Selenia - Trono rovesciato

di Corydona
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.1 Figura misteriosa ***
Capitolo 2: *** 1.2 Pugnale incriminante ***
Capitolo 3: *** 2.1 Lucida follia ***
Capitolo 4: *** 2.2 Intrighi di corte ***
Capitolo 5: *** 2.3 Alla ***
Capitolo 6: *** 3.1 Scherzi del sole ***
Capitolo 7: *** 3.2 Al cospetto di Sua Maestà ***
Capitolo 8: *** 3.3 Litil ***
Capitolo 9: *** 3.4 La profezia ***
Capitolo 10: *** Profezia I ***
Capitolo 11: *** 4.1 Serena frugalità ***
Capitolo 12: *** 4.2 Incontri e misteri ***
Capitolo 13: *** 4.3 Il grunmit ***
Capitolo 14: *** 4.4 Il duello ***
Capitolo 15: *** 5.1 Lupfo-Evoco ***
Capitolo 16: *** 5.2 Sotto la luce del tramonto ***
Capitolo 17: *** 5.3 Crocevia ***
Capitolo 18: *** 6.1 A piedi scalzi ***
Capitolo 19: *** 6.2 Maschere ***
Capitolo 20: *** Profezia II ***
Capitolo 21: *** 7.1 Il passato non abbandona mai ***
Capitolo 22: *** 7.2 Un'oscura visione ***
Capitolo 23: *** 7.3 Al Sogno d'argento ***
Capitolo 24: *** 7.4 Antica e decaduta stirpe ***
Capitolo 25: *** 8.1 Luna oscurata ***
Capitolo 26: *** 8.2 Verso Zichi ***
Capitolo 27: *** 8.3 Tempio del Sole ***
Capitolo 28: *** 9.1 Eterna promessa ***
Capitolo 29: *** 9.2 Alandra ***
Capitolo 30: *** 9.3 Silenzio ***
Capitolo 31: *** Profezia III ***
Capitolo 32: *** 10.1 Prova di colpevolezza ***
Capitolo 33: *** 10.2 Giardino abbandonato ***
Capitolo 34: *** 10.3 Falsa lettera ***
Capitolo 35: *** 11.1 Falsa lettera ***
Capitolo 36: *** 11.2 Una nuova meta ***
Capitolo 37: *** 11.3 Guerra all'orizzonte ***
Capitolo 38: *** 11.4 Partita a scacchi ***
Capitolo 39: *** 12.1 Il prezzo della vita ***
Capitolo 40: *** 12.2 Pedine e strateghi ***
Capitolo 41: *** 12.3 Promessa mantenuta ***
Capitolo 42: *** 12.4 Fuga nella notte ***
Capitolo 43: *** 13. Accordo all'alba ***
Capitolo 44: *** 13.2 Nobiltà di cenere ***
Capitolo 45: *** 14.1 "Solo allontanandoci possiamo essere vicini" ***
Capitolo 46: *** 14.2 Nascosti tra le querce ***
Capitolo 47: *** 14.3 Una lettera pericolosa ***
Capitolo 48: *** 14.4 Un Veggente ***
Capitolo 49: *** 15.1 L'ospitalità di Vudeli ***
Capitolo 50: *** 15.2 Esegesi ***
Capitolo 51: *** 16.1 Affari di famiglia ***
Capitolo 52: *** 16.2 Il re Inverno ***
Capitolo 53: *** 16.3 Amanti e alleanze ***
Capitolo 54: *** 16.4 Casale abbandonato ***
Capitolo 55: *** 17.1 Armonia incrinata ***
Capitolo 56: *** 17.2 Quei due ***
Capitolo 57: *** 18.1 Di preghiere e di profanità ***
Capitolo 58: *** 18.2 La resistenza dell'ambra ***
Capitolo 59: *** 18.3 Tumulata viva ***
Capitolo 60: *** 19.1 La regina del popolo ***
Capitolo 61: *** 19.2 L'azzurro nel mare ***
Capitolo 62: *** 19.3 Il mercenario tradito ***
Capitolo 63: *** 19.4 Orgoglio e inganni ***
Capitolo 64: *** 20.1 Stoffa lacera ***
Capitolo 65: *** 20.2 La giusta rotta ***
Capitolo 66: *** 20.3 I dubbi dell'Inverno ***
Capitolo 67: *** 21.1 Fuga dal mare ***
Capitolo 68: *** 21.2 Fredda burattinaia ***
Capitolo 69: *** 21.3 All'alba dell'incertezza ***
Capitolo 70: *** 21.4 La protezione dell'edera ***
Capitolo 71: *** 22.1 L'inganno alla regina ***
Capitolo 72: *** 22.2 La pietà di Danào ***
Capitolo 73: *** 22.3 Onde rappacificanti ***
Capitolo 74: *** 23.1 La spada nel fango ***
Capitolo 75: *** 23.2 La scelta di un giusto ***
Capitolo 76: *** 23.3 Introvabili per le regine ***
Capitolo 77: *** 24.1 I misteri della Luna ***
Capitolo 78: *** 24.2 Una rete di illusioni ***



Capitolo 1
*** 1.1 Figura misteriosa ***


Dedico questa storia a chiunque abbia un sogno immenso da realizzare.

Selenia è il mio sogno, un viaggio lungo tutta una vita che ho scelto di condividere con chiunque si voglia imbarcare in questa avventura.

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Ho iniziato a scrivere questa versione di Selenia nell'ormai lontano 2018.

Da allora ho continuamente rimaneggiato il testo per renderlo più scorrevole, ma mi rendo perfettamente conto di non esserci riuscita in pieno. Lo stile è, almeno per la prima parte di storia, un po' artificioso e complesso... Per quanto abbia fatto almeno una revisione all'anno, non riesco mai a trovare il giusto equilibrio, quindi finché Selenia rimarrà qui e non uscirà da wattpad ed efp, purtroppo rimarrà in questa forma (il lavoro da fare è tanto e io sono impegnatissima su diecimila fronti!).

Vi chiedo di dare comunque alla storia una possibilità, visto che per me significa davvero tanto, e di non soffermarvi solo ai primi capitoli❤

Infine, benvenuti su Selenia💚

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Erik varcò la soglia della città di Mitreluvui quando l'oscurità si stava repentinamente facendo largo tra le sue strade, avvolgendola in un incanto notturno. Nella via lastricata camminavano stanchi solo alcuni lavoratori della terra, che rientravano dopo una giornata di lavoro in campagna, e piccoli proprietari, che tornavano ai loro poderi dopo aver venduto i prodotti nei mercati del giorno. Uno rivolse un'occhiata ammirata nella sua direzione, o forse di invidia per la sua vita ricca e più che agiata; lui non avrebbe saputo dirlo.

Un soffio di vento gli scompigliò i capelli e accarezzò il manto del fidato cavallo con cui si era messo in viaggio, scuotendo le cime dei platani che costeggiavano le sette vie principali della capitale di Cmune. Gli ultimi raggi del sole si riflettevano sulla sommità delle case e sulle tegole dei tetti, contaminando il colore rossastro di una velata malinconia.

Accarezzò la criniera di Peves con un sospiro. Il purosangue era stanco, tanto che aveva iniziato a trotterellare non appena aveva capito di essere vicino alla meta. Lui, invece, era più frustrato che stanco: era stato inviato lì come un messaggero qualsiasi e per la fretta non aveva nemmeno portato qualcuno di scorta. Preferiva occuparsi di quanto accadeva nel proprio regno e non negli altri. Sbuffò al ricordo del padre, che non si era piegato davanti alle sue proteste; ma solo in quel modo aveva ottenuto delle spiegazioni.

Non era stato invitato in virtù del legame di amicizia che univa la sua famiglia e la Lotnevi, lì regnante, e neanche della parentela che in poche settimane sarebbe diventata cosa fatta tra le due casate.

Tancredi aveva preso da parte il figlio maggiore, e gli aveva confidato la sua preoccupazione per una possibile invasione dello Cmune da nord. Il re Guglielmo Lotnevi aveva richiesto esplicitamente la sua presenza, per consultare la sua conoscenza delle arti belliche; ma era assurdo: perché il sovrano di un regno in pericolo avrebbe dovuto chiedere consiglio proprio a lui e non a dei maestri di guerra? Aveva la sua corte e i suoi uomini di fiducia, perché non rivolgersi a loro?

Tuttavia, Mitreluvui tutto sembrava fuorché una città pronta ad armarsi. Il silenzio era assoluto, escluso il cadenzato suono degli zoccoli di Peves, e dopo alcuni minuti cavallo e cavaliere non incontrarono più anima viva: probabilmente i cittadini erano nelle loro case ventilate a godersi la frescura serale dopo l'afa del giorno.

Erik si stupì di non essersi imbattuto nelle guardie che di solito sorvegliavano le vie del regno; neanche nel tragitto percorso sin lì le aveva incontrate, ma conosceva l'indole degli abitanti dello Cmune, più preoccupati del loro lavoro che di rendere il posto un pericolo per gli altri. Popolo saggio, aveva constatato il principe in diverse occasioni.

Eppure la città era sempre sorvegliata con attenzione, perché era al suo centro che si trovava la reggia dei Lotnevi e, nonostante la benevolenza dei sudditi, la prudenza non era mai troppa. Che tutte le forze armate fossero state condotte al nord, al confine con il Loavi?

Scosse la testa, perché sarebbe stata una mossa troppo azzardata che avrebbe lasciato privo di difesa il resto dello Cmune. Si accorse di essere quasi alla fine della lunga via, uno dei sette raggi pavimentati che partivano dal centro della capitale. Entro pochi minuti sarebbe giunto al palazzo reale e avrebbe domandato di persona delle delucidazioni a re Guglielmo.

Poco dopo, infatti, lui e Peves si trovarono in un'ampia piazza piena di aiuole, ancora verdeggianti nonostante la calura. Lì Erik aveva visto molte volte i bambini radunarsi e giocare a rincorrersi o a nascondersi dietro le botti di un'osteria, lasciate incautamente fuori dal locale. Lanciò un'occhiata all'insegna dell'Antica osteria di Mitre, con l'abbreviazione che gli abitanti usavano per la loro città. Avrebbe desiderato volentieri bere un bicchiere di quel vino pregiato che importavano dal Tuilla, ma l'entrata era chiusa come tutte le sere dei giorni di lavoro. Dopo essersi fermato un momento, diede un colpo di redini a Peves, indirizzandolo verso la scalinata che conduceva al palazzo reale.

Fu in quell'istante che la sua attenzione fu attirata da una figura che si allontanava da uno degli ingressi secondari del cortile esterno. La fissò imbambolato scendere gli scalini a passo spedito e poi dirigersi verso ovest, correndo. Il cappuccio del mantello scuro scivolò a causa dell'accelerazione, scoprendo una folta chioma del colore del fuoco: una fanciulla.

Erik diede un colpo di speroni a Peves nel tentativo perché galoppasse verso quella giovane, fuggita tra i vicoli intorno alla piazza. Raggiunse la viuzza in un istante, ma il principe dovette scendere da cavallo perché non c'era abbastanza spazio anche per lui: con uno sguardo ordinò al purosangue di fermarsi. Erik sorrise appena confidando nel destriero ma, quando si voltò per cercare traccia della fanciulla, non vide nulla. Tese anche l'orecchio, adoperando ogni sforzo per tentare di carpire un qualsiasi indizio.

Non sapeva perché fosse tanto importante, ma in qualche modo sentiva che era vitale riuscire a rintracciarla. Una sensazione che non lo abbandonava, che gli continuava a pulsare nelle vene, gli sussurrava che quella era la cosa giusta da fare.

Tuttavia quel silenzio che lo circondava lo frastornava. Si affacciò circospetto a una delle finestre di un pianterreno, con il favore del buio serale a nasconderlo, al riparo dietro delle tende spesse e logore. Scorse una famiglia seduta attorno a una tavola, con dei marmocchi in attesa che la madre versasse nei loro piatti del cibo contenuto all'interno di una pentola in rame. Una scena semplice, che contrastava con l'eccezionalità di quello che Erik, invece, aveva visto poco prima.

Si portò le mani al viso, incerto su cosa fare: avrebbe guardato all'interno di tutte le case di Mitreluvui? Sarebbe stata un'inutile perdita di tempo, convenne tra sé e sé mentre riprendeva il passo verso il cavallo.

Peves lo accolse con un nitrito entusiasta: non vedeva l'ora di arrivare alla stalla e di riposarsi dopo due giorni di viaggio. Erik salì sul suo dorso, ma non gli diede ordine di tornare alla piazza.

Il principe Inverno meditò per qualche istante, fermo in mezzo a una strada di media ampiezza. Il suo sguardo cadde sulla flebile luce di un lampione ad olio e gli venne in mente, in quel momento, che non aveva incontrato neanche gli uomini incaricati di accendere le candele poste su quei pali in ferro sparsi per la capitale: c'era qualcosa che non andava... ma cosa?

L'apparizione di quella fanciulla, inoltre, era stata improvvisa come in un sogno, ma lui non riusciva a credere che si trattasse di una visione prodotta dalla sua mente; per quale motivo immaginarla? Sospirò, confidando nella sapienza di re Guglielmo: forse lui sarebbe stato in grado di fornirgli una spiegazione.

A ridestarlo dalle sue riflessioni fu il cavallo che nitrì ancora.

«Buono, Peves, ci siamo quasi.» Erik gli accarezzò la criniera nera. Diede un altro colpo di redini e il destriero si slanciò verso la piazza antistante il palazzo reale, quasi disarcionandolo.

Una volta raggiunta la scalinata in marmo bianco, l'Inverno scese dal purosangue e salì insieme a lui i dieci gradini illuminati dai lampioni e dalle luci del cortile. Al di là di alcuni alberi si distinguevano i finimenti delle finestre dei piani superiori, abbellite forse con un eccessivo uso di ornamenti. La pietra brunastra in cui il palazzo era interamente costruito assumeva una sfumatura ocra per le illuminazioni artificiali.

Erik varcò il cancello in ferro battuto che dava verso sud, guardandosi alle spalle. Fuori dalla recinzione che circondava il cortile esterno del palazzo, tutto sembrava ancora avvolto in una quiete irreale. Allora si incamminò in direzione della reggia lungo un sentiero secondario, che si dirigeva con un percorso sinuoso verso l'ingresso principale.

Pochi istanti dopo, proprio da lì, uscirono gruppi di cortigiani che parlottavano tra loro, superati da servitori che correvano da una parte all'altra ubbidendo a chissà quali ordini. Due donne vennero condotte di peso fuori dal maestoso edificio e adagiare su delle panchine del cortile esterno, svenute. Due uomini di servizio sventolavano grossi ventagli nel tentativo di farle riprendere; forse qualcuno aveva pensato che l'aria fresca avrebbe loro giovato, senza preoccuparsi degli abiti stretti che indossavano e che ne costringevano il respiro.

Ma cosa poteva essere accaduto di tanto grave perché due dame perdessero i sensi?

Erik si avvicinò a un trio di cortigiani che conosceva solo di vista continuando a tenere le redini di Peves, che altrimenti si sarebbe messo a scorrazzare per tutto il giardino ben curato dei Lotnevi. I visi arrossati dei tre tradivano una forte agitazione e un'urgenza relativa al loro chiacchiericcio sommesso, che si ammutolì nel veder comparire il principe Inverno.

«Cos'è accaduto?»

«Principe Erik, per fortuna siete qui!» Uno di loro tese le mani verso di lui, quasi a volerlo abbracciare. «È avvenuta una disgrazia!»

«Una disgrazia?» Aveva immaginato che si trattasse di qualcosa di importante, ma non addirittura una disgrazia.

«R-re Guglielmo...» A quello al centro, tremavano le mani. Provò a intrecciare le dita, ma il tremolio non si arrestò.

Quelle esitazioni erano troppo teatrali. «Re Guglielmo cosa?»

«È stato ucciso!» buttò fuori il terzo cortigiano, quasi in un'esplosione nervosa.

Erik inarcò le sopracciglia con stupore, ma mantenne la compostezza. Affidò ai tre cortigiani Peves, perché venisse condotto nelle stalle reali e si incamminò verso l'ingresso della reggia, tagliando il sentiero di ghiaia, invece di seguirne il corso sinuoso: se Guglielmo era stato ucciso, aveva poco tempo da perdere; e poco gli importava che l'erba umida per l'innaffiatura gli sporcasse gli stivali. Alcuni uomini e donne della corte lo videro e gli rivolsero parole di saluto, a cui lui rispose appena.

Superò i due gruppi attorno alle svenute, presumibilmente dame di compagnia della regina, senza curarsi troppo di chi lo fermava e gli parlava. Qualcuno si azzardò a proporgli di prendere le redini del regno di Cmune, ma lui non vi badò ritenendo quello del nobile un vaneggiamento sciocco, dettato da uno stato d'animo spaventato e confuso. L'unica preoccupazione del principe Inverno era rintracciare Nicola Lotnevi, figlio di re Guglielmo.

Non pensò di domandare se qualcuno avesse visto la ragazza dai capelli rossi attraversare il cortile. Se lei aveva avuto l'accortezza di uscire da uno dei cancelli secondari, lui dubitava che avesse commesso l'imprudenza di lasciarsi scorgere da un mucchio di cortigiani. Tenne per sé il dubbio, risoluto a parlarne solo con Nicola e in attesa di scoprirne di più. Si inoltrò tra gli ampi corridoi del palazzo reale in cui il viavai di nobili era ancora più caotico, come se ognuno di loro volesse rendersi utile per il proprio re, invano.

Re Guglielmo ucciso... chi mai avrebbe potuto? E perché? 

Le guardie assenti, quella misteriosa apparizione... Forse tutto era stato prestabilito, ma non aveva idea di chi avesse potuto commettere quel crimine immotivato: Guglielmo Lotnevi era un sovrano attento ai bisogni del suo popolo e all'equilibrio nella corte. In realtà Erik aveva con lui poca dimestichezza, poiché aveva maggiore confidenza con il principe Nicola: era suo padre a curare i rapporti con il re di Cmune; motivo di più perché la richiesta di averlo lì lo aveva reso perplesso.

L'intera corte era gettata nello scompiglio, con i cortigiani che non smettevano di agitarsi e i servitori che cercavano di contenere la smania dei nobili, completamente disorientati. La situazione era molto diversa dalle altre volte: l'unico dettaglio rimasto immutato dall'ultima visita era il palazzo, con gli arazzi appesi e i finimenti in oro sulle colonne decorative, come incastonate nelle pareti per sorreggerle. Dalla porta aperta di un salottino, Erik intravide una dama lasciarsi cadere su un divano imbottito, con lo sguardo stralunato e perso nel vuoto, sorretta e aiutata da alcuni camerieri in livrea.

Più si avvicinava alla sua meta, più la folla di cortigiani si faceva movimentata e il volume delle loro chiacchiere saliva, ma questo non fu un ostacolo: dignitari e funzionari del regno gli cedettero il passo per lasciarlo passare per il rispetto che portavano a lui e alla sua famiglia.

Entrò nella sala del trono e lo vide.

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Capitolo 2
*** 1.2 Pugnale incriminante ***


 

(Capitolo revisionato)

Re Guglielmo giaceva a terra, gli occhi chiari spalancati e puntati verso l'alto; un cortigiano glieli chiuse proprio sotto lo sguardo attento del principe appena arrivato. Dal petto del sovrano un fiotto di sangue scuro scendeva verso il fianco destro, tingendo la veste cobalto del colore atro della morte.

Un nobile più intraprendente degli altri osservava la pozza sanguigna che si stava formando lentamente sul pavimento, senza dare gli stessi segni della follia che sembrava aver colto l'intera corte. Solo dopo qualche secondo gridò di chiamare qualche servitore perché pulisse le scarpe che gli si stavano insudiciando.

Erik trattenne a malapena un sorriso nel constatare che gli unici a non aver perso il senno erano gli uomini al servizio dei Lotnevi: chiunque avesse una sola goccia di sangue blu non era in sé. Alcuni uomini avevano formato un cerchio intorno al re ucciso e lo scrutavano inebetiti, incapaci di pensare, di avere una reazione di qualsiasi genere; nel frattempo, Erik aveva percepito i suoni attenuarsi, le grida diventare chiacchiere e poi sussurri, come se dopo l'improvvisa e iniziale agitazione, fossero tutti in attesa di novità.

L'Inverno si guardò intorno, come alla ricerca di qualche indizio sull'uccisione. Due lunghe tavolate erano state apparecchiate per un ricevimento, dettaglio di cui lui si stupì: non c'erano altre sale per cenare? O che il re volesse parlare durante la cena con i suoi uomini più fidati? Ma in tal caso perché due tavoli? Li indicò a un servitore che gli spiegò: «Parecchie delle sale sono chiuse per lavori di miglioramento. Molti signori mangiano nei loro appartamenti, alcuni qui.»

«Il principe?» domandò Erik sbrigativo.

Il giovanotto strinse le spalle. «A volte qui, a volte nelle sue stanze.»

«Intendevo: corri a chiamarlo» spiegò l'Inverno. Perché Nicola non era già lì?

«Oh, sì... certo, signore, subito, signore» farfugliò quello, prima di allontanarsi da lui e di uscire dalla sala del trono.

«È una punizione di Danào!» urlò una donna accasciandosi sul pavimento.

Il principe ospite trattenne a stento una risata per la teatralità del gesto e delle parole della dama, ma anche per la sua eccessiva fede per quella divinità minore. Quella di Guglielmo era stata una semplice uccisione; ed eseguita da una mano umana. Ad Erik sembrò di scorgere con la coda dell'occhio qualcosa sotto uno dei tavoli; qualcosa di sottile, che nonostante la sua stranezza non aveva attirato la curiosità di nessuno: un pugnale, dalla cui punta cadevano lente gocce di sangue.

«Uscite tutti dalla sala del trono» ordinò improvvisamente. Alcuni cortigiani lo guardarono dubbiosi, altri come ipnotizzati dalla sua voce; ma dopo un primo istante in cui sembrarono tutti parimenti storditi, procedettero in silenzio verso l'uscita della sala, arretrando armoniosamente, alla stregua di un'onda del mare che si ritira dopo aver frustrato la sabbia.

Erik fece cenno all'ultimo servitore che uscì di chiudere la porta e questi gli ubbidì, pur indirizzandogli un'occhiata perplessa; l'Inverno temette per un istante che quello lo ritenesse l'uccisore del re, salvo poi abbandonare l'idea con una scrollata di spalle: nessuno nello Cmune avrebbe mai osato formulare, né tantomeno concepire, una tale ingiuria contro di lui.

Una volta rimasto solo, si avvicinò alla tavola sotto cui giaceva la lama misteriosa: possibile che nessun altro l'avesse notata? Dalla punta continuavano a cadere gocce di sangue, che formavano una piccola pozza sul pavimento di marmo chiaro. Erik si piegò per afferrarne l'impugnatura in legno, con rifinimenti in ferro: un'arma leggera, come quella che una donna avrebbe portato con sé per difendersi da eventuali assalti. Solo in un secondo momento vide uno stemma stilizzato, che riconobbe all'istante: una conchiglia con perla, il simbolo della famiglia Dal Mare.

Erik strabuzzò gli occhi, per essere sicuro di aver visto bene, ma la conchiglia di quella famiglia del sud rimaneva lì, immobile, scolpita nel legno e rimarcata con ancor più decisione dal ferro che ne percorreva le linee decise. Rimase impietrito, riflettendo sul motivo per cui quella lama si trovasse lì. Sapeva molto bene che Ariel Dal Mare, la più giovane della casata, ne possedeva una uguale: lei stessa gli aveva mostrato il pugnale mesi addietro; ma per quale motivo avrebbe dovuto usarla per uccidere Guglielmo Lotnevi? Per lei il re di Cmune era un completo estraneo, con cui non aveva nulla a che fare.

Inoltre, a quanto lui poteva ricordare, e la ricordava molto bene, la fanciulla aveva il carattere più mite che avesse mai conosciuto: non la credeva in grado di commettere un omicidio simile, a sangue freddo; senza considerare che la presenza di Ariel a Mitreluvui avrebbe di certo attirato chiacchiere anche nel Defi. Oppure si trovava lì in segreto? Era per questo, allora, che Guglielmo aveva insistito affinché Erik si recasse lì?

Sospirò, facendo passare lo sguardo dalla lama al cadavere di Guglielmo: era appena stato ucciso, e con quello che sembrava senza ombra di dubbio il pugnale di Ariel Dal Mare. In effetti, meditò Erik, la fanciulla che aveva visto poco prima fuggire tra le vie di Mitreluvui somigliava molto alla principessa Dal Mare e non gli parve più impossibile l'ipotesi che fosse stata lei.

Sbuffò, sperando che l'arrivo di Nicola e un confronto con lui gli avrebbero schiarito le idee. Pochi istanti dopo, la porta della sala si aprì con un lento cigolio.

«Cosa ci fai tu qui?»

Si voltò e vide Nicola Lotnevi, l'unico figlio di re Guglielmo. Le guance scavate del principe di Cmune erano appena rosse, come se il giovane avesse corso fin lì. Si appoggiò appena a uno dei tavoli e sporse la testa in avanti, quanto gli fu sufficiente per vedere il corpo esamine del padre. Le sopracciglia si inarcarono leggermente, ma tornarono svelte al proprio posto, come non volendo tradire qualche turbamento interiore. Nonostante lo spettacolo che si parava davanti ai suoi occhi, non riusciva a mostrare il giusto dispiacere che ogni figlio avrebbe provato. Il rispetto distante che provava per Guglielmo era noto a Erik, che non si stupì per quell'assenza di reazione.

«Venivo per ordine di mio padre» disse l'Inverno, quasi distraendo Nicola da quella visione. «Mi sono precipitato qui non appena mi è stato detto... Mi sembrava strano che non ci fossi e ti ho fatto chiamare.»

Nicola annuì appena, con i corti capelli castani ancora scomposti. «Hai mandato tutti fuori» constatò con tono di voce piatto, ma che esigeva una spiegazione. Puntò i suoi occhi di cielo in quelli dell'altro, del medesimo colore ma che tuttavia sembravano fatti di ghiaccio.

«L'ho ritenuto necessario» si limitò a dire Erik, prima di porgergli il pugnale.

Nicola afferrò la lama, che ripulì con un tovagliolo preso dalla tavola. Ne scrutò l'impugnatura con attenzione, e disse ad Erik: «Chiedi di far chiamare Saro.»

L'Inverno fece un cenno di assenso con il capo, per poi avvicinarsi alla porta chiusa. Non gli piaceva ricevere degli ordini, ma sapeva di essere lui l'ospite e Nicola il futuro re di quel regno, perciò eseguì senza opporsi. Si affacciò appena per avvicinare un servitore e chiedergli di Saro. Richiuse la porta alle proprie spalle, mentre il Lotnevi era ancora incuriosito dal pugnale, come se non riuscisse a fare il collegamento che a lui era parso immediato.

«È dei Dal Mare» disse soltanto.

«Questo lo vedo da me» replicò lui, posando la lama su uno dei tavoli, tra un piatto che ospitava dell'arrosto e uno che conteneva grappoli di uva bianca.

Erik trasse un profondo respiro prima di parlare di nuovo. «Temo che sia stata Ariel.» La sua voce tremò, sebbene impercettibilmente: sapeva quanto era azzardato pronunciare quelle parole ad alta voce.

Nicola sbarrò gli occhi. «Ariel? Perché lo credi?»

Il principe di Defi sospirò. Lanciò uno sguardo a Guglielmo, che giaceva in terra alla sua destra. Per quanto solo l'idea gli suonasse ridicola, era l'unica che combinasse insieme tutti gli elementi.

«Quando stavo per arrivare, ho visto una ragazza dai capelli rossi fuggire da uno dei cancelli secondari» spiegò scrollando le spalle, come se non fosse abituato a veder messa in dubbio la propria parola; nemmeno da un amico come Nicola. «Ho provato a inseguirla, ma io e Peves eravamo stanchi e mi è sfuggita. Sembrava proprio Ariel... e poi so che ha un pugnale come questo perché me l'ha mostrato tempo fa.»

«E quindi tu credi che sia stata Ariel Dal Mare?»

«Chi altro potrebbe avere un pugnale con quello stemma?» esclamò Erik. Era ovvio per lui che quel pugnale non potesse essere d'altri che di Ariel.

«Qualcuno che glielo ha rubato» rispose prontamente Nicola. «O qualcuno che è al servizio del Dal Mare... o magari un pegno di qualche tipo, non so.»

«Non credo che Ariel darebbe via il suo pugnale, nemmeno se fosse per ringraziare qualcuno per un qualsiasi servigio» lo contraddisse l'Inverno. «È più probabile che qualcuno gliel'abbia preso.»

«Potresti andare da lei e chiederle se lo ha perso» gli propose l'altro.

«Non è così facile come a dirsi» replicò Erik. Nonostante fosse stato lui a ipotizzare la colpevolezza di Ariel, non era affatto sicuro che fosse semplice rubare un pugnale che, a quanto ne sapeva, la giovane Dal Mare portava sempre con sé. Oltretutto non aveva intenzione di recarsi nel sud di Selenia e dal suo sguardo glaciale trasparì del disappunto.

Nicola aveva notato una piccola esitazione nell'amico, ma sapeva che solo lui era in grado di poterlo aiutare ed era necessario che andasse a sud.

Non poteva ordinarglielo, perché era suo pari: doveva convincerlo.

«Perché non puoi?» gli chiese. Provò un moto di disgusto e disagio nel conversare come se niente fosse davanti al cadavere del padre, tuttavia era ben consapevole di non poter fare altrimenti. Non appena Saro fosse arrivato, avrebbero spostato la conversazione in un altro luogo, ma non voleva che i cortigiani entrassero di nuovo lì, non prima di aver sistemato alcune cose.

«Mio padre vuole che scopra chi sia lo spasimante di Flora» rispose Erik.

Quelle parole risvegliarono in Nicola altri pensieri, che andarono a sovrapporsi alle preoccupazioni per la recente uccisione e che lo fecero impallidire.

«Questo non è il momento di parlare di Flora» asserì a fatica, gettando un'occhiata preoccupata verso il padre. Gli occhi chiari del re puntavano verso l'alto, quasi increduli per l'ultima cosa che avevano visto e il figlio provò un moto di pietà verso di lui, che cercò di nascondere. Doveva tenere i nervi saldi per non perdere il controllo della situazione.

Provvidenzialmente, la porta della sala si aprì e ne sbucò Saro, che aveva impiegato troppo tempo per arrivare.

«Ti hanno trattenuto?» gli chiese subito il Lotnevi, notando del sudore sul viso del ragazzo. Che lui sapesse, il servitore non era occupato in quel momento.

Saro annuì, tenendo il volto basso, vergognoso.

Nicola sospirò. Quei cortigiani non gli piacevano affatto, cosa stavano complottando alle sue spalle?

«Non è colpa tua» disse soltanto. Quello alzò appena lo sguardo, e nei suoi occhi di miele il suo principe lesse un sincero ringraziamento. «Devi occuparti di questo» aggiunse, porgendogli il tovagliolo con cui poco prima aveva ripulito la lama dei Dal Mare. «Deve sparire e nessuno deve notarlo. Siamo intesi?»

Saro annuì nuovamente, strappando al principe un rincuorato sorriso. Era l'unica persona su cui potesse contare davvero, in quel momento. Non credeva opportuno ricorrere alla madre, già avvertita con tutta probabilità dai cortigiani.

Mentre Erik nascondeva prontamente il pugnale in una tasca del suo mantello, Nicola si avvicinò alla soglia della sala, ne aprì l'uscio e a catturare il suo sguardo fu un gruppo di nobili che parlottava a bassa voce e con tono concitato. Fino a poco prima sembravano tutti in preda al panico; forse si erano abituati in fretta alla novità, dopo un iniziale e folle sbandamento.

Richiamò a gran voce alcuni servitori e disse loro di preparare il corpo del padre per il funerale. Poi si rivolse ad Erik e gli fece cenno di uscire insieme a lui, per percorrere insieme i corridoi, in silenzio.

Lungo il cammino che li conduceva alle stanze private del principe, incontrarono poche persone: Nicola notò con un sospiro che preferivano recarsi all'esterno per godere del fresco della sera; o forse volevano rimarcare la loro distanza da lui.

Fece entrare Erik in un piccolo studio, con una scrivania di marmo chiaro su cui era stato installato uno scrittoio. Tirò le tende che mostravano la camera a uno dei cortili interni dell'immenso palazzo, in modo che nessuno potesse scorgere niente della loro conversazione.
«Possiamo fidarci di quel Saro?» gli chiese Erik, prendendo posto su una sedia imbottita e dal tessuto violaceo.

«Gli hanno tagliato la lingua da bambino» spiegò Nicola. «Aveva insultato una divinità proprio davanti a una cattedrale, in un luogo poco incline al perdono... credo a Cremini, non ricordo. Qui mio padre non lo avrebbe mai permesso.»

L'Inverno annuì. «Bene. Adesso dovrai sposare mia sorella.»

«Ci sono altre cose da fare» ribatté l'altro, elusivo. «Devo controllare i confini a nord e rassicurarmi che non ci siano attacchi...»

«Ma con Flora al tuo fianco avrai...»

«Erik, non è così semplice» lo interruppe il Lotnevi. «Mio padre è appena stato ucciso, devo prendere il suo posto, occuparmi della difesa del regno...»

«Proprio di questo ti parlavo» insisté l'ospite.

Nicola sospirò, prima di aprire un cassetto della scrivania e tirarne fuori una carta geografica che rappresentava lo Cmune e i suoi confini: un breve tratto a settentrione era segnato di rosso.

«Questo è il punto da cui possono attaccarci» indicò. «Il Ruxuna ha già conquistato Lisse e Ralini. Sono stati molto veloci, perché in meno di un mese sono arrivati a occupare il Loavi partendo dai loro territori... sarà solo questione di tempo prima che prendano anche il Copne e puntino a sud. Verso di noi.»

Aveva cercato di essere freddo, distaccato, ma non poteva negare a sé stesso che la situazione lo preoccupava: il suo regno, la sua casa, era in pericolo e non c'era più il re su cui poter fare affidamento, perché spettava lui ora il compito di subentrare al padre. E temeva di dover fare tutto da solo.

«Se riescono a trovare un varco tra le montagne, sarà solo questione di tempo...» mormorò Erik. Lo sguardo dell'Inverno corse lungo il confine meridionale dello Cmune, quello che condivideva con il suo Defi.

«Abbiamo costruito un muro tra le montagne, in modo che non possano avere spazio» disse Nicola. «Mio padre è stato previdente.»

«Potrebbe non bastare.»

«Lo so.»

«Per questo è importante che tu e Flora vi sposiate» riprese Erik. «Ufficialmente noi non possiamo allearci, quindi l'unico modo che abbiamo per aiutarti è questo. Nessun trattato vecchio di secoli potrà impedire a mio padre di inviare l'esercito qui, se c'è la vita di Flora in pericolo. E lo capiranno anche gli altri regni. A quanto ne so io, c'è un'intera divisione già pronta per lo Cmune. Il Ruxuna è preparato militarmente, e ora ha anche tre regni da cui pretendere dei nuovi soldati...»

«Lo so» ripeté il Lotnevi, interrompendolo. «So che aspettano solo l'occasione propizia...» Indicò sulla mappa il territorio a ovest dello Cmune, segnato con una croce blu. «Hanno già inviato minacce allo Dzsaco e se non gli permetteranno di attraversarlo senza creare problemi...»

Si alzò in piedi e iniziò a camminare freneticamente per la stanza, sotto lo sguardo attento dell'altro. C'erano troppe cose di cui occuparsi e lui era da solo; già riteneva una fortuna che ci fosse Erik, almeno non aveva dovuto fronteggiare da solo i cortigiani.

«Quindi hai degli informatori?» gli chiese l'Inverno.

Scosse la testa. «No, ho Luciana, che è molto più preoccupata di me.» Nicola ebbe la tentazione di mostrargli la lettera della principessa di Dzsaco, che gli era giunta il mattino precedente, ma poi ci ripensò: non sarebbe stato di alcuna utilità. «La cosa peggiore è che non possiamo neanche provare a unire le forze con lo Dzsaco, perché il confine da difendere sarebbe troppo lungo e non abbiamo i soldati per poterlo fare: saremmo circondati su due lati... e il Pogudfo non può esserci di alcuna utilità.»

Erik annuì, sconsolato. «Questi antichi patti militari non mi piacciono per niente. Gli Autunno non li stanno rispettando, mentre noi, piuttosto che violarli, rischieremmo l'invasione...»

«E tu sei convinto che l'unico modo di fermare gli Autunno sia il mio matrimonio con Flora?»

L'Inverno fece un cenno di assenso con il capo. «Non ne vedo altri.»

Nicola sospirò. Abbandonò la sua compostezza, sedendo su uno dei divani imbottiti del salottino. Pensò alla sorella di Erik, con cui il matrimonio era combinato da diverso tempo. Si stropicciò gli occhi e la immaginò sola, nella sua camera del castello di Defi da cui usciva di malavoglia per i suoi doveri, come gli scriveva nelle frequenti lettere che si scambiavano.

L'ultima gli era giunta nel pomeriggio e lo incoraggiava a farsi forza contro l'aperta ostilità dei cortigiani fedeli a suo padre. Anche la fanciulla si era sfogata della propria condizione: da alcune settimane non poteva andare da nessuna parte senza essere sorvegliata a vista dagli uomini fedeli ai genitori o da alcune guardie reali. Sebbene per motivi diversi, i due avevano trovato qualcosa in comune e già da tempo avevano maturato il fermo proposito di non sposarsi. Accettare quella decisione avrebbe significato sottomettersi alla volontà altrui, cosa che Flora non riusciva a sopportare; e aveva suggerito a Nicola di ribellarsi, anche se non in modo aperto. La principessa di Defi era un'amica preziosa, e al Lotnevi era sufficiente la sua amicizia: nonostante la sua bellezza, Flora non lo interessava affatto. Solo in un secondo momento aveva scoperto che lei era sentimentalmente legata a qualcun altro e per questo motivo si opponeva alle nozze.

«Mio padre mi ha anche incaricato di scoprire chi sia il famoso spasimante di Flora» ripeté Erik a un tratto, rompendo il silenzio.

Nicola sollevò lo sguardo e lo posò in quello di ghiaccio dell'Inverno. «Credevo che Tancredi sapesse già di chi si tratta.»

«Pensa che sia un altro. Secondo te Flora si lascerebbe scoprire tanto facilmente?»

Il Lotnevi annuì, celando un sorriso che gli stava per affiorare sulle labbra. Era abile, la fanciulla, i suoi intrighi non sarebbero stati svelati con poco.

«Che abbia un amante?» chiese invece. Nonostante l'amicizia con Erik, non poteva dirgli come stavano davvero le cose.

«È possibile, ma come farebbe a vederlo se è sempre sorvegliata?»

Il principe di Cmune scrollò le spalle. «Non ne ho idea.»

Gettò una rapida occhiata al cassetto lasciato aperto e si apprestò al tavolo, per richiuderlo. La lettera di Flora era sopra addirittura a quella di Luciana. Si soffermò per un istante a rileggere le parole che da lì poteva distinguere, di nascosto ad Erik.

Loro mi guardano e mi vedono sorridere, perché non sanno. Non sanno che li sto prendendo in giro proprio davanti ai loro occhi. E non mi dispiace affatto, Nicola, non riesco a essere dispiaciuta, né a mostrare neanche un velo di tristezza. Perché quando sono con lui, sono felice e loro non possono togliermi questa felicità. Nessuno può farlo.

«Per quanto riguarda il pugnale...» iniziò a dire Erik.

«Uno di noi due deve andare da Ariel» stabilì Nicola. «Ci andrei io, ma non posso lasciare da sola mia madre. Non dopo quello che è successo.»

«Tu non puoi andare da nessuna parte, qui c'è bisogno di te» asserì l'Inverno, anche se non era entusiasta della prospettiva di essere lui a doversi recare a sud. Significava dare alla corte dei Dal Mare un pretesto per parlare di lui e di Ariel: sapeva che i genitori di lei sarebbero stati felici della prospettiva di un loro matrimonio, ma lui non era incline a sposarsi; almeno non al momento.

«Non mi fido di nessuno» disse il Lotnevi. Aveva intravisto una nuova esitazione nell'amico e premette sul legame che li univa. «Non posso mandare Saro, è muto. E qui mi chiederanno di avviare delle ricerche... non posso non dare loro alcun punto di partenza, perché sospetteranno di me.»

Erik sollevò lo sguardo su di lui. «Nessuno deve sapere del pugnale: finché non ne abbiamo la certezza, non possiamo rischiare che qualcuno punti il dito contro Ariel... ti chiederebbero di muovere guerra ai Dal Mare, e non possiamo permetterci un'altra guerra. Non con la minaccia del Ruxuna.»

«Ma cosa diciamo, che il pugnale è sparito? Sospetteranno tutti di te!»

L'Inverno scosse appena la testa. «Prima che li mandassi fuori, nessuno l'ha visto. Mi è sembrato strano... ma forse erano tutti presi da Guglielmo da non notarlo. Intanto tu fa' avviare delle ricerche, magari su chi poteva avere dei buoni motivi per ucciderlo.»

Nicola scosse il capo. Conoscendo i cortigiani, avrebbero tutti detto all'unanimità che l'unico a non amare il re era proprio lui. Ma sapeva di non avere alternative. Forse, con un po' di fortuna, avrebbe trovato qualche borghese, in città, o qualche proprietario terriero che aveva avuto dei trascorsi poco amichevoli con il padre; anche se si trattava di una debole speranza.

«Non possiamo fare altrimenti» insisté Erik. «Dirò a mia madre che vado a raggiungere mio padre nell'Isola di Pecama, mentre in realtà andrò sì nel Pecama, ma per parlare con Ariel.»

«E Flora?» chiese il Lotnevi.

«Falla venire qui, la sua influenza può esserti utile in questo momento. Potrebbe occuparsi lei del matrimonio, mentre tu pensi alla difesa a nord.»

Il principe di Cmune annuì con sospiro: era un'ottima idea avere lì Flora di persona.

Erik tastò il mantello da viaggio, che non aveva tolto per tutto il tempo, nel punto in cui era nascosto il pugnale della giovane Dal Mare. «Lo restituirò ad Ariel» mormorò, scambiando uno sguardo di intesa con l'amico.

Uscirono insieme dal salottino del principe e, alla presenza di qualche cortigiano, l'Inverno disse: «I recenti avvenimenti mi spingono a mettermi nuovamente in viaggio per informare mio padre, vostro alleato, della nuova situazione. Vi auguro di trovare il colpevole di questa uccisione terribile durante la mia assenza.»

Si inchinò in maniera cerimoniosa, e Nicola sperò che i nobili che avevano assistito a quello scambio verbale iniziassero sin da subito ad accettare che il re, ben presto, sarebbe stato lui.

 

(Ultima revisione: 22/05/2020)

 

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Capitolo 3
*** 2.1 Lucida follia ***


(Capitolo revisionato)

Alle prime luci dell'alba, Nicola si recò alla camera mortuaria dove riposava il padre. Alcune donne, sia vecchie serve che lavoravano da lustri nel palazzo, sia altre di estrazione nobile, erano rimaste a vegliare per l'intera notte, rivestite di abiti neri. L'atmosfera era resa ancora più lugubre da candele dal lume scuro, che qualcuna delle più vegliarde aveva conservato dalla morte del predecessore di Guglielmo.

Una di quelle rivolse lo sguardo verso il principe senza dire nulla, pietosa, forse, per il peso che gravava sulle spalle del giovane. Sostituire il re non sarebbe stato affatto semplice.

A giorno fatto, Nicola radunò la corte nella sala del trono, il luogo più spazioso del palazzo, per comunicare ai dignitari e alle dame che avrebbe avviato delle indagini sulla morte del padre, prendendo il suo ruolo prima dell'incoronazione: il regno non poteva rimanere senza una guida.

Poi spedì gli araldi in tutto lo Cmune a diffondere tra il popolo la triste notizia. Tutti quegli uomini e donne a sorvegliare ogni suo passo gli avevano lasciato l'impressione che a nessuno di loro fosse piaciuto il suo modo di agire: l'aver preso così tempestivamente autorità, quel suo dare ordini da eseguire all'istante, come se fosse già re; forse era proprio questo che non era andato giù alla corte, che si sarebbe aspettata un comportamento più remissivo.

Così da lasciare in mano loro le indagini, pensò Nicola con fastidio. Tuttavia, sapeva di essere nel giusto e non aveva alcuna intenzione di farsi condizionare da uomini inferiori a lui. Decise di ignorare il loro atteggiamento, ma il pensiero di essere inviso a quei cortigiani che tanto avevano amato suo padre continuava ad accompagnarlo mentre si recava nelle stanze della madre.

La regina Felicita aveva saputo fin da subito della disgrazia: le chiacchiere concitate dei nobili non avevano avuto alcun riserbo nel parlarne davanti a lei. La donna non aveva osato avvicinarsi alla camera mortuaria e al mattino rifiutava la compagnia delle proprie dame, negando loro il privilegio di esserle di conforto.

Il principe di Cmune camminava a passo spedito tra i corridoi illuminati appena: le tende erano state tenute accostate, in segno di lutto, e il sole filtrava appena. Vide Saro accendere delle altre candele nere; il servitore gli fece un timido cenno con il capo, come a dirgli che si era disfatto di quel lembo di stoffa così come gli era stato ordinato. Nicola annuì, procedendo più veloce verso le stanze della madre.

Quando vi giunse, trovò la porta a doppia anta chiusa, presso cui erano un paio di donne all'incirca dell'età della regina, sue compagne sin dai primi tempi al palazzo. Non erano le uniche, tuttavia, a trovarsi lì: insieme alle donne c'era anche una giovane, ben conosciuta a Nicola.

Luciana Lugupe, principessa di Dzsaco, sostava presso una vetrata che dava su un cortile interno. Il suo sguardo corrucciato incontrò quello del Lotnevi, come chiedendogli di poter parlare con lui.

Nicola annuì appena, con il ricordo dell'ultima lettera ancora ben impresso nella mente. L'arrivo della coetanea significava che c'erano delle novità, che lui era ansioso di conoscere: la questione era della massima importanza; anche se quello non era il momento, né il luogo.

Le donne chinarono il viso, in segno di una reverenza non realmente provata e si mossero quanto bastava al futuro sovrano per giungere fino alla porta. Nicola sentiva il loro fiato sul collo mentre si accingeva a bussare, prima di essere interrotto dalla voce di una delle due.

«Vi affannate invano, non uscirà di lì, né tantomeno vi permetterà di entrare!» cinguettò quella più lontana da lui. «Noi siamo state scacciate già tre volte!»

In un primo momento il principe ebbe l'intenzione di fulminarla con lo sguardo. Quella donna, con il suo atteggiamento così disinvolto, non era diversa dagli altri cortigiani di Mitreluvui: altezzosa, priva di ogni rispetto nei confronti di chi non fosse re Guglielmo e incapace di riconoscere una persona di rango superiore al suo. Come aveva fatto suo padre a circondarsi di una così folta schiera di imbecilli? E come aveva fatto la regina a sopportarlo? A un tratto, Nicola si sentì spaesato e comprese che tutta la corte gli era contro; poteva confidare solo in una persona, che non aveva alcuna intenzione di conferire con lui, né con nessun altro.

Respirò profondamente e scosse il capo: era inutile ricordare alla donna che lui era il figlio della regina, mentre lei era solo una dama di compagnia qualsiasi.

«Madre, ho bisogno di parlarvi!» disse deciso a volume alto, in modo che la voce arrivasse nella più interna delle camere. Bussò con un tocco insistente, sì, ma non perentorio; sperò che questo fosse sufficiente.

Dalla porta si affacciò Altea, la cameriera privata della regina, l'unica a cui era stato possibile l'accesso, colei che era rimasta con la sovrana fino ad allora. Non disse nulla ma fece cenno al principe di seguirla oltre la soglia.

Nicola era stato altre volte nel salotto che collegava quell'ala del palazzo con il resto della reggia e lì tutto sembrava intatto: il tavolino della teletta era ben lucidato, così come lo specchio, in cui il principe vide la sua immagine riflessa per un solo istante. I divani imbottiti di stoffe dai colori accesi catturarono il suo sguardo, perché sembrava che nessuno ci si fosse seduto da ore. Che Altea fosse rimasta in piedi per tutto il tempo?

Seguì la ragazza nella stanza successiva, dedicata al guardaroba della regina, con armadi enormi che toccavano il soffitto. Fuori dalle ante erano poggiate delle scale, che le cameriere utilizzavano per tirare fuori gli abiti dagli scomparti più elevati.

Niente sembrava fuori posto, come il principe poté subito notare. Continuò a camminare fino a giungere alla camera della madre, per lui sconosciuta fino a quel momento: neanche da bambino gli era mai stato concesso di entrarvi.

La regina Felicita era ancora nel letto, gli occhi spalancati che fissavano le travi del soffitto, il lenzuolo azzurro che la copriva da metà del petto fino ai piedi. Il viso era pallido e le occhiaie profonde, come conseguenza di una notte insonne. L'ingresso del figlio non cambiò nulla in lei, che neanche diede cenno di essersene accorta. Nicola si inginocchiò davanti al suo viso.

Il giovane deglutì più di una volta, quasi incapace di trovare la parola al cospetto della madre. Alzò appena gli occhi, posandoli sull'arazzo che copriva la parete e che raffigurava la regina, molti anni prima che lui venisse al mondo, nell'atto di raccogliere dei tulipani blu, il simbolo della casata Lotnevi. Era ancora giovane e bella, probabilmente aveva appena contratto il matrimonio con il re e lasciato da poco la sua residenza di campagna per stabilirsi al centro della capitale.

Nicola pensò a sé, a cosa sarebbe stato di lui se lei lo avesse abbandonato e si forzò a parlare.

«Se volete rimanere da sola,» esordì, con voce tremante, «rispetterò la vostra decisione e manderò via le vostre dame che, qui fuori, attendono trepidanti di servirvi. Posso immaginare quanto sia grande il vostro dolore, ma...»

Cercò di sciogliere il nodo che gli stringeva la gola e che gli impediva di comporre un discorso fluido, detestandosi per la propria incapacità di mantenere il controllo su sé stesso e sulle proprie emozioni. Nicola si sentiva solo. Solo e disperato, mentre la madre appariva lo spettro della donna che era sempre stata, tanto piena di iniziativa da consigliare il marito nell'appianare alcuni problemi di carattere politico.

«... avete davanti a voi un figlio a cui è stato messo in mano un compito grande, forse troppo per lui. Ho bisogno della vostra presenza in questo inizio di regno, ho bisogno di una guida che mi dia forza e che mi sappia consigliare per il verso giusto. E...»

Il giovane faticò a trattenere un singhiozzo che avrebbe mostrato la sua vulnerabilità, sebbene la regina non avesse dato alcun segnale di aver ricevuto e compreso le sue parole e non avesse fatto alcun movimento: soltanto l'alzarsi e l'abbassarsi del suo petto indicava che fosse ancora viva.

«... e solo tu puoi. Solo tu puoi aiutarmi.»

Finalmente, dopo aver persino abbandonato ogni formalità, Nicola pianse. Avrebbe già voluto farlo molte ore prima, ma la presenza dei dignitari, il dover conferire con loro e forse anche il fatto di non aver avuto un momento di pace glielo avevano impedito. Nicola pianse, abbandonato a sé stesso, mentre la madre non dava cenno di averlo udito, e capiva piano piano quanto il dover succedere al padre fosse difficile per lui. Si sentiva inadeguato e distante dalla corte, che non solo non parteggiava affatto per lui, ma che avrebbe persino goduto di un suo fallimento alla guida del regno.

Sentì una mano accarezzargli dolcemente la testa china e quella voce tanto familiare arrivargli flebile alle orecchie.

«Nicola, sei chiamato a un grande dovere. So che tu lo svolgerai degnamente, e sarai ricordato nei tempi per questo. Non dire di capire il mio dolore: non sai cosa provo. Avevo bisogno di silenzio attorno, non sto soffrendo, ho solo riflettuto su quali siano ora le azioni più adeguate a questa nuova situazione. So che hai bisogno di me, conosco i tuoi dubbi e le tue incertezze: ho avuto anche io la tua età. Proprio per questo so che non puoi guidare il regno senza alcun sostegno e che hai bisogno di una figura al tuo fianco.»

Il giovane alzò il viso e guardò gli occhi chiari della madre, fissi nei suoi. Sembravano vitrei, senza alcuna emozione, quasi come quelli del re, che giacevano esanimi in una stanza del palazzo, pianto da una corte che lo aveva amato sin dal primo giorno. Per un momento eterno, il principe ebbe paura di cosa la donna gli avrebbe detto; o forse era certo di cosa avrebbe udito.

«È mio desiderio che tu sposi Flora il prima possibile.»

Nicola rimase paralizzato con lo sguardo fisso sulla madre, che aveva appena rivolto il capo nella sua direzione. Come poterle mentire? Come dirle che lui non avrebbe mai sposato Flora? Non aveva il tempo di pensare a un matrimonio che proprio non voleva; disubbidirle, però, sarebbe equivalso a ferirla, e lui era tutto ciò che le rimaneva, l'ultimo affetto a cui aggrapparsi. Non disse nulla, rimase immobile mentre la mano della madre continuava ad accarezzargli dolcemente la cute tra i capelli. Avrebbe voluto che non smettesse mai: era un gesto di tenera affettuosità a cui non avrebbe rinunciato per nessuna ragione. Ma lei si fermò e, con il tocco di un dito, gli sollevò il mento.

«Adesso, vai, sarai senz'altro pieno di impegni» disse la regina, mostrandogli a fatica un sorriso incoraggiante, che a Nicola bastò per capire che confidava in lui. Allora si alzò in piedi, ma non si mosse.

«Con loro cosa faccio?» chiese, alludendo alle donne rimaste fuori ad attendere.

«Oggi lascia che io rimanga ancora nel mio lutto. Domani deciderò se avrò bisogno o meno di compagnia.»

Il principe annuì. Guardò ancora i colori vivaci dell'arazzo e si inchinò profondamente, in segno di commiato, mentre le guance di Felicita riprendevano il colore della vita.

 

(Ultima revisione: 22/05/2020)

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Capitolo 4
*** 2.2 Intrighi di corte ***


(Capitolo revisionato)

Appena uscì dalle stanze della madre, Nicola congedò le due dame spiegando loro che la regina necessitava di ulteriore tempo per elaborare il lutto. Dunque le donne si allontanarono, lasciando soli lui e Luciana. I giovani nobili si scambiarono una rapida occhiata complice: parlare era della massima urgenza.

«Non qui» sussurrò lei, con gli occhi vivaci che lasciavano trasparire la sua fretta.

Il principe annuì, comprendendo che quello non fosse il luogo più sicuro per la loro conversazione, e mormorò di dirigersi ai giardini della reggia: lì c'era una zona privata in cui i cortigiani non li avrebbero disturbati.

Oltrepassarono il lungo corridoio che collegava il resto del palazzo alle stanze della regina, i due scesero una maestosa rampa di scale che abbracciava l'atrio sue due lati. A fiancheggiare la loro discesa, delle grandi vetrate che affacciavano su uno dei cortili interni.

Non appena i cortigiani all'interno dell'atrio si accorsero della presenza di Nicola, tacquero e si allontanarono a piccoli gruppi, come se complottassero qualcosa. Qualcuno abbassò la testa e si mostrò crucciato, ma il principe non seppe interpretare quel gesto: forse era finta empatia nei suoi confronti, forse erano davvero dolenti per la scomparsa del re.

Il Lotnevi fece cenno con solennità alla Lugupe di proseguire verso un ampio corridoio che conduceva fino al cortile esterno.

Vi sbucarono quando il sole era alto a sud e illuminava i prati ben curati e le aiuole di tulipani, bagnati da esperti giardinieri. La luce del tardo mattino non feriva i loro occhi, ma sembrava accompagnarli lungo i viali acciottolati e vegliare sul loro silenzio. Varcarono un piccolo cancello in ferro, che delimitava una zona privata dei giardini e si ritrovarono in un piccolo spazio rialzato, al cui centro era piantato un salice, con attorno delle panche in ferro battuto con delle rifiniture in oro. I rami del salice, vecchio di ormai molti anni, scendevano come formando una cupola per riparare dalla calura estiva, mentre l'edera era cresciuta arrampicandosi sul metallo che chiudeva quel piccolo angolo di paradiso, che Guglielmo e Felicita utilizzavano per nascondersi dalla corte quando erano più giovani.

Nicola sospirò, ricordando il racconto di un vecchio servo, che non aveva avuto nessuno scrupolo nel riferirgli quello scorcio di passato quando era ancora un bambino. Poi posò lo sguardo su Luciana e la vide scura in volto.

«Che cosa succede?» le chiese, fissando dritto innanzi a sé il tronco ombreggiato dell'albero.

«La scadenza per poter trattare con gli Autunno scadeva ieri» mormorò la principessa di Dzsaco. «Ma Melissa mi ha scritto che potevamo ritenerci al sicuro, perché non ci avrebbero attaccati. La lettera è arrivata ieri sera. Non so cosa abbia in mente Raissa, ma non vuole attaccare lo Cmune da due fronti, altrimenti sarebbe già arrivata la dichiarazione di guerra a noi.»

Il suo tono di voce agitato mostrava la stessa agitazione che traspariva dal volto di Nicola, che indirizzò il suo sguardo verso occidente. Sebbene non potesse vederlo, sapeva che in quella direzione si trovava il regno di Dzsaco e che al di là di questo, il Ruxuna era una minaccia di cui non poteva non tenere conto. Un doppio attacco da nord e da ovest era la mossa più intelligente da fare, soprattutto con il gran numero di soldati che componeva l'esercito degli Autunno, al cui confronto le armate che Dzsaco e Cmune potevano schierare impallidivano.

«Aveva ragione» riprese Luciana con un soffio di voce, come se nessuno all'infuori di Nicola dovesse udirla. «Dal confine ci hanno detto che non c'è neanche l'ombra di un soldato. L'unica cosa che Melissa ha ribadito è che Raissa voleva che tuo padre morisse, anche se non ne sappiamo il motivo.»

Nicola scosse la testa, non perché non credesse alle parole della Lugupe, ma perché non riusciva a trovare un senso alle azioni e alle intenzioni di Raissa Autunno, principessa di Ruxuna. «Quindi tu pensi che il suo scopo fosse quello di dichiararci guerra sperando di poterlo uccidere in battaglia? È follia!»

Luciana alzò gli occhi al cielo. «Certo che è follia, stiamo parlando di Raissa! Altrimenti avrebbe fatto la cosa più sensata per qualsiasi stratega, cioè attaccarti su due lati. E invece non l'ha fatto! Perché? Rifletti!»

Raissa, colei che a detta di tutti sarebbe diventata regina del Ruxuna alla morte dei sovrani, non era di certo la più diplomatica tra le sorelle Autunno. La sua sete di conquista infatti era conosciuta anche fuori dai confini del suo regno: giungevano voci sulle torture che impartiva ai prigionieri da far drizzare i capelli anche al più coraggioso combattente. Qualcuno mormorava persino che lei fosse in grado di padroneggiare la magia, arte caduta in disuso da secoli e la cui unica reliquia erano antiche pergamene contenenti profezie; esse risalivano a tempi così remoti che nessuno aveva mai saputo fornire una datazione precisa della loro scrittura.

Ciò che di lei spaventava maggiormente Nicola era l'organizzazione dell'esercito, perché si diceva che fosse stata proprio Raissa a riassettarlo fino a renderlo invincibile in ogni tipo di battaglia. Era riuscita a escogitare un modo per far passare l'armata inosservata attraverso un piccolo varco tra le montagne e a conquistare i regni a nord di Ruxuna, Dzsaco e Cmune, senza che questi potessero organizzare le difese. Tre regni in un mese! L'invasione di Dzsaco e Cmune era ormai imminente, senza ombra di dubbio; il solo pensiero spaventava il principe, che tuttavia riuscì a ragionare a mente lucida.

«Lei voleva dichiararci guerra sperando che mio padre si sarebbe posto a capo dell'esercito, oppure avrebbe trovato un modo per entrare di nascosto nel regno, approfittando della confusione e ucciderlo» ricapitolò Nicola ad alta voce. «Ma lei non poteva e non può permettersi in nessun modo di venire collegata all'omicidio di un re, altrimenti perderebbe credito nella sua scalata verso il trono. Io non credo che, comunque, incontrerà molti ostacoli: Deianira è troppo docile, Melissa troppo ribelle. Amelia e Ruggero preferiranno lei, è la più adatta ad un ruolo di potere.»

Era sicuro che a Raissa sarebbe spettata la corona. Oltre a essere la più determinata nel volere il trono, era quella il cui temperamento si mostrava più in linea con quello della madre, già severa e spietata nel mantere l'ordine all'interno del regno. Deianira non aveva un carattere dominante, almeno da quanto si poteva capire senza frequentare la corte del Ruxuna: accettava passivamente ogni decisione che le veniva imposta. Si sapeva poco di lei e circolava la voce che fosse di salute così cagionevole da non lasciare mai la reggia nel Ruxuna, se non molto di rado, quando i sovrani raggiungevano le loro terre nell'isola di Pecama e la conducevano con loro. Melissa, d'altro canto, sembrava propendere per far sviluppare il Ruxuna sotto l'aspetto produttivo, per incrementare le entrate del regno e della corte. Per quanto riguardava le relazioni con i paesi confinanti, invece, sembrava che si fosse opposta alla politica aggressiva e conquistatrice della sorella minore. Il re e la regina le avevano lasciate discutere, ma infine avevano appoggiato la linea di Raissa.

«Lascia perdere queste considerazioni, vai al sodo» gli intimò Luciana, voltandosi per vedere se qualcuno si fosse avvicinato a origliare: un paio di donne li spiavano sospettose, ma da troppo lontano per udire distintamente le loro parole.

«Ci arrivo, fammi pensare. Se Raissa sa, come è vero che sa, di non poter essere implicata in un omicidio, soprattutto di questa importanza, allora deve farlo qualcun altr...» Nicola si interruppe. Guardò in alto il cielo, divenuto grigio: strati di nubi si muovevano spinti dal vento, coprendo la luce del sole. Il principe desiderò esserne al di là, per nascondere l'improvvisa vergogna che provò. Arrossì violentemente e sussurrò: «Per questo lo aveva chiesto a me.»

Lei lo guardò sbigottita. «Ti ha chiesto cosa?» esclamò alzando la voce.

Il principe si coprì il volto con entrambe le mani, come un bambino disperato e bisognoso di aiuto. «Io non sono stato, lo giuro, non sono stato io!»

Luciana non disse nulla per un po', facendo sua la confessione di Nicola, poi decise di aspettare che l'imbarazzo abbandonasse l'amico. Quindi si alzò dalla panchina e passeggiò sola per il giardino, sorridendo con i suoi occhi vispi e innocenti ai dignitari e alle dame di corte. Era convinta di dimostrare in tal modo di non aver nulla da nascondere; anche se la sua intimità con il principe avrebbe potuto dare a molti materia per false dicerie.

I nobili cedevano il passo e la salutavano con grande rispetto, profondendosi in numerosi inchini. Qualcuno le rivolse la parola e lei, gentilmente, rispose alle cortesie con cui quella corte mostrava di avere fiducia in lei e nelle sue azioni, nonostante il suo legame con l'odiato principe.

Quando ritornò da Nicola, lo ritrovò ancora seduto con il viso tra le mani. Si sedette di nuovo al posto in cui era prima, ma rivolta verso di lui, mentre prima lo era verso il salice.

«Nicola» lo chiamò, riprendendo il discorso dopo diversi minuti. «Io ti credo. Credo fermamente che non sia stato tu. Ti conosco molto bene, non avresti potuto. E se...»

«Tu non capisci» la interruppe lui, allontanandosi le mani dal viso e guardandola spazientito, senza tuttavia alzare la voce. «Qualcuno lo ha fatto al posto mio, e se Raissa non ha mandato le truppe al confine con lo Dzsaco, questo significa che lei lo sapeva! Lei lo sapeva! Ora troverà un modo per ricattarmi o per far credere di essere stato io! D'accordo, io non gli volevo bene, neanche un po', e se lo avessi ucciso avrei evitato una guerra che avremmo di certo perso, quindi avrei salvato la vita del mio popolo, ma...»

«Ma lei non sa che non sei stato tu» obiettò Luciana, con grande lucidità. «Potevano essere errate le nostre informazioni: Melissa può essersi sbagliata, Raissa può averle mentito... Ci sono troppe variabili, non credo che ora qui ci sia qualcuno disposto a puntare il dito contro di te e, se lo faranno, io sarò la prima a difenderti!»

Nicola scosse il capo: lei non capiva, non si era accorta della maniera in cui lo squadravano, tutti quanti, di come o quanto lo detestassero... Si alzò in piedi e iniziò a passeggiare innervosito sotto il salice, mentre la principessa lo fissava, in attesa di una replica alle sue parole. Lei era pronta a proteggere l'altro da chiacchiere delatrici, perché era sicura di essere nel giusto.

«Sì» momorò Nicola, dopo essersi fermato. Si appoggiò al tronco del salice, tenendo la mano stretta in un pugno. «Sì, invece: loro non aspettano altro che vedermi fuori dai giochi, anche accusarmi ingiustamente può essere un pretesto valido per non farmi diventare re. Lo vedo nei loro occhi. Già ieri sera erano tutti disposti ad obbedire ad Erik, mentre stamattina mugugnavano nell'ascoltare me!»

«Erik è stato qui?» esclamò lei, sorpresa per non aver incontrato il principe di Defi.

Nicola annuì con la testa, riprendendo a camminare con la stessa andatura nervosa di poco prima. La giovane abbassò lo sguardo sull'erba, scura per la poca luminosità.

«Devi sposare Flora, allora» disse semplicemente. «Se lo farai, acquisterai autorevolezza, oltre a un concreto aiuto per difenderti da attacchi esterni. Flora è in grado di darti l'appoggio di cui hai bisogno qui, questa massa di vili cortigiani può anche aspettare che tu faccia una mossa falsa, ma con lei pronta a sostenerti non oseranno mai attaccarti apertamente. Nessuno si oppone a lei in nessuna occasione, eccetto Alcina e Tancredi.»

Nicola annuì ancora, ma rallentò il suo passo a sentir nominare i sovrani di Defi, a cui Luciana era molto devota e che la principessa dello Dzsaco teneva in altissima considerazione. Alcina Primavera e Tancredi Inverno: i loro nomi suonavano imperiosi come la promessa di matrimonio, una minaccia a cui lui sentiva di doversi opporre, sebbene contro ogni logicità.

Sposare Flora: glielo continuavano a ripetere tutti come se fosse la cosa più giusta e naturale da fare. Il principe di Cmune, tuttavia, riteneva che avrebbe dimostrato le proprie capacità di governante anche senza di lei. Ma non sapeva cosa dire per controbattere alle parole di Luciana, preoccupato ancora com'era dai cortigiani, dai piani che Raissa poteva avere in mente e che prevedevano la sua personale disfatta.

«Ho bisogno che qualcuno vada da Flora. Adesso è sola: Erik è partito per il Pecama e temo che Alcina possa diventare troppo severa con lei» mormorò appena.

«Ti aspetti che ci vada io?» esclamò lei, incredula. «Devo tornare immediatamente nello Dzsaco, non posso perdere tempo con queste cose. Manda una carrozza da lei, che la porti qui e così potrete celebrare il matrimonio, anche se in fretta e senza troppe cerimonie.»

Nicola arrestò il passo. La Lugupe non sapeva nulla della sua ferma intenzione di sabotare quel matrimonio ad ogni costo e non poteva parlargliene, visto che nessuno, se non i diretti interessati, ne era a conoscenza. Se Tancredi e Alcina lo avessero scoperto, gli intrighi di corte sarebbero diventati l'ultimo dei suoi pensieri: a quel punto avrebbe davvero perso ogni credibilità.

«Non posso» obiettò, sicuro delle proprie parole. «Quello di cui c'è bisogno per calmare le acque è proprio una bella cerimonia di nozze, che distolga le chiacchiere dalla morte di mio padre. Ci vorrà del tempo per prepararla, ma dovrebbe valerne la pena. Non posso permettere che loro insinuino che io lo abbia ucciso.»

Luciana annuì, comprensiva. «Hai ragione. Ma devi fare in modo che Flora venga qui. La sua sola presenza può fare molto per la tua posizione, quindi devi convincere Alcina a lasciarla partire.»

Nicola la guardò, smarrito: non aveva nessun mezzo per convincere la regina di Defi. Alcina non avrebbe mai consentito che Flora abitasse con lui a palazzo senza esserne la legittima moglie e lo avrebbe costretto a sposarla senza che lui potesse prendere tempo. Ma il Lotnevi non poteva permetterlo e non possedeva la necessaria abilità oratoria per farle cambiare idea.

Luciana dovette intravedere qualcosa nella sua espressione, perché si alzò dalla panchina e disse, risoluta: «Non preoccuparti, me ne occuperò io.»

 

Ultima revisione: 11/02/2020

 

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Capitolo 5
*** 2.3 Alla ***


 

Capitolo revisionato

L'insegna della Quercia notturna era colpita dagli sbiechi raggi del tramonto quando Erik vi giunse insieme a uno stremato Peves. La locanda sorgeva al limitare di un querceto, al confine tra Cmune, Dzsaco, Defi e Pogudfo. L'Inverno lanciò un'occhiata rapida alla boscaglia con un sospiro: forse tornare lì non era stata una buona idea, ma era troppo tardi per cercare un altro luogo per riposare.

Gli venne incontro l'oste, con il quale il principe aveva avuto modo di familiarizzare in altre occasioni, pur mantenendo una debita distanza; Erik gli disse di aver bisogno di una stanza per la notte, e quello annuì, servizievole. Dapprima l'uomo lo accompagnò nella stalla, dove Peves avrebbe riposato, poi gli fece largo all'interno della locanda.

Le chiacchiere colmavano un'aria già satura degli aromi di cibi variamente preparati. Le tavolate erano occupate e solo facendosi largo tra gli avventori, l'oste poté guidare il nobile tra mercanti che parlavano di affari, viaggiatori al crocevia e boccali di birra pieni fino all'orlo che sbattevano tra loro, augurio di buona fortuna o solo di una felice serata.

La locandiera portava vassoi colmi di pietanze ma, non appena scorse il principe, accennò al marito un tavolo libero e in disparte dove far prendere posto all'illustre ospite.

Erik si sedette e attese pazientemente che la donna arrivasse da lui dopo aver consegnato dei piatti fumanti. Si beò del profumo invitante della zuppa, che molti sembravano gradire con schiamazzi fastidiosi.

Quando l'ostessa fu finalmente libera degli ultimi piatti, si avvicinò all'Inverno con un sorriso.

«Avete qualche preferenza per la cena?» gli chiese.

Il principe di Defi rispose a quel sorriso con gentilezza, nascondendo la stanchezza per il viaggio appena intrapreso. «Qualsiasi cosa che sia calda andrà benissimo.»

«Siete molto provato? Siete passato da qui due giorni fa!» commentò la donna, pulendo velocemente la superficie di legno con un panno umido.

«Sono distrutto, ma è mio dovere, quindi posso sopportarlo» le spiegò Erik con un sorriso di cortesia. Non aveva intenzione di discutere dei motivi per cui non si era trattenuto di più a Mitreluvui.

L'ostessa lo salutò con un'occhiata benevola, prima di allontanarsi. Lui la seguì con lo sguardo e la vide raggiungere due giovani che chiacchieravano, poco distanti dalla porta che conduceva alle cucine. L'Inverno riconobbe nella ragazza la figlia dei locandieri, Susanna, ma non aveva idea di chi fosse lo sconosciuto con cui parlava. La madre disse qualche parola alla figlia che, roteando platealmente gli occhi, scortò l'altro attraverso i tavoli.

Erik sospirò nello spiare di sottecchi il profilo elegante di Susanna muoversi con grazia. Se cercava un modo di distrarsi e non pensare ai suoi problemi, lei era una maniera molto attraente per distrarsi; tuttavia c'era qualcosa nel suo portamento che lo stregava, molto più di quanto gli fosse mai accaduto con altre popolane.

Solo guardarla gli permetteva di dimenticare il pugnale di Ariel, le scuse da poter utilizzare con i genitori per la fuga non prevista nel Pecama, il mistero della morte di Guglielmo Lotnevi...

Si stropicciò gli occhi con le mani. Che scusa avrebbe escogitato? In che modo i sovrani di Defi non avrebbero pensato a una sua ostinata ribellione, come quella che invece sua sorella sembrava ben decisa a portare avanti? Era davvero necessario informarli della sua posizione e dei suoi futuri spostamenti? Scosse appena la testa, come conversando tacitamente tra sé e sé: mettere al corrente Alcina e Tancredi gli avrebbe solo portato altri problemi; era meglio condurre le sue indagini segrete e agire solo una volta scoperto qualcosa di concreto.

«Permettete che lui si sieda con voi?» gli chiese una voce dolce, che lui identificò all'istante.

Scostò le mani dal visto e annuì imbambolato, mentre Susanna faceva cenno all'altro giovane di sedersi di fronte al principe. Erik notò immediatamente il mantello logoro e di povera fattura di quello sconosciuto e solo l'idea che la giovane locandiera potesse avere una relazione con lui gli provocò una sensazione strana. Si guardò attorno, quasi infastidito, ma tutti gli altri tavoli erano occupati e il ragazzo non aveva dove sedersi, per cui a malincuore dovette annuire. Intravide l'ostessa intimare alcuni mercanti di non esporre le loro merci con una severità tale che anche lui avrebbe raccolto i propri averi per poi allontanarsi.

Susanna si allontanò, lasciando soli i due. Il principe approfittò della vicinanza per scrutare l'altro, che si toglieva il logoro mantello da viaggio e lo ripiegava, prima di posarlo sulla panca di legno. Qualche ruga gli solcava la fronte, indice di una profonda stanchezza, non di un'età avanzata. Sapeva di dover essere il primo a parlare, perché nessun popolano con cui non aveva neanche un briciolo di confidenza si sarebbe permesso di rivolgergli la parola. Dunque, non appena quello ebbe preso posto, gli porse la mano con un gesto amichevole.

«Erik Inverno» disse soltanto. Non aveva voglia di elencare tutti i titoli della sua famiglia: solitamente era sufficiente pronunciare il proprio cognome per comunicare tutto quello che avrebbe seguito in una presentazione formale; con un altro nobile, il suo comportamento sarebbe stato molto differente.

«Gaetano Dogli» rispose lui, ricambiando la stretta di mano. Una stretta ruvida, come Erik poté notare, con la mano segnata dalla fatica. L'umile origine di quel Gaetano gli era chiara già da qualche minuto, ma non riusciva a carpire altro. Tenere i sensi in allerta era per lui un'utile pratica, anche se molto più fruttuosa con i cortigiani, che celavano maldestramente molti segreti.

Il popolano non disse altro, suscitando una buona impressione in Erik, che non amava i chiacchieroni. Tuttavia c'era dell'altro a incuriosirlo: una strana sensazione, come se avesse trovato qualcuno il cui destino era collegato al suo.

«Siete del Defi?» gli domandò.

«No, mio signore, vengo dalla campagna a sud di Tisle» gli spiegò Gaetano, atono. Avrebbe potuto rimanere sul vago, limitarsi a fare un cenno di diniego con il capo: Erik considerò un atto di coraggio quella precisione.

«Pogudfo» commentò. «Lì regna l'anarchia.»

«Siamo senza sovrani, ma non per questo senza » ribatté l'altro, pacato. «L'urgenza spinge tutti a fare il proprio dovere.»

Il nobile apprezzò quella difesa della propria terra: pur trattandosi di un campagnolo, aveva una buona capacità di parola. «E in caso di attacco, come fareste?»

Gaetano scrollò le spalle. «Ci sono diverse compagnie di mercenari, ci metteremmo a loro disposizione per organizzare le difese, immagino.»

Nonostante la giovane età e nonostante il ceto sociale, aveva le idee abbastanza chiare, constatò Erik lasciandosi sfuggire un sorriso. «Potrebbe essere una buona idea.»

Il giovane sorrise, come rincuorato dall'approvazione del principe, e non fece più parola, come immerso nei propri pensieri e desideroso di non disturbarlo. L'Inverno lo ebbe in simpatia per quella discrezione: in passato gli era capitato di essere importunato da popolani che gli domandavano un'opinione su qualsiasi futilità: ricordava con fastidio come un commerciante aveva insistito per parlare con lui dei flussi commerciali a cui i De Ghiacci erano costretti... Come se lui avesse avuto voce in capitolo nelle faccende altrui!

Tuttavia c'era qualcosa che andava oltre la simpatia: gli sembrava di veder l'aria vibrare intorno al ragazzo che gli sedeva di fronte, come se lo guardasse attraverso il vetro di un bicchiere. Provò a distogliere lo sguardo e a riportarlo sul giovane, ma quell'impressione non svaniva.

Allontanò il pensiero quando scorse Susanna riapparire dalla porta delle cucine. La fanciulla si rivolse subito nella loro direzione, portando un vassoio con due piatti di zuppa fumante. Il suo incedere sinuoso ed elegante non passava inosservato tra gli avventori, che subito si voltarono a guardarla volteggiare tra i tavoli, ballerina meravigliosa di uno spettacolo riservato ai viandanti. Non si curava di loro, la locandiera: i suoi occhi di mare erano concentrati esclusivamente sulla meta, su quel tavolo a cui sedevano, in un accostamento bizzarro, un principe e un contadino. Posò il vassoio davanti ad Erik, a cui porse il primo piatto fumante insieme a un cucchiaio di rame. Dopo aver fatto lo stesso con l'altro, si sedette al fianco del nobile.

«Mi sarebbe bastato qualcosa di meno elaborato» commentò Gaetano. «Non so se potrò pagarti...»

«Era già pronta» gli sorrise lei. «Non puoi rimanere a digiuno. Considerala inclusa nel pernottamento.»

Il popolano, titubante, lanciò uno sguardo all'Inverno, che aveva sin da subito impugnato la posata e iniziato a trangugiare la pietanza calda. Superò il suo lieve imbarazzo e fece tintinnare anche lui il cucchiaio contro il coccio del piatto.

«Allora è vero quello che si dice?» mormorò Susanna ad Erik. «Che re Guglielmo è stato assassinato?»

Il principe di Defi posò il cucchiaio nel piatto. Mal sopportava di essere interrotto durante i pasti e ancor meno lo sopportò in quel momento, nonostante fosse stata proprio la bella locandiera a parlargli, poiché era coinvolto nella ricerca dell'uccisore del re.

Fece un lieve cenno di assenso con il capo, sperando che la fanciulla capisse il suo desiderio di mangiare in silenzio. La scorse con la coda dell'occhio guardare l'altro giovane al tavolo, smaniosa di fare conversazione.

«Chiara ha un mezzo per andare nel Pecama, vero?»

Al sentir nominare la sua stessa destinazione, Erik tese le orecchie: non aveva idea di chi stessero parlando, ma che qualcuno fuggisse dal continente diretto verso l'isola meridionale lo mise in allerta; che avesse a che fare con la morte di Guglielmo?

«Abbiamo trovato un modo» rispose Gaetano evasivo. Guardò il principe e riempì il cucchiaio, prima di aggiungere: «La paura che Raissa Autunno la trovi lo stesso c'è.»

L'Inverno strabuzzò gli occhi a quelle parole: se Susanna voleva fare in modo da catturare la sua attenzione, c'era riuscita. Scambiò uno sguardo con il popolano di fronte a sé e scoprì di essere ricambiato. La strana sensazione che aveva provato prima, di vedere l'aria agitarsi intorno a lui, non era ancora svanita.

Non era certo di comprendere cosa stava avvenendo: per un momento gli parve di non essere più lì, ma in un altro luogo, senza colore né tempo, avvolto in un nulla in cui solo la figura cupa dell'altro era presente. Si rispecchiò negli occhi scuri dell'altro, come due pozzi riflettenti ed ebbe la percezione che anche quello potesse rivedersi nei suoi, di ghiaccio. Durò solo un istante, ma quel breve e straordinario evento lo lasciò confuso: cosa era successo?

«Può davvero trovarla?» chiese Susanna, interrompendo l'incanto.

Gaetano scrollò le spalle. Lanciò di nuovo un'occhiata ad Erik, prima di rispondere. «Non lo so. Potrebbe cercarla, visto che è l'erede al trono del regno delle Foglie Cadute... Non sappiamo cosa ha in mente, non lo sa nessuno: è questo che mi spaventa.»

Erik trattenne il respiro. Parlavano della figlia dei sovrani Delle Foglie? Il re e la regina erano morti solo alcune settimane prima e, nonostante sapesse che avessero un'erede, non aveva idea che ne avrebbe sentito parlare alla Quercia notturna, né che sarebbe stato proprio un contadino a preoccuparsi tanto per lei!

Se il re e la regina Delle Foglie avevano allontanato la figlia, era stato di certo per metterla al riparo dalla situazione pericolosa del regno, i cui sudditi erano in continua guerriglia con quelli del regno limitrofo. Un'ottima decisione, anche se al sud attendevano da tempo che la principessa giungesse, tanto che qualcuno aveva iniziato a pensare che fosse stata uccisa anche lei.

«Sta andando da sola?» chiese preoccupata Susanna.

«No, c'è qualcuno che la accompagna» rispose Gaetano scrollando di nuovo le spalle.
La ragazza abbozzò un sorrisetto: «Sei geloso?»

«Non è questione di gelosia» disse lui seriamente. «Sono solo in pensiero, anche se mi fido di Claudio. Se lui ha detto che ci si può fidare, io ci credo.»

«Non poteva andarci lui?»

«Claudio? Ma sei matta? Vuoi proprio che venga ammazzata?» esclamò il giovane, rosso in viso. «Riesce a malapena a badare a sé stesso e si mette nei guai anche così!»

«Ti ho chiesto perché lo conosco appena» ribatté Susanna, affatto in difficoltà per quel piccolo accesso d'ira dell'amico.

La loro conversazione venne interrotta da un uomo sulla cinquantina che fece a Susanna un volgare complimento e che le chiese come avrebbe passato la notte.

«Ringrazia che mio padre non sia qui» sibilò la locandiera. Guardò i due giovani, turbati molto più di lei dalla presenza di quell'avventore.

Erik provò una strana sensazione, come se fosse stato lui a ricevere l'offesa.

«Vieni spesso trattata così?» le chiese con uno strano tono di voce, cercando di risultare allo stesso tempo indifferente, sprezzante e preoccupato.

«Generalmente no, ma a volte succede »rispose lei con una smorfia. L'oste la apostrofò da lontano per richiamarla al lavoro, dopo avere concesso quella breve pausa. Susanna si alzò senza neanche dire una parola e cercò di non avvicinarsi all'uomo di prima ritornando nelle cucine.

L'Inverno terminò di mangiare in silenzio, mentre il contadino fissava pensieroso il proprio piatto, ancora quasi pieno, con il suono di chiacchiere e tintinnii di posate metalliche nei piatti di terracotta in sottofondo. Il principe posò il cucchiaio, sazio e soddisfatto per la cena, sebbene frugale e molto diversa da quella che gli sarebbe stata servita in qualsiasi corte.

Erik guardò Gaetano e vi intravide un barlume di preoccupazione sincera, sebbene quello fosse immerso nei propri pensieri. Fu sul punto di offrirsi per accompagnare quella Chiara, di cui aveva sentito parlare poco prima. Se si trattava dell'erede al trono dei Delle Foglie e se era in pericolo, era giusto occuparsene. Così gli aveva insegnato il padre, poiché dalle sue azioni poteva dipendere il destino di altri.

Ricordò che era stata nominata Raissa, ma cercò di allontanare quel pensiero: che interesse poteva avere lei per Chiara Delle Foglie? Sospirò, tuttavia constatando che nei piani della figlia mediana degli Autunno poteva esserci conquistare qualche territorio limitrofo a quelli della famiglia, per rinforzare l'esercito così come aveva già fatto nel continente, con Lisse, Loavi e Ralini.

I suoi ragionamenti furono interrotti dall'arrivo dell'oste, che gli comunicò che la stanza era pronta, se desiderava coricarsi. L'illustre ospite annuì e salutò con un'occhiata il popolano, che ancora trangugiava la zuppa, ricambiato con quello che sembrava un sorriso appena accennato.
Erik non disse niente, ma lo scrutò con attenzione. Ricordava in maniera sbiadita quello che era accaduto poco prima: gli era rimasta memoria solo dei contorni sbiaditi che avevano avvolto il contadino ai suoi primi sguardi.

Si riscosse dai suoi pensieri, e seguì il padrone della locanda fino al lato opposto, dove si trovavano le scale, mentre nel salone molti ancora cenavano, con altri che si intrattenevano in fragorose chiacchiere. Pur senza fare riferimento a quanto aveva detto qualche minuto prima, domandò se l'uomo che aveva importunato Susanna avrebbe trascorso lì la notte, indicandolo con un cenno del capo.

Alla risposta negativa dell'oste tirò un impercettibile sospiro di sollievo e salì al piano superiore.

Le camere della locanda erano poche, ed Erik si stupì che ce ne fosse una disponibile con un così breve preavviso; ancora di più quando scoprì che era la stessa in cui aveva alloggiato due notti prima. Spoglia, con un mobiletto in cui poter riporre i propri effetti personali prima della partenza, la finestra che affacciava sul querceto adiacente priva di imposte, ma ricoperta da tendaggi pesanti, logori ma puliti. Il letto era stato rifatto e le lenzuola chiare profumavano di bucato: immaginò la figura di Susanna intenta a stendere nel cortile dietro la locanda, con i panni che si sollevavano al soffio del vento, e a quelle lenzuola che tanto avevano visto, ma che tanto avrebbero taciuto, su quella notte.

Una notte da dimenticare, pensò tra sé e sé.

L'Inverno si tolse il mantello da viaggio, che aveva indossato per tutto il tempo e controllò che il pugnale di Ariel fosse ancora lì: dapprima tastò la tasca in cui era nascosto, poi vi sbirciò all'interno. L'impugnatura di legno, finemente intagliata, sembrava gridargli contro che era impossibile che si trattasse dello stesso pugnale della giovane Dal Mare. Quella conchiglia stilizzata era una prova troppo schiacciante, che la principessa non avrebbe mai lasciato incustodita: non era affatto una sprovveduta.

Ancora una volta il corso delle sue riflessioni fu interrotto, questa volta dal suono di nocche alla porta. Piegò il mantello, in modo da nascondere ciò che vi custodiva, e lo lasciò sul mobiletto, prima di aprire.

Non si sorprese quando vide Susanna, con i suoi occhi chiari e le ciglia lunghe, con quel sorriso incantevole sul volto dalla carnagione di porcellana, con la sua grazia che la faceva apparire più nobile di tante dame dal sangue blu.

Il principe le fece cenno di entrare allargando il braccio sinistro, tuttavia senza troppo entusiasmo. Cercava di evitare il suo sguardo, sbirciandola a malapena con la coda dell'occhio.

«Erik, quello che è successo...» iniziò a dire la figlia dei locandieri.

«Non vorrei che per te avesse significato qualcosa» la interruppe lui. La sua voce suonava calma, quasi fredda. Provò ad ammorbidirsi indicandole di sedersi sul letto, ma non poté evitare di vedere il suo volto intristito.

La giovane prese posto sul materasso, il più confortevole tra quelli per gli ospiti, e accarezzò le coperte leggere che lo coprivano. Aveva compreso quali sarebbero state le sue prossime parole.

«Non so perché l'ho fatto» proseguì Erik. «È stato un momento di debolezza che non riesco a spiegarmi.»

Susanna non disse nulla, perché era evidente che lei la pensava molto diversamente. Cercò la mano di lui sulla trapunta, ma poi ritrasse la sua: non osava sfiorarlo, non più. Si era accorta dell'indifferenza del principe nei suoi confronti, poco prima, ma si era convinta che fosse a causa dell'assenza di intimità. Aveva pensato che Erik non volesse far sapere nulla di loro, almeno per il momento; e lei ne comprendeva le ragioni.

Tuttavia quelle parole la costringevano a prendere atto della realtà: gli occhi di ghiaccio del futuro re dell'Inverno mostravano che il suo cuore era della stessa natura. Se le aveva permesso di chiamarlo per nome, di sognare che quella notte potesse avere un futuro, era stato solo per un basso desiderio. Susanna non si aspettava che lui la conducesse lontano da quella vita, ma almeno che l'avesse, questo sì.

E invece no. Invece Erik rimaneva seduto sul bordo del letto, con lo sguardo fermo su di lei, come se cercasse di dirle senza parlare che non l'amava e che non avrebbe mai potuto.

Il nobile continuò a tacere, cercando di trovare le parole adatte per non dire che la condizione sociale della ragazza era un ostacolo che lui non avrebbe mai potuto superare. Sapeva di non poter sposare nessuna donna che non fosse di sangue blu, per questo aveva imparato a non legarsi sentimentalmente a nessuna delle sue conoscenze. Aveva cercato di tenersi lontano il più possibile da Susanna, proprio quando la sua bellezza e la sua dolcezza lo stavano catturando. La notte passata con lei era da dimenticare, non potendo cancellarla. Non poteva spiegarle tutto questo, non aveva intenzione di ferirla, non voleva che lei lo odiasse.

La fanciulla, tuttavia, non riusciva a odiarlo. Immobile, guardava il pavimento di pietra e tutte le parole che aveva pensato di dirgli non appena lo avesse rivisto scivolavano via dalla sua memoria.

«Susanna, mi dispiace» mormorò Erik a un tratto, interrompendo quel lungo silenzio in cui erano sprofondati.

«Tutto qui?» chiese lei. «Ti dispiace?»

Il principe arrossì: non si era mai vergognato tanto in tutta la sua vita.

La fanciulla alzò lo sguardo e lo puntò negli occhi di lui. «Ti dispiace?» ripeté.

«È quello che ho detto. Susanna, io non voglio averti illusa, vorrei che ieri notte non fosse accaduto niente, ma invece...»

Inaspettatamente, lei lo baciò. E lui rispose al suo bacio. Non provo nemmeno ad allontanarla come aveva pensato di fare in un primo momento: nonostante tutto, trovava piacevole averla vicino, anche se era combattuto. La trovava attraente, ma non la amava, non l'amava affatto.

Susanna si allontanò dalle sue labbra, si alzò in piedi e disse: «Qui ci sarà sempre un posto per te, qualsiasi cosa accada.»

Erik non ebbe il tempo di dire nulla, perché la giovane locandiera uscì velocemente dalla camera, lasciandolo solo. Decise che quella sarebbe stata la sua ultima notte lì.

 

(Ultima revisione: 09/04/2020)

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Capitolo 6
*** 3.1 Scherzi del sole ***


Capitolo revisionato

Era l'alba quando Erik si svegliò. Un filo di sole entrava dall'unico spiraglio tra le tende, che il vento aveva scostato durante la notte. Appena aprì gli occhi, si ricordò della sera precedente e non poté più smettere di pensare a Susanna e cercò di allontanare il desiderio di un suo bacio. Sperò di non incontrarla durante la colazione, ma sapeva che era una speranza vana. Si preparò in fretta e scese le scale, confidando di trovare qualcuno a distrarlo dalle sue preoccupazioni.

La sala, invece, era quasi deserta. Il pavimento doveva essere stato lavato da poco: l'aria fresca del mattino, che entrava dalla porta d'ingresso spalancata, non aveva permesso che si asciugasse in fretta e le sedie ribaltate sui tavoli avrebbero invitato un ospite indesiderato a partire. Il silenzio era desolante e sembrava quello dei mattini invernali, nei quali Erik si svegliava presto e presto usciva dal Castello per obbedire agli ordini del padre che lo spingevano lontano in tutto il suo regno. Tutte quelle sedie ben disposte in ordine con le gambe all'insù gli ricordarono con forza che stava disubbidendo: all'improvviso si sentì più solo di quanto già fosse.

Erik notò il popolano con cui aveva cenato la sera precedente: beveva qualcosa di caldo da una tazza fumante. Si guardò intorno, in cerca di Susanna, che vide sparire nelle cucine con una pila di vassoi vuoti. Nonostante fosse sicuro che lei ci sarebbe andata e nonostante volesse evitarla, andò a sedersi al tavolo dov'era Gaetano. In quel momento gli faceva piacere un po' di compagnia, anche quella silenziosa del giovane, che non pareva aver voglia di conversare, immerso nei propri pensieri così come l'Inverno era nei suoi. A un viandante che si fosse affacciato a guardare sarebbe sembrato che tra i due vi fosse una grande complicità, forse un'amicizia di lunga data, ma ad accomunarli c'era solo la consuetudine di una colazione taciturna.

Susanna portò ad Erik una tazza di tè, come sempre quando lui trascorreva lì la notte, guardandolo a malapena. Il giovane nobile ne fu sollevato, perché così la comunicazione con l'avvenente fanciulla era ridotta addirittura a meno del necessario. [A capo] Gaetano, ancora assonnato, probabilmente non fece neanche caso alla tensione tra i due, ma si avvolse nel mantello logoro e porse la mano al principe, in segno di commiato.

«Buona fortuna» gli disse lui, stringendogliela.

«Anche a voi.»

Gaetano chinò rispettosamente il capo e uscì dalla locanda, dopo aver salutato anche Susanna che subito dopo sparì nelle cucine. Il principe combatteva una lotta interna con sé stesso, desiderando che lei venisse a sedersi lì con lui, perché non c'era molto lavoro così presto, ma non volendo veramente che lo facesse per l'imbarazzo che provava nei suoi confronti. Doveva alzarsi, uscire dalla locanda e non tornare. Ma ne sarebbe stato davvero capace? Non se lo chiese.

Pensò di andarsene non appena lei fosse riapparsa: l'avrebbe vista ancora una volta e poi mai più.

I suoi pensieri furono interrotti dall'ingresso nella locanda di una figura a lui ben nota. Due grandi occhi scuri e vispi dominavano il volto dalla forma tonda e i capelli di un castano chiaro ondeggiavano a ogni passo. Luciana Lugupe, che emanava autorevolezza da ogni poro della sua pelle, nonostante la figura minuta ed esile.

Erik la conosceva perché principessa dello Dzsaco ed erede al trono, sapeva che era in confidenza con Nicola e con sua sorella Flora, ma non riusciva a fidarsi completamente di lei. Riteneva che fosse in grado di accentrare su di sé le simpatie di ogni corte in cui si ritrovava a soggiornare pur senza avere qualità che le permettessero di spiccare. Non aveva capacità amministrative, come diplomatica era stata disastrosa, in quell'unica occasione in cui era stata chiamata in causa, e sembrava preoccuparsi poco o nulla delle condizioni del suo popolo, se la nobiltà non era minacciata. Sebbene la sua oratoria fosse mediocre, lei se ne vantava ed era sicura che prima o poi tutti la avrebbero ascoltata ammaliati.

Luciana lo scorse, dopo essersi guarda attorno in cerca di qualcuno che lavorasse alla locanda. Senza che Erik la invitasse a prendere posto, si sedette di fronte a lui, dove poco prima era seduto un giovanotto di tutt'altro ceto sociale. Il principe Inverno la osservò con un'aria interrogativa, cercando di nascondere il fastidio per la libertà che la Lugupe si era presa. Erano di pari lignaggio, ma Erik era consapevole della differenza abissale tra il suo casato e quello di lei. La famiglia del principe possedeva tre Regni su cui governava con grande sapienza da secoli; quella della principessa, insediatasi da poche generazioni, riusciva a malapena a mantenere una situazione di pace interna nello Dzsaco.

«Non credevo di trovarti qui» esordì lei con un sorriso benevolo a illuminarle il viso, senza neanche chinare il capo, senza mostrare alcuna riverenza, infastidendo l'altro ancora di più.

«Sono di passaggio» biascicò Erik, portandosi la tazza fumante alle labbra, ponendo attenzione a non rivelare la sua meta. «Come mai viaggi sola? Visti i tempi che corrono non è prudente.»

«Sono in grado di difendermi» rispose la fanciulla, scostando un lembo del suo mantello da viaggio e mostrando appena l'elsa lucida del sottile spadino che vi si celava. Se la Lugupe aveva una qualità, probabilmente questa era una discreta abilità nel duello; anche se nello Cmune non era necessario difendersi da assalti, poiché le vie erano controllate dai soldati reali e l'indole degli abitanti era pacifica. Era dall'esterno che provenivano i problemi: Luciana avrebbe incontrato più rischi nel suo regno che lì.

Il principe di Defi fece una smorfia, forse nascondendo le sue perplessità sulle effettive possibilità che lei avrebbe avuto di salvarsi in caso di agguato. Tuttavia non aggiunse altro, non sentendosi toccato dalla mancata incolumità dell'altra: se aveva deciso di viaggiare senza tenere conto dei pericoli, non era un suo problema.

«Nicola mi ha detto che sei stato da lui a palazzo» mormorò Luciana con tono confidenziale, senza abbandonare quell'insopportabile sorriso.

«Appena in tempo per allontanare la corte dal cadavere di Guglielmo» rispose il principe con un certo distacco, bevendo poi un sorso, prima di posare gli occhi sulle porte delle cucine. Perché Susanna non compariva interrompendo quello che sembrava essere l'inizio di un interrogatorio? Avrebbe desiderato molto più volentieri sentirsi in imbarazzo con lei, piuttosto che proseguire quella conversazione.

«Hai qualche indizio sulla sua morte?» lo incalzò lei, che evidentemente non si era accorta del suo fastidio.

«Cosa ti fa pensare che ne abbia?» domandò invece Erik, provando a sviare il discorso. Non gli piaceva discutere di argomenti spinosi quando era sveglio da poco, inoltre non voleva lasciarsi sfuggire nulla di compromettente, sicuro che Nicola non avrebbe mai rivelato nulla a nessuno. Voleva orgogliosamente risolvere lui tutta la questione. Tastò sotto al mantello il pugnale di Ariel, come rassicurandosi di avere sotto controllo la situazione.

«Oh, andiamo» sorrise lei. «Una persona sospettosa come te...»

«Il mio essere sospettoso non implica che io abbia degli indizi, o no? Da quando le ipotesi corrispondono alla verità senza che questa sia stata prima appurata?»

Erik era stupito dall'atteggiamento inquisitorio di Luciana, velato da quel ghigno che sempre caratterizzava il suo viso. Era primo mattino e, come ogni persona di buon senso, riteneva scortese parlare con insistenza a chi ancora faceva colazione. Credeva che lei fosse dello stesso avviso, ma evidentemente non era così.

«Nicola pensa che qualcuno cerchi di incastrarlo» continuò la Lugupe a bassa voce, accortasi finalmente della poca voglia di parlare dell'altro.

«A corte non hanno una buona opinione di lui, è comprensibile che pensino abbia ucciso Guglielmo per prenderne il posto» ragionò Erik. «Ma sarebbe da sciocchi accusarlo ora che è il re.»

«Non è ancora il re» precisò lei. «Non c'è stata alcuna cerimonia di incoronazione, ha solo assunto temporaneamente la reggenza. Potrebbero benissimo accusarlo e lui avrebbe ben pochi mezzi con cui difendersi.» Luciana si fermò e tirò un lungo sospiro. Fissò lo sguardo in quegli occhi di ghiaccio, incerta se proseguire o meno, come se non si fidasse del tutto di lui; tuttavia proseguì. «Ho paura che lo facciano davvero, ho paura che lo buttino in qualche prigione chissà dove per poi lasciarlo lì a morire di fame, senza che nessuno possa aiutarlo. E gli ho promesso di aiutarlo, qualsiasi cosa accada. So che non è stato lui, come potrebbe averlo ucciso?»

«Deve sbrigarsi a sposare Flora - disse il principe Inverno, guardandosi intorno: non voleva parlare di matrimoni con Susanna pronta ad ascoltare; lei, però, da quando era sparita nelle cucine, non ne era ancora uscita. Probabilmente preparava qualcosa per i clienti della giornata, in modo da tenersi indaffarata per evitarlo. «Con Flora al suo fianco, nessuno si permetterebbe di accusarlo.»

«È quello che gli ho detto anche io.» La voce di Luciana si fece più bassa e si ridusse a un mormorio. «Ma non credo che Nicola voglia farlo.»

Il principe posò la tazza vuota sul tavolo e, per la prima volta, trovò che le cucine non fossero così interessanti. Fissò la Lugupe negli occhi. «Cosa?» mormorò. Non capiva che cosa lei gli volesse comunicare: prima quel farfugliare su presunti indizi, poi quella difesa appassionata di Nicola... e ora questo? Aspettò una sua risposta, non sapendo che espressione assumere.

«Quando gliene ho parlato non sembrava troppo convinto. Ha detto che voleva una cerimonia in pompa magna, qualcosa che distraesse i cortigiani dai discorsi sul suo conto...»

«Su questo ha ragione» la interruppe Erik. Trovava ragionevole l'idea di una celebrazione che attirasse su di Nicola ogni chiacchiera e che ponesse in secondo piano le dicerie degli altri nobili.

«Sì, ma... c'era qualcosa nel suo sguardo che mi farebbe giurare che lui proprio non voglia sposarla.»

«Probabilmente è solo una tua sensazione,» tagliò corto lui. «Ricorda che ora Nicola si trova in una situazione molto difficile ed ogni sua azione va ponderata con molta cautela.»

«Non credo sia solo quest...»

Lo sbattere delle porte della cucina distrasse Erik da qualsiasi cosa avrebbe avuto da dire Luciana. Si imbambolò a fissare Susanna, che si avvicinava con grazia al loro tavolo.

Quello non è un portamento da popolana, meditò il principe, lei non dovrebbe rimanere qui.

Non appena la figlia dei locandieri li raggiunse, non lo degnò di uno sguardo, ma si rivolse verso la nuova arrivata, domandandole cosa gradisse come colazione. Luciana distese il suo sorriso con una benevolenza che a Erik parve finta.

«Una tazza di caffè sarà perfetta.»

La giovane si allontanò dopo aver chinato rispettosamente il capo.

Quando riemerse dalle cucine con l'ordinazione della Lugupe, questa le domandò, con uno dei suoi sorrisi fiduciosi: «Dove posso cambiare cavallo? Il mio è molto stanco e ho urgente bisogno di averne un altro.»

«Nella stalla sicuramente ce n'è qualcuno, posso indicarvi il migliore» disse Susanna con un inchino, continuando a ignorare Erik.

«Ho il desiderio di partire presto, ma non prima di aver concluso un discorso importante.» La nobile mosse leggermente il capo verso l'Inverno.

Susanna simulò indifferenza, ma il sorriso dell'altra la contagiò e piegò a sua volta le labbra. «Come volete.» E sparì nuovamente, questa volta fuori dalla locanda, per preparare il prima possibile il migliore dei cavalli.

«Non credo che tua madre lo permetterà, ma cercherò di convincerla a mandare Flora alla corte dello Cmune» mormorò frettolosamente Luciana, desiderosa di arrivare al punto. «Li spingerò a sposarsi, costi quel che costi: io ho bisogno dell'appoggio di Tancredi e Alcina, e farò di tutto per assicurarmelo. Il matrimonio è il volere di tutti, eccetto, a quanto pare, dei due interessati. Proverò a scoprire cosa c'è dietro.»

«Allora buona fortuna» commentò Erik, con una venatura d'ironia. Non era convinto che la Lugupe riuscisse nel suo intento, neanche lontanamente, ma non vedeva perché lei non dovesse tentare, ammesso che la Principessa di Defi si fidasse di lei. Non si impensierì troppo, credendo che, se sua sorella celava un segreto, questo non sarebbe mai venuto alla luce. Per quanto riguardava Nicola, lui avrebbe avuto tutto da guadagnare sposando Flora, quindi il principe Inverno non diede peso alle asserzioni di Luciana sul suo conto.

«Ne avrò proprio bisogno» sorrise di rimando l'erede Lugupe, forse senza intuire la poca serietà nell'augurio del suo interlocutore.

Ancora quel ghigno... Erik cercò di non notarlo, porgendole la mano in segno di congedo.

La principessa di Dzsaco gliela strinse debolmente, senza dire nulla, ormai esaurita la sua vena oratoria. Accennò un inchino di rispetto e si diresse verso l'uscita della locanda.

Con molta probabilità Susanna aveva già preparato il cavallo per lei e la attendeva all'esterno, sotto la calda luce dell'alba.

All'improvviso l'Inverno si ricordò di Peves nella stalla e temette che la figlia dei locandieri, per fargli uno sgarbo, lo desse all'altra, ma si ricredette subito: di certo il suo non era il miglior cavallo che ci fosse, e la Lugupe lo avrebbe senz'altro riconosciuto. Uscì comunque nello spiazzo antistante l'entrata, coprendosi le spalle con il mantello, anch'egli pronto a ripartire. Luciana era già lontana lungo la strada in terra battuta che conduceva al confine con il Defi, mentre Susanna osservava rapita la polvere sollevata dagli zoccoli del cavallo.

Nella luce dell'alba, Erik rimase sbalordito nel constatare che i capelli della giovane locandiera non erano castani, come gli erano sempre sembrati, ma rossi; o forse fu solo un gioco di colori con il sole di quel mattino.

Per togliersi ogni dubbio, lui chiese: «Sei stata a Mitreluvui di recente?»

«E se anche ci fossi stata,» disse lei, «per te avrebbe una qualche importanza?»

 

(Ultima revisione: 18/4/2020)

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Capitolo 7
*** 3.2 Al cospetto di Sua Maestà ***


(Capitolo revisionato)

Luciana arrivò nel tardo pomeriggio a Nilerusa, la capitale del Regno di Defi, quando il sole iniziava a scendere verso l'orizzonte, lento e placido, noncurante di quanto accadeva sotto i suoi raggi.

Era una cittadina modesta, con palazzi di due o tre piani, dalle mura esterne tinte di colori chiari e disposti senza geometrie precise. Da ogni finestra, o quasi, si affacciavano vasi pieni di fiori variopinti. I bambini giocavano a rincorrersi nelle strade, senza adulti che li controllassero, e additavano la principessa straniera al suo passaggio, riconoscendola. Lei li salutava con un cenno della mano e con il suo costante sorriso, e procedeva innanzi, ormai senza fretta, dal momento che le era sufficiente attraversare tutta Nilerusa e percorrere una breve strada in campagna, prima di arrivare al castello di Defi.

Il viaggio era durato poco, esattamente come era nelle sue aspettative. Durante quell'ultimo tratto che la separava dalla reggia dei Primavera, pensò a cosa avrebbe potuto dire ad Alcina per convincerla a lasciar partire Flora: avrebbe cercato di tirarla dalla sua parte, ben conscia che la regina non era certo il tipo da lasciarsi persuadere tanto facilmente; tuttavia Luciana pensava che si sarebbe dimostrata comprensiva e che alla fine avrebbe ceduto. Non era nelle sue intenzioni portare via la principessa con la forza: se la sovrana fosse rimasta sulla sua posizione, lo avrebbe accettato, ma allora con quale altro espediente avrebbe potuto tenere Nicola lontano dai guai?

Il cavallo la condusse fino al castello, costeggiando il cortile esterno e la siepe alta poco più di due metri, che nascondeva uno spesso muro in marmo; oggetto di ornamento più che di utilità difensiva. Alle soglie dei numerosi ingressi, sostavano coppie di sentinelle, con lance recanti lo stemma della casata Primavera, da cui discendeva la regina: un roseo fiore di magnolia su uno sfondo bianco, uguale a quello intessuto sulle piccole bandiere issate ad ogni cancello in ferro battuto.

Quando Luciana aveva domandato alla sovrana il motivo per cui i simboli della famiglia del marito erano assenti, si era sentita rispondere che il Defi era stato, in passato, per più tempo sotto il dominio dei Primavera, che degli Inverno: se Erik avesse ereditato il regno, avrebbe potuto apporre lo stemma che avrebbe preferito.

La Lugupe fece un lieve cenno con il capo, come volendo allontanare il ricordo, tuttavia a distrarla fu una scena curiosa che si presentò davanti ai suoi occhi.

Proprio presso uno dei cancelli, la giovane scorse delle sentinelle discutere animatamente con un ragazzo, che agitava un mazzo di rose bianche, i cui gambi erano legati da una cordicella sottile. Era alto quasi quanto Erik, ma l'acceso gesticolare dichiarava l'appartenza a un ceto sociale molto inferiore, così come i pantaloni logori, di un originario color marroncino ingrigitosi con il tempo. Luciana dedusse che si trattava di un contadino, ma da lontano non riusciva a capire quale fosse il motivo di tensione con le guardie. Incuriosita da quell'insolita scena, spronò il cavallo ad accelerare il passo e, non appena si fu avvicinata a sufficienza, ne scese udendo parte della lite.

«Voglio solo portarli alla principessa, non mi sembra di chiedere tanto!» diceva esasperato il giovanotto, come se avesse ripetuto molte volte quella richiesta. Gli occhi di cenere imploravano ragionevolezza, accesi dalla discussione e dalla via che veniva loro sbarrata. Non sembrava aduso a discutere con chi difendeva il castello e i suoi residenti, ma Luciana non capiva come un umile contadino potesse essere pericoloso, se armato di un semplice mazzo di rose.

«Non si può! La regina Alcina ha dato ordine di non lasciarti entrare. Quei fiori stanno bene lì con te!» ribatté la prima delle guardie, un uomo alto quasi due metri e dalla voce tanto profonda da far vibrare l'aria come un tuono nella notte.

« Ma come è possibile che non si possano nemmeno offrire omaggi alla principessa?» insisteva il ragazzo. Nonostante l'assenza di serenità nelle sue parole e nella veemenza dei gesti con cui le accompagnava, sulle sue labbra sottili era impresso un sorriso gioviale.

«Sono i tuoi, di omaggi, che la pongono in una posizione scabrosa e che macchiano la sua persona!» sbottò la seconda guardia, più minuta dell'altra, ma dall'indole molto vivace, come indicava il rossore sulle sue guance: probabilmente era il più preso da quell'acceso scambio verbale.

«Io?» esclamò lui sbalordito, come se non credesse alle proprie orecchie. «Sono solo un suddito felice di avere una principessa come lei!»

«Tutte scuse! Se insisti ancora nel voler entrare, ti rinchiuderemo in cella!»

Il popolano fu sul punto di replicare un'altra volta, ma si trattenne, vedendo giungere dalla strada che conduceva alla capitale quella che aveva tutta l'aria di essere una nobile. Il mento alto, la fattura ricercata del mantello da viaggio, il passo cadenzato e l'inchino referenziale che le due sentinelle le rivolsero erano ben più di qualche indizio per l'occhio ingenuo del ragazzo, che osservò la scena sperando in un aiuto per uscire da quella situazione incresciosa.

«Che cosa succede?» chiese Luciana con autorevolezza, esigendo una risposta dettagliata dalle guardie.

«Vedete, costui infanga il nome della principessa recandosi qui ogni giorno con doni...» iniziò a dire l'uomo dalla voce tonante.

«... perciò la regina ha stabilito di non lasciar entrare né lui, né qualsiasi tipo di regalo» finì l'altro, baldanzoso. Probabilmente si aspettava che l'erede dei Lugupe appoggiasse le direttive imposte dalla sovrana, ma la fanciulla scrutava con attenzione quell'insolente con particolare interesse.

Luciana cercava di trovare dei segni che le permettessero di riconoscerlo, o di capire in quale modo quel popolano fosse collegato alla sua pari grado, ma all'improvviso si ricordò che aveva udito delle dicerie su una presunta relazione tra Flora e un ragazzo di estrazione umile: pensò che si trattasse di lui, che fosse a causa di quel poveraccio coperto di stracci consumati che lei non aveva intenzione di sposare Nicola.

Quello lì? Aveva il viso pulito e lavato, l'espressione gioviale, nonostante la discussione con le sentinelle,e i capelli arruffati non erano oleosi come lei si sarebbe aspettata da un popolano; ma tali considerazioni non le impedirono di provare un certo disgusto. Se non fosse stato per Flora, si sarebbe davvero presentato in quelle condizioni? Luciana lo escluse con fermezza; ritenne, però, che non fosse il caso di inimicarsi lo spasimante della principessa.

Represse il suo fastidio e disse, risoluta: «Parlerò con la regina e provvederò a far in modo che almeno a queste rose venga consentito di varcare la soglia dei cancelli.»

Una delle guardie aprì la bocca per controbattere, ma la richiuse ad un cenno autoritario della giovane, che si compiacque del rispetto che le era riservato.

Il ragazzo si sedette sul muricciolo marmoreo che costeggiava la via lastricata, e controllò che le rose non si fossero troppo sciupate. Luciana gli rivolse un falso sorriso incoraggiante e superò le guardie, entrando nel giardino.

L'erba era tagliata in maniera perfetta, né troppo lunga né troppo corta, alcuni sentieri di ghiaia disegnavano curve tra spinosi cespugli di rose colorate ed eleganti alberi di magnolia. Su alcune panchine in ferro battuto uomini e donne di corte si intrattenevano in conversazioni dall'apparenza frivola. Al passaggio della principessa straniera le porgevano saluti di riverenza e le chiedevano ulteriori notizie circa l'uccisione di re Guglielmo, oltre a quelle che erano giunte sin lì. Lei rimaneva sul vago, sostenendo di saperne molto poco, e domandava a sua volta se fosse possibile conferire con la sovrana, o se la regina di Defi fosse indisposta o se stesse ricevendo qualche delegazione nella sala del trono.

Una delle dame, con fare civettuolo, rispose che al mattino c'era stato un alterco tra lei e la principessa e che Alcina era di cattivo umore, mentre la figlia non era uscita affatto dalla propria camera per tutta la giornata. La figlia dei sovrani aveva negato la sua presenza alle delegazioni, che si aspettavano di vederla al fianco della madre, giunte da ogni angolo del regno per discutere della politica agricola da seguire per l'annata successiva.

Questo fu sufficiente a Luciana per collegare il comportamento di Flora all'impossibilità di ricevere le rose dal suo spasimante, così salutò i cortigiani e proseguì fino al castello, dopo aver affidato il cavallo a uno dei servi e si incamminò verso la reggia.

Era un edificio costruito appositamente per destare meraviglia in chiunque lo vedesse: si sviluppava in verticale, pur avendo una base molto ampia, e le pareti esterne riflettevano la luce, tanto da far sembrare che ci fossero due soli; avvicinandosi si potevano quasi distinguere dei movimenti al suo interno, come se si trattasse di un vetro opaco. L'entrata principale era larga almeno due metri e dava su un immenso salone, dal quale partivano due scalinate speculari che conducevano ai piani superiori. Anche al suo interno le pareti del castello risplendevano, senza nuocere agli occhi, di una luce fioca, quasi un'eco di quella che illuminava il cielo. Luciana chiese imperiosa a un servitore, dove potesse incontrare la regina e, ottenuta la risposta che si attendeva, si precipitò nella sala del trono, dopo aver consegnato il suo spadino perché fosse custodito nell'armeria.

Giunta sulla soglia, la prima cosa che colpì la Lugupe fu l'assenza di qualsiasi membro della corte. Notò, inoltre, un piccolo cambio nell'arredamento dalla sua ultima visita: il tappeto rosso fiammante che collegava l'ingresso della sala con i due scranni, in quel momento vuoti, era stato sostituito con uno verde smeraldo. Il vitreo pavimento non si era mai incrinato, nonostante nobiluomini e popolani di ogni dove vi avessero impresso i propri passi nel corso dei secoli, in udienza dai sovrani o per presenziare a richieste di altri sudditi o forestieri. Le pareti di cristallo, spoglie di arazzi come lo era tutto il castello, riflettevano la flebile luce del sole, che entrava dall'ampia finestra spalancata, nella cui direzione era rivolta la figura della regina, intenta a rimirare il tramonto e le diverse tinte del cielo. Le ante di vetro, alte quanto l'intero salone, erano spalancate verso l'esterno, e lasciavano vedere il paesaggio che i giardini creavano, con la simmetria delle siepi, dei viali alberati e delle fontane, realizzati secondo precise geometrie molto prima che Alcina salisse al trono. L'unico luogo del regno che avesse ordine, come sovente pensava la sovrana.

La regina non dava segno di essersi accorta dell'arrivo della giovane nobile che tanto la stimava e tanto aveva timore di lei, nonostante l'ottimo rapporto che intercorreva tra le due, e continuava a contemplare assorta lo spettacolo che il cielo e antichi giardinieri le offrivano come ricompensa dei suoi affanni.

«Mia regina» disse Luciana, inginocchiandosi con grande rispetto. Provava una sincera e assoluta venerazione per la donna e per il re del sud che questa aveva sposato: sebbene si trattasse di un matrimonio combinato, i due avevano formato una coppia che aveva sincronia di vedute e di opinioni, dotata di grande intelligenza e arguzia, tanto da renderli i regnanti più stimati di ogni terra, il cui parere diveniva, molto spesso, più importante di quello di chiunque altro in tutta Selenia.

Entrare in buoni rapporti con Tancredi Inverno e Alcina Primavera molto spesso si rivelava decisivo per la salvezza di un regno o di un altro. Un loro intervento poteva impedire guerre, creare pacifiche alleanze e bloccare sul nascere contrasti di ordine sovranazionale. Anche se spesso entravano in conflitto con l'unico altro casato tanto potente quanto ricco: quello degli Autunno, che governava nel Ruxuna.

Era a loro che la regina rivolgeva i suoi pensieri, al pericolo che la loro figlia mediana era per i popoli limitrofi. regni conquistati velocemente e sottoposti a regime militare, direttamente esercitato dalla giovane Raissa, senza che nessun'altra forza fosse stata in grado di opporvisi. Quello strapotere bellico era una minaccia ben più grave di quanto molti credessero.

«Una dolce voce familiare» sorrise Alcina voltandosi verso di lei. Era bella, di una bellezza da togliere il fiato. Portava in volto uno dei suoi splendidi sorrisi e per un istante anche gli occhi chiari scintillarono nel vedere la fanciulla nobile, che alzò coraggiosamente lo sguardo verso di lei. I capelli corvini erano raccolti in un'acconciatura elaborata. Aveva un portamento elegante, che mostrava la fierezza del suo carattere e la consapevolezza del proprio potere. Scuotendo a ogni passo la lunga veste smeraldina, si avvicinò con solennità a Luciana, che non si era mossa di un millimetro. «A cosa devo la gioia della tua presenza? Credevo fossi impegnata nell'impedire una guerra.»

La giovane raccolse i propri pensieri, prima di rispondere all'inaspettata domanda della regina. Non credeva di dover rendere conto della sua assenza dallo Dzsaco e si diede della sciocca per non averci riflettuto, concentrata com'era su Flora prima, sullo spasimante poi. «Pare che ogni sforzo sia andato a buon fine: non ci sono soldati che minacciano il confine tra Dzsaco e Ruxuna, o almeno non ce n'erano al momento della mia partenza. Il motivo che mi spinge qui così all'improvviso è un altro.» Tacque, incerta su come proseguire il discorso.

Alcina dovette comprendere qualcosa; il volto di Luciana aveva assunto un'espressione seria e preoccupata. «Riguarda la morte di Guglielmo?» domandò, spegnendo il suo sorriso. La triste notizia era giunta sin lì, ma lei non aveva avuto occasione, né tempo, per dolersi della scomparsa del fedele alleato.

La Lugupe annuì. «Le sorti dello Cmune ora sono in mano vostra: la mia paura più grande è che qualcuno approfitti di questa disgrazia per accusarne il Principe Nicola e lui non è nella posizione migliore per difendersi, privo com'è di qualsiasi appoggio. Certamente la regina Felicita non permetterà mai che lui venga imprigionato, ma il lutto la sta tenendo lontana dalla corte e non sa delle chiacchiere dei cortigiani, che sarebbero compiaciuti della rovina del principe. Prima si farà il matrimonio tra Nicola e vostra figlia, tanto più presto a lui verrà riconosciuto il titolo di re; finché la sua posizione non sarà solida, temo per lui. Vengo a chiedervi di lasciare che vostra figlia parta con me per lo Cmune e che laggiù dia le indicazioni necessarie per far sì che questo matrimonio si celebri. È comune opinione che, con lei al suo fianco, Nicola acquisterà stima e considerazione, e che diverrà allora intoccabile per chiunque avrà da ridire sul suo improbabile coinvolgimento nella morte del padre. So che voi siete restìa a permettere che Flora ci vada senza già esserne la moglie, ma l'urgenza della circostanza richiede la sua presenza.»

Congiunse le mani, in segno di preghiera. Nessuna delle due si era mossa mentre la giovane parlava. Alcina si avvicinò di un passo alla finestra, pensierosa. Il volto corrucciato le donava un'aria, se possibile, ancora più maestosa: comprendeva l'importanza delle parole di Luciana e capiva di dover rivedere la sua posizione. Guardò fuori il sole che scendeva verso il lontano orizzonte, e sospirò.

«Sai che le nozze tra Flora e Nicola sono uno dei miei desideri più grandi. Quello che dici tu è molto importante e mi spinge ad acconsentire alla tua richiesta. A questo punto dovrai convincere lei, ma credo che oggi la vostra partenza non sarà possibile: l'ora della sera è quasi giunta e non vi metterò in viaggio durante la notte. Inoltre, lei è chiusa nella sua camera e rifiuta cibo e visite. Stamani sono entrata con la forza e non mi è parsa affatto felice di vedermi.»

La regina sospirò di nuovo, poco entusiasta nell'accennare a quell'episodio, ma, se non fosse stata consapevole che Luciana non vedeva difetti in lei, non avrebbe mai menzionato quanto accaduto. La principessa dal sorriso gaio era una preziosa alleata e Alcina sapeva che quella piccola confidenza non avrebbe che aumentato la venerazione della Lugupe nei suoi riguardi.

«Tuttavia, credo che per te sarà più semplice parlarle. Ora puoi andare» la congedò, indicandole l'ingresso spalancato con il braccio aperto, desiderosa di tornare a godere di quel panorama che poneva pace nel suo animo. Erano pochi i momenti che poteva dedicare a sé stessa e alle proprie afflizioni e, d'altronde, non aveva più niente da aggiungere. La giovane tuttavia rimase immobile, come se per lei il discorso non fosse finito lì.

«Mia regina, ho un'ulteriore richiesta, se posso abusare della vostra bontà. Fuori dai cancelli ho avuto modo di vedere...» iniziò Luciana, che non aveva dimenticato quello che ora appariva come un ottimo stratagemma per conquistare la fiducia di Flora.

«So per certo chi e cosa hai visto» la interruppe Alcina, ora divenuta brusca, volgendosi verso il cielo privo di nuvole e verso le chiome scosse dal vento. «Non ho intenzione di tollerare che quel plebeo abbia a che fare con Flora. Vai.»

Luciana, comprendendo l'irremovibilità della sovrana, si alzò in piedi e uscì dalla sala del trono cercando di non alterare il silenzio che ora dominava la scena, lasciando Alcina in quella muta contemplazione.

Non appena udì i passi della giovane farsi sempre più lontani, la donna uscì nei giardini e approfittò della solitudine per indirizzare una breve preghiera alla prima delle stelle che apparve a illuminare la volta celeste.

«Arrivano tempi oscuri» mormorò. «Concedimi la forza per superarli e per riportare la luce su Selenia.»

 

(Ultima revisione: 19/04/2020)

 

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Capitolo 8
*** 3.3 Litil ***


 

(Capitolo revisionato)

Luciana raggiunse in fretta i piani più alti, quelli in cui erano collocate le camere private della famiglia reale. Quella di Flora, come aveva avuto modo di constatare in altre occasioni, era nell'ala sud dell'ultimo piano. La principessa l'aveva scelta da bambina per lo spettacolo che le offriva la linea dell'orizzonte meridionale: un piccolo squarcio del mar Litil, che separava quelle terre dall'isola di Pecama. Quel mare il cui nome aveva, in antico defico, il significato di "speranza".

La giovane si fermò davanti alla porta chiusa, e bussò. Non ricevendo alcuna risposta, colpì ancora quella dura superficie opaca, e quasi si fece male alle nocche. Le sovvenne solo in quel momento che l'intero castello era stato architettato da uomini esperti nelle antiche arti magiche e che, nonostante la fragile apparenza del materiale, era meno scalfibile della più dura delle rocce.

«Sono Luciana, sono venuta per parlare con te, fammi entrare!»

Non si spazientì soltanto perché immaginava che discutere con Alcina fosse stato terribile per la fanciulla rintanata in camera; lei non era avvezza a contrariare i genitori e si domandò se l'amore di Flora per quel popolano la spingesse ad azioni folli e avventate.

La Lugupe, senza riflettere se fosse un'eccessiva libertà quella che si stava arrogando, spinse la porta verso l'interno e notò con stupore come questa non fosse stata chiusa a chiave.
La luce del tramonto filtrava dalla finestra spalancata, illuminando il pavimento costellato di vasi di vetro. Lì erano stati collocati piccoli mazzi di fiori, che la giovane ipotizzò essere omaggi floreali dello spasimante.

Flora era nel suo letto a baldacchino, nascosta sotto lenzuola dalla sfumatura rosea, la testa sotto il cuscino, prona. Dai piccoli e ritmici sussulti della stoffa che copriva quasi per intero la sua figura, si capiva che stava piangendo. Luciana le si avvicinò, le accarezzò la schiena affettuosamente e lei si mostrò. Era spettinata, gli occhi castani venati di rosso, come se le lacrime scorressero da ore sul suo volto; indossava ancora la veste da notte, non si era preoccupata di lavarsi e sistemarsi; e non aveva neanche mangiato.

Luciana non aveva mai visto nessuno in simili condizioni e si chiese se fosse possibile che il diverbio con la madre l'avesse ridotta a quel modo. Ma lei non sapeva – e come avrebbe potuto? – che quella notte, all'appuntamento fissato, lui non era venuto. Lui non era venuto e Flora credeva che la loro relazione l'avesse spaventato, quel continuo celare, la paura dei sovrani, che chissà cosa avrebbero fatto se avessero scoperto che da mesi i due amanti si incontravano di nascosto nella periferia di Nilerusa!

O che gli fosse accaduto qualcosa? La fanciulla singhiozzante aveva avuto ogni sorta di brutto pensiero: dapprima che il padre, tornato anzitempo dal Pecama, lo avesse scovato e gettato in prigione, poi che si fosse ammalato – ma in questo caso avrebbe potuto avvisarla – o che fosse addirittura stato ucciso.

Che non l'amasse più? Flora non era riuscita a evitare le lacrime per tutta la notte. Sperava che lui sarebbe giunto, anche all'alba, e che l'avrebbe trovata in quello stato, a soffrire per lui, e che l'avrebbe rassicurata sui suoi sentimenti. Invece aveva atteso invano e l'ora di tornare al castello era arrivata prima di quanto era stata in grado di sopportare. Era rientrata con il cuore gelato, incapace di dire nulla, di fare nulla. Aveva rifiutato di alzarsi, e solo la rabbia di Alcina era riuscita a ridarle la voce con la quale le aveva gridato di andarsene. Non voleva vedere nessuno, non voleva mangiare niente, sarebbe rimasta lì a morire per il dolore.

La presenza di Luciana non la infastidiva, ma sentiva di non poterle spiegare. Continuò a piangere, anche quando l'altra provò ad asciugarle le lacrime, come cercando il modo migliore di iniziare una normale conversazione.

«Flora, tua madre mi ha permesso di portarti da Nicola. Lì avrai maggiori libertà, organizzerai il vostro matrimonio e...» iniziò a dire l'erede dei Lugupe. Doveva esporle la situazione, anche se lei non smetteva di piangere, ma alla parola "matrimonio" l'altra si era nascosta di nuovo sotto il cuscino. Luciana capì che non era il momento migliore per parlargliene; tuttavia sapeva di non poter rimandare quel discorso, per quanto fosse spiacevole alle orecchie della principessa in lacrime. «Ascoltami» le disse, mentre Flora rimaneva immobile, nascosta tra le lenzuola e coperta dal cuscino. «Nicola si trova in una situazione difficile, ha bisogno di te, che tu stia lì con lui. E ne ha bisogno adesso. Tu puoi startene qui a piangere quanto vuoi, ma non puoi permettere che venga accusato della morte di Guglielmo, o sì?»

Flora scostò il cuscino dal viso. Non emise un suono, ma i suoi occhi espressero meraviglia. Era venuta a conoscenza di quanto accaduto alla corte dello Cmune: la sera precedente non si era parlato d'altro in seguito all'arrivo di una lettera ufficiale di Nicola Lotnevi, poco prima che venissero servite le prime portate della cena. Ricordava il mento alto della madre, che non aveva battuto ciglio, come se quell'uccisione improvvisa non l'avesse affatto toccata. Ma la regina aveva congedato la corte anzitempo e si era ritirata nella camera che condivideva con il marito; e questo non era passato inosservato agli occhi della più giovane della famiglia Primavera-Inverno.

Il primo pensiero di Flora era stato per Nicola, che lei sapeva avere contro tutti i nobili fedeli al padre; lui stesso glielo aveva confidato, ma lei era fiduciosa, poiché era certa che il suo alleato avrebbe saputo dimostrare di essere all'altezza di Guglielmo. Tuttavia, le parole della Lugupe la impensierivano: qualcuno era davvero disposto ad adottarlo come regicida e parricida? Anche se lei non voleva accettare l'idea di sposarlo, non poteva permettere che passasse dei guai senza agire.

«Sei disposta a partire con me ora?» chiese Luciana, sicura di averla convinta con le sue parole.

La principessa Primavera annuì. Aveva bisogno di andarsene dal castello a qualsiasi costo, avrebbe trovato poi un espediente per evitare quel matrimonio. Non riusciva più a tollerare lo sguardo vigile della madre, che le impediva di vivere come lei desiderava, di vedere Claudio, una delle poche persone che le fossero davvero care a Nilerusa.

«Ho visto quel tipo qui fuori, è per lui che stai così male? Perché Alcina non gli permette di entrare?»

La mano della Lugupe accarezzava premurosa il volto di Flora, che annuì ancora una volta. Doveva mentire, mentire ancora, anche a chi dimostrava di tenere a lei. Mentì; e si disse in cuor suo che non sarebbe andata nello Cmune, perché seguire Luciana non era quello che voleva, per quanto fosse affezionata a Nicola. Rifletté sulle parole dell'altra, che avevano un significato, ignoto alla principessa di Dzsaco, per lei invece ben chiaro: Claudio è qui e lui sa sicuramente cosa è accaduto.

La forza di volontà la fece alzare dal letto, stanca e distrutta per la veglia notturna, lavarsi e indossare un abito rosa pallido, più colorito di lei. Flora sapeva di dover assolutamente incontrare Claudio, nonostante questo avrebbe significato non solo domande da parte di Luciana, ma anche il dover superare gli ostacoli che Alcina aveva disseminato per la reggia. Di sicuro i cortigiani l'avrebbero trattenuta o le avrebbero rivolto la parola, blaterando chissà quali baggianate, per attirarla lontano dai cancelli e dall'unico antidoto alle sue pene. Poi le sentinelle che avevano giurato fedeltà alla regina prima che a lei e che avrebbero posto le loro lance come muro tra la fanciulla e la sua speranza.

Ma a Flora, che correva per le scale con le sue scarpe eleganti e strette, non importava nulla di tutto questo, come non le importava di Luciana che la inseguiva con il fiatone. La principessa faceva voltare verso di sé tutti gli occhi del castello e quella volta non per la sua bellezza, messa in ombra dal dolore di quella notte, ma per la velocità della sua corsa e per lo spirito fiero che non le permise di arrestare il passo neanche quando alcuni servitori si pararono innanzi a lei: l'esile fanciulla li spintonò e questi rovinarono a terra, sotto lo sguardo sbalordito dei cortigiani.

Flora correva attraverso il giardino, noncurante delle grida di chi le consigliava di fermarsi, come un soffio di vento proveniente dal mare, diretta verso il cancello presso cui sapeva di trovarlo.

E Claudio era lì, lo vide, seduto sul muricciolo di marmo con delle candide rose in mano. Con il suo sorriso, un giovane così diverso dai severi abitanti del castello, e nella mente di qualcuno sarebbe potuta sorgere l'idea che il popolano sorridesse a quel modo proprio perché la sua vita così semplice lo rendeva felice.

Ma anche le sentinelle erano lì, irremovibili, con le lance a sbarrare l'uscita in contrasto con l'inferriata spalancata, e bloccarono l'avanzata imperterrita della principessa. L'uomo dalla voce tonante la afferrò per un braccio con l'intento di trattenerla, ma lei si divincolò per raggiungere quello che tutti conoscevano come il suo spasimante.

Luciana l'aveva seguita trafelata per farla desistere dal compiere imprudenze, ma non ebbe il coraggio per rimproverare la guardia: il suo intervento sarebbe stato inutile e, forse, fuori luogo. Flora aveva guardato l'uomo con occhi di fuoco e aveva scandito due brevi parole, carica di ira per l'oltraggio che quella sentinella le aveva recato solo sfiorandola.

«Non osare.»

Il petto ansimava, la fanciulla faticava a contenere il ribrezzo che ribolliva dentro di lei per tutte le sentinelle di tutti i cancelli di Selenia, per tutti i cortigiani che scioccamente eseguivano gli ordini dei sovrani, per tutti gli sguardi sbigottiti che in quel momento assistevano alla scena.

Flora odiò ognuno di loro indiscriminatamente, forse anche la Lugupe, nonostante il suo prodigarsi per lei.

Era sola contro una corte ostile. Allargò le spalle e sollevò il mento, prima di dirigersi verso Claudio. Dovevano sempre ricordare chi era lei, e che se erano lì al castello era soltanto perché alla regina era utile la loro cieca fedeltà: Flora non era sciocca e aveva imparato a conoscere quelle dinamiche grazie a cui sua madre teneva tutti in pugno, persino lei. Ma le cose stavano per cambiare e presto ognuno dei presenti se ne sarebbe accorto.

«Principessa, non possiamo farvi uscire!» esclamò l'altra sentinella, dalla corporatura mingherlina, ultimo ostacolo da superare.

«Tu non puoi ordinarmi nulla» sibilò lei. Forse qualcuno tra gli astanti si era allontanato per avvertire Alcina, ma non le importava.

Ignorò quella schiera anonima e si rivolse verso il suo finto spasimante, che nel frattempo si era rimesso in piedi. Claudio le porgeva il mazzo di fiori dove aveva inserito, tra i gambi senza spine, un piccolo biglietto con un movimento agile e veloce, non scorto da alcuno. La Primavera sapeva che lì era scritta la sua speranza. Litil.

Il giovane abbassò il capo, cerimonioso, e con un sorriso diede le spalle alla principessa, alle sentinelle, al cancello e alla corte intera. Si allontanava sereno, inseguito con lo sguardo dai due uomini che gli avevano sbarrato l'ingresso ai giardini della reggia. Claudio camminava sotto il cielo tinto di vino del tramonto con lo sguardo alto, di chi aspetta di vedere le stelle accendersi una a una per illuminare la volta.

Flora si ritrasse lentamente, lontano dai cortigiani che si radunavano. Alcuni si domandavano se fosse il caso di informare immantinente la regina o se lasciare che la principessa godesse di alcuni momenti di quiete, altri esprimevano il loro disappunto per la sfacciataggine di quel plebeo, che aveva osato spingersi fino ai cancelli.

La fanciulla reduce dalla notte insonne prese una rapida decisione e si allontanò dalla turba, senza che qualcuno facesse caso a lei, ad eccezione della Lugupe che seguiva, attenta, ogni suo movimento. Aveva scorto, tra tutte, la figura di un giovane che si era unito alle chiacchiere non con entusiasmo, quanto piuttosto per educazione nei confronti di chi gli aveva rivolto la parola. Flora sorrise nel constatare che anche lui si trovava a disagio con quei cortigiani, sebbene questo non fosse stato notato da nessuno, e pensò che sarebbe potuto venirle in aiuto. Nel frattempo, però, si diresse con passo cadenzato verso il castello, con Luciana al suo fianco, tacita ombra che ardeva dalla curiosità di scoprire di più.

Tuttavia Flora non disse nulla e raggiunse, silenziosa la sua camera. Fece cenno a Luciana di poter entrare, poi chiuse la porta. Indicò alla pari grado di accomodarsi su una sedia, mentre lei scrutava i vari vasi di vetro che ricoprivano il pavimento della stanza, alla ricerca di qualcuno che fosse vuoto. Non trovandone, ne prese uno contenente un mazzolino esile di tulipani azzurri che stavano appassendo, ed estrasse i fiori per posarli sul tavolino vitreo della teletta, che rifletteva il colore scuro della sera dalla finestra spalancata. Sotto lo sguardo dell'altra, sistemò le rose e ne accarezzò i petali per qualche secondo, poi aprì la piccola busta con il messaggio che Claudio le aveva lasciato.

"Domani da Menta" le indicava la calligrafia irregolare dell'altro. Flora sorrise, posò il bigliettino vicino ai tulipani smorti che prese in mano, prima di avvicinarsi alla finestra. Osservò il mare muoversi lontano e ritmico, minuscolo brandello di orizzonte, come se ogni movimento delle onde potesse placare la sua agitazione. Iniziò a staccare i petali azzurri uno alla volta lasciandoli in balia del vento, con profondi sospiri, ipnotizzata dai propri movimenti, piccolo rituale per il suo spirito indomito, e dal bagliore che giungeva ai suoi occhi dalle piccole creste delle onde. Rifletté su come fosse opportuno agire, anche alla luce di quanto aveva visto poco prima: confidava nella possibilità di aver individuato un prezioso alleato all'interno del castello. Confidava nella speranza che le infondeva la linea dell'orizzonte, che si abbassava e alzava quasi respirasse, come se la terra fosse viva. Litil.

Flora non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che alle sue spalle Luciana stava leggendo il messaggio di Claudio: ne era sicura, poiché la conosceva come una persona dalla curiosità insaziabile; quel bigliettino apriva le porte a molte domande che la principessa di Defi si aspettava le venissero rivolte.

Decise di mostrarsi affranta dall'aver soltanto potuto scambiare poche occhiate e qualche cenno con colui che tutti consideravano il suo spasimante. Lo sguardo mesto, rivolto verso quel lembo di mare, convinse Luciana, perché gli occhi di Flora avevano imparato a nascondere ciò che era bene celare: si finsero sinceri e bisognosi di conforto al punto da spingere la giovane da poco giunta al castello a passare un braccio intorno alle spalle dell'altra e a stringerla forte a sé.

Quello che la cauta principessa non poteva nemmeno immaginare era la battaglia che infuriava nell'animo della Lugupe, che aveva memorizzato quelle parole, ed era indecisa se riferirle o meno alla regina. Se l'avesse fatto, Flora non si sarebbe più fidata di lei, ma il suo credito presso la sovrana sarebbe aumentato considerevolmente; viceversa la giovane Primavera avrebbe mantenuto la sua fiducia, mentre Alcina l'avrebbe accusata di sapere qualcosa. Decise per una via di mezzo: avrebbe scoperto per proprio conto il loro significato, ma avrebbe accennato qualcosa alla sovrana di Defi.

«Menta?» domandò dunque.

Flora rimase immobile e dubbiosa per un istante impercettibile, senza che Luciana si accorgesse della sua esitazione. Rientrò lentamente nella stanza, lasciandola sola sotto il cielo d'inchiostro della sera.

«È un'amica di Claudio» rispose con noncuranza, sedendosi sul bordo del letto, e si voltò a sprimacciare un cuscino. Tuttavia sentiva quegli occhi scuri scrutarla con attenzione, come se cercassero di scoprire i suoi segreti, che lei non aveva alcun interesse a rivelare.

«E da quando tu frequenti persone di quel genere?»

La principessa Primavera rimase immobile nell'udire quelle parole, atterrita e disgustata: due stati d'animo che solo la lingua tagliente della regina era stata capace di suscitarle contemporaneamente. Fino a quel momento.

Si voltò tesa, e incontrò lo sguardo vispo e sveglio di Luciana, affatto scomposta nel porre quella domanda. Si alzò dal letto, si avvicinò al mobile della teletta e dal primo dei cassetti estrasse una confezione di fiammiferi, di cui fece un veloce uso per accendere le candele dal lume soffuso.

«Mi posso fidare» disse, cercando di non risultare fredda, ma io suo fastidio era ben percepibile. Si accorse del suo errore e provò a rimediare: «È il mio tramite con Claudio. Se non possiamo incontrarci qui, lei ci dà una mano per vederci altrove.»

«Dove, come?» insisté la Lugupe, poco convinta.

Flora si allontanò dalla candela che aveva catturato il suo sguardo. Si rivolse alla Lugupe e sorrise civettuola, per rendersi credibile. «Segreto!» Parve funzionare, perché l'espressione dell'altra si distese in un sorriso.

«E ora che tu partirai, come farai?» Luciana sperò che il suo interesse la facesse cedere: ardeva dal desiderio di diventare la confidente della principessa, incompresa da tutti gli altri fra le mura del suo castello. Avrebbe acquisito grande credibilità agli occhi di Alcina, che l'avrebbe considerata senza dubbio una preziosa alleata; ma Flora aveva già scolpito nella sua mente un altro nome per una persona di fiducia. E non corrispondeva a quello di Luciana Lugupe, erede al trono del regno di Dzsaco.

«Troverò un modo» disse semplicemente la Primavera. Le venne in mente solo in quell'istante che probabilmente Luciana proveniva dallo Cmune e che lì avrebbe potuto incontrare Erik; questo non la rasserenava affatto. Già da tempo sospettava che il fratello si fosse accorto che quello di Claudio era solo un diversivo, come forse anche i genitori, ma lei continuava ad andare avanti con quella farsa: ne aveva bisogno, avrebbe protetto chi amava a qualsiasi costo, anche con quella messinscena. Doveva persistere nel nascondere la verità, soprattutto se non aveva la certezza che l'avessero già scoperta. E ammetteva, fra sé che un poco la divertiva e che spesso la faceva sorridere, nonostante tutto facesse supporre che le circostanze non deponessero in suo favore. Era convinta che il sorriso fosse l'unico modo per sopportare la vita a corte; e qualcosa le diceva che non aveva torto.

Ma era arrivato il momento di interrompere quella serie di inganni e l'unico modo di allentare i nodi che la tenevano ancorata lì era reciderli di netto: fuggire. Non nello Cmune, come Luciana sembrava proporle, ma altrove, in un luogo dove l'autorità dei suoi genitori non poteva arrivare: dove lei poteva decidere del suo destino.

Le ultime parole che Luciana le rivolse prima di lasciare la camera le giunsero alle orecchie proprio nel momento in cui aveva deciso come muoversi nei minimi dettagli. E un lieve sorriso le solcò le guance.

«Sarà meglio che vada a prepararmi per la cena.»

 

(Ultima revisione: 30/04/2020)

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Capitolo 9
*** 3.4 La profezia ***


 

(Capitolo revisionato)

Non appena la porta della camera fu richiusa alle spalle di Luciana, Flora si alzò dal letto e, in punta di piedi, si avvicinò all'uscio per ascoltare i passi della nobile ospite allontanarsi verso la stanza preparata per lei in un altro corridoio del piano. Quando non udì più nulla, decise che era arrivato il momento di agire: uscì furtiva, chiuse la porta a chiave e corse leggiadra nella direzione opposta a quella in cui si era diretta la Lugupe.

Scendendo le scale che conducevano nell'ala ovest del castello, quella dedicata agli incontri ufficiali e in cui si trovava la sala del trono, si imbatté proprio nella persona che stava cercando: Giampiero Tirfusama, figlio di un marchese del Pogudfo. Flora si fidava di lui, sebbene i due non avessero grande dimestichezza: lo aveva sempre incontrato a corte, e alla presenza di altre persone, ma gli appariva di grande intelligenza e sensibilità. Aveva già da tempo desiderio di parlare da sola con lui, per avere un confidente nel castello, ma le circostanze glielo avevano impedito ogni volta.

La principessa ricordava con piacere di aver origliato una conversazione tra lui ed Erik, nella quale Giampiero aveva preso le sue difese. Parlavano concitatamente di lei, di quanto fosse ribelle alla volontà dei genitori, ma quella volta non si trattava del matrimonio: era accaduto che Flora fosse uscita sola dal castello per l'intera giornata, rientrando a malapena per la cena, scatenando le ire di Alcina e Tancredi. Erik era arrabbiato con la sorella, perché lei non capiva che non poteva rimanere senza una sorveglianza, che le sarebbe potuta capitare qualsiasi cosa, mettendo insieme tutto il frasario ripetuto tante volte dai genitori. Giampiero, invece, gli aveva spiegato che secondo lui era giusto che Flora si prendesse le sue libertà, anche correndo dei rischi: era giusto, secondo lui, che una futura regina sapesse come fosse la vita fuori dal castello.

Quanto la più giovane dei Primavera-Inverno aveva scorto nel pomeriggio osservando il suo atteggiamento, aveva solo dato fondamento più solido alla sua speranza di trovare un amico leale in cui riporre la sua fiducia. Aveva bisogno di aiuto e lui sembrava la persona migliore della corte a cui rivolgersi, sebbene vi si trovasse solo di passaggio.

«Giampiero» lo chiamò, fermandolo. «Vorrei parlare con te.»

Con una mano aprì la porta del salone davanti al quale lei e il giovane marchese si erano fermati e, dopo aver constatato che era vuota, indicò all'altro di entrare, senza dire nulla. Lui chinò il capo rispettosamente e annuì. «Certo, altezza.»

Flora sorrise, inorgoglita dal titolo che le era riservato e che l'episodio di poco prima sembrava aver messo in ombra. Che gli altri cortigiani lo volessero o meno, lei aveva le stesse possibilità di Erik di ereditare il regno, quindi sarebbe stato opportuno che ne tenessero memoria in ogni momento. Cmune o non Cmune, Nicola o non Nicola, lei aveva il desiderio di rendere la sua prigione un luogo di libertà.

«Evitiamo le formalità, per favore. E dammi del tu» disse, seguendolo all'interno del salone e richiudendo la porta. «Mi rivolgo a te perché si tratta di una questione delicata e so che tu saprai esserne all'altezza. Sanno tutti, e perciò confido nel fatto che lo sappia anche tu, che non voglio sposare il futuro Re di Cmune Nicola Lotnevi.» Flora abbassò lo sguardo e si trattenne dal mordersi la lingua. Era necessario parlare e lei lo avrebbe fatto. «Ovviamente sono certa che tu ne sai anche il motivo, cioè l'amore che mi lega a un altro.»

