva essersi macchiata. Se lo portò alle labbra per leccarlo ed io mi sentii fremere; nonostante la notte appena trascorsa avevo di nuovo voglia di lui. Il sesso era stato bellissimo ed io stavo diventando davvero una ninfomane.
«Ora sei pulita», continuò passandomi l’altra mano nei capelli. «Ti senti meglio dopo colazione?».
«Sì decisamente, e tu?». Mi avvicinai di più al suo viso, strusciando il naso contro il suo, desiderando solo sentire la sua pelle calda sulla mia.
«Sì». Mi baciò dolcemente facendomi capire che anche lui provava le mie stesse sensazioni. Vidi i miei amici distogliere lo sguardo e per una volta lasciarci la nostra privacy. Era evidente come, dopo aver fatto l’amore, tra noi due si fosse creato un legame sempre più forte e che questo ci aveva riportati alla fase “luna di miele” del nostro rapporto.
«Stai bene?». Le sue dita mi pettinarono i capelli, mentre i suoi occhi azzurri mi scrutavano attentamente. Sapevo che si riferiva al fatto che avevo perso un po’ di sangue perdendo la verginità, ma in realtà stavo perfettamente.
«Benissimo», affermai smarrendomi nei suoi occhi.
Affondò il viso nei miei capelli prima di parlare di nuovo. «Ho dannatamente voglia di fare l’amore con te… di nuovo». Sorrisi riconoscendo in lui il mio stesso desiderio.
«Stasera amore, stanotte», affermai.
Lui ridacchiò. «Ricordiamoci solo di mettere la sveglia, non mi è piaciuta per nulla la sorpresa di Lea stamattina».
Risi di nuovo ricordando la scena. «Sarà meglio; comunque avresti dovuto vedere la tua faccia».
«Tesoro, tendo ad essere molto attivo la mattina sotto quel punto di vista, non mi aspettavo certo un intrusione del genere. Avevo previsto tutt’altro risveglio».
«Interessante informazione», mormorai baciandolo e mettendo fine al suo discorso. Purtroppo i nostri baci furono interrotti fin troppo presto dall’ingresso in campo delle varie squadre. Vidi Queen entrare per prima seguita dal resto delle cheerleader e osservare attentamente tra gli spalti, come se fosse stata alla ricerca di qualcuno. Pensai stesse cercando Sean che però era ben visibile, molto più in basso di noi con tutta la squadra di football; immaginate, invece, la mia sorpresa quando il suo sguardo si fermò proprio su di me, come se dal mio appoggio dipendesse l’esito della sua esibizione. Era qualcosa che forse neanche la vecchia Queen avrebbe fatto.
Non sapendo bene come comportarmi alzai una mano rivolgendole un gesto di saluto e anche un sorriso incoraggiante, che non sapevo se sarebbe riuscita a vedere. Nonostante ciò avrei potuto scommettere di averla vista sorridere prima di tornare a guardare dritta di fronte a sé.
«Che cos’era?», mi domandò Trevor in un orecchio riferendosi alla scena appena successa.
«Non lo so», ammisi. «Forse semplicemente la nostra resa».
 
L’esibizione di Queen e dell’intera squadra fu grandiosa, esattamente come mi aspettavo; purtroppo anche le altre scuole non furono da meno. Dovetti riconoscere che ci voleva una certa dose di allenamento per maneggiare quei pon pon e creare una coreografia degna di nota; fu uno spettacolo piuttosto interessante anche per una come me che era stata scettica fin da quando avevo scoperto l’esistenza di gare come quella.
Passammo buona parte della giornata ad assistere alle esibizioni – era incredibile quante scuole partecipassero – e buona parte del pomeriggio, che ci era stato concesso libero, a girare per Chicago con il nostro gruppetto di amici. Visto che le premiazioni si sarebbero tenute il giorno dopo, gli insegnanti ci avevano incredibilmente concesso varie ore di libertà. E per quanto io e Trevor avessimo voglia di fiondarci nella nostra camera di albergo, era davvero uno spreco non approfittare di un’occasione come quella. Per questo mettemmo da parte sia la stanchezza, che il nostro appetito sessuale, ed esplorammo liberamente la città.
Quando rientrammo in hotel era ormai ora di cena e fu davvero un sollievo quando dopo ci ritrovammo finalmente soli nella nostra stanza, con la prospettiva di una serata e di un’intera nottata tutta a nostra disposizione.
«Oh finalmente». Trevor si fiondò sulle mie labbra ancora prima che riuscissi ad appoggiare la borsa per terra. Ricambiai prontamente i suoi baci buttandogli le braccia al collo e lasciando che lui mi guidasse sul letto. Si portò sopra di me continuando a divorare le mie labbra per poi proseguire lungo la mia guancia fino al mio orecchio.
«Non ho fatto altro che desiderare di essere di nuovo dentro di te piccola». La sua voce roca mi face fremere ancora di più, portandomi istintivamente a strusciarmi contro di lui.
«Cosa aspetti allora?». Stentavo ancora a credere che quella ragazza così spigliata e disinibita potessi essere io, ma Trevor sapeva accendermi e trasformarmi in un modo unico.
Non ci occorse molto tempo prima di ritrovarci completamente nudi, intenti in un esercizio fisico decisamente alternativo. Fu solo dopo che fummo venuti entrambi che mi ritrovai accoccolata sul suo petto con la testa contro la sua spalla. All’improvviso, tuttavia, la fatica accumulata in quei due giorni si fece sentire e la stanchezza prese il sopravvento su tutto il resto. In effetti erano due notti che dormivo al massimo un paio d’ore, e se prima la voglia di Trevor era riuscita ad averla vinta, adesso, che era stata appagata, non c’era niente che mi vietasse di dormire.
Mi sistemai meglio contro di lui, riuscendo a stento a formulare un pensiero coerente. «Il sesso è davvero un’attività gratificante e per niente sopravvalutata», farfugliai.
La mia testa vibrò per la risata di Trevor. «Concordo». Non riuscii a dire altro perché le mie palpebre diventarono sempre più pesanti, facendomi abbandonare al mondo dei sogni.
«Dormi mia piccola Kathleen e sogni d’oro». Non capii se mi immaginai soltanto quelle parole o se le pronunciò davvero. Fatto sta che nel giro di un secondo caddi in un sonno profondo.
Tuttavia per la seconda volta in quella giornata il mio riposo fu disturbato da qualcuno che bussava alla porta. L’urgenza era sicuramente minore rispetto al picchiare frenetico di Lea, ma qualcuno voleva entrare nella mia camera ed io non avevo la minima idea di che ora fosse.
«Katy… amore». Stavolta la voce di Trevor venne a cullarmi dolcemente per riportarmi alla realtà.
«Mm… che succede?», mormorai sbattendo le palpebre ed aprendo gli occhi.
«Non lo so ma qualcuno ti sta cercando e temo che stavolta non sia Lea», sussurrò in modo da non farsi sentire, mentre il rumore dei colpi diventava più accentuato.
«Che ore sono?». Mi misi a sedere, cercando di fare mente locale.
«Passata mezzanotte, hai dormito per un paio d’ore. Stavo per spegnere la luce e addormentarmi anch’io, quando hanno iniziato a bussare. È una ragazza, ma non Lea altrimenti avrei aperto senza svegliarti».
«Kathleen?». Una voce femminile fece capolino da dietro la porta. «Ti prego apri, è importante». Sbattei le palpebre cercando di associare la voce ad un volto, ma forse ero ancora mezza addormentata. Nonostante ciò avrei dovuto aprire e Trevor non avrebbe dovuto essere lì.
«Nasconditi in bagno», ordinai mentre raccattavo i miei vestiti. Lui si alzò e fece altrettanto proprio mentre io rispondevo all’estranea fuori dalla camera. «Arrivo, un momento». Mi rivestii velocemente e sistemai meglio le coperte sul letto, in modo che non fosse evidente ciò che poco prima avevamo fatto là sopra.
Quando aprii la porta, dovetti sbattere le palpebre un paio di volte per accertarmi di non stare effettivamente sognando. Megan, la cheerleader Megan, non che migliore amica di mia sorella, era là di fronte a me, nel suo pigiama rosa e decisamente poco da cheerleader e mi guardava con aria preoccupata.
«Megan…», balbettai colta dalla sorpresa. «Che succede? Si tratta di Queen?». Quale altro motivo avrebbe potuto avere per disturbarmi a quell’ora e soprattutto in pigiama e senza un filo di trucco?
Rispose alla mia richiesta con un’altra domanda. «Posso entrare?».
Seppur sbalordita la buona educazione ebbe il sopravvento sul buon senso. «Sì certo». Non pensai che il borsone di Trevor era ancora in bella mostra, che una sua scarpa spuntava da sotto il letto o che alcuni preservativi erano ancora sul comodino.
Megan si guardò intorno notando quei particolari e sgamando così la mia copertura. Restava solo da chiedersi se mi avrebbe retto il gioco o avrebbe spifferato tutto ai professori o peggio a Queen.
Tuttavia le sue parole furono un’altra inaspettata sorpresa. «Puoi dire al tuo ragazzo di uscire dal bagno, se è presentabile. Lo sanno tutti che tu e Lea Marshall avete fatto a cambio di camera; tutti tranne gli insegnanti ovviamente. Non è questo l’importante adesso».
«Okay», mormorai iniziando decisamente a preoccuparmi. La sua espressione era troppo tesa perché fosse portatrice di buone notizie, soprattutto a quell’ora.
Non ebbi bisogno di chiamare Trevor, che avendo sentito tutto, rientrò nella camera completamente vestito e con un espressione piuttosto tesa. «Ciao Megan».
«Perché sei qui?», ripetei di nuovo. «È successo qualcosa a Queen?».
«Non lo so ed è proprio per questo che sono venuta a cercarti».
Sentii una fitta al cuore sentendo le sue parole criptiche. «Spiegati meglio, non capisco».
«Io e Queen siamo in camera con Rachel e Shana, loro non sospettano nulla, pensano che Queen sia con Sean, ma lei non è rientrata ed io sono preoccupata».
Cercai di seguire il filo del suo discorso ma c’erano alcune parti che non mi tornavano. «E non è davvero con Sean? Lui che dice?».
Megan mi guardò triste prima di parlare di nuovo. «Non hanno detto niente a nessuno, ma Sean e Queen si sono lasciati tre giorni fa». Quelle parole mi colpirono come una coltellata in pieno petto. Ora mi spiegavo tutti i comportamenti evasivi che mia sorella aveva avuto negli ultimi giorni quando avevo nominato il suo ragazzo. Come diavolo avevo fatto a non accorgermene? A non notare il fatto che una storia durata più di tre anni fosse inesorabilmente finita? Di chi era stata la colpa? Queen doveva esserne distrutta e se noi non fossimo state in rotta me ne avrebbe sicuramente parlato. Ero stata così presa a litigare con lei che non mi ero accorta dei suoi problemi: ero da considerarmi anch’io una sorella terribile.
«Lo so che voi due vi parlate a malapena ultimamente», continuò Megan, «ma ho provato a chiamarla e non mi risponde; l’ho cercata per tutto l’albergo e non ho la minima idea di dove sia. Credo che abbia resistito fino ad adesso per via della gara, ma dopo che tutta la tensione è sparita lei deve essere inevitabilmente…».
«Crollata», terminai la frase al suo posto. Mi voltai verso Trevor sentendo la preoccupazione crescere dentro di me e anche il senso di colpa. Se non fossi stata così presa dalla mia vita, dalla nostra lite, forse avrei potuto cogliere i segnali. Dovevo capire che ultimamente c’era qualcosa che non andava; più ci ripensavo più mi accorgevo di minuscoli particolari che avrei potuto notare. Avrei dovuto mettere da parte l’orgoglio e parlarle apertamente, in modo da chiarirci e tornare ad essere le sorelle di sempre. Avrei potuto starle accanto, invece avevo pensato solo a me e basta.
Trevor sembrò leggermi come un libro aperto. «Andiamo a cercarla Katy, vedrai che la troveremo e che si risolverà tutto».
«Sì, solo che avrei dovuto…». Non terminai la frase sentendomi sull’orlo delle lacrime.
«Non è colpa tua e non ha importanza adesso», tagliò corto lui. «Avrete la possibilità di chiarirvi. Andiamo a cercarla Katy». Senza più perdere tempo ci fiondammo fuori dalla camera, in un disperato tentativo di ricerca. Scoprimmo che Megan l’aveva già cercata in buona parte dell’albergo, compreso il tetto; dovevo darle atto di tenere veramente a mia sorella anche solo per il fatto di essersi abbassata a girare in pigiama per tutto l’hotel.
Avendo fatto un buco nell’acqua all’interno, immaginammo che potesse essere fuori. Anche se il vento forte ed il freddo avrebbero dovuto scoraggiarla ad uscire, dove altro sarebbe potuta essere? Megan provò a fare un altro disperato tentativo chiamando Sean, ma purtroppo aveva anche lui il telefono spento. Ci propose di andare da lui, ma io la fermai, sapendo che probabilmente era l’ultima persona con cui Queen potesse trovarsi. Mia sorella era orgogliosa e non si sarebbe abbassata ad andare a piangere dal suo ex, e tantomeno avrebbe voluto che noi lo informassimo della sua fuga e quindi del suo crollo emotivo. Era nella natura di Queen mostrarsi forte e avvisando Sean avremmo invece dimostrato il contrario.
Trevor stava per andare a prendere i nostri cappotti in camera, quando il mio sguardo cadde sul corridoio che portava alla piscina. Il portiere notturno sonnecchiava nella sua postazione proprio là davanti e stranamente in giro non si vedeva anima viva. Il coprifuoco imposto dai professori aveva in qualche modo dato i suoi frutti, almeno per quella sera.
La piscina era chiusa e l’ingresso sorvegliato e per Queen non doveva essere stato facile passare là davanti, soprattutto prima, quando il portiere doveva essere sveglio e doveva esserci più vitalità. Eppure era uno dei pochi luoghi in cui non avevamo cercato e in cui avrebbe potuto trovarsi in tutta solitudine e tranquillità. Perché uscire se a Chicago conosceva poco o nulla? Per andare in qualche bar ad ubriacarsi da sola, rischiando di incontrare brutti ceffi che avrebbero potuto farle del male? Non era da Queen, per quanto triste e disperata potesse essere. Non era il tipo di persona che amava dare spettacolo in quel genere di situazione, in questo ci assomigliavamo.
«Credo che sia in piscina», affermai, riconoscendo subito quanto quelle parole fossero vere.
«Ne sei certa?», mi domandò Trevor.
«Se ci beccano mentre ci intrufoliamo là dentro, saranno guai», mi fece notare Megan.
«Lo so, ma lo sento». Non ero mai stata così sicura in tutta la mia vita; tra me e Queen non c’era quell’affiatamento che mi avrebbe potuto far intuire la sua esatta posizione, eppure era come se sapessi che l’avrei trovata là.
«D’accordo andiamo», concluse Trevor. «Ma sbrighiamoci prima che il portiere si risvegli dal suo pisolino e speriamo che non ci siano telecamere di sorveglianza o allarmi vari». Le sue parole resero la mia decisione meno determinata. Potevano esserci davvero dei controlli del genere? Forse Queen era semplicemente rimasta lì prima che chiudesse. Tuttavia dovevo andare, dovevo trovarla, starle accanto e chiarire una volta per tutte quello che si era incrinato tra di noi.
Per nostra fortuna, il percorso parve momentaneamente privo di ostacoli. Dopo aver passato silenziosamente l’ingresso, facendo attenzione a non svegliare il portiere, ci intrufolammo negli spogliatoi e raggiungemmo senza problemi la porta che portava alla vasca. Tuttavia quando feci per aprirla la trovai chiusa; era bloccata ed avendo un maniglione antipanico era possibile aprirla solo dall’interno.
«Merda», mi scappò detto. «Credevo proprio che fosse qua».
Trevor si sporse sopra di me, allungando il collo per vedere attraverso il vetro. «Ed infatti avevi ragione. È laggiù». Indicò un punto posando il dito contro il vetro; sia io che Megan ci alzammo in punta di piedi per guardare là dove aveva indicato, ma eravamo comunque troppo basse. Quando emisi uno sbuffo esasperato, Trevor mi sollevò per un momento quel tanto che bastava per poter vedere la figura di Queen seduta a bordo vasca, con la testa appoggiata sulle ginocchia. Aveva un’aria così triste che mi colpì profondamente, facendomi sentire un’egoista ancora di più.
«Queen!», sussurrai visto che non potevo urlare per paura di essere scoperti. Però battei forte un pugno sulla porta, sperando che quel rumore nel silenzio assoluto della piscina bastasse ad attirare la sua attenzione. Anche gli altri fecero altrettanto, iniziando a tempestare la porta di colpi.
«Ci ha visto», ci informò Trevor, sporgendosi. «Si sta alzando e sta venendo qua».
Feci un sospiro di sollievo per poi voltarmi subito verso di loro. «Sentite è meglio se le parlo da sola. Megan torna in camera prima che le vostre compagne si accorgano di qualcosa. Trevor accompagnala alla hall e poi torna qua a fare da palo».
«Ma…», protestò subito lei.
«Ti prego ho bisogno di un momento da sola con mia sorella. Se sta così è anche colpa mia». Queen non era il tipo da fughe o da isolarsi; era strano che ci avesse fatto preoccupare in quella maniera e proprio per questo dovevo capire e parlarle a quattr’occhi.
Megan studiò la mia espressione nell’oscurità. «D’accordo», acconsentì alla fine. Si allontanò proprio nell’esatto istante in cui Queen apriva la porta, permettendomi di entrare. Non si fermò, semplicemente aprì per poi tornare a sedersi sul bordo vasca.
Prendendo coraggio entrai lasciando la porta accostata per Trevor, quando fosse tornato. Mi diressi verso di lei e mi sedetti lì accanto assumendo la sua stessa posizione: gambe contro il petto e sguardo rivolto alla piscina.
«Che ci fai qui?», domandò in un sussurro.
«Ti cercavo, mi pare ovvio. Megan era talmente preoccupata da venire a chiamarmi».
«Come sapevi dove trovarmi?».
«Sesto senso, siamo sorelle d’altronde». Queen non aggiunse altro ed io cercai le parole giuste per continuare. Tuttavia quelle che trovai furono le più banali che potessi dire.
«Mi dispiace».
Queen sospirò, mostrandomi quanto fosse effettivamente a terra. «Megan te l’ha detto?».
«Ha dovuto; non avercela con lei, era molto preoccupata».
«Lo so».
«Ma non mi dispiace solo per quello», continuai. «Mi dispiace per tutto». Queen voltò la testa verso di me, appoggiando la guancia sulle ginocchia.
«Mi manchi», affermai. «Mi manca mia sorella».
«Anche tu mi manchi», ammise e inaspettatamente scoppiò a piangere. L’abbracciai di slancio, sentendo anch’io gli occhi lucidi; Queen ricambiò l’abbraccio, affondando la testa sulla mia spalle e lasciandosi andare ad un pianto liberatorio. Era un comportamento così poco da lei che per un po’ non seppi bene cos’altro fare se non consolarla e cullarla tra le mie braccia. Queen non era mai stata una di quelle ragazze che scoppia facilmente in lacrime, quella ero io di solito; lei avrebbe preferito donare un rene prima di cedere a quella debolezza. Anche quando James aveva avuto l’incidente Queen non aveva pianto, non aveva versato neanche una lacrima, almeno in mia presenza; con molta probabilità si era sfogata da sola, nella sua camera, ma di fronte agli altri era stata la posata e imperturbabile Queen. Il fatto che mi mostrasse quel lato del suo carattere era una novità assoluta e forse era dovuto a tutto ciò che ci era successo: alla fine era semplicemente esplosa, crollata, distrutta in mille pezzi.
«Mi dispiace tanto Linny», singhiozzò alla fine, alzando la testa e cercando di asciugarsi gli occhi. «Io… io…». Nuove lacrime vennero ad appannarle la vista e ad impedirle di continuare.
«Non importa, va bene se piangi con me».
«No, non per questo». Tirò su con il naso e cercò di riprendere il controllo, almeno quel tanto che bastava per parlare. «Io ti chiedo scusa Linny… sono stata una persona orribile… una sorella orribile». Fui sorpresa da quella confessione, ma sapevamo entrambe di aver sbagliato in due.
«Anch’io sono stata una sorella orribile, non ci siamo comportate bene né io né te».
«Forse sì», ammise, prendendo un altro profondo respiro. «Ma avevi ragione quando mi hai dato della stronza, mi sono comportata male e tu avevi tutto il diritto di essere arrabbiata con me».
Non seppi cosa rispondere a quella ammissione inaspettata, perciò restai a guardarla senza sapere bene cosa dire. Ero andata lì per chiarirci, ma non mi aspettavo che lei si assumesse tutte le sue colpe così apertamente.
Queen si asciugò definitivamente gli occhi e mi fissò con sguardo deciso. «Voglio spiegarti, voglio dirti tutto».
«D’accordo». Non capivo se si riferiva solo a noi due o anche a Sean, comunque ero più che pronta ad ascoltarla.
«So che può sembrarti assurdo ma tutto è successo per uno stupido motivo: ero gelosa Linny». Quelle parole non potevano sembrarmi più ridicole: stava davvero dicendo una cosa del genere?
«Eri gelosa di me?». Era la cosa più irrazionale che avrebbe potuto ammettere.
«Già, lo sono sempre stata».
«Di me?», ripetei incredula. «Ma tu sei… tu! Dio sei capo cheerleader, sei bellissima, intelligente, perfetta. Se c’è qualcuno che dovrebbe essere gelosa quella sono io».
Queen fece una mezza risata che morì subito. «Non sei mai riuscita a vederti in modo razionale. Sei bella e intelligente almeno quanto me, se non di più. Ma non era per questo che ero gelosa: invidiavo il tuo rapporto con James, il modo in cui riuscivate a comunicare soltanto guardandovi, il fatto che per te gravitava ogni cosa intorno a lui e che per lui tu eri la perla più preziosa di tutte».
«Ma James ha sempre voluto tantissimo bene anche a te. Non puoi credere che preferisse me».
«Certo lo so che James mi amava tanto, ero la sua sorellina anche io, ma Linny tu eri un’altra cosa. Non ho mai potuto reggere il confronto con te, non ho mai avuto neanche una possibilità. Forse perché siamo due caratteri diversi, tu risultavi più timida e indifesa e l’istinto di protezione di James scattava, mentre io ho sempre saputo cavarmela da sola».
«Anch’io posso cavarmela da sola», ribattei, infastidita dall’essere considerata debole.
«Sì lo so, e anche Jamie, ma questo non è il punto. Il rapporto che avevi con lui io non ce l’ho mai avuto e lo invidiavo da morire. Mi sono disegnata questo ruolo di figlia perfetta e la cosa mi sta bene, ma certe volte vorrei semplicemente essere te per non dover sentire tutta la pressione che la nostra famiglia mi mette addosso».
«Ma quella pressione la sento anch’io!», protestai. «Queen forse io la sento molto di più, visto che devo sempre reggere il confronto con te».
Lei sbatté le palpebre assimilando quello che avevo appena detto. «Non l’avevo mai vista in questo modo».
«Eh già», affermai ironicamente. «Ma questo cosa c’entra con noi?».
«Ero gelosa ma dopo l’incidente… beh non potevo certo esserlo più. James è in quel letto ed io e te siamo rimaste senza nostro fratello. Tuttavia quando è arrivato Trevor, lo sono stata di nuovo».
«Di Trevor?», cercai di capire.
«No, ero… sono invidiosa di quello che c’è tra voi due».
Riflettei sul significato delle sue parole prima di parlare di nuovo. «Per via di Sean?».
«Anche», ammise.
«Cos’è successo con Sean? Ti ha lasciata lui? Ti ha tradita per caso?». Un fatto del genere avrebbe spiegato molte cose compresa la sua reazione.
«No, affatto. Non avercela con Sean, Linny, perché lui non è il cattivo della situazione. Sono stata io a lasciarlo, lui ha il cuore spezzato più di me». Quella sì che era una rivelazione degna di nota: non avrei mai detto che tra i due fosse stata proprio Queen quella decisa a troncare. Lei sembrava così innamorata, la loro storia durava da più di tre anni: cosa c’era che non andava?
Anche se avevo mille domande, lasciai che fosse lei a raccontare la storia come meglio credeva. «Negli ultimi tempi le cose tra di noi non andavano più così bene. Non che andassero male, ma eravamo caduti nella solita e triste consuetudine. Stavo con lui per abitudine, i sentimenti che provavo all’inizio non erano più così forti».
«Per questo l’hai lasciato?».
«Sì, ma lascia che ti spieghi dall’inizio. Quando hai conosciuto Trevor ero contenta che qualche ragazzo ti considerasse, non ero gelosa, anche se un po’ offesa per il fatto che tra noi due avesse preferito te senza neanche parlarmi. Comunque mi andava bene, non mi preoccupava il fatto che fosse pieno di piercing o di tatuaggi; mi sono sempre fidata della tua capacità di giudizio, a prescindere da ciò che ho ammesso in seguito.
Poi però mi sono accorta che le cose tra di voi stavano progredendo velocemente. Lui iniziava a guardarti in un modo, sembrava completamente cotto ed io ho iniziato un po’ ad esserne gelosa. Non volevo credimi, ma era più forte di me. Sean non mi guardava in quel modo da un bel pezzo e non perché non mi amasse, semplicemente noi due avevamo già vissuto tutto. Così quando c’è stato il ballo di inverno ho accettato di farti uscire con John anche se sapevo che era un idiota; è stato un tentativo per recuperare il mio rapporto».
«Potevi dirmelo», proruppi. «Potevi dirmi che John mi portava al ballo solo perché voi due gli avevate fatto una promessa, potevi dirmi che l’avevi fatto perché tu e Sean avevate dei problemi e che avevi bisogno di quella serata con lui. Lo avrei capito, invece mi hai ingannata ed io mi sono sentita tradita dalla mia stessa sorella».
«Davvero avresti capito? Avresti fatto una scenata e alla fine avresti fatto di testa tua facendo arrabbiare la mamma. E poi non ero ancora pronta ad ammettere che il mio rapporto con Sean era arrivato al capolinea». Stavo per ribattere ma dovetti riconoscere che forse aveva ragione; forse anche se mi avesse spiegato la situazione non l’avrei accettato.
«E dopo le cose sono degenerate», continuò. «Io ho visto come ti stavi innamorando ed ero, nonostante non lo volessi, invidiosa. Dio avrei fatto di tutto per non esserlo, ma non ci riuscivo. Per cui per evitare di pensare a ciò che mancava nel mio rapporto e che mi rendeva tanto gelosa, ho messo i bastoni nelle ruote nel tuo. Ti ho reso la vita impossibile, a te e anche a Trevor, e mi dispiace, mi dispiace tanto. Quando la mamma poi si è schierata dalla tua è stato un pugno in faccia. All’inizio non capivo, ma poi l’ho visto».
«Cosa?».
«Quello che ha visto lei, il motivo per cui ha accettato Trevor senza battere ciglio. Sei felice Linny e lo sei davvero, senza James non lo eri più stata. Ti ho vista sorridere, ridere e scherzare, e il modo in cui lo guardi, in cui lui ti guarda… Siete innamorati, perdutamente, lo capirebbe anche un cieco. Per questo potrai mai perdonarmi di aver cercato di farvi lasciare?».
«Certo che ti perdono». Era naturale, soprattutto dopo quello che mi aveva detto.
«Sai è vedendo te e Trevor che ho capito che tra me e Sean era finita. L’ho amato tantissimo Linny devi credermi; lui c’è stato nei momenti peggiori della mia vita, mi è stato accanto senza battere ciglio e probabilmente avrei affrontato le cose in maniera completamente diversa senza di lui, sarebbe stato tutto più difficile. Mi si spezza il cuore a pensare di… non credere che abbia preso la decisione di chiudere con lui alla leggera, ma non provo più quello che all’inizio mi faceva pensare che Sean fosse l’uomo della mia vita. In un certo qual modo lo amerò sempre, ma non sono più innamorata di lui. Dio non sono più innamorata ma fa male lo stesso». Si stropicciò gli occhi cercando di non ricominciare a piangere.
«È normale». Capivo quella sua reazione molto meglio di quanto potesse credere: era ovvio che soffrisse anche se aveva deciso lei di chiudere quella relazione. Erano pur sempre stati insieme per tantissimo tempo: stava chiudendo con tre anni di abitudini, con tre anni in cui aveva condiviso tantissimo con lui, in cui aveva imparato a conoscerlo forse meglio di chiunque altro.
«Sai Sean non l’ha presa bene», continuò. «Quando sono andata da lui tre giorni fa con questa tremenda decisione, lui non se l’aspettava. Certo aveva capito anche lui che tra noi non era più come prima, ma non immaginava che scegliessi un taglio così drastico. All’inizio si rifiutava di capire quello che stavo dicendo, poi ha urlato, mi ha detto cose di cui poi si è pentito e poi se ne andato con il cuore a pezzi e solo per colpa mia. Vederlo così è stato terribile perché anche se lo stavo lasciando non avrei mai voluto ferirlo». Immaginai se fosse capitata una cosa simile tra me e Trevor, probabilmente io non avrei avuto la forza per compiere da sola quel passo decisivo; il solo pensiero di poterlo far soffrire mi avrebbe fermato. Ma forse ragionavo così perché ero talmente innamorata da non riuscire neanche ad immaginare come sarebbe stato non amarlo più.
«Poi la sera prima della partenza», riprese dopo qualche secondo di silenzio. «Sean è venuto a casa nostra per parlarmi. Mi ha detto di averci pensato e di aver capito le mie motivazioni; mi ha chiesto scusa, ma mi ha detto anche che nonostante negli ultimi tempi fosse stato più distante lui mi amava ancora. Mi ha chiesto se magari potevamo prenderci una pausa, per capire meglio, ma gli ho detto che sarebbe stato inutile. Presto andremo al college, affronteremo strade diverse; in un certo senso non voglio avere nessuno che mi trattenga o che influenzi in qualche modo le mie scelte, né voglio essere quella persona per Sean». Era comprensibile che volesse affrontare quella nuova parte della sua vita liberamente e per farlo aveva in qualche modo dovuto ferire una delle persone a cui teneva di più.
«Gli ho spezzato il cuore e sto malissimo per questo». Ecco il punto della questione.
«È per questo che non hai detto niente a nessuno?».
«No, è stato per via della gara. Ho chiesto a Sean di aspettare almeno fino al nostro ritorno, perché non volevo che le ragazze si preoccupassero o anche che i pettegolezzi iniziassero a girare. Almeno sarò classificata come la stronza che ha spezzato il cuore al quarterback solo tra qualche giorno». Tentò di fare un mezzo sorriso, ma ne uscì una smorfia.
«Non sarai la stronza», ribattei, accarezzandole la testa, «sarai solo la ragazza saggia che ha deciso di chiudere una storia quando non vedeva più un futuro possibile».
«Vorrei che tutti la pensassero così». Poggiò il capo sulla mia spalla e fece un profondo respiro.
«Ragazze». La voce profonda di Trevor alle nostre spalle ci fece sobbalzare. «Non vorrei mettervi fretta, ma credo che forse dovremo andarcene da qua. Ho paura che il portiere si risvegli».
Queen tirò su con il naso e si alzò, cercando di mostrarsi il più composta possibile. «Forse hai ragione, dovrei tornare in camera». Sapevo che quella era l’ultima cosa che voleva fare: il dover mostrare una facciata alle sue amiche, dato che solo Megan conosceva la verità, doveva essere terribile.
Nonostante desiderassi un po’ di intimità con Trevor, non potevo lasciare mia sorella da sola. Aveva bisogno di me e in qualche modo io avevo bisogno di farlo per lei. Anche se ci eravamo chiarite, non ero fiera di come mi ero comportata e avevo bisogno di rimediare. Proprio per questo puntai lo sguardo su Trevor, pregandolo silenziosamente; lo vidi studiare il mio volto nonostante la penombra e poi annuire impercettibilmente. Mi stava dando un consenso che valeva molto più di qualsiasi altro gesto.
«Queen non devi tornare in camera con le altre. Puoi dormire con me… il letto è grande».
«Io non voglio disturbare, non ce n’è bisogno Linny».
«Sì invece», ribattei, «ti prego Queen resta con me stanotte». Sapevo che lo desiderava e che ne aveva bisogno e se per farla accettare dovevo pregarla, l’avrei fatto.
«Io…».
«Camera nostra è grande», intervenne Trevor. «Non ci saranno problemi».
Queen lo guardò spalancando gli occhi impercettibilmente; studiò il suo volto e poi si limitò ad annuire, accettando quell’invito inaspettato.
Solo quando ci ritrovammo di nuovo al sicuro per i corridoi dell’hotel, con Trevor ad una decina di metri di distanza davanti a noi, Queen parlò di nuovo. «È successo Linny, non è vero? Tu e Trevor?».
Sapevo a cosa si riferiva. «Sì, è successo».
Fece una mezza risata che sembrò più un singhiozzo. «Sono stata terribile, avrei tanto voluto esserci per te». Avevo capito quello che voleva dirmi anche se si era espressa con poche parole.
«Beh sei in tempo», affermai. «È successo ieri sera».
«Dovevo capirlo che la voce che tu e lui condividevate la stanza doveva essere fondata. Solo non ti credevo capace di ingannare i professori, pensavo non fosse da te».
«Volevo lui», mi giustificai in un sussurro. «Voglio lui».
«Lo so», ammise rivolgendomi un piccolo sorriso sincero. «Ed è stato bello?».
«Di più». Non avevo parole per descriverlo.
«La seconda volta è anche meglio», affermò.
«Beh in realtà c’è già stata anche quella». Arrossii leggermente, ma mi sentii stranamente bene ad ammetterlo con lei.
Queen fece una mezza risata. «L’ho sempre detto a James che una volta sbocciata saresti stata una vera forza della natura, in grado di dare i peggiori grattacapi a nostro fratello».
«A James, Trevor sarebbe piaciuto», affermai convinta.
«Forse prima di sapere del sesso. Se avesse potuto James ti avrebbe chiuso in casa a doppia mandata o ti avrebbe costretto ad indossare una cintura di castità».
«Esagerata, lui non l’avrebbe mai fatto».
«Mi manca tanto, lo sai», affermò improvvisamente.
«Anche a me». Era sempre una parte di me che non sarebbe mai scomparsa.
«Lo so, ma stai andando avanti Linny. Stasera è stata la prima volta in cui ti ho sentito parlare di lui al passato, non lo avevi mai fatto prima». Mi stupii quell’affermazione, ma mi era venuto spontaneo, come se la sua assenza e la quasi impossibile ripresa fossero ormai dati certi anche per me. Non avrei voluto, eppure l’avevo appena fatto.
Lei mi lesse subito nel pensiero. «Non è una cosa negativa Kathleen, era giusto che iniziassi a farlo. Non sentirti in colpa per quello e non ci rimuginare troppo sopra».
«D’accordo», potei solo affermare prima di raggiungere Trevor davanti alla nostra camera.
Fu una ventina di minuti più tardi, stesa al buio sul letto tra Queen e Trevor, che compresi quanto la situazione tra me e mia sorella fosse cambiata nel giro di poche ore. C’era stata una resa completa e inaspettata che non avevo minimamente sperato di avere.
«Trevor?», sussurrò Queen credendo che io dormissi.
«Sì?».
«Volevo chiederti scusa… per tutto».
Lo sentii rigirarsi leggermente verso di lei, passandomi la mano su un fianco. «Okay».
«E ti ringrazio».
«Non devi, Katy aveva bisogno di stare con te stanotte e tu avevi bisogno di lei. Io sono solo un effetto collaterale che vi ruba la maggior parte del posto in questo letto».
«Non mi riferivo solo a questo. Grazie di renderla felice».
«Non c’è di che, farla felice è l’unica cosa che voglio».
«Bene», affermò. «Perché sappi che se le farai del male dovrai vedertela con me. Sono una donna, ma James mi ha insegnato a picchiare piuttosto forte».
Trevor ridacchiò. «Non ne dubito e credimi non saresti la sola a volermi picchiare in quel caso. Dovresti metterti in coda dopo Lea ed Evan».
«Ti faremmo nero», concordò chiudendo il discorso.
«Queen?». Trevor parlò di nuovo dopo qualche secondo.
«Sì?».
«Azzardati di nuovo a farle del male e non mi importerà se sei una donna né tantomeno sua sorella». La sua voce era profonda e la sua minaccia nemmeno tanto velata.
«Ricevuto e credimi non voglio che capiti di nuovo». E così dicendo concluse la questione, siglando per sempre il nostro armistizio.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16
 
