Nella mente di...

di Tsukuyomi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un pirata sulla forca ***
Capitolo 2: *** un cecchino ***



Capitolo 1
*** Un pirata sulla forca ***


Nella mente di... un pirata sulla forca
E’ quasi il tramonto.
Il sole si accinge a svanire oltre il mare, fa solamente capolino dall’azzurra distesa aranciata.
Le onde quasi non esistono stasera, sembrano morire anche loro, sento il tenue rumore della risacca che pare non abbia voglia di infrangersi sulla sabbia e sugli scogli ramati. Il cielo comincia a diventare un ammiccante tintinnio di stelle, ma solo ad est per il momento, solo dove il sole è scomparso da un po’.
Ad occidente il cielo si tinge di tonalità di viola e rosa e arancione. Posso appena scorgere l’ultimo arco solare.
Nell’istante in cui svanirà all’orizzonte io ciondolerò con i piedi sull’acqua, con il collo stretto in una ruvida morsa di canapa.
Che bella punizione.
Pensano davvero che io possa piangere o invocare la grazia? Stolti. Poveri inutili stolti.
Ho vissuto la mia vita navigando per i mari del mondo, dai più freddi ai più caldi, assaltando le navi dei ricchi, luridi cani senza dio che accusano me di esserne privo.
Pensano che mettendo fine alla mia vita possano mettere una pietra sopra al mio passato. Mi chiamano “uomo senza dio”, mi chiamano “assassino”, mi chiamano “stupratore”.
Loro non sanno che io ho un dio, ma è solamente diverso dal loro. Il mio dio non mi impone di recitare la parte dell’uomo caritatevole, non mi obbliga a recitare la parte della pecorella che segue fedelmente il gregge che procede ordinato come dice il pastore. Il mio dio si chiama libertà, si chiama mare. E le leggi del mare sono dure. Le leggi della libertà sono crudeli.
Non sono un assassino. Mi sono semplicemente difeso da altre persone come me. Per me sarebbe stato un onore morire sotto la lama di un mio compagno, di un mio pari. Non ho commesso omicidi eliminando qualche porco ipocrita e benpensante che ha dato al denaro la sua dignità di uomo, ma ho solamente eliminato dal mondo un’insostenibile presenza putrescente e malsana.
Non sono uno stupratore. Ho solo colto i fiori che la natura mi ha messo davanti, bei fiori profumati di vita e giovinezza. Belle fanciulle che nonostante dicessero no, mi desideravano e volevano assaggiare la selvaggia libertà di cui mi sono impregnato in questi lunghi anni. Le sirene sono ammalianti e tentatrici, per questo vanno accontentate.
Io non rispondo alle leggi degli uomini, io rispondo solo alle leggi del mio azzurro e crudele dio.
La luce dorata va sparendo, lasciando spazio, ogni secondo di più, alla buia e calda notte.
Quante notti ho passato sulla prua della mia nave a bearmi i polmoni di quell’aria salmastra e maleodorante, a bagnarmi la barba alla spuma delle onde, a sentire il vento smuovermi i capelli e gemere tra le trame dell’olona tesa. Quante notti senza sonno ho trascorso a fissare il cielo e a chiedermi quale fosse la mia stella, quale fosse l’astro atto a brillare solo per guidarmi, a fissare il disco argentato che illuminava il mare rendendolo più cupo e malvagio che mai.
Quante volte ho fissato la nave spaccare le onde e colorare l’acqua cristallina di argento e azzurro, verde e bianco.
In quanti porti ho attraccato la barca, con quanti sentimenti diversi ho tirato le ancore, con quanto gusto ho fatto ruggire i cannoni e tremare il ponte. Il suono del cannone è il suono più dolce e avvolgente che esista su questo brutto mondo. Ogni volta che sputa le palle di scuro metallo una scarica di soddisfazione e un brivido di voluttà mi attraversava lo stomaco e il corpo, rendendomi facile
preda di sentimentalismi legati alle tante incursioni.

