La spada e le due fiamme

di Makil_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***



Capitolo 1
*** I ***


+ Dopo un'attesa durata un tempo incalcolabile, a distanza di un anno esatto dalla pubblicazione del primo capitolo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", lettori vecchi e nuovi, Makil_ vi dà un caloroso bentornati a Pantagos. +
 

Prima di lasciarvi alla lettura del primo capitolo, un paio di annotazioni che vi torneranno più o meno utili da qui in poi:
1. Si consiglia caldamente la lettura de "Il cavaliere e la fanciulla bionda" a tutti coloro che non hanno mai letto di ser Bartimore di Fondocupo, in quanto la seguente storia si sviluppa come seguito di quella. 
2. Ai fini di una comprensione più estesa degli eventi narrati, si consiglia la lettura del breve spin-off "Spada rossa, cuore bianco", che trovate nella mia bacheca. 
3. A partire dal prossimo capitolo, sarà affisso il solito glossario della terminologia nuova e vecchia di Pantagos: al momento, per chi non ha - come me - una memoria ferrea, mi permetto di consigliare un rilettura del vecchio. 


Per il momento credo di aver detto tutto: non mi resta che ringraziare calorosamente ognuno di voi per la vostra speciale pazienza e augurarvi una buona lettura e permanenza!
 


La spada e le due fiamme
Una storia di Pantagos



Sistemarono i pezzi di legno a guisa di lettiga con l’intento di rendere più comodo l’ultimo sonno di ser Konrad. La vita aveva deciso di abbandonarlo al suo pessimismo senza neppure badare più alla cura dell’aspetto fisico del vecchio cavaliere. Ser Konrad si era ingobbito davvero tanto nell’ultima settimana di viaggio, il suo corpo aveva iniziato ad incartapecorirsi e, cosa più dannosa di tutte, si era macchiato inesorabilmente di quel rosso che era sinonimo di morte. Il suo volto bianco era adesso ricoperto di bubboni e macchie color sangue, chiazze dalla forma di una stella a cinque punte, non più buio come la notte, ma latteo e pallido come le nuvole del giorno.
Non appena ser Mark ebbe sistemato gli ultimi tralci sulla piccola catasta di legno, ser Dayn e Bartimore trainarono il carretto su cui giaceva ser Konrad fino alla postazione sotto all’ulivo. Da lì si poteva scorgere l’immensa estensione dei prati secchi appena accarezzati dalla brezza, che si diradavano per miglia e miglia all’orizzonte, bruciati dal sole, cotti dall’arsura e devastati penosamente dalla guerra.
«Mettetelo giù» ordinò ser Mark. Il cavaliere aveva perso la sua vitalità nel viaggio. Ser Mark era un uomo dalle spalle larghe, il petto largo e il collo taurino. Il suo volto, un tempo largo e cosparso di pieghe come una maschera levigata nel legno, era ora scarno, asciutto e deperito. Sulla corazza che stringeva il suo sottocollo vi erano tre piccoli teschi ingialliti, trafitti al centro da una asticella: un ricordo della sua non proprio nobile donna. «Sì, qui, proprio così.»
Bartimore e ser Dayn afferrarono per la schiena il corpo moribondo di ser Konrad, assicurandosi di non toccare la sua pelle, e lo posarono supino sul rogo. Patres Steffon aveva avvolto il malato con cura all’interno del suo mantello grigio, bagnato fradicio d’acqua fluviale, in modo da attenuare i bruciori causati dal Fiore Rosso, ma invano. Bart, che più di ogni altro conosceva quali fossero gli effetti disastrosi di quel morbo, sapeva per certo che il solo modo per attenuare i dolori della malattia fosse la morte.  
E, forse, egli non era l’unico a saperlo. Lo stesso ser Konrad, dopotutto, aveva chiesto che lo uccidessero, e che seguissero, nel farlo, quello che era sempre stato di tradizione nella sua famiglia di uomini d’arme. Gli aveva raccontato che tutti i suoi avi, a partire dal padre del nonno fino al proprio, avevano ricevuto una sepoltura preceduta da un rogo. Per questo, ser Konrad aveva chiesto che a lui fosse riservata la stessa fine: non voleva essere inumato come una bestia.
«Stessa morte, stesso luogo negli inferi» aveva detto. «Lasciate che io bruci… non mi interessa nient’altro. Voglio rivedere il mio vecchio». Nonostante fossero stati tutti un po’ titubanti, alla fine avevano ceduto alle sue suppliche e avevano deciso di rispettare le volontà dell’ultimo cavaliere di una scorta proveniente dal lontano regno di Ardua Scogliera.
«Se è così che vuole morire» aveva risposto patres Steffon senza neppure un velo di compassione nelle labbra. «Così morirà». D’altronde, ser Konrad si era ridotto a quello stato proprio per non aver ascoltato il consiglio dell’esperto. Era accaduto nel passaggio attraverso le fattorie a nord di Verdepiano, quando i cinque fuggitivi avevano scorto una piccola casupola abbandonata sulla sinistra della stradina. Ser Mark aveva sperato di trovarvi un contadino armato di buon cuore, dal quale avrebbero potuto ricevere alloggio e, perché no, qualcosa da mettere sotto ai denti.
Steffon però non aveva accettato l’idea di mostrarsi a qualcuno, neppure al più buono degli uomini; lui stesso aveva deciso, infatti, di percorrere strade che non fossero quelle maestre, proprio per non incappare in ribelli assetati di sangue, ora che la Guerra Grigia aveva iniziato a gravare nuovamente su di loro. Malgrado ciò, comunque, quel casolare risultò davvero essere abbandonato dai vivi, per quanto invece fosse ancora dimora dei morti. Infatti, poco lontano dalla base di un tozzo mulino adiacente alla fattoria, giacevano i cadaveri di due omaccioni robusti e rubicondi, ancora segnati da ciò che li aveva uccisi: il Fiore Rosso. I due erano armati fino ai denti e, cosa più importante, stringevano tre ceste piene di pane nelle mani. Tutto quello, purtroppo, aveva richiamato l’attenzione di ser Konrad che, venendo meno al rimprovero di patres Steffon e ai richiami dei suoi compagni di sventura, aveva deciso di provvedere da solo a sé stesso, correndo via dal carretto che li trasportava e affrettandosi a rubare ogni cosa a quei due cadaveri. E così, le Grazie lo avevano punito, cedendo a lui quel che aveva ucciso quei due uomini. «Equità» l’aveva definita ser Mark vedendolo. «Mi pare che le Grazie siano state piuttosto discrete». Ma a risuonare più forti nelle orecchie di Bartimore erano state altre parole, quel maledetto giorno: «Getta un cane in un combattimento e quel cane diverrà un leone». Lo diceva spesso Dalton Kordrum, l’altero signore di Sette Scuri. «Getta un devoto in una guerra e quello diverrà il peggiore degli uomini.»
Già dopo due giorni dall’accaduto, ser Konrad aveva iniziato a perdere il colorito sano della sua pelle, si era esibito in lunghi e rauchi colpi di tosse secca e aveva avuto numerosi problemi nel prendere sonno la notte. La situazione era rimasta stabile per un po’, e il cavaliere non aveva dovuto sopportare nulla di più grave di un paio di starnuti e di alcune scatarrate. Per la prova inconfutabile del contagio, però, era stato costretto ad attendere il quarto giorno dal furto dei beni dei contadini, quando la prima macchia color vino era apparsa sul suo collo come una florida rosa rossa assetata della sua essenza vitale e pronta ad abbeverarsi immantinente del suo sangue.
Patres Steffon si avvicinò a loro con le braccia conserte. Il patres appariva molto più vecchio di com’era solitamente: una folta barba gli era cresciuta sul mento e sulle guance, i capelli si erano sporcati di fango e acqua e il suo volto si erano fatto asciutto e rugoso. Il lungo ed estenuante viaggio aveva ridotto ognuno di loro allo stremo, mettendoli a confronto con la sete, la fame e la morte. Lo stesso Bartimore si era fatto molto più magro dalla repentina e fortunata partenza da Roshby, anch’egli non poco invecchiato dalla cattiveria della sorte che gli era toccata. Erano fuggiti sullo stesso carretto che avrebbe dovuto custodire le armi da utilizzare contro i ribelli nel torneo di Roshby, trainato da Lenticchia, il poco fiero destriero di Bart, e Nuvola, il cavallo di ser Dayn, uno stallone tutt’altro che nerboruto.
«Sei ancora sicuro di quello che stai per fare?» chiese patres Steffon con l’intenzione, seppur velata, di far cambiare idea a ser Konrad.
«Mai stato tanto sicuro, patres.» rispose il cavaliere, la fronte aggrottata e le mani già chiuse sul petto.
A quel punto, allora, patres Steffon si girò verso ser Mark e fece cenno con la testa. Il vecchio cavaliere smagrito e stempiato si chinò per terra sulle ginocchia e afferrò due ceppi dal rogo per iniziare a sfregarli l’uno sull’altro.
Il sole era alto nel cielo di quella torbida mattinata e la sponda settentrionale del Ravinh, il fiume che percorreva tutta la zona centrale di Pantagos, era irradiata dalla sua luce. A nord, si potevano già scorgere gli enormi torrioni di granito di Brektyde, la cittadina più florida di tutte le Terre Brulle, un luogo che non avrebbero mai raggiunto. Non potevano rischiare di saltare allo scoperto, non prima che la situazione si fosse ristabilita. Potevano essere additati come razziatori, impostori, trasgressori delle leggi, mentre i veri nemici si dibattevano ancora a Roshby, i cadaveri dei loro amici nelle mani sporche dei traditori.
Patres Steffon si avvicinò al carretto, oltrepassò i due cavalli che tiravano le sue corde, e afferrò la lunga alabarda di ser Konrad. Quindi si avvicinò alla catasta di legni e fece per posare l’arma al fianco del suo possessore.
«No» mormorò lentamente ser Konrad, gli occhi già chiusi e in attesa della morte. «Tenetevela.»
«È usanza che tu muoia tra le fiamme, dici» iniziò l’esperto. «E, allo stesso modo, è usanza che ogni cavaliere porti con sé la propria arma nella tomba quando sta per lasciare il mondo dei vivi.»
«E per farmene cosa, patres?» domandò ser Konrad con disprezzo. «Posso forse portarla con me e scagliarla sul cranio di chi ha fatto tutto questo? Posso forse utilizzarla per staccarmi di dosso queste macchie? Posso forse utilizzarla per arrivare più velocemente negli inferi?»
Patres Steffon sospirò. «Tu hai fatto tutto questo, Konrad: vedi di non farcelo pesare. Ti avevo detto di stare lontano da quei corpi, sciocco. Ecco la tua punizione, allora… e fa’ che ti piaccia, in un modo o nell’altro». L’esperto mandò l’alabarda a rotolare nel prato.
«Gettatela pure nel fiume e datela ai pesci» comandò ser Konrad. «Non voglio più avere a che fare con questo mondo. Fondetela se vi compiace, ma non lasciatela a me… o vi perseguiterò finché non avrò avuto la vostra testa. E allora sì che saprò cosa farmene di quella stramaledettissima arma.»
“Non parlerebbe così se davvero fosse in sé.” pensò con rammarico Bartimore. “Lui non avrebbe mai parlato così. Il dolore lo sta uccidendo prima del fuoco.”
Ser Mark riuscì a sprigionare una scintilla di fuoco con i pezzi di legno che cingeva tra le mani. Scagliò l’arbusto spento ai piedi del carretto e si avvicinò alla catasta di legno con quello acceso nella mano.
«Ser Konrad» mormorò patres Steffon. «Per tutti gli dei che ci circondano, per tutti quelli che ci circonderanno, noi pregheremo affinché tu possa avere vita dopo la morte. Non una condanna, non una pena, non una sanzione: che i cieli lo accolgano con amore e con dolcezza. Per la paura che…»
«Falla breve, patres, non posso più resistere.» lo fermò ser Konrad. «Accendi questo rogo e facciamola finita. Paura… paura… non ho mai avuto paura del fuoco né della morte. Ma la vita, signori, quella mi ha sempre terrorizzato. Bruciatemi, ho detto. Bruciatemi!»
«Prego, ser Mark». Quelle ultime parole di Steffon risuonarono delicate nella piana, quasi come se non si riferissero all’uccisione di un uomo. Ser Mark si avvicinò di pochi passi al rogo, poi gettò il tizzone ardente in un piccolo spazio tra i legni. Il cumulo di arboscelli prese istantaneamente a fumare e, con una vivacità via via sempre maggiore, ad ardere.
Ser Konrad chiuse i pugni in una morsa strettissima, serrò i denti sulle labbra e chiuse con forza gli occhi, in attesa che le fiamme avessero la meglio sul suo ormai esile corpo.
Patres Steffon si lasciò cadere di peso sulle ginocchia, seguito dal resto dei suoi compagni. Ognuno di loro prese a mormorare la propria preghiera. Bart si sentì un essere vuoto quando capì di non riuscire a provare neppure un minimo di compassione per la morte di quell’uomo. Un tempo, nel vedere qualcuno morire, ser Bart si sarebbe dispiaciuto per lui, pur davanti ad uno sconosciuto. Ma ora notava che ci fosse come un qualcosa di fin troppo sbagliato in tutto ciò che gli stava accadendo. Un uomo non poteva chiedere di essere ucciso durante quegli anni, perché farlo voleva dire non provare pietà per tutti coloro che morivano ogni giorno e che, attaccati com’erano alla vita, lottavano fino all’ultimo respiro pur di restare con la propria moglie, con i propri figli, con i propri cari. Ser Bart non poté che pensare a Dalton Kordrum, il suo signore, l’uomo più onorevole che egli avesse mai conosciuto. Avevo visto il suo signore decomporsi allo stesso modo di ser Konrad, eppure non ricordava di averlo mai sentito supplicare la morte. Egli aveva lottato in vita, e aveva continuato a farlo da moribondo; invano, certo, ma con determinazione e amore per la propria famiglia.
Ser Bartimore, ser Dayn e ser Mark ripeterono all’unisono le strofe di una preghiera rivolta alle Cinque Grazie.
«Dolci signore dei cieli, cinque benedizioni e cinque favori a quest’uomo che, peccando, ha meritato la vostra grazia. Dolci signore dei cieli, lasciate che Konrad abbia giorni migliori, che sappia fermare il fuoco della notte, le frecce dell’oscurità, le spade delle tenebre, il pugnale delle ombre. Dolci signore, insegnate lui una via più delicata e mostrate la luce alla luce.»
Le urla strazianti di ser Konrad invasero la piana fino al punto da scacciare via tutti gli uccelli annidati sui rami dell’ulivo. Fu quello l’ultimo messaggio del cavaliere che aveva servito il possente Ortys Wysler: il vocio stemperato della morte.
Le fiamme vorticavano con voracità attorno al corpo di Konrad, le cui labbra erano ormai totalmente grondanti di sangue. L’uomo iniziò scalciare con violenza, batté più volte i pugni sulla catasta, finché i vortici rossi e gialli non lo assalirono fino a tramutare ogni suo urlo in fuoco. Come delle calde coperte di seta, le fiamme coprirono il corpo distrutto del cavaliere, e vi ballarono sopra a lungo al pari di danzatrici circensi vestiti di delicate stoffe gialle e rosse.
Infine, solo dopo che le uniche voci nell’aria rimaste furono quelle delle fiamme, il sangue, le chiazze e tutto il resto del corpo di ser Konrad si mischiarono indissolubilmente in un’unica gradazione di colore: il rosso. 


♣ Angolo d'autore ♣
Bentornati, dunque, anche nei nostri siparietti "privati". 
Spero che abbiate gradito questo primo capitolo, che si apre - ahimè - come una metafora più o meno consueta quando si parla di guerra: la morte per la malattia. 
I più attenti, avranno certamente notato il parallelismo con il primo capitolo del Cavaliere, che ha come incipit la morte dela giumenta di ser Bartimore: qui, però, c'è di più. Bartimore riconoscere i sintomi di un morbo che ha portato via anche il suo signore padre, Dalton Kordrum, e noi ne conosciamo per la prima volta gli effetti. Che ve ne pare?
Ecco dunque il gruppo di fuggitivi di cui abbiamo discusso parecchio tempo fa: ser Dayn, ser Mark, ser Bart e patres Steffon: cosa mi dite di loro? Vi interessa sapere qualcosa in più su tutte queste già note personalità?
E, per concludere, cosa vi aspettate da questo secondo libro? Perché mai proprio "La spada e le due fiamme"?
Così concludo, carissimi lettori e recensori: grazie per essere ancora qui e grazie in anticipo per i vostri commenti. Al prossimo aggiornamento [lunedì 5 Febbraio]. 
Makil_

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Capitolo 2
*** II ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.

 


 



Il cielo era plumbeo quel giorno, privo della lucentezza dei raggi del sole.
Prima o poi, pensava Bart, sarebbe venuta giù quanta più pioggia possibile. “Speriamo più poi che prima”. La ragione per cui stavano marciando lungo la via principale, una strada contorta, irta, che si snodava ad ovest del Ravinh, era quella di trovare la locanda descritta da Dentigialli. Avevano incontrato l’anziano mercenario scorbutico lungo la strada fuori da Roshby, mentre si stava dedicando ad una delle sue tante razzie quotidiane con anima e corpo. Dentigialli conosceva bene patres Steffon: per uno strano motivo, i due dovevano aver avuto degli affari in comune che li avevano resi conoscenti vincolati da un patto alquanto desueto. Era stato allora che Steffon aveva deciso di condurre tutti i suoi compagni a Nord, nelle Terre Brulle, nella sua casa: l’Accademia. Aveva promesso loro di portarli in salvo dietro alle mura di quella storica rocccaforte, dovre avrebbero trovato un caldo alloggio ad attenderli.
«Non mi piace quell’uomo» aveva mormorato ser Mark, lo sguardo trafitto dal nervosismo. «Perché chiedere a lui?»
«Devo capire se è il caso di spingersi tanto lontano con la guerra che corre alle calcagna». Steffon stava reggendo le briglie del carretto, puntando lo sguardo verso Nord. «Ci serve quel mercenario, e a lui serve del danaro.»
Si erano lasciati alle spalle la spoglia cittadina di Barbassonne e ora, almeno secondo le remote indicazioni di Dentigialli, il loro percorso avrebbe dovuto condurli sempre a Nord, poco prima delle Marche Brune orientali, dove avrebbero scorto la taverna abbandonata in cui si erano dati appuntamento. Patres Steffon gli aveva affidato un importantissimo incarico: era ora che Dentigialli portasse lui gli esiti della sua missione.
Ad est del Ravinh, sulla sponda lontana dalla riva orientale del fiume, la Piana dell’Estate disegnava onde di terra sullo strato più superficiale delle colline, spruzzate qua e là di erba fresca e rigogliosa, battuta dal sole e dal vento. Solo le Grazie sapevano cosa Bart avrebbe dato per distendersi anche solo un momento su quell’erba, per assaporare un pizzico della magnificenza di quel posto sperduto nel Nord, abbracciato dal sole e coccolato dalla brezza che scorreva nella valle.
Qualche giorno dopo la fuga da Roshby, la compagnia formatasi era stata costretta a fermarsi: Steffon aveva intuito il problema prima di ogni altro. Ser Mark purtroppo aveva riportato numerose ferite dallo scontro, ma una in particolare gli aveva dato molto filo da torcere. Il povero cavaliere si era guadagnato un taglio lungo tutto l’addome, a detta sua inflittogli da Lemmon Cappa Rossa, e per il quale aveva dovuto ricevere due sbiechi punti di sutura. In realtà non erano serviti a molto, ma quantomeno avevano arrestato per un paio di ore il copioso sanguinamento. Avrebbero dovuto trovare, prima di ogni cosa, un posto in cui poter riposare, mangiare, e perché no anche rimettersi in sesto. Anche Bart soffriva ancora per le ferite riportate, specie quella lancinante al polpaccio, un buco provocato dolorosamente da una delle frecce nemiche. Era stata l’abilità di Steffon a far risanare almeno in parte la ferita del giovane, attraverso gli impacchi di acqua fresca e qualche goccia di vino di ciliegia presente tra le vettovaglie del carro. Lo stesso vino che un tempo aveva sorseggiato lieto e giocondo il robusto signora di Ardua Scogliera.
Il carretto che li aveva trasportati fin lì stava iniziando a rendergli difficoltosa la marcia. I loro cavalli, peraltro, erano stanchi e fin troppo indeboliti dal viaggio. Lenticchia, il non proprio nobile destriero di Bartimore, era tutt’altro che una bestia da trasporto: il suo corpo preferiva di gran lunga le quintane piuttosto che gli sforzi fisici, proprio come Bart.
Lo stesso patres Steffon si era messo alla guida del carro, una volta usciti fuori dal confine di pericolo di Roshby. Durante il tumulto della battaglia nel campo, l’esperto aveva colpito alla nuca Bartimore e lo aveva trasportato insieme a ser Mark sul carro. Poi aveva chiamato a raccolta gli ultimi rimasti nello scontro, almeno secondo le sue stesse parole, e li aveva fatti salire di fretta sul barroccio. «È stata una fortuna aver ritrovato questi carri nel campo» aveva commentato ser Mark quando Bartimore si era risvegliato. «Saremmo morti tutti, altrimenti».
“Come se già i morti non fossero stati abbastanza”. Ortys Wysler, il prominente signore di Ardua Scogliera, l’indistruttibile ed imbattibile colosso d’acciaio, era caduto come tutti gli altri quando i balestrieri di Dephyso Maraphen avevano imbracciato le loro armi e si erano dati alla carneficina. Ed a Esmerelle poi, la dolce ed aggraziata fanciulla bionda che aveva promesso di portare con sé al torneo, Bart non voleva neppure ricordare quale sorte fosse toccata. Avrebbe voluto averla lì con sé, dopotutto lei era stata la partecipante più innocente in quel gran trambusto di frecce ed acciaio. Eppure, le Grazie lo avevano privato anche della giovane fanciulla, con la stessa facilità con cui un fratello avrebbe privato la sorella della sua bambola di pezza, per un mero dispetto tra consanguinei facilmente risolvibile con un bacio o una pacca sulla spalla. “Un giorno la rincontrerò” si disse. “Un giorno rincontrerò tutti”. E, una parte di sé, non vedeva l’ora di farlo.
Fu solo nel tardo pomeriggio, quando ormai quel sole assente della mattina li abbandonò totalmente alle ultime luci del vespro, che scorsero quella che doveva essere la locanda suggerita da Dentigialli. “Quell’uomo deve conoscere davvero molti posti” pensò Bart. “Non avrei trovato questo luogo neppure se l’avessi costruito io”. Non c’era da meravigliarsi dopotutto: Bart non aveva una memoria ferrea, e Rowan Dentigialli era uno dei cinque capi-mercenari dei Vassalli della Notte, una compagnia di uomini tutt’altro che onesti che depredavano e saccheggiavano città e campagne ogni due per tre. Quella locanda era probabilmente tappa obbligatoria per ogni brigante.  “Chi avrebbe mai detto che mi sarei ridotto ad avere rapporti con questi uomini?”. Una domanda che non si era posto solamente lui nel gruppo.
Trasportarono il carretto nella stalla della locanda, un edificio rettangolare molto ampio, colmo di fieno e paglia, ma privo di altri animali e di altri ospiti.
«Questo luogo è abbandonato da chissà quanto tempo» lamentò Ser Mark stringendo la propria spada alla cintola e inserendo un piccolo pugnale nel fodero che pendeva dal suo collo. Il cavaliere portò sulla spalla lo zaino di cuoio che conteneva l’acciaio più sottile e le monete del gruppo. Ser Dayn legò Nuvola e Lenticchia all’interno di uno dei box, mentre Bartimore si occupò di prendere la sua lama e quella del ragazzo.
«Ci troveremo davvero quel mercenario?» domandò ser Dayn portando indietro la chioma di capelli castani.
«Ovviamente» fece patres Steffon annodando la fune al carro. «O lui non troverà mai le sue monete. I mercenari sono fatti così: non hanno onore a cui attaccarsi, ma quando si tratta di oro…»
«…hanno denti che gli somigliano tanto.»
Una voce gelida e rauca proveniente dalla penombra della stalla. «Storia lunga, vecchio Steffon, davvero. Sai che ti dico? Non avevo più voglia di starmene qui ad aspettarvi, razza di perditempo». Un uomo sulla cinquantina uscì allo scoperto, attraversò il piccolo corridoio della stalla e si fermò al centro, ritto nella sua cappa di cuoio, le mani avvinghiate alle redini del suo palafreno maculato.
«Rowan Dentigialli» biascicò patres Steffon voltandosi verso il mercenario. Nel farlo assottigliò gravemente lo sguardo. «Il nostro ritardo non è dipeso da noi: vorrai scusarci… spero. Dentigialli…»
«Chiamami un’altra volta Dentigialli e ci rimetti la mano sinistra, esperto» minacciò il mercenario esibendosi in un contorto sorrisino sfumato d’oro. «Io non t’ho mica chiamato Steffon dall’alito piscioso.»
«E sarei grato se tu non lo facessi» pronunciò mite Steffon.
«Suvvia, voialtri» s’introdusse ser Mark interponendosi tra i due. «Abbiamo altro di cui discutere: al diavolo le chiacchiere!»
Rowan Dentigialli s’incamminò verso di loro, come con l’intenzione di farsi seguire. Si appostarono tutti su un pezzo di colonna bianca decaduto, sgretolato sui lati, ma ancora comodo per la seduta. Oltre quello, dopotutto, non c’erano molte cose su cui poter sedere.
«Sono tutti o ne avete perso uno?» domandò Dentigialli lasciando la presa delle briglie e sedendo a cavalcioni sulla colonna collassata. «Sbaglio o eravate cinque?»
«Può darsi» fece ser Mark. «Può darsi pure che tu ti sia sbagliato.»
Bart prese posto accanto a ser Dayn. «Siamo tutti amici» disse. «Parla di quello che sai.»
«Amici… amici…» disse Dentigialli sputando un grumo di viscida saliva sulla pietra nuda che aveva davanti. «Vedrai tu cosa mi tocca stare a sentire. Gli amici abitano sotto terra, come v’ho detto, e sono le formiche che mangiano le ossa quando si muore. Facilitano il lavoro ai predoni, sai? Ce ne sono di cannibali tra i mercenari, te lo assicuro. Oh no, non guardatemi così, noi non facciamo ‘ste cose.»
Ser Dayn parve sul punto di rimettere tutto il cibo che aveva mangiato a Roshby.
Se Dentigialli era così chiamato, un motivo doveva pur esserci. E, difatti, il motivo era più che palese: il suo sorriso non era certo uno dei più smaglianti che Bart avesse mai visto, per quanto non fosse neppure uno dei più brutti. Nessuno poteva però negare che quell’uomo avesse denti gialli come il miele, con alcune sfumature di nero e marrone negli spazi più stretti, se ci si faceva caso. La folta barba grigia e i capelli che terminavano a metà del collo lasciavano intendere che fosse un tipo a cui non interessava né la cura né il rispetto del proprio corpo, men che meno quelle per il corpo degli altri.
«Dunque» cominciò patres Steffon portando le mani intrecciate sul petto. «Hai trovato il Monco a Città dell’Osso?»
«Se l’ho trovato?» grugnì Dentigialli. «Aye, Steffon, ancora tutto monco per giunta. Città dell’Osso è rimasta la città putrida di sempre, dovresti vederla. Ho cercato il Monco a lungo prima di riuscire a capire dov’era, ma ce l’ho fatta… eccome se ce l’ho fatta!»
«E cosa ti ha detto?» domandò patres Steffon facendosi guardingo.
«Che l’Accademia ha chiuso porte, porticine e cancelli. Se vuoi entrare dalle finestre, fatti calare pure le corde dai tuoi amici e arrampicati su quelle tue mura schifose. Ma non hai molto da sperare… non ti conviene tornarci.»
Dentigialli era un poco fidato conoscente di Steffon, mandato proprio dalla sorte, a detta dell’esperto, per spianargli la strada. Per questo il patres, conoscendo i suoi modi sfrontati ed il suo menefreghismo nei confronti del mondo, aveva deciso di renderlo partecipe della loro situazione, comandandogli di andare per lui a Città dell’Osso, a cercare Wylwor il Monco, l’accolito personale di Steffon, per sapere quali fossero le condizioni in cui versava l’Accademia. «Chi meglio di lui può sapere quale situazione corre al nord?» aveva detto. «Se andremo all’Accademia, dovremo anche assicurarci che di non essere acciuffati come ribelli lungo la strada. Se tutto va bene, saremo al sicuro dietro le mura accademiche in un battibaleno, ma se tutto va male…». Ovviamente, niente era andato bene, a partire dalla brutta bestia che aveva colpito il povero Konrad proprio sulla strada.
«Non è possibile» disse Steffon con rammarico scuotendo la testa e tentando di convincersi a riconoscere quanto fosse crudele quella realtà. «No che non lo è.»
«Se vuoi fare il resoconto delle cose al posto mio, la prossima volta ci vai tu in quella schifosa città. Posso ancora giurare di sentire il puzzo di pesce morto, di cadavere e di piscio se chiudo gli occhi. Ho dovuto lasciare gli abiti a mollo nell’acqua del fiume per tre giorni. Tre giorni, ti rendi conto? E le acque si sono pure colorate alla fine... i miei denti non sono i soli ad essere gialli ora.»
«Che giustificazioni ti ha dato Wylwor?» domandò secco Steffon.
«Ma che giustificazioni doveva darmi quel monco?» chiese Dentigialli. «La guerra è guerra. E poi siete l’uno più imbecille dell’altro lassù all’Accademia. A Roshby vi scannate come porci, e dopo una settimana fate come se non fosse successo niente.»
«Che intendi dire?»
«I tuoi amici hanno tolto il potere ai marescialli, hanno preso in custodia le città vicine a Roshby, hanno passato a fil di spada molti tra i ribelli del luogo. Il castellano è fuggito via prima di poter essere acciuffato, aye… o questo dicono. Al resto sai cos’è toccato? Un’emerita dose di niente. I ribelli sono fuggiti tutti… e tanti carissimi saluti! Perché non li avete fermati? Con cosa ragionate, mi chiedo? Non avete provato neppure a prenderli!»
«Se non lo hanno fatto» disse Steffon. «Ci sarà stata una ragione. Ora che la guerra tornerà ad infuriare, ora che tutti cercano vendetta, è meglio coprire gli attriti con un sasso…»
«Coprite, coprite!» farfugliò Dentigialli. «Coprite finché non vi finiscono i sassi. Poi vedremo con cosa coprirete… metteteci il culo sopra, magari. Sciocchi babbei, siete quasi ridicoli. Ai miei occhi siete tutti uomini inutili.»
«Rowan Dentigialli!» tuonò Steffon, la voce appartenente ad un corpo che non era più vigoroso come quello di un tempo. «Non siamo qui per discutere di cosa appare il mondo ai tuoi occhi. Parla solo di quello che ti viene chiesto.»
«Sta’ attento a scherzare col fuoco, Steffon… potresti scottarti.» minacciò Dentigialli. «Non vorrai diventare monco anche tu. Non ti converrebbe sai? Sarebbe difficile capire chi tra te e Wylwor è l’accolito dell’altro.»
«Basta così». Ser Mark batté una mano sul tavolo. «Nessuno di noi ha bisogno di altri problemi, adesso come adesso. Dacci quello che ci serve e fa’ silenzio, Rowan.»
«Aye» disse lui. «E voi datemi gli argenti che mi spettano.»
«È questo che ti fa parlare con tanto astio, per caso?». Ser Mark afferrò un sacchettino di iuta dalla tasca e lo lanciò a rotolare sulla colonna, ma, prima che Dentigialli potesse afferrarlo, il cavaliere vi posò sopra la mano. «Qui ci sono i tuoi soldi; li avrai quando avremo finito di parlare. E, per parlare, intendo farlo con la chiarezza richiesta.»
Rowan Dentigialli piegò la bocca in segno di rabbia repressa. «Al diavolo tutti voi! Quanti sono?»
«Quattro, proprio come avevamo deciso.»
Dentigialli li guardò uno ad uno, masticando lentamente la sua stessa saliva. «Quattro…» ripeté a denti stretti. «Ma non avevamo messo in conto che Città dell’Osso puzzava come una vacca incontinente. Adesso facciamo dieci: mi servono abiti nuovi dopo quell’esperienza.»
Ser Mark rise di gusto. «Vorrai dirmi che ti sei deciso a cambiare indumenti?»
«Sta’ attento a come parli, Cavaliere dei Sorci, potrei anche decidere di tagliarti la gola.»
«Ad ogni modo» s’introdusse di forza Steffon. «Che altro ti ha detto il Monco?»
«Punto primo; mi ha detto che non si ricorda nemmeno più di te da quando lo hai lasciato là. Il tuo accolito, quel ragazzetto dico, ha smesso di puzzare di latte: potresti passare a riprenderlo, dice che si è stancato di servire patres Wador, e che il vecchio è scorbutico e puzzolente… e gli tremano le mani.»
«Decido io cosa è giusto e cosa non lo è.»
«Senz’altro» ribatté Dentigialli. «Ma si da il caso che tu mi hai mandato a Città dell’Osso per portarti le informazioni di quel Monco: ora ascoltale. Il ragazzetto mi ha detto che il Supremo Patres Polwyr ha sbarrato le porte per tutti quelli che non hanno il chiavistello. Tu ce l’hai, Steffon?»
Patres Steffon tastò la tunica sgualcita che indossava, portò le mani in tasca interna e ne estrasse un piccolo pezzo di ferro nero con un’estremità arrotondata e l’altra appuntita. «Che altro?»
«Che altro? Be’, solo chi ha il chiavistello può entrare. Aye, poi il Monco ha detto che c’hanno messo guardie su guardie nei cancelli. E che i patres e le matres hanno più paura di una bambina in mezzo ad una stalla di porci. Sai che mi ha detto a proposito di matres Renerelle?»
«Chiaramente no» rispose Steffon. «E non ho alcuna intenzione di volerlo sapere. Che altro?».
«Il Monco dice che l’Accademia ha ancora potere, ma io dico di no. Hanno preparato per bene gli Elmi Scuri, ma non hanno come utilizzarli. Bella cosa, non è vero? Come se io preparassi i miei mercenari per mandarli a giocare con le bambole! Vi rendete conto, signori?»
Steffon sbuffò sonoramente, con tutta l’intenzione di far intuire al mercenario che forse era arrivato il momento di giungere al punto.
«Poi… ehm…» aggiunse rapidamente Rowan «Hanno nominato Osgar Rayven maresciallo, aye. Vedessi come si agitava per la felicità quel Corvo Nero, un peccato che ora non può farlo sotto il suo castello. Lo sapevi che glielo hanno mandato a rotoli? Già, a te non frega una dannatissima fetta di niente di tutto ciò. Medgar, suo fratello, è morto a Roshby mentre l’altro se la dava a gambe!»
Ser Mark si alzò in piedi, passò le mani sui suoi indumenti. «Volevi dieci argenti? Li avrai solo se ti sbrigherai a dirci quel che ti viene richiesto.»
«Saranno dodici a quel punto, o voi avrete altro tempo da perdere.»
«Quanti saranno non sta a te deciderlo» s’inserì ser Dayn.
Il ragazzo venne immediatamente freddato dallo sguardo glaciale di Rowan. «Aye, ragazzoccio e a te non sta decidere di vivere. Volete morire oggi, forse? Lascia gli uomini fatti a parlare di queste cose.»
Ser Dayn corrugò la fronte senza raccogliere. Bart non aveva intenzione di commentare le parole di quel mercenario disonorevole, un po’ per non complicare la loro situazione, un po’ per non mettersi inutilmente a discussione con un uomo vile e senza scrupoli.
«Comunque» riprese il mercenario dai denti gialli «Non avete molto da fare. I tuoi amici, patres, hanno chiuso alla meglio quei portoni a tutti quelli che non sono del vostro ordine. Conigli, vi dico, per quanto ancora avranno da nascondersi dietro quelle mura di fango e sterco? Un giorno, forse due, poi chissà chi gliele butterà a terra. E allora li mangeranno, i conigli. Oh, e fate attenzione, noi dei Vassalli della Notte non mangiamo gli uomini, ma i conigli sì.»
«Mi fai schifo, Rowan» mormorò a denti stretti ser Mark, la fronte aggrottata severamente. «Non c’è un briciolo d’onore in te. Come puoi essere così?»
«Lo sono e basta» replicò il mercenario. «Preferisco cento volte essere schifoso come me, anziché giusto come voi.»
Come dargli torto” pensò Bart, ma lo tenne gelosamente per sé. Da un lato, perlomeno, il ragionamento quell’uomo non era del tutto sbagliato.
«E che mi dici delle altre compagnie mercenarie?» domandò patres Steffon «Tu che ne sai qualcosa, ci assicuri che possiamo procedere o sai che potrebbe intercettarci qualche brigante lungo la strada?»
«Qualche?» domandò retorico il mercenario. «Lassù è pieno di mercenari e briganti cacasotto, ma i miei uomini sono ben lontani da qui. Abbiamo piani e razzie da portare avanti. V’ho detto che non c’è di che preoccuparvi, se seguite le strade che vi dico io. E se fate i buoni.»
Patres Steffon sbuffò. «E che strade ci indichi tu?»
«Pensa che abbiamo fame» aggiunse ser Mark. «E i nostri cavalli hanno bisogno di riposare.»
«Tutto il mondo è un letto per gli animali, idiota di un ser… loro potranno dormire pure sul fango. Mentre voi… voi dovete camminare sempre per la via che avete tenuto fin qui, aye. Tenetevi sempre vicino al puzzo dell’acqua del Ravinh, ma verso nord, massimo nord-est, o finirete ancora a Roshby.»
«E questo mi sembra abbastanza logico» mugugnò ser Mark. «Ci sono locande lungo la strada?»
Patres Steffon lo redarguì con un’occhiataccia. «Ser Mark, pur trovandole, non potremo soffermarci. Il rischio è ancora troppo elevato e ci saranno spie in ogni luogo da qui fino a Roshby.»
Dentigialli caracollò all’indietro nel ridire a singhiozzi, starnazzando come un’oca. «Non avete manco un piano voi, eh? Ma siete o non siete uno stramaledettissimo gruppo? Ascoltatemi bene, tonti: sempre a nord finché non vedete il Mar Dorato, poi mettete i sassi dentro ai vostri stivali e vi gettate da un precipizio. Siete fottuti, ve lo assicuro». Il mercenario rise un’altra volta, come per sfottere i loro intenti. «E con questa ho finito» mormorò allora «Datemi il denaro e poi sarà come se non ci conosciamo. Quindi state attenti a ciò che dite, perché sarete come tutte le altre vittime che ho fatto fuori da qui.»
«Sei davvero un essere viscido» lamentò patres Steffon. Afferrò di forza il sacchettino di iuta dalla mano di ser Mark e lo lanciò addosso a Dentigialli con violenza. «Prenditi il tuo denaro e va’ al diavolo, mercenario».
Dentigialli non badò neppure un momento alle parole di Steffon, portò indietro i capelli macchiati di giallo e strappò coi denti il laccio che teneva chiuso il sacchettino. I quattro argenti che uscirono finirono nella paglia sul pavimento.
«Avevamo detto dieci» brontolò con astio. «Datemi il resto di ciò che mi spetta»
«Che ti sarebbe spettato se avessi fatto le cose con cura, Rowan Dentigialli.» puntualizzò patres Steffon con fare tutt’altro che gentile. «Questo è tutto ciò che avrai. Impara la lezione: ti servirà la prossima volta.»
«Bene» farfugliò il mercenario lasciando intendere, però, che di buono ci fosse davvero poco. «Bene, dico davvero». Si alzò dalla panca di cemento bianco e afferrò nuovamente le redini del suo palafreno.
Bart non mancò di scorgere della rabbia infuocargli gli occhi, i lineamenti induriti della faccia. Dentigialli montò sul palafreno, portò il sacchettino di iuta nella tasca delle brache e afferrò violentemente le redini della sua bestiola dalla schiena curva.
I quattro sventurati si alzarono dopo di lui e si recarono ognuno verso il carretto sul fondo della stalla. Fu allora che Dentigialli richiamò l’attenzione di Bart, con un breve e flebile fischio. «Giovanotto» gli disse. «Vieni qua, avanti». Bart si avvicinò lentamente al mercenario ridente sulla sua cavalcatura.
«Sì?» domandò Bart curioso.
«Sei un tipo silenzioso, ho visto». Rowan Dentigialli gli posò una mano sulla spalla. «E sei l’unico che non mi ha attaccato. Posso darti un consiglio?»
«Dipende dal consiglio» ribatté Bart con una certa nota di risentimento nella voce.
«Un consiglio che vi salva la vita. Avete fame, dite? Né bello né bene, rispondo, davvero: gli uomini muoiono continuamente di fame là fuori. Non ci sono taverne sulla strada, aye, ma ci stanno posti migliori, te lo assicuro. Quei tuoi amici parlano troppo e ascoltano poco, li lasciavo morire se non c’eri tu, ma voglio aiutarvi proprio perché mi sembri a posto.»
«Dove ci consigli di andare?»
«Fate come vi dico e starete lontani dai predoni. Sempre a nord, prima di tutto. Se state sulla via, prima o poi la vedete, l’Accademia, se non finite prima in mare. Dovreste passare pure per i campi di Giardino Dorato, là ci sono frutti grandi quanto tutt’e due le mie mani. Oh e i limoni, poi! Bei limoni grossi e succosi, ti dico. Io ci passo spesso coi miei, ma rubarli non è facile. Ne prendete un paio e li mangiate, almeno mettete un po’ di cose nella pancia. Dovreste essere là in meno di due giorni.»
«Ne sei sicuro?» domandò Bart.
«Aye, ser, ma non fatene abuso. Vedete come ho i denti io?». Il mercenario si esibì in un contorto sorriso a trentadue denti gialli. «Fosse stato latte, magari mi sarebbero venuti bianchi.»