Il resto della nostra gita a Chicago passò in maniera sicuramente più tranquilla rispetto ai primi due giorni e senza eclatanti colpi di scena. La nostra scuola purtroppo non vinse la competizione, ma ciò non servì a demoralizzare nessuno, considerando che era già stato un onore essere stati ammessi ed essere arrivati fino a quel punto.
L’ultimo giorno, prima di intraprendere il lungo viaggio di ritorno, i professori ci portarono a visitare l’università di Chicago, una dei più famosi e prestigiosi college del paese. Anche se fino a quel momento avevo accantonato le parole di mia sorella, entrare in quel maestoso edificio mi fece riflettere sul significato che esse comportavano. Queen mi aveva confessato che aveva rotto con Sean anche perché presto sarebbe andata all’università e avrebbe cambiato radicalmente la sua vita; non voleva essere legata a nessuno nell’affrontare quella nuova avventura. Lei avrebbe iniziato un capitolo nuovo, forse con un po’ di timore ed anche con un po’ di trepidazione. Proprio per questo, girando per quell’enorme complesso, mi domandai invece cosa avrei fatto io.
Queen mi aveva inoltre fatto notare che avevo parlato di James al passato, forse per la prima volta in assoluto. Aveva detto che non era un aspetto negativo e più ci riflettevo più mi accorgevo che aveva ragione. Era successa una cosa che non avrei mai creduto possibile: lo stavo inesorabilmente lasciando andare. Non stava accadendo perché lo amassi di meno, o stessi accettando la sua situazione oppure stessi abbandonando anche le ultime speranze; semplicemente lo stavo facendo per me, perché continuare a tenerlo legato come avevo fatto fino ad allora non era un comportamento sano, era puro masochismo ed iniziavo a rendermene conto.
Fu così che, mentre girovagavo per gli atri della Chicago University, ebbi la mia epifania. Avevo messo in stand-by la mia vita per James perché lui non poteva più averne una, ma non era giusto, era completamente sbagliato. Avevo deciso di restare con lui, di rinunciare alla possibilità di entrare nei college più prestigiosi a cui potessi aspirare, per cosa? La mia risposta era sempre stata per stare accanto a lui, ma improvvisamente mi rendevo conto che c’era ben poco a cui stare accanto oltre ad un corpo immobile in un letto di ospedale.
Non sapevo se anche l’amore per Trevor, il mio essere maturata come ragazza e come donna, mi avesse portato ad aprire gli occhi in quel modo; tuttavia mi ritrovai improvvisamente in una trappola che avevo creato con le mie stesse mani. Quando tutti i miei amici e compagni sarebbero partiti per crearsi un loro futuro, io sarei rimasta là senza saper da che parte iniziare quella nuova fase della mia vita. Persino Trevor, che aveva scartato l’università, aveva dei progetti a lungo termine; mio padre lo aveva definito privo di ambizioni, ma si era sbagliato: quella priva di ambizioni ero io.
«Tutto bene Katy?». Trevor mi raggiunse al centro dell’enorme aula in cui mi ero fermata e studiò attentamente la mia espressione.
«Tutto bene», affermai, anche se l’illusoria felicità che avevo provato fino a quel momento era stata spazzata via in un solo colpo.
Fu così che i giorni cominciarono a susseguirsi uno dopo l’altro, facendomi comprendere l’enormità del mio errore e l’impossibilità di rimediare. Quando a metà marzo arrivò la prima lettera di Queen, per un’ammissione anticipata ad uno dei tanti college a cui aveva fatto domanda, la realtà sembrò soffocarmi sempre di più, impedendomi quasi di respirare.
Trevor capiva che c’era qualcosa che non andava: sapeva leggermi come un libro aperto ed era davvero facile intuire che fossi turbata per qualcosa. Anche se tra di noi le cose andavano a gonfie vele e il nostro amore si consolidava di giorno in giorno, sentivo di non potergli confidare quella parte dei miei pensieri. Lui era l’unico a sapere della mia scelta per il college, ma ricordavo bene la sua reazione; era stato del tutto contrario, dicendomi che era una vera e propria sciocchezza, uno sbaglio madornale. Beh, anche se nettamente in ritardo, avevo capito che aveva ragione. Tuttavia anche se lui mi avrebbe consolata ed aiutata a braccia aperte, per quanto possibile, non ero ancora pronta ad ammettere con nessuno quanto fossi stata stupida e irragionevole.
Da quando avevo conosciuto Trevor dentro di me era cambiato qualcosa; era come se fosse fiorita una parte di me che prima tenevo nascosta, andando così a completare la mia personalità. Ero più sicura, più decisa, più aperta, più felice e la Kathleen triste, timorosa, impaurita dalla vita stessa era semplicemente scomparsa. Era stata quella Kathleen a scegliere di scappare, di ritirarsi nel proprio guscio; mi ero convinta che il mio dovere era quello di stare accanto a James, quando non ce n’era assolutamente bisogno, perché la mia presenza al suo capezzale non aveva cambiato nulla in quegli anni e non avrebbe cambiato nulla neanche in futuro. Certo una minima speranza che lui potesse svegliarsi restava, ma dovevo per forza dare retta all’evidenza. Lui non sarebbe più tornato da me, non come il mio Jamie. Ed io avevo assunto il ruolo di sorella fedele solo perché affrontare il college e la vita in generale senza di lui mi spaventava a morte. Ma questo era stato prima di Trevor, prima di capire che potevo essere me stessa anche senza mio fratello.
Di certo non potevo rimediare ai miei errori; era troppo tardi per fare richiesta in qualsiasi college degno di nota e presto sarebbero arrivate le lettere di ammissione e avrebbero svelato ogni mio gioco. Come avevo pensato di poter affrontare mio padre? Sarebbe andato su tutte le furie sapendo la verità ed io non avrei avuto la benché minima giustificazione. Potevo prendermi un anno sabbatico, ma anche quella decisione lo avrebbe fatto infuriare come non mai. Non avevo la minima idea di cosa avrebbe fatto, ma se mi avesse ripudiato o buttato fuori di casa ne avrebbe avuto tutte le ragioni. Per lui la formazione dei suoi figli era il dogma fondamentale, come avevo fatto a scordarlo e andare contro a i principi che lui stesso mi aveva inculcato fin da piccola?
Fu anche per questo che all’improvviso mi ritrovai nella stanza di James accanto al suo letto, senza sapere più cosa dire. Non avevo più nulla da buttare fuori, né una conversazione da imbastire. Ero là seduta davanti a lui e per la prima volta in tutta la mia vita non sapevo cosa dirgli.
Presi la sua mano tra le mie, accarezzandogli dolcemente le dita, ma le mie labbra rimasero sigillate. James, il mio Jamie, mi avrebbe letteralmente ucciso sapendo ciò che avevo combinato. Avrebbe urlato, inveito, bestemmiato peggio di uno scaricatore di porto scoprendo che avevo mandato a puttane la mia vita per lui. Non lo avevo fatto solo per lui, a dire la verità, ma il suo corpo immobile in quel letto, sembrava affermare il contrario. In quel momento non sarei stata la sua dolce sorellina, la sua Kitty, avrebbe litigato con me come non aveva mai fatto ed io avrei voluto davvero tanto che lui fosse stato in grado di farlo.
Mi ero ficcata in un guaio da cui non potevo uscire e mi sentivo impantanata. Avevo appena messo a posto il casino che era stato il mio cuore in quegli ultimi due anni, avevo finalmente trovato la tranquillità, la felicità, l’amore e all’improvviso avevo appena scoperto di aver buttato all’aria il mio futuro. Le due cose erano separate, l’una non prescindeva l’altra, ma era come se non riuscissi a mettere ordine in tutti i compartimenti della mia vita.
I miei pensieri furono interrotti da qualcuno che bussava alla porta. «Posso entrare?». Trevor fece capolino nella stanza con un sorriso luminoso e il suo sguardo più dolce.
«Che ci fai qui?», domandai stupita di vederlo lì di fronte a me.
«Beh volevo farti una sorpresa, tua sorella mi ha detto che hai preso l’autobus per venire. Non volevo lasciarti in balia dei mezzi pubblici anche per il ritorno».
«Sei carino», affermai accennando un sorriso.
«Beh spero di non aver interrotto nessuna confessione importante». Si avvicinò a me dandomi un bacio sulla guancia. «Di cosa stavate parlando?».
«Di niente in realtà, sono stata qua in silenzio per un po’». Abbassai lo sguardo concentrandomi sul profilo irregolare delle dita di James strette tra le mie.
«Fa lo stesso, certe volte anche il silenzio può essere piacevole. Forse ci sono silenzi che valgono più di mille parole». Aveva perfettamente ragione: era come se all’improvviso non avessi più niente da dire a mio fratello, come se all’improvviso lo vedessi per ciò che era realmente, un corpo ormai non più suo. Quel mio silenzio dimostrava appieno la mia epifania.
«Allora James», continuò Trevor sfoderando il suo migliore sorriso, «non ti dispiacerà se ti rubo Kathleen almeno per oggi. Ho alcune cose importanti da dirle… niente che tu ovviamente non possa sentire, ma preferirei parlarne prima in privato con lei».
«Devi parlarmi?», domandai concentrandomi solo su quel particolare.
«Sì». Lui mi rivolse un sorriso rassicurante. «Niente di drammatico, vorrei solo chiederti una cosa».
«Okay», affermai con circospezione. «Quindi credo che sia meglio andare». Mi alzai dalla sedia, e allineai di nuovo la mano di mio fratello al suo corpo, abbassandomi per baciarlo sulla fronte.
«Ciao Jamie», sussurrai vicino alla sua pelle.
«Ciao James», mi fece eco Trevor. «Alla prossima». Non potei che sorridere per il suo comportamento con mio fratello, del tutto opposto rispetto al suo primo approccio, e per l’ennesima volta sentii di amarlo sempre di più.
Poco tempo dopo mi ritrovai sulla sua mustang, intenta a guardare fuori dal finestrino. Lui non aveva insistito per parlare una volta rimasti soli nell’abitacolo ed io non avevo nessuna intenzione di mettergli fretta. Anche se ero curiosa immaginai che stesse aspettando il momento giusto, o quello in cui sarebbe stato pronto, per rivelarmi il suo segreto.
Per questo fui sorpresa quando lo vidi svoltare per la stradina che portava alla “nostra” piazzola deserta. Oltre ai ricordi della prima volta in cui mi aveva portata là, ultimamente quella era diventata il nostro rifugio segreto quando volevamo un po’ di intimità, non attuabile purtroppo a casa di nessuno dei due. Eravamo caduti nel cliché della maggior parte dei nostri coetanei: anche per noi quella era diventata la piazzola del sesso, non che la cosa ci dispiacesse.
«Credevo volessi parlare», affermai accennando un mezzo sorriso quando si fermò nello spiazzo deserto a quell’ora del pomeriggio.
«Infatti».
«Beh allora perché mi hai portato qua?». Di solito non eravamo di molte parole in quel posto, anche se ci esprimevamo in ben altri modi.
Trevor rise, prima di voltarsi a guardarmi. «Non è che sono per forza arrapato quando ti porto qua. È un luogo come un altro, solo che è tranquillo soprattutto adesso e ho pensato che avremo potuto parlare con calma».
Arrossii per quella mia conclusione affrettata, riconoscendo quanto avesse ragione. «Beh detta così sembra che sia io quella sempre arrapata». Usai la sua stessa parola anche se non ero abituata ad essere così esplicita.
«Devo dirti che non mi dispiace la Katy vogliosa», scherzò. «Ma adesso veniamo al sodo, poi casomai possiamo anche divertirci tesoro». Senza aspettare una mia risposta scavalcò i sedili per andare a sedersi sul posto dietro. Era incredibile che un ragazzo grande e grosso come lui fosse riuscito a fare quella manovra in uno spazio assai ristretto.
«Che fai?», gli domandai non capendo.
«Vieni qua, si sta più comodi e poi voglio poterti guardare senza che mi venga il torcicollo o stringere senza che ci sia il cambio di mezzo».
«O fare altro quando avremo finito di parlare», aggiunsi, mordendomi il labbro.
Trevor mi sorrise scuotendo il capo. «O fare altro quando avremo finito di parlare, mi sembra giusto. Beh credo proprio di avere una cattiva influenza su di te».
«O forse sono sempre stata così, dovevo solo trovare qualcuno con cui esprimere la mia vera natura». Così dicendo scavalcai i sedili, con una certa difficoltà, e mi accomodai accanto a lui.
«Come diavolo hai fatto a passare qua dietro così facilmente?», proruppi ricadendo goffamente sul sedile ed evitando per un soffio di schiacciargli una mano.
«Esperienza, immagino». In effetti quella era la sua macchina e chissà cosa ci aveva fatto sopra. Da quello che avevo potuto testare Trevor era davvero esperto in quell’ambito, più che esperto visto che avevamo provato molte…
«Katy concentrati». I miei pensieri furono interrotti dalla sua voce e dallo schiocco delle sue dita di fronte al mio viso. «E non pensare cose sconce. Non provare a negare te lo leggo in faccia».
Arrossii di nuovo, anche se nell’ultimo periodo mi capitava molto più di rado con lui. «D’accordo».
«Allora veniamo a noi. Devo confessarti una cosa e non so se ti piacerà».
Studiai il suo volto cercando di intuire di che cosa si trattasse. Tuttavia aveva assunto la sua espressione da giocatore di poker che non faceva trapelare proprio niente; per questo aspettai che continuasse.
«Ho sentito mia madre per telefono diverse volte nelle ultime due settimane». Stavo per recriminare sul fatto che non me l’avesse detto, ma lui mi fermò prima che potessi dire una parola. «Aspetta lasciami spiegare; lo so che avrei dovuto dirtelo e volevo farlo credimi, ma so che c’è qualcosa che ti preoccupa ultimamente, anche se anche tu non mi dici niente, e non volevo turbarti ancora di più. E poi volevo aspettare che le cose fossero certe prima di dirtelo».
«Certe?», domandai non capendo e trovando le sue spiegazioni abbastanza ragionevoli. Era ovvio che avesse capito che avevo qualcosa che non andava nell’ultimo periodo e visto che io mi ero tenuta per me i miei segreti, che diritto avevo di fargli la predica se lui aveva fatto altrettanto? E poi mi aveva portato lì proprio per confessarmi tutto.
«Sì ed è per questo che ti volevo parlare. Devo chiederti una cosa e spero proprio che mi dirai di sì». Praticamente non mi aveva ancora chiarito nessun dubbio. Cosa diavolo voleva sua madre stavolta e cosa c’entravo io?
«Non capisco», ammisi. «Smettila di parlare per enigmi e spiegami tutto dall’inizio».
«D’accordo. Dopo che siamo tornati da Chicago mia madre mi ha telefonato; in realtà dopo che era tornata a Boston aveva provato a contattarmi, come ti avevo detto, ma ero ancora troppo arrabbiato per riuscire ad avere una conversazione con lei anche solo per telefono. Del resto non è che con Fred sia molto più loquace. Comunque una volta tornato dalla gita… beh ero molto più rilassato e tranquillo; dopo quello che era successo tra di noi, visto che noi stiamo così bene, ho pensato che avrei potuto affrontarla». Gli accarezzai la mano, osservando la sua espressione felice ed emozionata quando aveva parlato di noi. Riuscivo a capirlo perfettamente: le cose tra noi due andavano a gonfie vele, tanto da darci il coraggio di affrontare ciò che invece non andava nella nostra vita.
«E cosa voleva tua madre?», domandai.
«Sempre le solite cose più o meno. Vuole essere più presente e vuole farmi conoscere il suo fidanzato».
«Fidanzato? Pensavo che non fosse una relazione già così seria».
«Neanche io, ma a quanto pare questo Ray le ha chiesto di sposarla poco dopo che lei è tornata dalla sua visita inaspettata».
«E a te sta bene?». Come aveva preso il fatto che sua madre era sul punto di risposarsi con un uomo che neanche conosceva?
«Non so. Mia madre è sempre stata una donna dall’innamoramento facile, lo riconosco. Ma di solito le sue storie non durano mai così tanto: solitamente uno dei due si stancava o la maggior parte degli stronzi scappava appena veniva a sapere che era una mamma single con un figlio a carico». Detta così dovevo riconoscere a Claire quel coraggio e quella stima che la sua persona però non mi avevano suscitato.
«E con questo Ray pensi che sia diverso?».
«Non ne ho idea ed è per questo che vuole che io lo conosca. Credo che voglia la mia opinione e la mia approvazione; non che ne abbia bisogno è ovvio. Per me può fare quello che le pare, ma lei ci tiene che io veda con i miei occhi quanto si stia sforzando e quanto è cambiata negli ultimi due anni».
«E tu che vuoi fare?». Avrebbe assecondato il desiderio di sua madre, ne ero certa, anche se non era esattamente quello che voleva.
«Ne abbiamo parlato, anche con Fred e Susan. Mia madre vuole che vada da lei a Boston per le vacanze di Pasqua».
«Oh». Avevo pensato che avremo passato le vacanze insieme, facendo qualche cosa anche con gli altri; magari avremmo potuto fare un altro piccolo viaggio, giusto un paio di giorni. Non mi aveva neanche sfiorata l’idea che Trevor potesse andare a Boston a passare le vacanze con l’altro suo genitore.
«Non fare quella faccia amore, non voglio andarci neanche io».
«Ah no?». Che avrebbe fatto allora: ci sarebbe andato comunque?
«No», affermò. «Vedi Katy per me non è semplice tornare a Boston dopo tutto ciò che ho vissuto là. Io non so se sono pronto a rimettere piede in quella casa dove un tempo mi sono praticamente rovinato; non ci tengo per niente a rivedere la mia vecchia camera, a rivivere ciò che ho passato là dentro. Neanche Fred è d’accordo, pensa che non mi farebbe bene, ma del resto non è che mi aspettassi qualcosa di diverso da lui». Il mio discorso evidentemente non aveva sortito l’effetto desiderato su suo padre; continuava a trattarlo come se potesse rompersi da un momento all’altro e ricadere in quella spirale di disperazione in cui l’aveva trovato. Ma Trevor era forte più di quanto potesse immaginare, non era più quel ragazzino impaurito che aveva deciso di chiamarlo dopo anni di silenzio.
«Beh lui non deve essere per forza d’accordo», constatai, «e sono sicura che tu puoi farcela, non ho dubbi su questo. Non sei più quello di prima, sei cresciuto ed io ho completa fiducia in te».
Trevor mi sorrise e mi passò un braccio dietro la schiena per tirarmi più verso di lui. «Grazie per averlo detto». Appoggiai una mano sul suo petto mentre con l’altra mi insinuavo tra i suoi capelli, facendoli scorrere tra le dita.
Mi baciò dolcemente prima di riprendere a parlare. «Comunque abbiamo raggiunto un compromesso: non passerò tutte le vacanze a Boston. Abbiamo deciso che una visita di tre giorni sarà più che sufficiente; dovrei partire il mercoledì pomeriggio subito dopo la scuola e tornare il sabato, in modo da essere qua il giorno di Pasqua. Perderei solo un giorno di scuola e visto che non ho fatto quasi punte assenze da novembre, non dovrebbe essere un problema».
«Okay», mormorai, sapendo già che mi sarebbe mancato da morire in quei tre giorni. Chi mi avrebbe salvato dal mio stesso rimuginare, dai miei stessi pensieri?
«Tuttavia ho detto a mia madre che sarei andato da lei ad una condizione: che tu venga con me».
«Cosa?». Lo guardai sbattendo le palpebre, non capendo se fosse serio o stesse scherzando.
«Voglio che tu venga con me Katy. Lo so che perderesti un giorno di scuola, ma la tua media è altissima e sei sempre presente. Vorrei davvero averti accanto».
«Trev», mormorai cercando le parole adatte, «non penso che sia una buona idea».
«E perché mai?».
«Beh innanzitutto non credo che tua madre abbia molto apprezzato la sfuriata che le ho fatto, non sono la persona migliore per fare da paciere tra voi due. Poi non credo che a mio padre farebbe molto piacere e dovrei comprare un biglietto aereo…».
«Per il biglietto non devi preoccuparti, non dovrai pagare niente, mia madre vuole vedermi e lei si occuperà di tutto».
Non erano certo i soldi che mi preoccupavano, quanto più il fatto che mio padre non avrebbe visto di buon grado quel viaggio e non volevo proprio indisporlo visto che ormai aprile era alle porte e avrebbe presto scoperto il disastro dei college. «Non è per quello amore, è che…».
«Katy», mi interruppe prima che potessi mettere insieme una frase di senso compiuto. «Non è per il biglietto o per mia madre lo so benissimo. Ma so anche che ultimamente sei turbata; non ti ho chiesto niente perché immagino che me lo dirai quando ti sentirai pronta, anche se non mi piace che ci siano segreti tra noi. Tuttavia questo viaggio potrebbe non essere così male, potresti mettere da parte i tuoi problemi almeno per tre giorni, dimenticare per un po’ ciò che ti preoccupa e che ti assilla tanto». La sua non sarebbe stata una cattiva idea se non per il fatto che niente e nessuno mi avrebbe fatto dimenticare il casino che avevo combinato: neanche un viaggio a Boston con lui. In più se ripensavo all’ultima volta che ero stata a Boston mi veniva la pelle d’oca, era un ricordo che non ce la facevo ad affrontare.
«Trev…», iniziai non sapendo bene come continuare, ma lui ancora una volta mi fermò.
«Ti amo tantissimo Kathleen e lo so che potrei affrontare questo viaggio da solo, ma vorrei davvero non farlo, perché quando sono con te esce fuori la parte migliore di me, e voglio essere una persona migliore, voglio esserlo per te. E questo comporta anche cercare di chiarire con mia madre o almeno farle capire che adesso c’è una costante nella mia vita e che quella costante sei tu». Trevor terminò il suo discorso senza distogliere lo sguardo dal mio e lasciandomi del tutto senza parole.
Ancora una volta mi aveva aperto completamente il suo cuore ed era stato sincero con me al cento per cento. Poteva andare da solo, era forte abbastanza da tornare a Boston, il luogo di tanti brutti ricordi, senza esserne scalfito, tuttavia desiderava avermi al suo fianco perché questo lo faceva stare bene. La sincerità con cui l’aveva ammesso era stata disarmante, tanto da farmi notare quanto io fossi in difetto.
All’improvviso sentii il peso del segreto che mi portavo dentro da quando avevamo visitato l’università di Chicago. Trevor mi aveva sempre confidato tutto cercando di alleggerire la mole dei suoi problemi e allo stesso tempo rendendomi chiaro quanto fossero forti i suoi sentimenti. Perché non riuscivo a fare altrettanto? Avrei dovuto appoggiarmi a lui, non chiuderlo fuori.
Riflettendo su quell’enorme differenza, lo abbracciai con uno slancio inaspettato, affondando la testa sulla sua spalla. «Ho fatto un casino Trevor e non so come rimediare». Sentii le lacrime iniziare a rigarmi le guance e inzuppare la sua giacca, formando un torrente in piena capace di mostrare quanto fossi preoccupata.
«Ehi». Lui mi appoggiò una mano sulla testa lasciando che mi sfogassi con quel pianto liberatorio.
«Avevi ragione tu, hai sempre avuto ragione tu», singhiozzai contro il suo collo.
«Di cosa stiamo parlando Katy?». Mi passò una mano su e giù lungo la schiena, in un tentativo di calmarmi, cullandomi tra le sue braccia.
«Del college», mormorai, stringendo la sua giacca di pelle tra le dita.
«Ah, ecco perché stai così da quando siamo tornati da Chicago».
«Non ho fatto punte domande Trevor», proseguii sentendo le lacrime continuare a scendere. «Non ci saranno punte risposte, cosa diavolo avevo in mente? Tu me l’avevi detto che era una pazzia, ma io non ti ho dato ascolto e adesso tutti andranno da qualche parte, inizieranno il loro futuro ed io non…».
«Shh». Mi fece scostare dalla sua spalla in modo da guardarmi negli occhi. «Andrà tutto bene Kathleen, te lo prometto».
«Come potrà andare tutto bene?». Alzai la testa e lo guardai con gli occhi pieni di lacrime.
«Affronteremo tutto piccola». Mi passo le dita sulla guancia per asciugarla inutilmente, visto che continuavo a piangere e non riuscivo a fermarmi.
«Volevo rimanere qui per James», ammisi, «ma lui non ha bisogno di me, era solo una scusa. Avevo paura, non so neanche di cosa, ma andare avanti mi sembrava…».
«Sbagliato», concluse lui al mio posto.
«Sì, ma da quando ci sei tu, non è più la stessa cosa, non ho più paura». Era la pura e semplice verità.
«Ascoltami Katy». Trevor mi prese il viso tra le mani, incatenandomi col suo sguardo. «Andrà bene, non devi preoccuparti tesoro. Puoi informarti, capire cosa devi fare, se ce la possibilità che tu possa essere ammessa a metà semestre oppure semplicemente fare la domanda per l’anno prossimo. Puoi prenderti un anno e ricominciare più forte di prima. Non è una tragedia, questa non è assolutamente una tragedia; hai affrontato cose ben peggiori». Aveva ragione e lo sapevo, tuttavia il trovarmi bloccata là, ferma per la mia stessa cocciutaggine, mi era sembrata la fine del mondo. La mia famiglia aveva affrontato drammi ben più gravi e anche se non sarebbe stata una passeggiata, forse alla fine avrebbero accettato anche quel mio sbaglio.
«Non so che fare», ammisi tirando su con il naso. «L’idea dell’università pubblica mi sembra così insensata adesso».
«Beh puoi sempre frequentare dei corsi all’università pubblica per poi entrare in uno dei college più prestigiosi l’anno prossimo». Non era una cattiva idea ed era piuttosto ragionevole; forse anche mio padre avrebbe potuto vederla così, anche se ci speravo poco.
«Hai ragione», mormorai, strusciandomi gli occhi con la mano.
«Io ho sempre ragione», affermò rivolgendomi un ampio sorriso. «Per questo devi confidarti con me amore, invece di tenerti tutto dentro. Hai passato tre settimane a rimuginarci sopra, quando potevamo affrontarlo insieme».
«Ti amo tantissimo», ammisi abbracciandolo e stringendolo forte, riconoscendo la verità delle sue parole.
«Lo so». Ricambiò il mio abbraccio, lasciandomi un bacio sulla testa. «Ed è per questo che dovresti venire con me a Boston, così potrai distrarti un po’ e prepararti ad affrontare la situazione con più calma». Era tornato sulla sua richiesta iniziale, ma stavolta non avevo molte argomentazioni con cui ribattere. L’idea di stare tre giorni senza di lui e la sua razionalità mi preoccupava di più che rimettere piede in una città piena di brutti ricordi.
«D’accordo», acconsentii. «Proverò a parlarne a mia madre, ma non ti prometto niente».
«Io piaccio a tua madre», affermò. «Ho già vinto in partenza».
Feci una mezza risata contro il suo petto. «Lo so, perché pensi che ne parlerò con lei?». Stavo acconsentendo anche se le mie parole potevano lasciare qualche dubbio. Saremo andati a Boston insieme.
 
Come volevasi dimostrare, riuscii a convincere mia madre a perorare la mia causa, così il mercoledì prima di Pasqua io e Trevor ci ritrovammo seduti su un’aero in decollo per Boston. Nonostante che l’idea del viaggio e dello stare con lui, lasciando da parte per un po’ i miei problemi, mi elettrizzasse, non riuscivo a smettere di pensare all’ultima volta che avevo messo piede in quella città e alle conseguenze fatali che aveva causato. Trevor non poteva saperlo ed io non ci tenevo a parlarne, anche se sapevo che avrei potuto confidargli tutto; solo che era troppo doloroso da rivivere. Quando ero stata a Boston l’ultima volta quella mia gita si era trasformata in un bagno di sangue, una corsa frenetica all’ospedale, un trauma psicologico permanente per me e uno fisico per mio fratello. Era un ricordo che avevo tentato di reprimere il più possibile: nessuno a parte la mia famiglia e miei due migliori amici sapeva che io ero con James quando era successo tutto; la notizia era stata passata sotto silenzio, facendo credere a tutti che anch’io ero con i miei genitori e con Queen quando era arrivata quella telefonata fatale. Invece non era così e quella sarebbe stata un’ulteriore ferita che mi sarei portata dietro per sempre.
«Ehi tutto bene?». Trevor mi riportò alla realtà, accarezzandomi la guancia e facendo in modo che voltassi la testa dall’oblò per poter guardare lui.
«Sì, tutto bene», mentii.
«Mmm, non è così invece». Dovevo saperlo che era inutile cercare di ingannarlo, dato che riusciva a capirmi con un solo sguardo.
«Sono solo preoccupata», ammisi, ed in parte era così.
«Andrà bene, vedrai. Mia madre non può odiarti, non se vuole avere qualche chance con me».
«E questo dovrebbe consolarmi?». Anche se piacere a sua madre era l’ultimo dei miei problemi, non voleva dire che non sperassi di riuscire ad avere un rapporto amichevole con lei.
«Forse hai ragione», ridacchiò. «Comunque grazie di essere qui; significa molto, lo sai vero?».
Gli sorrisi posando la mia mano sulla sua ancora sopra il mio collo. «Sì certo. E tu lo sai che farei di tutto per te, vero?».
«Sì». Mi lasciò un bacio a fior di labbra prima di abbagliarmi con uno dei suoi meravigliosi sorrisi. «Adesso però smettila di pensare e goditi il momento. Stiamo volando da una parte all’altra del paese, solo tu ed io. E, anche se dovremo stare con mia madre e il suo nuovo fidanzato, ti prometto che troverò un po’ di tempo solo per noi due».
Nonostante tutto le mie labbra si piegarono all’insù. «Ci conto». Lo baciai di nuovo prima di appoggiare la testa sulla sua spalla e tornare a guardare fuori dall’oblò.
Quando atterrammo a Boston era già sera tardi. Non appena varcammo i controlli mi affrettai a mandare un messaggio a Queen per informarla che il viaggio era andato bene, promettendole di chiamarla il giorno dopo. Nel frattempo Trevor aveva già recuperato i nostri bagagli e si stava guardando intorno nel tentativo di scorgere sua madre.
Fu lei ad individuarci per prima. «Trevor! Kathleen!». Ci venne incontro con fin troppa enfasi, affrettandosi ad abbracciarci e baciarci sulle guance. Tutta quell’entusiasmo nei miei confronti era fin troppo falso, lo sapevo io e lo sapeva anche lei.
«Avete fatto buon viaggio? Sarete affamati».
«Abbiamo mangiato sull’aereo», la liquidò Trevor.
«Ah bene. Allora possiamo andare, sono certa che sarete stanchi».
«Un po’», ammise lui, lasciando che sua madre prendesse una valigia e posandomi un braccio sulle spalle.
Per fortuna il tragitto in macchina durò ben poco, anche se a me sembrò un’eternità. Claire si sforzava di interessarsi al figlio e lui continuava a darle risposte molto brevi e poco esplicative. Io mi sentivo come in mezzo a due fuochi ed avevo davvero paura che lei iniziasse a porre anche a me domande a cui non volevo rispondere. Comunque ben presto accostammo davanti ad un palazzo, di quelli che non ero abituata a vedere solitamente. Ero sempre cresciuta in una villa con giardino, non ero certo abituata a quei condomini enormi e fatiscenti. Non sembrava un quartiere molto sicuro, ma del resto con il passato di Trevor non era del tutto fuori luogo.
Claire ci guidò su per le scale, visto che l’ascensore non funzionava, fino al quarto piano. «Mi dispiace ma dovrebbe venire qualcuno a ripararlo nel giro di qualche giorno».
«Non importa, non ha mai funzionato granché». Trevor sembrava all’improvviso teso e cupo, probabilmente perché quello era un luogo colmo di ricordi per lui.
«Ho lasciato la tua camera esattamente come prima», lo informò entrando in casa. «Ci sono ancora tutte le tue cose al loro posto».
«Non importava. Non ci tengo molto». Restai in silenzio non sapendo se dover aggiungere qualcosa per stemperare la tensione. Ero ancora di fronte alla porta e non sapevo bene come comportarmi.
«Comunque, se per te va bene e non è un problema, dopo che avrai conosciuto Ray vorrei trasferirmi e lasciare questa casa».
Mi voltai a guardare Trevor, ma la sua espressione era indifferente. «Va bene, questa non è più casa mia. Puoi fare quello che ti pare».
«Sai questo non è un quartiere molto sicuro, Ray non vuole che abiti qua da sola».
«Non ti devi giustificare. E adesso se vuoi scusarci siamo molto stanchi e preferiamo andare a dormire. Ci vediamo domattina». Senza permettermi di osservare neanche la stanza in cui ero appena entrata, mi trascinò lungo un corridoio fino a quella che immaginai essere la sua camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Posò i nostri bagagli a terra e fece un profondo respiro, appoggiando la schiena alla porta chiusa. «Oddio è stato peggio di quanto avessi immaginato».
«Per me non è andata così male», mentii spudoratamente. La tensione da quando avevamo incontrato Claire si tagliava con il coltello.
«Sul serio?». Lui alzò il sopracciglio con il piercing e mi guardò scettico.
«Sì va beh, sono solo i primi momenti. Domani andrà meglio». Non che ci credessi veramente.
Lasciai perdere il mio bellissimo ragazzo ancora appoggiato alla porta e mi guardai intorno. La camera di Trevor era stranamente personale, un aspetto del tutto opposto a quello di casa Simons che conoscevo. Fino a che non gli avevo regalato la cornice con le macchinine la sua stanza era stata completamente spoglia; solamente dopo aveva iniziato ad attaccare varie foto – soprattutto mie, con mio grande dispiacere. Invece là usciva fuori la vera personalità di Trevor, o almeno quella che era stata un tempo. C’erano poster appesi alle pareti di squadre di football e di gruppi rock che perlopiù non conoscevo, c’erano dei libri, una foto con sua madre da piccolo, un pallone da rugby in un angolo, degli oggetti che non sapevo identificare e su uno scaffale persino un modellino di una vecchia auto.
«Che cos’è questo?», domandai avvicinandomi ad un pezzo di ferraglia appoggiato su uno scaffale. Era abbastanza grosso e non avevo la minima idea di che cosa si trattasse.
«È una parte del motore di una Bentley del ‘54». Adesso sì che mi era tutto chiaro.
«E che diavolo ci fa in camera tua?».
«Beh il proprietario l’avrebbe buttato. Sarebbe stato una pazzia».
Soffocai una risata. «Ripeto: che cosa diavolo ci fa in camera tua?».
Trevor rise con me, iniziando a rilassarsi. «È un pezzo molto raro, non potevo lasciare che lo buttasse. Sai quanti motori del genere esistono ancora oggi?».
«Non ci tengo ad avere questa informazione grazie».
«Comunque ti piace? La mia camera intendo».
«Beh è molto più tua di quanto mi aspettassi. Perché non hai portato con te queste cose?».
«A parte il fatto che non rimettevo piede qua dentro da quando sono andato al centro di disintossicazione a Boston e che mio padre ha preso da qua solo ciò che poteva essermi utile? Penso che volessi semplicemente lasciarmi il passato alle spalle. Ti sembra logico?».
Più che logico, sensato addirittura. Era qualcosa che io non avevo mai preso in considerazione e che solo da poco avevo iniziato a fare. «Sì, lo è. E ci sei riuscito?».
«Sì, grazie a te Kathleen». Si avvicinò per baciarmi, confermando che alla fine dei conti avevo fatto bene ad accompagnarlo in quella viaggio di ricordi.
 
La mattina seguente decidemmo di andare a fare colazione nel locale gestito dal nuovo fidanzato di Claire. Si trattava più che altro di un brunch visto che avevamo dormito fino a tardi. Il fatto di aver passato la notte nello stretto letto di Trevor, avvolta nel suo caldo al braccio, con sua madre appena fuori dalla stanza, sarebbe stato sufficiente a fare imbarazzare la vecchia Kathleen. Tuttavia la relazione tra me e Trevor era così sicura e solida che mi pareva ragionevole che noi condividessimo il letto.
Quella mattina impiegai più tempo per prepararmi del solito, cercando di imitare per quanto possibile mia sorella. Anche se non ci tenevo ad impressionare Claire, una parte del mio subconscio mi imponeva invece di ottenere la sua approvazione sfruttando i canoni che mi aveva sempre imposto mia madre. Per questo mi misi dei leggings neri, con sopra una semplice maglia bianca che mi arrivava appena sotto il sedere, e mi truccai con estrema precisione.
«Sei sexy», mi sussurrò Trevor mentre scendevamo le scale. «Mi fai venire voglia di riportarti in camera per dimostrarti quanto approvi il tuo abbigliamento stamattina».
Arrossii per il suo complimento e sperai che sua madre non l’avesse sentito. Ci mancava solo che pensasse che fossi una di quelle ragazze facili, e che avessi accalappiato suo figlio con doti ben diverse da quelle della mia personalità. Non che con Trevor mi fossi dimostrata restia all’intimità, anzi considerando come era andata la situazione, ero da considerarmi della categoria, anche se solo in parte.
Per fortuna il locale di Ray si trovava solo ad un paio di fermate della metropolitana. Come avevo scoperto, già diversi anni prima, non era molto comodo girare con l’auto per le strade di Boston a causa del traffico, a meno che non si trattasse di casi particolari o di ore particolarmente deserte.
Quando uscimmo dalla metropolitana ci ritrovammo subito davanti a quella che sembrava un bella tavola calda, dall’aria decisamente accogliente e famigliare. Non ero certa di cosa aspettarmi, se però il locale rispecchiava il suo proprietario, con molta probabilità questo Ray era una persona più affidabile e seria di quanto io e Trevor avessimo creduto.
«Accomodatevi pure ad un tavolo», ci consigliò Claire, una volta varcata la soglia. «Io vado a cercare Ray, deve essere sul retro o in cucina. L’ho avvisato che saremo passati». Si avviò sul retro del locale con una sicurezza tale che mi fece intuire che aveva compiuto quell’azione già molte volte.
Mi voltai per osservare Trevor che si stava guardando attorno con attenzione. La sua espressione era indecifrabile, ma io sapevo che era alquanto sorpreso dalla piega che stavano prendendo gli eventi. Non sapevo quanto sua madre gli avesse detto su questo Ray, ma era ovvio che era arrivato lì preparato al peggio. Del resto mi aveva confessato che sua madre non era mai stata brava a scegliere gli uomini da frequentare, anche se non aveva permesso alla maggior parte di loro di avvicinarsi a suo figlio.
«Sediamoci là, okay?». Indicai un tavolo in fondo alla sala, decisamente poco centrale e molto più appartato.
«Sì certo». Mi mise una mano sulla schiena, accarezzandomi da sopra il cappotto e mi guidò verso il punto che gli avevo appena indicato.
Stavamo giusto per sederci quando una voce alle nostre spalle ci fece voltare. «Trevor? Oh mio Dio Trev! Sei proprio tu?». Una bella ragazza si era alzata da un tavolo là vicino e ci stava guardando con un’espressione piacevolmente sorpresa.
«Cassie?». Trevor appoggiò la giacca sulla sedia e le andò incontro. «Cosa diavolo ci fai qui?».
«Beh potrei farti la stessa domanda, non ti pare?». La ragazza, Cassie a quanto pareva, scoppiò a ridere rivelando una fila di denti perfetti. La studiai con attenzione sentendo uno strano sentimento nascere dentro di me. Avrà avuto ventiquattro o venticinque anni, mora, occhi neri come la pece, alta, fisico statuario, piuttosto formosa; insomma era il tipo di ragazza che non lasciava indifferenti la maggior parte degli uomini, per non dire tutti.
Trevor rise, assumendo un atteggiamento alquanto rilassato. «Hai ragione. Fatti abbracciare». Strinsi involontariamente i pugni vedendolo stringere quella che per me era una perfetta sconosciuta e lasciarle un bacio sulla guancia. Non avrei mai pensato di essere un tipo geloso, ma evidentemente mi ero sbagliata, perché all’improvviso stavo iniziando ad avere pensieri omicidi nei confronti della nuova arrivata.
«Credevo che abitassi con tuo padre adesso», continuò Cassie, con voce argentina. «Almeno a detta di quello che tua madre ha raccontato alla mia». Di male in peggio, le loro madri si conoscevano e come mai avevo come la netta sensazione che il rapporto di Cassie con Claire fosse decisamente migliore del mio?
«Sì infatti. Sono venuto a trovare mia madre e a conoscere il suo nuovo fidanzato». Trevor sembrava essersi dimenticato del tutto della mia presenza alle sue spalle.
«Oh sì l’ho sentito dire. Buon per lei, non trovi?».
Lui alzò le spalle cambiando subito argomento. «E tu ti sei laureata?». Beh quella conversazione stava proseguendo con troppa velocità senza che nessuno mi considerasse minimamente.
Feci un passo avanti schiarendomi rumorosamente la voce. «Ehm, ehm».
Trevor sembrò ricordarsi all’improvviso della mia presenza e si affrettò a rimediare. «Oh scusa che sbadato. Cassie ti presento la mia ragazza. Kathleen questa è Cassie, una mia vecchia amica». Mi posò una mano dietro la schiena in modo da potermi spingere in avanti, al pari di lui.
«Molto piacere, sono Cassandra, Cassie per gli amici». Mi allungò la mano, sbattendo le sue folte ciglia nere. Per una volta gioii di aver speso del tempo per truccarmi e vestirmi con estrema accuratezza.
Strinsi la sua mano, stampandomi in faccia un sorriso che non riuscivo a sentire sincero. «Sono Kathleen, Kathleen Jefferson».
Cassie sbatté le palpebre un paio di volte, prima di ripetere il mio cognome. «Jefferson? Da dove hai detto che vieni?». La vidi stringere gli occhi studiando il mio viso.
«Da…». Stavo per rispondere quando la voce di Trevor si frappose e superò la mia.
«Dakota del sud». All’improvviso sentii il suo braccio intorno alla mia schiena irrigidirsi senza nessuna spiegazione apparente. «Ma insomma, cosa stavamo dicendo? Ah sì! Ti sei laureata?». Quel cambio repentino di argomento avrebbe dovuto farmi insospettire, ma ero troppo presa a studiare Cassie per concentrarmi su altro.
«Sì circa un anno e mezzo fa, adesso lavoro a New York in un’azienda di consulenza finanziaria». Avevo sempre pensato che gli amici di Trevor, almeno quelli che aveva a Boston, fossero degli scapestrati, dato che credevo facessero parte del giro di droga in cui lui era caduto. Era davvero una sorpresa, e non sapevo dire se piacevole o meno, scoprire che invece aveva amiche molto più giudiziose e coscienziose. Magari poteva essere un’amica di infanzia. Ma se non fosse stato così, dove diavolo era quando lui si drogava? Non sembrava talmente sprovveduta da aver fatto altrettanto, allora perché non l’aveva aiutato? E cosa forse di meno valore, ma di importanza per me fondamentale, era stata solo un’amica? Che genere di amica? Non lo sapevo, ma avevo la netta sensazione che fossero stati più intimi di quanto aveva appena ammesso. Trevor l’aveva definita “vecchia amica” solo per non dirmi che era una sua ex? Anche se lei aveva tre o quattro anni più di Trevor non era da escludere. E se davvero era una sua vecchia fiamma come diavolo potevo competere? Cassie era bellissima e a quanto pareva anche intelligente.
“Calma Kathleen”, mi dissi, non prestando più ascolto alla loro conversazione. “Trevor ama te e ti appena definito la sua ragazza”. Certo, ero sicura dei sentimenti di Trevor al cento per cento, ma non ero preparata a trovarmi faccia a faccia con uno schianto di donna che rideva e scherzava con lui – e che lo faceva sorridere e rilassare – e che ipoteticamente poteva essere una sua ex.
Per fortuna i miei pensieri e la loro conversazione fu interrotta dall’arrivo di Claire. «Eccovi qua. Ray arriva subito, finisce un attimo in cucina e ci raggiunge. Oh mio Dio! Cassie come è piccolo il mondo!». Claire si affrettò subito a salutarla, abbracciandola in maniera assai più materna di quanto avesse fatto con me.
«Sì è vero», confermò l’altra sorridendo. «Sono venuta a trovare i miei genitori per una settimana e per caso mi sono fermata in questo locale. Chi avrebbe mai pensato di incontrare proprio Trevor!». Già che coincidenza!
«Tesoro è così tanto che non ti vedo, anche se tua madre mi tiene aggiornata». Claire sembrava sprizzare gioia da tutti i pori nel parlare con l’adorabile Cassandra.
«Sì, sembra una vita fa. Comunque vorrei rimanere davvero a parlare con voi». Si voltò verso Trevor e gli prese la mano libera tra le sue. «Trev ti trovo così bene, devi raccontarmi tutto!». L’aver abbandonato l’uso del condizionale fece spegnere il mio finto sorriso.
«Però devo proprio scappare», continuò, «ho appuntamento con mia madre e sapete quanto odia i ritardatari. Ho i minuti contati». Per fortuna.
«Certo», acconsentì Claire, «ma perché visto che sei in città non vieni a cena da noi stasera? Avevo intenzione di preparare qualcosa per far sì che Ray e Trevor si conoscano meglio, ma puoi unirti a noi. Mi farebbe tanto piacere, così tu e Trevor potete aggiornarvi».
Ora qualsiasi persona sana di mente avrebbe avuto il buon senso di rifiutare, avendo paura di risultare invadente. Avrebbe considerato quell’invito un puro gesto di cortesia, ma avrebbe declinato per concedere un po’ di privacy in quella nuova questione famigliare. Evidentemente Cassie non era fra quelle persone.
«Oh davvero sarebbe magnifico», cinguettò facendo apparire un’evidente smorfia sulla mia faccia. Per mia fortuna vidi Trevor a disagio e alquanto contrariato almeno quanto me. Probabilmente se l’avessi visto benevolo mi sarei ingelosita ancora di più.
«Allora è perfetto», pigolò a sua volta Claire. «Alle otto. Tanto sai benissimo dove abitiamo».
«Certo a stasera». Così dicendo si voltò facendo svolazzare i suoi lunghissimi e liscissimi capelli neri e avviandosi verso l’uscita. Avevo come l’impressione che quella giornata fosse di colpo diventata assai difficile da affrontare. Credevo che il dover conoscere il futuro patrigno di Trevor fosse già una situazione abbastanza delicata e che avrebbe canalizzato tutta la mia attenzione. Era ormai evidente quanto mi fossi sbagliata.

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17
 
Non ebbi molto tempo per rimuginare su la questione “Cassandra”, perché una nuova conoscenza venne a richiamare tutta la mia attenzione. Ci eravamo appena seduti quando Claire scattò di nuovo in piedi e si sbracciò nella direzione di un uomo, che a quanto pareva doveva essere Ray.
Non sapevo cosa si aspettasse Trevor, ma io non avevo immaginato il fidanzato di sua madre come colui che ci apparve davanti. Era un uomo di mezza età senza nessuna caratteristica particolare: se avessi dovuto scegliere due aggettivi per descriverlo lo avrei definito normale e anonimo. Non era né alto né basso, né magro né grasso, con comunissimi capelli castani che iniziavano a diradarsi e ad ingrigirsi. L’enorme sorriso che aveva stampato in faccia e la sua espressione cordiale, mi portarono però istintivamente ad avere una prima impressione positiva.
«Eccoti qua». Claire si posizionò al suo fianco e osservò attentamente il figlio. «Trevor ti presento Ray. Ray questo è mio figlio e lei è la sua amica Kathleen».
«Ragazza», la corresse automaticamente lui, placando anche se di poco la mia gelosia di poco prima.
«Trevor è un vero piacere conoscerti. Tua madre non fa altro che parlarmi di te». Allungò una mano verso di lui aspettando che la stringesse. Dovetti dare atto a Ray di essere rimasto particolarmente composto vedendo piercing e tatuaggi; quasi certamente Claire l’aveva preparato ma era comunque un altro punto a suo favore.
Trevor studiò l’uomo che aveva di fronte per qualche secondo, soffermandosi sulla mano in attesa davanti a lui, prima di stringerla con sicurezza. «Vorrei poter dire lo stesso, ma ho saputo della tua esistenza solo poco tempo fa».
La frase non era stata per nulla cortese ma Ray non diede segno di averla notata. «Beh immagino che sia stata una sorpresa, ma tua madre ha voluto aspettare a dirtelo fino a che le cose tra noi non sono diventate abbastanza sicure». Aveva risposto più che bene alla sua frecciatina.
«Beh è un vero piacere conoscerla», intervenni facendomi avanti, «per noi». Per quelle ultime due parole mi beccai un’occhiataccia da parte di Trevor, ma non mi importava perché iniziavo a provare una sorta di simpatia naturale per Ray, cosa che non avevo provato invece per Claire.
Lui mi sorrise, evidentemente confortato dall’avere il mio appoggio. «Comunque sedetevi così potrò portarvi subito qualcosa da mangiare. Che ne dite di qualche pancake per cominciare?».
«Grazie, sarebbe fantastico», risposi prima che qualcuno potesse replicare diversamente. Dopo che si fu allontanato costrinsi Trevor a sedersi accanto a me, in modo da potermi avvicinare furtivamente al suo orecchio.
«Sii carino e non fare il maleducato». Lui borbottò qualcosa in risposta, ma quando, qualche istante dopo, Ray ci raggiunse di nuovo, lo vidi abbandonare la sua aria cupa per stamparsi in faccia un sorriso di cortesia. Anche se forzato era pur sempre meglio di niente. Perfino Claire lo notò e mi lanciò una strana occhiata che non seppi come interpretare.
«Allora Trevor», iniziò Ray dopo averci servito una abbondante porzione di pancake. «Tua madre mi ha detto che hai una passione per i motori».
«Beh sì diciamo di sì», rispose lui non rendendo facile far decollare la conversazione.
«Ha riparato la sua mustang da solo», intervenni.
«Oh è davvero sorprendente. Io non ne sarei mai capace, devi aver una certa attitudine e un’abilità naturale per poter fare una cosa del genere». Era un complimento lusinghiero ed era forse un po’ esagerato, ma Ray ce la stava mettendo tutta per farsi benvolere.
Trevor sembrò non aver nemmeno ascoltato il suo discorso, perché cambio argomento alla velocità della luce. «Dove vi siete conosciuti?». Si voltò verso Claire per poi continuare. «Perché a prima vista non sembrerebbe uno di quei raccattati che eri solita portarti a casa».
«Trevor!». Si beccò una mia gomitata e un urlo di protesta da parte di sua madre.
«No tranquilla Claire», si intromise Ray, tornando poi a rivolgere l’attenzione su di lui. «Tua madre mi ha detto del vostro passato un po’ travagliato e burrascoso. Io e lei ci siamo conosciuti ad una seduta del gruppo di sostegno». Aggrottai le sopracciglia non capendo a cosa si riferisse di preciso; anche Trevor assunse la mia espressione, ma aspettò che uno dei due continuasse.
«Dopo che tuo padre ti ha portato via», intervenne Claire, «ho realizzato tutto ciò che era successo, ciò che io avevo permesso che accadesse. Così grazie a Sindy, la madre di Cassie, ho trovato questo gruppo di sostegno per familiari di persone che avevano il tuo stesso problema». Il fatto che avesse di nuovo nominato Cassie fu attenuato dall’evidente smorfia che si dipinse sul volto di Trevor. Sapevo esattamente quello che stava pensando: non era certo lei ad aver bisogno di sostegno né tantomeno poteva mettersi sullo stesso piano di persone che in qualche modo stavano tentando di arginare il problema che lei invece aveva ignorato. Senza contare il fatto che da quell’affermazione si capiva che tra di loro due non c’erano segreti, nemmeno il passato tossico di Trevor. Quindi Ray sapeva tutto: era naturale visto che si sarebbero sposati, ma in qualche modo non mi ero aspettata quella sincerità da parte di Claire.
«È un gruppo eclettico», intervenne Ray, chiarendo i nostri dubbi. «Ci sono persone che hanno superato il problema, chi lo sta ancora affrontando e per chi invece è ormai troppo tardi».
«E tu che diavolo ci facevi lì?». Era passato al tu senza neanche chiederlo e gli aveva rivolto la domanda nel modo più scortese possibile; tuttavia sentivo la sua rabbia aumentare e non potevo pretendere troppo.
«Lo gestisco», rispose semplicemente lui. «Mio fratello è morto per overdose quando aveva diciotto anni; ho sempre pensato che se gli fossi stato più vicino avrei potuto aiutarlo e che magari lui oggi sarebbe ancora vivo. Per questo ho fondato quel gruppo, magari non serve a molto, ma parlare di questi problemi e confrontarli con persone nella stessa situazione, o che comunque ci sono già passati, può essere di aiuto». Era uno scopo nobile e rivelava molto di più di quanto mi sarei aspettata. Ray era un uomo buono e ne ero sorpresa più che mai.
Trevor restò in silenzio per un po’, ma quando finalmente si decise a parlare, sentii le sue spalle rilassarsi, segno che la tempesta iniziale era passata. «Mi dispiace per tuo fratello». Erano solo poche parole ma erano un ramoscello d’ulivo, un gesto di pace in quella guerra verbale che si era appena svolta.
 
