(Im)Perfetti

di voiceOFsoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 - Ricomincio. O no? ***
Capitolo 2: *** 02 - Non è un buon segno ***
Capitolo 3: *** 03 - Ricordi ***
Capitolo 4: *** 04 - Il colloquio ***
Capitolo 5: *** 05 - Qui si festeggia ***
Capitolo 6: *** 06. Birra di troppo ***
Capitolo 7: *** 07 - Buone nuove, cattive nuove ***
Capitolo 8: *** 08 - Le sorprese non finiscono mai ***
Capitolo 9: *** 09 - Chiuso ***
Capitolo 10: *** 10 - A Lavoro ***
Capitolo 11: *** 11 - Can che abbaia ***
Capitolo 12: *** 12 - Roba da J ***
Capitolo 13: *** 13 - Andare avanti ***
Capitolo 14: *** 14 - Dopo una notte in bianco ***
Capitolo 15: *** 15 - TGIF ***
Capitolo 16: *** 16 - Spirito di sopravvivenza ***
Capitolo 17: *** 17 - Ci vorrebbe un amico ***
Capitolo 18: *** 18 - Una cosa veloce ***
Capitolo 19: *** 19 - (In)aspettati(ve) ***
Capitolo 20: *** 20 - La bolla ***
Capitolo 21: *** 21 - Salve, Maresciallo ***
Capitolo 22: *** 22 - Negazione ***
Capitolo 23: *** 23 - Posso farcela ***
Capitolo 24: *** 24 - Un nuovo inizio ***
Capitolo 25: *** 25 - November Rain ***
Capitolo 26: *** 26 - You're Beautiful ***
Capitolo 27: *** 27 - Buone nuove ***
Capitolo 28: *** 28 - Uno sguardo al futuro e uno al passato ***
Capitolo 29: *** 29 - Odi i lunedì? ***
Capitolo 30: *** 30 - La ruota gira ***
Capitolo 31: *** 31 - Viaggiando ***
Capitolo 32: *** 32 - Paradise City ***
Capitolo 33: *** 33 - Ho visto che l’amore cambia il modo di guardare ***
Capitolo 34: *** 34 - No panic ***
Capitolo 35: *** 35 - Cosa resterà? ***
Capitolo 36: *** 36 - Angeli e demoni ***
Capitolo 37: *** 37 - Welcome to the Jungle ***
Capitolo 38: *** 38 - Don't miss a thing ***
Capitolo 39: *** 39 - Come una giostra ***
Capitolo 40: *** 40 - Ormai non piove ***
Capitolo 41: *** 41 - Una lunga giornata ***
Capitolo 42: *** 42 - Franciacorta ***



Capitolo 1
*** 01 - Ricomincio. O no? ***


Ritardo. Una costante nella mia vita. Fin da quando mia madre smise di accompagnarmi ovunque dovessi andare, per me è sempre stata una corsa alle lancette dell'orologio. E oggi non mi sono smentita. Per quanto sia grave arrivare tardi ad un esame universitario o il primo giorno di lavoro, credo che niente batta essere in ritardo già al colloquio per il nuovo posto di lavoro. Specialmente quando si ha alle spalle un curriculum come il mio.
Laureata con il massimo dei voti ma con la mia reputazione è stata segnata dalla taglia di reggiseno. Perché se hai una quinta coppa D e frequenti una facoltà composta per il 96% da uomini e per il 24% da racchie, il tuo 30 e lode non può essere frutto di notti insonni a sbattere la testa sui libri. Deve essere merito di un orale con il professore giusto. E quando poi trovi il tuo bel posto di lavoro e lotti con unghie e denti per dimostrare chi sei, ma le promozioni arrivano solo al cambio di direzione quando a prendere le decisioni è un giovane attraente, di certo non è perché ha la mente aperta e comprende il tuo potenziale ma sempre per il famoso orale! Poco conta se a causa di queste illazioni diventate ormai verità per il mondo intero, la moglie del capo lo costringa a trovare una scusa per licenziarti se non vuole passar la vita pagando alimenti da capogiro. Poco conta se ti ritrovi a ventisei anni a dover ricominciare da zero a causa del tuo maledetto doppio cromosoma X e della tua coppa D.
A causa di tutto ciò, ho indossato la maglia meno scollata ed attillata che sono riuscita a trovare, ho truccato il viso il minimo per non sembrare una zombie saltata fuori da un B-movie e adesso sono bloccata nel traffico sbraitando come una forsennata. Cerco disperatamente un piccolo spiraglio di salvezza che possa farmi recuperare il ritardo accumulato, ma anche a semaforo verde la fila interminabile di auto scorre di un paio di metri al massimo. Non voglio e non posso permettermi di arrivare in ritardo al colloquio, rischiando di essere ancora una volta additata come quella che prenderà il lavoro per i servizietti erotici al capo. Non stavolta.

Il cellulare vibra. Do un'occhiata sfuggente al nome che lampeggia sul display. Diego. Rispondo, infilando l'auricolare all'orecchio destro.
«Pronto, Diego dimmi tutto.»
«Ehi Ram, com'è la situazione? Sei già diventata top manager della super azienda?»
«Diego, ti prego, non scherzare. Sono ancora imbottigliata nel traffico e sto sudando come in una sauna finlandese perciò puzzo da far schifo. In più ti ho già detto che i tempi da top manager sono finiti per me. Voglio solo una piccola scrivania per poter lavorare e ricominciare a pagare la mia parte d'affitto. Una dove non mi si veda neanche.»
«Cazzate! Prima di tutto sai che per l'affitto non devi preoccuparti. Per quanto riguarda il lavoro, invece ...beh, tu sei Ramona Centini. Hai il management nel sangue. Non puoi rimanere nascosta in un angolo buio solo per la moglie del tuo ex capo ha dato i numeri perché non sopportava che il suo maritino d'oro stesse tutti i giorni vicino ad una bella ragazza del tuo calibro e della tua intelligenza. Non appena capiranno quali sono realmente le tue capacità, non ti permetteranno di farlo. Ovviamente questo è valido solo se il tuo futuro capo sarà una persona con un minimo di intelletto e qualche palla in più di quel testa di cazzo che ti ha licenziato.»
«Marco è un bravo direttore. La SoftWaiting è cresciuta molto grazie a lui.»
«Non difenderlo, Ram. Ti ha licenziato perché sua moglie è pazza. Ha mandato via il suo miglior dipendente per i capricci di una donna in crisi perché si avvicina agli 'anta.»
«Questo non toglie che abbia fatto molte altre scelte giuste.»
Diego resta in silenzio. Scatta di nuovo il rosso e devo fermarmi un'altra volta.
«Ci sei ancora?»
«Ram, tu sei troppo buona. Te lo ripeto da quanto? Sei anni? Sette? »
«Nove. Quattordici se iniziamo a contare dal primo anno delle superiori.»
«Quattordici anni, porca trota.» Mi scappa una risolino. Quella sua imprecazione tanto pulita mi fa sempre ridere. «Ti amo quando ridi così.»
Una fitta mi si dirama dall'intestino e mi sale fino nel petto.
«Diego, credevo che avessimo chiarito che...»
«Ehi, ehi! Frena!» Lo sento ridere forte, quasi senza potersi fermare. «Non ti sto chiedendo ancora di sposarmi. Sei stata parecchio chiara nel tuo 'oddio, no, no-no, no-no-no-no' alla Scherbatsky. Ma non puoi impedirmi di amare la tua risata. Come amico, ovviamente.»

Scatta il verde. Mi rimetto in movimento, mentre ancora le mie interiora non si decidono a darsi una calmata. Sentirlo sdrammatizzare in questo modo, con quella risata tanto forzata, con quella nota tanto malinconica nella voce, fa quasi più male di vederlo riporre la scatolina di velluto blu di nuovo in tasca.
«Come va il traffico?» Come sempre, è lui a rompere il silenzio.
«Sempre trafficoso. Ho gli ultimi otto minuti prima di essere ufficialmente una disoccupata che non ha più un colloquio presso una media azienda informatica che ha bisogno di una tappabuchi.»
«Io, invece, ho gli ultimi dodici secondi prima di essere un uomo ucciso dal responsabile di reparto nel pieno esercizio del proprio diritto alla pausa.»
Sento in lontananza una voce che gli dice di smettere di dire cazzate e tornare a lavoro.
«Ti prego, Diego, chiudi il telefono e torna a lavorare. In casa ne basta una di disoccupata.»
«Buon lavoro. Ci vediamo per cena.» Stacco la chiamata.
Appoggio telefono ed auricolare sul sedile passeggero accanto a me. L'auto va quasi da sola, all'assurda velocità di crociera di 15 chilometri orari, finché alla mia destra intravedo la salvezza: una via che pare completamente svuotata dal traffico. Mi porterà a fare un po' di strada in più ma, valutando il bonus-malus della situazione, può farmi comodo per recuperare un po' di ritardo. Decido che va bene così ed aziono la freccia. Inizio a spostarmi piano ma in modo deciso, avvicinandomi al marciapiede per facilitare l'uscita dalla strada principale.

Boom!
Cazzo, posso dimenticarmi il colloquio.

Tolgo la cintura di sicurezza, aziono le frecce d'emergenza e scendo dall'auto come un uragano.
«Dove hai imparato a guidare? A Cartoonia? Non sai che non si supera a destra? E, in tutti i casi, non hai visto la freccia? Mancava solo l'addormentato di turno oggi. Che giornata di merda!»
Il ciclista che mi è venuto addosso è ancora rantolante sul selciato. Mentre chiudo lo sportello dell'auto con forza, mi sento un po' in colpa per aver iniziato a gridare senza prima accertarmi delle sue condizioni. E se avesse sbattuto la testa troppo forte e si fosse spezzato l'osso del collo? Scrollo via questo assurdo quanto irreale pensiero.
La sua bicicletta è a terra insieme a lui che sta iniziando ad alzarsi. Appena mi accorgo che sembra tutto intero, il senso di colpa viene rimpiazzato immediatamente dal suo predecessore: la rabbia. Attendo pazientemente alle sue spalle che si rialzi del tutto. Si spolvera con le mani i vestiti e mi soffermo a notare il suo cappotto scuro, la sciarpa annodata al collo e i pantaloni dal taglio casual non troppo attillati che però mettono in risalto un fondoschiena che ha tutta l'aria di essere in forma smagliante.
Cacchio, Ram! Torna alla realtà! La verità è che ho subito pensato a uno dei soliti ciclisti che si credono al Tour de France e, dimentichi di essere in centro città, si comportano da padroni assoluti della carreggiata. Invece mi trovo davanti ad uno dei pochi cittadini che decide di spostarsi in bicicletta. Guarda te che ho investito un eroe dell'ambiente! No no, non ci siamo. Tu non hai investito lui, è stato lui a venirti contro mentre facevi una svolta regolare e segnalata con largo anticipo. Giusto, Ram? E ti sta anche facendo accumulare ritardo per il colloquio.
Il ciclista finalmente si volta e posso chiaramente distinguere il rumore della mia difesa che va in frantumi. Mi trovo davanti al più bel sorriso che abbia mai visto. Sì, sorride, e i grandi occhi scuri gli si arricciano spinti dalla curvature delle guance coperte da una lieve barba. Ha delle labbra non troppo sottili e chiare che in questo momento lasciano libera visione di una stupenda dentatura da spot televisivo.
«Ti prego di perdonarmi.» Dice cogliendomi di sorpresa e riportandomi alla realtà.
Devo avere una faccia da ebete più del solito.
«Non so dove avevo la testa! Ti sei spaventata?»
Continuo a guardarlo con la bocca leggermente aperta senza riuscire a rispondere.
«Ehi ...tutto bene?» Smette di sorridere e si china leggermente verso di me per accertarsi che non sia in catalessi.
«No.» Mi sfugge dalle labbra come un sussurro.
«No? Ti sei fatta male?» Aggrotta la fronte e si china ancora di più.
«No!» Stavolta esce più come un urlo. «Cioè, sì per dire no. No che non mi sono fatta male. Si che sto bene. No che non mi sono spaventata.» Parlo ad una velocità di circa venti parole al secondo, quasi non prendo fiato. Ma soprattutto non ho la più pallida idea di cosa sto dicendo. Ram, cosa cazzo stai combinando?
«Wow!» Ride di nuovo. «Non avrai sbattuto la testa, vero?»
«Suppongo di no.» Istintivamente porto la mano destra alla tempia e mi unisco alla sua risata. «Credo di essere così per natura.»
«Un po' di pazzia non fa male.»
«Suppongo di no.» Questo sconosciuto mi ha appena dato della pazza? E continua a sorridere!
«Tu? Ti sei fatto male cadendo?»
«No, non molto.» Si guarda le mani che sono ancora impolverate e su cui si vede qualche graffio. «Niente che non si possa risolvere con un po' d'acqua e sapone. Dovrò sistemare la forcella e la ruota anteriore, forse anche l'ammortizzatore, ma nulla di irrecuperabile. Credo che quella che ci sia andata sotto sia stata la tua macchina.»
La macchina! Porca p... Dimentico lui e il suo sorriso, lo sposto poco delicatamente con la mano e ammiro la portiera destra della mia auto. Una bella serie di graffi scuri campeggia da metà sportello fino al faro, accanto al quale è scavata una stupenda riproduzione a dimensioni reali di ruota da bicicletta. Mi sento sbiancare.
«Povera Charlie!»
«Charlie? Sarebbe la macchina?»
Stavolta la sua risata, complice il dargli le spalle che mi impedisce di cedere al fascino del suo sorriso perfetto, mi irrita parecchio.
«Hai problemi al riguardo?» Mi volto, cercando di incenerirlo con lo sguardo.
«Assolutamente no.» Non smette di ridere
«Non trovo nulla da ridere in questo.» Indico il danno che ad occhio e croce mi costerà almeno 600€ che al momento non ho ed il peso di questi otto mesi da disoccupata vivendo sulle spalle di Diego mi spinge un nodo in gola.

Lui smette di ridere e tossicchia imbarazzato.
«Beh, sono stato io a venirti addosso.» Inizia ad accarezzarsi i capelli. «Credo che, anche se avresti potuto prestare più attenzione allo specchietto laterale...»
La goccia che fa traboccare il vaso. Lo interrompo come una furia.
«Senti, belloccio, ho capito che gioco stai facendo e puoi anche smetterla. Con me tutti i sorrisini e il faccino gentile non attaccano.» Cazzate, c'ero cascata in pieno, ma questo lui non lo sa, forse. «Numero uno, avevo la freccia inserita da un bel po'. Numero due, andavo talmente piano che neanche mia nonna sarebbe potuta essere più prudente. Numero tre, stavi sorpassando sulla destra. E sai che c'è? Numero quattro, questa non è una pista ciclabile quindi tu qui non ci dovresti neanche stare.» Sbuffo come un toro. «E sei anche senza casco!» Aggiungo in tono ancora più nevrotico.
Il suo sorriso sparisce del tutto. Stringe le labbra e vedo l'immensa profondità dei suoi occhi neri che mi fissano.
«Non so che idea ti sia fatta, ma non è mia intenzione tirarmi indietro rispetto ad una mia responsabilità.» Lo dice con una tale sicurezza che mi fa quasi sentire in colpa. Esce dalla tasca un biglietto da visita e me lo consegna. «Ora devo proprio scappare. Chiamami quando ti viene più comodo per prendere accordi su quando portare la tua auto dal mio carrozziere di fiducia. Meglio se ad orario di pranzo.»
Conservo il bigliettino in tasca, senza guardarlo, immobilizzata a fissare i suoi occhi.
«Sì ...sì, credo sia ...meglio.» Balbetto.
Si china a rialzare la bici azzurra da terra, la parte anteriore è completamente distrutta. Si spolvera ancora una volta la mano sul cappotto e me la porge.
«Ci sentiamo presto allora.»
Un po' intimidita gli porgo la mia. La afferra con una presa salda ma delicata, senza farmi male. Distende un po' le labbra nulla di paragonabile al primo sorriso che gli ho visto in viso.
«Ti auguro una buona giornata.» Mi lascia la mano. «E sta attenta.»
Si volta verso la strada e parte spingendo con difficoltà la bicicletta al suo fianco. Resto immobile ad osservarlo andare con il naso per aria. Non mi stupisce affatto che mi abbia colpito. Lo guardo scomparire dentro una traversa qualche metro più in là. Faccio un respiro profondo, dò un'ultima occhiata contristata alla portiera danneggiata e risalgo in auto. Mi abbandono sul sedile con un altro profondo respiro.

Il telefono vibra di nuovo, appena dopo aver girato la chiave d'accensione. Aggrotto le sopracciglia vedendo sul display un numero non memorizzato in rubrica. Infilo nuovamente l'auricolare e rispondo mentre mi immetto di nuovo in carreggiata.
«Pronto?»
«Signorina Centini? Sono Virginia della LambdaDev. Chiamo in merito al suo colloquio fissato per oggi.»

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Capitolo 2
*** 02 - Non è un buon segno ***


Istintivamente guardo l’orologio. Sono le 16:13 quindi sono in ritardo di tredici minuti esatti. Per raggiungere il luogo del colloquio ne impiegherò almeno altri quindici.
«Signora Virginia, la prego di scusarmi per l’incredibile ritardo. Purtroppo ho avuto dei seri problemi con l’auto e...»
«Signorina Centini, si rilassi.» Mi interrompe con un tono freddo e distaccato, che di rilassante non ha neanche l’ombra. «La chiamavo per disdire il colloquio.»
Vedo la mia opportunità di lavoro volare fuori dal finestrino e schiantarsi sull’asfalto.
«Disdire?»
«Le manderò una mail nei prossimi giorni per fissare un altro incontro.»
Un sospiro di sollievo mi sfugge tra le labbra.
«La ringrazio. Per un attimo ho creduto che la posizione fosse stata già occupata. Deve sapere che tengo davvero tanto ad entrare a far parte della vostra azienda. Stimo molto quello che...»
«Signorina Centini!» Mi interrompe di nuovo, severamente. «Ci sarà tempo e modo di discutere il perché desideri far parte della LambdaDev e, soprattutto, di decidere il ‘se’ questo accadrà. Tenga i suoi discorsetti per il momento opportuno.»
«Mi scusi.»
Wow, sto ricevendo la prima cazziata e non sono ancora neanche una dipendente. Niente male come inizio.
«Attenderò la sua mail.»
«Le auguro una buona giornata.»
«Anche a lei.»
Sento l’interruzione della chiamata all’altro capo. Qualcosa mi dice che tutto questo non è affatto un buon segno e le rane iniziano a saltellarmi nello stomaco. Devo accostare.
Fermo l’auto accanto al marciapiede e aziono le quattro frecce. Tolgo l’auricolare e lo lascio cadere sul sedile passeggero. Poggio i gomiti sul volante e tuffo il viso tra le braccia, sbattendo la testa sul clacson. Cerco di calmarmi, ripetendo che non è successo niente e che avrò modo di recuperare, che capiranno di certo l’ansia da colloquio causa del mio sproloquio al telefono, che sarà capitato anche alla signorina Virginia di arrampicarsi sugli specchi per salvare la faccia ritrovandosi a scivolare giù dalla parete. Ma la verità è che non credo neanche ad una parola di quello che mi ripeto. La sto prendendo male, fin troppo per quel poco che è successo, ma la piccola perfezionista che abita dentro di me non è per nulla contenta di come si sono messe le cose. E non riesco a zittirla, non adesso che nuota nella voglia di rivincita da ormai troppo tempo.

Qualcuno bussa al finestrino facendomi trasalire, tanto che sbatto la testa sul tettuccio dell’auto.
«Signora, va tutto bene?»
Mi volto mentre abbasso il finestrino. Il carabiniere mi fissa in modo strano.
«Sta bene signora?»
«Sì, Maresciallo. Non si preoccupi.»
«Qualcosa non va nell’auto? Abbiamo visto che è incidentata.»
Quasi mi era passato di mente il bell’incontro di poco fa.
«Oh, quello! No, non si preoccupi, Charlie non si fa abbattere da una piccola ammaccatura.»
«Charlie, eh?» Mi guarda perplesso.
«No, non è il mio amico immaginario, è solo la mia auto. Che poi è come se fosse un amico per me, ormai. Oppure un figlio.» Rido nevroticamente.
Cerco di spezzare la tensione ma peggioro solo le cose. Il carabiniere continua a fissarmi in modo sempre più torvo lanciando rapide occhiate agli interni dell’auto. Tossicchio.
«Signor Maresciallo, non è un crimine dare un nome alla propria auto, giusto?» Ram, stai combinando un casino. Stai zitta per la miseria!
«Signora ha per caso assunto droghe nelle ultime ore?»
«Oddio, no!» Sgrano gli occhi in allarme. «Crede che sia drogata? Assolutamente no. In vita mia non ho mai assunto stimolanti più forti della caffeina.»
«Ha bevuto o assunto farmaci con controindicazioni particolari?» Non accenna a cambiare tono.
«Senta signor Maresciallo.» Sono indispettita dal suo modo di fare e deve averlo notato perché smette di far vagare lo sguardo e lo fissa su di me. «Non sono ubriaca, non sono sotto l’effetto di droghe o di psicofarmaci. Un coglione in bicicletta mi è venuto addosso mentre ero già in ritardo e subito dopo mi hanno chiamato per disdire il colloquio di lavoro a cui dovevo presentarmi.» Mi fermo un attimo e abbasso lo sguardo alle ginocchia. «Ho solo avuto una giornata schifosa. Credevo di scoppiare a piangere e ho creduto che non fosse molto prudente continuare a guidare.»
C’è silenzio per qualche attimo. Alzo gli occhi per vedere come mai il carabiniere non risponde. Mi sta ancora fissando, ma stavolta con occhi meno severi. Non trattengo un lieve sorriso di rassegnazione.
«Signora...»
«Signorina.» Lo interrompo. «La prego, non mi faccia sentire anche vecchia, signor Maresciallo.»
Si scioglie anche lui in un piccolo sorriso.
«Allora la smetta di chiamarmi Maresciallo. Sono Brigadiere.» Picchietta l’indice sulla fiamma argentea che ha sul cappello.
«Oh, mi scusi.»
Dovrei dirgli che le persone normali non conoscono il significato dei fregi dei Carabinieri?
«Comunque, lei è molto pallida. Se la sente di riprendere a guidare o è ancora troppo sconvolta?»
Faccio un respiro profondo, alzando molto le spalle per accentuare il gesto.
«Credo di farcela.»
«Ne è sicura? Vuole che l’accompagniamo a casa o a un bar. Le farà bene un po’ di the.» Si ferma a pensare un attimo, poi aggiunge «O una camomilla.»
«No, grazie tante Brigadiere.» Mi guardo un attimo nello specchietto retrovisore e do due buffetti alle guance per farle colorire. «Posso arrivare a casa senza problemi.»
Continua a guardarmi in silenzio. Sento che il collega lo richiama da dentro l’auto d’ordinanza posteggiata poco dietro la mia. Il Brigadiere fa cenno di aspettare.
«Bene, allora mi dia patente e libretto. Dopo di ché potrà andare.»
«Cosa? Non vorrà multarmi, spero.»
«Non si preoccupi, è solo prassi.» Apre il taccuino che tiene tra le mani da quando è arrivato. «Devo solo segnalare le sue generalità.»
Gli passo i documenti un po’ riluttante e osservo la sua uniforme mentre annota i dati poggiandosi sul tettuccio dell’auto.
«Bene, un’ultima cosa e può andare.» Dice consegnandomi i documenti.
«Cosa le serve?»«Il suo numero di cellulare.» Sorride, divertito dal mio sguardo sorpreso. «E la promessa di un caffè insieme, se non chiedo troppo.»

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Capitolo 3
*** 03 - Ricordi ***


Sono in pigiama stesa sul divano in stato semi-vegetativo arrotolata sotto il mio plaid Ursula preso all’IKEA. La TV passa una puntata dei Simpson ma non la sto veramente guardando perché sono troppo concentrata ad assimilare quanto successo nelle ultime ore di questa giornata.
La serratura scatta e la pesante porta d’ingresso si apre. Alzo leggermente la testa e vedo rientrare Diego. Ha l’aria stanca ma si apre comunque nel sorriso che gli arriccia le guance. Sembra ancora un bambino quando lo fa.
Getta rumorosamente le chiavi sulla mensola all’ingresso.
«Buona sera, ammasso informe che ha ingurgitato la mia coinquilina.»
Accompagna la frase con quella risata cristallina che è sempre riuscito a mettermi di buon umore. Rispondo con un verso indistinto, più simile ad un muggito che a un verso umano.
«Sì, lo so che Ram è un po’ indigesta. L’ho sempre affermato. Ma ti prego di non vomitarla sul tappeto altrimenti dovrò portarlo a smacchiare e mi costerà una fortuna!»
Mi chiudo ancora di più nel plaid per cercare di attutire un po’ le risa che non riesco a trattenere. Sento i suoi passi avvicinarsi al divano. Improvvisamente si getta su di me, iniziando a farmi il solletico attraverso la coperta. Cerco di divincolarmi dalla presa, ma mi ha bloccato le gambe tra le sue perciò sono costretta ad emergere dalla coperta. Mi scompiglia i capelli e mi tira via gli occhiali. Continuiamo a ridere e continuiamo a lottare, finché Diego non perde l’equilibrio e finisce sul pavimento sbattendo l’osso sacro. Una smorfia di dolore si sovrappone alle sue risate. Mi sposto i capelli dal viso cercando di infilarli di nuovo alla bell’e meglio nella treccia morbida che mi scende sulla spalla.
«Ho vinto di nuovo io, Mr Simpatia.» Gli faccio una smorfia soddisfatta.
«Ti ho fatto vincere per tirarti su il morale.»
Si alza da terra massaggiandosi il coccige.
«Lo dici ogni volta, ma sappiamo entrambi che è solo perché sono sempre stata più forte di te.»
Mi siedo per fargli spazio sul divano. Lui, invece di fare altrettanto, si sdraia sulla schiena poggiando la testa sulle mie gambe. Mi afferra il polso destro delicatamente e poggia la mia mano tra i suoi capelli. Chiude gli occhi. Sorrido e, mentre inizio a massaggiargli la cute, il mio pensiero corre a molti anni fa, alle interminabili ore passate tra le mura della IV^L mentre il professor Pischetti spiegava Diritto Commerciale, alle notti ubriachi sulle spiagge della Spagna, ai pomeriggi passati a casa sua a prepararci per gli Esami di Stato mentre suo fratello Ivan colorava con i pastelli a cera. Una vita fa, passata con le dita tra i suoi capelli. Insieme a Vale e Alex, le mie più care amiche. Che hanno deciso pian piano di uscire dalla mia vita.
Forse è colpa della giornata che ho passato, ma questi ricordi mi invadono così forte che mi travolge la malinconia. Mi tremano le labbra e mi sfugge un sospiro.
«Stai pensando ad Alex e Vale, vero?»
La sua domanda mi spiazza. Come fa a leggermi nel pensiero in modo così accurato? Annuisco.
Si solleva a sedere e mi abbraccia, come a quei tempi non avrebbe mai fatto.
«Abbiamo preso strade diverse, può capitare. Ma sono un pezzo del mio cuore e lo saranno sempre. Non mi perdono di averle lasciate andare via. Mi mancano tutti i giorni, Diego.» Mi si spezza la voce. Sto per piangere, ancora.
«Lo so, Ram.» Mi stringe più forte.
Restiamo in silenzio per qualche attimo. Respiro più forte fin quando sento il pianto scomparire. Diego mi lascia solo quando sente che il mio respiro si fa di nuovo regolare.
«E allora, Miss Spaccoilmondo! Devi raccontarmi come è andata oggi.» Mi da un buffetto sulla guancia.
Gli sorrido ancora un po’ malinconica poi inizio a raccontare.

«Allora non mi ero sbagliato quando ho visto la tua auto. Credevo di avere avuto le allucinazioni.»
«La mia povera Charlie!» dico tristemente. Poi mi alzo di scatto. «A proposito, devo chiamare...»
«Il Brigadiere molestatore?» Alza il sopracciglio destro in segno di disapprovazione.
Lo fulmino bonariamente con lo sguardo, cercando di credere che sia uno scherzo quando so benissimo che sta ancora combattendo con il mio rifiuto dell’anno scorso. Afferro la giacca che avevo lasciato sul tavolo in cucina e mi ci tuffo dentro.
«Devo chiamare il ciclista rimbecillito che mi è venuto addosso. Mi ha dato il suo biglietto da visita per richiamarlo.»
Frugo le tasche due volte, ma tutto ciò che riesco a tirarne fuori sono due caramelle al caffè e un fazzolettino usato.
«Cavolo, non lo trovo! Sono sicura di averlo messo qui.»
«Magari l’hai messo nei pantaloni oppure l’hai spostato in borsa senza rendertene conto.» Cerca di rassicurarmi.
«Hai ragione, vado a cercare.»
Diego si alza e afferra le chiavi di Charlie.
«Vado a controllare che non sia caduto in auto.»
Esce dalla porta prima che possa fermarlo. Mi fermo un attimo a pensare a quanto sono fortunata ad averlo nella mia vita. Perché non riesco ad amarlo? Non so spiegarmelo. Scaccio questa inquietante domanda dalla mia testa e mi concentro a cercare il biglietto da visita che dovrà salvare il mio portafogli dall’essere svuotato dal carrozziere.
Metto a soqquadro l’intera casa, ma non salta fuori nulla. Anche la ricerca di Diego non da frutto.
«Cazzo!» esclamo sconsolata, lasciandomi cadere di nuovo sul divano. «Sono una cretina. Come ho fatto a perderlo?»
«Dai, Ram. Facciamo qualche ricerca e lo troviamo. Non preoccuparti. Come hai detto che si chiama?»
«Non lo so.»
«Cosa?»
«Non me l’ha detto! Te l’ho già raccontato! Mi ha dato il biglietto ed è andato via di nuovo con la testa per aria. Ero talmente arrabbiata che non pensavo a nulla. Il biglietto deve essermi scivolato di mano mentre lo conservavo oppure...» sconfortata mi nascondo il viso con le mani «...non lo so! Non so cosa può essere successo! So solo che l’intero universo ha deciso di giocare a dadi con me oggi e ho perso.»

Addento l’ultima fetta di pizza cercando di non far gocciolare la mozzarella sul copridivano.
«Questo fiilm è una palla!» sentenzia Diego.
«Non è vero.» dico, masticando. «Seguilo attentamente. Niente è come sembra.»
«A me sembra solo che non si capisce nulla neanche impegnandosi.» Sbadiglia rumorosamente. «E io oggi non ho voglia di impegnarmi. Sono distrutto, vado a letto» Si avvicina a baciarmi la tempia. «Dovresti andarci anche tu.»
«Buonanotte Diego.» Ho ancora la bocca piena di un enorme pezzo di pizza.
Mi sorride e si dirige in camera, lasciandomi in compagnia di Leonardo Di Caprio e dei trip della sua banda di estrattori.
Spengo la TV che i titoli di coda sono già finiti da un pezzo. Come sempre dopo aver visto questo film mi blocco a congetturare su ipotesi plausibili per giustificare il finale. «Maledetta trottola!» sibilo tra i denti.

Raggiungo il frigo in cucina e rubo un abbondante sorsata d’acqua. Guardo l’orologio tondo appeso al muro. Dovrei andare a dormire, ma ho i nervi troppo tesi.
Riscaldo una tazza d’acqua utilizzando il microonde e metto in infusione una doppia dose di camomilla. Mentre attendo i tempi necessari, alzo il coperchio del Dell rimasto in stand by da quando sono rientrata e l’ho gettato, con la dovuta delicatezza, sul tavolo. Lo sfondo del desktop è una foto stupenda che mi ha scattato Diego questa estate, poco prima del mio licenziamento.
Apro il client di posta e do una rapida occhiata. Dopo aver cancellato spam e newsletter, rimangono solo due o tre mail da leggere, ma solo una è quella che attira la mia attenzione.

--------------------- Mittente: virginia-hrm@lambdadev.com ---------------------

Gentile Signorina Centini,
le comunico che abbiamo trovato una nuova data per poter effettuare il colloquio conoscitivo per cui è proposta vista la posizione libera nella nostra azienda. Il colloquio è stato fissato per domani alle ore 15:30.
Nel caso per lei fosse impossibile, la preghiamo di indicarcelo quanto prima.

Le invio i miei più cordiali saluti
Virginia Millesi
Chief Financial Officer & Human Resource Manager
LambdaDev

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Fisso impietrita la mail e un breve lume di speranza di ottenere il posto si riaccende. So che non è richiesto, ma rispondo alla mail nonostante sia parecchio tardi.

------------------ Destinatario: virginia-hrm@lambdadev.com ------------------

Gentilissima Virginia Millesi,
la ringrazio molto per la disponibilità.
Le confermo la mia presenza per domani alle ore 15:30.

Cordialmente

Ramona Centini

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Spengo il portatile con un pizzico di serenità in più. Tolgo il doppio filtro di camomilla dalla tazza e la porto con me in camera.

La stanza che ho preso in sub-affitto da Diego è molto piccola ma graziosa. Ha un piccolo armadio e una finestra non molto grande che però illumina bene la stanza durante il giorno. Il letto è molto comodo, con un morbido materasso ad una piazza e mezza in cui navigo durante la notte. Mi siedo sul letto e sorseggio la camomillla, godendo del calore che mi scorre fin nello stomaco come primo assaggio di relax.
Diego ha affittato quella casa circa tre anni fa per essere più vicino al luogo di lavoro. Anche se l’idea di andar a vivere da solo lo stuzzicava, c’è voluto un po’ perché si decidesse a farlo davvero. Non si convinceva a lasciare Ivan da solo con la madre sempre impegnata con il lavoro. Ci sono stata due settimane per fargli capire che Ivan non aveva più otto anni ma quattordici e, come lui alla sua età, era già in grado di badare a sé.
Adesso Ivan ha diciassette anni e frequenta la quinta liceo. Diego aveva sistemato questa stanza in vista dell’anno prossimo, quando Ivan inizierà a frequentare l’università. Ma quando ho perso il lavoro, si è offerto di darla a me ad un affitto irrisorio.

Poggio la tazza vuota sul comodino e mi avvolgo nella coperta. Prendo il libro che ho sul comodino e mi immergo per l’ennesima volta nel mio mondo preferito, la Terra di Mezzo. Mando avanti un paio di pagine e le palpebre iniziano ad essere pesanti. Poggio Frodo&Company sul comodino e spengo la luce da camera appena in tempo prima di sprofondare nel sonno.

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Capitolo 4
*** 04 - Il colloquio ***


Entro in cucina trascinando i piedi, coi ricci ancora arruffati dal sonno e un solo occhio aperto, ancora avvolta nel morbido pigiama verde da fagotto. Preparo la moka cercando di combinare meno macello possibile e la metto sul fuoco. Attendo che sia pronto, organizzando mentalmente la giornata e ascoltando il rumore della doccia provenire dal bagno.
Il gorgoglio proveniente dal fornello mi riporta alla colazione e il forte odore di caffè mi investe dandomi una bella svegliata. Lo verso nella tazza che poggio sul tavolo, ci tuffo dentro un cucchiaino di zucchero e torno alla mia sedia mescolandolo.
Diego arriva pronto per il lavoro, coi capelli ancora bagnati dalla doccia. La sua aria da pulcino mi fa sorridere.
«Cosa ti ha buttato dal letto all’alba? Solitamente non esci dalla tua tana prima delle 12.»
«Ho il colloquio alle 15:30.»
«Certo, sei in pieno orario.» Alza gli occhi all’orologio mentre inizia a sorseggiare il caffè che si è versato. «Sempre che il colloquio sia in India.»
«Non voglio rischiare di arrivare di nuovo tardi.» Guardo l’ora anch’io. Sono le 9:30 e sono in pieno orario con la mia tabella di marcia.
«Cerca di non investire nessuno, oggi.»
«Ah-ah, spiritoso.»
Afferra le chiavi del suo motorino e mi saluta suonandole come un sonaglio per bambini. Chiude la porta con lo stridore solito a cui ormai sto facendo l’abitudine. Finisco la mia breve colazione e, mentre poso le tazze sporche all’interno del lavandino, penso alle sgridate di mia madre perché non mangiavo abbastanza al mattino e a tutte le menate sulla colazione che dovrebbe essere il pasto base della tua giornata bla, bla, bla.
Io ho sempre considerato la colazione abbondante una cosa da vacanza, che durante la vita normale ruba tempo prezioso che puoi passare a dormire. Lei, invece, assassina seriale di latte e biscotti, cercava di tentarmi al lato oscuro del cibo mattutino.
Sorrido guardando la sua foto sopra la TV. Mi manchi, mamma.
Sposto lo sguardo a salutare la foto di mio padre che le fa compagnia.
Eri un rompicoglioni, pà. Ma ti amo uguale.
Vado a fare la doccia, rispettando ancora la mia tabella di marcia e prendendo l’appunto mentale di chiamare mamma subito dopo il colloquio.

Per la paura di arrivare tardi, sono arrivata con troppo anticipo. Solo 15:10 e io sono ferma dentro la mia Charlie già da un bel quarto d’ora. Il sole riscalda l’interno dell’abitacolo e, nonostante fuori soffi una brezza molto fredda, qui dentro sto sudando come in sauna. Decido che è meglio scendere per salvare il salvabile dell’aspetto - e perché no, dell’odore ...o puzza - dei miei abiti. Metto l’antifurto a Charlie e impreco mentalmente osservando la brutta ammaccatura. Guardo a destra e a sinistra, da brava bambina: la strada è deserta. Mi decido ad attraversare e lo faccio con calma.
Dlin, dlin, dlin. Lo scampanellio, dapprima debole, inizia a farsi sempre più intenso e frequente.
«Attenzione!» sento urlare.
Istintivamente corro indietro, rifiondandomi sulla fiancata di Charlie e sbattendo la schiena che inizia subito a farmi male. Chiudo gli occhi qualche istante, iniziandomi a massaggiare. Quando li riapro, lo vedo. Cazzo, è sempre lui. Ma con una bicicletta nuova.
«Ehi!» gli urlo.
Non si gira, ferma la bicicletta d’avanti al portone dell’ufficio e smonta dalla sella per chinarsi a mettere la catena. Possibile che lavori qui? O sarà un mio rivale al colloquio? O forse è solo uno destinato ad uccidermi.
«Ehi, ciclista! Sto parlando con te!» Urlo con quanto fiato ho in gola.
Ancora una volta non ottengo nessuna risposta. Senza nessuna fretta lo vedo spolverarsi il soprabito e dirigersi verso l’entrata. Dimentico il codice del pedone e, sperando che l’aver scampato un incidente soddisfi il Karma per i prossimi due minuti, mi fiondo in mezzo alla strada per non perderlo.
Attraverso la porta a vetri con una tale foga da causare un enorme rumore riecheggiante per l’intero atrio. Del ciclista pazzo, nessuna traccia, come se si fosse volatilizzato. La ragazza alla reception mi osserva con uno sguardo a metà tra la pena e la paura. Cerco di darmi un minimo di contegno, accarezzo il bavero del cappotto nero e mi avvicino a lei.
«Buonasera. Sono Ramona Centini. Sono qui per un colloquio.» Sfodero un sorriso cordiale sperando che cancelli la sua prima impressione di me.
Mi sorride di rimando, ma probabilmente è solo perché il suo ruolo glielo impone. «Presso quale azienda ha fissato il colloquio?»
«Come, scusi?» La sua domanda mi spiazza.
«Signorina, in questo palazzo ci sono cinque aziende diverse.» Il suo sorriso si trasforma in un risolino di commiserazione. «Non tutti, purtroppo, mi comunicano i loro appuntamenti, per cui dovrebbe dirmi presso che azienda ha fissato il colloquio.»
«LambdaDev.»
«Ah, loro... »
La faccia quasi schifata che assume non preannuncia nulla di buono. Si ricompone quasi subito, da un paio di colpi di tosse e torna a guardarmi con l’iniziale sorriso educato. Mi passa una chiavetta elettronica.
«Prenda l’ascensore che si trova in fondo alla hall. Terzo piano. La chiave è per l’ascensore, la strisci lateralmente nel senso della freccia con decisione prima di selezionare il piano.»
Mi rigiro la chiavetta tra le mani e la saluto un po’ stordita dalla velocità e dal tono asettico delle sue ultime frasi. Deve ripeterle infinite volte al giorno.
Mi dirigo verso l’ascensore. Se questo palazzo è sede di più uffici, è possibile che il ciclista pazzo sia entrato qui per altri scopi e che quindi potrei aver perso la mia seconda occasione di riparare l’auto. Ben tornato Karma, mi eri mancato.
Arrivo al piano. Sulla porta semplice e bianca campeggia una targhetta in metallo con la scritta LambdaDev. Busso anche se la porta è socchiusa. Mi viene fatto cenno di entrare, mi accoglie una ragazza che ha circa la mia età, mi indica un puff blu se voglio accomodarmi e mi dice che andrà subito a cercare Virginia.
Torna dopo davvero pochissimo tempo, accompagnata da una donna matura e di classe. Con il suo tailleur nero con i perfili rosa pallido in tinta con scarpe e camicetta di seta, i capelli tirati su in uno chignon francese, le perle che le circondano il collo e le ornano i lobi, sembra essere appena saltata fuori da una rivista degli anni ‘60.
«Signorina Centini, presumo.»
Annuisco mentre mi afferra la mano con presa salda e decisa.
«Noto che è riuscita ad arrivare in orario oggi.»
«Ho fatto del mio meglio.» Sento il visto arrossarsi. Questa donna mi intimidisce, non sono molte quelle che riescono a farlo.  
«Sono Virginia Millesi, la Responsabile delle Risorse Umane della LambdaDev come saprà già.» Annuisco. «Vuole fare un breve tour?»
Senza attendere la mia risposta, si volta ed inizia il giro dell’ufficio. Oltre alla piccola hall, visitiamo due stanze con la targhetta “Dev” per un totale di dodici programmatori ed una stanza definita “Lambda” con dentro quattro grafici e quattro social media marketer, tra cui la ragazza che mi ha accolta. Le due stanze dei responsabili sono off-limits per cui ne ho visto solo le porte, una di Vittoria con la targhetta “CFO - HRM” (cioè “decido che carta igienica comprare e a chi farla utilizzare”)  e l’altra targata “CTO - CEO” (cioè “decido quando e come puoi usarla”). Infine arriviamo alla stanza per le riunioni che, in pieno accordo con il resto dell’ufficio, è molto asettica e lineare. Un piccola pianta con una bella fioritura colorata la ravviva un po’, forse per rilassare l’atmosfera: probabilmente è finta, non so chi qui dentro potrebbe avere tanto pollice verde da mantenerla così bene.
Virginia mi indica una delle sedie su cui posso prendere posto. Apre uno schedario da cui preleva un fascicolo che porta con sé all’altro capo del tavolo in vetro. Mi sorride, forse cercando di tranquillizzarmi, ma non rendendosi conto di quanto sia inquietante quando le labbra si stringono in una linea tanto sottile da far quasi scomparire il suo rossetto di un rosso lievemente aranciato.
«Vogliamo iniziare?»

Non ho fatto tanti colloqui in vita mia, ma credo comunque che questo sia il più lungo e snervante mai esistito. Virginia si è mostrata un muro di marmo trattando con sufficienza qualsiasi cosa dicessi. Quando mi dice che abbiamo quasi finito, guardo l’orologio e mi accorgo che sono le 16:45. Più di un’ora e abbiamo solo “quasi finito”.
«Non manca che un breve incontro con Giulio, il nostro CTO. Attendi, arriverà tra un attimo.»
Virginia esce dalla stanza. Rimango sola, fissando la sedia vuota davanti a me e i documenti sparsi sul tavolo, cerco di fermare le dita che non smettono di muoversi. Sento la porta aprirsi nuovamente ma non ne segue il rumore dei tacchi di Virginia come mi sarei aspettata.
«Signorina Ramona, le giuro che faremo molto in fretta.»
La sagoma di un uomo si fionda sulla sedia ad una velocità tale che non riesco neanche a definirne i tratti. Rimane immerso nella grande carpetta verde dietro cui tiene nascosto il viso.
«Non si preoccupi.» dico stordita dallo strano comportamento.
Giulio-il-CTO non risponde, resta immobile ed in silenzio a fissare l’altro lato della carpetta. Passa così tanto tempo che quasi conosco a memoria le piccole macchioline di caffè che vi sono sopra. Guardo di nuovo l’orologio, sto diventando impaziente.
«Quale sarebbe esattamente la carica libera? L’annuncio era abbastanza vago riguardo questo.» Cerco di stimolarlo alla conversazione.
Giulio-il-CTO, di rimando, abbassa velocemente la carpettina rivelando il suo giovane viso sorridente. Lo fisso sbarrando gli occhi, del tutto sbalordita.
«Volevo vedere quanto tempo avresti aspettato.»
Adesso sono io che non riesco a parlare.
«Sei abbastanza paziente, questo è un punto a favore.»
«Mi prendi per il culo?» sussurro gli occhi al soffitto, rivolta al karma che sta giocando pesante.
Lui mi imita nel fissare il soffitto.
«C’è qualche tuo amico anche lì sopra?» Ride.
Lo guardo di nuovo, perdendomi per un attimo nel suo meraviglioso sorriso, il tanto che basta per realizzare che sono di fronte al mio probabile futuro boss. Tossisco e cerco di ricompormi, mentre lui ancora ride.
«Ti ho riconosciuta dalla foto sul curriculum quando Virginia me l’ha portato.» Fa un ultimo sorriso e torna serio anche lui. «Mi ha detto che il colloquio è andato bene e che sembri molto adatta per questo lavoro. Il tuo curriculum poi...» lo sfoglia di nuovo «...davvero stupefacente. Non posso dirti nulla di ufficiale, ovviamente, ma credo che tu sia una delle poche candidate che ci interessa davvero.»
«Grazie.» sorrido istintivamente, arrossendo un po’ a questo complimento.
Mi sorride di rimando e poggia il curriculum sulla scrivania.
«Credevo di ricevere una tua chiamata oggi. Sai, per la tua auto. Invece sei arrivata fin dentro il mio ufficio.»
«A dire il vero non avresti ricevuto nulla. Ho perso il biglietto.» ammetto.
«Meno male per quella povera auto, allora, che il fato ci ha fatto incontrare ancora.» Guarda l’orologio. «Sono le 17 ormai, io tra un’ora circa dovrei aver finito tutto e possiamo andare dal carrozziere. Puoi restare qui se vuoi.»
Annuisco. Non avrei mai creduto di essere tanto felice di rivedere chi mi aveva quasi distrutto mezza auto. Giulio, preme il pulsante dell’interfono e chiama Virginia e Rebecca. La prima arriva immediatamente.
«Tutto fatto, Giulio?.»
«Sì, Virginia, abbiamo concluso.» Improvvisamente è tornato il capo serio che dovrebbe essere. «Ho già indicato alla signorina Ramona che riceverà una tua mail per informarla alla fine del ciclo di colloqui sull’esito del suo.»
Rebecca, la ragazza che mi ha accolto, si presenta sulla soglia.
«Giulio, mi hai chiamato?»
Le fa cenno con le dita di avvicinarsi.
«Lei è Ramona. Ha appena fatto il colloquio, falle fare un giro.»
«Veramente» si intromette Virginia «le abbiamo già fatto fare il giro dell’ufficio prima del colloquio.» Sembra che la mia presenza qui non le sia gradita.
«Ah, capisco.» Giulio torna a rivolgersi a Rebecca. «Allora spiegale come lavoriamo qui.»
Virginia sta per intromettersi di nuovo, ma Giulio alza una mano in segno di stop, saluta tutte noi e va a rifugiarsi dietro la porta del suo ufficio.

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Capitolo 5
*** 05 - Qui si festeggia ***




«Sei sicuro che il posto sia questo?» Mi stringo nel leggero giubbino di jeans.
«Credo di sì» Diego alza gli occhi a leggere l’insegna che campeggia semi-trasparente sulla porta del bar «Lighting Irish Pub, il nome è lui.»
«Pare ci sia anche la band.» Indico a Diego il piccolo furgoncino da cui dei ragazzi stanno tirando fuori una batteria.
«Mancano solo Marco e Sara, quindi.»
«Sono già in ritardo di venti minuti.» Un soffio di vento un po’ più freddo mi fa rabbrividire. «Che ne pensi di entrare e prendere il tavolo?»
«Sei la solita freddolosa.» Diego mi sorride e mi attira a se, stringendomi tra la braccia. «La mia pinguina!»
«Ehi!» Sento urlare. «Non stringere troppo!»
Sara si fionda su di noi come un uragano, separandomi da Diego con tanta forza che per poco non finiamo entrambe col sedere a terra.
Lei è una vera forza della natura. L’ho conosciuta all’università e, se vogliamo dirla tutta, inizialmente ci odiavamo. Ma di quell’odio a pelle che non ti riesci a spiegare, che ti vengono i crampi allo stomaco e la nausea. In seguito, durante il secondo anno, finimmo costrette a lavorare insieme allo stesso progetto e, galeotto fu l’esame, fu l’inizio del ciclone. Lei e Marco sono la dimostrazione scientifica dei campi magnetici in cui i poli opposti vengono attratti l’uno verso l’altro.
«Piano, Sara!» Rido mentre lei continua a stritolarmi con l’entusiasmo contagioso di una dodicenne.
Si ferma e mi guarda seria con i suoi occhi color ghiaccio.
«Bella mia, stasera si festeggia. Sappi che ho intenzione di farti bere così tanto da farti tornare a casa con un cartello al collo con scritto nome e cognome per ricordarti chi sei.»
intenzione
«Non pensarci neppure.» Diego e le sue manie protettive. Mi passa un braccio intorno alla vita e punta un dito minaccioso verso Sara. «L’ultima volta che hai fatto così mi sono trovato a dover ripulire tutti i tappeti di casa.»
«Ancora con questa storia? Sono passati due anni!» Intervengo.
«E vorrei che ne passassero molti di più. Ok?»
«Oh, piccioncini!» ci interrompe Sara «basta stronzate. Marco è già entrato a chiedere il tavolo.»
Mi tira per la manica ed entriamo.
Il Lighting è un pub irlandese in piena regola, con una soffusa illuminazione calda, tavoli alti, sgabelli di legno scuro e un bel bancone ampio con tanto di spillatori di birra artigianale in bella vista. In fondo alla saletta di entrata abbastanza capiente, i tavolini sono stati spostati lateralmente e all’angolo c’è un piccolo palchetto su cui la band sta finendo di sistemarsi.
«Sai che musica faranno?» chiedo a Diego.
Si stringe nelle spalle e scuote piano la testa, poi prosegue verso il tavolo che ci hanno dato.

Gli strumenti sono al loro posto, come noi che tra poco inizieremo a dar loro vita. Il brusio della piccola folla di ragazzi intorno al palchetto all'angolo del locale ci arriva alle orecchie in maniera netta. Prestando attenzione si riesce persino a captare qualcuno dei loro discorsi, ma a noi non interessa. Li osservo tenendo le mani ferme sul microfono, un abitudine che è quasi scaramanzia, prima di dare il via. Mi perdo ad osservare quei trenta ragazzi, cinquanta se la serata è di quelle buone, che pensano ai fatti propri. Una birra nella mano destra, una sigaretta rullata a sinistra, mentre noi stiamo qui, su un instabile palchetto di legno, pronti ad appropriarci ancora dei capolavori di altri artisti. Fisso ragazzi che notano appena la nostra presenza, che al massimo ci regaleranno un 'bravi ragazzi' a fine della serata. Li fisso e continuo a chiedermi quanto ancora riuscirò a fare questa vita. Sempre la stessa storia ad ogni serata, i due minuti tra il sound check finale e l'inizio di tutto che durano un'eternità e che mi fanno passare davanti agli occhi il passato correndo fino al presente e bloccandosi di fronte al buco nero del futuro. Cantare è la mia libertà, il gruppo è la mia famiglia, ma per quanto riuscirò ad andare avanti sfruttando qualcosa che non è mio fino in fondo?
Mi sento come se fossi felice di camminare sulle gambe d'altri, mi sento un codardo che invece di spianare la strada da solo prende il sentiero che qualcuno ha già provveduto a liberare. Sogno il momento in cui salirò sul palco, uno di quelli veri, e la gente non penserà alla birra che ha in mano. Sogno il momento in cui i ragazzi, non più cinquanta ma cinquemila, urleranno le mie parole. Sogno qualcosa che sono sicuro non arriverà e la voglia di mandare tutto a fanculo per andar via è irresistibile.
Poi guardo a sinistra del palco, Simona sempre lì. Dopo una giornata di lavoro intensa e stressante, dopo i capricci di Rose che la fanno impazzire, lei è lì a guardarmi sorridendo. Anche oggi. Mi fa l'occhiolino. Lo ricambio e mi volto a guardare i ragazzi.
«Pronti?» chiedo lontano dal microfono.
«Sempre, capo!» risponde ironicamente Giacomo.
Gli altri ridacchiano, mentre mi volto ad afferrare nuovamente il microfono.
«Buonasera ragazzi!»
Rullo di batteria e tutto ha inizio. Di nuovo.

«Propongo un brindisi.» annuncia Sara alzandosi in piedi con una mezza pinta di Guinness in mano.
Cerco di nascondermi dietro Diego che, però, continua a spostarsi ridendo e dicendomi di godermi il momento di gloria. Fortunatamente la maggior parte delle persone non ci dà retta e restano voltati verso il gruppo che pare star dando il meglio di sè.
«Al nuovo lavoro della nostra Ram ...e alla lunga serie di bevute che potrà offrirci dal prossimo mese in poi.»
Senza smettere di ridere, si fionda a bere buttando giù mezzo bicchiere e poi cerca di tirarmi in piedi. I ragazzi la aiutano e mi sollevano quasi di peso. Marco e Diego iniziano a battere sul tavolo chiedendo un discorso, solo per farmi arrossire ancora di più.
La canzone termina, la musica si ferma, il nostro baccano attira l’attenzione delle persone che ci sono più vicine.
«Sembra che qualcuno stia festeggiando, stasera.» sento provenire dal sistema di amplificazione.
Faccio vagare lo sguardo fino al palchetto. Il cantante, un ragazzo abbastanza alto con i capelli scuri e una maglietta attillata nera che lascia intravedere un fisico da studente d’ingegneria, ci sta fissando mentre accanto a lui il chitarrista, dall’aria un po’ boriosa, sembra non poco indispettito dall’interruzione.
«Sì, sì, qui si festeggia!» gli urla di rimando Sara, che è più su di giri del suo normale status. «Festeggiamo la mia amica qui!» Mi tira il polso ma mi ritraggo sperando di sprofondare sotto il tavolo.
«Portala qui.» la invita il cantante, ma vedendo che mi oppongo aggiunge «...se ci riesci, ovviamente.»
Marco non se lo fa ripetere due volte e cerca di prendermi in braccio nonostante cerchi di divincolarmi. Maledizione a quando ho deciso di mettere questo vestito svolazzante. La gonna morbida si agita sotto le contorsioni delle mie gambe rischiando di far vedere a tutti che indosso mutandine con gli orsetti acquistate nel reparto bimbi extralarge, perciò mio malgrado mi arrendo alla sua presa. Mi afferra saldamente e mi scarica sotto il palchetto. Il viso paonazzo dalla vergogna.
«E allora, amica, perché ti stanno festeggiando? Fai gli anni? Non preoccuparti, non ti chiederò quanti sono.»
Il cantante ride e tutti lo seguono, mentre io sento l’imbarazzo crescere. Mi volto senza rispondere e noto una ragazza seduta accanto al palco che mi guarda in modo strano. Qualcuno mi afferra il braccio, voltandomi di nuovo vedo che si tratta del chitarrista che mi strattona per salire sul palco. Oppongo resistenza e riesco a divincolarmi dalla sua enorme mano. Non mi piace essere toccata da persone che non conosco.
«No, ho avuto un posto di lavoro. Per questo stiamo festeggiando.» dico, quasi arrabbiata.
«Una bella notizia, davvero. Facciamo un applauso per...» allontanando il microfono mi chiede come mi chiamo.
«Ram.» ma notando il suo sguardo strano, decido di aggiungere il nome completo «Ramona.»
«...per Ramona!»
I ragazzi intorno al palco battono le mani, ben poco entusiasti e probabilmente stanchi del teatrino che si è venuto a creare.
«La prossima canzone la dedichiamo a Ramona, ok?» annuncia.
Si volta e fa segnale alla band di iniziare "Night Train". Approfitto dell'inizio della loro esibizione per defilarmi e tornare al mio tavolo. Quando mi siedo, il cantante ancora mi sta fissando continuando a cantare.

«Ragazzi siete stati davvero strepitosi! Ma su questo non c'erano dubbi!» Simona corre ad abbracciarmi non appena sceso dal palchetto. «E tu sei stupendo!» si tuffa sulle mie labbra.
«Tu sei stupenda.» Riesco a sussurrarle mentre continua a baciarmi.
Stiamo insieme da ...quanto? Circa una vita. La vidi per la prima volta alle scuole medie e da allora nulla è riuscito a dividerci. Da quando poi è arrivata Rose nella nostra vita...
«Ehi, ehi! Basta con tutti questi baci! Qui c'è qualcuno che deve passare per andare a rimorchiare!» urla Giacomo.
Tenta di separarci per riuscire a passare, ma Simona si ancora ancor di più a me. Giacomo cambia tattica, spingendoci insieme verso la parete.
«Oh, finalmente un po' di spazio!» esclama soddisfatto mentre ride.
«La tua è solo invidia, caro Giacomino!» dico ridendo, mentre continuo a stringere Simona.
«Invidia di che?»
«Di una relazione stabile, di una ragazza solo tua.»
«Invidia di una sola ragazza mia?» l'incredulità di Giacomo aumenta. «Con tutte le belle pollastrelle pronte a tuffarsi nel mio letto? Tesoro mio, forse l'invidioso qui sei tu!»
«E di cosa dovrei essere invidioso? Sentiamo!» mi volto a guardarlo sorridendo beffardo, mentre ancora tengo Simona stretta a me.
«Del mio tocco!» Giacomo inizia a muovere velocemente le dita, come se avesse ancora tra le mani la sua chitarra. «Le donne impazziscono quando vedono come so usare queste dieci meraviglie!»
Non riesco a trattenermi, scoppi in una grassa risata.
«Ridi, ridi tu! Nel frattempo io vado a cercare la polletta da sbranare stasera, mentre tu sei ormai costretto a mangiare sempre la stessa minestra ...con tutto il rispetto, eh!» si affretta ad aggiungere guardando Simona.
Simona non si offende. Sa che Giacomo è fatto così, lo sciupafemmine del gruppo, una nuova ragazza ad ogni serata, nessuna che riesca ad andare oltre il terzo incontro, un po' megalomane e un pizzico arrogante. Uno stronzo, ma uno stronzo che fa magie con la chitarra .
«E ora, se non vi dispiace, le mie fans mi aspettano! Magari ribecco la ragazza di stasera e la faccio festeggiare a modo mio.» Fa l’occhiolino sornione. Si volta, fa qualche passo ma poi torna indietro. «Date un bacio alla piccola da parte dello zio Jaki»
«Ehi tu! Non ci starai mica provando con mia figlia?» lo ammonisce scherzosamente Simona.
Giacomo alza le spalle e torna sui suoi passi alla ricerca delle gambe che occuperanno il suo letto stasera. Magari riuscirà davvero a festeggiare con quella ragazza. Come si chiamava? Rachele? Non ricordo, ma aveva tutta l’aria di  essere davvero un bel tipino.





Potete ascoltare Night Train dei Guns N' Roses cliccando sul link :)

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Capitolo 6
*** 06. Birra di troppo ***




I ragazzi della band hanno finito di suonare e hanno liberato quasi del tutto il palchetto. Non sono una gran fan del rock, ma sono stati bravi e devo ammettere di essermi divertita. La testa mi gira e mi sento intontita quel tanto che basta per stare semi sdraiata sul tavolo con il viso appoggiato ai pugni chiusi in una posa che di femminile ha ben poco, a fissare il vuoto all’altro capo della stanza. In realtà so bene chi sto fissando: il chitarrista. Fa un po’ troppo il macho della situazione e questo mi irrita, ma qualcosa dentro lo stomaco brucia ad ogni suo movimento. Lo fisso parlare con il cantante e quella che credo essere la sua ragazza. Niente male neanche lui.
Oddio, Ram! Cosa ti fanno due birre di troppo? Sono quasi astemia e mi hanno sempre preso in giro per questo. A cena solitamente non mando giù più di una bionda piccola. Stasera, invece, Sara mi ha fatto strafare mettendomi di fronte un bicchiere dopo l’altro sotto lo sguardo severo di Diego che, però, non si è opposto: sa che quando c’è lei non può fare il papà protettivo con me senza essere preso per culo senza sosta.
Sara e Marco sono fuori a fumare, Diego è in bagno. Il chitarrista saluta i compagni della band e viene verso il nostro tavolo. Mi sollevo a sedere più composta e cerco di sistemarmi alla meno peggio anche se le mie mani non rispondono bene agli impulsi dei pochi neuroni che non sono in coma.
«Ciao, bella festeggiata.» si appoggia al tavolo esattamente di fronte a te. «Piaciuto lo spettacolo?»
Annuisco in modo sconnesso e con un sorriso ebete, sento il viso arrossire.
«Mi chiamo Giacomo. Tu sei Ra…»
«...mona» concludo per lui.
«Giusto, Ramona.» Gira attorno al tavolo e mi viene vicino. Mi prende la mano ed inizia ad accarezzarla. «Bene, Ramona…» Cavolo, che bella voce che ha quando pronuncia il mio nome! «Che ne diresti di continuare a festeggiare stasera? Conosco un posto davvero speciale dove potremmo concludere la festa… solo tu ed io.»
«Credo che il pronto soccorso non sia un posto così speciale come dici.»
Diego è fermo accanto al tavolo con lo sguardo duro. Giacomo si volta a guardarlo e sorride ironico. Diego cerca di gonfiare il petto per sembrare più alto ma Giacomo lo supera comunque di una buona manciata di centimetri.
«Stai con lui?» mi chiede.
«Siamo coinquilini.»
Lo guarda e ride di nuovo. «Non vorrei mai farlo arrabbiare.»
Mi accarezza il viso con l’indice. Ho un fremito lungo la colonna vertebrale. Avvicina pericolosamente il viso al mio. Istintivamente retrocedo, ma così piano da essere quasi un invito più che un rifiuto. Mi bacia una guancia pungendomi con la barba incolta e fa scivolare abilmente un foglio di carta nella mia scollatura. Si volta e va via.
Sospiro buttando fuori la tensione, dentro sento una fiammella che brucia ancora. Il fuoco c’è anche negli occhi di Diego che mi guardano pieni di rimprovero, più di gelosia che di paterna protezione come vorrebbe far credere. Indico i bicchieri vuoti che sono sul tavolo alzando le spalle, mantenendo lo sguardo più ingenuo e innocente che riesco a fare, incolpando loro della situazione. Diego non resiste e, infine, gli strappo un sorriso.
 
«Sessanta, ottanta, cento. Ecco a te.» Sorride posandomi i cinque biglietti da venti nelle mani. «Complimenti, migliorate a vista d'occhio!»
«Grazie Bree. Tu sei sempre troppo gentile.»
«Dico solo la verità! Da quando Steve ha deciso di mettersi in proprio, siete il primo gruppo che riesce a portare qui tanta gente. State iniziando a diventare famosi! Non è che qualche volta rischio di vederti in TV, vero?»
«Non mi sembrano poi così tanti questi fan!»
La risata cristallina di Bree riesce a strapparmi un sorriso, ma come sempre dopo un concerto sono già rientrato nel mio mondo fatto di 'non mi schioderò mai da qui'.
«Ehi, cos'è quel muso lungo?»
«Niente, sono un po' stanco. Ho bisogno di dormire.» Mento.
«Saltelli per due ore sul palco, mi stupirei del contrario. Davvero, siete fenomenali. Mi dispiace solo che non riusciamo a darvi di più, ma vedi...»
«Ferma, ferma Bree! Non devi giustificarti affatto. Steve è un amico e i soldi li prendo solo perché non mi parlerebbe più. Sono anche troppi rispetto a quello che prendiamo dalle altre parti. Alcuni ci pagano solo la benzina, altri ci danno un 'grazie' e un drink se proprio sono di buon umore. In un posto ci hanno addirittura chiesto dei soldi dopo la serata!»
«Assurdi!»
«Immagina come ci siamo rimasti.»
«Di merda, ovvio.»
Bree deve essersi accorta che dietro il mio sguardo spento non c'è solo stanchezza.
«Tommaso, la gavetta è dura per tutti ma finisce prima o poi.»
«Resta da decidere come.» mi stringo nelle spalla, insoddisfatto. Decido di andare via velocemente. «Scappo dalla mia piccola adesso.»
«Salutamela.» Bree mi osserva perplessa.
«Certo.» rispondo senza voltarmi, alzando il braccio destro per un attimo.

Accompagno Diego mentre si avvicina alla cassa, cercando di convincerlo che non è necessario offrire ancora una volta.
«Avrai modo di offrire dopo il tuo primo stipendio. Allora sì che te ne farò spendere di soldi! Certo, magari vorresti che ad offrirtela fosse quel chitarrista nel suo “posto speciale”» scimmiotta sottolineando il tutto con ampi movimenti delle dita.
Gli faccio la linguaccia. Si appoggia al bancone e chiede il conto del nostro tavolo al ragazzo dietro la cassa. Anche lui è senza dubbio un bel bocconcino! Mi fermo un attimo e scuoto la testa. Fermati Ram, fermati! Alcool, esci da questo corpo!
«Ehi, la festeggiata!» mi sorride il cassiere.
Annuisco, stavolta piano, imbarazzatissima e allo stesso tempo paralizzata dai suoi occhi verdi.
«Dobbiamo fare un regalo anche noi, allora.»
Modifica a mano lo scontrino e lo porge a Diego. Infila in cassa il denaro che gli porge Diego e si allontana salutandoci. Lo seguo con lo sguardo, pochi passi più in là. Si avvicina alla barista.
«Ehi, piccola, tutto bene?» le dice.
La ragazza continua a fissare la porta da cui è appena uscito l’ultimo membro della band con cui parlava fino a poco fa.
«Non ho il muso. Sono solo un po' preoccupata. Ho la sensazione che ci sia qualcosa che non vada per il verso giusto.»
«Cosa?» Il ragazzo visibilmente allarmato inizia a tastarle piano il ventre. «Qualcosa non va? Vuoi che chiami mia madre?»
«Oh ti prego, Steve! Non c'è bisogno di chiamare tua madre per ogni cazzata. Sono incinta, non una malata in fase terminale!» Lo urla un po' troppo forte, attirando l'attenzione di tutti quelli nel locale.
Io non riesco a trattenermi dal ridere. Non mi ero accorta che fosse incinta. La ragazza si volta a guardarmi e mi sorride, forse un po’ imbarazzata. Lei è davvero bellissima e insieme sono dolcissimi. Hanno l’aria di due che si sono trovati in mezzo a una tempesta e sono riusciti ad arrivare su un isolotto al salvo da tutto.

«Diego mi sembra un po’ arrabbiato. Il conto è stato così salato? O hai combinato qualcosa tu?» mi chiede Sara mentre andiamo verso l’auto.
«Il conto non c’entra suppongo.» Mi guardo le scarpe, riesco a camminare in linea retta ma con non poche difficoltà.
«Che è successo, allora? Non avrà di nuovo fatto riferimento a quel fatto, spero!» si tocca l’anulare evitando di completare la frase.
Oltre Alex, lei è l’unica che sa dell’episodio archiviato sotto il nome di “quel fatto” con sopra l’etichetta “dimenticare, mai successo”. Anche se, per quanto si eviti di parlarne, il ricordo non potrà essere cancellato. Perché se il tuo migliore amico, nonché attuale coinquilino, dopo una cena di lavoro ti accompagna a casa posteggiando a due isolati di distanza per fare due passi e poi si inginocchia di fronte casa tua ed esce fuori una scatolina di velluto con un brillocco da mezzo stipendio dentro dicendoti che ti ama e tu inizi a gridare “no, no-no, no-no-no-no” ancora prima che finisca la frase… puoi davvero cancellarlo dalla memoria e fare come se non fosse mai accaduto? Ci abbiamo lavorato molto su e adesso riusciamo perfino a farci qualche battuta sopra, ma è successo e questo è quanto.
«Non ne ha parlato. Ma credo sia un po’ geloso.»
«Del cantante che ti ha dedicato la canzone prima?»
«No. Il chitarrista prima si è avvicinato e ci ha provato spudoratamente. Credo che volesse portarmi a letto stasera.» Arrossisco ma provo l’irrefrenabile necessità di dire la verità e una volta partito il fiume di parole non si può arrestare. «Credo di averlo voluto anche io, almeno per quella parte dei miei neuroni annegata nella birra. O almeno penso che fosse per la birra. Diego l’ha visto ed ha fatto il geloso. Così lui, il chitarrista dico, se ne è andato, ma prima mi ha accarezzato, mi ha dato un bacio sulla guancia e mi ha dato questo.» Esco il bigliettino dalla scollatura e lei me lo strappa dalle mani continuando ad ascoltarmi con enormi occhi stupiti. «E poi ho sbavato un po’ dietro il cassiere. E credo che l’abbia notato e ci sia rimasto male. Ma lo sai che la tizia al bancone sta con lui ed è incinta? Sono dolcissimi insieme!»
«Ram, Frena.» mi chiude la bocca con la mano. «Mi hai appena detto che volevi farti uno che voleva farsi te, che il suo biglietto non so come è nel tuo reggiseno...»
«Ce l’ha infilato lui.» la interrompo.
«Cosa?» dicendolo chiude le palpebre molto forte e le riapre, ripetendolo un paio di volte. «Cosa hai detto?»
«Ce l’ha infilato lui. Quando mi ha dato il bacio me l’ha fatto scivolare nella scollatura.»
«Oh, puta madre! Spiegami. Spiegami perché sei qua a parlare con me e non sei a letto con quel tizio?»
Sara ha sempre vissuto la sua sessualità in modo libero, è del pensiero che quello che desideri devi fare anche se te ne pentirai il giorno dopo. Io non la penso in quel modo, anzi oserei dire che sulla sessualità non la penso in nessun modo.
«Te l’ho detto, è arrivato Diego e ci ha interrotto.»
«Ram, te lo dico per l’ultima volta. Se Diego non inizia a farsi i fatti suoi, gli cavo gli occhi, ok?»

Guido verso casa, la strada libera scorre veloce sotto le ruote della piccola utilitaria stracolma. Simona dormicchia sul sedile al mio fianco, mentre sul sedile dietro Davide è in preda all'adrenalina e si sente come ancora dietro la sua batteria. Fa un casino assurdo, ma intorno a me c'è una grande bolla insonorizzata. Mi sento come la strada che sto percorrendo proprio adesso: statico, immobile, senza illuminazione, dritto nel buio del nulla. Tutto nella mia vita è esattamente come solitamente si sogna: un lavoro che sfama la famiglia, amici al fianco, la musica sempre presente, una compagna, una bambina stupenda e vivace. Ma qualcosa non va, qualcosa ha perso tono, qualcosa che doveva volare è fermo a terra.

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Capitolo 7
*** 07 - Buone nuove, cattive nuove ***




Scosto via le coperte mentre fuori è ancora buio pesto. Poggio i piedi a terra e assaporo per un attimo la scossa fresca che procura il pavimento.
«Ehi, che succede»
Mi volto al richiamo dell'insonnolita voce di Simona.
«Rose sta piangendo?» Chiede mentre stacca il viso dal cuscino.
«No, non preoccuparti. Lei dorme come un cucciolo in letargo.» Sorrido leggermente, andando con lo sguardo a cercare il tenero fagottino che dorme beato a pancia all'aria nella culletta ai piedi del letto.
«E allora cosa ci fai in piedi così presto?» Simona si mette a sedere sul letto, strofinandosi gli occhi con il dorso delle mani.
«Non è così presto. Sono già le sette.»
«Le sette? Non voglio alzarmi! Ho sonno.»
Non riusco a trattenere un sorriso.
«E allora resta a letto.» Mi chino a baciarle una tempia invasa dai capelli castani e mi alzo.
Quando l'ho conosciuta, Simona portava i capelli lunghi fin sotto le natiche, ma dopo la nascita di Rose li ha tagliati drasticamente alle spalle. Dice che così le viene più comodo. A me le donne coi capelli corti non sono mai piaciute, ma su lei sembrano carini.
«Ricorda di portare la piccola da mia madre.» le dico mentre frugo nel cassetto, cercando le mutande da infilarmi.
Simona mugugna qualcosa di incomprensibile, tenendo ancora la bocca incollata al cuscino. Sorrido ancora. In questi momenti sembra proprio l'adolescente con cui trascorrevo notti di baldoria durante il liceo e che la mattina si trascinava alla fermata dell'autobus con gli occhi ancora chiusi. Certe volte sembra che nulla sia cambiato. Altre invece…
Mi avvicino alla culla di Rose e le bacio delicatamente le manine cercando in lei la forza di scappare dal pensiero in cui mi sto infilando.