♣ Angolo d'autore ♣
Buonasera, recensori e lettori che siete ancora da queste parti. Un grande ringraziamento a tutti voi, prima di tutto.
Ecco a voi il secondo capitolo della nostra storia: il viaggio verso una meta indista, forse irraggiungibile, procede a tentoni: i pericoli sono numerosi all'orizzonte, e i nostri non possono che tentare in tutti i modi di evitarli... pur se questo comporta dei contatti con personalità non poco raccomandabili. 
E questo ci porta alla nuova figura introdotta: Rowan Dentigalli, il capo-mercenario dei Vassalli della Notte. Che ne pensate? Vi preannuncio che rivedremo ancora l'infido mercenario. Cosa pensate dell'ultimo suggerimento dato a Bart? E cosa del rapporto tra lui, Steffon e ser Mark?
In questo capitolo, la figura di Rowan ha avuto una funzione narrativa non poco importante: tirare le somme della situazione politico-sociale che corre nel continente e quindi nella lore che fa da scena alla storia. Cosa pensate dei vari eventi accaduti a distanza di così poco tempo dall'attentato a Roshby? Cosa della fuga dei ribelli e della "sparizione" del castellano Wolbert Dorran? E cosa ancora della strategia adottata dall'Accademia?
Insomma, in generale, fatemi sapere cosa pensate e cosa vi aspettate dalla storia alla luce di quanto appena letto.
Un abbraccio e ancora grazie a tutti voi, carissimi. Al prossimo aggiornamento! [lunedì 12 c.m.]
Makil_


 

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Capitolo 3
*** III ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



All’imbrunire del cielo, i quattro capirono che sarebbe stato più che giusto arrestare la loro marcia.
Fu patres Steffon a dare il primo ordine della serata, lo stesso che segnò l’inizio di un’altra lunga serie di ammonimenti e di altrettanto prolissi avvertimenti. «Disporremo qui Lenticchia e Nuvola» aveva detto smontando dal barroccio. «Fate dei nodi stretti: non voglio saperne nulla, se mai vi dovessero scappare entrambi».
Bartimore si prese il compito di portare il carretto sotto ad un vecchio olmo secolare che, a detta di ser Dayn, doveva aver visto più di un centinaio di guerre, seppur nessuna più sanguinosa e sporca di quella a cui erano sottoposti loro. Ser Mark stava conducendo alcuni secchi d’acqua fresca appena prelevata dalla foce del Ravinh poco distante, utile tanto ad abbeverare i cavalli quanto a rifornire loro stessi dei liquidi che avevano perso. “Chissà come saremmo morti” meditò Bart angosciato “Se non avessimo avuto questo carretto”.  Certo si era rivelato più utile dell’ipocrita ser Konrad. “Le grazie mi perdonino per quello che dico” pensava di tanto in tanto Bartimore quando la sua mente lo riportava indietro alle fiamme che avevano avvolto il corpo dell’inutile cavaliere.
Al termine di quella lunga ed estenuante giornata passata in giro per le terre meno ostili del momento, ser Bart si prese del tempo per sedere sotto al vecchio olmo, nell’attesa che l’arrivo della sera portasse con sé tutti i suoi compagni. Era una delle cose più liete ed appaganti che un cavaliere potesse desiderare: quiete, calma e serenità mischiate alla comoda sensazione di sedere, dopo una giornata di pene e dolori, al fresco dell’ombra di un albero così grande. Pur non essendo abituato a quella vita da errante, non poteva certo negare che tutto quel vagabondare senza meta gli piacesse un minimo.
Intuì presto che non sarebbe stato lecito crogiolarsi di tutta quella bellezza tanto a lungo, mentre gli altri stavano a spezzarsi la loro schiena poco sotto a quella collinetta, ignoranti del fatto che il giovane stesse riposando e mentre la guerra, impavida mietitrice d’anime, scuoteva la sua lunga lancia contro il capo di tanti innocenti. Non che ci fosse, perciò, tanto da celebrare in quella serie di drammatici eventi in cui erano precipitati controvoglia.
Al tramonto, il primo a giungere fu ser Mark, la fronte imperlata di gocce d’acqua e i tre secchi pieni alle mani. Bart si alzò per andare a dargli una mano, che il cavaliere non pensò un solo momento di rifiutare. «Avessi avuto più mani» borbottò ser Mark «Le avrei usate per moltissimi altri scopi. Ma dal momento che non ne ho che due…». C’era qualcosa in quell’uomo riusciva a farlo apparire come un anziano dall’animo giovane, ancora forte e pronto a resistere al vento e alla pioggia, abituato quasi alle intemperie della vita.
Ser Mark si passò il dorso della mano sulla fronte, dalla quale per poco non catturò più acqua di quanta ce ne fosse nei secchi. «Che fatica, Bart» bofonchiò senza saliva sulla lingua. «Sarà proprio il caso che beva un sorso, ora. Prima che sia io ad essere bevuto da qualcun altro, insomma.»
Poco dopo fu anche il turno di ser Dayn, che risalì la collinetta trainando dietro di sé sia Nuvola che Lenticchia. Il viaggio e lo sforzo avevano irrobustito il giovane cavaliere dai capelli bruni, tanto da fargli crescere due braccia più forti e poderose delle gambe. Perfino le spalle di Dayn si erano fatte più grosse e robuste del normale.
 «Ho notato che a Lenticchia piace scalciare» vociò ser Dayn accarezzando il muso della bestia. «Ma Nuvola è più forte.»
«Sta’ attento Dayn» lo avvertì Bart. «Non vorrai mica che il prossimo calcio cada sul tuo ginocchio, spero.»
Ser Dayn si sforzò di sorridergli. «Se mai dovesse provarci, capirò che glielo hai appena suggerito tu.»
Il ragazzo affidò Lenticchia e Nuvola a ser Mark, che legò le loro redini ad uno sperone di legno sporgente dalla corteccia dell’olmo.
«Te la cavi, Dayn». Bartimore accarezzò il collo di Lenticchia.
«Con gli animali, sì. Sono le persone che mi frenano un po’ di più.»
«Intendevo…  be’ sì, con gli animali». Ser Bart sorrise amichevolmente. «Dove hai imparato a conoscerli così bene?»
A ser Dayn luccicarono gli occhi. «Avevo cinque anni quando mio padre mi mandò a lavorare in un serraglio a Trundat. Sono nato e cresciuto là, Bartimore, e, nonostante i pochi ricordi annebbiati che ho di quei tempi, tengo bene in mente i primi momenti passati in compagnia di un cavallo o di un falco. Sai, a sette anni ero già un maniscalco affermato e gran parte dei cavalieri erranti passava da noi per farsi ferrare le mule o pareggiare i destrieri.»
«E a che età arrivò il momento di cambiare il ferro con l’acciaio?» chiese Bartimore curioso.
«Dieci anni, amico mio. Tutte le grandi svolte avvengono a quell’età». Ser Dayn si passò una mano tra i folti capelli. «Fu per caso che mi ritrovai a sistemare i ferri di Fiamma, il puledro da compagnia dell’allora principessina Lynda. Quando Hollard Norstone, suo padre, si rese conto del mio ottimo lavoro, dichiarò di volermi conoscere. E quando venne a trovarmi – lo ricordo come fosse accaduto ieri – mi trovò in compagnia di una spada di legno, mentre mi allenavo con il mastro. Norstone non ci pensò due volte: mi tolse di mano quell’impugnatura di frassino e me ne diede una di vero metallo». Ser Dayn afferrò le sue cose dal barroccio, sedette per terra, tese la sua spada contro la luce degli ultimi raggi del sole e prese a levigarla passandovi sopra un sasso trovato al fiume. «E da allora, io la porto sempre con me.»
«Fai bene, amico. Però sta’ attento: la rovinerai in questo modo» lo avvertì Bart.
Ser Dayn alzò rapidamente lo sguardo. «Dici?» fece curvando la testa. «Hai ragione, sono uno sbadato. Purtroppo parlare di lui mi mette ancora i brividi, Bartimore, e credo che non riuscirò mai a superare questo lutto. Lo hai visto cadere anche tu? Il mio signore è morto tra le mie braccia. Non avrei mai pensato di vederlo morire. E poi… chi avrebbe mai detto che sarei stato io a vederlo morire? A veder morire l’uomo che ho servito per tutta la mia vita?»
Bart preferì non rispondere. Non c’era vuoto che avrebbero potuto colmare le sue parole, piene dello stesso dolore dei suoi compagni. Gli occhi di ser Dayn si erano fatti lucidi, capaci di riflettere quel remoto e
piccolo bagliore di luce color porpora stagliato nel cielo. Il dorato delle sue iridi splendenti come il sole si contrappose presto al buio del suo volto, talmente tanto tenebroso e privo di felicità da risolversi divenendo un tutt’uno con le ombre che sopraggiunsero poco dopo. Le stesse ombre che, per ultimo, portarono patres Steffon. Il giovane esperto arrivò comodamente lungo la salita, le mani dietro alla schiena, scalciando di tanto in tanto qualche sasso altrove.
«Dove sei andato, Steffon?» lo accolse ser Mark con un tono più brusco del dovuto. «Stavo per scendere a cercarti. Non puoi permetterti di farci prendere certi colpi.»
«Un po’ di sana aria delle Terre Brulle: nulla per cui qualcuno abbia mai smarrito la via» rispose secco l’esperto. «Sono cresciuto qui in un certo senso, Mark. Respirare un po’ di quest’aria non può che ringiovanirmi.»
«Come se non fossi già giovane, amico» ribatté ser Mark. «Hai visto qualcosa giù?»
«Giù, dici?» domandò retorico Steffon. «Direi che ho visto qualcosa di migliore quassù». Steffon puntò il dito contro il cielo, mirando ad una destinazione poco lontana dalla collinetta. «Quella è Porwyck, amici, una cittadina tanto fiorente quanto abbandonata. Vi direi di stare alla larga da ogni tipo di alloggio umano da qui all’Accademia, ma per questa notte penso che tutti abbiamo bisogno di un po’ di ristoro. Non credo ci sia da temere un pericolo: la strada non è molta… e lì potremmo mettere qualcosa sotto ai denti: sempre che qualcosa ci sia.»
Bart si chiese a lungo se Steffon stesse delirando o se li stesse prendendo in giro: era certo che il suo fare si era fatto un po’ troppo contraddittorio negli ultimi giorni. Nessuno tra loro mosse un solo piede dalla collinetta, decidendo che non era il caso di esporsi tanto: avrebbero mangiato il giorno seguente.
«Per questa notte faremo i turni di guardia» spiegò Steffon avvicinandosi al carretto per afferrare la sua otre d’acqua. «Attenderemo qui sotto l’alba, e al sorgere del sole smonteremo l’alloggio il più presto possibile. Ci attende una lunga marcia domani, dico davvero, e tutti dovremo essere pronti ad affrontarla al meglio se vogliamo trovare un posto in cui poter mangiare». L’esperto bevve un profondo sorso d’acqua e riprese a parlare. Estrasse dalla tasca il chiavistello accademico e lo mostrò ai suoi compagni. «Questo e solo questo ci consentirà di salvarci la pelle. Statemi a sentire: rispettate i miei comandi e non ci accadrà nulla di male. Conosco queste terre meglio delle mie tasche… e so benissimo di cosa parlo.»
«Dobbiamo credere alle parole di Dentigialli?» domandò giustamente ser Mark una volta appostatosi sul carretto.
«Non ci si fida mai dei mercenari: è gente sporca e puzzolente, infida e senza scrupoli. Ma dovremo tener conto delle sue parole, che lo vogliate o meno, o procedere alla cieca.»
«Talvolta un cieco vede meglio di un vedente» rispose Mark, poi si addormentò.
La notte non tardò a giungere sulla collina, e il primo, per sorteggio, a dover tenere il turno di guardia fu proprio Bartimore.
Malgrado il sonno e la stanchezza tentassero di avere la meglio sul suo corpo, Bart provò a resistere in ogni modo, dapprima giocherellando con le bende che stringevano il suo polpaccio e la sua spalla, quelle che patres Steffon gli aveva stretto al corpo con un particolare vino e un po’ d’acqua fresca ad inumidirle. 
Passò da lì a poco ad osservare il cielo. L’incantatrice che Amisa Witeolm aveva assunto per il giovanissimo Bart gli aveva insegnato a comprendere il significato delle stelle e, monitorando la posizione della luna, a decifrare quanto fertile fosse una data stagione. C’erano stelle nel cielo, questo Bart non poteva certo negarlo, ma nessuna era tanto splendente da spiccare in quella coltre oscure di tenebre.
La luna, invece, alta nel cielo, risplendeva di bagliori propri, bianca e perfettamente sferica, come un enorme occhio pallido, vitreo, appartenuto a chissà quale mastodontica bestia. Era stata la stessa incantatrice a narrargli, un tempo, che la luna altro non fosse che l’occhio costantemente vigile di una gigantesca tanverna azzurra, la stessa che, muovendosi, era causa dei terremoti, della pioggia e del vento.
Questo nonostante Amisa aveva sempre tentato di farlo restare all’oscuro da tutte queste leggende popolari che non potevano che avere come unico fine quello di rendere stupide le persone che le udivano. Amisa era sempre stata contraria ad ogni forma di narrativa che non fosse quella riguardante la politica, la strategia e la magnanimità degli eroi epici.
Un piccolo refolo di vento accarezzò il collo scoperto di Bart, le spalle poggiate contro il fusto massiccio dell’olmo, le gambe piegate. Tutt’attorno alla collinetta su cui si erano appostati, sporgenze scure simili a denti irti della peggiore belva incorniciavano la vallata. Le loro vette erano aguzze, talmente alte da poter sfiorare il cielo. Ma lo splendore più affascinante, il bagliore più luminoso, proveniva da nord, da un campo che si estendeva in larghezza per tutto l’orizzonte e proiettava la prosperità dei suoi frutti verso ogni direzione. Tutto il dorato di quel campo ricordò malinconicamente a Bart il colore dei capelli di Esmerelle. Avrebbe mai superato il dolore causato da quella ferita? Se mai se ne fosse presentata l’occasione, ci sarebbe voluto davvero tanto tempo.
 Almeno per il momento, Bart non poteva far altro che ricordarla e prometterle vendetta, nella speranza che lei potesse avvertire le sue più profonde preghiere, ovunque fosse adesso.
«Ser Bart.»
Patres Steffon, dritto e con le braccia conserte al petto, si soffermò poco distante dalla sua postazione. «Non c’è più l’aria di un tempo qui, devo ammetterlo drasticamente. Potrei unirmi ai tuoi silenzi, per questa sera? Non c’è altro che potrebbe farmi più piacere di poter passare la notte con un amico… intendo dire: il sonno ed io non abbiamo un buon rapporto in giorni simili.»
Bartimore acconsentì con un gesto della mano. Il suo corpo era talmente tanto stanco da non poter rispondere in modo efficace ai comandi. Patres Steffon non se lo fece ripetere due volte, non appena gli fu detto di poterlo fare, l’esperto caracollò verso la base dell’olmo e prese il suo posto accanto a Bartimore.
«Ho disturbato i tuoi pensieri, per caso?»
«Assolutamente no, Steffon» mentì Bart. «C’è qualcosa che devi dirmi?»
«Forse avrei dovuto farlo, ecco. Un tempo, se ricordi, avremmo dovuto sostenere un colloquio io e te. Credo che Ortys te ne ave…»
 «Sì» lo fermò in modo brusco Bart: ricordare quel nome lo rendeva molto nervoso.
«Io… io… voglio dire… possiamo…» biascicò a stento il patres. «No, non possiamo» concluse poi per sé. «Ser, io sono spiacente per il tuo dolore. Se può consolarti almeno un minimo, sappi che anch’io soffro molto per le nostre perdite: tutte. Io soffro per ogni caduto. Questo è il volto di un uomo distrutto e quello…» Steffon indicò il paesaggio che si estendeva tutt’attorno a loro. Tetro, arido, sporco dei miasmi dell’avidità dell’uomo. «…quello è l’irreparabile volto della guerra.»
Sentire quelle parole nelle labbra di qualcuno fu come un pugno nello stomaco, lanciato dopo essere stato apertamente scuoiato. Fino ad allora nessuno aveva osato anche solo fare un accenno al suo dolore, nessuno aveva provato a darsi consolazioni reciproche, come fosse stato imposto un sigillo inviolabile su ognuno di quegli argomenti. Bartimore si ritrovò a sistemere il coraggio spropositato di Steffon.
«Ma vedi» continuò poi l’esperto. «I morti non amerebbero sapere che noi ci struggiamo per loro. Il modo migliore per ricordare i defunti è sorridere delle loro gesta, delle loro parole, delle loro malefatte e dei loro difetti. Rammentarli sempre, per far sì che non lascino mai il nostro cuore: è lì, Bartimore, che si trova la vera casa di ogni uomo. Non qui a Pantagos, non a Nord, non a Sud. Qui, nel nostro petto. E se ciascuno dei rivali che si battono in questa dannata guerra avesse un cuore, la sua casa sarebbe la casa di tutti: non ci sarebbero nemici, e tutti saremmo uguali… immagini, ser? Tutti figli di una sola madre, la terra che ci ha dato i natali, e tutti ospiti del medesimo tetto. Chi amerebbe mai e poi mai far guerra a un fratello? Ma c’è una patina, invece, che nessuno potrà mai staccare dai nostri cuori: la paura. Questa è l’unica vera realtà. I nemici fanno paura – non neghiamolo – e se si ha paura, allora è tutto finito. Inequivocabilmente.»
«Tu credi?» chiese con tono non poco acido Bart.
«Lo credo e lo dico davvero» rispose l’esperto. «La vendetta non è la lama che ci serve per darci conforto. Concediamoci amore, piuttosto. Loro saranno commossi dai nostri gesti… e non saranno morti invano.»
Bart si trattenne dal rispondere a tono a quella frase. Che poteva saperne un esperto di tutto il dolore che lui aveva provato? Aveva visto morire Ortys Wysler dinanzi ai suoi occhi, prima di lui anche il suo signore e padre Dalton Kordrum, e dopo persino la ragazza che aveva imparato ad amare: l’innocente Esmerelle. Quell’uomo era mai stato qualcuno nel mondo?
«Allora io dico che sarebbe meglio lasciare da parte il dolore e concentrarsi sull’amore che abbiamo ricevuto dai nostri cari. Non conosco modo migliore per ricordare i nostri lutti. Che altro possiamo fare? Che altro avremmo potuto fare?»
«Non avremmo dovuto ascoltarti, tanto per cominciare» disse Bart, gelido, con un tono che riuscì più freddo di quanto il cavaliere avesse intenzione di farlo apparire.
«Hai ragione» concordò patres Steffon. Bart rimase pietrificato, non si aspettava una risposta simile. «Hai davvero ragione. Un uomo vile, ecco cosa sono stato. Ortys me lo diceva sempre: l’onore è un cappio, più lo hai a cuore, più ti strangola. Mi spiace, cavaliere. So che tu… ecco… tu hai perso la tua… Esmerelle… non è così che si chiamava?»
Bart annuì. L’ultimo sguardo al cielo gli fece scorgere quelle piccole e fioche stelle, appena baluginanti accanto all’enorme palla di ghiaccio. “Ghiaccio” pensò “Proprio come tutti i nostri cuori. E sembra che nessun fuoco sia più in grado di scioglierlo”.
«Conosci la storia dello Sventurato di Dunwark?» fece patres Steffon, che senza dargli il tempo di rispondere continuò. «Ne dubito, davvero, in pochi sanno chi sia, in pochi sanno cos’ha fatto… eppure la sua storia è così avvincente e triste. Anche lui perse molte cose… per orgoglio, per amore.»
Bart scosse il capo. «Non conosco tante storie» rispose. «Le uniche che ricordo sono quelle che mi raccontava spesso l’incantatrice Gaella, un’anziana sapiente che diceva di conoscere ogni storia del mondo conosciuto». Bart sorrise al pensiero della donnetta annichilita ed incartapecorita, ricordandola così come l’aveva conosciuta, con un sorriso privo di denti tra le labbra e due occhi solcati da rughe profondissime.
«Be’» fece Steffon spingendosi avanti col corpo e portando le dita intrecciate alle gambe «Non doveva essere poi così vero se non conosceva questa». Patres Steffon tossì un paio di volte, giusto per schiarirsi la voce; poi iniziò a parlare, come si fosse appropriato da solo della possibilità di farlo. «Come tutte le storie, anche questa inizia con un ragazzino un po’ curioso, stranamente magro, poco bello - direi io - ma molto abile con la spada. Quel ragazzino, ovviamente, abitava a Dunwark, aveva una bella famigliola, un amico fedele e un paio di passioni: era abbastanza felice di ciò che possedeva. Sapeva assaporare i piaceri della vita, nonostante fosse molto povero. Eppure, un giorno smise incondizionatamente di farlo. Fu come un tuffo nell’acqua gelata per lui e per la sua famiglia, e forse lo fu anche per i suoi amici. Fu quel giorno di primavera piovoso che il ragazzino passò dall’essere un normalissimo e comunissimo ragazzino all’essere lo Sventurato della nostra storia. Saprai senza dubbio, ser Bart, che la vita talvolta gioca opportunità e talvolta gioca brutti scherzi. Ecco, per lo Sventurato di Dunwark ebbero inizio così le sue disavventure. Lui e la sua famiglia furono sfrattati dalla loro casa, gettati fuori dalla loro cittadina, e lo Sventurato perse entrambi i genitori durante il viaggio verso un luogo capace di accoglierli per come era giusto che fosse.
«Rendendosi conto che sarebbe stato spacciato se non avesse fatto altrimenti, lo Sventurato cercò rifugio a lungo: passò per le stalle che circondavano le strade più remote, nei capannoni più malandati di tutte le Terre dei Venti, nelle locande finché riuscì a permetterselo, sotto terra, quando non ebbe più argenti né bronzi. Ma un giorno come altri – o forse non proprio – lo Sventurato fu aiutato dalle Grazie e riuscì a scorgere una luce in quell’immenso tunnel degli orrori. Egli, dopo molti viaggi, scorse il faro della sua vita: Vento Burrone. Fu lì che trovò riparo, come ospite inizialmente, sotto l’ala protettiva del nobile signore del regno; Orwel Norstone, il Lupo Grigio, il quale non mancò di acciuffare quel prodigioso cavaliere e di farlo gareggiare per sé.
«Un esordio, molto probabilmente, quello in cui fu coinvolto, specie se si pensa che lo Sventurato venne immediatamente visto di buon occhio da Orwel Norstone, che lo insignì in men che non si dica ser di Vento Burrone, gli regalò un’armatura, lo fornì di una spada, di un cavallo – uno dei migliori, s’intenda – e gli spianò la strada verso quella che, per quanto dovesse essere il suo miglior momento della vita, finì per essere una condanna alla peggiore delle morti. Il nostro ser Sventurato iniziò a farsi una nuova vita a corte: pranzava coi nobili, dormiva sotto un tetto fatto di travi e non più di stelle, coccolato da morbide coperte e non più da semplici gocce di pioggia e soffi di vento. Malgrado ciò, la sventura non si ritenne ancora soddisfatta, e lo Sventurato fu costretto nuovamente a sostenere una dura prova. Si dice che la sua dolce madre lo avesse addirittura avvertito in sogno, ma lui non le aveva creduto.
«Nel regno c’era una bella pulzella, una di quelle ragazzine pallide, dal petto prominente, le spalle dritte, i fianchi larghi, i capelli sempre ordinati e puliti e gli occhi con sfumature color magenta: insomma, una principessa tutta pizzi e merletti. Difatti, e non per nulla, quella ragazzina era proprio la principessina di Vento Burrone, la signorinella Alycia Norstone. L’animo già irrequieto dello Sventurato adolescente venne immediatamente colpito da codesta bellezza, da tanta regalità assemblata in unico corpicino esile, pallido, bisognoso di un affetto che non tardò a giungere, ma che non fu certo quello suo. La principessina Alycia fu presto promessa dal padre al giovane e robusto Aidan Powell, principe a sua volta di un prospero e ricco regno: Grigia Scogliera. E fu allora che ebbero inizio i veri drammi dello Sventurato.
«Per prima cosa agì a tentativi. Giorno dopo giorno dopo giorno, lo Sventurato cercò di farsi notare, a poco a poco, con semplici mosse dapprima… alle quali seguirono altre svariate strategie. Provò qualsiasi metodo fosse stato studiato per uno scopo simile – sedurre una ragazza – ma Alycia Norstone non ebbe che occhi solo per il suo adorato Aidan. Un giorno, poi due, poi una settimana e ancora un mese, finché non fu tempo che passarono pure gli anni. Lo Sventurato rimase sventurato, ma non sapeva che era destinato a rimanerlo per molto tempo ancora.
«Poi, finalmente, un’altra luce, un giorno in cui il sole era più acceso che negli altri – o così vogliono farci credere – avvenne l’impensabile. Lo Sventurato aveva tentato in ogni modo di liberarsi di quell’ostacolo che era Aidan, talvolta con le minacce, un’altra volta con il veleno, ma al ragazzino nessuna delle due armi aveva torto un capello. Allora, un giorno, lo Sventurato pensò che l’unica forza che poteva utilizzarvi contro fosse la sua stessa abilità di cavaliere e, colto da un’improvvisa impulsività nel vederlo baciare Alycia, lo sfidò in singolar tenzone. Mai lo Sventurato fece errore più grande di quello, dicono le leggende: mai.
Per caso, il duello non fu per nulla lungo e i colpi, per giunta di notevole irrilevanza, furono del tutto privi di violenza, malgrado uno – il principino – combattesse con una daga afferrata da un tavolo vicino, e l’altro – lo Sventurato – maneggiasse una spada. Forse lo Sventurato si era pentito del duello non appena aveva preso il sopravvento, ma nel guardare la sua pulzella amata, e nel sapere che il vincitore avrebbe preso la sua mano, egli si era fatto forte ed era passato al combattimento corpo a corpo. Uno spintone, poi due, lo Sventurato le prese di santa ragione, ma una di quelle sue cariche indusse Aidan ad arretrare ed arretrare: un passo, poi un altro e infine… il vuoto. Il principino cadde di peso giù dalla finestra della camera privata di Alycia, senza neppure rendersene conto, e la daga gli si conficcò nel petto durante il volo.
«“Aiuto!” gridò la principessina a quel punto. “Aiuto! Aiuto!”. E, certamente, l’aiuto non tardò a giungere. Lo Sventurato venne presto condotto di forza nelle celle più buie di Vento Burrone, e lì vi rimase per moltissimo tempo, finché il buio e l’umidità non corrosero la sua pelle. Fu solo dopo alcune settimane – molte a dire il vero – che Orwel Norstone scese a tirarlo fuori da quel macabro postaccio, malgrado non lo facesse per aiutarlo. Lo Sventurato fu condotto davanti ad un consiglio d’esilio, fu processato dinanzi agli sguardi provocatori, odiosi ed irritati di Alycia Norstone, suo fratello Hollard, matres Samyna ed Aldrick Powell, padre di Aidan. Inutile a dirsi, lo Sventurato fu giustamente decretato colpevole e fu messo a morte. “È la testa di questo mostro, quella che voglio” urlò Aldrick Powell. “Che lo vogliate o meno l’avrò, con o senza la forza”. Ebbene, quantomeno le volontà di Aldrick non si concretizzarono mai, per fortuna, ma lo Sventurato fu riportato nelle celle.
«La penultima luce del suo cammino della sventura fu quella della matres che lo aveva processato, Samyna, la quale aveva riconosciuto la sua colpevolezza di fronte a tutti, ma aveva provato così tanta pena per lui da infrangere i suoi voti per salvarlo. “Io verrò meno al mio giuramento” gli sussurrò all’orecchio nel farlo sgattaiolare fuori dalla cella. “Ma tu promettimi che lo rinnoverai per me”. Si dice che lo Sventurato non seppe mai il motivo di quell’uscita, nonostante il suo cuore e la sua mente cercarono a lungo una risposta.
E così - e che lo volesse o meno era di contorno - lo Sventurato fu costretto a marciare per il nord sulla groppa di un palafreno irrequieto, nudo dei suoi beni, spogliato della sua stessa pelle e del suo nome. Impiegò un mese per scorgere l’ultima luce: l’Accademia, e lì si fece patres pronunziando l’ultimo voto della sua vita da Sventurato, che lo cambiò e gliene diede una cento volte migliore. Ma questa aggiunta è un parere personale del sottoscritto». Patres Steffon portò le mani al bacino, tirò indietro il corpo e si sgranchì la schiena.
«Una storia molto bella» disse Bart, malgrado non avesse inteso quale fosse il motivo di quel racconto. «Ma un po’ triste. Non abbiamo bisogno di piangerci addosso, ora come ora.»
«No, hai ragione. Ma… ecco… cosa avresti fatto, ser Bart, se ora fossi stato al suo posto? Avresti avuto la stessa impulsività contro quel principe Aidan?»
Bart ci pensò un momento sopra. Probabile che si sarebbe arrabbiato molto se qualcun altro avesse baciato la ragazza di cui era innamorato, ma non pensava che avrebbe potuto far del male a quella persona.  Dopotutto, che colpa poteva averne quell’altro considerato un ostacolo?
«Io… Steffon… non credo che avrei reagito a quel modo.»
«Non lo credi» replicò Steffon «Ma ciò non significa nulla, dopotutto. Spesso non sappiamo cosa potremmo fare in una situazione, finché quella non si presenta davanti ai nostri occhi. Neppure io avrei immaginato mai qualcosa di simile… eppure, quando la situazione si è presentata così dinanzi ai miei occhi, io non sono stato in grado di lasciarla scorrere senza interferire. Sono sempre stato uno stupido, disgraziato, sventurato ragazzetto senza cervello e senza un briciolo di intuito. Non sono in molti a conoscere questa storia… ma io, be’, posso vantare di averla vissuta. Tutta, ser… dall’inizio alla fine.»
Quelle parole lasciarono di stucco Bartimore, che non si sarebbe mai aspettato una simile confessione da Steffon. Guardò il patres, poi il cielo, poi di nuovo il patres; ripensò alla storia, all’avventura da cavaliere dello Sventurato, alla passione di quello per Alycia Norstone, al violento gesto compiuto, al processo, alla prigionia… non poteva essere vero.
«Steffon…». Fu l’unica cosa che riuscì a mormorare.
L’uomo in questione si alzò, la tunica già sporca ora infangata di melma ed erbetta secca dello sterrato. L’esperto guardò ser Bart negli occhi. «Una volta parlavo perché dicevo di avere la lingua troppo lunga. Poi sostituii quella filosofia ad un’altra: a parlare erano gli oneri accademici. Ma l’unica verità è sempre stata questa: io parlo perché so cosa significa avere le braccia più svelte della mente, ser Bart. E anche tu lo sai. E la guerra, amico mio, non tollera questo genere di uomini. La guerra ha bisogno di calcolatori, di gente oscura in grado di tramare nell’ombra senza destare il minimo sospetto, di pensatori piuttosto che di cavalieri… di uomini che non provino amore o dolore. Ora capisci perché ho sempre parlato?»
Lo capiva? Bart non rispose. Non c’era nulla da aggiungere, in effetti. Per quale ragione si era mostrato così intollerante nei confronti di Steffon? Dietro quella tunica si nascondeva un uomo che, malgrado se lo fosse sempre ripetuto, non aveva mai imparato ad apprezzare. “Quanto vali, ser Bart?” si chiese.
Patres Steffon intuì la fine del dialogo: si voltò e fece per andarsene.
«Steffon». Bart lo fermò. Tante, troppe domande turbavano la sua mente: una sola fuoriuscì dalle sue labbra quasi spontaneamente. «Che ne fu di Alycia Norstone?»
«Della principessina?» ripeté Steffon. «Davvero non ne ho idea. Chissà se tuttora ha ricordi di me… io di certo ne ho ancora. Be’, credo sia difficile dimenticare una persona che ha segnato per sempre la tua vita… nel bene e nel male… ecco, credo sia difficile dimenticare uno sventurato.»
«Perché hai raccontato questa storia a me?»
«Perché?» fece Steffon. «Semplicemente perché tu sappia quanto siamo simili, nonostante tutto. Anch’io ho amato una ragazza, persa per un brutto scherzo del destino. Anch’io sono stato un cavaliere, anch’io ho fatto un giuramento che mi ha sconvolto la vita. Anch’io, ser Bart, ho vissuto da cavaliere… eppure so che morirò da esperto, e so che accetterò ciò che il destino vuol darmi senza fare opposizione, senza piangermi più addosso. L’ho capito tardi, è vero… ma l’ho capito». Steffon s’inumidì tre volte le labbra con fare nervoso. «Ora è meglio tacere. Si è fatto tardi ed è giusto che tu riposi. Domani affronteremo un viaggio più lungo delle nostre possibilità di marcia, per il quale dobbiamo essere tutti coscienti. Lascia che sia io a fare la guardia adesso.»
Bart lasciò il suo posto all’esperto senza fargli ripetere nuovamente il comando. Aveva davvero bisogno di dormire, in fin dei conti. «Steffon» mormorò un’altra volta prima di andare a dormire accanto a ser Mark e ser Dayn, accucciati entrambi accanto al barroccio. «Pensi che arriveremo davvero sani e salvi all’Accademia?»
Forse anche lui, in fondo, desiderava scorgere il bagliore prodotto dalla salvezza.
Steffon lo guardò a lungo prima di rispondere. «Vorrei poterti dire di sì» rispose «Davvero vorrei farlo. Ma il viaggio è ancora lungo, la strada è molta, i campi sono vuoti e noi siamo ogni giorno più affamati. Se potessimo anche solo per un momento far scorta di qualche cibo, davvero potrei fare maggiore affidamento sulle mie parole.»
«Là» esclamò Bart puntando il dito verso nord. «Guarda, Steffon! Giardini pieni di frutta, gialli come il sole anche durante la notte». Era più che sicuro che quei campi fossero gli stessi indicati dal mercenario Rowan Dentigialli, ma tenne gelosamente per sé quel particolare, conscio che Steffon non avrebbe preso altrettanto bene quell’indicazione.
Il patres si voltò a guardare il punto indicato e contorse il volto in un’espressione di incertezza. «Giardini in fiore» biascicò in risposta. «Potremmo farci un salto.»