Giampiero la osservava molto attentamente, interessandosi a quello che diceva e incuriosito dal fatto che la principessa avesse deciso di confidarsi proprio con lui. Quella dimostrazione di fiducia arrivava del tutto inaspettata, anche se per un momento si affacciò alla sua mente la possibilità che lei avesse notato la sua scarsa simpatia verso gli altri membri della corte. Non che questo gli avesse mai impedito di fare conversazione, ma non poteva fare affidamento su nessuno di loro. Sapeva, anche se solo per sentito dire, che Flora era refrattaria al matrimonio con Nicola Lotnevi e pensava che fosse dovuto alla stessa ragione che lei aveva ammesso con pudore, come mostravano le sue guance velatamente arrossite.

Anche lui aveva qualcosa di cui parlare con lei, e si trattava di una questione molto delicata che desiderava affrontare in privato. Non gli sarebbe stato d'aiuto chiedere udienza, perché altrimenti sia Alcina che gli altri residenti al castello avrebbero avuto la facoltà di essere presenti; e non era quello che il marchesino desiderava. Decise, tuttavia, di attendere che la principessa finisse il suo discorso, perché gli appariva insensato discutere di più argomenti contemporaneamente. Da buon diplomatico, quale aveva dimostrato di essere, sapeva come comportarsi in ogni circostanza. Quindi non disse nulla e ascoltò, con una devozione che sentiva nascere nuova dentro di sé, le parole della figlia dei sovrani di Defi.

«Quest'altra persona, però...» Flora non poté evitare di mordersi il labbro: aveva saputo con maestria tenere il segreto e doverlo rivelare era per lei una grande preoccupazione, ma Giampiero le ispirava grandissima fiducia, quindi proseguì. «... Non è quel ragazzo che mi manda sempre i fiori; non è, insomma, colui che tutti credono. Si tratta di un altro, non penso che tu lo conosca, non lo conosce nessuno della corte. Non sto a spiegarti come ci siamo incontrati, non è questa la cosa importante. Ciò che conta è che questa notte ci saremmo dovuti incontrare, ma lui non è venuto.»

La principessa Primavera si interruppe e prese fiato. Lanciò un'occhiata nervosa alla parete del salone, illuminato da coppie di candele ben distanziate tra loro, tremando all'idea che la regina potesse aver origliato le sue parole. Si riscosse al pensiero che non c'era modo che qualcuno la udisse, non senza essere presente; e lì c'erano solo lei e il marchesino.

«Temo che gli sia accaduto qualcosa» sospirò.

«In che modo posso aiutarti?» chiese Giampiero, con tono sinceramente preoccupato. Non poteva non avere notato l'animo agitato della ragazza e si sentiva in dovere di fare qualcosa per lei, non solo come ricompensa a quella dimostrazione di fiducia, ma perché, in qualche modo, sentiva che era giusto prendere le sue parti. I sentimenti di Flora verso qualcuno che non fosse Nicola Lotnevi erano molto più che legittimi, secondo lui, ma sapeva che contraddire Alcina e Tancredi non era saggio e non l'avrebbe fatto; non apertamente, almeno.

Flora gli sorrise, dimostrando quanto apprezzasse il suo interesse, senza cessare di avere una luce seria negli occhi, e gli espose con brevità il punto a cui voleva arrivare.

«Claudio, il ragazzo dei fiori, sa cosa è accaduto. Prima sono riuscita a vederlo per poco tempo, alla presenza delle sentinelle, e gli ho detto di andare da Menta. È una ragazza che vive a Nilerusa, so di potermi fidare di lei: conosce la situazione, ed è tra le persone che hanno premura di aiutarmi a nascondere la verità. Ho bisogno che tu vada da lei al posto mio, perché io non posso lasciare il castello senza essere notata o, peggio, seguita. Non posso permettermi che i miei genitori conoscano la mia rete di segreti. Ti darò le istruzioni necessarie per arrivare da lei. Se tu ti assenterai, non se ne accorgerà nessuno, hai la fortuna di non avere sopra gli occhi di tutti.»

Fissò il suo sguardo in quello del giovane marchese e i suoi occhi chiari quasi si inumidirono nuovamente. Mormorò, con voce sommessa, due parole che mai aveva pronunciato fino a quel momento. «Ti prego.»

Giampiero l'aveva ascoltata con attenzione, colpito dalla rivelazione fattagli dalla Principessa Primavera. Non era quindi il popolano di cui tanto aveva sentito parlare? Alcune delle più giovani tra la dame di corte erano ammaliate dal sorriso che contraddistingueva il suo volto, che appariva ai loro occhi come illuminato da un bagliore divino. Eppure, il marchesino lo aveva compreso, era chiaro che ad attirarle era la possibilità di una relazione che le rispettive genitrici avrebbero di certo disapprovato, nulla di più: per loro quel Claudio sarebbe stato solo un divertimento, al pari di qualche servo del castello.

Annuì, disposto a esaudire ogni suo desiderio. Capiva che quanto aveva detto Flora era vero: in ben pochi si sarebbero accorti della sua assenza, che avrebbe potuto giustificare con un pretesto qualsiasi. Aveva intenzione di scoprire cosa fosse accaduto all'amante della principessa e di riferirglielo, senza il timore di incorrere nelle ire di Alcina: la sovrana non gli avrebbe mai estorto una parola.

«Certamente, andrò» disse infine e ogni tratto del volto splendido della Primavera sembrò sorridergli, avendo riacquisito un più sano colorito. Tuttavia Giampiero sapeva che il suo dovere non finiva lì. «Ma sono in possesso di un'informazione che so non ti piacerà affatto.»

Flora si allarmò, ma non fece in tempo a macchinare nessuna ipotesi, perché la sua lingua fu più lesta del suo pensiero. «Di cosa si tratta?»

«Raissa Autunno» diede Giampiero come prima risposta. Pronunciò quel nome con un filo di paura nella voce. Non gli era sconosciuto quanto di oscuro si raccontava su di lei e temeva che qualcuna di quelle dicerie fosse realtà.

Flora si lasciò cadere con grazia su una delle sedie disposte attorno all'ovale tavolo di cristallo che occupava gran parte della sala, invitando il marchesino a prendere posto al suo fianco. Non si sentiva tranquilla quando udiva parlare di colei che, a detta di molti, sarebbe stata la sua rivale per la supremazia politica della regione. E le notizie delle sue conquiste militari erano giunte sino alle orecchie dell'ingenua fanciulla. «E di preciso?»

«Negli ultimi tempi è stata ossessionata dalle ricerche su antiche profezie. Non vi ha preso parte di persona, ma ha mandato qualcuno di sua fiducia a leggerle nel Pecama, nei luoghi di culto dove sono conservate.»

Flora annuì, segno che stava seguendo le sue parole. Non sapeva a cosa quel discorso avrebbe portato, ma che Raissa desse peso alle profezie la incuriosiva: non la riteneva in grado di credere in qualcosa che ormai apparteneva più alla leggenda che alla realtà. Le profezie, come tutti sapevano, erano l'ultimo baluardo di magie che avevano dominato su Selenia secoli addietro e di cui nessuno ricordava ormai nulla: erano testi criptici e di difficile interpretazione, nessuno osava credere che in quelle pagine ingiallite e corrose dal tempo potesse essere scritto il destino del mondo e dei suoi abitanti, neanche dei più illustri.

Giampiero si schiarì la gola, raccogliendo tutto il suo coraggio: mai, nella sua breve carriera da diplomatico, si era trovato con un argomento tanto delicato e tanto importante da esporre.

«Secondo una di queste... tu sei la maga più potente mai esistita sul suolo di Selenia e il tuo destino è quello di sconfiggere Raissa. Impresa che non dovrebbe essere semplice, perché, stando a quanto mi è stato riferito, lei riuscirà ad avere il controllo di quasi tutte le terre conosciute.»

Tacque, osservando il viso scandalizato e preoccupato della principessa, la cui mente si stava già occupando di diversi aspetti che quella rivelazione implicava. Poteva fidarsi di quelle parole? Possibile che l'interpretazione arrivata a Raissa fosse corretta? E se fosse tutto un errore, se quella profezia non parlasse di lei e della giovane Autunno?

«Cosa? Come?» esclamò, sconvolta, senza dare voce ai suoi veri pensieri. Ma un altro dubbio si insinuò nella sua mente. «Come fai a saperlo?»

«Questo ti piacerà ancora meno» disse Giampiero, abbassando lo sguardo e concentrandolo sulle sue dita che tamburellavano sulla traslucida superficie del tavolo. Sapeva che le possibilità che Flora si sarebbe adirata erano molto alte, poiché lei non capiva perché mai qualcuno dovesse mettersi al servizio di altri mosso soltanto dal bisogno o dal desiderio di denaro. «Sono in contatto con un mercenario che raccoglie informazioni direttamente da Raissa e da qualcuno molto vicino a lei.»

«Un mercenario?» Lo stupore di Flora aumentò ancora di più. Il respiro le venne meno e il battito del suo cuore accelerò in un istante, mentre sul viso le si formarono chiazze rosse. Si sentiva in difficoltà nel mostrare diffidenza nei confronti del marchese a cui, poco prima, aveva rivelato il suo più grande segreto. Ma lei temeva i mercenari, perché il pensiero che suo padre ne potesse assoldare qualcuno per scovare il suo amante era tra i tormenti dei suoi momenti di solitudine. «Come fai a fidarti?»

«Pare che ci sia stato un acceso diverbio tra Melissa e Raissa per il trono del Ruxuna. Non possono salire insieme e condividere il potere, perché hanno due linee di pensiero opposte. Sai delle recenti minacce allo Dszaco, vero?»

Flora annuì, memore di una lettera di Nicola che l'aveva messa al corrente.

«Queste minacce sono opera di Raissa» proseguì Giampiero, dopo essersi schiarito la voce. «Lei vuole estendere i suoi confini e credo, ma queste sono solo mie supposizioni, che stia puntando anche allo Cmune e poi...»

Non proseguì, ma era evidente a quale altro regno facesse riferimento.

«Al Defi? »chiese Flora, in un sussurro. Se anche fosse solo una ricostruzione dell'altro, era possibile che Raissa volesse conquistare il suo regno: se l'Autunno credeva a quella profezia, aveva di certo il desiderio di sbarazzarsi di lei. E il più semplice dei modi era occupare il Defi e farla prigioniera. Tuttavia le sovvenne che quel piano era impraticabile per chiunque, non solo per Raissa. «Ma non può farlo, ci sono degli accordi sul rispetto dei confini!»

«Non li ha firmati lei» spiegò Giampiero. I confini erano stati definiti da antichi trattati che venivano rispettati come volontà divina. Per qualsiasi ratifica avvenuta nel tempo, non si era mai sparso sangue, giungendo a pacifici accordi; l'ultimo dei quali, in seguito a un dissidio tra Alghemo e Sovithu, aveva visto il marchese tra i suoi intermediari principali. «Raissa vuole solo conquistare tutto quello che non è suo, come già ha fatto con Ralini e Loavi. Melissa non ha alcun interesse nell'espansione ai danni dei regni limitrofi: se in futuro lei diventasse la regina, sarebbe un bene per tutti.»

Flora annuì, per l'ennesima volta. «Capisco. Quindi questo mercenario è il tramite tra te e Melissa?»

«Esattamente. Per questo devi fidarti, anche se per ora Raissa non sembra una gran minaccia, perché è ancora lontana da qui.»

«Lo diventerà» disse profetica Flora, puntando lo sguardo oltre le vetrate che affacciavano verso i giardini e che, fino a quel momento, aveva ignorato. Aveva capito quali fossero gli intenti della sua futura nemica: sovvertire la profezia, arrivare a lei prima di conquistare ogni luogo conosciuto e, solo dopo essersi sbarazzata dell'unico vero ostacolo, sottomettere tutti gli abitanti di Selenia. Era così grande la sua ambizione e la sua sete di potere, lo intuiva istintivamente. «Se dominare tutti noi è ciò che ha in testa, allora è già una minaccia. E neanche tanto piccola.»

Giampiero si sentì spiazzato nell'udire quelle parole, perché il tono in cui erano state pronunciate significava che la principessa non solo gli aveva creduto, ma che stava contestualmente riflettendo su come potersi opporre in maniera efficace alle irreversibili azioni di Raissa. Ciò che aveva da dire, però, non era ancora terminato. Interruppe i pensieri dell'altra, parlando di nuovo.

«Maestà... cioè, Flora.» Fu per lui uno sforzo immane non appellarla con nessun titolo bensì con il nome, ma la vide rivolgergli l'accenno di un sorriso benevolo. «Ti... ti verrà chiesto di fare qualcosa contro Raissa Autunno, prima o poi, di provare a fermarla, soprattutto quando la storia sulla profezia sarà conosciuta ai più. Certamente tu vuoi che venga fermata, come lo voglio io e come lo vogliono o vorranno tantissime altre persone... Ma, se la profezia parla davvero di te, allora sarà fondamentale non perderti, anche a costo di aspettare.»

Lei puntò il suo sguardo negli occhi scuri del marchesino. «Non perdermi? Cosa intendi?»

Lui esitò, tremando all'idea di un nefasto presentimento. «Nessuno vuole che tu muoia. Non devi e non puoi affrontarla, finché non sarai pronta.»

Flora comprese. Giampiero alludeva alla prima parte della profezia, quella relativa alle sue abilità magiche che, tuttavia, lei non credeva di avere. Aveva sempre pensato, quando ne aveva letto in qualche testo della biblioteca del castello, che la magia si manifestasse spontaneamente, quando una persona aveva le potenzialità per dominarla; viceversa, lei non aveva mai notato niente che le permettesse di credere di poter diventare la più potente maga mai esistita.

«Dovrò trovare qualcuno disposto a insegnarmi» mormorò. «Ammesso che questo qualcuno esista. Potrebbe essere scritto in qualche altra pagina che contiene le profezie... in questo caso dovrei mettermene anche io alla ricerca.»

La principessa Primavera intuì che le cose stavano prendendo una piega del tutto inaspettata, che poteva sfruttare a suo favore. Non sarebbe andata nello Cmune insieme a Luciana, questo no, ma nella sua mente si stava già delineando un'alternativa molto più tangibile rispetto a una fuga senza meta.

«Credo di sì. Ma adesso dobbiamo occuparci di una cosa alla volta.» Giampiero, colpito dalla maturità con cui la figlia dei sovrani aveva accolto la notizia della profezia, si alzò in piedi. «Come arrivo dalla tua amica, Menta?»

La bocca rosea di Flora si piegò in un dolce sorriso, ma presto il suo volto tornò serio. E lui? Come lo avrebbe trascinato in tutto questo? Non poteva permettere che Raissa lo usasse contro di lei, perché se avesse scoperto del loro legame non avrebbe esitato a farne un'esca per attirarla. Si alzò dalla sedia, ma le gambe le tremarono, costringendola ad appoggiare i palmi delle mani sulla fredda superficie del tavolo.

Un indicibile terrore di fallire in tutto per un attimo si impossessò della giovane. La profezia su lei e Raissa, proteggere l'uomo che amava... Ora doveva difenderlo non solo dai suoi genitori, ma anche da una minaccia ben più grave e sapeva che l'insuccesso sarebbe equivalso alla sua perdita, per sempre.

Giampiero vide dall'espressione del volto il combattimento che si svolgeva nel suo animo tra il senso del dovere e di responsabilità, che non le lasciava fuga, e le agitazioni che sconvolgevano il suo cuore.

«Non preoccuparti. Raissa è ancora lontana e le difese dello Cmune la terranno occupata per diverso tempo.» Sapeva di mentire, perché le forze militari del regno confinante erano piuttosto esigue, ma era dell'opinione di dover affrontare un problema alla volta, partendo da quello più vicino in termini di tempo. Le rivolse perciò un timido sorriso, che lei, tuttavia, non vide: manteneva lo sguardo sul tavolo di cristallo, pensierosa.

«Flora, adesso dobbiamo pensare a domani» insisté Giampiero. «È più urgente.»

«Ho la tua parola che Raissa non è nel Defi?» mormorò lei con un filo di voce. Aveva bisogno di saperlo, per mantenere la calma e riuscire a ragionare con lucidità.

Il marchesino scosse la testa. «Da quanto so io, non ha più lasciato il Loavi da quando lo ha conquistato.»

La principessa si sentì sollevata: se lui non era uscito dal Defi, allora era al sicuro. Si sporse per sbirciare nel corridoio, assicurandosi che non ci fosse nessuno, poi condusse Giampiero fino alla sua camera, risalendo le immense scalinate che conducevano ai piani più alti.

Lui rimase sulla soglia, indeciso se fosse o meno una buona idea seguirla all'interno, ma Flora, con un gesto perentorio, lo invitò ad entrare e chiuse rapidamente la porta a chiave. La fanciulla sollevò le coperte che dal suo letto sfioravano il pavimento, sotto lo sguardo incuriosito dell'altro. Poi il giovane si abbassò e vide una scanalatura rettangolare sul pavimento, di cui si meravigliò: come aveva fatto Flora a rompere quel vetro e creare un sottopassaggio?

«Questa» spiegò lei frettolosa «è una botola che porta in una casa, alla periferia di Nilerusa... in realtà è quasi in campagna: riposa lì questa notte. Puoi stare tranquillo, ci vive la madre di Claudio, il mio finto spasimante. Quando si fa mattino, esci dalla casa e vai verso sinistra: un paio di isolati e ti troverai di fronte a una finestra al piano terra che ha sul davanzale un vaso di gerani blu. Bussa tre volte alla finestra, la troverai sicuramente chiusa, e ti verrà ad aprire una ragazza dai capelli rossi: dille che vieni da parte mia e...» Flora si alzò in fretta, si sedette alla vitrea scrivania e scrisse qualcosa su un pezzo di carta. «Mostrale questo. Ti farà entrare. Lì troverai Claudio, sicuramente conosci il suo aspetto, l'hai visto prima, e fatti dire da lui cosa è accaduto. Io aspetterò che tu ritorni nel nascondiglio, cioè, nella casa a cui porta la botola.»

Giampiero aveva seguito con grande attenzione, senza riuscire a vedere soddisfatta la sua curiosità. «Ma come hai fatto a costruire questo passaggio?»

Lei gli porse il biglietto che aveva scritto in fretta e rispose: «L'ho trovato quando ho scelto questa camera. Credo che sia opera di magia, perché al piano di sotto c'è la stanza in cui dorme una delle più fedeli donne di mia madre. E poi perché buona parte del percorso è orizzontale, invece di essere verticale come ci si aspetterebbe. Sono stati i folli architetti del castello, ma devo ringraziarli: è stato grazie a loro che ho incontrato Claudio. Adesso devo proprio chiederti di andare: devo cambiarmi per la cena.»

Il marchesino annuì, comprensivo, e si inginocchiò sotto il letto: si stupì di constatare come ci fosse sufficiente spazio per muoversi con agilità. Posò una mano sulla superficie della botola e questa si dissolse al suo tocco, lasciandolo a bocca aperta.

Si voltò verso Flora e le mormorò: «Questa è davvero magia.»

Lei annuì, con un sorriso. «Non so come ringraziarti.»

«Non dovete» disse lui, scrutando l'oscurità che si spalancava davanti ai suoi occhi.

«Devi scendere, si formerà una scala per un breve tratto» gli spiegò la principessa e lui seguì le sue indicazioni, iniziando a calarsi all'interno di quel misterioso cunicolo. Quando solo la testa rimase all'esterno, rivolse a Flora la sua ultima domanda.

«Adesso temi che Raissa possa aver fatto del male all'uomo che ami, vero?»

Lei annuì, arrossendo alla luce delle candele che, accese un'ora prima, si stavano consumando. «Per questo ho bisogno di sapere che lui sta bene, prima di andare via da qui.»


(Ultima revisione: 7/5/2020)

 

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Capitolo 10
*** Profezia I ***


(Capitolo revisionato)

"Mani del Sud tenderanno una corda.
Albero di morte sulla cima della collina
su cui ali che tanto avranno volato si spezzeranno.
Maestro a indicare tracciati invisibili
incapperai nell'inganno di un uomo fidato
e il futuro a te sarà negato."

Silvana dei Prati, sacerdotessa della Dea Luna, passò lo stilo a un compagno più anziano, di cui non conosceva nome né origini. Molti membri del Concilio dei Veggenti non si erano mai incontrati prima di quel momento, ma ognuno di loro condivideva con gli altri il desiderio e la necessità di tramandare ai posteri ciò che aveva visto. Un dono, un raro dono, che presto si sarebbe estinto, come tutti i presenti avevano percepito.

Vergavano a turno, di propria mano, le parole che una qualche entità divina ispirava nei loro cuori. Forse la stessa che inviava loro quelle visioni, sebbene nessuno avrebbe saputo come definirla. Non era uno degli dèi venerati a Selenia, no, ma qualcos'altro, di più grande, che sovrastava persino i loro singoli culti. Non un nome, non una voce: soltanto immagini del futuro.

Come quella della sconfitta dei Draghi Bianchi del nord, che avrebbe decretato l'estinzione di ogni drago, nel timore umano che potesse esserci una tirannia da parte di chi ne possedesse soltanto uno. Sarebbe accaduto molto presto e forse qualcuno di loro vi avrebbe assistito. La giovane Silvana passò una mano sulla toga candida, intessuta con ricami argentei, e capì che lei sarebbe stata presente al momento della disfatta dei Draghi. Incanutita, con mani rugose, dopo aver prestato soccorso al termine di innumerevoli scontri. Ma viva: e allora avrebbe visto quella visione tramutarsi in realtà.

Il corrente era, come solo loro avrebbero potuto sapere, l'anno 64 prima della Caduta dei Draghi Bianchi.

Polvere alzata, fuoco, grida, soldati alla carica, nascosti dagli scudi a testuggine... credendo così di potersi salvare. Poveri stolti.

Una folata di vento, che entrò dalla finestra spalancata sul mare. Il santuario sorgeva sul promontorio e lì erano accorsi i Veggenti a poco a poco per lunghe settimane, prima di ritrovarvisi riuniti e di risolversi alla decisione che avrebbe affidato il loro sapere ai posteri. Lontani dal resto di Selenia, non influenzabili nell'apporre su pergamena le immagini che nel corso dei mesi e degli anni si erano affollate nelle loro menti.

Il più giovane del Concilio, un fanciullo imberbe delle isole occidentali, passò un nuovo stilo a Silvana, indicandole un posto alla tavola momentaneamente vuoto a cui la sacerdotessa sedette, pronta a scrivere altre di quelle che, di lì a qualche generazione, sarebbero state chiamate "profezie".

 

(Ultima revisione: 7/5/2020)



Angolino autrice
Ho riportato in questo capitolo la prima di una serie di profezie, che potrebbero realizzarsi nel corso della storia (o in questo "libro" o in uno dei successivi), come no, perché non è detto che riguardino uno dei personaggi. Sta ai lettori trarre deduzioni (o formulare ipotesi) a questo riguardo ;)

 

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Capitolo 11
*** 4.1 Serena frugalità ***


(Capitolo revisionato)

 

Il sole fece capolino dalla finestra, colpendo Giampiero sul viso con raggi orizzontali. Era ancora l'alba quando lui si svegliò sul letto duro nel quale aveva dormito. Pur mantenendo gli occhi chiusi, capì di essere del tutto desto solo nel momento in cui alle sue narici giunse l'odore amaro del caffè, probabilmente appena preparato. Ebbe un piccolo istante di esitazione prima di aprire gli occhi e ricordare dove fosse, poi gli sovvenne il percorso fatto la sera precedente, le indicazioni dategli dalla principessa e il suo stesso stupore nel constatare le incredibili capacità di chi aveva costruito quel passaggio che collegava castello alla periferia della capitale.

Appena giunto, era stato accolto a braccia aperte da una donna di mezza età, a cui Flora aveva accennato. Gioviale e cortese nonostante le umili origini, come il marchesino aveva avuto modo di notare con un pizzico di curiosità per quell'ambiente, per lui così estraneo. Abituato agli agi delle corti presso cui era ospite, non conosceva altri stili di vita né come realmente vivessero i sudditi, e si rese conto di quella propria mancanza mentre si rivestiva sotto gli sguardi sbiechi dei raggi. Era ancora in tempo per apprendere, grazie ai suoi ventitré anni, e non si sarebbe lasciato sfuggire nessuna occasione per poterlo fare.

Prima di uscire dalla camera provò a risistemare le spesse trapunte che, nonostante la coltrice dura, gli avevano concesso un riposo sereno, ma ci riuscì con risultati molto più che discutibili. Fece una smorfia di disappunto, insoddisfatto: non gli sembrava di rendere giustizia all'ospitalità ricevuta e si ripromise di scusarsi con la padrona di casa.

Uscì dalla spoglia e angusta camera, e si ritrovò in una piccola stanza adibita a cucina e sala da pranzo. Poche sedie attorno a un tavolo modesto ne costituivano il principale arredamento, mentre il pavimento era occupato soltanto da casse con frutta e verdura. Una porta socchiusa affacciava su uno spazio aperto, forse un orto o un campo coltivato di più grande estensione. Giampiero si sporse per osservare, incuriosito, e respirò a pieni polmoni l'aria frizzantina del mattino. Ormai era estate, ma a quell'ora e durante la notte le temperature di certo non potevano definirsi elevate.

Elide, la donna che lo aveva accolto la sera precedente, era accovacciata presso una pianta di pomodori e ne raccoglieva in una cassa di legno che teneva sulla terra battuta, accanto a sé. Il marchesino si soffermò sulla sua figura china, intenta al lavoro, per qualche istante prima di volgersi verso il resto del campo. Le piante erano disposte in fila a partire dalla porta sul retro della casa, e a ogni fila apparteneva una coltura diversa. Giampiero non poteva affatto definirsi un esperto di agricoltura, tutt'altro, e non era in grado di distinguere un cetriolo da una zucchina, ma rimase affascinato da quell'ordine. In fondo e ai due lati il campo era circondato da una piccola staccionata di paglia, alta poco più di un metro, oltre cui si intravedevano altri orti, ognuno dei quali appariva diverso da quelli confinanti per ciò che vi veniva coltivato, e altre case di contadini.

«Buongiorno, marchese. Avete dormito bene?» domandò Elide, destandolo da quella muta contemplazione.

Giampiero annuì, quasi distrattamente, rapito dal gioco di colore dei raggi mattutini che si riflettevano sulle nubi giunte a ricoprire Nilerusa durante la notte: alcuni cirri si scagliavano rosati contro il cielo ancora scuro, mentre nuvole più basse erano indorate dalla luce solare che vi si rifrangeva.

«Vi ho preparato del caffè, è nella brocca di vetro sul tavolo» gli sorrise benevola la donna, senza interrompere il suo lavoro.

«La ringrazio» sorrise di rimando lui. La lasciò intenta a raccogliere qualcosa dal terreno e rientrò in casa. Si sedette al tavolo e versò in una tazzina, che Elide aveva lasciato lì per lui, un po' di quel liquido scuro, per poi addolcirlo con del miele. Forse lo zucchero era un bene di lusso a cui lei non poteva accedere, o forse, molto più praticamente, era qualcuno dei vicini a fornirle quella sostanza ambrata, in cambio di qualcuno dei suoi ortaggi.

La vita semplice di chi è destinato a tirare avanti preoccupandosi solo del suo orto, rifletté il marchesino tra sé e sé. Eppure quella frugalità non gli dispiaceva affatto ma, anzi, gli procurava una sensazione rasserenante, come se fosse davvero possibile vivere delle piccole cose e trovare, nonostante le povere condizioni, la felicità.

Era questa l'impressione che aveva ricevuto da Elide la sera precedente, quando aveva chiacchierato con lei durante la cena: una donna che lavorava, che con ogni probabilità era sola nel suo orto ogni giorno e che si curava esclusivamente di quello, ma che era felice. Pensò che la sua visione della realtà potesse essere distorta dalle condizioni eccezionali per cui lui si trovava in quel luogo, ma lasciò cadere tale ipotesi, che avrebbe minato l'atmosfera fiabesca nella quale riusciva a trovare un conforto, qualcosa che lo allontanasse dai suoi pensieri quotidiani. Si guardò attorno, notando le credenze di legno segnate dallo scorrere del tempo, nelle quali la popolana conservava cibo e utensili per cucinare, di cui Giampiero ignorava le singole funzioni. Sopra alcune di queste erano riposti dei panni in disordine, probabilmente da rammendare o da lavare, in attesa di una migliore collocazione. Si ricordò che nell'orto aveva fatto caso ad alcune corde tese, fissate per un'estremità a un angolo della casa e per l'altra a uno stretto muro alto un paio di metri, forse eretto per lo scopo, su cui erano adagiati i vestiti ad asciugare.

«Capisco perché Flora venga qui» mormorò Giampiero. «Sembra un rifugio dal castello.»

Ricordava con piacere la chiacchierata avuta con Elide la sera prima, durante la quale la donna si era informata su di lui, sulla sua vita, ascoltandolo con attenzione, come una zia che accoglie di nuovo un nipote dopo una lunga separazione. L'odore di minestra di cavolo, con la quale i due avevano cenato, aveva fatto da sfondo alla conversazione, insieme ad alcune fioche candele e all'aroma di qualche spezia che la donna coltivava in vasi posti vicino alla finestra. Una vita frugale condotta con una dignità invidiabile per molti cortigiani, che gongolavano dei propri titoli, ridotti ormai a una formalità senza corrispondenze reali. Come quella del marchesino.

Il nobile bevve il caffè, allontanando il pensiero dei genitori esiliati in luoghi lontani e della loro dimora, nel Pogudfo, caduta in rovina da alcuni anni. Forse un giorno sarebbe riuscito a rimetterla di nuovo a lucido e ad attirarvi baroni e contesse da ogni dove, come era stato un tempo, quando la sua famiglia aveva ancora credito. Ma quel regno ormai era abbandonato a sé stesso, come lo era la sua aristocrazia, e al giovane veniva spontaneo domandarsi come mai Raissa non avesse avuto delle mire per la sua terra natia. O forse, molto più probabilmente, l'esercito del Ruxuna sarebbe penetrato nello Dzsaco solo per attaccarli da un confine molto più ampio. La verità era che, da quando si era estinta la dinastia regnante, il Pogudfo non aveva il minimo peso negli assetti internazionali e nessuno aveva degli interessi nell'accaparrarsene il trono.

Anarchia, pensò, quasi con terrore. Erano anni che ormai non vi metteva più piede e aveva timore di ciò che vi avrebbe trovato. Un duca suo conterraneo, che aveva incontrato presso la corte di Defi il giorno precedente, gli aveva descritto come l'ex regno fosse ridotto allo sbando, tra briganti che assaltavano chiunque, campi lasciati incolti e città sporche in cui le epidemie si diffondevano con grande celerità, mietendo vittime e appestando l'aria, divenuta velenosa.

Chiacchiere di chi non vuole altro che tornare a occupare ruoli di potere, ma che è troppo vile per impugnare le armi e farlo, rifletté il giovane con una maggiore lucidità. Solo un nostalgico, nient'altro.

Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dal rientro di Elide, che lo trovò assorto con lo sguardo smarrito nel vuoto.

«Vi sentite bene?» domandò. La donna aveva posato la cassa di pomodori vicino all'uscio: da lì si arrivava con facilità a una delle vie che conducevano alla capitale.

«Sì, stavo solo... pensando» mormorò con un sorriso.

L'espressione spossata sul viso della donna si addolcì, anche se non avrebbe mai potuto immaginare cosa passasse per la testa del marchesino.

«Signora Elide, è davvero molto bello il suo orto» disse Giampiero indicando la porta spalancata. «Se ne occupa da sola?»

«Oh no!» rise lei di rimando. «Mio figlio, Claudio, mi aiuta molto spesso, quando non deve andare al mercato o al castello. E anche un suo amico, qualche volta, ci dà una mano. Sa, è davvero un bravo ragazzo,» si mise a dire, con la schiettezza e la semplicità di una donna umile, «ma non vuole un soldo per il tempo e la fatica che gli costa farmi i lavori più pesanti... Io gli ho detto più volte di lasciar perdere, che ancora non sono così vecchia da non farcela e che lui non è abituato al lavoro dei campi, sapete, è uno studioso... Ma è davvero così buono e gentile che non so dirgli di no e gli permetto lo stesso di aiutarmi: gli lascio come pagamento poche casse di verdura da portare a casa, almeno ritorna con qualcosa per provare ai genitori che non ha bighellonato tutto il giorno...»

Giampiero pensò che quel giovane del quale Elide aveva parlato così diffusamente e con tanto affetto potesse essere l'amante di Flora. Guardò le casse piene di frutta e verdura che ingombravano parte della casa, domandandosi come un ragazzo dedito agli studi potesse avere la forza per portarne via più di una.

Non ebbe il tempo di perdersi in altri pensieri, perché qualcuno bussò alla porta della casa e la contadina si apprestò ad aprire ad un uomo alto e dal sorriso smagliante, che le disse subito: «Io e Carmen siamo già qui, sei pronta ad andare?»

«Ma quindi mio figlio è da voi?»

«Sicuro, sta ancora dormendo!»

«Quel fannullone... non va bene che si comporti così in casa vostra...»

Il marchese, ignorando le poche battute che i due si scambiavano, riuscì a guardare oltre quell'uomo imponente, scorgendo un carro già carico di casse, con un paio di somari alla guida e una donna che ne teneva le redini. Non ebbe il tempo di soffermarsi troppo a scrutare l'uomo, poiché questi gli tese la mano, con fare amichevole. Forse Elide lo aveva presentato mentre lui si era distratto con ciò che vedeva sulla strada.

«Sono contento che i nobili ogni tanto facciano una capatina da queste parti per vedere in quali condizioni viviamo» disse quello. Che la donna lo avesse coperto con quello stratagemma?

«A corte si è attenti alle esigenze di tutti» mormorò il giovane, quasi in soggezione. Sapeva di aver mentito, perché Alcina badava solo che non ci fosse nessuno che morisse di fame; quali fossero le reali condizioni di vita non era rilevante: l'importante era che non ci fossero tentativi di rivolte e quindi fingere di interessarsi anche ai più umili era utile allo scopo.

Il marchese aiutò i due a caricare le casse sul carro, prestando attenzione a non rovinare i vestiti e a non affaticarsi: sapeva di non essere adatto a quel tipo di mansioni, ma non poteva tirarsi indietro dal momento che era stato ospitato con tanta cordialità.

Pochi minuti dopo li osservava allontanarsi verso la zona dei mercati di Nilerusa, rimanendo a fissare attonito la polvere della strada che si alzava al loro passaggio. Poi si diresse a sua volta verso la propria meta.

 

(Ultima revisione: 12/05/2020)

 

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Capitolo 12
*** 4.2 Incontri e misteri ***


(Capitolo revisionato)

Giampiero seguì alla lettera le indicazioni che la principessa gli aveva fornito la sera precedente, spiato dal sole sonnacchioso del primissimo mattino. Una brezza leggera gli accarezzava il viso, provocandogli qualche brivido freddo lungo la schiena. Il marchesino indagò nel proprio animo per comprendere il motivo per cui all'improvviso avvertiva un senso di turbamento, inspiegabile se paragonato alla serenità bucolica del paesaggio agreste. Si sentiva sballottato tra il suo senso di responsabilità, che lo costringeva a condurre fino in fondo quella ambasceria per conto di Flora, e il timore che la regina venisse a conoscenza del segreto che lui condivideva con la figlia. Era certo che la giovane ribelle non sarebbe rimasta ancora a lungo nella corte del Defi e che, spinta da diversi motivi, avrebbe trovato il pretesto per una fuga: e questo sarebbe avvenuto a breve. Lui come si sarebbe comportato? L'avrebbe seguita, magari nella ricerca della profezia che la vedeva coinvolta? O sarebbe rimasto presso Alcina, tentando di sviare le sue ricerche per scovare Flora?

Darsi alla macchia con una principessa fuggiasca e refrattaria alle imposizioni della corte non sarebbe stata una strategia favorevole, soprattutto per un giovane come lui, rampollo di una famiglia decaduta. Ma l'idea di rimanere nell'orbita della sovrana lo inquietava perché, in un modo che lui non sapeva spiegare, quella donna riusciva a leggere nei suoi pensieri. Sembrava sempre conoscere cosa passasse per la sua mente, cosa lo turbasse, cosa invece lo mettesse a suo agio; come se tenesse a lui così tanto da aver indagato nel profondo del suo animo e sapesse, perciò, di poter contare sulle capacità e sulla fiducia del marchesino. Mesi prima Giampiero aveva dato prova di sé nell'evitare una contesa tra Alghemo e Sovithu per il controllo delle acque del fiume Ocirni, che segnava il confine tra i regni, escogitando un sistema di approvvigionamento che non scontentasse nessuno dei contendenti, insieme ad esperti di acquedotti e irrigazione; in quella circostanza Alcina, che gli aveva chiesto di intercedere, lo aveva lodato di fronte a uomini molto più anziani e influenti di lui, tra cui re Guglielmo. La morte di quest'ultimo aveva rimescolato le carte in tavola e anche per il giovane marchese era giunto il tempo di ritagliarsi un ruolo che andasse oltre l'apprezzamento di qualche sovrano.

Un regno? No, non era questo che voleva. Il suo unico desiderio era quello di tornare alla sua villa nel Pogudfo, magari accompagnato da una compagna di vita che lo amasse fino alla fine dei suoi giorni.

Sbuffò, allontanando quel pensiero. Qualcuno aveva provato a far circolare qualche maldicenza sul suo conto, lo sapeva molto bene: dei maligni vociferavano che lo scopo del marchesino fosse quello di ottenere, con il favore di Alcina, di Guglielmo e del re dello Dszaco, nuovo lustro per il suo casato ascendendo al trono del Pogudfo. Niente di più falso, ma era venuto a conoscenza, tramite Erik, che quelle dicerie erano state messe a tacere in tempi brevissimi; non sapeva a chi dovesse tanta riconoscenza, anche se, in cuor suo, era certo di dovere un gran favore alla regina di Defi.

Giunse alla finestra con il vaso dai gerani blu: quella di menta, stando alle parole di Flora. Si guardò intorno, nel timore che qualcuno potesse scorgerlo in un luogo poco consono a un nobile come lui. Ma se la principessa si sentiva al sicuro nel rifugiarsi in quel quartiere di Nilerusa più simile alla campagna che alla capitale, chi era lui per esitare?

Bussò tre volte e attese. Si pizzicò nervosamente l'indice non osando, tuttavia, guardarsi intorno. Udì qualche uccellino cinguettare e qualcuno della stessa specie rispondere con quello che sembrava un canto allegro, componendo una gradevole melodia che lo intrattenne in quei pochi istanti, che a lui parvero eterni.

Le imposte di legno, un tempo dipinte di un verde scuro, ma ormai sbiadite come le altre della via, e corrose da qualche tarlo, vennero spalancate da una figura assonnata. La prima caratteristica che saltò agli occhi di Giampiero fu una chioma fulva e arruffata, che le copriva persino il viso, di cui si distingueva a malapena il candore.

Strano, per una che dovrebbe vivere nei campi, rifletté il marchesino. Da una delle tasche del mantello estrasse la lettera che Flora aveva scritto la sera precedente e la porse alla fanciulla mezza addormentata. La ragazza soffiò con uno sbuffo per allontanare una ciocca di capelli, che poi pettinò all'indietro in maniera distratta con la mano libera; con quel gesto scoprì il viso chiaro, sparso di lentiggini e due grandi occhi scuri, che la proprietaria strabuzzò per leggere.

Il marchesino cercò di spiare alle sue spalle qualche indizio per capire come fosse l'abitazione all'interno, per farsi un'idea se la povertà della casa di Elide fosse una situazione unica o se la donna vivesse in condizioni più povere dei vicini; tuttavia non riusciva a distinguere granché, se non una parete buia al di là di quella che doveva necessariamente essere Menta.

La fanciulla gli restituì la lettera, improvvisamente sveglia, con gli occhi curiosi che scrutavano l'estraneo di fronte a lei, da cui era separata solo per il vaso sul davanzale. Aveva già incontrato altri nobili, ma quel giovane poco più alto di lei e dal naso un po' pronunciato le incuteva una sorta di timore reverenziale che non aveva mai provato. Non poteva rimanere senza dir nulla, soprattutto se lui veniva per conto di Flora, quindi si fece coraggio e parlò.

«Voi siete... il marchese Tirfusama?» domandò con un filo di voce.

Il nobile le rivolse un sorriso e annuì.

«Venite alla porta, vi faccio entrare.»

Menta richiuse le ante esterne della finestra e si rivolse verso l'interno della stanza, nella penombra, scorgendo Claudio che dormiva, avvolto da una coperta, su un divano dalla stoffa scura e logora. I suoi genitori lo avevano comprato a basso prezzo da una famiglia che svendeva i mobili vecchi in una botteguccia del centro, dove si erano riforniti anche dei letti e dei materassi su consiglio di Flora.

Si spostò alla propria destra, avvicinandosi all'uscio che aprì al giovane marchese, invitandolo ad entrare con un gesto della mano. Giampiero abbassò appena la testa, come rivolgendole un cenno di saluto che Menta credeva fosse riservato solo alle nobili.

La fanciulla scrutò la via deserta nel timore che qualcuno si fosse accorto della visita del nobile, prima di rientrare in casa. Non si sentiva molto sicura ad ospitarlo, non con quanto accaduto pochi giorni prima, e solo l'idea che qualcuno potesse scoprire il suo segreto la faceva tremare come una foglia.

Giampiero si guardò intorno, mentre lei si avvicinava a un involucro di coperte su un divano usurato dal tempo e lo scuoteva con dolcezza. Anche lo spazio della casa di Menta era molto angusto, non differendo sotto tale aspetto da quella di Elide: un caminetto in un angolo, delle dispense, delle sedie di legno attorno a un tavolo e alcune porte, una delle quali affacciava certamente sull'orto.

«Claudio, svegliati, c'è qui un amico di Flora...» sussurrò la fanciulla.

Dalla stoffa lanosa provenì un mugolio assonnato.

«Che dici? Sono io l'amico di Flora...»

«Ma no, tontolone! È un marchese!» esclamò Menta, con un sorriso: Claudio aveva ingenuamente pensato a qualcuno che si facesse passare per lo spasimante della principessa.

A quelle parole le coperte si abbassarono, mostrando lo stesso ragazzo che era apparso il pomeriggio precedente fuori dai giardini del castello: Giampiero non ebbe difficoltà a riconoscerlo, notando in aggiunta la somiglianza con Elide, per il colore chiaro degli occhi, quasi indefinibile nella penombra, e per la forma sottile delle labbra.

Menta si apprestò a spalancare la finestra sull'orto retrostante per far entrare la luce nuova del mattino, in modo che l'amico potesse destarsi del tutto. Claudio si stiracchiò, cercando subito dopo di assumere un atteggiamento grave e dignitoso alla presenza di un nobile, come il mento alto di quell'altro suggeriva.

«Chi siete?» chiese, preoccupato. Se non gli fosse stato detto che si trattava di un amico di Flora, avrebbe temuto di trovarsi di fronte a uno dei damerini che eseguivano gli ordini del re e della regina, quindi inviato lì per smascherarlo. O, peggio, per smascherare l'inganno orchestrato dalla principessa. Tuttavia allentò la tensione non appena scorse un sorriso amichevole sul volto del nobile, che rispose alla sua domanda.

«Mi chiamo Giampiero Tirfusama e sono l'unico erede di una famiglia di marchesi del Pogudfo,» gli disse quello, con un tono di voce che non lasciava trasparire alcuna ostilità, e neanche l'altezzosità che il giovanotto si aspettava, «ma questo non ha rilevanza per spiegare perché io sia qui.»

Troppe parole tutte insieme, pensò Claudio, e io mi sono appena svegliato.

Il contadinotto si tolse le coperte di dosso e si diresse al tavolo, mentre Menta estraeva delle tazze di coccio da una credenza. Il giovane le riempì di caffè caldo da una caraffa lasciata sul tavolo e lei ne porse una a Giampiero, facendo gli onori di casa e invitandolo a prendere posto su una delle sedie scricchiolanti, corrose dagli insetti o dal tempo.

Il marchesino non esitò ad afferrarla, ma la fanciulla che lo aveva accolto gli fece cenno di non bere: lei uscì nell'orto tornandone immediatamente con una bottiglia di latte, con cui finì di riempire ognuna delle tazze.

«C'è già lo zucchero, nel caffè» mormorò con un sorriso, rivolta al marchese, che allora portò la bevanda alle labbra, constatando come il suo sapore non fosse così dissimile da quello che lo stesso intruglio aveva a corte.

Una volta vuotata la tazza, Giampiero la posò con delicatezza sul tavolo, per poi dire ad alta voce: «Flora vorrebbe sapere...»

«Puoi rassicurarla» lo interruppe Claudio, alzandosi dalla sedia e trovandosi così più in alto del nobile; particolare che lo metteva un po' a suo agio, come se andasse a compensare le umili origini, sebbene già avesse dimenticato il rango di quel damerino. «So che cosa le è passato per la testa. Lui è solo dovuto partire per una questione molto importante. Il re e la regina non hanno scoperto niente.

«Partire?» domandò Giampiero, turbato perché gli si era affacciata alla mente la paura di Flora per Raissa. Se la figlia mediana degli Autunno avesse scoperto questa debolezza della più piccola dei Primavera-Inverno, si sarebbe subito attivata per escogitare qualche tranello per attirarla. «Devo sapere per dove.»

«Non possiamo dirlo» spiegò Menta, comprendendo che Flora non si sarebbe accontentata di una così misera spiegazione. «È davvero importante mantenere questo segreto.»

Giampiero inspirò profondamente, riflettendo su cosa sarebbe stato opportuno di dire di fronte a quei giovani, non conoscendo nel profondo i rapporti che intercorrevano tra loro e la principessa; tuttavia qualcosa nel suo istinto gli suggeriva di fidarsi. A frenarlo dal confidare loro quanto fosse importante conoscere la posizione dell'amante di Flora e, cioè, dal rivelare loro la profezia che la riguardava, era solo la cautela. Si trattava di una preziosa informazione che era meglio non diffondere: doveva evitare che alle orecchie di Raissa giungesse la notizia che qualcuno l'aveva tradita.

«Siete stato seguito?» chiese improvvisamente Claudio a bassa voce. Si era accostato alla finestra e spiava la strada, come se temesse di veder comparire uno dei sovrani o qualche cortigiano ostile che avesse scoperto tutto, e una figura sconosciuta aveva catturato la sua attenzione. Il marchese gli si affiancò, condividendo in silenzio la medesima preoccupazione.

«Vado a vedere» disse il nobile, tastando nel mantello l'elsa dello stiletto, riposto in una tasca del mantello da viaggio, che per sicurezza portava sempre con sé: preferiva sapere di averlo a portata di mano per qualsiasi evenienza, anche se sperava di non dar mai prova delle sue abilità nel maneggiarlo.

Menta lo lasciò uscire senza neanche tentare di fermarlo. Un'inaspettata agitazione la stava percorrendo e lei stessa iniziava a credere che quel segreto di cui neanche Claudio, il suo amico più fidato, era a conoscenza sarebbe venuto a galla. Nessuno avrebbe dovuto saperlo mai. Guardò il marchesino scambiare poche parole con lo sconosciuto, nascosta dietro le tende della finestra e lo vide indicare all'altro di seguirlo verso la casa.

«Cammina, avanti. Entra.»

La voce di Giampiero era dura nell'impartire un ordine forse un po' troppo perentorio.
I due popolani si scambiarono un'occhiata perplessa, domandandosi con chi avrebbero avuto a che fare entro pochi istanti: nonostante l'amicizia di lunga data con Flora, non avevano mai frequentato nobili della corte di Defi; e se gli accadimenti di quella mattina li avessero catapultati al castello e sottoposti al giudizio severo della regina?

Il marchese aprì la porta di casa, che nell'uscire aveva lasciato accostata, accompagnato da un giovane dalle spalle larghe e dalla pelle arsa dal sole. Gli occhi scuri si assottigliarono, perlustrando la piccola stanza come cercando qualcosa. O qualcuno.

Il mantello del nuovo arrivato ondeggiò, scoprendo l'elsa di una spada. Claudio non era un esperto delle corti e delle famiglie che governavano nei vari regni, ma riconobbe qualcosa di sinistro nelle due code di serpente intrecciate che vi erano incise, poiché erano note a tutti gli abitanti di Selenia che ne temevano la famiglia simboleggiata.

«Lo stemma degli Autunno!» esclamò. Cosa c'entrava quel nobiletto lì con un tizio che aveva a che fare con quella famiglia? Che Flora fosse caduta in un qualche tranello di cui lui non avrebbe mai potuto intuire nulla?

Il marchesino annuì, come confermando le sue parole, e richiuse la porta con un colpo secco. Lo stiletto riluceva, mostrando ai popolani che il marchese aveva convinto lo sconosciuto a seguirlo non solo grazie alle sue parole.

«Lo so benissimo» disse con un filo di voce, come parlando con sé stesso e non con Claudio, per poi rivolgersi a quell'altro, allontanando la punta acuminata dalla sua schiena per riporla nella fodera. «Cosa stai facendo qui?»

Il giovane scrollò le spalle, indeciso su come rispondere: non aveva idea di chi fossero quei due contadini che vivevano in quella casa, sapeva solo che era lì che conducevano le sue ricerche. Giampiero lo scrutava in volto, attendendo una risposta perentoria a cui il ragazzo dalla pelle bronzea sapeva di non potersi sottrarre.

«Io... seguivo Melissa Autunno» rivelò dunque rivolto al nobile, in imbarazzo.

L'atmosfera nella stanza si fece pesante non appena lui terminò la frase: il collegamento fra Melissa e la sorella Raissa era immediato per chiunque, persino per Claudio e Menta, due giovani popolani come tanti altri, apparentemente estranei alle vicende politiche.

Lei infatti impallidì a quelle parole, spaventata dalla velata allusione alla principessa di cui aveva con orrore udito le gesta della conquista di Ralini e Loavi. Il suo sguardo tormentato si perse nel vuoto, non riuscendo neanche a provare preoccupazione per lo sconosciuto che giungeva in casa sua a cercarne la sorella maggiore; sebbene lui non avesse detto che la cercava proprio lì e non nei dintorni.

«Se ti manda Raissa...» iniziò Claudio. Avrebbe voluto concludere con un "sei morto", ma non aveva nulla a portata di mano con cui minacciarlo, se non la tazza che ancora conteneva un goccio di cappuccino; e l'altro aveva una spada.

«Non ho niente a che fare con lei!» esclamò quello sulla difensiva, rimanendo fermo dove si trovava.

Nessuno dei presenti ebbe modo di dire altro, perché dalla finestra socchiusa giunse una voce che tutti, o quasi, riconobbero. «Io non azzarderei una frase simile, visto lo stemma inciso sulla tua spada. Menta, aprimi la porta.»

La fanciulla padrona di casa si precipitò all'uscio, con il marchese e lo sconosciuto che si spostarono per permetterle di eseguire gli ordini della principessa.

Apparve la sua figura esile, ma allo stesso tempo maestosa e dotata di grazia, nonostante il semplice abito color corteccia che assomigliava più a una sottoveste e i lunghi capelli lasciati sciolti sulle spalle.

Flora non era stata in grado di dominare l'ansia di conoscere cosa sarebbe accaduto ed era corsa lì non appena si era svegliata, approfittando dell'ora dell'alba, in cui tutti al castello dormivano. Quello sconosciuto le rivolse un mezzo inchino, a cui lei non sorrise, quasi sdegnando il suo gesto di riverenza.

«Posso intuire chi sei, ma devi dirmi cosa ci fai qui» gli ordinò, asciutta, anche se aveva intuito che si trattava del mercenario di cui Giampiero le aveva parlato.

«Sto cercando Melissa » disse il giovane abbassando lo sguardo. Non che avesse timore di Flora, ma sapeva che quella informazione doveva rimanere un segreto e si sentiva in difficoltà a rivelarlo all'erede dei Primavera-Inverno, poiché era a conoscenza dei rapporti tesi tra le due casate.

«Ti manda Raissa?» domandò Flora. Aveva udito il mercenario negare spiando dalla finestra, ma non riusciva a credergli del tutto: poteva mentire a Claudio o a Menta, persino a Giampiero... ma non a lei.

Il suo tono di voce appariva disteso, ma il marchesino riconobbe il pensiero che agitava la pincipessa per la quale, ormai, provava una profonda e sincera devozione.

Quello scosse la testa.

«E chi, allora?» insisté lei, esigendo una risposta.

«Non posso dirvelo» ammise il giovane. «So che non vi può bastare la mia parola, ma non si tratta di Raissa. Non ho mai lavorato per lei.»

«Ma questo qui chi è di preciso?» chiese Claudio. Aveva capito che Flora sapeva chi fosse, e che tuttavia non ne avesse un'opinione positiva, ma non gli era sufficiente per comprendere del tutto quello scambio di battute: la sua amica si comportava in maniera molto diversa da quella che lui era abituato a conoscere. Non traspariva fiducia nell'altro da nessuno dei suoi gesti o delle sue parole; la diffidenza la faceva da padrona, ricordandogli l'atteggiamento di Alcina nell'unica occasione in cui lui si era ritrovato al cospetto della sovrana dagli imperscutabili occhi di ghiaccio.

«È Arturo Gruisi» rispose Giampiero.

«È un mercenario» lo corresse la principessa.

In quel momento Claudio capì il suo astio nei confronti dello sconosciuto: Flora temeva che i genitori ne assoldassero qualcuno per scoprire cosa stesse macchinando; e lui lo sapeva. E se quel mercenario avesse mentito e si trovasse lì esclusivamente per quel motivo?

«A me interessa solo sapere se Melissa è stata qui o meno» precisò Arturo ancora una volta; il suo sguardo si soffermò sui due popolani, quasi cercasse una risposta da loro.

«No, non è stata qui» negò Menta, deguitendo e ancora preda di un evidente turbamento.
Lui annuì, in segno di comprensione.

«Bene, adesso puoi andartene» disse Flora, accennando alla porta.

«No, aspetta.» Giampiero lo fermò prima che Arturo potesse fare qualsiasi cosa. «Abbiamo bisogno di lui.»

«Io non ho bisogno di nessuno» asserì Flora, risoluta. Piantò il suo sguardo in quello del marchese. Era veramente arrabbiata, non voleva che permettesse a quel mercenario di entrare in uno dei suoi rifugi: avrebbe potuto riferirlo a Raissa in qualunque occasione, o l'Autunno gli avrebbe potuto estorcere quella informazione preziosa con la forza.

Il marchesino sostenne il suo sguardo fermo. La profezia, Flora, non dimenticare la profezia: è stato lui a riferirmene il contenuto.

«Invece ne hai» ribatté dunque Giampiero. Scrutò i volti confusi di Menta e Claudio, che avevano assistito perplessi, poi domandò alla principessa: «Possono saperlo?»

«Sapere cosa?» esclamò Menta.

«Flora, che ci nascondi?» chiese Claudio.

Non avevano idea di cosa parlasse il nobile, né erano preparati a ricevere rivelazioni da colei che per loro era semplicemente un'amica il cui più dolce segreto andava protetto.

«Io...» Lei mostrò in un istante tutta la sua fragilità: impallidì e si sedette sul divano, cercando di porre ordine nella turba di pensieri che caotica le affollavano la mente. La profezia, il ragazzo che amava e per il quale stava provando una paura che le consumava le energie, il mercenario che non le ispirava simpatia, né tantomeno fiducia e... la fuga che da lungo tempo pianificava. Il suo progetto di abbandonare Nilerusa non poteva rimanere oscuro agli occhi degli unici amici che lei vi avesse.

«Quindi lo sa» disse Arturo al marchesino, che annuì.

Claudio capiva sempre meno: perché nessuno spiegava chiaramente tutto?

«Di che state parlando?» chiese.

«Esiste una profezia, secondo cui...» iniziò a dire Flora con grande gravità, recuperando il colore sulle guance e alternando lo sguardo sui due figli di contadini, «... secondo cui sono destinata a sconfiggere Raissa. Ci ho pensato a lungo, questa notte, e voglio saperne di più. Ho il diritto di sapere, giusto?» Alzò lo sguardo verso Giampiero, che annuì ancora una volta.

«Raissa crede fermamente che si tratti di voi» aggiunse Arturo. «Anche se le profezie... non sono mai chiare. L'ideale è sempre recarsi sul luogo in cui sono custodite, perché il destinatario delle profezie dovrebbe ricevere qualche segnale dal libro in cui sono contenute. Raissa ancora non si è ancora mossa dal Loavi, quindi lei non sa se la riguarda o no.»

Flora si trattenne dal chiedere dove fosse la profezia, poiché non le importava dove fosse. Nel profondo del suo cuore, lei aveva già scelto: non tornare al castello, non più. Sarebbe giunta persino a Ditomo, se questo le avesse permesso di fuggire dalla madre. Quel mattino non avrebbe fatto un passo indietro nel lasciare la sua camera con la porta accostata, conscia che la sua assenza sarebbe stata notata; e anche piuttosto in fretta.

«Per questo abbiamo bisogno di lui» spiegò Giampiero con un tono di voce gentile e pacificante. «Arturo può proteggerti mentre cerchi la profezia. Sono sicuro che Claudio ti è molto devoto, ma non lo ritengo in grado di salvarti, se Raissa si mettesse in cerca di te.»

Il contadino non provò nemmeno a dire che sarebbe riuscito a difendere Flora, perché sapeva perfettamente di non potere: ne era una prova il fatto che ad uscire e trovare quel mercenario era stato il marchese e non lui. Scrollò le spalle e posò la tazza sul legno gonfio di umidità del tavolo.

«Ma io ho altro da fare» obiettò invece Arturo. Aveva già perso troppo tempo lì, non aveva intenzione di tergiversare ulteriormente abbandonando quella delicata missione che aveva a cuore, né di avere a che fare con la Primavera-Inverno, che gli era palesemente ostile.

«Sono certo che ciò che devi fare è importante, ma questo lo è di più» insisté fermo Giampiero, con un sorriso.

«Io non mi fido di lui» mormorò Flora con un filo di voce. «Se non mi fido di lui, come posso permettere che mi protegga?»

Posò lo sguardo sul marchesino e le sembrò di scavare all'interno di quegli occhi, scuri con una sfumatura castana, di poter afferrare con delle energie invisibili la lealtà del suo interlocutore, come un oggetto tangibile; sensazione che diverse volte aveva sperimentato, senza soffermarsi più di tanto a riflettere da cosa derivasse. Che fosse una traccia della magia che conteneva dentro di sé?

Non disse nulla, ma si portò le mani al volto in segno di resa, quella resa che non aveva mai accettato con facilità; neanche al cospetto di Alcina. Ma in Giampiero vedeva di nuovo quella luce che l'aveva spinta a parlargli con candore, palesando la sua necessità di aiuto: poneva nelle sue mani le decisioni sul più prossimo futuro.

Il marchesino sospirò, senza comprendere appieno le agitazioni interiori della principessa. «Non devi fidarti di lui, ma di me. Se lui non si dedicherà a te con tutte le sue forze, sarà colpa mia. Ti prego.» Vide Flora fare un lieve cenno di assenso con il capo, che gli diede l'autorità per fornire ulteriori disposizioni; quindi si rivolse al mercenario. «Arturo, dov'è la profezia?»

«Nel Pecama, ma non so dirti di preciso in quale regno» rispose lui immediatamente, come eseguendo un ordine: aveva combattuto, quella prontezza di risposta denotava che era stato un soldato; Giampiero conosceva il suo passato e osservò che avrebbe potuto tradirsi, se non avesse utilizzato maggiore cautela: la principessa non sarebbe mai stata serena nel sapere alle dipendenze di chi il mercenario aveva servito sotto le armi.

«Se è nel Pecama, di certo Stella saprà dirmi dove» rifletté Flora ad alta voce, menzionando l'amica d'infanzia rimasta nell'isola a sud e che gli altri potevano a malapena aver sentito nominare. Certamente Stella Estate sarebbe stata in grado di aiutarla, se solo lei fosse riuscita a giungere a sud, nel Pecama, anche se l'idea di viaggiare in compagnia di quel misterioso spadaccino non la allettava affatto; sempre che non si fosse ingannata e che quello fosse davvero uno spadaccino. «Ma io da sola con lui non vado.»

«Flora, torna al castello, troveremo una soluzione» cercò di rassicurarla Menta. «Se si accorgessero che non ci sei...»

La principessa scosse il capo, con un'espressione combattuta. Ripercorrere i propri passi e chiudersi di nuovo nella prigione di cristallo non rientrava nei suoi obiettivi a breve termine; partire in quel momento alla ricerca della profezia, sì. «Non capisci, io non posso tornare. Se torno ora, sarò costretta ad andare da Nicola e sposarlo, ma non posso. Gli voglio bene e non voglio che finisca nei guai, ma non posso...»

Luciana aveva fissato per quel pomeriggio la partenza per lo Cmune e l'unico modo per evitarla era quello di scomparire dal castello. Si ripeté per l'ennesima volta che non avrebbe fatto marcia indietro, perché farlo l'avrebbe condotta a un futuro che lei non aveva scelto, e nel quale lei non avrebbe avuto scelta.

«D'accordo, » disse Giampiero, concependo un piano per le prossime ore. «Tu non andrai nello Cmune. Andrai nel Pecama, insieme a Claudio e Arturo, e ci andrai il prima possibile, quindi adesso.»

Sul volto del popolano si formò un fiero sorriso: era giunta l'occasione di fare qualcosa di importante e, sebbene non avesse idea di cosa il viaggio gli avrebbe riservato, non riusciva a trattenere l'orgoglio per un'avventura a cui era destinato e per il compito di cui il nobile lo aveva implicitamente investito: scortare la principessa. Avrebbe potuto approfittare della compagnia del mercenario per scoprire qualcosa sul mondo, visto che aveva tutta l'aria di uno che aveva visitato molti luoghi e avuto a che fare con molte genti. Quanto alla praticità della difesa di Flora, non se ne preoccupò, entusiasta com'era all'idea di lasciare la capitale: se la sua amica partiva, non gli restava granché da fare lì; sua madre avrebbe potuto chiedere aiuto a qualche ragazzo del vicinato per l'orto o per portare frutta e verdura al mercato. Sì, si convinse, non sarebbe stato un problema.

Arturo chinò il capo: avrebbe svolto il compito che il marchese gli aveva affidato, ma la sua mente era ancora occupata dal precedente incarico. Approfittò del fatto che i due popolani stessero riempiendo delle sacche con un po' di cibo, per accennare a Giampiero di seguirlo in un angolo, mentre Flora continuava a spiarlo, seduta su quel logoro divano.

«Se io vado con la Primavera a sud, tu devi trovare Melissa Autunno al posto mio» gli disse, con un soffio di voce. Non gli piaceva lo sguardo sbieco della principessa di Defi, che lo faceva sentire colpevole di un crimine che lui non aveva commesso.

«Ti pagherò al vostro ritorno, e bene» disse invece il marchesino. Doveva assicurarsi la totale fedeltà dell'altro, che era pur sempre un mercenario: non aveva idea di come avrebbe fatto a trovare il denaro sufficiente, ma se ne sarebbe preoccupato solo in un secondo momento. «Tu fa' in modo che torniate tutti vivi.»

Arturo assentì, sapendo che il pagamento sarebbe stato sufficiente per spiegare ai suoi compagni d'arme quell'assenza, che si prospettava più lunga di quanto lui avesse ipotizzato. Aveva udito delle ristrettezze del marchese, ma altresì gli era stato raccontato che non era il tipo da non pagare i debiti, quindi si sentì rinfrancato dalla sua promessa. «Certamente.»

Menta richiuse l'ultima sacca, che aveva riempito con del pane, ponendo così fine ai preparativi per la partenza a cui lei non avrebbe partecipato. Non le dispiaceva non essere stata presa in considerazione dal marchesino per accompagnare Flora, perché era consapevole che non sarebbe stata utile in nessun modo; d'altronde lei stessa preferiva rimanere a Nilerusa e spiegare ad Elide che il figlio non sarebbe tornato prima di qualche settimana e che avrebbe cercato lei di rimediare, aiutandola nell'orto. Li guardò uscire con un presentimento positivo: Raissa Autunno non li avrebbe mai trovati.

Fu solo nella strada deserta, riscaldata tiepidamente dal sole del primo mattino che Flora riuscì a raccogliere il coraggio per porre la domanda che più la assillava e che con immensa fatica aveva trattenuto alla presenza del mercenario. Tuttavia, lei doveva sapere.

«Claudio, lui dov'è?»

(Ultima revisione: 12/05/2020)

 

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Capitolo 13
*** 4.3 Il grunmit ***


(Capitolo revisionato)

 

Il vascello con cui Erik era salpato da alcune ore navigava su un mare calmo, increspato appena dal soffio del vento. La nave oscillava dolcemente, cullandolo mentre ammirava la distesa d'acqua, rivolto in direzione dell'isola di Pecama dove sarebbe giunto in tre giorni, stando alle parole del capitano. Temeva, tuttavia, che in quel breve lasso di tempo si potesse scatenare il putiferio nel continente a settentrione. Tremava di rabbia al solo pensiero che durante la sua assenza i cortigiani cmunici potessero tramare alle spalle di Nicola; ma se lui fosse stato presente, si sarebbero comportati in maniera diversa? Non gli era possibile averne la certezza, sebbene sapesse che nello Cmune lui godeva di un prestigio negato all'erede al trono, anche se sapeva che lo doveva solo al suo casato. Si compiaceva di quel rispetto ossequioso, ne era ben consapevole, e in quel momento si accorse come tutti quegli onori sarebbero stati più consoni al principe Lotnevi.

Si ricordò di quell'uomo, che lui non conosceva se non di vista, che gli aveva domandato di prendere in mano le sorti dello Cmune. Lui? Per quale motivo? Con quale diritto?

Nessuno, convenne rimuginando tra sé e sé. In situazioni ordinarie Erik non si occupava di questioni internazionali tra altri regni, ma solo dei rapporti tra il Defi e i suoi confinanti, in attesa che il padre gli consegnasse incarichi più importanti. E il suo viaggio verso sud costituiva un'eccezionalità di cui, lo sapeva, avrebbe dovuto rendere conto al momento del rientro al castello, se non avesse incontrato Tancredi nel Pecama: in quel caso avrebbe avuto un tempo molto limitato per riflettere su quale spiegazione dargli.

Sbuffò stanco e pensò al suo fidato Peves, che aveva lasciato a un servitore della sua casata, con l'ordine di condurlo al castello. Venire a sapere che il destriero era tornato alle scuderie senza il cavaliere avrebbe mandato Alcina su tutte le furie, lo presagiva. La donna già era alle prese con l'animo ribelle della figlia, non avrebbe sopportato l'idea che anche lui agisse impulsivamente senza prima informarla. Ma cosa dirle?

Scosse la testa, voltandosi verso il timoniere che, rivolto in direzione della prua, manteneva la rotta. Erik si perse a osservare il cielo svuotando la mente, adoperando ogni suo sforzo per cacciare lontano qualsiasi pensiero. Il legno su cui si era imbarcato seguitava a ondeggiare, restituendogli una placida sensazione di tranquillità, a cui lui si abbandonò. Si sdraiò sulle assi ben saldate della nave e scrutò le stelle incastonate nella volta accendersi una a una, illuminandosi repentine, come se gareggiassero per stabilire chi fosse più splendente, invano: la luna era la padrona incontrastata della scena, piena e argentea, che toccava con i suoi candidi raggi ogni superficie, ogni volto, ogni increspatura delle onde, circondata dalle sue più pallide ancelle. Il mormorio del mare faceva da sottofondo e le grida stridule dei gabbiani erano scomparse ormai da diverse ore.

Era sul punto di addormentarsi quando udì la voce del capitano, Anselmo Liso, e quella del timoniere discutere tra loro.

«Non credo che sia il caso di cambiare rotta» sosteneva il timoniere.

«Il mare da quella parte non mi sembra affatto sicuro, si muove come se ci fosse qualcosa a ostacolarlo, invece! Se io ti ordino di cambiare rotta, tu esegui!» sbraitò Liso, un uomo attempato e temprato dai lunghi anni trascorsi a bordo. Era il migliore che ci fosse su Selenia, ma Erik lo sapeva solo grazie ai complimenti che il padre aveva elargito copiosi sulle sue capacità di governare una nave e di saper sopperire a ogni condizione avversa; il principe, dal canto suo, aveva pochissime conoscenze nel campo della navigazione e si era affidato a lui, quasi pregando la Luna di vegliare sul suo viaggio, in modo che il capitano non fosse messo alla prova.

Si alzò in piedi, deciso a scoprire se ci fosse un reale motivo per preoccuparsi. Senza troppe cerimonie, si fece porgere un cannocchiale per scrutare l'orizzonte, aiutato dalla luce chiara del candido astro. Distinse un'ombra scura muoversi sotto la superficie del mare, a poca distanza dalla nave, sebbene per lui fosse difficile stabilire quanto effettivamente fosse vicina; l'unica cosa di cui era certo era che si trattava di un mostro marino.

«Capitano, avete ragione» disse Erik, porgendogli il cannocchiale per permettergli di osservare. «Qualcosa si sta avvicinando.»

L'uomo chiamò un mozzo, più in basso, e gli ordinò di svegliare gli altri marinai sotto coperta, già escogitando un modo per vincere l'imprevisto avversario.

«Litil è sempre stato un mare tranquillo, ora non può spuntare un mostro dal nulla!» continuava a sbraitare il timoniere, inascoltato.

Il principe Inverno rimase immobile con lo sguardo fisso verso il punto in cui aveva scorto quell'ombra, mentre il mozzo eseguiva gli ordini di Anselmo Liso. Il resto dell'equipaggio si mostrò lesto nel levarsi in piedi e accorrere in difesa della nave: uno di loro accese un fuoco, forse per preparare delle frecce infuocate con cui attaccare il mostro, ma non ce ne fu il tempo.

Un tentacolo scuro e dalle enormi dimensioni si scagliò sul ponte della nave, diretto verso l'albero maestro; diversi marinai si avvicinarono per infilzare il tentacolo con le loro spade, o con la prima arma improvvisata che avessero trovato, ma il mostro fu più lesto di loro e con un colpo ne lanciò un paio in mare, mentre altri finirono scaraventati o verso i compagni o contro il legno della nave: a uno di questi, per la potenza dell'impatto, si fracassò il cranio e il sangue iniziò a scorrere abbondante sul suo volto sfigurato.

Erik assisté inorridito alla scena, cercando di rimanere in piedi reggendosi al bordo della nave. Il capitano gli intimò di rimanere lì, al sicuro finché la bestia si fosse concentrata sul ponte.

Questa si slanciò con un maggiore e rinnovato vigore, e con un colpo secco e preciso spezzò in due parti l'albero maestro, che cadde verso la prua. I suoi tentacoli continuavano a scagliarsi contro la nave, cercando di afferrare gli uomini che, armi in mano, provavano a ferirlo; vanamente, perché quello non solo sembrava non provare dolore, ma era come aizzato dalla tenacia con cui le sue prede lo contrastavano.

Il giovane osservava impietrito quella furia, incapace di muoversi e di compiere qualsiasi azione, aggrappandosi ancora alla nave, che oscillava di continuo e in maniera veemente. Vide una quindicina di marinai rimasti radunarsi e portare della legna da avvicinare alle parti della nave incendiate a causa del fuoco acceso poco prima dell'attacco, che però, oltre a non risultare vantaggioso per i difendenti, era anche balzato lontano dalle mani di chi lo aveva appiccato: uno dei tentacoli del mostro si era avvinghiato attorno alle gambe dell'uomo, per stringerlo in una salda presa e scaraventarlo in mare. Costui, dunque, non aveva avuto modo di difendere quello strumento tanto prezioso.

Erik identificò quella creatura come un grunmit, di cui aveva visto solo alcuni disegni in libroni polverosi quando era bambino. Si raccontava che la forza dei suoi tentacoli fosse difficilmente contrastabile, come stava accadendo davanti ai suoi occhi.

Ancora una volta il grunmit si scagliò contro la nave, avvicinando terribilmente le sue fauci ai marinai, che cercavano di eseguire gli ordini del comandante, ossia far avvampare il fuoco finché la bestia non si fosse ritratta dall'attacco; ma questo non accadde.

Un paio di uomini venne afferrato dai tentacoli e trascinato verso la bocca affamata del mostro: le loro grida riempirono l'aria fino a quando non furono inghiottiti, quasi risucchiati dalla bestia marina.

La disperazione iniziava ad avvolgere i rimanenti a bordo, che cercavano ormai solo di mettere in salvo la pelle, nascondendosi negli anfratti o afferrando qualsiasi appiglio sufficientemente solido per evitare di venire catturati.

Solo vane speranze: il mostro continuava ad attaccare, senza alcuna pietà. Come ubbidendo ciecamente all'ordine di uccidere ogni uomo presente sul vascello.

«Principe Erik!»

Venne richiamato dalla voce del capitano Liso proprio nel momento in cui era riuscito a muoversi, giungendo sino al ponte e sguainando la spada per colpire i tentacoli del grunmit, che stringevano in una ferrea stretta corpose componenti della nave, insieme ai marinai, per trascinarle sul fondo del mare, rendendole relitti destinati all'oblio.

L'uomo tentava strenuamente di mantenere unito l'esiguo equipaggio sopravvissuto per organizzare una difesa che, ormai, appariva impossibile. La nave oscillò per un colpo inferto dalla bestia marina, e il principe Inverno finì tra le braccia di un mozzo, che lo rimise in piedi e lo spinse verso il comandante.

«Principe, voi dovete mettervi in salvo» disse Liso, conducendolo in gran fretta dal lato opposto del ponte dove, Erik ignorava come, era pronta una scialuppa. «Con un po' di fortuna troverete aiuto!»

«Non posso andarmene da solo!» ribatté lui, ben conscio, però, di non avere scelta: quegli uomini non avrebbero mai abbandonato la lotta contro il mostro marino, difendendo la loro nave fino all'ultimo respiro. Perciò, con il cuore in gola, lasciò che in due lo aiutassero a gettare la scialuppa in mare.

Poi remò solo, allontanandosi velocemente, contro le onde che lo sballottavano da una parte e dall'altra; tutte le sue energie erano concentrate nel porre una distanza sempre maggiore tra sé e quello che i suoi occhi continuavano a vedere, nella speranza che il buio della notte lo favorisse nonostante la luce lunare.

Il grunmit sembrava sul punto di avere la meglio sull'equipaggio che lo aveva condotto sin lì. Poi cosa avrebbe fatto? Erik tremò all'idea di poter divenire il dessert del mostro e i suoi muscoli si sforzarono ancora di più, ubbidendo al suo istinto di sopravvivenza.

Dal mare si sollevavano schizzi d'acqua salata che lo colpivano sul viso e sugli occhi, senza che questo permettesse al principe di perdere tempo. Ormai aveva trovato un ritmo regolare, ma fu proprio quando si accorse di essere a un buon punto della fuga che il vascello su cui aveva navigato nelle ultime ore venne spezzata in due e trascinato sul fondo del mar Litil.

Il gorgo che si generò per sua fortuna non lo coinvolse, già tanto lontano si era spinto; il principe guardò impietrito gli ultimi resti della nave essere inghiottiti dal mare, mentre le sue braccia si muovevano automaticamente, senza che lui avesse bisogno di controllarle.

Non pianse, ma il suo cuore si strinse in una fredda morsa. Erano stati colti alla sprovvista, quasi impreparati, e Anselmo Liso era ormai un relitto del passato. Aveva udito delle grida di terrore, che erano riecheggiate come le ultime che quelle gole avrebbero emesso. Il suono di una morte atroce.

Il giovane non si era accorto dell'arrivo di un mercantile che, dopo averlo affiancato, lo aveva superato, diretto impavido verso il grunmit che già si preparava a gustare un nuovo e inatteso pasto. Non appena la nave fu abbastanza vicina, il mostro si slanciò, ma il timoniere eseguì un'abile e rapida manovra che ingannò l'avversario, portandolo appena a sfiorare il legno.

Erik temette per la sorte di quelli che sarebbero potuti essere i suoi salvatori: se questa fosse stata la stessa dell'altro equipaggio? Una nuova paura gli strinse il cuore: se il mercantile fosse stato affondato, il suo stesso destino non sarebbe stato differente.

Il grunmit si nascose in acqua, come elaborando un nuovo attacco, mentre sulla nave accesero dei fuochi; il medesimo stratagemma che aveva ordito l'astuto, ma beffato, capitano che aveva navigato sotto i vessilli dei Primavera-Inverno. Erik non poté non domandarsi se in quel caso il piano sarebbe andato a buon fine.

Ma i marinai del mercantile si dimostrarono più pronti della precedente preda del grunmit e, come questo si slanciò con ogni suo tentacolo, gli impedirono di lasciarsi afferrare: il principe, che aveva smesso di remare incuriosito dalla battaglia che si infiammava improvvisa davanti ai suoi occhi, aguzzò la vista per spiare il ponte della nave, vuoto. Gli uomini erano radunati a prua e poppa, da cui scagliarono contro il mostro marino delle lance con la punta infuocata: queste si conficcarono nella carne del mostro marino, ferendolo persino sul capo. Il contrattacco improvviso aveva messo la bestia fuori gioco, probabilmente uccidendola.

Una voce giovane gridava ordini: che si preparassero nuove lance con cui accertarsi della morte dell'avversario, che venisse preparata una leva con cui sollevare il bottino nel caso in cui fosse caduto in acqua.

Erik si lasciò sfuggire un sorriso, dettato da un lato dal piacere che provava nel vedere il grunmit non compiere più un solo movimento, dall'altro perché immaginò che solo la follia di un ragazzo, a cui quella voce sembrava appartenere, avrebbe potuto spingere un intero equipaggio a scontrarsi contro una bestia simile.

Una nuova pioggia di lance, sebbene meno fitta della precedente, si abbatté sul mostro marino, decretandone la sconfitta.

Il principe si animò all'improvviso: quel mercantile sembrava fare al caso suo, se fosse diretto nel Pecama. Intuiva che gli uomini a bordo fossero senza paura del pericolo, come il recente combattimento aveva appena dimostrato, ma non era esclusivamente quello il motivo per cui riprese a remare, diretto verso la nave: si sentiva attirato, come da una forza invisibile che, oltre alla fiducia, gli suggeriva che farsi accogliere lì non sarebbe stato un errore.

Si fece forza e remò fino a raggiungere la nave vittoriosa, illuminato nome più solo dalla luce lunare, ma anche dalle torce del vascello.

«Capitano, uomo in mare!» gridò un'altra voce giovane, rivolta verso l'interno.

L'Inverno sollevò lo sguardo, incrociando quello di un ragazzo alto e robusto, con spalle larghe e torso nudo. Gli venne lanciato il capo di una corda, che lui utilizzò per salire sulla nave.

La prima cosa che notò una volta a bordo fu la composizione dell'equipaggio: probabilmente non c'era un solo membro che avesse superato i vent'anni. Comprese l'entusiasmo con cui era stato sconfitto il grunmit, l'aria di gioia che si respirava su quel mercantile illuminato e, mentre il ragazzo che lo aveva aiutato a salire sulla nave recuperava la corda, comprese la necessità di dover porre al sicuro la propria traversata.

«Devo parlare con il capitano» disse con tono sicuro, lasciando trapelare la sua abitudine a dare ordini.

Quello fece un cenno di assenso con il capo, scorgendo dei movimenti alle spalle di Erik. «Sta arrivando.»

Il principe si voltò proprio nel momento in cui un giovane alto, dalla pelle abbronzata e gli occhi scuri, saliva le scale fino alla prua, dove lui si trovava. Il volto appariva rilassato, forse l'aver vinto un mostro marino gli aveva donato una sensazione di tranquillità.

«Abbiamo raccolto un uomo in mare?» chiese al suo marinaio, non appena li raggiunse.

«Sì, capitano.»

«Bene, allora vai a dare una mano agli altri con quel calamaro che abbiamo pescato. Avremo da mangiare per qualche giorno.»

«Agli ordini!»

Non appena il giovane si allontanò ed Erik rimase solo con il capitano, quest'ultimo gli rivolse un sorriso gioviale.

«Perdonatemi. Ho dovuto mandarlo via in fretta» disse alludendo al marinaio «perché vi ho riconosciuto subito, principe Erik. Volete che il resto dell'equipaggio lo sappia?»

Il nobile rimase per un istante senza parole, più confuso che pronto a rispondere. Era già la seconda volta che durante il viaggio nel Pecama qualcuno lo riconosceva, dopo l'amico di Susanna; e questo iniziava a fargli dubitare sulla sensatezza delle proprie azioni.

«Non importa che l'equipaggio lo sappia, ma che io arrivi sano e salvo a destinazione» rispose. Poiché le sue parole gli erano suonate fredde nel momento stesso in cui le aveva pronunciate, cercò di mostrarsi ben disposto verso l'altro, rivolgendogli un accenno di sorriso. «Con chi ho l'onore di parlare?»

Gli occhi del capitano si illuminarono alla domanda, come se non attendesse altro. «Virgilio Gredasu, al vostro servizio.»

Dal ponte lo richiamarono, chiedendogli come sistemare i tentacoli del grunmit nelle botti vuote, al che lui rispose gridando di chiedere al suo secondo, visto che era impegnato.

«Perdonatemi, Maestà» si scusò con il suo ospite, tendendogli la mano, che Erik strinse.

La presa di Virgilio era molto solida, e le mani curate del principe quasi soffrirono per quel rude contatto.

«Eravate sul vascello affondato?» domandò il capitano. L'Inverno annuì e, pur non avendo molta voglia di parlarne, raccontò brevemente come si era svolto il primo attacco del grunmit.

«Posso ospitarvi sulla Millenaria» disse Virgilio, non appena il resoconto fu terminato. «Noi siamo diretti nel Pecama, a Punta Salina, ma se preferite possiamo attraccare nel porto di Zichi.»
Erik elaborò molto velocemente quell'informazione. Punta Salina era nel regno del Mare e più vicino alla sua personalissima meta di quanto lo fosse la capitale del regno d'Estate.

«Punta Salina va bene.»

«Perfetto!» esclamò cordiale il capitano.

Quella sua euforia non poté che mettere il principe di buon umore. Era raro vedere qualcuno che mostrasse con tale libertà il suo stato d'animo, che, date le condizioni, non poteva non essere dei più allegri. Avvertì istintivamente una simpatia per quel Virgilio: qualcosa gli suggeriva di poter riporre in lui la sua fiducia, anche per viaggi futuri, anche se, alzando lo sguardo, non c'erano stemmi di nessun regno sulle vele. Il che poteva indicare due cose: o erano dei trafficanti indipendenti, oppure degli aspiranti pirati.

Due categorie di cui aveva imparato a diffidare. Eppure qualcosa del clima sereno e gioioso che si respirava sulla Millenaria gli fece abbassare la guardia. Si stava ponendo nelle mani di qualcuno che entrambi i suoi genitori avrebbero disapprovato, ma Erik non credeva affatto di essere in pericolo.

«Purtroppo ho solo una cabina per gli ospiti ed è già occupata» disse Virgilio, aggrappandosi a una fune e lasciandosi dondolare. «Spero che per voi non sia un problema condividerla.»

Il principe tentennò di fronte a quell'offerta. Con chi avrebbe avuto a che fare? Sebbene sentisse una fiducia istintiva nei confronti del capitano, la cautela gli consigliava di pensarci su.

«A meno che non vogliate dormire sottocoperta insieme ai marinai» aggiunse l'altro con un sorriso, quasi di scherno.

«La cabina condivisa andrà benissimo» decise Erik all'improvviso, rispondendo a quel sorriso.

Scesero sul ponte, senza che qualcuno li degnasse neanche di un'occhiata; il che fece piacere all'Inverno, perché significava che a quei ragazzi non importava chi fosse appena salito sulla nave e che perciò non lo avrebbero infastidito.

Intorno a loro, i marinai si davano da fare per trasportare pezzi di grunmit; qualcuno correva dal cuoco di bordo portando in braccio brandelli di tentacoli, altri ne chiudevano parti in alcune botti di legno che altri ancora portavano sottocoperta... Altri lo stavano ancora estraendo dal mare, sotto lo sguardo vigile del capitano in seconda, con cui Virgilio aveva scambiato brevi parole.

Mentre il capitano lo conduceva sottocoperta, il principe tastò il pugnale di Ariel sotto il mantello. Era ancora in suo possesso, in attesa di restituirlo alla proprietaria dopo aver ottenuto delle spiegazioni.

Virgilio si fermò soltanto quando si trovò di fronte a una porta chiusa, prima di rivolgersi ad Erik.

«Devo avvertirvi che i miei ospiti sono qui in segreto. Devo chiedervi di mantenerlo, perché si tratta di una questione molto delicata. Posso fidarmi di voi?»

Il principe di Defi dovette trattenersi per non esternare la propria meraviglia. Il capitano di una nave di trafficanti gli chiedeva la fiducia? Non sarebbe dovuto essere lui a domandarla?

Annuì, silenzioso. Virgilio lo scrutò in volto per un istante, forse preoccupato, prima di bussare alla porta.

 

 


Angolino autrice
Questa è la prima vera scena di azione che scrivo e non sono sicura della resa logica di ogni particolare. Quindi sentitevi liberi di farmi sapere se qualcosa non vi convince o se va sistemata ;)

Ps. Secondo voi chi sta per incontrare Erik?

 

(Ultima revisione: 29/05/2020)

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Capitolo 14
*** 4.4 Il duello ***


(Capitolo revisionato)

Ad aprire la porta della cabina fu un ragazzo sui vent'anni dalla carnagione pallida, che forse aveva mal sopportato le continue oscillazioni della nave durante lo scontro con il grunmit. Questi, non appena intravide Erik al fianco di Virgilio, aggrottò le sopracciglia, velatamente scosso, e puntò i suoi occhi scuri in quelli allegri e gioiosi del capitano.

Il principe Inverno lo scrutò con attenzione, ma non seppe intuire chi fosse la persona che aveva di fronte. Che lo temeva era l'unica cosa di cui poteva essere certo; ma per quale motivo?

«Cosa è successo?» domandò a Virgilio. La sua voce cercava di nascondere un certo tremolio, un’insicurezza di cui Erik faticava a comprendere l’origine.

«Abbiamo appena sconfitto un grunmit» rispose il giovane capitano, sorridendo. Era molto orgoglioso della sua impresa, tanto che approfittò della domanda per raccontare, seppur rapidamente, la piccola ma grandiosa battaglia. «Allora,» proseguì Virgilio facendosi da parte per includere anche il nuovo arrivato nella conversazione, «abbiamo raccolto un superstite» spiegò a quel ragazzo «e non ho un posto dove farlo stare, se escludo questa cabina. Per te e Chiara ci sarebbero dei problemi, se lo facessi stare qui?»

Quello quasi sussultò nell’udire tale richiesta, ma seppe controllarsi e rivolgere un sorriso accogliente al principe. «Certo, penso che possa andare.»

«Chiara!» chiamò il giovane capitano, sporgendosi all'interno della cabina, quasi gridando, tanto che l’ospite si portò la destra all’orecchio.

Pochi istanti dopo apparve sulla soglia una fanciulla. Il primo particolare che notò Erik furono i pantaloni che lei indossava, insieme a una camicia stropicciata: non certo il vestiario più consono a una ragazza, ma indubbiamente il più comodo se in viaggio. Sebbene la stoffa fosse consumata all'altezza dei gomiti e agli orli, l'Inverno non si ingannò: la fattura era ricercata. Gli sovvenne quanto il capitano gli aveva detto, cioè che i suoi ospiti erano lì in segreto, e pensò che l'intento fosse quello di nascondere a quale ceto sociale i due giovani appartenessero. Il principe non era stato in grado di farsi un'idea precisa sul ragazzo, poiché a incuriosirlo maggiormente era stata quella sorta di timore che sembrava provare in sua presenza.

Lei spalancò la bocca con stupore nel ritrovarsi di fronte all'erede dei Primavera-Inverno. Puntò i suoi occhi in quelli di Erik, che poté scorgere le iridi di un colore incerto tra il verde chiaro dei prati assolati e l'azzurro del più limpido dei cieli mattutini. Alcune ciocche castane ricadevano disordinate sul viso della giovane, donandole un aspetto di nobiltà ribelle che colpì il principe. Una sua coetanea che viaggiava in segreto diretta al Pecama, certamente di alto lignaggio... lui sapeva che poteva significare una cosa sola, ma rimuginò tra sé e sé che era presto per trarre fuori delle conclusioni affrettate.

«Ma, principe, non avete nulla con voi?» chiese Virgilio, notando solo in quel momento l'assenza di bagaglio.

«Tutto quello che avevo con me era sulla nave» rispose lui con semplicità, quasi scrollando le spalle. Sapeva tuttavia di mentire: il pugnale che custodiva era ancora con lui, lo aveva tastato più volte per accertarsi che fosse ancora riposto nella tasca del mantello.

«Cercherò di procurarvi degli abiti per cambiarvi» proseguì il capitano, per poi rivolgersi all’altro giovane suo ospite. «Franco, mi sembra che voi due abbiate la stessa taglia, puoi dargli uno dei cambi che avevo portato per te.»

Virgilio aveva sempre una soluzione pronta per ogni evenienza e anche quel caso non aveva fatto eccezione.

Franco fece pacatamente cenno di assenso con il capo, ma all’udire la parola "principe" gli si era ghiacciato il sangue nelle vene. Sgranò gli occhi, forse in maniera appena percettibile, ma la sua tensione non sfuggì a nessuno dei presenti. La fanciulla, Chiara, scrutò il volto del nuovo arrivato, preoccupata, senza però trovare le tracce della stessa apprensione di cui era preda il suo compagno di viaggio, segno che l’Inverno non aveva idea di chi fosse l’altro. Ma lei sapeva bene cosa provava Franco in quel momento ed era certa che avrebbe compiuto un passo falso che lo avrebbe tradito: la pressione da sopportare era troppa per lui, nonostante il suo temperamento mite. Aveva riconosciuto anche lei il principe di Defi, poiché lo aveva visto numerose volte in occasioni pubbliche, alle quali aveva presenziato la famiglia reale al completo.

Erik, dal canto suo, non gioiva all'idea di dover indossare i vestiti che erano stati preparati per uno sconosciuto, ma riconobbe che un cambio d'abito si era reso necessario, visto che i suoi indumenti emanavano l'odore salmastro dell'acqua marina. Non sarebbe mai potuto giungere alla corte dei Dal Mare conciato in quella maniera!

Virgilio si congedò in fretta, asserendo di dover tornare sul pontile per controllare i suoi "uomini". Il principe si stupì ancora una volta al pensiero dell'equipaggio composto da ragazzini giovanissimi, ma non disse nulla, neanche una parola di saluto al capitano, che chinò cerimoniosamente il capo prima di allontanarsi.

Chiara si ritrasse all'interno per far entrare Erik nella cabina, una semplice stanza vuota con un letto e una brandina. Come il principe intuì facilmente, era la ragazza a usare il primo e Franco la seconda. A terra erano poggiate due sacche, una a testa, che presumibilmente contenevano tutto ciò di cui i due avevano bisogno durante il loro viaggio.

Erik rimase in piedi sulla soglia, non sapendo, forse per la prima volta in vita sua, quale comportamento tenere. Sentiva l'interesse di entrambi i giovani concentrarsi su di lui. L'appellativo con cui Virgilio gli si era rivolto lo aveva tradito senza ombra di dubbio e quei due ora volevano sapere chi fosse il loro nuovo compagno di viaggio.

Franco chiuse la porta della cabina, guardandolo a malapena, per poi andarsi a sedere sulla brandina, in silenzio.

Quindi tu sei Erik Inverno» esordì Chiara con un sorriso che non riusciva a celare la tensione. Aveva cercato di essere gentile nei confronti del principe, ma lei stessa si era accorta come le sue parole fossero suonate quasi accusatorie.

Lui scrollò le spalle, in piedi, incapacitato per un’inspiegabile ragione a compiere qualsiasi movimento. «Ho l'impressione che mi conoscano tutti» commentò, abbastanza seccato. Non era la prima volta che veniva smascherato, anche se, doveva confessare a sé stesso, non aveva compiuto grandi sforzi per celare la propria identità. «Comunque sì. E tu?»

Lei sorrise con gli occhi che brillavano. Non era un sorriso di cortesia o formalità come il precedente: era felice della domanda che le era stata rivolta.

«Maria Chiara Delle Foglie» rispose. «Ma puoi chiamarmi semplicemente Chiara. Ho troppe parole nel nome, sembra quasi una filastrocca per bambini!»

Quella rivelazione scatenò in Erik una serie di riflessioni. Aveva conosciuto Cinzia e Mercuzio Delle Foglie qualche anno addietro, quando aveva accompagnato suo padre a Gaò, la capitale del regno delle Foglie Cadute, in cui si trovava il Palazzo Reale. Era un giovanetto di tredici anni, allora, e non aveva saputo che idea farsi di quelle due personalità che tanto avevano insistito per avere da Tancredi Inverno un consiglio su come risolvere le continue liti tra i propri contadini e quelli del regno confinante, che si contendevano la coltivazione delle stesse piante per provare a piazzare i medesimi prodotti della campagna negli stessi mercati. I due popoli abitavano in terre poco estese, e la rivalità era molto accesa, sebbene entrambe le famiglie reali avessero provato continuamente negli ultimi trent'anni a sedare gli animi, invano.

Cinzia e Mercuzio erano stati uccisi in un'occasione pubblica, poche settimane prima, mentre tenevano un discorso in una delle piazze principali di Gaò davanti al proprio popolo. Erano state scagliate due frecce da una distanza ragguardevole, che avevano colpito i sovrani al petto senza dare loro possibilità di salvezza. E la figlia che avevano scelto di far crescere lontano da quella complicata situazione, sotto falsa identità, era stata richiamata indietro, per occupare il ruolo che le spettava, per prendere finalmente in mano le redini di quel regno travagliato.

Ma anche un altro ricordo si insinuò nella mente dell'Inverno: quella conversazione udita nella locanda di Susanna, in cui veniva nominata una Chiara che viaggiava in direzione del Pecama, accompagnata da qualcuno che non doveva essere conosciuto da nessuno. Ricordò altresì che Raissa era stata nominata, e che lei avesse interesse nell'intercettare la futura regina delle Foglie non gli sembrava un'ipotesi così assurda: a separare il regno dell'Autunno, possedimento della famiglia reale del Ruxuna, da quello delle Foglie c'era soltanto la catena montuosa dei Dupro; se la giovane principessa era tanto avida di conquiste, non si sarebbe lasciata sfuggire l'occasione di dirottare i suoi soldati in un piccolo territorio in cui poteva vigere l'anarchia.

Erik sospirò, riflettendo che per quella ragione Franco era tanto nervoso: la sua copertura era saltata. Ma perché lui avrebbe dovuto raccontare a chicchessia di chi aveva incontrato su quella nave? Non c'era un motivo valido per divulgare quell'informazione, ma questo non sembrava nei pensieri dell'accompagnatore della principessa Delle Foglie.

«Quindi sei l'erede al trono del regno delle Foglie» constatò Erik ad alta voce. «Ho sentito parlare di voi.»

Chiara arrossì, imbarazzata.

«Da chi?» chiese invece Franco, deciso. Era suo compito proteggere la ragazza, ma lei, invece, aveva creduto bene di potersi fidare dell’Inverno; avrebbe voluto dirle che non sempre poteva fidarsi di chi era suo pari e che una maggiore prudenza sarebbe stata necessaria. Certamente, lei non aveva nulla da temere da parte di Erik Inverno, ma lui, alla presenza del figlio dei sovrani che tanto temeva, si sentiva scoperto. Capì che non avrebbe saputo mentire se questi gli avesse rivolto delle domande sulla sua condizione sociale, ma non era quello a creargli quello stato di ansietà che lo scuoteva. Non poteva permettere che un membro della famiglia reale conoscesse il suo nome, non senza rivelare chi era davvero. Forse, sperò, il principe sarebbe stato clemente con lui, perché si era arrischiato in una missione che indubbiamente sarebbe stata pericolosa, una volta che, insieme a Chiara, avrebbe posato piede sulla terraferma.

«Penso dal suo fidanzato» rispose Erik tranquillo, senza comprendere come mai quel tipo si fosse fatto scuro in volto all'improvviso. «Gaetano Dogli, giusto?»

Lei annuì, sorpresa, con un sorriso che si estese sulle sue labbra sottili. «Come lo conosci?»

«L'ho incontrato in una locanda» rispose sbrigativo l’Inverno mostrando anche lui un piccolo sorriso, prima di rivolgersi all’altro: «E tu chi sei?»

In quel momento qualcuno bussò alla porta, facendo tirare a Franco un sospiro di sollievo. Era uno dei marinai, incaricato dal capitano di portare una brandina per il nuovo ospite. La montò nel silenzio dei tre.

Il principe scrutava tra l'incuriosito e il divertito gli altri due, ancora in piedi poco distante dall'uscio. Chiara Delle Foglie guardava quel Franco, seduto sulla sua brandina con le mani a coprirgli il volto, immerso in qualche riflessione, incerto se rispondere alla domanda dell'Inverno con una parziale verità, ammettendo dunque di essere figlio di un ricco borghese di Nilerusa, o se cercare di celare la propria identità il più possibile. La fanciulla sperava di incrociare il suo sguardo, voleva pregarlo di inventare qualsiasi sciocchezza gli fosse venuta in mente: lui era l'unica protezione che avrebbe avuto fino all'arrivo nel suo regno, non poteva permettere che si mettesse a repentaglio da solo.

Ma in realtà lui aveva già deciso come agire da diversi minuti, perciò, non appena il ragazzetto uscì dalla stanza, Franco si tolse le mani dal viso e puntò i suoi occhi scuri in quelli di ghiaccio di Erik: «Sono colui che ama vostra sorella, il vero motivo per cui non vuole sposare Nicola Lotnevi.»

Passarono alcuni secondi prima che il principe Inverno-Primavera comprendesse appieno il significato di quelle parole. Prese posto sulla brandina appena preparata di fronte a quella del giovane, e ricambiò il suo sguardo. Provò a scrutarlo, in cerca di qualche indizio che lasciasse trapelare la sincerità o la mendacità di quelle parole, ma quel volto appena più disteso, rispetto a qualche minuto prima, non aveva l'aria di uno che mentisse. Erik non era preparato a quell'evenienza, quindi non seppe subito cosa fare. In un primo momento pensò di lasciar correre, ma poi si alzò e, a una distanza sufficiente, estrasse con un gesto veloce la sua spada dal fodero, che nella fuga dalla nave non era andata perduta, puntandola dritta contro il petto di Franco.

Non pensava che l'amante di sua sorella esistesse davvero, non pensava che lo avrebbe mai incontrato e, se questo fosse avvenuto, non avrebbe mai immaginato quella circostanza. Lui metteva a rischio la credibilità della sua famiglia: se Flora non aveva intenzione di sposare Nicola, era solo e soltanto colpa sua.

Chiara si portò le mani alla bocca, attendendo che il principe pronunciasse una parola di condanna nei confronti di Franco, che si sarebbe trasformata in un dato di fatto non appena i sovrani di Defi ne sarebbero stati al corrente.

Tuttavia, l’Inverno non emise un suono per diversi secondi, che parvero eterni agli altri due, rimuginando sul da farsi. La verità era che non riusciva a provare il disprezzo che aveva covato per tutto quel tempo verso una persona qualunque che si avvicinava a Flora, impedendole di compiere il suo dovere. Non riusciva a provarlo, perché Franco non gli sembrava affatto una persona qualunque: era lì in una missione segreta, per proteggere una principessa che con lui, per quanto ne sapeva l’Inverno, non aveva nulla a che fare. Ed Erik lo considerava un gesto molto nobile, un gesto degno di un suo pari. Ma ormai aveva sfoderato la spada e la teneva sollevata a mezz’aria, puntandola alla gola di quel giovane, che rimaneva impassibile, sfoggiando all’improvviso un coraggio che spiazzava il principe.

«Battiamoci» disse infine questi ad alta voce.

«Cosa?» esclamò Chiara. Se davvero i due si fossero sfidati a duello, c’era molto di più dell’onore della sorella del principe in ballo. C’era il suo stesso destino: era certa che l’Inverno avrebbe avuto la meglio, perché era più abituato a maneggiare una spada di quanto non lo fosse il suo accompagnatore, e se il principe di Defi avesse deciso di porre fine alla vita dell’unica persona a cui si era affidata per quel viaggio, lei stessa era persa. «Non potete, io ho bisogno di lui vivo!»

«Non lo voglio uccidere» precisò il nobile, mantenendo lo sguardo fisso sullo sfidato. «Voglio solo sapere se sei degno di Flora. Di certo qui sulla nave avranno una spada da farti usare.»

La fanciulla scosse la testa, impallidendo. Se si fossero feriti? Sperò che Franco non accettasse la provocazione, che preferisse apparire come un vile piuttosto che porsi in pericolo.

«Ne ho già una» disse invece lui, scrollando le spalle con una smorfia di sollievo. Per un solo istante aveva temuto quel bagliore azzurro degli occhi dello sfidante quando questi aveva posto tra di loro la lama sottile, ma ben presto aveva compreso le sue vere intenzioni. Per il momento poteva ritenersi al sicuro.


***

Era notte inoltrata, ma nessuno dei marinai volle perdersi lo spettacolo che il capitano aveva annunciato come un duello dimostrativo. Pochi di loro avevano avuto modo di impugnare le armi per uno scontro corpo a corpo, ed erano perciò desiderosi di scoprire cosa sarebbe accaduto quando i colpi di quei due avessero iniziato a fendere l’aria.

Il ponte della nave era stato sgomberato, in modo da lasciare il maggior spazio possibile per i movimenti.

Franco si guardò intorno, nervoso, non appena salì sovracoperta: le stelle splendevano nella volta, la luna sembrava più abbagliante di quanto fosse mai stata, perciò i fuochi accesi sulla nave per favorire la visibilità erano molto meno di quanti sarebbero stati necessari in altre notti.

Guardò Erik, che gli appariva sicuro di sé, mentre lui non si sentiva così saldo sulle sue gambe. Non che avesse paura di perdere, ma voleva impressionare positivamente il fratello della sua amata. Con un sospiro si avvicinò al parapetto e si perse ad osservare l'ondeggiare quieto della distesa. Forse anche Flora in quel momento stava osservando il Mar Litil, affacciata dalla sua camera. Non vi era mai stato, ma lei gli aveva raccontato che da lì riusciva a scorgere uno scorcio del mare che in quel momento li separava. Sperò che il messaggio che aveva lasciato a Claudio le fosse arrivato, che lei non si fosse lasciata avvolgere dalla mestizia per non averlo più incontrato e che, soprattutto, fosse ancora al castello, così da potersi ricongiungere con lei nel loro rifugio segreto non appena fosse tornato nel Defi. Non aveva idea di quanto tempo sarebbe trascorso prima di allora, ma avrebbe cercato indubbiamente di scriverle una volta giunto nelle Foglie Cadute.

Il peso del fodero legato al fianco lo riportò alla presente realtà: il combattimento con il fratello di colei che amava era imminente.

Trattandosi di un semplice duello in cui il rischio di ferirsi sarebbe stato minimo, nessuno dei due indossava alcun tipo di protezione.

Erik fece la prima mossa, affondando un colpo all’altezza della vita dell’altro, che parò lesto prima di fare un passo avanti, pronto a sferrare il suo attacco.

Intorno a loro, il silenzio era quasi tangibile. Chiara assisteva a prua, al fianco del capitano, che sembrava molto interessato a quel duello, di cui non era certo di aver compreso le motivazioni. Non le aveva domandate per non mettere in imbarazzo i suoi ospiti, ma non poteva negare che era molto curioso di conoscere la ragione che li aveva spinti a sfidarsi sul ponte della nave, sotto gli sguardi silenti dei suoi uomini.

L'unico suono che si udiva era il rintocco metallico delle due lame che si fronteggiavano, respingendosi a vicenda. Non era uno scontro esaltante: se qualcuno avesse domandato a Virgilio se si fosse svolto realmente, lui avrebbe avuto non poche difficoltà a fornire un resoconto.

Le spade tagliavano l'aria, veloci, precise, come sul punto di colpire l'avversario in uno dei suoi punti vitali, ma questo puntualmente non accadeva per l'abilità dei duellanti. Entrambi riuscivano molto bene a prevenire le mosse dell'altro, in un susseguirsi di movimenti eleganti, cadenzati, ma che non avrebbero facilitato la scelta di un vincitore.

Scoprire l'abilità con la spada di Franco fu rasserenante per l'erede dei Delle Foglie, perché se in futuro fossero stati in pericolo, poteva contare sul suo compagno di viaggio. Tuttavia l'esito incerto di quel duello non permetteva alla sua agitazione di quietarsi, perché nessuno dei due si dava per vinto, continuando a impugnare saldamente le else.

Nessuno dei due aveva intenzione di colpire l'altro in maniera sleale, sebbene questa occasione si fosse presentata una volta per ognuno: la prima quando il principe, senza accorgersi di dove si trovasse, aveva sbattuto la schiena contro uno dei barili che i marinai avevano lasciato in giro sul pontile; nella seconda al giovane di Nilerusa era scivolata la spada dalla mano: Erik aveva atteso che la recuperasse prima di proseguire.

Franco non era uno sprovveduto e, in qualsiasi altra occasione, l'impugnatura non sarebbe sfuggita dalla sua presa. Ma quello stallo in cui si trovava da parecchi minuti iniziava a preoccuparlo. Forse il principe lo aveva ingannato e non aspettava altro che lui fosse stanco per colpirlo una volta per tutte? La sua mano aveva iniziato a sudare, nonostante le temperature più basse della notte, rendendo così più difficoltoso maneggiare la spada come avrebbe dovuto; ma quando questa gli cadde a terra, Erik non si avvicinò a lui minaccioso.

Non appena riprese la sua posizione, scambiò una lunga occhiata con l'Inverno e comprese che da lui non aveva nulla da temere.

A interrompere quel pacifico duello fu l'avvistamento di Punta Salina, dove si trovava il porto a cui avrebbero attraccato. Erik abbassò la spada, tendendo la mano libera a Franco, senza aver cambiato espressione sul suo viso. L'amante della principessa di Defi gliela strinse, suggellando con quel gesto una tacita alleanza.

Il profilo ancora avvolto nell'oscurità dei promontori che svettavano su Punta Salina si fece più nitido con l'avanzare della nave nella notte. Virgilio diede ordine di fermarsi in mare per la notte e di gettare l'ancora: il loro ingresso nel porto era da rimandare all'arrivo delle luci dell'alba.

 

(Ultima revisione: 29/05/2020)

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Capitolo 15
*** 5.1 Lupfo-Evoco ***


 Alcune ore prima...

 Il sole era ormai alto lungo quando Giampiero rientrò al Castello. Scelse di percorrere all’inverso il tragitto che lo aveva condotto fino alla periferia di Nilerusa, sperando che nessuno lo attendesse nella camera della principessa. Si meravigliò quando, all’uscita della botola, sbucò nella stanza in cui lui dormiva solitamente durante i suoi soggiorni al Castello, ma poi constatò che quello era con tutta probabilità un effetto della magia che permeava quel passaggio segreto; anche se gli sfuggiva il suo esatto funzionamento.
 Era certo, dunque, che nessuno aveva notato la sua assenza, per cui non escogitò nessuna scusa per spiegare dove fosse stato fino a quel momento. D'altra parte non doveva spiegazioni proprio a nessuno, se non alla regina; ma Alcina sarebbe stata presto occupata con altri pensieri, ragionò tra sé e sé, tra cui quello di dove fosse finita la figlia, quindi immaginò che non avrebbe badato a lui.
 Dopo essersi cambiato d’abito, scese nei giardini per prendere una boccata d’aria fresca: doveva dare l’idea di essersi appena alzato dal letto. Vide membri della servitù affaccendarsi freneticamente, correndo chi da una parte chi da un'altra, qualcuno scuro in volto, altri con un'espressione preoccupata da cui il marchesino non poté che trarre una conclusione: la fuga di Flora era stata scoperta e Alcina aveva già dato ordine di trovarla, anche a costo di spedire l’esercito casa per casa in ogni borgo, paese o cittadina del Defi.
 Giampiero sorrise fissando pensieroso un’aiuola di rose azzurre, seduto su una panchina. La via più veloce per raggiungere il Pecama obbligava a partire da un porto nel sud del regno, che distava solo tre giorni di navigazione da Punta Salina, il promontorio più vicino alle terre a nord. Sperò che Flora, Arturo e Claudio riuscissero subito a trovare la nave che faceva al caso loro, su cui non solo la traversata sarebbe stata più veloce, ma grazie alla quale i tre avrebbero viaggiato con maggiore sicurezza, lontano da occhi indiscreti e devoti ai sovrani di Defi.
 Nessuno dei servitori gli parlò, nessuno gli rivolse uno sguardo per tutto il tempo che lui trascorse seduto lì; non che gli dispiacesse, ma si era tanto prodigato per assumere un tono e un atteggiamento innocente per poi essere ignorato dal resto della corte, che ancora doveva destarsi, e dalla servitù. Aveva ragione Flora: nessuno si sarebbe mai accorto della sua assenza, se non una persona; e proprio da questa decise di recarsi, come se dovesse ricevere delle istruzioni. In diverse circostanze si sarebbe comportato proprio in tale maniera, perciò si alzò dalla panchina e si diresse verso il Castello, senza neanche badare troppo ai raggi del sole che, obliqui, attraversavano le pareti vitree, illuminando ogni angolo della residenza reale.
 Ben presto raggiunse il corridoio in cui si trovava la Sala del Trono, da cui udì provenire delle voci e si accorse, con il cuore in gola, che erano quelle di Luciana Lugupe e della regina. Sembravano tese, quasi concitate, e Giampiero davvero non ebbe più alcun dubbio: sapevano della fuga della principessa. Rifletté in fretta sul da farsi: non era sua abitudine ascoltare dietro le porte, ma in quell’occasione non aveva alternative.
 - ...dev'essere per forza con quel plebeo - stava dicendo Alcina, con tono sprezzante. - Non è servito a molto impedire che lo incontrasse, a quanto hanno detto le guardie.
 Luciana non rispose subito a quella asserzione, ponderando cosa fosse meglio dire in presenza della donna che tanto venerava.
 - Maestà, io non credo davvero che sia con lui. Quando poi siamo rimaste sole, mi ha parlato di una certa Menta.
 Menta? Giampiero si trattenne dal sobbalzare, cercando di mantenere il sangue freddo, ma quell’affermazione da parte della Lugupe non poteva lasciarlo sereno. Certamente qualsiasi cosa di cui Luciana fosse al corrente le era stata rivelata da Flora, ma il marchesino stentava a credere che la Primavera si fosse lasciata sfuggire più di quanto necessario ad acquietare la sete di curiosità dell’altra, che non aveva avuto alcuno scrupolo nel riportare tutto alla sovrana. Non poteva fidarsi dell’erede al trono di Dszaco, concluse tra sé e sé.
 - Bene, questo cambia le cose - asserì la regina, che poi tacque.
 Di certo, rifletté Giampiero, Alcina stava già escogitando un sistema per rendere rapide le ricerche di qualsiasi donna o fanciulla che avesse risposto al nome di Menta, in modo da avere delle risposte su sua figlia nel più breve tempo possibile. Tuttavia, il marchesino si ingannava.
 - Luciana, apri la porta della Sala - proferì la voce imperiosa della donna.
 Quelle parole suonarono autoritarie alle orecchie del giovane Tirfusama, come una condanna che ricadeva sulla sua testa. Il nobile rimase impietrito, mentre la porta veniva spalancata e l’espressione accigliata di Luciana gli compariva davanti.
 La giovane era composta, piccolina di costituzione, ma elegante nel suo abito chiaro ricamato con filamenti in oro. Portava i capelli, corti come sempre da quando lui l’aveva conosciuta, tagliati appena sopra le spalle, perché sosteneva che, se durante i suoi spostamenti l’avessero attaccata, un’acconciatura elaborata e una chioma lunga le sarebbero stati d’impaccio; e non amava viaggiare con la scorta, la Luna solo sapeva per quale motivo.
 Ma Giampiero cercava dei segnali sul suo volto, invano: nessuna traccia che gli permettesse di capire per quale motivo la Lugupe avesse rivelato ad Alcina le confidenze di Flora; nessun dubbio, nessuna incertezza, solo serenità e distensione. Evidentemente Luciana non si sentiva in torto nei confronti della sua pari grado.
 Lei scrutava il marchese con curiosità: sapeva che Alcina lo aveva mandato a chiamare, ma le sembrava insolita la celerità con cui era giunto alla Sala del Trono.
 La regina,invece, come usava fare quando il re non era con lei, non sedeva sul trono, ma sostava in piedi presso le ampie vetrate spalancate, osservando la luce del sole far risplendere il Castello e bagnare con i suoi raggi le increspature delle fontane. L’acqua zampillava lieta, come in un giorno di festa, con disappunto della donna che si voltò verso Giampiero.
 L’espressione del suo viso era grave, austera. Puntò i suoi occhi chiari sul marchesino, ma non riuscì a comprendere cosa turbasse l’animo del giovane: intuì che non aveva incontrato il servo inviato per convocarlo e questo la stupì; ma rifletté che probabilmente era lei ad essere agitata per l’improvvisa scomparsa di Flora e che quel pensiero influiva sulle sue capacità di lettura del pensiero.
 - Per quale motivo non hai bussato? - domandò, solenne.
 Giampiero si inchinò e rispose. - Mia regina, avendo sentito le vostre voci, ho ritenuto opportuno aspettare che voi finiste di parlare.
 Alcina annuì. Era solita punire la più piccola insolenza, ma il Tirfusama era tanto umile ai suoi occhi che decise di ignorare quella risposta: non aveva nulla da temere dal giovane. Tuttavia non poteva lasciarsi sminuire davanti alla Lugupe. - Può darsi che tu abbia ragione, ma mi stupisco che sia rimasto dietro la porta ad origliare.
 - Non lo stavo facendo - mentì lui. - Dovete perdonarmi se vi ho dato questa impressione. Ero talmente perso nei miei pensieri che non me ne sono reso conto.
 Alcina non cessò di fissare i suoi occhi neanche per un istante dopo aver udito la sua plausibile spiegazione, ma Giampiero ebbe il giusto coraggio per sostenere lo sguardo. Non sapeva che la regina stava cercando di leggergli nella mente, ma capiva di dover compiere ogni sforzo necessario per nascondere il segreto che condivideva con Flora, sebbene non avesse la minima idea di come farlo. Probabilmente ci riuscì, perché Alcina non proferì parola per alcuni minuti, prima di rivolgersi nuovamente verso il confine lontano con lo Cmune.
 Lui allora guardò Luciana, con aria interrogativa: perché aveva tradito le confidenze di Flora? Per quanto Giampiero conoscesse la sua venerazione per la regina, non riusciva a comprendere quel comportamento e non credeva che la Lugupe avrebbe davvero messo da parte la fiducia della principessa a cui lui, invece, era devoto.
 Lei interpretò in maniera diversa l’espressione di dubbio sul volto del marchesino.
 - Flora è scomparsa questa notte - mormorò, muovendo un passo nella sua direzione. - Non sappiamo dove sia, ma dobbiamo far iniziare le ricerche il prima possibile.
 - E dove? - chiese lui, cercando di non tradire l’agitazione che lo aveva pervaso a quelle parole. Certo, aveva già intuito che Alcina aveva scoperto la fuga di Flora, ma cosa sarebbe stato opportuno fare se la sovrana lo avesse coinvolto nelle ricerche? Darsi alla macchia e fuggire anch’egli , o fingere di assecondare i suoi desideri, con il timore di venire scoperto?
 Luciana scosse la testa con un sospiro. - Non lo so.
 - Non è possibile che sia solo andata in giro come Erik mi ha detto che fa spesso? Forse è solo un falso allarme - mormorò Giampiero. Se fosse riuscito a calmare le acque, Flora avrebbe guadagnato tempo per raggiungere il porto nel sud del regno; con un po’ di fortuna lei e gli altri due sarebbero salpati prima di sera.
 - Non credo: le ho detto che oggi saremmo partite per lo Cmune - spiegò Luciana sottovoce. Era convinta che il dubbio del marchesino fosse lecito, per lui che non conosceva bene gli intrighi di corte: lo vedeva abbastanza di rado nel Defi e non ricordava una sua presenza alla corte di Guglielmo. Gli incarichi che gli venivano assegnati lo vedevano molto spesso lontano dalla realtà di quei regni: che si ingannasse era possibile. La fanciulla dello Dszaco non avrebbe potuto immaginare che ad essere ingannata era proprio lei. - Lei non vuole sposare Nicola e pur di non sposarlo è disposta a scomparire - aggiunse, dandogli un’informazione che lei riteneva preziosa, ma che in realtà Giampiero già conosceva.
 Alcina ascoltava le loro parole, che le giungevano alle orecchie come un soffio di vento lontano. Percepiva il battito del cuore accelerato nel marchesino, ma credeva di sapere a cosa fosse dovuto; e sua figlia c’entrava ben poco. Riusciva a comprendere un confuso stato d’animo, che oscillava tra più partiti, senza tuttavia comprendere quali; poté solo distinguere in un secondo momento un sospiro accennato ogni qualvolta Luciana gli rivolgeva la parola. La regina concluse che probabilmente non ne era ancora consapevole, o che forse cercava di seppellire nel fondo del suo cuore qualsiasi emozione. Eccezion fatta per la nostalgia per il Pogudfo, Giampiero Tirfusama era sempre stato restio a condividere quanto covava nel suo animo.
 E Alcina lo sapeva: aveva più volte scandagliato i suoi sentimenti, in occasioni molto differenti tra loro. Luciana, invece, era un vero e proprio libro aperto per la donna più potente di Defi. Ogni sua parola era sincera, ogni gesto dettato dal desiderio di compiacere la regina: sarebbe stata un’ottima alleata, in un futuro non troppo lontano; perciò la sovrana aveva cara quella puerile devozione da parte della Lugupe.
 Solo dopo alcuni minuti di silenzio si voltò verso entrambi, con un'espressione risoluta: aveva stabilito quali compiti assegnare ai due giovani.
 - Luciana, ho bisogno che tu vada dal principe Nicola e che lo avverta di cosa sta accadendo - disse, con un tono che non ammetteva repliche, sebbene il suo ordine fosse mascherato da richiesta e formulato come una cortesia.
 - Ma, Vostra Altezza, non sarebbe più semplice inviargli una lettera? - obiettò lei, titubante. Già aveva assecondato il desiderio di Nicola, giungendo nel Defi; riteneva che ormai per lei fosse giunto il momento di ritornare a casa, nello Dszaco. - Non credo che il mio viaggio sia necessario.
 - Non si tratta solo di Flora - spiegò Alcina, risoluta. I suoi occhi riflettevano un bagliore quasi rabbioso, che, nonostante lei cercasse di nasconderlo, non sfuggì agli altri due. Qualcosa di insolito smuoveva l’animo della regina e presto i giovani nobili avrebbero scoperto di cosa si trattava. - Ho ricevuto una convocazione per la Conferenza dei Lupfo-Evoco. Viene convocata solo per questioni al di sopra dei Regni, sai cosa significa?
 I Lupfo-Evoco, l’adunanza più antica che univa i regni e le dinastie dei sovrani di tutta Selenia. La loro convocazione era un evento quasi straordinario: c’erano state generazioni che non avevano mai assistito a una delle Conferenze. Vi si ricorreva solo per situazioni estreme e di difficile risoluzione, quando affidarsi agli ambasciatori e alle loro versatili capacità non era sufficiente.
 - Significa che decideranno il da farsi riguardo la morte di Re Guglielmo - rispose Luciana mestamente, abbassando lo sguardo.
 L’evento di più elevata urgenza e che più premeva a molti doveva essere proprio quello, addirittura più delle conquiste di Raissa Autunno. Non era assurdo che nessuno avesse pensato di convocare i Lupfo-Evoco per placare la sete di conquista della principessa del Ruxuna, perché in tal caso ne avrebbero potuto fare richiesta solo i rappresentanti dei regni sottomessi con la forza; ma la giovane era stata abile a tirare dalla sua parte i nobili di quei territori ormai assoggettati al suo dominio.
 Alcina annuì. - Non credo che abbiano chiamato anche Nicola, quindi è mio compito, in quanto futuro marito di mia figlia, informarlo dei Lupfo-Evoco. Nella situazione attuale, cioè con Flora che ha deciso di sparire, sono costretta a rimanere al Castello, per non lasciarlo senza alcun membro della famiglia reale. Ho riflettuto molto su chi poter inviare in mia vece ai Lupfo-Evoco, e ho deciso che sarai tu.
 Lo sguardo della sovrana si perse a osservare il riflesso del sole sull’opposta parete di cristallo. Vi intravide il verde del giardino, lo sfavillio generato dalle fontane… la sua piccola oasi in una terra destinata allo scompiglio. Presagiva una catastrofe, sebbene le fosse ostico distinguere di quale portata e in quale punto di Selenia avrebbe avuto luogo.
 Luciana sorrise orgogliosa, fiera del compito che le era stato assegnato. - Io? - esclamò, quasi sorpresa.
 Alcina scosse la testa: come aveva potuto la Lugupe ingannarsi a tal punto? Era una questione delicata e se ne sarebbe dovuto occupare il migliore degli uomini a disposizione del regno. - No, non tu. Tu andrai nello Cmune; anche se i Lupfo-Evoco si riuniscono a Mitreluvui, non sarai tu a presiedere al mio posto: lo farà il nostro caro marchese.
 Il viso di Luciana si fece cupo, scoraggiata per l’illusoria possibilità di servire concretamente la sua regina. Giampiero, invece, le rivolse un sorrisetto compiaciuto, come se sapesse che lei non sarebbe mai stata all’altezza di un tale onere. Che lei avesse davvero creduto di prendere parte alla Conferenza gli sembrava divertente, a tratti infantile: come se l’erede dello Dszaco non vedesse l’ora di esercitarsi prima di divenire regina, di provare a giocare con i soldatini di qualcun altro, prima di sciupare i propri. Ma il marchesino era ben consapevole sia delle proprie qualità sia della scarsa capacità della Lugupe di farsi rispettare in un ambiente frequentato da uomini e donne molto più anziani ed esperti di lei. Mancava totalmente di carisma, sebbene impiegasse ogni energia per farsi benvolere.
 - Dovrai fare in modo che il Principe Nicola non venga accusato, né processato o, peggio, condannato in sua assenza per la morte del padre - proseguì la regina, rivolta verso di lui, scrutando la gioia che pervadeva l’animo del giovane marchese come se potesse vederla chiaramente davanti ai suoi occhi o toccarla semplicemente allungando una mano. La sua veste smeraldina brillò sotto i raggi del sole che si erano intrufolati nella sala, donandole un’aura di sacralità.
 - Qualcuno davvero crede che Nicola sia responsabile della morte del padre? Perdonatemi, ma è un'ipotesi assurda - disse Giampiero. Alla luce dell’accordo tra il principe Lotnevi e la principessa Primavera di non sposarsi, escluse che Flora avrebbe riposto la sua fiducia in qualcuno in grado di uccidere il proprio genitore a sangue freddo. Avere la fiducia di lei, significava avere incondizionatamente anche quella del marchesino.
 Alcina sospirò, muovendo la mano in aria, in segno di diniego. - No, non lo è. C'è chi sarà disposto a incolparlo e alcuni saranno inclini a credere a tali sciocche insinuazioni. Certamente ti occorrà del denaro per corrompere i rappresentanti di qualche regno minore: prima di partire torna da me, così ti darò quanto necessario. Non permetterò mai che la figura di Nicola Lotnevi venga macchiata da un oltraggio simile. Tu sei il miglior diplomatico che abbiamo a corte: ripongo in te la massima fiducia e nelle tue mani le sorti dell’accordo preso da me e il tuo re con Guglielmo e Felicita di Cmune.
 L’accordo a cui la sovrana accennava era il matrimonio dei due eredi, che avrebbe permesso un’alleanza più solida e duratura tra le famiglie. Giampiero scacciò il pensiero, soffermandosi per un istante a contemplare la figura di Luciana, che era arretrata di qualche passo, come dovendosi fare da parte per occupare il giusto posto che le spettava, in un angolo: in una gerarchia improvvisata lei, in quella sala, valeva addirittura meno di un marchese di una casata decaduta, che stava riacquisendo un certo credito soltanto grazie al suo lavoro di ambasciatore.
 - Sarà un onore per me - disse dunque, riconoscente, con un piccolo inchino.
 Alcina, in silenzio, gli indicò su un tavolo in fondo alla sala una lettera da portare ai Lupfo-Evoco come rappresentante del Regno di Defi, che il marchesino afferrò con diligenza. La regina diede un ultimo incarico a Luciana, prima di congedare i due giovani: - Da' ordine di cercare tutte le ragazze di nome Menta che vivono nel Regno.
 Giampiero dovette mascherare il suo turbamento nell’udire quelle parole, e lo fece abbassando cerimonioso il capo prima di lasciare la Sala del Trono, seguito dall’erede di Dszaco.
 - Aspetto che voi prepariate i vostri bagagli e partiamo? - propose lui, una volta rimasto solo con Luciana. La loro destinazione era la medesima, per cui pensò che non sarebbe stata una cattiva idea proporre alla Lugupe di viaggiare assieme.
 - Non posso rallentarti, dovrai fare in fretta - obiettò lei, inarcando un sopracciglio, ancora seccata per la pessima figura che aveva fatto al cospetto della regina. - E io devo occuparmi di un’altra questione prima di andare via dal Defi.
 Menta… Giampiero decise in un istante che l’avrebbe portata con sé per evitare che subisse le ire di Alcina. Si sentiva in qualche modo responsabile della sorte di quella fanciulla dai capelli fulvi che l’aveva accolto nella sua umile casa di campagna quella mattina.
 - E non volete avermi intorno - disse invece, inespressivo, alla principessa.
 - Preferisco non averti intorno, già - rimarcò Luciana, risentita. La presenza del marchesino le ricordava la sua inadeguatezza, la sua inferiorità a cui, nonostante tutti i suoi sforzi, non era riuscita a porre dei ripari.
 - Mi spiace - mormorò Giampiero, abbassando lo sguardo. Supponendo che lei non avesse più nulla da aggiungere, le diede le spalle e si incamminò nel corridoio, allontanandosi.
 Luciana lo osservò fino a quando non scomparve dalla sua visuale. Davvero gli dispiaceva che Alcina non avesse scelto lei per i Lupfo-Evoco? Il tono sembrava sincero, ma lui quanto lo era realmente? Poteva capire quanti sforzi lei facesse per attirare i favori dei sovrani degli altri regni con risultati più che deludenti? No, di certo: il marchesino Tirfusama riusciva in tutto, e vi riusciva in maniera eccellente. Quante volte aveva dovuto sopportare gli elogi che venivano decantati sulla sua saggezza e sulla sua capacità di venire sempre incontro alle esigenze di ognuno? Non avrebbe saputo contarle. Lo invidiava: Giampiero riscuoteva successi nel campo in cui voleva ottenerne lei senza nessuna fatica. E quell’ultima umiliazione ricevuta era per Luciana insopportabile.
 Tuttavia il suo momento sarebbe arrivato, ne era certa; e in un futuro non troppo lontano.

 

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Capitolo 16
*** 5.2 Sotto la luce del tramonto ***


(Capitolo revisionato)

Una piccola boscaglia nascondeva il curioso terzetto, mentre il sole si avvicinava sempre più all'orizzonte marino, inondando con i suoi sbiechi raggi la visione di navi ormeggiate, da cui uomini di diversa età e provenienza scaricavano e caricavano barili di merci. Poco distante erano site una locanda e una taverna, dove i viaggiatori potevano rifocillarsi nel modo che più preferivano prima delle partenze all'alba del giorno successivo. Alcuni funzionari reali sorvegliavano i movimenti degli avventori, esibendo sui petti il fiore di magnolia simbolo della casata al potere.

Claudio, seduto sulle radici di una quercia, che spuntavano dal suolo, osservava attento il dibattito che stava avendo luogo tra Flora e il mercenario su quale fosse la migliore azione da compiere. Da quanto aveva capito, nessuno dei due poteva essere scorto: da un lato erano certi che le ricerche per scovare la principessa avevano già avuto inizio, dall'altro Arturo era un tipo conosciuto per via del suo lavoro; e, data la delicatezza dell'incarico che il marchese Tirfusama gli aveva affidato, preferiva non essere riconosciuto.

Qualcosa nel suo atteggiamento aveva dato da pensare al contadino catapultato all’improvviso lontano dal suo ambiente: ricordava molto bene con quale intento il soldato – ma era poi davvero un soldato? – si era ritrovato a gironzolare dalle parti di casa di Menta, ma sentiva che c’era dell’altro, come un segreto che voleva celare a tutti. Che avesse dei trascorsi con Alcina e Tancredi e non volesse ritrovarsi ad avere a che fare con loro? Oppure che essere alla ricerca di una delle giovani Autunno gli sarebbe valso un soggiorno nelle prigioni di Nilerusa? Claudio non sapeva darsi una risposta, e ciò contribuiva ad aumentare la sua curiosità nei confronti del mercenario.

L’unica cosa che aveva compreso fino a quel momento era che sarebbe stato proprio lui a entrare nella taverna e a pagare l’oste per farsi dire quando la Millenaria sarebbe tornata al porto.

In base a quanto avrebbe scoperto poi si sarebbero mossi. Flora non sembrava entusiasta all'idea di trascorrere la notte lì, dove la poco estesa boscaglia si faceva meno fitta e la poteva esporre alle occhiate di chiunque si sarebbe arrischiato tra gli alberi, ma Arturo continuava a sostenere che non avevano valide alternative.

«Se dovesse presentarsi qualsiasi pericolo, ci penserò io» stava dicendo.

«E come? Uccidendo chiunque passi di qui?» lo incalzava lei, con tono quasi rabbioso.

«Solo se ti riconoscono» stabilì il mercenario. Aveva cessato ormai da ore di mostrarsi cortese e riverente con una principessa capricciosa che non faceva altro che contraddirlo e metterlo in difficoltà, porre nuovi problemi e non offrire nessuna soluzione. E l’astio malcelato contribuiva a metterlo di cattivo umore. Persino una sacerdotessa della Luna avrebbe perso le staffe al suo posto!

«E se si tratta di…» riprese Flora, decisa più che mai a trovare una sistemazione confortevole, che non prevedesse la presenza di insetti o la paura che qualche serpente potesse avvicinarsi troppo a lei; anche se le era stato ripetutamente fatto notare che nelle terre a meridione della catena dei Tumroi non erano presenti.

«Ci inoltreremo di più nella boscaglia e non ci vedrà nessuno, puoi fidarti, conosco benissimo questo posto» ribatté Arturo, sicuro di averla messa a tacere con quelle parole.

«Quindi non è la prima volta che ti nascondi qui» constatò lei, provocatoria. «Non oso immaginare cosa…»

«Non sono qui per farti immaginare un bel niente, ti sto scortando a sud perché il marchese mi paga per farlo.»

Sebbene avesse cercato di mantenere un tono di voce fermo e sicuro, l'irritazione che il ragazzo dalle spalle larghe provava era ben evidente.

Fu in quel momento che la principessa ammutolì, comprendendo che prima fossero giunti nel Pecama, prima avrebbero trovato la profezia e prima si sarebbe sbarazzata di lui. E ragionevolmente comprese che, se fino a quel momento quel luogo era stato un nascondiglio prezioso per il mercenario, era perché davvero a nessuno era mai venuto in mente di fare lì delle ricerche. Sperò soltanto che gli uomini di sua madre sarebbero stati tanto stretti di vedute da non arrischiarsi tra i cespugli erbosi e le radici degli alberi che spuntavano dal terreno come intessendo una tela dalla trama sconosciuta pronta a disarcionare chi vi camminava.

«Mi raccomando, non fare niente di stupido» disse Arturo, rivolgendosi verso Claudio. «Vai lì, entri nella taverna, ti avvicini al bancone e chiedi a bassa voce se c'è la Millenaria, allungando un paio di monete all’oste. Se non c'è, fatti dire quando torna. Poi prenditi da bere, cerca di passare inosservato e torna qui.»

«Ho capito, non sono un idiota» ribatté Claudio, ma in cuor suo ammise di aver paura di combinare qualche disastro: anche se il compito che gli avevano affidato non era affatto difficile. Il ragazzo rivolse uno sguardo a Flora, che gli sorrise incoraggiante, poi lasciò il boschetto e camminò verso il porto, mentre i due lo osservavano nascosti tra gli arbusti.

Claudio perse del tempo per guardarsi intorno, affascinato dal caos in cui in pochi minuti era stato scaraventato: gli uomini che si affaccendavano, quelli che davano ordini, i barili che venivano spostati da una zona all'altra del porto, verso un magazzino coperto alla vista da locanda e taverna. Sicuramente Arturo avrebbe avuto da ridire su quel gingillarsi, ma non fu del tutto inutile, perché il contadino poté distinguere che gli uomini che recavano lo stemma dei Primavera-Inverno non erano soldati, né tantomeno sembravano interessati alla ricerca della principessa: non aveva niente da temere da parte loro.

Tra i vari scaricatori di merci, ne intravide uno che conosceva molto bene, per averlo incontrato diverse volte al mercato in cui la madre vendeva i prodotti dell'orto: la schiena curva, le sopracciglia aggrottate, immerso nel suo lavoro e in pensieri di cui Claudio era al corrente, Gaetano controllava l'interno di alcuni barili, verificando che non gli avessero mentito sul reale contenuto. Consegnò diverse monete all'uomo che attendeva al suo fianco, poi anche lui individuò l'amico e gli fece un cenno di saluto, che spinse il contadino ad avvicinarsi a lui non appena lo sconosciuto si perse tra le altre figure che popolavano il porto.

«Come mai qui? Non credevo che tua madre fosse d'accordo con il commercio via mare!» esclamò Gaetano come prima cosa, dopo aver dato all’altro una pacca sulla spalla.

«Infatti non lo è» sorrise Claudio, sincero e felice di aver incontrato un amico. «Sono qui per un altro motivo» si lasciò sfuggire, senza preoccuparsi degli uomini fedeli ad Alcina. Una mossa imprudente, di cui Arturo lo avrebbe senz’altro rimproverato.

«Ha a che fare con...?» chiese Gaetano, senza fare nomi, ma l'allusione fu molto chiara per entrambi.

«Sì,» annuì il contadino di Nilerusa, «la sto accompagnando nel Pecama.»

L'amico conosceva il rapporto che intercorreva tra Claudio e la principessa di Defi e lui sapeva altresì quale fosse il legame tra Gaetano e l'erede al trono delle Foglie Cadute. Tra i banchi del mercato a cui i due si ritrovavano a lavorare era sorta un'amicizia tra il giovanotto defico e quello originario del Pogudfo, sempre in viaggio per esportare i prodotti della vasta terra di cui la famiglia si occupava da generazioni.

Quest’ultimo si fece scuro in volto. Se Flora non era insieme a Claudio in quel momento, significava che si stava nascondendo dai dipendenti dei sovrani e, implicitamente, dal re e dalla regina. «Non vorrete raggiungerli, spero. Se Chiara si mettesse nei guai...»

«Ma no, non c'entra niente» lo rassicurò lui, con una pacca sulla spalla e un piccolo sorriso. «Sono successe altre cose che non ti posso dire, sono un segreto. Devo chiederti un favore... sai quanto sono imbranato e non posso permettermi di sbagliare niente.»

Gaetano sorrise per l'ammissione dell'amico, consapevole della veridicità delle sue parole: Claudio era bravissimo a cacciarsi nei guai, come quella volta in cui, appena poche settimane prima, caricando le casse di verdura della madre su un banco del mercato, aveva accidentalmente urtato un uomo del banco vicino, a cui per lo scontro erano caduti dalle mani diversi recipienti di vetro, che si erano infranti sulla pavimentazione della piazza principale di Nilerusa, tra lo stupore generale per quel piccolo incidente. Come riuscisse a ben interpretare la parte dello spasimante della principessa rimaneva un mistero per coloro che avevano a che fare con lui nella vita di tutti i giorni.

«Certo, se mi è possibile. Intanto qui ho appena finito, devo solo caricare questa merce su un carro e tornare a casa» gli spiegò, accennando ai pochi barili che aveva appena acquistato.

«Puoi chiedere se c'è la Millenaria?» domandò allora il contadino di Defi. Avrebbe voluto indicare la locanda e la taverna poco distanti, ma si trattenne dal farlo per non attirare troppe attenzioni; precauzione inutile, dato che nessuno, neanche i funzionari reali, badava all’incontro tra i due ragazzi.

«La Millenaria è partita giorni fa, non c'è bisogno che chieda» rispose Gaetano con un piccolo sorriso. Conosceva quella nave perché era su quel legno che aveva visto Chiara imbarcarsi per l’isola a sud, pronta ad affrontare il proprio destino. «Penso che tornerà tra qualche giorno, doveva andare nel Pecama e tornare.»

«Sei sicuro che tornerà qui?» chiese Claudio, preoccupato. «Non andrà da qualche altra parte?»

«No, non credo: il capitano mi ha assicurato che poi sarebbe tornato per inviarmi una lettera sulla riuscita del viaggio» gli confidò il ragazzo del Pogudfo. Era in apprensione per la traversata, ma aveva udito della buona fama della Millenaria e del suo equipaggio; il capitano, suo coetaneo, gli aveva fatto una buona impressione e gli aveva garantito che la principessa Delle Foglie sarebbe giunta sana e salva nella sua patria. Probabilmente la preoccupazione di Gaetano era eccessiva, ma se Raissa Autunno fosse stata interessata a quanto accadeva in quello sputo di terra che era il Pecama, lui non sarebbe potuto intervenire in alcun modo. Si era esercitato con una spada di legno che aveva intagliato con le sue mani, quindi in qualche modo era preparato; ma era ben consapevole che trovarsi in un corpo a corpo, magari contro un soldato addestrato, era tutt’altra faccenda che sfidare gli alberi dei suoi terreni. «Ma di' un po': la accompagni da solo?» aggiunse poi, conscio del fatto che Claudio non aveva mai maneggiato alcuna arma.

Infatti lui rise, come prima reazione. «Assolutamente no, sai che non potrei difenderla neanche da una zanzara. La soluzione che abbiamo trovato non piace troppo a nessuno dei due, ma è la migliore.»

«Meglio che tu non mi dica altro, altrimenti ti lascerai sfuggire sicuramente qualche cosa di troppo» disse Gaetano, prudente. Se aveva capito bene, Flora era in fuga dai genitori; e se i funzionari avessero carpito informazioni da poter successivamente riferire alla regina, lui avrebbe passato dei guai seri. «E, poi, qui tutti hanno bocca e orecchie. Devo tornare a casa con questa roba, ci si vede.»

I due amici si lasciarono con un sorriso e brevi parole di saluto. Claudio approfittò della confusione degli scaricatori e, soprattutto, dello schiamazzo di alcuni uomini ubriachi che uscivano dalla taverna scortati da un paio di guardie, per allontanarsi dal porto senza farsi notare e raggiunse gli altri due esattamente dove li aveva lasciati.

L'espressione sul suo viso era distesa e soddisfatta, perché era riuscito a ottenere le informazioni che cercava senza correre alcun rischio, ma il mercenario non sembrava della stessa opinione.

«Perché ti dico di fare una cosa e tu invece fai altro?» domandò con disappunto.

Flora arricciò il naso: concordava con Arturo, ma non era disposta a dimostrarlo in alcun modo.

«Ho incontrato un amico» disse Claudio, ignorando il suo tono poco conciliante. «Mi ha detto che la Millenaria tornerà tra qualche giorno perché è partita per il Pecama.»

L’altro annuì. Da quanto aveva visto, era certo, almeno, che Alcina non avrebbe mai saputo dove fosse diretta la figlia, perché nessuno dei suoi uomini si era avvicinato ai due, che si erano incontrati innocentemente, come amici di vecchia data quali erano.

«Ci possiamo fidare?» chiese Flora, ansiosa. Per quanto riponesse la propria fiducia in Claudio, non poteva essere sicura del giovane di cui aveva parlato.

Tuttavia, lui annuì, convinto. «È il fidanzato della ragazza che lui sta accompagnando giù» spiegò cripticamente. Sapeva che la principessa voleva far sapere al mercenario meno cose possibile di sé, quindi provò a spiegarsi in tale maniera criptica, ma il suo sforzo era vano.

«C'ero anche io quando ne hai parlato» gli fece notare Arturo, che fu sul punto di sorridere, interrotto da un’occhiataccia non molto benevola da parte della fanciulla, che si era seduta su un masso e lo scrutava con acrimonia.

«Comunque Millenaria è un nome strano per una nave» constatò Claudio, cambiando argomento, senza che la sua considerazione ricevesse una risposta dagli altri due: Flora era ormai di pessimo umore, dopo aver trascorso un’intera giornata fianco a fianco a un individuo di cui diffidava; e parimenti il mercenario per aver sopportato per ore i capricci dell’insopportabile principessa.

Claudio posò vicino a sé la sacca che aveva portato sulle spalle durante la camminata fino al porto, ne estrasse del pane e, dopo averlo spezzato, lo porse ad entrambi: la fanciulla ne mando giù qualche boccone seduta su un masso, mentre Arturo rispose che avrebbe mangiato più tardi, durante il turno di guardia.

«Quando sarò troppo stanco, ti sveglierò e prenderai il mio posto, d’accordo?»

Sebbene il tono di voce del mercenario si sforzasse per non mostrare il fastidio che provava per l'atteggiamento che la principessa continuava ad assumere in sua presenza, quello era più un ordine che una cortese richiesta. Il giovane diresse, come fecero anche gli altri, lo sguardo verso occidente: il sole si avvicinava alla linea dell'orizzonte, inondando il cielo di una luce sempre più fioca, mentre raggi caldi irradiavano il porto, gli uomini e le navi pennellando ogni minima superficie con una coloratura ambrata, come di un biondo topazio avvicinato a una torcia.

Flora sospirò, pensando a quanto si stava lasciando alle spalle: la vita agiata, i profumi e le fragranze del giardino, le delizie della tavola e la possibilità di utilizzare i suoi sali da bagno che giungevano dal Rosonebro. Iniziava a sentire la stanchezza fisica della camminata, che i tre avevano intrapreso poco dopo l'alba, e l'odore aspro del proprio sudore; era infastidita dal non sapere quando avrebbe potuto lavarsi, ma non disse nulla ad alta voce, anche se non poteva evitare di palesare il suo disagio. Piuttosto che eseguire la volontà della madre, che voleva ad ogni costo maritarla a Nicola, avrebbe sopportato qualsiasi situazione il futuro le avrebbe riservato. Tranne la presenza di un mercenario: nonostante la fiducia di Giampiero, non era ancora certa di poter accordare la propria a qualcuno che si faceva pagare per servire sotto le armi.

Sbuffò, immersa nei propri pensieri, constatando come osservare il mare da vicino le infondesse una maggiore serenità dello spiarlo da lontano dal balcone della sua camera.

Decise di fidarsi: ormai era in viaggio e non aveva alternative. Se Arturo l’avesse protetta fino al luogo della profezia e poi nel ritorno al Defi, non avrebbe avuto motivo di preoccuparsi; neanche se si fosse trattato di Raissa. E poteva sempre contare sulle ricchezze della propria famiglia: se il mercenario avesse richiesto altro denaro per non spifferare nulla di quella missione, lo avrebbe sborsato; e… se Franco si trovava nel Pecama, avrebbe potuto raggiungerlo.

Sorrise, giocherellando con uno stelo d'erba e, quando il giovane uomo dalle spalle larghe le lanciò un'occhiata, non mutò l'espressione del viso.

 

(Ultima revisione: 29/05/2020)

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Capitolo 17
*** 5.3 Crocevia ***


 

Virgilio aveva deciso di far entrare la Millenaria nel porto solo quando sarebbe stato certo che i suoi ospiti non avrebbero corso alcun tipo di rischio: attraccando, chiunque sarebbe potuto salire a bordo del mercantile, e con il favore della poca luce che precedeva la giornata avrebbe potuto eludere la sorveglianza dei suoi uomini per arrivare ai nobili che riposavano nella cabina e...

Il capitano non aveva osato formulare un tale pensiero, ma con premura aveva dato ordine di gettare l'ancora quando erano ancora distanti da Punta Salina.

Sebbene già al termine del duello il sole avesse iniziato a mostrare i suoi raggi dall'orizzonte occidentale, Virgilio non aveva tuttavia ritenuto prudente avvicinarsi al molo; in questo modo, poi, avrebbe potuto permettere all'equipaggio di riposare per poche ore.

Dunque fu solo a giorno fatto che scese sottocoperta dai suoi uomini, intimando loro di riprendere i propri posti sulla nave per attraccare a Punta Salina. Dopodiché si recò presso i suoi ospiti, dispiacendosi interiormente di non poter concedere loro ulteriore riposo, ma presunse che l’avrebbero trovato sulla terraferma, alloggiando in qualche taverna. D’altra parte i tre viaggiatori avevano più tempo a disposizione di quanto ne avesse lui per i suoi viaggi attraverso il Mar Litil, dovendo tornare nel continente settentrionale per sistemare alcune questioni spigolose.

Bussò alla cabina immerso nei propri pensieri, tanto che quasi non si accorse che la principessa Delle Foglie gli aveva aperto la porta; ma si riprese in fretta, mostrandole un sorriso gentile, mentre lei sembrava essersi destata nel mezzo del sonno.

«Stiamo per attraccare, e presto voi dovrete scendere» la informò. «Mi spiace avervi lasciati dormire così poco, ma ho delle faccende da sbrigare.»
«Di già?» domandò lei con gli occhi semichiusi. I capelli le ricadevano scomposti sul viso, nonostante la fanciulla li pettinasse all’indietro con la mano.

«Mi spiace, ma ho altri impegni presi precedentemente» rispose il capitano con una mogia alzata di spalle.

«Che cosa succede?» chiese una voce dall'interno, quella del principe Inverno. Erik infatti era stato svegliato dal bussare alla porta, ma solo all’udire l’avviso del capitano aveva aperto gli occhi. Dunque si alzò dalla branda e raggiunse repentino i due.

«Siamo arrivati a Punta Salina» precisò Virgilio. Per quanto gli avrebbe fatto piacere discorrere ancora con i due nobili, preferiva non enunciare dinanzi a loro per quali ragioni urgeva la ripartenza della Millenaria verso il Defi. C’era più di un segreto che il capitano del mercantile custodiva gelosamente, da non rivelare per alcuna ragione.

