Per aspera ad astra {primavera}

di EffieSamadhi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 | Mi chiedi se ho conosciuto l'amore, e com'è cantare canzoni sotto la pioggia. Bene, ho visto l'amore arrivare, e l'ho visto cadere colpito, l'ho visto morire invano. ***
Capitolo 2: *** 2 | Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. ***
Capitolo 3: *** 3 | Alla fine, quando la vita ti ha buttato giù, qui hai qualcuno che puoi stringere tra le braccia. ***
Capitolo 4: *** 4 | Conosco le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa, ed ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi che non ho mai fatto. ***
Capitolo 5: *** 5 | Sono innamorata, e lo sarò sempre. ***
Capitolo 6: *** 6 | Ti vedrò nella seconda parte, e riprenderemo da dove ci siamo interrotti quando ti ho persa, e ci innamoreremo di nuovo e cambieremo la fine della storia. Sì, torneremo insieme, nella seconda part ***
Capitolo 7: *** 7 | Arrendersi è più facile, quando entrambi lasciamo perdere. ***
Capitolo 8: *** 8 | «Da quanto manchi dalla tua casa?» «Due anni, duecentosessantaquattro giorni e questa mattina.» ***
Capitolo 9: *** 9 | Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. ***
Capitolo 10: *** 10 | Tutto muore, ma tu sei la cosa più cara che ho. ***
Capitolo 11: *** 11 | Io ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso. ***
Capitolo 12: *** 12 | Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene: quindi se escludi gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e angeli rimani te. ***



Capitolo 1
*** 1 | Mi chiedi se ho conosciuto l'amore, e com'è cantare canzoni sotto la pioggia. Bene, ho visto l'amore arrivare, e l'ho visto cadere colpito, l'ho visto morire invano. ***


La lunga strada verso casa - 1
Se già il successo di “Portagioie di tristezza {autunno}” mi aveva sorpresa, quello riscosso da “La lunga strada verso casa {inverno}” mi ha definitivamente scioccata. Sarà che di solito i sequel non sono mai amati quanto i primi capitoli, sarà che ho sempre creduto poco nelle mie capacità narrative, sarà che non pensavo che le tragiche avventure di Daria e Shannon potessero appassionarvi così tanto, ma... grazie, davvero. Grazie a ciascuno di voi (uso il maschile perché, anche se credo che in questo fandom si aggirino soprattutto donne, non si può mai sapere XD), grazie per il sostegno, il supporto e le belle parole. Grazie per le 123 recensioni, un vero record per una delle mie storie.
Grazie a AdharaMars, Appetite for GunsnRoses, Beatricebp, charlie997, clacampa, CutePoison83, dama galadriel, Deija, EchelonDeathbat, Faith h20, flysun91, Francesx, Fra BVB Echelon Punk, GB Echelon, GiuEchelon3, hillarysueellen, JessyJoy, Katherine39054, katvil, LittleDevil98, martizz, MartyRudolf, melany987, miss nothing, MWoshi, My planet is Mars, phoenix33, piratessa93, Romancer9, Sayuri remenissions, shannonleto 95, stefaniapisani, Titta91, TravellinJack, vale mars, Whatsername freedom, Witness of the night, _gabrysmile per l'inserimento tra le storie preferite.
Grazie a Amyvitamia, Appetite for GunsnRoses, DadaOttantotto, Heaven Tonight, jaytomshan, MWoshi, My planet is Mars, shannonleto 95, _gabrysmile per l'inserimento tra le storie da ricordare.
Grazie a 7taras, A Modern Witness, AdharaMars, alicie heitiare, Andrelully, AuRock30, Butterfly Dream, carly cec, clacampa, Closer to the edge, Faith h20, FedeFede, Floki97, francy bf, giofromheart, Kamira, kari87, katvil, Lesia 90, LightCross, Love in London night, LysergicAcid, Minelli, Miyu1976, Muty, MWoshi, My planet is Mars, OhHowIWishThatWasMe, opticalspring, Pirilla Echelon, saraechelon81, Sayuri remenissions, Scccratch, SimihadathingforLeto, so far away, sometimes, stefaniapisani, trixi86, zetavengeance, _giumuddafuggaz, _Loki, _Savoir per l'inserimento delle storie seguite.
E ora, dopo la doverosa (e forse un po' noiosa) parte dedicata ai ringraziamenti, ecco a voi il primo capitolo della terza parte della tormentata storia di Daria e Shannon, che dopo essersi trovati, amati e persi, ora dovranno affrontare una delle prove più grandi che due innamorati possano incontrare sul loro cammino: il perdono.
Con la speranza di avere ancora qualcuno da ringraziare per le belle parole, mi eclisso, lasciandovi al primo capitolo di “Per aspera ad astra {primavera}”.
Enjoy,
EffieSamadhi

P.S.: Per chi non fosse iscritto al gruppo "Direzioni ostinate e contrarie" su Facebook, ecco il link del trailer della storia, gentilmente offerto da DadaOttantotto: https://www.youtube.com/watch?v=RuY_VgECJKc .






Per aspera ad astra






Capitolo primo
Mi chiedi se ho conosciuto l'amore,
e com'è cantare canzoni sotto la pioggia.
Bene, ho visto l'amore arrivare,
e l'ho visto cadere colpito,
l'ho visto morire invano.1


Los Angeles, 6 marzo 2014


    L'intenso vibrare del cellulare contro il legno del comodino sveglia di soprassalto Tomo, che si mette a sedere con tutti i sensi all'erta. Una volta constatato che Vicki è ancora stesa accanto a lui, sana e profondamente addormentata, il cuore rallenta i battiti, e la mano si allunga verso il telefono. È un numero che non conosce, ma l'istinto gli suggerisce che farebbe meglio a rispondere, perciò si alza, facendo attenzione a non calpestare Kasha, come sempre distesa sullo scendiletto, e mentre esce dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle, risponde alla chiamata. «Pronto?» sussurra, la voce ancora impastata dal sonno.
    «Tomo? Sono Shannon.»
    Tomo guarda il grande orologio appeso in cucina, sgranando gli occhi. «Shannon? Sono le cinque del mattino, lo sai? Cos'è, inizi a dare i numeri come tuo fratello?»
    «Sono nei guai.»
    Ci vogliono un paio di secondi perché Tomo recepisca il concetto. «Come sarebbe a dire che sei nei guai? Cos'è successo?» domanda, iniziando ad immaginare scenari apocalittici, invasioni aliene, maremoti, il tanto temuto terremoto che dovrebbe spaccare a metà la California. «Da dove chiami?»
    «Dal tredicesimo distretto di polizia.»
    «Cos'hai combinato?» ribatte l'altro uomo con tono severo.
    «Senti, Tomo, non mi serve una paternale. Ho... ho fatto una cazzata, una cazzata enorme. È solo che... non... non sapevo chi chiamare.»
    Il primo istinto di Tomo è rispondere che c'è sempre Jared, che c'è sempre stato e che sempre ci sarà, ma qualcosa lo trattiene dal farglielo presente. «Cos'è successo?»
    «Mi sono fatto un bicchiere di troppo prima di mettermi al volante. Una pattuglia mi ha fermato e portato in centrale.»
    «Cosa posso fare?» Jared e Shannon sono come fratelli, per lui, e per aiutarli sarebbe disposto a fare di tutto.
    «Non voglio che tu faccia nulla, volevo soltanto...»
    «Hanno fissato una cauzione?» lo interrompe l'altro in tono autoritario, facendogli capire che nulla di ciò che potrebbe dire lo tratterebbe dal correre in suo aiuto.
    «Duemila dollari» sospira Shannon, arrendendosi alle pressioni di Tomo.
    «Arrivo subito, il tempo di vestirmi» replica l'altro, chiudendo la chiamata. Si passa una mano sul viso, chiedendosi quando mai avranno un po' di pace, poi corre in camera per mettersi qualcosa addosso. Scarabocchia un biglietto per Vicki, promettendole di tornare presto, e mentre si mette in macchina per raggiungere il tredicesimo distretto prende in mano il cellulare: il fatto che Shannon non voglia chiamare Jared non significa che non debba essere coinvolto – anche perché se Jared scoprisse di essere stato tenuto all'oscuro di qualcosa di così importante andrebbe su tutte le furie, e Tomo non vuole rischiare la fine dei Mars soltanto per una stupida incomprensione.

    Rinchiuso in una cella di due metri per tre insieme ad altri cinque uomini, tengo il viso nascosto tra le mani, chiedendomi perché la fine tardi tanto ad arrivare. Mi sento sfinito, stanco di tutto, come se nulla mi importasse più. Non sono mai stato incline alle tragedie – non tanto quanto Jared, almeno –, ma mai quanto in questi ultimi tempi mi sono chiesto come sarebbe farla finita, togliermi di mezzo una volta per tutte, smettendo di soffrire e di causare tante preoccupazioni a quelli che mi amano. Se non ho ancora tentato un atto estremo, è soltanto perché sono ancora abbastanza lucido da rendermi conto che un gesto del genere distruggerebbe definitivamente mio fratello, e soprattutto mia madre. Eppure, nonostante questa consapevolezza, ogni mattina apro gli occhi chiedendomi che cosa mi trattenga dal far smettere per sempre questo incredibile dolore.
    «Sei tu, vero?» mi domanda uno dei compagni di cella, un ragazzetto scheletrico che avrà sì e no l'età legale per bere. «Shannon Leto, il batterista dei 30 Seconds To Mars.»
    Sospiro, facendomi scivolare via le mani dal volto. «Se sei in cerca di autografi, mi prendi nel momento sbagliato» replico. «Non ho la penna» aggiungo in tono sarcastico, sperando che comprenda la mia scarsa propensione al dialogo e si allontani.
    «Oh, non voglio un autografo» risponde lui. «Insomma, il tuo autografo ce l'ho già. Anzi, ci siamo anche fatti una foto insieme, ma non ti ricorderai di me. L'anno scorso, al meet&greet dopo il concerto di San Diego. È stata una serata stupenda» aggiunge, rivolgendomi un grande sorriso. «Perché sei dentro? Hai fatto a botte con qualcuno?»
    Sospiro di nuovo, appoggiando la testa contro la parete. Qualcosa mi dice che questo ragazzetto non mi lascerà in pace finché non avrà le risposte che vuole, quindi decido di mostrarmi il più accomodante possibile. «Mi sono messo al volante dopo aver bevuto un bicchiere di troppo.»
    «Guida in stato d'ebbrezza, eh? Sembra sia una delle maggiori cause d'arresto tra le celebrità.»
    «Non ero sbronzo» replico. «Insomma, per la legge lo ero, ma per i miei standard ero ancora troppo lucido.» Mi volto per un istante a guardarlo, notando che non sembra avere l'aria del criminale. Nonostante non abbia per niente voglia di fare conversazione, sono anche estremamente curioso di sapere che cosa abbia combinato. «Tu, invece? Perché sei qui?»
    «Schiamazzi e disturbo della quiete pubblica» ribatte, facendo spallucce. «La mia ragazza ed io ci siamo presi una pausa, che è un modo elegante per dire che ci siamo lasciati. Solo che non mi sono ancora rassegnato all'idea di perderla, così sono andato sotto la sua finestra per cantarle Bright lights. Visto che anche lei è una Echelon, mi sembrava un pezzo adatto. Solo che è venuto fuori che non sono intonato quanto tuo fratello, e... beh, questa parte mi imbarazza un po', ma... ho anche sbagliato finestra» conclude con un sorriso.
    «E per una cosa del genere sei ancora dentro? Credevo che certe sciocchezze le liquidassero con una multa, soprattutto se non ci sono precedenti.»
    «Hanno fissato la cauzione a cinquecento dollari, il che sarebbe in effetti una sciocchezza, ma... avrei dovuto chiamare mio padre per farmi venire a prendere, e l'idea non è allettante quanto farsi due notti dentro e beccarsi qualche ora di servizio sociale.»
    Mi sorprendo a ridere, cosa che non faccio più da settimane: la filosofia di questo ragazzino è inoppugnabile. «Non si preoccupanno per te, non vedendoti rientrare per due giorni di seguito?»
    Scrolla le spalle, senza perdere il sorriso. «Vivo solo da un anno, ormai, e non sono uno di quei figli che chiamano la mamma tutti i giorni. Intendiamoci, voglio bene alla mia famiglia, ma... non lo so, a volte mi sento come se non ne facessi veramente parte, come se...»
    «...nessuno potesse capirti?» suggerisco.
    «Una cosa del genere, sì» annuisce. «Ho tre fratelli più grandi, tutti uomini forti e sicuri di sé che hanno saputo farsi strada nel mondo... io sono sempre stato quello più fragile, quello che non era mai all'altezza degli altri. O meglio, è così che sono sempre apparso agli occhi degli altri. Io sono sempre stato contento di essere come sono, e non mi cambierei per tutto l'oro del mondo. Sono felice.»
    «E con la tua ragazza? Perché è finita?»
    «Ci conosciamo da quando entrambi mangiavamo ancora le merendine» ridacchia. «Ci siamo messi insieme a quindici anni. L'ho sempre amata alla follia e lei ha sempre ricambiato, ma... non siamo più le persone che eravamo una volta. Siamo cambiati, siamo... diversi. Lei studia Biotecnologie a Palo Alto, ha sempre voluto cambiare il mondo, io invece lavoro in un negozio di dischi. Il suo obiettivo è scoprire il vaccino contro l'Ebola, debellare il virus dell'HIV, mentre io punto solo ad arrivare sano e salvo a domani mattina.»
    «Suppongo sia un bene che abbiate scoperto ora di essere diversi, prima che le cose andassero troppo oltre» ribatto. «Pensa a quanto sarebbe stato doloroso svegliarsi, un mattino, e scoprire che non vi amate più come prima.»
    «Il punto è proprio questo, sai? So che è destinata a finire, che un bel giorno ci guarderemo e non ci riconosceremo più e soffriremo come cani, ma... il punto è questo: che adesso, in questo momento, io la amo così tanto che sarei disposto a tutto, pur di vederla sorridere ancora. Dovesse durare anche soltanto una settimana, io... darei tutto quello che ho per trascorrere quell'ultima settimana al suo fianco.»
    Abbasso lo sguardo, sentendomi improvvisamente in colpa. Me ne sto seduto accanto ad un ragazzo che ha chiara di fronte a sé la prospettiva di finire con il cuore spezzato, ma che nonostante questo non perde la speranza: ciò che ha appena detto è che nutre così tanta fiducia nell'amore da essere disposto a cadere sul campo di battaglia, pur di avere anche un solo istante di felicità. E io, invece, dall'alto dei quarantaquattro anni che compirò a giorni, forte delle mille esperienze che ho vissuto, ho semplicemente deciso di lasciarmi andare, di arrendermi, di smettere di annaspare e lasciare che la corrente mi trascini a fondo. Mi vergogno di me stesso, della mia vigliaccheria, e tutto ciò che desidero in questo momento è essere inghiottito dal pavimento, perché non merito di stare seduto accanto ad un ragazzo così straordinario, uno che ha saputo fare della propria debolezza la sua arma vincente e il suo punto di forza. A salvarmi dal fornire una risposta arriva uno degli agenti di guardia, che infila la chiave nella toppa e apre le sbarre: «Leto, sono venuti a prenderti.»
    Mi alzo, chiedendomi perché Tomo non riesca mai a darmi retta. Poco prima di seguire l'agente, mi volto verso il ragazzo: «Come ti chiami, a proposito?»
    «Samuel. Ma gli amici mi chiamano Sam» replica, senza smettere di sorridere. «Buona fortuna, Shannon.»
    Annuisco, lasciando la cella. Seguo in silenzio il poliziotto fino all'atrio della centrale, dove mi aspetta Tomo, che nel vedermi tira un sospiro di sollievo. «Dio, per fortuna stai bene» sussurra, venendomi incontro per abbracciarmi. «Dai, prendi le tue cose e andiamo via. Hai l'aria di uno che ha bisogno di una doccia e di un caffè forte.»
    Firmo il registro, riprendendo gli effetti che mi sono stati sequestrati all'atto dell'arresto, e mentre infilo l'orologio al polso getto un'occhiata al corridoio dal quale sono arrivato, ripensando ancora all'incredibile lezione di vita che quel ragazzetto pelle e ossa è riuscito ad impartirmi in meno di dieci minuti. «Vorrei pagare la cauzione di quel ragazzino che era con me in cella di sicurezza» dico improvvisamente al poliziotto seduto dietro la scrivania. «Si chiama Samuel, non conosco il cognome. È dentro per disturbo della quiete pubblica, credo.»
    «Ah, sì» ridacchia il poliziotto. «Quello della serenata» aggiunge. «Vediamo... la sua cauzione è fissata a cinquecento dollari. Può pagare in contanti o con un assegno.»
    Frugo il portafogli, ma non ho con me il libretto degli assegni, e mettendo insieme tutti i contanti arrivo soltanto a metà della cifra necessaria. È allora che mi ricordo di Tomo, rimasto indietro mentre sbrigavo le pratiche. «So che non mi merito niente, ma... me lo faresti ancora un favore?» Lo vedo sbuffare, alzando gli occhi al cielo, e poi farsi avanti mettendo mano al libretto degli assegni. «Grazie, Tomo. Da questo momento puoi chiedermi tutto quello che vuoi.»
    Una volta pagato, decido di aspettare che lo stesso agente che ha accompagnato me vada a prendere in custodia il ragazzo, che raggiunge l'atrio con aria confusa, senza capire che cosa stia accadendo. «Arrivo subito, va bene?» dico a Tomo, che capisce l'antifona e si sposta di un paio di metri.
    «Hai pagato la mia cauzione?» mi domanda Sam, sgranando gli occhi per la sorpresa. «Santo cielo, non... dammi gli estremi del tuo conto, ti restituirò tutto, fino all'ultimo dollaro» riprende, firmando il registro e riprendendosi le sue cose.
    «Lascia stare, non mi devi niente. Anzi, se devo essere sincero sono io ad essere in debito con te.»
    «Shannon Leto in debito con me? Dove siamo, su Candid Camera
    «Dico sul serio» insisto. «Mentre eravamo lì dentro hai detto un paio di cose che... beh, che mi hanno aperto gli occhi. Sei saggio, per essere un ragazzino» aggiungo, strizzando l'occhio. «Ripeti alla tua ragazza quello che hai detto a me, e... beh, se non ti riprende subito, lasciala perdere, che non è la donna per te.» Mi volto per raggiungere Tomo, fermo accanto all'ingresso. «Grazie per avermi pagato la cauzione, Tomo. Non avresti dovuto, ma grazie» sussurro mentre usciamo dalla centrale.
    «Risponderei che era mio dovere, in quanto tuo amico, ma non posso, visto che non sono stato io» replica. Non ho nemmeno il tempo di farmi domande, perché vedo l'auto di mio fratello parcheggiata accanto al marciapiede, e Jared appoggiato alla fiancata. «Beh, io vado. Vicki potrebbe aver bisogno di me» aggiunge Tomo, saltando sulla sua auto, parcheggiata dietro quella di Jared, e filando via prima che si scateni l'inferno – perché deve per forza esplodere qualche bomba, conoscendo mio fratello.
    Invece, del tutto inaspettatamente, Jared allarga le braccia e mi stringe forte. «Dio, è così rassicurante vedere che stai bene» mi sussurra all'orecchio, stringendomi come non faceva da tempo. Nonostante questo, non riesco a ricambiare la stretta: me ne sto immobile, quasi pietrificato, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, in attesa che parta in quarta con la ramanzina. E invece, sorprendendomi ancora, Jared si stacca da me con un sorriso. «Dai, sali in macchina e andiamo via di qui.»

    La luna sta lentamente cedendo il posto al sole, e il cielo inizia ad assumere le sfumature dell'alba. La superstrada è praticamente sgombra, silenziosa quanto l'interno dell'auto. Shannon guarda fuori dal finestrino con aria assente, continuando ad aspettare l'istante in cui Jared si scaglierà contro di lui, sgridandolo per il suo comportamento assolutamente irresponsabile. Si riprende soltanto quando vede il fratello mancare l'uscita che li porterebbe verso casa, e continuare a guidare. «Jared, hai mancato l'uscita» gli fa notare il batterista, costringendosi a parlare nonostante il sacro terrore che ancora lo attanaglia.
«Tu non preoccuparti, so perfettamente cosa sto facendo» risponde il fratello, prendendo l'uscita che conduce alle colline – e a questo punto Shannon inizia quasi a tremare, sicuro che Jared intenda ucciderlo e seppellirlo da qualche parte accanto alla scritta Hollywood. Meno di dieci minuti più tardi arrivano in cima ad un'altura dalla quale è possibile ammirare l'intera città, le cui luci si stanno a poco a poco spegnendo. «Riconosci questo posto?» domanda Jared, spegnendo il motore e rilassandosi contro il sedile.
    «Dovrei?»
    «Dodici anni fa, quando trovammo una casa discografica disposta a produrci, venimmo qui per riflettere sulla proposta che ci avevano fatto. Solo tu ed io, qui su questa collina, a parlare per tutta la notte. Alle otto di mattina decidemmo di andare allo studio per firmare...»
    «...e ci chiesero di tornare soltanto dopo esserci fatti una doccia» conclude Shannon con una risata. «Santo cielo, ora me lo ricordo» aggiunge, appoggiandosi contro il poggiatesta.
    «È tanto che non parliamo come quella notte» sussurra Jared, così piano che Shannon a malapena riesce a sentirlo. «Che cosa ci è successo? Una volta avresti chiamato me, se fossi finito nei guai.»
    «Non volevo farti preoccupare, suppongo.»
    «Però sapevi che Tomo mi avrebbe avvertito.»
    «In verità, speravo che non lo facesse.»
    «Me lo avresti detto, se non mi avesse chiamato? O avresti aspettato che lo leggessi sul giornale?» Shannon abbassa la testa, sentendosi in colpa. «A proposito, la notizia è già rimbalzata su decine di siti. Non chiedermi come sia possibile, ma sembra che lo sappia già mezzo mondo.»
    «Mi dispiace» sussurra Shannon, sentendo la voce spezzarsi. Ed è davvero dispiaciuto, perché sa che questo è il genere di pubblicità che può soltanto far male ad un artista o ad un gruppo, e anche perché ai Mars non è mai accaduta una cosa del genere. «Sono disposto a pagarne le conseguenze, qualunque esse siano.»
    «Non ti ho portato qui per parlare delle conseguenze del tuo arresto, Shannon» replica Jared, scuotendo la testa. «In questo momento difendere la reputazione del gruppo è l'ultima cosa di cui mi importi. La sola cosa che mi interessi in questo momento sei tu.» Il batterista non tenta nemmeno di replicare, sicuro com'è che l'altro lo interromperebbe subito. «So che non eri veramente sbronzo quando ti hanno arrestato, altrimenti non ti saresti ripreso tanto in fretta. Sei abbastanza lucido da sostenere una conversazione seria, perciò presumo lo fossi abbastanza anche per accorgerti che stavi facendo una cavolata, mettendoti al volante.» Shannon annuisce, serrando le labbra come un bambino sul punto di scoppiare in lacrime. «Quello che non riesco a spiegarmi è perché tu abbia fatto una cosa tanto stupida. Credevo stessi bene, credevo... credevo che andasse tutto bene» ripete, incapace di trovare altre parole.
    «Ho lasciato Christine» confessa Shannon. «Il giorno dopo la cerimonia. L'ho chiamata, ci siamo visti e... beh, è finita. In maniera molto civile, devo dire. Non ci sono state grida, né insulti, né minacce di morte. Era come... beh, era come se sapesse quello che stavo per dirle.»
    «Forse perché lei ti ha sempre conosciuto meglio di quanto ti conoscessi tu stesso» osserva Jared. «Ma non è per questo che ti sei fatto beccare dalla polizia, vero?»
    Shannon scuote ancora la testa, sentendosi sempre più colpevole. «Non riesco a smettere di pensare a lei» sussurra. «Ci ho provato, credimi, ci ho provato con tutte le mie forze» aggiunge, sull'orlo del pianto. «Ci ho provato, ma Dio, non riesco a...» Solleva lo sguardo, puntando i lucidi occhi scuri in quelli del fratello. «Hai mai amato qualcuno tanto da non riuscire a smettere nemmeno quando capisci che ti farà soltanto soffrire?»
    «Credo di no» ammette Jared, abbassando lo sguardo a sua volta. «Ma posso immaginare che non sia una bella sensazione.»
    «Fa schifo» replica Shannon, asciugandosi gli occhi con i pollici. «La tua mente continua a ripetere che devi smetterla, che devi darci un taglio, che devi passare oltre e guardare al futuro, e intanto il tuo cuore batte sempre più forte ogni volta che ripensi a quello che avevi, ogni volta che il tuo sguardo si fissa su qualcosa che ti ricorda quanto fossi felice. Il tuo cuore e il tuo cervello continuano a combattere, e intanto tu resti lì, nel mezzo dello scontro, senza sapere quale sia la cosa giusta da fare, senza sapere nemmeno dove guardare. Ti senti solo, e perso, e sconfitto, e... e intanto il mondo va avanti, e tu ti senti ancora più smarrito, e nessuno riesce a capirti, e... e non c'è niente che possa alleviare il tuo dolore, tranne ciò che lo causa.»
    «Ti suonerà dannatamente retorico, Shannon, ma tu non sei solo. Lo sai, per te io ci sarò sempre. E c'è la mamma, c'è Tomo, c'è Wayne! Da quanto non vi fate una bella chiacchierata, voi due?»
    «Non c'è proprio nessuno, Jared» ribatte l'altro uomo, scendendo dall'auto. Dopo un istante di immobilità, Jared lo imita, chiudendo lo sportello con un colpo secco. «Lo so, so che tu ci sarai sempre, e che mamma sarà sempre pronta a darmi un consiglio, e che Tomo e Wayne mi vogliono bene e tengono a me quasi quanto te, e infatti non è questo il problema. Il problema sono io, Jay. Il problema sono soltanto io
    «Shannon, io non... aiutami, per favore, perché non riesco a capire.»
    Il batterista infila le mani in tasca, abbassando lo sguardo al terreno e poi volgendolo lontano, verso le colline di Hollywood, quelle colline la cui vista molte volte lo ha ispirato, e che forse saranno in grado, in questa difficile alba, di sputare fuori quelle parole che forse potranno aiutarlo a rinascere. «Sono un ex alcolista e un ex drogato» scandisce lentamente, tornando a guardare il fratello.
    A quelle parole è Jared a distogliere lo sguardo. «Shannon, per favore, non...»
    «No, per favore, lasciami continuare» lo interrompe il batterista. «Sono un ex alcolista e un ex drogato. Per tanto tempo ho pensato di aver superato i miei problemi, ma ultimamente mi rendo conto che... che forse non sono riuscito a risolverli del tutto. Fra tre giorni compirò quarantaquattro anni, e mi sento impaurito come quando ne avevo quattordici.» Prende un lungo respiro, ricacciando indietro le lacrime. «Ho un problema con il bere, e se non prendo subito qualche provvedimento per risolverlo ho paura che... ho paura che finirà male. So che tu mi vuoi bene e che ti getteresti nel fuoco per me, ma questa volta non mi puoi aiutare.»
    «Shannon...»
    «No, Jay. Non puoi aiutarmi perché non ti sei mai sentito come mi sento io. Io credo... io credo di aver bisogno d'aiuto, ma... ma non puoi essere tu ad aiutarmi.»
    Jared rimane in silenzio per un paio di minuti, il tempo necessario per assorbire la confessione del fratello e accettare il fatto che abbia ragione, e che la sua naturale propensione all'empatia, in questo caso, non serva a niente. «Intendi... intendi dire che...»
    «Devo farmi aiutare da un professionista. Ecco quello che intendo dire.»
    «Intendi... tipo... una clinica? Tu... Shannon, tu non sei così, tu... tu non sei un...»
    «Cosa? Cosa non sono?»
    «Possiamo superarla insieme, Shannon, basta che restiamo uniti. L'ultima volta ce l'abbiamo fatta, ti ricordi? Basterà... ti troverò un bravo psicologo, un terapeuta, qualcuno che ti aiuti, ma non... non ti posso mandare in una clinica. Non... non posso.»
    Shannon solleva finalmente gli occhi, e Jared capisce che non importa quante e quali possano essere le sue obiezioni in proposito, perché la scelta è già stata fatta – quando e come non si sa, ma è già stato tutto deciso. «Non mi ci stai mandando, Jared. Sono io che ci vado.»
    Si siedono entrambi ai piedi di un enorme pioppo, fissando lo sguardo sull'alba che sorge sopra Los Angeles. Shannon chiude gli occhi, assaporando il tepore dei primi raggi del sole sulla pelle, mentre Jared fissa lo sguardo su un punto lontano, chiedendosi che fine abbiano fatto gli angeli che una volta popolavano quella valle. «Immagino che tu abbia già pensato ad una destinazione precisa» sussurra dopo un lungo silenzio, senza voltarsi.
    «La clinica Safe Heaven, giù a Cedar Creek. Sono specializzati nel trattare pazienti con problemi d'alcolismo, hanno personale altamente qualificato. E poi è a meno di dieci miglia di Los Angeles, quindi non sarebbe troppo lontana, nel caso... nel caso volessi venirmi a trovare.»
    Jared si sente rabbrividire all'idea di Shannon chiuso in una clinica, circondato da persone sperdute che, lo sente, non hanno nulla a che fare con suo fratello, ma sa che se Shannon ha deciso così, allora tutto ciò che resta da fare è assencondarlo, pena la perdita totale del suo affetto. «Non è lo stesso posto in cui hanno mandato Lindsay Lohan l'ultima volta?»
    «Sì, credo di sì. Non lo so, sul sito non c'era una lista dei loro pazienti più celebri.»
    «Beh, con lei non è che abbiano proprio saputo fare miracoli.»
    «Jared, io farò questa cosa con o senza il tuo appoggio, solo che senza... beh, una cosa che sicuramente direbbero tutti gli psicoterapeuti del mondo è che il sostegno della famiglia è essenziale.»
    Finalmente Jared si volta, trovando di nuovo lo sguardo del fratello fisso su di sé, incredibilmente fermo e deciso. «Avrai il mio pieno sostegno, Shannon. Resto sempre tuo fratello.»


*



Torino, 7 marzo 2014


    Alice sta facendo colazione seduta davanti al computer, navigando senza meta nel web alla ricerca di pettegolezzi che possano distrarla dalla sua infelice condizione di laureanda. A prima vista, il titolo Arrestato il batterista dei 30 Seconds To Mars non suscita la sua curiosità, ma non appena i neuroni si degnano di funzionare correttamente, sgrana gli occhi e quasi si strozza con lo yogurt. Clicca sul link per leggere la notizia, impietrita sulla sedia, le mani quasi tremanti per la sorpresa. «Ma ti sei completamente ricoglionito!» esclama, alzandosi in piedi di scatto, senza riuscire a credere a ciò che ha appena letto.
    Dopo un primo attimo di sconforto, durante il quale Marta si affaccia alla porta della stanza per assicurarsi che sia tutto a posto, Alice si rende conto di avere un mezzo più che affidabile per scoprire la verità, perciò abbandona la colazione, che pure per lei è sacra, e afferra il telefono, disposta a tutto pur di scoprire che cosa diavolo sia successo. «Dimmi che quell'idiota totale di tuo fratello non si è davvero fatto arrestare per guida in stato d'ebbrezza» abbaia non appena dall'altra parte capta qualche segno di vita. «Ti prego, dimmi che è soltanto un pettegolezzo senza fondamento, ti prego, ti prego, ti prego. Non potrei sopportare una delusione del genere. Non in un momento come questo.»
    «Buonasera anche a te, pasticcino» risponde Jared, riuscendo miracolosamente ad inserirsi nel discorso approfittando di una pausa.
    «Non chiamarmi pasticcino. E comunque qui sono le otto di mattina. Allora, mi spieghi che è successo oppure mi liquidi con uno dei tuoi tanto temuti soon
    «Beh, prima di tutto qui è appena passata la mezzanotte, ergo per me è sera. Secondo, mi piace chiamarti pasticcino. Ti si addice. Terzo... beh, è una storia molto lunga e complicata.»
    «Si dà il caso che io non abbia molto tempo da perdere, perciò inizia pure a raccontare.»
    «Ti avevo detto che Shannon aveva ricominciato ad uscire con una sua ex?»
    Alice riprende in mano lo yogurt, lasciandosi cadere sul letto. «No, e mi chiedo perché non mi abbia informata prima. Credevo che tu e io ci dicessimo tutto. A proposito dei nostri due idioti preferiti, intendo.»
    «Scusa, pasticcino, ma non ho ritenuto importante informarti finché non avessi scoperto che intenzioni avesse con lei. Comunque puoi anche eliminarla dal diagramma, perché l'ha mollata.»
    «L'ha mollata? Quando? Perché?»
    «Sì, l'ha mollata un paio di giorni fa. Il motivo lo puoi capire da te.»
    Alice si prende un attimo per riflettere. «L'ha mollata perché è ancora innamorato di Daria? Ma è perfetto! Oh, sì, è veramente una notizia meravigliosa!»
    «Per niente, in verità. Sta male perché crede di averla persa per sempre, perciò si è rimesso a bere. Non fraintendermi, non è che passi ventiquattro ore al giorno attaccato alla bottiglia, però... ci sta ricascando. Venendo alla notizia dell'arresto... beh, è vera. L'altra sera una pattuglia l'ha fermato dopo l'uscita da un pub. Non era completamente ubriaco, ma era molto al di sopra del livello consentito.»
    «E che è successo poi?»
    «Ho pagato la cauzione e l'ho fatto uscire. Però c'è il rischio che ci ricaschi, e questo lo sa anche lui. In realtà credo ne sia più consapevole di me.»
    «E che cosa farete adesso?»
    «Ha deciso di entrare in un centro di riabilitazione. Un paio di settimane, dice, tanto per cercare quel supporto che è convinto di non poter trovare altrove. La mia convinzione è che stia scappando, in realtà. Ha paura di se stesso, sa che se ricadesse nei vecchi problemi questa volta non sarebbe più tanto semplice uscirne.»
    «E tu glielo permetti? Insomma, lasci che si faccia internare senza dire nulla?»
    «Cosa dovrei fare, scusa? Sono suo fratello, non il suo tutore legale. L'idea di vederlo chiuso in un centro in mezzo a gente che davvero non ha altra via di scampo non entusiasma neanche me, ma è una sua decisione, e io sono tenuto a rispettarla.»
    «Accidenti, questo è un guaio...» sussurra Alice, chiedendosi se questo non pregiudicherà la riuscita del piano.
    «Scusa, non ti seguo. Perché dovrebbe essere un guaio? Tu che c'entri?»
    Alice prende un lungo respiro, sapendo che quanto sta per dire potrebbe seriamente contrariare Jared. «Mercoledì mattina Daria ed io abbiamo un aereo per Los Angeles» sputa fuori, chiudendo gli occhi come per incassare meglio il colpo che, ne è certa, riceverà tra poco.
    «Cosa?» La voce di Jared si fa acuta quasi quanto quella di una donna. «Venite qui e non mi dici niente? Cos'è, aspettavi di atterrare per farmelo sapere?»
    «Più o meno. Conoscendo Daria, mi aspetto ancora che martedì sera chiami per dirmi che non se ne fa più nulla. La conosci, sai com'è fatta.»
    «Beh, sì, ho una vaga idea di come... ma accidenti, pensavo che mi avresti chiamato subito per raccontarmi tutto!»
    «Beh, adesso lo sai.»
    «Bella consolazione» sbuffa Jared, provocando in Alice un sorriso divertito. «Allora, qual è il programma? Almeno questo me lo potresti concedere, no?»
    La ragazza lascia perdere di nuovo la colazione, presa da qualcosa di molto più importante. «Beh, il piano è molto semplice, in sé: ci imbarchiamo su un aereo e voliamo fino a Los Angeles. Sempre che lei non si faccia venire una crisi di panico, visto che non ha mai volato.»
    «E una volta atterrate?»
    «Il piano era di chiamare Emma per avvertire del nostro arrivo, farci portare da Shannon e... beh, in qualche modo Daria avrebbe cercato di chiedergli scusa e farsi perdonare. Non siamo grandi strateghe, a dire il vero. Ci siamo concentrate molto sulla prima parte, ma per il resto credo che ci affideremo molto al caso. Figurati che non ha nemmeno voluto prenotare un albergo, convinta com'è che riceverà un due di picche.»
    «Davvero ne è convinta?»
    «Perché, tu scommetteresti su una felice conclusione?» lo rimbecca lei con una risata. «Se non conoscessi bene la situazione, potrei anche azzardarmi a scommettere sul lieto fine, ma conoscendo i precedenti...»
    «A proposito di precedenti... non hai ancora detto a Daria di quando Shannon è venuto a Torino e l'ha vista con quell'altro?»
    «No» risponde Alice, abbassando lo sguardo. «E nemmeno dell'e-mail che ho scritto ad Emma perorando la sua causa, e nemmeno che ho il tuo numero di cellulare e parlo con te quasi più spesso di quanto faccia con mia madre.»
    «Non pensi sarebbe il caso di informarla?»
    «E rischiare la morte? Ammetto che il mondo è un posto crudele e tenebroso, ma ci terrei parecchio a restarci sopra ancora per qualche anno.»
    «Non fare la drammatica, non ti ucciderebbe mai. Forse in uno scatto d'ira potrebbe ferirti, o privarti di qualche arto, ma non ce la vedo ad uccidere.»
    «Mai fidarsi delle acque chete, tua madre non te l'ha insegnato?»
    «Mia madre mi ha insegnato un mucchio di cose, piccola impertinente, tra cui l'importanza di essere onesti. Glielo dovresti dire. So che probabilmente la cosa ti fa paura, ma credo che dovresti essere sincera e vuotare il sacco. Le dovresti raccontare tutto.»
    Alice giocherella con l'orlo dei pantaloni del pigiama, tenendosi il cellulare premuto contro l'orecchio e il pensiero fisso su quello che potrebbe farle Daria nello scoprire di essere stata tenuta all'oscuro di così tanti avvenimenti importanti. «Fai presto a parlare. Tanto non sarai tu quello che le starà di fronte in quel momento.»
    «E allora falla venire da te, chiamami e passale il telefono. Ci parlo io con lei. Non conosco nessuno in grado di uccidere via telefono.»
    «Sì, probabilmente ti salveresti, ma io resterei comunque qui a prendermi le botte anche per te.»
    «Ho sempre apprezzato le persone altruiste» ribatte lui, ridendo come un bambino. «No, sul serio. Credo che le dovresti parlare prima di arrivare qui. Anche perché verrò a prendervi in aeroporto, e sarebbe un po' difficile spiegare la mia presenza. Diglielo in aereo, no? A diecimila metri d'altezza non ti potrebbe uccidere. Con tutti quei testimoni, poi...»
    «Ci penserò» ridacchia Alice, lasciando perdere il pigiama. «Scusa, quando avresti deciso di venirci a prendere in aeroporto?»
    «Appena mi hai detto che martedì prenderete un aereo per venire qui.»
    «Guarda che partiamo mercoledì
    «Oh, è la stessa cosa. E poi ci tengo a venirvi a prendere. In fondo sarà la vostra prima visita negli Stati Uniti, come cittadino americano è mio preciso dovere accogliervi personalmente al vostro arrivo. E poi sono ansioso di vedere se assomigli davvero a Gwen Stacy» scherza, facendola ridere ancora.
    «Credo che somiglierò piuttosto ad un gatto finito in lavatrice, dopo un volo di otto ore, con tutto quel fuso orario da smaltire... non sarò un bello spettacolo.»
    «Ancora meglio. Adoro le donne che non esagerano con il trucco» replica lui con un sorriso. «Senti, so che forse non sembro la persona più adatta a dare consigli in materia di sentimenti e quelle cose lì, ma... vedi, se c'è una cosa che ho imparato, è che bisogna sempre dire la verità, anche se fa male, anche se corriamo un grosso rischio. Anzi, forse è proprio quando c'è in gioco qualcosa di importante che bisogna essere sinceri, intendo ancor più del solito. Certo, forse Daria si arrabbierà, magari non ti parlerà per un paio di giorni, ma sono sicuro che in tutti questi anni avete superato cose ben più grandi. Tu cerca di farla concentrare sul bene che la verità può portarle, e vedrai che non presterà attenzione al male.»
    Alice riflette a lungo sulle parole di Jared, pensando che forse è vero, forse dovrebbe essere finalmente sincera con Daria, raccontarle ogni cosa, ogni piccolo dettaglio, e magari lasciarle un paio di giorni per sbollire il tutto, per poi tornare ad essere amiche come prima, o forse di più. «Probabilmente hai ragione» risponde, badando di non far intuire a Jared quanto il suo consiglio sia stato prezioso, sicura che lui tornerebbe a pavoneggiarsi come se fosse il solo a conoscere l'unico, grande segreto della vita. «Proverò a parlarle, e se la vedrai arrivare da sola a Los Angeles saprai che mi ha uccisa e ha nascosto il cadavere, e dovrai vivere per sempre con il rimorso di essere stato tu la causa della mia dipartita.»
    «Penso che potrei sopportarlo.»
    «Bene. Adesso scusami, ma devo tornare alla mia colazione e alla mia tesi. Ti scriverò, nel caso dovessimo avere qualche problema. Ah, a proposito: potresti tenere per te la notizia dell'arrivo di Daria? Vorrebbe che fosse una sorpresa. O meglio, voleva evitare che Shannon lo scoprisse e si facesse vivo per dirle di non farsi vedere, o cose del genere. Potresti farmi questo favore? In fondo, tu nemmeno dovresti saperlo.»
    «E va bene, lo terrò per me. E bada che è un grande sacrificio per me, perché di solito non riesco a tenere la bocca chiusa.»
    «Perché, credevi che non me ne fossi ancora accorta?» lo prende in giro lei, alzandosi dal letto per tornare verso la scrivania. «Ciao, Jared. Ci sentiamo presto.»
    «Ciao, Gwen Stacy.»



*



Los Angeles, 7 marzo 2014


    La valigia è pronta nell'ingresso, il cappotto appoggiato sul divano, e sto camminando per casa controllando che sia tutto in ordine. Bruce mi segue lentamente, il guinzaglio stretto tra i denti, guardandomi come se temesse di non vedermi mai più. «Sei preoccupato, campione?» gli domando, inginocchiandomi sul pavimento per essere al suo livello. «Tranquillo, starai bene con la nonna» aggiungo, accarezzandogli le orecchie. «Papà ha bisogno di farsi aiutare, lo sai. Dio, quanto ti ho trascurato in questo ultimo periodo...» Bruce uggiola piano, stendendosi sul pavimento con aria mesta. «Ma ti prometto una cosa: appena mi sarà possibile tornerò, e allora tutto andrà bene. Andrà tutto bene» ripeto, forse cercando di convincere lui, forse cercando di convincere me stesso. Il rumore di un'auto che si ferma alla fine del vialetto e il suono del clacson mi avvertono che Jared e la mamma sono arrivati, perciò infilo la giacca e prendo il borsone. «Forza, campione, andiamo» gli dico, aspettando che si alzi ed esca dalla porta. Prima di far scattare la serratura, getto un'ultima occhiata all'ingresso e al salotto, sapendo che non passeranno meno di due settimane prima che riveda queste mura che fino a poco tempo fa chiamavo casa. Chiudo gli occhi, sospiro e chiudo la porta, sapendo che con questo gesto non sto soltanto lasciando un luogo che mi è familiare per avventurarmi verso qualcosa che non conosco: sto chiudendo un capitolo della mia vita cui non voglio pensare mai più, e finalmente sto per voltare pagina. Apro lo sportello dell'auto per far salire Bruce, e quasi mi viene un colpo: non ci sono soltanto Jared e la mamma, ma anche Tomo e Vicki, che inizia a somigliare sempre più ad un pallone. «E voi due che ci fate qui?»
    «Pensavi davvero che ti lasciassimo andare senza salutarti?» domanda lui, sorridendomi.
    «Siamo tuoi amici, Shannon» gli fa eco lei, mettendo la sua mano sulla mia spalla, mentre mi sistemo sul sedile anteriore, alla destra di Jared. «Noi ci saremo sempre, qualunque cosa succeda.»
    «Possiamo andare?» domanda mio fratello, aspettando un mio cenno.
    Prendo un respiro profondo, riflettendo. «Sono pronto» rispondo, e per la prima volta dopo tanto tempo mi sento veramente sincero con me stesso.



1Mi chiedi se ho conosciuto l'amore, e com'è cantare canzoni sotto la pioggia. Bene, ho visto l'amore arrivare, e l'ho visto cadere colpito, l'ho visto morire invano. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Blaze of glory, composta e interpretata dal rocker statunitense Jon Bon Jovi come parte della colonna sonora del film Young Guns II (1990).

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Capitolo 2
*** 2 | Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. ***


La lunga strada verso casa - 1
Del tutto inaspettatamente, già un paio d'ore dopo la pubblicazione del primo capitolo il contatore delle visite è schizzato a cento, per non parlare di tutti coloro che hanno inserito questa nuova storia in una delle tre liste! Grazie per ogni cosa, davvero. Mi fate sentire speciale, e non saprò mai come ringraziarvi a dovere.
Vi lascio al prossimo passo,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo secondo
Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare,
perché mi porto un dolore che sale, che sale.1


Cedar Creek, 7 marzo 2014


    Quando varco la soglia del centro, il primo pensiero che mi attraversa la mente è che non somiglia per niente all'idea che mi ero fatto di posti del genere: credevo che il bianco delle pareti mi avrebbe abbagliato, o che le mie narici avrebbero subito percepito un odore simile a quello degli ospedali, e che appena entrato mi sarei sentito soffocare dalla tristezza dell'ambiente – invece l'atrio del Safe Heaven è più simile all'ingresso di un centro estetico, con pareti colorate e numerose piante in vaso. Mi avvicino timidamente al bancone, seguito ad una certa distanza da Jared e mia madre, che tiene molto corto il guinzaglio di Bruce, e più indietro da Vicki e Tomo, che si tengono per mano. «Buongiorno» mi saluta l'infermiera seduta dietro la scrivania, un'energica donna afroamericana dal viso cordiale, che per certi versi mi ricorda la Mamie di Via col vento. «Cosa posso fare per lei?»
    «Salve, mi chiamo Shannon Leto. Ho chiamato ieri mattina. Sono qui per...» La mia voce ha una leggera incertezza: in fondo, per quanto sia una mia scelta, una scelta molto ponderata, mi è ancora difficile pronunciare la parola ricovero senza che mi tremi la voce.
    «Oh, certo, ricordo. Ero io al telefono» mi soccorre lei, e dal suo tono capisco che non dev'essere la prima volta che le accade di trovarsi di fronte qualcuno nelle mie condizioni. «Io sono Darlene» aggiunge, tendendomi la mano al di sopra del bancone.
    «Piacere di conoscerla, Darlene» rispondo, ricambiando timidamente la stretta.
    «Per prima cosa, dovrebbe farmi il piacere di riempire questi moduli» prosegue, mettendomi davanti agli occhi alcuni documenti e una penna a sfera blu. «Io intanto chiamerò il dottor Connors.» Mi lascia solo di fronte all'immenso spazio bianco dei moduli, e si rimette alla scrivania, alzando il ricevitore e premendo un paio di tasti. Mi volto per un istante verso il mio seguito, leggendo chiaramente negli occhi di Jared la sofferenza causata dall'idea di abbandonarmi in un posto simile, anche se soltanto per un paio di settimane. Torno a voltarmi verso i moduli, che inizio a compilare con mano incredibilmente ferma, quasi non avessi fatto altro per tutti i giorni della mia vita.
    Ho appena terminato, quando da un corridoio alla mia sinistra appare un uomo in maniche di camicia che non somiglia affatto all'idea che si ha in generale dei medici. «Il signor Leto? Sono il dottor Connors» esordisce, venendomi incontro con la mano tesa e un gran sorriso stampato in faccia, quasi fossimo due persone normali che si incontrano per la prima volta ad una festa. «Può chiamarmi Patrick, se la fa sentire più a suo agio.»
    «Shannon» rispondo, ricambiando la stretta, notando che non può essere molto più anziano di me. «Ah, questi sono mia madre, Constance, e Jared, mio fratello» proseguo, voltandomi per presentargli tutto il resto del circo. «Tomo e Vicki, due cari amici» aggiungo, mentre il dottore stringe la mano a tutti. «E il mio cane, Bruce. Avrei evitato di portarlo, non conoscendo la vostra politica in fatto di animali, ma non potevo affidarlo ad altri» concludo, sentendo più che mai il bisogno di giustificare le mie azioni.
    «La nostra politica è che tutto ciò che giova ai nostri ospiti è ben accetto» risponde lui, inginocchiandosi per accarezzare Bruce, che si presta senza remore alle coccole. «Splendido esemplare, splendido davvero. Un Border Collie, dico bene? Della varietà Australian Red, direi.»
    «Beh, io... io non...» balbetto, sorpreso dall'assoluta eccentricità di questo medico, apparentemente più interessato al mio cane che al mio ricovero nella sua struttura.
    «Mi perdoni» riprende, rialzandosi. «Sono sempre stato un amante dei cani, ma i miei non mi hanno mai permesso di tenerne uno, e ora che ne avrei la possibilità non ho il tempo materiale per occuparmene, perciò mi distraggo facilmente ogni volta che ne vedo uno. Ma torniamo a lei. In fondo è per lei che siamo qui, giusto? Darlene le ha già consegnato la documentazione necessaria?»
    «Tutto in ordine, dottor Connors» risponde lei, mostrandogli un fascicolo.
    «Allora andiamo a dare un'occhiata alla sua stanza. Potete venire tutti, se lo desiderate» aggiunge, rivolgendosi all'intero gruppo.
    «Io resterei qui, se per te non è un problema» risponde Vicki. «Ho bisogno di riposare per qualche minuto» aggiunge, sfiorandosi il ventre con una mano.
    «Le consiglio di uscire nel parco» replica il dottore. «Sulla panchina sotto il salice, in particolare. A quest'ora dovrebbe trovarla sgombra.»
    «L'accompagno» aggiunge Tomo. «Vuoi che porti Bruce con noi? Così magari si sgranchisce le zampe.» Annuisco, e mia madre gli consegna il guinzaglio. Mentre loro escono, diretti verso il parco, la mamma mi prende per mano, accompagnandomi verso la stanza, mentre Jared non riesce a camminare al mio fianco, preferendo restare indietro di un paio di passi.
    «Come sicuramente saprà, signor Leto» inizia il dottore, camminando lentamente lungo il corridoio, «questa struttura non è un ospedale, né una clinica, o qualunque altra definizione possa venirle in mente. Non è nemmeno un centro di riabilitazione» aggiunge, e a questo punto, anche senza vederlo in faccia, so che Jared sta tremando, «ma un centro d'ascolto e di supporto. Noi qui al Safe Heaven non curiamo le persone, le aiutiamo a trovare una soluzione ai loro problemi. E questo, mi creda, è molto più difficile di quanto si pensi. Non dirò che non ci sono stati insuccessi, nel corso degli anni, ma le assicuro che tali insuccessi non sono da imputare a noi, quanto ai nostri ospiti. E badi, sto parlando di ospiti, non di pazienti» aggiunge, voltandosi per un sorriso. «Tutte le persone che conoscerà nel corso della sua permanenza sono entrate qui di loro spontanea volontà, e di conseguenza possono decidere di andarsene in qualunque momento. Nessuno è un prigioniero, qui. L'unica condizione sulla quale non ci permettiamo di transigere è la serietà: quando una persona decide di rivolgersi a noi per avere quell'aiuto che non riesce a trovare altrove, pretendiamo che si fidi completamente di noi, che abbandoni ogni pregiudizio o timore e non si faccia scrupolo di parlarci di qualunque cosa. Mi rendo conto che si tratta di un notevole sforzo, uno sforzo che io stesso non sarei certo di poter compiere, ma è necessario. Per tutto il tempo che si tratterrà qui, signor Leto, dovrà sforzarsi di vedermi come un amico, e non come un dottore. Se può aiutare, può anche darmi del tu. Avrà modo di imparare che non badiamo molto alle formalità.» Finalmente, dopo aver svoltato in un secondo corridoio, il dottore si ferma davanti ad una porta in legno chiaro, simile a molte altre, riconoscibile soltanto grazie ad un numero, il nove. «Eccoci arrivati» sussurra, ruotando la maniglia e aprendo il battente. «Questa sarà la sua stanza. Mi rendo conto che non è il Ritz, ma di sicuro apparirà meno impersonale quando avrà sistemato le sue cose.» Mi lascia un attimo per guardarmi attorno, poi riprende: «Sulla scrivania troverà una copia del regolamento e una piantina dell'edificio, per aiutarla ad orientarsi meglio nei suoi primi giorni qui. Per questa mattina non ha impegni, così avrà tempo di sistemarsi per bene e dare un'occhiata in giro, se ne ha voglia. Si pranzerà alle dodici e trenta, e per le quattordici verrà nel mio studio, così potremo fare una chiacchierata.» Sorride ancora, dandomi una pacca amichevole sulla spalla. «Ora vi lascio soli. Signora» saluta mia madre, stringendole le mano e chinando appena il capo, «signor Leto» aggiunge, porgendo la mano a mio fratello. Ha già un piede fuori dalla stanza quando torna indietro, con l'aria di chi abbia dimenticato di dire qualcosa di importante. «Spero che questo non mini del tutto la mia posizione come figura autorevole, ma non posso proprio trattenermi: adoro la vostra musica.» Detto ciò scompare, chiudendosi la porta alle spalle.
    «Un tipo decisamente fuori dal comune» commenta mia madre con una risata, mentre muovo qualche passo in avanti e appoggio il borsone sul letto rifatto.
    «Sì, decisamente» osserva Jared con un sospiro. «Siamo sicuri di poterci fidare? Insomma, avete visto come si è messo a giocare con Bruce? Questo va oltre ogni norma igienica» aggiunge, come sempre fissato con la pulizia e i batteri.
    «Ho controllato le sue referenze, tranquillo» rispondo, appoggiando una mano sul materasso per saggiarne la consistenza. «Sembra un tipo strano, ma ha studiato nelle migliori università e conseguito un dottorato alla Johns Hopkins.»
    «Questo non toglie che sia strano» replica lui, dando una rapida occhiata al regolamento lasciato in bella vista sulla scrivania. «Che razza di centro è? Ti lasciano il cellulare?»
    «Non sono più in galera, Jared» gli faccio notare, avvicinandomi per prendere la piantina, cui do un'occhiata veloce e che ripongo subito in tasca.
    «Vuoi che ti dia una mano a disfare il bagaglio, tesoro?»
    «Grazie, mamma, ma mi arrangerò» le sorrido. «Tanto mi restano ancora un paio d'ore prima di pranzo» aggiungo, controllando l'orologio. «Andiamo fuori, voglio salutare gli altri.»



*



Torino, 7 marzo 2014


    Sono le nove di sera, e me ne sto distesa sul divano a rivedere per l'ennesima volta Casablanca, mentre Solo mi zampetta incerto sullo stomaco, incespicando e restando impigliato nei fili della coperta ogni due per tre. Quando suona il campanello penso subito che possa essere la signora Lorenzoli, che stasera si è data alla cucina e poco fa mi ha telefonato chiedendomi se mi facesse piacere una teglia di biscotti. Invece, non appena sono riuscita a scollarmi di dosso il gatto e a guadagnare l'ingresso, a reggere un enorme piatto ricolmo di biscotti trovo Alice. «E tu che ci fai qui? E perché hai i miei biscotti?»
    «Ho incontrato la tua vicina mentre uscivo dall'ascensore, e mi ha chiesto se potevo risparmiarle le scale. Ho accettato perché sono sempre cortese verso le vecchiette, ma adesso pretendo di assaggiarne uno. Il profumo è buono.»
    «Ovvio che puoi averne uno» rispondo, scostandomi per lasciarla entrare. «Però mi dici che succede? Insomma, per venire fin qui a quest'ora...»
    «Fin qui, esagerata. Non ho attraversato Torino. Sono dieci minuti a piedi, lungo strade ben illuminate e molto frequentate. Non ho rischiato scippi né stupri» replica, facendosi strada fino alla cucina. «L'assideramento però sì, fa un freddo cane la sera.»
    «Dev'essere successo qualcosa di veramente grave, allora. Non affronteresti mai condizioni tanto avverse per una stupidaggine. In quel caso useresti il telefono.»
    «E va bene, mi hai scoperta» sbuffa, appoggiando i biscotti sul bancone e sfilandosi la sciarpa. «Dov'è Solo?» aggiunge dopo un istante, guardandosi attorno con aria preoccupata.
    «Ho commesso l'errore di fargli vedere un documentario a proposito del monte Everest. Ora si crede Edmund Hillary, e sta provando a scalare il divano» rispondo, facendo un cenno verso il salotto. «In quale modo ti avrei scoperta, comunque?»
    «C'è qualcosa di cui ti devo parlare.»
    «Ho capito, metto su qualcosa da bere con i biscotti. Basta una tisana o serve la cioccolata?»