Attraverso la hall ostentando una sicurezza che in realtà non mi appartiene oggi. La ragazza alla reception è  diversa da quella che era presente il giorno del mio colloquio. Si alza sorridendomi in modo educato. La saluto senza fermarmi, mostrandole con orgoglio il badge della LambaDev per identificarmi. Entro in ascensore, striscio la chiave elettronica in modo deciso e seleziono il terzo piano. Davanti alla  porta semplice e bianca, mi fermo un attimo. Karma, oggi niente scherzi, per favore. Respiro profondamente ed apro la porta. Rebecca, accoccolata sul puff blu, fissa i promemoria di inizio giornata. L’intero ambiente è immerso nel silenzio.
«Ciao.» cerco di attirare la sua attenzione.
«Oh, ciao!» si alza scompostamente. «Vuoi un caffè?»
Senza attendere risposta, apre una porta a scomparsa che non avevo notato il giorno del colloquio. Attraversiamo un corridoio totalmente bianco e illuminato tanto da far male agli occhi.
«Questo è il nostro piccolo paradiso.» Rebecca sorride dolcemente.
Osservo attorno la stanza riempita di luce solare grazie ad un’enorme parete vetrata. Una serie di divani bianchi dall’aspetto morbido ed invitante fingono di essere delle nuvole mentre se ne stanno poggiati su un tappeto azzurro cielo che scorre per l’intero pavimento. Fratelli minori del puff blu all’ingresso sono sparsi agli angoli della stanza. Le pareti chiare dipinte di tonalità pastello che variano dal rosa all’arancio con ammassi nuvolosi azzurri e bianchi danno una continuità all’aria di paradiso che si respira. Dietro un bancone bianco si trovano una piccola macchinetta per il caffè, un bollitore per infusi ed un frigobar strapieno di succhi di frutta.
Rebecca mi osserva ancora sorridente, con un’aria orgogliosa. Chissà che non ci sia anche il suo zampino in questa magnifica stanza!
«Ti presento la nostra mini-stanza-dello-spirito-e-del-tempo. Sarebbe l’area relax, ma quando avrai bisogno di un po’ di tranquillità per po’ di santissimo brainstorming solitario, questa stanza è perfetta. L’ambiente è studiato per rilassare i neuroni facendoli staccare dallo stress in modo da creare ordine. E poi qui sono vietati i dispositivi elettronici! Le pareti sono a prova di rete WiFi e connessione dati. Qui dentro puoi solo lavorare con la mente.»
Wow! Stavolta riesco a tenerlo per me, anche se non riesco a fare altrettanto con l’espressione del mio viso che credo sembri quella di una bimba in un negozio di caramelle.
«E il caffè è buonissimo!» aggiunge, porgendomi una tazza di caffè che non mi ero accorta stesse preparando.

Guardo l'orologio ancora una volta: sono le quindici e trenta. Dentro questo negozio di articoli elettronici il tempo non passa mai. Colpa della crisi. Fino a qualche anno fa il negozio era sempre pieno di gente che entrava ed usciva, ma da quando pochi chilometri fuori città è stato aperto il nuovo centro commerciale con un intero piano dedicato ad uno dei più grandi negozi di aggeggi tecnologici, nel piccolo negozio all'angolo di Via Martire non entra quasi mai nessuno. Ogni tanto arriva un vecchietto che fa qualche domanda per poi andar via più confuso di quando era entrato, esclamando la tipica frase "Va beh, chiederò a mio nipote ...lui si che ne capisce di queste cose!". Se la giornata è buona, varca la porta qualcuno che ha le idee ben precise: cerca, agguanta, paga e va via. Se la giornata è molto buona entra una bella ragazza da assistere. Se la giornata è molto cattiva entra qualcuno che si crede onnisciente e inizia a rompere le palle per ore e ore e ancora ore senza arrivare a nulla.
Manca un'ora e mezza alla fine del turno e questa è senza dubbio una delle classiche giornate noiose e senza scopo. Me ne sto coi gomiti appoggiati al bancone, fissando un punto nel vuoto. La mente viaggia a questo pomeriggio: mi sono finalmente deciso a parlare ai ragazzi di quello che provo. Dopo tutto sono la mia famiglia e sono sicuro che capiranno. Una parte di me crede anche che qualcuno di loro condivida il mio pensiero.
«O si fa il botto o si scoppia.» continuo a ripetere a bassa voce come un mantra «O si decolla o ci si schianta.»
Non voglio di certo abbandonare il gruppo, tutto il contrario. Ho voglia di provare un grande salto insieme a loro. L'ultimo.
«Tommaso, posso parlarti?» La voce di Mattia mi riporta alla realtà.
«Dimmi pure. Che vuoi sapere?»
«Stai bene? Sembri un po' strano oggi.»
«Certo, sto bene. Che mi vedi?»
«Non saprei dirti. La tua testa sembra da un'altra parte. C'è qualche problema? Come sta la piccola?»
«Oh, la piccola sta una meraviglia. Ogni tanto la notte ce la fa passare in bianco, ma ci può stare. Ha pur sempre otto mesi, le passerà.»
«Tu sei sicuro di stare bene, quindi?»
«Oh Mattia, che fai lo iettatore di secondo mestiere?» chiedo portando una mano a toccare le zone intime, per scaramanzia.
«No, no, non lo farei mai. Solo che devo parlarti di una cosa un po' delicata e prima di farlo vorrei sapere se tutto è ok.»
«Sì, Mattia, per l'ennesima volta, è tutto ok. Ora vuoi dirmi che succede? Mi stai facendo preoccupare.»
Si guarda un attimo attorno. Lo guardo accorgendomi di quanto sia lui a sembrare in poca salute: è pallido e sembra parecchio nervoso, non riesce a fermare le dita che continuano a tamburellare sul tavolo.
Finalmente si decide a parlare.
«Seguimi.» dice sottovoce.
Mi porta nel piccolo deposito in fondo al negozio, tra scaffali semi vuoti e polvere.
«E allora Mattì. Che devi dirmi di così segreto? Non avrai mica ucciso quel tizio che ci provava con la tua morosa, vero?»
«La cosa è seria davvero. Le cose che devo dirti in realtà sono due. Una buona e una proprio per niente.»
«Inizia da quella cattiva, dai.»
«Non ho chiesto da quale volevi che cominciassi. O mi sbaglio?»
«Non divagare Mattia. Attacca. Sono pronto a tutto.»
Mattia rimane in silenzio ancora un attimo, fissandomi con occhi quasi lucidi.
«Quel mio amico che produce in proprio... ricordi che mi hai chiesto di parlargli del tuo gruppo?»
«Ti ha detto che facciamo schifo.»
«No, assolutamente. Anzi, ha accettato di incontrarvi. Vuole aiutarvi a produrre. Lui ha anche degli agganci che potrebbero aiutarvi dopo che avrete prodotto il vostro disco. Sai, no? Gente che è disposto a venderlo, piccoli accordi per fare dei mini-tour locali. Roba di questo tipo, sperando che possa portare a qualcosa di più.»
Sento il volto illuminarsi di più ad ogni parola. È l'occasione giusta! Finalmente riusciremo a farci conoscere al di fuori di due serate ogni tanto come cover band. Un passo avanti, un piccolo passo che potrà spianare loro la strada.
«E questa per te è una brutta notizia?»
«No, questa è la bella.»
«Ma io ti avevo detto...»
«Ti sembra una brutta notizia?»
«No, certo, ma...»
«Ma niente! "Non divagare" hai detto, giusto?»
«E allora spara anche questa brutta notizia. Dopo questa notizia che mi hai dato posso davvero affrontare tutto. Cioè, ti rendi conto? Abbiamo finalmente la possibilità di incidere, di vedere sul bancone di un negozio di dischi il nostro! Questa è una cosa...»
«Sei licenziato.»
Il sangue mi si gela nelle vene. «Che hai detto?»
Mattia fissa a terra, senza il coraggio di guardami negli occhi. «Ti danno il preavviso di quindici giorni.»
«Che cazzo stai dicendo Mattia?»
Fa un grande sospiro, alza la testa.
«Le cose stanno andando male Tommaso, molto male. Lo puoi vedere da solo. Facciamo sì e no cinquanta euro al giorno, quando va bene. Alcuni giorni non facciamo proprio niente. Lo sai quanti sono cinquanta euro al giorno? Togliendo tasse, affitto, luce e tutto il resto? Un cazzo, Tommaso, un cazzo! Non bastano neanche a pagare la merce, figurati se bastano a pagare i dipendenti! Sono sott'acqua, stanno affondando. Qualcuno è disposto a coprire i loro debiti e a farli restare a galla. Ma hanno dettato delle condizioni.»
«Ed io cosa c'entro? Perché in queste condizioni c'è scritto che devono licenziare me?»
«Non devono licenziare te. Devono licenziare tutti gli addetti alle vendite. Prenderanno degli stagisti al vostro posto, di quelli con poca esperienza e tanti sgravi fiscali, che non costano niente.»
«Ma...» Sono senza parole. Tutto l'entusiasmo che avevo in corpo è scivolato via.  «...io ho una bambina.»
«Ho voluto dirtelo io di persona invece di fartelo dire da quel deficiente del capo.»
Entro in trance, non parlo più. La mia mente diventa un vago calderone di immagini sfocate che vanno a ripetizione.
«Cosa posso fare adesso?» Sussurro, infine.
Mattia mi poggia una mano sulla spalla. «Quello che sai fare meglio.»
Non capisco.
«Sei l'unico tra tutti loro che ha una possibilità di superare questa cosa in grande stile.» Mattia cerca di sorridere. «Non sono un grande consolatore e forse ho anche sbagliato a dirti questa cosa per ultima... ma pensa all'opportunità che avete tu e i ragazzi! Hai l'opportunità di spaccare.»
Raccolgo l'orgoglio in frantumi sul pavimento e lo ingoio nuovamente. «O si fa il botto o si scoppia.»
Mattia mi guarda perplesso, ma vedendo che non accenno a spiegare ciò che ho detto, decide semplicisticamente di prenderlo per buono, qualsiasi cosa significhi. «Come dici tu!»

Sono passate da poco le 18 e, dopo aver chiuso le ultime pratiche, Rebecca mi ha portato di nuovo nella Stanza dello Spirito e del Tempo per prendere un succo insieme prima di andare via.
Il primo giorno è passato velocemente. Ho affiancato lei, che si è mostrata molto paziente nello spiegarmi i vari meccanismi interni che utilizzano alla LambdaDev, così diversi dagli schemi rigidi che utilizzavamo alla SoftWaiting. Ma, dopo tutto, me lo aspettavo: parliamo sempre di una grande azienda ormai affermata contro una piccola azienda che ha lasciato solo da pochi anni le fasi di start-up. Tutti i ragazzi si sono mostrati subito cordiali, perfino gli sviluppatori che ero abituata a guardare come animali in via d’estinzione da non osservare troppo a lungo correndo il rischio di privarli del loro potere. Non ho visto troppa competitività e questo mi piace. Sembra che tutti si vogliano bene e vivano in un mondo di pace e amore. Perfino Virginia si è mostrata un po’ meno acida nei miei confronti. So che non sarà sempre così, che forse ho solo beccato una giornata tranquilla o forse ho idealizzato tutto solo perché vengo fuori da una giungla, ma ho la vaga impressione che qui mi troverò bene. Dopo nove ore di lavoro - Rebecca ha usato la pausa pranzo per farmi far pratica con il loro software di Tasking - sono ancora sorridente e mi sto rilassando su una morbida nuvola bianca bevendo un succo al mango. Se tutti i giorni fossero così, potrei lavorare anche gratis.
Giulio interrompe il nostro silenzio entrando nella stanza sbuffando. Si toglie la giacca e la fa volare su uno dei puff. Rumorosamente apre una lattina di Redbull e si lancia su uno dei divani. Sembra accorgersi della nostra presenza solo adesso.
«Oh, guarda chi c’è a sbevazzare. Rebecca! Potresti spiegarmi la teoria secondo la quale quando ho bisogno di te so di poterti trovare sempre a poltrire qui invece che alla tua scrivania?»
Mi volto a guardare Rebecca, allibita,cercando di trattenere la mia linguaccia dal intervenire rispondendo a tono in sua difesa. Lei, invece, ride.
«Perché in realtà non hai mai bisogno di cercarmi dato che faccio tutto quello di cui hai bisogno ancor prima che il tuo cervelletto lo elabori.»
Ridono entrambi prima di iniziare a scambiarsi opinioni su quanto accaduto quel giorno nelle varie aree dell’azienda. Non avrei mai pensato che avesse un rapporto tanto confidenziale con il capo, eppure lui sembra rivolgersi più a lei per conoscere ciò che accade, che non a Virginia. Sarà un altro  miracolo di questa stanza? Sono vietati WiFi, rete dati e piramidi aziendali?
«E la nostra new entry come se l’è cavata?» parla come se non fossi presente anch’io alla conversazione.
«Oh, è stata davvero forte.»
«Bene, pensi che ce la farà per la prossima settimana a camminare sulle sue gambe?»
Ma con chi crede di parlare questo? Mi infiammo ma rimango in silenzio, mentre il suo sguardo d’improvviso lascia Rebecca per fissarmi dritto negli occhi, con aria di sfida. Non capisco che gioco sta giocando. Non capisco lui. Sembra di essere di fronte a Dr Jekyll e Mr Hyde.
«Credo che potrà farlo ancora prima di settimana prossima. Le manca solo un po’ praticità con i nostri metodi, ma di base è molto avanti. Non è una delle tirocinanti a cui si fanno fare le fotocopie, Giulio. Dovresti saperlo dato che sai il suo curriculum a memoria. Questa qui sa il fatto suo.»
Questa qui? Vedete che ci sono anch’io, sono proprio qui con voi! Ok, Ram. Concentrati sul complimento, sta dicendo cose positive su di te. Mi stupisce il fatto che Rebecca conosca il mio precedente lavoro. Il modo in cui mi ha trattato oggi, adesso, senza essere in nessun modo intimorita dal fatto che fino a qualche mese fa ricoprivo cariche di responsabilità molto più alte della sua, la rivaluta ancor di più ai miei occhi. Non mi ha dimostrato solo di essere una gran lavoratrice, ma sembra anche una gran persona.

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Capitolo 8
*** 08 - Le sorprese non finiscono mai ***




Siamo seduti al bancone di un bar sul lungomare poco lontano dall’ufficio. Anche se sono appena le 19, sento il peso dell’intera giornata gravarmi sulle spalle, tanto che non so se ho più necessità di mangiare, di farmi una doccia o di dormire. Sto valutando l’opzione di correre a casa e trovare il modo di fare tutte e tre le cose contemporaneamente, quando Giulio chiude la chiamata con il suo carrozziere di fiducia.
«Ha detto che è tutto pronto. Domattina la fa lavare e mando a ritirarla verso le 11. Se non hai come arrivare in ufficio, posso passare a prenderti o mandare uno dei ragazzi.»
«No, no. Scherzi? Già hai fatto più del necessario chiedendo a Valerio di portare Charlie dal carrozziere stamattina. Adesso ti sei offerto tu di accompagnarmi a casa e mi stai anche offrendo l’aperitivo. Ho già scroccato abbastanza, non credi?»
«Non credo. Ti ho già detto che è sempre mia abitudine assumermi le responsabilità che mi spettano. Ho causato un problema, lo risolvo. Ho causato una disservizio, cerco di rimediare.»
Si avvicina un po’ e fissa i suoi assurdamente magnetici occhi scuri nei miei. Si trasforma per l’ennesima volta nel corso della giornata. Nasconde il capo che cerca di fare il simpatico e il freddo orgoglioso che sembra voler comandare tutto. Diventa di nuovo semplicemente l’affascinante ciclista che si è schiantato sbadatamente contro la mia auto. Apre l’enorme sorriso che gli arriccia le guance e si avvicina ancora, a un passo dal mio viso. Troppo vicino.
«Dovrai imparare questa filosofia se vorrai rimanere da noi.» sussurra prima di tornare nuovamente a distanza di sicurezza.
Sorrido in preda all’imbarazzo.
«Mi piace questa filosofia.»
Mi piace anche il tuo sorriso. No, questo è meglio non dirlo. Sorrido ancora come una cretina, lui sembra esserne del tutto consapevole e si crogiola nei risultati del suo fascino. Tossicchio, devo concentrarmi per riprendere a parlare e cambiare argomento.
«E così, Rebecca è la tua sorellastra, eh!»

Ho camminato per non so neanche io quanto tempo lungo il marciapiede che costeggia il mare. Quando Mattia mi ha comunicato il licenziamento, il mondo è crollato sulle mie spalle. Ho provato a farmi forza pensando all'opportunità che avremo grazie a lui, ma dentro di me so che non posso iniziare di nuovo a costruire dei castelli che potrebbero crollare con un soffio di vento. Voglio costringermi coi piedi per terra. Se non per me, almeno per Rose. Allo stesso tempo comprendo che tutto dipende da me: se i ragazzi capissero che sono titubante, dedurrebbero che è tutta una fregatura su cui non si può contare. Sento un enorme peso addosso, che mi schiaccia sempre di più: il nostro futuro.
Immerso in quest’enorme ciclone di dubbio e indecisione, solo una cosa mi è chiara: ho bisogno di sentire la sua voce. Prendo il cellulare dalla tasca, poggio i gomiti sulla ringhiera che delimita il marciapiede e compongo il numero a memoria. Rimango appeso a quel suono monotono fin quando un 'tic' mi fa sperare in una risposta, ma è subito seguito dal solito freddo messaggio che mi avvisa della segreteria che sta per entrare in funzione.
«Ha lasciato il telefono in cucina.» mi dico.
Riprovo altre tre volte con risultato simile prima di desistere. Torno sui miei passi, ancora immerso nei pensieri.
Arrivato accanto alla macchina, il telefono inizia a squillare. La tentazione di non guardarlo nemmeno è forte, ma un'improvvisa ondata d'ansia me lo impedisce.
«Pronto?»
«Tesoro, sono io.» la voce di Simona sembra affaticata.
«Scusa se non ti ho risposto, stavo facendo il bagnetto a Rose e non ho sentito il telefono.»
Di colpo ritorna un tarlo che pian piano si è insinuato dentro le mie fibre, un sospetto che da mesi ormai mi perseguita. Diviene di colpo reale, palese. La tentazione di chiederle perché fare il bagnetto a Rose l'abbia affannata tanto, però, è messa a tacere.
«Ha fatto la monella?» mi limito a chiedere.
«Lo sai che le piace sguazzare: allaga l'intero bagno ogni volta!»
Non rispondo, lei rimane in silenzio.
«Comunque, perché hai chiamato?»
«Volevo sentire Rose, me la passi?»
La sento ridacchiare.
«Dopo il bagnetto crolla addormentata, dovresti saperlo. Sta già dormendo.»
«Va bene, allora potresti chiamarmi quando si sveglia?»
«Certo, come vuoi. Quando pensi di tornare a casa? Stai facendo dello straordinario?»
«Non direi. Devo vedere i ragazzi.»
«Salutameli allora.»
«Ok, ciao.»
«Ti amo.» la sento dire mentre già chiudo la conversazione.
In questi momento non riesco a fingere. Il ruolo dell'innamorato pazzo che mi sono imposto di sostenere fin quando non potrò dimostrare a me stesso e al mondo la verità, non mi calza più bene con tutto il peso che mi è arrivato addosso. La voce di Simona si è ricoperta di tutta la falsità che sento dentro. Qualcosa si è rotto, ma continuo a gettare colla sulle crepe. Tutto è esattamente come sempre e deve continuare ad apparire così, come una bella casa che guardi passando per un viale alberato. A te risulta bella, da sogno, perfetta in ogni suo dettaglio, nulla fuori posto: il colore, i balconi, il giardino, le finestre, tutto sembra invitarti ad invidiare chi lì dentro può viverci. Ma se sapessi... oh, se solo conoscessi un pizzico di realtà! Se fossi a conoscenza della colonia di termiti che la stanno distruggendo, se vedessi quanto poco manca al suo crollo definitivo, li invidieresti ancora?
Non poso il cellulare in tasca, ma chiamo Giacomo.
«Ciao fratello, che succede? Ti stiamo aspettando»
«Arrivo subito. Ci siete tutti? C'è una cosa di cui dobbiamo parlare.»
«Questo lo avevi già detto. Non vorrai farmi preoccupare, vero? No, perché se è quello il tuo scopo ci stai riuscendo perfettamente.»
Immaginando la sua espressione non posso fare a meno di riderne. Lo sento liberarsi con un sospiro.
«Ok amico, stai ridendo. Ne deduco che la notizia non fa spavento. Giusto?»
«Non dirò una sola parola in più se prima non arrivo lì e ci siamo tutti. Quindi chiama chi manca all’appello e digli di correre.»
«Non credere di darmi ordini, sai!»
«Giacomino, chi è il fratello maggiore?»
Lo sento sbuffare.
«Tu.» dice con tono non molto convinto.
«E chi ha creato la band?»
«Qui avrei da ridire se permetti. »
«Giacomino, rispetto!» dico in tono fintamente dittatoriale.

Giulio paga l’aperitivo e usciamo dal bar continuando a parlare del suo strano rapporto con Rebecca, diventata sorellastra mentre era già sua dipendente. Situazione imbarazzante, non c’è che dire.
Facciamo solo pochi passi verso la sua auto, quando qualcuno mi afferra il gomito trattenendomi.
«Molla l’osso!»
Mi volto pronta a schiaffeggiare il borseggiatore. Giulio, con una reattività che mi stupisce, gli afferra il polso costringendolo a mollare la presa.
«Ti è andata male!» gli dice con gli occhi in fiamme.
«Oh, oh, piano!» implora lui «Fermo amico, mi rompi il polso. Con quello ci lavoro io!»
Non so se sono le sue parole o qualcos’altro, ma un improvviso lampo mi viene in mente.
«Ma sei quello che suonava l’altra sera al pub?»
«Sì, sì, sono io.» si affanna a ripetere «Adesso che mi hai riconosciuto, potresti ritirare il cane da guardia?»
Irritato dal paragone, Giulio lo stringe più forte.
«Cuccia, Bobby! Cuccia!» si iniziano a vedere le vene gonfiarsi lungo le tempie per lo sforzo di liberarsi.
L’ho visto pavoneggiarsi tanto sul palco e adesso si dimostra il ragazzino che sicuramente è. Non posso far a meno di ridacchiare.
«Mollalo, dai.» dico a Giulio.
Giulio dà l’ultimo strattone e poi molla. Il chitarrista sbruffone si massaggia il polso dolorante.
«Il tuo ragazzo è un pitbull!»
«No, no, non è il mio ragazzo.» Mi affretto a dire, arrossendo.
Giulio scoppia in una grande risata. «Ti aspetto in macchina.» mi dice, allontanandosi mentre continua a ridere.
«Ti ha fatto molto male?»
«No, tutto ok.» minimizza. «Questa è fatta di ferro.» dice agitando la sua mano sotto il mio naso. «Tu come stai?» si avvicina.
«Bene, grazie. Mi ha fatto piacere rivederti, l’altra sera siete stati molto bravi. Ti saluto.»
Inizio a camminare, ma pare deciso a non mollare.
«Non scappare così.» Non lo guardo in viso ma sento che sorride. «Il mio bigliettino è sempre al sicuro?»
Mi fermo e lo guardo sollevando un sopracciglio, mi risponde con un occhiolino e un sorriso allusivo.
«Ti saluto di nuovo.» riprendo a camminare a passo più svelto, cercando di fargli capire che quello che è successo la sera del loro concerto non è una prassi per me.
«Ehi, dove scappi? Non ho mica detto niente. Volevo solo sapere se avevi perso il mio biglietto.»
«No, non l’ho perso.» dico seccamente, non accennando a guardarlo.
«Magari troverai il tempo di usarlo mentre il cane da guardia non c’è.»
Mi fermo di nuovo. «Quello è il mio capo.»
«Wow. Sei circondata da ragazzi che ti difendono ma nessuno è il tuo ragazzo. Ti diverti a fare la damigella in difficoltà?» sorride.
«Adesso, ciao davvero.»
Cerco di riprendere a camminare ma mi trattiene per il polso, delicatamente.
«Mi chiamo Giacomo ...e aspetto una tua chiamata.»
Mi accarezza il viso con l’indice, come quella sera. Si volta e comincia a camminare verso il bar. Credevo di avere il gioco in pugno io stavolta, invece sono ancora io quella che resta impietrita a ricordare quel tocco sul viso e a guardare delle spalle allontanarsi.

Li trovo seduti al tavolino, fuori dal nostro bar di fiducia. Alfredo, il nostro bassista, muto e taciturno come sempre, è seduto in silenzio con la sigaretta che fuma tra le dita, mentre Giorgio, il secondo chitarrista della band e un casinista nato, l'esatto opposto del suo migliore amico, sta facendo casino con mio fratello.
«Ehi, fratello!» urla Giacomo appena si accorge di me. «Non ci crederai mai. Ho incontrato la tipa dell’ultimo concerto. Ti ricordi quella che stava festeggiando? Fa un po’ la preziosa, ma… sai come vanno queste cose. Me la sto lavorando e il destino sembra essere dalla mia parte.»
Il solito, ogni ragazza che gli resiste secondo lui lo fa per tirarsela un po’ ma prima o poi inciamperà nelle sue lenzuola. E se non lo fa ...la volpe inizia a dire che l’uva è acerba. Beata incoscienza! Gli strizzo l’occhio e gli scompiglio i capelli e prendo posto accanto a Alfredo.
«E allora, cos'è tutta questa fretta di parlarci? Che devi dirci? Ci sono novità? Belle o brutte?» Giorgio inizia a bombardarmi di domande.
«Ci sono novità, sì, ma dobbiamo palarne tutti insieme. Manca ancora Davide.» osservo.
«Davide non verrà.» annuncia Alfredo, con il suo tipico fare conciso.
«Cosa significa 'Davide non verrà'? Questa è una cosa seria.»
«Allora hai sbagliato giorno. Davide oggi è impegnato a fare una cosa molto più interessante di stare qui a sentire te che fai il misterioso. Ha per le mani una tipa, pare. E oggi aveva casa libera.» mi informò Giacomo.
«Pare sia anche un tipetto aggressivo, eh!» rise Giorgio.
Una strana sensazione si sveglia nel mio stomaco. La metto a tacere in fretta, non voglio neanche darle ascolto.
«Ve l’ho detto, questa cosa riguarda tutti.»
«Senti un po', parliamoci chiaro.» esclama mio fratello, alzando il tono della voce. «Quello è a scopare senza pudore con una misteriosa ragazza. Non credi che siamo stati già puniti abbastanza?»
«Il nostro Giacomino ha ancora gli ormoni adolescenziali in circolo!» commenta Giorgio.
«Ormoni o no, non ho intenzione di sprecare il mio tempo perché lui ha altro da fare.» La declamazione di Giacomo viene interrotta dall’arrivo di un sms. «Tommaso, è la mamma. Le puoi far sapere quando andrete a riprendere Rose? Lei stasera dovrebbe uscire e... »
«Che hai detto?» il sangue mi si gela nelle vene.
«Anche mamma ha diritto di uscire, eh!»
«Cosa hai detto su mia figlia? Rose è ancora con lei?»
«Sì, mamma dice che Simona ha chiamato un'oretta fa, ha detto che ha avuto un imprevisto.»
Scatto.
«Ehi, che cazzo stai facendo?» Giacomo urla, ma non gli sento completare la frase. Sono già in corsa verso la macchina.

Arrivo alla porta di casa con lo sguardo oscurato dalla rabbia. Procedo per inerzia, un velo nero sembra essere calato d'avanti ai miei occhi e non mi permette di delineare i contorni che mi circondano. Apro la porta violentemente, tanto che i cardini tremarono sotto sforzo. La lascio sbattere contro il muro, l'impatto risuona per tutta la casa.
«Chi c'è?» la voce di Simona risponde allarmata.
«Cosa è successo?» un'altra voce si leva dopo la sua. La voce dell'imprevisto, quello che ha un nome ed un cognome.
Respiro affannosamente, con il viso arrossato dal sangue che mi è salito in testa e le mani strette in pugni dalle nocche sbiancate. Resto sulla porta per ascoltare la loro conversazione, anche se non riesco a registrare quasi nulla di quello che dicono. Solo un nome, quel nome, lo registro benissimo. Le forze mi abbandonano e devo appoggiarmi al muro per evitare di finire steso a terra. Dall'altra parte può esserci qualsiasi persona al mondo con quel nome, ma il viso che si forma nella mia mente è solo uno.
Improvvisamente sento dei passi, che mi svegliano dallo stato confusionale in cui sono entrato. Ad ogni passo che sento avvicinarsi, un nuovo flusso di rabbia mi infiamma le viscere più forte di prima. La forza torna a sostenere le mie gambe e mi alzo di nuovo, imponente e incazzato in mezzo al corridoio.
«Amore, sei tornato presto. Wow, sembra che tu abbia visto un fantasma!»
Non le rispondo. Mi fiondo in camera.
Il letto sfatto, ma vuoto. La camera in disordine, ma non più del normale. L’armadio chiuso. La finestra aperta. Mi affaccio. Siamo al piano terra, da qui è facile saltare giù. Ma per strada non c’è nessuno.
«Ehi! Cosa stai facendo?» chiede Simona osservandomi dalla porta.
«Entrando ho sentito delle voci.» il tono è volutamente accusatorio.
«Stavo guardando un film sul pc.» il suo solito tono, quello con cui mi da del pazzo, quello che non sopporto.
Mi volto istintivamente verso la culla, ovviamente vuota.
«Perché non c’è Rose?»
Sorride, forse vorrebbe farlo dolcemente ma mi indispone in questo momento.  «Stavo lavorando a una sorpresa per te.»
Afferra il pc dal comodino. Ma c’era davvero un film in pausa su quello schermo? Non ho neanche guardato, che coglione che sono! Smanetta alla ricerca di qualcosa e mi mostra un disegno progettuale.
«La tua sala prove. Personale, gratuita e a tempo illimitato. La sto progettando da un po’. Vorrei ricavarla da un pezzo del salotto, dato che non lo usiamo mai.»
Fisso il computer. Il progetto c’è davvero e sembra anche ben studiato. Una parte di me rimprovera l’altra e gioisce di questo regalo, ma l’altra non demorde e resta latente. Non riesco ad esultare. Simona se ne accorge. Perché non dice nulla? Perché non mi chiede come mai non sto saltando di gioia? Posa il pc nuovamente sul comodino.
«Avevo spiegato tutto a tua madre, ma lei a quanto pare l'ha dimenticato e ti ha fatto preoccupare. Anzi, dato che sei tornato presto perché non vai a prendere tu la bambina in modo che tua madre non faccia tardi a uno dei suoi raduni di vecchiacce acide?» si lancia a darmi un bacio sul naso che sono tentato di schivare.

Ho lasciato la macchina disordinatamente nel vialetto, perciò mi avvio velocemente sperando che nessuno l’abbia ammaccata nel tentativo di aggirarla. Tolgo l'antifurto all'auto, quando mi accorgo di lui, seduto sul marciapiede poco lontano a fissarsi la punta delle scarpe.
Troppe coincidenza non fanno forse una verità?
Sono combattuto, ma decido di dare il beneficio del dubbio. Respiro profondamente, ingoiando la rabbia che sto per vomitare. Schiaccio nuovamente il pulsante dell'antifurto e mi dirigo verso di lui.
«Oh, Davide! Che ci fai qui? I ragazzi mi hanno detto che avevi un appuntamento dei tuoi.»
Non risponde, alza piano gli occhi dall'asfalto, occhi infiammati da lacrime. Mi fissa e non c’è bisogno di dire altro. Senza una parola, mi conferma tutto quello che speravo di non sapere mai.
Serro i pugni di nuovo. La rabbia mi monta dentro ancora. Perché non ho voglia di picchiare lui? Mi volto nuovamente verso l’auto.
«Tommaso, fermati!» la sua voce ancora spezzata dal rimorso.
Ubbidisco, mi fermo. Lo trovo a un passo da me, in mezzo alla via. Lo afferro per il colletto della maglia.
«Quanto tempo?» gli chiedo tra i denti serrati.
«Non chiedermelo, ti prego.» piagnucola.
Mi fa incazzare di più. Urlo con quanta forza ho in corpo. «Voglio sapere da quanto tempo ti scopi mia moglie!»

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Capitolo 9
*** 09 - Chiuso ***




Perché non poteva essere uno sconosciuto? Perché doveva essere una persona così vicina? Perché doveva essere qualcuno? Troppe le domande che mi frullano in testa. I perché si moltiplicano all’infinito, fino a diventare quando, quanto e come. Mi tormentano, non riesco a respirare.  Guardo il mare dritto di fronte a me, nero come quello che sento dentro. Mi osservo la mano, ancora indolenzita. Nonostante la fioca luce riesco a vedere il nascere dei lividi sulle nocche.
L’ho colpito così tante volte che quando si è accasciato a terra ho avuto paura di averlo ucciso. Gli ho chiesto se stesse bene, gli ho controllato il viso e l’addome, non era ferito. L’ho fatto salire in auto con me, l’ho portato a casa. Gli ho detto di sparire.
«Ai ragazzi penserò io» gli ho detto «non lo sapranno.»
Ma la verità è che non posso pensare io ai ragazzi. Non posso pensare a nessuno. Neanche a…
«...Rose.»
Il suo nome mi sfugge tra le labbra, un filo di fiato, l’ultimo che mi tiene in piedi. Crollo sulla spiaggia, sciogliendomi in un pianto che racchiude tutto quello che non ha senso di fronte al suo nome. Tutta la rabbia, il mio orgoglio ferito, il dolore del tradimento. Non conta niente pensando a lei, a tutto quello che ho, all’unico amore che posso.

Il cartello "chiuso" penzola davanti la porta. Guardo l’orologio e mi accorgo che sono già le due di notte. Il lunedì Steve chiude il pub presto, potrebbe già non essere più qui, ma la porta non è ancora serrata. Spingo la pesante porta di legno, le luci sono ancora accese. Richiudo la porta e mi avvio verso il bancone, il pavimento di quercia scricchiola sotto i miei passi.
«Siamo già chiusi!» una voce a me sconosciuta risponde alla rottura del silenzio.
«Lo so.» rispondo senza riflettere. «Steve è ancora qui?» mi affretto ad aggiungere.
Una ragazza viene fuori dal buio, il grembiule nero con il logo del locale stampato in rosso all'angolo inferiore destro legato alla vita.
«Ho detto che siamo chiusi.»
I miei nervi sono una corda di violino e il suo atteggiamento mi innervosisce ancor di più.
«Ho letto il cartello, so che il locale è chiuso, ma sto cercando Steve.»
«Sai che c'è? Io non ti conosco ma credo che debba rivedere il tuo italiano, bello. Siamo chiusi significa che siamo chiusi. E se siamo chiusi, e lo siamo, tu devi girare i tacchi e tornartene per la tua strada.»
Non ce la faccio più, sono sull’orlo di una crisi di nervi, sento che sto per esplodere e non voglio farlo. Rischio di non riuscire a controllarmi.
«Senti, ragazzina...» muovo un passo verso di lei, ma devo fermarmi. «Ehi, ehi! Calma, non ti agitare!»
Alzo le mani all'altezza del viso, cercando di non fare movimenti bruschi. La ragazza, con la velocità di un ninja e la freddezza d'animo di una psicopatica, ha estratto un coltello dalla tasca posteriore dei pantaloni e me lo punta contro. I nervi si spezzano, invece di sentir montare l’adrenalina il mio corpo reagisce in senso contrario, mi sento rammollire.
«Ti ho detto di girare i tacchi e tornartene per la tua strada.»
La sua voce ferma non tradisce nessun sentimento. È inquietante.
«Ok, va bene. Me ne vado.»
Indietreggio muovendomi con estrema lentezza, concentrando lo sguardo sul coltello. Lei non cede, rimane fin troppo calma. Inizio a pensare che sia pazza davvero.
La porta si apre di nuovo rumorosamente alle mie spalle.
«Emma, possiamo chiudere?» un distratto Steve entra giocherellando con il mazzo di chiavi.
«Ho solo un'ultima cosa da fare.» continua a non muoversi, tiene alto il coltello e gli occhi fissi nei miei.
Mi sono rassegnato ad essere di fronte ad una squilibrata, perciò rimango immobile ad aspettare un cedimento in quel pitbull di nome Emma prima di aprire bocca, non provo neanche ad attirare l’attenzione di Steve.
«Che devi fare ancora? Vuoi una mano?» è al quadro elettrico, non si è accorto di nulla.
«No, ce la faccio da sola.» fa un passo in avanti, inizio a sudare freddo.
«Dai, ti aiuto.» Steve si decide a voltarsi, finalmente. «Oh, Tommaso! Che ci fai qui?»
Come rispondendo a un tacito comando, Emma abbassa il coltello e lo poggia sul tavolo, per poi allontanarsi mentre scioglie il grembiule. Non mi decido a muovere un muscolo, sconvolto dalla sua reazione più che dall'essere stato sotto il tiro del coltello di una sconosciuta: si comporta come se fosse la cosa più naturale del mondo e ciò non è affatto rassicurante! Inizio a chiedermi se non sia solo uno degli strani sogni causati dallo stress.
«Che ti succede? Sembra che tu abbia visto un fantasma.»
«Steve.» riesco finalmente a dire «Chi diavolo era quella?»
«Quella chi?»
«Il cane da guardia che per poco non mi azzannava.»
«Parli di Emma? Carina, vero?»
Valuto seriamente la possibilità che Steve abbia perso del tutto il cervello mentre shakerava un cocktail.
«Carina? Mi ha puntato un coltello!»
«Sì, in effetti è un po' stravagante ma è comprensibile la sua reazione. Era da sola nel locale e si è vista piombare dentro uno sconosciuto. Si sarà spaventata.»
«A me non sembrava spaventata. Sembrava solo pazza»
Steve ride. «In effetti credo lo sia, ma Bree ha insistito per farle fare una prova per quel posto di cameriere. Sai com'è lei! Si affeziona ai casi disperati.» Fa una pausa.  «Credo che le ricordi un po' Evan. Non essere riuscita a salvarlo l'ha marchiata dentro e ora si butta a capofitto in ogni brutta storia che incontra.»
«La sua non è stata già abbastanza brutta? »
«Glielo ripeto ogni volta anche io, ma lei è così ...così ...testarda. Le dico sempre di stare attenta e adesso che è incinta vorrei proteggerla ancora di più. Ma quando si mette in testa una cosa è irremovibile. Tu mi capisci, no?»
Un brivido mi corre lungo la schiena e una fitta di dolore lancinante mi attanaglia il cuore. Annuisco. Ricordo come non fosse passato neanche un giorno tutte le notti insonni trascorse durante i nove mesi in cui aspettavamo Rose, sperando che nulla potesse danneggiarla.
«Steve, io sono pronta.» Emma si avvicina, avvolta in un cappotto grigio scuro.
«Vieni qui, ti presento Tommaso.»
«Emma.» Stringe la mia mano con forza e decisione, la sua personalità tutt'altro che debole è evidente come il fatto che la sua non sia affatto pazzia. C’è qualcosa di molto di più.
«Scusa per il coltello. Sono abituata a difendermi al primo segnale di pericolo e... »
«Tranquilla, tutto dimenticato.»
Sorrido e lei ricambia, i suoi occhi sembrano sciogliersi dietro alle lenti dalla spessa montatura scura, rivelandosi ambrati.
«Spero di non averti spaventato troppo. »
«Ma no!» si intromette Steve. «Il mio amico qui è una roccia!»
Emma ci dà la buona notte e si avvia in strada. Mentre si avvicina di nuovo al quadro elettrico per completare l’interruzione della corrente, Steve pare ricordare quanto sia strano che io sia qui a quest’ora.
«Non mi hai ancora detto cosa ti porta da queste parti a quest'ora.»
Un groppo mi chiude la gola. Scrollo le spalle e lo butto giù.
«Niente, lascia stare. Volevo solo una birra e quattro chiacchiere.»
«Beh amico, sai che birra e chiacchiere sono il mio pane quotidiano, ma Bree mi aspetta a casa. Non è stata molto bene oggi e proprio non voglio farla preoccupare.»
Vorrei dirgli che è tutto ok, di tornare a casa da sua moglie ad accarezzare il suo pancino in levitazione, che magari ne riparliamo domani. Ma non ce la faccio. Tutto quello che riesco a fare è trattenere le lacrime e restare immobile a guardarlo inebetito.
«Ehi, amico! Ora sono io quello preoccupato. Sei bianco come un cadavere.»
Continuo a non dire nulla. Steve mi fissa negli occhi, cercando di leggermi dentro.
«Tommaso, tu non hai bisogno solo di una birra. Vero?»
«No.» sibilo, trattenendo a stento un singhiozzo.
«Questione di soldi? Quanto ti serve?»
«No, Steve. Quello che mi servirebbe è...»
Deglutisco. Respiro.
«Mi servirebbe un posto per dormire stanotte. Non posso tornare a casa.»
Steve non mi chiede altro. Chiude tutto il più in fretta possibile. Quaranta minuti dopo sono già sotto le coperte del divano-letto nella sua stanza degli ospiti.

Guardo l’angolo in basso a destra del monitor: sono quasi le tre. Decido di smetterla di perdere tempo e spengo tutto.
Ero convinta di crollare addormentata appena varcata la soglia di casa, ma mi sbagliavo. Diego ha preparato la cena mentre facevo la doccia. Per festeggiare ha preparato la pasta con zucchine e formaggio cremoso: il suo piatto migliore, nonché l’unico che sappia cucinare, se si escludono le pizze precotte. Gli ho raccontato la mia giornata, ho ascoltato la sua, tutto è andato avanti da copione. Ma poi sono rimasta da sola e i ricordi mi hanno assalita. Alex e Vale, avrei voluto raccontare a loro quello che è successo, del mio primo giorno a lavoro, della mia Charlie tutta ammaccata, di Rebecca la nuova collega sorellastra del capo. Chissà che direbbe Alex di Giulio? E cosa penserebbe Vale del mio secondo incontro con il chitarrista? Lei ha sempre avuto un sesto senso, come quando mi avvertiva di stare attenta a quel Dario o quella volta che...
E così mi ritrovo alle tre di notte persa tra vecchie fotografie e ricordi un po’ ingialliti.
«Che fai ancora alzata?» la voce insonnolita di Diego mi coglie di sorpresa facendomi sussultare.
«Niente, stavo...»
«...rispondendo alle email.» mi interrompe, mentre apre il frigo. «Questo teatrino lo conosco a memoria ormai. Ram, lo so che ti eri di nuovo bloccata a pensare alle ragazze.»
Silenzio, non rispondo. Diego beve direttamente dalla bottiglia di plastica.
«Dovresti provare a chiamarle.»
Sa che ho paura di farlo: se rispondessero male o mi liquidassero in poco tempo, significherebbe che tutto è davvero morto. Io invece sono ancora aggrappata alla speranza.
«O magari mandi loro una mail. Con tutte quelle che smisti, non dovrebbe essere un problema.» Cerca di sdrammatizzare.
Torna in camera, lasciandomi di nuovo sola. Nel completo silenzio della casa, non sento il tipico cigolio, quindi capisco che non ha chiuso la porta. Se non lo ha fatto c’è un motivo. Ha capito.
Raggiungo l’entrata della sua stanza e mi appoggio allo stipite. Lui fa finta di dormire ma lo vedo sorridere appena sente la mia presenza.
«Giochi o non giochi?» mi chiede.
«Gioco!» gli rispondo subito ridendo e mi tuffo a letto con lui.
L’ho costretto a riguardare quel film così tante volte che ormai questa è diventata una frase comune in casa. Specialmente quando capisce che è una notte in cui proprio non mi va di stare da sola.
Mi circonda il fianco col braccio. Respiro profondamente e sento scivolare via pian piano i miei pensieri al ritmo regolare del suo respiro.






"Giochi o non giochi" è una citazione dello stupendo film "Amami se hai coraggio" di cui potete vedere il trailer qui https://www.youtube.com/watch?v=prPie0ntKjA

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Capitolo 10
*** 10 - A Lavoro ***




«Sai che puoi restare quanto vuoi, vero?»

«Sì, Bree, certo che lo so.»

«E che non ti chiederò cosa è successo se non vorrai dirmelo, lo sai?»

Mi sfugge un sorriso. «Sai che implicitamente me lo stai chiedendo?»

Arrossisce un po’ sentendosi beccata sul fatto.

Il cellulare vibra ancora, lo ha fatto per tutta la notte. Non ho avvisato Simona che non sarei tornato a casa. Ho avvisato solo Giacomo con un sms che ero vivo, per non far preoccupare mia madre. Dove avrà passato la notte Rose? Vorrei rispondere alla chiamata di Simona solo per chiederle questo. Come sta la mia bambina? Ma non mi va proprio di sentire la voce di Simona. Rifiuto la chiamata e imposto la modalità offline.

«Dovresti risponderle.» suggerisce Bree.

«Non sono del tuo stesso parere.» bevo il succo d’arancia che mi ha versato.

«Ci sono problemi tra di voi?»

«Niente domande, Bree. Hai promesso.»

«Sì, sì, lo so. Solo che mi è sembrato tutto così strano. Sai che quando sento che dovrà succedere qualcosa, il ginocchio mi avvisa tremando. Bene, stanotte non si è fermato un attimo.»

«Bree, ti ringrazio davvero molto della vostra ospitalità.» Poggio il bicchiere insieme alle altre stoviglie da lavare. «Non so come avrei fatto senza di voi. Ma quello che sta succedendo è troppo grande, più grande di me. Non ho la forza di parlarne.»

Il suo viso si trasforma, si intristisce nonostante la stupenda luce che la gravidanza le ha donato la renda comunque bellissima e dolce.

«Non preoccuparti. Ce la farò. Ve ne parlerò appena sarò pronto.»

Le bacio la guancia, la saluto e vado ad affrontare il giorno del mio licenziamento.


Il rito mattutino alla LambdaDev è un toccasana. La Stanza dello Spirito e del Tempo coi suoi divani comodi, il suo silenzio e il suo ottimo caffè, è il luogo adatto per staccare dal mondo esterno e socializzare con il team, prima di iniziare a lavorare. Sono qui da due giorni soltanto, ma mi rendo conto che questo potrebbe essere il mio vero habitat.

Rebecca mi assegna le prime attività per l’affiancamento e mi dà in modo gentile ma molto professionale le linee guida, che inizio a seguire da subito. Infilo le cuffie alle orecchie, faccio partire la mia playlist di Ligabue su Spotify ed entro in modalità Zen. Provo una strana soddisfazione nel vedere che ancora mi riesce bene. Sono concentrata a tal punto che, quando finisco il primo task e riprendo contatto con il resto del mio essere, mi accorgo di aver terminato un album e mezzo senza aver realmente ascoltato neanche una canzone. Sono le dodici e mezza, ho lavorato per quasi tre ore filate, mi merito una pausa. Faccio vagare lo sguardo intorno alla stanza Lambda e vedo che Rebecca è immersa in conversazione con due grafici.

La raggiungo. «Rebecca, io andrei a prendere un caffè.»

Mi sorride dolcemente. «Non devi chiedermi il permesso, vai pure. Anzi, dò un occhio a quello che hai fatto e ti raggiungo.»

Mi avvio da sola. Lungo il corridoio incrocio Luca, uno dei programmatori. Mi fa un cenno di saluto col capo e continua la sua strada verso l’area sviluppo, o più semplicemente “il Dev”. Credo di non avere ancora sentito la sua voce in questi due giorni, al contrario del suo compagno di scrivania, Mark, una specie di sotto-capo del reparto tecnico e un tornado inarrestabile di parole.

La Stanza dello Spirito e del Tempo è stranamente vuota. A detta di Rebecca è facile trovarla occupata da qualcuno dei grafici in cerca di ispirazione o qualche programmatore che vuole recuperare il sonno perso a causa di un’idea sviluppata durante la notte. Scelgo un succo di frutta, alla mela verde come lo prendeva sempre papà, e vado verso uno dei puff.

«Battiamo la fiacca?»

Trasalgo a quella voce, voltandomi di scatto. Giulio è appoggiato al muro dietro la porta.

«Mi hai fatto spaventare!»

«Rebecca ti sta istruendo in pieno nel fare le sue veci, eh!»

«Rebecca non è affatto una scansafatiche.» So che scherza, ma non riesco a trattenermi. «E neanche io se è per questo.»

Mi aspettavo una nuova trasformazione in Mr Hide, invece si limita a ridacchiare e ad andare a prendere una lattina di Redbull.

«Prendi!»

Senza darmi il tempo di comprendere, mi tira contro qualcosa che mi centra in piena fronte. Le chiavi di Charlie!

«Se vuoi darle una controllata, è qui fuori. Ho mandato Valerio a prenderla poco fa. Mi ha detto che, anche se hanno fatto tutto in poco tempo, è venuta fuori un gioiellino.»

«Grazie mille.»

«Dovevo.» mi fa l’occhiolino, sorride e va via.

Stilo mentalmente una lista osservandolo allontanarsi. Pro: quando ci si mette è simpatico, sa mandare avanti un’azienda, gira in bici quindi ama l’ambiente, ha un bel sorriso, nel complesso è un figo. Contro: è il mio capo. La colonna dei pro, va magicamente in fumo.


La conversazione con i miei, ormai ex, datori di lavoro è stata meno traumatica di ciò che pensavo. Non ne saprei spiegare il motivo ma, forse per la giornata schifosa che ho affrontato ieri o forse perché il papillon giallo a pois verdi del capo ha catalizzato la mia attenzione, il tutto è sembrato tragicomico e ho lottato duramente contro la voglia di iniziare a ridere. Il modo in cui quel vecchio ha cercato di farci credere che perdere il lavoro fosse quasi nel nostro interesse perché "siete ragazzi d'oro e meritate di meglio che prendere polvere dietro ad un bancone", la proposta di presentarci l'amico di un amico che ha un amico che può presentarci un amico, le lacrime che quasi è riuscito a far uscire a comando per sostenere la sua scenata da cuore straziato: ogni cosa in lui è stata grottesca. Dirci semplicemente che non dovevamo più presentarci avrebbe fatto una impressione migliore.

Uscito dalla stanza del ben servito, vado allo spogliatoio per posare la felpa del negozio all'interno dell'armadietto e mi avvio all’uscita. Incrocio lo sguardo di Mattia, pieno di vergogna e dispiacere, che chiama Alberto a rapporto dai Friedman dentro lo stanzino. Mi fa cenno di attenderlo, così mi fermo ad aspettarlo appena fuori dal negozio.

«Ehi, ragazzo. Come è andata?»

«Beh sai, siamo tutti dispiaciuti, ma io sono troppo un bravo ed intelligente ragazzo!» inizio facendo il verso al vecchio. «Poverino il Friedman! Aveva la pena al cuore ogni volta che passando di qui mi vedeva perdere tempo dietro a qualcosa troppo piccolo per me.»

Mattia ride. «Che stronzo!»

«E pure paraculo!» aggiungo.

«Io invece sono quello che sta cercando di salvare il tuo di culo.»

Esce dalla tasca dei jeans un piccolo foglietto e inizia a sventolarlo.

«È quello che penso che sia?» glielo strappo di mano, in preda ad un attimo di euforia.

Un biglietto da visita. Antonio De Blasi, Talent Manager. A seguire tutti i recapiti, telefonici e telematici, dell'amico di Mattia che sarebbe stato il nostro trampolino di lancio ed un'aggiunta a penna con una calligrafia decisa e sicura di sé: "Lunedì 24 ore 14 in sede".

«Ti ...ti ha dato l'appuntamento?»

«Prima del previsto! Mancano quindici giorni, in tempo per liberarti di questo merdoso negozio.»

«Veramente... »

«Cosa stai per dirmi figlio di buona donna?» mi fissa torvo.

Dovrei dirgli che siamo rimasti senza batterista? E se mi chiedesse perché? “No, sai, il batterista si scopava mia moglie…” Non è il caso.

«Non so se ci riusciremo in così poco tempo.»

«Per tutti i diavoli, Tommaso! Io sto cercando di darvi una mano ma non posso fare tutto da solo. Qui siamo ad un altro livello. Porca balena, mi sarei aspettato una superficialità del genere se il leader del gruppo fosse stato tuo fratello, ma tu mi stupisci.»

Resto qualche attimo in silenzio, combattuto sul da farsi. Faccio scivolare il biglietto da visita di De Blasi dentro il taschino del giubbotto.

«Grazie dell'interessamento, Mattia. Ti farò sapere come va.»

«Ho fatto quello che potevo. Ora tocca a te. In bocca al lupo.»

«Crepi. E crepi presto.»

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Capitolo 11
*** 11 - Can che abbaia ***




Guardo ancora una volta l’orologio e la sedia vuota accanto a me. Sono seduta al bancone del Lighting da circa un’ora e mezza aspettando Sara.

«Mi fai un altro Long Island, per favore?»

Il barista mi guarda dubbioso ma si mette all’opera.

«Una ragazza che beve sola ad un bancone. Non finiscono mai bene i film che iniziano così.»

Nella penombra, individuo la sagoma del proprietario della voce seduto a qualche sgabello di distanza anche lui con un bicchiere in mano.

«Tom, non spaventarmi le clienti. Ti prego.» lo ammonisce ridendo il barista. Mi lascia il bicchiere pieno tra le mani e mi rassicura. «Non preoccuparti, abbaia ma non morde.»

«In realtà, spesso neanche abbaia!» aggiunge la cassiera incinta arrivando ad abbracciare il suo ragazzo dietro il bancone. «Il nostro Tom è solo un po’ ubriaco, ma non farebbe male a una mosca.»

Le sorrido, apprezzando la luce che sprigiona il suo viso nonostante l’ambiente semibuio. Lui le accarezza piano il piccolo pancino rotondo e le chiede se si senta stanca. Sono tanto dolci che mi sento in imbarazzo ad ascoltare la loro conversazione, perciò inizio a sorseggiare il Long Island e faccio vagare lo sguardo per il locale. La gente oggi qui è davvero poca: escludendo noi al bancone solo tre tavolini sono occupati e la bella cameriera bionda li serve agilmente e con precisione.

«Mi sa che ti ha dato buca.»

L’ombra del ragazzo adesso ha una forma più delineata dato che ha preso posto accanto a me. Mettendo a fuoco il suo viso, riesco a ricordare di averlo già visto: è il cantante del gruppo che si esibiva la mia prima sera al Lighting. Sembra quasi che questo gruppo mai visto prima sia in qualche modo diventato la mia tortura segreta. Istintivamente mi tocco la scollatura non troppo profonda della maglietta che indosso, convinta di sentire gli angoli appuntiti del biglietto che il suo collega mi ha gentilmente regalato.

«So che non mi conosci, ma ci tengo a dirti che è un coglione.» aggiunge d’improvviso

«Chi?»

«Il tizio che aspetti.»

Resto un attimo interdetta, prima di capire. «No, no. Sei fuori strada. Aspettavo una mia amica.»

Afferro il cellulare e chiamo Sara. Nessuna risposta.

«Lo stai chiamando e non risponde, vero? Confermo la mia prima ipotesi: è un coglione.»

Non gli do retta e chiamo nuovamente Sara. Ancora nessuna risposta. Sento lo sconosciuto-cantante-Tom che ridacchia. Prima che possa far partire la terza telefonata, arriva un messaggio. Gli do uno sguardo veloce, con un mezzo sorrisetto da “te l’avevo detto”, ma lui non cede e ricambia lo sguardo senza smettere di ridacchiare.

Da parte di Sara: “Scusami, avevo proprio dimenticato la cena dai genitori di Marco. Spero potrai perdonarmi!”

Ho una non troppo strana voglia di strozzarla, ma decido di fargliela solo prendere un po’ a male. Le rispondo: “Per colpa tua devo sopportare le molestie di un ubriacone ...almeno è carino!”

Mi risponde quasi all’istante: “Puoi dirgli che gli spezzo tutte e dieci le dita insieme ...a meno che tu non voglia portartelo a letto.”

«A mia discolpa, vorrei precisare che non sono ubriaco e che non avevo pensato in nessun modo di molestarti.»

Alzo gli occhi e trovo Tom allungato verso di me a leggere il contenuto del mio schermo. Getto il cellulare alla rinfusa nella borsa e scatto in piedi, piuttosto innervosita.

«Sai che ti dico? Che il coglione qui sei tu.»

Mi avvio verso la cassa a passo spedito, nonostante sia molto vicina non riesco a raggiungerla. Mi afferra il braccio bloccandomi, ma appena mi volto mi lascia immediatamente alzando le mani all’altezza delle tempie.

«Ehi, scusami. Ho esagerato, volevo solo scherzare. Sul serio, non volevo molestarti, mi dispiace di averti spaventato.»

Lo fisso immobile, senza accennare una resa. Il barista e la sua ragazza si avvicinano, anche la cameriera viene verso di noi. Abbiamo gli occhi addosso di tutti i pochi ospiti del locale. Tom abbassa le mani facendole ricadere lungo i fianchi e chiude gli occhi.

«La verità è che hai ragione a dire che sono un coglione. Scusami, te ne prego.»

«Tommaso, qualcosa non va?» La cameriera è su di lui e vedo chiaramente che gli ha afferrato saldamente il braccio nudo.

«Emma, tranquilla. Tutto ok.» le dice la cassiera incinta.

Lo molla e si allontana senza togliergli da dosso gli occhi di ghiaccio.

«Tutto sotto controllo?» chiede il barista a Tom.

«C’è stato un piccolo malinteso. Spero sia chiarito.» mi sorride.

Il suo sorriso mi fa uno strano effetto. Sembra tanto fragile, come fosse solo il riflesso di un dolore e potrei scommettere che non è causato di certo dall’essere passato per molestatore. Non lo conosco, eppure giurerei che qualcosa di grande l’ha spinto qui stasera, qualcosa da dimenticare. Senza dubbio sto per fare un’altra delle mie scelte sbagliate ma ormai ho preso la mia decisione in merito a questo dolorante cantante solitario.

«In realtà, per chiarire tutto sarebbe meglio che tu mi offrissi qualcosa in segno di pace, non credi?»


Le ho offerto un panino. Probabilmente non è quello che si aspettava dopo i due Long Island scolati da sola, ma mi ha confessato di essere a stomaco vuoto e di dover guidare perciò è stata l'unica cosa sensata che mi venisse in mente di fare: tentare di evitare di peggiorarle la sbronza. Ram è simpatica, molto carina e sembra davvero una tipa in gamba. Io, invece, sono un casino che cerca ancora scuse per non tornare a casa e lasciare la sua fedifraga compagna, che ha buttato via il telefono in modo da non essere rintracciato da nessuno e che sogna di notte di non essere il vero padre della sua bambina.

Ram sta ridendo dopo aver finito di raccontare un aneddoto sulla sua vita lavorativa. O forse riguardava i tempi della scuola? Non saprei dirlo, ho perso l’intero discorso immerso nell’ennesimo Gin Tonic e nei pensieri che ero venuto qui a dimenticare.

«Ma dimmi di te, adesso. Come mai sei qui da solo. Dove è la tua ragazza stasera?»

La sua domanda mi arriva addosso come una doccia fredda, le orecchie iniziano a ronzare e le vertigini si impossessano della mia testa. Un forte botto mi risuona nelle orecchie facendomi trasalire. Anche Ram trasale, un lampo di panico le attraversa i grandi occhi castani. Il grosso libro contabile su cui annota l’andamento delle serate è caduto dalla cassa. Bree, la solita impicciona, stava origliando ed è sconvolta quasi quanto me. Ram si precipita ad aiutarla mentre io non riesco ancora a muovermi, una grande confusione di ronzii mi frulla in testa, come se tra i miei neuroni abitasse un’intera colonia di api operaie a cui è stata uccisa la regina.

«Certo che è proprio dolce!» Ram è tornata a sedersi accanto a me e sta indicando Steve, accorso a controllare che Bree stesse bene

«Sì, sono molto innamorati.» non riesco a controllare il mio tono di voce, che è diventato completamente atono.

«Anche tu e la tua ragazza lo sembravate quando vi ho visto suonare.»

Di nuovo un enorme botto mi squarcia i timpani, ma stavolta non può averlo sentito nessun altro a parte me, è solo l’esplosione del mio cuore in mille pezzi.

«Ti senti bene?»  Ram mi poggia una mano sulla spalla, i suoi occhi castani sono più grandi del normale, pieni di apprensione. «Sei diventato improvvisamente pallido.»

«Ehi amico!» la voce di Steve mi arriva ovattata ma so già cosa vuole dirmi. «Non azzardarti a vomitare sul bancone. Fila in bagno!»

Ubbidisco. Mi sposto velocemente e chiudo alle mie spalle la porta del bagno appena in tempo per vomitare anima e odio nel water.

Toc, toc. Sento bussare alla porta. Rispondo con una sorta di grugnito, il massimo della comunicazione che mi sia al momento possibile.

«Tutto bene lì dentro? Hai… hai bisogno di una mano?»

«No, grazie Ram. Hai già fatto la tua buona azione quotidiana restando a parlare con me, non c’è bisogno che aiuti a vomitare uno sconosciuto incontrato in un bar.»

Ho il respiro pesante e la bocca amara, mi sento sfinito. Ricado seduto sul pavimento del bagno che, non so per quale caso fortuito, è quasi pulito. Mi appoggio rumorosamente alla porta.

«Non voglio fare una buona azione. Vorrei solo sapere se hai bisogno di una mano.»

«Senti, Ram.» non so perché il mio tono si sia fatto così duro. «Ti ho già chiesto scusa per aver fatto il molestatore, ti ho già ringraziato di essere rimasta a parlare con me. Ma ora non c’è altro da fare per te, qui.»

Silenzio. Fuori e dentro il bagno. Fuori e dentro di me.

«Non è stato l’alcool, vero?» le sento dire con voce flebile, che a stento riesce a oltrepassare la porta.

Scatto in piedi e apro la porta.

«Non sono stato chiaro forse? Non c’è. Altro. Da fare. Per te. Qui.»

Scandisco con astio ogni parte, tutto l’astio che dovrei gettare addosso alla vera causa di tutto questo. Simona. Ma di fronte a me non c’è lei. C’è una ragazza simpatica e carina che ha trascorso la serata con me nonostante mi sia comportato da coglione, una spaventata ragazza che sobbalza a ogni mia parola e che adesso mi fissa immobile.

«Capisco che...»

Ricomincia a parlare con un filo di voce, i grandi occhi castani ancora spaventati e fissi nei miei.

«...l’ultimo modo al mondo in cui vorresti parlare dei tuoi problemi è con una sconosciuta nel bagno di un locale. Capisco anche che potrò sembrarti pazza e sono quasi sicura che ignorerai quello che ho da dirti ma...»

Fa un lungo respiro, il petto le si muove lentamente e profondamente.

«...qualcosa mi dice che tu stai male e io su queste cose mi sbaglio raramente ormai. Credo che tu abbia subito un qualche tipo di trauma che ti abbia causato molto dolore. Si capisce da come hai reagito. Sei nella fase di shock e rifiuto.»

«Cosa sei? Una psicologa?»

«No, non lo sono. Ma conosco bene questo tipo di cose.»

La paura nei suoi occhi viene sostituita da vergogna e dolore. Il mio astio si spegne, riprendo contatto con me. Perché dovrei prendermela con questa ragazza? Lei sta solo cercando di aiutarmi. La persona che mi ha ferito e contro cui rivolgere tutta la mia rabbia non è qui. Richiudo la porta dietro di me e mi muovo piano verso di lei. La guardo ancora negli occhi che si fanno più lucidi. Sento dentro lo stomaco un forte rimestolio, ma capisco che non centra nulla né la rabbia né l’alcool. Credo sia lei.

«Ram, ti accompagno all’auto.»


Usciti dal locale l’aria è pungente. O forse è solo lo spavento di poco fa che mi fa avere i brividi. Non avevo realmente paura di lui, ma le reazioni così rabbiose mi fanno ancora tremare.

«Tom, posso darti una cosa?» frugo nel portafogli e gli porgo un piccolo biglietto viola.

«Non sarà per caso il biglietto che mio fratello ti ha infilato nella maglietta senza ricordarsi che non c’è sopra il suo numero ma solo l’indirizzo email per contattare la band?»

Sotto la luce del lampione accanto alla mia auto, lo vedo sorridere di una dolcezza così triste che devo frenare l’istinto di abbracciarlo forte, carezzargli la testa e dirgli che tutto andrà al suo posto.

«Una psicologa?»

«Potrà sembrarti una pazzia, ma mi ha aiutato molto parlare con lei. Non so cosa sia successo nella tua vita, ma se ne dovessi sentire la necessità lei è davvero brava»

«Posso chiederti perché...»

«NO!» lo interrompo bruscamente.

Lo vedo irrigidirsi, scusandosi in silenzio di aver provato a fare una simile domanda.

«Magari ne riparliamo la prossima volta che ci becchiamo per caso qui al Lighting. Tu mi dirai il tuo perché, io ti dirò il mio.»

Salgo in auto.

«Credo che tornerò quando mi andrà di bere qualcosa da sola. In fondo, mi è andata bene.»

Ridiamo entrambi, anche se con un po’ di imbarazzo.

«Stai attenta e fila a casa senza dare retta agli sconosciuti.»

«Non preoccuparti. Accetto la cena solo da uno sconosciuto al giorno.»

Accendo Charlie e mi immetto in strada, guardando ogni tanto la sagoma di Tommaso farsi sempre più piccola mentre mi allontano.

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Capitolo 12
*** 12 - Roba da J ***




Fisso l'orologio della stanza degli ospiti di Bree e Steve. Non ho fatto altro per l'intera notte immerso nel silenzio pacifico di questa casa, interrotto adesso da Steve che prepara la colazione canticchiando. Decido di alzarmi e raggiungerlo.
«Buongiorno.» mi annuncio entrando in cucina ma il mio entusiasmo, anche se finto, viene subito spezzato.
Seduto a un capo del tavolo c'è Giacomo. Dalla faccia che ha, direi che anche lui non ha dormito molto in questi giorni. Steve mi lancia uno sguardo veloce, toglie la caffettiera dal fuoco e guadagna l'uscita senza dire una parola. Gli blocco la via di fuga fissandolo incazzato.
«Che scherzo è questo?»
«Tommaso, è tuo fratello, è preoccupato per te. Non è uno scherzo.»
«Ti avevo chiesto di...»
«Lo so cosa mi avevi chiesto e ti giuro che non sono stato io a chiamarlo.»
Sposta il braccio che gli bloccava l'uscita e si allontana. Lo sento entrare in camera da letto e richiudere la porta.
Mio fratello mi guarda senza dire una parola.
«Come stai Giacomino?» gli chiedo versandomi il caffè, come se tutto l'assurdo di questa situazione non esistesse.
«Hai il coraggio di chiedermelo?» I suoi occhi sono in fiamme, per la rabbia e per il mancato riposo.
«Giacomino, io...»
«Non chiamarmi Giacomino.» alza la voce.
«Non urlare. Sveglierai Bree.» lo ammonisco.
Prende un respiro profondo. «Ci hai fatto morire. Sei sparito. Ti ho cercato ovunque, mamma ti ha cercato ovunque, tua moglie ti ha...»
Crash! La tazzina finisce a terra andando in mille pezzi.
«Non chiamarla "mia moglie". Non lo merita, non l'ha mai meritato.»
Vedo Giacomo bloccarsi confuso.
«Credevate che fossi impazzito? Che fossi scomparso per andare a divertirmi o soltanto perché ero troppo stressato? No, no, Giacomino. Non hai idea del perché io voglia scomparire.»
Sento le mani fremere, la voce mi si spezza, tutte le lacrime che ho tentato di trattenere in questi giorni premono ancora una volta per essere liberate. Mi trascino fino alla sedia più vicina e mi lascio cadere appena in tempo.
«Tommy, che succede?»
«Ho perso il lavoro.» Mi interrompo, non so come proseguire.
«Caspita, deve essere stato un brutto colpo. Troveremo una soluzione insieme, Tommy. Non è necessario sparire.»
«Simona mi ha tradito.»
«Simona non potrebbe mai fare una cosa del genere.» quasi ride.
«Simona mi ha tradito e non una volta. Ha una relazione con un altro da più di due anni.»
Sono troppo serio per non essere creduto, Giacomo non ride più.
«Non può essere vero.»
«Lo è.»
«Come lo hai scoperto?»
«Sono tornato a casa e lei non mi aspettava.» alzo le spalle, con il poco di forza che mi resta.
«Quindi hai scovato il bastardo?»
«Il bastardo è Davide.»
Vedo sul viso di Giacomo tutta la sua incredulità. «Dimmi che non parli del nostro Davide.»
«Nostro, già. Nostro e di quella grandissima troia di mia moglie.»
«Non può essere vero. Due anni? Cazzo! Ma come si può?»
«Rose ha solo otto mesi.» sussurro, non riesco a dirlo a voce più alta.
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che Rose ha solo otto, fottutissimi, mesi.»
Non ce la faccio più. Sprofondo il viso nelle mani e, finalmente, qui nella cucina di uno dei miei migliori amici, con sua moglie incinta che dorme e di fronte al mio fratellino, lascio fluire via tutto il dolore della mia vita andata in frantumi.

Sono nel "Dev", seduta accanto a Luca intento a manipolare codici di programmazione che una volta macinavo anch'io, ad attendere che tutto il team arrivi a partecipare alla riunione straordinaria indetta stamane da Giulio. Ad essere del tutto sincera, ho ringraziato il cielo non appena l'ho saputo: la sbronza di ieri si fa sentire e il mio cervello non ne vuole sapere di mettersi in modo. Invidio Rebecca, che entra saltellante d'euforia. Sono quasi sicura che sappia già tutto anche se non vuole lasciarsi sfuggire nulla. Essere la sorellastra del capo deve avere qualche vantaggio, no?
Giulio entra nella stanza accompagnato da Virginia.
«Ci siamo tutti, mi pare. Bene, possiamo iniziare.»
Per un'ora buona Virginia parla a ruota libera, riassumendo obbiettivi raggiunti nel precedente trimestre e prefissi per il prossimo. Non riesco a seguirla bene, il suo tono di voce contribuisce a intensificare le mie fitte al cervello e quel poco di attenzione che riesco a racimolare è catalizzata dall'alone di fondotinta rosato che le ha macchiato il colletto bianco della camicia. Pare, comunque, che io non sia l'unica ad essere distratta: la maggior parte dei ragazzi sta in realtà continuando a lavorare. Tutti, però, si fermano nel momento in cui prende la parola Giulio.
«Grazie, Virginia. Bene, ragazzi, per raggiungere gli obbiettivi che vi sono stati esposti serve il massimo impegno e la massima dedizione di ognuno di voi, dai veterani alle new entry.» Indica chiaramente me. «Partiremo da subito. Abbiamo già organizzato la nostra partecipazione a una serie di otto eventi in questi tre mesi. Ogni evento durerà da un minimo di mezza giornata ad un massimo di quattro giorni. Ad ogni evento parteciperanno una risorsa marketing, una risorsa grafica e, a seconda dell'evento, una o due risorse tecniche.»
Un mormorio di disapprovazione si alza da parte dei programmatori, compreso Luca. Giulio sembra essere preparato a questa reazione.
«Non saranno eventi come quelli dell'anno scorso. Qui si parla di roba seria, con un target di partecipanti che realmente possiamo colpire. Con Virginia stabiliremo a quale evento assegnare ognuno di voi e vi comunicheremo tutto in settimana. Ramona!» trasalgo sentendomi chiamare così inaspettatamente. «Tu affiancherai Rebecca anche in questi eventi. Te la senti?»
«Nessun problema.» rispondo immediatamente.
«Perfetto.» Dà un'occhiata veloce all'orologio. «Se tutto è chiaro, possiamo chiudere qui e andare in pausa pranzo. Vi aggiorneremo con le decisioni il più presto possibile e poi discuteremo il da farsi di evento in evento con i diretti partecipanti.»
Sono molto eccitata all'idea di partecipare ad eventi di questo tipo. Ricordo che si facevano sempre incontri interessanti e riuscivamo sempre a ricavare qualche buon contatto. Potrei addirittura incontrare qualche vecchio cliente e sfruttare l'occasione a favore della LambdaDev.
Oddio!
Un pensiero d'improvviso mi blocca.
E se fossero presenti anche quelli della SoftWaiting? O, peggio ancora, se incontrassi di nuovo Lui?