«Dobbiamo prepararci a scendere a terra?» domandò Erik, che sembrava essersi riposato a sufficienza durante il breve sonno. Il principe si sentiva rinvigorito: lo scontro con il grunmit, il duello con Franco e l’eccitazione per essere giunto nel Pecama di nascosto ai genitori erano tre fattori che, combinati assieme, gli avrebbero impedito di assopirsi nuovamente.

Il capitano rispose affermativamente e diede loro congedo, allontanandosi per risalire in coperta a controllare i suoi uomini, come disse ai due.

L'Inverno annuì, comprensivo, mentre la Delle Foglie già era tornata all'interno della cabina per svegliare il suo compagno di viaggio.

Pochi minuti dopo erano con i piedi ben piantati sulla terraferma.

«Non ero mai stato nel Pecama» disse semplicemente Franco, mentre Chiara si guardò intorno, come cercando qualche indizio che le comunicasse di essere più vicina al luogo in cui era nata; ma il regno del Mare si distingueva da quello delle Foglie per diversi fattori, non ultimo quello dell’indole degli abitanti: la sua gente, al contrario dell’ospitale popolo presso cui la Millenaria era sbarcata, non avrebbe accolto con grande interesse il suo ritorno a casa, come Chiara ben sapeva. Anzi, in realtà lei sperava nell’indifferenza generale, perché l’uccisione dei suoi genitori sembrava essere stata opera di qualcuno dei suoi futuri sudditi: non voleva essere in pericolo ancor prima di arrivare.

Erik diede ai due viaggiatori qualche veloce indicazione su come raggiungere il Regno delle Foglie, consigliandoli caldamente di non attraversare il regno dei Prati, perché quel popolo non era in buoni rapporti con quello della fanciulla: avrebbero allungato, ma sarebbe stato più saggio passare per il regno dell’Estate e quello della Primavera.

«Oppure possiamo approfittare dei Monti Dupro e passare per l’Autunno» considerò Chiara.

Il principe Inverno sospirò, consapevole del fatto che non sarebbe stato opportuno penetrare nei possedimenti di Amelia e Ruggero che un giorno, con tutta probabilità, sarebbero appartenuti a Raissa.

I tre giunsero insieme alle porte della locanda che affiancava il porto, dove le loro strade si sarebbero divise: Erik sarebbe entrato per rifocillarsi prima del brevissimo viaggio che lo avrebbe finalmente condotto presso la corte dei Dal Mare; gli altri due si sarebbero diretti a piedi verso il Regno delle Foglie.

Fu in quel momento che il giovane di Nilerusa prese la parola, rivolgendosi al figlio dei suoi sovrani. «So che sto per chiederti molto, ma devo pregarti di non dire di me ai tuoi genitori.»

Era una richiesta che Franco stava continuando a rimandare da quando Erik gli aveva stretto la mano dopo la fine del duello, anche se temeva che gli venisse rifiutata, perché, da un certo punto di vista, non aveva alcun diritto di farla. Aveva pronunciato quelle parole con la paura che non sarebbero servite a nulla, che Alcina e Tancredi avrebbero saputo di lui e che, nel Defi, avrebbero potuto fare del male alla sua famiglia.

Tuttavia, il principe gli porse la mano, amichevole.

«Non sapranno mai nulla» gli promise. «Spero che questo sia solo un arrivederci.»

Franco la strinse, sollevato. «Grazie.»

Erik salutò la principessa Delle Foglie con un piccolo inchino, anticipando quella referenza che sperava la ragazza avrebbe ricevuto una volta arrivata a corte e lei gli sorrise in silenzio.

Li osservò incamminarsi verso sud, in una direzione che non lasciava intuire quale sarebbe stato il loro itinerario, per alcuni istanti prima di varcare la soglia della locanda.

Era ormai metà mattino e molti degli avventori si stavano congedando per salire sulle navi in partenza. La ricca varietà delle persone che popolavano quei luoghi di transito era sempre notevole, ma in questo quella di Punta Salina si distingueva. Sembrava che davvero non ci fosse persona su Selenia che non desiderasse giungere nell'isola meridionale almeno una volta nella vita e quello era il luogo più vicino al continente, in cui i viaggiatori erano quasi costretti a sostare per il bisogno fisico di rifocillarsi dopo una traversata in mare.

A un tavolo dei giovani abbigliati alla maniera del nord-est, cioè con pelli scure tenute insieme da vistose spille di diverso colore, chiacchieravano con eccessivo brio; notarono quasi immediatamente il principe Inverno-Primavera, ma questo non impedì loro di proseguire nel baccano quasi molesto.

In un angolo appartato, un paio di anziani sacerdoti del Sole trangugiavano della zuppa dalle scodelle in religioso silenzio, come se ne avessero fatto voto alla loro divinità, affiancati da alcuni mercanti che, stranamente, invece di sfoggiare le proprie merci, avevano soltanto posato sul tavolo al loro fianco diversi tipi di amuleti dalle funzioni più svariate e attendevano che venisse portato del cibo.

In molti stavano abbandonando la locanda in ordine sparso, lasciando ai fanciulli e alle fanciulle che vi lavoravano monete dalla più disparata provenienza, prima di uscire. E, tra questi, un giovane urtò Erik proprio sulla soglia con una spallata, allontanandosi velocemente al di là della porta d'ingresso.

In una differente circostanza il principe si sarebbe considerevolmente adirato, ma riuscì a comprendere la fretta che si poteva avere nel lasciare quel luogo: una nave su cui imbarcarsi, affari urgenti da sbrigare, ambulanti insistenti che non lasciavano mangiare in pace i presenti… Ne vide proprio uno venire congedato una figura a lui ben nota, che, per un motivo che Erik ignorava, era seduta a un tavolo in un angolo quasi remoto della sala, circondata da quella che aveva tutta l’aria di essere una scorta: il principe vide delle else spuntare malcelate dai mantelli da viaggio di uno di quegli uomini robusti e uno di loro aveva persino uno spadone dalla lama larga.

Anche Dante Dal Mare riconobbe l'Inverno e gli fece un cordiale cenno per invitarlo ad avvicinarsi e a prendere posto di fronte a lui; mormorò qualcosa ai soldati che lo accompagnavano e questi si alzarono dal tavolo per accomodarsi a quello alla destra.

Erik sorrise a quella premura: la discrezione era una delle qualità di Dante che più apprezzava; almeno in pubblico, perché quando i due parlavano lontano da orecchie indiscrete, il Dal Mare sapeva essere inquisitorio quasi quanto Luciana Lugupe, anche se aveva l'accortezza di non divulgare mai il contenuto di alcuna conversazione; e, soprattutto, non sembrava aver sempre un secondo fine quando parlava con lui.

Il giovane originario del più ospitale regno del Pecama lo salutò con calore, stupito di trovarsi insieme al principe di Defi proprio in quel luogo di transito.

«Quali novità?» gli domandò subito, incuriosito dalla strana circostanza che vedeva Erik in arrivo sull’isola e lui in partenza.

L’Inverno rimase titubante per un istante, e in ciò venne favorito dall’arrivo di una ragazza che gli chiese cosa desiderasse ordinare.

«Lo stesso che ho preso io» intervenne Dante, prima ancora che l’altro potesse aprir bocca e, non appena la fanciulla che volteggiava tra i tavoli fu abbastanza distante, aggiunse: «Non ti vedo in gran forma: dovresti mangiare qualcosa.»

Il Dal Mare si era accorto di uno stato di lieve turbamento nel coetaneo ed era certo che, parlandone davanti a una triglia pescata e subito cucinata con abbondanza di condimenti raffinati, avrebbe avuto modo di risollevare l’animo dell’Inverno.

«Ho dormito poco» rispose questi, semplicemente, sebbene non volesse rivelare per quale ragione.

«Brutta traversata? Il mare è stato molto calmo negli ultimi giorni…» osservò il Dal Mare, stupito.

Erik scrollò le spalle, non avendo intenzione di entrare di più nello specifico: preferiva mantenere per sé l’incontro che aveva avuto luogo a bordo della Millenaria; anche se la presenza di Franco sulla stessa isola in cui era suo padre lo impensieriva solo in minima parte. E non sapeva quanto fosse saggio raccontare della presenza di un grunmit nel Mar Litil.

«Quindi, com’è che sei qui?» insisté Dante. «In genere quando arrivi a Punta Salina, poi corri spedito alla corte dei miei genitori… e non siamo stati avvisati del tuo arrivo.»

«Non ho avuto il tempo di mandare neanche una lettera» ammise l’Inverno, sconfortato. Non sapeva quanto la sua improvvisata presso i Dal Mare sarebbe stata ben accolta, anche se non aveva mai ricevuto la percezione di ostilità, né dal re né dalla regina… né tantomeno da qualsiasi membro della corte. Sollevò lo sguardo sul volto squadrato del pari grado e non seppe comprendere cosa si agitasse al di là dei suoi occhi. «Sono qui per parlare con tua sorella» confessò infine, in un sussurro. Non aveva motivo di credere che Dante ne avrebbe fatto parola con qualcuno e lui avvertiva dentro di sé il crescente bisogno di qualcuno che conoscesse i suoi timori; almeno quelli rivelabili.

Il principe Dal Mare non disse nulla, ma sul suo viso si dipinse la più viva curiosità: gli occhi scuri si spalancarono, attenti, e le orecchie si tesero per carpire ogni parola che sarebbe stata pronunciata da Erik Inverno.

«Sai che è morto re Guglielmo, vero?» domandò dunque quest’ultimo, non sapendo se la notizia fosse giunta sin nel Pecama dopo appena pochi giorni.

«Certamente» annuì Dante, provocando un minimo stupore nell’altro: sembrava ovvio che ne fosse al corrente; ma come era possibile che l’isola a sud già conoscesse gli infausti eventi del nord? La Millenaria, però, rifletté lucidamente l’Inverno, poteva non essere la prima nave che attraccava nel Pecama dopo l’uccisione di Guglielmo Lotnevi… senza dimenticare che probabilmente un falco, o un altro volatile molto veloce, avrebbe già potuto consegnare un dispaccio inviato dallo Cmune o da qualcuno dei regni limitrofi.

«Credo che qualcuno voglia incastrare Ariel» disse soltanto, abbassando improvvisamente la voce.

«Cosa?» esclamò Dante all’improvviso, spalancando gli occhi. Per un istante fu sul punto di colpire il tavolo con il pugno, che poi però aprì, poggiando i polpastrelli sul legno, contenendo la rabbia che lo aveva pervaso all’udire quelle parole. «Ariel? Perché? Non farebbe del male a una mosca!»

«Questo io lo so» puntualizzò Erik, affatto stupito dalla reazione dell’altro; pur trattandosi di un giovane nato e cresciuto in un ambiente estraneo agli intrighi tra le corti, in cui l’armonia e la festosità regnavano sovrane, il fatto che qualcuno avrebbe potuto puntare il dito contro la sorella minore lo aveva scosso. «Ma non so quanto il resto di Selenia possa essere disposto a crederci. Nessuno sa che lei potrebbe essere coinvolta, eccetto noi due e Nicola. Devi giurarmi di non dire niente a nessuno.»

«Nicola? Non sarà colpa sua, vero?» chiese Dante, con un tono di voce più disteso. Per quanto non credesse Nicola Lotnevi in grado di architettare alcunché, quella domanda era lecita, almeno per fugare ogni dubbio.

«Abbiamo trovato un oggetto che le appartiene» gli spiegò Erik, rimanendo sul vago, non ritenendo plausibile che il futuro sovrano dello Cmune avesse a che fare con l’uccisione del padre. «Dante, ho bisogno della tua parola, la questione è molto delicata…»

«So quanto possa esserlo» mormorò lui, pensieroso. «Credevo fosse ovvio che tu hai sempre la mia parola. Ma ho bisogno di sapere con certezza che Ariel non finirà nei guai… è ancora una ragazzina...»

L'Inverno sospirò. Era certo che il Dal Mare avrebbe tenuto per sé una tale confidenza e aveva altrettanta sicurezza sulla propria capacità di gestire bene la vicenda. - Non ci finirà, finché sarò io a occuparmene - disse soltanto, con aria solenne, quasi in contrasto con il luogo in cui quelle parole venivano pronunciate, con un sottofondo di posate in piatti di varia grandezza e dal contenuto dei più variegati, probabilmente, tra tutte le locande di Selenia, grazie al porto trafficato che permetteva al commercio alimentare di essere molto florido.

A quel punto il volto di Dante si rilassò, mostrando un sorriso che, in realtà, soffocava una risata a cui si sarebbe volentieri abbandonato. «E non c’entra niente un possibile matrimonio tra voi due? Sai, a corte chiacchierano parecchio di te e Ariel...»

Erik lo squadrò contrariato: immaginava che tra i cortigiani festaioli e frivoli della corte Dal Mare spargessero dicerie sul suo conto, ma preferiva rimanerne all'oscuro. L'ultima cosa che rientrava tra i suoi desideri era rimanere impigliato in trame amorose di luoghi che lo interessavano solo saltuariamente.

«Assolutamente no» asserì, fermo. «Si tratta di mera giustizia, non di matrimoni. E poi lo sai: non mi entusiasma molto l’idea di sposare Ariel... Non perché io abbia una cattiva opinione di lei, lo sai, ma non penso che sarebbe vantaggioso per nessuno dei due.»

«E poi non vuoi sposarti» rise Dante, non riuscendo più a controllarsi. Figlio di un regno di pace, si lasciava spesso trasportare dall’ilarità: la rabbia provata poco prima era già un ricordo remoto.

«Puoi prendermi in giro quanto vuoi, ma non cambierai per questo quello che penso» ribatté l’Inverno, infastidito, scrollando le spalle, e non condividendo affatto il divertimento dell’altro.

Furono interrotti dall'arrivo di uno dei giovani camerieri che portava loro due triglie pescate al mattino e cucinate appositamente per i due illustri ospiti, che mangiarono in un comune silenzio che durò diversi minuti, nei quali ognuno rimase immerso nelle proprie riflessioni.

Nonostante la breve chiacchierata con Dante, Erik non poteva fare a meno di pensare a Chiara Delle Foglie e al suo accompagnatore: si domandava quale strada avessero deciso di intraprendere, se quella più sicura attraverso i regni di Estate e Primavera, o quella in cui avrebbero rischiato di incontrare soldati di Amelia e Ruggero Autunno, verso sud. Se non fosse stato preso dall'imminente colloquio che intendeva tenere con Ariel, li avrebbe di certo accompagnati. In parte si sentiva responsabile per le sorti del regno delle Foglie Cadute: come suo padre gli aveva insegnato, se in un regno si verifica una disgrazia, come può essere la morte improvvisa dei regnanti, è compito dei sovrani alleati e confinanti portare ogni aiuto possibile, senza cercare un secondo fine. Il principe di Defi non avrebbe mai pensato di stabilire un'egemonia sotto il suo nome alla futura corte di Chiara delle Foglie, ma era consapevole che senza un suo intervento la giovane avrebbe governato con continue difficoltà almeno per i primissimi anni; ammesso che quel popolo tumultuoso e in perenne rivolta non decidesse di eliminare anche lei e di dare inizio a una lotta interna che l'avrebbe certamente dilaniato.

Scacciò con uno sbuffo quel tornado di possibilità che gli sconvolgeva la mente. Al momento non c'era niente che lo obbligasse a correre in soccorso della principessa, che aveva già un cavaliere al suo servizio.

Solo dopo aver ripulito per bene il piatto, Dante disse: «La morte di re Guglielmo inizia a preoccuparmi. Abbiamo ricevuto la convocazione dei Lupfo-Evoco e credo che si parlerà soprattutto di questo. Se quello che hai detto tu è vero, cioè che cercano di incastrare Ariel, non posso stare tranquillo.»

«I Lupfo-Evoco?» Erik quasi sobbalzò, mantenendo tuttavia la padronanza di sé. «Ma loro non sanno niente di Ariel, è inutile impensierirsi. Piuttosto, lei negli ultimi giorni è stata sempre qui, vero?»

Dante annuì.

«Allora puoi stare molto più che sicuro: le mie labbra sono sigillate, così come lo sono quelle di Nicola» gli assicurò Erik. «Al palazzo sono già svegli?» si informò in un secondo tempo, sperando di trovare almeno uno dei due sovrani pronti ad accoglierlo non appena giunto al castello.

«Mia madre lo era quando sono partito questa mattina, ma probabilmente ora lo saranno tutti» gli rispose il Dal Mare, pulendosi la bocca con il tovagliolo. Lanciò un’occhiata impaziente all’ingresso della locanda, come se attendesse qualcuno, considerando chiusa la sua conversazione con l’Inverno, che non disse nulla, limitandosi ad annuire.

Dante tirò un sospiro di sollievo nel veder entrare il capitano della nave che lo avrebbe condotto a nord, nel Defi.

Il principe dagli occhi scuri salutò l'amico con un sorriso e una solida stretta di mano, e uscì dalla locanda dopo aver lasciato sulla tavola un abbondante gruzzolo di monete d'argento, sufficienti a pagare anche l'ordinazione di Erik, che sorrise per il gesto ospitale. Gli dispiaceva della partenza di Dante: dei membri della famiglia reale, era quello che gli sembrava avere più premura per gli affari di politica estera e quello che più si dava da fare nel concreto per mantenere il benessere dei sudditi, mentre non troppo lontano da lì c'era il rischio di una guerra di popoli.

Lasciò la locanda e pagò il noleggio di un cavallo, ritrovandosi a percorrere a velocità contenuta la via lastricata che costeggiava il mare, incantato dalla vista della distesa che scintillava davanti ai suoi occhi, come uno zaffiro lucente osservato alla luce del sole. Sospirò, abbandonandosi al suono dolce e ritmato del respiro delle onde che morivano al contatto con la riva sabbiosa e proseguì, libero da ogni pensiero grazie all'eterna melodia dell'acqua.

 

(Ultima revisione: 29/05/2020)

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Capitolo 18
*** 6.1 A piedi scalzi ***


(Capitolo revisionato)

Erik avanzava sul lastricato che costeggiava la spiaggia, senza spronare il cavallo noleggiato; non aveva alcuna fretta di giungere presto, nonostante l'urgenza della sua missione. Vedeva stagliarsi poco a poco le mura che circondavano il palazzo reale e ad ogni passo il battito del suo cuore accelerava il ritmo. Come spiegare la sua presenza lì? Sapeva che Dante aveva ragione: in molti si aspettavano che lui un giorno domandasse la mano di Ariel Dal Mare. Ma il giovane principe non voleva, e per più di una ragione: oltre alla sua ferma decisione di rimandare il suo matrimonio finché non l'avrebbero costretto, non conosceva abbastanza Ariel da sapere se, in futuro, sarebbe stata la donna ideale da avere al proprio fianco. Inoltre non aveva intenzione di trattenersi alla ricerca di una moglie, almeno per il momento; la scelta sarebbe stata delicata e vincolata ai benefici che ne avrebbe ottenuto, ne era ben consapevole. I genitori sarebbero stati molto attenti per quanto riguardava il suo futuro, così come lo erano stati nel programmare quello della sorella.

Per un momento, i suoi pensieri corsero al giovane di Nilerusa amato da Flora, diretto nel regno delle Foglie insieme alla futura sovrana, ed Erik si chiese se per i due sarebbe stato possibile un futuro insieme. Scosse il capo, mestamente: certo che no, piuttosto che correre il rischio Alcina avrebbe fatto qualsiasi cosa, tanto più che la principessa Primavera era già stata promessa a un altro.

E lui? Come si sarebbe comportato Erik se non fosse stato concorde con le scelte dei genitori? Di una sola cosa era sicuro: che qualsiasi azione avrebbe compiuto, sarebbe stata il frutto di una lunga riflessione, valutando quale fosse il bene del regno. Ma quale regno, poi? Oltre al regno d'Inverno che gli spettava per nascita in quanto erede maschio, avrebbe governato lui nel Defi, o questo sarebbe passato sotto il controllo di Flora, in modo da annetterlo allo Cmune?

Viaggiava troppo con la fantasia e la vasta gamma di possibilità che gli si affacciavano alla mente lo confondevano, quasi al punto di sopraffarlo: già non udiva più il suono del mare, che lo aveva accompagnato fino all'ingresso delle alte mura, che, obsolete, ricordavano un passato oscuro e pieno di tensione; tuttavia quella prima impressione era mitigata dal colore chiaro della sabbia, che ricopriva le superfici esteriori del castello e i cui granelli risplendevano alla luce solare, ferendo gli occhi di chi li posava in direzione della dimora dei regnanti.

Il principe Inverno entrò, salutando cordialmente i dignitari di corte che passeggiavano nel cortile sabbioso che separava la reggia dal mare. Notò a malapena l'assenza di soldati ai varchi delle mura, ben consapevole che lì erano una precauzione non necessaria: i Dal Mare erano benvoluti in patria, come lo erano negli altri luoghi di Selenia.

Erik conosceva le stravaganti usanze di quella corte, presso cui ognuno era libero di comportarsi a suo piacimento. Se fosse stato tanto audace, avrebbe potuto spingersi sin nelle stanze più intime della regina per chiedere un colloquio privato e nessuno lo avrebbe trovato bizzarro. Ignorando gli sguardi dei cortigiani che si posavano inevitabilmente su di lui, si diresse alla sala del trono, sperando ardentemente di potervi incontrare il re: nonostante gli usi locali, riteneva giusto domandare il permesso per conferire con la principessa.

Lo spazioso salone in cui giunse era pieno di cortigiani che chiacchieravano allegramente tra di loro. Alcuni chinarono il capo nello scorgere l'Inverno, ma senza prestargli molte attenzioni. Il principe si fece largo tra la folla, alla ricerca del Re Amintore, un uomo dalla statura non imponente e dall'espressione bonaria. Lo individuò presso una delle ampie vetrate, tutte spalancate, che si affacciavano verso il mare e da cui entrava la luce del sole rifranta dalle onde, in grado di illuminare a giorno ogni angolo della sala senza ulteriori artifici. A qualche passo dal re Erik intravide una tavola imbandita e apparecchiata con dolci e squisitezze di ogni genere, da cui dedusse di essere capitato nel regno in occasione di qualche festa particolare. Forse una ricorrenza importante di cui non aveva memoria?

Il re era accompagnato dalla consorte, mentre si intratteneva con un ambasciatore giunto dallo Dszaco, come testimoniava la spilla con cui erano fermate le sue vesti: un cerbiatto, il simbolo della famiglia reale dei Lugupe. La regina Silvia si accorse dell'arrivo dell'ospite inatteso, ma non per ciò sgradito, e gli rivolse un gran sorriso sussurrando qualcosa al marito.

Amintore Dal Mare si congedò dall'ambasciatore e mosse i pochi passi che lo separavano da Erik Inverno, facendogli cenno con un sorriso di seguirlo all'esterno della sala, nel corridoio, dove il vociare della corte giungeva più fioco, permettendo al re di riceverlo.

«Principe Erik! Non vi aspettavamo!» esordì con un sorriso accogliente sulle labbra.

Il giovane rispose a sua volta con sorriso. «Non sapevo che sarei arrivato qui, se non in tempi troppo brevi per farmi annunciare da una lettera. Vi chiedo perd…»

Il sovrano scosse la testa. «Non avete perdono da domandare: siete sempre un ospite ben accetto alla nostra corte. Ma vedervi qui mi fa sorgere un dubbio.» L’Inverno non disse nulla, attendendo che fosse l’altro a parlare e a rivelare i suoi pensieri; per quanto fosse un re accogliente e ben disposto nei suoi confronti, gli avrebbe mancato di rispetto se lo avesse interrotto o incalzato.

Amintore si guardò intorno, come per assicurarsi di non avere su di sé gli sguardi dei cortigiani che entravano e uscivano dalla sala del trono.

«Credevo che voi foste ai Lupfo-Evoco» gli confidò, improvvisamente preoccupato. Erik si stupì per il repentino cambio di espressione sul volto corrucciato del sovrano: possibile che l’altro conoscesse dettagli a lui ignoti? Che fosse al corrente della possibile implicazione della figlia nell’uccisione di Guglielmo di Cmune?

«No, Maestà, non sapevo che fossero convocati fino a quando non ho incontrato vostro figlio in procinto di imbarcarsi» asserì senza lasciar trapelare i suoi pensieri. Non gli parve opportuno cambiare argomento di conversazione, domandando ad Amintore di poter incontrare la principessa, quindi attese che fosse l’affabile re a parlare nuovamente.

«Dal momento che siete qui, siete mio ospite, ordinerò che vi venga preparata una stanza nella zona migliore del palazzo. Avete dei bagagli con voi?» domandò con premura.

Erik scosse appena la testa. «No, mio signore. La nave su cui viaggiavo ha subito un attacco e sono dovuto fuggire, lasciando lì tutto quello che avevo, eccetto la mia spada.»

«Mi sembra molto strano» constatò preoccupato re Amintore. Abbassò lo sguardo, nuovamente incupito, fissando un punto imprecisato del marmo chiaro della pavimentazione. «Nei nostri mari non ci sono mai stati dei pirati.»

«Non si è trattato di pirati, ma di un mostro marino» spiegò il principe con semplicità.

Il re lo guardò sorpreso, quasi spaventato, pronunciare quelle parole. Aggrottò la fronte, ma non disse nulla che lasciasse trapelare la paura interiore che invece coltivava. Sospirò, cercando di allontanare pensieri spiacevoli.

«Potrebbe trattarsi di un caso isolato» provò a minimizzare Erik, senza tuttavia esserne molto convinto. Vide l’espressione sul viso del re farsi più distesa e credette di averlo persuaso, inconscio delle riflessioni che avevano davvero sedato l’improvvisa agitazione del sovrano.

Amintore sapeva che nelle loro mani c'erano dei mostri marini, sebbene ignorasse quali: la minaccia di inviarne uno sulle sue coste a distruggere gli allevamenti di pesce e i villaggi costieri lo aveva molto suggestionato, al punto di firmare un accordo di reciproca neutralità: il regno dal Mare sarebbe rimasto intatto, se i sovrani si fossero astenuti dall'intervento nelle questioni che gli Autunno avevano in sospeso con le altre casate. Lui e sua moglie Silvia avevano accettato quell'accordo, perciò si ritenne al sicuro: Ruggero aveva certamente liberato il mostro come minaccia a un loro eventuale rifiuto e con molta probabilità c'erano già delle navi del Ruxuna che vagavano per il Litil cercando la bestia.

Dopo un istante di tentennamento, assunse la solita espressione allegra e gioviale, con cui cambiò argomento: «In questi giorni festeggiamo la nascita del Figlio del Mare e stasera qui a palazzo ci sarà un ballo in maschera.»

L’Inverno fece segno di assenso con il capo, certo che Amintore avrebbe inviato dei marinai per controllare se il grunmit si fosse avvicinato alle sue coste, senza informarne un solo membro della corte, dedita alle più varie frivolezze. E, considerando la scarsa fiducia che Erik stesso riponeva nei cortigiani di quel regno, non poté biasimarlo: chiunque si sarebbe rivolto a figure esterne.

La prospettiva di una festa in maschera non lo entusiasmava molto, poiché aveva poca dimestichezza con i balli e le feste pubbliche: gli era stato insegnato a coltivare nel privato la propria fede, se mai si fosse avvicinato a qualcuna delle divinità venerate a Selenia. Inutile dire che il giovane Inverno e la religione non avevano ancora incrociato le loro strade.

«Anche se non vorrete mascherarvi,» riprese il re, forse comprendendo il suo disagio, «sarete obbligato a venire e a indossare una semplice maschera sul viso, che abbia almeno qualche riferimento al mare. Oh, ecco Ariel!»

I capelli rossi furono la prima cosa di lei che catturarono l'occhio di Erik dall'estremità opposta del corridoio. Dalla sala del trono adibita a festa il vociare si levò sempre di più, mentre diversi membri della corte già avevano iniziato a occupare il corridoio, evitando la calca all'interno.

Al passaggio della figura minuta della principessa, i cortigiani presenti le cedevano rispettosamente il passo: Ariel dal Mare, splendida nel suo semplice abito verde chiaro, aveva un sorriso raggiante e saltellava allegramente, come una bambina ammessa dopo tante preghiere al mondo degli adulti.

Si fermò davanti ai due nobili e chinò il suo viso candido e cosparso di efelidi di fronte all’ospite, di cui le era stato annunciato l’arrivo. Ignorando il principe, si rivolse al padre, senza alcuna formalità: «È tutto pronto per questa sera?»

Lui annuì con un sorriso. «Tutto come hai richiesto tu.»

Gli occhi di Ariel brillarono, chiarissimi, segno limpido di una gioia che faticava a contenere. «Bene. Padre, vado in riva al mare. Principe Erik, volete accompagnarmi?»

Lui fu colto di sorpresa dalla domanda: non si aspettava certo un invito da parte della fanciulla a trascorrere del tempo da soli; ma, soprattutto, non voleva che anche lei si aspettasse quello che si aspettavano tutti, cioè quella proposta di matrimonio a cui il principe straniero voleva a ogni costo sottrarsi. Posò lo sguardo sul re, come per riceverne il permesso: il sovrano chinò appena il capo ed Erik tirò un sospiro di sollievo. Ne era certo, l'assenso di Amintore celava quel desiderio che pulsava nella corte, ma a cui lui non avrebbe ceduto: non avrebbe preso in moglie Ariel Dal Mare solo perché altri lo volevano; altri che non fossero Alcina e Tancredi, almeno.

Seguì la principessa attraverso corridoi dalle pareti chiare, del colore della sabbia, che sembrava ricoprirne la superficie come pennellate ruvide di un artigiano poco attento. Eppure ogni singola porzione di colore era stata applicata con dovizia e attenzione, tanto che la luce solare risplendeva dorata sin nelle stanze più interne come a mezzogiorno su un campo di grano.

Ariel camminava, spedita, ed Erik cercava di tenere il suo passo, allegro come una melodia danzabile. Volteggiava, la giovane Dal Mare, come protagonista di un sogno. E la magia che illuminava ogni angolo della residenza reale sembrava porla in una sua dimensione, come una sognatrice calata nella realtà che cammina in punta di piedi nel rispetto delle speranze altrui, di cui intuisce solo la presenza.

Solo quando uscirono all'aria aperta in uno dei cortili secondari, lui si accorse che la fanciulla era scalza; e, in un secondo momento, che la spiaggia in cui Ariel lo aveva condotto era deserta. La sabbia cedeva ben presto il passo a piccoli sassolini, che sembravano non ferire la pelle delicata della principessa, che si avvicinò alla riva e si sedette, stendendo le gambe fino a lasciare che le onde le colpissero dolcemente i piedi.

L'Inverno si sedette al suo fianco, pur tenendosi a debita distanza dalle frustate marine, rimuginando su quale fosse il modo di affrontare l'argomento che tanto gli premeva. Non era un diplomatico, lui: non si riconosceva una certa abilità con le parole.

Sentì la ragazza sospirare profondamente.

«Adoro questo posto» disse soltanto. «Nessuno qui può venire a disturbarmi, c'è una tale pace, un tale silenzio...»

«Ariel, io sono qui per un motivo molto importante» la interruppe invece Erik, brusco, deciso a tenere le redini della conversazione. Lei lo guardò, quasi distratta, lasciandolo libero di proseguire. «Sicuramente sai che è morto Guglielmo Lotnevi di Cmune.»

Lei annuì, guardando incantata il mare. Non avvertì neanche un minimo turbamento: non era legata a quell'uomo, né lo aveva mai incontrato di persona. Quella notizia le era giunta come un evento lontano, come sui libri di storia aveva avuto modo di leggere la distruzione portata dai draghi diversi secoli prima. Aveva compreso quanto accaduto, ma gli eventi l'avevano sfiorata a malapena, come se Guglielmo e la sua dinastia fossero stati spazzati via dai Draghi Bianchi, come era accaduto per molte famiglie reali che non si erano salvate in tempo, lasciando vuoto lo scranno al momento della vittoria definitiva.

«Sì, l’ho saputo» disse soltanto, senza voltarsi a guardarlo. Il tono della voce di Erik non le era sembrato affatto sereno, come se la pomposità con cui aveva pronunciato quella frase celasse qualcosa di importante.

«Io ero lì poco dopo che è stato ritrovato morto. Non sono disposto a credere che...» Lui esitò per un istante, poi estrasse il pugnale da una tasca del mantello. «Ho trovato questo, lì.»

Ariel sussultò, appena percettibilmente, riconoscendo la propria arma. «L'ho perso mesi fa» ammise, sulla difensiva. «Non ricordo neanche quando con esattezza.»

«Io devo chiederti, e devi assolutamente perdonare la mia assenza di scrupoli, se sei stata tu.»

Erik Inverno pose i suoi occhi di ghiaccio in quelli cristallini di Ariel Dal Mare, che ricambiò e sostenne lo sguardo. Entrambi non lasciavano trasparire sul volto la minima espressione. La sorpresa della fanciulla la portò a chiedersi come fosse possibile che il suo pugnale fosse non solo uscito dalla reggia, ma addirittura dal Pecama, venendo ritrovato in un regno che lei non aveva mai visitato. Il principe era impaziente: dopo il viaggio attraverso il Litil che lo aveva messo a dura prova, poteva finalmente avere una risposta che sembrava non giungere mai alle sue orecchie.

«A uccidere Guglielmo Lotnevi?»

«Sì.»

«No, non sono stata io» pronunciò decisa la fanciulla, volgendosi poi con un sospiro verso la distesa marina.

Il principe sospirò, rasserenato. «Era quello che mi aspettavo. Probabilmente qualcuno sta cercando di incastrarti.»

«Perché mai dovrebbero incastrare me?» domandò Ariel con un’impercettibile preoccupazione, senza capire.

Erik scosse la testa, incupito. Non gli piaceva dover ammettere di non possedere una risposta: era lui il primo a desiderarne una, magari veritiera. «Non ne ho idea, non so neanche chi possa essere stato. Devo restituirti il tuo pugnale, nessuno deve sapere dove l'ho ritrovato e meno che mai che sono stato io a trovarlo. Hai detto a qualcuno di averlo perso?»

«A mia madre» rispose lei, sovrappensiero. Cercò di riformare nella sua mente il ricordo del momento in cui si era accorta di aver smarrito il pugnale. Era un mattino gelido, in cui le acque agitate colpivano gli scogli a oriente di Punta Salina e lei passeggiava in compagnia di Melissa Autunno, ospite a corte, che le chiedeva ragguagli sulla sicurezza del regno, a cui i sovrani sembravano non badare affatto. La principessa Dal Mare era rimasta offesa dalle insinuazioni che quella sembrava fare, come se non credesse alla reale pace che regnava nelle terre della sua famiglia, salvo poi spiegarle che suo padre aveva dato ordine perché lei venisse di nascosto istruita sulle più semplici tecniche di difesa. Amintore aveva sostenuto che si trattava di una precauzione eccessiva, ma tuttavia valida, considerando il clima di guerriglia dei limitrofi regni di Prati e Delle Foglie. Ariel aveva appreso con singolare curiosità come potersi difendere in caso di agguato: dopo una dimostrazione pratica davanti agli occhi del re e della regina aveva ottenuto il permesso di poter uscire dalla reggia senza scorta, in abiti e in aspetti da popolana. Al momento di estrarre il pugnale dalla sacca di stoffa che aveva sempre con sé e nel quale aveva riposto l’arma, era rimasta sbalordita nel constatare che il pregiato metallo non c’era. La delusione per essere passata per una sciocca davanti agli occhi della principessa Autunno era cocente: Melissa le era sembrata una ragazza scaltra, attenta e dotata di grande intelligenza, nonché di pragmatismo; e lei non voleva essere da meno. «Lo sa anche Melissa Autunno» aggiunse, con un accenno di rossore a coprirle le gote. «Era con me quando mi sono accorta di non averlo più… ma non penso che lei lo abbia detto in giro.»

Lui sbuffò infastidito nell’udire quelle parole. Non riusciva a comprendere per quale motivo Ariel avrebbe dovuto dare confidenza a una delle sorelle di Raissa, né come fosse possibile che avesse sentito l’esigenza di mostrarle il pugnale. «Ora dovrai dire che...»

«So inventare da me una scusa» lo interruppe la fanciulla con un dolce sorriso sulle labbra. Non si era sentita offesa dal modo di fare del principe, che sembrava quasi volersi imporre su di lei, perché Erik ignorava il fatto che nessuno, esclusi i sovrani, sapeva dell’esistenza di quella lama. Non c’era, in verità, alcun motivo di inventare una scusa, perché non c’erano dichiarazioni da fare in proposito davanti alla corte. «Quello di cui entrambi dobbiamo preoccuparci è ben altro.» Spostò lo sguardo allo loro spalle, verso il palazzo e mormorò: «Non sta arrivando nessuno, ma di sicuro ora sapranno tutti che tu sei qui. Qui nel regno, forse anche qui insieme a me.»

«Hai ragione» convenne l’Inverno. In condizioni normali avrebbe provato fastidio per non essersi reso conto lui di quanto Ariel alludeva, ma il tono basso della sua voce, quasi coperto dal frustare delle onde ai loro piedi, faceva sì che le sue parole gli giungessero alle orecchie come la confidenza di un fedele alleato. Gli era capitato ben poche volte di poter parlare da solo con la più giovane dei Dal Mare, ma non ricordava che lei avesse provato a instaurare con lui la medesima complicità. «Cosa pensi di fare?»

«Dovrai chiedere di sposarmi» rispose lei semplicemente, cogliendolo alla sprovvista.

«Ma, Ariel, non vorrei deluderti... io non ho intenzione di...» iniziò a dire lui, sperando che lei non fosse urtata dalla sua decisa volontà.

«Ma io non ho intenzione di accettare!» rise Ariel, raggiante sotto la luce del sole che le illuminava i capelli rossi, appena scossi dalla brezza marina.

«I tuoi genitori si infurieranno con te, se rifiuti?» chiese Erik. In un primo momento aveva sorriso sollevato, ma poi non aveva potuto non pensare all'ira di sua madre con Flora e comparare le due situazioni: anche se conosceva Amintore e Silvia come due sovrani dalle idee molto aperte, non poteva avere la certezza che avrebbero concesso alla figlia di prendere la decisione per conto suo senza doverne rendere conto a loro.

«Credo di no, non fanno pressione neanche su Dante. Tu non sei un cattivo partito, ma...» Gli occhi di Ariel si persero nel mare, specchiandosi, e lei non finì la frase. Anche l’Inverno si distrasse da lei per guardare la distesa delle onde, tanto calma da riportare un pensiero molto lontano, che credeva di aver annullato con la distanza: anche Susanna aveva gli occhi di quel colore.

«Stasera ci sarà una festa» disse la principessa con un soffio di voce, come se la contingenza fosse per lei un peso da portare sullo stomaco, che la affaticava nel parlarne.

«Tuo padre mi ha già invitato» mormorò Erik, senza entusiasmo. Sapeva di non poter rifiutare, dal momento che si trovava al palazzo come ospite; era stato accolto senza neanche una lettera che annunciasse il suo arrivo, il minimo che poteva fare era unirsi ai festeggiamenti per Vudeli, il dio bambino anche conosciuto come “Figlio del Mare”.

«Sì, lo immaginavo» sospirò Ariel. «Volevo chiederti se volessi farmi da accompagnatore, ma non so quanto sia una buona idea.»

«Sei proprio sicura di non volermi sposare?» chiese Erik, velatamente preoccupato, nonostante lei avesse negato quella possibilità.

«Certo che lo sono» gli confermò la fanciulla ridendo. «Ho solo bisogno di te, almeno per ora.»

L’Inverno la guardò accigliato, irrigidendo la postura. «Puoi spiegarmi?»

La principessa con un gesto distratto cacciò indietro i capelli, spinti da un vento leggero davanti al suo viso. Guardò Erik, che la scrutava con apprensione, prima di parlargli nuovamente. «Diciamo che io ho già qualcuno... ma è una storia complicata. So quello che i tuoi genitori stanno facendo passare a Flora, me l'ha raccontato Stella. E io non voglio avere gli stessi problemi... sto bene così, anche dovendo mantenere il segreto.»

Lui annuì, comprensivo. In effetti il confronto poteva spaventare una ragazzina giovane quale era, nonostante l’elasticità di Amintore e Silvia. «Va bene. Stasera sarò il tuo accompagnatore» disse soltanto.

Ariel sorrise, sollevando la testa, richiamata dai versi garruli di un paio di gabbiani che volavano diretti a sud, probabilmente verso il porto della capitale. Erik le sembrava un confidente ottimo, sebbene casuale; e l'istinto le suggeriva di riporre la sua fiducia in lui.

 

(Ultima revisione: 29/05/2020)

 

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Capitolo 19
*** 6.2 Maschere ***


(Capitolo revisionato)

I festeggiamenti per la nascita del Figlio del Mare duravano un'intera settimana; alle sfilate nelle strade di ogni villaggio del regno si accompagnavano numerose feste alla reggia, a cui i nobili di tutta Selenia erano invitati a prendere parte.

L'allegria pervadeva l'aria persino più di quanto fosse consueto in quel regno: a ciò contribuivano le candele di un lume dai più vari colori, a cui i coltivatori di cera alle pendici del promontorio di Punta Salina dedicavano molte cure, tramandando la tradizione di generazione in generazione attraverso i secoli. Buona parte di quelle candele serviva per addobbare il palazzo reale, per rendere omaggio a Vudeli, dall'animo gioioso, seppur bizzoso: proprio a causa di quest'indole capricciosa, i sovrani si adoperavano perché ogni anno la festa fosse migliore dell'anno precedente, per evitare di incorrere nelle ire del dio. Pur essendo molto devoti e molto ossequiosi nei suoi riguardi, il Figlio del Mare era temuto: risaliva solo a una cinquantina di anni prima la sua ultima furia, che aveva fatto innalzare le acque del Litil e del vicino oceano; un muro marino si era abbattuto sulle coste, distruggendo edifici e case, sradicando alberi, trascinando con sé vite umane.

L'unico luogo del regno ad essersi salvato era stato il palazzo. Un'immagine del dio si era levata dalla schiuma delle onde: i sovrani erano stati chiamati velocemente perché vedessero Vudeli, giunto per rimproverarli severamente di aver diminuito i sacrifici nelle ultime settimane, minacciando in futuro una pena più severa.

Molti, ad udire tale racconto, ne ridevano, così come stava ridendo Erik passeggiando insieme ad Ariel tra i corridoi, diretti verso uno dei saloni più ampi in cui avevano dato il via alle danze.

«Avresti dovuto sentire mio nonno!» lo rimproverò lei sottovoce, tuttavia senza serietà. «Era soltanto un bambino quando ha visto Vudeli comparirgli davanti… era tanto spaventato che ha dato il via a queste feste sempre più sfarzose!»

Avevano chiacchierato a voce bassa per tutto il tragitto, tacendo non appena si trovavano in prossimità di altri cortigiani: era stata premura della principessa Dal Mare che nessuno li riconoscesse.

La fanciulla aveva fatto recapitare nella camera del principe straniero un vestito dalla tonalità verde scuro, il cui tessuto cambiava sfumatura a ogni minimo movimento, come richiamando il colore del mare in tempesta sotto un cielo pumbleo; a tale abito era abbinata una maschera da apporre sul viso per coprire la forma degli occhi e le fattezze del volto. Osservandosi in uno specchio, Erik stesso non era stato in grado di riconoscersi; se per sventura fosse stato presente Tancredi Inverno a quella festa, neanche lui si sarebbe accorto che si trattava proprio del figlio: tra gli ospiti variopinti, quei due che procedevano a braccetto fingendo grande intimità sembravano una coppia qualsiasi, perfettamente anonima.

La principessa indossava una veste lunga del medesimo colore di quella dell'ospite, e aveva avuto inoltre l'accortezza di indossare una parrucca che nascondesse il più chiaro indizio sulla sua identità: quel fiume ondeggiante di capelli rosso fuoco non era una caratteristica molto comune.

Erik non aveva avuto bisogno di domandarle il motivo di quell'ulteriore precauzione, perché lei stessa lo aveva avvertito che durante la serata l'avrebbe lasciato solo per incontrarsi con "il suo lui", come lo aveva definito.

Si inoltrarono nell'ala più affollata del palazzo, nascosti tra le maschere, scivolando inosservati tra gruppi di cortigiani intenti a chiacchierare tra loro con piattini colmi di cibo tra le mani: un'usanza molto buffa, notò Erik, che preferiva rimanere seduto a tavola per consumare i propri pasti e che in occasione di feste come quella si trovava a disagio nel mangiare senza le posate e in piedi come un cavallo nella stalla. L'educazione impartitagli dalla madre lo induceva ogni volta a osservare con un grado di diffidenza il comportamento tenuto lì persino dai nobili, anche quelli di origine straniera che giungevano ospiti.

Tuttavia non poté indugiare troppo nella contemplazione, poiché si accorse di una melodia, il cui volume aumentava a ogni loro passo: la fanciulla lo stava conducendo verso la sala in cui si danzava.

«Ariel, che hai in mente? Nessuno deve sapere chi siamo» bisbigliò al suo orecchio, ricordandole velatamente il suo intento di non essere scoperta. «Se qualcuno ci dovesse rivolgere la parola?»

«Parleremo il meno possibile» sussurrò lei, con semplicità, stringendo la presa intorno al suo braccio. «E poi in molti vorranno mantenere l'anonimato, non hai idea di quanti nobili siano qui con l'amante. Se mogli e mariti sapessero, scoppierebbero un bel po' di scandali.» La principessa rise sotto la maschera, con gli occhi chiari che scintillarono allegri. «Possiamo passare tranquillamente per una coppia di questo genere.»

Oltrepassarono la soglia di un ampio salone, le cui finestre affacciavano sul mare. Erik impiegò qualche secondo per riconoscere la sala del trono, i cui scranni erano stati rimossi per fare spazio a un'orchestra. I musicisti indossavano delle maschere sui volti, differenti nel colore a seconda del tipo di strumento che stringevano tra le mani.

Le coppie danzanti si muovevano armonicamente, come se fossero state educate a quei balli sin dalla più tenera età, muovendosi al ritmo andante della melodia dai toni allegri. Gli abiti indossati dai presenti erano della più varia fattura, come se ogni nobile avesse ordinato al proprio sarto di gareggiare per originalità con gli altri: i colori delle vesti che si muovevano al suono della musica componevano un mosaico mobile, in cui ogni tessera risultava ballerina cambiando continuamente di posto. L'illuminazione era affidata alle candele dalla consueta sfumatura ambrata, in modo che i danzatori non venissero disturbati.

«Il re e la regina permettono tutto questo?» domandò Erik perplesso, avanzando insieme alla fanciulla all’interno della sala, riflettendo su quanto al nord, e forse in qualsiasi altro regno, fosse condannabile lo stile di vita troppo libertino che feste come quella contribuivano a mantenere. Mostrarsi in pubblico insieme a un compagno che non fosse il proprio consorte o promesso tale sarebbe stato sconveniente; ma forse il regno del Mare era zona franca, in cui ogni cosa era concessa. Tuttavia, il giovane dovette ammettere a sé stesso di essere in compagnia di una principessa che non aveva intenzione di sposare; sebbene la sua presenza lì avesse un motivo molto serio, era stato risucchiato anche lui nel turbine di frivolezza di quella corte.

«Mio padre lo trova esilarante» rispose Ariel, con un filo di voce, quasi ridendo. «So che te lo starai chiedendo, ma lui e mia madre partecipano a questi balli sempre insieme. A volte sembrano proprio dei ragazzi troppo cresciuti, vogliono far divertire il popolo e gli stranieri e finiscono per divertirsi loro più di tutti gli altri!»

«E a te tutto questo diverte?» le chiese lui, incuriosito, conducendo la fanciulla verso un angolo della sala in cui fosse possibile parlottare senza essere uditi.

Solo quando si fermarono presso una delle finestre la principessa gli rispose, guardandosi intorno, come alla ricerca di qualcuno, o forse temendo che orecchie poco discrete fossero all’ascolto. «Molto spesso sì, ma stasera sono troppo presa dal mio piano per interessarmi se la contessa tal dei tali è venuta con il nuovo arrivato a corte o cose simili. Non mi importa di altro, stasera.»

«Ingannerai i tuoi genitori, ci hai pensato?» la rimproverò l’ospite con un tono severo nella voce.

«Oh, Erik!» esclamò Ariel a bassa voce, con un sorriso che si allargò sul suo volto, come se fosse lei ad avere da ridire sulla rigidità dell’altro. «Non farmi la ramanzina! Non sto ingannando nessuno, sto solo tenendo un mio segreto per me. E poi...» si interruppe, lanciando ancora numerose occhiate per la sala, con le piume variopinte sulla sua maschera che ondeggiavano a ogni minimo movimento. «… se loro non volessero non mi lascerebbero partecipare, né tantomeno organizzare qualcuno di questi balli.»

«Hai organizzato tu questo, quindi?» chiese lui, ricordando le parole del re Amintore di quella mattina.

«Sì, questo mi interessa molto più di tanti altri» rispose lei, con un tremolio nella voce, che l’Inverno imputò al suo piano per incontrare quel tipo di cui gli aveva parlato, seppur con cenni molto vaghi.

«Adesso io e te balliamo» decise Ariel con un filo di voce, accorgendosi di un paio di figure che si muovevano nella loro direzione. «Dobbiamo evitare di parlare con chiunque, e se rimaniamo qui qualcuno potrebbe avvicinarsi.»

Il principe fece un impercettibile cenno con il capo, avendo avuto il medesimo pensiero. Avanzarono insieme verso il centro della sala e, non appena la melodia cambiò, iniziarono a muovere i primi passi della nuova danza, risultando in pochi secondi la coppia meglio assortita, non solo per l'abbinamento delle loro vesti. Tuttavia, proprio l'armonia e la complicità che tra i due si era instaurata attirò sui due gli sguardi degli invitati, che li osservavano ondeggiare con grazia sul pavimento di marmo chiaro, al suono dolce e soave della musica. Ben presto l'attenzione vigile di Erik lo allarmò, ma tanto in fretta scacciò il pensiero perché più tardi, nel corso della serata, Ariel avrebbe cambiato abito, come gli aveva preannunciato mentre percorrevano i lunghi corridoi.

Ma avvertiva un brivido di cui non seppe individuare la causa, se non dopo diversi minuti che stringeva a sé la fanciulla aggraziata e soave: quel contatto fisico lo turbava, sebbene fosse minimo. La mano della principessa stretta nella sua, e la destra a cingerle il fianco era più di quanto avesse mai osato in pubblico con una donna; il privato, quello che nessuno poteva vedere, era ben altro discorso.

«Ariel, abbiamo gli occhi di tutti puntati su di noi» sussurrò, nel preciso intento di allontanare i pensieri; in realtà l’attenzione della maggior parte dei cortigiani era già stata dirottata altrove, verso altre chiacchiere, verso nuove portate di quel bizzarro banchetto.

Lei gli sorrise, senza scomporsi, «È normale, siamo appena arrivati. Già si stanno stufando di guardarci.»

Erik continuava a scrutare la stanza, osservando al di là delle piume grigiastre che ornavano la maschera di lei. Passo dopo passo, si erano avvicinati molto ai suonatori che maneggiavano strumenti a corda e uno tra questi sembrava avere un interesse particolare verso i due: continuava a mantenere lo sguardo nella loro direzione, anche se attraverso la maschera sarebbe stato difficile da dire con certezza. Il principe Inverno, però, aveva la sgradevole sensazione che quello lo sbirciasse con acrimonia, fino a sentire il bisogno di confidarlo alla sua compagna di ballo.

«Ariel, è una mia impressione, o il violinista ci sta guardando male?»

«Può darsi» rispose lei sbrigativa, ma con un sussulto che la tradì: il principe comprese che era con lui che la fanciulla si sarebbe incontrata più tardi nel corso della serata, così come capì che Ariel aveva organizzato quella festa proprio per assicurarsi che quel violinista fosse presente e che non fosse sostituito da un altro.

«Sa che sono io quello che sta insieme a te stasera?» le domandò ancora, senza guardarla, non osando incrociare lo sguardo con quello dell’esile principessa.

Lei inciampò sui suoi piedi, ma poi riprese la danza come se nulla fosse, ringraziando la maschera che celava l’improvviso rossore che di certo le aveva ricoperto le gote. «È così ovvio?» chiese a sua volta, con un filo di preoccupazione mal celata nella voce.

«No, lo è solo per me» rispose Erik, sorridendole nel goffo tentativo di rincuorarla.

Vennero aperte le porte verso la spiaggia, in cui si riversò una marea contenuta di uomini e donne, compresi i due, che continuava a danzare al ritmo dolce della musica. Lei condusse l'altro lontano dalla folla, verso le mura, dove la sabbia era sostituita dall'erba.

«Ci avrà visto qualcuno?» chiese l’Inverno, guardandosi alle spalle.
Lei scosse la testa, senza pronunciare una parola, fino a quando non ebbero raggiunto la zona del muro orientale, su cui era innalzata una torre. Il suono della musica riecheggiava fin lì, come un ricordo lontano, ma nessuno dei due vi fece caso. Ariel arrestò il passo, ponendosi di fronte ad Erik, impedendogli di proseguire.

«So già che l'idea non ti piacerà troppo,» disse la giovane Dal Mare, «ma tu ora non puoi stare da solo nella sala, né tantomeno tornare nella tua camera. Se qualcuno mi vedesse sola, non posso far capire che ero con te… e lo dico nel tuo interesse.»
Lui annuì, pensando che le chiacchiere frivole dei cortigiani avessero un certo peso per lei, sebbene Ariel cercasse di non darlo a vedere.

«Vuoi che rimanga qui da solo per un’oretta?» ipotizzò lui, senza troppo entusiasmo.

«Erik, io…» balbettò, non sapendo dove andare a parare. Forse aveva notato il tono del suo ospite e la prospettiva che il suo piano andasse in fumo la preoccupava.

L’Inverno sorrise, dissipando i dubbi che sembravano aver attanagliato la fanciulla. «Ariel, non ti preoccupare: volevo solo andare a dormire, ma rimanere lontano dalla folla va bene. Almeno non mi verrà il mal di testa per tutte le chiacchiere e per la musica.»

«Ho invitato una persona» gli confidò la figlia dei sovrani. «Per ricambiare il favore… è la sarta che ha cucito i nostri vestiti.»

Il principe fece un timido cenno di assenso con il capo, prima che Ariel si defilasse per proseguire la camminata oltre la torre, finendo in un piccolo cortile poco frequentato persino nelle ore diurne. Su una panchina, seduta con grazia, il busto eretto e un calice di vetro tra le mani, c’era una figura femminile con il volto coperto da una maschera lilla, avvolta da un vestito morbido del medesimo colore. Erik la scrutò con attenzione, cercando qualche indizio sul suo stato d’animo, se fosse felice di soddisfare quel piccolo capriccio della principessa o se Ariel l’avesse costretta ad abbandonare la spensieratezza allegra del ballo, invano: quella maschera, oltre al viso, sembrava nascondere anche la persona che la indossava, come se la sarta fosse usa a passare inosservata.

La principessa le si avvicinò, chiamandola. «Iris!»

Erik, dopo aver raggiunto le due, si inchinò cordialmente. Esitò, non sapendo come comportarsi con una donna sconosciuta, per di più di bassa estrazione sociale. Se fosse stata una nobile, non avrebbe avuto tentennamenti, ma le avrebbe afferrato la mano per sfiorarla appena con le labbra, suscitando la benevolenza della nuova conoscente. Inoltre, non riusciva a stabilirne l'età con precisione: poteva vedere solo le labbra carnose lasciate scoperte dalla maschera e le braccia candide, di una pelle che, alla luce della luna, sembrava risplendere del medesimo chiarore. Persino gli occhi, che lei puntò nei suoi, sembravano complici di quel mistero. L'analisi del principe si fece più attenta. Non credeva possibile che Ariel avesse affidato a una ragazza il compito di preparare i loro abiti, ma intorno alla bocca non c'era segno di una ruga, e anche le braccia tradivano la piena giovanezza della loro proprietaria.

«Devo tornare alla festa, ci vediamo più tardi» si congedò in fretta la principessa, lasciando soli i suoi due complici della serata.

L’Inverno la sbirciò mentre si allontanava, lasciandogli solo un nome a cui potersi aggrappare per evitare brutte figure con la popolana: Iris.

«Posso sedermi?» le chiese, impacciato. Lei annuì, con un piccolo sorriso, che lui interpretò come timido; d’altronde, trovarsi in intimità con un principe era un evento quasi unico per chi non viveva nelle corti. Erik avrebbe dovuto possedere una posizione di vantaggio che gli permettesse di comportarsi come meglio avrebbe desiderato, ma una fitta allo stomaco lo bloccava, impedendogli di essere padrone della circostanza.

«Sembrate un tipo curioso» notò lei. Non c'era affettazione nella sua voce, e neanche quella civetteria che il nobile aveva immaginato, ma una dolcezza che lo colpì all’istante, come una ferita provocata da uno scontro con le spade.

Tacque, non avendo nulla da controbattere alla sua affermazione, con il cuore che aveva fatto un grosso balzo nella sua gola.

«Sì, siete davvero interessante» confermò lei, la voce limpida come il suono di un ruscello.

«Credete?» le domandò lui, dimenticandosi delle umili origini della sua interlocutrice. A una donna del popolo avrebbe dovuto chiedere “crede?”, come gli era stato insegnato sin da bambino… ma qualsiasi ragionamento si perse nella mente del principe Inverno.

«Certamente» rispose lei, piegando le belle labbra in un soave sorriso. «Non è da tutti assecondare questa sciocchezza, non pensate?»

Parlava molto bene, per essere una sarta, e la sua voce suadente incantò Erik, che si abbandonò a una sincera risata.

«Lo sento come obbligo morale» le spiegò. «Non c’è nulla di male nei desideri della principessa.»

«Ne siete sicuro?» lo interrogò Iris. «Ho sentito raccontare di principesse a cui è stato vietato il contatto con il popolo.»

L'accenno velato a Flora colpì Erik come un inaspettato schiaffo in pieno volto. Si limitò a sospirare, in imbarazzo. Certo, prima di partire per il Pecama, anche lui era d'accordo con l'idea che una nobile, soprattutto se destinata a diventare regina, non si dovesse mescolare con la plebaglia; tuttavia si era reso conto che la plebe non era una massa omogenea, ma che al suo interno vi erano più sfaccettature: l'uomo che aveva importunato Susanna alla locanda aveva poco a che fare con Franco e con la missione per cui si era diretto a sud.

«Il popolo non è tutto uguale» rispose. «In un altro momento vi avrei detto che era giusto mantenere la separazione, ma non è un obbligo. Esistono popolani che meriterebbero di essere nobili, e nobili che meriterebbero di lavorare nelle cucine. Può sembrarvi banale, questo ragionamento, ma vi assicuro che non è così scontato.»

A ogni parola, il suo battito cardiaco si faceva sempre più forte, tanto che non proseguì per il timore che Iris potesse udirne il suono.

Lei sorrise. «Siete molto più intelligente di quanto credessi.»

Il principe scosse la testa. «Cerco solo di essere sensato, anche se prima o poi finirò nei guai per questo.»

La popolana scoppiò in risa. «Non si può finire nei guai facendo la cosa giusta!» esclamò, strappando un sorriso alla bocca dell’Inverno.

Erik non riusciva a eliminare da sé un leggero imbarazzo. Fare compagnia a una donna era sempre stato per lui qualcosa di semplice, come bere un bicchiere d'acqua, ma qualcosa, in quel bizzarro incontro, gli impediva di sentirsi a suo agio.

«Vi dispiace se mi tolgo la maschera?» domandò lei. «Stasera fa davvero molto caldo.»

Si sventolò con una mano, muovendo un po’ di aria attorno al suo collo niveo, mentre il principe le rivolse un cenno di assenso.

«La tolgo anche io» decise lui. In altre circostanze sarebbe stato poco opportuno, soprattutto se qualcuno lo avesse scorto insieme alla sarta; ma quali rischi poteva mai correre, se era stata Ariel a combinare quell’incontro?

Slegò i lacci che premevano la stoffa vellutata sul suo viso e una leggera brezza lo rinfrescò: aveva ragione Iris, senza la maschera aveva meno caldo.

Si voltò verso la popolana, divorato dalla curiosità di conoscere l’aspetto di colei che gli aveva parlato con tanta sincerità.

Lei sorrideva, guardando il panno lilla che stringeva tra le mani. Si morse il labbro carnoso con uno degli incisivi, evitando gli occhi di ghiaccio del principe, che ne scorgeva solo il profilo, permettendogli così di comprendere in maniera definitiva di avere a che fare con una fanciulla. Seguendo un impulso improvviso, le afferrò il mento chino verso il masso, per rivolgerlo in direzione del suo viso.

Gli occhi chiari di Iris scintillarono nella penombra, illuminati dal raggio lunare, di un colore che Erik non era in grado di definire, mentre le sue labbra si allargarono in un sorriso sincero. Accarezzò con il dorso della mano la pelle chiara, con una sicurezza nuova, che lui non aveva idea da dove provenisse, scoprendo quanto fosse liscia e delicata, come la superficie di un petalo di rosa. La bellezza della popolana superava di gran lunga quella di qualsiasi donna avesse incontrato nella sua vita. C'era qualcosa di incantevole in quello sguardo, in quei due smeraldi chiari che lo avvinghiava, impedendogli di pensare, di parlare.

Allentò la presa, turbato, mormorando delle scuse che sperava che non le sarebbero mai giunte, ma che lei, tuttavia, aveva udito. L'Inverno abbassò lo sguardo, posandolo sulla superficie del prato e sperando che a nessuno venisse in mente di passare di lì.

La fanciulla sorrise e gli accarezzò la cute tra i capelli, costringendolo a voltarsi di nuovo verso di lei. I loro visi erano tanto vicini, che Erik poteva sentire il suo respiro, il profumo delicato e dolce della sua pelle.

Fu la sarta ad annullare quella distanza, premendo all'improvviso le sue labbra su quelle del principe.

 

(Ultima revisione: 30/05/2020)

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Capitolo 20
*** Profezia II ***


(Capitolo revisionato)

Silvana chiuse gli occhi, lasciandosi abbracciare dal profumo dell'erba bagnata di rugiada e dal vento tiepido che scuoteva le chiome dei faggi attorno al tempio. Finalmente a casa.

Scorse, attraverso la rada foresta, uno scorcio di mare su cui si riflettevano i placidi raggi del sole, giunto a metà del proprio percorso. La sacerdotessa sorrise, incantata dalla bellezza di quel luogo sacro, prima di inchinarsi davanti agli scalini che conducevano all’edificio circolare che aveva di fronte.

Madre Luna, sono di nuovo presso di voi.

Una leggera brezza le solleticò il collo, come invitandola a sollevare il viso e a guardare il luogo in cui dimorava ormai da alcuni anni, servendo la dea a cui aveva consacrato la propria vita.

All'improvvviso il peso della bisaccia la trascinò a terra, e lei cadde rumorosamente, attirando con un grido alcune sacerdotesse dall'interno del tempio, che la trovarono stesa a terra, in maniera scomposta, esanime. Dunque la trascinarono all'interno fino alla sua angusta camera, dove si adoprarono per risvegliarla portando alle sue nari l'odore di alcune foglie di erbe curative, invano.

La giovane sacerdotessa, la Veggente, rimaneva immersa in un inspiegabile sonno, avvolta nella veste candida intessuta con ricami argentei, che richiamavano il pallore della dea.

Per giorni interi le altre fanciulle la sorvegliarono a turni, coltivando la speranza che si riprendesse, senza comprendere cosa fosse realmente accaduto alla loro sorella. Una delle donne più anziane ipotizzò che la fatica del viaggio l'avesse ridotta in tale stato, un'altra che forse era preda di chissà quale visione: le capitava, anche se di rado, prima della partenza e forse la Luna non aveva smesso di rivolgersi a lei.

In bilico tra la vita e qualcosa che non somigliava affatto alla morte, Silvana credeva di udire qualcosa; o di vedere qualche immagine rubata a un altrui futuro.

 

"Vascello fermo in mezzo al mare,
onde cristalline nel cuore della notte,
e il desiderio appagato di una nuova vita
attraverso la morte dal mozzo respiro.
Annegare sul viale di numerosi viaggi,
e tuttavia sentirsi risollevare,
volare in un nuovo azzurro.
Illusione che ti nasconderà al mondo,
architetto e maestro d'inganni."

 

Silvana aprì gli occhi, inumiditi di lacrime.

 

(Ultima revisione: 30/05/2020)

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Capitolo 21
*** 7.1 Il passato non abbandona mai ***


(Capitolo revisionato)

La Millenaria attraccò nel porto al primo albeggiare, quando da oriente i primi raggi giungevano fiochi lungo la linea dell'orizzonte marino. La traversata verso il continente era stata serena e scevra di inconvenienti: il vento aveva soffiato regolare, le navi incontrate lungo la rotta erano perlopiù mercantili che facevano la spola tra il porto di Punta Salina e quello più meridionale del Defi.

Il capitano guardò con un sospiro il principe Dal Mare scendere insieme al suo seguito dalla nave: il giovane sembrava avere una gran fretta di giungere a Mitreluvui, chissà per quale occulta ragione.

Dante lo aveva salutato poco prima, ringraziandolo per l'ospitalità e riempiendolo di complimenti sull'efficienza del viaggio a bordo della Millenaria: nessuno lo aveva infastidito in alcun modo, né gli uomini della sua scorta avevano avuto dissidi con l'equipaggio. Era stato un piacere constatare tale sintonia, aveva concluso.

«Capitano, le merci sono pronte per essere scaricate a terra» lo informò il suo secondo, mentre Virgilio continuava a seguire i movimenti del Dal Mare dalla posizione di timoniere. Il principe si dirigeva alla scuderia adiacente la locanda, che metteva qualche modesto cavallo a disposizione dei viaggiatori, dietro pagamento congruo; forse Dante avrebbe affittato una carrozza per proseguire fino alla sua destinazione.

Il capitano scosse la testa, come allontanando quelle sterili riflessioni. «Scaricate, allora» comandò all’altro. «Angelo, di’ al nostro uomo che scendo io per trattare la vendita.»

Quello annuì e si allontanò repentino, così come era giunto, trasmettendo l'ordine agli altri marinai, mentre Virgilio lo osservava con un velato sorriso. Il capitano si fidava di lui, ma percepiva qualcosa di negativo per il suo futuro, qualcosa che prima o poi avrebbe finito per coinvolgere lui stesso. Difficilmente avrebbe saputo dire di cosa si trattava, anche se il suo pensiero si soffermò sul frammento irregolare di ametista che il suo secondo gli aveva portato dopo alcuni mesi trascorsi nel continente, nelle terre più settentrionali, al confine tra Agloeto e Nutixa: luoghi la cui lontananza gli faceva provare un brivido freddo. Immaginò le grotte nascoste tra gelide montagne, la fatica di umili minatori per riportare alla luce quelle pietre dai poteri sconosciuti. Era proprio grazie a quel frammento livido riportato da Angelo se la Millenaria riusciva a solcare i mari al triplo della velocità rispetto a qualsiasi altra nave, potere che Virgilio aveva deciso di utilizzare in maniera saggia, incrementando i propri traffici per donare a chi fosse più povero o bisognoso il proprio aiuto, in ogni sua sfumatura.

Ricordava la fame, il capitano, il maltempo che aveva devastato le campagne dei regni meridionali del continente, i sacrifici dei genitori, che chissà come riuscivano a raccogliere dall'orto del cibo per sfamare i due figli. Perciò aveva scelto la via del mare: era fuggito da casa all'età di appena undici anni, senza fornire una spiegazione, senza lasciare un addio, nemmeno alla sorellina, che ricordava addormentata sul pavimento e raggomitolata in logore coperte. Si era diretto di corsa verso il porto, chiedendo informazioni sul percorso lungo la strada, e una volta giunto lì era rimasto affascinato dalle dimensioni delle navi, dall'ampiezza delle loro vele che altro non attendevano se non di essere spiegate e sospinte dal soffio del vento.

Virgilio scese dalla Millenaria, dirigendosi spedito verso i barili colmi di spezie che aveva importato dal Pecama, allontanando il corso dei malinconici ricordi. Raggiunse un uomo dal fisico minuto, cui una larga cintura di stoffa pregiata cingeva la veste attorno al tozzo corpo, riempito di frequenti e lauti pasti, come testimoniava la pancia abbondante. Una barbetta grigiastra gli decorava il viso, come un vezzo a cui il commerciante non avrebbe rinunciato con facilità, mentre sul capo senza capelli si rifletteva la luce del primo sole. I calcolatori occhi scuri si posarono sul giovane capitano, che gli si avvicinava con il suo solito e cordiale sorriso. Il ragazzo aveva mostrato di essere portato per gli affari e così si era guadagnato il rispetto e la stima di uomini molto più anziani di lui.

«Eccoti pronta la merce!» esclamò, con un’allegria davvero insolita per tanti avventori portuali; ma chiunque avesse avuto a che fare con Virgilio Gredasu aveva smesso da tempo di stupirsene.

«Ho aperto qualche barile per controllare la qualità, spero non ti dispiaccia» gli disse l’altro, affabile.

«Maggiorana, peperoncino e zenzero!» indicò il capitano con un sorriso e annuendo. Picchiettò su un barile con il pugno chiuso. «Con questi farai felici molti cuochi di corte, credimi!»

«Ti credo, ti credo» asserì l’uomo, bonario. «Ma a quale prezzo avrò queste meraviglie?»

Virgilio non ebbe bisogno di riflettere, prima di pronunciare la risposta. «Ho bisogno di pane fresco, da inviare a Tisle, tra i poveri.»

«Se la regina sapesse che aiuto gli anarchici, non comprebbe più da me» obiettò il mercante, senza esitare.

Il capitano non si scompose a quelle parole; anzi, allargò il sorriso sul suo volto. La regina era un problema, ma facilmente aggirabile, così come lo erano le sue truppe stanziate al confine. «Alcina non saprà mai del tuo coinvolgimento. Porta uno dei miei uomini con te, penserà lui a far arrivare quel pane nel Pogudfo senza incidenti. Intesi?»

L'uomo accettò, con un cenno lieve del capo. Virgilio sorrise con maggior convinzione e si voltò per chiamare uno dei marinai che era giunto con lui dall'isola meridionale e che aveva in precedenza istruito sul da farsi e questi si mise all'istante al servizio del commerciante, che stava dando disposizioni ai suoi uomini per caricare la merce su un carro.

Virgilio si congedò con garbo da lui, augurandogli una buona giornata e buona fortuna con le vendite in città, ed entrò nella locanda adiacente al porto. Aveva un tacito accordo con i gestori di quel luogo: garantiva loro rifornimento di cibo di qualità e in cambio questi gli permettevano di gestire i suoi traffici, più o meno legali, senza ostacolarlo; se i funzionari reali avessero provato a indagare, sarebbero stati ingannati con un finto racconto sull'identità dell'attivissimo capitano della Millenaria. Il giovane, dunque, si avvicinò al bancone, chiedendo un semplice bicchiere d'acqua; l'uomo che in quel momento rovistava tra le bottiglie per soddisfare i desideri degli avventori gli aveva concesso anche di potersi servire gratuitamente ogni volta, ma Virgilio non voleva che le scorte di bevande pregiate venissero toccate per lui: preferiva che i locandieri traessero reale profitto dall'amicizia che nel tempo avevano costruito.

«Ti cercava un tale» bisbigliò qualcuno al suo orecchio. Il capitano si voltò, ritrovandosi a puntare i suoi occhi in quelli scuri del suo secondo. «Ha lasciato detto che è nel bosco qui vicino.»

Virgilio annuì, prima che gli venisse offerto il solito bicchiere di acqua fresca. All'udire che si trovava nel bosco, aveva subito compreso chi era il "tale" a cui Angelo aveva fatto menzione. Era tempo che non aveva sue notizie, tanto da temere che fosse stato catturato o che le sue attività pericolose lo avessero condotto alla morte. Tuttavia non sapeva se essere sollevato o meno della sua presenza lì; il loro ultimo incontro sembrava quello di un definitivo addio e, dopo lunghi mesi, aveva iniziato a immaginare di non rivederlo più.

Posò il bicchiere vuoto sul bancone, con il legno che ne assorbì il tintinnio, prima di rivolgere un gesto di saluto al locandiere. Di nuovo in missione, di nuovo c'era bisogno di lui.

Fuori dalla locanda l'operosità di solerti giovani rumoreggiava per le casse trascinate o posate con malagrazia a terra, mentre l'aria era già pregna dei più vari odori, da quelli forti di alcuni cibi, del pesce pescato, di carne conservata con sali, a quelli che con più delicatezza solleticavano le nari, come i sali da bagno provenienti dal Rosonembro, passando per quello acre del sudore e per quello della salsedine. Virgilio camminò attorno alla locanda, prima di inoltrarsi tra i primi alberi della piccola boscaglia, badando che nessuno facesse caso a lui.

Lo vide seduto su un masso, in allerta, come montando la guardia: la mano accarezzava nervosa l'elsa di una spada, una spada che il capitano ben conosceva, mentre gli occhi scuri guizzavano da una parte all'altra, come se avesse udito i passi di colui che arrivava, temendo un nemico.

Virgilio vide un giovane steso sulla terra, resa umida dalla vicinanza del mare e di un fiumiciattolo che scorreva poco distante. Era avvolto da un panno lungo di tela, come per ripararsi dal fresco della notte, mentre al suo fianco un uguale tessuto era abbandonato. Il giovane suppose che ci fosse un'altra persona, un ospite illustre al momento assente... che forse stava approfittando della vicina acqua fresca per ripulirsi dalle vestigia del sonno. La figura ancora distesa gli dava le spalle, ma lui non credeva di conoscerla; e sapeva bene che Arturo viaggiava in compagnia molto di rado, solo se costretto. Il capitano si avvicinò al mercenario, che istintivamente gli puntò la spada alla gola.

«Bel modo di accogliere» commentò Virgilio, sarcastico. «Credevo che mi stessi cercando.»

L'altro, scrollando le spalle, ripose la spada nel fodero, che aveva abbandonato su un masso più piccolo. Non era mai stato molto affabile, a differenza del capitano della Millenaria, e l'aria presuntuosa con cui Flora gli aveva annunciato che sarebbe andata a lavarsi lo aveva contrariato già di primissimo mattino. L'aveva sentita agitarsi nel sonno per tutta la notte, mentre montava la guardia; di certo la fanciulla di sangue nobile aveva passato una delle peggiori nottate della sua vita, troppo ben abituata al materasso imbottito, ai cuscini di piume d'oca e alle fragranze degli incensi con cui profumava la propria camera. Al suo risveglio si era accorta che l'odore aspro del proprio sudore non l'aveva ancora abbandonata e aveva ritenuto opportuno liberarsi della sensazione di sporcizia con quanto aveva a disposizione: semplice acqua di fiume.

«Ho una missione importante» mormorò Arturo, lanciando un’occhiata al compagno di viaggio addormentato. «E delicata.»

«Quindi ti sei rivolto a me…» constatò Virgilio, apatico. Non riusciva a provare risentimento, la sua bontà d’animo era più forte della delusione per aver visto il vecchio compagno di avventure al servizio di gente spregevole. Fu l’incertezza del suo stato d’animo a renderne la voce atona.

«Devo portare Flora Primavera nel Pecama» rivelò in un soffio il mercenario, quasi in difficoltà nel dover pronunciare tali parole. Non voleva che la notizia giungesse ai sovrani e gli sembrava che persino il vento potesse divulgare il suo tradimento. «Solo tu puoi garantirmi discrezione.»

«Flora Primavera, nel Pecama» ripeté il capitano, abbassando lo sguardo, riflettendo. Quella segretezza avrebbe dovuto allarmarlo, ma così non era: Virgilio stava pensando a come poter trasportare la conosciutissima nobile sulla sua nave senza che gli altri avventori del porto se ne accorgessero. Forse sarebbe bastato nasconderle i capelli all’interno di un cappuccio e coprirle il volto: non era inusuale che lui trasportasse ospiti segreti e nessuno si sarebbe preoccupato neanche quella volta.

«Posso fare in modo che tu abbia un compenso» disse Arturo, in modo da cercare di convincerlo.

«Non voglio nessun compenso» ribatté Virgilio. «Devo molto al Defi, e se la principessa ha bisogno di me, non ho che da mettermi al suo servizio. Non ho bisogno di essere pagato perché faccia bene il mio lavoro.»

Il mercenario sospirò, senza controbattere, dando la possibilità all’altro di rincarare la dose.

«Al contrario di te, io non mi schiererò mai dalla parte di Raissa.»

Arturo puntò lo sguardo dritto negli occhi del capitano, umiliato da quelle parole. Per sua fortuna Claudio era ancora addormentato, e Flora lontana al fiume.

«Io non mi sono mai schierato dalla parte di Raissa» assentì, cercando di controllare il tremolio rabbioso della sua voce. Era il suo segreto, gli altri non dovevano venirne a conoscenza; ma essere insultato a quel modo apriva nel suo animo profonde ferite. «Ci sono cose che non sono tenuto a spiegarti, ti basti sapere che agisco come ritengo più opportuno.»

«O a seconda di chi ti paga meglio» precisò un’insopportabile voce femminile. Flora era appena tornata, con il viso e le braccia ancora umide, la veste marroncina schizzata di gocce d’acqua. I capelli le ricadevano scomposti sulle spalle e sulle braccia chiare, non toccate dalla luce solare.

Virgilio la ammirò pieno di meraviglia, osservando stupefatto come i racconti sulla sua divina bellezza non le rendessero pienamente giustizia. Non gli era mai capitato di vederla, neanche quando era ancora a Nilerusa, per un veto posto alla sua famiglia di non incontrare mai i regnanti. Un patto sancito con il sangue colpevole dei suoi antenati. Il capitano sapeva che violare quella sacra concessione fatta ai Gredasu perché sopravvivessero avrebbe condotto il trasgressore alla rovina; tuttavia, a suo modo di vedere, lui non faceva parte della propria famiglia ormai da anni.

Rivolse un piccolo sorriso e accennò un inchino di riverenza di fronte alla figlia dei sovrani, che in assenso abbassò lievemente il capo, prima di parlare di nuovo al mercenario.

«Credo che tu debba delle spiegazioni non a lui, ma a me.»

Arturo abbassò la spada con un sospiro, prima di gettarla a terra con un gesto scocciato. Che la principessa guardasse pure la sua arma e l’austero stemma che vi era inciso: non gli era stata donata dalla figlia mediana degli Autunno. «Vi posso giurare che io non ho mai accettato del denaro per servire Raissa Autunno. E che non lo farò mai.»

Sul volto di Flora si dipinse un'espressione indecifrabile: lei stessa non sapeva cosa pensare di quelle parole; da un lato le due code di serpente intrecciato parlavano chiaro, dall'altro non le pareva di scorgere nel mercenario alcun segno di mendacia. Nonostante avesse già deciso di fidarsi di lui, non aveva intenzione di rendergli la vita facile finché non si fosse assicurata la sua completa fedeltà: il denaro con cui lo avrebbe profumatamente pagato non era per lei una garanzia sufficiente.

«Il Tirfusama si fida di me, perché voi non dovreste?» le chiese il mercenario, interrompendo il corso dei suoi pensieri.

La fanciulla non gli rispose. «E quella spada, allora, da dove proviene?» lo incalzò.

Arturo impallidì appena, messo alle strette da una domanda più arguta di quanto si aspettasse. «L'ho vinta in combattimento» mentì, continuando a sostenere lo sguardo della principessa, come sfidandola a provare il contrario.

Flora fece un lieve cenno di assenso con il capo, ma comprese che quella risposta non corrispondeva alla verità. Tuttavia aveva avvertito un moto nell'animo del soldato, un barlume di purezza nel suo cuore di mercenario e tanto le bastò per non insistere in quell'infruttuoso interrogatorio. Si voltò verso il nuovo arrivato, che non aveva emesso un suono da quando lei era giunta dal fiume. Lo scrutò con attenzione, soffermandosi sulle spalle larghe, il colorito bronzeo di chi trascorre molto tempo al sole, gli occhi bruni colmi di gentilezza e le labbra piegate in un sorriso che lei decifrò come non solo di circostanza.

«Tu, invece, chi sei?» gli domandò

Quello fece un profondo inchino di riverenza. «Virgilio Gredasu, per servirvi, Altezza.»

La principessa sorrise radiosa, illuminata dal poco sole che faceva capolino tra le chiome degli alberi. Le sembrava di aver già udito quel cognome, sebbene non ne ricordasse l'occasione; tuttavia il suo orgoglio si riempì del rispetto che quel giovane le dimostrava.

Arturo raccolse la sua spada dal terreno, liberandola con un soffio della polvere che vi si era posata, mentre i due continuavano a parlare.

«Dobbiamo andare nel regno dell’Estate» disse Flora, risoluta. «Dobbiamo partire il più velocemente possibile, prima che il porto si riempia troppo e che qualcuno possa riconoscermi.»

Il capitano della Millenaria annuì. «Posso consigliare di coprirvi il volto? Nel porto ci sono già molti scaricatori e non possiamo correre rischi.»

Flora gli rivolse un sorriso. Si fidava istintivamente di quel giovane che mostrava forse tre o quattro anni più di lei, perché qualcosa nel suo volto le era familiare; e quella premura, quell'accortezza la mettevano nella migliore disposizione d'animo possibile. Concordava sul fatto che anche Arturo era stato molto attento nel non esporla ad occhiate esterne, ma lui era un mercenario, mentre quel Virgilio aveva rifiutato un compenso: la principessa Primavera l'aveva udito con le proprie orecchie.

«Intanto voi due andate» decise Arturo. «Noi vi seguiamo più tardi, dopo aver finito qui.»

«Sì, sarà meglio» concordò lei.

La nobile fanciulla raccolse dal terreno il mantello dotato di cappuccio che l'aveva riparata nella camminata sin lì e vi si nascose, mentre il mercenario svegliava Claudio, ancora immerso nel sonno, e insieme a lui iniziò lesto a cancellare le tracce della loro permanenza in quella piccola radura.

Flora, che non aveva intenzione di rimanere in quel luogo un minuto di più, salutò Claudio con un sorriso e fece cenno al marinaio di farle strada, prima di seguirlo fuori dalla boscaglia e attorno alla locanda. Attraversò il porto senza guardarsi intorno, seguendo come un burattino quel giovane dalla voce gentile, fino a quando lui non la condusse all'interno della cabina degli ospiti, in cui le disse di aspettare che i suoi compagni di viaggio la raggiungessero.

La principessa si sedette sul materasso privo di lenzuolo, fiduciosa.

 

(Ultima revisione: 30/05/2020)

 

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Capitolo 22
*** 7.2 Un'oscura visione ***


(Capitolo revisionato)

I più tardivi raggi dell'alba si facevano largo tra le chiome fitte dei lecci, mentre il mercenario e il giovane di Nilerusa cancellavano le tracce della loro permanenza nell'angusta radura. Arturo scalciò dei rami secchi, perché ricoprissero in maniera caotica le impronte sulla terra umida: temeva che alcune delle loro orme potessero risultare visibili nonostante le precauzioni. Claudio lo aiutava come poteva, o come credeva di potere, sistemando alla rinfusa sul terreno alcune foglie cadute dagli alberi; ma la vicinanza del mare lo distraeva e molto spesso si ritrovava a guardare incantato la distesa appena increspata delle onde che si spingevano sino alla riva. Aveva già visto il mar Litil, ma mai con la prospettiva di attraversarlo. C'era solo un breve tratto di bosco a separarlo dalla spiaggia e vi si incamminò, con Arturo che lo teneva d'occhio nell'eventualità in cui si facesse scoprire.

Il mercenario aveva ormai capito che il contadino non era affatto abituato a quella vita di sotterfugi e segreti, e non aveva potuto non constatare con un sorriso la sua ingenuità. Che andasse anche a guardare il mare, lì nella radura non sarebbe servito poi a molto. Tuttavia, poco dopo lo spadaccino lo raggiunse e lo trovò seduto sulla sabbia chiara, a osservare ipnotizzato il respiro ritmico delle onde, quel sollevarsi e abbassarsi delle acque.

«Dobbiamo andare» disse Arturo, affiancandolo.

Claudio si sollevò in piedi, come eseguendo un ordine: credeva saggio anticipare ciò che l'altro gli avrebbe ordinato. Il loro compito era quello di proteggere Flora, che in quel momento era a bordo di una nave che lui non aveva mai visto con i propri occhi. Il giovane si rese conto di aver perso sin troppo tempo in balìa delle sue fantasie. Lanciò un'ultima occhiata alla distesa marina, prima di incamminarsi insieme all'altro a ritroso sui propri passi, verso la boscaglia.

«Tu sei già stato a sud, vero?» chiese al soldato, mentre tornavano al riparo tra i tronchi degli alberi e nascosti tra i cespugli di ginepri dalle bacche rosse.

«Sì, ci sono già stato» rispose quello, con un voce atona, senza lasciar trasparire alcuna emozione.

«E il viaggio in mare… com’è?» gli domandò ancora Claudio, preda della curiosità. Aveva compreso che Arturo conosceva il mondo più di lui, che non si era mai mosso da Nilerusa, più di Franco, che l’aveva studiato sui libri. Quel ragazzo dalla pelle arsa dal sole e dalle spalle larghe aveva vissuto chissà quali avventure e lui bramava all’idea di poterne ascoltare qualcuna.

«Dipende. Alcune volte non ci si accorge nemmeno di essere in mare, se invece c’è qualche tempesta, la traversata è più rischiosa» gli spiegò lo spadaccino, con praticità.

Claudio scosse la testa con un sospiro: non era il tipo di risposta che desiderava; tuttavia non aggiunse altro, poiché erano usciti dalla boscaglia e stavano mettendo piede assieme nel porto. Il contadino si guardò attorno, come la prima volta, incantato dall'affaccendarsi degli uomini che caricavano e scaricavano merci dai mercantili, già sudati nonostante fossero le prime ore diurne. La locanda dalle pareti esterne dipinte di rosso aveva le imposte già aperte e si intravedeva qualcuno all'interno con l'intento di rifocillarsi, dal viaggio o dalle fatiche del lavoro. Terra di colore chiaro mista a sabbia riluceva alla luce del giorno che lentamente avanzava, sporcando gli stivali di pelle che indossava il mercenario e infilandosi nelle scarpe di povera fattura dell'altro.

Claudio si guardò i piedi con un sospiro malinconico, ricordando il momento e l'occasione dell'acquisto da uno dei calzolai di Nilerusa. La bottega in una delle vie principali, quell'odore penetrante a cui non aveva saputo dare un nome, un uomo mezzo calvo e mezzo attempato che passava una strana sostanza su degli stivali appena conciati... E Franco al suo fianco, che lo invitava con un'occhiata a farsi avanti e a parlare con quell'omino dall'aria curiosa. Tutto lo aveva intimidito, quel giorno, a partire dall'artigiano che con sapienza aveva ascoltato la sua richiesta, fino alla prospettiva di essere ospite dalla famiglia del suo amico in occasione di un pranzo e di non poterci andare con i suoi vestiti consumati di ogni giorno.

«La Millenaria è l’ultima» disse Arturo, riscuotendolo dai suoi pensieri.

Il giovane defico ammirò la schiera delle navi ormeggiate, solenni, alcune con le vele spiegate, altre con uomini che si muovevano sovracoperta, in alto, coperti dalle balaustre.

«Sono tutte uguali» constatò. Qualche giorno prima, quando aveva incontrato Gaetano, non aveva badato alle imbarcazioni, concentrato com’era sul compito che gli era stato affidato; ma in quel momento non poté non notarlo.

«Questo è un porto mercantile» gli spiegò il soldato. «Ce n’è un altro più ad ovest, verso il confine con il Pogudfo, riservato allo spostamento delle persone. Quello è più grande e molto più trafficato. Qui ci si ferma solo per i traffici commerciali.»

«Perciò nessuno controlla se qualcuno salpa da qui» concluse Claudio.

«In genere no» assentì Arturo, guardandosi alle spalle. All'improvviso temette che gli uomini di Alcina potessero aver esaurito i luoghi da perlustrare e potessero dirigersi lì come ultima risorsa; ma il timore gli apparve mal fondato: tutto intorno a loro non era diverso dalle altre mattine che il mercenario aveva trascorso lì, con gli uomini che scaricavano barili di merci dalle navi, altri che li ordinavano secondo la provenienza, o secondo il contenuto, o secondo la destinazione, con i placidi raggi a increspare la serena superficie marina, attraversando gli spiragli tra le vele, con i legni delle imbarcazioni che fornivano un riparo dal sole che entro poche ore sarebbe divenuto cocente.

L’odore di salsedine impregnava l’aria, mentre una brezza leggera soffiava da oriente. Arturo camminava spedito, attento a non destare attenzione, ma, quando era quasi arrivato alla Millenaria, si accorse che il contadinotto non era al suo fianco. Che si fosse trattenuto per guardarsi intorno? Si voltò e lo vide immobile pochi passi dietro di lui, con lo sguardo assorto, come cercando di percepire qualcosa che a lui sfuggiva. Il mercenario annullò la distanza che li separava e bisbigliò: «Che ti prende?»

Claudio non gli rispose, ma gli fece cenno di abbassare ancor di più la voce, mantenendo gli occhi spalancati e puntati nel vuoto. Avvertiva qualcosa di negativo, come un presagio nefasto, inesprimibile a parole. Lui non poteva andare a sud, non doveva mettere piede nel Pecama: questo gli pulsava nella testa, trapassandogli le tempie da parte a parte. Un dolore repentino, sconosciuto, si propagò nella sua mente, oscurandogli la vista.

Immobile in piedi, si sentì le forze venire meno, e barcollò; per non cadere sul pontile del molo e non attirare occhiate estranee, si aggrappò alla spalla del mercenario che la sua mano cercò a tentoni, in uno spazio vuoto.

«Stai bene?» gli domandò ancora Arturo, seriamente preoccupato.

L’altro sospirò, prima di stropicciarsi le palpebre. Intravedeva qualcosa di chiaro al di là del sottile strato di pelle, forse la luce solare. Con uno sforzo che gli parve sovrumano, Claudio aprì gli occhi e vide davanti a sé il mercenario, che lo scrutava con attenzione.

«Non capisco» disse soltanto. «Mi era già capitato, ma non così…»

«Soffri di qualche male?» lo interrogò Arturo. Una salute cagionevole del contadino non avrebbe di certo aiutato la loro missione: se avesse dovuto chiedere l’aiuto di qualche guaritore, avrebbe rischiato di farli scoprire.

«Non lo so con certezza» gli rispose l’altro con un filo di voce. «Una volta ogni qualche mese mi succede… ma stavolta era più forte…»

Il soldato scosse la testa: quelle parole non gli erano affatto utili per capire cosa fosse accaduto.

«Ora stai bene, puoi proseguire?» gli domandò ancora, senza turbamento, ma con voce sinceramente preoccupata.

Claudio si stupì di quella premura e annuì, prima di togliergli la mano dalla spalla. «Sì, andiamo.»

Il contadino di Nilerusa trasse un profondo respiro. C'era qualcosa che non andava, ma non riusciva a comprendere cosa: non erano passati mesi dall'ultimo lancinante dolore alla testa, ma appena poche settimane. Che forse soffrisse davvero di qualche oscuro male che si stava acuendo? Eppure, constatò con meraviglia, non sentiva più nulla, né alle tempie, né in altra parte del corpo. Di cosa si trattava? Esisteva qualcuno che potesse dargli una risposta? Claudio non lo sapeva, ma si ripromise che, una volta tornato a casa dal Pecama, avrebbe chiesto ai genitori di Franco di indicargli qualche guaritore. Chiedere a sua madre di aiutarlo sarebbe stato impensabile: per fortuna, ogni volta in cui era stato male non era mai in sua compagnia, altrimenti... altrimenti sì che avrebbe smosso ogni donna, uomo, pianta, pietra o pomodoro del Defi. Tuttavia non erano attenzioni, quelle che cercava.

«Questa è la Millenaria» gli disse Arturo, indicandola con un plateale gesto del braccio che sembrava volerne definire la maestosità.

Claudio sorrise, vedendo le vele spiegate, di un tessuto chiaro, e la bandiera di un colore sbiadito, un tempo azzurro, forse addirittura blu, a indicare l’indipendenza della nave da qualsiasi sovrano di Selenia.

«Non è rischioso girare con quella?» chiese, indicando la banderuola, legata in alto, che tremava al minimo soffio del vento.

Il mercenario scrollò le spalle, prima di rispondere. «Fossi in Virgilio, la cambierei a ogni porto, per sicurezza… ma mentre si è in mare può non essere una buona idea: non si sa mai chi si incontra. E noi dobbiamo partire in fretta.»

L’altro annuì, convinto della risposta: in effetti non aveva pensato a eventuali attacchi nel corso delle traversate. «Ci sono dei pirati?»

«Nel Litil no… ma nei mari occidentali sì: spesso catturano le navi del Rosonembro» gli spiegò Arturo, facendogli cenno di salire sul ponte e, di conseguenza, sul mercantile. «Anche se negli ultimi anni, il Tuilla sta portando avanti una campagna militare contro di lor...»

Il soldato non terminò la frase e Claudio si voltò alle sue spalle, curioso di scoprirne il motivo, ma quello che vide gli ghiacciò il sangue nelle vene: un manipolo di soldati apparve dalla via che immetteva nel porto, sbandierando lo stemma dei Primavera. Intravide i due che, solo pochi giorni prima, gli avevano vietato l’accesso al castello, quando aveva dato appuntamento a Flora a casa di Menta.

Qualcuno lo spinse in avanti, cogliendolo alla sprovvista, e lui scivolò, finendo con il naso contro il legno della nave. Con un gesto istintivo si portò le mani al volto e le sentì macchiarsi le dita di un liquido viscoso e le guardò: sangue.

«Ritirate il pontile, tirate su l’ancora!» gridò una voce sconosciuta.

Claudio udì dei suoni attorno a sé, ma non vi fece caso, finché non sentì che il suolo su cui era ancora riversato non si muoveva sotto di lui: la Millenaria era in partenza.

«Stai bene?» gli chiese Arturo, preoccupato.

«Sdabo beglio briba» rispose l’altro, con voce nasale.

«Prendi questo» disse qualcuno alle spalle del giovane di Nilerusa. Claudio si voltò e distinse controsole i contorni di una figura umana, che gli porgeva qualcosa. Con una mano afferrò un tessuto morbido, con cui tamponò il sangue che continuava a colare dal naso.

«Scendete sotto» sentì dire dal capitano della nave, probabilmente al mercenario. «Se incontriamo navi dirette nel Defi, rischiamo che ci siano uomini della regina.»

Il contadino non udì altro, ma qualcuno lo prese per le ascelle e lo rimise in piedi: Arturo.

«Hai sentito? Scendiamo» bisbigliò. «Scusami per la spinta, ma dovevamo sbrigarci.»

Claudio lo seguì sotto coperta, barcollando per l’oscillazione della nave: riusciva a percepire ogni minima onda che si muoveva al di sotto del legno, avvertiva i suoi sensi amplificati per un’ignota ragione. Dovette sorreggersi alle pareti per non cadere, mentre l’altro procedeva spedito, come se ben conoscesse la Millenaria e fosse ben avvezzo a percorrerne ogni centimetro.

Il soldato si fermò e bussò a una porta chiusa. «Siete lì?»

«Entra» disse la voce di Flora, dall’interno, invitando il mercenario a varcare la soglia, nonostante la riluttanza di entrambi a trovarsi all’interno delle stesse quattro pareti.

Il contadino seguì Arturo, continuando a tamponare il sangue che gli colava dal naso, sebbene con meno copiosità rispetto a poco prima.

«Che cosa gli hai fatto?» gridò la principessa, chiaramente all’indirizzo della figura di cui ancora non si fidava del tutto. La fanciulla inspirò ed espirò con lentezza, gli occhi puntati in quelli dello spadaccino, esigendo una risposta, quasi pretendendola.

«Ba do, Blora, dod di breoggubare» provò a dire Claudio, sedendosi sul pavimento, con la schiena poggiata al legno della nave. «Dod è sdada golpa sua

Flora inarcò le sopracciglia, confusa da quelle parole pronunciate con difficoltà e colpita dall’atteggiamento che il suo caro amico aveva assunto in difesa del mercenario. «Come può non essere colpa sua?» domandò saccente, con una malcelata insofferenza.

«C’erano dei soldati» spiegò Arturo, con tono pacato, cercando di dominare la rabbia che sentiva crescere dentro di sé a ogni parola pronunciata dalla nobile. «Se hanno scoperto la vostra fuga, è stato un bene trovarsi già qui. Se non l’hanno ancora scoperta… abbiamo ancora un margine di vantaggio.»

«Quanto impiegheremo per arrivare?» gli chiese lei, con un sospiro, e chinando lievemente il capo. Vedere Claudio sanguinante la scuoteva, perché significava che il soldato non aveva alcuno scrupolo nel portare a termine la missione. Così dimostrava di essere fedele, ma a cosa era disposto pur di ottenere il denaro che Giampiero gli aveva promesso? Flora non sapeva darsi una risposta; e il timore di evenienze spiacevoli le impediva di formulare ipotesi più dettagliate.

«Con il favore di vento, durante la notte, o addirittura domattina» asserì Arturo, con prontezza.

«Va’ a cercare qualcosa con cui medicarlo» ordinò Flora, ancora con un sussurro. Non voleva essere severa, in quella richiesta, perché la sua preoccupazione per Claudio era più forte del rancore che provava a convertire in buoni sentimenti.

Il mercenario annuì e voltò le spalle ai due giovani. Si rischiuse la porta della cabina alle spalle, udendo poche parole del contadino alla principessa.

«Dod è gosì bale gobe gredi du.»

 

(Ultima revisione: 30/05/2020)

 

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Capitolo 23
*** 7.3 Al Sogno d'argento ***


(Capitolo revisionato)

La scelta di soggiornare in una taverna nella zona settentrionale di Mitreluvui non era stata casuale: era troppo lontana dall'antico palazzo in cui si sarebbero riuniti i Lupfo-Evoco perché qualcuno dei partecipanti potesse trovarvisi; di conseguenza, le possibilità che qualcuno si accorgesse di Menta, che aveva viaggiato insieme a Giampiero, scendevano considerevolmente.

Avevano lasciato i loro cavalli alla prima stazione di cambio nel sud della capitale, dove dietro compenso il marchesino aveva ottenuto che fossero ricondotti nel Defi, e poi si erano diretti a piedi attraverso le vie della cittadina. Durante la mattinata Giampiero aveva mostrato alla fanciulla straniera i mercati rionali, che avevano attraversato: siti lungo le sette vie principali che tagliavano Mitreluvui in spicchi, si facevano più ricchi mano a mano che si giungeva al centro, verso il palazzo reale. I due giovani erano stati molto attenti ad evitare il centro di potere dello Cmune: se Menta fosse stata avvistata da qualche nobile, la notizia che l’esule marchese viaggiava in compagnia sarebbe giunta in un battito di ciglia alle orecchie di Alcina; ed era l’ultima cosa che entrambi volevano.

Avevano camminato a lungo e oramai i raggi solari si facevano largo tra le vie più ampie, allungando le ombre, e già qualche funzionario del regno stava accendendo i lampioni, quando giunsero al Sogno d'argento, la locanda prescelta da Giampiero. L'insegna all'esterno era dipinta di un blu scuro che richiamava la notte, mentre le lettere erano di un colore molto chiaro, un grigio dalla sfumatura lunare, che invogliava a fermarsi all'interno, anche solo per domandare un bicchiere d'acqua. L'edificio aveva una buona estensione, sia per via dei tre piani che lo componevano, sia per la pianta ampia del pianterreno, come il nobile aveva potuto constatare in precedenti occasioni.

«Sei al sicuro» mormorò alla giovane del Defi, nel tentativo di rassicurarla. La conosceva a malapena, sapeva di lei solo quel poco che aveva visto con i propri occhi, ma il suo istinto gli suggeriva che la contadina di Nilerusa era qualcuno da proteggere. Sentiva che c’era dell’altro, oltre al furore di Alcina che si sarebbe scagliato contro di lei non appena avesse scoperto la verità… ma, a quel punto, Giampiero avrebbe dovuto temere anche per sé stesso: tutto ciò per cui aveva lavorato in quegli anni poteva essere spazzato via da un soffio di vento, se non fosse stato accorto.

«Come potete esserne certo?» gli domandò lei, con un tremolio nella voce. Quando il Tirfusama era giunto di nuovo in casa sua, il mattino precedente, aveva avuto a malapena il tempo di lasciare un messaggio per i genitori, scritto su un piccolo lembo di pergamena, arrotolato e riposto nel vaso del rosmarino.

«Non incontreremo nessuno che abbia rapporti con Alcina» bisbigliò lui.

Menta annuì, il volto coperto dal cappuccio scuro che aveva indossato per tutta la giornata. Tra la folla dei mercati e i bambini che giocavano per le strade, era passata inosservata: nessuno aveva dato cenno di averla notata né di essersi accorto del passaggio suo e del marchesino. A quanto pareva, le precauzioni prese dal nobile avevano dato i loro frutti, perciò la fanciulla si sentì più tranquillizzata quando Giampiero, dopo aver pronunciato quelle parole, aprì la porta della locanda e le lasciò spazio sufficiente per lasciarla passare.

Varcata la soglia, la accolse il profumo di pietanze a lei sconosciute. Abituata alla frugalità della sua vita contadina, non riconobbe il profumo di carne cotta alla griglia, allo spiedo, ma le sue nari distinsero gli odori delle spezie utilizzate, stentando a credere che gli umili salvia e rosmarino, che lei coltivava in piccoli vasi e in modeste quantità, potessero essere utilizzate persino lì, in un luogo che lei percepiva lontano dalla sua casa.

In un secondo momento notò l'arredamento ricco dell'ampio salone in cui aveva messo piede. Alle pareti erano appesi arazzi che raccontavano vicende a lei sconosciute; ma la fanciulla ne intuì il tenore aulico e solenne che dalle raffigurazioni traspariva. La incuriosì quella di una creatura alata, enorme visto che ricopriva tutta la parte in alto del tessuto. Dalle sue narici usciva del fumo, e dalla bocca fluiva un'immensa chiazza di tonalità calde, a simboleggiare il fuoco. Degli uomini erano rappresentati tutt'intorno, alcuni preda delle fiamme che ardevano vivi, altri, vestiti di una strana armatura, cercavano di ripararsi con degli scudi dalla bestia... La fanciulla scosse appena la testa: quelle immagini erano solo la rappresentazione di un fantasioso cantore, ne era certa.

Dando un'occhiata all'interno della sala, vide le sedie e i tavoli addobbati con stoffe, cosa inusuale nelle altre taverne in cui le era capitato di entrare a Nilerusa, di diverso colore per ogni tavolo; e tra i deschi vi era una considerevole distanza, che a lei sembrava eccessiva.

Giampiero si diresse a un bancone e parlò con una donna esile, dagli occhi gonfi, come di chi avesse pianto. «Eleonora, buonasera» le sorrise, affabile.

La locandiera distolse gli occhi dal salone e li posò in quelli dell’ospite, rivolgendogli un sorriso che cercava di non mostrare forzato. «Marchese, quale onore!» disse, con voce bassa, testimoniando che l’esuberanza non faceva parte del suo carattere.

«Vorrei sapere se c’è posto per me e per la mia compagna di viaggio» le disse. Poi aggiunse, con un soffio di voce: «Nessuno deve sapere che lei è con me, si tratta di una questione delicata.»

Eleonora gli sorrise ancora. «Ma certo, comprendo: non ci saranno problemi. Intanto potete accomodarvi per la cena.»

Il Tirfusama chinò appena il capo come ringraziamento, imitato da Menta, e fece cenno alla fanciulla di seguirlo a uno dei tavoli. Mentre si dirigeva a un angolo abbastanza appartato per non attirare le occhiate dei futuri avventori, notò qualcuno che aveva avuto modo di conoscere nelle sue precedenti missioni diplomatiche.

«Giampiero Tirfusama!» lo chiamò la voce allegra di Roberto De Ghiacci, non appena gli sguardi dei due giovani si incrociarono.

«Roberto De Ghiacci» lo salutò Giampiero, con un inchino appena accennato.

Il principe del regno dei Ghiacci sedeva solo, senza scorta, a un tavolo tuttavia apparecchiato per due. Stiracchiò le spalle larghe, facendo cenno all’ambasciatore e alla sua compagna di prendere posto assieme a lui, sulle sedie imbottite di morbida stoffa e ricamate d’azzurro. Roberto rivolse un sorriso sornione alla fanciulla sconosciuta che sedeva al fianco del marchesino decaduto.

«Hai scelto un tavolo del tutto casuale» constatò Giampiero, bonario, passando un dito sui filamenti azzurri che adornavano la tovaglia. Conosceva bene il principe e, nonostante i viaggi diplomatici che lo portavano a nord, era attratto da tutto ciò che gli ricordava il proprio regno, una porzione di terra che sembrava ritagliata dal regno dell’Inverno. Uno dei pochi luoghi di Selenia in cui al marchesino non era mai capitato di mettere piede, ma che conosceva grazie ai racconti di Roberto: il freddo che sferzava fuori dalle finestre, il tepore all’interno della reggia, la sempiterna neve, le case costruite con ghiaccio… elementi che, se non avesse creduto alle sua buona fede, avrebbe preso per favolistici.

«È il colore della mia famiglia» sottolineò il principe con fierezza, passando una mano tra i capelli chiari.

Menta lo osservò con attenzione, incantata da quegli occhi algidi che creavano un armonioso contrasto con l’affabilità e il sorriso genuino di quel giovane.

«Anche tu qui per i Lupfo-Evoco?» domandò il Tirfusama, con estrema cordialità, mentre l’esile locandiera portava posate e piatti per i due nuovi arrivati.

«Già» annuì il De Ghiacci. «Quando è giunta la convocazione, mio padre ha pensato di mandare me e Bianca… Eravamo nel Copne per un contratto commerciale. Non abbiamo sbocchi sul mare, quindi dobbiamo appoggiarci agli Inverno per far arrivare le merci dal nord e la nuova regina pensava bene di far pagare un’altra tassa ai nostri mercanti… Non ti annoio con i dettagli.»

«Non mi annoi mai» gli sorrise Giampiero, versando da bere nel bicchiere della sua compagna di viaggio e, successivamente, nel suo. «Di certo avrai ammaliato Milena Cordi di Copne. Non vorrai farmi credere di non aver utilizzato il tuo fascino?»

Menta trattenne una risata all’allusione del marchesino: non poteva negare che quel principe fosse dotato di una gran sicurezza di sé, abbinata a una bellezza folgorante dei lineamenti.

«Ci ho provato, ma quando è giunto a corte il suo promesso sposo ho dovuto rinunciare» ammise Roberto con una punta di amarezza. «Ma stava funzionando: avessi avuto un giorno di più, la regina sarebbe caduta ai miei piedi.»

«O tu nel suo talamo» proruppe una dolce voce femminile alle spalle del marchesino e della contadina. Bianca De Ghiacci, avvolta in un abito dalla stoffa leggera e preziosa, una collana di oro bianco attorno al collo, con un semplice zaffiro a impreziosirla ancor più, un velo di seta a coprirle braccia e spalle, i capelli biondi raccolti sulla nuca, era silenziosamente entrata nell’ampio salone ancora deserto e si era avvicinata al tavolo. Molto simile al fratello per il candore della pelle, gli occhi azzurri, dal taglio sottile ed elegante, la bocca rosea dalle labbra carnose, ma del tutto differente nel portamento.

Roberto era seduto come un ubriaco in un’osteria, con le gambe allargate e scomposto sulla sedia, mentre la sorella, pur rimanendo in piedi, manteneva la schiena diritta, come si confaceva a una giovane donna del suo lignaggio.

Giampiero fece un movimento, come per alzarsi in piedi, ma lei con un cenno gli indicò che non era necessario.

«Marchese, viaggiate in compagnia» sorrise Bianca, rivolgendo un’occhiata complice alla fanciulla. «Questa sì che è una novità!»

«Si tratta di un caso» disse il nobile, sperando che l’argomento cadesse così come era stato notato. Si fidava molto più dei due fratelli De Ghiacci che di tanti altri che avrebbe incontrato in occasione dei Lupfo-Evoco e ciò lo avrebbe spinto, in una differente occasione, a esporre la situazione; ma Menta era arrossita fino ad assumere il colore dei propri capelli, inducendo il marchesino a non aggiungere una parola di più.

«Finalmente hai trovato una donzella nella tua vita?» lo sbeffeggiò Roberto, con un’allegria tanto genuina che persino la contadina di Nilerusa scoppiò a ridere.

Giampiero scosse la testa e sorrise alla sua compagna di viaggio, quasi chiedendole di poter parlare. Menta annuì: dopo aver goduto della parlantina del marchese per tutta la giornata, quando le aveva raccontato del regno di Cmune, di storie e antichi sovrani, o semplici aneddoti sulla costruzione di un viale, era curiosa di vederlo all’opera in un diverso contesto.

«Lei è Menta» asserì dunque in un primo momento, prima di tacere alla vista di Eleonora che portava della carne di manzo cotta in un sugo denso. Attese che la locandiera fosse abbastanza distante e che il suono delle posate nei piatti potesse coprire le sue parole: altri avventori avevano occupato la locanda, sebbene non si trovassero in tavoli vicini. Aveva intravisto degli uomini armati, con tutta probabilità la scorta dei due giovani originari del sud di Selenia; ipotesi che trovò conferma nel saluto che scambiarono con Roberto.

«Tutto qui, Giampiero, non avete altro da dire?» gli domandò Bianca, con un garbo sconosciuto alla maggior parte delle donne che lui avesse mai conosciuto.

Menta fu disorientata dalle sue maniere affabili, tanto diverse da quelle di Flora, eppure in grado di catturarla sin dal primo momento, come le era accaduto con la principessa divenuta poi sua amica.

«In realtà ci conosciamo poco» disse lei con un soffio di voce. «Per questo non c’è molto da dire.»

«E si tratta di una questione delicata» aggiunse Giampiero.

«L’unica questione davvero delicata in questo momento» disse Bianca, senza che il sorriso abbandonasse il suo volto candido, «è il mancato attacco del Ruxuna allo Dzsaco.

Quelle parole colpirono il marchesino. «Cosa sapete voi due?»

«Questa mattina abbiamo avuto occasione di parlare con Lavinia Lugupe» confidò la principessa.

Giampiero ebbe un sussulto: sentì il cuore balzargli nel petto nell’udire che la regina di Dzsaco si trovava a Mitreluvui. Rivolse un’occhiata a Roberto, che annuì, tagliando parte del manzo nel piatto.

«Sappiamo delle mire degli Autunno sul Defi» bisbigliò Bianca. «Degli Autunno… sarebbe più corretto dire solo di Raissa, con l’appoggio silente di Ruggero e Amelia. Come se cercasse qualcosa lì, qualcosa che non può trovare nel resto di Selenia.»

«O qualcuno» si lasciò sfuggire Menta, attirando su di sé le occhiate degli altri tre. Il marchesino sembrava sorpreso dal suo ardire, davanti a due nobili che lei non conosceva fino a qualche minuto prima, mentre i due fratelli la osservavano uno sbigottito, l’altra esterrefatta.

«O qualcuno» concordò la principessa, riassumendo repentina il solito contegno. «Di qualsiasi cosa si tratti, pare essere di grande importanza per Raissa. E noi non possiamo permettere che lo ottenga.»

«Perché?» domandò la contadina, con semplicità.

La De Ghiacci le sorrise, lieta della domanda e dell’interesse che la giovane dimostrava. «Perché Raissa ha già conquistato tre regni in un brevissimo spazio di tempo, regni in cui può arruolare altri soldati per il suo già spietato esercito. E se non viene bloccata, se decidesse che il Pecama può essere una base per la sua potenza… deve conquistarlo.»

«E loro appartengono al Pecama» spiegò il marchese. Poi si rivolse di nuovo verso Bianca. «Ma Raissa è nel Loavi… a quanto so io non si è mossa da lì.»

-

«Non ve ne siete domandato la ragione?» gli domandò ancora lei. Gli occhi chiari brillavano, zaffiri incastonati nel suo volto angelico, lasciando trasparire una seria preoccupazione. Era molto più intelligente di quanto chiunque potesse credere; e Giampiero, che pur aveva un’elevata opinione di lei, fu spiazzato dal suo acume.

«No, perché so per quale motivo si trattiene ancora lì» rispose. Con la coda dell’occhio vide Menta tremare nel sorreggere la forchetta a mezz’aria, ma non le badò molto. Dopo le confidenze che Bianca gli aveva fatto, era giusto ripagarla della stessa moneta. «Vuole Flora Primavera, e crede che sia ancora nel Defi. Se qui ci saranno disordini, per lei non sarà complicato attraversare lo Cmune e arrivare fin lì.»

«Ma qualcosa mi dice che voi ne sapete una più di lei» continuò la De Ghiacci.

Il Tirfusama annuì. «Flora non è più nel Defi.»

«E lei?» chiese Roberto, incuriosito dal vivace scambio di battute tra i due, alludendo alla compagna di viaggio del marchese. «Menta, giusto? Tu cosa c’entri, in tutto questo?»

«Non ti sembra maleducato darle del tu?» lo rimbeccò la sorella, composta.

«Non è nobile» obiettò lui.

«Non c’è problema» intervenne la fanciulla chiamata in causa. Avrebbe dovuto sopportare ben altro, se Alcina l’avesse trovata...

Bianca sembrò abbandonare il rimbrotto verso il fratello maggiore, liquidando la questione con un’occhiataccia severa, glaciale. Menta approfittò del silenzio per volgersi verso il nobile che l’aveva condotta lì, chiedendogli con lo sguardo come comportarsi; lui le rivolse un sorriso comprensivo e subentrò al suo posto per acquietare la curiosità del principe.

«Lei è un’amica di Flora» spiegò. «Alcina è sulle sue tracce perché pensa che sia stata lei ad aiutarla a fuggire.»

«Quindi, se ho ben capito… Flora è scappata dalla madre?» esclamò Roberto con una sonora risata. «Credevo che scappasse da Raissa!»

«Il matrimonio con Nicola…» mormorò invece Bianca, posando la forchetta nel piatto vuotato. Alzò lo sguardo in quello del marchesino, le rivolse un velato cenno di assenso. «Lei non vuole sposarlo, dunque… le voci secondo cui ha un amante sono vere.»

Giampiero annuì. «Menta la aiutava a incontrarlo; perciò, se Alcina la trova, è in pericolo. Non so dire cosa quella donna sia in grado di fare.»

«E pensate che qui non corra alcun rischio?» gli domandò Bianca, perplessa. «Qui a Mitreluvui ora è pieno di nobili che non potranno non notare la sua presenza! Vi conoscono in molti, e abbastanza da sapere che per le missioni diplomatiche voi viaggiate sempre solo: una stranezza del genere non può non suscitare curiosità.»

«Dovrei tornare indietro?» chiese Menta, impaurita. Nonostante le incognite che una vita lontano dal Defi presentava, sentiva una sorta di terrore scuoterla da cima a fondo all’idea di rimettere piede in quel regno, che per anni era stato la sua casa. Le ire di Alcina Primavera non erano affatto da sottovalutare.

La gradevole principessa scosse la testa. «È stato volere della Luna che i nostri destini si incrociassero. Al momento attuale sono priva di una dama di compagnia: quella che avevo ha accettato di recente la mano di un duca del Crisera, e ancora non l’ho rimpiazzata.»

«Non posso permettere che…» provò a dire la fanciulla, stordita da una tale proposta. Quando aveva lasciato Nilerusa, vedeva davanti a sé solo la fuga da Alcina, una strada che la portasse lontano dalla sovrana e dai pericoli che poteva rappresentare. Durante la cavalcata sino allo Cmune, non aveva fatto altro che ripensare a quello che si stava lasciando alle spalle: la sua famiglia, un lavoro che la affaticava, certo, ma che le permetteva di essere utile e di non pesare sulle spalle dei genitori. Il piccolo banco al mercato con le sue povere spezie, che spesso barattava con qualsiasi cosa le sembrasse utile, di rado accettando del denaro; i suoi unici amici ormai erano lontani, ognuno seguendo il proprio dovere, mentre lei era l’unica ancora rimasta alla periferia della capitale.

«Flora si fida di te, e se sei in pericolo perché le sei stata fedele, si tratta di una fiducia ben riposta» sentenziò Bianca De Ghiacci, ancora con il suo dolce sorriso sulle labbra. «Sarebbe la soluzione migliore per tutti, te compresa. Cosa ne pensi?»

Menta cercò ancora una volta un suggerimento nell’espressione del marchese, che le disse soltanto. «La scelta è tua. Non puoi rimanere con me: è vero, viaggio solo, gli altri nobili si insospettirebbero. Ti ho portata lontano dal Defi perché lì non potevi rimanere, ma non avevo pensato a come aiutarti in un secondo momento.»

La contadina si rivolse alla principessa. «D’accordo, accetto.»

Le posate, utilizzate seguendo gli insegnamenti di Flora, giacevano inerti sul piatto, segno di sazietà che Bianca colse con sapienza. «Allora andiamo in camera, dobbiamo sistemare alcuni piccoli dettagli.»

La giovane di Nilerusa accennò un sorriso, e seguì Bianca, che nel frattempo si era alzata da tavola e aspettava solo lei per lasciare il salone. Giampiero le guardò allontanarsi, ignorate dagli altri avventori, tanto concentrati sulle pietanze che iniziavano a divorare da non badare alle due diversissime fanciulle.

«Non avevi pensato a cosa fare con lei una volta qui?» lo riscosse Roberto.

Il marchesino scosse la testa colpevolmente.

«E sei qui per i Lupfo-Evoco?» insisté il principe De Ghiacci.

«Diciamo che Alcina, suo malgrado, mi ha offerto una scusa per andare via dal Defi» sorrise appena il nobile decaduto.

L’altro scoppiò a ridere. «Sei un uomo coraggioso, Giampiero Tirfusama, molto più di quanto non si possa immaginare! Altro che i soldati che rischiano la vita sul campo aperto in battaglia, tu sì che sei un eroe! Sfidare Alcina in questo modo è da folli!»

La sua ilarità coinvolse il marchese, che si lasciò andare a un sorriso più largo sulle labbra. «Se pensi che inoltre sono qui per proteggere Nicola Lotnevi, poi…»

«Se Raissa non vuole altro che l’anarchia nello Cmune, sarà un duro lavoro» constatò il principe, tornando serio. «Probabilmente qualcuno lo accuserà di aver ucciso il padre per allontanarlo dal trono...»

«Questo è certo» mormorò Giampiero. «Devo fare in modo che nessuno creda a questa insinuazione.»

Roberto si riempì il bicchiere di acqua fresca. «Non sono qui per appoggiare le pretese di Raissa, ma per difendere il mio regno da ciò che lei potrebbe fare. Conta pure su di me: se ti serve di convincere qualche ambasciatore, sono a tua disposizione.»

«Certamente» assentì Giampiero. «Per nostra fortuna, abbiamo l’intera serata e tutta la giornata di domani a disposizione. E in due potremmo fare di più di quanto non possa io da solo.»

Tastò nella tasca del mantello da viaggio, toccando la sacca con il denaro consegnatogli da Alcina con un sospiro: in un modo o nell'altro, avrebbe escogitato un modo per tirare Nicola Lotnevi fuori dai guai. Se Raissa aveva previsto quella situazione, probabilmente aveva già corrotto molti degli uomini e donne che di lì a due giorni si sarebbero riuniti. Se qualcuno lo avesse fatto in sua vece, non aveva rilevanza: Giampiero si trovava al primo scontro con una mente abile, calcolatrice. Doveva dimostrare di saperne più di lei; e l'aiuto di una persona fidata come Roberto De Ghiacci gli era estremamente necessario.

 

(Ultima revisione: 30/05/2020)

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Capitolo 24
*** 7.4 Antica e decaduta stirpe ***


(Capitolo revisionato)

Mentre Bianca chiudeva la porta, Menta si guardava intorno, rapita dal lusso della stanza. Non si trattava di una semplice camera da letto, come aveva ipotizzato in un primo momento: davanti a lei si apriva un piccolo salotto, simile a uno di quelli delle case borghesi di Nilerusa. Al centro un tavolino di pietra, con uno strano divano intorno, che ne seguiva la geometrica linea circolare. Era presente anche lì un telo a ricoprirne la superficie piana, di un colore che nel semibuio la contadina non riuscì a distinguere, ma che le apparve di un rosso scuro non appena la principessa illuminò la stanza. Menta la guardò muoversi con grazia sui tappeti drappeggiati, mentre riponeva una scatola di fiammiferi sopra un mobiletto di mogano, senza rendersi conto che la luce irradiata dalle candele era di un colore azzurrino, molto diverso da quello che lei era abituata a conoscere.

«Mio fratello non viaggia mai senza queste» spiegò Bianca con un sorriso, accennando alle stravaganti candele. «Gli ricordano casa.»

Menta non disse nulla, attendendo che fosse la nobile a indicarle come comportarsi.

«Prego, sedetevi» le disse la principessa, allargando un braccio candido verso l’insolito divano.

La fanciulla ubbidì e prese posto, mentre l’altra estraeva due bicchieri in vetro dal mobiletto e li posava sul tavolino, affiancandoli a due caraffe piene fino all’orlo di vino speziato. Li riempì e ne porse uno alla sua nuova dama di compagnia, che ne annusò il profumo, esitante.

«Cosa c’è dentro?» chiese Menta.

«Miele d’arancio e cannella» fu la risposta. «Da noi si usa così. L’unico inconveniente è dover commerciare per avere entrambi, ma ne vale la pena.»

Bianca bevve un sorso, inumidendosi le labbra con il liquido scuro, dal retrogusto dolciastro, imitata dalla contadina, che teneva il bicchiere con entrambe le mani nel timore che le cadesse. La principessa glielo prese e lo adagiò sulla tovaglia scura. «Non così. Ma per questo ci sarà tempo.»

«Dovete perdonarmi, non so proprio niente su come…» iniziò a dire la fanciulla defica, in imbarazzo.

«Al contrario» le sorrise la nobile del sud, con un largo sorriso a illuminarle il volto. Si era accorta come la popolana maneggiasse con sapienza le posate durante la cena e aveva intuito che fosse stata proprio Flora Primavera a istruirla. «Credo che voi sappiate molto più di quanto non lasciate intendere.»

Sul volto di Menta si mostrò un incerto sorriso. «Ma… Maestà, io…»

«No, niente titoli» la interruppe Bianca. «Va bene che mi diate del voi, perché anche io sto facendo lo stesso. Ma io non sono regina e, molto probabilmente, non lo sarò mai.»

«Non avete anche voi un matrimonio combinato?» le domandò l’altra, con curiosità. Flora le aveva raccontato che non tutte le principesse avevano già la propria mano promessa a un nobile, ma ora che la contadina aveva l’opportunità di chiedere e di scoprire da sé, non poteva lasciarsela sfuggire.

Lei scosse la testa. «No… qualcuno ha già una sua idea di chi dovrei sposare, e io non sarei neanche in disaccordo, ma non spetta a me fare il primo passo. Anche se so che l’uomo di cui parlo non si permetterebbe mai di domandare la mano di una donna di rango superiore al suo.»

La De Ghiacci non riuscì a trattenere un sospiro. Certo, lui sarebbe stato un ottimo marito, così come era ottimo in tutto ciò in cui si cimentava: aveva il rispetto di molti sovrani e di molti nobili su Selenia, ma non si trattava solo di questo. Lo aveva visto di recente con i propri occhi occuparsi di faccende che non lo riguardavano con grande nobiltà d'animo e ne era stata davvero colpita. Bevve un altro sorso, così come fece la sua nuova dama di compagnia, che ne seguiva con attenzione ogni gesto, provando a imitarla, tenendo il vetro solo con due dita.

«E voi, Menta… ditemi di voi» le sorrise, benevola. «Qualsiasi cosa io debba sapere sul vostro conto. Non posso tenervi qui e trattarvi con la cortesia di un’estranea.

Lei annuì, e iniziò a raccontare. L’infanzia tra le vie della periferia di Nilerusa, talmente lontana dal centro da confondersi con la campagna. La conoscenza con Claudio, giunto ad abitare nella sua stessa via quando lei era ancora bambina, come fosse diventato il suo migliore amico, le strane circostanze che avevano condotto Flora nelle loro vite, senza stravolgerle, ma dando un nuovo senso a tutto ciò che facevano. La paura di Alcina, da cui i giovani cercavano di tenersi alla larga, la saggezza di Franco, che sapeva che era inutile continuare a nascondersi in eterno…

«Flora aveva paura di cosa sarebbe successo…» mormorò Menta. «… ha sempre avuto paura che il re e la regina la scoprissero. Adesso, però, con la sua fuga… non può più tornare indietro. Neanche io posso… probabilmente neanche Claudio e Franco, che chissà dove sono ora… è così strano, tutto questo. Sembrava che le cose ormai avessero raggiunto un loro equilibrio, e ora… è come se qualcuno fosse entrato dentro casa mia e con delle spade potenti l’avesse rasa al suolo. Voi cosa ne pensate?»

Bianca sorrise, benevola. Non aveva ritenuto opportuno interrompere la fanciulla, affascinata prima dal suo resoconto, poi dalle sue riflessioni. L'infuso che le aveva propinato di nascosto stava funzionando: Roberto aveva fatto davvero un ottimo acquisto, pochi giorni prima.

«Penso che non esistano spade con un tale potere» le rispose sinceramente, ma l’ingenuità della sua dama di compagnia non ne rimase offesa. Versò altro liquido nei bicchieri, riempiendoli di nuovo.

«Non sono abituata al vino» commentò Menta, con una punta di malinconia nella voce. «Ho sentito che berne troppo fa stare male… non posso permettermelo.»

«Non siete costretta a continuare a bere» asserì la principessa. «Il mio è solo un gesto di cortesia: sta a voi scegliere quando fermarvi.»

La giovane del Defi annuì, spaesata ancora una volta da tanta gentilezza.

«In genere vestite sempre a questa maniera?» le chiese l’altra, all’improvviso. Sapeva di dover porre quella domanda e, per evitare di piombare nel silenzio, ne aveva approfittato in quel momento.

«Il marchese… ha deciso di fermarsi nella bottega di un sarto, quando siamo arrivati qui. Abbiamo preso un vestito già pronto… è stata una fortuna, perché era la base di un tentativo… o qualcosa del genere, non mi ricordo cosa ha detto il sarto» raccontò Menta, a disagio nelle stoffe che la avvolgevano stretta. Non si trattava di un abito vistoso, ma molto semplice, di un indaco sbiadito, che molto probabilmente necessitava di ricami che lo arricchissero; o forse solo di altra stoffa che lo coprissero con maggior arte.

«Immaginavo che il nostro caro marchese si fosse prodigato in tal senso… ma ora me ne occuperò io» le sorrise ancora la nobile. «Domani farò chiamare il miglior sarto di Mitreluvui, così che possa lavorare su questo e prenderti le misure per altri abiti.»

«Vi ringrazio.»

«Non dovete ringraziarmi» mormorò quella dolce voce. «Occuparmi di voi è il minimo che possa fare. E così, poi, occuperemo la giornata di domani, in attesa dei Lupfo-Evoco e del verdetto che emetteranno.»

«Voi siete preoccupata?» le domandò Menta, con schiettezza, senza riuscire a trattenere il dubbio nel suo animo.

«Sì, sono molto preoccupata. Le mosse di Raissa mi spaventano, perché, anche se riesco a interpretarle, non so mai fino a che punto si spingerà, né se le mie analisi sono esatte» sussurrò Bianca, scuotendo la testa, su cui i capelli chiari continuavano a rimanere raccolti, senza sciogliersi, come invece la popolana aveva visto spesso accadere a chi li portava acconciati a quel modo. La principessa sospirò. L’infuso aveva effetto anche su di lei; riteneva che fosse giusto essere partecipe della stessa sincerità della sua ospite, ma sapeva di dover controllare ciò che avrebbe pronunciato: preferiva essere prudente e assicurarsi la sua piena fiducia, prima di rivelarle i più delicati movimenti del suo animo.

La fanciulla di Defi la vide farsi più pensierosa. «Ho detto qualcosa che non va?» le domandò, insicura.

Bianca le sorrise. «No, affatto. Tuttavia io non mi sono comportata in maniera del tutto leale con voi.»

«Come no?» Menta era incredula. Quella nobile le stava offrendo un’occasione per riscattarsi, per ricominciare da zero; aveva accettato di prenderla con sé a occhi chiusi, pur non conoscendo nulla di lei… come poteva non essere stata leale? Che l’avesse attirata lì con l’inganno? Che fosse una spia di Alcina? Che Raissa avesse scoperto il suo ruolo in tutta quella vicenda e l’avesse corrotta per sbarazzarsi di lei?

«No, purtroppo no…» La fanciulla del sud esitò, ma ben presto si decise a mostrare l’inganno. «Quello che avete bevuto non è soltanto del vino speziato. Vi ho immerso un filtro che costringe chiunque lo beva a dire la verità.»

«Cosa?» esclamò la popolana. «Perché?»

«Volevo essere sicura che funzionasse» ammise Bianca. «L’ho bevuto anche io, come hai potuto vedere. E no, non ne possiedo alcun antidoto. Mio fratello si è procurato questo filtro, ma… non oso sapere in quale modo, a meno di non ascoltare le sue eroiche imprese di corteggiatore. E non voglio sapere a quale donna, nobile o meno che sia, abbia tratto le fiale che custodisco nella mia camera.»

«Mi state dicendo… che esiste qualcuno in grado di preparare una pozione magica?» riassunse Menta, ancora più esterrefatta di poco prima.

«Non so dirvi se si tratta o meno di magia, ma… sì» rispose lei. «Devo chiederti di mantenere il segreto.»

La contadina abbassò lo sguardo, inspirando ed espirando profondamente. Quello non era il primo segreto che si ritrovava a custodire, e probabilmente non era neanche il più assurdo. Deglutì, prima di parlare di nuovo.

«Non credo che sia il filtro a spingermi a farlo… ma anche io devo dirvi una cosa. Anzi, due.»

Bianca bevve un sorso dal suo calice vitreo, guardando gli occhi scuri della sua dama di compagnia, suggellando con quello sguardo un’alleata fiducia. «Vi ascolto.»

«La prima riguarda il mio cognome» sussurrò Menta. «Il marchesino non lo sa, ma il nome della mia famiglia è Gredasu. Alcune storie raccontano che siamo vittime di una maledizione, per cui non possiamo avvicinarci alla famiglia che regna nel Defi, a meno di…»

«Di non andare incontro a un destino peggiore della morte» completò Bianca. «L’estinzione del sangue.»

«Conoscete…?» La domanda rimase incompleta per la meraviglia di colei che la formulava.

La principessa del Pecama annuì. «Ho letto la storia, tramandata in alcuni manoscritti. La colpa dei tuoi antenati è grave, ma non ricade su di te. Il tuo proteggere Flora va al di là di qualsiasi cosa possa essere accaduta chissà quanti secoli fa. Per me la maledizione che vi teneva uniti al passato è spezzata.»

Bianca De Ghiacci fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di Menta Gredasu, ultima discendente femminile di un'antichissima stirpe, caduta in disgrazia in seguito a un delitto e ad un maleficio del passato e mai più risollevatasi.

La dama di compagnia accennò un sorriso, con gli occhi appena inumiditi di lacrime che tentava con tutta sé stessa di non lasciar uscire. «Non lo sa nessuno, nemmeno Flora… vi prego di non dirlo.»

«Avete la mia parola d’onore» sancì la nobile del sud. «Ma voi prima avete parlato di due segreti.»

Menta annuì, prima di ricominciare a parlare.

 

***
 

La sera era calata già da alcune ore, mentre Alcina osservava il quieto zampillare delle fontane, fuori dalle ampie vetrate della sala del trono, che di giorno permettevano una buona illuminazione con qualsiasi umore di cielo.

La notte era limpida e la volta punteggiata di stelle, come la regina osservò con disappunto, tanto diversa dal suo stato interiore. Le era appena giunta una missiva del marchesino Tirfusama, che la informava dell’arrivo a Mitreluvui e dell’inizio delle ambascerie per convincere i nobili presenti ai Lupfo-Evoco a non avere alcuna intenzione di credere alla colpevolezza di Nicola Lotnevi. Stando alle parole del giovane Giampiero, sarebbe stato arduo riuscire nell’impresa, perché più di qualcuno si era dimostrato favorevole a credere all’uccisione di Guglielmo per mano del figlio; ma lei aveva molta fiducia nelle capacità del suo fedele diplomatico.

«Maestà?»

Qualcuno la chiamò alle sue spalle, ma la regina non si voltò. Aveva riconosciuto subito i passi affannati nei corridoi, che rimbombavano nella sua mente per la totale assenza di grazia del soldato. Marco Pomi, il capo delle sue guardie, era appena giunto affannato nella sala del trono, testimoniando con il suo respiro rumoroso una folle corsa sin lì.

«Novità?» domandò lei, grave.

«Abbiamo scoperto che delle strane figure sono salite su un mercantile, nel nostro porto commerciale» rispose quello prontamente. «E nessuno di loro aveva l’aria di essere un marinaio, né un mercante. Uno aveva una spada, a quanto mi è stato riportato, e uno aveva il volto coperto. Non possiamo escludere che sia una donna.»

«Qual è il mercantile?» La voce della sovrana non lasciava trasparire alcun turbamento interiore. Nonostante la delicatezza dell’argomento e l’importanza che aveva la fuga di Flora, dal suo tono Alcina sembrava impassibile.

«Lo chiamano Millenaria, mia signora. Non ne ho mai sentito parlare… Dev’essere una nave che non traffica mai da noi.»

La regina levò gli occhi chiari verso il cielo, incontrando lo sguardo delle stelle. Erano anni che non aveva occasione di mettere piede nel porto mercantile, ma rimembrava l’imponente edificio di pietra che accoglieva i marinai all’arrivo nella sua terra. «C’è una locanda attigua al porto, lì non sapevano nulla?»

«Abbiamo preso e interrogato il proprietario, mia signora. Non è stato facile farci dare informazioni da lui.»

Sul volto della donna si formò un ghigno. Non era stato semplice riuscire a scoprire per quale via si fosse dileguata la figlia, ma conosceva l’attrazione che il Litil suscitava sulla fanciulla. Non riteneva improbabile che avesse scelto di fuggire per mare. «Lo avete torturato?» domandò dunque, certa della risposta affermativa.

«Sì.»

«È ancora vivo?»

«Sì.»

Alcina sospirò, con un sorriso che le spuntava sul volto chiaro, lanciando lo sguardo verso l’orizzonte settentrionale, a quello Cmune tanto lontano eppure tanto vicino in caso di una sua invasione degli Autunno. «Rilascialo e ordinagli di tornare al suo lavoro. La corona apprezza chi collabora alla prosperità del regno.»

«Sarà fatto, mia signora.»

La sovrana Primavera non congedò ancora l’uomo: sapeva molto bene che le ricerche erano state fruttuose e voleva godere lentamente del loro succo. Tuttavia la notte incalzava e il soldato era spossato per il lungo viaggio attraverso per il Defi per giorni interi, senza sosta, per ottemperare all’ordine della sua regina. «Avete ottenuto il nome del capitano della Millenaria?»

«Certo, Maestà. Gredasu. Virgilio Gredasu.»

 

(Ultima revisione: 30/05/2020)

 

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Capitolo 25
*** 8.1 Luna oscurata ***


(Capitolo revisionato)

Nicola sospirò, innalzando lo sguardo al cielo nero di quella sera. La luna gli sembrava morsa dal buio, che doveva aver intimorito persino le stelle: nessun astro riluceva nella volta. Non occorreva essere un sacerdote per comprendere che non si trattasse di un buon presagio.

Abbassò gli occhi verso il suo regno, guardando le luci ordinate dei lampioni, che indicavano le vie principali, e seguì la linea di una di queste che si perdeva verso la campagna, fuori da Mitreluvui. Un dispiaccio lo informava di strani movimenti al confine settentrionale, quello con il Loavi... dove si trovava Raissa.

Era convinto che l'Autunno fosse ancora lì: probabilmente attendeva solo il momento migliore per sferrare il suo attacco, quando le difese dello Cmune sarebbero state più penetrabili. E le sarebbe occorsa grande maestria nel trasportare l'esercito oltre la catena dei Tumroi di nascosto alle vedette. Nicola era certo dell'efficienza dei suoi soldati, oltre che della loro fedeltà: un recente colloquio con il capo dell'esercito l'aveva molto rassicurato. Le maniere di quell'uomo erano un po' rudi, ma non aveva scorto in lui nessuno dei segni che invece manifestava l'intera corte.

«Nicola… dunque sei qui… solo?» mormorò una dolce voce femminile alle sue spalle.

Il principe si voltò appena e scorse sua madre seguita da Altea, la sua più fidata cameriera, che sorreggeva un vassoio con due tazze e una teiera di porcellana dipinta con motivi floreali.

«Madre» la salutò lui, con distacco. Durante gli ultimi giorni, lei non era più uscita dalle sue stanza e lo aveva lasciato solo contro quella corte ostile che tanto avrebbe goduto di vederlo cadere. Si era sentito abbandonato, come un condottiero che combatte senza esercito.

«Prendi del tè» gli suggerì la donna, splendida nel suo abito scuro, da lutto, ricamato con filamenti neri, che richiamavano l’orrore della morte. «Non può che farti bene.»

«Non è del tè che ho bisogno, credetemi» disse invece lui, apatico, seguitando a rimirare il panorama buio davanti a sé.

«Nicola…» sussurrò lei, con uno stranissimo tono di voce. Lo stava implorando, aveva pietà di lui e temeva per il destino di quell’unico figlio. «I cortigiani…»

«Sono delle teste vuote che non vedono l’ora che io commetta un errore» la interruppe lui, brusco. «Non ne commetterò: ho passato gli ultimi giorni completamente immerso nelle faccende del regno, ho ascoltato chi veniva a chiedere un aiuto alla corona, chi offriva i suoi consigli e sto facendo del mio meglio per capire cosa…»

Tacque, sentendo la mano della donna toccargli il braccio. Quel contatto fisico non era una novità: molte volte la regina lo aveva abbracciato e cullato come se quel ragazzo ormai divenuto uomo fosse ancora l'infante che aveva portato in grembo per mesi. Felicita lo scrutò con attenzione e distinse nel suo profilo severo la gravità di un sovrano conscio del proprio ruolo: Nicola era pronto a regnare.

«Non intendevo questo» pronunciò la donna con un tono di voce che giunse morbido alle orecchie del principe, come se gli stesse impartendo una lezione non severa. «Loro ti hanno tradito.»

«Cosa?»

Il giovane Lotnevi si riscosse e guardò la madre. Il cuore gli balzava nel petto e non riusciva a dominare la paura che repentina lo aveva avvolto. Aveva creduto quegli uomini insulsi capaci di qualsiasi cosa... ma come avrebbero potuto tradirlo? A chi si sarebbero affidati per la successione del regno? Non c'era nessuno nella linea di sangue che potesse prendere il suo posto. Che quegli strani movimenti al confine fossero a causa loro?

«Uno di loro ha fatto richiesta a Donna Cloe di convocare i Lupfo-Evoco» disse Felicita, grave. «Non so chi, ma non appena lo scoprirò, devo chiederti di condannarlo a morte.»

Nicola sospirò, cercando di elaborare tutte quelle informazioni in così breve tempo. I Lupfo-Evoco? Erano anni che non venivano convocati, e lì si sarebbe discusso della sua presunta colpevolezza: il giovane ne era certo, così come era certo che l'avrebbero condannato; anche se non esisteva nessuna prova per incastrarlo.

«Devo condannare a morte uno dei cortigiani?» domandò soltanto, perplesso.

La risposta della regina fu secca e solenne. «Sì, devi.»

«Ma, madre… se lo facessi… gli altri non cambieranno affatto idea su di me» ragionò Nicola. «E darebbe loro maggior convinzione che sia stato io a uccidere mio padre.»

«Non puoi fidarti di loro» insisté lei. «Di nessuno di loro.»

«Ma io non posso…» provò a obiettare il principe, sicuro delle proprie parole. Emettere la sentenza di morte per un membro della corte sarebbe equivalso a sancire l’odio di tutti coloro che sarebbero rimasti, al palazzo reale, tra i vivi.

«L’unica cosa di cui c’è davvero bisogno, è di allontanare tutti» disse la regina, ferma nelle sue convinzioni. «Devi sbarazzarti di loro, c’è bisogno di forze fresche che sappiano essere all’altezza del nostro prestigio. Questa massa villana di uomini insulsi e insolenti ormai non è più utile per le sorti del regno.»

«Mi state dicendo che… che mi farò odiare ancora di più?» esclamò Nicola, sbigottito. Operare una rivoluzione all’interno della classe nobiliare era un grosso rischio, che poteva portare dei benefici nel caso i nuovi dignitari sarebbero stati migliori; oppure implicare immani rischi, se quelli allontanati avessero deciso di ricorrere alle armi.

«Non prova più odio chi muore» sentenziò lei, fissando un punto impreciso tra i lampioni accesi della capitale.

«Madre, cosa dite?» esclamò Nicola, sconvolto dall’argomentare insensato della regina.
La donna non disse nulla, limitandosi a spostare lo sguardo verso il confine settentrionale, l’unico che si potesse osservare da quella torre.

«Sei qui!» gridò un’altra voce femminile, alle spalle di entrambi.

La cameriera rimasta immobile e muta al cospetto della famiglia reale, accennò un inchino alla nuova arrivata, senza far vacillare il vassoio.

Luciana Lugupe aveva raggiunto correndo il palazzo reale, l'ala nord, e i suoi passi si erano fatti più celeri per le scale, dandole quasi la sensazione di essere sul punto di volare. Tuttavia, lo sforzo fisico l'aveva affaticata e ora si appoggiava al muro per riprendere fiato. Accennò quello che doveva essere un inchino rivolto alla regina e scambiò a malapena uno sguardo con il principe di Cmune.

«Cosa succede?» le domandò Nicola, sorpreso di vederla lì e in quelle condizioni. I corti capelli scompigliati erano indice della sua corsa e l’affanno non poteva che testimoniarlo con maggior forza.

«Mi... manda... Alcina... Primavera» rispose lei, a fatica.

Il principe strabuzzò gli occhi. Che Alcina avesse scoperto l’accordo tra lui e Flora? Che avesse inviato lì Luciana per costringerlo a sposare la figlia? Sospirò, cercando di darsi un contegno: Alcina non avrebbe mai conosciuto le reali ragioni per cui quel matrimonio era ancora ben lungi dall’essere celebrato, perché Flora non lo avrebbe permesso.

«Cara, posso offrirti del tè?» chiese la regina, calma, come se Luciana fosse giunta in cima alla torre solo per bere del tè e non recando spiacevoli notizie.

La fanciulla annuì, così Felicita fece cenno ad Altea di riempire una tazza. La cameriera eseguì, anche se con difficoltà, poiché con una mano sosteneva il vassoio e con l'altra cercava di colmare la porcellana fino all'orlo. Nicola le indicò il bordo della torre, su cui era appoggiato fino a un momento prima, e la donna vi lasciò sopra il vassoio in argento, più libera di muoversi.

Non appena la bevanda fresca le fu porta, Luciana bevve avidamente.

«Vi ringrazio, Maestà» disse con un inchino rivolto alla sovrana di Cmune.

«Alcina è stata convocata per i Lupfo-Evoco?» le domandò la regina.

«Sì, mia signora… mi ha mandato qui per dirvi che tuttavia, lei non potrà partecipare» la informò la Lugupe.

«Sono spacciato» commentò Nicola, con amarezza. L’unica speranza per un esito a lui favorevole dei Lupfo-Evoco era che la regina di Defi vi partecipasse: solo lei aveva era in grado di salvarlo. «Perché non ci va?»

Luciana abbassò lo sguardo, sconfortata, e i capelli le coprirono il viso. Si vergognò tremendamente di sé: aveva promesso al Lotnevi che sarebbe tornata insieme alla sua promessa sposa; invece era giunta nello Cmune a mani vuote. «Perché Flora è fuggita e il castello non può rimanere senza un membro della famiglia reale. Mi spiace, Nicola, so che avrei dovuto portarla qui, avevo persino il permesso di Alcina…»

«Ormai non importa» disse lui, tornando a guardare il cielo oscuro. «L’unica cosa che mi preme è che i Lupfo-Evoco non mi condannino.»

«Chi andrà al posto di Alcina?» domandò invece Felicita con dolcezza, posando sul vassoio di Altea la sua tazza ormai vuota.

«Giampiero Tirfusama» rispose Luciana, cercando di nascondere la sua stizza. Tuttavia doveva riconoscere i meriti diplomatici del marchesino. «Ci si può fidare di lui, è devoto alla regina e lo ascolteranno. Se dirà che Nicola è innocente, gli crederanno. E se non gli crederanno, Alcina gli ha dato del denaro per corrompere gli altri convocati.»

«Corrompere? Per cosa? Io sono innocente!» gridò Nicola. Sapeva che il marchese decaduto era un abile oratore, che era in grado di far cambiare idea anche a un villico duro di comprendonio, ma temeva che tutte le sue qualità non sarebbero bastate. Giampiero Tirfusama non era Alcina Primavera e, in una situazione complessa come quella in cui si trovava lui, un dettaglio simile faceva la differenza.

«Bisogna tentare ogni via» disse la Lugupe, con fermezza. «Alcina ne è consapevole… e lo è anche Giampiero.»

Sospirò, pensando all'offerta che lui le aveva fatto di viaggiare insieme. Se avesse accettato, avrebbe potuto confrontarsi con lui e avere parole di conforto sul destino di Nicola, a cui lei era per forza di cose collegata: se lo Cmune cadeva, allora anche lo Dzsaco era in pericolo. Tuttavia, il dispiacere di non essere stata scelta lei dalla regina Primavera aveva avuto la meglio, Luciana aveva fatto il viaggio in solitaria e in quel momento si ritrovava a guardare Nicola con compassione, come se volesse spingerlo ad avere nel marchesino la stessa fiducia che riponeva lei.

«Noi non siamo stati informati dei Lupfo-Evoco» disse la sovrana, interrompendo il silenzio che era sceso improvviso tra i tre. Felicita osservava placida la notte imperare su Mitreluvui, ormai determinata nel mettere al sicuro il regno a cui aveva dedicato ogni sua energia.

«Ci sarà Giampiero a difendere Nicola» asserì la principessa di Dzsaco, molto più che convinta. «Non è un diplomatico alle prime armi, farà di tutto per risolvere la questione. E, conoscendolo, ci riuscirà.»