Restammo ancora qualche ora là a parlare con Ray e Claire, sciogliendo lentamente il ghiaccio. Alla fine, quando probabilmente era arrivato al limite, Trevor disse loro che voleva portarmi a fare un giro della città e che saremo rientrati poco prima di cena. Claire non si fece scrupolo a ricordarci di non fare tardi, dato che sarebbe venuta anche Cassie e che voleva anche lei approfittare di quel poco tempo a sua disposizione per stare con suo figlio – un’evidente frecciatina rivolta a me in entrambi i casi?
Comunque ben presto ci ritrovammo mano nella mano a camminare per le vie di Boston. Non avevo molta voglia di girare per quella città, che un tempo avevo visitato con Jamie e Queen prima che lui iniziasse il college. Era piena di ricordi, soprattutto la parte turistica, e non volevo tornare con la mente a quei momenti felici, così come non volevo rivivere l’incubo della sera dell’incidente.
Visto che Trevor mi sapeva leggere come un libro aperto non ci mise molto ad accorgersi del mio umore alquanto contrariato e poco allegro. Mi aveva portato al Museum of Fine Arts, probabilmente pensando di farmi felice dato che raccoglieva molte delle mie opere d’arte preferite. Tuttavia anche in quel caso ci ero già stata in una giornata molto diversa, tanto tempo prima, dove tre fratelli spensierati avevano vagato per ore immersi in quei meravigliosi dipinti.
«Katy tutto bene?», mi domandò fermandosi di fronte ad un quadro di Gauguin. «Pensavo che ti sarebbe piaciuto. Era una vita che non entravo in un museo, qua probabilmente non ci mettevo piede da quando avevo dieci anni e le maestre ci portarono a fare il giro dei musei come gita scolastica».
«Sì mi piace», risposi sforzandomi di essere sincera. «Mi piace tantissimo e ti ringrazio di aver avuto questo pensiero così carino. Sei stato perfetto, come al solito, ma qua ci ero già stata».
«Ah». Trevor apparve all’improvviso deluso per quella rivelazione.
«Con James e Queen», continuai, «prima che lui iniziasse il college».
«È per questo che sei strana? Ti ricorda lui?». Mi aveva definito strana, era sempre meglio di triste. Anche perché ero più contrariata che malinconica di per sé.
«Sì, ma non è solo per questo che sono strana». Decisi di essere del tutto sincera e di affrontare anche l’altra cosa che mi agitava da quella mattina. Era una buona occasione per parlarne e anche un buon modo per dirottare la conversazione da un argomento diverso da James. «Quindi… Cassie?».
Trevor mi guardò perplesso non capendo dove volessi andare a parare. «Sì… che c’entra lei? È solo una vecchia amica». Aveva usato un tono condiscendente, che mi fece sospettare che non mi stesse dicendo tutto.
«Non è tanto vecchia», gli feci notare, «ed è di una bellezza che definirei mozzafiato».
«Tu sei di una bellezza mozzafiato», mi corresse di getto, dando una bella spinta verso l’alto alla mia autostima. Era una bugia bella e buona ma mi faceva piacere sentirla.
«Grazie», risposi sorridendo, «ma parlando oggettivamente non puoi negare l’evidenza».
«Sì d’accordo, è bella. E con questo?».
«Mi siete sembrati molto amici», affermai sperando che cogliesse il mio velato accenno e si decidesse a parlare chiaro.
Lui mi studiò per un secondo e poi scoppiò a ridere. «Sei gelosa?».
Mi imbronciai, ma risposi onestamente, tanto era inutile affermare il contrario. «Sì, lo sono».
«Ma è ridicolo!». Continuò a sghignazzare facendomi innervosire ancora di più.
«No non lo è», protestai alzando la voce, per abbassarla subito, ricordandomi di essere in un museo. «Parli bene tu ma io non ho nessuno scheletro nell’armadio, sei stato l’unico ragazzo che abbia mai baciato o con cui abbia fatto l’amore; ma tu.... l’hai ammesso tu stesso che hai un passato numeroso alle spalle. È naturale che mi senta presa in contropiede vedendo quale è la mia concorrenza».
Trevor restò un attimo in silenzio prima di parlare di nuovo. «Non c’è nessuna concorrenza». Il fatto che non avesse smentito l’evidente allusione di un passato rapporto tra lui e Cassie, confermava ciò che avevo sempre sospettato. Non si era affrettato a ribadire che fosse solo un amica perché a quanto pareva non lo era stata.
«Quindi stavate insieme?», dedussi.
Trevor sospirò prendendomi per mano. «Non qui okay?». Mi trascinò attraverso le sale, impedendomi di osservare alcunché, fino a che non raggiungemmo il bar del museo. Mi fece sedere ad un tavolino appartato e tornò poco dopo con due tazze di caffè con panna.
«Stai cercando di corrompermi?», tentai di scherzare. «Adesso mi dirai che Cassie è stata il tuo primo amore, che è stata la ragazza che ti ha iniziato al sesso e che ti ha insegnato tutto». Mi aspettavo che Trevor si mettesse a ridere, invece lo vidi arrossire leggermente e il suo sguardo farsi più teso.
«Oh mio Dio», mormorai. «È stata il tuo primo amore?».
Trevor mi guardò da sotto le folte ciglia con uno sguardo da cane bastonato. «No».
Mi ci volle un attimo per capire quale altra parte della frase fosse vera. «Ti ha tolto la verginità?».
«Sì», ammise, affrettandosi subito a prendere la mia mano sopra il tavolo. «Ma Katy è stata solo quello, niente amore. Dovresti averlo capito che il mio primo e unico amore sei tu».
Era piuttosto lusinghiero, ma non riuscivo a superare il fatto che loro fossero andati a letto insieme seppure tanti anni prima. Era irrazionale visto che in quel momento Trevor era completamente preso da me, ma la gelosia tendeva ad essere un sentimento poco logico. «Stavate insieme?», ripetei cercando di non andare nel panico per una sciocchezza del genere.
«Kathleen ti ho già detto che non ero fatto per le relazioni serie, io e Cassie non siamo mai stati insieme, ci volevamo molto bene e lei era la mia migliore amica; insomma eravamo quel tipo di amici».
«Trombamici», affermai, puntando lo sguardo sulla mia tazza e iniziando a giocherellare con il cucchiaino e con la panna.
«Oh Katy non devi preoccuparti per lei, lo sai benissimo».
«Certo che lo so, ma ciò non impedisce che mi preoccupi lo stesso». Alzai di nuovo lo sguardo, puntandolo dritto verso di lui. «Ti prego raccontami tutto, di ciò che c’è stato e di come mai non ho mai sentito parlare di lei se era la tua migliore amica. Cassie non sembra una che possa essere nel giro di amicizie che…». Lasciai la frase in sospeso non sapendo come terminarla senza risultare offensiva.
Lui capì lo stesso. «Infatti non lo è».
«E allora come mai neanche lei ha cercato di aiutarti?». Era ovvio che fosse così, da quello che mi aveva raccontato si era ritrovato completamente solo e perduto.
Trevor sospirò e si appoggiò allo schienale, iniziando a raccontare. «Io e Cassie ci conosciamo da quando mi sono trasferito qua a Boston; avevo circa otto anni e lei undici, abitava nell’appartamento accanto al nostro, siamo praticamente cresciuti insieme. Visto che ha tre anni più di me ha iniziato per prima ad approcciarsi al sesso. È andata alle superiori e ha iniziato ad avere i primi ragazzi; diciamo che è sempre stata piuttosto aperta nei confronti di queste cose».
«Vorrai dire che ha sempre avuto un paio di cose ben aperte». Lo dissi di slancio accorgendomi solo dopo di quanto potesse risultare scortese e cattiva la mia affermazione.
«Kathleen», protestò lui accennando un mezzo sorriso. «Beh forse è così e lei è sempre stata una facile, ma crescere in un quartiere come il nostro non è come crescere in una villa in un piccolo paese di campagna». Aveva ragione: le nostre infanzie erano diverse e non paragonabili.
«Hai ragione, scusami. Continua».
«Beh non c’è molto da dire se non il fatto che mi ha insegnato a baciare e che quando avevo quattordici anni dopo una sbronza siamo finiti a letto insieme. Abbiamo capito subito che era stato un errore perché ci volevamo bene ma non ci amavamo, però il sesso era stato inaspettatamente piacevole».
«Così siete diventati amici di letto?».
«Sì direi di sì. Visto che ero ancora alle prime armi, Cassie mi ha fatto un po’ da nave scuola».
Adesso sì che mi sentivo meglio. «Oddio». Quindi tutto ciò che io e lui avevamo fatto, tutto quello che lui stesso mi aveva insegnato, era merito di Cassie. Chissà se quel giochino che faceva con la lingua e che mi faceva impazzire era stata lei ad insegnarglielo!
«Katy». Trevor mi posò una mano sulla guancia, accarezzandomi dolcemente. «Non rimuginarci troppo sopra, te l’ho detto perché me l’hai chiesto, non per farti soffrire. Io e lei eravamo amici che ogni tanto facevano sesso, niente di più. Lei non può essere un problema per te perché non c’è nessun confronto, io ho amato solo una ragazza in vita mia ed è qui seduta di fronte a me».
Non potei che sorridere sentendo le sue parole. «Davvero?».
«Sì. Sono tuo Katy, completamente, non dovrai mai preoccuparti di questo». Era mio: era un’affermazione piuttosto possessiva, ma alquanto soddisfacente.
«Anch’io sono tua», affermai mordendomi un labbro.
«Lo spero bene, perché non ho intenzione di dividerti con nessun altro».
Lasciai che entrambi bevessimo il nostro caffè ormai freddo prima di continuare. «Non mi hai ancora finito di raccontare tutta la storia». Sapeva che mi riferivo alla questione della droga e dall’evidente mancato aiuto di Cassandra.
«Beh è semplice. Essendo più grande, è andata al college. Per la precisione è riuscita ad entrare ad Harvard; il suo sogno era di andarsene dal nostro quartiere, ma i suoi genitori avevano comunque bisogno di lei. È riuscita ad ottenere una borsa di studio e quando ha iniziato l’università si è trasferita nel campus. Io avevo già cominciato a mettermi su una brutta strada, ma ero solo agli inizi quando lei se ne è andata. Ci siamo visti di meno per via dell’università, anche perché lei ha iniziato lavorare per pagarsi il college; comunque anche se si fosse accorta di qualcosa, ero davvero troppo fuori controllo perché lei potesse aiutarmi». La sua spiegazione aveva un senso e dimostrava che Cassie, oltre ad essere una bella ragazza, era anche intelligente: non era da tutti ottenere una borsa di studio per un college così prestigioso.
«Nel frattempo suo padre è riuscito a trovare un lavoro decente e i suoi genitori si sono trasferiti in un quartiere meno malfamato. Per questo le occasioni per vederci sono diminuite fino a quando io non me ne sono andato. Era da quasi tre anni che non la vedevo».
«Okay», affermai non sapendo ancora bene come sentirmi.
«Katy, lo so che stasera verrà a cena e non ce la vorrei nemmeno io credimi. Ma ti prometto che dopo, cioè stanotte, farò in modo di ricordarti chiaramente quanto tu non debba essere gelosa. Ho tutta l’intenzione di dimostrarti quanto sia completamente e perdutamente preso da te, piccola».
Mi sentii avvampare intuendo il significato sottointeso nelle sue parole. «E tua madre?».
Trevor rise. «Non me ne frega niente di mia madre. Tu sei la mia ragazza e io ho tutta l’intenzione di fare l’amore con te stanotte perché è quello di cui entrambi abbiamo bisogno». Per quanto l’idea di farlo sotto lo stesso tetto di Claire fosse alquanto disdicevole, il solo pensiero di poter condividere un momento di intimità con lui fu sufficiente a mettere tacere la mia battaglia interiore e le mie mille paranoie mentali.
 
Quella sera scelsi con molta attenzione cosa indossare, quasi con un impegno maniacale. Se l’avessi saputo prima avrei portato uno di quei vestiti che odiavo ma di cui mia madre continuava a riempirmi l’armadio. Mentre Trevor e sua madre si occupavano della cena, io avevo trovato la scusa di chiamare Queen, in modo tale che gli altri due potessero chiacchierare e recuperare il tempo perduto. Parlare con mia sorella si era rivelato alquanto produttivo, visto che dopo averla informata sulla questione “Cassandra” aveva iniziato a sparare consigli su come vestirmi, truccarmi o affrontare la serata.
Dopo un po’ di messaggi a Lea ed Evan – in cui avevano trovato coloriti e appropriati appellativi per descrivere l’invitata indesiderata di quella cena – mi ero decisa a farmi una doccia e a prepararmi seguendo attentamente l’istruzioni di tutti i miei sostenitori. Optai per un paio di jeans, visto che oltre ai leggings non avevo portato molto altro – e non volevo certo indossare gli stessi vestiti della mattina – con un maglioncino attillato con un’ampia scollatura. Era l’unica cosa più decente e leggermente più sexy che avessi, niente a che vedere con la bellezza mozzafiato che di sicuro mi si sarebbe presentata davanti.
Trevor mi aveva detto che non c’era competizione, che io avevo vinto in partenza; per quanto potesse essere vero, continuavo a percepire Cassie come una rivale e speravo davvero di poter cambiare idea con quella cena, in modo tale da mettere a placare anche i miei pensieri.
Quando finalmente finii di truccarmi e di sistemare quella criniera che mi trovavo al posto dei capelli, mi decisi a tornare dagli altri due, interrompendo il loro colloquio privato. Speravo che Trevor non fosse troppo contrariato per il fatto di averlo lasciato solo con sua madre per tutto quel tempo e che ne avesse approfittato per chiarirsi con lei anche solo in parte. Per quanto poco sopportassi Claire, sapevo che per lui era invece importante tornare a sentire l’appoggio di sua madre; in fondo era stata l’unico genitore che avesse avuto per molto tempo.
«Eccomi qua», dichiarai entrando in cucina. «Scusate se ci ho messo così tanto. Claire posso darti una mano?».
«Ti ringrazio Kathleen ma è già quasi tutto pronto», mi rispose lei, spalmando una salsa verde su dei crostoni di pane.
Trevor mi venne incontro e mi baciò sulla tempia. «Ce la siamo cavata bene anche da soli. La mamma ha davvero fatto passi da gigante in cucina. Non credevo neanche che sapesse accendere il forno». L’aveva chiamata mamma e ciò non mi era di certo sfuggito, come il fatto che non avesse ancora mai chiamato Fred papà.
«Che simpaticone», scherzò lei. «Mi pare che tu non sia mai morto di fame neanche prima».
«Solo perché eri un’esperta dei menù d’asporto e dei cibi già pronti».
«Beh non era facile tornare da lavoro e dover pensare anche alla cena». Trevor mi aveva raccontato che sua madre aveva lavorato per molto tempo come segretaria e che per arrotondare aveva contemporaneamente fatto la cameriera e anche la donna delle pulizie. Si era fatta in quattro, dovevo riconoscerlo, e solo negli ultimi tempi aveva abbandonato gli altri due impieghi.
«Sì lo so, e a me piaceva il cibo cinese».
«Anche a me, ma come mi ha fatto notare Ray era l’ora che iniziassi a mangiare più sano».
«Forse sì». Trevor sorrise, accarezzandomi la schiena con un gesto spontaneo. «Beh a proposito di Ray, sarà il caso che vada a farmi una doccia anch’io prima che arrivi. Posso fidarmi a lasciarvi da sole?».
«Certo», gli risposi passandogli la mano su un fianco.
«Fate le brave». Così dicendo mi lasciò un bacio a fior di labbra ed uscì dalla stanza. Non sapendo bene cosa fare mi avvicinai a lei e osservai la varietà di pietanze che erano poggiate sul bancone.
Stavo per commentare, quando lei mi anticipò. «Bene, finalmente siamo sole».
«Già», balbettai non sapendo come replicare.
«Speravo davvero che Trevor la smettesse di starti appiccicato e mi lasciasse la possibilità di scambiare due parole con te». Non capivo se esserne felice o meno; come mai avevo la netta tentazione di scappare?
«Claire prima di tutto vorrei scusarmi per ciò che ho detto quando ci siamo viste la prima volta», iniziai volendo in qualche modo essere sincera. «Cioè non mi scuso di ciò che ho detto perché lo pensavo e lo penso ancora, ma per come l’ho detto; sono stata scortese».
«Sei stata sincera, ed è già molto di più di quello che si può dire sulla maggior parte delle persone». Si allontanò dal tavolo per andare ad aprire un cassetto. «Perché non mi aiuti ad apparecchiare?». Mi passò una tovaglia e dei tovaglioli, mentre lei prendeva piatti e bicchieri.
Ci spostammo in silenzio nella piccola sala da pranzo dove si trovava anche l’unico tavolo degno di tale nome. Fu lei a riprendere la conversazione. «Sai Kathleen per quanto tu non possa credermi, io conosco molto bene mio figlio, so notare cose in lui di cui Trevor stesso neanche si accorge».
Ne dubitavo ma lasciai che continuasse. «Per esempio il fatto che si sposta involontariamente quando ci sei tu in modo tale da tenerti per mano o da aver un qualche contatto con te». Era un comportamento di cui mi ero accorta anch’io e che adoravo di lui; quando eravamo insieme difficilmente non ci tenevamo per mano o ci toccavamo anche solo con un dito.
«Non è mai stato così prima», affermò infine.
«Non capisco di cosa mi stia accusando», affermai schietta. Era strano ma con le persone che non mi andavano a genio difficilmente mi dimostravo timida come con chi invece mi piaceva.
«Di niente. Sto dicendo solo che Trevor è innamorato di  te e tanto. Non si è mai comportato così con nessun altra». Anche se lui me l’aveva detto era bello sentirlo confermare da sua madre.
«Questo lo so ed io sono innamorata di lui, se è per questo».
«Bene, perché anche da quel poco che ho visto ho capito che lui è completamente e perdutamente preso da te e so che farebbe qualunque cosa per le persone che ama». Non riuscivo a capire dove volesse andare a parare, perché era ovvio dal suo tono che le sue parole sottintendevano qualcosa.
«E questo, per quanto detesti ammetterlo, non è un bene», affermò infine.
«Non è un bene?». Posai la pila di piatti che stavo distribuendo e la guardai iniziando a perdere la calma. «Non è un bene che abbia trovato qualcuno da amare e che lo ama? Qualcuno che tiene a lui come finora nessuno è mai riuscito a dimostrargli?».
«Certo perché tu vedi solo una faccia della medaglia», replicò. «Sei innamorata, di questo te ne do atto, come del fatto che continui a combattere per lui. Ed è proprio per questo che dovresti capire: sappiamo entrambe che Trevor può sembrare forte, ma che la realtà è diversa».
«Trevor è forte», protestai credendo davvero in ciò che dicevo.
«Forse è così, forse lo è con te accanto perché tu credi in lui. Ma cosa succederà quando le vostre strade si separeranno? Quando tu andrai al college e ti accorgerai di volere di più?». Dalle sue parole sembrava ovvio che io l’avrei lasciato spezzandogli il cuore. Come poteva accusarmi di una cosa del genere quando neanche mi conosceva? Come poteva sminuire in quel modo ciò che provavo e ritenermi così meschina?
Ero talmente offesa ed arrabbiata che per un minuto non riuscii a trovare le parole giuste per risponderle. Quando finalmente parlai, raccolsi tutte le mie forze per cercare di non perdere la pazienza. «Punto primo lei non mi conosce, non sa niente di me o se anche Fred o Trevor le hanno detto qualcosa, non può sapere che tipo di persona io sia. Perché se mi conoscesse saprebbe che ferire Trevor è l’ultima cosa che desidero a prescindere da ciò che accadrà nei prossimi mesi. Secondo, lei parla come se fosse ovvio che lascerò Trevor, che scoprirò di volere qualcuno di diverso, intende forse di migliore? Perché lui è il migliore ragazzo che si potrebbe desiderare e lei è sua madre e dovrebbe esserne orgogliosa e non sminuirlo. E terzo se crede che per me il suo passato sia un problema, lei non ha visto niente, non sa niente. E adesso se non le dispiace vado di là a cercare di sbollire la mia rabbia prima che arrivino gli ospiti, credo che riuscirà a finire ad apparecchiare da sola».
Mi voltai di scatto, ma riuscii ad allontanarmi solo di due passi prima che lei parlasse di nuovo. «So che pensi che io sia la cattiva ma mi preoccupo soltanto per lui. È troppo coinvolto, sei la sua nuova droga Kathleen; questo rapporto ossessivo non fa bene né a te né a lui. Pensaci, ti chiedo solo questo». Trassi un profondo respiro prima di marciare spedita verso la camera di Trevor.
Per quanto Claire potesse far credere di essere una donna migliore, fidanzandosi con un brav’uomo come poteva essere Ray, io la vedevo solo come una grande stronza, una gigantesca ipocrita e un’insensibile carogna. Nella mia mente fioccavano epiteti molto coloriti per descriverla. Non c’era stato un momento in cui avessi visto in lei la donna che Trevor amava e che lo aveva cresciuto da sola in mezzo a mille difficoltà. Quell’attaccarmi, quel costante disprezzo, quando sapeva quanto fossi importante per Trevor, erano la prova che era ancora quella donna capace di fare finta di niente mentre il figlio imboccava una strada che avrebbe potuto farlo morire. Non aveva neanche provato a capirmi o a conoscermi, aveva concluso che l’attaccamento fra me e Trevor fosse nocivo, addirittura tossico.
“Sei la sua nuova droga Kathleen”. Quelle parole continuavano a risuonare nella mia testa come un campanello d’allarme. Per quanto poco volessi dare ascolto ad una donna che disprezzavo con buona parte di me stessa, non potevo non pensare all’implicazioni di quell’affermazione. Trevor mi amava e tanto, mi aveva detto che ero tutto per lui, che ero la persona più importante della sua vita, che voleva che fosse per sempre. Era una sorta di dipendenza la sua, una dipendenza da me? Non ero mai stata innamorata, non sapevo cosa si provava, quale fosse il confine tra un amore sano o malsano. Ma esistevano davvero amori malsani? E se davvero lui dipendeva così tanto da me, cosa mi rendeva diversa? Potevo definirmi una tossica anch’io perché mi sentivo completamente dipendente da un nuovo tipo di droga chiamata “Trevor Simons”.
Scossi la testa scacciando via quelle idee del tutto ridicole. Claire non sapeva minimamente di cosa parlava; aveva tratto le sue conclusioni senza conoscermi e vedendo solo una parte di ciò che io e suo figlio eravamo. Aveva deciso di odiarmi, di ostacolarmi, di non appoggiarmi, di non provare neanche ad essere amichevole con me e all’improvviso capii che stranamente non mi importava. Voleva odiarmi? Poteva farlo, non c’era nessuna regola scritta che mi imponesse di piacerle. Rimanevo comunque la ragazza di Trevor che lei approvasse o meno, il che mi portava inesorabilmente a vincere quella sfida che lei stessa mi aveva lanciato.
Fu così che, all’improvviso, mi sentii orgogliosa e fiera di me. Ero maturata così tanto negli ultimi mesi da riuscire a farmi scivolare una cosa del genere addosso senza troppi problemi. Fino a poco tempo prima le parole di Claire mi avrebbero fatto scoppiare a piangere invece di reagire e mi avrebbero fatto sorgere mille paranoie tali da tagliarmi le gambe con le mie stesse mani. Invece in quel momento ero sicura di ciò che provavo, di Trevor, di quello che provava lui, talmente sicura che avrebbe potuto gettarmi addosso qualunque accusa tanto non l’avrei ascoltata. Io sapevo la verità e quello era l’importante.
«Ehi che fai?». Trevor mi ridestò dai miei pensieri entrando nella stanza a torso nudo, mentre si asciugava i capelli con un asciugamano, e trovandomi seduta sul suo letto con lo sguardo assente.
«Scappo da tua madre», risposi sinceramente.
Il suo sorriso si trasformò in una smorfia arrabbiata. «Che ti ha detto?».
«Niente che valga la pena di ripetere adesso», tagliai corto.
«Kathleen», mi rimproverò.
«No Trevor dico davvero», ribadii. «Non ha detto niente che io non possa gestire da sola; non voglio rovinare il rapporto che stai ricostruendo con lei, quindi lascia perdere e fai finta che tra me e lei non sia successo niente. Del resto non devo piacerle per forza e per mia fortuna vive dall’altra parte del paese. Posso riuscire a sopportarla nelle rare occasioni in cui la vedrò».
«Wow». Lui sorrise, guardandomi con uno sguardo talmente intenso da farmi mancare il respiro. «Il discorso che hai appena fatto è così poco tipico della dolce, innocente, tenera Linny ed è invece quello che direbbe la mia splendida, matura e forte Katy».
Sorrisi a mia volta riconoscendo che mi aveva appena rivolto il complimento migliore che potesse farmi. «Sì lo so», ammisi alzandomi per andare a baciarlo.
Proprio in quel momento sentimmo il campanello suonare, facendoci capire che gli ospiti stavano cominciando ad arrivare e che quella serata difficile stava avendo inizio.
 
Come avevo immaginato la cena fu per me decisamente poco piacevole. Da una parte c’era Claire e la rabbia che ancora ribolliva dentro di me, come lava in un vulcano pronto all’eruzione; dall’altra c’era Cass “la sgualdrina” andra, così avevo deciso di rinominarla nella mia testa. Si era presentata con un vestito che la rendeva decisamente sexy e si era seduta accanto a Trevor, in un posto d’angolo, in modo tale da poter parlargli guardandolo direttamente negli occhi e da poter allungare su di lui le sue zampacce da uccello predatore. Continuava a prendergli la mano e a sbattere le sue folte ciglia mentre gli raccontava ciò che aveva fatto negli ultimi anni, in un atteggiamento che mi faceva venire il voltastomaco. Trevor in teoria si comportava come se lei fosse invisibile, sfuggendo ad ogni contatto e cercando invece il mio sguardo più di quanto fosse necessario. Mi aveva appoggiato l’altra mano sulla coscia e continuava ad accarezzarmi, in un gesto volto a tranquillizzarmi e anche a dirmi di pazientare.
L’unica nota positiva di quella cena fu Ray, che come avevo potuto appurare quella mattina, era una persona assai piacevole e con cui poter parlare facilmente. Anche Trevor sembrava pensarla allo stesso modo, perché molte volte, anche per tentare di sviare la conversazione con Cassie, si rivolgeva a lui in quello che poteva essere definito un dialogo amichevole volto veramente a conoscere il fidanzato di sua madre. Come un uomo come lui potesse stare con una vipera come lei ancora mi era incomprensibile, ma forse il mio giudizio era un po’ troppo di parte.
Comunque non fu Ray il problema della serata, come avevo pensato all’inizio di quel lungo giorno, e alla fine non lo fu nemmeno Claire; lei potevo gestirla. Tuttavia, nonostante la chiacchierata con Trevor, il problema restava sempre quello: Cass “la sgualdrina” andra. Per quanto lui potesse avermi rassicurato e aver cancellato ogni minimo dubbio, una parte irrazionale di me continuava a ribollire di gelosia. Sapevo di potermi fidare di Trevor ma il fatto che lei stesse flirtando con lui – perché va bene che non me ne intendevo di uomini ma lei stava palesemente flirtando – mi faceva schiumare di rabbia.
Quando rientrai nel salotto, dopo essermi assentata per un secondo per andare in bagno, li ritrovai in piedi ad un lato della stanza. Trevor mi dava le spalle e non poteva vedermi, ma io potevo vedere benissimo lei che teneva la sua mano con le unghie laccate sul braccio del mio uomo. Stavo per avvicinarmi con il primordiale e animalesco istinto di marcare il territorio quando successe qualcosa che mi fermò. Vidi Trevor scrollarsi di dosso la sua mano e afferrarle il polso, con un gesto decisamente poco gentile e piuttosto violento.
«Sei impazzita?». Il tono con cui aveva pronunciato quelle due parole metteva i brividi.
«Allora è vero», mormorò Cassie. «Non è solo una coincidenza».
«Se provi a dirle una sola parola…». Non avevo mai sentito Trevor così minaccioso.
«Tu cosa?». Cassandra si liberò dalla sua presa con un gesto rapido e sicuro. «Eravamo amici un tempo, per questo dovresti ascoltarmi. Non lo sa vero? Ti sei messo in trappola con le tue stesse mani».
«Io…». Le sue spalle cominciarono a tremare come se stesse ribollendo di rabbia.
«Avanti dimmi, tu cosa? Pensi di essere cambiato, di essere cresciuto, ma non è così, altrimenti le avresti detto la verità». Era ovvio che stessero parlando di me e di qualche segreto tra di loro ed io ero fin troppo stufa di tutta quella situazione.
Senza più esitare feci un passo avanti intromettendomi nel loro colloquio privato. «La verità su cosa?». Trevor trasalì sentendo la mia voce e si affrettò a nascondere qualcosa nella tasca dei pantaloni. Dalla posizione in cui mi trovavo prima non avevo potuto scorgere l’altra sua mano e per questo non mi ero accorta che stringesse qualcosa; in più, con la velocità con cui si era affrettato a nasconderlo, potevo solo immaginare che non si trattasse di niente di buono. Mi era sembrato un pezzo di carta o forse una foto, ma sarebbe stato impossibile per chiunque dirlo con certezza dato che era stato più veloce di Usain Bolt nel farlo sparire.
«Katy sei qui», balbettò lui evidentemente a disagio.
«La verità su cosa?», ripetei guardandolo negli occhi. Perché avevo la netta sensazione di star andando ad aprire un vaso di Pandora che avrei fatto meglio a tener chiuso?
«Giusto Trevor, la verità su cosa?», si intromise lei sbattendo le sue folte ciglia.
«Io…». Si passò una mano tra i capelli, mentre si sentiva evidentemente messo alle stretto. Ormai lo conoscevo bene, talmente bene da riuscire a capire quando gli ingranaggi del suo cervello stavano lavorando freneticamente alla ricerca di una scappatoia.
«Trev?», mormorai preoccupata. Stava pensando di mentirmi e doveva aver capito che io me ne sarei accorta. La sola idea che potesse farlo, che sotto l’influsso di Cassandra, potesse arrivare a dirmi una bugia mi mandava fuori di testa.
«Sul fatto che la festa per il ventunesimo compleanno di Cassie è stata l’ultima a cui sono stato qua a Boston prima di…». Disintossicarsi, finii mentalmente. Studiai la sua espressione intuendo la sua sincerità, ma avevo come la netta impressione che ci fosse sotto dell’altro e che quella verità fosse solo una copertura.
«Oh», esclamai non sapendo come reagire.
«Sì e lì ha praticamente dato il peggio di sé, minacciando pesantemente il ragazzo che mi faceva il filo in quel periodo. Era un tipo intelligente che riuscì a tenerti testa se non sbaglio».
«Non ricordo molto di quella sera», tagliò corto lui. Non riuscivo a capirci molto e avrei voluto sicuramente indagare, ma per somma fortuna di Trevor, Ray venne ad interromperci  riportando la conversazione su argomenti completamenti diversi e più leggeri.
Tuttavia non potevo certo cancellare con un colpo di spugna tutta quella scena; per questo aspettai di essere finalmente da sola con lui per poterci vedere chiaro. Cominciavo ad odiare i segreti più di ogni altra cosa: come diavolo avevo fatto a tenergli nascosto tutta la questione del college? E lui come aveva fatto a non impazzire non sapendo la verità?
«Cosa significava tutta quella scenetta stasera?». Lo attaccai quando entrò nel suo letto, sedendosi accanto a me.
«Cosa?». Sembrò cascare dalle nuvole e la sua espressione si fece subito tesa.
«Cosa diavolo mi stai nascondendo Trevor? A cosa si riferiva Cassandra? Cosa dovrei sapere e soprattutto cosa ti sei affrettato a nascondere così rapidamente quando sono arrivata ad interrompere il vostro tête-à-tête?».
«Oh piccola, credimi ti ho detto la verità. Stavamo parlando di quella sera, ero strafatto e ho fatto cose di cui mi ricordo a malapena ma di cui mi pento profondamente. È stata la sera della goccia che ha fatto traboccare il vaso». Studiai la sua espressione e convenni che non mi stava mentendo.
«Quindi è stata lei che ti ha spinto a disintossicarti?», conclusi facendo due più due.
«No», rispose di slancio pentendosene subito. «Non lo so, forse. Diciamo che è stato un insieme di fattori».
«Mi avevi detto che non ti aveva aiutato quando aveva capito in che guaio eri finito», mormorai rattristandomi e abbassando lo sguardo per guardarmi le mani. Capivo perché l’aveva fatto, perché non mi preoccupassi; ma era evidente che Cassie fosse più importante di quanto mi avesse fatto credere.
«Ed infatti è così». Mi sollevò il viso con due dita in modo da riportare i miei occhi nei suoi. «Katy è complicato, è stato il periodo più brutto della mia vita e non voglio tenertelo nascosto, solo che non mi va di parlarne. Se potessi cancellerei tutto per non dovermi più ricordare degli enormi errori che ho commesso, devi credermi». Potevo capirlo e dovevo riconoscere che le sue motivazioni erano valide, ma c’era ancora qualcosa che non mi tornava.
«Cosa hai nascosto così velocemente allora?».
Trevor sospirò frustrato ma mi rispose anche se era ovvio che non volesse farlo. «Una vecchia foto di quella sera, non mi riconoscevo neanche per questo poi l’ho buttata. Non volevo che tu mi vedessi così: come un drogato della peggiore specie».
«Io non ti avrei mai visto come un drogato della peggiore specie», mormorai, posandogli una mano sulla guancia. «Per me non sei così. Avrei solo visto quanto sei maturato e quanto sei cresciuto».
«Ti amo tanto Kathleen». I suoi occhi azzurri erano quasi più esplicativi della sua affermazione.
«Lo so e ti amo anch’io». Con solo quattro parole era riuscito a spazzare via ogni dubbio e ogni nube nera che si era addensata in quella sera.
«E adesso se non sbaglio, ti avevo promesso una notte indimenticabile per farti capire quanto poco tu debba preoccuparti di tutte le altre».
Sorrisi, grata per quel cambiamento. «Già mi sa proprio che me l’avevi promesso», affermai prima di baciarlo con passione. E se sua madre ci avesse sentito tanto meglio.
 
Per fortuna il resto di quella vacanza passò velocemente e senza ulteriori drammi, grazie anche al fatto che io e Trevor passammo molto tempo a girare come turisti per Boston. Sicuramente era meglio visitare una città piena di ricordi di mio fratello che passare giornate intere con Claire.
Quando arrivò finalmente il sabato mattina, il giorno stabilito per il nostro rientro, non vedevo l’ora di salire sull’aereo che ci avrebbe riportato a casa. Non ero mai stata così felice di fare le valige in tutta la mia vita. Claire ci avrebbe accompagnati all’aeroporto e poi l’avremo salutata per un bel po’ di tempo. Non chiedevo altro.
Ero così contenta che stavo quasi per dimenticarmi il regalo che avevo comprato per Queen. Eravamo già quasi sulla porta quando mi ricordai di aver messo il suo souvenir – comprato il primo giorno al Museum of Fine Arts – in un cassetto del comodino e di non averlo più toccato.
«Aspettate! Il regalo di Queen!», esclamai fermandomi di colpo. «Vado a prenderlo, restate qui». Non diedi loro il tempo di replicare e mi fiondai nella camera di Trevor come un fulmine. Feci il giro del letto e trovai alla prima ciò che stavo cercando. Stavo tornando da loro quando la mia goffaggine fece capolino, ritardando la mia lieta dipartita. Stavo passando davanti alla scrivania quando inciampai nella sedia, andando ad urtare un cestino pieno di carta che non avevo neanche mai notato. Per non cadere mi aggrappai al tavolo ma purtroppo non riuscii ad evitare che il cestino si ribaltasse sparpagliando cartacce sul tutto il pavimento.
«Merda», imprecai affrettandomi a raccoglierle. Stavo cercando velocemente di sistemare il mio danno in modo da tornare in fretta dagli altri due, quando la mia attenzione fu colta da quella che sembrava una foto appallottolata e accartocciata. Immaginai subito che si trattasse di quella di cui mi aveva parlato Trevor ed anche se sapevo che mi sarei dovuta limitare a rimettere tutto in ordine, la curiosità divenne all’improvviso insostenibile. Lui non voleva che la vedessi perché pensava che l’avrei giudicato male, ma non era assolutamente così; io avrei visto al di là del suo aspetto per quanto drogato potesse sembrare. In fondo dare una sbirciatina non avrebbe compromesso nessuno.
Per questo mi affrettai a raccogliere tutto il resto fino a quando quella rimase l’unico pezzo di carta sul pavimento. Non prestando ascolto alla parte di me che mi diceva che sarebbe stato meglio lasciar perdere, la raccolsi e la stirai tra le mani. Quando finalmente vidi quello, o meglio coloro, che raffigurava mi mancò il fiato e sentii la testa girarmi. Ero stata al settimo cielo all’idea del nostro rientro, non avrei mai potuto immaginare che quello sarebbe stato il giorno in cui il mio cuore si sarebbe rotto in mille pezzi. Era del tutto impossibile prevederlo, fu come un fulmine a ciel sereno.
Là, su una pellicola fotografica raggrinzita e ormai usurata, campeggiavano tre persone che mai avrei pensato di poter vedere insieme. Al centro c’era Cassie stretta nel suo tubino nero con un boccale di birra in mano; dovevano essere in un pub a festeggiare, data la marea di persone sullo sfondo immortalate senza neanche saperlo. Il suo sguardo, rivolto verso l’obbiettivo, era felice e raggiante e lei era bellissima come sempre. Alla sua sinistra un po’ più in disparte si trovava un Trevor a dir poco irriconoscibile; doveva avere diciassette anni eppure ne dimostrava almeno ventidue, sembrava addirittura più grande del mio Trevor. I suoi occhi erano cerchiati, aveva un colorito strano, non sapevo dire se fosse dovuto alla luce o purtroppo a qualcosa di completamente diverso; ma ciò che mi fece impallidire fu la sua espressione: metteva i brividi, dire che fosse minacciosa era un eufemismo. Guardava la terza persona raffigurata quasi volesse incenerirla con lo sguardo. Dalla foto si capiva che era stata Cassie a tirarlo per la mano e a costringerlo a mettersi in posa; era ovvio che farsi fotografare con gli altri due era l’ultima cosa che avrebbe voluto. Tuttavia non fu quello a spezzarmi il cuore: vederlo così sarebbe stato una passeggiata in confronto a ciò che quella foto aveva ancora da mostrare.
Esattamente dall’altro lato, con un braccio stretto alla vita di quella che avevo cominciato a definire la mia acerrima nemica, c’era l’ultima persona che avrei immaginato di vedere. Due occhi verdi che conoscevo come le mie tasche mi guardavano sorridendo come ormai non facevano più da quasi tre anni. Jamie era lì, bellissimo e in perfetta salute, con il suo sorriso dolce e lo sguardo da bravo ragazzo. James stava abbracciando Cassie proprio accanto allo stesso ragazzo che amavo con tutta me stessa e che evidentemente mi aveva mentito per tutto il tempo. All’improvviso tutto ebbe un significato: il perché tra tante ragazze avesse scelto me, la sua fuga non appena aveva visto James in coma in quel letto, le sue bugie, le allusioni di Cassandra. Una sola foto aveva avuto il potere di frantumare e sbriciolare completamente il mio cuore.
«Katy che stai facendo? Lo hai trovato?». Feci in tempo a girarmi e a infilare la foto in tasca prima che lui entrasse nella stanza.
Mi occorse tutta la mia forza di volontà per ricacciare indietro le lacrime che premevano per uscire e per voltarmi verso di lui come se nulla fosse. «Sì. L’ho trovato, possiamo andare». Volevo solo tornare a casa, volevo solo che mi riportasse dalla mia famiglia e dai miei amici, dove sarei stata libera di piangere ed urlare come meglio credevo. All’improvviso non mi importava più di niente, volevo solo essere a casa mia.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18
 