«Non ci riesco, non posso riuscirci, è tutto troppo grande per me, non posso affrontarlo. Ho paura anche solo a pensarci.»
«Invece ce la farai.» Giacomo mi poggia una mano sulla spalla e la stringe leggermente. «Domani andrai al negozio e dopo tornerai a casa. Prenderai Rose, tua figlia, tra le braccia, le fisserai quegli enormi occhi verdi e tutti i tuoi dubbi saranno spariti.»
Lo guardo negli occhi. Quando è diventato così maturo e sdolcinato? Un tempo ero io quello così sognatore che credeva nel sistemare qualcosa solo fissando qualcuno negli occhi. Adesso è difficile credere anche solo che si possa sopravvivere a tutto questo.
«Mamma come sta?» decido di chiedere, infine.
«Un po' preoccupata.» Fa un tiro di amico-J. «Sai, ha sempre pensato che il primo a sparire sarei stato io. Per lei è stato uno shock sapere che il suo figlio perfetto è andato via senza lasciare traccia.»
«Le hai detto che mi hai trovato?»
«Sì.» ammette rapidamente, senza un minimo di ripensamento. «Le ho detto che stai bene e che hai solo delle cose da risolvere. Le ho anche detto di far finta di niente almeno fino a domani, ma le ho dovuto promettere di portarti da lei per cena il più presto possibile.»
«Grazie.» Prendo amico-J dalle dita di mio fratello e faccio un tiro. Sento il petto bruciare per un attimo, tossisco forte, non sono più abituato.
«Ehi, ehi! Piano, non ti affogare. Devi rilassarti un po', non crepare nel giardino di Steve.»
Faccio un altro tiro, stavolta con più calma. Riesco a non tossire e ad aspirare come ai tempi dell'adolescenza.
«Ok, così va meglio.» Si riprende amico-J, tira. «Se qualcuno mi avesse detto che sarebbe successa una cosa del genere, non ci avrei mai creduto.»
«Cosa?»
«Questo.» Tira ancora. «Io e tu. Io con il mio fratellone, seduti in giardino a fumare ottima erba e bere Jack Daniels, nella proprietà di una donna incinta e suo marito, entrambi a lavoro. Siamo proprio dei cattivoni!»
Osserva la bottiglia ormai vuota, fa l'ultimo tiro prima di gettare il mozzicone nel posacenere ed inizia a sbellicarsi. Eccolo, il mio fratellino pazzo e immaturo! Non so se sia solo merito della dopamina, del whiskey, della luce del tramonto o della faccia da imbecille che ha adesso mio fratello, ma rido anch'io. Rido forte, di pancia, tanto da farmi impazzire gli addominali di dolore, tanto da non riuscire a fermarmi. Fino alle lacrime. Che diventano di nuovo pianto.
Giacomo torna improvvisamente serio. Non dice una parola, mi abbraccia, non lo fa da prima di entrare nella pubertà. Mi afferra la faccia e mi costringe a osservarlo.
«Ce la caveremo, okay?»
«Okay.»
Stacco le sue mani dal viso e faccio un respiro profondo per riprendere il controllo delle mie emozioni. Smetto di piangere. Afferro il bicchiere e butto giù l'ultimo sorso del buon vecchio Zio Jack.
«Meglio far scomparire tutto o Bree mi ucciderà.»
Quando rientriamo in casa, il giardino non ha più alcuna traccia del nostro passaggio.
Vedo una lucina verde lampeggiare dal cellulare poggiato sul tavolo. Controllo le chiamate perse.
«Che strano!» non posso far a meno di esclamare. «Hai idea di chi possa essere?»
Volto il display verso Giacomo che dopo aver esaminato un attimo il numero per poi scuotere la testa con decisione.
«Ci sono quattro chiamate perse nel giro di mezz'ora. Parecchio strano. Vado fuori a richiamare, non fare danni.»
Faccio appena in tempo a far partire la chiamata che già all'altro capo hanno risposto.
«Salve. Ho trovato diverse chiamate perse da questo numero. Potrebbe dirmi chi cercava?»
«Lei è il signor Merisio? Il padre di Rose?»
A quel nome il cuore improvvisamente inizia a galoppare senza freni.
«Cosa è successo?»
«Sono de "Il nido dei bimbi". Oggi sua moglie ha portato la bimba nel pomeriggio, ma è passato da più di un'ora l'orario di chiusura e nessuno è venuta a riprenderla.»
«Come, mi scusi?»
«Le ragazze dovrebbero andare a casa. Potrebbe essere così gentile da venire a riprendere sua figlia il prima possibile?» il tono della signora cerca di nascondere la sua incazzatura.
«Arrivo subito.»

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Capitolo 13
*** 13 - Andare avanti ***




Durante le successive ore di lavoro non sono riuscita a concludere nulla. La mia concentrazione è volata via. I miei pensieri hanno vagato nel tempo e nello spazio, proponendomi flash-back e flash-forward non incoraggianti. Solo ogni tanto riuscivo a tornare lucida e a domandarmi di che cosa realmente ho paura. L’aura della sua presenza di nuovo nella mia vita mi scombussola in un modo che non avrei mai creduto possibile. Ero riuscita a relegarlo dietro una porta chiusa del mio passato fin quando un paio di anni fa quella porta è stata di nuovo aperta. Lui che mi ha tanto ferito da farmi perdere la fiducia in qualsiasi ragazzo, che ha compromesso ogni mia relazione.
Ma chi voglio prendere in giro? So che non è questo a fare più male. La verità, lo so, è quella che non riesco ad ammettere. Lui mi ricorda quella maledetta notte e il pensiero che possa vederlo ancora rischia di mandarmi al manicomio.
Uscita dall’ufficio, con azioni automatiche, mi ritrovo a guidare verso casa chiamando mia madre.
«Pronto Ram?»
«Ciao mamma. Come stai?»
«Oh, cucciola mia, sto bene. Tu come stai? Come è andata a scuola?»
La frase che odio. Improvvisamente un nodo mi sale alla gola. Le lacrime iniziano morbidamente a bruciarmi le guance, mordendomi il labbro per riuscire a mantenere le promesse che ho fatto ai medici. «Bene mamma. Tutto bene.»
«Sicura? Ti ho sentito tirare su col naso. Sai che capisco quando piangi. Non è che quel bulletto di Gianluigi ti ha di nuovo strattonato la cartella, vero?»
Mordo le labbra più forte, le lacrime mi offuscano la vista. Decido di accostare l’auto per sicurezza. «Non preoccuparti mamma, non è successo niente.»
«Ram, non dirmi le bugie o stasera vai a letto senza cartoni.»
Non riesco a trattenere i singhiozzi.
«Oh, piccola. Dai, corri a casa. Sto preparando una buonissima cheescake, alta come piace a te. Te ne do un pezzo enorme dopo pranzo. Non lo diremo a papà.»
Questo fa ancora più male, se è mai possibile.
«Ok, mamma. Arrivo subito.»
«Ti voglio bene, angelo mio.»
«Anch’io mamma. Anch’io.»
Chiudo la telefonata e abbandono il cellulare che scivola accanto ai comandi dell’auto. So di non essere una brava figlia e che agli altri potrà sembrare solo che io abbia abbandonato mia madre, ma è la reale impossibilità di aiutarla che mi spinge lontana da lei, come se il mio cuore volesse proteggersi da tutto questo. Il dolore mi investe con una forza tale che non riesco a contenerlo, esplodo in un pianto a pieni polmoni.

Rose è già addormentata. Mi blocco ad osservare il suo viso, a studiare i suoi lineamenti delicati, mentre lungo la schiena corre un brivido gelido. Il cuore mi freme, mi è mancata così tanto…
Pago alla signora le ore non coperte dall’anticipo di Simona, aggiungo un’extra per le ragazze che si sono trattenute oltre l’orario e mi scuso con loro un milione di volte. Mi chiedono un documento per dimostrare che sono il padre della bambina. Mentre la proprietaria va a fotocopiare la mia carta d’identità, la ragazza che tiene in braccio Rose mi si avvicina.
«Signore, sua moglie ha lasciato il borsone lì giù.»
Riconosco facilmente il nostro borsone e mi sto per avviare a prenderlo ma la ragazza mi ferma con un gesto netto quanto delicato. Si avvicina ed è subito chiaro che intende dirmi qualcosa senza farsi sentire dalle altre.
«So che non dovrei impicciarmi, ma mentre prendevo dal borsone le cose per il cambio della bimba è scivolata giù una busta. Non c’era scritto nulla perciò pensavo fossero delle indicazioni per noi. Qualche comunicazione da ricordare, cibi da evitare, canzoni da cantare per la nanna o roba del genere. Ci capitano cose di questo tipo.»
«Potresti arrivare al punto?» le chiedo. Ho troppa voglia di prendere di nuovo in braccio la mia bambina.
«Sì, certo. Insomma, l’ho aperta e ho letto le prime frasi. Poi l’ho rimessa dentro, la troverà nella tasca destra.» Mi osserva con uno sguardo in cui si legge una strana forma di  pietà. «La lettera è per lei. Credo che...»
Si interrompe di botto perché la proprietaria è tornata nella stanza. Improvvisamente cambia discorso.
«...e poi ha mangiato la frutta senza fare storie. Si è addormentata da qualche minuto.» Mi supplica con lo sguardo di reggerle il gioco.
«Perfetto, sì.» Mi dispiace, amica, è quanto di meglio posso fare al momento.
Poso nel portafoglio la carta d’identità, afferro il borsone ed esco dal nido seguito dalla ragazza che mi aiuta a poggiare Rose nel seggiolone. Mentre la lego per bene, mi si avvicina di nuovo.

«Legga subito la lettera. Non torni a casa.»
«Cosa?» la guardo stranito.
«Non torni a casa, non porti la bambina lì. Per il suo bene.»
«Signorina, si può sapere di cosa sta parlando?»
«Mi dispiace.» lo sussurra appena, prima di correre di nuovo dentro l’edificio.
Resto impietrito a guardare una sconosciuta scappare quasi in lacrime. Il sole è ormai tramontato del tutto, ma l’aria è resa ancora pesante dalla forte umidità, ancor di più dai dubbi. Perché non dovrei tornare a casa? Non che ne abbia particolarmente voglia, ma cosa c’è in questa lettera?
Frugo il borsone finché non la trovo esattamente dove ha detto la ragazza, nella tasca destra. Lancio un’altra volta lo sguardo a scrutare le palpebre chiuse di Rose e la sua piccola bocca che sporge in avanti quasi volesse baciare l’intero mondo. Sorrido, come ho fatto a pensare che non fosse mia figlia? Salgo in auto e inizio a leggere.

Quando riesco a smettere di piangere, guardo l’orologio. Sono passati quasi quaranta minuti. Osservo la mia immagine riflessa nello specchietto, quel po’ di mascara che era sopravvissuto all’intera giornata adesso è spalmato lungo le mie guance. Ho gli occhi gonfi e il naso arrossato. Faccio un respiro profondo e mi ripulisco alla meno peggio, non posso tornare a casa in questo stato.
Mi chino a prendere il telefono e trovo un messaggio di Diego. “Già ti tuffi negli straordinari? Wow, bentornata stacanovista dei miei stivali.” Mi ha inviato anche delle faccine che ridono con le lacrime agli occhi e una che invia un bacio. Gli rispondo subito. “Niente straordinari, non preoccuaparti. Qui non mi sfruttano ...non ancora! Ho avuto solo un piccolo imprevisto, ma torno tra poco.” Gli invio anch’io un paio di faccine sorridenti.
Sto per rimettere in moto Charlie, ma qualcuno bussa al finestrino facendomi trasalire. Una sensazione di déjà-vu mi invade.
«Signorina, il suo è un vizio allora!»
Devo concentrarmi per riconoscerlo, soprattutto perché al posto della divisa ha un chiodo semiaperto che lo fa sembrare un moderno James Dean.
«Salve, signor Brigadiere. Come sta?»
Sorrido più che posso per nascondere gli occhi gonfi.
«Dovrebbe essere lei a dirmi come sta. Questa è la seconda volta che la trovo ferma sul ciglio della strada in uno stato di evidente sconvolgimento emotivo.»
Non posso far a meno di ridere. A lui sembra piacere avermi tirato fuori da questo sconvolgimento e gli lascio credere che sia merito della sua battuta.
«Per non parlare del fatto che attendevo una sua telefonata che non è mai arrivata. Ma su questo posso sorvolare se…»
Non completa la frase. Allunga solo una mano verso il lato opposto della strada ad indicare una bellissima moto tirata a lucido. Sollevo un sopracciglio, cercando di mostrare il mio punto interrogativo.
«Se… cosa?»
«Se le posso offrire una birra. Ed intendo, adesso.»
«Vuole dirmi che ha delle birre nella moto?»
«Ovviamente no, signorina. Per chi mi ha preso?» ride. «Intendevo, andare in un posto qui vicino a prendere una birra insieme.»
Devo ammettere che una birra adesso mi andrebbe proprio. So che se tornassi a casa adesso finirei col raccontare a Diego della telefonata e piangerei ancora. Ho pianto abbastanza per qualcosa che non posso cambiare, per rubare le parole alla mia psicologa. E poi sono con un carabiniere, no? Più protetta di così… «Ci sto.»
Devo averlo sorpreso, perché si vedo nettamente il suo viso illuminarsi.
«Ma ho un paio di condizioni.»
«Tutto quello che desidera, signorina.»
«Numero uno, scelgo io il posto.»
«Non sarà una tragedia.»
«Numero due, porto la mia auto. Non voglio sorprese.»
«Se rimarrà all’interno dei limiti di velocità, non le farò la multa. C’è altro?»
«Un’ultima cosa.»
«Mi dica pure, signorina.»
Tiro fuori la piccola civetta che è  in me.
«Mi chiamo Ram, non signorina. Se lo ricordi.»
Ammicco, vedere un interesse così sfacciato gli fa un bell’effetto. Sembra dargli alla testa.
«Me lo ricorderò. Tu, invece, continua a chiamarmi signor Brigadiere.»

«Wow.» Giacomo poggia la lettera sul tavolo, facendo un respiro profondo.
Tutti restiamo in silenzio, l'unico rumore che si sente è quello del regolare respiro di Rose contro la maglia di mia madre.
«Quella ragazza non mi è mai quadrata.» Il giudizio di mia madre è sintetico, il suo tono asettico e freddo, lo sguardo perso nel vuoto.
«Mamma, ti prego.»
«Non sprecare le tue preghiere verso di me. Non sto di certo gioendo della situazione, nè ho mai sospettato che sarebbe arrivata a tanto. Ma la verità è che ha sempre avuto qualcosa negli occhi, qualcosa di non vero, come se stesse nascondendo qualcosa. E così è stato. L'unica cosa che abbia mai fatto di buono nella sua vita, è qui.» Abbassa lo sguardo verso la piccola che ancora dorme tranquilla. «Questo piccolo angelo che dovrà crescere così, per colpa sua.»
«A Rose penseremo noi.» la interrompe Giacomo. «Non dovrà soffrirne.»
«Ne soffrirà comunque, ma noi cercheremo di bastarle.»
Prendo dolcemente Rose dalle braccia di mamma. La vedo stiracchiarsi un po' prima di aprire gli occhietti. Non appena mi vede, spalanca il suo bellissimo sorriso.
«Papà ti amerà tanto da impazzire e ce la faremo, OK?»
Aspetto una sua risposta che non può arrivare.

Ceniamo in silenzio, anche se nessuno di noi sembra avere particolarmente fame, specialmente io. Solo Rose ha il solito appetito e mangia di gusto la sua pappetta e il latte della buonanotte. Mando un messaggio a Steve dicendogli di non aspettarmi per la notte. La sua risposta non si fa attendere e mi conferma che di amici come lui non se ne trovano tanto in giro. Mi accomodo nel vecchio letto dove dormivo da adolescente e fa strano adesso che accanto a me non ci sono fantasie di attrici famose ma la mia bambina. Rose è accollata accanto a me, gioca con il suo pupazzetto preferito.
Sono perso a guardarla mentre i pensieri si moltiplicano nella mia mente. Quante volte abbiamo fatto l'amore qui, di nascosto e in fretta, per paura che ci scoprissero? Come posso essere stato tanto sciocco da non accorgermi di nulla? Alcune frasi della sua lettera riecheggiano. "Scusami se non ho mai saputo amarti". La sua confessione mi ha ferito come niente al mondo avrebbe potuto.  Altri sono venuti prima di Davide, anche se lui è stato il peggior tradimento. Faceva sesso con lui mentre portava mia figlia in grembo - "Non pensare che Rose non sia tua, ho fatto il test di paternità prima che nascesse per accertarmene. Non ti avrei fatto crescere una bambina non tua." - e questo rischia di farmi impazzire. Adesso se ne è andata. Se non fosse stato per l'avvertimento di quella ragazza, sarei tornato ad una casa vuota, piena ancora di tracce di lei e del male che mi ha fatto. Che CI ha fatto. Accarezzo le gambine nude e rotonde di Rose. Lei è tutto il mio mondo, non me ne sono mai reso conto come adesso. La voce dentro di me grida forte, mi dice di continuare a reagire, di andare avanti. Lei ha solo me e devo fare anche l'impossibile per darle tutto quello di cui ha bisogno.

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Capitolo 14
*** 14 - Dopo una notte in bianco ***




«Sei tornata finalmente»
Ho cercato di non far rumore ma il cigolio della porta non è stato benevolo. Decido di non rispondere al suo tono irritato, lascio le chiavi sul tavolo e mi avvicino alla cucina.
«Buongiorno Diego.»
Non mi risponde. Mentre verso nella tazzina il caffè rimasto dalla moka ancora fumante, lo osservo con la coda dell’occhio. Mi fissa senza batter ciglio, la mascella squadrata è contratta, le nocche schiarite dallo stringere troppo il bicchiere di succo d’arancia.
«Dove sei stata?» mi chiede, secco.
«Diego, non farmi la predica.»
«Non voglio farti la predica, solo farti capire che sono stato in ansia. Mi hai detto che avevi avuto un imprevisto, che saresti tornata presto. Invece sei stata via tutta la notte. Non hai risposto alle mie chiamate e poi il cellulare risultava addirittura spento.»
Dalla mia visuale periferica, lo vedo avvicinarsi. Lo sento fermarsi dietro di me, percepisco il suo respiro tra i miei capelli. Mi abbraccia, stringe le braccia forti intorno alla mia vita, affonda il viso nel mio collo. Un brivido mi percorre la schiena e mi scuote lo stomaco.
«Ho avuto paura. Non puoi capire quanto.»
Lascio cadere la tazzina, il caffè sporca il marmo del piano lavoro e i miei vestiti. Sento il suo corpo stringersi al mio con una tale tensione che le braccia mi tremano e non riesco a fermarle. Vorrei girarmi ed abbracciarlo ma ho paura di come possa interpretare i miei movimenti. Resto immobile anche se forse questo lo ferirà ancor di più. Lui continua a stringermi per un po’, finché non lo sento piano allentare la presa e allontanarsi in silenzio. Chiudo gli occhi per un attimo allo sbattere della porta della sua stanza.
Bevo il poco caffè rimasto nella tazzina e vado a fiondarmi in doccia. Mentre l’acqua calda mi aiuta a somatizzare tutte le emozioni da ieri a stamattina, sento la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi nuovamente. Diego è andato a lavoro senza salutarmi. Forse è meglio così. Stasera sarà già passato tutto.
Esco dalla doccia e, prima di andare in camera, preparo la moka e la metto sul fuoco. Mi vesto in fretta, cercando qualcosa di comodo per combattere la stanchezza di una notte passata in bianco. Torno in cucina appena in tempo per spegnere il fuoco e bere il secondo caffè della giornata, rischiando un’ustione di quinto grado alla lingua. Afferro di nuovo le chiavi di Charlie e prima di uscire mando un bacio alle foto sulla TV, promettendo di trovare il tempo di portare un fiore alla tomba di papà e il coraggio per andare a trovare mamma prima che sia troppo tardi.

«Guarda un po’ chi si degna di presentarsi a lavoro oggi!»
Mattia ha in mano uno scatolone dall’aria pesante e credo che sia solo per questo se non mi ha ancora strozzato. Dallo sguardo che mi lancia si capisce chiaramente che è incazzato nero.
«Passavo di qui per caso, in realtà.» affermo, cercando di sdrammatizzare, mentre mi dirigo a passo svelto verso lo spogliatoio del personale.
Ho appena tirato fuori la divisa dall’armadietto, quando lo sento arrivare come una furia.
«Si può sapere che cazzo combini?»
«Ho avuto un paio di cose un bel po’ più importanti a cui pensare.» Sfilo velocemente il maglioncino, restando in canotta.
«Più importanti? Tze! Sei sparito senza farti più rintracciare!»
«E cosa vuoi fare al riguardo?» Tiro su la zip della felpa giallo canarino, avvicinandomi a lui con occhi di fuoco. «Licenziarmi?»
Il gelo attraversa lo sguardo di Mattia, il suo viso diventa per un attimo pallido prima di infuocarsi quasi completamente. Torno al mio armadietto e inizio a sfilarmi i jeans per completare la divisa con i pantaloni blu scuri.
«Tommaso, sai che ti voglio bene e ti reputo un ragazzo d’oro. Sai anche quanto mi dispiace per il tuo licenziamento. Ma così ti fai solo del male, se continui così cercheranno delle scuse per non darti neanche ciò che ti spetta.»
Chiudo l’armadietto resistendo alla voglia di sbatterlo con forza. Fisso quel freddo metallo grigio e penso a quanto simile sia a quello che provo dentro adesso. Freddo. Grigio.
«Mattia, devi scusarmi se non ti ho avvisato, ma devi credermi quando ti dico che quello che mi è successo in questi giorni me ne ha fatto completamente dimenticare.»
«Ehi!» mi poggia una mano sulla spalla. «Io ti credo e se ti serve una mano sai che puoi sempre contare su di me. Non sarà successo qualcosa alla piccola Rose, vero?»
Al nome di mia figlia non riesco a non sorridere.
«No, Rose sta bene.» E lo starà sempre, lo giuro.
«Sembra un secolo che non la vedo! Dobbiamo uscire una di queste sere: è pur sempre la mia futura fidanzata!»
Rido. «Dovrai metterti in fila. Le ragazze dell’asilo mi hanno detto che ha già tre marmocchietti che le vanno dietro. Sono di buona famiglia quindi credo che potrei tenerli in considerazione come futuri generi.»
«I ragazzi di oggi! Non sanno ancora camminare e già vanno dietro alle belle ragazze. Io credo comunque che Rose non li potrà mai amare come ama me.»


Vegeto sul divano bianco della Stanza dello Spirito e del Tempo, mentre dovrei completare delle comparazioni che mi ha affidato Rebecca. Non riesco a concentrarmi, sento le palpebre pesanti e un’unica immensa voglia: dormire. Il corpo sembra urlarmi addosso che devo smetterla di fare bravate e ricordare che mi avvio ai trent’anni perciò la mia resistenza a questo tipo di serata diminuisce in maniera esponenziale ogni giorno che passa. Guardo l’orologio e un senso di ansia e vergogna mi assale: la consegna è dopo pranzo e devo iniziare subito se voglio finire in tempo. Devo lottare contro le mie gambe per riuscire a mettermi in piedi. Mi trascino alla macchinetta sperando che un altro caffè mi aiuti.
«Oh, sei qui! Ti ho cercata tutta la mattina.» mi dice Mark.
Mi volto e la mia faccia deve proprio sconvolgerlo.
«Wow! Ti è passato sopra un camion con rimorchio stamattina? Senza offesa, ovviamente.»
«Ovviamente! Non ho dormito granché stanotte, anzi non ho letteralmente dormito neanche un minuto.»
«Baldoria notturna? Beata gioventù che ancora ci riesce. Ormai non ricordo più l’ultima notte in bianco che ho passato. Comunque, parliamo di cose serie. Ho un lavoro per te ed è importante che sia finito oggi.»
«Veramente ho un consegna per Rebecca dopo pranzo.»
«Metti il turbo e consegna, poi vieni da me per i dettagli del nuovo task.»
Esce senza aspettare una mia risposta. Fisso il mio caffè e sento già il bisogno di prenderne un altro.

Ce l’ho fatta, non so come ma ce l’ho fatta. Sono arrivata a completare entrambi i task, nonostante i mille sbadigli al secondo. Arrivata a casa non avrei avuto altra voglia di buttarmi a letto senza perdere neanche il tempo a togliere i vestiti, ma Sara era lì ad aspettarmi perciò sono relegata sul divano, mangiando pizza e subendo il suo interrogatorio su ieri sera. In tutto ciò, Diego ancora non mi parla e si è rintanato in camera sua senza neanche cenare.
«E dove l’hai portato?»
«Inizialmente avevo pensato al Lighting. Quel posto mi è piaciuto molto e poi la cassiera è molto simpatica e quando qualcuno di cui non faremo il nome mi ha fatto bidone...» mi fermo un attimo a sottolineare la frecciatina, Sara rotea gli occhi e sbuffa «...mi ha preso in simpatia quindi mi sembrava un ottimo posto. Ma poi ho deciso che magari era troppo buio o troppo, come dire, da appuntamento.» 
Non posso dirle che la prima cosa che mi è venuta in mente è che avrei potuto incontrare quel Tommaso e non so per quale motivo non mi andava di incontrarlo mentre ero lì con un altro ragazzo.
«Così l’ho portato al T45.»
«Sei riuscita a scegliere l’unico pub che farebbe passare la libido anche al peggior mandrillo.»
«Lo scopo in realtà era quello, volevo vedere la sua reazione. Lui non si è scomposto per nulla. Abbiamo preso la nostra birra e abbiamo parlato del più e del meno, ma abbiamo perso di vista l’orologio e si è fatto tardi. Erano le dieci passate! A quel punto, avevamo entrambi una fame da lupi così siamo andati alla pizzeria a fianco. Poi siamo tornati al T45 per un drink a conclusione della serata.»
«Non me la racconti giusta. Quel sorrisetto lì...» dice agitando il suo indice sotto il mio naso «...mi fa capire che la conclusione non è stata quella.»
«Infatti, no. Mi ha chiesto se mi andava di fare una passeggiata dato che proprio lì vicino c’è il lungomare. Così abbiamo camminato un po’, finché non mi ha fatto sorpassare il parapetto e mi ha portato su un bellissimo scoglio a strapiombo sul mare. Ci siamo seduti lì e...» Sospiro senza quasi rendermene conto.
«Oddio! Oddio, no!» Sara inizia ad agitarsi tutta eccitata. «Oddio, oddio! L’avete fatto lì! Oddio.»
«Sara! NO! Sei impazzita?»
«Dai, non negarlo. L’ho capito che è successo qualcosa.»
«Non l’abbiamo fatto. Certo che sei assurda! Neanche lo conosco.»
«Ma è stato romanticissimo, no? Avete parlato per ore, ciò significa che probabilmente lo conosci molto più di altre persone che hai incontrato più volte ma con cui hai scambiato al massimo cinque frasi.»
«Abbiamo concetti diversi di conoscere una persona. E poi sai che io...»
«Sì, lo so, non c’è bisogno di altro. Dimmi almeno che ti sei fatta baciare.»
«Beh, quello...» resto in silenzio, imbarazzata. «Quello è stato strano.»
«Strano come? Tipo baciare un fratello?»
«Strano nel senso di strano. Non so se riesco a spiegarlo. Eravamo su uno scoglio, di fronte al mare, con l’alba che pian piano schiariva il cielo, roba che Nicolas Sparks non potrebbe descrivere un quadro più romantico. Solo questo ti dovrebbe far venire la pelle d’oca. E io ce l’avevo, giuro. Stavamo ridendo non mi ricordo neanche più per quale motivo e poi ci sono stati dieci secondi di silenzio in cui ci siamo fissati negli occhi senza dire una parola. Lui si è mosso verso di me, piano, pianissimo. Io l’ho aspettato chiudendo gli occhi e ho sentito il suo respiro vicino alle labbra. Quando, però, le ha toccate… non so perché, puff, è sparito tutto. Non sentivo più niente, come baciare un cuscino.»
«Oddio, bacia così male? Non è che sbava come una lumaca? O aveva preso la pizza con la cipolla?»
«No, no, anzi. Tecnicamente non era neanche male come bacio. Ma a livello di emozione, zero.» mi stringo nelle spalle.
«Oh, cacchiolina! E lui?»
«Lui non credo se ne sia accorto.» rido. «Quando si è staccato era tutto contento, mi ha tenuto il braccio sulle spalle finché non siamo arrivati alla macchina, mi ha salutato con un bacio sul naso ed è andato via verso la sua moto. Quando è arrivato a casa mi ha mandato un sms dicendo che spera che accetti di rivederlo per un’altra serata.»
«E tu?»
«E io… io gli ho detto buonanotte.»
Sara scoppia a ridere, io la seguo.
«Sara, io prima mi innamoravo anche delle mosche che mi ronzavano troppo intorno. Cosa mi è successo?»
«Sei cresciuta, Ram. E il tuo cuore ha avuto troppe botte, perciò adesso trema solo per qualcosa di davvero forte, niente di meno.»
Le sorrido e non è così strano che mi venga in mente stamattina. Un po’ più strano è che, nel mio pensiero, chi mi abbraccia diventi lo sconosciuto Tommaso. Ma questo decido di tenerlo per me.
Accompagno Sara alla porta e con un sospiro di sollievo torno in camera al mio tanto agognato letto. Mentre mi infilo sotto le coperte, alla porta compare la sagoma di Diego.
«Giochi?»

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Capitolo 15
*** 15 - TGIF ***




Sono sempre stata brava a prendere decisioni sbagliate, specie se riguardano Diego. Gli sono stata troppo vicina anche quando Vale voleva che stessi attenta a non illuderlo perché secondo lei aveva già un interesse per me. Ho accettato di convivere con lui nonostante mi avesse fatto una proposta di matrimonio da poco. E ieri sera ho ripetuto l’errore. Ho accettato il suo gioco, l'ho fatto entrare nel mio letto, l'ho fatto dormire aggrappato a me. Le sue mani che stringevano possessive la mia pancia, il petto schiacciato contro la mia schiena tanto da sentire il battito, dapprima fortemente irregolare e poi sempre più calmo, del suo cuore.
Sono le sette del mattino e la sveglia che ha dimenticato ieri nella sua stanza si sente a mala pena, ma le mie orecchie la percepiscono ugualmente dato che sono già sveglia. O dovrei dire che sono "ancora sveglia"? Avrò dormito al massimo venti minuti stanotte, per niente una buona cosa. Il pensiero di dover affrontare una nuova giornata a lavoro con un’altra nottata insonne sulle spalle mi distrugge. Diego, invece, dorme ancora beato. Lo vedo arricciare le guance per serrare gli occhi di più ed evitare alla fioca luce che filtra dalle persiane di provare a svegliarlo. Muovendomi il più delicatamente possibile per non dargli un brusco risveglio, prendo il cellulare dal comodino. C’è un messaggio di Daniele, che ha insistito perché lo registrassi nella rubrica come Brigadiere. Un’immagine di dolce buongiorno appare sullo schermo non appena aperto il messaggio. Decido di imparare almeno una volta: non rispondo e poso il cellulare nuovamente al suo posto.
Sono le sette e un quarto. Stavolta è la mia sveglia a suonare. Diego si lamenta come un bambino che non vuole andare a scuola, mi stringe e sprofonda la faccia nel mio collo per proteggersi dalla luce.
«Dormiglione, è ora di alzarsi. Sei già in ritardo.»
Mi divincolo piano dalla sua stretta e mi siedo sul bordo del letto. Mi stiracchio come un gattino assonnato e sento tutta la pesantezza delle mie gambe che vuole farmi sprofondare nel pavimento. Mi trascino a fatica verso il bagno, lasciando Diego dormicchiare da solo nel mio letto.

Conosco pochi bambini che al mattino appena svegli siano sorridenti e vivaci, credevo che mia figlia facesse parti di queste poche eccezioni. Ma, pensandoci bene, forse non l’avevo vista svegliare abbastanza volte per fare questa deduzione o forse è solo oggi che ha deciso di strillare senza posa con acuti da far tremare i vetri. Cerco di calmarla, dondolandola in braccio mentre preparo il latte in polvere seguendo le istruzioni della scatola: anche questa è una delle attività che ho praticato poco ma dovrà entrare nella mia quotidianità.
«Rose, ti prego. Smetti di piangere.» La imploro mentre cerco di non scottarmi come se potesse ubbidirmi e smettere di piangere a comando.
Oh, vorrei tanto in questo momento che ci fosse davvero un comando, un piccolo bottone, anche solo per togliere l’audio! Spero che il biberon con il latte in polvere la aiuti a calmarsi, ma le mie preghiere vengono esaudite dopo non poca lotta. Finalmente riesce a trovare la sua posizione più comoda, tiene stretto tra le manine il suo biberon e si zittisce.
Mi ritrovo a sorridere come un ebete, fissandola nei suoi movimenti regolari ed energici quanto morbidi. Lei alza gli occhi a corrispondere il mio fissare. Una strana sensazione mi turba. Nei suoi occhietti vedo un’ombra nuova. Magari sono io ad averla inventata, magari no, ma ho il chiaro sentore della sua vocina non ancora formata che mi chiede perché non è la mamma a darle il latte stamattina. Sarà così sempre? Cosa farò quando la sua voce non sarà solo nella mia testa ma forte e chiara e mi chiederà di lei?

In ufficio trovo il tipico brio dei venerdì mattina, la consapevolezza della libertà alle porte. Perfino il Dev che è solitamente la parte più silenziosa dell’ufficio sembra animata da una strana forza motrice che spinge perfino i più nerd a vociare parlando delle tipiche futilità derivate da un’intera settimana di stress. Vedo attraverso il vetro che Giulio è immerso tra i programmatori, lo vedo ridere di gusto appoggiato all scrivania di Mark. Alla SoftWaiting, né Marco né nessun altro capo avrebbe mai fatto una cosa del genere. Sì, questo è sicuramente il mio posto. E poi, diciamocelo, Giulio è molto più carino di Mr HoUnaMogiePazzaETuSeiLicenziata.
Procedo verso la mia postazione alla Lambda. In corridoio incontro Virginia, lei non ha l’aria del Venerdì, è uguale a qualsiasi altro giorno e porta in giro la sua aura di rigidità. La saluto con il miglior sorriso che riesco a sfoderare con la faccia che mi ritrovo dopo più di 48h ininterrotte di veglia. L’unica risposta che ricevo in cambio è formata da un gelido buongiorno e un’occhiataccia schifata alla mia felpona grigia di pile. Lei, nonostante sia il Venerdì-Confort, è rimasta inevitabilmente incollata a uno dei suoi milioni di tailleur. Indovinare il numero preciso dei completi presenti nel suo armadio potrebbe essere la nuova versione del gioco dei fagioli.
Io, invece, amo il Venerdì-Confort. Inizialmente voleva essere un Venerdì-Casual ma essendosi resi conto che la LambdaDev non è un’azienda troppo formale, sarebbe stato un po’ inutile. Così a Nico, uno dei grafici, è venuta una brillante idea: istituire il Venerdì-Confort di cui si decida di mese in mese, a turno, il tema, così da permettere a tutti di esprimere il loro senso di confort. Per questo mese il tema è la felpa: poca roba rispetto al mese del venerdì in pigiama proposto un paio di mesi fa dallo stesso Nico la volta precedente, peccato esserselo perso!
Entrata nel Lambda, tutti stranamente alzano gli occhi a guardarmi, qualcuno per un attimo, qualche altro non mi scolla gli occhi addosso in modo più insistente. Saluto tutti un po’ imbarazzata da questo strano comportamento. Che la mia felpa con il profilo di Minnie Mouse sia troppo? Arrivata alla scrivania, però, ci vuole poco a capire perché sia successo tutto: un mazzo di sei rose candidamente bianche al cui centro si presentano due rose di un intenso color amaranto, racchiuso dentro una piccola ampolla che sembra essere sigillata troneggia indisturbato in cima ai miei appunti. Sopra di esso, quasi fosse la giusta corona per un regalo tanto elevato, un triangolo di carta su cui è stampata una fotografia.
Diego. Non può essere stato nessun altro. Questo è tipico da lui. Quella fotografia me l’ha scattata un paio d’anni fa e ha sempre detto che è la sua preferita. Mi chiedo quando ha avuto il tempo e quanto ha impiegato a pianificare tutto. Non so se essere più solleticata nel mio orgoglio di donna o incavolata per un gesto tanto imbarazzante. Ricordo solo dopo che questo è il posto dove lavoro da poco più di una settimana e che questo l’hanno visto tutti, dai miei nuovi colleghi, al mio nuovo capo, a Virginia. A quel punto il secondo sentimento si fa molto più prepotente.

Non credo di aver mai ringraziato il cielo di una giornata piatta come oggi. Rose stamattina mi ha fatto sudare sette camice, ha smesso di urlare solo mentre tirava il latte dal biberon, non voleva farsi infilare i vestiti e, soprattutto, non voleva essere lasciata al nido. Poter stare in silenzio, con solo un po’ di buona musica in sottofondo, non è stato per niente male.
Sono seduto da solo alla mensa che dista poco più di cinque minuti a piedi dal negozio, punzecchio l’insalata senza nessuna voglia di mandarla giù.
«Hai intenzione di mangiare qualcosa o vuoi continuare a sparire?»
Senza attendere risposta, Mattia ha già aggirato il piccolo tavolino rosso per sedersi sulla sedia vuota di fronte a me.
«In neanche una settimana avrai perso ...quanto? Cinque chili?»
Non gli rispondo, mi limito a sorridere continuando a infilzare l’insalata senza decidermi a portarla alla bocca.
«Hai delle occhiaie che ci potresti infilare un cucciolo di canguro e ci starebbe comodo. Dormi ogni tanto o ti sei dato al vampirismo?»
«Sembra di sentire mia madre.»
«Dovresti ascoltarla, allora. Tommaso, sei inguardabile.»
«Quanta dolcezza!»
«Non sto scherzando, Tom. Non sembri neanche tu, specialmente dopo la reazione di ieri.»
Mi irrigidisco e la cosa deve essere evidente. «Te l’ho detto, ho avuto non pochi casini a cui pensare. Scusami, non mi va di parlarne.»
«Oh, ok. Non è un problema.»
Dà un morso al panino, distogliendo lo sguardo. Lo imito mandando giù un po’ di insalata e un pezzo di cotoletta.
«Come va con l’audizione? Avete trovato il modo di registrare la demo da portare o state ancora cercando?»
La forchetta mi scivola dalle mani e cade rovinosamente a terra portando con sé un parte del contenuto del piatto. Avevo rimosso dalla mente il contatto che Mattia ci aveva procurato. Come farò a dirgli che il suo è stato tempo sprecato?
«Non credo che riusciremo a presentare qualcosa. Mi dispiace di averti fatto perdere tempo.»
Non riesco neanche a guardarlo in faccia mentre parlo, lo dico mentre raccolgo con un tavogliolino tutto quello che ho rovesciato sul pavimento.
«Perché? Non trovate il posto? Se hai bisogno di un piccolo prestito per affittare una sala di registrazione, sono felice di aiutarvi, lo sai.»
«Mattia tu hai fatto fin troppo e, davvero, mi dispiace un sacco avere sprecato il tuo tempo e disturbato le tue conoscenze per niente. Il fatto è che il gruppo… non c’è più.»
Non so perché l’ho detto, solo aver pronunciato queste parole mi toglie il respiro.
«Vi siete sciolti? Davvero?»
No. O sì? Non so neanche io cosa rispondere, non avevo ancora pensato alle implicazioni che questo avrebbe avuto sul gruppo.
«Non ci siamo sciolti.»
Alfredo e Giorgio sono ancora all’oscuro di tutto, a meno che Giacomo non li abbia informati. Essere il cantante non mi rende il capo, non posso decidere di sciogliere il gruppo senza neanche parlare con loro. Questo non è solo il mio progetto, tutti noi abbiamo equamente partecipato, faticato e investito per questo gruppo.
«Siamo rimasti senza batterista.» aggiungo, dato che mi guarda ancora perplesso.
Mattia comprende finalmente cosa volevo dire in realtà. «Immagino che trovarne un altro a dieci giorni da un’audizione e avere anche il tempo di incidere una demo non sia il massimo, no? E poi, hai i tuoi casini, giusto?»
«Hai centrato il problema.»
Mattia fissa il panino in cerca di soluzioni, ma l'hamburger oggi non ha risposte da dare.
«Aspettiamo qualche altro giorno, vediamo come vanno le cose. Se non troverete una soluzione chiamerò per disdire l’appuntamento, mi inventerò qualcosa per non bruciare tutte le carte.»
Un ultimo paio di morsi al panino ed ha finito. Mi ricorda che se voglio parlare lui è disposto ad ascoltarmi per darmi aiuto e di non fare troppo tardi per ricominciare il turno puntuale. Va via, sono di nuovo solo, con il mio piatto che aspetta di essere svuotato. Mi sforzo di dare più retta allo stomaco e meno ai nervi che ci stanno aggrappati sopra così da poter finire il mio pranzo. Prima di lasciare il tavolo, afferro il telefono e invio un messaggio ai ragazzi. Ho bisogno di parlare con loro.

I ragazzi lo sanno, me lo hanno appena detto. Hanno lasciato che fossi io ad affrontare l’argomento quando mi sarei sentito pronto, hanno capito da soli che quello di cui avevo bisogno era il tempo per metabolizzare la cosa senza gente intorno.
«Giacomo, quando gliel’hai detto?» chiedo rivolto a mio fratello.
«Non è stato lui, Tom.» Alfredo, come sempre di poche e concise parole, fruga nella tasca del suo giubbotto e ne tira fuori un foglio che mi porge.
«Una lettera?» chiedo afferrandolo, già conoscendo la risposta.
«L’ha lasciata Davide nella buca delle lettere a casa di Alfredo.» precisa Giorgio, senza l’euforia che lo caratterizza solitamente. «Sicuro di volerla leggere? Non cambierà nulla, ti farà solo altro male.»
Senza rispondere, sto già spiegando il foglio e scorrendo le prime frasi. Questa è la seconda volta in poco più di 48 ore che mi ritrovo a leggere di quanto a qualcuno dispiaccia avermi piantato un pugnale in piena schiena. Non so perché, però, le parole di Davide mi sembrano davvero sincere al contrario di quelle di Simona che sembravano solo di  circostanza. Non fanno meno male per questo, ma in uno strano modo aiutano. 

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Capitolo 16
*** 16 - Spirito di sopravvivenza ***




Regola uno del manuale di sopravvivenza agli tzunami emotivi: ricomincia a vivere. Senza forzarti, un passo alla volta, affronta i tuoi fantasmi e buttati di nuovo nella vita. Ho stilato una lista delle cose da fare e non intendo in senso figurato: ho proprio segnato tutto quello che devo fare per riprendere in mano la mia vita su una to-do list del cellulare.
  • Tornare a lavorare
  • Dedicare tempo a Rose la mattina
  • Parlare con Rose tutte le sere
  • Uscire a prendere una birra con i ragazzi
  • Cantare di nuovo
Ho appena spuntato la penultima voce, ne manca solo una. Tasto il taschino interno del chiodo e prendo in mano il biglietto da visita di De Blasi. Lo rigiro tra le mani, mentre l’amaro in bocca sostituisce il sapore della birra scura.
«Cos’hai lì?»
Giacomo ha sempre avuto l’occhio di falco, specialmente quando vedeva in ciò che avevo tra le mani una buona fonte di filtrini per il suo amico-J.
Sospiro, è il momento di parlarne e vedere cosa ne uscirà fuori.
«Questo...» espongo il bigliettino tendolo tra il pollice e l'indice della mano destra mentre con la sinistra ne sottolineo il bordo, come nelle migliori pubblicità «…è il motivo per cui vi avevo chiesto di incontrarci quell’ormai tristemente indelebile pomeriggio.»
Giacomo lo acchiappa senza delicatezza e lo analizza. «Antonio De Blasi, chi è questo?»
«Ti ricordi Mattia, il mio collega? Caso vuole che giochi a calcetto insieme a questo Antonio De Blasi dall’età di quindici anni e che per questo siano molto amici. Un caso ancora più strano vuole che questo Antonio De Blasi ha messo su una etichetta discografica indipendente.» Vedo gli occhi di mio fratello iniziare a luccicare. «Il più sorprendente dei casi, invece, vuole che Mattia, da buon amico, gli abbia suggerito di ascoltare un gruppo emergente che, sì, è una cover band ma vorrebbe iniziare a espandersi con una propria identità e che lui, incuriosito, abbia deciso di dare un appuntamento per ascoltarli e decidere se produrli.»
I ragazzi non reagiscono, stanno in silenzio a fissarmi dubbiosi come se non fossi ancora arrivato al punto. Solo Giacomino sembra aver capito, ha gli enormi occhi spalancati di quando da bambino avvolti sotto le coperte gli raccontavo storie di elfi e troll prima di andare a dormire.
«Che ne pensate? Dite qualcosa.» cerco di spronarli.
«Siamo noi, giusto?» sottolinea Giacomo eccitato come un pupo «Certo, ovviamente, altrimenti non ce lo avresti detto, no? Ovvio che siamo noi.  Il gruppo emergente siamo noi, no?»
«Calmati, ti prego! Ti prenderà un ictus!» gli dice Alfredo, continuando a rimanere impassibile.
«Che vi prende ragazzi?» cerca di incitarli Giacomo, invano. «Forza! Avete capito che succede? Abbiamo la possibilità che aspettavamo. Cazzo, sembrate a un funerale. Animo, gente! Sembravate quasi più felici quando avete scoperto che se ne è andato Davide.»
A quel nome Giacomo si blocca, una rivelazione improvvisa estingue la sua esaltazione. Si volta a fissarmi, come stanno già facendo Alfredo e Giorgio. Finalmente anche Giacomo ha capito qual è il problema.
«Merda.» si lascia sfuggire, piano.
Nessuno dice una parola, nessuno ha il coraggio o le parole per concretizzare che la nostra grande occasione è arrivata al momento giusto per diventare impossibile da realizzare.
«Dovremmo provarci.» il primo a parlare, come immaginavo, è Giacomo.
Lui è il più giovane tra noi e quello con la testa più calda. Non è ancora arrivato all’età in cui i problemi sono più grandi dei sogni e li schiacciano, io ci sono invece dentro da un bel pezzo.
«Non dire stronzate.» lo ammonisce Giorgio.
«Non ci ricapiterà forse mai più nella nostra vita, non dovremmo farcela scappare, dovremmo provarci.»
«Tuo fratello ha appena perso moglie e lavoro, è stato tradito da un amico e deve badare a una bambina di otto mesi. Per non considerare il fatto che non abbiamo più un batterista.» Il riassunto di Alfredo non lascia scampo. «Non possiamo fare nulla.»
Steve arriva a sedersi tra noi, mentre chiede ad Emma ti portare al tavolo un altro giro di Guinness.
«Che succede ragazzi? Che mi sono perso?»
Nessuno parla, ancora una volta il silenzio condisce la nostra sconfitta. Steve ci scruta cercando di capire perché siamo così taciturni. Intravede il biglietto da visita che gira tra le dita di Giacomo e con un rapido gesto lo afferra, lo esamina e mi fissa nuovamente.
«Da quanto tempo ce l’hai?» mi chiede mostrando il biglietto.
«Mattia me lo ha dato subito prima di dirmi che sarei stato licenziato, la stessa sera in cui sono venuto qui dopo la chiusura.»
Salto di proposito la parte centrale di quella giornata. Steve continua a rigirare il foglietto tra le mani.
«Lunedì 24 è tra circa dieci giorni. Suppongo abbiate bisogno di un bravo batterista, no?»
«In realtà stavamo valutando se fosse il caso di presentarsi o meno.»
«In effetti il periodo è un po’ una merdaccia, ma sai come si dice? Quando hai toccato  il fondo, puoi solo risalire. Credo che quello che dovete fare sia semplice: cercare un bravo batterista, verificare se siete compatibili e presentarvi a quell’appuntamento per riprendervi in mano il destino che vi spetta. Pensi sia fattibile?»
Osservo i miei compagni, vedo nei loro occhi la delusione. Loro non hanno colpe in tutto questo e, anche se neanche io ho colpa in quello che è successo, mi sento in qualche modo responsabile di voler rubare loro qualcosa di importante o almeno di star contribuendo a farlo. E non voglio. Devo farlo, non tanto per riprendere il mano il mio destino, quanto per non strappare da altre mani quello che il destino ha riservato loro.
«Tentare non nuoce.» afferma Giorgio, quasi leggendomi nel pensiero.
«Al, tu che ne pensi?»
Per quanto il parere di Giacomo e Giorgio sia importante, tutti noi sappiamo che è Alfredo quello con le rotaie che funzionano meglio per valutare opzioni e prendere decisioni.
«Trovare un batterista bravo che riesca a integrarsi nel giro di così poco tempo è un’impresa impossibile.»
Ha ragione, lo sa lui e lo so io.
«E se io avessi la persona giusta per voi?» ci chiede Steve con un sorriso soddisfatto.
«Chi sarebbe? Sentiamo.»
Steve si limita a voltarsi e a fare un cenno con la testa. Seguiamo tutti la direzione che ci ha indicato e ciò che troviamo alla fine della sua freccia immaginaria è quanto di meno ci aspettassimo.
«Se Giacomo riesce a tenere la lampo chiusa, non dovreste avere problemi a introdurre un paio di ovaie nel vostro gruppo.» dice sottovoce, ridendo.
Emma raggiunge il nostro tavolo velocemente mentre nessuno di noi ormai riesce a staccarle gli occhi di dosso. So che ognuno la sta immaginando dietro la batteria durante uno dei nostri concerti e sono quasi sicuro che almeno uno di noi la stia immaginando mentre imita Davide nel togliersi la maglietta a metà concerto.
«Qui ci sono le vostre Guinness.»
Emma poggia le birre sul tavolo. Prima di dare a Steve la sua, ne ruba un sorso. Va via, non senza lanciarmi il suo classico sguardo in cagnesco, mentre noi continuiamo a guardarla inebetiti persi nelle nostre fantasie, e Steve ride senza riuscire a frenarsi.
«Stai scherzando?» chiedo incredulo.
«Ti prego, dimmi che non stai scherzando.» esclama Giacomo non staccando gli occhi dal lato B di Emma che ondeggia facendo saltellare il fiocco con cui ha legato il grembiule.
«Una ragazza mi sembra la scelta meno indicata in questo momento. Secondo me non farebbe altro che distruggere quel poco di equilibrio che ci rimane...» afferma Giorgio, in modo innaturalmente razionale, per poi aggiungere «...sempre che ce ne sia rimasto.»
«L’unico equilibrio che gli permetterei di distruggere è quello del mio testosterone.» commenta il mio allupato fratellino.
«Tralasciando il pervertito qui presente...» inizia Steve «...capisco le tue preoccupazioni ma credo anche che, con le dovute eccezioni, - senza offesa Giacomo - voi siate adulti e, cosa più importante, professionisti. Come tali credo riuscireste senza problemi a relazionarvi con un collega, qualsiasi sia il suo genere. Per non parlare del fatto che Emma non è affatto come le ragazze che conoscete.»
Mentre lo dice, mi da una serie di piccole gomitate al braccio.
«Se intendi che è il tipo che cerca di ucciderti al primo incontro, sì, posso confermarlo.»
«Questa mi sa che non ce l’hai mai raccontata.»

Rientro in casa come una furia. L’intera giornata di lavoro è andata da schifo, non sono riuscita a concentrarmi neanche un attimo, ho terminato solo uno dei task che Rebecca mi ha affidato e ho risposto molto malamente a Nico. Prima di andare via, Giulio mi ha fatto un rimprovero camuffato da battuta chiedendomi se avrebbe dovuto informare Virginia di aggiungere dei vasi per fiori al materiale necessario per l’ufficio. Il buon senso mi ha impedito di rispondere indicandogli tutti i posti dove avrebbe potuto ospitare quei vasi.
Lascio cadere il mazzo di rose sul tavolino vicino il divano e mi fiondo in camera di Diego con in mano la fotografia. Apro la porta senza bussare, è sdraiato sul letto con le sue cuffie oldstyle, fissa lo schermo del computer, probabilmente intento a seguire uno dei suoi telefilm, non si è accorto di me. Senza dir nulla mi avvicino e chiudo il coperchio del portatile, per un soffio non gli pesto le dita dentro.
«Ehi! Sei matta?» si lamenta, accigliato. «Mi stavi per tranciare un dito, per non parlare del fatto che probabilmente mi si sarà impallato il computer.»
«Cosa significa questa?» gli sbatto la fotografia sotto il naso.
Diego la afferra e la guarda con attenzione.
«Questa te l’ho fatta io, me lo ricordo» sorride dolcemente. «Eri tornata da lavoro incazzata nera perché avevi di nuovo litigato con Marco e siamo andati a fare una passeggiata sulla spiaggia. C’erano solo pochi lampioni e il gioco di ombre che c’è sul tuo viso mi piace un sacco.»
«E cosa significa?» lo incalzo, ancor più nervosa.
Mi guarda disorientato. «In che senso? Che vuoi dire?»
«Nel senso che voglio sapere cosa diamine ti salta in testa. Di cosa ti fai prima di avere idee geniali di questo tipo? Io lì ci lavoro, non posso perderci la faccia perché tu ti senti in colpa e vuoi fare pace.»
Il suo sguardo si fa ancora più perplesso. «Non ho idea di cosa tu stia parlando. Per cosa dovrei sentirmi in colpa, poi, me lo spieghi?»
«Qui sei tu quello che deve delle spiegazioni.»
«Non so a cosa ti stai riferendo ma io non ho fatto proprio nulla. Sono stato tutto il giorno a lavoro e sono tornato a casa mezz’ora fa. Giusto il tempo di farmi una doccia e sistemarmi sul letto, che mi sei piombata in stanza accusandomi di tu sola sai cosa.»
«Chi potrebbe essere stato se non tu? Quella è la tua foto preferita!»
«L’hai postata su Facebook, tutto il mondo può vederla! Non credevo di dover essere io a spiegarti certe cose visto il lavoro che fai.»
«L’ho trovata sulla mia scrivania, insieme a un mazzo di rose. Questo è tipico da Diego.»
Lo vedo ghiacciarsi, si immobilizza e serra la mascella in maniera evidente. Solo ora mi rendo conto di avergli urlato contro più di quanto avrei voluto.
«Io non ho fatto nulla.» scandisce piano e in modo fermo le parole. «Mi piacerebbe sapere da quando il “tipico da Diego” ti fa incazzare così tanto. No, anzi. Non voglio sapere. Se non ti dispiace, avrei da fare. Esci dalla mia stanza.»
Senza attendere una mia reazione, infila di nuovo le cuffie e riapre il coperchio del computer. Esco dalla stanza in silenzio, chiudendo piano la porta, come se potesse disturbarlo.
Era sincero. Non avrebbe avuto problemi a dirmi di aver organizzato tutto lui, anzi non avrebbe visto l’ora di raccontarmi per filo e per segno come era riuscito a farmi l’ennesima sorpresa. Se non è stato lui, chi è stato? Chi ha stampato questa vecchia foto? Chi sa dove lavoro ed è riuscito ad entrare senza difficoltà? Il mio orgoglio di donna trasforma il solletico in sana preoccupazione.
Mi faccio una doccia lenta e calda, cercando di rilassare i muscoli. Ancora avvolta nell’accappatoio di spugna azzurro, vado in cucina a prepararmi un infuso rilassante. Diego è seduto al tavolo e addenta svogliatamente un cosciotto di pollo. Non appena mi vede entrare lascia cadere il cosciotto sul piatto, si pulisce le mani su una salvietta e si alza per scappare in camera sua. Mi metto tra lui e il corridoio. Non mi parla neanche per chiedermi di lasciarlo passare.
«Scusami, ho esagerato.» sussurro, fissandomi i piedi.
Non risponde, delicatamente mi prende per le spalle e mi ruota il tanto che basta per passare.
«Quando hai finito in cucina, dimmelo così posso finire la cena.» mi dice senza voltarsi appena prima di chiudere la porta della sua stanza.
Mi sposto lentamente verso i fuochi e metto su il bollitore. Mi sento in colpa verso di lui, l’ho aggredito senza nessuna pietà e, a quanto si è capito, senza neanche un reale motivo.
Metto in infusione le erbe rilassanti e controllo il cellulare. Un messaggio. Leggendone il testo, un brivido poco piacevole mi attraversa la colonna vertebrale come una scossa elettrica.
“Conosci il linguaggio dei fiori? Spero ti siano piaciute le rose. Sei bellissima in quella foto, avrei voluto essere io a scattartela. Quando possiamo vederci ancora?”
Mittente: Daniele.

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Capitolo 17
*** 17 - Ci vorrebbe un amico ***




Mi ha chiesto se conosco il linguaggio dei fiori. Ovviamente no. Scavo nella memoria cercando il momento del nostro appuntamento in cui gli ho detto presso quale azienda lavoro, ma senza risultato. Sapeva che il posto di lavoro è in quella zona ma non abbiamo mai parlato della LambdaDev, né tanto meno gli ho spiegato qual era la mia scrivania, questo però avrebbe potuto facilmente scoprirlo chiedendo a chiunque fosse in ufficio al momento del suo arrivo. La foto, è vero, avrebbe potuta averla presa dalla rete, ma perché giusto questa? Ci sono molte foto più nitide e recenti che avrebbe potuto scegliere. C’è una risposta razionale a quasi tutte le domande che mi sono sorte. Allora perché non riesco a cacciare via il senso di inquietudine che sento? Non riesco a smettere di pensare neanche per un attimo al gesto di Daniele. Dovrei considerarlo romantico e dargli una seconda opportunità o allarmarmi e scappare?

Prendo la tazza di infuso fumante e aspiro a pieni polmoni il vapore profumato che sprigiona. Mi lascio sprofondare sul divano, bevendolo a piccoli sorsi, sperando che mi aiuti ad addolcire il sistema nervoso. In questo momento avrei proprio bisogno di un consiglio di Vale, lei sapeva essere cinica al punto giusto per darmi la scossa. Probabilmente avrebbe trovato le parole giuste per scuotermi e dirmi che, ehi, questo è un coglione scappa finché sei in tempo, e mi sarei offesa perché è sempre troppo dura e lei mi avrebbe ricordato che un’amica certe cose le deve dire e basta, senza pensare a come, specialmente quando c’è di mezzo un’amica vera.

Forse potrei chiamare Sara, ma so già quale sarebbe la sua sentenza: dagli un’altra possibilità. Lei è così ottimista nei rapporti con la gente, non crede mai che qualcuno possa essere cattivo neanche dopo che le ha già fatto del male. In questo assomiglia molto ad Alex. Lei mi avrebbe detto che alla fin fine ha fatto un gesto dolce e che non se ne trovano più ragazzi che regalano fiori e io le avrei detto che qualcosa mi diceva che non andava bene e lei mi avrebbe spinto a cercare qual era il loro significato e basarmi solo su quello, di fidarmi e uscirci ancora.

Se il mio passato fosse diverso probabilmente sarei anch’io così, ma oggi la fiducia nel prossimo non è una delle mie peculiarità.

Se potessi almeno parlarne con Diego! Lo sento rientrare in cucina, prendere il resto della sua cena e chiudersi nuovamente in camera. Mi sento troppo in colpa per entrare in camera sua a chiedergli di farmi sfogare, sarebbe egoista. Devo trovare il modo di mettere un freno a tutto questo prima di perdere anche lui.

Bevo l’ultimo sorso di tisana, chiudo gli occhi godendomi l’ultima corsa di quel liquido caldo dentro il mio petto fin nel mio stomaco. Poggio la tazza vicino al lavandino e afferro una mela prima di andare a rintanarmi in camera. Mi avvolgo nelle coperte per proteggermi dall’aria pungente della notte. Decido di leggere per evadere dall’ingarbugliata situazione, ma neanche la Terra di Mezzo riesce a portarmi via lo strano pizzicore ai nervi. Mi rigiro nel letto tenendo in mano il pesante libro, ma nessuna posizione sembra essere quella comoda oggi, né tanto meno riesco a immergermi nella lettura al punto che, nonostante sia la quarta volta che lo rileggo, quasi non comprendo chi sono i personaggi presenti nella scena. Decido un po’ a malincuore di fermarmi, poggiare il libro nuovamente sul comodino e cercare svago altrove. Mentre navigo tra i feed di Instagram, sento un rumore noto provenire dal salottino: la pesante porta d’ingresso che cigolando viene aperta e rumorosamente richiusa. Diego deve aver deciso di uscire per evitare di respirare sotto il mio stesso tetto. Non farebbe male neanche a me uscire a far due passi per schiarirmi le idee. Mi fiondo fuori da coperte e pigiama, in dieci minuti ho mandato un messaggio a Sara, ho avviato Charlie e mi immetto in strada.


Il Lightinig  è pieno, tutti i tavoli sono occupati, Bree è arrivata con il suo pancione a prendere posto dietro la cassa e Steve è tornato al bancone dove c’è un bel via vai di gente: un venerdì sera di tutto rispetto. Un gruppo di ragazzi sembra riconoscerci e ci chiede se stasera suoneremo.

«No, amico, stasera no.»

«Peccato, siete forti!» ci dice allontanadosi.

Una folle euforia, nata dall’accoppiamento selvaggio di orgoglio e birra, mi invade. Guardo i miei amici ridere e sento che posso farlo, per loro. Siamo forti e siamo innamorati della nostra musica. Abbiamo tutte le carte in regola, dobbiamo provarci e possiamo farlo. D’un tratto includere Emma nella band non è per niente una cattiva idea.

«Emma!» la chiamo a gran voce cercando di superare il vociare.

Più che sentirmi, mi vede gesticolare e senza troppa fretta arriva al tavolo. «Un altro giro?» chiede, impassibile.

«In verità vorrei avere il tuo numero di telefono.»

Inarca il sopracciglio destro, gli occhi ambrati sono resi ancora più luminosi dal trucco viola che li enfatizza. La vedo gonfiare il petto, fissandomi con aria di sfida. Le leggo in faccia che è pronta a tirarmi addosso il vassoio pieno di bicchieri vuoti se necessario e capisco che non ho scelto il modo migliore di esprimermi.

«Oh, oh, calmina. Non uccidermi, ti prego. Non intendevo quello che pensi tu. Mi devi scusare, ma il filtro-anti-stronzata mi si è disattivato un paio di birre fa. Si tratta di lavoro. Circa.»

«Di lavoro. Circa.» Non accenna a mollare. «Il fatto che tu sia amico del capo non significa che possa farmi le ordinazioni su WhatsApp.»

«Sei fuori strada, si tratta di tutta un’altra cosa.»

«Senti cocco bello.» avvicina pericolosamente il vassoio al mio viso. «Io sono già a lavoro, quindi non c’è niente che tu debba dirmi che renda necessario il mio numero di telefono sul tuo cellulare. Ci siamo capiti?»

«Forte e chiaro, sorella!» L’ho detto davvero? Ditemi di no, per favore.

Emma si volta senza aggiungere nient’altro e va via a passo fermo.

«Quella ragazza ha delle palle che ce le sognamo.» commenta Giorgio.

«Dobbiamo averla con noi.» aggiunge Giacomo.

«Aspettate di vederla suonare, cacchio!» si intromette Alfredo. «Non fate gli allupati. E poi non mi sembra che la ragazza sia un tipo semplice da convincere perciò è possibile che ci dica di no.»

«Non ci dirà di no. Anzi, non MI dirà di no.»

«Ah Giacomino, il tuo fascino non fa sempre colpo su tutte.»

«Non sfidarmi.»

«Io credo che dovresti essere tu a non sfidare Emma o ti ritroverai con un coltello puntato ai ciondolini di famiglia come tuo fratello!»

Tutti scoppiano a ridere. La storia di Emma che cerca di uccidermi dopo i primi cinque secondi sembra essere particolarmente piaciuta ai ragazzi. Me la rinfacceranno a vita, suppongo che dovrò abituarmici.

«E ora ragazzi.» annuncia Giacomo alzandosi dalla sedia. «Direi che è si è fatta l’ora di andare a caccia al bancone. Sono appena arrivati dei rifornimenti particolarmente interessanti.»

Lo seguo con lo sguardo mentre i ragazzi continuano a fargli battute di incoraggiamento. Appena la vedo giochicchiare col telefonino accanto al bancone, capisco che il rifornimento speciale a cui si riferisce è lei, la ragazza da sola al bar.


Sara ha risposto che era a casa di Marco per un film. Nel dialetto di Sara significa che i coinquilini di Marco sono tornati in paese e hanno casa libera per darci dentro in ogni stanza. Ho deciso di uscire ugualmente e di venire qui, l’ultima volta qui al Lightinig non è andata male anche se ero da sola. Stasera, però, il locale è nettamente più affollato e quasi mi pento della decisione che ho preso. Vedo la ragazza incinta alla cassa, ha il viso stanco ma è comunque luminosa. Mi avvicino a lei.

«Ehi, ciao!»

«Ciao. Vi serve un tavolo? Quanti siete?» mi chiede.

«In realtà sono di nuovo da sola.» le sorrido.

Sembra smarrita. «Quindi?»

Certo! Come può ricordarsi di una scema che è stata due volte nel suo locale?

«Oh, scusami. Pensavo solo… credevo… niente, fai finta di nulla..»

La ragazza mi guarda ancora inebetita mentre mi allontano. Vorrei sprofondare, sono imbarazzata da morire e sento le guance avvampare. Meglio andare via. Mentre mi dirigo verso la porta, sento qualcuno afferrarmi per il braccio trattenendomi delicatamente.

«Ehi, finalmente.»

Nonostante il rumore, so di chi si tratta ancor prima di girarmi. Oggi il suono di questa voce attiva il mio sistema di allarme come poco altro potrebbe. Faccio un respiro profondo cercando di non farlo notare, poi mi volto indossando il sorriso meno finto che riesco a trovare.

«Ciao Daniele.»

Mi abbraccia senza che io abbia il tempo di resistere.

«Una ragazza come te che ci fa in giro per locali da sola?»

«Non sono esattamente in giro per locali, no? Sono in un solo locale. E poi cosa ti fa pensare che io sia sola?»

«Forse il fatto che l’hai appena detto alla ragazza lì alla cassa.»

«Ah, già. Invece tu che ci fa qui?»

«Io sono in missione speciale.» sussurra avvicinandosi al mio orecchio.

«Quindi sei in servizio?»

Ride e mi da un piccolo buffetto. «Sei tu la mia missione speciale.»

«Cosa? Come… come facevi a sapere che...»

«Ho le mie armi segrete.»

Senza dir nient’altro mi trascina al bancone, sgomitando un po’ per arrivare alla meta, e ordina due Japan Ice Tea. Mentre il barista è al lavoro, mi posiziono dietro di lui e afferro il cellulare. Come ha fatto ad indovinare anche questa?

Qualcuno si ferma esattamente di fronte a me togliendomi quel po’ di luce che arrivava sullo schermo. Cerco di spostarmi per lasciare al proprietario dell’ombra lo spazio per mettersi in fila ma l’ombra mi segue. Alzo gli occhi infastidita. Ci sto un po’ a metterlo a fuoco, ma alla fine riconosco il chitarrista della band che suonava qui la prima volta che sono venuta con Sara e Diego. Spero che non abbia intenzione di riprendere a farmi il filo, non con Daniele alle mie spalle. Ho la sensazione che se lo facesse, le cose potrebbero sfuggirmi di mano.

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Capitolo 18
*** 18 - Una cosa veloce ***


«Credi al destino?» mi chiede sottovoce all’orecchio.

Credo che se non te ne vai ti arriverà un pugno e stavolta non da me, penso senza smettere di fissare il telefono, sperando che l’essere ignorato lo spinga ad andarsene.

«Sai, credo che tu ti sia fatta una cattiva opinione di me, per come mi sono comportato la prima volta che ci siamo visti. Cioè, io non sono quel tipo di ragazzo che vuole solo portarsi a letto una ragazza dopo l’altra.»

Ah no? E cosa avresti voluto fare? Non posso fare a meno di alzare gli occhi per rivolgergli uno sguardo perplesso, sopracciglio sinistro inarcato e smorfia sulle labbra, ma continuo a non dire una parola. Spero solo che finisca il suo discorsetto in fretta e vada via.

«Giuro, davvero. Ti vorrei conoscere, sapere come sei, cosa ti piace. Roba di questo tipo.»

«Roba di questo tipo?» non riesco più a trattenermi. Cerco di non parlare troppo forte e di essere concisa per mandarlo via prima che Daniele si volti. «Si vede che sei proprio abituato ad approcciarti ad una ragazza per qualcosa di diverso dal portartela a letto. Adesso, per favore, vai via. Non sono da sola.»

Faccio un rapido cenno alle mie spalle, sperando che capisca e si defili. Purtroppo è più cocciuto del previsto e non si smuove, così lo incito di nuovo.

«Ti ho chiesto di andartene.»

«Questo è un luogo pubblico, se non sbaglio.»

«Senti, te lo chiedo come un favore. Potresti allontanarti in fretta prima che...» ma è troppo tardi.

«Chi è questo?» Daniele, con in mano i due bicchieri, si è già voltato.

«Solo un amico. Ci stavamo salutando.»

«Un amico? Non ne ho sentito parlare.»

E quando avrei dovuto? Ci conosciamo solo da una sera. Sto zitta, qualcosa mi dice che è meglio allontanarsi subito, troncare la questione e magari cercare una scusa per tornare a casa il più presto possibile. Gli tolgo un bicchiere dalle mani.

«Come dicevo, ci stavamo salutando. Ciao...» cerco il suo nome nella mente ma non trovo nulla, solo il nome di Tommaso mi riaffiora stranamente in testa, ma lo scaccio via alla velocità della luce. «Ciao!» Afferro il braccio di Daniele e lo trascino via.

Nessun tavolo si è liberato così mi limito a vagare cercando uno spazio dove appoggiarci, nella speranza di far presto e che Mr latin lover non ci segua per fare lo splendido.


Giacomo arriva da noi con l’aria da cane bastonato.

«Sono finiti i rifornimenti?» gli chiedo ridacchiando, un po’ su di giri con in mano l’ennesima birra avendo mangiato ben poco.

«Ci ho ripensato. Non voglio fare ingelosire troppo Emma. Non voglio che ci dica di no per timore del confronto con le altre.» cerca di darsi un tono il fratellino, ma accettare il rifiuto di una ragazza che ha puntato non è mai stato il suo forte, specialmente se non è il primo.

«Certo, come no.» prendo l’ultimo sorso dalla pinta di Guinness. «Non credo proprio che Emma sia un tipo che si faccia facilmente prendere dal timore del confronto. Non è che per caso qualcuno si è beccato i rifornimenti al tuo posto? Qualcuno con spalle grosse il doppio delle tue?»

Improvvisamente Giacomo mette da parte lo sciupafemmine e torna ad essere solo il mio fratellino che tormenta le pellicine attorno alle unghie quando è nervoso e non riesce a tenere i piedi fermi tanto da far tremare il tavolo con le ginocchia.

«Un no, non è una tragedia.»

«Per un no, possono esserci venti sì.» Giacomo fa l’occhiolino ed eccolo ritrasformato nel suo personaggio tutto ormoni e niente sentimenti, a caccia della prossima preda.

Mentre lui parte di nuovo a cercare nel locale qualche ragazza a cui offrire un paio di drink sperando di essere ricompensato con il baratto più antico del mondo, io mi volto a cercare la ragazza. Scavo nella mente fin quando non trovo il suo nome: Ramona. Istintivamente porto la mano alla tasca del chiodo e ritrovo il biglietto della strizzacervelli che mi aveva dato. Strani segnali che lancia il caso, forse dovevo vederla per ricordarmi di questo. La mia mente però decide di soffermarsi su altro. Mi sento come sotto un incantesimo, non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Stavo con Simona da così tanto tempo da aver dimenticato cosa significava provare un scintilla così forte per una persona tanto sconosciuta, tanto da chiedermi se avessi già provato qualcosa di simile. E poi, per cosa? In questo posto ci sono ragazze più belle e con molta più mercanzia in mostra, eppure io non riesco a distogliere lo sguardo da lei, dentro il suo semplice maglioncino, dentro i suoi pantaloni neri per nulla attillati e dentro le sue converse rosse. Chi è quel tizio vicino a lei? Mi sembrava di aver capito che fosse single, ma devo essermi sbagliato. Il modo in cui la guarda non è certo quello di un amico. Eppure lei non sembra guardarlo allo stesso modo. Non sono un grande esperto di linguaggio del corpo, ma lei sembra cercare di mantenere le distanze, lo guarda poco e quasi sempre di sfuggita, si allontana ogni volta che lui potrebbe sfiorarla e quando lui ci riesce sembra quasi sussultare. Che stia solo facendo la preziosa per farsi desiderare?


Daniele parla senza quasi prendere fiato, così quando io ho finito il mio cocktail lui è ancora a meno di metà strada. Si offre di prendermene un altro ma rifiuto categoricamente con la scusa di dover guidare. In realtà non voglio rischiare neanche per un secondo di perdere il controllo. Mentre fa una pausa dall suo infinito discorso, che non so neanche di cosa tratti, per prendere un piccolo sorso di Japan, colgo l’occasione per far finta di guardare distrattamente l’orologio e accorgermi che si è fatto tardi.

«Oh Daniele, mi dispiace proprio ma credo che la nostra serata debba finire qui. Mi ha fatto piacere incontrarti.»

«Vai già via? Non è tardi. Saranno neanche le 23.»