«Giampiero Tirfusama non è un uomo ingenuo, no» mormorò la regina, quasi tra sé. «Ma potrebbe non bastare.»

«Cosa intendete?» le domandò Luciana, sbigottita.

«Bisogna ricominciare da capo» rispose la sovrana, criptica. Poi si rivolse verso il figlio. «Tu sai cosa intendo. Se non ci pensi tu, sarò costretta a rimediare da sola.»

Nicola, con gli occhi fissi sulla luna calante, la vide svanire completamente. Rimase ammaliato a osservare il punto in cui era scomparsa, avvolta dalle tenebre come per incanto: forse l'omonima dea aveva deciso di voltargli le spalle; a nulla gli era valso esserle devoto.

 

(Ultima revisione:30/05/2020)

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Capitolo 26
*** 8.2 Verso Zichi ***


Era una sera scura e senza stelle, quella che vegliava sul viaggio della Millenaria. Flora era appena uscita da sottocoperta, quando vide Arturo e Claudio destreggiarsi con le spade. Li osservò per qualche momento: il mercenario cercava di istruire il contadino sulle tecniche di base, ma il compito si stava rivelando più arduo del previsto. Al giovane di Defi continuava a scivolare l’impugnatura della spada dalla mano, aveva un equilibrio precario e ogni volta in cui provava ad attaccare era molto più che prevedibile, tanto che il soldato parava ogni suo colpo con estrema facilità e con aria quasi annoiata.

La principessa sospirò e alzò lo sguardo verso la poppa, dove Virgilio stava manovrando il timone. Decise di raggiungere il capitano della nave: la sua compagnia sarebbe stata più piacevole dello spettacolo che i due duellanti le offrivano. Percorse la breve scalinata continuando a lanciare occhiate ai giovani sul pontile: Claudio non si faceva affatto valere, notò la fanciulla con disappunto. Era un ragazzo di buon cuore, un amico sincero e leale, ma in quanto a destreggiarsi con le armi era sempre stato un disastro.

Flora si appoggiò alla balaustra, ripensando a quel fresco pomeriggio d’autunno in cui Franco aveva provato a istruirlo almeno sui rudimenti della spada… inutilmente. La nobile ricordava con un sorriso che lui riusciva a maneggiare con difficoltà i vari attrezzi che sua madre gli dava per lavorare nell’orto: nonostante anni e anni di tentativi, la zappa continuava a finirgli sui piedi. Tuttavia, lui ci metteva tutta la buona volontà che possedeva e tentava di fare del proprio meglio, anche se la sua goffaggine non lo aiutava. Certo, Claudio era una delle persone più fedeli che conoscesse, ma stava iniziando a riflettere se la decisione di Giampiero di inviarlo lì come sua scorta non fosse stata presa con leggerezza; d’altronde, il marchesino lo conosceva appena e lei, in quel mattino, era stata sorpresa dalle continue novità per riuscire a radunare i pensieri e prendere la decisione giusta.

- C’è qualcosa che vi turba?

La voce di Virgilio la colse impreparata e la sua domanda la fece voltare. Il capitano mostrava uno dei suoi consueti sorrisi, che avevano avuto la capacità, sin dal primo momento, di attirare le simpatie della principessa. Il volto era disteso, come in attesa di una sua risposta, che prevedeva come affermativa.

- C'è molto più di qualcosa che mi turba - rispose semplicemente, con un sospiro. Nonostante l'istintiva fiducia provata all'istante per quel giovane dalle spalle larghe e la pelle di bronzo, era restia a rivelargli quali pensieri le si affacciassero alla mente.

- Ho salvato vostro fratello, pochi giorni fa - disse Virgilio.

- Come "salvato"? - esclamò lei. Cosa ci faceva Erik nel mar Litil? Non doveva essere nello Cmune, insieme a Nicola?

- La nave su cui lui viaggiava aveva subito un attacco... l'ho raccolto da una scialuppa.

- Mi sembra strano... - commentò lei. - I pirati non sono soltanto a ovest?

- Non si trattava di pirati - obiettò il capitano della nave. - Era un mostro marino.

Flora lo guardò sbalordita. Un mostro marino? Non erano tutti intrappolati nelle gelide acque del nord, vicino alle isole del Lancobe? Che il marinaio le avesse mentito?

- Questo non è possibile - disse soltanto, glaciale.

- Non ho intenzione di convincervi, potrà dirvelo lui non appena lo incontrerete.

Nella voce di Virgilio non era presente il minimo turbamento, e questo colpì Flora, che si aspettava che lui insistesse. Negli ultimissimi tempi, era sempre stata contraddetta da Arturo e lei aveva sopportato tutti i battibecchi con disappunto, convinta di essere nella ragione; al contrario, il capitano si mostrava pacato e persino accondiscendente, come se le volesse mostrare che si potesse avere ragione senza pretenderla a priori.

- Ce l'ho fatta!

L'esclamazione trionfale di Claudio arrivò fin lì e distolse i due dalla mancata discussione. Flora si voltò verso il pontile della nave, dove vide Arturo disarmato, con la spada a terra, e il suo amico che saltellava trionfante con le braccia al cielo.

- TI ho lasciato vincere - disse il mercenario, raccogliendo la sua arma.

- Ah, ah! Di' pure quello che vuoi, ma intanto io ho vinto!

Arturo sorrise, ma non aggiunse altro. Alzò lo sguardo e incontrò quello della principessa, che lo scrutava con attenzione. Nonostante i suoi buoni propositi, Flora non riusciva a fidarsi di lui, non del tutto: c’era qualcosa, nell’animo dello spadaccino, che lo preoccupava terribilmente e che ogni tanto gli donava un’aria cupa, che lui cercava in ogni modo di scacciare. La fanciulla intravedeva questa agitazione interiore e, se da un lato ne era incuriosita, dall’altro l’istinto le suggeriva la prudenza.

Distolse lo sguardo, puntandolo sull’orizzonte, dove si aspettava di veder comparire le luci di Zichi, la capitale del regno dell’Estate.

- Quanto manca? - domandò al capitano, con dolcezza.

- Non molto… dovremmo intravedere la città tra alcuni minuti - gli rispose lui, affatto scosso da quel cambio di atteggiamento.

Flora si perse a osservare incantata le onde del mare che circondavano il vascello, illuminate a malapena dalle luci accese sulla Millenaria. Il clangore delle spade di Arturo e Claudio la attirò nuovamente verso i due, che avevano ricominciato a duellare.

- La scorsa volta ci siamo divertiti di più - sentì commentare un marinaio che si avvicinava a Virgilio.

- La scorsa volta c’erano due abili duellanti - gli rispose il capitano.

- Di cosa parlate? - si intromise Flora, voltandosi verso l’uomo al timone e verso quello che aveva tutta l’aria di essere il suo secondo.

- Non so quanto sia il caso di parlarne… - mormorò quello, abbattuto.

Virgilio sospirò. - Angelo, vai a svegliare i ragazzi, tra poco dovremmo arrivare a Zichi.

Il secondo si mosse all’istante, con un piccolo inchino rivolto alla principessa, che osservò con disappunto il capitano.

- Quando abbiamo ospitato vostro fratello, c’è stata una piccola dimostrazione su come si duella in un corpo a corpo - le spiegò quello, con un sorriso. Riteneva che la fanciulla dovesse sapere cosa era accaduto durante la precedente traversata, ma non era incline a parlarne davanti ad altri per non turbarla, nonostante la fiducia che lui aveva in Angelo.

- Eravate voi l’altro? - domandò lei.

Il capitano scosse la testa. - Un ragazzo di Nilerusa - le rispose soltanto.

A quelle parole, il cuore di Flora le sobbalzò nel petto: Claudio le aveva detto che anche Franco era diretto a sud, nel Pecama, e se avesse viaggiato con quella stessa nave? Stando a quanto il suo amico le aveva raccontato, doveva viaggiare inosservato, e allora quale migliore mezzo della Millenaria?

- Potresti dirmi altro sull’altro? - chiese ancora, cercando di sembrare interessata a chi avesse osato mettersi contro suo fratello.

- Non so… - disse Virgilio, guardando l’orizzonte davanti a sé. Aveva parlato con Franco il minimo, giusto il necessario per capire che fosse una persona di cui potersi fidare e per tutto ciò che era stato strettamente collegato alla navigazione, che quel poveretto aveva sofferto terribilmente. - Credo che sia un borghese benestante… ma l’ho dedotto dal suo modo di comportarsi, non me l’ha detto lui. Se fosse stato un nobile, avrebbe guardato tutti dall’alto in basso, invece si è mostrato molto gentile… ci ha persino fatto le sue scuse per essersi sentito male durante la traversata, come se fosse stata colpa sua!

- Stai dicendo che io vi guardo dall’alto in basso? - domandò lei, inquisitoria. Qualsiasi risposta per Flora sarebbe stata quella sbagliata: lei trattava tutti coloro che erano estranei alla sua cerchia di legami allo stesso modo; non riusciva a trovare delle differenze in chi non conosceva.

- Noi non siamo pirati - disse soltanto lui. - Non facciamo nulla di illegale: viaggiamo con la bandiera delle acque libere perché siamo indipendenti, ma non troviamo alcun interesse nell’assaltare le altre navi. Commerciamo tra il Pecama e il continente, nient’altro.

Virgilio tacque, attendendo una reazione della principessa: aveva notato i suoi modi altezzosi con gli altri membri dell’equipaggio, ma che, stranamente, non riservava a lui. Gli era sembrato che la giovane donna lo avesse scelto come persona degna della sua presenza e lui aveva a cuore l’umore dei suoi uomini, che, nonostante non si fossero mostrati insofferenti, avevano dato al capitano alcuni impercettibili segnali che lo preoccupavano. Quella difesa della sua attività era necessaria, anche se, Virgilio lo sapeva, non era tutta la verità.

Flora non rispose: aveva compreso cosa quelle parole volevano comunicarle. Era questo, dunque, che suscitava nelle persone: la sensazione di essere sbagliati perché socialmente inferiori a lei, anche se la principessa non lo pensava affatto. Aveva la ferma convinzione di poter vedere gli animi, per distinguere quelli nobili da quelli che non lo erano: era in quel modo che si era fidata di Claudio, Menta, il marchesino… e Franco. Perciò stentava a fidarsi completamente del mercenario: c’è qualcosa di nebuloso che lo circondava, nonostante una folgorante luce interiore.

Sospirò, appoggiandosi al bordo della nave, pensando che forse erano quelle le sue capacità magiche di cui parlava la profezia. Tuttavia, non riusciva a comprendere come potessero esserle di aiuto per contrastare Raissa: Flora individuava l’indole degli altri, non poteva prevenire le loro future mosse in guerra, in battaglia o in un combattimento corpo a corpo.

- Non preoccupatevi, non siete la sola a credere che io faccia il contrabbandiere - disse lui, come confidandole un suo segreto.

- Dovete perdonarmi, invece - disse Flora. - Non volevo insinuare niente di male, né su di voi, né sul vostro equipaggio.

- Ora mi date del “voi”? - le domandò Virgilio con un sorriso.

- Mi sono ricordata di una cosa - gli rispose lei, puntando i suoi occhi azzurri in quelli scuri di lui. - I Gredasu erano una famiglia nobile del Defi, parecchi secoli fa. E, dal momento che voi ne fate parte, per me siete un aristocratico a tutti gli effetti.

- Altezza, io non appartengo alla mia famiglia da quasi dieci anni - obiettò il capitano. - Mantengo il mio cognome solo per presentarmi ai mercanti nei porti. Non sono un vero Gredasu, non sono un aristocratico. Sono meno di niente.

Flora si stupì a quelle parole: mai in vita sua aveva udito un nobile rinnegare le proprie origini, neanche se decaduto; d’altra parte, il Tirfusama era l’esempio vivente di come si potesse riguadagnare un rango che gli apparteneva solo formalmente.

- Non voglio un titolo, - proseguì Virgilio, - voglio fare qualcosa che mi renda davvero utile a questo mondo, a coloro che più ne hanno bisogno. Non importa possedere terre o denaro, non c’è solo questo che possa rendere un uomo realizzato.

La principessa era colpita da ogni singolo suono emesso da quel giovane dalle spalle larghe e abbronzate: comprendeva perché l’istinto, o la magia, l’avesse spinta a fidarsi di lui. Virgilio Gredasu possedeva molto più di un animo nobile.

- Non fraintendetemi - continuò lui. - Non c’è nulla di male in ciò che hanno o fanno i nobili… Ma la vita può offrire diverse alternative.

- Non a tutti - commentò lei, con una punta di amarezza.

- Non sono d’accordo - le sorrise Virgilio. Flora lo guardò, dubbiosa: non poteva evitare quello che era il suo destino; sarebbe diventata regina, avrebbe governato sulla Primavera, e forse anche sul Defi, e avrebbe avuto un matrimonio che l’avrebbe resa infelice, se non fosse riuscita a sposare l’uomo che amava.

- Se foste nei miei panni, non direste così… mormorò la principessa.

- Ora voi non dovreste essere qui, eppure eccovi - le spiegò il capitano. - Certo, avete già segnato il vostro destino, ma sta a voi decidere come percorrerlo. Se scegliere di prendere una carrozza o un cavallo, se compiere tutto il tragitto a piedi. Potete viaggiare sola, o scegliere dei compagni.

- Vorrei poter scegliere… - disse lei, avvicinandosi alla ruota del timone. - Purtroppo, non tutto è nelle mie mani.

- Altezza, io non ho una soluzione per ogni problema - mise le mani avanti Virgilio. - Non sono la persona più adatta per consigliarvi.

- Decido io chi è adatto o no - gli sorrise Flora, splendida alla luce delle torce, come se la penombra potesse renderla ancora più bella. - E voi lo siete.

Il capitano della Millenaria sospirò, ma non aggiunse nulla e lasciò cadere la conversazione, mentre la principessa si rivolse a guardare i suoi compagni di viaggio ancora intenti a maneggiare delle lame non affilate. Nessuno sulla nave parlò per diversi minuti, fino a quando una vedetta annunciò l’arrivo a Zichi, la capitale del regno dell’Estate.

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Capitolo 27
*** 8.3 Tempio del Sole ***


Le luci di Zichi si estendevano per tutta l’ampiezza del golfo. La città marittima ancora rumoreggiava: tra le vie erano imbandite lunghe tavolate attorno a cui gli abitanti della cittadina erano rimasti dopo la cena. Flora li osservava assorta, mentre continuava a camminare al seguito di Virgilio, incantata dalla semplicità dei quadretti che le comparivano davanti agli occhi. Quella che sembrava una famiglia stava terminando gli ultimi avanzi della cena, con vino a riempire i bicchieri, tovaglie dalle sgargianti fantasie toccare quasi il terreno. Una donna anziana si avvicinò allo strano gruppetto: i capelli grigi le incorniciavano un volto solcato da rughe, con gli occhi scuri, caldi di un sentimento che Flora non esitò a interpretare come benevolo.

- Avete mangiato? - domandò soltanto, con voce roca.

Virgilio le sorrise. - Sì, abbiamo mangiato.

- C’è del pane che è avanzato, ne volete? - offrì la donna, illuminatasi alla risposta del capitano. - Domani potrebbe indurirsi e non si può buttare.

- Ma certo - annuì ancora il marinaio.

L’anziana si allontanò per avvicinarsi all’altro capo del tavolo, in cui erano accatastate piccole forme di pane delle più varie dimensioni all’interno di una cesta.

- C’è da fidarsi? - bisbigliò invece Arturo, postosi al fianco della principessa. - Come facciamo a sapere che non sia avvelenato?

- Non sembra malvagia - sussurrò lei, nascosta dal cappuccio. Seguì la donna con lo sguardo e la vide contarli per poi afferrare quattro panini e tornare da loro, offrendo con le sue proprie mani quel poco che lei cedeva come un tesoro.

Claudio diede immediatamente un morso, attirandosi un’occhiataccia del mercenario. - È buono - disse con la bocca piena. - Vi conviene mangiarlo, non sapete che vi perdete!

Flora afferrò il pane che le veniva porto, guardando la vegliarda negli occhi, con un sorriso che lei sentiva venirle dal profondo del suo animo. - Che la Luna ve ne renda merito.

- La Luna mi ha concesso tutto questo - le rispose quella. - Sono una donna felice.

La principessa scrutò al di là dell’esile figura dell’anziana e vide alcuni bambini rincorrersi attorno alla tavola, giovani e fanciulle discorrere animatamente, uomini e donne di mezza età bere vino dai loro bicchieri stracolmi, versandone sulla strada senza avvedersene. La maggior parte di loro si assomigliavano fisicamente: alcuni avevano lo stesso taglio sottile degli occhi, altri la stessa bocca carnosa, altri ancora capelli della stessa sfumatura di castano bene illuminata dalle torce nella via; era davvero una famiglia.

Flora sospirò, prima di congedarsi dalla donna e proseguire il suo cammino alle spalle di Virgilio.

Il capitano della Millenaria li guidò fuori dalla capitale e li condusse verso un querceto, inoltrandosi sempre più tra gli alberi. La luce lunare permetteva agli altri tre di seguirlo senza perdersi, anche se Virgilio procedeva senza fretta, ma con sicurezza; come se conoscesse molto bene quel percorso. Claudio camminava al fianco della sua amica, mentre Arturo chiudeva quel bizzarro gruppo. Quando aveva chiesto al capitano di scortarli verso un posto sicuro in cui passare la notte, il mercenario non si sarebbe mai aspettato di dover attraversare una boscaglia che non conosceva e di cui, di conseguenza, non si fidava. Si udiva l’eco di un canto di cicala, abbandonata a sé stessa durante la notte, mentre un vento leggero sfiorava le loro vesti e li accompagnava lungo il cammino, scuotendo le chiome delle querce secolari. Sembrava che le foglie mormorassero tra loro per la sorpresa dei viaggiatori, e che li volessero accogliere in quello che Flora avrebbe percepito come luogo sacro anche senza che Virgilio glielo dicesse. I rami più bassi ondeggiavano a ogni minima folata, spostandosi per agevolare il quartetto nel suo incedere.

- Ci siamo quasi - li avvisò il giovane che li guidava.

Pochi istanti dopo giunsero all’ampia radura in cui si trovava il tempio del Sole che, per quella notte, sarebbe stato un luogo sicuro luogo in cui riposare. L’edificio si presentava come circolare, sorvegliato da alte e robuste colonne che ne seguivano il perimetro. Sotto alla copertura in pietra del soffitto erano dipinti alcuni motivi floreali, che la principessa Primavera si sforzò per riuscire a vedere, tanto erano in alto. La terra battuta faceva presto largo a una pavimentazione di marmo chiaro, a cui non osavano avvicinarsi né le erbe o i rampicanti che avvolgevano alcune querce, né le formiche, che lì arrestavano il loro passo come in ossequio al dio. Tre scalini ponevano il tempo poco più in alto rispetto ai visitatori, che lo guardavano meravigliati.

- Ogni volta fa lo stesso effetto - mormorò Virgilio, ammaliato.

Flora avanzò di qualche passo, arrestandosi di fronte al primo gradino per inginocchiarsi. Sebbene Alcina non le avesse mai imposto alcun culto, lei provava una profonda devozione per le due maggiori divintà di Selenia: il dio Sole e la dea Luna. Aveva letto molto nella biblioteca del castello sui riti celebrativi e qualche volta si era recata insieme a Franco al tempio della Luna nel sud di Defi, vicino al confine con Pogudfo; la regina le aveva sempre vietato di recarsi a Nilerusa durante le festività e quello era l’unico ordine della madre che lei avesse rispettato.

- Concedimi riposo per una sola notte tra le tue mura - sussurrò, impercettibilmente, con la testa china e gli occhi semichiusi. - Te ne prego, Padre Sole.

Una folata di vento accolse i quattro, scuotendo con più veemenza i rami bassi degli alberi e rovesciando il cappuccio che copriva il volto della principessa. Lei alzò lo sguardo, sentendo che il dio voleva vederle il volto prima di accoglierla.

- Possiamo andare - disse Virgilio, avvicinandosi a Flora. Le porse una mano per aiutarla a rimettersi in piedi, e lei accettò di buon grado. Il capitano la accompagnò fino all’entrata principale del tempio, chiusa da una porta pesante di legno chiaro. Sollevò appena il battente e l’ingresso si spalancò da sé. Il capitano rimase a bocca aperta: nonostante si fosse recato presso quel tempio in più di un’occasione, quel prodigio era per lui del tutto nuovo.

La prima a entrare fu Flora, immediatamente seguita da Claudio: entrambi si guardarono attorno con meraviglia, perché l’interno era molto più spazioso di quanto la costruzione lasciasse presagire a chi si trovava all’esterno. Un grande altare al centro era colmo di tributi di ogni tipo: da mazzolini di fiori a forme di formaggio, da lame affilate a gomitoli di lana; qualsiasi cosa i devoti del dio credevano di potergli offrire era lì, davanti ai loro occhi. La fanciulla si perse nella contemplazione: lei, nonostante la sua ricchezza, non aveva mai donato nulla, neanche al tempio della Luna presso cui amava recarsi.

Claudio, invece, si guardò attorno, notando delle panche di legno disposte in cerchi concentrici attorno all’altare e altre due porte, oltre a quella da cui erano entrati. Si stupì che potessero esserci altre stanze oltre a quella. Si lasciò cadere su una delle panche, seguito da Arturo, che aveva osato riporre la spada nel fodero solo una volta dentro il tempio.

- È stato costruito secoli fa, forse millenni - bisbigliò il mercenario al contadino. - Per questo ci sono delle altre stanze che non sarebbero contemplate.

- La magia? - esclamò quello, forse alzando la voce. Si accorse che Virgilio, che aveva affiancato Flora, lo guardò inarcando appena un sopracciglio. - Ma come è possibile? - aggiunse allora, sottovoce.

- Claudio, io sono un soldato, non un architetto - rispose Arturo, scrollando le spalle. - So solo che gli edifici più antichi nascondono diverse sorprese.

- Quindi non è la prima volta che entri in un tempio… - constatò il giovane di Nilerusa.

- No, non è la prima volta - ammise il mercenario. - Ma non mi piacciono i templi ed evito di avvicinarmici.

- Perché? - chiese Claudio, con curiosità.

Arturo sospirò. - È una storia lunga… e non mi va di raccontarla.

Il ragazzo del Defi non insisté, comprendendo la riservatezza del mercenario: non era l’unico ad avere dei segreti. Si guardò attorno, accorgendosi in quel momento della luce azzurra che illuminava il tempio, sebbene le candele disposte intorno emanassero attenuati colori caldi, un pallido rosso che non riusciva a farsi largo in quella marea blu. Gli arrivò una gomitata dall’altro, che gli indicò il soffitto concavo, sotto cui era posto un piccolo braciere, dal quale si diffondeva quel lume particolare.

- Ma dove le fanno, queste candele? - sorrise Claudio.

- Nel regno del Mare - gli rispose Arturo. - Lì c’è una lunga tradizione di ceraioli, le fanno in modo che possano illuminare di tutti i colori.

Il contadino strabuzzò gli occhi, meravigliato. - E a che servono?

- A questo - Il mercenario accennò al braciere, tanto in alto rispetto a loro, che i due non potevano vedere che forma avesse, o se fosse decorato con qualche motivo particolare. Irradiava soltanto quella soffusa luce azzurra che li incantava.

- Fanno candele per i templi?

- Non proprio… diciamo che li fanno soprattutto per ciò che riguarda i culti religiosi. Poi ci sono anche quelli che le comprano per uso personale.

Arturo tacque, incrociando lo sguardo di Flora. La principessa abbassò appena il capo, senza sapere perché lo stesse facendo; una parte di lei insisteva per fidarsi di lui, ma l’altra, quella più guardinga, le suggeriva la superficialità di tale proposito. Tuttavia, il suo caso amico si trovava in sintonia con il soldato, e lei comprendeva che non si trattava solo della semplice ammirazione che Claudio aveva provato per lui nei primi momenti insieme. Che le stessero nascondendo qualcosa?

- Arriverà qualcuno? - domandò a Virgilio, senza spazientirsi. Nonostante sapesse che il dio le aveva accordato ospitalità, si stupiva dell’assenza di sacerdoti o sacerdotesse.

Il capitano della Millenaria annuì. - Sapeva che sarei venuto qui, arriverà - mormorò, più a sé stesso che alla principessa. Lei non ebbe il tempo di domandargli di chi parlasse, perché una delle due porte si aprì e ne sbucò una giovane: i capelli raccolti sulla nuca e la toga nera, ricamata con filamenti dorati, erano il segno distintivo delle sacerdotesse del dio Sole. I suoi occhi erano di un colore indefinibile nella penombra: erano chiari, ma non dello stesso azzurro che illuminava il tempio; non verdi, tonalità distinguibile grazie al braciere.

La fanciulla avanzò diretta verso Virgilio e Flora, permettendo alla principessa di osservarla con maggiore attenzione. Le braccia lasciate scoperte dal morbido tessuto erano candide, magre, come di chi avesse patito la fame in un recente passato, la bocca dal taglio sottile non sembrava in procinto di formulare parole minacciose, ma quegli occhi indefinibili che si rivolsero verso il capitano non le sembravano rasserenanti.

- Non sarei qui se non fosse davvero importante - disse subito lui.

- Spero per te che lo sia. Se ti vedono un'altra volta qui, passerò guai seri - mormorò invece la sacerdotessa. La sua voce, nonostante lasciasse trasparire amarezza e rimprovero, era armoniosa, come se componesse una melodia. Uno strumento a corda ben suonato, come di una creatura celestiale.

Virgilio guardò Flora, domandandole implicitamente il permesso di poter parlare; la nobile glielo accordò con un lieve cenno del capo.

- Lei è Flora Primavera - disse allora il capitano. - E loro sono Arturo e Claudio.

Quest’ultimo agitò la mano in segno di saluto, attirandosi un’occhiataccia da parte dell’amica e strappando un sorriso al mercenario. La sacerdotessa chinò appena la testa, dando segno di averli scorti.

- Avete bisogno di un riparo sicuro? - domandò, rivolta alla Primavera, che solo in quel momento vide il colore dei suoi occhi: grigi.

- Soltanto per questa notte - sussurrò lei. - Domani all’alba partiremo di nuovo.

- Io non rimango - precisò Virgilio; a quelle parole i lineamenti della sacerdotessa si distesero, come alleviata di un peso opprimente.

- Potete dormire nella stanza - stabilì allora la fanciulla, sorridendo alla principessa.

Flora rispose a quel sorriso; tuttavia avvertiva un gelo tra la giovane e il capitano della Millenaria, che non riusciva a comprendere da dove giungesse. Che Virgilio le avesse causato dei guai con il suo contrabbando? Valutò per un istante l’ipotesi, scartandola subito dopo: no, c’era dell’altro.

- Posso conoscere il vostro nome? - le domandò soltanto.

La sacerdotessa si inchinò. - Qui sono conosciuta con il nome di Nuvola, Altezza.

La Primavera scosse il capo. - Non dovete chiamarmi così, non voi: siete al di sopra di me. - Percepì chiaramente lo stupore di Arturo nell’udire quelle parole, e si trattenne dal mostrarsene soddisfatta; ma lei aveva detto qualcosa che pensava davvero e non per vantarsi di fronte al mercenario che la credeva una principessina viziata.

Nuvola sorrise, poi si voltò verso gli altri due, che si erano alzati dalla panca e si erano avvicinati.

- Vi accompagno. - Guardò Virgilio e disse soltanto: - Aspettami qui.

Lui ubbidì, e seguì il nuovo quartetto con lo sguardo, mentre scompariva alle spalle di quella porta da cui la sacerdotessa era comparsa. Sospirò, posando poi gli occhi sulle offerte al dio Sole: tutto quel cibo, quegli oggetti che giacevano sull’altare di marmo bianco… quanto spreco. Il marinaio sbuffò con amarezza, cercando di non pensare allo sguardo tagliente che Nuvola gli aveva riservato; sapeva benissimo che se le altre sacerdotesse lo avessero trovato nel tempio, l’avrebbero scacciato come un insetto. Non aveva esitato un momento quando aveva proposto a Flora di accompagnarla lì per trovare un luogo sicuro, nonostante il rischio: non gli importava delle altre, ma solo di quella ragazza dai nebulosi occhi grigi.

Lei rientrò poco dopo. Era splendida, anche se quella veste nera come la morte l’aveva averla imprigionata per sempre. Si sedette al fianco di Virgilio, alla prima fila di panche.

- Sei pazzo - gli disse soltanto. - Non puoi stare qui.

- Non posso andarmene per sempre - ribatté lui. Il dispiacere era evidente nel suo tono di voce, tanto che la sacerdotessa si lasciò sfuggire un sospiro profondo.

- Ma io non posso, lo sai…

- Hai scelto tu questa vita, nessuno ti ha costretta! - buttò fuori Virgilio, cercando di controllarsi.

- Sei in un luogo sacro! - lo rimproverò lei sottovoce.

Lui tacque. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose il suo volto tra le mani.

- Lo sai… Non posso andare via da qui… come farei con mio padre. È a Zichi, finalmente ha trovato un posto dove stare, ma io non posso essergli di peso, e questa è l’unica possibilità che ho.

- No, non lo è… - mormorò lui, piegando appena la testa, per guardarla. - Ti avrei aiutato io.

- Tu? - sorrise Nuvola, ironica. - Tu ami troppo il mare; e io non posso venire con te, e non posso chiederti di abbandonarlo per me.

- Non lo abbandonerei - concordò Virgilio. - Ma non posso abbandonare te qui, chiusa in un tempio.

- Tu vedi questo posto come una prigione... - Gli occhi grigi della sacerdotessa si alzarono verso il braciere azzurro, da cui la luce serena si diffondeva nella sala rotonda. - Non capisci che per me è un’opportunità.

- Un’opportunità? - sbottò Virgilio, pur mantenendo la voce bassa. Sbatté le mani sulle proprie gambe, ma dovette controllarsi per evitare una reazione ancora più veemente che avrebbe fatto alterare la sacerdotessa. - Chi ti ama qui? Il dio Sole? Andiamo, non ci credi neanche tu!

- Non hai alcun diritto di parlarmi in questo modo - disse lei, atona. Il volto era una maschera di cera, ma all’interno del petto il cuore le batteva forsennato: le parole del capitano erano vere.

Lui si alzò in piedi, e iniziò a camminare nervosamente davanti all’altare. La frustrazione covata per lungo tempo rischiava di fargli commettere un gesto avventato, tanto che Virgilio dovette trattenersi dallo scaraventare sul pavimento tutti gli oggetti deposti sull’altare. Quella sarebbe stata una tale blasfemia che avrebbe scandalizzato la sacerdotessa; ma lui non voleva scandalizzarla. Arrestò il suo passo e la guardò: sembrava preoccupata. Rilassò le spalle, in segno di resa, pur non avendo intenzione di cedere. - Sì, Claudia. Ne ho tutto il diritto… ma vedo che non ci capiamo.

Si mosse verso l’uscita del tempio, e la sacerdotessa lo seguì, trattenendolo per un braccio sulla soglia. - Dove vai?

- L’hai detto tu, non posso restare qui - disse lui. Si divincolò dalla leggera presa della fanciulla e uscì dal tempo. Lei lo lasciò andare via, voltandogli le spalle per non vederlo allontanarsi

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Capitolo 28
*** 9.1 Eterna promessa ***


Le vie pavimentate di Ehoi si intrecciavano tra di loro, formando un complesso reticolato di vicoli secondari stretti ma pieni di vita. Le insegne dei negozi erano dipinte dei più vari colori, all’interno i suoni delle chiacchiere erano tanto alti di volume da giungere in strada, dove ogni voce si mescolava alle altre, in una caotica armonia.

Ariel guidava Erik in quel labirinto con sicurezza, come se fosse avvezza a quel luogo molto più di quanto il suo rango avrebbe richiesto. Il principe Inverno non si lasciava affatto incantare dal quel trionfo di colori, suoni e allegria che si respirava nella capitale del regno del Mare. Lui era concentrato su quello che era il motivo che l’aveva spinto a domandare alla fanciulla di condurlo lì: trovare la sarta con cui aveva trascorso la serata del ballo in maschera al palazzo.

Il giorno subito dopo la festa era stata l’occasione per Erik di riflettere su quanto accaduto, con il volto dolce e delicato di Iris che continuava ad affacciarsi alla sua mente, bella come poche donne che aveva incontrato nella sua vita; e lui ne aveva incontrate molte. Non capiva cosa gli stesse accadendo, perché mai si sentisse mancare il respiro ogni volta in cui pensava a lei, quale particolare di quella donna lo avesse catturato al punto da porlo alla sua ricerca.

Ingannare Amintore e Silvia si era rivelato più semplice del previsto: i due giovani avevano domandato di potersi assentare dalla corte per la giornata; i sovrani avevano di certo pensato che Erik avrebbe domandato la mano della loro figlia, e così li avevano lasciati andare, tornando ad occuparsi di uno degli ultimi riti per i festeggiamenti di Vudeli.

La principessa procedeva con il suo passo allegro e spedito, continuando a chiacchierare sui vari luoghi che attraversavano: su ognuno aveva un aneddoto, che fosse un evento di tempi lontani o la vicenda di qualcuno che aveva avuto a che fare con una determinata piazza o che aveva vissuto in quella viuzza stretta. L’Inverno, tuttavia, le prestava poca attenzione.

Lei sbuffò, accortasi della sua distrazione, giungendo a una delle tante vie secondarie di Ehoi. - Dovremmo esserci quasi.

Erik non disse nulla, ma si lasciò sfuggire un sorriso che non lasciava spazio ad alcun dubbio.

- Seguimi - si raccomandò Ariel, inutilmente: pur di trovare Iris, lui l’avrebbe seguita in ogni angolo di Selenia.

La principessa si inoltrò in una via in cui la luce del sole giungeva a malapena, a causa dei palazzi alti tre piani. La pietra di cui erano costruiti era chiara, come lo era nel resto della capitale. L’ombra offriva ai due ristoro dall’afa umida di quella giornata.

Ariel si fermò di fronte a una porta in legno scuro, a cui bussò con le nocche distese.

- Siamo arrivati? - le domandò Erik, con un bisbiglio.

Lei rispose con un cenno affermativo del capo. - Questa la sartoria in cui lavora.

Il nobile non disse nulla: non avendo dimestichezza con le botteghe, non aveva elementi che gli confermassero o meno quelle parole.

Ad aprire fu una donna esile, con una crocchia mal composta di capelli grigi. Profonde rughe le solcavano il volto; gli occhi, nonostante l’età, manifestavano una prontezza invidiabile: al di là di quelle iridi castane si intravedeva una grande forza. Indossava una veste leggera, scolorita, di un indefinibile sfumatura marrone, e consunta per l’eccessivo utilizzo, che le ricadeva morbida sul corpo, in modo da non impedirle i movimenti di lavoro.

- Mia signora - disse quella, inchinandosi al cospetto della fanciulla.

- Arianna, cercavo Iris, è qui? - le domandò lei, con un sorriso benevolo.

- No, altezza. Oggi ha chiesto di avere la giornata libera. Ha lavorato ininterrottamente per settimane, non ho potuto dirle di no - le spiegò l’anziana.

- Sai dove posso trovarla? - insisté Ariel. - È importante.

- Abita nella zona del mercato, ma non so dove di preciso.

- Non c’è un posto in cui lei ama andare? - si intromise Erik. Le informazioni che la donna stava fornendo loro erano troppo vaghe: doveva saperne di più, se voleva essere certo di incontrarla.

Una lettera di suo padre lo aveva raggiunto la sera precedente per richiamarlo alla corte dell’Estate, presso cui Tancredi si trovava in quei giorni. Non aveva che poche ore, prima della sua partenza: rintracciare Iris era più urgente di quanto avesse manifestato ad Ariel.

- Di chi parlate? - domandò una voce dall’interno.

- Caterina, forse tu puoi aiutare la principessa Ariel - L’anziana fece un gesto per invitare qualcuno ad avvicinarsi.

Una giovane si presentò sulla soglia. Assomigliava, nei tratti del viso, all’altra donna: il mento pronunciato e la forma allungata degli occhi era la medesima. - Nonna, ti cercavano nel retro, c’è un problema con l’abito che doveva essere pronto per stasera… - Si rivolse a guardare Ariel ed Erik, con un piccolo inchino. - Mia signora, mio signore.

- Caterina, è importante - la incitò la principessa. - Sai dirci dove possiamo trovare Iris?

- So che a lei piace la spiaggia verso sud, fuori Ehoi - rispose lei all’istante. - Ma ha la pelle delicata e non può rimanerci troppo a lungo. Ci va soprattutto di sera e al mattino presto, prima di venire qui.

Erik le allungò un paio di monete d’oro. - Ti ringrazio.

Gli occhi scuri della giovane furono attraversati da un bagliore di riconoscenza. Prese il denaro che quel nobile le offriva e tornò all’interno, chiudendosi la porta alle spalle.

- Sai arrivare a quella spiaggia? - bisbigliò l’Inverno alla Dal Mare, che annuì.

- Da questa parte - gli disse, riconducendolo sui passi già percorsi, per tornare di nuovo tra viuzze e vicoletti di pietra chiara.

Lui la seguì attraverso la modesta capitale, ignorando ancora una volta il chiasso delle voci che li seguiva a ogni metro, senza abbandonarli mai: Ehoi era tra le città più piene di vita di Selenia, su questo in pochi avevano dubbi.

- Siamo già nella zona meridionale, dobbiamo solo camminare ancora un po’ - gli spiegò Ariel, con i capelli di rame mossi dal vento.

- La strada è tanto lunga? - sussurrò lui, temendo che qualcuno potesse ascoltarlo.

- No, ma non sono sicura del punto preciso in cui potremmo trovarla, quindi una volta lì dovremo chiedere sicuramente a qualcuno.

- Immagino che tu abbia un piano - commentò Erik.

- Io ho sempre un piano - sorrise la fanciulla, per nulla infastidita da quel tono ironico. - Le devo chiedere di un abito di cui ho bisogno a breve.
 

Semplice, pensò il principe. Possibile che a lui non fosse venuta in mente un’idea simile? Sospirò, accelerando il passo per tenere dietro all’andatura di Ariel, che sembrava volare sulle strade pavimentate.

I due nobili si allontanavano progressivamente dalle vie più intricate della capitale, giungendo in una zona in cui gli spazi erano maggiori, con addirittura alberi piantati davanti alle case di pietra. Percorsero all’ombra un ampio viale che conduceva a sud, come la presenza del sole suggeriva, mentre gli abitanti della capitale e semplici viaggiatori camminavano con passo lento, come se nessuna impellente necessità li spingesse ad avere fretta. Erik non fece caso alla presenza delle altre persone, che forse avrebbero potuto riconoscerlo, ma i loro abiti variopinti colpirono il suo occhio, in uno strano contrasto con il bianco delle case e delle vie. La luce del sole brillava intensamente, splendendo con maggior forza, riflessa sulla pietra.

A un certo punto, Ariel lo guidò per una traversa alla loro destra, conducendolo verso il mare: il lastricato ben presto iniziò ad essere ricoperto di sabbia e, attraverso alcuni spiragli tra le case, Erik poté vedere la distesa azzurra e placida che circondava il Pecama.

La spiaggia non era molto frequentata: alcuni bambini giocavano nudi sulla spiaggia sorvegliati da giovani donne, che chiacchieravano riparate con teloni dalla sabbia bianca; indossavano vesti larghe e chiare, in cui la brezza marina poteva infilarsi, donando loro una sensazione di sollievo dalla calura di fine giugno. Nessun altro era presente.

- Ti sembra di vedere Iris, tra quelle? - chiese Ariel, con dolcezza. Aveva ben compreso cosa avesse spinto l’Inverno alla ricerca della sarta e non voleva essere di ulteriore affanno a quel cuore.

- Non mi sembra… - mormorò lui, affranto. Come aveva potuto illudersi che rintracciarla sarebbe stato tanto semplice? Era meglio dimenticarla e togliersi dalla mente ogni istante che aveva trascorso assieme a lei, dalla prima apparizione nel cortile dei Dal Mare, a quando erano rimasti entrambi nudi nella sua camera, alla sola luce della luna.

- Eccola lì, invece! - esclamò la principessa. - Vai, su, sbrigati, io ti aspetto qui!

Erik la guardò, perplesso: Ariel era allegra, risplendeva di pura gioia; e lui non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare.

Si volse di nuovo verso il gruppo di fanciulle che badavano agli infanti, ma tra loro non gli parve di vederla. Come poteva non riconoscerla? Eppure era certo che nessuna di quelle corrispondeva al profilo di Iris. Escluse quelle con i capelli di un colore diverso dal suo biondo cenere, le altre non sembravano condividerne neanche un lineamento: il volto affilato della sarta non compariva tra di loro.

Assorto nel contemplarle, non si accorse che lei lo aveva visto e che si stava avvicinando a lui e ad Ariel.

- Principe.

La sua voce lo scosse, e un brivido freddo lo attraversò. Erik si voltò appena, distinguendo il mento sottile, la bocca carnosa e gli occhi smeraldini della fanciulla.

- Se non vi dispiace, io vado a riva - salutò la principessa Dal Mare, con un sorriso.

L’Inverno sentì le proprie guance infiammarsi: era completamente disorientato, non sapeva come comportarsi, né cosa dire; la situazione era del tutto differente da quella con Susanna: gli era davvero dispiaciuto di aver illuso la locandiera, mentre la sarta lo affascinava molto di più. Quello sguardo lo avvinghiava e lui non riusciva a resistere.

- Iris… - sussurrò, nel timore che qualcuno potesse udirlo.

- C’è qualcosa che vi turba? - gli domandò lei, con una voce dolce, il cui suono ricordò a Erik quello di un melodioso strumento a corda.

- Voi mi turbate - rispose lui, senza pensare. - Ieri non ho fatto altro che pensare a voi.

- Non avreste dovuto - lo rimproverò Iris, con un sorriso che le decorò il volto. - Non può esserci futuro tra noi: una notte si può scorrere insieme, ma già che mi abbiate cercato non è un’azione sensata.

- Cerco sempre di fare la cosa giusta - ribatté Erik, divenuto improvvisamente padrone di sé nell’udire il ragionamento della sarta. Non poteva permettersi di avere torto. - E trovarvi è la cosa giusta.

- E ora, cosa vorreste fare? - lo incalzò lei, con un soffio.

- Non lo so - ammise lui, scrollando le spalle. Rivolse lo sguardo al mare, distogliendolo dagli occhi incantevoli della fanciulla. - Sarebbe una bugia dire che amarvi sia facile, perché so che gli ostacoli tra me e voi sono molti…

- Non parlatemi come se fossi una nobile - lo rimbeccò di nuovo lei. - Non so chi siano i miei genitori, potrei anche essere nata da una violenza, per quanto ne so. E avermi al vostro fianco non potrà giovarvi in alcun modo.

- Invece vi garantisco di sì - si oppose di nuovo Erik. Stava già pensando a come poter trovare un modo per far proporre ai suoi genitori di sposare una popolana. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma ne sarebbe valsa la pena: Iris aveva qualcosa di eccezionale, sebbene gli era difficile definire cosa fosse di preciso.

- Altezza, si è trattato di una sola notte - disse la fanciulla, chinando il capo. - Neanche se mi chiedereste di sposarmi, potrei accettare. So di vostra sorella e non credo che per voi la situazione sarebbe differente.

- Se riesco a ottenere il permesso di potervi domandare la mano… - iniziò l’Inverno. - Accettereste?

Iris sospirò, volgendosi a guardare il mare. Lo sciabordio melodico delle onde giungeva sin lì, e poneva ansia nel suo petto affannato. Persino Erik decise di voltarsi verso la distesa, e vide Ariel che camminava sul bagnasciuga, sandali in mano e piedi scalzi. Se non avesse saputo che si trattava della più giovane dei Dal Mare, non avrebbe mai immaginato che lei fosse una principessa.

- Sì, accetterei - sussurrò lei. - Sento qualcosa di forte per voi. Forse vi amo, ma se vi amo devo essere disposta ad accettare che per sposarvi potrei aspettare anni. Dunque, sì.

Lui si illuminò, le labbra sottili si piegarono in un sorriso. Era un’azione avventata, lo sapeva: tuttavia non era riuscito a resistere a quel desiderio.

- Mio padre è nel Pecama - le disse. - Questa sera partirò per incontrarlo e inizierò a capire come potergliene parlare. Spero di non impiegarci anni.

Trattenne una risata per quell’ultima affermazione. Afferrò istintivamente la destra di Iris, morbida, fresca nonostante il caldo, e la avvicinò alle sue labbra, per un dolce bacio.

- C’è un posto tranquillo, verso sud, in cui fanno un’ottima spigola - cambiò discorso lei. - Voi e la principessa vorreste venire o dovete tornare al palazzo?

- Veniamo volentieri - le sorrise Erik. - Ad Ariel farà certamente piacere.

Attesero sotto l’ombra di un faggio che la principessa finisse la sua passeggiata con l’acqua del mare alle caviglie. La brezza soffiava leggera, solleticando il collo scoperto della sarta, promessa sposa del nobile più ambito di Selenia.

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Capitolo 29
*** 9.2 Alandra ***


Il sole illuminava Zichi con i primi raggi che facevano capolino, quando Nuvola e Claudio uscirono insieme dal tempio, diretti al castello dei sovrani Estate. Una volta raggiunta la periferia della capitale, la sacerdotessa aveva mostrato all’altro l’esistenza di una via pavimentata che circondava la capitale e che conduceva al Castello di Scoglio.

Il giovane di Nilerusa trotterellava lentamente, guardandosi attorno, ammirando la frescura sotto gli alberi bassi che costeggiavano la via, ascoltando il cinguettio melodioso di qualche uccello sconosciuto. A un occhio esterno poteva sembrare un atteggiamento fanciullesco, quasi infantile, ma la verità era che recarsi al castello degli Estate sapendo che lì si trovava Tancredi Inverno lo agitava molto e cercava di scacciare dal suo animo quel sentimento di paura che poco prima, quando la decisione di inviare lui era stata presa, gli aveva attanagliato le viscere.

Tuttavia non aveva avuto alternativa: sacerdoti e sacerdotesse del Sole non uscivano mai senza un compagno dal tempio e Nuvola preferiva non rivelare chi ospitava nella propria stanza; che fossero Arturo o Flora a scortare la giovane era fuori da ogni logica, perché entrambi rischiavano di essere riconosciuti. Dunque Claudio era stato abbigliato degli stessi panni scuri ricamati in oro che avvolgevano la fanciulla senza potersi opporre, con l’unica speranza che il re di Defi non si ricordasse di lui; il fatto che lo avesse visto un’unica volta e da lontano poteva giovargli.

Davanti ai due sfrecciò una farfalla variopinta, che si fermò sulla corteccia di uno degli alberi piantati ai lati della pavimentazione. Il contadino ne fu affascinato: quelle che aveva sempre visto nel Defi erano di colori anonimi, o bianche o marroncine; e quella macchia accesa che gli era svolazzata davanti era per lui un’assoluta novità.

- Aspetta un attimo - disse a Nuvola. Si avvicinò lentamente a quell’albero dai rami verdeggianti in modo da non spaventare l’insetto, che mosse appena le ali di un rosso intenso. Claudio le guardò con attenzione, ammaliato dal disegno che recavano: quattro occhi ornavano tutte le parti di cui quelle erano composte. L’iride degli occhi in basso era di un azzurro scuro, come di un cielo in autunno, quando nel pomeriggio si sta per riversare la pioggia, circondate da una striscia nera, chiusa a sua volta da un alone cremoso. Quelli superiori avevano ancora più sfumature, da un giallo chiaro, come quello dell’astro che illumina il giorno, tanto sgargiante da poter accecare, all’indaco che si intravede tra i mille colori del tramonto.

Claudio ne rimase affascinato.

- Non avete farfalle così, nel nord? - gli chiese la sacerdotessa, con gentilezza.

- No - rispose lui, con un sorriso.

- Si chiama Alandra - gli spiegò Nuvola. - È di una specie particolare: si narra che un tempo le Alandre fossero fanciulle che vivevano nei boschi, trasformate così dal Sole per sfuggire a dei cacciatori che le inseguivano.

La farfalla volò via, allontanandosi dai due che la seguirono con lo sguardo; poi il giovane defico si riscosse e disse: - Andiamo, non perdiamo troppo tempo, altrimenti Arturo stavolta mi uccide davvero!

- Aspetta - lo fermò lei. Lui era avanzato già di qualche passo al pensiero dell’amico, ma tornò indietro. La fascia scura che gli ricopriva la fronte si era allentata e rischiava di cadere a terra, così la sacerdotessa gliela tolse e la sistemò di nuovo, nascondendogli i disordinati capelli scuri.

- Hai mai pensato di tagliarli? - domandò Nuvola. - Non deve essere molto agevole lavorare i campi con i capelli lunghi…

- Non lo sono così tanto, mi arrivano giusto alla spalla - spiegò Claudio, continuando a sorriderle.

- E poi piacciono alle ragazze!

Nuvola trattenne una risata. - Dipende dalle ragazze!

Continuarono a chiacchierare, instaurando un rapporto di complicità sempre più stretto passo dopo passo. Camminarono lungo la strada pavimentata, circondando la capitale che già si svegliava e da cui iniziavano a provenire i primi suoni del giorno.

Giunsero al lato opposto del golfo su cui affacciava Zichi dopo quasi un’ora. Un alto promontorio si ergeva, come uno scoglio in terraferma.

Nuvola diede le ultime raccomandazioni al compagno. - Non abbassare mai lo sguardo: ricorda che i nobili ci tengono in grande considerazione, ponendoci sul loro stesso livello. Tieni le spalle larghe e sii sicuro di te. Non parlare mai. Se ti domandano qualcosa, di’ che sei con i sacerdoti appena giunti dal nord e che ti trovi qui per preparare i riti del Sole del prossimo mese.

- Me l’hai ripetuto cento volte, ho capito - annuì Claudio, memore delle raccomandazioni lungo il percorso. Si stiracchiò, cercando di farsi coraggio, guardando quella che gli sembrava una montagna troppo bassa e fuori posto, poiché troppo vicina alla costa. - Mi stai dicendo che questa cosetta qui è il castello degli Estate? - domandò, perplesso. Si aspettava qualcosa di più sfarzoso, qualcosa che colpisse l’occhio.

La sacerdotessa mosse la testa in segno di diniego, appena percettibilmente. - No, è dentro.

Pronunciò l’ultima parola con un tono particolare, come se lo stesse mettendo a parte di un gran segreto. Gli fece cenno di incamminarsi al suo fianco, poi riprese, entrando in quella che si presentava come una grotta. Si trovavano ormai a ridosso del mare, l’odore di salsedine si insinuava nelle loro nari, mentre l’acqua inumidiva la roccia scura sotto il loro passo.

La spelonca si faceva sempre più scura a ogni metro, ma questo non impediva alla sacerdotessa di percorrerla spedita, mentre Claudio sentiva l’umidità avvolgerlo, attraversare quella veste ricamata, fino a insinuarsi sotto la sua pelle, tra i muscoli, nelle ossa. Arrivarono a un punto in cui il tragitto curvava e, non appena ebbero svoltato, il giovane di Nilerusa strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca, incredulo.

Davanti ai due si mostrava uno spazio aperto, illuminato dal sole, riparato da un cancello e da due guardie che vi sostavano in allerta. Al di là dell’inferriata si scorgevano un cortile verde, lo zampillare di qualche fontana e, più in lontananza, quella che sembrava una reggia.

- Tutto questo non è possibile… mormorò Claudio.

- Nelle ultime ore hai visto molte cose; sei sicuro che ci sia qualcosa di impossibile? - gli domandò lei, con un dolce sorriso a incurvarle le labbra.

Avanzarono ancora, fino a giungere alle due guardie, che esibivano lo stemma degli Estate: un giglio bianco su uno sfondo azzurro. Si inchinarono entrambe quando videro arrivare i sacerdoti e, senza aggiungere alcuna parola, spalancarono il cancello.

Nuvola cedette il passo all’altro, che si incamminò lungo il viale acciottolato, guardandosi intorno pieno di meraviglia. L’odore aspro di salsedine giungeva sin lì, ma era amalgamato con un altro aroma che non riusciva a riconoscere: vide degli alberi strani, con dei frutti arancioni, alcuni grandi come un pugno, altri grossi il doppio. Forse erano quelle piante singolari ad attenuare il penetrante profumo del mare.

Vide alcuni giardinieri affrettarsi da una parte all’altra per portare ristoro alla natura verdeggiante, in un mattino tiepido che lasciava presagire una calda giornata.

Nuvola lo guidò fino all’ingresso spalancato della reggia. Lì li attendeva un servitore, che si inchinò quasi fino al pavimento alla vista dei due sacerdoti.

- Vorremmo vedere il re - disse Nuvola, con un sorriso.

Anche Claudio sorrise, ma con meno convinzione: l’ultima cosa che lui desiderava era vedere il sovrano; non che lo conoscesse, ma, con molta probabilità, si trovava in compagnia di Tancredi Inverno.

Il servitore, un giovane dalla schiena diritta e i cortissimi capelli mori, li scortò attraverso un breve corridoio, ma prima di immetterli nella sala davanti a cui si era fermato, vi entrò egli stesso.

Claudio scambiò uno sguardo di intesa con la sacerdotessa, che annuì appena, come per incoraggiarlo. Lui, tuttavia, non si sentiva tranquillo: al di là di quella porta si trovava davvero Tancredi Inverno? Lo avrebbe riconosciuto? Quel bizzarro camuffamento era stato utile o no?

Non ebbe il tempo per darsi una risposta, perché il giovane uscì dalla sala, senza richiudersi la porta alle spalle.

- Vi attende.

Nuvola gli sorrise in segno di ringraziamento e varcò la soglia, seguita immediatamente dall’altro. Non era una sala del trono, come denotava l’assenza stessa dei troni, ma lo spazio era ampio, come se lo fosse stata in un tempo passato. Dalle finestre, poste su un solo lato, filtrava la luce solare, che rischiarava l’ambiente, già reso chiaro dalla mobilia dai colori delicati.

A un grande tavolo di legno chiaro sedevano due uomini dall’aspetto rispettabile, che sembravano essere stati interrotti nel mezzo di una conversazione urgente. A una prima occhiata si sarebbe potuto dire che si trattava di consanguinei, ma l’illusione era data dallo stesso mento squadrato, dalla bocca sottile e dalla barba che entrambi portavano molto corta.

Tuttavia, lo sguardo di uno dei due era severo, glaciale, come se non attendesse che una mossa falsa per biasimare l’altrui operato. La freddezza che si percepiva entrando nella sala lasciava intendere che fino a poco prima il tono del discorso fosse tutt’altro che pacifico.

Ma l’altro, quello a cui Tancredi Inverno si era rivolto con durezza fino all’annuncio dei sacerdoti, portava una corona di oro bianco sulla testa. Vittorio Estate posò gli occhi chiari sui due giovani e li invitò ad entrare con un solo gesto.

- Non vi attendevamo tanto presto - esordì. La sua voce era profonda, decisa; come se non fosse abituato a ricevere obiezioni.

- Non potevamo attendere - rispose Nuvola con tono gentile. - I preparativi sono molto lunghi e abbiamo bisogno dell’intera giornata per…

- Mia figlia è ancora nelle sue stanze - la interruppe re Vittorio. - Chiedete di essere accompagnati sin lì.

- Va bene - disse la fanciulla, con un sorriso lieve a ornarle le labbra. Si voltò verso Claudio e gli sussurrò di uscire fuori dalla sala. Non appena mossero il primo passo, vennero richiamati dalla voce del re Estate.

- Perdonatemi - si scusò. - Non voglio mancare di rispetto né al dio né ai suoi ministri. Ma ci sono affari urgenti di cui mi sto occupando.

- Non c’è stata nessuna offesa da parte vostra - gli sorrise ancora la sacerdotessa. - Un re ha sempre questioni importanti di cui occuparsi.

Il sovrano le rivolse l’ombra di un sorriso, prima di congedarli definitivamente con un altro gesto. I giovani uscirono dalla sala e il servitore, che li aveva attesi fuori, richiuse rapidamente l’uscio.

- Abbiamo il permesso del re per farci ricevere dalla principessa - disse Nuvola.

Claudio si sorprese nel sentire che il suo tono era lo stesso di quando aveva parlato poco prima, come se per lei avere a che fare con servi o re fosse la stessa cosa. La sua voce era dolce, armoniosa, celestiale, come se la devozione al Sole l’avesse resa simile a come una divinità dovrebbe essere.

Quello, senza proferire parola, si incamminò lungo il corridoio, che pareva illuminato dalla luce solare, nonostante l’assenza di finestre. La sacerdotessa lo seguì, mentre il giovane defico rimase alla porta della sala. Udì la voce del re Estate conferire con quella dell’Inverno, senza comprendere, in un primo momento, di cosa parlassero.

- Non posso permettermi di appoggiare una ragazzina che non ha idea come la situazione di quest’isola possa essere complicata! - esclamò re Vittorio.

- La Delle Foglie ha bisogno di noi - ribatté fermo Tancredi. - La corte potrebbe non accettarla, avere delle remore…
 

Chiara. Il pensiero di Claudio corse a lei, al suo viaggio verso il Pecama, dove ora si trovava anche lui. Era arrivata sana e salva? Franco era stato una buona guardia del corpo? Che cosa sarebbe successo tra lei e Gaetano, se fosse davvero diventata la regina delle Foglie Cadute?

- Potrebbe non essere la vera erede, potrebbe aver mentito!

- Chi mentirebbe al suo posto? Chi vorrebbe diventare regina di sudditi che potrebbero ucciderla?

Il cuore saltò un battito nell’udire l’ultima parola. Chi aveva interesse a uccidere Chiara? Non aveva avuto neanche il tempo di tornare al suo regno e già c’era qualcuno pronto a odiarla a tal punto? Sospirò cercando di calmarsi: c’era Franco con lei e lui era molto attento a qualsiasi cosa; di certo avrebbe saputo aiutarla in caso di pericolo.

- C’è un modo per essere certi che sia proprio lei?

L’Inverno indugiò, mentre Nuvola e il servitore sparirono dietro una svolta del corridoio. Claudio allora decise che era meglio lasciar perdere i due re e tornare dalla sacerdotessa. Non poteva rischiare di perdersi in un luogo che non conosceva e non sarebbe stata una buona idea farsi scoprire ad origliare dal padre di Flora.

Raggiunse il servitore e la fanciulla proprio quando si fermarono innanzi a un’altra porta chiusa. Nononostante l’apprensione per Chiara, non poteva negare di essere molto curioso di poter finalmente conoscere Stella Estate.

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Capitolo 30
*** 9.3 Silenzio ***


Il sole si avviava a tramontare quando Erik e Ariel erano di ritorno verso il palazzo reale. I colori del giorno sfumavano nelle tonalità dell’arancio e il mare si preparava ad accogliere la sfera luminosa, che ne tingeva le increspature di ambra. La distesa placida accompagnava i due lungo l’ampia via lastricata di marmi chiari che riflettevano il gioco di colori del tramonto.

- E quindi pensi davvero di sposarla? Erik, tu devi essere completamente pazzo! - esclamò Ariel, per l’ennesima volta.

Lui sospirò, con il sole che illuminava i suoi capelli chiari e che gli donava un’aria, se possibile, ancora più nobile di quella che già i lineamenti decisi gli conferivano.

- Convincerò mio padre, ne sono sicuro - disse soltanto, senza abbassare lo sguardo. Era più che certo delle sue parole: avrebbe trovato il modo di sposare Iris, a qualsiasi costo. Non c’era altro di cui gli importava, in quel momento. Persino il mistero dell’uccisione di Guglielmo Lotnevi era passato in secondo piano, di fronte alla sua determinazione nell’avere quella fanciulla al suo fianco per sempre.

- E come pensi di fare? Se tu parti per l’Estate, io non potrò venire con te! - esclamò lei. - Tancredi ha convocato te, di certo andrà su tutte le furie se mi presentassi anche io!

Erik annuì. - Hai ragione. Ma non è necessario che tu venga.

La principessa sbuffò, sarcastica. - E come pensi di convincerlo, senza il mio aiuto?

- Non sei l’unica ad avere sempre un piano - ribatté lui, posando lo sguardo sulle onde serene, risplendenti di un bagliore soave che poneva la giusta pace e sicurezza nel suo cuore. Sebbene Ariel si fosse dimostrata abile di ingegno, il suo aiuto con il padre non era indispensabile; e se a lei non era stato chiesto di unirsi, non era il caso che lo facesse. Mai prendere iniziativa con Tancredi Inverno.

- Non ti darà mai retta! - insisté la Dal Mare. - Iris è davvero di umilissime origini, non ti concederanno mai di sposarla!

- Vuol dire che aspetterò il momento giusto per poterlo fare - disse Erik, senza pensare.

- E quale? Aspetteresti che Alcina e Tancredi muoiano? Ma sei uscito di senno? - lo assalì di nuovo lei. - Che Vudeli li aiuti a vivere ancora a lungo, su Selenia c’è bisogno di loro! Con la minaccia degli Autunno, come puoi pensare anche solo che…

- Un momento - la interruppe lui. - Tu cosa sai degli Autunno?

Ariel aggrottò la fronte e si concedette un sospiro grave. Arrestò il suo passo e appoggiò la schiena al muretto costruito ai lati del lastricato. Il suo sguardo marino si disperse tra le onde ambrate, e non osò porlo in quello glaciale dell’altro.

- Cosa credi? - gli domandò in un mormorio. - Che non sappia cosa succede al nord? Dante mi tiene aggiornata su quello che fa Raissa Autunno, dei suoi spostamenti… che ora non ci sono perché è da giorni che è ferma nel Loavi. - Con una mano si scompigliò la chioma fulva e sospirò, amareggiata. - Anche tu, come tutti gli altri, pensi che io sia solo una frivola ragazzina?

Erik deglutì, incapace di parlare. Il tono mesto della fanciulla lo aveva disarmato: quella serietà che traboccava dalle parole di Ariel gli giungeva inaspettata alle orecchie. Lui non la riteneva affatto una principessa frivola; certo, si era dedicata alle solite attività della corte Dal Mare, ma doveva ammettere che anche lui non aveva saputo resistervi. Nonostante le incombenze che avrebbero dovuto occupargli cuore e mente, anche il giovane Inverno si era lasciato coinvolgere dalla spensieratezza di quel regno. E la promessa data poche ore prima a Iris ne era la testimonianza.

- Io mi sto preparando per governare quando arriverà il mio turno - asserì lei a bassa voce, sollevando gli occhi chiari e posandoli in quelli del principe. - E questo non significa solo organizzare feste e banchetti, ma anche occuparsi di qualcosa di molto più importante.

- Eppure ti sei fidata di Melissa Autunno - disse Erik, d’improvviso. - Le hai detto del tuo pugnale. Come ti è saltato in mente di fidarti di lei, se sai cosa fa la sua famiglia?

- Melissa vi appartiene per nascita, non per comunanza di idee e di vedute - ribatté Ariel, secca. - Che regni lei, in futuro, e non Raissa sarebbe quello che tutti noi dovremmo auspicarci.

- E come fai ad essere sicura che spetterà a te la corona? - la interrogò lui.

- Perché Dante non sarà più qui - gli rispose lei, enigmatica. - Ma ho giurato di non parlarne con nessuno.

Erik sbuffò, innervosito. Cosa significavano quelle parole?

- Ariel, dobbiamo parlarci francamente - disse, quasi liberandosi di quelle parole, macigni sullo stomaco. - Cosa ha in mente Dante?

Lei allontanò lo sguardo dall’Inverno e riprese a camminare. Sembrava riflettere sulla risposta da dare, in modo da soddisfare la necessità di lui e, allo stesso tempo, di non tradire la confidenza del fratello. - Di chiedere la mano di una principessa - sussurrò. - Ma non posso dirti di quale, perché… perché non ha ancora osato avvicinarsi a lei.

Lui annuì: era una spiegazione sensata. Se Dante fosse diventato re di un altro luogo, alla sorella rimaneva il regno di origine.

Avvistarono le mura che circondavano il palazzo reale, illuminate fiocamente dal sole che moriva, ingoiato dal mare. Un insolito silenzio mise in allarme Erik: di solito si udiva un vociare dall’interno delle mura, un suono che si univa alla carezzevole armonia delle onde.

Se la distesa marina sembrava aver rallentato i propri movimenti per non disturbare il cammino dei due, dall’interno della residenza reale non proveniva nulla.

- Ariel, sbrighiamoci - disse soltanto lui, affrettando il passo.

- Che succede? - domandò lei, sorpresa da quel repentino cambio di atteggiamento.

- C’è silenzio, Ariel, c’è silenzio! - esclamò Erik. Iniziò a correre, lasciandosi indietro la fanciulla e, non appena superò le mura di sabbia attorno al palazzo fu assalito dalla quiete che rimbombava assordante. Nello spazio esterno attorno alla residenza Dal Mare non c’era anima viva.

Il cuore gli batteva sempre più forte a ogni passo e gli saliva sempre più nel petto, finché il principe non lo sentì in gola. Un presentimento negativo si fece spazio nella sua mente, accompagnandolo nella corsa verso l’ingresso del palazzo, mentre attraversava i corridoi silenti dai lumi prossimi a spegnersi.

Si avvicinava alla sala del trono, dove tutti dovevano essersi radunati per uno dei riti sacri a Vudeli che si celebravano quel giorno: il Roccei, come veniva chiamato nelle lingue antiche. Erik vi aveva partecipato una volta sola, nell’anno precedente. Poco prima del tramonto, sui tavoli venivano posizionate delle conchiglie, con ostriche al loro interno, fatte cuocere in grossi pentoloni ricolmi di acqua salina, secondo il rituale; a turno ognuno ne prendeva una e tutti i presenti portavano alla bocca la conchiglia, assaporando dapprima alcune gocce di acqua di mare, poi mangiando il mollusco tutti allo stesso momento.

L’Inverno avanzò ancora, a passo sempre più veloce, quando un urlo femmineo riecheggiò nel palazzo.

- Erik… cosa succede? - domandò Ariel con affanno. Quella voce straziata l’aveva spaventata, insinuando in lei, per la prima volta in tutta la sua vita, un nuovo sentimento: paura.

- Sta’ indietro! - le ordinò lui, seppure con un tremolio nella voce. Non voleva che la principessa assistesse a quello che lui presagiva come un orrendo spettacolo. Ormai mancava poco alla sala del trono: pochi istanti e l’avrebbero raggiunta.

Ma, non appena giunsero all’ampio corridoio che vi immetteva, Erik dovette fermarsi, perché qualcosa ostacolò i suoi piedi: il corpo di uno dei dignitari di corte, riverso sul pavimento. Lo voltò e la prima cosa che lo colpì fu lo sguardo perso nel vuoto dell’uomo e i suoi occhi verdi, assenti, morti. Tastandogli le membra, si accorse di come queste si fossero irrigidite: gli sembrava di toccare della fredda pietra, non un dignitario di corte.

- Questo non è normale… - mormorò, più rivolto a sé stesso che ad Ariel.

- Guarda - disse lei, con la voce strozzata.

Erik si distrasse dal cortigiano per notare che l’intero pavimento del corridoio era disseminato di corpi senza vita. Rimase immobile, atterrito dalla visione.

Lei, invece, si mosse agilmente tra uomini e donne caduti nelle posizioni più scomposti, ormai senza vita, diretta verso la sala del trono. Sembrava volteggiare, farfalla sfavillante in un grigio cimitero, ma la verità era che la fanciulla provava terrore solo all’idea di poter sfiorare quei cortigiani che ben conosceva.

- Ariel! - Erik si riscosse troppo tardi, quando lei era sparita dalla sua visuale, e la rincorse fino all’ingresso dell’ampio salone, dove solo due giorni prima si era celebrato il ballo in maschera. Non gli parve di vedere la Dal Mare, a una prima occhiata, tra tutti quei corpi sparsi sul pavimento sabbioso della reggia; tuttavia la distinse quando lei, caduta a terra, sussultò vicino a due figure che, purtroppo, lui riconobbe all’istante: Amintore e Silvia Dal Mare.

Si avvicinò a passi lenti tra la moltitudine silente e raggiunse la fanciulla, che guardava i genitori senza vita con gli occhi sbarrati, esterrefatta, come incapace di comprendere cosa fosse accaduto.

Il re stringeva tra le mani la conchiglia del Roccei, così come anche la regina e, come poté constatare spiandosi intorno, tutti gli altri. L’ostrica all’interno non c’era più, veicolo di una rapida morte, tanto che i due sovrani non avevano avuto il tempo per guardarsi un’ultima volta.

La donna, addirittura, dava le spalle al marito, accasciata verso una dama con cui, probabilmente, aveva scambiato le ultime parole. La veste chiara giaceva scomposta sul pavimento, come se non appartenesse alla regina, ma a una popolana qualsiasi, lasciandole le gambe chiare scoperte.

- Ariel… - mormorò, accovacciandosi al suo fianco.

- Qualcuno ha urlato prima - disse lei, inespressiva, in un soffio. Si alzò a terra, imitata dall’Inverno, e uscì dalla sala del trono, appressandosi alle porte che conducevano al cortile verso il mare.

Lui la seguì, deciso a non lasciarla sola, incapace di radunare i pensieri e di formularli in maniera sensata. L’unica cosa che aveva nella mente era il dovere di non abbandonare la principessa a sé stessa; non dopo quanto appena visto.

La Dal Mare si avvicinò a una delle panchine, simile a quella presso cui era avvenuto l’incontro tra Erik e Iris al ballo. Lì era seduta una giovane, che singhiozzava, pulendosi ripetutamente il viso con il grembiule sporco.

Il principe le raggiunse, mentre quella, tra un singulto e l’altro, tentava di raccontare.

- ...e li ho visti tutti così! Ho tardato solo due minuti per il rito e loro sono tutti morti! - gridò la fanciulla, sconvolta, nascondendo il viso nel grembiule.

Ariel la aveva ascoltata in silenzio, con lo sguardo rivolto verso il mare e il sole, che le illuminava fiocamante i capelli ramati. Vide che Erik era sopraggiunto e si rivolse a lui. - Non so cosa fare.

Lui prese la principessa da parte, e i due si allontanarono di poco dalla giovane, che continuava a piangere e a singhiozzare tra sé.

- Mandala a chiamare Iris e dille di portare del cibo, anche comprandolo a Ehoi. Non possiamo fidarci di quello che c’è qui.

Lei annuì, comprendendo la gravità di quelle parole e ritornò dalla fanciulla, dandole gli ordini come avrebbe fatto in circostanze diverse. Osservò la mesta cameriera annuire e incamminarsi verso l’uscita dalle mura circondando il palazzo: non aveva il coraggio di porvi di nuovo piede dopo quanto accaduto, nonostante quella attraverso la reggia fosse la via più breve.

Ariel si accasciò sulla panca lasciata vuota. Si portò le mani al volto, lasciandosì lo spazio per guardare il mare.

- Sono morti tutti, Erik - mormorò. - Sono morti tutti e noi due ci siamo salvati sono per caso… ho paura: c’era qualcuno che voleva ucciderci? Perché ucciderci?

Lui scosse appena la testa, cercando di non lasciarsi andare al terrore che lo scuoteva: lei aveva ragione, si erano salvati solo perché avevano trascorso l’intera giornata ad Ehoi insieme a Iris. Se lui non avesse avuto il desiderio di incontrarla, anche loro sarebbero andati incontro allo stesso destino del resto della corte.

Amintore e Silvia Dal Mare non erano più tra i vivi: era il turno di Ariel e Dante di prendere in mano le sorti del regno. Se tra loro erano già d’accordo sul fatto che sarebbe spettato alla sorella, c’era una sola cosa da fare perché lei potesse diventare regina.

- Scriviamo a mio padre - disse l’Inverno. - L’unica persona che ci può aiutare è lui.

Guardò da lontano la sala del trono, con le vetrate spalancate, i cadaveri sparsi sul pavimento, sulla sabbia, ognuno con la conchiglia vuota in mano.

Il silenzio era interrotto solo dallo sciabordio delle onde, che ritmicamente frustavano la riva, e dai passi di Erik, che rientrava al palazzo reale, dirigendosi verso le sale che fungevano da uffici di Amintore e Silvia. Si sedette a un tavolo impreziosito di decorazioni d’oro e avorio, da un cassetto estrasse un calamaio, che intinse in una piccola boccetta di inchiostro scuro, pronto a scrivere la lettera più difficile della sua vita.

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Capitolo 31
*** Profezia III ***


Veste tinta di sangue,
mani macchiate di un accordo
suggellato sul futuro.

La progenie sacrificata
sotto uno scroscio d’acqua.

Tuono che irromperà nel buio,
l’erede bendato e costretto
avanzerà sul legno,
incontro alla morte.

La folla attorno, silente,
sole calato al di là dei monti

dalle cime dissolte.

Ma il vento…

Lo stilo cadde dalla mano di Silvana, rotolando sul pavimento, fino a giungere contro il muro dell’angusta stanza. Il lume fioco di una candela la illuminava, mentre lei raccoglieva lo strumento con fatica, aggravata da un grembo troppo evidente per poter essere nascosto ai fedeli che si recavano al tempo della Luna.

Ormai da alcune settimane trascorreva il tempo tra le sue quattro pareti, che i compagni del culto avevano reso più confortevoli. Le visioni si erano fatte più frequenti e la sua salute sempre più cagionevole.

Il suono soave della pioggia le teneva compagnia durante la notte, sussurro ristoratore, mentre la sacerdotessa tentava di afferrare le ultime immagini apparse alla sua mente, invano: quelle si facevano sempre più sfuggevoli, sbiadite, inafferabili, ineffabili.

Silvana si sedette sul letto reso morbido da spesse coperte, così che il suo bambino non soffrisse la frugalità del tempio. Ricordava un soffio di vento primaverile in una terra ostile, una terra illuminata da torce. I volti preoccupati, ansiosi, desiderosi di coltivare una speranza ormai spazzata via… troppo poco per poter essere affidato alla memoria dei posteri.

Mormorò qualche carezzevole parola di conforto al figlio, che aveva ripreso a scalciare; tuttavia lei stessa non appariva troppo convinta. Se qualcuno avesse scoperto la sua unione con un altro sacerdote durante il Concilio dei Veggenti, avrebbe avuto parecchi guai; così come i suoi compagni e le sue compagne, che avevano accettato di proteggere il segreto e di affidare quel bambino che sarebbe nato alla benevolenza dei sovrani. Avrebbero annunciato il ritrovamento dell’orfanello sugli scalini del tempio, certi che la Luna avrebbe vegliato su di lui, come su tutti i suoi figli.

 

***

 

Claudio si svegliò di soprassalto, nel cuore della notte. Nella stanza in cui Nuvola li aveva ospitati la luce lunare filtrava a malapena da una finestrella, ma lui poteva vedere con chiarezza i suoi compagni di viaggio addormentati: Flora sul letto della sacerdotessa; Arturo sul pavimento, senza nulla che lo alleviasse dalla durezza del marmo, a differenza di Claudio, che aveva dormito su alcune coperte.

Si alzò in piedi, cercando di avvicinarsi il più possibile a quella sorta di feritoia. Tese le orecchie e si stupì di non udire nulla, neanche il canto dei grilli che aveva ascoltato con piacere durante la notte precedente.

- Strano - commentò tra sé e sé. - Mi sembrava che piovesse...

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Capitolo 32
*** 10.1 Prova di colpevolezza ***


L’antico salone in cui i Lupfo-Evoco si riunivano era gremito di dignitari, reali e nobili giunti da ogni angolo di Selenia. Le pareti di pietra erano spoglie, sintomo del disuso di quel palazzo, un tempo dimora dei sovrani di Cmune. Secoli prima risiedevano lì, in una costruzione austera e solida, che sembrava quasi dimostrare la rigida inflessibilità della corona, già in mano della casata Lotnevi. E ora che il regno di Nicola vacillava, riunirsi lì sembrava un oltraggio all’ultimo erede di quella nobile famiglia.

Il contrasto con l’allegro chiacchiericcio dei presenti turbava Giampiero che, seduto al posto occupato diversi minuti prima, faceva tamburellare le dita sulla propria coscia. Cercava con ogni sforzo di non lasciar trapelare il nervosismo che lo aveva colto alla vista dei nobili che si scambiavano complimenti e facezie come se fossero seduti attorno a un banchetto di festa, e non radunati per discutere di un argomento che poteva valere la vita o la morte di un principe. Lui e Roberto De Ghiacci erano tra i pochi ad avere un’aria grave.

Lo sguardo del marchese si soffermò su una donna che sedeva all’altro capo della sala. Lavinia Lugupe osservava il vuoto inerte, ignorata dal resto della turba, che la salutava appena con un cenno del capo o con un inchino.

- Ieri hai parlato con la regina Lugupe - sussurrò a Roberto.

- Sì - annuì lui. - Non mi sembra che stia tanto bene. Anche se si è fatta forza per venire qui, sembra che abbia la febbre… guarda che faccia pallida!

Giampiero sospirò, pensieroso. Pur da lontano, la regina di Dzsaco appariva malandata, come in uno stato avanzato di un misterioso male. Sentiva il dovere di conferire con lei non appena gli si sarebbe presentata l’occasione: se Alcina avesse mandato Luciana, avrebbe almeno potuto avere la figlia al suo fianco.

- Secondo te ha la febbre? - chiese, atono. Non voleva mostrare un reale interesse per la donna, ma non poteva fare a meno di essere preoccupato; non si trattava solo di politica: c’era qualcos’altro che occupava lo stesso posto nel suo cuore.

- Credo di sì - rispose secco Roberto. - Altrimenti non si spiegherebbe quel colorito.

Gli occhi scavati della donna si sollevarono, incrociando per un istante quelli del marchese, che si fece pietoso. Comprendeva le paure dei sovrani di Dzsaco, se Raissa Autunno si fosse decisa ad attaccarli: le loro difese potevano rimanere scoperte se si fossero aperti più fronti. E la disfatta sarebbe stata solo una questione di tempo.

- Gentiluomini, gentildonne, vi richiamo all’ordine - esclamò un funzionario con voce profonda e tonante. - Sta per avere inizio la sessantasettesima conferenza dei Lupfo-Evoco.

Giampiero sospirò, osservando la folla riprendere il proprio posto nel salone semicircolare, ai banchi di pietra.

- Speriamo che i nostri sforzi di ieri non siano stati vani - mormorò all’indirizzo dell’altro.

- Non saprei dirti - commentò Roberto, incupendosi. - Qui sembra che a nessuno importi davvero di Nicola. Guardali: sembrano tutti ospiti di una di quelle ridicole feste dei Dal Mare!

- Non tutti, però - precisò il marchesino. La sua attenzione era appena stata attirata da Oreste Dei Prati che parlottava con la figlia Aria: conosceva della delicata situazione tra il loro legno e il limitrofo Foglie Cadute, così come sapeva che i sovrani Delle Foglie erano stati uccisi.

E se dietro la morte di Cinzia e Mercuzio Delle Foglie ci fosse stata la stessa mano che aveva eliminato Guglielmo Lotnevi?

- L’unico inconveniente dello sposare Aria Dei Prati sarebbe avere a che fare con il suo popolo - bisbigliò Roberto, che si era accorto dello sguardo di Giampiero, traendone una conclusione sbagliata. - Piuttosto che sopportare degli stupidi contadini che non sanno stare al loro posto, vado a fare il minatore nel Nutixa. Loro hanno più dignità.

Il marchese trattenne un sorriso, che in una diversa situazione non avrebbe esitato a mostrare di fronte alle parole del De Ghiacci.

- Non si tratta di questo - gli spiegò con un soffio di voce. - Sai che sono morti i Delle Foglie?

- Come non saperlo… una freccia scagliata da una balestra da una distanza ragguardevole, troppo distante per poter essere tanto precisa… e nessun colpevole.

- Già. Non trovi strano che anche Guglielmo sia stato ucciso?

- Non vorrai dire che…

- Non lo so, Roberto, ma tutto questo è sospetto.

Giampiero tacque per l’arrivo al suo fianco di Ivano Del Nord assieme al figlio Riccardo. Non era solo il Dei Prati ad aver portato con sé la propria erede: erano diversi i sovrani che avevano domandato un posto anche per i futuri re e regine di Selenia.

Il giovane De Ghiacci salutò con affabilità Riccardo Del Nord, mentre il Tirfusama si concentrò sull’ingresso della sala. Sotto l’arco in pietra che li aveva accolti si stava affacciando Clara Riutorci, colei che aveva l’incarico di presiedere i Lupfo-Evoco. Era accompagnata da un uomo molto più giovane di lei, che la salutò con un sorriso, rimanendo in piedi presso l’arcata, mentre la nobile avanzò verso l’antico scranno in pietra, un tempo trono dei Lotnevi, ora ridotto a luogo simbolico per chi dovesse moderare quella che si presentava come una riunione turbolenta.

La donna rimase in piedi davanti al semicerchio degli astanti, seduti in attesa di una sua parola. Gli occhi scuri si posarono dapprima su Lavinia Lugupe che, suo malgrado, attirava le attenzioni di tutti per il suo aspetto malandato; poi guardarono intorno, come controllando di avere in pugno l’uditorio.

La veste scura richiamava la gravità della situazione che li aveva richiamati lì, e le cadeva morbida sul corpo, come si addiceva a una donna di mezza età del suo statuto sociale. Le braccia erano lasciate nude dal gomito in giù, mostrandone il colorito abbronzato tipico del Tuilla, e lei intrecciò le dita tra loro, con un gesto che lasciava trapelare un nervosismo che in pochi colsero.

- Buongiorno, mie signore e miei signori - pronunciò solenne. - Le circostanze che ci vedono presenti in questo luogo non sono affatto felici: un re è stato brutalmente assassinato e i Lupfo-Evoco sono stati convocati perché sono giunte nelle mie mani delle prove che potrebbero confermare i sospetti di alcuni. Il compito di questa conferenza è quello di decidere se Nicola Lotnevi è o meno l’uccisore di suo padre, Guglielmo Lotnevi di Cmune.

La Riutorci tacque, e un brusio si sollevò tra i presenti.

- Prove? Ha parlato di prove? - sussurrò Roberto. - Come fa ad averne se Nicola è innocente?

Giampiero scosse appena il capo. - Non lo so.

- Do ora la parola ad Amelia Autunno - annunciò Clara Riutorci.

Alle spalle dei due giovani si udì un rumore di passi che attirò gli sguardi dell’intera sala. La donna si erse in piedi, maestosa, carica della stessa gravità che si respirava in presenza di Alcina Primavera. Sul capo portava la corona della sua casata, d'oro incastonata di rubini sanguigni; gli occhi verdi saettavano per la stanza, come ricercando chi potesse contraddirla ancora prima che lo facesse. La chioma scura era raccolta in un'elaborata acconciatura, che le faceva ricadere una ciocca sulla guancia sinistra. Un segno di studiata trascuratezza che Giampiero colse al primo sguardo.

Il marchesino comprese subito che la regina Autunno voleva mostrarsi trasandata, come se fosse sconvolta da quanto stava per dire; tuttavia gli era difficile credere che lo fosse davvero.

Avanzò tra i banchi in pietra dell’antica sala del trono, fino a raggiungere Clara Riutorci davanti a tutti. Nella mano sinistra teneva un foglio ripiegato, che scatenò in Giampiero una fortissima curiosità. Tuttavia non dovette attendere molto, perché subito la regina parlò con voce grave.

- È giunta in mio possesso una lettere scritta da Nicola Lotnevi - pronunciò solenne, scatenando un brusio nella sala.

Il marchesino rimase quasi pietrificato all’udire quelle parole: se in un primo momento non aveva creduto possibile che Nicola avesse ucciso suo padre, ancora meno ora poteva credere che ne avesse lasciato una testimonianza.

- La scrittura è stata confrontata con quella di altre missive del pugno del principe di Cmune - asserì la regina Autunno, richiamando il silenzio. - Ve ne leggo il contenuto.

- Questo cosa significa? - bisbigliò Roberto, incredulo.

- Che è vero che Raissa ha dei poteri magici - concluse Giampiero. - E se li ha, per Nicola non c’è speranza.

- Mia cara… è fatta. Mio padre è finalmente morto, e sono stato io: ora non c’è più alcuno ostacolo tra me e la corona. Presto salirò al trono e avrò il regno sotto il mio controllo. Finalmente, dopo tanto tempo, sono felice.

Amelia Autunno tacque, e i suoi occhi chiari serpeggiarono tra i presenti, come per spiarne le reazioni. In molti si alzarono in piedi, indignati dal tono usato nella lettera: come si era permesso quel ragazzino di uccidere uno dei migliori sovrani di Selenia? Altri, invece, iniziarono a lanciare parole di accusa contro l’erede Lotnevi, gridando che era un regicida, un assassino senza pietà e altri improperi che si persero nella giungla di voci che riempì la sala.

- Non ha letto a chi era indirizzata la lettera - sussurrò Giampiero. Se quel dettaglio era sfuggito a tutti gli altri, lui non aveva potuto non notarlo sin da subito.

Roberto annuì. - E non prevedo nulla di buono… se ha iniziato con “mia cara” potrebbe essere Flora!

- Non credo che Amelia e Raissa siano tanto stolte da inventare una bugia simile - realizzò il marchese con lucidità. - Se vogliono Flora, possono escogitare altri piani, non questo che le esporrebbe troppo davanti a tutti. Se dovessero arrestare Nicola, alla destinataria della lettera toccherà lo stesso destino. Credi che Alcina e i suoi alleati glielo permetterebbero?

Il De Ghiacci scosse la testa. - No, in effetti no. Ma se avesse letto qui il nome di Flora, nessuno voterebbe per la condanna di Nicola.

- Secondo me non si tratta di lei - affermò Giampiero, sicuro di sé. Incrociò lo sguardo con quello della regina del Ruxuna, che si soffermò a osservarlo, come se sapesse che il marchesino Tirfusama, tanto devoto ad Alcina Primavera, avesse compreso il suo inganno.

- C’è qualcosa che non va in tutta questa storia - bisbigliò Roberto. - Come si sono procurate quella lettera? Gliel’ha data la destinataria o l’hanno rubata?

- Nel primo caso si capirebbe perché non ha letto l’intestazione per intero - mormorò Giampiero, mentre attorno a loro il baccano saliva di volume sempre più alto. Mantenne gli occhi fissi in quelli freddi della regina che tanto aveva scombussolato la sala, come per sfidarla. Sapeva di aver fallito l’incarico che Alcina gli aveva assegnato, ma era altrettanto consapevole che la questione sulla colpevolezza di Nicola non si sarebbe chiusa lì. E lui avrebbe fatto di tutto per mandare all’aria i piani della famiglia Autunno.

- Clara Riutorci è qui con il figlio, giusto? - sussurrò all’indirizzo di Roberto, che ascoltava interessato le parole di alcuni delegati del Piconici alle loro spalle. Parlavano di come avrebbero torturato un figlio degenere come Nicola Lotnevi, se l’avessero avuto tra le mani. Giampiero si accorse di averlo distratto appena in tempo, prima che iniziasse una discussione con i due uomini.

- Sì, era entrato con lei - gli rispose.

Il Tirfusama annuì, ricordando del giovane che aveva accompagnato la Riutorci e che si era fermato all’ingresso della sala. Si voltò in quella direzione, e lo vide ancora lì, immobile a guardare esterrefatto la reazione di re, regine, cortigiani e ambasciatori. Osservandolo con maggiore attenzione, Giampiero si rese conto che non si trattava affatto di un ragazzo ancora imberbe, ma aveva nel suo portamento una severità quasi di adulto cresciuto in fretta e nutrito di consapevolezza del prestigio della propria famiglia. La calma con cui osservava il disordine imperante nella sala suggeriva la rigida educazione che gli era stata imposta. E certamente, di pari passo, gli era stato insegnato qualcosa sul funzionamento dei Lupfo-Evoco.

- Mie signore, miei signori - disse Clara Riutorci. - Vi richiamo all’ordine.

Non ebbe bisogno di alzare il tono, perché il solo suono della sua voce acquietò l’intero uditorio. Giampiero si stupì della celerità con cui tutti tacquero: c’era qualcosa che non andava, in quella sala; ne era certo, sebbene non sapesse affermare cosa fosse.

- Da questo momento avrete un’ora di tempo per scrivere sulle pergamene che vi verranno date se secondo voi Nicola Lotnevi è innocente o colpevole. Poi arrotolerete le pergamene e le infilerete nelle anfore che i servitori stanno portando qui. Successivamente verranno contati i pareri “colpevole”, “innocente” e “astenuto”; perché sì, potete astenervi dal giudicare. Questo conteggio avverrà qui alla vostra presenza, in modo che tutti voi possiate vedere che non ci sono inganni. A seconda del verdetto stabiliremo come procedere.
 

Molto astuta, pensò Giampiero. Non sapeva se lei avesse qualche a che fare con le accuse rivolte a Nicola, ma quello era un modo molto intelligente di coprirsi le spalle. L’occhiata che a Riutorci scambiò con Amelia Autunno, tuttavia, lo mise in allarme. Sbirciò con la coda dell’occhio il figlio della donna che presiedeva i Lupfo-Evoco e lo indicò a Roberto con un cenno del capo.

- Dobbiamo parlare con lui - stabilì il marchese. - Possiamo ancora salvare Nicola.

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Capitolo 33
*** 10.2 Giardino abbandonato ***


Giampiero arrotolò il sottile foglio di carta su cui aveva appena scritto "Innocente" e lo fece cadere in uno dei vasi di ceramica posizionate davanti Clara Riutorci. Non si degnò neanche di guardare la donna negli occhi: sapeva che non vi avrebbe trovato altro che indifferenza.

Uscì dalla sala, sperando che Lavinia Lugupe non si fosse allontanata molto dopo aver lasciato il suo voto. La vide nel cortile interno presso cui affacciava il corridoio: un piccolo quadrato verde, con una fontana senza più zampilli al centro. Alcuni cespugli un tempo curati erano posizionati ai quattro angoli, mentre delle panche in ferro battuto ne seguivano il perimetro. Giampiero mosse i primi passi tra l'erbaccia incolta, constatando con dispiacere l'abbandono di quel vecchio palazzo. Avanzò verso la donna, abbandonatasi su una delle panchine, con lo sguardo ancora perso nel vuoto; come se allo stesso tempo comprendesse e non comprendesse cosa avveniva.

Il marchesino si inginocchiò davanti a lei, ben attento a non macchiare i pantaloni scuri con la terra. - Maestà - disse soltanto, sperando che lei si volgesse a guardarlo.

- Tirfusama - mormorò Lavinia. La voce era dolce, affettuosa, ma i suoi occhi completamente assenti. L'incarnato della regina sembrava ancora più pallido visto da vicino e Giampiero ne fu quasi spaventato.

- V-voi vi sentite bene? - le domandò con una piccola esitazione. Temeva la risposta della donna, ma non ne sapeva il motivo.

- Non mi sento più bene da settimane - sussurrò lei, in modo che solo il marchese decaduto potesse udirla. - Da quando gli Autunno hanno minacciato di attaccarci e non l'hanno più fatto. Ora hanno un esercito più forte e se solo osassero marciare contro di noi... non oso immaginare cosa accadrà. Se Nicola dovesse cadere, lo Dszaco sarebbe perduto. La mia sola speranza è mal riposta: lui verrà condannato.

- No, maestà, no - mormorò Giampiero, premuroso, cercando di confortarla. - C'è ancora una possibilità. Posso parlare con il figlio della Riutorci e provare a...

- E a quale titolo? Anche se tutti sappiamo che siete qui per conto di Alcina Primavera, voi, caro marchese, non siete lei.

La dolcezza del tono di voce lo colpì in pieno petto, come una freccia ben scagliata; e l'appellativo lo fece arrossire lievemente.

- Neanche lui ha un titolo, non sarà impossibile per me poter tentare. Nicola è innocente, ne sono certo. Finché sarà possibile, tenterò ogni strada per salvare lui. E voi.

La regina abbozzò un sorriso, che le illuminò il volto emaciato.

- Nessuno può salvarci, Tirfusama. Gli Autunno si stanno rafforzando e non esiste via per la salvezza... a meno che, per la Luna, non accada loro qualcosa di catastrofico.

Il marchese non ribatté. Le parole della donna suonavano profetiche alle sue orecchie; come se lei fosse consapevole di un destino ineluttabile e non volesse neanche tentare di opporvisi.

- Giampiero!

La voce di Roberto De Ghiacci lo richiamò all'improvviso, riscuotendolo dalla conversazione con Lavinia Lugupe. Il Tirfusama si congedò dalla regina, promettendo di tornare da lei e ritornò sotto il porticato che circondava il cortile, dove l'altro lo accolse con una scrollata di spalle. Gli occhi azzurri del principe si soffermarono sulla Lugupe, che sedeva assorta in muta contemplazione di una natura abbandonata a sé stessa.

- Dovevi proprio perdere tempo con lei? - bisbigliò senza alcun riguardo all'orecchio del marchesino. - Abbiamo cose più importanti da fare!

Giampiero scosse appena la testa. Roberto non poteva capire lo stato d'animo della donna: lui ancora aveva qualche speranza di poter salvare il suo regno dall'egemonia crescente degli Autunno; lei non ne aveva alcuna. E il marchesino aveva a cuore le sorti dello Dzsaco, molto più di quanto osasse ammettere persino a sé stesso.

- Ho chiesto di poter parlare con Pietro Riutorci - gli disse il De Ghiacci, incamminandosi verso il lato opposto rispetto a quello della sala dei Lupfo-Evoco. - Ci aspetta.

Percorsero un paio di corridoi, con la folla di aristocratici che si faceva sempre meno fitta, fino a giungere a un antico salone del tutto spoglio. Presso una delle finestre squadrate era affacciato il giovane assieme a cui Clara Riutorci aveva fatto il suo ingresso alla conferenza. Osservandolo da vicino, Giampiero si accorse che non doveva avere neanche vent'anni: forse era addirittura più giovane di Aria Dei Prati e di Dante Dal Mare, che aveva intravisto tra gli altri nobili.

Quello si voltò a guardarli con gli occhi semichiusi, come se faticasse a vedere da lontano. La veste scura gli donava un'aria solenne, forse eccessiva per un ragazzo come lui, come se si trovasse a un funerale.

- De Ghiacci, Tirfusama - li accolse cerimonioso, abbassando il capo. Con gran rigore delle norme, aveva nominato prima il principe e poi il marchese decaduto.

- Riutorci - biascicò Roberto. - Volevamo parlare con te.

Giampiero trattenne uno sbuffo: a prescindere da chi avesse di fronte, il suo compagno usava sempre i modi più informali; esattamente come quando aveva gridato, poco prima, per attirare la sua attenzione, come se si trovasse in un ritrovo di ubriachi e non in un'antica residenza reale.

- Quello che ci preme è scoprire se esistono ancora delle possibilità di salvare Nicola Lotnevi, anche se i Lupfo-Evoco dovessero condannarlo - disse il marchese, ponendo i suoi occhi scuri in quelli castani di Pietro Riutorci. Lo fissò per un tempo che gli parve interminabile e quello sostenne il suo sguardo. Non era sfida, bensì il tentativo di comprendere ognuno le intenzioni dell'altro.

- Temo di no - disse il giovane, con un filo di voce. - La sentenza dei Lupfo-Evoco è definitiva.

Il Riutorci si volse a guardare il De Ghiacci, che ricambiò in cagnesco.

- Cosa vorrebbe dire che... - iniziò a dire Roberto, interrotto dalla presa sul suo braccio da parte del marchese.

- Ma se riuscissimo a dimostrare che non è colpevole? - insisté invece Giampiero. - Sono certo che lui è stato incastrato, non posso rimanere a guardare mentre lo condannano...

Gli mancò il coraggio di completare la frase ad alta voce. Se si fosse realizzato quello che sembrava l'unico esito dei Lupfo Evoco, il sud di Selenia sarebbe ben presto caduto nelle mani degli Autunno.

- ...a morte - concluse Roberto per lui.

Il marchese fece un vago cenno di assenso con il capo. Sapeva che la pena per il regicidio era capitale; e non aveva idea di quanto sarebbe intercorso tra la condanna al Lotnevi e la sua esecuzione.

- Se avete prove contrarie, potete chiedere a mia madre di poter attendere prima che venga giustiziato - disse il giovane Riutorci.

Era avanzato di un passo verso i nobili e aveva abbassato la voce, instaurando un principio di complicità con i due.

- Sarà fatto - annuì Giampiero. - Vi ringrazio.

Lasciò in fretta la sala, diretto verso il salone in cui alcuni si stavano attardando a dare il proprio responso. Qualcuno gli rivolse un cenno di saluto a cui lui rispose, ma senza entusiasmo.

Ma quando si ritrovò all'interno della sala, vi trovò una grande agitazione. Dante Dal Mare stava urlando contro un rappresentante del Tuilla, che era trattenuto da due uomini, come se stesse per saltare addosso al giovane del Pecama.

- La colpa di Nicola è evidente! Siete voi che vedete complotti ovunque! - sbraitò quello.

- I miei genitori sono appena stati uccisi, così come i Delle Foglie! - gridò il Dal Mare. - Come fate a non vedere il nesso con la morte del Lotnevi!

- Voi siete solo un ragazzino! - strillò una donna, in difesa del dignitario. - Non capite nulla!

Altri uomini si radunarono intorno, alcuni per impedire la zuffa, altri per incitarla.

Giampiero vide Riccardo Del Nord passare al suo fianco. Lo trattenne per un braccio, stupendo sia il giovane, sia sé stesso.

- Clara Riutorci? - gli chiese. La donna non era presente in mezzo alla confusione: lo scranno in cui era seduta durante la votazione era vuoto; ma se anche fosse stata lì, il marchese dubitava che sarebbe riuscito a parlarle.

- Lei, Matilde Estate e Amelia Autunno sono uscite quando tutti hanno consegnato il voto - gli rispose il giovane Del Nord, stringendosi nelle spalle esili.

Giampiero trattenne un sospiro di sollievo: se la regina Estate assisteva al conteggio dei voti, l'imparzialità era garantita; l'amicizia tra le famiglie Estate e Primavera era secolare.

- Io me ne vado! - urlò Dante Dal Mare, richiamando l'attenzione del marchese su di sé. Il principe si divincolò dalla presa di due uomini forzuti e uscì in fretta da una delle porte della sala, allontanandosi senza dare alcuna spiegazione.

- Cosa è successo? - domandò ancora Giampiero a Riccardo.

Quello si portò le mani al volto, come desideroso di non trovarsi in quel luogo.

- È arrivata poco fa la notizia della morte della corte Dal Mare - disse, con le labbra che si incurvarono verso il basso. - Sovrani inclusi.

- L'intera corte? - esclamò il Tirfusama, in un bisbiglio. - Com'è possibile?

- Erik Inverno ha parlato di un avvelenamento durante un rituale per Vudeli... Lui e Ariel si sono salvati perché non erano lì. È stato un miracolo...

- Dunque Silvia e Amintore... - iniziò a dire il marchese, riflettendo. Non aggiunse una parola, perché Clara Riutorci si era presentata di nuovo sulla soglia da cui aveva fatto il suo ingresso anche in precedenza. La donna intimò l'intero uditorio di prendere il proprio posto e tutti le ubbidirono all'istante.

Giampiero e Riccardo si sedettero ai posti occupati durante il breve discorso di Amelia, dove già si erano sistemati il re Del Nord e Roberto De Ghiacci.

- La situazione è più grave di quanto avessi previsto - bisbigliò il marchese al principe del Pecama. - Adesso sono stati uccisi anche i Dal Mare.

- C'è Raissa dietro tutto questo, ne sono certo - sussurrò Roberto di rimando. - Sono morti cinque sovrani nel giro di poche settimane... e gli ultimi tre in pochissimi giorni. Proprio quando lei sta aspettando per fare la sua prossima mossa.

Il Tirfusama annuì, mesto. Comprese di aver fallito l'incarico più grande che Alcina gli avesse mai assegnato. Non era stato in grado di convincere nessuno dell'innocenza di Nicola: credeva di aver giocato con sapienza le proprie mosse sulla scacchiera, ma Raissa era stata più abile di lui. Ripensò alla conversazione avuta poco prima con Pietro Riutorci e capì che ormai si aggrappava solo alla disperazione. Non aveva il potere di arrestare il corso degli eventi, nonostante avesse impiegato ogni sua energia affinché questo accadesse.

Guardò Matilde Estate procedere a testa china verso una delle panche in pietra. La treccia chiara rimaneva immobile sulla sua schiena, mentre qualcuno tentava di rivolgerle la parola per avere in anticipo l'esito della votazione; il suo atteggiamento, tuttavia, non lasciava adito ad alcun dubbio.

- Siamo spacciati - biascicò Roberto, guardando Amelia Autunno procedere tra la folla con l'ombra di un sorriso a illuminarle il volto severo. - Vorrei essere rimasto da Milena di Copne...

Giampiero ignorò il suo tentativo di stemperare la tensione e si focalizzò su Clara Riutorci. La donna sembrava impassibile, come se le parole che era in procinto di pronunciare non avessero per lei alcun reale valore. Non sembrava turbata, né rallegrata: una perfetta via di mezzo tra le due regine che l'avevano assistita. La collana che portava al collo, però, era un dettaglio prima assente e di cui il marchese si accorse subito: un rubino sanguigno ne costituiva il semplice ciondolo. Uno dei simboli della famiglia Autunno.

- Mie signore, miei signori - esordì lei, spegnendo i mormorii che si erano diffusi nel salone. - Il vostro parere è stato quasi unanime, con soli cinque voti contrari: Nicola Lotnevi è colpevole.

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Capitolo 34
*** 10.3 Falsa lettera ***


 

Il sole del primo pomeriggio picchiava sui tetti spioventi di Mitreluvui, mentre Giampiero e Roberto varcavano affannati la soglia del palazzo reale. Si erano separati dal corteo che seguiva Clara Riutorci per arrivare il prima possibile alla reggia Lotnevi. Il loro passo rapido era stato accompagnato dal vento tiepido che si era insinuato tra le vie secondarie della capitale, come se volesse spingerli alla reggia prima che vi giungesse l'esito infausto dei Lupfo-Evoco.

Il marchesino si arrestò sotto una quercia, per riprendere fiato dopo la corsa: non era il caso di presentarsi affannati e con il fiatone al cospetto della regina Felicita.

Il principe De Ghiacci lo scrutò perplesso, con la fronte umida e un rivolo di sudore che gli scendeva sul collo. «Perché ti sei fermato?»

«Perché siamo conciati come due fattori» spiegò marchesino.

«Felicita capirà che abbiamo fretta e che non possiamo perdere tempo alle fontane per ripulirci» stabilì l'altro. «Alla fine siamo qui per suo figlio.»

«E per fermare gli Autunno» sospirò Giampiero, affranto. Aveva fallito: Raissa e Amelia avevano dimostrato di essere più scaltre di lui e lo avevano sconfitto in quel primo scontro diplomatico. Si fece aria al viso agitando una mano: più abituato ai climi temperati rispetto al suo compagno, ne soffriva di meno. Roberto iniziava a emanare un odore aspro affatto piacevole e il marchese pensò che non fosse una buona idea che si presentasse assieme a lui al cospetto della regina.

«Se uccidono Nicola, siamo nei guai» sentenziò il De Ghiacci.

Siamo già nei guai, pensò Giampiero, e avere qui Bianca e il suo fine ingegno sarebbe molto più utile.

«Andiamo» lo incitò Roberto. «Ormai ci siamo quasi, e forse anche Clara e gli altri saranno qui a breve.»

«Spero solo che Felicita non si turbi al vederti conciato così» commentò l'altro.

«Ho ancora il mio fascino!» esclamò il principe, passandosi una mano tra i capelli dorati, ancora più biondi alla luce del sole.

Giampiero si astenne dall'aggiungere qualsiasi altra considerazione, e riprese a camminare verso la reggia, percorrendo i sentieri di ghiaia che si incurvavano dolcemente attorno a piccole aiuole verdeggianti. Arrestò il suo passo davanti all'ingresso principale, prima che i servitori del palazzo potessero avvicinarsi a lui.

«Roberto, vai a chiamare Bianca e dille com'è la situazione» suggerì. Non era sicuro di quanto fosse una saggia idea convocare Bianca presso un luogo in cui non aveva alcun ruolo, ma riteneva giusto informare la principessa De Ghiacci. Il tempo per spiegare le sue ragioni all'amico che con lui aveva condiviso la disfatta diplomatica era assente; ma il giovane del sud non pose obiezioni, limitandosi a un semplice cenno di assenso, prima di allontanarsi nella direzione da cui erano arrivati.

«Marchese, vi occorre qualcosa?» domandò un servitore, accorso all'istante nello scorgerlo.

«La regina» disse lui, con un filo di voce. «Devo conferire con lei.»

Quello si incamminò, guidando il Tirfusama che poca dimestichezza aveva con la reggia Lotnevi: a stento il marchesino riusciva a credere che un luogo tanto immenso potesse trovarsi al centro di una grande capitale come Mitreluvui. Lo seguì attraverso il cortile esterno, lungo i sentieri curvi che tanto erano stato motivo di vanto per la corte, ma che in quel momento erano solo un ostacolo alla sua fretta. Oltrepassarono un ingresso secondario, inoltrandosi nel labirinto di corridoi che collegavano le varie ali della residenza reale. Una volta all'interno, il passo del servitore si fece più veloce, come se si trovasse più a suo agio a correre sui pavimenti della reggia, che non sui sentieri acciottolati.

Il marchese rivolse appena uno sguardo ai cortigiani che lo fissavano incuriositi: alcuni gli parvero soddisfatti, come se il suo rapido incedere fosse portatore di una buona notizia. Forse era solo una sua impressione, forse la sconfitta diplomatica appena subita lo portava a vedere complotti anche laddove non ce n'erano, concluse tra sé e sé.

Il servitore entrò in una sala e Giampiero attese che lo annunciasse alla regina, prima di varcare anche lui la soglia. Era nel peggiore degli aspetti con cui presentarsi davanti a una sovrana, ma aveva le sue buone ragioni per non aver indugiato a cambiarsi d'abito e a detergersi dal sudore che gli inumidiva il viso e che gli faceva aderire i vestiti alla pelle.

Sullo scranno sedeva Felicita Lotnevi, pallida in volto, la carnagione chiarissima come la sfera del sole nei mattini estivi. La corona troneggiava sul capo della donna, come a voler marcare la distanza tra lei e il resto dei cortigiani presenti, a cui la sovrana si rivolse immediatamente non appena vide il marchese Tirfusama.

«Uscite tutti di qui» disse imperiosa, col tono di chi non ammette replica.

Quelli accennarono un inchino e si allontanarono uno dopo l'altro, lasciando il nobile decaduto solo assieme alla regina.

«Altea, vai a chiamare Nicola» diss'ella alla sua cameriera personale, posando gli occhi chiari in quelli scuri e confusi del giovane.

«Maestà...» iniziò a dire Giampiero. Voleva porgere delle scuse per lo stato con cui si trovava al suo cospetto, poco consono a un uomo del suo rango, spiegare che era dovuto alla causa che lo aveva spinto a correre fin lì, ma lei lo interruppe.

«Marchese, attendete che qui ci sia mio figlio. Deve ascoltare anche lui» disse la regina, atona. Il volto era una maschera di cera, che mantenne inespressivo per i lunghi minuti che i due trascorsero insieme, in silenzio. Felicita aveva gli occhi fissi sul pavimento, come se cercasse di ascoltare i passi di Nicola attraverso i corridoi della reggia, e ingannasse in tal modo l'attesa.
Giampiero scrutava in silenzio le pareti della sala, spoglie; ricordava che vi fossero appesi degli arazzi, ma ipotizzò che fossero stati tolti in seguito all'uccisione del re, come era costume in alcuni reami di Selenia. Non provò neanche a scusarsi per lo stato in cui si era presentato alla corte, temendo che la regina lo intimasse di tacere.

Dopo alcuni minuti di silenzio, la porta della sala del trono venne aperta e, alle spalle di Altea, comparve Nicola, trafelato come se avesse corso. La cameriera richiuse le ante, lanciando occhiate di ghiaccio ai cortigiani radunatisi all'esterno, particolare che il marchese non poté fare a meno di notare.

«Tirfusama, avete dunque notizie dai Lupfo-Evoco» constatò Felicita. Sollevò lo sguardo, posandolo sul volto del figlio. «Vi prego di dire tutto quello che sapete.»

Il giovane diplomatico abbassò il capo, come a chiedere perdono. «Maestà... ho fallito.»

Lo disse con un'amarezza che gli era sconosciuta, perché mai aveva dovuto pronunciare tali parole. Guardò Nicola e provò pietà per l'espressione terrorizzata dipinta sul principe di Cmune.

«Ho tentato di fare tutto quello che ho potuto, e tenterò ancora se mi verrà data la possibilità di farlo. Il figlio di Clara Riutorci mi ha concesso altro tempo per provare l'innocenza di vostro figlio.»

Deglutì, neanche lui convinto fino in fondo delle proprie parole. Certamente, Pietro Riutorci gli aveva aperto uno spiraglio di possibilità per ritardare la sentenza, ma troppo piccolo per essere ottimisti, nonostante la sua intenzione di sfruttarlo fino in fondo.

«Non esistono prove che dicano che non sono stato io» disse il principe di Cmune. Buttò fuori un profondo respiro. «Purtroppo solo catturare il vero assassino potrebbe scagionarmi. E se è stata Raissa a ordire tutto questo, io sono senza speranza.»

Parlò con un filo di voce, con il timore del suo destino ad attanagliargli le interiora. Sapeva, Nicola, cosa significava l'esito comunicato dal marchesino, ma non poteva pronunciarlo ad alta voce. Guardò la madre, quasi pregandola con il pensiero di mostrargli la via.

La regina scese solenne dallo scranno, con la veste scura di lutto che ricadeva sul suo corpo e sul pavimento, a renderla più regale di quanto già fosse. Si avvicinò al figlio e gli posò una mano sulla spalla.

«C'è solo una cosa da fare.»

Non ebbe il tempo di aggiungere altro. Dall'esterno della sala del trono proveniva un trambusto sempre crescente, come se una gran folla si stesse avvicinando. Le voci si mescolavano, in un coro senza parole simile a un alveare ronzante, sovrastando i passi concitati di chi camminava in preda a un compito importante da portare a termine.

Altea, rimasta in un angolo durante il colloquio tra i nobili, si apprestò ad aprire la porta, per evitare che questa venisse buttata giù, nel suo timore ingenuo che i cortigiani potessero abbatterla senza rispetto.

La prima a varcare la soglia fu Clara Riutorci, seguita dai più illustri partecipanti ai Lupfo-Evoco, tra cui Giampiero intravide Matilde Estate, composta pur nella gravità dell'espressione sul suo viso, e Lavinia Lugupe, che osservava quello che accadeva allo stesso modo in cui si legge una storia tragica di cui già si conosce l'esito.

Il marchese sospirò impercettibilmente, spostandosi su un lato della sala per permettere a tutti di entrare. Guardò Nicola avvicinarsi alla regina, come ricercandone la protezione, ma Felicita Lotnevi aveva il volto concentrato nello scrutare la nuova arrivata e la sua corte di reali e diplomatici.

Giampiero decise allora di concentrarsi su Clara, che tra le mani aveva la falsa lettera che incriminava Nicola e il foglio su cui era scritto l'esito dei Lupfo-Evoco. Il rubino che mostrava il suo legame con gli Autunno le pendeva ancora dal collo, indizio inconfondibile della condanna che stava per essere comunicata al principe di Cmune.

Tra la folla, una figura si fece largo per raggiungere il marchesino, che si stupì nel trovarsi di fronte Luciana Lugupe. La principessa di Dzsaco ansimava, come se fosse stata trattenuta e avesse dovuto correre per recarsi lì, la corta chioma castana messa in disordine dal vento che aveva iniziato a soffiare tra le vie di Mitreluvui, insinuandosi nei corridoi della residenza reale. Gli occhi solitamente vispi sembravano spenti: mentre scrutavano quelli del nobile decaduto, lui vi lesse una mestizia che non avrebbe mai pensato di trovarvi.

«Allora?» gli domandò lei in un sussurro, affiancandolo.

Giampiero scosse appena la testa. Sapeva quanto le sorti dello Dzsaco fossero legate a quelle dello Cmune e che l'anarchia nel regno dei Lotnevi avrebbe potuto avere ripercussioni negative anche su quello che lo separava dal Ruxuna.

«Raissa è stata più abile di me» ammise lui, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace, Luciana.»

La fanciulla non disse nulla, ma strinse la mano sudata del marchese, come cercandovi il conforto che la freddezza di sua madre, pur presente nella sala, non era in grado di darle. Lui accettò quel tacito gesto di avvicinamento, ringraziando chissà quale divinità per aver fatto in modo che si trovassero ai margini dell'ampio salone e che nessuno potesse vedere le dita della principessa di Dzsaco dietro il suo palmo.

Clara Riutorci aveva iniziato a parlare, riepilogando la discussione della mattinata, ed era arrivata alla lettura della missiva apparentemente scritta da Nicola. Giampiero trattenne il fiato nell'udire di nuovo quelle stesse parole e il cuore gli balzò nel petto, senza curarsi del suo desiderio di non far arrivare quello che provava alla principessa in piedi al suo fianco.

«Per noi è stata una fortuna avere questa lettera» disse Clara. «Ma durante i Lupfo-Evoco non ho letto a chi era indirizzata, poiché ci avrebbe allontanati da quello che era il nostro compito.» La nobile si schiarì la voce e aggiunse: «Il destinatario della lettera è Luciana Lugupe di Dzsaco. Arrestate lei e Nicola Lotnevi di Cmune.»

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Capitolo 35
*** 11.1 Falsa lettera ***


 

Gaò, la Città di Pietra: così la chiamavano i libri su cui Franco aveva studiato la geografia di Selenia. Tuttavia su quei codici di pergamena era anche scritto che i regni al centro dell'isola di Pecama erano un luogo di pace; il giovane faticava a credere che quanto aveva visto corrispondesse alle parole dei suoi maestri.

Giunto in cima ai gradini del castello, si guardò alle spalle rimirando il panorama, pennellato dalle luci del sole calante: il silenzio era il vero sovrano del regno delle Foglie Cadute. Nel breve percorso attraverso la capitale, lui e Chiara non avevano incontrato nessuno, cosa che aveva alzato la sua guardia: aveva camminato con la mano posata sull'elsa della spada, nascosta dal mantello da viaggio. Nonostante fossero in estate, il clima sembrava quello autunnale, proprio come aveva trovato nei suoi libri. Che fosse vero, allora? Che quel luogo fosse impregnato di magia?

Le case di pietra, alte al massimo due piani, con i tetti grigi, che davano l'idea di una città scolpita in una cava, sembravano irreali se si considerava la pianura verdeggiante che circondava la capitale.

«Possibile che non ci sia nessuno?» chiese, dubbioso. Quella calma surreale lo turbava, portandolo a pensare che all'interno del castello avrebbero incontrato dei problemi. Si voltò verso la principessa Delle Foglie, intenta a guardare la porta di pietra davanti a sé, come domandandosi in che modo l'avrebbe aperta.

Chiara posò il palmo della mano sulla porta alta tre metri, e questa si spalancò da sola, lasciando esterrefatti i due giovani.

Dietro l'imponente ingresso, comparve davanti ai loro occhi un atrio spoglio, su cui la vista del colore scuro della pietra campeggiava tiranno. Non un arazzo era appeso alle pareti, le tende alle finestre, in origine di bianco perla, erano sporcate dall'incuria del lutto. Uno spesso strato di polvere confermava che erano ben poche le persone che osavano entrare in quel luogo, con gran dispiacere dei nuovi arrivati.

«Non mi aspettavo questo ritorno» mormorò Chiara, più a sé stessa che a Franco.

Il borghese si limitò a trattenere un mesto sospiro: non aveva di certo pensato che i sudditi, nobili inclusi, porgessero subito omaggi alla futura sovrana, ma almeno che le facessero trovare il castello pronto per lei. Invece sia la capitale, sia la reggia erano abbandonate a loro stesse, calate in una calma irreale, che faceva sembrare i loro sospiri dei respiri pesanti, di chi dorme di un sonno profondo; forse proprio l'idea di un letargo parve a Franco l'unico paragone per spiegare a sé stesso quella quiete asfissiante. Tuttavia, non c'era tempo per lasciarsi abbandonare a quei malinconici pensieri.

«Secondo te dove dovremmo andare?» le chiese. Le uniche informazioni che avevano erano di rivolgersi al Consiglio del regno, al cui capo era una certa Donna Delia, una marchesa dalle origini del nord. Nessuno dei due sapeva cosa aspettarsi di preciso dall'incontro che a breve avrebbero avuto con lei e, probabilmente, con tutto il Consiglio.

Non c'è neanche un servitore a cui chiedere, notò Franco tra sé e sé. Flora gli aveva parlato del suo castello, sempre gremito di nobili e sottoposti pronti ad accorrere al primo richiamo dei sovrani. Al contrario, lì sembrava che non ci fosse anima viva.

«C'è nessuno?» domandò Chiara, alzando la voce. L'eco risuonò attraverso i corridoi limitrofi, forse la sua voce sarebbe arrivata a qualcuno.

«Io aspetterei qui» suggerì lui. «Meglio non dare a nessuno motivo di avercela con te sin dal primo momento.»

La principessa Delle Foglie annuì, anche se con evidente rammarico. Era partita piena di buoni propositi, che avevano alimentato le sue speranze di poter risollevare le sorti del suo regno, e durante il viaggio non aveva fatto altro che fantasticare su come sarebbe stato toccare il suolo su cui era nata.

Si voltò per guardare alle proprie spalle il tramonto su Gaò, la capitale su cui avrebbe governato, la cittadina nella quale i suoi genitori erano stati brutalmente assassinati da una mano ignota. Il suo posto era quello, non ne dubitava, ma le venne in mente Gaetano, il suo pragmatismo che in una situazione che si presentava tanto complicata l'avrebbe aiutata. Ripensò agli occhi scuri e carichi di parole gentili dell'amato, che avrebbe saputo darle forza come quando l'aveva convinta a partire.

«Non sarà facile come avevo creduto» ammise, sconfortata.

«Se dovessero esserci dei problemi, ci sono io» la rassicurò lui. «E possiamo fare affidamento su Erik.»

Franco le sorrise incoraggiante, ma Chiara sembrava ben lontana dall'essere serena. Aveva accettato di accompagnarla perché sapeva che la Delle Foglie non aveva altri a cui rivolgersi, a meno di non affidarsi a dei mercenari. Nella sua situazione era meglio affidarsi a qualcuno di fiducia; e dal momento che il suo Gaetano non aveva la possibilità di seguirla fin lì, lui era il migliore a cui domandare aiuto. Come avrebbe agito se si fosse trattato di Flora?
«Chi siete?» domandò all'improvviso una voce gutturale.

Franco si voltò e vide una figura femminile avvolta in panni scuri, che ne lasciavano scoperto soltanto il viso. Forse era ancora a lutto per la morte dei sovrani. Spesse rughe ne solcavano il viso, qualche capello grigio sfuggiva dalla stoffa che le cingeva il capo. La postura china non sembrava affatto quella di una nobile: probabilmente era tra le donne di servizio al castello.

«Dobbiamo parlare con il Consiglio» disse Chiara, risoluta. «Si tratta di una questione importante.»

«Il Consiglio non accetta le visite dei viaggiatori» ribatté l'anziana donna.

I due giovani si scambiarono uno sguardo, come consultandosi tacitamente sul da farsi.

«Lei è la figlia di Cinzia e Mercuzio Delle Foglie» intervenne Franco.

A quelle parole, il volto della sconosciuta sembrò illuminarsi. «La piccola Chiara?»

La giovane annuì con un sorriso nervoso; che qualcuno si ricordasse di lei era un segnale positivo, anche se non sapeva che cosa l'attendeva in presenza del Consiglio.

«Avete con voi il pettine della regina Cinzia?» chiese ancora la vegliarda, con gli occhi adoranti fissi in quelli dell'erede al trono.

«Ho anche la lettera di mia madre» rispose lei.

Franco sorrise, rincuorato: c'era qualcuno su cui poter fare affidamento, almeno al castello. Forse trattare con il Consiglio non sarebbe stato semplice, ma quel primo incontro gli infuse dell'ottimismo.

«Seguitemi, maestà.»

Il viso di Chiara avvampò di imbarazzo per essere stata chiamata per la prima volta con quel titolo. Scambiò uno sguardo di intesa con il suo compagno di viaggio, prima di seguire la donna attraverso i corridoi freschi della dimora reale. Le luci varie del tramonto erano a malapena compensate da alcune candele che servitori silenziosi accendevano senza curarsi dei nuovi arrivati. Le finestre erano più dei fori nella pietra con vetrate a riparare i castellani dalla brezza che soffiava all'esterno, adornate di tendaggi sporchi e senza ricami. L'elegante ricchezza che le altre regge offrivano alla vista degli ospiti lì era solo un miraggio. L'umidità si insinuava attraverso gli abiti dei giovani, entrando persino dentro le ossa.

Franco rabbrividì, proprio quando l'anziana si fermò davanti a una porta chiusa.

«Entro per annunciarvi» disse, rivolta a Chiara. Un bagliore di felicità le lampeggiò negli occhi, e aggiunse: «Qualcuno dubitava che sareste arrivata davvero. Ma non io.»

La principessa Delle Foglie le sorrise riconoscente, prima di vederla entrare nella sala richiudendosi l'uscio alle spalle.

«Sei pronta?» le chiese Franco.

«Sono dove devo essere» rispose lei. «Devo assumermi delle responsabilità molto grandi, ma non c'è nessuno che possa farlo al posto mio. Devo essere pronta; e sono pronta a fare del mio meglio. Non voglio un regno in cui si respiri paura, voglio migliorare questo posto.»

Parole forti e decise, pensò lui, ma non sarà così semplice metterle in atto.

La porta si aprì, facendo ricomparire la vegliarda davanti ai loro occhi

«Entrate» disse, prima di mormorare a Chiara. «Se avete bisogno di me, chiedete di Mila. Sarò dalla vostra parte.»

Lei accennò appena con il capo, prima di respirare profondamente e varcare la soglia che avrebbe segnato un grande passaggio della sua vita.

Franco la seguì silenzioso, portando d'istinto la mano all'elsa della spada. Percorse la sala con lo sguardo, concentrandosi dapprima sul tavolo tondo presso cui uomini e donne di mezza età erano seduti con aria grave; ne scrutò i visi, incuriositi dalla giovane che si era presentata al loro cospetto in abiti maschili, con i capelli scomposti dal vento, con la salsedine e il sudore del viaggio che non le permettevano di suscitare una buona impressione.

I muri di pietra erano dello stesso colore del resto della reggia grigia, ma a catturare in un secondo momento l'attenzione del borghese di Nilerusa fu l'ampia vetrata all'altro capo della sala, che mostrava la visione di Gaò e di alcuni territori circostanti. Il cielo d'arcobaleno illuminava i volti dei presenti molto più delle candele accese.

La donna che sedeva proprio di fronte all'ingresso della sala si alzò in piedi. «Voi asserite di essere Maria Chiara Delle Foglie?»

L'erede al trono annuì.

«E voi?» domandò ancora, rivolgendosi a Franco.

«Lui è Franco Ulsi» rispose Chiara per lui. «Mi ha accompagnata sin qui perché persona di fiducia. Vista la situazione delicata non potevo chiedere una scorta.»

«Soprattutto se venite dal Pogudfo» precisò un uomo bruno di carnagione con tono comprensivo. «Avete fatto bene a non fidarvi degli anarchici, lì è pieno di mercenari pronti a vendervi agli Autunno.»

«Noi abbiamo delle disposizioni ben precise in questa situazione» intervenne di nuovo la prima nobile ad aver parlato. Dall'atteggiamento di comando, doveva trattarsi della famosa Donna Delia che guidava il Consiglio. Senza il lungo abito scuro che la avvolgeva, sarebbe stato arduo pensare a lei come a una donna in lutto: il suo aspetto era ben curato e dal punto in cui si trovava proveniva un delicato profumo di fiori.
Lavande, riconobbe immediatamente Franco. Era una delle fraganze più amate da Flora, che gli riportava alla mente tanti piacevoli ricordi, da cui tuttavia non si lasciò distrarre.

«Quali disposizioni?» disse. «Lei è l'erede al trono e ha con sé il pettine della regina Cinzia e la lettera che ne garantisce l'identità.»

Una delle donne al tavolo sorrise, forse apprezzando il suo spirito coraggioso che l'aveva spinto ad esprimersi in tale maniera.

«La lettera di Cinzia Delle Foglie non è una garanzia sufficiente» spiegò Donna Delia. «C'è una copia di quella lettera, scritta di suo pugno, che è stata inviata a Tancredi Inverno. È necessario che il confronto tra le due lettere perché lei possa essere riconosciuta come la vera Maria Chiara Delle Foglie.»

Quelle parole gelarono il sangue nelle vene di Franco, che cercò di non lasciar trasparire il suo turbamento. Domandare l'aiuto del padre di Flora era quanto di più lontano potesse esserci dalle sue intenzioni: lo temeva, come ne temeva la moglie, e non era certo di possedere sufficiente animo per rivolgersi a lui.

«Ta-tancredi Inverno?» balbettò Chiara. «Come faccio a sapere che non mentite?»

«Allo stesso modo in cui noi non possiamo essere sicuri di voi» disse la donna che poco prima aveva sorriso al borghese di Nilerusa. «Il re Inverno è la soluzione al nostro problema. E anche al vostro.»

«La presenza stessa di un vostro accompagnatore rende le cose più semplici» intervenne di nuovo Donna Delia. «Sarà lui a contattare re Tancredi.»

Franco sentì un brivido freddo percorrergli la schiena, ma tenne lo sguardo fisso negli occhi di miele della nobile: doveva mostrare di non aver paura di quell'uomo che, invece, gliene suscitava più di chiunque altro.

«E nel frattempo?» domandò. «Maria Chiara rimarrà qui al castello?»

«Certamente» asserì Donna Delia, senza scomporsi. «C'è una camera già pronta per lei, dove provvederemo che venga condotta all'istante. Mara e Stefano, accompagnatela.»

Colei che rispondeva al nome di Mara si alzò dal suo posto, rivolgendo un altro sorriso a Franco, prima di avvicinarsi alla principessa Delle Foglie, in attesa dell'uomo dalla carnagione scura, che ci stava impiegando molto più tempo.

Chiara guardò l'amico come pregandolo di fare alla svelta, prima di seguire i due nobili fuori dalla sala.

«Può andare» disse Donna Delia rivolta al borghese. «Adesso è suo compito trovare la conferma dell'identità della sua compagna di viaggio, altrimenti sarete venuti qui invano.»

Lui annuì, anche se le maniere autoritarie di quella dama iniziava a infastidirlo. Non amava ubbidire agli ordini, preferiva agire seguendo la propria coscienza; e che la nobile lo stesse obbligando a contattare Tancredi Inverno non gli piaceva per niente. Chinò il capo e lasciò la stanza, deciso a cercare la vecchia Mila e a domandarle aiuto: con sé non aveva neanche l'occorrente per scrivere una lettera.

 

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Capitolo 36
*** 11.2 Una nuova meta ***


 

Flora alzò lo sguardo verso il cielo, ammirando le varie sfumature del tramonto. Una leggera brezza le solleticava il collo infilandosi tra i suoi capelli castani, che era riuscita a lavare solo quella mattina e con acqua fredda di sorgente. Le mancavano le comodità del castello, non poteva negarlo: avrebbe dato qualsiasi cosa per un bagno caldo con cui potersi rilassare e far scivolare via i pensieri.

Il marmo sotto di lei era duro e freddo, diverso dall'accoglienza che i sacerdoti avevano riservato a lei e ai suoi compagni di viaggio. Senza neanche aver detto i loro nomi, erano stati trattati come nobili, qualcuno di importante che sfuggiva al proprio triste destino. Non avevano posto alcuna domanda: era stato sufficiente che la sacerdotessa a capo del tempio, la Sposa del Sole, si chiudesse in preghiera per consultarsi con il dio e che ne fosse tornata un paio d'ore dopo con un responso positivo.

Flora pensò con un sorriso a quella donna, non più nel fiore degli anni, che si era rivolta a lei con tanta amorevolezza, quasi... come una madre. Le venne da ridere all'idea di Alcina che stava setacciando ogni angolo del Defi per ritrovarla. Immaginò il capitano delle guardie, Marco Pomi, aggirarsi tra le viuzze di Nilerusa, senza poter ritrovare la traccia né di lei, né di Claudio, né tantomeno di Menta.

Era certa che Giampiero si sarebbe occupato di lei, che non avrebbe mai permesso alla regina di trovarla. Se aveva una sicurezza, questa era la nobiltà d'animo del marchesino.

Nella radura davanti al tempio, poco distante da dove era seduta la principessa, Arturo continuava a istruire Claudio sull'uso della spada, sebbene senza risultati evidenti. Ogni suo tentativo di attacco era prevedibile dal mercenario, che lo disarmava senza alcuna fatica.

Flora seguiva i movimenti dei due con relativo interesse; era altro a incuriosirla: aveva la strana sensazione che tra i due si fosse instaurato un legame profondo, molto più di quanto non fosse quello che lei stessa aveva con il suo amico.

La spada scivolò tra le mani di Claudio, rovinando a terra con gran fracasso e suscitando le risate del contadino di Nilerusa.

«Proprio non sono capace!»

«Dai, riprendi quell'affare in mano!» gridò il mercenario con un sorriso al suo allievo.

La Primavera gli rivolse un'occhiata glaciale: il suo ultimo desiderio era attirare l'attenzione dei sacerdoti, che si trovavano all'interno del tempio che li aveva ospitati in quei giorni.

Arturo sorrise beffardo, poi si avvicinò a Claudio e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, qualcosa che Flora non poté udire.

Tuttavia la fanciulla comprese che c'era un segreto a unire i due giovani, un segreto che lei non riusciva a immaginare. Come potevano averne uno? Si conoscevano solo da pochi giorni, non avevano avuto un passato comune... che fosse accaduto qualcosa mentre Virgilio la accompagnava alla Millenaria? Non poteva dimenticare il naso sanguinante di Claudio, ma sapeva cosa aveva spinto il mercenario a colpirlo e a farlo scivolare sul legno della nave. A posteriori, e a malincuore, aveva dovuto concordare: era meglio che i soldati di Alcina non scorgessero Claudio, perché qualcuno poteva averlo visto mentre fingeva di corteggiarla al castello.

Sospirò, sentendo la porta del tempio aprirsi alle sue spalle. Si voltò e scoprì di essere stata raggiunta da Nuvola.

«Gli altri sacerdoti sono ancora a tavola» disse la giovane dagli occhi grigi. «Mi spiace che sia stata rispettata questa regola anche con voi...»

La principessa le sorrise, senza dire nulla: preferiva che i sacerdoti e le sacerdotesse fossero impegnati a mangiare. Se tra quelli giunti dal nord ce n'era qualcuno originario del Defi, non poteva essere certa di essere al sicuro, anche se nulla in quel luogo l'aveva messa in allarme.

Nuvola si sedette al suo fianco, in silenzio.

«Quindi Stella ha detto che è disposta a partire insieme a noi?» le domandò Flora.

«La principessa mi è sembrata incline a seguirti» rispose la fanciulla. «Ha proposto di tracciare su una mappa i templi più importanti del Pecama e di iniziare lì le ricerche.»

La fanciulla del Defi sospirò. «E tu, Nuvola, cosa ne pensi?»

«Penso che se esiste una profezia che parla di te, è giusto che tu la legga e che ti venga fornita un'interpretazione del suo contenuto. Soprattutto considerando che qualcuno l'ha già letta e interpretata per altri. La principessa Estate è molto abile nell'esegesi dei testi antichi, la sua presenza potrà aiutarvi.»

Flora sospirò. L'aiuto di Stella sarebbe stato prezioso: l'erede degli Estate amava tradurre e interpretare le scritte nelle antiche lingue di Selenia sin da quando lei ne aveva memoria. Re Vittorio non l'avrebbe mai lasciata partire e dunque avevano dovuto escogitare di nascosto la fuga, che aveva richiesto più tempo rispetto alla sua dal Defi. Per fortuna l'imminente festa del Sole, di cui si occupava la principessa, aveva offerto il pretesto perché Nuvola si recasse con relativa frequenza al castello di Zichi, sempre accompagnata da Claudio.

Le due fanciulle tacquero per alcuni minuti, osservando i duellanti davanti a loro. Le spade brillavano delle luci aranciate del tramonto, il clangore sembrava attutito, come se le lame fossero avvolte da stoffa morbida; come se il dio presso cui si erano rifugiati non permettesse che qualcuno li scoprisse.

Il contadino sembrava aver preso fiducia, incoraggiato dall'atteggiamento attendista dell'esperto avversario, e incalzava Arturo avanzando verso di lui, cercando di fargli cadere la spada. Preso dallo slancio, non si accorse di una radice che sbucava dal terreno e vi inciampò, rovinando a terra.

Flora si alzò immediatamente per controllare le sue condizioni, seguita da Nuvola. Rivolse un'occhiata di biasimo al mercenario e si chinò sull'amico.

Claudio stava ridendo.

«Se non ci fosse stato quel coso, ti avrei preso!» esclamò in direzione di Arturo.

Il soldato sorrise. - Stai migliorando. Due giorni fa non mi avresti mai attaccato così!»

«È colpa di...» Il popolano indicò qualcosa, ma non terminò la frase, ancora in preda alle risa.

«Mai sottovalutare una radice di quercia» disse una voce femminile.

Se Flora non l'avesse sentita parlare, non avrebbe mai riconosciuto Stella Estate: i capelli erano raccolti in una lunga treccia bionda, con un panno sulla fronte come usavano le contadine, e i pantaloni scuri che indossava non sembravano affatto un indumento da donna.
«Ne ho anche per te» sorrise la principessa Estate, con una luce allegra negli occhi; come se avesse catturato il bagliore del sole e fosse in grado di rifletterlo. Splendeva, meravigliosa, intrisa di entusiasmo per l'avventura a cui si accingeva. Da una borsa di stoffa estrasse degli indumenti che porse immediatamente all'altra nobile.

«Ah, sei tu» ridacchiò ancora Claudio, avvicinandosi alle fanciulle.

Lei gli rivolse un tiepido sorriso.

«Stai migliorando» constatò invece Nuvola, con tono gentile.

«Speriamo di non incontrare nessuno» mormorò invece Arturo. «Anche ci sono dei miglioramenti, non è ancora pronto a combattere seriamente.»

Flora posò lo sguardo in quello dell'amica: Stella stava annuendo in direzione del mercenario.

«Quindi tu sei...» iniziò a dire, senza sapere come continuare.

Claudio fece le presentazioni, sollevando Flora da quell'incombenza. La Primavera osservò quel breve scambio di parole, in attesa del giudizio dell'Estate.

«Devi cambiare i tuoi vestiti» la avvertì invece Stella, senza esprimere un parere. «Non puoi correre il rischio di essere riconosciuta, se ho capito bene. E la gonna può non essere comoda.»

Lei annuì, sebbene senza entusiasmo. Non le piaceva la prospettiva di cambiarsi nella foresta: rientrare al tempio era escluso, perché i sacerdoti stranieri avrebbero potuto vederla.

«Vai lì, noi rimaniamo girati» le disse Claudio, con l'intento di rassicurarla.

Arturo spiò Flora allontanarsi di qualche metro, sparendo al di là di alcuni cespugli selvatici. Scambiò un'occhiata di intesa con Nuvola, che non avrebbe perso di vista la principessa di Defi: anche se in territorio amico, era meglio non abbassare la guardia.

«Hai già deciso da dove partire?» chiese il giovane di Nilerusa.

Stella estrasse qualcosa dalla borsa di tela che aveva con sé: un pezzo di carta, su cui era disegnata l'isola di Pecama.

«Secondo me, se Raissa sa qualcosa di questa profezia, è meglio andare al tempio sui monti Dupro, nell'Autunno.»

«Potremmo non essere al sicuro, lì» commentò Claudio con amarezza. «Arturo sì, ma io non so ancora combattere. E voi siete in due da difendere...»

«Infatti,» proseguì la principessa Estate, «pensavo di fermarci prima qui.» Indicò un punto cerchiato di verde sulla mappa, nel sud del suo regno.

«In modo che nel frattempo lui può migliorare» constatò il mercenario.

«Potrei imparare anche io, se ce ne fosse bisogno. Meglio una spada in più che una in meno.»

Arturo la guardò meravigliato: era diversa da Flora nell'atteggiamento, più pragmatica, più disponibile a fare squadra. Si chiese come fosse possibile che fosse amica della nobile che lui mal sopportava.

«L'importante è non perdere tempo» disse soltanto. «Non sappiamo dov'è Raissa e non abbiamo idea se si stia dirigendo qui o...»

«No» lo interruppe l'Estate. «L'importante è tenere Flora al sicuro e scoprire cosa dice la profezia. Finché lei è protetta, finché lei non è rintracciabile, non ci saranno problemi.»

Arturo sospirò: aveva ancora il fermo proposito di portare a compimento quella missione nel più breve tempo possibile. Ma le parole della principessa gli piacevano, perché mostrava di avere un acume che lui raramente aveva riscontrato in una fanciulla nobile.

«D'accordo. Ma vi avviso: io non sono qui per fare da balia alla vostra amica.»

Stella trattenne una risata. «Spero che questa situazione si risolva il prima possibile. Se ho capito bene, vuoi tornare nel continente... e immagino che ci siano delle buone ragioni: i mercenari non rimangono mai lontani dal proprio gruppo per troppo tempo.»

Lui annuì, cordiale. Non era l'esatta ragione della sua fretta, ma era colpito dalla comprensione della fanciulla. Diversamente da Flora, non sembrava accusare il suo stile di vita né il suo lavoro, né il suo passato: immaginava che Claudio si fosse lasciato sfuggire che la sua spada proveniva dalla famiglia Autunno. Se avesse convinto la Primavera ad accettarlo, il tempo che avrebbero trascorso nel Pecama non gli sarebbe pesato come un macigno.

La principessa di Defi tornò da loro, guardandoli con aria interrogativa. Notò la mappa tra le mani di Stella e non domandò quale sarebbe stata la meta successiva. Un posto per lei valeva l'altro e si fidava ciecamente della sua amica.

Lasciò i vecchi indumenti a Nuvola, con la promessa di tornare a riprenderli alla fine del viaggio nell'isola. Guardò il tempio un'ultima volta, prima di allontanarsi.

Grazie, padre Sole, pensò soltanto mentre si incamminava al fianco di Claudio, con Stella a guidare il gruppo e Arturo a proteggerli alle spalle.

 

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Capitolo 37
*** 11.3 Guerra all'orizzonte ***


 

La luce del tramonto filtrava dalle finestre spalancate della sala del trono. Lo sciabordio del mare era il sottofondo ideale per la cerimonia, di cui Erik si era occupato con meticolosità, nonostante il poco tempo a disposizione. Aveva invitato i borghesi più importanti di Ehoi e del resto del regno come il padre, giunto il giorno prima al palazzo Dal Mare, gli aveva ordinato. Con la nobiltà spazzata via in un solo colpo, era a quella classe in ascesa che occorreva rivolgersi.

Aveva consegnato gli inviti di persona a chi si trovava nella capitale, e aveva domandato ai più illustri se avessero del personale fidato. In un'occasione tanto delicata, l'aiuto dei borghesi si era rivelato prezioso: ognuno di loro era desideroso di fare qualcosa per aiutare la futura regina, rimasta sola a capo del regno con il fratello nel continente.

Erik camminò in silenzio per la sala, già riempita di uomini e donne di ogni professione: le sartorie avevano provveduto a vestire chi non possedeva abiti adatti, mentre i cuochi del regno sembravano aver messo da parte le loro piccole rivalità per collaborare al banchetto.

Scambiò un saluto con un mercante di spezie e con artigiano che lavorava la cera così come avrebbe fatto con degli illustri principi del nord. Doveva ammettere di ammirare il loro spirito di partecipazione, in un momento tanto difficile: nessuno aveva preteso alcun compenso, si erano tutti prodigati come se dall'incoronazione di Ariel dipendesse la propria vita. Nel Defi tanta generosità era davvero rara; o forse, dovette ammettere a malincuore, lui era troppo abituato all'egoismo dei nobili. Si ricordò di Franco e del suo impegno nel condurre Chiara Delle Foglie sana e salva fino a Gaò: dubitava che i cortigiani di Nilerusa avrebbero accettato un tale onere, né si sarebbero proposti di propria sponte per adempierlo.

Si fermò a guardare la luce rossa di una candela, poco distante dall'ingresso della sala. Sapeva che, alle sue spalle, tutti erano in febbrile ma silenziosa attesa. La principessa sarebbe giunta da un momento all'altro, accompagnata dalla figura più autorevole del Pecama. Si voltò quanto gli fu sufficiente per scorgere Iris, appena apparsa sulla soglia. Le sorrise, riconoscente: Ariel aveva desiderato che lei fosse al suo fianco durante l'unico giorno di interregno, per avere qualcuno con cui confrontarsi sulle future decisioni, oltre a Erik. E quando Tancredi Inverno era giunto, l'avevano presentata come la figlia di un ricco mercante in viaggio per il Tuilla. Per il momento aveva funzionato: il re di Defi aveva accolto la sua presenza con favore, poiché nella sua convinzione il ceto mercantile era dotato del giusto pragmatismo che la situazione necessitava. Non avrebbe mai immaginato che si trattava di un inganno.

Anche la fanciulla gli rivolse un ampio sorriso, grata per il ruolo di prestigio che le era stato affidato; forse non avrebbe mai creduto, nemmeno nei più dolci sogni di bambina, di essere la promessa di un principe, né di diventare la più fidata consigliera di una regina.

I soldati che Tancredi aveva portato con sé erano mischiati alla folla, ma gli astanti sembravano averli riconosciuti: per un forestiero era difficile confondersi con loro.

«Mio signore, arrivano» disse un uomo sulla quarantina, il capitano delle guardie della Primavera.

Erik chinò il capo. «Grazie, Evandro.» Guardò il sacerdote che sostava presso gli scranni, su cui era posata la corona che Ariel avrebbe indossato da quel giorno, ricoperta di una stoffa bianca.

Lei venne, splendida e meravigliosa nell'abito azzurro delle sacerdotesse di Vudeli, i capelli rosseggianti che le ricadevano sulle spalle mossi dalla brezza marina, che giungeva sin lì dalle vetrate spalancate. Non li aveva acconciati in alcun modo, come invece la cerimonia avrebbe richiesto: era il suo modo di portare il lutto.

Ariel camminava per la sala, solenne, fino a raggiungere il sacerdote. Sembrava che non guardasse nessuno, che fosse concentrata su ogni movimento. I ricami blu della veste sembravano percorrerla come una protezione magica, come se senza quei fili scuri lei sarebbe caduta a terra, spoglia e vulnerabile; priva di energie vitali.

Erik aveva sentito dire in casa di uno dei borghesi che la sovrana avrebbe avuto bisogno di tutto l'aiuto che Vudeli avrebbe potuto offrirle, e che se il dio le avesse voltato le spalle, ci sarebbe stato il popolo tutto a sostenerla. Ammirava il modo in cui Ariel era amata, prima dalla corte e dai nobili, ora dalle altre classi sociali: non esisteva un'altra principessa come lei, nessuna avrebbe saputo accettare quei repentini cambiamenti come lei aveva fatto. Forse non sapeva cosa sarebbe accaduto, ma era pronta a fare del proprio meglio. Come se si fosse preparata per tutti i suoi diciassette anni a quel momento.

A seguirla, alcuni metri alle sue spalle, c'era Tancredi Inverno, che muoveva un passo solo quando lo faceva la futura regina del Mare. Il suo viso era una maschera impenetrabile: austero, con gli occhi scuri che scrutavano ogni dettaglio pur senza guardarlo per più di qualche secondo. Nessuno in quella sala aveva segreti, per lui.

Quasi nessuno. Erik si avvicinò a Iris, in fondo alla folla silente. Chiunque avrebbe pensato al suo compito di supervisore, anche se non si sapeva quale potesse essere la minaccia. Il principe di Defi aveva appurato che ad avvelenare il Roccei era stato un giovane straniero in cerca di lavoro: uno dei cuochi gli aveva dato un nome e una locanda in cui cercarlo, ma quello era già evaporato e le credenziali a cui sembrava rispondere non avevano suscitato nessun ricordo nei locandieri. Si erano ravvenuti di lui solo quando l'Inverno l'aveva descritto, sempre fidandosi delle parole del cuoco; ma ormai era troppo tardi. Il giovane aveva pagato lautamente per la settimana trascorsa lì ed era svanito nel nulla.

Svanito, ripensò Erik, come la ragazza che credevo di aver visto a Mitreluvui. Deve esserci dietro qualcosa... o qualcuno.

La morte di Amintore e Silvia Dal Mare assomigliava a quella di Guglielmo Lotnevi, ma non perché la modalità ‒ una pugnalata e un avvelenamento erano uccisioni ben distinte ‒ bensì perché in entrambi i casi, lui era in arrivo alla loro corte. E l'erede sarebbe stato costretto a salire al trono: per Nicola sarebbe stata una questione di giorni, ormai, doveva solo attendere che i Lupfo-Evoco lo giudicassero innocente; mentre per Ariel era già il momento.

La fanciulla giunse presso il sacerdote, che guardò ricolma di consapevolezza e di grazia. Chi la vedeva in quel momento non riusciva ad associarla alla giovane piena di gioia che saltellava scalza per i corridoi del palazzo reale. Sembrava cresciuta in un solo colpo, fattasi più grave, più adulta. Una donna formata in ogni suo aspetto, nonostante le stesse sembianze: qualcosa nel suo portamento e nel suo modo di presentarsi davanti agli altri era mutato in fretta.

«Che Vudeli vi protegga, Maestà» disse il sacerdote con voce profonda. Chinò il capo in segno di rispetto, prima di sollevare il panno bianco che celava la corona, in oro, con un metallo colorato di azzurro a rintracciarlo, ricavato da miniere sconosciute nel nord, tanti secoli prima. Il richiamo all'estate e al mare era evidente, anche per chi non conosceva la storia antica e la formazione dei regni di Selenia.