♣ Angolo d'autore ♣
Il viaggio nelle terre del Nord procede spedito, mentre fame e stanchezza iniziano ad avere la meglio sulla nostra compagnia di uomini. Se a questa minaccia si aggiunge poi quella di essere tallonati costantemente dalla paura, dalla tensione e dal rimpianto, ecco che si ottiene il mix perfetto di caos e distruzione.
E così, la tensione si rivela evidente anche nei rapporti tra i compagni: basti vedere l'astio non detto che separa Bart e Steffon, o l'imbarazzo che divide lui e Dayn. Cose pensate, a proposito, del giovane falconiere?
Questo è senza dubbio il capitolo di Steffon: in tantissimi avevano dubbi sulla sua figura e molti altri mi avevano chiesto chi veramente fosse. Ecco, possiamo dire di aver parzialmente dato risposta a molte di queste domande. Cosa ne pensate? Come vedete, alla luce di quanto detto, la figura dell'esperto? Avevate carpito qualche collegamento con la storia dello sventurato di Dunwark?
E ancora, che mi dite della conclusione? Quei giardini in fiore potrebbero rivelarsi davvero utili ai nostri?

Così vi saluto: ringrazio ognuno dei miei recensori, speciali come pochi con i loro acutissimi pareri, e mando un grande abbraccio a tutti i lettori assidui e silenziosi, nonché a coloro che hanno messo la storia tra le seguite. Al prossimo aggiornamento, dove rivedremo un po' di azione! [lunedì 19 c.m.]
Makil_

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Capitolo 4
*** IV ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



La luce del sole tingeva alla bell’e meglio quel nido gigantesco di fusti contorti, braccia nodose di finissimo legno da cui penzolavano frutti di ogni genere e forma. Tra gli ammassi di limoni gialli come l’oro, cornucopie di frutta di ogni genere si accalcavano l’una sull’altra tra i folti e floridi grovigli di foglie del giardino.
Quello che avevano di fronte i quattro vagabondi era a tutti gli effetti uno degli spettacoli più belli della natura. I giardini fioriti si estendevano per un indefinito numero di acri e coprivano gran parte di un suolo che, in un clima di carestia così forte, non avrebbe facilmente partorito tutti quei beni. Chi aveva progettato quei giardini lo aveva fatto con immensa pignoleria, studiando un metodo davvero efficiente per permettere al corso del Ravinh di deviare ed incunearsi all’interno delle siepi verdeggianti che coronavano il giardino, affinché abbeverasse ogni fusto di quel campo con meticolosa cura. Ovunque di posassero gli occhi di Bart, c’erano rami intricati e robusti, altri sottili, appena nati, e tanti altri ancora molto alti. I limoni pendevano da quasi ciascun arbusto, splendendo sotto il sole cocente di quella calda giornata come tanti piccoli soli appostati l’uno dietro l’altro. Quella che si trovavano davanti era a tutti gli effetti un tesoro ribollente, succoso, profumato e dannatamente invitante.
Persino lo zampino inquisitore di Steffon era stato dolcemente schiaffeggiato sul nascere quando si erano ritrovati di fronte a quella immensa tana di cibo. «Una miniera» aveva mormorato correttamente ser Mark. «Potremmo tuffarci lì dentro ed uscirne di notte. Sono sicuro che diverremo grossi come quei limoni là in fondo.»
Al che Steffon aveva riso. «Una miniera: hai ragione, ma non la nostra. Questa è la miniera di Giardino Fiorito, miei signori, un campo di frutta che ha il compito di far proliferare l’economia del regno a cui appartiene. Se l’avessi intuito prima, vi avrei detto di procedere verso est. Questo campo è di proprietà della casa Wargrave, di cui i figli si dicono essere tipi tutt’altro che ospitali e molto gelosi delle cose che gli appartengono»
Tuttavia, malgrado le prediche dell’esperto, tutti e persino lui avevano ceduto alla tentazione di avvicinarsi anche solo di poco a quei piccoli arbusti di limone: la fame aveva iniziato a farsi desiderare ardentemente, e non c’era rischio o pericolo che effettivamente potesse costringerli ad indietreggiare. Non c’era guardia a difesa di quei possedimenti, né un singolo arciere nascosto tra le fronde di qualche albero: solo il giardino, unico custode di sé stesso e di quelle dolci prelibatezze. Chi si sarebbe accorto del furto di una misera parte di quella consistente riserva?
Pochi passi li avevano condotti in un grande spiazzo all’interno del giardino, circondato da ogni lato dalle schiere di alberi colmi di frutta. Il corso del fiumiciattolo giungeva al centro dello spazio sterrato e si tramutava in una piccolissima sorgente, la quale scendeva sotto la terra e passava a piccoli sorsi all’interno di tunnel scavati proprio per irrigare a poco a poco le radici di ogni fusto.
«Questa qui è opera di un esperto» ipotizzò Steffon. «Solo un uomo ben istruito sarebbe capace di creare un simile sistema di irrigazione». Bart sapeva, invece, che non era proprio del tutto vero.
A Sette Scuri era stato lo stesso Dalton Kordrum, su probabile ideazione di sua moglie Amisa, a rendere possibile l’inizio degli scavi per quelle che furono presto chiamate Vene d’Acciaio, un ammasso di canali sotterranei che si intersecavano l’un l’altro come serpenti imbizzarriti, utili tutti insieme per condurre l’acqua calda nelle vasche di ogni casa del regno e nelle stanze private della corte reale.
«Dividiamoci» propose ser Mark divorando una nocepesca afferrata al volo. «Prendete quanto più potete prendere e dopo tornate qui. Passiamo a fil di spada questo maledetto giardino!»
Steffon piegò le labbra in segno di diniego. Il patres avrebbe sicuramente avuto molto da ridire, ma ser Mark non gli diede modo di rimproverarlo: il cavaliere corse più avanti e si inoltrò all’interno del giardino di rami che li circondava. Steffon avrebbe preso la sua parte di guida, se non avesse avuto la stessa fame di ciascuno dei suoi compagni. Il patres spostò il carretto verso ovest e si preparò a setacciare i piccoli arbusti di limone in riga sulla sponda del fiumiciattolo.
Ser Dayn e ser Bart passarono a raccogliere i frutti di ogni arbusto che si affacciava sulla breve sponda orientale della sorgente, entrambi sul dorso delle loro bestie. Nuvola e Lenticchia si stacano sollazzando in tutta quella buona, dolce e succosa frutta. Per quel poco che gli fu consentito, Lenticchia se la spassò nell’afferrare gli scuri grappoli d’uva con colpi netti del muso.
Le ciliegie splendevano nei loro piccoli fusti, le pesche crescevano tondeggianti sugli alberi di pesco, l’uva sbucava dai viticci, viola, ricca di polpa. C’era talmente tanta frutta, che presto i quattro erranti si persero di vista pur di acciuffare in modo migliore quanto più cibo potessero ghermire.
Bart fece avanzare Lenticchia verso oriente, spingendosi sempre più all’interno di quell’intricato ammasso di arboscelli. Avrebbe dato la vita pur di rimanere per sempre lì dentro a gustare tutte quelle sane prelibatezze. Il profumo di tutta quella frutta era capace di irretire i suoi sensi.
Poco lontano dalla sua postazione, il nitrito affamato di Lenticchia gli fece notare uno dei più robusti alberi di ciliegie. «Sh» fece alla bestia. «Piano ci arriveremo.»
Bart afferrò la maggior parte degli acini d’uva di quella folta vite, assicurandosi di mettere tutte quelle che non c’entravano in bocca nella sacca creata arrotolando la camicia. Finito il lavoro, spronò Lenticchia ad avanzare verso un nuovo arbusto. Senza neppure badare a quanto sbagliato o giusto fosse il suo gesto, Bartimore continuò a privare ogni arbusto dei suoi frutti, riflettendo solo su quanto ancora non fosse sazio e su quanto filo da torcere stesse dando Lenticchia, che nel frattempo si stava dando da fare per scalciare sempre più nervosamente. «Ora ci arriviamo» cercò di quietarlo, ma il cavallo non rispose in alcun modo alle sue parole.
L’acqua stava gorgogliando lentamente sotto ai suoi piedi, nelle cavità più interne al terreno, occupandosi di dar da bere a tutte quelle piante. Bart fece avanzare Lenticchia verso un robusto albero di limoni. “Ne prenderò qualcuno” si disse. Allungò la mano.
«Altolà, impostore!»
Bart, la bocca piena di ciliegie e le guance rosse cotte dal sole, fu costretto a gettare ogni cosa ai piedi di Lenticchia. Le ciliegie iniziarono a rotolare vicino agli zoccoli del cavallo e uno dei tanti limoni discese fino ad arrivare vicino all’uomo che lo aveva richiamato. Il grosso e rubicondo cavaliere lo schiacciò col piede e rigirò l’arto sull’agrume per ben due volte prima di sollevare lo sguardo. Bart fece per indietreggiare, ma il grasso cavaliere sfilò fulmineamente la sua spada e la puntò al suo petto. L’uomo che lo minacciava di non muoversi era un tipo dal ventre molto prominente, il naso rosso e pieno di vene scoppiate, gli occhi sporgenti, le sopracciglia folte e il capo calvo. Bart fece per parlare: alzò le mani.
«Ho detto che devi fermarti» ordinò con una voce profonda. Il naso del cavaliere grasso colava appena di un sangue scuro e asciutto. Al braccio destro cingeva uno scudo dipinto di bianco dalla forma triangolare, sul cui dorso era disegnata una fanciulla sanguinante in gonna e corona.
«Posso spiegare…»
«Nessuno ti ha dato ordine di parlare» riprese il cavaliere con tutta l’aria di volerlo pungolare veramente al petto. «Scendi da questo cavallo, nel buon nome degli dèi… qualunque siano i tuoi!»
Bart non attese che il cavaliere lo minacciasse nuovamente; smontò da Lenticchia senza lasciarne la presa delle redini e portò rapidamente la mano sinistra all’elsa di Lungacrestra.
«Ti trovi nella proprietà della corona Wargrave, impostore, e stavi rubando la ricchezza di una casa secolare. Dovrai risponderne di fronte alla buona giustizia dell’Accademia, nel buon nome degli dèi che servi!». Il cavaliere non accennò ad abbassare il braccio. «Sei un altro sporco traditore della Signora dei Merletti?»
«Non conosco nessuna Signora dei Merletti, ser. Se posso, io avevo solo…»
«Sta’ muto o ucciderò entrambi.»
«Entrambi?» riuscì a domandare Bart, quasi terrorizzato da quell’uscita minacciosa.
«Te e il cavallo, lurido figlio di una cagna.»
Il tono del cavaliere non poteva certo apparire amichevole: persino Lenticchia lo notò presto e, per questo, prese a nitrire e scalciare molto furiosamente.
«Chi ti manda a rubare le provviste del mio signore, allora?» chiese il ser.
«Nessuno: solo la fame. Non mangio da…» rispose secco Bart.
«Queste in cui ti trovi sono terre di sua signoria Roscart Wargrave, e non è concessa l’entrata ai mercenari.» lo fermò il cavaliere. «Ma tu non sei un mercenario, ser. Vorrai negarlo?»
«Non lo nego.»
«Io li conosco quelli come te. Oh, non giriamoci a lungo attorno allora, giovane ficcanaso, quella baldracca sporca della tua Signora dei Merletti ti ha comandato di riportarle i giardini… o almeno i frutti di quello che dice essere di sua proprietà. Un vero peccato per te che qui ci fossi io. Non è la prima volta che tentate di mettere le vostre luride zampe sul bene primario dei Wargrave. E ora ve le tagliamo noi, le mani. E poi magari le appendiamo anche ad uno di questi alberi, così il prossimo che passa a rubare acciuffa qualcosa di più della solita frutta.»
«No» mormorò incondizionatamente Bart. “Non questa volta”. «Hai sbagliato persona, ser.»
«Come dici?». Il cavaliere tese maggiormente la spada ed infilzò il suo petto girando la punta dell’arma nella sua carne. Ne risultò una scura fuoriuscita di sangue, di un rigagnolo che attraversava appena la camicia.
Bart si morse il labbro fino a fare sanguinare anche questo. «Ho detto che hai sbagliato persona.»
Non resistette un secondo di più. Si tirò indietro, diede un calcio nel ginocchio del cavaliere con una forza che bastò a farlo cadere per terra e sfilò rapidamente Lungacresta. In breve la situazione si ribaltò: Bart si stagliò contro il ser panciuto, puntò la sua spada contro di lui e lo minacciò severamente con lo sguardo. «Non una sola parola di più, o ti taglio tutto ciò che hai di più caro.»
Il cavaliere si spostò per terra strisciando sul ventre con i gomiti sporchi di terra, poi si girò supino.
«Per chi agisci?» domandò furioso Bart. “Razza di bifolco”.
Il cavaliere non osò rispondere; si limitò a squadrarlo torvo e a sputargli sul piede destro.  
Bart alzò la lama contro il cielo e fece per abbassarla minacciosamente. “Ne ho il diritto?” si chiese prima di compiere quel gesto. Gli era sempre stato insegnato ad utilizzare la parola prima che l’acciaio, qualunque fosse la gravità della situazione presente.
«Cavaliere» pronunciò lentamente il grasso ser oppresso. «Riponi la tua spada e parliamone da civili. Io… io… potrei aver sbagliato.»
«Potresti» fece Bart, prima di rinfoderare Lungacrestra. «Potresti davvero». Gli diede la destra e lo aiutò a rimettersi in piedi. «Ma ti consiglio di fare più attenzione, la prossima volta.»
Il cavaliere si esibì in un sorrisetto mellifluo. «E io ti consiglio di farlo adesso!»
A quel punto Bart perse la concezione del reale. Fu colpito alle spalle da un colpo d’elsa alla base del collo e fu costretto a cadere pesantemente sulle ginocchia. In breve si ritrovò con la testa schiacciata contro il suolo, lo stivale del ser grassoccio a schiacciare la sua guancia, la lama puntata dritta contro la sua schiena.
«Lo avevo detto a quel tuo bastardo di un compagno» urlò il grasso cavaliere. «Com’è che aveva detto di chiamarsi? Oh sì, ser Wilbert delle Marche Brune… come dimenticare! E non potrò dimenticare neppure le urla che seguirono al suo arresto, quando gli facemmo staccare di sana pianta la testa dal collo e la gettammo nel catrame. Non avete tutti i torti voi della resistenza della Signora dei Merletti: il sangue è fetido… sì, il vostro lo è tanto». Il cavaliere sospirò e ridacchiò. «Ser Walifer, arresta questo lurido impostore… è tempo che sappiano quanto vale la parola dei Wargrave: la loro signora sembra averlo scordato da un pezzo. Solo le legnate avranno modo di ridarle coscienza.»
Ser Walifer era il cavaliere che lo aveva colpito con l’elsa della sua spada: un uomo dalle spalle larghe, le braccia robuste e poderose come i fusti dei tanti arbusti che li circondavano. La cosa che più incuteva terrore era il suo volto: un viso dalla mascella squadrata con una perfezione magistrale, i lineamenti perfettamente disegnati, se non per l’occhio sinistro mancante e sostituito con un bulbo vitreo color fuoco, oltrepassato da una lunga cicatrice scarlatta.
Ser Walifer non aspettò l’ordine successivo: come un cane richiamato dal suo padrone, si apprestò a sollevare di forza il corpo smagrito di Bart per la collottola, lo voltò di spalle e gli afferrò le mani in modo tutt’altro che gentile. Bart non rimase impassibile: tentò di farsi di lato due volte, ma si liberò solo alla terza. Un pugno abbattuto sulla cotta di ser Walifer gli diede il tempo di sguainare Lungacresta e di portarla sulla sinistra, mentre il suo nemico si contorceva con le mani allo stomaco per il dolore causato dal colpo.
«Ser» lo richiamò il grasso cavaliere che si era lasciato alle spalle. Non appena Bart si voltò, il ser dal ventre poderoso sguainò rapidamente un pugnale; portò l’arma alla stessa velocità sotto alla gola di Lenticchia e recise nettamente il collo del cavallo. Il colpo, mirato perfettamente alla carotide della bestia, mandò l’innocente creatura ad accasciarsi dapprima sulle gambe, poi definitivamente per terra. Fu con uno sguardo di piena incoscienza che la creatura lanciò un ultimo sguardo puro a quello che era stato il suo più fedele compagno di viaggio negli ultimi mesi di vita.
Bart non vide più quale freno potesse trattenerlo: scartò di lato, mulinò furiosamente la sua lama e la scontrò verso il grasso ser. Questi parò il suo primo colpo, deviò un suo fendente, e continuò ad affrontarlo per un altro paio di mosse. Bart aveva tutta l’intenzione di abbatterlo: non aveva alcun dubbio su questo. Fece una finta, alzò la lama e gliela scaraventò sul suo corpo, ma il cavaliere panciuto riuscì a parare il colpo con il suo scudo triangolare, che si frantumò tra le sue mani e si sbriciolò in cento pezzettini di legno e schegge.
Infierì presto con un fendente e riuscì ad infilzarlo sul costato. «Vediamo se anche tu hai del sangue». Bart mulinò la sua spada e gliela calò con forza all’altezza del braccio. Gli strappò via quel poco legno che aveva messo a pararlo, dilaniò la sua cotta e...e…
…e uno strano suono investì lo scontro: la mano del ser panciuto si staccò di netto dal suo braccio, la spada cadde definitivamente ai suoi piedi, e lo stesso arto rotolò sul terreno come un limone appena staccato dal suo fusto. Il ser urlò per il dolore e il suo volto si fece molto più rosso di quello di Bart, sporcandosi non solo dell’ira del cavaliere, ma anche del sangue che zampillava da quella grande ferita.
«Lurido essere schifoso» piagnucolò il ser panciuto ricadendo sulle ginocchia e afferrando ciò che rimaneva del suo braccio con l’intento di fermare la fuoriuscita del sangue. Il cavaliere dal ventre sporgente iniziò a dimenarsi per terra. «Cavaliere della Forca, dannato uomo inutile, acciuffa questo impostore e uccidilo!»
Ser Walifer prese a rincorrerlo per il giardino.
Bart scavalcò per primo il cavaliere panciuto genuflesso sul terreno, poi anche il cadavere inerte del suo povero cavallo, e fuggì via verso ovest: lo stesso punto da cui era arrivato lì. Ripercorse rapidamente la strada fatta sul dorso di Lenticchia, lo sguardo annebbiato dal dolore e dall’ardimento. Il cavaliere che lo rincorreva era tanto grosso quanto lento e presto lo perse di vista allo stesso modo con cui lui perse la sua preda. Si precipitò attraverso un sentiero di siepi basse, passò sotto al ramo contorto di un piccolo albero di mele e scavalcò un robusto macigno di granito.
Ben presto si ritrovò nello spiazzo di terra battuta che conteneva la sorgente d’acqua: ma ciò che vide non fu nulla di rincuorante. Patres Steffon e ser Dayn giacevano per terra, mani e piedi legati, due daghe puntate violentemente alle gole da due ser arcigni tanto quanto quelli che si era lasciato alle spalle. A giudicare dal sangue che avevano sul corpo, anche i suoi due compagni dovevano aver combattuto, benché la superiorità numerica di tutti quei cavalieri doveva averli abbattuti senza scrupoli.
«Steffon!» urlò Bart che di colpo si era fermato sulla sponda destra della sorgente, agitando le sue deboli braccia. «Dayn!»
Chissà cosa avrebbero risposto quei due, se lui li avesse potuti osservare anche solo da una distanza più ravvicinata. Steffon, nonostante le ferite, avrebbe sicuramente avuto modo di lamentare la loro stupidità o avrebbe addirittura rimproverato i suoi scellerati modi accentuati dalla fame. Forse ser Dayn lo avrebbe accolto con uno dei suoi caldi sorrisi, con i suoi occhi luccicanti e pieni di speranza.
Bart non poté mai dare conferma dei suoi pensieri: ser Walifer, il Cavaliere della Forca, lo afferrò aggressivamente dalle spalle, gli piegò le braccia dietro alla schiena e gli afferrò con una sola mano la nuca. L’ultimo suono che avvertì fu lo scricchiolio delle ossa del suo collo, ruotato con impeto a sinistra, che lo mandò a coricarsi per terra, nel buio più totale. 



♣ Angolo d'autore ♣
Entriamo nel vivo della storia con questo capitolo alquanto nefasto: i nostri hanno visto da vicino i famosi giardini descritti da Rowan Dentigialli... ma qualcosa è andato storto. 
Vi avevo promesso azione, e credo ci sia stata. Questo capitolo di snodo costituisce le fondamenta per la trama che verrà, introducendo personaggi di notevole rilevanza. Ma prima di quelli, è necessario badare un po' ai nostri.
Cosa ve ne è parso dell'atteggiamento di Steffon, distaccato ma al tempo stesso permissivo nei confronti dei compagni? Vi aspettavate una conclusione tanto disastrosa? 
Cosa mi dite del gesto di Bartimore? Del suo essersi scagliato contro il ser panciuto e minaccioso, privandolo addirittura dell'arto? Dite che il nostro giovane ser avrebbe fatto lo stesso nel primo libro? 

Siamo costretti a salutare uno dei più longevi personaggi della storia: Lenticchia. Cosa mi dite della sua morte?
E cosa della conclusione del capitolo? Cosa pensate sia successo a Steffon e Dayn... e dov'è finito ser Mark? 

Insomma, fatemi sapere... sono curiosissimo di leggervi!

Un capitolo alquanto violento e rude: così - pur con rammarico - vi lascio. Ringrazio recensori e lettori, dal primo all'ultimo. Siete tutti troppo gentili. Al prossimo appuntamento, miei cari! [lunedì 26 c.m.]

Makil_

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Capitolo 5
*** V ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Il sospiro moribondo e grigio di Bartimore si condensò a mezz’aria, tremando.
Quando riacquisì la coscienza fu costretto a tenersi forte sul dorso di una bestia che avanzava molto rapidamente, sollevando la schiena ad ogni dosso, e che perciò non gli consentiva di trovare una posizione comoda per quel viaggio. Bart sollevò appena le palpebre per osservare ciò che stava accadendo attorno a lui. Doveva essere un bel gruppo di cavalieri, quello che lo circondava da ogni lato, confinando il suo debole corpo in uno spazio angusto e fetido. Era caduto in un campo attorniato da piante forti e si era risvegliato sul dorso di una bestia, circondato sì, ma non più da qualcosa di rassicurante come lo erano stati quei vigorosi arbusti con la loro frutta fresca.
Da quella posizione supina, sfiancata, sul dorso dello stallone nero, Bart riconobbe il viso burbero e malandato di ser Walifer, il ventre prominente di quel grasso ser impertinente che aveva causato quella grave diatriba e le armature di tanti altri cavalieri della loro scorta: sembravano mercenari, ma era palese che fossero invece cavalieri votati ad una causa, a detta loro, giusta.
Poco lontano, alla sinistra del cavallo che lo reggeva, patres Steffon giaceva sul loro stesso carretto, gli occhi serrati, la bocca imbavagliata e i polsi legati dietro la schiena. Non riusciva a scorgere ser Dayn, ma qualcosa gli faceva dire con certezza che non doveva essere molto distante: dopotutto, lo aveva visto al giardino nella stessa condizione del patres. Di ser Mark, invece, non c’era alcuna traccia: nessuno aveva trovato l’anziano cavaliere nel momento in cui il giardino dei limoni era stato passato a setaccio, e Bart non poteva astenersi dal pensare che Mark si fosse nascosto in qualche cunicolo sotterraneo, riuscendo nel suo intento di sfuggire al pugno dei nemici in un modo davvero perfetto. Li avrebbe salvati da quei mostri che, coprendosi di un’armatura e di un titolo, stavano agendo nel disonore dei nemici? I cavalieri li avevano additati come chissà quale genere di ribelli, ma forse non avevano ben inteso quale fosse la loro, di posizione. Qualcuno avrebbe dovuto spiegarglielo bene, se mai gli avessero dato la possibilità di farlo.
Bart si prese un momento per osservare il lungo cammino che stavano percorrendo a fatica: un sentiero contorto che si inerpicava sulla fiancata di una collina e che stavano risalendo a brevi passi, goffi e spesso inutilmente marcati. C’erano all’incirca sei casette di legno ai lati della stradicciola, ognuna delle quali vuota e quasi completamente lasciata al suo stato di abbandono.
 Il ser dal pancione possente sedeva sulla sella di un grosso cavallo dal manto bianco latte, mordendo una mela rossa che teneva stretta nell’unica mano rimastagli. L’altro arto stava ancora sanguinando gravosamente, gocciolando di copiose quantità di succo rosso come la buccia del frutto.  
Se non farà nulla per curarlo, presto o tardi gli cadrà tutto il braccio” pensò Bart, augurandosi di vivere tanto a lungo da poter vedere quella scena, e assaporandone già il piacere.
«Ti ha dato del filo da torcere, quel piccolo moccioso» sfotté il Cavaliere della Forca nello scorgere l’espressione contrita del suo compagno d’arme. «Non avrei mai pensato che potesse tranciarti di netto la mano, Henry. Pensa a quante azioni del tutto spontanee dovrai dire addio ora che hai una mano in meno del normale.»
Il ser corpulento piegò la bocca verso il compagno e gli lanciò un’occhiataccia colma di rabbia repressa. «E tu, Walifer, corri come una baldracca senza gambe!» lo stuzzicò poi. «Dovrai vedere cosa metterò nel mio nuovo scudo: un bellissimo affresco di te, Cavaliere della Forca, senza gambe e con una gonnella.»
Ser Walifer serrò la mascella.
«Che c’è? Preferisci forse la sottana?». Il ser senza mano rise di buon gusto, prima di essere messo a tacere dallo sguardo minaccioso di ser Walifer, tipico di un cane in procinto di ringhiare al suo padrone.
«Ser Henry Ventrefloscio» lo richiamò un cavaliere dall’aspetto corpulento che cavalcava alle spalle del suo cavallo bianco. Bartimore non riusciva a vederlo completamente, ma la sua voce era piuttosto calda. «Sta’ ben attento a come parli con il nostro Cavaliere della Forca, se non vorrai diventare il nuovo Henry Testafloscia!»
«Mi basta quel primo soprannome, ser Dalwar; e comunque non è il caso che tu t’intrometta in una cosa che non ti riguarda». Ser Henry Ventrefloscio diede di speroni, lanciò il torsolo della mela sul sentiero e acciuffò con un solo pugno le redini del suo cavallo, superando in corsa la schiera di cavalieri armati fino ai denti.
Giunsero alla fine del sentiero solo sul tardo pomeriggio, quando il lieto cantò degli uccelli lasciò spazio al brulichio delle cicale, e la sterrata cotta dal sole ad un ammasso di fredda terra scura. Ognuno dei cavalieri si diede vicendevolmente disposizione di montare l’accampamento per la notte, e di aspettare la luce del sole per attraversare l’ultimo tratto di strada che li separava dal loro regno. Ser Herny Ventrefloscio, con la scusa di doversi occupare della medicazione della sua mano, cedette il compito a ser Walifer, il quale, spinto dal dovere di fasciare e curare il moncherino del cavaliere che serviva come un cane, lo diede a sua volta a ser Jockon, detto il Cacciatore di Lepri, un cavaliere ingobbito e trasandato, dall’aria smorta ed avvilita. Alla fine, l’ordine di montare il piccolo padiglione sgualcito che tutti definivano accampamento toccò a ser Pater Boccastretta, che fu costretto a cedere al dovere senza poter replicare, a causa del mutismo che lo opprimeva dalla nascita e che gli aveva fornito il suo soprannome. Ser Dalwar dovette andare a cercare la legna da ardere nel bosco che si estendeva al limitare della stradicciola con al seguito ser Wack e ser Thipp il Bruno che avrebbero dovuto occuparsi di portare la cena ai loro compagni.
Ser Walifer inchiodò il carretto alle radici di una quercia, sollevò di peso patres Steffon e lo lasciò cadere per terra. La stessa sorte toccò al malconcio ser Dayn, che fu mandato a rotolare sul fango con la medesima noncuranza riservata agli animali. Infine, ser Walifer afferrò il corpo di Bart con entrambe le mani e lo posò accanto al tronco della quercia, le spalle poggiate al legno e i polsi strettamente legati. “Questi lacci mi taglieranno la pelle” pensò divorato dal dolore. “Che siano maledetti!”. Al suo fianco, l’inerme patres Steffon era completamente svenuto, la pelle pallida e tumefatta.
Fu solo quando la luna sorse nel cielo, che i cavalieri si disposero attorno al fuoco, seduti su ceppi di alberi sradicati o abbattuti, intenti a far ruotare sulle fiamme la selvaggina acciuffata nel bosco. Ser Wack e ser Thipp, a detta di tutti, avevano fatto davvero un ottimo lavoro, ma nessuno aveva dato un solo accenno di lode a ser Dalwar, che era stato in grado di procurarsi tutta quella legna in così poco tempo. Immersi negli schiamazzi delle loro voci e dei loro dialoghi privi di un senso, i cavalieri iniziarono a mangiare la loro cena, afferrando le lepri spellate e le ali dei fagiani senza alcuna delicatezza e preoccupandosi di lanciarsi insulti di tanto in tanto.
«Dove hai trovato queste belle bestie, Wack?» domandò ser Henry Ventrefloscio masticando il suo pezzo di carne. «Credevo che il boschetto di Giardino Dorato fosse tutt’altro che pieno.»
«Per quelli senza occhi lo è sempre stato» ribatté ser Wack, un tipetto dalle orecchie spioventi, i baffetti neri e le spalle curve e smagrite. «Ma io fortunatamente mi sono guadagnato un pizzico di abilità nel corso della mia vita. E gli occhi non mi mancano.»
«Nemmeno le orecchie» schernì ser Walifer sputacchiando il poco cibo che teneva con entrambe le mani.
«Il tuo senso dell’umorismo è davvero spiccato» replicò ser Wack. «Riesci a ridere da solo, Cavaliere della Forca, o hai bisogno degli ordini del tuo padroncino per farlo?»
“Razza di ignoranti” pensò ser Bart. Come potevano essere incappati in un luogo simile e con gente simile? Dalton diceva sempre che le Terre Brulle fossero tutt’altro che un luogo ospitale e accogliente, sempre e comunque segnato dall’aridità dei tempi. Che quegli uomini avessero patito il caldo fino a perdere il loro cervello? Bart voleva proprio sperare che ne avessero avuto uno un tempo.
Di certo non avranno avuto un cuore” si costrinse ad ammettere angosciato. Il pensiero che quel cavaliere panciuto gli aveva portato via il suo Lenticchia lo faceva andare su tutte le furie. Il destriero era stato un compagno poco fiero, leale fino al midollo, quieto e timido più del dovuto; come poteva essere morto per mano di un uomo che era il suo esatto opposto? E per quale arcana ragione, in fin dei conti? Chi si era accanito contro quella innocente creatura, lassù? Se il mondo sapeva essere crudele e spietato, la vita ancor di più: una cosa che aveva imparato senza l’aiuto di nessuno dei suoi mentori e che anzi aveva conosciuto suo malgrado.
Ser Dalwar portò in alto il suo piccolo pugnale di acciaio bianco, che si illuminò con un mezzo sorriso nella penombra. «Grandi congratulazioni al nostro ser Henry Ventrefloscio, compagni!» urlò. «Per averci fatto immergere in un mare pescoso e ricco dei migliori pesci.»
Ser Henry sorrise quasi imbarazzato, i lati della bocca sporchi di grasso animale.
«A che ti riferisci, Dalwar?» chiese ser Thipp, che pareva essere tanto lento con le parole quanto lo era di comprendonio.
«In una sola settimana abbiamo avuto tre doni dal nostro amato Ventrefloscio.  Il nostro carissimo signore, Roscart Wargrave, non potrà che elargire tutte le sue più grandi cariche e farci signorotti, quando tornerà dalla sua ispezione alla Valle del Vespro.»
«Io ho preso questi tre impostori, ser Dalwar. E sempre io ho messo nel sacco quel ser Wilbert qualche giorno fa» rammentò l’ora inquieto ser Henry. «Vuoi forse prenderti gli unici meriti che mi spettano?»
Ser Dalwar aggrottò violentemente la fronte. «Voglio augurarmi che tu stia scherzando, ser Henry: siamo una compagnia, e le compagnie agiscono insieme e per l’insieme. I tuoi meriti sono e saranno anche i nostri.»
«E quanto ai punti di sutura? Quelli saranno solo miei!» replicò con fare cagnesco ser Ventrefloscio «Quando avrete una mano in meno, allora ne potremo anche riparlare: ma fino ad allora non avrò intenzione di dividere il mio bottino personale.»
«Questo lo vedremo.»
Poco più tardi, patres Steffon si risvegliò dal suo sonno senza luce. In quel breve istante di lucidità, aprì appena gli occhi, si schiacciò contro il tronco della quercia e iniziò a respirare a tratti, in modo affannato. Ammiccava con gli occhi e non si capacitava del luogo in cui era capitato. Non pronunciò neppure una parola, ma si limitò a guardarsi attorno, gli occhi privi di speranza, vuoti e totalmente incolore, che lasciavano intuire quanto disastrosa fosse la loro situazione. Non rimaneva altro da fare se non pregare la misericordia delle Grazie, la loro pietà… e quella di tutti gli uomini che li circondavano.
«Sapete che ne farà Roscart di questi prigionieri?»
Alcuni scossero il capo, altri risero, altri ancora non prestarono neppure attenzione a quella domanda, ma continuarono a masticare la loro cena.
«Ci sarà un processo» asserì ser Walifer. «Questo ha detto il Falso Esperto. E come per loro, anche per tutti gli altri che ci sono nemici.»
«Ma tu guarda, la giustizia è arrivata anche ad Ockswert.»
«Giustizia?» tuonò ser Dalwar. «Davvero possiamo parlare di cosa sia giusto o cosa sia sbagliato? E poi, a sentire da chi proviene questa predica, dovrei iniziare a ridere per smetterla solo domani! La giustizia è disonorevole qui a Pantagos. Togliere il pane ai poveri per dare l’oro ai ricchi, la definite giustizia questa?»
Nel gruppo calò un cupo silenzio.
«Al diavolo la giustizia, allora» sbraitò ser Thipp. «Mal che ci vada, non saremo noi a rimetterci la pelle.»
Certo” pensò Bart “Ma noi sì… solo per aver rubato quattro limoni, un paio di pesche e due ciliegie”.
«Roscart non giustizierà questi tre buoni a nulla» sbottò ser Dalwar. Bart si mise diritto a sentire che volesse dire, e lo stesso parve fare Steffon. «Un po’ di timore li rimetterà in riga tutti, tanto da fargli capire che hanno sbagliato. La storia con la Signora dei Merletti si chiuderà qui, e fine di questa lunga fiaba senza lieto fine. È la vera guerra quella che dovrebbe preoccuparci ora, non un conflitto inutile contro un’anziana donna che noi abbiamo a lungo rispettato come signora di Giardino Dorato, come nostra sovrana.»
«Perché non hai le palle di dirlo anche a sua signoria Wargrave? La vera guerra è quella che più preme alle porte, quella che viene a bussare continuamente alle nostre case» ribatté ser Wack. «Magari non lo avrai notato, Dalwar, ma Giardino Dorato ci è stato sottratto con un tranello. Quella baldracca vive a spese del nostro signore Roscart ora: ordina ai suoi cavalieri di bere dai suoi calici, dormire nei suoi letti, sputare nei suoi piatti, pisciare nelle sue latrine, camminare sui suoi pavimenti, sedere sulle sue panche… e finanche sottrarre i frutti del suo giardino! Questo conflitto colpisce violentemente le nostre porte, molto più della storia a Roshby e di qualsiasi altra guerra. E noi, da buoni anfitrioni quali siamo, non possiamo negargli la nostra ospitalità
«Solo perché l’ingrato signore che serviamo non ha avuto il coraggio di partecipare al torneo, ma ha preferito restarsene ad Ockswert fingendo di avere il Fiore Rosso. Con cos’è che si tingeva la pelle? Succo di ciliegia? Anche lui le sottraeva al suo giardino, allora… e non per mangiarle!»
«E questo chi l’ha detto?»
«Patres Wulvryck» rispose ser Dalwar. «L’esperto ha giustamente intuito che i bubboni di quella malattia non sanno di ciliegia.»
«Che vada alla dannazione lui e tutta l’Accademia» sbraitò ser Henry Ventrefloscio accompagnando la sua affermazione con un sonoro rutto. «Non possono andargli contro, ora. Ho sentito che hanno preso una seria intenzione: assegnare a lui la guida dell’esercito di arcieri degli Elmi Scuri. Devono prendere posizione… insomma, non possono sostenerlo ed abbatterlo con le stesse mani.»
«Loro possono fare questo ed altro.»
«Loro potranno pure farlo» replicò ser Walifer. «Ma la Signora dei Merletti no. Quella vecchia sgualdrina ha bloccato gli introiti di Giardino Fiorito per far decadere l’economia dei Wargrave. Ha ordinato ai suoi cittadini di non pagare più una sola tassa, di infangare la cittadina. Roscart Wargrave non vivrà a lungo se si continuerà così. E prima o poi, quella signora si taglierà da sola.»
«Ti illudi, Walifer» disse ser Dalwar. «La Signora dei Merletti sa benissimo cosa sta facendo. Quando il nostro signore rimarrà senza un soldo, con lui cadranno tutte le sue cose che possiede. Se perderà il potere sul giardino – come sta tentando di fargli fare lei – Roscart sarà costretto a rimanere sommerso nel suo stesso fango. Quello è l’unico pozzo d’oro che gli rimane. Ockswert cadrà se questo conflitto si protrarrà ancora a lungo, ve lo assicuro. E con il nostro meraviglioso sovrano cadremo anche noi, pezzo dopo pezzo, pelle dopo pelle, fino a divenire polvere.»
«Qual è la soluzione?»
«Convincerci a smetterla di combatterci. L’altra sera mi sono chiesto una cosa: possono due uomini che si sono amati per tutta la vita iniziare a mordersi senza sosta fino a distruggersi l’un l’altro? Non è giusto, secondo me. E noi stiamo solo alimentando il loro odio, servendoci del potere della corona che è stata sottratta a Roscart». Ser Dalwar squadrò ser Henry. «Sanguini Henry… la tua mano…»
«È il nervosismo» sbottò Ventrefloscio.
«Brutta bestia, quello lì». Dalwar sorrise e strappò con un morso la morbida pelle del leprotto. «E dimmi, dovuto a che cosa?»
«Quasi sicuramente alle tue parole infanganti. Ma ti senti quando parli? Ci fai la morale, ma dimentichi che anche tu hai preso parte a questo assalto. Sei come il fante che scaglia la pietra, colpisce il nemico, e poi incolpa la sua mano di essere meschina.»
«Devo ammettere che il nervosismo ti rende anche più stupido, Ventrefloscio». Aspettò invano che il ser panciuto raccogliesse. «Io parlo perché so di cosa sto parlando… e perché so ancora come si usa un cervello. Roscart ci sta utilizzando tutti… vorrei farvelo capire, dico sul serio. Lui ha i suoi scopi da raggiungere, le sue mire ben precise, che convergono tutte nella presa di Giardino Fiorito. E per fare ciò  non solo necessita del nostro appoggio, ma spera anche in quello politico dell’Accademia. Ti è chiaro il motivo per cui cerca in tutti i modi di darsi da fare per apparire buono agli occhi degli esperti?»
Ser Henry afferrò l’estremità del suo braccio mutilato con rabbia. «Tu parli male di Roscart Wargrave e poi pretendi che io spartisca con te i miei meriti. Insulso, fellone…». Ser Henry si alzò in piedi di forza, disposto ad assalire con l’enormità del suo ventre ser Dalwar. Fu in quel momento, però, che un urlo giunse loro da poco lontano.
«Cavalli!» vociava la sonora voce di un ser messo a guardia dell’accampamento. «Uomini a cavallo! Cavalli! Alle armi! Alle armi!»
Ogni cavaliere si alzò dalla propria seduta, sguainò le spade, si strinse nell’armatura e vociò ordini alimentando gli schiamazzi iniziali. Dalwar prese posto tra i difensori del focolare, mentre ser Henry rimase impassibile di fronte al vuoto. «Piano!» si dicevano «Bloccate gli ingressi!» o ancora «Fermateli!»
Bart iniziò ad avvertire le incostanti vibrazioni del suolo solo qualche secondo più avanti. I corvi planarono a dozzine fuori dagli alberi, e con loro anche numerosissime bestemmie. A quelle seguirono inesorabilmente i rumori prodotti dallo scalciare irrequieto delle bestie furenti.
In breve, un gruppo di cavalieri dalla mantella nera li circondò. Erano irriconoscibili sotto a quel cielo scuro, visti dal basso, e coperti dai loro copricapi. Uno si avvicinò più degli altri.
«Sapevamo di trovarvi qui». La voce rauca del cavaliere risuonò familiare a Bart.
Ser Dalwar si avvicinò alla figura incappucciata a cavallo, portò avanti la spada e pungolò il petto dello sconosciuto. «Straniero, rivelati e dicci chi sei e cosa volete da noi.»
Il cavaliere a cavallo smontò rapidamente, allontanò la lama di ser Dalwar dal suo petto, e si scoprì il volto lasciando ricadere il cappuccio sulle spalle. Il suo viso era quello di un cavaliere ordinario, ma i suoi denti ne svelavano presto l’identità. “Forse è qui per salvarci” pensò Bart, scostandosi verso di loro per farsi notare. Patres Steffon gli si posizionò accanto strisciando.
«Rowan Dentigialli» chiamò ser Henry. «Quale migliore onore, in una serata talmente ricca di belle cose!»
Dentigialli sputò per terra un grumo di saliva bianca. «Tieni per te tutto quello che hai da dirmi per far sì che ti risparmi la vita; non siamo qui per sentirvi dire queste cose.»
Fu ser Walifer ad avvicinarsi troppo alla figura del mercenario, posizionandosi di fronte al suo corpo gracile. «Cosa ti porta qui, Dentigialli?»
«Alt, Cavaliere della Forca» lo ammonì Rowan. «Mi hai fregato una volta, e avrei dovuto ammazzarti allora. Farai meglio a restarmi lontano se non vorrai perdere l’uso della parola questa sera, come un tempo perdesti quello dell’occhio. Te la stacco quella schifosa bocca, lo giuro, se solo t’azzardi a fare un passo in più». Rowan Dentigialli alzò la mano destra con un gesto fulmineo e la lasciò tesa a mezz’aria. Bastò quel gesto perché cinque degli uomini alle sue spalle afferrassero e incoccassero simultaneamente le frecce nei loro archi. «Un’altra mossa e gliele farò tendere. Avete due occhi a testa? Aye, presto avrete anche due frecce conficcate in ciascuno!»
Un altro cavaliere dalle guance rubiconde e le sopracciglia folte e scure si avvicinò al mercenario a cavallo. «Dicci cosa vuoi, Rowan, e falla finita con questi giochetti, nel nome di sua signora Wargrave.»
«Ho un regalo prezioso per voi» sputacchiò il capo dei Vassalli della Notte. «Un regalo per cui desidero un grosso pagamento.»
Ognuno dei cavalieri fece qualche passo indietro non appena lo vide smontare dal suo palafreno. Il mercenario dai denti ingialliti caracollò fino alla sella di uno dei suoi compagni di sventura, un omaccione che montava un cavallo nero dalle gambe muscolose. Sul dorso faceva capolinea il corpo moribondo di un uomo disteso di pancia, quasi flaccido e senza ossa. Un sacco di farina avrebbe assunto una posizione migliore.
«Razza di babbei, cos’avete al posto degli occhi? Vi siete presi ‘sti tre e ve ne siete fatti sfuggire uno! Eccovelo qui!». Rowan Dentigialli afferrò con entrambe le mani il corpo legato ed imbavagliato di ser Mark, che iniziò a scalciare come fosse inferocito, e lo gettò nel fango facendogli sfuggire un gemito di dolore nell’impatto col suolo.
«Volevo tagliargli le mani, ma c’ho ripensato. Fatelo voi per me e mandatemele: mi ci farò una collana, aye.»
«Dove lo hai trovato?» domandò ser Walifer, fattosi guardingo.
«Dove non avete cercato voi, babbei. Un tipo veloce, aye, ma io sono stato più veloce di lui.»
«Gli hai fatto del male?»
«I nemici della nostra corona sono nostri nemici: solo e soltanto nostri, Dentigialli. E un uomo che punisce un altro uomo al posto della giustizia è punibile quanto il presunto colpevole.»
«Cosa, cosa? Che diamine vai fantasticando, ser demente? Male, dici? Poh, no, non sono così cattivo. Ma se per male intendete anche l’avergli tagliato un orecchio, allora sì! Diciamo che è stato un regalino: l’ho alleggerito di un pezzo. Ultimamente fa caldo qui a Nord, non trovate anche voi?»
Nel gruppo vi fu un sussulto. “Maledetto!”. Bartimore strinse i denti. Li aveva imbrogliati, li aveva cacciati nella tana del lupo… a quale maligno scopo?
Rowan Dentigialli infilò le mani nella tasca della mantella e lanciò per terra l’orecchio mozzato di ser Mark, ancora sporco di sangue. «Oh sì, ovviamente sono entrato anch’io nel vostro sporco giardino, ho messo le mani su questo infido mostro, gli ho cavato via l’orecchio, l’ho utilizzato come bersaglio per un paio di giochi con le pietre. E ora cosa volete fare di me? Attaccatemi, aye, e i miei compagni faranno i vostri corpi a brandelli per mangiarli! Alzate pure le vostre stramaledettissime lame e io alzerò un’altra sola volta la mano. Poi non ci sarà altro da alzare oltre che ai vostri luridissimi cadaveri, che hanno già un posto riservato sul fondo del Ravinh.»
Il cicaleccio degli insetti della notte era cessato: tutti i cavalieri rimasero immobili, le spade puntate verso ciascuno dei mercenari, ognuno più armato e più grosso di loro. Dentigialli rimontò sul suo palafreno ed afferrò le redini con forza, poi si voltò verso Bart. «Erano buoni i limoni, ser?»
Bart fece per alzarsi, afferrare Lungacresta e spaccargliela sul cranio, ma le corde che gli stringevano i polsi gli fecero ricordare aspramente di essere nulla più che un prigioniero immobilizzato. Patres Steffon riuscì a mormorare qualcosa. «Non… hai onore, Rowan… Dentigialli.»
«Oh, guarda chi striscia nell’ombra. Steffon… povero Steffon…» fece a tono lui prima di dare di speroni al suo palafreno. «Loro mi hanno pagato con più monete. Siete stati taccagni, amici, e gli dèi vi hanno mandato questa punizione!»
Per un attimo tutti si volsero a guardare il loro battibecco; almeno fino a quando lo stesso Dentigialli non smorzò il silenzio glaciale che gravava sul luogo. «Insomma» tuonò «Lo volete o no questo cadavere di uomo? Se no, ditemelo presto, lo trasformo in cibo per mie dodici cagne.»
Ser Wack gli si avvicinò lentamente, l’elsa dalla spada in pugno. «Quanto chiedi?»
«Per voi, amici miei, solo tre ori.»
«Tre ori?» fece sbalordito ser Ventrefloscio. «Per un uomo che non conosciamo e che non appartiene alla nostra scorta? Sono troppi, puoi tenertelo!»
«No!» s’intromise Steffon, irrequieto. «Ve ne prego… pagheremo noi… per voi, ma non fatelo… non fatelo andare a morire. Quest’uomo è un essere spietato e senza un briciolo di… onore, di… umanità. Se avete ancora un pezzo di cuore… ve ne prego… ve ne prego…»
Dentigialli gli rivolse un risolino sbieco, sicuramente lo aggradava vedere un esperto supplicare. «Hai capito, Steffon: con l’onore non ci pago niente.»
Ser Walifer avanzò verso Steffon. «Dove tieni gli ori, prigioniero?»
«Nella tasca interna.»
«Non fargli del male, Cavaliere della Forca» lo redarguì ser Dalwar prima che il grosso cavaliere dalla faccia lacerata potesse mettergli le mani addosso. «È un prigioniero della corona Wargrave, e come tale dovrà rimanere fino al giorno del processo.»
Il Cavaliere della Forca badò poco alle parole di ser Dalwar e gli mise le mani addosso con fare minaccioso. Alla fine trovò ciò che cercava, ma non senza aver tramortito un paio di volte Steffon.
«Ecco il tuo denaro, Dentigialli.»
«E lì ecco ciò che hai comprato» Rowan Dentigialli, dall’alto della groppa del suo palafreno, assestò un calcio sulla schiena di quel che rimaneva di ser Mark.
L’ultima parola della serata fu di patres Steffon, agitato e indolenzito più che mai. «È nel momento in cui si mette di mezzo il denaro… che si scopre la vera natura di un uomo». Il patres guardò il mercenario in cagnesco, non mancando di contrarre le labbra. Se avesse saputo ringhiare, Steffon lo avrebbe sicuramente fatto.
«Aye, e la tua è sempre stata quella di un maiale schifoso, Steffon, anche senza ori o argenti… perdona la franchezza. Presto o tardi ti mangerò, ripulirò il tuo cranio e ne farò un calice da cui sorseggire del buon vino. Poi getterò le tue ossa nel Ravinh!». Il mercenario sogghignò.
Come al seguito del proprio pastore, la mandria di mucche che circondava Dentigialli si mosse dietro di lui, non appena questo ripartì al trotto.
Pochi attimi dopo fu come se nulla fosse mai accaduto, e tutti continuarono a tacere fino all’alba, come gelosi di custodire un segreto che non aveva nulla di segreto, come imbarazzati dall’essere stati circondati da un gruppo di mercenari che, in un modo o nell’altro, li aveva ingannati più di una volta.
Alla fine tutto scomparve nelle loro menti, ma solo il laido ghigno di Dentigialli perseguitò Bartimore per tutta la durata del tragitto.