*



Cedar Creek, 7 marzo 2014


    Salutare tutti è stato doloroso, ma nulla mi ha mai straziato tanto quanto stringere tra le braccia Jared, che nonostante gli occhi lucidi e l'espressione di uno che sta per mettersi a piangere è riuscito a mantenere la propria integrità, sapendo che se si fosse abbandonato all'emozione lo avrei fatto anch'io. Sono rimasto fermo all'ombra del salice, guardandoli andare via con la consapevolezza che questa separazione è necessaria, se voglio sperare di tornare in mezzo a loro come l'uomo che ero un tempo, e non come il ragazzino spaventato che sono in questo momento. Qualche minuto più tardi sono tornato dentro, rivolgendo un sorriso a Darlene, e una volta al sicuro nella mia nuova stanza ho tenuto impegnata la mente svuotando il borsone e sistemando ogni cosa al proprio posto, replicando i gesti compiuti anni fa, quando ho lasciato la casa della mamma per traslocare in un posto tutto mio.
    Ho trovato la mensa senza difficoltà, scoprendo con una certa sorpresa che anche il cibo è di ottima qualità, decisamente diverso da quello degli ospedali, e ho pranzato da solo, in un angolo, consapevole di avere addosso gli sguardi di tutti i presenti, non per la mia condizione di celebrità – dubito che qualcuno mi abbia già identificato – quanto per la mia estraneità all'ambiente, per la mia condizione di persona nuova all'interno di un gruppo già coeso.
    Pochi minuti prima delle due sono seduto di fronte alla porta dello studio del dottor Connors, in attesa di essere ricevuto. Durante la mia breve attesa non perdo l'occasione di guardarmi attorno, incontrando lo sguardo di almeno otto diversi dipendenti, che mi salutano con un sorriso e passano oltre senza commiserarmi, senza provare pena per me, come se fossi un semplice visitatore, e non un essere umano profondamente tormentato che annaspa e lotta contro la corrente senza trovare un appiglio. Alle due in punto la porta si apre, rivelando la figura del dottore. «Buongiorno, Shannon. Prego, venga dentro.» Si scosta per lasciarmi passare, e non appena varco la soglia richiude la porta. «Va tutto bene, per ora? Ha sistemato le sue cose? Ha pranzato?» aggiunge subito dopo, apprensivo come credevo potesse essere soltanto una madre.
    «Tutto a posto, grazie. So che non dovrebbe essere la prima cosa a colpirmi, ma la qualità del cibo è eccellente» rispondo, sedendomi sulla poltroncina che mi viene indicata con gesto educato.
    «Ne sono felice» replica. «Ho scelto io stesso il personale delle cucine e il menù. Spesso anch'io mangio qui, e mai e poi mai avrei accettato di mangiare la stessa roba che servono negli ospedali.» Si siede per un istante dietro la scrivania, finendo di compilare alcuni documenti: osservandolo, mi accorgo che è mancino. Subito dopo si alza, prendendo da un cassetto un mini-registratore dello stesso genere di quelli che si vedono nei film. «Come specificato nei moduli che ha firmato, e di cui provvederò a fornirle al più presto una copia, ogni nostro colloquio sarà registrato. Spero che questo non le crei problemi.»
    «Sono già stato in una sala d'incisione» riesco a scherzare, strappandogli una risata.
    «Sono contento di vederla così sereno, sa?» ribatte. «Bene, iniziamo.» Preme un tasto e appoggia il registratore sulla scrivania. «Shannon Leto, primo colloquio. Sette marzo 2014.» Fa il giro della scrivania e si siede sulla poltrona accanto alla mia, assumendo un atteggiamento rilassato, quasi non fosse un dottore, ma un amico pronto ad ascoltare ogni dubbio o preoccupazione. «Shannon, ora desidero che sia completamente sincero con me. Che cosa si aspetta dalla sua permanenza qui a Safe Heaven
    Mi prendo mezzo minuto per pensare ad una risposta sensata – la verità è che non so di preciso a quale traguardo mi traghetterà quest'esperienza, ma ho un bisogno spasmodico di credere che qualcosa accadrà, e che tra due settimane sarò in grado di sopravvivere alla vita. «Credo... mi aspetto di guarire, in un certo senso.» Lo vedo cambiare posizione sulla sedia, e mi affretto a correggermi. «So che probabilmente non è il termine più adatto da usare, ma... guarire è la sola parola che mi venga in mente per descrivere ciò che mi aspetto dalla mia permanenza qui.»
    Annuisce, congiungendo le mani davanti al volto e sfiorandosi il labbro inferiore con la punta degli indici. «E da cosa si aspetta di guarire, stando qui?»
    «Da me stesso» replico immediatamente, senza esitare.
    «Risposta interessante.»
    «Non sono mai stato bravo con la psicologia, ma se c'è una cosa che sono certo di aver capito è che il mio problema... sono io
    «Se la cosa può esserle di conforto, qui non si parla di psicologia, ma di onestà morale. Ammettendo di avere un problema dimostra una certa consapevolezza della sua situazione, ma accettando di essere parte del problema dimostra di essere onesto verso se stesso, e mi creda se le dico che questo è un grande passo avanti. Ma ora mi parli di lei. In fondo siamo due estranei, non ci conosciamo. Mi racconti qualcosa della sua vita.» Mi passo entrambe le mani sul volto, sospirando e chiedendomi da dove cominciare. «Parta pure dall'inizio, se le va. Mi piacciono le lunghe storie» aggiunge, forse comprendendo il mio smarrimento.
    «Beh, sono nato in Louisiana, a Bossier City. È un piccolo centro del nord. Quando venni al mondo, mia madre aveva soltanto diciassette anni.»
    «Avevo l'impressione che fosse molto giovane, in effetti» è il suo commento.
    «Quando i suoi genitori scoprirono che era incinta la cacciarono di casa» aggiungo, abbassando lo sguardo al pensiero di quegli anni lontani. «Si trasferì a casa del suo ragazzo... mio padre» mi correggo, rendendomi conto che in fondo è questa la giusta definizione, per quanto il suo contributo al mio sviluppo come essere umano non sia andato oltre quel punto. «Era soltanto una roulotte ai bordi di una palude, ma si amavano, e quando c'è l'amore tutto sembra migliore. Si arrangiavano entrambi con dei lavoretti saltuari, tiravano avanti, insomma. Non vivevano nel lusso, ma so che non mi hanno mai fatto mancare nulla. Si sposarono un paio di mesi prima che nascessi. L'anno seguente mia madre restò incinta di mio fratello, e poco dopo la sua nascita le cose tra loro... non lo so, lei non ne ha mai parlato apertamente. Non so per quale motivo sia finita, in realtà.»
    «Deve essere stato molto difficile per una ragazza così giovane tirare avanti con due bambini piccoli da crescere» osserva lui, estremamente concentrato sul mio racconto. «Cosa fece, tornò dai genitori?»
    Scuoto la testa, grattandomi distrattamente la guancia. «Per quanto ne so, dal momento in cui li lasciò, quando era incinta di me, non tornò mai indietro. È sempre stata una donna molto orgogliosa, non si sarebbe mai abbassata a tornare indietro. Tornare indietro a chiedere aiuto avrebbe significato inginocchiarsi ai loro piedi implorando perdono, e lei non sarebbe mai riuscita a guardarsi di nuovo allo specchio, se lo avesse fatto. Fece la scelta più coraggiosa che una donna possa fare: si rimboccò le maniche, si cercò un lavoro e una casa e si impegnò con tutta se stessa per darci la migliore vita possibile» aggiungo con un sorriso, ripensando ai tempi felici della mia infanzia, chiedendomi perché non si possa rimanere per sempre bambini, per sempre immersi in quello stato di grazia proprio dei primi anni di vita. «Alcuni suoi amici del liceo vivevano in una specie di comunità hippie nella periferia sud della città, perciò ci trasferimmo lì. Avevo soltanto due anni, non mi ricordo un granché, ma quando ne parla lei ha sempre un gran sorriso sul volto, il che mi fa pensare che ci trovassimo bene. Agli occhi del mondo erano soltanto un gruppo di spiantati che si lavavano poco e passavano le giornate fumando erba e suonando la chitarra attorno ad un falò, ma per lei sono stati una vera ancora di salvezza. Sono stati una famiglia, per lei, per me e per mio fratello. Almeno in quel primo periodo.»
    «Ci siete rimasti molto?»
    «Poco più di sei mesi, credo. Presto la mamma racimolò un po' di soldi facendo la cameriera in un ristorante di lusso. Al campo c'erano altre donne con bambini della nostra età. Ci affidava a loro e copriva quanti più turni possibile per guadagnare di più. Comprò un'auto da uno sfasciacarrozze, un vero rottame. Era una Gremlin rossa, con una striscia bianca sulle fiancate. Dio, mi ricorderò di quell'auto finché avrò vita. Apparteneva ad un tale che si era schiantato contro un palo del telefono, era tutta piena di bozzi e d'nverno era piena di spifferi, ma era carina. Un ragazzo del campo la rimise in sesto, e appena fu pronta prendemmo le nostre cose e lasciammo la città.»
    «Per dirigervi...» interviene, lasciando in sospeso la frase per consentirmi di continuarla.
    «Ovunque, e allo stesso tempo da nessuna parte. Non aveva un programma, o una destinazione da raggiungere. Aveva vent'anni» aggiungo, facendo spallucce, come se questo potesse spiegare ogni cosa. «Forse voleva cercare il posto adatto per costruirci una casa nostra, o forse aveva soltanto voglia di vedere il mondo. Quel che è certo è che andammo in un sacco di posti. Non ci fermavamo mai più di sei mesi, ma andava bene così. Era una gran lavoratrice, riusciva sempre a scovare i posti in cui pagavano di più.»
    «E quando lei era al lavoro, voi che cosa facevate?»
    «Ogni volta che arrivavamo in un posto nuovo, lei riusciva sempre a scovare la comunità hippie del posto. Erano gli anni settanta, ai margini di ogni città ce n'era un gruppo. Riusciva a fare amicizia facilmente, ma soprattutto è sempre stata brava a capire le persone. Ancora adesso è il tipo di donna che riesce a capire con una sola occhiata la vera natura di una persona, o se di lei ci si possa fidare. So che può sembrare che ci abbia esposto ad un sacco di pericoli, ma le assicuro che non mi sono mai sentito più al sicuro di quanto mi sentissi allora.»
    «Quindi si può dire che ha avuto un'infanzia felice.»
    «In generale, direi di sì. Beh, c'era il problema della scuola. Ogni volta che ci trasferivamo cambiava tutto: i compagni di classe, gli amici... essere il nuovo arrivato era sempre difficile, ma in qualche modo riuscivamo sempre a farci accettare, mio fratello ed io. E anche quando non riuscivamo a fare amicizia con gli altri bambini, avevamo sempre l'un l'altro.»
    «Capisco cosa vuol dire. Anch'io ho un fratello. So quanto sia importante avere accanto qualcuno sempre pronto a sostenerti.»
    «Jared è più giovane di me di un anno e mezzo, ma... è sempre stato il più forte, in un certo senso. Credo che ciò che gli difetta in età sia compensato dalla personalità.»
    Sorride, incrociando le braccia davanti al petto. «Sono curioso: quando è arrivata la musica?»
    «Non lo so» ammetto, scuotendo la testa. «Mia madre ha sempre detto che ero pieno d'energia, fin da piccolissimo. Già a tre anni rincretinivo tutti battendo sulle pentole con i mestoli e i cucchiai di legno che rubavo dalla cucina. Avevo dieci anni quando mi comprò la prima batteria. Era piccola, ma completa di tamburi e piatti. Ci battevo sopra giorno e notte, come se ne andasse della mia vita. Ma avevo iniziato a strimpellare la chitarra già da un paio d'anni. Gli amici di mia madre gliel'avevano regalata prima che lasciasse Bossier City. Credo che la conservi ancora. Non suona più come una volta, ma è comunque un ricordo.»
    «I ricordi sono una parte importante della nostra vita. Ci aiutano a tenerci ancorati alla realtà» asserisce, cambiando posizione sulla sedia. «E i primi problemi, invece, quando sono arrivati? Insomma, non mi illudo che sia stato un percorso privo di ostacoli.»
    «Poco prima che iniziassero le superiori» rispondo, sapendo che era soltanto questione di tempo prima che si arrivasse a questo discorso. «Avevo quasi quattordici anni, e avevamo trovato un posto in Mississippi. Non ce la cavavamo male, ma non mi piaceva. Non ero riuscito a legare con nessuno, Jared invece era riuscito a fare amicizia, si era integrato bene.»
    «Che cosa le ha impedito di trovare qualcuno con cui legare?»
    «Il fatto di avere quasi quattordici anni, suppongo» replico. «O forse... l'anno prima uno degli amici di mia madre l'aveva chiamata per dirle che mio padre era morto.»
    «Mi dispiace molto» sussurra lui, mostrando un sincero cordoglio.
    «Non ricordo nemmeno il suo viso» rispondo, cercando di fargli capire quanto poco tenessi a lui. «Credo che mia madre abbia qualche sua fotografia, ma... non è stato un gran padre.»
    «Come successe? Se le va di parlarne, naturalmente.»
    «Si infilò una pistola in bocca» ribatto, sorprendendolo per la mia schiettezza. «Mi scusi se non le indoro la pillola, ma è quello che è successo. Poco dopo il divorzio da mia madre si era risposato, e aveva avuto altri figli. Non li ho mai conosciuti, ma a mia discolpa posso dire che nemmeno loro si sono mai fatti avanti. Per quanto ne so, non sanno nemmeno della mia esistenza, o di quella di mio fratello.»
    «Com'è possibile? Insomma, considerando che siete diventati famosi, come... almeno il cognome o la provenienza avrebbero dovuto suscitare qualche sospetto, o una minima curiosità.»
    «Leto non è il cognome di mio padre. Dopo il divorzio la mamma cambiò legalmente il nostro cognome, dandoci il suo. E qualche anno più tardi anche lei si rifece una vita: conobbe un altro uomo, che decise di adottarci e darci il suo cognome. Anche il secondo matrimonio finì con il divorzio, ma restarono in buoni rapporti, e noi ci tenemmo il nome.»
    «Complicato, ma... adesso mi è tutto più chiaro. Dunque, siamo rimasti ai suoi tredici anni, e alla notizia della morte di suo padre. In quale modo questo evento influì su di lei?»
    «In un primo momento, non mi sconvolse più di tanto. In fondo, non lo conoscevo. Per me era morto da tempo. Ma credo... non lo so, forse inconsciamente mi turbò più di quanto osassi ammettere. Forse nel profondo avevo sperato che si pentisse della propria decisione e che tornasse da noi, non lo so. Quello di cui sono certo è che a quattordici anni il fatto di non avere un padre iniziò a pesare. Tutti gli altri ragazzi avevano un padre che li portasse a pesca o che andasse a vedere le loro partite di calcio, mentre io non avevo nessuno. Mi sembrava che gli altri mi guardassero in un modo strano, come se fossi un alieno.»
    «Ma poco fa ha detto che suo fratello non ebbe problemi a farsi amici, quando eravate nel Mississippi. Questo come se lo spiega?»
    «Differenti personalità» replico. «Lui è sempre stato un tipo più estroverso, più... espansivo. Se è stato ad uno dei nostri concerti o ha visto qualche intervista, dovrebbe esserci arrivato da solo» ammicco.
    Soffoca una risatina. «Ero a San Diego, l'anno scorso» ammette. «Credo di aver capito di che cosa stiamo parlando.»
    «Io ho sempre avuto maggiori difficoltà ad aprirmi. Forse adesso risulterà difficile da credere, ma trent'anni fa non ero così. Dicevo sì e no una trentina di parole al giorno, e a quattordici anni, se non sai comunicare, non ti puoi fare degli amici.»
    «La capisco più di quanto creda» sorride. «A quattordici anni anch'io ero un tipo silenzioso. La lingua mi si è sciolta al college, ma credo che il merito sia da attribuire alla birra, più che alla mia forza di volontà.» Rimaniamo in silenzio per un secondo, poi riprende: «Che genere di problemi ci furono?»
    «Risse con i compagni di scuola, soprattutto. Fui sospeso per aver picchiato un ragazzo più grande che si faceva beffe della mia statura. E poi iniziai a non andarci più, a scuola. Per un paio di settimane funzionò, anche perché convinsi mio fratello a reggermi il gioco. Solo che poi la preside chiamò mia madre, e ci restai fregato.»
    «Che successe, a quel punto?»
    «Mi misi seduto con mia madre a parlare di ciò che mi turbava. Credo sia stata il miglior psicologo con cui abbia mai parlato» aggiungo con un sorriso. «Con tutto il rispetto per lei, naturalmente.»
    «Non si preoccupi, sopporto bene le critiche» replica. «Trovaste una soluzione?»
    «Optammo per la decisione più semplice: caricammo tutte le nostre cose sulla Gremlin e ripartimmo. Alla fine, si rivelò anche come la scelta più giusta. Vagammo ancora per un po', e quando avevo diciassette anni arrivammo un Virginia.»
    «Un bel viaggio, dalla Louisiana.»
    «La Virginia è il posto in cui siamo rimasti più a lungo, escludendo Los Angeles. Ci sistemammo nei dintorni di Richmond, mamma trovò un lavoro in un negozio di dischi e riuscì a farci iscrivere nella migliore scuola della città.»
    «Ma poi i problemi tornarono, vero? Glielo leggo negli occhi.»
    «Diciamo che le liti con i compagni di scuola nel Mississippi non sono state il punto più basso della mia vita. Ci sono state cose peggiori.» Faccio una breve pausa, durante la quale il dottore sceglie di non interrompermi. «In realtà andò bene, per un po'. Anzi, per molto, considerando i miei precedenti. A diciotto anni conobbi una ragazza, Christine. Era un anno indietro, studiava nella stessa classe di mio fratello.»
    «Era la prima ragazza che destava il suo interesse?»
    «Era la prima che avessi avuto abbastanza tempo per osservare. In tutti i posti in cui eravamo stati prima ero stato troppo occupato a cacciarmi nei guai per darmi il tempo di guardarmi intorno. Era carina. Non la ragazza più bella del mondo, ma... carina. E poi aveva un'aria... non lo so, normale. Viveva con i suoi genitori e una sorella più piccola in una villetta in periferia. Suo padre era portoricano, quindi sapeva che cosa vuol dire faticare per sentirsi accettati dalla comunità. Era brava a scuola, cantava nel coro della chiesa, faceva volontariato alla mensa dei poveri...»
    «L'ultima brava ragazza, quindi» osserva lui.
    «Nella mia mente, Christine rappresentava qualcosa che non avevo mai conosciuto, e che fino a quel momento non avevo mai sospettato di volere. Mi piaceva come avevamo vissuto fino a quel momento, il fatto di poter prendere e andare via ogni volta che qualcosa non girava come dovuto, ma quando incontrai Christine...»
    «...iniziò a desiderare qualcosa di diverso» conclude il dottore, dando voce a pensieri che io non sarei mai stato in grado di esprimere così bene. «Come si comportò con lei?»
    «Come avrebbe fatto qualunque altro ragazzo di diciotto anni» rispondo, facendo spallucce. «Ci provai, e lei mi respinse. Ci provai ancora una volta, e ancora una volta non funzionò. Forse chiunque altro si sarebbe scoraggiato e avrebbe lasciato perdere, ma non io. Ero determinato a strapparle un appuntamento, e non mi sarei arreso per tutto l'oro del mondo.»
    «Beh, dicono che la fortuna aiuti gli audaci. Fu uno di quei casi?»
    «Sì e no. Mi ci vollero un paio di mesi e qualche buona parola da parte di mio fratello. Vede, il fatto era che la scuola aveva ricevuto la documentazione riguardante tutti i nostri soggiorni precedenti, e in qualche modo si era sparsa la voce che fossi un cattivo soggetto. Le brave ragazze non si avvicinavano a nessuno, meno che mai ad uno come me. E Christine era una che puntava in alto. Il suo sogno più grande era studiare legge a Yale, perciò...»
    «...era una di quelle che si tenevano alla larga.»
    «Non per molto, comunque. Scoprii di piacerle, ma che il timore e la timidezza la tenevano lontana da me. Fortunamente, mio fratello è sempre stato un tipo molto diplomatico, uno che avrebbe avuto una carriera assicurata come ambasciatore. La convinse ad accettare di accompagnarmi ad una festa, e lì... beh, per usare un'espressione poetica, fu lì che accadde la magia. Scoprì che non ero il criminale che tutti credevano, che sapevo anche essere simpatico, accomodante, forse addirittura dolce. E poi avevamo un sacco di interessi in comune, come la musica. Di certo non saremmo mai stati a corto di argomenti.»
    «La classica storia d'amore che molti ragazzi sognano» è il suo commento. «Ma ad un certo punto Christine lasciò la scena. Come accadde? Successe qualcosa?»
    «Durò qualche mese, dall'autunno fino alla tarda primavera. Per molto tempo considerai quel periodo come il momento più bello della mia vita. In primavera decisi di mollare la scuola, nonostante mancasse poco al diploma. Non avevo buoni voti, sapevo che un pezzo di carta non mi avrebbe aiutato a trovarmi un lavoro migliore di quelli che avrei potuto trovare senza. Iniziai a lavorare presso un'officina meccanica, e fu allora che mi venne la passione per le motociclette.» Faccio una pausa, mentre lo osservo alzarsi per sgranchirsi le gambe. «Christine cercò in ogni modo di farmi cambiare idea, convinta com'era che avrei potuto fare grandi cose, se soltanto mi fossi impegnato. Iniziai a detestare il suo atteggiamento, quelle sue continue insistenze... mi sentivo come se stesse cercando di cambiarmi, di mutare la mia personalità, e questo non mi stava bene. Insomma, sapevo che anche mia madre e mio fratello non condividevano la mia scelta, ma mi conoscevano abbastanza da sapere che ogni protesta avrebbe rischiato di spezzare per sempre il nostro legame. Non condividevano la mia scelta, ma mi hanno sempre sostenuto, perché sapevano che il loro supporto era la sola cosa che davvero contasse per me.»
    «Non le venne in mente che forse Christine si comportava così soltanto perché teneva davvero a lei, perché voleva per lei unicamente il meglio?» osserva il dottore, tornando a sedersi.
    «Adesso so che se insisteva tanto era soltanto perché mi amava e non voleva che buttassi la mia vita» replico, calcando l'accento sulla prima parola. «Ma allora ero convinto che volesse cambiarmi, che stesse cercando di manipolarmi per avvicinarmi all'ideale romantico di ragazzo perfetto che aveva sempre sognato. In qualche modo ci trascinammo avanti per l'intera estate, e poco prima che ricominciasse la scuola mi piantò.»
    «Sul serio? Fu lei a dire basta? Non successe il contrario?»
    «Io sono come gli irlandesi. Non metterei mai fine ad una cosa sbagliata» sorrido. «No, non fui io a lasciar perdere, ma lei. Per riuscire a scaricarmi mi raccontò un sacco di bugie: disse che voleva concentrarsi sullo studio, che doveva avere la mente libera per concentrarsi sui propri obiettivi, e cose del genere.»
    «Come sa che erano bugie?»
    «Perché me lo ha detto lei» replico. «L'ho rivista, dopo più di vent'anni, e mi ha confessato ogni cosa. Abbiamo parlato a lungo, e mi ha spiegato che non mi vedeva felice, e sapeva di essere la causa del mio disagio, almeno in parte. Per questo mi aveva lasciato, per evitare che diventassimo due estranei astiosi che si accusano a vicenda di essersi rovinati la vita.» Mi fermo di nuovo per qualche istante, mentre tutte le sgradevoli sensazioni di quei giorni lontani tornano a galla, per molto tempo celate agli occhi, ma mai davvero dimenticate. «Per qualche mese riuscii a cavarmela, a tirare avanti nonostante il cuore spezzato, poi Richmond iniziò a starmi stretta. In ogni angolo rivedevo qualcosa di noi, qualche misero dettaglio che riportava alla mente il mio fallimento. Richmond iniziò a farmi star male, così com'era già successo con il Mississippi. Dissi ai miei che avevo bisogno di cambiare aria per qualche tempo, per schiarirmi le idee e vederci più chiaro riguardo al mio futuro. Mamma sarebbe stata disposta a prendere tutto e cambiare di nuovo città, ma la pregai di restare. Si era sistemata bene, aveva accanto un uomo che la amava e un lavoro che la rendeva felice... per la prima volta dopo molto tempo la vedevo realizzata, davvero serena, e non mi sarei mai perdonato se avesse dovuto rinunciare a tutto per seguire i miei capricci. In fondo avevo diciotto anni, ero sulla strada per diventare un adulto. E non potevo nemmeno costringere Jared a partire: lui a Richmond si trovava bene, aveva ottimi voti e splendide prospettive per il futuro. Per la prima volta nella vita aveva iniziato a fare dei progetti seri per il futuro, aveva dei grandi sogni da realizzare... se qualcuno doveva portargli via tutto, quel qualcuno doveva essere la realtà, non suo fratello. Così, caricai tutte le mie cose sulla Gremlin e partii. Come quando ero bambino, andai ovunque e in nessun luogo. Trovavo lavoretti che mi tenevano impegnato per qualche mese, e quando me ne stancavo partivo e cambiavo città. Per tre o quattro anni andò tutto bene. Mi sistemai in Tennessee, nei dintorni di Memphis, convinto di aver seminato i miei vecchi guai» sospiro, passandomi una mano suglio occhi come a cancellare la vergogna di quello che seguì.
    «Ma come sempre, quando i vecchi guai tolgono il disturbo ne arrivano di nuovi, vero?»
    «Compresi quanto fossi incapace di scegliermi gli amici, o anche solo di capire le persone» rispondo. «In tutti i luoghi in cui sono stato, mai una volta mi è capitato di fare amicizia con qualcuno che fosse meno incasinato di me. Riuscivo sempre a scovare le persone più sbagliate con cui legare. Mi vergogno di molte delle cose fatte in quel periodo.»
    «Spero che la cosa non le dispiaccia, ma ho fatto qualche ricerca su di lei, in previsione del suo arrivo qui da noi» commenta, allungando un braccio verso la scrivania per prendere alcuni documenti. «Si parla di un paio di arresti e multe per rissa e guida in stato d'ebbrezza. E poi c'è un fascicolo del Memphis Memorial Hospital, in cui si parla di un ricovero per...» Si interrompe, quasi temesse di mettermi in imbarazzo leggendo la diagnosi.
    «Abuso di sostanze stupefacenti» concludo. «Non si faccia problemi a dire le cose come stanno, dottore. Cercava il punto più basso della mia vita? Lo ha trovato» aggiungo, abbassando la testa. «Non saprei nemmeno dire quante e quali schifezze avessi preso, se non mi avessero fatto un esame tossicologico. Rimasi in coma per quattro giorni.»
    «Ma poi si è rialzato» mi fa notare lui. «Come può un ragazzo che si è completamente perso risalire l'abisso e raggiungere la vetta?»
    Ci scambiamo un lungo sguardo, e quando finalmente trovo una risposta sento un sorriso sincero illuminare il mio viso. «Jared.»



1Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone La notte della cantante italiana Arisa, contenuta nell'album Amami (2012).

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Capitolo 3
*** 3 | Alla fine, quando la vita ti ha buttato giù, qui hai qualcuno che puoi stringere tra le braccia. ***


La lunga strada verso casa - 1
Il piano originario prevedeva che pubblicassi nuovi capitoli ogni cinque giorni, e in effetti il secondo capitolo è arrivato esattamente cinque giorni dopo il primo. Solo che poi mi sono fatta due conti, e ho notato che, pubblicando il terzo cinque giorni dopo il secondo, avrei mancato di due giorni il compleanno del nostro batterista preferito – ergo, ho deciso di posticipare la pubblicazione di due giorni, rendendo questo terzo capitolo una sorta di “regalo di compleanno” per Shannon. Ora, mi rendo conto che probabilmente Shannon non finirà mai su EFP, nemmeno per sbaglio (su Jared non ci conterei, per me è una fangirl nata XD), ma questo è il solo modo che conosca per omaggiarlo (o offenderlo, viste le disgrazie che invento sulla sua vita). Ergo, tutta questa pappardella serve unicamente a spiegarvi i motivi della dedica speciale che ho aggiunto più in basso.
Auguri tardivi di una buona festa della donna, e come al solito in bocca al lupo per la lettura!
Un abbraccio,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Dedico questo capitolo ad un uomo che si è perso e ritrovato

sulle colline arse dal fuoco, in una terra dalle mille luci.

Buon compleanno, Shannon.






Capitolo terzo
Alla fine, quando la vita ti ha buttato giù,
qui hai qualcuno che puoi stringere tra le braccia.1



Torino, 7 marzo 2014


    «Sentiamo, allora. Cos'è che dovresti dirmi?» Se per qualche minuto, distratta dallo scambio di battute, era riuscita a distrarsi, adesso Alice si sente ripiombare sulle spalle tutto il peso della sincerità che ha finalmente deciso di dimostrare. Ha sempre condiviso l'ideale di Jared, come lui ha sempre creduto che la verità vada condivisa, svelata, gridata ai quattro venti... eppure, adesso che le tocca davvero farlo, adesso che è la sua bocca a doversi rendere tramite del vero, adesso che è il suo culo ad essere in gioco, non si sente pronta ad affrontarne le conseguenze. E non è tanto perché dovrà confessare di aver mentito, quanto perché con Daria non si sa mai come andrà a finire: la ragione e l'esperienza la portano facilmente a supporre che alla sua confessione seguirà una sfuriata di proporzioni elefantiache, uno sfogo mai visto prima, eppure allo stesso tempo qualcosa le dice che potrebbe anche non andare così, che la verità potrebbe anche avvicinarle, renderle più amiche di quanto già non siano, per quanto sembri impossibile che un legame come il loro possa stringersi ancora di più – in fondo entrambe sono cresciute in questi ultimi tempi, sono cambiate. Questo Alice lo sa, lo vede ogni giorno di più: in fondo, Daria avrebbe mai preso la decisione di partire, se qualcosa nel suo cuore non fosse mutato? Questo Alice deve crederlo, altrimenti non riuscirà a dire una sola delle mille parole che ha preparato in attesa del proprio incerto destino.



*



Cedar Creek, 7 marzo 2014


    «Jared saltò in auto e corse a Memphis senza perdere tempo, quasi si fosse trattato della sua vita, anziché della mia. Disse a mamma di restare a casa in attesa di notizie e corse da me immediatamente» sussurro, sfregandomi lentamente la fronte con il palmo della mano. «Lui è sempre stato una persona buona, una di quelle persone pronte a sacrificare ogni cosa per il bene di un amico o di una persona cara. Io non sono mai stato così. Non so se sarei mai riuscito a comportarmi come lui, a prendere una macchina e guidare per miglia e miglia per... per un dannato drogato immobile in un letto d'ospedale» concludo, rilassando la schiena contro lo schienale della poltrona, quasi stremato da questa lunghissima mezz'ora di confessioni personali e private.
    «Probabilmente suonerà azzardato da parte mia, ma... credo che Jared vedesse in lei principalmente un fratello» risponde il dottore, guardandomi ancora come se non riuscisse bene ad inquadrare la mia personalità. «L'amore per un fratello riuscirebbe a smuovere le montagne.»
    «Non lo meritavo» replico. «Avevo sbagliato, e ne stavo pagando le conseguenze. Non meritavo di essere amato da Jared al punto di chiedergli un simile sacrificio.»
    «Beh, tecnicamente non è stato lei a chiedere il suo aiuto. È stato Jared ad offrirglielo.»
    «Mi perdoni, ma io non riesco proprio a vederla in questo modo. Forse non sono stato io a chiamarlo al telefono per dirgli di correre in Tennessee a recuperare il fratello moribondo, ma è come se lo avessi fatto. Se io fossi stato in grado di cavarmela da solo, non mi sarei ritrovato a rischiare la pelle, e lui non avrebbe mai dovuto spingersi a tanto.»
    «Ha usato la parola 'sacrificio'. Che cosa intende? Suo fratello dovette rinunciare a qualcosa di importante?»
    Mi passo distrattamente una mano tra i capelli, sospirando. «A quei tempi frequentava una scuola d'arte molto importante a New York. Voleva diventare un pittore, all'epoca. I suoi insegnanti erano entusiasti di lui. Io non ci ho mai capito molto, a dire il vero, ma che mio fratello fosse un ragazzo pieno di talento era noto a tutti. Comunque, a quei tempi stava per diplomarsi, ma rinunciò a sostenere l'esame finale per correre da me, pur sapendo che non avrebbe potuto ripeterlo prima di sei mesi. Ha letteralmente buttato nel cesso tre anni di lavoro per correre a salvarmi, e di questo non l'ho mai ringraziato abbastanza.»
    «Un gesto molto nobile, c'è poco da dire. Se posso essere brutale... le chiese mai nulla in cambio?»
    «Nulla. Sono passati vent'anni, e mai una volta mi ha rinfacciato quella faccenda. Fu un gesto sincero, dettato dal cuore, così tipico di lui... a costo di ripetermi, lui è una persona estremamente buona. Non farebbe mai una buona azione per ottenerne qualcosa in cambio.»
    «La persona che ciascuno di noi vorrebbe accanto» sorride il dottore. «Che cosa successe, dopo? Quando uscì dal coma?»
    «Rimasi in ospedale per un paio di giorni, poi Jared insistette per riportarmi a Richmond. Prendemmo le mie cose, le caricammo sulla sua auto e tornammo in Virginia. Per tutto il viaggio di ritorno non disse una parola. Per molti anni quello fu il momento più buio della mia vita. Temevo che mi odiasse, e che non volesse mai più avere a che fare con me. Credevo che mi avrebbe mollato a casa di nostra madre e che se ne andasse via, lontano, per non tornare mai più.»
    «Ma vent'anni dopo siete ancora insieme.»
    «Jared è stato il miglior fratello del mondo, una di quelle persone che bisognerebbe sempre avere accanto. Quando tornammo a Richmond ci sistemammo a casa di mamma, ed ebbero inizio due settimane a dir poco infernali.» Colgo la sua espressione dubbiosa e comprendo di dover spiegare meglio. «Quando ebbi il collasso e finii in ospedale, non era la prima volta che mi facevo. Era una cosa che andava avanti già da qualche mese. Soprattutto metanfetamine, più di rado cocaina. I medici erano riusciti a tirarmi via dal sangue la maggior parte della merda che avevo mandato giù, ma... insomma, lei lo saprà, con il lavoro che fa, no? Non basta pulirti il sangue per liberarti il corpo.»
    «La disintossicazione fu difficile?»
    «Non tanto quanto credevo. Ma soltanto perché avevo con me mia madre e mio fratello, altrimenti dubito che ci sarei riuscito. Mandarono a monte tutti i loro impegni e le loro vite per aiutarmi a salvare la mia. Devo loro molto. Senza il loro aiuto, non so proprio dove sarei. Probabilmente non sarei arrivato ai trent'anni. Mi hanno salvato la vita.»
Lo vedo annuire, cambiando posizione sulla sedia. «Molto bene. Sono felice che abbia acconsentito a parlarmi di sé con tanta dovizia di particolari. Mi fa pensare che lei si fidi di me, e che abbia davvero voglia di farsi aiutare, il che, in un certo senso, dovrebbe rendere il mio lavoro molto più semplice» aggiunge con un sorriso. «Se per lei va bene, vorrei interrompere qui la seduta, e rivederla domani alla stessa ora.»
Annuisco, rendendomi conto di quanto sia in effetti stremato, dopo tutto ciò che ho rivelato al dottore. Mai come in questo momento mi rendo conto che persino un'attività semplice come parlare possa essere in effetti la più grande fatica del mondo. «Per me va bene.»
    «Perfetto» osserva, alzandosi per spegnere il registratore, che avevo addirittura dimenticato, preso com'ero dal racconto della mia vita. «Per questo pomeriggio non le ho fissato alcuna attività. In fondo è il suo primo giorno qui, e per quanto sia un fermo sostenitore del duro lavoro, proprio non me la sento di metterla sotto pressione già da subito. Vorrei che mi facesse un favore, però: usi il pomeriggio di oggi e la mattina di domani per darsi un'occhiata in giro, familiarizzare con l'ambiente. Se ci riesce, faccia amicizia con qualcuno degli altri ospiti, o almeno provi a stabilire un contatto. Che ci creda o no, qui al Safe Heaven ci sono persone con problemi simili ai suoi, con una storia che ha molti punti di contatto con il suo passato. So che può sembrare orribile, ma se ci riesce, provi a parlare con un'altra persona nello stesso modo in cui ha parlato con me. O se non vuole parlare, provi ad ascoltare. Qui crediamo fermamente che la condivisione sia importante, che l'ascolto sia fondamentale. Non le sto dicendo che risolverà tutti i suoi problemi semplicemente ascoltando i guai altrui» riprende dopo un attimo di silenzio, forse notando la mia espressione poco convinta. «Sto dicendo che nei problemi degli altri potrebbe trovare qualche suggerimento per risolvere i propri.»
    «Ci proverò» annuisco, alzandomi dalla poltroncina. «Grazie, dottor Connors» lo saluto, stringendogli la mano.
    «Grazie a lei, Shannon.»



*



Torino, 7 marzo 2014


    «Allora, mi dici che è successo o ti devo tirar fuori le parole con le pinze?» chiedo, stupita dall'improvvisa reticenza di Alice, che di solito bisogna pregare di tacere. «Sembra quasi che tu mi debba rivelare il terzo segreto di Fatima» aggiungo, buttando un occhio verso il divano soltanto per scoprire che, nel tentativo di scalarne la spalliera, il gatto è rotolato sul pavimento.
    «Più o meno» mormora lei, aggiungendo un paio di cucchiaini di zucchero al contenuto della tazza. «Circa un mese e mezzo fa ho fatto una cosa che... beh, che forse non avrei dovuto fare.»
    «Del tipo sbranarti un'intera vaschetta di gelato da sola, o...»
    «Tipo contattare una persona che non avrei dovuto chiamare.» Aggrotto la fronte, inzuppando un biscotto nella cioccolata, aspettando che Alice si decida a continuare. «Un paio di giorni dopo essermi lasciata con Federico, ho... ho rovistato nella tua scatola e ho trovato l'indirizzo e-mail di Emma. L-la... la Emma dei... dei Mars, insomma.» Rimango impietrita, un braccio bloccato a mezz'aria nell'intento di mordere il biscotto. Apro e chiudo la bocca un paio di volte, incapace di trovare parole adatte per esprimermi – incapace, in realtà, di trovare un concetto da esprimere. «Lo so, non avrei dovuto impicciarmi nei tuoi affari, ma... avevi appena iniziato ad uscire con Marco, e io ero convintissima che non avresti... le ho scritto che Shannon ti mancava, che lo amavi ancora e che nel profondo del cuore ti stavi pentendo di averlo lasciato.»
    Quasi senza accorgermene, le dita si aprono e lasciano cadere il biscotto nella tazza. «Tu hai scritto ad Emma Ludbrook per dirle che io sono ancora innamorata di Shannon? Almeno dimmi che non ti ha risposto, ti prego. Ti prego, ti prego, dimmi che...»
    «Mi ha risposto» replica lei, facendo spallucce. «Chiedendomi il numero di cellulare.»
    Ringrazio il cielo di non aver mangiato quel biscotto, altrimenti a questa ennesima confessione mi starei sicuramente strozzando. «Emma ti ha chiamata al telefono?»
    «Ma no, figurati, che vai a pensare...» sorride lei, cercando di tranquillizzarmi. «Lo ha fatto Jared.»
    Il «Cosa?» che esce dalle mie labbra è così potente da spaventare persino un tipetto indomito come Solo, che attraversa di corsa il salotto e va a nascondersi nella propria cuccetta accanto al termosifone. «Alice, per favore, non prendermi in giro.»
    «Non ti prendo in giro, Daria. A voler essere sincera, ti ho già presa in giro a sufficienza.»
    «Che vuoi dire?»
    «Voglio dire che... che da poco più di un mese scambio telefonate abbastanza regolari con... beh, con Jared. Jared Leto, il tuo... ex cognato.»
    Mi copro gli occhi con una mano, indecisa su come sentirmi. Da un lato mi sento ferita dal fatto che Alice abbia deciso di non coinvolgermi in questa storia, ma dall'altro sento quasi di meritarmelo, visto quanto sono stata rompiscatole e intrattabile in questi ultimi mesi. «Ma... ma di che cavolo parlate, scusa?» domando all'improvviso, sorpresa quanto lei che questo sia davvero il primo problema che mi sia venuto in mente di esternare.
    «Devo essere sincera? Di te e Shannon, principalmente. Non abbiamo una conversazione molto ricca. Più che altro, facciamo piani per provare a farvi rimettere insieme.»
    «Sembra di stare in una commedia americana» sospiro. «La mia migliore amica e il fratello dell'unico uomo che abbia mai veramente amato si alleano per riportare la pace... sai come finisce di solito quel genere di film?» la prendo in giro.
    «A me non accadrà, non ti preoccupare» replica lei. «Siamo troppo focalizzati su voi due per lasciarci distrarre» aggiunge con un sorriso. «Ma c'è anche un'altra cosa che è giusto farti sapere, anche se... beh, non sono certa che la prenderai molto bene.»
    «Beh, se le premesse sono queste...»
    Osservo Alice prendere fiato e subito dopo cambiare idea, come se dire la verità non sembrasse più un'idea così vincente. «So che probabilmente in questo modo ti farò preoccupare ancora di più, ma... promettimi che non ti arrabbierai con me.» Sospiro, chiudendo gli occhi per un istante. «Lo so, non mi puoi perdonare a priori se non sai quello che ho fatto, ma... andiamo, ci conosciamo da così tanto tempo che... beh, un po' di fiducia sento di meritarmela. E poi in questo caso non ho fatto nulla di male, sono solo una semplice e innocente ambasciatrice.»
    «E va bene, allora sentiamo di che si tratta» mi arrendo, comprendendo quanto sia importante per lei sentirsi al sicuro prima di procedere.
    «Shannon è venuto a Torino per riconquistarti» sputa fuori all'improvviso. «Alla fine di gennaio. Jared gli aveva regalato un biglietto aperto per venire qui in ogni momento, e lui... beh, ci è venuto. Solo che si è appostato sotto casa tua e... beh, ha avuto la pessima idea di scegliere una sera in cui tu eri a cena con Marco.»
    «Io non... non sono certa di aver afferrato. Vorresti gentilmente ripetere quello che hai appena detto?» Le parole escono fuori lentamente, scandite sillaba per sillaba, quasi fossi una bambina che sta imparando a parlare soltanto ora.
    Alice lascia perdere i biscotti, alzando lo sguardo con aria incredibilmente seria, sapendo che non sto fingendo lo smarrimento che vede nei miei occhi. «Alla fine di gennaio, Shannon ha preso un aereo ed è corso da te. Secondo Jared, lui... lui non ha smesso di amarti nemmeno per un secondo, anche... anche se è rimasto ferito a morte.»
    «Ha preso un aereo ed è venuto qui?» ripeto, sull'orlo delle lacrime. Lei annuisce, senza aggiungere altro. «Da quanto tempo lo sai, Alice?»
    «Da quando è successo» confessa. «Non sapevo come dirtelo. Quando è successo tu non... non volevi nemmeno sentir parlare di Shannon, e poi c'era di mezzo Marco, e... e tua madre, e tuo fratello. Se avessi aggiunto anche questo, non... non so se saresti sopravvissuta.» Distolgo lo sguardo, sentendo gli occhi farsi caldi e brucianti. Sono arrabbiata e mi sento ferita, ma non a causa delle omissioni di Alice: a farmi male è la consapevolezza che tutto questo dolore e questa solitudine sarebbero potuti finire più di un mese fa, se soltanto non mi fossi intestardita nel voler portare avanti la relazione con Marco. Se quella sera fossi stata sola, invece di andarsene Shannon avrebbe suonato il mio campanello, gli avrei chiesto scusa, ci saremmo perdonati e sarebbe tornato tutto come prima. Ma è inutile, non posso ignorare che quella sera Shannon mi abbia beccata con un altro, e soprattutto non posso raccontarmi bugie: questo potrebbe rendere la nostra riconciliazione molto difficile. «A che pensi? Non stai pensando di uccidermi, vero?»
    «No, non sto pensando di ucciderti» replico con un breve sorriso. «Certo, mi avrebbe fatto piacere sapere tutto questo prima, ma è inutile piangere sul latte versato. E poi forse me lo merito, visti tutti i casini che sono nati per colpa mia...» Prendo un respiro profondo e rimesto nella tazza alla ricerca del biscotto affogato durante la confessione di Alice. «Stavo solo pensando a... a come potrò presentarmi davanti a lui chiedendo perdono. Insomma, con che faccia mi posso presentare ad uno che per vedermi ha attraversato mezzo mondo e... e mi ha trovata con un altro?»
    «Se la cosa può farti sentire meglio, anche Shannon ha avuto una storia, dopo essere stato qui. Me ne ha parlato Jared. Ha detto che si conoscevano da tempo, che erano già stati insieme, e che hanno voluto riprovarci.»
    «Come si chiama lei?» domando, i battiti accelerati in attesa di scoprire la verità.
    «Christine, mi pare. Ma non è durata molto, un paio di settimane e poi lui l'ha lasciata. Stai bene? Come mai quella faccia?»
    «Shannon è stato di nuovo con Christine?» sussurro, quasi incredula. «Christine è... è la sua ex storica, Alice. È la donna che ha dato il nome alla sua batteria» spiego. «Ci credo che ha di nuovo voluto uscirci. È stata la sua prima storia importante.»
    «Sì... e dopo due settimane l'ha mollata» puntualizza Alice, calcando su ogni parola come se stesse cercando di farmi capire qualcosa. «Quello che intendo è che l'ha mollata per te» aggiunge dopo un istante di silenzio, forse comprendendo che non ci arriverei mai da sola.
    «E tu come fai a dirlo, scusa?»
    «Quale parte di telefonate regolari con Jared non ti è chiara?» mi rimbecca, allargando le braccia. «Me l'ha detto lui, e per quanto possa sembrare strano, in questo caso funge davvero da fonte autorevole» aggiunge, mimando un paio di virgolette con le dita. «Jared lo conosce abbastanza da saper interpretare certi suoi comportamenti o decisioni... che poi non c'era molto da interpretare, in realtà. Insomma, sembra che Shannon abbia detto chiaro e tondo che...»
    «Che?»
    «Che non riesce a toglierti dalla mente, scema» ribatte lei. «Che non importa quanto ci provi, continui a essere presente e a impedirgli di... andare avanti
    «Forse non dovremmo essere così ottimiste» rispondo. «Insomma, potrebbe anche odiarmi per questo.»
    «Sì, è possibile... ma io ci credo poco. Insomma, sarà che ho sempre avuto una visione romantica delle cose, ma...»
    «Tu non hai mai avuto una visione romantica delle cose» la correggo.
    «Beh, non quando riguardano me. Ma se riguardano gli altri, sono molto più propensa a credere nel lieto fine. Soprattutto in casi come questo. Se ve la giocate bene, avete parecchie possibilità di vivere felici e contenti.»
    «Sarà, ma continuo a non esserne convinta» sorrido, restando ferma a guardarla mentre si ingozza di biscotti e tenta di rassicurarmi. «Continuo a pensare che qualcosa andrà storto e tornerò a casa con la coda tra le gambe.»
    «Certo, ammetto che gli eventi non sono proprio favorevoli... ah, te l'ho detto che è stato arrestato?»
    Per la seconda volta, la sorpresa mi fa perdere la presa sul biscotto. «Scusa?»
    «Un paio di giorni fa Shannon si è fatto un pio di birre di troppo e si è messo in macchina. La polizia lo ha beccato e si è fatto una notte dentro. Il giorno dopo Jared ha pagato la cauzione e la cosa è finita lì. Io ho letto la notizia su internet, ma per i dettagli ho dovuto chiamare lui.»
    «Come diavolo è potuto succedere?»
    «Immagino che si sia seduto al bancone di un bar e abbia scambiato verdi banconote fruscianti con bevande alcoliche. Di solito funziona così, quando ti vuoi ubriacare.» Le lancio un'occhiata decisamente obliqua, e lei fa spallucce. «Se ti riferisci ai motivi che potrebbero averlo spinto a comportarsi così... beh, anche se così dicendo potrei ferirti, azzarderei che il motivo sei tu.» Nascondo il viso tra le mani, indecisa tra il prendermi a schiaffi o il farmi prendere a calci nel sedere. «Ma se sei in cerca di un vero motivo per deprimerti, ho una notizia ancora più brutta. Beh, brutta è relativo. Secondo Shannon è una grande idea.»
    «Non sono in vena di giocare agli indovinelli, Alice» sospiro, senza scoprirmi il volto.
    «Si è chiuso in una specie di clinica riabilitativa. Progetta di starci per un paio di settimane.»
    «Scusa?» esclamo, tornando a guardarla, completamente sconvolta.
    «Io cercherei di vederla in maniera positiva» continua lei, senza badare a me. «Riconosce di avere un problema e sta cercando di risolverlo.»
    «Una... una clinica? Tipo un centro di disintossicazione? Uno di quei posti in cui mandano gente come... come...»
    «Alcolisti e drogati? Esattamente. Si è ricoverato stamattina.»
    «No» sospiro, scuotendo la testa e alzandomi. «No, no, no, non può fare una cosa del genere. Shannon non è un... non è...»
    «Daria, posso capire che questa notizia ti sconvolga» mi interrompe lei, recuperando un minimo di serietà. «Non mi stupirei nemmeno se dicessi che sei spaventata. Nemmeno a me piace l'idea che si sia dovuto isolare dal mondo per evitare di combinare un disastro, e se ti interessa nemmeno Jared ne era entusiasta, ma devi cercare di vedere il lato positivo della cosa.»
    «L'uomo che amo si è messo a bere per colpa mia, Alice!» sbotto, attraversando il salotto per liberare Solo dal groviglio delle tende. «Quale dovrebbe essere il lato positivo? Che non si sia ancora ammazzato?» La guardo abbassare lo sguardo, e comprendo di aver esagerato, ma sono ancora troppo sconvolta per pensare di chiederle scusa o abbassare i toni. «Posso passare sopra il fatto che ti sia nominata paladina della giustizia e abbia contattato Emma, posso sopportare che parli della mia vita privata con Jared, ma non puoi venirmi a dire che una persona a cui tengo soffre a causa mia e pretendere che la affronti con un sorriso, perché non ci posso riuscire. Non adesso, non stasera. Io non sono come te.»
    «Né vorrei che lo fossi» sussurra lei. «Scusa, forse ho sbagliato a pretendere che... che la vedessi come la vedo io. Hai ragione, siamo diverse, ed è normale che la pensiamo in modi diversi. È solo che... beh, speravo che per una volta riuscissi a vedere il lato positivo. Perdona la franchezza, ma è a causa del tuo eterno pessimismo che sei finita in questa situazione.»
    «Hai ragione, tutto questo è soltanto colpa mia. Mi sono comportata da cretina, ho dato un calcio a quella che probabilmente è l'unica occasione della mia vita per essere completamente felice, ed è colpa mia se adesso Shannon è nei guai. È colpa mia, quindi decido io come sentirmi di fronte a tutto questo.» Non vorrei essere così dura, ma sono così sconvolta e confusa da non riuscire a capire quale sia il modo giusto di comportarmi o parlare. La osservo mettere giù la tazza, sfregarsi le mani per far cadere le briciole e alzarsi, con uno sguardo che non ho mai visto sul suo volto: è come se fosse stanca e arrabbiata allo stesso tempo, come se avesse perso quella voglia di combattere che l'ha sempre contraddistinta e resa diversa da me, e come se contemporaneamente volesse saltarmi addosso e strozzarmi in pieno stile Homer Simpson. È in questo momento che mi pento del mio atteggiamento, delle mie parole e del mio tono, perché è adesso che comprendo di non poterla perdere, in questo momento meno che mai. «Scusa, Alice, non volevo essere così... così stronza. Ho parlato senza riflettere.»
    «No» replica subito, dura come non mai. «No, hai ragione. È la tua vita, sono i tuoi sentimenti, sono le tue decisioni» aggiunge, infilandosi sciarpa e cappotto. «Sono stata una stupida a pensare di poter controllare le tue emozioni. E non è nemmeno corretto da parte mia, visto che sono le tue emozioni, e non le mie.»
    «Alice, non te ne andare, per favore. Ti chiedo scusa, non stavo ragionando» insisto, pur sapendo di risultare la ragazzina lamentosa che non ho mai voluto essere.
    «Non me ne vado perché sono arrabbiata, Daria» replica, rimettendosi a tracolla la borsa. «Insomma, forse un po' sì... ma niente che non possa passarmi con una notte di sonno. Me ne vado perché è tardi e domani devo alzarmi presto.»
    «Perché non riesco a crederti?» sussurro, restando a distanza.
    Lei fa spallucce, infilandosi le mani in tasca, come fa sempre quelle poche volte che le capita di non saper che dire. «Forse perché sei tu» risponde, abbassando lo sguardo. «Grazie per la cioccolata e i biscotti. Ci sentiamo.»
    La lascio uscire senza dire una parola di più, senza tentare nemmeno per un istante di fermarla, e non appena resto sola inizio a darmi della stupida. Stupida, stupida Daria, stupida idiota che non sono altro. Credo di aver appena scoperto il mio vero talento: ferire le persone che mi stanno accanto, e soprattutto quelle che sacrificano loro stesse per il mio bene e la mia felicità. Se esistesse un Nobel per questa capacità, nessuno lo meriterebbe più di me. Resto in piedi in mezzo al salotto, sola e senza alcuna certezza, tranne quella di essere una persona orrenda – persino Solo vuole starmi lontano, tanto che mi conficca le unghie nel palmo pur di fuggire rapidamente dalla mia presa e correre nel suo angolo, rintanandosi accanto al calduccio del termosifone.


*



Cedar Creek, 7 marzo 2014


    Sono quasi le cinque quando esco nel parco, guardandomi attorno per bearmi, almeno per un istante, della bellezza del mondo che mi circonda. Dopo la chiacchierata con il dottor Connors mi sono chiuso in camera per un'ora, così stanco da non avere nemmeno la forza di togliermi le scarpe. Me ne sono stato disteso sul letto con gli occhi chiusi a pensare a tutto ciò che è riuscito a tirarmi fuori in appena un'ora di conversazione. Mi stupisco ancora di quanto sia riuscito ad aprirmi nonostante mi trovassi in un ambiente sconosciuto insieme ad un estraneo. Come Jared, non sono mai stato un tipo che ama parlare di sé, certamente non con gente appena conosciuta, ma questo dottor Connors sembra avere qualcosa di diverso, qualcosa in grado di ammaliare al punto da conturbare anche l'anima più restia e convincerla a parlare.
    Dopo aver girovagato per qualche minuto, riconoscendo i volti di molte delle persone che ho già visto a pranzo, trovo una panchina vuota all'ombra di un grande salice piangente, e dopo essermi assicurato di non avere nessuno attorno mi ci distendo sopra, fissando lo sguardo sui sottili rami carichi di foglie che si piegano quasi fino a toccare terra. Chiudo gli occhi, chiedendomi quanto durerà questa pace, e già una decina di secondi più tardi sento alcuni passi in avvicinamento. Persisto nella mia posizione, sperando che il visitatore faccia dietro-front e mi lasci solo, ma la mia idea non sembra dare i suoi frutti: sento il rumore di qualcuno che si lascia cadere a terra con la stessa grazia di un elefante, e quando apro gli occhi il mio sguardo incontra i cristallini occhi verdi di una ragazzina che non sembra nemmeno maggiorenne. «Ciao» esordisce con la stessa allegria di una vecchia amica.
    «Ciao» rispondo, vagamente titubante. Non riesco a spiegarmi che cosa voglia questa ragazza da me, e a dire il vero non so nemmeno se mi vada di scoprirlo.
    «Tu sei nuovo» aggiunge, senza dare particolare inflessione alla frase.
    «Sì, sono nuovo.»
    «Non era una domanda» ribatte. «Lo so già che sei nuovo. Non ti ho mai visto.»
    «Questa struttura ospita più di cento persone. Come fai ad essere certa di non avermi mai visto?» replico, vagamente scocciato. Già non mi trovo in una situazione piacevole, e l'idea di essere bollato come quello nuovo non mi fa sentire meglio.
    «Ho una memoria fotografica, i volti mi si stampano in testa come istantanee. E comunque non sei uno difficile da notare. Ti avrei già visto, se non fossi arrivato qui da poco.»
    «Stai cercando di dirmi che sono un tipo diabolicamente affascinante?» la stuzzico, forse sperando di riuscire ad irritarla e farla sloggiare.
    «Direi particolare, più che affascinante» replica lei, senza dar segno di volersene andare. «E comunque almeno trenta persone si sono già accorte di te. Sei un tipo famoso, Shannon» aggiunge con un altro sorriso. «Robert Grady si vantava sempre di aver condiviso il ricovero con Lindsay Lohan, ma adesso credo seriamente di poter vincere. Tra una sciacquetta con le labbra di plastica e il batterista dei 30 Seconds To Mars non c'è battaglia.»
    «Non dirmi che sei una nostra fan anche tu, non lo sopporterei» sospiro. «Scoprire che il dottor Connors ascolta la nostra musica è stato un trauma abbastanza grande.»
    «Non mi definirei una vostra fan. Ho sentito soltanto qualche canzone. Anche se quello che ho sentito mi è piaciuto molto, non credo sarebbe corretto definirmi così. Dei Muse sono una fan» aggiunge dopo un istante. «Per loro sì, credo che potrei fare follie.»
    Ora che sono certo non si tratti di una pazza scatenata che vuole assediarmi per avere un autografo o chissà che altro, decido che potrebbe non essere un male provare a mostrarmi lievemente più accomodante, e magari tentare di seguire il consiglio del dottore. «Tu sai chi sono io, ma tu chi sei?» le domando, mettendomi a sedere.
    «Mi chiamo Rosalita, e prima che tu possa dire qualunque cosa... sì, sono stata chiamata così in onore della canzone di Bruce Springsteen. Fu mio padre a scegliere. Per fortuna mia madre ebbe la benevolenza di scegliere Mary come secondo nome. Di solito è così che mi presento.»
    «Potevi farlo anche con me. Non avrei mai scoperto il tuo vero nome.»
    «Hai una faccia che ispira fiducia. Ero quasi sicura che non mi avresti preso in giro.»
    «Parli con uno che è stato preso in giro per una vita a causa del proprio nome. Non riuscirei mai a fare lo stesso con qualcun altro. Perché Rosalita? Tuo padre amava quella canzone?»
    «Mio padre amava Springsteen con ogni fibra del suo essere. Credo ne fosse innamorato, in un certo senso. Lavorò per lui, sai? Fu uno dei suoi tecnici del suono, per tre o quattro anni, quando era ancora all'inizio della carriera.»
    «Dev'essere stata un'esperienza stupenda, se amava la sua musica. Perché smise?»
    «Perché conobbe mia madre, e il desiderio di stare accanto a lei fu più forte dell'amore per il Boss» risponde con un sorriso. «Peccato che non durò molto. Si separarono... nell'estate del 1986, credo. Io avevo soltanto sei mesi.»
    «Mi dispiace» replico, sapendo quanto possa essere dolorosa una separazione. Poi mi rendo pienamente conto di quanto ha appena detto, e sgrano gli occhi. «Aspetta, quindi hai ventotto anni?»
    «Perché, non si può?»
    «No, è solo che tu... beh, sembri molto...»
    «...giovane?» suggerisce lei. «Lo so, è uno dei miei difetti. Andare per locali è sempre stata una tragedia. Agli ingressi mi fermavano sempre perché pensavano usassi documenti falsi.» Si volta per qualche istante verso di me, studiandomi con occhi curiosi. «Nemmeno tu dimostri quarantaquattro anni, comunque. Potresti dichiararne una decina di meno e ti crederebbero tutti. Certo, se non esistesse internet.»
    «Ti assicuro che dentro di me li sento tutti» replico, passandomi una mano tra i capelli. «Ci sono giorni in cui ne sento anche di più.» Non risponde subito, quindi mi prendo il tempo di osservarla meglio: quando, in un gesto spontaneo, allarga le braccia per appoggiarsi alla panchina, noto le cicatrici sui suoi polsi e piccoli segni circolari nell'incavo del gomito. «Sei qui dentro perché hai cercato di ucciderti?» le domando, senza preoccuparmi di risultare troppo aggressivo.
    «Sei uno che non ha bisogno di preliminari, eh?» ride, voltandosi di nuovo. «Una volta le nascondevo, le cicatrici. E nascondevo anche i buchi. Poi ho capito che non ha senso nascondere niente, perché quello che si vede è quello che c'è, e quello che c'è è quello che siamo. Io sono anche le mie cicatrici e i miei buchi, dunque perché nasconderli?»
    «Non fa una piega» sussurro, distogliendo lo sguardo.
    «E poi ho capito che la gente te lo legge in faccia, se sei stato un drogato o un aspirante suicida. Che lo vogliamo o no, i nostri problemi ce li portiamo scritti addosso.»
    «Davvero? Allora ti sfido: qual è il mio problema?»
    Si volta e mi scruta con i suoi grandi occhi verdi, e per la prima volta riesco a vedere ciò che ad un primo sguardo mi era sfuggito: l'ombra delle occhiaie, la pelle rovinata dagli abusi, le piccole rughe sulla fronte e attorno alla bocca... e poi, all'improvviso, il suo sguardo diretto inizia ad infastidirmi, come se non sopportassi di essere studiato a quel modo, come se quegli occhi mi stessero bruciando. «Hai il cuore spezzato, tutto qui» sentenzia infine. «Niente che non si possa risolvere.»
    «Forse non sei infallibile come credi. Non si entra in un centro di riabilitazione solo perché si ha un problema sentimentale.»
    «In parte hai ragione. Non è una conseguenza diretta, ma il cuore spezzato è sicuramente la causa principale. Sei qui perché bevi, o perché ti fai di qualcosa, ma a qualunque cosa ti aggrappi, lo fai perché qualcuno ti ha ferito a morte.» Nel mio silenzio, trova la risposta. «Ho ragione, hai il cuore spezzato. Non credevo potesse capitare anche alle rockstar.»
    «Questo dovrebbe insegnarti che siamo persone esattamente uguali alle altre» sospiro, passandomi una mano sugli occhi.
    «Solo un po' più conosciute e un po' più ricche» ribatte lei. «Non cercare di fregarmi con la storia del siamo tutti uguali. Non sono una ragazzina, a queste stronzate non ci credo. So come gira il mondo.»