Ariel si sedette sul trono in marmo bianco e il sacerdote le posò la corona sui capelli del colore del tramonto. Il suo sguardo scorse tra i presenti, come cercando qualcuno, e quando lo individuò accennò un sorriso. Poi si rivolse verso Tancredi, e lesse nel suo volto ciò di cui aveva bisogno: che lei fosse lì, dove fino a due giorni prima era stata la madre, era fondamentale per le sorti del reame, a cui ora era indissolubilmente legata.

In silenzio, gli astanti si spostarono in una delle sale adiacenti, dove era stato allestito un banchetto. Nessuno aveva voglia di festeggiare, ma la cerimonia prevedeva un ricevimento, anche se breve: confrontandosi con i sacerdoti di Ehoi, Ariel aveva convenuto che era meglio rispettare l'usanza, sebbene in maniera meno sfarzosa.

Aveva ordinato che si suonassero musiche allegre, che richiamassero l'atmosfera delle feste dei precedenti regnanti; ma lei non avrebbe danzato insieme agli altri.

Erik, meno avvezzo ai balli rispetto alla regina, aveva apprezzato l'idea. Al suo posto probabilmente avrebbe agito in maniera diversa, ma comparare il regno di Amintore e Silvia Dal Mare con quello di Alcina e Tancredi Primavera-Inverno era impossibile. Riempì un piatto con delle seppie ripiene, poi si allontanò per mangiare in disparte. Uscì dalle finestre che affacciavano sulla spiaggia e si sedette su una delle panchine, guardando il sole avvicinarsi sempre più alla linea dell'orizzonte.

Una figura prese posto al suo fianco. Non dovette voltarsi per riconoscere il padre.

«Mi è appena giunta una notizia» esordì. «I Lupfo-Evoco hanno condannato Nicola. E hanno arrestato lui e Luciana Lugupe come sua complice.»

Erik strabuzzò gli occhi, incredulo. Luciana non gli era mai piaciuta, ma perché non si dimostrava mai all'altezza del suo futuro ruolo di regina: non l'avrebbe mai ritenuta capace di un omicidio; soprattutto non di Guglielmo Lotnevi, che era un alleato della sua casata. Inoltre, come avrebbe potuto utilizzare il pugnale di Ariel, se non l'aveva mai incontrata? Non aveva senso.

«Non ci credo» disse soltanto. «Agli Autunno serve creare scompiglio nello Cmune e hanno pensato di coinvolgere anche lo Dszaco, visto che si trova in mezzo.»

Tancredi annuì e bevve un sorso di vino dal calice che aveva con sé.

«Tua madre crede che il loro intento sia quello di arrivare a noi. Siamo la famiglia più potente e più ricca, nel continente tutti contano su di noi per risolvere le controversie e per evitare che eventi come la conquista di Lisse, Loavi e Ralini si verifichino.»

«Ma gli Autunno li hanno conquistati lo stesso» commentò il figlio, amareggiato. «Non siamo stati in grado di fermarli, né di ostacolarli in qualche modo. E se con la caduta di Nicola prendessero anche lo Cmune, chi credi ci aiuterebbe? Chi non si lascerebbe spaventare dalla potenza di Amelia, Ruggero e delle loro figlie?»

Portò la forchetta alla bocca e assaporò il gusto delle seppie: non le aveva mai assaggiate preparate in quel modo, ma gli piacevano; le trame che ordivano i reali del Ruxuna molto meno.

«Stiamo preparando un'armata» gli rivelò il padre. «Nonostante sia contrario agli accordi del 472, l'unico modo per sconfiggerli è combatterli apertamente. Nessuno ci condannerà per averlo fatto quando avremo riportato la pace.»

«La pace attraverso la guerra» constatò Erik. «Non so se sacrificare le vite dei nostri popoli sia la cosa giusta da fare.»

«Abbiamo degli alleati» proseguì Tancredi. «Non potremmo mai farcela da soli. Nonostante Pomi ritenga che il nostro esercito da solo possa sopraffare il loro, la prudenza non è nei troppa.»

Il principe annuì, senza avere nulla da aggiungere. Si prospettava una guerra, una guerra reale, in campo aperto, da combattere fino alla vittoria o alla sconfitta. Non avrebbe mai permesso che Raissa avesse la meglio.

«E lo Cmune? Il loro esercito come si schiererà?» chiese poi.

«Felicita ci ha assicurato la loro fedeltà. Il capo dei soldati è fedele ai Lotnevi e non crede alla colpevolezza di Nicola.»

«Padre, io... quando sono arrivato al palazzo di Mitreluvui ho visto qualcuno che ne fuggiva» rivelò Erik. «Ho provato a inseguirla, ma non l'ho raggiunta...» Si interruppe, incerto se proseguire. Tuttavia sentiva il bisogna di confrontarsi con Tancredi, di avere da lui una risposta ai suoi tormenti. «Anche se l'ho vista solo di sfuggita, sembrava Ariel. E quando ho visto Guglielmo, poco lontano dal suo cadavere ho trovato un pugnale uguale a uno che possiede Ariel...»

«Stai insinuando che lei possa aver ucciso Guglielmo?»

Il tono di voce del re di Defi era calmo, come se stesse cercando di raccogliere i pensieri. Sembrava che non volesse mettere pressione al figlio, ma che fosse intimorito da quel suo discorso.

«Non l'ho mai creduto possibile. Ariel è sempre stata innocente, non potrebbe mai uccidere. Perché avrebbe dovuto, poi? Non ha alcun senso. Ma il pugnale era il suo, quando gliel'ho riconsegnato, lei ha detto di averlo perso diverso tempo prima... Temo che qualcuno abbia voluto prima incastrare lei e, visto che non è accaduto, sia poi andato su Nicola. Forse lo scopo di tutto questo è portare confusione, e l'unica persona che potrebbe farlo è Raissa. Ma le nostre spie dicono che lei non si è mossa dal Loavi.»

«Che qualcuno voglia incastrarlo è verosimile» disse il re. «Ora che anche Silvia e Amintore hanno subito lo stesso destino e lei è regina, ci sarebbero dei motivi per additarla come omicida. Tuttavia, nessuno l'ha fatto.»

Erik annuì. «Ariel non è in grado di uccidere. Di questo ne sono certo.»
Anche il padre chinò appena il capo. «Neanche Nicola lo è. Ti sei incaricato tu di scoprire cosa ci sia dietro?»

«Qualcuno doveva pensarci. Non mi fido dei cortigiani dello Cmune.»

«Giusta decisione» concordò Tancredi. «Ricorda, dall'equilibrio dipendono i destini di tutti. Ogni nostra azione può influire sui nostri vicini e di conseguenza sui loro popoli. Abbiamo delle responsabilità tutti noi regnanti, ma noi Inverno e Primavera ne abbiamo più degli altri, perché da ogni angolo di Selenia si rivolgono a noi. E il fatto che nessuno ci abbia domandato aiuto dallo Cmune quando sono stati convocati i Lupfo-Evoco mi lascia pensare che ci sia qualcuno che trami contro i Lotnevi, forse persino dentro il loro stesso palazzo.»

Il principe di Defi sospirò. Dalle parole del padre trasudava saggezza, quella saggezza che lui ancora non possedeva ma che agognava. Desiderava avere una visione di insieme, di tutti gli intrecci e le possibilità che le prossime mosse sia degli Autunno, sia loro avrebbero comportato. Sentiva che gli sfuggiva qualcosa, qualcosa che era davanti ai suoi occhi ma che non riusciva ad afferrare.

«Me ne ricordo» mormorò soltanto. Si alzò dalla panchina in marmo e rientrò nella sala del ricevimento.

Vide Iris e Ariel parlare in un angolo, separate dal resto dei presenti che, pur con qualche remora, iniziavano ad abbandonarsi alla musica e a danzare. Si avvicinò a loro a grandi passi e, quando le raggiunse, la popolana gli rivolse un luminoso sorriso, che lui ricambiò a fatica.

«Ariel, abbiamo dei problemi» disse.

Lei fece vagare lo sguardo nel salone. «Ne abbiamo più di uno- commentò di rimando. Sembrava che non avesse compreso l'urgenza delle parole dell'Inverno.

«Si profila una guerra contro Raissa» spiegò Erik velocemente. «Se si dovesse spostare anche qui, tu e il tuo popolo dovrete essere pronti ad affrontarla.»

La regina Dal Mare annuì. «Lo saremo. C'è un centro di addestramento militare vicino Punta Salina, nascosto a tutti. È lì che io ho imparato a usare il pugnale per difendermi, per questo nessuno sa che in caso di necessità sono pronta a impugnare le armi. Tutti quelli che erano alla caserma sono sopravvissuti. Purtroppo non si tratta dei migliori militari del regno... ma chissà se loro sarebbero stati abbastanza preparati per una guerra. Quando sarà necessario, sposterò i soldati al confine con l'Autunno.»

L'Inverno strabuzzò gli occhi, meravigliato. Ancora una volta, Ariel aveva pensato a tutto, e la sua lucidità lo disarmava.

«Inoltre,» aggiunse la giovane sovrana, «sto pensando di far costruire un muro difensivo sul confine a sud. Mi hai detto che tra Cmune e Loavi ce n'è uno... forse potrà essere utile anche qui, almeno per guadagnare tempo. Ho già delle idee su come realizzarlo, ma vorrei prima confrontarmi con tuo padre. Ce ne occuperemo domani: per questa sera... è meglio dedicarsi ad altro. Dubito che gli Autunno possano attaccarci questa notte.»

Erik annuì, come se le parole della Dal Mare lo avessero alleggerito di un peso che da solo non avrebbe saputo sostenere. Doveva ammettere che la fanciulla aveva una lungimiranza che in molti le avrebbero invidiato: lui stesso non aveva idea che la preparazione di Ariel per prendere le redini del regno potesse essere tanto profonda.

La regina si congedò da lui e Iris con un cenno del capo, e si allontanò verso le vetrate che affacciavano sulla spiaggia.

Il principe allora si rivolse verso la sarta e seppe regalarle uno splendido sorriso.

«Mi concederesti un ballo?»

Gli occhi smeraldini di lei brillarono, come se non attendessero altro. «Non potrei mai dirti di no.»

 

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Capitolo 38
*** 11.4 Partita a scacchi ***


La locandiera del Sogno d'argento si muoveva con destrezza tra i tavoli, servendo gli avventori con le prelibatezze della cacciagione. Gli aromi delle vivande riempivano l'aria, facendo salire l'acquolina in bocca a coloro che erano ancora in attesa della propria cena. Il vino rosso era versato in calici di vetro, che tintinnavano l'uno contro l'altro, come se brindassero alla prosperità di un regno che invece stava per precipitare nella rovina. La condanna caduta sulla testa di Nicola Lotnevi era ancora sconosciuta al popolo, che aveva visto quell'adunanza di nobili come soccorso al principe inviso alla corte; niente di più lontano dalla realtà.

Eleonora si avvicinò, con un vassoio pieno di arrosto finemente tagliato, alla tavola che i De Ghiacci avevano scelto insieme ai loro ospiti. Servì la pietanza nei loro piatti in rigoroso silenzio, scambiando un sorriso gentile con il marchese, poi passò alle tavolate presso cui sedeva la scorta, composta di uomini silenziosi, ma che la riempivano di complimenti sulla qualità del cibo e del vino.

Giampiero sedeva taciturno, mentre Bianca e Roberto continuavano a discutere su quanto l'esito dei Lupfo-Evoco avrebbe condizionato le loro vite.

«A questo punto credo che sia meglio tornare a casa» stava dicendo la principessa De Ghiacci. «Se Raissa ha intenzione di espandersi, non ci penserà due volte prima di conquistare quante più terre può nel Pecama...»

«Se invece volesse fare come ha fatto con i Dal Mare?» le chiese Roberto. «Se lei non aspettasse altro che noi torniamo lì per ucciderci tutti?»

«Ariel e Dante si sono salvati» constatò Bianca. «Se avesse voluto spazzare via tutta la famiglia reale, non avrebbe avuto alcun ostacolo... Menta, cosa ne pensi?»

Lei posò delicatamente la forchetta nel piatto. Guardò il marchesino, che tuttavia sembrava immerso in una riflessione che gli altri due non avevano osato interrompere.

«Io...» tentennò. Nonostante la fiducia che la nobile riponeva in lei, ancora non si sentiva in grado di esprimere un'opinione su temi tanto delicati. «Penso che dovreste pensare a come tenere il vostro popolo al sicuro. Ma non saprei dirvi come farlo...»

«Già, il popolo» commentò il Tirfusama tra sé e sé. Anche se sapeva che gli altri attendevano con grande interesse il suo parere, lui non riusciva a smettere di pensare. A ogni preoccupazione se ne aggiungevano di nuove: aveva fallito l'incarico più importante che Alcina gli avesse mai assegnato, il principe Lotnevi era prigioniero nel suo stesso palazzo, così come anche Luciana... e il fatto che entrambi fossero figli unici avrebbe creato dei problemi con la successione dei loro regni. E a rimetterci sarebbero stati i loro popoli, che si sarebbero visti dapprima trascinati in un conflitto che non erano pronti ad affrontare, e che poi, una volta sconfitti, sarebbero stati depredati di tutto quello che possedevano. Se aveva compreso una cosa sugli Autunno ‒ e su Raissa in particolare ‒ era che loro non conoscevano la pietà.

Si stropicciò gli occhi e decise di mandare giù qualche boccone dell'arrosto che giaceva davanti a lui, ma la fatica per mangiare era più del ristoro che ne derivava. Soffriva e non sapeva come poter rimediare al proprio dolore.

«Marchese, siete tanto turbato...» disse Bianca.

Lui annuì sconfortato. «Donna Clara mi ha permesso di poter parlare da solo con Nicola, nella speranza che possa confidarmi qualcosa, qualcosa che tutti gli altri non sanno... O forse si aspetta la sua confessione, come gran parte dei presenti ai Lupfo-Evoco. Domani andrò da lui, ma non so cosa potrebbe rivelarmi.»

«Questi Lupfo-Evoco sono stati un fallimento» commentò Roberto. «Dovevamo proteggere Nicola e fermare Raissa e non siamo riusciti a fare né l'una né l'altra cosa. E io non ho intenzione di farmi ammazzare per tornare a casa!»

«Ma dove vorreste andare? Non pensate ai vostri genitori?» provò a obiettare Menta timidamente. A un'occhiata del principe, il rossore le ricoprì il volto e lei si nascose dietro il suo calice di vino.

«Qui non abbiamo nulla da fare, non più» disse invece la principessa De Ghiacci. «Abbiamo sistemato i nostri trattati commerciali e abbiamo presenziato ai Lupfo-Evoco. Anche se il loro esito è stato fallimentare, non c'è niente che ci trattenga.»

La giovane allungò il collo intorno, per assicurarsi che nessuno potesse ascoltare le sue parole. Tuttavia, gli altri avventori della locanda non facevano caso agli illustri ospiti.

«Concordo con Bianca» mormorò Giampiero a un tratto. «Per voi è molto più utile rientrare nel Pecama e dirigere da lì le operazioni di difesa. Voi siete al sicuro, perché vi circonda il regno dell'Inverno, ma è meglio che vi preparate a qualsiasi eventualità. Anche che gli Autunno riescano a raggirare le difese di Tancredi e attaccarvi: è meglio essere prudenti. Per Nicola voi non potete più fare nulla.»

«Noi no, infatti» asserì la De Ghiacci. I suoi occhi smeraldini brillarono incastonandosi in quelli scuri del marchese. «Ma voi, mio caro, potete. E io sono certa che ce la farete.»

Il Tirfusama trattenne uno sbuffo. La fiducia di Bianca rischiava di essere mal riposta e lui non aveva alcuna intenzione di deludere qualcun altro.

«Devo capire chi ai Lupfo-Evoco voleva incastrarlo a tutti i costi» disse. «Non riesco a credere che gli Autunno abbiano agito da soli... non visto che hanno coinvolto lo Dzaco. C'è qualcosa che non mi torna in tutta questa faccenda...»

«Pensi che a qualcuno importi di quello sputo di terra inutile che è lo Dzsaco?» gli chiese Roberto, incredulo, con la bocca piena di arrosto masticato.

La sorella sollevò gli occhi al cielo per il fastidio e l'imbarazzo per i suoi modi di esprimersi e di comportarsi. «Dovresti fare più attenzione a come ti pronunci sugli altri regni. Il nostro è molto poco esteso e parecchi nobili potrebbero pensare che lo sputo di terra sia il nostro. Inoltre, lo Dzsaco ha un ruolo fondamentale, se si dovesse trovare tra il Ruxuna e uno Cmune conquistato dagli Autunno: rischierebbero un attacco su due fronti; o forse anche su tre, se riescono a passare le montagne.»

Giampiero annuì al suo indirizzo: Bianca, come sempre, aveva ragione. Forse quelle parole lasciavano intendere che lei avesse compreso quale fosse la più nascosta paura del marchesino, visto che tanto aveva difeso la rilevanza strategica dello Dzsaco. Per lui, tuttavia, la questione aveva un'importanza tutt'altro che politica.

«Credo che dello Dzsaco non importi un fico secco a nessuno» insisté Roberto.

«Potresti esprimerti in un altra maniera?» lo rimproverò di nuovo la sorella maggiore, infastidita dal suo linguaggio da osteria.

«Vuoi tornare a casa? Torniamo a casa!» esclamò lui. «Ma io non mi farò carico della responsabilità delle nostre azioni!»

«Infatti non sei tu quello che deve esserne responsabile» disse lei, severa. «Ma io. Quindi domani partiremo per il Copne, dove è ancora ormeggiata la nostra nave, sempre che il promesso sposo di Milena non abbia scoperto i tuoi intrallazzi con lei e abbia deciso di farci uno sgarbo affondandola!»

Lui scoppiò a ridere. «Ce lo vedo proprio, quel damerino...»

Anche Menta si lasciò sfuggire un sorriso, anche se la nobile seduta al suo fianco non era dello stesso umore allegro.

La cena proseguì, con i tre che continuavano a parlare mentre il marchese pronunciava a stento qualche parola.

Quando ebbe finito di mangiare la sua porzione di torta di mele, Roberto si stiracchiò sulla sedia. «È stata una giornata usurante, credo proprio che me ne andrò a letto. Almeno così domattina potremo partire presto.»

Bianca lo guardò torva, disapprovando che la deridesse a quel modo. Non le piaceva il suo prendere ogni situazione alla leggera; soprattutto visto che il destino del loro regno sembrava appeso a un filo.

Il principe De Ghiacci salutò il Tirfusama, che gli rispose con un cenno, poi si diresse verso gli appartamenti che occupava nella locanda.

Menta osservò il giovane irriverente mentre si allontanava da loro e saliva le scale con aria sognante.

«Se anche tu vuoi andare a riposare, io non ti trattengo» le sorrise Bianca.

La sua dama di compagnia annuì e augurò a lei e Giampiero la buonanotte, lasciandoli soli.

Il marchese spiò la fanciulla sparire rapidamente dalla sala principale della locanda.

«Non vi sembra che Roberto abbia già messo gli occhi su di lei?» chiese a bassa voce. Non voleva sembrare scortese, ma aveva notato che tra i due si era instaurata una strana complicità e non voleva che il nobile si approfittasse della giovane contadina.

«L'ho messa in guardia» gli rispose la De Ghiacci con un sorriso accennato. «Conosco mio fratello... non è cattivo, ma non riesce mai a capire fino a che punto può ferire i sentimenti altrui. Se molte delle donne che ha conosciuto sono inclini ad avventure fugaci, Mentra non mi sembra tra queste.»

Giampiero annuì. Apprezzava la lungimiranza di Bianca: la principessa aveva sembrava sempre avere una soluzione ancora prima che i problemi si presentassero.

«Devo parlarvi di una cosa importante» sussurrò lei. «Mentre voi vi facevate ricevere da Donna Clara, questo pomeriggio, ho parlato con Ivano Del Nord.»

«Vi ha anche detto che secondo lui Nicola è colpevole?» commentò il marchese con amarezza. Non poteva dimenticare le sue parole poco prima dell'inizio del Lupfo-Evoco, con le quali sembrava condannare il principe di Cmune.

La principessa scosse la testa. «Suo figlio Riccardo lo ha convinto a votare per l'innocenza del Lotnevi.»

Giampiero bevve un sorso di vino e la guardò. «Riccardo è un ragazzo ragionevole» disse soltanto.

Bianca gli sorrise. «Per noi è assurdo credere che un principe come Nicola possa aver ucciso il proprio padre. Ne ho parlato anche con Dante Dal Mare, prima che iniziassero i Lupfo-Evoco... siamo la prossima generazione di regnanti, ci sentiamo sullo stesso piano. Se uno di noi è accusato e ritenuto colpevole, niente vieta che la stessa situazione possa ripetersi. Non so per quale motivo Ariel non sia stata ancora additata da nessuno come regicida... Nicola è innocuo al pari di lei.»

«Sembrate conoscere tutti molto bene» constatò il marchese, riempiendo di nuovo il bicchiere.

«Non vi fa bene bere troppo» mormorò la De Ghiacci.

«Sono abituato al vino, non mi fa nessun effetto» disse lui.

«Dimenticavo, voi del Pogudfo vi nutrite sin da bambini con latte e vino» sorrise Bianca, lasciandosi sfuggire un sospiro. «Avete una buona resistenza.»

«Cosa volete dirmi?» le domandò Giampiero. Qualcosa nelle parole della principessa gli faceva pensare che dietro quelle frasi di circostanza ci fosse ben altro, qualcosa che lui non riusciva a carpire.

«Pensavo che foste preso tanto dalla condanna di Nicola, che la considerasse un fallimento personale... D'altra parte Alcina Primavera vi ha assegnato il più difficile dei compiti: eravate un uomo solo contro la rete di inganni degli Autunno. Avete avuto la fortuna di incontrare me e mio fratello, ma... non è bastato.»

Lui la scrutò con attenzione, sorseggiando altro vino dal suo calice traboccante.

«Eppure se si fosse trattato solo di Nicola, non avreste questo aspetto emaciato e l'aria distrutta di chi è appena stato trafitto in duello.»

Bianca tacque e i suoi smeraldi chiari si posarono dolcemente sul viso del marchese.

«Sono ridotto tanto male?» chiese lui.

«Solo per chi è in grado di coglierlo» ammise lei. «Non credo che Roberto e Menta se ne siano accorti... altrimenti lui non avrebbe parlato in quel modo dello Dzsaco e lei non ne avrebbe riso.»

Giampiero sospirò. «Come ve ne siete accorta?»

La De Ghiacci sorrise, splendida, il volto chiaro illuminato da quella delicata e velata ammissione. «Avete tutti i sintomi di un innamorato sofferente. Non so da quanto tempo siate ridotto così... Quando Roberto mi ha detto che voi avevate perso tempo con Lavinia Lugupe, che sembrava ‒ cito le sue parole ‒ una morta che si ostina a rimanere viva, ho pensato che la vostra fosse solo cortesia, ma quando poi vi ho visto, dopo che mi era stato annunciato l'arresto anche di Luciana, ho messo insieme le cose.»

«Sembra che mi leggiate come un libro aperto» commentò lui, sorridendo amaramente. «Forse neanche Alcina se ne è mai accorta.»
«Sicuramente sì, ma avrà avuto il tatto di non parlarvene per non mettervi in imbarazzo.»
Il tono di Bianca era gentile, comprensivo, tanto che il marchese si sentiva meglio, nonostante il dolore che quell'argomento suscitava in lui. Il suo silenzio a proposito lo aveva torturato, non avendo nessuno con cui parlarne e confidarsi.

«Non penso che per lei valga la stessa cosa» ammise Giampiero. «Mi detesta perché Alcina ha inviato me ai Lupfo-Evoco... e si aspettava che toccasse a lei. E io... be', ho fallito.»

«Non credo che possa odiarvi per questo» disse la principessa. «Eravate l'uomo migliore da inviare e questo Alcina Primavera lo sa bene. Se voi credete di aver fallito, è solo perché i giochi non sono ancora chiusi.»

«I giochi...» mormorò il marchese. «Questo non è un gioco, Bianca.»

«Agli Autunno piacciono gli scacchi» ribatté lei con dolcezza. «Si racconta di un loro avo che sfidava i condannati a morte a giocarci... se lo sconfiggevano avevano salva la vita. Viceversa...» Non completò la frase, ma pose di nuovo il suo sguardo in quello del Tirfusama, che la ascoltava con attenzione. «Quella con Raissa è una partita a scacchi. Le piace vederci nel dubbio su quale sarà la prossima mossa, perché nessuno, forse neanche lei, può prevederla. Negli scacchi c'è qualcosa di tremendamente affascinante: il giocatore non è obbligato a fare la sua mossa. Chiunque al posto di Raissa non avrebbe perso tempo e avrebbe invaso lo Cmune. Noi, io e voi, caro marchese, sappiamo che sta cercando qualcuno; e sappiamo anche chi. Ma tutti gli altri nobili accorsi a Mitreluvui non sanno niente. Ed è con i loro destini, con le loro paure che lei sta giocando. Avete intenzione di lasciarla fare ancora a lungo? Volete che la donna che amate finisca nelle sue mani?»

Giampiero scosse la testa, convinto. Le parole di Bianca gli rivelavano una verità che altrimenti non avrebbe scorto: Raissa Autunno li teneva come topi in trappola.

«Per questo siete così smaniosa di tornare nel Pecama» constatò pacatamente. Comprendeva le ragioni di Bianca, che invece Roberto non riusciva ad afferrare. «Voi non volete essere un burattino nelle sue mani.»

Bianca annuì. «Esattamente.»

«Io non posso fare come voi» sospirò lui, affranto. «Fuggire mi sarebbe più dannoso che utile...»

«Perché voi avete sulle spalle la responsabilità di molti altri» spiegò la De Ghiacci con dolcezza. «E, soprattutto, perché voi siete un grande uomo, uno dei pochi davvero in grado di poter contrastare questo lento espandersi degli Autunno. Non con le armi, sia chiaro, ma con la vostra intelligenza.»

Giampiero sorrise, per la prima volta in maniera sincera da diversi giorni.

«Temo di essermi posto la domanda sbagliata» disse. «Non dovevo capire chi voleva condannare Nicola, ma chi voleva salvarlo... perché chi vuole salvarlo è un alleato.»

Bianca annuì. «E i Del Nord lo sono. Ha detto Roberto che i voti contrari alla condanna di Nicola sono solo cinque. Uno quello di Ivano, uno il vostro, uno quello di Roberto e uno sono quasi certa che sia quello di Matilde Estate. Probabilmente il quinto voto è quello dei Lugupe, ma non so se Lavinia può aver commesso un errore, visto il suo stato di salute...»

«Ne dubito» constatò Giampiero. «Tuttavia anche Dante Dal Mare potrebbe aver votato contro, visto come ha aggredito alcuni nobili... Quindi di questi quattro uno non ha votato come me. Ma mi sembra assurdo, perché sarei disposto a giurare che sono sicuramente loro quelli che non vogliono la morte di Nicola...»

«Eppure uno di loro ha tradito la propria parte» ragionò lei a bassa voce.

«Quello che conosco meno è Dante Dal Mare, ma è quello di cui sono più certo...» mormorò il marchese. «Bianca, io non vorrei aver commesso un altro errore. Potrei aver fatto affidamento sulla persona sbagliata.»

Riempì di nuovo il bicchiere, non riuscendo a pronunciare l'insana idea che gli aveva attraversato la mente. Non riusciva a credere che fosse possibile, ma se c'era solo una persona di cui oggettivamente poteva dubitare...

Ma la De Ghiacci sorrideva, splendida, con una compostezza, un'eleganza e un fascino che tutte le donne di Selenia avrebbero fatto carte false per avere. Sorrideva, felice di aver risollevato l'animo del nobile decaduto, avendolo riportato a quello che era il suo compito nella capitale di Cmune. Si alzò dalla tavola e gli porse la mano, in segno di commiato.

«La notte vi sarà consigliera» disse. «Vi auguro di riuscire a vincere questa partita e di far cadere il re avversario. O forse, in questo caso, la regina.»

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Capitolo 39
*** 12.1 Il prezzo della vita ***


 

Un vento frizzantino soffiava tra le vie di Mitreluvui, annunciatore dell'alba che entro pochi minuti avrebbe dipinto i muri e i vetri delle case della capitale.

Il palazzo reale dormiva sonni agitati, tra chi era impensierito dall'esito dei Lupfo-Evoco e chi invece, ancora non ne vedeva attuata la sentenza. Che si fosse a favore o contro la morte di Nicola Lotnevi, quella non era una notte serena.

Una figura entrò di nascosto nella reggia, approfittando della sonnolenza delle guardie che Donna Clara aveva posto agli ingressi; constatò che persino l'autorevole regina di Cmune era stata scavalcata e si chiese se i suoi piani fossero ugualmente attuabili. Nascosta dal mantello scuro come la morte, si inoltrò tra i corridoi, percorrendoli in punta di piedi: nonostante la propria invisibilità, le precauzioni non erano mai abbastanza. Anche se sapeva che solo togliendosi la stoffa atra dal viso sarebbe stata scorta, non si sentiva al riparo, poiché le era stato detto che proprio in quella reggia aveva preso dimora Amelia Autunno, tra coloro a cui Donna Clara aveva dato compito di vegliare sui cortigiani e sui reali.

Avanzò di soppiatto, come una ladra di Cremini; o meglio, come aveva sentito raccontare sul loro conto.

Salì le scale senza perdere tempo ad ammirarne la maestosità, e raggiunse in fretta il luogo che la interessava: gli appartamenti di Felicita.

Superò la sala della teletta dove, su un divano imbottito, dormiva la cameriera personale della sovrana. La fanciulla, immersa in un sonno profondo, emetteva piccoli sbuffi ritmici, come se non le fosse permesso russare. La figura sorrise nel vedere la fedeltà della ragazza nei confronti della sua signora e la ammirò: lei era invischiata in così tanti doppi giochi, che non sarebbe mai stato semplice spiegare la sua posizione.

Superò quella sala e anche quella del guardaroba, giungendo infine alla camera da letto della regina.

Felicita dormiva, serenamente, con i capelli sparsi sul cuscino, la trapunta sottile che la ricopriva fino alle spalle.

La figura invisibile si tolse il cappuccio, mostrando il suo volto alle tenebre.

«Maestà...»

La sua voce era un sussurro, ma fu sufficiente a destare la donna, che spalancò gli occhi e rimase terrorizzata nel vedere davanti ai suoi occhi i lineamenti severi degli Autunno.

«A-amelia?» balbettò, tremando all'idea di un agguato notturno.

«No, Maestà, sono Melissa Autunno. Non ci siamo mai incontrate finora.»

Parlava pacata, nel tentativo di rasserenare la regina: non era nelle sue intenzioni spaventarla.

«Cosa vuoi da me?» bisbigliò Felicita. Avrebbe voluto urlare, gridare che qualcuno arrivasse da lei a liberarla da quell'incubo; perché solo come tale avrebbe considerato la presenza di un Autunno nella sua camera da letto. La voce della sovrana si fermava in gola, uscendone strozzata e flebile.

«Sono qui per proporvi un accordo» mormorò Melissa.

«Non ho niente da offrire, tutto quello che ho mi sarà portato via tra pochi giorni» asserì la regina. La vita del suo unico figlio era appesa a un filo che si assottigliava con il passare delle ore.

«Su, Maestà, non dite così» la incoraggiò Melissa, con tono conciliante. «Avete un regno a cui pensare, il cui destino è nelle vostre mani. Io sono qui perché so che Nicola non ha ucciso suo padre.»

«Come puoi saperlo? È stata Raissa? E ora ti manda qui perché prova rimorso?»

Nel buio, Melissa rise dell'ingenuità di quella supposizione. «Mia sorella non conosce il rimorso. C'è lei dietro l'uccisione di vostro marito, per questo mi ha ordinato di venire qui e... ma questo non importa. Accendete una candela, sarà meglio.»

Felicita si alzò dal letto, in camicia da notte e con le gambe scoperte, ed estrasse da un comò scuro una candela e dei fiammiferi, mentre Melissa si accostava alla finestra per chiidere le tende.

«Non posso permettere che mia madre scopra che sono qui» si spiegò. «Un accordo con voi non è nei piani di Raissa.»

«Non comprendo le tue ragioni. Pensavo che fossi qui per uccidermi...» bisbigliò la sovrana, accendendo il lume.

«Uccidervi? E perché dovrei? Che lo Cmune sia gettato nello scompiglio non è di alcuna utilità: io non voglio la vostra morte, né quella di vostro figlio.»

«E allora cosa volete?»

«Salvarvi.» Melissa osservò ipnotizzata la fiammella accesa e non distolse lo sguardo quando domandò: «Cosa siete disposta a fare per la vita di vostro figlio?»

Felicita la scrutò incerta, ma non ebbe esitazione nel dare la risposta. «Tutto.»

La principessa Autunno sorrise. «Questo renderà le cose più semplici. Maestà, io sono qui per salvare Luciana Lugupe, non vostro figlio; almeno, questo è quello che mi ha ordinato Raissa.»

«Prendi ordini da tua sorella? È tanto dispotica...» commentò la regina, corrucciata.

«No, lei crede che sia così e io devo continuare a fare qualsiasi cosa perché lo creda. Vi parlo con tutta la sincerità che possiedo e che non ho mai avuto con altri, perché ho bisogno del vostro aiuto.»

«Tu... stai facendo il doppio gioco contro la tua famiglia?» Felicita non riuscì a trattenere la sorpresa: quello che le rimaneva della sua casata era quanto di più caro aveva, più del potere, più del rispetto che le era dovuto. Nicola, aveva solo Nicola da quando i suoi genitori, nel lontano Crisera, erano stati spazzati via da una piaga che aveva mietuto centinaia di vittime anni prima.

Non poteva credere che ci fosse qualcuno in grado di tradire il proprio sangue.

«Sì, Maestà. Ma per fare in modo che loro continuino a fidarsi di me, devo portare a termine anche questa missione. Il mio piano è portare via la Lugupe con me, visto che Lavinia sembra essere malata e lo Dzsaco ha bisogno di una regina, nel caso in cui Ettore non sopravviva alla morte della moglie.»

«Che progetti hai per Nicola?» domandò invece la donna. Le sorti del regno limitrofo per lei avevano una minima rilevanza.

«Se c'è qualcuno di fiducia nel palazzo, che possa portarlo via durante la notte, per me l'ideale è che fugga nel Pogudfo. Lì mia sorella non lo cercherebbe... perché nessuno saprà che è sopravvissuto.»

«Sopravvissuto...» ripeté la regina mordendosi il labbro inferiore. «A cosa dovrebbe sopravvivere?»

Melissa sospirò e si tolse il mantello, lasciando scoperto il suo corpo femminile nascosto da pantaloni scuri e da una cotta di maglia che sembrava più adatta a un uomo. Si passò una mano tra i capelli corti, come quelli di un ragazzino che si apprestava a usare le armi e che sarebbe stato impacciato da una lunga chioma.

«Il palazzo reale deve bruciare. C'è bisogno di qualcosa che faccia credere che per Nicola non ci sia più nulla da fare. Se è rinchiuso nei sotterranei, nessuno penserebbe mai che sia ancora vivo. Mi rendo conto di cosa potrebbe significare per voi...»

Felicita la interruppe con un cenno della mano. «Tu vuoi dare fuoco al palazzo reale di Cmune, che si trova al centro di una capitale, rischiando la vita di decine di persone... per salvare mio figlio.»

«Voglio evitare a ogni costo che Raissa conquisti anche voi» asserì decisa la giovane. «Se questo significa dover sacrificare alcune vite perché tante altre siano al riparo dal suo dispotico potere, sono disposta a farlo.»

La regina si morse il labbro. «Non significa solo questo.» Aveva compreso ciò che l'Autunno ribelle le aveva taciuto: tra le vite da sacrificare c'era anche la sua. Ma non ne fece parola. «C'è vostra madre, qui.»

«Lo so, Maestà» ammise Melissa chinando appena il capo. «Non mi pento delle mie intenzioni: Raissa mi ha detto che se muore anche lei, sarà meno probabile che qualcuno la consideri mandante dell'incendio. Non vuole esporsi, non può farlo.»

«E tu cosa ne pensi?» mormorò la donna.

«Mia madre appoggia la politica spietata di Raissa. Se io voglio eliminare gli ostacoli verso una nuova pace, lei è inclusa. Per questo non deve sapere che io sono a Mitreluvui: lei mi crede ancora nel Loavi con mia sorella, anche se nessuna delle due è più lì.»

Felicita sospirò, radunando i pensieri. Il futuro di Nicola, la sua sopravvivenza erano nelle sue mani. I suoi sudditi, di cui lei aveva la responsabilità, non sarebbero finiti sotto il giogo degli Autunno. Il palazzo sarebbe stato ridotto in cenere, con i ricordi che custodiva; ma in pochi avrebbero ancora avuto nostalgia di quelle sale sfarzose.

Il prezzo era la sua morte.

«Come puoi essere certa che tua sorella non invada lo Cmune?» domandò.

«Donna Clara non lo permetterà: già ha rischiato molto mostrando il rubino di mia madre ai Lupfo-Evoco, lei non può permettere che il regno le cui sorti sono state nelle sue mani cada. Prima ancora che me lo chiediate, sono stata ai Lupfo-Evoco, e ho visto cosa accadeva, anche se nessuno ha visto me. La Riutorci ha messo in pericolo l'immagine del suo casato e il ruolo che ha sempre avuto al di sopra delle parti. Ha provato a rimediare concedendo al Tirfusama di parlare con vostro figlio, ma non so quanto sia sufficiente perché in un futuro prossimo nessuno la additi come pericolo per l'equilibrio su Selenia.»

Melissa tacque, permettendo alla regina di assorbire la quantità di rivelazioni che le aveva elargito in così breve tempo.

«Non ci sono armate pronte» disse la donna. «Tancredi Inverno mi ha detto che la guerra sarebbe stata dichiarata fra alcune settimane. Non possiamo avere nessuna garanzia, i Lupfo-Evoco non ci proteggeranno da un'invasione forzata. Se Raissa si è permessa di violare gli antichi e sacri trattati, cosa le impedirebbe di violare anche l'autorità dei Lupfo-Evoco?»

«Non lo farà. Non ora, almeno: conquistare lo Cmune significa portare il suo esercito al confine con il Defi. E vi sembrerà impossibile, ma Raissa non crede di essere pronta a uno scontro con i Primavera-Inverno. C'è qualcosa che la spaventa, anche se sa che le conviene puntare al Defi prima che ad altri luoghi di Selenia. Potrebbero trascorrere altre settimane, forse proprio quelle che servono a Tancredi Inverno per organizzare l'armata di cui parlate, perché il suo scopo, ora, è andare nel Pecama mentre tutti la credono ancora nel Loavi. Ci sono delle faccende da sbrigare, laggiù... e io dovrò andare con lei una volta liberata Luciana Lugupe. Per questo ne sono certa.»

Felicita annuì, convinta. «Dunque, avete bisogno del mio aiuto per scatenare l'incendio? Altrimenti devo supporre che tu e tua sorella abbiate delle conoscenze magiche legate anche al fuoco...»

«Possediamo quelle arti, non è per scatenare le fiamme che mi rivolgo a voi» sorrise Melissa. «Io ho bisogno del vostro aiuto per liberare Nicola e per fare in modo che all'incendio non sopravviva nessuno. E ho bisogno della vostra parola.»

«La parola di una moritura?» la sovrana rise, istericamente. «La mia parola ormai non conta più nulla: sono già cenere. Farò come tu vuoi che si faccia: il palazzo e chi vi si troverà all'interno bruceranno, mio figlio e lo Cmune saranno salvi.»

La principessa Autunno chinò il capo, passando la mano tra i capelli tagliati da poco. «C'è un modo per poter appiccare questo incendio?»

La regina di Cmune annuì di nuovo. Si avvicinò alle tende e le scostò appena, quanto le fu sufficiente per scorgere i primi raggi dell'alba. «Sì, c'è un modo, ma dobbiamo sbrigarci. La giornata è iniziata e ci sono molte cose di cui dobbiamo occuparci prima che gli altri nobili si sveglino.»

 

*Angolino autrice*

Sognavo di scrivere questo capitolo letteralmente da mesi... e il risultato è questo. Si tratta di un capitolo cruciale, in cui ci sono alcuni indizi, soprattutto tra ciò che non viene detto.

Pronti a fare delle ipotesi?

 

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Capitolo 40
*** 12.2 Pedine e strateghi ***


I sotterranei del palazzo erano freddi e umidi persino nei primi giorni d'estate. La guardia reale che guidava Giampiero tra quei cunicoli era silenziosa, ma visibilmente corrucciata: non avrebbe mai creduto di dover sorvegliare un Lotnevi prigioniero nella propria reggia. Il marchese lo seguiva altrettanto taciturno, riflettendo su come porsi con il principe, ma la sua mente era attraversata di continuo dal pensiero di Luciana, rinchiusa nello stesso luogo. Non aveva avuto il coraggio di domandare a Clara Riutorci di poter conferire anche con lei, perché forse i suoi sentimenti l'avrebbero smascherato e lui non poteva permettere che le proprie vicende personali interferissero con i suoi doveri.

La guardia si fermò e infilò il chiavistello in un lucchetto di ferro, che chiudeva le sbarre oltre cui si trovava Nicola Lotnevi.

«È già arrivato il momento?»

La voce del giovane sembrava implorante, come se non sopportasse più l'attesa e volesse che la morte ponesse fine alla sua agonia.

«Non ancora» rispose la guardia. «Qualcuno vuole parlare con voi.»

«Non voglio vedere nessuno...» si lamentò il principe.

«Mi dispiace, Altezza, ma non avete scelta.»

L'uomo fedele ai Lotnevi si scansò per permettere al Tirfusama di entrare nella cella. Nella penombra, illuminata fiocamente solo da alcune torce, Giampiero vide Nicola seduto sul pavimento a gambe incrociate, con il capo chino verso il basso.

La guardia richiuse la porta e si allontanò di qualche passo, in modo da permettere ai due nobili di parlare in privato.

«Chi siete?» domandò il prigioniero. Con quel buio era difficile distinguere i lineamenti altrui.

«Qualcuno che sta facendo di tutto per salvarvi» rispose il marchese. «Sono Giampiero Tirfusama.»

«Ah, sì, voi...» biascicò Nicola. «Se ci troviamo qui qualcosa è andato storto, non trovate?»

Rise, il principe, perché non gli restava altro da fare: credeva che non ci fosse più nulla che potesse tirarlo fuori da lì, nulla che non fosse la pubblica esecuzione che i cortigiani di Mitreluvui attendevano con trepidazione.

«Donna Clara mi ha permesso di parlare con voi, pensa che possiate...» Giampiero esitò: non era certo che le sue prossime parole fossero quelle giuste. «Lei ritiene che voi abbiate davvero ucciso vostro padre, e penso che mi abbia concesso di...»

«Non sono stato io» sussurrò il Lotnevi, abbassando lo sguardo.

«Lo so che non siete stato voi. Non avreste mai potuto.»

Nicola rise, di nuovo. «E come fate a esserne tanto convinto? Raissa mi avrebbe creduto davvero capace di farlo!»

Il marchese lo guardava incredulo. Respirò profondamente prima di parlare. «Io non sono Raissa, io credo in voi. Se avete l'affetto, la stima e l'amicizia di Flora, allora potrete sempre contare su di me.»

«Flora...» La sua risata si spense, la voce del principe si ridusse a un sussurro. «Luciana mi aveva detto che l'avrebbe portata qui, ma lei non c'è. Dicevano tutti che senza Flora sarei stato perduto e io sono stato uno stupido nel credere di potercela fare da solo. Rimpiango di non averle chiesto di venire qui e di far credere a tutti che il nostro matrimonio sarebbe stato imminente. Frottola più, frottola meno... per lei avrebbe fatto poca differenza. Ma io sarei stato vivo per molto tempo, nessuno avrebbe mai osato chiedere a Donna Clara di convocare i Lupfo-Evoco.»

«Lei non sarebbe venuta» disse invece Giampiero. «L'avrei fermata io.»

«Allora anche voi mi volete morto!» esclamò Nicola. Sollevò lo sguardo e i suoi occhi chiari si affermarono sofferenti in quelli dell'altro. «Avete mentito, non siete qui per salvarmi!»

Il Tirfusama scosse la testa. «Flora non può avvicinarsi a Raissa. Se è ancora nel Loavi, è bene lei non venga più a nord del Defi.»

Il principe Lotnevi si stropicciò gli occhi, non riuscendo a trovare un senso a quelle parole. «Cosa c'entra Raissa con Flora? Lei voleva la morte di mio padre e l'ha avuta, perché avrebbe dovuto prendere anche la mia promessa sposa?»

Giampiero accennò un sorriso. «Commettete un grosso errore: pensate che gli Autunno vogliano la vostra disfatta, mentre invece bramano quella dei Primavera. Voi e lo Cmune siete solo un ostacolo.»

«Sono solo una pedina, allora» sussurrò Nicola. «Per Alcina sono solo un fantoccio da far sposare alla figlia, per Raissa sono una marionetta da poter muovere a piacimento...»

«Non lo siete» lo contraddisse il marchese. «È vero, qualcuno ha pensato che voi sareste stato solo un ragazzino al potere e vi hanno creduto capace di un'ignominia... perché un fantoccio mosso da mani invisibili può diventare pericoloso. Ma perché Raissa vi avrebbe creduto capace dell'uccisione di vostro padre?»

Aveva lasciato cadere quell'allusione del principe, anche se in un primo momento lo aveva turbato: era qualcosa da approfondire separatamente.

Il Lotnevi sospirò amaramente: per lui era già stato difficoltoso farne parola con Luciana, che era un'alleata e un'amica; ma cosa avrebbe pensato il marchese?

«Io... lei...» Si grattò la nuca, incerto su come proseguire. «Ho la vostra parola? Non lo direte a nessuno, vero?»

Il marchese annuì. «Ve l'ho già detto: potrete sempre contare su di me. Se volete che non lo dica a nessuno, lo farò.»

Nicola sorrise, nella semioscurità. Era fedeltà, quella che gli veniva offerta?

«Lei mi aveva chiesto di farlo. Mi era arrivata una lettera scritta da lei in cui mi diceva che se volevo evitare l'invasione nello Cmune avrei solo dovuto uccidere mio padre. Non so perché lo volesse... e, stando a quanto dite voi, il mio regno è solo terra che si mette in mezzo a quello che lei desidera. Io però... non l'ho fatto. Ho pensato di farlo, credetemi, ma... avevo già prima la corte contro, la mia situazione sarebbe stata esattamente quella in cui mi trovo ora.»

Giampiero si portò una mano al volto. Raissa sembrava aver previsto ogni eventualità e lui si sentiva spaesato. «Chi altro lo sa?»

«Ne ho parlato con Luciana Lugupe, ma dopo che era stato ucciso...» Tacque e fissò gli occhi sul pavimento umido della cella. «Voi mi credete?»

«Certo che vi credo» asserì prontamente il marchese. «Ma non credo a qualcun altro» mormorò più a sé stesso che al principe. Perché Luciana non gli aveva detto nulla, il giorno prima, in quei brevi secondi in cui erano stati vicini, mentre Donna Clara leggeva la lettera che accusava il principe di Cmune? Perché gli aveva taciuto quella preziosa informazione, che avrebbe potuto salvare il destino anche dello Dzsaco? Le sue certezze iniziavano a vacillare: da un lato aveva la percezione che uno dei suoi più stretti alleati lo avesse tradito, dall'altro una delle persone in cui voleva riporre la sua fiducia non sembrava essergli altrettanto leale.

«Donna Clara vi ha mandato qui perché pensa che io confessi» disse Nicola, a un tratto. «Il mio vero problema è che l'unica persona che potrebbe dire dove ero quando mio padre è stato ucciso, non può farlo.»

A quelle parole il marchese si riscosse dai suoi pensieri. «Cosa intendete dire?»

«Ero insieme a Saro, il mio cameriere personale» rivelò Nicola. «Era insieme a me mentre rileggevo alcune vecchie lettere, alcune di Flora e altre di Luciana... Sono le uniche persone con cui ho una corrispondenza continua.»

«Questo Saro» disse invece Giampiero «perché non può dire che era insieme a voi?»

«È muto» spiegò il principe. «Gli hanno tagliato la lingua... e non sa neanche scrivere. Inoltre non credo che tutti quei nobili crederebbero a un servitore fedele... penserebbero che vuole solo salvarmi la vita. E forse non avrebbero neanche torto.»

«La sua testimonianza non sarebbe rilevante ai Lupfo-Evoco» meditò il Tirfusama. Guardò il suo interlocutore, che non si era alzato dal pavimento per tutta la conversazione ma che, almeno, non sembrava più sconfortato come al momento del suo ingresso nelle prigioni.

«Non preoccupatevi, troverò il modo di tirarvi fuori di qui» promise.

«Flora si fida di voi?» gli chiese invece Nicola.

«Credo di sì» rispose pacatamente il marchese. Era convinto della risposta affermativa, ma preferiva non mostrarsi presuntuoso di fronte a quel nobile che rischiava di cadere una rovina peggiore di quella della sua famiglia.

«E ora lei dov'è?»

«Nel Pecama.»

Nicola si alzò in piedi con uno scatto felino. «Nel Pecama? Cosa è andata a fare lì? Quel posto non è sicuro!»

Giampiero si lasciò sfuggire un sospiro. «È al sicuro, perché nessuno sa dove si trova di preciso, neanche io. Se nessuno lo sa, Raissa non può scoprirlo: dunque non sono preoccupato. Ha un compito da svolgere.»

Il principe si abbandonò a una risata. «Flora? Lei non ha compiti da svolgere è circondata da persone che lo fanno al suo posto!»

Il Tirfusama scosse il capo, illuminato appena da una torcia in arrivo nelle segrete. «Questo non può essere rimandato ad altri: riguarda solo lei.»

«Vi credo, tanto ormai non ho motivo per non farlo» asserì Nicola. «A un morituro non si nega un po' di verità.»

«Con voi non ho bisogno di mentire» disse invece Giampiero. «Vi ho ribadito più volte la mia lealtà.»

«Marchese, il vostro tempo è finito!» chiamò una nuova guardia dall'esterno della cella.

«Non vi abbattete» disse lui al Lotnevi. «Non resterete qui ancora a lungo.»

«Oh, sì, il boia mi attende con impazienza» scherzò il prigioniero.

L'inferriata si aprì con un cigolio e il Tirfusama fu costretto a uscire in seguito a un'occhiata severa del soldato nella sua direzione.

L'uomo richiuse la porta della cella. «Volete parlare anche con la Lugupe?»

A quelle parole il cuore di Giampiero si strinse in una morsa. Desiderava parlare con Luciana: da quello che gli aveva detto Nicola lei conosceva più di quanto lasciasse intendere; tuttavia non era certo di riuscire a dominarsi e ad evitare che i suoi sentimenti e le sue emozioni prendessero il sopravvento. Se fosse stato interrotto anche con lei, non voleva che qualcuno lo udisse rivolgersi alla donna che amava.

«Non ho niente da chiederle» disse con un filo di voce, prima di seguire la guardia fino ai piani superiori.

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Capitolo 41
*** 12.3 Promessa mantenuta ***


 

Erik riflesse per la quinta volta la lettera che stringeva tra le mani, con profondi sospiri. La brezza marina spirò, scostando le tende leggere alle finestre, attirando verso il panorama che poteva ammirare affacciandosi.

Lasciò la missiva sulla scrivania di marmo chiaro e si accostò alla vetrata semiaperta: il mare giungeva ritmico a pochi metri da lui, con la sua incessante melodia.

Sospirò nuovamente, abbandonandosi a una contemplazione a cui, fino a quel momento, aveva sempre dedicato poco tempo. Non era mai stato una persona riflessiva: preferiva di gran lunga agire invece di tormentarsi la mente con elucubrazioni infinite, ma qualcosa nelle parole che aveva appena letto gli suggeriva di fermarsi, di ponderare con calma il modo giusto con cui affrontare quell'argomento con suo padre. Dal suo comportamento sarebbero dipesi diversi destini: quello di chi gli aveva domandato aiuto, prima di tutto.

Con uno sorriso accennato ripensò a quel duello con Franco sulla Millenaria, poi si soffermò su quello che era il compito del borghese di Nilerusa: condurre Chiara Delle Foglie sana e salva fino a Gaò. Le complicazioni sorte erano un imprevisto che certamente l'amante di sua sorella avrebbe preferito evitare, ma doveva aver posto il proprio dovere davanti alle questioni personali, se si era arrischiato a domandargli che Tancredi lo raggiungesse laggiù.

Tuttavia, Erik non si sentiva affatto sicuro nell'esporre al padre la situazione, poiché temeva domande scomode su Franco; ma se avesse temporeggiato avrebbe dovuto poi renderne conto proprio a quell'uomo che non gli aveva mai suscitato timore, fino a quel momento.

Il vento marino soffiava dolcemente, scompigliando i capelli dorati del principe di Defi, che si soffermò a guardare la luce aranciata dell'imminente tramonto.

Ripensò a come Tancredi aveva accolto la finta identità di Iris, a come avesse constatato che il ceto mercantile poteva essere un nuovo punto di riferimento per il regno di Ariel... Franco, che realmente apparteneva a quella classe sociale, poteva almeno contare su una considerazione simile da parte del re Inverno.

Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto da un bussare sommesso alla porta.

«Avanti!» disse ad alta voce. Non aspettava nessuno: suo padre stava istruendo Ariel su alcune strategie politiche ed Evandro montava la guardia insieme agli altri soldati, pur essendone il capitano; Iris, a quanto ne sapeva, avrebbe trascorso l'intera giornata alla sartoria dove lavorava a Ehoi.

Sentì la porta alle sue spalle aprirsi e ruotare sui cardini con delicatezza. Sorrise senza voltarsi e continuando a rimirare il mare: aveva riconosciuto l'ospite.

«Erik...» mormorò la voce di Iris. «Ti disturbo?»

«Non potresti» le rispose prontamente.

Lei lo raggiunse presso la vetrata, con passo leggero. «Ho provato a cercare qualcosa su quel ragazzo, sai...» iniziò a dire lei, esitando.

Lui sospirò. Trovare notizie sull'avvelenatore della corte Dal Mare non sarebbe stato affatto semplice e quando Iris gli aveva proposto che fosse lei a indagare si era opposto, anche se non glielo avrebbe impedito.

«Può essere pericoloso» disse soltanto. «Non voglio che tu corra alcun rischio.»

Erik si voltò a guardarla e la giovane abbassò lo sguardo colpevolmente. «Non volevo disubbidirti, ma...»

Lui scosse la testa. «Non ti ho ordinato niente, quindi non hai disobbedito. Non sei una mia suddita e non lo sarai mai. Non voglio che ti consideri come tale.»

Iris puntò lo sguardo verso l'orizzonte marino. Era splendida e la luce calda del tramonto le conferiva una bellezza che l'Inverno aveva intravisto raramente in altre donne. «Lo hanno visto a Punta Salina» sussurrò, come liberandosi da un macigno che le opprimeva il cuore.

«Lo hanno visto?» Il principe di Defi strabuzzò gli occhi sorpreso. Gli sembrava difficile credere che in un porto tanto trafficato qualcuno potesse ricordare il volto anonimo di quel giovane.

«Uno dei ragazzi che lavora alla locanda mi ha detto che... lui ha chiesto quale fosse la prossima nave in partenza per il continente. Aveva una gran fretta di partire, mentre di solito chi capita alla locanda è sempre dispiaciuto o se ne va con un pizzico di rammarico.»

«Sei proprio sicura che fosse lui?» le domandò Erik. Non riusciva a capacitarsi di come per Iris fosse stato così semplice, anche se doveva ammettere che lei non aveva sulle sue spalle il peso della notorietà con cui lui invece doveva convivere da quando era nato, e che quella sua libertà l'aveva di certo favorita.

«Credo di sì...» gli rispose la giovane.

«Sai quale nave ha preso?»

«Purtroppo no» sospirò lei.

«Quindi ora potrebbe essere ovunque... da Punta Salina si va in qualsiasi luogo. Se avessimo avuto la certezza che fosse andato nel Defi, saremmo ancora in tempo per inviare una lettera e chiedere di controllare i porti, ma così...» Si interruppe e tornò alla scrivania. Rilesse le prime parole della lettera di Franco, provando lo stesso turbamento delle altre cinque volte. Vide Iris con la coda dell'occhio appoggiarsi allo stipite della finestra aperta e scrutarlo confusa, pur senza domandargli nulla.

Lui prese la lettera tra le mani e controllò che l'innamorato di Flora non avesse tradito nulla del rapporto tra i due amanti; per fortuna il figlio di mercanti era stato attento nella formulazione della missiva.

«Questa mattina mi è arrivata una lettera importante» disse alla sua promessa sposa. «So che dovrei parlarne con mio padre, perché si tratta di una questione urgente in cui lui è coinvolto di persona, ma non sono sicuro che sia la cosa giusta da fare.»

«Perché non lo sarebbe?» gli domandò Iris. Gli occhi chiari brillarono in direzione di quelli del nobile.

«Sai di Flora... penso che ormai sia diventata una questione di dominio pubblico» asserì Erik, memore di quanto lei gli aveva detto la sera del ballo in maschera. «Chi mi scrive è l'amante di mia sorella.»

La sarta fu colpita da quella rivelazione. «Come... come fai a essere sicuro che sia lui? Lo hai scoperto?»

L'Inverno scosse la testa e le raccontò dell'incontro con Franco e della ragione per cui il borghese di Nilerusa si era messo in viaggio.

«Quindi ora temi che tuo padre possa scoprirlo?» domandò Iris alla fine.

Il principe annuì. «Non voglio metterlo in pericolo. Forse lui non è severo quanto mia madre, ma non vorrei che Franco corresse dei rischi...»

«C'è scritto qualcosa di lui, nella lettera?»

«No. Per questo sono molto tentato di parlarne con mio padre... Si tratta di una questione urgente e so che il suo aiuto è fondamentale per risolvere tutta la faccenda...»

Erik si interruppe, non riuscendo a dire ad alta voce quella che era la sua più intima preoccupazione: che se Tancredi si fosse ricreduto su Franco e avesse accettato l'idea che il matrimonio tra Flora e Nicola fosse saltato, non gli avrebbe mai permesso di sposare una donna che non avesse sangue nobile nelle vene. Capì l'egoismo del suo pensiero, ma non si permise di farne parola con Iris.

«Se è tanto importante, non dovresti perdere tempo» constatò invece lei, sedendosi sul letto rifatto. Gli sorrideva, splendida nell'abito color corallo che Ariel le aveva donato. Gli occhi chiari brillavano, incastonati in quel viso di porcellana. Neanche una bambola fabbricata dal miglior artigiano sarebbe mai stata tanto bella agli occhi del principe di Defi, che le sorrise.

«Mi chiederà perché glielo sto dicendo così tardi se la lettera mi è arrivata questa mattina» mormorò Erik.

«Perché l'hai aperta adesso. Questo è più importante del contenuto della lettera?»

L'Inverno sospirò: poche cose erano più importanti del destino di un regno; era quello che suo padre gli aveva insegnato sin da quando era un bambino. Il soccorso a chi lo chiedeva era un dovere per chi era in grado di portarlo.... e quella lettera implorava aiuto nella maniera più gentile che lui avesse mai letto.

Franco si era rivolto a lui e non direttamente al re: non meritava l'onta di una fiducia mal riposta.
Erik annuì, non all'indirizzo della sarta, ma come rispondendo a sé stesso. «Aspettami qui» le disse.

Iris si alzò in piedi e si avvicinò a lui. «Non andrò da nessuna parte» mormorò al suo orecchio, con un tono sensuale che aveva un significato che il principe comprese all'istante.

Lui le afferrò la mano e ne baciò il dorso, sfiorandolo appena con le labbra. «Cercherò di fare presto.»

Dopo aver preso la lettera, l'Inverno lasciò la camera, reprimendo il desiderio di ritornarvi immediatamente, e si affrettò verso una delle sale secondarie, dove sapeva che avrebbe trovato il padre insieme ad Ariel.

Alcuni servitori lo salutarono con un cenno, usanza di quel regno a cui lui non si sarebbe mai abituato con facilità. Rispose con sorrisi di cortesia e proseguì tra i corridoi labirintici della reggia.

«Non capisco» sentì dire da Ariel. «Perché dovrei dare più spazio all'agricoltura? Già abbiamo molte risorse da quel settore...»

«Perché vi occupate soprattutto di beni di lusso, dovreste invece dare rilevanza alle colture di necessità» la interruppe Tancredi, proprio nel momento in cui il figlio si affacciò alla porta, attirando lo sguardo di entrambi.

I due sovrani erano seduti a un tavolo rettangolare ricoperto di scartoffie di ogni tipo. Da un lato dei tomi di storia di Selenia e da un altro voluminosi trattati sui vari aspetti di cui un regnante doveva tenere conto. Erik conosceva quei libri, poiché anche la sua famiglia ne possedeva delle copie rilegate nella biblioteca del castello nel Defi.

«Scusatemi se vi disturbo» esordì. «Ma, padre, devo parlarvi di una questione importante.

«Più importante del futuro di questo regno?» domandò lui.

Il principe colse la sottile ironia che impegnava quelle parole, ma quanto aveva da rivelare era altrettanto urgente e rilevante. Sostenne lo sguardo severo del re e disse: «Si tratta di Chiara Delle Foglie.»

L'espressione di Tancredi mutò rapidamente: da canzonatoria si fece seria e i suoi occhi chiari sfrecciarono verso quelli di Ariel, che sembrava ignorare la questione.

«Di cosa si tratta?»

Il figlio gli spiegò della lettera, dicendogli che si era dimenticato di aprirla non appena gli era arrivata, incolpandosi e chiedendo perdono per tale dimenticanza, e gliene espose il contenuto.

Il re di Defi ascoltò con attenzione, annuendo ogni tanto in direzione del principe.

«Come hai conosciuto Chiara Delle Foglie?» domandò quando il resoconto fu terminato.

«Era sulla nave che mi ha salvato quando c'è stato l'attacco del grunmit. Lì c'era anche il suo accompagnatore... si è trattato di una coincidenza.»

«Una fortunata coincidenza» commentò Tancredi. «A cui stento a credere del tutto. Non perché non mi fidi di te, Erik, ma devi ammettere che è strano che tu e Chiara Delle Foglie vi siate incontrati in una circostanza simile...»

E lui non sa neanche di Franco, pensò il giovane. Quello è ancora più assurdo da credere.

«Che ci sia stato qualcuno dietro quell'attacco?» rifletté invece Ariel. «Se il grunmit fosse stato portato lì da qualcuno perché attaccasse la nave di Erik...»

Tancredi si lasciò andare a un sospiro. «Le fonti ufficiali del Lancobe dicono che sono tutti rinchiusi nelle loro acque, in prigioni di ghiaccio da cui non possono uscire. Tuttavia...»

«Gli Autunno ne possiedono uno» disse la regina Dal Mare. «Ne sono certa.»

«Come fai a saperlo?» le domandò Erik.

La giovane sovrana si passò una mano tra quei capelli rosso corallo, titubante. Scambiò un'occhiata con Tancredi, che sembrava curioso addirittura più del figlio: Amintore non ne aveva fatto parola neanche con lui.

«Qualche mese fa è arrivata una minaccia dagli Autunno» iniziò a raccontare lei. «A mio padre era stata scritta una lettera da Amelia Autunno, in cui diceva chiaramente che se ci fossimo dimostrati ostili nei loro confronti avrebbero inviato il grunmit per distruggere tutte le navi dei mercanti che avessero provato ad attraccare ai nostri porti. Per noi sarebbe stato un danno irreparabile... per questo mio padre gli ha risposto dicendo che lui non avrebbe mai fatto nulla contro di loro. Così alcuni giorni dopo Ruggero Autunno è stato qui in segreto, per firmare un accordo di reciproca neutralità. Ne aveva parlato con me e con Dante... per questo sono certa che gli Autunno ne hanno uno. Ma ora che mio padre non può più garantire per quell'accordo, non sono sicura che mi lasceranno governare senza crearmi problemi.»

«Ormai non ne hanno più nessuno» disse Erik. «Il mostro è stato ucciso dai marinai che mi hanno salvato.»

Raccontò brevemente come l'equipaggio della Millenaria avesse sconfitto il grunmit. Fece attenzione a non fare il nome di Virgilio, né della nave, poiché aveva immaginato che se il resto della traversata era stato tranquillo, lo doveva soprattutto al capitano e alla sua discrezione.

«Ci servirebbero uomini tanto capaci» commentò Tancredi. «Come si chiama la nave? Potremmo rintracciarla per ringraziare l'equipaggio del suo aiuto...»

Il principe Inverno esitò. Era una richiesta legittima e l'intento di suo padre era nobile; tuttavia non si sentiva certo di poter dare quell'informazione.

«Non me lo ricordo» mormorò, cercando di sembrare affranto per la seconda dimenticanza che il padre scopriva in pochi minuti. «Perdonatemi.»

Il re tamburellò con le dita sul tavolo, riflettendo. Non si accorse che tra i due giovani ci fu uno scambio di occhiate complici, con le quali cercarono di farsi supporto a vicenda, nonostante i segreti che si erano taciuti in passato e che presto avrebbero dovuto condividere.

«Erik, mostrami la lettera.»

Il tono dell'uomo era perentorio, tanto che il figlio non esitò un istante nel consegnare nelle sue mani il foglio ripiegato. Lesse quella grafia elegante ma frettolosa. La scrittura del mittente era decisa, anche se un tremore nello scrivente lasciava supporre al re che ci fosse qualcosa che nascondesse; o forse era solo la delicatezza della situazione a preoccupare lo sconosciuto che domandava il suo aiuto.

Il principe di Defi scrutava il padre con attenzione, sperando che quella lettera gentile e appassionata allo stesso tempo non tradisse il segreto di chi l'aveva stilata.

Quando il re terminò la lettura, sollevò lo sguardo verso Erik.

«Immagino che tu ti stia chiedendo se è vero che io posseggo la lettera di Cinzia Delle Foglie; sì, è così. Ero a conoscenza dell'arrivo della principessa nel Pecama, perciò la lettera è qui con me.» Guardò Ariel, che lo ascoltava con attenzione, nonostante un lieve, ma comprensibile spaesamento: la giovane regina non poteva conoscere quali fossero le condizioni che avrebbero permesso a Chiara Delle Foglie di ascendere al trono. «La situazione nel Pecama è più complicata di quanto credessi» continuò Tancredi. «Anche se ritengo che tu non sia ancora pronta per portare avanti il regno da sola, ora la mia precedenza diventano le Foglie Cadute. Non posso permettere che gli Autunno si immischino in questa faccenda. Dunque partirò domattina, ma prima del mio ritorno cerca di aver stabilito una linea politica per tutti gli aspetti che riguardano il Mare: ne riparleremo quando tutto questo sarà risolto.»

«Siete d'accordo sulla mia idea del muro difensivo al confine con l'Autunno?» gli domandò lei.

L'uomo annuì, con aria grave. «Sebbene Amintore abbia firmato quel trattato, la prudenza non è mai abbastanza: non possiamo fidarci degli Autunno.»

Il sole, fuori dalle vetrate spalancate, terminò repentino la sua discesa, finendo ingoiato dal mare. L'oscurità calò sul regno, decretando la fine della giornata e di quella conversazione.

 

*Angolino autrice*
Il titolo si rifà a un momento nel passato della storia. Vi ricordate quale?

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Capitolo 42
*** 12.4 Fuga nella notte ***


 

Altea correva disperata attraverso i corridoi sfarzosi del palazzo reale, illuminata solamente dal pallore della luna. Le istruzioni di Melissa erano state chiare: doveva affrettarsi nel salvare Nicola, perché l'incendio sarebbe stato appiccato a breve.

Ignorava, la giovane, che dietro quella richiesta c'era la necessità che al momento della fuga lei e il principe non si trovassero insieme all'Autunno e a Luciana Lugupe. La principessa del Ruxuna aveva dosato con attenzione le informazioni da fornire alla cameriera personale della regina Lotnevi, poiché non sapeva quanto lei avrebbe taciuto a Nicola; aveva ammirato la sua fedeltà a Felicita nelle ore che avevano preceduto quel momento, ma era consapevole che quella stessa lealtà avrebbe potuto provocare dei danni al suo piano, altrimenti perfetto.

La fanciulla percorse la reggia arrivando alle segrete, sulla cui soglia trovò due guardie a terra, svenute. Sapeva che non erano morte, perché la sua regina glielo aveva anticipato e l'aveva pregata di non spaventarsi: l'urgenza era più importante di qualsiasi altra cosa, inclusa la paura.

Altea si soffermò solo per un istante a scrutare quei volti, cercando di comprendere se si trattava di uomini dello Cmune o se si trattava dei soldati che Donna Clara Riutorci aveva fatto venire da chissà dove. Uno dei due le sembrava familiare, dunque pensò che fosse lui a custodire le chiavi delle celle. Frugò con cautela nelle tasche della sentinella, finendo per trovare quello che cercava.

Si inoltrò svelta nel lungo corridoio delle celle, senza sapere dietro quale fosse imprigionato il suo principe. Per sua fortuna lo trovò presto: non era così distante dall'ingresso, fattore che avrebbe aiutato nel velocizzare la loro fuga.

Il Lotnevi dormiva rannicchiato sul pavimento, come un bambino intimorito da un destino ignoto. La cameriera gli si avvicinò, e provò a scuoterlo, anche se con un briciolo di timore: non aveva mai toccato il nobile.

«Altezza...» gli sussurrò all'orecchio. «Dobbiamo andare, dovete svegliarvi...»

Lui si mosse, nel sonno, come se cercasse di allontanare un incubo.

La fanciulla insisté ancora. «Altezza... sono qui per salvarvi.»

Quelle parole sortirono l'effetto sperato: il principe di Cmune aprì gli occhi e si destò al vedere la cameriera personale della madre.

«Altea? Cosa ci fai qui?» le domandò, sbigottito.

«Sono venuta per portarvi lontano dal palazzo... dobbiamo fare in fretta» sussurrò lei.

«Pensavo che mi stessero chiamando per l'esecuzione» biascicò lui, alzandosi in piedi. «Come faremo a uscire?»

Nicola si guardò attorno, con il buio che imperava sia di giorno che di notte. Le torce delle guardie della prigione erano spente... che fossero state attirate altrove?

Altea fece strada guidando il principe, nel timore che le tenebre lo avrebbero disorientato. Risalirono al pianterreno, dove il nobile poté notare che il sole era ben lungi dal fare capolino. Lui si fermò per alcuni istanti a guardare fuori da una delle ampie vetrate, perché un particolare insolito aveva catturato la sua attenzione. Da una delle finestre di una camera privata la luce era troppo accecante: qualcosa non andava.

«Altezza, non abbiamo tempo!» esclamò la fanciulla, alzando la voce. «Dobbiamo sbrigarci, non possiamo rimanere qui!»

«Ma lì...» esitò Nicola. «Altea, in quella stanza c'è un incendio!»

«Esatto, c'è un incendio, per questo non c'è tempo da perdere!» ribadì lei. «Non so quanto ci vorrà perché arrivi qui!»

«Arrivi qui? Cosa sta succedendo?» domandò lui.

«So solo che per salvarvi qualcuno sta accendendo il fuoco per un incendio che bruci il palazzo. Ho una lettera di vostra madre che vi spiegherà tutto, ma ora non c'è tempo» bisbigliò la giovane.

Il principe guardò l'andazzo al fianco della vetrata, con le gesta di un antico eroe, che brandiva una spada insanguinata, mentre un mostro giaceva sconfitto a terra. Si sentì ridotto a nulla, al confronto. Lui non sapeva usare le armi e per salvargli la vita sua madre si era ridotta usare un sotterfugio che avrebbe messo in pericolo sé stessa e gli altri residenti della reggia. Ripensò alle parole scambiate con il marchese Tirfusama: era diventato una pedina, questo era certo; ma una pedina preziosa visto quello che liberarlo avrebbe implicato.

Altea era corsa all'altro capo del lungo corridoio, mentre lui non riusciva ad accelerare, pur seguendola. Sentiva che se avesse abbandonato quel luogo non sarebbe più stato lo stesso di prima, che si trattava di percorrere una via dalla quale non poteva fare ritorno.

Ritorno.

«Altezza, sbrigatevi!» lo incitò la fanciulla, che in quel momento tutto sembrava tranne che una giovane donna abituata a stare al suo umile posto all'interno di una reggia. Anche lei si era trasformata, spinta dalla necessità di quella fuga.

Nicola ammirò la sua decisione, quella prontezza che sentiva tanto distante. Non era certo una situazione semplice in cui trovarsi, ma Altea vi si muoveva a proprio agio, mentre lui avvertiva uno strano torpore attanagliargli le viscere: avrebbe desiderato essere preparato a quel momento e non di percepirlo come una valanga pronta a riversarsi su di lui.

«Torneremo qui?» le domandò soltanto.

«Certo che ritorneremo!» rispose lei con convinzione. «Torneremo e voi sarete al posto che vi spetta. Ma ora correte, vi supplico!»

Il principe gettò un'occhiata fuori dalle finestre e vide il fuoco divorare la zona del palazzo di fronte a quella dove si trovavano loro. Le fiamme sembravano fauci di una bestia famelica, che mandavano giù a piccoli bocconi l'intera reggia. La temperatura si stava alzando e il caldo eccessivo anche per la stagione iniziava a insinuarsi negli ampi corridoi, infausto annunciatore.

Nicola si asciugò la fronte madida di sudore con la manica, domandandosi come mai l'improvvisa calura non avesse svegliato nessuno. Raggiunse la cameriera verso l'uscita più vicina per il cortile esterno.

Vi sbucarono assieme, respirando a pieni polmoni l'aria frizzantina della notte. Le chiome degli alberi si scuotevano dolcemente al soffio del vento, ancora lontani dall'incedere del fuoco. L'aria si insinuava gelida sotto le vesti dei giovani, provocando a entrambi dei brividi.

Il nobile sentiva freddo e caldo allo stesso tempo: immaginava le fiamme alle sue spalle rincorrerlo senza lasciargli tregua, come se la sentenza dei Lupfo-Evoco lo avrebbe inseguito anche nel più recondito angolo di Selenia.

I due udirono un ruggito provenire dall'interno del palazzo. Entrambi si voltarono, spinti dalla curiosità, e videro ciò che mai avrebbero voluto vedere: le fiamme avevano avvolto tutta la costruzione elegante che per secoli era stata la reggia dei Lotnevi.

Nicola indietreggiò, fino a quando non si accorse di avere la schiena contro l'inferriata che circondava il cortile esterno. Il freddo del metallo premeva contro la pelle lasciata scoperta dai vestiti, sollevatisi nella fuga; ma a lui non importava. Guardava ipnotizzato le mura sfaldarsi e ridursi in cenere, mentre il fuoco, in alcuni punti sembrava essersi spento o che avesse diminuito la sua intensità.

«Dobbiamo andare, non possiamo rimanere qui» sussurrò la cameriera della regina, sebbene neanche lei riuscisse a distogliere lo sguardo dalle fiamme. Le si formò un nodo alla gola, che le impedì di dire altro, così provò a strattonare il giovane, come per costringerlo ad allontanarsi in fretta e a correre lontano da lì.

«Altea...» mormorò il principe. «Mia madre è in salvo, vero?» Guardò la fanciulla, i cui occhi erano lucidi, nonostante l'aria infuocata. «Dimmi che lo è.»

«Mentirei.»

Fu l'unica parola che lei riuscì a dire.

Lui cadde sulla terra resa arida da quell'improvviso caldo torrido, incapace di accettare quello che era accaduto. Sua madre, la donna che era stata tanto forte e risoluta, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui... aveva deciso di agire nella maniera più estrema che ci fosse.

In quel momento era cenere anche lei, divorata, dilaniata dalla ferocia di quell'incendio. La regina Felicita di Cmune non era più nulla. Se si fosse sollevato del vento forte, come quello che spolvera i viali in primavera, lei sarebbe stata spazzata via, dispersa nell'aria, e chissà in quale angolo di Selenia le sue spente energie vitali sarebbero finite.

Nicola non riuscì a versare una lacrima, ma se solo non ci fosse stata l'afa ad asciugargli le guance, il suo viso sarebbe stato solcato da freddi torrenti. Guardava, incredulo, incapace di fare nulla.

A riscuoterlo furono delle grida.

«Il palazzo va a fuoco!»

«La regina! Il principe!»

«Saranno in salvo?»

«Spegniamolo, prima che colpisca la città!»

Ma l'incendio sembrava essersi saziato con il nobile banchetto che gli era stato offerto e già si stava estinguendo.

«Andiamo, Altea» mormorò Nicola. «Nessuno deve vederci qui, o penseranno che siamo stati noi.»

In realtà gli importava poco di ricevere un'altra accusa: dopo il regicidio e il parricidio, il matricidio non sembrava così grave.

La giovane si destò da quell'incubo e guidò il principe verso l'uscita secondaria più lontana dalla folla. Fuori dal cancello trovarono due mantelli da viaggio con dei cappucci, che indossarono per allontanarsi senza attirare attenzioni. Nella capitale tutti conoscevano la fisionomia dell'erede Lotnevi, perciò era bene dileguarsi il più in fretta possibile. Imboccarono uno dei sette raggi che conduceva verso sud-ovest, quando una voce richiamò la loro attenzione.

«Questo non è possibile... sembra magia.»

Nicola si fermò e guardò l'uomo, che riconobbe per un ricco proprietario di botteghe di sartoria, da cui si riforniva il palazzo. Forse nelle sue parole sbigottite c'era il recondito timore di aver perso il più ricco cliente.

«Sì, nonno, è magia!» gridò invece un bambino accorso assieme a lui.

Il principe di Cmune sospirò amaramente: per incendiare la reggia erano state usate le arti magiche e, che lui sapesse, solo una persona su Selenia era in grado di padroneggiarle. Raissa Autunno.

Si vide perso, il suo futuro sgretolato davanti ai suoi occhi: se lei era stata in grado di far ricadere sul suo capo l'omicidio di Guglielmo, avrebbe potuto fare altrettanto con la morte della madre e, forse, dell'intera corte. Tuttavia a rinfrancarlo, sebbene non del tutto, c'era la constatazione che l'esistenza della magia era divenuta un fatto conosciuto e che il popolo avrebbe potuto credere che Raissa l'avesse usata anche per uccidere il re.

Riuscirono a raggiungere la periferia della città in brevissimo tempo e ne varcarono uno degli ingressi ad arco mentre a est la luce del sole iniziava a farsi largo tra alcuni strati di nuvole. Mai l'arrivo di un nuovo giorno aveva riempito il regno di incertezza.

 

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Capitolo 43
*** 13. Accordo all'alba ***


 

Melissa lasciò due mantelli scuri fuori dal cancello, vicino al punto in cui ruotavano i cardini. Sapeva che la cameriera di Felicita li avrebbe trovati, era stata molto precisa nel darle le indicazioni: era necessario che nessuno scoprisse la fuga di Nicola.

La Lugupe guardava ipnotizzata l'ala più lontana del palazzo reale bruciare per le fiamme. Non riusciva a credere di essere stata salvata e ancor meno riusciva a credere alle parole della maggiore delle sorelle Autunno: l'incendio sarebbe rimasto circoscritto alla reggia, senza propagarsi nel cortile esterno e senza toccare Mitreluvui.

La notte era silenziosa, anche se il sonno profondo da cui era stata destata le suggeriva che l'alba dovesse essere ormai prossima.

«Non possiamo rimanere qui. Se la fuga di Nicola prima o poi sarà scoperta, è meglio che tu rimanga ancora nell'ombra» disse la principessa Autunno.

«Pensi che Felicita lo dirà a qualcuno?» domandò la Lugupe. Confidava nella lucida saggezza della sovrana, che si sarebbe messa al riparo dall'incendio per poterne spiegare la causa alla donna che aveva condannato lei e Nicola con tanta severità.

«Lei non dirà nulla a nessuno» asserì invece Melissa, dirigendosi verso occidente. «Dopo questa notte non credo che lo farà.»

«Mi stai dicendo che lei è ancora nel palazzo?» esclamò la giovane dello Dzsaco. «Perché non è fuggita?»

L'Autunno rise; e la sua risata riecheggiò nell'ampia via pavimentata. «L'avrebbero uccisa lo stesso, ma almeno così si è risparmiata il processo e l'esecuzione pubblica, che avrebbe angosciato gli cmunici. So che qui la gente è molto affezionata alla famiglia reale...»

«Esecuzione? Per cosa?»

A quelle parole, Melissa arrestò il suo passo: forse qualcosa non era andato come previsto. La Lugupe aveva il volto coperto dal cappuccio del mantello che lei le aveva offerto, la gonna lunga era stata strappata per agevolarle la fuga dalla reggia dei Lotnevi; ma i suoi occhi scuri erano puntati dritti verso di lei, sconvolti da quel suo parlare tanto sereno di questioni gravi, come solo l'esecuzione di una regina poteva essere.

«Tu... tu non sai chi c'era nel palazzo?»

Luciana scosse la testa, sbigottita.

«Alcuni dei partecipanti ai Lupfo-Evoco» rispose lei con semplicità, trattenendosi dallo scrollare le spalle. La questione la riguardava, ma solo fino a un certo punto. «La maggior parte erano delegati di luoghi lontani, come il Ditomo e il Lancobe... ma c'erano anche Matilde Estate e mia madre. Non credo che una nuova convocazione dei Lupfo-Evoco avrebbe salvato Felicita.»

La principessa di Dzsaco strabuzzò gli occhi. «Intendi dire che Amelia e Matilde sono morte?»
L'Autunno si voltò, guardando con malinconia la direzione verso cui si trovava il palazzo reale.

«Se non lo sono, lo saranno presto.»

«Ma... tua madre... come hai potuto?»

Melissa riprese a camminare. Non le doveva delle spiegazioni: discorso diverso era stato fornirne a Felicita, che di lì a breve sarebbe divenuta cenere; altro conto era esporre le sue ragioni, mai troppo cristalline, a una persona di cui lei aveva bisogno viva.

«Raissa mi ha detto di farlo e io l'ho fatto» disse soltanto. «Gli ordini dicevano di salvare solo te.»

Non pensò di fare parola sul conto di Nicola, sebbene la Lugupe sapesse che anche il Lotnevi era sopravvissuto a quell'incendio. Non era obbligata a raccontarle l'insieme di intrighi che avrebbe salvato il principe di Cmune.

«Salvare me?» esclamò Luciana, sbigottita, seguendo l'altra fuori dalla città, superando il trionfale arco posto all'ingresso. Mitreluvui, alle loro spalle, iniziava a svegliarsi e a gridare qualcosa su quelle inspiegabili fiamme. «Cosa ho io per cui dovrei vivere ancora? Non vi sarebbe convenuto trattenere l'Estate e chiedere un riscatto a Vittorio?»

Melissa rise, nuovamente. «Non abbiamo bisogno di denaro, né dell'alleanza con gli Estate che sono, da sempre, fedeli sostenitori dei Primavera.»

Quanto sei ingenua, povera ragazza.

Il vento del mattino solleticò i volti di entrambe, mentre procedevano spedite verso occidente, con una velocità maggiore rispetto a quella che Luciana avrebbe osato immaginare. Come avevano fatto a trovarsi fuori dalla capitale di Cmune in così breve tempo?

«Quello che ti offriamo io e Raissa è un accordo che per te sarà molto più che vantaggioso» proseguì la maggiore delle Autunno. «Cosa vuoi di più al mondo?»

La Lugupe sospirò, inebriandosi per un solo momento del profumo dell'erba bagnata: stavano costeggiando dei campi coltivati, immense distese interrotte solo da sporadici ritagli di alberi da frutto. Quel regno era sempre stato una piccola isola felice, con la semplicità e l'armonia che sembravano dominare ogni cosa; e in quel momento si ritrovava privato della famiglia reale.

«La pace» disse la principessa di Dzsaco.

«Risposta sbagliata» commentò Melissa. «Ti ho osservata a lungo e sono giunta alla conclusione che quello che tu vuoi davvero è diventare regina. Vuoi il trono di Dzsaco, vero?»

Luciana impallidì. Come poteva saperlo?

«Ci sono i miei genitori» ribatté, con orgoglio. «Il trono mi spetterà di diritto.»

L'altra sorrise, nascosta dal cappuccio. «Ne dubito: se Raissa si mettesse in testa di conquistare lo Dzsaco, non rimarrebbe molto su cui governare; senza considerare che un rischio di rivolta da parte dei tuoi sudditi esiste. Per questo tu non ti sei mai mostrata a loro e rimani pochissimo nel tuo regno. Qui o nel Defi non ti fai alcun problema, viaggi da sola, sei abbastanza disinvolta anche con il popolo... Perché gli cmunici e i defici non ti spaventano; o sbaglio?»

La principessa Lugupe deglutì. Come poteva Melissa Autunno, che lei non aveva mai incontrato, conoscere quei segreti sul suo conto? Come poteva dire di averla osservata, se tra loro erano intercorsi solo rapporti epistolari? Che dalle sue lettere si capisse più di quanto lei osasse immaginare?

«Tu non sai niente di me» asserì fiera. «E non hai nessun diritto di parlarmi in questo modo.»

«Questo conferma le mie parole. Io sono armata e tu no, dovresti essere tu quella che fa attenzione a come parla» sostenne l'Autunno. Sorrideva, nascosta dalla stoffa, perché la reazione dell'altra era esattamente quella che si aspettava. «Inoltre, io ho il tuo spadino. Se lo rivorrai indietro e se vorrai avere salva la vita, farai meglio ad ascoltarmi e, soprattutto, a dire la verità. So riconoscere una bugia, anche se tu sei molto brava a mentire. Non offenderti: è una qualità; e visto quello che richiede il nostro accordo, ti tornerà molto utile.»

Luciana sospirò, amareggiata e sconfitta da quello scontro verbale: era stata smascherata. «Ti ascolto» disse soltanto, abbassando la voce.

Qualche uccello cinguettò in lontananza, come se dando il buongiorno alle due nobili che camminavano da sole in quel mattino dall'apparenza serena. La luce dell'alba iniziava a tingere il cielo ignaro, mentre loro si affrettano verso il confine.

«A noi serve che il resto di Selenia creda che l'offensiva di Raissa si sia fermata. E tu potresti aiutarci. Quello a cui abbiamo pensato è di dichiararvi guerra, ma sarebbe una guerra finta, che voi Lugupe avreste già vinto in partenza. Non ci sarà mia sorella a guidare quella spedizione, perché il nostro piano è un attacco su due lati: da nord attraverso i Monti Tumroi e da ovest, direttamente dal nostro confine. Raissa guiderebbe le operazioni da ovest, l'armata guidata da tuo padre dovrebbe andare con quelle lungo i nostri confini.»

Luciana si fermò, accostandosi al muricciolo di pietra che costeggiava il sentiero. «Mio padre?»

«Se vuoi ottenere il trono c'è solo un modo» le spiegò Melissa. «Rimanere l'unica che può sederci sopra. Quindi...»

«I miei genitori dovranno morire.»
La Lugupe provò un brivido freddo nel pronunciare quelle parole; tuttavia non ebbe tempo di rifletterci troppo, perché l'altra riprese a parlare.

«Esattamente. È nel tuo interesse, a me importa poco che ci siate tu o tuo padre a regnare, ma è l'unica moneta di scambio che posso offrirti, oltre a un credito nuovo della tua gente nei riguardi della tua famiglia. Se le vostre difese dovessero funzionare, il popolo vi amerà, perché lo avrete protetto da noi. So che il regime di Raissa nei regni conquistati è spietato, posso inviare da voi qualche esule dal Lisse, in modo che la sua testimonianza possa rafforzare la vostra vittoria. Noi, ovviamente, non manderemo i nostri soldati migliori: la sola presenza di mia sorella sarà sufficiente perché la guerra sia credibile. I soldati non sapranno mai che l'esito dello scontro è già deciso, non avrebbero mai occasione di dubitarlo. I vostri crederanno di aver combattuto in difesa della patria, i nostri non avranno il coraggio di insinuare che l'offensiva portata avanti sia stata fallace e additeranno sé stessi come colpevoli della sconfitta.»

Soffiava un placido vento mattutino, che scostava le stoffe dei loro vestiti. Le gambe di Luciana, scoperte, soffrivano il contatto con l'aria fresca ma lei non osava farne parola, intimorita dal piano che l'Autunno le stava esponendo come se si trattasse di un pettegolezzo di corte.

«Se le mie informazioni sono esatte, il vostro solo esercito potrebbe non bastare» proseguì Melissa. «So che l'idea potrebbe non entusiasmarti, ma nel Pogudfo ci sono diversi gruppi di mercenari che potrebbero fare al caso vostro... Se c'è qualcosa in cui i Lugupe non difettano è la ricchezza, quindi dovrai convincere tuo padre ad assoldare qualche compagnia. Quello che più conta, però, è che tuo padre deve guidare quelle armate a ovest. Sei in grado di convincerlo?»

Luciana tentennò: non più certa delle proprie abilità oratorie. Non si offese nemmeno per l'accenno al fatto che l'unica dote del suo casato era quella relativa al patrimonio.

«Se posso rivelargli che noi saremo certi di vincere, dovrei riuscirci.»

L'Autunno sorrise. «Sì, puoi. A tua discrezione sarà dirgli l'ultima parte del nostro accordo.»

«Cos'altro volete da me?»

«Te l'ho già detto: perché tu abbia il trono, Ettore e Lavinia non dovranno sopravvivere. Lui può essere ucciso in battaglia, come è già stabilito accadrà. C'è un uomo, tra i soldati che parteciperanno a quella spedizione, che avrà l'incarico di farlo, a prescindere dal resto dello scontro.» Melissa si interruppe, lasciandosi sfuggire un sospiro. Non le piaceva l'idea di affidarsi a qualcuno che, ufficialmente, sarebbe morto entro pochi giorni: le possibilità che qualcuno lo riconoscesse e che mandasse all'aria quel piano tanto ben congegnato erano alte. Tuttavia, Raissa era stata irremovibile su quel punto, poiché non si fidava d'altri che di lui. «Per quanto riguarda tua madre, invece, abbiamo il vantaggio della sua malattia, che la sta corrodendo ogni giorno di più, anche se potrebbe non essere mortifera. Alla vostra corte è in arrivo un guaritore dal Rosonebro, un uomo che potrebbe avere le capacità necessarie per guarirla. Devi fare in modo che non sia così.»

«Dovrei uccidere il guaritore?» domandò la principessa di Dzsaco, incredula. «Questo non potrei farlo.»

«Sarà sufficiente avvelenare Lavinia» rispose l'altra, ancora con una semplicità disarmante. Da una tasca del mantello estrasse una fiala sigillata, che porse alla Lugupe: al suo interno era contenuta una polvere di un colore chiaro, molto vicino al bianco. «Quello che è contenuto qui dentro, è un veleno. Alcuni alchimisti di Cremini stanno cercando un antidoto, ma per il momento non esiste, perciò siamo sicure della sua efficacia. Dovrai versarne un po' nell'acqua destinata a tua madre, e aspettare che lei la bevva. Entro poche ore dovrebbe fare effetto.»

Luciana afferrò quel sottile recipiente di vetro, soffermandosi a guardare quella polvere chiara che vi era contenuta. Non avrebbe mai potuto credere che qualcosa di tanto piccolo potesse essere così letale; e ancor meno avrebbe mai immaginato che avrebbe dovuto adoperarlo.

«Pensi che sia così semplice, uccidere la propria madre?» domandò soltanto.

Melissa si fermò concedendo a entrambe una breve sosta, la prima da quando erano uscite dalle prigioni. Si sedette sul muricciolo di pietra, ben levigato e freddo per l'aria della notte, in modo da essere posizionata nella direzione di Mitreluvui. Alle sue spalle, il confine con lo Dzsaco era vicino, sarebbero bastati alcuni minuti di viaggio.

«Non è semplice, affatto» constatò. «Ma è quello che è necessario. L'ho fatto anche io, prima. I sovrani di Selenia cadranno, uno a uno, e non ci sarà modo di arrestare questa caduta. Siamo noi a dover prendere in mano il destino, noi a doverlo manipolare a nostro piacimento, senza dover rendere conto a regnanti troppo antiquati che non sono in grado di guardare avanti. Persino i magnanimi Primavera-Inverno dovranno essere spazzati via. C'è bisogno di un rinnovo, c'è bisogno di uno sguardo diverso sulla vita, che i nostri predecessori non dimostrano di possedere.»

«Per questo hai salvato Nicola?» le domandò Luciana, avvicinandosi al muretto. Si sedette di fronte all'Autunno, che annuì.

«Per questo sto facendo tante cose anche di nascosto a Raissa, che non dovrà mai sapere che sono stata io a far liberare Nicola. Non posso barattare questo segreto con nient'altro, ho bisogno solo della tua parola che non lo rivelerai mai a nessuno. So che posso fidarmi di te: non hai detto a nessuno che la tua spia principale tra i ruxunici sono io; o sbaglio?»

«Nicola lo sa.»

«Nicola non lo rivelerebbe mai, perché un collegamento, per quanto sottile, tra me e lui non lo metterebbe in buona luce.»

La principessa di Dzsaco fece un lieve cenno con il capo, in segno di assenso.

«Ora, veniamo a quello che ti chiediamo in cambio della tua salvezza, di quella del tuo popolo e del tuo regno» riprese a dire Melissa, con un sorriso accennato. «So che tra i vari possedimenti della tua famiglia ci sono delle miniere nell'Agloeto. Quello che io e Raissa vogliamo, è il libero accesso a una delle miniere nello specifico. Non per estrarre tutto quello che c'è sotto, saremmo sciocche a volerlo fare, ma perché ci interessano gli zaffiri che i vostri minatori portano alla luce.»

«Devono essere tanto importanti se per averli dai fuoco al palazzo di Mitre, salvi me, mi incarichi di far morire i miei genitori e sei disposta a perdere una guerra» commentò Luciana, senza riuscire a trattenersi.

«Non lo faccio solo per questo» asserì invece l'Autunno. «Abbiamo bisogno che si creda che l'avanzata di Raissa sia stata fermata e l'unico modo per poter combinare tutto è quello che ti ho appena finito di esporre. Accetti?»

La Lugupe tentennò. Guardò oltre la figura dell'altra, verso il confine tra Cmune e Dzsaco che non sembrava così lontano. Non aveva mai desiderato tanto tornare nel suo regno come in quel momento, nonostante tempo prima avesse insistito con Nicola per farlo.

Ripensò alle parole di Alcina, di alcuni giorni prima: "Pensavo fossi impegnata nell'impedire una guerra". Ormai la guerra non era più rinviabile e comprendeva come le minacce ricevute dai vicini del Ruxuna fossero solo un avvicinamento allo scontro che si faceva sempre più prossimo. Non avrebbe potuto impedire la guerra: ne sarebbe stata tra gli artefici principali.

Avrebbe tradito la sovrana che più aveva mostrato di tenere a lei? Ma Alcina, nonostante le sue parole, non aveva fatto nulla per lo Dzsaco, non si era profusa per difendere il casato Lugupe dalle critiche del popolo che non lo riteneva all'altezza; e che nessuno dei suoi uomini di fiducia si fosse presentato da lei mentre era imprigionata aveva ferito l'orgoglio di Luciana. Gli Autunno sembravano disposti a proteggerla e a dare nuovo lustro alla sua famiglia attraverso quello stratagemma: passare da una fazione che non si era realmente occupata della sua salvezza a una che invece l'aveva liberata era quanto di più conveniente potesse fare.

«Accetto.»

 

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Capitolo 44
*** 13.2 Nobiltà di cenere ***


 

«Il palazzo va a fuoco!»

Seguirono altre grida, passi tra i corridoi del Sogno d'argento e anche chi non era stato svegliato dalle voci in strada fu destato da quel trambusto.

Giampiero si vestì in fretta, comprendendo che non c'era un minuto da perdere. Non osava immaginare nulla, sapeva che doveva verificare con i propri occhi che quelle urla all'albeggiare non fossero solo dettate da suggestioni degli abitanti di Mitreluvui.

Scese al pianterreno, dove i clienti della locanda si erano radunati attorno ad alcune persone che parlavano in maniera concitata.

«Ho portato mia figlia lontana da lì, lei voleva continuare a vedere... non aveva mai visto un incendio, ma avevo paura che ci saremmo rimasti secchi anche noi, ma il fuoco si è fermato al muro e si è spento, di colpo. Di colpo, vi dico!»

Il marchese vide Bianca De Ghiacci scuotere lievemente il capo, come se non riuscisse a credere a tali parole. Era impeccabile persino a quell'ora, con un abito blu a fasciarle il corpo, con il collo niveo adornato da quello zaffiro di famiglia.

Si avvicinò alla locandiera che stava versando del caffè in numerose tazzine.

«Eleonora, è vero?»

La donna sollevò gli occhi su di lui, ancora assonnata. «Pare di sì... se la regina e il principe erano lì... siamo senza sovrani. Sarà un dramma enorme per tutti noi. I Lotnevi erano saggi e sempre attenti alle esigenze del popolo, è difficile che chi li sostituisca riesca a essere come loro. Sono una famiglia rara.»

Giampiero sospirò, devastato da quella notizia. Non si trattava solo dei Lotnevi, c'era ben altro in gioco...

«Devo andare a vedere con i miei occhi. Si può andare?»

Lei gli porse una tazza e dello zucchero. «Nessuno ha vietato nulla» gli rispose. «I soldati non si sono visti, forse quelli al palazzo...»

La locandiera si interruppe, e posò la mano sul bancone, cercando di fermarne il tremolio.

«Era un mostro di fuoco, vi dico!» stava raccontando un altro uomo alla folla radunatasi. «Un mostro che ha divorato tutto!»

«Eleonora...» mormorò il Tirfusama. Aveva immaginato quali pensieri avessero attraversato la mente di quella donna tanto gentile. «Sono certo che suo figlio non era a palazzo. Sarà insieme agli altri al confine...»

«Lo voglio sperare» sussurrò lei. «Non ho sue notizie da molti giorni, stanno portando avanti delle operazioni segrete e non vorrei che...»

Non terminò la frase, travolta dalla paura di non vedere più il suo bambino ormai diventato uomo.

«Questo caffè arriva?» sbraitò qualcuno tra gli avventori.

La locandiera posizionò le tazze su un vassoio e con uno sguardo malinconico si congedò dal Tirfusama, che venne subito affiancato da un'altra figura.

«Nicola era tenuto lì, vero?» mormorò Bianca, con aria grave.

Lui chinò il capo. «Anche Luciana.»

«Questa storia non mi piace... voglio tornare a casa prima che la situazione precipiti. Non mi sento sicura a rimanere qui, stanno accadendo troppe cose che non posso controllare.»

«Le controllerete, Bianca. Siete una donna intelligente e molto dotata per le strategie, sono certo che ve la caverete» disse Giampiero, prima di buttare fuori un profondo sospiro. Non le aveva mai detto cosa pensava sul suo conto, e non si voltò a guardarla, tanto era concentrato nel seguire ogni movimento di Eleonora, ignorata dai suoi clienti eppure tanto più turbata di loro a quella tremenda notizia.

«Raissa mi spaventa. Se dietro tutto questo c'è la sua mano, chissà cos'altro potrebbe escogitare per indebolirci...»

«Non lo sappiamo, per questo dobbiamo essere preparati. Il Copne è un posto sicuro da cui salpare?»

«Roberto ha ricevuto una lettera dalla principessa Milena che l'ha rassicurato. L'ha mostrata anche a me, per questo mi sento fiduciosa a tornare lì, anche se allungheremo il viaggio verso il Pecama.»

A qualche passo da loro, il vociare si elevava, ormai terminato il resoconto di chi aveva assistito all'incendio.

«Bianca, se non ci sarà più nulla da fare qui, io tornerò nel Defi. Alcina potrebbe mettervi a disposizione una nave ben equipaggiata e un viaggio in incognito... pensateci bene prima di precipitarvi al nord.»

La giovane gli sorrise riconoscente. «Vi ringrazio, ma davvero non ce n'è bisogno.»

Giampiero annuì e si congedò dalla principessa De Ghiacci. Salutò la locandiera con un'occhiata da lontano, e si incamminò verso il palazzo reale di Mitre, circondato da uomini e donne d'ogni fascia d'età che si radunavano per commentare l'accaduto. Le voci lo seguivano nelle vie, quelle secondarie e nel raggio che si ritrovò a percorrere, ma le ignorò, deciso ad arrivare il prima possibile alla sua meta.

L'aria fresca del primo mattino lo schiaffeggiava, la consapevolezza che qualcosa di terribile era avvenuto gli attanagliava le viscere e gli mozzava il respiro. Il sole ignaro compiva un nuovo giro, sebbene la sua luce giungesse fredda tra i lastricati della capitale di Cmune.

Giampiero giunse alla piazza principale e si arrestò non appena poté vedere che al di là dei cancelli c'era il nulla. Qualche albero bruciacchiato, il terreno arso come per un incendio – se davvero di incendio si era trattato – e qualche soldato che perlustrava il cortile vuoto del palazzo sotto la direzione di alcuni nobili presenti ai Lupfo-Evoco e di notabili della città.

Si avvicinò lentamente, stentando a muovere un passo dietro l'altro, senza essere in grado di radunare i pensieri e le preoccupazioni. Luciana era lì... Luciana era lì ed era divenuta polvere, così come altri nobili, così come Nicola. Aveva fatto di tutto perché la sentenza fosse emessa il più in là possibile; e quello era il triste risultato.

«E poi, di punto in bianco, è scomparso. Puff!» stava dicendo un ragazzo a un coetaneo. «Lo so che pensi che sono matto, ma sembra magia!»

«Lillo, ma quale magia!» esclamò l'altro. «Tu passi troppo tempo sui libri di storia antica!»

«Toto, so cosa ho visto, credimi!»

Il marchese li ascoltò appena, ma si voltò per guardare le loro espressioni. Il primo ad aver parlato sembrava sincero ed esterrefatto allo stesso tempo, quasi sapesse di sostenere una tesi grave a cui pochi avrebbero creduto, mentre l'altro, con maggiore pragmatismo, insisteva nel cercare le cause altrove.

«Dev'esserci un motivo serio se quell'incendio si è spento, no?»

«Certo che c'è! Se è magia, è la magia a comandare, magari a quel fuoco sono stati degli ordini ben precisi!»

«Un fuoco che prende ordini? Lillo, ma ti ascolti?» lo sbeffeggiò quel tale Toto.

Giampiero non si intromise nella discussione, ma si allontanò a grandi passi. La magia... persino il popolo istruito aveva compreso di cosa si trattava. Il marchese sospirò, gettando uno sguardo al cielo limpido verso l'orizzonte che si stava schiarendo.

La morte di Luciana e Nicola era opera di Raissa, questo gli martellava nelle tempie, pensiero tremendo di cui non riusciva a capacitarsi. Come aveva potuto appiccare l'incendio senza essere lì? Come era possibile che nessuno l'avesse notata? Se era per sua mano che Guglielmo Lotnevi era stato ucciso, se era stata lei altresì a colpire a morte la corte Dal Mare e se... e se c'era lei dietro il pittoresco assassinio dei Delle Foglie, qualcosa sfuggiva alla comprensione del Tirfusama.

Incrociò un soldato che lo riconobbe, sebbene a Giampiero gli sfuggisse di chi si trattava. Gli fece cenno di avvicinarsi: avrebbe desiderato tornare al Sogno d'argento almeno con una buona notizia.

«Marchese, voi non eravate a palazzo?» domandò l'uomo, con tono apprensivo.

«No, ero a una locanda.»

«Sapreste indicarmi se lì c'erano altri nobili che avevano partecipato ai Lupfo-Evoco?»

Giampiero lo scrutò attentamente, ma non riuscì a distinguere sul volto del militare alcun segno che potesse metterlo in allarme: la sua preoccupazione era sincera.

Gli elencò i nobili che avevano dormito al Sogno d'argento e provò una fitta allo stomaco nel fare il nome di Lavinia Lugupe. Lei albergava alla sua stessa locanda... e avrebbe certamente saputo la notizia molto presto.

«Bene, almeno ci sono dei nobili al sicuro» commentò il soldato.

«Chi era al palazzo?»

«Purtroppo la regina e il principe. Anche Luciana Lugupe, visto che era tenuta prigioniera lì... Di nobili non ce n'erano molti, erano più i delegati di paesi lontani, ma...»

«Ma?» lo incalzò Giampiero.

«C'erano di sicuro Matilde Estate e Amelia Autunno» ammise l'uomo, abbassando lo sguardo.

Le due donne che avevano assistito Donna Clara con il conteggio dei voti, rifletté il marchese. Perché Raissa avrebbe dovuto uccidere la propria madre? Non aveva già la certezza di essere lei la futura regina di Ruxuna?

«E i soldati...» mormorò. «Anche quelli che erano di guardia al palazzo sono scomparsi. E la servitù.»

Anche la corte, aggiunse mentalmente; ma dei cortigiani di Cmune nessuno avrebbe sentito la mancanza.

«Purtroppo neanche per loro c'è più nulla da fare. Ora scusatemi, ma devo andare.»

«Un'ultima cosa» lo trattenne il Tirfusama. «Michele Sanni era di turno al palazzo? Sua madre è in pensiero per lui, non riceve sue notizie da giorni.»

«No, l'ho spedito io di persona al confine a nord. Finché gli Autunno non ci attaccano, sua madre può stare tranquilla.»

Giampiero tirò un sospiro di sollievo. Almeno Eleonora avrebbe avuto una buona notizia.

Il soldato si inchinò in segno di saluto e poi si allontanò in direzione del palazzo reale, o di quel che ne rimaneva, mentre il marchese si incamminò a passi veloci verso il Sogno d'argento, desideroso di dare alla locandiera l'unica buona notizia di quella infausta giornata.

Arrivò mentre i due fratelli De Ghiacci si accingevano a partire, con i loro bagagli che venivano accatastati in due carrozze da alcuni ragazzetti, che avrebbero racimolato qualche soldo in cambio del servigio.

A scorgere Giampiero fu Menta, che sostava a un passo dall'uscio della locanda insieme alla principessa. Lui la vide, con il viso spruzzato di lentiggini, gli occhi castani attenti a ciò che la circondava: il nuovo ruolo l'aveva resa vigile, più di quanto fosse nella sua casetta nella periferia di Nilerusa. L'abito blu notte che le fasciava il corpo le donava un'aria di nobiltà e qualcosa nella sua postura e nelle sue movenze lasciava suggerire che lei avesse davvero il sangue blu e che il suo posto fosse davvero al fianco di Bianca.

Il Tirfusama ridusse la distanza che lo separava dalle due giovani, a cui rivolse un rispettoso inchino.

«Non abbattetevi» sussurrò Bianca. «Lei non l'avrebbe voluto.»

Lui annuì, senza poter più celare il suo reale stato d'animo.

«Lei non c'è più e io ho fallito. La regina ha vinto e io sono in scacco matto»

La De Ghiacci sospirò, mesta. «Non è ancora finita, Giampiero, me lo sento.»

Il marchese non poté dire nulla, perché la porta della locanda si aprì e ne uscì Roberto, trafelato.

«Lavinia ha scoperto che la figlia è morta e ora sta più di là che di qua» commentò, quasi ridendo.

«Pensa se fossero stati i tuoi genitori a ricevere questa notizia» lo rimproverò Giampiero, anticipando Bianca. «Prova a rispettare il dolore altrui»

Con la coda dell'occhio, vide Menta impallidire nell'udire quelle parole; o forse fu solo una sua impressione. Ma forse lei comprese perché, mentre Bianca si allontanava per ammonire il fratello sui suoi modi di rapportarsi con il prossimo, gli si avvicinò.

«Mi dispiace» mormorò. «Avete fatto tanto per me, vorrei potervi restituire il bene che ho ricevuto da voi.»

«Non è necessario» provò a rincuorarla lui. «L'importante è che tu sia in salvo. E non darmi del voi. Dopo quello che ho combinato non lo merito più.»

Menta scosse la testa. «Pensate alle cose buone che avete fatto e non disperatevi. Vi prego.»

Lui sorrise, e sorrise sinceramente alla giovane di Nilerusa. «Ci proverò» disse soltanto, prima di avvicinarsi a Bianca e Roberto e augurare loro una buona partenza.

Entrò nella locanda e il profumo penetrante del caffè lo riportò alla realtà degli altri, fatta di giorni che si susseguono tutti uguali, con il lavoro quotidiano, le carte imbrattate di inchiostro degli scolari borghesi, con le stoffe dei sarti e delle tessitrici, gli aromi della campagna e delle meraviglie che da lì venivano vendute in città. Non sarebbe stata una strage di nobili a fermare la popolazione, che sarebbe andata avanti. Nel segno del lutto, in onore della famiglia reale stroncata orribilmente, ma con la loro memoria a fare da guida per i giorni futuri, in attesa di cosa nobili stranieri avrebbero stabilito per quel regno.

La ressa era ancora intenta a chiacchierare, scambiandosi opinioni di ogni tipo, ma ormai Giampiero ne aveva ascoltate di tutti i tipi per prestare ancora attenzione alle dicerie. Nel profondo del suo cuore, lui sapeva la verità.

Si diresse subito al bancone, dove Eleonora ordinava lo zucchero da portare agli avventori.

«Ho una buona notizia» esordì il marchese. «Suo figlio è ancora al confine, non era a palazzo questa notte. Può essere sicura.»

La donna sorrise, radiosa. «Michele... è vivo?»

«Il generale che lo ha inviato lì mi ha garantito che non si è spostato.»

«Vi abbraccerei, se potessi» disse lei, cercando di trattenere alcune lacrime di commossa felicità.

«Vi ringrazio.»

Lui sorrise. «Non c'è bisogno di abbracciarmi. Ha visto la regina Lugupe?»

Eleonora si rabbuiò. «Qualche minuto fa è scesa qui e ha sentito la notizia del palazzo... è svenuta non appena le è stato confermato che sua figlia era lì. Qualcuno l'ha riportata in camera, tra poco le mando su la colazione.»

«Posso pensarci io?» si offrì Giampiero.

«Non vi preoccupate, ci pensa mia figlia. Mi stavo dimenticando... mentre eravate via è arrivato un giovanotto, credo sia un nobile, ma non lo conosco. Ha chiesto di parlare con voi.»

«Dove posso trovarlo?»

«Nella sala privata sul retro, vi aspetta.»

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Capitolo 45
*** 14.1 "Solo allontanandoci possiamo essere vicini" ***


 

Claudio si sedette su un masso poco distante, mentre Flora e Arturo parlavano con il sacerdote della Luna. Si portò una mano al volto, mentre sentiva la vista venirgli meno: i contorni si facevano sfumati, scuri... e il dolore alle tempie farsi più forte. Quel dolore sconosciuto e senza nome.

Non è possibile... sono passati solo pochi giorni dall'ultima volta...

«Ti senti bene?» gli chiese la voce dolce di Stella, che lui percepì sedersi al suo fianco.

«È solo sonno» minimizzò, ma non scostò le dita dagli occhi, che aveva iniziato a massaggiarsi. Non era una completa bugia: Arturo e il turno di guardia lo avevano tenuto impegnato per buona parte delle ore di quella notte; il mercenario aveva suggerito di provare a usare la spada nel buio, proprio per esercitarsi in caso di un attacco a sorpresa. A suo dire, le precauzioni non erano mai abbastanza.

Attraverso le palpebre socchiuse gli arrivò la luce diurna e Claudio comprese di aver recuperato la vista; tuttavia il dolore quella volta non aveva portato con sé alcuna suggestione, né la voce sconosciuta, né le immagini che gli affollavano la mente in quelle situazioni. Qualsiasi cosa fosse, non era un semplice male; eppure non si sentiva di farne confidenza con nessuno. Per qualche tempo si era addirittura convinto che fosse stato maledetto, che le prime visioni gli fossero state inviate per confonderlo, ma poi aveva constatato che raramente si rifacevano a qualcosa che lui conosceva. Gli era capitato di vedere le vie di Nilerusa, della sua amata città dai tetti bassi, scene della quotidianità della capitale, mentre più spesso erano luoghi sconosciuti, volti a cui non avrebbe saputo mai dare un nome.

Nelle primissime ore del viaggio verso il Pecama si era chiesto se avrebbe mai incontrato qualcuno di quei visi, se il suo destino avrebbe mai potuto incrociare quelli che quei malesseri lo portavano a vedere.

Aprì gli occhi, e scorse la sua amica e il mercenario intenti a parlare con un sacerdote affiancato da una sacerdotessa; lui giovane, forse appena adolescente, lei più in avanti con gli anni, come dimostravano le rughe sul collo. Entrambi abbigliati con quella strana tunica bianca ricamata in grigio, che gli sembrava tanto diversa da quella scura indossata al tempio di Nuvola.

Flora era preoccupata, aveva l'aria di essere sul punto di spezzarsi e di cadere a terra come un ramoscello. Gli abiti maschili in cui si era calata non la nascondevano del tutto e lui si chiese come fosse possibile che ancora nessuno si fosse accorto che si trattava di lei; forse era perché era sempre stata vista con i capelli sciolti o con acconciature elaborate, come si confaceva a una giovane di quel lignaggio. O forse, concluse, era la sua magia a proteggerla.

E con quell'ultimo pensiero nella sua mente si formulò un'ipotesi allettante.

«Stella» disse, chiamando per nome la principessa Estate, come lei gli aveva espressamente chiesto. «Ma... le profezie... come venivano trasmesse?»

La fanciulla abbassò il cappuccio sottile del mantello da viaggio; lei sì che rischiava di essere riconosciuta. Con la mano si coprì meglio gli occhi azzurri, di un colore quasi accecante per l'intensità, e sussurrò: «Sono scritte in libri rilegati, pensavo che l'avessi capito.»

Claudio sospirò. «Non intendevo questo. Chi le ha scritte... Come le riceveva? C'era qualcuno che suggeriva le parole? Vedeva qualcosa e lo metteva per iscritto?»

Le labbra sottili dell'Estate si piegarono in un sorriso. «Con me ho portato un antico manoscritto di uno degli ultimi Veggenti; si chiamano così coloro che hanno scritto le profezie. Ho letto solo alcune pagine, ma penso che parli anche del modo in cui ricevevano le visioni.»

«Visioni?» Il cuore balzò nel petto del contadino di Nilerusa. Dopo tanto tempo avrebbe trovato una risposta, anche se non riusciva a credere alle proprie orecchie.

«Sì, Claudio, lui parla esplicitamente di visioni... ma secondo me lo approfondisce più in avanti, perché ci sono solo alcuni cenni.»

«Posso... posso leggerlo?» le domandò, con voce tremante.

«Sai leggere?»

«So anche scrivere, se ti interessa.» Il tono baldanzoso con cui lo disse aveva il compito di nascondere la trepidazione: la risposta era a un passo da lui, in un volume di chissà quanti secoli prima.

Stella mantenne intatto il suo sorriso, prima di chinarsi per frugare nella sua sacca da viaggio, ma non ebbe il tempo di trovare il libro rilegato, perché Flora e Arturo si avvicinarono a loro due.

«Se gli dèi ci graziano, abbiamo finito di perdere tempo con i sacerdoti minori e possiamo parlare con lo Sposo della Luna» annunciò la principessa Primavera con tono annoiato. Sembrava seccata nel dover fornire spiegazioni per la sua presenza in quei luoghi; tuttavia aveva convenuto con il mercenario che era meglio non fare parola della sua identità. A quanto le aveva riferito Stella, suo padre si trovava nel castello degli Estate, dunque era meglio non correre alcun rischio.

Claudio sbuffò. «Ci vorrà molto?»

«Dipende se il sacerdote che incontreremo saprà darci una mano e lo stato in cui troveremo le profezie» disse Arturo. «Non le ho mai lette di persona, quindi non saprei dire se sono vincolate a qualche strana magia.»

A quelle parole, l'Estate si lasciò sfuggire una tiepida risata, ma solo dopo un'occhiataccia da parte dell'amica e dello spadaccino diede una spiegazione. «È ovvio che sono protette da incantesimi, di cui nessuno conosce la natura. Dovremo trovare un modo per aggirarli... Forse lo Sposo della Luna saprà dirci qualcosa in merito.»

«Ma perché...» La voce di Claudio si era ridotta a un bisbiglio. «Perché dover proteggere le profezie? Non sono già abbastanza confuse di loro?»

Stella lo squadrò incuriosita: quel giovane dagli occhi grigi doveva conoscere molto più di quanto lasciasse immaginare. «Sappiamo ancora molto poco sulle profezie e su quello che le riguarda. Per questo mi sono portata il manoscritto di Ennio... è stata una fortuna trovarlo nella biblioteca del castello.»

«Non proprio una fortuna, era un tuo antenato» commentò Flora.

Claudio scrutò la nobile Estate. Non gli aveva accennato alla sua parentela con l'antico Veggente e non ne comprendeva la ragione; perché essere generosa di altre informazioni, come quella del libro, e sottacere un dettaglio come quello? Sapeva di non aver nessuna ragione per pretendere alcunché da lei, ma gli era sembrato strano.

«Dev'essere lui» mormorò Arturo, accennando con lo sguardo a un sacerdote canuto che usciva dal tempio circolare, simile a quello in cui avevano incontrato Nuvola.

L'uomo si avvicinò al gruppo, e Stella nascose il volto dietro la spalla di Claudio.

«Mi conosce» bisbigliò.

Lui istintivamente le passò un braccio intorno alle spalle stringendola a sé, sperando che quel semplice stratagemma sortisse l'effetto sperato. Scambiò un'occhiata silenziosa con Flora, che annuì comprendendo il suo intento.

«Voi dovete essere i viaggiatori che tanto desiderano parlare con me» disse il sacerdote con voce profonda. Alcune rughe gli solcavano la fronte, la postura eretta della schiena richiamava autorità, ma dagli occhi chiari traspariva una gentilezza fuori dal comune.

«Sì, siamo noi» confermò Arturo. Tra i quattro era quello che più si trovava a suo agio in quella situazione: sembrava che dover tenere un segreto e riuscire a ottenere quanto desiderava non fosse niente di straordinario, per lui.

«I miei confratelli mi hanno riferito che non avete intenzione di rivelare il motivo della vostra presenza qui» proseguì il sacerdote.

«L'avremmo rivelato solo a voi» continuò il mercenario con sicurezza.

Il vegliardo si accorse che una delle giovani aveva il volto nascosto, con uno dei ragazzi che le accarezzava la schiena. «Si sente bene?» domandò con premura.

«No, ha avuto uno svenimento e si sta ancora riprendendo» improvvisò Claudio. «Si è spaventata molto, ma ora sta già meglio. Non vi preoccupate.»

L'uomo chinò il capo in segno di assenso; forse quella bugia lo aveva impressionato, forse non aveva creduto alle parole del contadino di Nilerusa.

«Siamo qui per consultare alcuni manoscritti antichi» disse Flora, cercando di prendere in mano le fila del discorso. «Si tratta di una questione importante.»

«Qui abbiamo molti manoscritti» asserì placidamente lo Sposo della Luna. «Dovrete essere più precisi.»

Claudio lanciò un'occhiata preoccupata ad Arturo, ma il mercenario si era concentrato sulla nobile Primavera. Flora, a sua volta, era pensierosa.

«Dobbiamo dirgli di cosa si tratta» bisbigliò Stella all'orecchio del giovane defico. «Apprezza la sincerità, così ci aiuterebbe.»

Lui le accarezzò la schiena, per dare l'idea agli occhi esterni del sacerdote di volerla confortare. Chinò appena la testa verso di lei e sussurrò. «Allora dovremo dirgli anche di te. È un rischio, però...» Lasciò in sospeso la frase, poiché un vento fresco si sollevò, scuotendo i rami alti delle querce intorno a loro. La stoffa attorno al volto dell'Estate tremò, come suggerendo alla principessa di seguire il suggerimento di Claudio. Tuttavia, lei rimase immobile.

«Si tratta di...» Flora non riusciva a celare la sua tensione: roteava gli occhi intorno, sospirava più del solito, e spesso quei sospiri si trasformavano in veri e propri sbuffi. Il sacerdote dovette comprendere che quella fanciulla dai tratti soavi e delicati non era infastidita dalla sua insistenza nel voler conoscere le loro precise intenzioni, bensì dalla situazione creatasi, perché le rivolse un sorriso benevolo.

«La profezie.»

Claudio parlò prima che qualcuno degli altri potesse farlo, lasciando a bocca aperta sia il mercenario sia la principessa di Defi. Stella, allora, si scoprì il viso: l'espressione sul viso dell'uomo devoto alla Luna mutò da una prima curiosità alla meraviglia.

«Altezza, cosa fate qui? Vostro padre vi sta cercando! Se sapesse che siete qui...»

«Non mi sarei allontanata da Castelscoglio se non fosse davvero importante» asserì lei drizzando la schiena. «Preferisco non mentirvi: sono qui per le profezie, perché so che nel vostro tempio è conservato uno dei manoscritti che le custodisce. Vi prego, è davvero importante.»

Il sacerdote si portò le mani al volto, come riflettendo su quale azione fosse la migliore, mentre gli altri quattro si scambiavano occhiate perplesse.

"Dovevo" sillabò Stella all'indirizzo di Flora e Arturo, mentre Claudio scrollava le spalle.

La Primavera fece un gesto con le mani, quasi dovesse spingere dietro l'orecchio una ciocca ribelle, tuttavia si ritrovò ad agitare l'aria attorno a lei: non era abituata ad avere i capelli raccolti sulla nuca.

«D'accordo, entrate. Ma vi prego, Altezza, di coprirvi di nuovo... i miei sacerdoti sono silenziosi, però non ho visto se ci sono dei fedeli intenti a pregare. In quel caso è meglio mantenere la cautela.»

L'Estate annuì, con Claudio che prontamente sollevava il cappuccio caduto e glielo sistemava sul capo con un sorriso complice. Il quartetto seguì il sacerdote sugli scalini bianchi e poi all'interno del tempio che, se all'esterno si presentava come simile a quello nei pressi di Zichi, nonostante la diversa scanalatura delle colonne, all'interno risplendeva di una dolce illuminazione ambrata.

Anche lì le panche erano disposte in modo circolare e un gruppetto di fedeli era raccolto in preghiera, seguendo le parole di una sacerdotessa dalla voce profonda che parlava in una lingua antica e sconosciuta. A ogni verso il coro sommesso rispondeva ripetendo le medesime parole, con un'eco sommesso e solenne.

«Ar luro ingrallisé... Ar luro ingrallisé... Tuspi a povacri...»

«Cosa dicono?» domandò Claudio, senza trattenere la curiosità. Qualcosa, in quel rituale, gli suonava familiare.

«Quando il sole eclisserà, proteggi i tuoi figli, buona Luna, madre eterna» spiegò Arturo sottovoce, attirandosi un'occhiata meravigliata di Flora, che li precedeva alle spalle dello Sposo della Luna.

«E tu come fai a saperlo?» sibilò lei.

Il mercenario scrollò le spalle. «Non è questione che vi riguarda, Altezza.»

Claudio trattenne una risata per l'ironia tagliente dello spadaccino. Gli piaceva avere vicino qualcuno con la battuta pronta e che dimostrava di saper utilizzare la lingua bene come le armi; anche se lui, ad armi in mano, era un disastro.

Lo Sposo della Luna li condusse a una delle porte della sala circolare, mentre la litania proseguiva alle loro spalle.

«Tuspi a povacri... Durgi Luna... Durgi Luna... Netra doume... Netra doume...»

«Luna è uguale!» osservò ancora il giovane di Nilerusa.

«La preghiera è nella lingua antica, ma è stato scelto di tradurre il nome del dio a cui è rivolta. Così i fedeli, anche se capiscono a stento cosa dice, sanno chi stanno invocando» spiegò Stella.

«Ma non è giusto, perché non la capiscono?»

«Chi vuole sapere il significato, può chiederlo ai sacerdoti. Gli dèi preferiscono la lingua antica, quindi usiamo quella» rispose la principessa Estate.

Claudio tacque, seguendo gli altri insieme ad Arturo che camminava al suo fianco. I due non si scambiarono una parola nel proseguire attraverso quel lungo corridoio in pietra, con le candele che si facevano via via più fioche. Il sacerdote li guidò per una rampa di scale in marmo, dove l'umidità era tanto forte da entrare nelle ossa dei visitatori. Lì le candele emanavano un lume azzurro, quasi volendo simboleggiare una maggiore vicinanza alla divinità venerata al tempio, come se a ogni passo fossero più prossimi ai misteri della Luna. Un cammino catartico attraverso le pareti gelide, che li aveva condotti nel sottosuolo, all'opposto del luogo in cui riluceva la dea.

«Solo allontanandoci possiamo essere vicini» sussurrò Flora. Credeva in quelle parole, ma quando le erano state dette da una vegliarda sacerdotessa nel Defi, aveva stentato a comprenderle.

Ma era passato del tempo, da allora, e molte cose erano cambiate.

Si fermarono a una porta, che lo Sposo della Luna aprì con una chiave grossa e dall'apparenza antica. Si poteva scorgere un po' di ruggine sull'impugnatura, come Stella notò subito.

«Questa sala è molto antica?» domandò.

«Tutte le sale sono antiche» rispose il sacerdote con un sorriso gentile. «Questa non è frequentata assiduamente come le altre.»

La nobile chinò appena il capo, segno che aveva compreso, poco prima che l'uomo spalancasse l'uscio.

La polvere vorticò nel buio, piccolo tornado che rievocava i secoli andati. L'aria all'interno non era stantia, né si sentiva odore di muffa; e l'umidità che aveva accompagnato i passi dei visitatori sembrava non avesse mai toccato quel luogo.

«Qui c'è qualcosa di strano» constatò Claudio. Tuttavia, avvertiva di nuovo un che di familiare, qualcosa che a parole non avrebbe mai saputo esporre.

Stella avanzò con sicurezza all'interno della stanza, come se avesse dimestichezza con quelle alte librerie e con i tomi antichi che vi erano riposti.

Nessuno degli altri si era mosso, in una muta contemplazione; persino Arturo si era sorpreso nello scorgere una finestra, perché al di là del vetro c'era l'oscurità della notte e del bosco intorno al tempio.

Il sacerdote accese delle candele che illuminavano un leggio in legno, su cui erano ancora sistemati gli inchiostri, nero per le scritture e rosso per le miniature.

«Devo andare» disse l'uomo. «Verrò a chiamarvi tra qualche ora, quando il tempio sarà libero dai fedeli. Fino a quel momento dovrò chiudervi a chiave qui.»

«È proprio necessario?»

La domanda brusca di Arturo fece roteare gli occhi di Flora, come se la principessa non sopportasse le sue ingerenze in ciò che non lo riguardava.

«Sì, è necessario. Se i miei confratelli vi trovano qui, saranno costretti, per il rispetto riservato ai sovrani, a informare subito re Vittorio. Invece ho ragione di credere che la vostra visita sia segreta...»

«Lo è» confermò Stella.

«Possiamo... possiamo prendere i libri?» sussurrò invece Flora, quasi a non voler contaminare la sacralità delle profezie con la voce.

«Certo, se loro si faranno afferrare» disse enigmatico l'uomo devoto alla Luna, prima di chinare il capo e uscire dalla stanza.

«Se loro si faranno afferrare? In che senso?» chiese Claudio, appoggiandosi con il gomito al leggio.

La principessa Estate infilò la mano nella sua borsa e cercò il codice con il racconto dell'avo Veggente. «Ora lo scopriremo.»


Avviso per i lettori
La storia su wattpad è quasi completa, mentre qui manca circa metà storia (una decina di capitoli, con le relative suddivisioni), ma ho deciso che aggiornerò un capitolo intero (con tutte le sue suddivisioni) al giorno, in modo che anche qui il primo capitolo della saga possa essere completo!

 

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Capitolo 46
*** 14.2 Nascosti tra le querce ***


 

Il sole ardeva alto, quando Susanna si concesse il primo momento di pausa della sua giornata lavorativa. I clienti, almeno durante quella mattinata, erano stati facili da accontentare: aveva solo dovuto servire tè fresco e caffè con latte; più di qualcuno aveva domandato una fetta delle torte di mele che sua madre preparava per il risveglio dei viandanti, e la cui fragranza zuccherosa permeava l'aria sin dai primi bagliori dell'aurora.

Uscì dalla locanda e respirò un po' di aria nuova, non contaminata dal fiato dei viaggiatori, con il profumo del bosco limitrofo a riempirle l'animo, a cancellare i pensieri che con il lavoro tentava inutilmente di scacciare. Andò a ripararsi sotto la quercia più vicina, sedendosi su una delle radici ombreggiate, in modo da poter spiare non vista la via pavimentata che collegava la locanda e il vicino confine con Defi, Pogudfo e Dzsaco direttamente alla capitale di Cmune.

Guardò nella direzione in cui sapeva che la strada si diramava, e sospirò. Erik era passato da lì molti giorni prima, per poi sparire. Sapeva che il principe era impegnato, che il suo ruolo lo teneva lontano, ma lei aveva il sentore che se gli fosse capitato di tornare a Mitreluvui, avrebbe certamente evitato di sostare alla locanda dei suoi genitori.

Quell'ultima sera, quell'addio pesavano come un macigno nel suo cuore, errore di cui non si sarebbe mai liberata. Il vento scompigliò le foglie delle querce, passando attraverso i capelli sciolti della giovane locandiera, con una melodia che la univa alla natura, protagonista di un quadro da casa borghese.

Fu così che la vide Nicola avvicinandosi alla locanda a cui Altea aveva vagamente accennato. Quella popolana con il grembiule variopinto, gli occhi sognanti verso un orizzonte che gli sfuggiva, la schiena dritta sebbene chinata in avanti, quasi non fosse abituata a un portamento rilassato, le dita affusolate piegate sotto il mento, la chioma castana cosparsa al passaggio della brezza mattutina. La figura principale che ogni artista avrebbe dovuto ritrarre.

«Susi!» esclamò Altea.

A quelle parole la ragazza si distolse dai suoi pensieri, ma quando incontrò lo sguardo della cameriera della regina, si rabbuiò. Si alzò svogliata dal ramo di quercia e raggiunse i due nuovi arrivati.

«Non pensavo che ti avrei rivista qui» commentò. E la sua voce parve a Nicola il suono più gradevole di Selenia, più delle note del flauto che a stento aveva imparato a suonare da bambino.

«Neanche io» ammise Altea. «Se non fosse davvero importante, non sarei tornata.»

«A cosa devo l'onore?» domandò sarcastica Susanna, guardando la figura incappucciata che se ne stava in disparte. «Mamma e papà pensavano di averti trovato una sistemazione a vita... e tu ritorni qui?»

«Non sono tornata per restare, ma è...»

«Un momento» intervenne la figura, avvicinandosi. Nicola si scoprì il volto e il suo sguardo oscillò tra quello delle due. Qualcosa di simile c'era, in effetti, nell'ovale del viso e nella bocca carnosa e aggraziata. «Altea, è tua sorella?»

Lei annuì, abbassando il capo. «Perdonatemi se...»

«Perché dovrei perdonarti? Non hai fatto nulla di male» le sorrise il principe di Cmune, con sincerità. «Non c'è nulla da perdonare.»

La cameriera sollevò lo sguardo, incontrando gli occhi azzurri e sinceri del Lotnevi; non disse nulla, ma sperò che lui comprese quanto gli fosse riconoscente.

«E il tuo amico chi è?» chiese Susanna, che aveva seguito con una curiosità annoiata lo scambio di parole. Quello che riguardava la vita della sorella maggiore era lontano, apparteneva a un mondo che lei aveva deciso con tanta fatica di lasciare intoccato dopo aver riflettuto a lungo dopo l'ultimo incontro con Erik Inverno.

«Non sono suo amico. Io...»

«No, non potete dirlo» lo interruppe Altea, con apprensione. Non poteva permettere che qualcuno scoprisse che lui era scampato all'incendio.

«A lei sì, invece. Sei stata tu a dire che potevamo fidarci, giusto? E se non diciamo tutta la verità, non avrebbe il diritto di crederci» stabilì Nicola, recuperando la fermezza che aveva avuto solo saltuariamente durante i suoi ultimi giorni a Mitreluvui.

La cameriera annuì. «Ma soltanto a lei.»

«Vorreste spiegarvi?» domandò invece Susanna, infastidita. «Devo rientrare non ho tutto il giorno per le chiacchiere.»

«Neanche per il principe di Cmune?» sorrise lui, gentile. «Io e Altea siamo fuggiti a un fuoco che ha divorato il palazzo reale. Qualcuno voleva uccidermi, mentre io invece sono sopravvissuto, dunque devo nascondermi.»

La locandiera sospirò, abbassando lo sguardo. Erano tante informazioni in un solo colpo, tutte insieme da assimilare e da accogliere nella mente.

«Abbiamo bisogno di un posto dove stare» aggiunse la cameriera, con un'espressione supplicante in volto. «Per questo sono tornata qui.»

Nicola vedeva nel volto della giovane davanti a lui turbamento e confusione per la sua presenza lì e si allontanò di qualche passo, lasciando le due sorelle a confrontarsi senza le sue orecchie indiscrete a sorvegliare. In quanto futuro re aveva il diritto non solo di ascoltare, ma addirittura di pretendere un rifugio nella locanda, seppur nella tenue speranza che non vi transitasse nessuno di sua conoscenza; tuttavia comprendeva la tensione che aleggiava tra le due e pensò che, alla luce della situazione attuale, estremamente delicata, doveva mettere da parte qualsiasi comportamento sarebbe stato consono in passato.

Si sedette sulla radice su cui aveva visto la locandiera e da quella posizione osservò la luce del giorno, come sfiorasse le foglie degli alberi, i tronchi e i sottili fili d'erba. A sua madre quel crocevia quasi al confine sarebbe piaciuto: i crocicchi avevano un che di suggestivo, suscitavano in lui una sensazione che la regina aveva alimentato nel suo animo sin da bambino.

"Un incrocio" aveva detto "è solo la possibilità di poter scegliere. E dalle nostre scelte noi stessi capiamo chi siamo."

Sua madre... Nicola si portò le mani al viso. Sua madre non c'era più e non esisteva neanche un corpo da piangere, non un segno nel cimitero fuori Mitreluvui in cui recarsi con un mazzo di tulipani blu, il simbolo dei Lotnevi di cui lei era innamorata. Sembrava che non fossero mai abbastanza, quei fiori erano ovunque nei giardini della residenza estiva, che avrebbero raggiunto solo dopo aver assestato il regno, dopo la sua incoronazione... un miraggio, vagheggiamento di un futuro che non avrebbe mai avuto luogo.

Lasciando Mitre, aveva sancito la sua colpevolezza agli occhi dei Lupfo-Evoco: era certo che Donna Clara non sarebbe stata indulgente con lui, se un giorno fosse tornato indietro. Non sapeva cosa gli avrebbe riservato il futuro, l'unica cosa su cui non aveva dubbi era che, almeno per il momento, doveva lasciare il regno e sperare che le difese organizzate tanto rapidamente con i capi militari reggessero l'urto contro un'eventuale invasione da nord.

In realtà lui era certo che Raissa non avrebbe più tergiversato e si sarebbe scagliata subito contro lo Cmune: lei non attendeva altro che la confusione nel reame per poterlo conquistare. Ma confidava nello spirito di abnegazione del suo popolo che, nonostante la perdita dei sovrani, avrebbe potuto risollevarsi e contrastare la minaccia, ognuno facendo del proprio meglio per essere di supporto all'esercito esiguo, anche combattendo con armi di fortuna. L'unica cosa che conosceva con certezza era la devozione degli cmunici per la famiglia reale, come anche il capitano delle guardie gli aveva confidato in passato. Il popolo si rivedeva nei Lotnevi, guardava a loro come una saggia guida, quella guida che Guglielmo e suo padre Arnaldo prima di lui avevano saputo essere.

Nicola sospirò, spaesato, guardando le due sorelle che continuavano a parlare. E lui? Sarebbe stato un punto di riferimento? Sarebbe stato un buon sovrano? Al momento era solo un re fuggiasco, che scappava dalla sua stessa terra verso altre ignote: non aveva idea di cosa il destino avesse in mente per lui.

«Maestà» lo richiamò Altea, riscuotendolo dai suoi pensieri.

«Non chiamarmi così» disse, con malinconia. «Non sono il re.»

«Ehm...» si inserì la sorella. «D'accordo... principe Nicola. Credo che voi possiate rimanere qui, per un paio di giorni. L'unico luogo in cui credo che voi possiate andare senza trovare guai sia il Pogudfo.»

Susanna si interruppe e si pizzicò nervosamente il braccio nudo, la pelle candida martoriata dai segni delle unghie, perché neanche durante la conversazione con Altea era stata in grado di controllare quel maledetto impulso. Poi la giovane si morse la lingua, temendo che la sua proposta risultasse sgradita al Lotnevi, che aveva distolto lo sguardo, posandolo sugli steli d'erba che crescevano vicino alla quercia.

«Pogudfo...» mormorò lui. «Credi che con gli anarchici si possa stare tranquilli?»

Lei sospirò. «Potrete non credermi, ma conosco diverse persone del Pogudfo... e non mi sembrano assassini, molestatori o cattive persone in generale.»

Nicola annuì. Nonostante le sue parole, non pensava davvero che andare lì fosse una pessima idea; il suo unico contatto reale con il Pogudfo consisteva in Giampiero Tirfusama, che solo il giorno prima gli aveva giurato la sua lealtà. Il marchese gli sembrava degno della sua fiducia e il modo in cui gli aveva parlato, mentre lui sembrava ormai rassegnato al suo destino, gli aveva suscitato una buona impressione.

«Non si può generalizzare» disse. «E ho sbagliato anche io nel farlo: ogni persona va considerata a sé.»

«Quindi... voi accettate di andare fin laggiù?» gli chiese Altea speranzosa, ma con un filo di apprensione nella voce.

«Qui rischio troppo, non posso espormi» le spiegò il principe. «Nessuno mi cercherebbe mai in un luogo abbandonato a sé stesso. Ammesso che qualcuno sappia che sono sopravvissuto. Non sono felice di abbandonare la mia terra, ma in questo momento non ho alternative. Avevi ragione tu: tornerò e mi riprenderò quello che è mio.»
 

Non solo il trono, si disse tra sé e sé, ma anche la considerazione che la corte non ha mai avuto nei miei riguardi.

La cameriera di Felicita sorrise. «Adesso è meglio che entriamo alla locanda e prendiamo qualcosa da mangiare. Ho preso con me del denaro, quello che sarei riuscita a portare nella fuga... spero che sia abbastanza.»

«Saremo più frugali rispetto al passato» stabilì Nicola. «Almeno per ora l'importante è sopravvivere.»

Altea sospirò, mentre la sorella minore disse: «Venite, vi faccio accomodare a un tavolo.»
Il Lotnevi si alzò in piedi e, nel seguire Susanna fino all'ingresso della locanda, gli parve di vedere in lei una grazia che raramente gli era capitato di notare in altre popolane.

 

***


Melissa appoggiò la schiena alla quercia dietro cui si era nascosta, con la fronte umida di sudore per la stoffa che le copriva il capo, oscura nel bosco al limitare dei regni. Sospirò, rinfrancata: il principe di Cmune era in salvo, così come aveva auspicato.

Si incamminò rapida verso nord, mentre le dita affusolate si chiusero a pugno sulle ametiste che aveva in tasca: non avrebbe saputo dire se stringerle accrescesse il loro potere, ma lo desiderò ardentemente. Non poteva esitare oltre: il suo tempo nello Cmune era finito, doveva dirigersi a nord e sperare di arrivare prima degli ospiti di sua sorella.

C'erano altre faccende da sbrigare prima che la guerra contro i Lugupe fosse dichiarata. Non poteva permettere che sua sorella controllasse altri destini cruciali per le sorti di Selenia.

 

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Capitolo 47
*** 14.3 Una lettera pericolosa ***


 

L'aria era satura delle fragranze del mattino: il profumo della cornetteria era una gradevole constatazione della vita che andava avanti, nonostante la tragica morte della famiglia reale. Il marchese Tirfusama guardò Eleonora occuparsi di nuovi clienti e tirò un sospiro di sollievo, perché almeno quella donna, a tarda sera, avrebbe avuto un sonno tranquillo.

Si allontanò dal salone principale, diretto verso la sala secondaria dove sapeva di essere atteso, ma fu trattenuto alla vista di Stefania, la figlia maggiore della locandiera, salire le scale, diretta alla camera di Lavinia Lugupe con un vassoio su cui la madre aveva preparato una sostanziosa colazione. Più tardi si sarebbe recato da lei: sapeva che non avrebbe potuto alleviare il suo dolore, ma sperò che la regina avrebbe apprezzato la sua vicinanza in un momento simile, in cui la nobiltà di Selenia la rifuggiva come un morbo letale.

Superò lo spazio interno in cui nei giorni passati aveva condiviso i pasti con i fratelli De Ghiacci e sentì una stretta gelida afferrargli le viscere: il vecchio presentimento di aver commesso un grosso sbaglio ormai era diventato certezza; e il più recente incontro con i due principi glielo aveva confermato, sebbene lui non possedesse delle prove tangibili dei suoi timori.

Non bussò, una volta arrivato alla sala privata, ma aprì la porta come era solito fare quando sapeva che qualcuno lo attendeva lì. Con sua grande meraviglia, seduto al tavolo e con una tazza di caffè nero davanti e una di tè ancora fumante, era seduto il figlio di Donna Clara Riutorci.

«Ha detto la locandiera che il tè è per voi» esordì Pietro, con sicurezza.

Giampiero annuì e prese posto di fronte al giovane del Tuilla. Si scaldò le mani intorno alla tazza, anche e il clima estivo era tutt'altro che rigido; cercava, in verità, di provare a sciogliere quella stretta algida che gli avviluppava le interiora. Non poteva permettere che il Riutorci si accorgesse dei turbamenti del suo animo.

Sospirò, prima di sorseggiare lentamente quel tè ancora bollente.

«Se siete qui, devo immaginare che voi sappiate dell'incendio» disse, avviando la conversazione da lontano, ma già indirizzandola dove voleva che arrivasse.

Pietro annuì. «Siamo stati svegliati dalle grida. Io e mia madre alloggiamo in una taverna poco distante. Quando siamo arrivati al palazzo non ne era rimasto più nulla. Non ci credevo, pensavo che fosse opera di qualche illusionista... poi sono entrato nel cortile.»

«È solo cenere» commentò il marchese. «Tutto ciò che fosse opera umana è diventata cenere. Qualcuno dice che si tratta di un mostro di fuoco, qualcun altro che deve esserci una spiegazione razionale...»

«Uno spettacolo raccapricciante, a prescindere da cosa lo abbia provocato» disse cupo il giovane del Tuilla.

Giampiero fece ruotare il cucchiaino di metallo nella tazza di coccio, come cullandosi in un gesto meccanico e abituale mentre la situazione attorno a lui era tutt'altro che abituale. «Immagino che voi non siate qui per parlare dell'incendio di questa notte, a meno che non vogliate accusarmi di averlo provocato... anche se non saprei mai spiegarmi una tale accusa» disse, pacato. Sollevò lo sguardo verso il Riutorci, che portò la tazza di caffè fumante alle labbra e ne bevve un sorso.

«In parte avete ragione e in parte torto» asserì. «Non sono qui per accusarvi dell'incendio – perché mai avreste dovuto provocarlo? – bensì per parlarvene. Sono venuto a conoscenza di una cosa che nessuno sa.»

Il Tirfusama sbuffò, mal trattenendo una risata, e scaldò di nuovo le mani attorno alla sua tazza di tè.

«Non deridetemi, marchese, non sono una persona da sottovalutare» ribatté Pietro, quasi con stizza.

«Io non vi sottovaluto affatto» sorrise invece Giampiero. Si compiacque dell'espressione sbigottita apparsa sul volto del suo interlocutore e riprese il discorso. «Avete accompagnato vostra madre sin qui, siete stato presente durante la seduta dei Lupfo-Evoco, c'eravate anche quando Nicola Lotnevi è stato arrestato. Non ho ancora compreso il motivo per cui siate qui a Mitreluvui, questo no, ma non commettete anche voi l'errore di credermi uno sprovveduto. In questa stanza nessuno lo è.»

Il figlio di Donna Clara gonfiò il petto, inorgoglito dalle parole di quel nobile che, seppur decaduto, era uno dei protagonisti delle vicende politiche del sud del continente.

«Dunque, posso chiedervi il motivo di questo incontro?» domandò il Tifusama, con un garbo che avrebbe suscitato l'ilarità di Roberto De Ghiacci, se fosse stato presente.

Pietro annuì, posando la tazzina vuota nel piattino che l'aveva accompagnata. Eleonora era sempre attenta ai dettagli quando serviva i clienti, in modo che quella precisione e le sue vettovaglie raffinate ed eleganti li spingessero a tornare. Le decorazioni floreali delle tazze da cui entrambi avevano bevuto richiamavano tempi di pace, un'atmosfera di serenità agreste tanto lontana dalla situazione in cui lo Cmune rischiava di ritrovarsi, come Giampiero non poté fare a meno di notare.

«Ero andato anche io a vedere in che condizioni era il palazzo reale» iniziò a spiegare il Riutorci, «ma sono tornato per primo alla locanda in cui soggiorniamo io e mia madre. Era arrivata una lettera per lei, così mi sono incaricato di prenderla in custodia per dargliela non appena fosse rientrata, però... non ho saputo resistere alla tentazione e l'ho aperta.»

«Deve essere davvero importante, se vi ha condotto da me» commentò Giampiero, con pacatezza.

«Lo è, lo è. Era di Felicita Lotnevi. Ha ammesso di aver ucciso re Guglielmo e di aver appiccato lei stessa l'incendio che "tra qualche minuto" avrebbe bruciato l'intera reggia. Per questo sono da voi. Non capisco.»

Il marchese bevve un altro sorso di tè caldo, ponderando cosa dire in presenza di un giovane di cui, sebbene si fosse recato lì per chiedergli aiuto – almeno, così sembrava –, non riusciva ancora a distinguere le reali intenzioni.

«Dubito che la regina avrebbe ucciso suo figlio.»

«Non lo ha ucciso!» esclamò Pietro. «Nella lettera dice di aver fatto scappare lui e Luciana Lugupe!»

Questa volta mascherare il balzo che il cuore gli aveva fatto nel petto fu più complicato. Luciana... era ancora viva?

«Cosa ci assicura che sia davvero opera della sua mano?» chiese invece. Preferiva non illudersi, poteva essere un altro inganno ordito da Raissa, sebbene qualcosa lo spingesse a credere il contrario. Fu la speranza che fosse tutto vero a sostenerlo, in quel momento.