Sarebbe bello poter dire che il viaggio trascorse in un lampo, mentre la mia mente era impegnata ad elaborare ciò che avevo appena scoperto; sarebbe bello ma sarebbe anche una bugia. Quel tragitto fu una vera e propria agonia: i minuti, le ore non sembravano passare mai. Non sapevo cosa dire ed avevo paura che, se avessi aperto bocca, mi sarei sbriciolata in un milione di minuscoli pezzettini. Proprio per questo finsi di dormire, per non dover parlare con Trevor, con una persona che non sapevo più minimamente chi fosse. Avevo creduto di conoscerlo, invece non avevo la minima idea di colui di cui mi ero innamorata; dopo aver visto quella foto era come se fosse diventato un estraneo. Fingere di dormire mi sembrava l’unica scelta praticabile.
Tuttavia, anche se restavo immobile con gli occhi chiusi, non potevo evitare che la mia mente corresse a mille, elaborando pensieri e connessioni che facevano male come delle coltellate in pieno petto. Trevor conosceva James quello era evidente, come era evidente che tra di loro non corresse buon sangue; lo sguardo che gli stava lanciando nella foto non poteva essere più esplicativo. Ma anche se si fossero odiati perché non dirmi che lo conosceva? Riuscivo a trovare solo un motivo per cui avesse deciso di tacere ed era talmente assurdo che non potevo crederci. Sapevo che non poteva essere, ero certa che non potesse essere, ma allora perché eravamo arrivati a quel punto? L’avevo creduto sincero, avrei messo la mano sul fuoco su i suoi sentimenti, invece mi sarei soltanto bruciata. Era stato tutto una bugia ed io non ci potevo credere.
Ero stata così sorpresa che fra tante ragazze Trevor avesse scelto proprio me, che lui fosse riuscito a vedere quello che io stessa non vedevo, ma adesso tutto aveva un senso. Lui non aveva mai trovato niente di speciale in me, se non il fatto che fossi la sorellina imbranata e sfigata di James. Avevo creduto che lui per primo mi avesse vista come qualcuno di diverso, come una ragazza, una donna, dolce e forse un po’ insicura, invece era sempre la solita storia: anche per lui rimanevo la solita ingenua Linny, nessuno mi avrebbe mai considerata diversamente. Era come se tutta l’autostima che credevo di aver conquistato fosse stata di colpo cancellata completamente. Non ero altro che un’ingenua, stupida ragazzina che aveva ceduto il suo cuore, la sua verginità, il suo corpo, praticamente tutto, ad un ragazzo che credeva di conoscere, ma che si era rivelato un perfetto estraneo. Un estraneo capace di strapparle il cuore dal petto e di calpestarlo fino a farlo diventare polvere.
Ero così arrabbiata, così sconvolta, così disperata che se il mio rientro a casa non fosse dipeso da lui, mi sarei messa ad urlare pur di sfogare tutte le sensazioni che mi si agitavano dentro. Ma eravamo su un aereo e non potevo chiamare nessuno per farmi venire a prendere appena atterrati in aeroporto; la sua macchina era parcheggiata lì e dato che volevo solo chiudermi in camera mia per non doverne più uscire, la strada più veloce era quella di sopportare fino a che non fossi scesa nel vialetto di casa mia.
Fu per questo che rimasi in silenzio mentre scendevamo dall’aereo e andavamo a riprendere i nostri bagagli. Nonostante i tentativi di conversazione di Trevor rimasi zitta, rispondendo al massimo con un paio di monosillabi, tanto da scoraggiare ogni suo tipo di approccio.
E fu per questo che, mentre lui andava a prendere le nostre valige dal nastro trasportatore, accesi in fretta il telefono e mandai un messaggio ad Evan.
SOS. Vieni subito a casa mia e aspettami lì. E non dire niente a nessuno, ti prego.
Sentivo di avere il cuore a pezzi e la parte razionale di me, mi fece capire che non avrei potuto affrontare la cosa da sola. Avevo bisogno delle uniche persone che sapevo non mi avrebbero mai tradito. Purtroppo Queen, nonostante fosse mia sorella, non era una di quelle e sfortunatamente Lea era in vacanza da i suoi nonni, impossibilitata a raggiungermi in tempi brevi. Ma Evan sarebbe stato a casa ed io avevo solo bisogno di lui: del mio dolce e assurdo amico, l’unico ragazzo che potevo amare senza aver paura che mi spezzasse il cuore.
La sua risposta arrivò neanche un minuto dopo.
Vado subito, considerami già là piccola.
Fu quel misero conforto che mi permise di affrontare gli ultimi interminabili minuti di viaggio dall’aeroporto a casa mia. Per non dover parlare accesi la radio, mettendo la musica ad un livello assordante e puntando lo sguardo sulle strade ormai buie che scorrevano fuori dal finestrino.
Se Trevor sospettava qualcosa, essendosi accorto del mio atteggiamento, non disse nulla, ritenendo forse più opportuno tacere fino a quando non fossi stata pronta a parlare. In fondo lui mi conosceva bene, ero io che non conoscevo lui.
Quando finalmente accostammo di fronte al vialetto di casa mi sembrò che fosse passata un’eternità da quella mattina, che addirittura fosse trascorsa un’intera vita. In effetti era un’altra vita quella in cui avevo creduto che lui mi amasse quanto io amavo lui.
Non appena spense il motore mi precipitai fuori dall’auto, proprio nell’esatto istante in cui Evan e Queen aprivano la porta di casa per venirmi incontro. Mi affrettai ad andare a prendere la valigia nel bagagliaio senza neanche dare il tempo a Trevor di scendere dalla macchina.
Armeggiai con la serratura mentre lui, veloce come un fulmine, mi raggiungeva e mi aiutava ad aprire il cofano di quell’auto infernale.
«Katy… Kathleen che succede?». Mi afferrò la mano prima che potessi prendere la valigia.
Con uno scossone mi liberai, riuscendo a tirare fuori il mio bagaglio e ad allontanarmi da lui di un paio di passi.
«Katy che diavolo succede?», sbraitò inseguendomi. «Non hai detto una parola per tutto il viaggio e adesso questo?». Non risposi e continuai a risalire il vialetto, avvicinandomi a Queen ed Evan.
«Kathleen rispondimi». Mi rincorse e mi afferrò di nuovo per la mano facendomi voltare. «Cosa cazzo sta succedendo? Perché sei arrabbiata con me? Io non capisco».
Dovetti tirare fuori tutta la mia forza di volontà per non mettermi ad urlare e mantenere invece un tono di voce normale. «Lasciami andare, non toccarmi. Vattene via».
Lui mi guardò esterrefatto sentendo le mie parole ma mollò subito la presa, come se avesse ricevuto un’improvvisa scarica elettrica. «Kathleen, perché? Perché mi tratti così?».
Non feci in tempo a rispondere dato che gli altri due intervennero subito in mia difesa. «Cosa diavolo le hai fatto?», sbraitò Queen raggiungendomi.
«L’hai sentita Trevor, ti conviene andartene». Anche Evan mi si affiancò prendendomi la valigia e posizionandosi con fare protettivo accanto a me.
«Io… io…». Trevor guardò prima gli altri due e poi me. «Katy devi spiegarmi, ti prego».
Sia mia sorella che Evan stavano per intromettersi di nuovo ma io li fermai con un gesto della mano. Lui, per quanto mi costasse ammetterlo, aveva ragione; dovevo dirgli che avevo scoperto tutto, che il suo giochetto era finito. Una volta fatto avrei potuto decidere liberamente di non vederlo più, avrei potuto tagliare tutti i ponti e mandarlo al diavolo anche se questo mi avrebbe fatto morire di dolore.
Fu per questo che facendo uno sforzo disumano presi dalla tasca della giacca la foto che avevo conservato per tutto il viaggio come una prova inconfutabile. «Vuoi sapere cosa succede? Ecco cosa succede». Gli sbattei la foto sul petto lasciando che lui la prendesse e lo guardai sentendo gli occhi lucidi. Lo vidi sbiancare osservando ciò che gli avevo appena passato, un’ulteriore riprova della sua colpevolezza.
«Io… Katy…», balbettò non sapendo evidentemente come difendersi.
«Non posso crederci», sussurrai, ritrovando sul suo viso la verità che da quella mattina mi stava distruggendo.
«Dove l’hai trovata? Io pensavo di averla buttata via».
«Ho urtato per sbaglio il cestino in camera tua», risposi in automatico, «e rimettendo in ordine l’ho vista. Ma come abbia fatto a trovarla è irrilevante, perché io non avrei mai dovuto vederla, giusto? Così tu avresti potuto andare avanti con il tuo teatrino».
«Cosa? Katy lo so che adesso sembra assurdo ma lascia che ti spieghi».
«Cosa vuoi spiegare? Forse quello nella foto non sei tu ma il tuo gemello di cui ignoravo l’esistenza?». Il sarcasmo nella mia voce era palese.
«No, certo sono io».
«E allora quello accanto a te è forse il sosia spiaccicato di James?».
«Cosa James, nostro fratello?», intervenne Queen sentendolo chiamare in causa. Le lanciai uno sguardo pregandola di tacere e continuai.
«Allora quello è o non è James?».
Trevor mi rivolse il suo sguardo da cane bastonato, ma non avrebbe funzionato più, non in quel momento. «Sì è lui».
«Non posso credere che tu mi abbia mentito così, per tutto questo tempo».
«Kathleen io non sapevo come dirtelo e poi tecnicamente tu non mi hai mai chiesto se conoscessi James». Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Tutto il dolore si trasformò in rabbia.
«Come osi dirmi una cosa del genere?», urlai. «Come diavolo potevo immaginarlo? Tu… tu… avresti potuto mentirmi su tutto ma non su di lui. Non su Jamie, non dopo quello che ti ho detto, non sapendo che avrei preferito esserci io in quel letto piuttosto che vederci lui ogni santo giorno senza poter far niente per aiutarlo».
«Oh Katy come potevo dirtelo? Lo sai benissimo anche tu, però adesso lascia che ti spieghi ti prego». Vidi la disperazione dipinta sul suo volto, ma non mi importava. Mi aveva ferita troppo.
«Credevo che mi amassi, invece ero soltanto il tuo caso pietoso. Ero forse il mezzo per redimerti?».
«Cosa?». Nei suoi occhi lo stupore prese il posto dell’angoscia. «Katy non puoi pensare una cosa del genere, non puoi credere che io non ti ami».
«Complimenti sei un attore formidabile», continuai cercando con tutte le mie forze di non piangere. Feci per voltarmi ma lui mi afferrò di nuovo per il braccio.
«No amore, no per favore. Io ti ho mentito è vero, ma non su questo. Non avrei mai potuto, tutto quello che c’è stato era reale, io ti amo». Le parole gli uscirono di bocca così velocemente da rincorrersi le une con le altre.
«Non ti credo», ammisi scuotendo la testa. «Non ti credo più».
Le mie parole furono sufficienti a far allentare la sua presa sul mio polso. «Ti scongiuro, lascia che ti spieghi, ti dirò tutta la verità adesso». Il suo tono era implorante così come la sua espressione, ma io volevo che se ne andasse, volevo solo chiudermi in camera mia e magari piangere stretta tra le braccia di Evan.
«È troppo tardi; Trevor vattene via, non voglio più vederti, non voglio più avere niente a che fare con te».
Il suo labbro tremò, quasi come se fosse sul punto anche lui di scoppiare a piangere. «No… non puoi volerlo sul serio. Katy, per favore, lo so che una parte di te mi ama ancora».
«No, ti sbagli», lo fermai. «Io amo il Trevor che credevo di conoscere, la persona che pensavo non mi avrebbe mai ferita in questo modo, il ragazzo che non mi avrebbe mai tradita così. Tu non sei quel Trevor, è evidente che non è mai esistito ed è stato solo frutto della mia fantasia. Io non so più chi sei e adesso non so più neanche chi sono io. E ti odio per avermi fatto questo». Gli voltai le spalle e senza neanche rendermene conto mi ritrovai stretta nell’abbraccio protettivo di mia sorella.
«L’hai sentita vattene prima che ti prenda a calci nel sedere», gli disse.
«Ti conviene andartene Trevor», continuò Evan.
«Devi ascoltarmi Katy, non può finire in questo modo». Già non poteva finire in quel modo, ma non perché non volessi ascoltarlo bensì perché lui aveva rovinato tutto.
Con un ultimo disumano sforzo mi staccai dalle braccia di Queen e mi voltai a guardarlo. «Se non volevi tutto questo, avresti potuto dirmelo, avresti potuto dirmi tutto, lo sapevi che ti avrei ascoltato. Ma è evidente, visto che hai continuato a mentirmi, ad usare sotterfugi, che non ti è mai importato niente di me, di noi; non ci avresti fatto questo altrimenti. Adesso è troppo tardi. È finita».
Le sue spalle si abbassarono schiacciate dal peso delle mie parole, mentre cercava ancora di negare la verità con tutte le sue forze. «No Kathleen».
«Vai via Trevor», concluse Evan facendo un passo in avanti. «Lasciala stare. Non adesso, okay?». Non sapendo più come controbattere indietreggiò continuando però a fissarmi con sguardo implorante. Fino a poche ore prima avrei visto nei suoi occhi il dolore e la disperazione, ma in quel momento non sapevo più come interpretare quelle profonde pozze azzurre. Sembrava distrutto, ma avevo scoperto che era un attore formidabile, qualunque cosa pensasse o provasse non potevo più fidarmi di lui neanche quando diceva che non aveva mai mentito su i suoi sentimenti.
Restai a guardarlo rientrare in macchina, accendere il motore e partire, per poi tuffarmi tra le braccia di Evan, scoppiando finalmente in un pianto liberatorio.
«Linny…», iniziò mia sorella posandomi una mano sulla spalla.
«Non dire niente», la fermai singhiozzando. «Ti prego, sta zitta. Non dire te l’avevo detto, non chiedere altro né su di lui né su James. Lasciami in pace». Mi accorsi di essere stata scortese, ma ammettere che aveva avuto ragione fin dall’inizio, che mi ero ingannata su di lui e che per questo ero stata così sciocca da iniziare una faida con lei, mi faceva ancora più male.
«Vai dentro Queen», intervenne Evan. «Ci penso io a lei, quando sarà pronta, ne parlerà anche con te».
«Ma James?», insistette. «Che c’entra lui con James?».
«Queen ti prego non adesso, abbi pazienza. Ha il cuore a pezzi, non lo vedi?». La sentii sospirare e allontanarsi mentre io mi stringevo tra le braccia di Evan inzuppando di lacrime la sua spalla. Era una vera fortuna che lui fosse lì e che dicesse ciò che io in quel momento non riuscivo a dire.
Non mi resi neanche conto di star camminando, fino a quando lui non mi fece sedere sul mio letto chiudendosi la porta alle spalle. Avevo gli occhi pieni di lacrime, tanto da rendere la mia vista appannata, e il respiro corto; stentavo ad incamerare aria visto che i singhiozzi venivano a scuotermi con una prepotenza e una velocità incredibile.
«Ehi shh». Evan si inginocchiò davanti a me e tentò di asciugarmi le guance con i pollici. Tentai di parlare ma non riuscivo a smettere di piangere, nemmeno per quel tanto che bastava per articolare delle parole di senso compiuto.
«Andrà tutto bene piccola, ci sono io qui con te». Evan si allontanò per un secondo per poi passarmi un pacchetto di fazzoletti. Ne presi uno e mi soffiai il naso, ma fu del tutto inutile. Non riuscivo a calmarmi, non sarei mai riuscita a calmarmi. C’era stata solo un’altra volta in cui mi ero sentita così devastata ed era stato quasi tre anni prima. Anche allora come adesso, avevo perso uno degli uomini più importanti della mia vita.
Come potevo essermi ingannata così su Trevor, come potevo essere stata così stupida? Non avrei più permesso a nessuno di rendermi così vulnerabile. Me l’ero promesso dopo l’incidente di James, ma poi quando avevo conosciuto Trevor ero stata così sciocca da aprirgli il mio cuore e da rendermi del tutto preda del suo potere. Mi ero aperta, mi ero innamorata e gli avevo dato la possibilità di farmi a brandelli. Non sarebbe più successo.
Mentre continuavo a singhiozzare, in un pianto senza freni, Evan mi fece distendere, aiutandomi a togliere le scarpe e la giacca, per poi stringermi forte tra le sue braccia. Sollevandomi, come se fossi una piuma, scostò la coperta e ci avvolse entrambi mentre io mi accoccolavo meglio contro il suo petto. Ecco quello era l’unico posto dove volessi stare e lui l’unico uomo che non mi avrebbe mai delusa.
Non so quanto tempo rimasi in quella posizione, inzuppando di lacrime la sua maglietta e non riuscendo neanche a parlare. Evan se ne restò lì, cullandomi tra le sue braccia e continuando a baciarmi sulla testa, in attesa che il mare che mi si agitava dentro si placasse, almeno di poco.
Quando finalmente riuscii di nuovo a parlare, doveva essere passata almeno un’ora. Non avevo idea di dove fosse Queen o se avesse detto qualcosa ai nostri genitori, ma non mi importava. Non mi importava più di niente: avevo appena perso tutto. Non solo non avevo un futuro, perché non avevo fatto domanda in nessun college, non avevo più neanche la persona che avevo pensato mi amasse come nessun altro. Trevor non era solo il mio ragazzo, era anche diventato uno dei miei migliori amici, il mio tutto, e in quel momento non c’era più niente.
«Non posso credere di essere così stupida», gracchiai, stentando a riconoscere la mia voce.
«Non sei stupida», mi rispose Evan, accarezzandomi le spalle.
«Conosceva James, Ev. Lo ha sempre conosciuto, è per questo che si è avvicinato a me».
Lui sospirò, ma non c’era molto altro che potesse aggiungere o ribattere.
«Credevo davvero che mi amasse», continuai, «che avesse scelto me non perché ero la sorellina di James, ma perché avesse visto la vera me. Adesso non so più neanche chi sia la vera me; come ho potuto pensare di piacere a qualcuno, di poter essere amata in quel modo…».
«Ehi fermati». Evan mi fece scostare la testa dal suo petto per potermi guardare negli occhi. «Tu puoi essere amata in quel modo, non c’è assolutamente niente che lo impedisca. Tu sei meravigliosa Kathleen e il fatto che tu non te ne renda conto ti rende ancora più speciale».
«Tu sei di parte», mormorai tirando su con il naso.
«No, ascoltami okay? Trevor può averti mentito su James ma non credo l’abbia fatto su ciò che prova per te. L’ho visto stasera: quando tu l’hai mandato via era distrutto, come se gli fosse crollato il mondo addosso».
«No, non è vero. Come posso credere che mi ami se mi ha mentito fin dall’inizio?».
«Perché l’ho visto Katy. Potrà essere iniziata con una bugia, ma io vi ho visti insieme e non ho mai dubitato che lui fosse preso da te almeno quanto tu lo eri da lui, se non di più. Kathleen potrei metterci la mano sul fuoco dicendoti che lui ti ama».
«Perché mi dici questo Evan? Non mi aiuta». Perché voleva convincermi che non fosse tutto falso come invece sembrava essere?
«Perché tu sei testarda e cocciuta, almeno quanto me. E se non vuoi ammettere una cosa non lo fai finché non ci vai a sbattere contro. Quindi ti sto facendo notare che hai perfettamente ragione ad avere il cuore spezzato, visto che ti fidavi di lui e lui ti ha mentito proprio sulla persona più importante della tua famiglia, ma penso che in questo momento Trevor non sia messo meglio di te. Non si può fingere quel tipo di sentimento Katy, te lo dice uno che ci ha provato a fingere».
«Tu non sei come lui».
«Oh tesoro, forse tu non te lo ricordi, ma io ci ho provato tanto a non essere come sono; ci ho provato con tutte le mie forze ad essere attratto dalle ragazze. Non sai quante volte avrei voluto amare te in un modo completamente diverso, non in maniera platonica o fraterna ma con passione. Perché te lo giuro io ti amo da morire Katy, ma è qualcosa di completamente diverso rispetto a quello che ho provato con Mark o che potrò provare con qualcun altro in futuro».
Lo capivo perché anch’io lo amavo, anche se non come amavo Trevor. «Ti amo anch’io Evan, da morire».
«Lo so e proprio perché ci ho provato, so che non si può fingere quel tipo di sentimento. Io gliel’ho letto negli occhi, tutti lo hanno visto, persino tua madre ed anche Queen, seppure lei stessa detesti ammetterlo».
«Ma se la nostra storia è iniziata fin da subito con una bugia, come posso credere al resto? Come posso credergli visto che potrebbe aver mentito su tutto?».
«Non ha mentito su tutto, lo sai benissimo anche tu. Pensaci attentamente: non avrebbe mai potuto mentire sulla droga».
«Cosa?». Sbattei le ciglia ancora bagnate dalle mie lacrime e lo fissai incredula. Avevo davvero sentito bene?
«Sì io lo so Kathleen. Trevor me l’ha detto».
«Trevor te l’ha detto?», ripetei. Mi misi a sedere in modo tale da poterlo guardare meglio in faccia.
«Sì, per quanto io sia il tuo migliore amico, sono anche il suo migliore amico».
«Lo sanno anche Paul e Lea?». Credevo di essere l’unica a cui avesse confessato quel segreto, ma era ovvio che mi fossi sbagliata. Anche su quello, di nuovo.
«No, non penso. Trevor non è un tipo che ha molti amici e non credo che si fidi abbastanza degli altri per riuscire ad aprirsi facilmente».
«Allora perché lo avrebbe fatto con te?».
«Beh non lo so con certezza, ma come ti ho detto penso che mi consideri un buon amico, non deve averne avuti molti negli ultimi anni o in tutta la sua vita».
«Ma anche Paul è suo amico, perché proprio tu e perché non dirmi neanche questo?».
«Katy vuoi sapere perché me l’ha confessato? Sono un ragazzo gay in una piccola cittadina del Sud Dakota dove tutti fanno fatica ad accettarmi e dove purtroppo rimango l’unico della mia “specie”». Fece il gesto con le virgolette rivolgendomi un sorriso per quella sua autoironia. «Penso di sapere cosa significhi essere emarginati ed etichettati. “Drogato”, “gay” non c’è molta differenza quando tutti ti guardando con superiorità per le scelte che hai fatto o per le persone che frequenti».
Era un discorso forte e purtroppo vero. Forse Evan poteva capirlo meglio di chiunque altro, e per Trevor doveva essere venuto naturale parlarne con lui, così come gli era venuto naturale parlarne con me. Perché in fondo, per quanto potessi in quel momento considerarlo un bugiardo, sapevo che era sincero quando mi aveva parlato del suo passato. Poteva aver omesso delle cose, mentito su altre, ma non avevo avuto dubbi sul fatto che si fosse pentito delle sue scelte e che stesse lottando con tutte le sue forze per riprendere il controllo della sua vita.
«Io lo amo ancora nonostante tutto», affermai, sentendo le lacrime rigarmi nuovamente le guance. «Non vorrei farlo, ma non posso smettere di amarlo così da un minuto all’altro, nemmeno dopo tutto quello che ho scoperto. Vorrei non provare più niente ma non ci riesco».
«Non sarebbe da te», confermò lui rivolgendomi un sorriso. Non feci a tempo ad aggiungere altro perché sentii il mio telefono squillare. Evan si alzò al mio posto per andare a prenderlo, tirandolo fuori dalla mia borsa.
«Mmm ha resistito più di quanto pensassi», commentò guardando lo schermo. «Credevo che non avrebbe aspettato neanche un’ora, invece è riuscito ad aspettarne quasi due».
Afferrai il telefono bruscamente e respinsi la chiamata. Sicuramente, anche se piangere e sfogarmi mi aveva fatto bene, non ero ancora pronta ad affrontarlo o ad ascoltarlo o qualsiasi altra cosa volesse da me. Avevo ancora bisogno di elaborare il tutto prima di riuscire a guardarlo negli occhi senza sentire il cuore frantumarsi.
Non passò neanche mezzo minuto che lo schermò si illuminò di nuovo, ricevendo una seconda telefonata; mi affrettai a respingere anche quella, imbronciandomi. Perché diavolo non mi lasciava in pace, concedendomi almeno un giorno di silenzio? Non poteva pensare che gli avrei risposto, non dopo ciò che gli avevo detto o come lo avevo mandato via!
Quella scenetta si ripeté per altre cinque volte, il che mi costrinse alla fine a spegnere il telefono per evitare che continuasse in quel modo per tutta la notte. Ero arrabbiata e frustrata, oltre che delusa e devastata. Mi era all’improvviso venuta a mancare la terra sotto i piedi e lui, l’unico responsabile, continuava ad assillarmi.
E come a dimostrare la sua cocciutaggine all’improvviso, avendo spento il mio, fu il cellulare di Evan ad iniziare a squillare. Lui lo estrasse dalla tasca e, prima che potessi afferrarlo per chiudere la chiamata, rispose portandoselo all’orecchio.
«Trevor mi sembra chiaro che non voglia parlarti in questo momento». Non riuscendo a sentire ciò che rispondeva il diretto interessato, mi limitai a fissare il mio amico con le labbra tremanti e gli occhi di nuovo lucidi.
«No, puoi scordartelo». Di nuovo silenzio. «Senti l’hai combinata grossa, non puoi aspettarti che lei si comporti diversamente».
Vidi Evan sbuffare e alzare gli occhi al cielo. «Sì certo io questo lo so, ma non puoi mettermi in questa posizione, okay?».
Evan rimase in ascolto più a lungo e si passò una mano tra i capelli poco prima di parlare. «Ascoltami Trevor, dalle tempo. Lo so che vuoi spiegarle ma l’hai ferita e adesso l’unica cosa che puoi fare è aspettare che lei sia pronta ad ascoltarti. Dalle un po’ di tempo per metabolizzare, poi ti giuro che sarò io a portarla da te».
Trevor parlò di nuovo ed Evan sbuffò. «Sì che ce la fai, non la forzare».
Un secondo di silenzio in cui l’espressione del mio amico si indurì. «Trevor piantala. Sei mio amico, ma lo sai benissimo anche tu che Katy è la mia priorità. Ti sto dando il beneficio del dubbio perché ti conosco, altrimenti ti avrei già spaccato la faccia un paio di ore fa. E sai che sarei in grado di farlo, anche se sono gay. Adesso ascoltami: dormici su e lasciala stare, domani forse ne potremo riparlarne. Ti saluto». Riattaccò e per evitare ulteriori disturbi si affrettò a spengere anche il suo telefono.
«Voleva parlarmi, vedermi?», mormorai osservando le mie dita.
«Sì, ma non dovrai farlo finché non sarai pronta. Non me ne frega un cazzo se lui si sente una merda e sta da schifo».
«Sta da schifo?». Una parte di me continuava comunque a preoccuparsi per lui. Avrei voluto sopprimere quella parte con tutte le mie forze.
«Sì, ma non ha importanza. Kathleen nessuno può metterti fretta, hai bisogno dei tuoi tempi». Era forse l’unico che era riuscito a capirlo e non avrei potuto desiderare un amico migliore.
«Grazie», mormorai, un istante prima che qualcuno bussasse alla porta. Queen non aspettò neanche la nostra risposta per aprire e fare capolino nella stanza.
«Lo so che è tardi, ma vi ho sentito parlare e ho sentito il telefono, volevo solo controllare».
«Queen non importa. Sto bene», mentii liquidandola. Ecco un’altra persona a cui non volevo dover dare delle spiegazioni.
«Aspetta Linny», mi fermò, guardandomi negli occhi. «Non sono qui per sapere cosa è successo, cosa ti ha fatto Trevor o come James sia riuscito ad entrare in tutto questo pur essendo inchiodato in un letto di ospedale. Sono qui per te, non voglio spiegazioni; non dirmi però che stai bene perché lo so che è una bugia».
La fissai per un secondo prima di sentire di nuovo le lacrime scendere come un fiume in piena. «Non sto bene, non sto affatto bene». Bastò quella mia risposta per farle chiudere la porta e farla correre subito ad abbracciarmi.
«Ci siamo qui noi adesso», mi sussurrò all’orecchio cullandomi tra le sue braccia.
«Lo so che ti sembrerà impossibile ora come ora», continuò Evan accarezzandomi la testa., «ma che ne diresti di provare a dormire un po’? Magari domani a mente più lucida ragionerai meglio».
«Hai ragione», affermai tirando su con il naso, «mi sembra proprio impossibile adesso».
Evan sbuffò e anche se non potevo vederlo, sapevo che mi stava rivolgendo il suo migliore sorriso. «Allora facciamo così: tu ora vai a metterti il pigiama e poi torni qua da noi. Ci sistemiamo tutti e tre nel tuo letto e se proprio non riesci a dormire ci limiteremo a coccolarti in mezzo a noi per tutta la notte». Era davvero fantastico: quale altro amico avrebbe fatto altrettanto?
«Non so cosa farei senza di te», sussurrai alzando la testa dalla spalla di Queen.
«Lo credo bene. Sono meraviglioso; la perfezione fatta persona».
«Non esagerare», lo ammonì Queen. «Comunque in questo caso hai ragione. Forza Linny, vai a cambiarti noi ti aspettiamo qui».
«E nell’attesa non faremo cose sconce te lo promettiamo». Sbuffai e nonostante il mio stato d’animo abbozzai un mezzo sorriso.
«Come se con te potessero succedere», lo prese in giro Queen. «Anche se fossi ancora impegnata l’idea che tu possa allungare le mani non mi preoccuperebbe neanche un po’».
«So che ti piacerebbe, purtroppo per te gioco nella vostra squadra». Queen scosse il capo ed io ne approfittai per alzarmi e fare come mi avevano detto. Cosa avrei fatto senza di loro?
 
Come avevo immaginato l’idea di dormire si era rivelata alquanto illusoria. La mia mente continuava ad andare a mille all’ora e mi sarei potuta sentire anche sfinita, ma i miei pensieri non mi avrebbero mai lasciata in pace. Tuttavia stretta tra Queen ed Evan mi ero pian piano calmata e avevo iniziato a pensare a ciò che Trevor avrebbe potuto dire per difendersi. Mi aveva chiesto di ascoltarlo, di lasciare che si spiegasse, ma non ero sicura che le sue spiegazioni e le sue motivazioni mi avrebbero aiutata. Pensavo che la situazione non potesse peggiorare, ma se ascoltandolo avessi compreso ancora meglio quanto mi fossi ingannata sul suo conto? Non mi reputavo una ragazza stupida e se mi ero innamorata di lui qualcosa di vero doveva pur esserci stato. Non volevo credere di essere una di quelle ragazze che nega perfino l’evidenza solo perché ha completamente perso la testa per un ragazzo. Mi ero talmente smarrita da non conservare neanche un briciolo di lucidità?
Quando Trevor mi aveva parlato del suo passato, quando mi aveva detto di amarmi, quando avevamo fatto l’amore c’era stato qualcosa che mi aveva fatto credere senza ombra di dubbio che lui fosse sincero. Per quanto da quando avevo scoperto la foto avessi dubitato di tutto, più ci riflettevo e più capivo che c’erano solo due possibilità: o era un attore da premio Oscar, a cui non era importato niente di ferirmi e di sconvolgermi, o che forse voleva proprio quello; oppure una parte di ciò che c’era stato, di ciò che eravamo stati insieme, era sempre stata reale. La prima mi sembrava col passare dei minuti un’ipotesi del tutto assurda e probabilmente lo avevo sempre saputo, anche quando avevo sentito il mio cuore sbriciolarsi scoprendo quell’incredibile verità. Tuttavia seppure potessi arrivare a credere che i sentimenti di Trevor fossero in quel momento sinceri, non potevo negare che buona parte della nostra storia, compreso come era iniziata, il motivo per cui lui si era avvicinato a me, fosse tutto una bugia. Se anche ascoltandolo avessi capito che lui mi amava ancora, come avrei potuto fidarmi di nuovo? Mi sentivo tradita, tradita sull’unico argomento che per me era imprescindibile.
Così mentre Evan e Queen avevano ceduto al sonno ed avevano iniziato a russare leggermente vicino a me, io restai da sola con i miei pensieri, rimuginando su tutto ciò che era accaduto nelle ultime ventiquattro ore. Con molta probabilità, nonostante l’avessi definita una rivale, avrei dovuto ringraziare Cassie, perché era stata lei a tirare fuori quella foto e a permettermi di trovarla. Avrei mai saputo la verità altrimenti? Per quanto mi facesse male, preferivo di gran lunga averlo scoperto piuttosto che continuare a rimanerne all’oscuro. Basta segreti, basta bugie, basta di tutto.
Non ricordo bene quando i miei occhi si chiusero facendomi cadere in un sonno leggero, agitato e per niente ristoratore. E sicuramente fu non molto tempo dopo che mi svegliai sentendo una mano scuotermi leggermente.
«Linny, tesoro. Svegliati». Sbattei le palpebre impiegando un secondo a riconoscere la voce di mia madre.
«Mamma?», mormorai cercando di focalizzarla in piedi accanto al letto. Evan e Queen stavano ancora dormendo e lei stava sussurrando per non svegliarli.
«Non so bene cosa sia successo ieri sera e lo so che non deve essere un buon momento per te, ma dovresti scendere. È importante». Cercai di capire qualcosa dalla sua espressione ma era seria e indecifrabile. Non era certo da lei essere così criptica e proprio per questo mi limitai ad annuire, obbedendo alla sua richiesta.
«Ti aspetto giù», affermò prima di uscire. Facendo attenzione a non svegliare i miei due compagni di stanza mi sottrassi dal loro abbraccio e strisciai fuori dal letto. Mi misi le prime cose che mi capitarono per le mani e mi aggiustai i capelli con le dita, in modo tale da rendermi un minimo presentabile. Stavo per uscire quando vidi il mio cellulare, ancora spento, appoggiato sulla scrivania. Fu solo un istante ma ebbi la netta sensazione che ne avrei avuto bisogno; perciò, seguendo quel mio primo impulso, mi affrettai ad afferrarlo e a uscire velocemente dalla stanza senza fare rumore.
Quando arrivai nel salotto trovai ad aspettarmi tre persone che avrei volentieri evitato di vedere insieme. Mio padre era in un angolo con le braccia strette al petto e il viso imbronciato; stava guardando in cagnesco mia madre, come se la decisione di venirmi a svegliare fosse stata solamente sua. Ed infine dall’altro lato della stanza c’era il signor Simons, con l’aria truce e visibilmente preoccupata. Sentii una fitta al cuore vedendo la sua espressione e iniziai ad avere le palpitazioni. Il suo viso non presagiva niente di buono, anzi faceva sospettare il peggio. Era forse successo qualcosa a Trevor? Per quanto fossi in collera, arrabbiata, ferita e delusa, la sola idea mi mandava fuori di testa.
«Kathleen», sospirò non appena mi vide. «Mi dispiace averti disturbato soprattutto la mattina di Pasqua, ma non sapevo cos’altro fare. Ho bisogno del tuo aiuto».
«È successo qualcosa a Trevor?», domandai sentendolo lo stomaco in gola.
«Mi piacerebbe tanto saperlo; speravo di trovarlo qui o che tu sapessi dirmi qualcosa. Non è tornato a casa ieri sera». Rimasi in silenzio elaborando le sue parole e cercando un modo delicato per dirgli cosa era successo tra noi; io non potevo essergli di grande aiuto dato che l’avevo mandato via dicendogli di non volerlo più vedere.
«Ha inviato un messaggio», continuò, «a Susan ieri sera, non appena siete atterrati. Lo abbiamo aspettato, lo abbiamo chiamato più volte ma non ci ha mai risposto. Speravo fosse con te, abbiamo provato a telefonarti e alla fine ho deciso di venire a vedere di persona. Non mi piace per niente il fatto che sia sparito in questo modo». Capivo perché era preoccupato: doveva temere che facesse di nuovo qualche sciocchezza. Io credevo in Trevor e sapevo che era forte, ma era naturale e istintivo pensare al peggio.
«Ieri sera lui e Linny hanno litigato», intervenne mia madre, visto che io ero rimasta in silenzio, riflettendo su ciò che mi aveva detto.
Il signor Simons guardò prima lei e poi me. «Davvero?».
Feci un profondo respiro prima di parlare. «Non abbiamo solo litigato. È complicato».
«Ti ha fatto qualcosa?», si intromise mio padre prepotentemente, peggiorando la situazione. Da una parte volevo spiegare a Fred cos’era successo, ma se avessi detto la verità avrei solo peggiorato ciò che mio padre pensava di Trevor. In qualche modo ancora mi importava ciò che lui pensava del mio ragazzo, o meglio del mio ex ragazzo; non avevo mai smesso di volere la sua approvazione, anche se in effetti in quel momento non aveva più senso. Forse era anche perché non avrei voluto vederlo gioire ed assumere la sua espressione da “te l’avevo detto”.
«No, non fisicamente diciamo. Ha omesso alcune cose che… ero arrabbiata, lo sono ancora, e gli ho detto di andarsene, che era finita».
«Merda», imprecò il signor Simons portandosi una mano alla fonte. «Scusate per il linguaggio». Tornò di nuovo a fissarmi con sguardo supplicante. «Mi dispiace per qualsiasi cosa sia successa tra di voi, ma dopo ciò che mi hai detto sono ancora più preoccupato. Stava andando così bene… so che non dovrei chiedertelo ma sai come trovarlo? Hai qualche idea su dove possa essere?».
Non feci a tempo a rispondere, perché mio padre mi precedette. «Infatti non dovrebbe chiederglielo. È evidente che suo figlio non ha tenuto una buona condotta con mia figlia, e dopo quello che lei ha detto riguardo ieri sera dubito fortemente che possa pretendere che Kathleen si esponga di nuovo per lui».
Io e mia madre parlammo contemporaneamente. «Papà!».
«David!».
«Io capisco che lei sia arrabbiato», si difese l’altro, «ma in questo momento io non so dove sia mio figlio o se stia bene. Lei non ha idea di quello che Trevor ha dovuto affrontare e purtroppo so di esserne in parte responsabile. Anche se non posso cambiare quello che è successo, posso fare di tutto per rimediare adesso; quindi non lo sto chiedendo a lei, ma a Kathleen. Puoi aiutarmi a capire dove sia?». Non avrebbe dovuto neanche chiedermelo, era ovvio che l’avrei aiutato. Potevo essere furiosa e delusa ma non avrei buttato al vento quello che avevo provato per mesi. Dovevo sapere come stesse Trevor a prescindere da ciò che lui provava veramente per me o ciò che era accaduto tra noi.
«Posso provare a chiamarlo», risposi. «Sono sicura che io sia l’unica a cui risponderebbe in questo momento». Vidi mio padre alzare le braccia al cielo ed uscire come una furia dalla stanza. Era stato scortese, ma l’aveva fatto per difendermi in fin dei conti; non potevo avercela con lui, almeno non per quello.
Feci cenno a mia madre di seguirlo, in modo da lasciarmi da sola con il signor Simons. Quando finalmente anche lei uscì dalla salotto, mi accinsi ad accendere il telefono che avevo continuato a stringere nella mano. A quanto pareva avevo avuto un buon presentimento a portarmelo dietro.
«Cosa ha fatto Kathleen?», mi domandò mentre entrambi aspettavamo che il mio telefono prendesse vita.
«Mi ha mentito», ammisi, «fin da subito. Lo credevo sincero, invece…». Non riuscii a concludere perché faceva ancora troppo male.
«Era sincero», affermò, «almeno su i suoi sentimenti per te. Di questo ne sono sicuro». Sembrava che fosse la certezza di tutti, solo io avevo ancora molti dubbi a riguardo.
«Conosceva mio fratello», gli rivelai in un sussurro. «Lo conosceva e non me l’ha detto; la nostra storia è nata con una bugia, non posso passare sopra a questo».
Lo vidi sospirare ma arrendersi al fatto che, in fondo, avessi ragione. Non ci fu più tempo per aggiungere altro perché il mio telefono cominciò ad animarsi, rivelando una marea di messaggi e telefonate perse. Trevor aveva provato a chiamarmi venti volte: venti chiamate a vuoto che dovevano per forza aver fatto scattare la segreteria telefonica. C’erano una diecina di messaggi dove principalmente continuava a ripetere che gli dispiaceva e mi pregava di richiamarlo. In più avevo anche tre messaggi vocali nella segreteria telefonica: ero certa che fossero suoi.
«Ci sono dei messaggi in segreteria, forse dovrei ascoltarli prima di chiamarlo, magari dice dov’è». Dubitavo che fossero diversi dagli sms che mi aveva mandato, ma tutto poteva essere. Anche se non ero ancora pronta a sentire il suono della sua voce sapevo che era la cosa giusta da fare.
«D’accordo». Fred rimase in attesa mentre io digitavo il numero della segreteria e mi portavo il telefono all’orecchio.
La voce registrata partì quasi subito. «Benvenuto nella tua segreteria ci sono tre messaggi. Primo messaggio».
Trassi un profondo respiro per prepararmi al suono della sua voce. «Ehi Kathleen, sono io. Lo so che hai spento il telefono e che non vuoi parlarmi; quindi questo messaggio sarà del tutto inutile… ma ti prego Katy io ho bisogno di spiegarti, voglio dirti tutto, devi solo darmene la possibilità. Mi dispiace da morire, non so come scusarmi, è... Per Evan dovrei darti tempo, ma continuo a pensare a ciò che hai detto, a come ti ho ferita e sto malissimo. Ti prego chiamami non appena ascolti il messaggio». Avevo pensato che sentire la sua voce mi avrebbe fatto male, ma sentirlo in quel modo, come se fosse devastato e distrutto almeno quanto me, era molto peggio.
«Secondo messaggio». Trassi di nuovo un profondo respiro, cercando in me una forza che non credevo di avere.
«Ehi Katy, sono sempre io. Sono passate tre ore, sono le quattro di notte e tu ancora non mi hai chiamato. Forse non hai ascoltato il mio messaggio e stai dormendo, o forse io ho rovinato tutto. Rovino sempre tutto, persino qualcosa di bello come te. Lo so che sono passate solo poche ore, ma a me sono sembrate un’eternità, un’eternità in cui non ho fatto altro che pensare alle tue parole. Katy, forse tu puoi non credermi, ma io ti amo; ti ho mentito e ho sbagliato, ma non sapevo come dirtelo, avevo paura di dirtelo. Avevo paura che tu non avresti più voluto vedermi ed io non l’avrei sopportato. Che ironia della sorte! Ho solo peggiorato le cose… Ti prego Katy chiamami, non ti chiedo di perdonarmi, solo di darmi la possibilità di rimediare, io non so cosa fare senza di te». Sentirgli dichiarare i suoi sentimenti con quel tono disperato, aveva fatto inevitabilmente accelerare il mio cuore. Dalla sua voce si capiva quanto fosse triste e sconvolto e se da una parte ero felice che lo fosse anche lui, dall’altra odiavo sentirlo così, come se avesse perso tutto. Come se avendo perso me, avesse in qualche modo smarrito ogni altra prospettiva.
Le parole di Claire mi tornarono alla mente con una prepotenza incredibile. “Sei la sua nuova droga Kathleen”. Forse lei aveva sempre avuto ragione: il fatto che fosse sparito, che non fosse tornato a casa, era già una prova sufficiente. Non volevo pensare al peggio, ma avevo un brutto presentimento e speravo proprio di non avere ragione.
«Terzo messaggio». Ci furono alcuni secondi di silenzio in cui rimasi ad ascoltare il suo respiro profondo prima che iniziasse a parlare. «So che quello che sto facendo è molto stupido, ma non ho mai imparato a fare altro; so che questo messaggio è patetico e che mi sto comportando da stronzo egoista. In fondo per quanto mi sforzi di cambiare rimango sempre lo stesso: sono merce avariata Katy».
Ci fu un altro secondo di silenzio in cui mi parve che tirasse su col naso. «Ho comprato una bottiglia di vodka». Il mio cuore si fermò sentendo quelle parole, dando luce alle mie peggiori paure. «Sono andato al supermercato, quello aperto tutta la notte. Beh in realtà era già mattina quando sono arrivato là. La commessa mi ha guardato stralunata più per il mio aspetto sconvolto, che per il fatto che non abbia ancora ventun’anni; con molta probabilità aveva troppa paura per azzardarsi a chiedermi i documenti. Comunque ho comprato una bottiglia e ho voglia di bere Katy; non avevo così tanta voglia da mesi, da un anno forse. Sono qui che penso a noi, al fatto che hai detto che è finita, e ho solo voglia di scolarmi tutta la bottiglia per dimenticare. Ho voglio di bere fino a scordarmi di tutto, anche se so che è sbagliato e che questo messaggio è la cosa più egoista che ti abbia fatto fino ad adesso. Katy tu hai visto qualcosa in me, credevi che fossi diverso, tanto che anch’io pensavo di poterlo essere… volevo essere migliore. È ovvio che ci siamo sbagliati: sono tossico e potrò cercare di negarlo con tutto me stesso, ma non cambierò mai». La sua voce si spense mentre in me si accendeva una rabbia inimmaginabile.
Non ero solo delusa o preoccupata, avevo paura, ma più di tutti ero furiosa. Lui stava buttando all’aria tutti i suoi progressi per me ed era la cosa più assurda che potesse fare. Aveva ammesso di essere egoista: beh era un eufemismo. Non solo mi stava costringendo ad incontrarlo, facendo leva sulla sua dipendenza, e non rispettando i miei tempi, ma oltre a questo stava buttando al vento mesi ed anni di vittorie. Stava sminuendo tutto il lavoro che aveva fatto, tutto quello che io, suo padre, Susan e molti altri, avevano visto in lui. Se ce l’avessi avuto a portata di mano l’avrei preso a schiaffi fino a che uno dei due non fosse finito in ospedale per danni aggravati.
«Merda!», imprecai, affrettandomi a chiudere la segreteria e a comporre il suo numero.
«Giuro su Dio Trevor che se lo hai fatto ti ammazzo con le mie stesse mani», inveii mentre sentivo il telefono squillare a vuoto.
«Kathleen che succede?». La voce del signor Simons mi fece sussultare; ero stata così concentrata sulle parole di Trevor che mi ero dimenticata della sua presenza. Probabilmente mi aveva osservata per tutto il tempo e doveva aver compreso dalle mie espressioni quanto la situazione fosse grave.
«Cazzo!», sbuffai riattaccando. «Non risponde!». Avevo l’impulso irrefrenabile di prendere a pugni qualcuno o di lanciare il telefono contro il muro riducendolo in mille pezzi. Peccato che entrambe le opzioni fossero impraticabili.
«Kathleen che succede?», ripeté prendendomi per le spalle e costringendomi a guardarlo negli occhi. Aveva capito ciò che stava accadendo ma voleva che io lo confermassi ad alta voce.
«Ha comprato una bottiglia di vodka», ammisi. «Ha voglia di bere e ha comprato una bottiglia».
«No Trevor, no». Si portò una mano tra i capelli, cercando di digerire quell’opprimente verità.
«Non so se l’ha fatto», continuai, dando vita a quella piccola speranza dentro di me che ancora il peggio non fosse avvenuto.
Lui mi guardò triste, cercando anche lui di aggrapparsi alle mie parole. «Pensi che potremo riuscire a fermarlo?».
«Non lo so», ammisi. «Ma credo di sapere dov’è». C’era un unico posto dove si sarebbe potuto rifugiare, un unico posto con un significato speciale per noi. Non potevo esserne certa, ma avevo la netta sensazione che l’avrei trovato lì. L’unica incognita restava lo stato in cui l’avremmo trovato; era già troppo tardi o c’era ancora una speranza? Qualsiasi fosse la risposta, Trevor avrebbe presto compreso quanto fosse pericolosa la Kathleen arrabbiata. Se pensava di aver già visto tutto, si sbagliava di grosso; quella che avevo scatenato contro di lui la sera prima era solo una piccola parte della furia che mi ribolliva dentro. Sarebbe stato meglio per lui che non fosse già stato troppo tardi, perché avrebbe dovuto ricordare la mia espressione omicida per molto tempo.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19
 