*



Torino, 8 marzo 2014


    Quando entro in negozio, in ritardo di un generoso quarto d'ora, la prima cosa che mi trovo davanti è un mazzolino di mimosa, e la mano che lo regge è quella di Marco. «Auguri» sorride, porgendomi i fiori con la stessa delicata goffaggine di un bambino di otto anni. «Festa della donna» sottolinea, forse accorgendosi della mia espressione dubbiosa.
    «Fammi capire: io arrivo in ritardo e tu mi regali dei fiori?» rispondo, prendendo il mazzolino con un pizzico d'incertezza.
    «Ti posso anche perdonare, visto il giorno» replica lui. «E comunque è la prima volta che fai tardi in cinque anni. Se non diventa un'abitudine, posso anche passarci sopra.»
    «Beh, allora grazie» sorrido, appoggiando i fiori sul bancone accanto alla cassa per dirigermi verso lo stanzino dove lascio di solito le mie cose. «Anche se non ho tutta questa voglia di festeggiare, oggi.»
    «Come mai? È successo qualcosa?» mi domanda, tornando alle sue occupazioni.
    «Credo di aver litigato con Alice» rispondo, raggiungendolo per aiutarlo a sistemare i nuovi arrivi. «Insomma, non è stato un vero e proprio litigio. Non è che ci siamo urlate contro o roba del genere... beh, più o meno. Io ho alzato un po' la voce.»
    «L'argomento doveva starti molto a cuore, per farti arrivare a tanto. In cinque anni che ti conosco, ti ho sentita alzare la voce soltanto una volta. E quella volta, lo ammetto, mi hai davvero fatto paura.»
    Sorrido, ricordando l'episodio, ma è soltanto un istante: subito dopo abbasso di nuovo lo sguardo, sentendomi in colpa come non mai. «Era un argomento che stava a cuore ad entrambe, in un certo senso.»
    «Ti va di parlarne?»
    «Non credo sarebbe opportuno» rispondo. «Insomma, si parlava di uomini.»
    «Di uomini in generale, o di un uomo in particolare?» ammicca, facendomi capire che non devo provare a mentirgli, perché sarebbe in grado di smascherare ogni mia bugia.«Si parlava di quel poveretto a cui hai spezzato il cuore a novembre?»
    «Proprio lui» mi arrendo, sapendo che l'unica alternativa valida è dire la verità, per quanto possa risultare strano parlare d'amore con uno che mi ha vista nuda. «Ho saputo che ultimamente ha qualche problema, e sembra che la causa di tutti i suoi mali...»
    «...sia tu» conclude lui, trovando il coraggio di dire ciò di cui io fatico ancora a convincermi.
    «Già. E questo, come puoi ben immaginare, mi fa stare da schifo.»
    «Mi sfugge come tu possa essere il problema, in realtà. Se vi siete lasciati a novembre e i problemi sorgono ora, non...»
    «Il problema è che a fine gennaio lui è venuto a Torino per parlarmi, e mi ha vista con te» sputo fuori, forse con troppa cattiveria. «Dopodiché ha provato a rifarsi una vita, non ci è riuscito e ora si è chiuso in una clinica per impedirsi di diventare un alcolista.» Marco si blocca nell'atto di sistemare un libro sullo scaffale e tiene lo sguardo fisso su di me, che dopo l'inutile esplosione di pochi secondi fa mi sento incredibilmente stupida. «Scusa, non è colpa tua. Non dovevo aggredirti così.»
    «Beh, se si è attaccato alla bottiglia perché ha creduto di averti persa dopo averti vista con me, perdonami, ma è anche un po' colpa mia» ribatte. «Ma tutto questo come ti ha portata a litigare con Alice, scusa?»
    «Abbiamo diversi punti di vista al riguardo. Lei insiste che dovrei vedere il lato positivo, perché il fatto che sia entrato in clinica significa che prende la questione molto sul serio, e che sta cercando di risolverla in ogni modo possibile.»
    «E tu, invece? Come la vedi?»
    «Io non riesco a fare altro che sentirmi in colpa. Vedo tutto nero, come al solito.»
    «Beh, siete sempre state diverse, tu e Alice. Ma questo non vi ha mai impedito di continuare ad essere amiche. Essere amici comporta anche questo, credo. Continuare a parlarsi nonostante le differenze di opinioni. Sarebbe strano se foste sempre d'accordo su tutto. E anche un po' noioso.»
    «Lo so, Marco, però... non lo so, stavolta penso di averle fatto del male. Intendo... veramente. L'ho trattata malissimo.»
    «Avete superato cose peggiori, e lo sai.»
    «Sì, lo so... ma non so davvero come potrà perdonarmi, questa volta. Sono stata odiosa. Lo sono da mesi, in realtà. Non capisco come faccia ancora a parlarmi. Sono mesi che le rovescio addosso le mie tragedie e i miei sbagli, e lei continua a restare ferma a sopportare tutto. E se questa fosse la goccia che fa traboccare il vaso?»
    «Se sei davvero così preoccupata di perdere la sua amicizia, io dico che non dovresti perdere tempo. Dovresti correre subito da lei e dirle tutto quello che stai dicendo a me. Non che non mi interessi quello che stai dicendo, solo... non è a me che dovresti dirlo.»
    «E se non volesse starmi a sentire?»
    «Daria» replica in tono serio, lasciando perdere i libri e prendendomi il volto tra le mani, «Alice è la tua migliore amica da quanto? Quindici anni? Saresti davvero disposta a perdere un'amica preziosa quanto lei per colpa di una stupida incomprensione che, tra parentesi, è del tutto normale in un rapporto lungo quanto il vostro? Saresti davvero disposta a lasciar perdere la tua unica, vera amica soltanto perché hai paura? La paura non porta da nessuna parte, Daria. La paura non ti fa muovere un passo, e sicuramente la paura non ti aiuta a rimettere a posto le cose.» Non riesco a rispondere, immobile tra le sue mani e totalmente ipnotizzata dai suoi occhi celesti. «Quindi fammi un favore: infilati il cappotto, prendi la borsa, corri da lei e aggiusta le cose, adesso.»
    «Ma adesso devo...» tento di protestare.
    «Adesso» ripete, calcando il tono. «Te lo ordino in quanto tuo capo, altrimenti ti licenzio. Adesso



*



Cedar Creek, 7 marzo 2014


    «Allora, lei chi è?» Alzo gli occhi al cielo, chiedendomi che cosa abbia fatto di male nella mia vita precedente per meritarmi questo terzo grado. «Oh, scusa, forse è un lui?» si corregge Rosalita, notando la mia espressione.
    «Non hai sbagliato, è una lei. Ma non ho voglia di parlarne» taglio corto, iniziando a maledirmi per aver stupidamente deciso di dar corda a questa ragazza.
    «Parlarne ti farebbe bene. Il dialogo e la condivisione sono alla base di tutto, secondo il dottor Connors. E il dottor Connors è uno di cui ci si può fidare.»
    «Ho già parlato anche troppo, per oggi» sbuffo.
    «Seduta preliminare con il dottore, eh? Allora capisco che tu non abbia voglia di parlare. Dopo il nostro primo colloquio sono tornata in camera a pezzi, ho dormito fino all'ora di cena. Quell'uomo ha qualcosa di strano, uno strano modo di fare che riesce a tirarti fuori le parole come se fossero fumo, e prima che te ne possa rendere conto gli hai spiattellato tutta la tua vita. È incredibile.»
    «Ecco, quindi lasciami in pace» ribatto piuttosto duramente. Se in un primo momento interagire sembrava la giusta soluzione, adesso non mi sembra più un'idea così geniale.
    Rosalita distende le gambe davanti a sé, e soltanto in questo momento noto che è scalza. «Lo so che ci siamo appena conosciuti, ma vorrei darti un consiglio da amica» riprende dopo qualche istante di silenzio, voltando la testa verso di me, ma tenendo lo sguardo basso. «So che prima ho detto quella cazzata sul fatto che non siamo tutti uguali, ma qui dentro... beh, qui dentro credo che ci andiamo molto vicino. Insomma, resto ferma sulla mia convinzione che siamo tutti diversi, ma qui dentro abbiamo tutti una triste storia sulle spalle, e questo ci rende simili, perciò non devi pensare di essere solo. Insomma, per quanto la vita possa sembrarti inutile e schifosa, non devi mai dimenticare che qui dentro c'è qualcuno che si sente esattamente come te.»


*



Torino, 8 marzo 2014


    Varco la soglia dell'aula studio e individuo subito la massa bionda dei capelli di Alice, china su un grosso tomo con un evidenziatore stretto in mano e l'aria di chi non abbia ancora assunto abbastanza caffeina. Mi avvicino lentamente, avanzando tra le file di banchi semideserte, e al mio passaggio qualche testa si alza, ma non quella della sola persona che mi interessi. Con la stessa lentezza prendo posto davanti a lei, che continua a non muoversi, estremamente concentrata. Faccio scivolare sul ripiano lucido del banco un bigliettino, che non appena entra nel suo campo visivo fa scattare in alto il suo sguardo. Quando i suoi occhi incontrano i miei una strana smorfia si dipinge sul suo viso, come se fosse indecisa tra l'ignorarmi o il prendermi a calci nel sedere. Poi guarda il biglietto, lo prende con due dita e lo spiega lentamente, fissando lo sguardo sulla carta stropicciata. Passano alcuni interminabili istanti, poi abbassa il biglietto e torna a guardarmi, mentre la strana smorfia muta in un sorriso. «Ma certo che ti perdono, cretina» sussurra, allungando una mano per stringere la mia. «Sei la mia scema di fiducia, no?»



1Alla fine, quando la vita ti ha buttato giù, qui hai qualcuno che puoi stringere tra le braccia. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Hold on di Michael Bublé, contenuta nell'album Crazy Love (2009).

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Capitolo 4
*** 4 | Conosco le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa, ed ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi che non ho mai fatto. ***


La lunga strada verso casa - 1
Avrei dovuto pubblicare questo capitolo già qualche giorno fa, ma questa per me è stata una settimana molto difficile – non soltanto a livello fisico, ma soprattutto a livello emotivo. Ho avuto una brutta delusione, e nonostante avessi già il pezzo pronto non avevo proprio voglia di mettermi al pc, sebbene voglia bene a tutti voi e ami leggere i vostri commenti. Ora non sto meglio, anzi, credo mi ci vorrà ancora molto tempo prima di riprendermi completamente, ma non voglio che la mia tristezza ricada su di voi. Perciò, ecco a voi la nuova puntata, sperando che vi trovi meglio di quanto stia io in questo momento.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo quarto
Conosco le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa,
e ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo
i tentativi che non ho mai fatto.1



Cedar Creek, 8 marzo 2014


    «Se abbiamo tutti una triste storia, qual è la tua?»
    Rosalita tace, fissandosi i piedi, e a vederla così sembra ancora più piccola di quanto non sembrasse ad un primo sguardo, con la t-shirt che le sta troppo larga sulle spalle e i capelli castani raccolti nella coda disordinata tipica delle studentesse in crisi di nervi. «Vuoi la verità o vuoi soltanto sentirti meglio?»
    «Il dottor Connors ha detto una cosa interessante, prima» rispondo, piegando le gambe per abbracciarmi le ginocchia. «Ha detto che ascoltare i problemi degli altri potrebbe aiutarmi a risolvere i miei. Quindi direi che voglio la verità, assolutamente.»
    «Allora avrai la verità» replica, voltandosi ancora una volta per sorridermi. «La verità è che i miei genitori non mi volevano. Sono stata uno sbaglio, un errore, un incidente di percorso. Sono al mondo per colpa di un preservativo difettoso, o di una serata fatta di troppa birra e troppo fumo.»
    «Come fai a dire una cosa del genere?»
    «Lo dico perché è l'ultima cosa che mia madre mi ha urlato contro prima che uscissi di casa sbattendo la porta» replica. «I miei si conobbero nel 1978, durante una tappa di Springsteen a San Francisco. Mio padre era in giro con la band da due anni, e mia madre era appena arrivata in città dall'Oregon. Non so nemmeno come abbiano fatto ad innamorarsi. Per quel che ne so, mio padre era uno che viveva di musica, e lei era una ragazza cattolica appena sputata fuori da un collegio. Avrebbero dovuto capire subito che non sarebbe finita bene, ma avevano vent'anni, e a vent'anni uno pensa sempre di poter sconfiggere le difficoltà.»
    «So cosa vuoi dire» sospiro, ricordando la mia storia con Christine, quel glorioso periodo in cui ho creduto, almeno per un po', di aver trovato la mia pace. E poi la memoria viaggia ancor più indietro, e ripenso a mia madre, e al suo sogno infranto di costruire una famiglia insieme a mio padre.
    «Lui non l'ho mai frequentato molto, ha fatto un paio di comparsate durante la mia infanzia, ma niente di più» riprende, togliendosi una ciocca di capelli dagli occhi. «E lei non mi ha mai parlato di lui, o della loro storia. Tutto quello che so l'ho letto in uno dei suoi diari. Passarono una settimana meravigliosa, poi lui dovette ripartire, e si tennero in contatto come poterono. Ho letto alcune delle lettere che lui le spedì. Parole meravigliose, dichiarazioni d'amore, promesse di passare tutta la vita insieme... sembrava tutto così bello, sulla carta.»
    «Ma poi si ritrovarono, giusto? Insomma, tu ne sei la prova.»
    «Durante una pausa mio padre tornò a San Francisco, e si misero insieme ufficialmente. Poi lui dovette ripartire, e per un anno continuarono a vedersi di rado, a telefonarsi, a scriversi. E poi lui capì di non poterle stare lontano, lasciò la band e si stabilì in California. A volte vorrei avere una macchina del tempo per poter tornare indietro e convincerlo a non farlo. È stato il più grande errore della sua vita. Sono la prova anche di questo» aggiunge con una strana smorfia. «Per qualche anno andò alla grande. Da quanto ho letto, credo fossero due hippie di prima categoria, sempre in giro a divertirsi con gli amici, senza nessuna responsabilità, senza pensare alle conseguenze. Solo che poi la vita iniziò a farsi difficile. Non puoi andare avanti per sempre senza impegnarti seriamente in qualcosa.»
    «Che cosa successe?»
    «Dovettero trovarsi un lavoro stabile, iniziare a mettere su casa. La società li voleva inquadrati, seri, responsabili... ma essere persone responsabili non era per loro. Finché non c'erano regole andavano alla grande, ma quando la realtà iniziò a chiedere il suo tributo... non lo so, credo che la magia si spezzò. Iniziarono a litigare sempre più spesso, a rinfacciarsi ciò che non andava nel loro rapporto... mia madre lo incolpava di non darle ciò che meritava, e lui incolpava lei di avergli fatto lasciare la vita che sognava. Si mollarono e si ripresero più volte, finché una delle loro rinconciliazioni non portò... a me
    «Quindi le cose non andavano bene già da prima che tu nascessi?»
    «Le cose non andavano bene già dall'inizio, ma erano entrambi così accecati dall'idea di amare qualcuno da non accorgersi di quanto fossero nocivi l'uno all'altra. Quando mia madre scoprì di essere incinta di me provarono a rimettersi insieme, ma non si può restare insieme soltanto perché si aspetta un figlio. In un certo senso, è un bene che abbiano deciso di troncare definitivamente quando ero così piccola. Mi hanno risparmiato anni di litigi e scenate.»
    «Ma non ti hanno risparmiato i problemi» suggerisco.
    «No, quelli no. Fin da piccola, ho sempre avuto la sensazione che mia madre non fosse troppo felice di avermi intorno. E non potevo neanche rifugiarmi da mio padre, perché dopo la rottura era ripartito per cercare fortuna in giro per il paese, e non avrei saputo da che parte iniziare a cercarlo. Poi c'era tutto il resto del mondo» sospira.
    «Che vuoi dire?»
    «Ero una bambina senza padre e vivevo in un quartiere popolare alla periferia della città. Non ero esattamente il prototipo della bambina perfetta, per una nazione ancora innamorata di Shirley Temple» spiega, guardandomi come se questo avesse dovuto risultarmi ovvio fin dal principio. «I bambini mi scansavano, e i genitori li incoraggiavano a starmi lontani. Ero una reietta, mangiavo alla mensa dei poveri e non avevo amici. A volte mi stupisco di non aver tentato il suicidio già a otto anni» aggiunge, abbassando lo sguardo. «Poi arrivò l'adolescenza, e le cose iniziarono ad andare ancora peggio. Anni e anni di frustrazione e dolore iniziarono a venir fuori, e il più delle volte li sputavo contro mia madre.»
    «Non è così strano. Quale adolescente non se la prende con i propri genitori, prima o poi?»
    «Nessun adolescente ha mai avuto ragione quanto me, credimi. La maggior parte dei ragazzi si scaglia contro i genitori senza motivo, soltanto perché cerca qualcuno da incolpare per lo schifo che sente dentro, ma io avevo tutte le ragioni per prendermela con lei. Non si curava per niente di me, a malapena considerava la mia presenza. Non eravamo una madre e una figlia che condividevano una casa, ma due prigionieri che dividevano una cella. Lei mi odiava e io la detestavo. Finché, a diciassette anni, le urlai contro così forte da spingerla a dirmi che non mi aveva mai voluta. Come se non lo avessi capito da sola» sorride. «Non me lo feci ripetere due volte. Presi le mie cose e me ne andai senza voltarmi indietro. Presi un autobus per Los Angeles, decisa a cambiar vita.»
    «Mi crederesti se ti dicessi che ho fatto più o meno la stessa cosa?»
    Mi scruta a lungo, come se stesse decidendo se valga la pena fidarsi o meno. «Ti credo» dice infine. «Tutti quelli che vanno a Los Angeles lo fanno per cambiare vita. Per cambiare vita, ci sono soltanto tre posti dove puoi andare: Los Angeles, Parigi, oppure l'Italia.»
    Abbasso lo sguardo nel sentir nominare l'ultimo luogo, perché so che è vero, l'Italia ti può cambiare, nel bene e nel male. «Una ragazza di diciassette anni da sola a Los Angeles. Che cosa hai fatto della tua vita?»
    «Mi sistemai in un ostello, arrangiandomi come potevo, con qualche lavoretto qui e là. Poi un agente mi notò, e disse che avrebbe fatto di me una modella. Forse ora non si direbbe, ma a diciassette anni ero una ragazza decisamente carina.»
    «Sei ancora una ragazza carina» replico, e per la prima volta nella mia vita non sto facendo un complimento ad una donna per ottenere qualcosa in cambio. «E che cosa successe, poi? Ti trasformò in una modella?»
    Resta in silenzio per un tempo che sembra lunghissimo, tanto che mi viene da chiedermi se sia il caso di ripetere la domanda. «Tutti pensano che la cosa migliore per essere una modella sia avere il fisico, ma la verità è che l'unica cosa che serve davvero per fare carriera è dimenticarti chi sei. Chiunque tu sia, qualunque sia il tuo passato, devi essere disposta a dimenticare tutto e costruirti una nuova identità. Devi essere pronta ad abbandonare la tua pelle e ad indossarne un'altra. Devi lasciare quello che è stato, indossare una corazza e cambiare totalmente vita, come se provenissi dal niente e il niente fosse tutto ciò che conosci.»
    «E per una ragazza dal passato difficile come il tuo...»
    «...fu una vera e propria liberazione» conclude lei. «Non avrei mai sperato che qualcuno piombasse nella mia vita chiedendomi di dimenticare tutto per iniziare da capo. Era tutto ciò che chiedevo, niente di meno, niente di più. Quindi iniziai a lavorare come modella, e in breve tempo riuscii ad ottenere un sacco di contratti. Piacevo perché riuscivo ad essere tutto ciò che mi chiedevano di essere, niente era mai troppo difficile o strano per me. Ero una lavagna bianca da riempire con qualunque tipo di scritta, senza mai un lamento o un capriccio.»
    «E quando ricominciarono i problemi?»
    «Molto più tardi di quanto mi aspettassi. Riuscii a cavarmela per quattro o cinque anni, poi mi infilai in una relazione sbagliata, e persi quel... quella scintilla che mi distingueva dalle altre.»
    «Un fotografo, un manager o un modello?» domando, convinto che la risposta si nasconda dietro una di queste opzioni.
    «Una modella, in verità» mi corregge, spiazzandomi. «Anya, una splendida ragazza norvegese. Alta, bionda, con due occhi color del cielo. Una di quelle visioni che paralizzano il traffico, quando attraversano la strada. È stata il mio primo amore.»
    «Sei lesbica?» sputo fuori all'improvviso, sorpreso per questa rivelazione. Come Jared, non sono mai stato sensibile ai pregiudizi: mamma ha sempre avuto amici omosessuali, sono sempre stato abituato all'idea che al mondo ognuno ha il diritto di vivere come vuole, ma scoprire questo lato di Rosalita in qualche modo mi sconvolge. Da quando ha iniziato a raccontarmi la sua storia ho creduto che il suo più grande desiderio fosse uniformarsi al resto del mondo, scomparire tra la folla per raggiungere finalmente la pace, e ora invece scopro che...
    «Bisessuale è il termine più adatto» mi corregge. «In realtà non so nemmeno se sia corretto definirmi così, visto che quella con Anya è stata l'unica relazione omosessuale della mia vita. Prima e dopo di lei ci sono stati soltanto uomini. Però non me la sento di ridurla ad una parentesi. È stata una parte importante della mia vita. È anche per lei che sono quello che sono.»
    «Scusa per il mio tono. Non vorrei che pensassi che sono un bigotto, perché non è vero. Sono sempre stato convinto che ognuno debba vivere secondo i propri istinti, qualunque essi siano.»
    «Non ho pensato nemmeno per un istante che fossi un bigotto, tranquillo. E non sono nemmeno offesa, se è per questo. La gente reagisce sempre in strani modi, quando tiro fuori questa storia. Persino il dottor Connors ha fatto una faccia strana, quando gliene ho parlato. E penso tu abbia capito che non è uno che si lascia sconvolgere facilmente.»
    «Il sospetto mi era venuto» sorrido. «Ma racconta, com'è andata a finire con questa splendida modella norvegese?»
    «Non bene. Io facevo la modella perché mi piaceva l'idea di potermi svegliare ogni giorno come una persona diversa, lei invece lo faceva perché le era stato imposto dalla famiglia. Suo padre era una fotografo, sua madre una ex cover girl. Con una figlia tanto bella, ad entrambi era parso ovvio che dovesse seguire le loro orme, così a quattordici anni l'avevano spinta su una passerella. Quando l'ho conosciuta aveva la mia stessa età, ed era stata nel giro per un terzo della propria vita. Praticamente un'eternità, quando hai appena vent'anni. Conoscerla è stato meraviglioso, in un certo senso, perché sapeva di quel mestiere più di tutte le altre messe insieme. Ma d'altro canto, amarla è stata la mia rovina. Non era una bella persona, una volta scesa dalla passerella. Era torbida, scura, cupa. Lei era tutto quello da cui per tanto tempo ero riuscita a fuggire. Quando la incontrai per la prima volta, compresi subito che avrei dovuto starle lontana, che se non fossi stata attenta mi avrebbe trascinato a fondo, ma non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Quando era sulla passerella sembrava un angelo, così chiara, così pulita... mi lasciai abbagliare, e quando mi accorsi che in lei non c'era altro che male ormai era troppo tardi. Mi aveva presa.»
    «Fu allora che cominciasti a...» Indico i buchi sulle sue braccia, senza trovare il coraggio di esprimere il termine adatto.
    «Cominciai con la cocaina» rispondo. «La prima volta fu quasi per gioco, per dimostrare a me stessa che ero abbastanza forte da non cascarci.»
    «Ma non si è mai più forti di quello schifo, vero?»
    Rosalita scuote la testa, piegando le gambe per portarsi le ginocchia più vicine al petto, quasi per proteggersi. «Il gioco si fece presto troppo difficile per me. Non conoscevo le regole, e dalla cocaina passai all'eroina. Non mi bucavo sulle braccia, le prime volte. Troppo difficile nascondere i segni» spiega. «Anya mi mostrò come bucarmi in modo che non si vedessero i segni quando eravamo al lavoro, ma presto i sintomi iniziarono a vedersi comunque. Eravamo distratte, assenti, non riuscivamo a concentrarci. Lei era molto più affermata di me, nessuno avrebbe mai osato accusarla di essere un'eroinomane, ma io ero una delle ultime arrivate. Ci misi poco a perdere tutti i contratti, uno dopo l'altro. Entrai in un centro di disintossicazione, e in qualche modo riuscii a ripulirmi, ma le agenzie avevano sparso la voce che ero compromessa, e nessuno voleva darmi un lavoro. E poi, a darmi il colpo di grazia arrivò la notizia che Anya si era suicidata.»
    «Cosa?»
    «Quando mi cacciarono, finì anche la nostra relazione. Io l'amavo, ma lei non ricambiava completamente il sentimento. Stavamo insieme principalmente perché facevamo lo stesso mestiere e avevamo entrambe la passione per le siringhe. Quando persi i contratti ci lasciammo, e persi quasi ogni contatto con lei. Pochi mesi dopo, quando l'agenzia minacciò di mandare a casa anche lei, Anya si iniettò una dose mortale. Fu sua madre a trovarla, con la siringa ancora infilata nel braccio.»
    «Immagino che la notizia ti abbia distrutta.»
    «Ricominciai a bucarmi. Mi sembrava la sola cosa sensata da fare. Me ne fregai di non mostrare i segni, mi bucavo ogni volta che potevo, forse nella speranza che ogni dose fosse quella fatale. Ogni volta scoppiavo in lacrime, ogni volta speravo di chiudere gli occhi per sempre e ritrovarmi di nuovo con lei. Adesso, quando ci ripenso mi dico che forse non ho mai desiderato davvero morire, altrimenti sarei riuscita ad ammazzarmi.»
    «Come sei passata dal desiderio di morire a questo posto?»
    «Una volta sono andata vicina a rimetterci la pelle. Ero arrivata in fondo all'abisso, più giù di così non potevo andare. Per procurarmi i soldi necessari facevo di tutto: rubavo, la davo in giro come se non fosse mia... avevo trovato un gruppetto di gente con i miei stessi problemi, mi ero trasferita a vivere in un capannone abbandonato, in mezzo allo schifo di gente che come me non pensava di avere alternative. Un giorno la polizia fece una retata, e pur di non farmi beccare mi feci una dose più forte del solito. Solo che riuscirono a portarmi in ospedale prima che crepassi.»
    «E poi?»
    «Ti sei mai disintossicato?»
    «Una volta» ammetto dopo un breve silenzio. «Avevo vent'anni, vivevo a Memphis. Buttavo giù metanfetamine come se fossero caramelle e ogni tanto mi facevo una sniffata di coca. Quando collassai quelli che credevo miei amici mi scaricarono davanti al pronto soccorso e se la diedero a gambe. Mio fratello venne a prendermi e mi portò a casa, in Virginia. Ci misi due settimane a ripulirmi. Lui e mia madre mi rimasero accanto per tutto il tempo.»
    «Disintossicarsi non è solo una questione fisica» riprende lei. «Devi anche essere circondato dalle persone giuste, devi sentire che qualcuno ti è vicino, altrimenti è tutto inutile. La prima volta ero in un centro, fu più facile. La seconda volta mi disintossicai in galera. Un'esperienza orrenda. Mi avevano messa in isolamento, tutti i giorni veniva un dottore a visitarmi. Mi buttava un paio di pastiglie sul cuscino, ma se ne fregava se non le prendevo. Ero completamente da sola.»
    «Come sei riuscita a sopravvivere?»
    «Il mio corpo si rifiutava di smettere di lottare, credo. Ogni volta che aprivo gli occhi pregavo che fosse il mio ultimo giorno sulla terra, ma il mio cuore non voleva smettere di battere.»
    «E come sei finita qui?»
    «Mi feci un paio di mesi dentro, poi mi rilasciarono. Una detenuta che aveva avuto guai simili ai miei mi diede il numero del dottor Connors. Disse che lui poteva aiutarmi. Non ero convinta che potesse farcela, all'inizio. Credevo che la mia vita fosse segnata, che sarebbe successo qualcosa e che avrei ricominciato a bucarmi, e che alla fine sarei finita come Anya, ma lei mi assicurò che se c'era una sola persona in grado di aiutarmi, quella persona era il dottor Connors.» Sorride, distendendo di nuovo le gambe, e anche se non mi sta guardando so che il suo volto è di nuovo sereno, come se stesse preparandosi a raccontare il lieto fine di una triste storia che fino a pochi minuti fa non sembrava destinata a finire bene. «E in effetti incontrarlo mi ha cambiato la vita. Senza di lui sarei finita male, questo è poco ma sicuro.»
    «Da quanto tempo sei qui?»
    «Da quando il dottore ha fondato il Safe Heaven. Saranno tre anni a maggio.»
    «Tre anni?» ripeto, ancor più sorpreso di quando mi ha raccontato della sua relazione con la supermodella norvegese.
    «Lo so, sembra un sacco di tempo» sorride. «Ma questa non è una clinica come tutte le altre. È più una comunità, una specie di... non lo so, una casa-famiglia. Non sono l'unica a vivere stabilmente qui. Ci sono molte altre persone che hanno scelto di fare del Safe Heaven la propria casa. Persone che non possono o non vogliono tornare nel mondo, perché hanno paura di ricadere nei loro errori e distruggere quell'equilibrio che hanno impiegato tanto a recuperare.»
    «Senza offesa, ma a me sembra tanto un modo per evitare di affrontare la vita.»
    «Nessuna offesa. So che può suonare come... non lo so, come una soluzione facile, un modo per rendersi la vita meno difficile. Ma tu non hai idea delle vite spezzate che si sono trascinate fino a qui. Che tu ci creda o no, ci sono persone ancora più disperate di me, persone con storie ancora più tristi, persone che fuori da quei cancelli non sopravvivrebbero un'ora. Persone che non sono in grado di affrontare il mondo, perché il mondo intero è troppo grande, troppo buio, troppo complicato. Persone che riescono ad affrontare un solo giorno alla volta, un po' come me.»
    «E come riesci a pagare la retta?»
    «Favori sessuali, naturalmente» ribatte, ma dal suo sorriso capisco che scherza. «Al dottor Connors piace farsi carico di qualche caso probono, di tanto in tanto. Io sono uno dei pazienti gratuiti. Ma naturalmente mi sentirei in colpa a starmene qui senza far niente, quindi gli do una mano, per quanto posso. Aiuto in cucina, faccio qualche pulizia, a volte mi chiede anche di dargli una mano con i pazienti nuovi, soprattutto con le ragazze. Ci sono ragazze che faticano ad aprirsi, che hanno attraversato momenti davvero difficili, e allora il dottore mi chiede di provare a stabilire un legame, di parlare con loro. A volte riescono a fidarsi di me e si confidano, altre volte invece restano immobili ad ascoltare e non riescono a sbloccarsi, ma bisogna pur fare un tentativo, no?»
    «Quello che fai è molto bello» rispondo, seriamente convinto di quanto sto dicendo. Sono stato un uomo problematico per la maggior parte della mia vita, e so quanto sia bello trovare qualcuno in grado di comprenderti sul serio, qualcuno che abbia affrontato prove simili alle tue e capisca di che si sta parlando. «Quante persone sei riuscita ad aiutare?»
    «Non abbastanza, purtroppo. So come funziona la mente delle persone che hanno un problema. Ad alcune di loro non piace essere aiutate, preferiscono continuare a sguazzare nell'autocommiserazione e vivere da incomprese. Non è facile, provare ad aiutare la gente.»
    Segue un lunghissimo minuto di silenzio, durante il quale entrambi fissiamo lo sguardo su un punto lontano, come a voler cercare una soluzione ai nostri guai nell'ambiente che ci circonda. «Sei venuta a parlarmi perché te l'ha chiesto il dottor Connors?» le domando ad un certo punto. «So che può sembrare una domanda strana, ma visto quello che mi hai appena raccontato mi sembra un dubbio legittimo.»
    «Più che legittimo» replica, voltandosi di nuovo verso di me. «Però no, non è stato il dottore a chiedermi di farlo. È stata una mia decisione. Se può esserti di conforto, ci ho pensato su parecchio prima di avvicinarmi. Avevi l'aria di uno che vuole starsene per conto suo.»
    «In effetti, non mi sentivo molto in vena di fare conversazione. Che cosa ti ha spinto a farti avanti?»
    «La vita mi ha resa spericolata. Non potevo tirarmi indietro dal fare un tentativo» risponde, facendo spallucce. «E poi sei la prima celebrità che incontro. Non potevo farmi sfuggire l'occasione di conoscerti.» All'improvviso si alza, spolverandosi i pantaloni con entrambe le mani. «Adesso devo andare, ho promesso a Melissa che l'avrei aiutata a tingersi i capelli. Ci vediamo in giro, Shannon.»
    La saluto con una semplice alzata di mano e la osservo andare via, camminando con un passo leggero che sembra non avere niente a che fare con la ragazza dal passato problematico e triste che è. Sospiro, rendendomi conto che il dottore aveva ragione: a volte ascoltare i problemi degli altri può aiutare a far luce sui propri, e anche se la soluzione di tutti i miei guai è ancora lontana, l'incontro con Rosalita è riuscito, almeno per qualche minuto, a ricordarmi che al mondo esiste gente che è caduta ancora più in basso di me.


*



Torino, 8 marzo 2014


    Durante la nostra riconciliazione mattutina, mentre prendevo le mie cose e mi accingevo a tornare al lavoro, Alice mi ha promesso che stasera sarebbe venuta a casa mia per aiutarmi a fare la valigia. La aspettavo per le nove, ma conoscendo il suo cronico ritardo me la sono presa comoda con la cena e i piatti, e quando alle nove meno dieci sento suonare il campanello ho ancora le mani immerse nell'acqua saponata, impegnata a scrostare i resti del disgustoso risotto che ho tentato di prepararmi. «Sei in anticipo, mi devo preoccupare?» la saluto, aprendo la porta mentre mi sto ancora asciugando le mani.
    «Mai stata meglio» replica lei, facendosi avanti reggendo una scatola che conosco molto bene. «Sto solo cercando di essere la migliore amica ideale, così in futuro ti risulterà più difficile trattarmi male.»
    «E quella che ci fa qui?»
    «Ho pensato fosse ora di riammetterla in casa tua, visto che hai deciso di riammettere Shannon nella tua vita. E poi a casa mia rischiava di essere soffocata dagli appunti per la tesi» risponde, appoggiando la scatola sul bancone per liberarsi le mani e spogliarsi del cappotto.
    «Beh, a dire il vero non è che abbia deciso di riammettere Shannon nella mia vita» la correggo. «Più che altro spero che lui decida di riammettere me nella sua.»
    «Questione di semantica» ribatte lei, facendo spallucce e alzando gli occhi al cielo. «Solo, tesoro!» aggiunge subito dopo, inginocchiandosi per prendere tra le mani il gatto, che non appena l'ha vista ha iniziato a zampettare verso di lei in cerca delle coccole che era certo di trovare.
    «Questo ingrato sembra volere più bene a te che a me» osservo, riappendendo lo strofinaccio umido al gancio.
    «Ci credo, con il nome orrendo che gli hai affibbiato» replica, stringendosi al petto il gatto, che inizia a fare più fusa del solito. «Allora, sei pronta a fare la valigia?»
    «Non c'è una domanda di riserva?» scherzo. «Non lo so, Alice, sai che non ho mai fatto una valigia in vita mia.»
    «Vero, ma hai la fortuna di avere un'amica perfettamente organizzata che ti aiuterà nell'arduo compito di preparare tutto il necessario.»
    «Davvero? Avvertimi, quando arriva.» Mi risponde con una smorfia divertente, e dalla risata che subito dopo coinvolge entrambe capisco che quello di ieri sera è stato soltanto un incidente, e che tra noi le cose sono tornate quelle di prima – se non addirittura migliorate. «Immagino che non avrai la pazienza di aspettare che finisca i piatti, perciò direi di darci da fare» aggiungo, prendendo la scatola e avviandomi verso il piano di sopra.



*



Los Angeles, 8 marzo 2014


    «Pensavo che domani potremmo andare a trovare Shannon. Che ne dici?» Jared annuisce con aria mesta. È passato appena un giorno da quando lo hanno lasciato a Cedar Creek, ma sembra trascorso almeno un anno. Per quanto sia già successo di restare separati, questa volta l'assenza di contatti ferisce il cantante più che mai. Constance si avvicina, sorridendo divertita nel vedere il figlio minore disteso sul divano con una mano tesa ad accarezzare le orecchie di Bruce. Da ventiquattro ore i due sembrano essere diventati una sola entità, entrambi tristi e preoccupati per il destino di Shannon. «So che ti ferisce il fatto che non abbia ancora chiamato, ma sono certa che sta bene. Avrà soltanto bisogno di un paio di giorni per ambientarsi.» Tende una mano per accarezzargli i capelli, e Jared, che di solito odia che gli si tocchi la testa, a quel contatto chiude gli occhi, ricordando di quando era bambino e quel gesto era la sola cosa che lo aiutasse ad addormentarsi. «Sta attraversando un momento difficile, ma lo supererà.»
    «So che suonerà egoista da parte mia, ma nemmeno per noi è un gran momento.»
    «Non suona affatto egoista, Jay. Anzi, sono d'accordo con te. Siamo una famiglia, e una delle caratteristiche delle famiglie è proprio questa: quando qualcuno soffre, anche gli altri soffrono.»
    «Quello che mi fa stare peggio è che non sono in grado di aiutarlo. Mi sono sempre vantato di essere bravo ad aiutare le persone, e proprio quando dovrei riuscirci meglio non... non so che fare.»
    «Lo stai già aiutando, Jared. Aiutare gli altri non sempre significa fare qualcosa. Dargli il tuo sostegno e accompagnarlo al Safe Heaven è stata una grandissima prova di quello che sei disposto a fare per aiutarlo a rimettersi in piedi.»
    «Mamma, ti devo dire una cosa» ribatte in fretta l'uomo, mettendosi a sedere all'improvviso. «Ho promesso che avrei mantenuto il segreto, ma a te lo devo dire.»
    «Se è un segreto, non credo che dovresti...»
    «Daria verrà a Los Angeles, la prossima settimana. Arriverà mercoledì mattina, con il volo delle otto» la interrompe il cantante, incapace di tenere oltre la bocca chiusa.
    «Scusa?»
    «Daria verrà a Los Angeles, mercoledì prossimo. Ovvero tra quattro giorni. Quattro giorni e mezzo» si corregge, facendo un rapido calcolo.
    «Da quando lo sai?»
    «Un paio di giorni. Shannon non lo sa, ed è importante che non lo sappia.»
    «Perché non dovrebbe saperlo, scusa? E tu come fai a saperlo? Ti ha chiamato?» domanda a raffica Constance, sconvolta dalla notizia, aggirando il divano per sedersi accanto al figlio.
    «Da un paio di mesi mi sento con la sua migliore amica, Alice» confessa lui, guardandosi per un istante le punte dei piedi. «Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare» aggiunge subito dopo, incontrando lo sguardo confuso della madre.
    «Beh, io ho tempo e tu non hai niente di importante da fare, perciò sputa il rospo.»



*



Cedar Creek, 8 marzo 2014


    A cena mi guardo intorno alla ricerca dello sguardo di Rosalita, senza trovarlo. È strano come ascoltare il racconto di una sconosciuta sia riuscito a farmi dimenticare, anche se soltanto per mezz'ora, il peso dei miei problemi. Solo dopo essere rimasto solo ho compreso appieno il valore del consiglio datomi dal dottor Connors nel primo pomeriggio: aprire non soltanto le orecchie, ma anche il cuore e la mente, e impegnarsi per dare il giusto peso alle questioni che ci affliggono. Mi rendo conto solo adesso che il dottore voleva impartirmi una lezione, e che è riuscito a farlo senza che riuscissi a scovare l'inghippo: voleva che mi mettessi seduto a ripensare alla mia vita, a tutto ciò che è stato, a tutte le persone che ho incontrato, ma soprattutto voleva che mi impegnassi a rimettere tutto in discussione, suddividendo i miei problemi in ordine di gravità, così da poterli affrontare con più efficacia.
    Ci è voluto un intero pomeriggio, ma finalmente sono riuscito ad individuare quello che è il mio problema più importante: la rottura con Daria. Non tanto per il fatto di essere stato lasciato, cosa che non mi era mai successa ma che avevo messo in conto, quanto perché per tutto il breve tempo della storia con lei avevo iniziato ad immaginarmi come un uomo diverso: dal giorno in cui l'ho incontrata, ogni mattina mi sono svegliato domandandomi come sarebbe stato vivere accanto a lei, o se sarei riuscito a limare i miei spigoli per adattarmi alle sue esigenze. Siamo stati insieme per un mese soltanto, vedendoci poco, forse non abbastanza per tenere in piedi una storia, ma per tutto il tempo ho pensato che lei fosse la ragazza giusta, quell'unica donna al mondo in grado di starmi accanto per il resto della vita, quella persona che tutti passano la vita a cercare, spesso senza trovarla mai.
    Il mio più grande problema, ora lo so, è questo: in poco meno di un mese ho reso Daria la mia dea, la mia guida, la mia stella polare; e ora che lei non c'è più, ora che lei ha detto basta ed è diventata la donna di un altro, la mia mente non riesce a riprendersi dalla convinzione che senza di lei sarò perduto.



*



Los Angeles, 8 marzo 2014


    Quando finalmente Jared tace, Constance non sa far altro che sospirare e strofinarsi gli occhi con una mano, priva di parole. Uno dei suoi pregi è sempre stato quello di riuscire a trovare le parole giuste per ogni momento, ma la storia appena raccontata da suo figlio è troppo anche per una donna forte quanto lei. «Quindi tu, un uomo che a malapena riesce a tenere la bocca chiusa quando si tratta dei suoi segreti, hai accettato di tacere riguardo ad una notizia del genere?» riesce poi a dire dopo un paio di minuti di silenzio.
    «Beh, per adesso me la sto cavando abbastanza bene. Non l'ho ancora detto a nessuno» replica lui, che pur trovandosi d'accordo con la madre circa la sua scarsa riservatezza sa di aver superato se stesso, questa volta.
    «Non l'hai detto a nessuno? E io chi sono, un soprammobile?»
    «Tu sei la mamma, e con la mamma non si dovrebbero mai avere segreti» ribatte l'uomo con un sorriso volutamente abbagliante e anche vagamente infantile.
    «Ruffiano» lo rimprovera scherzosamente lei, mettendogli una mano sulla spalla per fingere di spingerlo lontano. «Allora, finisci di raccontare i dettagli: hai consigliato loro un buon albergo? E con i biglietti sono a posto? Hanno bisogno di una mano per qualcosa?»
    «Biglietti e documenti sono in ordine, non ti preoccupare. A meno che non nascondano fucili da assalto nel bagaglio a mano, non dovrebbero avere problemi. Per l'albergo, invece, la loro intenzione era di guardarsi attorno una volta arrivate qui, ma io ho pensato di ospitarle a casa mia.»
    «Accetti di ospitare due estranee in casa tua?» si stupisce Constance, ben consapevole di quanto Jared sia geloso dei propri spazi e delle proprie cose. «Questo desicamente non è da te.»
    «Non sono due estranee» la corregge lui. «Insomma, Daria già la conosco. Non ci siamo frequentati molto, ma posso dire di conoscerla abbastanza bene, ed è una ragazza a posto. E Alice è la sua migliore amica, quindi nemmeno lei dovrebbe essere tanto male, no?» Sorride ancora, e per un istante Constance si chiede se non vi sia sotto dell'altro, qualche oscura ragione che Jared intende tenerle nascosta, e che forse tiene nascosta persino a se stesso. «E poi non mi va che stiano in un albergo, con tutti i matti che ci sono in giro» aggiunge, alzandosi per sgranchirsi le gambe. «E non avrebbe nemmeno senso lasciare che buttino via soldi inutilmente, visto che ho un sacco di camere libere.»
    «Certo, in fondo hai ragione» annuisce lei, mentre Bruce prende il posto del figlio sul divano. «Quindi Shannon non sa niente del suo arrivo?»
    «No, è completamente all'oscuro. Daria non vuole dirglielo per non rischiare che lui la chiami per dirle di non farsi vedere. Se deve essere cacciata via, preferisce che Shannon lo faccia di persona.»
    «Una ragazza coraggiosa... tu pensi che funzionerà? Insomma, credi che solo guardandola negli occhi Shannon starà meglio, si scoprirà felice e contento e tutto si risolverà?»
    «Direi che lo spero, più che crederlo. Non so, è come se nella mia testa avessi sviluppato uno scenario romantico contornato di cuoricini rosa in cui gli basterà vederla per rinsavire e capire che lei è la donna della sua vita, ma... in realtà non ho la minima idea di quello che potrebbe succedere. Lui è ancora profondamente ferito, e come tutte le persone profondamente ferite è anche totalmente imprevedibile. Non so come potrebbe reagire. Per quanto ne so, potrebbe anche mandarla a quel paese.»
    «Cosa pensi che farebbe lei, in quel caso?»
    Jared scuote appena la testa, abbassando lo sguardo. «Purtroppo la conosco abbastanza da essere certo che farebbe le valigie e correrrebbe in aeroporto.»
    «Però? Lo sento che c'è un però, Jay. Con te c'è sempre un però.»
    «Però credo che non le permetterei di tornare a casa così, con la coda tra le gambe.»
    «Sai, non credo che sarebbe una tua decisione.»
    «No, probabilmente no. Probabilmente in questa storia non ci avrei nemmeno dovuto mettere il naso, vista la mia incapacità di gestire persino la mia vita sentimentale, ma... Shannon è mio fratello, e Daria è una persona alla quale sono affezionato, anche se la conosco poco. So abbastanza di loro e li amo abbastanza da sapere che è il loro destino è di stare insieme. E se non ci arrivano da soli a capirlo, allora significa che qualcuno dovrà fare uno sforzo e aprir loro gli occhi.»
    Constance sorride ancora una volta, guardando il suo bambino ormai adulto: sin da quando era piccolo lei ha saputo che sarebbe diventato un uomo forte che non si piega di fronte alle difficoltà, ma ora che riesce a vedere quella trasformazione completarsi davanti ai suoi occhi quasi non le sembra vero di essere riucita a crescere un uomo tanto straordinario, uno che per amore di un fratello sarebbe disposto a qualsiasi sacrificio.



1Conosco le certezze dello specchio, e il fatto che da quelle non si scappa, e ogni giorno mi è più chiaro che quelle rughe sono solo i tentativi che non ho mai fatto. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Siamo chi siamo di Luciano Ligabue, contenuta nell'album Mondovisione (2013).

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Capitolo 5
*** 5 | Sono innamorata, e lo sarò sempre. ***


La lunga strada verso casa - 1
Per vostra (s)fortuna, oggi ho deciso di pubblicare il nuovo capitolo, nonostante avessi deciso di aspettare almeno fino al week-end, solo per il gusto di rovinarvi il divertimento del fine settimana. È un altro capitolo inutile in cui non succede quasi niente, ma dal prossimo vi prometto fuochi d'artificio, o almeno qualche mortaretto.
Sperando di continuare a non deludervi, buona serata.
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo quinto
Sono innamorata,
e lo sarò sempre.1


Torino, 8 marzo 2014


    «Prima che me ne dimentichi, ti ho portato una cosa» dice all'improvviso Alice, sparendo per qualche istante al piano di sotto e tornando con la propria tracolla. «Questo lo devi portare con te assolutamente» aggiunge, tirando fuori il vestito rosso che mi aveva infilato in valigia a tradimento prima del viaggio a Parigi.
    «Quello te lo puoi anche portare via» replico decisa. «L'ho indossato soltanto una volta, e soltanto perché non avevo alternative. È una delle cose più scomode che abbia mai indossato, e non è nemmeno della mia taglia.»
    «Soltanto perché hai più seno di me» insiste lei. «Non dirmi che non ha avuto successo, l'altra volta» aggiunge dopo un istante, ammiccando con aria maliziosa.
    «Mica tanto» rispondo, ripensando alla romantica cena in battello in compagnia di Shannon. «Si è addormentato come un bambino appena ha toccato il letto.»
    «Beh, nella vita tutti meritano una seconda occasione» replica, piegandolo per infilarlo nella valigia aperta a terra. «E non provare a tirarlo fuori e lasciarlo a casa, perché me ne accorgerò e non ti rivolgerò mai più la parola. Quella cos'è?» aggiunge dopo un attimo, guardando la maglietta bianca che mi rigiro tra le mani.
    «La maglietta che Shannon indossava al concerto di Assago, la sera che ci siamo conosciuti» rispondo, passandogliela per permetterle di studiarla meglio. «Me l'ha regalata quando è stato qui. O meglio, me l'ha lasciata su una sedia quando se è andato via, dicendo che voleva che avessi qualcosa di suo.»
    «E intendi metterla in valigia perché...»
    «Perché intendo restituirgliela, nell'eventualità che decida di cacciarmi via a pedate nel sedere.»
    «Lo sai che non si restituiscono i regali? Non è fine.»
    «Non sarà fine, ma non sarebbe giusto tenerla per me, se decidesse di tagliare del tutto i ponti.» Indugio per un istante, ripensando all'altro oggetto che mi aveva affidato, e che ho provveduto a restituirgli già mesi fa. «La prima volta che è stato qui, due giorni dopo esserci conosciuti, mi ha lasciato un libro. Aspettando Godot, di Samuel Beckett.»
    «Sbaglio o è una delle tue opere preferite?»
    «Lo è. Ed è anche una delle sue opere preferite. Era un libro che si portava in giro ad ogni viaggio, e se lo era portato in treno per passare il tempo. Ma quando è partito, ha deciso di lasciarlo a me.»
    «Per quale motivo?»
    «Perché così avrei dovuto restituirglielo, e avremmo avuto un'altra occasione per vederci.»
    «Romantico» è il suo commento. «Sai, non avrei mai pensato che potesse essere capace di gesti così carini. Mi ha sempre dato l'idea di essere un tipo più... fisico. Insomma, uno di quelli che riescono a rivoltarti come un calzino ma non sanno da che parte iniziare quando si parla di sentimenti.»
    «Lo pensavo anch'io, prima di conoscerlo. Pensavo che tra i due Jared fosse l'uomo sensibile, e lui l'animale» aggiungo, spostandomi verso il cassetto della biancheria intima. «Ma poi l'ho conosciuto, e ho capito che c'è un po' di entrambe le cose in lui. Solo, lui non... di solito non mostra quel lato di sé.»
    «Si conserva per le persone importanti» commenta lei, avvicinandosi con un sorriso. «Il fatto che con te sia riuscito a mostrare quella parte di sé dovrebbe dirti qualcosa, non credi?»
    «Credo di averlo capito troppo tardi. Se ripenso a quello che gli ho fatto, io non... non riesco nemmeno a guardarmi in faccia, a volte. Non avevo capito quanto tenesse a me finché non me ne sono andata. Avrei voluto essere meno stupida, ma... beh, piangere sul latte versato mi sembra piuttosto inutile, a questo punto. Stare qui a piangermi addosso non risolverà le cose» concludo, iniziando a scegliere le cose da mettere in valigia.



*



Cedar Creek, 9 marzo 2014


    Quando Darlene bussa alla porta della mia stanza per annunciarmi delle visite, stupidamente mi chiedo chi potrebbe essere. Non appena si sposta vedo il sorriso gioioso della mamma e di Jared, e ho improvvisamente voglia di piangere come un bambino. «Auguri, tesoro mio» mi sussurra la mamma, abbracciandomi, e subito dopo è il turno di Jared, che preferisce farmi gli auguri soltanto dopo avermi stretto tra le braccia, rischiando di incrinarmi un paio di costole. «Ci siamo procurati una copia del regolamento e abbiamo visto che non è vietato portare cibo dall'esterno, perciò ti abbiamo portato una bella torta al cioccolato e una scorta di biscotti» aggiunge lei, mostrandomi l'enorme busta di carta che le penzola dal braccio. «Gli anni non si compiono mica tutti i giorni, no?» dice ancora, facendosi avanti per posare le scorte sulla scrivania.
    «Non avevo voglia di andare per negozi a sceglierti un regalo» dice Jared dopo un istante, facendo spallucce. «Però non volevo venire a mani vuote, perciò ho pensato di portarti una cosa da casa» aggiunge, e soltanto ora noto che si è trascinato dietro una custodia per chitarra. «Portare Christine sarebbe stato più complicato» spiega con un breve sorriso. «Non è vietato suonare, vero?» aggiunge, notando che il mio sguardo non è felice quanto dovrebbe.
    «Sei stato gentilissimo, fratellino» rispondo, cercando di sorridere nel modo più naturale possibile mentre lo scarico del peso. La verità è che io stesso avevo pensato di aggiungere la chitarra ai miei bagagli, prima di trasferirmi qui, ma ho rinunciato dopo aver capito che la musica mi fa inevitabilmente pensare al passato, a quel passato che voglio superare, relegare in un angolo del cuore insieme al dolore, per ricominciare a vivere senza drammi.
    «Come stai, tesoro?» riprende subito la mamma, tastandomi un braccio con fare sospettoso. «Mangi abbastanza? Ti trattano bene?»
    «Mamma, sono qui da un giorno. Non mi dire che mi trovi già deperito!»
    «La buona salute di un figlio è la prima preoccupazione di ogni madre, non lo sapevi?» sorride, e insieme a lei sorrido anch'io, ripensando all'enorme stress cui Jared l'ha sottoposta l'anno scorso, quando si è ridotto ad uno scheletro pur di riuscire ad interpretare al meglio il personaggio di Rayon.
    «Sto bene, mamma» la rassicuro, sapendo che è soltanto una mezza verità: fisicamente scoppio di salute, in effetti. È dentro che sono devastato e ridotto a pezzi.



*


Torino, 8 marzo 2014


    «Hai già pensato a quello che gli dirai quando vi rivedrete?» domanda Alice, piegando accuratamente le magliette che abbiamo scelto insieme. «Insomma, ti sarai fatta un'idea di come potrebbero andare le cose, no?»
    «Ho provato a mettere giù un paio di idee» rispondo, facendo scorrere le stampelle per scegliere quali jeans portare. «Ho persino preso degli appunti, sai, come... per organizzare il discorso, ma... non lo so, una volta scritte sembrano tutte pessime idee. Sembra che mi escano soltanto parole banali.»
    «A volte la semplicità è la scelta migliore.»
    «La semplicità può esserlo, ma la banalità... beh, quella no. Probabilmente ha già compilato una lunga lista delle cose di me che lo fanno arrabbiare. Aggiungerci che sono una persona che non sa scusarsi non sarebbe proprio il massimo.» Le porgo i pantaloni che ho scelto, e resto a guardarla mentre li riduce ad un minuscolo rotolo di stoffa per riuscire a riempire un angolo della valigia. «E poi sembrano tutti discorsi scritti a tavolino, come se li avessi trovati già pronti su internet, o roba del genere. Non voglio parlare come un manuale.»
    «E se provassi a parlare con il cuore?» mi domanda lei, ancora inginocchiata sul pavimento. «Dicono che di solito funzioni.»
    «Sarebbe infinitamente più semplice, questo è poco ma sicuro» sospiro, lasciando perdere l'armadio per avvicinarmi alla scrivania, sulla quale campeggia ancora la mia scatola dei ricordi, rimasta mezza aperta da quando ho tirato fuori la maglietta di Shannon.
    «Posso farti una domanda?» chiede dopo un lunghissimo minuto di silenzio.
    «Da quando mi chiedi il permesso per interrogarmi?» rido, fermandomi non appena mi accorgo della serietà della sua espressione. «Certo che puoi farmi una domanda. Che vuoi sapere?»
    «Quanto lo ami?» Dopo tanti anni, ormai sono assuefatta alla schiettezza di Alice, ma questa domanda riesce comunque a spiazzarmi, facendomi quasi tremare le gambe. È una bella domanda, in effetti: quanto lo amo? «Insomma» riprende, alzandosi da terra per sedersi sul bordo del letto, «ormai abbiamo appurato che la vostra storia è stata molto importante, ma... beh, quanto soffriresti se lui decidesse di tagliarti completamente fuori?»
    Ci penso su per qualche secondo, poi rispondo: «Indefinitamente» sussurro, sentendomi come Julia Roberts nel finale di Notting Hill. «Non lo so, non ci ho mai pensato. Non lo so» ripeto, sentendomi stupida come non mai. «Non credo tenterei il suicidio, se è questo che temi. So di essere una persona piuttosto fragile, ma non credo potrei mai arrivare a tanto. Insomma, per quanto grande potrebbe essere il dolore, riuscirei comunque a trovare abbastanza motivi per restare viva. Credo.» Resto in silenzio per un altro po', sapendo che sta continuando a fissarmi. «Ma non credo nemmeno che resterei indifferente. Insomma, credo che ci starei male, questo sì. Solo che non so dirti quanto male. Ma perché questa domanda?»
    La guardo socchiudere la bocca, come preparandosi ad una risposta, ma subito dopo la vedo abbassare gli occhi e scuotere la testa, come se avesse pensato ad una sciocchezza. «Non lo so nemmeno io» sorride. «Santo cielo, è proprio vero che è difficile parlare di sentimenti, eh?»
    «Decisamente» annuisco, continuando a guardarla chiedendomi se non ci sia qualche altro segreto da rivelarmi. «E sinceramente, non è nemmeno da te iniziare discorsi del genere. C'è sotto qualcosa, per caso? Qualche altro geniale piano concepito in comunione con quel matto di Jared, forse?»
    «Nessun piano, tranquilla. È solo che... non lo so, forse stare con te mi sta facendo diventare sentimentale. Il romanticismo dev'essere contagioso. Ma lasciamo perdere. Forza, passiamo ai completini sexy» aggiunge, avvicinandosi ai cassetti dove tengo la biancheria intima speciale. «Non dobbiamo dimenticarci che potrebbe andare bene, no?» Decido di non rispondere, mentre mi avvicino per aiutarla nella cernita, ma continuo a tenerle gli occhi addosso, certa che ci sia qualcosa che non riesce a dirmi.