«Io non so se sia davvero la sua grafia, ma che abbia voluto far sopravvivere il principe è quello che più mi fa credere che sia davvero stata lei a scriverla.»

Giampiero annuì, ma il suo sguardo si spostò sulla parete spoglia, alle spalle del giovane davanti a lui. Nonostante Eleonora si fosse rammaricata più volte nel vederla così nuda, con il legno che ricopriva la pietra solo per ornamento, lui le aveva obiettato più volte che una sala vuota, senza orpelli di ornamento, era in grado di suggestionare qualsiasi ospite, che di certo si sarebbe aspettato almeno un quadro o un arazzo, o che nel camino spento il fuoco sfrigolasse. La sobrietà era un mezzo molto potente per partire con un discreto vantaggio durante un incontro politico.

«Però non credete che sia della mano di Felicita Lotnevi» disse, riprendendo il discorso. «Perché?»

«Non capisco perché una donna dovrebbe uccidere il proprio marito, soprattutto visto che lei e re Guglielmo erano in buoni rapporti, e visto che non c'era nessuna necessità che Nicola salisse al trono tanto presto. A sentire i nobili, lui non era pronto.»

Il marchese trasse un profondo sospiro e si nascose dietro la tazza di tè che ormai aveva quasi svuotato. Se Eleonora fosse stata lasciata libera dagli avventori, gli avrebbe portato una caraffa ripiena di quel liquido tanto potente da tenerlo sveglio per molte ore.

«Si vede che voi non conoscete Nicola Lotnevi» mormorò. «Neanche io lo conosco a fondo, ma l'impressione che ho di lui è che in futuro sarebbe diventato un grande sovrano. Una parte di me vorrebbe che quella lettera fosse vera, almeno sapremmo che lui e Luciana Lugupe sono ancora vivi. Forse fuggiaschi, ma vivi. Per i regni di Cmune e Dzsaco sarebbe una buona cosa. Tuttavia...»

La sua frase fu interrotta da un suono di passi al di là della porta. Ancora prima che qualcuno bussasse, Giampiero diede il permesso di entrare, mentre Pietro lo scrutava confuso.

L'uscio si aprì con un tremolio e sulla soglia comparve Stefania, con un'espressione colpevole dipinta sul volto. «Non volevo disturbarvi, mia madre mi ha detto di portare altro tè e caffè...»

«Non hai disturbato, vieni pure» le sorrise il Tirfusama. «Ringrazia Eleonora per il pensiero.»

La ragazza entrò, portando due caraffe su un vassoio traballante. Lei faticava a tenersi in piedi, chissà se le gambe coperte dalla lunga gonna erano così esili da non sopportare neanche il poco peso della giovane, o se invece i suoi movimenti incerti e tremolanti, gli occhi schivi con cui cercava di guardare e non guardare il marchesino allo stesso tempo fossero indice di altro...

I due nobili la osservarono posare le due caraffe sul tavolo in legno, rigorosamente senza tovaglia così come Giampiero aveva sempre chiesto alla proprietaria della locanda. Stefania strinse il vassoio al petto. - Devo versarvi...? - iniziò a domandare. Era solo da alcuni giorni che aiutava la madre, ancora non sapeva come comportarsi di preciso in determinate circostanze.
Il marchese scosse la testa con un altro sorriso. Era a conoscenza della condotta di vita della ragazza, tanto timorosa di disturbare da risultare impacciata a un occhio esterno. Lei si mosse verso l'uscita della saletta, ma quando era quasi sulla soglia, lui la richiamò.

«Forse Eleonora ancora non è riuscita a dirtelo, ma tuo fratello non era di stanza al palazzo.»

Stefania si voltò, il viso pallido, gli occhi gonfi, i capelli legati nella crocchia che sfuggivano al controllo del nastro. A guardarla meglio sembrava che avesse già pianto un lutto che non le apparteneva.

«S-siete sicuro?»

«Certamente» le rispose lui, gentile.

Lei non disse nulla, ma si congedò con un piccolo inchino.

Giampiero si voltò verso Pietro Riutorci, che non aveva aspettato un secondo per riempirsi la tazzina di altro caffè nero. Non sapeva ancora cosa pensare sul suo conto, forse era una persona degna di fiducia, sebbene la sua famiglia avesse stretto quei recenti legami con gli Autunno.

«Dicevo, vorrei che la lettera di Felicita Lotnevi fosse vera» riprese il Tirfusama da dove si era interrotto. «Tuttavia, potrebbe essere un tentativo di coprire la vera colpa di Nicola...»

Lo disse, con la consapevolezza dell'innocenza del principe, ma lo disse poiché se Raissa gli aveva commissionato il crimine, quello poteva essere un tentativo altrettanto astuto di salvarlo per metterlo in pericolo in un secondo momento, quando lei avesse desiderato creare scompiglio nello Cmune per assoggettarlo. Non conosceva l'opinione del Riutorci, dunque era costretto a procedere con cautela.

«Non credo che sia stato lui. Personalmente ho una mia teoria...»

«Vi ascolto.»

Giampiero si riempì la tazza con altro tè bollente, e portò la bevanda alle labbra.

«A uccidere Guglielmo sarebbe stata Luciana Lugupe» disse Pietro, stringendosi nelle spalle.

Il marchese scorse in quel gesto un impercettibile segno di nervosismo: forse non era solito esporre le sue idee, forse la limitata confidenza che intercorreva tra i due lo metteva a disagio. Oppure temeva il suo giudizio.

«Luciana Lugupe» ripeté, atono. Lui stesso non sapeva cosa pensare di lei: da un lato la sua vera preoccupazione per la sorte di Nicola, come aveva scorto quel pomeriggio di pochi giorni prima, mentre Donna Clara pronunciava le fatidiche parole che la coinvolgevano nel crimine; dall'altro era convinto di conoscerne l'indole e lei sembrava disposta a tutto per dare lustro alla sua famiglia. Proprio come lui, ma per Giampiero quella non era l'unica priorità.

«Non pensate che l'avrebbe fatto?» gli chiese il Riutorci.

«Al contrario, Luciana ne sarebbe in grado» rispose Giampiero, con la voce che rischiò di non fuoriuscire dalle labbra. Erano parole pericolose, ma corrispondevano alla verità. «Dunque, secondo voi, la lettera di Felicita sarebbe stata scritta da lei, in modo da scagionarsi?»

L'altro annuì. «Pensavo proprio questo.»

Seguì un lungo momento di silenzio tra i due, entrambi in riflessione. Pietro si strofinò gli occhi più di una volta, come se li sentisse doloranti e non avesse un modo di alleviare la sensazione.

Il Tirfusama posò lo sguardo nel fumo che esalava dalla tazza, ripensando a quanto Nicola Lotnevi gli aveva detto quel mattino in cui era andato nella sua cella. Luciana conosceva l'esistenza della lettera con cui Raissa aveva chiesto al principe di Cmune di uccidere il padre; poteva essere stato solo qualcuno di interno al palazzo, qualcuno che i cortigiani erano abituati a vedere, e che quindi non avrebbe destato i sospetti.

Lei dov'era, quella sera funesta? Il marchesino scosse la testa, come rispondendo alla propria domanda: lui non ne aveva idea. Non aveva mai cercato il colpevole della morte di Guglielmo, a lui importava che Nicola venisse scagionato; ma come farlo senza sapere chi veramente avesse commesso quell'assassinio?

Tuttavia, la teoria del giovane dell'ovest aveva una falla.

«Come avrebbe fatto ad appiccare l'incendio?» chiese Giampiero. «Luciana era prigioniera, probabilmente era priva di qualsiasi cosa che glielo avrebbe permesso.»

«Secondo me qualcuno le ha dato modo di liberarsi, così lei ha potuto agire» rispose prontamente Pietro. «E io sono convinto che si tratti di voi.»

Il Tirfusama sorrise. «Non vedo perché avrei dovuto.»

«Durante i Lupfo-Evoco vi ho visto parlare con la regina Lavinia, e quando Luciana è stata arrestata era vicino a voi... sembrava che cercasse la vostra protezione» gli spiegò quello.

Giampiero sorrise, nonostante nel suo petto il cuore avesse fatto un balzo non da poco. «Non so dirvi cosa volesse da me. Non c'è stata occasione di dire nulla. E, se aveste parlato con le guardie prima che il palazzo bruciasse, sapreste che quando mi è stato chiesto se avevo intenzione di far visita anche a lei, ho risposto di no. Non la vedo dal momento del suo arresto e non le parlo da quando eravamo insieme alla reggia di Alcina Primavera.»

«E le voci secondo cui voi aspirate al trono del Pogudfo?» insinuò Pietro.

«Sono false» rispose il marchese, celando a malapena il suo disappunto. «Non ho interesse nel governare. I miei piani futuri sono quelli del passato: fare del mio meglio per rendere Selenia un luogo migliore.»

Sapeva quanto le sue parole suonassero retoriche, ma in quel momento non gli importava. L'accusa implicita di essere coinvolto nell'uccisione di un re saggio lo aveva infastidito e sommata alla diceria circolata tempo addietro sul suo conto non gli permetteva di mantenere un tono sereno.

«Siete da me per parlare davvero di quella lettera, o per altri motivi?» chiese dunque, puntando gli occhi in quelli castani dell'altro. Lo scrutò con attenzione, come volendone analizzare la sincerità. Qualcosa in Pietro Riutorci non lo convinceva del tutto.

«Per la lettera» sorrise il giovane, bevendo un altro sorso di caffè. «Ma la verità è che entrambi sappiamo che l'unica persona che avrebbe potuto appiccare quell'incendio ora non è qui. Mi sono convinto, così come credo che lo siate anche voi, che si tratti di magia; e l'unica che sappia usarla è Raissa, sebbene non osi immaginare come imparato a farlo...»

«Quindi mi stavate mettendo alla prova?» gli domandò Giampiero, tornando al suo tono abituale e al consueto equilibrio che lo caratterizzava negli incontri politici.

«Sì» annuì Pietro. «Vedete, ai Lupfo-Evoco mi avete fatto una buona impressione, ma non sapevo se potermi fidare di voi. In questi tempi difficili, è sempre meglio diffidare.»

«Suppongo di aver conquistato la vostra fiducia» ipotizzò il marchese. «Eppure io non so se posso fidarmi di voi, alla luce delle vostre parole.»

Il Riutorci si frugò nelle tasche del mantello, e ne estrasse una busta di carta, che porse al Tirfusama. All'interno c'era un foglio ripiegato, e una scrittura elegante confermò a Giampiero che si trattava della lettera di Felicita.

«Posso confermare che è la sua grafia» disse.

«Lo immaginavo. Ora devo dirvi il vero motivo per cui sono venuto da voi.»

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Capitolo 48
*** 14.4 Un Veggente ***


 

Quando il sacerdote li aveva lasciati da soli, i quattro giovani avevano continuato a guardarsi intorno, cercando di capire se dagli scaffali ordinati provenisse una qualsiasi minaccia. Claudio aveva chiesto a Stella di porgergli il manoscritto di Ennio Estate e lo stava sfogliando seduto a un angolo della sala.

«Non credo che siano pericolosi» disse Arturo dopo un po'.

«Come fai ad esserne sicuro?» sussurrò Stella. «Sono protetti dalla magia, e se aprendone uno si sprigionasse una nuvola di veleno? Dobbiamo essere preparati a qualsiasi cosa!»

«Dovevamo pensarci prima» si rammaricò Flora affiancando il suo amico, ancora intento nella lettura.

Il mercenario sbuffò, ma non disse nulla: non voleva darle un pretesto per una nuova discussione.

"Le visioni si presentavano casuali, erano immagini confuse, e poi c'erano delle parole che avvertivo chiaramente nella mia testa. Non sapevo quanto avessero un significato, né se era l'opera di una divinità. Ero convinto che il Sole mi avrebbe mostrato una via, indicato un sentiero sicuro, eppure mi giunse la voce che anche al tempo della Luna nel Sud dell'Estate c'erano stati episodi di sacerdoti o sacerdotesse svenute e che raccontavano di aver avuto una delle cosiddette visioni. La certezza venne con il mio viaggio verso il Vorrìtrico, antico nome del Continente che noi utilizziamo ancora in ossequio ai costumi degli avi. Lì incontrai..."

«Claudio?» lo richiamò Stella. «Hai scoperto qualcosa di importante?»

Lui trasalì, come se fosse stato svegliato da un sogno.

«Per ora no» rispose lui. «Dovrei continuare a leggere.»

«Se trovi qualsiasi informazione...» iniziò a dire Flora, lasciando la frase in sospeso.

Il giovane defico si voltò per cercare l'amica con lo sguardo. La Primavera sembrava attratta da un volume marroncino che si trovava su uno scaffale all'altezza del suo viso.

«Credi che sia quello?»

«Flora, tutto bene?»

Udì le voci di Claudio e Stella, ma le giungevano distanti: le sembrava che qualcuno avesse coperto le sue orecchie con un lenzuolo. Si sentiva chiamare da quel codice, e non ne comprendeva il motivo. Della polvere era posata sulla copertina, quasi la invitasse a passarci sopra la mano.

Si alzò sulle punte dei piedi e come prima cosa soffiò sul pulviscolo, ma quello non si mosse da dove si era posato chissà quanto tempo prima. Curioso, si disse, l'unico punto con un po' di polvere è proprio questo... e se facessi...

Claudio la vide allungare la mano verso il libro, ma Flora la ritrasse al primissimo contatto, con un grido di dolore.

«Cosa è successo?» chiese subito Arturo, avvicinandosi a grandi passi.

«Ha toccato... » iniziò Claudio, ma la prontezza di Stella lo sovrastò.

«Il libro! Deve essere quello, non può essere toccato!» esclamò l'Estate.

«Cosa ti senti?» domandò il mercenario, indicando alla nobile di sedersi su una sedia.

«Ha... ha bruciato... è stato come se avessi toccato un tizzone ardente...» ansimò lei. Flora sembrava spossata, scombussolata da un dolore che non aveva lasciato alcuna traccia visibile. Si guardò la mano, mostrandola anche agli altri, ma non c'era nulla di insolito. Le lunghe dita affusolate non presentavano alcun segno di ciò che le aveva colpite poco prima.

Claudio sfogliò il manoscritto di Ennio, sperando che l'avo degli Estate possedesse una risposta sul come poter toccare i libri delle profezie.

«Lui non dice niente...» sbuffò, infastidito. Si era illuso che lì potesse davvero esserci qualcosa di utile. E se quel Veggente non avesse trascritto informazioni che li potessero aiutare nell'accedere alle profezie?

«Pensi che ci sia una risposta?» gli chiese Arturo brusco, accennando al libro. Ma il suo tono di voce era giustificato dal turbamento di Flora, che guardava quel codice rilegato come se lo desiderasse e lo temesse al tempo stesso.

«Era quello che speravo» ammise Claudio. «Ma per ora ancora niente. Avremmo dovuto leggerlo prima di venire qui...»

«Non abbiamo tempo» lo interruppe il mercenario. «Se quello è il libro giusto, dobbiamo trovare il modo di prenderlo e leggerlo.»

«Lo è» sussurrò Flora. «Lo sento, è lui.»

Claudio lanciò un'occhiata a Stella, che guardava quel volume pensierosa; non sembrava che anche lei ne fosse attratta, quanto che cercasse di capire da quale magia oscura fosse protetto.
«Siamo in quattro» disse l'Estate. «Un numero abbastanza alto, se consideriamo in quanti sono venuti qui nel corso dei secoli. Non credo che questa stanza abbia mai visto tante persone tutte insieme. Se abbiamo un po' di fortuna, a uno di noi dovrebbe essere concesso di toccarlo.»

«Un po' di fortuna?» esclamò Arturo, allargando le mani, in un gesto infastidito. «Non possiamo affidarci al caso! E se quel sacerdote...»

«Lui non può prenderlo» spiegò lei. «Altrimenti sarebbe rimasto qui e ce lo avrebbe dato. Lo conosco, dà sempre di persona i libri a chi li chiede, mi è già capitato in passato. Se questa volta non l'ha fatto, è solo perché non può.»

«Quindi dobbiamo tutti fare un tentativo» concluse Claudio. «Non c'è bisogno che Flora lo faccia, perché... be', lo vediamo da noi perché.»

Non voleva essere indelicato nei confronti della sua amica, che però sollevò lo sguardo verso di lui, riconoscente.

«Sembrava che mi chiamasse» disse lei. «Non saprei spiegarlo, è come se lì ci fosse qualcosa di mio e io dovessi sapere di cosa si tratta...»

Arturo si grattò la nuca, indeciso per la prima volta su cosa fare. Se Flora, che nonostante tutto aveva mostrato una buona resistenza fisica sia al viaggio sia all'assenza di comodità del castello, era stata tanto turbata da quel libro, non c'era da sottovalutare l'incantesimo che lo proteggeva.

«Volontari?» chiese Claudio scompigliandosi i capelli scuri e troppo cresciuti.

Stella guardò la copertina marroncina del codice con serenità, come riflettendo sul da farsi.

«Allora facciamo così» disse di nuovo il giovane defico. Prendere decisioni per tutto il gruppo era qualcosa di nuovo per lui, e non riusciva a credere, in cuor suo, che a nessuno fosse venuto in mente quanto avrebbe proposto. «Flora e Stella è meglio che non ci rimettano, perché io non vorrei mai avere sulla coscienza se capitasse loro qualcosa di male, senza considerare i genitori... che mi fanno un po' paura.»

La principessa Estate scoppiò a ridere nell'udire quelle parole: la sincerità genuina di quel ragazzo le piaceva, sebbene a volte risultasse ridicolo.

«Il mio dovere è di proteggervi tutti, quindi direi che lo prendo io» disse Arturo, ma Claudio scosse la testa.

«Flora ha sentito la mano che le bruciava. Le tue mani ci servono sulla spada: io non so combattere e anche se Stella ha iniziato a imparare qualcosa da te, ancora non può difenderci. Rimango soltanto io, e io non ho paura di un libro magico.»

Il mercenario annuì: la sicurezza di Claudio nel pronunciare quelle parole lo faceva sentire sicuro. Oltre al buon cuore dimostrava di avere anche coraggio, quel coraggio che non gli avrebbe mai attribuito alla prima occhiata che gli aveva rivolto ormai diversi giorni addietro, quando sembrava che lo volesse minacciare con una tazza di caffellatte.

«D'accordo, allora.»

«Non può farlo!» esclamò Flora. «E se si facesse del male?»

«Dobbiamo correre il rischio» le spiegò Stella. «Ha ragione lui, non ci sono alternative.»

Claudio sorrise. «Sono sopravvissuto alle guardie della regina davanti al castello, cosa può farmi un libro?»

L'Estate trattenne un'altra risata: era davvero un sollievo che ci fosse anche lui in quell'avventura. Forse non sapeva combattere, ma il suo temperamento era proprio quello che occorreva nei momenti di maggiore tensione, come quello.

Il giovane del Defi si accorse di quello sbuffo mal contenuto dalla principessa e le lanciò un'occhiata divertita. Si avvicinò allo scaffale, allungò il braccio e le sue dita sfiorarono la copertina di cuoio del codice antico. Sorrise con un angolo della bocca, soddisfatto: aveva avuto la meglio lui su qualsiasi magia fosse.

Estrasse il manoscritto dallo scaffale, compiaciuto.

«Quindi è questo?» ridacchiò. «Non fa nulla, sembra un libro come tanti!»

«Non diresti così se ti avesse bruciato la mano» commentò Flora con una punta di amarezza.

Claudio si rigirò quel parallelepipedo tra le mani, come cercando di comprendere da dove provenisse l'incantesimo, se ci fosse un modo per interromperlo per permettere che anche gli altri lo potessero toccare.

Arturo lo affiancò, scrutando il manufatto con attenzione. «Non ha niente che lo distingua da qualsiasi altro» ammise.

«Forse proprio per questo è così pericoloso» constatò Stella. «Ma dobbiamo ancora spiegarci perché Flora si sentisse così attratta da prenderlo.»

«Dev'esserci qualcosa che parla di lei» ipotizzò Claudio. «Sono magie... fino a quando non ho scoperto del passaggio segreto tra la camera di Flora e la botola a casa mia, non credevo che esistessero, ma ora... è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti, mi sa.»

La principessa Estate lo scrutò con attenzione. Lui le era sembrato un ragazzo ingenuo, dotato di buon cuore e di spirito di osservazione, questo sì; tuttavia non avrebbe creduto di sentirlo parlare con tanta sicurezza dei misteri di Selenia. Le tornò alla mente che le aveva chiesto il manoscritto di Ennio quasi con avidità, come se il desiderio di saperne di più non fosse legato a una mera curiosità, ma che ci fosse altro dietro, qualcosa che lei si decise a scoprire.

«Quindi dobbiamo aspettarci di tutto» disse Flora, proprio nel momento in cui la porta della sala si spalancò e comparve un giovane sacerdote dal viso imberbe, uno di quelli con cui lei aveva parlato quel mattino. Il ragazzo si appoggiò allo stipite, riprendendo fiato; il volto era accaldato e il viso sembrava coperto di sudore, non a causa dell'umidità in quel piano sotterraneo.

«Perché ci sei tu qui?» chiese Stella, con autorità. «Lo Sposo della Luna ha detto che sarebbe tornato lui.»

«Lui...» ansimò il sacerdote. «Lui ha inviato una lettera a re Vittorio con un messaggero a cavallo. Ha detto a una consorella che vi avrebbe tenuti qui fino al suo arrivo... Non si era accorto che lo stavo spiando... Dovete andare via...»

«Pensavo che fossimo chiusi a chiave» ribatté Arturo. Quel giovane non gli sembrava del tutto sincero. Come poteva essere entrato lì?

«Era chiuso a chiave...» disse lui, agitandone una sottile. «Ho aperto senza far rumore.»

«Lo Sposo non dovrebbe...» iniziò a dire l'erede degli Estate.

«Non c'è tempo per questo» la interruppe il sacerdote, ma a un'occhiataccia del mercenario si vide costretto a spiegare. «Sono in parte Veggente, quando mi sembra di vedere qualcosa, vengo qui e lo scrivo: per questo ho la chiave, se succede in momenti in cui lo Sposo non può...»

«Puoi farci andare via da qui senza che qualcuno ci veda?» domandò Arturo, interrompendolo.

Il ragazzo annuì. «Dobbiamo fare presto, non so quanto ci vorrà.»

«Nel frattempo questo lo tengo io» stabilì Claudio, posando il libro delle profezie sul manoscritto di Ennio. Poi prese entrambi e li ripose nella sua sacca da viaggio.

«Seguitemi, da questa parte.»

Il sacerdote imberbe li fece uscire dalla sala in silenzio. Si voltò alle spalle, controllando che non ci fosse nessuno che si spingesse fino a quei corridoi sotterranei, poi li guidò verso una scalinata che conduceva ancora più in basso.

Claudio scambiò uno sguardo con Arturo, che sembrava aver fiutato un pericolo.

«Non sei convinto?» gli chiese in un bisbiglio.

Il mercenario scosse la testa, indicandogli con il mento Flora e Stella, già di qualche passo davanti a loro. «Non è questo a preoccuparmi... forse c'è un modo per uscire, le costruzioni più antiche hanno dei tunnel sotterranei. Ma non capisco perché lo stia facendo.»

«Forse ha visto qualcosa» ipotizzò Claudio, procedendo a tentoni, senza guardare dove metteva i piedi. Calpestò qualcosa di melmoso, ma non si soffermò a guardare cosa fosse.

«Forse» convenne l'altro. «Questo posto è pieno di fango...»

Il contadino annusò l'aria: in un primo momento non si era accorto dell'odore di terra bagnata, illuminata a malapena dalle torce fioche sistemate a lunghi intervalli regolari sulle pareti. Doveva essere un luogo che gli adepti del culto del Sole erano soliti utilizzare.

Facendo attenzione a non scivolare, raggiunsero a grandi passi le due nobili, che seguivano in religioso silenzio il sacerdote.

«Siamo vicino a un fiume sotterraneo?» domandò il mercenario.

«Sì» bisbigliò il giovane. «Ma non alzate la voce, c'è il rischio che il suono rimbombi.»

«Dove ci stai portando?» insisté Arturo.

Il ragazzo si fermò. Si stropicciò gli occhi e sospirò, prima di parlare.

«In fondo, sulla destra, c'è una porta. Quando la supererete, vi ritroverete in un corridoio diverso da questo: ve ne accorgerete subito. Percorretelo fino alla fine, vi porterà lontano da qui. Ci sarà un'altra porta da cui passare, ricordatevi di chiuderla. Io non posso venire con voi, altrimenti rischierei di non tornare indietro.»

«Non tornare indietro?» ripeté Claudio. «In che senso? Noi torneremo? Che cosa...»

«Non c'è tempo per le spiegazioni, siete costretti a fidarvi di me» disse il sacerdote. Poi si rivolse a Stella: «Altezza, ho visto cose tremende... Se ho interpretato bene le mie visioni, Raissa Autunno è ovunque, e minaccia anche la vostra famiglia. Vi prego, fate attenzione.»

La principessa Estate annuì. «Dove arriveremo, una volta usciti dalla seconda porta?»

«Non saprei dire, è imprevedibile» rispose il ragazzo, prima di scappare a gambe levate dalla direzione da cui provenivano.

«Che giornata» commentò Claudio, attirandosi un'occhiata di rimprovero da Flora.

«Ormai siamo qui, non ci resta che andare avanti» disse lei. «Possiamo fidarci, ne sono certa.»

Arturo si trattenne dal commentare che sarebbe dovuta essere certa anche sul suo conto, mentre invece rimaneva diffidente. Qualcosa non gli tornava, il giovane sacerdote era stato evasivo, e per quale motivo quel nuovo corridoio in cui si sarebbero inoltrati sarebbe stato tanto diverso?

«Ha detto di essere un Veggente...» constatò Claudio. «Se ha visto qualcosa, se ha letto le profezie... e se ne ha scritta qualcuna lui stesso...»

«Forse sa a cosa stiamo andando incontro» mormorò Stella. «Andiamo, non perdiamo altro tempo. Attenti tutti a non cadere, sbrighiamoci.»

Le due principesse avanzano con grandi passi, ponendo con cura i piedi sul terreno ricoperto di fanghiglia, in modo da non scivolare, mentre i popolani rimasero di nuovo qualche passo indietro.

«Non so cosa ti abbiano fatto di male i sacerdoti, ma dovresti fidarti» sussurrò il giovane di Defi. «Loro si sentono sicure... penso che Flora abbia un sesto senso.»

«Allora fa' attenzione che non scopra il tuo segreto, o ti odierà per averlo nascosto» lo ammonì Arturo, seguendo le nobili.

Claudio scrollò le spalle, avanzando lentamente e con ampie falcate, come se fosse un cavallo che cerca di saltare un ostacolo alla volta senza inciampare nei propri piedi. Iniziava a sentire l'umidità entrargli sotto la pelle, come nelle notti invernali cariche di pioggia; quando era a casa amava quella sensazione ma in quel momento sperò solo di non buscarsi un raffreddore che lo avrebbe debilitato per giorni.

Raggiunsero la porta indicata dal giovane Veggente e Stella, dopo aver tirato un profondo sospiro di sollievo, abbassò la maniglia arrugginita, aprendo davanti a loro un altro corridoio, in cui, però, non c'era fanghiglia a ricoprirne la pietra.

Entrarono, ricordandosi di chiudere dopo il loro passaggio. Arturo guardò gli altri tre correre in quel corridoio buio, spinti dal desiderio di allontanarsi in fretta. Forse qualche presentimento della presenza di Vittorio che arrivava al tempio? Non avrebbe saputo dirlo, ma lui si soffermò a guardare la pietra delle pareti lunghe egli parve di scorgere della luce ambrata. Le sue dita scure toccarono il muro e gli parve di avvertire qualcosa di conosciuto, sebbene non avesse idea di cosa fosse. La sua attenzione venne catturata da un altro bagliore che sembrava nascosto dalle pareti, ma di un colore diverso. Viola?

«Cosa fai laggiù? Sbrigati, se Vittorio ci raggiunge ci ammazza!» esclamò Claudio. La voce giungeva come un'eco lontana, il mercenario non riusciva neanche a vederne la figura.

Si vide costretto ad abbandonare la sua curiosità insoddisfatta e a inseguire gli altri. Li raggiunse davanti a un'altra porta chiusa.

«Cosa stavi facendo?» lo rimproverò Flora. «Non possiamo farci trovare!»

Arturo scrollò le spalle: non aveva più voglia di discutere, almeno non per quella giornata. Si fece avanti e spalancò il nuovo ingresso.

«Ma che... »

Claudio non completò la domanda, rapito da un'altra meraviglia. Dopo aver visto come giungere a Castelscoglio non avrebbe più dovuto stupirsi di nulla, ma come spiegarsi il luogo agreste in cui erano finiti?

Una radura, simile a quella intorno al tempio del Sole in cui si trovava Nuvola, era illuminata dai raggi obliqui del tramonto. La luce solare filtrava da chiome di pini marittimi, disposti in circolo, come piantati con attenzione al momento dell'edificazione del tempio, anch'esso di forma circolare.

Il colonnato intorno era ricoperto di edera, che si arrampicava armonica fino a giungere al tetto a cono, ricoprendo il colore marmoreo al di sotto, tuttavia lo faceva in maniera ordinata ed elegante, non come una pianta che aveva l'abitudine di occupare caotica lo spazio. Su uno dei tre gradini che conduceva all'ingresso del tempio, un sacerdote anziano suonava un flauto a più canne.

«Vudeli» mormorò Stella. «I suoi sacerdoti suonano il Flauto di Bronzo.»

Solo in quel momento Claudio si accorse che lo strumento tra le mani dell'uomo era di metallo. Non sapeva chi o cosa fosse "Vudeli", ma non domandò: in quel momento gli bastava sapere che si erano messi alle spalle il pericolo.

Si voltò, per guardare la porta che uno degli altri doveva aver richiuso, ma non vide altro che altri alberi, come se loro fossero sbucati fuori dal nulla.

«Altro che magia, qui c'è proprio qualcosa di assurdo» commentò.

Arturo annuì, facendogli poi cenno di seguire le principesse, che si erano accostate al sacerdote. Quello smise di soffiare nel flauto, e sollevò lo sguardo verso le due ragazze e i due ragazzi. Gli occhi di miele si illuminarono, scorgendo forse qualcosa che si aspettava di vedere.

«Erano mesi che attendevamo il vostro arrivo. Andiamo, è ora che voi mangiate qualcosa, mi sembrate molto stanchi e provati.»

«Non potremmo avere qualche spiegazione?» chiese Flora. «Innanzitutto, dove siamo?»

«Siamo nel sud del Regno del Mare» rispose l'uomo con un sorriso, alzandosi in piedi e riponendo il flauto in una tasca della tunica azzurra, ricamata con dei motivi irregolari, come se chi avesse avuto in mano l'ago e quel filo nero avesse la testa altrove e non si preoccupasse dell'armonia del disegno. «Questo è uno dei templi di Vudeli.»

«Ci aspettavate?» domandò Arturo, diffidente.

«Arcadio, un sacerdote della Luna, mi aveva predetto il vostro arrivo. Lui è nel Regno dell'Estate.»

«Arcadio...» ripeté Stella. «Si tratta di un ragazzo sui quindici anni, biondo e con il viso un po' rotondetto?»

L'uomo annuì. «Immagino che vi abbia aiutato lui a venire qui. E dal vostro stupore immagino che non ci sia stato tempo per le spiegazioni.»

«Decisamente no» sorrise Claudio. «Siamo qui e non sappiamo nemmeno come.»

«Allora è il momento di darvi delle risposte» disse il sacerdote. Puntò i suoi occhi di miele in quelli azzurri di Flora, che comprese. Erano lì guidati dal destino: se le profezie davvero erano state in grado di preannunciare il loro arrivo in quel luogo, li avrebbero guidati per una via più lunga e intricata, non lineare e piena di ostacoli lungo il percorso. Nulla in quel luogo le dava l'impressione che ci potesse essere un inganno, dunque si fidò e seguì il vegliardo all'interno del tempio, imitata dagli altri.

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Capitolo 49
*** 15.1 L'ospitalità di Vudeli ***


 

Davanti alla tavola imbandita solo per gli ospiti, il sacerdote che li aveva accolti fece loro segno di accomodarsi. Claudio fu il primo ad avanzare e a prendere posto, incurante dello sguardo vigile di Arturo, che scrutava ogni frugale pietanza come se si aspettasse che prendesse vita.

«Non voglio avvelenarvi» disse il sacerdote. «Se il passaggio vi ha portato qui, significa che siete in fuga e che avete bisogno di riposo e ristoro, cose che potrete sempre trovare nel nostro tempio.»

Flora sorrise. «Non ho mai conosciuto il culto di Vudeli. Siete davvero così ospitali come si racconta.»

«Il regno del Mare è tutto così» rise Stella. «Arturo, puoi smetterla di preoccuparti, in quei pomodori ci sono solo delle spezie!»

«Origano e basilico» annuì il sacerdote. «Li coltiviamo qui. Mi siedo anche io e mangio insieme a voi, così il vostro amico non sarà preoccupato.»

«Non siamo amici» precisò la Primavera. «Non proprio, direi. Siamo solo compagni di viaggio in cerca della stessa cosa.»

Claudio si servì con generosità dell'insalata di pomodori, che emanava un profumo delizioso, simile a quello che sentiva a casa quando la preparava sua madre. Dopo aver riempito il suo piatto di terracotta, si alzò in piedi e si mise a elargirne prima a Stella, che lo ringraziò con un sorriso silenzioso ma sincero, poi a Flora che invece era concentrata sul sacerdote, come se desiderasse parlargli ma non trovasse le parole giuste per farlo.

«Non ho bisogno del cameriere» disse invece Arturo non appena Claudio si avvicinò a lui. Afferrò una casseruola dove era cotta della verdura che il contadino di Nilerusa non avrebbe mai mangiato.

«Sono broccoli» commentò con una smorfia disgustata. «Come fanno a piacerti?»

Il mercenario non risposte. Non avrebbe saputo spiegare che i broccoli preparati in quel modo gli rievocavano un ricordo lontanissimo nel tempo, con quell'odore amaro che poi nel resto della sua vita aveva sempre cercato, molto spesso invano. Credeva che si trattasse di uno dei suoi pochi rimasugli dell'infanzia che non si erano cancellati negli anni. Aveva dimenticato molto, entrando nel gruppo di mercenari quando camminava a malapena. Suo padre lo aveva portato con sé, inseguendo chissà quale avventura; di quello che si erano lasciati alle spalle era rimasto solo il profumo particolare dei broccoli cotti.

«Tanto male non potranno essere, anche se non hanno un grande aspetto» commentò Stella.

«Avete parlato di un passaggio... potreste dirci di più?» domandò Flora, riuscendo solo in quel momento a porre una delle domande che le si erano affacciate alla mente, messa a suo agio dalle chiacchiere dei compagni di viaggio.

«Sì, ma mangiate qualcosa, ci piace offrire il cibo ai viandanti» le rispose l'uomo, indicando la tavola con un ampio cenno del braccio.

«Vorrei delle spiegazioni» disse invece lei.

«E io sono qui per darvene, ma a stomaco pieno.»

Arturo sorrise, sperando che nessuno lo scorgesse: Flora messa in difficoltà con quella sicurezza placida era uno spettacolo divertente. Claudio, dal canto suo, scoppiò a ridere.

«E dai, non è mica avvelenato! Sai quanto veleno ci vorrebbe per avvelenare tutto?»

«Mangerò anche io, così potete essere sicuri» si decise il sacerdote e si alzò per prendere un piatto pulito e si servì di tutte le semplici pietanze. «Sono il frutto della nostra terra» spiegò. «Avvelenarle sarebbe offendere Vudeli.»

«Avvelenare il cibo è uno spreco» disse Claudio a bocca piena, suscitando una risata mal trattenuta di Stella.

Solo quando anche l'uomo si fu seduto al tavolo con il piatto pieno ed ebbe iniziato a mangiare, Flora toccò il cibo che aveva davanti a sé, rincuorata che ci fossero coltello e forchetta: detestava mangiare con le mani. Mandato giù il primo boccone, si rivolse di nuovo al sacerdote.

«Come siamo arrivati sin qui?»

«Vedete, siete stati portati da un passaggio magico che unisce i vari templi del Pecama. Si entra da una parte e non si sa dove si sbuca, ma sempre all'interno dell'isola, e sempre in prossimità di un tempio; e non capita due volte di seguito nello stesso luogo» si fermò per bere un sorso d'acqua.

Arturo scambiò una silenziosa occhiata con Claudio: il ragazzo fedele alla Luna li aveva messi in salvo, anche con il rischio di farli sbucare nel regno dell'Autunno; l'importante era che né Vittorio né Tancredi li avrebbero trovati. Forse sarebbero dovuti essergli grati, ma il rischio corso era davvero grande.

«Ci sono dei sotterranei magici che collegano il Pecama?» chiese Stella.

Quello annuì. «Sì, anche se non vengono usati molto spesso. Non è la prima volta che qualcuno sbuchi qui da noi... ma voi non sembrate così sconvolti come gli altri. Anche se la situazione è strana, non vi crea lo spaesamento a cui sono abituato ad assistere.»

«Ormai c'è davvero poco in grado di sconvolgerci» commentò Arturo svuotando in piatto. «Non è la cosa più strana che abbiamo visto.»

Claudio fece un cenno di assenso con il capo, gli occhi fissati sul vuoto. Lui era ormai abituato a quelle percezioni strane, a quella voce che gli parlava, a cui si erano aggiunti quel libro che bruciava e non bruciava allo stesso tempo, un passaggio segreto che univa posti lontani e un sacerdote che ammetteva di essere un Veggente: aveva ragione Arturo, ormai erano poche le cose che lo avrebbero stupito. E lui era uno che amava meravigliarsi delle novità.

«Come funziona?» domandò ancora l'Estate.

Il sacerdote bevve un bicchiere d'acqua e le rispose. «Non ne siamo ancora certi, ma forse è collegato alle proprietà di alcune pietre magiche. Non so se le avete notate nel tragitto, ma vi sono incastonati topazi e ametiste... Ovviamente non sono topazi e ametiste qualsiasi, li abbiamo paragonati ad altri all'apparenza identici.»

«Sì, ma erano coperti dalla pietra» ammise Arturo, lasciando le posate sul piatto vuoto. «Erano diventati quasi invisibili: se non mi fossi accorto di qualcosa di strano nel muro, non li avrei mai visti.»

«Io infatti non li ho visti» disse Claudio. Come aveva potuto non rendersi conto di un dettaglio tanto importante?

«Perché quelle pietre tendono a scomparire e a lasciarsi ricoprire se trovano un materiale in cui nascondersi. Hanno delle proprietà magiche che permettono loro di mettersi al riparo da sole, in modo da non venire trovate, oltre alle loro proprietà ben precise che vi hanno condotti sin qui» spiegò l'uomo dagli occhi di ambra.

«Quindi oltre a delle capacità uniche, hanno anche della magia che permette loro di nascondersi?» chiese il mercenario, per assicurarsi di aver compreso. Appena il sacerdote annuì, aggiunse: «Di quali proprietà si tratta?»

«A farvela breve, una delle due altera il tempo, e l'altra lo spazio. Alcuni vecchi libri di alchimia ne parlano, ci sono anche dei tentativi di sciogliere le pietre e farne composti più complessi per combinarne i poteri, ma si sono rivelati tutti dei fallimenti.»

Claudio rivolse uno sguardo perplesso in direzione di Arturo, che tuttavia era assorto in qualche riflessione, sicuramente suscitata dalle parole dell'uomo che li aveva accolti.

«Quindi è alchimia...» mormorò Stella. «So qualcosa al riguardo, ma che io sappia è una pratica che non si usa più da secoli.»

«Le fonti ufficiali dicono così, ma la verità è che gli alchimisti hanno continuato il loro operato in grande segreto. Alcuni di loro erano, o sono, figure importanti di Selenia» spiegò ancora il sacerdote, con la sua voce placida e rasserenante, lo sguardo gentile di un maestro che difende gli scolari indisciplinati dai genitori. «Ora che la magia sembra essere tornata su Selenia, noi dobbiamo usare i nostri mezzi per difenderci da chi la usa.»

«Non ho capito, i maghi sono contro gli alchimisti?» chiese Claudio, confuso, dopo aver finito anche lui di mangiare. «E voi siete un alchimista?»

«Sì e sì. Ci è giunta voce che Raissa Autunno ha imparato a padroneggiare la magia, e noi... noi dobbiamo difenderci.»

«Raissa potrebbe avere in mente di utilizzare sia magia sia alchimia a proprio vantaggio» commentò invece Arturo. «La vostra è una preoccupazione sbagliata: non dovete temere che voglia distruggervi, ma che voglia rubare i vostri segreti per scopi ben peggiori.»

«Sembri saperne molto, per non aver mai lavorato per lei» lo punzecchiò Flora.

Il mercenario alzò gli occhi, quasi chiedendo a tutte le divinità di Selenia di liberarlo dalla sua fastidiosa presenza.

«Avete detto che gli alchimisti sono persone importanti» riprese Stella, ignorando il velato battibecco tra i due. «Non solo che lo erano in passato, ma che lo sono tutt'ora. Dobbiamo sapere chi ha conoscenze di questo tipo, può esserci di aiuto se la situazione con gli Autunno dovesse precipitare.»

«Voi siete molto intelligente» le sorrise il sacerdote. «Il senso delle mie parole era proprio quello. Purtroppo io so solo che re Amintore era uno di noi alchimisti. E lui mi ha garantito di non essere l'unico sovrano che si interessava di alchimia.»

«Amintore Dal Mare? Perché era

Quello si rabbuiò e abbassò lo sguardo. «Voi... voi non sapete cosa è accaduto?»

Guardando le espressioni sbigottite dei suoi ospiti, convenne che erano all'oscuro degli ultimi avvenimenti forse non solo nel Pecama, ma proprio su Selenia. Con pazienza raccontò loro della morte dei sovrani Dal Mare e dell'incoronazione della giovane Ariel, spiegando che era stato un caso fortuito che lei ed Erik Inverno, ospite in quei giorni, si fossero salvati.

Flora ascoltava stordita: la notizia dei Dal Mare uccisi nella sua testa si andava a sommare a quella di Guglielmo Lotnevi e per lei il significato di entrambi i regicidi era uno solo.

«Raissa sta diventando più potente, se riesce a fare in modo che i re muoiano mentre lei non c'è. Vuol dire che ha a disposizione degli assassini abili nel non farsi trovare, oppure che con la magia è in grado di uccidere a distanza» sentenziò a bassa voce, quando il resoconto del sacerdote fu terminato.

L'uomo dallo sguardo gentile non commentò quelle parole, segno che aveva riconosciuto l'estrazione illustre delle due giovani, ma che non era nelle sue intenzioni domandare alle nobili il motivo della loro presenza lì.

«Se esistesse un incantesimo per uccidere a distanza, tu saresti già morta» ribatté Arturo. «Per me è più probabile che abbia molte persone che lavorano per lei. E purtroppo hai ragione, devono essere molto discreti per agire di nascosto.»

La Primavera lo scrutò assorta. Non sapeva cosa la colpiva di più, se il fatto che le avesse dato ragione o la prospettiva di doversi guardare le spalle perché Raissa arrivava ovunque. Avrebbe dovuto essere guardinga anche con lui? Una parte di sé le suggeriva di sì, perché la prudenza non era mai abbastanza – ed era lo stesso Arturo a ribadirlo di frequente; un'altra parte di sé, quella che le permetteva di avvicinarsi ai pensieri di chi aveva intorno, le insinuava nella mente la possibilità che lui fosse sincero e che non avesse davvero a che fare con l'Autunno. Flora era combattuta tra le due diverse prese di posizione: voleva fidarsi e allo stesso tempo non voleva.

«Amintore e Silvia non ci sono più...» mormorò Stella. «Ariel è diventata regina... e Dante?»

«Lui era a nord, aveva risposto alla convocazione dei Lupfo-Evoco» spiegò il sacerdote. «Purtroppo neanche da lì giungono buone notizie...»

Incalzato dalle domande, si vide costretto a raccontare anche della corrispondenza che intratteneva con i sacerdoti nel Vorrìtrico e che quelli dello Cmune lo avevano subito informato della condanna del principe Lotnevi.

«Non posso crederci...» sussurrò Flora, abbassando lo sguardo. «Aveva ragione Luciana, sarei dovuta andare con lei a Mitreluvui. Ma io non credevo che qualcuno avrebbe osato accusare Nicola di regicidio. È colpa mia...»

«Tu non avresti potuto fare molto» ribatté secco Arturo. «Se c'è di mezzo Raissa, e io sono sicuro che lo è, per te sarebbe stato peggio trovarti lì con lui. E tu hai altro da fare, qui.»

«Ha ragione, noi stiamo cercando...» iniziò a dire Claudio, mordendosi la lingua prima di lasciarsi sfuggire troppo. Doveva imparare quella prudenza che il mercenario raccomandava in ogni momento e, anche se in quel tempio potevano ritenersi al sicuro, iniziare a esercitare la cautela poteva essere utile per il futuro. «Insomma, dobbiamo essere qui!»

Stella lo guardò, ammirata: sembrava che tenesse molto alla sua amica e il loro legame di affetto andava al di là delle differenze che li distinguevano. Le maniere genuine del defico le piacevano e le avevano suscitato una simpatia immediata, sin da quel giorno a Castelscoglio, quando lui si era presentato lì insieme a quella sacerdotessa del Sole.

«Possiamo avere un posto dove riposare?» domandò l'Estate con garbo. «Dovremmo riprendere il viaggio a breve...»

«Ma certo» le rispose gentile il sacerdote. «Venite, vi conduco nella zona del tempio in cui accogliamo i viaggiatori.»

Si alzarono da tavola e seguirono l'uomo attraverso una serie di corridoi ampi, in cui la luce del sole calante filtrava da finestre poste in alto, con vetri di diversi colori composti a mosaico per ritrarre immagini marine.

«Questo regno è un po' diverso dagli altri» sussurrò Stella all'indirizzo di Claudio, che aveva lo sguardo all'insù come un bambino dalla curiosità insaziabile.

«Me ne sono accorto» commentò lui con un sorriso.

Pochi minuti dopo, il sacerdote si fermò, indicando ai giovani quattro porte spalancate. «In due camere ci sono già le lenzuola messe ai letti, nelle altre due ve le farò portare tra poco. Intanto potete già accomodarvi e due di voi possono già riposare.»

Si accomiatò con un inchino, prima di incamminarsi lungo il corridoio da cui provenivano. Gli ospiti al tempio discussero per alcuni minuti, prima di decidere che in una delle stanze pronte avrebbe riposato Flora e nell'altra Arturo, con Stella che aveva convinto il mercenario solo dopo aver ripetuto più e più volte che lui aveva bisogno di dormire più di quanto ne avesse lei. Dunque i due si coricarono, mentre l'Estate rimase da sola insieme al contadino defico.

«Volevo leggere qualche profezia» sussurrò lui. «Secondo te si offendono se lo faccio da solo?»

«Perché dovresti farlo da solo?» chiese lei, in un bisbiglio. Non capiva perché lui avesse abbassato la voce, ma non aveva intenzione di metterlo in difficoltà alzando la sua.

«Pensi che se ci mettiamo insieme possiamo interpretarne almeno una?» ipotizzò Claudio.

La principessa annuì, scostando una ciocca di capelli chiari dal viso.

«Allora... allora mettiamoci qui» disse lui, accennando a una delle camere vuote. Rimase stordito quando, entrando, vide che lo spazio era angusto e occupato quasi per intero da un letto. Esitò, pensando che non fosse consono che lui e Stella vi si sedessero per leggere, ma il pavimento di pietra non era un'alternativa invitante.

Lei prese posto con disinvoltura sul materasso spoglio, indicando all'altro di raggiungerla. Claudio prima frugò nella sua bisaccia e ne estrasse il libro delle profezie, poi posò la sacca di stoffa sul pavimento e si avvicinò alla nobile che lo guardava, bramosa anch'ella di saperne di più.

Lui aprì il manoscritto a una pagina qualsiasi e lesse.

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Capitolo 50
*** 15.2 Esegesi ***


Fiamme si solleveranno al cielo
dal cuore della città,
la corona sarà sciolta
e abbandonata:
verrà il caos.

L'azzurro squarciato e annegato
rilascerà decisione di fanciulla:

vendetta promessa.

Cuore nobile e spadaccino,
difesa da cercare

per una regina non tua,
e l'amata tremerà dalla rabbia
di una confidenza assente.

Soffio di vento fra le querce:
si mescolano i destini.

Stella sospirò non appena lui ebbe finito di leggere, con gli occhi fissi su un punto imprecisato del pavimento chiaro, illuminato dalle luci del tramonto. Dalla finestra aperta spirò un soffio di vento che la fece rabbrividire.

«Hai freddo?» chiese Claudio, premuroso. «Posso chiuderla, se vuoi.»

Lei scosse la testa. «Non serve... ma grazie. Piuttosto, tu cosa hai capito da questa profezia?»

«Che non parla di questo posto» rispose lui, genuino. Si portò una mano al mento, su cui aveva iniziato a crescere un sottile filo di barba scura che non gli donava affatto. «Gli alberi qui fuori non erano querce.»

«E la corona sciolta... potrebbe significare che lo Cmune è rimasto senza sovrani. Senza corona, non c'è nessuno che può indossarla e quindi essere re» aggiunse Stella. «Ma non mi spiego queste fiamme di cui parla...»

«Forse un incendio?» ipotizzò Claudio. «Dal cuore della città... al centro di una città importante. Se parla davvero dello Cmune, dobbiamo pensare che prenderà fuoco dal centro della capitale. Non ci sono mai stato, ma non so quanto siano grandi gli altri posti nello Cmune... non so se sono città vere e proprie. Mi sa che Franco mi ha detto qualcosa, ma non lo ascoltavo.»

Lei sorrise per quella candida ammissione. Giocherellò con la ciocca di capelli che era sfuggita dall'acconciatura, riflettendo. «Potresti avere ragione. Mitreluvui è il centro più grande dello Cmune e al centro... c'è il palazzo reale.»

«Quindi qualcuno farà scoppiare un incendio lì?» esclamò lui, incredulo. Aveva davvero detto qualcosa di sensato? Voleva essere orgoglioso di sé, felice per aver aiutato Stella a venire a capo del primo gruppo di righe ma qualcosa nel volto corrucciato di lei gli spense l'entusiasmo. «Ho detto qualcosa che non va?»

«Se ci sarà un incendio, il rischio che Nicola non sopravviva è molto alto» sussurrò la principessa. «Le prigioni sono nei sotterranei, se lo appiccano proprio sopra di lui...»

Claudio le passò una mano intorno alle spalle, nel vederla così preoccupata. «Potrebbe anche essere un diversivo per farlo scappare. Così la corona è sciolta, ma non per un significato nascosto... proprio per il fuoco.»

Stella si abbandonò a un altro profondo sospiro. «Vorrei che fosse così, ma le nostre... sono soltanto ipotesi. Perché questo azzurro subito dopo potrebbe indicare il colore blu dei tulipani dei Lotnevi... è il simbolo della loro famiglia. E se fosse vero che Nicola venga giustiziato dai Lupfo-Evoco?»

«Lo hanno già condannato» disse lui. «Il sacerdote ha...»

«Lo so, Claudio lo so.»

Gli occhi azzurri di lei si posarono in quelli grigi di lui, cielo limpido riversato in uno nuvoloso. Stella fece per parlare, aprì la bocca per richiuderla subito dopo.

«Cosa c'è che non va?»

«E se noi interpretassimo bene la profezia? E se scoprissimo che sono predetti eventi che non possiamo impedire? E se ci provassimo e il solo provarci li rendesse reali?»

Lui fu spiazzato da quella possibilità. Si morse il labbro interno e poi parlò. «Non possiamo farci niente. Noi non dobbiamo impedire che si realizzino, anche se fossero cose orribili... Noi siamo qui per capire cosa Raissa è convinta che accadrà nel suo futuro.»

«Ma così possiamo scoprire altre cose...» mormorò lei. «Tu come faresti a conviverci?»

«Io ci convivo già» rispose Claudio, senza pensare.

L'occhiata che lei gli rivolse non era di sorpresa, ma di viva curiosità mista alla mestizia di poco prima. «Immaginavo bene, sei un Veggente anche tu.»

«Io...» esitò Claudio. In cuor suo sapeva che quella era la verità, ma non voleva ammetterla ad alta voce. «Credo di sì. Ogni tanto ho qualche visione... e svengo. L'ultima volta per fortuna non è successo, ma potrebbe accadere mentre sono qui.»

«Flora lo sa?» gli domandò allora Stella. Dubitava che l'amica le avesse tenuta segreta una confidenza del genere: forse le lettere che si scambiavano erano controllate, ma il linguaggio in codice che avevano sviluppato da bambine per comunicare aveva sempre superato quell'ostacolo. Il dubbio che lei non avesse ancora trovato un modo per spiegarglielo la spinse a chiedere.

«No, lo sa soltanto Arturo, perché quando mi è successo la volta scorsa ero insieme a lui. Per fortuna lei non c'era. Si sarebbe arrabbiata terribilmente... Mi stai ascoltando?»

La principessa Estate aveva gli occhi puntati sul libro, assorta nella rilettura.

«L'amata tremerà dalla rabbia di una confidenza assente...» mormorò. «Flora lo scoprirà. Lo scoprirà e si infurierà... questo potrebbe parlare di noi. Ma il cuore nobile e spadaccino potrebbe essere Arturo, e allora non avrebbe senso.»

Claudio sospirò, rileggendo. «Secondo me è Franco. Lui ora... no, non posso dirlo. Beh, penso che possa trattarsi di lui. Devi fidarti di me.»

«Mi fido di te» disse lei, sovrappensiero. «Può darsi che sia lui. Non so perché mi sia venuto in mente Arturo, forse perché è un mercenario... ma non mi sembra proprio il tipo che abbia un'amata da qualche parte.»

Lui scosse appena la testa. «Invece sì, sai? Non parla mai dei suoi trascorsi con gli Autunno... dice solo che non ha mai lavorato per Raissa e basta. Forse a qualche segreto laggiù, ma sinceramente non glielo chiederei mai.»

«Neanche io» rise Stella. «Potrebbe ucciderci, se lo facessimo!»

Anche Claudio scoppiò a ridere, scostando i capelli scuri che gli ricadevano scomposti sulla fronte. Così li trovarono due sacerdotesse che avevano portato le lenzuola per i loro letti. Le ringraziarono, dicendo che se ne sarebbero occupati loro.

«Non ho idea di come si faccia» sussurrò l'Estate non appena le donne furono uscite dalla stanza.

«Ti insegno» le sorrise Claudio. Prese il primo lenzuolo di lino e lo dispiegò davanti agli occhi attenti della nobile, posando gli altri sul pavimento. Le indicò di mettersi al lato opposto del letto e di imitare i suoi movimenti.

«Mi rimane un dubbio sulla profezia» disse lei, infilando un angolo di stoffa sotto al materasso. «Parla di un azzurro squarciato e annegato... le condanne dei Lupfo-Evoco non prevedono l'annegamento: è una morte lunga e troppo crudele, persino per un regicida.»

«Forse lo uccidono e lo buttano in acqua?» ipotizzò il popolano, sistemando le pieghe che si erano formate nella stesura del lenzuolo. Si piegò a terra per raccogliere quello da sistemare sopra, e quando si rialzò incontrò l'espressione confusa di Stella. «Non ti sembra possibile?»

«Nicola Lotnevi è un principe. L'unico erede di due casate, perché la famiglia di Felicita si è estinta con una pestilenza nel Crisera... Nonostante tutto, voglio sperare che la corte di Cmune o altri nobili abbiano la decenza di pretendere per lui una sepoltura nel cimitero di famiglia.»

«Non credo che lo faranno» commentò Claudio, dispiegando il lenzuolo e facendo segno all'Estate di afferrare i lembi davanti a lei. «Flora mi ha spiegato come funzionano i Lupfo-Evoco, e visto che a chiedere di convocarli devono essere stati proprio i nobili di Cmune, io non credo che si daranno da fare per dargli una sepoltura degna di un principe. Scusami se sono un po' diretto...»

Lei scosse la testa con un cenno lieve. «Non ti preoccupare. In realt...»

Stella si interruppe, e osservò lui ripiegare l'estremità superiore del tessuto, chino sul letto e concentrato su ogni minimo movimento: sembrava che Claudio non si fosse accorto della sua esitazione, né del tremolio delle sue ultime parole.

Lui sollevò il capo, rivolgendole un sorriso spensierato. «Guarda che ti stavo ascoltando!»

L'Estate si portò le mani al volto, chiudendo gli occhi. Si sedette sul lato del letto che lei non aveva terminato di sistemare, una gamba lasciata a penzoloni, l'altra sulla stoffa leggera e in disordine con il ginocchio piegato.

«L'azzurro... Claudio, temo di aver capito. Non parlava dei Lotnevi, almeno non quella strofa.»

Il giovane si sistemò di fronte a lei, temendo che fosse indelicato mettersi al suo fianco. Non voleva che Stella pensasse che lui avesse cattive intenzioni: cercava di essere il più cavalleresco possibile, nonostante non la ritenesse una sua qualità. E provava una simpatia istintiva per lei, quindi cercava di non creare situazioni spiacevoli per entrambi. Tuttavia si vide costretto ad allontanare quelle dita affusolate dal suo volto, che si accorse solo in quel momento di apprezzare in ogni lineamento. Rimase imbambolato al vedere un sentimento simile alla paura impresso sulle labbra sottili, su quegli occhi semichiusi, le sopracciglia abbassate, come se non riuscisse a dire quello che aveva compreso.

«Stella, io non so di cosa stai parlando» ammise. Si rese conto con qualche secondo di troppo di avere ancora le mani di lei tra le sue, ma la fanciulla non lasciava la presa. «Tu conosci molte più cose di me, non riesco a seguire tutti i tuoi ragionamenti...»

Lei sospirò. «L'azzurro è il simbolo della famiglia De Ghiacci... come ho fatto a non pensarci prima?» Solo il quel momento sollevò lo sguardo, incontrando quegli occhi di cenere che la scrutavano con attenzione. «Adesso sono Roberto e Bianca a occuparsi degli accordi con gli altri regni... e visto che parla di una vendetta... loro potrebbero essere ai Lupfo-Evoco e per tornare qui dovrebbero attraversare il Litil. Se una nave di...» tentennò, e strinse con calore le dita rudi di lui, trovandovi il coraggio per proseguire e dare completezza alla sua interpretazione. «... Degli Autunno li intercettasse e li catturasse? Temo per Roberto... Perché se la vendetta promessa è di Bianca, significa che a lui accadrà qualcosa...»

«Ha senso» sussurrò Claudio. «Però... Arturo ha detto che capire cosa intendono dire di preciso è molto difficile. Potrebbe esserci qualcosa che non conosciamo e a cui si riferisce, potrebbe parlare di qualcosa già successa...»

«Lo so, ma qui combaciano troppe cose. D'accordo, non so capire che cosa significhino qui le querce, ma vedo troppe cose familiari. Cla...»

Lasciò il nome di lui sospeso e allontanò le mani dalle sue.

Claudio sospirò, triste. Voleva rassicurarla, calmarla, ma comprendeva il turbamento di lei e non si sentiva in grado di poterlo annullare.

«Quando ho avuto l'ultima visione... non ho visto niente» disse, senza sapere dove il discorso lo avrebbe condotto. Aveva bisogno di rompere il silenzio che era calato e gli sembrò che quello fosse il modo migliore per farlo; o forse fu solo l'unico che gli venne in mente. «In genere mi appare qualche immagine sconnessa, che poi si tramuta in parole che mi rimangono in testa. Ma quella volta no: ho solo perso la vista per qualche secondo e... qualcosa mi ha fatto capire che non sarei dovuto partire per il Pecama. Eppure da quando siamo qui nessuno ci ha trovati, nessuno ha scoperto dov'è Flora... Non capisco se era un avvertimento per me, o anche per lei.»

«Ti preoccupi molto per lei» sospirò Stella, lanciando un'occhiata pensierosa alla finestra, quasi una feritoia incastonata nel marmo che permetteva alle ultime luci di filtrare. Il giorno si avviava alla fine ma, nonostante la gran quantità di eventi e rivelazioni di quelle ore, l'Estate non si sentiva affatto spossata.

«Certo che mi preoccupo, anche se non mi strappo i capelli per tutto» disse lui, con un sorriso. «Ma ora abbiamo qualche profezia da poter leggere. Forse siamo stanchi, e siamo così presi dall'idea di poterci capire qualcosa che riguardi proprio noi che potremmo esserci sbagliati... »

Lei annuì senza convinzione. «Sì, potremmo.»

«Stella?»

Claudio si era accorto che qualcosa non andava: di punto in bianco lei sembrava assente, come atterrita dalla prospettiva che quanto avevano compreso fosse già realtà o che potesse diventare tale da un momento all'altro. Quando lei si voltò e lo guardò con quegli occhi chiari, cercò di trasmetterle il suo spaesamento, ma temette di non esserci riuscito perché lei gli augurò la buonanotte e uscì dalla camera.

«Ma dove vai?» la richiamò lui ridendo.

Lei rientrò, confusa. «Non penserai che dorma qui con te?»

«Nell'altra stanza le lenzuola vanno ancora messe» le spiegò Claudio, con quel suo tono gentile.

«Resta qui, io so cavarmela benissimo con quelle.»

«Me ne ero completamente dimenticata» sorrise Stella. Tornò a sedersi sul letto, mentre lui afferrava il manoscritto con le profezie. Si tolse i sandali e vide che lui era rimasto sulla soglia e la salutava agitando la mano.

Scoppiò a ridere, ma gli chiese di chiudere la porta, come lui fece continuando ad avere negli occhi grigi quella scintilla da giullare.

Sì, si disse, è davvero un bene che ci sia anche lui... nonostante quella visione.

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Capitolo 51
*** 16.1 Affari di famiglia ***


Il cielo imbruniva e il sole si spegneva lontano al di là della catena dei Tumroi, nell'ovest del Ruxuna. L'aria fresca che spirava dalle montagne si insinuava nel mantello da viaggio di Luciana, che intravedeva all'inizio del lungo viale il palazzo reale della famiglia. I colori del tramonto donavano alla reggia un'atmosfera di elegante decadenza, nonostante le ostinate cure dei servitori e dei giardinieri per tenere lontana la natura ostile.

I faggi all'ingresso ombreggiavano la via percorsa dall'erede dei Lugupe, mentre lei si guardava intorno alla ricerca di un pretesto qualsiasi che ostacolasse il suo ritorno a casa. Casa.

Faticava a dare un senso a quella parola, perché non c'era luogo di Selenia in cui si sentisse tranquilla, protetta, amata. Neanche il rispetto che le veniva tributato alla corte di Defi pareggiava il suo desiderio di trovare il suo posto nel mondo. Soltanto in un momento aveva creduto che...

Sbuffò, allontanando una zanzara che le stava ronzando intorno. Neanche l'aria fresca che soffiava dai Tumroi riusciva ad allontanare quelle maledette bestiacce che lei a stento tollerava.

«Altezza, siete tornata!» esclamò un servitore, di cui lei ignorava il nome.

«Sì, riporta il cavallo alla stazione di cambio più vicina» disse sbrigativa. Poi porse le redini all'uomo attempato, che le rivolse un profondo inchino.

«Come desiderate.»

«Dove posso trovare mio padre?» gli chiese. In condizioni normali non le sarebbe importato di formalità di alcun tipo, non con la servitù, in quella situazione ancora meno.

«Nella sala del pomeriggio, prendeva il tè con la Contessa.»

Luciana annuì, trattenendosi dal sollevare lo sguardo al cielo. La Contessa, sua bisnonna materna, era un'anima che si era venduta agli dèi ancestrali per non morire mai e perseguitarla fino a quando una delle due non sarebbe finita sotto terra. Altrimenti la giovane non sapeva spiegarsi come quella donna dalle rughe profonde e lo sguardo di finto miele era sopravvissuta alla dipartita dei suoi figli e del marito, che Lavinia le aveva sempre dipinto come un uomo gentile che le aveva impartito i primi insegnamenti.

La principessa di Dzsaco trattenne un commento malevolo e salì i cinque gradini che la separavano dall'ingresso della reggia. Da lì, si voltò per guardare il viale che aveva percorso, il servitore che si allontanava con il cavallo a nolo, mentre ai lati della scalinata i giardinieri innaffiavano due giardinieri si occupavano di innaffiare le due porzioni di prato, su cui margherite dalle tinte ombrose iniziavano a chiudersi.

Aveva dimenticato il colore di quei fiori particolari, che non aveva visto in nessun altro luogo nel sud del continente. Le ricordavano l'infanzia, quando le avevano vietato di raccoglierli e di rotolare nell'erba umida, quando era stata obbligata a fare i conti con la realtà: la regina non era fertile e la sua nascita era stata una benedizione; e proprio in virtù del suo essere unica erede le sarebbe spettato il trono. E allora era iniziata la sua educazione ferrea, aveva imparato a leggere e scrivere molto presto, mentre vedeva i suoi coetanei figli della servitù giocare a rincorrersi nei cortili: li spiava dalle vetrate quando il precettore non la vedeva. Sorrideva, malignamente, quando arrivava una delle donne di servizio a riprenderli e a richiamarli ai loro piccoli doveri.

Quel luogo era maestoso, della stessa maestosità decadente di una dinastia che sembrava avvicinarsi al crepuscolo. Le circostanze in cui tornava erano le peggiori che potessero esserci: come poter dire al padre non solo che Nicola era stato condannato a morte, ma anche che lei stessa avrebbe dovuto subire quella sorte se non fosse stato per le Autunno?

Si specchiò su una delle finestre lucidate e vide la sua intera figura riflessa, con la gonna strappata per scappare, il proprio viso distrutto dall'esperienza di quegli ultimi giorni, le occhiaie profonde quasi scavate sotto gli occhi, due fossati per nascondere il reale motivo per cui era tornata al palazzo. Non doveva dimostrare la sua innocenza, doveva attendere che la madre tornasse dallo Cmune per avvelenarla e poi convincere suo padre, Ettore Lugupe, a intraprendere una guerra in cui sarebbe stato ucciso.

Smise di indugiare e varcò la soglia del palazzo; nell'ampio ingresso sostavano due camerieri in livrea, che non avevano battuto ciglio nel vederla lì in quello stato.

«Tu, portami da mio padre» disse risoluta a quello che le era più vicino. «È urgente.»

Quello abbassò il capo cerimonioso, senza proferire parola, e la guidò tra i corridoi sfarzosi della reggia, illuminati dalla luce ambrata del sole. Gli arazzi, gli enormi affreschi dai colori brillanti che decoravano le pareti, quella presenza ossessiva dell'oro in ogni punto, rimarcato con ancora più forza dai raggi sbiechi che dalle vetrate filtravano senza permesso: tutto ricordava alla Lugupe le ricchezze della famiglia, priva di capacità governative, ma piena di denaro per risolvere ogni inconveniente.

Luciana arrivò al terrazzo in cui suo padre era insieme alla raggrinzita Contessa. Quella donna detestabile, con il suo abito verde scuro ricamato con pizzi e merletti, sorseggiava del tè con compostezza, rimirando le luci morenti del giorno.

Ettore Lugupe, invece, aveva il naso aquilino immerso nelle sue scartoffie. La corrispondenza dei suoi funzionari in giro per il regno, concluse la figlia tra sé e sé.

«Maestà, madama Contessa, la principessa è tornata al palazzo.»

Al sentire le parole ampollose del cameriere, entrambi si riscossero, portando i loro sguardi in quello di Luciana, che si concentrò solo sul padre, illuminato dai raggi sbiechi, la fronte aggrottata. Lui la scrutò con meraviglia, come se non credesse che lei fosse realmente lì, al loro cospetto.

Il re di Dzsaco si mosse istintivo verso la figlia, e la strinse in un abbraccio. Lei, sorpresa, non ebbe modo di reagire, perché lui subito chinò il capo verso di lei, con le mani sulle sue spalle, come se fosse ancora una bambina.

«Ci sono arrivate notizie terribili dallo Cmune, tua madre credeva che fossi morta nell'incendio di Mitreluvui!»

«No, sono viva» mormorò lei. «Devo parlarvi.»

Ettore la scrutò con attenzione, fissando i suoi occhi in quelli altrettanto scuri di Luciana. Comprese che qualcosa di grave la turbava, e le indicò di sedersi sul divanetto intrecciato di vimini, su cui mani abili avevano cucito della stoffa verde scuro, con dei cuscini imbottiti dello stesso colore lugubre che sembrava anticipare quali parole avrebbe pronunciato.

«Ragazza, non hai per niente un bell'aspetto» commentò la Contessa con una smorfia, posando la tazzina di porcellana su un piattino bianco, dopo essersi soffermata sui vestiti lacerati della giovane.

Lei evitò di rispondere alla provocazione, concentrandosi sul padre e sul modo in cui poteva convincerlo a intraprendere una guerra contro gli Autunno.

«Io non ero più al palazzo dei Lotnevi quando è scoppiato l'incendio» disse, mentre il sovrano di Dzsaco prendeva posto abbandonando la corrispondenza sul tavolino in vetro. «Melissa Autunno mi ha portata via da lì prima.»

«Ah-ah! Ci sono lei e quella serpe di sua sorella dietro a tutti questi impicci!» esclamò la Contessa, con la sua voce roca.

La principessa le rivolse un'occhiata lunga e silenziosa, carica di odio. Detestava essere interrotta, detestava ancora di più che fosse quella donna spregevole a farlo, mentre lei cercava di formulare un discorso compiuto per arrivare a convincere il padre a intraprendere quella guerra.

«Immagino che ora le Autunno vogliano qualcosa in cambio per il loro disturbo» continuò a dire l'anziana nobile, con gli occhi smeraldini che guizzavano intorno, posandosi spesso su quelli dell'unica erede del casato Lugupe.

«Non voglio dire una parola di più davanti a lei» disse Luciana, ferma. Non poteva permettere che la vetusta parente la intralciasse. Aveva ragione Melissa, bisognava ringiovanire i ruoli di potere su Selenia: le vecchie streghe come la Contessa non dovevano più criticare chi come lei faceva del proprio meglio per il casato e per il regno.

«Vi prego entrambe di fermarvi qui» disse Ettore, atono. La sua era una richiesta nella forma, ma le donne sapevano che l'espressione gentile intendeva camuffare un ordine. Il sovrano guardò la figlia, incitandola a proseguire.

Lei chinò il capo, ubbidiente: si sarebbe sforzata nel comportarsi come se la megera non fosse lì insieme a loro, e provò a farlo guardando solo il padre. «Mi ha proposto un accordo.»

Raccontò dell'espediente della finta guerra, con cui i Lugupe avrebbero acquisito maggiore credibilità, ma che invece era utile alle Autunno per prendere tempo e far credere che la loro offensiva si fosse arrestata. Luciana avrebbe fatto a meno di rivelare quell'ultimo dettaglio, ma era convinta che altrimenti la vecchiaccia l'avrebbe tartassata con altre ipotesi disgustose sull'alleanza tra lei e Melissa. Alleanza realmente esistente, ma di cui nessuno avrebbe dovuto sapere nulla all'infuori delle dirette interessate.

Il re di Dzsaco osservava la figlia mentre la ascoltava, meditando su come fosse più opportuno agire. «Non abbiamo un esercito così efficiente» commentò. «Potrebbero volerci mesi per organizzarne uno che riesca a tenere testa a quello degli Autunno. Nel frattempo Tancredi potrebbe aver già preparato il suo.»

Luciana si meravigliò, a quelle parole. «Anche Tancredi lo sta facendo?»

Lui annuì. «Me ne ha accennato, ma gli ho spiegato che noi non siamo preparati. Abbiamo bisogno di tempo. Se gli Autunno vogliono essere credibili, devono essere loro ad attaccarci, perché altrimenti io non avrei alcuna scusa con il Defi, visto che ho promesso la mia alleanza allo scoppiare della guerra.»

«Questo non toglie che ci distruggerebbero in meno di un giorno» bofonchò la Contessa, versandosi altro tè nella minuscola tazzina. Le mani ossute si strinsero attorno alla porcellana che portò alla bocca, ignorando lo sguardo di biasimo di Ettore. «Mio caro» aggiunse «la tua unica abile mossa politica è stata sposare mia nipote. I vostri maestri militari sono delle bamboccione che non riescono a reggere in mano una spada. Ah, ai miei tempi...»

«Qualche giorno fa ho spiato una conversazione, in una locanda dello Cmune» inventò Luciana, solo per il gusto di interrompere le chiacchiere nostalgiche della donna; ma ideò subito un pretesto per seguire le indicazioni di Melissa. «Due uomini parlavano di bande di mercenari nel Pogudfo, che sono molto abili e preparate ad affrontare una guerra. Qualcuno potrebbe andare lì e assoldarne qualcuna, in modo che si mischino al nostro esercito e ci aiutino a rendere più credibile l'idea per cui ci salveremmo diffondendo la convinzione che il nostro popolo è con noi e lotta per la propria terra.»

«L'idea della ragazza è buona» commentò la Contessa, attirandosi un'occhiata meravigliata della bisnipote. Le rughe attorno agli occhi si infittirono, mentre quella bocca grinzosa si piegava in un sorriso strano. Forse credeva davvero che Luciana avesse esposto un piano non da buttare via. «Potrebbe aver ereditato l'intelligenza della nostra famiglia, anche se l'ha nascosta per molto tempo. Be', meglio tardi che mai.»

La giovane si trattenne dal roteare gli occhi, ma la smorfia sul suo viso faceva trapelare il fastidio.
Ettore teneva le mani sul tavolino, immerso nelle sue riflessioni, con le punte delle dita unite, con lo sguardo puntato sulle sue carte, che non guardava realmente.

«Padre?» si azzardò a dire Luciana. «Cosa ne pensate?»

Lui sospirò, posando gli occhi in quelli altrettanto scuri della figlia. «Io e la Contessa stavamo giusto preparando un piano di rilancio economico per lo Dzsaco, in modo da non essere dipendenti dagli altri regni, ma ci vorrà del tempo perché possa dare i suoi frutti. Se vinciamo uno scontro con gli Autunno, il popolo si lascerà guidare da noi, ci crederà quando daremo delle istruzioni che potrebbero non capire... e penserebbero che lo facciamo per il loro futuro, proprio come è, ma senza insinuare che abbiamo l'intenzione di arricchirci alle loro spalle.»

«La nostra famiglia è già ricca abbastanza, mio caro. Dei soldi di quella gente non ci facciamo proprio nulla.» La Contessa posò la tazzina vuota sul piattino, come se non le pesasse di aver pronunciato la verità senza il minimo tatto. «Ora i soldi ci devono servire per pagare dei mercenari bene addestrati che possano servire al nostro scopo. Ragazza, tu hai i contatti con le Autunno, puoi farti dire dove trovare chi fa al caso nostro. Suggerisco che sia tu a partire.»

Ettore scosse la testa. «Vorrei che Lavinia possa vedere che è qui e che sta bene, in modo che non...»

«Lavinia è davvero cocciuta ed è voluta partire lo stesso con qualche uomo di scorta e solo una delle sue cameriere personali. Una mossa poco intelligente: avrebbe dovuto mandare te, ma era così preoccupata che i Lupfo-Evoco facessero davvero quello che hanno fatto che inizio a temere che abbia proprio perso il lume della ragione...»

Luciana strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nella carne per trattenere il disappunto. Non le bastava prendere di mira lei, ora voleva anche criticare le azioni di sua madre? Non doveva osare. Sperò che Melissa le desse qualche consiglio su come potersi sbarazzare della Contessa, in modo che smettesse di infilare quel suo naso affilato in tutte le faccende del regno.

Si morse la lingua, nel timore che il suo autocontrollo potesse venir meno e ripensò all'ultima parte del suo accordo con la principessa di Ruxuna: gli zaffiri delle loro miniere al nord. Preferì tacere, non solo per evitare i commenti spiacevoli della donna, ma perché non era necessario metterne al corrente il padre.

«Avete ragione, non avrei dovuto lasciarla partire» disse il re, mestamente. «È stato un mio errore, di cui vorrei non parlare più. Ormai quelle scelte appartengono al passato: confido che Lavinia torni presto qui, in modo che quando il guaritore arriverà, possa mettersi subito all'opera dal momento che il suo male è curabile.»

«Posso partire lo stesso» propose la principessa, cogliendo subito l'occasione che le si presentava. «Aspetto il suo ritorno e nel frattempo chiedo consiglio a Melissa, così sarò preparata a come agire nel Pogudfo.»

«Sì, questa è la cosa migliore» stabilì Ettore, chiudendo il discorso. Si chinò di nuovo sulle sue carte, dopo aver congedato sia la figlia sia l'anziana parente della regina.

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Capitolo 52
*** 16.2 Il re Inverno ***


 

Un vento fresco aveva iniziato a soffiare, in quella mattinata estiva, quando Gaò era ancora immersa nel sonno. Si insinuava tra le case con violenza, bussando alle porte, sbattendo le imposte alle finestre, ma gli abitanti di quella strana capitale non si affacciavano per comprendere quale fosse la causa di quella furia.

Una coltre di nuvole dall'aspetto invernale sostava immobile, come volendo tenere prigionieri quei sudditi, privandoli della luce del giorno. Il candore perlaceo si rifletteva accecante sulle pietre delle case, illuminando più di quanto non facesse il sole nelle giornate limpide.

Lo sbattere di una porta svegliò Franco di soprassalto. Si rigirò sotto le trapunte, anche se ormai era consapevole che non avrebbe più ripreso sonno. Dunque si vestì e controllò nella sua bisaccia quanti fiorini defici avesse ancora per rimanere in quella locanda. Fece una smorfia di disappunto, temendo che forse quelle quaranta monete in oro gli sarebbero bastate a malapena per il viaggio di ritorno, se non avesse trovato di nuovo la Millenaria: era stata davvero una fortuna incontrare il vice capitano di quella nave quando era di passaggio a Nilerusa, ormai diverso tempo addietro.

Ancora non aveva idea del motivo per cui un ragazzo dedito ai viaggi per mare avesse intrapreso un percorso via terra che lo aveva occupato per settimane, se non mesi; ma Angelo era stato molto riluttante a parlarne. Probabilmente aveva avuto ragione nel mantenere il silenzio: c'erano troppi segreti su Selenia, preferiva doversi concentrare sui suoi.

La vecchia Mila era andata più volte da lui a dirgli che l'arrivo di Tancredi doveva essere imminente, perché aveva la fama di essere un uomo che si presentava tempestivo dove richiedevano il suo aiuto. Franco tuttavia non credeva che si sarebbe presentato tanto presto: nonostante il Pecama fosse un'isola molto piccola, non credeva che gli spostamenti fossero così rapidi. Anche se immaginava che il re di Inverno e Defi possedesse i migliori cavalli e che, se avesse avuto bisogno di un viaggio veloce, le sue risorse glielo avrebbero permesso.

Prese la sua bisaccia e ne controllò per l'ennesima volta il contenuto: nessuna moneta si era mossa da lì. Il suo era un gesto meccanico, come se volesse rassicurarsi che viaggiare con quella valuta lo avrebbe riportato presto a casa, nel Defi. Da Flora.

Scese velocemente le scale, saltando qualche gradino come al solito, e si avvicinò al locandiere, intento a versare del latte in alcune tazze. Due baffoni scuri davano personalità a un viso altrimenti anonimo e facilmente dimenticabile.

«Messere Ulsi, sempre lo stesso?» bofonchiò, nascondendo uno sbadiglio.

Lui annuì.

«Bene, prima che me ne dimentichi, è arrivato un uomo molto importante che vuole parlare con lei.»

«Sa chi è?» gli chiese Franco, trattenendo un'espressione di stupore.

«No, era coperto da un mantello, anche sulla faccia. Mi ha pagato in anticipo e con più denaro del necessario la sala privata per la colazione e ha chiesto proprio di lei, come se sapesse che fosse qui.»

Il giovane annuì, tremando all'idea che l'uomo di cui il locandiere gli avesse parlato fosse proprio Tancredi Inverno.

«Sarà meglio che vada, allora» si congedò, più per convincere sé stesso che fosse il momento di raggiungere il re di Defi. Nei pochi passi che lo separavano dalla sala privata, non seppe decidere se fosse rassicurato o meno dalla sua presenza. Se da un lato si sentiva sollevato l'idea che il re potesse tirare Chiara fuori dai guai e permetterle di salire al trono delle Foglie Cadute, dall'altro la paura che scoprisse la relazione di Franco con la figlia lo atterriva.

Si ritrovò a bussare, con le gambe che si erano mosse da sole fino alla porta. Una voce profonda tuonò "Avanti!" e lui entrò.

Franco non si illuse: davanti a lui c'era proprio Tancredi Inverno. Il naso piccolo, la bocca sottile, gli zigomi alti erano gli stessi di Flora. E anche il modo in cui i suoi occhi freddi lo puntarono era lo stesso che usava la sua amata con le persone che non conosceva.

Deglutì, incerto se avvicinarsi o meno, ma quando il re gli fece cenno di accomodarsi tirò un sospiro di sollievo.

«Immagino che tu sia Franco Ulsi» disse l'uomo, senza espressione.

Annuì. «Sì, mio signore.»

«Bene. Vorrei sentire dalla tua voce cosa è successo quando sei arrivato qui con la pricipessa Delle Foglie. Sono disposto ad aspettare che tu faccia colazione, se non sei ancora del tutto sveglio.»

«Non c'è molto da dire, in realtà. Quando io e Chiara Delle Foglie siamo arrivati al castello, Donna Delia ha dubitato che fosse realmente lei, nonostante avesse il pettine della madre e la lettera che ne confermava l'identità. Quindi mi ha incaricato di mettermi in contatto con voi, perché voi avete una copia uguale della lettera. Ho incontrato vostro figlio sulla nave che mi ha portato qui, quindi ho pensato di scrivere a lui... e visto che siamo attraccati a Punta Salina, immaginavo che l'avrei trovato alla corte dei Dal Mare.»

Tancredi fece un cenno di assenso con il capo, come confermando le parole del giovane. «Devo farti alcune domande, perché non mi è molto chiaro il motivo della tua presenza qui.»

Franco trattenne il respiro, preoccupato a ciò che il sovrano avrebbe potuto chiedergli. Per sua fortuna il locandiere entrò proprio in quel momento, senza curarsi di bussare. Posò sul tavolo in legno che separava i due una tazza di tè fumante, un'altra con del latte e un recipiente stracolmo di biscotti che profumavano di burro. Il nobile gli rivolse un'occhiata glaciale, rimproverandolo tacitamente per non aver bussato all'uscio come il giovane aveva fatto poco prima.

L'uomo se ne andò senza proferire parola, così come era arrivato.

«Dicevo, viste le circostanze particolari in cui ci troviamo, devo farti alcune domande» riprese Tancredi, con un tono di voce vagamente affabile. Sembrava che non volesse far pesare al giovane la spiacevole interruzione.

«Sono pronto a rispondervi» gli disse Franco con prontezza.

Le labbra del re Inverno si piegarono appena, in un sorriso misterioso. «Bene. A quanto mi ha riferito mio figlio, sei di estrazione borghese, e la tua famiglia vive a Nilerusa. Di cosa vi occupate?»

«Abbiamo un'azienda che produce tappeti» rispose Franco. «Abbiamo persone che lavorano per noi sparse per il Defi, soprattutto le massaie in campagna, poi facciamo arrivare...»

Si interruppe a un gesto perentorio del sovrano.

«Conosco il processo di lavorazione, mi era sufficiente "tappeti". So dove si trovano entrambi i negozi in cui rivendete a Nilerusa. Ho incontrato tuo padre Emilio, alcune settimane fa. Ne ricordi il motivo?»

Puntò i suoi occhi freddi in quelli altrettanto chiari e cristallini del giovane, che sostenne il suo sguardo con coraggio. Tancredi aveva riflettuto a lungo su quale domanda fargli per dimostrare che fosse proprio lui e non qualcuno che volesse ingannarlo utilizzando un cognome a lui familiare.

Non dovette attendere per avere una risposta, perché Franco annuì. «Lui e mia madre pensavano di aprire un negozio anche a Mitreluvui e serviva il vostro aiuto per chiedere il permesso anche nello Cmune.»

Tancredi annuì. «Bene, ora sono certo che non sei un impostore che si finge qualcuno che non è. Ora, ti chiedo di illustrarmi i motivi per cui hai accompagnato qui Maria Chiara Delle Foglie.»
Il giovane deglutì, sapendo di dover escogitare in fretta una storia che non includesse anche Claudio, che sicuramente sarebbe stato rintracciabile dal re nel caso avesse voluto conferme ulteriori.

«Sapete,» disse, «il mercato di Nilerusa è molto frequentato e ci sono persone che vengono anche da luoghi distanti per vendere da noi. C'è un mio coetaneo che gestisce l'azienda agricola di famiglia, e si occupa personalmente di portare i frutti del loro lavoro nel Defi e nello Cmune; sono entrato in familiarità con lui, gli ho fornito i contatti per alcuni lavori che dovevano fare a una vecchia magione... Così ho scoperto che lì era cresciuta la principessa Delle Foglie, lontana dal suo regno e sotto falso nome, proprio per ammissione del mio amico. Una volta sono persino andato lì, ma sapete...» esitò, nervoso, come quel resoconto in parte vero avrebbe richiesto se lo fosse stato del tutto. «... Si trovava nel Pogudfo e i miei genitori non erano contenti all'idea che corressi il rischio, perché non ci sono bei racconti su quel vecchio regno. Però alla fine li ho convinti e sono partito per una settimana insieme al mio amico...»
 

E insieme a Claudio, aggiunse mentalmente, ma evitò di dirlo ad alta voce. Così come evitò di dire che aveva conosciuto Gaetano grazie a Claudio e che aveva dovuto convincere Flora a rimanere nel Defi e a non fuggire dal castello per stare insieme a lui.

«Quando siamo andati lì era appena giunta la notizia, della morte dei sovrani Delle Foglie, quindi la principessa ne ha parlato anche con me e insieme abbiamo deciso che era la cosa migliore da fare. In due eravamo discreti, se qualcuno aveva ucciso i suoi genitori era meglio che noi due non attirassimo l'attenzione su di lei. Siamo arrivati tardi perché organizzare i preparativi non è stato semplice, soprattutto nascondendo il vero motivo della mia partenza.»

Tancredi sorrise, convinto da quel resoconto e divertito dall'ingegno del ragazzo. «Quindi ufficialmente sei qui per...?»

«Per studiare le usanze del regno del Mare, nella previsione di aprire un'attività anche lì.»

Il re di Defi si portò la tazza di tè alle labbra, bagnandole appena, poi scrutò il giovane defico seduto innanzi a lui. «Immagino, dunque, che tu sia in grado di usare una spada.»

Franco si allarmò: che Erik gli avesse parlato del loro duello?

«Ho preso lezioni di scherma e con i miei compagni abbiamo anche fatto qualche combattimento non proprio seguendo le regole dei duelli... quindi ero preparato anche nell'eventualità di un attacco a sorpresa.»

«E se fossero stati più di uno?»

«Lo ammetto, forse abbiamo sottovalutato il pericolo...» disse il giovane, abbassando lo sguardo, «ma se non avessimo attirato l'attenzione, non ce ne sarebbe stato bisogno. Non abbiamo mai viaggiato in carrozza, i cavalli che abbiamo noleggiato sono stati veloci... e persino nell'Autunno non abbiamo incontrato problemi.»

«Dunque avete evitato il regno dei Prati?» domandò Tancredi, incuriosito da quella accortezza. Più il giovane parlava, più a lui sembrava di scorgere degli elementi di eccezionalità che difficilmente avrebbe attribuito a un popolano, anche se di buona condizione; tuttavia già il fatto che avesse fatto da scorta alla Delle Foglie avrebbe dovuto indurlo ad averne un'alta opinione.

«Certamente: non potevamo correre dei rischi attraversandolo.»

Il re sorrise di nuovo mentre il borghese sorseggiava il suo latte caldo. «Non sei affatto una persona comune» commentò. «Vai a radunare le tue cose, dobbiamo andare al castello e liberare la futura regina di questo luogo. Prima» soggiunse non appena il ragazzo si fu alzato in piedi, «puoi finire la tua colazione. Non mi serve a nulla un alleato che non sia in forze.»

Il cuore di Franco vibrò, come mosso da un terremoto interiore. Alleato? Il re di Defi, il sovrano più rispettato di Selenia, nonché padre della sua Flora con cui aveva una relazione clandestina... lo considerava un alleato?

Sorrise riconoscente, mangiò un paio di biscotti in fretta e si ripresentò pochi minuti pochi alla sala privata della locanda, pronto a seguire re Tancredi verso il castello di Gaò.

L'Inverno lo guidò all'esterno, dove incontrarono un gruppo di uomini armati, che subito si unì a loro. Nessuno disse una parola mentre attraversavano la città silenziosa, in cui il soffio irrequieto del vento faceva da padrone sferzando i visi degli uomini che percorrevano le vie grigie.

Gli abitanti sembravano temere quell'irruenza della natura: nessuno si affacciava, nessuno scendeva nelle strade, né per aprire le botteghe né per altri motivi.

«Non pensavo che avremmo trovato davvero una città a lutto. Se si fermasse Eldisu, sarebbe la fine» commentò uno degli uomini della scorta.

Re Tancredi lo zittì con un cenno. «Ci si può spostare in altri modi, soprattutto in un centro piccolo come Gaò. Potrebbero esserci delle strade sotterranee. Alla locanda c'era qualcuno, e il locandiere in qualche modo deve esserci arrivato.»

«Dopo quello che è successo al re e alla regina non si fidano più degli stranieri?» sussurrò un altro uomo.

«Può darsi» annuì il sovrano di Defi. «Il clima è tumultuoso, quaggiù, ma non sono stati gli abitanti della città a ucciderli. Erano i contadini nelle campagne ad avere da ridire sul loro operato: credo che non si fidino di loro. Noi siamo ospiti esterni, non abbiamo motivo di nuocere. Vedono la mia spilla, sanno che non devono temere me e chi mi sta intorno.»

Franco allungò il collo per osservare il luccichio sulla veste del re, sui cui in precedenza non si era soffermato; c'era ben altro a occupargli la mente. Si trattava di un fiocco di neve stilizzato, in oro bianco: uno dei simboli della famiglia Inverno.

Arrivarono a grandi passi al castello di pietra, dopo aver salito la lunga scalinata che collegava la reggia alla città. Il popolano, quella volta, non perse tempo a guardare il panorama della muta Gaò, ma si fece avanti agli altri e fece risuonare i battenti.

Gli uomini della scorta di Tancredi lo fissarono sorpresi per l'ardire con cui aveva agito, ma lui non si lasciò intimidire.

«Era un codice tra me e una delle donne di servizio qui, nel caso in cui voi foste arrivati» spiegò.

La vecchia Mila apparve poco dopo, mostrando le rughe del tempo e i capelli bianchi legati sulla nuca. Fece un profondo inchino al cospetto dell'illustre ospite, e senza dire una parola li fece entrare e li guidò fino alla sala in cui si riuniva il consiglio, in cui già si trovava Donna Delia.

A differenza di quando Franco l'aveva incontrata la volta precedente, la nobile era in piedi e camminava avanti e indietro pensierosa. Il suo profumo di lavanda impregnava l'aria, tanto che Tancredi storse il naso, in segno di disapprovazione.

Il re estrasse una lettera dalla tasca e la posò sul tavolo in pietra scura della sala. «Questa è la prova che presso di voi c'è la vera Maria Chiara Delle Foglie» asserì con sicurezza, mentre la donna alzava lo sguardo incontrando il suo. «Avete un giorno per predisporre tutto per l'incoronazione.»

«Voi non potete darmi ordini» ribatté Donna Delia, algida. Si era fermata e puntava i suoi occhi neri come la notte in quelli cristallini del sovrano Inverno, offesa dal modo in cui era stata trattata.

Tancredi, tuttavia, sorrise. «In queste circostanze, sì. La futura regina vi direbbe lo stesso. Bisogna fare il prima possibile, bisogna dare una regina al vostro popolo. Un giorno per organizzare la cerimonia sarà più che sufficiente.»

Franco esultò intimamente nel vedere Donna Delia abbassare lo sguardo e passare la mano con un gesto nervoso sulle pieghe dell'abito. La nobile non poteva opporsi all'autorità del re né alla sua alleanza diplomatica con i Delle Foglie, che gli dava il potere di intervenire in situazioni delicate come quella. Al giovane di Defi non era chiaro con quali intento avesse guidato il Consiglio fino a quel giorno, e dubitava che Chiara potesse fare affidamento su di lei in futuro.

«La farò liberare» ammise Donna Delia con un soffio di voce. «Sarà la nostra regina.»

 

*Angolino autrice*
Personalmente non sono molto soddisfatta della seconda metà del capitolo... ma ho deciso che ci torrnerò su a fine stesura. Se trovate qualcosa che può essere migliorato/aggiunto/sistemato, sentitevi liberi di farmelo notare! (Ho già una mezza idea di cosa non va, ma vorrei avere delle conferme)

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Capitolo 53
*** 16.3 Amanti e alleanze ***


 

L'affresco aveva colori chiari, come se la scena si svolgesse all'alba, quando il grigiore del cielo confondeva il rosso e il rosa delle vesti. Uomini e donne dall'antica nobiltà sedevano intorno, lungo gli scalini di una sala circolare di un oro sbiadito, come sabbia trascinata dal vento in un giorno di bufera.

Alessandro Inverno era in piedi, e parlava con le braccia spalancate, la veste scura ancora macchiata di sangue. I suoi occhi, scuri del blu della notte, erano puntati contro chiunque avesse guardato la rappresentazione. La tunica lasciava scoperte le braccia, e la destra del re Inverno era stata recisa con perizia. Tutti sapevano la storia: era stato colpito di striscio dal fuoco velenoso di un drago e, per evitare che tutto il corpo si infettasse, i guaritori avevano deciso di tagliarlo pur di salvare la vita del loro signore.

Una donna, individuabile come la regina dei territori del nord-ovest per via del suo sguardo assente e del colore delle nuvole, guardava ammirata l'uomo in piedi. Le cronache parlavano di lei come della sovrana buona che aveva aperto i suoi cancelli per i poveri del regno, che non avevano un posto per scaldarsi durante la gelata di alcuni anni prima, nonostante il parere contrario della corte. Asterea Lespi ascoltava assorta le mute parole dell'Inverno, ancora con l'orrore dipinto sul volto.

La guerra era appena finita.

I draghi erano stati sterminati e Laura Autunno, allora dominatrice delle terre meridionali del Vorrìtrico, entro poche ore sarebbe stata condannata a morte per l'addestramento di quelle bestie mortifere, che tanti danni avevano portato su Selenia, che tanto dolore avevano portato alle famiglie di ogni rango sociale.

Il primo incontro dei Lupfo-Evoco si era tenuto in quella occasione, anche se all'epoca, nell'anno zero, ancora non avevano quel nome. Uomini e donne del potere distrutti, che avevano combattuto la guerra in prima linea, per contrastare l'ascesa sconsiderata di Laura.

Rinascere dalle ceneri, cooperare per l'interesse comune, adoperarsi in qualsiasi modo perché un conflitto tremendo come quello non si ripetesse più.
 

Ora invece i nobili sono ridotti a marionette, non sono in grado di distinguere il bene dal male neanche quando è mostrato palesemente davanti ai loro occhi.

Melissa fece scorrere le dita su una figura che dava le spalle, sentendo la superficie ruvida e irregolare della tintura che aveva impregnato le pareti diversi secoli prima.

«Ci hanno ridotti al silenzio a governare su uno sputo di terra» disse una voce decisa, affiancandola. «Dobbiamo riprenderci quello che ci apparteneva.»

Raissa indossava un abito elegante, di un rosso scuro che nelle pieghe aveva sfumature di tenebra. L'incarnato sembrava pallido alla luce della sala, o forse era solo per via dell'aria stanca della figlia mediana di Amelia e Ruggero: dopo la conquista degli ultimi regni aveva meditato a lungo se occupare anche il Copne con la forza o se intrufolarsi di nascosto e proporre un'alleanza a Milena Cordi. L'idea non l'aveva mai allettata, perché le alleanze implicavano dover cedere qualcosa alla controparte, ma si era resa conto che i suoi soldati stavano esaurendo le forze. Né la magia né l'alchimia le avevano ancora fornito un aiuto su come permettere loro di recuperare in fretta le energie e dunque l'unica maniera di allargare la propria influenza senza azioni belliche appariscenti era quella.

Melissa annuì, sebbene non concordasse con la sete di conquista della sorella minore, che però sembrava la prescelta dai genitori per il futuro dei loro regni. L'attitudine al comando di Raissa la rendeva cieca sulla finta fedeltà della maggiore; era convinta che, nonostante il litigio di alcuni giorni prima, avessero le stesse idee sul loro futuro.

«Deianira?» chiese.

«Non si è ancora ripresa dal nostro ultimo tentativo. Lei è molto più predisposta di noi: se la profezia non parlasse della Primavera, potrei credere che sia lei la minaccia al nostro dominio.»

«A quanto ne sappiamo, Flora ignora i propri poteri» sussurrò Melissa. Anche se loro erano sole, non poteva correre il rischio che Milena, entrando in quella sala, ascoltasse i loro piani.

«Ancora non ti fidi dell'alleanza con la Cordi?» la derise Raissa. «Appena ho messo piede qui, mi sono dovuta ricredere: è molto più sveglia di quanto mi aspettassi. Ma per nostra fortuna non sospetta nulla.»

«Lei non è un problema, sono sicura che ci sarà molto utile. Sono altre cose che non mi convincono.»

La minore non disse nulla, ma si concentrò sulla raffigurazione davanti ai loro occhi. Con le nocche colpì un punto delle scalinate dipinte, in cui non era rappresentato nessun individuo del passato. Trattenne l'impulso di rovinare il muro con un pugno, di grattare via con le unghie il volto emaciato di Alessandro Inverno.
 

Anche se alleati, siamo ospiti.

La porta della sala si aprì ed entrò Milena Cordi, composta nel suo abito blu scuro. La chioma corvina era raccolta in una treccia che le cadeva sulla spalla destra, lasciata nuda dallo scialle che la avvolgeva. Avanzò a passo cadenzato verso le due sorelle, il suono dei tacchi scandire i suoi movimenti.

«Arriveranno tra alcuni minuti» disse.

A quelle parole, Melissa coprì il suo volto con il mantello, poi si avvicinò a una porta nascosta dietro agli scranni della sala del trono e coperta da un arazzo, e la aprì. In un corridoio buio quattro soldati con una foglia castana spezzata in due parti erano sull'attenti, in attesa di indicazioni.

«In quell'angolo lì» ordinò l'Autunno, indicando un punto non illuminato del salone. Poi disse ad altri due di mettersi ai lati della porta di ingresso.

«Sei sicura che arriveranno prima le ragazze?» chiese Raissa.

Milena annuì e andò a sedersi sul trono, come se volesse un posto privilegiato per godersi lo spettacolo. Mellisa le rivolse un'occhiata di disprezzo, senza essere vista: la Cordi si era lasciata incantare dalle promesse della sorella, senza comprendere che il loro accordo non era altro che una situazione momentanea, prima che anche lei venisse spazzata via.

Anticamente il Copne non faceva parte dei possedimenti degli Autunno, ma il piano di Raissa era prendere più dei territori che i primissimi Lupfo-Evoco avevano sottratto alla loro famiglia, riducendoli a governare solo sul Ruxuna e su quel territorio nel Pecama a cui dovevano il cognome. E il regno di Milena aveva una posizione strategica, con lo sbocco sul mare e con il confine settentrionale dello Cmune.

Melissa non riteneva saggia quell'alleanza, perché alcuni si sarebbero potuti insospettire: in apparenza non dovevano cambiare tattica, era meglio mantenere la nomea di sanguinarie che si muovevano lasciando scie di sangue e distruzione. Era necessario far credere che si sarebbero fermate dopo la guerra contro i Lugupe, ma non dovevano lasciar intendere quello che stavano facendo davvero.

Sospirò, nascondendosi dietro i due troni in una posizione che le permetteva di guardare non vista a sua volta. Su una cosa concordava con Raissa: lei non doveva farsi vedere, non al di fuori del Ruxuna, non di fronte ad altri nobili che avrebbero compreso che lei appoggiava la condotta politica della sorella.
 

Come se questo fosse vero.

Le porte della sala si aprirono, e Bianca De Ghiacci e Menta Gredasu entrarono. Se la popolana non aveva capito chi era la nobile vestita di rosso scuro, Bianca si accorse subito che qualcosa non andava e strabuzzò gli occhi chiari, puntandoli in quelli di Raissa.

«Tu...» sussurrò la nobile del Pecama, annaspando. La sua sorpresa era evidente, ma le fu sufficiente guardare Milena, che doveva assistere alla scena con soddisfazione.

Non ti è mai piaciuta, eppure tu non vali neanche la polvere che lei calpesta.

«Prendetele» sibilò Raissa.

Bianca si divincolò dalla presa di uno dei due soldati, mentre Menta veniva legata e imbavagliata. «Non puoi farlo!»

«Siamo in guerra, cara, certo che posso» ribatté placida l'Autunno, con la voce che si sforzava di mantenere un tono neutro ma che non poteva nascondere la sua gioia nell'aver incastrato una delle future avversarie politiche.

Che la De Ghiacci fosse pronta d'ingegno era risaputo, tanto che Raissa aveva deciso di catturarla prima che lei tornasse nel Pecama; era stato uno dei motivi che l'avevano spinta ad allearsi con Milena.

Melissa assistette inerme, mentre le due giovani, ignare, venivano spostate alla destra del trono della Cordi, con i soldati muti che le incitavano a muoversi a spade sguainate, le punte di metallo freddo che punzecchiavano la pelle di entrambe.

«Non fate loro del male» ordinò Raissa perentoria. «Il loro sangue blu ha origini tanto antiche che farebbe impallidire persino la nostra ospite.»

La maggiore delle Autunno rimase immobile, pur consapevole che da quella posizione Menta Gredasu avrebbe potuto notare la sua presenza. Si concentrò per mantenere il volto impassibile, nonostante il cappuccio scuro che la copriva.
 

Speravo che le mie informazioni fossero errate, che tu non fossi qui.

La fanciulla erede della famiglia maledetta, aveva strabuzzato gli occhi al sentire le parole di Raissa, ma non avrebbe potuto chiedere nulla in quella situazione.

Bianca, invece, lanciava occhiate algide alla principessa di Ruxuna, che si era avvicinata a lei.

«Mia cara» La voce della principessa di Ruxuna era dolce nel rivolgersi alla De Ghiacci, ma di una dolcezza ostentata, che chiunque avrebbe smascherato. «Ti dispiace darci un passaggio per il Pecama? Sfortunatamente mi ritrovo senza una nave e so che la vostra è ormeggiata qui.»

Lei, in risposta, le lanciò un'occhiata algida.
 

Ti stai divertendo, vero, sorellina? Fa più male questo di una ferita con la spada nel suo orgoglio; e questo lo sai, altrimenti non ti comporteresti così.

La porta della sala del trono si spalancò di nuovo, con un colpo secco di due braccia possenti. Roberto De Ghiacci non aveva il minimo senso dell'opportunità: se non fosse stato per l'espressione sorpresa sul suo viso, chiunque avrebbe ipotizzato che in quel modo stesse facendo il suo ingresso nelle osterie, di cui aveva fama di assiduo frequentatore.

Guardò Milena, con la confusione dipinta nei suoi occhi azzurri. «Che sta succedendo?»

«Arrivi proprio al momento giusto» disse invece Raissa, prima che la Cordi potesse proferire parola. «Stavo giusto chiedendo a tua sorella di offrire un passaggio a me e ad alcuni dei miei uomini... Ma puoi rispondere tu per lei.»

Roberto non si era lasciato distrarre, ma si era accorto che due uomini armati gli si avvicinavano mentre lei parlava: colpì con un pugno il primo soldato che l'aveva raggiunto, poi assestò un calcio al secondo. A un cenno dell'Autunno, gli altri due allontanarono le spade da Menta e Bianca e le puntarono contro il principe. Uno dei primi, con la mascella tumefatta, si apprestò a chiudere le porte della sala, per evitare che qualche nobile della corte passasse di lì e accorresse. Nessuno doveva sapere cosa accadeva.

«Mi dispiace, Milena, ma non posso tollerare questo comportamento» disse Raissa. «Porterò con me anche il tuo amante.»

«Eravamo d'accordo che Roberto sarebbe rimasto qui» ribatté la Cordi, irrigidita.

«Ho soldati sparsi ovunque nel palazzo, vuoi che prenda con la forza anche te?» Da mellifluo e stucchevole, il tono dell'Autunno era diventato fermo e autoritario.

La regina di Copne risposte con un cenno di assenso del capo. «All'ultimo piano ci sono delle sale vuote, possono portarli lì» disse. «Nessuno della mia corte mette piede nell'ala ovest, raccontano che ci si aggiri un fantasma sanguinario.»

Melissa inarcò un sopracciglio. I suoi nobili dovevano essere di una stoltezza senza pari se credevano a una favola simile.

«Mi sembra ottimo.»

Raissa si mosse verso una delle altre porte, e fece entrare un manipolo di soldati, a cui sbrigativa diede gli ordini da eseguire all'istante.

«Ora non avete più bisogno di me, posso tornare alla mia corte o si insospettiranno» si congedò la giovane regina.

«Sei una preziosa alleata» la salutò Raissa.

Melissa uscì dal suo ombroso nascondiglio e rivolse un cenno di commiato a Milena. Solo a malapena riusciva a celare il suo disprezzo per la sovrana di Copne, ma preferiva tenere per sé quanto pensava. Una donna che aveva appena abbandonato il proprio amante senza battere ciglio non meritava il suo rispetto, ancora meno il suo saluto. Non le importava che avesse provato a obiettare, perché quando Roberto era stato condotto via dai loro soldati, lei non aveva mutato espressione del viso. E nemmeno nel suo animo aveva avvertito quel turbamento che persino la maggiore delle Autunno avrebbe avuto.

Non appena l'ospite ebbe lasciato la stanza, fu richiamata dalla voce di sua sorella.

«Ora dobbiamo parlare della sorte di Menta Gredasu.»

 

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Capitolo 54
*** 16.4 Casale abbandonato ***


 

Giampiero sedeva immobile di fronte ad Alcina, nella carrozza che la sovrana aveva preparato per loro due non appena il marchesino era tornato al castello del Defi. Sapeva di non aver fatto il proprio dovere fino in fondo, e temeva che la regina lo avrebbe punito una volta giunti a destinazione.

Nelle sue orecchie risuonava ancora la seconda parte del colloquio con Pietro Riutorci, che aveva origliato una conversazione segreta tra sua madre e l'ormai defunta regina di Ruxuna.

"Parlavano di una profezia... una profezia che secondo loro riguardava Flora Primavera e Raissa Autunno. Ho sentito solo alcune frasi, tenevano la voce bassa..."

La regina di Defi, davanti a lui, guardava il paesaggio scorrere fuori dalla carrozza, tranquilla all'apparenza. Un venticello afoso si infiltrava nello spazio stretto in cui erano seduti i due nobili, ma la donna non ne sembrava affatto infastidita.

"Non so se la Primavera è in pericolo, non sono riuscito a capire dove si trova Raissa, né se si sia messa in cerca di lei... So che voi siete devoto alla sua famiglia, quindi lo dovete sapere..."

«Hai l'aria sconvolta» disse la regina. «I Lupfo-Evoco non sono andati come avevamo previsto, ma tu sembri distrutto più di quanto lo sarebbe stato chiunque altro.»

«Ho fallito, Maestà» ammise lui, amaramente. Non voleva che Alcina sapesse i reali motivi che lo turbano. L'incertezza della sorte di Luciana tra tutte, ma si era convinto di potersi fidare del Riutorci, quindi almeno per lei non avrebbe più dovuto darsi pensiero. Tuttavia, c'era anche altro, non solo quanto riguardava Flora e Raissa. «Era importante salvare Nicola... e non ci sono riuscito. Ho fatto quello che ho potuto, ho persino convinto Ivan Del Nord a votare per la sua salvezza...»

«Gli Autunno hanno giocato le loro carte e hanno ottenuto una stracciante vittoria diplomatica» constatò Alcina, interrompendolo. I suoi occhi chiari guizzarono in quelli del marchese con disappunto. «In parte è stata colpa mia, ti ho assegnato un incarico troppo grande.»

Giampiero abbassò il capo, sconfortato, e si guardò le mani, con le dita intrecciate tra loro. Aveva ipotizzato quell'eventualità e sentirla dire ad alta voce dalla sua sovrana era una pugnalata in pieno petto: lui non era stato all'altezza.

«Tuttavia questo non significa che tu non sia un diplomatico valido, o che non ti voglia più nella mia corte» proseguì lei. «Significa che io non avrei dovuto dare ascolto a chi mi avvertiva di non andare ai Lupfo-Evoco. Anche io ho commesso un errore e il mio, caro marchese, è imperdonabile.»

Lui rimase impassibile, nascondendo la sorpresa. Qualcuno sapeva cosa sarebbe successo dopo i Lupfo-Evoco? L'incendio che aveva raso al suolo la reggia di Mitreluvui doveva essere stato premeditato da tempo; e Giampiero era certo di sapere chi l'aveva voluto Ma, allora, perché Raissa avrebbe dovuto avvertire Alcina? Che cosa voleva da lei?

Flora...

Che lui fosse stato inviato lì con il compito preciso di fallire pur provando a salvare Nicola? Per quale motivo? Per tenerlo lontano dalla principessa Primavera? Ma la regina come avrebbe potuto sapere, se lui non ne aveva parlato con nessuno nel Defi?

Il Tirfusama si strinse nelle spalle, sentendo un brivido solleticargli il collo. Non poteva più fidarsi della sovrana, non se lei aveva deciso di consegnare sua figlia alla principessa Autunno. Non riusciva a immaginare come avessero potuto accordarsi, ma le parole di Alcina sottintendevano sempre qualcos'altro; e quella volta non faceva eccezione.

«Quindi voi sapevate che la situazione lì era pericolosa e non avete avvisato le vostre alleate?» chiese, con un garbata sorpresa.

Lei inclinò il capo a destra, come Giampiero l'aveva vista fare quando era in difficoltà. In quei casi c'era qualcuno della corte che interveniva a togliere d'impaccio la regina. Ma in quel momento loro due erano da soli e nessuno le sarebbe corso in aiuto: il marchese sapeva di aver posto una domanda scomoda, e sapeva altresì di averla posta con tutta l'ingenuità che avrebbe potuto avere.

«Non avevo scelta» rispose lei. «Se mi fossi presentata avrei fatto la stessa fine di Amelia e Matilde, se avessi detto a Matilde o a Lavinia o a Felicita che la situazione laggiù non era tranquilla avrei esposto te al pericolo.»

La carrozza sobbalzò, forse per un sasso che le ruote non avevano evitato, e il marchese poté nascondere il suo stupore a quelle parole. Era stato usato come pedina di scambio in un accordo segreto!

«Avreste dovuto correre il rischio» disse, asciutto, una volta che entrambi si furono ricomposti dopo lo sbalzo. Si trattenne dal passarsi una mano tra i capelli scuri, perché Alcina avrebbe potuto interpretarlo come un segno di debolezza. Era costretto a mostrarsi imperturbabile, facendo comprendere alla Primavera che non ci fosse nulla su Selenia di cui non fosse a conoscenza.

«No, la tua vita è preziosa» ribatté lei, con fermezza.

«Più di quella di Nicola Lotnevi?» domandò Giampiero, atono.

La regina chinò il capo. «Più della sua.»

«Perdonatemi, Maestà, ma non è così.» Le parole gli erano uscite di bocca senza che lui potesse accorgersene. Nonostante il solito tono cortese, non aveva mai osato contraddire Alcina.

Sigillò le labbra, attendendo la reazione della sovrana. Sperò che lei non lo considerasse un segno della sua insubordinazione e che non comprendesse che ormai la sua fedeltà era perduta.

«Nicola non ha alcuna esperienza politica, non sa come si governa, né come ci si comporta con gli alleati o con i nemici. Ha buon cuore, questo non lo nego, ma per tenere le sorti di un regno non è sufficiente» disse la regina, scacciando con un gesto della mano un insetto che era volato nella carrozza. Persino quel moscerino sembrava averne timore e volo via così come era arrivato, permettendole di proseguire. «Tu, invece, sei un uomo capace. Hai sempre dimostrato le tue abilità, conosci i meccanismi politici, sei in grado di inserirtici senza perdere te stesso; ed è una qualità da non sottovalutare. Ti ho dato molto potere, considerandoti come mio rappresentante, eppure il potere non ti ha dato alla testa, come ha fatto con uomini molto più maturi e molto più esperti.»

Tacque, e Giampiero ebbe l'impressione che lei volesse vederlo riconoscente; tuttavia, lui non era disposto a darle quella soddisfazione.

«Il potere non mi interessa» replicò. «E se Nicola non ha alcuna esperienza, questo non significa che non potrebbe essere un buon re: neanche io ne avevo quando mi avete assegnato i primi incarichi. Da lui ho ricevuto la sensazione opposta: se non fosse stato subito accusato dell'uccisione di Guglielmo, avr...»

«Il problema è proprio questo» lo interruppe lei. «Guglielmo non lo riteneva all'altezza, era convinto che fosse troppo docile e che i cortigiani ne avrebbero approfittato. E infatti sono stati proprio loro a chiamare Donna Clara.»

Il marchese sospirò mentre la carrozza si fermava, e sbirciò all'esterno: erano giunti a una villa in aperta campagna.

Il servitore che aveva guidato i cavalli li fece scendere a terra e lui si guardò intorno. Un tempo doveva essere stata una residenza importante, ma le piante rampicanti avevano ricoperto le mura del palazzo e il cancello che delimitava la proprietà. Una distesa verde dalle più varie sfumature si dipanava davanti ai loro occhi, imperando su qualsiasi superficie, con la natura che sembrava aver ripreso il suo potere sull'operato umano.

«Dove siamo?» domandò Giampiero.

«Questo casale appartiene alla mia famiglia da generazioni, ma non lo usa più nessuno da decenni. La posizione sfavorevole, lontano dalle vie principali, non l'ha mai reso una residenza comoda, perché per noi il contatto con Nilerusa è fondamentale, visto che è il cuore pulsante del Defi. Potrebbe essere la tua ricompensa per il servizio presso la mia corte.»

Il Tirfusama aveva ascoltato con attenzione. Un luogo in disuso, lontano dalle vie e dalla capitale... e dunque dal castello di Defi. Alcina lo voleva fuori dagli intrighi di corte? Credeva che il dono di quella villa potesse ristabilire il nome della sua famiglia?

Ci sono in ballo destini che contano più del mio.

«Mi spiace, Maestà» disse. La regina lo scrutava con sguardo inquisitore, quegli occhi chiari che sembravano fatti di vetro; una donna imperturbabile e calcolatrice che nulla poteva scalfire. Ma la decisione del marchese era presa. «Non posso accettare, non sono stato all'altezza. Non merito un dono che mi possa restituire il rango di nobiltà... vorrei prima dimostrare di meritarlo, perché finora non ho fatto abbastanza.»

Seguì un silenzio incerto, in cui Alcina lo scrutava con aria inquisitoria, quasi volesse comprendere le ragioni più recondite del suo rifiuto; ma la mente del marchese le era preclusa, non riusciva a intravedere se non quello che lui voleva.

Non so come tu abbia imparato, ma contrasti la mia magia.

Lui resistette, con la testa sgombra da qualsiasi pensiero: si concentrò sul cielo limpido sulle loro teste e gli parve di vedere che tutto intorno a loro fosse dipinto di quel colore. Non poteva avere la certezza che funzionasse, ma era consapevole di aver già nascosto i propri propositi alla regina in passato e con un po' di fortuna ci sarebbe riuscito anche quella volta.

«Siete un uomo d'altri tempi» constatò infine la sovrana, soffermandosi a guardare le inferriate coperte di ruggine ed edera. «Siete consapevole del fatto che chiunque altro avrebbe accettato senza pensarci?»

Lui annuì, ma non disse nulla.

«Voi forse, e notate bene che vi do del voi e non più del tu, non siete come chiunque altro. Proprio per questo, mio caro Tirfusama, vi concederò la possibilità di poter continuare la vostra carriera da diplomatico rimanendo al mio fianco. Quando vorrete interrompere la vostra carriera, la villa sarà ancora qui per voi, insieme a una somma di denaro sufficiente per ridarle lustro e a un pagamento annuale direttamente dal mio tesoriere.»

«Vi ringrazio» mormorò Giampiero. Trattenne la tentazione di esultare, nell'eventualità che Alcina potesse accorgersene, e si preparò ad affrontare il viaggio di ritorno senza alcun pensiero.

Solo quando fu nella sua camera nel castello di Defi, lontano dagli sguardi della regina, si soffermò a riflettere sulla conversazione avuta con lei. Si accorse di un dettaglio importante e di cui lei non aveva fatto menzione.

La lettera di Felicita... lei non sa che Luciana e Nicola sono ancora vivi.

Lui era certo che la sovrana si fosse accorta del suo modo di guardare la principessa di Dzsaco, che invece era sfuggito a molti. Se Bianca si era accorta dei suoi sentimenti, lei non poteva essere stata da meno; eppure quando parlavano dei Lupfo-Evoco lui ancora non aveva dato alcun segnale di resistenza nei suoi confronti, quindi l'avrebbe rassicurato. Eppure Alcina non ne aveva accennato. Si era limitata a constatare il suo aspetto distrutto: dunque se Raissa l'aveva informata del pericolo che avrebbe corso andando a Mitreluvui, non le aveva messa a parte di tutta la verità

 

***

 

«Maestà, ho delle notizie sui Gredasu.»

La voce di Marco Pomi la raggiunse mentre lei era intenta a rileggere una lettera, arrivata a corte mentre lei era insieme al marchese. La posò sulla scrivania di cristallo e infisse i suoi occhi chiari in quelli bruni del capitano delle guardie. -Sono ansiosa di sapere.»

«Carmen e Silvano vivono ancora nella periferia di Nilerusa, nella casa ereditata dagli avi che vi hanno abitato, così dove li avevamo lasciati l'ultima volta che ho controllato. Ma i figli non sono più lì... Il maggiore è scappato di casa parecchi anni fa, forse una decina, mentre la minore è scomparsa da qualche giorno, ma loro non sembrano preoccupati. Forse sanno dov'è.»

«Questo non è un problema» sorrise Alcina, con il viso di porcellana che riluceva alla luce della candela scarlatta posata sul tavolo. «Se hanno sfidato la maledizione, come ho ragione di credere, la Luna li punirà.»

«E del Tirfusama? Cosa vi è sembrato di lui?» domandò l'uomo.

«Ora che la Lugupe non c'è più, deve trovare un senso ai suoi giorni. Ha rifiutato la mia offerta.»

«Questo vi preoccupa?»

«No.» Alcina si alzò in piedi, rivelando a Marco Pomi la profondità delle rughe sulla sua fronte. «Credevo che le questioni personali l'avrebbero distratto, invece è ancora più determinato nel ristabilire il nome della sua famiglia. Abbiamo ancora bisogno di lui.»

 

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Capitolo 55
*** 17.1 Armonia incrinata ***


 

Le luci della nuova alba erano ancora lontane dall'affacciarsi all'orizzonte. Il buio soffocava il porto di Copne, con l'aria frizzantina della notte che pungeva la pelle del viso lasciata scoperta. L'odore di salsedine era disgustoso, Melissa faticava a trattenere una smorfia di disappunto. Scoccò un'occhiata di biasimo alla sorella, che invece sorrideva sbieca con lo sguardo rivolto alla via, ancora deserta, da cui entro pochi minuti sarebbero sbucati i soldati e i loro prigionieri.

«La Lugupe allora è dei nostri?» sussurrò Raissa alla figura incappucciata.

Melissa annuì. «Sì, ha accettato la nostra proposta. Per lei, però, ho dovuto anche liberare Nicola Lotnevi. So che non era nei piani, ma in futuro potrebbe essere un alleato valido.»

La maggiore delle Autunno tacque, attendendo la reazione della minore. Aveva mentito, non solo sulla ragione per cui aveva sottratto il principe di Cmune al suo destino, ma anche su una futura alleanza con lui; o meglio, non aveva specificato chi altro avrebbe riguardato.

Il suono della risacca accompagnava i suoi pensieri, mentre sul pontile tutto taceva. Non era stato necessario avvertire nessuno che la nave dei De Ghiacci avrebbe lasciato il porto. Il conto per aver ormeggiato il vascello era già stato saldato e gli uomini della scorta di Bianca e Roberto erano stati uccisi da quelli di Raissa. Allo stesso modo, mentre le due parlavano, alcuni assassini scelti si stavano sbarazzando dell'intero equipaggio senza lasciare traccia della loro presenza nella locanda lì vicino.

Melissa rimpianse di non essere stata inviata a sbrigare quella faccenda: sporcarsi le mani non era un problema per lei, capiva l'esigenza del segreto. Quel mistero con cui le persone scomparivano contribuiva ad alimentare le dicerie su lei e la sorella; soprattutto sul conto di Raissa. E, di conseguenza, ingigantiva il timore nei loro confronti.

«Un Lotnevi riconoscente per la propria vita ci permetterà di attraversare lo Cmune con più discrezione» commentò lei dopo aver rimuginato tra sé. «Non mi piace quando cambiamo i nostri piani tanto rapidamente, ma questa è una buona mossa.»

E non è l'unica che ho fatto a tua insaputa.

«Anche tu hai cambiato i piani» sussurrò la maggiore. «Sai come la penso, non mi fido né di lui né di lei. Milena potrebbe tradirci da un momento all'altro. Il Copne può essere strategico, ma richiede un impegno diverso. Dobbiamo mettere qui qualcuno di nostra fiducia a controllare che la Cordi non prenda iniziative.»

«Lo so... per questo sto pensando se inviare in incognito qualcuno dalla nostra corte. Non abbiamo abbastanza spie e quelle in grado di ingannarla sono già impegnate.»

Melissa sospirò, guardando la navi disposte in ordine. Uno dei soldati, con il volto coperto e la foglia spezzata sul petto che riluceva alla luce della luna, riemerse dal sottocoperta della nave dei De Ghiacci. Si avvicinò alle Autunno, alle quali rivolse un profondo inchino e, senza proferire una parola, consegnò una stoffa lunga e scura alla minore delle sorelle, che la afferrò e la nascose in una tasca del mantello.

«Abbiamo il comando della nave?» domandò Raissa, autoritaria.

L'uomo annuì.

«Bene, va' a controllare se nella stiva c'è il rifornimento di cibo che ci ha promesso Milena. Se non c'è, torna qui.»

Il soldato voltò le spalle e ripercorse i propri passi per obbedire agli ordini della principessa.

Melissa lo guardò con un'espressione indecifrabile sul viso. «La pozione per renderli muti sta funzionando» constatò.

«Un soldato muto non pone obiezioni agli ordini» cantilenò l'altra, ripetendo una nenia che aveva udito un numero infinito di volte. «Su questo nostra madre aveva ragione, ma tagliare la lingua a tutti è uno spreco di tempo ed energie. L'alchimia nasconde meravigliosi segreti che possono esserci utili.»

La maggiore non trovò nulla da ribattere: aveva constatato con i propri occhi i benefici delle formule alchemiche. Ricordava ancora con un brivido il momento in cui lei e Raissa le avevano trovate nella biblioteca del loro palazzo reale, nel Ruxuna. Per alcuni giorni ne avevano confabulato lontano da sguardi indiscreti, poi avevano deciso di prendere in mano la questione e parlarne ad Amelia e Ruggero, chiedendo loro spiegazioni.

Il re, allora, si era deciso a raccontare alle figlie che lui da giovane era stato iniziato ai misteri dell'alchimia da sua madre, la regina Violante. La donna, che era stata costretta a rinunciare al trono in favore del figlio e della moglie, aveva continuato a vivere nella reggia del Ruxuna per alcuni anni, salvo poi prendere la decisione di allontanarsi da quella corte che l'aveva messa da parte alla prima occasione.

Se sapessi dov'è le chiederei aiuto, di essere istruita... è scomparsa nel nulla, senza lasciare traccia.

Violante Autunno era a conoscenza dei più profondi misteri dell'alchimia, e forse anche della magia: alcuni dei manoscritti che aveva lasciato nella biblioteca erano densi di scritte che si rincorrevano l'una sull'altra, in una lingua che alle due ambiziose sorelle era sembrata indecifrabile. Solo un anno dopo avevano scoperto che si trattava dell'antico ruxunico. Da quel giorno era iniziato il loro incessante lavoro di studio sui testi dell'anziana parente, i primi esperimenti di magia che avevano coinvolto anche Deianira.

Deianira...

Melissa si lasciò sfuggire un sospiro al pensiero della minore: era rincuorata che lei non fosse insieme a loro, che non vivesse e che non vedesse con i propri occhi quello che le due erano in grado di fare. Aveva provato a far cambiare loro idea sugli usi della magia, che doveva essere volta al benessere del popolo e non asservita alla sete di conquista...

Ed era stato allora che qualcosa si era spezzato: l'armonia tra le Autunno si era incrinata.
Raissa si era avvicinata a Deianira e le aveva dato uno schiaffo sul viso, con tanta veemenza da farla cadere a terra.

Da allora ho giurato che l'avrei protetta a ogni costo, che avrei anche ucciso perché non osasse più toccarla. Non importa che lei creda che tutto ora sia tornato come prima. Non lo sarà mai.

Si distrasse dai suoi pensieri, proprio mentre da una via secondaria apparvero i soldati, con al seguito i prigionieri. Roberto camminava impettito, a spalle larghe e con aria di sfida. Sembrava non preoccuparsi della contingenza che lo vedeva in svantaggio rispetto alle nemiche, e che volesse sfidarle apertamente con quello scherno dipinto sul volto. Melissa concluse che si atteggiava da uomo indomabile solo per rincuorare la sorella, ma Bianca De Ghiacci, nonostante lo sbigottimento iniziale della sera prima, pareva subire il rovesciamento della situazione.

Forse sta solo meditando su come agire.

L'unica davvero terrorizzata era Menta Gredasu, che si guardava intorno intimorita, come se uno dei soldati potesse estrarre la spada da un momento all'altro e trafiggerla.

«Lei resta qui» ordinò Raissa indicandola agli uomini. Due di loro strattonarono la giovane, in modo che rimanesse vicina alle sorelle Autunno, mentre gli altri proseguivano, guidando i prigionieri imbavagliati sulla nave.

Melissa infisse i propri occhi di miele in quelli cristallini di Bianca, che la guardava carica di rancore. La De Ghiacci era spettinata, con i capelli solitamente lucenti resi opachi dalla polvere, da setosi si erano fatti più simili alla consistenza della cenere e anche lei, dietro quel portamento di chi non vuole sottomettersi, celava la consapevolezza che quel viaggio verso il Pecama avrebbe segnato una sconfitta per la sua famiglia e per il suo regno.

Raissa attese che i nuovi arrivati fossero a bordo, prima di congedare con un ghigno la sorella. «Ci vedremo appena avrò concluso con loro. Hai bisogno di una scorta?»

La maggiore scosse la testa incappucciata. «Non servirà.»

«Allora loro vengono con me» stabilì la mediana, accennando ai due uomini che erano rimasti ai fianchi di Menta, che per tutto il tempo aveva continuato a tremare come una foglia.

Pochi minuti dopo, la nave ritirò gli ormeggi e le due nobili rimasero a guardare fino a quando il legno non fu lontano dalla terraferma, divenuto un punto che galleggiava sull'acqua. Allora Melissa sciolse le corde ai polsi della prigioniera, che si sfregò le mani, poi le tolse la stoffa che le copriva la bocca.

«So che ora ti aspetti delle spiegazioni» disse l'Autunno. «Ma la prima cosa da fare ora è andarcene da qui.»

Menta annuì, ancora confusa. Melissa le sistemò il cappuccio del mantello, in modo che anche il suo volto fosse coperto, poi le mise qualcosa in una tasca.

«Non guardare. Non so se posso parlarne.»

«Non ne puoi mai parlare» ribatté in un soffio la Gredasu, sconfortata.

«Mi dispiace, ma la situazione non è per niente semplice.»

La principessa fece strada tra le vie ancora buie del porto e ben presto le due figure scure si inoltrarono in aperta campagna, camminando sulle vie in terra battuta del Copne che assomigliavano più a sentieri abbozzati che a vere e proprie strade. Non scambiarono una parola, mentre il panorama intorno a loro iniziava a tingersi delle prime luci dell'alba, rivelando ai loro occhi sterminate coltivazioni di alberi da frutta, intervallate da campi da pascolo o lasciati al riposo. Il vento mattutino soffiava dolcemente, accarezzando le vesti di entrambe e ricordando loro quel segreto di cui non avevano mai fatto parola con nessuno.

«Dove mi stai portando?» chiese Menta a un tratto. Non sapeva riconoscere quel luogo, era giunta nel Copne in una carrozza coperta.

Melissa sospirò. «Nel Defi. Purtroppo... devo consegnarti ad Alcina. Sappiamo che ti sta cercando e quando Raissa ha saputo che eri con i De Ghiacci...»
 

Non voglio lasciarti nelle sue mani, ma ho già fatto di testa mia troppe volte, negli ultimi giorni.

«Potrebbe uccidermi» disse l'altra. «Non ti importa di questo? Ero fuggita dal Defi proprio per evitare che...»

«Non ho altra scelta!» esclamò Melissa. «Non puoi mettere in discussione le mie azioni, perché l'unica che deve risponderne sono io. Lo so cosa stai pensando e, credimi, cercherò di fare tutto quello che potrò. Sarò con te, qualsiasi cosa Alcina decida di fare. E proverò a fermarla, se...»

Non completò la frase. Il suo unico punto debole, che non fosse Deianira, era oggetto di un accordo politico tra le due persone che più detestava sul suolo di Selenia: sua sorella e la regina di Defi. Non avrebbe mai permesso alla sovrana Primavera di uccidere Menta, piuttosto avrebbe rischiato in prima persona la rappresaglia di Raissa. Sapeva di muoversi come un equilibrista su un filo sottile, che ogni sua azione avrebbe avuto conseguenze imprevedibili, tanto lo erano le due donne. Tuttavia, era sempre stata abile a cavarsela; e quel caso non avrebbe fatto eccezione.

«Un mercenario è venuto a cercarti a casa mia» mormorò Menta a un tratto. «Era convinto che tu fossi da quelle parti.»

Melissa non si scompose. «Arturo Gruisi, immagino.»

«Sì, credo che si chiami così. Hai detto a qualcuno dove eri?»

L'Autunno scosse la testa. «Pensavi che Raissa ti cercasse per punirti?»

«Quindi lei non sa niente di... di noi?» La voce di Menta tremò. Parlarne, anche se in maniera tanto velata, era ammettere che ci fosse un segreto che nessuno avrebbe dovuto scoprire.

«Nessuno lo saprà mai.»

 

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Capitolo 56
*** 17.2 Quei due ***


 

Arturo raccolse la sua spada da terra. Solo al terzo tentativo, la principessa Estate era riuscita a disarmarlo; molto meglio di quanto fosse riuscito a fare Claudio fino a quel momento.

Restituì l'arma a Stella, e si rimise in posizione, in attesa di un suo assalto. Se Flora aveva considerato una fortuna il fatto che al tempio possedessero gli strumenti per combattere, lui non ne era rimasto sorpreso: sapeva bene che persino in quei luoghi potevano capitare eventi spiacevoli. Non aveva mai assistito a un assalto in un luogo sacro, ma era giusto che persino i sacerdoti si preparassero a quell'eventualità. Conosceva Raissa e sapeva che non sarebbe stata la devozione religiosa a fermarla; dacché lei non ne possedeva.

Il mercenario si chiese se lei, appena diventata regina di Ruxuna, avrebbe fatto abbattere tutti i templi e la maestosa basilica che sorgeva nel cuore della sua capitale, ma qualcosa gli diceva che non si sarebbe spinta a tanto. Almeno, non laddove le fossero stati utili.

Stella si fece più ardita nei suoi attacchi e lo disarmò di nuovo.

«Non sei concentrato» disse, accusatoria. «Non mi serve saper imparare se tu hai la testa altrove.»

«Fa parte della lezione» ribattè lui, inespressivo. Non la biasimava: avevano deciso insieme che le avrebbe insegnato a duellare e comprendeva il fastidio che poteva provare a un mancato rispetto degli accordi; anche se solo apparente. «Se nella tua testa lasci entrare qualcosa che non c'entra nulla con la spada e il tuo nemico, è molto probabile che venga uccisa.»

Lei si bloccò, immobile. Gli stava porgendo il ferro scuro, ma qualcosa delle sue parole l'aveva turbata: fino a quel momento non aveva mai parlato della possibilità di morire in un combattimento, mentre ora vi accennava con naturalezza, come se glielo stesse ricordando dopo averlo ripetuto parecchie volte.

Arturo la fissava con aria grave. «Non voglio nascondere la verità. Combattere per la propria vita, non è come farlo nei duelli di corte. Se sei disarmato di fronte a un soldato nemico, sei morto. Se sei distratto, sarai disarmato. Se ti fai prendere dalla paura, ti distrarrai.»

La nobile infisse la sua spada a terra. «Hai dovuto combattere per la tua vita?» gli chiese. Il suo tono calmo lasciava trapelare una viva curiosità, che aveva scalzato nel suo animo il turbamento di poco prima.

«Non ancora» rispose lui. «Ma se Raissa fosse sulle nostre tracce, potrebbe accadere presto.»

«Pensi davvero che lei possa scoprire dove siamo? Che cosa stiamo facendo?»

«Ti sembra che stiamo concludendo qualcosa? Claudio non fa altro che rileggere quel maledetto libro senza trovare niente!» esclamò Arturo, spazientito. Subito si pentì delle sue parole: non aveva intenzione di parlare in quel modo di quel ragazzo che, con il passare dei giorni, era diventato la persona più simile a un amico che avesse mai avuto.

«Secondo te stiamo solo perdendo tempo, allora?» gli chiese una voce inviperita alle sue spalle. Flora.

Il mercenario si voltò e la vide accorsa insieme a Claudio, che lo fissava con occhi sgranati. «Non ho detto questo» provò a difendersi, pacato. «Ma questa situazione di stallo mi innervosisce. In quel libro non troviamo niente e ora siamo in troppi perché io possa proteggervi da solo, se andiamo nell'Autunno.»

«Ci ho provato, ma proprio...» iniziò Claudio, che continuò a parlare, nonostante un cenno di Flora gli ordinasse di tacere. «No, io... non mi sento bene...»

Le ultime parole uscirono dalle sue labbra in un sussurro impercettibile, tanto che la Primavera e il mercenario continuavano a discutere.

«E se ci stessi trattenendo qui mentre aspettiamo che la tua Raissa torni nel Pecama?» accusò lei. «Perché continuo a fidarmi di te, anche se nessuno lo farebbe? Hai ragione, stiamo perdendo tempo! Dovremmo andare subito nell'Autunno!»

«Non se ne parla» ribatté Arturo. «Non sei mai stata lì, non conosci i pericoli che potremmo correre, e se...»

Claudio si portò le mani alla testa, che gli doleva come se qualcuno l'avesse infilzata da parte a parte. Era acuto, insopportabile, più violento rispetto al passato. I suoni intorno a lui si affievolirono, lo stesso litigio dei compagni di viaggio si ridusse a un brusio in lontananza. I contorni di ciò che lo circondava si fecero più sfumati, davanti a sé distingueva solo delle figure umane e i tronchi dritti degli alberi, con cui però i suoi amici si confusero presto. Poi sparirono anche quelli e non udì niente.

Si sentì cadere a terra, ma non percepì il suolo sotto la sua schiena.

«Allora, hai cambiato il piano?» disse una voce maschile.

«» gli rispose una donna. «Ho valutato la possibilità di una nuova alleanza, che mi porterà ad averne un'altra ancora più preziosa.»

I colori in quella stanza erano scuri, come se qualcuno avesse deciso che troppe candele avrebbero permesso di individuare i volti. Poi Claudio capì: la luce che illuminava la stanza era nera. Se quelle due persone si vedessero distintamente tra loro, non avrebbe saputo dirlo; lui non vi riusciva. Cercò di issarsi dal pavimento, aveva capito di trovarsi in una delle sue visioni e voleva avvicinarsi, come al solito, ma il suo movimento risultò vano. Allora strinse gli occhi, provò a carpire quanto più poteva. Chi erano quei due? Perché il loro incontro sembrava tanto segreto?

Avevano parlato ancora e lui, immerso nei suoi ragionamenti, non aveva ascoltato.

«Tua sorella mi garantisce che funzionerà?»

«Mia sorella non sa nulla di te, quindi non ti può garantire un bel niente. Come alchimista è molto più abile di me, sono certa che ha eseguito le istruzioni alla lettera. Se dovesse accaderti qualcosa, ne pagherà le conseguenze.»

«Questo non mi basta, vorrei delle sicurezze in più. La tua punizione in caso di fallimento non mi consola. Non ho intenzione di lasciarmi uccidere da una pozione sbagliata.»

«Vuoi che la beva anche io? Non essere sciocco, non lo farò. Questa è la dose sufficiente per te. Se ti togliessi anche solo una goccia, potrebbe mandare tutto all'aria. E noi non possiamo permetterci che...»

Il pavimento di legno tremò sotto di loro, che si aggrapparono a oggetti che Claudio da lontano non poteva vedere. Lui tentò di nuovo di sollevarsi in piedi, ma si sentì barcollare, e rotolò su un fianco. Nulla da fare, era costretto a rimanere lì.

«Dovresti dire ai tuoi uomini di navigare come si deve, persino un ubriacone del Tuilla saprebbe fare meglio» disse la voce maschile.

Lei non ribatté, ma tenne lo sguardo fisso in un punto imprecisato della stanza che, Claudio comprese solo in quel momento, doveva essere la cabina di una nave.

«Cosa c'è che ti preoccupa?»

«Non sono preoccupata.»

«E allora cos'è che ti distrae così tanto da non farti pensare che tua sorella potrebbe uccidermi per sbaglio, se non per sua volontà?»

Lei sollevò il capo e fissò l'altro. Claudio non riusciva neanche a distinguere l'ombra di un lineamento. Lui gli dava le spalle e lei era illuminata troppo fiocamente perché potesse vederla con chiarezza. Era la visione più strana che gli fosse mai capitata.

«La sto cercando. Mi sono arrivate voci secondo cui lei è scomparsa. Non so dove sia, ma se è lontana dalla protezione della sua famiglia e dei soldati, può essere una preda più facile da catturare. Qualcosa mi dice che è andata a sud, perché è lì che sono custodite più profezie rispetto al Vorrìtrico. Non avrò pace finché Flora Primavera non sarà nelle mie mani.»

«Claudio?» lo richiamò una voce femminile con un soffio.

Una stoffa bagnata gli coprì la fronte. Al di là delle palpebre chiuse, percepiva un buio diverso da quello della visione, come di una stanza in cui entra il sole ma a cui hanno chiuso le finestre.

Aprì gli occhi e vide Stella china su di lui, pallida e in apprensione. Si trovavano nell'angusta stanza in cui dormiva nel tempio. Il giovane defico, sdraiato sul suo letto, cercò di sorridere alla ragazza, ma si rese subito conto che sulle labbra gli si era formata una smorfia strana.

«Sto bene, non ti preoccupare. Come mai ci sei tu qui?» domandò, ma si morse subito la lingua. Sembrava che non la volesse al suo fianco, anche se in realtà era solo desideroso di sapere dove fossero finiti Flora e Arturo.

L'Estate, tuttavia, non parve turbata. Gli strinse una mano e rispose: «Sta arrivando una delle sacerdotesse più anziane, è una guaritrice. Arturo ti ha preso e portato qui, mentre io sono corsa a chiedere aiuto e poi lei ha pensato a te. Ti ha spalmato un unguento sulle tempie e ti ha bagnato le guance, che però si sono asciugate subito... Ora è andata a prendere qualcosa per i tuoi occhi.»

«I miei occhi? Che hanno?» esclamò Claudio, anche se senza forza nella voce. Si portò le mani al viso, ma lei lo fermò, bloccandogli i polsi.

«No, non ti toccare. Mi ha detto che non devi assolutamente farlo, devi aspettare che la pelle assorba l'unguento. E i tuoi occhi...» Lo guardò, malinconica. «Sono rossi, come se avessi pianto per ore.»

Lui li richiuse e abbandonò le mani lungo i fianchi, sul lenzuolo. «Non mi era mai capitato così. Era tutto strano, questa volta. Non ci sto capendo niente, mi sento confuso, però...» si interruppe e inspirò profondamente. Aveva capito perché era tutto tanto diverso dal solito, perché non riusciva a muoversi, perché gli occhi, ora che ci faceva caso, gli bruciavano.

«Stai bene?» gli domandò Stella.

«Non era una visione» disse invece lui. «Ho visto qualcosa di reale, qualcosa che stava succedendo proprio poco fa...»

«Come fai a dirlo? Ne sei sicuro?»

«Sicuro no, non posso essere sicuro di niente, visto che si tratta di una specie di magia o non so cosa che non conosce praticamente nessuno. Ma è l'unica spiegazione: sono molto più stanco, e non ero mai svenuto prima di oggi... perdo solo la vista per alcuni minuti e poi torna tutto come prima. Stavolta non è stato così. Sono uno stupido, me ne sarei dovuto accorgere prima...»

Udì dei passi lenti e stanchi, che non avrebbe attribuito né a Flora, né ad Arturo.

«Ancora non si è ripreso?» chiese una roca voce femminile.

«Sì, si è ripreso, ma gli fanno male gli occhi e li ha chiusi» spiegò la principessa con tono gentile.

Una mano gli accarezzò la spalla sinistra. «Hai fatto bene, ragazzo. Te li ho guardati mentre eri svenuto ed erano sanguigni.»

«Sapete spiegarmi perché?» osò chiedere lui, anche se in cuor suo già conosceva la risposta.

«Ho imparato a conoscere il Dio delle profezie solo da poco tempo e non è sempre chiaro come agisce o perché alcune volte i suoi effetti sui Veggenti siano peggiori.»

«Gli ho detto che sei un Veggente» sussurrò Stella. «So che non volevi dirlo a nessuno, ma può aiutarti.»

«Va bene, voglio solo che mi smettano di bruciare» biascicò Claudio, trattenendosì dall'istinto di portarsi le dita agli occhi chiusi. Una mano era trattenuta da quella della giovane seduta sul letto vicino a lui, l'altra stringeva il lenzuolo con tutta la forza che aveva, ma che sentiva venirgli di nuovo meno. Il dolore si era acuito quando li aveva richiusi, perciò li aprì, vedendo una vegliarda, con l'abito azzurro delle sacerdotesse di Vudeli. Tuttavia, ciò non cambiò l'intensità con cui gli occhi dolevano. Lasciò che la donna gli spalmasse qualcosa sulle palpebre, in un silenzio meditativo.

«Voi...» esitò Stella. Strinse la mano di Claudio tra le sue, con la pelle morbida delle sue dita a cercare di confortarlo tuttavia con scarsi risultati. Lui le scoccò un'occhiata dubbiosa che lei non comprese, così si rivolse di nuovo alla sacerdotessa: «Voi pensate che possa cambiare in base al tipo di visione?»

«Ragazza mia, è possibile, ma non interrogo mai i Veggenti sulla natura di ciò che il Dio invia loro» rispose lei, posando i polpastrelli in quel balsamo chiaro che aveva sparso sugli occhi semichiusi del defico, per poi iniziare a massaggiarlo sugli zigomi.

«Quindi è meglio non parlarne con nessuno?» chiese Claudio.

«Chi lo sa, cosa è meglio!» sospirò l'anziana. «Io preferisco non conoscere il futuro.»

«E se invece avessi visto il presente?» azzardò lui. «Stavolta le mie sensazioni nella visione erano molto diverse dal solito e non saprei spiegarmelo altrimenti...»

«Non so di nessun Veggente che ha visto il presente» disse la sacerdotessa. «Ma le divinità, come sappiamo noi adepti di Vudeli, sono imprevedibili. Non nessuno può escludere nulla.»

«Quindi è possibile che io abbia davvero visto qualcosa che accadeva proprio in quel momento» concluse Claudio. «E io che pensavo che non sarebbe mai stato nulla di così importante...» si interruppe sentendo le dita di Stella che accarezzavano il dorso della sua mano.

«Cos'hai visto?» domandò l'Estate.

«Credo... credo che fosse Raissa Autunno» mormorò lui. Si sentiva rinvigorito dalla preoccupazione di lei, quasi la sua voce, le sue parole, quel semplice e innocente contatto fisico avessero del potere curativo. «Non ne sono sicuro, perché non so com'è fatta, ma parlava di Flora, diceva che doveva trovarla, ora che probabilmente è a sud...»

«Come potrebbe sapere dov'è?»

«Non lo sa. Ha detto solo che per alcune voci Flora è scomparsa, e che secondo lei è qui perché ci sono più profezie nel Pecama. Forse potrebbe anche essere qualcosa del futuro, ma un futuro molto vicino a noi, perché credo che stia arrivando. Oppure arriverà quando noi saremo già andati via...»

«Non possiamo correre il rischio» sussurrò Stella, avvicinandosi a lui sul letto. «Devo parlarne subito con Flora e Arturo, ma prima...»

«Per ora basta così, cara, altrimenti si affatica» la interruppe la sacerdotessa, che nel frattempo aveva risposto i suoi unguenti in una scatola di legno. «Meglio lasciarlo riposare.»

«Va bene» concordò lei, sebbene controvoglia. Ma non appena la vegliarda uscì dalla camera, si voltò a guardare Claudio, che le ricambiava lo sguardo. «Mentre Arturo ti portava qui, ha detto a Flora che hai delle visioni... Ha capito benissimo anche lui di cosa si tratta e lei, be', non l'ha presa proprio benissimo. Ero con loro, stavamo rientrando al tempio, e la terra ha tremato sotto i nostri piedi.»

«Quindi... quella profezia ci riguarda?»

«Temo di sì.»

Claudio sospirò, trattenendo di nuovo l'istinto di sfregarsi il viso. «Dobbiamo andarcene da qui, non possiamo perdere tempo, ha ragione Flora, rimanere fermi non ci sarà utile.» Fece per alzarsi, ma Stella lo fermò ancora una volta.