 


♣ Angolo d'autore ♣
Un parto: senza ombra di dubbio alcuno.
Ho rischiato per questa settimana di farvi mancare l'aggiornamento: purtroppo la vita privata mi ha costretto lontano dal pc oggi, ed ho saputo ritagliarmi uno spazio privato a fine giornata per pura fortuna.
Detto ciò: ecco qui la "trama nella trama" di cui ho tanto parlato nelle risposte alle vostre recensioni precedenti. Bartimore, Steffon e Dayn, in fin di vita, si ritrovano catapultati in qualcosa che effettivamente non è di loro competenza: un equivoco, insomma, che gli costerà cara la pelle. 
Cosa pensate di tutta la faccenda? Cosa della situazione dei nostri? E cosa della diatriba tra Roscart Wargrave e la Signora dei Merletti? Come immaginate questi due personaggi alla luce delle parole della schiera di servitori Wargrave?
Abbiamo modo, in questo lungo capitolo, di stringere conoscenza con alcuni personaggi che saranno ulteriormente approfonditi nel corso del tempo: cosa mi dite, al momento, di ser Henry Ventrefloscio, ser Walifer e ser Dalwar?

Si procede inoltre, in conclusione, con il ritorno nelle scene di un personaggio alquanto ambiguo: Rowan Dentigialli. E' chiaro che, forte di quanto conosciuto, ha ingannato i nostri uomini, trasportandoli nella bocca del leone consapevole del rischio che stavano correndo. Ma non è tutto: ser Mark, sfuggito ai primi nemici, finisce per essere catturato dal capo-mercenario. Che mi dite dei due personaggi? Che destino presagite per il povero Mark?

Insomma, in questo capitolo più che mai sono proprio curioso di sapere davvero cosa pensate: le vicende sono tante, i personaggi pure. Non esitate a fare domande, non possono che farmi piacere. Per il resto, comunque, spero che l'atmosfera e i suoi contorni siano più o meno ben delineati. Questo capitolo di snodo è davvero importante e necessario a sorreggere il resto della storia. 
Conclusa questa odissea di frasi probabilmente sconnesse tra loro (mi scuso, causa l'orario), vi ringrazio tutti di cuore, amici e lettori, e vi auguro di trascorrere un'ottima settimana. Al prossimo capitolo [lunedì 5 Marzo]
Un bacione,

Makil_



 

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Capitolo 6
*** VI ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



I raggi del sole iniettavano le loro fiamme giallastre sopra ai tetti di quello che doveva essere il regno di Roscart Wargrave: un ammasso indistinto di tetti color argilla e torrioni di pietra rigida di una tonalità simile a quella della sabbia umida. Le creste che dipingeva il sole sul tetto delle tre torri di quel regno sembravano chiome dorate in perfetto contrasto con il grigiore delle mura disposte a circondarlo. Tutt’attorno l’aria era terribilmente fetida, immobile e senza un solo sospiro di vento a rinfrescarla. Poco lontano c’era qualcosa di simile ad una pozza d’acqua scura, un profondo pozzo di mattoni da cui poter ricavare un po’ d’acqua, qualche recinzione per animali sparuti e tre casolari del tutto abbandonati, a giudicare dall’aspetto malandato che gravava su di essi.
Cos’è questo posto?” avrebbe chiesto Bart in altre situazioni. L’ingresso del regno era presidiato da due piccoli torrette di guardia, i cui tetti erano bordati da merlature disomogenee. A difendere le feritoie dalla bestia più feroce delle Terre Brulle – il caldo – c’erano seguiti di tendaggi viola e bianchi, sotto ai quali si riparavano file di arcieri con le loro balestre cariche, che non poterono che far ripensare a Bart al tragico momento del torneo falsato di Roshby.
Nel tragitto verso il portone d’ingresso, il solo a rivolgere la parola ai prigionieri fu ser Dalwar, che aveva un viso più che sudato e un paio di orecchie scarlatte ai lati della testa, simili a grosse pustole in procinto di esplodere. «Hai sete, ser?»
Bart scosse il capo, nonostante fosse più che assetato: non avrebbe accettato mai e poi mai di bere qualcosa proveniente da un nemico.
«Sembrava il contrario» fece lui, poi accennò ad allontanarsi.
«Ser Dalwar» lo chiamò Bart con un filo flebile di voce. «Perché ci state portando qui?». “Meritiamo di soffrire così tanto?
«Non dovrei parlartene, ser, ma mi sembrate già troppo malridotti per non sapere neppure dove vi stiamo portando». Ser Dalwar grugnì. «Vi darò una dritta: questo è Ocskwert, un piccolo borgo cittadino della casa Wargrave, possedimento di sua nobile maestà Roscart, signore indiscusso di Giardino Dorato.»
Fu patres Steffon a prendere parola dopo di lui. «Giardino Dorato è a sud-ovest, cavaliere, e noi siamo diretti a nord. Cosa vuol dire tutto ciò?»
«Sta’ calmo e non sforzare la tua mente, patres, o morirai di infarto prima di poter sussurrare l’ultima parola: il caldo non ti sta giovando mica. Il nostro signore ha alcuni problemi con la sua donna, per adesso. Discussioni di piccolo calibro, davvero, che, pietra dopo pietra, hanno portato a creare una valanga di problemi. E questa valanga ha condotto con sé la separazione forzata dei due. Ora la Signora dei Merletti ha avuto l’accortezza di appropriarsi del titolo di signora di Giardino Dorato, ha sbarrato gli ingressi al marito e alla sua corte, e lo ha costretto a fuggire nell’unico posto disponibile: qui, esattamente, ad Ockswert.»
Patres Steffon chinò il capo. «Noi stiamo molto male, ser, e non abbiamo intenzione di morire… ve ne prego, liberateci. Non conosciamo la storia del conflitto dei vostri signori… e voi sapete che non ne abbiamo mai preso parte. Veniamo dal sud… ed ecco… e non conosciamo i vostri…»
«Nostri non sono» lo fermò bruscamente ser Dalwar.
«Non vostri» si corresse immediatamente Steffon. «Ve ne prego, liberateci. Abbiamo sofferto a lungo le pene di un viaggio estenuante che ci ha condotti da Roshby, dopo un torneo finito nel massacro, alle Terre Brulle. Abbiamo visto morire un nostro compagno, ucciso dal Fiore Rosso. Abbiamo patito le peggiori pene dell’inferno per un po’ d’acqua… non abbiamo colpe, ma solo fame e sete.»
«Posso darvi l’acqua» promise ser Dalwar tenendo salde le briglie del suo cavallo. «Ma ciò non vi salverà dal processo. Se sarete fortunati e se è vero che non avete colpe, allora non avete neppure da temere: in quel caso non vi sarà torto un solo capello. Ma se qualcuno dovesse testimoniare contro di voi e se sarete additati come ribelli della Signora dei Merletti, nessuno potrà salvarvi, né con le parole né con i fatti.»
Ser Dalwar non concesse alla discussione di procedere oltre, diede di speroni e si allontanò in corsa alla punta della compagnia.
L’immenso portone di legno di Ockswert era chiuso, sbarrato da una possente grata di ferro nero. Ser Dalwar e ser Walifer si disposero dinanzi all’ingresso e ordinarono ai loro cavalli di dare un calcio ai battenti.
«Chi va là?» vociò un tono possente proveniente da una delle strette feritoie.
«Ser Dalwar e tutti gli altri» rispose il cavaliere. «Non credo sia necessario ripetere continuamente questa domanda, Zacharias. Non avete altri cavalieri all’infuori di noi.»
«Aprite la chiusa!» urlò un’altra sentinella invisibile.
Il rumore assordante di una serie di meccanismi arrugginiti preannunciò l’apertura del cancello, che andò via via alzandosi per lasciare spazio allo scuro portone di legno che li separava da Ockswert.
«Chi avete con voi?»
«Prigionieri, cavalli e vettovaglie» rispose ser Walifer.
«E chi non avete più con voi?»
«Smettiamola con queste formule di rito, dannazione!»
«Ripeto: chi non avete più con voi? Sua signoria Wargrave ha dato ordine di segnare perdite e acquisti continuamente. Non ho voglia di rimetterci la mano per non averlo ascoltato.»
«Ser Henry ha perso la mano: a proposito, la considerate una perdita rilevante?»
«Non tanto da incidere su tutti i nostri calcoli, ser.»
Il portone iniziò ad aprirsi molto lentamente. Ciascun battente fu tirato verso l’interno dai grossi macchinari a forma di ruota che giravano in modo vorticoso e rapido. Alla fine, l’ocra di cui erano affrescati tutti i palazzi di quella scombussolata cittadina fu ben visibile ad ognuno di loro.
Il gruppo si mosse a brevi passi e iniziò a dividersi: alcuni cavalieri della scorta proseguirono verso ovest, in una piccola e stretta stradicciola che sembrava concludersi con un vicolo solitario e lontano, magari verso una locanda. Altri invece raggirarono un grosso edificio dalle mura quasi arancioni e si diressero verso una piazza che, a detta loro, non doveva essere molto lontana. Quanto a ser Walifer, ser Henry e ser Dalwar, la loro marcia proseguì verso nord, su una salita che s’inerpicava attorno ad un piccolissimo colle, diretta verso la dimora, non del tutto nobile, del signore di quel posto. Con loro, ovviamente, furono costretti ad andare anche i rispettivi prigionieri, Bart scomodamente poggiato sul dorso dello stallone di uno dei minacciosi oppressori.
La strada che seguivano terminava ad un certo punto in un grande spiazzale acciottolato, zona in cui si erigeva un altro di quei grandi edifici dalla pianta quadrangolare, perfettamente delineato e scolpito come un colosso di rigida pietra, di appena qualche piede più grande degli altri che lo circondavano.
“Che posto misero per morire” pensò Bart. “Dalton non avrebbe permesso che io morissi come un brigante. Lui non avrebbe mai permesso che io venissi catturato”. Bart stava rivalutando da giorni ormai il suo essere e il suo agire. Davvero poteva considerarsi un cavaliere, alla luce di tutto quello che gli era capitato? I cavalieri non si lasciavano abbattere con così grande facilità! O almeno non quelli che Bart conosceva e aveva imparato a conoscere.
Si ricordava ancora dei ser che aveva visto combattere nelle quintane di Roshby, quei maledetti giochi che erano sfociati nel più efferato disastro degli ultimi decenni, e aveva ancora memorie, seppur sbiadite, di tutti i cavalieri che aveva conosciuto nella sua breve vita. Ricordava persino dell’abilità di Esmerelle con la spada, che di certo superava la sua destrezza. Era certo di una cosa: nessuno era mai stato tanto debole quanto lui. Nel vedere i suoi compagni malridotti sul carro e sul dorso dei cavalli nemici, soffriva come non aveva mai sofferto in vita sua, e si dispiaceva tanto per la sorte che era toccata loro e ancor di più per non essere stato in grado nemmeno questa volta di porvi adeguatamente rimedio. “Presto o tardi sarà tutto finito, amici” questo forse lo rincuorava, stranamente. “Saremo quanto più vicini quando ci taglieranno via la testa dal collo”. Sarebbero davvero arrivati a tanto quei loro oppressori? La ricerca di una risposta, in verità, non lo consolava affatto.
I cavalieri accostarono il carretto all’ingresso dell’edificio, e guidarono i pochi cavalli in un piccolo box adiacente a quell’infido palazzo. Bart fu preso di peso da ser Walifer, che se lo mise sulla spalla come un sacco di grano pronto per essere dato ai fornai, e con la stessa noncuranza lo trasportò con sé verso il portone d’ingresso.
L’ampio salone del palazzo di Roscart Wargrave aveva pareti dello stesso colore della terra riarsa, come se i mattoni che le componevano fossero appena stati cotti a fuoco lento in un potente ed immane camino. L’accesso dava sulla sala del trono, uno scranno di legno ben rifinito e dall’alto schienale a forma di sole. Al di sopra del sedile regale s’innalzava un’immensa vetrata variopinta in cui erano disegnate varie scene di combattimenti e tanto altro ancora, in un minuzioso ed intricato ammasso di figure color rosso, blu e giallo che sembravano danzare a contatto con la luce del sole come pezzi di un mosaico fatto interamente di vetro. Il pavimento della sala era di marmo pallido e freddo, attraversato da qualche striatura di nero appena intravedibile, come le gelide vene di un uomo sul suo esile braccio. Nel complesso, quell’enorme salone era tetro e quasi asfissiante, con le sue tre navate che sembravano chiudersi attorno ai poveri prigionieri di viaggio, quasi come a volerli soffocare all’interno di tutto quel marmo e di tutta quella roccia incolore.
E incolore erano anche i volti di coloro che lì dentro risiedevano.
Una sentinella a guardia dell’ingresso fece cenno di avvicinarsi e gli consentì di passare. Bart, ancora sulle spalle del Cavaliere della Forca, vide il tramortito patres Steffon camminare a capo basso tra ser Henry e ser Dalwar, gli spessi lacci legati ad entrambi i polsi. Steffon non avrebbe retto ancora per molto a tutti quei soprusi: Bart era convinto che da lì a poco avrebbe iniziato a redarguire uno per uno tutti i cavalieri che li avevano costretti a tanto.
Ser Dayn e ser Mark furono trasportati dentro con tutto il carretto per le vettovaglie: i due dovevano essere talmente tanto tramortiti da non poter neppure aprire un attimo gli occhi per vedere in quale immondo disastro fossero incappati. “Un bene, forse” pensò Bart. “Se mai dovessero morire, non capirebbero nulla”. Ma Bart… Bart avrebbe capito… e anche troppo: forse era per questo che non aveva alcuna intenzione di rimetterci una mano, o un braccio, o la testa, per qualche frutto mai davvero assaporato o per una colpa mai commessa.
Percorrere quella sala fu più doloroso che camminare su una strada fatta di carboni ardenti. Quale peggiore oltraggio gli sarebbe potuto toccare? Essere spogliato del suo onore, della sua forza, della sua tenacia, dinanzi ad un pubblico così gelido ed irremovibile com’erano quelle pareti di roccia, non poté che sminuire il giovane Bartimore a tal punto da indurlo a coprirsi la faccia con le mani, ancora legate saldamente al nodo stretto che cingeva i suoi polsi. Se avesse potuto camminare al posto di ser Walifer, Bart sarebbe corso via per il dolore. Un cavaliere - uno vero - non poteva reggere alla sua distruzione, allo sgretolamento, passo dopo passo, del suo più importante tesoro: l’onore; un tassello del mosaico del suo animo che era estremamente importante… e dannatamente distruttivo, quasi mortale talvolta.
Lo scranno del signore di quel palazzo s’innalzava su un palco di legno, difeso ai lati da altre due sedie robuste e gelide. Ai lati del trono sedevano due guardie dall’aspetto tutt’altro che minaccioso, senza spada né armatura, ma difesi solo da corazze appena smaltate. “Quello non è neppure vero acciaio” pensò Bart vedendoli. Erano veramente dei cavalieri? Fino ad ora, Bart non aveva visto neppure uno…
Simile ad un solitario arboscello notturno, appena avvizzito e tralasciato da qualsiasi lucciola, per nulla nel fiore dei suoi anni, al centro dell’ampio salone li attendeva in piedi un uomo dai lineamenti più che ossuti e gravosamente scarni. Il suo naso adunco e la sua fronte sporgente gli donavano un aspetto quasi buffo, e tale sarebbe apparso completamente se non fosse stato per i suoi capelli canuti dall’attaccatura sulla nuca e la sua pelle pallida come le nubi rilasciate da bivacchi appena innalzati su un campo di gelido ghiaccio. L’uomo indossava un farsetto nero in pieno contrasto con i colori della sua pelle, attraversato per lungo da strisce grigie che dipingevano figure contorte sulle sue vesti, e che terminava con un collo alto del colore del cuoio raggrinzito.
Ser Walifer depose per terra il corpo di Bart, senza assicurarsi di farlo con l’attenzione necessaria a non fratturargli l’osso del piede. Al suo fianco vennero posti i due ser privi dei sensi, Mark e Dayn, e patres Steffon. C’erano anche altri prigionieri con loro, Bart se ne era reso conto solo adesso, ma nessuno di loro era nelle condizioni di sostenere un processo seduta stante o anche solamente di alzarsi e maledire qualcuno dei loro oppressori. Le ginocchia erano doloranti come se fossero appena state utilizzate come bersaglio di un gioco con le pietre e l’intero completo di maglia di Bart era insanguinato e sporco. La mandibola era tornata a dolergli, e le ferite ricevute al torneo falsato di Roshby bruciavano sotto alla maglia e sotto alle brache “Dannazione”. Bart strinse i denti tanto forte da costringersi a pensare che si sarebbero spaccati. “Fa’ che le ferite non si riaprano”.
«Già di ritorno, uomini?» sentenziò l’uomo dalla pelle bianca.
Ser Henry si avvicinò, costrinse uno dei suoi prigionieri a chinarsi. Patres Steffon fece lo stesso, alla sinistra di Bart, e lui fu costretto a ripetere l’operazione di saluto con la stessa teatralità. Una volta genuflessi tutti i prigionieri, nessuno ebbe più modo di rimettersi sulle due gambe. Il pavimento era gelido sotto alle ginocchia del giovane cavaliere, freddo e ghiacciato come la neve torbida che negli inverni più rigidi ricopriva le merlature e i doccioni delle mura della fortezza di Sette Scuri. “Grazie, datemi forza” pregò Bart. “Datemi…” Cosa avrebbero dovuto dargli? Avevano potere in quella tetra fortezza? “Datemi… coraggio”.
«Di ritorno e a mani piene» rispose pronto ser Walifer. «Più di quanto ci saremmo aspettati, in effetti.»
«Bisognerebbe aspettarsi di tutto in giorni come quelli che corrono, Cavaliere della Forca. I ribelli e i traditori sono come i peli… più li tagli, più loro ti recano l’affronto di crescere forti e numerosi.»
Al fianco sinistro di Bartimore, patres Steffon aveva chinato il capo come pronto a ricevere qualsiasi genere di frustata. “No, Steffon…” Bart capì solo allora di averlo perso: l’esperto non avrebbe mai chinato così profondamente il capo.
L’uomo dalla pelle pallida fece qualche passo verso loro. I prigionieri, in una schiera di cinque, immobili come rigide e tozze colonne di un edificio, si ritrassero simultaneamente. Egli fece finta di non notare questo particolare e si posizionò di fronte al primo dei prigionieri sulla destra.
«Un galantuomo dalla pelle albina» pronunciò ad alta voce, gli occhi semiaperti, quasi come a volerlo studiare. «Mi somigli, giovane. Chi sei e da dove vieni?». L’uomo gli pose un dito sotto al mento e gli alzò la testa con violenza. «Guardami;  i miei occhi non hanno mai pietrificato nessuno.»
«Castellano…» iniziò a piagnucolare il prigioniero. «Lasciatemi andare, ve ne prego… sono un padre di famiglia, non ho mai avuto parte in ciò di cui sono accusato. È stato ser Varymar a dirmi di attaccare le vostre riserve… ve ne prego!»
Lo schiaffo che gli arrivò sulla guancia produsse un rumore che risuonò lungo tutti gli angoli del salone. L’uomo dalla pelle bianca corrugò la fronte. «I titoli giusti agli uomini giusti; diamo ad ognuno quel che è di ognuno, vigliacco. Perché avete preso d’assedio le nostre riserve a Giardino Fiorito?»
Il prigioniero si tastò con entrambe le mani la guancia color porpora, il segno delle cinque dita dell’oppressore impresso come con una marchiatura a fuoco. «Ve ne prego…»
«Perché avete preso d’assedio le nostre riserve a Giardino Fiorito?». Chi sentenziava aveva un tono ferreo, indiscutibile… e tanto bastava ad incutere più timore di uno di quei cavalieri alle loro spalle, seppur fosse armato, ammantato del gelido acciaio, ricoperto di tutto l’odio e il rancore del mondo.
«Un ordine» pronunciò silenziosamente il prigioniero. «Mi avrebbero ucciso… strappato le dita! Sono un buon padre di famiglia… i miei figli… oh, poveri dolci creaturi… chi dirà loro che sto per morire? Io non ho colpe… e mia moglie, oh povera donna… il suo cuore non è più forte come un tempo.»
«Sarà più povera di quanto tu non credi, una volta che ci saremo ripresi di forza Giardino Fiorito. Di’ ai nostri uomini qual è il suo nome, vigliacco, e le offriremo un trattamento peggiore di quello che potresti immaginare nei tuoi più brutti sogni.»
«NO!» vociò con una forza incredibile l’uomo. «Ve ne prego, maestà… signore… dio… non fate del male ai miei famigliari… ve ne prego…»
«Ogni tua parola è una condanna in più alla tua famigliola. Meno parli di ciò che vogliamo sapere e più avrai da rimetterci, oggi, domani e dopodomani.»
Ser Henry lo strattonò da dietro, tenendolo per i lacci legati ai polsi. «Parla di quello che il nostro castellano vuol sapere, insulso uomo. Bennor, lo abbiamo trovato proprio nel podere sulla Strada del Grano… ci ha detto che potevamo pisciare sul nostro regno e sul nostro signore, mentre lui, ricoperto di tutto l’orzo delle nostre riserve, fuggiva a cavallo.»
«Siamo tutti più coraggiosi quando ci troviamo sulla groppa di un destriero abile e veloce…»
«Un peccato che ser Wack abbia avuto una mira tanto eccellente e veloce da colpire lo stinco della bestia e far volare via il poveretto dalla sella. È stato allora che il vigliacco ha smesso di deriderci e ha iniziato a tremare… e si è pisciato addosso come un inutile mostro: forse voleva provare lui a rispettare l’ordine che ci aveva impartito. E quindi eccoti qui il suo corpo, Bennor.»
L’uomo dalla pelle pallida squadrò il prigioniero con gli occhi gelidi di chi osserva con disgusto, come se attorno a quel pover uomo gravasse l’aria fetida di un corpo in decomposizione. «Portatelo in cella». La sentenza fu dura, rapida e tagliente come l’acciaio di una daga appena affilata e pronta per conficcarsi sul collo di un condannato.
«NO!» urlò il prigioniero mentre già veniva tirato indietro da ser Henry. Provò a scalciare, ma non fece altro che aggravare la sua situazione: cadde a terra e venne assalito dalle due guardie sedute sui troni laterali al sedile regale. Il prigioniero fu soffocato tra tre corpi, prima di essere messo a tacere da un violento pugno sul petto. Come un sacco di pane bucato, fu trascinato di peso verso il bordo del salone, dietro ad una colonna e dentro ad una porta che si apriva sulla destra, con l’unica differenza che ciò che perdeva a flussi copiosi dalla bocca non era farina, ma sangue. 
Fu poi il turno del secondo prigioniero. Un ser dai lineamenti del tutto ordinari, il viso contratto e il collo taurino gli si posizionò alle spalle. Bennor gli si impuntò dinanzi, il dito sotto al mento e sorretto verso l’alto.
«Devi essere stato un tipo attraente, garzone». Il castellano allentò la presa dal mento e ritrasse le mani dietro alla schiena. «Chi sei e da dove vieni?»
L’uomo si ostinò a non rispondere. Bart capì che per lui stava arrivando una tempesta molto più distruttiva di quella che aveva colpito il precedente prigioniero.
«Ti è stata posta una domanda» evidenziò il cavaliere alle sue spalle. «Rispondi, prigioniero.»
«Non mettergli fretta, ser Owarck. Il nostro giovanotto avrà modo di rifarsi subito se non vorrà che a lui tocchi una sorte peggiore di quella che potremmo riservare ai maiali da macello.»
E infatti il prigioniero si rifece subito. «Scusatemi, signori… io non volevo… mi hanno pungolato per farmi entrare ad Ockswert. Io non volevo fare niente di niente… non volevo nemmeno nascere, in verità, ma mio padre aveva altre idee la notte in cui decise di mettermi al mondo.»
Un risolino sfuggì alle labbra incartapecorite dell’aggressore comune. «Siete ridicoli, uno dietro l’altro. Compiere determinati soprusi contro la nostra corona vi gratifica tutti, o questo vorrebbero farvi credere, e quando la giustizia si interpone tra voi e il vostro oro… ecco cosa riuscite a farneticare: scuse, solo scuse… e con le scuse non si può costruire un palazzo, non si può vincere una scommessa, non si può coltivare la terra, non si può mangiare… e non si può frenare la guerra!»
Il prigioniero mantenne il silenzio. Aveva saggezza, quantomeno, questo non si poteva negare.
«Chi ti ha ordinato di entrare?»
«Ser Varymar». Nel pronunziare quel nome il prigioniero non si fece alcun problema. Fu come sputare fuori un piatto mai veramente digerito.
«Questo ser Varymar deve essere diventato un tipo potente, suppongo.»
«Dicono che la Signora dei Merletti lo ha scelto come capitano della sua guardia personale: i Cavalieri della Seta. Sapete, signori? Nei vicoli più bui di Giardino Fiorito c’è chi sostiene di averli visti… lui e la vecchia Signora dei Merletti… da soli… avvinghiati l’uno al corpo dell’altra… le braccia che andavano a sfiorare i loro corpi quasi indemoniate…»
«Basta! Quella baldracca ha sempre tradito il nostro signore… e un giorno pagherà il pedaggio più brutto dell’altro mondo. Se Roscart dovesse saperlo… Ma, ad ogni modo, i suoi peccati non espieranno i tuoi, garzone. Per quale motivo ser Varymar ti ha commissionato quel compito?»
«Dovevo spiarvi, a detta sua. La Signora dei Merletti ha bisogno di ogni possedimento del suo regno per ottenere il pieno potere su Giardino Fiorito, e voi – così dicono, eh – glielo state fregando tutto. Da quando ha cacciato via Roscart Wargrave, la signora ha acquistato di nuovo la sua giovinezza!»
«E che se la tenga stretta con tutte le sue forze!» tuonò il vecchio Bennor. «E tu sei un uomo così vile da cedere a qualche frivola puntura d’acciaio piuttosto che restare fuori da questo ingorgo?»
Il prigioniero mantenne nuovamente il silenzio.
«Fai bene a stare in silenzio: sono sicuro che saprai quanto sei caduto in basso, garzone. Non ci sarà più gioia per te qui dentro… e il processo sarà molto duro nei tuoi confronti. Hai commesso un grave errore: dovrai pagarne le conseguenze che ti spettano… e sappi che saranno molto più dure di qualche carezza d’acciaio. Le celle anche per lui, cavalieri: prendetelo!»
Il prigioniero non riuscì neppure a balbettare qualcosa che, come fossero stati mastini dinanzi ad un pezzo di carne, lasciati chiusi in una gabbia aperta solo dall’ultima sentenza, i due cavalieri si avventarono su di lui e afferrarono di forza i lacci ai suoi polsi. Non furono necessarie le sue forze, le sue urla, i suoi latrati di dolore o i suoi lamenti… dell’uomo non si udirono neppure più i passi nel salone in meno di un battito di ciglia.
Bennor si mosse appena, neppure per un momento sconvolto dalla violenza utilizzata dai suoi uomini. “Una coda di uomini poveri, innocenti… ed un leone bianco, anziano, pronto a divorarci tutti. Non devo aver e paura…”. Null’altro che un’incitazione, forse. In realtà Bartimore aveva timore di quel che stava per accadere.
Un solo passo, l’ultimo, che risuonò più pacato degli altri, e Bennor fu dinanzi a lui.
Come fosse una formula di rito, Bennor posizionò il suo gelido indice sotto al mento scarno di Bartimore e tirò su il suo volto. Bartimore fu costretto a guardarlo negli occhi: bulbi bianchi infuocati da vene rossastre, sui quali s’illuminavano d’odio pupille nere come l’inchiostro appena prodotto. Le folte sopracciglia bianche aggrottate così fortemente da sembrare che stessero per crepare la fronte e la testa con questa. Il collo dell’uomo dalla pelle pallida come il latte era macchiato in diversi punti da nei rossi e punti neri, che costrinsero Bart a ripensare al Fiore Rosso, quel dannato morbo mortale, e al suo più grande amico e confidente: Dalton Kordrum. La pelle raggrinzita sotto al suo collo, cascante come quella di un anziano cavaliere, era più bianca dei suoi sparuti capelli.
«Un giovane alquanto abbronzato. Dovrò ammettere che gli dèi non sono stati giusti con noi due, giovanotto. A me hanno dato una pelle fin troppo trasparente e a te una vergognosamente scura.» mormorò sommessamente, come quasi non volesse che altri sentissero le sue parole. «Chi sei e da dove vieni?»
A rispondere per lui furono ser Henry e ser Walifer. «Questi quattro sono tutti colpevoli del medesimo reato nei confronti della corona Wargrave: ognuno a proprio modo e ognuno in modo più grave dell’altro.»
«Che genere di empietà, nostro buon cavaliere Henry?»
Ser Henry parve arrossire. Con un gesto rapido sfilò la manica della sua toga e lasciò scoperto il moncherino che gli aveva lasciato Bartimore al posto della mano. Alzò il braccio mozzato e lo mise in mostra alla fievole luce del salone.
Bennor rimase allibito, gli occhi fattisi più gelidi che durante una tormenta di carboni ardenti e lapilli.
«Chi ti ha fatto ciò, ser Henry?»
«Il giovane che hai appena definito abbronzato, castellano.» rantolò prontamente ser Henry, la voce macchiata di stizza.
Un gesto rapido di Bennor falciò l’aria. Il manrovescio che colpì Bartimore mandò a rotoli il suo senso dell’udito. Iniziò a sentire dei sibili lungo tutte le direzioni del salone. Bart fece per alzarsi, trattenne la rabbia mordendosi nervosamente le labbra. Fu Steffon a fermare la sua ira sul nascere, afferrandogli rapidamente il braccio. Bart gli rivolse lo sguardo giusto un secondo, ma l’esperto non ricambiò l’occhiata. 
«Non abbiamo colpe, mio signore» cominciò Steffon sussultando. «Noi non volevamo arrecarvi alcun fastidio. Come poveri affamati, innocenti uomini distrutti dalla guerra, ci siamo recati inconsapevolmente nel vostro possedimento terriero e… e… lo ammetto, lì abbiamo messo le nostre mani sul vostro cibo, sulle vostre riserve… ma…»
«Nessuna colpa?». Bennor avanzò verso Steffon, gli pose l’indice sotto al mento e gli ordinò di guardarlo fisso. «Occhi pieni di risentimento, giovane… e di saggezza. Guai a chi oserebbe dire che tu non sei un esperto!». Il castellano ritrasse la mano. «Si direbbe che un uomo dall’acume tanto sviluppato sappia che le mani di un individuo non cadono senza una ragione, come foglie di un albero in autunno. E ser Henry non è un albero, prigioniero.»
«Mi scuso per il comportamento del mio compagno: il suo è stato un gesto meschino, senz’altro.»
Il mio Lenticchia sta ancora piangendo nel cielo” pensò Bart. “La ragione c’era eccome. Meschino? Avrei dovuto ucciderlo, per di più.
«Il problema più grande» s’intromise ser Henry «È che tutt’e quattro sono implicati nella stessa congiura dei precedenti condannati, Bennor. Questo giovane qui…». Diede uno strattone ai lacci dei polsi di Bart. «… è il peggiore del gruppo. E sono sicuro che quella viscida Signora dei Merletti abbia a che fare con il furto messo in atto da questi… banditi!»
«Come potrei essere implicato in questa situazione?» domandò Steffon con poca forza. «Sono un esperto, votato all’Accademia da anni ormai… inviate un messaggero al mio accolito, Wylwor il Monco, a Città dell’Osso, oppure spedite un emissario alle nicchie dell’Accademia. Tutti vi sapranno dire chi sono quando saranno portati dinanzi al nome di patres Steffon.»
«Un patres ignorante» sibilò Bennor. «Una piaga più grande di quel che avevo previsto. Se fossi stato onesto, avresti saputo che l’Accademia non consente più l’accesso a nessuno che non sia uno di loro. I messaggeri sarebbero impiccati o lasciati fuori dalle mura a morire di fame e sete.»
Steffon cambiò tattica. «Mio signore» mormorò. «I miei compagni sono sfiniti, ser Mark e ser Dayn sono sul punto di abbandonarci. Abbiamo bisogno di cure, necessitiamo ardentemente di un incantatore che sappia cosa fare con le nostre ferite fasciate nel peggiore dei modi. Io… io… io non potrei ma perdonarmi di aver causato la loro morte. Volevo solo salvarli… vi prego, abbiate un po’di pietà per noi.»
«La stessa pietà che voi avete avuto per l’arto di ser Henry? No, amico o non amico, chi mette le mani sui nostri raccolti verrà immediatamente punito in modo consono alle accuse avanzate dai miei uomini. E la pena è alta per chi agisce in nome della megera che governa su Giardino Fiorito.»
Bartimore riuscì ad avvertire il risolino del ser panciuto alle sue spalle, divertito dalla cattiveria della situazione.
«Ma io ho detto di non essere al suo servizio. E con me non lo sono neppure i miei compagni». Il tono di Steffon si fece molto più tonante, rabbioso.
«E i miei uomini hanno parlato chiaro, esperto.»
«La mia parola contro la loro, allora, castellano.»
«Ma la loro vale cento volte di più qui dentro». Bennor si fece scuro in volto. «La scaltrezza non è ancora stata introdotta all’Accademia come corso di studio per gli infimi?»
«Quindi è questo il vostro modo di portare giustizia in un territorio del genere? Ora, durante un periodo di così forte squilibrio? Dove si trova il vostro signore? Dove si trova il vostro onore?»
La mano di Bennor saettò contro la guancia di patres Steffon e si schiantò contro la sua pelle producendo un sonoro schiocco che rimbalzò sulle pareti dell’intero salone. Calò immediatamente il silenzio.
La voce sibilante di Bennor riecheggiò cupa nel grande salone. «Tu cerchi giustizia in un mondo privo di sensi, dove il cane azzanna il cane e il fratello pugnala la sorella, dove la moglie avvelena il marito e la figlia pugnala infine la madre. Cosa credi che possa valere un po’ di buon senso in un mondo cieco e senza scrupoli? Si tratterebbe di un lume, una fiammella, un flebile bagliore ovattato dall’oscurità più totale… e nessun uomo ha occhi per vedere una goccia di luce nelle notti più buie e senza stelle.»
Bartimore si prese un momento per osservare i suoi compagni silenziosi. Dayn e Mark erano in pessime condizioni. I lineamenti dei loro volti erano completamente perduti, sporchi di sangue raggrumato, fanghiglia e melma marrone. Mark non aveva ancora riacquisito i sensi, perciò era stato adagiato sul pavimento in posizione fetale. Ser Dayn, nonostante fosse sveglio, giaceva sulle natiche posate contro il pavimento gelido della sala, immobile e innaturalmente stravaccato sulla gamba del cavaliere alle sue spalle: ser Dalwar.
«Se è ciò che la corona Wargrave vuole offrire a noi poveri uomini» iniziò sconsolato patres Steffon. «Sono e siamo pronti ad accettare la sentenza, dura o dolce che sia. Ma sappiate che io sono un esperto piuttosto intransigente e la mia memoria è poco malleabile. Terrò a mente le vostre parole e ne farò uno scudo, una barriera. Ci sarà un processo, dite? Me ne ricorderò, tra le tante altre cose.»
Bennor annuì, come a voler lasciare che continuasse per capire dove volesse andare a parare il suo prigioniero.
«Ebbene, sono sicuro che sappiate quanto sia importante la presenza di un consiglio di esperti ad un processo, qualunque sia il motivo della convocazione di un concilio. E gli esperti mi conoscono tutti.»
«Non ci sono esperti qui ad Ockswert» pronunciò rapido Bennor. «Povero, poverissimo patres… un peccato per te che ognuno degli accademici sia rimasto legato al governo della Signora dei Merletti piuttosto che a quello del mio buon signore Roscart.»
E questo dovrebbe bastare a capire chi ha torto e chi ragione in questa confusa disputa amorosa.”
«Allora non ci sarà nessun giudizio contro o a favore della nostra causa» replicò crudo Steffon. «Non mi pare di essere stato così meschino in vita mia da non potermi permettere un processo all’altezza del mio buon grado. Peraltro, la legge parla chiaro: un regno può esistere solo se possiede il giusto numero di impresari, amministratori ed esperti.»
Bennor gli riservò un altro schiaffo, questa volta sull’altra guancia. Steffon socchiuse gli occhi e rimase ammutolito.
Il castellano impose il silenzio con il suo sguardo glaciale. Poi arrancò indelicatamente su per gli scalini del soppalco della sala, si avvicinò al sedile regale e vi sedette sopra, le braccia incrociate al petto e l’espressione corrucciata.
«L’arroganza di un esperto dovrebbe rimanere silenziosa nella sua bocca. Le celle di questo palazzo vi daranno modo di riflettere sulle vostre parole e sui miei gesti, nonché sulla vostra situazione da sporchi menzogneri e beceri ladri». Si rivolse al suo gruppo di uomini in acciaio. «Ser Henry, ser Walifer, ser Dalwar e ser Uggwar, scortate quest’uomo meschino e i suoi infidi compagni nelle Galere Rosse. Ser Dalwar, da’ a Cargo l’incarico di ammaestrarli a dovere. Che vada giù di scudiscio e correggia, se necessario, ma che li induca a confessare le loro pene e le loro colpe.»
«Mio signore». Ser Herny chinò il capo e fece quanto gli era stato ordinato per primo. Steffon non osò più fiatare oltre, si lasciò afferrare per i lacci e strattonare a dovere, prima di essere preso di forza e trascinato lontano. Lo stessa sorte fu riservata a ser Dayn e ser Mark, entrambi sollevati di peso da ser Dalwar e da un ser del tutto sconosciuto. Ser Walifer afferrò Bart per la collottola, lo tirò violentemente su ed iniziò a strattonarlo.
«So camminare da solo, Cavaliere della Forca». Furono parole dure le sue, del tutto inaspettate per il cavaliere dalla forza poderosa.
Ser Walifer puntò i suoi occhi su di lui. Il bulbo vitreo color sangue roteava instabilmente all’interno dell’incavo del suo occhio, vuoto e ferito da una immane cicatrice rossastra. Quell’occhio era freddo come una lamina di ferro, capace di intimorire qualsiasi uomo capitato per caso sotto allo sguardo devastante del cavaliere. C’era anche l’altro bulbo posato pesantemente sugli occhi di ser Bart, ma quello era meno sfarzoso del primo. Nonostante ciò, Bartimore riuscì a vedervi stagliato dentro l’irritazione del cavaliere, una potenza soffocata, un nervosismo inconsueto e, peggior cosa di tutte, il terrificante sapore delle tenebre. Quel suo unico occhio nero era la notte meno illuminata che Bart avesse mai visto, scura e tenebrosa come l’ombra. Il giovane ser credé di aver visto per davvero la cosa più scura del mondo, ma nulla, in verità, fu più buio di ciò che vide la mattina successiva: un’alba senza la tipica luce del sole.