Mentre indicavo la strada al signor Simons continuai a tempestare il telefono di Trevor di chiamate, senza però ricevere nessuna risposta. Dopo le prime due, la voce registrata mi avvisò che il suo cellulare poteva essere spento o non raggiungibile; che l’avesse spento perché non voleva essere rintracciato neanche da me? Forse era davvero troppo tardi e lui era talmente deluso da sé stesso da non volersi far vedere in quelle condizioni da nessuno. Beh se fosse stato così, l’avrei fatto tornare sobrio e poi l’avrei preso a schiaffi fino a farmi male io stessa.
«Alla prossima a destra», indicai con un gesto della mano. «Poi deve proseguire per un chilometro e dopo una curva si ritroverà una strada stretta sempre sulla destra. Deve imboccarla e andare fino in fondo. Spero davvero di non sbagliarmi».
«D’accordo», ribadì con la mascella tesa. Era ovvio che fosse preoccupato quasi più di me; forse la rabbia mascherava un po’ la mia apprensione. Comunque notai che con quello sguardo cupo e teso somigliava al figlio più che mai. Era incredibile quanto fossero simili anche se nessuno dei due l’avrebbe mai ammesso.
«Non può averlo fatto davvero», sussurrai appoggiando la fronte sul palmo della mano.
«Era andato così bene Kathleen, aveva fatto così tanti progressi negli ultimi mesi». Naturalmente anche lui stava cercando con tutte le sue forze di non pensare al peggio e di mantenere invece quel briciolo di speranza che ci era rimasto.
«Claire mi ha detto che sono la sua nuova droga», gli confessai spontaneamente. «Forse ha ragione, non avrebbe fatto una cosa così stupida altrimenti».
«Non credo che lei abbia ragione», affermò convinto dopo un secondo di silenzio. «Lei non l’ha visto nell’ultimo anno, negli ultimi mesi. Tu non sai la differenza che hai fatto nella sua vita; prima era arrabbiato e non solo con me anche con sé stesso; mi parlava a malapena e quando lo faceva era solo per litigare. Poi ha iniziato la scuola e ha conosciuto te ed è successo: lui è cambiato; Trevor magari non se n’è neanche accorto, ma era più tranquillo, più rilassato. Era felice Kathleen e la sua rabbia si è lentamente affievolita, si è in parte dissolta».
«Non credo di essere stata io», ammisi, non sapendo come le sue affermazioni smentissero quella di Claire.
«Invece sì, ma non perché sei la sua nuova droga. Sei il suo ossigeno Kathleen, lui non riusciva più a respirare e tu gli hai dato ossigeno, non sei mai stata qualcosa di nocivo o che crea dipendenza per lui. Deve solo cominciare di nuovo a respirare da solo e questo immagino lo spaventi, anche se non lo ammetterebbe mai». Era un punto di vista interessante e che riusciva a cancellare tutti i dubbi che l’affermazione di Claire aveva insinuato nella mia mente. Era davvero confortante che almeno lui mi tenesse in così alta considerazione.
Non ebbi il tempo di rispondere alcunché perché Fred entrò nello spiazzo dove in bella mostra, da sola in posizione centrale, si trovava la mustang di Trevor. Sentii il nodo allo stomaco allentarsi constatando che avevo ragione, per poi restringersi subito dopo. In che condizioni l’avremo trovato? Volevo scoprirlo ma allo stesso tempo temevo la risposta.
Non appena il signor Simons accostò, scesi di corsa dall’auto e mi avvicinai alla mustang. Nell’abitacolo non c’era nessuno, ma appena fui più vicina riuscii a scorgere Trevor seduto per terra, con la schiena appoggiata alla targa: aveva le ginocchia piegate e la testa bassa posata su queste, si teneva i gomiti con le mani ed era come se fosse raggomitolato su sé stesso.
«Trevor…», sospirai, ma mi bloccai subito dopo notando una bottiglia di vetro abbandonata sull’erba accanto a lui. Era stappata e completamente vuota.
La rabbia esplose in me come una bomba. «Razza di idiota! Come hai potuto farti questo?». Corsi verso di lui e mi inginocchiai al suo fianco, iniziando a colpirlo sulla spalla. Sapevo che i miei pugni non gli avrebbero fatto un granché ma non potevo prenderlo a schiaffi finché avesse continuato a tenere il viso tra le gambe.
«Oh Trevor», mormorò Fred che nel frattempo l’aveva raggiunto dall’altro lato.
«Sei uno stupido egoista! Come puoi aver pensato che ricominciare a bere fosse la soluzione? Secondo te una bottiglia di vodka avrebbe risolto tutto tra noi? Dio! Pensavo fossi più intelligente di così». Lo spintonai per fargli alzare la testa, con l’unico effetto di spostarlo di pochi centimetri.
«Mi dispiace», mormorò.
Quello era veramente troppo. «Ah davvero? Ti dispiace! Forse avresti dovuto dispiacerti prima di scolarti un’intera bottiglia».
«Non ho bevuto», mormorò, ma io non gli prestai ascolto. Ero davvero troppo furiosa per dare retta alle sue scuse.
«Io credevo in te Trevor, potevi essere migliore, invece a quanto pare mi sono sbagliata di nuovo, probabilmente non ne ho mai azzeccata una con te». Avevo accumulato talmente tanti errori di giudizio da bastarmi per una vita intera.
«Non ho bevuto Katy», ripeté questa volta alzando il tono della voce.
«Cosa?». Mi fermai con i pugni a mezz’aria, pronta a colpirlo di nuovo se fosse stato necessario.
Sollevò la testa e mi travolse con uno sguardo più intenso che mai. «Non ho bevuto, te lo giuro… ve lo giuro». Aveva gli occhi rossi e delle occhiaie profonde, ma sembrava lucido, molto più di quanto sarebbe stato dopo un’intera bottiglia di vodka.
«Potete farmi l’alcool test se non mi credete», continuò, «ma non ho bevuto, neanche un sorso. Non l’ho fatto». Vidi il signor Simons sospirare, le sue spalle abbassarsi ed accasciarsi a terra accanto al figlio; sembrava che riprendesse a respirare dopo aver trattenuto il fiato per molto tempo ed in effetti anch’io provavo la stessa sensazione. Il nodo che mi stringeva lo stomaco andò via via allentandosi e sciogliendosi completamente.
«E la bottiglia?», mormorai, sedendomi anch’io per terra, in una posizione sicuramente più comoda e rilassata.
«Volevo bere davvero e stavo per farlo, ma poi ho pensato a quello che avresti detto tu e così invece di… io l’ho versata tutta per terra». Mi guardò con uno sguardo triste e allo stesso tempo riconoscente. «Tu hai sempre creduto in me e io non volevo deluderti anche in questo. Se m fossi ubriacato non avrei fatto altro che confermare quello che tutti pensano di me… tutti tranne te. Non volevo che credessi di esserti sbagliata anche in questo». All’improvviso le parole del signor Simons mi sembrarono più sensate che mai: lui aveva resistito per me, era stato forte ed era diventato un uomo migliore grazie a me. Mi sembrava impossibile che io fossi la responsabile di quel profondo cambiamento; ma stando ai fatti ero davvero il suo ossigeno e non la sua droga.
«Non te l’avrei mai perdonato se avessi ripreso a bere per quello che è successo tra noi», ammisi.
«Lo so», affermò appoggiando di nuovo la fronte sulle ginocchia.
«E comunque non è vero che nessuno tranne Kathleen crede in te, Trevor», intervenne l’altro puntando lo sguardo di fronte a sé. «Io credo in te più di quanto tu possa immaginare». Io lo sapevo doveva solo aspettare che anche suo figlio lo capisse.
«Mi dispiace», sospirò Trevor, «mi dispiace di avervi fatto preoccupare e mi dispiace di essermi comportato in questo modo». Alzò di nuovo la testa per tornare a guardarmi. «Non avrei mai dovuto forzati a venire qui, metterti fretta ricattandoti come ho fatto è stato da stronzo. Dovevo concederti la possibilità di essere arrabbiata e ferita e dovevo aspettare che tu fossi pronta a parlarmi, adesso l’ho capito».
«Già. È stato un gesto egoista e meschino e sono molto arrabbiata anche per questo».
Accennò un mezzo sorriso prima di parlare. «Beh il fatto che tu stia continuando a trattarmi in modo civile è già una piccola vittoria».
«Trevor», lo fermai subito, «il fatto che io sia qui, che sia corsa in tuo soccorso, non cambia quello che è successo tra noi. Io non so chi sei, non mi fido più e quello che ho detto ieri sera è vero; non credo che potrai sistemare le cose, che potremmo sistemare le cose tra noi».
«Ho fatto un casino», ammise appoggiando il mento sulle ginocchia ed osservandosi le scarpe. «Ma davvero non sapevo come dirtelo. Ho avuto paura perché mi sono innamorato di te e quando avrei voluto dirti la verità era già troppo tardi».
«Non è mai troppo tardi, se me ne avessi parlato forse avremo avuto un’opportunità invece così ci hai tagliato le gambe. Hai stroncato qualsiasi possibilità avremo potuto avere».
«Non credo che mi avresti concesso una possibilità», affermò, girando la testa di lato per riuscire a guardarmi. «Però devi sapere che ti ho mentito solo su James, su nient’altro. Era tutto vero per me, i miei sentimenti sono reali, non posso credere che tu possa pensare il contrario».
«Non lo penso», ammisi. «Cioè l’ho pensato ma poi ci ho riflettuto e al momento credo che i tuoi sentimenti siano sinceri, ma mi hai mentito Trevor, mi hai mentito su James. Dio! Potrei passare sopra qualsiasi bugia ma Jamie…».
«È la persona più importante della tua vita». Era vero fino a qualche mese prima. Poi era diventato lui quella persona, almeno fino a che non avevo ricevuto quella coltellata in pieno petto.
«Eri diventato tu la persona più importante della mia vita prima che mandassi tutto a puttane», ammisi.
Trevor sospirò e chiuse gli occhi. «Voglio raccontarti tutto, quando vorrai io ti dirò tutto, non ti nasconderò più niente, te lo prometto».
Non ero affatto pronta, ma sembrava inutile continuare quel tira e molla. Dovevo togliermi quel dente per poter capire e per poter affrontare la situazione conoscendo ogni dettaglio. «Sono qui adesso ed anche se non sono sicura di essere preparata a ciò che stai per dirmi, ti ascolterò».
«Ragazzi forse è meglio se vi lascio da soli», intervenne Fred che era rimasto in silenzio fino a quel momento e di cui mi ero anche dimenticata la presenza. In effetti era un discorso che avrebbe richiesto un po’ di privacy, non ero sicura di volerlo condividere anche con lui.
Tuttavia fu Trevor a dargli una risposta differente. «No rimani, dovresti ascoltare anche tu. In fondo una parte della storia riguarda anche te». Fui sorpresa da quell’affermazione, ma non sapevo proprio più cosa aspettarmi.
«D’accordo». Il signor Simons si accomodò meglio sull’erba per poter osservare il figlio, mentre Trevor si scostò leggermente dal cofano dell’auto e si sedette a gambe incrociate. Si voltò verso di me dando le spalle al padre, visto che quella storia era rivolta principalmente a me.
«Ho conosciuto James», iniziò, «quando vivevo a Boston. In realtà non lo conoscevo bene, ma era amico di Cassie e l’ho incontrato ad un paio di feste di cui ricordo ben poco; entrambi potete immaginarvi il perché. In realtà non era solo un amico di Cassie, lei l’aveva conosciuto al college e lui si era preso una cotta per lei. Non so se James ti ha mai parlato di Cassandra?».
Tentai di ricordare cosa mi avesse raccontato, ma Jamie era sempre stato piuttosto riservato su quel tipo di argomenti, persino con me. «Mi ha detto che c’era una tipa che le piaceva, che era al secondo o terzo anno, ma non mi ha detto di più; voleva essere sicuro prima di raccontarmi tutto».
«Beh fatto sta che l’ho conosciuto proprio grazie a Cassie, lui la seguiva come un cagnolino, persino nei pub più desolati di Boston dove lei veniva a trovarmi. Anche se ti ho detto che ci eravamo allontanati quando lei aveva cominciato l’università, Cassie era preoccupata per me, molto preoccupata e per questo veniva nei quartieri malfamati più spesso del solito a trovarmi e a riportarmi a casa, ubriaco o fatto che fossi. Sapeva che dirmi di smettere non sarebbe servito a nulla e sperava che fosse soltanto una fase, per questo si limitava a vigilarmi cercando di incastrarmi nella sua nuova vita. So che lei non ti piace, che la trovi frivola o superficiale o addirittura una stronza egoista, ma lei era la mia migliore amica, Kathleen, ed è la persona che c’è stata per me più di chiunque altro. Mi dispiace di averti mentito anche su questo».
Dopo quello che mi aveva detto non sapevo più come considerare Cassie; forse non era mai stata una rivale e forse mi ero davvero sbagliata sul suo conto. Certo non era facile capirlo in quel mare di bugie e di omissioni.
«Ma veniamo alla sera della foto», continuò, tirandola fuori dalla tasca e appoggiandola sull’erba di fronte a me. «Era il ventunesimo compleanno di Cassie, lei aveva organizzato questa ridicola festa con i suoi amici del college e mi aveva praticamente costretto a partecipare. Passare una serata con i figli di papà che l’università di Harvard raccoglieva era l’ultima cosa che volevo fare, ma lei non mi aveva lasciato molta scelta; aveva optato per un pub non tanto fighetto, dove almeno avrei potuto sfruttare il mio documento falso o al massimo farmi ordinare da bere da lei. Fatto sta che James era lì, l’avevo già incontrato tre o quattro volte ma non ci eravamo mai parlati granché; più che altro lui si era limitato a studiarmi e a guardarmi con aria di superiorità. Mi dispiace dirti questo, ma pensavo, e a ragione, che fosse un figlio di papà, che fosse abituato ad averle vinte tutte e che il fatto che Cassie lo facesse penare fosse solo una sfida per lui. Io in realtà la conoscevo bene e non si era mai comportata così con un ragazzo, quindi lui doveva piacerle davvero e questo già mi faceva imbestialire. Non volevo vederla soffrire e non credevo che James fosse adatto per lei».
Arricciai le labbra per trattenermi. Io la vedevo in tutt’altra maniera; James sarebbe stato sicuramente all’altezza e non si sarebbe incaponito così solo per il gusto di una sfida. Era ovvio che dovesse aver preso una bella sbandata. Tuttavia Trevor non lo conosceva e se io avevo sbagliato a giudicare Cassandra, lui poteva aver fatto lo stesso con mio fratello.
«Lo so che non sei d’accordo, ma tu conosci James ed io conosco Cassie. Quindi immagino che entrambi ci siamo fatti un’opinione sbagliata. Ma il fatto che io non lo considerassi giusto per lei non c’entra nulla con lo sguardo di fuoco che gli sto lanciando in questa foto. Quella sera, in un momento di apparente calma, mi si avvicinò per parlare a quattr’occhi con me. Mi disse che dovevo stare alla larga da Cassie, che se ci tenevo a lei davvero dovevo lasciarla andare, che si sarebbe fatta male a forza di correre a rimediare i miei casini. Mi minacciò, sembrava che il mio aspetto non lo intimidisse, anzi mi disse che me la sarei dovuta vedere con lui se non l’avessi ascoltato. Mi diede del drogato e mi disse che sebbene io e Cassie avessimo un passato, lei ce l’aveva fatta ad uscire da tutta quella merda e lui non avrebbe permesso a me di ributtarcela».
Fece una pausa per poi riprendere. «Se penso alle sue parole adesso so che aveva ragione, anche se le disse con una boria e una presunzione tale da farmi ribollire il sangue nelle vene. Stavo per prenderlo a pugni, dimostrandogli quanto poco mi facessero paura le sue minacce, ma Cassie ci interruppe per scattare questa maledetta foto. Riuscii solo ad aggredirlo verbalmente, senza potergli spaccare la faccia come avrei voluto».
Ora il suo sguardo mi era più chiaro. Ce l’aveva con James, forse lui era stato scortese e arrogante ma l’aveva fatto per delle nobili ragioni. «Capisco», ammisi sinceramente. «Perché non me l’hai detto subito? L’odiavi ed allora? Non posso pretendere che mio fratello ti piaccia».
«Non è finita», affermò. «Quella sera non riuscii a sfogare la mia rabbia, ma volevo vendetta. Volevo dargli una lezione e non pensavo ad altro. L’alcool e la droga non facevano che peggiorare le cose, fomentavano la mia ira. Lo rividi una settimana dopo, era il tre maggio».
Il mio cuore si fermò sentendo quella data. Era un giorno che non avrei mai potuto dimenticare, ma non capivo come Trevor fosse coinvolto nell’incidente James. In fondo c’ero io con lui, chi lo sapeva meglio di me?
«Era tardi, ero sbronzo e con un paio di strisce di coca in corpo, un mix raccapricciante. Non so bene cosa ci facesse lì, forse era venuto a cercare Cassie, ma quella sera io non l’avevo vista. Comunque rimasi ad osservarlo di nascosto, volendo coglierlo di sorpresa per riempirlo di botte, non che avessi bisogno dell’effetto sorpresa per stenderlo. All’improvviso mentre stava bevendo una birra lo vidi rispondere al telefono e alzarsi di scatto per uscire dal locale non appena ebbe riattaccato». Anche se non ero lì, ero stata parte integrante di quel momento: Trevor non poteva sapere che ero stata io a chiamare Jamie proprio quella sera in quel preciso momento.
«Lo seguii», continuò, «e gli tagliai la strada non appena fu in una via abbastanza deserta. Ci mancava solo che chiamassero la polizia! Non ricordo cosa gli dissi o cosa mi rispose, questa parte è tutta un flash nella mia mente. Credo di averlo pestato a sangue». Beh il suo racconto spiegava l’occhio nero e il labbro gonfio che mi avevano fatto impaurire non appena avevo visto James ma oltre a quello, non c’era molto altro che avesse fatto.
«Trevor lo sai che mio fratello è stato investito da una macchina», ribadii anche se doveva essere ovvio.
«Sì». Tacque un secondo nel quale i suoi occhi azzurri colmi di disperazione si fissarono nei miei. «Credo di averlo spinto io sotto quella macchina».
«Cosa?». Sbattei le palpebre stentando a credere alle mie orecchie, mentre il signor Simons piegava le spalle e si portava una mano al viso.
«Io non lo ricordo con certezza, ero così fatto che… in quel periodo mi capitava di avere solo dei flash… io mi sono svegliato quella mattina e ricordavo solo di averlo preso a botte e poi due fari, un’auto che gli taglia la strada. È tutto confuso Katy, nella mia testa è tutto confuso».
«Tu credi di aver causato l’incidente di mio fratello?», ripetei incredula. L’aveva pensato per tutto quel tempo? Come era stato possibile?
«Sì. Il giorno dopo Cassie venne da me sconvolta dicendomi che James aveva avuto un incidente e allora i flash che avevo sulla sera prima ebbero un senso. Non le dissi niente anche perché era già arrabbiata e turbata dal fatto che la tua famiglia non facesse passare nessuno e non dessero notizie; non potevo neanche andare alla polizia, dato che non ricordavo bene e che ero strafatto. Mi dispiace tanto Katy, non sai quanto». Strinse la testa tra le ginocchia nascondendo il suo sguardo colmo di rimorso e senso di colpa.
«È per questo che sei andato in quella clinica e mi hai fatto rintracciare?», intervenne suo padre, prima che potessi dire qualcosa.
«Sì. Prima ho provato a smettere, non volevo che quella merda mi facesse fare di nuovo una cosa del genere, ma non ci sono riuscito. Così sono andato là e ho dato il tuo nome; il resto più o meno lo sai. Quando ero nella clinica mi sono informato su James ma ho saputo ben poco, solo che non era morto ma che era messo male, mi è stato impossibile avere informazioni certe sull’incidente». Ed io purtroppo sapevo anche perché: l’influenza di mio padre per una volta era servita a proteggere l’unica altra persona coinvolta, cioè me.
«Per questo ti sei avvicinato a me?», domandai anche se avrei dovuto affrettarmi a dissipare i suoi dubbi.
«Quando ero nella clinica ho visto molti psicologi, tutti mi hanno detto che dovevo venire a patti con ciò che mi tormentava. Tuttavia non volevo vedere Cassie, guardarla sapendo cosa avevo fatto… per molto tempo ho cercato di negare tutto. Però quando ho saputo che per pura coincidenza la famiglia di James abitava nella stessa minuscola cittadina dove si era trasferito mio padre, ho pensato che fosse un segno del destino. Ho deciso di venire qua, anche se l’idea di stare con te, Fred, non mi allettava; però non ce l’ho fatta all’inizio a cominciare subito la scuola: avevo paura di guardare in faccia te e Queen, le sue sorelle. Mi chiedevo come avrei potuto guardarvi sapendo ciò che vi avevo portato via. Però restare in quel limbo era insostenibile e così dopo un po’ mi sono deciso. Ho visto Queen e lei se la cavava alla grande, e poi c’eri tu impacciata e timida, dall’esterno sembravi un mezzo disastro; io volevo solo redimermi e ho pensato che magari facendoti credere in te stessa, mi sarei sentito meglio. Ma poi ti ho conosciuta veramente e ho capito che mi ero sbagliato e che non eri assolutamente una ragazzina indifesa e imbranata e mi sono innamorato di te. Capisci che non potevo più dirtelo dopo?». Certo adesso che mi aveva detto la verità era tutto chiaro; non riuscivo ancora a credere che si fosse portato dietro quel peso per quasi tre anni, un peso del tutto inutile visto che si era ritenuto colpevole ingiustamente.
Anche se odiavo rivivere quei momenti, toccava a me a dire la verità, a dissipare tutti i suoi dubbi e le sue paure. «Non sei stato tu», affermai prendendo coraggio, «non hai investito James».
«Sì lo so, è stata quella macchina ma io devo averlo spinto o non so cosa. Ricordo quei maledetti fari ed io che lo colpivo, immagino di essere scappato subito dopo». Come poteva ritenersi responsabile se non ricordava neanche con esattezza ciò che era successo? Questo dimostrava il suo buon cuore e che alla fine non mi ero sbagliata su di lui.
«No Trevor, non sei stato tu a causare l’incidente» ribadii.
Alzò la testa e mi guardò accennando un mezzo sorriso. «Continui a credermi migliore di ciò che sono».
«No, non è per questo». Trassi un profondo respiro prima di sganciare la bomba; non erano in molti a conoscere quella storia, ma era giusto che lui fosse uno di quelli. «Ti sto dicendo che non puoi essere stato tu, perché io ero con lui al momento dell’incidente. Ero lì Trevor e sicuramente tu non c’eri». Lui mi guardò stentando a capire le mie parole con un’espressione allibita ed incredula, la stessa che anche il signor Simons mi stava rivolgendo. Non ebbi la forza di concentrarmi sul loro sbigottimento, la mia mente era già tornata indietro di tre anni, andando a fissarsi ad un ricordo che avevo tentato di chiudere a chiave in un cassetto per non doverlo riaprire mai più.
 
Scesi alla stazione dei pullman di Boston e mi guardai intorno cercando un punto di riferimento. L’ultima volta che ero stata in quella città ero arrivata con l’aereo e sicuramente era stato molto più facile muovermi sotto la guida esperta di James. Dovevo capire come arrivare ad Harvard per riuscire a fare una sorpresa a mio fratello. Il fatto che fosse notte inoltrata e che in quel posto girassero dei tipi con una faccia poco raccomandabile mi fece capire che forse avevo fatto male i miei calcoli; non era stata proprio una grande idea quella di venire a Boston da sola senza dire niente a nessuno solo per riuscire a vederlo. Visto che per le vacanze di primavera era stato così preso dagli esami da decidere di non tornare a casa mi ero detta che sarebbe valsa la pena affrontare quel viaggio.
Se avessi detto alla mia famiglia le mie intenzioni non mi avrebbero mai fatta partire, soprattutto in pullman, e lo stesso avrebbe fatto Jamie. Per fortuna Evan e Lea avevano deciso di reggermi il gioco, anche se dopo ore di minacce e ricatti dove avevo tirato in ballo il significato della vera amicizia.
Tuttavia trovandomi improvvisamente sola in quel luogo alquanto inquietante e con persone piuttosto inquietanti, dovetti ammettere che la mia voglia di riabbracciare mio fratello aveva alterato la mia capacità di giudizio.
Non potevo certo avvicinarmi a quei tipi e chiedere loro dove poter prendere un taxi – la metropolitana era per ovvi motivi di sicurezza impraticabile finché fossi stata sola, soprattutto di notte. Quindi dovevo per forza rinunciare alla mia idea di sorpresa, dato che non avevo calcolato che tra le soste e il resto avrei impiegato quasi un giorno intero di viaggio.
Con un sospiro e cercando di dare nell’occhio il meno possibile, estrassi il cellulare dalla borsa e composi il suo numero. Con mio grande sollievo rispose al terzo squillo.
«Ehi Kitty!». Il brusio in sottofondo mi fece capire che doveva essere in giro, in qualche locale.
«Per fortuna sei sveglio!», sospirai.
«Già e anche tu! Non dovresti essere già a dormire da un pezzo? Domani devi andare a scuola».
«Non penso che potrò andarci». Mi morsi il labbro, non sapendo bene come dirgli di venirmi a prendere. Sapevo che sarebbe stato contento di vedermi, ma si sarebbe arrabbiato per quella segretezza.
«Perché stai male Kitty?». Accennai un mezzo sorriso sentendo la sua preoccupazione.
«No, sono a Boston». Sganciai la bomba allontanando il telefono dall’orecchio: lo conoscevo talmente bene da capire che avrebbe urlato ancor prima che lo facesse.
«Cosa?».
«Sono a Boston», ripetei, «alla stazione dei pullman. E a tal proposito potresti venire a prendermi? Non credo di sapere come arrivare al campus da qui e se devo prendere la metropolitana…»
«Oh mio Dio!», sbraitò dall’altro capo. «Ti è dato di volta il cervello? Dimmi che mamma e papà lo sanno e che sono stati così incoscienti da mandarti qua da sola».
«Lo sai anche tu che non l’avrebbero mai fatto», ammisi in un soffio.
«Porca puttana Kitty!».
«Senti potresti rimandare a dopo la tua invettiva. Non mi piace questo posto, se potessi venire a prendermi o dirmi dove andare sarebbe fantastico».
«Non ti muovere da lì. Dammi l’indirizzo preciso e aspettami. Arrivo il prima possibile». Feci come mi aveva detto e chiusi la telefonata. Mi sedetti su una panchina là vicina e mi strinsi la borsa al petto, sperando che James fosse di parola e arrivasse in fretta.
I minuti mi sembravano scorrere al rallentatore. Nessuno mi si era avvicinato, ma non mi sentivo comunque al sicuro. Avevo il mio libro nello zaino; durante il viaggio ero arrivata quasi alla fine, ma mettermi a leggere in quel posto non mi sembrava una buona idea. Era molto meglio se restavo vigile nell’attesa di veder comparire mio fratello.
Passò un’ora e per quanto James potesse essere lontano mi sembrava un tempo piuttosto lungo per raggiungermi, soprattutto dopo come si era dimostrato preoccupato per la mia incolumità. Con la metro non ci volevano pochi minuti? Iniziai a turbarmi, non più solo per me o per i brutti ceffi che continuavano a girare guardandomi di sfuggita. Ero in ansia per Jamie, perché diavolo ci stava mettendo tanto? Gli era forse capitato qualcosa o ero io che non sapevo calcolare bene le distanze di Boston? In fondo non ero abituata alle metropoli.
Passò un’altra mezz’ora e stavo quasi per richiamarlo, quando vidi spuntare la sua figura dal fondo del corridoio. Avrei riconosciuto i suoi riccioli e la sua camminata ovunque, anche in mezzo a centomila persone.
«Jamie!», esultai scattando in piedi e correndo verso di lui. Lo abbracciai di slancio buttandogli le braccia al collo e lasciando che lui mi sollevasse leggermente. Solo quando mi allontanò da sé, rimettendomi a terra, potei notare la sua faccia. Aveva un occhio nero e gonfio, un taglio sul labbro, il viso sporco di sangue che probabilmente doveva essergli uscito dal naso. Sembrava che qualcuno avesse preso la sua faccia per un sacco da boxe. Per non parlare dei suoi vestiti che erano tutti sgualciti, sporchi e anche con qualche strappo.
«Oh mio Dio!». Mi affrettai ad accarezzargli il volto, sfiorando un taglio che aveva su un sopracciglio, col solo risultato di farlo trasalire. «Cosa ti è successo? È colpa mia? Sono stati quei brutti tizi qua fuori?». La sola idea che potessero essere stati loro mi faceva venir voglia di mettermi a piangere come una bambina di tre anni.
«No, non dire sciocchezze. Non sono stati loro».
«E allora chi? Dobbiamo andare subito al pronto soccorso…». Un singhiozzo interruppe la mia frase, mentre già sentivo le lacrime pungermi per uscire.
«Kitty calmati. Sto bene, d’accordo? È stato solo un cretino a cui ho pestato i piedi, ma se crede che due cazzotti assestati bene riescano a spaventarmi si sbaglia di grosso».
«Non vorrai affrontarlo di nuovo! Devi denunciarlo», urlai attirando fin troppa attenzione su di noi.
«Smettila Kathleen, non ti immischiare in affari che non ti riguardano. Piuttosto andiamocene via di qui, non mi piace questo posto». Mi afferrò per la mano e mi tirò verso l’uscita piuttosto bruscamente.
«Avevi solo la borsa?», mi domandò mentre trotterellavo dietro di lui faticando a tenere il suo passo, le dita sempre imprigionate nella sua stretta ferrea.
«E lo zaino», aggiunsi indicando la mia schiena con un cenno del capo. Non mi ero portata molte cose, sarebbe stato sospetto se avessi preparato una valigia intera solo per quelle che dovevano essere un paio di notti a casa dei miei amici.
James non rispose e continuò a strattonarmi con forza fino a quando non ci fummo allontanati abbastanza dalla stazione dei pullman, inoltrandoci per le strade quasi deserte di Boston.
«Dio non posso credere che tu sia qui», sibilò continuando a camminare velocemente.
«Volevo farti una sorpresa», ammisi rivolgendogli il mio migliore sorriso di cui lui non si accorse neanche. Dalla stretta sulla mia mano compresi che le mie parole non gli avevano fatto piacere come invece avevo sperato.
«Oh una sorpresa, ma non mi dire!». Il sarcasmo nella sua voce era evidente. «Certo è proprio una sorpresa venirti a prendere nel cuore della notte in uno dei posti più malfamati di Boston. Ti rendi conto di quanto è stato stupido da parte tua?».
«Beh forse dovevo avvertire», ammisi.
«Avvertire?». Si fermò di colpo per voltarsi a guardarmi. «Tu non dovevi neanche azzardarti a mettere piede su quel pullman. Dio solo sa come tu sia riuscita ad attraversare l’intero paese, facendo un viaggio di più di venti ore, a soli quindici anni! Ti rendi conto che poteva succederti qualcosa?».
«Io sto bene, non mi è successo niente», mormorai guardandomi la punta delle scarpe. «Sono stata prudente».
«Oh sei stata prudente?». James fece una risata amara che indicava quanto le mie parole suonassero sbagliate alle sue orecchie. «Sei stata solo fortunata di essere arrivata qui da me sana e salva. Ti rendi conto di come avrebbe potuto sentirsi papà se ti fosse successo qualcosa? Di come avrebbe potuto influire su di lui o di come avrei potuto sentirmi io?».
«Mi dispiace», mormorai sentendo le prime lacrime iniziare a rigarmi le guance. «Io volevo solo vederti».
«Beh c’è skype per questo; tu dovevi semplicemente chiamarmi, potevi chiedermelo. Ne avevamo già parlato, non manca molto a giugno, ci saremo visti allora. I mesi estivi servono proprio a questo».
«Non sarebbe stata la stessa cosa. Mi mancavi, non sei tornato a casa per la vacanze di primavera».
«Beh Kathleen indovina un po’? Non tutta la mia vita gira intorno a te. Adesso per favore andiamocene, ti porto al campus e domattina chiamerò subito papà e decideremo insieme come farti tornare a casa». Riprese a strattonarmi verso una strada più illuminata ma le sue parole erano state come una coltellata nello stomaco. Lui non mi voleva lì, nemmeno gli mancavo, non era così che mi ero immaginata il nostro incontro; era proprio agli antipodi dell’idea che mi ero fatta.
Senza rendermene conto mi liberai dalla sua presa e piantai i piedi a terra decisa a non muovere più un passo.
James si voltò e mi fulminò con lo sguardo, nonostante la faccia tumefatta. «E adesso che c’è?».
«Pensavo che ti avrebbe fatto piacere, che ti fossi mancata, che saresti stato felice di avermi per qualche giorno qua con te». D’altronde eravamo stati inseparabili per i primi quattordici anni e mezzo della mia vita, e anche quando era tornato a casa per Natale non ci eravamo separati un secondo; lui mi aveva addirittura fatta dormire nel suo letto. Era stato così sciocco il mio pensiero?
«Oh Kitty certo che mi manchi, sei la mia sorellina. Ma devi capire che ho la mia vita adesso, qui a Boston, con l’università, gli esami, gli amici, una ragazza che mi piace. Se non sono tornato a casa è perché ho avuto da fare: non sono qui a divertirmi Kathleen, non posso perdere un paio di giorni solo perché tu sei così attaccata a me da non riuscire a cavartela da sola. Vedi di crescere una volta per tutte».
Le sue parole furono un pugno nello stomaco, ma avevano messo in chiaro quello che provava. Era ovvio che ciò che sentivo per lui non era assolutamente corrisposto; per me lui era tutto, ma io evidentemente ero solo la sua palla al piede, la mia presenza lì lo infastidiva e basta. «D’accordo non dovrai più preoccuparti per me James». Senza aspettare che mi rispondesse, lo superai e iniziai a camminare verso la strada illuminata senza più voltarmi indietro.
«Kitty aspettami. Dove cazzo stai andando?». Lo sentii corrermi dietro, ma io continuai a marciare spedita verso la via più trafficata; là di sicuro avrei trovato un taxi, avrei dovuto avere abbastanza soldi per pagarmi la corsa fino all’aeroporto.
«Sto crescendo, me l’hai appena detto tu». Ricacciai indietro le lacrime e continuai a trottare con l’unico obiettivo di raggiungere quelle luci, via via sempre più vicine.
«Kathleen, mi sembra invece che tu stia comportando da bambina». Continuava a seguirmi e la sua presenza alle mie spalle era allo stesso tempo fastidiosa e confortante.
«Vattene via James, tornatene al campus, dai tuoi amici o dove ti pare. Non preoccuparti della piccola, stupida, egoista ed immatura Kathleen; prenderò un taxi per andare all’aeroporto e domattina chiamerò papà per farmi prenotare il primo volo disponibile. Non dovrai più vedere la mia faccia, non sarò la tua zavorra qua a Boston, anche se si trattava solo di un paio di giorni».
«Dio Kitty! Ti odio quando fai così, quando ti ostini a non capire».
Mi fermai di scatto e mi girai a guardarlo. Le lacrime sulle mie guance non dovevano darmi un’aria minacciosa ma sperai che le mie parole suonassero tutt’altro che patetiche. «Beh ecco una novità: ti odio anch’io». Senza aspettare che aggiungesse altro, mi voltai e iniziai a correre verso la strada illuminata, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime tanto da appannarmi la vista.
Dopo accadde tutto in un secondo. Sbucai in quella strada di slancio e l’unica cosa che riuscii a distinguere attraverso il velo di lacrime che mi offuscava lo sguardo furono due fari che venivano spediti nella mia direzione. Sentii il cuore fermarsi e d’istinto chiusi gli occhi per prepararmi all’impatto.
«Kitty attenta!». Ero pronta al dolore, all’urto, al metallo, alle fitte lancinanti, ma l’unica cosa che sentii fu una forte spinta proveniente da tutt’altra direzione e che mi fece atterrare con le ginocchia e le mani sull’asfalto duro. Quando riaprii gli occhi osservai il mio corpo e mi meravigliai di essere accasciata a terra con solo qualche piccola sbucciatura. Fu solo quando guardai il punto dove prima mi trovavo che il mio inferno prese forma.
Il corpo di Jamie giaceva inerme a qualche metro da dove ero sbucata, non dando nessun segno di vita. Dell’auto che ci aveva travolto, che in realtà lo aveva travolto, non c’era più traccia, restava solo lui a terra in una posizione innaturale, il suo corpo come privo di vita.
«Jamie!». Mi rialzai e mi avvicinai di corsa a lui; aveva gli occhi aperti e stava rantolando, sotto la sua testa una pozza di sangue si allargava sempre più.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto», singhiozzai, non sapendo cosa fare e sentendomi impotente. Tentai di toccarlo con il solo risultato di imbrattarmi del suo sangue: era ovunque, tranne che dentro il suo corpo. Cercai di incrociare il suo sguardo mentre intorno a noi si iniziavano a radunare i nottambuli che avevano assistito alla scena e che dovevano essersi fermati per chiamare i soccorsi.
«Resta con me James. Non è vero che ti odio, ti prego resta con me». Per mia sfortuna non sarebbe più stato in grado di dirmi con esattezza se avesse compreso o meno le mie parole.
 