«No, tu sei svenuto e ancora non sei in forze. Dovremo aspettare prima di partire. So che dobbiamo andare via, ma non adesso.»

«Magari anche qui c'è un corridoio sotterraneo...» ipotizzò speranzoso il defico, ricadendo sul materasso. «Potrebbe essere il modo migliore di sparire senza attirare l'attenzione.»

«Lo pensavo anche io» disse lei. «Vado a parlare con il sacerdote, e gli chiederò aiuto su cosa fare. Mi sembra degno di fiducia e affidabile, altrimenti non ci avrebbe fornito tutte quelle spiegazioni. Tu, però, ora rimani qui e riposati, va bene?»

Claudio avrebbe voluto risponderle che non andava bene affatto, che desiderava che lei rimanesse ancora, almeno per alcuni minuti, ma annuì. Ascoltò i passi di Stella uscire dalla stanza e percorrere il corridoio, girato sul fianco e dando le spalle alla porta che l'Estate doveva aver lasciato aperta.

La terra ha tremato... anche nella visione sembrava che tremasse.

 

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Capitolo 57
*** 18.1 Di preghiere e di profanità ***


 

Il mare risuonava infrangendo le sue onde contro la sabbia, mentre il vento soffiava placido, quasi a rasserenare chi avesse scelto, in quel mattino dal cielo terso, di camminare a piedi scalzi sulla riva. Così anche lei, che cercava di recuperare quell'innocenza che aveva dovuto abbandonare repentina, inalò il profumo di salsedine a occhi chiusi. Stringeva tra le mani la corona che l'aveva innalzata così giovane a uno dei ruoli più importanti dell'isola: regina, a diciassette anni. Era consapevole della propria precoce maturità, ma avrebbe desiderato altro tempo, per riuscire a conciliare il suo desiderio di amore eterno con le responsabilità del regno.

Abbandonò la corona sulla sabbia, ai suoi piedi, con la veste candida scossa da quel soffio tanto familiare, che ormai era una delle poche compagnie del palazzo. I corridoi, sempre brulicanti di cortigiani e chiacchiere, erano deserti, così come gli innumerevoli saloni, scheletri di architettura che i granelli trascinati dal respiro del mare tentava di scalfire e di attaccarsi alle pareti, come se quell'effetto reso dalla pittura non fosse abbastanza.

«Se tu vuoi che sia io a guidare tante persone, lo farò» mormorò Ariel, la voce coperta dall'eco eterna del mare. «Ma tu fa' sì che lui comprenda che il mio destino è qualcosa di più grande di noi, che avremo altri giorni per vivere insieme, che io non mi dimentico mai di lui, anche se non ne parlo con nessuno, anche se nessuno sa chi sia. Che lui ricordi che lo amo, e che questa corona non cambierà nulla.»

Vudeli non le rispose o, almeno, lei non colse un cambiamento non colse un cambiamento attorno a sé. Allora avanzò, affondando i piedi nella sabbia bollente che non le bruciava, privilegio concesso dal dio. Si lasciò alle spalle la corona e arrivò laddove morivano le ultime onde, tracciando linee irregolari sulla terra ferma.

«Io sono stata sacrificata al regno e a te prima del tempo» sussurrò ancora. «Anche se tu la ritieni una consacrazione, per me è una condanna. Io non posso essere tua, perché da me dipende l'eredità del mio popolo, il destino di altri è appeso alla mia discendenza. Tu non vuoi cadere nelle mani di re e regine stranieri, e per questo devi concedermi di amarlo.»

Un fischio quasi impercettibile si mescolò alla risacca e lei si inchinò, con le mani tra la stoffa della veste pura. Vudeli aveva ascoltato e accolto la sua preghiera.

Ariel rimase immobile per diversi minuti, con i capelli sciolti che ondeggiavano al soffio del vento. Un'immagine sacra, che qualsiasi artista avrebbe desiderato ritrarre, ma che nessuno vide mai: la sovrana bambina, cresciuta e già conscia dei misteri oscuri del dio fanciullo. Lei non gli avrebbe mai permesso di avere il sopravvento, avrebbe chinato il capo di fronte a lui, che non la spaventava. Era consapevole che sfidare una divinità non era saggio: tuttavia quelle non erano le sue intenzioni: Una vita normale, in cui le redini del regno non avrebbero interferito con quegli affetti che lei amava ricercare. Legarsi alle persone era l'unico modo per farsi scudo a vicenda contro un nume capriccioso e indomabile, lo sapeva. Per questo aveva osato porgli quella richiesta, che avrebbe lasciato unica per lunghi anni, se non per tutta la vita. Lesinare le preghiere a Vudeli era il modo migliore per vederle esaurite. Non aveva mai domandato nulla, ma quello era il momento giusto.

Un'onda le bagnò piedi e caviglie, a liberarla da catene invisibili che la inchiodavano lì, al cospetto del mare. Ariel ripercorse i propri passi, afferrò la corona quando le passò a fianco con un gesto rapido e leggiadro e rientrò nella sala del palazzo che aveva scelto come suo studio personale. Si sedette alla scrivania in madreperla e si sistemò la corona sui capelli di corallo, aiutata da un piccolo specchio, che poi abbassò contro la superficie bianca.

Qualcuno bussò alla porta che lei aveva lasciato aperta. Si voltò e vide Dante che sorrideva, con una malinconia che lei non poté non notare.

«I soldati di Tancredi non volevano farmi passare, ma per fortuna uno di loro mi ha riconosciuto.»

La regina si alzò in piedi, e si trattenne dal corrergli incontro. «Devi perdonarli, non sono abituati ai nostri modi, pensano che il pericolo sia sempre dietro l'angolo...»

«Sono i soliti esagerati del continente. Il nostro popolo non ci vuole male» commentò lui scrollando le spalle.

«Non sono loro il problema» disse lei. «Ma questo non significa che possiamo abbassare la guardia. Immagino che tu non ne sappia nulla.» Si voltò e aprì un cassetto della scrivania, da cui estrasse una busta da lettera di un colore rosato. La ceralacca aveva l'impronta delle due code di serpente intrecciate che ne indicavano l'appartenenza agli Autunno. Mostrò il simbolo a Dante, che si avvicinò per guardarlo meglio.

«Non è possibile...» mormorò incredulo, strabuzzando gli occhi.

Ariel annuì, porgendogli la lettera. «Purtroppo, però, è esattamente quello che sembra. Leggila.»

La busta da lettera emanò un nauseabondo odore di rose quando venne aperta, come se sulla carta fosse stato spruzzato un profumo di qualità scadente. La giovane regina ricordava quel tanfo in modo spiacevole anche se, quando l'aveva ricevuta, suo padre aveva commentato con "Gli Autunno hanno sempre un ottimo gusto". Lei aveva fatto una smorfia, credendo che l'avesse detto in maniera ironica, ma non ne era più così sicura.

Mentre suo fratello ne leggeva il contenuto, Ariel si avvicinò alla finestra spalancata, da cui poteva ammirare il mare, che poco prima si era lasciata alle spalle, quell'immensa distesa che le dava il cognome e che mostrava la preoccupazione che lei, invece, cercava di scacciare dal suo animo. Sapeva che i suoi genitori avevano avuto contatti con i sovrani del Ruxuna, ma questo non le aveva mai dato alcun problema; almeno non fino ad alcuni giorni prima. I rapporti del suo casato con i Primavera-Inverno erano noti a tutti: alla luce del giorno Amintore e Silvia accoglievano con gioia e feste Tancredi e suo figlio, mentre nell'ombra si erano asserviti ad Amelia e Ruggero, che avevano preteso e ottenuto la neutralità dei Dal Mare.

Tuttavia, loro erano stati uccisi e Ariel era certa che dietro l'avvelenamento della sua corte ci fossero gli Autunno. Non sapeva come dimostrarlo: chi aveva materialmente commesso quello sterminio, da cui lei e Dante si erano salvati per miracolo, era ormai lontano e in fuga. Ma lei non aveva alcun dubbio.

«Non ci posso credere... perché io non ne sapevo niente?» chiese il fratello.

«Avevamo già annunciato ai nostri genitori che eravamo d'accordo sulla successione del regno» spiegò la regina. «Forse non hanno creduto opportuno che tu ne venissi a conoscenza, ma non ho domandato. Ero convinta che ne avessero parlato anche con te. Non sono d'accordo con quella scelta: non è un fardello che io posso portare da sola. Questa lettera è stata il preludio a un'alleanza che nostro padre ha firmato insieme a Ruggiero e io non voglio tener fede a quella alleanza. Ho frugato in tutti i cassetti, in tutte le sale in cui venivano custoditi i loro documenti... E non ho trovato nulla.»

«L'Autunno l'avrà portato con sé.»

Ariel scosse la testa. «No. Ce l'aveva ancora nostro padre quando lui se n'è andato. Eppure non lo trovo da nessuna parte.»

«Avreste dovuto immaginare che non c'era da fidarsi» borbottò Dante, alzandosi in piedi per restituire la lettera nelle mani della sorella, che la ripose nella busta.

«L'unica Autunno di cui mi fidi è Melissa» ribatté Ariel. «Immagino che anche tu, come Erik, mi biasimerai per questo, ma sono sicura di lei.»

«Non mi fido di nessuno che porta quel cognome, e non posso credere che loro...» Il principe Dal Mare esitò.

«Amelia e Ruggiero appoggiavano la linea di Raissa, lei no» insisté la regina, pacata. Sapeva che la maggiore delle Autunno era sincera quando le aveva confidato di detestare la mediana. Voleva vederla sconfitta, che perdesse il potere che stava accumulando tanto rapidamente, che la sua ascesa si arrestasse, lasciandola sospesa in un limbo di incertezza, prima di un crollo verticale che avrebbe portato alla sua rovina.

«Sei ancora troppo ingenua, non puoi credere che ci sia qualcuno in grado di fare il doppio gioco e di tradire la propria famiglia.» Il suo volto assunse una smorfia di disappunto e rimprovero.

«No, Dante» disse lei. «Mi spiace. Sei in errore, questa volta. Non esiste solo la lealtà verso il casato. Io stessa sono in dubbio nel giudicare i nostri genitori e il loro operato. Ora che sono regina, mi rendo conto che il loro modo di governare non si confaceva a quelle che sono le mie idee. Sotto un'ostentata spensieratezza e leggerezza hanno nascosto questo legame con gli Autunno.»

«Non sono stati dei bravi regnanti? Non puoi dire una cosa del genere, tutto il popolo sostiene il contrario, i nostri alleati ci elogiano per come il benessere prospera...»

Ariel batté un pugno sul tavolo. Perse la calma, perché non riusciva a comprendere come mai lui si ostinasse a non cogliere la totalità della situazione. Non credeva che suo fratello fosse ottuso, ma quell'atteggiamento la spingeva a cambiare idea. «E a cosa serve il benessere, se c'è la firma di Amintore Dal Mare in un accordo segreto con Ruggero Autunno? Non possiamo stringere alleanze ufficiali per gli accordi di quasi un millennio fa, ma tu con chi avresti voluto averne una?»

«Non con gli Autunno.»

«Non con Ruggero, Amelia o Raissa, vorrai dire» precisò Ariel. «Nessuno sa quasi nulla di Deianira, e Melissa non è come loro.»

Dante sbuffò. «Non voglio mettere in dubbio la tua capacità di giudizio, perché so che ne hai molta più di me, ma devi ammettere anche tu che...»

«Ne sei consapevole anche tu» lo interruppe la regina. «Se ti dico che possiamo fidarci di Melissa, devi credermi. Non mi sbilancerei se non ne fossi certa.»

Dante la guardò negli occhi, chiari e cristallini. «Ti è arrivata la mia lettera sui Lupfo-Evoco, vero?»

«Ieri sera» rispose lei. Aveva letto la missiva con sorpresa, perché immaginare un palazzo reale in fiamme nel cuore di una capitale le risultava pressoché impossibile. Ancora meno riusciva a credere che il fuoco non avesse dilagato tra le vie di Mitreluvui anche se, confrontandosi con Erik, aveva scoperto che la reggia dei Lotnevi non era così vicina alle abitazioni del popolo. Anche il principe Inverno, tuttavia, era turbato da quegli accadimenti che avevano del meraviglioso, ma non aveva esitato a imputare quell'eccezionalità all'uso della magia.

Ariel sospirò, al pensiero che se Raissa avesse realmente appreso a maneggiare un potere simile, anche loro avrebbero dovuto ricorrere a quelle pratiche ancestrali. Sollevò il capo e fissò lo sguardo in quello del fratello. «Nostro padre ti ha iniziato all'alchimia, giusto?»

Lui annuì. «Cosa hai in mente?»

«Ho bisogno che tu sappia utilizzarla come i maestri che si nascondono su Selenia. Qualcuno deve aver insegnato a Raissa, noi non possiamo rimanere inerti. Non abbiamo un esercito, anche se lo sto preparando, e non possiamo prevedere quando gli Autunno decideranno di espandersi qui nel Pecama. Hanno dei soldati esperti e terribili, quest'isola non è così grande, e siamo una preda ambita, visto che possediamo il porto più a settentrione. Non ho intenzione di concedere loro neanche uno stelo d'erba al confine.»

«Sì, è un'ottima idea» concordò Dante. «L'unico problema è che non so dove poter trovare un maestro che mi possa insegnare.»

«A questo si può provvedere. Nella corrispondenza di nostro padre ci sono delle lettere tra lui e un sacerdote di Vudeli, nel sud del regno.»

«Questa ricerca tra le sue carte, in fondo, non è stata tanto infruttuosa» constatò lui.

Lei piegò un angolo della bocca, trattenendo un sorriso. Sapeva che Dante cercava di smorzare la tensione per la discussione di poco prima, ma non aveva intenzione, almeno per il momento, di concedergli la possibilità di trattarla da pari. Ora i loro ruoli erano cambiati, ed era bene che anche lui se ne rendesse conto. Il destino del regno gravava solo sulle spalle di Ariel: era lei a dover prendere decisioni, ad assumersi le responsabilità... E non aveva tempo da dedicare alle battute scherzose, quand'anche innocenti e che cercavano di risollevarle il morale.

«Sono stati giorni di viaggio molto intensi» commentò, con gentilezza.

«Decisamente e io non vedevo mai l'ora di essere di nuovo qui e di riposarmi» borbottò Dante, pensieroso. «Se non hai altro da dirmi...»

«Se sei stanco, non ti trattengo» lo congedò la sorella. Non voleva espressamente chiedergli di rimanere da sola, ma desiderava che lui lo capisse. Il fratello maggiore era tornato al palazzo nel momento peggiore, per lei: era intenta a scrivere una lettera che nessuno, se non il destinatario, avrebbe mai dovuto leggere. Aveva approfittato di quel saluto doveroso per aggiornarlo sugli sviluppi e per parlargli di quel minacciato attacco che lui ancora ignorava.

Il principe Dal Mare chinò il capo e lasciò la sala, mentre la giovane sovrana si sedeva alla scrivania. Ariel estrasse dal cassetto la missiva interrotta e la rilesse. Sperava che lui capisse, che l'attesa sarebbe stata ben ripagata da un lungo futuro insieme... Sollevò lo sguardo al soffitto, sospirando al pensiero della preghiera rivolta quel mattino a Vudeli, che non l'avrebbe abbandonata, ne era certa. Non aveva intenzione di raggirarlo, ma di fare in modo che la volontà di entrambi li portasse alla stessa via. Aveva capito quello che a tutti i suoi predecessori era sfuggito: non bisognava tenere buono il dio nella speranza che lui non si adirasse, bensì innalzarsi al suo stesso livello senza tracotanza, in modo che lui potesse comprenderne la bontà d'animo.

Anche se forse allearsi con gli Autunno, soprattutto con quelli più spietati, non è qualcosa che lui avrebbe accettato.

Sigillò la busta, spostando i suoi pensieri alla discussione con Dante. Lei considerava Melissa degna della sua fiducia, ma questo non significava che avrebbe accettato un'alleanza con lei. La maggiore delle sorelle Autunno si manteneva in un equilibrio precario, e le sue mosse potevano essere dettate da quelle di Raissa, che fossero per eseguire i suoi ordini o per raggirarla. La regina Dal Mare si era inorgoglita nel prendere atto che una delle poche persone a conoscere realmente la situazione tesa tra le due, sebbene non ne conoscesse le più profonde ragioni. Il suo sesto senso, o forse un'ispirazione di Vudeli, le aveva suggerito di credere alle sue parole, in quel giorno ormai lontano nel tempo, quando avevano passeggiato insieme a Punta Salina... Quando lei aveva scoperto di aver perso il suo pugnale.

Quell'arma discreta era posata lì sulla scrivania, al fianco dello specchio capovolto. Ariel lo teneva lì sotto i suoi occhi in modo che, se fosse sparito di nuovo, avrebbe saputo con esattezza chi l'aveva preso: gli abitanti del palazzo si erano drasticamente ridotti e quelli che frequentava erano ancora meno. Preferiva rimanere da sola, perché la solitudine le permetteva di focalizzare al meglio tutti gli aspetti del regno di cui si doveva occupare, senza che una voce la interrompesse o che uno sguardo che si posava su di lei, fosse anche benevolo, la distraesse. Saltuariamente cercava la compagnia di Iris ed Erik, e alcune volte si confrontava con loro.

La sua quotidianità era amministrare il regno, ricevere i notabili di Ehoi e consultarli sulle decisioni da prendere. Tancredi, prima di partire, le aveva suggerito di circondarsi di uomini e donne abili e che sapessero consigliarla, come faceva suo padre con i nobili più illustri. Ma ora la nobiltà Marina era stata spazzata via, e il re Inverno aveva caldeggiato l'ipotesi di rivolgersi a quei rami di borghesia più intraprendente che rendeva il loro regno tanto prospero.

Lei aveva concordato sin da subito: vedeva con i suoi occhi come gli affari giovassero al suo popolo, che anche coloro che erano impiegati nei mestieri più umili non vivevano in povertà, ma nella parsimonia che restituiva loro la quiete da quegli affanni che, invece, Melissa le aveva raccontato dei ceti inferiori nel Ruxuna. Il pensiero tornò a quell'accordo segreto con gli Autunno, e lei cercò di scacciarlo con un gesto della mano, come un insetto piccolo e fastidioso che svolazzava per la stanza.

Doveva gestire troppe cose, e quella lettera scritta per il suo innamorato era ancora tra le sue mani. Non si chiese nemmeno a chi avrebbe potuto affidarla perché venisse consegnata, perché Iris era stata la complice ideale durante l'ultimo ballo in onore di Vudeli e poteva fidarsi di lei.

Finché sono lontani, non è ancora tempo di pensare agli Autunno.

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Capitolo 58
*** 18.2 La resistenza dell'ambra ***


 

La sala del consiglio era deserta: la cerimonia per la sua incoronazione si era conclusa da alcuni minuti e lei aveva congedato i pochi nobili presenti. Quegli uomini e donne l'avrebbero affiancata nei primi tempi del suo governo, mostrandole la realtà del regno e tutte le difficoltà che avrebbe incontrato. Chiara, tuttavia, era fiduciosa: si sentiva nel posto giusto. Era cresciuta con la consapevolezza che quel momento sarebbe arrivato e ora era lì, avvolta nelle stoffe di quell'abito sontuoso che il Consiglio, Donna Delia su tutti, aveva insistito perché lei indossasse. Sentiva il tessuto premere sulla sua pelle, quasi a simboleggiare il peso delle sue responsabilità da lì in avanti.

«Maestà, vi disturbo?»

Sollevò lo sguardo dal tavolo in pietra e incontrò il viso sorridente e gentile di Franco, fermo sulla soglia. Indossava ancora gli abiti semplici che aveva portato con sé nel viaggio, che Mila aveva lavato con dei profumi perché sembrassero un acquisto recente, ma lui non vi sfigurava. Aveva quella semplicità che lo esaltava persino in una corte di nobili agghindati per una cerimonia importante.

«Almeno tu non darmi del voi» rispose lei, sciogliendo la sua postura solenne e l'espressione grave sul viso. Da quando era entrata in quell'ampio e spoglio salone in cui era stata incoronata, non aveva cessato un momento di avere un'aria solenne. Lei non era così, non era mai stata autoritaria, ma sapeva di dover apparire severa agli occhi degli altri; le pesava dover mantenere una compostezza che lei stessa sentiva artificiosa, che non le apparteneva davvero. Sapeva di essere ancora la ragazza allegra che scherzava sul suo nome immenso, che amava camminare in campagna sotto la pioggia, sentire il profumo delle coltivazioni, perdersi tra i colori degli alberi da frutto e avvicinarsi per raccogliere quelli maturi. Sarebbe tornata a dedicarsi a quei passatempi, ma doveva attendere tempi migliori.

«Va bene, va bene» disse lui, entrando nella stanza. Si richiuse la porta alle spalle e aggiunse: «Vengo qui per conto di Tancredi Inverno. Stando alle sue parole, avrebbe preferito venire lui, ma pensa che tu preferisca avere vicino un volto sicuramente amico.»

La Delle Foglie si sedette al tavolo, invitando l'amico a fare lo stesso. «Ti piace essere usato come messaggero, a quanto pare.»

«A dirti la verità, cerco di essere un po' accondiscendente e a non pensare a quello che mi chiede di fare, perché mi aspetto che...» disse Franco, scrollando le spalle. «Be'... che scopra quello che sai, da un momento all'altro. E che possa agire di conseguenza.»

La regina sospirò. «Non credo che lo saprà mai, basta non parlarne. Non hai commesso nessun crimine, mi sembra.»

Lui si stropicciò gli occhi, con nervosismo. Quello era ancora un argomento di cui non faceva menzione quasi mai e persino con lei era stato molto vago. Preferiva non pensare ai rischi che stava correndo, con Tancredi che si era così avvicinato a lui e che sembrava davvero averlo preso sotto la sua ala protettiva. «Ai suoi occhi potrebbe esserlo, visto che lei è promessa a un altro... Anche se con quello che è successo nello Cmune non so se cambierà qualcosa.»

«Penso che lui e Alcina dovranno rivedere le loro strategie» commentò lei. «Non è molto saggio avere un condannato a morte come futuro genero. Ma sei venuto per parlarmi dei tuoi futuri problemi familiari? Tancredi ti ha mandato qui... per questo?»

Il suo tono di voce ironico fece ridere il compagno di viaggio, e anche lei ridacchiò con complicità. Cercava di nascondere che quell'uomo le incuteva un rispetto obbligato che non avrebbe tributato a molti. Sapeva di dover far affidamento su di lui, perché era una delle personalità più autorevoli del Pecama, se non dell'intera Selenia, e perché il suo appoggio l'avrebbe resa più credibile. Non era ancora sicura che i pochi nobili del regno, esclusi quelli del Consiglio, la ritenessero all'altezza.

«In realtà è una questione ugualmente importante» spiegò Franco, con una rinnovata serenità. «Lui sostiene che devi prendere una decisione il prima possibile, perché si profila una guerra con gli Autunno e tu corri un grosso pericolo, poiché confini con uno dei loro regni. Tancredi ha detto che ha intenzione di metterti a disposizione il suo esercito ufficiale...»

«Ma non si può a causa degli accordi del 472» completò Chiara. «Questo rende le cose più complicate.»

«Non molto, perché lui pensa di darti alcuni soldati utili in ruoli chiave, in modo che se ti attaccano, hai gli strateghi adatti per riuscire almeno a difenderti, in attesa che il tuo esercito sia pronto. E ti consiglia anche di costruire un muro difensivo lungo il confine con l'Autunno...»

«E con i Prati.»

«Sì, l'idea è quella, così intanto riesci a contenere anche i loro contadini, che Tancredi ha definito briganti e mascalzoni. Così avresti due vantaggi: il primo è che poni un argine al pericolo tangibile che sta dando problemi al tuo popolo, soprattutto a quella parte che vive nelle campagne. E quindi loro ti saranno grati per essertene occupata all'istante. Il secondo è che gli Autunno poi avrebbero qualche difficoltà nell'invaderti.»

Franco tacque, dandole la possibilità di riflettere prima di prendere una decisione. Chiara si voltò a guardare il cielo fuori dalla finestra, al di là del vetro che si poneva tra lei e la vista di Gaò, di quella cittadina silenziosa che si estendeva al cospetto del castello, come se il popolo dovesse ricordare che ognuno doveva rimanere al suo posto: regnanti in alto, e popolani in basso. L'architettura non era mai un caso, l'aveva imparato confrontando la sua capitale con le altre del Pecama e degli altri regni che conosceva, e la posizione che aveva il palazzo reale rispetto ad essa.

La sua posizione emanava autorità, ed era quella che lei doveva confermare di avere, anche con un pugno di ferro nei confronti dei regni limitrofi. Se i Dei Prati non avevano intenzione di porre un freno alle angherie dei loro uomini, lei non sarebbe rimasta a guardare inerte. Un muro con funzione difensiva non era un'idea malvagia, tuttavia lei non la vedeva come la mossa migliore nel breve termine.

«Tancredi non ha valutato un aspetto fondamentale» constatò infine ad alta voce. «Un muro difensivo non si può tirare su dalla sera alla mattina, servono giorni, se non settimane... e nel frattempo i pratesi possono continuare a fare ciò che vogliono, se non addirittura danneggiare i lavori di costruzione.»

Franco scosse la testa. «Non se quello sembra un accampamento militare.»

«Ho anche questo problema, i miei genitori hanno smantellato l'esercito! Non ho soldati da mandare a pattugliare il confine! Chi ci mando?» La voce le uscì quasi strozzata, come di chi si vede messo alle strette e non ha alcuna alternativa se non accettare le decisioni altrui. Si voltò verso Franco, ma lui sembrava fiducioso.

«Per questo vuole metterti a disposizione i suoi soldati» le disse infatti. «Ha davvero pensato a tutto.»

«Quindi io dovrei solo accettare?» Lei si scostò dalla finestra e tornò al tavolo a cui, tuttavia, non si sedette. Un soffio di vento le accarezzò il collo, lasciato scoperto dall'acconciatura che le raccoglieva i capelli sulla nuca. Strinse tra le mani il ciondolo che portava, una pietra di ambra che simboleggiava la resistenza del suo regno alle intemperie: avrebbe superato anche quelle difficoltà.

«Sinceramente? Io accetterei» rispose Franco. «Lui mi sembra più il tipo di re che fa le cose perché deve e non per avere un tornaconto personale: qui ci sono problemi che rischiano di diventare gravi, credo che senta come un dovere il fatto di aiutarti. Inoltre, ha detto che se qualcosa non ti sta bene, puoi parlarne con lui... E che si può arrivare a una soluzione che sia ottima anche per te.»

Chiara picchiettò con le dita sul tavolo. «La verità è che sarebbe da sciocchi non accettare il suo aiuto, soprattutto se, come dici tu, non ha delle mire sul mio regno e lo fa solo per un senso di giustizia. Non credo che un uomo con la sua influenza possa essere interessato alle Foglie Cadute. In confronto all'Inverno, alla Primavera o al Defi, questo regno è minuscolo.»

«E riesce anche a venire incontro alle tue esigenze... Ho parlato con Donna Delia, che presa da sola è sopportabile, e mi ha raccontato di una piccola ambasceria dei contadini al confine, poco prima del nostro arrivo. Hanno avuto il raccolto distrutto e sono stati rubati alcuni animali da allevamento, e la situazione è la stessa da mesi.»

Chiara sospirò, e le sue dita giocherellarono con una ciocca di capelli che dall'acconciatura le scendeva sulla spalla. «Ho tre priorità, che si intrecciano tra di loro, e l'aiuto di Tancredi è molto prezioso, ma stavo pensando anche un'altra cosa... Che non mi piace affatto.»

«Quale?»

Lei puntò quei suoi occhi verdi su di lui, con uno sguardo penetrante. «Anche i Lotnevi erano alleati di Tancredi e Alcina. E loro non sono stati in grado di impedire che fosse condannato a morte... se anche a me dovesse accadere qualcosa che nessuno può prevedere? Se l'assassino dei miei genitori tornasse qui per colpire di nuovo? Se venissi uccisa anche io? Se... se dovessi lasciare il regno senza un erede, che succederebbe? Se è probabile che a nord lo Cmune sia invaso da un giorno all'altro, nonostante tutte le precauzioni e le difese che possono aver preso i Lotnevi in passato, chi mi garantisce che tutte le misure che io sto per mettere in atto saranno utili più in avanti? E se...»

Lui la interruppe scuotendo la testa. «Chiara, non devi preoccuparti di questo. Innanzitutto, il palazzo ora è sorvegliato dai soldati di Tancredi, e lui resterà finché ce ne sarà bisogno, perché nessuno deve avvicinarsi a te tanto da poterti ferire o uccidere. Il Consiglio ha a cuore gli interessi del regno come ce li hai anche tu, perché loro sono nobili solo di rango, non hanno la ricchezza di altri luoghi... In pratica, dipendono da quello che accadrà qui. Se le Foglie andranno in rovina, loro le seguiranno subito. Se tu lasci delle disposizioni, loro le seguiranno, perché hanno capito che sei stata istruita per questo ruolo, sanno che tu puoi essere una guida e che le decisioni che prenderai, i progetti a cui darai il via a partire da oggi saranno solo per il bene di tutti.»

«Ma chi garantirebbe la linea dinastica?» obiettò la regina.

Franco rimase a bocca aperta. «Quindi... tu hai paura di morire senza aver avuto un figlio?»

Chiara annuì. «Sì, è quello che temo. Non per la mia vita, perché non ho paura della morte, ma per il futuro del mio regno. E solo un mio erede diretto potrebbe assicurare la continuità.»

«Quindi... dovresti rimanere incinta.»

«Dovrei prima...» lasciò la frase in sospeso, ma un sorriso sincero si allargò sul suo volto. Aveva la soluzione, era così semplice, davanti ai suoi occhi, eppure non aveva ancora riflettuto su come unire il suo ruolo di sovrana alla sua vita personale. Sposarsi, e sposarsi con Gaetano. Non sarebbe stato affatto facile per lui lasciare tutto e raggiungerla lì, ma aveva un fratello che avrebbe potuto prendere in mano la gestione della piccola azienda agricola della sua famiglia. Avrebbe potuto aiutarla a capire le esigenze dei suoi contadini e a trovare una soluzione per quella parte del suo popolo che era stata colpita dalle scorribande continue dei Pratesi. «So come fare. Ho tutto nelle mie mani» disse, ferma. Alzò lo sguardo verso il compagno di viaggio, che vide il suo viso illuminato: il suo aspetto cupo di pochi istanti prima divenne raggiante e la luce del mezzogiorno che entrava dalle finestre le donò un'aura sacrale.

«C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?» le chiese Franco.

«Devo scrivere una lettera molto importante e voglio che la spedisca tu. Non posso affidarla al Consiglio: è qualcosa di personale e non sono neanche sicura che loro approverebbero la mia decisione» spiegò lei.

«Gaetano?» ipotizzò lui, serio.

«Sì» rispose Chiara, ferma nel suo proposito. «Ne abbiamo parlato alcune volte: se io fossi diventata regina, tra noi non sarebbe cambiato niente. Avremmo solamente atteso il momento giusto per uscire allo scoperto e ora... ora è il momento. Forse è arrivato prima di quanto entrambi credessero, ma non possiamo tirarci indietro.»

«Non so quanto possa rafforzarti» disse invece l'amico. «I Fogliani sono diffidenti con gli stranieri e lui lo è. A parte i pochissimi locandieri che sarebbero felici di avere qualcuno da ospitare, nel caso non si fermasse qui al castello, la maggior parte del...»

«Lui non è un nobile, fa parte anche lui del popolo» lo interruppe lei. «E mostrare al mio popolo che io non faccio alcuna distinzione tra nobiltà o no per me è importante. Se obietteranno che non è cresciuto qui, io spiegherò che a me non importa da dove viene, né quale ruolo ricopra nella società: è solo la persona che amo e che voglio al mio fianco nel governare.»

«Ascoltami, io non penso che tu abbia torto.» Franco si schermò con la mano dal sole che entrava prepotente da una delle finestre, come se volesse punirlo per aver contrariato la sovrana. «Ma non tutti potrebbero capire le tue motivazioni. Inoltre, si tratta del Pogudfo, che non ha una buonissima fama... Potrebbero pensare che lui ti abbia solo raggirata per sposarti e diventare re, per chissà quale motivo!»

Chiara sorrise. «Una volta che lui sarà qui, vedranno con i loro occhi com'è. Lo sai anche tu, Gaetano ha quel modo di fare che ispira subito fiducia, che ti dà la sensazione di poter contare sempre su di lui, e che... che non ti abbandonerà mai. E lui non mi abbandonerà, non ora che la situazione rischia di diventare difficile.»

Pronunciò le ultime parole con malinconia, come se si sentisse in colpa per non aver pensato a lui come accompagnatore ideale. Sarebbe stato più semplice presentarsi al suo regno, al Consiglio, al popolo con Gaetano lì al suo fianco, anche se durante il viaggio lui non avrebbe saputo difenderla in caso di un attacco imprevisto. Tuttavia, non c'erano stati attacchi, era arrivata nel Pecama e nelle Foglie Cadute senza incidenti di percorso... E le mancava la sua presenza. Le mancava averlo vicino, parlarci, guardare quei suoi occhi scuri, profondi, caldi di quel sentimento che lei conosceva bene...

«Di' a Tancredi che accetto la sua offerta, ma non dirgli che ho intenzione di sposarmi.»

Ci penserò io.

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Capitolo 59
*** 18.3 Tumulata viva ***


 

Luciana guardò le porte della stanza richiudersi, dopo aver suggerito a suo padre di riposarsi e che l'avrebbe sostituito lei al capezzale della madre. Ettore aveva annuito: aveva il volto emaciato, come se la malattia che affliggeva sua moglie potesse avere effetti anche su di lui. Il guaritore, giunto quel mattino dal Rosonebro, gli aveva dato delle erbe da far bollire in acqua e da bere per conciliare il sonno. Il re aveva baciato la mano della regina, prima di accomiatarsi da lei e dalla figlia, e con poche parole di riconoscenza aveva ringraziato quell'uomo tarchiato che da ore si stava prendendo cura di lei.

Il guaritore intinse un altro panno nella bacinella di coccio che si era fatto portare. Quel liquido opaco impregnava la stoffa e le dava una sfumatura brillante, unguento mischiato all'acqua a cui era affidato il miracolo per cui Ettore si ostinava a pregare ogni divinità di sua conoscenza. Luciana lo osservava attenta con un misto di curiosità e dispiacere: sapeva che il suo prodigarsi sarebbe stato inutile, che la madre a letto non avrebbe avuto ancora molti giorni davanti a sé.

Lavinia era sommersa da strati di trapunte pesanti, alcune acquistate proprio per quello scopo, il viso esangue e gli occhi gonfi che si posavano spesso sulla figlia, come se la implorasse di alleviarle il dolore. Ma la regina non disse se preferiva alleviarlo con la morte o con la guarigione.

La principessa era stretta da una morsa di rimpianto a vederla ridotta in quello stato e si sentiva in colpa al pensiero di ciò che avrebbe dovuto fare quel giorno stesso. Tuttavia, la sua partenza era fissata per il mattino successivo: non poteva indugiare oltre. Ripensò alla lettera di Melissa, che le era arrivata poche ore prima. Ignorava dove si trovasse l'Autunno, anche se qualcosa nel tono frettoloso con cui le aveva scritto le suggeriva che non si trovava nel Ruxuna; anzi, a essere sincera con sé stessa, doveva ammettere che la credeva impiegata in una di quelle missioni pericolose e delicate che eseguiva per conto della sorella.

Le aveva dato delle istruzioni precise su dove trovare un gruppo di mercenari. La sua lettera era sbrigativa, con quel solito stile asciutto che, complice anche la distanza che separava lei e la Lugupe, restituiva una sensazione di gelida fermezza a chi lo leggeva. Luciana, però, non si abbandonava a quelle elucubrazioni: si fidava del suo istinto e dell'accordo stretto con la maggiore delle Autunno.

Fu distratta dalle sue riflessioni dalla voce della madre, un rantolo strozzato che le graffiò le orecchie.

«Maestà, starete bene, non vi affaticate» disse il guaritore.

«Voglio solo che la smetta» sussurrò lei, a fatica. «Mi sembra di morire.»

Chiuse gli occhi e, se non fosse stato per il lieve alzarsi e abbassarsi delle coperte, chiunque avrebbe faticato nel sostenere che fosse ancora in vita. Luciana si morse il labbro, ma non avrebbe esitato. Nella tasca del suo abito strinse la piccola fiala che le aveva consegnato Melissa, come se questa le potesse restituire la forza per quel gesto a cui non aveva intenzione di sottrarsi. Non si sentiva combattuta, perché non c'erano alternative: sua madre, se anche fosse sopravvissuta a quel morbo, non sarebbe più stata in grado di svolgere appieno il suo ruolo di regina: quell'uomo che tanto si affaccendava tra panni e medicamenti non era stato ottimista su una guarigione totale e aveva avuto uno sguardo cupo nel comunicarlo a lei e a suo padre nel primo pomeriggio.
 

Per fortuna non c'era la vecchia megera... lei si che avrebbe detto di darle il colpo di grazia.

Non le piaceva doverlo ammettere, ma Luciana stava eseguendo esattamente ciò che la Contessa avrebbe desiderato: se un arto si ammalava di un male pressoché incurabile, era giusto reciderlo di netto. Come si fa con le piante, glielo aveva sentito dire più di una volta quando era bambina, anche se in quei casi si riferiva ai contadini che si erano ammalati di febbre e non riuscivano a coltivare i campi, durante un inverno particolarmente gelido.

La giovane si avvicinò alla madre, le accarezzò il volto reso arido dalla calura estiva e da quella malattia che sembrava consumarla dall'interno.

«Non saresti dovuta andare ai Lupfo-Evoco, il viaggio ti ha indebolita ancora di più» mormorò, dispiaciuta. Non era combattuta, perchè sapeva di non avere alternativa: finché Lavinia sarebbe stata in vita, lei non avrebbe potuto prenderne il posto e il regno sarebbe stato privo di un una figura importante. Il re avrebbe avuto qualche settimana in più, solo in virtù di quella guerra che avrebbe dovuto condurre fino a quando...

Luciana scacciò il pensiero sollevando lo sguardo sulla vetrata spalancata, che si apriva su uno dei giardini interni della sfarzosa villa, a cui non faceva mai visita nessuno. Gli alberi erano ben potati e verdeggianti nonostante la stagione estiva, i fiori brillavano dei loro colori, mentre i raggi obliqui del tramonto tingevano quel quadro di tinte fosche, alla stregua di un presagio da gridare ma che nessuno ascoltava. L'arancio nel cielo era ancora espanso come olio lasciato cadere, da un servitore distratto, sul pavimento della lussuosa reggia del cielo, oscurandone quei diamanti preziosi che toglievano il respiro e le parole di complimento. Così era la residenza dei Lugupe, un luogo che risplendeva di ricchezza, e che avrebbe dato materia per l'ammirazione degli altri nobili, se solo questi si fossero presentati lì.

Ma loro non si degnano di venire, siamo noi a doverli rincorrere per cercare il rispetto che meriteremmo.

Arricciò il naso a quel pensiero e fu tentata di abbandonare il capezzale della madre morente, ma non si mosse da dove era. Non poteva indugiare, era quello il momento migliore per agire, avrebbe approfittato di un momento di distrazione del guaritore, o avrebbe atteso che si fosse allontanato per per avvelenare l'acqua riservata alla regina. Sarebbe stata inflessibile: se lei era scampata alla morte solo grazie all'aiuto delle Autunno, non dimenticava che Alcina Primavera era rimasta lontana. Non poteva rimuovere dalla sua mente il pensiero che quella donna, con cui sua madre aveva cercato a lungo tempo di instaurare un rapporto di fiducia senza riuscirci, quella donna che sembrava averla scelta come sua consigliera le aveva voltato le spalle.

Se i Primavera-Inverno erano troppo deboli per soccorrere i loro alleati, lei non l'avrebbe dimenticato mai. Avrebbe mostrato ad Alcina che cosa significava la lealtà, qual era il vero senso dell'alleanza, che una corte piena di sciocchi a chiacchierare non serve a niente. O che lei fosse stata considerata alla stregua di quei nobili frivoli che si ostinavano a sopravvivere alle spese dei sovrani di Defi?

No, questo no. Io non sono come loro.

Lavinia tossì, vomitando del catarro sulla coperta, e la figlia se ne discostò, inorridita, mentre il guaritore accorreva per ripulire il danno dal suo viso e per rivolgere altre parole di conforto alla regina di Dzsaco. L'uomo le pose sulla fronte dei panni intrisi di quell'intruglio che continuava a mescolare, dopo averle tolto la stoffa leggera con cui le aveva inumidito la pelle.

«Avete già visto qualcosa del genere, nel Rosonebro?» chiese Luciana, con un'espressione disgustata.

«Purtroppo sì, e non solo lì» rispose lui, chinandosi per togliere lo strato superiore delle trapunte che sommergevano la sovrana. Abbandonò quella stoffa pesante a terra e ne prese un'altra ripiegata da una poltroncina. -So che vi sembra di vedere una punizione di Danào in quello che provate, ma dovete fidarvi di me. Alla fine starete bene» mormorò alla malata, che scosse il capo.

«Danào non mi avrebbe punita» biascicò a fatica Lavinia. «Io non ho alcuna colpa.»

Siete voi a non vedere la condanna che è stata per noi l'alleanza con Alcina, pensò la figlia. Se non ci fossi stata io, ora il nostro potere nello Dzsaco sarebbe perduto.

«Allora guarirete» la rassicurò l'uomo, con un sorriso accennato.

Luciana non riuscì a trattenere un'altra smorfia, l'ennesima da quando era tornata al palazzo reale: tutto lì le sembrava finto e insulso. E in quelle stesse parole che il guaritore pronunciava con tenerezza vedeva una tragedia annunciata: sua madre non sarebbe sopravvissuta a lungo. Che lui le addolcisse l'attesa della morte con quella vana promessa, almeno lei era sollevata da un peso che non avrebbe saputo portare. Era certa di non saper fingere che tutto sarebbe andato per il meglio, e il volto emaciato della sovrana la metteva a disagio.

«Andate a chiamare qualcuno che si sbarazzi di quella» ordinò al guaritore, asciutta, indicando la coperta abbandonata sul pavimento.

«Come desiderate» disse lui, chinando il capo. Sembrava abituato a obbedire all'istante, anche quando il suo dovere glielo avrebbe dovuto impedire.

Niente di più facile per sbarazzarmene.

«Maestà, non vi affaticate» si raccomandò l'uomo, prima di uscire dalla stanza e di richiudersi la porta alle spalle.

«Madre, chiudete gli occhi, vi aiuterà» aggiunse Luciana con un soffio di voce. Si alzò dal letto per avvicinarsi al comò dove era posato il bicchiere d'acqua per la regina, quando lei la richiamò.

«Non allontanarti da me.»

«Non mi sto allontanando, vi predo l'acqua. Avete sete?»

«Sì...»

La principessa trasse un profondo respiro. Da quel momento non sarebbe più tornata indietro: estrasse la fiala facendo appena strusciare le stoffe del suo abito tra di loro, poi la stappò senza che quella emettesse un suono e versò la polverina nel bicchiere già pieno, che ruotò per mescolarla. Strabuzzò gli occhi al vedere che in pochi istanti l'acqua era tornata limpida, senza lasciare traccia del veleno versato. Ripose la fiala nella tasca e tornò dalla madre, che si alzò con fatica appoggiando la schiena ai cuscini accatastati alle sue spalle, e che le rivolse un sorriso spento. Luciana, tuttavia, comprese il sentimento di benevolenza che voleva trasmetterle.

«All'alba partirò per il Pogudfo» le disse, mentre lei beveva. Dovrò stare via alcuni giorni... spero di metterci molto poco.»

Lavinia le restituì il bicchiere vuoto, con le labbra inumidite che brillavano alla luce del sole che la colpiva in pieno viso, ma la donna non si schermò da quel bagliore che le fece sbattere più volte gli occhi. «Il Pogudfo... Il Tirfusama è di lì.»

La figlia annuì, anche se con un lieve fastidio. Di tutto quello che aveva detto, aveva colto solo la sua destinazione? E vi aveva associato Giampiero?

«Lui ha provato a fare tutto quello che ha potuto» sussurrò la regina, scivolando sotto le coperte. «Fai bene ad andare a scoprire le sue origini.»

«Siete in errore» ribatté lei, con voce fievole. «Non vado lì per lui.»

«Dovresti.»

La doppia porta della stanza si aprì e ne sbucò il guaritore accompagnato da una serva, entrambi con il viso arrossato. Avevano l'aria di chi avesse corso per non impiegare troppo tempo, eppure alla principessa sembrò che l'uomo si fosse assentato per un tempo interminabile. O meglio: per quello che a lei era stato sufficiente per avvelenare la madre.

«Lì» indicò semplicemente Luciana, puntando il dito sulla coperta gettata a terra. La ragazzetta la raccolse, senza far caso al sudiciume che vi si trovava, e se ne andò senza fare rumore.

L'uomo riprese il suo posto tra Lavinia e la finestra e notò il bicchiere che la giovane ancora stringeva tra le mani.

«Le avete dato dell'acqua?» domandò, con una premura che Luciana iniziava a trovare stucchevole.

«Mi sembrava che ne avesse bisogno» mentì.

Lui annuì, come se volesse confermare quella falsa impressione, poi si rivolse alla regina. «Maestà, ora devo...» si interruppe da solo, vedendo che la donna si era improvvisamente addormentata. Le posò una mano sulla fronte con un sospiro rassegnato. «Ha ancora la febbre.»

L'erede di Dzsaco si rese conto che la regina non era spirata solo perché quello spesso strato di coltrici si abbassava e innalzava ritmicamente, come se chi vi si trovava sepolto respirasse con frenesia.

Sembra tumulata viva dalla sua stessa malattia. Una tomba infelice.

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Capitolo 60
*** 19.1 La regina del popolo ***


Il soffio del vento mattutino accarezzava la superficie del mare, che si spingeva dolcemente sulla battigia disegnando archi su archi. Il verso di alcuni gabbiani in lontananza si mescolava in armonia con il suono delle onde, arrivando fino alla stanza dove la regina Dal Mare riposava.

Ariel schiuse gli occhi, richiamata da un movimento al suo fianco: il lenzuolo chiaro era spostato e lui le mostrava la schiena, chino fuori dal letto.

«Che stai facendo?» gli chiese, con una punta di malinconia nella voce.

«Non posso rimanere ancora a lungo qui, lo sai» Si voltò con un sorriso a guardare la fanciulla, ancora avvolta dalle stoffe leggere, con le gambe che si erano aggrovigliate al lenzuolo, come intessute insieme nello stesso ricamo; che non avrebbe visto nessun altro, se non lui. Si chinò a baciare la guancia della sua amata, con quelle labbra piene che lei attirò sulle sue, in altro bacio che sapeva di passione, segretezza e amore.

Ariel sorrise mentre lui si rivestiva. Sapeva che trascorrere insieme quella notte era stato un rischio, ma aveva desiderato correrlo sin da quando aveva ricevuto la sua risposta alla lettera. Era disposto ad aspettarla fino a quando non sarebbe venuto il momento giusto per annunciare la loro storia. Sarebbero occorsi mesi, forse anni, ma anche lui era tanto innamorato da essere pronto a tutto. E lei gliene era riconoscente, anche se non riusciva a esprimerlo a parole. Non era il genere di ragazza che si abbandonava ai sentimentalismi, cercava sempre di cogliere e di assaporare quanto di bello la vita le offriva; aveva dovuto rivedere le sue priorità, inclusa quella della spensieratezza, quando si era ritrovata a capo del regno.

«Eros» sussurrò, allungando la mano nella sua direzione. Lui ormai era già pronto per andarsene, per abbandonarla ai ricordi di quelle tenere ore trascorse insieme. «Promettimi che ci rivedremo ancora.»

«Certo che ci rivedremo» le sorrise l'amante. Si sedette sul letto e chinò il viso, sfiorando il naso di Ariel con il suo, contando le lentiggini di quel volto splendido e baciandola ancora una volta. «Se hai bisogno di musicisti che ti rallegrino le giornate, sai dove trovarmi.»

«Mi eri mancato, non sapevo quanto avessi bisogno di te» disse lei sedendosi, tenendo il lenzuolo sul petto altrimenti nudo.

«Il regno ora ha bisogno di te» rimarcò lui, con tono serio. «Io sono solo uno dei tuoi tanti granelli di sabbia. Ti ho fatto una promessa, non ci penso proprio a rimangiarmela.»

Ariel si fece raggiante, e si alzò dal letto. Aprì l'armadio che aveva vicino e ne estrasse il primo abito che la sua mano afferrò, lasciando che lui la guardasse prepararsi per il nuovo giorno. Si infilò in quelle stoffe morbide e sistemò le pieghe del vestito, per poi avvicinarsi alla toeletta e constatare allo specchio che anche quel giorno non aveva bisogno di imbellettarsi per essere presentabile. Si concesse solo il capriccio di un po' di colore sulle labbra, sentendo gli occhi innamorati di Eros su di sé e la sua voce scherzosa.

«Sai benissimo che non ti serve a niente!»

Lei sorrise. «Vorrei solo sembrare più adulta quando i rappresentanti del popolo vengono da me. Non sono più una bambina, ed è giusto che anche loro lo sappiano.»

«Ti venerano tutti» commentò lui, avvicinandosi al tavolino a cui la sovrana si specchiava. Si sedette sulla sedia al fianco di Ariel e continuò: «Dovresti vedere le bambine che parlano di tingersi i capelli per essere come te. E non lo farebbero se i genitori non le avessero convinte che tu sei un modello e un punto di riferimento per tutti. Non sei solo una regina, sei...» si interruppe, guardando il volto di lei, che lo ricambiava nel riflesso. Sorrise e concluse: «Sei molto di più. E io sono d'accordo con loro.»

«Il tuo giudizio è leggermente condizionato» rise lei, spostando una ciocca ribelle all'indietro. «Non puoi essere imparziale quando si tratta di me.»

«Dovrei esserlo?»

La regina si alzò in piedi, cercando con gli occhi qualcosa sul pavimento. «Non sempre. A volte è meglio essere distaccati, ci aiuta a comprendere tutto in maniera più chiara.»

«Le tue scarpe sono dentro l'armadio, ce le hai messe ieri sera» disse Eros, ridendo. «Ma se ti presenti scalza nella sala del trono, non si sconvolgerà nessuno.»

Ariel interruppe la sua ricerca, per guardarlo con aria canzonatoria. «Avrei potuto farlo qualche tempo fa, ora non più. Le cose sono cambiate.»

Aveva pronunciato l'ultima frase con tono malinconico, tanto che lei stessa volle distrarsi dalle proprie parole spalancando le ante dell'armadio. I suoi sandali di corda erano posati in basso, insieme ad altre calzature da tenere a portata di mano. Li afferrò e si sedette sul letto per indossarli.

«Non tra noi» disse Eros, con voce ferma. «Quello che è successo qui non ha cambiato quello che provo per te, e neanche quello che tu provi per me. Finché ci ameremo, niente sarà davvero cambiato.»

La giovane sovrana sorrise, ma non si voltò verso di lui. Intrecciò i nastri attorno alle caviglie con un sorriso, poi si alzò in piedi e si avvicinò di nuovo allo specchio della toeletta per guardarsi, anche se da lontano per entrare interamente in quel piccolo ovale: l'abito blu le ricadeva con dolcezza sul corpo, donandole quell'aria solenne e genuina che la accompagnava in ogni momento. Si rifiutava di acconciare i capelli, preferendo che ricadessero sciolti sulle spalle, come una piccola mareggiata di fuoco che ondeggiava al soffio del vento.

«So che tra noi non è cambiato nulla» mormorò allora, puntando i suoi occhi chiari in quelli scuri di Eros. «Ma tutto il resto sì. Io mi aspettavo di diventare regina, ma non ora... non in questo modo. Loro non dovevano morire, non è giusto che sia accaduto, ma non è tempo per starci a pensare.»

Lui si alzò in piedi e fece quel mezzo passo che lo separava da Ariel. Non disse nulla, ma la abbracciò con dolcezza, accarezzandole la schiena con una mano e infilando l'altra tra i suoi capelli rosseggianti, e lei si lasciò stringere, abbandonandosi a un sospiro.

Non era mai stata una ragazza malinconica; tuttavia quella notte di tenerezze le aveva ricordato a cosa, almeno per il momento, era costretta a rinunciare. Desiderò avere più tempo, o almeno di poterlo rallentare per rubare altri momenti al dio Crasio. Strinse gli occhi al pensiero di quel nume, circondato da clessidre piene di sabbia, quella stessa sabbia che lei accoglieva nel suo palazzo come un futile orpello. Lei non voleva i granelli chiari, ma il potere di arrestare il loro inesorabile corso, anche per pochi istanti, e rimanere con lui che le permetteva di essere sé stessa, senza le responsabilità del regno sulle sue spalle. Godere per alcuni attimi di quella spensieratezza che aveva dovuto abbandonare tanto presto.

«Forse è meglio che vada» mormorò Eros, senza sciogliere l'abbraccio, con il respiro che si perdeva tra i capelli di lei.

Ariel annuì. «Ti accompagno.»

Lasciarono la stanza inoltrandosi per i corridoio silenti e ancora immersi nel sonno. I pochi residenti del palazzo reale non si alzavano mai alle prime luci dell'alba, perciò i due amanti procedettero con sicurezza. Neanche la servitù ridotta al minimo si aggirava affaccendata, perché non c'era molto da fare. La regina aveva concesso a tutti di poter iniziare le giornate con calma, senza correre dietro alle faccende e ai rispettivi compiti, a prescindere dal rango. Quella cameriera che era sopravvissuta alla strage non aveva voluto abbandonarla, nonostante si guardasse sempre intorno con circospezione, diffidando di chiunque non conoscesse; tuttavia gli unici che le erano completamente estranei erano i soldati Inverno. Non aveva colto il consiglio di Ariel di trascorrere qualche giorno a Ehoi, od ovunque volesse. La giovane non glielo aveva detto con chiarezza, ma la sovrana ne aveva intuito la ragione.

Non ha mai parlato di genitori o parenti, forse non le è rimasto nessuno.

Arrivarono alla saletta in cui il principe e la principessa avevano ricevuto i loro insegnamenti quando erano bambini. La regina aspettò che il suo amante avesse richiuso la porta, prima di scostare un arazzo che arrivava fino al pavimento. Al di là si celava una porta priva di maniglia, ma lei ne possedeva la chiave sottile, che teneva nascosta all'interno di uno dei libri custoditi lì.

Spalancò il passaggio segreto con il libro in mano, che stringeva a sé come un affetto che temeva di perdere. Eros le lasciò un ultimo bacio a fior di labbra, prima di sparire nel passaggio segreto, che scendeva nei sotterranei e conduceva in una palazzina di due piani nel pieno centro di Ehoi.

"Bisogna usarlo solo in momenti gravi, in cui la tua vita rischia di essere in pericolo". Ariel poteva rivedere il viso splendido della madre quando l'aveva istruita sui segreti della reggia. Silvia le aveva altresì detto che nessuno aveva percorso in fuga quel passaggio, poiché nel loro regno non c'era mai stata una vera avvisaglia di nemici, né interni né esterni.

Ma era molto prima della minaccia degli Autunno e del loro grumnit.

Accostò l'arazzo e lo sistemò al suo posto, facendo attenzione a rimetterlo esattamente com'era prima del loro arrivo, poi lasciò la saletta. Guardò la luce del sole entrare nel corridoio e la polvere roteare sotto quel raggio mattutino, traendo un profondo sospiro. Era sempre penoso accompagnare Eros lì e quella volta si sentì ancora più trafitta dalla responsabilità che il suo nuovo ruolo le imponeva.

«Sei già sveglia?»

La regina si trattenne dal sobbalzare, per aver udito la voce di Iris. La sarta era al corrente del suo amore clandestino con un popolano, ma le sue confidenze si erano fermate a quel punto; Ariel non le aveva mai raccontato altro, né lei le aveva chiesto ulteriori dettagli da pettegolezzo, volendo rispettare la riservatezza della nobile.

«Sì, non riuscivo più a prendere sonno» rispose la Dal Mare, evasiva. Pensò di aggiungere che quella da cui era uscita era una delle stanze che frequentava da bambina, ma sarebbe stata una scusa non richiesta che avrebbe insospettito Iris, mentre lei voleva mantenere la segretezza.

«Ti capisco» commentò invece l'altra. «Io non ho chiuso occhio.»

La regina le indicò di proseguire a camminare assieme. «Stai bene?»

Iris esitò. «Non so quanto sia il caso di parlarne con te...»

«Se non mi interessasse, non te l'avrei chiesto, non credi?» le sorrise la sovrana. Sembrava aver recuperato un barlume di quella spensieratezza che l'aveva sempre contraddistinta e per cui tutti la riconoscevano. Fu quella luce che splendeva sul suo volto che spinse la sarta a risponderle.

«Tuo fratello... da quando è tornato non fa altro che guardarmi storto, come se io avessi fatto qualcosa di male...»

«È scosso da tutto quello che è successo» spiegò Ariel. «Tu saresti tranquilla al suo posto?»

La sarta sospirò, camminandole al fianco. «Non credo mai che io sarei al suo posto... ma questo non significa che debba squadrarmi ogni volta che mi vede!»

La regina non disse nulla. Sapeva che lui mal sopportava la presenza di colei che era diventata la sua unica amica, perché avevano avuto modo di parlarne il pomeriggio precedente. Era ancora sconvolto per l'esito dei Lupfo-Evoco: Ariel comprendeva che se Nicola Lotnevi era stato condannato per l'uccisione del proprio padre, anche a loro sarebbe potuto accadere; e il timore di Dante era che qualcuno li accusasse. Erano entrambi a conoscenza del fatto che Erik avesse ritrovato il suo pugnale vicino al cadavere del re di Cmune, ma sapevano altrettanto bene che nessun altro ne era al corrente.

«Non so davvero come sopportarlo. Cerco di evitarlo, ma ci sono momenti in cui proprio non posso» si lamentò ancora Iris. «Mi odia proprio.»

«Ma no, lui non odia nessuno» mormorò Ariel. La sua voce sembrava sicura, ma lei non lo era affatto. Aveva percepito il malumore tra i due durante la cena della sera prima, sebbene non fosse accaduto niente di strano: avevano chiacchierato serenamente, tanto che Erik non si era accorto di nulla. Ma le occhiatacce di Dante, così come alcuni gesti nervosi della sarta non erano sfuggiti alla regina.

Giunsero insieme alla sala dove erano solite prendere insieme la colazione, prima che iniziasse la giornata al palazzo. Tutto era pronto dalla sera prima, come Ariel aveva consigliato di fare alle donne di servizio, in modo che non si alzassero prima del tempo solo per preparare la tavola.

Iris non si sedette al solito posto: prese la sua tazza ricolma di caffè e si avvicinò alla vetrata che affacciava su uno dei piccolissimi cortili interni, dove una fontana modesta zampillava con allegria.

La Dal Mare la scrutò con attenzione: le sembrava di scorgerne il turbamento interiore, o forse l'altra non faceva nulla per nasconderlo. Quel semplice rituale permetteva a entrambe di spogliarsi delle pressioni esterne, di concedersi di stare in silenzio, di non dover apparire composte, severe...

O ancora a lutto, pensò Ariel.

«Non so quanto possa influire su di lui, ma proverò a parlargli» disse, cercando di essere convincente.

Iris si voltò a guardarla, con un sorriso sincero che le affiorò sulle labbra.

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Capitolo 61
*** 19.2 L'azzurro nel mare ***


 

Da quando erano saliti sulla loro nave, ormai governata da Raissa, Bianca non aveva più visto suo fratello. Era stata abbandonata in una cabina in cui mancava persino un letto in cui dormire senza svegliarsi con i dolori alla schiena, il legno del pavimento era scomodo e non adatto a lei. Le avevano lasciato le mani legate, togliendole solo il bavaglio, come se volessero assicurarsi che arrivasse viva a destinazione. Quella stoffa ruvida, tuttavia, era ancora al suo niveo collo, sgradevole ornamento da poter tirare su al momento opportuno.

Sciocco da parte loro, chiunque ci avrebbe uccisi subito.

L'aveva pensato durante la prima notte lì e durante tutte le ore trascorse in quella prigione improvvisata. Un incapace capitano guidava il vascello facendolo scontrare con i flutti marini, come se non avesse idea di come si tenesse un timone. Non riusciva a credere che Raissa non avesse uomini all'altezza di quel compito. Più di una volta era stata sbalzata nel sonno, quasi che gli Autunnali provassero del sincero divertimento nel vederla in quello stato. Quando una volta al giorno le portavano da mangiare degli intrugli maleodoranti, questi le venivano serviti da un soldato che sorrideva alle sue espressioni di disagio mal trattenuto. Nessuno le rivolgeva la parola, né li sentiva parlare tra di loro, ma era certa che loro considerassero un gioco da infanti prendersi cura di lei.

Non aveva mai sofferto i viaggi attraverso il Litil, e non avrebbe dato a Raissa la soddisfazione di vederla sofferente; anche se la nemica non si era mai avvicinata a lei. Sospirò, cercando di non perdere la ragione tra quelle quattro pareti e circondata da uomini silenti. Non era certa che quei soldati l'avrebbero lasciata intatta fino al loro arrivo, ovunque fosse la meta prefissata: era stato uno dei primi pensieri che le avevano attraversato la mente e non riusciva a capire come mai quelli erano reticenti a qualsiasi contatto fisico. Se la loro futura regina era tanto spietata con chi non era suo alleato, non li avrebbe privati del piacere che avrebbero potuto prendere da una prigioniera, tanto più se nobile e in salute. Tra le tante cose strane che aveva notato, c'era anche quella.

Ma io so bene che il vederci nell'incertezza del futuro, anche il più imminente, è ciò che vuoi. O forse ti servo intoccata?

L'avrebbe usata come merce di scambio? Sapeva di essere una preziosa, che molti avrebbero voluto per sé, non per il suo ruolo politico all'interno del Pecama: come diceva sempre Roberto, il loro regno era tanto piccolo che in pochi se ne curavano; era la sua intelligenza a essere preziosa, perché era in grado di scoprire tutte le strategie degli altri. Da quando aveva iniziato a viaggiare per il continente tra le varie corti, per occuparsi dei pochi affari che tenevano in piedi l'economia del suo regno, aveva avuto modo di intessere rapporti con i nobili di quasi ogni regno e teneva una corrispondenza regolare con i giovani futuri principi e principesse di Lancobe, Agloeto e Nutixa. In più di un caso aveva saputo ben consigliare gli altri, ed era certa che la voce sul suo ingegno si fosse diffusa.

Il legno della nave sobbalzò ancora, riscuotendola dalle riflessioni e facendola ricadere su un fianco. Posò le mani a terra, fece forza per sollevarsi e si trascinò sul pavimento fino a mettersi seduta con la schiena contro la parete vicina. Così, nel caso di un altro errore del timoniere, avrebbe evitato di procurarsi ulteriori lividi sulla pelle candida. Ma udì un suono metallico, simile a quello di un'ancora tirata giù. Che si fossero fermati in mezzo al mare?

Non dovette attendere molto, perché la porta della cabina si aprì ed entrarono due soldati, che la sollevarono con un paio di strattoni dal pavimento, correndo il rischio di farla cadere di nuovo, e la condussero fuori, dove c'erano altri uomini di Raissa, che la scortarono sopra coperta.

Vuole farmi annegare qui, dove nessuno mi ritroverebbe mai?

Quel pensiero orribile le attraversò la mente, ma non si conciliava con quello che era accaduto nei giorni di viaggio: perché assicurarsi la sua sopravvivenza per poi ucciderla? Per sadico senso di divertimento? Per averla tenuta intrappolata come una formica e poterne disporre a piacimento?

L'unica cosa che so di lei è che non è prevedibile. Devo essere pronta a tutto, anche a questo.

Salì gli ultimi scalini con il cuore in gola al pensiero di ciò che sarebbe successo di lì a poco. Per pochi istanti le si arrestarono i pensieri, e lei si concentrò su quello che aveva intorno. La notte avvolgeva il vascello e la luna calante illuminava a malapena i volti coperti dei soldati Autunnali.

Uno dei soldati si avvicinò a lei e le sistemò il bavaglio a coprirle le labbra sottili, stringendo il nodo dietro la sua testa. Bianca credette che fosse arrivata davvero la sua ora, perché intorno al vascello non c'era altro che mare, una distesa placida e inerte, e se Raissa avesse davvero deciso di sbarazzarsi di lei, lì era sicura che nessuno l'avrebbe recuperata. Le avrebbe lasciato dei funerali a sepolcro vuoto.

Non dovette attendere molto per conoscere la sua sorte, perché la voce gelida dell'Autunno le graffiò le orecchie.

«Portate qui anche lui.»

La principessa De Ghiacci sentì il cuore salirle in gola, come se spingesse per uscirle dalla bocca e smettere di pulsare per proprio conto prima che venisse costretto.

No, non voglio che Roberto lo veda.

Un uomo la strattonò ancora, spingendola verso un lato del ponte della nave, in modo da farla trovare dal lato opposto rispetto al pontile. Solo così poté vedere distintamente Raissa, che indossava un mantello leggerlo a ripararla dalla frescura della notte, mentre lei era lasciata a braccia scoperte, come si trovava nel momento in cui era stata catturata. Ma Bianca non sentiva il freddo, non quando una paura ben più grande l'aveva avvolta, annebbiandole la mente.

L'Autunno si voltò a guardarla, con un macabro sorriso dipinto sul volto, come se le sue labbra, scure nella notte, fossero state abbellite da un pittore dai gusti cupi. Si avvicinò alla De Ghiacci e allungò una mano per accarezzarle la guancia. Sapevano entrambe che quel gesto infastidiva la principessa del Pecama, perciò Raissa insisteva nell'instaurare con lei un contatto fisico che la degradava. Bianca non poteva tirarsi indietro, perché sostenuta dal soldato alle sue spalle che le bloccava i movimenti, ed era costretta a sopportare di essere trattata alla stregua di una bambola inerme. Provò a divincolarsi, ma era senza forze e il suo movimento fu lento e impacciato.

«Povera ragazza» commentò Raissa. «Credi davvero che metterò fine a tutto questo? Per te è solo l'inizio, mia cara.»

L'altra le rivolse un'occhiata glaciale, che cercò di caricare con quanto più odio poteva. Non aveva mai odiato nessuno, ma l'atteggiamento dell'Autunno che andava a colpire i suoi punti deboli la infastidiva e lei sembrava divertirsi parecchio in quel gioco delle parti.

Le due furono distratte da un tonfo sordo che provenì da sottocoperta. Si udirono dei passi svelti risalire le scale e subito comparve Roberto con le mani ancora legate, ma senza il bavaglio che impediva alla sorella di parlare. Lui le guardò, sorpreso di trovarle lì.

«Che sta succedendo?»

«Prendetelo» ordinò invece Raissa ad altri soldati, fino a quel momento rimasti nascosti nel buio della notte.

Il principe respinse uno degli uomini con un calcio, ma non poté nulla contro gli altri cinque che lo accerchiarono. Uno di loro lo costrinse a mettersi in ginocchio, e lui alzò il viso verso l'Autunno.

«Sembrava troppo facile riuscire a scappare così» commentò Roberto amaramente.

Lei non ribatté, ma si avvicinò al De Ghiacci a passi lenti e gli stampò uno schiaffo sulla guancia.

Lui rimase stordito da quel gesto improvviso, tanto che abbassò il capo abbandonando la sua solita e canzonatoria aria di sfida. «La pagherai cara per questo- biascicò soltanto, mentre un filo di sangue gli colava dalla bocca.

Raissa non si scompose da quelle parole: era ancora lei a tenere in pugno i due nobili. «Imparerai che la ribellione è sempre punita. O meglio... permetterai alla nostra cara Bianca di impararlo. Tiratelo su.»

I soldati strattonarono il principe, sollevandolo in piedi e l'Autunno estrasse una spada da sotto il mantello, puntandola verso di lui, che prima strabuzzò gli occhi, poi scoppiò a ridere.

«Vuoi davvero uccidermi? E pensi che te lo lascerei fare senza opporre resistenza?»

«Io non ucciderò proprio nessuno» ribatté lei, secca. «Sarai tu ad ucciderti.»

Fece un cenno a uno dei soldati, che si apprestò a legare alle caviglie del principe un sacco pesante, che sembrava contenere farina.

Bianca si sentì venire le forze venire meno e fu certa che, se non ci fosse stato quell'uomo muto a sorreggerla, sarebbe crollata sul pontile della nave. Non poté muoversi, non poté dire nulla nel vedere Raissa spingere suo fratello a salire sulla passerella puntandogli la spada tra le scapole, tanto che gli avrebbe lacerato le vesti se lui avesse fatto un movimento sbagliato.

Guardò i passi del fratello su quel legno allungato fuori dal vascello, e le sembrò eterno. La nave oscillava a ogni movimento di Roberto che, in un equilibrio precario, le dava le spalle. Bianca non capiva, o non voleva capire cosa stava accadendo, le sembrava irreale, si sentiva stordita come in un sogno, incapace di muoversi, di pensare, di ragionare... L'unica cosa che poteva fare era rimanere con gli occhi fissi sul fratello minore che avanzava, incontro alla distesa nera, che la luna puntellava di riflessi argentei.

«Qui finisce, mi fai tornare indietro?» scherzò lui, ma Raissa salì sulla passerella, sbarrandogli il passaggio per un ritorno a bordo.

«No» rispose secca, incitandolo con la punta della spada ad andare incontro al suo destino.

Roberto si fece serio e deglutì, guardando prima quel mare placido sotto di lui, poi il volto della sorella coperto per metà ma con quegli occhi che non riuscivano a celare il terrore.

«Mi dispiace, Bianca» disse, prima di buttarsi giù e sparire alla vista.

L'urlo di lei superò la stoffa che le copriva il volto e riecheggiò attorno ai presenti. Si liberò dalla presa del soldato, che si era fatta debole, e accorse al bordo opposto della nave. Quasi cadde, ma non le importava.

Ti prego, fa' che non sia vero, ora risalirà, ora tornerà su e si metterà a dire una delle sue scemenze irriverenti... Ti prego, Luna.

Non sollevò lo sguardo verso l'argentea divinità che risplendeva sopra le loro teste, nel trionfo del suo segreto che non concedeva se non a pochi adepti, nonostante il culto diffuso anche tra chi non aveva una religiosità profonda, come la De Ghiacci.

Le sembrò di vedere una figura che si muoveva sotto le onde quasi immobili, ma che non risalì, anzi, lei temette di essersi illusa di aver solo immaginato di poterlo guardare un'ultima volta. Continuò a tenere gli occhi fissi sul mare, con il battito del cuore che le rimbombava nel petto e che le scuoteva tutto il corpo, un tamburo percosso dall'incredulità. Ma Roberto non tornò in superficie e lei credette di morirne.

No... no.

Si sostenne al bordo in legno, solo per non dare la soddisfazione a Raissa di vederla disperata. Trattenne l'impulso di chiudere gli occhi e di cercare solo di ascoltare ancora una volta la sua voce; ma lui non parlò più.

«Se avesse saputo stare al suo posto, sarebbe ancora vivo.»

Bianca si voltò lentamente, lo sguardo assottigliato di chi sta per lanciare un dardo avvelenato. I suoi impulsi erano contenuti, come sempre, nonostante non potesse controllare il disprezzo che l'Autunno le suscitava. Più del dolore per Roberto, sentiva l'odio per Raissa ribollirle nelle vene, pulsare tanto da ridarle un po' di colorito sul volto pallido. Più del dolore, era forte l'umiliazione dei polsi legati, della bocca che non poteva parlare, del divertimento che l'altra si stava prendendo di lei, della sua sofferenza, del vederla ridotta come una bambola di porcellana rovinata dall'incuria di un viaggio andato male.

«Ora sai cosa succede a chi osa ribellarsi a me» disse ancora la principessa di Ruxuna, scendendo dal pontile della nave, dopo essersi assicurata che il De Ghiacci non sarebbe tornato in superficie.

Bianca fece un passo verso di lei, senza sapere di preciso cosa fare, ma un colpo alla nuca le fece perdere i sensi e si accasciò sul legno del vascello.

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Capitolo 62
*** 19.3 Il mercenario tradito ***


 

«Non avremmo dovuto tenerglielo segreto» stava dicendo Stella con tono concitato. Sembrava che stessero discutendo da parecchio tempo, dietro quella porta, ma Flora si era appena accostata per ascoltare. Sapeva che la sua reazione alla scoperta di Claudio era stata esagerata, eppure si sentiva ferita. Avrebbe dovuto dirglielo.

Non siamo amici? Io mi fidavo di lui, mi sono sempre fidata... e se invece nascondesse altri segreti?

«Avevamo alternative?» chiese Arturo, con evidente nervosismo.

«Sì» gli rispose Claudio. «Non sembrava importante, ma sono cambiate tante cose in così poco tempo. Neanche io avevo dato tanto peso a quelle visioni... pensavo solo che fossero una stranezza, tutto qui. Eppure non è come credevo. Io non volevo dirlo neanche a voi, è qualcosa di più grande di me, che non so gestire, ma che sta venendo fuori da solo.»

«Non è colpa tua» provò a rincuorarlo l'Estate. «Ma non volevo che si arrivasse a... Insomma, se quella profezia parlava davvero di noi, cosa è accaduto? Noi abbiamo solo vissuto quel terremoto...»

Il cuore di Flora le saltò in gola. La scossa era stata leggera, ma c'era stata e lei ci aveva riflettuto su parecchio, prima di concludere che poteva essere qualcosa che aveva a che fare con quei poteri che ancora non padroneggiava con piena consapevolezza. Era spaventata da sé stessa e da quello che, suo malgrado, era in grado di fare. Se un semplice momento di rabbia aveva fatto tremare la terra e l'aria attorno a lei, cosa avrebbe potuto fare in un momento più grave?

Lo ignorava e una piccola parte di lei non era certa di voler conoscere la risposta. Per evitare, però, di mettere in pericolo gli altri senza volerlo, aveva deciso di raggiungerli alla stanza in cui stava riposando Claudio, ancora debole dopo la visione che aveva avuto.

Ancora non riesco a crederci...

«Non possiamo farci nulla» stava dicendo proprio lui. «Noi sappiamo solo che le profezie anticipano davvero quello che accadrà, ma non possiamo sapere se si riferiscono a cose che sono già successe o no... Forse è stato un caso che ne abbiamo trovata una che sembra ci riguardi, perché le altre non mi sembra che abbiano a che fare con noi...»

«Se ne ho interpretata bene un'altra» lo interruppe Stella, «c'è un riferimento a quello che ha fatto Laura Autunno con i Draghi Bianchi. Ma le altre potrebbero parlare di persone comuni, non di... Be', non di nobili.»

«Pensi che sia un male?» le chiese Claudio, con una voce dolce che Flora non gli aveva mai udito.
«Non proprio, ma così è più difficile sapere se si sono avverate o meno» spiegò lei. «Ed è meno semplice capire quali scartare tra quelle di cui dobbiamo preoccuparci.»

La Primavera, ancora fuori dalla porta, si abbandonò a un sospiro pensieroso. Non aveva pensato che quella ricerca sarebbe diventata un enigma di interpretazione e selezione: da quando erano partiti, era sempre stata convinta che avrebbero trovato la profezia, anche se non tanto facilmente, ma non che in mezzo a una foresta di versi si sarebbe ritrovata costretta a utilizzare delle armi che non possedeva per uscirne più forte e, soprattutto, con la consapevolezza di sé. Da una parte la spaventava l'idea di Raissa, che l'aveva designata come sua antagonista per una ragione che andava al di là della rivalità tra le loro famiglie, dall'altra non osava immaginare cosa sarebbe stato di lei una volta conosciuto il testo di quella profezia che le vedeva l'una contro l'altra.

Trasse un profondo respiro per infondersi un po' di coraggio. Era andata lì per un motivo ben preciso, non per origliare le parole dei suoi compagni di viaggio.

Bussò alla porta accostata: attraverso uno spiraglio vedeva Claudio a letto, che sfogliava il libro delle profezie.

«Sì, sì, entra» disse il suo amico che, al vederla comparire, mutò la sua espressione distesa. «Flora, non pensavo fossi tu!»

«E chi sarebbe dovuto essere?» domandò lei.

«La guaritrice» rispose lui, scrollando le spalle.

Flora guardò gli altri, anche loro sorpresi di trovarla lì.

«Ti dobbiamo delle scuse» esordì Stella. «Non avremmo dovuto tenerti all'oscuro di quello che sapevamo.»

«Non eravate voi due a dovermene parlare» ribatté lei, seria, accennando anche ad Arturo. Poi infisse i suoi occhi chiari in quelli grigi dell'amico di Nilerusa, che annuì.

«Senti, Flora, io non pensavo che fosse una cosa di importante...» provò a dire lui. «Mi succedeva ogni tanto di vedere qualcosa, non credevo di essere un Veggente! L'ho capito solo quando ho letto il manoscritto di Ennio Estate... E tu eri così nervosa, come avresti reagito se ti avessi detto cosa avevo scoperto?»

«Esattamente come ha fatto» rispose Arturo, pacato. «E nessuno la biasima per questo.»

«Tu che parli di biasimo?» rise la Primavera, illuminandosi. «Non credo proprio che tu te lo possa permettere, non con quello che non ci dici ma che potrebbe metterci in pericolo.»

Aveva pronunciato con calma quelle ultime parole. Il mercenario l'aveva portata, suo malgrado, al discorso a cui lei voleva arrivare: scoperchiare i segreti reciproci. Aveva compreso, osservando il comportamento degli altri tre, che nulla unisce più un gruppo di una confessione. E il fatto che quello di Claudio fosse venuto alla luce le aveva instillato nella mente l'idea che ognuno dei quattro ne condividesse uno di quell'importanza. Anche se, a quanto lei sapeva, Stella non ne possedeva.

«Io non vi metto in pericolo» si difese il soldato.

«E allora dicci da dove proviene la tua spada» ribatté Flora.

Lui scambiò un'occhiata dubbiosa con gli altri due, soffermandosi in particolar modo sul defico.
«Io mi fido di te, anche se scoprissi che in passato hai ucciso per Raissa» sentenziò quest'ultimo.
Arturo sorrise appena. «Non è andata proprio così.»

La primaverese inarcò le sopracciglia, come se con il suo fare severo potesse indurlo a parlare e a spiegare a lei e agli altri la verità. «Dobbiamo sapere. Tu puoi anche pensare che non sia importante, ma lo è. Guarda lui» e, nel dirlo, indicò Claudio a letto «come si è ridotto per queste profezie! Chi dice che Raissa sia meno pericolosa?»

«Sinceramente, non sono spaventato né dal mio destino né da Raissa» commentò il mercenario. «Ma i tuoi poteri sconosciuti possono essere un ottimo motivo per parlare. Non voglio che un altro terremoto faccia crollare il tempio.»

«Io non faccio crollare proprio niente» ribatté lei, ferma.

«Oh, smettetela, eh!» esclamò Claudio. Guardò Stella, che ancora non aveva preso una posizione tra i due.

«Cerchiamo di stare calmi» disse allora l'Estate, confortata dall'incoraggiamento del defico. «Arturo, tu raccontaci come quella spada è arrivata nelle tue mani. Flora, per favore, lascialo parlare, altrimenti non lo sapremo mai.»

Lei fece una smorfia di disappunto, ma non ebbe nulla da aggiungere. Nonostante quel battibecco, avrebbe avuto quello che desiderava.

Arturo appoggiò la schiena contro il muro, e portò istintivamente una mano all'elsa di quella spada, che aveva suscitato perplessità sul suo conto sin dal primo momento.

«Ho servito sotto gli Autunno» disse, alternando lo sguardo sui compagni di viaggio. «Faccio parte di un gruppo di mercenari del Pogudfo e qualche volta ci hanno ingaggiati. Sono sempre stato una persona discreta e lo è anche il modo in cui porto a termine le mie missioni. E questo...» tentennò, ma strinse con ancora più convinzione lo stemma e proseguì. «E per questo mi hanno affidato molto spesso incarichi delicati e segreti. Ho dovuto scortare delle spie degli Autunno in luoghi lontani, sorvegliare coloro che all'interno della corte di Ruxuna erano possibili traditori... E sì, Claudio, ho anche dovuto uccidere, ma non per conto di Raissa.»

Lui, interpellato, chinò il capo. Forse non si aspettava davvero quella confessione, ma apprezzava che ne avesse parlato.

«Poi una volta, questo inverno, mi è stato ordinato di accompagnare la regina e una delle principesse a un tempio di Crasio, nel Rosonebro. Non che mi allettasse l'idea, perché era un compito banale che avrebbe potuto svolgere chiunque al mio posto, ma Amelia aveva chiesto proprio che ci fossi io. E lei, all'ultimo minuto, ha avuto un impegno nel Ruxuna che le ha impedito di partire insieme a noi. Così sono partito da solo insieme a Deianira...»

«Deianira?» esclamò Stella. «Quindi tu l'hai vista? È davvero così cagionevole come si dice?»

Arturo fece un lieve cenno di assenso. «Sì, è cagionevole, ma non è l'unico problema.»

«Perché, che è successo?» gli chiese Claudio, stupito.

«Nel Vatovo, poco dopo aver passato il confine, abbiamo subito un'imboscata. Ho avuto la fortuna o l'abilità, mettetela come vi pare, di riuscire a respingere tutti, ma uno degli assalitori aveva preso Deianira e se non fosse inciampato nella fuga... Lei sì, ha avuto molta fortuna a liberarsi dalla sua presa e a scappare verso di me.»

«E poi, l'hai ucciso?» lo incalzò Stella.

«Prima dovevo sapere chi li aveva mandati perché, anche se non li conoscevo di persona, avevo riconosciuto nel loro modo di usare la spada le mosse e l'abilità di altri mercenari» Arturo si morse la lingua, prima di anticipare la domanda che l'Estate o il defico gli avrebbero posto. «Erano lì per Deianira, con l'ordine di ucciderla... E quell'ordine proveniva da Raissa e Amelia. Forse speravano di sbarazzarsi anche di me, dopo avermi avuto per tanto tempo al loro servizio. Questo ancora non lo so.»

«Amelia e Raissa avrebbero voluto la morte di Deianira?» domandò Flora, riflessiva. «Deve esserci un motivo.»

«Lei non me ne ha parlato. Ci sono alcune cose che non conosco nemmeno io... Ma quando siamo arrivati nel Rosonebro, lei ha chiesto al sacerdote di Crasio che ci ha accolti se poteva farmi avere una spada nuova, che si adottasse a me... Ne usavo una non mia in quel viaggio. Per questo sulla mia spada c'è inciso lo stemma degli Autunno. Nel combattimento sono rimasto ferito, quindi c'è voluto qualche giorno perché tornassimo nel Ruxuna.»

Claudio aveva ascoltato con attenzione e quando Arturo tacque di nuovo, volle sapere il seguito di quell'avventura. «E quando siete tornati cosa è successo?»

«Di comune accordo abbiamo deciso che non avremmo detto niente a nessuno, ma Amelia era sconvolta quando ci ha visti. Forse si aspettava che ci avrebbero ucciso, forse che tenessero la figlia in quel tempio per il resto della sua vita...»

«Quindi tu avresti dovuto accompagnare Deianira lì e lasciarcela per sempre» dedusse Flora. «In alternativa alla vostra morte nel frattempo.»

Il mercenario annuì. «Sembra di sì.»

«Melissa e Ruggero non ne sapevano nulla?» chiese allora l'Estate.

«No, infatti loro ci accolsero come avrebbero fatto normalmente. Ma Melissa iniziò a sospettare qualcosa, tanto che mi avvicinò e mi chiese di dirle cos'era accaduto davvero. Ho cercato di ripeterle la stessa storia che io e Deianira avevamo raccontato al resto della corte, ma non mi credette. E quindi è andata dalla sorella.»

«E l'ha scoperto» concluse Stella.

Lui annuì di nuovo. «Credo che quello sia solo stato l'inizio dei problemi interni, come li chiamano loro.»

«Se tra di loro c'è un po' di tensione, va a vantaggio di tutti gli altri» meditò l'Estate, riflettendo. «Perché se in futuro questa tensione non sarà svanita, le loro azioni e le loro decisioni saranno più lente... Per questo si sono fermate al Loavi?»

Arturo scrollò le spalle. «Sono qui con voi, non ho idea di cosa sia successo nel continente. So solo che io ero sulle tracce di Melissa quando mi sono ritrovato a fare da scorta a lei.» Indicò Flora, che non si offese per il modo in cui lui l'aveva coinvolta nel discorso.

La Primavera, infatti, era immersa in altri pensieri in quel momento. Non aveva motivo di dubitare del mercenario, non più, almeno, visto che Raissa aveva attentato alla sua vita. Quello che le sfuggiva era altro...

«Tra te e Deianira c'è qualcosa, vero?»

Il soldato mantenne il controllo, ma lei vide la sua agitazione interiore. E come non vederla? Si dibatteva confuso tra il desiderio di tenere celato il suo segreto e l'imbarazzo di essere stato scoperto.

Non mi inganni, io so come indagare il tuo animo.

«Oltre a qualche parola e alla mia assoluta fedeltà a lei, no» disse, ma fu chiaro a tutti che quella non era la risposta completa.

Vedo che tu la ami e che non sai se lei potrà ricambiarti.

E Flora distinse nitido davanti ai suoi occhi perché lui era stato tanto vago, perché non si era disfatto di quella spada nonostante l'accusa che gli attirava, perché continuava a negare di essere fedele agli Autunno.

Perché lo è solo a una di loro.

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Capitolo 63
*** 19.4 Orgoglio e inganni ***


 

Luciana non era mai stata nel Pogudfo, anche se aveva avuto modo di approfondire le sue conoscenze parlando con alcuni nobili che provenivano da lì e che erano dovuti scappare quando la situazione politica si era complicata. Inorridiva al pensiero che ci fosse qualcuno costretto a scappare dal proprio luogo di origine e inorridiva ancor più all'idea che si trattasse di aristocratici che riscuotevano di un grande prestigio nelle altre corti. Come esempio le era sufficiente il marchesino Tirfusama, che aveva dimostrato di essere un giovane sveglio e pronto a qualsiasi evenienza il destino gli avesse posto di fronte.

Aveva immaginato di trovarsi in un luogo ostile, e invece il cielo che l'aveva accolta oltre il confine era lo stesso dello Dzsaco, tanto che aveva superato il bosco tra i due regni senza accorgersi di trovarsi in terra straniera. Con una mano teneva le redini del suo cavallo, mentre l'altra continuava nervosamente a cercare l'elsa dello spadino sotto il mantello. Non riusciva a smettere di immaginare un assalto improvviso, temeva che dietro uno degli alberi che costeggiavano l'antica via pavimentata potesse sbucare chissà chi per assalirla. A ogni frusciare del vento tra le foglie si guardava attorno sospettosa, a ogni cinguettio si voltava a destra e a sinistra... Invano, perché non c'era davvero nulla che avesse l'aria minacciosa.

Respirava lentamente, rimanendo sull'attenti: nonostante le apparenze non si sentiva sicura di proseguire in un luogo che lei considerava ostile a tutti gli effetti. Non avevano forse mandato via la famiglia reale a suon di coltellate ai suoi membri? Non erano stati gli altri nobili a fuggire prima che la situazione precipitasse? Come avessero fatto i Tirfusama a uscirne pressoché indenni le sfuggiva, ma poi si ricordò che la loro famiglia era caduta in disgrazia presso i sovrani diversi anni prima che l'anarchia piombasse sul regno.

E se Giampiero avesse cospirato con i rivoltosi per...?

Il pensiero le attraversò la mente, ma lei lo scacciò, perché ormai era giunta alle porte di un mucchio di case, il primo che le mappe consultate al palazzo le avevano indicato sul suo cammino. Osservò con curiosità quelle villette a un piano, che appartenevano evidentemente a dei contadini, almeno a constatare lo stato pessimo dei muri esterni, che avrebbero necessitato di una verniciatura, e degli steccati che rinchiudevano gli animali da allevamento.

«E tu chi sei? Non ti ho mai vista qui!»

Fu scossa dalla voce di un bambino sui cinque anni, con il viso e le mani sporche di fango, vestito di abiti logori, ma i cui occhi scuri sprizzavano vivacità.

«Non si parla così agli sconosciuti!» lo rimbeccò una ragazzina di poco più grande, che poi salutò Luciana agitando la mano e rivolgendole un sorriso dispiaciuto. «Devi scusarlo, ancora non sa come ci si comporta.»

La principessa non seppe cosa dire, turbata dall'assenza del "voi", che tutti i popolani avrebbero dovuto utilizzare in presenza di un nobile, e di qualsiasi riguardo nei suoi confronti, ma nessuno dei due ragazzini se ne accorse, perché la sorellina stava rimproverando il fratello minore.

«Dadi, ha detto mamma che devi rimanere a guardare le galline, non a dare fastidio alla gente!»

«Uffa» si lamentò lui, portandosi un dito infangato sul viso. «Loro mi beccano, perché non ci vai tu?»

«Devi imparare a non farti beccare» sentenziò lei. «Muoviti!»

Il bambino corse fino a una piccola cisterna piena di quella che a Luciana parve acqua piovana, ma si rese subito conto che non poteva esserlo: se il clima era lo stesso dello Dzsaco, non pioveva da giorni.

La ragazzina corse dietro il fratellino, per rimproverarlo ancora per qualcosa che la Lugupe non poté udire, perché aveva spronato il cavallo ad andare avanti, nella fretta di giungere a destinazione.

Poco dopo fu costretta a superare il fiume Metlui che aveva fiancheggiato da quando era uscita dalla boscaglia al confine tra il suo regno e il Pogudfo. Per arrivare a Tisle era necessario percorrere uno di quei ponti, che gli abitanti di quel vecchio regno avevano distribuito con regolarità lungo il suo corso, ma Luciana non si sentiva molto sicura. Temeva un agguato improvviso, che il suo cavallo si imbizzarrisse e la disarcionasse buttandola in quell'acqua gelida. Eppure non poteva temporeggiare ancora a lungo, perciò trasse un profondo respiro e dirottò le redini verso un ponte che le sembrava abbastanza solido. L'animale nitrì, ma non si oppose: il ritmo regolare dei suoi zoccoli su quel legno rincuorava la principessa, in tensione sin da quando avevano varcato il confine.

Arrivare a Tisle non fu difficile, grazie ad alcune incisioni su pietra fatte degli stessi anarchici: nelle carte che lei aveva studiato prima di mettersi in viaggio non se ne faceva menzione, e nemmeno nei trattati geografici sul Pogudfo. Quei massi levigati erano posti a distanza regolare e lei ne era stata sorpresa, perché pensava che loro non pensavano minimamente ai pericoli che avrebbero corso se un esercito straniero li avesse invasi. O se gli aristocratici di un tempo avessero deciso di riprendersi con le armi quello che apparteneva loro.

La capitale del Pogudfo, o meglio, quella che lei conosceva come capitale del regno, la accolse con il profumo del pane appena sfornato. Luciana aveva appena varcato la vecchia porta, che appariva ben curata, come un simbolo del passato di cui gli abitanti non avevano voluto liberarsi.

Per non dimenticare il passato, suppongo.

Non era sicura che le piacesse, quella reliquia della monarchia messa lì, alla stregua di un monito per qualsiasi nobile fosse passato da quelle parti. Scese dal cavallo, per camminare sulla strada lastricata in pietra grigia con i propri piedi, guardandosi intorno non più con la paura che provava nella campagna, ma con una nuova e viva curiosità.

Le vie di Tisle non erano lugubri, né gettate nel caos come le aveva immaginate, ma brulicanti di attività, con uomini e donne abbigliati in maniera pratica e adatta per muoversi con comodità. Notò con una punta di fastidio, di non essere l'unica giovane che portava i pantaloni, anche se la fattura ricercata della stoffa che avvolgeva le sue gambe non era paragonabile a quella indossata dalle coetanee che si muoveva tra la folla degli anarchici.

Una donna, da una finestra, stese in basso un lenzuolo chiaro, in modo che riparasse dal sole chi si trovava al di sotto, mentre un'altra ne afferrava i lembi e li legava con dei lacci ai rami di uno degli alberi piantati in ordine lungo la via. Nei libri di geografia che aveva consultato prima del suo viaggio, non si faceva menzione di viali alberati; che averli piantati fosse stata un'iniziativa del popolo?

Forse qualcuno di loro era stato una delle cittadine organizzate meglio e l'aveva suggerito... Ma Luciana non riusciva a capacitarsi di come in un regno in cui non c'era più nessuno che prendesse le decisioni si potesse modificare una cosa tanto importante dell'assetto. Piantare gli alberi avrebbe significato svellere il terreno, abbattere le case, togliere la pavimentazione e rimetterla da capo

Se il mio popolo sapesse che una cosa del genere è possibile, si sbarazzerebbe di me e della mia famiglia.

Rabbrividì a quel pensiero, perché il suo destino alla guida dello Dzsaco era appeso a un filo, che lei cercava di ispessire con il suo viaggio. Ogni cosa che la circondava la inebriava e terrorizzava al tempo stesso, perché se da un lato ammirava come lì non ci fosse lo scompiglio al comando, come invece le era stato detto più volte, dall'altro continuava a proiettare quella stessa situazione nel suo regno.

Qualcuno le rivolse delle occhiate curiose, avendone riconosciuta la provenienza straniera, ma lei non vi badò, perché se i pugidfiani avessero saputo chi fosse, probabilmente non si sarebbero limitata a guardarla. Rassicurata dai suoi stessi pensieri, percorse la via, che aveva tutta l'apparenza di essere una delle principali.

Luciana si aggirò ancora per le strade di Tisle, ripassando mentalmente le istruzioni di Melissa per raggiungere la locanda che le aveva consigliato. Non sapeva se fossero accomodanti con chi non conoscevano, perché aveva l'impressione che tutti fossero amici di tutti, si scambiavano saluti e altre parole che in una corte sarebbero state di circostanza, ma che lì risuonavano sincere.

E io sono qui per ordire un altro inganno.

Raggiunse la sua meta, rivolgendo a malapena un'occhiata all'insegna che accoglieva alla Luna maledetta, che sembrava avere un nome irriverente e canzonatorio, ma che diede fastidio a Luciana. Lei non aveva un buon rapporto con le credenze religiose, ma non le piaceva che qualcuno le offendesse. Lasciò il cavallo a un ragazzo che si stava occupando della stalla adiacente, poi arricciò il naso ed entrò dalla soglia spalancata. Non c'erano molti avventori all'interno, giusto un paio di giovanotti che chiacchieravano a un tavolo e un uomo che mangiava della zuppa da un piatto di coccio. Era ormai tardo pomeriggio, in quel limbo indeciso dell'orario che precedeva la cena, ma che ancora non si poteva definire sera, visto che il sole ancora non era calato.

Si diresse verso il bancone, presso cui la accolse un uomo esile e ricurvo.

«Posso esserti utile?» le chiese con tono gentile, ma la Lugupe trattenne una smorfia di disappunto al sentire che, di nuovo, non le veniva dato del voi. Se aveva potuto tollerarlo da quei due bambini, non lo accettava da quel tipo.

«Sembri venire da fuori» commentò quello, ora con tono canzonatorio. «Dovrai abituarti, nessuno ti parlerà nel modo in cui sei abituata.»

Lei sospirò, ancora infastidita, prima di dire: «Non importa. Voglio una stanza.»

Lo pronunciò come se fosse un ordine, ma il locandiere non parve turbato; Luciana non doveva essere la prima forestiera che ospitava, né la prima che gli si rivolgeva con quei modi altezzosi.

«Certo, seguimi.»

Lei sorrise per quella celerità e salì insieme all'uomo al piano superiore, dove lui la guidò fino a una camera vuota, e di cui le consegnò la chiave di un metallo pesante. Lo ringraziò e si chiuse all'interno.

Il luogo era confortevole, costruito in pietra e con una finestra che si affacciava su una piccola piazza. C'era persino un caminetto spento, che in una stagione fredda avrebbe riscaldato l'ambiente. Delle trapunte di ornamento coprivano il letto intagliato in legno scuro, un lusso che in tante città del continente non avrebbe mai trovato, se non in quelle che erano solite ospitare nobili.

Le tornò alla mente il Sogno d'argento, in cui sapeva che il Tirfusama risiedeva quando era a Mitreluvui. Si sedette sul letto e si tolse il mantello da viaggio, lanciandolo su una morbida poltroncina dalla stoffa di un bel rosso scuro. Sentì il suo cuore stringersi in una morsa. Sua madre aveva creduto che lei partiva per il Pogudfo per cercare qualcosa a proposito del marchesino; lei stessa aveva rifiutato subito quell'ipotesi, ma in quel momento non poté fare a meno di pensarci. D'altra parte, non si trovava nel regno in cui lui era cresciuto da bambino?

"Non vado lì per lui."

"Dovresti."

Quelle parole le rimbombarono nella mente, quasi facendole dimenticare il resto. Come poteva sua madre dire qualcosa del genere? Che Giampiero le avesse parlato mentre lei era nelle prigioni del palazzo? E perché avrebbe dovuto?

Si sdraiò sul letto, cercando di riposarsi dopo il lungo viaggio. Tuttavia, il pensiero del marchese non riusciva ad allontanarsi dalla sua mente, nonostante lei cercasse di scacciarlo. Si ricordava del modo in cui lui le aveva preso la mano, poco prima della condanna di lei e Nicola, di quella stretta che, in un certo senso, l'aveva rincuorata. Si era sentita al sicuro, anche se era durato un solo istante.

Anche se in realtà sono stata io a cercare lui... ma perché?

Si ricordava della sua offerta di viaggiare insieme per Mitreluvui, che lei aveva rifiutato con orgoglio, perché quel damerino che si stava tirando fuori da solo dalla disgrazia del suo casato la innervosiva, le ricordava che lei non era stata scelta da Alcina. Forse la regina di Defi aveva preso una pessima decisione... In Luciana si rafforzava sempre di più la convinzione di essere sulla strada giusta per arrivare a tenere le redini dello Dzsaco e di poterlo fare senza incontrare ostacoli di alcun tipo. Era certa di sapere come risollevare la situazione interna e di prendere il controllo con il consenso dei suoi sudditi: sarebbe stata una regina ben voluta, perché avrebbe sistemato qualsiasi problema. Era molto fiduciosa nelle proprie capacità, perché il compito che le avevano affidato le Autunno e l'alleanza che ne era nata dimostravano che lei non era così buona a nulla come la Contessa continuava a ripetere.

Quella vecchia maledetta... E Melissa che mi dice di non sbarazzarmi di lei!

Si alzò dal letto e allungò la mano verso la tasca del mantello, estraendone la lettera con la maggiore delle principesse di Ruxuna. In realtà lei non aveva detto che non avrebbe potuto togliersi di torno l'anziana parente, ma che "almeno per ora, ci è più utile che sia viva. Troppi morti tutti insieme nella tua famiglia, qualcuno potrebbe insospettirsi, e i nobili che tenete lontani dal palazzo potrebbero convocare Clara Riutorci. Meglio aspettare."

Luciana scorse con gli occhi la lettera, ripassando le istruzioni per arrivare nel luogo in cui avrebbe trovato i mercenari di cui aveva bisogno.

"Tutte le case sono dipinte di vari colori, ma la loro la riconoscerai facilmente, perché hanno le tapparelle scure e i muri esterni sono dipinti di un azzurro chiaro, mentre quelle intorno sono rosa chiaro e gialle. Fatti indicare dall'oste dov'è la piazza principale, da lì prendi..."

La Lugupe aveva notato i toni variopinti delle case di Tisle, ma non aveva mai pensato che potesse essere un espediente per farsi riconoscere senza chiedere indicazioni indiscrete. In questo, doveva ammettere, gli anarchici avevano saputo essere abili; anche se ogni cosa, da quando aveva superato il boschetto al confine, continuava a stupirla.

Anche quel suo gesto, alla corte Lotnevi, l'aveva stupita: perché in quella folla aveva cercato proprio il Tirfusama? Perché, se lei non si sentiva colpevole? Aveva avuto una corrispondenza con Melissa che andava avanti ormai da qualche mese, ma solo le informazioni che potevano riguardare una futura e probabile invasione... Lei non aveva nulla a che fare con la morte di Guglielmo.

Ma allora cosa l'aveva spinta? Non sapeva rispondersi. Forse quel tipo strano e a volte troppo formale nel parlarle aveva qualcosa che l'aveva convinta di poter fare affidamento su di lui, ma sapeva che non aveva mai avuto modo di avere un confronto serio con il nobile decaduto. Lo detestava a priori, perché lui incarnava quella capacità di muoversi tra uomini e donne potenti che lei non possedeva, ma che si illudeva di avere. Perché lui riusciva lì dove lei sembrava fallire. Non aveva mai considerato di essere in competizione con lui per entrare nelle grazie di Alcina, tuttavia non poteva che constatare che si era sempre comportata come se fosse così.

Si distrasse rileggendo un altro passo della lettera di Melissa, che le indicava di giungere alla casa dei mercenari alle prime luci dell'alba. Forse non erano al sicuro nemmeno tra gli altri pogudfiani...

A interrompere le sue sterili riflessioni fu qualcuno che bussò alla porta della camera.

«Avanti!» gridò lei.

Entrò l'uomo che l'aveva accompagnata sin lì, che le rivolse un cenno di saluto con il capo, prima di annunciarle che avrebbero iniziato a servire la cena entro pochi minuti, se lei desiderava mangiare.

Luciana annuì. Che fosse un'usanza dei pogudfiani cenare tanto presto o che quello si fosse messo all'opera solo per lei, poco le importava. Riprendere un po' di forze con cibo e una buona dormita era il modo migliore per prepararsi all'incontro del mattino seguente.

 

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Capitolo 64
*** 20.1 Stoffa lacera ***


 

L'aria era pregna dell'odore acre del vino. Quando le era stato detto di recarsi lì alle prime luci dell'alba per qualsiasi affare avesse per le mani, non avrebbe pensato di trovarsi in un covo di ubriaconi che avevano trascorso la notte a fare baldoria. Diede un'occhiata al cavallo, che aveva legato al palo in legno più vicino, che sembrava essere sistemato apposta, e bussò a quella porta dal legno scuro, senza aspettarsi una risposta veloce.

Invece l'uscio si schiuse, mostrando la figura di una donna che la squadrava da uno spiraglio aperto, con un occhio che sembrava uscirle dalla palpebra per lo sforzo di scrutarle fin dentro l'animo.

Luciana fu sul punto di parlare, ma sentì la punta di una spada premere contro la sua schiena.

«Entra, straniera» disse in un soffio una voce giovane alle sue spalle. Sembrava quella di un ragazzo che cercava di imitare la compostezza e l'autorità di un adulto.

Lei non ebbe il tempo di voltarsi, perché la pogudfiana aveva spalancato l'uscio e lei fu spinta all'interno, cadendo sul pavimento. Sentì un improvviso bruciore al ginocchio destro e, quando si rialzò da terra, si accorse che i suoi pantaloni si erano lacerati, e che si era aperta una piccola ferita da cui perdeva del sangue. Strinse gli occhi per trattenere la fitta di dolore.

«Era proprio necessario? Si trattano così i clienti?» sbraitò la donna, anche se a bassa voce. «Guarda, si è anche fatta male! Subito, va' a prendere delle bende.»

Quello non ribatté, si limitò a chiudere la porta alle spalle di Luciana, che rimaneva immobile in piedi, fissando sorpresa quella donna. Non sapeva affatto che cosa aspettarsi: se quello non era il migliore dei modi di essere ricevuta, aveva capito che si trattava di un'incomprensione e che i due ci fossero motivi di tensione. Forse erano madre e figlio? Ne dubitava, lei non aveva l'aria di essere già madre e non le avrebbe attribuito un'età sufficiente per avere un suo adolescente a cui badare.

«Non avrebbe dovuto farti cadere, pensava che saresti entrata da sola» disse la sconosciuta a mo' di scusa. «Sei ancora in piedi? Su, siediti lì!»

Luciana non si era accorta che le indicava un tavolo attorno a cui erano sistemate delle sedie di legno. Si trascinò alla più vicina, con una mano al ginocchio sanguinante. Portò una mano alla tasca del mantello, per controllare che non le fosse caduto il sacchetto con il pagamento per i mercenari; per fortuna era ancora lì.

«Temo che dovremo tagliarti i pantaloni, per curare la ferita» commentò la donna, una volta che si fu avvicinata per osservare la gamba della Lugupe. «Erano tanto costosi? Altrimenti posso procurartene degli altri.»

«Sì, erano costosi» disse Luciana, con stizza. «Ma ormai sono rovinati.»

«Quell'idiota di Giuseppe...» biascicò ancora la donna. «Da quando Arturo se n'è andato, pensa di poter prendere il suo posto.»

Alla principessa di Dzsaco non importavano quei discorsi, lei era lì per una ragione: e invece si ritrovava con un ginocchio sanguinante e con i pantaloni laceri.

E questa continua a blaterare.

«In ogni caso, io sono Greta» disse la sconosciuta, porgendole la mano.

«Non hai un cognome?»

Lei scrollò le spalle, ma senza ritrarre la mano. «Non li usiamo quasi mai.»

La Lugupe la strinse. «Allora io sono Luciana.»

Il giovane che l'aveva spinta all'interno ritornò con alcuni lembi di stoffa tagliati in maniera regolare e una bottiglia di vetro dal liquido trasparente. La donna spostò una sedia di fronte alla sua ospite e le sollevò la gamba, fino a farle poggiare il piede lì sopra.

«Ti farà un po' male» la avvertì la pogudfiana. Stappò una bottiglia con un odore penetrante, che Luciana non sapeva da dove aveva preso. Il liquido all'interno sembrava trasparente, ma lei non lo versò. Si fermò a scrutare con una smorfia pensierosa la ferita aperta e sanguinante dell'altra.

«Vuoi rimanere lì a guardare o pensi di fare qualcosa?» commentò il ragazzo infastidito.

Lei agitò la mano come per zittirlo. «Quei pantaloni tanto ormai non possono rimanere così, te ne darò io degli altri, se non vuoi rimanere con le gambe scoperte» disse, poi si voltò ad aprire un cassetto del mobile in legno alle sue spalle.

Luciana la osservò con terrore prendere un coltello affilato e avvicinarsi alla sua gamba.

«Non è così grave da dover tagliare tutto» scherzò l'altro.

«Giuseppe, sta' zitto» ordinò lei, che si chinò davanti alla loro ospite, piegandosi sulle ginocchia, e sfiorò con la mano libera la stoffa lacera.

«Se devi tagliare, taglia, non mi diverte questo teatrino» sbuffò Luciana.

Greta sorrise. «Stavo aspettando che mi dicessi di andare.» E con il coltello strappò i pantaloni, facendo attenzione che la lama fredda non toccasse la pelle della giovane. Poi prese la bottiglia lasciata aperta e ne versò alcune gocce.

Luciana trattenne un grido di dolore e si afferrò istintivamente la coscia, mentre la pogudfiana le tamponò la ferita senza premere troppo sul ginocchio, dopodiché la bendò con la stoffa che si era fatta portare.

Lanciò un'occhiataccia a Giuseppe.

«Sei veramente un idiota» commentò, infastidita. Poi si rivolse a Luciana. «Fa ancora male?»
Lei scosse la testa, così la donna accennò un sorriso.

«Bene, ora che abbiamo visto che sta bene, che vuole questa qui?» chiese il ragazzo.

La Lugupe lo spiò di traverso, assottigliando lo sguardo. Come osava parlare in quel modo? Non sapeva chi aveva di fronte, ma né il suo atteggiamento né le sue parole erano giustificabili. Doveva solo ringraziare che si trovassero al di là del confine e non poco più a nord, dove lei avrebbe potuto ordinare che gli venisse tagliata la lingua.

«Forse è meglio se ci lasci sole, dopo quello che hai combinato» lo rimbeccò Greta.

Giuseppe scrollò le spalle e uscì da quella piccola stanza, sbattendo la porta dietro di sé.

«Ti chiedo ancora di scusarlo» disse la pogudfiana, rivolgendosi a Luciana. «Gli abbiamo dato un paio di incarichi importanti e si è montato la testa.»

«Non importa» mentì la nobile.

«Mi sembra proprio il contrario» ridacchiò Greta. «Comunque, ora possiamo parlare del motivo per cui sei qui.»

Luciana annuì, anche se quello non le sembrava ciò che stava cercando. Era davvero lì che avrebbe dovuto incontrare dei mercenari? Che quei due lo fossero? Il modo diffidente in cui era stata accolta da quel giovane, tuttavia, le suggeriva che non si era sbagliata: quello era il luogo giusto.

«Mi è stato detto che qui avrei trovato dei mercenari» disse, allora, con sicurezza. «Ma in due non potrete aiutarmi molto.»

La donna sorrise. «Questo è solo dove le persone sanno di poterci trovare. Non siamo tutti qui. Cosa ti serve di preciso?»

La Lugupe tentennò, ma le tornò alla mente un passaggio della lettera di Melissa.

"Sii sincera ed esponi la verità. Loro sono pagati per sapere e mantenere il silenzio."

Allora raccontò chi era lei e cosa l'aveva spinta fin lì, in un luogo estraneo e straniero. Le parlò della guerra fittizia con gli Autunno, della garanzia che avevano di vincere, ma dell'esercito imbarazzante al servizio dello Dzsaco e dell'aiuto di cui aveva bisogno da loro.

Greta ascoltò ogni sua parola con attenzione, annuendo di quando in quando. Alla fine disse soltanto: «Accettiamo. Ho sentito parlare della tua famiglia, so che dispone di grandissime ricchezze, quindi so che ci pagherai e anche profumatamente.»

«Io vi pago già adesso» stabilì Luciana. «Ho con me l'equivalente di mille fiorini in zaffiri.»

La donna le rivolse un gran sorriso. «Perfetto. Abbiamo una compagnia di soldati specializzati, nonostante alcune defezioni siamo quasi al completo. Sai già come sarà l'esercito contro cui dovremo combattere?»

«Non ancora, la mia fonte sarà più precisa in futuro» rispose la nobile. In realtà non sapeva se Melissa l'avrebbe di nuovo contattata per mettere a punto i dettagli di quella finta guerra, ma nulla le lasciava supporre il contrario.

«Una sola compagnia potrebbe non essere abbastanza» constatò Greta. «Se dovrai ingaggiarne altre, sarà meglio saperlo prima per poterci organizzare anche con loro.»

«Certamente» annuì la Lugupe. «Non è imminente, ma dovrete tenervi pronti, perché temo che avremo un breve preavviso.»

«Bene, non ci saranno problemi. Mi dispiace solo che il nostro soldato migliore è partito diverso tempo fa e non è ancora tornato, ma gli altri sono altrettanto validi.»

«Se torna in tempo, ci sarà anche lui?» domandò Luciana. Era incuriosita da quel secondo accenno a uomini della compagnia che non erano presenti.

«Me lo auguro. Non dico che sia decisivo in una guerra, ma nelle missioni segrete sa essere molto discreto. Infatti il problema è che in molti ci chiedono quel tipo di servizio...» Greta tacque con una smorfia. «Per fortuna ci pagano profumatamente. Quindi, se più in avanti avrai bisogno di discrezione, potrai contare su di noi. O meglio, su di lui...»

«Me ne ricorderò» disse la nobile, decisa. Infilò una mano nella tasca, ne estrasse un sacchetto di pelle e ne rovesciò il contenuto sul tavolo. Alcuni zaffiri brillarono trotterellando sotto il raggio di sole che filtrava dalla finestra socchiusa, suscitando la meraviglia di Greta. «Se non credi che siano del giusto valore, puoi controllarli.

La pogudfiana allungò le dita per afferrarli uno per uno e li esaminò da vicino. Luciana la spiava con la coda dell'occhio, come se non volesse dare a vedere che quella diffidenza la offendeva: aveva creduto che la donna si sarebbe fidata di lei; perché avrebbe dovuto ingannarla? Se sapeva chi era, doveva sapere che quelle pietre erano un nulla al confronto delle ricchezze della sua famiglia!

«Sì, vanno bene» concluse Greta.

«Vi darò notizie appena dovrete unirvi al mio esercito» sentenziò Luciana, alzandosi dalla sedia. La donna di fronte a lei le porse la mano, a suggellare l'accordo e la principessa la strinse, prima di congedarsi e lasciare la casa modesta. Slegò il cavallo, che aveva approfittato della sosta per sonnecchiare, e lo punzecchiò su un fianco, prima di salirci sopra.

Nonostante il fastidio per la stoffa strappata dei pantaloni, constatò che con le gambe mezze nude apprezzava meglio la frescura del primo mattino. Si godette l'atmosfera serena percorrendo la strada verso settentrione, di ritorno nello Dzsaco.

 

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Capitolo 65
*** 20.2 La giusta rotta ***


 

Il sole galleggiava placidamente lungo la linea dell'orizzonte, quando la nave attraccò al porto dell'Autunno. Raissa salì sul ponte del vascello e guardò in alto, verso gli stendardi assenti che avrebbero dovuto tremare al soffio del vento, ma che invece lei aveva provveduto a rimuovere non appena le coste del Copne erano state abbastanza lontane, quando in mare aperto nessuno le avrebbe notate. Sorrise al vedere i suoi soldati che si improvvisavano mozzi e marinai per mantenere un certo decoro, perché sapevano che lei non sarebbe stata clemente se qualcosa fosse stato fuori posto. L'ordine in ogni luogo e in ogni situazione era un obbligo e chiunque fosse passato per i ranghi del suo esercito aveva dovuto impararlo sin da subito.

Sulla terraferma, un uomo si avvicinò al molo a cui il vascello dei De Ghiacci era ormeggiato, e si inchinò al cospetto della principessa. Raissa si avvicinò a lui, con un ghigno di soddisfazione sul volto: era un sollievo essere di nuovo a casa. Non perché non le piacesse muoversi di nascosto, rendersi invisibile a chi avrebbe potuto vederla, ed escogitare nuovi stratagemmi, bensì perché aveva bisogno di un momento di tregua dai suoi stessi sotterfugi.

«Altezza, avete bisogno di riposo? Posso mettervi a disposizione tutte le mie stanze, i miei ospiti possono spostarsi altrove» azzardò a domandare quell'ometto, che lei riconobbe come il proprietario della locanda adiacente al porto.

Con un cenno della mano rispose di no. «I miei soldati torneranno alla loro caserma, io rimarrò ancora per un po' sulla mia nave.»

Sottolineò la parola con particolare enfasi, provando una gioia indescrivibile nel poter sfoggiare il magnifico vascello dei De Ghiacci come proprio. Lo considerava alla stregua di un bottino di guerra; ma d'altra parte la loro famiglia avrebbe inevitabilmente dovuto pagare un piccolo pegno per rimanere al sicuro. Non aveva interesse a conquistarli, perché sarebbe stato un impegno inutile per il suo esercito e perché quell'attacco non sarebbe passato inosservato: preferiva averli alla sua mercé con il minimo sforzo.

«Come desiderate» la assecondò quello, con un altro profondissimo inchino.

Raissa gli fece cenno di poter andare e lo guardò trotterellare sul molo, poi sulla terra battuta fino all'ingresso della locanda. Era così facile avere l'ubbidienza incondizionata del suo popolo, e quella sensazione di potere la inebriava, che le procurava i brividi sulla pelle ogni volta. Quando un popolano era riverente nei suoi confronti e pronto a eseguire ogni suo desiderio, lei si sentiva più soddisfatta di quando i suoi soldati la seguivano in guerra, perché ai sudditi comuni non apparteneva quella ferrea disciplina di ordine e comando che invece era impartita nell'esercito. Certo, tutti erano obbligati a piegarsi alla sua volontà, ma l'Autunno non si illudeva: il popolo aveva sempre un minimo margine di autonomia, che i suoi genitori le avevano insegnato a rispettare. Dalla loro illusione di essere padroni del proprio destino, quando invece erano sotto il giogo dei reali, dipendeva la quiete interna al regno. Non c'era bisogno di instaurare una tirannia nei propri possedimenti.

Ad attirare la sua attenzione fu un giovanotto dai capelli scuri e un sorriso complice sul viso: si era avvicinato al molo e la guardava con aria seria. Raissa lo riconobbe subito: gli fece cenno di salire sulla nave e quello annuì, prima di eseguire.

La principessa si rivolse a uno dei suoi uomini, che stava pulendo il legno della nave. «Appena avrete finito qui, tu e gli altri potrete tornare alla caserma Ho detto al locandiere che non abbiamo bisogno delle sue camere. Potrete riposarvi una volta arrivati a destinazione.»

Quello fece un cenno di assenso con il capo, senza proferire parola, mentre l'ospite della sua futura regina arrivava sul molo e saliva a bordo.

«Mia signora» la salutò con un sorriso beffardo.

«Non prenderti gioco di me, potrei tagliarti la lingua, se solo lo volessi» ribatté lei, senza una reale severità. «Attendevo tue notizie, eppure non mi aspettavo che ti avrei trovato qui.»

«Il tuo piano era arrivare nell'Autunno ed è quello che è successo» spiegò lui, scrollando le spalle. «Non sapevo quando, ma ero certo che prima o saresti arrivata.»

«Non qui» tagliò corto Raissa, spiando con rapidità se dal porto qualcuno si fosse incuriosito al vedere quella scena. Non era usuale per lei parlare con uomini che non fossero i suoi generali di guerra, i pochi che non aveva privato della voce, dunque indicò di seguirla sottocoperta e si diresse alla cabina di comando, arredata lussuosamente come la camera di un palazzo reale.

«Ti tratti bene» constatò lui, una volta che furono rimasti soli. «Pensavo che avessi dei gusti più frugali, almeno per viaggiare.»

«Alessandro, questa nave non è mia» spiegò lei sbrigativa, sperando che il suo uomo fidato smettesse di guardarsi intorno. Andò a sedersi dietro un tavolo pieno di carte e mappe, mentre lui continuava a girovagare per la stanza, più ampia di quanto si sarebbe detto dall'esterno.

«E questo paravento cos'è?»

Raissa sorrise malignamente. «Credo che i fratelli De Ghiacci utilizassero insieme questa cabina, quindi quello lo avrà utilizzato la principessa per nascondere le sue intimità

Alessandro rise, prima di sporgersi a guardare cosa fosse nascosto al resto della stanza, scoprendo un letto che sarebbe bastato per una persona sola. «Le lenzuole sembrano pulite, lo stai usando al suo posto?»

«Se hai intenzione di dormirci tu, posso assicurarti che rimarrà soltanto un tuo desiderio» lo derise l'Autunno.

Il giovane fece un cenno di assenso divertito. «E di loro cosa ne hai fatto? Sono prigionieri qui?»

«Più o meno» rispose Raissa, mentre lui si avvicinava al tavolo. «Bianca è qui, mentre mi sono dovuta sbarazzare di Roberto.»

«Ti stai dando troppo da fare, sai benissimo che il loro regno non conta un piffero e che, in più, sono circondati dall'Inverno!»

«So cosa sto facendo» ribatté lei, serenamente. «Alla fine vedrai che avrò le mie ragioni. Ora, va' a chiudere le tende.»

Alessandro strabuzzò gli occhi, senza comprendere il motivo di quella richiesta. Raissa allora gli indicò con un cenno del capo la vetrata alla sua destra, da cui si vedeva il porto.

«Tra pochissimo sarà più affollato delle strade di Tnoco durante la festa per la Luna. Non credo che possano vederci, perché siamo abbastanza lontani, ma meglio non correre rischi.»

«Potevi pensarci anche prima, forse qualcuno mi ha visto salire qui con te» commentò lui, alzandosi in piedi. Si avvicinò a quella sorta di finestra gigantesca e diede un'occhiata alla terraferma, dove c'era qualcuno che iniziava ad avvicinarsi alle navi e qualche commerciante era giunto di persona a controllare che la propria merce non finisse nelle mani sbagliate.

Coprì la vetrata come lei aveva ordinato e ritornò a sedersi al tavolo, su cui lei stava accendendo delle candele scure. «E queste le hai trovate qui?»

«Certamente. A quanto pare anche i De Ghiacci hanno il desiderio di coltivare alcuni segreti» rispose Raissa, atona. «Ma noi non siamo qui per parlare delle loro cianfrusaglie.»

Alessandro sorrise. «È stato più facile di quanto credessi. C'era davvero un gran bisogno di personale perché il Roccei avesse un buon esito... Mi hanno assunto subito e mettere il veleno nell'acqua di cottura delle ostriche è stato un gioco da ragazzi.»

«E la fuga? Immagino che il buon Tancredi si sia precipitato lì e abbia sguinzagliato i suoi alla tua ricerca...»

«Tu sai sempre tutto!» esclamò lui, con una divertita ammirazione. «In realtà è arrivato troppo tardi, avevo già lasciato il palazzo da un bel pezzo. Nessuno si è preso la briga di cercarmi nell'unico luogo in cui era prudente nascondermi.»

«Adesso devi raccontarmi come hai fatto» lo incitò Raissa. Gli aveva lasciato carta bianca su come avrebbe ucciso i Dal Mare e la loro intera corte e a lui aveva proposto di farlo accadere durante il Roccei. L'Autunno aveva approvato l'idea, ma poi non aveva più avuto occasione di discuterne con lui. Ignorava come lui si fosse celato ai soldati efficienti dell'Inverno.

Alessandro sorrise con soddisfazione. «Iris si è lasciata sfuggire di un passaggio che porta fuori dal palazzo. Sembra una sala da giochi per bambini... in pratica non la usa nessuno. Non so nemmeno come faccia a conoscerla, ma non importa. Dopo aver avvelenato le ostriche del rituale, mi sono allontanato mentre tutti andavano a mischiarsi con i nobili per quella scemenza lì e nella confusione nessuno si è accorto che io non ero con loro, che razza di idioti. Quindi sono andato in quella sala e ho superato il passaggio segreto. Ci ho messo un po', perché non sapevo cosa avrei dovuto fare per andarmene da lì... E ho anche sentito una donna strillare, ma era qualcuno della servitù del palazzo.»

«Erik e Ariel erano con Iris, come previsto, immagino» sorrise malignamente Raissa.

«Sì» annuì lui. «Ma credo che la cosa sia andata un po' oltre rispetto al tuo piano.»

L'Autunno tamburellò con le dita sulla tavola cosparsa di carte nautiche, pensierosa. «Il mio piano prevedeva solo che Erik Inverno cadesse ai piedi di Iris, tanto da perdere la testa per lei. E non ho ragione di credere che non sia accaduto.»

«Non intendevo questo» affermò Alessandro con sicurezza. «Non riesco a capire come sia davvero lei, se sia leale a noi o a quello lì. Temo che però potrebbe darci qualche problema, almeno in futuro.»

«Sì, potrebbe» concordò la nobile. «Ma ricordati che Iris non è stata altro che un nostro strumento. Aveva solo il desiderio di migliorare la sua umile condizione e l'abbiamo accontentata. Non mi ha giurato fedeltà, né mi aspettavo che lo facesse. Tuttavia...» si interruppe e fissò lo sguardo nel vuoto. Vedeva i suoi progetti delinearsi così come aveva previsto. «La situazione che si è creata ci sarà più favorevole di quanto immaginassi. Hai avuto modo di parlare con lei?»

Lui accavallò le gambe, svogliato. «Sì, ma non è che mi piaccia molto averci a che fare. D'accordo, è riuscita a scoprire da quell'idiota come potersene andare di nascosto dal palazzo, è molto scaltra, ma c'è qualcosa di lei che non mi convince.»

«Non era questo che volevo sapere» ribatté Raissa, asciutta. «Che cosa ti è parso di Iris? Sembrava cambiata dal nostro ultimo incontro?»

«Cambiata? No, a me sembra la solita oca di sempre.»

«Devo supporre che tu sia uno stolto, oppure un pessimo osservatore» commentò la principessa. «I suoi occhi, com'erano? Le hai parlato dell'Inverno?»

Alessandro tacque per un po', radunando pensieri e ricordi. Lei ne approfittò per stilare una lettera, pur senza sapere se l'avrebbe realmente utilizzata. Ma era certa che tutto si stava svolgendo così come lei aveva progettato: ogni avvenimento di Selenia che lei avesse condizionato più o meno direttamente stava portando proprio dove lei l'aveva dirottato. Era quasi giunta al momento che aspettava da settimane, da quando aveva deciso che Guglielmo Lotnevi avrebbe smesso di percorrere i corridoi sobri ed eleganti del palazzo di Cmune. Da quando aveva deciso di uscire allo scoperto, senza più agire nell'ombra.

«Quando ho nominato l'Inverno lei è arrossita» disse il suo alleato. «Pensi che significa qualcosa?»

Raissa sorrise, malefica. «Significa tutto. Suo malgrado anche lei è caduta nella mia trappola.»

«Non ti seguo.» L'espressione sul viso di Alessandro era confusa.

«Gli eventi stanno seguendo la direzione che io ho dato loro» spiegò lei. «Ci siamo quasi, dovremo aspettare solo alcuni giorni per averne la certezza.»

 

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Capitolo 66
*** 20.3 I dubbi dell'Inverno ***


 

Il commerciante chinò il capo al cospetto della sovrana, non appena lei smise di parlare. Nei suoi occhi brillava una sincera devozione, anche se lei non lo aveva rassicurato su quello che sarebbe stato il futuro dei suoi affari. La fiducia del popolo nei confronti di Ariel non era comprensibile agli occhi di Erik: lui era certo che se nel Defi avessero soltanto suggerito di diminuire il traffico nei porti, tutti i commercianti del regno si sarebbero presentati a corte per illustrare le difficoltà che ne sarebbero derivate.

Invece i maresi avevano inviato solo un loro rappresentante, che aveva ascoltato con attenzione le ragioni per cui lei aveva preso quella misura.

Pongono la sicurezza prima dei loro guadagni, da noi non sarebbe pensabile.

Immaginò anche la figura di sua madre rivolgere occhiate gelide a chi avesse osato porre in dubbio le sue decisioni. Se anche lei avesse avuto dimestichezza con la magia, come si vociferava degli Autunno, non avrebbe esitato a usarla per punire quegli infidi e stolti popolani. Nessuno poteva contestare il suo potere, a eccezione di quei consiglieri a cui era concesso l'onore di poter discutere con lei; neanche loro, tuttavia, dovevano dimenticare che non erano nobili del suo lignaggio. A dispetto dell'opinione che alcuni cortigiani si erano fatti sul suo conto, lei non lasciava a nessuno un margine di scelta che non fosse quello che lei aveva in mente sin dall'inizio.

Il modo che stava sperimentando Ariel per gestire il suo regno era molto diverso e lo incuriosiva, perché sembrava funzionare. Erik si rendeva conto solo in quelle circostanze quanto il governo che i suoi genitori aveva su Defi, Inverno e Primavera fosse inefficace.

Noi non incutiamo lo stesso rispetto sincero, né la devozione che tutti provano per lei. I nostri sudditi ci rispettano perché sanno che devono temerci.

All'improvviso si accorse che l'aria allegra che si respirava per le vie di Nilerusa, Eldisu e Cusi nascondeva la paura che al minimo errore... al minimo errore cosa, di preciso? Lui non ricordava punizioni esemplari nei confronti dei loro popolani, né di chiunque altro, ma non poteva più ingannarsi nemmeno sulla vita dei cortigiani presso il castello di Defi: loro non erano utili a niente, se non a mantenere l'ordine all'interno del regno grazie ai loro possedimenti che avevano distribuito in usufrutto ai ceti inferiori e che si trovavano ancora in vita perché se i più poveri avessero avuto da ridire sulle misure di Alcina, lei avrebbe scaricato la colpa su di loro. Dunque, i nobili defici erano in debito con la loro regina e in dovere nei confronti del popolo. E temevano l'ascesa dei borghesi, che si ritagliavano spazi sempre più ampi nella società.

Gli venne in mente Franco, che apparteneva a quella classe sociale che avrebbe molto presto scansato l'aristocrazia. Lui era un giovane qualsiasi, ma che si era assunto il rischio di fare da scorta a Chiara Delle Foglie, anche se forse l'aveva fatto dietro compenso; questo, tuttavia, non toglieva che il defico sapesse duellare abilmente, né che avesse avuto la capacità, che a Erik sembrava impossibile, di entrare nel cuore di Flora, persino distogliendola dal matrimonio con Nicola, che fino a pochi giorni prima sarebbe stato fondamentale per salvarlo dalla condanna dei Lupfo-Evoco... e dalla morte.

«Maestà, ma se invierete dei soldati a Punta Salina, i viaggiatori potranno riferirlo nel continente e se tutti sapranno che sorvegliamo il porto, non verrà più nessuno, e i nostri traffici...» stava dicendo l'uomo, che si interruppe a un sorriso di Ariel.

«Non mi verrebbe mai in mente di lasciare dei soldati in armatura al porto. Saranno abbigliati come dei viandanti qualsiasi e avranno il compito di confondersi tra gli avventori. Li ho già preparati a questo, avevo riflettuto a riguardo prima di proporvelo.»

Il commerciante annuì, rincuorato dall'accortezza della sovrana. «Allora riferirò agli altri e spiegherò loro tutte le vostre ragioni e le vostre precauzioni.»

La Dal Mare chinò appena il capo, con quell'indelebile sorriso che la rendeva simile a una divinità mescolatasi agli umani. Erik trattenne uno sbuffo impaziente: si sentiva inadeguato, in quella situazione, a fare da sorvegliante a lei, che se la cavava benissimo da sola. Fece un piccolo cenno alla sovrana, poi lasciò la sala. Lì Ariel non correva alcun pericolo, perché lui aveva avuto l'accortezza di suggerire che due soldati fossero sempre insieme a lei quando le porte del palazzo venivano aperte per le udienze del popolo.

Camminò in un corridoio deserto allontanandosi a grandi passi fino a quando, poco dopo, venne richiamato da due voci che discutevano. Le riconobbe all'istante, perché erano quelle di Dante e di Iris e sapeva che tra i due aleggiava un po' di tensione, anche se con lui erano entrambi restii a farne cenno.

«Cosa ci fai qui, di preciso? Vuoi solo ingraziarti Ariel?» stava chiedendo Dante.

La porta da cui proveniva il loro litigio era accostata: a Erik fu sufficiente spingere appena, senza fare rumore. Forse neanche il suono dei suoi passi sul pavimento li aveva messi in allerta ma, quando i due lo videro, impallidirono entrambi, come se fossero stati colti sul luogo di un delitto. L'Inverno alternò lo sguardo dalla sarta al principe, che nel momento in cui lui aveva messo piede in quel piccolo salotto avevano cessato di proferire parola.

«Mi spiegate che cosa c'è che non va tra voi due?» domandò lentamente, quasi sillabando ogni parola.

«Non capisco che ci stia facendo lei qui!» esclamò Dante, allargando le braccia, quasi gli sembrasse assurdo che Erik non comprendesse. «Essere una brava sarta non significa essere degna di stare a palazzo, né di essere consigliera di Ariel!»

«Tu come fai a sapere che non ne sia degna? Non sono qui per un motivo nascosto, è chiaro che...» tentò di ribattere lei, che però guardò il principe di Defi e non proseguì all'espressione imbarazzata che colse sul suo viso.

«Certo che è chiaro!» sputò fuori il Dal Mare. «Vuoi solo approfittarti della gentilezza di mia sorella e di Erik! Ma io non sono stupido e non mi lascio incantare da te!»

Iris scoppiò in una fragorosa risata. «Incantare? Che razza di idea hai di me?»

«Vuoi davvero sapere cosa penso di te? Potrebbe non piacerti» scherzò Dante, con finta allegria. La vena sul suo collo pulsava e chiunque si sarebbe accorto che la sua rabbia sarebbe esplosa ben presto.

«Sentiamo, dai!»

«Non è strano che tu sia stata qui per puro caso quando tutta la corte, inclusi i miei genitori, cioè i tuoi sovrani, è stata sterminata? Anzi, che Erik e Ariel si siano salvati proprio perché erano insieme a te?»

Il viso della sarta avvampò improvvisamente, tingendosi di un rosso imbarazzo. «Che cosa stai insinuando?»

«Che tu non sia innocente per quanto è successo» sentenziò Dante, buttando fuori un profondo respiro, come se esprimere ad alta voce le sue ipotesi lo avesse alleggerito di un grosso peso.»

«Come potrei essere stata io? Ero con loro, lontano da qui! E non venivo al palazzo da alcuni giorni!»

Erik li ascoltava discutere e ribattere immobile, incapace di fare nulla, persino di pensare. Le parole del principe Dal Mare lo colpivano come uno schiaffo in pieno volto, e se ne sentiva stordito. La difesa della sua Iris era sincera: lei come avrebbe potuto sapere che lui e Ariel l'avrebbero cercata proprio quel mattino, e che poi avrebbero trascorso insieme la giornata?

«Con un complice» spiegò il Dal Mare. «Tu dovevi attirare loro lontano da qui, mentre qualcun altro...»

«Se è questo che pensi, sarà meglio che io me ne vada da qui» sibilò la popolana. In un istante fu fuori dalla sala, e il suono dei suoi passi sul pavimento rimbombò ancora per un po', prima che Dante si rivolgesse a Erik.

«Tu le credi, vero? Sei proprio un idiota...»

L'Inverno non replicò, ma decise di seguire Iris. Doveva sapere, non poteva permettere che il dubbio si insinuasse nella sua mente e che non si fidasse più di lei.

Non dopo averle chiesto di sposarmi.

Quasi iniziò a correre nel corridoio per arrivare alla camera della sua amata. Non riusciva a pensare, la mente gli si era annebbiata, offuscata dalla paura che Dante avesse ragione. Lui non voleva che fosse così, non voleva credere di essere stato ingannato, non voleva che la bellezza di lei fosse stata solo una scusa per consegnarlo a un burattinaio sconosciuto.

Si fermò dietro la porta di Iris a riprendere fiato. La spinse con impazienza, sebbene lui volesse cercare di nascondere ogni suo turbamento interiore; anche se gli risultava piuttosto difficile.

Quando entrò, vide il letto della sarta coperto degli abiti che lei utilizzava lì al palazzo, e la popolana che li ripiegava con cura prima di metterli in una sacca da viaggio, che aveva utilizzato per portare lì i suoi pochi averi.

«Cosa stai facendo?» Le parole scivolarono dalla bocca di Erik prima che lui potesse formulare un solo pensiero.

«Secondo te? Non ho intenzione di rimanere qui a lasciarmi insultare» ribatté lei secca.

«Iris...» Lui si avvicinò e bloccò i suoi polsi, ritrovandosi viso a viso con la sua amata. «Ci sono troppe coincidenze. Io non credo che tu possa essere in nessun modo coinvolta in quello che è successo qui... Ma se io e Ariel non fossimo stati con te, anche noi saremmo morti insieme a tutti gli altri. E io non posso non pensare che se non avessimo tardato di quei pochi minuti, anche noi...»

Deglutì, con gli occhi fissi in quelli smeraldini di Iris.

«Immaginavo che mi avresti cercato» mormorò lei, infilando un altro abito nella sacca da viaggio. Si sfilò le stoffe eleganti che la avvolgevano e indossò il suo vestito semplice che utilizzava per andare in sartoria, sotto lo sguardo di lui.

Erik dovette fare uno sforzo sovrumano per non avvicinarsi alla giovane e per non stringerla a sé in un nuovo e caldo abbraccio perché, nonostante i suoi timori confusi, il fascino di lei lo avvinghiava e gli toglieva qualsiasi capacità di decisione.

«Perché allora non sei tornata a palazzo, con una scusa qualsiasi?» le domandò.

Iris sciolse i suoi capelli dorati e lo guardò. «Non potevo permetterti di avvicinarti a me. Sono solo una sarta, ha ragione il principe, non dovrei stare qui. Devo tornare al mio posto.»

«Ora le cose sono cambiate» disse Erik. «Noi due... se sarà necessario, farò di tutto per te.»

«Ho già detto che sono disposta ad aspettarti» gli ricordò lei, legando i suoi capelli con un nastro di stoffa scura. Fermò il nodo dietro la nuca e poi si avvicinò all'Inverno, fermandosi proprio di fronte a lui. «Non voglio che qualcuno pensi che con te ho un secondo fine, perché non è vero. Mi hai affascinata sin da subito e... Non credevo che quella notte per te avesse un altro significato. Tu... insomma, Erik, tu sei destinato a diventare un re, e io non so neanche chi fossero i miei genitori. Mi hanno allevata e cresciuta i sacerdoti e le sacerdotesse di Vudeli e a me sembra di aver già trovato il mio posto su Selenia lavorando alla sartoria. Quando mi hai chiesto se ero disposta a sposarti, anche a costo di aspettare per chissà quanto tempo, ho cercato di farti cambiare idea... Perché temevo proprio che qualcuno avrebbe pensato a un secondo fine, che non c'è, posso giurartelo sulla mia stessa vita. E se tu non vuoi credermi...»

«Io ti ho amata dal primo momento» disse lui, interrompendola. «E so che per te è lo stesso, non ho bisogno che me lo ricordi. Ma proprio per questo devo sapere se in qualche modo sei coinvolta. Non credo che Dante abbia ragione, ma io... Davvero, Iris, devo chiedertelo.»

Lei non aveva più scostato lo sguardo da quello tagliente dell'Inverno. «Chiedimi.»

«Tu non sei coinvolta nella morte della corte Dal Mare, inclusi il re e la regina?» domandò Erik, d'un fiato, come se gli mancasse il coraggio e si sforzasse di far uscire le parole una volta sola.

La sarta lasciò un bacio veloce sulle labbra del principe, e rispose: «No.»

 

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Capitolo 67
*** 21.1 Fuga dal mare ***


 

Quel mattino nel porto di Defi assomigliava a tanti altri che l'avevano preceduto. Marinai, facchini e commercianti si incontravano sotto un sole ancora sonnacchioso, che spalancava i suoi raggi per inumidire di luce i loro profili affaccendati.

Virgilio scese dalla Millenaria, con la sua solita sicurezza, e si accorse che qualcosa non era come sarebbe dovuta essere. Alle prime luci del giorno c'era sì gente, ma molta meno di quanta ve ne fosse in quel momento. I mercanti più noti del Defi sarebbero arrivati solo più tardi, dunque perché erano già presenti diversi uomini che avevano tutta l'aria di esserlo?

Aguzzò la vista e si accorse che sul mantello di uno di loro c'era una spilla con il fiore di magnolia che rappresentava la famiglia Primavera. Prestò più attenzione agli altri che non gli sembravano usi a frequentare quel luogo e vide che quelli male si amalgamavano con i marinai e i facchini veri e propri. I gesti erano meccanici, si guardavano intorno con quella che sembrava tutta l'intenzione di spiare chi e cosa li circondava.

Non sono proprio dei fulmini, questi qui.

Richiamò Angelo con un cenno, e il suo secondo lo affiancò. Finsero di supervisionare dall'alto i loro ragazzi che scaricavano alcuni barili e li ordinavano sulla terraferma, ma in realtà studiavano i movimenti dei soldati mascherati. I loro passi percorrevano sempre lo stesso tragitto, come se avessero dovuto imparare in brevissimo tempo come comportarsi ed eseguissero una marcia militare sotto gli occhi attenti del loro superiore.

«Se volevano farsi scoprire, non potevamo sperare di meglio» sussurrò Angelo. Poi si rivolse al suo capitano. «Sai cosa dobbiamo fare.»

Virgilio annuì, ma sentiva una morsa stringergli le viscere. Se i soldati di Alcina Primavera erano lì, la causa non era una semplice soffiata sui suoi traffici, legali o meno che fossero, bensì quella della fuga di Flora a bordo della Millenaria. E le persone che avrebbero potuto tradirlo erano molto poche.

Scese sottocoperta nella sua cabina, dove si cambiò, indossando gli abiti di un comune scaricatore. Il piano in caso di cattura da parte della regina era che Angelo dicesse di essere il capitano, mentre lui si sarebbe mescolato tra l'equipaggio e che sarebbe fuggito dove i defici non l'avrebbero mai inseguito.

Tisle.

Risalì, e aiutò uno dei ragazzi a spingere un barile fino a terra. Disse sbrigativo che ci avrebbe pensato lui e lo sistemò in ordine accanto agli altri portati giù dal suo vascello. Uno dei soldati travestiti si avvicinò e diede un'occhiata a Virgilio e agli altri che si affaccendavano lì, senza dire nulla.

Non vogliono creare confusione... Alla regina non piacciono le punizioni plateali, ma solo quelle efficaci. Non se la prenderanno mai con dei semplici sottoposti.

Quel pensiero lo rincuorava: lui e Angelo erano coloro che si sarebbero dovuti esporre, anche se il suo secondo aveva sempre cercato di tenerlo al riparo dalle rappresaglie. La maledizione dei Gredasu aveva suggerito al suo secondo di essere portato lui al cospetto di Alcina nel caso in cui li avessero catturati. E ora che quella non sembrava più una semplice possibilità, dovevano agire di conseguenza.

La Millenaria sarà di certo requisita, ma non affondata... è in condizioni ottime, sarebbe da stupidi disfarsene. Forse la terranno per incastrarmi in futuro o per accusare quelli con cui faccio affari...

Si allontanò dalla ressa che si stava realmente accalcando attorno alle navi, tra i commercianti in arrivo, i marinai che si occupavano di mettere a lustro le imbarcazioni prima della partenza e i più umili che svolgevano mansioni di fatica.

Entrò nella locanda attigua al porto e, con il capo coperto da una stoffa annodata quanto bastava per non farsi riconoscere, si avvicinò al locandiere. L'uomo lo riconobbe, ma lo servì come se fosse un marinaio qualsiasi, fingendo di non sapere chi fosse.

«Di' un po', hai chiamato i soldati di Alcina?» gli chiese Virgilio in un sussurro.

Quello scosse la testa, ma l'espressione sul suo viso non era affatto serena. «Sono stati loro a venire da me. Non volevo dire niente, ma...»

La porta del locale si spalancò: per fortuna era solo uno degli uomini che scaricavano i barili dalle altre navi. Si avvicinò a Virgilio e disse: «I soldati della regina stanno perquisendo la Millenaria! Hanno preso il loro capitano!»

Il vero capitano annuì distratto e guardando il bicchiere d'acqua che gli veniva porto, come se la notizia non lo riguardasse, ma in realtà era proprio quello che si aspettava.

«Torna al tuo lavoro» lo rimproverò il locandiere. «Se molli tutto per venire dentro a dirmelo, si insospettiranno.»

Sempre che Alcina non abbia piazzato qualcuno dei suoi qui per controllare.

Virgilio spiò intorno a sé, cercando quei segni di magnolia che non trovò. Era troppo presto per tirare un sospiro di sollievo, lo sapeva molto bene: finché non fosse stato fuori dal Defi, non poteva ritenersi al sicuro.

Aspettò che l'uomo appena entrato uscisse di nuovo, poi si rivolse in un sussurro al locandiere: «Ti ha torturato?»

Lui annuì, asciugando un bicchiere pulito con un panno. Il gesto era meccanico, ma il capitano capì che il ricordo di quello che aveva subito ancora lo terrorizzava, tanto che persino un'azione semplice come quella era rinfrancante. Non c'era nessun segno di quanto accaduto sulla pelle scoperta, ma Virgilio immaginava che nessuna delle persone torturate da Alcina recasse delle orme visibili di quella esperienza.

Non è lui ad avere delle colpe, ma chi gli ha fatto del male.

«Non ti preoccupare, non hai avuto alternative» disse, per consolare l'uomo. «Ci sono dei cavalli?»

«Sul retro, come sempre.»

«Ne prenderò uno, sembrerà un furto» gli spiegò sbrigativo il capitano.

In quel momento un soldato, che non cercava più di celarsi dietro un maldestro travestimento, entrò nella locanda e intimò tutti di uscire all'esterno, persino il locandiere. Virgilio si sistemò il fazzoletto sul capo, e si accodò agli altri. Non poteva permettersi di attirare l'attenzione, doveva mescolarsi bene tra la folla di marinai e facchini ed era consapevole che non bastava averne l'aspetto.

Uscì sulla terra battuta e vide quello che sembrava il capo delle guardie reali. Era coperto da più di una persona e l'aveva visto solo una volta prima di allora, ma la certezza che si trattava di Marco Pomi arrivò quando lui iniziò a parlare, non appena la folla si fu radunata.

«So che alcuni di voi potrebbero scuotersi per quanto stanno vedendo» esordì, con voce sicura. «Perciò ho chiesto che siate tutti qui: se abbiamo preso il capitano di quella nave, c'è un motivo. Dovete fidarvi della regina e degli uomini che la servono...»

«Ma quello non è il capitano della Millenaria» bisbigliò qualcuno vicino a Virgilio.

Lui sorrise, ma non diede segno di aver udito. Nessuno aveva il coraggio di contraddire Pomi, chi lo conosceva non avrebbe mai dichiarato apertamente la verità.

«Quello che vi chiediamo io e la regina è di non dire a nessuno cosa è successo qui al porto, perché si tratta di una faccenda delicata. La nostra amatissima sovrana si fida di ognuno di voi e confida nella vostra lealtà. Se dovesse scoprire che solo uno di voi ha raccontato in giro di questo» e si voltò ad accennare a qualcuno al suo fianco, che Virgilio non poteva vedere, «le conseguenze ricadranno su tutti coloro che sono presenti questa mattina. Abbiamo già con noi l'elenco delle navi ormeggiate oggi, quindi non sarà difficile rintracciare tutti. Siamo intesi, vero?»

Pronunciò quella domanda con la sicurezza affabile di un genitore che si raccomanda con i propri bambini pestiferi. La folla mormoreggiò una risposta affermativa, senza formare un coro unico.

Si sono accorti tutti che quello non sono io.

Virgilio fece un passo indietro, finendo nelle retrovie della ressa, ma riuscì lo stesso a udire cosa aggiunse Marco Pomi.

«La Millenaria rimane ormeggiata qui, in sequestro. Loro» e indicò un paio di soldati «rimarranno qui di guardia per assicurarsi che a nessuno venga in mente di salpare con quella. L'equipaggio può considerarsi libero di andare dove vuole: siete sciolti dal vostro lavoro a bordo.»

«Chissà se potremmo andare su qualche altra nave...» disse qualcuno. Il capitano si voltò alla sua sinistra e vide uno dei ragazzi più giovani che guardava il capo delle guardie con tristezza.
Prima che Pomi riprendesse a parlare, Virgilio si scostò dagli altri e si avvicinò lentamente alla porta spalancata della locanda. Un uomo robusto, che vi lavorava da anni, era piazzato sulla soglia, a coprirla agli occhi dei soldati, come se l'oste avesse deciso di dare una via di fuga al marinaio che aveva dovuto tradire suo malgrado.