*



Cedar Creek, 9 marzo 2014


    Mamma e Jared se ne sono andati verso mezzogiorno, dopo avermi accompagnato in una lunga passeggiata lungo il parco ed essersi assicurati che mi trovi bene e che nessuno mi tratti male. Mentre li guardo salire in macchina e andare via mi sento come un ragazzino mandato in collegio visitato da due genitori particolarmente apprensivi, e la cosa mi fa ridere non poco. Quando ormai sono spariti alla vista, percepisco una presenza accanto a me. Voltandomi, trovo lo sguardo curioso di Rosalita. «Sono venuti a controllare che tu sia ancora vivo?»
    «Sono venuti per assicurarsi che nessuno degli altri bambini faccia il prepotente con me» scherzo, voltandomi per tornare verso l'interno. «Credo siano rimasti un po' delusi dal fatto che mi trovi tanto a mio agio. Mio fratello non vede l'ora di riportarmi a casa.»
    «Evidentemente ti vuole bene e vuole averti accanto.»
    «Credo lo infastidisca il fatto di non essere riuscito ad aiutarmi. Aiutare la gente è la sua missione. Una delle tante, a dire il vero. È sempre stato un buon samaritano.»
    «Ho sempre odiato le persone che insistono tanto per aiutarti. Di solito hanno sempre un secondo fine.»
    «Oh, certamente non Jared. Lui è la persona più sincera che abbia mai conosciuto. Non ha mai preteso nulla in cambio del suo aiuto. E non lo dico soltanto perché è mio fratello.»
    «Non l'ho pensato nemmeno per un istante» ribatte prontamente con un sorriso.
    Entriamo nella struttura, e guardando il grande orologio appeso alla parete mi rendo conto che è quasi ora di pranzo. «Ti andrebbe di mangiare con me? Non ho ancora fatto amicizia con nessuno, e sinceramente mangiare da solo non mi è mai piaciuto» le propongo, sicuro che accetterà.
    Invece lei scuote la testa, senza staccarmi gli occhi di dosso. «Non posso, mi dispiace. Nei giorni dispari pranzo con Georgia» risponde. «Georgia è un'ex alcolista con problemi di depressione, non esce quasi mai dalla propria camera. Non mangia mai con gli altri, non ama stare in mezzo alla confusione.»
    «Perciò pranzi con lei perché...»
    «Perché stare sola non le fa bene, ma la troppa compagnia le è nociva. Io sono una ragionevole alternativa.»
    «Quindi sei una buona samaritana anche tu»» replico, mentre molti degli altri ospiti della clinica iniziano a passarci accanto, diretti verso la mensa.
    «Potrei esserlo, se non fosse una definizione che odio» ribatte, spostandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Cerco soltanto di essere una buona amica. È di questo che la maggior parte di queste persone ha bisogno. A proposito, posso darti un consiglio?»
    «Perché no?»
    «Ho visto la faccia che hai fatto quando hai visto tuo fratello con quella custodia per chitarra.»
    «Come diavolo hai fatto a...»
    «Passavo di lì» mi interrompe con un breve sorriso. «Non conosco ancora la tua storia, non so che cosa ti abbia portato ad avere i problemi che hai, né che cosa ti abbia fatto diventare quello che sei, ma... una cosa che ho capito in tutti questi anni è che se vuoi trovare una soluzione ai tuoi problemi, non puoi farlo chiudendoli a chiave in un cassetto. Per trovare una soluzione devi tenere il problema davanti agli occhi, altrimenti è tutto inutile. Ora devo andare» aggiunge subito dopo, voltandosi per sparire di corsa lungo un corridoio.
    Resto in piedi nell'atrio per un paio di minuti, mentre la gente continua a passarmi accanto sfiorandomi appena, e mi chiedo se riaffidarmi alle corde della mia vecchia chitarra non potrebbe essere un modo per tornare l'uomo che ero.



*



Torino, 8 marzo 2014


    «Posso fartela io una domanda, adesso?» le chiedo un paio di minuti più tardi, incapace di tacere oltre. C'è una cosa che sono terribilmente curiosa di scoprire, e se non gliela chiedo adesso non so se troverò mai un altro momento adatto.
    Alice alza lo sguardo dai miei completini intimi con aria quasi spaventata, nemmeno si fosse trovata improvvisamente nuda davanti alla commissione d'esame nel giorno della laurea. «Che genere di domanda?»
    «Non prenderla male, è soltanto una curiosità che ho voglia di soddisfare» la rassicuro, continuando a rovistare. «Tu e Jared... sì, insomma, davvero quando vi telefonate parlate soltanto di me e Shannon?»
    «Di che altro dovremmo parlare?» risponde con il tono più naturale del mondo, come se fossi soltanto una visionaria – ma dal modo in cui abbassa lo sguardo e torna a rovistare tra le mie mutande, capisco di aver toccato un nervo scoperto.
    «Beh, sai com'è, pensavo che discutere continuamente della telenovela tra me e Shannon alla lunga potesse stancare» ribatto, facendo spallucce. «Pensavo che magari aveste trovato qualche altro argomento di cui discutere. Qualcosa di più interessante di due idioti che continuano a rincorrersi senza incontrarsi mai. Jared coltiva un sacco di passioni, non sarebbe difficile trovare un altro argomento di conversazione.»
    «Che cosa mi stai chiedendo davvero, Daria?» replica, smettendo di rovistare per puntarmi addosso lo sguardo.
    Sentendomi smascherata, smetto di frugare anch'io. «Niente, volevo solo sapere se vi sentite soltanto perché avete uno scopo in comune o se vi trovate simpatici a vicenda. Sto solo provando a vederla in maniera positiva» aggiungo con un grande sorriso. «Sei praticamente una seconda sorella per me, e se le cose dovessero andare bene, tu e Jared diventereste quasi cognati. Non sarebbe una bella situazione se vi odiaste, no? Sarebbe tutto molto più semplice se andaste d'accordo, non credi?»
    Alice scoppia a ridere. «Altro che migliore amica!» esclama, lanciandomi addosso un paio di mutande. «Non riuscirai mai a farmi mettere con Jared, stanne certa» ride ancora, dandomi una leggera spintarella. «Quell'uomo è troppo pieno di sé per i miei gusti. Mi stupisco che non gli serva un trolley per portare in giro tutto quell'ego che si ritrova.»
    Rido anch'io, riabbinando le mutande che mi sono arrivate in faccia con il giusto reggiseno e rimettendole a posto. «Era solo un'idea, tranquilla. Pensavo che forse non sarebbe stato tanto male uscire in quattro.»
    «Come le coppie dei film? Questo mai. Ho ancora una dignità da difendere.»



*



Cedar Creek, 9 marzo 2014


    Seduto sul bordo del letto, mi rigiro la chitarra tra le mani come se non ne avessi mai vista una. È da molto tempo che non la suono, e in verità mi sembra quasi di averne un po' paura. La chitarra è stata il mio primo strumento, e per quanto sia la batteria a rispecchiare la mia vera natura, mi è impossibile non provare una grande emozione quando sfioro una sei corde. Se la batteria mi aiuta ad esprimermi al meglio, coprendo tutto con il suo frastuono, la chitarra mi costringe invece a tirar fuori il mio lato più intimo, quello che di solito riesco facilmente a far tacere. Se così non fosse, non avrei mai scritto L490. Ripensare al pezzo composto per mio fratello mi conduce inevitabilmente a pensare al pezzo composto da mio fratello, quello spartito stracciato in un momento di rabbia, e che ora mi pento come non mai di aver fatto a pezzi, sicuro che sarebbe potuto diventare una canzone straordinaria.
    Sono ancora seduto a pensare se Jared potrà mai perdonare il mio gesto, quando due colpi alla porta aperta mi fanno alzare la testa. «Finalmente l'ho trovata, Shannon» sorride il dottor Connors, appoggiato allo stipite con la stesssa naturalezza di un qualunque visitatore abituale. «Quando non l'ho vista davanti alla porta del mio studio ho pensato che se la fosse data a gambe, ma vedo che ha semplicemente trovato un modo più piacevole per passare il tempo.»
    Guardo l'orologio, accorgendomi che sono già le due e un quarto. «Le domando scusa, ho perso la cognizione del tempo. Non mi ero accorto che fosse già così tardi» mi scuso, appoggiando la chitarra sul letto, come a volerla allontanare da me.
    «Nessun problema, davvero» replica lui con un sorriso e un vago cenno della mano, muovendo un paio di passi avanti. «Mi fa piacere abbandonare il mio habitat, di tanto in tanto. Possiamo parlare anche qui, se per lei va bene. Io ho tutto quello che mi serve» aggiunge, sfilandosi dalla tasca il registratore. Aspetta un mio cenno d'approvazione, poi preme un pulsante, trascinando una sedia accanto al letto. «Shannon Leto, secondo colloquio. Nove marzo 2014.»
    «Vuole che continui la mia storia da dove ci siamo interrotti l'altra volta?»
    «Di norma sì, le chiederei di riprendere da quel punto. Quando si inizia un racconto bisogna portarlo a termine, ma oggi intendo fare uno strappo alle regole. Sono estremamente curioso di conoscere la provenienza di quella stupenda chitarra.»
    «Stamattina mia madre e mio fratello mi hanno fatto visita» spiego. «Oggi è il mio compleanno, e Jared ha pensato bene di farmi un regalo.»
    «Un pensiero molto dolce. A proposito, molti auguri di buon compleanno.»
    «In realtà non si tratta di un vero e proprio regalo. È uno strumento che ho in casa da secoli. Ma se è vero che quel che conta è il pensiero, allora è davvero un buon regalo» ribatto. «E mille grazie per gli auguri, anche se non c'è molto da festeggiare. In fondo, è soltanto tempo che passa.»
    «Il tempo non è sempre una cosa tanto tremenda. Il tempo passa e ci rende più vecchi, questo è vero, ma può anche farci diventare più saggi, più maturi. E non dimentichiamoci che il tempo può anche guarire molte delle ferite che la vita ci infligge.»
    «Ma può anche infettarle e farle bruciare fino a ucciderti.»
    «Immagino che questo ci riporti alla storia della sua vita» sospira, sfregandosi il mento con aria dubbiosa. «L'altra volta abbiamo parlato della sua disavventura in Tennessee, ma dubito che sia stata un'overdose vecchia di più di vent'anni a portarla qui da noi.»
    «In effetti no. È stato un problema molto più recente a portarmi qui.»
    «Le andrebbe di saltare la parte in cui lei e suo fratello raggiungete l'apice del successo per passare direttamente al motivo per cui ha deciso di cercare il nostro aiuto?»
    «Si è già stancato di starsene lì seduto ad ascoltare la mia triste storia, eh?» sorrido, prendendolo in giro.
    «Al contrario. Uno di questi giorni la costringerò a raccontarmi per filo e per segno la storia del votro successo, e anche quel giorno avrà la mia completa attenzione. Ma oggi vorrei che riuscissimo a definire insieme il problema, così da poter iniziare il percorso che potrà portare alla sua risoluzione. Quindi, Shannon, mi dica: qual è il motivo che l'ha portata qui?»
    Rimango in assoluto silenzio per mezzo minuto, pensando al modo migliore per rispondere alla domanda incredibilmente diretta del dottore. «Il motivo per cui sono qui è forse uno dei motivi più stupidi per cui un uomo potrebbe attaccarsi alla bottiglia» rispondo infine, evitando accuratamente di incrociare il suo sguardo. «Una donna» aggiungo in un sussurro, sentendomi più idiota che mai.
    «Credo che resterebbe meravigliato se le dicessi quante persone cadono nel baratro a causa dell'amore. Non è affatto un motivo stupido. È una ragione come un'altra. O forse una ragione ancor più plausibile di molte altre.»
    «Non è una delle cose più tremende che potrebbero capitare ad un uomo.»
    «Questione di punti di vista, temo. Per come la vedo io, perdere per sempre la sola persona che davvero si ama può essere molto più grave di qualsiasi altro evento drammatico.» Sento il suo sguardo su di me, e finalmente mi convinco ad alzare gli occhi. «Perché non mi parla un po' di lei? Le solite cose, quello che racconterebbe ad un amico: come vi siete incontrati, che cosa l'ha colpita di lei, che cosa non le piace... faccia in modo di farla conoscere anche a me.»
    «L'ho conosciuta il due novembre, in Italia. Avevamo appena finito un concerto in una cittadina poco lontana da Milano. Sono uscito dal palasport per fumarmi una sigaretta prima di ritornare in albergo. Mi sono trovato un posto tranquillo, in un angolo nascosto, e lei era lì. Non... non era nascosta per assaltarci, o roba del genere» preciso subito, ansioso come non mai di proteggere la reputazione di Daria. «Con lei c'era un'amica fidanzata con un ragazzo di Milano. Una relazione a distanza, non riuscivano mai a trovare abbastanza occasioni per stare insieme, così lei... aveva ceduto loro la sua macchina. Aspettava che le dessero il via libera per tornare, e nell'attesa si era trovata un angolo tranquillo. Avevo dimenticato l'accendino, ma per fortuna lei ne aveva uno. Le ho offerto una sigaretta, e poi abbiamo iniziato a parlare.»
    «Così, dal niente?» replica lui, stupito. «Insomma, Shannon, senza offesa, ma... che cosa l'ha spinta ad attaccar bottone con una ragazza mai vista prima?»
    «Me lo chiedo ancora adesso» sussurro. «Forse mi sembrava scortese non dire nulla, visto che eravamo così vicini. O forse ero soltanto curioso di sapere perché una ragazza se ne stesse tutta sola in un angolo buio. Forse ero preoccupato che le potesse accadere qualcosa di brutto. Comunque non era la prima volta che la vedevo» preciso. «L'avevo vista poco prima, durante l'incontro con i fan. Era in fila con tante altre persone per avere i nostri autografi, e lei... lei aveva detto una cosa strana, una frase che mi aveva colpito. Qualcosa circa il fatto che realizzare i nostri sogni dà uno strano senso di pace.» Abbasso per un istante lo sguardo, ricordando quel momento come se non fosse più vecchio di questa mattina. «Io avevo risposto che non mi sento mai in pace, perché c'è sempre un sogno più grande dietro l'angolo, e lei... lei disse una cosa magnifica. Disse che forse è proprio questa convinzione a mantenerci vivi.»
    «Una ragazza molto saggia. Dovrei chiederle di venire a lavorare per me» scherza lui.
    Sorrido, passandomi una mano sul vivo. «Forse iniziare a chiacchierare con lei risultò più semplice perché avevamo già parlato, non lo so. Quello di cui sono sicuro è che aveva due occhi stupendi. Mi avevano colpito già durante l'incontro, e quando mi resi conto che avevo la possibilità di guardarli ancora... non so se si sia accorta di quanto mi avessero colpito i suoi occhi. Che poi, successe una cosa strana. Durante l'incontro non sembrava aver paura di guardarmi dritto negli occhi, ma quando ci trovammo soli a parlare, lei... era incredibilmente timida, ma non sembrava un atteggiamento costruito a tavolino. Non sono mai stato bravo quanto mio fratello a capire le persone, ma so che quella sera, mentre la accompagnavo verso il parcheggio, lei era se stessa.»
    «Forse in mezzo alla gente si sentiva più sicura, più forte. L'ambiente circostante può condizionare i nostri comportamenti. Forse l'intimità del vostro secondo incontro la metteva a disagio. In fondo, restavate sempre due persone molto diverse, la rockstar e la fan. Non credo che non sentisse il peso di quella condizione.» Fa una pausa, forse aspettando una mia risposta, ma non so trovar parole per sostenere o abbattere quella teoria: tutto ciò che riesco a fare è continuare a pensare alla mia prima sera con Daria, quando ancora non avevo idea che sarei finito con il cuore spezzato. «Ha detto che stavate camminando verso il parcheggio. Come siete passati a quella situazione?»
    «Disse che ormai i suoi amici dovevano quasi aver finito, perciò voleva avvicinarsi al parcheggio. Disse di poterci andare da sola, ma avevo troppa paura che potesse accadere qualcosa. In fondo era sera tardi, era buio, e io sono sempre stato un cavaliere» rispondo con un mezzo sorriso. «Mentre camminavamo, le si sciolse la lingua. Io continuavo a farle domande, e lei non aveva paura di rispondere. Mi raccontò un sacco di cose della sua vita. Mi disse che faceva la commessa in una libreria, che aveva un fratello e una sorella minori e che sua madre li aveva abbandonati quando aveva soltanto otto anni. Non fu difficile trovare delle affinità, o degli argomenti di cui parlare. Avevamo storie simili. Nemmeno vagabondando cent'anni per il mondo avrei potuto trovare un'anima più affine alla mia. Arrivati al parcheggio, ci accorgemmo che i suoi amici non... beh, avevano ancora bisogno di tempo. Perciò ci sedemmo su un cordolo e continuammo a parlare, come due vecchi amici. Per lei non ero Shannon Leto, in quel momento, ma una persona comune con cui stava facendo due chiacchiere. Non mi sono mai sentito così normale come quando ero con lei.»


*



Torino, 9 marzo 2014


    «Come ha reagito Jared quando gli hai detto che saremmo andate a Los Angeles?»
    «Era felice, credo. E anche un po' scioccato, ma accidenti, non credo di poterlo biasimare. Ma credo che la felicità superasse la sorpresa, se la cosa può farti sentire meglio. È piuttosto giù per la decisione di Shannon di chiudersi in quel centro. Si sente come se avesse fallito come fratello, come se la sua proverbiale capacità di aiutare gli altri fosse venuta meno.»
    «Sì, lui è uno che adora aiutare il prossimo. Soprattutto se si tratta di Shannon. Ti ho raccontato della conversazione che abbiamo avuto a Parigi, no?»
    «Parliamo di quando hai deciso di abbandonare il talamo per andare a bussare alla sua porta? Ovvio che me ne ricordo. Ti ho già detto che è stata la decisione più stupida che tu abbia mai preso? Non si abbandona il letto che condividi con Shannon Leto.»
    Sorrido, mentre preparo una busta con il necessario per la cura della persona. «Non si è rivelata una decisione così tremenda. Quella conversazione con Jared mi è servita molto. Sembra incredibile, ma ha la straordinaria capacità di sapere sempre cosa dire, in ogni situazione. Vorrei essere come lui.»
    «A proposito di saper dire la cosa giusta al momento giusto, probabilmente quello che sto per dire c'entra come i cavoli a merenda, ma... che fine ha fatto la tua collana? Quella con il bullone, intendo. Non l'hai mai tolta nemmeno durante le ore di ginnastica, e ora che ci penso... non lo so, sarà un secolo che non te la vedo addosso. Ricordo che avevi detto di averla data a Shannon, o sbaglio?»
    D'istinto mi porto la mano al collo, che da novembre è rimasto sempre nudo, tranne nelle poche occasioni in cui ho deciso di indossare la mia seconda catenina preferita, quella con la medaglietta di san Giuda ricevuta per la prima comunione. «Credo sia ancora a Los Angeles. O almeno, lo spero. Non me l'ha restituita, quindi credo sia ancora tra le sue cose» preciso subito dopo. «Quando è venuto a Torino la prima volta, mi ha dato il suo libro, e io... non lo so, ho sentito il bisogno di dargli qualcosa di mio.»
    «E il tuo cuore non era abbastanza, dico bene?» scherza lei, sollevando Solo dal pavimento per lasciarlo zampettare libero sul copriletto. «Perché dici spero? Temi che l'abbia buttata via?»
    «In quel caso non lo biasimerei, considerando il male che gli ho fatto. Una parte di me capirebbe un gesto del genere, ma... c'è una parte di me che spera che la porti ancora addosso. La stessa parte di me che spera che non mi rispedisca a calci nel sedere a casa.»
    «Perché gli hai regalato una cosa tanto preziosa? Insomma, non mi hai mai voluto raccontare la storia che c'era dietro, ma presumo fosse qualcosa di importante. Ti conosco, e so bene che tu non sei una che fa le cose tanto per fare. Quindi, ecco, mi chiedo... perché separarti da una cosa che per te era tanto importante?»
    Mi tormento a lungo le dita, prima di rispondere. Conosco perfettamente i motivi che mi hanno spinta ad un gesto simile – ad una follia simile, forse –, ma non so se sono pronta a gridarli al mondo. Poi, in modo del tutto spontaneo, le parole sembrano uscire da sole. «Forse perché per me era più importante che la tenesse lui.» Alice non risponde, ma conosco i suoi sguardi meglio dei miei, e so che mi sta tacitamente chiedendo perché. «Perché sono innamorata di lui, e lo sarò per sempre.»



*



Cedar Creek, 9 marzo 2014


    «Mi perdoni se cambio per un istante argomento» dice all'improvviso il dottor Connors, dopo avermi fatto spiegare per filo e per segno i primi passi della mia storia con Daria, dal giorno in cui l'ho accompagnata a vedere il suo nuovo appartamento a quello in cui mi sono presentato alla sua porta con il borsone in spalla. «Non è da me saltare di palo in frasca, ma adoro soddisfare ogni curiosità. Ho notato la collana che porta, e ne sono affascinata. È di una semplicità disarmante. È un oggetto che ha un significato, oppure è soltanto un oggetto che le piace portare?»
    D'istinto mi porto una mano al collo, ritrovando la forma familiare del cordoncino di cuoio che Daria mi ha consegnato mesi fa, e che da allora non ho mai tolto, nemmeno durante i concerti. Indosso questo strano gioiello da così tanto che nemmeno ricordavo di averlo addosso, come se fosse diventato parte della normalità, come uno dei miei tatuaggi. «Mi ricorda lei» sussurro. «Era di Daria, la ragazza italiana. Quando ci siamo salutati, dopo il primo pomeriggio passato insieme, io le ho dato il libro che mi ero portato per il viaggio. Aspettando Godot, di Samuel Beckett, una delle mie opere preferite. Me lo aveva regalato mia madre, e da allora lo porto sempre con me in valigia. L'ho dato a lei perché così credevo che avrei avuto una buona ragione per rivederla. Nel caso il suo sorriso non fosse stato un motivo sufficiente» aggiungo con un breve sorriso.
    «Una sorta di pegno d'amore, quindi.»
    «Una specie. Certo, quel giorno non sapevo ancora di essere innamorato di lei. Volevo soltanto seminarmi dietro un motivo per rimanere. Un motivo per tornare indietro bisognerebbe sempre crearlo, quando si parte.»
    «Una buona filosofia. E la collana?»
    «Dopo averle dato il libro, lei ha deciso di darmi la collana, dicendo che anche lei voleva avere un motivo per rivedermi. Sapendo la storia che c'era dietro, non... ho capito subito che per lei era importante quanto lo era per me.»
    «Qual è la storia? Se me la vuole raccontare, naturalmente.»
    Mi gratto distrattamente dietro un orecchio, pensando che ormai sono in ballo, e tanto vale continuare. «Quando la madre se ne andò di casa, lei aveva soltanto otto anni. I suoi fratelli erano molto più piccoli, avevano bisogno di essere sorvegliati a vista, perciò stavano quasi tutto il tempo con la nonna. Per facilitare il compito, suo padre la portava spesso con sé nel proprio laboratorio. È un falegname» preciso. «Lei passava molto tempo con lui, e dopo aver finito i compiti, spesso lui le permetteva di dargli una mano. Le affidava piccoli compiti come riordinare le viti o i pennelli, mansioni adatte ad una bambina di quell'età. Una volta, riordinando una scatola di bulloni, lei ne trovò uno privo di dado. Il padre le spiegò che probabilmente il commesso del negozio di ferramenta non li aveva avvitati bene, e che forse il dado era andato perso. Lei rispose che probabilmente lui e la madre si erano lasciati perché non erano abbastanza uniti, come quel bullone e quel dado, e che forse tra loro era finita per questo motivo. Per tranquillizzarla, il padre le rispose che ogni bullone può essere compatibile con molti dadi, e che il fatto che fosse solo non significava che non sarebbe mai potuto stare bene con un altro dado.»
    «Un modo semplice per spiegare ad un bambino la natura delle relazioni umane» sorride il dottore. «Forse non soltanto la ragazza, ma anche il padre dovrebbe lavorare per me.»
    Sorrido anch'io, rigirandomi il bullone tra le dita. «Forse dovrei toglierla. Insomma, sto cercando di dimenticare, no?»
    «Non lo so. Sta cercando di dimenticare o vuole soltanto risolvere un problema? Perché anche se possono sembrare cose simili, in realtà sono lontanissime tra loro. Dimenticare non significa risolvere il problema.»
    «Io voglio soltanto dimenticare tutta questa storia. Dimenticare e andare avanti con la mia vita. Non voglio restare aggrappato al passato.»
    «Ne è sicuro? A volte ricordare il nostro passato può essere utile per affrontare il futuro, e prima ancora il presente. Prenda Rosalita, ad esempio. So che vi siete conosciuti. Le ha raccontato la sua storia, dico bene?» Annuisco, abbassando lo sguardo. «Lei non ha dimenticato niente del proprio passato, ma sarà d'accordo con me nel dire che ci sono un mucchio di cose che la maggior parte della gente vorrebbe dimenticare. Ma lei no. Lei non ha dimenticato nulla, non ha rinnegato nulla. Lei ha capito che il suo passato l'ha aiutata a diventare la donna che è.»
    «Questo è vero, ma lei mi ha dato l'impressione di essere una persona molto forte. Non so se io potrei mai avere la stessa forza.»
    Il dottor Connors si piega lievemente in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, con le mani giunte e gli indici che sfiorano le labbra, come se si stesse preparando ad esprimere una grande verità. «Fino a questo momento lei è stato molto sincero con me, Shannon, e vorrei che continuasse su questo binario. Le farò una domanda precisa, e vorrei una risposta altrettanto precisa. Lei ha mai tolto quella collana, da quando Daria gliel'ha messa al collo?» Scuoto la testa, sentendo la gola chiudersi, come se stessi per mettermi a piangere. Credo di aver capito a quale conclusione vuole arrivare, e in tutta sincerità ne sono spaventato a morte. «Ora le farò un'altra domanda precisa alla quale vorrei una risposta sincera, e per metterla più a suo agio spegnerò il registratore» continua, premendo un pulsante dello stesso. «Perché non si è mai tolto la collana che Daria le ha regalato?»
    «Perché sono innamorato di lei» rispondo, e per la prima volta in vita mia le parole che escono dalla mia bocca sono davvero sincere. Quest'uomo ha un talento del tutto unico nel mettere a proprio agio le persone, spingendole a rivelare ogni loro minuscolo segreto. «Sono innamorato di lei, e lo sarò per sempre.»



1Sono innamorata, e lo sarò sempre. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone White flag della cantautrice britannica Dido, contenuto nell'album Life for rent (2003).

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Capitolo 6
*** 6 | Ti vedrò nella seconda parte, e riprenderemo da dove ci siamo interrotti quando ti ho persa, e ci innamoreremo di nuovo e cambieremo la fine della storia. Sì, torneremo insieme, nella seconda part ***


La lunga strada verso casa - 1
Nessun pesce d'aprile, tranquille. Sto davvero pubblicando il capitolo sei, che spero possa soddisfare le vostre aspettative. Non voglio anticiparvi nulla, perché preferisco che vi prenda un infarto =)
Buona lettura,
EffieSamadhi

P.S.: Alcune di voi mi hanno chiesto, sia tramite recensioni sia tramite messaggi privati, quale sia l'aspetto del dottor Connors, che molte immaginano come un “bonazzo”. In effetti il dottore non è roba da buttare via, in quanto ho scelto come prestavolto Michael Vartan, uno dei protagonisti della celebre serie tv “Alias”.






Per aspera ad astra






Capitolo sesto
Ti vedrò nella seconda parte,
e riprenderemo da dove ci siamo interrotti
quando ti ho persa,
e ci innamoreremo di nuovo
e cambieremo la fine della storia
Sì, torneremo insieme, nella seconda parte.1



Los Angeles, 12 marzo 2014


    Apro gli occhi di scatto, e subito dopo una luce abbagliante mi costringe a socchiudere le palpebre. Mi guardo attorno spaventata, cercando di capire dove mi trovi, quando incontro il sorriso di Alice. «Ah, ma allora sei ancora nel mondo dei vivi! Temevo che il mio primo atto sul suolo degli Stati Uniti sarebbe stato chiamare il 911. Il che, lo ammetto, mi avrebbe esaltata da morire.»
    «Dove diavolo siamo?» borbotto, stropicciandomi gli occhi ancora doloranti.
    «Stiamo sorvolando la California da venti minuti. È meglio che riporti il sedile in posizione eretta e allacci la cintura, perché penso che stiamo per atterrare.»
    «Ma quanto ho dormito?»
    «Hai smesso di rispondere alle mie domande più o meno dopo aver passato il confine con la Francia, quindi sono all'incirca... sì, sette ore buone di incoscienza. Meglio per te, sarà più facile smaltire il fuso orario. Io ho dormito un'oretta sull'Atlantico, ma niente di più. Le mie prime ventiquattro ore a Los Angeles le passerò sembrando uno spaventapasseri.»
    «Credevo non sarei riuscita a dormire nemmeno un minuto, visto che era il mio primo viaggio in aereo» osservo, avvicinando il viso al finestrino per guardare il panorama, e ritraendomi una volta constatato che siamo troppo in alto per i miei gusti. «Non mi hai mai parlato dell'atterraggio. Che si prova?»
    «Oh, è molto simile al decollo, solo che si va nella direzione opposta» risponde lei, continuando a sfogliare distrattamente la sua rivista. «Se sei preoccupata che il pilota possa perdere il controllo e farci schiantare sulle colline di Hollywood, non pensarci. Non è come un incidente d'auto. Nei disastri aerei di solito si muore sul colpo, oppure si viene intossicati in pochi minuti dal fumo del conseguente incendio. Niente vita che ti passa davanti agli occhi, niente panico. Una semplice, rapida, quasi istantanea morte.»
    «Niente panico, dici? Oh, sì, mi stai proprio rassicurando» ribatto in tono secco, assicurandomi che la cintura sia ben stretta, così tanto da togliermi quasi il fiato. «Come se non fossi già nervosa a sufficienza.»
    «Mi conosci, lo sai che non sono una che alimenta false speranze.»

    Nella sala d'attesa dell'aeroporto internazionale di Los Angeles, Jared non riesce a stare fermo. Non riesce nemmeno a mentire a se stesso: non è nervoso soltanto al pensiero di rivedere Daria dopo tanto tempo, ma lo agita anche il pensiero di vedere finalmente Alice, che in tutto questo tempo ha solo potuto immaginare. Constance, che ha lottato con le unghie e con i denti per guadagnarsi il diritto di accompagnarlo, se ne sta seduta a guardarlo con una punta di divertimento, fingendosi interessata ad una brochure sgraffignata al banco delle informazioni. Negli ultimi giorni ha provato ad indagare sulle conversazioni del figlio con l'amica di Daria, e anche se a parole non ne ha ricavato un granche, ormai è convinta che non sia soltanto l'arrivo della ex di Shannon ad agitarlo tanto: sarebbe un azzardo pensare che Jared sia innamorato, soprattutto di una ragazza che non ha mai visto dal vivo, ma di certo non si può dire che quella presenza gli sia del tutto indifferente, visto il suo atteggiamento da gatto selvatico gettato a tradimento in una vasca d'acqua gelida. «Scaverai un buco nel pavimento, a furia di andare avanti e indietro a quel modo» gli fa notare, e a quel punto Jared si ferma e torna a sedersi accanto a lei.
    «Dovrebbero già essere qui. Il loro volo è atterrato da mezz'ora, ma nessuna delle due risponde al telefono. E se non fossero partite e io stessi aspettando due fantasmi?»
    «Innanzitutto, credo che se non si fossero imbarcate avrebbero avuto l'accortezza di fartelo sapere. Secondo, prova a pensare in maniera razionale. Devono scendere dall'aereo, prendere la navetta fino al terminal, aspettare i bagagli, passare la dogana, sottoporsi ai controlli e attraversare tutto il gate fino a qui. Trenta minuti sono un tempo ragionevole. Ci passi la tua vita, in viaggio. Dovresti sapere quanto ci vuole per sbrigare tutta la trafila.»
    «Non mi sono mai accorto che ci volesse così tanto.»
    «Forse perché tu sei sempre circondato da persone che fanno il lavoro sporco al posto tuo.»
    «Dovrebbe essere una critica?»
    «Dovrebbe essere una visione razionale della cosa. E comunque non credo che il loro primo pensiero una volta sbarcate sia stato accendere il cellulare. Magari prima hanno sentito il bisogno di fare una cosa più umana come andare in bagno a darsi una rinfrescata.»
    «L'ultima volta che ho controllato, gli aerei erano dotati di ottime toilette.»
    «Se non vuoi che ti dia subito un pugno su quel naso praticamente perfetto che ho avuto la benevolenza di trasmetterti, ti prego, smettila di agitarti come se avessi un istrice nei pantaloni. Arriveranno tra poco.»

    «Alice, per favore, andiamo. A furia di guardarti, consumerai lo specchio» sospiro, sperando che la mia migliore amica la smetta di ritoccarsi i capelli.
    «Scusa se non voglio avere l'aspetto di una profuga afgana» borbotta lei, passandosi per un'ultima volta il pennello per la cipria sul naso.
    «Mi chiedo se ti importerebbe così tanto del tuo aspetto, se ad aspettarci non ci fosse Jared» la stuzzico, sapendo quanto quel nervo sia scoperto. «In fondo, è soltanto una persona come tante altre. Certo, si veste in modo molto più bizzarro ed è... beh, in effetti è una persona molto bizzarra e molto famosa, ma ti assicuro che sotto sotto è esattamente come noi. Figurati che mi ha vista in pigiama!»
    «Ma non la prima volta che vi siete incontrati.»
    «In effetti, la prima volta che ci siamo visti da vicino avevo la faccia e la maglietta imbrattate di rosso e di simboli. Comunque non ero certo un esempio di eleganza e fascino.» Finisce di riporre tutto nella borsetta e finalmente si stacca dallo specchio. «Se non credessi ciecamente alle tue parole, direi che sei nervosa come ad un primo appuntamento.»
    «Ma smettila» ridacchia, dandomi una leggera spintarella, e in quella risatina nervosa vedo finalmente una crepa: Alice può tentare di mentirmi quanto vuole, ma è innegabile che tenga a fare una buona impressione.

    «Non le vedo» borbotta Constance, allungando il collo per scrutare meglio i visi dei passeggeri che stanno attraversando l'uscita del gate. «Daria più o meno me la ricordo. Alice com'è?»
    «Credo che somigli ad Emma Stone, però bionda. Hai visto The Amazing Spiderman, no?»
    «Veramente no. Oh, aspetta, forse ci sono! Guarda là, sono loro?» Jared guarda nella direzione indicata dalla madre, e il suo cuore salta un paio di battiti. Daria è esattamente come la ricordava, capelli corti e sorriso cordiale, ma la ragazza che le cammina di fianco, con i lunghi capelli biondi e il cappotto blu elettrico... beh, lei è davvero bella quanto l'attrice cui la paragonava il suo fidanzato.

    Non notare i capelli lunghi di Jared è impossibile, soprattutto perché sembrano agitarsi allo stesso ritmo del braccio teso a salutarci. Vederlo mi rende inspiegabilmente felice, come se la sua presenza rendesse più plausibile una lieta conclusione della storia. Sto per correre in avanti per abbracciarlo, quando il mio entusiasmo viene smorzato dalla donna che sta in piedi accanto a lui: sto per conoscere la madre dell'uomo cui ho spezzato il cuore. Sono terrorizzata.
    «Santo cielo, iniziavo a pensare che la polizia aeroportuale vi avesse arrestate per rimpatriarvi!» esclama Jared, scattando in avanti per regalarmi quell'abbraccio che non avrei mai avuto il coraggio di dargli davanti a sua madre. «Avete viaggiato bene? Ci sono stati problemi? Santo cielo, sembri così riposata...» aggiunge subito, mettendomi le mani sulle spalle per allontanarmi e guardarmi bene, cercando un qualsiasi segno che indichi malessere.
    «Sto bene, tranquillo. Ho dormito per quasi tutto il volo, non mi sarei svegliata nemmeno se l'aereo fosse precipitato» scherzo, voltandomi verso Alice giusto in tempo per cogliere il suo sorriso. «So che voi due praticamente già vi conoscete, ma... lei è Alice» aggiungo, scansandomi per dare più spazio alla mia amica.

    Alice e Jared si studiano in silenzio per qualche istante, quasi a volersi convincere di essere davvero uno davanti all'altra. «Piacere di conoscerti di nuovo, Jared» dice lei, porgendogli la mano destra.
    «Un vero piacere anche per me, Gwen Stacy» risponde lui, sorprendendosi di quanto sia forte la stretta della ragazza. «Venite, anch'io devo farvi conoscere una persona» aggiunge, mettendo una mano sulla schiena di entrambe per accompagnarle verso Constance, rimasta indietro durante lo scambio dei primi saluti. «Daria, Alice, vi presento Constance Leto, mia madre. Mamma, queste sono Daria e Alice.»
    «Per fortuna siete arrivate! Se aveste tardato ancora un paio di minuti non so come sarei riuscita ad impedirgli di sfondare il cordone di sicurezza. Non l'ho mai visto così impaziente, nemmeno quando da bambino aspettava l'arrivo di Babbo Natale.»
    Daria tende la mano, pur sapendo che sta tremando come una foglia. «Conoscerla è un vero piacere, signora Leto. Mi hanno parlato moltissimo di lei.»
    «Non dai miei figli, spero. Tendono a parlare troppo bene di me» scherza la donna, ignorando la mano tesa per stringere la ragazza in un formidabile abbraccio, una di quelle strette tanto forti da togliere il fiato. «Sono così contenta di vedervi» sussurra, senza mollare la presa. «Quando Jared mi ha detto del vostro arrivo non vedevo l'ora di potervi incontrare. Temo che l'impazienza sia un difetto di famiglia» aggiunge, lasciando Daria per ripetere l'abbraccio tritabudella anche su Alice, che rivolge all'uomo un'occhiata decisamente truce.
    «So che avevo promesso di mantenere il segreto, ma se non l'avessi detto a qualcuno sarei esploso» si giustifica lui, allargando le braccia con aria innocente. «Se ti può consolare, lei è l'unica a sapere che siete qui.»
    «Suppongo che ora potremmo dirlo anche agli altri» risponde Daria. «Insomma, visto che siamo riuscite ad arrivare qui senza incidenti...»
    «Emma ne sarebbe felicissima. E anche Tomo e Vicki, ne sono sicuro.»
    «Come sta Vicki? Sta andando tutto bene?»
    «Non potrebbe andare meglio. Inizia a somigliare ad una mongolfiera, ma dovresti vedere quanto sono felici quando sono insieme. Magari potremmo invitarli per cena, che ne pensate?»
    «Potrebbe essere un'idea» replica Alice. «Ho sempre desiderato conoscerli. Sembrano due persone stupende.»
    «Discuteremo i dettagli mentre andiamo a casa» ribatte Jared, impossessandosi dei trolley delle due ragazze. «Forza, andiamo, o mi scadrà il tagliando del parcheggio e dovrò pagare una multa.»

    Mentre attraversiamo l'aeroporto, si formano due coppie: Alice cammina qualche passo avanti a me accanto a Constance, scambiando informazioni come se fossero due vecchie amiche che non si vedono da anni. Io cammino accanto a Jared, lievemente rallentato dal peso delle valigie. «Aspetta, dammene una. Non voglio che ti venga un'ernia» propongo, allungando una mano per prendere uno dei bagagli.
    «Non esiste che Jared Leto faccia faticare una donna» replica lui, scansandosi appena. «Piuttosto mi procuro un colpo della strega. Ma dimmi, che effetto ti fa essere qui?»
    «Strano è un aggettivo poco originale?» replico. «Non lo so, non mi sembra ancora vero di essere davvero a Los Angeles. Diamine, questa mattina non riuscivo ancora a credere di aver davvero preso una decisione del genere. Per un attimo ho pensato di non imbarcarmi. Venire qui mi sembrava un'idea così stupida, così folle, così... non lo so, priva di senso
    «Non hai mai avuto un'idea migliore, fidati» sorride lui, scuotendo la testa per togliersi una ciocca di capelli dagli occhi. «Non sono uno sciocco, non mi illudo che andrà tutto bene, ma a prescindere da come finirà questa storia, sono contento che tu abbia deciso di prendere in mano la situazione e venire qui per tentare di aggiustare le cose. È un gesto molto coraggioso.»
    «Sì, e non è assolutamente da me. È la prima volta che prendo in mano la mia vita in questo modo. Quasi non mi riconosco. Non mi sembra possibile di aver fatto una cosa del genere.»
    «Forse questo è un nuovo capitolo della tua vita. Forse hai finalmente voltato pagina, anche se ancora non riesci a rendertene conto.»
    «In un certo senso, in questi mesi sono cresciuta. Sono successe molte cose, non so se Alice ti ha raccontato tutto.»
    «Parli di tuo fratello? Sì, me lo ha raccontato. Ha detto che hai affrontato la situazione con una calma olimpionica. Era molto fiera di te.»
    «Spero che quella calma non mi abbandoni. Ho la sensazione che me ne servirà parecchia» sbuffo, guardandomi attorno per un istante per imprimermi nella mente quanti più dettagli possibile, o forse soltanto per allontanare quella domanda che alla fine riesce comunque a trovare la strada della libertà. «Shannon come sta?»
    «Mamma e io siamo stati da lui domenica, per il suo compleanno» risponde Jared, evitando accuratamente di guardarmi. «Se devo essere sincero, non so dirti come sta. Dovrei vederlo nel suo contesto, per riuscire a dirti davvero come sta. In clinica sembra tutto diverso, come... non lo so, ovattato, smorzato, come se fosse tutto sospeso in un limbo.»
    «Sii sincero con me, Jared. Per favore, sii sincero. Pensi che esista anche una sola possibilità che Shannon mi perdoni per quello che gli ho fatto?»
    Lo vedo abbassare gli occhi in cerca di una risposta, e quando finalmente il suo sguardo torna su di me, il suo bel volto è rovinato da un sorriso preoccupato. «Sarò sincero, Daria. Non ti sei scelta una battaglia semplice. Per vincere dovrai essere pronta a combattere come non hai mai fatto in vita tua.»



*



Cedar Creek, 12 marzo 2014


    Quando apro gli occhi, il mio intero corpo è pervaso da una strana sensazione, come se ogni senso fosse amplificato, il mio intero essere pronto ad accogliere una novità. Mi sento come se qualcosa di nuovo e potenzialmente pericoloso stesse per attraversare la mia strada, e per la prima volta dopo tanto tempo provo di nuovo qualcosa di incredibilmente simile alla paura.
    Subito dopo colazione, comprendo che questo senso di malessere non passerà da solo, a meno di non provare a parlare con qualcuno. Siccome il dottor Connors non c'è, assente da lunedì mattina per un breve giro di conferenze che si concluderà venerdì sera, la scelta ricade ovviamente su Rosalita, che dopo quattro giorni è ancora la sola persona con la quale sia riuscito a stabilire un legame decente – non che non abbia stretto qualche mano, da quando sono entrato qui, ma nessuna persona sembra in grado di aiutarmi quanto lei.
    Dopo una breve ricerca, la trovo nel parco, seduta sulla panchina dove ho passato l'intero pomeriggio di sabato, intenta ad intrecciare i lunghi capelli biondi di una ragazza che non sembra avere più di vent'anni. «Ciao, Rosalita. Avrei bisogno di parlarti.»
    «Quando avrò finito con Amy» ribatte lei, senza alzare lo sguardo e senza smettere di lavorare. «Ci vorranno dieci minuti. Fatti un giro e poi torna qui.»
    Sorpreso per la sua inaspettata freddezza, capisco che insistere non sarà di nessun aiuto – e poi dieci minuti sono un tempo ragionevole. Ne approfitto per fare un giro del parco e scambiare qualche parola con George, una delle persone che ho conosciuto qui. George è davvero un uomo a pezzi, uno che ha passato le pene dell'inferno: cinque anni fa ha perso tutta la sua famiglia – moglie e tre figli adolescenti – in uno spaventoso incidente d'auto le cui conseguenze si porta ancora addosso. È stato proprio lui a raccontarmi la sua storia, appena dieci minuti dopo avermi conosciuto: nonostante la voce ferma e il tono deciso, il suo volto tradiva tutta l'emozione provata nel ripensare al tesoro che ha perso. Il suo racconto mi è stato utile, poiché mi ha aiutato, almeno in parte, a ridimensionare la mia perdita e a guardarla con un maggior distacco, confrontandola ad altri dolori, e aiutandomi a capire che la mia situazione non è una trappola alla quale non si possa sfuggire.
    Quando torno da Rosalita, la trovo sola, ad occhi chiusi, intenta a godersi il calore del sole sul viso. «Ciao» la saluto, sedendomi accanto a lei.
    «Scusa se prima sono stata un po' dura con te» replica, senza aprire gli occhi. «Amy è qui da due settimane, ma fino a questa mattina non ero mai riuscita a stabilire una relazione. Mi sono sentita disturbata.»
    «Sembra una ragazza così normale» sospiro. «Qual è il suo problema?»
    «Beh, lei è una ragazza che viene da una famiglia disfunzionale. Un po' come me» ribatte, aprendo gli occhi e sbattendo un paio di volte le palpebre per abituarsi alla luce. «Aveva trovato la sua strada nella ginnastica artistica. Era davvero brava, un talento raro e naturale» aggiunge. «Poi ha subito un brutto infortunio, e per rimettersi in piedi ha iniziato ad abusare di antidolorifici. Solo che ciò che ti fa stare bene ha la brutta tendenza a prendersi qualcosa in cambio, e quando ha subito il secondo incidente non è più riuscita a riprendersi. È qui perché ha perso il suo sogno e non sa come superare la perdita.» Si volta a guardarmi, fissandomi in un modo davvero fastidioso. «Un po' come te, no?»
    «Non ho perso il mio sogno. Il mio sogno è il mio lavoro, e lo vivo ogni giorno.»
    «Sul serio? Quindi hai suonato ogni giorno da quando sei qui dentro?» mi stuzzica, piegando un angolo della bocca in un sorriso sarcastico. «Allora, di che mi dovevi parlare? Sembrava così urgente, prima.»
    «Non so se sia ancora così importante» sospiro. «Quando mi sono svegliato, stamattina, ho provato una strana sensazione. Ti è mai capitato di aprire gli occhi e pensare che ti sia per succedere qualcosa di grosso, qualcosa che non avevi previsto?»
    «Sì, direi che è capitato. Direi che capita a tutti» precisa. «E siccome non c'è il dottor Connors con cui parlare, sei corso subito da me.»
    «Mi sembrava la cosa più ragionevole da fare. Sei l'unica persona qui dentro che sembra in grado di capirmi bene quanto lui.»
    «Se doveva essere un complimento, ti ringrazio.» Si ravvia i capelli con una mano, distogliendo lo sguardo. «Non mi hai ancora detto che cosa ti è successo.»
    «Credevo lo avessi capito da sola.»
    «Fare delle supposizioni non significa aver capito tutto. Ho capito che c'è qualcosa che ti rode, ma non so di preciso che cosa sia. Siccome sei un musicista famoso, opterei per un cliché: è colpa di una donna» aggiunge con un sorriso, tornando a guardarmi. Notando che il mio volto si è indurito, anche il suo perde l'ilarità. «Quindi ho indovinato? È colpa di una ragazza?»
    «Sono stato lasciato da una ragazza che credevo avrebbe potuto cambiare la mia vita, e che in un certo senso lo ha fatto. È stato un duro colpo.»
    «Perché non eri mai stato lasciato, suppongo.»
    «Al contrario, sono stato lasciato. Il mio primo amore» aggiungo con un breve sorriso. «Mi ha lasciato perché aveva capito che le nostre strade non sarebbero mai riuscite a coincidere.»
    «E la seconda ragazza, invece? Perché ti ha lasciato?»
    «Per lo stesso motivo» sospiro. «Lei è una ragazza normale, una che tutte le mattine si sveglia per andare al lavoro, una che lotta per pagare le bollette e non annegare nei problemi quotidiani, mentre io...»
    «...vai per locali ogni notte e guadagni milioni suonando sempre gli stessi tre pezzi.»
    «Mi sembra che tu stia generalizzando un po' troppo, comunque... sì, più o meno è così.»
    «Ti sembrerà un po' crudele da parte mia, ma... quando l'hai conosciuta non avevi messo in conto che sarebbe potuta finire in questo modo?»
    «All'inizio ho avuto i miei dubbi. Mi sembrava troppo bello per essere vero. Solo che poi ho imparato a conoscerla, e ho iniziato a vedere solo i lati positivi. Insomma, mi sembrava che... che i lati positivi potessero superare quelli negativi. Ho iniziato a credere che se avessimo lottato avremmo potuto farcela.»
    «Ma lei non la pensava così, vero? Si è lasciata prendere dal panico e ha preferito troncare prima che la storia si facesse troppo seria. Quanto è durata?»
    «Un mese. Forse poco meno di un mese» ribatto. «Lo so, so che stai per dire che un mese non è abbastanza per affezionarsi ad una persona al punto di voler trascorrere con lei il resto della vita, ma...»
    «Non stavo per dire una simile assurdità» mi interrompe. «Mi sono messa con Anya poco meno di due settimane dopo averla conosciuta, e ho vissuto una grandiosa storia con lei, ma la mia felicità non è durata più della tua. E comunque ne pago lo scotto ancora adesso.» Guarda di nuovo lontano, come perdendosi per un istante nelle memorie, e poi riprende: «Che cosa ti attirava di più di quella ragazza?»
    «Il fatto che fosse così diversa da me, credo. Io rappresento tutto ciò che di sfasato e anormale c'è al mondo, e lei era l'emblema della normalità. Rappresentava tutto ciò che non ero mai riuscito ad avere, nemmeno da bambino, e mi attirava come una falena è attirata dalla luce. Pensavo che potesse aiutarmi a cambiare la mia vita. Non che volessi lasciare quello che faccio, diventare un uomo comune in mezzo a tanti altri uomini comuni. Mi piace quello che faccio, adoro fare musica, le connessioni che si riescono a creare con le persone attraverso le nostre canzoni, solo che...»
    «...non ti bastava» completa lei.
    «Ho vissuto una vita senza amore, da quando abbiamo iniziato a girare per il mondo. Posso avere praticamente ogni donna che voglio, ma da nessuna di loro posso avere ciò che desidero. Con Daria era diverso. Lei poteva darmi ciò che volevo: la stabilità, la normalità, la certezza che esistesse almeno una persona al mondo in grado di amare me, non la mia fama o i miei soldi. È stata la prima ragazza al mondo a farmi desiderare una famiglia mia, dei figli che ti saltano sul letto per svegliarti la mattina di Natale, spazi comuni da condividere, notti insonni passate a chiedersi se le persone che ami siano al sicuro...»
    «Di' pure che sono cinica, ma a me sembra che tu non fossi innamorato di lei, ma di ciò che lei poteva offrirti.»
    «Forse può sembrare così, ma ti giuro che io amavo lei, solo lei. E quando mi ha lasciato il mondo mi è crollato addosso non perché le mie possibilità di essere normale erano svanite, ma perché lei non era più accanto a me.»
    «Non sembri un uomo che si arrende facilmente. Perché non hai lottato per riprendertela?»
    Sospiro, prendendomi la testa tra le mani. In questo momento vorrei non aver ceduto all'impulso di sfogarmi con Rosalita, perché ora che ho iniziato il racconto dovrò andare fino in fondo, passando di nuovo per l'inferno dei miei ricordi, riportando alla mente ogni singolo dolore, dalla lettera di addio al rumore secco del mio cuore che si spezza nel comprendere che la sola donna che abbia mai veramente amato mi ha già dimenticato.


*



Los Angeles, 12 marzo 2014


    «Benvenute nella mia umile dimora» esclama Jared, spalancando la porta d'ingresso e trascinando i trolley fino in salotto.
    «Porca miseria» sospira Alice, guardandosi intorno. «Speriamo che la casa non sia un modo per compensare altre mancanze...»
    Le do una gomitata, rivolgendole un'occhiataccia: è vero che ha parlato in italiano, il che rende la sua frase incomprensibile sia per Jared che per Constance, ma in qualche modo sono terrorizzata all'idea che qualcuno possa capire quanto ha appena detto. Nel frattempo, Constance ha chiuso la porta e ci ha raggiunte. «Se state pensando che sia un megalomane, avete ragione» sorride. «E non fatevi scrupoli a dirglielo, io non perdo alcuna occasione per ricordarglielo.»
    «Venite, vi faccio vedere subito le vostre camere» interviene Jared, fingendo di non aver sentito il commento della madre. «Avrete anche un bagno tutto per voi.»
    Nel sentire quelle parole rimango impietrita, quasi spaventata dalla sua estrema gentilezza. Lo conosco abbastanza da sapere che per gli amici farebbe questo ed altro, ma non riesco a credere che sia davvero disposto a lasciarci invadere così la sua privacy. «No, Jared, non possiamo approfittare di te in questo modo» inizio a dire, bloccata da una gomitata di Alice, che sillaba in silenzio qualcosa tipo Certo che possiamo. «Possiamo stare in albergo» riprendo, per nulla intimorita dalla mia amica.
    «Col cavolo che starete in albergo» replica lui, senza voltarsi indietro. «Qui c'è abbastanza posto per tutti, e sicuramente non vi farò sprecare denaro. Tanto ci stareste poco, perché ho intenzione di farvi vedere un sacco di posti, mentre sarete qui.»
    «Ma...» tento di replicare, pur sapendo che sarà inutile.
    «Niente ma. Siamo a casa mia, nel mio Paese, ergo comando io.»
    Constance sorride, mettendoci una mano sulla schiena per convincerci a proseguire lungo il corridoio che porta verso le camere da letto. «Scusate, avevo dimenticato di avvertirvi delle sue piccole tendenze dittatoriali.» Mi rassegno ad accettare la decisione di Jared e inizio a muovermi, pur se poco convinta della cosa.



*



Torino, 12 marzo 2014


    Danilo si chiede quale strana ragione l'abbia spinto ad accettare di prendersi cura del gatto di Daria, visto che è sempre stato allergico al pelo dei cani e dei gatti. È proprio per questa ragione che, nonostante le insistenze dei figli, non ha mai accettato di prendere animali in casa. Forse ha accettato soltanto perché era la sua bambina a chiederlo, e ad un figlio è sempre difficile negare qualcosa. La sua unica speranza è che fosse Francesca a prendersi cura del micio, tenendolo confinato in camera sua, in modo da smorzare il fastidio. Solo che quella sciocca palla di pelo sembra aver sviluppato un morboso affetto per lui e si ostina a seguirlo ovunque, persino quando va in bagno. Ma il colmo arriva quando il gatto cerca di arrampicarsi sul piumone per arrivare sul letto. Danilo sbuffa, scosta le coperte, afferra con due mani l'animale, pronto a sgridarlo come non ha mai fatto nemmeno con i suoi stessi figli – ma a quel punto avviene l'impensabile: il gattino risponde alla sua espressione truce con due occhi tristi, che sembrano quasi colmi di lacrime, e Danilo capisce che a quel gatto, come a lui, semplicemente manca Daria. «Scommetto che quella sciocchina ti lascia dormire con lei, eh?» sospira, ricacciandosi in gola le parole dure che era intenzionato a dire. «E scommetto che ti manca da morire» aggiunge, ricacciando indietro anche uno starnuto. «E va bene, ma solo per questa notte. E guai a te se mi sporchi il piumone» si arrende, lasciandogli appoggiare le zampe sulla coperta e guardandolo mentre muove qualche passo qui e là cercando il punto più comodo nel quale acciambellarsi. «Roba da matti» sospira, allungando una mano per spegnere la lampada. «Roba da matti» ripete ancora, a voce più bassa, coricandosi.


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Cedar Creek, 12 marzo 2014


    «Come credi che reagiresti, se lei si presentasse alla tua porta... che ne so, domani?»
    «Non ne ho idea» ammetto. «Una parte di me vorrebbe prenderla a schiaffi, credo.»
    «Dubito che sarebbe una buona idea» replica. «Il punto è questo: in mezzo a tutte le parti di te, ce ne sarebbe una disposta a perdonare, se lei venisse qui per chiederti scusa?» Ci rimugino sopra a lungo, in silenzio, cercando ogni scusa possibile per evitare lo sguardo indagatore di Rosalita, e finendo con il fissarmi le scarpe. «Direi che il tuo silenzio la dice lunga» prosegue lei. «Se hai bisogno di tanto tempo per trovare una risposta, significa che hai dei dubbi. E questo mi dice che quella parte di te esiste, e che se lei si presentasse qui chiedendoti scusa non sapresti cosa dire né che fare, perché una parte di te vorrebbe mandarla a quel paese, ma un'altra parte vorrebbe stringerla forte e ricominciare da capo.»
    «Sono proprio un gran casino, eh?»
    «Non ti esaltare. Al mondo c'è chi è messo peggio di te.»