«Non volevo fare tardi, domani ci si alza presto.»

«Domani è sabato, non lavori.»

La sua non è una domanda, è una sentenza perentoria che non ammette scusanti o variazioni. Un leggero brivido mi percorre mentre vedo i suoi occhi infiammarsi. Respiro, lo sto solo immaginando. Non può essere altrimenti, è solo la mia fissazione per i film thriller.

«Non ho detto che devo alzarmi presto per lavorare.» sdrammatizzo con un sorriso. «Ho detto solo che devo alzarmi presto. Neanche prestissimo in realtà, ma ho un paio di cose da sbrigare. Lavorando tutto il giorno, ormai devo ritagliare il tempo per le altre faccende: lavare, stirare, fare la spesa, cose noiose varie ed eventuali. Con il lavoro che fai anche tu lotti contro il tempo sicuramente, perciò puoi capirmi.»

Mi sorride, ma i suoi occhi sono stranamente gelidi.

«Ho anche avuto una settimana piuttosto pesante, perciò desidero una bella dormita come nient’altro.»

«Ti accompagno alla macchina.»

«Oh, non preoccuparti. Resta pure, finisci di bere con calma.»

Non faccio in tempo a finire la frase che lo vedo tracannare la metà di Japan Ice Tea ancora nel bicchiere a una velocità spropositata.

«Bene.» annuncio, cercando di camuffare il mio sospiro. «Allora andiamo.»    

Daniele paga il conto, ovviamente per entrambi, e usciamo. Camminiamo con una lentezza estenuante, l’aria intorno a noi sembra pesare un quintale al metro cubo. Arrivati all’auto, apro la portiera di Charlie nella speranza di poter sgattaiolare dentro subito dopo un saluto veloce.

«Allora, buonanotte.» pronuncio le parole con la voce che quasi trema.

Daniele non risponde, si appoggia alla portiera con il braccio sinistro, come lo stesse facendo per caso. Devo sfruttare i riflessi fortunatamente ancora pronti e lucidi per non essere schiacciata. Impreco mentalmente, mentre sento la portiera chiudersi dietro la mia schiena e mi accorgo che Daniele mi ha già bloccato la via di fuga appoggiando anche il braccio destro alla macchina. Mi fissa con i suoi immensi occhi azzurro ghiaccio che alla luce fioca del lampione sembrano quasi trasparenti.

«Io… dovrei… » non riesco a parlare, ho un nodo alla gola che mi fa respirare a stento. Ma so che non è emozione.

Mi poggia l’indice sul viso e lo trascina disegnando la linea della mia mascella. Poggia il polpastrello con un po’ troppa pressione perché si tratti di una carezza. Arrivato al mento, lo tira verso di se. Mi bacia, premendo le labbra contro le mie, forzandole a schiudersi per lui. Non chiude gli occhi, lo vedo continuare a fissarmi. Al contrario del bacio del nostro quasi-appuntamento, questo è diverso. Sento qualcosa, non ho il vuoto dentro, ma quello che sento non è affatto piacevole. L’unica cosa a cui riesco a pensare è che voglio andare a casa e chiudermi la porta alle spalle, con tre giri di chiave. Serro le palpebre per far passare il tempo più in fretta e non dover sostenere il suo sguardo.

Attendo che finisca di frugarmi in bocca con lo stesso trasporto con cui attendo che il dentista termini la pulizia dentale. Quando si stacca da me, attendo qualche attimo prima di riaprire gli occhi. Mi sta sorridendo, solo per un attimo penso che sia il mio inconscio ad essersi inventato tutta l’inquietudine, ma mi basta vederlo avvicinarsi di nuovo per desiderare ancora di scappare.

«Devo proprio andare adesso.» trovo il fiato per dirlo e, senza esitazione, entro in macchina richiudendo la portiera velocemente prima che possa bloccarmi di nuovo. Abbasso di poco il finestrino, quel tanto che impone l’educazione per poter salutare.

«Buona notte Ram. Stai attenta alla guida.»

«Buona notte Daniele.»

«Eh, eh. Ti avevo detto che puoi chiamarmi signor Brigadiere.»

Anche se ride, non credo sia davvero una battuta. Accendo la macchina e inizio la manovra per uscire dal posteggio. Devo farla in modo lento perché lui non si sposta dal punto in cui mi ha salutato e rischio di sbattergli contro. Quando sono in carreggiata, accendo la radio e mi dirigo spedita a casa con l’unico desiderio di togliermi di dosso questa orrenda sensazione.


L’ho vista uscire con lui. Il solito coglione di un Tommaso. Che credevi? Che ti avrebbe visto tra la folla e sarebbe corsa da te a dirti quanto non possa smettere di pensarti da quella sera? Eppure dovresti averlo capito ormai che le favole non esistono.


Sono nel mio letto ma non riesco a dormire. Diego non è ancora tornato a casa. Ho fatto la seconda lunga doccia calda della sera e preso una doppia camomilla ma provo ancora quella terribile inquietudine. Provo a leggere ma, di nuovo, sembra che l’unica cosa su cui riesca a concentrarmi siano le ombre proiettate sul tetto dalla lampada sul mio comodino.

Sento il portone d’entrata aprirsi rumorosamente. Per un attimo i miei nervi saltano in aria, ma riconosco subito il rumore che fa Diego quando cerca di chiudere la porta non facendola cigolare, posa le chiavi sul mobile vicino alla porta e tira il giubbotto sul divano. Lo sento andare a svuotarsi la vescica e poi andare in camera. Il suo passo è un po’ più lento del solito, perciò capisco che ha superato il limite della sbronza.

Istintivamente mi alzo dal letto. Me ne frego che sia di nuovo la scelta sbagliata, me ne frego che sia ancora arrabbiato con me,  me ne frego del mio orgoglio. Sono sulla soglia della sua stanza, lo vedo già fiondato tra le coperte. Si è tolto solo le scarpe per quanto è stanco, o ubriaco, o entrambe le cose. Mi sdraio accanto a lui e lo abbraccio poggiando la guancia sulla sua schiena. Non si muove, ma è sveglio.

«Sei uscita di nuovo con quel carabiniere?» mi chiede con la voce impastata.

«L’ho incontrato al pub. Dovevo andarci con Sara ma mi ha dato buca di nuovo.» Piccola bugia, ma tanto probabilmente domani mattina neanche lo ricorderà. «Abbiamo bevuto una cosa e sono tornata a casa. Da cosa l’hai capito? Eri al Lighting anche tu?»

«L’ho visto sotto prima di salire.»

Cosa? Non è possibile. Sento le mani iniziare a tremare.

«Diego.» mi risponde con un rantolo, sta per addormentarsi. «Giochi?» gli chiedo mentre la voce già mi si spezza.

Lui si volta e, nel sonno, mi stringe forte.

Mi aggrappo a lui con tutta la forza che trovo mentre già tutte le terminazioni nervose mi saltano e tremo senza sosta.

Qualcosa in quell’uomo mi fa paura. E non sono pazza.

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Capitolo 19
*** 19 - (In)aspettati(ve) ***



Una settimana è volata così in fretta che sembra essere stata ridotta.
Domani sarà il mio ultimo giorno di lavoro. Già da un paio di giorni vedo il via vai causato dalla nuova azienda che ingloberà il negozio e devo ammettere che, giuro che è una delle cose più dure che possa fare adesso, quando stasera uscendo dal negozio mi sono voltato e ho visto gli operai ancora a lavoro per cambiare il colore delle pareti esterne ho sentito una fitta di nostalgia stringersi attorno allo stomaco. Forse non è nostalgia, ma consapevolezza. Finora sono stato immerso nei miei problemi personali, perso in fondo al dolore di un tradimento profondo, nella nuova esperienza di dovermi occupare da solo di Rose e della casa, in un letto troppo vuoto la notte e in delle stanze troppo spente la sera. Adesso il carico da undici sta per essere gettato dal mio avversario destino ad appesantire questa mano sfortunata. Tra qualche giorno riceverò quel poco di liquidazione che ho maturato e il mio ultimo stipendio. Dopodiché sarà tutto finito.
“C’è la crisi”, motivetto che risuona ormai da anni a giustificare l’assenza di posti lavoro che abbiano un onesto rapporto tra impegno richiesto e stipendio versato. Un modo come un altro per dire che devi lasciarti sfruttare per portare a casa un pezzo di pane. Sempre che ti vada bene, s’intende. Alla mia età e con il mio curriculum, devi sperare di essere preso a fare lo schiavo. Mi sono fatto trasportare dal mio sogno per la musica e non ho puntato in alto come avrei potuto. Mio padre mi ha sempre rimproverato la scelta di rinchiudermi dentro la divisa da cassiere. Vedeva in me un grande manager, uno scienziato, un inventore, vedeva in me tutto quello che lui non era potuto essere, voleva per me la carriera universitaria e lavorativa che lui non aveva potuto avere. A me, invece, della scuola fregava poco. Pensavo solo a Simona e alla musica. E adesso sembra che mi abbiano abbandonato entrambe. Fortuna che lui non può vedermi.
Il telefono squilla, svegliandomi dai pensieri in cui mi ero infilato.
«Pronto?»
«Tesoro, come stai? Come è andata in negozio?»
«Ciao mamma. Tutto bene.»
So che non mi crede, ma capisce che fare altre domande su questo corrisponderebbe solo ad altre risposte stentate e superficiali.
«Rose come sta?»
«Sta bene, al nido mi hanno detto che oggi è stata parecchio irrequieta ma adesso sembra essere quasi più tranquilla del solito.»
«Forse aveva solo bisogno del suo papà.»
«Non avrebbe bisogno solo di me.» mi lascio sfuggire.
«Tommaso, non voglio che fai questi discorsi. So che è dura, ma non puoi darti colpe che non sono le tue. Rose starà benissimo.»
«Sì.» Non sono molto convinto che ne sarò in grado, specialmente se non trovo in fretta un lavoro.
«Farò finta che tu l’abbia detto pieno di entusiasmo. Ok, signorino?»
Silenzio, nessuno dei due aggiunge nulla per un po’.
«Stai già cercando un nuovo lavoro?» è lei a parlare per prima.
«Mamma sai meglio di me che oggi non...»
«Non uscire anche tu il discorsetto della crisi, ti prego.» mi interrompe. «Se non cerchi di certo non puoi trovare nulla, crisi o non crisi, quindi non è una buona scusa. Il ragazzo che ho cresciuto io non è diventato un uomo che si arrende, vero?»
Potrei ricordargli che anche il ragazzo che lei ricorda era uno che si arrendeva, uno che non ha mai provato a fare più del necessario, che non ha mai puntato in alto, se non per la musica, ma so che non posso farlo. Adesso non c’è in gioco la mia paghetta, la benzina per lo scooter o la ricarica per il cellulare. Qui c’è mia figlia che deve crescere.
«No, mamma. Certo che no.»
Devo essere davvero convincente perché le sento fare il suo risolino soddisfatto di quando da piccoli riusciva a convincerci a fare qualcosa che non volevamo credendo addirittura che fosse una nostra idea. Ma stavolta voglio farlo davvero.

«Proporrei di dedicare questa serata alla nuova leva del nostro ufficio, oggi con noi per la prima volta fuori da quelle quattro orribili mura.» A parlare è Max e tutti lo seguono alzando i bicchieri di plastica riempiti per metà di vino rosso da supermercato.
Max è uno dei social media marketer, un ragazzo tutto parlantina e ingegno. Una delle sue caratteristiche più evidenti è l’universo parallelo della sua mente dove spesso si rifugia anche mentre qualcuno gli parla. Le prime volte che ho dovuto dirgli qualcosa è stato parecchio snervante dover ripetere cinque o sei volte la stessa frase perché in realtà non mi stava ascoltando. Adesso, però, credo di aver capito come distinguere se mi sta ascoltando o meno e le cose vanno nettamente meglio. Un’altra delle cose che mi hanno colpito di lui è che si tratta di uno spirito indipendente: nonostante sia ispirato dalla LambdaDev, essere legato a una scrivania non gli piace e non ne fa un segreto. Non oso pensare a cosa avrebbe fatto se avesse lavorato alla SoftWaiting!
Siamo a casa di Mirko, nel pieno di un torneo di FIFA tra alcuni dei nostri colleghi uomini. Cosa che mi sorprende parecchio è vedere in mezzo a loro anche Giulio. Qualche anno fa non avrei mai creduto possibile una situazione del genere: il capo al massimo organizzava una seriosa e noiosissima cena aziendale a fine anno, non partecipava di certo ad un torneo alla Play con i suoi dipendenti!
Non capisco nulla del gioco così mi limito a guardare lo schermo un po’ inebetita e a parlottare con le ragazze di argomenti causali che mai si avvicinano a quelli lavorativi. Quando a turno non sono impegnati a giocare, anche i ragazzi si avvicinano a noi. Potrei abituarmi a questa sensazione di Team!
Nico ha bevuto un po’ più degli altri, si getta sul letto accanto a Rebecca e inizia a carezzarle i capelli mentre parla con me.
«Parlaci di te, ragazza nuova.» Sa come mi chiamo ma credo continuerà a non usare il mio nome finché non smetterò di fare un brutta smorfia ogni volta che mi chiama così.
«Cosa vuoi sapere, ragazzo grafico?» Io ricambio con una moneta simile, che però non sortisce lo stesso effetto.
«Da dove vieni, che ti piace fare nella vita, se hai il ragazzo.»
Vedo Rebecca dargli una gomitata di nascosto, senza cambiare espressione facciale. Che ci sia del tenero tra loro ma non voglia farlo sapere?
«Sei curioso,eh! Bene io sono nata e cresciuta qui, in questa piccola città. Nella vita mi piace lavorare e...»
«Stop! Stop! Stop!» mi interrompe agitando le braccia. «Ti piace lavorare? Non piacciono a nessuno le leccaculo! E poi Giulio adesso non è in veste di CTO.» lo indica col dito.
Quando mi giro a guardarlo, Giulio sta imprecando contro il suo portiere agitandosi come farebbe qualsiasi altro ragazzo della sua età. Ridacchio, voltandomi di nuovo verso Nico. Sbaglio o ha infilato le mani sotto la maglietta di Rebecca?
«Direi proprio di no.» Evito di fissargli le mani, faccio finta di non essermene accorta ma Rebecca sta comunque arrossendo.
«Quindi dicci la verità.»
«Beh, mi piaceva ballare. Ho ballato hip-hop per molti anni e qualche altra disciplina in modo meno assiduo.»
«Oh, abbiamo una rapper! Bene, bene. E il ragazzo? Ce l'hai o no?»
«No, sono single.» Perché la mia mente ha tirato fuori le immagini di quel ragazzo della band? E subito dopo quelle di Daniele? Un brivido mi corre lungo la spina dorsale.
«Non ci credo che una come te non ha nessuno.» Per quest’affermazione si becca un’altra gomitata di sottecchi.
«Una come me?»
«Sei una bella ragazza, a detta di Rebecca sei anche parecchio intelligente e per quanto ho visto sembri anche simpatica. E poi lì hai due tette che stanno per scoppiare.»
La gomitata stavolta se la becca in piene costole, Rebecca non tenta neanche di nasconderla, carica con forza. Io istintivamente controllo il maglione, anche se non credo che possa essere considerato provocante.
«Ma che ho detto?» chiede ridendo Nico, mentre si massaggia il costato
«Una cosa che in ufficio potrebbe costarti una denuncia per molestie sul lavoro!» risponde Giulio, che a quanto pare sta seguendo la nostra conversazione, non staccando gli occhi dal gioco. La sua non suona come una minaccia vera, ma dopotutto neanche quella di Nico probabilmente era una vera molestia. Una battuta pesante e poco appropriata forse, anche se io ho fatto battute anche peggiori ai miei amici nel corso degli anni.
«Non preoccuparti.»
Guardò lo schermo del cellulare per distrarmi da quella sensazione di imbarazzo, ho una strana ansia all’idea di trovare un messaggio da parte di Daniele. Quando vedo che non c’è nessuna notifica tiro un sospiro di sollievo. Dopo la sera al Lightining, ho continuato ad ignorare i suoi messaggi e le sue chiamate finché due giorni fa ha smesso di cercarmi, spero definitivamente.
«Ero convinta di aver sentito che convivessi.» mi dice Michela, un’altra ragazza del reparto grafico.
«Ho un coinquilino, sì. Sarebbe meglio dire che io sono la sua coinquilina o, se proprio vogliamo essere precisi, sono quella che gli scrocca una stanza. Lui è il mio migliore amico e mi dà una mano. Tutto qui.» Sorrido.
«E io dovrei bermi la storia dell’amico?» commenta Nico.
«Sai Nico...» gli risponde Rebecca «...c’è chi quando dice amico, intende davvero amico. A certe persone piacciono le definizioni chiare e precise.»
Nico le toglie le mani dalla schiena e diventa serio, parla piano ma io e Michela possiamo comunque sentirlo.
«C’è anche chi non vuole perdere il posto facendo sapere al capo che va a letto con sua sorella.»
Tra noi quattro arriva una folata di silenzio, lo sguardo di Nico e quello di Rebecca sono incastrati in una lotta non proprio dolce. Quando Max esulta per aver battuto Giulio, Nico viene chiamato a giocare la sua partita e si allontana. Rebecca ha lo sguardo triste.
«Vado a prendere un po’ d’aria.» Senza neanche infilare il cappotto si alza ed esce in balcone.
Michela si stende meglio sul letto, mentre io seguo l’istinto di afferrare due felpe a caso e andare fuori con Rebecca. Si appoggia alla ringhiera del balcone e fissa il cielo senza dire una parola. In silenzio le poggio una delle felpe sulle spalle e infilo l’altra, mi appoggio accanto a lei scrutandole il viso. Gli occhi sono lucidi e so che non è per via del freddo.
«Tre anni.» dice spontaneamente.
«Cosa?»
«Va avanti da tre anni. So che volevi chiedermelo, lo sentivo. Io e Nico stiamo insieme praticamente da prima di sapere che io e Giulio saremmo diventati fratelli. All’inizio tenevamo tutto segreto perché non era una cosa seria e non volevamo creare scompiglio in ufficio. Ma poi mio padre ha iniziato ad uscire con la madre del capo e io sono diventata la sorellastra intoccabile del principale! Non sia mai che si venga a sapere che ci siamo innamorati! Neanche fossimo fratelli di sangue, non viviamo neanche sotto lo stesso tetto, non è altro che una stupida definizione teorica.»
Le accarezzo la schiena senza proferire parola. La cosa sembra pesarle parecchio, ma non sono mai stata brava a consolare le persone, sono sempre stata io a dover chiedere aiuto, non so come ci si comporta dall’altra parte della barricata.
«Non può essere!» sussurro.
«Invece è così. Devo solo decidermi a dare un taglio.»
Rebecca mi sorride e io annuisco. Non ho cuore di precisare che non stavo in realtà parlando con lei, ma solo con me stessa. Perché lì in strada c’è qualcosa che non avrei voluto vedere, qualcosa che avevo sperato non succedesse più. Invece c’è. Daniele è lì.

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Capitolo 20
*** 20 - La bolla ***



Guardo più attentamente la strada. Vuota. L’ombra che ero convinta fosse Daniele in realtà è solo nella mia testa.
Rebecca mi sta parlando, probabilmente mi racconta qualcosa su Nico e su come è nata la loro storia. Mi dispiace sul serio di non riuscire ad ascoltarla ma la sua voce arriva alle mie orecchie come fosse ovattata, solo rumore, nessuna parola distinta.
«Rientriamo?» la interrompo all’improvviso.
Rebecca mi guarda stordita per qualche attimo, poi sembra sbloccarsi.
«Oh, certo! Si vede che hai freddo: stai proprio tremando.»
Tremando? Me ne accorgo solo adesso. Possibile che mi sia lasciata suggestionare così tanto dal mio inaffidabile istinto?
Rientrate in stanza, ci accomodiamo di nuovo sul letto. Mi sento irrequieta, con un’irrefrenabile voglia di andare a casa ad infilarmi sotto il piumone. All’improvviso, nonostante in questa piccola stanza ci siano quasi venti persone, mi ritrovo nella Bolla. Non provavo questa sensazione da molto tempo, credevo di averla ormai superata.
La Bolla mi ha accompagnato per molto tempo dopo l’incidente. La Dottoressa De Simone diceva che era il metodo con cui il mio cervello cercava di difendermi dal dolore: uno stato semi-catatonico che mi impediva di avere reazioni emotivamente normali alle situazioni che mi si presentavano. Non piangevo la morte di mio padre, negavo le lesioni di mia madre, non parlavo con nessuno a meno che non fosse strettamente necessario, provavo ovunque e senza alcun motivo l’irrefrenabile e spesso inopportuno bisogno di scappare e andare a casa. C’è voluto quasi un anno per quello che ha definito il mio sblocco emotivo. Ho pianto per una settimana davanti alla tomba di mio padre, ho acconsentito al ricovero di mia madre, ho cercato nonostante i pochi successi di riprendere rapporti che avevo abbandonato e sono riuscita a restare seduta alla scrivania per più di tre ore senza attacchi di panico immotivato.
E ora, dopo solo qualche mese, eccomi qui, in silenzio in mezzo a tante persone, con lo sguardo nel vuoto, combattendo la voglia di scappare via, di nuovo nella mia bolla.
«Stai bene?» chiede Rebecca.
La guardo e cerco di ricordare le poche regole che mi aiutavano. Respira, componi frasi brevi, non costringerti a dire cose che non vuoi ma punta sulla sincerità.
«Non mi sento molto bene. Credo che dovrei andare a casa.» Breve e vera, ottimo inizio.
«Hai bevuto troppo? Non reggi un bicchiere di vino?»
«In effetti, no ma non è colpa del vino. Ho bisogno di dormire.»
«Vuoi che ti accompagni a casa?» mi chiede Giulio che ha da poco finito, perdendo, il suo match contro Nico.
«Non è necessario. Non abito molto distante.»
«Motivo in più per accompagnarti.»
Per quanto oggi l’idea di non prendere l’auto fosse sembrata geniale, adesso capisco che tornare a casa da sola senza auto non è un granché perciò non mi oppongo. Infiliamo i giubbotti, salutiamo tutti e usciamo.
«La mia aiuto è proprio lì giù.»
«Possiamo andare a piedi se vuoi. Abito ad un paio di isolati da quella parte.»
Camminiamo in uno strano silenzio.
«Sei diversa da come credevo.» Inizia a parlare con un tono basso e molto più dolce di quanto sia abituata a sentire in ufficio. «Quando ho parlato con Marco dopo aver ricevuto il tuo curriculum, lui mi ha detto di stare attento. Non poteva negare che tu fossi brava nel tuo lavoro, non si può negare l’ovvio, ma ha anche detto che avevi dei strani grilli per la testa.»
«Strani grilli?»
Ero quasi sicura che Marco potesse aver fatto qualcosa del genere, ho anche provato a indagare tramite Rebecca ma sembrava non saperne.
«Grilli. Diceva che eri diventata indisciplinata, non ascoltavi le direttive, volevi predominare sui tuoi responsabili.»
«Certo...» mi scappa via dalle labbra.
Giulio mi guarda male per un attimo.
«Senti, non voglio far la figura di quella che parla male dell’ex capo perciò non vorrei soffermarmi oltre sul motivo per cui lui o chi per lui ha deciso che la SoftWaiting era finita per me. Hai detto tu stesso che ti sembro diversa, no?»
Gli afferro il braccio in una maniera tanto naturale che quasi mi spaventa. Tiro subito via la mano e sorrido istintivamente. Si ferma, mi guarda, sorride, arrossisco. Sembra che i miei neuroni abbiano dimenticato che questa non è la conclusione di un appuntamento romantico, ma con degli occhi scuri tanto profondi che mi fissano in questo modo posso giustificarli.
«Spero che continuerò a dimostrartelo.»
Silenzio imbarazzante.
«Lo speriamo tutti.» sorride ancora e riprende a camminare.
«Veramente io sono arrivata!» gli indico il portone della casa di Diego.
«Oh, ok.»  torna indietro.
Mi prende alla sprovvista, mi abbraccia forte. Respira piano, a fondo, non mi lascia andare. Non so quanto tempo passi, può essere un minuto o forse un’ora, nel quale credo di non esistere. L’unico pensiero è diviso tra le sue labbra e quanto sarebbe sbagliato baciarlo.
«Ci vediamo domani.»
Mi scosta un ricciolo dalla fronte e si china sempre più vicino. Chiudo gli occhi, abbandonandomi ai T-rex che mi zompettano nello stomaco, ormai certa che mancheranno pochi attimi all’incontro tra le sue labbra e ...la mia fronte. Mi da un bacio sulla fronte, tenero all’inverosimile, allarga le braccia dalla stretta in cui mi aveva tenuta. Quando riapro gli occhi vedo la sua sagoma allontanarsi nella via verso casa di Mirko. Resto ferma ad osservarlo, inebetita.
Un rumore mi fa d’improvviso sobbalzare. D’improvviso l’idea che Daniele sia per strada ad osservarmi torna a farsi largo nella mia mente, eliminando ogni traccia dei brividi che percorrevano la mia schiena. Mi volto molto lentamente. Cosa potrei fare se fosse lì davanti a me?
Fortunatamente scopro che è stato solo il gatto del quartiere, un enorme palla di pelo a sfumature rosse che ho provato più volte a convincere Diego di prendere in casa, senza risultato. Deve associare la mia presenza con la sua cena, perché appena incrocia il mio sguardo si avvicina a fare le fusa.
«Micio, non ho niente per te stasera, mi dispiace.»
Lui sembra capire, ma non si offende. Con molta eleganza si allontana e salta di nuovo dentro la pattumiera del condominio in cerca di qualche avanzo che lo soddisfi fino a domattina.
Arrivata in casa mi accorgo che Diego non c’è. Non ricordavo mi avesse detto di dover uscire, ma ne approfitto per farmi un bel bagno che mi schiarisca le idee. Riempio la vasca di acqua calda, creando moltissima schiuma, accendo una candela al profumo di cannella e mi infilo dentro. Non faccio in tempo a rilassarmi che sento la porta di casa aprirsi di nuovo.
«Ram!» la voce di Diego mi chiama.
«Sono nella vasca, che c’è?»
«Sei immersa nella schiuma? Posso entrare?»
Non lo ha mai chiesto, quindi la cosa mi preoccupa. Controllo di essere del tutto coperta e gli do il permesso. Si affaccia sulla soglia del bagno con un mazzo di rose bianche. La cosa mi sconvolge e deve norarlo.
«Ti fermo subito, non sono mie.»
«E di chi sono?»
«Tue a quanto pare.» le poggia sul piccolo armadio accanto al mio pigiama e mi porge il bigliettino. Si allontana nel corridoio accostando la porta senza chiuderla. «Il tuo amico carabiniere mi ha detto che le hai dimenticate in macchina e di darti subito il biglietto appena entravo in casa. Mi è sembrato parecchio strano. Non avevi detto che non lo stavi sentendo più?»
Le sue parole mi gelano il sangue, ma quello che mi fa pietrificare è ciò che vedo sul biglietto. La dedica che era stata scritta è cancellata da una riga tremolante e accanto sono aggiunte delle parole: “Ti ho vista con lui.”
Resto immobile a fissare quelle parole scritte con un tratto marcato, posso quasi avvertire la rabbia con cui sono state scritte. Esco dalla vasca, senza curarmi dell’acqua che cade sul tappeto. Lascio cadere il biglietto, mi tampono velocemente con l’accappatoio ma è solo quando cerco di infilarmi il pigiama che mi rendo conto di quanto sto tremando. Mi infilo in camera senza badare a nulla, sotto il piumone al sicuro nella mia bolla.
«Ram!» sento di nuovo Diego urlare il mio nome. «Hai lasciato un casino in bagno! Potevi almeno svuotare la vasca.»
«Puoi svuotarla tu? Giuro che domattina pulisco tutto.» credo che mi tremi la voce un po’ troppo forte.
«Stai male?»
«Sì, mi sento molto male.» fingo dei colpi di tosse molto forti.
«Chissà perché mi sembra una scusa! Non avrei dovuto trovarti immersa in acqua se avessi davvero questa brutta tosse no?» non sembra arrabbiato, solo divertito.
«Giuro che domani pulisco.»
«Certo, la solita storia.»
Il campanello di casa trilla. La mia ansia sale, allungo le orecchie senza muovermi dal letto.
«Chi cazzo è a quest’ora?» sento i passi di Diego andare verso l’entrata. «Se è il tuo spasimante stavolta lo prendo a calci. Non si suona alla porta delle per… Ma qui non c’è nessuno!»
Sento la porta richiudersi e i passi di Diego rientrare. Bussa alla porta della mia camera.
«Entra.»
«Ram, c’era questa sulla porta.»
Esco dal piumone e lo trovo che mi porge una piccola busta da lettere. Ha lo stemma del fioraio sopra, probabilmente c’era dentro il bigliettino originale. Non voglio prenderlo, la mia mano si rifiuta di afferrarlo.
«Puoi leggerlo tu?» chiedo a Diego.
Apre la busta dubbioso. Vedo il viso di Diego comprimersi in una delle facce che fa quando qualcosa lo preoccupa. Il contenuto della busta non migliora la situazione. Dentro c'è un pezzo di stoffa chiara con una frase scritta sopra e riconosco la stessa calligrafia arrabbiata.
“Mia o di nessuno, questo dovrebbe dimostrartelo.”
Le mie dita lo lasciano andare senza che realmente ne sia consapevole.
«Ram. Cosa sta succedendo? Cosa vuol dire quel messaggio? E soprattutto da dove viene quel pezzo di stoffa?»
Guardo Diego, mentre sento gli occhi iniziare a bruciare di lacrime.
«Io… io non lo so.»
Diego raccoglie lo strano biglietto. «Se reagisci così significa che questa non è la prima volta che succede qualcosa di tanto strano.»
Muovo piano la testa con dissenso.
«Perché non mi hai detto niente?»
«Io… non credevo fosse così grave. Era solo un presentimento. Sembrava troppo presente, un po' possessivo forse, ma pensavo che fosse solo una cotta.»
«Cazzo, Ram!» urla. Getta il pezzo di stoffa lontano da sé. «Come fai ad essere sempre così?»
Grida ancora, ma nei suoi occhi non c’è rabbia. Solo paura. Si accarezza freneticamente la nuca, camminando per la stanza.
«Dovremmo denunciarlo?»
«Denunciare un carabiniere per un mazzo di rose? Certo. Scommetto che in centrale sono tutti pronti ad accogliermi a braccia aperte.»
«Dobbiamo pur fare qualcosa. E se ti facesse del male? Il messaggio mi sembra chiaro.»
Mi passa di nuovo il pezzo di stoffa. Lo rigiro tra le dita cercando qualcosa da scoprire, consapevole che non ci sia nulla. Rileggo quella frase. “Questo dovrebbe dimostrartelo”. Questo, cosa? Un mazzo di rose? Non credo.
Improvvisamente nella mia mente si forma un’immagine.
«Giulio!»
Se Daniele era appostato sotto casa, deve averci visto mentre ci abbracciavamo. Potrebbe avergli fatto del male? Per me? Sotto gli occhi dubbiosi e inquieti di Diego, afferro il cellulare e compongo il suo numero. Devo chiamarlo. Il cellulare squilla a vuoto, non risponde. Provo di nuovo, ancora senza risposta.
«Diego, dobbiamo andare alla polizia.» scatto in piedi.
«Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
«Credo che abbia fatto del male a Giulio, il mio capo. Non risponde al telefono.»
«Vestiti, ti aspetto in macchina.» annuncia prima di avviarsi fuori dalla stanza.

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Capitolo 21
*** 21 - Salve, Maresciallo ***




Il telefono suona mentre sono in auto con Diego diretta al commissariato di polizia. Guardo lo schermo: è Giulio.
«Giulio, come stai?»
«Sono stato meglio. Come mai mi hai chiamato così tante volte?»
«Come stai? Che ti è successo?»
«Non preoccuparti. Un’idiota in moto, sembra che in questo periodo sia diventato una calamita per incidenti.»
Afferro la mano di Diego sul volante. So chi è quell’idiota in moto.
«Sei in ospedale?»
«Ramona ti ho detto di non preoccuparti, sto bene.»
Non rispondo, chiudo la conversazione e chiedo a Diego di cambiare direzione. Dobbiamo andare al pronto soccorso, immediatamente.

«Mamma credo che ci sia qualcosa che non va. Rose ha iniziato a piangere un’ora fa mentre dormiva e non la smette in nessun modo.»
«Tommaso, calmati. I bambini piangono, è nella loro natura.»
«No, non Rose. C’è qualcosa che non va! La porto al Pronto Soccorso.»

La sala d’aspetto del pronto soccorso è piena, neanche fosse la notte di Capodanno, con una varietà di lesioni che vanno da bambini con nasi gocciolanti a probabili arti rotti durante una partita di calcetto. Mi dirigo dagli infermieri addetti al triage, chiedendo di Giulio, ma si rifiutano di darmi retta se non sto accompagnando un paziente e, per quanto possa rispettare il loro lavoro e capire il loro stress in una serata del genere, un vaffanculo non glielo leva nessuno.
Mentre ci spostiamo in un’area più calma della sala, lo vedo. Si trova seduto su una delle scomode sedie di plastica blu per l’attesa, ha i vestiti strappati e dei graffi sul viso. Mi precipito da lui.
«Giulio! Perché sei qui da solo?»
«Non ho chiamato nessuno. Ramona, ti avevo detto di non preoccuparti.»
«Come sei arrivato qui? Hai chiamato l’ambulanza?»
«No, un passante mi ha dato un passaggio. Credo sia spaventato più di me, è laggiù.»
Indica un ragazzo accanto alla macchinetta del caffè. Anche da questa distanza gli si vedono le mani tremare. Sembra essere in difficoltà mentre cerca di raccogliere dal portamonete i centesimi che servono. Credo sia molto giovane, direi non più di ventun’anni.
«Si, ma perché non sei dentro?»
Mi mostra il foglio rilasciato dall’accettazione. «Codice Giallo, pare che io non sia in immediato pericolo di vita. Mi hanno già visitato, devono aspettare che si liberi il macchinario per farmi una risonanza ma non credono che ci siano lesioni gravi, forse un lieve trauma cranico e qualche ematoma qua e là. Dentro non c’era posto ed eccomi qui.»
«Certo che ‘sti ospedali peggiorano di giorno in giorno, eh!» commenta in evidente imbarazzo Diego.
Giulio lo guarda per la prima volta. «Tu dei essere l’amico di Ram.»
«Scusate se non vi ho presentato. Lui è Diego.»
Il ragazzo delle macchinette, quello che ha portato qui Giulio, si avvicina a noi. «Ti sei deciso a chiamare qualcuno finalmente?»
«No, sono qui perché ho dei dipendenti troppo apprensivi.» ride, ma sembra che gli faccia male.
«Sono arrivati i carabinieri per la deposizione.»
Quelle parole mi fanno scattare una molla dentro, il cuore inizia ad accelerare mentre il respiro si fa corto ed affannoso.
«Digli come sono andate le cose e poi vai a casa. La tua fidanzata sarà in pensiero! Ci risentiremo, credo di essere in debito con te.»
«Ma figurati. Non mi devi niente.» prende comunque il biglietto da visita che ha estratto Giulio dal cappotto. «Lo prendo solo per sapere come starai domattina.»
«Sei un bravo ragazzo, davvero un bravo ragazzo.»
Il viso di Giulio si stringe di dolore ad ogni parola. Il ragazzo si allontana e per un attimo credo di vedere Daniele, ma è solo un brutto scherzo della mia immaginazione. Uno dei due carabinieri si siede con lui, mentre l’altro si avvicina a noi.
«Buona sera signori, sono il Maresciallo Bortone»
«Salve Maresciallo. Sono Giulio Ventura.»
«Signor Ventura, se la sente di dirmi come sono andate le cose? Tutto quello che ricorda può esserci utile.»
«Stavo tornando alla mia auto che era a qualche isolato di distanza da dove mi trovavo, quando una moto mi è venuta addosso. Mi è passata così vicino che chi c’era sopra mi ha spinto. Ho creduto che volesse spostarmi per evitare di farmi male, anche se prima mi era venuto quasi addosso in un modo che sembrava intenzionale. Sono caduto e ho sbattuto la testa sul marciapiede. Ero stordito. Ho sentito qualcuno che mi frugava addosso, credo sia allora che mi è stata strappa la camicia, ho pensato che volessero rubarmi il portafoglio ma non devono averlo trovato perché ce l’ho ancora. Credo che mi abbiano dato un paio di calci allo stomaco, forse qualcuno sulle costole...»
«Quindi non l’hanno realmente investita e non l’hanno derubata.» commenta il Maresciallo mentre prende brevemente appunti.
«Se la vede da quel punto di vista, io...»
«Da quale punto di vista dovrei vederla, mi scusi? Ha detto che la moto le è passata vicino e che chi la guidava l’ha spinta per evitare che potesse farsi male, quindi era lei a star camminando in mezzo alla strada e il motociclista le ha salvato la vita.»
«In realtà io...»
«Ha bevuto o assunto droghe questa sera?»
«Cosa? No!»
«Mi scusi, lei è qui per avere una dichiarazione dei fatti o per insultare una persona che è stata appena aggredita?» Non ce la faccio più a stare in silenzio.
«Signorina, si calmi.»
«No, non mi calmo. La dichiarazione che le è stata appena fatta è molto chiara. Qualcuno lo ha aggredito, gettato per terra e picchiato.»
«Le ho detto di calmarsi.»
«Non mi calmo perché lei è un incompetente!» urlo così forte che l’intera sala d’attesa si volta a guardarci.
«Se continua così diventerà oltraggio a  pubblico ufficiale, le conviene frenare la lingua.»
Diego mi afferra per le braccia. «Ram, respira! Non esagerare, ti prego.» mi sussurra piano.
«Ci sono problemi?» il carabiniere che stava parlando con il ragazzo si avvicina a noi.
«No, Signor Capitano.»
«Invece credo di sì.» afferma il Capitano guardandomi. «Signorina, cosa succede? Cosa la spinge a screditare il mio collega?» il suo tono è fermo ma delicato, il suo interesse sembra sincero.
«Credo che il suo collega abbia sottovalutato la situazione. Qualcuno ha tentato di investire il mio amico, lo ha gettato a terra e lo ha picchiato. Chiedo solo che venga trattato con rispetto.»
«Chiedo scusa da parte del mio subalterno se è sembrato che stessimo trattando il suo amico con poco rispetto. Non ricapiterà, signorina.»
«Grazie.» sento di essere arrossita.
Capitano e Maresciallo si allontanano per motivi che non ci comunicano, dicendo solo che torneranno dopo che Giulio avrà fatto la risonanza per completare la dichiarazione e prelevare la copia dei referti da allegare alla documentazione.
Sento Diego rilassarsi leggermente, mi lascia andare. Giulio appoggia la testa al muro che si trova alle spalle e chiude gli occhi. Fa un respiro profondo mentre il viso gli si contrae in una smorfia di dolore che cerca di camuffare. Mi siedo accanto a lui.
«Il mio amico, eh! Non ero il tuo capo fino a qualche ora fa?»

Entro al Pronto Soccorso che sono ancora in preda al panico. Mi precipito dagli infermieri del triage.
«Vi prego, aiutatemi! La mia bambina è svenuta.»
Allarmati, aprono subito la porta d’accesso al reparto, mettono Rose su una barella e chiamano un medico urgentemente.
«Ha avuto altri sintomi?»
«Credo abbia la febbre. Oggi è stata molto irrequieta ma sembrava essersi calmata. Poi all’improvviso ha iniziato a piangere. Ha pianto senza smettere per un’intera ora e mentre la portavo qui è svenuta.»
«Dobbiamo farle degli esami e una TAC.» dice il medico all’infermiera. «Monitoriamo il respiro. Subito!»
«Oddio, no.»
Rose ricomincia a piangere. Tutti tiriamo un sospiro di sollievo.
«Ok, è reattiva. Se resta vigile evitiamole radiazioni superflue. Misuratele la temperatura, se ha la febbre fate una feblo di paracetamolo. Appena la temperatura è normale facciamo un ECG e un esame ematico completo. Come si chiama la bambina?»
«Rose. Rose Merisio. Ha otto mesi.»
«Perfetto. Dottoressa Kay occupati della piccola Rose.»
La dottoressa Kay e le infermiere portano via mia figlia.
«Posso stare con lei?»
«Al momento no. Il reparto è pieno. Potrebbe essere stressante per lei e pericoloso per gli altri pazienti. Inoltre la piccola sarà spostata spesso e non sempre in posti dove potrà seguirla. Mi dispiace davvero, so che vorrebbe restare con lei, ma le assicuro che la dottoressa Kay non la perderà di vista un attimo, è bravissima con i bambini può stare tranquillo.»
«Starei più tranquillo se fossi io a non perderla di vista.»
«La capisco e le prometto che non appena possibile la farò rientrare. Per il momento resti qui fuori e cerchi di calmarsi. Prenda una boccata d’aria fresca, beva una camomilla. La sua piccola è in buone mani e non è in condizioni critiche.»
«Dicono sempre così nei telefilm e poi...»
«Questo non è un telefilm. Sua figlia non corre alcun pericolo. Ora, se vuole scusarmi, devo tornare dai miei pazienti. La prego, cerchi di tranquillizzarsi e assuma degli zuccheri: è bianco come un cencio.»
Lo guardo allontanarsi, cercando disperatamente di credere alle sue parole, ma finché non avrò la mia piccola di nuovo tra le braccia non potrò stare tranquillo.
Esco di nuovo nella sala d’aspetto. Cerco un posto in disparte ma con tutta questa gente devo rinunciare ben presto all’idea di un po’ di silenzio. Per fare cosa poi? Rimuginare su quanto sono idiota come padre?

Hanno appena portato Giulio a fare la risonanza. Sembra che non appena l’abbiano chiesto i carabinieri si sia magicamente invertito l’ordine di importanza. Diego è andato a cercare un bar aperto per un po’ di caffè decente e il ragazzo della deposizione è andato via. Sono da sola. Esco fuori nonostante il freddo si faccia sentire, mi siedo sulla panchina vicino l’aiuola e alzo gli occhi al cielo. La notte è limpida, il cielo sembra un lenzuolo blu scuro ricoperto di lucciole. Chiudo gli occhi, cercando di far fluire via la negatività di questa serata. Quasi sussulto quando sento qualcuno sedersi accanto a me.
«Credi che ci incontreremo sempre così?»
Apro gli occhi e vedo la persona a cui stranamente ho pensato tanto spesso, il ragazzo del bar, il ragazzo della band, Tommaso. Il suo viso, che dovrebbe essere quello di uno sconosciuto, stranamente mi fa sorridere. «Così come?»
«Mentre sei da sola, nervosa e, la butto lì, spaventata?»
Annuisco piano, senza dir nulla.
«Parente o amico?»
«Amico, anche se in realtà sarebbe il mio capo. Ha avuto… un incidente.» Non è il caso di parlarne, no? «Tu? Parente o amico?»
Si guarda le mani. «Parente, direi, anche se in realtà è la mia vita. Ho portato mia figlia, Rose, poco fa.»
E chi avrebbe mai pensato che avesse una figlia?
«Ha otto mesi. Ha iniziato a piangere e poi è svenuta.»
«Oddio, mi dispiace tanto.»
«Non sapevo che fare, ero completamente nel panico. Credo di essere una frana come padre.»
«Che ti hanno detto i medici?»
«Che non è niente di grave, per fortuna. Ma finché...»
«Finché non la vedi, non ci credi. Naturale.»
«Già, credo di sì.»
Dovrei chiedergli perché è solo qui, ma qualcosa mi dice che non è il caso.
«Signorina!» il Capitano è sulla porta. «Le dispiace se continuiamo le nostre due chiacchiere?»
«Scusami, devo andare.» saluto Tommaso e mi avvio verso l’entrata.
«Ci rivederemo. Tanti auguri per il tuo capo.»
«E a te per tua figlia. Spero esca presto.»

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Capitolo 22
*** 22 - Negazione ***



«Vorrei di nuovo porle le scuse per il comportamento del mio collega e rassicurarla che il caso dell’aggressione al suo amico non verrà in nessun modo sottovalutato.» Il tono di voce del Capitano è pacato e dolce, ascoltandolo riesco ad avere quasi fiducia in quello che dice. «Sarà un caso difficile, non posso negarlo. Non ci sono molte prove e dalla testimonianza del signor Ventura pare che nessuno, neanche lui, abbia visto l’aggressore e ne sappia dare una descrizione consistente.»
Resto in silenzio, non dico una parola, anche se dentro di me qualcosa urla. Io so esattamente cosa è successo ma non posso provare nulla e so che accusare qualcuno senza prove può fare più male che bene, specialmente se si accusa una persona come Daniele.
«Signorina, posso essere sincero con lei?» riprende il Capitano. «Lei mi sembra troppo turbata per essere solo un’amica in apprensione. Il suo amico dopo tutto - e mi creda non lo sto dicendo per sottovalutare la sua situazione - non è in pericolo di vita. Eppure lei ha troppa paura negli occhi. C’è qualcosa che vuole dirmi? Ha assistito all’aggressione? Sa che potrebbero esserci utili tutti i dettagli che riusciamo a racimolare.»
«Sì, lo so, è solo che...» Posso fidarmi? Da qualche parte c’è una piccola me che ha ancora fiducia in quello che quest’uomo rappresenta, ma è troppo piccola e lontana per parlare. «...sono solo sensazioni.»
«Me le dica, signorina...» si toglie piano il cappello con il fregio e lo poggia sulla sedia vuota accanto a sè «...faccia finta che io sia solo un vecchio amico, o suo nonno vista l’età. Mi racconti la sua sensazione, potrebbe aiutarci a guardare nella direzione giusta.»
Non sono ancora convinta di poter parlare, non so neanche se ne ho davvero il diritto. Dopo tutto, non potrebbero essere solo un insieme di strane coincidenze? Mi tormento le dita, strappando con i denti piccoli pezzetti di pelle attorno alle unghie.
«Signorina, la prego.» Mi prende delicatamente le mani e le stringe tra le sue. «Mi aiuti ad aiutare il suo amico.»
Guardo negli occhi il Capitano. Sono blu, scuri, non ne ho mai visti di simili, contrastano con il chiarore e la maturità del viso, eppure mi trasmettono uno strano senso di sicurezza.
«Credo di sapere chi lo ha investito e anche perché. Credo sia colpa mia, ma non posso provarlo.»
«Cosa le fa pensare una cosa simile?»
«C’è una persona.» Parlarne è difficile, il peso di ogni parola mi schiaccia a terra. «Un ragazzo che mi corteggia.»
«Crede che possa essere stato lui? Le ha mai dato modo di ritenerlo capace di questo?»
«Non mi ha mai aggredito, se è questo che intende.» Chiudo gli occhi un attimo, come se farlo potesse ridurre la paura che sento al pensiero di ciò che potrebbe accadere dopo questa conversazione. «Ma ho comunque valide ragioni per crederlo.»
«Stiamo parlando di uno stalker, per caso?»
«Io...» stringo forte le mani, sento le unghie entrare nei palmi «...sì.»
«Signorina, purtroppo lo stalking non è ancora così facile da condannare o anche solo dimostrare. Non tanto come fanno credere, almeno.»
«Lo so, purtroppo lo so. Inoltre fino a stasera credevo che la cosa fosse ancora sotto controllo, per questo non ho mai provato a fare una denuncia. Non ero ancora neanche sicura di cosa stesse facendo. Lo vedevo ovunque fossi, per strada, nei negozi, è arrivato perfino ad entrare in ufficio. Sapeva tutto di me, troppo forse, ma inizialmente credevo fosse solo un ragazzo che tentava di fare colpo, anche se qualcosa in lui mi metteva paura era solo una mia sensazione. Insomma, prima di stasera, ovvio.»
«Cosa è successo stasera? Perché crede che l’incidente del signor Ventura sia opera sua? Perché è di questo che stiamo parlando, non è così? Lei crede che il suo stalker abbia aggredito il suo amico.»
«Sì, lo credo. Stasera ho visto Da…» mi blocco, non sono ancora pronta a dire il suo nome. «...lo stalker per strada sotto casa degli amici da cui ero a cena, poi Giulio mi ha accompagnato a casa perciò deve averci visti insieme. Arrivati al mio portone mi ha salutato e...»  devo ancora decidermi se raccontare questo pezzo della storia o no «...beh, senza tanti giri di parole, mi ha abbracciato e credo che abbia provato a baciarmi.» Lo dico così veloce che dubito il Capitano mi abbia capito, almeno finché non sorride commentando la mia affermazione.
«Senza tanti giri di parole, signorina, non faccio fatica a crederle, bella per come è. Con tutto il rispetto che posso avere per lei, s’intende! Potrebbe essere mia nipote, come le ho detto prima. Vada avanti.»
«Sì, beh, credo ci abbia visto e abbia aspettato che salissi a casa per fargli del male. Non che volesse ucciderlo, credo che fosse un messaggio per me, un avvertimento.» Estraggo dalla tasca il pezzo di camicia e lo porgo al Capitano. «Quando il mio coinquilino è rientrato, lo ha incrociato sotto casa con un mazzo di rose. Non ci ha fatto troppo caso, non era la prima volta. Ma al posto del solito biglietto romantico, c’era questo.»
Il Capitano esamina la stoffa attentamente, così come il messaggio che riporta. I suoi occhi blu si stringono a due piccole fessure e la sua espressione diventa dura. Come a deporre le vesti del confidente che avrebbe voluto fingere di essere, mette di nuovo il cappello con il fregio. Rigira lo strano biglietto tra le mani, come se fosse quello che aspettava.
«Questa è una prova. Se dovessimo dimostrare che questo pezzo di stoffa viene dalla camicia del signor Ventura, con la sua testimonianza e quella del suo coinquilino, potremo facilmente dimostrare la colpevolezza dell’aggressore del suo amico. Lei collaborerà, non è così? Non deve temere in alcun modo questa persona. Noi la proteggeremo.»
Gli sorrido, ma il mio è un sorriso colmo di rassegnazione. «Sa meglio di me come vanno queste cose. Dimostrare la sua colpevolezza non servirà a niente. In realtà credo che non finirebbe in carcere neanche se fosse riuscito a uccidere Giulio.»
«In carcere no, ma potremo allontanarlo da lei, proteggerla. Ci dica chi è.»
Un nodo mi si stringe alla gola. Improvvisamente non posso dirglielo. Vedo tutte le possibili ripercussioni passare davanti ai miei occhi e nessuna di esse è accettabile.
«Signorina, ci dica chi è. Si faccia aiutare. Gliel’ho detto, lei potrebbe essere mia nipote. Io voglio solo proteggerla.»
Il Capitano mi guarda ancora con i suoi occhi blu, grandi e rasserenanti, come un porto sicuro dopo una tempesta in alto mare.
«Mi dispiace...» dico con un filo di voce, gli occhi che già bruciano per trattenere le lacrime che vorrebbero correre fuori «...non posso.»

Una delle infermiere che hanno soccorso per prime la mia bambina esce in cortile a cercarmi. Appena la vedo, salto dalla panchina su cui sono seduto.
«Signor Merisio, il dottor Elia vorrebbe parlarle.»
Mi precipito dentro a passo spedito, quasi correndo. Entrato all’interno del reparto, l’infermiera mi indica che lo troverò in una stanza in fondo al corridoio. Una stanza? Perché Rose non è qui? Significa che è grave, altrimenti perché non lasciarla qui con gli altri? Raggiungo la stanza che mi è stata indicata ed entro senza bussare. La luce è spenta, solo una piccola lampada è accesa sul comodino. Vedo la sagoma del dottor Elia accanto a quella della dottoressa Kay. Sento il bip costante del macchinario che monitora i parametri vitali. Lo guardo e vedo una serie di linee ondeggianti e dei numeri che ovviamente non capisco, ma sono verdi e il verde è sempre un colore positivo. Un’infermiera sta sistemando il dosaggio alla sacca di flebo. Finalmente il mio sguardo si ferma su di lei, la mia piccola Rose. Sta dormendo.
«Signor Merisio, è riuscito a calmarsi un po’?» nella penombra lo vedo sorridere.
«Mi dica come sta mia figlia.» chiedo con voce pietosa, parlando piano per non svegliare Rose.
«Dagli accertamenti tutto sembra normale. La temperatura è un po’ alta, niente di allarmante.»
«Allora perché è svenuta?»  
«Faremo altri accertamenti per sicurezza, ma la prima ipotesi è...» non completa la frase e io sento nettamente l’ultimo briciolo di ragione lasciare la mia mente.
«Cosa? Qual è la prima ipotesi? Ditemi cosa ha mia figlia!»
«Crediamo che stesse solo dormendo.»
«Dormendo?» Sento la forza lasciare le gambe, che cedono per un breve attimo.
«Sì, è possibile. Lei ha detto che si è svegliata piangendo ed è possibile che piangesse per la febbre o per qualche dolorino o fastidio. Non appena il fastidio si è placato si è di nuovo addormentata, ma lei stava guidando ed era in ansia perciò credeva fosse svenuta. Arrivata qui, il rumore e l’essere toccata l’ha svegliata di nuovo. Comunque, come dicevo, faremo per sicurezza tutti gli esami di routine. La flebo contiene paracetamolo per far scendere la febbre e liquidi per idratarla. Il laboratorio sta già lavorando alle altre analisi della piccola, nel frattempo le abbiamo preparato questa stanzetta per farla riposare.»
Stava dormendo, non era svenuta, ma potrei svenire io adesso. Sento il petto improvvisamente libero e troppa aria entrare nei polmoni, mi gira la testa. La mia piccola sta bene, non so cosa avrei mai fatto se le fosse successo qualcosa. Non freno l’istinto di abbracciare il dottor Elia.
«Ehi, questo è l’entusiasmo che dovrebbero avere tutti i pazienti!»
Credo di stare per scoppiare a piangere, perciò mi allontano da lui, lo ringrazio ancora e vado a sedermi accanto a Rose. I dottori e l’infermiera escono lasciandomi solo con lei. Ripasseranno non appena avranno i risultati degli esami per farci tornare a casa.
La guardo dormire, così piccola, così indifesa e per un attimo credo che non sarò mai in grado di darle tutto ciò che merita e di prendermi cura di lei nel modo giusto. Ed è ora, qui, solo con lei, che ancora una volta mi sciolgo inevitabilmente in lacrime.

«Non riesco ancora a capire perché non glielo hai detto.»
«Diego ti prego, basta. Non ne posso più di questa storia.»
«Ti rendi conto di cosa potrebbe succedere? Quello che ha fatto al tuo capo è stato solo un avvertimento. Cosa succederà la prossima volta che ti vedrà? Io non potrò più stare tranquillo ogni volta che uscirai di casa.»
«Sei troppo apprensivo, Diego.»
La dottoressa De Simone direbbe che sono nella fase di negazione e avrebbe ragione, ormai io e la famosa fase di negazione ci conosciamo bene, siamo intime amiche. Se mi astraggo da me e mi guardo da fuori, non credo neanche a una parola di tutte quelle che sto dicendo. Ho paura di quell’uomo e tanta, tantissima, voglia di trovare il modo di tenerlo lontano da me, ma ho ancora più paura di quello che potrebbe succedere se lo denunciassi. “La proteggeremo” ha detto il Capitano, ma io ho sentito troppe notizie di donne picchiate o uccise dal loro stalker o solo da un fidanzato troppo geloso. Per di più, la sua divisa lo proteggerebbe da tante di quelle accuse che mi sale il vomito solo a pensarci. Non posso fare a meno di chiedermi se sono la prima che perseguita o altre ragazze hanno avuto il mio stesso trattamento.
Siamo seduti sul divano, nessuno dei due sente di poter dormire stanotte. Sono già le cinque del mattino e tra solo qualche ora dovremo andare a lavoro. Con che forza e che spirito, nessuno più dirlo. Ho la testa appoggiata sulla spalla di Diego e cerco di non pensare, ma per quanto mi sforzi non credo di essere capace di fermare i miei pensieri. Guardo la foto di mio padre fissarmi da dietro il vetro della sua cornice. Cosa penseresti di me adesso? Saresti deluso che io non sia più simile alla bimba forte che si imponeva su tutti all’asilo per decidere a che gioco giocare? Tu avresti saputo proteggermi.
Il cellulare vibra per un messaggio e il mio cuore impazzisce. Respiro affannosamente, la testa mi martella pesantemente e un forte fischio mi impedisce di sentire cosa succede attorno a me. La crisi di panico, amica che non passa da un po’ a trovarmi, si impadronisce di me.
«Calma!» Diego mi afferra per le braccia e stringe forte. «Sei al sicuro. Ci sono io. Siamo a casa. Respira profondamente. Va tutto bene.»
Frasi brevi, senza negazioni, contatto visivo, compressione agli arti per regolarizzare il ritmo cardiaco. Conosce ancora la prassi. Continuo a guardarlo negli occhi e respiro profondamente, finché sento nuovamente la testa liberarsi e il petto aprirsi con regolarità.
«Prendi il telefono e leggi il messaggio.»
Ubbidisco, muovendomi a una lentezza quasi disumana. Quando leggo il mittente, tiro un sospiro di sollevo e sprofondo di nuovo divano.
«È di Giulio. Domani non verrà in ufficio. Devo coprirlo con Rebecca.»
Tutti controlli sono andati bene perciò non hanno ritenuto opportuno trattenerlo, gli hanno dato una pomata da mettere sui graffi e gli ematomi. L’infermiera che ha fatto la prima medicazione continuava a ripetere che un viso come il suo meritava di guarire in fretta. Lo abbiamo accompagnato all’auto e ora è a casa, ma non credo che si presenterà in ufficio finché non saranno spariti i segni. Non vuole che si sappia.
Poso di nuovo il cellulare accanto a me sul divano e mi accoccolo sotto il braccio di Diego. L’adrenalina del panico se ne è andata e piano sento la stanchezza farsi più presente. Sono quasi nel dormiveglia e sento la mia stessa voce senza accorgermi di stare parlando.
«Domani andiamo al commissariato. Voglio che tu stia tranquillo.»

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Capitolo 23
*** 23 - Posso farcela ***



Questa notte è entrata di diritto nella top ten delle peggiori mai passate. Spero sinceramente di non doverla mai sostituire con una in cui la nottata in ospedale ha un motivo più serio di un padre ansioso che non riconosce la differenza tra sonno profondo e perdita dei sensi.
Lasciare Rose a mia madre stamattina è stato più duro del solito, non riuscivo a staccarmene. Il fatto che mamma sembrasse gongolare era solo un’aggravante. Continuava a ripetermi che lei ha cresciuto due figli e io sono solo alle prime armi e che se non inizio a fidarmi dei suoi consigli questa sarà solo una delle mille altre notti d’ansia inutile. Inutile, come il mio continuare a ripeterle che ho il diritto e il dovere di essere in ansia per la mia bambina e ricordarle che anche lei ha avuto le sue prime esperienze. Si è fermata solo alle due parole magiche: “hai ragione”.
Il vero motivo per cui non trovavo il cuore di lasciarla andare, è che non la vedrò per l’intera giornata. Non sopporto di starle lontano così tanto tempo.

«Hai una faccia orribile stamattina, proprio inguardabile.»
«Grazie, Mattia. Davvero, sei proprio un amico.»  
«Non è colpa mia se la tua faccia oggi è proprio oscena. Sei bianco che faresti paura a un vampiro succhia sangue, hai gli occhi gonfi e rossi come se avessi passato la notte a fumare marja e delle occhiaie che sembrano lividi di due pugni ben assestati.»
«Nottataccia. Rose non è stata molto bene e io non ho dormito.»
«L’aspetto negativo dell’essere genitori, no? Le notti in bianco.»
La mia risposta arriva con un rumoroso sbadiglio che non riesco a trattenere.
«Ti faccio un caffè, dai.» si offre Mattia avviandosi verso la macchinetta.
Di clienti neanche l’ombra e dubito che a qualcuno verrà voglia di entrare con gli operai che continuano a lavorare ingombrando l’ingresso.
«Sai che è il primo caffè che mi prepari da quando ti conosco?»
«Da quando mi conosci non c’è mai stata una situazione del genere e poi prendilo come un rito da “questo è il tuo ultimo giorno”.»
Ultimo giorno, già. Dalle 17:00 di oggi sarò ufficialmente, a tutti gli effetti, un disoccupato.
«A proposito...» Mattia torna da me e mi porge il tipico bicchierino di plastica marroncino con dentro l’acqua scura che qui hanno il coraggio di chiamare caffè «...come sta andando con il gruppo? Siete pronti per incontrare De Blasi? Se non ricordo male l’appuntamento dovrebbe essere in questi giorni.»
«Dovremmo essere da lui lunedì.»
«Dovremmo? Non piace quando usi il condizionale.»
Ridacchio continuando a mescolare il finto caffè che ho in mano.
«Saremo da lui lunedì, senza condizionale.»
«Ora va meglio.»
Butto giù il caffè tutto d’un fiato.
«Abbiamo avuto qualche difficoltà perché il batterista ci ha lasciato, ma abbiamo trovato come rimediare per fortuna.» Resto sul vago, qui a lavoro non sanno nulla di cosa mi è successo e non mi va di parlarne proprio adesso.
«E siete riusciti a ingranare bene anche con il nuovo?»
«La nuova, è una donna.»
«E tuo fratello non ha ancora tentato di portarsela a letto?»
«Ovviamente sì! Ma Emma è un tipo molto tosto, non è una delle ragazzine che si rigira lui e credo che sia proprio questo a farlo impazzire. Comunque con le bacchette ci sa fare quindi mio fratello deve tenere gli ormoni sotto controllo perché non possiamo permetterci di perderla. Perché stasera non vieni a sentirci suonare? Così potrai fare la tua recensione personale del nostro nuovo acquisto. Siamo al pub di Steve, il mio amico, ti ricordi?»
«Sì, mi ricordo. Non so se Tamara ha già preso qualche impegno, ma se siamo liberi mi farebbe piacere venire a sentirvi.»

«Ram!»
La voce improvvisa di Nico che urla il mio nome e sorpassa il volume della musica mi fa trasalire. Abbasso le cuffie per sentirlo meglio.
«Vieni a pranzo con noi?»
«No, grazie. Vado a pranzo con un amico oggi..»
«Ricorda la riunione oggi pomeriggio!» Rebecca me lo dice con un sorriso talmente ampio che non riesco a non ricambiare.
Saluto tutti con un rapido gesto della mano e infilo di nuovo le cuffie. Cerco di continuare a scrivere la frase che ho lasciato a metà ma sembra che il mio cervello si sia disconnesso. Fisso lo schermo senza davvero metterlo a fuoco, la musica passa per la mia testa con così poca attenzione che non riconosco la canzone. Sento la porta dello studio chiudersi, mi guardo intorno, sono finalmente da sola. Chiudo gli occhi e ispiro profondamente. Sento ogni nervo del mio corpo teso come una corda di violino pronta a spezzarsi, non riesco a tenere ferme le dita, gli occhi fanno male, i neuroni sono ubriachi della nebbia dovuta al sonno mancato. Cerco di concentrarmi su quello che entra nelle mie orecchie e riprendere il contatto con quello che mi circonda, ma con scarsi risultati.
Il cellulare inizia a suonare, facendomi trasalire ancora. Oggi anche il ronzare di una mosca alla distanza sbagliata potrebbe farmi spaventare. Guardo lo schermo: una chiamata da Diego. Rifiuto la chiamata, raccolgo la borsa da terra e infilo dentro il cellulare. Afferro il mio badge e lo appendo al collo per non dimenticarlo. Mentre mi avvio ad uscire dall’ufficio, vedo Luca e Mark ancora alle loro scrivanie nel Dev. Inizio a credere che quei due siano inseparabili. Entro un attimo nella stanza per comunicargli che sto andando via e che sono rimasti gli unici in ufficio, ma sembrano non calcolarmi più di tanto. Mi danno un saluto svogliato senza staccare gli occhi dai loro schermi. Solitamente ci resto un po’ male, non mi sono ancora abituata, ma oggi ho certamente qualcosa di più importante a cui pensare.

La caserma dei Carabinieri si trova in una zona opposta a quella dove lavoro, perciò Diego ha portato delle pizze da mangiare in auto. Se non  fosse per l’insegna “Carabinieri” a pulite lettere blu, non avrei mai pensato che questa vecchia casa bassa e un po’ diroccata potesse essere utilizzata dalle forze armate. A guardarla così potrebbe sembrare, al contrario, la cascina in cui si nasconde un pregiudicato latitante. Una volta entrati la situazione migliora, anche se non di troppo. L’aspetto è sempre abbastanza vecchiotto, non è di certo come quello che si vede in certe serie televisive. Non contribuisce di certo a rilassarmi. Sono tesa come una corda di violino, immobile non appena oltre il portoncino d’entrata.
«Ram, è tutto ok. Puoi farcela.» mi sussurra Diego.
«Sai qual è la cosa buffa?» dico senza un briciolo di ilarità. «Sono qui per denunciare Daniele, ma lui potrebbe essere dietro la prossima porta!»
L’espressione di Diego si pietrifica. No, non credo ci avesse pensato. Sto valutando l’idea di uscire e farmi soltanto riaccompagnare in ufficio, quando una porta lungo il corridoio davanti a noi si apre e, come fosse un segno del destino, ne esce il Capitano. Spinta da una molla invisibile, gli vado incontro trattenendomi a stento dal correre.
«Capitano!»
«Signorina buongiorno!» mi saluta togliendosi il cappello col fregio.  «Che piacere rivederla. Come sta il suo amico?»
«Si potrebbe dire che sta bene.»
«E lei, signorina? La prego, mi dica che ha cambiato idea sulla questione di cui abbiamo discusso ieri.»
«In realtà...» faccio un respiro profondo, mi volto a controllare che non ci sia un brutto incontro da fare in corridoio «...sono qui proprio per questo.»
Sorride, un sorriso pulito e forte. Ricorda quello di mio padre, anche lui aveva quella piccola fossettina più accentuata all’angolo destro delle labbra, come ce l’ho io. Forse è questo che mi fa sentire più sicura.
«Ottimo. Si accomodi subito, non vorrei cambiasse di nuovo idea.»
Mi fa entrare direttamente nel suo ufficio. Accanto alla sua grande scrivania piena di statuette di carabinieri a cavallo e raccoglitori vari di documenti, c’è una scrivania un po’ più piccola dietro cui una bella ragazza in divisa è intenta ad inserire dati utilizzando un piccolo portatile.
«Gloria, fermati un attimo.» si rivolge a lei il Capitano. «Dobbiamo raccogliere la deposizione della signorina e allegarla alla documentazione dell’incidente di ieri del signor Ventura.»
La ragazza, senza dire una parola, si alza a raccogliere la documentazione a cui fa riferimento il Capitano, poi torna a sedersi e, dopo un paio di click al PC, fa un cenno di assenso.
«Prego signorina. Cominci dal principio.» mi invita il Capitano.
Guardo Diego, seduto accanto a me. Mi stringe la mano. Guardo di nuovo il Capitano, respiro profondamente e ricomincio il mio racconto.

Ho ripetuto quasi parola per parola tutto quello che ho detto ieri in ospedale, mentre la ragazza trascriveva tutto di ciò che dicevo.
«Signorina, il pezzo di stoffa a cui si riferisce è il reperto 6?» mi chiede porgendomi una busta sigillata.
«Sì, è questo.»
«Chi è stato a consegnarle queste minacce?»
Il momento è arrivato. Sono venuta qui per questo, eppure adesso non riesco ad aprire bocca. Chiudo gli occhi, cerco di controllare il respiro che si è fatto più pesante. Il rumore dei tasti battuti dalla trascrittrice di questa conversazione diventa improvvisamente assordante.
«Mi scusi, potrebbe farla smettere?» chiedo di getto.
Il Capitano mi guarda stranito. «Gloria, per favore, fermati un attimo.» dice senza togliermi lo sguardo preoccupato da dosso.
Si alza e fa il giro della scrivania, si ferma accanto a me e si accovaccia per essere al mio livello. Mi prende le mani come ha fatto ieri, togliendole da quelle di Diego, e io credo di essere sull’orlo di un pianto isterico che potrei non essere in grado di fermare.
«Ramona, guardami.» mi invita con tono pacato. «Voglio parlarti molto sinceramente, senza promesse false e irrealizzabili. So quanto può essere difficile dire il suo nome perché so che hai paura e ti capisco. Non voglio metterti fretta, nessuno qui vuole forzarti. Sei venuta qui di tua volontà, non è così? Perché lo hai fatto?»
«Perché è la cosa giusta.» la voce trema, una piccola lacrima vuole uscire.
«La cosa giusta per chi?»
Ci sono così tante risposte giuste a questa domanda che non so sceglierne una. Oserei nel dire che è la cosa giusta per tutte le ragazze che sono state più sfortunate di me, che non hanno avuto modo di proteggersi o farsi aiutare e che hanno avuto a che fare con uno più pazzo e veloce di lui.
«Si chiama Daniele» mi convinco a parlare. «Non mi ha detto il suo cognome.»
«Va benissimo così.» chiede a Giulia di ricominciare a scrivere e torna al suo posto dietro la scrivania. «Non è un grosso problema sapere il suo cognome o meno. Potete fornirci un identikit di questo Daniele suppongo, no? Dovreste averlo visto entrambi più volte.»
«Sì, possiamo.» dice Diego, finora rimasto in silenzio. «Possiamo fare di più in realtà.» Mi guarda serio. «Ram, devi dirglielo.»
«Lo so.»
«Dirci cosa? Se ci sono dei dettagli, anche quelli che sembrano trascurabili, sarebbero senz’altro utili.»
«Un dettaglio c’è e non credo sia molto trascurabile.» Respiro di nuovo profondamente. «Il Daniele in questione è un Brigadiere dei Carabinieri, presso questa Caserma.»
Il gelo scende nella stanza in cui ci troviamo e restiamo tutti immobili come sotto l’effetto di un incantesimo, perfino la trascrittrice si blocca con le dita a mezz’aria.

«Sapevo che era tutto un errore! Non saremmo dovuti venire, è stato tutto un enorme sbaglio.» urlo salendo in macchina e sbattendo forte lo sportello.
Diego non riesce ancora a parlare.
Una volta pronunciato il nome di Daniele tutto è cambiato. Il Capitano si è trasformato da pacato e gentile a frettoloso e schivo. Mi ha chiesto se ero sicura di quello che avevo detto, di ricordare che non era un’accusa da nulla quella che stavo facendo a un rappresentante dell’Arma e poi ha chiuso in fretta il fascicolo e ci ha mandati via dicendo che ci avrebbero ricontattato in caso di sviluppi.
«Sai cosa succederà adesso? Cancelleranno tutto e quello che resterà sarà solo una pausa pranzo sprecata.»
«Mi dispiace, Ram. Non credevo che...» parla a un tono di voce quasi inudibile, mentre piano si immette nel traffico.
«Non credevi, eh? Tu vedi troppi film e ti impappinano il cervello!» Mi copro il viso con le mani tremanti di rabbia, respiro profondamente nel buio cercando di mettere in pratica uno degli esercizi di visualizzazione della dottoressa De Simone.
«Scusa, Diego. Scusami tanto, sono stata una stronza. Tu volevi solo proteggermi ed aiutarmi, sei sconvolto quanto me e non avrei dovuto gridare in quel modo.»
«Non preoccuparti, eri agitata e non sapevi con chi prendertela. Io ci sono anche per quello.»
Guardo l’ora, mancano dieci minuti alla riunione programmata per il pomeriggio e ce ne vorrebbero almeno venti per arrivare in ufficio già se non ci fosse questo traffico. Chiamo Rebecca per dirle che ritarderò.
«Hai una voce terribile, stai male per caso?»
«Non sono al top ma non preoccuparti, sarò lì tra massimo mezz’ora.»
«Non siamo in un lager, se stai male e non te la senti di stare in ufficio resta a casa. Roba da donne?»
«Già.» Perché tutti sono convinti che se una donna sta male deve per forza essere legato al ciclo mestruale?
«Ti capisco. Io sto a casa almeno un giorno al mese per quel motivo. Quando va male anche un paio in più. Stai a casa e mettiti a letto con un bel pigiamone, starai sicuramente più comoda.»
«Ma c’è la riunione! Virginia mi ucciderebbe.»
«Lascia stare quel brontosauro. Tu sei ancora sotto la mia responsabilità e io ti dico di stare a casa. Me la vedrò io con lei e ti aggiornerò domattina.»
«Grazie, Rebecca.»
«Per così poco? Stammi bene, ci vediamo dopo il weekend.»
Questa chiamata mi ha salvato il pomeriggio. Dopo la delusione che ho provato e con tutta la rabbia che mi sento dentro, non me la sentivo proprio di stare ad ascoltare la voce acidula e viperesca di Virginia per tutto il pomeriggio. Senza Giulio a smorzare i toni, poi, avrei rischiato l’esplosione.
«Sono esonerata dal lavoro oggi. Possiamo andare a casa.» mi sforzo di fare un piccolo sorriso.
«Bello essere amica della responsabile, eh?» mi sorride forzatamente anche lui. «Copertina, birra e DVD?»
«Sì, ti prego!»