 


♣ Angolo d'autore ♣
Ci sono? Sì. Dovrei esserci. E' passato più di un anno da quando ho dovuto abbandonare forzatamente gli aggiornamenti della mia storia. Mi sono scusato con tutti voi lettori tramite messaggio privato, ma volevo rifarlo in questa sede. Spero che la mia storia continui ad interessarvi e che voi siate sempre certi di volerne seguire lo sviluppo. Ritornerò ad aggiornare regolarmente, benché un viaggio si trovi alle porte e due possibili aggiornamenti salteranno... ma non sparirò di nuovo xD

I nostri si ritrovano catapultati in una situazione più complessa del dovuto. Cosa pensate della loro sorte? E cosa della combriccola di uomini di Wargrave? 
Che vi è parso della figura del castellano Bennor? Ritenete che tutto ciò che Steffon ha detto sia giusto? Come credete che si potrà risolvere - se si potrà risolvere - l'equicovoco in cui sono incappati?


Insomma, ditemi tutto ciò che pensate. Vi lascio i miei ringraziamenti per essere ancora qui in compagnia della mia storia. Io aspetto domande e curiosità, semmai ne avete, a cui sono più che lieto di rispondere. Un abbraccio a tutti, 

Makil_

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Capitolo 7
*** VII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



«Cinghia» fiatò sommessamente ser Dayn. «È lui, poco ma sicuro.»
Il rumore dei pesanti passi, attutito dalla possanza delle pareti delle Celle Rosse, poteva essere avvertito se schiacciato completamente l’orecchio contro la fredda parete della prigione.
«Dove hai sviluppato così finemente il tuo udito?» domandò incuriosito patres Steffon, la seta dell’abito sgualcita, seduto sul pavimento lastricato all’angolo della cella.
«Ci sono cose che un falconiere deve saper sviluppare se non vuole che i suoi uccelli volino via da lui.»
Ser Mark, nell’altro lato della cella, la schiena poggiata contro la robusta parete grigia, si stava grattando via il fango dai palmi. Lui e ser Dayn si erano ripresi quanto prima, dopo una lunga settimana di permanenza là sotto, e lo avevano fatto nel migliore dei modi. Ser Mark giurava però di non ricordare nulla del momento della sua cattura, né del luogo in cui era stato acciuffato. Le uniche memorie che la sua mente riusciva a suggerirgli erano immagini di stalloni imbizzarriti che gli correvano attorno, a detta sua, e di cavalieri vestiti di cuoio che lo additavano e gli sputavano in faccia. Era stato un bel trauma per lui, quel risveglio tanto differente dai soliti, e aveva realizzato solo molto tardi la sua condizione di prigioniero. Aveva addirittura provato a pizzicare violentemente le sue guance e la sua pelle, come con l’intento di risvegliarsi da un brutto incubo. Ma, ovviamente, ser Mark non aveva fatto altro che ingigantire i suoi lividi e le sue ferite, sparsi ormai in ogni zona del suo corpo, più vigorosi di una radice appena fuoriuscita dal terreno.
«E non è solo» mormorò Bartimore. Lui di certo non era un falconiere di professione, ma sapeva riconoscere bene quando quattro passi non erano invece due.
«Ha ragione». Ser Mark si fece guardingo e alzò il capo. «Chi arriva?»
«Cinghia e Cargo» fece ser Dayn. «Giuro di poterne sentire il respiro e l’alito fetido.»
«Faresti meglio ad allontanarti dalle sbarre, Dayn» gli disse Steffon. «Nessuno dei due accoglierebbe bene la tua sfrontata curiosità.»
Quei due carcerieri a cui erano stati affidati erano uomini crudi e corpulenti, senza un solo pelo sulla lingua, ma tanti sul petto e sulle gambe. Cargo, quello che si occupava personalmente di loro, aveva una bocca spropositatamente larga, tanto che a volte si dannava della sua incapacità nel tenere a freno la lingua. Era questo, forse, che facilitava il lavoro di Dayn e che gli consentiva di avvertire i suoi bisbigli e i suoi respiri rauchi anche a cento piedi di distanza ogni volta che l’uomo si avvicinava. Dopotutto, le Galere Rosse, benché fossero piene di prigionieri, sapevano far mantenere loro un silenzio tombale, più rigido delle sue stesse purpuree pareti.
Ogni notte e quasi sempre alla stessa ora, Bartimore poteva giurare di sentire il rumore dello scricchiolio delle ossa di coloro che erano stati condannati a dormire sul gelido lastricato; il movimento rabbioso delle unghie sulle pareti degli uomini a cui era toccata la stessa loro sorte, o ancora lo stridere dei denti di tutti quei prigionieri che meno di ogni altri sapevano mantenere la calma. Nel mezzo della notte, i suoni più macabri non erano gli schiocchi delle cinghie di Cinghia né i pesanti tonfi dello scudiscio di Cargo, dei sassi di Bord o della correggia di cuoio di Zobo, ma i lamenti dei condannati che si contorcevano nelle loro celle, sfogando la loro furia sulle loro stesse membra.  In effetti, nella notte, persino le pareti riuscivano a divenire imponenti inquisitori: le grate si trasformavano in aguzzini gelidi e senz’anima, e gli amici potevano divenire nemici con la stessa rapidità dell’emissione di un sospiro.
Per fortuna, però, Bartimore poteva contare sull’onestà e sulla bontà degli uomini con cui condivideva la cella: uomini che ormai erano come fratelli per lui.
I passi macabri e pesanti dei carcerieri iniziarono a farsi sempre più forti, finché non scomparvero per lasciare il posto alla grossa e grassa figura di uno solo dei due sorveglianti: Cargo.
«Prigionieri» tuonò la grossolana figura dell’uomo dal volto burbero dall’altro lato delle sbarre. «È l’ora della cena.»
Cargo veniva tutti i giorni alla stessa identica ora, con le mani farcite di indumenti per i nuovi prigionieri, piatti con appena un briciolo di cibo e con tutte le sue immancabili armi di tortura a tenergli compagnia. Tra tutte queste, la più fastidiosa era anche quella che più maneggiava con destrezza: il suo lungo scudiscio di cuoio che, tra un ammonimento e l’altro, sapeva far vibrare con una forza dannatamente disarmante e spaventosa, producendo rombi in grado di sfidare il più tenebroso dei tuoni.
Era difficile dire che ora fosse là sotto, nelle Galere Rosse di Ockswert, poiché il sole e la luna non potevano mai essere osservati dalle profondità a cui erano stati relegati. Pur tuttavia, un piccolissimo anfratto sul tetto permetteva talvolta alla luce di farsi strada nella piccolissima cella in cui erano confinati, rendendo più facile capire in che momento della giornata fossero. Bartimore aveva imparato a capire molte cose osservando il comportamento dei carcerieri, le parole di Cargo e la luce esterna. Al momento, per esempio, poteva affermare con chiarezza che fosse più o meno l’ora dell’ultima cena dei prigionieri, momento in cui i carcerieri terminavano il loro lavoro e andavano a dormire nelle loro celle sotterranee. Il chiarore delle stelle, che sibilava appena dalla fessura nel tetto, confermava la sua ipotesi.
«Uomini». Cargo afferrò una delle sbarre con la sua destra possente e strinse la mano attorno al freddo acciaio. «In piedi. Immediatamente». Le parole di Cargo sapevano essere pungenti: quell’uomo non aveva neppure un briciolo di sentimento.
Ghignando qualcosa, il carceriere afferrò un solo unico piatto e lo fece passare dalla fessura presente sotto alle sbarre. La porzione di cibo doveva bastare per tutt’e quattro e, che lo desiderassero o meno, dovevano mangiarlo obbligatoriamente, pena una scudisciata dritta sul volto e tre sulle dita di ogni mano.
Cargo aveva portato un piatto diverso dal solito: una piccola montagna di piselli crudi, attorniata da un paio di patate sbucciate con noncuranza, un pesce dalla lisca già in vista e un tozzo pezzo di pane.
«Cargo». Steffon richiamò l’attenzione del carceriere, la voce incolore e il volto distrutto. «Possiamo avere un po’ d’acqua?»
«No». Il tono del carceriere non ammetteva replica.
«Per favore…»
Il tonfo della scudisciata dal macabro aguzzino riecheggiò lungo tutto il corridoio principale. La sbarra colpita vibrò a causa della forza impiegata dal carceriere. Cargo avvicinò la faccia alle sbarre. «La prossima volta sui denti.»
Il carceriere era un uomo dalla fronte alta e i capelli bianchi sulle tempie. La barba grigia per nulla curata si estendeva su metà della pelle cascante del suo viso. Bart non sapeva dire se avesse più peli sulle guance, sotto al collo o dentro al naso e alle orecchie. Da quando lo aveva conosciuto, Cargo non aveva osato cambiare anche solo minimamente il suo vestiario: grezza cappa di cuoio strappata appena cinta ai fianchi, biancheria intima in perfetta vista, una spessa collana ad anelli di acciaio che pareva essere pronta a strangolarlo e una fila di denti ingrigiti e sporchi quanto il suo animo.
Patres Steffon non arretrò né si lasciò impaurire dal colpo. «Cargo, guardaci» gli ordinò poi. «Guardaci e dicci cosa vedi di noi.»
«Prigionieri» rispose lui. Il carceriere non possedeva neppure un briciolo di intelletto; era tutto forza e niente cervello. «Uomini che pagano per la loro colpa.»
«Uomini che hanno fame, sete e tanta voglia di cure e assistenze. Cargo, te ne prego, dacci un po’ d’acqua e…»
Lo scudiscio s’infranse nuovamente sulle grate. «Ti ordino di stare zitto. Il cibo ce l’avete e vi basta. Continua a parlare e ti uso come bersaglio, prigioniero.»
«Ma Cargo,». Steffon si avvicinò alle grate ed afferrò una delle sbarre con la sinistra. Utilizzò invece l’indice destro per indicare i suoi amici. «Guarda ogni mio compagno e poi guarda anche me, vedrai uomini distrutti e sanguinanti. Ser Mark ha bisogno di cure mediche… o morirà! Cosa faresti se qui, al nostro posto, ci fosse tua madre?»
Cargo avvicinò la sua faccia paonazza a quella esile di Steffon. «Mia madre è morta» sussurrò. «E se la nomini di nuovo tu andrai a farle compagnia all’inferno.»
Patres Steffon stava rischiando davvero grosso, ma il suo piano gli era stato spiegato già un paio di volte. Il grosso e flaccido Cargo aveva un pozzo al posto della bocca, un buco enorme che era causa della sua inclinazione al pettegolezzo e alla petulanza. Steffon avrebbe giocato proprio su questo per estrapolare al carceriere quante più informazioni possibili sul conto di Ockswert; notizie che avrebbero potuto salvarli tutti, a detta dell’esperto, malgrado nessuno di loro sapesse in che modo.
C’era quasi sempre freddo per quei poveri condannati all’interno delle Galere Rosse, che forse erano chiamate in quel modo proprio per deridere la mancanza dell’opprimente calore che gravava all’esterno. Nell’intricato ammasso di cunicoli sotterranei del palazzo di Ocskwert, si mormorava tra un carceriere e l’altro che la freddezza delle sbarre era in grado di far tremare i condannati più di ogni altra cosa.
Nonostante tutto ciò, però, Bartimore si sentiva pervaso da un senso di calore fin troppo assillante, e il nervosismo gli faceva ribollire facilmente il sangue sulla fronte. C’erano momenti del giorno in cui Bartimore diveniva addirittura irruente e fastidioso, momenti nei quali il giovane pargolo di Sette Scuri tremava sul letto di paglia della cella per l’arsura. A detta di Steffon, il suo insolito comportamento era da rimandare alle ferite che gli erano state inferte a Roshby, e alla febbre che queste gli avevano causato.
Tutto quel sentire tuonare Cargo stava facendo venire un doloroso mal di testa a Bartimore, la cui vista era già abbastanza annebbiata dal dolore.
«Cargo». Steffon continuò a dar corda al carceriere. «Sai che sono un esperto, non è così? Noi uomini dell’Accademia sappiamo bene dove risiede il frutto della conoscenza, l’essenza e la potenza del denaro. Ho le mie ricchezze anch’io, devo ammetterlo, e anch’io ho servito uomini potenti. I miei amici potranno confermarti che sono tutt’ora un esperto di Ardua Scogliera. Ora che Ortys Wysler è deceduto io potrei sottrarre alla sua famiglia ogni suo denaro e consegnarlo a te, Cargo. Diverresti ricco fino al midollo e potresti permetterti il lusso di comprare ogni genere di cosa tu desideri possedere; dall’amore fino ad un intero castello.»
«Non mi interessano queste cose». Lo scudisco saettò di nuovo sull’acciaio e Steffon lo schivò per poco: arretrò e si posizionò di nuovo sulle sbarre.
«Pensaci, Cargo, pensaci. Potresti diventare ricco sfondato, avere una nave, tredici carrozze, una torre… uno scudiscio nuovo, magari! Ma se fai del male a me o ai miei compagni, io saprò cosa fare quando sarò fuori da questo posto. Mi basterà mettere una parolina nell’orecchio di un mio superiore e tutto ciò che ti appartiene ti sarò sottratto: scudiscio compreso.»
Lo stesso scudiscio di cui l’esperto parlava tanto schioccò contro di lui colpendolo sullo zigomo. «Morto, sei morto.»
Steffon si massaggiò la zona colpita. «Valgo molto più da vivo che da morto, Cargo, riflettici. E per te ci vorrebbe un cervello al tuo pari… ecco, quello non potresti comprarlo neppure vendendoti come schiavo.»
Il burbero carceriere non resistette un secondo di più. Un sonoro tonfo metallico preannunciò l’apertura della cella, la cui grata fu mandata a sbattere contro la fredda parete di pietra. Come fosse un gigante, Cargo si avventò contro Steffon e lo afferrò per il collo, lo sbatté contro la parete e gli puntò contro il suo grosso pugno. In quell’istante gli altri tre si fiondarono su di lui e lo circondarono.
«Fermo!». Steffon mise avanti le mani, per la prima volta tremanti. «Cargo! Cargo, basta così. Forse ho osato troppo.»
Cargo afferrò lo scudiscio e glielo scaraventò sei volte sulle mani aperte. «La ricchezza non salva la pelle» disse. «Quell’uomo là dentro è ser Carwen Vreyn, figlio del castellano di Dartstorm». Cargo indicò la cella che si apriva esattamente di fronte alla loro «E a lui è toccata una sorte peggiore della vostra, anche se il suo oro era più di quello tuo. Sai dove lo trovarono? Ser Walifer mi ha raccontato che si nascondeva nella garitta vicino all’ingresso di Ocskwert, mandato dalla Signora dei Merletti a spiare le nostre operazioni di guerra: dannato spione schifoso! Ser Ventrefloscio gli mozzò il piede sinistro e il Falso Esperto diede la sua sentenza. Sai cosa gli fecero? Ah, una disgrazia davvero crudele! Aveva guardato troppo, e per questo gli cavarono via un occhio. Aveva sentito troppo, e per questo gli conficcarono un sasso nell’orecchio destro. E aveva parlato troppo, prigioniero, e per questo gli cucirono le labbra con l’ago e lo spago.»
Bartimore rabbrividì. “Quale pessimo sovrano userebbe ancora il metodo della legge del taglione per applicare la propria autorità sui prigionieri?”
Steffon mandò giù un grumo di saliva. «Che cosa vuole questa Signora dei Merletti?»
Cargo parve assumere un’aria sapiente, posò il frustino alla cintola e lasciò la presa sul collo di Steffon, che tastò immediatamente con entrambe le mani la parte stretta dal carceriere.
«Quello che vuole è riprendersi Ockswert» grugnì Cargo. «Il nostro signore si è rifugiato qui qualche anno fa. Anzi, ora che ci penso bene, sono passati esattamente due anni da quando sono stato costretto a spostarmi in queste celle… sì, ecco, ora ricordo, è stato nel mezzo della prima ribellione. Sai, esperto prigioniero, il nostro signore ha avuto allora il primo problema con la sua Signora dei Merletti.»
«Che genere di problema?». La domanda di Steffon racchiudeva in sé molta curiosità. Spentasi la tensione attorno a loro due, ser Dayn e ser Mark abbassarono la guardia e tornarono a sedersi per terra.
«Un problema di poco conto, all’inizio. Anzi no. Non ricordo bene come sono andate le cose, ma se non sbaglio è stata la Signora dei Merletti a combinare la prima discussione. Mi è stato detto che la Signora dei Merletti tradì Roscart Wargrave nella loro stessa camera, e il mio signore dunque andò su tutte le furie quando scoprì di avere un bel paio di corna sotto ai capelli. La storia andò avanti per un bel po’, e i due smisero di amarsi in poco tempo. A corte non si faceva altro che mormorare, e mormorare, e mormorare. Bisbigli che diventavano presto nuove minacce per la salute di tutt’e due i signori, che presto finirono per non potersi più vedere. Iniziarono a dormire in stanze separate, a mangiare in tavole diverse, a dividersi addirittura la fortezza. In breve tra i due non ci fu più un saluto né una parola, e da amici, amanti e sposi, finirono per diventare nemici pronti ad infangarsi con pale e spranghe che non mancavano di sbattersi sui denti.
«Ad un certo punto, poi, prima che Roscart scendesse in guerra, fu costretto a sostenere una rivolta contro il suo stesso popolino che, arrabbiato a causa della poca importanza che riceveva, finì per prendersela contro il castello di Giardino Fiorito. Fuori dalla sua fortezza, là a Giardino Fiorito, nel momento in cui uscì, perse la sua dignità. La Signora dei Merletti ordinò di sbarrare ogni accesso al marito e comandò alla sua guardia reale di abbattere gli uomini di Roscart Wargrave. A lui non fu più permesso di entrare nella sua casa. Dovevi vedere come me la ridevo io, così tanto e così forte che il suo Bennor mi fece pure questo». Cargo scostò la manica della sua cappa di cuoio mettendo in mostra uno spaventoso marchio impresso sulla pelle, raggrinzita ed incartapecorita nel punto in cui un anello sembrava averlo sfiorato.
Steffon contrasse le labbra come inorridito dalla vista. «Cosa ti ha causato ciò?»
«Il fuoco, prigioniero. Ti dico che l’incubo fu bruttissimo quel giorno di due anni fa. Ti dico che tutto il pomeriggio e tutta la notte si sono viste fiamme alte quanto un bastione di pietra. Il popolino infiammava le proprie abitazioni svuotate per ripicca, gli uomini Wargrave bruciavano i possedimenti della signora per odio, e la signora bruciava ciò che apparteneva a Roscart per rancore. Pareva di essere all’inferno quel giorno, dannazione! Cadaveri, cadaveri e ancora cadaveri. Uomini fatti a brandelli lungo le strade, corpi bruciati di animali mischiati a quelli di uomini e cavalieri. C’erano morti ovunque, prigioniero, e io non ero ubriaco.»
«La tua ferita…»
«Una cosa da niente che io porto con immenso piacere: me la sono meritata». Il carceriere si esibì in un sorrisino mellifluo e piegò il braccio come a mostrare la sua forza. «In confronto a quello che faranno a voi, poi è proprio niente di niente. Comunque, quando la Signora dei Merletti cacciò Roscart dalla sua stessa rocca, facendola circondare giorno e notte da cavaliere della sua scorta privata, il mio signore fu costretto a fuggire via con trenta dei suoi uomini, qualche membro del popolino ed il suo castellano. Ancora oggi, dopo due anni, i due sposi si beccano a distanza, punendosi a vicenda e facendo morire per loro i loro stessi uomini. La Signora dei Merletti dice di volere Ockswert per poter consolidare il suo dominio sulla corona Wargrave, mostrando il suo diritto di nobile, mentre Roscart pretende di riavere indietro il suo regno e la sua dignità d’uomo.»
«Ci sono leggi chiare all’Accademia, e una di questa dice che la signora di un regno…»
«Con le leggi dovresti tapparti la tua fogna di bocca». Cargo riafferrò lo scudiscio. «Ora mangiate queste schifezze e fatela finita. La Cagna dei Merletti è ancora affamata.»
«Ma noi non abbiamo nessuna colpa!». Questa volta a tuonare fu ser Mark, colto da un improvviso impeto di rabbia. «Al diavolo voi e il vostro problema! La vostra guerra non ci appartiene! Volete sforzarvi a capirlo?»
Lo scudiscio sibilò sferzando l’aria e si schiantò sulla faccia di ser Mark, che cadde violentemente sulla schiena. «Colpa ne avete eccome!» imprecò Cargo. «Ma vi sentite, donnette? Confessate!». Lo scudiscio si schiantò verso ogni direzione, sulle pareti e contro le mani di nuovo alzate di Steffon. «Confessate!». Un altro colpo, sempre più forte colpì la parete. «Solo la confessione vi salverà. Umiliatevi come avete fatto umiliare Roscart Wagrave e forse sarete liberi, prigionieri!»
Così facendo e dicendo il carceriere si allontanò dai quattro tenendo alta la sua arma, rigidamente contratta e pronta a schioccare ancora contro di loro, e si fece strada nel corridoio buio dopo aver duramente serrato l’ingresso della loro cella.
«Steffon». Ser Mark si avvicinò al compagno massaggiandosi la guancia arrossata, un filo bianco sottile impresso sulla pelle in prossimità del colpo. «Stai bene?»
Il patres si tastò più volte la base del collo e le dita delle mani, il corpo compresso e schiacciato contro la parete di pietra. «Sto bene» fece. «Voi, piuttosto… vi ha fatto del male?»
I tre scossero la testa.
«Non dovevi farlo, Steffon» mormorò ser Mark. «Quell’uomo è un pazzo schifoso. Presto o tardi ci farà male, davvero male… e non riusciremo mai a sostenere così un processo.»
Bartimore non riusciva a seguire il filo logico dei discorsi: tutto quel parlare e tutti quegli assordanti rumori prodotti dal frustino di Cargo lo avevano confuso a tal punto da costringerlo al lettino. Le tempie gli pulsavano, la nuca gli faceva male come fosse stata appena colpita da un bastone. Ogni giuntura del suo corpo doleva e lui tremava ora per un freddo penetrante, consapevole però che esso fosse inesistente.
Il giovane cavaliere portò la sinistra alla fronte e tastò i lati della testa con le dita: iniziò a massaggiare il cranio.
«…e lui può rivelarci molto… fate fare a me… amici… ecco… vi dico che…»
Le parole di Steffon stavano iniziando a risuonare lontane dalla sua mente. In breve gli si offuscò completamente la vista, lasciando spazio ad una fredda barriera bianca e grigia, come se la cella fosse stata improvvisamente ricoperta da una spessa coltre di nebbia. E gli stessi agghiaccianti nugoli bianchi lo avvolsero da capo a piedi all’istante, facendolo ricadere di peso per terra. Il tonfo del suo cranio battuto sul robusto pavimento fu l’ultimo suono che Bartimore avvertì prima perdere completamente i sensi nel bel mezzo di tutto quel disorientate vapore.
Fu strano precipitare in quell’ammasso di luce. E fu strano sognare di un sogno mai sognato prima.