Mi asciugai gli occhi, cercando di non essere travolta di nuovo da quel dolore. Trevor e suo padre mi guardarono senza dire una parola e fui davvero grata che restassero in silenzio permettendomi di finire la mia storia con i miei tempi. «Non ricordo quanto tempo impiegò l’ambulanza ad arrivare, né il tragitto all’ospedale, né le ore dopo. Ero sotto shock, continuavo a tremare, a stento riuscii a dare il numero di mio padre. Mi hanno detto che continuavo a singhiozzare e a piangere, non riuscendo quasi a respirare; non ero in grado neanche di formulare una frase di senso compiuto per poter spiegare alla polizia ciò che era avvenuto. Qualche ora dopo arrivarono Queen e i miei genitori: avevano preso il primo aereo, erano stati velocissimi. Mi aspettavo che mio padre fosse furioso, che mi sgridasse o che addirittura non avesse il coraggio di guardarmi in faccia; invece non appena mi vide venne ad abbracciarmi e questo non fece altro che farmi stare peggio. L’unica cosa che riuscivo a pensare era che era stata solo colpa mia».
«Non è stata colpa tua Kathleen», intervenne il signor Simons. «Non potevi prevederlo».
«Sì adesso lo so, ma per molto tempo ho continuato a pensarlo. Se fossi rimasta a casa, se non fossi andata a Boston, se avessi ascoltato James, se non mi fossi comportata da bambina come lui stesso mi aveva definito… ci sono talmente tanti se! Per molto tempo ho dovuto combattere con questi sensi di colpa, alla fine però ho capito che continuare a tormentarmi in quel modo non sarebbe servito a niente. James mi ha salvato la vita e so che l’avrebbe fatto in ogni caso, perché, a prescindere da quello che mi aveva detto, mi amava tanto. Tuttavia mi ci è voluto molto per accettarlo; ero traumatizzata, ho avuto gli incubi per mesi, tanto che Queen ha dovuto dormire con me per un bel po’. Ho dovuto vedere psicologi su psicologi prima di riuscire, diciamo, a riprendermi. Sono stati loro a consigliarmi di scrivere un diario a James, dove ero libera di parlargli di tutto ciò che mi passava per la mente. Visto che scrivere è la mia passione, quale metodo migliore?».
Trassi un profondo respiro e alzai la testa per poter guardare Trevor negli occhi. Mi stava fissando con un’espressione impossibile da descrive: c’era amore, dolore, sorpresa, sollievo, incredulità.
«Questo è tutto», conclusi tirando su col naso. «Quindi tornando a noi, come vedi so per certo che non sei stato tu a causare l’incidente di James: non eri tu che guidavi quella macchina, né quello che lo ha spinto sotto di essa. Non sei stato tu».
«Ma i fari? Io…». Sembrava ancora stentare a credere alla sua innocenza.
«Non so cosa tu possa ricordare, o che brutto scherzo ti abbia giocato la mente o la droga o altro. Ma Trevor, quello che so con certezza è che tu non sei mai stato responsabile dell’incidente di James». Era la pura verità ed ero davvero felice di potergliela dire.
L’effetto delle mie parole su di lui fu del tutto imprevedibile. Lo vidi riprendere fiato, come se non avesse respirato più da quella maledetta sera e poi inaspettatamente scoppiò a piangere. Calde lacrime cominciarono a rigargli le guance, ed era davvero buffo vedere uno come Trevor, un duro con piercing e tatuaggi, piangere in quel modo.
«Non sono stato io», singhiozzò stentando ancora a crederci. «Non sono stato io». Mi ritrovai a sorridere tra le lacrime osservando la sua reazione; aveva passato quasi tre anni a ritenersi colpevole di un’azione orribile, considerandosi cattivo e senza speranza. Era stato lui per primo a non credere in sé stesso e nella sua bontà d’animo; e adesso all’improvviso tutto era cancellato, si scopriva migliore di quanto avesse mai creduto. Potevo solo in parte immaginare l’effetto che le mie parole avevano avuto su di lui.
Lentamente appoggiò la testa sulle ginocchia lasciandosi andare ad un pianto liberatorio.
«Mi dispiace tanto», mormorò con voce attutita. Non sapevo bene per cosa si dispiacesse, se per noi, per James o per tutto quanto; solo dopo capii che non si stava rivolgendo solamente a me. «Mi dispiace tanto papà». Vidi Fred sussultare di sorpresa sentendosi per la prima volta, dopo tanto tempo, chiamato in causa in quel modo.
«Va tutto bene Trevor». Gli passò una mano sulle spalle, facendogli capire che era al suo fianco, qualunque cosa avesse avuto bisogno. E forse quella era davvero la prima volta in cui finalmente lasciava da parte il suo rancore e faceva un primo passo per accettare l’amore che suo padre stava cercando da tempo di offrirgli.
Lasciai che lui si sfogasse ancora un po’, ma alla fine, sentendomi quasi di troppo, mi alzai per sgranchirmi le gambe e allontanarmi da lui prima che i miei sentimenti offuscassero la mia capacità di giudizio. Non ero ancora pronta a perdonare anche se l’amavo da morire e anche se avevo compreso tutte le sue ragioni e le sue paure.
Trevor sentendo il mio movimento alzò la testa. «Grazie Kathleen, grazie».
«Non devi ringraziarmi, è solo la verità». Guariva lui e feriva me, ma non gliel’avrei detto, non in quel momento almeno.
«No invece». Si rimise in piedi e si passò una mano sugli occhi. «Tu forse non te ne rendi conto ma mi hai salvato Katy».
«Non esagerare». Era decisamente troppo, non avevo fatto granché. Anzi se me l’avesse detto subito avrei potuto risparmiargli mesi di sensi di colpa.
«Non esagero. Tu non hai idea di cosa hai appena fatto, di come le tue parole mi abbiano salvato». Invece lo capivo, ma dovevo comunque ricordargli che nonostante il mio aiuto la situazione tra noi era ben più complessa.
«Trevor questo non cambia le cose lo sai? Tra di noi intendo».
«Sì lo so, ho fatto un casino», ammise. «Un vero casino».
«Ho bisogno di tempo, lo capisci? Ho bisogno di tempo per riuscire a fidarmi di nuovo di te».
«Lo capisco e lo accetto. Prenditi tutto il tempo che vuoi; è il minimo che possa darti».
«Okay». Era quello di cui avevo bisogno anche se faceva male.
«Puoi avere tutto il tempo che vuoi, ma sappi che farò di tutto per riuscire a riconquistare la tua fiducia». Ero contenta di saperlo, anche perché volevo davvero tornare ad essere la coppia felice di prima, ma per poterlo fare dovevo riuscire ad elaborare tutte le bugie, le menzogne, le cose non dette. Una volta elaborate e affrontate forse sarei stata in grado di tornare da lui.
«E per adesso», continuò, «puoi prendere la mustang per tornare a casa». Senza aspettare la mia risposta mi lanciò le chiavi che miracolosamente riuscii a prendere al volo. «Io resto ancora un po’ qui con mio padre, passerò più tardi a riprenderla, lascia pure le chiavi nel quadro».
«Grazie», risposi accennando un sorriso. Aveva capito che avevo bisogno di allontanarmi da lui almeno per un po’. Ero venuta in suo soccorso, ma adesso il mio compito era finito e Trevor aveva compreso che non potevo trattenermi oltre lì con lui. In fondo non avevo mai dubitato del fatto che mi conoscesse alla perfezione.
Accennando soltanto un piccolo saluto, salii sulla mustang e il più velocemente possibile ingranai la retromarcia e mi allontanai da quel posto dove erano successe davvero troppe cose. Guidai in preda ad una strana sensazione: mi sentivo svuotata, triste e anche sollevata di aver dissipato tutti i dubbi. In quel giorno c’era stato così tanto James che mi sentivo sopraffare; probabilmente sarei dovuta andare a trovarlo subito dopo, avrei avuto molto da dirgli.
Lui conosceva Trevor, il vecchio Trevor, e lo odiava ma forse quella nuova versione di lui, quello che avevo conosciuto io, gli sarebbe piaciuta. O almeno avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco, perché non sarebbe bastato il suo dissenso per tenermi lontano da lui.
Sospirai ripensando al fatto che ci eravamo appena lasciati; ma in fin dei conti sapevo che mi serviva, che ci serviva. Dovevamo prenderci una pausa per capire ciò che era accaduto e per poter poi ricominciare senza bugie e inganni. Se i suoi sentimenti erano forti come i miei avremo potuto ricominciare; dovevo solo trovare il coraggio per fidarmi di nuovo, per credere a quel meraviglioso ragazzo che mi aveva fatto innamorare perdutamente. Seppure i miei sentimenti fossero più forti che mai, non potevo negare che riprendere da dove ci eravamo interrotti sarebbe stata la scelta più sbagliata che potessimo fare. Quella pausa, seppur dolorosa, ci avrebbe fortificato.
Senza neanche accorgermene arrivai a casa e parcheggiai di fronte al vialetto, sentendomi stranamente leggera e con una nuova strana consapevolezza. Aver affrontato la questione di James con lui mi aveva fatto in qualche modo accettare con più serenità ciò che gli era accaduto; in fondo chi meglio di me poteva capire quanto in colpa si fosse sentito Trevor? Il senso di colpa era stata la cosa peggiore da affrontare. Tuttavia, all’improvviso capivo che recriminare sul passato non aveva senso, avevo un futuro davanti e dovevo pensare a quello. Era tempo che togliessi l’ancora e ricominciassi a vivere la mia vita, concentrandomi su me stessa.
Tuttavia non feci a tempo che a fare pochi passi prima che il passato tornasse di nuovo a bussare alla mia porta. Non appena misi piede sul vialetto, Queen uscì di corsa di casa per venirmi incontro. La sua espressione sarebbe già stata un indizio sufficiente senza considerare gli occhi rossi e qualche lacrima che continuava a rigarle le guance.
«Linny, per fortuna sei tornata», singhiozzò correndo ad abbracciarmi.
«Che succede?», le domandai scostandola leggermente per poterla guardare negli occhi.
Sapevo ciò che stava per dire ancor prima che parlasse. «James».

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20
 
Erano passate esattamente venticinque ore e quarantuno minuti da quando Queen mi aveva dato la notizia della morte di James. Venticinque ore e quarantuno minuti da quando avevo saputo di non avere più un fratello, da quando per me lui era scomparso per sempre. Venticinque ore e quarantuno minuti dove non avevo versato neanche una lacrima e dove mi ero limitata a rimanere seduta con lo sguardo perso nel vuoto. Non riuscivo a piangere, né a fare alcunché, né ad interpretare il tumulto di emozioni che lottavano dentro di me. Era passato più di un giorno in cui io non ero stata capace di fare niente, neanche affrontare quel lutto, che in fin dei conti non era né nuovo né inaspettato. Ero come bloccata, la mia mente era affollata da così troppi pensieri da non riuscire più neanche a distinguerli l’uno dall’altro. Ero entrata in una specie di trance e non sapevo come avrei fatto ad uscirne.
Come mi aveva ripetuto mio padre, James aveva avuto una serie di complicazioni a partire dal mercoledì sera, la sera in cui io ero partita per Boston con Trevor. Mia madre aveva insistito per non dirmi nulla, in modo da farmi godere il viaggio, anche se poi si era concluso in circostanze abbastanza tragiche. Visto come ero rientrata a casa sabato sera, tutti avevano ritenuto che non fosse opportuno aggiungere alle mie ferite ulteriori preoccupazioni, nonostante James stesse sempre peggio. Speravano di riuscire a dirmelo in giornata, in modo da farmi andare a trovarlo prima che accadesse l’inevitabile; tuttavia alla fine il suo cuore non aveva più retto allo sforzo e si era spento dopo quasi tre anni di quella che non poteva di certo essere definita vita.
Nonostante l’evento fosse alquanto probabile e in qualche modo avesse posto fine alle sofferenze di James, mia madre era inconsolabile ed avrei dovuto esserlo anch’io; in fin dei conti noi non ci eravamo mai arrese con lui, avevamo lottato e sperato fino alla fine. Invece io me ne restavo seduta senza dire una parola, senza mangiare, senza rispondere alle domande dei miei amici, senza neanche il coraggio di alzarmi per andare a porgere a mio fratello l’ultimo saluto.
Evan e Lea, che era tornata di corsa in città non appena saputa la notizia, non mi lasciavano da sola neanche un secondo, mentre Queen si alternava tra me e la mamma, cercando di non dare ascolto ad un dolore che doveva essere anche il suo.
«Ha mangiato?», domandò mia sorella, entrando nella mia stanza per una delle sue tante visite. Ormai sia lei che gli altri avevano smesso di rivolgersi direttamente a me e parlavano tra loro come se io non fossi presente o non potessi sentirli.
«No», sospirò Lea. «Non ancora».
«Credo che dovremo chiamarlo», intervenne Evan.
«Non se ne parla». La faccia di Queen si contrasse in una smorfia.
«Penso che Evan abbia ragione, non l’ho mai vista così. Vederlo non potrà farla stare peggio».
«No!». Queen urlò ma poi abbassò la voce come per non farsi sentire. «Tu non c’eri, non hai visto in che condizioni è tornata a casa. Non lo chiameremo».
«È andata da lui Queen», protestò Evan. «Forse è quello di cui ha bisogno».
«Quello di cui ha bisogno in questo momento è di bere, di mangiare qualcosa e di riuscire finalmente a piangere». Si fermò e nel suo tono riuscii a distinguere il groppo che doveva esserle salito in gola. Avrei voluto essere forte come lei, in modo tale da restare lucida e da potere affrontare con calma la situazione. Invece non ero altro che una fonte di ulteriore preoccupazione per tutti quanti; lo sapevo ma non riuscivo a farci niente, era più forte di me.
«Dovrebbe essere inconsolabile», mormorò Lea.
«Beh forse ha già versato troppe lacrime in questo periodo, o per James in generale. Forse ha solo bisogno di tempo per elaborare il tutto, probabilmente voi dovreste soltanto lasciarla in pace e forse nonostante tutto non siamo noi quelli con cui vuole parlare adesso». Evan alzò la voce, ma subito dopo la sua invettiva tornò a sedersi accanto a me.
«Vorrei darle tutto il tempo possibile», concluse Queen, «ma non ne abbiamo molto, dovrebbe muoversi se ci tiene a vederlo per dirgli addio». Così dicendo uscì dalla stanza, mentre Lea tornò ad inginocchiarsi davanti a me.
«Linny hai sentito tua sorella? Non vuoi vedere James?».
Sospirai ma non le risposi; non c’era una risposta facile a quella domanda. Era ovvio che avrei voluto vederlo, ma il solo pensiero di lui chiuso in una bara, del suo corpo inerme come prima solo non più attaccato alle macchine, mi metteva i brividi. C’erano così tante cose che avrei voluto dirgli, tante cose che mi passavano per la testa, eppure non riuscivo a decidermi a reagire. Era tutto così confuso, così caotico e io non riuscivo a muovere un muscolo per uscire da quell’intricato labirinto di pensieri.
«Adesso basta». Evan si alzò di scatto e per un secondo pensai che ce l’avesse con me; forse una strigliata di capo era proprio quello che mi ci voleva, sapevo di stare comportandomi da bambina. Poi però estrasse il cellulare e continuò a parlare. «Non me ne frega un cazzo se Queen non vuole, ha bisogno di lui Lea, a prescindere da ciò che sia successo tra loro, ha bisogno di lui, è ovvio che noi non le siamo d’aiuto in questo momento».
Lea sospirò e mi accarezzò la testa con la mano. «Sono d’accordo, chiamalo Evan». Lo vidi annuire e poi uscire dalla mia stanza senza aggiungere altro. Anche se avevo capito di chi stessero parlando, la mia mente era troppo scossa per concentrarsi anche su quel particolare.
C’era davvero stato troppo James in quei giorni, davvero tanto James, ed io non ero riuscita a vederlo per raccontargli tutto. Non ero neanche riuscita a leggergli quello che avevo scritto sul suo diario del mio viaggio a Boston. Chissà cosa avrebbe pensato sentendomi chiamare Cassie, la ragazza di cui avevo scoperto aveva una cotta, Cass la sgualdrina andra. C’erano talmente tante cose che avevo smascherato da cambiare tutto e che mi avevano fatto aprire gli occhi su una miriade di questioni diverse. C’erano troppe connessioni – James, Trevor, Cassie – troppi nodi venuti al pettine ed io mi scoprivo arrabbiata senza saperne neanche il motivo. All’improvviso mi ero resa conto di aver perso James quel maledetto tre maggio, e me ne ero accorta sull’aero che mi stava riportando a casa soltanto pochi giorni prima. Il mio Jamie non avrebbe mai permesso a nessuno di ingannarmi, lui aveva saputo tutta la verità ed era ovvio che non me l’avesse potuta dire. In maniera del tutto irrazionale mi ero sentita arrabbiata con lui perché era in coma ed aveva contribuito ad ingannarmi insieme alle bugie di Trevor. Era del tutto stupido e insensato, ma per un istante, su quel maledetto aereo, io ero stata arrabbiata anche con lui; e così quando ero scoppiata in lacrime dopo aver lasciato Trevor, stretta tra le braccia di Evan, un po’ avevo pianto anche perché avevo realizzato che il mio amato fratellone non ci sarebbe più stato. Il suo spirito era morto da tempo e adesso lo era anche il suo corpo.
Evan rientrò nella stanza esattamente tre minuti dopo – contare il tempo era l’unica cosa che riusciva a distrarmi dai miei pensieri – e circa otto minuti più tardi sentii del trambusto per le scale e subito dopo la porta della mia camera si spalancò di slancio.
«Ho fatto più in fretta che ho potuto». Trevor si fermò sulla soglia con il fiato corto e l’espressione preoccupata. Dopo avergli lanciato uno sguardo con la coda dell’occhio, tornai a guardare un punto indefinito sulla parete di fronte a me. Non stavo realmente osservando qualcosa, il mio sguardo era semplicemente perso nel vuoto.
«Non parla, non mangia, non si muove. È praticamente così da quando l’ha saputo», gli spiegò Lea. Avrei voluto smentire, ma ahimè era la mia esatta descrizione.
«Non volevamo chiamarti», continuò Evan, «non sapendo cosa sia successo tra voi ieri mattina. So solo ciò che ho visto al vostro ritorno e credimi Trevor non volevo davvero chiamarti, ma credo che, nonostante tutto, abbia bisogno di te adesso».
«Grazie di averlo fatto». Sentii i suoi passi e poi la sua figura si frappose tra me e il muro. Si accucciò davanti a me in modo da inchiodarmi con i suoi occhi azzurri. «Ehi piccola». Mi prese il viso tra le mani e mi accarezzò gli zigomi con i pollici.
«Sono qui adesso». La sua voce era dolce e smosse qualcosa dentro di me, anche se non mi dette nessun conforto immediato.
Mi mise un ricciolo dietro l’orecchio e poi tornò ad accarezzarmi la guancia. «Va bene lo stesso se non vuoi parlare, possiamo restarcene qua in silenzio, okay?». Avrei voluto annuire, ringraziarlo per quella possibilità ma non riuscivo a trovare le parole per farlo. Ero bloccata e odiavo sentirmi così, anche perché quella staticità fisica si contrapponeva nettamente con il subbuglio di emozioni che si agitava dentro di me.
Senza preavviso Trevor mi lasciò un bacio su una guancia per poi appoggiare la fronte alla mia chiudendo gli occhi. Fu quel contatto forse a sciogliere tutti i miei muscoli e a indurre finalmente il mio corpo ad abbandonare quello stato di immobilità. Sentendomi all’improvviso terribilmente stanca, chiusi anch’io gli occhi abbandonandomi ad un profondo sospiro. Le mie mani si mossero da sole, andando ad abbracciarlo e ad allacciarsi dietro il suo collo. Trevor mi avvicinò di più a sé, posizionandosi tra le mie gambe, in una posizione probabilmente molto scomoda. Lentamente appoggiai la testa sulla sua spalla, affondandogli il viso nel collo e inspirando il suo odore. Lasciai che lui mi sollevasse e che mi prendesse in braccio, sedendosi al mio posto sul letto, e che iniziasse a cullarmi stretta tra le sue braccia. Sapevo che era sbagliato approfittare di lui in quel modo dopo tutto ciò che era successo, ma era quello di cui avevo bisogno.
«Lasciamoli soli». Sentii la voce di Lea, ma non notai quando lei ed Evan uscirono dalla stanza.
«Va tutto bene Katy, ci sono qua io adesso». Le dita di Trevor mi pettinarono i capelli, mentre le sue labbra si posarono sul mio capo. Feci un altro profondo respiro abbandonandomi al calore delle sue braccia e in maniera del tutto spontanea lasciai che tutte le mie difese cadessero.
Non mi accorsi neanche di aver iniziato a piangere, mi ritrovai soltanto le guance rigate di lacrime senza nessun preavviso. Non fu un pianto disperato come quello con Evan, dopo aver scoperto delle sue bugie su James; fu un pianto silenzioso, quasi pacato. Le lacrime continuavano a scendere una dietro l’altra, ma non singhiozzavo, lasciavo solo che uscissero e che mi rigassero il viso per poi andare a bagnare la maglia di Trevor. Non era un pianto burrascoso e mi resi conto solo dopo che si trattava di un pianto liberatorio.
Lui rimase in silenzio, stringendomi tra le sue braccia, senza sprecare parole in inutili condoglianze, che per me in quel momento avrebbero significato ben poco. La sua presenza lì valeva già più di mille parole.
«Ti va di mangiare qualcosa?», mi chiese soltanto dopo una diecina di minuti. «Evan mi ha detto che non hai toccato cibo». Scossi la testa per rispondere e mi strinsi di più contro di lui.
«D’accordo», interpretò i miei gesti. «Non vuoi nemmeno bere piccola?». Stavo per scuotere nuovamente la testa quando mi accorsi di avere la gola secca: in effetti se avessi continuato così avrei finito per disidratarmi e non era proprio il caso di far preoccupare ulteriormente la mia famiglia. Come se fino a quel momento fossi stata collaborante e di grande aiuto!
Non sentendomela ancora di parlare, mi limitai ad annuire, sperando che lui comprendesse il cambiamento delle mie intenzioni.
«Vuoi bere?», mi domandò di nuovo, cercando di guardarmi in viso, nonostante lo avessi ancora premuto contro la sua spalla. Annuii una seconda volta e feci per scostarmi da lui, quel tanto che bastava per afferrare il bicchiere che Lea aveva appoggiato sul comodino.
«No, ferma. Faccio io, tu non muoverti». Mi riadagiai sulla sua spalla mente lui si allungava e mi porgeva il bicchiere pieno d’acqua. Lo presi e lo bevvi tutto, un sorso dietro l’altro.
«Ecco fatto». Rimise il bicchiere al suo posto e poi tornò ad abbracciarmi. «Va meglio, non trovi?». Non risposi ma mi limitai a tornarmene nella posizione di prima, lasciando che altre lacrime mi rigassero le guance e inzuppassero la sua maglia.
Fu quando anche le ultime, almeno per quel momento, ebbero finito di cadere che finalmente mi decisi a parlare, rivelando il pensiero che più mi stava tormentando da quando avevo ricevuto la notizia. Era qualcosa che mi angosciava dal giorno dell’incidente, ma fino a quel momento avevo fatto molta attenzione a tenerlo chiuso sottochiave senza permettergli di uscire.
«Gli ho detto che l’odiavo», ammisi in un sussurro, talmente flebile che probabilmente Trevor non sarebbe riuscito a comprendere le mie parole.
«Cosa?». Infatti, era stato impossibile per lui sentirmi, appoggiata com’ero contro il suo corpo
«Gli ho detto che l’odiavo», ripetei più forte. «L’ultime parole che gli ho detto…». Non finii la frase ma ero certa che lui avesse capito.
«Sono sicuro che James sapeva perfettamente che non era vero, conosceva quanto tu gli volessi bene e ha capito che quelle parole le avevi dette solo in un momento di rabbia; non era assolutamente quello che pensavi».
«Forse sì, ma non posso pensare che quelle siano state le ultime parole che lui mi ha sentito dire».
«Non sono le ultime parole che ti ha sentito dire Katy. Lui ti ascoltava, ne sono certo, anche quando non poteva più risponderti». Era quello che avevo sempre sperato, ma non potevo metterci la mano sul fuoco. Nessuno poteva sapere cosa James percepisse dal suo coma, neanche i medici potevano esserne certi.
«Non puoi dirlo con certezza, nessuno lo può sapere. Quindi quelle restano senza dubbio le ultime parole che lui mi ha sicuramente sentito dire».
«No!». Trevor mi staccò da lui in modo da potermi guardare negli occhi. «Io so quali sono le ultime parole che gli hai rivolto. Quando siamo andati a trovarlo il giorno prima di partire per Boston, tu gli hai detto “ci vediamo tra qualche giorno Jamie, fai il bravo. Non vedo l’ora di aggiornarti su tutto. Ti voglio bene e…”».
«Mi mancherai tanto», conclusi per lui ricordandomi anch’io quelle parole.
«Gli hai detto che gli volevi bene Katy e che ti sarebbe mancato, non che l’odiavi, mettitelo bene in testa. Lui ti sentiva, l’hai sempre pensato non smetterla di farlo adesso, non ti serve a niente torturarti in questa maniera. Sei sempre stata così ottimista, così convinta, devi esserlo anche ora, soprattutto in questo momento».
Annuii sentendomi di nuovo le guance rigate di lacrime.
«Ho sempre saputo che sarebbe morto prima o poi», confessai dopo un altro po’ di silenzio. Mi guardai le mani, non riuscendo a reggere l’intensità del suo sguardo. «Mi rifiutavo di ammetterlo, volevo sperare in qualcosa che mi avrebbe fatto sentire meglio, ma una parte di me era consapevole che non si sarebbe più ripreso o che comunque non sarebbe più stato James, il mio Jamie». Trevor non disse nulla, ma si limitò a passarmi le dita nei capelli in un gesto rassicurante.
«Contro ogni logica ho continuato a sperare; mia madre lo ha fatto perché il dolore di perdere il suo bambino era troppo grande da affrontare, io invece perché speravo contro ogni aspettativa che lui si svegliasse e che avessimo la possibilità di fare pace, volevo che mi chiamasse di nuovo la sua Kitty e che fosse contento di vedermi. Volevo che non fosse più arrabbiato, che non mi odiasse soprattutto per quello che era successo a causa mia».
«Kathleen lo sai che tuo fratello ti avrebbe salvato in ogni caso, vero? Non ha avuto dubbi nel farlo e questo perché ti amava tantissimo».
«Sì lo so», ammisi anche se mi ci era voluto del tempo per comprenderlo. «Però non sai quante volte avrei voluto che non l’avesse fatto, non doveva rimetterci la vita lui per una mia imprudenza e un mio stupido e infantile comportamento». Gli psicologi me l’avevano ripetuto fino a incularmelo in testa, ma in quel momento tornava tutto a galla, come se dall’incidente non fossero passati tre anni ma solo tre giorni.
«Katy ascoltami bene». Mi prese il viso tra le mani e mi costrinse ad affondare nei suoi occhi azzurri. «Come credi che si sarebbe sentito James se tu fossi morta o se fossi stata al suo posto, inchiodata in un letto? Come avrebbe potuto convivere con sé stesso sapendo che era successo tutto a causa sua? Era per scappare da lui che stavi correndo senza guardare la strada».
«Avrebbe fatto come me, no?», azzardai. «Sarebbe sopravvissuto senza perdere la speranza».
«No Katy, perché tu sei forte, sei più forte di quello che credi. Non sai come avrebbe reagito o se sarebbe stato coraggioso quanto lo sei stata tu. Puoi sapere soltanto che sarebbe stato un dolore enorme per lui così come lo è stato per te, ma nessuno può sapere cosa avrebbe fatto James se tu fossi stata la vittima». Aveva ragione, ma era difficile accettarlo in quel momento.
Non sapendo come rispondere mi distesi sul letto, stringendo il cuscino tra le braccia. Trevor mi osservò restando seduto accanto a me e, dopo un sospiro, iniziò ad accarezzarmi il fianco con la mano. Era un gesto intimo e allo stesso tempo rassicurante.
«Sai ci sono alcune cose che probabilmente ti hanno già detto tutti», dichiarò interrompendo il silenzio all’improvviso. «Come il fatto che adesso James ha smesso di soffrire, che quella attaccata alle macchine non era più vita per lui, che era solo un continuare a sopravvivere che neanche lui stesso avrebbe voluto; o che adesso Jamie si trova in un posto migliore, che finalmente è in pace. Sono cose che penso e in cui credo, ma so che tu non hai bisogno di sentirtele ripetere anche da me. Per questo ti farò sentire l’unica cosa che sono certo ti darà un po’ di pace». Senza aggiungere altro si alzò dal letto e si diresse verso la porta, nell’evidente gesto di uscire dalla stanza.
«Dove vai?», domandai seguendolo con lo sguardo e sentendo una fitta di dolore al pensiero che mi lasciasse sola. Non stavamo più insieme eppure la sola idea che si allontanasse era come una coltellata in pieno petto.
«Ad usare un numero che non avrei mai pensato di chiamare», rispose enigmatico. «Tranquilla torno subito». Uscì dalla camera ma mantenne la sua parola, perché neanche cinque minuti dopo rientrò, tenendosi il cellulare all’orecchio.
«Ecco, te la passo». Richiuse la porta e si avvicinò a me porgendomi il telefono.
Mi tirai su e lo guardai sia perplessa che accigliata. «Chi è?». Non avevo proprio voglia di parlare con nessuno, era già tanto se ero riuscita a parlare con lui, figuriamoci sostenere una conversazione al telefono!
«Prendilo», mi apostrofò perentorio.
Lo afferrai con titubanza, tirandomi su a sedere e controvoglia me lo portai all’orecchio. «Pronto?».
«Ciao Kathleen». Anche se non era una voce che avevo sentito spesso la riconobbi subito.
«Cassie?». Il fatto che Trevor avesse il suo numero e che l’avesse chiamata proprio in quel frangente mi fece ribollire il sangue nelle vene. Nonostante tutto ciò che avevo scoperto su di lei negli ultimi giorni non ce la facevo proprio a vincere la mia irrazionale gelosia; capivo che era una persona migliore di quanto l’avessi giudicata, ma nella mia testa restava sempre la solita sgualdrina che avevo visto per la prima volta nel locale di Ray.
«Già», concordò ironicamente lei, per poi ricomporsi subito. «Mi dispiace molto per James, Kathleen. Trevor me lo ha detto».
«Perché ti ha chiamata?». Era ovvio che non fosse stata lei a telefonare solo per porgermi le sue condoglianze.
«Perché voleva che ti raccontassi una cosa. A lui ne ho fatto solo un piccolo accenno, l’ultima volta che ci siamo visti, ma se mi concedi una possibilità sarei felice di raccontarti l’intera storia».
«Che storia?». Non capivo a cosa si riferisse e non capivo soprattutto a cosa mi sarebbe servito parlare con Cassandra. Ero in lutto per James e non ero sicura che lei lo conoscesse abbastanza da poter comprendere quel dolore.
«Quando ti ho vista a Boston qualche giorno fa», continuò, «mi sei sembrata subito una faccia conosciuta, poi quando ti sei presentata è stato tutto chiaro. Avevi il suo stesso cognome ed ho ricollegato tutto».
«Stai parlando di James? Non credevo di somigliargli così tanto, vuol dire che sei una brava osservatrice». Non erano in molti quelli che notavano le somiglianze tra noi; c’erano ma non erano così eclatanti.
«Oh no, non ti ho riconosciuta perché eri sua sorella, ma ti ho riconosciuta dalle foto».
«Foto?». Dio! Ce ne erano delle altre? Cominciavo sinceramente ad odiarle.
«Lascia che ti spieghi», iniziò. «Quando ho conosciuto James ho capito subito che era un ragazzo particolare, diverso dalle persone che ero abituata a frequentare. Sai l’università era un mondo tutto nuovo rispetto alla realtà che conoscevo, ma James sembrava ancora più diverso, come se fosse uno dei quei ragazzi che esistono solo nelle favole. Il fatto che io gli piacessi mi fece un po’ destabilizzare all’inizio ed è per questo forse che iniziai a comportarmi in maniera del tutto opposta rispetto a come ero abituata a fare con i ragazzi. Ma probabilmente questo non ti interessa, quindi arrivo subito al punto: quando mi chiese il numero di telefono lo pregai di consegnarmi il suo per poterglielo segnare personalmente ed indovina un po’ chi faceva capolino dal suo schermo? Una ragazzina con dei ricci castani e due grandi occhi nocciola che rideva come una matta per non so che cosa. Ricordo di averlo preso in giro, di avergli detto che non potevo lasciargli il mio numero se aveva sul telefono la foto di un’altra bella ragazza».
Non ricordavo quella foto e non rammentavo neanche quando James l’avesse scattata; non sapevo neppure che mi avesse messo come schermo del telefono.
«Lui scoppiò a ridere e mi disse che era la sua sorellina. Ma quando lo disse, Kathleen, gli si illuminarono gli occhi, come se tu fossi stata la cosa più preziosa che avesse mai avuto. Così gli chiesi di parlarmi di te; mi disse che in realtà aveva due sorelle e mi fece vedere anche altre foto di voi tre insieme. Mi raccontò che tu eri la più piccola, che eri la sua Kitty, un’aspirante scrittrice e che era certo saresti diventata famosa e avresti scritto decine di libri. Mi disse che quando era partito per Boston non sapeva come avrebbe fatto a stare lontano dalle sue sorelle, soprattutto da te; mi confessò che gli mancavi da morire. Kathleen non lo disse apertamente ma era chiaro che ti amava tantissimo. Sai quell’aspetto di lui mi fece letteralmente perdere la testa».
Ascoltai il suo racconto e ritrovai il mio Jamie nelle sue parole. Avevo pensato che ricordarlo sarebbe stato doloroso, invece non lo era più di tanto; certo rammentarlo era ancora triste ma era anche naturale. Sentirlo raccontare così, ascoltare la sua descrizione, scoprire ciò che lui gli aveva rivelato di me, era un dono inaspettato; era stranamente qualcosa che mi faceva sorridere anche in mezzo a tutto quel dolore. Per la prima volta da quando avevo saputo della sua morte riuscivo a sentire che il tumulto di emozioni dentro di me iniziava a placarsi.
«Grazie, grazie davvero». Non avrei mai pensato di pronunciare quelle parole soprattutto a lei.
«Sai quando ho saputo dell’incidente», continuò, «ero sconvolta, soprattutto perché non mi fu possibile vederlo né avvicinarmi, e presto poi fu portato via. Non avere sue notizie… lo so che tra noi non c’era ancora nulla, non ci eravamo neanche propriamente baciati come si deve, però avrei davvero voluto vederlo».
«Mi dispiace», ammisi senza neanche accorgermene. «Ero con lui al momento dell’incidente, io ero sotto shock. Mio padre ha pensato a proteggermi e gli sono davvero grata per questo, mi dispiace che tu non abbia avuto la possibilità di dirgli addio».
«Non importa, in fondo gli ho detto addio molto tempo fa Kathleen. Adesso tocca a te». Aveva ragione e inspiegabilmente le sue parole mi avevano in qualche modo fatto stare meglio.
«Lo so, grazie ancora di avermi parlato di James».
«Non c’è di che e ancora condoglianze». Non avendo più altro da aggiungere riattaccammo contemporaneamente. Una volta chiusa la chiamata mi ritrovai con lo sguardo di Trevor puntato addosso. Doveva avermi osservata per tutta la conversazione, però io non me ne ero neanche accorta. Era rimasto in silenzio a studiare ogni mia espressione e dalla curva delle sue labbra capii che era soddisfatto di come era andata quella telefonata particolare.
«Grazie», ripetei anche a lui, «grazie di cuore». Aveva trovato davvero l’unica cosa che potesse farmi stare meglio. Sapevo che James mi voleva bene ma sentirlo dire da una persona del tutto estranea aveva avuto tutto un altro effetto. Ero certa che Cassie fosse stata sincera, in fin dei conti lei lo era sempre stata fin da quando mi aveva in qualche modo permesso di trovare quella foto compromettente.
«Non ho fatto niente», si sminuì.
«Invece sì». Aveva fatto molto, anche solo con la sua presenza.
«Penso che dovresti scrivere», aggiunse dopo un secondo di silenzio. «Intendo a James. Dovresti scrivergli qualcosa, potrebbe essere un modo per dirgli addio. Hai riempito talmente tanti diari in questi tre anni che forse scrivere un ultimo discorso per lui sarebbe quello che serve ad entrambi». Non avevo pensato a quella possibilità ma in fin dei conti avevo fatto ben poco da quando avevo ricevuto la notizia. Qualcosa in quelle ultime ore però era cambiato e io mi sentivo pronta, o almeno più pronta di prima, ad affrontare quegli eventi.
«Forse hai ragione», concordai.
«Credo che tuo fratello sarebbe felice di sentire per un’ultima volta qualcosa scritto da te. Sono sicuro che ovunque si trovi adesso, sarà lì ad ascoltarti». Non ero certa di credere nell’aldilà però volevo sperare che anche in quel momento James potesse vegliare su di me come aveva fatto in tutta la sua vita.
«Scrivere mi viene naturale, fa parte di me», ammisi.
«Allora fallo, per lui, per il tuo Jamie».
Non ero certa che sarei riuscita a farlo in quel momento, però potevo tentare. «Ci proverò».
«Io ho completa fiducia in te». Avrei voluto rispondere che per me era lo stesso, ma ancora il ricordo degli avvenimenti precedenti era troppo fresco. La fiducia era qualcosa che doveva riconquistare piano piano, e anche se volevo davvero credere in lui ero rimasta troppo scottata per lanciarmi di nuovo a capofitto.
Volendo cambiare argomento e sentendo che era inutile continuare a restare in quella stanza, mi alzai in piedi. «Adesso vorrei andare a vedere mio fratello se non ti dispiace». Ricordavo solo vagamente l’accenno di Queen, ma era ovvio che lei e miei genitori fossero con lui in quel momento.
«D’accordo». Trevor studiò la mia espressione ma non aggiunse altro, aspettando che fossi io a parlare.
Sapevo che era sbagliato ancor prima di formulare la domanda, ma dopo tutto quello che avevo passato potevo permettermi di essere un po’ egoista. «Potresti accompagnarmi?». Lo stavo illudendo, facendogli credere che le cose tra noi si stessero risolvendo, ma non potevo pensare anche a quello. Dovevo concentrarmi su James e lasciare perdere ciò che Trevor avrebbe potuto immaginare.
«Certo Katy, non dovevi neanche chiedermelo». Sarebbe stato al mio fianco fino a che ne avessi avuto bisogno, nonostante ciò non facesse altro che incrementare speranze che non ero certa di poter soddisfare, almeno non subito.
 
Il funerale si svolse il giorno dopo. Sebbene la nostra fosse una piccola cittadina dove tutti conoscevano James mio padre aveva insistito per una cerimonia privata; in fin dei conti per molti Jamie era già morto da tempo. Quello sarebbe stato un momento solo per pochi intimi, tutta la nostra famiglia, alcuni parenti più stretti, Lea ed Evan, gli amici più intimi di Queen e con mia grande sorpresa anche Sean e Trevor. Quest’ultimo mi aveva chiesto la possibilità di partecipare e sapevo che, anche se in parte lo aveva fatto per me, pure lui aveva bisogno di dire addio a mio fratello, di chiudere quella storia e quel tormento che si era portato dietro per quasi tre anni.
Così quella mattina indossai il mio vestito nero più bello e mi sedetti in chiesa vicino a mia madre, vicino a quella bara ormai chiusa dove giaceva il corpo inerme del nostro Jamie. Le passai un braccio intorno alle spalle e le lasciai un bacio sulla guancia mentre lei continuava a tamponarsi gli occhi con un fazzoletto. Non avevamo bisogno di parole, in fin dei conti quel dolore era una delle poche cose che ci aveva sempre unito.
La cerimonia fu breve e semplice e quando fu il momento di ricordare James sorpresi tutti alzandomi in piedi al posto di mia sorella. Solo Queen e Trevor sapevano che avrei parlato, mentre gli altri forse pensavano che non avrei avuto la forza per farlo. Ma chi meglio di me poteva ricordare Jamie?
Avevo scritto un discorso, come mi aveva suggerito Trevor, e quello rappresentava il mio addio. Lo stavo lasciando andare anche se faceva male da morire e sapevo che mi sarei sentita tremendamente sola dopo averlo fatto.
Non ero sicura di riuscire a parlare senza piangere, ma volevo essere forte, volevo essere all’altezza, volevo che James fosse orgoglioso di me ovunque si trovasse. Per questo mi girai verso il pubblico e cercai Trevor seduto nell’ultime file. Il suo sguardo deciso e rassicurante mi diede il coraggio di affrontare quella triste platea e di cominciare a parlare.
«C’è un aneddoto che James amava raccontare sempre», iniziai, sentendo già le lacrime premere per uscire. Presi un profondo respiro e le ricacciai indietro prima di continuare. «Il giorno dopo la mia nascita lui scrisse una lettera a babbo Natale lamentandosi con lui: non solo il suo regalo era arrivato con venti giorni di anticipo ma era un’altra sorellina, quando lui aveva espressamente richiesto un fratellino».  Vidi mia madre abbozzare un sorriso tra le lacrime ricordando quella storia e confortata da quello continuai con più decisione.
«”Non si può cambiare?” seguitava a chiedere a nostro padre, sperando che lui accogliesse la sua richiesta e mi sostituisse con un maschio. Tuttavia fu James stesso ad ammettere che cambiarmi sarebbe stato il più grosso errore della sua vita».
Presi un grosso respiro e fissai mia sorella. «Io e Queen siamo cresciute in un mondo in cui James era la nostra costante, il nostro punto fisso, la nostra persona. Non era solo un fratello maggiore, era il nostro migliore amico, il nostro protettore, il nostro eroe. Per noi non esisteva una realtà in cui lui non fosse presente, non scherzasse, non giocasse o non ridesse con noi. Siamo diventate grandi sapendo di poter fare affidamento su di lui sempre e comunque; certo c’erano dei momenti in cui litigavamo, come tutti i fratelli, ma con James era difficile restare arrabbiati.
Lui era il nostro cavaliere dall’armatura scintillante, un cavaliere senza macchia e senza paura. Così quando è andato all’università e si è trasferito in un altro stato a chilometri di distanza, per noi è stato molto difficile, soprattutto per me. Non riuscivo a rassegnarmi all’idea che lui fosse lontano e che non fosse più il mio eroe personale. Ma James stava crescendo, diventando un uomo meraviglioso, e si stava preparando per essere l’eroe personale di qualche ragazza che sarebbe stata sicuramente molto fortunata. Si stava confrontando con un mondo diverso, con una realtà diversa, e questo lo iniziava a rendere ancora più forte, ancora più speciale». Non sarei mai riuscita a descriverlo a parole, né tantomeno in un discorso di due minuti.
«James era in assoluto la persona migliore che conoscessi». Mi fermai un secondo per asciugarmi le lacrime che nonostante tutto avevano iniziato a rigarmi le guance.
«James era la persona migliore che conoscessi», ripetei. «Era forte, leale ed era in grado di amare profondamente. Non voglio che oggi lo si ricordi come io e la mia famiglia siamo stati abituati a vederlo negli ultimi tre anni; era solo l’ombra di sé stesso. Il nostro Jamie era molto di più: sarebbe stato un uomo migliore di molti altri e chiunque sarebbe stato fortunato a conoscerlo o ad avere la possibilità di diventare suo amico. James era coraggioso, esprimeva le sue opinioni con fermezza e lottava con le unghie e con i denti per ciò che credeva e per chi amava. Avrebbe dato la sua vita per la nostra famiglia e ha dato tutta la sua vita per le persone che amava». Alzai lo sguardo sui miei genitori, sapendo che solo in pochi erano in grado di comprendere fino in fondo la verità delle mie parole.
«Ed è proprio per questo che quando quasi tre anni fa James ha avuto l’incidente per noi è stato come se il mondo ci fosse crollato addosso. Per me è stato come se il mio super fratello, il mio fedele cavaliere, fosse stato sconfitto in battaglia. Vorrei tanto poter dire che il tempo mi ha preparato a questo momento, ma purtroppo non è così perché non ho mai smesso di sperare, di credere che un giorno lui sarebbe tornato da me. Non potevo né riuscivo a lasciarlo andare perché non avevo la minima idea di come fare a vivere senza di lui». Mi fermai un secondo per tirare su con il naso. Era il punto cruciale: ero arrivata al nocciolo della questione.
Mi passai una mano sugli occhi e presi un profondo respiro prima di concludere. «So che queste mie parole forse sembreranno inutili ma non importa, perché adesso l’ho capito James. Sarà difficile e ci mancherai ogni giorno, ma è il momento di lasciarti andare. Spero soltanto di poter in futuro assomigliare anche solo di poco alla bellissima persona che eri tu». Mi mangiai le ultime parole nel tentativo di trattenere un singhiozzo, tuttavia ero riuscita ad esprimere tutto quello che avevo da dire. Non avevo più altro da aggiungere, era la fine, anche se in realtà si trattava soltanto di un nuovo inizio, un inizio senza di lui.
Mentre le mie parole facevano presa su tutti i presenti, tornai a sedermi al mio posto accanto a mia madre, che stava tentando inutilmente di arginare un fiume di lacrime con un fazzoletto.
«Grazie tesoro», mormorò abbracciandomi e piangendo proprio come me.
«È stato un discorso bellissimo», singhiozzò Queen, abbracciandomi dall’altro lato. «Molto meglio di qualsiasi cosa avrei potuto buttare giù io».
«James sarebbe orgoglioso di te Linny», intervenne mio padre, passando una mano sulla schiena della mamma e fissandomi con uno sguardo forte e riconoscente.
«Lo spero davvero», risposi. Ciò di cui invece era certa era che da quel momento avrei fatto di tutto per essere all’altezza del mio fratellone.
 