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Capitolo 24
*** 24 - Un nuovo inizio ***



«Steve, quattro birre per i miei ragazzi!» Emma fa roteare abilmente le bacchette tra le dita.
Mi sono sempre chiesto cosa potesse trovarci di bello una donna nel suonare la batteria. No, non sono un sessista, semplicemente mi stupirei se Rose a sei anni invece di una bella chitarra o di un paio di mezze punte venisse a chiedermi di comprarle una batteria! Invece, a vedere Emma scatenarsi, si direbbe che è nata per questo.
Prendo la mia birra e, mentre gli altri bevono al bancone, mi avvicino a lei. I suoi occhi, ambrati e dal taglio felino, brillano come lucciole, gocce di sudore le imperlano la fronte mentre la canotta bianca è diventata quasi trasparente per quanto è fradicia. Durante ogni prova ha dimostrato di saper tirare fuori il meglio di sé, come se avesse dentro qualcosa che può combattere solo così. Non so cos’è, ma secondo me vince lei.
«Sei nervosa?» le chiedo mentre raccoglie la felpa che ha buttato in aria mentre provavamo.
 «Dovrei?»
«Stasera suoneremo in pubblico per la prima volta insieme.»
Indossa la felpa e chiude la zip fino in fondo. «Tu lo sei?»
«Un po’.»
«Stai dicendo che hai paura che vi farò fare una brutta figura? Sai che potrei procurarmi un coltello facilmente, vero?» Credo che mi rinfaccerà quell’episodio per tutta la vita.
«Lo so, infatti non sei tu che mi preoccupi. Anche per me stasera sarà una prima volta.» Non posso evitare di stringere i pugni così forte che temo si spezzi il collo della bottiglia di birra.
«La prima volta che suonate in pubblico da quando...» Emma si blocca, sembra improvvisamente aver cambiato idea su cosa dire «La prima volta che canterai senza...» Si blocca ancora.
«Si.» dico per toglierle l’imbarazzo di esprimere a parole il pensiero che è stato già così chiaro.
«Senti Tom, io non sono una tipa a cui viene facile dire certe cose o anche solo capire come reagire in modo giusto alle situazioni. Per questo non te l'ho mai detto, ma mi dispiace sul serio. Ti conosco poco ma non penso che ti meriti qualcosa del genere. Credo che nessuno lo meriti.»
Neanche io sono bravo a rispondere o reagire in modo sensato ed umano in questo caso. Mi attacco alla bottiglia e ne scolo metà d’un fiato.
«E volevo anche dirti grazie per la band. Mi mancava molto suonare sul serio. Ne avevo bisogno, mi sta aiutando. Grazie.»
«Siamo noi a ringraziare di averti trovato. Sei tu che ci salverai lunedì.»
La voce di Bree richiama Emma al bancone, mentre Steve viene verso di me per dare un’ultima sistemata ai tavoli intorno al palchetto.
«La pancia di tua moglie sembra ogni giorno più grossa.»
«Perchè lo è.»
«Non prendertela se te lo dico, ma è davvero bellissima.»
Steve si ferma a osservarla mentre tiene ancora una sedia a mezz’aria. «Lo so. Quando sorride credo che potrei morire solo guardandola.»
Il suo sguardo perso mi colpisce. Proverò mai di nuovo qualcosa del genere? Amerò così tanto una persona da perdermi a guardarla con una sedia a mezz’aria pensando che potrei morire per un suo sorriso? Il sorriso di Rose mi compare davanti agli occhi, ma lei è fuori gara.
«L’hai più incontrata la ragazza che hai quasi molestato nel mio locale?»
La domanda di Steve mi fa trasalire. «Cosa?»
«La ragazza che era al bancone da sola. Hai parlato con lei per tutta la serata. Sembrava esserci un certo feeling tra di voi, pensavo le avessi lasciato il tuo numero o che avessi chiesto il suo.»
«No, non ci siamo scambiati i numeri, non credo che volesse rimanere in contatto con me. Anche se un paio di volte l'ho rivista. Sempre per caso, il mondo è piccolo.»
«Oppure il destino sta mescolando le carte del mazzo.»
«Con me è andato già in all-in. Gradirei passare la mano per un po’.»
«Non puoi mai sapere cosa succederà, amico, nè quando. Devo ricordati come io e Bree siamo finiti insieme? Pensi che lei non volesse un po’ di tregua dopo tutto quello che le è successo, anche per colpa mia? Ma certe cose non le puoi programmare. Prendi in mano le carte e gioca la tua dannatissima partita.» Mi fa l’occhiolino e si allontana verso il retrobottega.

La rabbia ha lasciato il posto alla rassegnazione. Il passaggio è stato abbastanza rapido e piuttosto indolore, accompagnato da un boccale pieno di frappè al cioccolato fondente corretto - sarebbe più preciso dire annegato - con dello scarsissimo rum da supermercato e da un film che sono riuscita a seguire solo per metà.
Diego mi accarezza i capelli mentre scorrono i titoli di coda.
«Che vuoi fare adesso?»
«Vuoi una risposta sincera o una risposta consapevole?»
«Che differenza c’è?» mi chiede sorridendo.
«La risposta sincera è che vorrei andare a letto ad autocommiserarmi sotto il piumone. Questo è al 100% quello che realmente vorrei fare adesso. La risposta consapevole invece tiene conto del fatto che restare senza far nulla potrebbe uccidermi.»
Diego guarda l’orologio, sono le 19. «Ho un piano da proporti.»
«Spara!» sento presentarsi sul viso il mio sorriso idiota da brilla.
«Adesso vai a farti un bel bagno caldo e ti porto anche una bella tisana con un po’ di zenzero così ti levi dalla faccia questa espressione da ebete che non regge due gocce di rum.»
Mi preme il naso come un campanello per farmi arricciare il viso. Mi sorride, sorrido a mia volta. Forse è il rum o forse è solo che ha uno dei più bei sorrisi che esistano al mondo, magari perché al mondo è la persona che ha più dimostrato di volermi bene, ma non riesco a smettere di guardarlo. Lo fisso negli occhi mentre mi accarezza il viso, il suo grande sorriso si chiude in una sottile linea che lascia arricciare solo gli angoli delle labbra e le sue pupille si dilatano piano mischiandosi al profondo nero delle sue iridi. Si muove piano verso di me. Quando le punte dei nostri nasi si sfiorano, una scarica elettrica lungo la schiena sembra svegliarmi. Con un movimento netto ma delicato indietreggio, ispirando profondamente, non abbastanza velocemente da evitare il contatto tra le nostre labbra che si sfiorano.
«Scusami… Io, io non so cosa mi è preso.» Diego si allontana andando all’altro angolo del divano.
Restiamo in silenzio, ognuno nel suo piccolo spazio, tra noi sembra esserci adesso un universo di distanza, un universo nel pieno svolgimento di un’era glaciale.
«Credo che sia arrivato il momento di cercarmi una casa.» dico, infine.
«No, Ram! Ti prego, non devi sentirti in obbligo di andarte via perché io sono un coglione.»
«Diego ti ringrazio per tutto quello che hai sempre fatto per me, mi hai dato un tetto quando rischiavo di rimanere per strada e questo non lo potrò mai dimenticare.» mi alzo, iniziando a camminare per la stanza. «Adesso, però, ho di nuovo un lavoro e posso restituirti tutto quello che ti devo e permettermi un appartamento.»
«Ram sai che non è un problema di soldi.»
«Lo so, ma...»
«Io ti amo e la cosa non cambierà se tu vai via di qui.»
Non me lo aveva mai detto così, non dopo la volta dell’anello.
«Diego, io devo lasciarti andare, darti lo spazio per poter andare avanti con la tua vita e trovare una ragazza che ti ami come meriti.»
«Ram...» scatta in piedi anche lui. «...non andartene.»
Sorrido. «Non ho mica detto che mi trasferisco domani. Pensaci, sai anche tu che è la cosa migliore.»
Non mi risponde, ma dai suoi occhi capisco che è solo perché non riesce ad ammettere che ho ragione, che questo è quello che lui stesso vorrebbe ma ha troppa paura per dirlo. Mi avvicino a lui e lo abbraccio, lo stringo forte come quando eravamo solo due ragazzini delle superiori.
«Vai a vestirti. Chiamo Marco e Sara così usciamo. Che ne dici?»

«Di nuovo qui?» Marco sbuffa davanti alla porta d’ingresso del Lightining. «Vi è piaciuto così tanto? A me non fa tutta questa simpatia!»
«Figurati a me.» lo appoggia Diego sottovoce. So a cosa si riferisce ma preferisco non aggiungere nulla.
«Ehi, voi due! Smettetela di lamentarvi.» Sara li rimprovera, lei è sempre stata meno politicamente corretta di me. «Il posto non è niente male, ci siamo divertiti e abbiamo trovato buona musica.»
Mi fa l’occhiolino, suo messaggio in codice per indicare che ci ha trascinati qui sperando che possa distrarmi rivedendo il chitarrista del biglietto da visita nel mio reggiseno. Ed in fondo è quello che spero anch’io, perché rivedere quel chitarrista significherebbe rivedere anche Tommaso. Forse è da pazzi dopo le ultime esperienze e credo lo sarebbe comunque, me ne rendo conto, ma c’è qualcosa nel ricordo di quel ragazzo che mi fa credere che rivederlo possa farmi bene.
Sulla porta, scritto in bella calligrafia su un foglio A4 e appiccicato con del precario scotch dietro al vetro, c’è l’annuncio di una serata senza servizio ai tavoli accompagnato dall’annuncio della ricerca di camerieri. Che fine avrà fatto la tosta bionda dagli occhi di ghiaccio?
Non appena entrati, ci accorgiamo dei risultati di questo nuovo tipo di serata. Il bancone è sovraccarico di gente che aspetta di ricevere le sue ordinazioni per portarle al tavolo, anche se molti non hanno neanche un tavolo dove portare le consumazioni e si accomodano come meglio possono in qualche angolo del locale un po’ più libero. Nonostante la folla, vedo subito la bella ragazza incinta alla cassa accanto al bancone, dietro cui scorrazza, oltre al solito barista, un ragazzo biondo mai visto prima.
«C’è un casino qui.» ci dice Diego. «Volete restare davvero?»
Sara mi guarda e si volta ad ispezionare il locale.
«Si!» annuncia d’improvviso. Mi afferra un braccio e inizia a tirarmi in mezzo alla gente.
I ragazzi riescono a starci dietro per un pelo, rischiando di spintonare qualcuno rovesciandogli il piatto.
«Qui andrà bene!» si ferma e mi guarda di nuovo con uno dei suoi strani sorrisi esagerati che la fanno sembrare una psicopatica «Si, qui sarà proprio perfetto.»
«Sara, cosa ti prende?» le domando.
Non mi risponde, si limita a poggiarmi le mani sulle spalle e ruotarmi di circa 10° verso destra. Davanti a me, sul palchetto, ecco spiegato il motivo di tanta confusione e di tanto entusiasmo da parte di Sara: il gruppo di Tommaso sta completando il check per iniziare la serata. Adesso credo di avere anche io un sorriso da pazza. Lui non mi vede, non so se voglio che lo faccia. L’effetto del rum sta pian piano svanendo, perciò sto perdendo i “super-poteri” e ritrasformandomi nella banalissima me che non andrebbe mai a disturbarlo adesso. Mi appoggio al muro, come se potesse assimilarmi e nascondermi ai suoi occhi, comunque intenti in ben altro, che non hanno il tempo di voltarsi verso di me.
«Vi odio.» annuncia Marco appena riescono a raggiungerci. «Spero almeno che siano i ragazzi dell’altra sera, così almeno la musica sarà buona in questa serata iniziata proprio male.»
«Certo che sono loro, non li riconosci?»
«Non mi sembrava ci fosse una ragazza alla batteria l’ultima volta.» fa notare. «Almeno ci sarà qualcosa di gradevole da guardare oltre a qualcosa di buono da sentire!»
Una gomitata di Sara gli si pianta nelle costole e non deve esserci andata piano. Osservo la ragazza mentre, seduta dietro la grancassa, sfiora con le dita i piatti dorati. Un faro giallo le illumina tutto il viso perciò mi basta poco per riconoscere la cameriera dagli occhi di ghiaccio.
«Quel bel vedere è il motivo di questo casino.» dico.
«Sono tutti qui per lei? Potrebbe essere.»
«Quella è la ragazza che lavorava qui come cameriera. Se suona non può servire ai tavoli, non credi? E da qui tutto il casino.»
«Improvvisamente sembra tutto più accettabile. Possiamo lasciarvi sole per andare a prendere due birre o rischiamo di perdervi?»

Tutto è pronto, di nuovo. Dicevano che mi sarei abituato a tutto questo ed invece è ogni volta come la prima volta. Oggi forse è peggio, perché una prima volta lo è davvero. La prima volta che suoniamo in pubblico con Emma, la prima volta che suoniamo senza Daniele. La prima volta che suono senza Simona, senza mia moglie, da separato, da abbandonato, da tradito. Sono tutte parole negative, non mi fanno bene. La prima volta che suono da single. E chi aveva pensato a questo? Non dovrebbe essere tanto male, no? Mi fermo con le mani appoggiate sul microfono e osservo il Lightinig da questo palchetto semi-improvvisato. Joshua è venuto ad aiutare Steve dato che gli abbiamo rubato Emma. Bree non rinuncia a fare quello che può, nonostante si veda che è stanca, dopo tutto ormai la pancia inizia a farsi sempre più pesante! Alla mia destra, Matteo e Tamara sono riusciti ad accaparrarsi un tavolo. La luce del faretto giallo puntata sugli occhi mi rende difficile vedere i visi dei ragazzi che sono venuti a sentirci, ma sono davvero tanti. Il Lightining sembra più pieno delle altre volte. Mi volto ad osservare i miei ragazzi. Nei loro visi si legge a chiare lettere che anche per loro oggi è una serata speciale, è una prova generale per quello che ci aspetta tra soli tre giorni, la nostra grande occasione. Emma sembra tesa, non credevo che potesse esserlo. Quando i nostri occhi si incrociano mi sorride in un modo tanto infantile e tremante che per un attimo mi chiedo se sia davvero la tipa forte e aggressiva che conosco. Giacomo le si avvicina e le dice qualcosa che la fa rilassare. Credo che in fondo le piaccia un pochino, anche se non lo ammetterebbe neanche sotto tortura. La vedo sfiorare ad occhi chiusi le bacchette per tutta la loro lunghezza, poi mi guarda e annuisce, il suo rituale è completo.
«Pronti?» chiedo come ogni volta lontano dal microfono.
«Siamo con te.» risponde Giacomo. Stavolta tutto ha un altro significato.
Mi volto ad afferrare nuovamente il microfono.
«Buonasera ragazzi!»
La batteria di Emma rulla prepotente lasciando tutti di stucco. Nessuno si immagina che una ragazza possa metterci tanta grinta, ma è proprio questo che mi fa scattare e riempire di energia.
Tutto ha inizio. Di nuovo. Per la prima volta.

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Capitolo 25
*** 25 - November Rain ***




Ho i brividi. Il genere dei Guns N' Roses, di cui il gruppo di Tommaso è cover band, non mi ha mai esaltato più di tanto, ho sempre amato di più altri generi, eppure devo ammettere che sono stati davvero bravi a tenere la serata. Adesso, voglio dire proprio in questo istante, ho la pelle d’oca per l’atmosfera che hanno creato con la loro versione di November Rain. Non ricordo che l’avessero suonata la prima volta che li ho visti, ma anche se lo avessero fatto non deve essere stato così. Certe sensazioni non sono facili da lavare via e dimenticare. Tommaso, che ha avuto il viso raggiante per tutta la serata, adesso canta ad occhi chiusi e con il volto contratto.

'Cause nothin' lasts forever and we both know hearts can change.
And it's hard to hold a candle in the cold November rain.

La sua voce, prima netta e potete, si fa sottile e vibrante, tanto che sembra spesso spezzarsi, dando al testo una drammaticità accentuata che non può non far venir la pelle d’oca. Mi distraggo per un attimo a guardare la sala e noto che tutti sono immobili a fissarlo, come se fossero stati congelati nel tempo da un incantesimo.

If we could take the time to lay it on the line
I could rest my head just knowin' that you were mine, all mine

Quando il chitarrista entra a fare di nuovo il suo assolo, tutte le luci si spengono tranne un faro che resta puntato su di lui. Tommaso fa qualche passo indietro. Lo seguo mentre piano raggiunge la parete, posizionandosi dove la luce non può raggiungerlo. Passa le mani tra i capelli, poi le chiude sul viso. Dal movimento ampio delle spalle si capisce che sta facendo dei grandi respiri.
La ragazza alla batteria lo punzecchia con una della bacchette, lui asciuga il viso da quello che credo non sia solo sudore e le sorride. Torna al centro del palco, chiude di nuovo gli occhi e ricomincia a cantare.

'Cause nothin' lasts forever  
Even cold November rain
 
Il brano termina, ma Tommaso non apre gli occhi e rimane appoggiato in silenzio al microfono. Mentre iniziano gli applausi, a cui forse sono abituati, gli altri componenti della band lo raggiungono ed è solo allora che pare svegliarsi. Li guarda, si stampa un sorriso in faccia e ringrazia tutti.

Una parte di me, forse la più masochista, sapeva che mi avrebbe fatto bene cantare questa canzone. Giacomo ha cercato in mille modi di convincermi a evitarla, ha perfino mandato Steve a farmi un discorsetto buttandola sull’evitare questo tipo di canzoni per una serata in un pub. Non ho desistito e ho avuto ragione.
Non posso negare a me stesso che è stata dura, una vera lotta. Dopo tutto, questa era la nostra canzone. Ironico come fosse già scritto il nostro destino e non ce ne fossimo mai accorti. A chi ci chiedeva perché l’avessimo scelta, proprio questa così triste, proprio questa così diversa dall’amore eterno che uno si augura, rispondevamo sempre che era stata lei a scegliere noi, l’eccezione che conferma la regola. Nothin' lasts forever, even cold November rain ...ma noi sì, saremmo durati per sempre.
Ad ogni parola sentivo acuire dentro di me il dolore come la punta rovente di un lungo ago che si faceva largo sempre più in profondità nel mio cuore. Tanto che per un attimo, durante uno degli assoli di Giacomo, ho pensato di non farcela, di scendere dal palco e ammettere di aver sbagliato. Quando Emma mi ha richiamato con le sue bacchette, ho capito che dovevo portare a termine quello che avevo iniziato, anche se avrebbe significato lasciare che quell’ago incandescente mi torturasse fino a non poter più respirare. Quando tutto è finito, però, l’ho sentito chiaramente ritrarsi, sfilandosi dal mio petto e lasciando libero il cuore di battere al suo normale ritmo e ai polmoni di riempirsi d’aria. Adesso va meglio.
Quando da ragazzino mi sono lussato la spalla cercando di parare un rigore buttandomi a peso morto sul cemento credendo di essere in una puntata di Holly e Benji, ho chiesto al dottore di lasciarla stare lì come era dato che non faceva male. Lui disse che rimetterla a posto era necessario, anche se farlo avrebbe fatto molto male, altrimenti non avrei mai più potuto utilizzare il braccio normalmente. Resistei un po’ ma quando iniziò a imbottirmi di paroloni tecnici che finirono con “complicazioni che potrebbero portare all’amputazione”, acconsentii immediatamente. Strinsi i denti e sofrii cercando di non urlare. Ricordo che serrai le palpebre talmente forte che gli occhi mi fecero male per un paio d’ore. Il dolore fu atroce, ma istantaneo. Qualche secondo dopo che il dottore ebbe finito la sua manovra, io avevo di nuovo il mio braccio al pieno della sua mobilità e il dolore non c’era più.
Il principio oggi è lo stesso. Avevo il cuore lussato, rimetterlo a posto ha fatto male, un dolore straziante, ma era necessario per poterlo usare di nuovo e non rischiare di doverlo amputare.
Apro gli occhi e guardo i miei ragazzi, Emma, Steve e Joshua, Bree e i suoi grandi occhi lucidi che si notano anche a questa distanza, tutti quelli venuti qui oggi ad ascoltarci. Qualcuno sembra anche emozionato ed è fantastico! Sorrido e riprendo in mano il microfono.
«Grazie. Grazie a tutti!»

Tutto è finito. Questo è il momento in cui, se tutto fosse come un paio di settimane fa, mi fionderei a baciare Simona. Il solo pensiero adesso mi fa venire la nausea. Le altre tradizioni, però, non si disdegnano mai. Lasciamo gli strumenti sul palco e voliamo al bancone, dove Steve ci ha già preparato il solito: hamburgher doppio strato con carne selezionatissima e una pinta di birra appena spillata. Emma è rimasta sul palco a smontare la sua batteria, ne è gelosissima e non vorrei immaginare cosa succederebbe se qualcuno disgraziatamente la toccasse. Giacomo lascia il panino intatto sul piatto e afferra la pinta, per precipitarsi da lei ad aiutarla. Credo che sia segretamente cotto di lei davvero. In questi giorni l’ho visto comportarsi con lei come non ha mai fatto con nessuna ragazza. Adesso, ad esempio, di solito sarebbe già a sondare il terreno per beccare la tipa da rimorchiare, mentre ora è lì ad aiutarla senza neanche aver mangiato.
A sondare il terreno, invece, ci sono io e ho in mente non una ragazza qualsiasi ma un viso ben preciso. L’ho vista poco prima di iniziare a cantare e ho provato una sensazione di vertigine che non provavo da tantissimo tempo. Mi sono sentito un ragazzino di quattordici anni, uno di quelli impacciati e timidi dei miei tempi. Ho cercato per tutto il tempo di evitare di guardarla ancora perché avevo stupidamente paura di dimenticare le parole. Ho sentito chiaramente risuonare nelle orecchie la voce di Steve ripetere che devo giocare la mia partita: o il mondo è davvero più piccolo, o il destino ha deciso che tra le mie carte deve esserci lei.

«Che ne dite di andare?»
Non appena sento Marco dirlo, mi invade una strana tristezza.
«Dai, Marco. È Venerdì, non fare il guastafeste e vai a prendere un'altra birra per tutti.» Diego deve essere ubriaco per dire una cosa del genere, non ho alcun dubbio.
Marco sbuffa e cerca di spiegare che per lui il sabato è un giorno lavorativo come molti altri, Sara cerca di convincerlo a restare ancora un po’ e non comportarsi da vecchio bacucco, Diego ride come non faceva da giorni. Osservo intorno a noi, molta gente sta già andando via, chi a casa come vorrebbe fare Marco, chi a continuare il venerdì in giro. Nonostante questo, tutti i tavoli sono ancora pieni, ma al bancone si è liberato spazio. Ci sono solo i membri della band che stanno riempendo lo stomaco. Tommaso, come prevedibile, è insieme a loro.
«Mentre voi finite di litigare, io vado a prendere i posti al bancone!» annuncio senza neanche guardarli.
Cerco di bilanciare la velocità del passo, per fare in fretta senza dare l’impressione di star correndo da lui. Mi siedo a uno sgabello di distanza e poggio con molta disinvoltura il cappotto sui due sgabelli alla mia sinistra. Faccio finta di non notarlo e resto, stavolta con molta poca spontaneità, immobile a guardare il vuoto davanti a me, mentre in realtà sto studiando le sue mosse dalla mia visione periferica. Sta osservando la sala alle nostre spalle, ancora una volta non mi ha notato.
«Prendi qualcosa?» mi dice improvvisamente il barista, il biondo nuovo.
Trasalgo a tal punto che rischio di perdere l’equilibrio.
«Non credevo di fare così paura!» mi prende in giro lui.
Vedo Tommaso girarsi verso di me e sorridere.
«No, scusa. Ero solo sovrappensiero.» farfuglio, sentendo le guance già arrossite per la vergogna.
«Allora, che ti porto?»
«Quattro birre alla spina: due bionde, una scura e una rossa.»
 Il biondo mi fa l’occhiolino e si volta verso le spillatrici.
«Ci vai giù pesante anche stasera, devo ammettere.» la voce di Tommaso è molto vicina.
Quando mi volto, infatti, lo ritrovo seduto sullo sgabello che avevo lasciato vuoto. Cerco di non sorridergli ma non riesco a evitarlo.
«Devo riprendermi da una serata un po’ deludente.» scherzo.
«Addirittura deludente! Che sarà mai successo?» mi regge il gioco.
«La band che ha suonato stasera era brava, ma il cantante se la tirava un po’ troppo secondo me. Non mi ha guardato per tutta la sera. Eppure io sono una grande fan, credo di meritare un po’ di rispetto.»
«Lo conosco quello, è proprio un cretino. Non dovresti dargli peso.» Ride.
Credo di non averlo mai visto ridere o forse l’ho solo dimenticato. Le sue labbra si distendono, mostrando dei denti bianchi anche alla luce dei neon e sollevando le guance, nella destra si crea una piccola fossetta, gli occhi verdi si stringono fino quasi a scomparire.
«Ecco a te.» il barista poggia i quattro bicchieri stracolmi davanti a me. «Tom, tu vuoi qualcosa?»
«No, grazie. Sto a posto così.» Nel dirlo, però, allunga la mano verso il mezzo hamburgher ancora sul piatto, lo afferra e lo addenta.
«Hai già pensato alle birre, sei fantastica.» Diego mi si catapulta addosso, mi da un bacio sulla guancia, afferra il bicchiere con la birra scura e scompare di nuovo.
«Credo che il tuo coinquilino sia impazzito.» dice Sara sedendosi insieme a Marco accanto a me. Prende le due bionde. «Ho l’impressione che dovrai guidare tu per tornare a casa, sai dove ha le chiavi?»
«Sì, le ho già io.» le do una piccola gomitata per farla girare verso di me.
«Oddio!» dice guardando Tommaso, poco discretamente, dritto negli occhi. «Beh ...sì ...io ...Ciao!» e si volta definitivamente verso il suo fidanzato.
Ok, questa non so proprio come recuperarla stavolta. Fortuna che c’è poca luce, perché devo già essere rossa come un peperone arrostito.
«Anche la tua amica è una fan?» mi chiede non nascondendo quanto se la ride sotto i baffi.
«Scusaci, siamo tutti un po’ su di giri.»
«Meglio su di giri che sotto un camion, no?»
Non capisco cosa centri, ma sorrido assecondandolo.

Il pub sta iniziando a svuotarsi. I ragazzi hanno iniziato a smontare il resto dell’attrezzatura. Steve fa il bravo maritino portando a casa Bree e lasciando Joshua a chiudere la serata.
«Ram, noi andremmo. Marco davvero non ce la fa più.» le dice l’amica. «Stiamo portando Diego con noi, ok? Sicura di non voler venire?»
«La lasci in buone mani, non preoccuparti.» le dico, senza pensarci più di tanto e me ne pento subito dopo. Non deve essere rassicurante sentirlo dire da un estraneo.
«Tranquilla Sara. Il tempo di finire il panino e vado via anche io. Ti mando un messaggio appena rientro così non stai in pensiero.»
«Attenta, eh.» le da un bacio sulla nuca e li vediamo uscire.
Ram morde il panino ancora quasi integro.
«Come sta tua figlia?» mi chiede a bocca ancora piena.
Per un attimo la domanda mi lascia interdetto, poi ricordo perché me lo sta chiedendo. «Bene, alla fine era solo un falso allarme.»
«Per fortuna!»
«E il tuo capo?»
«Bene anche lui.»
Dà un altro morso al panino e, per la prima volta questa sera, cala il silenzio tra di noi. Non so che dire, cosa si fa in questi casi? Non sono pratico. Sono fuori dalla piazza da prima ancora di esserci entrato, non ho mai fatto queste cose. Giacomo, lui sì, che ci sa fare. Mi volto a cercarlo, ma mi accorgo che non posso disturbarlo: è seduto ad un tavolino insieme ad Emma e pare che lei per la prima volta lo guardi senza sentori d’omicidio negli occhi.
«Posso farti una domanda?»
La voce di Ram mi fa concentrare di nuovo su di lei. Ha di nuovo le guance rosse e non sembra più sorridente. Possibile che abbia fatto qualcosa per spezzare l’atmosfera? Mi ha beccato a guardare Emma e crede che la stessi puntando?
«Certo, dimmi.»
«Prometti che non la prenderai male?»
«A che ti riferisci?»
«Alla domanda che sto per farti. Non voglio che tu mi risponda per forza, capirei se non volessi rispondermi.»
«Hai paura che scappi di nuovo in bagno come l’ultima volta?» cerco di sdrammatizzare la sua aria tanto seria. «Giuro che stavolta non farò la ragazzina isterica. Davanti ai miei ragazzi devo mantenere un certo contegno, sai?»
Sorride, ma c’è sempre quell’aria strana intorno a lei.
«È che non vorrei sembrarti invadente. So che certe cose sono personali e forse non dovrei neanche notarle...»
«Ram, fermati un attimo.» istintivamente le prendo la mano.
Lei si zittisce e mi guarda fisso mordendosi il labbro. Wow, ha sempre avuto gli occhi così grandi? E le sue labbra hanno sempre avuto questo aspetto così morbido e invitante?
«Qualsiasi cosa sia, puoi chiedermela.»
Fa scivolare la mano fuori dalle mie, si porta un ricciolo dietro l’orecchio e fa un piccolo sospiro.
«Si tratta di ...della tua …sì, della tua fidanzata, moglie, non so cosa sia.»
«O cosa era.»
Mi guarda dubbiosa.
«Simona è la madre di mia figlia ed era mia moglie. O meglio, lo è ancora legalmente, ma non stiamo più insieme.»
«Oh, mi dispiace.»
«Sì, dispiace a tutti.»
«Scusa, non volevo essere banale.»
«Non sei banale. Credo sia normale la tua reazione, dire che ti dispiace per una cosa brutta è normale, no?»
Si limita ad annuire. Finisco la birra rimasta nel bicchiere.
«Mia figlia si chiama Rose. Ha otto mesi. Vuoi vederla?»
Ram annuisce di nuovo, ma stavolta illuminandosi nuovamente di un piccolo sorriso. Esco lo smartphone dai jeans e glielo porgo.
«Ma è stupenda!»





Cliccando sul link potrete ascoltare November Rain dei Guns N' Roses. Questa è la canzone che dà il titolo al capitolo e lo accompagna per quasi tutto lo svolgimento, contribuendo a intensificarne l'atmosfera. Inoltre, è indubbiamente un capolavoro :)

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Capitolo 26
*** 26 - You're Beautiful ***




Gli altri clienti hanno ormai lasciato il locale. Steve è tornato e aiuta Joshua e Emma a dare una pulita. Alfredo e Giorgio sono andati via. Giacomo è seduto al tavolo da solo e non perde Emma di vista neanche per un istante. Al bancone, io e Ram potremmo continuare a parlare di Rose all’infinito. Nell’aria un po’ di musica leggera ci accompagna in sottofondo.
Il suo cellulare, poggiato sul bancone, vibra insistentemente. Lei evita di guardare lo schermo, mentre io cerco di leggere da chi vengono quei messaggi senza riuscirci.
«La tua amica sarà preoccupata. Se continui a non risponderle prima o poi manderà l’esercito a cercarti.» le dico.
«È possibile.» ride decidendo di prendere in mano il cellulare.
La osservo fissare lo schermo, facendosi sempre più seria.

In circa cinque minuti sono arrivati più di trenta messaggi su WhatsApp. Tutti con un unico mittente. Daniele. Non posso crederci! Non voglio crederci. Per un paio d’ore avevo smesso di pensare a quello che è successo, ma eccolo ricominciare meno di ventiquattro ore dopo. Non voglio leggerli. Poso il cellulare nella tasca frontale dei jeans e cerco di sorridere a Tommaso.
«Tutto ok?» mi chiede.
«Certo.» Credo che sia difficile trovare un sorriso più finto di quello ho in questo momento in faccia,  ma non posso far altro. «Sara fa un po’ la mamma con me ogni tanto.»
«E ti da fastidio?»
Annuisco e allungo la mano per prendere il bicchiere d’acqua. Quando sento che la mano ha iniziato a tremare, rinuncio alla voglia di bere.
«In effetti è molto tardi. Faresti bene a tornare a casa.»
Sorrido incapace di pronunciare parola. Mi mordo la guancia internamente per frenare il tremito che si sta espandendo ed ha già coinvolto le spalle per scendere lungo la schiena.
«Ram, sicura di star bene?»
«Sì, certo.» Mi alzo dallo sgabello un po’ troppo in fretta per sembrare serena. «Ho un po’ di freddo a dir la verità.» una scusa per camuffare il tremore che ormai ha preso ogni fibra del corpo. «Credo che ti darò retta e andrò a casa.»
Sento il cellulare continuare a vibrare a contatto con la mia coscia. Tommaso si alza e afferra il mio cappotto, me lo poggia sulle spalle. Nel suo sguardo noto una preoccupazione evidente.
«Ti accompagno alla macchina e ti seguo fino a casa, ok?»
«Assolutamente no. Non preoccuparti.»
«Non sento ragioni. Ti accompagno e basta. In più così mio fratello avrà la scusa per farsi accompagnare da Emma.»
Mi sorride e passa velocemente l’indice sulla punta del mio naso. Vorrei tanto che l’avesse fatto mentre ancora riuscivo a pensare al suo tocco e non adesso che l’unico pensiero è fisso sulla paura che accanto al portone di casa mia ci sai di nuovo Daniele.
«Ok. Vado un attimo in bagno e andiamo.»

La porta del pub si apre e un ragazzone entra in silenzio.
«Amico, il pub è chiuso ormai.» gli dico sorridendogli.
«Sono venuto a prendere una ragazza.»
«Sei un amico di Emma?» chiede Giacomo senza alzarsi dal tavolo, ma con lo sguardo visibilmente dispiaciuto.
«Emma? No, non sono venuto per lei.»
«E per chi?» chiedo, sulla difensiva.
«Non sono fatti tuoi.»
«La ragazza che stai cercando probabilmente è già andata via con qualcun altro più puntuale di te.» commenta mio fratello.
«Che hai detto?»
Il tipo sembra molto minaccioso e anche parecchio ubriaco, perciò decido di smorzare un po’ i toni. «Amico, lascialo stare. Mio fratello quando beve dimentica le buone maniere.» Cerco di mettergli una mano attorno alle spalle, ma subito mi spinge via. «Ehi, ehi, calmo.»
Emma, Joshua e Steve ricompaiono dal retrobottega. Emma entra subito in modalità cane da guardia.
«Ci sono problemi?» la vedo portare la mano dietro la schiena e so che sta accarezzando il suo coltellino rettrattile.
«Nessun problema. Il ragazzo, qui, cercava una sua amica, ma come vedi qui non c’è più nessuno, amico. Sarà andata via davvero.»
Con ben poco tempismo, da dietro la porta del bagno si sente andare lo sciacquone.
«Io credo di no.» sorride e i suoi occhi color ghiaccio trasmettono un brivido di pazzia. Sembra di parlare con Jack Torrance.
Quando Ram esce dal bagno sembra leggermente più serena, ma dura poco. Alla vista del ragazzo, si impietrisce.
«Daniele, che ci fai qui?»
«Sono venuto a prenderti. Te l’ho scritto. Lo avresti letto se non fossi stata impegnata a fare la civetta con questa scamorza affumicata che si crede un cantante.»
«Ehi, tipo, calmino con le parole. Sei dentro il mio locale quindi cerca di non offendere i miei amici, capito?» Steve fa per avvicinarglisi, ma il tipo lo ghiaccia col suo sguardo da pazzo perciò capisce che è meglio stare a distanza.
«Vattene.» si capisce che Ram ha dovuto lottare per riuscire a non far tremare la voce.
«Non senza di te.»
«La signorina ti ha chiesto gentilmente di andartene.» Joshua rispolvera il suo vecchio periodo da buttafuori e gli si avvicina a petto alzato posizionandosi tra lui e Ram. «Sarebbe buona educazione andarsene.»
Emma ha già uscito il suo coltellino, ma con uno scatto Giacomo è su di lei e le blocca il braccio prima che possa succedere l’irreparabile. La tiene stretta a se e le sussurra all’orecchio di star calma. Probabilmente grazie ha un picco di adrenalina, riesco a farmi coraggio e faccio lo stesso con Ram. Velocemente la raggiungo alle spalle e le passo le braccia attorno alla vita. La sento tremare e credo che stia per cadere a terra.
«Appoggiati a me.» le sussurro.
Lei si volta, avvolge le braccia intorno al mio collo e lascia andare tutto il suo peso, adesso sono solo io a sorreggerla.
«Non toccarla, figlio di puttana!» il tipo è ormai fuori di sé.
Scatta verso di noi e ringrazio il cielo che Joshua fosse cintura nera di Krav Maga già a sedici anni. Mentre sento Ram iniziare a singhiozzare, assisto a una scena che avevo creduto possibile solo nei film. Giacomo deve ricorrere a tutte le sue forze per tenere ferma Emma che cerca di saltargli addosso con il suo coltello mentre con una mano compone il numero dei carabinieri sul cellulare. Steve cerca di aiutare Joshua a immobilizzare il tipo, ma lui è forte e sembra anche abituato a questo tipo di combattimenti. Oserei azzardare che ha avuto un addestramento militare.
Solo quando sente Giacomo urlare che il 112 ha avvisato la pattuglia più vicina, sembra distrarsi. Joshua riesce a dargli una ginocchiata in pieno ventre, ma pur barcollando il ragazzone non sembra disposto a cedere. Eppure si ferma.
«Non finisce qui. Lo sai che è così.» urla per l’ultima volta contro Ram e poi, così come è arrivato, va via.
Non so per quanto tempo restiamo immobili, senza fiatare, mentre la musica risuona piano per la stanza. Potrebbero essere due minuti come tre ore. La tensione è ancora visibilmente palpabile in tutti noi.
«Non farlo mai più!» grida Emma liberandosi da Giacomo.
«Cosa? Io cercavo di proteggerti.»
«Non ho bisogno di essere protetta.» rientra il coltellino nella tasca posteriore e scappa di nuovo nel retro. Giacomo la segue.
«Cazzo, ce la siamo vista brutta.» Steve si accascia a terra. «E se fosse arrivato mentre c’era ancora Bree? Non posso pensarci!»
«Dai, pappa molla! Muovi il culo e chiudiamo tutto prima che ci ripensi.»
Mentre anche loro si spostano per finire di chiudere, allento piano la presa attorno a Ram, accertandomi che riesca a reggersi in piedi.
«Come stai?» sta ancora piangendo. «Ho fatto una domanda stupida, scusa.»
«Non scusarti, non so come avrei fatto senza te.» torna a stringersi a me.
«Senza Joshua, vorrai dire. Non sono stato io a cacciare via quel pazzo!» cerco di farla ridere.

«Sai a cosa mi riferisco.» gentilmente mi da un bacio sulla guancia.
Le sue labbra morbide si poggiano con una lentezza ossessionante sulla mia pelle e mi provocano di nuovo quella strana vertigine che non credevo più possibile.
«Ti accompagno a casa e adesso non puoi più dirmi di no.»
Si asciuga le lacrime che le hanno sbavato il trucco. Sorride e tutto sembra di nuovo illuminarsi.
I ragazzi tornano nel salone principale dopo aver spento tutto. Emma ancora sbraita contro mio fratello che la segue ribattendo ad ogni sua frase. Improvvisamente Emma si ferma e lo afferra per il colletto del giubbotto. Sono convinto che stia per mollargli un ceffone da lasciarlo tramortito a terra, invece lo tira con forza a sé e lo bacia. Si vede lontano un miglio che Giacomo se lo aspettava ancor meno di noi. Non l’ho mai visto così immobile mentre aveva la lingua di una donna in bocca.
«Comunque resti un coglione!» Emma si stacca e sparisce dietro la porta d’uscita.
Giacomo ancora immobile, con gli occhi spalancati e le guance rosso peperone.
«La ragazza sa come terminare un litigio, non c’è che dire.» commenta Joshua dandogli una pacca sulla schiena per farlo svegliare. «Adesso, credo che ne abbiamo abbastanza e vogliamo tutti tornare a casa.»
«Puoi scommetterci le palle.» Steve inizia a disattivare i vari interruttori dal quadro elettrico.
«Giacomo, accompagno Ram a casa. Vieni dietro in macchina, ok?» gli tiro le chiavi dell’auto, ma non sono del tutto convinto che sia già tornato nel nostro mondo.

Tommaso ha guidato l’auto di Diego fin sotto casa mia. Abbiamo viaggiato con calma, senza correre. Di adrenalina ne abbiamo avuta fin troppa oggi. Posteggia nell’area riservata ai residenti. Da quando siamo saliti in macchina non abbiamo detto neanche una parola.
«Come ti senti? Ti sei calmata un po’?»
«Sì. Tommaso, non so proprio come ringraziarti.»
«Non pensarci neanche a ringraziarmi. Ho fatto quello che avrebbe fatto chiunque, niente di speciale.»
«Vorrei ringraziarti comunque.»
«Tu conosci quel tipo, vero?»
«Sì, lo conosco »
«Non è la prima volta che capita, vero?»
«In realtà sì. Cioè, questo è la prima volta è capita, sono successo altre cose ma questo no.»
«Dovresti denunciarlo.»
Non posso fare a meno di ridere, una risata isterica. «L’ho fatto, stamattina. Ti ricordi che ieri sera il mio capo era in ospedale? L’incidente era stata in realtà una sua aggressione come avvertimento per me. Sono andata dai carabinieri ma mi hanno detto che è un’accusa troppo grande senza prove, così non hanno fatto nulla.»
«Adesso hai dei testimoni e un attacco diretto. La cosa potrebbe essere diversa, no?»
«Non so se ho voglia di tornare lì.»
«Credo di poter parlare anche a nome degli altri, noi saremmo con te.»
«Grazie.»
«E così, hai una relazione con il tuo capo?» mi chiede.
«No, oddio no! Assolutamente no.»
«Lo stai negando un po’ troppo nervosamente.»
«Non ho una relazione con il mio capo. Non ho una relazione con nessuno. Punto.»
«Sei single, allora?» Tommaso mi sorride.
«Sì, ma non è questo il punto.»
«Invece è proprio questo il punto.»

La radio proprio adesso suona You’re Beautiful. Se la situazione fosse diversa la voce di Blunt avrebbe come unico effetto quello di farmi cambiare stazione, ma adesso no. Adesso mi ritrovo a canticchiare le sue parole sottovoce fissandola negli occhi.
You're beautiful. You're beautiful.
You're beautiful, it's true.
I saw your face in a crowded place,         
And I don't know what to do…
Già, non so che fare. Sono perso di nuovo nei suoi occhi che in una sola sera ho visto ridere di gusto e piangere di disperazione. E adesso è qui di fronte a me, con il suo viso da bambina, la profondità dello sguardo di chi ne ha passate un milione e io non so cosa fare. Forse è per questo che alla fine faccio la cosa più stupida che potessi inventarmi.
Le afferro delicatamente il viso tra le mani e la bacio. Piano, appoggio le labbra alle sue, muovendomi delicatamente  per non farla spaventare. Mi stacco da lei solo pochi centimetri per guardarla negli occhi, quei grandi laghi castani che adesso rivelano delle lievi venature ambrate lucenti. Provo di nuovo ad avvicinarmi per sfiorarle le labbra. Torno a guardarla negli occhi. Le osservo l’intero viso, la sua pelle è scossa di nuovo da un fremito, ma è diverso dal tremore che l’attraversava prima. Aspetto ancora un attimo, perso nello studio dei suoi lineamenti delicati. Le sue ciglia si chiudono e lei colma la distanza tra noi.
Mi bacia, la bacio. Sento le sue mani afferrare il mio giubbotto per tirarmi più vicino. Scendo le braccia a circondarla per incollare il mio petto al suo, che ormai si muove dello stesso respiro. E in quell’intreccio di lingue e saliva, ci scambiamo i sapori delle nostre anime. Non ho mai assaggiato labbra più morbide, né bocca più dolce.



E la radio stavolta ci accompagna con You're BeautifuL di James Blunt, più moderna della precedente e non nel genere di Tommaso... ma di una dolcezza infinita tale che non poteva esserci migliore colonna sonora per il primo bacio di Ram e Tom :) specialmente dopo il trambusto di poco prima...

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Capitolo 27
*** 27 - Buone nuove ***




Quando Diego si sveglia, sono ancora seduta sul divano, i capelli umidi, il telecomando in mano, la TV sintonizzata su un canale che trasmette programmi basati su personaggi dal quoziente intellettivo che rasenta lo zero. Arriva in salotto trascinando rovinosamente i piedi senza riuscire a sollevarli dal pavimento e tenendosi la testa con entrambe le mani. Suppongo che la sbronza di ieri fosse parecchio più pesante di quanto avessi intuito. Mi rendo conto di aver fatto bene a resistere all’istinto di svegliarlo non appena arrivata a casa nonostante sentissi il bisogno disperato di parlare con qualcuno di ciò che era successo. Ho optato per entrare nella vasca a fare un bagno caldo finché il sonno non mi avesse intorpidito. Non appena uscita dall’acqua, però, la sonnolenza mi ha abbandonato di nuovo costringendomi a passare il resto del tempo in compagnia della TV-spazzatura.
Nonostante sia quasi ora di pranzo, Diego prende una ciotola, la riempie fino all’orlo di cereali e inizia a mangiarli senza aiuto di posate. Poi si lascia cadere rovinosamente sul divano.
«Spw qwei if e ove?»
Ha la bocca impastata di sonno, post-sbornia e cereali, perciò non capisco una sola parola di quello che mi chiede.
«Che hai detto?»
Manda giù i cereali.
«Spegni questo schifo per favore?» domanda trascinando le parole in maniera che risulta un po’ più comprensibile.
«Come? Credevo fossi innamorato di Jersika.» rido spegnendo la TV.
Farfuglia qualcosa in risposta mentre si mette in bocca altri cereali.
«Fai proprio schifo quando ti ubriachi, lo sai?»
Mi guarda con gli occhi appena socchiusi, le palpebre gonfie e grigiastre.
«Da quale pulpito viene la predica! Ti sei vista allo specchio stamattina? Sembri uno zombie che ha avuto un incidente.»
Immergo la mano nella sua ciotola, rubandogli un pugno di cereali.
«Diciamo che per me è ancora ieri sera.»
Si blocca e mi guarda serio.
«Non credo di essere abbastanza sveglio per sorbirmi il racconto della tua serata brava.» risponde acido.
«Invece dovresti.» gli rubo la ciotola di cereali e lo costringo a sentire la mia storia.
Filtro accuratamente ogni riferimento alla prima parte della storia in cui io e Tommaso parliamo piacevolmente senza freno. Passando direttamente alla terribile entrata in scena di Daniele.
Al suo nome, Diego sembra improvvisamente risvegliarsi. Salta su dal divano rischiando di rovesciare i restanti cereali sul pavimento.
«Ram, questa storia mi piace sempre meno.»
«Figurati a me. Per fortuna nel locale c’era ancora gente. Hanno capito quanto era ubriaco e si sono messi in mezzo.» Gli racconto a sommi capi come il barista biondo è intervenuto a suon di pugni e calci per mandarlo via. «E poi mi hanno scortato a casa.»
Anche qui impongo un buco di trama, oscurando la storia dell’eroe che bacia la donzella in difficoltà dopo averla portata sana e salva al castello. Non mi sento a mio agio a raccontargli quest’ultima parte. E raccontargli di quanto mi sia piaciuto, non si prende neanche in considerazione.
«Sei stata fortunata ieri sera. La prossima volta potresti non esserlo.» Si passa nervosamente una mano dietro la nuca, sospira. «Non avrei dovuto perdere il controllo, sarei dovuto restare vigile insieme a te e proteggerti. Scusa, ho fallito.»
«Diego, come ti viene in mente una cosa del genere? Avevi tutto il diritto di divertirti, avevi passato una giornata di merda tanto quanto me. Non sei la mia guardia del corpo, sei mio amico. Non avevi un lavoro da svolgere.»
«Proprio perché sono tuo amico avrei dovuto proteggerti.»
Mi alzo, sorridendogli. Lungo la fronte corre quella linea orizzontale che negli anni ho imparato a conoscere tanto bene e che compare quando i pensieri stanno iniziando a rosicchiargli le ossa. Mi avvicino a lui e gli fermo le mani che piano gli graffiano la parte posteriore del collo. Le prendo tra le mie e lo guardo negli enormi occhi quasi neri.
«Tu proteggi me, io proteggo te. E io ti proteggo pretendendo che ti diverta dopo una giornata di merda.»
Gli sorrido ancora ma lui rimane serissimo. Lo abbraccio, stringendolo forte. Lui mi poggia solo un palmo sui capelli ancora umidi, accarezzandoli piano, mentre lascia l’altro braccio caduto lungo il fianco.
«Passeremo anche questa.» gli sussurro.

Rose sta ancora dormendo. Le guance lievemente arrossate, i capelli un po’ arruffati, le ciglia lunghe si sfiorano tra loro, le labbra sporte in avanti e leggermente aperte, sembra una delle bambole di porcellana che mia nonna custodiva gelosamente. La mia bambola, sì. Forse mi ha appena letto nel pensiero, perché con un movimento morbido le sue labbra si stendono in un piccolo sorriso, alzando le guance. Porta la mano alla bocca mentre la apre in uno sbadiglio. Si gira sulla schiena e stropiccia il viso con i pugnetti chiusi facendo una serie di smorfie tanto buffe che non riesco ad impedirmi di ridere. Uno alla volta apre gli occhietti e mi guarda. Sporge le mani ad afferrarmi il viso e posso sentire distintamente il rumore del mio cuore che si scioglie del tutto.
La prendo in braccio e la porto con me in cucina.
«La principessa si è svegliata!» annuncio a mia madre che l’ha tenuta con sè per tutta la notte.
Lei si ferma dal mescolare la pasta e ci osserva. Un raggio di luce bianca filtra dalla finestra illuminandone il viso ormai segnato dal tempo e dai tanti colpi che le ha dato la vita. Eppure non ricordo mai un giorno intero senza il suo sorriso. Anche nei momenti peggiori, ha sempre trovato la forza di guardarci regalandoci un sorriso, per quanta tristezza potesse contenere.
«Buon giorno dormigliona della nonna.» si avvicina a posarle un bacio sulla mano.
Rose le sorride ma si stringe a me. Una fiamma d’orgoglio mi riempie.
«Non preoccuparti, non voglio rubarti al tuo papà!» torna a badare ai fornelli.
«Non ha dormito un po’ troppo?»
Alza lo sguardo all’orologio. «Sono le dodici e mezza. Ieri la piccola peste mi ha fatto un po’ disperare, non voleva proprio dormire. Si è addormentata definitivamente alle quattro, puoi immaginare la mia gioia! Per cui ha dormito circa otto ore.»
«Ha pianto così tanto? Le hai misurato la temperatura?»
Mi guarda di nuovo, portando le mani ai fianchi in segno di sfida.
«Devo ricordarti forse che ho cresciuto due figli in perfetta salute? So riconoscere un bambino che sta male da uno che non vuole dormire perché è fuori dal suo ambiente.»

«Ma dovrebbe essere abituata a dormire da te. Non è la prima volta.»
«Voleva suo papà, che vuoi farci?» alza le spalle e si volta di nuovo verso la pasta.
Guardo la mia bimba abbracciare il suo orsetto. Scatto riempendola di baci, godendo della sua risata così cristallina da riuscire a purificare tutto. Quando mi fermo lei mi da un ultimo bacio sulla guancia e mi fa capire che vuole essere lasciata libera di gattonare. La poggio per terra e la osservo sgattaiolare veloce ad afferrare il gioco che ha attirato la sua attenzione.
«Credi che dovrei smettere di suonare?»
«Perché dovresti fare una cosa simile?»
«Non lo so, non voglio che Rose non dorma mentre io sono con i miei amici a fare il giovincello. Lei ha bisogno di me.»
«Lei ha bisogno di qualcuno che le faccia la cena, la coccoli e riesca a farla addormentare. Io sono perfetta. Vorresti dirmi che non posso più passare una sera con mia nipote?»
«Sai che non sto dicendo questo, ma tra l’asilo e le serate sento di...»
«Alt! Ti fermo prima che tu dica la cosa più stupida della tua vita dopo il giorno in cui mi hai detto che volevi sposare Simona.»
«Mamma ti prego, non ricominciare!»
«E invece ricomincio. E tu, signorino, dovresti anche ascoltarmi bene. Ti fai in quattro, anzi in otto, per tua figlia e a lei non manca nulla. Guardala! Su, guardala!»
La guardo, rovistando nella cesta lasciata per lei in cucina ha trovato uno dei libri tattili che mia madre usa per farla calmare prima della nanna. Lo sta esaminando con il faccino concentrato e le manine curiose. Sorrido vedendola già così grande.
«Ti sembra una bambina infelice?»
«No, non ancora» con l’amaro in bocca mi correggo.
«Sai quali sono i bambini infelici? Quelli che non hanno nessuno, quelli che anche vivendo in casa con entrambi i genitori sono sempre da soli, quelli che non ricevono attenzioni, tempo e carezze. E a Rose questo non mancherà mai.»
Continuo a osservarla giocare, sperando che mia madre abbia ragione.

Frugo tra frigo e dispensa alla ricerca di qualcosa che possa fare da pranzo con il minimo sforzo. Nessuno dei due ha voglia di mettersi ai fornelli oggi. Purtroppo tutte le nostre risorse si sono esaurite: appena in tempo per la domenica da “desperate housewife”, unico giorno al mese in cui di comune accordo ci dedichiamo completamente alla casa. Diego è ancora in pigiama stiracchiato sul divano con la ciotola ormai vuota tra le mani.
«Ti andrebbe un sushi per pranzo?» gli chiedo chiudendo l’ultimo sportello, totalmente svuotato.
«Se avessi voluto mangiare pesce crudo avrei imparato a pescare e l’avrei mangiato sulla mia barca alla luce dell’alba dopo aver passato la notte a cercarlo.» Il solito esagerato.
«E se io avessi voluto un trattato filosofico ti avrei fatto una domanda più complessa! Un semplice no sarebbe bastato.»
«Sai che odio quella robaccia moderna.»
«Allora facciamo un salto in centro ed entriamo nella prima osteria che ci ispira fiducia. Se restiamo in casa rischiamo di morire di fame e in più devo ancora offrirti il pranzo che ti avevo promesso per festeggiare il nuovo lavoro… che ormai tanto nuovo non è più!»
«Parli come se lavorassi lì dentro da anni! Comunque accetto volentieri, sia perché ho fame sia perché finalmente potrò dire di averti visto offrire qualcosa, piccola spilorcia che non sei altro!»
Gli faccio la linguaccia e vado in camera a cambiarmi. Decido di mettermi roba comoda. Tiro fuori un paio di jeans non fascianti, un maglioncino leggero che mi calza un po’ largo lungo fin sui fianchi e, fiduciosa grazie al sole che sembra esserci in cielo, infilo le converse rosse.  
Il sabato, fin dalle sette del mattino, sembra che tutti tirino fuori i vestiti eleganti anche per andare a comprare il pane al panificio sotto casa. Così, senza nessun motivo apparente, solo perché è sabato e si vuole apparire ribelli, liberi, belli e felici. Non ho mai capito né seguito questa abitudine, ma so già che ovunque sceglieremo di mangiare sarò l’unico essere femminile non minuto di tacco e/o minigonna ascellare.
Apro la porta della stanza contemporaneamente a Diego. Devo ammettere che quando si infila nel giubbotto di pelle e si passa la mano tra i capelli per sistemarli, un po’ alla Fonzie, è davvero bello. La ragazza che riuscirà ad accalappiarlo sarà una ragazza felice, ne sono sempre più convinta. Solitamente adesso arriverebbero i pensieri del tormento, le domande e i dubbi sul perché non posso accettare il fatto che lui mi ami ed imparare a ricambiare il suo sentimento. Ma oggi non succede.
Il suo giubbotto di pelle mi fa venire in mente solo Tommaso. Ho una voglia terribile di vederlo ancora, di parlare ancora con lui… e sì, anche di baciarlo! Non sono una grande esperta di baci, ma il suo ha avuto il giusto equilibrio, la giusta dose di passione e il pizzico di dolcezza che rende tutto ancora più eccitante. Devo ammetterlo, l’ultimo ad avermi baciato così è stato… beh, lui, l’innominabile, il ragazzo che incolpo della mia vita distrutta, quello che si è preso gioco di me e del mio primo amore. Il solo averlo associato a Tommaso mi provoca un lungo e spiacevole brivido lungo la schiena.
Diego prende le chiavi del suo motorino, molto più comodo per scendere in centro. Io afferro una sciarpa e la arrotolo attorno al collo, indosso il Parka e lo seguo fuori dalla porta.
L’idea di andare a pranzare fuori sembrava averci messo entrambi di buon umore, ma usciti dal portone di casa tutto finisce improvvisamente.
«Signorina Centini, buongiorno.»
«Buongiorno a lei, signor Maresciallo. Cosa la porta da queste parti?»
Non è in uniforme ma non ho avuto il minimo dubbio che fosse lui dal primo istante. Ho il cuore già a mille, istintivamente mi stringo al fianco di Diego.
«Posso parlare da sola?» Né io né Diego ci spostiamo di un millimetro, nessuno dei due risponde. «Suppongo di poter parlare anche qui, con il suo amico. Dopo tutto anche lui sa tutto, mi sembra giusto informarvi entrambi. Si tratta, come avrà capito, di ciò di cui abbiamo parlato ieri.»
«Anche io ho delle novità.» rispondo fredda.
«Purtroppo credo di conoscerle già.»
«Signor Maresciallo, mi scusi.» ci interrompe Diego. «Se lei è qui dopo ciò che ci ha detto ieri, suppongo, mi corregga se sbaglio, che la conversazione non sia proprio quello che si chiama un breve colloquio. Noi stavamo andando a pranzo. Vuole unirsi a noi così possiamo continuare a parlare evitando di sostare qui sul portone?»
Il Maresciallo Bortone si guarda per un attimo intorno. «Non sono in servizio, in effetti, quindi accetterei volentieri l’invito.»

La fame mi era passata quasi del tutto ed è stato un vero peccato non potersi gustare fino in fondo queste linguine ai frutti di mare. Tutti e tre, come una vecchia famigliola, abbiamo pranzato in religioso silenzio, senza toccare argomenti che avrebbero potuto guastare ancor di più l’appetito, perciò aspetto che il Maresciallo abbia inghiottito l’ultima forchettata di pasta e bevuto l’ultimo sorso del suo calice di rosso.
«Possiamo riprendere la nostra conversazione, se è d’accordo» sono impaziente di sapere cosa lo ha spinto a venire da me.
Il Maresciallo posa il calice, in volto il suo sorriso da nonno lascia di nuovo il posto alla massima serietà.
«Vedi Ramona, posso chiamarti così, no? Dicevo… Ieri mattina ti ho detto tutto quello che era giusto dirti, specialmente davanti ad altri ufficiali.» Si riferisce alla tizia impegnata a scrivere ogni nostro respiro? Sicuramente sì. «Come ti avevo detto anche prima di sapere di chi si stava parlando, una denuncia per stalking non è mai semplice. Purtroppo la legge non è tanto forte come si pensa e spesso si interviene quando ormai è troppo tardi. Ma mettere in mezzo un carabiniere, sto per esagerare ma è per farti capire il punto, è come accusare un politico o un prete.»
«Inutile.» commento.
«Oserei dire anche pericoloso, se pesti i piedi alla gente sbagliata.»
«Non c’è niente di nuovo in quello che ci sta dicendo.» aggiunge Diego, acido e visibilmente nervoso.
«Da ora in poi vi dirò cose che potrebbero rovinare me, perciò mi sto fidando di voi ad occhi chiusi come spero voi farete con me. Daniele è nella nostra caserma solo da pochi mesi, è stato mandato qui per una sorta di punizione. Ha avuto diversi richiami di tipo comportamentale, pare che il ragazzo non sappia controllare la rabbia. Hanno giustificato tutto con uno stress post-traumatico dovuto a uno scontro a fuoco durante un’azione sotto copertura in cui ha perso il collega con cui faceva coppia. La psicologa ha detto che gli avrebbe fatto bene cambiare aria. A quanto pare, invece, la sua situazione è solo peggiorata.»
«E la sua punizione è diventata la nostra. Mi diceva di conoscere le mie novità. A cosa si riferisce e come fa a saperle?»
«Mi riferisco a ciò che è successo stanotte al pub dove lavora mia nipote, Emma. Stamattina me lo ha raccontato perché conosce Daniele, anche se non sa niente di quello che ci siamo detti. Non ho avuto dubbi che la ragazza di cui mi parlava fossi tu.»
Ho la bocca improvvisamente secca e farinosa. Afferro il bicchiere, lo riempio e lo butto giù come fosse uno shot di vodka liscia.
«Mi ha raccontato tutto, anche che è dovuto intervenire un altro ragazzo a bloccarlo fisicamente e stavano per sfociare in una rissa, se quello che c’è stato non si può già definire tale. Questo, ovviamente, cambia le cose. Per quanto io ti credessi, ciò che avevamo in mano fino a ieri mattina era davvero poco, più simile a una serie di sospetti che non a vere prove.»
«E oggi, cosa abbiamo?»
«Oggi abbiamo il modo di agire.»
«Come? Potrò andare avanti con la mia denuncia? I presenti di ieri hanno detto che sono disposti anche a testimoniare se fosse il caso.»
«Non sarà necessario perché agiremo per un’altra via, una più semplice e meno invasiva per te. Questo eviterà di metterti in pericolo in un qualsiasi modo e risolverà comunque il problema.»
«Si diverte a tenerci sulle spine o non sa ancora cosa fare e cerca di prendere tempo?» Diego lo spinge al punto.
«Date le circostanze del suo trasferimento, ci era stato indicato che se avessimo notato segni di cedimento a livello psicologico, sarebbe dovuto tornare a casa e iniziare il vero e proprio percorso riabilitativo, eliminando la possibilità di una reintegrazione diretta.»
«Lo manderanno in un centro psichiatrico?»
«Circa. So che non è quello che volevi, forse. Ma da lì lavoreranno sulla sua psiche. Nel rapporto annoterò ogni dettaglio e posso assicurarti che non sarà riabilitato finché non tornerà normale.»
«Se lo è mai stato.» commenta ancora poco rassicurato Diego.
«Non vi vedo molto contenti. Forse perché non vi ho detto la cosa migliore. Ho già inviato la richiesta.» Guarda l’orologio. «Daniele sta partendo in questo momento per tornare a casa sua, scortato da due fidati dei nostri. Ve ne siete appena liberati.»
Avete presente quella sensazione strana di quando vedevate un pacco regalo sul vostro letto ma non volevate fare i salti di gioia perché avevate appena litigato con la mamma? Quel momento in cui cercavate di reprimere una gioia che si faceva sempre più forte nonostante vi continuaste a ripetere che non c’era niente di cui essere felice? Io in questo momento sto esattamente così. So che non è quello che desideravo, che ancora una volta la giustizia italiana ha fatto schifo, ma Daniele è sparito dalla mia vita! Può essere partito per la riabilitazione o perché gli è morto il sarto, ma è partito! Il motivo non mi interessa.
Finalmente una buona notizia.

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Capitolo 28
*** 28 - Uno sguardo al futuro e uno al passato ***




Mi rendo conto di non aver mai apprezzato davvero il nostro piccolo parco cittadino. Ho sempre avuto l’idea che fosse piccolo e spoglio, praticamente inutile. Il mio sogno è sempre stato quello di avere a disposizione qualcosa di enorme, come il Central Park. Distese di prati infiniti dove sdraiarsi a godersi una giornata di sole come oggi, barchette su cui lasciarsi placidamente trasportare lungo le acque di un grande lago artificiale, chioschetti di hot dog e zucchero filato ad ogni angolo per solleticare l’olfatto. Il nostro in confronto è un piccolo vaso in balcone con del basilico che non viene annaffiato da un mese. Non ci sono spazi ampi e immensi dove perdersi, ci sono solo un paio di altalene, una sorta di pista per il jogging che ne descrive il perimetro e un piccolo gruppo d’alberi che vorrebbero credersi un boschetto, sotto il quale si contano tre panchine quasi sempre occupate da ragazzi che hanno bigiato. Come dicevo: piccolo e spoglio, praticamente inutile.
Oggi, però, c’è qualcosa di stranamente rilassante. L’aria di primavera arrivata in anticipo, il cielo azzurro cobalto senza nubi, il cappellino bianco di Rose in tono con il vestito leggero che le illumina ancor di più la pelle chiara, il suo sorriso mentre guarda i bambini rincorrersi sul prato. Questo sabato, nella sua estrema semplicità, credo che sia perfetto.
«Vieni sull’altalena con papà? Ti va?» le chiedo, con un sorriso che è solo un piccolo riflesso di quanto ami guardare i suoi occhietti verdi.
La prendo in braccio e mi sistemo su una delle altalene più grandi, la tengo sollevata come un piccolo aeroplano, mentre coi piedi ben poggiati in terra inizio a farci dondolare quel tanto che basta per farla divertire. Rose ride di gusto, stringendo gli occhi e arricciando le guance, mentre tiene braccia e gambe tese come fosse un aquilotto che plana contro vento. Vorrei poterla tenere così più a lungo, ma il suo peso inizia ad essere non indifferente perciò a malincuore devo abbassare le braccia. Continuo a dondolare, tenendola stretta al petto mentre lei picchietta sul mio viso indicandomi che vuole volare di nuovo.
Mi volto e, poco distanti da noi, su una panchina vedo le mamme dei bambini che giocano guardarci. Suppongo che almeno una di loro creda nel suo profondo che io sia un ladro di bambini. Le altre, invece, hanno sguardi più dolci. Per un attimo credo di vedere Ram in mezzo a loro. La vedo voltarsi verso di me, un lieve soffio di vento inaspettato che le sposta i ricci dal viso, le labbra dolcemente socchiuse in un sorriso. Fermo i piedi smettendo di dondolare, mentre per un attimo credo di non riuscire più a respirare, guardandola alzarsi e camminare lentamente verso di me e svanire nel nulla della mia illusione.
Sospiro. Rose si è zittita e mi guarda seria, non capisce perché mi sono improvvisamente fermato.
«Che c’è piccola? Vuoi dondolare ancora?»
Torna a sorridere. Le bacio la fronte ricominciando a muovermi.
Fisso il piccolo boschetto pensando a come sarebbe andata se, bigiata la scuola, avessi passato i sabati mattina su quelle panchine a baciare Ram.

Steve mi fa accomodare in cucina. Ammetto che fa un po’ strano pensare che l’ultima volta qui ero disperato senza aver ancora capito dove andare a sbattere la testa, sembra una vita fa ormai. Bree arriva nella stanza più incinta che mai, la sua pancia sembra stare per scoppiare. Ricordo che la pancia di Simona ha iniziato a farsi molto ingombrante solo nel periodo finale della gravidanza. Bree invece non è ancora al settimo mese e già ha un pancione da record. Dicono che si noti di più perché probabilmente è un maschietto, ma io ho sempre creduto poco a questi trucchetti da vecchie credenze popolari anche se spesso funzionano davvero.
«Eccola, la mia bambolina!» dice, togliendomi Rose dalle braccia ancor prima di salutarmi.
«Sì, Bree anche io sono felice di vederti.» scherzo.
«Non fare il geloso. La principessa va salutata per prima.»
«Bree! Per favore.» Steve la chiama con un tono di rimprovero.
«Steve stai diventando un po’ stressante. Non posso neanche salutare la piccola, adesso?»
«Non puoi strapazzarti, la dottoressa oggi è stata chiara. Da adesso fino alla fine della gravidanza riposo assoluto. Per te niente pub, niente sforzi e niente pesi.» Indica Rose come se fosse un sacco di cemento.
«Steve!» adesso è lei a rimproverarlo, mi indica con un rapido movimento degli occhi.
«Non preoccuparti, non mi offendo mica. Ero peggio di lui quando Simona era incinta, lo hai forse dimenticato? Come mai ti ha dato il riposo forzato? Stai avendo problemi?»
«Io sono dell’opinione che la dottoressa si sia fatta contagiare da lui e dal suo allarmismo.»  
«Sai che non è così.» la interrompe Steve.
«Non sono così grave secondo me, ma la dottoressa dice di stare a riposo e il suo secondino non credo che mi farà deviare dalla retta via.»
Il campanello di casa suona. Bree si siede sul divano tenendo ancora Rose in braccio.
«Puoi andare ad aprire la porta? Non credo mi faccia bene alzarmi.» dice con tono di paternale.
Steve le fa una smorfia e va ad aprire.
«Comunque, ha ragione. Ci sarà un motivo per cui la dottoressa ti ha prescritto riposo. Non dico di farti aiutare anche per respirare come vorrebbe Steve, ma devi stare attenta, Bree, e non scherzarci troppo.»
«Sì, lo so.» Con una mano si accarezza il pancione.
So quasi per certo a cosa sta pensando adesso. La perdita tragica del bambino di Evan l’ha segnata in modo profondo, quasi più dell’incidente e del resto. Fa la dura per non darlo a vedere, perché sa che Steve è un tipo ansioso e deve tenerlo su, ma sappiamo che trema solo al pensiero che possa succedere qualcosa di male al loro bambino.

«Sicura di voler entrare da sola? Non mi dispiacerebbe rivederla.»
Gli sorrido. «Sai che non ti riconoscerebbe.»
«Non puoi saperlo, non sai come sta oggi. E poi io riconoscerei lei.»
«Grazie Diego, ma devo farlo da sola.» Scendo dall’auto. «Ti chiamo quando ho finito.»
«Prenditi tutto il tempo che serve.»
Non ho mai impiegato così tanto tempo per attraversare una strada. Cammino lentamente, con passi leggeri e il cuore sempre più pesante. Batte così forte che sembra saltare fuori dal petto. Arrivata davanti alla grande porta di vetro, mi fermo e respiro profondamente prima di entrare. Tutto è esattamente come l’ultima volta, molto ‒ troppo ‒ tempo fa.  Ancora una volta mi ritrovo immersa in questa oasi di bianco che secondo la cromoterapia dovrebbe esprimere speranza, fiducia e voglia di cambiamento: tutte cose che chi entra qui non sa di non poter più avere.
Tutto lo staff mi conosce abbastanza bene, ma Kay, una giovane infermiera trasferitasi qui dalla Norvegia perché innamorata dell’idea dell’ormai in via d’estinzione uomo italiano,  è quella che di più mi è stata vicina. Non appena mi vede, lascia il suo carrello e viene ad abbracciarmi.
«Ramona, che bello vederti di nuovo!»
«Ciao Kay.»
«Come stai? Saranno due anni che non ti vedo.»
«Probabilmente un po’ di più.» ammetto sottovoce: è passato almeno il doppio del tempo. So che non lo ha detto per rimproverarmi, ma mi vergogno un po’ lo stesso.
«Stop Ramona, stop. So cosa significa quella faccia e sai che non voglio vederla qui dentro.»
Fu lo stesso staff che si prende cura di mia madre a convincermi a rallentare le visite e le telefonate. Certo, probabilmente non avevano idea che sarebbero passati quattro anni tra una visita e l’altra, ma erano fermamente convinti che fosse la cosa migliore da fare.
L’incidente in cui è stata coinvolta, ha provocato in lei un forte trauma che ha portato a un’amnesia discontinua che col tempo si è consolidata a causa di ripetuti e continui piccoli ictus da tenere sotto il più stretto controllo. Entrare nella stanza e sentire tua madre che ti scambia per un’infermiera non è un granché ma è sempre meglio di quando ti getta contro oggetti a caso convinta che sei un’estranea intrufolata a casa sua e che cerca di derubarla. Più io cercavo di ricordarle chi ero, più lei si agitava. Più lei si agitava, più la pressione sanguigna aumentava. Più la pressione aumentava, più ictus bruciavano cellule del suo cervello. Più ictus si manifestavano, più in fretta degenerava. Il mio continuare a stare lì la stava uccidendo più in fretta. E questo uccideva me.
«Come sta oggi? Posso vederla?»
Kay non risponde, ma sorride  fa cenno di seguirla lungo il corridoio fino alla grande porta sul giardino. Non ho bisogno di attendere che mi indichi dove è seduta, riconoscerei mia madre ad occhi chiusi in una stanza al buio. La vedo subito, seduta su una panchina con gli occhi chiusi e il volto verso il sole. Lei ha sempre amato la luce del sole, passava intere giornate sul balcone ad assorbirne quanto più possibile.
«Posso andare da lei?» chiedo, mentre già mi si spezza la voce.
«Conosci le regole.» si toglie il tesserino e me lo porge.
«Mi è andata bene ad essere te oggi.» infilo la cordicella al collo e vado da mia madre.