Il sole è tramontato.
Mi giudicano colpevole di tutto. Poveri stupidi.
Rido in faccia alla loro condanna così come rido in faccia alla morte. Non la temo.
E’ sempre stata la mia più fedele compagna di viaggio. E’ sempre rimasta seduta al mio fianco. Mi ha sempre incoraggiato a fare il mio mestiere, il mio amato e insostituibile lavoro. Le mancherò in questo mondo, sono stato un bravo servo in tutti questi anni, ho contribuito molto al suo lavoro di gioiosa mietitrice.
Il mio corpo dovrà essere un monito per i miei simili che costeggeranno questa terra. Mi impiccano in una nuovissima forca, costruita apposta per me su questa rupe, in modo che il mio corpo sia visibile da tutti coloro che si accingono ad attraccare su queste luride sponde.
Mi spingono giù da questo inusuale e romantico patibolo.
Un istante prima di avvertire il tocco del boia che mi incita a saltare contraggo più che posso i muscoli del collo, in questo modo la corda dovrà lottare per insinuarsi tra le mie carni e io potrò morire semplicemente cessando di respirare, con lentezza. Voglio che la mia morte sia lenta e voglio offrire ai miei astanti un grande spettacolo. Voglio godere al meglio questi miei ultimi istanti di vita, guardando con occhi fiammeggianti, e il sorriso in volto, gli uomini che mi mandano a morire convinti della loro bontà e della loro giustizia. Convinti di liberare il mondo da un rifiuto umano, condannandosi inconsciamente, macchiandosi del mio stesso crimine. Che ironia.
Il fiato si fa sempre più corto e i miei polmoni non riescono a dilatarsi per far entrare l’aria. La corda che mi orna il collo si stringe sempre di più ad ogni mia oscillazione. Peccato, mi sarebbe piaciuto lasciarmi andare ad un’ultima risata.
Rivolgo il mio sguardo verso il basso, vedo i miei piedi che dondolano lentamente sull’acqua spumeggiante e sempre più buia ad ogni istante, oggi non risplende.
La luna si mostra con un sorriso, mi guarda morire e ride anch’essa assieme a me. Ride di questi vili maiali che si beano di vita solo quando la tolgono, ma senza gustarsela come feci io. La morte è un dono e va vissuto e affrontato con gioia, indipendentemente da chi colga.
Se non avessi le braccia legate dietro la schiena avrei aperto le braccia per cingerla e stringerla fino a farla penetrare in me, fino a bucarmi gli intestini con essa e fino a sentirla offuscare il mio sguardo e rendere ovattati i suoni.
Invece non posso. La mia vista si annebbia rendendo distorta l’ultima immagine del mare che mi accompagnerà per l’eternità, il fruscio setato della risacca è sempre più smorzato e attutito. Speravo di sentire l’aria squarciata dal rombo dei cannoni un’ultima volta, ma è un privilegio che non mi è concesso.
Percepisco le lacrime farsi strada fino agli occhi e rendendo grigio il prepotente buio.
Aspetto di vedere la luce bianca che si mormora si veda prima di morire, ma non si presenta. L’unico bianco che vedo è dato dal dolore della corda che mi scortica la gola. Che dolore piacevole… e tra un attimo finirà…

Ormai è notte.
Mi spengo sicuro di aver mantenuto il mio sorriso, di essere morto mostrando i denti, mentre il mio corpo si lasciava andare al buio scosso dalle convulsioni causate dalla mia anima che abbandona le mie spoglie.
Addio vita, grazie al cielo sei finita.

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Capitolo 2
*** un cecchino ***


Nella mente di...un cecchino Sono su questo tetto da trentasei ore.
E da trentasei ore stringo compulsivamente a me il mio fucile, una stupenda arma russa che a distanza di anni dalla sua creazione vanta ancora il più alto tasso di precisione, dovuto soprattutto al metodo di ricarica. Spero di essere preciso quanto la mia arma. Spero di essere tempestivo come il cane che batte sul bossolo per espellere il proiettile a velocità incredibile, con un’irruenza che non lascia scampo.
Ho sete, ma ho con me una discreta quantità d’acqua.
Sono seduto sulla custodia della mia arma e mi sembra di sentirla vibrare. Ogni volta che, guardando nell’ottica, scorgo una persona mi prende una sensazione di paura e sgomento. Dovrò ammazzare.
Che vigliaccheria. Uccidere una persona da lontano, senza guardarla negli occhi…che disonore.
Sono un cecchino e sono il soldato più disprezzato.
Durante la guerra la mia è una continua corsa contro il tempo. Non devo farmi acchiappare dalle truppe nemiche o rischio il linciaggio nel migliore dei casi. Appena sparo devo smontare il fucile, nasconderlo e darmi alla fuga, sperando di non essere preso e sperando che il mio fedele, metallico compagno non venga trovato. Non è facile procurarsi un’altra arma come questa, precisa e puntuale come questo gioiello sovietico.