Fu solo dopo aver sotterrato la bara di James che mi allontanai dalla mia famiglia e andai dai miei amici, per salutarli e ringraziarli prima di risalire in macchina diretta verso casa.
«Sei stata bravissima», mi abbracciò Lea.
«Hai sorpreso tutti con quel tuo discorso, piccola», concordò Evan.
«Non ero certa di riuscire a farcela», ammisi. Probabilmente se Trevor non mi avesse incoraggiata, non avrei mai fatto un gesto del genere. Tuttavia aver scritto quel discorso, aver parlato di fronte a tutti, mi aveva in qualche modo dato pace. L’avevo lasciato andare e me ne stavo iniziando a rendere conto solo in quel momento.
«Beh invece ce l’hai fatta eccome», continuò Evan, «sono quasi cascato dalla panca quando ti ho visto alzare al posto di Queen». Abbozzai un sorriso.
«Di sicuro è un bel cambiamento rispetto all’apatia di ieri». Sapevo benissimo dove Lea volesse andare a parare e sapevo anche che aveva ragione.
«Già, devo ringraziare Trevor per questo». Lo cercai con lo sguardo e lo vidi da solo in fondo al cimitero, appoggiato ad un albero nel suo completo elegante. Si stava fissando le scarpe forse in un tentativo di non guardarmi e di lasciarmi il mio spazio.
«A proposito di questo, vi dispiace se vado a parlargli?». Non volevo lasciare i miei amici ma avevo bisogno di ringraziarlo e di chiarire alcuni punti della nostra intricata situazione. Non era il momento ma sentivo il bisogno di mettere un punto fermo anche tra noi.
«Vai pure», rispose Lea per tutti e due. «Noi ci vediamo dopo». Li baciai entrambi sulla guancia e mi avviai verso di lui, cercando di trovare un po’ di coraggio a ogni passo. Volevo che la situazione fra noi fosse il più semplice possibile, per quanto tutta quella storia potesse essere considerata semplice, senza drammi né rotture tragiche.
«Ehi straniero», richiamai la sua attenzione.
Lui alzò la testa e accennò un piccolo sorriso. «Ciao».
«Cosa ci fai quaggiù tutto solo?».
«Beh non volevo essere invadente, in fin dei conti non so se James mi avrebbe voluto qua».
«Ti avrebbe voluto», affermai. «Sai nonostante ciò che ho detto prima, anche lui sbagliava. Non era infallibile, non ha conosciuto il Trevor che ho conosciuto io, gli saresti piaciuto adesso».
Scosse la testa come se non credesse veramente di poter risultare simpatico a mio fratello. «È stato davvero un bel discorso Katy, non avresti potuto trovare parole più belle per rendergli omaggio».
«È stato grazie a te se sono riuscita a scriverlo e a dirlo di fronte a tutti», affermai.
«No, ce l’avresti fatta comunque». Anche se sapevo che lui avrebbe sempre creduto in me, non ero certa che ci sarei riuscita senza il suo contributo.
«Non ne sono sicura invece. E per questo ti ringrazio Trevor. Grazie per essermi stato vicino in questi giorni, ne avevo bisogno a prescindere da ciò che è successo tra noi».
«Non ti avrei mai lasciata sola», affermò guardandomi negli occhi.
«Lo so». Presi un profondo respiro prima di continuare. «Però questo non cambia la situazione tra di noi. Non voglio che tu creda che ti abbia perdonato o che…».
«Katy, lo so», mi fermò prima che potessi continuare. «Non ti sono stato vicino perché speravo che tu tornassi automaticamente da me, sarebbe assurdo cercare di riavvicinarmi a te quando sei più vulnerabile. Ti sono stato vicino perché non sopportavo l’idea di non esserci, di vederti soffrire, di non far niente per aiutarti. Kathleen ho mandato tutto all’aria tra noi, ma questo non toglie il fatto che tu sei la mia migliore amica; ancor prima di essere la mia ragazza tu sei stata mia amica, e non avrei mai permesso che tu affrontassi tutto questo da sola, o almeno senza di me». Le sue parole erano come un balsamo sulle mie ferite, ma ci sarebbe comunque voluto del tempo per rimarginarle completamente.
«D’accordo».
«So che ho rovinato la nostra storia, però non voglio rovinare la nostra amicizia». Non lo volevo neanche io, ma intuivo la sua prossima domanda e non ero sicura di potergli dare una risposta affermativa.
«Siamo ancora amici vero Katy? Possiamo essere amici per adesso, non ti pare?». Feci un profondo respiro e chiusi gli occhi per un secondo. Quando li riaprii fui travolta dal suo sguardo così azzurro, pieno di speranza e di supplica, da lasciarmi come sempre senza fiato.
«Trevor certo che siamo amici, però ho bisogno un attimo di staccare, di allontanarmi un po’ da te. Voglio tornare davvero ad avere quello che avevamo prima, ma se voglio farlo devo riuscire a stare un po’ senza di te. Non posso pensare a perdonarti se tu sei sempre con me, se mi stai con il fiato sul collo, anche solo dimostrandomi che buon amico sei. Ti ringrazio davvero tanto per ciò che hai fatto ieri ed oggi e non vorrei sembrarti un’ingrata o un’ipocrita… Potrai sempre contare su di me se avrai qualche problema, come io so che potrò fare altrettanto, ma per adesso è meglio se ci andiamo piano. Dammi un po’ di tempo senza di te, prendiamoci questa pausa per riflettere e per migliorare, per il nostro futuro insieme. Perché, credimi, quando avrò capito, quando sarà il momento giusto sarò la prima a tornare da te». Mi si spezzava il cuore ma ne sentivo davvero il bisogno; era una scelta che serviva per entrambi non solo a me.
«Okay», accettò in un sussurro. Il suo sorriso si era spento via via che avevo continuato a parlare.
«Quindi non possiamo essere nemmeno amici per il momento?».
Non era proprio una questione facile. «Saremo sempre amici, diciamo che per il momento siamo amici che si sono presi una pausa».
«Non suona un granché bene».
«Dammi un po’ di tempo Trevor e vedrai che ti farò riavvicinare di nuovo. Fai che sia io a dettare i tempi, per favore».
«D’accordo Kathleen», accettò. «Fa male da morire ma per te farei questo e altro».
«Grazie».
Trevor tornò a guardarsi le scarpe prima di rivolgermi un ultimo tirato sorriso. «Beh sarà bene che io vada adesso. Immagino che ci vedremo a scuola, in fin dei conti abbiamo sempre biologia alla stessa ora».  
Abbozzai un sorriso, anche se il mio umore era decisamente tutto il contrario. «Eh già».
«Già». Mi guardò negli occhi un’ultima volta prima di voltarsi ed allontanarsi. «Ci vediamo Kathleen». Lo osservai andare via, portando con sé una parte del mio cuore; un pezzo l’avevo appena sepolto con James, l’altro restava con lui! Dovevo iniziare davvero a rincollare tutti i frammenti del mio cuore e capivo che quello che avevo fatto quel giorno era solo il primo passo. Mi trovavo di fronte ad un puzzle di mille pezzi, di quelli difficili e complicati, ma sapevo che dovevo farcela da sola senza l’aiuto di nessuno. Soltanto così avrei potuto tornare ad offrire il mio cuore a colui che aveva contribuito in parte a mandarlo in frantumi.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21
 
Erano passati venti giorni dal funerale di James; venti giorni in cui ero stata lontana da Trevor ad eccezione dell’ora di biologia, venti giorni che avevano fatto veramente schifo. Al dolore per la morte di mio fratello si era sommata la mancanza di Trevor che, nonostante tutto, si faceva sentire prepotentemente. Non rimpiangevo la mia scelta di stargli lontano, anzi sapevo che era una decisione saggia ed il fatto che quel distacco mi pesasse significava che c’era ancora qualcosa da salvare. Io tenevo a lui e l’amavo, mi era chiaro, dovevo solo andare per gradi. Non lo tenevo a distanza per punirlo o per ripicca, era per riuscire a trovare la vera me. Dovevo capire prima di tutto chi potessi essere senza mio fratello, da sola nel mondo, e solo dopo avrei potuto stare con lui. Era per me che lo stavo facendo ed era una delle prime decisioni egoistiche della mia vita.
Ovviamente mi dispiaceva di averlo isolato; in fondo i miei amici erano anche i suoi e non volevo assolutamente che Evan o Paul si schierassero da una parte o dall’altra. Per questo molte volte convincevo i ragazzi a pranzare con lui a mensa, mentre io e Lea ce ne andavamo con i nostri vassoi a mangiare sul prato, iniziando a scaldarci al bellissimo tepore primaverile. Sebbene noi due fossimo in pausa, non era giusto che Trevor rinunciasse agli altri suoi amici e sapevo, anche se lui non l’avrebbe ammesso facilmente, che voleva molto bene ad Evan quasi da considerarlo il suo migliore amico. Forse lui era davvero il primo migliore amico maschio che avesse avuto, per quanto Evan potesse rientrare nella categoria.
Per questo nei venti giorni trascorsi lontana da lui cercai di concentrarmi su altro, in modo da capire come poter gestire il mio futuro ora che gli uomini che avevano sempre influenzato le mie scelte non avevano più presa su di me. Era naturale che il problema dell’università restasse e che diventasse giorno dopo giorno sempre più palese. Queen aveva già ricevuto le sue lettere di ammissione, tre belle buste grandi da tre delle più prestigiose università d’America e per me invece non sarebbe arrivato nulla. La metà di aprile era già passata e la scusa di un eventuale ritardo postale suonava sempre più ridicola. Se avessi inviato le mie domande per tempo come ogni studente intelligente dell’ultimo anno, avrei già dovuto avere le mie risposte.
Mio padre non era così stupido e al momento poteva anche fingere di non vedere o capire, ma più passavano i giorni, più sapevo che avrei dovuto parlargli. Non volevo dirglielo affrontando l’argomento direttamente, ma non mi restava molta scelta. Proprio per questo decisi che quel fine settimana ne avrei approfittato per chiudermi nello studio con lui e parlargli approfonditamente della questione. Sapevo che avrebbe urlato, che io avrei pianto, avrei implorato il suo perdono e speravo che poi mi avrebbe dato una mano o almeno un consiglio per gestire tutto quel pasticcio. In fin dei conti, anche se credevo di essere maturata molto nell’ultimo periodo, ero sempre la solita ragazzina che aveva ancora bisogno dell’aiuto dei genitori.
Per questo quel venerdì mattina mi alzai con la consapevolezza che presto avrei svelato la verità alla mia famiglia, dando loro una delusione e un ulteriore motivo di preoccupazione. Mi dispiaceva ma me l’ero cercata ed era il momento di dire la verità. Non avevo altra scelta.
Immaginate invece la mia sorpresa quando quella mattina, scendendo per colazione, trovai tutta la mia famiglia riunita intorno al tavolo in mia attesa. Ora che Queen aveva terminato gli allenamenti con le cheerleader, le nostre levatacce all’alba erano finite e quindi eravamo abituate a fare colazione con nostro padre; lui che leggeva il giornale rivolgendoci al massimo un “buongiorno” di cortesia era ormai diventata una routine. Tuttavia il fatto che mia madre fosse già in piedi nella sua vestaglia firmata era un evento da considerarsi del tutto straordinario. Mancava solo mio nonno a completare quel quadretto famigliare.
Ed immaginatevi ancora di più la mia sorpresa quando vedendomi iniziarono ad applaudire senza nessun motivo valido. Dovetti sbattere le palpebre un paio di volte per rendermi conto realmente della scena che avevo davanti. Se non fossi risultata ridicola mi sarei data un pizzicotto per assicurarmi di essere sveglia; con molta probabilità stavo ancora dormendo e quello era uno dei miei strani sogni. Tutto regolare allora.
«Che succede?», domandai perplessa, osservandoli con gli occhi spalancati.
«Sono fiero di te Linny», dichiarò mio padre, invece di rispondermi. Mi guardò con uno sguardo così orgoglioso da mettermi quasi in soggezione. Non c’era nessun motivo valido per guardarmi in quel modo, soprattutto a quell’ora di mattina. Beh di sicuro dopo quel fine settimana avrei potuto scordarmi quello sguardo per almeno un decennio.
«Io non capisco», ammisi scuotendo la testa e guardandoli come se fossero impazziti tutti quanti.
«È passato il postino prima», mi rivelò Queen. La guardai ancora più confusa: se secondo lei quell’affermazione avrebbe dovuto aiutarmi si sbagliava di grosso.
«Continuo a non capire». Queen sbuffò come se fossi particolarmente ottusa o ancora mezza addormentata; ma di certo non ero nell’una nell’altra, erano loro che non si stavano per niente spiegando.
«Sono arrivate Kathleen», esclamò mia madre.
«Le lettere dall’università», concluse mia sorella rivolgendomi un ampio sorriso.
«Eh?». Per un attimo pensai di aver capito male, ma le parole di mia sorella non lasciavano spazio a dubbi. Che si trattasse di uno scherzo? Forse avevano scoperto tutto e volevano vedere come avrei fatto a tirarmi fuori da quel pasticcio. Era forse un modo per farmi confessare? Che Queen avesse sempre saputo e che avesse deciso che la mia farsa era durata fin troppo? Che si stessero semplicemente prendendo gioco di me?
«Certo sono arrivate con un po’ di ritardo rispetto a quelle di tua sorella», continuò mio padre. «Ci sono stati dei problemi postali; ti ho visto molto preoccupata in questi giorni, in parte sono sicuro fosse per questo».
«Io…». Non sapevo bene cosa dire visto che continuavo a non capire. Come diavolo aveva fatto Queen a convincere i nostri genitori a mettere su quella scenetta? Dovevo confessare e pregar loro di smettere con quella pantomima?
«Sono quattro buste, belle grandi Kathleen», proseguì mia madre. «Per questo tuo padre mi ha svegliata non appena l’ha viste».
«Su forza Linny vieni a vedere?», mi incitò Queen. Tuttavia io restai immobile, come pietrificata, con la bocca spalancata e un’espressione a dir poco sconvolta disegnata sul volto.
«Su andiamo». Visto che non mi muovevo mia sorella venne da me e mi tirò verso il tavolo per la mano costringendomi a seguirla.
Là in bella mostra, sul legno lucido, c’erano davvero quattro lettere dallo spessore piuttosto consistente. Erano ancora sigillate e sembravano riportare timbri e intestazioni diverse. Era davvero un lavoro troppo perfetto e accurato solo per indurmi a confessare.
«Su avanti prendile, aprile!», sbottò Queen in evidente attesa. Sembrava davvero emozionata mentre io non ci stavo proprio capendo più nulla.
Tuttavia nonostante la mia confusione feci come mi aveva detto. Ne presi una a caso e lessi ciò che c’era riportato sopra. Il logo della Brown spiccava in bella mostra, insieme all’esatto indirizzo di una delle più prestigiose università del mondo; il mittente era chiaro e autentico, e quando lessi il destinatario stentati a credere ai miei occhi. Quella lettera era indirizzata a me, esattamente a “Kathleen Hannah Jefferson”, non potevano esserci dubbi al riguardo, né tantomeno errori di persona perché tutti gli altri dati – indirizzo, codice postale, città – erano esatti.
Forse avevo davvero sbagliato a non tirarmi quel pizzicotto, forse stavo davvero sognando e presto mi sarei svegliata ritornando alla cruda e dura realtà. Tuttavia perché non assecondare quella meravigliosa utopia? Era il miglior sogno che potessi fare.
Con mano tremante strappai la busta ed estrassi la lettera contenuta al suo interno.
«Leggi ad alta voce», si raccomandò mia madre, esibendo un’inaspettata euforia.
Spianai i fogli e feci come mi aveva ordinato. «Signora Kathleen Hannah Jefferson, con la presente siamo lieti di informarla che è stata ammessa al…». Mi fermai stentando a credere a quelle parole.
«Lo sapevo, lo sapevo», proruppe Queen rivolgendomi il suo sorriso migliore.
«La Brown, è davvero un’ottima università Kathleen», commentò mio padre.
«Su aprine un’altra», mi incoraggiò mia madre.
«D’accordo». Come un automa presi un’altra busta, questa volta proveniente dalla Columbia University. Il logo e l’indirizzo erano diversi, ma il destinatario era lo stesso così come il contenuto della lettera.
«Signora Kathleen Hannah Jefferson, con la presente siamo lieti di informarla che è stata ammessa…». Questa volta non riuscii a finire la frase perché Queen e mia madre emisero un grido di gioia.
«Anch’io sono stata ammessa alla Columbia», proruppe mia sorella, «anche se Princeton resta comunque la mia prima scelta».
«È un sogno», mormorai trovando che quella potesse essere l’unica spiegazione plausibile.
«Certo che non è un sogno Linny», rise Queen, «è tutto vero. Sei molto richiesta a quanto pare; di certo quale università non ti vorrebbe con una media alta e un curriculum scolastico come il tuo?».
«Io non capisco», balbettai sentendo quasi la testa girare.
«Beh non c’è molto da capire», intervenne la mamma. «Su avanti apri questa». Mi passò un’altra lettera, questa volta proveniente da Stanford. Beh per essere un sogno era piuttosto strano perché non avevo mai pensato di frequentare un college come Stanford, in piena California. Nelle mie domande ero certa che avrei optato magari per Princeton, l’università di nostro padre, o forse Harvard anche se non me la sarei sentita di andare allo stesso college di James.
Nonostante tutto scartai anche quella lettera, ritrovando esattamente lo stesso responso. «Ammessa».
«È fantastico», rise mio padre. «Anche se non credevo fossi una ragazza da California. Non la conosco come le altre, ma penso che ci siano ottime facoltà anche là».
«Avanti questa è l’ultima». Mia sorella mi passò la lettera ancora intatta ed io la presi sentendomi stordita.
Le mie dita tremarono riconoscendo il logo stampato sopra. «Yale…».
«Già Yale», concordò lei rivolgendomi un sorriso. Beh se avessi davvero inviato le domande e quello non fosse stato solo un sogno, Yale sarebbe stata la mia prima scelta.
«Avanti Kathleen», mi incoraggiò mia madre con un sorriso. «È grande come le altre, significherà pur qualcosa».
Ricacciai indietro il magone che avevo in gola e strappai la busta con un gesto deciso.
«Ammessa», dichiarai dopo aver letto le prime righe.
Non feci caso alle grida di gioia della mia famiglia perché il mio sguardo e la mia mente erano concentrati su quell’unica parola stampata. “Ammessa”. Era davvero il più bel sogno che potessi fare e l’idea di svegliarmi e di tornare alla realtà mi faceva venire le lacrime agli occhi.
«Sto sognando», ripetei di nuovo sentendo la mia voce tremare.
«No scema. Certo che no, è tutto vero». Queen mi passò una mano tra i capelli e mi guardò con un sorriso convinto e rassicurante.
«Non è possibile», mormorai, guardando prima la lettera che avevo in mano poi il resto della mia famiglia.
«Certo che è possibile Linny». Il sorriso di mio padre sembrava a dir poco incredibile. «Quattro lettere di ammissione, una in più di tua sorella. Sono così fiero di te».
«La nostra Linny è un genio», convenne mia madre.
«Non può essere…», ribadii sentendo gli occhi lucidi.
«Oh andiamo Linny». Queen mi tirò un pizzicotto sulla mano, facendomi scattare e facendo quasi cadere la lettera che ancora stringevo tra le dita. «Lo vedi, sei sveglia? Perché ti sorprendi tanto? Ero sicura che ti avrebbero ammessa ovunque avessi fatto domanda».
Guardai mia sorella stentando a credere al dolore che avevo provato poco prima: Queen mi aveva fatto male, mi aveva davvero fatto male. Quindi o c’era la concreta possibilità che fossi impazzita del tutto o quella era davvero la realtà. In qualche modo, senza che potessi capire come, quella era la verità ed io ero appena stata ammessa a quattro delle più prestigiose università d’America.
Realizzando finalmente quella realtà, tutte le mie difese crollarono e un fiume di lacrime mi travolse in pieno, facendomi iniziare a singhiozzare come una bambina.
«Ehi che stupida». Queen mi abbracciò lasciando che mi sfogassi sulla sua spalla.
«Non dovresti piangere Linny», intervenne mia madre. «Dovresti fare i salti di gioia».
«Evidentemente era più preoccupata di quanto avessimo pensato», constatò Queen accarezzandomi la testa. Altro che preoccupata, tutto quello era un miracolo. Piangevo perché era così assurdamente impossibile, sembrava un sogno meraviglioso e invece era davvero ciò che stava accadendo.
«Sono vere…», singhiozzai, «sono… sono davvero vere! Sono stata ammessa?». Mi staccai da mia sorella per guardarla negli occhi.
«Sì Kathleen. E indovina un po’? James sarebbe così orgoglioso di te».
Il sorriso che si disegnò sul mio volto, anche se rigato di lacrime valeva più di mille parole. Non capivo come né perché, ma all’improvviso avevo un futuro, un’università – più università a dir la verità – che mi aspettava e delle opzioni tra cui scegliere. Sarebbe dovuto essere sbagliato sentirmi così felice, così immensamente grata e riconoscente a chiunque fosse il responsabile di quel miracolo, ma era esattamente come mi sentivo. Perché era evidente che qualcuno aveva interferito e che quella prorompente felicità non fosse merito mio.
«James sarebbe davvero molto orgoglioso», ribadì papà, «e tutti noi lo siamo».
«Grazie», mormorai voltandomi a guardarlo.
«Sono un po’ offeso dal fatto che tu non abbia fatto domanda a Princeton», scherzò bonariamente, «credevo fosse tra le tue opzioni».
«Credo che Linny l’abbia scartato per non essere influenzata da nessuno all’università», rispose mia sorella prima di me. «Dico bene?».
«Già», mi limitai ad affermare, visto che decisamente quella decisione non era mia. Però in effetti era vero: al collage non sarei stata la “figlia di…” o la “sorella di…”, sarei stata solo Kathleen.
«Posso accettarlo», concordò lui con un sorriso. «Qualunque delle quattro sceglierai, sarà un’ottima scelta».
«Queen, perché non porti tua sorella a fare colazione fuori?», suggerì mia madre. «Così puoi chiamare i tuoi amici Linny e dare loro la bella notizia».
«È un ottima idea», proruppe l’altra. «Su forza vai a darti una sciacquata al viso e a prendere la borsa». Mi trascinò fuori dalla stanza senza neanche aspettare che rispondessi.
Fu solo quando salii sulla Honda al posto del passeggero e lei mi consegnò le mie quattro lettere, che nella fretta mi aveva impedito di prendere, che sentii il bisogno di essere sincera almeno con lei. Dovevo sapere se era in parte merito suo, se lei aveva sempre intuito tutto e si era comportata da perfetta sorella maggiore.
«Queen non sono stata io ad inviare le lettere», dichiarai capendo però quanto le mie parole potessero sembrare assurde.
«Cosa?». Mi guardò non comprendendo ovviamente a cosa mi riferissi.
«Queen io non ho fatto domanda a nessun college», affermai. «Per questo credevo che fosse un sogno, è impossibile che quelle siano le mie lettere di ammissione».
Per un attimo pensò che scherzassi, ma poi probabilmente osservando la serietà della mia espressione si convinse della verità di ciò che stavo dicendo.
«Davvero?». Il suo sguardo si rattristò anche se di poco.
«Sì, io non volevo lasciare qua James; sono stata stupida e quando me ne sono resa conto il termine di consegna delle domande era già scaduto».
«Oh Linny». Potevo sentire nel suo tono la tristezza mista al rimprovero.
«Lo so che ho sbagliato e non sapevo come fare a dirlo a papà». Mi fermai un attimo prima di rivolgerle la domanda di cui già sapevo la risposta. «Quindi non sei stata tu ad inviarle?».
«No Kathleen non sono stata io, ma è evidente che qualcun altro lo ha fatto. Devi davvero ritenerti molto fortunata ad avere qualcuno che tiene a te così tanto». Fortunata mi sembrava un termine anche troppo riduttivo per indicare quel miracoloso cambio di scena. Era ovvio che avevo più di un angelo custode dalla mia parte e sicuramente uno di questi era qualcuno di molto vicino. Sospettavo di sapere chi fosse anche se temevo tutte le implicazioni che ci sarebbero state una volta ottenuta la mia conferma. Quel gesto era così grande e così potente da avere il potere di cambiare tutto.
 
Sfortunatamente non riuscii a vedere Lea ed Evan prima delle lezioni della mattina. Non poterono raggiungermi per colazione e per ciò mi accontentai di interrogarli all’ora di pranzo. Dire che le ore volarono sarebbe stato riduttivo: ero in un mondo ovattato, in una bolla felice in cui non sapevo ancora come avevo fatto ad entrarci. Le lezioni, i professori, tutto il mondo circostante potevano anche andare al diavolo, in fin dei conti ero appena entrata in quattro università fantastiche. Io, Kathleen Jefferson, che fino al giorno prima credevo di dovermi prendere un anno sabbatico o al massimo di poter frequentare l’università statale, adesso dovevo scegliere tra la Brown, la Columbia, Stanford e Yale. Era un miracolo, il mio miracolo personale!
Fu per questo che non appena mi sedetti al tavolo della mensa, di fronte a Lea, Evan e Paul, sbattei davanti a loro le mie quattro lettere senza neanche salutarli.
«Siete stati voi?», domandai sentendo un nodo allo stomaco.
«Ma ciao», rispose Lea, alzando un sopracciglio.
«Cosa sono?», chiese Evan addentando un pezzo di pizza.
«Quattro lettere di ammissione all’università».
«Oh mio Dio Linny! Sono arrivate anche a te? È fantastico», esultò Lea illuminandosi.
«Che università?», domandò Paul sporgendosi per vedere.
«Yale, Stanford, la Columbia e la Brown», risposi in automatico senza prestargli troppa attenzione.
«E sei stata ammessa a tutte quante?».
Mi girai verso di lui fulminandolo con lo sguardo. «Sì». Non era quello l’importante. Era ben altro ciò che volevo capire: volevo sapere a chi di loro dovevo la mia eterna gratitudine. Una parte di me sperava che fossero stati loro per non dover pensare all’altra eventualità. Erano i miei migliori amici e non avrei mai potuto sdebitarmi, ma avrei avuto una vita intera per tentare di ricambiare.
«Sei grande!», proruppe Evan, prima che potessi dire altro.
«Siete stati voi?», ripetei guardando sia lui che Lea negli occhi.
«È meraviglioso Linny, è davvero incredibile», commentò lei con l’evidente intento di cambiare argomento.
«Siete stati voi?», chiesi di nuovo inchiodandoli entrambi  con lo sguardo.
«A fare cosa?», intervenne di nuovo Paul.
Non lo ascoltai e guardai i miei migliori amici con occhi imploranti. «Io non ho mandato nessuna domanda, non ditemi che non lo sapevate o che non lo avevate in qualche modo intuito. Quindi vi prego, ditemi la verità perché è tutto troppo bello per essere vero ed io devo davvero sapere chi ringraziare. Siete stati voi, non è vero?». Avrei davvero voluto credere che la loro risposta potesse essere affermativa, ma una parte di me sapeva già che non lo sarebbe stata.
«Non proprio», rispose Lea con un sorriso.
«L’abbiamo solo aiutato», continuò l’altro.
Mi portai la mano alla bocca ricadendo goffamente sulla sedia. «Oddio». Quella era la conferma all’ipotesi che da quella mattina aveva preso forma nella mia testa.
«Ci ha detto quello che stavi facendo», proseguì Lea, «o meglio ciò che non stavi facendo e ci ha chiesto di dargli una mano. È stata una sua idea Linny, tutto è stata una sua idea. Noi l’abbiamo aiutato solo in delle piccole cose, ha fatto tutto lui».
«Avevamo promesso di non dirti niente», mi rivelò l’altro. «Ci ha fatto promettere di non dirti niente».
«È stato…». Non riuscii a pronunciare il suo nome perché non sapevo come sentirmi a riguardo. Anche Paul era ammutolito ed ebbe il buon senso di restarsene zitto.
«Sì è stato Trevor», concluse Evan per me. Quello che aveva fatto era incredibile, era la cosa in assoluto più assurda, meravigliosa, sorprendente e altruistica che potesse fare. E non riuscivo ancora bene a rendermi conto dell’implicazioni che ciò comportava.
«Lui vuole che tu insegua i tuoi sogni», continuò Lea, «e sapere che li stavi buttando via lo ha fatto arrabbiare, ci ha fatto arrabbiare».
«Lo so e mi dispiace». Non avevo scuse e ne ero consapevole.
«Sei stata molto stupida», proseguì Evan, «una cretina totale e mi sorprende che ti abbiano ammesso non in una ma ben in quattro università così prestigiose».
«Hai ragione», affermai rivolgendogli un dolce sorriso.
«Beh in fin dei conti non è stata lei a compilare le domande», ci fece notare Lea, «quindi tecnicamente non è proprio lei che hanno ammesso».
Le feci una linguaccia ma subito dopo le strinsi la mano che aveva appoggiato sul tavolo.
«Comunque», proseguì. «Trevor sapeva che non avrebbe potuto farti cambiare idea in tempo, per questo ne ha parlato con me ed Evan. Linny so che vi siete lasciati e che in questo momento state provando a stare lontani, ma se vuoi ringraziare qualcuno quel qualcuno non siamo noi. È solo per lui se hai quelle lettere tra le mani».
Annuii chiudendo gli occhi e facendo un profondo respiro: ecco appena svelato il nocciolo della questione.
 
Dato che il mio futuro universitario era salvo, presi la sensata e repentina decisione di saltare le lezioni del pomeriggio per riflettere con calma. Da quella mattina erano cambiate molte cose, erano successi così tanti capovolgimenti che mi girava la testa. Da essere senza futuro ero passata ad averne quattro diversi; dal sentirmi disperata ero arrivata ad essere al settimo cielo, da figlia reietta ero diventata l’orgoglio di famiglia. E avrei voluto attribuirmi il merito di tutto quanto, ma la verità era che dovevo tutto a Trevor. Aver compilato quelle domande, anche contro la mia stessa volontà, in un momento in cui ero così ottusa da non vedere i miei errori, era un gesto talmente importante da farmi riconsiderare tutto quanto. Era una prova d’amore così grande da non riuscire neanche a capacitarmene.
Io lo amavo da morire, ancor prima di quella mattina avevo capito quanto grande fosse il mio amore. Ma adesso a quello si era sommata la gratitudine e il pensiero di tenerlo ancora lontano mi sembrava assurdo. Avevo detto che volevo del tempo per imparare di nuovo a fidarmi di lui, ma non appena avevo scoperto ciò che aveva fatto avevo capito che non ce n’era bisogno.
Non era solo la gratitudine ad accecarmi. In fin dei conti dopo aver sentito la verità, dopo aver ascoltato la sua storia ed aver raccontato la mia, avevo capito le motivazioni che l’avevano spinto; mi ero resa conto che probabilmente a parti invertite avrei preso le sue stesse decisioni. Gli avevo chiesto del tempo perché era successo tutto così in fretta – Boston, Cassie, la morte di James – ed io dovevo abituarmi. Non ero perché gli ero grata che tornavo da lui, ma sapere ciò che aveva fatto mi aveva aiutato a capire che non aveva senso restargli lontano. Potevo fidarmi di lui e con lui potevo scoprire il mio futuro, il nostro futuro.
Fu per questo che nel tardo pomeriggio, dopo aver riportato mia sorella a casa, presi le chiavi della Honda e mi diressi verso casa sua. Era quasi il tramonto quando accostai la macchina davanti al suo portone; il sole era accecante e fui costretta a scendere parandomi gli occhi con una mano.
Mi fermai  di fronte alla porta e presi un profondo respiro, non sapendo bene cosa gli avrei detto o da che parte avrei cominciato.
Stavo per suonare il campanello, quando delle voci e delle risate riecheggiarono dal cortile sul retro, facendosi via via sempre più vicine. All’improvviso Trevor comparve correndo reggendo Linda sotto un braccio e facendo degli strani versi con la bocca, mentre l’altra rideva come una matta. Sorrisi vedendolo giocare con sua sorella e sentii il cuore battermi ancora più forte nel petto.
Trevor scorgendomi in piedi davanti a lui si fermò di scatto e mi fissò incredulo. «Kathleen…».
«Katy!», esultò Linda vedendomi e dimenandosi tra le braccia del fratello. Lui la rimise a terra senza distogliere per un istante lo sguardo da me e rimanendo come pietrificato con la bocca spalancata per la sorpresa.
Linda al contrario di lui mi corse incontro per abbracciarmi con la sua solita euforia. «Che bello vederti! Sei venuta a giocare con noi?».
«Beh non proprio», ammisi scompigliandole i capelli. «Volevo parlare con tuo fratello».
«Non importa ci parlerai dopo, ora che sei arrivata Trevor potrà far fare l’astronave anche a te». Sorrisi e guardai Trevor alzando un sopracciglio. Era questo quello che stava facendo, con tutti quegli strani versi?
Lo vidi arrossire leggermente prima di rivolgersi alla bambina. «Ehi peste, perché non vai a vedere a che punto è tua mamma con la cena?».
«Ma…», fece lei per protestare.
«Se mi fai parlare con Katy adesso, domani giocherò con te a qualsiasi cosa tu voglia».
Linda si illuminò e tornò di corsa verso l’entrata sul retro. «Affare fatto».
«Lo sai che potrebbe chiederti di giocare con le bambole?», gli feci notare, ricordando ciò che amavo io all’età di Linda.
«Correrò il rischio, per parlare con te ne vale la pena». Sorrisi della sua risposta e mi avvicinai a lui, che non si era mosso di un millimetro.
«Non ti ho vista oggi a biologia», affermò come per rompere il ghiaccio. Ma io non gli prestai ascolto e  tirai fuori dalla borsa le quattro lettere che mi trascinavo dietro da quella mattina.
«Tieni», affermai porgendogliele e non perdendo tempo. «Volevo mostrarti queste».
«Cosa sono?». La sua espressione da stupita divenne confusa; alzò il sopracciglio con il piercing mentre le studiava e allungava la mano per prenderle.
«Sono quattro lettere di ammissione», dichiarai. «Quattro lettere dell’università, quattro risposte positive».
Lui abbassò prima lo sguardo sulle buste per poi rialzarlo incredulo sul mio viso. «Oh mio Dio! È fantastico, ti hanno presa! Non ci posso credere, è meraviglioso, sono così felice per te!». Dalla sua espressione potevo capire che lo fosse davvero.
«Perché non me l’hai detto Trevor? Perché non mi hai detto quello che avevi fatto?».
«Beh non mi avresti mai permesso di farlo altrimenti», rispose con sincerità.
«Si questo lo so. Ma perché non me l’hai detto neanche dopo?». Perché non aveva vuotato il sacco quando ero scoppiata a piangere sulla sua mustang dandomi della cretina?
«Perché non volevo darti false speranze», ammise. «Non ero sicuro di averle compilate bene, non ero sicuro che ti avrebbero ammessa, che fossero arrivate in tempo. Non sapevo se i saggi che ti avevo rubato potevano andar bene, se quello che avevo scritto su di te potesse essere preso in considerazione».
«Quello che hai scritto su di me?». Sbattei le palpebre cercando di seguire il filo del suo discorso.
«Beh Lea mi ha detto che avere delle lettere di referenze a volte aiuta, soprattutto per le università prestigiose. Di certo non potevamo chiederle noi ai professori al tuo posto, per questo ho scritto qualcosa io».
«Tu hai scritto…?». Stentavo a credere a quelle parole. Lui aveva scritto qualcosa su di me, qualcosa di assolutamente convincente stando ai fatti. Doveva ad ogni costo farmelo leggere!
«Non è niente di speciale Kathleen, solo quello che penso su di te». Si stava sminuendo ed io ero senza parole.
«Io non so che dire, non so come ringraziarti».
«Non devi Katy. Non devi ringraziarmi, tu meriti di andare in quelle università, io ho solo compilato un paio di domande. Queste….». Si fermò giusto il tempo di restituirmi le buste, permettendomi di rinfilarle in borsa, e per guardarmi negli occhi. «Queste sono la prova di quanto tu sia speciale e di che futuro meraviglioso e ricco di opportunità ti aspetta».
Lo guardai non riuscendo a credere a quanto potesse dimostrasi buono e gentile. «Trevor…».
«Volevo solo che avessi tutto, volevo darti tutto». Furono quelle parole o forse l’intensità con cui le disse che mi fecero reagire senza la minima esitazione. In meno di un secondo annullai la poca distanza che c’era tra noi e lo baciai. Portai le braccia intorno al suo collo e mi strinsi contro il suo petto alzandomi sulle punte dei piedi; assaporai il sapore delle sue labbra mentre lui le dischiudeva dopo un attimo di stupore. Era incredibile quanto un gesto così semplice come un bacio mi fosse mancato; eppure non riuscivo a capire come avevo fatto a stare senza i suoi baci, senza le sue mani posate sulla mia schiena, senza il suo piercing al labbro che strusciava dolcemente sulla mia pelle. Era il mio Trevor e mi era mancato da morire.
Dopo un momento lui si staccò, ma io non avevo nessuna intenzione di lasciarlo andare. Mi rituffai sulle sue labbra come se non bevessi da giorni e lui fosse un bicchiere di limpida acqua fresca. Fu quando però lui si staccò di nuovo e le sue mani risalirono su lungo le mie braccia per afferrarmi i polsi che capii che c’era qualcosa che non andava.
«Aspetta Katy». Mi slegò dolcemente dal suo collo e indietreggiò di un passo in modo tale da potermi guardare negli occhi. «Fermati ti prego».
Il suo sguardo era talmente criptico da non farmi intuire che cosa lo trattenesse.
«Non ti sto baciando perché mi sento in debito con te», azzardai credendo che quella fosse l’ipotesi più probabile per quella sua remora. «Non è per via dell’università».
«Lo so Kathleen», affermò e il suo sguardo si fece impercettibilmente più triste.
«Ti amo Trevor, nonostante tutto o forse proprio per tutto quello che è successo: io ti amo». Era la pura e semplice verità.
«Ti amo anch’io Katy ed è per questo che quello che sto per fare rende le cose ancora più difficili».
Lasciai ricadere le braccia lungo i fianchi e lo fissai cercando di non pensare a dove volesse andare a parare con quell’affermazione; tuttavia il suo tono e la sua espressione erano alquanto esplicative.
«Cosa stai facendo Trevor?». La mia voce tremò nel chiederlo perché ciò che leggevo nel suo volto era qualcosa a cui non ero preparata.
«Ci ho pensato molto in questi giorni Kathleen, questi giorni senza di te che sono stati un inferno, ma mi hanno aiutato a capire molte cose. Non credo che dovremo stare insieme Katy, non adesso per lo meno».
«Cosa?». Stentavo a credere alle mie orecchie, ma era ciò che aveva appena detto.
«Lasciami spiegare ti prego e senza interrompermi, perché quello che sto per fare è una delle cose più difficili che abbia fatto nella mia vita e se tu continui a fermarmi e a ribattere, ho paura che non avrò il coraggio di portarla al termine».
«Trevor…», tentai.
«Ti prego, ti chiedo solo questo». Se non fosse stato per il suo tono, il suo sguardo mi avrebbe convinto comunque. Per questo nonostante fosse l’ultima cosa che volessi, incrociai le braccia al petto e aspettai la sua assurda spiegazione.
«Non credo che dovremmo stare insieme», iniziò, «anche se ti può suonare assurdo e anche a me sembra assurdo. Kathleen, tu sei sempre stata considerata da tutti come la piccola Linny, la sorellina di James; tutti ti hanno sempre vista così e alla fine hai finito per considerarti tale anche tu. Poi hai conosciuto me e sei passata da essere la sorellina di James e di Queen, ad essere l’amica, la ragazza di quello nuovo, del teppista. Sei passata da una cosa all’altra e non ti sei mai fermata a pensare a chi tu sia realmente; io lo vedo, Evan e Lea lo vedono, persino tua sorella lo vede, ma non tu. Tu non scorgi le potenzialità che tieni nascoste dentro di te, non sai ancora chi sei o che saresti in grado di essere chiunque tu voglia: sono certo che potresti diventare la più grande scrittrice, così come la più grande scienziata, o potresti andare nello spazio o fare qualsiasi altra cosa. Io sono certo che tu eccellerai in qualsiasi campo finirai per scegliere nel tuo futuro. Io ne sono sicuro ma non tu e ho bisogno che tu lo scopra, che tu lo capisca, che tu apra gli occhi su te stessa. Per questo, se restiamo insieme, ho paura che finirei per tapparti le ali, tu finiresti per ricadere nella tua solita parte ed è vero che forse grazie anche a me hai iniziato a credere più in te stessa, ma la strada che devi fare è ancora tanta. Io ho bisogno che tu vada al college e che faccia le tue esperienze; ti ho detto che volevo che tu avessi tutto, ma quel tutto non posso essere solo io».
Capivo il suo discorso e lo amavo ancora di più per ciò che aveva detto. Era anche per quello che gli avevo chiesto del tempo, per trovare la vera me; tuttavia ripensandoci mi sembrava assurdo che lo scoprire me stessa non potesse coincidere con lo stare insieme a lui. Trevor aveva appena espresso una delle motivazioni che mi ripetevo da venti giorni, eppure non mi sembrava più tanto convincente. La vera Kathleen, quella che dovevo ancora scoprire e trovare, poteva benissimo avere un ragazzo meraviglioso come lui; anzi sarebbe stato un incentivo per rendermi migliore.
Anche se mi aveva chiesto di non interromperlo, non potevo restarmene lì senza dire una parola, senza nemmeno tentare di fermarlo. «Trevor capisco ma…».
«Aspetta non ho finito», mi interruppe con un gesto della mano. Chiuse gli occhi per un secondo per poi tornare a guardarmi. «Devi andare all’università Katy, è per questo che ho spedito quelle domande. Tu devi andare al college e accorgerti di quanto sei speciale. Là non sarai più Linny, sarai solo Kathleen e ci saranno decine di persone che vorranno essere tue amiche, così come ci saranno decine di ragazzi che vorranno uscire con te. Perché credimi chiunque sia dotato di un minimo di cervello vorrà uscire con te e tu devi farlo e devi dare loro una possibilità. E alla fine troverai qualcuno di talmente furbo e intelligente da innamorarsi perdutamente di te e da decidere di non lasciarti più andare via, e anche tu ti innamorerai di lui e sarai felice».
«Io non voglio innamorarmi di nessun altro», protestai sentendo le lacrime agli occhi. «Io voglio solo te».
«Lo so che oggi non capisci e che la pensi così, ma se stiamo insieme ciò che ti porterò via finirà per separarci ed io non voglio che tu finisca per odiarmi Katy. Se restiamo insieme lo farai, magari senza accorgertene, ma mi odierai ed io non lo posso sopportare».
«Non è vero Trevor, apprezzo il gesto, ma non sarà così, te lo prometto».
«Ascoltami Kathleen». Mi afferrò le mani prendendo un altro profondo respiro. «Forse questo riuscirà a convincerti anche se non riuscirai a capirmi comunque. Ne ho bisogno anch’io; sono passato dall’essere un drogato ad uno che tenta di sopravvivere e di disintossicarsi; poi ho conosciuto te e tutta la mia vita ha iniziato a girarti intorno, perché credimi in questo momento tu sei tutto. Ma anche io ho bisogno di capire chi sono; mi sono sentito colpevole per tanto tempo e adesso devo capire chi posso diventare. Devo imparare a cavarmela da solo, a dipendere solo da me stesso ad agire per me e non in base a ciò che tu vorresti, a ciò che farebbe il ragazzo che penso che tu possa amare. Non so se sono riuscito a spiegarmi».
Ci era riuscito eccome, forse avevo capito meglio quella parte di tutto il resto. Dovevamo diventare adulti, scoprire noi stessi e crescere inseguendo i nostri sogni. Tuttavia mentre io pensavo che saremo cresciuti insieme, per Trevor quello non era possibile. Stava buttando via il nostro amore credendo che ci avrebbe distrutto, che ci avrebbe trascinato a terra, mentre in realtà ero certa che sarebbe stato tutto il contrario. Potevamo imparare insieme, essere insieme, stare insieme ed essere felici, perché in quel momento non vedevo altre opzioni per raggiungere la felicità e spazzare via tutto il dolore che mi aveva fatto compagnia nell’ultimo mese.
«Trevor io capisco ciò che vuoi dire», iniziai ma mi fermai subito, intuendo che ciò che avevo appena affermato era una bugia. «No, non è vero io non capisco».
«Kathleen…».
«No, ti prego adesso lascia parlare me», lo fermai con la voce incrinata. «Tu credi che stando insieme finiremo per ostacolarci a vicenda, ma non sarà così. Possiamo crescere insieme, possiamo aiutarci…».
«Kathleen quello che finirò per portarti via sarà molto di più di ciò che potrò darti».
«Non è vero», singhiozzai, non sapendo come riuscire a fargli cambiare idea. Ormai sembrava aver già deciso, il problema era che non mi aveva neanche consultato. Aveva stabilito tutto lui e a me non restava che accettare la sua idea. Io restavo lì umiliata e rifiutata dopo avergli donato di nuovo il mio cuore.
«Non voglio ferirti, non vorrei mai farti stare male». Tentò di accarezzarmi il braccio ma io mi scostai non appena le sue dita sfiorarono la mia pelle.
«Ma è quello che stai facendo», ribattei. «Mi stai spezzando il cuore, di nuovo».
«Vorrei non doverlo fare, perché credimi sto spezzando anche il mio». Alzai lo sguardo e potei scorgere il dolore anche sul suo volto, ma non aveva importanza perché era lui che se l’era autoimposto.
«Dici che lo stai facendo perché mi ami, ma il tuo non è amore ma masochismo. Perché diavolo non vuoi essere felice? Noi possiamo farcela, non ci stai dando nemmeno una possibilità».
«Kathleen guardami negli occhi e dimmi la verità: se io fossi il tuo ragazzo, se noi stessimo insieme… dimmi che non influenzerei le tue scelte al college, dimmi che prenderesti le tue decisioni a prescindere da me».
«Beh è ovvio che le prenderei tenendo in considerazione anche te…».
«Appunto Kathleen», mi fermò prima che potessi continuare. «Sei la persona più altruista che io abbia mai conosciuto, ma adesso basta. Devi pensare solo a te, mettere te al primo posto, considerare il tuo futuro non in base agli altri. Non devi andare ad una università dell’Ivi League solo perché te lo dice tuo padre o…».
«È per questo che hai compilato la mia domanda per Stanford?», lo interruppi.
«Sì anche per questo. Come non ho mandato la domanda ad Harvard perché sapevo che per te sarebbe stato troppo difficile per via di James, né a Princeton perché quella è stata l’università di tuo padre e probabilmente sarà quella di tua sorella, e so che non vuoi nessuna forma di nepotismo».  Mi conosceva quasi meglio di me stessa e l’idea che volesse mandare tutto a monte mi faceva arrabbiare e mi feriva ancora di più.
«Comunque Katy non è questo l’importante», continuò. «Devi scegliere per te, devi essere libera di farlo, il nostro rapporto non farebbe altro che legarti, io non farei che frenare i tuoi sogni e le tue potenzialità».
«Perché tu non vedi quello che sei realmente!», ribattei esasperata. «Dici che io non vedo le mie potenzialità, che non sono oggettiva nel giudicarmi ma tu fai lo stesso. Non sei più un drogato, non sei un cattivo ragazzo: sei buono, gentile e altruista, sei dolce e attento e non te ne accorgi neanche; ti sminuisci ogni volta, considerandoti peggiore di ciò che sei e non vedi quanto vali».
«Ed è proprio questo il punto Katy. Dobbiamo scoprire chi siamo prima di stare insieme, credere in noi stessi e non perché altre persone credono in noi. Non ti sto dicendo addio per sempre Kathleen, ma non ti posso neanche chiedere di aspettare perché non sarebbe giusto. Tu devi fare le tue esperienze e io devo fare le mie, senza legami, senza nessun fantasma del passato. E se scoprirai che colui desideri non sono io dovrai sentirti libera di seguire il tuo cuore».
Scossi la testa ma non parlai. Come potevo spiegargli che non avrei mai cambiato idea?
Lui sembrò leggermi nel pensiero. «Cresciamo Katy, i gusti cambiano, i desideri cambiano. Potrai voler fare una scelta diversa e a me andrà bene per quanto mi si possa spezzare il cuore adesso».
«Hai già deciso tutto», mormorai con voce rotta. «Hai scelto per me anche se io sono contraria».
«Adesso mi vedi come il cattivo, come lo stronzo, lo capisco. Ma un giorno mi ringrazierai Katy, so che lo farai. Un giorno capirai la mia scelta, anche se ti ci vorrà del tempo».
«Beh di sicuro oggi non capisco», ribattei. «Hai ragione per me non stai facendomi un favore, sei di nuovo lo stronzo che mi sta spezzando il cuore. Avevi detto che avresti fatto di tutto per riconquistare la mia fiducia, per tornare insieme e adesso, che ti sto offrendo tutta me stessa su un piatto d’argento, mi getti via; mi rifiuti campando in aria delle scuse assurde sul nostro futuro. Non mi stai buttando via per qualcosa di concreto, ma per ciò che pensi accadrà e questo è da pazzi».
«Kathleen mi dispiace tanto».
«Non dispiacerti», replicai ricacciando indietro le lacrime. «Se questo è il tuo passo per diventare un uomo migliore, complimenti. Per adesso ciò che sei riuscito a fare è frantumarmi il cuore in mille pezzi ed io sono stata talmente stupida da permettertelo di farlo per ben due volte». Mi voltai di scatto e mi allontanai da lui risalendo in macchina e lasciandolo lì da solo come aveva deciso e preteso di stare.
Aveva messo in chiaro le sue idee e aveva preteso che io le accettassi. Poteva impormi la sua decisione, ma non l’avrei capita né condivisa. Fino a quella mattina avevo pensato di non avere una possibilità per il college almeno per quell’anno, ma almeno credevo di poter contare su di lui per quanto a distanza lo tenessi; invece quella sera avevo una quadrupla scelta da affrontare ma nessuno con cui condividerla. Potevo guardare al futuro con più tranquillità ma che senso aveva se dovevo affrontarlo da sola? Non c’era più James, non c’era più Trevor: ero sola e ciò mi faceva tremare di paura.