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Los Angeles, 12 marzo 2014


    Nonostante il lungo sonno fatto in aereo, ho passato il pomeriggio a dormire, così come Alice, e quando riapro gli occhi sono già le sei di sera. Mi sono appena alzata quando qualcuno bussa alla porta della mia stanza. Vado ad aprire, ed è Jared. «Ciao» mi sorride. «Hai riposato bene?»
    «Ho dormito come un ghiro» confesso. «Mi sento un po' in colpa, visto che avevo già dormito in aereo» aggiungo, stiracchiandomi appena. «Alice è sveglia?»
    «Da mezz'ora. Si è fatta una doccia e ora sta facendo amicizia con mia madre» sorride ancora. «Volevo solo avvertirti che ho sentito Tomo e Vicki e li ho invitati a cena. Saranno qui verso le sette e mezza. Ho detto loro che avevo una sorpresa da mostrargli.»
    «Sono contenta di rivederli» rispondo, spostandomi per aprire la valigia e cercare qualcosa di pulito da mettere dopo la doccia che ho un disperato bisogno di fare. «Mi sono mancati.»
    «E tu sei mancata a loro, credo» replica. «Sei mancata anche a me. E a Shannon, naturalmente. Non ci siamo visti molto, e probabilmente non ci conosciamo nemmeno, ma... eravamo tutti abituati ad averti nelle nostre vite, in un certo senso.»
    «Se stai cercando di farmi sentire in colpa, non hai bisogno di impegnarti. Mi faccio orrore da sola.»
    «Non è mia intenzione farti sentire in colpa» risponde, ficcandosi le mani in tasca. «Scusa se ti ho dato quest'impressione. Di solito sono un bravo oratore.»
    «Me lo ricordo bene. Non sono ancora riuscita a dimenticare il discorso di Parigi. Quello che hai tenuto durante il concerto» preciso. «Mi vergogno immensamente del mio comportamento. Ti giuro che darei tutto quello che ho per tornare indietro e rimanere in quella stanza d'albergo.»
    «Hai soltanto avuto paura. È una reazione più che naturale. Sinceramente, sarei rimasto stupito se non ne avessi avuta neanche un po'. Non mi piacciono le persone che non hanno mai paura di niente. Sono pronte a tutto, e questo non sempre è un bene.»
    «Con me allora si va sul sicuro» scherzo, appoggiando i vestiti che ho scelto sul letto. «Ho avuto paura di un sacco di cose per la maggior parte della mia vita.»
    «Ma non di salire su un aereo e andare dall'altra parte del mondo per cercare di riparare ad un errore.»
    «Ho soltanto imparato a nascondere meglio i miei sentimenti, ma ti assicuro che sono spaventata come non mai» replico. «Non so nemmeno da che parte iniziare per chiedere scusa.»
    Lo osservo abbassare lo sguardo e mordicchiarsi appena un labbro, come se stesse tentando di reprimere una domanda scomoda. «Ti andrebbe... ti andrebbe di vedere Shannon... che ne so, domani
    «Domani?»
    «O puoi aspettare ancora, se vuoi. Non voglio assolutamente obbligarti a fare qualcosa che non vuoi.»
    «Non credo che aspettare un giorno cambierebbe le cose. Ho paura oggi, ne avrò domani e ne avrò sicuramente anche tra due giorni. E poi non posso restare qui per sempre. Ho soltanto una settimana per provare ad aggiustare le cose. Se c'è una cosa che ho imparato in questi mesi, è che non bisogna mai perdere tempo. Soprattutto quando si tratta di...» mi blocco, incerta circa il termine da usare.
    «Amore?» suggerisce lui, sorridendo ancora una volta. Annuisco, incapace di dire altro. «Allora va bene, è deciso. Domani mattina andremo a trovare Shannon. Ti lascio finire di prepararti.» Si volta, lasciandomi di nuovo sola, e al pensiero che tra poco più di dodici ore rivedrò l'unico uomo al mondo di cui mi sia veramente importato le mie ginocchia iniziano a tremare come quelle di una ragazza interrogata in trigonometria.


*



Cedar Creek, 12 marzo 2014


    «Ciò che mi più infastidisce è che non riesco a levarmela dalla mente. Vorrei riuscire a non pensare a lei, vorrei riuscire a dimenticarla, ma non importa quanto ci provi. Lei continua a ritornare.»
    «Continui a credere che per superare un dolore sia necessario dimenticarlo. Devi ficcarti in quella testa dura che le due cose non sono collegate. Si può superare un dolore continuando a tenerlo nel tuo cuore. Tutto ciò che devi fare è lavorarci su per trasformarlo da dolore a ricordo. Sono certa che non sia la prima volta che ti succede qualcosa di brutto. Non dirmi che hai rimosso dalla memoria ogni esperienza traumatica.»
    «Beh, no. Ma credo sia impossibile dimenticare ogni dolore.»
    «Appunto. Devi provare ad elaborare quello che ti è successo, prendere il male che quella ragazza ti ha fatto e chiuderlo in un cassetto della memoria insieme a tutte le altre esperienze brutte della tua vita.»
    «E come diavolo dovrei fare, sentiamo?»
    «Questo è l'unico punto sul quale nessuno può darti consigli, né io né il dottor Connors. Ognuno ha un suo modo per elaborare il dolore. Devi trovare il tuo, e impegnarti con tutte le tue forze per metterlo in pratica. Ma ti devi impegnare davvero, altrimenti non servirà a niente.» Guarda l'orologio, alzandosi. «Adesso, scusami, ma devo andare. Ho promesso a Georgia che sarei passata a trovarla. «Shannon, io credo che tu possa farcela. Sul serio, in credo in te. So che in fondo non ti conosco, ma qualcosa mi dice che in qualche modo ne uscirai.»
    «Oh, sicuramente ne uscirò. Frantumato in un milione di pezzi, magari, ma ne verrò fuori.»
    «Ne uscirai intero, te lo assicuro. Ne uscirai più forte di prima. Me lo sento.»



*



Los Angeles, 12 marzo 2014


    Seduti attorno al tavolo della sala pranzo, sembriamo un gruppo di vecchi amici: è come se Alice ed io non fossimo le due straniere ospiti di Jared, ma parte integrante di una bizzarra famiglia, e questo riesce in un certo senso a cancellare un po' del mio senso di paura. Stare in mezzo a gente che ride e scherza e si comporta con tanta naturalezza e cortesia mi fa sentire sola e meno impaurita, riuscendo a far sembrare la montagna che mi si staglia davanti una semplice collinetta. Rido quando Constance racconta aneddoti imbarazzanti sull'infanzia di Jared, sorrido quando si parla della gravidanza di Vicki e la ascolto battibeccare con il marito circa il nome che daranno ai loro figli, e nemmeno per un istante penso che domani a quest'ora starò in piedi davanti al mio destino, sperando che questi non decida di schiaffeggiarmi.


*



Cedar Creek, 12 marzo 2014


    Dopo cena resto a lungo sdraiato sul letto con lo sguardo fisso sul soffitto, ripensando alle parole di Rosalita. Se ho ben interpretato le sue parole, il modo migliore per superare la rottura con Daria è tenere costantemente sotto gli occhi ciò che più me la ricorda, visto che di dimenticarla proprio non se ne parla. Spingo i piedi giù dal letto e recupero il borsone dal fondo dell'armadio. Ci frugo dentro, trovando subito quegli oggetti che nemmeno volevo portare con me, ma che per qualche motivo. Usando un vecchio rotolo di scortch pescato dal fondo di un cassetto della scrivania, appicco ad una delle ante dell'armadio la fotografia scattata dai turisti giapponesi durante il nostro primo pomeriggio insieme e i fogli che compongono la sua lettera d'addio. Una volta finito, mi siedo sul letto a contemplare la prova della mia felicità e le parole che l'hanno distrutta, chiedendomi se questo mi aiuterà davvero a superare i miei guai, o se non farà altro che precipitarmi ancora di più nell'abisso. Scuoto la testa, cercando di allontanare i dubbi, e per riuscirci meglio imbraccio la chitarra, iniziando a suonare Bright lights, quella che era la canzone preferita di Daria, e che per tanto tempo è stata anche la mia.



1Ti vedrò nella seconda parte, e riprenderemo da dove ci siamo interrotti quando ti ho persa, e ci innamoreremo di nuovo e cambieremo la fine della storia. Sì, torneremo insieme, nella seconda parte. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Part two di Brad Paisley, contenuta nell'album Part II (2001).

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Capitolo 7
*** 7 | Arrendersi è più facile, quando entrambi lasciamo perdere. ***


La lunga strada verso casa - 1
Come sempre, grazie per le meravigliose parole che lasciate nelle recensioni e nei commenti su Facebook. Non merito tanta bontà da parte vostra, ma non posso che essere felice di essere l'oggetto di tanti complimenti. Per ringraziarvi a dovere avrei voluto postare al più presto il settimo capitolo, ma per una serie di motivi non mi è stato possibile (per chi di voi non mi segue/ha tra gli amici di Facebook, la notte di Pasqua è venuto a mancare il mio bisnonno, quindi ci sono stati un paio di giorni piuttosto difficili a livello familiare). Comunque ciò che conta è che adesso sono qui, e sono pronta a ricevere i vostri insulti.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo settimo
Arrendersi è più facile,
quando entrambi lasciamo perdere.1



Cedar Creek, 13 marzo 2014


    «Nervosa?» domanda Jared, e alla sua domanda non so davvero come rispondere. Improvvisamente vorrei poter fare inversione, farmi riportare in aeroporto e imbarcarmi sul primo volo per l'Italia, senza passare dal via. Improvvisamente l'idea di rivedere Shannon non mi sembra più così buona, e altrettanto improvvisamente mi sembra di aver solo finto di avere il coraggio di rivederlo e parlargli. Le gambe mi tremano, così come la mano che si tiene aggrappata al meccanismo di apertura dello sportello dell'auto. «Sicura che non vuoi che veniamo con te?» Scuoto la testa, mentre dal sedile anteriore anche Alice si volta a guardarmi, cercando di capire il mio stato d'animo – ma nonostante tutta la sua empatia, nemmeno lei può davvero capire come mi senta in questo cruciale momento.
    «No, ci devo andare da sola» sussurro infine, guardando i cancelli della clinica come se si trattasse di un alto muro in mattoni circondato da rovi e sormontato da metri di filo spinato. «Se ti vedesse con me potrebbe sentirsi costretto ad ascoltarmi, e non voglio che pensi di non avere scelta. E poi è una trappola in cui mi sono infilata da sola, ed è così che intendo uscirne.»
    «Va bene» sospira lui, tornando a guardare avanti. «Io porto Alice a fare un giro qui nei dintorni. Quando vuoi che veniamo a prenderti, basta chiamare» aggiunge, tornando a guardarmi con un sorriso.
    «In bocca al lupo» sussurra Alice con un filo di voce, voltandosi per sfiorarmi un ginocchio con la mano. Sorrido, apro lo sportello e metto i piedi fuori dall'auto, sperando che le ginocchia non mi tradiscano.

    Darlene bussa alla porta aperta annunciandomi una visita, e il mio pensiero corre subito a mia madre e Jared, anche se domenica avevano detto che forse non sarebbero riusciti a venire a trovarmi fino a sabato. Felice comunque di poterli vedere, mi infilo le scarpe ed esco, diretto verso il parco, là dove Darlene mi ha detto di dirigermi.
    Sono a meno di dieci metri dal grande salice sotto il quale mi siedo spesso per pensare quando mi accorgo che a farmi visita non è né mia madre né mio fratello, né Tomo, Vicki, o una qualunque delle persone che avrei mai pensato di trovarmi di fronte. La persona che mi aspetta è in piedi e mi dà la schiena, ma nemmeno in un milione di anni potrei dimenticare quella figura, quei cortissimi capelli castano chiaro, o il modo in cui tiene le spalle sempre contratte, come a voler occupare meno spazio possibile nel mondo. Il primo istinto è quello di voltarmi, tornare dentro e chiedere a Darlene di cacciarla via, ma i miei piedi si rifiutano di obbedirmi, e quando Daria si volta, persino più bella di quanto la ricordassi, ogni possibilità di sfuggire al destino svanisce.

    Shannon è in piedi a meno di dieci metri da me e non riesco a capire che cosa significhi l'espressione che ha dipinta sul volto, ma di certo non fatico ad accorgermi che è diverso da novembre. Non è soltanto il nuovo taglio di capelli, ma la sua intera figura, la sua postura, e più di tutto il suo sguardo. Questa distanza, quattro mesi fa, l'avrebbe annullata di corsa, e subito mi sarei ritrovata a non respirare più, stretta tra le sue braccia, e sicuramente dalla mia bocca, impegnata a baciare la sua, non sarebbe uscito un filo di fiato. Ma oggi è tutto diverso, questo è chiaro – me lo aspettavo, questo è vero, ma ho sempre saputo che non sarei mai stata pronta ad affrontare questo momento. Chiudo gli occhi per un istante, prendendo fiato, pur sapendo che potrebbe approfittare di questo istante di pausa per voltarmi le spalle, lasciandomi sola e senza la possibilità di spiegarmi. Quando li riapro, però, lui non è scomparso, anzi: si è fatto più vicino, anche se dalla sua espressione comprendo che le cose non si stanno mettendo meglio, per niente.

    «Come sei arrivata qui?» Vorrei tanto risultare meno irritato o sgarbato, ma la mia voce sembra voler fare ciò che il mio corpo rifiuta: allontanare Daria, spingerla via e relegarla al rango di semplice ricordo.
    «Io ho... mi ha accompagnata tuo fratello.»
    «Sì, ma... che cosa vuoi?» Ancora quel tono duro e astioso che avrei pensato di usare con tutti, fuorché con lei.
    «Volevo parlarti» risponde, abbassando lo sguardo. «So che è passato tanto tempo e che forse nemmeno vorrai ascoltarmi, ma... non potevo non tentare. Dovevo tentare» aggiunge dopo una breve pausa. «Mi rendo conto che probabilmente in questo momento stare ad ascoltarmi è l'ultima delle cose che vorresti fare, ma... vorrei davvero che lo facessi. Non mi servirà molto tempo.»
    «Se vuoi che ti ascolti, ti ascolterò» rispondo, e finalmente il mio tono si ammorbidisce, sebbene sia ancora lontano anni luce dalla dolcezza di un tempo. La verità è che, per quanto questi mesi mi abbiano condotto sull'orlo dell'odio, c'è sempre una parte di me che non sarà capace di rifiutarla, mai.
    «Possiamo... possiamo sederci?» domanda, spostandosi di qualche passo verso la panchina. Senza dire una parola, mi avvicino e aspetto che si accomodi, facendo attenzione a sedermi molto lontano da lei, così tanto che rischierei di cadere, se non ci fosse il bracciolo a trattenermi. «Ormai è più di un mese che Jared parla con la mia migliore amica, Alice» inizia, e a quella notizia spalanco gli occhi per la sorpresa. «Non chiedermi come sia cominciata, perché è una storia davvero molto lunga e complicata» aggiunge, smettendo per un attimo di tormentarsi le dita e appoggiando i palmi aperti sulle cosce coperte dai jeans. «So che a gennaio Jared ti ha regalato un biglietto aereo per Torino, e che verso la fine del mese l'hai usato» continua, mentre la sua voce va acquistando sicurezza. «So che hai aspettato per ore sotto casa mia, e che alla fine mi hai vista tornare insieme ad un uomo. So che sei saltato di nuovo su un aereo e sei tornato qui, e immagino che da quel momento tu abbia cominciato ad odiarmi. Saresti uno stupido, se non lo avessi fatto. O forse vorrebbe dire che non tenevi a me, e questo sarebbe ancora peggio, dal mio punto di vista.» Fa un'altra pausa, durante la quale non riesco a fare altro che fissarmi le scarpe. «So che hai avuto dei problemi, e che sei venuto qui per risolverli. Solo che... beh, so di essere io il problema, o almeno di esserne una parte, e ho pensato che fosse doveroso venire qui per... beh, chiederti scusa per questo.» Alla parola scusa alzo di scatto la testa, voltandomi verso di lei, che continua a tenere lo sguardo fisso davanti a sé. «Quando me ne sono andata da Parigi ti ho chiesto di non cercarmi, e anche se subito ero contenta che avessi deciso di accontentarmi, dopo un po' ho... ho iniziato a pensare che tutto ciò che avevamo vissuto non fosse così importante per te. Una parte di me ha sempre creduto che saresti venuto a cercarmi anche in capo al mondo, e accettare che tu non saresti tornato indietro è stato orrendo.»
    «Non venire a cercarti è stata la cosa più difficile che mi sia mai costretto a fare» dico finalmente, tornando a guardare il prato che si stende davanti ai miei piedi. «Sapevo che se non avessi rispettato la tua decisione probabilmente avrei finito con il perderti, ma rinunciando ad assecondare i miei istinti alla fine ho quasi perso me stesso.»
    «E io mi sento un mostro per aver permesso che accadesse» ribatte, e in quel preciso istante sento che il suo sguardo è fisso su di me. Mi costringo a non voltarmi, perché so che se lo facessi, i suoi occhi compirebbero di nuovo quella magia che a novembre mi ha legato a lei, e io non voglio cadere di nuovo in quella trappola. «Quando ho capito che non saresti venuto a riprendermi mi sono costretta ad andare avanti, ed è stato... orribile. Dentro di me sapevo che era la cosa sbagliata, che avrei dovuto chiamarti e provare ad aggiustare le cose subito, ma non... non ci sono riuscita. Credevo fermamente in ogni ragione che avevo espresso in quella maledetta lettera, e sentivo che se fossi tornata sui miei passi tu avresti pensato che non ero attendibile, che fossi una che cambia continuamente idea, e che ti avrei perso. Così mi sono costretta ad andare avanti, e ho accettato di uscire con Marco, il mio capo. È con lui che mi hai vista, quella sera. Siamo usciti a cena insieme tante volte, sempre come amici, e improvvisamente è saltato fuori che lui è sempre stato innamorato di me. Non ho mai provato quel tipo di sentimento per lui, ma ho accettato perché volevo disperatamente andare avanti, e lanciarmi in una nuova storia con una persona che diceva di tenere a me sembrava la scelta migliore. E invece, alla fine, la storia con lui non ha fatto altro che ricordarmi che il mio cuore era da un'altra parte.» Sento la mascella serrarsi, mentre con gli occhi della mente rivivo quella dannata sera, quando la mia speranza è crollata a pezzi sul marciapiede ghiacciato nel vedere la sua splendida bocca incontrare le labbra di un altro. «Con lui è durata soltanto un paio di settimane, poi ho capito che non stavo ferendo soltanto me stessa, ma anche lui. Lo stavo prendendo in giro, e lui non meritava questo. È una brava persona, e non meritava che gli spezzassi il cuore. Non dopo che avevo già spezzato il tuo. Per la prima volta nella mia vita sono stata davvero sincera con un'altra persona, e gli ho parlato di te. Gli ho raccontato del modo ignobile in cui ti avevo ferito, e di quanto avrei voluto poter tornare indietro per compiere scelte diverse. Lui ha capito, mi ha perdonata, e per un momento mi sono sentita meglio. Ancora molto lontana dalla serenità, ma sicuramente mi sono sentita molto meglio, come se per la prima volta stessi facendo la cosa giusta.»
    «Perché mi stai parlando di lui?» domando, e il mio tono torna a farsi sgradevole, tagliente, come se le parole fossero la mia unica arma di difesa.
    «Perché lui mi ha aiutata a capire quello che dovevo fare, in un certo senso. Un'altra cosa che mi ha aiutata a capire ciò che dovevo fare è stato scoprire che mia madre vive a due quartieri di distanza da me, che si è risposata e che ha avuto un altro figlio» aggiunge con un filo di fiato. Alzo lo sguardo su di lei, e per un attimo incontro i suoi grandi occhi chiari, quasi lucidi di lacrime. «Ho un fratello di undici anni del quale non sapevo niente, e dopo quindici anni di niente mia madre mi ha chiesto di conoscerlo e provare a costruire un rapporto con lui, perché il padre è morto e lei desidera che abbia qualcuno su cui fare affidamento nel caso accadesse qualcosa di brutto. Non è stata una notizia semplice da accettare, ma poi ho capito che era ciò che andava fatto, e così... beh, ci ho guadagnato un fratello, e sto anche cercando di recuperare il rapporto con mia madre, nonostante abbia passato gli ultimi quindici anni ad augurarle un pessimo destino.» Serra per un istante le labbra, forse per reprimere le lacrime. «Questo mi ha fatto capire che non importa quanto tempo sia passato, o quante cose brutte siano successe: c'è sempre tempo per fare un tentativo, anche quando ogni speranza sembra morta. Per questo ho deciso di prendere un aereo e venire qui a chiederti scusa.»

    Quando Shannon parla, dopo un lunghissimo minuto di silenzio, il suo tono è di nuovo più dolce, come se nel profondo del cuore stesse valutando la possibilità di perdonarmi per il male che gli ho fatto. «Che cosa ti aspettavi, venendo qui? Che ti perdonassi e che tra noi le cose tornassero quelle di prima?»
    «In confronto a te sono una ragazzina, me ne rendo conto, ma questo non fa di me un'ingenua. Non mi sono illusa nemmeno per un istante che sarebbe bastato guardarmi per decidere di perdonarmi, o che sarebbero bastate due frasi di circostanza per convincerti a riprendermi nella tua vita. Onestamente, non credevo nemmeno di riuscire a convincerti a sederti qui con me per ascoltare ciò che avevo da dirti.»
    «Onestamente, per un momento ho pensato di tornare dentro e mandare la sicurezza a cacciarti via.»
    Sorrido, anche se soltanto per un istante. «Le cose tra noi non sono mai state semplici, Shannon. Entrambi abbiamo cercato di vedere soltanto il bello, ci siamo raccontati un mucchio di bugie per convincerci che sarebbe bastato amarci per abbattere le difficoltà, ma la verità è che niente è mai stato semplice, nella nostra storia. Sarebbe da sciocchi credere che possa esserlo questa fase.»
    «Che cosa ti aspetti da me?»
    «Che vuoi dire?»
    «Che cosa pensavi sarebbe successo, mentre venivi qui?»
    «Se fossi riuscita a non farmi cacciare, intendo? Non lo so. Una parte di me sperava che riuscissi a perdonarmi e tornasse tutto com'era prima, ma un'altra parte di me credeva e crede ancora che non riuscirò mai ad avere il tuo perdono. E poi c'è una piccolissima parte di me che spera di essere mandata via a calci nel sedere, perché non merito nulla più di questo.»

    Daria si alza e muove un paio di passi, allontanandosi appena da me. «Non so se posso perdonarti» sussurro, e anche senza alzare la testa riesco ad immaginare la tristezza del suo sguardo: in fondo, è sempre stata una ragazza romantica che crede al lieto fine, e non posso credere che quanto ho appena detto non la ferisca. «Onestamente, non credevo avrei mai vissuto un momento simile. Non so come comportarmi. Non so nemmeno come sentirmi, dannazione.»
    «Non pretendo certo che tu mi risponda subito» replica, voltandosi a guardarmi con le braccia strette attorno al corpo come un'armatura. «Non pretendo nemmeno una risposta, forse. Per me tutto ciò che importava era venire qui per chiederti scusa di persona, perché questo lo meritavi.»
    «Non è colpa tua se sono qui» sento il bisogno di dire. «I problemi che voglio risolvere... ecco, forse erano già presenti anche prima che mi lasciassi. Forse erano presenti ancora prima che ci conoscessimo, e tu... forse tu li hai soltanto scatenati. Ma non importa da quanto tempo li avessi, o che cosa li abbia riportati a galla. Il fatto è che ora sono qui, ora li vedo chiaramente davanti ai miei occhi, ed è ora che li devo affrontare, altrimenti non... non riuscirò mai più ad essere l'uomo che ero.»
    «Lo capisco» sussurra, abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe. «Se i tuoi problemi sono grandi la metà di quelli che ho dovuto affrontare io, è giusto che...» Si interrompe quando sente una voce femminile chiamare il mio nome. Alziamo entrambi lo sguardo verso la direzione da cui proviene il suono: è Rosalita, che mi saluta agitando un braccio e si sta avvicinando a passo deciso. «Sarò a Los Angeles ancora per una settimana. Partirò con l'aereo di mercoledì sera. Jared ci ospita a casa sua. C'è anche Alice con me» precisa. «Se avessi voglia di parlarmi, sai come trovarmi. Ora me ne vado, Jared mi aspetta» conclude, prendendo la borsa che aveva lasciato sulla panchina per allontanarsi quasi di corsa, senza lasciarmi il tempo di ribattere.

    Appena uscita dai cancelli ho iniziato a camminare lentamente nella direzione dalla quale siamo arrivati, tirando fuori il cellulare per chiamare Jared e Alice. Ad ogni passo l'istinto di piangere si fa più forte, e quando, cinque minuti dopo, Jared accosta accanto a me, ormai il mio volto è completamente rigato dalle lacrime. Jared e Alice sembrano capire che non sono in vena di confidenze, perciò il viaggio di ritorno è estremamente silenzioso. Una volta a casa mi rifugio in camera mia, buttandomi sul letto senza nemmeno sfilarmi le scarpe, sentendomi libera di dare libero sfogo a tutto ciò che per mesi ho tenuto dentro a fatica.

    Non appena Daria si è allontanata sono scattato in piedi, animato dall'inaspettato impulso di correrle dietro, afferrarla per un braccio e dirle di non lasciarmi di nuovo, così come avrei voluto fare a novembre, scoprendo di essere rimasto solo. Sono ancora immobile quando Rosalita si ferma accanto a me, studiando con attenzione la mia posizione. «Una fan che ha scoperto dove sei o un'amica preoccupata?» domanda, puntando le mani sui fianchi. Oggi è di un buonumore quasi irritante, e darei tutto ciò che possiedo per vederla cancellarsi quel sorriso dalla faccia.
    «Quella è Daria, la ragazza di cui ti ho parlato ieri» replico, laconico, tornando a sedermi sulla panchina.
    «Però, carina. Non il mio genere, ma se mi chiedesse di uscire probabilmente non rifiuterei. Che voleva?» domanda ancora, sedendosi accanto a me. «Niente di buono, a giudicare dalla tua faccia.»
    «Mi ha chiesto scusa per avermi spezzato il cuore. È venuta dall'Italia apposta per chiedermi scusa, e io le ho detto che non so se riuscirò mai a perdonarla.» Mi piego in avanti, prendendomi la testa tra le mani. «E quel che è peggio, è che non è nemmeno tutta colpa sua se sono incasinato. Lei è soltanto stata la causa scatenante, ma tutto questo... non è tutta colpa sua
    «Mi compiaccio che sia arrivato a questa conclusione, ma non è a me che dovresti dirlo.»
    «Beh, qui ci sei tu.»
    «Non fino a due minuti fa.»
    «Stai cercando di dirmi che dovrei correrle dietro e dirle che in tutti questi mesi non ho fatto altro che pensare a lei?»
    «Non mettermi in bocca parole che non ho detto» replica. «Sto solo dicendo che...»
    «Ma tu che ne sai?» rispondo bruscamente. «Tu credi di sapere tutto, credi di essere capace di capire tutto di una persona guardandola per cinque minuti e... e... e credi di avere tutte le risposte ai grandi problemi della vita, ma la verità è che non sai un bel niente di come mi sento.»
    «Forse è vero, non ti conosco abbastanza da poterti consigliare, ma che riesco a capire le persone è vero. Forse è l'unica cosa in cui sono davvero brava, e non... tu in questo momento ti stai arrendendo, Shannon. E arrendersi è la cosa peggiore che una persona possa fare.»
    «Non mi sto arrendendo.»
    «Ma davvero? E come lo chiami starsene qui seduto a lamentarsi quando avresti dovuto dire a lei ciò che stai dicendo a me?» Si siede accanto a me, nel posto lasciato vuoto da Daria, e per un istante vorrei che non fosse arrivata, perché così saremmo ancora insieme, Daria ed io, anche se probabilmente ce ne staremmo seduti senza nemmeno avere il coraggio di guardarci in faccia. «Hai detto che non sai se riuscirai mai a perdonarla, e questo lo capisco. Non è facile riammettere nella nostra vita una persona che ci ha fatto del male. Ma il punto è che se tu adesso la lasci andare via, non... non avrai mai un'altra occasione per tornare indietro. Se la lascerai andare via, questa volta sarà per sempre.»
    «Nessuno mi hai mai chiesto scusa per avermi ferito» sussurro dopo un po'. «Forse nessuno mi ha mai veramente ferito, prima di lei. Non lo so. Il fatto è che non mi è mai capitata una cosa del genere. È una sensazione del tutto nuova per me.»
    «Tu pensi che io non ti capisca, ma la verità è che io sono perfettamente come ti senti» sussurra. «I primi tempi in cui venni a stare qui ero come te. Non molto loquace, e convinta che nessuno al mondo fosse in grado di comprendere i miei problemi. Poi conobbi una persona che riuscì a farmi aprire, facendomi capire che le cose mi sarebbero potute sembrare meno nere , se avessi imparato a guardarle con occhi diversi» aggiunge, senza pensare nemmeno per un momento che io potrei anche non aver voglia di starmene qui zitto e buono ad ascoltare i suoi aneddoti. «Si chiamava James. Era un ex professore universitario di letteratura che si era dovuto licenziare a causa del proprio alcolismo.»
    Improvvisamente drizzo le orecchie, come se sentir parlare di un uomo dedito alla bottiglia avesse risvegliato qualcosa nella mia anima. «Come aveva iniziato a bere?» domando, curioso di conoscere quella parte della storia.
    «Un motivo già sentito mille volte. Aveva perso sua moglie a causa della leucemia, e i loro figli ormai grandi abitavano troppo lontani per dargli il sostegno di cui aveva bisogno. La bottiglia era il rifugio più sicuro e più vicino.»
    «Perché continui a parlare di lui al passato?»
    «Perché è morto» replica, senza dare alla propria voce una particolare inflessione. «Ero qui da sei mesi, quando è successo. Per me è stato un vero trauma, avevamo legato molto.» Tace per un istante, fissandosi le mani. «Aveva un dono particolare. Riusciva sempre a trovare qualcosa di buono nelle persone che lo circondavano. Anche nelle più deboli, anche nelle più sole, lui... lui trovava sempre qualcosa di positivo. Un po' come il gioco della contentezza di Pollyanna» scherza. «I primi tempi qui non... non ero come adesso. Ero cupa, e buia, e depressa, e... ogni volta che mi sentivo cadere, andavo da lui per avere un consiglio, o anche solo uno dei suoi sguardi. Aveva un modo di guardarti che... che sembrava attraversarti l'anima e... che ti lasciava... non lo so, pulito. Ogni volta che credevo di non farcela, andavo da lui, e lui mi ripeteva una cosa che non ho mai scordato. Diceva sempre che la vita è una serie infinita di prime volte.» Sorride ancora, forse ricordando un bel momento. «È una filosofia straordinaria, se ci pensi. Affrontare ogni evento della vita come se fosse un momento unico e forse irripetibile.»
    «È un altro modo per dirmi che avrei dovuto correrle dietro?»
    «È un modo come un altro per farti capire che lei è qui adesso, in questo momento, e che è adesso che ti sta chiedendo scusa. Quindi, qualunque cosa tu abbia in mente di fare, forse è adesso che dovresti farla.» Si alza, allontanandosi di qualche passo. «Ah, a proposito. Ero venuta a cercarti per dirti che il dottor Connors ha finito il suo giro con un giorno di anticipo. È tornato questa mattina. Sai, nel caso avessi bisogno di parlargli.»


*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    Daria è chiusa in camera da due ore, e Jared inizia a non sopportare più l'idea di starsene fermo senza poter fare niente. Già si sente da schifo per non essere riuscito ad aiutare Shannon – se non riuscisse ad aiutare nemmeno lei, di sicuro lo coglierebbe la depressione più nera. Dopo aver trascorso le ultime due ore a parlare con Alice di che cosa comporti passare la maggior parte del tempo in giro per il mondo, Jared decide di non poter sopportare oltre quella situazione, perciò si alza per prendere in mano le redini. «Dove stai andando?» domanda la ragazza, quasi spaventata da un gesto così repentino.
    «Vado a parlare con Daria. È abbastanza chiaro che qualcosa con Shannon non è andato bene, e io voglio saperne di più.»
    «No, non andare!» esclama lei, alzandosi per correre a sbarrargli la strada. «Conosco bene Daria, so come funziona la sua testa. Se ha deciso di voler stare sola non riuscirai a farla parlare.»
    «Scommettiamo? Guarda che ho ottime doti persuasive» ammicca lui.
    «Non ti aprirà nemmeno» lo sfida lei.
    «Dimentichi che sono il padrone di casa, ergo ho la doppia chiave di ogni porta» continua lui, scartando di lato per riuscire ad aggirare la ragazza.
    «Se avesse lasciato la sua chiave nella toppa, il doppione sarebbe inutile» ribatte lei, spostandosi verso lo stesso lato per fermare ancora la sua avanzata.
    «Allora la tenterò con dei dolcetti. Con voi ragazze funziona sempre» continua lui, spostandosi di nuovo.
    «Non è stupida, non la fregherai» replica Alice, riuscendo ancora una volta a sbarrargli la strada.
    «Vuoi farmi passare o no?» sbuffa lui, alzando gli occhi al cielo.
    «Perché, non ci riesci? Credevo fossi onnipotente» lo prende in giro lei.
    Jared raccoglie la sfida, scartando di nuovo di lato per trovare uno spiraglio. Ma Alice ancora una volta è più veloce e riesce ad anticipare la sua mossa, e a quel punto accade una cosa strana: si ritrovano incollati l'uno all'altra, più vicini di quanto avessero mai pensato di potersi trovare. Restano immobili per qualche secondo, aspettando con paura e trepidazione il momento in cui uno dei due farà la mossa successiva. Neanche a dirlo, è Jared a muovere la pedina: alza le mani per stringere i fianchi di Alice e allo stesso tempo incurva le spalle e abbassa la testa, sperando di arrivare alle sue labbra prima che lei decida di respingerlo.
    Ma Alice non ha pensato nemmeno per un minuto di allontanarlo: la verità è che negli ultimi due mesi si è chiesta spesso come sarebbe stato trovarsi a questa distanza, così vicina da rendersi conto che le iridi di Jared hanno davvero il colore del cielo, tanto vicina da sentire il suo cuore. Quando si accorge che Jared sta per baciarla, persino il suo inconscio si arrende: chiude gli occhi, sentendo la presa sui suoi fianchi farsi appena più salda, e trattiene il respiro quando la corta barba di lui le sfiora la guancia. Sembra passare un'eternità prima che le loro labbra finalmente si sfiorino, ma quando accade Alice sente che è un gesto speciale, una cosa che Jared non farebbe, se davvero non lo volesse. Rimangono immobili per qualche secondo, escludendo il resto del mondo, come se nulla al di fuori del loro abbraccio esistesse. Le labbra di Jared si allontanano per un istante, e quando ritornano ad incollarsi alle sue Alice gli stringe le braccia attorno al collo, cercando di fargli capire che non ha intenzione di andare da nessuna parte. La casa è silenziosa, quasi immobile, fatta eccezione per i loro sospiri. E poi, a rompere il silenzio, arriva il suono del campanello.
    Si separano in fretta, come due adolescenti beccati dai genitori, e Alice subito si passa una mano sulle labbra, abbassando la testa con aria colpevole. Jared corre ad aprire, trovandosi di fronte la madre. «Ciao, mamma! Che ci fai qui?»
    «Come sarebbe a dire? Eravamo d'accordo che sarei passata a lasciarti Bruce» risponde Constance, avanzando nel salotto con il cane ancora attaccato al guinzaglio. «Te l'avevo detto, devo andare via per un paio di giorni. E poi credevo volessi farlo conoscere anche alle ragazze. Non siete allergiche, vero?» aggiunge, rivolgendosi ad Alice.
    «Come? No, no, assolutamente. Nessuna allergia» replica rapida la ragazza, provando un profondo imbarazzo all'idea di parlare con la madre dell'uomo che fino a pochi secondi fa stava appassionatamente baciando. «Non sapevo che avesse un cane» aggiunge, cercando di recuperare la propria compostezza.
    «Oh, Bruce non è mio, ma di Shannon» risponde l'altra donna, incurvandosi per sganciare il guinzaglio dal collare. «Anche se in realtà il nome l'ho scelto io. Sono una fan di Bruce Springsteen» si giustifica con un sorriso. «Dov'è Daria?» chiede poi, accorgendosi soltanto in questo momento della sua assenza.
    «Stamattina si è fatta accompagnare a Cedar Creek per parlare con Shannon» spiega Jared, prendendo il guinzaglio dalle mani della madre.
    «Ah. E com'è andata?»
    «Non bene, credo. Poco più di mezz'ora dopo ci ha chiamati per chiederci di andare a prenderla, e l'abbiamo trovata in lacrime. Però non ha detto una parola, quindi non so dirti di preciso che cosa sia successo. Adesso è chiusa in camera sua da due ore. Stavo appunto andando a...» Jared si interrompe, incrociando la figura di Alice. «Volevo andare a vedere come sta, o se ha bisogno di qualcosa» riprende, cercando di cancellarsi dalla mente l'immagine dell'abbraccio appena interrotto.
    «Forse dovrei rimandare il mio viaggio. Magari vi servirà aiuto.»
    «No, mamma, figurati. Ce la caveremo. Non puoi rimandare.»
    «Come vuoi. Inutile insistere, dico bene?» si arrende Constance, sorridendo all'indirizzo di Alice. «A volte mi pento di aver cresciuto due uomini tanto indipendenti. Ti rendono impossibile fare la mamma» scherza, portando anche Alice a ridere. «Beh, adesso tolgo il disturbo. Il mio aereo parte stasera, e ho ancora un sacco di cose da sistemare. Mi raccomando, però, se succede qualcosa non esitate a chiamarmi. Conto su di te, Alice. Se Jared non mi chiama, fallo tu.»



*



Cedar Creek, 13 marzo 2014


    La porta dello studio del dottore è aperta, ma prima di entrare decido comunque di bussare. «Buongiorno, Shannon. Come va? Come mai non è a pranzo?» aggiunge, guardando l'orologio.
    «Ci stavo andando, ma... non credo di avere poi tutto questo appetito.»
    «Non la prenda male, ma la sua faccia non mi piace nemmeno un po'. È successo qualcosa?»
    «In realtà, sì. E mi chiedevo se... se avesse qualche minuto da dedicarmi. Credo di aver bisogno di un consiglio.»
    «Sono qui per questo. Chiuda la porta e si sieda.» Raccolgo l'invito e mi accomodo sulla poltrona che mi ha già accolto durante il nostro primo colloquio, prendendo a torcermi le mani con fare ansioso. «Mi dispiace di averla abbandonata per due giorni, ma avevo degli impegni che non potevo proprio annullare.»
    «No, non importa. Ne ho approfittato per guardarmi attorno e... stringere qualche mano» rispondo, tentando un mezzo sorriso. «Ho conosciuto un uomo, un certo George, e... beh, credo di aver capito che al mondo ci sono persone con drammi molto più gravi dei miei.»
    «George ha una storia davvero molto difficile alle spalle, sì... ma questo non significa che i suoi problemi siano meno importanti, Shannon. Qui ogni problema ha lo stesso peso. Ho visto che ha fatto amicizia con Rosalita» aggiunge con un sorriso. «Qualcosa mi dice che non si è trovato sprovvisto di guida, in questi due giorni.»
    «Quella ragazza sembra avere il potere di apparire dietro l'angolo ogni volta che ho bisogno di parlare con qualcuno» replico. «E sembra sempre avere le parole giuste per risolvere ogni situazione. Non credevo esistessero persone del genere.»
    «Sì, lei è una persona molto particolare. Egoisticamente, credo sia il mio miglior successo. Anche se non credo di potermi arrogare chissà quali meriti. L'ho soltanto aiutata a tirar fuori la forza e la saggezza che già aveva dentro di sé. Ma parliamo di lei, Shannon. Che cos'è successo?»
    Sospiro, trovando non so dove la forza di alzare lo sguardo.



*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    «Ho un'idea» dice Jared all'improvviso, battendo insieme le mani. «Un'idea semplicemente geniale. A Daria piacciono gli animali?»
    «Sì, ma non riesco a capire perché tu me lo stia chiedendo. Vuoi portarla allo zoo, per caso? Perché non sarebbe un'idea geniale. Nemmeno un po'.»
    «Ti fidi di me?»
    «Devo davvero rispondere?» La fugace apparizione di Constance sembra aver del tutto cancellato l'imbarazzo, e Alice non riesce a credere che, nonostante il breve momento di intimità appena vissuto, lei e Jared siano tornati così in fretta a scherzare insieme come facevano prima, come due amici che si conoscono da una vita.
    «Dai, fidati di me. Se non funziona, al massimo avremo perso cinque minuti del nostro tempo.» Jared cattura l'attenzione di Bruce e si fa seguire fino alla camera di Daria, e non appena li vede partire Alice inizia a tallonarli come un investigatore privato, curiosa di vedere a quali abissi di demenza possa arrivare la mente del cantante. Dopo aver bussato, Jared socchiude appena la porta. «Daria, va tutto bene?» domanda a bassa voce. In piedi dietro di lui, Alice tende l'orecchio, ma non arriva alcuna risposta, segno che forse l'amica sta dormendo – o forse, più semplicemente, non ha alcuna voglia di rispondere. A quel punto, Jared prende Bruce per il collare e lo esorta ad entrare nella camera, richiudendo poi la porta con fare cauto.
    «Che razza di idea sarebbe, scusa?» bisbiglia lei, senza capire le sue ragioni.
    «Daria è la ex ragazza di Shannon, e Bruce è il suo cane» replica lui, tornando in cucina a passo lento.
    «Dovrei vederci qualche connessione? Perché a me sembra che tu stia farneticando.»
    «Voglio solo provare a vedere se vanno d'accordo. E poi magari lei si tirerà un po' su di morale. I cani fanno sempre tenerezza. Sfido chiunque a non sorridere vedendo un cane.»
    «Va bene, è ufficiale. Tu sei completamente pazzo.»
    «Alla gente piacciono i pazzi.»
    «Alla gente piace la gente normale
    «Ah, davvero? È per questo che mi hai baciato, dieci minuti fa?»
    «Cosa? Io avrei baciato te? Casomai è il contrario!»
    «Beh, non mi sembra che ti sia tirata indietro.»
    «Non è che avessi molta scelta. Mi stavi tenendo ferma con la forza» replica lei, pur sapendo di dire una bugia grande come una casa.
    «Davvero? Perché a me sembra che avresti potuto prendermi a schiaffi, o spingermi via, o darmi una ginocchiata, o...»
    «Era fisicamente impossibile che potessi farti qualcosa» lo interrompe lei, iniziando ad irritarsi. Le sembra quasi che Jared abbia capito che voleva quel bacio quanto lui, e che la stia punzecchiando in ogni modo per costringerla ad ammettere l'attrazione che prova.
    «Davvero? Allora vieni qui, proviamo» insiste lui, muovendosi rapido in avanti per afferrarle nuovamente i fianchi. «Eravamo così, giusto?»
    «Ma che cosa...» inizia a protestare lei, interrompendosi nell'istante in cui sente il calore delle sue mani attraverso la stoffa. «Beh, forse... più o meno sì. Forse eri... eri un po' più vicino» aggiunge in un sussurro.
    «Così?» domanda lui, avvicinandosi di un altro mezzo passo.
    «Credo... credo di sì» bisbiglia ancora lei, sentendosi il viso andare a fuoco.
    «Direi che c'è abbastanza spazio per prendermi a schiaffi» sussurra lui, ricominciando ad abbassarsi verso il suo viso.
    «Come faccio, scusa? Sei troppo...»
    «Troppo?»
    «Troppo... vicino. Sei decisamente troppo...» La frase muore sulle labbra di Jared, che hanno appena raggiunto le sue, in una straordinaria replica di quanto è già accaduto. Come in precedenza, Alice sente il proprio corpo arrendersi, le braccia salire a cingergli il collo, le guance irritarsi per la sua barba corta e ispida, i battiti accelerati per la sua vicinanza. E poi le mani di Jared si spostano, scivolano lente sulla sua schiena, fino a tenerla tanto stretta da toglierle il fiato. Senza volerlo, Alice arretra fino al bancone della cucina, e in quel modo il corpo di Jared aderisce completamente al suo, stringendola in una trappola dalla quale non ha alcuna intenzione di liberarsi.
    «Sono ancora troppo vicino?» domanda lui tra un bacio e l'altro, senza quasi darle il tempo di respirare.
    «Sì, sei troppo vicino» risponde a fatica Alice, domandandosi se tutto questo non sia un sogno, o forse un madornale errore. Dopotutto lei ha preso quell'aereo per venire qui ad aiutare Daria nella sua missione, non per pomiciare con Jared Leto nella cucina di casa sua.
    «Mi devo spostare?» domanda ancora lui. Alice scuote la testa, senza più parole. In fondo è il sogno di quasi ogni Echelon ritrovarsi in una situazione simile, anche se lei non si è mai definita una loro grande fan. Tra le due, è sempre stata Daria quella più sfegatata della loro musica. La bocca di Jared scivola lenta dalle sue labbra al suo collo, e Alice riesce a stento a trattenere un gemito – santo cielo, questo sì che è un uomo che sa quello che fa! «Credo di aver desiderato baciarti dalla prima volta che abbiamo parlato al telefono» sussurra contro il suo collo, provocandole un brivido lungo la spina dorsale.
    «Dalla prima volta che abbiamo litigato al telefono, vorrai dire.»
    «Come vuoi tu, Gwen Stacy» replica lui, facendo di nuovo scivolare le mani sui suoi fianchi, e di lì sulle sue cosce. Alice non sa come sia possibile, ma improvvisamente le sue gambe non sono più ben salde a terra, ma strette attorno alla schiena di Jared, in una posa che sarebbe riduttivo definire erotica. E poi, a complicare le cose, Jared fa risalire una mano verso il suo collo, mentre le loro labbra tornano ad incontrarsi. E dopo un istante quella mano inizia a scendere, arrivando a sfiorarle il seno in una lenta tortura. «Se vuoi che mi fermi, devi soltanto dirlo» le sussurra, guardandola dritta negli occhi. Ed è questo a fregare Alice, perché tutta la sua razionalità crolla come un castello di carte, davanti ad un paio di occhi così aperti e sinceri. Stringe di più le gambe attorno alla vita di Jared, incontrando un principio di erezione. Lui chiude per un istante gli occhi, sentendola così vicina. «Devo prenderlo come un invito a continuare?» sussurra, chiudendo la mano attorno al suo seno.
    Alice sta per rispondere, quando dal corridoio arriva forte e chiara la voce di Daria: «Che diavolo ci fa un cane in camera mia?»



*



Cedar Creek, 13 marzo 2014


    «Questa è indubbiamente una sorpresa» sussurra il dottor Connors. «Quando ne abbiamo parlato, la volta scorsa, non mi sembrava che lei avesse preso in considerazione una simile eventualità.»
    «Certo che non l'avevo presa in considerazione» rispondo, cambiando posizione sulla poltrona. «Di tutte le cose che ritenevo impossibile vedere, questa è di gran lunga la più impensabile. Quando l'ho vista, per un momento ho creduto di essere impazzito, o di essermi addormentato e di aver iniziato a sognare.»
    «Che cosa ha detto, a parte che le dispiace per averle spezzato il cuore?»
    «Nulla. Insomma, ha soltanto ribadito le ragioni che aveva già espresso nella sua lettera d'addio, e poi ha... mi ha chiesto scusa. Credo sia questo a sconvolgermi di più. Nessuno nella vita mi aveva mai chiesto scusa per avermi causato un dolore. A parte forse mia madre, o mio fratello, o uno dei miei amici più cari. Ma sentirlo da una persona che ho amato è stato... mi ha fatto sentire strano
    «Strano in che senso?»
    «Strano nel senso che... non lo so, per un momento mi sono sentito in colpa, perché... beh, io sono arrivato sul punto di odiarla per quello che mi ha fatto, e invece quello che ha detto... quello che ha detto mi ha fatto capire che nemmeno per lei questi mesi sono stati una passeggiata. Insomma, quando io credevo che mi avesse dimenticato e fosse andata avanti con la sua vita, lei... lei soffriva quanto me.»
    «Da cosa crede che derivi questo senso di colpa? Insomma, di solito ci sentiamo in colpa quando sentiamo qualcosa di davvero intenso per l'altra persona. Di rado capita di sentirsi in colpa per una persona cui non teniamo molto. L'altra volta lei ha detto di...»
    «Di essere ancora innamorato di lei» lo interrompo. «Dio, subito dopo averlo detto credevo di essermi sbagliato, ma... poi l'ho rivista, oggi, e... e mi sono accorto di non essere mai stato più sincero con me stesso. Ma questo complica le cose.»
    «In che senso complica le cose?»
    «Beh, considerando che sono arrivato qui per trovare un modo per cambiare la mia vita e andare avanti senza più pensare a lei... non so come la veda lei, ma io lo considero un bel passo indietro.»
    «Soltanto se è ancora convinto di quanto ha detto di voler fare quando è arrivato qui. Nessuno la biasimerebbe se avesse cambiato le sue convinzioni. Non saremmo umani, se non cambiassimo mai idea.»
    «Sono qui da cinque giorni, dottore. Se avessi cambiato idea dopo soli cinque giorni non mi riterebbe una persona lievemente incostante?»
    «Affatto. E continua a dimenticare che io non sono qui per giudicarla, Shannon, ma per aiutarla.» Sento il suo sguardo su di me, e quando alzo la testa mi accorgo che ha ancora una domanda da farmi. «Come vi siete lasciati? Insomma, quando vi siete salutati, come... cosa vi siete detti?»
    «Non molto. Stavamo ancora parlando quando è spuntata fuori dal nulla Rosalita. Mi ha salutato, e a quel punto Daria ha preso la sua borsa e mi ha salutato di corsa, senza lasciarmi il tempo di rispondere. Non so che cosa abbia pensato.»
    «Può darsi che si sia sentita di troppo. Forse se al posto di Rosalita ci fosse stato un uomo, lei non avrebbe sentito il bisogno di correre via.»
    «Senza offesa, ma lo trovo un po' impossibile. È vero, Rosalita è una bella ragazza, ma sarebbe da idioti credere che tra me e lei... non sto dando dell'idiota a Daria, che sia chiaro» preciso, quasi sentendomi in dovere di difendere la sua reputazione. «Forse sarebbe andata allo stesso modo anche se al posto di Rosalita ci fosse stato George, o lei. Forse sarebbe comunque corsa via.»
    «Forse, è possibile. In questo caso, quale sarebbe stata la causa, secondo lei?»
    «In che senso?»
    «Beh, io la vedo in maniera molto semplice. Daria si stava confidando conn lei. Le stava aprendo il suo cuore, le stava chiedendo scusa per il male che le aveva fatto. Chiedere scusa è un gesto molto intimo, di solito richiede una certa serenità, una certa... riservatezza, se così vogliamo dire. Forse l'arrivo di una terza persona ha rotto l'equilibrio che l'aveva spinta a confidarsi, e così ha preferito andarsene.»
    «Si è rotto l'incanto, dice lei?»
    «Qualcosa del genere» ride lui. «Quindi non avete concluso la vostra conversazione.»
    «Beh, non direi. Le ho detto che non so se riuscirò mai a perdonarla. Quindi forse... beh, forse lei ha pensato che io abbia definitivamente chiuso la porta. Forse pensa che non ci siano altre occasioni per parlare.»
    «Però? Lo sento che c'è un però.»
    «Però... non lo so. Il fatto è che io ho pronunciato quelle parole con convinzione, ma adesso che ci ripenso... non lo so, non sono più così sicuro che non riuscirò mai a perdonarla. Non dico che torneremo insieme e ci ameremo per tutta la vita, ma forse... ecco, quello che ho capito è che lei non è l'unica causa dei miei problemi, quindi forse... non lo so, potrei anche arrivare a perdonarla, un giorno.»
    «Ma lei adesso crede che sia finita.»
    «Dovrei rivederla, credo. Incontrarla di nuovo e dirle quello che penso davvero» rispondo.
    «E allora la chiami. La inviti a tornare, mettetevi seduti l'uno di fronte all'altra e le parli come ha parlato con me.» Ci rifletto su per qualche istante, arrivando alla conclusione che probabilmente Daria non mi risponderebbe nemmeno al telefono, figuriamoci arrampicarsi di nuovo fin quassù per ascoltare ciò che ho da dirle. «Shannon, a che sta pensando?» mi domanda il dottore, cercando il mio sguardo per cercare di capire i miei pensari. Quando rialzo la testa, ho finalmente capito quale sia la cosa più giusta da fare.



1Arrendersi è più facile, quando entrambi lasciamo perdere. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Raining on Sunday di Keith Urban, contenuta nell'album Golden Road (2002).

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Capitolo 8
*** 8 | «Da quanto manchi dalla tua casa?» «Due anni, duecentosessantaquattro giorni e questa mattina.» ***


La lunga strada verso casa - 1
Eccomi qui, finalmente, con il nuovo capitolo della storia. Non dico nulla, tranne che spero che questo episodio riesca ad accontentare un po' tutti.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo ottavo
«Da quanto manchi dalla tua casa?»
«Due anni, duecentosessantaquattro giorni
e questa mattina.»1



Cedar Creek, 13 marzo 2014


    «Il recupero più veloce della storia.» Non mi volto, riconoscendo la voce di Rosalita, che immagino in piedi sulla porta con la solita espressione enigmatica dipinta sul volto. «Cinque giorni... dev'essere una specie di record. Non ricordo di qualcuno che si sia fermato di meno in questo posto.»
    «Beh, almeno mi sono distinto per qualcosa, no?»
    Muove qualche passo in avanti, sedendosi sul mio letto a gambe incrociate. «Hai parlato con il dottor Connors, vero?»
    «Non avrei dovuto?»
    «No, no, anzi. Sono contenta che abbiate parlato. Un po' meno contenta che te ne vada, ma ci farò l'abitudine.»
    «Non dirmi che ti mancherò.»
    «Non ti esaltare» ribatte con un sorriso. «Mi affeziono a tutti troppo facilmente. Il che è un po' strano, se pensi a quante volte mi abbiano ferita le persone che mi erano più care. Vorrei riuscire a vivere ogni rapporto con maggior distacco, ma ogni volta mi accorgo di aver fallito. Soffro sempre, quando qualcuno se ne va, che sia stato qui cinque giorni o cinque mesi.»
    «Non lo prenderei come un addio, comunque. Per quanto ne so, potresti vedermi tornare già questa sera» scherzo. «Dubito di riuscire a risolvere così facilmente i miei problemi» aggiungo, infilandomi il giubbotto e chiudendo la zip del borsone.
    A quel punto lei si alza e viene verso di me, sistemandomi il bavero del giubbotto. «Shannon, la sola cosa che non devi mai dimenticare è che nascosta dentro di te c'è la forza per superare qualunque ostacolo. Ogni volta che pensi di non farcela ripensa alla tua vita, al tuo successo, ai grandi obiettivi che sei riuscito a raggiungere. Non ce l'avresti mai fatta, se non fossi un uomo forte.»
    «Forse dovresti venire via con me e ricordarmelo, di tanto in tanto.»
    «Non sarebbe una buona idea. Sì, è vero, forse qui ti posso essere d'aiuto, ma fuori di qui... sono la tua vita e il tuo mondo, Shannon. Credo... credo che quello che ti serve davvero per andare avanti sia fuori di qui» aggiunge dopo una breve pausa di riflessione. «Puoi farmi un favore, quando sarai fuori?»
    «Se posso, perché no?»
    «Per favore, quando sarai fuori ricomincia a vivere. Trova quello che ti rende felice, ciò che ti rende completo, seguilo e... vivi, semplicemente. Non voglio più vederti tornare in questa stanza. Non è posto per te.»


*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    Quando svolto l'angolo, affacciandomi alla cucina, ho come la sensazione che Jared e Alice abbiano qualcosa da nascondermi – ma non ho il tempo di pensarci né di indagare, impegnata come sono a cercare di seminare il cane che da più o meno cinque minuti continua a zampettarmi attorno agitando le orecchie e la coda, quasi si fosse preso una cotta per me. «Allora, mi spiegate perché c'era un cane in camera mia?»
    «Oh, vedo che hai fatto la conoscenza di Bruce» replica Jared, mettendo sul fuoco il bollitore per il tè. «Sapevo che vi sareste piaciuti.»
    «Ammetto che adoro i cani, ma svegliarmi con uno di loro che mi sbava su una mano non rientra esattamente tra le mie dieci esperienze preferite.»
    «Te l'avevo detto che la tua idea geniale non avrebbe funzionato» interviene Alice, rivolgendo a Jared un'occhiataccia. «Bruce è il cane di Shannon, e questo genio qui sperava che avreste potuto fare amicizia» aggiunge, tornando a voltarsi verso di me.
    Guardo il cane seduto ai miei piedi, e mi chiedo perché non mi abbia ancora azzannato un polpaccio, visto il male che ho fatto al suo padrone. Insomma, credevo che Shannon lo avesse come minimo addestrato ad attaccarmi. «Va bene, adesso che abbiamo fatto le dovute presentazioni, qualcuno vuole spiegarmi perché non mi perde di vista nemmeno per un secondo?»
    «Chi lo sa, forse gli sei simpatica» suggerisce Jared, facendo spallucce mentre sceglie tre tazze dallo stipetto. «I cani hanno un istinto formidabile nello scegliere le persone delle quali vale la pena fidarsi.»
    «Se lo dici tu» commento, sedendomi su uno sgabello. «Io lo trovo vagamente inquietante.»
    «A proposito di cose inquietanti» riprende Alice, sedendosi ad un paio di sgabelli di distanza, «che cos'è successo stamattina con Shannon? Non hai detto niente, ma devi ammettere che lo stato in cui ti abbiamo trovata quando siamo venuti a prenderti non era esattamente quello in cui speravamo.»
    «La versione corta è che stranamente non ha deciso di prendermi a calci nel sedere, ma si è seduto accanto a me e mi ha ascoltata in silenzio mentre gli chiedevo scusa per tutto il male che gli ho fatto. Ah, e una volta finito mi ha detto che non sa se riuscirà mai a perdonarmi.»
    «La versione lunga contiene anche il motivo per cui te ne sei andata in lacrime?» domanda lei, mentre Jared se ne sta in piedi in silenzio e si limita ad osservarci.
    «Ad un certo punto qualcuno lo ha salutato, e ci siamo interrotti. Era una ragazza, credo sia anche lei un'ospite della clinica» replico. «Non so che cosa mi sia preso. Mi sono sentita come... non lo so, di troppo, quindi l'ho salutato e me ne sono andata via. Non so nemmeno perché mi sia messa a piangere, a dire il vero.» Incontro lo sguardo di Alice, e mi accorgo che ha captato la mia bugia. «Mi ha ferita il fatto che lui abbia detto quelle cose» ammetto. «Insomma, sapevo che farmi perdonare non sarebbe stato semplice, e che non sarebbe bastato chiedere scusa per rimettere a posto le cose, ma... non lo so, in fondo speravo che potesse andare così, che si potesse aggiustare tutto in cinque minuti, e tornare a...»
    «...ad essere amici come prima?» suggerisce Jared con un mezzo sorriso.
    «Forse speravo nel lieto fine più di quanto credessi» rispondo, abbassando lo sguardo. «Forse speravo che avrebbe dimenticato tutto il male che gli ho fatto soltanto vedendomi lì, e... non lo so, forse avevo una sola chance di aggiustare le cose e me la sono giocata male.»
    In cucina cala il silenzio, e per due minuti buoni ce ne stiamo tutti immobili a fissare il vuoto con lo sguardo assente, come se davvero avessimo perso ogni opportunità di raggiungere il nostro scopo. Poi, all'improvviso, Jared si rianima e spegne il fornello. «Al diavolo il tè. Sapete che facciamo adesso? Adesso voi due vi preparate e vi porto a fare un giro in città. Non vorrete tornare a casa senza aver visto altro che questa stupenda villa, no?»