Sono ore che guardo autisticamente nel particolare reticolo dell’ottica di precisione: aspetto di vedervi il viso del mio obiettivo. Un uomo senza nome, solo un numero.
Prima o poi uscirà da quel palazzo. Prima o poi lo guarderò da lontano negli occhi e premerò il grilletto.
A giudicare dalla distanza a cui mi trovo dal mio obiettivo dovrò mirare almeno un centimetro e mezzo più su della sua testa, considerando quello che vedo attraverso il blocco di mira. In termini più reali si tratta di mirare a qualcosa dietro il bersaglio di almeno due metri. C’è un po’ di vento, non fortissimo.
Ma quest’alito, sulla lunga distanza, mi impone di deviare il fuoco almeno ad un metro dall’obiettivo.
Non sarà facile prenderlo in mezzo agli occhi, ma devo riuscirci. Non posso rischiare che sopravviva al colpo e non posso permettermi di sbagliare. Nella mia carriera di tiratore poche volte ho mancato il bersaglio e a distanze maggiori.
Sono considerato il migliore del mio battaglione e uno dei migliori del reggimento. Non sono infallibile e non sono sicuramente il miglior tiratore scelto del mondo, ma non sono da buttare via.
I muscoli cominciano a tremare sempre di più, sono stanco. E’ da trentasei ore che mantengo le stesse posizioni e, ironia della sorte, le posizioni più scomode sono quelle che alla fine permettono di ottenere il risultato migliore. Mi serve una sigaretta, la nicotina fermerà i tremori. Non è ancora giunto il momento di riempirmi di diazepamina, gli spasmi muscolari non sono ancora così violenti da obbligarmi a prenderla e inoltre, il mio obiettivo non metterà il naso fuori di casa per un altro po’ di tempo.

Si sta annuvolando. E’ una fortuna non dover fare anche i conti con il sole negli occhi. E’ una distrazione che può costare cara. Spero solo che non inizi a piovere, vorrei evitare di bagnarmi come un pulcino e oltretutto la pioggia abbasserebbe pericolosamente la visibilità e la gittata del proiettile.
Ma nel caso che l’acqua inizi a scrosciare, sarebbe utile che siano presenti tuoni e fulmini. In questo modo il saettare della luce renderà meno visibile l’esplosione del colpo e il tuonare del fucile potrà essere facilmente scambiato per il suo corrispettivo naturale. Ovviamente il diversivo avrà successo solamente se l’osservatore sarà inesperto. Diversamente sarò individuato con facilità e dovrò fuggire, il più velocemente possibile.

Meglio la pioggia al vento. Il vento è subdolo, cambia direzione ad ogni istante, non è mai costante come sembra all’apparenza.
Non è facile la mia vita. Non è facile il mio mestiere.
Nel migliore dei casi trascorro le giornate al poligono di tiro. Nel peggiore dei casi mi accingo a far saltare la testa a qualche sventurato che ha azzardato troppo o che semplicemente è capitato nell’esercito sbagliato. Sbagliato rispetto al mio. Grazie alla guerra ho imparato una cosa, nessuno ha mai ragione, esattamente come nessuno ha mai torto. Si tratta di svolgere il proprio lavoro e mi piace il modo in cui svolgo il mio. Ci tengo a fare un buon lavoro.
Non ho mai ucciso persone che non fossero soldati o politici. I politici che dichiarano guerra devono essere considerati soldati e per coerenza dovrebbero stare in prima linea assieme a noi.

Si è appena aperta una finestra. E’ il caso che ora prenda la mia pastiglia magica, in questo modo non avrò spasmi muscolari, con la mano ferma posso addirittura fare miracoli.
Un uomo mette fuori la testa e si guarda intorno. Non è il mio obiettivo. Non mi interessa. Potrei sparare, almeno per passare il tempo. Indossa una divisa, quindi è un mio pari. Anche lui è pagato per uccidere. Ma se esplodessi questo colpo dovrei cercare un’altra postazione. E dovrei cambiare anche zona. Appena si ha la certezza della presenza di un cecchino si batte la zona per scovarlo. Le ricerche durano giorni, vengono posizionate sentinelle in tutti i possibili punti di tiro e quindi nessuno di questi palazzi semi crollati sarebbe lasciato ulteriormente a se stesso. Sarebbe difficile nascondere il fucile in modo che non venga trovato, quasi impossibile oserei dire, e non potrei portarlo con me nella fuga a causa del suo peso. Mi rallenterebbe rendendomi facile preda di altri tiratori e anche di soldati di fanteria. Certo, sarebbe un peccato imperdonabile abbandonare un “compagno”, ma la mia vita conta di più, almeno per me. Per gli altri resto un numero nelle liste. Spero di restare sempre in quella dei superstiti/veterani. Non vorrei mai figurare tra le righe di quei lunghi stralci dove compaiono i nomi e i numeri di matricola di chi non ce l’ha fatta. Non è vero che non vorrei, non voglio e basta.