Virgilio udì dei passi allontanarsi dal porto e lui accelerò il suo verso il retro, dove erano legati alcuni cavalli. L'ombra che forniva la locanda non era sufficiente per agire indisturbato, se qualcuno si fosse spostato per spiare in quella direzione. Per sua fortuna, c'erano anche alcuni alberi e l'ingresso dalla strada sterrata, con un cancello che avrebbe cigolato al minimo movimento, dandogli il tempo di nascondersi. Da lì si potevano vedere alcuni degli uomini che si erano ammassati fuori dalla locanda, ma quelli non parvero accorgersi di lui e dei suoi passi sull'erba, tanto erano concentrati a seguire le parole del soldato della regina.

Allora il capitano si avvicinò ai destrieri e li guardò uno a uno. C'erano delle bestie notevoli, alcuni purosangue scuri che sicuramente appartenevano alle guardie, che non azzardò nemmeno a sfiorare. Non poteva permettersi un ulteriore sgarbo alla sovrana. Ne scelse uno dal manto marroncino e sciolse il nodo che lo legava a un palo, come un cane da guardia che dormicchiava. Gli accarezzò il muso con dolcezza e quello spalancò un occhio nero nella sua direzione, prima intimorito, poi rasserenato dal tocco gentile dell'umano.

«Dai, ora andiamo.»

Salì sul dorso, e il cavallo si lasciò guidare da lui, trotterellando con innocenza fino a quando non raggiunsero una strada sterrata, dove nessuno dei frequentatori del porto avrebbe potuto scorgerli. Gli dispiaceva per i ragazzi che aveva dovuto lasciare, gli si stringeva il cuore al pensiero che Angelo avrebbe dovuto sopportare la punizione che doveva spettare a lui.
Corsero insieme verso la meta, senza sapere se qualcuno li avrebbe inseguiti o se li avrebbero trovati. Ma il confine con Pogudfo arrivò e lo superarono di fretta. Non si fermarono per mangiare, il destriero con lui non protestò e non diede segni di cedimento, come se comprendesse lo stato d'animo agitato di chi aveva sul dorso.

E continuarono, fino a quando non intravidero l'arco di ingresso a sud di Tisle. Solo allora scese e proseguì a piedi, dopo aver accarezzato di nuovo quella bestia resistente e averlo ringraziato. Il sole scendeva all'orizzonte e li accompagnò fino a quella che non era più la capitale, ma solo una cittadina in cui lui poteva essere una persona come altre, e non un fuggiasco dal Defi.

 

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Capitolo 68
*** 21.2 Fredda burattinaia ***


 

Attraversare di nascosto il regno dell'Inverno era stato semplice: nessuno si era avvicinato alla carrozza che portava i vessilli dei De Ghiacci, perché chiunque sapeva che quei reali, per spostarsi in qualunque luogo fuori dai loro possedimenti, avrebbero dovuto per forza superare il territorio freddo che lo circondava.

Nonostante la stagione estiva che si percepiva su tutta Selenia, quella piccola porzione dell'isola era avvolta da un gelo che chiunque avrebbe definito irreale ma che Raissa sapeva derivare da quelle magie ancestrali che impregnavano terra e aria del Pecama. La carrozza sbalzava di tanto in tanto, e il baule che lei aveva fatto caricare all'interno si agitava al minimo movimento.

La principessa di Autunno e Ruxuna si avvolse nella sciarpa di lana, tirandola su fino al naso. Il capo era coperto da uno di quegli strani copricapi che utilizzavano lì e se qualcuno si fosse affacciato a guardarla, probabilmente non avrebbe notato molte differenze tra lei e come doveva apparire la De Ghiacci. Anche l'uomo che la accompagnava era avvolto da quegli abiti pesanti, attraverso cui i movimenti venivano rallentati, quasi i due fossero diventati bambole di pezza per i più stolti dei bambini.

Raissa aveva pensato di portare con sé Alessandro, in un primo momento, ma poi aveva dovuto cambiare idea: dovevano dare l'impressione di essere i due eredi De Ghiacci, e la carnagione scura del suo uomo fidato non avrebbe ingannato nessuno. Tra coloro che aveva condotto con sé dal Loavi c'era un ragazzo della stessa corporatura di Roberto e che, abbigliato a quella maniera, assomigliava al principe annegato. A guidare la carrozza c'era il figlio di un commerciante di poco conto, che lei aveva scelto per via dei suoi tratti spigolosi e degli occhi sottili, che sarebbero passati per quelli di un popolano dei ghiacciani. Lui era così entusiasta di poter servire la principessa da lasciar andare i cavalli a passo allegro, come se fossero annunciatori di buone notizie.

I sovrani De Ghiacci non avrebbero mai immaginato quali nuove avrebbero ricevuto, al credere nel ritorno di entrambi i figli dal Vorrìtrico. Poveri stolti.

Era certa di come il loro incontro si sarebbe svolto, perché non aveva lasciato nulla al caso. Inspirò e l'aria gelida di quel regno le invase l'animo, suscitandole un ghigno soddisfatto che nessuno avrebbe mai visto. Quel clima la rigenerava, e la faceva sentire ancora più viva. Sarebbe stato piacevole trasferirsi lì per un po' di tempo, illudendo tutti di essere scomparsa mentre invece progettava solo le mosse future.

La carrozza che si fermava la distolse dai suoi pensieri. Il giovane a cassetta scese, con i passi attutiti dalla neve che li circondava. Aprì lo sportello dal lato di Raissa e sussurrò: «Altezza, siamo arrivati.»

L'Autunno mascherata sorrise con una felicità che arrivò a manifestarsi anche nei suoi occhi, tanto che il ragazzo gonfiò il petto compiaciuto di aver svolto bene il proprio dovere.

«Ci sono dei soldati di guardia?» domandò in un bisbiglio e, quando quello annuì, aggiunse: «Bene. Di' loro che la principessa e il principe sono tornati. E che aspetteremo il re e la regina nella Sala dell'Arpa.»

«Esiste, o è una balla per attirarli altrove?» si azzardò a chiedere il giovane, che poi si morse la lingua.

«Esiste, ma li attirerò in un tranello» gli spiegò la principessa, con complicità. Le piaceva il suo entusiasmo, e pensò che ricompensarlo con quella piccola rivelazione sarebbe stata un'ottima mossa per averne la fiducia.

«Perfetto!» esclamò quello, inchinandosi. «Torno subito.»

Raissa diede un calcio al baule, poi si rivolse all'uomo che l'aveva accompagnata in quel silenzioso tragitto. «Dovrete portarlo con voi quando entreremo, è di fondamentale importanza.»

In risposta ricevette un muto cenno di assenso, dato che quel soldato non poteva parlare.

«Se avrai solo il minimo dubbio che non stiano rispettando il nostro accordo, scrivimi all'istante» si raccomandò. Aveva già dato istruzioni dettagliate al suo suddito, ma preferì ribadire ancora una volta quel dettaglio.

Il cocchiere ritornò affannato, come se avesse corso per annunciare l'arrivo ed essere di nuovo da lei in un secondo. «Sono entrati entrambi per informare il re e la regina.»

«Stai facendo un ottimo lavoro» lo elogiò Raissa. «Ora aiutalo a portare quello, e venite con me.»

Scese dalla carrozza e si fermò a osservare meravigliata, l'ingresso del castello in pietra e il sentiero innevato che conduceva fino agli scalini sulla soglia. Tutto attorno a lei riluceva di quel niveo candore, persino le chiome dei pini che accoglievano gli ospiti dei De Ghiacci. Non era mai stata lì, ne aveva solo sentito raccontare, e doveva ammettere che lo spettacolo era superiore alla bellezza che ne veniva decantata dai frequentatori più affezionati. Due torri svettavano ai lati dell'ampio uscio, lasciato spalancato dalle guardie che dovevano essere corse all'interno senza pensare alla possibilità di un inganno.

Raissa sollevò lo sguardo per cercare di vedere la sommità del castello, ma non le fu possibile, tanto spiccava in altezza. «Loro sì che sanno come incutere rispetto, altro che i Primavera con quella cosa luccicante.»

«Se posso dirlo, Altezza, il vostro è più bello» sussurrò il giovanotto.

«Non adularmi troppo» lo rimbeccò lei, senza severità. «Bisogna sempre essere sinceri nel fare i complimenti.»

«Ma io sono sincero.»

L'Autunno sorrise, prima di condurre i due all'interno del Castello di Ghiaccio. Rivolse un'occhiata compiaciuta all'ingresso ampio, e alle scalinate che da lì si dipartivano verso i piani superiori. Le candele azzurre illuminavano l'atmosfera, resa ancora più gelida da quelle fiammelle che non oscillavano agli spifferi. Imboccò un corridoio sulla sinistra, con il volto ancora coperto dalla sciarpa di lana che le pizzicava le guance, e proseguì all'interno dell'intricata rete che componeva la reggia.

Ben presto raggiunse la sua meta: un corridoio stretto che non si apriva su nessuna sala, ma lei avanzò senza timore fino al muro di fronte alla porta da cui erano entrati. Cercò il meccanismo nascosto nella parete e lo azionò. Si sentirono alcuni suoni di ingranaggi e la parete si aprì, mostrando ai loro occhi una piccola sala in cui erano custoditi alcuni strumenti musicali.

Raissa fece cenno agli altri due, che avevano assistito sbalorditi, di seguirla all'interno. Indicò un punto dove lasciare il baule e si avvicinò allo strumento che dava il nome a quella piccola camera. L'arpa era uno strumento affascinante, anche se lei non si considerava un'ammiratrice di quel genere di passatempo. Immaginò le dita chiare e affusolate di Bianca muoversi con armonia tra le corde e un ghigno compiaciuto le si dipinse sul volto.

Il suono del meccanismo di apertura della sala scattò un'altra volta, distraendola. Si voltò e vede entrambi i sovrani De Ghiacci accorsi lì. Entrambi biondi, con quegli occhi chiari e i lineamenti delicati che avevano trasmesso ai figli. Erano abbigliati di vesti pesanti, che li riparavano dal freddo pungente del regno e che esaltavano l'eleganza delle loro figure.

La regina Rosalia aveva il collo scoperto, da cui pendeva una collana in cui erano incastonati almeno dieci zaffiri, ma il suo collo non sembrava sentirne il peso. I capelli chiari, di un colore incerto tra la luce del sole e quella lunare, erano raccolti sulla nuca, come era solita portarli la figlia. L'unica differenza tra le due era la corona sul capo della sovrana, oltre alle rughe sulla sua fronte. Non era più così giovane come credeva e come illudeva gli altri di essere ancora.

«Tu non sei Bianca» notò subito il re Alcide, assottigliando gli occhi in segno di sfida. Ma la sua aggressività si limitò al lampo che gli balenò nello sguardo.

Raissa sorrise, e abbassò la sciarpa che le copriva più di metà viso. L'espressione dei sovrani si tinse di un'inquieta meraviglia.

«Non è possibile, sembrava davvero lei...» sussurrò Rosalia De Ghiacci.

«Io e Bianca ci assomigliamo solo per chi non è davvero attento o per chi non ci conosce abbastanza» puntualizzò l'Autunno. Trattenne un sorriso compiaciuto al pensiero che la regina non era in grado di riconoscere la sua stessa figlia, o al considerare che il suo travestimento aveva funzionato alla perfezione, se aveva ingannato persino lei.

«Lei dov'è?» chiese Rosalia. Guardò l'altro uomo che era insieme a loro e si accorse che non si trattava del principe. «E dov'è Roberto?»

«Di questo ci occuperemo tra poco» rispose Raissa. «Per il caro Roberto non c'è più nulla da fare, mi auguro che la Luna lo abbia accolto tra le sue braccia amorevoli.»

«Che cosa gli hai fatto?» gridò Alcide, avanzando di un passo verso l'intrusa.

«Niente che non dovessi. Si è permesso più volte di ribellarsi davanti ai miei uomini, non potevo lasciarlo impunito. Questo ha coinciso, per vostra sfortuna, con la sua morte.»

La regina si sostenne a un mobile per non cadere a terra, sconvolta. «E-e Bianca?»

«Oh, lei è al sicuro, ma prima di consegnarvela, voglio che voi firmiate un accordo di neutralità nel caso in cui scoppiasse una guerra.»

«Non ci accorderemo mai con te!» sbraitò il re De Ghiacci. «Hai ucciso nostro figlio!»

Raissa ghignò. «Se non volete che uccida anche Bianca, non avete scelta.»

Alcide fu sul punto di parlare, ma la moglie lo trattenne per un braccio.

«Ha Bianca... non possiamo perderla» sussurrò Rosalia. I due sovrani si scambiarono una lunga occhiata senza dire nulla, sotto lo sguardo vigile dell'Autunno, che incrociò le braccia spazientita.

Quei due ci stavano impiegando troppo a prendere una decisione. Volevano vedere il cadavere dell'unica figlia che era rimasta loro?

Fece un cenno al soldato muto, che estrasse dal suo mantello un foglio di pergamena e lo porse alla sua signora. Raissa lo sventolò, richiamando l'attenzione dei De Ghiacci, che si voltarono nella sua direzzione.

«L'accordo è questo: io vi restituisco Bianca, voi sarete neutrali nel caso in cui Tancredi o Alcina vi proponessero un accordo di alleanza. Loro saranno rassicurati perché non ostacolerete quello che hanno in mente, e se vi dovessero chiedere come mai, potrete rispondere che non avete abbastanza risorse per sostenere un'alleanza. Io non vi sto chiedendo niente, vi chiedo solo di continuare la vostra vita esattamente come prima. Prendere o lasciare.»

«Hai ucciso nostro figlio, come potremmo permetterti di fare ciò che vuoi qui, nel nostro regno?» le chiese ancora Alcide, quello che fra i due sembrava meno propenso ad accettare l'offerta.

«Arrestatemi, Maestà» disse allora lei, allungando i polsi verso il re. «Sono certa che Inverno e Primavera ve ne saranno grati, ma voi non rivedrete mai più vostra figlia. È davvero questo che volete?»

Sorrise, guardando l'espressione sbigottita sui loro volti: amava la teatralità e sapeva di aver turbato i sovrani con quel gesto. Sapeva che non avrebbero mai osato imprigionarla, perché la paura di non rivedere più Bianca, dopo quanto accaduto a Roberto, non li lasciava quieti. Vedeva il terrore impresso nei loro occhi, sogghignò al pensiero che la sua fama avesse suggestionato quei due regnanti e li avesse ridotti a due meri burattini nelle sue mani. Immaginò dei fili scuri spuntare dalle sue dita e avvolgere il re e la regina dei Ghiacci, che si sarebbero piegati alla sua volontà.

«Accettiamo» sussurrò Rosalia. «Ho bisogno solo di penna e inchiostro per firmare. Immagino che quello sia il nostro accordo.- Accennò con lo sguardo alla pergamena che l'Autunno aveva in mano, e lei annuì, porgendogliela.»

«Vi prego di leggere tutto» consigliò Raissa. «Non vorrei ingannarvi.»

Alcide quasi strappò il foglio dalle mani della moglie, così lei si avvicinò a un mobile da cui estrasse uno stilo e una bottiglia di inchiostro scuro.

L'ospite dal Vorrìtrico sorrise. A quanto pareva in quella sala si stipulavano davvero accordi segreti, se la sovrana non aveva neanche ipotizzato di poter uscire da lì per suggellare l'accordo.

«Qui c'è scritto che un tuo uomo rimarrà qui a sorvegliare. Perché?» chiese il re, inquisitorio.

«Perché io mi fido di voi, ma so per esperienza che è meglio non fidarsi di nessuno. Immagino, Maestà, che voi possiate comprendere.» Calcò il titolo dell'uomo, con ironia: ormai era divenuto un suo fantoccio di cui disporre a piacimento.

«Da' qui» disse la regina, rivolta al marito. «Non c'è neanche da starci a pensare.»

Lui le restituì la pergamena, squadrando l'Autunno, che ghignava soddisfatta. «Ora dicci dove possiamo trovare nostra figlia.»

«Ma lei è qui insieme a noi» Prese una chiave dal nulla e si avvicinò al baule, dopo aver fatto cenno ai sovrani di avvicinarsi. Quando lo aprì, mostrò ai due cosa c'era all'interno; o meglio chi.

La principessa Bianca De Ghiacci, futura regina, era rannicchiata con le ginocchia contro la gola, i polsi legati e gli occhi gonfi di pianto. La pelle candida, coperta ancora dallo stesso abito che indossava nel Copne, recava lividi ovunque, insieme a qualche graffio, che però era superficiale, ciocche scomposte di capelli erano fuoriuscite dall'originale treccia, sporche di polvere e che cercavano di nascondere il viso, già celato da quella stoffa che le impediva di parlare. Sembrava una bambina sottoposta a un supplizio che mai avrebbe potuto sopportare.

«Eccola qui, è tutta per voi» disse l'Autunno, indicandola con un gesto ampio del braccio. «E ricordatevi che almeno lei è viva. Roberto non lo è più.»

Fece cenno al suo popolano di seguirla e al soldato di rimanere lì, senza dare ulteriori spiegazioni a nessuno: Alcide e Rosalia sembravano troppo sconvolti per comprendere alcunché, tanto che la donna solo dopo un tempo interminabile allungò una mano per toccare la figlia, come per assicurarsi che Raissa non l'avesse uccisa.

Lei si coprì di nuovo il volto e, con la stessa segretezza con cui era arrivata lì, se ne andò, scortata da quel giovanotto fedele.

 

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Capitolo 69
*** 21.3 All'alba dell'incertezza ***


 

Schiuse gli occhi e vide il grigio che regnava nella sua camera. Udì il crepitio del fuoco nel caminetto e il calore che emanava le accarezzava il volto. Ricordava di essere stata tirata fuori da quel baule scomodo in cui i soldati di Raissa dovevano averla incastrata mentre era priva di sensi sulla nave, e di essere svenuta di nuovo tra le braccia dei genitori. Non mangiava da almeno un giorno e i pasti frugali, che era esagerato definire tali, l'avevano indebolita ancor più.

Sentiva dolore in tutto il corpo, come se l'avesse picchiata un uomo molto muscoloso e contro cui non avrebbe mai potuto difendersi. Era consapevole di quello che era successo, perché attraverso un piccolo foro nel baule aveva percepito quello che accadeva fuori. Era stata portata dentro una carrozza, guidata da qualcuno che, come era stato sul suo vascello, non aveva idea di come si facesse. Era stata sbalzata di continuo tra quelle pareti di legno che l'avevano imprigionata ed era certa, pur senza essersi vista, di avere la pelle livida in più punti.

«Bianca!»

Richiuse le palpebre al sentire la voce della madre. Non aveva voglia di parlare, non riusciva ancora a credere che...

Roberto.

«Sono sveglia» biascicò soltanto, sperando che Rosalia la lasciasse sola. Il sole entrava sbieco dalla finestra aperta e lei dovette schermarsi con una mano, prima che la regina facesse un cenno a una ragazza di servizio che sciolse il nodo che legava la tenda di lato.

«Quello che ha detto Raissa Autunno... è v-vero?» domandò la donna, con un tremolio.

Lei annuì, rintanandosi sotto le coperte, quasi a cercare un calore che sembrava non potesse più appartenerle. «Da quanto sono qui?»

«Da questa mattina. Bianca, cosa è successo?»

La principessa scosse la testa. Non era pronta a parlarne, non ancora. Desiderava che fosse solo un brutto sogno, avrebbe fatto una lunga dormita e al suo risveglio avrebbe scoperto che i Lupfo-Evoco non erano mai stati convocati, che lei e il fratello non erano mai partiti...

Scegliere di tornare nel Copne è stata una mia idea. Una pessima idea. È solo colpa mia.

Scostò le trapunte pesanti e posò i piedi sul tappeto soffice che ricopriva il pavimento. La sua pelle fu rinfrancata da quel semplice contatto, ma durò solo un istante, perché le tornò alla mente tutto quello che era successo da quando era tornata alla corte di Milena Cordi.

Menta.

Non sapeva cosa fosse stato di lei da quando l'aveva lasciata nel continente. Bianca era stata condotta prigioniera sul suo vascello, la Gredasu era rimasta sulla terraferma.

Non avrei dovuto permetterlo.

«Stai bene?»

La voce della madre le giungeva lontana, come se avesse le orecchie tappate. Non voleva sentirla, non voleva parlarle. Lei e suo padre avevano venduto la loro lealtà solo per riaverla indietro.

Codardi, non avrebbero dovuto. Io sono soltanto una vita, così ne metteranno in pericolo tantissime altre.

Da seduta, si alzò in piedi.

«Sei ancora debole, rischi di cadere...»

Ma Bianca non cadde. Si voltò verso Rosalia e le chiese: «Sono arrivate lettere per me?»

La regina le indicò la scrivania vicino al caminetto. «Soltanto una.»

Lei non replicò, ma si avvicinò al tavolo in pietra e alla poltroncina imbottita di stoffa morbida. Si sedette e aprì la busta sigillata che una delle cameriere doveva aver lasciato lì. Dubitava che se ne fossero occupati i genitori.

Si sentì quasi venire meno quando lesse la firma sul retro del foglio.

Giampiero Tirfusama.

Niente titolo, solo nome e cognome. Che gli fosse accaduto qualcosa di spiacevole?

«Lasciatemi sola» disse atona, rivolta alla madre.

Rosalia inarcò stupita le sopracciglia. «Non posso.»

«Sto bene» mentì la principessa. «Non dovete più preoccuparvi per me.»

Non la guardò, ma udì i suoi movimenti, che il tappeto non poteva attutire. Non avrebbe voluto trattarla in quel modo, ma non si sentiva in grado di fingere di volerla ancora lì. Se non le era piaciuto che Raissa la utilizzasse come merce di scambio, ancora di meno aveva sopportato che i genitori si fossero piegati solo per riaverla indietro.

Non mi avrebbe mai uccisa, non quando avrebbe potuto usarmi.

E l'aveva usata, sebbene non come lei si aspettava.

Quando la porta si richiuse alle sue spalle, abbassò lo sguardo verso la lettera.

Gentilissima Bianca De Ghiacci,
Spero che questa lettera vi trovi al ritorno dal vostro viaggio. E spero che voi stiate bene. Ma non vi scrivo per questo: quando voi siete partita dallo Cmune, al mio rientro al Sogno d'argento ho avuto un colloquio molto interessante con Pietro Riutorci. Poco prima che iniziassero i Lupfo-Evoco ha ascoltato sua madre parlare con Amelia Autunno. Amelia stava spiegando a Clara che loro non avevano alcuna intenzione di attaccare lo Cmune, e che Raissa era diretta verso il Pecama. Ve lo dico con tutta la sincerità che posso avere: ho temuto che fosse sulle vostre tracce.

Il vero motivo per cui Raissa è interessata alla vostra isola è, stando sempre a quanto ha origliato il Riutorci, che si è convinta che Flora si trovi lì e che si sia messa alla ricerca della profezia che le riguarda. E il Pecama è il luogo in cui è custodito il più alto numero di profezie, a quanto si dice. Prima vuole sbarazzarsi di Flora, poi rendere giustizia alla prima parte della profezia, che la vuole come dominatrice incontrastata di Selenia. Non so se nelle sue mire rientra la conquista dell'isola, perché Pietro non ha sentito nulla al riguardo.

Vi scrivo solo ora, dopo essere tornato nel Defi, perché non ho avuto modo di contattarvi, né mi è stato possibile inviare una lettera presso la corte di Milena Cordi per avvisarvi che Raissa aveva la vostra stessa meta. Purtroppo temo che Alcina si sia accorta che la mia fedeltà nei confronti di sua figlia è più forte di quella che ho sempre avuto per lei; e, a essere completamente onesto con voi, temo anche che lei abbia dei contatti diretti con gli Autunno, nonostante la dichiarata rivalità con loro. Mi sembra di trovarmi all'alba di un periodo di incertezza, come quello che ho vissuto quando ho lasciato la mia famiglia. Solo che questa volta non riguarda me, ma il destino del nostro mondo.

Spero che siate tornata a Castelneve e che vi troviate al sicuro.
Servo vostro,

Giampiero Tirfusama.

Bianca sospirò e rilesse la lettera. Lei sì, era tornata, ma Roberto no... Suo fratello era disperso nelle acque del Litil, forse divorato da qualche animale marino, forse seppellito dalla sabbia smossa dalle maree. Non avrebbe saputo dirlo.

Tuttavia era rincuorata dalle parole di Giampiero. Nonostante loro due non avessero mai avuto una corrispondenza regolare, lui aveva tenuto a informarla di quanto era venuto a conoscenza. Le scaldava il cuore vedere la sua grafia impostata e poter scorgere, al di là della sicurezza della mano, la stessa inquietudine che provava lei. Aveva ragione il marchese, si stavano addentrando in un periodo incerto, in cui sarebbe stato semplice diffidare l'uno dell'altro.

L'assenza di fiducia è lo spiraglio che permette a Raissa di insinuarsi nelle nostre paure e instillare in noi il bisogno di avere qualcuno disposto a proteggerci. Perché gli accordi si spingono lì dove la lealtà non arriva.

Aprì uno dei cassetti e ne estrasse inchiostro e pennino, poi prese una delle sue carte da lettera e stilò la risposta.

Illustre marchese Tirfusama,
la vostra lettera mi ha raggiunta a Castelneve, ma il viaggio di ritorno è stato tutt'altro che sereno. Se mi aveste scritto mentre ero nel Copne, non avrei mai conosciuto le informazioni che mi avete dato. Milena Cordi ha un'alleanza segreta con Raissa Autunno e presso la sua corte io e Roberto siamo stati catturati.

Trasse un profondo respiro, prima di proseguire con il resoconto del viaggio, con quelle che erano state le sue riflessioni, i suoi timori, e con la morte improvvisa di suo fratello, che lei sentiva come una colpa che avrebbe dovuto evitare. Abbandonò persino lo stile aulico delle missive e si lasciò andare ai pensieri così come le si formavano nella mente.

Lui non voleva passare per il Copne, vi ricordate? Eravamo insieme alla locanda la sera in cui ne parlavamo... Ho insistito io per tornare lì ed è un pensiero che non riesco a scacciare dalla mia mente. Se Roberto non c'è più, se Raissa l'ha costretto a cadere in acqua... è stato a causa mia.

Giampiero, avete ragione quando dite che stiamo entrando in un periodo di incertezza, ma come evitare che sia così? Mi sto crucciando da ore per quello che è successo, per quello che ho fatto. Sì, quello che io ho fatto perché, anche se nessuno si è macchiato di sangue per la sua morte, sento la mia anima corrotta. E pensare che sono i Gredasu quelli su cui pende una maledizione! Invece mi sento io quella maledetta, io che una volta qui ho trovato la forza di rialzarmi solo perché non volevo mia madre intorno!

Non vi ho ancora detto come sono giunta al castello... E, al solo pensiero di cosa mi è stato fatto, provo un imbarazzo terribile. Ma devo parlarne con qualcuno e so che voi siete la persona giusta.

Gettò uno sguardo al sole fuori dalla finestra, che aveva iniziato la sua parabola discendente verso l'orizzonte occidentale. Un tuorlo d'uovo che sembrava sul punto di essere inghiottito dai contorni morbidi di quel regno innevato. Continuò il suo racconto, senza timore, perché sapeva che lui avrebbe compreso. E lei si fidava, se c'era un uomo su Selenia con cui poteva esprimersi liberamente, quello era proprio Giampiero Trfusama. Prese un altro foglio, notando con stupore di aver scritto di getto per due facciate, ma non perse tempo a rileggere le proprie parole.

E ora sono qui, nella mia camera a scrivervi, anche io lo sto facendo al primo momento in cui mi è possibile. La conclusione della vostra lettera mi ha ispirato una breve riflessione. Se Raissa può muoversi con libertà e sicurezza perché noi non ci fidiamo gli uni degli altri, allora noi dobbiamo fidarci e spingerci a cercare la fiducia di quelli che devono essere i nostri alleati. Poco fa, mentre fingevo di non essermi ripresa (perdonatemi, forse sono misera, ma non avevo proprio la forza per dire a voce cosa ho visto), i miei genitori stavano parlando di Chiara Delle Foglie, che è arrivata qui. Penso che contattarla sia la cosa migliore da fare, vista la situazione in cui ci troviamo entrambe. Spero che lei comprenda quali sono le mie intenzioni e che non creda che io covi secondi fini.

Che Alcina possa essere in rapporti con gli Autunno mi sconvolge. Per fortuna noi sappiamo che Flora è introvabile, quindi lei è al sicuro... Ma Menta non è tornata con me nel Pecama, e questo mi fa dubitare del suo destino. Sono così preoccupata e così inerme! Non posso fare niente per salvarla, ma se voi la vedrete, promettetemi di tenerla al sicuro. Avete provato già in passato a farlo, e io volevo che lei rimanesse al mio fianco, perché ha un cuore nobile e non merita di essere abbandonata. So che la mia richiesta non è usuale, ma ve ne prego: se avete solo una traccia di dove si trova, assicuratevi che stia bene.

Ora devo lasciarvi, così scriverò alla Delle Foglie.
Mi raccomando, aspetto vostre notizie.
Vostra fedelissima,
Bianca De Ghiacci.

Infilò il foglio in una busta e la sigillò, chiudendola con la ceralacca, prima di imprimervi il simbolo della sua casata, in modo che il marchese capisse subito che si trattava di lei anche senza che vi apponesse il suo nome.

Roberto non scriveva mai, non può confondersi.

Sospirò e si portò le mani al viso. Roberto... Non riusciva a fare a meno di pensare a lui e il cuore le si stringeva in una gelida morsa all'idea che suo fratello potesse rivivere solo nel passato. Si fece forza e cercò di non pensarci, stilando la seconda lettera.

Alla regina Maria Chiara Delle Foglie.
Apro la mia lettera con l'augurio che il vostro regno possa essere felice e che possa tornare la serenità sui vostri luoghi, che in passato sono stati tanto tormentati.

Tuttavia, la ragione per cui vi scrivo è meno gaia. Vi parlo con tutta la sincerità che posso avere e che spero vi permetta di comprendere quanto la situazione nella nostra amatissima isola sia delicata esatto, Maestà, ancora più di quanto possa sembrare.

Anche io sono tornata da poco nel Pecama e devo ritenermi fortunata, perché mio fratello è stato ucciso durante il viaggio. Siamo stati catturati da Raissa Autunno mentre ci trovavamo ancora nel continente e io sono stata usata come pedina di scambio perché lei ottenesse la neutralità dei miei genitori. Vi scrivo per chiedere, anche se in via non ufficiale, la vostra alleanza. So che potrebbe sembrarvi una richiesta pericolosa e forse, da parte mia, una mossa azzardata. Eppure sento che è quello che è giusto fare.

Attendo una vostra risposta,
Bianca De Ghiacci.

Quando Chiara ricevette la lettera dalla vecchia Mila, si soffermò sulla scritta che indicava il luogo di provenienza. Disse alla donna di chiamare Franco, perché preferiva confrontarsi con lui e non con Tancredi Inverno, che era rimasto a Castelpietra. Non le piaceva che il re di Defi continuasse a stare lì: le sembrava che minacciasse la legittimità del suo ruolo, che il suo essere ascesa al trono l'avesse resa una sottoposta del regno limitrofo.

Passò un dito sulla ceralacca fredda e su quel fiocco di neve che vi era impresso. Lo ruppe solo quando sentì la porta della stanza aprirsi e scorse con la coda dell'occhio il suo amico entrare.

«E quello?» chiese Franco, indicando un falco che se ne stava tranquillo appollaiato su una delle sedie attorno al tavolo del Consiglio.

«Credo che sia un mezzo di comunicazione sicuro» rispose la regina, sfilando un foglio dalla busta. «È arrivato qui, mi ha porto la zampa a cui era legata la lettera e si è messo lì senza neanche beccarmi le mani per un po' di cibo.»

«Di chi è?»

«Bianca De Ghiacci.» Gli fece cenno di avvicinarsi e insieme lessero quelle parole che la principessa ghiacciana aveva scritto poco prima.

«Non pensavo che avrebbe mai osato uccidere qualcuno così» mormorò Chiara. «È disposta a prendere il rischio che lei faccia sapere a tutti che l'ha ucciso.»

«Non credo che lo farà» commentò invece Franco. «Se Raissa ha comprato la neutralità dei De Ghiacci...»

«Sarà una morte che passerà in silenzio?» mormorò lei, attonita. «Non posso accettare che succeda. Mila!»

La sua voce rimbombò nel corridoio adiacente e subito dopo si udirono i passi affrettati della donna. Si affacciò alla sala e chinò il capo al comparire davanti alla sua regina.

«Desiderate, Maestà?»

«Portami l'occorrente per scrivere» rispose Chiara, accennando un sorriso.

Illustre Bianca De Ghiacci,
quanto mi dite con la vostra lettera è molto importante. Oltre a unirmi al vostro dolore per la perdita di una persona cara, vi rispondo per accettare la vostra alleanza. So che non possiamo firmare alcun contratto ufficiale, ma se Raissa Autunno ha intenzione di tenerci separati gli uni dagli altri per renderle più facile qualsiasi progetto abbia in mente per il Pecama, non possiamo permetterglielo. Non so cosa potremmo fare insieme, ma sono con voi.

Attendo vostre notizie,
Maria Chiara Delle Foglie.

Bianca lesse quelle parole quando ormai era notte fonda. Il suo falco era entrato dalla finestra aperta senza fare rumore e, nel vederlo indenne, lei fu certa che non era stato intercettato. Accennò un sorriso: la regina fogliana si fidava di lei, aveva compreso subito quanto fosse importante non cedere alla nemica autunnica neanche uno stelo d'erba. Legò alla zampa del veloce volatile la lettera per Giampiero, e lo guardò sparire dalla finestra, nel cielo oscuro.
Ordire trame e sotterfugi a colei che si era dimostrata altrettanto astuta poteva essere un rischio, ma lei era disposta a correrlo. Era disposta a tutto per vendicare la morte di Roberto.

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Capitolo 70
*** 21.4 La protezione dell'edera ***


 

Il sole stava sparendo lontano, verso un confine che Nicola non riusciva a scorgere. Sapeva che più a ovest si trovava il mare, e sapeva altrettanto bene che quel piccolo golfo era condiviso da Pogudfo e Ruxuna. L'unico pensiero che gli permetteva di rimanere sereno era che Raissa era ancora lontana nel Loavi, e che per arrivare fin lì avrebbe impiegato diversi giorni.

Il carro scoperto su cui lui e Altea erano sistemati permetteva loro di respirare a pieni polmoni l'aria fresca della campagna. A guidare i due cavalli c'era un ragazzo di nome Antonio, che Susanna conosceva perché era il fratello di un suo amico del Pogudfo. A essere più precisi, di quello stesso amico i cui genitori avevano accettato di ospitare Nicola e la cameriera di Felicita senza sapere nulla sul loro conto.

Potremmo essere due delinquenti... e non se ne preoccupano affatto.

Non se ne era preoccupato Antonio, che spronava i due cavalli come se ne andasse della sua stessa vita. Il paesaggio scorreva attorno a loro, che attraversavano la campagna accogliente su una strada pavimentata, con alcune nuvole sparse nel cielo colpite dai raggi sbiechi del tramonto. Intorno alla via distese quasi sterminate di campi coltivati, ogni tanto un piccolo agglomerato di case e fattorie, ma nell'insieme il Pogudfo aveva suscitato nei due fuggitivi una sensazione di rilassatezza. Si guardavano intorno al passaggio di qualche uccello, si scambiavano occhiate silenziose ma piene di speranza.

Non sarà la nostra meta definitiva, ma un luogo in cui attendere di poter tornare.
Torneremo.

Il viaggio terminò quando giunsero a un cancello, circondato da un muretto di pietra alto poco meno di Altea e coperto di rampicanti.

«Maledetta edera, dovrei tagliarla tutta» commentò il pogudfiano.

«Ma no, è così carina» disse invece la ragazza che, avendo attirato le occhiate degli altri due, arrossì.

«Per un po' posso anche lasciarla, allora» le sorrise Antonio, gentile. Estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi e ne infilò una nel lucchetto al cancello, salvo poi accorgersi che non occorreva. Fece cenno ai due di seguirlo all'interno, mentre lui conduceva i cavalli tenendoli ancora per le redini. Delle aiuole costeggiavano una stradina acciottolata, ma si potevano vedere i campi coltivati e gli uomini che vi lavoravano.

Camminarono fino a quando non giunsero a un villino di due piani, circondato da un porticato, simile a quello delle case di campagna dei nobili. Le pareti esterne erano tinteggiate di un colore chiaro, che i raggi del sole morente rendevano simile a quelli che si irradiavano nel cielo.

Un giovane stava caricando un carro, a cui erano legati due cavalli, esattamente come quello su cui avevano viaggiato Nicola e Susanna per tutta la giornata. Era così preso dal proprio lavoro che non si accorse che i nuovi arrivati gli si stavano avvicinando. Il viso inumidito di sudore e le braccia forti che prendevano i suoi bauli e li posavano quasi lanciandoli furono le prime cose che il principe di Cmune vide di lui.

«Ma che fai, ti stai trasferendo?» ridacchiò Antonio.

Quello allora si fermò e scrutò gli altri tre, soffermandosi sugli ospiti. «Quindi voi siete...»

Nicola annuì, tendendo la mano verso di lui. «Sì, siamo noi. Immagino che tu sia Gaetano.»

«Sì, sono io» rispose lui. «Meglio che non te la stringa, sono sporco come un mulo sotto sforzo.»

Il nobile sorrise, poi fece cenno ad Altea di avvicinarsi a loro. La cameriera, infatti, era rimasta un passo indietro rispetto al suo signore, quasi aspettasse che lui decidesse anche per lei. Quando venne presentata, sorrise in direzione di quel giovane, ma non disse nulla.

Il minore dei due pogudfiani salì sul carro e guardò all'interno. «Dico davvero, stai partendo con tutta la tua roba?»

«In realtà sì» gli rispose Gaetano, aggrottando le sopracciglia scure. «Non credo che tornerò più.»

«Scusa? Sei matto? Dove stai andando?»

Il maggiore guardò gli altri, poi scrollò le spalle e ammise. «Mi è arrivata una lettera di Chiara. Ora è diventata regina e ha bisogno di me al suo fianco.»

«Non può governare da sola?» esclamò Antonio.

«Un momento» li interruppe Nicola. «Con "Chiara" intendi... Delle Foglie?»

Gaetano fece un cenno di assenso. «Sì. La storia è molto lunga, ma sto andando da lei. Tanto penso che a voi non faccia nessuna differenza.»

«Non darmi del voi» puntualizzò il principe. «Preferisco di no, e qui sarebbe strano che qualcuno lo facesse.»

«Come vuoi» si adattò subito lui, afferrando un altro baule e scaraventandolo ai piedi di Antonio, che non si era più mosso da sopra il carro.

«Mi stai dicendo che te ne vai?» domandò ancora, attonito.

«E che non so quando tornerò, forse non tornerò proprio.»

Il minore scese a terra con un salto. «Tu sei matto.»

«Sarò anche matto...» sospirò Gaetano, senza completare la frase. Scrutò la terra attorno a sé, notando che i bagagli da caricare erano finiti.

«Loro dove li sistemiamo?» gli chiese allora Antonio, accennando a Nicola e Altea.
«Ah, loro...» Il maggiore sembrò scuotersi, come se non si fosse reso completamente conto del fatto che i due giovani appena arrivati erano loro ospiti. «Credo che mamma e papà stiano organizzando la cena, li trovi... In realtà non lo so. Comunque dovete parlare anche con loro, almeno per informarli che siete qui.»

«Ho capito, li vado a cercare io» si rassegnò l'altro, ridendo.

Nicola lo osservò mentre entrava nella villa, senza sapere cosa pensare della scena a cui aveva appena assistito.

«Scusatemi, sono parecchio occupato con i miei preparativi» disse Gaetano, con rammarico. «Avrei dovuto accogliervi in modo diverso. E non volevo che lui lo scoprisse così.

Il principe di Cmune sospirò. Avrebbe voluto dirgli una parola di conforto, ma qualsiasi cosa gli veniva in mente sembrava banale e suonava finto alle sue stesse orecchie.

«Prima o poi avrebbe dovuto saperlo.» Altea si era avvicinata al pogudfiano e gli aveva parlato con sincerità, quella sincerità che Nicola non riusciva a trovare dentro di sé. «Se non hai potuto dirglielo prima, non è colpa tua.»

Il pogudfiano fece un cenno di assenso, ma non replicò. «Qui è pronto, vi accompagno dentro. Non avete niente con voi?»

Nicola scosse la testa. Come avrebbero potuto portare con loro qualcosa dal palazzo durante la loro fuga dall'incendio? Seguì Gaetano all'interno insieme alla popolana cmunica e notò a malapena gli spazi ampi che attraversarono prima di giungere a una sala in cui una donna apparecchiava la tavola insieme al marito.

«Mamma, papà» li chiamò Gaetano. «Loro sono Nicola e Altea. Susanna ci ha scritto chiedendoci di ospitarli, vi ricordate?»

«Ma certo!» esclamò l'uomo, gioviale. I lineamenti erano gli stessi del figlio, anche se appesantiti dall'età e gli occhi scuri ispiravano la stessa istintiva fiducia.

La moglie sorrise ai nuovi arrivati, e indicò un mobile vicino a loro. «Altea, ti spiace prendere due piatti da lì? Intanto vi porto i bicchieri» disse, e lasciò la sala.

La ragazza aveva aperto immediatamente l'anta più vicina a lei e ne estrasse due piatti di porcellana.

«Questi vanno bene?»

La donna, rientrata in quell'instante, le rispose con prontezza e insieme le due sistemarono la tavola in modo che ci entrassero anche gli ospiti, mentre Gaetano aggiunse due sedie.

Nicola aveva osservato la scena senza dire niente. Ogni cosa che accadeva da quando aveva lasciato lo Cmune gli toglieva le parole, tanto che lui avvampò di imbarazzo al pensiero che anche quelle persone gentili che avevano accettato di accogliere lui e Altea in casa loro si facessero qualche idea strana sul suo conto.

L'uomo lo prese da parte, conducendolo nel corridoio da cui erano arrivati. Lo scrutava con due occhi penetranti, dello stesso nero intenso di entrambi i figli. Si grattò la guancia non rasata, pensieroso, come se avesse da porgli una domanda importante.

«Susanna ci ha detto che tu sei il principe di Cmune. È così?»

Il giovane gli ricambiò lo sguardo, confuso. «Sì, sono io. Non ho modo di dimostrarvelo, dovrete fidarvi solo della mia parola. Mi dispiace.»

Lui gli sorrise, posandogli paternamente una mano sulla spalla. «Dispiace anche a me, ma per tutto quello che hai dovuto passare. Qui sarai al sicuro, non credo che qualcuno verrebbe a cercarti. Non l'hanno fatto con un'altra nobile che è stata da noi, perciò non credo che avrai dei problemi.»

Nicola pensò subito a Chiara Delle Foglie che, stando a quanto aveva ascoltato dai viandanti alla locanda di Susanna, era arrivata sana e salva nel Pecama ed era ascesa al trono. Si augurò lo stesso destino.

«Non voglio che corriate dei rischi a causa mia» disse. «Se dovessimo scoprire, non so come, che qualcuno è sulle mie tracce, dovrò andare via.»

«Se accadesse accadere, troveremo un'altra sistemazione per te e Altea» lo rassicurò lui. «Intanto noi qui vi accogliamo e vi permettiamo di rimanere per tutto il tempo necessario.»

Nicola annuì. «Non saremo un peso. Altea ha detto a Susanna di scrivere che avrebbe potuto aiutare sua moglie con la casa e io...» Deglutì, perché lui non era in grado di fare nulla per ricompensare dell'ospitalità. «Io sarò quasi invisibile. Sono abituato, non vi darò fastidio.»

«Non dire sciocchezze, se ci avesse dato fastidio ospitarvi, non vi avremmo certo detto di venire» ridacchiò l'uomo. «Non pensare a niente del genere, e cerca di non preoccuparvi finché sarete qui.»

La donna li richiamò a gran voce per la cena e, quando i due tornarono nella sala da pranzo, al principe di Cmune ognuna delle vivande disposta nei piatti di porcellana apparve quanto di più appetitoso potesse esserci. Non sapeva se era dovuto alla gentilezza della famiglia che li aveva accolti lì, ma credette – o volle credere – di trovarsi al sicuro.

 

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Capitolo 71
*** 22.1 L'inganno alla regina ***


 

Il sole che filtrava attraverso i vetri opachi del palazzo di Defi accompagnava Giampiero verso la sala del trono. Gli era stato consegnato un biglietto da una delle ragazze di servizio, scritto dalla mano della regina che gli chiedeva di raggiungerla lì il prima possibile. E lui era uscito dal letto così come si trovava nei suoi abiti per dormire e aveva indossato quelli da giorno, subito dopo aver mandato via quella giovane, che sembrava inquieta per qualcosa che lui ignorava. Forse aveva commesso degli errori per cui era stata aspramente ripresa, forse Alcina era stata più severa del solito nell'impartirle l'ultimo ordine. Quella seconda ipotesi lo impensieriva.

Cosa può sapere che io non so?

Scese le scale, trattenendosi dal saltare gli scalini per non cadere, ma uno strano impulso lo spingeva ad arrivare in fretta a destinazione.

Arrivò al pianterreno e percorse alcuni corridoi, con il castello ancora silente e popolato solo da uomini e donne del personale. Raggiunse a grandi passi la sua meta, ma si fermò a riprendere fiato: non voleva che la regina lo vedesse trafelato, né che capissse che lui la stava tenendo d'occhio.

Cercava di esserle vicino in ogni momento, come un servitore fedele, ma la verità era che Giampiero temeva le successive mosse della Primavera. Non poteva prevenirla, né contrastarla, tuttavia doveva sapere quello che lei avrebbe fatto, perché se le sue supposizioni erano vere – se Alcina aveva una sorta di accordo con Raissa Autunno – lui non poteva lasciarla agire indisturbata.

Ripensò alla lettera che aveva inviato a Bianca non appena tornato nel Defi e sperò che lei stesse bene, perché ancora non aveva alcuna notizia del suo rientro nel Pecama.

Scese al pianterreno e si immise nel labirinto di corridoi che conducevano alla sala del trono, perso nei suoi pensieri. Lì, con sua sorpresa, non c'era solo la regina ad aspettarlo.

Al fianco della donna un soddisfatto Marco Pomi era dritto in piedi con aria baldanzosa, come se si aspettasse di vedere una rappresentazione teatrale che avrebbe avuto luogo di lì a poco e che era certo di apprezzare; ma il capitano delle guardie reali non era mai stato un grande intenditore di spettacoli.

Un manipolo di cinque soldati faceva la guardia a due persone e, Giampiero se ne accorse con il cuore in gola, una di queste era Menta. La giovane aveva lo sguardo basso e un'espressione colpevole sul volto. Non sembrava che qualcuno l'avesse torturata o picchiata: chiunque l'avesse condotta lì non l'aveva ferita.

Almeno non fisicamente.

«Ma chi sono?» bisbigliò una giovane dama vicino a lui, rivolta più a sé stessa che ad altri. «Perché la regina ci ha fatto venire qui?»

Il Tirfusama scrutò quella nobile e distinse nella spilla appuntata sul suo copricapo un girasole, simbolo degli aristocratici del Loavi. Era uno dei regni che Raissa aveva conquistato di recente... Scrutò i volti degli altri presenti e si accorse che erano cortigiani che provenivano da quei luoghi ormai sotto il dominio degli Autunno: Lisse, Ralini e Loavi. Un uomo anziano si era avvicinato alla vetrata, come se gli importasse poco di quello che stava accadendo; se la memoria non ingannava Giampiero, aveva origini del Copne.

E lui perché era lì? Che anche il Pogudfo fosse stato assoggettato?

Posò lo sguardo sulla regina, che stava parlottando a bassa voce con Marco Pomi. Si trattenne dall'avvicinarsi e scrutò quei due, in febbrile attesa. Alcina era raggiante, e Giampiero lo interpretò come un cattivo presagio.

Si soffermò sul secondo prigioniero, che prima era coperto dalla sua visuale: gli si strinse un nodo alla gola nel riconoscere il capitano in seconda della Millennaria.

E Virgilio? Che lo abbiano ucciso?

Vide Angelo scambiare un'occhiata con Menta e la giovane che lui aveva aiutato a fuggire puntare i suoi occhi su qualcuno tra i nobili, una figura che si discostava lentamente dagli altri per uscire dalla sala indisturbata. Giampiero non aveva idea di chi potesse essere, perché era l'unica persona tra i presenti ad avere il volto coperto dal cappuccio di un mantello da viaggio. A sua volta ritornò piano piano alla porta da cui era entrato, appena in tempo prima che il fabbro del castello tornasse lì con dei ferri roventi.

Che cosa vuole fare, torturarli?

«Mie signore, miei signori» disse allora Alcina, spegnendo il timido vociare che aveva aleggiato fino a un istante prima. «Vi ho radunati qui perché ho scoperto due delle persone che hanno facilitato la fuga di mia figlia fuori dal regno. Menta e Virgilio Gredasu.»

Il Tirfusama trattenne a stento la sorpresa. Il cognome di Virgilio era quello dell'antica famiglia maledetta? E il capitano in seconda si stava spacciando per lui? Perché Arturo aveva scelto la sua nave per andare nel Pecama? Non era stato saggio...

Inoltre, non poté evitare di darsi dello stolto, perché a lui non era venuto in mente che conoscere l'identità di Menta potesse essere tanto importante. Credeva che fosse una popolana qualsiasi, perché se Flora avesse saputo...

Non lo sa neanche lei.

Il marchese decaduto non era l'unico a essersi stupito a quella rivelazione: ognuno degli altri presenti sussurrava qualcosa a chi aveva vicino. Ognuno, tranne quella figura che pensava di muoversi senza essere notata e che approfittò dello spaesamento generato dalle parole di Alcina per lasciare la sala.

Giampiero rivolse un'occhiata veloce a Menta, che era impallidita, poi decise anche lui di uscire. Avrebbe spiegato più tardi alla sovrana perché se ne era andato. Camminò svelto tra i corridoi, seguendo quella donna – non si ingannava, era certo che non si trattava di un uomo – fino a quando non arrivò a uno dei corridoi sotterranei che conducevano alle prigioni. Lei si era attardata per aprire una porta sprangata, forse convinta che il luogo poco illuminato non avrebbe attirato attenzioni.

Lui, tuttavia, riuscì ad avvicinarsi e le prese un braccio, interrompendo qualsiasi cosa lei stesse provando a fare.

Lei si divincolò e nel movimento le cadde il cappuccio che le coprì il volto. Gli occhi scuri che squadrarono il nobile ma, soprattutto, i lineamenti decisi che tanto ricordavano quelli della madre, svelarono la sua identità: Melissa Autunno.

«Tu...» mormorò Giampiero, incapace di dire altro, colto di sorpresa. Non riusciva neanche a darle del voi, perché se l'idea che si era fatto era giusta, lei non meritava alcun rispetto da parte sua.

«Non vi aspettavate di trovarmi qui?» chiese Melissa, atona. Il suo tono voleva essere canzonatorio, ma il suo intento fallì.

«Avevo ragione, allora, Alcina sta tramando con voi!» esclamò lui.

L'Autunno scosse la testa. Si morse il labbro e fissò un punto nel vuoto, riflettendo su come agire; infine riprese ad armeggiare con la maniglia di quella porta.

«Non si apre, sappiamo tutti che questo corridoio è fuori uso da secoli» spiegò il marchese. «Se vuoi fuggire, non è da qui che passerai. Ma non credere che ti lascerò andare via.»

«Non sfidatemi, posso essere pericolosa» lo minacciò lei.

«Non ho paura di te, né di Alcina, né di tua sorella» ribatté lui.

L'Autunno sorrise, ma senza una vera allegria nei suoi occhi. Fissò il nobile pogudfiano, che le ricambiava lo sguardo. Scosse il capo, guardò la porta e notò che non era quella che stava cercando. Ringraziò mentalmente che quello fosse un punto del castello in cui non andava mai nessuno, e si incamminò nel corridoio.

Si udì un urlo straziante di una voce femminile, e Melissa si voltò. Il marchese la stava seguendo, deciso davvero a non lasciarla andare via dal Defi. Ma, in quel momento, anche lui si era fermato al sentire il dolore di Menta.

«L'hai consegnata tu, vero?»

La principessa ruxunica non rispose, rimanendo immobile.

Giampiero scrutò l'espressione cupa sul suo volto, senza capire, per la prima volta nella sua vita, che cosa fare. Sapeva di non poter permettere che fuggisse, anche se Alcina gliel'avrebbe fatta pagare cara, ma sapeva altrettanto bene che se Menta era stata catturata dalle Autunno, si sarebbe dovuto preoccupare anche per Bianca e Roberto. Decise di approfittare di quel momento di debolezza della pricipessa.

«Era insieme ai De Ghiacci, dove sono loro?»

«Raissa» sussurrò lei. «Li ha presi nel Copne.»

Copne?

«Sentite» mormorò Melissa, che non aveva potuto ignorare la sorpresa nel marchese. Si sistemò il cappuccio sulla testa e proseguì: «Io non volevo arrivare a questo. Non volevo consegnare la Gredasu ad Alcina Primavera, ma non ho avuto scelta. Se c'è una cosa che proprio non avrei voluto...».

Un altro urlo di Menta la interruppe e lei trasse un profondo sospiro.

«E allora perché la sta torturando?» chiese lui, cercando di contenere la rabbia. Come poteva parlare a quel modo se poi le sue azioni dimostravano il contrario?

«Non è tortura» disse lei. «La sta marchiando. Tutti devono sapere che chi va contro Alcina ne paga le conseguenze.»

Giampiero la seguì solo perché non poteva lasciarla fuggire, ma era rimasto attonito a quelle parole. Sebbene nessuno fosse mai stato marchiato da quando lui aveva iniziato a frequentare la corte di Defi, conosceva quell'usanza, riservata a coloro che erano considerati traditori della corona. Non venivano esiliati, ma esposti alla condanna pubblica. Essere marchiati, almeno in passato, equivaleva a smettere di fare parte della società e viverne ai margini; sempre che si riuscisse a sopravvivere di stenti.

Il marchio era un simbolo impresso sulla pelle, in un punto visibile a chiunque. Qualcuno lo aveva avuto su una guancia, qualcun altro sul polso, altri sulle mani... qualcuno persino sulle dita.

«E pensi che sia meno peggio della tortura?» le chiese, a bassa voce. Neanche lui voleva che qualcuno li scoprisse. «Hai dato una povera ragazza nelle mani di una regina che forse non è sanguinaria come Raissa, ma che non tollera che qualcuno la imbrogli. Sei contenta di quello che hai fatto?»

«Non sono contenta di quasi nessuna delle mie azioni» replicò l'Autunno, fredda. «Ma vi ripeto che non ho alternative.»

«Dammi modo di crederti» disse lui. Non seppe da dove gli veniva la sicurezza di parlare in quel modo, perché se Melissa aveva appreso gli stessi incanti di cui era capace la sorella, stava correndo dei rischi a rivolgersi a lei con quel tono.

«Non sono leale alla mia famiglia» sibilò lei, quasi indispettita. Tuttavia sapeva che mostrarsi sincera con il Tirfusama poteva esserle utile. D'altra parte, se lui era fedele ai Primavera non volevano entrambi la sconfitta di Raissa? «Sto facendo il doppio gioco da settimane dando informazioni ai Lugupe sui suoi spostamenti, sperando che loro le facciano arrivare a chi possano essere utili. Avrei contattato di persona Nicola Lotnevi, ma lo aveva già fatto mia sorella e non era sicuro.»

Le credo. Non avrebbe senso che me lo dicesse, se non fosse vero.

Aveva scoperto, inoltre, che Luciana era davvero viva, perché tra coloro che avevano firmato la lettera per Alcina in cui comunicavano la scomparsa di Lavinia c'era anche il suo nome. E come avrebbe potuto uscire dalla reggia in fiamme di Mitreluvui, se non grazie a chi aveva appiccato l'incendio?

«Sei stata tu a far bruciare il palazzo reale di Cmune?» le domandò allora. Voleva delle risposte, voleva avere la certezza di cosa era accaduto nel passato in modo da capire di chi fidarsi nel futuro.

«Sì e no. Il fuoco che ho acceso è frutto di un preparato di mia sorella. Quindi siamo state entrambe.»

«Perché hai salvato Nicola e Luciana?» le chiese ancora. Non aveva intenzione di tergiversare. Se la Lugupe non era stata uccisa nell'incendio, lui doveva credere alle parole di Pietro Riutorci e che dunque anche il Lotnevi fosse vivo.

«Perché avrei dovuto lasciarli morire?» rispose lei, con una smorfia. «Non sarebbe servito a nessuno, se non a Raissa. Io non voglio che ottenga quello che vuole.»

«E cosa vuole?» continuò Giampiero, perentorio. Voleva sapere cosa la principessa ruxunica avesse in mente.

Melissa scosse la testa. «Riprendersi quello che i primissimi Lupfo-Evoco hanno tolto alla nostra famiglia, perché è convinta che abbiano tramato contro di noi. So benissimo che sono passati secoli, ma lei è decisa a farlo e a dimostrare a tutti che chi ha il sangue di Laura Autunno nelle vene non è da sottovalutare. Ed è disposta a tutto, ma credo che lo sappiate, no? Visto che non le è importato della scia di morte che si è lasciata alle spalle.»

«Tu potresti essere spietata tanto quanto lei.»

Lei sorrise, e si abbandonò a una risata ironica. «Lo sono molto di più, perché a me non importa cosa sarò costretta a fare per fermarla.»

Un altro grido, stavolta maschile, arrivò alle loro orecchie. Forse gli altri nobili al castello erano accorsi nella sala del trono e stavano assistendo a quello spettacolo da cui i due erano fuggiti.

«Persino consegnare ad Alcina un'innocente?» continuò Giampiero.

«Purtroppo sì. Ho dato a Raissa motivo di sospettare di me, non posso permettermi di avere troppa libertà.»

Il marchese tacque, in una muta meditazione. Melissa Autunno stava tramando contro la sorella, e questo poteva essere positivo per coloro che in futuro avrebbero fatto fronte comune per combatterla. Eppure anche lei sembrava della stessa tempra di Raissa, il che sarebbe potuto essere un rischio per chi avesse voluto che li aiutasse nel concreto.

«Quindi devo considerarti un'alleata, anche se nessuno deve saperlo?» sussurrò.

Lei annuì. «Vedo che comprendete.»

«E Alcina? Sa come stanno le cose?»

L'Autunno sorrise. «Assolutamente no.»

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Capitolo 72
*** 22.2 La pietà di Danào ***


 

Quel mattino aveva portato con sé una pioggia leggera, che Danào aveva ben pensato di riversare sulla città per rendere omaggio alla regina che, si mormorò, doveva aver goduto dei suoi favori, nonostante il dio non l'avesse salvata dalla malattia. Il popolo, vestito a lutto con lunghi abiti scuri e copricapi neri, era radunato nella piazza principale di Firgusi. Qualcuno sollevava lo sguardo verso la bara atra della regina, su cui qualcuno aveva posato un drappo rosso e la sua collana con i zaffiri incastonati nelle rifiniture in argento.

Luciana stringeva, con la mano nella tasca, la fiala vuota che aveva consegnato la madre tra le braccia della morte mentre lei era in viaggio. Lo considerava il simbolo della sua rinascita, del nuovo lustro che avrebbe dato alla sua famiglia, del suo potere che si stava affermando giorno dopo giorno, anche agli occhi del padre e dell'odiata Contessa.

Il volto dell'anziana nobile era nascosto da un velo scuro, ma la giovane poteva sentire quegli occhi inquisitori su di sé, come se neanche in un momento di lutto lei cessasse di osservarla e giudicarla. E condannarla.

Un coro di fedeli di Danào intonò un canto lugubre, che permise alla principessa di estraniarsi senza badare alle parole in quella lingua antica che a tutti era incomprensibile, ma la cui sacralità era ben percepita. Il senso era conosciuto a tutti: si tramandava che fosse una richiesta al dio della giustizia di accogliere l'illustre defunto nella sua vita ultraterrena, che si svolgeva in un luogo diverso da quello. Alcuni credevano che i morti si radunassero lungo i fiumi sotterranei di alcune grotte del Lancobe, ma Luciana non dava alcun peso a quelle dicerie: per lei, al momento della morte, si cessava di esistere.

Le voci tacquero e alcuni uomini vestiti di nero caricarono il feretro scuro su un carro lasciato scoperto, su cui vennero posati dai popolani alcuni mazzi di fiori. L'ultimo saluto di Lavinia Lugupe alla sua gente, che forse non l'aveva mai amata davvero, ma era stata scossa dal modo in cui se ne era andata. Luciana li guardava accompagnare il carro dall'alto degli scalini del tempio di Danào, dove si era tenuta una prima cerimonia funebre per la sparuta famiglia reale e per alcuni nobili. Lei non avrebbe seguito la processione: preferiva rimanere per conto suo e camminare da sola tra le vie di quella cittadina in cui si sentiva straniera e sola al mondo.

Guardò suo padre incamminarsi dietro a tutti gli altri, insieme ai soldati della sua scorta: Ettore non usciva mai dal palazzo reale senza quei quattro o cinque uomini che lo proteggevano. Il re preferiva essere prudente. Luciana accennò un saluto nella sua direzione, poi scese dagli scalini del tempio e si allontanò dalla parte opposta, finché il suono dei passi di lutto e rispetto di tutto il resto del regno si affievolì.

Si nascose alle case ordinate in modo concentrico intorno all'antico tempio, comprendosi il viso con il cappuccio del mantello. Almeno per quella giornata, voleva cullare la sensazione di essere invisibile che aveva avuto mentre era insieme a Melissa Autunno per le strade concitate di Mitreluvui. Le sembrava trascorsa un'infinità di tempo. Aveva preso una drastica decisione da allora: voltare le spalle alla Primavera per accordarsi con la famiglia avversaria. Non sapeva cosa sarebbe accaduto nei mesi, né negli anni successivi, ma aveva intuito che era meglio rimanere ancorata sia a una possibile supremazia del Ruxuna, sia a un rovesciamento del destino a favore del Defi.

Nel frattempo avrebbe dimostrato a tutti di cosa era capace, incluse Alcina e Raissa.

Si fermò a guardare degli uccelli dal colore atro che si rincorrevano in volo, scagliati contro un cielo nuvoloso, quasi anche le divinità volessero rispettare la morte di una donna uccisa ingiustamente.

No, non è stato ingiusto. Lei non avrebbe più avuto la sua vita di prima.

Luciana si convinceva sempre più di non aver commesso un delitto, ma di aver risparmiato un destino tremendo alla madre. Non osava immaginare con quale aspetto si fosse presentata ai Lupfo-Evoco, né cosa avessero pensato i nobili di tutta Selenia al vedere la regina ridotta in quello stato.

Il silenzio regnava sovrano, tanto che la Lugupe non poté non accorgersi dei passi che provenivano da un vicolo alla sua sinistra. Immaginò che fosse qualche ragazzino scappato dalla noia del corteo funebre, forse di nascosto ai genitori.

Invece da quell'angolo sbucò la Contessa, che puntò i piedi nella sua direzione le si avvicinò. Luciana ringraziò il volto coperto che nascondeva la sua espressione scocciata.

Anche l'anziana donna era avvolta da uno scuro mantello da lutto, che rendeva il colore della sua pelle ancora più spettrale di quanto non facessero i suoi soliti abiti.

«Un modo tremendo per andarsene, non credi?» commentò la vetusta nobile quando ebbe raggiunto la nipote.

«Ogni morte lo è» rispose lei, senza trattenere una smorfia che l'altra non avrebbe visto. Riprese a camminare nella direzione opposta a quella in cui si era avviato il carro con il feretro. Sarebbe tornata al palazzo a piedi, pur di togliersi di torno quella serpe che doveva continuare a sopravvivere per puro dispetto.

La Contessa, tuttavia, la affiancò senza preoccuparsi affatto di quali fossero le sue intenzioni. Attorno a loro anche la città sembrava un sepolcro a cielo aperto, con un silenzio pesante, carico di parole pronunciate nel passato, di altre mai dette, ma nessuna delle due sembrava in sofferenza per il funerale che si avviava alla conclusione lontano da loro.

«Ogni matricidio lo è» corresse l'anziana.

Luciana si fermò, suscitando l'ilarità dell'odiata parente, che non trattenne le risa.

«Non c'è niente di divertente» sibilò la principessa. Quella risata era stridula, fastidiosa, come la Contessa era sempre stata da che lei ne avesse memoria. Che avesse scoperto il suo apparente delitto la metteva in pericolo.

Melissa non mi potrà impedire di sbarazzarmi anche di lei.

La donna si ricompose solo quando la nipote riprese a camminare da sola lasciandola indietro, perché si vide costretta a rincorrerla per non perderla tra le vie concentriche di Firgusi.

«Non lo dirò a Ettore» mormorò, come se cercasse di rassicurarla, ma Luciana non lo era affatto.

«Ti ucciderò, se lo farai» ribatté lei, con tono di sfida.

«Non devi uccidermi, ti posso essere utile» disse invece la Contessa. «Per quanto riprovevole sia stato il tuo gesto, non ti biasimo. Da un punto di vista strettamente politico, Lavinia era morta da un pezzo.»

Tacque, come se le si stringesse il cuore nel pronunciare quelle parole, come se per la nipote provasse l'affetto che non aveva riservato a nessun altro per tutta la sua vita.

Luciana non disse nulla per un po', fino a quando non furono fuori dalla capitale. Il silenzio riempiva l'aria anche nella strada lastricata che avevano imboccato le due nobili.

«Devo supporre che tu sia armata» constatò la più anziana.

«Non sono una sprovveduta.»

La Contessa sorrise. «Devo proprio ricredermi sul tuo conto. Sei riuscita a scappare indenne dal fuoco al palazzo di Mitreluvui, hai strappato un accordo con le Autunno che non ti impedirà di fingere di essere ancora alleata dei Primavera-Inverno, e hai avuto il sangue freddo di avvelenare la tua stessa madre.»

«Tu non sai niente del mio accordo con Melissa» rivendicò Luciana.

«Povera ragazza, tu credi che io non abbia nessun contatto al di fuori dello Dzsaco? Io e Ruggero ci scriviamo con regolarità già da un anno e abbiamo anche parlato delle nostre possibilità in futuro. Come pensi che sia stato possibile per te e Melissa entrare in contatto, se non grazie a me?»

All'udire quelle parole, il cuore della Lugupe saltò un battito. «Che cosa?» sillabò.

«Non credevi per caso che la vostra corrispondenza fosse iniziata per volere divino, no?» la derise la Contessa. «Quello che ci vuole qui è un cambio radicale, perché questo regno va avanti per puro miracolo e che nessuno si sia rivoltato all'inefficacia di qualsiasi misura presa dai tuoi genitori per arrestare la crescita di povertà è davvero... inspiegabile

«Inspiegabile» ripeté la nipote. «Ci sei tu dietro tutto quanto, allora.»

«Ma certo» annuì l'anziana. «Non posso di certo permettere che il mio sangue si estingua perché degli incapaci non riescono a controllare il proprio popolo.»

«Non devi permetterti di chiamarli così» disse Luciana, scostando il mantello affinché lei vedesse l'elsa dello spadino. Aveva ucciso una volta, non avrebbe esitato a farlo ancora.
«Non essere sciocca, ragazza. Non ti sarebbe di alcun aiuto liberarti di me» commentò la Contessa.

«Al contrario, sarebbe utilissimo» ribatté lei, fredda. «Non avrei più nessuno a punzecchiarmi, nessuno che mi giudica perché ho respirato con troppo rumore... O nessuno che si metta in mezzo alle mie alleanze.»

La donna sbuffò, trattenendo una risata. «Alleanze? Intanto senza di me saresti morta nell'incendio di Mitreluvui... ma se tu vuoi parlare di alleanze, sei libera di farlo.»

Luciana provò un brivido di fastidio a quelle parole. Osava forse dirle che le doveva la vita? No, non era grazie a quell'insopportabile e antiquato soprammobile se era ancora viva. E non aveva intenzione di permetterle di avere ancora potere su di lei.

«Penso che Raissa sarebbe d'accordo con l'idea di liberarci sia di te sia di Ruggero» commentò. «Così nessuno dei due sarebbe rilevante per le sorti di Selenia. Che ne pensi, provo a proporglielo?»

«Sei astuta, ragazza, ma non credo che basterà» ridacchiò la vecchia. Attorno alle due, il sole del meriggio splendeva alto verso meridione, e picchiava con i suoi raggi bollenti la strada che le nobili avevano avuto l'audacia di percorrere da sole. «Non puoi permetterti che muoia anche io... troppi funerali nel regno, qualcuno potrebbe insospettirsi, non credi?»

Fu solo un'allusione, ma a Luciana fu sufficiente per comprendere che la risposta datale da Melissa era stata concordata con Ruggero, e che il re di Ruxuna doveva averne informato la Contessa.

«Troppi funerali... mia madre stava male da tempo, tu potresti morire di vecchiaia. Sarebbe anche ora» sorrise nel pronunciare quell'ultima frase. Non mancava molto tempo e presto lei avrebbe avuto il potere che tanto desiderava, incluso quello di poter togliersi di torno quella donna e di rimanerne impunita.

«Te ne stai dimenticando uno. Hai in mente qualcosa anche per Ettore, se non sbaglio.»

«Se anche fosse? Credi che ne parlerei proprio con te?»

Un incerto soffio di vento passò tra le chiome degli alberi che accompagnavano il loro cammino.

La Contessa sorrise, respirando l'aria calda del tardo mattino. «Mia cara ragazza, rimarremo soltanto noi due, e non solo del ramo Lugupe. Noi e tua madre eravamo le ultime donne della nostra famiglia, e quella di tuo padre, oltre a essere morta nel Crisera durante l'epidemia di qualche anno fa, qui e ora non conterebbe proprio nulla.»

«Lo so benissimo, non c'è bisogno di ripetermelo» si spazientì Luciana. «Cos'è che vuoi?»
«Possiamo governare insieme» spiegò l'anziana nobile. «Almeno fino a quando l'età me lo renderà possibile... Ricorda che è grazie a me che qui non ci sono state rivolte.»

Grazie agli Autunno, piuttosto.

«Inoltre, penso che potresti trovare un marito all'altezza di guidare il regno, quindi mi farò da parte quando ti sposerai. L'unica cosa di cui mi importa è che la nostra famiglia non perda quello che ha impiegato tanto per avere: voglio che i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e i loro discendenti possano reggere le redini di questo regno senza piegarsi a nessuno. Non sono contro le alleanze, ma dobbiamo essere noi a scegliere come agire, senza essere dei fantocci nelle mani di nessuno, né di Ruggero né della tua adorata Alcina.»

«Io non adoro proprio nessuno» borbottò Luciana, ma quel discorso l'aveva colpita in positivo. Se la donna pensava davvero quanto detto, poteva essere uno strumento utile per il futuro prossimo di lei e dello Dzsaco; se aveva mentito solo per salvarsi la pelle, avrebbe di sicuro trovato il modo per sbarazzarsi di lei.

«Dunque, accetti?» insistette la Contessa.

La principessa annuì. Aveva sempre la possibilità di trovare un marito adatto ed estromettere la donna dal governo dello Dzsaco. In ogni caso, quella proposta era molto vantaggiosa per lei e poco per quel fossile con cui sarebbe rientrata al palazzo. «D'accordo.»

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Capitolo 73
*** 22.3 Onde rappacificanti ***


 

Erik fissava un punto imprecisato della distesa marina davanti ai suoi occhi. Ogni giorno, da quando era lì, gli sembrava scorrere uguale al precedente e non aveva nessuno stimolo che gli permettesse di non annoiarsi. Iris era tornata a Ehoi, e aveva avuto modo di incontrarla solo il mattino precedente, rimanendo nella sartoria a guardarla lavorare. Era stato paziente e aveva sopportato le occhiate curiose delle altre giovani che cucivano e ricamavano insieme a lei, ma provava un senso di frustrazione, perché rimanerle vicino in quel modo freddo e distante non era abbastanza.

Non lo interessava neanche più studiare la politica di Ariel e il suo rapporto con i popolani, perché ogni volta in cui si ritrovava a fare delle riflessioni al riguardo, gli martellava nella mente il pensiero di quello che accadeva nei regni della sua famiglia e gli appariva sempre più chiaro che la politica dei genitori fosse sbagliata.

Non tutta la loro politica, solo quella interna.

Appoggiò le mani sul marmo chiaro sotto di lui. In quello schiumare ritmico poteva perdere contatto con la realtà e poteva arrivare a comprendere il clima disteso che si respirava in quel regno. Il vento gli accarezzava i capelli corti, che Iris aveva provveduto a tagliare il giorno prima, alla fine della sua mattinata di lavoro. La sarta era stata molto abile, nessuno avrebbe mai detto che qualcuno di diverso dal barbiere di corte si fosse occupato della sua capigliatura.

«Dovresti andare da lei, se è quello che vuoi davvero» disse una voce femminile alle sue spalle.

Erik non si voltò neanche per sapere che si trattava di Ariel, che lo affiancò sulla panca bianca. La regina stringeva tra le dita i nastri dei suoi sandali, che si era sfilata dai piedi per camminare sulla sabbia, affondando le dita tra i granelli. Davanti ai due nobili, il mare continuava a sospirare, restituendo a entrambi una sensazione malinconica.

«Non è il mio dovere... E Iris è disposta ad aspettarmi, anche per tutta la vita» ammise lui, incapace di credere di star davvero affrontando il discorso con la stessa Ariel che, per scherzo, gli aveva suggerito di inscenare una finta proposta di matrimonio. Sembrava passato molto tempo da quel mattino in cui era giunto nel regno del Mare, eppure erano solo alcuni giorni che trascorreva lì. Solitamente non si tratteneva a lungo, quello era per lui solo un luogo di passaggio prima di recarsi nel suo Inverno o nella Primavera. Tuttavia, il corso degli eventi aveva deciso altrimenti e lui non era ancora ripartito, iniziando a subire il fascino magnetico di quel palazzo, delle onde ritmiche del mare da poter osservare. Non era un ozio a cui prima si abbandonava: aveva sempre qualcosa da fare, un compito da svolgere per suo padre, doveva viaggiare per tenere i rapporti con gli altri regni, a volte doveva recarsi nel Pecama per controllare che i nobili del suo futuro regno non prendessero troppo potere scavalcando la famiglia reale.

Lì, però, tutto sembrava immobile e lui stesso si sentiva fluttuare su una nuvola, come se quello che gli accadeva intorno non fosse del tutto reale.

«Erik, io vorrei prendere le parti di entrambi, ma allo stesso tempo non posso» disse Ariel, distraendolo dal flusso continuo delle sue riflessioni. «So di dover mettere Dante al primo posto perché, nonostante l'aiuto che tu e tuo padre ci state dando, noi siamo rimasti da soli. Non posso abbandonarlo a sé stesso in virtù della mia amicizia con Iris. Tu sei slegato da questi ragionamenti...»

«Non lo sono neanche io» la interruppe lui con amarezza. «Siete miei alleati, non posso dare la priorità ai miei interessi personali.»

La regina Dal Mare sorrise. «Non parlavo di questo. Io mi riferivo esclusivamente ai rapporti umani che mi legano a mio fratello e a una delle amiche più strette che abbia. Ho compreso da parecchio tempo che tra te e Iris c'è un legame molto più profondo di quanto entrambi vi sforziate di mostrare davanti a tutti. E, stando a quello che mi dici, ci sono buone probabilità che lei un giorno diventi la tua famiglia, quindi la scelta che io sono costretta a fare non deve essere necessariamente la tua.»

Tacque, lasciando l'Inverno confuso tra i suoi pensieri.

«Tu non hai scelto, è stata Iris ad andarsene» obiettò Erik.

Ariel esplose in una risata cristallina. «Oh, andiamo! Credi che non avrei potuto richiamarla qui? Ho dovuto lasciare che lei si allontanasse perché Dante, a differenza di Iris, non ha un posto al mondo che non sia questo. Ho riflettuto sulle conseguenze che le mie azioni avrebbero avuto su entrambi.»

«Quindi io dovrei far tornare Iris?» chiese lui, confuso dalle sue parole. Anzi, ad ammettere la verità, l'Inverno aveva sempre le idee poco chiare quando chiunque gli parlava di lei.

«Non proprio» gli sorrise la regina Dal Mare. «Dovresti portarla con te quando lascerai il mio regno. A prescindere se tu andrai nel Defi o altrove. Vedo chiaro davanti ai miei occhi che voi siete destinati a stare insieme, e che non sarà una lite tra lei e Dante a cambiare questo fatto.»

«Lui la odia... E non capisco come sia possibile» disse Erik. Sospirò e si perse a guardare le onde del mare davanti a sé, cercando di scacciare il ricordo della discussione tra la sua amata Iris e il principe con cui aveva un rapporto di amicizia. Non riusciva a dimenticare quelle accuse pesanti di lui ma, più di tutto, non riusciva a rimuovere la sensazione che aveva provato in quel momento. Ripensandoci a posteriori, si era visto come un'immagine dipinta in un quadro, incapace di prendere posizione tra i due o di mediare la lite o di tentare di riappacificarli. Che lui fosse presente era stato del tutto inutile.

«Quando Dante si mette in testa qualcosa, è difficile che cambi idea» gli spiegò Ariel. «Ha avuto sin da subito un'impressione sbagliata a proposito di Iris, è ancora convinto che lei abbia voluto raggirare entrambi per mire personali. In realtà non è un ragionamento sbagliato, perché nei suoi panni penso che chiunque l'avrebbe pensato, ma lui non la conosce come la conosciamo noi due.»

«Quindi pensi anche tu che lui abbia torto?»

La regina sospirò. «Non proprio. Penso che lui abbia un punto di vista diverso dal nostro.»

«No, Ariel. Dante ha detto che secondo lui Iris ha a che vedere con la morte del re e della regina, oltre che di quella dell'intera corte. Non è un punto di vista» ribatté l'Inverno.

«Erik... non ci sono prove né del coinvolgimento di Iris né del contrario» sorrise lei. «Io non sono disposta a credere che Iris sia coinvolta. Oltre a non essere qui, lei non avrebbe potuto organizzare un piano del genere, perché non sapeva che noi saremmo stati lì con lei. E avrebbe corso il rischio di perderti per sempre? Noi due saremmo dovuti essere al Roccei... e se non avessimo perso la cognizione del tempo insieme a lei, a Ehoi, saremmo andati incontro al destino di tutti gli altri.»

Lui annuì, concorde. Si alzò in piedi, che aveva lasciato scalzi come era solita fare Ariel, e si avvicinò al mare, che proseguiva in quella sua eterna litania che lo inebriava, donandogli quella sensazione a cui l'Inverno non si abbandonava mai, neanche con il vino. L'acqua gli sfiorò le caviglie e lui comprese per quale motivo anche Flora, che lui non aveva mai visto su una spiaggia, ne era tanto affascinata.

«Erik!»

La voce di Ariel che lo richiamava dalla panca lo scosse, consegnandolo prigioniero della realtà. Si voltò e la vide raggiunta dalla cameriera sopravvissuta al peggior Roccei della storia di Selenia. La ragazza teneva in mano il vassoio di argento che utilizzava per consegnare loro le lettere che giungevano al palazzo. Che ce ne fosse una per lui?

Ripercorse i suoi passi impressi sulla sabbia, e la regina che teneva tra due dita una lettera sigillata. La giovane gli rivolgeva uno sguardo torvo, che confondeva la povera cameriera.

«Lina, puoi andare» disse, atona, senza distogliere gli occhi da quelli dell'Inverno.

«È per me?» chiese lui.

«Aspettavi una lettera?» domandò invece la Dal Mare.

Erik scosse la testa.

«Curioso che tu ne abbia ricevuta una» continuò Ariel. «Soprattutto se consideriamo è da parte di Raissa Autunno.»

«Che cosa?» esclamò l'Inverno. «Io non ho mai...»

La voce gli morì in gola. Cosa voleva Raissa da lui? Tese la mano per afferrare la busta sigillata, ma la regina la trattenne.

«Erik.» Puntò il suo sguardo di quell'azzurro chiaro in quello glaciale di lui. «Perché Raissa Autunno ti scrive?»

Più che una domanda, era un ordine, un'esigenza di conoscere la concatenazione degli eventi che avevano portato a quel momento. Nessuno aveva mai parlato al principe Inverno con quel tono, forse neanche Alcina quando lo rimproverava da bambino.

«Non lo so» mormorò lui, turbato dal repentino cambio di atteggiamento di lei. Si sentiva colto in fallo per una colpa non aveva commesso, né che aveva mai creduto di commettere. «Non capisco, sono confuso quanto te.»

Ariel non sembrava convinta, ma gli lasciò afferrare la lettera. L'Inverno vide il sigillo e quelle due code di serpente intrecciate gli mozzarono il respiro, più delle parole taglienti della Dal Mare di poco prima. Scorgere, poi, il nome di Raissa Autunno sul retro fu un pugno nello stomaco. Gli tremarono le mani nel rompere la ceralacca e il cuore gli saltò in gola quando, dopo aver aperto quel foglio ripiegato, gli occhi gli caddero nella firma in basso.

Era davvero lei.

"A Erik Inverno.
Mi è giunta voce che ti sei messo sulle tracce di chi ha ucciso Guglielmo Lotnevi. Credo che i tuoi passi si siano arenati sulla battigia di un'isola che ben conosciamo. Posso darti tutte le risposte che stai cercando, a patto che ti presenti a Castelfango; e che venga da solo. Niente soldati di scorta, puoi portare con te un'arma, se credi che questo sia un tranello. Darò ordine di lasciarti proseguire senza infastidirti e senza che tu corra alcun pericolo. Ti aspetterò per una settimana al calare del sole all'ingresso nord.
Raissa Autunno."

La lettera era stata redatta con una grafia svolazzante, che si era permessa certi vezzi di abbellimento che solitamente avrebbero fatto storcere il naso all'Inverno. Quella volta, tuttavia, la sua impressione fu molto diversa: credette che lei avesse inserito tutti quei ghirigori per indurlo a credere in un tono amichevole. Eppure Erik lì non ci vedeva nulla di tale.

«Che cosa vuole?» gli domandò Ariel, con tono distaccato.

In risposta, lui le passò la lettera.

«Se dice così, immagino che ci sia ben poco da sapere» commentò la Dal Mare, restituendogli quel foglio.

«Credi che sia stata lei?»

«Certo che lo credo. Tu no?» Gli occhi di mare della regina si posarono lungo la linea dell'orizzonte, tra Litil e cielo. «Con quelle parole si accusa da sola. Forse non è una prova sufficiente per una condanna dei Lupfo-Evoco, ma...»

«Non possono condannarla. Possono essere convocati solo dalla corte del regno in pericolo» la interruppe Erik, con saccenza. «E, a quanto ne sappiamo noi, lo Cmune non può più convocarli, a meno che qualche cortigiano dei Lotnevi faccia ritorno dalla terra dei morti. Il problema è un altro...» si interruppe e si voltò per un secondo a guardare la distesa alle sue spalle, il cui suono ritmico faceva da sfondo alla loro conversazione. «Lei come sapeva che mi avrebbe trovato qui?»

«Forse quando nel continente hanno raccontato cosa è successo qui, hanno anche detto che tu eri insieme a me» spiegò Ariel, con semplicità. «Avrebbe potuto saperlo facilmente. Inoltre, se parla della morte di Guglielmo Lotnevi, è altrettanto probabile che sia coinvolta anche in quella dei miei genitori e, forse, in quella dei Delle Foglie. Sono state troppo ravvicinate, non può essere un caso. Non credo al caso, soprattutto quando si tratta di lei.»

«Per questo devo sapere. Ci sono troppe cose che non mi convincono, troppe coincidenze, troppe stranezze...»

«Tu vuoi accettare un incontro con Raissa per farti dire quello che noi già sappiamo?» riassunse la Dal Mare, incredula.

L'Inverno tentennò, intrecciando le dita tra loro, poi rileggendo la lettera, passandosi una mano tra i capelli e addirittura scavando un piccolo solco nella sabbia con il proprio piede. «Una piccola parte di me teme che Dante possa avere ragione. Se così fosse, io devo sapere se lei è coinvolta nei piani di Raissa.»

«Erik...» La voce di lei fu un soffio, che quasi si perse sovrastata dal respiro delle onde. «Dobbiamo imparare a fidarci di chi amiamo. Ma se tu hai degli scrupoli, sentiti libero di andare. Ti chiedo solo una cosa: di dirmi la verità quando tornerai qui.»

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Capitolo 74
*** 23.1 La spada nel fango ***


 

Era stato necessario attendere alcuni giorni per aspettare che Claudio si fosse ripreso del tutto, giorni che Stella e Arturo avevano impiegato per esercitarsi insieme nel duello e che Flora, che sembrava aver raggiunto una nuova consapevolezza di sé, aveva utilizzato per farsi spiegare dalla guaritrice come preparare alcuni impasti utili per le ferite. Anzi, era stata proprio lei a occuparsi del taglio che l'Estate aveva riportato a un braccio, sotto la supervisione vigile della guaritrice. Dopo aver rivolto delle occhiate di biasimo al mercenario, si era adoperata per aiutare la sua amica.

Quel giorno si erano svegliati molto prima dell'alba. Flora aveva iniziato a camminare su e giù per la sua camera, temendo che il prossimo corridoio sotterraneo li avrebbe condotti dritti nell'Autunno e che ad aspettarli avrebbero trovato proprio Raissa.

Non l'aveva mai incontrata e non era sicura di essere pronta. Anzi, lei si sentiva impreparata a qualsiasi cosa avrebbe dovuto affrontare quando le si sarebbe trovata di fronte. Se la ruxunica era in grado di padroneggiare la magia, come avrebbe potuto lei contrastarla? Lei? Lei che fino a qualche settimana prima non era neanche certa che esistesse e che non si trattasse di favole antiche?

Sentì bussare alla sua porta e, quando la aprì vide Stella.

«Sono pronta, tu?»

Flora annuì e prese la sua sacca da viaggio, prima di seguire la sua amica, che stringeva l'elsa della spada che Arturo aveva scelto per lei tra quelle che erano custodite nel tempio. La sua mano tremava, anche lei sentiva che nell'Autunno non avrebbero avuto la strada spianata verso le profezie.

Sempre che il corridoio ci porti davvero lì.

Raggiunsero Claudio al piano sotterraneo del tempio.

«Arturo è già sceso... Ma non se ne va senza di noi» aggiunse ridacchiando. Poi si accorse che le due nobili erano tese e tornò serio. «Sbrighiamoci, dai.»

Lui e Flora si incamminarono davanti a Stella, che chiudeva il gruppo. Avanzarono a passi veloci, incontrando Arturo poco più avanti, intento a guardare una parete del corridoio, uguale a quello che aveva percorso per arrivare al tempio di Vudeli.

«Ci sono anche qui?» gli chiese l'Estate.

Il mercenario annuì. «Sì, questa mi sembra ametista.» Provò a scrostare il muro, sotto cui si poteva intravedere un bagliore violaceo, ma questo sembrò opporgli resistenza.

«Non si toglie» constatò Claudio. «Eri sceso prima per vedere questo?»

«Sì. Sospetto che per toglierlo da qui abbiano usato qualche incantesimo... oppure qualche formula alchemica. Lì» e indicò un punto vicino sotto cui sembrava esserci un topazio «la pietra deve essere stata tolta e risistemata in un secondo momento.»

Flora aguzzò la vista, ma non riusciva a vedere nulla di strano. Scrollò le spalle, nervosa.

«Non sarebbe meglio andare?» chiese.

«Sì, hai ragione» disse Arturo, incamminandosi verso la nuova uscita che il sotterraneo avrebbe svelato loro.

Claudio scosse lievemente la testa, prima di affiancarla alle spalle del soldato. «Dovresti smetterla di avercela sempre con lui» mormorò all'orecchio della principessa Primavera. «Soprattutto dopo quello che ci ha detto.»

Lei non ribatté, perché non aveva nulla da obiettare. La confessione di Arturo e la natura nascosta del suo rapporto con Deianira avevano davvero colpito la nobile defica, ma lei non voleva mostrarlo a nessuno. Aveva compreso per quale motivo il suo istinto le suggeriva di fidarsi di lui, eppure preferiva non dargliela vinta tanto facilmente.

Anche se Raissa ha cercato di ucciderlo insieme a Deianira.

Arrivarono velocemente alla fine del corridoio e Flora trattenne il respiro nel vedere il mercenario aprire la porta davanti a loro. Lo seguì insieme agli altri e Stella la richiuse alle loro spalle.

Sulle loro teste scendeva una pioggia scrosciante, tanto che in pochi istanti furono completamente zuppi. Erano finiti in mezzo a un bosco in cui, tuttavia, le foglie degli alberi non riparavano chi si trovava al di sotto.

Arturo si guardò intorno e poi fece cenno agli altri di fare silenzio, prima di nascondersi dietro a un masso e invitare i tre a seguirlo lì.

«Ci sono dei soldati?» bisbigliò Stella, con pragmatismo. Fu difficile udire le sue parole, perché il suono della pioggia le sovrastava.

Lui annuì. «Non hanno fatto in tempo a vederci. Ce ne sono due davanti l'ingresso del tempio, altri due che stanno pattugliando intorno. Forse ce ne sono altri sul retro e da qui non si vedono. Claudio, che fai?»

Il defico si era sporto oltre il nascondiglio improvvisato e, con una mano a riparare gli occhi dall'acqua che cadeva incessante, scrutava davanti a sé, in direzione del luogo sacro. Rimase immobile per alcuni secondi, in cui Flora trattenne il fiato: se i soldati autunnici si fossero accorti della sua presenza, sarebbero accorsi lì.

E ucciderlo per loro non è così difficile.

Il suono fitto della pioggia attutì i passi di Claudio che, di ritorno dai suoi amici, sussurrò: «Sono a coppie, ma fanno sempre lo stesso percorso. Quindi c'è qualcun altro.»

Arturo si spostò, ringraziando la selva di arbusti che lo riparava, seguito con gli occhi dagli altri tre, che però non accennavano a muoversi.

«Sei pronta?» chiese Claudio.

Flora si fermò appena in tempo dal rispondere, perché si era accorta che la domanda non era per lei.

«Non lo so» sussurrò Stella, stringendo nervosamente l'elsa della spada.

Il mercenario uscì dalla selva e si avvicinò al tempio, seguito da lontano dai compagni di viaggio, che non si persero nulla delle sue azioni, nonostante la pioggia che continuava a cadere incessante. C'era un soldato a terra e lui non ci pensò un secondo, prima di trafiggere con un colpo al petto.

La Primavera trattenne il respiro e si portò una mano alla bocca. Aveva ucciso, e l'aveva fatto di fronte a loro.

Arturo avanzò di un altro passo e, senza che gli altri capissero come, tanto era stato veloce, un altro corpo devoto agli Autunno cadde a terra. Si guardò intorno, in cerca di qualcuno che non c'era, poi ritornò dagli altri e bisbigliò: «Ci sono altre due coppie, dovremo essere bravi. Claudio, ti consiglio di andare davanti all'entrata e di distrarre quelli che sono lì, mentre io e Stella ci occupiamo degli altri due. Stai attento a non farti ammazzare.»

«E io?» gli chiese Flora.

«Tu resta qui» disse il soldato. «Anzi, tieni a portata di mano qualcuno di quegli unguenti. Potrebbero servirci.»

Lei annuì, e iniziò subito a frugare nella sacca da viaggio. Toccò le fialette in vetro in cui la sacerdotessa di Vudeli le aveva fatto versare quei medicamenti oleosi. Claudio le diede una pacca sulla spalla, come a infonderle coraggio e fiducia, mentre Stella e Arturo lasciarono il nascondiglio, dirigendosi verso il retro del tempio.

«Bene, io vado.»

La voce dell'amico le giunse distante, come se non fosse stato davvero lui a parlare, tanto si era concentrata nel fissare gli altri due che si allontanavano. Si scosse appena, per seguire anche Claudio con lo sguardo: lui si avvicinò a quei soldati e si grattò il capo, con l'atteggiamento di chi deve iniziare un discorso ma che non sa da dove partire.

«Mi sono perso» disse. «Come faccio a tornare a una via principale?»

Flora si portò le mani al viso, incredula, stentando a credere alle proprie orecchie. Uno dei due uomini, tuttavia, sembrò crederci, tanto che iniziò a dare delle spiegazioni allo sconosciuto, a un volume di voce così basso che lei non poté udire. Lo vide agitare le braccia, noncurante della pioggia che lo colpiva impunemente.

Nella visuale della Primavera si affacciò anche una spada e udì il suo clangore nello scontro con una lama nemica. Arturo era spinto all'indietro da un altro combattente, ma poi affondò un colpo, che ferì l'altro alla spalla, in un punto lasciato scoperto dalle cotte di metallo da cui sembrava avvolto. Quello barcollò, e il mercenario poté sferrare un ultimo assalto e affondargli la punta della spada nel collo.

La scena non era passata inosservata neanche ai due soldati con cui stava parlando Claudio: quello che solo un secondo prima gli forniva le indicazioni l'aveva piantato lì per attaccare Arturo; l'altro sfoderò la sua lama e la puntò contro il giovane defico.

Prima che potesse fare quell'unico passo che gli avrebbe permesso di assalirlo e, certamente, di ucciderlo, fu trafitto alla schiena da Stella, che era arrivata senza che quello se ne accorgesse.

Lei ritrasse la spada dal suo corpo, tremando, e la lasciò cadere a terra. Claudio la raccolse e le si avvicinò, prima di abbracciarla e di sussurrarle qualcosa all'orecchio.

Infine, anche Flora uscì dal nascondiglio, dopo aver osservato in silenzio, e il suo amico le porse l'arma usata dall'Estate.

«Tranquilla, va tutto bene... Hai fatto la cosa giusta» lo sentì dire, ma Stella tremava ancora. Flora avrebbe desiderato esserle di conforto, di aiuto, ma comprese che il suo intervento non avrebbe cambiato nulla: Claudio era la persona giusta per consolare chi era stravolto come lei.

Arturo si sbarazzò facilmente dell'ultimo uomo rimasto e si ricongiunse agli altri. Lanciò un'occhiata alla Primavera, che si strinse nelle spalle, mentre la pioggia che cadeva sulle loro teste si faceva meno fitta.

«Forse è meglio andare» disse lei, rivolta ai suoi due amici. Raccolse la spada che aveva usato Stella per trafiggere il soldato, e la passò al mercenario, poiché era meglio che la tenesse lui.

Stella avanzò ancora scossa sotto il colonnato che circondava il tempio, ancora tremante per il freddo e per la consapevolezza di aver ucciso. Teneva il capo chino, e gli occhi fissi verso il basso, scossa.

Claudio rimase al suo fianco, senza essere sicuro di come comportarsi. Con la coda dell'occhio scorse Flora e Arturo bussare alla porta del tempio e rimanere fermi in una silenziosa attesa.

«Va tutto bene» le sussurrò ancora, e si forzò ad accarezzarle la schiena fradicia. L'acquazzone riprese vigore e lo scroscio avrebbe sovrastato le loro parole, se qualcuno avesse parlato.

Così immersi in quel silenzio, non si accorsero che l'ingresso era stato aperto e che una donna di mezza età li scrutava incuriosita. Lo sguardo della sacerdotessa si posò sui corpi dei soldati a terra e si portò una mano sulle labbra, comprendendo che i visitatori non erano semplicemente tali.

«Dovreste entrare» disse, attirando la loro attenzione.

«Loro» precisò Arturo. «Io devo fare in modo che nessuno... che nessuno veda cos'è successo qui.»

Lei annuì. «Chiamo un paio di sacerdoti per aiutarti, voi altri fate presto.»

Claudio posò una mano sulla spalla dell'Estate, incitandola a camminare fino all'interno del tempio del Sole. Lei lo seguì insieme a Flora, lasciando il mercenario solo all'esterno, senza sapere cosa avrebbe fatto di quell'uomo che lei aveva ucciso.

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Capitolo 75
*** 23.2 La scelta di un giusto ***


 

Nella tenuta dei Dogli Nicola si era trovato a suo agio sin da subito. Teresa e Mauro avevano accolto a braccia aperte lui e Altea, come se si fosse trattato di due figli che erano tornati a casa dopo una lunga assenza, mentre il loro Gaetano si imbarcava per un viaggio verso il Pecama.

Era metà mattinata e lui sedeva insieme a Teresa, che rammendava alcuni vestiti, sotto un porticato che affacciava verso i campi coltivati. Davanti a loro, diversi contadini si occupavano di curare la terra e le colture e il principe cmunico si sentiva tremendamente inutile, lì, illustre ospite e prigioniero sfuggito alla morte. Per non introdursi anzitempo nel regno di Luna e Danào, era costretto a fingere qualcuno che non era, a nascondersi in un luogo che qualsiasi altro nobile avrebbe considerato ostile.

«Cos'è che ti turba?» gli chiese la donna, con voce affettuosa. Recise con i denti il filo legato all'ago, poi puntò i suoi penetranti occhi scuri in quelli chiari e confusi di Nicola.

«Nulla» mentì lui. Si era abituato fin da subito all'uso del tu che vigeva nel Pogudfo e vedere di essere trattato come gli altri lo rincuorava: aveva l'impressione di essere una persona qualunque, non un principe fuggiasco. E la dolcezza di Teresa, insieme a tutte le attenzioni che lei aveva profuso per assicurarsi che lui e Altea trascorressero i giorni lì con serenità gli restituiva il piacere di essere accudito e protetto non per chi era, ma per il semplice fatto di essere.

«Ho capito subito come sei fatto: non riesci a nascondere se qualcosa non va» commentò lei.

«Ci sono un po' di cose che mi preoccupano» ammise lui, guardando i contadini al lavoro. Pensò a sua madre, a quel gesto estremo a cui era stata portata dalle circostanze. Pensò a quell'incendio che aveva divorato il luogo in cui aveva sempre vissuto fino alla sua fuga di alcuni giorni prima. Si chiese se quel sacrificio di così tante persone, nobili e non, era stato giusto al solo scopo di salvare lui.

«Se vuoi, puoi parlarne.»

Nicola si lasciò cadere all'indietro sulla sedia intessuta di vimini. «Non so se ne è davvero valsa la pena. Io sono un uomo solo. Uomo, poi... diciamo che sono soltanto uno. Mia madre ha permesso che l'intera corte morisse, a condizione che io sopravvivessi... Per me non ha senso.»

Grazie ad Altea sapeva chi c'era a palazzo, che Matilde Estate e Amelia Autunno avevano trovato la morte tra quelle fiamme che erano servite per nascondere la sua fuga.

E Saro... lui non c'è più...

Gli sembrò folle ricordare solo in quel momento il suo cameriere personale, una delle pochissime persone che davvero gli erano fedeli. Nell'incendio si era polverizzata l'esistenza dei soldati che lo sorvegliavano, i cuochi che dormivano a corte, le cameriere, gli uomini di servizio... Tanta gente che nessuno avrebbe ricordato, ma che per lui era importante.

Perché quando sentivo su di me le occhiatacce dei cortigiani, era nelle loro sale del palazzo che mi rifugiavo. Era una compagnia diversa da quella che avrei dovuto frequentare, ma con loro stavo bene.

«Sono state uccise delle persone al mio posto» disse ancora. «Forse io non meritavo di morire, ma loro non meritavano di essere sacrificate per me. Eppure io sono qui, sto con voi... cioè, con te, qui a guardare loro che lavorano. E loro sono molto più utili di quanto possa essere io.»

Tacque, e buttò fuori un profondo sospiro. Teresa gli sorrise, senza perdere di vista il suo ago e filo, a cui continuava a dedicarsi. La pogudfiana non parlò, aspettando che il principe cmunico riprendesse il suo discorso.

«Salvare solo una persona e farne morire almeno un centinaio... Ma cosa è venuto in mente a mia madre? Mi ero accorto che era cambiata dalla morte di mio padre, ma questo... questo, per Danào, va oltre qualsiasi cosa avrei potuto immaginare! Inizio a pensare che fosse completamente impazzita...»

Si abbandonò a un sospiro malinconico, e si asciugò con un fazzoletto il sudore sulla fronte. Stare al sole era piacevole, nonostante il caldo, ma non era abituato.

«Purtroppo quello che le è passato per la testa non si può più sapere» disse Teresa, posando su una sedia vicina i pantaloni rammendati e prendendone degli altri. Inserì il filo nella cruna dell'ago e guardò il suo ospite, interrompendo il suo lavoro. «Forse l'ha fatto perché ti voleva bene, forse perché per lei eri molto più importante tu di chiunque altro... Non posso saperlo. Da madre, ti posso solo dire che per i miei figli farei qualsiasi cosa, persino incendiare tutti i nostri possedimenti, se questo può aiutarli ad avere un futuro e non una condanna a morte. Ormai non ha senso che tu te lo chieda, ma quello che devi fare è non lasciarti abbattere da questa situazione.»

«Non lasciarmi abbattere?» esclamò Nicola. «Sono un re senza un regno! Se tornassi nello Cmune probabilmente incontrerei i familiari di coloro che sono morti per sua volontà, non per la mia, e cosa potrei dire? Scusate, ma io devo essere re perché è giusto così e voi dovrete accettarlo?»

La pogudfiana sorrise, riprendendo a rammendare. «Già solo che tu faccia questi ragionamenti indica il re che sarai. Non puoi giustificare, perché si tratta di omicidi volontari, esattamente come quello per cui tu saresti stato condannato. Ma tu non hai commesso nessun crimine.»

«Sarò anche innocente, ma sono comunque la causa scatenante. Io non ho ucciso mio padre e per non averlo fatto... » Nicola si portò le mani al viso, come aveva fatto ormai parecchi giorni addietro, quando ne parlava con Luciana, davanti a quel salice che forse era bruciato insieme a tutto il resto del palazzo.

Non l'ho ucciso, ma ho desiderato che morisse. E se questo fosse il prezzo da pagare per non aver obbedito a Raissa? Per essermi sottratto a quella che sembrava solo una sua proposta, mentre invece era un ordine?

«Quando tornerai a Mitreluvui, potrai fare un'azione pubblica, come dichiarare il lutto per coloro che sono morti, oppure potresti fare un monumento per ricordarli» propose la donna. «E per far capire al tuo popolo che una persona non nobile non vale meno di uno come te. Perché è questo quello che pensi, vero?»

Il principe annuì, togliendosi le mani dal volto. «Non basterà, non riporterà quelle persone indietro.»

«Tu continui a pensare al passato, come se dovessi sistemare errori che non hai commesso. Non è importante la causa che ha portato a quelle morti» provò a dire lei, vedendolo tanto corrucciato. «Devi concentrarti sul futuro, perché se il futuro dello Cmune sarà nelle tue mani, devi renderlo il migliore possibile.»

«Non ho gli strumenti per farlo» obiettò Nicola. Era strano parlare delle proprie debolezze ad alta voce e ancora di più che lo facesse con una persona che, nonostante l'accoglienza riservata a lui e Altea, era una sconosciuta.

«Su, non dire così» sorrise lei. «Di certo c'è qualcosa che conosci e che puoi usare a tuo vantaggio. Cos'è che conosci?»

Fece una smorfia amareggiata. «Prima studiavo, passavo molto tempo sui libri, per conoscere il più possibile la storia di Selenia. Il passato ha un grande fascino e ogni tassello sembra che sia al suo posto, come un grande e immenso mosaico.»

«Lo studio è sempre importante, di qualsiasi tipo si tratti» lo incoraggiò Teresa. «Ti sembra di essere inutile perché materialmente non vedi quello che potresti fare, ma la conoscenza ti aiuta a essere grande. Tu sei un re, o almeno sei destinato a esserlo, e sapere cosa è accaduto nel passato è una grande risorsa per comprendere il presente e il futuro. Non paragonarti ai lavoratori dei campi, avete due ruoli diversi, ma questo non significa che non siate entrambi indispensabili...»

«Parli così, ma qui non c'è un re, o una famiglia reale» la interruppe lui, forse con maleducazione. Per quanto quel discorso fosse affascinante, era strano sentirlo pronunciare da una donna che viveva tra gli anarchici.

«Qui non servono a niente, erano solo dei fantocci messi su dai Lupfo-Evoco per avere un parziale controllo su di noi. La rivoluzione di dieci anni fa ha spaventato tutti, perché si sono accorti che non accettiamo che degli stranieri decidano di noi e che siamo disposti a qualsiasi cosa per evitarlo. Ma i popoli non sono tutti uguali, e il tuo ha bisogno di te.»

Nicola sospirò, abbandonandosi sulla sedia di vimini. Non sapeva cosa ribattere, perché lei, effettivamente, aveva ragione. Gli cmunici erano devoti alla sua famiglia, e lui sapeva che avrebbero resistito, seppure nel lutto, perché già si mormorava, come aveva sentito dire alla locanda di Susanna, che lui non fosse davvero morto, che si era salvato miracolosamente.

Andavano avanti nella semplice speranza che lui sarebbe tornato.

«Forse qualcuno mi sta già aspettando. Forse dovrei far sapere, almeno all'esercito che sono vivo» constatò. «Dove posso trovare dell'inchiostro e della carta da lettera?»

Teresa sollevò il capo dai pantaloni che stava rammendando e gli sorrise, come non aveva smesso di fare per quasi tutto il tempo. «Nel mobile in salotto. Ma non so quanto sia prudente inviare messaggi da qui.»

Lui annuì, ma sapeva perfettamente che se avesse chiesto ad Altea di consegnarla di persona, lei non avrebbe detto di no. E con quella sicurezza si accinse a scrivere, con il cuore più leggero, mentre i raggi del sole si riflettevano nel cortile su cui affacciava la sala e si riflettevano su di lui, che appariva come un amanuense illuminato da Danào. Il dio della giustizia.

 

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Capitolo 76
*** 23.3 Introvabili per le regine ***


 

La fortuna era stata dalla sua parte: nella fuga precipitosa dal Defi, non aveva potuto portare nulla con sé, ma aveva scoperto che nella sua tasca c'era quel sacco di ametiste che permetteva alla sua nave di muoversi a quella velocità che tutti gli invidiavano. Sospettò che a metterle lì fosse stato proprio Angelo, che le aveva riportate dal nord.

Virgilio le aveva riposte in un sacco che teneva sempre vicino a sé: anche se nella piccola casa che possedeva nella periferia di Tisle nessuno gli faceva mai visita, preferiva essere prudente. Se Alcina era riuscita a intercettare la Millenaria, non poteva essere sicuro di non essere trovato nemmeno lì.

Pulì con uno strofinaccio il tavolo, perché era tanto che non passava da lì e sapeva che non c'era stato qualcuno che si era preso cura di quel luogo. Era da quando era tornato che non faceva altro che rimettere a nuovo quella casa, di cui in realtà non gli importava più di tanto, ma gli permetteva di occupare il tempo.

Riempire le sue ore era l'unica necessità che sentiva: solo così l'attesa sarebbe stata meno pesante. Ma attesa di cosa? Non ne era certo neanche lui. Sapeva soltanto che non poteva restare con le mani in mano a poltrire senza fare nulla, perché era la via per le debolezze che gli Autunno sapevano sfruttare bene.

Gli Autunno...

Il pensiero che Arturo potesse aver contattato Raissa solo per far sì che lo incastrassero gli sfiorò soltanto la mente. Aveva lavorato per loro – e lo sapeva bene – ma addirittura vendere chi in passato era stato un prezioso alleato? No, non sarebbe stato da lui.

Alcina poteva essersi messa sulle sue tracce anche soltanto perché aveva scoperto che aveva aiutato sua figlia a fuggire; e questa era la spiegazione più confortante. Dubitava che la regina Primavera avrebbe accettato un qualsiasi aiuto da parte della principessa ruxunica, anche se Virgilio doveva ammettere che le sue erano soltanto congetture e che non aveva idea di come si sarebbe comportata nessuna delle due nobili. Lui conosceva solo Arturo e, anche se aveva venduto sé stesso e la propria spada a quella famiglia che lui disprezzava, non lo credeva capace di vendere gli altri.

Qualcuno bussò alla porta, distraendolo da quelle riflessioni. Lasciò il panno sul tavolo ancora umido e percorrendo lo spazio ad ampi passi andò ad aprire.

Greta e le sue labbra vermiglie gli sorridevano mogie e lui ne comprese subito la ragione: tra le mani aveva una lettera che doveva essere arrivata da lei.

«Dovresti sistemare questa cosa e dire a chi ti scrive che non abiti da me» disse la mercenaria. «Questo sbaglio va avanti da un bel po', potresti anche togliermi il peso di consegnarti ogni volta la posta.»

Non è uno sbaglio, pensò Virgilio afferrando la busta sigillata. Non c'era nessun nome sopra e sapeva perché.

Fece entrare la donna e le offrì qualcosa da bere, anche se aveva solo del tè che aveva riportato dai suoi viaggi in giro per Selenia. Mise a bollire una pentola sopra al fuoco acceso nel caminetto e lesse la lettera di Claudia.

Che si faccia anche chiamare Nuvola, per me rimarrà sempre Claudia.

Le sue parole erano semplici, come consuetudine da parte sua. Gli raccontava come andavano le cose al tempio – come se a lui importasse! – e gli domandava scusa per le parole che gli aveva detto l'ultima volta in cui si erano incontrati.

Mi sei sembrato ferito e io non volevo ferirti perché, anche se non posso seguirti per mare, sai che tengo a te.

Virgilio sospirò. La verità era che neanche lui avrebbe voluto che si lasciassero in quel modo, ma la resistenza della sacerdotessa non gli aveva lasciato alternative. Evitava di pensarci, perché era doloroso, e lei non avrebbe mai cambiato idea sulla sua scelta di vita.

«... E oltre ad Arturo se n'è dovuto andare anche Alessandro, vai a sapere per quale motivo. Mi ha detto solo di aver ricevuto un'offerta importante per cui l'hanno pagato in anticipo, così non ho potuto impedirgli di partire. Il resto del gruppo ha messo il denaro nella cassa comune e sta ancora lì... Ma mi stai ascoltando?»

«Mmm?»

Greta scosse la testa. «No, non mi stai ascoltando» constatò, mogia.

«Scusami, ma...» agitò il foglio, che poi ripiegò e lasciò su un mobile. Lo avrebbe riletto più tardi. «Ma era importante. Vi hanno pagato per Alessandro?»

Cercò di riprendere le poche parole che aveva udito, anche se sapeva che lei si sarebbe infastidita per non essere stata seguita sin dall'inizio.

«No, hanno pagato in anticipo per una missione ed è partito» ribadì, lei, inarcando un sopracciglio.

Il marinaio versò l'acqua in una tazza e, messo anche l'infuso, gliela porse. «Siete scoperti nei ruoli da spia?» le chiese.

«Già» commentò lei, prima di soffiare sulla bevanda. «Arturo, che sa fare qualsiasi cosa, è sparito da settimane, non so neanche quanto tempo è che non lo vedo... Quando è tornato dal Ruxuna l'ultima volta, era parecchio scosso.»

Virgilio sospirò, pensieroso. Il mercenario non era una persona facilmente suggestionabile e che una banale missione per gli Autunno avesse potuto muovergli un po' di rimorso non lo convinceva. Da quando, poco più di un anno prima, aveva iniziato a lavorare per loro, il sentimento di stima che nutriva nei suoi confronti si era incrinato, nonostante quel suo viaggio verso il Pecama con la Primavera.

«Fatico a immaginarmelo» disse soltanto.

«Credimi» insisté lei. «Mi ha detto che non avrebbe più accettato nessuna richiesta da Amelia e quando gli ho chiesto perché è stato un po' titubante... ma poi mi ha spiegato cosa era successo. Lei e Raissa hanno assoldato qualcuno per ucciderlo.»

A quelle parole, lui strabuzzò gli occhi. «Gli hanno fatto fare qualche lavoro sporco e poi volevano liberarsi di lui?»

Lei annuì. «Per questo ho rifiutato quando la regina mi ha chiesto di mandarle un uomo fidato: a lei ho detto che siamo a corto di elementi, il che è vero solo in parte, Perché non mi fido a spedire laggiù Giuseppe. Anche se si sta mostrando capace, è ancora un ragazzino e non voglio che loro lo utilizzino come una marionetta per chissà quale intrigo. Non voglio che nel mio gruppo si muovano delle spie.»

«Il tuo gruppo...» ripeté Virgilio. «Non è il tuo.»

Greta non replicò subito, ma si limitò a sorseggiare un po' di tè caldo, nonostante la temperatura mite non la invitasse a farlo. Lui la scrutò meditabondo, perché quel suo atteggiamento lo incuriosiva: se da un lato lei non era a capo del gruppo di mercenari e del manipolo di soldati che ne dipendeva, aveva sempre una voce importante quando si trattava di prendere decisioni e di assumersi dei rischi. Quegli occhioni castani si fissarono nei suoi e lei parlò.

«Mio padre è stato ferito a una gamba durante la scorsa missione, non ho idea di cosa fosse andato a fare, né lui me ne ha parlato. Mi ha dato il comando temporaneo mentre lui è partito per il Rosonebro. Si guarirà lì.»

Virgilio le rivolse un cenno con la mano, come a dirle tacitamente che aveva compreso. «Non credo che Arturo tornerà da voi» mormorò. «Se hanno cercato di ucciderlo, sa che qui lo troverebbero.»

«Andiamo, è uno di noi! Dove potrebbe andare?» gli chiese lei, ironica. «A volte sparisce per parecchio tempo e anche questa volta è andato dove sapeva che ci sarebbe stato denaro per noi. Dovresti sapere che l'appartenenza a un gruppo è qualcosa di radicato, che non puoi togliere solo con la paura di morire.»

«Eppure sono qui e sono da solo» constatò lui. «Ho dovuto abbandonare i miei ragazzi, perché Alcina ci ha trovati.»

«Senza tutti quei tuoi traffici di contrabbando per i poveri di qui non ti avrebbero mai acciuffato» disse Greta.

«Può darsi» asserì lui. Preferiva non dirle la vera ragione per cui la regina di Defi si era messa sulle sue tracce. Quello che la mercenaria gli aveva confidato con tanta leggerezza lo impensieriva: allora aveva avuto ragione Arturo a difendersi quando l'aveva incontrato al porto di Defi... Ma perché le Autunno avrebbero dovuto ucciderlo? Aveva scoperto qualcosa che non avrebbe dovuto? Aveva commesso un errore mentre si trovava al loro servizio? Ne dubitava: sapeva che era un ragazzo scaltro e attento a eseguire gli ordini con quanta più discrezione possibile.

Nonostante il suo passato, si trovava con la principessa Primavera e la scortava verso sud di nascosto. Perché? L'unica persona che avrebbe potuto dargli una risposta era proprio lui, ma Virgilio sapeva che contattarlo era complicato; lo sarebbe stato in tempi normali, perché non era certo che lui si trovasse insieme al loro gruppo, lo era ancor più in quella situazione. Era un fuggiasco, non diversamente dal capitano della Millenaria.

E i fuggiaschi scaltri sono introvabili.

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Capitolo 77
*** 24.1 I misteri della Luna ***


 

Dopo gli accadimenti del giorno prima, la Sposa del Sole aveva consigliato ai rifugiati di prendersi del tempo per riposare, prima di entrare nella sala dove custodivano le profezie. L'intero gruppo aveva accettato, anche se di malavoglia perché tutti, persino Arturo, avevano il timore che lei potesse mettersi in contatto con Raissa e raccontarle dei soldati uccisi lì.

Tuttavia, la sacerdotessa aveva spiegato loro, con un gran sorriso, che lei faceva parte di quelle pochissime persone che diffidavano dell'ascesa della principessa mediana.

"Perché, voi chi vorreste sul trono?" le aveva domandato Claudio, con innocenza.

"Deianira" aveva risposto lei. "Sembra l'unica a cui davvero importi di noi."

Nessuno aveva commentato, anche se Flora aveva rivolto uno sguardo perplesso ad Arturo, che si era limitato a scrollare le spalle senza dire nulla.

Il nuovo giorno era arrivato e la Primavera era già in piedi, e scuoteva Stella, con cui aveva condiviso la camera, per svegliarla.

«La prossima volta piuttosto dormo da sola sulla terra» biascicò lei, aprendo gli occhi. «Anche a costo di prendere la pioggia.»

Da quando avevano messo piede tra le pareti del tempio, l'acquazzone aveva aumentato la sua intensità, e loro si erano salvati appena in tempo dalla tempesta che, ormai, imperversava da ore.

Flora non replicò, limitandosi a bagnare il viso con l'acqua pulita che della bacinella che un giovane sacerdote le aveva portato lì la sera prima. Non voleva dirle che durante la notte l'aveva sentita agitarsi, borbottare qualcosa e persino gemere, come se fosse sul punto di scoppiare in lacrime.

Neanche l'Estate disse nulla a proposito del giorno precedente, come se destandosi del tutto si fosse ricordata cosa era successo, cosa aveva fatto, e ne fosse ancora sconvolta. Guardò con dispiacere i suoi sandali infangati e infilò i piedi in una delle due paia di stivali che la Sposa del Sole aveva portato per loro. Si avvicinò alla sua bacinella e si bagnò il viso senza entusiasmo, prima di asciugarsi con la stoffa morbida che era stata messa a loro disposizione.

«Ci troviamo in territorio nemico» commentò, mentre vedeva Flora seduta sul letto, pensierosa e pronta per uscire dalla stanza. «Non sconosciuto, ma nemico. Se Raissa scopre che siamo proprio qui, corriamo dei guai seri. Del tipo che anche tu potresti avere il bisogno di uccidere. So che non vuoi farlo, ma devi pensare anche a questo: non siamo in una guerra dichiarata, ed è ancora peggio, perché ogni nostra azione è nel segreto. Se troviamo la profezia che parla di te e Raissa, se scopriamo che tu davvero sei destinata a sconfiggerla, non puoi lasciarti uccidere da un soldato qualsiasi. Devi difenderti. So che non approvi i modi di Arturo, ma pensaci su. Non sappiamo per quanto resteremo insieme, dovrai riflettere se imparare da sola o se accettare l'aiuto di chi è qui per difenderti anche a costo della sua vita. Sarà anche pagato, ma sta correndo dei rischi che in tanti non si assumerebbero.»

Flora la ascoltava, anche se senza entusiasmo. Non era il momento per quel genere di discorsi.

Stella aveva notato la sua indisponenza, ma non per questo aveva intenzione di cedere. «Noi non abbiamo idea di cosa accadrà domani, se ritorneremo nell'Estate o se saremo ancora qui o se addirittura le nostre strade si separeranno. Io voglio solo che tu stia bene e, soprattutto, che tu sia viva. Non potrei sopportare l'idea di perderti per sempre.»

La Primavera sospirò. «Sinceramente, sono spaventata. Non sento più quella forza che mi era data dall'avere tutto sotto controllo... mi sento in balia di qualcosa che è più grande di me.»

«Me ne sono accorta» commentò l'altra. «Però devi ritrovare quella forza. E io so che puoi, Flora, perché ce l'hai sempre avuta.»

Lei non disse nulla, ma si alzò in piedi, afferrò la sua sacca da viaggio. Si sentì il tintinnio delle fialette di vetro, che erano state inutili, visto che nessuno era rimasto ferito. Si sentiva di ringraziare la Luna, eppure non aveva potuto che rimanere a guardare mentre Stella affondava la sua spada nel petto del soldato autunnico. Era stata a guardare, inerme, mentre la sua amica tremava e mentre Claudio si prendeva cura di lei, cercando di rassicurarla che quella era la cosa giusta da fare.

Aprì la porta della stanza, senza pensarci un minuto in più, e si diresse, seguita dall'Estate, verso la camera dove dormivano gli altri due, che ne stavano uscendo proprio in quel momento.

«La Sposa mi ha fatto vedere dove si trova» disse Claudio, accogliendo le ragazze con un sorriso gentile. «Andiamo.»

Si incamminarono a passo rapido tra quei corridoi scuri, dove il cielo lugubre dell'acquazzone che imperversava all'esterno sembrava infiltrarsi nelle pareti e tingerle di colori atri. Attorno a loro il silenzio era infranto solo da quello scrosciare ritmico, che attutiva il suono dei passi sul pavimento.

«Certo che qui è da brividi» commentò il defico, fermandosi davanti a una porta chiusa. Estrasse una chiave dalla tasca e la infilò nella toppa, prima di girarla quanto fu sufficiente per aprire l'uscio davanti a sé. Spinse l'anta con una mano e fece entrare tutti gli altri.

Si trovarono in un'angusta biblioteca, con scaffali impolverati e con dei portacandele disseminati ovunque. La luce entrava fioca da dove loro erano entrati, sufficiente per far notare a Claudio una scatola di fiammiferi. Lui ne utilizzò uno per illuminare la stanza, in modo da poter richiudere la porta senza che piombassero nel buio.

Arturo gli rivolse un'occhiata di assenso, prima di iniziare a vagare per la stanza attento a non toccare nulla. Con la coda dell'occhio, vide gli altri muoversi con la sua stessa cautela.

«Flora, senti qualcosa?» chiese Claudio.

Lei scosse la testa. «Forse qui ci sono delle profezie, ma non...» Si interruppe, attirando lo sguardo degli altri su di sé, e si avvicinò a uno scaffale, dove erano riposti alla rinfusa volumi e pergamene arrotolate, chiuse da nastri scuri. Allungò una mano, ma la ritrasse ancora prima di avvicinarla abbastanza per afferrare nulla. «Non posso toccarli.»

«Ci penso io» disse il suo amico, affiancandola. Indicò un codice dalla copertina di pelle rosseggiante. «Questo?»

«No, non quello, quel foglio lì» precisò lei.

Claudio prese una delle pergamene e la sfilò dal nastro che la avvolgeva. Lesse in silenzio, poi scrutò uno a uno i suoi compagni di avventura, con gli occhi stralunati e perplesso. «Non capisco, non sembra una profezia... Non come le altre, almeno.»

Stella si avvicinò a lui scavalcando una pila di manoscritti che la intralciava, con il timore che soltanto sfiorarli avrebbe potuto ferirla.

Partita a scacchi che si apre,
fazioni opposte a contendersi
dominio e segreti.

La pace lunga dei secoli
infranta da nuovi giuramenti.

Luce cupa di guerra all'orizzonte,
esercito in attesa di un segnale.

Gioco antico dei destini
assegnati da una voce senza nome

e animi grandi a contrastarlo.

Oro intarsiato a terra,
re e regine uccisi da mani invisibili,

di chi?

«Guarda lì sotto» disse Claudio, accennando al bordo inferiore della pergamena. «Sembra che qualcuno abbia fatto un'aggiunta, ma molto tempo dopo, mi sembrano due tipi di scrittura diversi.»

«Lo sono» confermò Stella. Guardò anche Flora e Arturo, che li ascoltavano con attenzione. «La profezia è scritta con uno dei caratteri più antichi dei manoscritti: la zeta ha una stanghetta in basso e non continua sulla stessa riga, come si è iniziato a fare cinque secoli fa, e la effe non prosegue sotto, come invece fa la seconda mano. Quindi questo foglio potrebbe risalire alle primissime profezie messe per iscritto, forse il foglio si è staccato dal manoscritto originario, oppure è solo un caso isolato, e questo spiegherebbe il motivo per cui era da solo...» Si soffermò a osservare meglio i bordi laterali della pagina, notando che non sembravano tagliate. «Claudio, ti sembra carta? Oppure può essere pelle conciata?»

«Pelle?» esclamò lui. «Spero non umana!»

L'Estate sorrise, ma non commentò, mentre il defico strofinava la superficie di quel foglio.

«Forse un amanuense ha trovato questo foglio in altro da usare per rafforzare una copertina e invece ha preferito tenerlo separato e appuntarci sopra questa frase qui» spiegò agli altri due. «In genere sarebbe un'informazione utile, anche se nel nostro caso non potrà dirci molto su chi ha scritto quella frase e per quale motivo.»

«Se quel foglio non è in un manoscritto, non sappiamo nemmeno se possono toccarlo solo i Veggenti» constatò Arturo.

«A me sembra carta, ma carta strana» disse Claudio, interrompendo quei ragionamenti.

«Papiro?» suggerì la nobile.

«Può darsi, ma che ne so di come è fatto!» ridacchiò lui. «Che significa?»

«Che è abbastanza antico per essere antecedente alle profezie stilate nei manoscritti» rispose Flora, attendendo un segno di conferma dalla sua amica. Stella, come seguendo i suoi pensieri, annuì.

«Ma non è la profezia che ha trovato Raissa» continuò la Primavera. «Non parla di noi.»

«Secondo me sì, perché si sta profilando una nuova guerra contro gli Autunno» ribatté l'altra. «Si riferisce a una pace lunga che verrà interrotta. E sono secoli che su Selenia non c'è un periodo come questo. Forse non è quella che Raissa crede si riferisca a voi due, ma mi sembra importante. Quello che...»

Si interruppe e rilesse quella riga, appuntata come un pensiero veloce.

«Dovremo cercare ancora» stava dicendo Arturo, ma la sua voce le arrivava a malapena. Osservava incantata quella predizione, che forse tale non era: sembrava più una sentenza, simile a quelle dei testi antichi, che avevano la pretesa di conoscere i misteri del mondo, la verità di ogni fede e persino la spiegazione di quel dio di cui nessuno aveva sentore, a meno che non fosse stato istruito ai segreti dei culti. A meno che non scoprisse dell'esistenza dei Veggenti.

«Dobbiamo sapere se questo è un foglio che possono toccare solo i Veggenti» si lasciò sfuggire ad alta voce. Gli altri, che si stavano ancora confrontando su cosa fare, se setacciare anche le altre tracce di chi li aveva preceduti in quella sala angusta o se abbandonare quel tempio in terra nemica, si voltarono a guardarla. «Quella frase può essere un tentativo di spiegazione della profezia, o un'aggiunta successiva.»

Prima che loro potessero ribattere, allungò la mano fino a sfiorare il bordo frastagliato in cui era trascritta la profezia. Sentì un dolore improvviso propagarsi dalla punta delle dita e risalirle lungo il braccio, come se le avessero versato della cera bollente sulla pelle. Si ritrasse subito, facendo persino un passo indietro.

«Stai bene?» le chiese Claudio, premuroso. Non le si avvicinò, ma la scrutò con affetto e dispiacere, come se avesse voluto evitarle di farlo ma non avesse saputo impedirglielo in tempo.
Lei annuì, dissimulando, perché non era importante la sensazione che aveva provato, bensì quello che comportava. «Mi è già passato. Ma quello è un testo interamente profetico. Leggilo anche a loro.»

Il defico riportò gli occhi sul foglio e pronunciò ad alta voce l'ultima riga.

La Luna non accoglie ogni defunto.

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Capitolo 78
*** 24.2 Una rete di illusioni ***


*Attenzione*
Ho aggiornato con tutti gli ultimi capitoli del Trono, perché tra qualche giorno (stay tuned!) arriverà il secondo "libro" di Selenia. Se eri in pari con la lettura, ti consiglio di tornare al 19.1, per riprendere la lettura da dove l'avevi interrotta. Se invece hai aperto per caso questa pagina, benvenuto, ma torna all'inizio: qui ci sono un sacco di spoiler!



Ultimo capitolo

Erik non era mai stato nel regno dell'Autunno, ma trovare Castelfango non fu difficile, nonostante la pioggia che aveva iniziato a battere sul suo capo da quando aveva varcato il confine con il Mare. A distanza regolare erano sistemate le indicazioni per giungere alla residenza reale, che lui era riuscito a leggere, anche se il cavallo, dopo un paio di ore sotto l'acqua aveva fretta di giungere a un posto riparato e asciugarsi.

Peves non avrebbe corso così tanto.

Ma ormai c'erano quasi. Erik non avrebbe saputo dire se fosse davvero il tramonto, perché quelle nubi scure che l'avevano accolto lì – e che non sembravano intenzionate a lasciarlo – impedivano che il sole le trafiggesse con solo uno dei suoi raggi.

Il castello degli Autunno sorgeva su una collinetta, circondata da un muro in pietra. Delle bandiere zuppe, che recavano quella foglia di quercia spezzata in due indicavano gli ingressi, ma erano talmente intrise di acqua e spinte dal vento da essersi avvolte sulle loro aste, che l'Inverno intravide a malapena. Spronò il cavallo sconosciuto e si avvicinò, distinguendo molto poco di quello che aveva intorno. Non sapeva se Raissa lo stava già attendendo, e non doveva fare altro che giungere dove lei gli aveva dato appuntamento, all'ingresso settentrionale, per avere una risposta.

Eppure, una minuscola parte di lui non voleva davvero arrivare. Voleva conoscere l'identità di chi aveva ucciso Guglielmo Lotnevi? Certo che lo voleva, era partito per il Pecama per sapere se si trattava di Ariel...

Ma quella scoperta a cosa l'avrebbe portato? Era pronto anche per scoprire se Iris aveva a che fare con la morte dei Dal Mare?

Non si portò una mano al petto solo perché altrimenti il destriero lo avrebbe disarcionato e sarebbe fuggito lontano, lasciandolo immerso nella fanghiglia autunnica. Tuttavia, il cuore gli saltò alla gola, battendo furiosamente. Ormai era lì, non poteva più tirarsi indietro.

Mise a tacere così i suoi pensieri e si concentrò nel tenere le redini del cavallo, che aveva iniziato a salire lungo il pendio. In alto, illuminata a malapena da una torcia e riparata da una tettoia, una figura era in piedi, in attesa. Quando Erik giunse fin lì, scrutò i suoi occhi scuri coperti dal cappuccio, su cui la pioggia si riversava irrispettosa.

Raissa Autunno gli sorrideva, in trionfo sotto quell'acquazzone.

«Il cavallo può aspettare qui» gli disse con voce melodica, mentre lui ne scendeva. Indicò un piccolo spazio ben riparato dal vento e dalla pioggia da un muricciolo in pietra. L'Inverno lasciò lì l'animale, pronto a seguirla all'interno, ma lei era ferma a contemplare il panorama davanti a sé.

«Guarda» gli consigliò con un sorriso trionfale dipinto sulle labbra, illuminate fiocamente.

E lui ubbidì, fissando assorto quella mescolanza di cielo e terra in cui i colori fangosi di quel regno si mescolavano l'ebbrezza delle nuvole. Qualche lampo illuminava di tanto in tanto un agglomerato di case, una boscaglia, la capitale, mentre le tinte del paesaggio si facevano sempre più fosche, come se la pioggia non attendesse altro che la notte per sprigionarsi con tutta la veemenza di cui era capace.

«Dai, ora andiamo.»

La sua voce non suonava imperiosa, come Erik si aspettava, ma gentile e delicata, quasi non volesse urtare l'illustre ospite. Lui si lasciò guidare attraverso l'ingresso e poi nel groviglio labirintico dei corridoi del castello. Camminava alle sue spalle con passo sicuro, stupendosi che non ci fosse nessuno in quel groviglio di quadri con personaggi antichi e di rifiniture dalle tonalità cupe e brillanti allo stesso tempo. Raissa doveva aver avuto l'accortezza di scegliere con cura un tragitto che li avrebbe condotti indisturbati dove voleva lei. Non si guardò intorno, rapito com'era dalla frenesia di conoscere una risposta ai suoi dubbi.

Giunsero a una sala arredata di arazzi dalle tinte sanguigne, in cui i colori primeggiavano sulle forme e in cui non si capiva cosa fosse rappresentato. Se non avesse compreso di ritrovarsi in una delle stanze private di Raissa Autunno, Erik ne avrebbe sicuramente riso.

«Prego, siediti» lo invitò lei. Con un cenno della mano gli indicò un divano morbido attorno a un tavolino di cristallo, su cui erano sistemate delle bevande scure accanto a due bicchieri.

«Hai detto che sai chi ha ucciso Guglielmo» disse lui, prendendo posto, mentre lei versava da bere.

«Certo che lo so.» Il suo tono era accomodante, come se volesse metterlo a suo agio, eppure l'Inverno non si sentiva tranquillo tra quelle pareti. Raissa gli offrì uno dei due bicchieri, ma lui ricambiò con uno sguardo sospettoso. «Pensi che lo abbia avvelenato? No, la mia è solo cortesia.»

«La stessa cortesia con cui hai pugnalato il re di Cmune?» commentò Erik, sarcastico. «Cosa ti impedirebbe di uccidere anche me?»

Lei rise. «Non ho intenzione di ucciderti, altrimenti non sarei stata tanto sfrontata da chiederti un incontro. Sicuramente ne avrai parlato con i Dal Mare e se tu sparissi dopo essere venuto da me... Sappiamo cosa accadrebbe in quel caso. E per quanto riguarda il Lotnevi, mi spiace deludere la tua aspettativa, ma non sono stata io.»

«Ma sei stata tu a volere la sua morte, giusto?» domandò l'Inverno. «Avresti avuto un grandissimo vantaggio nel conquistare lo Cmune, se lui fosse morto e Nicola condannato per la sua uccisione.»

«Ho avuto dei problemi per la condanna del nostro Nicola» ammise Raissa, a malincuore.
«Lui si è salvato dall'incendio» mormorò Erik, fissando ipnotizzato il liquido nei bicchieri. «Per questo non hai attaccato lo Cmune, sapevi che loro avrebbero resistito nell'attesa del suo ritorno.»

l'Autunno scosse la testa. «Non si tratta di questo. Ho scorto la possibilità di stringere un'alleanza preziosa nel Vorrìtrico. E quell'alleanza mi ha portata qui.»

«Non vorrai di certo raccontarmi delle tue alleanze?» chiese Erik, con rinnovata ironia.

Raissa sorrise e sorseggiò dal suo bicchiere, che continuò a tenere in mano. Scrutava il principe con un misto di curiosità e impazienza: la divertiva ascoltare le sue errate conclusioni, eppure sapeva che lei non avrebbe potuto rivelargli ogni cosa tanto rapidamente.

Le verità necessitano di tempo per essere credute.

«Perché non dovrei? So che tu fremi per conoscere il motivo per cui sei venuto qui e so che non si tratta solamente del povero Guglielmo Lotnevi, che è stato troppo cieco per rendersi conto di quale trappola lo stava incastrando. Non avrebbe dovuto accettare di vedere qualcuno di nascosto.»

«E tu come fai a sapere di chi si tratta, se non sei stata tu?»

Lei si limitò a sorridere, senza rispondere. «Credo che tu sia abbastanza intelligente da arrivarci: io non agisco mai da sola.»

Erik sollevò lo sguardo su di lei, fissandone gli occhi neri. Se Ruggero e Amelia non osavano esporsi, lui non conosceva altri della loro corte che non fossero i reali. E se Deianira era, a quanto si sapeva fuori dal Ruxuna, tanto malata... «Melissa?»

«Era l'unica che potesse inoltrarsi non vista nella reggia di Mitreluvui» disse l'Autunno, prima di far tintinnare teatralmente il suo bicchiere contro quello ancora colmo che aveva riempito per il suo ospite. «Sa rendersi invisibile agli altri. Non scompare, intendiamoci: ma non viene notata.»

«Com'è possibile?» L'espressione incredula dell'Inverno la divertiva e lei si concesse un altro sorso di vino prima di parlargli ancora.

«Mi deludi, pensavo che tu avresti compreso che quelle sul nostro conto non sono solo dicerie.»
Lui si portò due dita alle tempie. Puntò lo sguardo sul calice pieno ed esitò al pensiero che del liquore l'avrebbe aiutato ad accogliere la verità. Non lasciare che ti travolga, sii parte di lei.

Sollevò la testa, e Raissa gli sorrideva affabile. Si sentiva scosso, non comprendeva come potesse aver sentito la sua voce senza che lei avesse aperto bocca.

«Non crederai che la magia sia una frottola per bambini, vero?» domandò l'Autunno. «Gli incantesimi di illusione sono così semplici per Melissa che non si è dovuta impegnare molto affinché tu vedessi esattamente ciò che lei voleva. Che io volevo.»

Lui non disse nulla, rimanendo immobile a fissare il vino che gli parve contorcersi nel vetro, come se bramasse di scorrergli nella gola. Cos'altro aveva creduto di vedere e invece non era reale?

«La città non era vuota, ma tu l'hai percepita tale attorno a te» proseguì Raissa. «Se ti può consolare, nessuno si è accorto della tua presenza: tu eri invisibile a loro e loro a te. L'unica persona che davvero hai visto è stata lei, indossava una parrucca che l'avrebbe resa simile ad Ariel Dal Mare.»

«E il pugnale... L'ha preso lei!» esclamò. Su questo aveva avuto ragione lui: la regina marese aveva commesso un errore nel fidarsi dell'autunnica.

«Ma certo. Non dev'essere stato difficile per Melissa incantarlo perché sparisse e poi prenderlo mentre lei non guardava» assentì Raissa. «Erik, non farmi sembrare una donnaccia da taverna, bevi anche tu.»

Tuttavia, l'Inverno non mosse un muscolo, tutto il corpo in tensione per quella domanda che gli pizzicava la punta della lingua. «Perché?»

«Perché tu eri diretto lì e avresti dovuto notare il pugnale prima di chiunque altro. La corte di Cmune non avrebbe mai potuto vederlo.» Tacque e si godette l'espressione sbalordita dell'Inverno, impietrito ancora una volta, quasi stentasse a crederle.

«Non è possibile» asserì lui. «Chiunque avrebbe potuto vederlo, era sotto un tavolo!»

Lei sorrise, trattenendo una risata. «Melissa ha seguito ogni tuo passo nello Cmune: ha incantato la corte in modo che non si comportasse in modo lucido – non ti sono sembrati fuori di senno? – e ha nascosto il pugnale ai loro occhi. Solo tu avresti dovuto vederlo. Nulla di quello che è accaduto è stato casuale, tutto ha seguito il mio piano.»

«Devi avere dei grossi piani per lo Cmune, se ti sei presa il disturbo di uccidere il re e di fare in modo che il principe venisse condannato» commentò, con amara ironia. Gli sembrava folle, non riusciva a distinguere quale fosse il disegno più grande dietro alle mosse degli Autunno.

«Oh, la condanna di Nicola» sorrise lei. «Sì, hai ragione, è stata opera mia. O meglio, di mia madre... All'inizio non aveva visto di buon occhio che usassimo la magia per incastrarlo, e la lettera scritta di suo pugno è un falso che solo in pochi avrebbero potuto smascherare. Non per il contenuto, sia chiaro, ma perché è intrisa di una potente magia di illusione. Come ti dicevo, Melissa è molto abile.»

«Puoi spiegarmi meglio?» chiese Erik, approfittando della parlantina della principessa. Ogni sua parola era una confessione e aveva compreso solo in quel momento che spingerla a scoprire le sue carte e a mostrare di cosa lei e Melissa erano capaci poteva essere utile per contrastarla. Al suo ritorno nel Defi, o anche da Ariel, avrebbe avuto delle informazioni importanti da condividere.

«Vedo che iniziamo a intenderci» disse lei. «Chiunque avesse letto o ascoltato il contenuto di quella lettera non avrebbe mai potuto comprendere che si tratta di una falsificazione. Con due eccezioni: si poteva sapere in anticipo, e non intendo congetture astratte ma proprio conoscenza certa, che era un inganno volto a incastrare Nicola Lotnevi.»

«Oppure?»

«Oppure bisognava avere precedenti esperienze di magia» rispose Raissa. «Che io sappia, nessuno dei presenti ai Lupfo-Evoco rientrava in queste due categorie.»

«Potresti non conoscere così a fondo tutti» notò Erik.

«Probabile» annuì lei. «Per questo non so spiegarmi come mai il Dal Mare abbia scatenato una rissa proprio perché era l'unico a dire la verità. Ma per comprenderlo ci sarà tempo.»

Posò il calice vuoto sul tavolino, con il tintinnio attutito dalla tovaglia di velluto, e si versò altro vino.

«Quindi ci sono delle falle nel tuo piano» commentò Erik.

«Il mio piano non ha falle, anzi,è andato tutto esattamente come doveva andare» ribatté Raissa con un sorriso complice.

«Lo Cmune non è finito sotto il tuo dominio, come progettavi...»

«Io non mi riferivo allo Cmune, ma a noi due qui.» Alzò lo sguardo su di lui, divertita; prcepiva il disorientamento del principe, e l'incredulità dipinta sul suo volto ne era la conferma. «Dovresti fare più attenzione a chi hai intorno. Non hai notato niente ai festeggiamenti per il Figlio del Mare?»

Solo a quelle parole, Erik accettò l'invito a bere, perché sentì di averne bisogno. Capì che in arrivo c'erano rivelazioni ancora più importanti di quelle sugli eventi del continente: ora si trattava di lui. Il liquore dolciastro gli attraversò la gola bruciando e lo riscosse, nonostante lui si sentisse come risvegliato da un incubo. Se l'Autunno aveva accennato alla festa in maschera per Vudeli, sicuramente si riferiva a Iris e dunque l'accusa di Dante nei suoi confronti riprendeva vigore ai suoi occhi. Tuttavia, non voleva crederci, non poteva credere che la donna che amava fosse stata in grado di ingannarlo. Ingannarlo? E per quale motivo?

«Non sto parlando di lei» ridacchiò Raissa. «Credo che poco prima di rientrare in camera verso la fine del ricevimento dei Dal Mare, tu abbia bevuto un bicchiere di vino, che ti è stato servito da un giovane. Sbaglio?»

Lui annuì. Ricordava di aver lasciato Iris da sola per uno o due minuti, mentre lui controllava se qualcuno si fosse incuriosito nel vederli allontanarsi insieme. E aveva davvero preso quel bicchiere di vino bianco dalle mani di un ragazzo dagli occhi scuri e dallo sguardo che, in quel momento gli apparve chiaro, lo scrutava con interesse, come se avesse capito chi aveva appena servito.

«Che cosa mi avete fatto?» chiese, con la voce che gli uscì strozzata.

Raissa sorrise, accavallando le gambe sotto la gonna bruna. «Nulla che non avresti fatto da solo. Abbiamo solo reso più veloce i tuoi sentimenti e quelli della tua amante. Sapevo che sei uno che con le donne ha... Un certo tipo di rapporto» gli disse, ammiccando. «E non c'è nulla di male: se l'avessi incontrata per caso a Ehoi, ti sarebbe piaciuta lo stesso, credimi. Ma avresti perso così velocemente la testa per lei?»

«Mi hai manipolato?» gridò lui, stringendo i pugni.

«Certo che ti ho manipolato, avevo bisogno che tu rimanessi qui fino al mio ritorno» spiegò la nobile. «Ma non pensare che anche Iris abbia fatto lo stesso con te, proprio no... Anzi, ho l'impressione che lei non volesse fare parte del piano e che abbia accettato solo perché credeva che si sarebbe trattato di un'avventura fugace. Eppure anche lei vi è rimasta intrappolata.»

«Quello che... Quello che provo è reale?» domandò Erik, a fatica. Serrò ancora di più le dita contro il palmo, sconvolto dall'irrealtà di quella situazione. Stava davvero parlando dei suoi sentimenti con chi avrebbe potuto utilizzarli contro di lui?

Lei chinò il capo. «Certo che è reale. Il filtro aveva un effetto potente solo nelle prime ore, se voi ancora vi amate, non è dovuto a quello che avete, vostro malgrado, bevuto.»

«Avete

«Oh, sì, lei era reticente, ti ripeto. Ma io avevo bisogno che le cose andassero proprio come avevo pianificato, altrimenti tu avresti partecipato a quello sfortunatissimo Roccei. E non era affatto quello che desideravo.»

«Quindi non mi vuoi morto?» domandò ancora Erik. Sentì le sue guance infiammarsi, forse quella non era la domanda giusta da porre, ma in quel momento fu l'unica in grado di formulare.
«Direi di no. Vedi, io posseggo una preziosissima informazione che potrebbe tornarti utile, in futuro... Tuttavia, proprio perché, sempre in un lontano futuro, ti sarà molto preziosa per ottenere quello che desideri, non posso fornirtela tanto a cuor leggero.»

«Vuoi qualcosa in cambio» comprese l'Inverno.

Raissa poggiò i gomiti sulle ginocchia e si chinò in avanti, con le dita intrecciate su cui posò il mento. «Certamente. Posso aggiungere che Alcina e Tancredi non solo accetteranno Iris nella loro corte, ma saranno felici al pensiero che voi due vi sposerete. Pensaci su, da quello che deciderai qui dipenderà il tuo destino.»

Erik rifletté per alcuni minuti, mentre Raissa ingannava l'attesa sfogliando un volume che aveva lasciato sulla scrivania di mogano. Si trattava di un testo epico che raccontava della tragica storia d'amore tra la dea Luna e il dio Sole, costretti a separarsi per non incappare nell'ira e nell'invidia delle altre divinità. L'unico a conoscere la verità era il dio della giustizia, Danào, che si premurò di nascondere la gravidanza di lei, che al momento del parto generò farfalle variopinte, e non un nume fanciullo che avrebbe ingelosito Vudeli.

L'Autunno amava quella leggenda, perché le dimostrava che tutto era possibile e che ogni amore, per quanto sfortunato potesse essere, aveva in sé i semi di un prodigio meraviglioso, nel bene o nel male. E lei sapeva che una grande capacità di amare permetteva di sopportare anche il sacrificio di una morte, o di un parto vuoto.

La mia bambina avrà un impero su cui governare.

Guardò la ricca miniatura che ritraeva le farfalle, quelle Alandre su cui i racconti popolari si erano sbizzarriti, arrivando a fare in modo che ognuno avesse una sua storia sulla loro origine. Un garbato colpo di tosse dell'Inverno la richiamò al presente, e lei richiuse il libro con un tonfo secco.

«Vuoi la mia alleanza, vero?» chiese lui. «Vuoi che spii le persone che mi sono vicine?»

Raissa si illuminò. «Devi essere davvero sicuro di volerla, perché da questo accordo non ci si tira indietro. Sono sincera con te, ti sto offrendo un futuro e l'opportunità di averne uno roseo con Iris. Ma in cambio c'è il tradimento alla tua famiglia, ai tuoi vecchi alleati, forse anche alle tue convinzioni: se accetterai, dovrai lasciarti alle spalle tutto questo; o quasi, perché sarai indiscutibilmente tu il sovrano delle tue terre e lì io non potrei mai avere voce in capitolo. Accetti?»

 

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