*



Cedar Creek, 13 marzo 2014


    Rosalita mi accompagna fino al cancello, oltre il quale mi aspetta il taxi che ho chiamato. «Verrò a trovarti, lo prometto» dico all'improvviso, voltandomi verso di lei.
    «Non fare promesse che non intendi mantenere» replica con un sorriso. «Sarai così occupato che non avrai tempo nemmeno per andare in bagno, figurarsi per arrampicarti fin quassù ad ascoltare le mie paternali.»
    «Lo farò, invece. Verrò a trovarti. Ci conosciamo da poco, ma sei stata una vera amica.»
    «Fingerò di crederti. Forza, adesso vai. Non vorrai perdere tempo, no?»
    Muovo un passo in avanti, ma dopo un istante, contro ogni sua aspettativa, torno indietro per stringerla in un abbraccio. La stringo così forte che temo quasi di poter spezzare le sue fragili ossa, ma il dubbio dura pochi istanti, certo come sono che questa donna sia fatta di una fibra incredibilmente resistente. «Stammi bene, Rosalita» le sussurro, lasciandola andare. «Ci vediamo.»
    Salgo sul taxi, e quando l'autista mi chiede la mia destinazione rispondo senza indugio l'indirizzo di casa mia. È lì che devo andare, ne sono sicuro. Anche se non ho alcuna idea di che cosa mi riservi il futuro, so che per poter ripartire devo prima di tutto tornare a casa.



*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    Jared ci ha fatte salire in auto e ha guidato così a lungo che per un istante ho temuto che mi stesse riportando a Cedar Creek per consentirmi di terminare il mio confronto con Shannon. Ad un certo punto, però, invece di imboccare la strada per la clinica ha svoltato a destra, prendendo l'uscita per le colline. «Benvenute nel posto più bello di Los Angeles» annuncia infine, fermando la macchina su una piccola altura dalla quale, una volta scese, riusciamo a dominare l'intera valle. È ormai pomeriggio inoltrato, e il sole sta iniziando a calare verso ovest. «Questo è sempre stato un posto speciale, per me e Shannon» aggiunge, raggiungendoci. «Quando ricevemmo la prima proposta per un contratto discografico venimmo qui a discuterla. Tutta la notte qui, soltanto io e lui, seduti su questa collina a parlare. Gran parte delle cose importanti che ci sono successe è stata ampiamente discussa qui. Ogni volta che c'è un dubbio da sciogliere, ogni volta che uno di noi ha un problema... veniamo qui. Non so se sia un posto magico, o se forse siamo stati noi a dargli questo valore, ma... quello che conta è che qui riusciamo a risolvere molti dei nostri problemi.»
    «Se è un posto vostro, perché ci hai portate qui?» domanda Alice.
    «Non lo so» replica lui, alzando le spallucce. «Avevo soltanto bisogno di mostrarvelo, credo. Il fatto è che... il fatto è che la mattina che sono andato a prendere Shannon in carcere, poi siamo venuti qui. È stato qui che mi ha detto di voler andare a Cedar Creek, ed è stato qui che ho capito di non poterlo aiutare. È stato qui che ho capito per la prima volta di non essere onnipotente, ma soltanto... un uomo

    Faccio girare la chiave nella serratura, la sfilo e spingo lentamente la porta. Mi aspetto che mi invadano polvere e odore di chiuso, ma ciò che vedo davanti ai miei occhi è la stessa casa che ho lasciato cinque giorni fa. Sorrido, pensando che probabilmente mia madre sta facendo incursioni quotidiane per impedire che il mio rifugio cada a pezzi. Lascio il borsone in camera e mi butto subito sotto la doccia, sperando di trovare così l'energia necessaria per portare avanti il mio folle piano.
    Indosso un paio di jeans, una maglietta pulita e il giubbotto, poi prendo chiavi, cellulare e portafogli. Salgo in macchina e resto fermo per qualche istante a riflettere con calma sul da farsi, e quando metto in moto sono assolutamente sicuro di fare la cosa giusta.

    Siamo a meno di cento metri dalla casa di Jared, quando dal sedile accanto al mio Bruce inizia ad abbaiare come un forsennato, puntando le zampe contro il finestrino. «Mi sembrava strano che la tua vicinanza non lo avesse ancora fatto impazzire» dice Alice, prendendo in giro Jared. Dal sedile posteriore cerco di osservarli senza farmi notare, cercando di capire se tra quei due stia succedendo qualcosa della quale non mi sono ancora accorta.
    «Guarda che io non ho fatto proprio niente» si schernisce lui, parcheggiando l'auto. «E comunque non faccio impazzire nessuno, a parte le fan» aggiunge, facendole una smorfia.
    Allungo la mano per sbloccare la portiera, e non appena si sente libero Bruce salta giù dalla macchina, iniziando a correre come un forsennato verso il giardino. «Non so voi, ma io non mi sento molto tranquilla» bisbiglio, un po' restia a lasciare quello che mi pare un rifugio sicuro.
    «Magari ha solo visto un gatto» commenta Jared, scendendo. «Sono sicuro che non è niente di preoccupante» aggiunge mentre Alice ed io ci convinciamo a seguire il suo esempio.
    Siamo a metà del vialetto quando ci accorgiamo di una voce proveniente dal giardino. Riconoscendone immediatamente il tono mi blocco, e subito Alice si volta a guardarmi con aria interrogativa. «Shannon» sussurro, così piano che nemmeno lei riesce a sentirmi. Sto per ripeterlo, ma mi accorgo di non averne bisogno, perché Shannon ci sta venendo incontro con un sorriso, mentre Bruce continua a saltellargli attorno come ha fatto con me poche ore fa.
    «Santo cielo!» esclama Jared, correndogli incontro per abbracciarlo. «Santo cielo, da quanto tempo sei qui?»
    «Mezz'ora, più o meno. Prima sono passato da casa a posare i bagagli e farmi una doccia.»
    «Potevi chiamarmi, sarei venuto a prenderti» replica Jared, allontanandolo da sé per guardarlo meglio. Persino un cieco potrebbe vedere che la felicità di Jared nel riabbracciare suo fratello è reale, prova del grande affetto che li lega. «Vorrei che mamma non fosse partita, così anche lei avrebbe potuto vederti.»
    «L'ho già chiamata. Non sapevo che fare nell'attesa» risponde Shannon con un sorriso, e anche a questa distanza, anche se non sta guardando direttamente me, sento le gambe sciogliersi.
    «Ha davvero questa voce?» mi sussurra Alice, indietreggiata di un paio di passi per lasciare spazio a loro e poter comunicare con me più facilmente. «Cavolo, ora capisco perché ti piaccia tanto.»
    «Aspetta, ti devo presentare una persona» dice Jared all'improvviso, prendendo Shannon per un braccio e trascinandolo verso di noi. «Lei è Alice, la migliore amica di Daria. Alice, questo è mio fratello, Shannon.» Li guardo stringersi la mano senza credere ai miei occhi, incapace di credere che Shannon abbia davvero lasciato l'istituto e sia venuto fino a qui per vedermi. Non è mancanza di modestia, ma una semplice questione logica: questa mattina gli ho detto che se avesse avuto voglia di parlarmi mi avrebbe trovata qui, e ora, meno di otto ore dopo, lui è davvero qui. Non può essere soltanto una coincidenza.
    «Ciao, Daria» dice infine, puntando gli occhi su di me, e a questo punto capisco che non posso più tentare di confondermi con gli altri arredi da giardino. Mi ha vista, mi ha parlato, e ora si suppone che gli debba rispondere.
    «Ciao, Shannon» replico, senza riuscire a dare alla mia voce alcun tipo di intonazione. «Hai uno splendido cane» aggiungo subito dopo, senza riuscire a frenare la lingua. Subito dopo vorrei darmi uno schiaffo: ho davvero detto una cosa così stupida?
    «Sì, è un ottimo amico» risponde lui, abbassando lo sguardo per accarezzare le orecchie di Bruce. «E sembra che gli piaccia anche tu» aggiunge subito dopo, quando Bruce lo lascia perdere per venire a cercare le mie attenzioni. Mentre questo accade, vedo Jared e Alice allontanarsi lentamente, un passo alla volta, cercando di lasciarci soli, che in questo momento è l'ultima cosa che vorrei. «Io vorrei... sono qui per finire il discorso che abbiamo lasciato a metà questa mattina» continua, abbassando la voce, assicurandosi di non essere a portata d'orecchio di altri. «Riconosco di essere stato piuttosto categorico, ma... sei scappata via a metà, e io credo che ci siano ancora molte cose da dire.» Non rispondo, perché dentro di me sto di nuovo rivivendo quelle orribili sensazioni, e sento che se aprissi bocca per dire qualcosa riuscirei soltanto ad emettere versi inconsulti, o incontrollabili singhiozzi. «Se ti va, noi... insomma, vorrei parlare con te in un posto tranquillo.»
    Commetto l'errore di alzare gli occhi e guardare oltre la sua spalla: dal fondo del giardino Alice e Jared mi stanno mostrando i pollici alzati, cercando di incitarmi a dire di sì, senza nemmeno sapere che cosa Shannon mi stia proponendo. «Va bene» mi arrendo infine. «Dammi solo cinque minuti, va bene?»


*



Torino, 13 marzo 2014


    «Che stai facendo, papà?»
    Danilo, colto in flagrante, non si disturba a nascondere il libro che tiene aperto davanti al naso, e neppure il dizionario appoggiato sul tavolino del salotto. «Mantengo attiva la mente.»
    «Studiando inglese?» replica Francesca, sollevando il dizionario per dargli un'occhiata. «Ma non eri allergico ai gatti?» domanda ancora, guardando Solo arrampicarsi su per la gamba del padre.
    «Credo che mi stia passando. Oggi ho starnutito meno di ieri.»
    Francesca si allontana con un sorriso, senza dire altro. Ha sempre saputo che suo padre tiene a loro più che ad ogni altra cosa al mondo, ma non avrebbe mai pensato che per amore di una figlia sarebbe arrivato a tenere in casa qualcosa che gli nuoce alla salute, o ad imparare una lingua straniera per poter comunicare con un eventuale futuro genero.



*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    Non c'è traffico sulla superstrada, e di questo ringrazio. Almeno la situazione del traffico non è difficile quanto il rapporto tra me e Daria, che da almeno dieci minuti sediamo l'uno accanto all'altra nel silenzio più totale, come due estranei che si sono stretti la mano e ora non riescono a trovare un valido argomento di conversazione, e quello che più mi distrugge è che tra noi non è mai stato così – mai, nemmeno la sera del nostro primo incontro. Più ci ripenso, più mi chiedo come sia possibile che tutta la magia dei primi minuti sia scomparsa, scivolata via nel tempo fino a non lasciare nemmeno una scia, una flebile traccia di ciò che è stato. L'ho amata dal primo istante, di questo ne sono certo: il suo profilo regolare stagliato contro le luci artificiali dei lampioni, la sua voce morbida e leggera, quell'incredibile modo di aprirsi con me nonostante fossi per lei uno sconosciuto, la sensazione della sua pelle sotto le mie dita mentre le annotavo sul palmo il mio indirizzo e-mail... non ho dimenticato nulla di quei primi momenti, né di quelli che sono seguiti. Ogni minuto trascorso al suo fianco lo porto nel cuore, inciso sulla pelle come un tatuaggio. Vorrei potermi mentire meglio di così, ma non riesco: la verità è che lei è ancora con me, sempre, in ogni cosa che faccio, in ogni momento che vivo, in ogni pensiero che mi attraversa la mente – Daria è sempre con me.

    L'unico suono all'interno dell'auto è prodotto da Bruce, che continua ad agitarsi sul sedile posteriore. Shannon ed io siamo insieme da più di dieci minuti, e in dieci minuti non siamo ancora riusciti a dirci una sola parola – ed è terribilmente strano, perché nemmeno la sera del nostro primo incontro siamo stati così in imbarazzo. Vorrei dare la colpa di tutto alla paura, ma non sarebbe giusto: la sera in cui ci siamo conosciuti ero intimorita più che mai, ma questo non mi ha fermata dal confidargli tutti i drammi della mia vita – o forse chissà, non riuscivo a smettere di parlare proprio perché ero terrorizzata dalla sua presenza. Forse adesso non riesco a parlare perché ho paura di dire la cosa sbagliata, e so che in questo momento basterebbe una sola parola messa fuori posto a perderlo per sempre, ad eliminare per sempre ogni possibilità di perdono. Poi, d'improvviso, noto che sta prendendo la strada che conduce alle colline. «Dove stiamo andando?» chiedo, pur conoscendo già alla perfezione la risposta alla mia domanda.

    Seduti sul divano, Alice e Jared stanno dividendo una pizza davanti ad un vecchio film con Spencer Tracy. «Cosa pensi stia succedendo tra quei due?» domanda all'improvviso la ragazza, cambiando posizione sul divano.
    «Se conosco bene mio fratello, direi che a quest'ora sono sulle colline a chiarire la situazione.»
    «Tutto qui?»
    «Cos'è, pensi che lui voglia ucciderla e occultare il cadavere sotto la scritta Hollywood
    «Non mi stupirebbe affatto» replica lei, pulendosi le mani con un tovagliolo. «Non trovi strano che Shannon abbia improvvisamente deciso di tornare a casa e sia subito venuto qui a cercare Daria?»
    «Sinceramente? No, non lo trovo affatto strano. Conosco Shannon abbastanza da sapere che se ha deciso di venire qui a risolvere le cose, significa che è quello che vuole veramente. E anche se non me lo aspettavo, sono contento che sia così.» Jared studia per un istante il profilo di Alice, trovandolo estremamente dubbioso. «Se sei preoccupata, possiamo sempre saltare in macchina e andare a cercarli. Ci sono un sacco di cespugli dietro cui nascondersi, lassù.»
    «Non ho alcuna intenzione di spiare la mia migliore amica, Jared!» protesta Alice. «E sicuramente non ho intenzione di ficcare il naso nelle sue questioni personali. Non l'ho mai fatto, e di certo non ho intenzione di cominciare ora.»
    «Non hai mai ficcato il naso? Ma se hai scritto una e-mail ed Emma per dirle che Daria era ancora innamorata di Shannon e per chiederle di aiutarti ad aggiustare le cose!»
    «Beh, quella è stata un'eccezione» ribatte svelta lei, sentendo il viso farsi rosso per l'imbarazzo. «Non sapevo che fare, la vedevo sbagliare e non riuscivo a...»
    «Guarda che a me puoi dire la verità, Gwen Stacy» la interrompe lui, ammiccando.
    «Sto già dicendo la verità» replica lei, pur sapendo di aver appena detto un'enorme bugia.
    «Niente affatto, cara mia. La verità è che tu sei una maniaca del controllo, esattamente come me, e quando le cose non vanno come le avevi programmate dai di matto. Tu ed io siamo uguali
    «Tu ed io non siamo affatto uguali. Io non nutro l'assurda e quantomeno illogica convinzione di essere la padrona dell'universo.»
    «Però scommetto che soffri il solletico, esattamente come me» ribatte lui, artigliandole i fianchi per iniziare a torturare ogni punto sensibile che gli capiti tra le mani. Nel tentativo di sfuggire alle sue grinfie, Alice si ritrova ben presto distesa sul divano, sovrastata dal peso di Jared, che in qualche modo è riuscito a bloccarle i polsi al di sopra della testa, impedendole di ripararsi dai suoi assalti. «A proposito di controllo... ormai credo sia chiaro ad entrambi che non riesco a mantenerlo, quando nei paraggi ci sei tu.»
    «Questo è un problema che dovrai risolvere» replica lei. «Questa mattina abbiamo commesso un errore. Anzi, due
    «Sbaglio, o di solito dicono che non c'è due senza tre?»
    «Sì, e dicono anche che il quattro venga da sé, ma direi che non è il caso di rischiare. In questo momento non voglio complicazioni.»
    «Quindi è così che mi vedi? Sono una complicazione?»
    «Non sei tu la complicazione. È la situazione nel suo complesso: Daria, Shannon, questo viaggio...»
    «Niente di tutto questo ha a che vedere con te, lo sai? È vero, tu e Daria siete praticamente due sorelle, ma non vivete una vita in comune. Ciò che succede a lei non capita di riflesso anche a te. Sii sincera, per favore: che cosa ti trattiene davvero
    Alice ci riflette su per qualche istante. «Te lo dico se ti togli da sopra di me. Sento che sta iniziando a mancarmi il fiato.»

    «Scusa se ti ho portata tanto lontano da casa di Jay» inizia Shannon, fermando l'auto nello stesso punto in cui, poche ore fa, aveva parcheggiato suo fratello. «Avevo bisogno di un posto tranquillo, e questo mi è sembrato l'ideale. È uno dei miei posti preferiti da quando vivo a Los Angeles.»
    «Lo so» mi lascio sfuggire. «Forse non dovrei dirtelo, ma Jared ci ha portate qui, prima. In effetti, quando siamo tornati... beh, eravamo appena stati qui.»
    «Non so perché, ma ero certo che vi ci avrebbe portate, prima o poi» sorride lui. «Mi avrebbe stupito scoprire che non lo aveva ancora fatto, in effetti. Ti dispiace se scendiamo? A Bruce piace moltissimo venire qui» aggiunge.
    «No, va bene» annuisco, aprendo lo sportello per scendere dall'auto. L'aria fresca della sera sulla pelle è un vero sollievo, dopo i livelli di tensione raggiunti durante il tragitto. «Non so che darei per vivere qui» sospiro, guardando la valle che si apre davanti ai miei occhi.
    «A Los Angeles? Credimi, impazziresti. È una città completamente diversa dalle altre.»
    «No, intendevo... vivere qui, in questo punto. Avere una casa su questa collina, spalancare le finestre ogni mattina e trovarsi di fronte... questo. Dire che sarebbe meraviglioso è troppo banale?»
    «Non credo di poterlo definire banale» risponde con un sorriso, e per un momento mi sembra di tornare indietro a novembre, quando tutto ciò che vedevo all'orizzonte era la più abbagliante felicità. «Non l'ho mai detto a nessuno, nemmeno a mio fratello, ma... in effetti, più di una volta ho pensato di vendere la mia attuale casa per costruirmene una quassù» aggiunge, avvicinandosi di qualche passo. «Di notte c'è una pace straordinaria, non sembra nemmeno di stare a Los Angeles. E il panorama... oh, varrebbe la pena trasferirsi qui solo per quello. Le colline, le luci, le auto che corrono lungo le strade... potresti stare ore a guardare questa valle, e ad ogni minuto non faresti altro che innamorartene di più. È uno degli spettacoli migliori che abbia mai visto in vita mia.»
    Mi volto a studiare il suo profilo, e mai come in questo momento riesco a vedere la straordinaria bellezza del suo viso, un perfetto misucuglio di tenerezza fanciullesca e selvaggia mascolinità – e ancora una volta la sua bellezza e la luce irradiata dai suoi occhi compiono la magia che già mesi fa mi ha costretta ad arrendermi, ad abbassare ogni difesa. «Ti sei davvero perso nella città degli angeli, eh?» scherzo, riportando alla mente uno dei versi cardine di City of angels.
    Prima di rispondere, si lascia andare ad un sorriso. «Mi sono perso in un sacco di posti, in vita mia. I posti in cui mi sono ritrovato, invece, sono decisamente meno. Questo è il secondo, credo.»
    «ll secondo? E il primo quale sarebbe?» domando, credendo di ottenere come risposta il nome di un'isola tropicale, o qualcosa del genere.
    «Il primo sei tu» replica all'improvviso, tanto inaspettatamente che mi occorrono almeno trenta secondi per recepire il messaggio. Quando finalmente i miei neuroni decidono di funzionare e mi consentono di capire ciò che ha appena detto, non riesco a voltarmi, impietrita da quella che chiunque recepirebbe come una dichiarazione d'amore, ma che per qualche motivo non riesco a vedere in questo modo – non può essere, non dopo tutto quello che è successo tra di noi, non dopo tutto il male che gli ho fatto. «Con te mi sono sempre sentito al sicuro, fin da quando ci siamo stretti la mano. Dal primo momento, io... io ho creduto che non mi sarebbe potuto capitare nulla di male, finché al mio fianco ci fossi stata tu.»
    «Questo dimostra che la prima impressione spesso può rivelarsi sbagliata» replico con un sorriso, trovando finalmente la forza di voltarmi verso di lui. Ma negli occhi che trovo fissi su di me non c'è ilarità né tristezza: Shannon mi sta guardando allo stesso modo in cui mi guardava lo scorso novembre, quando entrambi pensavamo di aver finalmente trovato ciò che ogni persona al mondo cerca per tutta la vita, e che raramente riesce a trovare o tenersi stretto. Sto per chiedergli perché mi stia fissando a quel modo, ma non ne ho il tempo: la distanza tra di noi si riduce a zero, le sue mani racchiudono il mio viso e le sue labbra coprono le mie, e tutto accade così repentinamente che a fatica riesco a rendermi conto di che cosa stia succedendo.

    «Sono stata fidanzata con lo stesso ragazzo per più di sei anni» inizia Alice, sedendosi di nuovo in maniera più o meno composta sul divano. «Per la maggior parte del tempo è stata una relazione a distanza, e mi sono impegnata anima e corpo per farla funzionare, perché ci credevo davvero. Tenevo a Federico come non ho mai tenuto a nessuno.»
    «Ma poi è finita» commenta Jared.
    «Sì, e sono stata io a dire basta» replica lei. «Credo che lui sarà sempre il mio primo grande amore, nonostante tutto. Insomma, anche tra cinquant'anni io... penserò a lui, in un certo senso. Non lo posso dimenticare. Non sarebbe nemmeno giusto, credo. Lui mi ha amata per tutto il tempo, e per tutto il tempo io ho amato lui.» Fa una piccola pausa, sfregandosi l'angolo dell'occhio con la punta dell'indice. «Non posso fingere che non sia stata una storia importante, e soprattutto non posso dimenticare che è finita soltanto un mese fa.»
    «Quindi... cos'è, vuoi prenderti una pausa? Vuoi stare sola per un po', per goderti il fatto di essere tornata single dopo tanto tempo?»
    «Non voglio andare a letto con qualcuno tanto per fare» sbotta Alice, pentendosi dopo un istante del tono usato. «Daria ed io siamo diverse sotto tanti punti di vista, ma... le nostre convinzioni in fatto di sentimenti ci rendono dannatamente simili» riprende dopo un istante, abbassando lo sguardo sui propri piedi. «Per quanto la situazione sembri disperata, noi cerchiamo sempre un barlume di speranza in fondo al buio, un motivo anche insignificante per continuare a camminare. E così facciamo nelle relazioni. Se usciamo con qualcuno, lo facciamo perché crediamo che ci possa essere un futuro, per quanto breve o infelice.»
    Anche Jared abbassa lo sguardo, cercando di non mostrare quanto quelle parole lo feriscano. «Quindi mi respingi perché... perché non vedi un futuro tra noi?» sussurra, senza riuscire a credere alle proprie parole. Sta davvero soffrendo perché una ragazza non gli si vuole concedere?
    «Il problema è che non lo voglio vedere» mormora Alice, portandosi le ginocchia al petto come a volersi difendere dalla verità. «Mi è ancora troppo chiaro cosa significhi avere una relazione con una persona, e... e non so se sono pronta a ricominciare tutto da capo. E ammetterai che aver vissuto da vicino i drammi di Daria non invoglia a provarci» aggiunge con un sorriso, seppur flebile.
    «Dimmi una cosa» domanda Jared dopo un lungo silenzio. «Se io non fossi chi sono, se fossi un ragazzo normale, uno che frequenta i tuoi stessi corsi, un vicino di casa, o qualcosa del genere, tu... tu ti lasceresti tentare?»
    Alice ci riflette su per qualche secondo, poi scuote la testa. «Non sei tu ad essere sbagliato, Jared. È la situazione che è tutta sbagliata.»
    «Quindi se ci fossimo incontrati in un altro momento...»
    «...probabilmente sarei stata la prima a farmi avanti» conclude lei, sorridendo ancora. «Apri bene le orecchie, perché sto per dire una cosa che non sentirai ripetere mai più» aggiunge dopo un istante. «Non nego di essere attratta da te» sussurra, sistemandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «E non solo perché sei bello e famoso. Sei un tipo simpatico, e parlare con te mi diverte come poche altre cose al mondo. E sono convinta che venire a letto con te sarebbe stupendo, anche soltanto per una notte, solo che... non basta la prospettiva di qualche ora di divertimento per farmi dimenticare che tra una settimana dovrò tornare a casa, e che tu non sarai con me.»

    Le labbra di Shannon si staccano appena dalle mie, ma le sue mani continuano a racchiudere il mio viso come se temesse di vedermi scivolare via da un momento all'altro. Poi, d'improvviso, i suoi occhi si aprono, le sue dita mollano la presa e il suo corpo si allontana. «Dio, cosa sto facendo?» lo sento sussurrare, mentre le mani che finora hanno accarezzato il mio viso salgono a coprire il suo. «Scusa, non... non avrei dovuto» aggiunge subito dopo, tornando a guardarmi. «Non avrei proprio dovuto farlo.» Resto immobile a fissarlo di rimando, priva di pensieri da trasformare in parole, mentre Bruce smette per un istante di rotolarsi a terra e resta a guardarci entrambi, forse cercando di decidere chi dei due sembri più stupido in questo momento.
    «Tranquillo» riesco a dire infine, distogliendo lo sguardo dalla sua figura per puntarlo di nuovo sulle colline. «Non ho pensato che fosse un modo per dirmi che mi perdoni, se è questo che ti preoccupa. Siamo nella vita reale, non in un film, e lo so che nella vita reale non basta un bacio al tramonto per aggiustare le cose.»
    Shannon resta lontano e in silenzio per qualche secondo, poi lo sento avvicinarsi di qualche passo. «A proposito di questo, io... stamattina credo di aver mentito.» Sollevo lo sguardo, senza capire dove voglia arrivare. «Sì, perché questa mattina ho detto che non so se riuscirò mai a perdonarti, ma... la verità è che so che ci riuscirò, un giorno. Solo... non so quando. Mi dispiace» aggiunge subito dopo.
    «Sul serio? Stai chiedendo scusa perché non sai quando riuscirai a perdonare una persona che ti ha fatto del male?»
    «Anche se messa così sembra una cosa piuttosto stupida, credo... sì, è così» replica. «Il fatto è che non mi sono mai trovato in questa posizione. Nessuno mi ha mai ferito tanto quanto te. E sicuramente nessuno ha mai avuto il coraggio di tornare indietro a chiedere scusa. Sono un po' confuso, non so come comportarmi.» Non riesco a trovare una risposta: in fondo, è più o meno la stessa situazione che sto vivendo con mia madre – una parte di me continua ad odiarla per il male che ha fatto a tutti noi, mentre l'altra metà di me vorrebbe soltanto dimenticare e riaverla indietro, anche se mai più come prima. «Potrà sembrare folle, detto così, ma so che un giorno riuscirò di nuovo a guardarti come ti guardavo un tempo.» In questo momento vorrei tanto avere metà della faccia tosta di Alice, così da fargli notare che è esattamente quello che stava facendo fino a due minuti fa. Ma ormai è chiaro che io non sarò mai Alice, e che non sarei mai in grado di far notare a qualcuno la sua incoerenza – come sempre, preferisco starmene in un angolo a chiedermi che cosa significasse quello sguardo, che per un brevissimo istante mi ha fatto sentire di nuovo felice.

    Poco più di un'ora dopo il confronto con Alice, Jared si accorge che la ragazza si è addormentata con la testa appoggiata sulla sua spalla, e d'istinto gli viene da sorridere, pensando che nonostante le apparenze probabilmente gli effetti del cambiamento di fuso orario non sono ancora stati smaltiti del tutto. Subito dopo il sorriso si spegne e la sua espressione si fa triste: vorrebbe poter tornare indietro a poche ore prima e reprimere l'impulso di baciarla, perché è da quel primo bacio che è cambiato tutto, è da quel momento che ha scoperto le proprie carte, rivelando di provare un'attrazione che, in tutta sincerità, sperava potesse essere ricambiata appieno, senza remore e senza limitazioni. Ma forse è questo il suo destino: amare senza poter essere amato a sua volta, consacrare il proprio cuore a qualcuno tanto speciale da non poter essere afferrato. Sospira, guardando ancora la ragazza bionda che riposa sulla sua spalla: forse dovrebbe scuoterla, svegliarla e suggerirle di spostarsi in camera da letto, ma per qualche ragione non ci riesce – questo potrebbe essere il massimo della loro intimità, e non ha alcuna voglia di rinunciarvi.

    Ci siamo seduti per terra, tenendo lo sguardo fisso sulle colline, mentre da qualche parte dietro di noi Bruce continua a correre in giro e a rotolarsi sull'erba, ignorando le nostre tragedie. Daria non ha risposto alla mia ultima affermazione, e sinceramente non me la sono sentita di sollecitarla, convinto che avrebbe potuto finire col dirmi qualcosa che mi avrebbe ferito ancora di più, nonostante il tempo mi abbia insegnato che il silenzio può ferire più di ogni altra cosa. Daria resta zitta e immobile e io con lei, cercando di dimenticare quel tempo ormai lontano in cui anche stare seduti in silenzio sembrava grandioso. Chiudo per un istante gli occhi, inspirando lentamente con il naso: tutto ciò che voglio è dimenticare che un tempo lei era tutto ciò di cui avevo bisogno, tutto ciò che volevo – dimenticare che lei un tempo era la mia casa.



1«Da quanto manchi dalla tua casa?» «Due anni, duecentosessantaquattro giorni e questa mattina.» | Il titolo del capitolo è ispirato ad una battuta pronunciata da Massimo Decimo Meridio (interpretato da Russell Crowe) nel film Il gladiatore (2000).

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Capitolo 9
*** 9 | Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. ***


La lunga strada verso casa - 1
Salve a tutte!
Vi chiedo scusa per aver tardato un po' con la pubblicazione di questo capitolo: avevo tutto pronto, ma non sono riuscita a trovare i dieci minuti necessari per litigare con il wi-fi e postare l'aggiornamento =) Comunque adesso li ho trovati, ed eccomi qui con la nuova puntata delle (dis)avventure di Shannon, Daria, Alice e Jared – sì, perché da questo momento abbiamo un'altra coppia di allegri svitati pronti a deliziarci con le loro paranoie =)
Come sempre, vi auguro buona lettura – e ancora una volta ringrazio katvil, Pirilla_Echelon e melany987, sempre pronte a dire la loro, con mia somma gioia.
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo nono
Tra due minuti è quasi giorno,
è quasi casa,
è quasi amore.1



Los Angeles, 13 marzo 2014


    «Sono stato tante volte sul punto di prendere un aereo per venire da te» dico infine, incapace di tacere oltre. Subito dopo vorrei prendermi a cazzotti, ma tutta la mia sicurezza e tutto il mio autocontrollo sembrano venir meno, quando mi trovo accanto a Daria. È come se la sua sola presenza mi spingesse a dire tutto ciò che mi passa per la testa, anche quando il buonsenso mi suggerisce di tenere la bocca chiusa, anche quando la situazione non invoglia in alcun modo a confidarsi. «Una volta mi sono anche ritrovato ad un passo dal prenotare un biglietto online» aggiungo, contravvenendo ancora una volta a quanto mi dice la testa. «Anche se mi avevi detto di non farlo, anche se sapevo che in questo modo avrei potuto perderti, io... io ho pensato di mandare tutto al diavolo e correre da te.»

    Recepisco la notizia in silenzio, pensando a quanto dolore ci saremmo potuti risparmiare entrambi se Shannon avesse seguito il proprio impulso – perché nonostante tutto quello che gli ho scritto nella lettera con cui l'ho lasciato, ormai mi è chiaro che non sarei mai riuscita a mandarlo via, se davvero l'avessi visto davanti alla mia porta. «Perché non l'hai fatto?» sussurro, senza trovare il coraggio di alzare lo sguardo su di lui.
    «Forse perché non sono quel grande uomo coraggioso che ho sempre pensato di essere» risponde, strappando un ciuffetto d'erba con le dita. «Ogni volta che mi trovavo ad un passo dal farlo, provavo... non lo so, il terrore che mi avresti cacciato via. Pensavo che se fosse successo mi sarei sentito peggio di quanto già stavo, e... non ci sono riuscito.» Volto di poco la testa e lo vedo stringere i fili d'erba nel pugno, come se persino adesso gli mancasse il coraggio. «Quando poi Jared si è presentato con quei biglietti e ho deciso di venire da te...»
    «...mi hai vista con un altro» concludo, sapendo che lui non avrebbe mai il coraggio di dirlo ad alta voce.
    «Mi sono sentito morire» sussurra, aprendo la mano per lasciare che l'erba voli via nella leggera brezza che si è alzata sulle colline. «Non mi era mai successo di sentirmi così, e... in quel momento ho capito di aver commesso un enorme errore, non venendo a cercarti subito dopo la tua partenza. Quando ti ho vista con lui, ho capito che... ho capito di averti persa per sempre. Peggio, mi sono convinto che probabilmente non eri mai stata mia.»

    Non udendo alcuna risposta, mi volto verso Daria, e anche se non mi sta guardando direttamente capisco che i suoi occhi sono lucidi di lacrime. «Se solo avessi alzato lo sguardo, quella sera...» sussurra, la voce incrinata da un accenno di pianto. «Se ti avessi visto, io... io non...»
    «Non pensarci» la interrompo, poggiandole una mano sul ginocchio. «Non si può cambiare il passato. Quel che è stato è stato, ormai.» Fisso lo sguardo sulle mie dita che le accarezzano i jeans, e uno strano sentimento sembra prendere il posto dell'odio: nonostante tutto, sembra che io non sia fisicamente in grado di detestare questa donna – per quanto ci provi, per quanto lo desideri, ogni volta che la guardo tutto ciò che ricordo sono i bei momenti, i sentimenti che provavo per lei, e tutto ciò che di buio e cupo ho nel cuore si scioglie come neve al sole. Ritraggo la mano, sicuro che l'assenza di contatto mi impedirà di lasciarmi vincere dai sentimentalismi.

    «Visto che abbiamo deciso di essere sinceri, immagino di dover confessare che anch'io ho pensato di cercarti» confesso, passandomi entrambe le mani sul volto per asciugare le poche lacrime che non sono riuscita a trattenere. Nel farlo, mi rendo conto di essere arrossita, e persino un'idiota capirebbe che è stata la carezza di Shannon a farmi questo effetto.
    «Quando?» sento domandare, e subito vorrei essere rimasta in silenzio, perché ora mi toccherà mettere sul piatto tutta la verità, nient'altro che la verità, e so che quello che dirò potrebbe condannarmi a perdere Shannon di nuovo, e questa volta davvero per sempre.
    «Intorno a Natale» rispondo. «Per fortuna avevo dato tutte le cose che mi ricordavano te ad Alice, compreso il tuo numero.»
    «Sul serio?» sorride. «Avevi paura di fare qualche telefonata imbarazzante?» Mi volto, sfoderando lo sguardo più serio del mio repertorio, e vedo ogni traccia di ilarità lasciare i suoi occhi. «Che cosa mi avresti detto, Daria?» domanda, comprendendo che il mio tono nasconde qualcosa di davvero importante.
    «Che pensavo di essere incinta» sputo fuori. Subito dopo sento il bisogno di alzarmi e iniziare a camminare, forse pensando che il movimento mi aiuterà a calmarmi. Un grandissimo errore, perché subito dopo mi sento come un maratoneta pronto alla gara.
    «Cosa?» esclama, balzando in piedi a sua volta. «Daria, per favore, fermati» aggiunge, prendendomi per le spalle e obbligandomi a guardarlo. «Potresti ripetere, per favore?»

    «Ho avuto un ritardo» riprende, ostentando una calma che sono certo stia soltanto fingendo. «Siccome non mi era mai successo, ho pensato che... era l'ipotesi più logica» conclude, mentre i suoi occhi si velano di nuovo di lacrime. «Ho passato delle settimane orribili» riprende, e la sua voce rotta dal pianto sarebbe capace di commuovere il più duro dei cuori. «Una parte di me cercava di convincersi che non fosse vero, e l'altra... ti avrei voluto con me in quel momento, ma ti avevo mandato via e non...» Le parole successive si confondono tra i singhiozzi, e a questo punto decido di seguire appieno il cuore, fregandomene della ragione e della decisione di tenermi lontano da lei: la stringo forte tra le braccia, lasciando che le sue lacrime mi inzuppino la maglietta e i suoi singhiozzi si infrangano contro il mio petto. Ci sono un milione di cose che vorrei dire, milioni di pensieri che schizzano da una parte all'altra della mia mente, ma dire qualunque cosa, in questo momento, non servirebbe a niente: tutto ciò di cui Daria ha bisogno è qualcuno che la stringa forte e la sostenga nel suo dolore, e per qualche motivo sento che la persona giusta, adesso e in ogni momento, sono io.

    Alice si sveglia di soprassalto, mettendosi a sedere con una rapidità che ha in sé dell'olimpionico. «Che ore sono?» borbotta, portandosi una mano tra i capelli scompigliati per riportarli in ordine.
    «Quasi le nove di sera» risponde Jared, distogliendo lo sguardo dal cellulare. «Di Daria ancora nessuna traccia, quindi o Shannon l'ha uccisa e sta seppellendo il suo corpo sulle colline, oppure...»
    «Devo chiamarla, sono preoccupata» lo interrompe lei, alzandosi per andare alla ricerca del telefono, che non riesce assolutamente a ricordare dove abbia riposto.
    «Io dico che dovremmo dar loro ancora un po' di tempo» replica lui, senza alzarsi dal divano.
    «Non trovo il telefono» ribatte lei, senza dar segno di averlo sentito. «Lo fai squillare, per favore?»
    A quel punto Jared si alza, sperando di raggiungerla prima che lei gli demolisca la casa. «Se stanno arrivando ad un chiarimento, io dico che dovremmo lasciarli fare» osserva senza perdere la calma.
    «Ma io sono preoccupata, perciò voglio chiamarla» lo rimbrotta lei. «Quando hai avuto quell'idea cretina di metterle in camera un cane non mi sono opposta, perciò adesso vorrei che ricambiassi il favore e mi lasciassi fare. Dai, dammi il telefono» aggiunge, allungando un braccio per prendere l'apparecchio.
    «Oh, quindi mi avresti fatto un favore?» scoppia a ridere lui, alzando la mano per portare il cellulare al di fuori della sua portata. «E io che credevo ti fossi arresa soltanto perché non potevi competere con il suo genio» aggiunge, ridendo ancor più sonoramente di fronte ai tentativi senza speranza di Alice di mettere le mani sul telefono.
    «E dai, adesso non fare il bambino!» protesta lei, continuando a saltellargli attorno cercando di arrivare alla preda designata.
    «Perché smettere? Mi sto divertendo un mondo!» ride ancora lui, finché, nel tentativo di vincere la sfida, la ragazza gli mette una mano sul petto, proprio all'altezza del cuore. In quel preciso istante Jared smette di ridere, sempre tenendo il braccio alzato, accorgendosi dell'assoluta bellezza e perfezione di quel momento. Gli occhi ridenti e il sorriso di Alice sono così vicini da oscurare tutto il resto, e il calore di quella mano affusolata premuta contro il suo petto gli fa desiderare di morire subito, in quel preciso istante, perché mai potrà esistere per lui un momento più perfetto. «Se non ti allontani da me in questo istante, non rispondo più delle mie azioni» sussurra, e a quelle parole Alice si blocca, senza però prendere le distanze. «Sul serio, Alice, se non ti sposti immediatamente, corri il rischio che...» Ma le parole successive non trovano la libertà agognata, perché la ragazza si solleva sulle punte per appoggiare le proprie labbra sulle sue, e per un istante Jared si sente davvero morire, perché l'emozione è così grande da rischiare di fermargli davvero il cuore.

    La brezza della sera ci ha convinti a risalire in macchina, anche se abbiamo deciso di rimanere ancora sulle colline, di nuovo in silenzio come all'inizio, quando l'imbarazzo era un muro che ci impediva persino di guardarci in faccia. «Inizio ad avere un po' di fame» dico infine, quando il silenzio inizia a diventare davvero insopportabile. «Non ho pranzato» specifico quando lo sguardo di Daria si posa confuso su di me. «A casa dovrei avere della pizza. So che offrire pizza ad un'italiana è una specie di insulto, ma se ti va...» Il lieve cenno che fa con la testa è facilmente fraintendibile, ma decido di prenderlo come una risposta positiva, perciò metto in moto e inizio a guidare verso casa.

    Il cellulare di Jared giace abbandonato sul ripiano della cucina, la casa è immersa in un silenzio rotto soltanto da qualche sospiro. Jared non riesce a fare a meno di stringere Alice tra le braccia con tutta la forza di cui è capace, sicuro che se allentasse la presa lei si allontanerebbe di nuovo. Fa risalire lentamente una mano dalla schiena della ragazza al collo, e di lì fino ai capelli, tra i quali le dita scivolano senza difficoltà. A quel contatto Alice reclina la testa all'indietro, come un gatto impegnato a fare le fusa. Jared apre gli occhi, la guarda, e nel suo collo così esposto vede un inconscio invito ad osare di più. Alice trema nel sentire quelle labbra sottili e calde posarsi nell'incavo tra il collo e la spalla, e mentre si chiede come facesse Jared a sapere che è proprio quello il suo punto più sensibile si rende conto che questa volta non lo respingerà – dovesse cascare il mondo, questa volta andranno fino in fondo.

    Una volta fermata la macchina mi volto verso Daria, trovandola profondamente addormentata. Allungo una mano per svegliarla, fermandomi dopo un istante: vedendola così mi è impossibile non ricordare tutti i nostri precedenti, su tutti la mattina in cui me ne sono andato da Torino dopo lo straordinario finesettimana trascorso in sua compagnia. Allora mi era parsa bellissima, con la faccia schiacciata contro lil cuscino e i capelli scarmgliati, e tenendo lo sguardo fisso sui suoi occhi chiusi mi rendo tristemente conto che quattro mesi non sono riusciti a cambiare le cose: per quanto possa mentirmi, per quanto possa tentare di imbrogliarmi, nulla mi distoglierà mai dal pensare che sia lei la ragazza più bella del mondo. «Va bene, Bruce, adesso dovremo fare molto, molto piano» sussurro all'indirizzo del mio cane, che subito abbassa le orecchie, quasi avesse capito le mie parole.

    Le carezze di Jared si fanno più audaci, e la sua bocca scende fino a lambire la scollatura della canotta di Alice, che a quel dolce e dannatamente sensuale contatto trema ancora, quasi fosse la prima volta che si lascia toccare da un uomo. Eppure non è la prima volta, non dovrebbe essere così – in fondo, Jared non è che un uomo, uno come tanti altri. Ma quando per un istante i loro sguardi si incrociano, Alice si rende conto che Jared non è tutti gli altri, che non lo è mai stato e mai lo sarà. Mentre lascia che le sue lunghe dita da musicista si infilino sotto la maglietta, risalendo lente fino al seno, Alice trattiene il respiro: c'è qualcosa che lo rende diverso da qualunque altro ragazzo che abbia mai conosciuto, e sicuramente diverso dal solo ragazzo che abbia mai amato – Alice non sa che cosa sia, non sa nemmeno se riuscirà mai a capirlo, ma è certa che quel certo non so che riesce letteralmente a farla impazzire.

    Non senza difficoltà ho tirato Daria fuori dalla macchina, ho aperto e richiuso la porta di casa e ho attraversato il salotto. Mi fermo sulla porta della camera degli ospiti, sempre tallonato dal fedele silenzio di Bruce, e qui ho un'esitazione: per qualche strana ragione che non riesco a comprendere né a far tacere, sento che metterla a dormire in una stanza così anonima sarebbe un enorme errore. Perciò faccio dietrofront e raggiungo la mia stanza, pulita e ordinata come mai prima d'ora. La adagio facendo attenzione a non svegliarla, e non appena si ritrova a contatto con il materasso la osservo cambiare posizione e voltarsi sul fianco destro, come tante volte le ho visto fare. Mi risveglio dallo stato quasi di trance in cui sono caduto, recupero una coperta dall'armadio e svelto la copro, sistemando ogni grinza come se non stessi mettendo a letto una donna adulta, ma una figlia. Resto a guardarla nella penombra ancora per qualche secondo, poi scuoto la testa, tornando in corridoio badando di chiudermi la porta alle spalle. Una volta fuori sospiro, sempre sotto lo sguardo vigile di Bruce, che mi osserva come se stesse cercando di chiedermi che diavolo sto facendo.

    Jared adagia Alice sul materasso, stendendosi delicatamente sopra di lei. Con le magliette dimenticate in cucina, ad ogni respiro il suo torace nudo sfiora il petto della ragazza, ancora seminascosto dalla biancheria, arrossato dal contatto con la sua barba. Guidato da una forza invisibile sulla quale non può e non vuole prendere il sopravvento, Jared inizia un lento percorso di caldi e appassionati baci, che dalla bocca scendono al collo, passando per l'incavo tra i suoi seni minuti, e senza alcun controllo giungono all'ombelico, sul quale si ferma per qualche secondo. Anche le sue mani scendono, scivolando sulla pelle morbida senza incontrare ostacoli, fino al bordo dei leggings. Sollevandosi da lei inizia a spogliarla anche di quell'indumento, mantenendo un incredibile contatto visivo che non fa altro che eccitarlo di più. Ma non è soltanto sesso, ne è sicuro: per il sesso ci sono tutte le altre ragazze del mondo. Quello che sta succedendo con Alice su quel letto è diverso, forse migliore: Jared non può dire che sia amore – sarebbe azzardato, insensato, prematuro. Ma non è soltanto sesso.

    Dopo essermi assicurato che anche Bruce prenda la strada verso il regno di Morfeo esco in giardino, portandomi dietro il cellulare. Wayne sembra impiegare una vita per rispondere, ma quando finalmente sento la sua voce all'altro capo del filo tiro un sospiro di sollievo, felice che il mio migliore amico conservi, nella sua frenetica vita di uomo normale, qualche minuto per me. «Ehi, fratello, che succede? Sappi che sono molto incazzato con te» aggiunge un istante dopo il saluto. «Sono il tuo migliore amico e l'ho dovuto sapere da Jared che ti hanno arrestato e che ti sei chiuso in un centro di recupero.»
    «Scusa, ti avrei dovuto avvertire, ma è successo tutto così in fretta che proprio non mi è passato per la testa di chiamarti. Comunque non era un centro di recupero, ma una clinica.»
    «Quale vuoi che sia la differenza?» Sto per dire che di differenze ce ne sono giusto un paio di decine, quando lui mi anticipa: «Perché dici era? Sei già uscito?»
    «Questo pomeriggio, sul presto. Adesso sono a casa. Avevo un po' di cose da risolvere, e non potevo farlo stando a Cedar Creek.»
    «Sei a casa e me lo dici soltanto adesso? Dammi mezz'ora, metto a letto Ryder, ti vengo a prendere e ci facciamo una birra. Non abbiamo ancora festeggiato il tuo compleanno!»
    Mi prendo per un istante la testa fra le mani: finora ero quasi riuscito a scordare di essere diventato a tutti gli effetti un quarantaquattrenne, ma come sempre Wayne ha la straordinaria capacità di riportare a galla ogni tipo di verità nascosta. «No, amico, non posso. C'è... c'è una persona qui con me.»
    «Fuori da mezza giornata e già hai rimorchiato? Non ci credo, questo batte ogni record.»
    «Non è una ragazza qualunque» ribatto. «Insomma, è... c'è Daria, qui.»
    Ci vuole qualche secondo affinché recepisca il messaggio, ma quando finalmente torna a parlare non fa nulla per celare il proprio stato d'animo. «Daria? Intendi la ragazza italiana che ti ha spezzato il cuore? La stupenda ragazza italiana che ti ha spezzato il cuore? No, tesoro, ti sbagli: ho detto orrenda ragazza italiana» lo sento aggiungere subito dopo all'indirizzo di una certamente gelosa Ashley, e la prospettiva di riuscire a scatenare una delle loro solite baruffe senza nemmeno essere nello stesso quartiere mi diverte immensamente. «Come sarebbe a dire che è a casa tua? No, aspetta: come sarebbe a dire che è in questo Paese?»
    «Sarebbe a dire che ha preso un aereo e ha attraversato mezzo mondo, e ora... beh, è qui.»
    «Parliamo della stessa che hai sorpreso a pomiciare con un altro dopo esserti sorbito otto ore di volo in classe economica per colpa della tirchieria di tuo fratello?»
    «Proprio lei.»
    «E... perché è qui?»
    «Perché è venuta a chiedermi scusa» rispondo, abbassando la voce sulle ultime due parole. «Questa mattina si è fatta accompagnare a Cedar Creek da Jared e mi ha chiesto scusa per il suo comportamento.»
    «Nessuna donna è mai tornata a chiedermi scusa per avermi lasciato.»
    «Beh, se è per questo è una novità anche per me. Non avevo idea di come comportarmi, perciò ho fatto la cosa più sensata che mi sia venuta in mente.»
    «L'hai presa a calci in culo?»
    «L'ho ascoltata» lo correggo. «Mi ha spiegato le sue ragioni, i motivi per cui mi ha lasciato, e mi ha anche raccontato di quel tipo con cui stava uscendo quando sono andata da lei. Cosa che, tra parentesi, ha scoperto da mio fratello. Ha detto che con quel tipo, che poi è anche il suo capo, è durata poco, e che ha troncato quando ha... quando ha capito che stava facendo del male a lui e anche a se stessa, e... beh, quando ha capito che probabilmente ne aveva fatto anche a me.»
    «Mi sfugge un punto, credo: come sei passato ad odiarla al portarla a casa tua?»

    Completamente nuda e alla mercè di Jared, per un istante Alice prova qualcosa di simile alla vergogna: stringe le gambe, nasconde il seno con un braccio e distoglie lo sguardo, sentendosi troppo imbarazzata per continuare quella cosa, di qualsiasi cosa si tratti. «Va tutto bene?» le domanda a bassa voce lui, accarezzandole una guancia con una dolcezza che non avrebbe mai creduto di poter dimostrare a qualcuno che conosce da così poco. «Se hai cambiato idea, io non... non voglio obbligarti a fare niente che tu non voglia» sussurra, e di nuovo non si riconosce in quel comportamento: non è mai stato così premuroso nei confronti di qualcuno, nemmeno nei rari casi in cui ha pensato di trovarsi di fronte ad una donna per cui valesse la pena spogliarsi, oltre che dei vestiti, di ogni maschera.
    «No, io non... non ho cambiato idea» sussurra lei, continuando a non guardarlo. «Non so che cosa mi prenda, scusa.»
    «Non ti devi scusare con me. Mai, va bene?» tenta di rassicurarla, continuando a sfiorarle il viso. «Hai gli occhi tristi» osserva subito dopo, più per rendersene conto egli stesso che per farlo notare a lei. Ogni volta che hanno parlato al telefono l'ha sentita felice, e Daria gliene ha sempre parlato come una ragazza estremamente solare: vederla così dimessa gli fa stringere il cuore, soprattutto se pensa che potrebbe essere lui la causa di quell'insolito stato d'animo.
    «Non sono triste» risponde lei, tornando a guardarlo con sguardo fiero, quasi volesse fargli capire che lei non è tipo da lasciarsi vincere dalla negatività. «Solo che non... non riesco a smettere di pensare. Mi sembro quasi Daria, accidenti» sorride, e Jared non riesce a non imitarla. «Sto solo... sto provando a capire che cosa stiamo facendo, e non... non riesco a darmi una risposta, e questo mi manda ai pazzi, perché praticamente ho sempre una risposta a tutto.»
    «So come ti senti, Alice» risponde, cercando di ignorare i propri istinti più turpi per stendersi al suo fianco. Si puntella la testa con un braccio, appoggiando il gomito sul cuscino, e quando i loro sguardi si incontrano di nuovo, nota che lei lo sta guardando con aria confusa. «Perché mi stai guardando così?»
    «Non mi chiami mai Alice» sussurra lei. «Non una sola volta da quando abbiamo iniziato a parlare mi hai chiamata Alice. Soltanto quando mi hai presentata a tua madre e a tuo fratello.»
    «Non posso chiamarti Gwen Stacy per sempre, no? E poi hai un bel nome, sarebbe un peccato non usarlo.» Tenta di sorriderle per allentare la tensione, ma dopo un istante desiste – ora è lui quello con gli occhi tristi, lo sa. «Se la cosa può esserti di conforto, nemmeno io so di preciso che cosa stiamo facendo. Beh, dal punto di vista tecnico penso di essere piuttosto erudito, ma... beh, se stai parlando di sentimenti, credo di essere confuso quanto te.»
    «Forse allora non dovremmo andare avanti.»
    «Forse no.»
    «O forse continuare è il solo modo per capire che cosa stiamo facendo.»
    «Non farò niente che non voglia fare anche tu» dice ancora lui, smettendo di sorreggersi la testa per accarezzarle i capelli. «Riconosco di essere un vero stronzo quando si parla di queste cose, ma con te... non posso. Pensavo che non sarei mai arrivato a dire una cosa del genere ad una ragazza, ma... con te è tutto diverso. Tu mi fai sentire diverso.»
    Alice sorride, distogliendo di nuovo lo sguardo. «Non credo di sentirmela, Jared» sussurra dopo un istante, tornando a puntare gli occhi chiari nei suoi. «Non sono ancora pronta per questo.»
    «E allora ci fermiamo qui. Comunque ti ho vista nuda, è già un bel successo» scherza, strappandole finalmente una risata. Vederla ridere gli gonfia il cuore di felicità, perché è questa la ragazza che ha imparato a conoscere: una bellissima ragazza dal viso sorridente che ride di cuore, con tutta la forza che possiede. La guarda mettersi a sedere e indossare la biancheria, provando una briciola di dispiacere per ogni centimetro di pelle che viene coperta. Quando lei si volta a guardarlo con un altro sorriso, sputa fuori le parole che gli vorticano in testa senza pensarci troppo su. «Dormiresti con me?»

    «Quindi non è successo niente? Insomma, si è addormentata in macchina e allora l'hai portata nel tuo letto?» Il tono di Wayne è sospeso tra l'incredulo e il fiero, come se fosse orgoglioso del mio comportamento cavalleresco e allo stesso tempo si stesse chiedendo se sia davvero al telefono con l'uomo che fino ad un anno fa non avrebbe permesso ad una donna di arrivare al suo letto con le mutande ancora addosso.
    «Beh, a parte il bacio che le ho dato quando eravamo ancora sulle colline» rispondo, pentendomi una volta di più dell'accaduto. «Ma è stato un errore. Un enorme, madornale errore.»
    «Errore o meno, comunque è successo. E non puoi nemmeno raccontare che eri ubriaco, o roba del genere. Lo hai fatto e basta.»
    «Lo so, lo so. So che non posso cancellare quel bacio con un colpo di spugna e sperare che tutto torni come prima.»
    «Credi che lei si sia fatta qualche strana idea in proposito? Insomma, che... abbia ricominciato a nutrire qualche speranza, o roba del genere?»
    «No, o almeno non credo. Te l'ho detto, è stata lei la prima a dire che sa che le cose tra di noi non si possono aggiustare così facilmente.»
    «Beh, se la mia opinione vale ancora qualcosa, io dico che ti ha detto una cazzata. So che inizierai ad odiarmi non appena avrò finito di parlare, ma... Shannon, le cose tra di voi si possono aggiustare in qualsiasi momento. Tu la ami ancora, e adesso credo sia abbastanza chiaro che anche lei ti ama ancora. Stabilito questo, non c'è altro da dire. Però per aggiustare qualcosa bisogna volerlo, e a questo punto bisogna soltanto capire se tu vuoi aggiustare le cose. Perché direi che prendendo quell'aereo lei le sue carte le ha messe in tavola.» In sottofondo sento la vocina di Ryder che chiama a gran voce il papà. «Oh, aspetta, qui c'è un ometto che ti vuole salutare. Vieni, tesoro. È lo zio Shannon. Salutalo, dai. Digli ciao.»
    «Bu-u-us! Bu-u-us!» esclama più volte il bambino, strappandomi una risata di cuore, la prima rista veramente sincera che mi sia concesso da tempo.
    «No, tesoro, non è Bruce» lo corregge suo padre. «Non è Bruce, è zio Shannon. Bruce sta facendo la nanna, come tutti i bravi cuccioletti. Il che significa che adesso andiamo a mettere a letto anche te. Scusa, fratello» riprende subito dopo, tornando a rivolgersi a me. «Adesso purtroppo devo andare a metterlo a dormire. Siamo un po' in subbuglio, qui. Dopodomani arrivano i genitori di Ashley da Seattle, e...»
    «Ma no, figurati, ho abusato anche troppo del tuo tempo. È solo che avevo bisogno di parlare con qualcuno che mi fosse amico.»
    «E hai trovato un'altra persona pronta a farti la paternale» scherza, regalandomi un altro sorriso. «Scusa, ma sai che sono naturalmente portato a dire quello che penso.»
    «Non ti scusare» lo rassicuro. «Perché pensi che ti abbia scelto come amico?»

    La casa di Jared è di nuovo immersa nel silenzio. Nel buio della camera da letto, Jared e Alice si sono addormentati abbracciati sotto le coperte, stretti e quieti come una coppia ormai rodata. Nonostante il sonnellino sul divano, la ragazza è scivolata immediatamente nel sonno, mentre per Jared è stato più difficile: non è mai stato tipo da passare la notte con una donna dormendo, ed è così tanto che gli capita di stendersi in letti vuoti che all'inizio ha davvero faticato a chiudere gli occhi, sentendo una presenza accanto a sé. Ma quando Alice si è accoccolata contro di lui, strusciandogli i capelli contro il collo, qualcosa è cambiato, facendo sembrare quella situazione così inaspettata quasi normale.