L’uomo con la divisa, un tenente.
Esce dalla casa con fare circospetto. Continua a guardarsi intorno. Ti leverei i gradi. Non meriti di essere un tenente. Non puoi guardarti attorno in quel modo dando per scontata l’assenza di un cecchino. O forse è la tua prima guerra? Ironico e buffo. Ho davanti agli occhi un tenente appena uscito dalla scuola per ufficiali. Sì, non c’è dubbio, è la tua prima battaglia. E’ la prima volta che metti a repentaglio la tua vita e lo fai nel modo più ingenuo e stupido che esista. Ma sei fortunato, il mio colpo non è per te. Non sarà la tua testa ad aprirsi.
Fa cenno a qualcuno che si trova dentro l’abitazione, un cenno di via libera. Oh quanto ti sbagli, amico mio. Neanche riesci ad immaginartelo.

Eccolo. Ecco il mio bersaglio. Stenta ad uscire, ha paura. Ma riesco a vedergli i piedi. Sono passati quasi dieci minuti e i tremori si affievoliscono fino a svanire. Non devo sbagliare.
Devo appellarmi a tutte le divinità protettrici dei cecchini e sperare che la fortuna non mi volti le spalle. Ma perché la fortuna dev’essere un parametro così importante e così incalcolabile? Non devo pensarci ora. Devo concentrarmi e rendere il mio respiro il più regolare possibile. Il fucile si sposta ogni volta che inspiro ed espiro. Dovrò trattenere il fiato per prendere accuratamente la mira e premere il grilletto. E devo riuscire a concentrare tutte queste azioni in meno di un secondo. Che corsa contro il tempo.
Esce. Il volto di un uomo terrorizzato. Quasi mi spiace fargli saltare in aria quella maschera di paura.
Ragionando come uomo mi fa pena, ragionando come soldato mi è indifferente, è solo un nome in un dossier al quale a me non è permesso accedere.

Dentro. Fuori. Dentro. Fuori.
Sento solo il rumore dei miei respiri e il vago suono quasi scricchiolante dei polmoni che si dilatano. Prendo la mira. Devo sparare prima che inizi a camminare. Devo sparare prima che si muova.

Dentro. Fuori.
Lo vedo. Il centro del reticolo di mira è esattamente ad un centimetro e mezzo sopra alla sua testa, il vento sembra essersi placato.  Mi separano da lui solamente cinquecento metri, e il proiettile uscirà dalla canna ruotando ad una velocità di ottocento metri al secondo. Le probabilità che si sposti in quel brevissimo lasso di tempo (che per me è infinito) sono prossime allo zero. Non sbaglierò il colpo e andrò dritto a bersaglio.
Trattengo il respiro e guardo nell’ottica. Riesco a mettere a fuoco con facilità. Nell’attimo fugace in cui premo il grilletto chiudo l’occhio esterno all’ottica, solo per sincerarmi della perfezione della mira.
Non posso sbagliare.
Il rendez-vous è tra quattro giorni a trentotto chilometri da qui. Potrò prendermela con calma.
E’ giunto il momento e tiro a me il grilletto, senza curarmi della resistenza che oppone al mio tocco.
Da questo istante all’istante in cui il suo corpo cadrà all’indietro il tempo smetterà di scorrere. Sembra ridicolo, eppure è così. Continuo a guardare. Devo avere la certezza di non aver sbagliato, di non mancare il bersaglio.
Accade l’impensabile.
Mentre continuo a trattenere il respiro, incapace di lasciarmi andare alla calma, succede quello che mai avrei creduto possibile.
Si sposta.
Inclina la testa di lato per guardare una puttana che probabilmente andava a scambiare il suo corpo per un po’ cibo. Schiva il proiettile. Ma proprio ora dovevi passare?
Il colpo gli sfiora l’orecchio.
No! Merda! Merda! Merda!

Devo scappare. Il tenente sbarbatello si getta sul mio obiettivo facendogli scudo col suo. Era davvero importante. Era davvero da far fuori. Si precipitano decine di soldati, decine di sentinelle che cominciano a correre verso di me. Ci metteranno un po’ a coprire i metri che ci separano, ma io non posso e non devo perdere tempo. Abbandono il fucile e mi fiondo giù per le scale, devo uscire da qui e allontanarmi il prima possibile. Lotto contro le mie stesse gambe, anchilosate per il troppo stare seduto, e cerco di correre il più velocemente possibile.
Maledizione!
Non doveva succedere. Doveva morire.
Appena fuori dal palazzo sento un proiettile sibilare accanto alla mia testa, deve aver sentito lo stesso suono che sento io ora. Continuo nella mia folle corsa, devo solo mettermi in salvo.

Missione fallita.

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