♣ Angolo d'autore ♣
La forzata prigionia ha messo i nostri con le spalle al muro: ser Mark e ser Dayn, che già versavano in una complicata situazione, ora sono ridotti allo stremo delle loro forze. La stessa sorte è toccata al giovane ser Bart, a quanto pare. Che pensate della loro malattia d'animo e di corpo? Cosa credete sia successo a Bart e come pensate possano riprendersi - se lo faranno - tutti? 
Conosciamo, in questo capitolo, la figura del carceriere Cargo: come ritenete questo personaggio? E che giudizio date ai suoi modi di fare? Pensate sia obbligato a comportarsi in questo modo? 
Per finire, che ne pensate del piano di Steffon, ossia spulciare tra le informazioni in possesso di Cargo per vincere con l'eloquio i suoi avversari? Credete che potrebbe riuscirci? 
Insomma, ditemi tutto ciò che pensate e non mancate di porre domande in caso di dubbio: dopotutto la carne sul fuoco è molta... e già qui abbiamo una prima anteprima di cosa potrebbe essere successo tra i due signori separati in divorzio. Esponete pure le vostre teorie!
Un grazie a tutti e un abbraccio... al prossimo aggiornamento, con un capitolo molto particolare! [giovedì 11 c.m]
Makil_

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Capitolo 8
*** VIII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Non ci sono più pareti attorno al suo corpo e il sole è finalmente tornato a splendere nel cielo.
Tutt’attorno a Bartimore si estendono file di muretti bassi popolati da viticci profumanti e freschi, colmi della sfarzosità di grandissime quantità d’uva. Il sole coi suoi raggi illumina tutto quel bene rendendolo più invitante del normale.
Bartimore è fermo al centro di un incrocio su una strada spoglia, rinsecchita dal cocente calore dei raggi solari, seduto su un masso circolare dalla superficie scabra. Nella mano stringe un pugnale sporco e grondante di sangue ancora fresco. La pelle del braccio è completamente attaccata alla superficie calda della pietra.
Il vento ulula il suo nome facendolo rabbrividire, nonostante il clima torrido del posto. «Bartimore, Bartimore, Bartimore, Bartimore!». A destra a sinistra ci sono due stradine scoscese che risalgono dalle pendici delle colline poco più lontane.
Ed è esattamente sulla stradina di destra che una figura austera, rigida come se scolpita nel bronzo, arranca a brevi passi. Il sole copre a lungo la sua figura, ma l’ombra vigorosa che crea sulla strada riesce a far capire a Bart chi sia: Dalton Kordrum, perfettamente sistemato e curato come dovesse partecipare ad un importante udienza privata, lo sta raggiungendo. Dal suo petto sgorga molto sangue, e Dalton tiene entrambe le mani pressate sulla ferita, come a voler arrestare la fuoriuscita della sua rossa linfa vitale.
«Padre!». Bartimore è colto da un’improvvisa gioia nel rivederlo, ma quando fa per balzare giù dal macigno circolare si rende conto di essere attaccato al sasso. “Che vuol dire tutto ciò?”. Bartimore non riesce a spiegarsi come sia possibile una cosa del genere.
«Bartimore» pronuncia ancora il signore di Sette Scuri. «Ti senti felice ora che sono morto, non è così? Mi hai deluso Bartimore». Dalton gli cammina contro. «Avevi un compito da rispettare, e hai miseramente fallito.»
Bartimore inizia a piangere sommessamente. «Dalton… padre… io…». Preferirebbe ricevere una sfilza di pugni sul volto piuttosto che sentire quelle parole. Da Dalton, per giunta.
«Tu non sei un vero cavaliere» gli dice con violenza. «Tu non sei neppure il mio vero figlio.»
«Lo so» risponde lui tra un singhiozzo e l’altro. «Padre…»
«Padre disgraziatamente di un figlio mai stato mio ed ingrato per giunta. Il tuo amore è odio per me». La sentenza di Dalton Kordrum è agghiacciante come lo spiffero del vento invernale sibilante tra gli anfratti umidi di una caletta sempre baciata dal sole.
Dalton Kordrum si avvicina al masso su cui è legato Bartimore, lo sguardo totalmente perso nel vuoto, come incapace di riconoscere chi ha di fronte. Nella mano sinistra stringe violentemente un grosso ceppo scuro appena sradicato dal suo fusto.
«Ho messo onore nel strappare il braccio di questa pianta». La voce del signore di Sette Scuri non è mai stata tanto cupa. «Ma gli ho fatto male comunque». Dalton getta il suo ceppo ai piedi della roccia.
Bartimore lo fissa, perché altro non può fare. «Dolore… padre… mio signore…». Quando mai lo aveva chiamato così?
«L’onore è dolore». Le membra di Dalton Kordrum sbiadiscono fino a divenire l’ombra della sua stessa figura.
Bartimore si guarda attorno, scruta oltre la presenza dei bassi muretti che fanno da contorno a quella drammatica scena. E nel dolore tenta in tutti i modi di asciugarsi le lacrime che ormai gli solcano il viso, tenta di strappare la sua pelle in modo tale da sollevarsi e mettersi sulle due gambe. Le forze sembrano essergli venute meno proprio ora, come se il suo corpo sia stato adeguatamente prosciugato di ogni impulso.
A quel punto è un fruscio a comunicare un’altra presenza a Bartimore. I goffi e pesanti passi preannunciano l’arrivo di un corpo possente, talmente grosso da essere costretto a tirare su i piedi dal fango in cui rimangono sotterrati. Ben prima che il giovane ser legato alla roccia giri la testa verso la strada di destra, l’acre odore del sangue e del vino gli lasciano intuire di chi si tratti.
«Ortys» sussurra Bartimore. «Ortys… tu… ti prego Ortys… abbiamo bisogno di te.»
«I morti sono destinati ad essere dimenticati» ruggisce Ortys senza neppure badare a lui. Il gigante di ferro di Ardua Scogliera si posiziona di fronte alla roccia. Le sue callose e possenti mani reggono due enormi ceppi ripieni di anelli piccoli e grandi. Li scaglia per terra con noncuranza e poi rialza rapidamente lo sguardo. «E un uomo che cavalca senza meta è destinato a perdersi nel mondo.»
La possanza di Ortys inizia a svanire tutto ad un tratto, come se le radici di quei ceppi ormai morti siano tornate in vita sotto ai piedi del nobile signore e, per discreta vendetta, abbiano richiesto il corpo del loro assassino.  
«Ortys no!» urla Bartimore. La voce tenta di strozzarlo nel giro di pochi istanti, ritorcendosi contro di lui.
Solo a quel punto Ortys Wysler sembra accorgersi della sua presenza ed inizia a fissarlo con un’espressione incolore, vuota… un atteggiamento tipico dei morti.
«Avresti dovuto scavare una fossa per me, fottuto cavaliere di Fondocupo. Avresti dovuto ridare le mie armi ai miei famigliari. Volevo che mia moglie piangesse per me, che mia madre sapesse dove trovare la tomba di suo figlio. Tu, fottuto cavaliere di Fondocupo, hai dato un letto di morte al tuo onore e non lo hai concesso invece a me.»
Non è vero! Ortys, ti prego!”. La voce gli si è ormai solidificata all’altezza della gola, come un piatto congelato dal freddo. Se prima non poteva essere visto, ora non può essere neppure sentito.
«L’onore è rancore». Un gelido e pungente refolo di vento spazza via anche il tetro e ciclopico fantasma di Ortys Wysler, lasciando al suo posto un vuoto incolmabile. Il cuore di Bartimore geme di dolore.
Un’altra figura si sposta sulla strada a sinistra, il volto celato sotto ad uno spesso cappuccio di lana grigia, a dispetto dell’opprimente calore che incombe sul territorio. Quell’uomo cavalca un destriero nobile e sonnecchiante.
Lenticchia” pensa di farfugliare Bartimore. “Amico mio, te ne prego… almeno tu…”
Il cavallo e l’anziana figura ingobbita del suo padrone si fermano di fronte al macigno a cui Bart è relegato. L’uomo scosta di poco il cappuccio dai lineamenti del volto, permettendo di farsi baciare dal sole, accarezzare dal vento e dallo sguardo di Bartimore.
Il devoto Baricald non è affatto come Bart lo ricorda. Il suo volto è pieno di macchie solari, spruzzato qua e là di nero e grigio, le rughe sempre più profonde e spesse. Sul lato destro del petto tiene un ingrigito tascapane pieno di chissà quale oggetto.
«Le promesse valgono più dei gioielli.» pronunzia delicatamente. «E il tempo non guarisce le ferite.»
Sporco traditore, tu hai ingannato me ed…”. Non gli è concesso spingersi oltre.
Il devoto estrae qualcosa dal tascapane – un ceppo notevolmente contorto – e lo getta ai piedi della roccia, facendolo ricadere su quello già presente e appartenuto a Dalton Kordrum.
«L’abbandono è impresso col sangue nel tuo cuore» dice. «Tua madre è stata ingiusta con te, quasi quanto io lo fui con i miei compagni». Il devoto tossisce. «Le tue sono colpe grosse quanto le nostre.»
Io non sono la causa di tutte le vostre disgrazie. Io vi ho voluti bene, io ho combattuto per voi, ho intrapreso viaggi ed imprese per voi. Io vi ho rispettati fino all’ultimo, anche quando avrei dovuto urlarvi contro.”
«L’onore è colpevolezza». Lasciando una daga tre volte girata in una ferita sanguinante del giovane cavaliere, il devoto si dilegua in una nube di polvere insieme a Lenticchia, ormai totalmente ignorante della presenza del suo vero padrone.
Voi siete tutti morti!”. Bartimore intuisce che a Baricald non deve essere finita bene, ma non si capacita della sua presenza in quel posto, né di tutta quella lunga serie di persone che si stanno affollando nelle strade coi loro ceppi sottobraccio. Il giovane cavaliere appeso alla roccia inizia a tremare di terrore. Paura.
Alla sua sinistra è già arrivata un’altra figura tarchiata, abbastanza robusta e dai lineamenti facciali spigolosi. Il suo petto è in parte trafitto da una lunga e scura alabarda che gli oltrepassa il cuore e fuoriesce dalla schiena, come pronto per essere arrostito sulle braci ardenti. Si tratta di un ser che è stato un nemico ed un compagno per Bartimore, ma lui non può che riconoscerlo come perdente. Le fiamme bruciano ancora negli occhi scuri e remoti di ser Konrad e lui, come il resto degli ospiti, ghermisce un robusto ceppo con le due mani.
«Dov’eri quando bruciavo, cavaliere disonorato e bandito razziatore?». La domanda si sparge nel terreno, viene assorbita dal vento e dal sole. «Non ho ricevuto una sola preghiera dalla tua bocca infame. Avrò la mia vendetta, se non l’ho avuta già.»
Bartimore lo osserva a lungo. In realtà ciò che vorrebbe fare è strangolarlo e costringerlo a perire ancora una volta, ma le poche forze e il suo completo attaccamento alla superficie della roccia non glielo consentono. Forse è un bene in quella circostanza.
Il cavaliere dell’antica scorta di Ortys Wysler manda il suo ceppo a rotolare con gli altri due del suo dipartito signore. «L’onore è distruzione.»
Le spire del fuoco avvolgono il corpo macilento del cavaliere, assorbono la sua essenza e ne dissipano l’odio. In breve ser Konrad evapora come una goccia d’acqua lasciata per troppe ore sotto al sole cocente d’estate.
Ormai conscio di quello strano gioco di ombre, Bartimore volta a destra la faccia. Le lacrime gli rigano gli zigomi, ricadano sulla roccia accaldata e, scontrandosi con la sua superficie, iniziano a sfrigolare come olio bollente, finché il giovane ser non riesce a staccare braccia, gambe e corpo da quel macigno opprimente. Tira un sospiro di sollievo, ma le lacrime non riescono più a fermarsi.
La figura snella che gli si pone di fronte dopo aver percorso la stradina di sinistra è la giovane ragazzina bionda di cui Bartimore soffre persino nel pronunciare il nome. “Esmerelle”.
Esmerelle, la bellezza di due occhi a cerbiatto colorati da splendente e luminoso blu cielo, contornati da un’espressione unica e allo stesso tempo imbarazzante, riesce a farlo cuocere più del calore soffocante del sole. Quella ragazza ha del potere che infatua il ser, su questo il dubbio non esiste più.
Bartimore le si getta contro con meraviglia, stupito dalla sua presenza, piangendo lacrime amare e tentando di riattivare la sua salivazione. La parola non vuole tornare.
«Mi hai tradita Bartimore». Esmerelle è dura nel suo parlare. «Hai tradito ogni mio sogno, ogni mio desiderio. Tu non mi hai mai voluta, tu non mi hai mai amata.»
Come puoi dire questo?
«Ho avuto occhi, ma mi sono stati tolti. Ho avuto una pelle fine, ma mi è stata tolta. Ho avuto uno scheletro, ma mi è stato tolto. Ho avuto amore, ma mi è stato tolto.»
«…amore». La calda essenza di quella parola riesce a sciogliere il nodo possente alla gola di Bartimore.
«Non più» risponde secca l’anima bionda di Esmerelle. «L’onore è odio.»
La ragazzina estrae un pugnale dalla cintola. Il freddo acciaio luccica sotto al sole prima di conficcarsi in pieno petto di Bart, dritto contro il suo cuore. A sanguinare, però, al posto di Bartimore, è la stessa Esmerelle. Lui l’afferra, prova a chiuderle la ferita al petto, ma il sangue si fa strada ovunque, fuoriesce da ogni orifizio. In breve, il cadavere della ragazzina si ritrova ricoperta di una spessa coltre di sangue scuro.
«Amore…» mormora Bart. «Cuore…» Può fargli così male? «Onore… onore… onore…»
I morti sono sicuramente più forti del suo onore, più di tutto il suo dolore, più di tutte le sue lacrime. Il suo cuore non può continuare a reggere qualcosa di simile. Onore, onore, onore… onore!
Non ha saliva sulla lingua, non ha tenacia nel cuore, non ha più uno scopo per il quale decidere se vivere o morire. Sa di essere spacciato ora, così vulnerabile in quel luogo solitario, solo e senza emozioni. Onore, onore, onore… onore! Tutta colpa del dannatissimo onore!
I fiumi che solcano le sue guance sono ormai totalmente in piena e sul punto di inondare ogni lineamento del giovane ser. La rabbia sa ingigantirli. Anche il rancore ci riesce, e persino l’odio. Ma l’onore… chissà cosa può fare l’onore contro tutti quei sentimenti contrastanti nel suo animo.
Cosa può l’onore contro l’odio e per di più contro l’amore? Amore ed onore… onore, onore, onore, onore! Le sue lacrime non sono poi così tanto onorevoli come sembrano.
Onore, onore, onore! Lo percepisce, lo avverte chiaro: una fiamma nel più arido deserto, una fiaccola sul picco più gelido di una montagna.
L’onore che al tempo stesso è salvezza e distruzione. Due fiamme opposte, dannatamente mortali. Nessun uomo si serve dell’una senza prima assaporare la tossica essenza dell’altra. Ma chi, tra gli uomini, conosce il rischio che si corre nel perseguire una vita con onore? Il rischio di cadere nella fiamma vivida, di perdere l’equilibrio, di smarrire il percorso e con questo il senno, e precipitare nella voragine di fiamme che esso rappresenta?
Salvezza, distruzione. Due vie. Due fiamme. Ora è tempo di scegliere. Onore, onore, onore
Il vento torna ad ululare qualcosa nel mezzo di quel luogo solitario. Soffi e sospiri remoti echeggiano in tutto il territorio circostante alla roccia: «Sveglia… sveglia… sveglia…»



♣ Angolo d'autore ♣
Un capitolo piuttosto introspettivo, che ci catapulta nell'inconscio di Bartimore e che, forse, ci permette di cogliere meglio aspetti del suo carattere che in altri casi difficilmente ci sarebbero mostrati. Allegoria di ciò che al momento il ragazzo sente in cuor suo, il percorso che cerca di rappresentare il sogno non è di difficile interpretazione. Cosa vi è parso del tutto? In che modo potrà influire sul suo comportamento, se potrà farlo?
Ricordavate i vari personaggi apparsigli? E cosa pensate possano voler rappresentare per lui, nel sogno?

Il nostro Bartimore è sempre stato un cavaliere molto devoto all'onore... ma ora che questo li ha condotti tutti per due volte alla dannazione, credete che la sua idea potrà cambiare? 
Insomma, fatemi sapere tutto quello che pensate. Io vi ringrazio per essere sempre qui con me e con la mia storia, e vi comunico che - per qualche settimana, causa un viaggio - non potrò rispondere in tempi brevi alle vostre recensioni. 
Ci sentiamo presto, [giovedì 18 c.m.]
Makil_

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Capitolo 9
*** IX ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



«…Sveglia!». Il colpo perentorio dello scudiscio di Cargo rimbombò tre volte nella celletta. Il suono cupo e macabro dell’arma del carceriere fece sollevare a poco a poco la testa di Bartimore dal lettino. «Sveglia, prigioniero, è ora del pranzo! Sveglia!»            
Il grasso omaccione dalla pelle cascante e dilatata si posizionò tra lui e il resto della cella, lo scudiscio nella destra già pronto a scagliarsi sul suo zigomo. «Ho detto che è ora del pranzo. Fammelo ripetere un’altra volta e ti darò le legnate che ti toccano.»
Bartimore aveva così tanto mal di testa da non riuscire neppure a badare alle parole del carceriere: nonostante ciò decise di far del suo meglio per evitare di essere bersagliato dai colpi dello scudiscio.
«Qui c’è il tuo pranzo, prigioniero». Cargo gli lanciò una pagnotta tonda come un ciottolo.
«Non ho fame». La pagnotta rotolò ai suoi piedi.
«E io non ho voglia di starvi a sentire» replicò Cargo roteando lo scudiscio nella destra. «Eppure devo portarvi da mangiare. Qui c’è il cibo, ho detto.»
Non ci vogliono morti” intuì Bartimore passandosi una mano sul viso per massaggiare i suoi sfiniti lineamenti. Quanto aveva dormito? Un’ora, un giorno o una settimana?
Cargo si allontanò dalla loro cella canticchiando un motivetto del tutto insensato e privo di musicalità.
Ser Mark e ser Dayn erano seduti l’uno accanto all’altro nell’angolo sinistro della cella, poco lontani dal lettino di Bartimore.
«Cavaliere» mormorò ser Mark addentando la sua pagnotta. «Hai fatto sogni d’oro?»
Che sogni!”. «Non proprio d’oro ser Mark. Credo di non stare molto bene ultimamente. Per quanto tempo ho dormito?»
«Poche ore della notte e alcune del mattino, ser Bart». A rispondere fu Dayn, lo sguardo luccicante e gli occhi umidi. «Ma hai fatto tutta la notte a lamentarti nel sonno. Abbiamo chiesto che un incantatore venisse ad aiutarci, ma non abbiamo ricevuto altre visite che quella di Zobo e della sua correggia di cuoio… voleva che tu smettessi di smaniare… credevamo che tu… insomma, credevamo che tu non stessi affatto bene, ecco.»
«È per questo che Steffon ha deciso di fare qualcosa per noi. Ser Dayn è sul punto di ammalarsi. E il vaiolo nero ci preoccupa in queste condizioni. Insomma, Steffon doveva fare qualcosa…»
«Cosa?». Bartimore si guardò intorno: non c’era neppure l’ombra del giovane patres. Per un istante, le ombre tornarono ad offuscargli la vista e la mente. «Dov’è Steffon?»
«L’esperto ha deciso di confessare, Bartimore». Ser Dayn strappò coi denti un pezzo della sua pagnotta. «Mangiala finché è calda, potrà tornarti utile.»
«Non ho fame» ripeté Bartimore. «Confessare cosa?»
«Colpe inesistenti» rispose ser Mark masticando. Si passò un dito in bocca per togliere un pezzetto di pane rimasto incastrato tra i denti. «Colpe di reati che non abbiamo mai commesso.»
«Il processo…» fece Bartimore. «Non doveva esserci un processo?»
«Certo che sì» affermò ser Mark. «Ma se il presunto colpevole decide di confessare, questo diritto non può essergli negato neppure da sua alta signoria in persona il Supremo Patres.»
«Chi giudicherà la nostra colpevolezza?»
«Il castellano, quel Bennor Falso Esperto.»
«Non andrà mai a nostro favore. Steffon non doveva…»
«Steffon sa ciò che fa. Non è confessare il suo obiettivo, ma farsi ascoltare.» assicurò ser Mark mettendosi in piedi per sgranchirsi la schiena. «Cargo gli ha dato molto dritte negli ultimi giorni, vedrai che saprà sfruttare le informazioni più peccaminose del regno contro il suo protettore stesso. Vincerà sulle accuse, non ho dubbi.»
«E se dovesse perdere?»
«Allora saremo impiccati, giovane ser. Noi tutti insieme, s’intenda. La casa Wargrave riserva ai suoi prigionieri la pena dell’impiccagione: un rito che ancora oggi viene celebrato in molti altri posti del reame, ma da nessuna parte con cotanta fierezza. Ma, ripeto, noi non perderemo la causa. L’eloquio di Steffon ci salverà tutti. Tutti.»
Me lo auguro”. Bartimore si mise ritto sul lettino, le tempie pressate con gli indici di entrambe le mani. Quel giorno la cella era più scura e silenziosa del normale: non una sola fiaccola era stata accesa nei corridoi ancora semideserti, e non una sola povera anima era stata trasportata di forza giù per le scale che scendevano in basso, nel vero entroterra di quel luogo affatto confortante.
Quel pomeriggio ser Dalwar venne a far loro visita nelle Galere Rosse, con un arrivo che nessuno dei tre si sarebbe aspettato. Ser Dalwar aveva mantenuto una certa distanza dalle parole velenose di tutti i suoi compagni, ma ciò sicuramente non faceva di lui una persona onorevole. Eppure era l’unico, almeno fino ad allora, ad essersi ricordato di loro.
Il cavaliere reggeva una lanterna con all’interno un piccolo lumino nella sinistra, e si avvicinava con molta calma alla loro cella, accompagnato dal possente corpo di Cargo. Un rumore metallico, prodotto dai tre giri che la chiave del carceriere fece nella toppa, annunciò l’apertura della grata che li separava dal corridoio.
«Vi disturbo?». I lineamenti tozzi di ser Dalwar erano rischiariti dalla fioca luce del cero. Ser Dalwar era un uomo dai tratti piuttosto ordinari, il collo taurino e le spalle larghe. Il cavaliere doveva essere più vicino ai quaranta che ai cinquanta, ma non aveva peli sul volto e i suoi capelli crescevano grigi e lunghi sul capo. Quel giorno indossava un curato farsetto beige stretto attorno ai fianchi da una cintola scura, e un paio di brache del colore del cuoio.
«Non abbiamo molto da fare qui sotto» rispose ser Mark. «Una visita, una che non è fatta per farci del male, non può che farci piacere.»
Il visitatore alzò la mano destra aperta al cielo. «Sono disarmato, ser…ser?»
«Ser Mark.»
«…ser Mark» riprese ser Dalwar. «E non sono qui per punirvi. Sono del parere, piuttosto, che non debbano esistere prigionieri di guerra in battaglia.»
«Specie se quella battaglia non appartiene ai suddetti prigionieri» concordò ser Mark annuendo rapidamente. «Sì, siamo dello stesso parere, allora.»
Il ser fece segno a Cargo di lasciarli da soli, e tanto bastò al carceriere per arrancare lontano dal loro ingresso. Poi posò la lanterna sul pavimento lastricato. «Avete fame, per caso? O forse avete sete?»
«I miei compagni di cella non stanno bene: un po’ d’acqua non li aiuterà più di molto, e il cibo lo abbiamo. Insieme alle legnate, questo è qualcosa che i carcerieri non ci fanno mai mancare. Cos’è che vuoi, ser Dalwar?»
«Conosci il mio nome?». Ser Dalwar contrasse la fronte, mentre quella sua domanda risuonava più come una constatazione.
«Un prigioniero che non ha a cuore il motivo della sua accusa non può che protendere il suo udito verso le parole di chi fa silenzio. E tu, ser Dalwar, sei stato troppo silenzioso durante il nostro viaggio.»
«Strano» mormorò ser Dalwar. «Ricordo che non ti sei svegliato neppure un momento durante tutto il tragitto.»
«Si può ascoltare anche senza vedere, ser». Ser Mark si fece sfrontato. «Ma in questo posto in molti vedono senza ascoltare.»
«Mi costringi a contraddirti, ser Mark. Bennor si è dimostrato capace di ascoltare quanto avete da dire a vostra discolpa accettando il colloquio privato con il vostro compagno di cella. Ascolterà e vedrà. Ero con lui quando mi ha chiesto di uscire per accogliere il vostro… amico
«E ora sei qui» fece ser Mark. «Perché?»
«Perché a differenza di tutti gli altri non penso che voi siate colpevoli dei crimini di cui siete accusati.»
«E perché non vai a dirlo a tutti i tuoi compari? Cos’è? Un tranello?» domandò ser Mark. «Io e i miei due compagni siamo già cascati in un intrigo molti giorni fa, al torneo di Roshby… ci teniamo a non perdere la vita ora, in queste pessime condizioni.»
«Non è di me che dovete avere paura.»
«Noi non abbiamo paura». Bartimore si alzò in piedi.
«Meglio ancora, giovane ser. La paura è più tagliente di qualsiasi lama. Posso offrirvi da bere?»
No” pensò Bartimore, ma lo tenne per sé. Un po’ d’acqua non gli avrebbe fatto sicuramente male. Ma se fosse stata avvelenata? E se non fosse acqua sana o piuttosto fosse contaminata? Magari stavano tentando di illuderli inducendoli a confessare prima di assassinarli in modi che neppure potevano aspettarsi. Erano troppi i nemici in quel luogo, e tutti troppo enigmatici ed estranei ai loro costumi per poter essere considerati anche lontanamente loro amici. Ser Mark era sicuro che la pena dei Wargrave fosse davvero l’impiccagione?
«So già cosa state pensando». Ser Dalwar sfilò l’otre che teneva attaccata alla cintola, nella parte posteriore delle brache, la stappò con il pollice e mandò il tappo a rotolare sul pavimento. «Un sorso per garantirvi che non ho cattive intenzioni e che il veleno è ancora considerata un’arma immorale, anche dalle nostre parti». Il ser buttò giù un piccolo sorso di quello che sembrava essere vino rosso come il sangue, il cui colore scese a rigagnoli dai due lati delle sue labbra e colò giù lungo il collo.
«Vino?». Anche ser Mark se n’era accorto. «Vorrai ubriacarci forse?»
Ser Dalwar portò la borraccia sotto al naso di ser Mark. «Annusa ser, e dimmi cosa senti». Scosse un po’ il contenuto dell’otre.
«Sembra dolce…». Ser Dalwar continuò ad agitare. «Vino di ciliegia? Il sangue della Valle del Vespro…»
«…e in ottimo stato, aggiungerei. Una delle migliori annate mai portate qui a Nord. Sapete cosa si dice di questo vino?»
«Che sia un toccasana per la febbre, ser, chi non lo sa?»
«Per l’esattezza» mormorò ser Dalwar. «A me non serve poi così tanto, ma voi non rifiutatelo. Nessuno noterà che manca del vino lassù, ma in molti noteranno l’assenza di prigionieri qui sotto nel caso in cui qualcuno di voi dovesse rimetterci la pelle a causa di uno di questi beceri carcerieri.»
Liberateci, allora” pensò Bart. “E che le fiamme vi portino alla dannazione… tutti quanti!”
Ser Mark afferrò l’otre e ingollò un lungo sorso del suo contenuto. Staccò la bocca dall’anello, si leccò le labbra e guardò con un solo occhio all’interno dell’otre. Infine rivolse uno sguardo interrogatorio a quel cavaliere. «Perché ci stai aiutando, ser?»
«Gli stolti risponderebbero compassione: una prerogativa dell’essere umano» fece ser Dalwar piegandosi per riafferrare l’otre. «E così direbbero anche i bugiardi. Ma io non sono uno stolto né un bugiardo. A differenza dei soliti prigionieri, voi siete tutti cavalieri votati con molto buonsenso dentro quella zucca che i più hanno vuota. Ecco a te, ser… ser cavaliere… bevine un po’ anche tu… non sembri messo bene…»
Ser Dalwar fornì l’otre di vino a ser Dayn, il quale l’afferrò con entrambe le mani e portò il beccuccio alla bocca. Seguì un lungo sorso tipico di un uomo assetato e senza saliva.
«Risparmiamene un po’» fece Bart. «Ho sete anch’io.»
Ser Dalwar si fece riconsegnare l’otre e la portò a Bartimore, accovacciato sul lettino, le spalle contro l’umida parete di pietra scura. «Anche tu non sembri avere un ottimo colorito, ser giovane. Dovresti bere più di ogni altro.»
No” pensò Bart, ma non appena il contenuto dell’otre raggiunse le sue labbra non riuscì a contenere la sete e venne immediatamente meno alla sua ostinazione. In breve riuscì a tracannare tutto il vino a grandi sorsate. Chissà quando gli sarebbe ricapitato.
Ser Dalwar si fece riconsegnare l’otre vuota e la riattaccò alla cintola con un semplice gesto secco. «Ve ne porterò dell’altro, se lo desiderate…»
«E sia» fece ser Mark. «E ogni giorno lo gusterai per noi e prima di noi. Ma torniamo alla nostra domanda: perché ci stai aiutando?»
Ser Dalwar sorrise. «Voi mi servite vivi, messeri. Un cavaliere morto non vale nulla, mentre uno vivo ha sempre la capacità di usare una spada. Alzatevi e chiedete di confessare ciò per cui siete qui ora, proprio come sta facendo il vostro amico ricolmo di coraggio.»
«Cosa!?». Bartimore si alzò, vero, ma per imprecare ad alta voce. Quello doveva essere un pensiero personale, ma la sua bocca assetata si aprì più del dovuto. «Io non dirò mai ciò che volete sentirvi dire, sporchi assassini.»
«Mi stai dicendo che preferisci il cappio? Sì, effettivamente è un modo più rapido per guadagnarsi la tomba, non dico che non lo abbia pensato anch’io… ma forse non sapete che l’umiliazione capitale viene sempre prima dell’esecuzione qui ad Ockswert. A modo mio credo che sia meglio morire con dignità e con addosso qualcosa, anche un piccolo pezzo di straccio.»
«Dignità?» tuonò Bartimore. «Ci avete costretti a dormire qui sotto senza neppure poter sciacquarci la faccia la mattina. Ci avete costretti ad essere bersaglio di carcerieri violenti ed inutilmente forti. Non ci avete già umiliati abbastanza?»
«E vi garantisco che è nulla di fronte a quello che potrebbe essere l’umiliazione capitale. Per secoli i Wargrave di Giardino Fiorito hanno imposto sanzioni morali peccaminose ai loro prigionieri, costringendoli a denudarsi dinanzi a stalle di cavalli e a confondersi con le bestie, o piuttosto o rimanere legati ad una statua della città per tre giorni, senza abiti e cosparsi di miele nelle parti intime e sotto le ascelle.»
«E l’Accademia è al corrente di tutto ciò?»
«Se lo è? Ovviamente sì». Ser Dalwar contorse le labbra. «E tra l’altro l’Accademia è quanto mai gentile nei confronti del nostro buon signore Roscart: certo, i motivi sono ben discutibili. No, non si tratta di corruzione, ma la scaltrezza e la finta furbizia di Wargrave la dicono lunga su parecchi conti, ve lo assicuro. Certo è che Ockswert ha raggiunto, oggigiorno, uno splendore che mai avrebbe immaginato di poter avere.»
«Uno splendore che i tuoi signori stanno disseminando per strada, mi sembra». Ser Mark si alzò in piedi e andò a posizionarsi di fronte al cavaliere.
«Signori dell’inutilità e dell’ebbrezza, ser cavalier Mark, ecco perché sono così sciupati ora.»
«Fa’ attenzione, potresti essere punito con l’umiliazione capitale.»
«Non mi farebbe alcun effetto, ser Mark. E ascoltate il motivo di questa mia opionione: dietro questi abiti profumati e questa seta davvero poco sgargiante, si nasconde un fisico uguale in tutto e per tutto a quello di un generale, forse solo un po’ più nutrito ed in carne. Susciterei indignazione nel popolo, questo sì, ma a me non farebbe alcun graffio. Posso vantare – e quindi al diavolo le false modestie – di avere un corpo abbastanza compatto e lavorato, e non ho vergogna nel mostrare ciò che mia madre mi ha messo in mezzo alle gambe. Voi, piuttosto, così denutriti, sporchi e magri, prendereste la pena con la stessa superficialità? La gente vi sputerebbe addosso, vi tratterebbe con le stesse maniere cui si trattano i maiali. E sarete ricordati per sempre come delle larve prive di forza: figure lungi, insomma, dall’essere valorose. Non solo, tutti vi guarderebbero trattenendo i conati di vomito, qui sulla terra e poi, poco più tardi, anche da lassù, nel cielo.»
Ser Mark lo guardò allibito, mentre ser Dayn si contorceva all’angolo con le mani posate sullo stomaco, divorato da un dolore atroce alla pancia. Bartimore si mise in piedi accanto a ser Mark. Il movimento repentino non fu privo di un seguito disastroso: il sangue gli risalì rapidamente al cervello, costrinse Bartimore a tentennare coi piedi, rischiando la caduta, le mani poggiate sulla parete nera. In breve gli si annebbiò completamente la vista.
«Il giovane non sta bene» intuì vedendolo ser Dalwar. «E neppure quello lì». A quel punto indicò ser Dayn con il suo indice scarno. «E tu ser Mark morirai d’infezione se non rischierai di seguire quanto vi consiglio di fare. Fate ammenda, cavalieri, confessate colpe mai compiute e sarete liberi di tornare a respirare aria satura della luce del sole. Qui non posso dirvi altro.»
«Non abbiamo intenzione di aggiungere altro splendore alla vostra sporca cittadina corrotta! Ebbene, è ora che questa storia vada a farsi fottere! Non staremo qui a sentire ciarlare un cavaliere di questo regno ancora per molto. Nessuno starà qui a chinare il capo dinanzi a te: e questo lo dico io.»
«Non vi sarà fatto alcun male se…»
«Ah no? E ben detto, aggiungerei! Di male ce ne avete già fatto abbastanza, ser Dalwar. Credo sia il tempo di smetterla con questa farsa senza capo né piedi. Volete ucciderci? Fatelo e basta, senza ridurci all’osso e senza farci perdere l’ultimo briciolo della nostra dignità. Soffocateci, impiccateci, amputate i pezzi del nostro corpo o cos’altro volete amputare… ma non prendetevi gioco di noi neppure per un attimo. Siamo uomini, e come tali pretendiamo di essere rispettati.»
«E così è il rispetto che siete venuti a cercare qui al Nord. Direi che, se questo è quello che volete…» mormorò ser Dalwar abbassandosi per riafferrare la lanterna ad olio con la destra. Ci fu un rumore nel lontano corridoio delle gattabuie che sembrò destabilizzare il ser. «Allora è questo che avrete, messeri». Una conclusione inaspettata e colma di sussiego che rese il cavaliere molto più temibile di quanto invece non fosse.
Percorse a ritroso il suo cammino e quando uscì dalla cella di lui non rimase altro che l’odore aspro del fumo della lanterna: il sapore malsano dell’ingiustizia, dell’incertezza e del dubbio di cui le labbra dei tre cavalieri erano completamente sature.