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Capitolo 22
*** Epilogo ***


Epilogo
 
10 mesi dopo
 
L’aria gelida di febbraio mi fece rabbrividire sotto il cappotto, dimostrandomi ancora una volta quanto il tempo fosse passato velocemente. Seppure i mesi fossero volati mi sembrava ancora ieri quando solitamente andavo a trovare James all’ospedale subito dopo la scuola; invece era già quasi passato un anno e la mia vita era cambiata radicalmente.
Dopo la rottura con Trevor, arrivare al giorno del diploma era stato un incubo. Nonostante Megan fosse stata così gentile da fare cambio di banco con me per l’ora di biologia – sicuramente imbeccata da mia sorella – in modo da non rendere quell’ora ancora più terribile, vedere Trevor a scuola, anche solo di sfuggita, mi faceva male da morire. Era ovvio che dopo ciò che mi aveva detto fosse necessario un taglio netto tra noi, per cui oltre a mio ragazzo avevo perso anche il mio amico. Restare a guardarlo a distanza il giorno del suo ventunesimo compleanno, ripensando a tutto ciò che avremo potuto fare insieme, era stata una vera tortura. Così come il giorno del diploma: pronunciare il discorso di fine anno – incredibilmente era stata scelta io e non mia sorella – senza poterlo condividerlo con lui, sentirmi così orgogliosa vedendolo sfilare dopo di me con toga e tocco e non poter correre ad abbracciarlo, mi aveva devastato.
Proprio per questo ero partita subito, approfittando dei corsi estivi che Yale organizzava per le matricole. Dopo una breve vacanza zaino in spalla con Lea ed Evan dove ci eravamo goduti gli ultimi momenti di compagnia prima di andare tutti in università e in stati diversi, e dopo un paio di settimane passate a casa con Queen e mia madre, avevo deciso che era giunto il momento di mettere un po’ di distanza tra me e quella che fino ad allora avevo considerato casa mia. Così avevo fatto le valige e mi ero trasferita nel Connecticut prendendo possesso della mia stanza e del campus che mi avrebbe ospitato per i prossimi anni. Era inevitabile però che l’idea che dovessi tutto quello a lui mi perseguitasse anche lì, soprattutto lì.
Tuttavia dopo le prime settimane qualcosa era cambiato, io ero cambiata o semplicemente avevo aperto gli occhi. Avevo conosciuto la mia buffa e strana compagna di stanza Mindy e mi ero completamente immersa in quel nuovo mondo. Mi ero ritrovata ad essere circondata da nuovi amici – anche se con Evan e Lea ci telefonavamo costantemente – ad essere una ragazza che non credevo di poter nemmeno diventare. Non che mi fossi improvvisamente trasformata nella regina della popolarità e delle feste, anche se Mindy mi trascinava con la forza a gran parte di esse. Ero la Kathleen di sempre, ma ero riuscita a crearmi un gruppo di amici, né troppo nerd né troppo fichi, che come me condividevano molti aspetti di quella mia nuova vita. E così senza rendermene conto avevo realizzato il motivo che aveva spinto Trevor a lasciarmi e avevo capito il valore del suo gesto, ritrovandomi di nuovo in debito con lui.
Là al college avevo trovato la vera me e probabilmente non ci sarei riuscita se lui fosse rimasto al mio fianco. Avevo compreso di non essere semplicemente Linny, ma di essere abbastanza intelligente e carina da interessare a molti, spingendoli a fare la mia conoscenza, soprattutto ai ragazzi. Ecco un altro insperato aspetto: avevo scoperto di piacere a molti ragazzi e che forse a scuola le ombre di James e Queen non avevano fatto altro che eclissarmi. Rendermene conto, così come delle mie potenzialità, mi aveva completamente fatto cambiare prospettiva. Mi ero ritrovata ad essere una persona, non del tutto diversa, ma con molta più fiducia e coraggio. Ero cambiata e, anche se una parte di me sarebbe sempre rimasta la piccola e indifesa Linny, ero cresciuta.
Ma nonostante tutti i progressi che avevo fatto negli ultimi mesi, c’era qualcosa che non era cambiato e che sapevo non sarebbe mai cambiato. E proprio perché ero una persona diversa stavo per fare un gesto che la vecchia Kathleen non avrebbe fatto mai e poi mai. Stavo per compiere un’azione che necessitava di tutta la mia autostima e che, se non fosse andata a buon fine, mi avrebbe solo farro soffrire ancora una volta; tuttavia era qualcosa che dovevo fare e che non potevo più rimandare.
Proprio per questo avevo estorto a Evan tutte le informazioni che mi servivano ed avevo approfittato di aver finito gli esami, prima di ricominciare a pieno il nuovo semestre, per tornare a casa un paio di giorni, pur sapendo che avrei perso qualche lezione. Per mia fortuna avevo un sacco di amici che sarebbero stati lieti di condividere i loro appunti con me in modo tale da non rimanere indetro. E proprio per questo avevo guidato per circa un’ora per andare Sioux Falls dove sapevo che l’avrei trovato.
Mi ci era voluto un po’ a convincere Evan a vuotare il sacco, soprattutto visto che gli avevo fatto promettere di non parlarmi più di Trevor nemmeno se l’avessi implorato. Tuttavia alla fine il mio migliore amico aveva capito che gli avevo estorto quella promessa in un momento completamente diverso e in cui la ferita per la recente rottura era ancora aperta ed esposta. E così avevo saputo, dato che Evan aveva costantemente mantenuto i contatti con lui rifiutandosi di perdere un buon amico, che Trevor si era trasferito a Sioux Falls dove lavorava per una grossa officina, con cui riusciva a pagarsi il monolocale in cui abitava e la benzina che consumava per tornare a casa dalla sua amata sorellina almeno una volta alla settimana. Era davvero incredibile come avesse finito per considerare la sua famiglia quella formata dalla persona che aveva odiato per buona parte della sua vita. Era casa sua la casa di suo padre e se glielo avessero predetto un paio di anni prima sarebbe sicuramente scoppiato a ridere.
Sapere che non ero la sola ad aver fatto dei cambiamenti mi aveva dato la forza per affrontare quel viaggio. Se io in dieci mesi ero diventata una persona più forte e coraggiosa, diversa ma pur sempre la stessa, anche lui poteva aver raggiunto i suoi obbiettivi. Io ero maturata e anche lui doveva aver fatto dei progressi, ero certa che fosse così. Tuttavia in quel marasma di cambiamenti ciò che provavo per lui era rimasto immutato. Così per la terza volta mi ritrovavo ad espormi, fragile e vulnerabile, offrendogli la parte più profonda di me.
Là nel parcheggio dell’autofficina, di cui Evan mi aveva fornito l’indirizzo, trassi un profondo respiro prima di prendere coraggio ed entrare la dentro. Era quasi il tramonto – avevo pensato che fosse più opportuno arrivare verso l’ora di chiusura per poter parlare con lui più facilmente – e non c’erano rimaste molte persone. Il personale aveva già fatto festa, ma conoscendo Trevor ero certa di trovarlo là. Era il suo posto ed ero contenta che avesse capito come vivere la sua vita anche senza di me, cavandosela con le sue sole forze, anche se ciò andava un po’ contro al motivo per cui mi trovavo in quella rimessa. Ero là per fargli capire che tra noi non doveva essere per forza tutto o nulla, come aveva dichiarato dieci mesi prima; a quel punto non era più necessario. Lui aveva sempre fatto fatica a distinguere le sfumature, per fortuna potevo farlo io per lui.
«C’è nessuno?», domandai avanzando all’interno dell’officina tra una macchina ferma e l’altra. «Ehilà?».
«Siamo già chiusi». Avrei riconosciuto la sua voce anche dopo anni di lontananza; quei pochi mesi erano una bazzecola in confronto. Il suo tono caldo e il suo accento particolare mi avevano ronzato nelle orecchie ogni giorno.
Non prestando attenzione alla capriola del mio cuore, cercai di capire da che parte fosse venuta la sua voce; in ogni modo solo quando parlò di nuovo, riuscii a scorgere un paio di gambe spuntare da un’auto parcheggiata più distante dalle altre. «Se non si tratta di qualcosa di urgente le consiglio di tornare domattina».
«Beh credo che sia urgente», mormorai avvicinandomi di più a lui.
Lo sentii sospirare e poi vidi le sue gambe piegarsi, dandogli la spinta necessaria per far uscire il carrello su cui era sdraiato. «Okay. Mi dica che cosa è successo?». Si tirò su con agilità e si passò un braccio sulla fronte per asciugarsi il sudore; solamente dopo posò lo sguardo su di me, riuscendo finalmente ad inquadrarmi.
«Kathleen…». Pronunciò il mio nome indugiando come sempre sulla “l” ed io mi sentii già sciogliere; un’espressione di sorpresa gli si dipinse sul volto, non lasciando intendere se fosse contento o meno della mia comparsa.
«Ciao». Alzai la mano in segno di saluto e gli rivolsi il mio migliore sorriso.
Trevor restò lì a studiarmi in silenzio con la bocca aperta per lo stupore e con quegli occhi azzurri che come sempre riuscivano a togliermi il respiro. Anch’io restai in silenzio osservandolo con attenzione e notando tutti quei particolari che facevano intuire quei mesi di lontananza.
«Sei diversa», mormorò all’improvviso rompendo il ghiaccio.
«Beh anche tu». Era diverso ma da una parte in senso positivo, speravo che considerasse anche il mio cambiamento in maniera altrettanto ottimistica.
«Ti sei tagliata i capelli», notò non sapendo cosa dire.
«Beh era giunto il momento di cambiare». Mi portai istintivamente una mano alla spalla dove adesso i miei ricci arrivavano a malapena, con il loro disordinato caschetto.
«E hai gli occhiali».
«Sono solo da riposo in realtà». Non mi mancava molto, ma avevo scoperto che non stavo affatto male con gli occhiali.
«Ti donano», affermò in un sussurro.
«Tu ti sei tolto i piercing», notai con un sorriso. Era rimasto solo quello sul sopracciglio, gli altri erano spariti; per non parlare del fatto che aveva i capelli leggermente più lunghi e un accenno di barba che gli donava da morire.
«Beh era giunto il momento di cambiare», ripeté le mie stesse parole. Prendendo un profondo respiro puntò gli occhi dritti nei miei e pose la domanda che doveva frullargli in testa da quando mi aveva vista. «Che ci fai qui?».
«Volevo parlarti», ammisi. «Evan mi ha detto dove trovarti».
«Oh». La sua espressione era talmente indecifrabile che non riuscivo ad intuire cosa pensasse o provasse.
«È un brutto momento?».
«No, avevo quasi finito. Sono rimasto solo io». Ondeggiò indeciso sui piedi per poi parlare di nuovo. «Aspetta qua un attimo». Così dicendo si affrettò ad andare a chiudere la porta d’ingresso, in modo che nessuno potesse disturbarci e facendo risultare l’officina chiusa anche dall’esterno.
«Ecco fatto». Tornò da me, togliendosi i guanti da lavoro, ma rimase comunque a distanza appoggiandosi all’auto che poco prima stava riparando. «Adesso non dovrebbe entrare più nessuno».
«Okay». Presi un profondo respiro e feci un passo verso di lui. Mi fermai subito dopo pensando che un po’ di distanza fosse opportuna per permettermi di dire tutto il discorso che avevo provato decine di volte nella mia testa.
«Volevo ringraziarti Trevor», iniziai, «per quello che hai fatto l’anno scorso. Avevi ragione e adesso l’ho capito. Ti ringrazio di aver scelto la strada più difficile anche se in quel momento mi ha spezzato il cuore».
«Non si è rotto solo il tuo», ammise in un sussurro.
«Lo so ed è anche per questo che ti sto ringraziando».
«Non ce n’è bisogno Kathleen, era la cosa giusta da fare». Ancora una volta stava sminuendo il suo gesto, ma io non gli avrei permesso di farlo.
«Era la cosa giusta, ma non tutti l’avrebbero fatta Trevor». Lui non replicò ed io ne approfittai per continuare, mentre lui abbassava lo sguardo per osservare la punta delle sue scarpe.
«Il giorno che mi hai lasciata, tu mi hai chiesto di non interromperti, adesso ti chiedo la cortesia di fare lo stesso con me. Lasciami parlare Trevor, ho bisogno di farlo».
«D’accordo».
Chiusi gli occhi per un secondo per poi fissarli di nuovo su di lui, che nel frattempo era tornato a guardarmi. «Quando ci siamo lasciati, quando hai rotto con me, in realtà non capivo. Pensavo che saremo potuti crescere insieme mentre per te questo non era possibile. Vederti a scuola, saperti così vicino ma allo stesso tempo così lontano mi faceva impazzire. Per questo me ne sono andata il prima possibile, approfittando dei corsi che Yale offre alle matricole ogni anno prima dell’inizio del semestre. Sono andata al college, mi sono trasferita a chilometri di distanza ed improvvisamente è cambiato tutto. Non ero più Linny, la piccola e imbranata sorellina di qualcuno, ero solo io ed era la vera me quella che ho dovuto mostrare agli altri. E indovina un po’? Non sono poi così male e, a quanto pare, tu avevi ragione. Per la prima volta nella mia vita mi sono resa conto che c’erano molti interessati a conoscere la vera me, senza preconcetti, senza nessuna pietà. Così mi sono fatta dei nuovi amici, buoni amici, che condividono con me esperienze e passioni. La mia compagna di stanza è una di queste: è completamente diversa da me, ma nonostante questo ci intendiamo alla perfezione. È stata lei a spingermi ancora di più ad uscire dal mio guscio. Ci credi che mi trascina alle feste anche se io continuo ad odiarle?».
Sorrisi ripensando a varie scene che avevamo condiviso e ripresi un attimo fiato. «E poi ci sono i ragazzi, molti ragazzi a dir la verità».
«Kathleen», mi fermò con una smorfia.
«Non interrompermi Trevor». Lo guardai con decisione e lui fu costretto a zittirsi di nuovo. «Dicevo che ci sono i ragazzi, avevi ragione anche su questo. Molti mi hanno chiesto di uscire ed io mi sono così ritrovata al centro di attenzioni che non desideravo né che pensavo di poter avere. Ma volevo dimenticarti Trevor, volevo davvero andare avanti come mi avevi chiesto di fare tu; perciò sono uscita con loro. Molti appuntamenti sono stati un vero strazio: o erano dei cretini colossali o non avevamo assolutamente niente in comune, o qualsiasi altra cosa che ha reso la serata un disastro garantito. Poi però ho conosciuto Charlie».
«Katy», mi fermò di nuovo con un tono sofferente. «Ti prego, non importa…».
«Lasciami parlare», affermai brusca, riuscendo a zittirlo ancora una volta. «Ho conosciuto Charlie e siamo usciti. È davvero un bravo ragazzo, ha un anno in più di me e vuole diventare un medico. Ti ho detto che sto pensando di scegliere anch’io medicina invece di lettere? Sono materie agli antipodi, lo so, ma vorrei davvero riuscire a capire cosa è successo a James negli ultimi anni e magari studiare un modo per… boh forse è solo stupido».
«Non è stupido», ribatté deciso.
«Non lo so, forse, ma non è questo ciò di cui ti stavo parlando. Charlie è molto simile a me, abbiamo gli stessi interessi e ci è venuto naturale essere attratti l’uno dall’altra. Così ci abbiamo provato: io ci ho provato a stare con lui esattamente come stavo con te, lui ci ha provato». Mi fermai perché ero arrivata alla parte più difficile di tutto il mio discorso.
Trevor credendo che avessi finito sbuffò a denti stretti. «Cosa vuoi che ti dica Kathleen? Che sono contento per te? Contento di sapere che hai trovato il ragazzo giusto e che sei andata avanti? D’altronde è questo quello che ti avevo chiesto di fare. Non importava che venissi qua per dirmelo».
«No, non è assolutamente per questo che sono venuta. Ti ho detto che io e Charlie ci abbiamo provato Trevor, per poco più di un mese; ma poi ci siamo accorti che non poteva funzionare, che lui per me era solo un ripiego e così io per lui. Ci piacciamo è vero, ma solo come amici; non c’è mai stato qualcosa di più forte, non c’è mai stato quello che c’era con te. Lui non è te Trevor, non lo sarà mai».
Lo vidi deglutire sentendo le mie parole ed io ne approfittai per andare avanti. «Per quanto mi sforzi Trevor, una parte di me continua sempre a tornare a te. Io potrò anche essere cresciuta e cambiata ma continuo a desiderare le stesse cose, la stessa persona: io voglio te Trevor, non voglio stare con nessun altro».
«Oh Katy», sospirò chiudendo gli occhi per un attimo.
«Non ho finito», ripresi. «Lo so che ho parlato tanto, ma ho ancora delle ultime cose da dire. Come ti dicevo io e Charlie siamo amici adesso, si può dire che sia diventato il mio Evan del college, anche se Evan resta insostituibile. Comunque Charlie non abita nei dormitori, ha un appartamento appena fuori del campus; fatto sta che il suo coinquilino si laureerà a giugno e quindi lascerà la sua stanza. Charlie sta iniziando a cercare un ragazzo con cui condividere l’appartamento, che possa permettersi l’affitto che non è altissimo, ma comunque c’è. Ed è per questo che mi sono informata: lo sapevi che in tutta Yale c’è solo una grossa autofficina? Per quanto possa essere grande, ha un lavoro davvero enorme, dato la quantità di studenti e di auto. Ho fatto delle domande e sembra che siano alla ricerca di un aiuto, magari qualcuno che ha già un po’ di esperienza e non un semplice studente che ha come passatempo la passione per i motori. Non avevo un tuo curriculum ma sarebbero interessati a parlare con te se tu lo volessi. Ed infine ho fatto un’ultima ricerca: Yale tiene vari corsi aperti anche a chi non frequenta il college, certo sono a pagamento e non proprio economici, ma potrebbero essere interessanti. Ce n’è uno che forse potrebbe piacerti, riguarda una specie di ingegneria meccanica semplificata, almeno credo, lo sai che non ci ho mai capito molto di motori. Ho delle brochure in borsa con tutte le informazioni, almeno potrai capire meglio di cosa si tratta».
Trassi un ultimo respiro, realizzando che avevo appena buttato fuori ogni cosa. «E questo è tutto Trevor». Avevo fatto una cosa impensabile, avevo agito sul presupposto che lui volesse ancora me come io volevo lui. Gli stavo proponendo su un piatto d’argento di trasferirsi nel Connecticut per stare con me, come se quei mesi non fossero mai trascorsi, chiedendogli di lasciare tutto ciò che aveva costruito solo per avere me. Era una prova di autostima e di fiducia, ma se quello che c’era stato tra noi era vero sapevo che anche per lui quei sentimenti non si erano affievoliti. Tuttavia non sapevo se avrebbe accettato quella follia, né se fosse ancora libero per accettarla.
«Io non capisco Kathleen», ammise in un sussurro, con un’espressione incredula.
«Dieci mesi fa mi hai chiesto di rinunciare a noi ed io l’ho fatto. Hai scelto tu e mi hai costretto a scegliere me, a mettermi al primo posto. Adesso ti chiedo di scegliere noi, di scegliere me; ora siamo pronti Trevor, ti prego scegli noi». Lo fissai sentendo le guance in fiamme, ma non per la solita timidezza, quella ormai me l’ero lasciata alle spalle, almeno con lui. Il mio cuore stava battendo all’impazzata, intuendo che quello fosse il momento decisivo: qualsiasi cosa avrebbe fatto o detto avrebbe influenzato tutto il mio futuro. Eravamo ad un bivio: poteva essere il giorno più bello della mia vita o un altro giorno infernale. Qualunque fosse stata la sua decisione, l’avrei affrontata; avevo già avuto il cuore spezzato, sapere che lui rinunciava a noi era pur sempre meglio di non averci nemmeno provato.
Quegli istanti che trascorsero prima che lui si muovesse sembrarono durare un’eternità; ma dopo lui fece un passo in avanti e con due grandi falcate annullò la distanza tra noi per poi baciarmi appassionatamente. Le sue labbra trovarono le mie in un secondo e mi baciarono come non facevano da mesi. Mi imprigionò il viso tra le mani ed io istinto portai le dita tra i suoi capelli, lasciando andare la borsa che avevo tenuto stretta fino a quel momento; cadde con un tonfo per terra ma né io né lui sembrammo accorgercene. Dischiusi le labbra lasciando che la sua lingua trovasse di nuovo la mia e annullando così tutti quei giorni di lontananza. Era esattamente come la prima volta, a capodanno, quando avevo sentito le ginocchia tremare e le farfalle nello stomaco.
Quando dopo un tempo indefinito Trevor appoggiò la fronte sulla mia, sfiorando i nostri nasi, fui travolta dai suoi occhi mozzafiato.
«Non posso credere che stia succedendo davvero», sussurrò rivolgendomi il suo migliore sorriso.
«È così», mormorai sorridendo a mia volta. «Questo immagino sia un sì?».
«Sì. Certo che è un sì. Ti seguirei anche in capo al mondo Kathleen Jefferson». Chiusi gli occhi  emettendo un risolino, mentre le sue labbra sfiorarono di nuovo le mie. Mi sembrava di ricominciare a respirare dopo un’apnea durata mesi.
«Non è passato un giorno senza che io non pensassi a te», mi confidò ad un centimetro dalla mia bocca. «Ogni giorno Katy da quando ti ho lasciata andare». Lessi la sincerità nel suo sguardo e non potei che replicare con un bacio.
«Non credevo che saresti tornata», ammise in un sussurro dopo una serie di baci, affondando la testa nei miei capelli e inspirando l’odore del mio shampoo. Quello significava che era stato pronto a rinunciare a me, anche se spingeva lui a vivere nella più totale infelicità.
Gli presi il viso tra le mani prima di affermare ciò che ormai era evidente. «Ti amo Trevor, solo te, per sempre solo te».
«Ti amo anch’io». Mi baciò di nuovo spingendomi contro una delle tante auto ferme nella rimessa. Mi ritrovai così schiacciata tra la portiera di un pick-up e il suo petto, in una posizione che non avrei mai più voluto abbandonare. Passai le dita nei suoi capelli, per poi scendere giù sul suo collo, lungo la sua schiena, stringendomi sempre di più contro i suoi pettorali scolpiti, mentre le sue mani facevano altrettanto sul mio corpo e le nostre lingue danzavano insieme.
«Finirò per sporcarti di grasso», mormorò sul mio collo quando spinsi di più il mio bacino verso il suo.
«Non importa, mi sei mancato tanto». Non mi sentivo così completa da mesi, poco importava se sarei stata costretta a buttare nella spazzatura il mio cappotto, anche se era il mio preferito.
«Anche tu mi sei mancata, non immagini quanto», ammise lasciandomi una scia di baci dalla spalla fino all’orecchio. «Volevo chiamarti per il tuo compleanno, volevo davvero chiamarti, anche solo per sentire la tua voce».
«Perché non l’hai fatto?», domandai, riuscendo di nuovo ad incrociare il suo sguardo e strusciando il mio naso contro il suo. «Ho sperato per tutto il giorno che tu mi telefonassi».
Per tutta risposta mi baciò di nuovo, posando la mano sulla mia coscia; istintivamente la sollevai avvinghiandolo con la gamba in modo tale da premerlo ancora di più contro di me.
«Dio Kathleen», sussurrò interrompendo il bacio. «Se non rallentiamo finirò per prenderti qua».
Risi e poi gli mordicchiai il labbro. «Per me va bene».
Rise anche lui sistemandomi una ciocca dietro l’orecchio. «È davvero bello sapere che certe cose non sono cambiate». Mi baciò di nuovo per poi staccarsi e prendermi per mano.
«Cosa fai?», gli domandai mettendo su un finto broncio e raccattando la mia borsa da terra.
«Vieni, ti porto a casa mia. Per fortuna abito qua vicino». Mi trascinò verso l’uscita e mi lasciò giusto per il tempo necessario per infilarsi il cappotto. Mi guidò per delle strade secondarie, sempre intrecciando le nostre dita e tracciandomi dei disegni sul dorso. L’aria fredda faceva formare delle nuvole di vapore ad ogni nostro respiro e mi costringeva a stringermi di più contro il cappotto; tuttavia, nonostante l’inverno gelido, sentivo un calore familiare pervadere il mio intero corpo.
«Manca molto?», gli domandai dopo cinque minuti. Non che avessimo camminato molto, ma dovevo usare tutta la mia forza di volontà per non saltargli addosso in mezzo alla strada. Avevo voglia di baciarlo e di non lasciarlo più andare e non era certa di poter resistere ancora a lungo.
«Siamo arrivati piccola». Si fermò di fronte a una palazzina piuttosto malandata, ma dall’aria decisamente molto economica.
Aprì il portone con un mazzo di chiavi che aveva in tasca e mi trascinò dentro. «Abito al sesto piano, l’ultimo, e purtroppo non c’è l’ascensore». Mi baciò di nuovo prima di iniziare a salire le scale.
Arrivare all’ultimo piano fu decisamente un problema visto che continuavamo a fermarci per baciarci, spingendoci l’un l’altro contro la parete o la ringhiera che circondava le scale.
«Spero che tu non abbia dei vicini impiccioni», ansimai mentre lui scendeva dalle mie labbra al mio collo. Eravamo all’incirca al terzo piano e stavamo decisamente dando spettacolo, uno di quelli vietati ai minori.
«Non ne ho la minima idea, non ci sono molto spesso», sussurrò contro la mia pelle. «Diciamo che questo è un posto che più che altro uso per dormire, quando ho un po’ di tempo libero torno a casa, anche per stare un po’ con Linda».
«Ti sei accorto che hai appena definito casa lo stesso edificio dove vive tuo padre?». Era un grosso passo avanti.
«Sì lo so». Alzò la testa e mi guardò negli occhi. «Quella è diventata casa mia da quando ho conosciuto te».
«E lo sai che accettando la mia proposta metterai centinaia di chilometri tra te e la tua casa, tra te e la tua famiglia, tra te e la tua sorellina?». Volevo che si rendesse bene conto che non era una relazione a distanza quella che gli stavo proponendo, anche se sarebbe stata meglio di niente. Tuttavia io avevo bisogno di lui e non volevo essere costretta a vederlo attraverso lo schermo di un computer. Una richiesta e una decisione piuttosto egoistica da parte mia, a dimostrazione del fatto che la piccola e insicura Linny era cresciuta.
«Lo so Katy, ma non c’è neanche competizione. Scelgo te Kathleen, sceglierei sempre te. Linda, mio padre e Susan se ne faranno una ragione e poi c’è sempre skype e le feste, torneremo a casa per le feste».
«Ti sto chiedendo tanto lo so», ammisi abbassando lo sguardo.
«No». Portò due dita sotto il mio mento per farmi di nuovo alzare la testa. «Non mi stai chiedendo niente Kathleen, niente. Mi sono trasferito da mio padre, dopo essermi disintossicato, senza avere nessuno appoggio; ma adesso non è così, ho te e so anche che posso cavarmela da solo se voglio. Farei di tutto per stare con te, lascerei tutto».
«Anche la tua famiglia». Non era una domanda, ma un’assoluta prova d’amore.
«Spero che d’ora in poi sarai tu la mia famiglia». Lo disse come se fosse una cosa normale, ma era una di quelle frasi che riusciva a farmi sciogliere. Per tutta risposta lo baciai facendogli capire quanto fossi d’accordo con quell’affermazione.
«Sono proprio una ragazza stramaledettamente fortunata per essere riuscita a farmi amare da te».
«Eh già», ammise con un sorriso, «E anch’io credo di essere stramaledettamente fortunato per aver fatto innamorare di me una come te». Gli sorrisi e lo baciai di nuovo.
Con molta fatica e con continue soste riuscimmo ad arrivare al sesto piano. Trevor mi lasciò andare per poter aprire la porta e farmi entrare in quello che era il suo appartamento. Beh il suo monolocale a dir la verità: era così piccolo che, a parte l’angolo cottura, il resto del posto era occupato da un letto che doveva fungere anche da divano e all’esigenza anche da tavolo.
«È piccolo lo so, ma non potevo permettermi di più», ammise, grattandosi il capo con la mano. «Mio padre sarebbe stato disposto a darmi una mano economicamente parlando, ma non ho voluto che lo facesse. Volevo cavarmela da solo».
Non dissi niente anche se ero colpita dal fatto che avesse provato ancora una volta a ricostruire la sua vita con le sue sole forze. Era un gesto d’ammirare; il suo coraggio era stato una delle cose che mi avevano fatta innamorare di lui.
«Papà mi ha proposto di restare da lui ed aiutarlo col negozio», mi confessò mentre mi guardavo attorno. Sentivo i suoi occhi addosso che studiavano ogni mia singola reazione. «Ma io non me la sono sentita; volevo allo stesso tempo allontanarmi ma anche restare, allontanarmi dai ricordi ma restare per la mia famiglia. Non so se mi sono spiegato».
«Sì, capisco benissimo. È stato lo stesso per me». Avevo voluto allontanarmi da tutti i luoghi e le cose che a casa mi ricordavano James e Trevor, ma sarei voluta restare per sempre come prima per poter continuare a stare con Queen, Lea ed Evan e persino con mia madre.
«Non è un granché, ma non mi costa molto e così ho potuto iniziare a risparmiare».
«A risparmiare?». Ed io che pensavo che spendesse quasi tutto il suo stipendio nell’affitto e nella benzina!
«Lo so che forse è assurdo e che probabilmente mi ci vorranno anni per accumulare una cifra del genere, ma un giorno vorrei aprire la mia autofficina, sai una tutta mia».
«Wow Trevor è davvero un bel progetto». Era un’ambizione a lungo termine davvero notevole, ma ero certa che potesse farcela. Lui riusciva in tutto ciò che si prefiggeva.
«Pensi che ad Yale o là vicino ci siano dei corsi di management?».
«Direi che possiamo informarci». Mi avvicinai a lui e lo baciai dolcemente, sentendo che insieme avremo potuto affrontare di tutto. Trevor sorrise sulle mie labbra e, senza aspettare oltre, iniziò a sbottonarmi il cappotto mentre anch’io gli sfilavo il suo. Lentamente mi ritrovai sul suo letto – non che fosse un percorso estremamente lungo date le ristrette dimensioni della stanza – con lui sopra di me e le sue mani sotto il maglione. E non ci volle neanche molto prima che lui me lo sfilasse ed io abbassassi la parte superiore della sua tuta, scoprendo che sotto indossava un’altra maglia.
«Ehi non vale», protestai, ritrovandomi in reggiseno mentre lui era ancora completamente coperto.
«Tranquilla», mormorò baciandomi la spalla, «potrai riequilibrare la situazione al più presto». Si spostò facendosi strada con la bocca sul mio collo per poi arrivare all’altra mia spalla.
Si bloccò di colpo notando quella che doveva essere l’unica differenza dall’ultima volta che mi aveva vista nuda. «Ehi ma che..:?». Non terminò la frase ma alzò la testa e  mi fece voltare leggermente per poter osservare meglio la mia pelle.
«Sorpresa», borbottai incerta, «ho un tatuaggio». In realtà non era niente di che ma l’avevo fatto prima di partire per il college, durante il viaggio di diploma con Lea ed Evan. Soltanto loro due e mia sorella sapevano della sua esistenza, ma non era niente di trascendentale né qualcosa di stupido fatto per errore. Era solo una parola scritta in un carattere classico, grande all’incirca un dito, che spiccava al centro della mia spalla sinistra. James.
«Wow», cercò di riprendersi, sbattendo le palpebre. «È bello, solo credevo che non fossi una da tatuaggi».
«Beh non credo che ne farò altri molto presto», affermai. «Solo volevo che lui restasse con me per sempre». Posai un dito sulla sua bocca prima che potesse parlare di nuovo. «E credimi lo so che non lo dimenticherò mai e non serve certo un tatuaggio per ricordarmelo».
Prese le mie dita tra le sue e mi inchiodò con i suoi occhi azzurri, facendomi mancare il respiro. «James sarà sempre una parte di te».
«Lo so, volevo che anche gli altri lo sapessero, che capissero che una parte di me sarà sempre sua. È stata tutta la mia vita per quasi diciotto anni, anche se era solo mio fratello».
«Togli quel “anche” e  quel “solo” Kathleen».
«Era mio fratello», ripetei sorridendo, «è stata tutta la mia vita fino a quando non ho conosciuto te e mi hai costretto a mettermi al primo posto». Lo baciai di nuovo sapendo che non avevo altro da aggiungere sull’argomento.
Fu però Trevor a fermarsi di nuovo, interrompendo il bacio per accarezzarmi lungo le braccia  e poi posarmi una mano sulla guancia. «Anch’io ho due nuovi tatuaggi», mi rivelò.
«Davvero?». Non ero proprio sorpresa, conoscendolo; comunque ero certa che avessero un significato particolare ed ero curiosa di scoprire cosa fossero e cosa lo avesse spinto a farli.
«Sì. Uno è recente, l’ho fatto poco tempo fa, l’altro subito dopo il diploma».
«Voglio vederli», affermai allungandomi verso di lui ed iniziando a tirare fuori la maglia dai suoi pantaloni della tuta da lavoro.
«Calma Katy», mi fermò afferrandomi i polsi delicatamente e rivolgendomi un meraviglioso sorriso. «Guardiamo se riesci a trovarli». Così dicendo si voltò velocemente e si tolse la maglia, mostrandomi così la sua schiena scolpita.
Dall’ultima volta che l’avevo visto nudo, sicuramente aveva messo su muscoli, perché la sua schiena mi sembrava molto più scolpita di prima. Tuttavia ad una prima occhiata non notai grandi differenze: conoscevo a menadito i suoi tatuaggi, ma non mi sembrava che ce ne fosse qualcuno in più. Studiai la sua pelle con più attenzione, aggrottando le sopracciglia, ma non riuscendo a scorgere ancora niente.
«Mi stai prendendo in giro?», borbottai dopo un’altra occhiata.
«Osserva con attenzione, è piccolo», mi rispose ridendo.
Sbuffai e tornai a studiarlo con più impegno. Stavo per arrendermi e alzare bandiera bianca quando finalmente lo notai. Era come se fosse mimetizzato con il tatuaggio in ebraico; era scritto nello stesso stile e per questo non avevo fatto caso alla differenza, senza contare il fatto che era davvero piccolo rispetto agli altri. Erano solo due parole - o meglio quattro numeri - “tre maggio”, “03-05”, ma avevano un significato profondo sia per me che per lui.
Istintivamente allungai un dito e lo toccai, non sentendo differenza al tatto ma soltanto la sua pelle calda e morbida.
«L’ho fatto per il mio anniversario di Lindo», mi informò.
«Il tuo anniversario di Lindo?», domandai aggrottando le sopracciglia.
Scoppiò a ridere prima di spiegarmi. «Sì è stata mia sorella a chiamarlo così, sai l’anniversario da uomo pulito, pulito cioè lindo, come lei al maschile. È una cosa stupida, ma non sapevo come spiegarglielo altrimenti».
«È buffo, invece».
«Sì, lo è. Spero solo che non sappia cosa sia veramente il mio anniversario, è ancora troppo piccola. Comunque l’ho fatto il giorno in cui non bevevo più da due anni… non è stato molto tempo fa. Dio Kathleen è più di due anni che non bevo o peggio».
Sentii l’orgoglio nella sua voce e lo riconobbi anche in quel pressante sentimento che mi faceva battere forte il cuore. «Sono molto fiera di te».
«Ho scelto quella data», continuò senza soffermarsi sulle mie parole, «quella dell’incidente di tuo fratello, perché anche per me da quel giorno è cambiato tutto. Per te è stato un trauma ma lo è stato anche per me. È come se avessi aperto gli occhi e mi fossi accorto di aver toccato il fondo».
«È un giorno che non scorderò mai», affermai continuando ad accarezzare quella data incisa in modo indelebile sulla sua pelle.
«Neanche io. E anche se so che mi sono sentito responsabile per tre anni di qualcosa che non avevo fatto, so anche che quella data ha cambiato tutta la mia vita. E per quanto possa essere un giorno triste per te e anche per me, non posso fare a meno di pensare a tutto ciò che sono riuscito a fare dopo. Senza quel giorno non sarei cambiato; forse l’avrei fatto alla fine, ma sarei potuto morire prima di rendermi conto del baratro in cui ero caduto. Senza quel giorno non avrei chiarito con mio padre, conosciuto Susan e Linda, trovato la mia strada e soprattutto non avrei conosciuto te». Era davvero un significato molto più profondo di quello che avessi immaginato.
Restai in silenzio, continuando ad accarezzare il suo tatuaggio con il dito non sapendo bene come esprimere il tumulto di sentimenti che mi stava assalendo.
«L’altro è più facile da trovare Kathleen», continuò rompendo il silenzio che si era creato. Si voltò con estrema lentezza, facendomi capire che l’altro doveva trovarsi ovviamente dall’altra parte. Fu solo quando si fu girato, inchiodandomi con lo sguardo, che abbassai gli occhi sul suo petto e rimasi senza fiato. Là dove fino a dieci mesi prima era rimasta una buona parte di pelle intonsa, proprio là sopra il suo cuore, campeggiava il mio nome scritto in corsivo, in un carattere elegante che spiccava in netto contrasto con la sua carnagione chiara. Le due “e” erano unite insieme a formare il simbolo dell’infinito e la “n” finale non terminava ma proseguiva in una penna d’oca che sembrava essere l’artefice di quella scritta. Era come se quella piuma, disegnata nei minimi particolari avesse appena scritto il mio nome.
Ero talmente senza parole da essere rimasta a bocca aperta, incerta se baciarlo, saltargli addosso, piangere o ascoltare la sua spiegazione.
«Non dici niente?», mi domandò studiando la mia espressione.
«Non so che dire». Era la pura e semplice verità.
«Beh allora parlerò io». Mi rivolse un sorriso e intrecciò di nuovo la sua mano alla mia. «Quando hai visto i miei tatuaggi la prima volta ti ho detto che non c’era niente che meritasse il posto d’onore sopra il mio cuore, beh si da il caso che la situazione sia cambiata quando ti ho conosciuta, mi sono completamente innamorato di te».
«Ma non sapevi che sarei tornata», mormorai riuscendo a vincere il mio stupore. «Ti sei tatuato il mio nome sul cuore anche se non stavamo più insieme e credevi di avermi persa».
«Sì e non è una cosa stupida Kathleen. A prescindere dal fatto che possa esserci un futuro per noi, tu sarai sempre qualcosa che nessun’altra potrà mai essere. Sei stata e resterai sempre il mio primo vero amore e una parte di me ti amerà per sempre; per questo c’è il simbolo dell’infinito».
«Ma se io non fossi venuta qua oggi, un giorno avresti potuto innamorarti di un’altra e come le avresti spiegato il mio nome sul tuo cuore?». Era da matti e non solo perché se l’era tatuato dopo esserci lasciati. Era credere in noi in un modo che non riuscivo neanche immaginare.
«Katy non sarebbe cambiato niente, quello che tu avresti continuato a rappresentare sarebbe rimasto intatto anche se mi fossi innamorato di un’altra. Non sei solo il mio primo amore Kathleen, te l’ho già detto una volta: tu mi hai salvato. Hai creduto in me prima che riuscissi a farlo io e quello che ha significato per me, l’averti conosciuta e amata, non cambierà mai. Per sempre Katy».
«E la piuma?», domandai cercando di frenare il mio cuore che aveva iniziato a fare le capriole sentendo le sue parole.
«La piuma sei tu; candida e innocente, ma allo stesso tempo con la punta macchiata di inchiostro per tutte le cose brutte che ti sono accadute». Era una rappresentazione azzeccata ed ero stupita che lui fosse riuscito a trovare un oggetto che mi rappresentasse così bene; nemmeno io stessa ci avrei pensato.
«All’infinito?», mormorai, poggiando la mano sul suo tatuaggio proprio sopra il suo cuore, non sapendo bene nemmeno io cosa gli stessi domandando.
«All’infinto», confermò prima di baciarmi. Ed ero certa che sarebbe stato così; che fossimo rimastati insieme o che alla fine le nostre strade si fossero divise, sapevo che quello non sarebbe mai cambiato. Noi due all’infinito. Per sempre.

 
Angolo dell’autrice:
Ciao a tutti!
Non posso credere di essere arrivata alla fine di questa storia, nata un po’ per caso e cresciuta via via, capitolo dopo capitolo. Mi sembra ieri quando ho pubblicato il primo capitolo!
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno seguito, recensito o anche solamente letto la mia storia! Grazie di cuore! Spero davvero che vi sia piaciuta e che vi abbia emozionato come mi sono emozionata io mentre la scrivevo!
Anche se questa storia mi mancherà, spero di poterne pubblicare presto altre!
Un bacio
Sara

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