«No, ragazzi. Non ci siamo, i prezzi qui sono troppo alti.»
Mentre Bree ed Emma continuano a preparare la cena, noi ragazzi stiamo cercando tra le offerte online qualcosa che non ci sfondi troppo le tasche per andare all’appuntamento da De Blasi.
«Ti ho detto che non dovete pensare a quello.» Insiste Steve. «Vi ho detto che vi finanzio io? E così sarà.»
«Da quando sei così ricco?» chiede Giorgio, impertinente.
«Già Steve, da quando?» sottolinea Bree, mentre spadella le zucchine.
«Non preoccupatevi di questo. Non stiamo parlando di investire un capitale di milioni di euro. Ho un piccolo fondo emergenze e questa è un’emergenza. E poi non è un investimento a fondo perduto.»
Per un attimo vorrei continuare ad oppormi a questa sua proposta, ma so che non ci riuscirei. Senza il suo aiuto è poco probabile che riusciremmo a partire e tutto quello che abbiamo fatto per andrebbe perso nel nulla.
«Non pensiamoci per il momento. Cerchiamo qualcosa di abbordabile. Usufruiremo del fondo emergenze solo se necessario.»
«Mi sembra perfetto.»

Non ho bisogno di chiamare Diego per dirgli che ho finito. Quando esco, lo trovo esattamente nel punto in cui l’ho lasciato. Guardo l’orologio, mi ha aspettata qui per più di due ore. Salgo in macchina e gli do un bacio sulla guancia. Senza dire una parola, mette in moto e si immette nel traffico. Abbasso l’aletta parasole e mi guardo nel piccolo specchio. Ho la faccia oscena di chi ha pianto per un’ora filata.
«Non me la sento di uscire, Diego. Ti dispiace portarmi a casa?» chiedo, sprofondando nel sedile passeggero.
«Stai tranquilla, facciamo presto.» continua a guidare senza guardarmi neanche con la coda dell’occhio.
«Diego, sto parlando sul serio. Voglio solo tornare a casa.»
«Fidati di me.»
Non dice altro. Molto controvoglia, sprofondo ancor di più nel sedile, appoggio la testa al finestrino e chiudo gli occhi. Li sento bruciare forte, così forte che in pochi minuti sprofondo in un torpore da dormiveglia.

Non so quanto abbia guidato, né perché. Quando apro gli occhi siamo vicino al mare.
«Dove siamo?»
Non risponde. Lo vedo inserire la freccia e accostare. La strada è deserta. Si gira a guardarmi, mi fissa negli occhi ancora in silenzio. Poi inserisce nuovamente la freccia e fa inversione riprendendo a camminare nel senso opposto.
«Ora stai bene, possiamo tornare a casa.» sentenzia.
Lo guardo stranita, domandandomi se non sia impazzito ad aspettarmi chiuso in macchina per due ore. Eppure guardando fuori dal finestrino, mi accorgo di non sentire più il forte peso sul petto che avevo appena salita in macchina. Credo di sentire addirittura fame. Improvvisamente il mio stomaco brontola così forte che il rumore riempie l’abitacolo dell’auto. Diego ride e, senza togliere gli occhi dalla strada, porta il braccio dietro il mio sedile.
«Fortuna che avevo previsto anche questo.»
Prende la busta di carta di un fast food e me la poggia in braccio.

«Siamo davvero diventati tanto vecchi da passare il sabato sera dopo cena chiusi in casa?» chiede Giorgio mentre è sdraiato sul divano.
«Vuoi davvero il punto della situazione?» gli chiede Alfredo.
Giorgio si guarda per un attimo intorno. Bree è rilassata sulla poltrona mentre Steve le accarezza la testa, Emma e Giacomo stanno lavando le stoviglie della cena, Rose dorme beata in braccio a me.
«No, ho già afferrato il punto.» dice, tornando a guardare il film in DVD.
«Pensa a Lunedì se vuoi sentirti più giovane.» gli dico, ridacchiando.
«Se penso a Lunedì mi sento solo più povero.»

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Capitolo 29
*** 29 - Odi i lunedì? ***




Scegli il lavoro che ami e non lavorerai mai, neanche per un giorno in tutta la tua vita. Facile dirlo se il tuo lavoro è fare il filosofo e non devi combattere contro il ritorno in ufficio del Lunedì mattina! Che poi, lo giuro, io sono sempre stata una di quelle che il Lunedì cercava di difenderlo, di dargli fiducia, di concedergli l’opportunità per smentire tutte le cattive dicerie sul suo conto. Niente da fare. Per quanto possa amare il mio lavoro, la persone con cui lo faccio e il luogo in cui lo svolgo, il Lunedì mattina rimane uno dei mali incurabili del mondo.
Entro in ufficio e trovo tutte le stanze deserte. Solo la stanza di Virginia sembra essere abitata. Lascio la giacca sulla mia scrivania nel Lambda e, prima che lei possa uscire a rimproverarmi per l’assenza di Venerdì pomeriggio, mi dirigo spedita verso la Stanza dello Spirito e del Tempo. Mi preparo un caffè e sprofondo in uno dei puff blu. La combo di tepore e morbidezza rischia di farmi riaddormentare, nonostante non abbia fatto altro che dormire per tutta la Domenica. Fortunatamente arrivano poco dopo alcuni dei miei colleghi, tutti rigorosamente in silenzio, tranne Max che non riesce a moderare il suo entusiasmo nemmeno il Lunedì mattina.
«Ehi, buongiorno ragazzi.» dico sollevandomi in piedi.
«Ciao fringuella!» Max saluta con un sorriso a panoramica dentaria piena.
«Fri-cosa?»
«Lascialo perdere.» interviene Mark «ho provato a convincerlo che di mattina le anfetamine non fanno parte di una colazione equilibrata, ma non mi da retta.»
«Siete solo invidiosi. Voi vedete in questo giorno solo l’oscuro tramonto del vostro fine settimana di libertà, mentre io lo vedo come l’alba di una radiosa settimana piena di possibilità.» Max gesticola come un senatore al Foro.
«Sei decisamente più irritante del solito. Ti ho sopportato per l’intero tragitto in auto discutere delle tue idee malate, per me è arrivato il momento di ignorarti.» Mark afferra il suo caffè ed esce dalla stanza.
«Mi trovi irritante anche tu?» Max si volta verso di me.
«Vuoi la versione educata o quella diretta?» bevo il caffè che si è ormai freddato.
«Quante parolacce contiene quella diretta?»
Prima che possa rispondere, Rebecca e Michela entrano nella stanza parlottando tra loro di uno dei progetti che dovremmo consegnare entro la settimana ed in cui sono coinvolta anche io.
«Oh, vedi! Non sono l’unico che prende il Lunedì mattina in maniera propositiva. Queste due sono già al lavoro. Brave fringuelle! Così si fa!»
«Oddio Max! Ti prego, dimmi che non ti sei fissato di nuovo col chiamarci fringuelle.» Michela va al frigo a prendere un succo di frutta e viene vicino a me. «L’ultima volta è andato avanti per due mesi. Ti assicuro che è stato veramente snervante.».
«Quasi quanto lo è il suo entusiasmo di Lunedì mattina. Abbassa i decibel, ok?» lo riprovera bonariamente Rebecca. «E, dato che sei così propositivo, tra un’ora Michela deve iniziare a lavorare sulla landing per l’evento del prossimo mese. A che punto sei coi testi?»
«Saranno pronti quando il mio genio creativo mi darà la scintilla.»
«Puoi dire al tuo genio creativo che se tra un’ora non sono pronti, può andare a cercare un’altra lampada da cui essere strofinato fuori. Ok?»
«Ci credo che odi il Lunedì mattina a dover lavorare con questa qui.» dice, rivolto a me.
«Il tempo a tua disposizione si è magicamente ridotto a mezz’ora. Muovi il culo, genio della lampada.» gli lancia la carpetta con gli schizzi di Michela.
«Sì, capo.» Max fa il saluto militare sbattendo i tacchi e lascia la stanza scimmiottando una marcia.
«Finalmente un po’ di silenzio!» Michela inizia a ridere.
«Purtroppo non durerà molto. Mentre siamo qui tutte e tre, direi di approfittarne per fare il check della situazione sulla consegna di Giovedì.»
E così, anche per questo Lunedì si inizia a lavorare sul serio.

L’aeroporto della nostra città è considerato di grandezza medio-piccola eppure oggi era affollato come mai l’avevo visto, pieno di uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur e tacchi che andavano a prendere il loro volo d’affari. Molti di loro sembravano avere la mia stessa età, qualcuno addirittura sembrava più giovane. Questo mi ha un po’ turbato. Sull’aereo in cui abbiamo viaggiato, eravamo probabilmente gli unici a non partire per andare a lavoro, ma per cercarlo. Anche questo non è stato quello che si definisce il massimo del conforto. Fortunatamente per la mia ansia, il volo è andato liscio come l’olio.
Non appena atterrati, ho acceso il cellulare ed è subito arrivato un messaggio su WhatsApp. Mia madre mi ha mandato la foto di Rose che sorride, tiene tra le mani un foglio scritto con la chiara calligrafia elegante di mia madre: “Sono fiera di te, papà. Ti amo. PS: Anche nonna ti ama.”.
L’ho osservata convinto che non possa esistere niente di più bello del suo sorriso, finché il corridoio dell’aereo non si è svuotato per poter scendere.
Giacomo, seduto ancora accanto a me, mi toglie il cellulare dalle mani. Guarda la foto e rivolge lo schermo di nuovo verso di me indicandola.
«Questo è il motivo per cui siamo qui.» dice con un tono impegnato che non sembra neanche appartenergli.
Annuisco. Riprendo il cellulare e scendiamo dall’aereo.
Entrati nell’immenso e caotico aeroporto romano, tutto sembra farsi più reale. Adesso si fa sul serio.

Mi piace lavorare con Michela. Tra i quattro componenti del reparto grafico è quella con cui riesco ad avere più sintonia. La trovo precisa, competente, ben organizzata, veloce e disposta a trovare un compromesso tra ciò che è ciò che è giusto fare e quello che i clienti vogliono. Vi stupireste di quante volte le due cose non coincidano, ma anzi siano l’una l’opposto dell’altra! Eppure lei riesce sempre a cavarsela, a tirare fuori un bel risultato pur accontentando richieste assurde. Essendo estremamente onesta e  gentile, è anche una bella persona il ché in un mondo spesso caratterizzato da squali non è affatto male.  Per concludere il quadro, è l’unica donna del suo reparto e un po’ di solidarietà femminile in campo lavorativo ci vuole sempre.
«Che ne pensi?» mi chiede, mostrandomi il suo bozzetto.
«Credo che sia perfetto. Adesso mancano solo i testi di Max, giusto?» guardo l’orologio, come sempre Max è in puntuale ritardo: la sua genialità ha i tempi lunghi.
«Puoi chiederglieli tu mentre io dò un paio di ritocchi? Rebecca al momento è da Virginia, ma se si accorge che per l’ennesima volta ha sforato i tempi che gli ha dato probabilmente assisteremo a un nuovo incontro di Godzilla contro King Kong.»
«Rebecca è Godzilla, vero? Altrimenti le staresti dando della scimmia. Non so se ne sarebbe davvero contenta.»
«Rebecca è King Kong. Alla fine King Kong vince.» mi fa l’occhiolino e si volta di nuovo verso il suo schermo continuando a sorridere.
Raggiungo la scrivania di Max che, con aria vittoriosa, mi consegna i testi senza lasciare che glieli chieda. Questo è l’aspetto del suo carattere che faccio un po’ fatica a digerire. Stiamo aspettando la consegna dei testi da un’ora e lui li ha pronti sulla scrivania ma è troppo vile per scollare il culo e portarceli. Evito di sottolinearlo, in fondo sono sempre l’ultima arrivata. Afferro i fogli e torno da Michela.
Arrivo alla sua scrivania contemporaneamente a Rebecca che, senza dire una parola, prende i fogli ed esamina il lavoro di Max. Li poggia accanto a Michela e gli fa segno di proseguire con l’integrazione.
«Ogni tanto spero che faccia un buco nell’acqua, solo per potergli ficcare i suoi fogli pieni di boria giù per l’esofago.» esclama poi.
Non posso fare a meno di ridacchiare.
«Dai, Reb. Sai come è fatto. Ha bisogno del suo spazio e del suo metodo, altrimenti tira fuori solo robaccia.»
Rebecca fa un respiro profondo, poi mi guarda spalancando gli occhi e gonfiando le guance come una ranocchia per qualche attimo. Lo fa quando deve scaricare lo stress.
«Caffè?» mi chiede infine.
«Direi più una camomilla.»
«Qualsiasi cosa. Andiamo.» ci avviamo verso la Stanza dello Spirito e del Tempo, mentre Michela resta alla sua scrivania intenta a portare a termine il suo task. «C’è bisogno di pace dopo aver parlato con quel brontosauro. Nel frattempo ti aggiorno sulla riunione di Venerdì. Devi scusarmi se non ti ho chiamato, ma ho avuto un week-end movimentato.»
«Nel senso buono o nel senso cattivo?»
«Nel senso che l’ho passato per metà a lavorare, per qualcosa che ti spiegherò dopo, e l’altra metà a litigare con tu-sai-chi.»
Si riferisce senza dubbio a Nico. «Avete fatto pace alla fine?»
«Purtroppo sì.» sospira di nuovo mentre prende dal frigo due lattine di tè freddo. «Pesca, giusto?» tira la lattina senza aspettare una risposta e apre subito dopo la sua, ne beve un sorso e va a sedersi su uno dei divani bianchi. «Parliamo di cose serie, che è meglio.»
Aspetta che mi sieda accanto a lei prima di iniziare di nuovo a parlare.

Mancano tre ore all’appuntamento con De Blasi e noi siamo appena arrivati nell’unico appartamento che abbiamo trovato disponibile senza dover vendere tutti i nostri reni. Grazie all’aiuto di Steve, resteremo qui qualche giorno. Siamo stati tutti scaramanticamente d’accordo nel prenderci una settimana di soggiorno a Roma nell’eventualità che De Blasi ci chiedesse di rivederci dopo il primo incontro. Abbiamo convinto Bree e Steve a raggiungerci per il fine settimana, sperando che la piccola K non decida di voler nascere in volo.
L’appartamento è spazioso, vuoto oserei dire, e avrebbe chiaramente bisogno di una restaurazione. Quattro camere, una cucina e due bagni con un totale di circa dieci pezzi di mobilio escludendo i quattro letti matrimoniali, gli elettrodomestici e i sanitari: un armadio a due ante in ogni stanza, un tavolo abbastanza grande in cucina, una tv a tubo catodico che sembra avere almeno la mia età, un divano, una libreria con qualche classico impolverato, i fuochi e un piccolo piano cottura.
«Ragazzi, credo che siamo appena entrati in un film dell’orrore.» dice Giorgio mentre trascina la sua valigia per casa.
Emma si avvicina alla cucina e passa le dita sopra i fornelli e sul piano di lavoro. «Almeno sembra pulita.» dice mostrandoci le dita senza neanche un accenno di polvere.
«Anche i serial killer possono essere germofobici, sai?»
«Non fare lo stupido.»
Emma si avventura da sola tra le stanze per scegliere quella da occupare, mentre noi da bravi gentiluomini restiamo in cucina a osservarci intorno spaesati. Speriamo che questo non sia un segno del destino su come andrà l’appuntamento di oggi.
«Trovata!» urla Emma dalla terza stanza. «E mi prendo anche il bagno con la doccia.»
Io e Giacomo prendiamo la seconda stanza del corridoio, quella attigua ad Emma, mentre Alfredo e Giorgio divideranno la stanza che si affaccia direttamente sulla cucina ed è accanto al bagno con la vasca che, poco democraticamente, ha deciso Emma di far usare a noi maschietti. La stanza in fondo viene lasciata libera per quando arriveranno Steve e Bree.
Non appena terminiamo di suddividerci nelle stanza, tolgo le scarpe e mi lancio sul letto. Il materasso è, al di fuori di ogni sospetto, molto comodo. Direi che la casa guadagna un paio di punti anche per il cuscino morbido al punto giusto e al profumo che sprigionano le lenzuola pulite. Come dico sempre io, non si deve mai giudicare un libro dalla copertina, ma va bene giudicare un letto dal profumo delle lenzuola. Sto quasi per assopirmi, quando il cellulare vibra. Mia madre.
«Ciao, mà. Come sta Rose?»
«Sta bene. Anche io sto bene se ti interessa.» fa la finta offesa.
«Fammela sentire, dai.»
Mamma mette il cellulare accanto all’orecchio di Rose, la sento invitarla a salutare e mandarmi un bacio. Poi i suoni inconfondibili della risata della mia bambina e lo schiocco dei suoi baci al vento. Il cuore mi si allarga al punto che sembra esplodermi nel petto.
«L’hai sentita?» mi chiede.
«Certo che l’ho sentita.»
«Siete arrivati? Com’è l’appartamento?»
«Sì, siamo qui. Il viaggio è stato ok, la casa un po’ squallida ma è pulita e il letto è comodo.» uno sbadiglio automatico sfugge al mio controllo.
«Credo che tu debba dormire un po’, prima dell’incontro fatidico.»
«Credo che tu abbia ragione.» sono già in dormiveglia. Non ricordo neanche di averla salutata e aver chiuso la chiamata che sono già alle porte della fase REM.

«E così arriviamo al punto principale, quello per cui ho lavorato anche nel weekend.» Rebecca improvvisamente cambia espressione, illuminandosi. «Ricordi la riunione con Giulio, in cui annunciava gli eventi a cui avremmo dovuto partecipare? Bene, stiamo iniziando! E Giulio ha delegato a me l’organizzazione!» La sto davvero vedendo applaudire con un sorriso da joker stampato in faccia? Rebecca è improvvisamente retrocessa all’età di dodici anni. «Non era mai successo, è  la prima volta che mi affida un incarico di queste enormi proporzioni come unica responsabile. Non hai idea di quanto mi faccia felice.»
Sorrido cercando di assecondarla. I tempi in cui ero felice di avere una palla al piede di quelle proporzioni per me sono belli che andati! Ma riflettendoci, la capisco. Essendo arrivata a quel tipo di incarichi in età ancor più giovane della sua, devo riconoscere che le mie reazioni erano ancor più infantili.
«Posso fare qualcosa per aiutarti?» le chiedo.
«Certo! Sei ancora una mia risorsa, anzi sei la mia risorsa principale. So quanto lavoro hai fatto con la SoftWaiting. Qualsiasi evento o colloquio organizzato da te aveva il 75% di possibilità di essere un successo e ripagarsi da solo. Ed è una percentuale enorme! Perciò tu sei il mio asso nella manica.»
Mi imbarazza sentir parlare di me in questo modo.
«Sono sicura che tu la supererai.» dico, per distogliere l’argomento da me.
«Adesso arriva la parte più divertente che è anche quella in cui spero non mi darai un calcio nelle chiappe.»
«Perché dovrei?»
«Perché Giulio vuole che organizziamo l’evento di apertura direttamente sul luogo.»
«Cioè? Non capisco ancora qual è la parte in cui dovrei prenderti a calci.»
«Quella parte è quando ti dico che dobbiamo partire domani.»
«Domani?» dico sconvolta. Mai avuto un preavviso così stretto.
«Per questo spero che mi perdonerai di non averti chiamato. Potevi organizzarti meglio sapendolo tre giorni fa. Abbiamo il volo domattina alle 7:40 del mattino. Dobbiamo trovarci all’aeroporto alle 5:30.»
«Volo per dove?»
«Roma, mi pare ovvio.»

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Capitolo 30
*** 30 - La ruota gira ***




Nel mio immaginario, complici anche i racconti di Mattia, De Blasi è sempre stato un tipo rock. Un ragazzaccio che fin da giovanissimo si era saputo imporre nel mondo, avviando imprese su imprese arrivate sempre al top di categoria e diventando infine talmente ricco da avere un aereo privato che da Roma, dove ormai ha sede stabile, lo portasse alle partite di calcetto con Mattia una volta ogni quindici giorni. Aveva naso per gli affari, poteva riconoscere una buona mucca da latte quando per gli altri non era neanche una capretta storpia, sapeva spremerla fino in fondo per guadagnarne il massimo, ma capiva anche quando era il momento di smettere di spremere e mantenere il livello raggiunto. Da quando aveva creato la sua etichetta discografica indipendente aveva dimostrato di aver naso anche per i talenti. Selezionava in modo accurato i musicisti da produrre e in appena due anni era diventato un buon trampolino. In pratica racchiudeva lo spirito imprenditoriale che mio padre aveva sempre sognato per me ma di cui io non ero mai stato dotato.
Immaginavo un cinquantenne carismatico dentro un giubbotto di pelle e dietro un paio di Ray-Ban a goccia dalle lenti scure, che ci dava il benvenuto nel suo studio minimalista ed ultramoderno. Quello che ci si presenta, però, è ben altro spettacolo. Un ometto basso e stempiato, con un paio di pantaloni cachi a costine che farebbero ribrezzo alla buon’anima di mia nonna, ci fa accomodare in quella che sembra la casa di un accumulatore compulsivo.
«Sapevamo che non erano gli studi della Sony, ma fare il colloquio nello sgabuzzino mi sembra un po’ eccessivo.» mi sussurra all’orecchio Giacomo, mentre a stento trattiene le risate.
«Spero che non sia troppo deludente questo benvenuto.» dice De Blasi, come se avesse sentito la battuta di mio fratello. «Questa sede è nostra da appena tre giorni perciò siamo ancora in pieno trasloco. Prego, accomodatevi sul divano.»

Non riuscirei a dire cosa abbia di speciale quest’uomo, forse solo il tono di voce che è molto più profondo di quanto ci si potrebbe aspettare vedendolo nel suo metro e trenta o forse l’accento misto che tradisce le sue origini del sud oppure le mani tozze che si muovono seguendo l’andatura delle sue parole. Fatto sta che quando apre bocca non puoi far a meno di ascoltarlo, come se fossi sotto ipnosi. Lo abbiamo ascoltato per quasi un’ora parlare di quelli che sono i suoi obbiettivi, di cosa cerca nei musicisti che produce, di quale è il motivo per cui vuole farlo. Quando alla fine ha concluso dicendo che passava la palla a noi, che desiderava conoscere la nostra storia da principio, ci siamo ritrovati tutti e cinque a fissarci con gli occhi sbandati di un cagnolino randagio, senza sapere da dove iniziare. Ci è voluto un po’ per sbloccarmi ed iniziare a raccontare. A raccontare di come ci eravamo conosciuti, di come il gruppo era nato, di una passione sempre esistita per la musica, di tre ragazzi al primo anno di liceo che avevano deciso di provare a suonare insieme e avevano messo un annuncio sulla bacheca del negozio di strumenti per cercare un cantante, di mio fratello che a dodici anni suonava la chitarra quasi come un professionista e aveva portato quell’annuncio a casa, del feeling incredibile che si era creato, di compiti in classe falliti perché il pomeriggio si studiavano i repertori invece dei libri di algebra, della maturità passata per un pelo perché c’era una gara a cui volevamo partecipare ma a cui non siamo mai arrivati perché nessuno di noi aveva ancora la patente, delle notti passate a scrivere pezzi nuovi cercando di staccarsi dalle canzoni degli altri, di una ragazza dalla corazza aggressiva che è riuscita a farci rimettere in piedi un equilibrio che credevamo distrutto per sempre, della voglia ancor più forte di portare a tutti la nostra storia.
«Bene.» commenta De Blasi dopo una lunga pausa. «Ora che voi avete capito un po’ di più me e io ho capito un po’ di più voi passiamo al vero motivo per cui siete qui.»
Attraversiamo il lungo il corridoio nascosto dietro una porta scorrevole. Qui l’ambiente è tutta un’altra cosa: luminoso, ordinato, elegante. Se è vero che sono nel pieno di un trasloco, questa è la parte già completata. In fondo al corridoio, una scala ci conduce al piano inferiore dove si aprono le due aree della sala di registrazione. La fisso per un po’ senza riuscire ad entrarci dentro. Questa è due spanne sopra qualsiasi sala in cui sia mai stato. Improvvisamente tutto diventa concreto, la responsabilità che pesava sulle mie spalle si è appena triplicata.
Dietro il vetro della sala di regia, tre tecnici sono al lavoro per completare i collegamenti necessari. De Blasi ci fa accomodare nella sala di ripresa dove sono già montati tutti gli strumenti e il microfono.
«Questo è solo per avere un’idea di cosa riuscireste a dare qui dentro. Come vi ho detto prima, sono dell’idea che emozionare attraverso una registrazione sia difficile più che durante un live. Quando canti dal vivo, specie se sei a stretto contatto con il pubblico come fate voi, lo scambio è più diretto e l’adrenalina è tale da renderlo più semplice. Se davanti a te ci sono solo un vetro e tre tecnici annoiati, beh… è tutta un’altra storia! Quindi adesso io vado a prendere un caffè mentre voi prendete confidenza con gli strumenti. I ragazzi di là sono a vostra completa disposizione se avete bisogno di qualche modifica. Noi ci rivediamo tra mezz’ora. Vorrò sentire tre pezzi. Ce li avete?»
Annuiamo, pare che tutti abbiano perso le parole quanto me.

Dicono che si chiami sindrome dell’impostore, quando senti di non essere capace a fare qualcosa in cui in realtà hai più volte avuto successo. Io credo di soffrirne, perché da quando Rebecca mi ha comunicato dell’evento che dovremo organizzare sono nel panico.
Continuo a pensare alle scadenze che non potrò rispettare mancando per l’intera settimana senza ragionevole preavviso, per non parlare di quanto mi mandi in paranoia l’idea di non essere più capace ad organizzare un evento. Prima, ai tempi d’oro, quando ero considerata una delle punte di diamante della SoftWaiting, un evento come questo avrei potuto organizzarlo in meno di un’ora con una mano legata dietro la schiena e gli occhi bendati. Ero sicura di me, pienamente conscia delle potenzialità che avevo a disposizione, orgogliosa della mia rubrica di contatti. Adesso solo il pensiero di dover riprendere quell’agenda in mano mi fa salire l’ansia. Buona parte del merito dei miei successi era proprio di quell’agenda dalla fodera blu, piena di numeri di telefono preziosi che riuscivano ad aprire anche le porte chiuse a chiave e che adesso non potrei più chiamare senza sentire dall’altra parte la tipica risatina di chi mi immagina a fare sesso con il capo sulla sua scrivania. Sì, un bel po’ di timore è causato da quello stupido passato pieno di dicerie su me e Marco e su come fossi arrivata ai vertici del mio reparto. Le stesse storie per cui sono stata licenziata dal vecchio lavoro, potrebbero minare la mia nuova occupazione: sapete, quando si dice che la ruota gira e che tutto torna, non è sempre un bene.
Un orribile brivido mi fa tremare non appena mi torna in mente lui. Dario Simoni. In mezzo a tutto il casino che è successo in questi giorni, potrebbe sembrare impossibile pensare ancora a lui come alla persona peggiore da poter incontrare, eppure è ancora così. Credo che non riuscirei a respirare trovandomi nella stessa stanza con lui.

Avevamo iniziato a lavorare insieme da qualche mese. L’incontro con Ragonesi, il suo capo, era stato ampiamente fruttuoso e la SoftWaiting aveva iniziato un rapporto continuativo con la sua azienda, perciò io e Dario eravamo tornati a frequentarci sempre più spesso. Prima erano solo incontri lavorativi, dato che lui era ormai diventato il braccio destro del capo, ma man mano che passava il tempo i vecchi sentimenti erano tornati a galla. Mi sembrava di essere tornata la stupida ragazzina delle superiori che, incontratolo dopo anni, non riusciva a smettere di pensare che era stato il destino a scegliere che ci incontrassimo ancora. E che importava se da ragazzina mi aveva spezzato il cuore? Era roba da immaturi, no? Cosa poteva mai essere trovare una polaroid di lui a letto con la sua ex, la sera prima che avevo deciso di dargli la mia verginità? Lui e Sonia erano stati insieme diversi anni dopo quella brutta storia. Questo in uno strano modo mi confortava e distruggeva allo stesso tempo. Come tutto, di Dario.
Quella storia mi aveva segnato dentro così tanto che non ero più riuscita a fidarmi di un ragazzo che non fosse Diego. Avevo iniziato molte storie, ma nessuna era diventata davvero importante. Così, mi ero ritrovata a venticinque anni ad appartenere al 3% delle ragazze che a quell’età è ancora vergine. E la cosa non mi era mai pesata fino alla sera che lo venne a sapere Dario.
Ricordo ancora il suo sguardo pieno di autocompiacimento.
«Mi hai aspettato per tutti questi anni?» aveva chiesto sussurrando.
Avevo sentito il sangue gelarmi nelle vene e la testa prendere fuoco. Al centro del petto, dove le due correnti a temperature diverse si incontravano, un uragano aveva iniziato a formarsi. Il suo infuriare aumentava sempre più ad ogni movimento che portava Daria più vicino al mio viso. Avrei voluto dirgli che si stava sbagliando, che non stavo affatto aspettando lui. La mia mente stava riportando d’improvviso a galla tutti i motivi per cui Dario non era la persona giusta per me, tutto il dolore che mi aveva causato, come mi aveva segnato e la paura che aveva comportato nel mio aprirmi al mondo. Se ogni volta che baciavo un ragazzo pensavo a quante ragazze stesse illudendo simultaneamente, era merito suo. Se ogni volta che un uomo provava a spingersi oltre avevo la sensazione di star per cadere in una trappola e sentivo la necessità di scappare, era merito suo. Avrei voluto gridarglielo, ma mentre mi ero estraniata dal mio corpo per dar retta a quei ragionamenti, lui si era già infilato sotto il mio vestito cercando di togliermi le mutandine.
«Dario, fermati.» lo avevo pregato, ma le mie preghiere erano rimaste senza ascolto. Avevo cercato di fermargli le mani che continuavano a correre per tutto il mio corpo, ma il suo peso mi bloccava sdraiata sul sedile della sua auto posteggiata nella via isolata dove abitavo.
Cercavo di divincolarmi ma continuava a tenermi giù. Posso ancora sentire i suoi denti mordicchiarmi la pelle sussurrando di stare ferma, che dopo aver aspettato così tanto non avrei più voluto smettere, che finalmente stavo per avere quello che volevo. Ma io non lo volevo. Glielo urlavo, ma lui non voleva ascoltare. Sentii la zip dei suoi jeans che si apriva e il panico in quell’attimo svanì per far posto a una breve lucidità che mi diede forza. Smisi di respingerlo e lui sorrise.
«Finalmente...» disse con una voce che non sembrava neanche più la sua. Si fiondò su di me tentando di penetrarmi ma, chiamate tutte le mie forze a comando e grazie a una sferzata di adrenalina, riuscii a spingergli la testa in alto, facendolo sbattere sul tettuccio dell’auto. Quando urlò di dolore, dandomi della pazza, lo feci ancora e poi un’altra volta. Staccò le mani da me per tamponare il bozzo che già cresceva e ne approfittai per rispolverare le poche lezioni di kick boxing che avevo preso da adolescente, dandogli un dritto in pieno naso. Lo sentii afflosciarsi lateralmente, afferrai la maniglia della portiera e la aprii. Afferrai al volo la borsa che si trovava sul cruscotto e scivolai fuori dall’auto. Il vestito era incastrato nella leva del cambio perciò dovetti strapparlo. Le scarpe erano rimaste nell’abitacolo ma non mi interessava. Corsi per i pochi metri che mi separavano da casa, con le mani tremanti riuscii ad infilare le chiavi e ad aprire. Quando richiusi il cancello alle mie spalle, sentii il motore dell’auto di Dario ripartire. Respirai a fondo mentre già iniziavo a piangere e le forze mi abbandonavano.
«Puttana! Ti rovinerò, stanne sicura.» mi aveva urlato dal finestrino. Quando passò correndo davanti al mio cancello, lanciò le mie scarpe fuori.
Mio padre era ancora sveglio e, turbato dal rumore che arrivava fin in camera da letto, era uscito fuori. Aveva visto la scena e non c’era stata necessità di spiegargli cosa era successo. Rientrò in casa e prese le chiavi dell’auto. Ero in lacrime, accasciata in cortile, con il vestito strappato, incapace di alzarmi in piedi né di smettere di piangere. Mi baciò la fronte e mi disse di aspettarlo.
«Troverò quel bastardo e gli farò rimpiangere di essere nato. Te lo giuro, piccola.» Entrò in auto e si lanciò all’inseguimento.
Quella è stata l’ultima volta in cui l’ho visto vivo.
Mentre rincorreva Dario, sorpassò uno stop senza fermarsi. Un furgoncino prese la sua auto in pieno, facendola ribaltare e rimbalzare giù. Il proprietario del furgone, un giovane uomo che stava tornando a casa da un turno di dodici ore, chiamò i soccorsi che lo trovarono fortemente in stato di shock. Mio padre respirava appena, è morto prima di arrivare in ospedale.
Io e mia madre eravamo in forte apprensione, sul divano di casa, con una tazza di camomilla bollente tra le mani. Lei sbraitava contro l’imprudenza e l’impulsività di suo marito.
«Un giorno di questi si farà ammazzare!» gridava, non sapendo che lui già era agonizzante in un ambulanza.
Fummo avvisate solo un’ora dopo la sua morte. Dopo quel momento non ricordo più nulla, ho rimosso tutti i ricordi legati a quell’esperienza così dolorosa. Non ricordo come siamo arrivate lì, non ricordo il riconoscimento del corpo, non ricordo il suo funerale. I miei ricordi ricominciano circa due giorni dopo il funerale, quando rientrata a casa - non ricordo perché ero uscita, solo che ero stata fuori un’oretta - ricevetti di nuovo una chiamata dall’ospedale. Ero convinta che fosse relativa a qualche altra cosa da sbrigare per mio padre, anche se davvero non capivo come potessero esserci tante carte da firmare in merito, come se il ricordo del corpo senza vita e ricucito alla meno peggio di mio padre steso su una barella e coperto da un lenzuolo bianco non fosse un tormento sufficiente.
«Signorina Centini.» La voce all’altro capo non era una di quelle del reparto amministrativo che mi avevano contattato negli ultimi tempi. Era forzatamente fredda, come se dovesse costringersi ad essere distaccata. «Sua madre ha avuto un incidente.»
Aveva preso l’auto per andare al cimitero a trovare mio padre, ma in preda all’apatia si era fermata lungo la provinciale deserta. Era rimasta ferma in auto per non si sa quanto tempo, finché un’auto che viaggiava sopra i limiti di velocità, l’aveva tamponata. Le macchine avevano fatto un paio di testa coda, ma fortunatamente nessuna dei due era esplosa o ribaltata. Mia madre, sotto l’effetto della forza centrifuga, aveva sbattuto la testa sul finestrino laterale, poi sullo sterzo ed infine era caduta sul sedile di fianco sbattendo la tempia e poi la parte alta del capo sullo sportello del lato passeggero. Il trauma cranico era stato importante, per questo inizialmente i medici non si erano preoccupati delle amnesie, ma presto iniziarono a presentarsi i primi ictus e da allora il suo calvario non si è più fermato.
La vita di mio padre era stata interrotta, quella di mia madre era stata distrutta, la mia era in pezzi. Da lì a poco avrei anche perso il lavoro per colpa di una voce messa in giro da un tarlo bastardo secondo cui ero arrivata dov’ero solo per merito dei fellatio regolari praticati sotto la scrivania del capo.
Tutto per colpa sua.
Dario Simoni aveva promesso di rovinarmi ed era riuscito a farlo oltre ogni immaginazione.

Non avrei voluto deludere Rebecca, ma oggi non sono riuscita a cavare un ragno dal buco. Mi sono bloccata e non sono riuscita ad andare avanti. Il suo sguardo verso di me è per la prima volta di disapprovazione, ma appena si accorge dei miei occhi lucidi diventa preoccupato.
«Qualcosa non va?» mi chiede, sedendosi vicino a me.
Tiro su col naso, mettendo un freno alle lacrime che spingono ancora per uscire.
«No.» tossisco per riprendere il controllo sulla voce tremante. «Mi dispiace essere così tanto arrugginita.»
Cerco di sorridere. Rebecca mi guarda fisso negli occhi, non si è bevuta una sola parola.
«Ram, io non voglio essere insensibile, ma questo è un passo importante per me. Se c’è qualsiasi cosa che possa bloccarti, che possa non farti dare il massimo, ti prego dimmelo.»
Tossisco ancora. In questi anni sono diventata forte. Non gli ho permesso di distruggermi fino in fondo e non inizierò adesso.
«Rebecca, scusami per oggi. Ti assicuro che da domani sarò al 200%.»
Mi sorride, rassicurata. «Lo spero.»

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Capitolo 31
*** 31 - Viaggiando ***




Roma al tramonto è uno spettacolo. Il cielo si infiamma e la potenza del Vittoriano fa tremare le viscere. Lo sguardo si perde lungo la via dei Fori Imperiali fino ad ammirare la maestosità del Colosseo. Due epoche che si confrontano e si sfidano sotto un intreccio di nuvole rosse e arancioni in un arazzo di splendida fattura che neanche il più abile dei tessitori sarebbe in grado di generare.

Ci stiamo godendo una birra seduti al tavolino di uno dei costosissimi bar di Piazza Venezia. Giacomo ed Emma cercano su TripAdvisor un’osteria in cui cenare che non ci costi un rene ciascuno, mentre noi altri assaporiamo l’aria romana. Ho sempre amato questa città, ho sempre i brividi a fior di pelle percorrendo le sue strade. C’è passata tanta di quella gente, tanta di quella storia, in queste strade! Pensarci mi fa sentire allo stesso tempo tanto grande come un Cesare, quanto piccolo come una sbavatura nell’enorme libro del tempo. E quando i romani si lamentano della loro città io riesco solo a pensare alla sensazione di ebrezza che provo e che non va via per tutto il tempo della permanenza.

«Come credete che sia andata?» chiede Giorgio, che è rimasto per tutto il tempo stranamente silenzioso.

«Credo che sia andata bene, no?» rispondo, chiedendo con lo sguardo la conferma degli altri.

«Non l’ho visto troppo convinto mentre ci ascoltava.»

«Non credo ci potessimo aspettare che iniziasse a saltellare per tutta la sala di registrazione, no?» Di nuovo cerco conferme, ma nessuno pare si voglia sbilanciare.

«Quello no di certo, ma dirci che gli siamo piaciuti non sarebbe stata una cattiva idea. Mi sarei accontentato di un “non fate cagare poi tanto”.»

La sua imitazione di De Blasi ci strappa un sorriso, ma siamo tutti troppo tesi per ridere sul serio.

«Non ci ha detto che ci adora, è vero, ma ci ha detto che vorrebbe risentirci mentre avrebbe potuto dirci di scomparire dalla circolazione. Non è male come risultato.» interviene finalmente Emma.

«Ha detto che vorrebbe risentirci, ma non ci ha dato un appuntamento. La sua ultima frase è stata “vi farò sapere”. Non so a quanti colloqui di lavoro tu sia andata, ma da dove vengo io questa frase non presuppone quasi mai niente di buono.»

«Invece da dove vengo io sai come funziona?» Emma si alza in piedi, per un attimo temo che estragga il suo coltellino e lo punti verso Giorgio come ha fatto con me al nostro primo incontro. «Dalla mie parti, quando trovi qualcuno che ti lascia provare senza sbatterti subito la porta in faccia, si chiama successo. Dalle mie parti, quando uno ti dice che ti farà sapere, lo sai che non ti chiamerà quella stessa sera. Dalle mie parti, se succede questo e hai pagato in anticipo un appartamento a Roma per una settimana, si passa la notte a festeggiare come se avessi vinto il mondiale, non come femminucce lasciate dal moroso stese sul divano a guardare Dirty Dancing piangendo come neanche la fontana di Trevi. Questo si fa, dalle mie parti!»

Silenzio, nessuno potrebbe aggiungere altro al suo discorso. Non avrei mai detto che fosse un trascinatore così efficace e convincente la prima volta che abbiamo parlato, ma forse la paura che mi potesse accoltellare non mi rendeva troppo affidabile in quel momento.


«Quanto starai via?»

«Rientrerò Domenica sera. Puoi tenerti libero per venire a recuperarmi in aeroporto?»

Diego è appoggiato alla soglia della mia stanza, mentre preparo la valigia sotto il suo sguardo vigile. Dopo anni a fare e disfare trolley da viaggio, quella che all’inizio era una delle parti più emozionanti e preoccupanti è diventata una routine come un’altra. Sono sicura di poter farlo ancora ad occhi chiusi, ma Diego che commenta ogni movimento non aiuta.

«Perché porti il vestito?»

Mi fermo un attimo e fisso l’abito che sto per piegare tentando di non stropicciarlo: un abito elegante di seta lucida dalla base viola scuro e perlescenze rosa chiaro. Nonostante il colore non sia tra i miei preferiti, mi piace come lo scollo a barca lascia libere le clavicole. Il taglio segue perfettamente le curve del seno e della vita, appoggiandosi morbido sui fianchi e scendendo in modo asimmetrico fin a poco sopra il ginocchio.

«Non posso presentarmi a una cena elegante in jeans e converse.» affermo ripiegando delicatamente la preziosa stoffa, già conscia che non servirà a nulla e di quanto mi costerà farlo stirare di nuovo in hotel.

«Hai intenzione di partecipare a una cena elegante?»

«Lo spero più che altro. Sarebbe una cena d’affari e ciò significherebbe che siamo riuscite a coinvolgere le persone giuste.»

«Persone giuste come era Ragonesi?»

Un attimo di esitazione, mentre accarezzo il vestito appena messo in valigia. So dove vuole andare a parare, ho combattuto con questo per l’intero pomeriggio. Deglutisco la saliva che si è fatta improvvisamente troppa e faccio finta di nulla.

«Non mi pare di aver indossato un vestito la sera che abbiamo incontrato Ragonesi.» Non ci vuole poi una gran memoria, in quel periodo indossavo un’unica cosa a qualsiasi incontro di lavoro. Rovisto un attimo nell’armadio e tiro fuori la gonna nera a tubino, ormai quasi una reliquia storica. «Avevo questa a dir la verità!»

Diego sorride, mi pare di vederlo leggermente arrossire. Sta in silenzio per i successivi cinque minuti, tempo che mi basta per infilare in valigia il vestiario rimanente e comprimere le due paia di scarpe.

«Vorrà dire che infilerò pigiama e ciabatte in borsa.» affermo osservando la valigia ormai strabordante, mentre inizio a chiedermi come farò a chiuderla e parto con il rituale della rivisitazione del necessario per eliminare il superfluo e riuscire a rientrare nuovamente nelle normali dimensioni di un bagaglio a mano.

Diego è ancora fermo sulla porta a guardarmi con la faccia da funerale. Lascio cadere i jeans che sto esaminando e vado da lui. Gli prendo il viso tra le mani scuotendolo leggermente.

«Questa è una cosa bella, se non l’avessi capito. Non sto partendo per la guerra del Vietnam. Sto andando ad assolvere un incarico di lavoro, un lavoro importante, che mi viene assegnato per la prima volta dalla nuova azienda in cui lavoro. Significa che si fidano di me, che credono che io possa farcela. Questa è una cosa bella.»

Annuisce, ma non cambia espressione.

«Scusa, è solo che con tutto quello che è capitato in questo periodo speravo che potessimo stare un po’ tranquilli. Tutto qui.» sbotta infine.

«Non c’è nulla per cui non stare tranquilli. Hai dimenticato il viaggio che ho fatto da sola in Germania per la SoftWaiting? Quello era preoccupante. Adesso starò per meno di una settimana a Roma: questo è solo... figo!»

Non credevo di essere davvero così entusiasta della partenza, eppure sto sentendo di nuovo il piacevole pizzicore che si prova prima di una nuova avventura. Mi mancava.

Diego, invece, sembra non prenderla proprio bene. Mi dice un freddo ‘ok’ e lascia la sua postazione di guardia per andarsi a rinchiudere in camera. Quando fa così vorrei proprio tirargli il collo! Torno, un po’ più nervosa di prima, alla mia valigia. In mezz’ora riesco a compiere il miracolo e, mentre metà del contenuto iniziale campeggia sul pavimento della stanza, chiudo la lampo con aria soddisfatta.

Guardo l’orologio, devo alzarmi tra cinque ore ma non mi sento per nulla stanca. Decido di mettermi comunque a letto sperando che il buio mi concili il sonno. Domani una faccia da coma è l’ultima cosa che mi serve! Mentre sono al buio con gli occhi chiusi e milioni di pensieri che si mischiano in testa, sento la porta aprirsi. Percepisco la presenza di Diego che mi osserva, non so quanto creda che io stia realmente già dormendo, si avvicina a passi felpati e si infila nel letto con me abbracciandomi.

«Giochi?» mi sussurra.

Non rispondo, stringendo di più gli occhi. Mi bacia i capelli dandomi la buonanotte e confidandomi che gli mancherò anche se starò via pochi giorni. Io continuo a far finta di dormire. Sì, Diego, sto giocando, ma non sai che stasera il mio gioco è diverso e potrebbe farti soffrire.

Afferro il braccio che mi passa intorno alla vita, stringendomi a lui e immagino che quelle siano la braccia di Tommaso.


Trastevere di notte è uno di quei posti che ti fanno sentire innamorato. Innamorato di questa città, di quest’aria, di queste osterie, di questo vino, di questo fiume, di queste luci, di questo panorama, della cupola di San Pietro, del profilo di Castel Sant’Angelo, di questi ponti, di questa gente. Di tutto. Senti una strana magia impossessarsi di ogni tua cellula e credi di essere in grado di amare come non hai mai fatto.

Giorgio e Alfredo si sono scolati due litri di vinello rosso locale e cercano di attaccare bottone con qualsiasi straniera che passi, improvvisando un inglese maccheronico che sembra riscuotere parecchio successo, specialmente se le turiste hanno bevuto quanto e più di loro. Io sono inizialmente restato seduto con Emma e Giacomo, ma presto ho avuto la sensazione di essere di troppo. Prendendo la scusa di chiamare casa per dare la buonanotte a Rose, li ho lasciati da soli e mi sono appollaiato su un muretto a godermi il panorama. Che Giacomo sia cotto di lei non potrebbe negarlo neanche un cieco, ma per quanto Emma faccia ancora la dura e la preziosa si capisce che anche lei si è affezionata a lui. Osservo da lontano con quanta dolcezza mio fratello cerchi sempre di sfiorarla e con quanta delicatezza lei sfugga il suo tocco senza allontanarsi mai davvero. Se Roma farà abbastanza la stupida in queste sere, quei due finiranno insieme prima di tornare a casa.

Senza un motivo mi ritrovo voltato verso il fiume a scorrere i nomi presenti nella rubrica del mio cellulare e a parlare in silenzio con me stesso.

Davvero, Tommaso? Vorresti fare come ai vecchi tempi delle litigate stupide e chiamare Simona mentre sei mezzo ubriaco in uno dei posti più romantici del mondo? No, no davvero. Non stai cercando il suo numero e lo sai bene. Ne stai cercando uno che lì dentro non c’è. Perché c’è una sola ragazza che riesci a immaginare con te in questo momento, una sola che non riesci a toglierti dalla mente, ma a cui non hai avuto il coraggio di chiedere il numero. L’hai incontrata così tante volte per caso che non potrai contare su un altro incontro casuale, te ne rendi conto? Sì, sai dove abita, ma cosa vorresti fare? Appostarti sotto il suo portone insieme allo stalker che la tormenta? Sei proprio nella merda, caro Tommaso. Non ci sai proprio fare con le ragazze. Quella sera resterà per te un’occasione sprecata. Nulla di più. Adesso posa il cellulare al suo posto nella tasca dei jeans e mangiati le mani finché i tuoi amici non decideranno che è arrivata l’ora di tornare in appartamento a dormire.

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Capitolo 32
*** 32 - Paradise City ***




Ho sempre creduto che le gambe umane avessero dei limiti, un limite fisico intendo, un certo numero di passi a disposizione per una giornata superato il quale si fermassero in automatico rifiutandosi semplicemente di andare oltre. Non mi sbagliavo, ma a quanto pare le gambe di Alfredo non erano a conoscenza di tutto questo.

Da sempre appassionato di storia antica, ci ha trascinato in quasi tutti gli angoli di Roma raccontandoci milioni di storie, aneddoti, date e leggende da far impallidire tutti i professori di storia che avessi mai conosciuto. All’inizio è stato molto interessante, addirittura divertente. Ma alla quarta ora di cammino quasi ininterrotto sotto il sole, è rimasta solo la stanchezza e la voglia di stare immobili al fresco per altrettante ore. Fortunatamente siamo riusciti a convincerlo a tornare in appartamento prima che iniziassero a sanguinarci i piedi.

Dopo aver parlato al telefono con Rose e mia madre, sono crollato in diagonale sul letto, mentre Giacomo è andato da Emma.

Sento dei passi pesanti correre lungo il corridoio. Da quando c’è Rose, anche il più piccolo rumore mi fa svegliare, perciò apro di scatto gli occhi in stato di allerta e guardo l’orologio: è passata più di un’ora ma sembrano solo cinque minuti. Senza bussare, Giorgio spalanca la porta di scatto. Ha un’espressione radiosa.

«Tom, è fatta!» urla, felice.

Non capisco cosa succede perciò lo guardo dubbioso, ma lui incurante entra saltellando in stanza continuando a urlare che “è fatta” mentre io continuo a chiedergli “che cosa”. Alle sue spalle compare Alfredo, con una molto più composta espressione felice.

«È totalmente fuori di testa.» gli dico, ridendo perché la sua euforia mi ha già contagiato.

Alfredo si limita ad annuire sorridente, appoggiato allo stipite della porta. I poveri neuroni stanchi dentro la mia testa hanno un improvviso impulso che li risveglia dal torpore.

«Credo di aver intuito qualcosa ma ho bisogno di sentirtelo dire.» mi alzo dal letto su cui Giorgio ha iniziato a saltellare con un bambino.

«De Blasi ha mandato una mail.» dice Alfredo senza scomporsi.

«Una mail? No, ha mandato LA mail!» gli fa eco Giorgio.

«Ci ha dato il secondo appuntamento?» chiedo già entusiasta.

«Dobbiamo tornare lì Giovedì.»

«Sul serio? Non mi prendi per il culo?»

«Sei vuoi posso recitarti la frase a memoria.» annuncia Giorgio, saltando giù dal letto. Si posiziona al centro della stanza, impettito, le mani vicino le spalle a mimare di reggere il bavero di una giacca, la voce volutamente più grave. «Vi confermo che dobbiamo assolutamente rivederci.» Per un attimo lascia stare l’imitazione di De Blasi e commenta «Hai capito? Ha detto proprio “assolutamente”, non è figo?» Si schiarisce la voce tossicchiando e rientra nel personaggio. «Giovedì andrebbe benissimo. Ci vediamo in ufficio verso le 17, ci sarà anche il mio nuovo socio. Gli farete sentire qualcosa e poi passeremo a discutere i dettagli legali del nostro accordo.»

«Ha detto proprio così? Discuteremo i dettagli del nostro accordo?»

«Sì, Tom.» risponde Alfredo. «Per citare il nostro amico impazzito: è fatta.»

«Ce l’abbiamo fatta! Ce l’abbiamo fatta davvero!» Stavolta sono io ad urlare esaltato. Giorgio mi segue ricominciando a saltare e gettare ululati striduli. Alfredo finalmente si scompone e inizia a ridere, venendoci ad abbracciare. Mio fratello ed Emma compaiono sulla soglia della porta.

«Che succede qui?» chiede Giacomo sorridente, immaginando già quale sarà la nostra risposta. Non posso fare a meno di notare che ha i capelli più arruffati del solito e che la maglietta di Emma è alla rovescia, ma al momento questi sono dettagli su cui posso sorvolare di indagare.

«Abbiamo un appuntamento! De Blasi ci vuole!» urla Giorgio.

«Ve l’avevo detto che avevamo spaccato!» risponde Giacomo.

Ci abbracciamo, tutti e cinque in un unico groviglio di braccia e felicità. Saltiamo, urliamo, sbattiamo sullo scarso mobilio, ridiamo a crepapelle. In questo momento siamo invincibili.


Non appena chiusa la porta della stanza alle mie spalle, mi getto sul letto.

«Sono nettamente fuori allenamento!» confesso alle pareti.

Scalcio per far volare via le decoltè. Se c’è una cosa che non mi è mai mancata, quella è andare in giro tutto il giorno accumulando chilometri su scarpe che si trasformano da comode a insopportabili trampoli assassini nel giro di qualche fermata in metro. Ah, la metro! Come ho mai fatto a dimenticare l’affascinante metropolitana? Quella è un’altra delle cose che ho volentieri evitato per parecchio tempo. Dopo anni passati sulle lussuose auto di Uber pagate dalla SoftWaiting, viaggiare in metropolitana per rientrare nel budget è stato come tornare a pedalare dopo aver avuto un jet privato. Anche se dopo un viaggio in bici probabilmente si puzza di meno.

Cerco di comunicare con le mie gambe stanche e mi trascino fino in doccia. Fortunatamente l’hotel che ha prenotato Rebecca, nonostante sia economico e un po’ lontano dal centro, è abbastanza confortevole. Peccato non abbia la vasca. Sembro una bambina viziata, eh? Questa è quella che dalle mie parti chiamano la “mala del sonno”. Non potersi riposare ed essere tanto stanchi da lamentarsi di qualsiasi cosa, come i bambini che pur essendo stanchi non dormono e sfogano la stanchezza frignando. Sorrido pensando a quando mia madre me lo rinfacciava da adolescente.

Mentre sono ancora ad occhi chiusi sotto il getto d’acqua calda, cercando di sciogliere i muscoli stanchi, sento bussare alla porta della stanza.

«Sono Reb! A che punto sei?» sento la voce di Rebecca attutita dalle pareti e dall’acqua che scorre.

«Sono sotto la doccia!» le urlo, cercando di non sembrare troppo acida.

«Ok, aspetto qui.» la sento rispondere.

Per un attimo ho la tentazione di chiederle di andare via in un modo non proprio gentile. Capisco che per lei è tutto importante e nuovo, emozionante e adrenalinico, ma dopo essermi svegliata presto e aver corso tutto il giorno, vorrei solo poter finire una rilassante doccia in pace, avvolgermi nel gigantesco asciugamano di spugna e gettarmi a letto fino a domattina. Mi convinco a mettere da parte questa speranza e giro la manopola per terminare la doccia. Mi avvolgo in fretta nell’asciugamano e, cercando di non far gocciolare troppo i capelli lungo il pavimento, vado ad aprire la porta.

«Non scherzavi allora?» dice Rebecca entrando in stanza.

«Perché avrei dovuto?» Torno nel bagno e inizio a frizionare i capelli in modo che i ricci inizino a prendere la loro forma.

«Forse dobbiamo andare a cena?»

«Da quando ceniamo alle sette di sera?»

«Ram, sono quasi le nove ed è martedì. Se non ci sbrighiamo rischiamo di restare digiune.»

Mi blocco un attimo. Le nove? Possibile sia così tardi? Quanto tempo ho passato immobile a pancia sotto sul letto? Smetto di frizionare i capelli e torno in camera tuffandomi nella valigia a prendere dei vestiti puliti.

«Ho perso la cognizione del tempo. Faccio in un attimo.»

Afferro l’intimo, i miei jeans comodi, una felpa non troppo pesante e le converse. Mi infilo in bagno e meno di cinque minuti dopo sono già pronta, anche se con i capelli ancora fradici d’acqua.

Rebecca mi osserva con uno sguardo poco convinto. Lei, che ha già di per sè una rara bellezza naturale, sembra essere uscita da una rivista fashion… e indossa di nuovo dei tacchi vertiginosi.

«Mi sono persa qualcosa? Siamo state invitate a una cena elegante?»

«Certo che no. Stasera siamo solo noi due. Anche se probabilmente nelle prossime sere avremo qualche cena importante. Spero che tu abbia un vestito che si abbini con quelle.» ride indicando le mie Converse.

«Tranquilla, sarò all’altezza della situazione.» indico anch’io le sue scarpe, ridendo.

«Adesso andiamo, per favore! Sento che potrei svenire se non addento un kebab maxi in meno di dieci minuti.!»

«Agli ordini capo!»


Festeggiare stasera è d’obbligo! Grazie a un paio di recensioni positive siamo riusciti a trovare un locale a sole due fermate di metro. Appena entrati abbiamo subito capito che era il posto giusto: sembrava la copia del pub di Steve trasportato a Roma! Anche se un poco più piccolo di quello del nostro amico, l’ambiente rimane estremamente familiare. Mi volto verso la ragazza che sta vicino alla cassa con la strana sensazione di vedere che anche lei sia incinta come Bree, ma ovviamente non è così.

Un omaccione ci accoglie con un fortissimo accento romano e ci fa accomodare. Il locale è semi vuoto, perciò ci sediamo attorno al tavolo più vicino al bancone e ordiniamo subito due giri di birra a testa senza aspettare oltre. In meno di venti minuti siamo già su di giri il doppio del normale. Quando arrivano gli hamburger e il nuovo giro di birra, delle poche persone nel locale quando siamo arrivati non c’è più traccia. L’omaccione dello staff si avvicina a noi e inizia a fare conversazione, la solita roba per star simpatico e accalappiare turisti, probabilmente per spennarli il più possibile finché ce la si fa. L’ho visto fare anche a Steve.

Di dove siamo, cosa facciamo, perché siamo qui. Ci chiede di tutto e ad ogni risposta ha sempre un aneddoto divertente su qualcuno che ha conosciuto, che è passato dal locale o semplicemente sul fidanzato dell’amica del cugino del compagno di classe del parente acquisito. Gli spieghiamo che stiamo festeggiando, non gli diciamo cosa per scaramanzia. Dopo un altro giro, Giacomo si lascia sfuggire che siamo un gruppo e lì il ragazzo ci invita vicino al pc per scegliere qualche pezzo insieme “tanto siamo tra di noi”. Chiede chi è il cantante e mi convince ad abbozzare una sottospecie di karaoke su Paradise City, che tra l’alcool e il mancato riscaldamento delle corde vocali esce un mezzo schifo ma va bene uguale, perché nessuno sta realmente ascoltando me. Stiamo solo ridendo come pazzi.

«Fortuna che non devono guidare almeno.» Sentiamo qualcuno dirlo all’interno del locale mentre usciamo, tutti altamente brilli.

Raggiungiamo la strada principale e ci accorgiamo che, nonostante il silenzio che regna, la pizza poco distante dalla metro non è del tutto deserta come pensavamo. Decidiamo di restare un po’ lì a smaltire la sbronza quel tanto che basta per non sbagliare fermata. Osservo i miei amici seduti sulla panchina. Sorridono. Sorrido anche io. Tutta l’ansia dei giorni passati sembra non essere mai esistita. Tutte le cose brutte capitate in questo periodo sono nascoste sotto il tappeto. Per stasera non esistono. Stasera ci sono solo cose belle. Ce l’abbiamo fatta, abbiamo convinto qualcuno a darci una possibilità. La scalata non è ancora finita, ma un gradino è stato salito con successo. Per stasera siamo supereroi dopo una battaglia, che pur consapevoli di non aver ancora vinto la guerra, respirano profondamente e sorridono godendosi la pace sotto un cielo stellato.


«Questo kebab fa schifo!» dice Rebecca mentre cerca di non sporcarsi.

Non so come possiamo sembrare viste dal di fuori stasera noi due. Lei sembra una fashion victim mentre io potrei passare al massimo per la cugina dodicenne e sfigata di Tredici Addams.

«Hai ragione. Potrebbe essere considerato un tentato avvelenamento secondo te?»

«Lo vedremo domani mattina, quando il nostro intestino ci dirà come la pensa al riguardo. Per il momento fa solo schifo.»

Siamo appollaiate sullo schienale di una panchina della piazzetta vicino l’hotel. Ci hanno detto che, pur non essendo centrale, durante il fine settimana è parecchio affollata e anche oggi, per essere un martedì era, è molto più vissuta di certi posti che frequentiamo di solito. Insieme a noi ci sono parecchi ragazzi che campeggiano sulle altre panchine o sulle aiuole. Un ragazzo seduto su un muretto strimpella una chitarra acustica. Io e Rebecca, accenniamo qualche parola quando riconosciamo la canzone che sta suonando.

«Manca Papi e possiamo riproporre Sarabanda!» afferma Rebecca dopo aver mandato giù l’ultimo pezzo di kebab e averlo innaffiato con un bel sorso di birra.

«La indovino con una!» ridiamo insieme.

Passiamo il tempo parlando del più e del meno, conoscendoci di più. Le chiedo di Nico, mi dice che ancora non gli ha parlato dopo l’ultima sera in cui siamo stati insieme. Lui l’ha cercata per tutto il weekend, ma lei non se la sentiva di stare con lui se prima non avessero una volta per tutte definito la loro situazione.

Abbiamo deciso di andare via. Mentre ci allontaniamo dalla panchina, passiamo accanto a un gruppo di ragazzi appena arrivati. Tra loro vedo Tommaso. Scuoto la testa, sorrido, guardo di nuovo, metto a fuoco strizzando un po’ gli occhi. Non può essere lui. Infatti il viso sembra più tondo, i capelli più chiari, le spalle più larghe. Ho preso un abbaglio. Continuo a camminare accanto a Rebecca.

L’ho pensato per tutto il giorno ed adesso lo vedo anche nelle persone che mi passano accanto. Devo essermi presa proprio una bella cotta.





Se siete tra i pochi al mondo a non aver mai sentito, anche solo per "sbaglio", Paradise City dei Guns N' Roses, dovreste recuperare ;)

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Capitolo 33
*** 33 - Ho visto che l’amore cambia il modo di guardare ***




Oggi niente corse da turisti. Ci siamo svegliati con calma e siamo scesi in centro per pranzo, dopo abbiamo semplicemente camminato. Nonostante non sia uno dei soliti periodi di ressa, in giro i gruppi di stranieri non mancano, fortunatamente non sono così tanti da spezzare la magia di queste strade. Abbiamo deciso di salire fino alla terrazza panoramica sul Pincio per poi passare un po’ di tempo tra il fresco degli alberi di Villa Borghese. In confronto, il nostro piccolo parco, che avevo rivalutato pochissimo tempo fa, sembra l’aiuola sfatta dietro casa. La vista dalla terrazza panoramica toglie il fiato, con lo sguardo si abbraccia fino al Vittoriano. Non oso immaginare lo spettacolo che si goda al tramonto. Quando Rose crescerà, voglio portarla qui. Magari non ci vivremo, ma voglio farle godere questo spettacolo e poi guardarla giocare lungo i viali alberati dell’enorme parco. Le panchine sono costellate qui e lì di coppie abbracciate e di anziani che fissano il vuoto. Il silenzio in cui siamo immersi, seppur al centro di una metropoli, è surreale e magnifico.

Giacomo ed Emma sono scomparsi per un po’. Mio fratello non mi ha ancora raccontato nulla ma è lampante come il sole che sia successo qualcosa tra loro ieri. Il fatto che non mi abbia ancora raccontato nulla non fa che confermare quello che so già: Emma non è un capriccio, non è una da riuscire a portarsi a letto solo perché ha fatto la preziosa, non è una cotta qualsiasi. Giacomo è innamorato. Glielo leggo negli occhi. Riconosco quella luce, la stessa che avevo io. Da bravo fratello maggiore sto fremendo dalla voglia di costringerlo su una sedia a dirmi tutto, a sviscerare ogni singola emozione e sentimento per ripagarlo di come si comportava lui con me agli inizi della storia con Simona.

Scendiamo la ripida scalinata per ritrovarci di nuovo in Piazza del Popolo ed Emma ci costringe ad iniziare il classico giro di negozi per lo shopping da ferie, di quelli che vorresti comprare anche roba che non sai cosa sia pur di dire che non l’hai comprata al negozietto sotto casa ma poi ricordi che sei riuscito a stento a chiudere la valigia per la partenza perciò finisci per comprare al massimo una calamita da frigo per tua madre. Mentre lei si catapulta dentro un negozio di saponi biologici dalla cui porta fuoriesce un’abbondante scia profumata, Giorgio ci trascina nel negozio di abbigliamento maschile di fronte.

Una ragazza dello staff ci tiene d’occhio a distanza mentre iniziamo a girovagare per i reparti, ma nessuno si avvicina a noi. Mi chiedo se abbiano un radar speciale per i poveracci come noi che entrano qui aspettando il giorno di potersi permettere anche solo un paio di calzini firmati.

«Sai che non possiamo permetterci neanche l’aria che respiriamo qui dentro, vero?» gli chiede Alfredo.

«Stai scherzando? Stiamo per fare successo, diventeremo ricchi sfondati.»

«Frena ragazzino!» Alfredo ha solo due anni in più di me, ma da quando lo conosco si comporta quasi fosse un padre con Giorgio.

«E fammi sognare un po’, guastafeste!» Giorgio inizia a pescare camicie a caso dalle grucce e fila vero il camerino.

«Io esco a fare la chiamata quotidiana per dare un segno di vita a casa.» dice Alfredo. «So che non è facile ma impeditegli di fare cazzate!»

«Ci pensiamo noi tranquillo.»

Seguiamo Giorgio verso il camerino, mentre Alfredo esce in silenzio dal negozio. Vedo due commesse scambiarsi uno sguardo a metà tra il divertito e lo schifato, come se avessero scommesso su quanto tempo saremmo riusciti a rimanere lì dentro prima che qualcuno dovesse scappare spaventato dai cartellini dei prezzi. Ci accomodiamo su un piccolo divanetto nell’area dei salottini di prova. Sì, salottini di prova, non camerini! C’è anche tanto di secchiello con ghiaccio pronto ad accogliere una bottiglia di vino. Proprio come nei film, solo che per noi resterà vuota.

Mentre Giorgio va dietro la tenda a provare camice oscene che costano quanto due rate di mutuo, io trovo l’occasione giusta per iniziare a fare il mio interrogatorio a Giacomo.

«E allora… come va con la teppista?»

«Con chi?»

«Sai di chi parlo!» gli do una piccola gomitata. «Bionda, occhi ambrati, fisico atletico, carattere da pitbull, bacchette magiche.»

Non risponde, si limita a sorridere sotto i baffi, arricciando le labbra.

«Quindi?»

«Come vuoi che vada? In realtà non c’è proprio niente che deve andare.»

«Non dire bugie, Giacomino! Continui a fare quel sorrisetto ebete e non te lo vedo in faccia dalla terza elementare. Te la ricordi quella? Come si chiamava?»

«Diana Tebisco. L’abbiamo persa di vista poi, vero? Deve essere diventata una stupenda ragazza.»

«Credo di averla vista in qualche foto e, se era davvero lei, non è cresciuta proprio benissimo. Aveva la faccia da ranocchia.»

«Oddio che immagine orribile!»

«Stai deviando il discorso. Come va con Emma? Cosa è successo ieri?»

«Niente di importante.»

«Niente di importante? Con quella faccia? E vuoi anche che ci creda? Vuoi che tiri ad indovinare? Sei andato da lei, avete parlato del più e del meno, di quanto eravate stanchi, delle belle cose che abbiamo visto, forse anche di quando De Blasi si sarebbe fatto sentire.» Mi sforzo di assumere un tono da sexy chat venuta male. «Ti sei distrattamente sdraiato sul letto mentre lei sistemava qualcosa nella stanza, poi è venuta a sdraiarsi accanto a te, innocentemente, continuando a parlare. E a quel punto, splash! Ti sei buttato su di lei, baciandola. Lei è rimasta ferma per qualche attimo e poi ha ricambiato il tuo bacio. Un bacio, si sa, tira l’altro e siete andati avanti a scoprire i vostri corpi, a spogliarvi a vicenda e a ripassare lezioni di anatomia.» Torno al mio normale tono da fratello maggiore. «Almeno fino a quando Giorgio non ha ben deciso di fare il pazzo. Allora vi siete rivestiti velocemente, vi siete precipitati nella nostra stanza e il resto è storia.»

«Tommaso, dovresti vedere un po’ meno film rosa e fare ritorno ai porno.»

«Stai cercando ancora di deviare il discorso. Questo non fa altro che confermare le mie supposizioni.»

«Non è successo niente di quello che hai detto, ti dico.»

«E allora cosa?»

«È… personale.»

Lo guardo, cerca di smettere di sorridere ma non ci riesce.

«Sei innamorato.»

«Non lo so.»

«La mia non era una domanda. Devi solo prenderne atto.» gli sorrido e gli poggio la mano sulla spalla stringendo un poco.

«Lei è così… Mi piace, in un modo che non so neanche spiegare. Prima era solo una cosa fisica. Sai, ha un bel davanzale, un culo che fisserei per ore, degli occhi da perdercisi dentro. Poi però è cambiata qualcosa. Man mano che la conoscevo, le toglievo la maschera da pitbull, come la chiami tu, e intravedevo quello che c’era sotto, la vera Emma. Ed è diventata...»

«...fondamentale.» Completo per lui. Mi ricordo bene quella sensazione.

«Come può una ragazza conosciuta da così poco tempo prenderti così tanto? Non può essere normale.»

«Sarà una strega!» lo prendo in giro.

Ride, lo vedo rilassarsi, come se si fosse tolto un peso. Rido anch’io e penso alla mia strega, a quella ragazza sconosciuta che dal nulla è diventata il centro dei miei pensieri.

«La prendo?»

Giorgio si catapulta tra noi con una camicia bianca decorata da migliaia di piccole aragoste rosse e gialle posizionate a scacchiera, che scatena ancora di più la nostra ilarità mentre lui continua a insistere che è stupenda e a decantare la raffinatezza delle rifiniture e del tessuto.

La ragazza che ci teneva d’occhio prima, si precipita da noi con il volto trasformato dalla rabbia. Nonostante ciò cerca di mantenere il contegno che il suo ruolo in un negozio come quello in cui siamo impone.

«Signori va tutto bene?»

Continuiamo a ridere senza riuscire a risponderle. La vediamo fare un gesto verso l’entrata. Meno di un minuto dopo, un energumeno alto il doppio di noi sta trascinando me e Giacomo fuori dal negozio mentre un secondo armadio spinge Giorgio nel camerino per togliersi la preziosa quanto orribile camicia prima di essere buttato fuori a sua volta.

Troviamo Alfredo davanti all’ingresso mentre parla con Emma che lo ha raggiunto dopo gli acquisti. Giacomo smette di ridere a crepapelle e si da una veloce sistemata ai capelli prima di avvicinarsi a lei e toglierle galantemente la pesante busta di carta che contiene il suo bottino. Vedo il piccolo lampo scoccare all’incrocio dei loro sguardi e un senso di felicità torna a riempirmi.


Un’altra giornata infinita non si decide a voler volgere al termine. Dopo i primi sei appuntamenti in posti diametralmente opposti della città, ho perso il conto. La stanchezza oggi si è fatta vedere anche sul volto di Rebecca che, infatti, ci ha concesso la grazia di rientrare in hotel verso le 17, ben prima di quanto previsto, in modo da poter riposare. Il prezzo da pagare è stato dover spostare l’ultimo e più importante appuntamento della giornata alla sera. “Lei sa bene che noi meridionali abbiamo uno strano rapporto con il cibo, per noi parlare d’affari a cena rende tutto più ufficiale, una specie di contratto sottoscritto dalla divinità della pasta alla norma” sono state le sue precise parole. Poco professionale, forse, ma il suo entusiasmo ha strappato una risata e lo ha coinvolto al punto di accettare. Alla SoftWaiting avrebbe rischiato il licenziamento ed il linciaggio!

Mentre sto aprendo la porta della stanza il mio cellulare squilla. Giulio.

«Dimmi che non state facendo una strage!» dice ancor prima di salutarmi.

«Ciao Giulio, come stai?»

«Starò meglio quando mi rassicurerai che Rebecca non sta distruggendo la reputazione della mia azienda.» So che si fida di lei, sta scherzando.

«Se la sta cavando alla grande.»

«Meno male! Temevo che foste in giro per discoteche e prostituti.»

«Certo, lo immagino. Tu come stai adesso?»

«Mi sto riprendendo. Tu, invece?»

«Mi sto riprendendo anch’io. Ti hanno per caso contattato dalla caserma?»

«No, dopo quel giorno non mi hanno detto più nulla. Hai notizie per me?»

Vorrei dirglielo, ma so che non posso. «No, nessuna.»

«Bene! Allora tenete alto il nome della LambdaDev. Mi raccomando! Mark e Nico vi raggiungeranno domani sera, arriveranno mentre voi sarete alla serata di beneficenza. Saranno con voi all’evento di Venerdì.»

«Perfetto.»

«Tienimi aggiornato se ci fossero sviluppi imprevisti domani, ok?»

«Non dovrebbe farlo Rebecca?»

«Mi fido di Rebecca ma lei tiene a questo evento come a un figlio appena nato. Non ammetterebbe mai che qualcosa si sta mettendo male.»

«Nulla si metterà male, tranquillo. Sei in buone mani.»


«Cerca un posto dove andare a mangiare stasera!» impone Giorgio.

«Siamo appena tornati a casa e già pensi a mangiare?»

«Si! La scelta deve essere accurata. Non voglio finire in una bettola.»