    Chiuso nello studio passo un'eternità seduto sul seggiolino, scrutando ogni singolo tamburo come se non riuscissi più a riconoscermi in questo ambiente. Nel tentativo di distrarmi provo a rimettere in ordine alcuni scaffali, fermandomi quando, sfogliando un plico di spartiti, trovo i frammenti della canzone scritta da Jared, quella che non ho esistato a fare in pezzi. Mi chiedo come sia arrivata qui, ma è soltanto un momento: una volta recuperato un rotolo di scotch inizio a darmi da fare per rimetterla insieme, trovandolo facile come se non avessi fatto altro per il resto della vita. Una volta incollato l'ultimo pezzo mi lascio scivolare a terra con i fogli tra le mani, leggendo ogni parola come se la vedessi per la prima volta, eppure ho già visto queste note, ho già letto questi versi – ma la prima volta ero ancora troppo ferito e troppo adirato per capire davvero la bellezza di questo pezzo. Fisso lo sguardo sullo spazio in alto, di solito riservato al titolo, che in questo caso recita la dicitura Undefined. «Undefined» sussurro, lasciandomi scivolare ogni lettera sulla lingua come un sorso di caffè bollente. Undefined, che significa indefinito, che sta ad indicare qualcosa che non si riesce a descrivere a parole. Sorrido, pensando che nessuna parola meglio di questa sembra definire questa situazione. Forse è questo l'unico titolo possibile per questa canzone. Senza pensarci troppo, prendo una penna e ricalco con attenzione ogni tratto, fino a fissare quella parola sulla carta porosa come un tatuaggio sulla pelle. Poi leggo il primo verso, e il cuore manca un battito. «Jumped in unexpected and drove me off to paradise unknown2» leggo a bassa voce, e per la prima volta mi rendo conto che Jared è un vero poeta. Leggo il resto della canzone in silenzio, lasciando che ogni singolo verso mi entri sotto la pelle, lasciando che i miei occhi vedano, finalmente, ciò che mio fratello ha visto già mesi fa.
    Mezzanotte è passata da pochi minuti quando mi decido a staccare gli occhi da questo stupido pezzo di carta, che ormai ho quasi impresso a fuoco nella mia mente. Lo ripongo insieme agli altri spartiti, facendo attenzione a non sgualcirlo ulteriormente. Uscendo dallo studio spengo la luce, deciso a passare la notte sul divano o nella camera degli ospiti, ma proprio mentre me ne sto fermo al centro del corridoio cercando di prendere una decisione le gambe iniziano a muoversi da sole, conducendomi sulla soglia della mia camera da letto. Spingo lentamente la porta e guardo dentro, distinguendo chiaramente la figura addormentata di Daria nella poca luce che filtra dalle grandi vetrate. Non impiego molto a decidere il da farsi: mi sfilo lentamente le scarpe, chiudendo la porta, e sempre con estrema lentezza mi avvicino al letto, pronto ad allontanarmi al primo segno che possa indicare il risveglio di Daria. Ma lei continua a dormire con la serenità di una bambina, e non si muove nemmeno quando il materasso cede sotto il mio peso, nemmeno quando tiro un po' la coperta verso di me. Resto a guardarla a lungo, incapace di chiudere gli occhi e cedere alla stanchezza. La verità si fa sempre più chiara ad ogni minuto che passa: potrei sprecare una vita intera a cercare di convincermi che tra noi sia finita per sempre, ma un solo dei suoi sguardi sarà per sempre sufficiente a farmi innamorare di nuovo. Daria è e sarà sempre la mia debolezza, una malattia dalla quale non ho voglia di guarire, la sola dipendenza dalla quale non ho e non avrò mai intenzione di liberarmi.



*



Los Angeles, 14 marzo 2014


    Apro gli occhi, e la prima cosa che mi trovo davanti è lo sguardo limpido di Daria, ancora distesa accanto a me. «Buongiorno» sorrido, la voce ancora vagamente impastata dal sonno. «Hai dormito bene?»
    «Molto, grazie» replica, e dalla prontezza del suo tono mi chiedo da quanto tempo se ne stia sveglia a fissarmi. «Siamo a casa tua, vero?»
    «Precisamente. Quando siamo arrivati mi sono accorto che dormivi, ma eri così tranquilla che svegliarti mi sembrava un vero peccato.»
    «Quindi... siamo in camera tua
    «Sì.»
    «Nel tuo letto?
    «Sì.»
    «Perché?»
    «Beh, perché è la stanza più comoda. Volevo che dormissi bene.»
    «Non prenderla male, ma... perché ci sei anche tu?»
    «Perché volevo esserti vicino in caso avessi bisogno di qualcosa» mento, pentendomene dopo un istante. «No, è una bugia. La verità è che volevo starti vicino e basta.»
    «Perché?»
    «Perché non riesco a starti lontano» ammetto. «Ho provato in ogni modo a staccarmi da te, ad odiarti, a dimenticarmi come mi facevi sentire, ma per quanto mi sforzi è come... mi basta guardarti per un minuto, ed è come se dimenticassi tutto il dolore.» Contravvenendo agli avvertimenti della mente, alzo una mano per accarezzarle i capelli. «Quando ho detto che sei il primo posto in cui sia riuscito a ritrovarmi... era vero. È vero. Anche tra cinquant'anni, sarai sempre una delle persone più importanti della mia vita.» Restiamo a guardarci in silenzio per qualche secondo, poi la mia mano inizia a scendere lenta verso il suo collo, accarezzando la sua pelle con una delicatezza che non avrei più pensato di poter dimostrare. La osservo chiudere le palpebre, forse trattenendo una lacrima, e improvvisamente mi è chiaro che quel bacio sulle colline non è stato uno sbaglio: l'unico vero sbaglio è stato non correre da lei subito, lasciarla allontanare fino a convincermi che restare separati fosse l'unico futuro possibile. Respingendo ancora una volta le obiezioni della ragione, scivolo in avanti e la bacio ancora. Forse è un tremendo errore, forse è il modo più sbagliato per trovare una soluzione, ma non mi importa: il cuore mi dice che è la cosa più naturale, e in questo momento il cuore è la sola ragione che sia disposto ad ascoltare.

    «Daria non è tornata» esordisce Alice, strattonando Jared per costringerlo a svegliarsi. Lui apre gli occhi a fatica, sbuffando, incapace persino di capire dove si trovi, figurarsi recepire le parole della ragazza. «Hai capito quello che ho detto? Daria non è ancora tornata.»
    «Sono sicuro che sta bene» biascica lui, voltandosi dall'altra parte.
    «Jared, svegliati!» insiste ancora lei, strattonandolo così forte da farlo quasi rotolare giù dal letto. «Voglio andare a cercarla.»
    Ormai completamente sveglio, Jared si passa una mano sugli occhi. «Hai provato a chiamarla?»
    «Il cellulare è spento.»
    «Magari si è scaricato. Pensi che sia successo qualcosa?»
    «Penso che voglio sapere dov'è, e voglio sapere come sta.»
    «E non ti calmerai finché non avrai visto con i tuoi occhi che è viva e in salute?»
    «Esattamente.»
    «E va bene» sospira lui, calciando via le coperte. «Dammi dieci minuti. Faccio una doccia e andiamo a cercarla.»

    Nell'istante in cui le labbra di Shannon toccano le mie mi sfugge una lacrima, certa come sono che finirà come sulle colline, quando si è allontanato da me dicendo di aver commesso un errore. A fatica mi costringo a spingerlo via. «Me ne devo andare» sussurro, alzandomi subito dal letto. «Devo andare via» ripeto, più per convincere me stessa che per altro.
    «Daria, aspetta...»
    «No!» replico subito, alzando la voce senza volerlo. «No, Shannon, non ho alcuna intenzione di aspettare che ti allontani di nuovo» aggiungo, prendendo coraggio parola dopo parola. «Non ho intenzione di lasciarmi illudere un'altra volta, non ho intenzione di guardarti di nuovo andare via dicendo che è stato un errore. Hai tutto il diritto di avercela con me, ma non puoi farmela pagare prendendomi in giro. Questo non te lo permetto.»
    Lascio la camera a passo veloce, rischiando di inciampare in Bruce, che sentendomi alzare la voce è corso a presidiare la porta. Dal rumore che sento dietro di me capisco che Shannon si è alzato per corrermi dietro, ma non ho alcuna intenzione di fermarmi. Mi sento ferita, mi sento frustrata, e la sola cosa che voglio fare è tornare a casa di Jared, dovessi fare tutta la strada a piedi. «Non ti sto prendendo in giro, Daria!» lo sento dire. «Tutto quello che ho detto è vero!»
    «Non trattarmi da stupida, Shannon!» urlo, interrompendo la mia fuga. «Meno di ventiquattro ore fa hai detto che non sai se riuscirai mai a perdonarmi per il male che ti ho fatto, e ora vorresti farmi credere di aver cambiato idea? Questo è un insulto alla mia intelligenza, e non ho alcuna intenzione di accettarlo. Se vuoi passare il resto della vita odiandomi, va bene. Se vuoi ignorarmi finché entrambi avremo vita, va bene. Ma non prenderti gioco di me, per favore. Ho sbagliato, ti ho ferito, ti ho fatto del male, ma questo non lo merito. Non merito questo» ripeto, costringendomi a voltarmi verso la porta prima che le lacrime rendano meno efficace la mia rabbia.

    Riesco ad arrivarle alle spalle un istante prima che apra la porta, e il primo istinto è quello di cingerla con le braccia per impedirle di uscire. «Non te ne andare di nuovo» sussurro, trattenendola contro di me.
«Lasciami andare, Shannon» protesta debolmente, cercando di divincolarsi senza troppa convinzione dalla mia stretta.
    «Concedimi soltanto due minuti, ti prego» sussurro ancora. «Soltanto due minuti, per favore.»
    «Cos'è, non mi hai ancora umiliata abbastanza?»
    Sfrutto il vantaggio fisico per farla voltare verso di me, deciso a catturare la sua attenzione e a farmi ascoltare. «C'è una cosa che ti voglio mostrare, ma devi darmi ancora due minuti. Soltanto due minuti» ripeto, abbassando la voce. «Due minuti, poi ti lascerò andare.»



1Tra due minuti è quasi giorno, è quasi casa, è quasi amore. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Generale del cantautore romano Francesco De Gregori, contenuta nell'album De Gregori (1978).
2Jumped in unexpected and drove me off to paradise unknown. | Si tratta di un verso di mia invenzione tratto da una canzone altrettanto fasulla, buttata giù appositamente per questa fanfiction, dunque di mia esclusiva proprietà. La traduzione è pressappoco questa: “Sei saltata a bordo inaspettatamente e mi hai dirottato verso un paradiso sconosciuto”. Mi rendo conto che è una cosa scema, ma in La lunga strada verso casa ho parlato talmente tanto di questa canzone che proprio non potevo evitare di tirarla di nuovo in ballo.

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Capitolo 10
*** 10 | Tutto muore, ma tu sei la cosa più cara che ho. ***


La lunga strada verso casa - 1
Non tenterò nemmeno di chiedervi scusa per l'immenso ritardo con cui posto questo capitolo, perché qualsiasi parola sarebbe superflua e inutile. Il fatto è che ho avuto qualche guaio in famiglia, nelle ultime settimane, e mi sono mancati sia il tempo sia (soprattutto) la serenità per mettermi seduta a scrivere. Tutto ciò che posso dire è che spero di ritrovarvi ancora tutte qui, anche soltanto per insultarmi.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo decimo
Tutto muore, ma tu
sei la cosa più cara che ho.1


Los Angeles, 13 marzo 2014


    Non so da che cosa dipenda la mia decisione di restare e concedergli quei due minuti che tanto disperatamente va cercando: non so se dipenda dalla dolcezza della sua voce o dal calore delle sue mani posate sulle mie spalle, o se, più semplicemente, sia unicamente colpa della mia debolezza, stupida forza che mi ha convinta a sperare anche quando le circostanze facevano presagire il peggio. Ma non importa quali siano i motivi della mia scelta: la sola cosa che abbia un certo rilievo in questo momento è che Shannon mi sta facendo attraversare la sua casa tenendomi per mano come una bambina. Mi lascia andare soltanto quando arriviamo sulla soglia del suo studio, dove mi fermo, in attesa. Lo guardo avvicinarsi ad uno scaffale disordinato e rovistare tra alcune cartelle fino ad estrarne quello che sembra un foglio di carta fatto a pezzi e rimesso insieme con il nastro adesivo. «Che cos'è?» domando, sebbene l'intuito mi dica che si tratta della base di una canzone.
    «Quando sei scappata da Parigi» inizia lui, tenendo lo sguardo basso, «non sono stato l'unico a dover trovare un modo per esorcizzare il dolore. Io ho provato a dimenticarti, a fingere di non averti mai conosciuta. Jared, invece, ha deciso di fissare i ricordi nel modo in cui gli riesce meglio.»
    Prendo il foglio che mi sta porgendo, e dopo qualche secondo di incertezza riesco a convincermi ad abbassare gli occhi sulla carta. Già dalle prime righe riesco a comprendere meglio le parole di Shannon. «Jared ha scritto una canzone su di me?» chiedo infine, incapace di credere in una risposta affermativa.
    «Sarebbe più corretto dire che ha scritto una canzone su di noi» replica lui con un vago sorriso. «Ha iniziato a Parigi la sera che ti ha conosciuta, ma io non ne ho saputo niente fino a che non l'ha finita. Eravamo in Brasile per una serie di concerti, e io... io ero piuttosto giù di morale. Credendo di riuscire a scuotermi mi ha mostrato lo spartito. Solo che ho dato di matto e l'ho fatto a pezzi, e poi mi sono rintanato in un locale a bere e...» Si interrompe bruscamente, forse temendo di essersi spinto troppo oltre con il resoconto.
    «...e rimorchiare belle ragazze?» completo io in tono scherzoso, cercando di fargli capire che non mi deve alcuna spiegazione, né tantomeno deve sentirsi in colpa per quello che ha fatto in questi ultimi mesi, anche se l'idea che sia stato con altre donne mi irrita, e non poco. «So che c'è sei uscito con un'altra, in questi mesi» mi convinco infine a dire. «Tuo fratello lo ha detto ad Alice, e Alice lo ha detto a me. Anche se forse definirla semplicemente un'altra è riduttivo.»
    «Christine» sussurra, senza dare alla propria voce una particolare intonazione. «Non avrei mai pensato di rivederla e riprendere da dove ci eravamo lasciati, ma... è capitato. Ci siamo rivisti e abbiamo pensato di poterci riprovare, ma... non è andata come speravamo. Con lei le cose non sono mai state semplici... un po' come con te.» Sentirmi paragonata al suo primo grande amore mi confonde: da un lato mi sento lusingata per essere stata messa sullo stesso piano della prima persona cui abbia mai concesso il suo cuore e la sua fiducia, ma allo stesso tempo vorrei prenderlo a schiaffi e urlargli contro che io non sono Christine. In qualche modo, però, riesco a reprimere ogni istinto distruttivo, restando in silenzio con gli occhi fissi sullo spartito. «Riesci a... capisci tutto quello che dice?» mi domanda Shannon, forse notando il mio interessamento al testo.
    Annuisco, alzando la testa. «Più o meno sì, riesco a... capisco» rispondo a fatica, sentendo il cuore salire in gola. La verità è che riesco a capire più di quanto vorrei: ancora una volta Jared ha dimostrato di essere un grande poeta, un uomo capace di dire tutto ciò che gli passa per la mente usando pochissime semplici parole. «Perché hai voluto che la vedessi?»
    «Non lo so» ribatte, facendo spallucce. «E stavolta non sto mentendo. Non lo so davvero
    Guardo ancora una volta la pagina fitta di parole e note, chiedendomi quale suono ne potrebbe venir fuori. Sono sempre stata un'appassionata di musica, ma non avendo mai avuto occasione di studiarla non ho alcuna idea di quale sia il significato di tutti i segni che vedo. Quando incontro di nuovo lo sguardo di Shannon, dopo quella che sembra un'eternità, le parole escono fuori quasi da sole. «Potresti suonarla per me?»
    Lui rimane interdetto per qualche secondo, aprendo e chiudendo la bocca senza emettere suono. «Sì, beh, è... è soltanto un abbozzo, ma penso di poterlo fare» replica infine, voltandosi per prendere la chitarra poggiata poco più in là. «Puoi... potresti mettere qui lo spartito?» mi domanda, indicando il leggio di fronte a sé. Obbedisco, osservandolo mentre si sgranchisce le dita e prova qualche accordo. «Non ti prometto niente, certo. È una bozza molto ben elaborata, ma resta sempre una bozza» aggiunge, quasi a volersi giustificare per un'eventuale cattiva esecuzione.
    «Non importa» ribatto, fingendomi interessata alla conformazione dei piatti montati sulla batteria. «Non pretendo un concerto, vorrei solo... sentire come suona
    Con un sorriso come unica risposta, Shannon dà una veloce occhiata alla copia e inizia a suonare. Già dal primo accordo sembra entrare in un mondo che è solo suo, un regno del quale è sovrano e unico abitante, un universo privato al quale soltanto lui può dare il permesso di accedere. Seguo con particolare attenzione il movimento delle sue dita, ma quasi subito è il suo viso a distrarmi: dietro le sue palpebre chiuse, lo so, c'è lo sguardo che ho imparato ad amare, gli occhi di cui non sono mai riuscita ad indovinare il colore, gli unici occhi che avrei voluto addosso per il resto della vita. Sto per rassegnarmi all'idea di aver perso per sempre il nostro amore quando Shannon, ancora una volta, mi sorprende.

    Alla terza battuta, dopo la delicata introduzione tracciata da Jared, iniziare a cantare mi sembra la cosa più naturale del mondo. So di non avere la potenza vocale di mio fratello né il suo talento interpretativo, ma per qualche motivo seguire anche le parole mi sembra una buona cosa – in fondo, Daria voleva farsi un'idea generale di come suonasse la canzone, e quale modo migliore di accontentarla se non farle sentire tutto?
    Quando riapro gli occhi, al termine della prima strofa, trovo fisso su di me il suo sguardo, e all'improvviso mi accorgo di non aver bisogno di seguire lo spartito: ormai conosco questa canzone a memoria, nemmeno fossi stato io a scriverla – e se anche dimenticassi un solo accordo o una parola, sarebbe sufficiente studiare il volto di Daria per ritrovare la strada. I suoi occhi, soprattutto – sono i suoi occhi a tracciare il sentiero per la serenità, così chiari e brillanti da riuscire ad illuminare anche l'anima più oscura.
    Ormai lascio che le mie dita vaghino da sole tra corde e tasti, sicure del percorso da seguire, così allenate da non aver bisogno di indicazioni. Tutto ciò cui presto attenzione è lo sguardo di Daria fisso nel mio, così aperto da far trasparire tutta l'emozione scatenata dalla musica. Più la guardo, più mi rendo conto che la sfuriata di poco fa non ha valore: le sue parole esprimevano astio e il suo tono era duro come non mai, ma i suoi occhi raccontano una storia tutta diversa – i suoi occhi dicono che la speranza non è morta, e che possiamo tornare ad amare ancora.

    A fatica Jared è riuscito a convincere Alice ad aspettarlo in macchina, certo che avrebbe fatto irruzione in casa di Shannon con la forza di un carroarmato, facendo precipitare irrimediabilmente la situazione – qualunque essa sia. Mentre fa girare la chiave nella toppa il più silenziosamente possibile, lo coglie una leggera preoccupazione: sebbene si sia mostrato calmo per riuscire a tranquillizzare Alice, ora che è solo non riesce a mentirsi più a lungo – quel lungo silenzio da parte del fratello e di Daria è strano, e per uno come lui, abituato a sapere sempre tutto, è una cosa semplicemente inaccettabile. Per essere certo di non fare rumore si sfila le scarpe, che abbandona sullo zerbino, e muove qualche incerto passo nel grande ingresso luminoso, sperando che Bruce non rovini tutto intercettando la sua presenza. Eppure, se ne rende conto subito, del cane non c'è traccia. Getta una rapida occhiata fuori: la macchina di Shannon è parcheggiata nel vialetto, dunque lui deve essere in casa, e la logica suppone che da qualche parte ci sia anche Daria. Poi, quasi all'improvviso, si accorge della musica che arriva dallo studio di Shannon, la cui porta riesce a vedere bene dalla propria posizione. Non riesce a nascondere un sorriso quando riconosce le note che egli stesso ha scritto, e anche senza proseguire sa di poter tornare indietro, chiudere la porta, sedersi di nuovo in auto e assicurare ad Alice che va tutto bene. Certo, è vero che non ha visto né Shannon né Daria, ma sentire suo fratello suonare quella canzone può voler dire soltanto una cosa: i miracoli possono accadere. Non può sapere con certezza che cosa accadrà, perché nessuno può conoscere il futuro, ma su una cosa si sente protno a giurare: se Shannon sta suonando quella canzone, è sicuramente per Daria – e questo significa che suo fratello è ancora vivo, che il suo cuore non è spezzato come credeva, e che forse le cose, con molto impegno e molta fatica, si possono aggiustare.

    «...praying to see these Eden's eyes that saved me, praying to reach again your paradise2» concludo, eseguendo gli accordi finali della canzone. Non appena torna a regnare il silenzio mi sento strano, quasi imbarazzato, come se mi fossi appena risvegliato nudo sul palco del Kodak Theatre durante la notte degli Oscar. Persino una cosa semplice come alzare la testa per cercare lo sguardo di Daria mi sembra una fatica immensa, un gesto eroico che non mi sento degno di compiere. Ma subito dopo succede una cosa strana, una cosa che non avrei mai immaginato potesse accadere ancora: la mano di Daria si posa sulla mia guancia per una carezza delicata, incurante della barba ispida che le punge la pelle. È a quel punto che trovo la forza di alzare gli occhi, come se un semplice contatto della sua mano fosse in grado di rimettermi in sesto e far andare a posto ogni pezzo di questo puzzle così complicato. Ci guardiamo a lungo, in silenzio, e più di una volta ho la sensazione che stia per dire qualcosa, ma che, al pari di me, non riesca a trovare il coraggio. E poi, all'improvviso, sorprendendomi ancora una volta, Daria si china verso di me, e in quello che sembra un gesto al rallentatore degno di un grande film romantico, le sue labbra tornano a toccare le mie.

    «Se non li hai nemmeno visti, come fai a sapere che Daria sta bene?» Jared apre la porta di casa con uno sbuffo, alzando gli occhi al cielo. Da quando è risalito in auto per tornare indietro, Alice non ha mollato il tiro per un solo minuto, continuando ad insistere che dovrebbero invadere la casa di Shannon per salvare la sua amica, nemmeno fosse finita nel covo di un serial killer. «Solo perché l'hai sentito suonare la chitarra non significa che sia tutto a posto! Come fai a...»
    «Conosco mio fratello, va bene?» sbotta lui all'improvviso, incapace di trattenersi oltre. Si volta verso Alice di scatto, sorprendola al punto di farle fare un passo indietro. «Sono sicuro che va tutto bene perché conosco Shannon, e so che stava suonando quella canzone per lei perché quella canzone parla di lei, e non si sarebbe mai messo a suonarla se non per farla sentire a lei!»
    Dopo un attimo di smarrimento, Alice riprende coraggio. «Non alzare la voce con me, Jared! Non ti permetto di trattarmi così!» reagisce, avanzando fino a puntargli un dito contro il petto.
    «E allora tu non trattarmi come un deficiente!»
    «Non ti tratto come un deficiente! Sono solo preoccupata per Daria!»
    «Beh, puoi smettere di preoccuparti, perché Daria sta bene!»
    «Lascia che sia io a decidere se sta bene o meno! Sono la sua migliore amica!»
    «Essere la sua migliore amica non ti dà il diritto di controllarla a vista! È adulta, sa fare le sue...»
    «Non mi dire come devo comportarmi con lei! È la mia amica, e se...»
    «Forse dovresti smettere di pensare soltanto a lei e...»
    «Sei un egocentrico arrogante che pensa solo...»
    «Lasciati andare, una buona volta, e cerca di...»
    «Mi hai veramente rotto con il tuo...»
    «Un giorno aprirai gli occhi e...»
    «Non ti sopporto quando...»
    Jared e Alice sono sempre più vicini, ma nessuno dei due riesce a comprendere le frasi dell'altro, troppo impegnato ad alzare di più la voce per avere la meglio, finché lui pronuncia le parole che cristallizzano l'atmosfera, riportando il silenzio nella casa. «Perché io amavo la ragazza con cui parlavo al telefono!» Alice si blocca a metà della frase, chiedendosi se non abbia capito male – in fondo le parole si accavallavano, i toni erano acuti e aspri, e non è impossibile che abbia frainteso. Ma poi Jared, abbassando la voce, fissa gli occhi nei suoi, prendendole una mano. «Dov'è finita la ragazza con cui ho parlato per tutti questi mesi? Quella che amava ridere e non aveva paura di mostrarsi per quello che era? Perché io quella ragazza l'amavo davvero. Non passava giorno senza che pensassi a lei, anche solo per un secondo.»
Nel volgere di un istante, Alice si rende conto che raggiungere l'altra parte del mondo l'ha cambiata, anche se fino a questo momento non ne aveva avuto il minimo sentore. Abbassa lo sguardo, rendendosi conto suo malgrado che Jared ha ragione: per qualche strana ragione che non riesce a comprendere, cambiare continente l'ha resa diversa – e per una come lei, da sempre abituata ad essere onesta e chiara, questo è inaccettabile. Sfila la mano da quella di Jared, lottando contro se stessa per non sfogare le lacrime di rabbia che sente nascere dentro. «Ho bisogno... devo stare sola per qualche minuto, scusa» balbetta, superandolo per raggiungere la propria stanza, nella quale si barrica per dare finalmente sfogo a tutta la propria frustrazione.

    Doveva essere un bacio veloce, un semplice gesto atto a ringraziare Shannon per aver accontentato la mia richiesta, ma adesso che le mie labbra sono sulle sue non riesco più ad allontanarmi, come se qualcuno avesse sostituito il mio lucidalabbra con la supercolla. Quando finalmente riesco a ritrarmi, riaprendo gli occhi mi trovo davanti lo sguardo confuso di Shannon, che evidentemente non riesce a spiegarsi il mio comportamento – poco più di un quarto d'ora l'ho respinto e stavo scappando, e adesso... questo. Spero soltanto che non mi chieda perché, perché davvero non saprei trovare parole per spiegare la situazione. «E questo per che cos'era?» sussurra. Lo sapevo, sarebbe stato troppo bello potermene andare in silenzio.
    Scrollo appena le spalle, incerta su come rispondere. «Se devo essere sincera, non lo so. Forse l'ho fatto perché non riesco a dimenticare quanto ti ho amato» sussurro, accorgendomi che la mia mano riposa ancora sulla sua guancia ispida. Faccio per ritrarla, ma dimostrando ancora una volta dei riflessi sbalorditivi lui mi blocca, intrappolando le mie dita sotto le sue. Con la mano libera mette via la chitarra, poi si alza, arrivandomi così vicino che basterebbe allungarsi di pochi centimetri per baciarlo ancora.
    «Nemmeno io riesco a dimenticare quanto ti ho amato» sussurra, così vicino che riesco a sentire il suo respiro caldo sul viso. «Eppure ci ho provato, lo sai. Ci ho provato fin quasi a morirne.»
    «Ho perso il conto di quante notti mi sono messa a letto sperando di svegliarmi e scoprire che è stato tutto un sogno, sperando di... di non averti mai incontrato» mormoro, così nervosa e confusa da non avere più alcuna idea di che cosa stia dicendo. «Solo che poi mi sveglio, ogni mattina, e una parte di me spera di vedere il tuo viso sul cuscino accanto, ed è...»

    «Terribile?» completo, comprendendo perfettamente il suo stato d'animo.
    «A volte mi sembra di aver sbagliato tutto, con te. E non parlo soltanto di come ti ho lasciato, ma... a volte mi chiedo se sia stata una buona idea scriverti quell'e-mail, mi chiedo se forse non avrei dovuto...»
    «Il tempo che ho passato con te è stato il miglior tempo della mia vita» la interrompo, facendo risalire le mani verso il suo viso per stringerlo e costringerla a guardarmi. «Non rimpiango niente di quello che c'è stato tra di noi.» Siamo così vicini che basterebbe un minimo movimento per baciarsi ancora, ma nessuno dei due muove un muscolo, inconsciamente terrorizzato da quanto potrebbe succedere dopo.
    «Mandami via, Shannon. Per favore, mandami via» sussurra, e i suoi si velano ancora una volta di lacrime. Vederla in questo stato mi spezza il cuore, ma sarebbe una bugia tremenda dire che il pianto non renda i suoi occhi ancora più belli.
    «Non posso mandarti via, Daria» sussurro. «Non posso mandarti via» ripeto ancora, chiudendo gli occhi e poggiando la mia fronte alla sua. Spero che riesca a cogliere tutta la sincerità delle mie parole, perché mai come in questo momento mi sono aperto così di fronte ad una persona estranea alla mia famiglia. Soltanto lei riesce a spogliarmi di ogni difesa e di ogni maschera, soltanto con lei riesco ad esprimere davvero quello che sento. «Se ti mandassi via, so che ne morirei. Dal momento in cui te ne sei andata ho pensato di essere abbastanza forte, ho pensato di poter sopravvivere, ma la verità è che... è che tu sei diventata la sola cosa in grado di dare un senso alla mia vita.»

    Alice è chiusa in camera da poco più di un'ora, ma nonostante si sia ripromesso di aspettare che sia lei a cercarlo, Jared non riesce ad attendere oltre. Dopo aver camminato su e giù per il corridoio come un'anima in pena per almeno cinque minuti, si decide a bussare alla porta della camera della ragazza, restando in attesa di un qualsiasi segno di vita. Dopo un'attesa di mezzo minuto, decide di sfidare la sorte e aprire la porta, trovando Alice stesa sul letto immobile, con il viso rivolto verso la finestra. Il solo segno vitale riscontrabile è il flebile movimento delle sue spalle, che, Jared lo sa, indica una serie di controllati singhiozzi. Senza aspettare inviti avanza piano fino al letto, sul bordo del quale si siede cauto, pronto ad andarsene al primo segno di ostilità. Ma Alice non sembra nemmeno essersi accorta della sua presenza, perciò lui si sente autorizzato a procedere. «Mi dispiace di aver urlato» esordisce, guardandosi le mani. Le dà la schiena, eppure riesce senza sforzo ad immaginare i lunghi capelli biondi sparsi sul cuscino e i suoi tratti deformati dalle lacrime. «Non avrei dovuto alzare la voce. Non mi piace nemmeno chi lo fa.»
    «E a me dispiace di averti dato dell'egocentrico arrogante che pensa soltanto a se stesso» sussurra lei, senza muoversi.
    «Ah, ma allora sei viva!» la prende in giro, voltando la testa verso di lei. Non arriva alcuna risposta, ma un lieve gemito soffocato lo avverte che è riuscito a farla ridere – e questa, lo sa, è già una grande conquista, visti i toni usati in precedenza. «Non avevi tutti i torti, comunque. Che sono un po' prepotente è vero.»
    «Sì, ma non avrei dovuto urlartelo in faccia.»
    «Ti dirò, ripensandoci non mi dispiace così tanto. Nel mio ambiente è raro trovare qualcuno che dica sinceramente quello che pensa.»
    «Comunque su una cosa hai ragione» riprende lei dopo un breve silenzio. «La ragazza con cui parlavi al telefono non è la stessa ragazza a cui hai stretto la mano in aeroporto.» Jared si volta completamente verso di lei, pronto a concederle la massima attenzione possibile. «Il fatto è che... non lo so, conoscerti di persona è stato... strano. Finché ti conoscevo soltanto per telefono potevo cullarmi nell'illusione che fossi un ragazzo come tanti altri. Solo che poi sono arrivata qui, ti ho visto e... mi sono resa conto che eri tu
    «Dicendo eri tu intendi...»
    «Mi sono resa conto che eri davvero Jared Leto, musicista di fama mondiale, attore, idolo delle ragazzine e signore e padrone di tutte le terre emerse.»
    «Non proprio di tutte. Mi manca la Groenlandia» scherza lui, strappandole un'altra risatina. «Io non fingo di essere ciò che non sono, Alice» riprende in tono più serio. «Se mi conoscessi bene, vedresti che sono esattamente come appaio. Quello che vedi è quello che c'è.»
    «Il problema non sei tu, Jared. Il problema sono io.»
    «Credo di aver di nuovo perso il filo.»
    Finalmente Alice si volta verso di lui, rivelando due occhi arrossati che mal si sposano con il tono serio che cerca di adottare. «Il fatto è che quando parlavamo e basta io ero me stessa, ma adesso che siamo insieme... non so se ci riesco ancora. Non che mi comporti in maniera completamente diversa, è solo che... non lo so, è solo che mi sembra di essere diversa, quando sono con te.»
    «Se è per quello che ho detto prima, non...»
    «Non è per questo» lo interrompe lei, mettendosi a sedere. «Ho soltanto paura che tu possa farti di me un'idea diversa dalla realtà, e che...»
    «Nonostante quello che ho detto prima, finora non ho visto nulla di diverso, in te» la interrompe a sua volta lui, alzando una mano per accarezzarle i capelli. «Sì, è vero, abbiamo passato insieme poco tempo e sicuramente non posso dire di conoscerti, ma... quando ti guardo, io sono sicuro di vedere quello che sei. Niente di più, niente di meno. Solo quello che sei.»

    «Ti farò ancora del male, Shannon. Ne sono sicura. Ti farò ancora del male» mormora ancora Daria, senza tuttavia allontanarsi da me.
    «Adesso so come comportarmi» rispondo, staccando la fronte dalla sua e stringendo appena le mani sul suo viso per farle sentire la mia vicinanza.
    «Shannon, per favore» insiste ancora, aprendo finalmente gli occhi.
    «Io non ti lascio andare da nessuna parte, Daria» replico, risoluto come non mai. «Santo cielo, ma come devo dirtelo che ti amo?» I suoi occhi si chiudono di nuovo, mentre la mente tenta di recepire la notizia. Un attimo di silenzio, poi si alza in punta di piedi, cercando di nuovo la mia bocca, che questa volta riesce a rispondere subito, facendosi avida, stanca di potersi affidare soltanto alla memoria. Le mani scivolano lente sulla sua schiena, stringendola tanto da toglierle il fiato. Continuo a ripetermi che dovrei essere delicato, ma non riesco ad impedirmi di stringerla con tutte le mie forze: dal momento in cui l'ho conosciuta ho saputo che il solo posto in cui Daria debba stare sono le mie braccia.

    Non ho idea di come succeda, ma so per certo che non voglio smettere di baciarlo, e non soltanto perché mi ha detto che mi ama. Lo bacio perché baciarlo è la cosa giusta da fare, la sola cosa che abbia importanza. Ho passato gran parte della mia vita commettendo errori, e ora che ne ho finalmente l'occasione voglio iniziare a rimediare. E se rimediare significa finire di nuovo offrirgli il mio cuore, i miei difetti e le mie debolezze su un piatto d'argento, allora è questo che farò.
    Lente e piene di dolcezze, le sue mani si muovono sulla mia schiena: sento il loro calore scendere lungo la mia spina dorsale, fermandosi appena sopra il fondoschiena, ma nulla al mondo potrebbe convincermi ad allontanarmi – posso raccontarmi tutte le bugie del mondo, ma tutto questo mi è mancato come l'aria, in questi mesi di niente. Non soltanto il contatto fisico, non soltanto il sesso, ma la consapevolezza di avere accanto qualcuno che mi ama per quella che sono, qualcuno che apprezza ogni mia piccola imperfezione, e che è disposto a tenermi nella sua vita nonostante i miei errori, nonostante le ferite e il male che gli ho fatto.
    «Non vado da nessuna parte» sussurro nell'istante in cui le sue mani si infilano subdolamente sotto la mia maglietta, iniziando a sollevarla a partire dai fianchi. «Non vado da nessuna parte senza di te.» La stoffa continua a risalire, e con essa le dita di Shannon, che percorrono ogni centimetro con una lentezza estenuante. Tremo dalla testa ai piedi, esattamente come la prima volta che mi sono spogliata davanti a lui – è incredibile come la consapevolezza di quanto stia per accadere non riesca a cancellare i miei timore, il mio imbarazzo, quell'assurda e inconscia convinzione di non essere abbastanza per lui.

    «Mi sei mancata» sussurro a mia volta, staccandomi da lei per il tempo necessario a sfilarle la maglietta. Resto fermo a guardarla per un momento, mentre lascio cadere l'indumento lontano e torno ad abbracciarla. «Non avere paura» sussurro ancora, posando le labbra sul suo collo.
    «Non ho paura» risponde con un lieve gemito, aggrappandosi alle mie spalle con tutta la forza di cui è capace.
    «Non mentire» replico, continuando a baciarla. Se non la conoscessi potrei anche cascare nella sua maldestra trappola, ma conosco troppo bene il suo carattere, e sarei uno stupido se pensassi che non sta morendo di paura. «Lo sai, puoi dire basta in ogni momento.»
    Le sue mani risalgono tra i miei capelli, e a quel contatto mi fermo per un istante, respirando lento contro la sua pelle. Prima di lei, raramente sopportavo che mi si toccassero i capelli, ma la sua delicatezza riesce a rendere amabile anche quel gesto, al punto da riuscire ad eccitarmi quasi più di ogni altra carezza. «Mi conosci troppo bene» sussurra, lasciando che le mie mani raggiungano il suo sedere senza protestare. La stringo contro di me, prendendomi un secondo per imparare di nuovo ad apprezzare la sensazione del suo seno premuto contro il mio petto, poi, con un minimo sforzo, la sollevo tra le mie braccia.

    Durante il percorso tra lo studio e la camera da letto rischiamo più volte di cadere e sbattere contro i muri, impegnati come siamo a baciarci come adolescenti innamorati. Quando Shannon mi adagia sul suo letto e rimane in piedi a guardarmi vorrei protestare, perché ora che ricordo cosa significa stare con lui non vorrei che mi stesse lontano nemmeno un secondo. Lo guardo sfilarsi lesto la maglietta per lasciarla cadere a terra, e poi il suo sguardo si fissa di nuovo su di me, quasi volesse essere certo di avere di fronte la ragazza giusta. Quando decide di raggiungermi, non ho più molto tempo per pensare: la sua bocca torna a prendersi la mia, avida e irruente, e senza sforzo riesce a convincermi ad allargare le gambe per fargli spazio. Non so come le sue mani arrivino ai miei jeans, ma in men che non si dica mi ritrovo in mutande di fronte a lui, ed è in questo momento che mi rendo conto che davvero non andrò da nessuna parte. Le sue labbra scendono sensuali lungo il mio corpo, intervallando baci e sospiri, e quando la sua mano ruvida e piena di calli si chiude sul mio seno prego che questa tortura finisca presto, perché non so quanto potrò resistere. Nel momento in cui mi convince ad inarcare la schiena per sfilarmi il reggiseno mi convinco a partecipare all'azione, e per questo cerco alla cieca la cintura dei suoi jeans, decisa a spogliarlo prima che la razionalità torni a prendere il sopravvento. Sentire la sua eccitazione fa crescere anche la mia, e non appena mi è possibile torno a stringerlo contro di me, desiderosa più che mai che torni a farmi sua ancora una volta.
    Nel groviglio di gambe, braccia e mani che siamo diventati, la sua mano si fa strada tra di noi, scostando le mie mutandine, e prima che me ne renda conto le sue dita scivolano dentro di me, strappandomi un lieve gemito. «Mi sei mancata da morire» sussurra ancora, muovendosi dentro di me con una lentezza che mi avvicina sempre di più al limite. Non tento nemmeno di resistere, consapevole che non servirebbe a nulla, e poco dopo mi lascio andare al piacere, reclinando la testa all'indietro. Quando sento arrivare l'orgasmo non mi preoccupo di trattenermi, e mentre lascio che mi baci ancora il collo stringo forte le sue spalle, affondando le unghie fino a fargli male. «Dio, quanto mi sei mancata» respira contro di me, facendomi scivolare via la biancheria e seguendone il percorso, marcando ogni piccola tappa con un bacio delicato. Il suo respiro caldo solletica la mia intimità, e di nuovo mi sembra di perdere la testa: è incredibile come ogni minimo gesto riesca a farmi sentire una regina, ed è ancora più incredibile che io abbia rinunciato a tutto questo soltanto per paura.

    Il secondo orgasmo di Daria mi fa temere, per la prima volta nella vita, di non riuscire a resistere abbastanza a lungo: guardare il suo volto sconvolto dal piacere è più eccitante di quanto ricordassi, e il silenzio rotto dai suoi sospiri e dai suoi gemiti è il solo suono che abbia voglia di ascoltare per il resto della vita. Mi sollevo da lei per un istante, per darle un attimo di respiro e per concedere anche a me stesso un attimo di tregua, e approfitto di questo momento per allungarmi verso il cassetto del comodino e prendere un profilattico. Le sue mani iniziano ad abbassare la biancheria, e mi stendo sull'altro lato del letto per completare l'operazione e indossare la protezione. Quando mi volto verso di lei, la sua mano sale a carezzare la mia guancia, e l'improvvisa sicurezza del suo sguardo mi costringe a rimangiarmi la domanda che stavo pensando di farle. Abbasso per un istante gli occhi, facendoli correre lungo il meraviglioso corpo steso accanto al mio, e in un gesto delicato e naturale le accarezzo la coscia, convincendola a voltarsi completamente verso di me e a stringere la sua gamba attorno a me. Le nostre intimità si scontrano, e per un tempo infinito ce ne stiamo l'uno accanto all'altra, quasi immobili, godendoci un meraviglioso attimo di pace, una straordinaria sensazione che da troppo tempo mancava dalle vite di entrambi. «Dicevi sul serio, prima?» sussurra, senza smettere di accarezzare la mia guancia irta di barba. «Quando hai detto che mi ami, dicevi sul serio?»

    «Ho iniziato ad amarti quando mi hai spinto in quel negozio di abbigliamento per evitare il tuo ex ragazzo» risponde a voce bassa, senza smettere di far correre la sua mano lungo la mia coscia. «E in tutta sincerità, credo che non riuscirò mai a farla finita, con te.» Come risposta è più che sufficiente, anche per una ragazza insicura e piena di paure come me. Mi allungo verso di lui per baciarlo, mentre lui scivola dentro di me con delicatezza, aiutandosi con una mano. Resto senza fiato per un istante, mentre Shannon si spinge lentamente dentro di me, facendomi capire che non sono bastati né il tempo né la lontananza né il dolore per dividerci.
    Approfitto della sua guardia abbassata per prendere il sopravvento ed ergermi sopra di lui, poggiandogli una mano sul petto per mantenere l'equilibrio. Chiudo gli occhi e lascio che sia lui a dettare il ritmo, a decidere i movimenti. Lascio che sia lui a comandare, a fare di me ciò che preferisce, perché dal momento in cui ha posato gli occhi su di me sono stata sua, e nulla di ciò che potrei dire o fare cambierà mai questa condizione.

    Alice e Jared se ne stanno distesi immobili l'uno accanto all'altra, fissando il soffitto. «Quella cosa che hai detto prima» dice all'improvviso lei, spezzando il lungo silenzio che si è creato nella stanza. «Era vero o lo hai detto soltanto per irritarmi di più?»
    «Quale cosa? Ne ho dette tante.»
    «Sai perfettamente a cosa mi riferisco. Parlo di quando hai detto che amavi la ragazza con cui parlavi al telefono. Lo hai detto perché ci credi davvero o era soltanto un modo per farmi incazzare di più?»
    «Lo pensavo davvero» risponde Jared dopo un breve silenzio. «Quelle chiacchierate sono diventate una parte importante della mia vita, e di conseguenza lo è diventata anche la persona con cui chiacchieravo.»
    «Quindi sei innamorato di me?»
    «Credo di sì.»
    «Quindi adesso che succede?»
    «Che intendi?»
    «Beh, io non so se ti amo. Mi piaci molto, questo è vero, ma dire che...»
    «Non voglio che tu dica che mi ami solo perché io ho detto che ti amo.»
    «Ma come fai ad essere sicuro di amarmi? Nemmeno mi avevi mai vista, fino a tre giorni fa.»
    «Non lo so» sospira lui, senza muoversi. «Tutto quello che so è che quello che provo quando sono con te non somiglia a niente di quello che ho mai provato in vita mia.»
    Il silenzio cala di nuovo sulla stanza e la fa da padrone per un lunghissimo minuto. «Non voglio finire come Daria e Shannon» dice lei all'improvviso. «Non voglio starmene chiusa in casa a chiedermi in quale parte del mondo sei e a struggermi pensando ai milioni di ragazze che ti si strusciano addosso quando vai alle feste. Non è roba per me. Ho passato gli ultimi cinque anni della mia vita così. Non voglio ripartire da zero proprio adesso che ho deciso di voltare pagina.»
    «E io non ti sto chiedendo di farlo.»
    «Quindi restiamo amici?»
    «Non potrò mai essere tuo amico, Alice.»
    «Quindi adesso che succede?» ripete lei, vagamente spaventata di fronte all'incerto destino che vede di fronte a sé. È sempre stata una ragazza abituata ad avere un piano, e ritrovarsi all'improvviso piena di dubbi e incertezze non le piace nemmeno un po'.
    «Non lo so, Alice. Non ne ho la minima idea.»

    Daria si è addormentata e pochi istanti dopo si è voltata sul fianco destro, come fa spesso. Di nuovo felice e sereno come non mi capitava di essere da secoli, sollevo una mano per accarezzare il suo tatuaggio. Percorro ogni simbolo con la punta dell'indice, cercando di non svegliarla. Arrivato in fondo non riesco ad impedirmi di sorridere, certo che da adesso in poi tutto andrà per il meglio. La circondo con le braccia, e prima di chiudere gli occhi poso un bacio leggero sui glyphics che spiccano nitidi contro la sua pelle chiara: ho di nuovo con me la cosa più preziosa che abbia mai posseduto, e non mi sentirò mai più sperduto.



1Tutto muore, ma tu sei la cosa più cara che ho. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone E... di Vasco Rossi, contenuta nell'album Buoni O Cattivi (2005).
2Praying to see these Eden's eyes that saved me, praying to reach again your paradise. | Si tratta di un altro verso della canzone da me inventata (che, per rispondere alle domande di alcune di voi, sì, più o meno esiste, ma vive, per vostra fortuna, soltanto tra la mia mente e i miei appunti). La traduzione è più o meno questa: “Pregando di vedere quei divini occhi che mi hanno salvato, pregando di raggiungere ancora il tuo paradiso”.

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Capitolo 11
*** 11 | Io ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso. ***


La lunga strada verso casa - 1
Non so più che fare per chiedervi scusa, ma se ad ogni pubblicazione c'è qualcuno che continua a recensire significa che in fondo questa storia non vi dispiace, e che val la pena aspettare anche due settimane per un capitolo. Vi chiedo scusa, davvero, immensamente, ma sono stati giorni difficili, e come spesso accade è stata la scrittura a farne le spese... ma vi giuro che siete sempre nei miei pensieri, così come Daria, Shannon, Jared, Alice e tutto il teatrino – non potrei mai abbandonare nessuno di quegli adorabili squinternati, e sinceramente spero di suscitare le stesse sensazioni in voi.
Buona lettura,
EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo undicesimo
Io ti guardo negli occhi e vedo lontano
il tempo che ho perso.1


Los Angeles, 13 marzo 2014


    Apro gli occhi, ritrovando su di me lo sguardo di Shannon, che si sostiene la testa con il gomito, puntellandosi al cuscino con il sorriso di un tempo ad illuminare ancora di più il suo volto rilassato. «Perché tutte le volte che mi sveglio ti trovo così? E non dirmi che sono un bello spettacolo da guardare.»
    «Buongiorno anche a te» sussurra, senza smettere di sorridere, abbassandosi per darmi un bacio a fior di labbra. Si trattiene contro la mia bocca per qualche istante, poi si ritrae, facendo salire una mano al mio volto per una carezza. «Anche se mezzogiorno è passato da un pezzo, quindi forse sarebbe più appropriato dire buon pomeriggio. E anche se non ti va di sentirlo sì, sei uno spettacolo stupendo da guardare.»
    «Bugiardo» replico, tirandomi il lenzuolo sopra la faccia.
    «Questo mai» ribatte, tirando via la stoffa. «Non con te. Mai, se si tratta di te.» Restiamo a guardarci in silenzio per quello che credo sia un minuto buono, entrambi consapevoli che questo momento è così perfetto da non aver bisogno di parole. Di sicuro questa parte del nostro rapporto mi è mancata: per una come me, che ama le parole ma teme di non saper mai trovare quelle più adatte, potersene stare zitta e muta in compagnia dell'uomo che ama è la più grande conquista del mondo. Anche se, già lo so, prima o dopo il silenzio inizierà ad irritarmi, e a quel punto dovrò per forza trovare qualcosa da dire. Quel momento arriva prima di quanto mi sarei mai aspettata. «Che cosa succederà adesso?»
    «Dubito che dicendo adesso tu intenda i prossimi cinque minuti.»
    «Mi conosci troppo bene.»
    Sospira, tornando a stendersi accanto a me e cercando la mia mano sotto le lenzuola, per stringerla con quel misto di forza e dolcezza che ha contribuito a farmi innamorare di lui. «Ormai credo sia chiaro che per stare bene abbiamo bisogno di stare insieme» sussurra. «Ma per stare insieme, devi smettere di avere paura. Devi essere disposta a lasciarti andare, altrimenti non impiegheremo molto a tornare al punto di partenza. Con questo non sto dicendo che quello che è successo sia stata tutta colpa tua» aggiunge in fretta, voltandosi verso di me. «Non potrei mai scaricare addosso a te tutta la colpa, perché anche io ho sbagliato.»
    «So che sono passati soltanto quattro mesi da Parigi, ma in questo periodo sono successe tante cose, e... non credo di essere la stessa persona che ero allora. Credo... credo di essere più forte, in un certo senso.»
    «Jared mi ha raccontato di tua madre. Mi ha detto che è tornata nella tua vita.»
    «Sì, e cinque minuti dopo essersi rifatta viva mi ha detto che ho un fratello di quasi dodici anni» aggiungo, chiedendomi per un istante come stia Luca. Non lo sento dal giorno prima della mia partenza, e da quando ho accettato di costruire un rapporto con lui non ho mai lasciato passare un giorno senza chiamarlo o mandargli un sms. «Mi ha chiesto di conoscerlo, perché insieme ad Emanuele e Francesca sono la sola famiglia che gli resti. Lo scorso anno ha perso suo padre.»
    «Non deve essere stata una passeggiata, per lui. Insomma, so cosa significa crescere senza un genitore. E certo, anche tu lo sai.»
    «All'inizio volevo mandarla al diavolo. Mi ci sono voluti anni di analisi per arrivare a capire che l'assenza di mia madre è stata la causa di quasi tutti i miei problemi, e quando l'ho vista tornare così all'improvviso avrei voluto...» Mi fermo, indecisa sui termini da usare, ma subito decido di lasciar perdere la ricerca. «Solo che poi ho incontrato lui, e mi è sembrato così identico ad Emanuele che... non sono proprio riuscita a rifiutarmi di conoscerlo. È un ragazzino straordinario.»
    «Condivide con te metà del proprio DNA. Mi sembra piuttosto ovvio che sia un ragazzino speciale» replica lui, strofinando il naso contro il mio collo come un gatto impegnato a fare le fusa – il che mi fa pensare a Solo, rimasto a casa con mio padre.
    «E poi ho preso un gatto.»
    «Hai preso un gatto?»
    «I miei padroni di casa hanno trovato una cucciolata orfana nel cortile del palazzo, e mi hanno chiesto se ne volessi uno. Non so che cosa mi sia preso, ma ho accettato. L'ho chiamato Solo.»
    «Solo come Han Solo? Non ti facevo una fan di Guerre Stellari
    «No, Solo nel senso di... beh, di qualcuno che non ha nessuno. L'ho chiamato così perché i fratelli lo escludevano dal gruppo. Mi ha fatto pena, mi sembrava un nome perfetto per lui. Fa un sacco di fusa a tutti quelli che entrano in casa. Alice dice che secondo lei è un modo per punirmi perché odia il nome che gli ho dato.»
    Shannon si lascia andare ad una risata, e nonostante per qualche secondo tenti di fingere il broncio, dopo un po' mi è impossibile non lasciarmi andare all'ilarità. «Beh, per tua fortuna Bruce è molto tollerante nei confronti del mondo felino» sorride, passandosi una mano sugli occhi per asciugarli dalle lacrime.
    «Che c'entra Bruce con il mio gatto, scusa?» domando, seriamente confusa dalla sua affermazione.
    Il suo viso torna a farsi serio, mentre si volta di nuovo per guardarmi negli occhi. «Beh, forse dirai che corro troppo, ma non riesco a non pensare sulla lunga distanza. Sai, nel caso che noi due...»
    «Intendi... pensi che un giorno tu ed io potremmo andare a vivere insieme?»
    «Ti sembra un'idea così strana?» mi domanda, posando una mano sul mio fianco.
    «Non lo so» sussurro, abbassando lo sguardo. «Fino a sei mesi non pensavo nemmeno che ti avrei mai visto nudo. Non ho mai pensato che... ma perché siamo finiti a fare questo discorso?»
    «Non lo so» mormora, carezzandomi il fianco con aria indifferente. «Forse... è solo che stavo ripensando a quello che mi hai detto ieri sera, quando eravamo sulle colline.» Capendo immediatamente a che cosa si sta riferendo, non oso nemmeno pensare di alzare gli occhi. «Che cosa avresti fatto se quel dubbio fosse diventato realtà? Mi avresti mai detto di essere incinta?»
    «Devo essere sincera?»
    «Dicono che quando si è ubriachi o nudi si tende sempre ad essere sinceri, perciò... sì, vorrei che fossi sincera. Anche se la verità dovesse essere brutta.»
    «Non credo che te lo avrei detto» sputo fuori, consapevole che qualunque giro di parole non renderebbe la mia affermazione meno repellente. «La mia famiglia è sempre stata piuttosto aperta da quel punto di vista, e credo che per loro non sarebbe stato un problema accettare un bambino senza un padre.»
    «E per te lo sarebbe stato?»
    «Non sarebbe stata una passeggiata, questo è sicuro. Insomma, avrei vissuto per sempre insieme ad un bambino che mi avrebbe ricordato per sempre la storia con te. Un bambino che probabilmente sarebbe stato una copia perfetta di te» aggiungo con un breve sorriso, alzando una mano per accarezzargli i capelli.
    Adesso è lui ad abbassare lo sguardo, in silenzio, e per un momento temo di aver di nuovo rovinato le cose tra di noi. Ma poi lo vedo rialzare gli occhi e puntarli nei miei, e in qualche modo capisco che non è né arrabbiato né deluso da quanto ho appena detto – e subito dopo mi fa una domanda che mi sorprende. «Quindi lo avresti tenuto? Insomma, se fossi stata davvero incinta non...»
    «Non credo di essere troppo giovane per avere un bambino. Mia madre aveva soltanto due anni più di me quando sono nata. E poi non ho mai creduto che esista un'età giusta per avere un bambino. L'istinto materno non ha nulla a che fare con l'età anagrafica. Una donna è pronta quando si sente pronta.»
    «Lo avresti tenuto anche sapendo che ti avrebbe ricordato per sempre la storia con me?»
    Ci penso su per qualche istante, cercando le parole giuste per esprimere quello che penso. «Mi avrebbe ricordato te, e quanto ti avevo amato» sussurro infine. «Non avrei mai potuto non amarlo.»
    Sorride, poi le sue labbra tornano sulle mie, e in pochi istanti mi ritrovo stesa sotto di lui, impegnata a baciarlo come se da ogni breve contatto dipendesse la mia sopravvivenza. Sento le sue mani scivolare sulla mia schiena, cercando la mia pelle sotto le lenzuola calde, e anche attraverso la stoffa sento la sua eccitazione riprendere vigore. «L'ho sognato, sai?» sussurra tra un bacio e l'altro, ricominciando a torturare il mio collo. «Ho sognato che un giorno avresti bussato alla mia porta con un enorme pancione, e che avremmo ricominciato tutto da capo, solo noi tre.»
    «Ti dispiace che siamo solo noi due, invece?» lo stuzzico, mentre le sue attenzioni scendono verso il mio seno.
    «Abbiamo tutto il tempo» mormora, tornando a riprendersi la mia bocca. «Abbiamo tutto il tempo del mondo.»

    «Hai detto che Shannon stava suonando la canzone che hai scritto su di loro?»
    Jared annuisce, continuando a fissare il soffitto. «Per come la vedo io, se sono arrivati a quel punto le cose tra loro si stanno mettendo a posto. Insomma, non dico che le mie canzoni abbiano poteri taumaturgici, però...»
    «Se davvero si rimettono insieme, le cose si faranno complicate. Insomma, se vogliono evitare di finire come l'altra volta dovranno impegnarsi non poco per non rifare gli stessi errori.»
    «Shannon è un uomo forte, quando è con lei.»
    «Anche Daria è una donna forte, quando è accanto a lui.»
    «E allora non credo ci sia molto di cui preoccuparsi. Possono farcela.»
    «Sì, lo credo anch'io.»
    Il silenzio cala di nuovo sulla stanza e sui due corpi stesi immobili sul letto rifatto, ma non dura molto, interrotto all'improvviso da Jared. «Andiamo a fare colazione?»

    Stringo le dita di Daria tra le mie, mentre mi spingo in lei con delicatezza, cercando di non gravare troppo su di lei con il mio peso. Le sue ginocchia stringono i miei fianchi, domandandomi di più, mentre ogni sospiro si perde tra i miei baci. Sta andando tutto alla perfezione, finché Bruce non fa irruzione nella stanza per prendere le lenzuola tra i denti e tirarle via, lasciandoci completamente scoperti. «Bruce, no!» esclamo, smettendo per un istante di muovermi. «Bruce, smettila!» ripeto, sperando che non decida di saltare sul letto. Mi sento piuttosto idiota, e la sensazione non fa che peggiorare quando Daria inizia a ridere. «Non è divertente, sai?»
    «Scusa, ma io mi diverto da morire» ridacchia lei, coprendosi la bocca con la mano libera.
    «Sono felice per te, ma io non mi diverto per niente. Bruce, seduto!»
    «Avrà fame, poverino. Da quanto non mangia?»
    «Questo non lo autorizza a comportarsi da maleducato, non ti sembra?»
    «E dai, vai da lui» mi esorta lei, puntandomi le mani contro il petto per spingermi via.
    «Ma io sto bene qui con te» ribatto, cercando di rubarle un altro bacio.
    «Noi abbiamo tutto il tempo del mondo, no?» sorride, schivando le mie labbra. «Forza, vai da lui.»
    «Se insisti...» sospiro, riuscendo finalmente a vincere le sue resistenze per un bacio e scostandomi con estrema fatica da lei. Scendo dal letto, cercando le mutande, e mentre le infilo esorto Bruce ad uscire, vagamente irritato dal fatto che se ne stia seduto immobile a fissare la mia ragazza. «Forza, mascalzone, in cucina!» Un minuto più tardi Daria ci raggiunge di là, indossando soltanto la biancheria e la mia maglietta. La guardo abbassarsi per carezzare le orecchie di Bruce, mentre io frugo ogni stipetto alla ricerca di un po' di cibo per nutrire il pessimo tempismo del mio cane. «Fantastico, ho finito tutte le scorte» sbuffo, richiudendo di scatto l'ennesima antina. «Mi tocca pure uscire per colpa tua, contento?»
    «E dai, non trattarlo così male» sorride Daria, abbracciandomi alle spalle e posandomi un bacio sulla schiena. «Quanto ci vorrà, una ventina di minuti? Possiamo sopportare la tua assenza per un po'.»
    «Sarai ancora qui quando tornerò?» le domando, voltandomi per poterla guardare negli occhi.
    «Sono senza macchina e non credo di avere abbastanza soldi per un taxi, senza contare che non conosco l'indirizzo di tuo fratello. Mi sembra abbastanza ovvio che sarò ancora qui quando tornerai.»
    «Allora va bene. Mi vesto, vado e torno» sussurro, baciandola ancora.
    «Posso fare una doccia, nel frattempo?»
    «Sei a casa, qui» sussurro ancora, accarezzandole una guancia. «Fruga pure negli armadi, mettiti quello che vuoi. Il bagno è in fondo a sinistra, proprio accanto alla camera da letto. Fai come se fossi a casa tua» ripeto, baciandola di nuovo. È straordinario poter finalmente usare le parole casa e tua nella stessa frase senza aver paura di vederla fuggire – senza troppa paura, almeno. «Ma chiuditi a chiave, non vorrei che questo mascalzone ne approfittasse.»