♣ Angolo d'autore ♣
Il nostro giovane Bartimore si è risvegliato dal sonno: Steffon, nel mentre, è tornato a parlottare con il loro principale oppressore, Bennor, il castellano. Cosa pensate possa fare? Sarà ascoltato e porterà a termine il suo proposito?
Per quanto riguarda i nostri tre, invece, rimasti in cella, cosa pensate che possa capitargli? Come definite la loro situazione? 
Abbiamo poi il personaggio di ser Dalwar, che in molti avevano già notato leggermente diverso dalla combriccola di Wargrave. Cosa pensate desideri Dalwar? Quali sono i suoi propositi? Perché sta aiutando i nostri? 
Ditemi la vostra, insomma, sul personaggio e sulla situazione, nonché su tutto ciò che avete notato e di cui io non faccio qui menzione.
Grazie a tutti i recensori, a chi legge in silenzio e a chi mi segue con costanza. Un bacio e al prossimo aggiornamento [giovedì 25 c.m.]
Makil_



 

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Capitolo 10
*** X ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



La fessura nel tetto lasciava che la luce della luna rischiarisse quel breve tratto del pavimento. Era alta, maestosa e brillante quella sera, pallida come la pelle appena abbeverata di latte di una dolce fanciulla.
Nessun uomo libero avrebbe fatto caso a quella mezzaluna nel cielo là fuori, ma loro, prigionieri insoliti di una casa troppo orgogliosa, avevano così poco a disposizione che persino il bianco occhio del cielo notturno era in grado di meravigliarli.
Le ore passavano lente all’interno di quel piccolissimo spazio di roccia fredda che era stato loro riservato. I giorni erano interminabili e riuscivano ad appesantire i prigionieri nonostante facessero tutto meno che muoversi anche solo di qualche passo. L’assenza continua di luci non poteva che essere un trucco migliore di un soporifero laggiù, dove gli unici mormorii disgraziati erano i lamenti dei condannati alle peggiori pene proposte dal regno. Il lettino che gli avevano donato stava iniziando a puzzare di un tanfo cadaverico e letale persino per le mosche. Le spesse pareti di pietra sapevano contenere con rigidità tutti gli odori acri di quel luogo, compreso il fetore degli escrementi, delle fogne e del sudore, ormai divenuto insopportabile per quei corpi che non si lavavano da parecchi giorni.
Tutti avevano volti sciupati e corrosi dalla prigionia là sotto, persino i soliti carcerieri aggobbiti o minacciosi che, pur potendoselo permettere, non amavano dedicare più di qualche minuto alla loro igiene personale e preferivano piuttosto spassarsela con le loro armi da tortura.
Ser Dayn, piegato per terra con la fronte poggiata sul ginocchio destro, fu preso da un sussulto improvviso all’avvertire di un sibilo appena percettibile.
«Sta tornando per la cena» mormorò delicatamente il giovane ser piegato in due dai lancinanti dolori che ormai da ore lo stavano tartassando. «Fatelo smettere, vi prego…»
Ma le sue suppliche non trovarono alcun esito fuori dalle sue labbra, e il tormentante rumore della correggia di cuoio infranta sulle pareti di roccia si affievolì solo quando Cargo giunse, come al solito, dinanzi alla loro cella. Per quell’incontro, il carceriere aveva indossato una scura giubba di cuoio scolorito, bracciale di spesso e scuro ferro nero ai polsi e un paio di brache color sabbia che, nonostante fossero stretti con una forza tale da poter bloccare la circolazione del suo sangue all’inguine, non riuscivano a tenere a bada i flaccidi strati di grasso che si sollevavano dal suo ventre.
«In piedi, prigionieri». Cargo batté un colpo di correggia sulla trave d’ingresso, poi girò la chiave ed aprì la cella. «Avete sentito?»
Nessuno si alzò, e il gesto non passò inosservato al becero carceriere che già era passato a puntarli con la sua arma. «Argh!». Lo scudiscio saettò e mezz’aria e si scontrò con le sbarre. «Eccovi la cena, prigionieri!»
Cargo lanciò una pagnotta tonda al centro della stanza.
A quel punto ser Mark alzò lo sguardo. «Un pezzo di pane freddo? Uno solo per sfamare quattro persone?»
«Aye» fece Cargo lisciando lo scudiscio. «E presto non vi daremo nemmeno più questo. Il cibo scarseggia grazie a voi fecce del regno, e anche noi dobbiamo mangiare.»
«Va’ al diavolo, imbecille!»
Cargo alzò lo scudiscio con una rapidità tale da far vergognare una mosca. Fece per infrangerlo su Mark, ma una voce lo destabilizzò.
«Cargo!». Patres Steffon fece ritorno nella cella accompagnato dall’esile carceriere di nome Zobo, un uomo avvilito e sciupato, sempre pronto a far del male con la sua correggia di cuoio. L’uomo teneva Steffon per i cappi che gli legavano i polsi. Non appena aprì la cella, gli diede un forte spintone con il piede destro e lo mandò a schiantarsi sul gelido suolo della celletta.
«Esperto» lo accolse tetro il carceriere robusto. «Come ti è finita?»
Steffon guardò tutti i suoi amici prima di rispondere: l’esperto aveva il volto rigato dal segno di cinque dita rosse. «Ho fallito» fiatò sommessamente, non tanto rivolto al carceriere quanto, invece, ai suoi compagni di cella. «Ho fallito miseramente.»
«Ah!» tuonò Cargo. «Al diavolo quello che hai fatto tu! Io mi riferivo a quello che mi interessa. Ti ha dato ciò che ti avevo chiesto?»
Steffon tastò le tasche interne alla sua tunica sgualcita e tirò fuori una benda bianca arrotolata attorno ad un piccolo ramoscello. «Ecco» fece lanciando il tutto al carceriere. «Prenditi questa cosa e lasciaci in pace.»
«Io non sono… insomma, io non so curarmi le ferite.»
«Non ho mai detto che quelle bende ti sarebbero state d’aiuto contro le tue ferite, Cargo. E mi sembra di ricordare che non avevamo altri patti in sospeso… il tuo aiuto mi è stato dato una sola volta, e una sola volta è stato ripagato.»
«Argh». Cargo si avvicinò a Steffon, gli mise una mano sotto l’ascella e lo rialzò da terra con forza. Gli passò una mano sulla veste e gliela ripulì per bene della fuliggine che gli si era formata addosso. «Avanti, raccontami com’è andata.»
«Non c’è niente da raccontare» rispose secco Steffon. «Quel… quel…  quel castellano è un uomo testardo e senza un minimo di educazione… sì… e…»
«…e non è un castellano.» mormorò rapidamente il carceriere rinfoderando lo scudiscio.
«Cosa? Come sarebbe a dire?»
«Già» confermò Cargo. «Che c’è, non lo sapevi?». Era impossibile non notare l’atteggiamento di rispetto nei confronti di Steffon che il carceriere iniziava a riservare. In sua presenza sembrava quietare un minimo quel suo istinto omicida che lo contraddistingueva dinanzi al resto delle sue prede.
Bartimore si convinse a credere che fosse pura soggezione.
«Non sapevo cosa, con esattezza?»
«Che tutti parlano di lui come Bennor Falso Esperto, ovviamente. Alcuni dicono che lo fanno per sfottimento, altri ancora che si tratta di ingiurie da popolo senza cervello. Ma io il cervello ce l’ho, e bello grosso pure, ma non mi tiro indietro quando c’è da chiamarlo con il suo nome per intero: già». Cargo sorrise nel pronunciare quelle parole, come fossero appaganti quanto una sorsata di vino. «Bennor il Falso Esperto; senti come suona bene?»
«E con ciò?»
Cargo inserì il suo grosso e tozzo indice all’interno dell’orecchio e prese a fare su e giù per tirare fuori un po’ di cerume. «Esperto… sarà pure esperto di nome… ma non ha mai preso i voti all’Accademia.»
«Ah no?» domandò curioso Steffon, i cui occhi presero a brillare nel momento stesso in cui la conversazione iniziò a toccare punti più interessanti. «E perché ora lo chiamate castellano?»
«Perché sua signoria Wargrave gli ha affidato questo compito in sua assenza.»
«Ma non ha il diritto di reggere un regno in vece di reggente se privo di una validità o di una specializzazione adeguata a quel compito.»
«E tu non hai il diritto di crearti problemi su quello che non ti riguarda». Sfilò rapido lo scudiscio e lo alzò verso il tetto della cella.
«Cargo!». La voce di Steffon si fece cupa un’altra volta. «Ti chiedo di mettere giù quell’arma e di non utilizzarla più contro di me e contro i miei compagni. Sono un passo dall’uscire da questa prigione, e tu sai cosa potrebbe capitarti qualora dovessi dire in giro ciò che ci hai fatto qui dentro…»
Cargo abbassò il braccio e si mordicchiò le labbra chiaramente disturbato. «Solo perché me lo stai chiedendo tu, esperto prigioniero. Tu sei un esperto, almeno… non è vero? Puoi garantirmelo?»
«Certo che lo sono!»
«Allora conoscerai sicuramente la storia che tutti gli altri della tua risma raccontano di Bennor.»
«Io… io… non sono come gli altri.»
«Argh!» fece Cargo. «Eppure non sei il primo che mi rivela questa cosa, forse Bennor era un tipo timido all’Accademia. Di certo è cambiato molto lontano da là… vecchio marpione, lui. C’era un esperto una volta, ad esempio, e si chiamava Cyde se non ricordo male… oh sì, proprio così… patres Cyde, che un giorno mi raccontò un paio di cosette su Bennor. Dovevi vedere come parlava, manco gli fosse stata bloccata la bocca per giorni senza farlo replicare. Fece tutto il giorno a raccontarmi di Bennor, a gettare fango su di lui… sì, aveva proprio bisogno di sfogarsi quel povero ometto. E la stessa sera fu accusato di vili… vili…»
«Vilipendio» suggerì stanco ser Mark. I volti di tutti gli astanti si voltarono verso lui.
«Esatto» mormorò Cargo. «Fu accusato di quella cosa lì e fu messo a morte. Bennor richiese la sua testa al boia, andando contro ogni sacra legge di Giardino Fiorito che impone la morte per cappio davanti a tanti testimoni. Il Falso Esperto riuscì ad avere la testa mozzata a dovere di quel povero patres e la espose per più di due mesi di fronte alla porta della sua camera. In molti dicevano che Bennor la utilizzava per pulire i tacchetti delle sue scarpe quando la sera faceva ritorno nelle sue camere. Ma io non l’ho mai visto fare queste cose…»
Che essere ripugnante”. Bart riuscì a trattenere a stento i conati di vomito e anche Dayn, già ridotto sul filo del rasoio del suo malessere, sembrò scombussolarsi sentendo quelle cose.
«E cosa ha detto di tanto incriminante quel poveruomo?»
«Ah, dannato patres Cyde… dovevi proprio vedere quante cose mi ha detto; cose in grado di far rivoltare un morto nella sua tomba. In poche parole, Bennor non è mai riuscito a prendere i voti all’Accademia… e questo perché era frenato dal suo… dal suo…»
«Dal suo?»
«Accanimento… così disse Cyde… accanimento per le servette e per le matres che gli giravano attorno giorno e notte. Patres Cyde mi raccontò che fu cacciato ben tre volte dall’Accademia, all’età di sedici, ventidue e quarantatré anni, per essere stato visto con le mani addosso a quelle donne… nella notte… mentre andava a sorprenderle nei loro letti!»
«Disgustoso…» commentò Steffon.
Il carceriere si lasciò sfuggire un ghigno. «Diciamo che lui aveva il coraggio di fare quello che molti dei tuoi amici vorrebbero fare ogni secondo della loro vita.»
«Noi giuriamo di non prendere moglie, tra le tante altre cose, carceriere Cargo. E noi rispettiamo i nostri voti. Sempre.»
«Ma lui non ha mai preso i voti, infatti. E poi in lui non c’è un briciolo di dignità… e se ne fotteva di quello che gli altri dicevano di lui.»
«E allora perché accusò quel patres di vilipendio? Puro sfizio personale? D’altronde ci crederei. Bennor avrebbe tutte le carte in regola per fare un gesto simile, dato che è circondato da gente che gli conferisce determinati titoli senza alcun criterio.»
«Ma no!» tuonò Cargo. «Mica era quello il problema più grande. Patres Cyde mi riferì che, alla fine, Bennor adocchiò una ragazzina bella tonda e provocante… e non si fece mica problemi ad avvicinarsi pure a questa. Con l’unica differenza, però, che almeno lei gli rivolse la stessa considerazione e lo accolse nel suo letto.»
«All’Accademia!?» domandò sbigottito Steffon.
«All’Accademia» confermò Cargo incrociando al petto le braccia. «Parola di patres Cyde, che ci rimise la testa per tanto.»
«E chi diavolo era questa scellerata?»
«Il suo nome era Marysanne, e lei era bella e giovane, dagli occhi cer… ceru…»
«Cerulei» suggerì ser Mark precedendolo.
«Quelli lì, appunto». Cargo si grattò il basso ventre. «E Marysanne riuscì a far perdere la testa al povero ed anziano Bennor… tanto che egli finì per darle la caccia, giorno dopo giorno, come se quella ragazza era la preda nella foresta oscura. Fioredea… così la chiamava: a sentirlo, che ebete infinocchiato! Ben presto, Marysanne divenne il motivo per il quale Bennor continuava a restare inutilmente all’Accademia, seppur invano, dal momento che non riusciva mai a terminare i suoi studi. Sì, proprio così… e non mancava di metterle le mani addosso per strizzarle i fianchi, per afferrarle le vesti… no, non mancava affatto. Ma un giorno, qualcuno osò denunciare il tutto… uno degli infimi che studiava lì da poco e che si era innamorato di Marysanne, e la voce si sparse nelle stanze dell’Accademia, risalì le bocche dei più pettegoli ed arrivò nelle orecchie del Supremo Patres Polwyr, pace e gloria al suo nome, che lo allontanò di nuovo dall’Accademia. Non c’è cosa che più vorrebbe quell’uomo, se non tornare a mettere le mani sulla sua bella Marysanne. Ora si fa chiamare esperto. Guardalo bene: si è convinto pure di esserlo, un esperto. Ed è per questo che lo chiamiamo in tutt’altro modo.»
Steffon socchiuse gli occhi e si tastò le tempie con le dita. Pensò ad alta voce. «Ciò che più desidera e poterla riavere per sé…»
«Rimetterle le mani addosso» puntualizzò il carceriere grattandosi il petto. «Meglio dire le cose come stanno.»
«Difficilmente coloro che amiamo fuggono dai nostri cuori, anche a distanza di tempo, anche in circostanze per le quali essi si rivelano causa di grandissimi problemi.» fece Steffon con un tono più quieto. «Io so cosa significa. E posso dargli una mano, se lo vorrà.»
«Te la taglia» disse secco Cargo. «Non gli piace che qualcun altro metta le mani sulla sua bella Marysanne.»
Steffon si voltò verso i suoi compagni di cella. «Lasciaci soli, Cargo. E lasciaci cibo a sufficienza.»
«Mi spiace Steffon, dovrai accontentarti di questo e di quel poco che hai avuto già. E non posso fare altro.»
«Puoi sempre lasciarci, però». Il tono incisivo di Steffon non ammetteva replica.
Cargo arricciò il naso e si allontanò dalla cella, il cui ingresso fu chiuso da tre giri di chiave prima che il mostro bipede dalla massa flaccida sul ventre si allontanasse del tutto.
Ser Mark prese parola per primo, spezzando il silenzio tombale che era sceso sul volto di tutti. L’aria era satura di tensione. «Steffon… con tutto il rispetto: tu sei un pazzo.»
«Un pazzo a cui piace rischiare il peggio per avere il meglio. Gioco d’azzardo, illudendomi… sia pure.»
«Un pazzo illuso, allora». Bartimore si mise in piedi e si posizionò accanto agli altri due uomini già in piedi.
«Dobbiamo uscire al più presto possibile da questa prigione» mormorò Steffon osservando la complicata situazione in cui versava ser Dayn, il quale avrebbe sicuramente annuito se avesse avuto le forze per farlo. «Per il bene di ognuno di noi.»
«E come?» domandò ser Mark portando le braccia intrecciate al petto. «Questo pomeriggio ser Dalwar è venuto a trovarci per constatare quanto fossimo morti. Ha trovato gente sana, non lo nego, ma per quanto ancora avremo modo di dirlo? Non c’è modo di fuggire da qui se non attraverso l’umiliazione capitale, pena l’impiccagione. Io non voglio morire adesso, Steffon… lo capisci?»
«Guardati intorno, ser Mark. Vedi qualcuno disposto a farlo?»
Ser Mark piegò le labbra e si girò dando un pugno alla parete dietro di lui. «Ser Dayn non sopravvivrà un giorno di più qui dentro. Ha bisogno delle cure di un incantatore… e del migliore, possibilmente.»
Era vero: nelle ultime ore il malessere di Dayn si era aggravato a tal punto da renderlo instabile e dannoso persino per la sintonia del gruppo stesso. I bei lineamenti fini e arguti di Dayn si erano smussati come cera sciolta dal fuoco, trasformando il bel viso aquilino del giovane cavaliere in un’informità di piaghe.
«Trovo alquanto strano ciò che sto per dire: se trasgredire alle regole e sfruttare l’assenza di pudore all’Accademia possono salvarci la pelle, allora è giusto che mettiamo da parte qualsiasi tipo di onore e cediamo i nostri ideali all’immoralità. Ed è per questo che proverò di nuovo a fare qualcosa… qualcosa per cui impiegherò tutto ciò che so.»
«Un’altra volta?» chiese ser Mark. «Non servirà a nulla. Manda un messaggio a qualcuno, Steffon, e fa’ qualcosa di concreto piuttosto che proporre e basta: è fiato sprecato il tuo… quel castellano non ci libererà mai.»
«Lasciami provare un’ultima volta, sono sicuro che potrò smuoverlo un po’. Quando in gioco c’è il cuore, le vie di fuga non sono infinite. So come parlargli». Il volto di Steffon si corrucciò convinto. «Posso farcela.»
«E come? Forse giocando con lui una partita a trova-chi-trova-la-mia-casa
«Giocherò, su questo non hai torto, ma non con quel genere di tresche. Ho ancora una carta da scagliare in campo, in effetti. Il mio asso nella manica
Ser Mark lo guardò attonito a lungo.
«Quale carta?» domandò curioso Bartimore, il cui fare era lo stesso di un uomo avvilito e distrutto dalla vita. “Fame… sete… giustizia… eccoli i miei più grandi bisogni”. Guardò fuori dalla fessura che si apriva verso il cielo, sulla luna. “Dalton, almeno tu… aiutaci…”. Finse si calarsi per un attimo nei panni del suo glorioso signore: cosa avrebbe fatto al suo posto? Avrebbe sguainato la spada per combattere i suoi assalitori o li avrebbe vinti con l’arguzia?
Steffon gli rivolse un sorrisino sbieco, come soddisfatto dalla domanda del giovane ser. «La tua, cavaliere di Fondocupo. E aggiungerei anche ciò che ho appena saputo da Cargo.»
Bartimore lo guardò allontanarsi dalla sua postazione, le gambe rinsecchite quasi sospese sul suolo nel camminarvi sopra. Il patres si avvicinò alla grata ed afferrò con una mano una delle tante sbarre che li separavano dal corridoio.
«Cargo!» vociò come un dannato. Ovunque fosse quell’uomo, sicuramente la voce gli sarebbe arrivata istantaneamente. «Cargo, dannato carceriere, vedi di tirarmi fuori da qui ora! Ho un affare da discutere con il tuo Bennor… e temo che faremo le ore piccole.»
Come il cane richiamato dal pastore dopo aver condotto al pascolo il suo gregge, Cargo si mise a correre per arrivare subito a Steffon. Il suono dei suoi passi corti, infatti, rimbombò nel lungo corridoio di quelle segrete.
Il giovane esperto si girò d’un tratto, nei suoi lineamenti la bellezza scomposta della giovinezza fresca della sua età finalmente di nuovo visibile. «Ve lo prometto nel buon nome dei nobilissimi signori che abbiamo servito e che ora ci guardano dall’alto. Lo giuro su Kordrum, il Sole del Sud, su Wysler, il Gigante Sorridente, su Norstone, la Vecchia Roccia». Non c’era alone di dubbio nel suo fiero sguardo grigio. «Io vi porterò fuori da qui.»



♣ Angolo d'autore ♣
Ci siamo, è il momento della resa dei conti, che segnerà finalmente il destino dei nostri. Il ritorno di Steffon ha sancito un'altra sconfitta, ma ora l'esperto è più che pronto a giocarsi la sua ultima possibilità. Cosa avrà in mente, secondo voi? 
Come lui stesso dice, il piano gli è sorto nel sentir parlare a sproposito Cargo - che sappiamo aver sfruttato sin dal primo momento, data la dote - circa la nomea e l'epiteto che gravano su Bennor, il castellano. Alla luce di ciò, che vi pare di Cargo? Pensate sia soltanto uno stolto? E cosa mi dite del suo rapporto con Steffon?
Cosa pensate, invece, di quanto raccontato da Cargo sul conto del castellano? Cosa del suo passato e delle sue avventure all'Accademia?

Ditemi tutto ciò che pensate e, se volete, in che modo secondo voi Steffon userà le informazioni di cui è in possesso per vincere la sua causa. Ce la farà, questa volta? Se sì, andrà tutto liscio? Staremo a vedere!
Un immenso grazie a tutti voi che mi seguite. Ci sentiamo al prossimo aggiornamento [giovedì 1 agosto] e - non appena possibile - nelle recensioni a cui presto risponderò. Un abbracio,
Makil_



 

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Capitolo 11
*** XI ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Il salone dalle grezze colonne sui lati era appena illuminato dalla luce fioca di quattro torce da poco accese e dalla ancor più flebile luce lunare che attraversava la grandissima vetrata variopinta alle spalle del trono di Ockswert. Le figure stilizzate impresse su questo sembravano essere divenute mobili ora, tanto la luce era in grado di farle sembrare vive. La luna che svettava fuori dalla vetrata si contrapponeva al sole che s’innalzava sullo schienale dello scranno regale, per nulla in ottime condizioni. I due scranni ai lati del trono erano vuoti, ma la sala non mancava di cavalieri.
Steffon e Bartimore erano stati trasportati al piano superiore da ser Walifer, ser Dalwar e ser Henry, che ora erano assorti in chiacchiere alle loro spalle e che prima non avevano mancato di rimproverarli di gusto per l’orario in cui li avevano disturbati. Nessuno dei tre confidava nella buona riuscita dell’impresa che Steffon proponeva, neppure ser Dalwar, che nutriva propositi che gli altri due non immaginavano nemmeno.
«Annuisci e resta nella parte in cui il mio gioco sta per relegarti, Bartimore. È necessario che tu sia forte adesso» gli aveva detto Steffon stringendogli il braccio mentre risalivano le scale delle segrete. «E non tirarti indietro nemmeno una volta. Se lo farai…»
«Non lo farò, Steffon». “Devo riuscirci” aveva pensato. E ora non poteva più fare nulla per venir meno a quell’incarico: non che ne avesse voglia, dopotutto.
Se tutto era cambiato dal giorno in cui aveva posato piede dentro quel salone regale, non si poteva dire lo stesso del pavimento color fumo, gelido come il ghiaccio.
Uno scricchiolio preceduto da un lungo tintinnio annunciò l’apertura di una porta che si trovava esattamente dietro allo scranno centrale sul palco. I cavalieri alle spalle dei prigionieri furono immobilizzati completamente da quel suono e, come Bartimore poté presto constatare, ne rimasero talmente intimoriti da rifugiarsi in un insolito silenzio.
Bennor Falso Esperto, due profonde occhiaie scure sotto agli occhi, camminò lungo il perimetro del palchetto e si fermò dinanzi ai due prigionieri. Il castellano appariva ancora più pallido a quell’ora della sera, e la sua carnagione diafana sembrava essere il proseguo della grande vetrata che svettava alle sue spalle. Per l’occasione affatto importante, Bennor aveva indossato una lunga tunica di seta grigia che, alla base del collo, terminava con una fiera pelliccia bianca. Sul suo capo era stato avvolto uno chaperon nero che pareva un corvo appollaiato sui suoi capelli, pronto per la notte nel suo morbido nido.
Il castellano osservò a lungo i due astanti, incrociò le braccia al petto e fece per parlare. Ma non appena ricordò quale autorità fosse la sua e quali obblighi imponeva il suo ruolo, risalì le scalette del palco di legno e si mise comodo sullo scranno che apparteneva al suo signore.
«Duro a morire, esperto, o la notte ti fa paura là sotto?»
Patres Steffon alzò lievemente il capo e guardò il castellano. Gli occhi del patres erano lucidi, e nel suo volto i lineamenti contratti dell’uomo lasciavano intendere che non aveva alcuna voglia di perdere tempo. Steffon andò dritto al nocciolo della questione.
«Se sono di nuovo qui, mio signore, è per chiederti umilmente di poter ricevere le cure di cui il mio compagno di cella, ser Dayn, ha bisogno adesso.»
«Cure che, in qualità di prigioniero, non avrà. Abbiamo terminato, patres? La tua insolenza è indubbia: disturbarmi per nulla a quest’ora della sera dovrebbe costare un paio di dita…»
Bennor fece per alzarsi dallo scranno, ma Steffon lo fermò con un sussulto.
«Cos’altro vuoi?». Il volto bianco del castellano aveva tutta l’aria di apparire terribilmente minaccioso, ma Steffon sembrava non percepire più quel senso di timore che l’uomo voleva incutergli.
«Mio signore, ribadisco a nostro favore che non abbiamo alcuna colpa negli eventi di cui siamo accusati. Attendere un processo non potrà che indurci alla morte, e noi non possiamo permettercelo ora come ora. Siamo reduci dell’assassinio avvenuto a Roshby. E io sono qui a chiedere il perdono della vostra corona, spogliato del mio onore e delle mie virtù d’uomo.»
«Lo hai già fatto mi sembra, patres, e il mio responso è stato negativo. Tutto questo posare per terra le tue ginocchia presto o tardi finirà per dannarti con un’acuta tendinite. Perché chinarti di nuovo?»
«Perché vediate quanto pure ed oneste siano le mie parole.»
«Parole… parole… le parole non hanno mai salvato nessuno. Tutt’altro, anzi, posso confermarti.»
«Le parole no» rispose Steffon. «Ma sono pronto a dirvi che l’opulenza e la potenza lo hanno fatto una decina di volte in cui sono stato testimone dell’accaduto.»
Steffon diede un pizzicotto al braccio di Bartimore.
«L’opulenza di chi, nello specifico?»
«Del ser che ho accanto» rispose Steffon. «Figlio di un nobile signore del Sud. La sua casa saprebbe ricompensare la vostra cento volte e per cento generazioni. Lui è…»
«…lo stesso che, se non erro, è stato in grado di mozzare il braccio del mio uomo. Occorre che ser Henry vi mostri di nuovo ciò di cui siete stati capaci? I briganti utilizzano questo genere di minaccia verso i nobili uomini a capo di una compagnia: i briganti e le spie della Signora dei Merletti.»
«Ser Bartimore è stato mosso dal senso del… dovere. Che io sappia nessuno dei vostri uomini ha perso la vita quando ha tentato di metterci addosso le mani e le corde.»
«E con ciò?»
«E con ciò vorrei sottolineare che, invece, i miei amici potrebbero perderla da un momento all’altro qui dentro, pur non avendo avuto alcuna colpa in ciò di cui siamo accusati.»
«E questa è sola una delle tante pene a cui è lecito che un prigioniero si sottoponga.»
«Sono d’accordo… a patto che il prigioniero sia davvero colpevole delle accuse avanzate contro di lui. Le vostre cattiverie illecite potrebbero farvi più briganti di coloro che considerate ad ora tali.»
Tra i due piombò un breve silenzio. Fu lo stesso Bennor ad interromperlo.
«L’Accademia parla chiaro a proposito, credo che questo tu lo sappia piuttosto bene, patres esperto. È obbligo del reggente di un qualsivoglia regno assicurarsi che i prigionieri della sua corona…»
«…siano processati dinanzi ad un pubblico cosciente e capace di ragionare con la propria mente. Con la seguente s’intende limitare ogni sorta di corruzione e finanche ogni tipo di illecita condanna ai danni di presunti condannati.»
«Vedo che conosci bene la legge, ma ciò che ti sfugge è che non conosci il luogo in cui sei stato portato, patres. Ockswert è stata privata di gran parte dei suoi cittadini nel momento in cui è avvenuta la fatidica scissione dal suo regno madre: Giardino Fiorito. A quale giudizio popolare vorreste affidarvi?»
«A tal proposito, un’altra legge dice che…» 
«Abbiamo già parlato di legge, e non mi interessa sentire oltre». Bennor si alzò dallo scranno. «Dal momento in cui ho messo piede su questo palco in qualità di reggente e in vece del mio signore, ho dato ordine di allontanare ogni ostacolo di forma giuridica dalla piccola corte di Ockswert, i cui impedimenti sono già letali. Mi sono preso la briga di ricacciare gli esperti a Giardino Fiorito, dal momento che ognuno dei tre di cui il mio signore si circondava da anni tramava contro di lui nell’ombra, con la sola speranza di mettere in discussione la sua autorità nel regno che gli è stato forzatamente sottratto dalla Signora dei Merletti, la signora sua moglie.»
«Ed è per questo che hai voluto la testa del povero patres Cyde?»
Bennor non parve sconvolto affatto da quell’uscita di Steffon o, se lo fu, riuscì assolutamente a non farlo notare.
«Patres Cyde era uno stolto omuncolo a cui piaceva mettere in giro disprezzo e sputare veleno come una vipera incallita.»
«E tanto vi ha fatto pretendere la sua testa.»
«Sì». Bennor non si fece scrupoli nel confermare ciò. «Testa che, più tardi, mandammo indietro a Giardino Fiorito, come monito di una guerra mai veramente combattuta in campo.»
«Di guerra ne basta una» fece Steffon. «Perché non riuscite a notare quanto già siamo distrutti? La guerra ci sta annientando lentamente… e moriremo tutti, chi prima chi dopo, se non faremo qualcosa per fermarla.»
«La vostra guerra non ci appartiene e non ci tocca. Roscart Wagrave ha preferito restarne fuori escludendo la sua partecipazione alle giostre di Roshby, e sostenendo di non voler mangiare le carni del montone avariato per non rischiare di rimetterci la salute». Bennor esibì una smorfia sbieca. «Ma non è di lui che dobbiamo parlare, patres esperto, vorrai forse negarlo? Sbaglio o mi hai detto qualcosa a proposito di questo giovane ser ammutolito che hai accanto?»
Se solo potessi parlare…” pensò Bartimore nel sentire quelle parole. “Se solo… se solo…”. Steffon gli aveva comandato dapprima di far fare a lui.
«Non avrei motivo di negare ciò che veramente ho detto o fatto finora». Steffon indicò il suo compagno con la destra. «Questo è Bartimore Kordrum, principe di Sette Scuri e figlio del dipartito signore del regno Dalton Kordrum, e della sua nobilissima moglie Amisa Witeolm. In nome degli dèi che pregate, della corona che servite e del reame in cui riponete fede, e ancor di più nel nome della vetusta e grandiosa casa di questo giovane, io vi chiedo clemenza e tolleranza per me e i miei compagni. Ve ne prego.»
Steffon… cosa stai facendo? Dannazione!”. In altri casi Bartimore non avrebbe voluto rivelare la sua identità spifferando ai quattro venti tutto ciò che c’era da sapere sul suo conto. Informazioni così importanti potevano essere travisate facilmente, scambiate con leggerezza o, peggio ancora, riutilizzate per scopi ben più crudeli.
Bennor prese a scuotere la testa. «Non ci inchiniamo di fronte alla presenza di un signore, men che meno a quella di un principe. A me non importa chi sia o chi non sia questo nobile ammantato d’acciaio. La sola cosa che so, a proposito dei buoni vecchi Kordrum, è che la loro dimora è divenuta da qualche settimana dimora fissa di ribelli. Dicono che il nome della loro casa sia caduto insieme al suo ultimo signore.»
Bartimore strinse i denti con la furia più forte che la sua volontà riuscisse a produrre. Non fiatò.
Steffon, invece, si mosse sulle ginocchia e si avvicinò di più al palchetto. «Non ho mai pregato qualcuno in vita mia prima d’ora, e forse ciò mi ha indotto a pensare che ogni cosa mi sia dovuta. Non è così a quanto pare, e pertanto voglio confutarmi. Bennor Falso Esperto… ti prego di togliere i miei amici da quel posto ostile che chiamate prigione e che circondate di carcerieri tremendi e spietati. Non conosciamo nessuna Signora dei Merletti, non siamo al servizio di nessun partito e di nessuna corona. Vogliamo il nostro bene. Solo questo.»
«E al nostro chi ci pensa? Non è possibile, ne sono dolente, patres esperto. I tuoi pietosi lamenti mi inducono alla clemenza. Il tuo agire e il tuo modo di parlare mi feriscono il cuore. Vorrei potervi dire che non siete nemici… ma capirai che non è lecito mentire.»
Steffon sbuffò sonoramente. «Ho dell’altro.»
«Risparmiatelo. Le tue scuse non quieteranno il bisogno di vendetta di ser Henry, né metteranno a freno l’odio della corona Wargrave. Se anche non siete davvero rei di ciò che i miei uomini vi accusano, il tuo giovane ser Bartimore Kordrum non potrà certo negare di aver reciso l’arto di Ventrefloscio. Non risponderò oltre.»
La fretta di Steffon nel rispondere fece scattare gli occhi di Bennor fuori dalle sue orbite. «Non risponderete nemmeno al nome di Marysanne dagli occhi cerulei? Lei fa un certo effetto al vostro insulso ed insignificante potere?»
Bennor picchiò un pugno sul bracciolo dello scranno. «Marysanne?». Il castellano realizzò quelle parole tardi. «Lurido imbecille. Silenzio!» sbraitò furioso. «Mai, mai parlare di lei in mia presenza. Ser Henry, punisci il prigioniero. Ora. A sangue.»
Il rumore dell’acciaio si innalzò e si espanse in tutta la sala del trono. Steffon alzò al cielo le mani prima che ser Henry potesse arrivare, ma il suo gesto fu preceduto dal repentino schioccò della mano del castellano sul bracciolo della sedia. «Ser Henry» mormorò. «Indietreggia e getta il tuo acciaio per terra.»
Bartimore non capiva.
Ser Henry fece ciò che gli era stato comandato, lasciando che la sua lama si schiantasse al suolo. Lo stesso cavaliere aveva l’aria perplessa ed incapace di comprendere.
Bennor avanzò verso Steffon, le mani ancora aperte verso il tetto della sala e il volto rubicondo per l’ira repressa e la vergogna. Il castellano fece scorrere l’indice sul naso e attorno al volto di Steffon, come a volerne prendere le misure, come a tastarne l’ossatura. Poi mormorò: «Vedi quanto effetto ha il mio potere? Tu non puoi nemmeno immaginare quanto io sappia essere spietato e potente. No che non puoi. In questa sala l’ultima parola è sempre la mia». Il moto circolare del dito attorno ai lineamenti induriti di Steffon si fermò di colpo. «Come conosci Marysanne, buffone?»
Steffon fece un profondo respiro prima di parlare. «Non è difficile conoscere le persone che giorno e notte ti circondano all’Accademia. Ho avuto modo di conoscerla durante il mio terzo anno di studi. Era davvero una bella ragazza, non oso metterlo in dubbio, con le sue forme accentuate, i suoi occhi cristallini e i suoi fianchi prosperi… ma non osò rivolgermi neppure uno dei suoi più rapidi sguardi.»
Bennor lo stava guardando schivo, gli occhi puntati sulle sue labbra come mai.
«E il perché mi è chiaro solo ora. Marysanne era innamorata di un altro uomo… e quell’uomo credo siate voi, castellano.»
«Tu hai avuto modo di parlarle, patres esperto?»
«Parlarle?» fece Steffon. «Poco»
Al che la mano di Bennor schizzò in aria e si schiantò sul volto già rosso di Steffon. Lo schiocco del manrovescio fu incredibilmente rumoroso. «Stai facendo appello alla parte peggiore di me, sciocco di un uomo. E la tua situazione si sta complicando, ora come ora. Se ti fosse consentito premere una mano sul mio petto, riusciresti a sentire il mio cuore solidificarsi lentamente.»
Steffon non tenne conto delle sue parole, si massaggiò per pochi attimi la guancia colpita e poi riprese a parlare. Non c’era neppure un briciolo di vergogna o di umiliazione nel suo tono, e ciò sembrò indispettire più di ogni altra cosa Bennor Falso Esperto. «Non le parlai solo una volta… Marysanne era proprio la tipica ragazzina invaghita e bisognosa di sfogarsi. Mi raccontò ogni cosa, dicendomi anche che non mancava notte in cui lei non sognava i vostri lineamenti, la vostra prepotenza e la vostra… magnifica prestanza
«È quello che ha detto?»
«Ci posso giurare il collo.»
«Fai bene a farlo, patres esperto. Tra un po’ perderai la scommessa… lo sai già?»
«E a quel punto non avrete più modo di rivederla, mi duole ammettere. Quella ragazza ha bisogno di protezione. Ah già, mio signore, ho dimenticato di dirvi una cosa estremamente importante: ci sono uomini all’Accademia che farebbero di tutto pur di mettere le mani addosso ad una donna. Ed ecco… diciamo che, data anche la particolare sfrontatezza della signorinella, nonché il suo bisogno continuo d’affetto, un certo patres lo ha anche fatto un paio di volte.»
«Un patres?» domandò Bennor, le narici dilatate come quelle di un cavallo pronto a caricare in una quintana contro il rivale. «Il nome, per favore.»
«Un nome come tanti altri, così simile a quello di uno sconosciuto che ora non ricordo neppure più come suonasse. Ma voi, mio signore, potreste ancora fare in tempo a scoprire di chi si tratta e, cosa più importante, credo, ad evitare di farvi strappare la vostra Marysanne dalle mani. Cogliete l’attimo e gettatavi a capofitto nell’impresa che potrà riconsegnarvi la vostra principessa.»
«Nominala ancora una volta e darò ordine di farti impiccare seduta stante.» minacciò Bennor. «La tua farsa non ha capo né piedi; dato che sei così informato sul mio conto, saprai bene che mi è stata proibita l’effettiva presa dei voti accademici alcuni anni fa. Ciò non fa di me un esperto, e ciò non mi consentirà di tornare dentro le mura dell’Accademia, che lo voglia o meno.»
Steffon sorrise soddisfatto. «No, infatti.» rispose. «Perché non siete munito di un chiavistello accademico, cosa assai importante in giorni come quelli che corrono. Se solo sapeste correre più veloce di loro…»
«Per l’appunto». Bennor si spostò di nuovo e girò completamente dando le spalle a Bartimore e a patres Steffon. «Possiamo dunque concludere qui quest’insulso tentativo di salvezza? Cavalieri, riportate i pri…»
«Ecco ciò che ho da proporvi». Steffon lo bloccò alzando la voce. Le sue mani rovistarono dentro alle sue tasche interne della sua tunica sgualcita. Alzò il chiavistello scuro al cielo e gli permise di rischiarire alla luce della luna. «Il mio chiavistello sarà vostro se ci darete la grazia di portarci fuori dalla prigione. Potreste fingervi un effettivo patres, nessuno saprà mai chi siete se cambiate il vostro nome e se tingete la vostra pelle di un colore più scuro, sì. Potrete tornare a prendere il potere che vi spetta, ottenere di diritto il grado di castellano e servire con galanteria Roscart Wargrave, dall’alto della posizione cui ci relegano all’Accademia dagli albori. E cosa più importante…»
«…potrò rivedere lei» concluse Bennor Falso Esperto, gli occhi persi nel vuoto.
«Esattamente.»
No” pensò Bartimore. Quel chiavistello era l’unico oggetto che poteva permettergli di varcare i confini dell’Accademia e metterli tutti davvero in salvo definitivamente, allontanandoli dal conflitto e dalle fiamme che brulicavano nel reame. “Steffon… non è il caso…”. Ma preferì tenere per sé certi pensieri. Dopotutto, che altra opportunità potevano avere se non questa? O questo o il cappio. E tra le due cose, anche un neonato avrebbe chiaramente saputo cosa scegliere.
Bennor fece per afferrare il chiavistello, ma Steffon lo piegò quanto bastava per evitare che le sue mani si poggiassero sull’oggetto. «Ho delle condizioni da elencare, mio signore… non vorrete negarmene la possibilità». L’esperto non attesa risposta. «Ci libererete questa stessa sera, ci darete le cure di cui abbiamo bisogno – a costo di chiamare un incantatore solo ed esclusivamente per noi – ci permetterete di mangiare ai vostri deschi e di girare liberamente per il vostro regno fino a che non saremo stanchi di farlo. Saremo trattati da liberi, e da liberi andremo via quando ne avremo voglia e saremo pronti per procedere nel nostro cammino.»
Bennor tornò a fissarlo, gli occhi scuri e le occhiaie ormai evidenti. «No» mormorò. «Questo è troppo per qualsiasi forma di ricompensa. Tieniti pure il tuo chiavistello, patres esperto. Caval…»
Ser Dalwar si fece avanti e tuonò: «Vi do la mia, di proposta. In qualità di servo di questo regno – esattamente come te, Bennor – vorrei poter avere la mia voce in capitolo. Avrete ciò che chiedete, e sia, ma sarete costretti a giurare fedeltà alla causa Wargrave e al regno di Ockswert. Poserete le vostre spade – e a te ne daremo una, esperto – ai piedi di Roscart Wargrave, signore indiscusso di Giardino Fiorito. E avrete a cuore il conflitto con la Signora dei Merletti, oggi, domani e dopodomani, finché non avrà avuto fine. Nel sangue e nel terrore, se le Grazie desidereranno ciò. Infine, sarete assolti.»
Bartimore si girò verso il ser che aveva parlato, la mano posata sull’elsa della sua spada e alcun tipo di armatura addosso. “Una proposta che ci hai già fatto, ser.” «Non siamo abbastanza forti, al momento, per poter combattere al fianco di qualcuno e per una causa che non ci dà forza. Il nostro sguardo è puntato a Sud… a casa nostra. Al centro, verso Roshby. Anche voi dovreste guardare verso quegli orizzonti.»
«Dovremmo, ma non ora.» pronunciò Bennor dall’altra parte della sala. «Questioni più importanti attecchiscono in questo regno: questioni che riguardano l’orgoglio di sua signoria Wargrave e la possanza della sua nobilissima casata. Egli non ha partecipato al torneo di Roshby… se ne è tenuto fuori per le sue giuste ragioni, e fuori continuerà a tenersene finché non avrà deciso di fare altrimenti.»
«Potrò darvi delle dritte» ribatté ser Dalwar. «E non vi sto proponendo di passare adesso all’attacco.»
Patres Steffon tirò un lungo sospiro e guardò a lungo Bartimore, il quale fece un piccolo cenno col capo. “Va’ fatto” si disse. “Va’ fatto per il bene che ci vogliamo l’un l’altro.”
«Accetteremo solo se sapremo di essere ben più che liberi prima dell’arrivo di Roscart Wagrave. E solo se ci giurerete che la vostra parola è sacra; conclusosi il conflitto con la Signora dei Merletti, noi saremo liberi di andare via da qui e di lasciarci ogni giuramento alle spalle. Lontani per sempre da casa Wargrave.»
Ser Dalwar e ser Walifer sguainarono simultaneamente le loro spade, mentre ser Henry Ventrefloscio si appiattò accanto ad una colonna, un nuovo scudo tondo tra le mani, l’aria circospetta e per niente convinta, quasi indignata dalla piega che l’udienza aveva assunto.
«Avete la nostra parola.»
Ma non ancora quella del castellano”. «Allora». Questa volta fu Bartimore a parlare, giratosi nuovamente verso il palchetto reale. «Mio signore Bennor, accettate queste condizioni?»
«Anche il figlioletto di Kordrum ha la sua lingua, allora. Molto bene… stavo iniziando a pensare che ti fosse stata strappata via dalla bocca, laggiù, nelle segrete. Non me ne sarei meravigliato.»
Steffon ripeté la domanda: «L’accordo è il seguente: il chiavistello a voi, mio signore, per la libertà e per le corrette assistenze mediche di cui necessitiamo. In cambio della liberazione, saremo al vostro servizio fino a che ne avrete l’effettivo bisogno, e per voi ci batteremo. Col sangue e col terrore, se necessario. Allora, castellano, siete disposto ad accettare tali condizioni?»
Bennor si ritrasse sullo scranno e posò comodamente la schiena sull’immenso sole di legno che svettava alle sue spalle. Vi fu un lungo lasso di tempo in cui tutta la sala rimase totalmente in silenzio, gli intimoriti e i meravigliati in una condizione di impassibilità statuaria.
Alla fine Bennor Falso Esperto pronunziò una parola. Una sola e con un’unica emissione di fiato.