Mi infilo in bagno mentre gli altri ancora litigano su chi deve prendere la responsabilità di farci mangiare bene stasera. Faccio una doccia veloce, per poter infilarmi altrettanto velocemente a letto per riposare un po’ prima di uscire di nuovo stasera per cena.

Il cellulare squilla mentre sono in dormiveglia. Rispondo senza guardare sullo schermo chi è.

«Pronto?»

«Parlo con Tommaso Merisio?»

Improvvisamente il mio cervello si mette in allarme facendomi saltare a sedere sul letto.

«Sì, sono io. Che succede?»

«Sono la segretaria del Signor De Blasi.»

«Non starà chiamando per disdire l’appuntamento, vero?» ne sono realmente preoccupato nonostante cerchi di non darlo a notare.

«In realtà sì.»

«Cosa? Ne… Ne è sicura?» Sento distintamente il rumore del mondo di vetro crollare e le schegge conficcarmisi nella pelle.

«Si, il signor De Blasi mi ha chiesto di informarvi che non è possibile incontrarvi alle 17 in quanto i suoi soci hanno avuto un imprevisto di cui non conosciamo i dettagli. Vi invita a spostare l’incontro e vi ha inviato una mail con maggiori dettagli, ma voleva che vi informassi telefonicamente per essere certo che l’abbiate ricevuta.»

«In realtà non abbiamo ancora controllato.» Non so cosa provare in questo momento. Cosa significa questa telefonata? Cosa succederà adesso?

«Dovrebbe farmi il favore di verificare e ricontattarmi a questo numero.»

«Non mancherò.» riattacco.

Corro nella stanza di Giorgio. «Prendi il cellulare.»

«Cosa? Che succede? Emma doveva cercare il ristorante!»

«Prendi il cellulare. Mi ha telefonato la segretaria di De Blasi, dice che ci ha inviato una mail con nuovi dettagli sull’appuntamento perché non è più possibile farlo alle 17.»

Giorgio mi fissa, non parla per qualche istante, poi afferra il telefono e inizia a cercare la mail.

«Siamo fottuti.»





Non suona tra le righe di questo capitolo, né di questa storia, ma quello che Giacomo cerca di descrivere mi ha fatto venire in mente le parole di Ligabue in Atto di fede perciò volevo lasciarla qui per chi volesse sentirla :)

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Capitolo 34
*** 34 - No panic ***




Le mani di Giorgio tremano come se fosse un ottantenne e il telefono gli sguiscia come se fosse una piccola anguilla appena catturata.

«Eccola!» dopo un bel po’, finalmente, la trova.

«Sbrigati, cosa dice?»

«Ragazzi.» inizia a leggere velocemente, con tono monotono «Purtroppo c’è un cambio di programma, spero non la prendiate male. Dobbiamo spostare il nostro appuntamento… ma non credo che vi dispiacerà più di tanto una volta letto il resto.» Si ferma, scuote la testa, incredulo delle parole successive che lui già ha intravisto e interpretato. «Uno dei miei soci - tra l’altro, è mio fratello - ha un’idea della musica opposta alla mia e, credetemi, so quanto vi possa sembrare strano. Ma questi sono altri affari. Insomma, lui preferisce testare i musicisti nel loro ambiente naturale: davanti a un pubblico. Invece di sentire i vostri pezzi in studio, quindi, vogliono sentirvi live. Domani sera ci sarà una serata di beneficenza a cui parteciperanno diverse band. Vi...» Si ferma di nuovo, sorride.

«Va avanti, Giorgio.» lo incito, fremente.

«Vi abbiamo inserito per quattro brani a vostra scelta. Vi metteremo a disposizione gli stessi strumenti che avete utilizzato in sala. So che non è uguale suonare senza i vostri strumenti, ma se avete preferenze non esitate a dirmelo e vedrò di accontentarvi fin dove possibile. Scegliete accuratamente e fatemi fare bella figura. C’è un foglio di carta su cui mi piacerebbe poter vedere la vostra firma. De Blasi.»

Il silenzio cala nella stanza.

«Siamo sicuri di aver capito bene?» chiede Alfredo che è fino ad ora rimasto impassibile.

«Cazzo.» l’unica esclamazione che riesce a uscire dalla bocca di Giorgio. Da quando lo conosco, le volte che l’ho visto così sconvolto da essere senza parole sono davvero poche e quasi tutte nell’ultimo paio di mesi.

«Io credo che...» Cosa volevo dire? L’ho già dimenticato.

Credevo che ormai fosse finita, che questa mail fosse un modo come un altro per rispedirci a casa nel modo più infiocchettato possibile. Invece De Blasi ci sta facendo salire di livello.

Ricordo cosa volevo dire!

«Credo che dovremmo iniziare a scegliere i pezzi. Che gente frequenta questo tipo di eventi? Cosa può piacergli? Pensate dovremmo cambiare genere, qualcosa di un po’ più commerciale magari? Oppure no, ci distingueremo dagli altri suonando rock duro di fronte a pinguini in smoking? O magari è una serata più informale, in fondo le serate di beneficenza le fanno anche i comuni mortali, no?»

Parlo a ruota libera, senza realmente comprendere il fiume di parole che sta straripando dalla mia bocca. Respiro a stento, senza fare pause. Alfredo si avvicina e mi blocca la testa tra le mani. Con il palmo destro, poi, mi chiude la bocca, coprendo anche il naso.

«Respira Tom! Ti sta andando in pappa il cervello!» mi intima.

Gli scosto la mano dal viso. «Senza la tua grossa mano da bassista a ostruirmi le vie respiratorie sarebbe meglio!»

«Dovevo farlo, stavi iperventilando.»

«Hai visto tre puntate di Dottor House e ti senti un medico. Stavo solo...»

«...avendo un attacco di panico.» mi interrompe «Devo ricordarti da quanto tempo ti conosco? Sei già entrato nel pallone. Come quest’altro qui.» indica Giorgio, fermo ancora a fissare lo schermo del telefono. «Quando sta per più di quaranta secondi in quello stato significa che il suo cervello è già partito per la tangente. Fiù, volato via, non lo becchi più.»

«Secondo me qui l’unico strano sei tu che riesci a stare calmo.» dice Giorgio uscendo dal suo stranissimo silenzio. «Sembra che tu non abbia capito cosa è successo.»

«Non sono per niente calmo e ho capito benissimo cosa succede. Ho capito anche che, se ci ha proposto per una cosa del genere, De Blasi crede davvero in noi perciò l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è farci prendere dal panico e combinare qualche cagata stratosferica. Ne vale anche della sua parola ormai, perciò ci ucciderebbe.» Fa un respiro profondo. «Quindi, a costo di essere ripetitivo, cerchiamo di non cedere al panico e non combinare cagate.»

«Credo che su questo siamo tutti d’accordo.»

«Meglio così. Ecco cosa faremo adesso. Chiamerai la segretaria di De Blasi e sentiremo cosa ha da dirci di più. Le chiederemo anche se in mattinata possiamo usare la sala per le prove, credo che anche su questo saremo d’accordo. Poi ci sederemo tutti attorno a un tavolo e sceglieremo i quattro pezzi da fare in base a criteri che decideremo insieme, se puntare sui classici, su pezzi che ci piace fare o semplicemente su quelli con cui spacchiamo i culi a tutti. Piccolo inciso, io sono per quest’ultima. Domattina andremo a provare e la sera… beh, vedremo cosa succederà, ma faremo sicuramente del nostro meglio. Per prima cosa adesso, però, dobbiamo informare gli altri.»

«Già. Dove si sono cacciati quei due?» chiede Giorgio.

Cerco di nascondere il sorrisetto che mi è nato sulle labbra voltandomi.

«Vado a controllare se ci sono birre in frigo.» mi defilo verso la cucina.

Giorgio, abbandonata la sua rarissima parte taciturna, mi segue a ruota.

«Hai evitato la domanda. Che succede? Dove sono quei due?»

«Non ho evitato la domanda. Sto solo cercando delle birre.»

Apro il frigo. Non mi stupisce trovarlo deserto, solo un paio di bottiglie d’acqua naturale e sul primo ripiano una confezione da sei di birre ancora intatta. Le estraggo, sorridente.

«Visto? Le ho trovate!»

«Non me la racconti giusta. Sai qualcosa su quei due e non vuoi dirmelo. Siamo una famiglia Tom, non possono esserci segreti tra di noi.»

«Di che segreti parlate?» Giacomo compare dal corridoio.

Ha addosso i jeans ma è a torso nudo, è sudato fino ai capelli e ha il viso rosso come dopo un’ora di corsa. Va verso il frigo, prende una bottiglia d’acqua e beve attaccandosi. Sulla schiena dei lievi ma inconfondibili segni di unghie. Sorride, e quel sorriso che potrei riconoscere ad occhi chiusi è solo un’ulteriore conferma.

«Della tua sparizione con una certa signorina.» esclama sornione Giorgio.

«Sparizione? Io ero in camera a dormire. Non so di cosa tu stia parlando.» posa nuovamente la bottiglia e chiude il frigo.

«Certo, dormivi come un angioletto e quei graffi te li sei fatti litigando con il cuscino oppure ti è venuto a trovare Freddy Krueger?»

«Continuo a non sapere di cosa tu stia parlando.» ride e scompare di nuovo nel corridoio.

«Da quando giocano al dottore quei due?» mi chiede appena Giacomo è andato via.

«Giorgio, siamo una famiglia, ma puoi pensare ai fatti tuoi ogni tanto.» lo rimprovero bonariamente. «Adesso pensiamo alle cose serie. Chiamo la segretaria di De Blasi.»

«Io chiamo Steve, credo che glielo dobbiamo.»


L’appuntamento è con uno degli organizzatori della serata di domani. Scherini è uno di quelli che alla SoftWaiting non avremmo mai preso in considerazione, ma per la LambdaDev il suo contributo è fondamentale. La buona riuscita di questa collaborazione per l’evento, ha come scopo finale quello di acquisire in via definitiva una partnership con la sua azienda. La sua è una di quelle che alla SoftWaiting Marco si divertiva a chiamare gallinelle: sosteneva che una espansione troppo rapida inizialmente porta a un declino altrettanto repentino, così le loro chiappe piumate dalle uova d’oro - e giuro che usava proprio questo colorito termine - sarebbero presto state buone solo per il brodo. Non aveva tutti i torti, dopo tutto se inizi a strappare i frutti dall’albero quando è ancora troppo presto rischierai di non avere un buon raccolto, ma l’idea che a mente fredda mi sono fatta è che  Marco applicasse questa filosofia un po’ a caso, più spinto dall’invidia che da una vera e propria analisi delle potenzialità. Giulio, invece, ha una visione positiva della Vel di Scherini. La LambdaDev sta spiccando il volo ma non è ancora ad alta quota, perciò essere partner di una delle agenzie più chiacchierate del momento porterebbe a un salto di qualità nel target che sarebbe possibile raggiungere. Persone come quelle che domani saranno alla serata di beneficenza e che, probabilmente, Venerdì saranno all’evento sull’e-learning che Rebecca sta magistralmente organizzando.

Grazie a due corse di Metro A che abbiamo dovuto saltare perché i vagoni strabordavano già di persone, arriviamo all’appuntamento con circa venti minuti di ritardo. Di Scherini non c’è traccia.

«Credi che non sia ancora arrivato?» chiedo.

«Oppure ci ha dato buca, o è arrivato ed è già andato via.» Rebecca sembra essere già entrata nel panico.

«Se è andato via significa che non è mai uscito con una donna.» cerco di stemperare la tensione. «Non sa che la nostra natura stessa ci impone di farci desiderare?»

Rebecca non sembra neanche ascoltarmi, continua a vagare con lo sguardo tra la folla in questa piccola piazza, sperando disperatamente di vedere il volto di Scherini materializzarsi.

«Giulio mi ammazzerà.»

«Rebecca abbiamo solo venti minuti di ritardo.» aggiungo seria, sperando di farla ragionare «Non è andato da nessuna parte e non ci ha dato buca, è solo più in ritardo di noi.» Non arrivo quasi a terminare la frase che lo vedo avvicinarsi a noi. «Eccolo, vedi? Tutto andrà bene. Ora respira e ricuciti addosso le palle che hai avuto fino a stamattina.» le faccio l’occhiolino.

«Signore, ve stavamo a aspettà!» ci saluta Scherini con il suo fare cordiale, in un romanesco che riesce sempre a mettere allegria. «Abbiamo preso er tavolo, seguiteme. Questa è a migliore trattoria de tutta Roma. Noi nun parlamo de sordi a tavola de solito, ma lei m’ha detto che pe voi ‘na cena è ‘n contratto cor dio de la panza e se è vero, questo è er posto giusto pe noi. Movemose, daje.»

Al tavolo sono già accomodati altri due uomini. Non oso immaginare cosa passa per la teste degli altri clienti mentre vedono due ragazze giovani agghindante più del dovuto rispetto all’ambiente fin troppo rustico del locale andare ad aggiungersi ad un trio di sessantenni.

«Questi sò Antonio e Andrea, i miei soci.» ci presenta i due commensali. «Sò fratelli, anche se non s’assomigliano pe niente.» ride.

Io e Rebecca ci scambiamo uno sguardo dubbioso e rispondiamo con un cenno del capo. Ci accomodiamo sulle piccole sedie di legno.

Il cameriere, riconoscibile per la polo blu con il nome della trattoria stampato sul lato del petto, si precipita da noi richiamato dallo stesso Scherini che, senza domandare, ordina per tutti.

«Spero che non v’offennete, ma me sò permesso de ordinà pure pe voi, pe favve conosce la tavola nostra.»

«Dante, per favore, basta con queste cerimonie.» lo interrompe quello che sembra il più giovane dei due. «Scusatelo, si agita quando è a cena con degli ospiti, specialmente se sono belle donne come voi due.»

«Specialmente se si parla di affari, aggiungerei.» si intromette l’altro.

«Sì, scusate, a proposito di questo...» Rebecca si schiarisce la voce per riuscire a superare il brusio che deriva dal locale pieno di gente. «Signor Scherini mi sembrava di aver capito che lei fosse socio unico della Vel.»

«Vi turba la presenza di altre persone?» il più anziano lo dice fissando Rebecca come se tentasse di leggerle dentro.

«Assolutamente no.» intervengo per aiutarla. «Stavamo chiedendo un chiarimento, per verificare che le nostre informazioni siano concrete prima di procedere con la vera proposta. Ci piace semplicemente avere chiaro il quadro prima di pensare a lucidare la cornice.»

Adesso fissa me. Reggo il suo sguardo in silenzio, fin quando non sembra soddisfatto e si rilassa sulla sedia sorridendo.

«Dante, queste due - scusate il francesismo signore - hanno le palle. Qualsiasi cosa ti debbano proporre, credo valga la pena di valutare.»

«Signore ve spiego subito a situazione.» si schiarisce la voce e ritorna l’uomo d’affari che abbiamo incontrato nel pomeriggio. «Antonio e Andrea sono miei soci, o per meglio dire io sono loro socio, presso un’altra azienda che non ha quasi nulla a che vedere con la Vel se non qualche ovvia collaborazione quando le circostanze lo permettono. Nonostante non siano soci della Vel, sono qui in veste di… consiglieri? Forse non è il termine corretto ma è l’unico che mi viene in mente. Inoltre sono coinvolti nell’evento di domani di cui credo dobbiamo discutere. Come ciliegina sulla torta, siete al cospetto di uno dei più famosi cani da tartufo per gli affari: avrete sentito parlare di De Blasi. Bene, siate fiere di avere passato il suo test. E adesso...» si sbraca sulla sedia e torna il romanaccio che ci ha accolto «...pensamo a magnà e parlamo de cose serie.»


Durante la cena arriva un messaggio, è Diego, chiede come va. Non ci sentiamo dalla notte prima della partenza. Sono uscita di casa in silenzio, mentre lui ancora dormiva accoccolato nel mio letto. Mentre l’aereo decollava mi sono sentita in colpa, lo immaginavo svegliarsi nella casa vuota e maledirmi con tutta la rabbia che riusciva a trovare. Se ha aspettato due giorni prima di scrivermi, non mi sono sbagliata. Gli rispondo che va tutto bene e che sono fuori con un cliente, sperando mi creda.

Al ritorno da questo viaggio dovrò iniziare a cercare sul serio un appartamento dove trasferirmi quanto prima. Gli voglio bene e non so cosa avrei mai fatto senza di lui, è tutto quello che di buono resta del mio passato, ma non possiamo più andare avanti così.

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Capitolo 35
*** 35 - Cosa resterà? ***




Non dimenticherò mai il mio primo evento di beneficenza. Avvenne durante il tirocinio obbligatorio per il corso di laurea ed io ero ancora una sbarbatella piena di sogni convinta che con duro lavoro ed impegno si riuscissero a battere le raccomandazioni. Le uniche serate di beneficenza a cui avevo assistito erano state quelle delle serie tv pomeridiane con protagonisti ragazzi pieni di soldi con nient’altro da fare che incasinarsi la vita per dimostrare che anche i ricchi piangono, per cui ne avevo un’idea abbastanza differente da quello che mi trovai ad affrontare. Avevo in mente un enorme salone con colonne altissime e una vistosissima scala all’ingresso, luci calde ad illuminare gli ampi spazi riempiti da invitati che danzavano accompagnati da una piccola orchestra, tavoli laterali dedicati al buffet e camerieri che girovagavano offrendo stuzzichini agli ospiti, un open bar poco distante per poter avere il proprio cocktail servito da gellatissimi camerieri con il papillon. Mi trovai, invece, ad affrontare una grigliata in piena campagna, circondata da pollame svolazzante e giostrai. Da allora ho capito che, anche se si tratta di lavoro, bisogna informarsi sul tipo di serata prima di decidere se indossare le tacco dodici laccate.

Stasera, fortunatamente, non ci saranno di queste sorprese. Il tema sono gli scontati anni ‘80, di certo non il preferito tra quelli a cui ho partecipato ma credo che ci sarà comunque da divertirsi. Rebecca ha preso la cosa fin troppo sul serio e, a parte il colore di capelli, sembra una sosia quasi perfetta di Madonna sulla cover del suo primo album.

«Dove hai preso quella roba?» le dico ridendo.

«Quasi tutta roba mia, qualcosa l’ho presa dieci minuti fa in un negozietto qui vicino.»

«Sei uscita senza dirmi nulla?» le chiedo mentre mi tampono i capelli bagnati prima di iniziare ad asciugarli.

«In realtà sono uscita a prendere qualcosa per te. Sapevo che non avresti avuto niente da mettere.»

«Che dici? Io mi sono già organizzata. Jeans, maglietta bianca, sneakers, i miei ricci sono già cotonati di loro ed esagererò un po’ con il trucco. Più anni ‘80 di così si muore.» dico mentre passo il phon a testa in giù.

«Sei noiosa Ram! Qual è la tua icona anni ‘80? Quella palla di Brenda di Beverly Hills?»

«Prima di tutto, Brenda non era affatto noiosa. E poi tu non sei un po’ troppo giovane per ricordarti di lei? Io già la ricordo a stento.»

«Dettagli! Per il momento dobbiamo solo pensare a cosa io ho deciso a insindacabile giudizio di farti indossare stasera.» Poggia un enorme busta di carta sul letto. «Trovi tutti lì dentro. Torno tra mezz’ora a vedere cosa hai combinato e a riparare i tuoi danni.»

Con i capelli ancora umidi osservo la busta che mi guarda minacciosa. Ho quasi paura di scoprire cosa ci troverò dentro!

«Giuro che se c’è una giacca con le spalline o un completo fluo, la strozzo!» dico alla stanza vuota mentre inizio a spacchettare il suo regalo.

Indosso quello che Rebecca ha scelto per me storcendo un po’ il naso, ma quando mi osservo allo specchio noto che questo stile non è niente male. Nient’altro che pantaloni di pelle nera (e finta) accompagnati da un gilet dello stesso materiale e da una canotta di rete con una fascia coprente per il seno. Senza i miei chiletti di troppo e con un bel po’ di addominali fatti regolarmente sarebbe senz’altro una meglio, ma il risultato nel complesso non è male. Da una scatola tiro fuori anche degli stivaletti a caviglia con la suola a carrarmato ma senza tacco, in contrasto con il caldo della serata ma perfettamente in armonia con il resto.

Puntuale come un orologio svizzero, Rebecca si ripresenta in stanza. Mi rivolge quello che interpreto come lo sguardo di un inventore orgoglioso della propria creatura. Riesco a convincerla a non esagerare con il trucco visto che tutto il resto è già abbastanza estroso per cui riesco a strappare un trucco semplice sugli occhi con solo una bella riga di eyeliner nero anche se non riesco a farla desistere sul rossetto fucsia. I capelli, per fortuna, le piacciono quindi i miei ricci rossicci non subiscono nessuna pesante tortura se non qualche ritocco: la riga un po’ più verso sinistra, due mezze trecce sul lato non coperto dai capelli e, prima che riesca a dirle di no, mi aggancia un fiocco, fortunatamente non troppo grande.

Spero solo che gli altri ospiti abbiano preso sul serio il tema quanto lei, così potrò confondermi in mezzo alla folla e, chi lo sa, potrei anche sembrare normale!


L’ambiente è stato addobbato in armonia con quelli che sono stati gli anni più stravaganti che siano mai esistiti, sono riusciti a riprodurre le mille sfaccettature che hanno fatto dei camaleontici ‘80 uno dei periodi più famosi e rimpianti di sempre. I ragazzi e le ragazze del catering che stanno terminando di allestire i tavoli del buffet, sono vestiti per metà da protagonisti di Grease e per l’altra metà in stile punk o rock. Visti tutti insieme formano un mix che ha del surreale: non ci si crede che stili tanto diversi abbiano cavalcato l’onda quasi simultaneamente.

Non prevedevamo di partecipare ad una tale serata, ma fortunatamente il nostro stile è perfettamente adeguato. Ho la vaga sensazione che De Blasi lo abbia fatto apposta. Per quanto è potente la sua influenza, potrei anche supporre che abbia convinto chi ha organizzato la serata a creare la situazione giusta per noi. Non dovrei essere tanto sicuro, forse.

Ci aggiriamo per il salone, finché una giovane donna non ci viene incontro. Lei non è per nulla in tema con la serata, stretta nel suo compostissimo tailleur e con un’elegante collana di perle che le corre intorno al collo. Ha in mano una cartelletta di plastica e ci punta con passo fermo.

«Siete i ragazzi di Antonio?» ci chiede.

«Sì.» risponde Giorgio, sovreccitato da tutta la situazione.

«Bene. Sono Carrie, la segretaria di De Blasi, ci siamo sentiti per telefono. Seguitemi, vi accompagno nel backstage.»

Ci accompagna lungo un corridoio pieno di porte fino ad una stanza con una targhetta su cui c’è scritto “Gruppi Musicali”.

«Eccoci qui. Per quanto riguarda il check audio, credo che i tecnici audio abbiano praticamente finito, vi chiameranno tra poco.» Si ferma a guardare l’orologio. «L’evento inizierà ufficialmente tra due ore e mezza, quindi dovrete fare in fretta, non potrete provare tutti e quattro i brani, ma questo sicuramente lo sapete meglio di me. Tra poco arriveranno anche gli altri. In totale sarete quattro gruppi ad esibirvi stasera. Questa purtroppo è l’unica stanza che ci hanno fornito come camerino per tutti voi, perciò dovrete condividere lo spazio. Se non mi sbaglio voi sarete i terzi ad esibirvi e considerato che tra un’esibizione e l’altra sono previsti altri interventi, inizierete molto in là con la serata quindi se quando inizierà l’evento vorrete recarvi in sala per cenare o anche solo per non stare chiusi qui dentro, sentitevi liberi di farlo. Vi chiediamo solo di essere qui dietro almeno al termine dell’esibizione del secondo gruppo e, ovviamente, al momento vi consiglierei di non andare via di qui prima di aver fatto il check audio. Per il resto, il bagno per gli artisti e il resto dello staff è in fondo a questo corridoio a destra. Credo di avervi detto tutto. Avete domande?»

«Il signor De Blasi è già qui?»

Carrie fa un mezzo sorrisetto, come se volesse esprimere con il solo sguardo tutta la compassione per la mia ingenuità.

«Non credo che arriverà prima dell’inizio della serata. Adesso, scusatemi, ma ho una baracca da mandare avanti. Se doveste avere richieste o problemi, potete rivolgervi alle hostess in sala. Le riconoscerete facilmente: saranno le uniche ad avere un aspetto normale stasera.» dicendolo ci guarda con una vena leggermente snob, come se pregasse il cielo che il nostro aspetto non fosse quello tutti i giorni, e poi va via.

Giacomo si getta a peso morto su uno dei divani.

«Ci pensate che questo un giorno potrebbe essere la nostra vita?» esclama entusiasta Giorgio.

«Il nostro futuro sarebbe uno sgabuzzino diviso con altre venti persone? No, grazie.» risponde Giacomo mentre ha la faccia immersa nel cuscino.

Ridiamo e la strana tensione che ci sentivamo addosso si scioglie.

Qualcuno bussa alla porta, dalla soglia si affaccia quella che dovrebbe essere una delle hostess.

«Ragazzi, quando volete i tecnici sono pronti per il check.»


«Che ne pensi?» chiede Rebecca sorridendo raggiante.

«Penso che ammiro sempre di più il tuo entusiasmo!» mi sforzo di emulare al meglio la sua espressione. «Devo essere l’unica persona al mondo a ringraziare il cielo di non aver vissuto negli anni ‘80 a quanto vedo.»

Intorno a noi, i molti partecipanti già arrivati, si scatenano tra luci stroboscopiche, palle specchiate, body attillati, giacche di pelle e capelli cotonati che sfidano la gravità, al ritmo di “All night long”.

«Spera che restino sulla musica straniera...» annuncio alla mia gasatissima collega «...se sento partire il “Gioca Jouer” o “Cicale Cicale”, giuro che mi sparo un colpo in testa!»

«Da quanto ho capito, De Blasi si è interessato sia del dj set che dei live. Mi sono informata sul tipo di musica che tratta e, anche se spazia tra vari generi, non credo che sia un grande fan di Heather Parisi.»

Prendo il foglio con il programma della serata che ci hanno dato all’entrata e lo leggo velocemente cercando di non farmi esplodere le cornee a furia di stampe animalier.

«Credo che sarà meglio di come mi aspettassi.» commento. «Tutta roba seria. Questo Se Blasi ne capisce sul serio: Aerosmith, Madonna e, guarda qui, addirittura il Re, Michael Jackson. Spero solo che non lo facciano rivoltare nella tomba! Le cover band mi fanno un po’ temere, sono sempre un grandissimo punto interrogativo.»

«Ti divertirai, te lo assicuro io. Secondo me rimorchierai pure, sei uno schianto stasera.»

«Se lo dici tu.»

Rebecca mi regala un enorme sorriso eccitato, alza i pollici e si intrufola in mezzo ai ballerini. Resto a guardarla dal ciglio della pista, cercando di ricordare da quanto tempo non riesco a sciogliermi ballando. Da quando mi imbarazza la possibilità che qualcuno mi guardi ballare? Eppure, in un tempo non molto lontano, stare su un palco a fondermi con la musica era tutto ciò che avrei voluto fare per l’intero scorrere della mia vita.

La voce di Lion Richie viene sostituita dal sound molto più deciso di “My Sharona”. Il ritmo di questa canzone e la batteria incalzante mi hanno sempre trasmesso allegria ed energia. Inizio inconsapevolmente a muovermi a ritmo, in modo discreto, senza spostarmi dal ciglio della pista, ma Rebecca mi nota. La vedo illuminarsi ancor di più, mi viene incontro e mi trascina per i polsi al centro della pista. Resto immobile, ridendo imbarazzata, ma lei non demorde finché non mi lascio andare a un balletto poco ispirato ma molto divertito insieme a lei. Continuiamo a ballare finché il dj annuncia che sta iniziando lo show della prima cover band: una ragazza giovanissima interpreterà le canzoni dell’affermatissima Madonna. Una bella sfida non c’è che dire.

«Prendo da bere. Ci rivediamo qui, non muoverti.»

Rebecca, si fa largo verso il bancone del bar lasciandomi da sola. Sto ancora sorridendo, non credevo di potermi divertire così a una serata del genere, eppure mi sento frizzante.

Le poche luci colorate vengono spente. Mi volto verso il palco totalmente buio. Un unico fascio di luce viene acceso, accompagnato da un brusio lungo il pubblico. Sul palco la ragazza è in piedi posta di profilo al centro di un mare di morbido tulle bianco, sulla sua testa spicca un diadema da cui parte un lungo velo che la avvolge completamente ma lascia intravedere un corsetto bianco che a stento copre un seno molto voluminoso e una gonna morbida ma estremamente corta da cui fuoriescono delle gambe chilometriche che finiscono in delle scarpe dai tacchi vertiginosi. Mentre inizia a cantare “Like a Virgin” tutti attendono già con ansia il momento in cui deciderà di eliminare il velo che la copre e mostrare a tutti il suo aspetto tutt’altro che casto. Mi concentro sulla sua voce, un po’ troppo acuta per ricordare quella della grande icona anni ‘80. Peccato.

Sento una presenza fermarsi accanto a me. Non è Rebecca, altrimenti l’avrei già sentita urlare per l’esaltazione probabilmente. Vado leggermente in avanti per lasciar posto, ma la presenza si avvicina di nuovo. Faccio un altro passo in avanti, ma ottengo lo stesso risultato. La cosa inizia a darmi fastidio, odio le persone invadenti che devono starti appiccicate. Resto immobile, irrigidita, sperando che se ne accorga e si sposti, ma l’effetto è contrario. Si avvicina ancora di più, mi si appoggia contro la schiena e mi poggia una mano sulla spalla.

Mi scosto, voltandomi di scatto, con uno sguardo inceneritore, ma lo trovo lì che mi osserva con il suo solito sorrisetto sornione e il suo sguardo prepotente. Il cuore inizia a battermi in modo disumano, sento le gambe farsi molli e devo combattere con molta forza contro il mio sistema nervoso per bloccare il tremore che sento pronto a partire.

«Ciao nanetta.»

La sua voce sa ancora farmi venire i brividi, anche se ben diversi da quelli che mi provocava un tempo. Per un breve attimo, mi ero convinta che fosse impossibile trovarlo qui. Ma non è stato così.

Cerco di restare fredda, distaccata. Non è il luogo adatto per scenate o crisi isteriche. Dentro queste mura non sono la ragazzina delle medie, né la giovane donna la cui vita è stata distrutta da un incidente. Sono Ramona Centini, la professionista, quella che lui ha tentato di distruggere ma che oggi è ancora in piedi.

«Ciao Dario.»







Di seguito i link per ascoltare le canzoni del capitolo appena letto:

Il titolo è ovviamente ispirato alla famosissima Cosa resterà di questi anni '80? di Raf, anche se leggermente fuori tema come ritmo :)

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Capitolo 36
*** 36 - Angeli e demoni ***




«Non trovi appropriata questa colonna sonora per il nostro nuovo incontro? Sembra surreale che ci ritroviamo a sentir parlare di vergini dopo quello che è successo l’ultima volta tra noi, non trovi? Come stai? Novità su quel fronte?» mi chiede.

Lo fisso senza dire una parola. Dario è rimasto il solito stronzo arrogante, pieno di sè come un palloncino che sta per scoppiare, tanto egocentrico quanto egoista, incapace di mostrare considerazione per chicchessia. Purtroppo non è cambiato neanche il suo essere maledettamente bello, con il viso dai lineamenti decisi, la barba appena rasata, gli occhi azzurro cielo che sembrano brillare di luce propria, il fisico perfetto da far schifo che si percepisce anche adesso che è al buio vestito in total black. Non so perché mi tornano in mente le immagini di quel pomeriggio alle medie in cui per la prima volta abbiamo lavorato insieme e poi di tutti quelli che ne seguirono a scambiare messaggi e a lanciarsi sorrisi durante la ricreazione. Non posso credere che quel bimbo in realtà così timido e dolce sia diventato l’uomo brutale che ho di fronte stasera e che ha stravolto la mia vita.

Continua a fissarmi con un sorriso malizioso e malevolo. Gli piace vedere che non riesco a rispondergli, è un animale che sente l’odore della paura e ne gode, se ne nutre come un parassita del suo ospitante. E, anche se ho cercato di non ammetterlo neanche a me stessa, lui ancora mi fa paura. Dario Simoni riesce ancora a mettermi in soggezione. Quanto posso essere stupida e debole?

Vedo Rebecca tra la folla, tra poco arriverà da noi e sento chiaramente quanto potrebbe essere deleterio il suo incontro con lui. In poche settimane è riuscito a distruggere la mia carriera alla SoftWaiting, non posso permettergli di provarci ancora. Rebecca non deve conoscerlo, non deve vederlo, non deve neanche sospettare della sua esistenza. Tanto meno lui deve sapere che sono qui per lavoro, il pensiero non deve neanche sfiorarlo altrimenti non si darebbe pace e continuerebbe a cercare un ulteriore modo per schiacciarmi. Devo riuscire a farlo allontanare e poi trovare il modo per sparire senza rovinare la serata a Rebecca o minare le possibilità della LambdaDev di far affari con Scherini e i suoi soci.

Non ho molto tempo per pensare perciò decido semplicemente di non farlo. Ancora senza nulla, mi sforzo di mimare un’espressione sull’orlo di una crisi di pianto, mi volto e mi allontano a passo svelto dalla pista verso una delle uscite che dà sul giardino. Gli anni passati a conoscerlo danno i loro frutti: in preda alla sua voglia di farmi ancora più male, mi segue  gongolando della sua presunta forza. A questo punto spero solo che Rebecca non si metta a cercarmi.


«Ma la sentite?» urla uno pseudo Steven Tyler, ridendo come un matto. «Se riescono ad applaudire lei per noi faranno crollare il palazzo!»

«Lasciala stare, è solo una ragazzina.» risponde il suo batterista, con la lunga mosca sotto il labbro come il vero Joey Kramer.

«Sai che gli farei io alla ragazzina?»

Decido che non voglio sentire altro da quei due e mi avvicino di più ai miei ragazzi. Adesso che siamo qui dentro con gli altri cinque della tribute band agli Aerosmith, la stanza inizia a starci un po’ stretta.

«Dove si sarà cacciato il Jackson-cubo?» chiede poco elegantemente Giorgio riferendosi alla stazza parecchio cicciottella del ragazzo che interpreta il King of Pop.

«Ha detto che usciva a prendere aria e ad ogni parola di quei due impasticcati laggiù mi convinco che abbia fatto bene.» Guardo l’orologio. «La ragazza ha iniziato da un paio di brani. Non dovremo esibirci prima di un’ora o forse più. Che ne dite di fare un giro in sala a rubare qualcosa dai banchi della gente ricca?»

Nessuno ha obiezioni al riguardo. Due minuti dopo giriamo già con i piatti pieni in mezzo a gente impegnata a far finta che gli ultimi trent’anni o giù di lì non siano mai passati. Non ho mai gran voglia di mangiare prima di un’esibizione, ma il fascino del buffet gratuito vince su tutto. Giorgio afferra un flûte di aperitivo analcolico poggiandolo in equilibrio sul piatto carico, sfiora la tragedia quando rischia di rovesciare tutto passando accanto a una sfrenata ed eccentrica cinquantenne vestita di bianco, ma riesce ad arrivare con il suo bottino sano e salvo dall’altro lato della sala.

«Per essere ricchi, fanno delle porzioni veramente da fame!» osserva con aria disgustata «Ho dovuto prendere quattro tramezzini per farne uno di dimensioni umane.»

«Mangiare non è chic!» risponde Emma scimmiottando i figli di papà.

«La mia pancia è poco chic e va benissimo cosi!» risponde lui addentando maleducatamente un sandwich e iniziando a masticarlo con la bocca aperta, proprio appiccicato al viso di lei che non riesce a smettere di ridere.

«Ecco MJ! È fuori in giardino.» ci informa Giacomo. «Guardatelo! È teso come una corda di violino, non riesce a star fermo.»

«Mi chiedo perché noi non siamo ugualmente ansiosi.» risponde Giorgio continuando a mangiare.

«Parla per te!» allungo la mano a mezz’aria per fare vedere come sto tremando. Ho cercato di non darlo a vedere finora, ma l’esito di stasera è davvero troppo importante per non agitarsi.

«Cos’è? Principi di Parkinson?» cerca di sdrammatizzare Giorgio. «No, davvero. Non puoi essere così agitato. Abbiamo suonato in pubblico non so più quante centinaia di volte. E siamo grandi, lo sai.»

«Sì, ma stasera ammetterai che non è la solita serata al pub di Steve, no?» indico nuovamente la sala piena di gasati più o meno attempati con un ampio gesto del braccio. «Non mi sembra che qui ci sia il nostro pubblico né tanto meno i nostri amici.»

«Tom, sei il nostro frontman, non puoi essere tu ad avere la tremarella.» mi incita Alfredo. «Non vederla come un colloquio di lavoro perché non lo è. Se siamo qui significa che il colloquio lo abbiamo superato, De Blasi non avrebbe mai rischiato una figuraccia né avrebbe perso il suo tempo con noi se non credesse che piaceremo anche ai suoi soci. Perciò adesso vai lì, dove è MJ, stai un po’ a prendere fiato come lui, ti schiarisci le idee e poi torni qui e spacchi. Ci siamo capiti?»

Non rispondo, mi limito ad annuire con un gesto del capo. Come sempre, Alfredo dimostra di sapere cosa dire e quando dirlo. Non servirà a nessuno che io me la faccia sotto e rischi di sbagliare, nella serata che potrebbe significare tutto per noi. Devo sciogliermi, renderla più easy. Quando mi vedeva troppo teso prima di una serata, Simona aveva i suoi metodi per farmi rilassare. E sì, funzionavano!

Mi scappa da ridere. Ci ho pensato davvero? E davvero ci ho pensato senza accompagnarlo con un senso di rabbia? Davvero lei ormai non è altro che questo? Non c’è più amore in me per lei, né odio, né rancore. Solo ricordi conditi di nulla.

C’è un’altra cosa che ha sempre funzionato per sciogliere la tensione. Vado in fretta all’open bar e chiedo due Vodka-tonic. Li afferro entrambi e vado fuori. Incrocio MJ, che è rientrato in vista della sua prossima esibizione. Sono da solo. L’aria è fresca, ma un velo di umidità la rende più pesante. Sento l’erba crepitare sotto la suola delle scarpe mentre mi incammino verso uno degli alberi. Mi siedo accanto alle radici, incrocio le gambe e butto giù il primo vodka-tonic come fosse acqua liscia. Lo stomaco mi brucia per la botta improvvisa. Scivolo con la schiena appoggiata lungo il tronco finché non ho una buona visuale del cielo. Porto alle labbra il secondo bicchiere e lo sorseggio piano, fissando il telo blu della notte. Peccato che di stelle se ne vedano poche, c’è qualche nuvola che disturba lo spettacolo. Il bruciore allo stomaco viene sostituito da una piacevole sensazione di calore che dall’ombelico si dirama al resto del corpo. La testa si fa meno pesante e l’ansia sembra solo un lontano ricordo. La vodka a stomaco vuoto è sempre stata meglio di una camomilla!

La musica arriva alle mie orecchie ovattata e si mescola con il suono che fa la lieve brezza che si è alzata andandosi a infiltrare tra le foglioline d’erba che tremano al suo passare. Le nuvole camminano placide coprendo quel po’ di meraviglia che si riusciva ad apprezzare. Che palle! Stacco lo sguardo dal cielo e mi osservo intorno. Il giardino che sembrava così piccolo guardandolo dall’interno, in realtà si trasforma in un piccolo boschetto preceduto da una piccola siepe che impedisce di capire quanto sia profondo. Scruto gli alberi di fronte a me, ma non un raggio di luce li attraversa. Sento muovere le foglie e mi convinco che ne stia per uscire un cagnolino o un gatto, sorrido aspettando che arrivi pronto a regalargli due coccole prima di rientrare. Le foglie rumoreggiano più forte e la siepe si muove come se stesse per cadere. Ne esce fuori una coppia abbracciata, tanto stretta da non riuscire a distinguere i contorni di nessuno dei due. Istintivamente decido di voltarmi, più per mio pudore che non per il loro, è possibile che siano tanto ubriachi da non accorgersi neanche di me. Mi alzo e, dopo essermi spazzolato un po’ i pantaloni con le mani, afferro i due bicchieri di plastica. Quei due non fanno il minimo rumore, si sentono appena dei mugolii. Sorrido pensando a quando anche io finivo le feste appartato in giardino con Simona. Mi avvio verso l’entrata cercando di non far troppo rumore per evitare di disturbarli.

«Aiuto.»

Appena prima di chiudere la porta finestra nuovamente alle mie spalle, qualcosa di strano mi blocca. Non sembrava un mugolio, ma potrebbe essere stata la mia immaginazione. Resto fermo sulla soglia aspettando di sentire qualcos’altro.

«Aiuto!»

«Zitta, stronza.»

Stavolta sono certo che non può essere solo frutto della mia mente. Torno sui miei passi e torno a guardare il giardino. I due non ci sono più. Mi concentro sul boschetto per vedere se qualche movimento possa farmi capire dove si siano cacciati. Chiudo la porta fingendo di essere rientrato e aspetto in silenzio una traccia da seguire.

I mugolii ritornano ma questa volta sono chiaramente lacrime soffocate. Tendo l’orecchio, ma non riesco a capire dove si trovi.

«Aiuto...» lo sento di nuovo, più flebile, quasi rassegnato.

Il rumore di una zip che scende mi fa gelare il sangue nelle vene.

Vaffanculo, devo muovermi. Non cerco più di far piano. Chiunque lui sia e qualsiasi cosa stia facendo, spero che mi senta e si fermi. La siepe si muove all’improvviso, allungo il passo per raggiungere il posto.

Non guardo la scena, con una forza che non ho mai avuto sollevo di peso il ragazzo e lo spingo lontano. Cade a terra, ma il suo sguardo non è per nulla sorpreso o spaventato. Sorride, mi sta sfidando.

«Tranquillo, ce n’è per tutti.» dice fissandomi negli occhi mentre si rialza.

Sento le ragazza piangere alle mie spalle.

«Stai zitto, pezzo di merda.» Quasi non credo di essere davvero io a parlare. L’adrenalina miscelata alla vodka può davvero fare miracoli. «Ti senti uomo? Ti senti forte? Prenditela con uno della tua stazza.»

Il suo ghigno non cessa, mi si avvicina a passo sicuro mentre le mie gambe iniziano a ricordarsi che la vodka le ha fatte rammollire. Lo osservo e mi chiedo che cosa cazzo mi sia passato per la testa: non mi ero accorto che fosse più alto di me e, a quanto fa capire la maglietta attillata, molto più muscoloso. Mi fissa negli occhi senza cedere la sfida, il  mezzo sorriso bastardo gli inarca le labbra verso destra. Guarda per un attimo alle mie spalle, verso la ragazza.

«È tutta tua.» sussurra.

Mentre si allontana senza voltarci le spalle, non smette di ridere.


Non posso crederci. Non so di cosa essere più stupefatta, di essere stata tanto iellata da incontrarlo proprio adesso che mi sono liberata di un altro psicopatico, di essere stata tanto stupida da credere che ritrovarmi da sola con Dario fosse una situazione che potevo controllare o di essere stata salvata dall’ultima persona che mi sarei mai aspettata di incontrare.

Non si è mosso finché non l’ha visto scomparire dietro la porta finestra e perdersi di nuovo tra la folla. Si è voltato verso di me, ha sgranato gli occhi e non ha detto una parola.

«Grazie.» Con poca grazia mi sollevo da terra, spolvero i vestiti con le mani, controllo che non ci siano strappi.

Tommaso continua a fissarmi, come se non mi stesse realmente vedendo.

«Strano ritrovarsi così, vero?» cerco di rompere l’atmosfera di gelo che ancora è tangibile.

«Sei...» lo dice così piano che lo sento a stento.

«Ti sei già dimenticato di me?» gli chiedo, non credendoci davvero.

«Sì… No... Cioè… cosa ci fai qui?»

«Mi faccio buttare a terra da ragazzi poco raccomandabili.» Mi pento di questa battuta di quarto grado non appena finisco di dirla. Stringe le sopracciglia in uno sguardo di rimprovero. «Scusami, volevo solo sdrammatizzare. Sono a Roma per lavoro con una mia collega. Abbiamo un evento aziendale domani sera e stiamo cercando di intraprendere una partnership con gli organizzatori di questa serata di beneficenza. Non immaginavo certo che finisse così, mi pare inutile sottolinearlo.»

Ancora silenzio.

«Stai bene?» mi chiede infine.

«Grazie a te, sì. Mi hai salvato. Sembra che tu sia molto bravo in questo.»

«E che tu sia molto brava a cacciarti nei guai.»

Lo dice che con un tono un po’ troppo forte, lo stomaco mi si contrae.

«Beh… io...»

«Scusa Ramona, non volevo insultarti. Ho bevuto a stomaco vuoto e sono anche parecchio in ansia. E questo...» passa entrambe le mani tra i capelli «Sicura di stare bene?»

«Io sì, te lo giuro. Tu, però, mi stai facendo preoccupare.»

«Non volevo. Tutto questo mi ha fatto salire l’adrenalina d’improvviso e non sto riuscendo a calmarmi al momento.»

Seguo l’istinto e gli prendo le mani, entrambe, le stringo tra le mie.

«Stasera ho incontrato uno dei demoni del mio passato e credo che tu sia diventato una specie di mio angelo custode, Tom. Ti racconterò cosa è successo non appena sarà il momento, ma adesso devi solo respirare profondamente e fare quello che sai fare meglio.»

«Intendi, salvarti dai piccoli psicopatici che ti circondano?» gli scappa una piccola risata.

«Non te la prendere, ma spero che tu non debba più farlo.» rido anch’io.

Sto tenendo ancora le sue mani. Tom mi attira verso di sé, mi abbraccia, mi stringe a sé forte, accarezzandomi la schiena attraverso il giubbino.

«Ti sei calmato un po’?» gli chiedo con il viso affondato nell’incavo del suo collo.

«Quasi.» sussurra.

Le sue mani salgono velocemente a raccogliermi il viso. Mi guarda un instante, il tempo di un rullo di tamburi sul cuore, poi poggia le labbra sulle mie e tutto svanisce.

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Capitolo 37
*** 37 - Welcome to the Jungle ***


Scegliere i quattro pezzi per questa serata non è stato per nulla facile. Ognuno di noi aveva la propria idea sulla linea da seguire: c’era chi voleva basarsi solo su quello che ci piaceva suonare, chi spingeva per suonare i pezzi su cui ci siamo esercitati di più, chi quelli più impegnativi per dimostrare le nostre capacità. Dopo ore siamo arrivati a trovare un giusto compromesso tra canzoni che mettessero in risalto le nostre capacità, che ci piacesse suonare, che sapessimo eseguire davvero alla perfezione e che, da non sottovalutare trattandosi di una serata tra pubblico nuovo, fossero abbastanza conosciute da non lasciare l’intera sala in silenzio.
Come avremmo potuto iniziare se non con uno dei riff più conosciuti e riconoscibili dell’intero universo musicale? Anche se qualcuno di noi propendeva per inserirla come chicca finale, io ho sempre adorato suonarla in fase di avvio. Non esiste pubblico che possa rimanere impassibile all’intro di Sweet Child O' Mine. E oggi, alla strofa iniziale, non posso far a meno di cercare Ram in mezzo alla folla.

She's got a smile it seems to me
Reminds me of childhood memories
Where everything
Was as fresh as the bright blue sky
Now and then when I see her face
She takes me away to that special place

Al riff di Slash interpretato da Giacomo, sento la sala scoppiare. Sarò anche di parte, ma non ho mai sentito nessun altro riuscire ad accostarsi così tanto all’originale.
L’applauso che scaturisce al termine della canzone, ci gasa all’inverosimile. Diamo appena il tempo ad Emma di tirare via il giubbino di pelle - cosa che contribuisce al continuo dell’ovazione, specialmente dalla percentuale maschile dei presenti - che attacchiamo il secondo pezzo: You Could Be Mine, leggermente fuori periodo perché del ‘91, ma Giorgio ha insistito fino allo sfinimento per averlo perché colonna sonora di Terminator 2. Io non la amo moltissimo, anche perché ogni volta che la sento o la eseguo mi tornano in mente le immagini del video con Axl in pantaloncini bianchi attillati e la cosa mi fa rabbrividire parecchio. Visto il risultato, però, devo ammettere che si è rivelata una buona scelta.
Per il terzo brano siamo tornati ampiamente sul sicuro con Knockin' On Heaven's Door. Lo abbiamo scelto come “brano lento” della serata perché nessuno di noi voleva scadere in una delle scontate canzoni romantiche rischiando, testuali parole di Giacomo, “che scoppino a piangere e allaghino la stanza”. In realtà so che ha insistito così tanto solo perché non voleva correre il rischio che fossi io a bloccarmi. L’ho ringraziato silenziosamente per questo. Anche se vedendo oscillare la fiamma di qualche accendino, l’emozione ha rischiato di prendermi ugualmente.
Per finire abbiamo scelto uno dei brani che è considerato una pietra miliare del rock e in generale tra le migliori canzoni di tutti i tempi, una di quelle che non riesci a star fermo neanche se hai gambe e braccia legate. Un’iniezione di adrenalina che parte diretta dalle corde della chitarra. Welcome to the Jungle. Il testo descrive la giungla della metropoli, ma io l’ho sempre vista come una metafora della vita: una giungla piena di gente che vorrebbe vederti sanguinare e che devi affrontare giorno per giorno.

You know where you are?
You're in the jungle baby, you gonna die
 
Abbiamo suonato per circa mezz’ora, se non meno, eppure finiamo esausti più di una normale serata portata a termine per intero. Abbiamo dato tutto quello che potevamo e l’entusiasmo del pubblico ci ripaga più di qualsiasi contratto. Per questo istante siamo vere rockstar.
Cerco tra il pubblico di nuovo Ram. Si trova ad un lato della stanza, accanto a quella che suppongo essere la sua collega che sta saltando come una forsennata urlando in preda all’euforia. Lei, invece, applaude in modo composto e mi guarda sorridente.

Il gruppo di Tommaso ha fatto faville, hanno mandato in visibilio l’intero pubblico, sembrava di essere tornati davvero indietro nel tempo. Almeno così mi ha raccontato Rebecca. Il mio corpo era lì accanto a lei, ma era solo un involucro vuoto. Ho sorriso per tutto il tempo e cercato di ondeggiare tenendo un ritmo che in realtà non percepivo. In questo modo, se mi avesse guardato, Tommaso avrebbe visto che mi godevo la sua esibizione, mentre in realtà ero rinchiusa nella mia bolla circondata solo da oscurità, paura e dal replay di quanto accaduto poco fa. Io che esco in giardino, Dario che arriva alle mie spalle poco dopo e mi spinge tra gli alberi, le sue braccia che mi circondano incastrandomi contro il suo petto, io che mi dimeno cercando di sfuggirgli, la sua lingua che mi imbratta il collo, la sua voce che continua a ripetere che stavolta non posso sfuggirgli, che non c’è nessuno a salvarmi, la paura che mi ripropone davanti agli occhi il viso di mio padre che mi bacia la fronte prima di salire in auto quella maledetta sera. A quell’immagine ho iniziato a tremare. Dario se ne è accorto quasi subito e l’eccitazione è stata tale da rigonfiare all’istante i suoi pantaloni attillati. Lì è diventato tutto più chiaro.
Non ero io che lo eccitavo, non era voglia di sesso, non voleva il mio corpo né per desiderio né per ripicca né per dimostrare di poterlo avere. Indosso una maglietta fatta di rete e dei pantaloni che sono poco più di plastica, se mi avesse voluto nuda avrebbe potuto stracciare tutto in meno di tre secondi netti e arrivare dritto al punto. No, il suo scopo non era affatto quello. Ad eccitarlo era farmi paura, il che se possibile mi spaventava ancora di più. Più io mi agitavo, più la sua erezione premeva contro la mia schiena, più cercavo di scappare, più le sue mani si agitavano lungo il mio corpo e il ciclo ricominciava.
Quando ho sentito qualcuno arrivare in giardino, ho cercato di attirare l’attenzione provocando più rumore possibile, sperando si convincesse a lasciarmi andare. Dario, però, ha continuato a tenermi stretta a sé. Ho cercato allora di portarci allo scoperto, spostandoci pian piano verso la zona senza alberi, ma camminare in quelle condizioni non era affatto facile, così siamo finiti a terra dietro alla siepe, lì dove poco dopo Tommaso è arrivato a interrompere la sua follia.
Rebecca mi ha risvegliato dal torpore saltandomi addosso. Quando me la sono sentita arrivare addosso ho avuto paura che fosse di nuovo lui, ma poi i suoi capelli cotonati mi hanno invaso la faccia ed è stato come se di colpo avesse fatto esplodere la bolla attorno a me.
«Dei grandi, porca puttana!» urla.
«Già, sono stati davvero bravi.» Acconsento.
Credo che sia la prima volta che le sento un parlare tanto volgare, devono essere stati proprio mitici. E io me li sono persi. Li guardo scendere dal palco mentre ancora la gente è in visibilio. Il ragazzo che conduce la serata non trova modo di poter ricominciare a parlare.
«Sono delle nostre parti, sai? Suonano spesso in un locale in centro, il Lightinig. Li ho sentiti diverse volte. Ho conosciuto il cantante un po’ di tempo fa.» Quanto tempo fa? In realtà non saprei dirlo. Siamo poco più che estranei ma sento come se ci conoscessimo da una vita. «Se vuoi te li presento.»
«Sarebbe fantastico!» continua a saltellare.
«Reb, questa tua versione un po’ dodicenne un po’ groupie non potrebbe danneggiare la nostra immagine di azienda?» le chiedo, tornando a ridere, finalmente più rilassata.
«Ma chi sene frega! Tu dopo mi presenti a quei tipi lassù, devo assolutamente conoscere quel chitarrista: è uno strafigo!»
«Non vorrei rompere il tuo incanto ma...»
«No, no. Non romperlo se non vuoi romperlo. Tu presentameli, al resto penso io.» Mi fa l’occhiolino. «Vado a fare rifornimento.»
Si allontana verso il bancone del bar ed io, rimasta sola, inizio a guardarmi attorno sperando che Dario sia andato via.

Ancora carichi dell’esibizione appena portata a termine, siamo arrivati nel camerino in preda all’adrenalina. Dentro ci sono i ”ci crediamo i veri Aerosmith” che stanno terminando la loro preparazione in attesa di essere chiamati sul palco. Il frontman mi dà una pesante pacca sulle spalle ringraziandomi di avergli scaldato il pubblico, mi raccomanda di non perdere per niente al mondo la performance migliore della serata perché potrebbe aiutarmi ad imparare qualcosa per il mio futuro per poi tornare dai suoi e uscire insieme a loro in corridoio, pieno di boria così come si è avvicinato.
Guardo in faccia mio fratello, ci fissiamo per qualche attimo con lo stesso sguardo sconvolto. Scoppiamo a ridere nello stesso istante. Mi si avvicina e, saltando, mi prende il collo sotto braccio iniziando a strofinare forte le nocche della mano destra tra i miei capelli.
«Impara qualcosa Tommasino, impara!» ripete continuando a ridere.
«Non uccidere il nostro Axl!» gli urla Emma, venendomi a salvare. «Lascialo stare.» Lo stacca da me e gli salta in braccio iniziando a baciarlo tanto voracemente che rischia di mettermi in imbarazzo.
Da Giorgio come prevedibile scatta l’applauso e l’urlo tipico da arrapato sovreccitato. «Sei forte ragazza. Dacci dentro, forza!»
Emma mette in pausa le sue effusioni per dargli un pugno ben assestato sulla spalla.
«Attenta! Ti ricordo che ci lavoro con questa, io!»
«Allora impara a ingoiare la lingua quando stai per dire una cazzata.» gli assesta un altro pugno, molto meno carico, e torna da Giacomo. Gli dà un nuovo bacio, meno aggressivo ma non meno sensuale.
«Tuo fratello è un uomo fortunato. Emma è una bomba!» commenta Giorgio attento a non farsi sentire da lei.
«Credo sia quella giusta per lui. Gli sa tenere testa.»
«Lo credo anch’io.» E per la prima volta da quando lo conosco, penso che lo stia dicendo senza immaginare un video porno.
Con gli Aereosmith fuori dalla stanza e Madonna e Micheal Jackson già andati a godersi il party dopo le loro esibizioni, siamo rimasti da soli e possiamo festeggiare degnamente. Sì, festeggiare, perché dopo il risultato della nostra esibizione è impossibile che De Blasi ci dica di no! Per una volta almeno nella vita vogliamo essere positivi. Alfredo prende la bottiglia di spumante dal mini frigo, la agita e la stappa  come un motociclista sul podio della Moto GP, inondandoci di schiuma bianca. Beviamo euforici da bicchieri di plastica trasparente, fieri di ciò che siamo riusciti a fare, brindando a un futuro in ascesa verso la vetta.
Bevo, osservando con un pizzico di invidia Emma e mio fratello continuare a baciarsi. Un brivido mi corre lungo la schiena.
«Ragazzi, ci vediamo dopo. Vado a imparare qualcosa dallo Steven Tyler dei poveri.» Svuoto il bicchiere d’un fiato e lo appoggio sul tavolino.
«Come se non l’avessi vista!» dice mio fratello.
«Chi?» gli chiede Emma.
«Nessuno.» dice mentre fa l’occhiolino.
«A dopo ragazzi. Se voleste andar via, chiamatemi sul cellulare.»  
Attraverso il corridoio quasi correndo e mi catapulto all’interno del salone ancora gremito di gente. Il conduttore della serata è ancora sul palco, intravedo la band dietro le quinte: sembrano molto più tesi, la spocchia devono averla sprecata tutta con noi e adesso sono rimasti a secco.
Cerco Ram tra la folla, ma le luci sono troppo basse, perciò decido di andare dove l’ho vista da sopra il palco, sperando che non si sia spostata. Mentre mi avvicino, cerco di individuare la sua sagoma. I suoi capelli solitamente sarebbero un buon indizio, ma purtroppo non stasera in mezzo a tutti questi finti cotonati. I suoi capelli! Mi sembra di sentirli ancora sotto le dita, così morbidi da sembrare pezzi di nuvola tinti di rosso.
Finalmente la intravedo, proprio mentre la band sale sul palco e inizia la sua esibizione con uno dei pezzi più iconici degli Aereosmith, Dream On. Ram è poco distante da me. Mentre la sua collega si lascia di nuovo trasportare dal rock, lei è appoggiata con una spalla al muro, sorseggia piano da una cannuccia il suo drink con un lieve sorriso stampato in viso e lo sguardo rivolto al palco. Avvicinandomi, però, noto che il suo sguardo è spento. Anche quando la raggiungo non si accorge di me, come se non stesse in realtà accorgendosi di cosa succeda intorno a lei. Le arrivo alle spalle e poggio delicatamente una mano sul suo fianco.
Ram sussulta, si volta di scatto e fa cadere il bicchiere che teneva in mano. I suoi occhi adesso sono accesi, ma non della loro solita bella luce.
«Ram, calma. Sono solo io!»
«Scusa, mi hai fatto spaventare.»
«No, scusami tu. Sono stato uno stupido ad arrivare così all’improvviso dopo quello che... Perdonami ti prego.» Stupido è un eufemismo, sono stato un coglione.
Mi sorride, piano la paura nei suoi occhi si spegne. Si abbassa a raccogliere il bicchiere ormai vuoto.
«Cos’era? Te ne prendo subito un altro.»
«Non preoccuparti. Non mi andava più di tanto, lo stavo bevendo solo perché Rebecca me l’ha piantato in mano e ha insistito.»
«Come preferisci. Se non ti va, vuol dire che troverò un altro modo per farmi perdonare.»
Ram si appoggia nuovamente al muro. Restiamo in silenzio fino alla fine della canzone. La gente applaude, il finto Tyler ringrazia e annuncia il pezzo successivo come una rock star, poi si lanciano in Walk This Way.
«Bravi, non trovi?» dice continuando a fissare il nulla.
«Non male si. I musicisti sono davvero bravi. Il tizio che canta mi sta sulle scatole perciò non posso dare giudizi oggettivi.»
«Lo conosci?»
«Ho avuto il dispiacere di conoscerlo in camerino: è una prima donna.»
«Sei stato molto bravo prima.»
«Sicura che ti sia piaciuto? Non sembri molto convinta.»
«Certo che sono sicura. Non fare caso se sembro un po’ stralunata. Sono solo… stanca.» sorride di nuovo.
Non mi convince. Questa non è solo stanchezza.
«Vuoi prendere un po’ d’aria?»
Annuisce, il labbro le trema leggermente ma ne riprende subito il controllo.



Un nuovo capitolo che suona rock! Di seguito tutte le canzoni citate... non perdetevele!

Guns N' Roses - Sweet Child O' Mine
Guns N' Roses - You Could Be Mine
Guns N' Roses - Knockin On Heaven's Door
Guns N' Roses - Welcome to the Jungle
Aerosmith - Dream On
Aerosmith - Walk This Way

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Capitolo 38
*** 38 - Don't miss a thing ***




Siamo seduti vicino al tronco dello stesso albero sotto cui mi sono rintanato prima di suonare e prima di… beh, quello che è successo. Ram è appoggiata al tronco, gli occhi fissi al cielo. Le nuvole ancora dipingono pennellate di grigio nel cielo blu, ma hanno lasciato libera la luna che ora splende solitaria in tutto la sua magnificenza.
«E così, sei una che fa incazzare parecchia gente, eh!»
Non è la frase migliore con cui rompere il gelo che sento, ma siamo qui fuori da dieci minuti buoni e l’unico suono che è uscito dalle nostre bocche sono stati sospiri. Era necessario che iniziassi a parlare e il mio cervello ha fatto il solito casino.
Ram stacca gli occhi dal cielo e mi fissa in un modo che per me è del tutto nuovo sul suo viso. Non sta ridendo, a ragione non ha apprezzato il mio tentativo di ironia. Non è arrabbiata, non è triste, sui suoi tratti non c’è nessuna increspatura che possa rivelare un sentimento o un pensiero. Impassibile, come una statua di cera.
«Scusami di nuovo, Ram. Non so che mi prende! Non riesco a dire o fare niente di sensato stasera.»
Lei si volta di nuovo a guardare la luna, la stessa espressione fissa sul volto. Mi maledico, abbasso lo sguardo a guardarmi le mani e desidero vivamente darmi un pugno in faccia da stordirmi. Torno a osservare il suo profilo silenzioso. Mi sento inutile, non ho idea di cosa poter fare. Dopo tutto, come potrei averne? Ram mi ha stregato, tutto di lei sembra parlare direttamente al mio cuore, ma la verità è che io non la conosco, non so nulla di lei tranne che sembra attirare gli psicopatici come una calamita.
D’improvviso la vedo alzarsi, non di scatto, molto lentamente, con le movenze di una scena rallenty. Incapace di muovermi, resto fermo a terra, mentre lei sta già togliendo la polvere dai pantaloni.
«Potresti chiamare un taxi? Vorrei tornare al mio hotel.» la sua voce è a mala pena percettibile, poco più di un sussurro.  
Salto in piedi, tanto veloce da avere l’effetto faccia da clown che viene sparata fuori da una scatola a molla. Tiro fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, cerco velocemente il numero del servizio taxi romano su Google e avvio la chiamata. Ram ha abbassato la testa, si fissa la punta delle scarpe. Il centralinista risponde poco prima che la linea cada, detto l’indirizzo, ci vorrà circa un quarto d’ora, ringrazio e saluto.
«Grazie.» sussurra di nuovo. Stavolta mi guarda, ma solo per un attimo.
Si muove verso l’entrata del salone, mantenendo il suo andamento lento. Ancora immobilizzato, la osservo mentre nella mia mente si combatte una indicibile guerra di reazioni. Si ferma sulla soglia, si volta.
«Mi accompagneresti?»
Esito un attimo. «Certo. Devo solo avvisare i ragazzi.»
«Io devo cercare Rebecca. Ci vediamo al portone d’uscita.» lo dice rapidamente e si infiltra tra la gente, mentre gli Aereosmith stanno concludendo Let The Music Do The Talking.
Sospiro. Cosa diavolo ho combinato? Cosa c’è dietro questa ragazza? Cosa nasconde il suo passato? Da dove vengono i suoi fantasmi? E, soprattutto, mi lascerà aiutarla a sconfiggerli?

Non cerco subito Rebecca, ma filo in bagno. Due ragazze mi lanciano un’occhiataccia perché sono entrata nell’anticamera con troppa foga. Raggiungo il lavandino e mando a fanculo il trucco anni ‘80 buttandomi sotto il getto d’acqua fredda. Mi guardo nello specchio. L’espressione schifata delle due tipe si riflette chiara e anticipa la loro fuga. Non posso biasimarle, d’altronde. La mia faccia sembra uscita da una sceneggiatura horror. Il fondotinta si è raggrumato in piccoli accumuli molli, il mascara e l’ombretto sono colati in lunghe righe disordinate sulle guance, il rossetto si è spalmato oltre le labbra ricordando il sorriso del Jocker di Heath Ledger. Gli occhi sono arrossati e li vedo lucidarsi. Sto per piangere.
Mi sono bloccata. Quanto tempo è passato dall’ultima volta in cui è successo? Lo odio. Mi odio. Ho appena buttato anni di lavoro della dottoressa De Simone nel cesso. Sono retrocessa, ho disimparato il modo in cui tenere sotto controllo le emozioni forti, mi sono lasciata sopraffare. E invitare Tommaso ad accompagnarmi in hotel? Un colpo di genio, no? Crederà che sono solo una disturbata circondata da pazzi e in cerca di sesso facile. E lui ha accettato, da vero porco. No, è solo un uomo, uno come gli altri, un altro che ho sopravvalutato. Ma dopo tutto, non lo conosco per nulla.
La porta si apre di nuovo. La ragazza che entra si blocca un attimo quando mi vede, ma decide saggiamente di far finta di nulla e si chiude velocemente dietro una delle porte interne. È ora di andare, devo sbrigarmi. Afferro un bel po’ di carta dal distributore e la uso per togliere alla meno peggio il disastro che ho in viso. Riesco con un po’ di sforzo a ottenere un risultato quasi decente, i rossori sono evidenti ma spero non si noti con le luci basse. Sento il rumore dello sciacquone, la ragazza esce dal bagno e si avvicina al secondo rubinetto. Mi osserva di sfuggita cercando di non farsi notare. Le sorrido, ricambia, le faccio tenerezza, forse pena. Esce, chissà se si sta chiedendo il perché o se sta pensando a quando era lei a piangere in un bagno da sola con una sconosciuta che si preoccupa per te.
Guardo l’ora, il taxi sarà quasi arrivato e io devo ancora trovare Reb. Torno in sala. La trovo totalmente al buio se non per le piccole fiammelle di accendini che formano uno strano cielo artificiale. Una folata di emozione mi scuote. La band sta suonando I Don't Want to Miss a Thing, una meraviglia di canzone a cui non si può restare impassibili. Mi appoggio di nuovo al muro, chiudo gli occhi. Rivedo le scene di Armageddon passarmi nella mente, Ben Affleck e Liv Tyler che si baciano contro la luce del tramonto giocando con crackers a forma di animale, lo sguardo psicopatico di Steve Buscemi, Bruce Willis che si sacrifica per la figlia. Il volto di mio padre lo sostituisce d’improvviso. Apro gli occhi, scuoto la testa, ricominciare a piangere adesso equivarrebbe a crollare di nuovo. Respiro profondamente, creando un’immagine mentale che possa rilassarmi.
Una spiaggia all’alba, il mare che accarezza placidamente la sabbia, le nuvole che si tingono di rosa e arancione, indosso un vestito bianco che svolazza portato dal vento, delle mani mi accarezzano il viso coprendomi gli occhi, le mie labbra vengono raggiunte da altre labbra morbide che mi baciano con tenerezza, lascia liberi i miei occhi, è Tommaso.

I just wanna hold you close,
Feel your heart so close to mine
And just stay here in this moment
For all the rest of time.

Resto in questa immagine finché la musica non termina e l’intera sala applaude commossa la band. Tommaso è realmente di fronte a me.
«Scusa, ti ho vista sovrappensiero e non volevo farti spaventare di nuovo.»
«Devo cercare ancora Reb.»
«Ok. Il taxi è arrivato, esco a fermarlo.»
«Grazie.»
Cosa mi hai fatto Tommaso? Chi sei? Come hai fatto a entrare così nel profondo dei miei pensieri?