♣ Angolo d'autore ♣
Nonostante il mancato aggiornamento del giorno scorso, sono riuscito a rifarmi oggi. Essendo appena tornato da una vacanza - per la quale ho potuto solo pubblicare - a poco a poco riprenderò come di consueto a rispondere alle vostre recensioni.
Questo un capitolo fondamentale per lo snodo degli eventi, ritengo. Finalmente assistiamo all'acceso dialogo di confronto tra Steffon - il che significa quantità di informazioni carpite - e Bennor - ossia l'oggetto verso cui riversarle. Che ve ne è parso dei due? Cosa pensate di Steffon e del suo modo di gestire il tutto? E cosa del castellano? 
Cosa mi dite del risvolto che il tutto ha ottenuto? Pensate che i nostri siano riusciti ad ottenere libertà? Se sì, vi è parso un prezzo adeguato quello che hanno dovuto pagare? 

Sono curioso di sapere cosa ne pensate del tutto, compresi i personaggi che hanno attivamente prodotto questi eventi. Vi aspettavate un esito diverso? Che ne sarà dei nostri?
Grazie a tutti coloro che leggono, seguono e recensiscono. Presto - molto presto, direi - vi ringrazierò uno ad uno nelle risposte. Un abbraccio e al prossimo aggiornamento - che forse sarà spostato d'ora in poi al lunedì. 
Makil_

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Capitolo 12
*** XII ***


Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Icaldo era uno dei tanti abitanti di Ockswert, forse il più assiduo in quel focolare settentrionale.
Erano passate esattamente due settimane dal giorno in cui Bartimore e i suoi compagni erano stati definitivamente scarcerati per ordine diretto del castellano Bennor. Se c’era una cosa di cui si sarebbero potuti vantare finalmente era di essere stati in grado di smussare la caparbietà del Falso Esperto, un uomo che aveva testardaggine da vendere, e di essere tornati a respirare l’aria pulita e riscaldata dalla luce del sole. Benché quelle mura fossero estranee a ser Bartimore di Fondocupo, e quel sole fosse fin troppo luminoso, il cavaliere dai poco nobili natali non aveva impiegato molto tempo per abituarsi ai ritmi di tutti coloro che lo circondavano ormai. Quelli che erano stati freddi inquisitori, divennero presto gli unici membri rispettabili di un regno cittadino molto ristretto. La cerchia degli amici si ridusse fino ad inglobare al suo interno anche coloro che, fino ad allora, erano stati poco più che nemici.
«Nemici o amici, non c’è alcuna differenza. Mai evitare di dubitare, mai fingere di conoscere fin troppo bene qualcuno. Mai farsi pugnalare alle spalle dai nemici, men che meno da coloro che dicono di esserci amici. Spesso i vicini ci sono tali solo per farci del male». Queste erano le parole di un Dalton Kordrum nel pieno della sua potenza regnante, forse pervaso da un’insicurezza immatura dettata dall’instabilità del potere. «È una dura legge questa, ma più duro è il colpo di colui che si crede esserci amico.»
Bartimore stava percorrendo una delle sale del castellaccio di Ockswert alla ricerca di ser Dalwar. Doveva consegnargli la daga che il fabbro Wart gli aveva fabbricato su suo ordine. Il giorno dopo la scarcerazione, Bennor Falso Esperto si era preso l’impegno di cercare un cerusico tra gli sparuti abitanti di Ockswert, andandone a scovare uno personalmente tra la sua gente. Il borgo cittadino non aveva a disposizione un incantatore, dato che questi si era rivelato essere conteso nel conflitto con la Signora dei Merletti e, in quel momento, avevo deciso di prendere posizione accanto al trono di Giardino Fiorito. Una scelta saggia sotto certi aspetti e conveniente sotto molti altri ancora.
Il cerusico – un ometto più basso di Steffon, con una capigliatura scura e una barbetta brizzolata – aveva immediatamente dato ordine di portargli una serie di materiali essenziali per le cure di cui i quattro prigionieri necessitavano. Patres Steffon ricevette cure lungo tutto il torace, due punti di sutura ad una ferita infetta sull’addome che gli fu medicata con cura dalle mani esperte dello speziale.
Per ser Mark la cura fu un po’ diversa. Ciò che il cerusico gli ordinò fu di evitare gli sforzi fisici, affinché le ferite che stavano iniziando a rimarginarsi non finissero per tornare a sanguinare. Si accorse che Mark aveva perso grandi quantità di sangue a causa del taglio all’addome, e non gli garantì un soggiorno lungo dentro le mura di quella cittadina. Gli disse anche che era stato molto fortunato. Se Steffon non avesse provato a cucire il lungo taglio inflittogli da Lemmon Cappa Rossa, probabilmente sarebbe morto per un copioso sanguinamento. Il cerusico si occupò anche della sua infezione al buco che ormai aveva al posto di quell’orecchio che gli era stato reciso da Dentigialli. La ferita, chiaramente, aveva sviluppato un malsano colorito giallognolo che l’ometto sapiente dovette ripulire e fasciare con delle bende color sabbia.
A ser Dayn furono riservati degli impacchi di salvia e succo di fico prelevato nelle vicine serre della cittadina. A detta del cerusico, Dayn era quello con meno ferite del gruppo, nonostante si fosse ammalato di febbre a causa di un’infezione alterata dalla paura e dallo sconforto. Ser Dayn era fuggito nel pieno della battaglia, su ordine di Steffon, ed era andato ad occuparsi del carro e dei cavalli per la fuga. Quella ritirata, probabilmente, era stata la sua salvezza sul campo di Roshby.
Infine fu il turno di Bartimore, che fu ricevuto in una piccola saletta adiacente all’anticamera posizionata dietro lo scranno regale. Tutto ciò che c’era in quel camerino non era altro che un letto di paglia, una scrivania di legno massiccio e scuro, due finestrelle e una libreria vecchia e polverosa. Il cerusico gli medicò i tagli sul braccio e le ferite sulle gambe.
«Non posso rimetterti in sesto i denti, cavaliere. Temo che quelli siano perduti definitivamente.»
«Quanti ne sono saltati?» aveva chiesto Bart.
«Due o tre, se vedo bene… ma contarli non li farà tornare in bocca.»
Poi gli riservò una lunga medicazione al foro sul polpaccio, là dove un dardo di balestra si era conficcato durante lo scontro a Roshby. Dopo aver tolto le bende di fasciatura lasciate dalle cure inesperte di Steffon, il cerusico aggrottò la fronte.
«Deve essere stato crudele, quel giorno a Roshby.»
«Lo è stato.»
«I buchi e le ferite del vostro corpo appartengono anche a me, in verità… nel cuore. C’era mio figlio laggiù. Giocava per partecipare, non per vincere… e cavalcava un palafreno ghiotto di carote. Potresti averlo conosciuto. Non aveva nemici, che io sappia.»
«In pochi ne avevano. È morto anche lui?» chiese Bart. Gli occhi del cerusico si fecero scurissimi e divennero presto umidi, colmi di lacrime che non caddero mai. Non in quella stanza, almeno.
«Temo proprio di sì, giovane. Il mio giovane Dott… ser Dott non è ancora tornato a casa. Se è caduto, lo avrà fatto con onore. Ma lui non lo meritava. Nessuno lo meritava». Lo speziale iniziò a passare un panno bagnato di un fluido violaceo sul punto in cui il dardo si era fatto strada nella carne di Bart. La medicazione bruciò un po’ nei primi secondi, quel che bastava per far stringere i denti al giovane ser e convincerlo che stesse funzionando nel migliore dei modi.
«C’è fin troppa purulenza.»
Bartimore tentò di guardarsi il polpaccio, ma non vi riuscì poiché disteso sul lettino. «Patres Steffon mi aveva detto di aver fatto in modo che non si infettasse. Sei sicuro che arrivi dalla ferita al polpaccio?»
«Oh no, non intendo su questa tua ferita. Forse sto divagando fino a confonderti, ser, ma è tipico di un padre, di un nonno… di un uomo. Intendo nel mondo… in questa generazione… in questi anni… l’infezione è incurabile e neppure io riesco a capire cosa dovremmo fare per guarire tutti dalla guerra. Perché tutto questo odio? La violenza ci sta consumando e noi non siamo in grado di sottrarci alla sua presa. Cosa dobbiamo fare noi?»
«Nulla». Bartimore si alzò non appena intuì che il trattamento era stato concluso. Non aveva voglia di parlare dell’ingiustizia della guerra né tanto meno della cattiveria di quei giorni. «Passerà anche questa guerra, proprio come le stagioni nel mondo. Dicono che anche dopo il più scuro tramonto ci sia l’alba.»
«Ma se quest’alba tarda a giungere» concluse il cerusico gettando sulla scrivania la pezzuola imbevuta del liquido viola. «Allora gli uomini soffrono le tenebre e l’assenza della luce… fino a morire.»
Dopo quel giorno, il polpaccio aveva preso a dolergli sempre meno, ma il buco non si era risanato mai veramente del tutto.
La sala in cui andò a cercare ser Dalwar era la stessa in cui tenevano i loro allenamenti pomeridiani. Il ser dalle guance gonfie e i farsetti scoloriti si era rivelato presto un ottimo avversario e un degno maestro. Duellare con ser Dalwar riportava Bartimore indietro con la memoria, presso i giorni in cui si allenava fino allo sfinimento con il suo signore padre Dalton. In quei giorni Bart era molto più giovane, ancora più magro e rinsecchito, e non conosceva che il piacere di vivere in una roccaforte, di essere servito, di avere degli amici, di gioire delle sole grandi cose della vita e di possedere un cognome da nobile. Ora, tutto quello che prima gli era parso essere un lusso, gli appariva così distante e così poco chiaro da fargli venire il voltastomaco.
Il grande stanzone dedicato all’allenamento del piccolo contingente Wargrave era stato allestito da ser Dalwar in modo da ricreare una sorta di arena in cui potersi dedicare in pieno all’esercizio fisico. Lungo il pavimento correvano file e file di uomini di paglia e seta, martoriati e tagliuzzati da un’evidente serie di percosse con la lama. C’erano tanti manichini quante erano le finestre nel grande androne. E proprio vicino ad uno di questi, alla buon’ora per l’allenamento sfiancante e faticoso, c’era ser Dalwar.
L’alba, con i suoi lucenti raggi solari, doveva averlo destato prima di ogni altro uomo al fortino. Gli occhi scuri del ser e le sue due foltissime sopracciglia gli si puntarono contro quando lo videro entrare.
«Già pronto per l’addestramento?» gli chiese vedendolo avvicinarsi. «Temo di non esserlo io, però, ser Bartimore.»
«Non sono qui per allenarmi. Ti ho portato la daga che mi avevi chiesto di farti fabbricare l’altro giorno.»
Bartimore estrasse l’arma dalla sacca di iuta che gli era stata consegnata dal fabbro e la lasciò cadere tra le mani del cavaliere. Ser Dalwar fece scivolar via la copertura di cuoio che l’avvolgeva e lasciò che la finissima lama rischiarisse al contatto con sole.
«È un’ottima daga, non trovi?». Ser Dalwar l’afferrò con la sinistra e fece scorrere l’indice calloso sul filo dell’arma. «Poco tagliente, però. Ma non è mai un problema irrisolvibile.»
«Forse bisognerà passarvi un po’ la cote su.» tentò Bartimore.
«No, non servirà. La utilizzeremo per i nostri allenamenti corpo a corpo. E almeno che non vorrai farci rimanere vittima qualcuno, credo sia meglio non smussarla ulteriormente.»
Bartimore lo fissò a lungo prima di parlare. «Posso fare altro per te, Dalwar?»
«Per il momento non ho altro da farti fare, in verità». Gli rivolse una piccola occhiata che sembrò voler chiudere la conversazione con qualcosa di non detto. Poi, abbassò lo sguardo e arrotolò la daga all’interno del tessuto con cui Bartimore l’aveva trasportata. Infine, lo congedò dalla sala con un gesto della mano sinistra.
Il terzo giorno della seconda settimana dopo la scarcerazione fu un ben diverso dagli altri che lo precedettero.
Erano passate appena poche ore da un’alba tutt’altro ristoratrice, quando un emissario frettoloso e rubicondo in volto giunse a chiamare nella loro stanza i quattro compagni. Il suo arrivo fu annunciato dal rumore di uomini in corsa, che finì col presentare, invece, un solo ragazzetto imberbe dinanzi alla porta.
«Miei signori». Il giovane, vestito di un farsetto molto elegante e una mantella porpora alle spalle, tentò di prendere fiato appoggiandosi con entrambe le mani all’infisso di legno. Per poco non mancò di svenire sull’uscio. «Ser Dalwar e ser Henry mi hanno mandato a chiamarvi. Vogliono che scendiate giù, all’ingresso… adesso
Ser Mark si levò dal suo sonnecchiare. Gli occhi infervorati e rossi per il sonno perduto. «Per quale ragione, ragazzetto?»
«Il castellano sta partendo, miei signori… e voleva vedervi un’ultima volta.»
A quel punto fu patres Steffon a prendere parola, messosi seduto sul suo letto di piume e riallacciatosi un vecchio indumento logoro sulle spalle. «Il tempo di svegliarci e saremo da lui.»
«Avrà sentito la mancanza delle nostre guance» commentò Bartimore.
Quella stessa mattina non ci fu un momento per dedicarsi ai propri bisogni fisiologici o alla cura del proprio aspetto. Con la stessa barbara forza con cui furono svegliati dal rumore di passi nervosi, furono gettati giù dai loro letti e poi costretti a seguire l’emissario lungo le poche scale della rocca fin proprio all’ingresso che dava sulla sala del trono di Ockswert.
Un piccolo gruppo di soldati in armatura di cuoio con spada alla cintola e daghe sul fianco stava accerchiando un uomo dai lineamenti raggrinziti e biancastri. Tra loro spiccavano, per possanza, aspetto e altezza, ser Dalwar, ser Henry e ser Walifer.
Quando il coacervo di uomini vide arrivare ser Mark, ser Bart, ser Dayn e Steffon, si spostò affinché loro potessero salutare Bennor Falso Esperto, che per quell’occasione aveva indossato una veste in sintonia con i colori chiari che lo contraddistinguevano e dalle maniche a sbuffo rigonfie sui gomiti. Bennor aveva un’aria solare e leggiadra che Bartimore non aveva mai scorto prima d’allora nei suoi lineamenti. Il candore delle sue goti era adesso lo stesso che adesso si poteva avvistare nei suoi occhi.
Il castellano si trovava in piedi sopra ad un carretto con due grandi ruote per lato, una mula storna con un paio di funi per redini. Sul barroccio erano stati caricati dei bagagli scuri e qualche cesta.
Quando il Falso Esperto si rese conto della loro presenza, fece un profondo inchino nella loro direzione ed esclamò: «Maledizione, cavalieri. Il vostro gusto nel vestire è pessimo: siete proprio come tutti i nostri cavalieri votati. Ormai fate parte di Ockswert e della nostra famigliola allo stesso modo con cui ogni pietra di questa dannata cittadina fa parte del suo stesso regno.»
Nessuno rispose a quella sua uscita, né con un cenno, né con una sola parola.
«Volevo solo salutarvi, cavalieri». Bennor sorrise calorosamente. Evidentemente scosso e nervoso, il castellano si passò una mano sulla fronte madida di sudori. «E volevo anche lasciarvi come un amico, non come un nemico.»
“Non ha mai chinato tanto il capo. Servirebbe anche a lui un paio di schiaffi su quel viso pallido”. Bartimore lo fissò il più a lungo possibile, nell’attesa che potesse trovare qualcos’altro da dire: scuse, che non arrivarono mai dalle sue labbra, sarebbero sicuramente state ben accette.
Bennor si lisciò gli abiti con le mani e tentò nuovamente di sorridere. «Ecco, diciamo che volevo anche lasciarvi con delle scuse per un comportamento affatto adeguato al mio ruolo. Pregherò per redimermi… ma voi porterete appresso a lungo i segni delle mie cinque, tozze dita». Non appena notò assenza di cenni da parte dei suoi interlocutori, proseguì dicendo: «Arrivederci, uomini.»
A quel punto fu Steffon a parlare a nome di tutti. L’uomo che un tempo era stato un esperto, si fece impettito e parlò con una pacatezza e una freddezza propria del vecchio lui. «Un addio, patres Bennor… il nostro è un addio. Questa è l’unica gioia che possiamo avere il privilegio di gustare.»
Bennor lo guardò torvo per un paio di secondi, poi capì di doversi sbrigare. Il sole era ormai sorto, e lui avrebbe dovuto imboccare la Strada dei Garofani ben prima del mezzogiorno. «Addio, dici? Be’, un tipo di saluto che può facilmente aprirsi a numerose interpretazioni. Mi auguro che la vostra sia anche la più generosa. Addio, allora.»
Voltatosi di spalle, il nuovo patres sedette sul barroccio, impugnò le redini della sua cavalcatura e spronò la mula a procedere verso l’esterno del palazzo. Passo dopo passo, accompagnato dallo scalpiccìo delicato degli zoccoli della mula a contatto con i sassi del viale, Bennor si allontanò fino a scomparire dalla loro vista e, molto più tardi, anche dalla loro memoria.
Ma il più iconico dei giorni fu il quinto della stessa settimana in cui avvenne la partenza del castellano.
Ser Bartimore e ser Dalwar si stavano aggirando per i viottoli stretti e senza uscita di Ockswert, alla ricerca dello stalliere che si era preso l’impegno di rifornire il palazzo Wargrave di una decina di cavalcature fresche e giovani. Il sole splendeva tra le nuvole con la sua solita intensità, ma qualcosa nell’aria, come una sorta di strano eco lontano, conferiva a quel cielo un’atmosfera poco confortante.
«Vuota» fece ser Dalwar mettendosi in punta di piedi per scorgere qualcosa al termine della breve stradicciola. «E pare anche chiusa.»
Bartimore lo guardò con fare curioso.
«La stalla, intendo». Ser Dalwar tentò un’altra volta di allungare lo sguardo. «Lo stalliere non ha ancora fatto ritorno.»
«Dov’è andato?» chiese Bartimore. “I cavalli non crescono dalla terra e non cadano dal cielo, ser Dalwar.” avrebbe volentieri detto, ma lo tenne gelosamente per sé.
«Mi aveva detto che non si sarebbe spinto più giù di Porwyck, massimo Brektyde» rispose ser Dalwar evidentemente stranito. «Ma sono già passate quattro settimane da quando l’ho visto uscire da quella porta. Ho paura che lui possa averci tradito.»
“Tradito? Per un paio di cavalli da battaglia dal manto pulito ed odorante?”. Bartimore tentò di non apparire divertito.  C’era comunque qualcosa in ser Dalwar che Bart non comprendeva: il ser era spesso contradditorio e sempre molto strano nei suoi modi di fare. «E se fosse morto? Fuori da questo posto, la Guerra Grigia infuria senza alcun freno.»
Ser Dalwar scosse tre volte il capo, ostinato. «Qui al Nord arriva tutto troppo tardi: i messaggi, gli emissari, i venti e persino le leggi. E la guerra non viene meno a questa massima. Quando i signori del sud avranno smesso di acciuffarsi nelle loro fredde sedi, allora toccherà a noi darci da fare. Ma, fino a quel giorno, che ipotizzo essere molto distante, possiamo dormire sonni tranquilli.»
“Ben più che tranquilli, certo. E voi apprezzate il vostro dono scannandovi per una disputa tra amanti che non vi riguarda”. Bartimore avvertì per primo il rumore di passi in rapida avanzata. Ancora prima che la figura in corsa di palesasse tra lui e ser Dalwar, il suo respiro affannato e l’acre olezzo del suo sudore lo precedettero dinanzi al vicolo.
Zacharias, il custode della porta di Ockswert, dovette appoggiarsi al pomolo del portone di un’abitazione per non cadere per terra morto e umido come un pulcino immerso in un fiume. I lunghi capelli color cenere e il volto caldo e scottato dal sole stavano lacrimando copiose quantità di sudore, mentre i suoi occhi, arrossati e pieni di venuzze scoppiate, si accingevano a colorarsi di un rosso insano.
«Per tutti i cieli!» sbraitò ser Dalwar accorrendo ad aiutare il povero custode. «Zacharias, vecchio ingrato, cosa ti è preso?»
«Ca… ca… ca…» tra un affannoso sospiro e l’altro, Zacharias tentò di rimettersi in piedi e di concludere ciò che le sue labbra desideravano sputare fuori. «Ca…»
«Non essere volgare, Zacharias» sbottò Dalwar.
«Ser… ca…»
«Cani?» tentò ser Dalwar. Il cavaliere compì un gesto che a Bart non passò inosservato: posare la destra sull’elsa della spada. Ci fu qualcosa nel modo in cui lo fece, nella particolare velocità con cui si apprestò ad impugnare l’acciaio, che riportò Bart tra il fango e il sangue del tenebroso torneo di Roshby. «Cavalli?»
«Cavalli!». Zacharias prese ad annuire col capo. «Truppe in marcia verso Ockswert. Dodici cavalli marroni, uno bianco e nessuno stendardo.»
«A quale distanza?»
«Circa un’ora e mezza dalle nostre mura». Zacharias prese più aria di un uomo che stava per immergersi in uno stagno. «Arrivano da sud-est, ser Dalwar, e procedono con una certa fretta.»
Ser Dalwar sgranò gli occhi. «Nemici della corona? La Signora dei Merletti vuole tenderci un assedio con dieci cavalli?»
«Dodici cavalli, per l’esattezza». L’intensità del respiro di Zacharias rischiò di farlo soffocare da un momento all’altro. Tentò di tossire mentre si teneva ritto contro la parete scabra. «Dodici cavalli e tre carri grigi scuri. L’uno posto dinanzi all’altro e tutti preceduti da un’unica grande carrozza marrone e gialla, dai tendaggi rossi come il fuoco. Nessun uomo in retroguardia. Un’unica colonna, ser Dalwar, che va veloce.»
Il ser in questione si morse il labbro. Un enorme sorriso si concretizzò sulle sue labbra, a prova che avesse realizzato qualcosa di cui gli altri due non erano a conoscenza. «Vecchio ingrato!» vociò enormemente rilassato. Lasciò la presa dall’elsa e la spada prese a vibrare nel fodero. «Va’ a dare l’allarme, va’ a gridare a gran voce di spingersi tutti in piazza… e va’ a spalancare le porte di questa cittadina». Ser Dalwar trattenne un brivido di eccitazione. «Non è la Signora dei Merletti che stiamo per far entrare.»
Circa un’ora più tardi, si ritrovarono immersi nel bailamme del poco popolino di cui Ockswert disponeva. Un bel gruppo di uomini, donne e bambini si stava accalcando davanti agli usci delle case. La grande via principale di Ockswert, quella che conduceva al palazzo, era completamente libera, in attesa del passaggio di Roscart Wargrave e di tutte le sue poche truppe in arme e delle sue vettovaglie. Il popolino erano dannatamente caotico: non riusciva stare un secondo in silenzio. Urla e pianti di bambini si levavano ad ogni rintocco di una campana, vocii striduli di donne si facevano spazio tra i corpi ammassati contro gli usci delle case e le voci frastornate degli uomini suonavano forti nell’insieme. Tutto quel pubblico attendeva con ansia, fremeva per l’evento e si perdeva in inutili ovazioni attraverso un solo tono: un’unica grande voce.
La strada principale si era trasformata in un ruscello di ciottoli: ai lati del percorso, gremiti di popolino, cavalieri, fabbri e falegnami, il caos di uomini sembrava ergersi a formare i due argini di un fiume in piena.
Bartimore, ser Dalwar e ser Mark avevano preso posto sulla sponda sinistra, proprio sotto ad una balconata in pendenza verso la strada, dalla quale si sporgeva una donna intenta ad allattare un neonato – probabilmente l’unico astante silenzioso – al suo seno.
Il suono dello strombettio di un araldo precedette l’ingresso teatrale di Roscart Wargrave, mentre gli echi del suo strumento a fiato si disperdevano tra le mura delle abitazioni, incastrandosi via via in mezzo ai corpi dei tanti spettatori, ma senza riuscire in alcun modo a quietarli. L’eccitazione e la tensione erano, allo stesso modo e allo stesso momento, palpabili ed evidenti sul viso di grandi e piccini.
«Sua altezza Roscart della casa Wargrave» annunciò l’esile araldo correndo per la via. «Onorevole e legittimo signore di Giardino Fiorito e di ogni suo altro possedimento». Lo squillo della tromba rintronò nell’aria. «Urlate al vincitore di Roshby!»
La folla esplose in un immenso baccano. Urla su urla, voci che contrastavano altre voci, mentre lo squillo della tromba annunciatrice veniva schiacciato definitivamente dal peso di centinaia di timbri più forti.
Un ultimo strombettio accolse la carrozza reale di Roscart Wargrave. Mentre il barroccio scorreva nel fiume di ciottoli, i due argini si spalancarono per consentirgli di muoversi più rapidamente. I cavalli che trainavano la carrozza presero a scuotere i loro capiti, indispettiti ed innervositi come non mai. Nei volti di quei due stalloni Bar riconobbe la stanchezza dovuta ad una lunga marcia.
«Vincitore di Roshby?» chiese Bartimore a ser Mark. Non ricordava di aver visto Roscart Wargrave a Roshby, e non poteva esserci finito dal momento che aveva avuto un’altra guerra da combattere: la sua.
Il cavaliere avvertì il suo commento solo in ritardo.
«Ser Bart». Mark non distolse lo sguardo dalla carrozza. «Abbiamo subito talmente tante violenze e sentito così tante bugie che ormai nulla mi suona più strano. Il popolo è facilmente ingannabile, dovresti saperlo… e noi siamo il popolo di Ockswert da ormai molto tempo.»
La carrozza continuava a muoversi, le quattro ruote di legno che vorticavano sulla strada, mentre cascate di rose rosse e bianche precipitavano come pioggia da ogni balcone della via. Cesti di petali, ruscelli di riso e di semi di piante precipitarono copiosamente da ogni balconata che si affacciava sulla strada, inondando il viale del fresco profumo dei fiori appena colti.
“Per tutte le Grazie” pensò Bartimore. Un petalo bianco gli cadde proprio sul naso, prima di essere trascinato via da un sospiro di vento. “Lo accolgono come fosse un dio”.
«Viva, viva!» urlava la voce del popolo. «Lunga vita a Roscart della casa Wargrave! Lunga vita, lunga vita!»
Il carro dalle modeste dimensioni di Roscart Wargrave avanzava sempre più velocemente. Sembrava che la stessa carrozza avesse preso vita e stesse cercando di sottrarsi a tutta quella confusione e a tutte quelle rose. Ornata di rifiniture color oro, altre gialle e splendenti come il sole d’Estate, lunghi tendaggi porpora ed altri rossi come il sangue pulsante, la carrozza sembrava essere vuota. Le due finestrelle erano sbarrate, le cortine chiuse e all’interno pareva pulsasse un’oscurità opprimente. Bart si chiese se veramente fosse la carrozza di Roscart Wargrave.
Ser Dalwar estrasse la spada dal fodero e la puntò al cielo. Urlò. «Quello è un prigioniero! Zampino della disgraziata vecchia di Giardino Fiorito?»
La cascata di petali rosati e profumati come il dolce effluvio di una donna cessò di esistere da un momento all’altro. Presto, a cadere dai balconi furono fiotti e fiotti di pomodori marci, frutta secca e sassi dalle dimensioni di un pugno. Dietro alla carrozza regale, vincolato con una fune ad un uncino sul retro del barroccio, un uomo dai lineamenti ossuti, i capelli lunghi e biondi, i baffi smorti color oro, scoloriti e sfibrati, si stava dando da fare per reggersi in piedi nel migliore dei modi. Bartimore aveva già visto quell’uomo, ma non ricordava bene dove. C’era qualcosa di famigliare nel suo volto: un’espressione difficilmente dimenticabile, che gli faceva contorcere le labbra e, molto più nel profondo, le viscere.
Il prigioniero caracollò all’indietro, fu respinto in avanti dalla forza della fune tesa a partire dai suoi polsi, e infine cadde miseramente sul lato sinistro. Non ebbe il tempo di rimettersi in piedi, che la fune lo trascinò di forza facendolo strisciare di fianco sul pavimento acciottolato. Una scia si sangue ricoprì ben presto il tratto su cui scorse, ma egli non emise neppure un grugnito di dolore. Forse i suoi lamenti erano inghiottiti dal caos della folla, o forse era stato sfiancato a tal punto da essere divenuto di colpo muto.
Quell’uomo vestiva di un semplice straccio grigio rattoppato. Sembrava un devoto, data la somiglianza di quella veste con un saio scolorito e malandato, ma il suo volto continuava ad assumere forma ed aspetto di un viso nemico, tutt’altro che benevolo. Bartimore tentava di sforzarsi di ricordare chi fosse, quando, all’improvviso, una voce accorse in suo aiuto. Si accorse di non provar pena per la sua condizione.
E ben presto capì anche il motivo.
Lo strombettio dell’araldo esile sormontò le voci, il fracasso dei sassi in caduta e dei pomodori marci. «Accorrete, accorrete!». L’esile figuro posò al suo fianco la tromba. «Il vincitore ed il perdente. Acclamate Roscart Wargrave, disintegrate il suo nemico. Ogni gioco ha un solo ed unico vittorioso… e quell’uomo è Roscart Wargrave! Largo onore, lunga vita! Viva, viva il grandioso Wargrave!»
La folla urlò, si esibì in un complesso boato caotico e in un’esplosione di mille voci colorate dalle diverse intensità. «Al rogo! Impiccatelo! Massacratelo! Abbasso il traditore, viva la corona!»
L’araldo suonò un’altra volta la sua tromba. «Date accoglienza al castellano di Roshby, cospiratore infedele, nemico del reame, traditore della legge accademica, mostro della Valle del Vespro. Date accoglienza al prigioniero, al becero animale che striscia per terra, colui che ha tramato nell’ombra per ridare luce alla Guerra Grigia!». La tromba continuava a squillare tra i lamenti del popolo e le urla in visibilio degli uomini infervorati che a malapena sapevano contro chi stessero urlando.
«Gloria eterna al nostro signore! Una coppa di vino! Onore e gloria! Per Wargrave!»
«Wargrave! Wargrave!». La gente si lanciava addosso ad altra gente, accalcandosi per guardare e per lanciare ciò che aveva tra le mani sperando che il colpo andasse a segno.
«Abbasso i nemici della corona! Impiccatelo! Bruciatelo vivo!»
Bartimore si sentì accrescere un’incontrollabile furia ferina. I suoi occhi si colorarono di rosso, mentre la sua pelle iniziava ad ardere come fosse stata immersa in una pira in fiamme. Aveva capito: adesso ricordava chi fosse quell’essere spregevole dai lineamenti rovinati e sciupati, a dir poco irriconoscibili da quella distanza.
Si rivolse a ser Mark. «Lui… lui…»
L’araldo si lasciò sfuggire un suono più lungo del normale, rozzo: la sua tromba parve sghignazzare di quel prigioniero asciutto e deperito, avvolgendolo nel suo suono rintronante fino a che tutti non scoppiarono a ridere di lui e della sua incapacità di rimettersi in piedi nello scivolare sul suo stesso sangue.
«Wolbert Dorran» commentò a denti stretti ser Mark. «Un morto che cammina. E se cammina ancora, deve anche ringraziare il cielo: temo che qualcuno di estremamente grande lo protegga dall’alto.»
“Non sarà così ancora per molto. Il leone ha perso la sua criniera”. Bartimore intrecciò le braccia sul petto e puntò lo sguardo verso il morente castellano di Roshby, o ciò che rimaneva della sua esile figura. “Adesso ho proprio voglia di sentire il suo ruggito.”
«L’erba cattiva difficilmente può essere estirpata». Ser Mark ghignò. «Ma qui al Nord vivono ottimi giardinieri. Devo ricordarmene… sai, il loro lavoro può sempre tornare utile. Guardalo come si contorce, l’orribile mostro farcito di sterco. Dici che gli ci vorrebbe un’armatura per evitare di spezzarsi l’osso del collo?»
Ser Bartimore guardò il frutto sua vendetta scorrere a flussi rossi sulla strada lastricata. «Un’armatura, dici?». Cercò di sembrare il più disinteressato possibile alla condizione penosa del malcapitato: dopotutto lo era. «Credo proprio di sì. In effetti, ser Mark… ora gli sarebbe più utile che mai.»




♣ Angolo d'autore ♣
Sebbene in ritardo di un giorno, ho avuto finalmente modo di aggiornare. In questo capitolo accadono molte cose, alla luce della scarcerazione dei nostri che vengono inondanti nuove buone e cattive. 
Dalla scarcerazione - e quindi il comportamento adottato da Bennor Falso Esperto, fino alla sua partenza - all'incontro col cerusico, che si propone dolorante nei confronti del conflitto. 
La cosa certamente più importante è l'arrivo - finalmente - di Roscart Wargrave ad Ockswert, in una manifestazione di giubilo. Cosa pensate del tutto? Cosa vi aspettate ora dal signore di Giardino Fiorito?
La carrozza scorta un prigioniero direttamente da Roshby, ove tutti dicono essersi recato Wargrave, pur non avendo partecipato al torneo (i nostri sanno essersi finto malato, per venirne fuori). E' il castellano di Roshby, Wolbert Dorran - ricordate l'architetto del complotto, che aveva macchinato affinché il torneo finisse nel massacro? - in catene. (cap. X de "Il cavaliere e la fanciulla bionda"). Per qualsiasi dubbio, nel caso, sono felice di rispondervi.
Insomma la trama si sta ricompattando col filone principale: ora che i nostri sono stati scarcerati e che il conflitto è sempre vivo fuori da quelle quattro mura marroni, non resta che vedere cosa accadrà.
Curiosissimo di sapere cosa ne pensate, un abbraccio e grazie a tutti!
Makil_

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