Il taxi si ferma, dopo una corsa di venticinque minuti in totale silenzio, di fronte a un tre stelle dall’aspetto elegante. Ram è rimasta immobile a fissare fuori dal finestrino per tutto il tempo, tormentandosi la punta delle dita con le unghie. Frugo nelle tasche interne della giacca per trovare il portafoglio, ma lei, continuando a non dire una parola, mi blocca e porge una prepagata al taxista che, sbuffando, la inserisce all’interno del POS portatile. Mentre riceve il tastierino per il pin, gli porge un foglio indicando che le serve la ricevuta per il rimborso spese. Il taxista sbuffa ancora di più e afferra il blocchetto. Ram estrae da sola la carta, preleva lo scontrino e aspetta la ricevuta, poi, come non fossi insieme a lei, augura una buona serata e scende dall’auto.
«Lei continua la corsa?»
«No, scusi, scendo subito. Buon lavoro.»
Il taxista mi dà un’ultima occhiata incazzata dallo specchietto retrovisore, mentre mi precipito fuori dal veicolo.
Ram ha attraversato la strada e si è seduta sugli scalini dell’ingresso, fissa di nuovo il cielo, continua il silenzio. Siedo vicino a lei, le nubi si son fatte di nuovo dense e si stanno scurendo, l’aria si è fatta più fredda, la giacca di pelle non basta più. Mi chiedo se anche lei lo sente. Mi volto a osservarla. Ancora con il naso all’insù, trema leggermente, ma non potrei giurare che si tratti solo di freddo.
«Andate via!» una voce alle nostre spalle ci fa trasalire.
Ci voltiamo di scatto, da seduto il receptionist sembra un gigante pronto a schiacciare due formichine. Scatto in piedi tirando Ram per il braccio. La situazione non cambia molto, è comunque quasi una spanna più alto di me.
«Non potete stare sulle scale! Dovete andarvene.»
«Certo. Andiamo via immediatamente.»
«Sarà meglio che vi sbrighiate se non volete che vi porti via io.»
«Mi scusi signore» lo interrompe Ram. «Io non credo di dover andare via. Sono un ospite dell’hotel, stanza tre-sette-quattro.»
«E io sono Babbo Natale arrivato in anticipo.» Incrocia le braccia sul petto e ci guarda sarcastico.
«Guardi che non sto scherzando.» estrae i suoi documenti dalla borsetta e glieli porge. «La pregherei di controllare e poi tornare a scusarsi con me e con il mio amico. O preferisce che sia il suo direttore a controllare al suo posto?» Sul suo volto compare un sorriso al vetriolo.
Il gigante continua a guardarci male ma afferra la carta d’identità e rientra nella hall, stando attento a chiudere bene la porta alle sue spalle. Ne esce cinque minuti dopo con le pive nel sacco. Porge stizzito i documenti a Ram.
«Mi scusi signorina Centini. Non l’avevo riconosciuta.» Apre la porta. «Si accomodi pure. Entra con lei anche il suo amico?»
«Sì.» dice Ram, con un tono da saputella che farebbe girare le scatole a chiunque. Attraversa impettita la soglia, mi fa cenno di sbrigarmi a seguirla.
Il gigante rientra subito dopo di noi, richiude la porta e va a rintanarsi dietro il bancone. Ci porge la chiave magnetica. Lei l’afferra, ancora con il sorriso da stronza. La seguo mentre ondeggia verso l’ascensore. Un attimo prima che le porte si chiudano, sfotte il gigante salutandolo con la mano.
Una volta al sicuro dentro l’ascensore, scoppia a ridere. Una risata isterica, senza freno, liberatoria. Le vado dietro.
«L’hai proprio distrutto nell’onore. Sei stata senza pietà.»
«Ehi! Ha iniziato lui. Ha voluto disturbarci. Cosa avremmo potuto fare di male seduti su quegli scalini?»
Indico la nostra immagine riflessa nello specchio laterale «Puoi dargli torto? Guardaci. Sembriamo due tossici.»
Si avvicina allo specchio e con le dita cerca di tirare via un po’ di nero da sotto gli occhi. Ha il viso sfatto, il trucco sciolto, i capelli scompigliati, ma è comunque bellissima. L’ascensore termina la corsa, usciamo in corridoio e arriviamo alla sua stanza.
«Ti offro da bere e poi chiamiamo un taxi che ti riporti a casa. Ti va?»
«Ok» Ho la gola improvvisamente secca.
Apre il frigo bar e ne esce una piccola bottiglia di prosecco. «Questa mi sa che non posso addebitarla sulla carta aziendale.» ride.
«Potrebbero esserci dei problemi, sì.» Cosa sto dicendo? Come sto ridendo? Mi sento un’idiota.
«Aspettami qui. Vado un attimo a togliermi questo cerone dal viso e a mettermi qualcosa di decente addosso.»
Si chiude in bagno. Mi osservo intorno. La stanza non è troppo grande ma è sistemata con molta raffinatezza. C’è un piccolo balcone, con vista sulla città. Sento l’improvvisa necessità di prendere aria. Esco fuori, un brivido mi scuote, c’è sentore di pioggia nell’aria.
«Non ne potevo più!»
Ram esce dal bagno con addosso una tuta abbondante, ha tolto ogni filo di trucco sbavato e ha raccolto i capelli in una crocchia frettolosa. La mia mente viaggia e la immagina in questo modo accoccolata sul divano di casa dopo cena.
Afferra il piumone aggiuntivo dentro l’armadio, la bottiglia di prosecco e mi raggiunge. Ci sediamo avvicinando tra loro le sedie e mettiamo il piumone sulle spalle per riscaldarci. Ram stappa la bottiglia e me la porge.
«Scusa, non ho trovato i bicchieri. Puoi accontentarti?»
Bevo a collo un paio di sorsi, le ripasso la bottiglia, beve anche lei.
«Bello qui, vero? L’azienda per cui lavoravo prima era di un altro stampo. Tutta hotel super lusso, stanza enormi, vasche idromassaggio. Ma anche qui non è male, questo hotel è carino. A parte il gorillone lì sotto, certo. Voi dove alloggiate? Siete in centro?»
«No, è un appartamento in periferia. Squallido ma serve allo scopo.»
«Siete venuti per la serata di stasera?»
«In realtà quella è venuta dopo...»
Le racconto di De Blasi, del nostro colloquio con lui. Iniziamo a parlare di lavoro, di me che l’ho perso e di lei che ne ha iniziato uno nuovo, di cosa ci sarebbe piaciuto fare da grandi - lei sognava di fare la professoressa -, di quanto lontani o vicini ci troviamo dal realizzare i nostri sogni o dal cambiarli. Ci ritroviamo a parlare di noi, a conoscerci ancora. La osservo aprirsi con me, come se tutto quello che è successo oggi non fosse mai esistito. Provo il forte desiderio di abbracciarla, ma non lo faccio. Sto fermo ad ascoltarla.
«Ti va di parlarmi della madre di tua figlia? Cosa è successo?»
Eccoci qui, aspettavo con timore il momento in cui saremmo arrivati a questa domanda. Eppure parlarne con lei si rivela più facile del previsto. Le racconto tutto, dall’inizio, da quando conobbi Simona alle superiori. La nostra storia, gli alti, i bassi, i momenti dolci da far scoppiare il cuore, i litigi, di quando abbiamo deciso di sposarci, di quando la piccola Rose è arrivata come il più bell’imprevisto che potesse donarci il destino. E poi del declino, dei silenzi, della routine, dei segreti, del tradimento con Davide, di come me l’ha confessato con il suo sguardo colpevole seduto nel vicolo di casa mia, della lettera e di come è sparita per sempre. O almeno spero.
«Incredibile. Deve essere stato un colpo tragico per te. Ecco perché ti comportavi in modo così strano la sera che ci siamo conosciuti.i»
«Strano? Mi sono chiuso in bagno come una dodicenne alle prime mestruazioni. Dire “strano” è farmi un complimento.»
«Non volevo essere così drastica.» ride.
«Mi dispiace che ci siamo conosciuti in quel modo.»
«A me no. Forse era l’unico modo per poterti conoscere.» Mi guarda fisso negli occhi, un sorriso dolce le increspa le labbra. Dio, quanto è bella. «E a me ha fatto davvero molto piacere conoscerti.»
«Anche a me.» Continua a sorridermi.
Il silenzio si riempie di elettricità, quella che creano le nostre cellule attraendosi con sempre più forza. Stupido, baciala! Baciala adesso. Non perdere un momento di più.
Invece lo perdo.
Ram tossisce, prende di nuovo la bottiglia e beve la metà di quello che ne rimane, la passa a me per finirla.
«Grazie di avermi raccontato la tua storia.»
«Figurati! Quello che non ti uccide ti rende più forte.» sorrido e mando giù il resto del prosecco, ma vedo il suo viso trasformarsi tornando serio.
«Questa cosa è una balla. Quello che non ti uccide, ti ferisce gravemente e le ferite sono ferite e basta. Si rimarginano, ma la cicatrice rimane comunque. E ci sono cicatrici che ti sfregiano.»
I suoi occhi sono di nuovo spenti, non reattivi.
Le afferro la mano, sembra svegliarsi dal torpore.
«Ram, ti va di raccontarmi della tua ferita?»


Ancora una volta, un capitolo accompagnato da una colonna sonora che vi consiglio stavolta tutta targata Aerosmith :)

Let The Music Do The Talking e la famosissima (e più recente) I Don't Want to Miss a Thing (e se non avete mai visto quel gran capolavoro di Armagheddon, cosa state aspettando a recuperarlo e versare tutte le lacrime che il vostro fisico è in grado di produrre?).

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Capitolo 39
*** 39 - Come una giostra ***




Lo guardo negli occhi, sono sempre stata così catturata dal suo sorriso che non li ho mai osservati a fondo. Sono tristi e pieni di speranza allo stesso tempo, sono puri e adesso sono preoccupati per me. Questo ragazzo che è entrato nella mia vita per caso, che si trova nell’occhio di un ciclone che potrebbe ricominciare a spazzare via tutto in appena un battito di ciglia, che ha visto il suo mondo esplodere e ha voluto aprirmi una porta sul suo passato, adesso mi porge la mano per placare le mie ferite.
No. La prima immagine che si forma nella mia mente mente è un no scritto a caratteri cubitali con attorno dei led lampeggianti in pieno stile Las Vegas. Non ho voglia di raccontare le mie ferite, le ho già leccate abbastanza da sola e ha fatto sempre un male cane. Oggi le cicatrici si sono riaperte, i punti stanno cedendo e ho paura. Sì, Tommaso, ho paura che aprirle del tutto possa mandarmi in frantumi e non so se questa volta avrei la forza di rimettermi in piedi.
«Non devi sentirti in obbligo.» interrompe i miei pensieri. «Se non te la senti di raccontarmi la tua storia, posso capirti. In fondo, mi conosci appena.»
«Tom, non è quello che mi frena.» Inizio a graffiare la pelle delle dita, sento le unghie premere con sempre più forza. «Tu stai attraversando un periodo burrascoso, io sono uscita dall’uragano. O almeno pensavo di averlo fatto. Ho impiegato anni per ricominciare a vivere una vita normale.»
«Con la dottoressa De Simone?»
Inizialmente questa sua domanda mi spiazza, poi ricordo di avergli dato il biglietto da visita la sera che ci siamo conosciuti.
«Mi ha aiutato tanto, sì. Anzi, ne approfitto per chiederti scusa per quella sera. Non so cosa mi è preso, ma sentivo che stavi vivendo qualcosa di brutto ed era il mio modo per aiutare. Spero non ti sia offeso.»
«Non ti nascondo che di solito sui biglietti che ricevo da una ragazza appena conosciuta c’è il suo numero e non quello di una psicologa, perciò la cosa mi è sembrata un po’ strana. Ma non mi sono offeso, tranquilla. Qualche volta ho anche pensato di farla quella chiamata, ma sai come siamo noi uomini. Testardi come i muli. Scusa, non volevo interromperti.»
Si accorge che sto torturando le dita e ferma le mie mani stringendole in una delle sue. Passa l’altra tra i capelli, portando via la bandana da Axl Rose che ancora indossava. La arrotola distrattamente e la infila nella tasca della giacca lasciandola penzolante per più di metà. Guardo ancora una volta il suo sorriso che ha dentro la tenerezza di un bambino, soprattutto adesso che è perfettamente rasato.
«Ram, io so poco di te ma una cosa l’ho capita. Io sto passando un brutto periodo, è vero. Non mi aspettavo di essere mollato? Corretto. Non mi aspettavo di essere tradito? Più corretto. Non mi aspettavo di perdere il lavoro e dover crescere mia figlia senza una madre? Jackpot! Mi ha ferito? Sì. Mi ha ucciso? Solo per un po’, ma ho preso le mie ceneri e le sto usando per risorgere. Invece sento che per te è stato diverso, che c’è stato qualcosa di davvero orrendo, non solo inaspettato. Prima hai parlato di quel tizio come di un demone e non credo che fosse solo un ex geloso o uno squilibrato come quello del bar. Forse non vuoi parlarne perché credi che potresti ricadere nel baratro perciò non ti forzerò se non vorrai.»
«Sembra che tu mi abbia letto dentro.»
Sorride di nuovo «Ho una mini sfera di cristallo nascosta in tasca.»
Sorrido anch’io, più imbarazzata che divertita. Faccio scivolare le mani via dalle sue. Un lampo illumina lievemente il cielo, il tuono che lo segue rompe il silenzio. Senza pronunciare parola rientro in camera, Tom mi segue, lascia la porta aperta, si appoggia allo stipite. Io cammino per la piccola stanza, nervosa, come durante i pomeriggi passati al telefono con Alex.
«Non sarà una storia breve.»
«Non ho ancora chiamato il taxi. Ho tutto il tempo del mondo.»

Dal temporale che si è scatenato, non si direbbe che solo qualche ora fa eravamo seduti in giardino a guardare le stelle, ma il freddo che si è scatenato è nulla in confronto al gelo che c’è tra queste quattro mura. Seduto sul letto, la osservo camminare in silenzio per la stanza. Ogni più lieve rumore sembra riecheggiare all’infinito fino a farti impazzire, come in un racconto di Edgar Allan Poe. Il rumore dei tuoni attutito dai vetri spessi, il ticchettio delle sue ciabatte che ritmicamente incontrano il pavimento, le molle del materasso che scricchiolano lievemente ad ogni mio movimento, un colpo di tosse che proviene dal corridoio, il ‘tin’ dell’ascensore che avvisa dell'arrivo al piano. Ram si muove veloce, non riesce a tener ferme le mani. Il suo andamento è ciclico, ossessivo, è possibile prevedere ogni suo cambio di direzione. Arrivata accanto all’armadio compirà una mezza piroetta tornando indietro mentre preme le dita contro il collo, poi inizierà a pungersi le braccia svoltando lievemente verso il bagno, compirà un arco di circa 30° passando accanto al tavolo mentre riprende a torturarsi le dita per poi arrivare alla finestra lungo una traiettoria retta ma oscillando le spalle mentre si tocca la fronte e gratta l’attaccatura dei capelli, svolta ad angolo retto verso il comodino, curva a U per tornare sui suoi passi, unirà le mani come in preghiera e chiuderà gli occhi aggirando il letto per evitare di guardarmi diretta verso l’armadio. Lì il suo giro inizierà da capo come una giostra che non può deviare dal percorso prestabilito dal suo inventore.  Ogni tanto sembra guardarmi come se stesse per iniziare a parlare, ma l’illusione dura poco e lei ricomincia a fissare il pavimento durante il suo infinito percorso.
«Fermati.» Mi alzo di scatto, ma, nonostante la situazione creata mi abbia portato quasi a uscire di senno, riesco a mantenere un tono calmo per quanto deciso.
Ram si blocca, come se le fosse stata inaspettatamente tolta la corrente. Continua a fissare il pavimento. Mi avvicino a lei, le accarezzo le braccia, le sento tremare sotto la felpa di due taglie più grande. Faccio l’unica cosa sensata da fare. L’abbraccio. La stringo talmente forte che ho paura che si spezzi. La sento muoversi, ricambiare il mio abbraccio, portare le braccia a stringermi la vita, le sue dita sotto il mio giubbotto che premono contro la mia schiena. Il suo respiro si fa più frettoloso, lievi lamenti le sfuggono dalle labbra. Un fremito mi scuote, il mio battito accelera. Sento qualche goccia calda bagnarmi la maglietta. Sta piangendo. Le sciolgo la croccia stando attento a non farle male, infilo le mani in mezzo ai suoi capelli attirandola ancora più vicina al mio petto, muovo piano le dita in mezzo a quella foresta di ricci respirando a fondo il loro profumo.
Lentamente smette di tremare, il suo respiro si calma. Le sue mani allentano la presa finendo per sfiorare il tessuto che le separa dalla mia pelle, provocandomi un brivido ancor più forte se possibile.
«Non inizierai a piangere anche tu, vero?» cerca di sdrammatizzare.
La sua voce è ovattata perché ha ancora il viso stretto al mio petto, riesco a sentire il suo fiato caldo mentre parla.
«Dai, iniziamo entrambi, così facciamo una bella piscina qui dentro.»
Rido. Le spalle le tremano di nuovo, ma stavolta il movimento è dalla sua bellissima risata. Alza il viso rimanendo aggrappata a me, così vicina non riesco a metterla a fuoco per intero, le fisso gli occhi che sono lievemente arrossati e molto lucidi.
«Non devi fare niente che non ti vada di fare, Ram.» le sussurro. «Sono stato uno stupido ad insistere.»
«Ma tu non hai insistito.» Il suo respiro mi solletica il collo. «Io volevo davvero parlarne con te. Lo voglio anche adesso, giuro. Solo che poi le parole non escono e non so da dove iniziare.»
Le bacio la fronte. «Va bene così. Non preoccuparti.»
Ram si alza sulle punte e riempie il breve tratto che divideva le nostre labbra. Un bacio breve, timido, dura poco ma scaturisce un quantitativo inquantificabile di dolcezza. Ho ripensato a lungo al nostro primo bacio, ma non mi ero reso conto fino ad adesso di quanto mi mancasse in realtà il suo sapore. Vorrei subito farlo ancora, ma è così bella mentre mi sorride che non riesco a staccarle gli occhi di dosso. No, neanche per baciarla.
Mi prende per mano e mi accompagna di nuovo verso il letto. Si siede e mi porta accanto a se. Mi bacia di nuovo, il tocco della sua lingua sulle mie labbra risveglia in me sensazioni che non credevo più di essere in grado di provare. Non mi ritrovo in una situazione come questa da troppo tempo. Ho dimenticato come si fa. Mi sembra di essere tornato il quattordicenne sborone che fingeva di essere uno sciupafemmine ma quando si trovava da solo con una ragazza se la faceva sotto e non riusciva a muoversi. Cosa dovrei fare adesso? Devo stringerla? Quanto? Come? Ho voglia di stringerla a me, di sentirla vicina, di toccare la sua pelle, ma ho sbagliato così tanto con lei stasera che sono terrorizzato al pensiero di fare l’ennesimo sbaglio ed essere mandato via.
Con un movimento impacciato, poggio le mani sulle sue gambe coperte dalla pesante tuta. In risposta, le sue mani scivolano lungo le mie braccia fino ad arrivare al mio viso. Le sue carezza cancellano ogni mio dubbio. Non lascerò passare neanche un momento in più.
Con un gesto più sicuro l’abbraccio stringendola di nuovo a me, il suo petto respira contro il mio. La sento ridacchiare senza scostarsi dalle mie labbra. Si sbilancia leggermente all’indietro, colgo il suo invito silenzioso seguendola fino a sdraiarci completamente. Faccio peso sulle braccia per non schiacciarla, mentre lei mi aiuta a togliere il giubbotto che fa volare in direzione del tavolo. Mi fermo a osservarla, accarezzandole i capelli. Non ride più, ma i suoi lineamenti sono distesi, la sua pelle è illuminata e i suoi occhi sembrano ancor più grandi. Le labbra umide sono leggermente dischiuse. Le accarezzo con l’indice, mentre lei le inarca in uno dei suoi dolci sorrisi.
«Sei così serio!» dice, prendendomi in giro.
Ma io non sono più in contatto con la mia parte razionale. Tutto di lei mi fa perdere la testa. Mi tuffo di nuovo a baciarla. Ho il peso del corpo sul gomito destro che lei accarezza appoggiato accanto al suo viso. Con l’altra mano seguo piano il profilo del suo corpo, scendendo lungo il collo, passando tra i seni senza toccarli, arrivando al ventre. Mi avventuro piano sotto la sua felpa. Quando le tocco la pelle della pancia, lei sussulta.
Tiro subito via la mano, preoccupato di aver esagerato.
«Ho le mani fredde, scusa.» le dico, mentre riprendo fiato.
Lei mi guarda rassicurante, prende la mia mano e la poggia nuovamente sulla sua pancia. «Non sono poi così fredde.»
Poi infila anche la sua sotto la mia maglia. Trattengo a stento un breve gemito, ma non riesco a fermare l’ennesimo brivido che il contatto con la sua pelle mi provoca. «Com’è la mia? Troppo fredda?»
«No, è perfetta, come te.»
Riprendiamo a baciarci, rotolando sul letto come due adolescenti. Spinge via le mie scarpe scalciando, fa scomparire la mia maglia. Quando tira via la sua felpa il mio cuore perde un colpo, ma sotto non è nuda come pensavo. Una canotta bianca la protegge ancora dal mio sguardo smanioso di godere della sua bellezza.
In ginocchio sul letto, continuando a baciarmi, tira via il piumone. Ridendo mi spinge facendomi cadere sul materasso, per poco evito di sbattere contro la testiera del letto. Si siede a cavalcioni sul mio bacino, sa del mio desiderio pulsante contro la zip dei jeans ma lo fa lo stesso. Si morde il labbro inferiore accasciandosi verso di me. Mi avvicino per baciarla ma lei mi allontana dispettosa e io credo di impazzire. Si allunga a spegnere la luce. Adesso che ad illuminare la stanza rimane solo una fioca lampada sul comodino, l’elettricità tra di noi aumenta. La osservo mentre strategicamente arrotola la sua canotta fin sotto il seno, lasciando scoperta la linea morbida del ventre. Cerco di nuovo di sollevarmi perché il suo ombelico sembra creato per essere baciato, ma lei ancora una volta mi tiene giù. Si sdraia su di me, lentamente, facendo aderire la sua pelle alla mia, incastrando i nostri respiri. Appoggia il viso nell’incavo del mio collo, le dita della mano destra giocano con i miei capelli mentre la sinistra forma dei cerchi vicino alla mia clavicola. Non riesco a muovermi, sento le terminazioni nervose lanciare scintille, perdo il contatto con il mondo.
«Credo che tu mi abbia stregato.»
Ridacchia e sento distintamente il suo seno saltellare sul mio petto.
«Devo essere una strega potente per farlo senza formule magiche.»
«Allora hai drogato il prosecco, non c’è nessun’altra soluzione.»
Si solleva a guardarmi, i capelli le ricadono su una spalla.
«Sei bellissima.»
Scontato, banale, ma non trovo altre parole per lei, perché qualsiasi frase ad effetto, costruita poeticamente, sminuirebbe la purezza di quello che io vedo quando la guardo negli occhi.
Credo che sia arrossita anche se con questa poca luce è difficile da dire con certezza. Mi prende le mani e le poggia sui suoi fianchi nudi. Si solleva, strofinandosi sul mio corpo, si porta vicino al mio viso ma non mi bacia. Sta aspettando qualcosa.
Le afferro i fianchi, palpando delicatamente la sua carne morbida tra le dita. La vedo chiudere gli occhi, socchiude le labbra e sospira. Allento la presa, poggio sulla sua pelle solo i polpastrelli. Salgo verso la vita con un movimento asfissiantemente lento. Ad ogni passo i suoi occhi si chiudono di nuovo e i suoi sospiri si fanno sempre più grevi. Quando arrivo al bordo arrotolato della canotta, mi fermo, aspettando un suo segnale. Quando Ram apre gli occhi, alzo piano il limite osservando il suo viso per cercare conferme. Si morde di nuovo il labbro. Lo prendo come un sì. Le sfilo dolcemente la canotta. La prendo per i fianchi chiedendole in silenzio di rimanere sollevata. Mi riempio gli occhi di lei, della morbidezza delle sue curve, della perfezione delle sue linee.
Sorride e si avvicina di nuovo al mio corpo accarezzandomi il ventre, scendendo sempre più in basso. Non riesco più a frenarmi. Cerco di non essere troppo irruento mentre mi volto facendola sdraiare. Scendo a baciarle il collo, Ram geme mordicchiandomi l’orecchio destro. Il mio desiderio di lei cresce sempre più. La sento sospirare mentre gioco con i suoi  i seni che sento già turgidi. Quando i sospiri si fanno più densi, le sue unghie iniziano a graffiarmi la schiena. Un urletto leggermente stridulo le sfugge dalle labbra, cerca di trattenerlo mordendomi ancora. Sento le sue mani cedere improvvisamente.
La guardo, ha il viso arrossato, tiene gli occhi chiusi in modo stranamente stretto.
 «Tom...» la sua voce è affannata.
«Stai bene?»
Apre gli occhi e si allarga in una risata.
«Benissimo! Non mi era mai capitata una cosa simile. Non così!»
«Non vorrai dirmi che...»
«Invece te lo dico!»
Ride più forte. Mi sdraio accanto a lei e non posso fare a meno di seguirla. Ram si volta e inizia ad accarezzarmi il petto.
«Buona educazione vuole che adesso ci si occupi di te, no?»
Le fermo le mani, non so perché. Credo che una parte di me non abbia desiderato altro da quando siamo entrati in questa stanza, ma qualcosa non è suonata nel verso giusto.
«Ram, fermati!»
«Come? Credevo che...» il suo viso è sbigottito.
«Lo volessi? Certo! Certo che ti voglio!» Riprendo ad accarezzarla. «Sarei un folle a non volerlo. Ram, tu mi piaci, sei fantastica, sei sexy, sei tutto quello che un uomo può desiderare. Ma non voglio che tu faccia qualcosa solo perché io… perché siamo arrivati a questo punto.»
Sorride. Inizia a baciarmi di nuovo, dolcemente.
«Devi promettermi che non farai niente che non vuoi, che qualsiasi cosa succeda, se non ti dovessi sentire a tuo agio o ci fosse qualcosa che non va, tu mi fermerai.»
Annuisce sbadatamente, mentre già mi sta baciando il collo e io sto perdendo di nuovo la connessione con la mia rete neurale.
«Porc… Sapevo dall’inizio che sarei impazzito per te.»
Solo la mia parte bruta sa quanto vorrei chiederle di non fermare la sua corsa mentre con i baci scende verso il mio ventre, di non fermarsi arrivata ai jeans, di slacciarli in fretta e iniziare a fare l’amore immediatamente perché il desiderio di lei mi sta distruggendo. Non lo faccio e non mento se dico che non mi pesa. Voglio solo che lei stia bene.
Mi da un nuovo bacio sulle labbra, poi si ferma a guardarmi negli occhi. Nonostante la fioca illuminazione stavolta non ho dubbi che sia arrossita, mentre la vedo mordersi le guance.
«Che c’è, bimba?» Non so perché l’ho chiamata così, forse perché in questo momento lo sembra un po’.
«Prima di andare avanti, credo che ci sia una cosa che devo dirti.»
Le do un bacio sul naso. Chiamo a raccolta tutta la mia buona volontà per placare il desiderio e non farmi influenzare dal fatto che sia in un letto semi nuda con me… e voglia parlare proprio adesso.
«Ti ascolto.» Sorrido.
«So che magari non ti sembrerà il momento più appropriato, ma...» si morde ancora le guance.
«Ram, se c’è qualsiasi cosa che ho fatto che non ti è andata a genio, dimmelo. Io voglio solo che tu stia bene.»
«Lo so, certo. Proprio per questo devo dirtelo. Non hai fatto niente che non va, ma è necessario che tu sappia una cosa e te l’ho tenuto nascosto fin troppo visto...» si guarda intorno e crea un piccolo circolo in aria tenendo l’indice teso, indicando il perimetro della stanza «...la situazione in cui mi sono decisa a dirtelo.»
«Credo che sia tardi per dirmi che in realtà sei un uomo.» Cerco di buttarla sul ridere, ma il suo discorso mi sta facendo un po’ spaventare davvero.
Ride, ci sono riuscito. Mi da un veloce bacio all’angolo delle labbra.
«Sono una donna, non preoccuparti. Solo che… so che può sembrare strano, ma... sono ancora vergine.»

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Capitolo 40
*** 40 - Ormai non piove ***



Quando ci siamo conosciuti, non avrei mai pensato che lui sarebbe stato il prossimo a cui l’avrei detto. Quando ci siamo scambiati il nostro primo bacio, sono stata tentata di farlo, ma poi mi sono detta che era poco probabile che la situazione si evolvesse in questa direzione perciò ho continuato a star zitta. Da quando siamo entrati in camera stasera, invece, ho sentito il bisogno di trovare il momento giusto per dirgli tutto. Spogliandomi, ho capito che non potevo più rimandare, ma ancora non riuscivo a dir nulla. Più andavamo avanti, più fingevo di essere sicura di quello che stavo facendo. Mi fingevo un’esperta, cercavo di fare ciò che ho sempre pensato si dovesse fare, solo per ingannare me stessa e convincermi che avrei potuto non dirgli nulla, ma gli scenari, più o meno probabili, che mi si prospettavano in nessun caso avevano un esito positivo. In un primo scenario, non dicevo nulla, continuavo così come stavo facendo, ma Tommaso capiva da solo la mia situazione. A quel punto avrebbe potuto arrabbiarsi perché non ero stata sincera con lui, oppure avrebbe potuto farsi un’idea sbagliata di me, povera sfigata verginella che l’aveva data via alla prima occasione perché la data di scadenza era passata da un pezzo. In un secondo scenario, continuavo in silenzio, fin quando un suono, un profumo o un movimento non mi avessero riportato dentro quella maledetta auto insieme a Dario Simoni. Allora avrei avuto uno dei miei attacchi di panico seguito da una crisi catatonica o isterica. In entrambi i casi, Tommaso andava via convinto di essere di fronte a una psicopatica e non lo rivedevo mai più. Non potevo permettere che niente di tutto ciò accadesse, non mi restava che affrontare la paura della sua reazione, anche se i dubbi non mancavano di certo. Mi avrebbe creduto? Avrebbe riso? Si sarebbe arrabbiato? Sarebbe stato felice? Avrebbe voluto continuare? Se ne sarebbe andato?

Tommaso, più semplicisticamente di quanto da me immaginato, si è limitato a non reagire. Quelle tre paroline sembrano essere state una doccia fredda e improvvisa, di sicuro inaspettata. Siamo entrambi imbambolati a fissarci. Una strana associazione di idee mi riporta a quando da piccola incrociavo gli occhi nel fare le linguacce a mio padre e lui mi rispondeva di stare attenta, che se passava l’angioletto mi avrebbe fatto un incantesimo e sarei rimasta bloccata in quel modo per sempre. Ecco, sembra essere arrivato a frizzarci in questa posizione.

Sono io la prima a sbloccarsi. D’improvviso, essere quasi nuda davanti a lui, cosa che fino a qualche istante fa per la prima volta in vita mia sembrava essere la sensazione più normale del mondo, mi imbarazza. Raccolgo in fretta la canotta e la infilo velocemente. Questo sembra attivare la sequenza di sblocco anche su Tommaso.

«Scusa, Ram. Oddio, ti prego scusami.» continua a ripetere in tono mortificato.

«Di cosa dovresti scusarti?» gli chiedo con un pizzico di acidità di troppo.

«Sono un coglione. Sono rimasto lì immobile come se mi avessi raccontato di aver strangolato il gatto da piccola.»

«Tranquillo, è una delle reazioni più accettabili che ho visto. Non hai idea di cosa sia pronta a fare o dire la gente quando si prendono certi argomenti. E parlano anche di tollerabilità e mente aperta! Ma io sono quella strana, lo so e l’ho accettato. Questo non significa che debba accettarlo anche tu.»

«Ram, frena.» Mi prende le mani per fermarle, mentre sto infilando di nuovo la felpa. Le allontano dalle mie. «Non ho reagito bene e ti chiedo scusa, ma non credi di stare correndo un po’ troppo?»

«Io starei correndo?» Lui non ride e capisco di essere l’unica ad aver afferrato l’ironia della sua frase in questo contesto.

«Mi sono bloccato, ma solo perché quello che hai detto mi ha spiazzato. Non me l’aspettavo e non credo tu possa biasimarmi per questo. Ma non c’è dietro nessun altro strano ragionamento, nessuna critica al riguardo. Solo un po’ di stupore.»

Per quanto poco lo conosca, credo che i suoi occhi non sappiano mentire.

«E dovresti considerare anche l’attenuante del caso: buona parte del mio volume sanguigno si trova ben lontano dal cervello, quindi le mie connessioni nervose sono rimaste a lungo senza ossigeno. Non ci si può aspettare da me una reazione immediata.»

Cerca di farmi ridere. Il fatto che ci riesca, in una situazione che ha dell’assurdo come questa, non può che stupirmi.

«Ram, è una cosa rara. Pensavo che tu fossi speciale, ma adesso che...»

«Frena Tommaso. Questo non cambia nulla di me. Non è una dote o una speciale qualità. Non fa di me un supereroe né una donna diversa dalle altre. Non dire né pensare niente del genere.»

«Non sarà un super potere ma non può non essere considerato.»

«“Una cosa del genere”. Non riesci neanche a dirlo.»

«Ram, non prendere ogni parola per un giudizio avverso nei tuoi confronti. Non lo è. Il fatto che tu sia vergine - ecco, vedi, l’ho detto, posso dirlo senza problemi, sei vergine - non toglie qualcosa all’idea che ho avuto finora di te, anzi ti valorizza.»

«Tom, io non sono vergine per un ideale morale o religioso. Quello che c’è dietro non è niente di poetico, niente che debba valorizzare una persona. Credo che non si possa neanche definire una mia scelta al 100%.»

«Cosa vuoi dire?» è visibilmente confuso.

Il momento di parlare è arrivato, senza girovagare per la stanza e senza cercare parole infiocchettate. Adesso ci vuole solo la verità.

«Il ragazzo che hai visto oggi, quello che mi ha quasi aggredito...»

«Togli il “quasi”. Ti ha aggredito, punto. Non ho idea di come si faccia a essere così stronzi. Come fa a sentirsi uomo gente del genere?» afferra il mio sguardo innervosito. «Ok, continua, scusa l’interruzione.»

«Dicevo, il ragazzo che hai visto oggi, si chiama Dario Simoni. L’ho conosciuto quando avevo dodici anni. Mese più, mese meno.»

«Hai detto dodici anni?»

«Sì, te l’ho detto che era una storia lunga, no?»


Ram si è addormentata, mentre io non riesco neanche ad immaginare di poter dormire stanotte. Non dopo quello che mi ha raccontato.

Credevo di essere io quello incasinato dei due. Non avevo capito un cazzo di lei! L’avevo immaginata come una ragazza al limite della perfezione, a scuola sempre voti alti, benvoluta da tutti ovunque andasse, una sana dose di cazzate ma senza esagerare, circondata da ragazzi che facevano a gara per guadagnarsi la sua attenzione. Beh, a quanto mi ha detto almeno sulla sua media scolastica ci avevo preso, bella consolazione. Dopo la laurea, un buon lavoro e una realizzazione professionale, ma con in mente l’obiettivo di poter comunque creare una famiglia. La mia versione di Ram aveva avuto come apice del dolore subito aver preso un paio di chili che non la facevano entrare più in un abito appena comprato, oppure un litigio con la migliore amica. Almeno fin quando non ha avuto la sfortuna di incontrare quel pazzo che la stalkerava. Non avrei mai creduto che fosse una ragazza con dei fantasmi così osceni nel suo passato. Non avrei mai osato pensare che avesse subito così tanto, che avesse sofferto così eccessivamente.

L’ho vista piangere in modo disperato, il cuore si strappava ad ogni sua lacrima. Quella sottospecie di uomo le ha rubato non solo l’affetto e l’amore delle persone più care al mondo, non solo il lavoro e la reputazione. Come se tutto ciò non fosse abbastanza, le ha portato via la serenità, la possibilità di vivere le sue scelte senza il timore di avere una crisi da un momento all’altro. E proprio quando lei è riuscita a riprendere in mano la sua vita, a ricominciare, ad andare avanti, a fare a meno della Dottoressa De Simone, fa la sua ricomparsa.

A mettere su tutto ciò una bella ciliegina ci sono io che, anche se inconsapevolmente, l’ho portata alle strette, a dover decidere di raccontarmi tutto ciò. Io che stanotte avrei solo voluto far l’amore con lei e farlo al meglio per riuscire a farla stare bene.

Le bacio i capelli, Ram fa una smorfia dolcissima muovendo il naso. Il suo viso è tornato quello della piccola secchiona con tanti amici che mi ero creato fino a qualche ora fa, ma adesso so cosa si nasconde dietro quegli enormi occhi castani e posso solo immaginare quanta forza le sia servita per ritornare a splendere così come io la vedo adesso.

Osservo fuori dalla finestra, la notte farsi più chiara. Ormai non piove più. Della fuggevole tempesta restano solo le gocce sui vetri e qualche nuvola più scura che ancora campeggia in cielo che è tornato prevalentemente sereno. Il sole deve essere alle porte, perché il blu scuro ha lasciato il suo posto a una sfumatura di azzurro polvere che all’orizzonte diventa ormai più simile al bianco. Tra poco quel chiarore verrà ad essere colorato di un lieve tono di ocra chiaro che col passare dei minuti si trasformerà in un giallo intenso e poi virerà all’arancione fuoco finché il sole non farà la sua entrata trionfale nella volta. Sempre che le nubi non decidano di accalcarsi nuovamente, impedendone lo spettacolo.

Prendo il mio telefono da sopra il comodino. Una piccola luce bianca lampeggiante mi ricorda che devo controllare quante volte mio fratello e gli altri mi abbiano stramaledetto per non averli avvisati che non sarei rientrato. Controllo le chiamate perse, un totale di dodici, di cui tre sono di mia madre. Non ho dato la buonanotte a Rose, cacchio. Su Whatsapp, i messaggi rientrano a stento nelle due cifre e l’appellativo più gentile che mi riserva mio fratello è “testa di cazzo”. Ridacchio, cercando di non far tremare troppo la testa di Ram. Gli rispondo in maniera sbrigativa. “Sono vivo. Ci vediamo a pranzo.”. Prima di posare di nuovo il telefono, guardo finalmente l’orologio. Sono quasi le sei. Poggio di nuovo la testa sul cuscino e chiudo gli occhi, anche se so che non servirà a dormire.


Devo essermi addormentata mentre mi accarezzava i capelli. La guancia sinistra è calda a contatto con la sua pelle che è rimasta nuda. Ho la gola secca per il mio solito e poco femminile dormire con la bocca aperta. Sento l’angolo sinistro delle labbra troppo umido e temo già di avergli sbavato sul petto. Un tocco di classe, non c’è che dire! Poco male, certo, sentito come sta russando a causa della posizione scomoda della testa. Fa ridere.

Fuori dalla finestra i primi raggi del sole iniziano a intravedersi e il mio primo pensiero razionale da un bel po’ di ore a questa parte si fa vivo: come farò a reggere l’evento di oggi dopo la notte appena trascorsa? E Dario si presenterà? Mark e Nico sono arrivati ieri sera. Se vedessero un uomo uscire dalla mia stanza, o peggio se ci avessero incrociato ieri mentre rientravamo, per me sarebbe la fine. Di nuovo.

Mi sporgo per cercare di vedere che ore sono dalla piccola sveglia poggiata sul comodino, mezza coperta dalla maglia nera che portava Tommaso. I miei movimenti devono spezzare il suo sonno.

Apre gli occhi di colpo come spaventato, li richiude in una fessura appena percettibile. Con la mano che non è bloccata dal mio corpo, si stropiccia il viso e copre un vistoso sbadiglio. Gli sorrido.

«Buongiorno bimba.» arriccia anche lui le guance in un sorriso.

Senza un vero motivo, mi torna in mente mio padre, quando avevo circa otto anni e mamma aveva già provato a buttarmi giù dal letto per troppe volte, allora mandava lui in camera, che mi svegliava con il solletico canticchiando la prima frasi di “Buongiorno bambina” di Ramazzotti. Uno dei primi veri ricordi che ho di lui, uno dei più dolci, di quando ancora ero, come qualsiasi figlia è stata almeno per un po’, una piccola principessa follemente innamorata di mio padre.

«Dovresti andare.» gli dico, poggiando di nuovo il mento sul suo petto.

«Lo so.» sposta un ricciolo dalla mia fronte, accompagnandolo dietro la nuca. Lascia la mano poggiata tra le mie scapole, sopra la felpa.

«Credo di doverti ringraziare, per la centesima volta da quando ci conosciamo.»

«Vuoi forse battere un record?» ride.

A quel sorriso, il più bello mai incontrato in vita mia, l’idea di lasciarlo andare sembra solo pura follia.

«Cosa faremo adesso?» non riesco a guardarlo mentre lo chiedo, mi volto di nuovo verso la finestra.

«Io non ho impegni.»

«Non era una domanda a breve termine.»

«Lo so.»

«E allora che senso ha la tua risposta?» lo guardo di nuovo negli occhi.

«Significa che non ho nessuna fretta.»

«Continuo a non capirti.»

Mi metto a sedere, incrocio le gambe e sposto i capelli sulla spalla destra in modo che possa vederlo senza difficoltà. Lui si raddrizza, dispiegando finalmente il collo. Appoggia la schiena alla testiera del letto.

«Sei stata sincera con me, voglio esserlo anche io. Non credevo di essere pronto a provare di nuovo qualcosa per qualcuno. Giuro che l’ultimo pensiero che mi passava per la testa era quello di innamorarmi di nuovo.»

Il suono di quella parola mi dà una scossa, sorrido cercando di camuffare il brivido che mi attraversa.

«Io volevo solo trovare un lavoro, suonare con la mia band e riuscire a crescere mia figlia non facendole mancare nulla. Quello era il mio unico obiettivo. Poi sei comparsa tu, una sconosciuta carina in un bar, con cui ho fatto la figura dello psicopatico. Ma ci siamo incontrati di nuovo e poi ancora, e ogni volta che ti guardavo o che parlavamo sembrava come se non avessi aspettato altro per tutta la vita. Entrambi abbiamo avuto i nostri problemi. Cacchio, la tua storia è da romanzo! Credo che potresti scriverci davvero un libro e faresti milioni.»

Qualcosa in questo discorso mi disturba, stavolta il brivido è poco piacevole, perciò lo interrompo.

«Tom, davvero, non sto capendo dove vuoi arrivare.»

«Voglio solo dire che potremmo provare a dare un finale felice al romanzo. Non facciamo le cose di fretta, ma non perdiamoci di vista. Dio...» copre il viso con le mani. «Credo di non saper ancora parlare. I miei neuroni sono in coma.» Lascia di nuovo il viso libero. «Quello che sto cercando di dire è che vorrei conoscerti, conoscerti davvero. Non sapere la tua storia, ma capire chi sei, chi è Ramona. E farti conoscere chi è Tommaso.»

Sorrido. Mi tuffo a baciarlo sulle labbra, fregandomene se abbiamo entrambi la bocca impastata dalla nottata in bianco.

«Direi di iniziare dandomi il tuo numero.» aggiunge mentre gli sto ancora appiccicata alle labbra. «Così la prossima volta non dovrò aspettare che sia la fortuna a farci incontrare.»

Afferro il suo telefono, lo sblocco facilmente perché non ha impostato nessuna protezione particolare. Registro il mio numero, mentre gli faccio la linguaccia. Poi guardo l’orario.

«Cacchio!»

«Che succede?»

«Sono quasi le sette. Rebecca mi aspetta, già pronta per andare via, a colazione tra meno di un’ora. Ci saranno anche altri due nostri colleghi arrivati ieri per l’evento. E devo fare la doccia. Dopo ieri sera mi sento ancora puzza di anni ‘80 addosso!»

«Ho capito, devo scappare di già. Chiamo subito un taxi.» compone il numero mentre gli chiedo scusa, baciandolo ancora.

Inutile dire, che non smetterei mai di farlo.

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Capitolo 41
*** 41 - Una lunga giornata ***




Rientro in casa facendo meno rumore possibile. Sono quasi le otto perciò sono convinto che li troverò ancora addormentati. Conoscendoli, saranno rientrati non prima delle sei di stamattina e, almeno per la maggior parte, ubriachi. Mi fermo in cucina ad ascoltare, come sospettavo non si sente anima viva. La casa è talmente silenziosa che sospetto addirittura che non siano ancora rientrati in casa da ieri sera.
Apro piano la porta della mia camera e quello che mi si propone mi strappa un sorriso: la schiena scoperta di Emma e la mano di Giacomo che la accarezza nel sonno. Torno per un istante nella camera d’albergo di Ram, sento di nuovo la sua pelle sotto le dita e i suoi capelli farmi il solletico sul viso. Un brivido mi scuote. Chiudo di nuovo la porta alle mie spalle e afferro il telefono. Fisso lo schermo, vorrei chiamarla ma so che per lei la giornata sarà piena di impegni e non voglio farle perdere tempo. Mi convinco a posare di nuovo il cellulare all’interno della tasca dei jeans.
Vado verso la stanza di Alfredo e Giorgio e l’immagine che vedo è sicuramente meno romantica. Rido cercando di non farmi sentire, mentre li guardo entrambi sbavare sul cuscino in posizioni che sembrano uscite da un quadro di Picasso. Giorgio fa uno strano verso, simile a un grugnito e si rivolta nel letto finendo per abbracciare il braccio di Alfredo. Non riesco più a trattenermi e scoppio in una risata talmente forte da svegliarli. Entrambi si lamentano del casino, ma non aprono del tutto gli occhi cercando di continuare a dormire. Alfredo mi tira addosso uno dei cuscini anche se probabilmente non ha capito chi sono, mentre Giorgio conquista l’altro e se lo preme sulle orecchie per non sentirmi. Cerco di tapparmi la bocca con le mani, ma il risultato non è dei migliori, il suono della risata viene solo attutito e loro continuano a lamentarsi e contorcersi nel letto cercando il modo di riprendere a dormire. Alfredo si preme le tempie, probabilmente colto dal classico mal di testa post-sbronza. Il suo gesto mi spinge ad accontentarli, esco dalla stanza lasciando che possano riprendersi.
Il pensiero di dormire per qualche ora recuperando la nottata passata quasi in bianco è allettante, ma non so posso infilarmi tra Alfredo e Giorgio, né tanto meno fare il terzo incomodo con Emma e Giacomo. Sarebbe disponibile la stanza che occuperanno Steve e Bree, ma arriveranno oggi e non vorrei far trovare loro le lenzuola già utilizzate. In cucina, il divano non sembra dei più comodi ma è l’unica alternativa al restare uno zombie per l’intera giornata. Ancora una volta il mio pensiero torna a Ram: come farà a resistere tutto il giorno a lavorare avendo dormito un’ora o poco più? Mi trascino stancamente sul divano e, tolte solo le scarpe, cerco di raggomitolarmi alla meno peggio per riuscire ad entrare del tutto nello spazio a mia disposizione. Utilizzo il giubbotto come coperta e poggio il cuscino che mi ha tirato Alfredo sul bracciolo, cercando di non pensare alla quantità di schifezze che potrebbe ospitare. Chiudo gli occhi e dall’interno delle mie palpebre vedo il viso di Ram, coi capelli arruffati, che mi sorride. Vedo il suo bellissimo corpo, sento il suo calore contro la mia pancia, come fosse un film ci guardo abbracciati a letto, mentre la punta del suo dito disegna circoli sul mio petto. Pian piano scivolo nel sonno e i ricordi diventano stupendi sogni.

La prima impressione che ho dell’Hotel Dea Nazionale non è per nulla positiva. Guardo Rebecca che sorride rapita fissando quello che per me al momento è solo un enorme e anonimo cubo di cemento grigio con una orribile insegna rossa. Fingo un sorriso che non riesce in alcun modo ad avvicinarsi a un’espressione naturale, ma lei è talmente su di giri che non se ne accorge.
«Ragazzi» annuncia come fosse la direttrice di backstage della prima di un’opera in teatro «Iniziamo!»
Si avvia a passo sicuro verso l’entrata, Mark e Nico la seguono rimanendo abbastanza scettici, io mi accodo a chiudere il nostro piccolo gruppetto continuando a chiedermi se non fosse stato quasi meglio organizzare l’evento all’interno dell’hotel in cui abbiamo soggiornato.
Varcata la porta d’ingresso, resto piacevolmente colpita dalla moderna eleganza con cui si presenta l’ambiente della hall. Senza troppi fronzoli riesce a trasmettere allo stesso tempo familiarità e professionalità, alternando pareti color crema a pannelli in legno scuro. L’ambiente è vivacizzato dai toni del blu presenti sul grande quadro a disegno astratto che fa da sfondo alla reception, che riprende i colori dei cuscini appoggiati sugli eleganti divani dalla linea semplice e minimale che sono presenti nell’area d’attesa. Da dietro il bancone con una pulitissima superficie in vetro, ci danno il benvenuto due ragazze belle giovani e sorridenti, coi capelli raccolti in una ordinata coda di cavallo e un trucco sobrio.
Rebecca si presenta e spiega che siamo arrivati a dare un ultimo colpo d’occhio alle aree dove si svolgerà l’evento, prima dell’apertura ufficiale, che avverrà alle 10:30, tra circa quaranta minuti. Le ragazze non sono a conoscenza di tutti i dettagli, ma le indicano che chi era incaricato dell’allestimento è ancora a lavoro. Il viso di Reb si trasforma in una statua di cera.
«Ancora a lavoro? Non può essere! Avrebbero dovuto finire tutto già ieri sera. Maledizione! Sapevo di non dovermi fidare, sarei dovuta venire di persona a monitorare.»
«Reb, sei sempre la solita esagerata!» la rimprovera Nico, con il tono irriverente di quando non si è ancora svegliato del tutto. «Andiamo a vedere a che punto sono, no? Magari stanno solo avvolgendo due fili. Non rompere le palle già da adesso, la giornata è lunga!»
Rebecca lo fulmina con lo sguardo, questa è una giornata troppo importante per rischiare che Nico o chiunque altro la rovini con il suo fare poco professionale.
Le ragazze alla reception non sembrano badare più di tanto a quel modo di parlare poco appropriato, anzi quella che sembra la più giovane delle due lo guarda con un sorrisino abbastanza esplicito. Sarà una di quelle a cui più che l’uomo rude o il bel tenebroso, piace lo spaccone? L’altra, invece, ha un comportamento più professionale e ci indica semplicemente la strada da fare per arrivare nel punto stabilito e che ci farà raggiungere il prima possibile da uno dei responsabili che potrà esserci di maggiore aiuto.
Ringraziamo e ci avviamo verso l’ascensore, non senza prima aver assistito a Nico che ammicca sfacciatamente alla ragazzina che in risposta si mordeva il labbro inferiore.
Saliamo in ascensore. Non appena le porte si chiudono, Rebecca assesta un bel pugno sulla spalla di Nico.
«Ahia! Sei pazza?»
«No, sei tu il pazzo. Non stiamo giocando, non sei qui per trovare una squinzia da portarti a letto. Siamo qui per lavoro e, in questo momento, sono il tuo capo. Pretendo un comportamento consono! Non voglio niente di meno del massimo che ognuno di voi può dare. Intesi?»
Anche se non sono coinvolta nella conversazione, Rebecca è stata talmente autoritaria che sono tentata di rispondere al suo posto. Nico, invece, si limita ad annuire con un cenno del capo e si avvicina a sussurrare qualcosa all’orecchio. Non sento cosa le dice, ma da come lei si scioglie in una risatina e dal rossore che le prende le guance, non ho dubbi che sia qualcosa di vietato ai minori. Mark sbadiglia e risponde che se vuole il meglio deve procurargli altro caffè.
Le porte dell’ascensore si aprono. Attraversiamo il corridoio con la stessa fierezza di quattro astronauti diretti verso un lancio spaziale. Ci vorrebbe uno slow motion accompagnato da una colonna sonora epica, invece ci fa da sottofondo solo il rumore dei nostri tacchi che calpestano il parquet tirato a lucido.

Uno squillo di tromba alla carica mi fa trasalire, svegliandomi di scatto e agitandomi così tanto da cadere dal divano e finire con il culo per terra. Inizialmente non capisco dove sono o cosa sia successo, sento solo il freddo del pavimento attaccarsi alla schiena. Metto a fuoco Alfredo e Giorgio che ridono a crepapelle mentre si battono il cinque e riesco finalmente a inquadrare di nuovo chi sono, dove mi trovo e perchè.
«Non ridi più adesso, eh!» mi dice Alfredo continuando a ridere.
Lancio contro di lui il cuscino ricambiando il favore di stamattina.
«Sei stanco, povero cucciolo?» Giorgio si siede accanti a me e fa la voce da mammina preoccupata. Inizia a piantarmi gli indici nel costato con il suo modo troppo irruento di fare il solletico. «La panterona di ieri sera non ti  ha fatto dormire, eh? Cattivona!»
«Ma che panterona? Sei fuori strada.» Lo spingo giù dal divano.
«Quella con cui sei andato via ieri sera. Hai detto che uscivi per cinque minuti, poi ti sei avvicinato alla tigrona con la maglietta a rete e… puff, eccoti sparito per tutta la notte. Non hai neanche risposto al telefono. Giacomo ancora un po’ e chiamava la SWAT!»
«Sono stato un idiota a non avvisarvi. Dovevo accompagnare Ram al taxi, ma poi...»
«Fermo un attimo. Chi? Mi sembra di aver sentito già questo nome.»
«Ram?» interviene Alfredo. «La riccia del pub di Steve, quella del pazzo che Joshua ha mandato al tappeto?» 
«Che diavolo ci faceva lì?»
«In realtà, che ci crediate o meno, è qui a Roma da un paio di giorni anche lei per lavoro. La sua azienda sta facendo accordi, indovinate con chi? Con una delle aziende di Scherini, il braccio destro del fratello di De Blasi.»
«Roba da non crederci!» commenta Alfredo.
«Sai a cosa non credo io, invece?» aggiunge Giorgio. «A Tommaso che becca quella tipa a chilometri di distanza da casa, sta tutta la notte fuori casa e poi vuole farmi credere che non se l’è ripassata.»
«Invece dovresti credermi. Stavamo parlando e il tempo è volato via.»
«Il buon vecchio romanticone di un Tommaso!» Alfredo fa la ripassata, neanche lui ci crede.
Dopo tutto, non posso dargli torto, neanche io crederei a questa storia se me la raccontassero. Non ci credo neanche adesso, in realtà.
«Quando atterra l’aereo di Steve e Bree?»

Durante la mattina, i partecipanti sono sembrati abbastanza interessati alle due presentazioni che si sono susseguite. L’apertura di Rebecca ha particolarmente attratto l’attenzione del suo pubblico. Dalle loro espressioni si intuiva che il suo stile da “elevator pitch”, molto entusiasmante e coinvolgente, li aveva presi ancor più della sua insindacabile bellezza. Il che è tutto dire, visto che la presenza era, come c’era da aspettarsi, per lo più maschile, ultra cinquantenne ed ovviamente stupita dal veder apparire una donna a rappresentanza della LambdaDev.
Giulio e Virginia ci hanno seguito in videoconferenza su Skype. Giulio è entusiasta di come è andata la prima parte della giornata, Virginia porge le sue prevedibili critiche ma senza calcare troppo la mano. Anche Nico e Mark, infiltrati tra i presenti mentre uscivano dalla sala conferenze per recarsi all’area dove il catering ha preparato il buffet, riportano ottime reazioni captate origliando conversazioni sparse.
«Che facciamo adesso? Sto morendo di fame. Possiamo pranzare o dobbiamo preparare qualcosa?» chiede Mark.
Rebecca prende il programma sul tavolo e ripassa velocemente il programma del pomeriggio, come se non lo conoscesse già a memoria.
«Gli ospiti hanno due ore di pausa. Al rientro ci sarà il vostro intervento sul nostro progetto. Ram, sei pronta?»
Ho la gola secca e mi tremano le braccia, me la sto facendo sotto e ho dimenticato ogni parola del discorso che avevo preparato in aereo. Normale amministrazione insomma, per cui mi limito a sorridere. «Certo Reb, prontissima.»
«Mark, per gli aspetti tecnici del progetto ci pensi tu.»
«Non troppo tecnici, però!» aggiungo tanto spontaneamente che quasi non me ne accorgo.
Rebecca mi guarda male per un attimo. «Stavo per dirlo.» Nonostante stia filando tutto liscio, ha ancora i nervi a fior di pelle. «Mark, non scendere in dettagli troppo tecnici. Nico, tu supporterai la presentazione mostrando la demo. Dopo il vostro intervento, ci sarà un altro breve intervento conclusivo da parte dell’assessore regionale all’istruzione. Infine ci sarà il confronto diretto. Ogni partecipante potrà avvicinarvi e farvi domande, durante una sorta di aperitivo. Mark e Nico, cercate di sembrare persone professionali e socievoli, mi raccomando.»
«Non dovreste occuparvene voi due?» chiede Nico. «Non vorrei passare per il solito maniaco, ma i rapporti uno-a-uno con i cinquantenni avrebbero maggiore successo con un paio di tette a condire la conversazione.»
Rebecca lo fulmina con lo sguardo, le sue dita si serrano stropicciando il programma immaginando di avere tra le dita il suo collo al posto della carta. «Se ti sento dire una cosa del genere di nuovo, giuro che farò un rapporto negativo a Giulio sulla tua attività, uno di quelli che non so dove ti porteranno a lavorare il prossimo mese.»
«Ehi, calma! Non c’è bisogno di chiamare il fratellino per una battuta.»
«Stai esagerando Nico.» Mi intrometto nella discussione, prima che a Reb scoppi un’arteria. La sento sbuffare come un toro imbestialito. Per evitare qualsiasi scatto improvviso, mi inserisco anche fisicamente tra loro. «Sai quanto è nervosa per la buona riuscita di questo evento. Tutti vogliamo portare a casa buoni risultati, ma con questo atteggiamento non sembra che tu ci stia provando.»
«Ho solo fatto un’osservazione lecita. Non vorrai negare che ho ragione.»
«Ci sono milioni di modi per esprimere le proprie osservazioni. Tu sei bravissimo a scegliere quella più sbagliata. Sei stato scortese, irritante, nonché poco professionale. Il fatto che certi tipi di battute possono essere state accettate fuori dal posto di lavoro, non implica che tu possa usare lo stesso tono qui e adesso.»
Non ammetterà mai il rimprovero, non chiederà scusa e non assumerà l’aria da cane bastonato, su questo nessuno ha dubbi, ma almeno resterà momentaneamente in silenzio continuando a fare il sostenuto.
«Reb, potresti andare avanti, per favore?»
Mi guarda negli occhi, sono rossi da far quasi paura. Riconosco quello sguardo perché mi è appartenuto per molto tempo, si sta sforzando con tutta la forza possibile per non avere una crisi di pianto isterico. Fa un respiro profondo, chiude gli occhi, tossicchia per riprendere il controllo, scuote via la rabbia. Apre gli occhi, è tornata la nostra Rebecca.
«Dicevo… Durante il confronto sarete voi, Mark e Nico, a dover restare con i partecipanti. Anche se non è il ruolo che vi è più congeniale, vi pregherei di mettercela tutta. Questo perché nel pomeriggio arriverà Scherini con i suoi soci quindi io e Ram dovremo andare a parlare ancora con loro, sperando di chiudere la partnership. Possiamo contare su di voi?»
«Sai che non è il nostro forte imbambolare i clienti. Le parole non ci mancano, ma non è la stessa cosa di scherzare in ufficio. Ci sarebbe stato bene Max in questa situazione.» risponde Mark.
«Sono d’accordo con te, Max sarebbe stato nel suo mondo, ma non c’è. Ci siete voi. L’incontro con Scherini non era previsto. Purtroppo o per fortuna, le cose si stanno muovendo più velocemente del previsto. Potete farcela. Non sarà poi così difficile tenere a bada un centinaio di cinquantenni!»
«In tutto questo non mi hai ancora detto se posso andare a mangiare.»
Rebecca fa finta di pensarci su. «Vi do cinque minuti. Arraffate tutto quello che potete e portatelo qui!»

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Capitolo 42
*** 42 - Franciacorta ***




Il mio intervento è appena terminato. Ho parlato a ruota libera per almeno un’ora, senza quasi prendere fiato, talmente veloce che non ricordo neanche cosa ho detto. Spero di non aver fatto qualche enorme gaffe che verrà postata sui social per almeno un mese. Mi è capitato alla prima presentazione con la SoftWaiting, quando ancora non ero la loro oca dalle uova d’oro e non ho alcuna voglia di riviverlo. Mark è subentrato al mio posto in maniera eccellente anche se si nota che è molto agitato, ha la fronte imperlata di sudore ma la sua parlantina lo aiuta ad andare avanti. Fosse venuto Luca con noi, probabilmente farebbe il suo discorso proiettando un documento su cui scrivere in real-time tanto è restio a parlare.
Mi allontano dalla postazione per raggiungere Rebecca che da un angolo del palchetto osserva tutta la scena con in mano il cellulare collegato in videochiamata con Giulio e Virginia. Osservo la platea di persone che ascoltano Mark. La maggior parte ha lo sguardo perso nelle slide che scorrono alle sue spalle, per quanto abbia cercato di non essere troppo tecnico, sta comunque parlando di cose che il 70% dei presenti non ha interesse a comprendere. Sono stata sempre contraria a questo tipo interventi davanti a un pubblico simile, ma Giulio e Reb erano d’accordo che colpire il 30% di partecipanti competenti in materia avrebbe potuto fruttare ben di più rispetto al riempire quel tempo con argomenti più comuni ma meno d’impatto. In fondo il nostro reale obiettivo era stimolare l’interesse di una partnership e il target era proprio quel 30%! Farli innamorare delle nostre tecnologie era il segreto della riuscita: che gli altri dormissero pure per quei quaranta minuti, non era importante.
Questo è il primo momento in cui riesco a fermarmi oggi. Osservo l’orologio, fortunatamente la giornata è quasi finita! Il calo di adrenalina fa improvvisamente gravare sulle mie spalle tutto il peso delle pochissime ore di sonno di stanotte. Guardo Rebecca stare vigile, senza un minimo segno di cedimento e mi chiedo come faccia. Non credo abbia dormito molto più di me eppure sembra attivissima, come se avesse una flebo di caffeina in vena a pieno flusso. Io, invece, sento le palpebre improvvisamente pesanti e la testa svuotata da ogni sinapsi. Sbadiglio, in maniera un po’ troppo evidente. Persino Mark si volta a guardarmi, con lo sguardo terrorizzato che urla “sto facendo schifo se faccio sbadigliare anche te”. Imbarazzata, sorrido facendo finta di nulla e gli faccio un rapido cenno con la mano per indicargli di continuare. Quasi istantaneamente il telefono vibra. Lo estraggo dalla tasca della giacca sperando di non distrarre tutti anche stavolta. Trovo un messaggio di Giulio che mi ordina di prendere un caffè e smetterla di sbadigliare. Afferro la sfuriata che avrebbe voluto farmi ma da cui si è trattenuto. Prima di posare nuovamente il cellulare e assecondare il suo ordine andando a prendere una dose di sana caffeina, controllo velocemente il resto delle notifiche. C’è un messaggio di Diego che decido di leggere dopo. Da parte di Tommaso, nulla. Cerco di dirmi che non fa niente, che è normale, che sono passate poco più di otto ore, che anche lui ha dormito pochissimo ed è possibile che stia recuperando il sonno perduto, ma la verità è che ci speravo. Mi scuoto, cercando di cancellare il broncio che mi si è stampato in viso prima che qualcuno se ne accorga. Busso alla spalla di Reb e le faccio segno che mi sto allontanando per qualche minuto, ma mi dedica non più di qualche istante di attenzione. Non c’è nessun motivo per cui essere agitata, ma riuscirà a rilassarsi solo quando l’intera giornata sarà finita. Vorrei dirle di respirare e osservare quanto bene stia andando l’evento, ma so che otterrei l’effetto contrario perciò evito di aggiungere altro e vado a cercare il mio caffè.

L’arrivo di Steve e Bree ha rinnovato l’allegria di tutta la combriccola, facendo dimenticare la stanchezza della serata precedente. Hanno raggiunto l’appartamento in taxi perché nelle condizioni di Bree era impensabile farla viaggiare in treno e metro. La sua pancia è adesso veramente enorme e anche i piccoli spostamenti la stancano. L’arrivo della piccola K, dopo tutto, è previsto tra poco più di tre settimane e, nonostante lei si senta bene, la pesantezza della bambina inizia a farsi sentire.
«Ragazzi mi siete mancati tanto e non vedo l’ora di sapere com’è andata, giuro. Ma al momento la mia priorità è fare la pipì! Questa monella mi preme sulla vescica in un modo sconcertante.» ci annuncia, quasi imbarazzata, non appena entrata in casa.
«Vieni con me, dai.» Emma, ridendo le fa strada verso il loro bagno.
Alfredo ha già messo la caffettiera sul fuoco, mentre Giorgio ha già messo una birra aperta in mano a Steve ancor prima che ci finisse di salutare.
«Fammi prima posare questa roba in stanza!» lo rimprovera.
Giacomo si offre volontario, prende le valigie e si fionda verso la stanza che avevamo riservato loro dopo aver indicato a Steve di accomodarsi sul divano e rilassarsi.
«Ragazzi, ma io sono rilassato!»
«Steve, hai appena fatto un viaggio in aereo con una donna incinta di otto mesi abbondanti e, sempre con lei, sei stato nel traffico romano.» gli dico massaggiandogli le spalle «Tutto ciò non tenendo conto del piccolo dettaglio che la donna incinta è la madre di tua figlia e che tra meno di un mese sarai padre! Hai senza dubbio bisogno di rilassarti, fidati di me.»
«Quello di cui ho bisogno sapete cos’è.» cede e prende un sorso di birra.
Giorgio si avvicina a lui annusando l’aria. «Una doccia, come minimo.»
«Idiota!» Steve lo afferra per il collo fingendo di soffocarlo.
«Da qui si sente ancora di più!» risponde con la voce volutamente stridula.
Giacomo rientra nella stanza, un braccio intorno alla vita di Emma a tenerla attaccata a sè. La cosa non sfugge a Steve.
«E quello cos’è?» li indica come se avesse appena visto uno scaratopo attraversare il corridoio. «Avete un bel po’ di roba su cui aggiornarmi, non c’è dubbio!» butta giù un altro sorso di birra continuando a tenergli gli occhi fissi addosso.
I due ridono e, per la prima volta da quando la conosco, vedo Emma leggermente arrossita. Se ripenso alla prima volta che ci siamo incontrati e al suo coltello puntato nella mia direzione, questo mi sembra un miracolo. Si è rivelata una persona così diversa! Non conosciamo a fondo la sua storia, non ce l’ha mai raccontata, l’unica cosa che ho davvero capito di lei è che quel muro di aggressività serve a tenere nascoste le sue fragilità. Guardo Giacomo, non avevo mai visto i suoi occhi così luminosi, stento a riconoscerlo con la sua espressione un po’ rincitrullita, tipica di un ragazzo che scopre la differenza tra l’insinuarsi tra le cosce di una donna e amare. Non so se sia davvero l’uomo per lei: è pur sempre il mio fratellino e forse è per questo che non riesco a vederlo come una persona tanto forte da riuscire a caricarsi il peso del passato di Emma, qualunque esso sia. Ma la ama e questo può fare miracoli. Spero che riesca a scavalcare quel muro e abbatterlo, riuscendo a proteggerla sul serio.
«Il caffè è pronto. Lo zucchero è sul tavolo insieme alle tazzine.» ci avverte Alfredo che già sorseggia il suo.
Prendo una delle tazzine dal bancone, tuffo un cucchiaino di zucchero nell’acqua scura che abbiamo il coraggio di chiamare caffè e rigiro velocemente. Butto giù tutto come fosse una medicina. La caffeina è pur sempre una necessità, anche quando il sapore fa così schifo.
Bree esce dal bagno e arriva ondeggiando a buttarsi sul divano.
«Quando esce da qui, gliela faccio vedere io a questa piccola impertinente! Mi sta distruggendo la schiena.» Si appoggia a Steve, che prende a massaggiarle piano le spalle. «Ehi!» rivolgendosi all’enorme pancione «Con tutti questi calci stai solo peggiorando la tua situazione, capito? Starai chiusa in casa in punizione fino a venticinque anni!»
Steve le porta le mani sul pancione. «Non sarà una punizione per lei, amore. La nostra piccola vorrà sempre stare con il suo papone! Non ci chiederà mai di uscire.»
Bree lo osserva con aria quasi schifata. «Sto per vomitare.»
Ridiamo del loro dolcissimo siparietto. La mia è una risata amara, però. Penso alla piccola Rose che non vedo l’ora di riabbracciare. Ma a fare più male sono i ricordi.
«Ti prego cantale qualcosa! Non è stata ferma un attimo e credo che se continua così finirà per scivolare fuori senza che neanche me ne accorga.» mi ripeteva non appena tornato a casa dal lavoro. Lei si sdraiava sul letto e io mi appoggiavo perpendicolare a lei, le mani sul pancione, e iniziavo a cantare sottovoce Dormi. I Subsonica non sono proprio nelle mie corde ma a Rose quella canzone sembrava piacere. L’avevano passata in radio una sera mentre eravamo in macchina e Simona era rimasta stupita di come l’avesse fatta calmare. Da quel giorno ogni volta che si agitava tanto da stancarla la usavamo per farla quietare.
Giacomo deve essersi accorto che la mia mente ha iniziato a vagare, mi da un colpo ben assestato con le dita tese al centro del fianco facendomi trasalire. Mi scuoto, ricambiandolo con una lieve spinta.
«A voi com’è andata?» ci chiede Bree.
Stavolta rispondiamo, Alfredo fa da portavoce e riassume questi giorni romani che speriamo segnino l’inizio della nostra avventura.

I partecipanti alla sessione pomeridiana del nostro evento stanno defluendo dalla porta principale della sala in cui sono stati per un bel paio d’ore ad ascoltarci in modo più o meno attento. Osservo la scena dal fondo della stanza, dove mi sono rifugiata in seguito al mio evidentissimo sbadiglio. Reb saluta e ringrazia velocemente l’assessore che ha tenuto l’intervento finale, mentre Mark inizia a staccare l’attrezzatura. Non appena Reb si libera degli “obblighi sociopolitici”, come li ha definiti per tutta la settimana, fa le ultime raccomandazioni a Mark e Nico e mi viene incontro.
«Scherini è già arrivato?» allunga il collo a cercarlo tra le persone che stanno adesso migrando verso l’area già adibita per l’aperitivo.
«Non l’ho visto arrivare. Vuoi che vada a chiedere alle receptionist?»
«No, restiamo qui.» fa finta di essere calma, ma non riesce a tenere ferme le mani. Guarda l’orologio. «Arriveranno.»
Uno dei ragazzi addetti al catering, si avvicina con un vassoio su cui trasporta diversi flûte e lo fa esaminare a Rebecca annunciando che si tratta, come richiesto, di un Franciacorta Rosé. Lei è talmente ossessionata dalla buona riuscita della giornata che finanche adesso recita la parte della suocera ficcanaso. Prende uno dei bicchieri e beve metà del contenuto, ringrazia il ragazzo e lo invita a passare tra gli ospiti.
La figura di Scherini, che nel suo trench ricorda un po’ il Tenente Colombo, si delinea alla porta principale. Non appena ci vede, si apre in un sorriso.
«Eccovi qua, stavo a cercà proprio du’ fate come a voi!»
Non riesco a fare a meno di rispondere sorridendo di gusto, mentre Reb, nervosa com’è, ha stampato in viso un sorriso forzato.
«Buonasera, è un piacere anche per noi rivederla»
Un altro cameriere ci si accosta e Scherini afferra al volo due flûte. Rebecca fa notare che ha ancora il suo in mano, perciò ne porge uno a me e beve dall’altro.
«Se ci vuole seguire, possiamo usufruire di una stanza più tranquilla.»
«Non vorrei mai rifiutare l’invito de ‘na bella ragazza come te, ma se non ve dispiace vorrei aspettà i du’ simpaticoni De Blasi. Ce tengono.»
«Oh, non si preoccupi. Vuole approfittare del buffet nel frattempo?»
Reb indica con un ampio movimento del braccio la via per la zona ristoro,  che sarebbe semplice scambiare per quello di un matrimonio.

«E dopo l’esibizione che vi ha detto? Siete piaciuti?» ci chiede Bree mentre prende un cucchiaio di gelato da un bicchiere di plastica.
«In realtà non ci siamo ancora sentiti!»
«Non era lì con voi? Perché non vi siete fiondati a chiedere qualcosa?» ci chiede Steve.
«Non volevamo sembrare disperati.» risponde Giorgio.
«E poi siamo stati un po’ impegnati.» aggiunge Giacomo con un sorriso malizioso mentre mi assesta una gomitata.
«Cosa aspettate a chiamarlo?»
Rimaniamo tutti in silenzio, vagando con lo sguardo da un volto all’altro, aspettando qualcuno che abbia il coraggio di ammettere la verità: se non lo chiamiamo, non avrà modo di rifiutarci.
«Prendete quel telefono e chiamate, forza!»

I due fratelli De Blasi non si sono fatti attendere molto. Dopo aver approfittato nuovamente del gentile servizio dei ragazzi di sala, ci siamo rintanati nel piccolo ufficio che ci hanno riservato. Al contrario di quanto è avvenuto alla cena, i due fratelli fanno solo da osservatori mentre è Scherini a contrattare i dettagli dell’accordo con Rebecca. Dal canto suo, Reb sembra aver finalmente riacquistato fiducia in sè stessa e messo da parte l’ansia che l’ha tenuta prigioniera per l’intera giornata. Mi chiedo se non sia l’effetto del Franciacorta.
La stanchezza torna a pesarmi addosso, dato che anch’io sono stata relegata al ruolo di scaldasedia. Sento le palpebre chiudersi e la testa cadere. Cerco di tirarmi su con dei pizzicotti alle cosce e tenendo la mente impegnata contando i quadretti presenti sulle loro cravatte.
Mentre Reb e Scherini stanno discutendo di tassi di conversione, il cellulare del più anziano dei De Blasi, quello che ci ha dato un po’ di filo da torcere, inizia a far rimbombare una delle improponibili suonerie monofoniche del Nokia 3310. Quel suono fastidioso mi riporta a quando ero una sedicenne, al terzo superiore, in un’aula mezza diroccata, a giocare a Snake con il nuovo telefonino di Vale. Per un attimo rivedo il suo sorriso un po’ storto, la pelle olivastra e le labbra carnose a incorniciare le stelline dell’apparecchio. Ricordare il suo volto mi dà una fitta al cuore, breve ma intensa. Perdo un respiro. Poi tutto torna normale.
De Blasi estrae finalmente dal taschino interno della giacca l’aggeggio dal suono infernale e risponde. Ovviamente mi accorgo che non ha in mano uno degli indistruttibili telefoni tanto desiderati negli anni ‘90, ma il modello di iPhone appena messo sul mercato. Davvero credevo di vedergli in mano uno di quegli aggeggi blu e grigio con lo schermo verdognolo?
Va accanto alla porta a rispondere. Facciamo tutti silenzio, mentre saluta la persona all’altro capo, liquidandola velocemente con un “sono in riunione, la richiamo appena posso”. Posa nuovamente il telefono all’interno della giacca e, scusandosi, torna a sedersi.
Ram e Scherini ricominciano la loro conversazione. Nessuno dei due ha realmente bisogno degli altri presenti nella stanza, quindi mi concentro sui due De Blasi che hanno iniziato a parlottare tra loro.
«Quella pazza di Caterina ha dato il mio numero personale.»
«Non capisco perché ancora non l’hai licenziata quella lì.»
«Me lo chiedo anche io a volte.»
«Chi era? Un rompicoglioni?»
«Fortunatamente no. Erano i ragazzi di ieri.»
I ragazzi di ieri? Sta parlando del gruppo di Tommaso, ne sono quasi certa.
«Non abbiamo potuto parlare ieri sera. Avevo troppa gente con il fiato sul collo per la conclusione della serata e quel coglione che si sente il figlio illegittimo di Tyler continuava a stressarmi. Ti rendi conto che ha avuto la faccia tosta di chiedermi il doppio di quanto pattuito?»
«Io ero già contrario all’idea di pagarli. Lo sai.»
«Lo so, infatti ha ottenuto un bel calcio nel sedere. Lui e quei quattro deficienti che si porta dietro.»
«Sono degli esaltati. I tuoi ragazzi, invece...»
I loro sguardi si fissano simultaneamente su di me. Sposto lo sguardo al soffitto, ma credo che si siano accorti fin troppo bene che stavo origliando la loro conversazione. Smettono di parlare, rimandano a dopo. Avrei dovuto essere più discreta, così da poter anticipare qualcosa a Tommaso. Il tono non era affatto negativo, mi sarebbe piaciuto dargli una buona notizia.
Istintivamente, afferro il mio telefono e lo sblocco.
Certo, sarebbe stato bello dargli una buona notizia. Sarebbe stato bello anche solo che mi avesse mai dato un segno di vita. Ma non c’è nessuna traccia.

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