*



Torino, 13 marzo 2014


    Per quanto gli costi ammetterlo, alla fine dei conti Emanuele sa che Daria aveva ragione quando, poche sere prima di partire per gli Stati Uniti, gli ha consigliato di non perdere tempo e di non guastarsi l'anima con l'odio. All'inizio gli sembrava strano e ipocrita, detto da una che ha passato due terzi della vita ad odiare la madre con ogni fibra del proprio essere, ma ripensandoci, a mente fredda, Emanuele si rende conto che per stabilire un rapporto con Luca non deve per forza far pace anche con Elisa. Gli riesce difficile chiamarla mamma, considerando che non la vede dall'età di quattro anni, e qualcosa gli dice che la chiamerà per nome ancora per molto tempo. Ma Luca... con lui è tutto un altro paio di maniche. Ha passato così tante sere appostato davanti a casa sua e allo studio della madre da aver capito che Daria aveva ragione, dicendo che si somigliano in maniera incredibile. Emanuele non riesce a guardarlo e a non rivedere se stesso a quasi dodici anni, chino sotto il peso di un'anima troppo matura per la sua età e piegato dalle continue prese in giro dei compagni di classe. Perché che lo prendano in giro è sicuro: un paio di volte ha saltato qualche lezione per guardarlo uscire da scuola, e ciò che ha visto non gli è piaciuto per niente – lo ha visto tante volte scendere gli scalini dell'ingresso con un libro stretto al petto o con la custodia del violino issata su una spalla, e troppe volte ha visto capannelli di bulletti in erba guardarlo male, scansandolo, additandolo come quello strambo, il secchione, il cocco della prof. Emanuele sa che è un'età difficile quella delle medie, lo ha provato sulla propria pelle, e sempre per esperienza personale sa che è ancora peggio se ti manca uno dei tuoi genitori.
    È per questo che una sera, vincendo ogni resistenza e istinto di conservazione, suona al campanello di casa Maresca, trovandosi di fronte i tratti di una donna che somiglia disgustosamente alla sua sorella maggiore.



*



Los Angeles, 13 marzo 2014


    Dopo una lunga doccia calda, infilo un paio di boxer e una maglietta pescati dall'armadio di Shannon, e in attesa del suo ritorno vago senza meta per casa sua, infilando il naso in ogni camera e chiedendomi come sarebbe vivere insieme a lui, riempire i suoi cassetti dei miei indumenti e incasinargli l'armadietto del bagno con flaconcini di smalto e confezioni di assorbenti. Presto però smetto di pensarci, perché il mio stomaco, vuoto ormai da quasi ventiquattro ore, inizia a farsi sentire in maniera imbarazzante. Torno in cucina, sempre tallonata da Bruce, e frugo discretamente in alcuni stipetti, trovando una confezione aperta di biscotti al cioccolato. Masticando furiosamente, e con un secondo biscotto stretto tra le dita, riprendo la mia esplorazione, ritrovandomi di nuovo nello studio. Dopo un attimo di indecisione prendo posto sul seggiolino dietro la batteria, rievocando le sensazioni provate prima del concerto di Parigi, quando Shannon mi ha presa per mano e mi ha fatto sedere insieme a lui dietro i grandi tamburi di Christine, confessandomi per la prima volta quanto la mia presenza nella sua vita fosse importante per lui. Per un brevissimo istante mi sento una vera e propria stronza, perché meno di dodici ore dopo quella confessione così importante ho avuto il coraggio di fare i bagagli e lasciarlo, spezzandogli il cuore e rischiando di rovinargli la vita per sempre. Per fortuna, come in un film, arriva il campanello a distrarmi. Mi infilo il biscotto in bocca e do un paio di masticate decise, mentre corro verso l'ingresso, convinta che sia Shannon. Quando apro la porta, però, mi trovo di fronte un uomo adulto che tiene in braccio un bambino di non più di due anni. Nel vedermi, l'uomo fa un passo indietro e si guarda attorno, forse accertandosi di aver suonato alla porta giusta. «Salve» dice poi, guardandomi con aria confusa, mentre io inizio a pentirmi di aver mangiato quel dannato biscotto. «Sto cercando... Shannon dov'è?» conclude dopo un attimo di incertezza, riservandomi uno sguardo a dir poco sospettoso. «Spero che tu non sia una ladra o una di quelle fan schizzate che entrano nelle case delle star per...»
    «Fono Faria» biascico, spargendo briciole tutto intorno nonostante la mano premuta sulla bocca.
    «Bu-u-us!» interviene il bambino, protendendosi in avanti alla vista del cane – il che mi fa capire che si tratta di conoscenti, o più probabilmente di amici.
    Mi batto il pugno sullo sterno per agevolare la discesa del biscotto, pulendomi l'altra mano sui boxer. «Sono Daria» ripeto, recuperando un briciolo di dignità. «Sono la...» Mi blocco, non sapendo come qualificarmi: fidanzata è troppo, ma anche ragazza sembra eccessivo. Dire la stronza che lo ha mandato in clinica sembra troppo brutto? Decido di sviare il discorso da me per riportarlo su Shannon. «Shannon è uscito per una...»
    «Aspetta, sei Daria?» mi interrompe lui, mettendo giù il bambino e lasciandolo finalmente libero di correre incontro a Bruce, che si accuccia a terra per lasciarsi accarezzare. «Sei la Daria di Shannon?»
    «Sì, sono Daria» ripeto, un po' confusa, chiedendomi se sia il mio inglese ad essere pessimo o se sia lui ad avere qualche problema di comprendonio. «Ad ogni modo, Shannon dovrebbe tornare tra...»
    «Io sono Wayne!» esclama lui, interrompendomi di nuovo. Mi porge la mano con fare entusiasta. «Sono un amico di Shannon» spiega, mentre mi arrischio a ricambiare la stretta. «Probabilmente lui non ti ha parlato di me, ma io di te so tutto!»
    Non so se questo sia un bene o un male, ma decido di tentare un sorriso. «Shannon è uscito per una commissione, ma dovrebbe tornare a momenti» riesco finalmente a dire, mentre il bambino continua a rotolarsi sul pavimento insieme al cane, continuando a biascicare «Bu-u-us» con aria felice.
    «Ah, lui è mio figlio, Ryder» aggiunge Wayne, indicando il bambino. «Shannon è il suo padrino» è l'informazione che decide di aggiungere, forse credendo che Shannon mi abbia parlato almeno di lui. «Accidenti, non pensavo che avrei mai avuto l'occasione di conoscerti di persona. Se me lo concedi, sei anche più carina che in fotografia.»
    «Hai visto una mia fotografia?» domando, sempre più confusa da questa strana visita.
    «Sì, quando Shannon mi ha raccontato di te. Insomma, non dico che non fossi carina anche in foto, ma dal vivo... wow!» esclama ancora, allargando le braccia come a voler abbracciare la stanza. «Oh, tranquilla, non è che ci sto provando, o roba del genere. Sono un uomo sposato e amo follemente mia moglie. E poi sei la ragazza di Shannon, quindi non potrei mai provarci con te. Sarebbe un gesto sleale, e...»
    «Non pensavo che ci stessi provando con me, tranquillo» lo fermo, prima che dica altro. Da quel poco che ho capito, questo Wayne è uno che si lascia prendere dall'ansia e inizia a dire tutto quello che gli passa per la testa, e per quanto questo un po' mi imbarazzi, non posso che prenderlo in simpatia, visto che io ho più o meno lo stesso problema. «Volete aspettarlo dentro? Dovrebbe tornare tra pochi minuti.»
    «Oh, non importa. Ero passato per vedere se stava bene, visto che non ci vediamo da un po', ma non abbiamo molto tempo. Devo portare Ryder dal pediatra e poi tornare subito a casa. Sai, stanno per arrivare i miei suoceri da Seattle, e siamo tutti un po'...»
    Una voce profonda e roca che conosco bene si intromette tra di noi, bloccando l'ennesimo attacco di logorrea di Wayne. «Che diavolo sta succedendo qui?»
    «Io! Io!» replica con un gridolino Ryder, sollevando a fatica dal pavimento il sederino avvolto nel pannolino per correre incontro a Shannon, che posa immediatamente a terra i due sacchi di cibo per cani che portava sotto le braccia per sollevare in aria il bambino, evidentemente felice di vederlo. «Io! Io!»
    «Io è la nuova parola della settimana» spiega Wayne, voltandosi verso Shannon. «Starebbe per zio, o almeno così crede Ashley. Ashley è mia moglie» aggiunge, rivolgendosi di nuovo a me. Ma io sono troppo distratta dalla felicità dipinta sul volto di Shannon per prestare attenzione al suo amico: sto iniziando a pensare che se il dubbio di Natale si manifestasse ora, niente mi impedirebbe di correre subito da lui a dargli la notizia, perché i suoi occhi la dicono lunga – per quanto lo conosca ancora poco, per quanto non posso essere certa che tra noi durerà per sempre, so per certo che quando arriverà il momento, se mai arriverà, Shannon saprà essere un padre meraviglioso.
    «Non mi hai detto che saresti passato. Mi sarei fatto trovare in casa.»
    «Oh, nessun problema» replica Wayne con una scrollata di spalle. «Mi ha aperto la tua dolce metà» aggiunge, e io vorrei soltanto che il pavimento mi inghiottisse.
    «Almeno ti sei presentato, razza di troglodita che non sei altro?» lo rimbecca Shannon, rimettendogli tra le braccia un riluttante Ryder. «Scusalo se si è comportato male, ma è un maleducato di prima categoria» aggiunge, guardandomi.
    «Si è comportato benissimo, tranquillo.»
    «Entrate, vi offro qualcosa» riprende Shannon, tirando su i sacchi attorno ai quali Bruce ha iniziato a saltellare con aria famelica.
    «Grazie, ma dobbiamo proprio andare. Devo portare questo pigrone dal pediatra e tornare subito a casa per aiutare Ashley. Domani arrivano i suoi, è completamente fusa. Siamo soltanto passati a fare un saluto, e ora ce ne andiamo. Vero, Ryder? Andiamo dal dottore e poi torniamo a casa a farci sgridare dalla mamma» aggiunge, rivolgendosi al bambino con un tono dolcissimo.
    «Mamma! Mamma!» ripete il piccolo, battendo le mani con gioia.
    «Comunque casomai ci sentiamo più tardi» riprende Wayne, e per quanto provi ad essere discreto, non riesco a non accorgermi dell'occhiata decisamente eloquente lanciata a Shannon. «Scusate ancora per il disturbo. Forza, campione, saluta lo zio Shannon e Bruce. E anche Daria, naturalmente.»
    «Ciao, io! Ciao, Bu-u-us! Ciao... Daia!» aggiunge dopo un momento di incertezza, agitando verso di me la manina paffuta.
    «Ciao, Ryder» rispondo, aspettando che siano a metà del vialetto prima di richiudere la porta. «Hai un amico decisamente...»
    «Fuori di testa? Puoi dirlo tranquillamente, non mi offendo. Tanto normale non è» mi interrompe, aprendo uno dei due sacchi e versando qualche crocchetta nella ciotola di Bruce, che si fionda sul cibo come se non mangiasse da secoli.
    «Stavo per dire particolare» concludo in un sorriso, ripensando al fiume di parole che mi sono vista riversare addosso. «Ha detto che gli hai parlato di me. E che gli hai mostrato una mia fotografia. Spero almeno che fosse una foto decente, altrimenti ti uccido.»
    Lo guardo perdersi in una risata, mentre sistema gli acquisti in un angolo della dispensa. «Gli ho parlato di te perché è uno dei miei migliori amici. Lui è per me quello che Alice è per te. E la foto che gli ho mostrato è quella che ci siamo fatti scattare dai giapponesi la prima volta che sono venuto a trovarti a Torino» aggiunge, avvicinandosi a passo lento.
    «Quella foto è orrenda!» protesto, puntandogli un indice contro il petto prima che sia troppo vicino.
    «Sul serio? Io la trovo meravigliosa» replica, senza lasciarsi intimidire.
    «Beh, allora hai bisogno di un buon oculista.»
    «No, tutto quello di cui ho bisogno è qui» sussurra, riuscendo finalmente ad abbracciarmi per stamparmi un bacio sulle labbra. «Hai mangiato i miei biscotti?» domanda subito dopo, accorgendosi delle briciole sul mio viso e sulla maglietta.
    «Un paio» confesso. «Avevo fame.»
    «Buon per te, perché mentre ero fuori ho pensato anche al tuo stomaco, non soltanto a quello di Bruce» ribatte, lasciandomi andare. «Ho lasciato le buste in macchina, vado e torno.»

    «Allora, la tua tesi come sta andando?» domanda Jared, rigirando due hamburger di soia sulla piastra rovente.
    «Malissimo» replica Alice, affettando i pomodorini da aggiungere alla ricca insalata che è stata incaricata di preparare. «Inizio a credere di aver scelto un argomento troppo vasto. Sono sommersa di informazioni e non riesco a scegliere quelle davvero importanti.»
    «Dev'essere frustrante.»
    «Frustrante è un termine riduttivo. La mia stanza inizia a somigliare alla biblioteca di Alessandria, ci sono fogli e libri ovunque. Ci sono giorni in cui vorrei soltanto dare un calcio a tutto, trasferirmi in Brasile e aprire un bar sulla spiaggia.»
    «In Brasile con una pelle come la tua? Ti scotteresti dopo un giorno soltanto» la prende in giro lui, girando ancora una volta gli hamburger. «Io qui sono quasi pronto. Tu a che punto sei?»
    «Ci sono quasi» risponde lei, rovistando sulle mensole alla ricerca di alcune spezie. «Mi sfugge il motivo per cui tieni i premi che ricevete sulle mensole della cucina. Non esiste un posto più appropriato?»
    «Non lo so, non mi sono mai preoccupato di cercargli un'altra sistemazione, e alla fine mi sono abituato alla loro presenza. Anzi, direi che adesso sono piuttosto affezionato alla mia cucina piena di inutili trofei.»
    «Sono felice per te, ma io dove lo cerco il pepe? In bagno o in garage?»
    «No, quello lo conservo in camera da letto» scherza ancora lui, rivolgendole un sorriso malizioso.
    «Molto divertente, ma dubito stessimo parlando della stessa cosa» replica lei, smontando ogni tentativo di flirt. Se vuole tener fede al proprio proposito di non lasciarsi coinvolgere da Jared, deve evitare ad ogni costo qualsiasi situazione ambigua, per quanto le costi rinunciare talvolta a ridere con lui.

    «Sapevo che doveva esserci una fregatura, da qualche parte» borbotta Daria, agitando la padella per far rosolare al punto giusto la pancetta tagliata a cubetti.
    «Non è colpa mia se sai cucinare meglio di me» rispondo, finendo di apparecchiare. «E poi dobbiamo tener fede allo stereotipo, no? Sei italiana, dunque una chef nata» aggiungo, abbassando la voce e avvicinandomi per abbracciarla da dietro.
    «E dai, non fare così!» esclama con una risatina nell'istante in cui sente le mie labbra sfiorarle il collo.
    «Perché, ti sto forse distraendo?» le domando, senza cedere di un solo millimetro.
    «E non poco» risponde lei, aggiungendo qualche spezia nella padella. «Se continui di questo passo, rischio seriamente di bruciare il pranzo» aggiunge, mentre le mie mani scendono lentamente sul suo ventre, tenendola stretta al mio corpo.
    «Poco male. Potremmo sempre ordinare una pizza e farcela consegnare a casa. Non sarebbe la prima volta, no?»
    «No, ma le altre volte non ero affamata come adesso. Se non mangio subito qualcosa rischio di azzannare Bruce, e non mi sembra il caso» replica, tirando su dalla pentola un maccherone per testarne la cottura. «Va bene, ci siamo!» annuncia con entusiasmo, spegnendo la fiamma. La lascio andare a malincuore, allontanandomi per lasciarla libera di muoversi senza impedimenti. La guardo muoversi con una naturalezza estrema, neanche avesse passato la vita in questa cucina. La guardo e sorrido, sperando che non decida mai più di andarsene, perché mai come in questo momento ho avuto la certezza che Daria sia fatta per vivere accanto a me. «Perché mi guardi così?» mi domanda all'improvviso, accorgendosi di avere addosso il mio sguardo.
    Scuoto appena la testa, senza riuscire a nascondere il sorriso. «Niente, è solo che... sembra che tu abbia vissuto in questa casa per tutta la vita.»
    «E questo è un male?»
    «Secondo te lo è?»
    Abbassa lo sguardo, fingendosi impegnata a far saltare la pasta, ma so che dietro la sua apparente indifferenza si cela un cervello che gira alla velocità della luce, cercando di darsi una risposta. «Non lo so» replica infine, senza preoccuparsi di celare la propria mestizia. «Credo di non aver ancora avuto il tempo di realizzare che cosa stia succedendo. Fino a ieri mattina ero convinta che mi avresti rispedita nel mio Paese a calci nel sedere, e invece sono qui, ventiquattro ore dopo, a prepararti il pranzo. Ammetto di essere un po' confusa.»
    «Essere confusi è naturale. Sarei preoccupato se non lo fossi.»
    «Non mi piace essere confusa. La gente finisce sempre col fare cose idiote, quando è confusa.»
    «Cose idiote tipo... abbandonare l'amore della propria vita in una stanza di hotel con una lettera infilata in un libro?»
    Sul suo volto compare finalmente un sorriso. «Sì, esattamente quel genere di cose idiote. Non voglio più arrivare a quel punto. Non voglio più far soffrire le persone che amo. E nemmeno io voglio soffrire ancora.»
    «Nessuno soffrirà più. Te lo prometto» le sussurro, avvicinandomi di nuovo per darle un bacio sulla guancia. «Però adesso sbrigati, ho una fame che non ci vedo!»


*



Torino, 13 marzo 2014


    «Ciao, Emanuele» si sente apostrofare, e l'istinto più naturale è quello di voltarsi per capire da dove provenga quella voce. Davanti ai suoi occhi compare l'immagine di un ragazzino che gli arriva sì e no al petto, un affarino dall'aria curiosa che gli ricorda molto – forse troppo – l'immagine che lo specchio restituiva all'incirca dieci anni fa.
    «Come sai chi sono?» domanda con aria sospettosa, confuso dalla sicurezza del tono che lo ha spinto a voltarsi. Si è presentato alla porta di Elisa convinto di poter contare sull'effetto sorpresa, ma l'assenza di incertezza nella voce di Luca gli ha fatto capire che ogni sua strategia è destinata a fallire.
    «Daria mi ha fatto vedere una tua foto. Ero curioso di vedere come fossi fatto. Lei continuava a dire che ti somiglio tanto.» E non ha tutti i torti, pensa Emanuele, senza riuscire a staccare gli occhi dagli occhiali dalla forma squadrata, le lunghe dita da violinista, lo sguardo tipico di chi è abituato a cercare sempre il significato di tutto ciò che gli succede intorno. «Aveva ragione?» incalza Luca, tradendo la propria curiosità.
    Emanuele non riesce a smettere di fissare quel fratello appena trovato, scoprendo ad ogni secondo che passa una nuova somiglianza – lo guarda negli occhi, e in quegli occhi rivede se stesso, il proprio passato, il ragazzino solitario e schivo che è stato, e il giovane uomo complicato che spera di riuscire a non essere mai più. Sono anni che cerca di cambiare, Emanuele, che combatte contro se stesso per uccidere i demoni che lo tormentano ed essere l'uomo sereno che ha sempre sperato di diventare, ma trovarsi di fronte Luca lo rimanda indietro nel tempo, indietro fino alla propria adolescenza, e lo rimette davanti ad un riflesso che credeva di aver dimenticato. «Qualche tratto in comune c'è» risponde, cercando di mostrarsi evasivo per evitare di scoprire subito tutte le proprie carte. «Speravo che potessimo fare due chiacchiere. Se ti va, naturalmente.»
    «Certo che mi va» risponde Luca, e nonostante cerchi di trattenere l'emozione Emanuele sa che è felice di quel risvolto – lo sa, perché prova lo stesso strano senso di soddisfazione. «Vieni in camera mia, è da questa parte.» Emanuele china il capo e lo segue, stringendosi addosso la cinghia della borsa e ignorando sua madre: le ha rivolto appena due frasi, e si sente come se avesse detto due frasi di troppo. Segue Luca lungo il corridoio, e chiudendosi la porta alle spalle tira un sospiro di sollievo. Poi si volta, trovando di nuovo gli occhi del fratello fissi nei propri, e la paura torna a conquistare il suo giovane cuore martoriato.



1Io ti guardo negli occhi e vedo lontano il tempo che ho perso. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone La neve se ne frega di Luciano Ligabue, contenuta nell'album Mondovisione (2013).

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Capitolo 12
*** 12 | Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene: quindi se escludi gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e angeli rimani te. ***


La lunga strada verso casa - 1

Non ho scuse per questo ritardo – davvero, nessuna scusa.

Avrei un sacco di parole da usare per giustificare il fatto che mi ci sia voluto così tanto per partorire questo capitolo, ma ho la sensazione che qualunque spiegazione sarebbe inutile e superflua, per cui rinuncio in favore della storia – che immagino sia il motivo per cui adesso siete qui.

Grazie per il vostro sostegno e la vostra pazienza,

EffieSamadhi






Per aspera ad astra






Capitolo dodicesimo

Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo

chi sa volare bene: quindi se escludi

gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e angeli,

rimani te.1



Torino, 13 marzo 2014


Emanuele si guarda intorno con una punta d'imbarazzo, lo stesso che si prova restando in piedi ai margini di una festa in cui non si conosce nessuno. Gli sembra di essere di troppo, di essersi invitato in un luogo in cui proprio non dovrebbe stare, e a nulla vale raccontarsi che è proprio così che Daria deve essersi sentita quando ha varcato per la prima volta la soglia di quella bella casa del centro. Vorrebbe riuscire a convincersi che è soltanto una sensazione passeggera, che basteranno pochi minuti per tornare a sentirsi a proprio agio, ma la verità è che sono ormai vent'anni che prova quel fastidio, quella strana convinzione di essere sempre di troppo, in qualsiasi situazione si trovi. Si costringe a fissare lo sguardo su Luca, che libera il letto dai libri sparpagliati in una specie di invito a prendere posto ed immergersi nella sua vita, quasi che un gesto semplice come accomodarsi potesse bastare a risolvere le cose. «Ti piacciono i romanzi d'avventura, eh?» osserva, indicando uno scaffale colmo di titoli che conosce bene. «Qual è il tuo autore preferito?»

«Mi piace tanto Jules Verne» risponde Luca, spingendosi indietro gli occhiali. «Mi piace perché tutte le cose che ha scritto sono state realizzate. A parte il viaggio al centro della terra.»

«Io ho sempre adorato Il giro del mondo in ottanta giorni» replica Emanuele, sfilando il romanzo giusto dalla fila dedicata all'autore francese. «Non sai quante volte ho sognato di partire anch'io per un viaggio simile. Solo io, una mongolfiera e la tappa successiva.»

«Io invece ho sempre sognato di andare sulla luna. Lassù non ci sarebbe nessuno pronto a prendermi in giro.» Nel concludere la frase Luca abbassa gli occhi, quasi imbarazzato dalla rivelazione appena concessa a quel fratello che ancora non conosce, e che forse mai riuscirà a conquistare.

«Prendevano in giro anche me, quando avevo la tua età» confessa Emanuele, rigirandosi ancora tra le mani il libro. «Hanno continuato fino alla fine delle superiori, in realtà. Probabilmente dovrei dirti di ignorarli e di andare avanti per la tua strada, ma sarebbe un consiglio stupido. Non smetteranno di prenderti in giro soltanto perché non rispondi alle provocazioni. Anche se... beh, consigliarti di reagire e prenderli tutti a pugni sarebbe altrettanto stupido» conclude, rimettendo a posto il libro.

«Parli per esperienza personale?»

Emanuele sorride, indicando una piccola cicatrice bianca appena sopra il sopracciglio sinistro. «Parlo come uno che è finito in pronto soccorso a farsi mettere cinque punti per essersi ribellato e aver fatto a pugni con cinque tizi più robusti di lui. È stata la prima ed unica volta che ho reagito.»

«Come hai fatto a farli smettere?»

Emanuele attraversa la stanza a passo lento, andando a sedersi accanto a lui sul letto rifatto. «Ho aspettato che le nostre strade si dividessero. Io sono andato avanti per la mia, e loro... non lo so, sono scomparsi.»

«E hai trovato degli amici?»

«Non molti. Ma quei pochi vanno bene. Se non altro, posso dire di averli scelti da me.» Si guarda a lungo le mani, cercando il coraggio di alzare gli occhi su quel fratello che sente minuto dopo minuto più vicino. «So che adesso ti sembra impossibile credere che un giorno tutto questo possa finire, ma ti assicuro che tutto ciò che ti occorre è un po' di pazienza. Non ti voglio mentire, la strada è ancora lunga e sarà tutta in salita, ma ti garantisco che una volta arrivato in cima ti accorgerai che è valsa la pena aspettare, perché dalla vetta il panorama sarà meraviglioso.»






*






Los Angeles, 13 marzo 2014


A piedi nudi mi avvicino al lavandino, immergendo le stoviglie sporche nell'acqua calda. Ho appena iniziato a strofinare la spugna contro un piatto quando sento Shannon avvicinarmisi alle spalle, poggiando delicatamente il suo corpo contro il mio. «Sai che hanno inventato un meraviglioso elettrodomestico chiamato lavastoviglie?» sussurra al mio orecchio, immergendo le mani nell'acqua per cercare le mie e stringerle.

«Certo che lo so. Figurati che ne possiedo anche una» rispondo, evitando di raccogliere la sua provocazione. «Ma lavare i piatti è una cosa che ho sempre adorato. E poi a casa sono abituata così. Sono una povera commessa squattrinata, devo risparmiare.»

«Ma io sono un musicista ricco e famoso che non sa più che inventare per spendere i soldi che guadagna, perciò non ho bisogno di risparmiare.»

«Male. Dovresti metterl da parte per far fronte ai tempi difficili. Può capitare a chiunque di crollare.»

«Per questa vita credo di aver già dato. E se anche crollassi ancora, non sarebbero i soldi a salvarmi» replica, accarezzandomi il collo con le labbra. «Dai, lascia stare. Ci resta poco tempo da passare insieme, non voglio certo sprecarlo guardandoti lavare i piatti» insiste, stringendo le mie dita tra le sue per tirarle fuori dall'acqua.

«E che vorresti fare, sentiamo?» rispondo con un sorriso, voltandomi tra le sue braccia per trovarmi faccia a faccia con lui. «Vuoi passare tutto il giorno a letto con me per rifarti del tempo perduto?» lo prendo in giro, sapendo quanto gli dia fastidio essere accostato allo stereotipo della rockstar ossessionata dal sesso.

«Non sono così banale» risponde con una risata. «Voglio portarti in giro per la città. Voglio che tu veda il mio mondo.» Per un lunghissimo istante ci guardiamo negli occhi senza parole, e potrei giurare su quanto ho di più caro al mondo che questa è una delle cose più romantiche che mi siano mai state dette, anche se una mente preparata potrebbe obiettare sul numero delle mie esperienze romantiche. «Che c'è, ho detto qualcosa di sbagliato?»

Scuoto la testa, abbassando appena lo sguardo. «Lascia perdere, stavo solo pensando» sorrido, rialzando gli occhi. «Va bene, Shannon. Fammi vedere il tuo mondo. Però prima portami a casa di Jared, per favore. Devo fare una doccia e cambiarmi i vestiti.»


Alice chiude la lavastoviglie e la mette in funzione, asciugandosi poi le mani, mentre Jared pulisce con una spugnetta umida il bancone sul quale hanno pranzato. «Che ne diresti di uscire?» le domanda. «Tanto a questo punto mi sembra chiaro che Daria sta bene. Possiamo anche smettere di preoccuparci per la sua incolumità.»

«E se dovesse tornare mentre siamo fuori? Non ha le chiavi di casa» si preoccupa Alice, come sempre pragmatica fino all'estremo.

«Beh, sono abbastanza portato a presumere che si farebbe accompagnare da Shannon, e lui ha un doppione delle chiavi, per cui sicuramente non resterebbe chiusa fuori. Smetti di preoccuparti per lei» aggiunge, avvicinandosi per metterle le mani sulle spalle. «Capisco che è la tua migliore amica e non vuoi che soffra, ma io sono sicuro che stia andando tutto bene.»

«Da quando ti hanno eletto dio onniscente?» lo prende in giro lei.

«Quando ho vinto l'Oscar. Santità, onniscenza, onnipotenza e onnipresenza erano comprese nel prezzo» replica lui, come sempre pronto a rispondere ad ogni assalto verbale della ragazza. «Dai, mettiti qualcosa di carino e fatti bella. Ti porto a vedere gli angeli che popolano questa città» conclude ammiccando, mentre la lascia andare.

Senz'altra risposta che un sorriso, Alice si allontana verso la camera da letto, mentre Jared resta fermo al centro della cucina per quasi un minuto, chiedendosi perché il destino sia sempre così beffardo, e per quale strana ragione Dio, Buddha o qualunque divinità governi il mondo abbia deciso di mettere sul percorso suo e di Shannon due ragazze assolutamente perfette, solo troppo lontane dalla loro strada. Ripensa all'istante in cui lui e Alice si sono trovati così vicini da aver bisogno di fare soltanto un piccolo passo per unirsi, e scuote la testa ricordando come lei lo abbia fermato, sicura che stare insieme non avrebbe fatto altro che complicare le cose. Sì, è vero, gli eventi avrebbero preso una piega completamente diversa, questo lo sa anche lui, ma qualcosa gli dice che comunque potrebbero farcela, che insieme potrebbero piegare le leggi del destino e costruirsi un futuro perfetto, un universo parallelo in cui essere soltanto Jared e Alice, senza complicazioni e senza guai – un meraviglioso mondo ideale nel quale due fratelli disgraziati quanto lui e Shannon possono finalmente essere felici ed esserlo insieme, all'unisono, senz'altra preoccupazione se non quella di trascorrere la vita sorridendo in compagnia delle donne che amano.






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Torino, 13 marzo 2014


Dopo due ore trascorse ininterrottamente a chiacchierare con Luca di libri, scuola, computer e musica, Emanuele esce dal palazzo profondamente cambiato. Sa che non è un cambiamento fisico, che il suo aspetto è sempre lo stesso, eppure sa che due ore sono bastate a farlo crescere, a farlo maturare, a farlo diventare quell'uomo che ha sempre sperato di poter diventare. Due ore sono bastate a renderlo più forte di quanto avrebbe mai creduto di poter essere, e improvvisamente capisce che cosa intendeva dire Daria quando gli ha consigliato di dare una possibilità a quel nuovo fratello, a quel ragazzino che in un primo momento riusciva a vedere soltanto come un potenziale ostacolo alla propria serenità. Forse non riuscirà mai a perdonare sua madre, forse non riuscirà mai a guardarla negli occhi, meno che mai a volerle di nuovo bene come da bambino, ma di una cosa è certa: per Luca lui sarà sempre pronto a farsi avanti, perché sa cosa vuol dire cercare di diventare adulti senza una guida, e non può permettere che Luca debba affrontare le prove della vita senza l'aiuto di qualcuno che ci è già passato.






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Los Angeles, 13 marzo 2014


«Devono essere usciti» commenta Daria quando si rende conto che attaccarsi al campanello è inutile, perché la casa è deserta. «E ho anche il cellulare scarico, perciò non posso nemmeno chiamare Alice.»

«Aspetta, Jared mi ha dato un doppione della chiave» rispondo, frugandomi le tasche. «Per le emergenze» ammicco, facendo scattare la serratura e spalancando la porta per consentirle di entrare. Daria si fa avanti nell'ingresso a passo incerto, quasi si sentisse a disagio. Mentre sfilo le chiavi e chiudo il portone osservo il modo in cui Bruce continua a seguirla come è solito fare con mia madre, e istintivamente mi viene da sorridere, perché la cosa, oltre a divertirmi come non mai, mi appare come un ulteriore segno che sia Daria la donna giusta per me. «Jared è stato gentile ad ospitarvi» commento. «Mi stupisce un po', in realtà, perché è dannatamente geloso della sua privacy. Almeno spero vi abbia dato delle stanze decenti.»

«C'è una sola stanza in questa casa che non sia decente?» mi prende in giro lei, mentre Bruce devia dal proprio percorso per andare ad accucciarsi in un angolo del salotto baciato dal sole del primo pomeriggio. «Non ho una grande esperienza di viaggi, ma credo che questa casa sia migliore della maggior parte degli alberghi» aggiunge mentre la seguo lungo il corridoio. Mi fermo sulla porta mentre lei entra nella propria stanza e appoggia la borsa sul letto perfettamente rifatto. La guardo sfilarsi le scarpe e avvicinarsi all'armadio per mettersi alla ricerca di abiti puliti da indossare per il nostro pomeriggio fuori, e meno di un istante più tardi fa capolino nella mia mente il ricordo di un pomeriggio simile, quando durante la mia seconda visita a Torino l'ho guardata tirare fuori la sua vita da un mucchio di scatoloni, esponendola davanti ai miei occhi come una serie di quadri da ammirare e dai quali imparare tutto su di lei. «Che c'è?» mi domanda dopo un istante, sentendo addosso il mio sguardo.

«Ti sto soltanto guardando» sussurro con un mezzo sorriso, sapendo che a chiunque potrebbe apparire una frase senza significato – a chiunque, tranne a lei.

«E che cosa vedi?» sorride di rimando lei, sfilando una camicia dalla stampella.

«Qualcosa che ho rischiato di perdere, ma che ora mi terrò ben stretto.» Senza smettere di sorridere si volta di nuovo verso l'armadio, e a quel punto inizio a muovermi in avanti a passi lenti, fino ad arrivarle alle spalle. Alzo una mano e le sfioro il collo, percependo un lieve mutamento nel suo respiro. Faccio scivolare la mano più avanti, cingendola anche con l'altro braccio, fino ad arrivare a stringerla contro di me come se avessi paura che ogni istante insieme possa essere l'ultimo. «Mi ero già perso molto prima che mi lasciassi» sussurro al suo orecchio, sentendomi improvvisamente libero di dire tutto ciò che mi passa per la testa senza timore di essere respinto o preso per pazzo. «Non sono mai stato una persona buona, ma quando ti ho conosciuta ho capito che forse, con un po' di impegno e di fortuna, avrei potuto diventarlo. Conoscerti mi ha fatto capire che potevo diventare migliore.» Quasi avesse capito che ogni interruzione potrebbe essere fatale Daria tace, lasciandomi continuare. «Starti vicino mi fa sperare di poter diventare la persona che ho sempre voluto essere. Credo sia questo il motivo per cui ti amo. Perché grazie a te io sono me stesso.» Abbasso la testa fino a sfiorarle la nuca con le labbra, ma senza cercare di andare oltre. Restiamo fermi in quella posizione a lungo, circondati dal silenzio e dalla pace, e per un istante mi ritrovo a pensare che il solo modo di salvarmi da me stesso sia restare sempre con lei.


«Smettila di guardare il cellulare» la ammonisce Jared, trattenendosi a stento dallo strapparle di mano l'apparecchio per gettarlo tra le onde. «Sono sicuro che Daria sta bene.»

«Scusa, ma delle tue sensazioni non so che farmene» replica Alice, troppo nervosa per riuscire a rilassarsi. «Per quel che ne so Shannon può averla uccisa, fatta a pezzi e nascosta nello scantinato.»

«Questo è impossibile.»

«Oh, davvero? E cosa te lo fa pensare, scusa?»

«Il fatto che Shannon non abbia uno scantinato, tanto per cominciare» risponde Jared in tono ovvio. «E poi il fatto che mi abbia mandato un sms per dirmi che il cellulare di Daria è scarico, ma che stanno tutti e due benissimo, tanto per finire.»

Alice rimane di sasso per un paio di secondi, ma non appena riesce a riaversi dallo stupore niente le impedisce di assestare una forte pacca sulla spalla dell'uomo. «Shannon ti ha scritto e tu non mi hai detto niente? Ma che razza di stronzo sei?»

«Uno stronzo cui verrà un bel livido, immagino» risponde lui, massaggiandosi la parte offesa con gesto teatrale. «Ma sei sempre così manesca?»

«Non fare la vergine offesa, adesso. Ci sono andata leggerissima, praticamente era una carezza.»

«Non faccio la vergine offesa, mi hai fatto male sul serio» piagnucola Jared, consapevole che qualsiasi altra ragazza si lascerebbe muovere a pietà dal suo sguardo – qualunque ragazza, ma non la caparbia Alice. «Ti farò scrivere dai miei avvocati.»

«Sono una studentessa squattrinata, non posso permettermi di pagare un avvocato che mi difenda dalle false accuse di una patetica rockstar.»

«Chi sarebbe la patetica rockstar, scusa?» reagisce lui sbarrandole la strada. «Adesso pagherai per questo affronto!» Comprendendo che Jared sta per attaccarla a colpi di solletico, Alice si volta in fretta e inizia a correre nella direzione dalla quale provengono, scansando con agilità le poche persone a spasso sul lungomare. Non appena le è possibile scarta verso la spiaggia, iniziando a correre sulla sabbia senza più pensare – per la prima volta da quando le cose tra lei e Jared si sono complicate si sente di nuovo libera e senza pensieri, tanto che bastano pochi metri per farle dimenticare perché stia correndo tanto rapidamente. E proprio quando è appena riuscita a spegnere del tutto il cervello le gambe lunghe di Jared recuperano il vantaggio, le sue mani le afferrano la vita e il suo peso la vince, facendola cadere sulla sabbia fine. Per la prima volta in tutta la giornata Alice scoppia a ridere di gusto, come non faceva da tempo, finalmente libera da qualsiasi vincolo o costrizione. Per la prima volta non le importa di apparire al meglio, non le importa della sabbia che si infila sotto i vestiti o dei capelli scarmigliati – per la prima volta dopo tanto tempo si sente solo Alice, ed è la sensazione più bella del mondo. Da qualche parte sopra di sé ritrova il viso di Jared, che nella corsa ha perso il bizzarro cappello che indossava e ora si ritrova a fissarla a capo scoperto, con gli occhi ancora seminascosti dagli occhiali da sole. Alice solleva una mano per sfilargli le lenti, e a quel gesto Jared chiude per un istante le palpebre, prendendosi un attimo per prendere coraggio con un profondo respiro, quasi che Alice lo stesse spogliando di ogni difesa. Dal canto suo, quando Jared riapre gli occhi Alice trattiene il fiato, come sempre incapace di credere che quello sguardo così luminoso possa essere reale. Gli occhi di Jared hanno lo stesso colore dell'oceano che sente sciabordare in lontananza, a tratti sembrano quasi aver rubato l'azzurro del cielo. Alice non riesce a smettere di guardare quegli occhi turchesi, e non è soltanto perché il peso di Jared la trattiene a terra – c'è qualcosa, in quegli occhi, in grado di ammansire la bestia più feroce, qualcosa in grado di prendere la sua integrità, ridurla a brandelli e costringerla persino a ringraziare. «Che c'è?» si sente domandare, senza riuscire a smettere di guardare quegli occhi così magnetici e in apparenza sinceri.

Scuote appena la testa, Alice, senza reprimere un sorriso, e con una mano gli scosta dal viso una ciocca di capelli sfuggita alla coda. «Non lo so» sussurra, senza nemmeno essere certa che lui riesca a sentirla. «È solo che non riesco a smettere di guardarti.»

Jared sorride, restituendo lo sguardo e specchiandosi a lungo negli occhi verdi della ragazza stesa sotto di lui. Ha passato una vita intera ripetendosi di essere un uomo forte, uno capace di non cedere alle tentazioni del cuore, ma in questo momento sa che tutte le sue certezze stanno venendo meno, perché sono bastati un paio di occhi buoni e sinceri ad inchiodarlo al muro, a spogliarlo di tutte le sue corazze e a metterlo di fronte alla realtà – sono bastati gli occhi di Alice a fargli capire che nemmeno uno come lui può sfuggire all'amore. Per questo, prima che la magia del momento passi ed entrambi inizino a provare imbarazzo, per questo fa la cosa più logica, ciò che qualunque uomo farebbe: senza altre parole abbassa la testa e cerca le labbra di Alice, pronto a catturarle in quello che gli sembra il primo vero bacio della sua vita. Superata l'iniziale paura del rifiuto, Jared si rende conto che Alice non ha intenzione di tirarsi indietro: sente le sue braccia circondargli il collo per attrarlo verso di sé, e nonostante non abbia mai amato le scommesse sa che è questo il momento, che è ora che lui e Alice diventeranno una cosa sola, fosse anche per un pomeriggio soltanto.


Mentre Daria è sotto la doccia io vago per il soggiorno di Jared, ficcanasando qui e là come faccio ogni volta che mi trovo da solo in casa sua. Bruce sonnecchia ancora in un angolo, e mentre aspetto che Daria si prepari mi diverto a curiosare tra gli scaffali di mio fratello, chiedendomi come sia possibile che un maniaco del controllo come lui abbia una casa tanto incasinata. All'improvviso mi ritrovo tra le mani un vecchio album di fotografie, e senza nemmeno rendermene conto sono eduto sul divano, intento a sfogliare le istantanee del nostro passato.

«Che cosa stai guardando?» mi sento domandare poco dopo. Alzo lo sguardo e trovo Daria in piedi dietro di me, con la testa lievemente piegata verso destra, intenta a cercare di capire che cosa attragga tanto la mia attenzione.

«Ho trovato un vecchio album di fotografie. Gli stavo dando un'occhiata» rispondo. «Sei pronta per andare?» le domando subito dopo, chiudendo la raccolta.

«No, fammi vedere» replica lei, facendo il giro del divano per venire a sedersi accanto a me. «Mi sono sempre piaciute le fotografie.»

«Perché? Sono solo... beh, ricordi

A questo punto Daria fa una cosa strana, una cosa che ancora una volta mi ricorda perché io la ami così tanto: solleva lo sguardo su di me, con un sorriso, e in un gesto tanto dolce da levare il fiato mi accarezza la guancia con un dito. «Sono un modo per conoscere il tuo mondo.»

Sorrido, riaprendo l'album sulle mie ginocchia. «Allora mettiti comoda, perché qui dentro ci sono quarant'anni di storia da mostrarti.»


«Aspetta, Jared» sospira Alice, puntandogli le mani sulle spalle per convincerlo a sollevarsi. «Siamo in spiaggia» gli fa notare. «E siamo in pieno giorno.»

Soltanto in quel momento, guardandosi attorno, Jared si rende conto che se vogliono andare avanti devono trovarsi un posto più appartato – perché nonostante in giro non ci sia un cane, è sicuro come la morte che se continuassero a darsi da fare lì verrebbero sicuramente beccati e denunciati per atti osceni in luogo pubblico, e per quanto se ne sia sempre fregato delle regole, l'ultimo dei suoi pensieri è quello di far passare dei guai ad Alice. «Hai ragione. Vieni con me» replica, sollevandosi e porgendole la mano per aiutarla ad alzarsi. Subito dopo la prende per mano e inizia a correre verso l'auto, sicuro che esista soltanto un luogo in cui nessuno li distuberà.


«Santo cielo, eri così carino da piccolo!» esclamo, puntando il dito contro una fotografia che lo ritrae insieme a Jared all'età di circa tre anni.

«Vorresti dire che ora non sono più carino?» replica Shannon, fingendosi lievemente risentito.

«Ora sei un uomo incredibilmente sexy» ribatto con un sorriso. «Il che è decisamente molto meglio» aggiungo prima di stampargli un bacio sulla guancia. Torno ad accoccolarmi contro di lui mentre continua a sfogliare le pagine della raccolta, raccontando ogni scatto come se non fosse passata una vita intera dal momento raffigurato, ma una manciata di minuti. Ascolto i suoi racconti con attenzione, beandomi del suono della sua voce roca e chiedendomi come mi sia potuta passare per la mente l'idea di rinunciare a lui – perché più andiamo avanti più mi rendo conto che è esattamente il tipo d'uomo che ho sempre immaginato accanto a me.


«Dove siamo?» chiede Alice quando Jared finalmente parcheggia, spegnendo il motore. Guarda davanti a sé e capisce che sono saliti sulle colline che proteggono la città, ma non riesce a capire perché Jared abbia deciso di portarla proprio lì.

«Scendi» risponde lui, aprendo lo sportello. Anche se dubbiosa, Alice lo segue. Dubita della sua sanità mentale quando lo guarda chiudere gli occhi, prendere un respiro profondo e allargare le braccia, come a voler cingere tutta la città in un abbraccio. «Vieni qui» dice poi, prendendola per mano e convincendola a mettersi davanti a lui, esattamente di fronte alla città. «Chiudi gli occhi e prendi un respiro profondo» le sussurra, mentre Alice sente il vento scompigliarle i capelli. «Adesso riaprili» le ordina dopo qualche secondo. Alice obbedisce e resta senza fiato: si sente come Rose in Titanic, quando in bilico sulla prua della nave si convince di poter volare. La città è lì, davanti a lei, come un meraviglioso quadro dipinto da un pittore di enorme talento. «Questo è l'unico posto in cui la città degli angeli può essere completamente tua» sussurra ancora Jared, baciandole il collo, e per un istante Alice sa che potrebbe fare di lei ciò che vuole, perché le ha appena dato ciò che lei ha sempre desiderato da un uomo – Jared le ha dato il mondo, e questo basta a decidere di dargli tutta se stessa.

«Baciami, Jared» sussurra a sua volta, voltando la testa per riuscire a guardarlo negli occhi. Jared fa di più: la fa voltare tra le sue braccia, la stringe contro di sé e poggia la fronte contro la sua, restando immobile a lungo prima di sfiorare le sue labbra. Alice si aggrappa al suo collo con una forza che non credeva possibile, sicura soltanto di volerlo accanto a sé con ogni fibra del proprio essere. Non sa in quale momento, non sa come succeda, ma d'improvviso si ritrova stesa a terra, nascosta dai cespugli, dolcemente sovrastata da Jared. Solleva le braccia per aiutarlo a sfilarle la maglietta e si ritrova a sospirare quando le labbra dell'uomo sfiorano i suoi seni, già sicure di quale sia il modo giusto per convincerla ad abbassare ogni difesa. Si lascia spogliare come una bambina e cerca di aiutarlo a fare lo stesso, senza smettere di cercare la sua pelle, senza permettergli di abbandonarla nemmeno per un istante. Trattengono entrambi il fiato quando i loro corpi si uniscono per la prima volta, ma dopo un primo attimo di immobilità iniziano a muoversi in perfetta sincronia, come se si conoscessero da sempre, come se per anni non avessero fatto altro che perdersi l'uno nell'altra.


«Credo saresti un buon padre» sussurra Daria dopo un lungo silenzio, cogliendomi un po' di sorpresa. Si accorge del mio sguardo e si affretta a correggere il tiro: «Non sto dicendo che dovremmo avere dei figli. Insomma, non è che adesso che ci siamo ritrovati dobbiamo... era solo per dire che... era solo per dire che secondo me i tuoi figli saranno fortunati. Insomma, se avrai dei figli saranno fortunati ad avere te come padre.»

«Non ho mai pensato che un giorno avrei avuto dei figli» confesso. «Insomma, quando stavo con Christine mi piaceva pensare che un giorno avremmo avuto una famiglia nostra, ma erano soltanto le fantasie di un ragazzino innamorato. Non erano veri progetti. E quando sono cresciuto... beh, lo sai. Ci sono stati momenti in cui non pensavo nemmeno di poter sopravvivere fino al giorno successivo, figurarsi mettere su famiglia.»

«Io non credo che i figli vadano programmati» replica, facendosi più tranquilla. «Dovrebbero essere una di quelle cose che ti capitano e basta, come vincere alla lotteria. Credo che la sola cosa cui si debba fare attenzione sia la persona con cui li si fa.»

Volto la testa per guardarla, cercando disperatamente il coraggio di porle la domanda che mi sta frullando in testa da quando abbiamo iniziato questo discorso. «Tu lo faresti un figlio con me?» Daria solleva lo sguardo, confusa. «Non c'è una risposta sbagliata, tranquilla» aggiungo, cogliendo il suo imbarazzo. «La mia è soltanto curiosità.»

Solo a questo punto, sicura di non rischiare nulla, Daria rilassa il volto, tornando a sorridere e a respirare in maniera regolare. «Ci sono almeno un milione di cose che farei con te, Shannon» sussurra, spostando di nuovo lo sguardo sulle fotografie. «Può darsi che avere un figlio insieme rientri tra queste.»

Non so come sia accaduto di preciso, come questa nostra strana storia si sia evoluta tanto in fretta da portarci ad ipotizzare già di diventare genitori, ma non me ne preoccupo più di tanto. Non sono tanto stupido da credere che dopo il dolore degli scorsi mesi non ci saranno più ostacoli, perché in fondo non ci siamo incontrati che sei mesi fa e siamo ancora ben lontani dal conoscerci davvero, eppure in qualche modo sento che le cose tra Daria e me andranno bene, perché ora siamo certi che nessun ostacolo può essere così insormontabile da separarci – almeno non per sempre.


Quando Alice e Jared si rivestono, il sole sta già iniziando a calare sulla valle degli angeli, tingendo il cielo di una particolare sfumatura rossastra. «Potrei usare milioni di parole per descrivere questo pomeriggio, ma temo che finirei con l'esagerare» sussurra lui, mettendosi a sedere.

«Credo ci siano momenti in cui non servono parole» risponde lei, appoggiandosi alla sua spalla. «A volte troppe parole possono portare più danno che benefici» aggiunge, mentre Jared le passa un braccio attorno alle spalle per tenerla più vicina.

«Allora non dirò niente» replica lui, baciandole teneramente la fronte. «Non voglio commettere errori con te.» Se la tiene stretta, respirando il suo profumo, tentando di mandare a memoria ogni singolo dettaglio che la riguarda, perché sa che presto lei andrà via insieme a Daria, lasciandolo solo, e a quel punto non avrà altro che i propri ricordi. Si chiede come Shannon sia riuscito a sopravvivere senza il conforto di avere Daria accanto a sé, ma è solo un istante: quasi subito gli tornano in mente i mesi passati in bilico sull'orlo dell'abisso, e d'istinto pensa di stringere Alice a sé pregandola di non andarsene. «Mi amerai ancora domani mattina?» sussurra dopo un lungo silenzio. Alice alza lo sguardo, senza capire il perché di quella strana domanda. È più che sicura che non si sia mai parlato d'amore, quindi non riesce a comprendere perché Jared lo stia tirando in ballo proprio in questo istante. Avvertendo lo sguardo confuso della ragazza, lui si lascia andare ad una risatina. «Tranquilla, non era una domanda per te. Stavo solo pensando al testo di una vecchia canzone.»

«Meno male» sussurra Alice, sorridendo a sua volta. «Non ho nemmeno idea di che cosa succederà tra due ore, figuriamoci se so cosa penserò domani mattina.» Jared si sforza di sorridere con lei, ma in cuor suo sa che vorrebbe fosse diverso – sa che vorrebbe soltanto essere amato, ed essere amato soltanto da lei.

«Ti sei mai trovata ad osservare la tua vita e a sognare di poterla cambiare completamente?» le domanda all'improvviso, cogliendola di sorpresa. «Insomma, ti sei mai fermata a chiederti che cosa sarebbe successo se ad un certo punto della tua vita avessi fatto delle scelte diverse?»

«Per la mia salute mentale, cerco di non farlo mai» risponde lei. «Credo che nessuno dovrebbe farlo, a dire il vero. Perché, tu lo fai?»

«Qualche volta» chiosa lui, continuando a guardare lontano. «Non dico di non essere contento della mia vita. Mi piace la mia vita, e soprattutto mi piace il mio lavoro. Credo di essere uno dei pochi uomini al mondo che riescono ad essere felici facendo qualcosa che davvero amano.»

«Però?»

Jared sorride, sapendo che soltanto Alice sarebbe riuscita a cogliere la particolare sfumatura nella sua voce. «Però a volte mi chiedo come sarebbero andate le cose se non avessi mollato la scuola d'arte. Avevo tutte le carte in regola per diventare un ottimo pittore, sai?»

«Probabilmente saresti diventato uno snob che sorseggia Chardonnay e passa il tempo criticando il resto del mondo. Non credo mi saresti piaciuto.» Alice volta appena la testa, studiando il suo profilo. «E poi se avessi fatto il pittore non ci saremmo conosciuti. Non è mia abitudine frequentare le gallerie d'arte.»

«Va bene, allora sono contento di essere diventato un musicista» risponde lui con un sorriso. «Davvero non c'è nulla che cambieresti nella tua vita?» aggiunge dopo un istante, sorpreso che una ragazza come lei possa essere davvero soddisfatta di ciò che la circonda.

«No, per adesso no. Credo di aver fatto tutte le migliori scelte possibili, e sono contenta di quello che ho. Non ho mai avuto manie di grandezza. Sono una persona normale, e questo per adesso mi basta.»

«Che cosa c'è di tanto speciale nell'essere normali?» le domanda lui, curioso di sapere che cosa l'abbia portata a pensare una cosa del genere.

«Viviamo in un mondo in cui tutti sognano di essere speciali» risponde lei, fissando lo sguardo su un punto lontano. «Per quanto mi riguarda, accontentarsi di essere normali è la conquista più grande.»

«Tu sei una ragazza molto strana, lo sai?»

«Perché mi piace la mia vita così com'è?»

«Non una sola delle persone che conosco è perfettamente felice della propria condizione. C'è sempre almeno una cosa che vorrebbe cambiare. Credo faccia parte della natura di ogni essere umano.»

«Forse allora io sono l'eccezione che conferma la regola» è il commento di Alice, che continua a guardare lontano. Poi sente lo sguardo di Jared su di sé, quindi si volta verso di lui. «Che c'è?»

«Niente» risponde lui. «Sto solo cercando di capire come può una persona che crede nella normalità essere la sua perfetta antitesi.»

Alice ride, sistemandosi meglio contro di lui. «Stai continuando a cercare significati nascosti nell'unico posto in cui non ne troverai mai. Io non nascondo segreti.»

E invece nascondi il più grande, vorrebbe rispondere Jared. Più la guarda, più tempo trascorre in sua compagnia, più si fa strada in lui la convinzione che Alice abbia scoperto il segreto della felicità.


«E questo è tutto» dichiaro, chiudendo l'album con un colpo secco. «Hai appena visto tutta la mia vita. Se ti è venuta voglia di lasciarmi di nuovo, lo capisco» scherzo, accarezzando la testa di Daria. «Non sono un uomo semplice» aggiungo, tornando a farmi serio. «Ho dovuto affrontare molte prove, e... non nego che in certi casi vorrei aver trovato soluzioni diverse. Sono sempre stato uno di quei tipi che cercano la via più facile, anche se spesso vuol dire fare la cosa sbagliata.»

«Io non credo» risponde lei, mettendosi a sedere composta. «Non sempre hai scelto la vita più facile. Pensa a quando sei venuto a Torino per vedermi. Non credo che quella sia stata una scelta semplice.»

«Quella non è stata proprio una mia scelta. È stata più una scelta di Jared.»

«Forse è stato Jared a darti l'imbeccata, ma resta il fatto che tu avresti potuto ignorarlo.»

«Ma quando ti ho vista me ne sono andato. Non dirmi che non è stata una scelta facile.»

«Per come la vedo io, e per come ti conosco, la scelta più facile sarebbe stata fare a pugni con Marco lì in mezzo alla strada. Invece hai avuto il fegato di andartene e tornare a casa senza nemmeno tentare di parlare con me. So che la gente di solito pensa che andarsene sia la scelta più semplice, ma io... io credo che andarsene sia la scelta peggiore.»

«Parli di Parigi?» azzardo dopo un attimo di silenzio, temendo che ricordare quel momento potrebbe risvegliare le sue paure e convincerla ad andarsene di nuovo.

«Parlo di Parigi» replica lei a bassa voce, «e parlo anche di mia madre. Da quando l'ho ritrovata... beh, stiamo cercando di ricostruire un rapporto. Il che significa che parliamo un sacco» aggiunge con una risatina. «Mi ha fatto capire che quella di lasciare mio padre è stata la scelta più difficile che abbia mai dovuto affrontare. Per tutti questi anni ho pensato che per lei fosse stato semplice, che se ne fosse andata perché non ci voleva bene, che... che non contassimo così tanto per lei. Ma adesso che sono stata dall'altra parte, credo di aver capito che andarsene e lasciare qualcuno non è mai una scelta semplice. Forse lo sembra all'inizio, ma poi... poi ti rendi conto che non è una soluzione definitiva, e che il pensiero di chi hai lasciato non smette mai di tormentarti. A quel punto ti rendi conto che non è facile per niente.» Studio in silenzio il suo profilo, chiedendomi se sia questo quello che ha provato nei lunghi mesi in cui siamo stati separati. Sto per domandarglielo quando alza di nuovo la testa. «So che il fatto di essere tornata non implica per forza che tu mi abbia perdonata, Shannon. Così come il fatto di essere di nuovo insieme non significa che saremo felici per sempre. Non sono così ingenua, so che il mio ritorno non può risolvere tutto.»

Alzo una mano e le sfioro una guancia, guardandola chiudere gli occhi al contatto tra la sua pelle e la mia. «Per quanto mi riguarda, credo di averti perdonata quando ti ho vista in clinica» sussurro. «E per quanto riguarda il per sempre, sono abbastanza grande da sapere che promettersi eterna felicità è una cosa piuttosto stupida, perché per sempre non esiste. Quindi, per quanto mi riguarda, mi accontenterò di essere felice il più a lungo possibile.»

Sorride, mentre gli occhi si velano di nuovo di lacrime, e per nascondere la commozione torna ad accoccolarsi contro di me, appoggiando la testa sul mio petto. Fedele alle mie parole, la tengo stretta a me, chiudendo gli occhi per godermi la sensazione di peso e calore data dal suo corpo, cercando di imprimere nella mia testa ognuno di questi brevi istanti di felicità.


Alice e Jared rientrano a casa verso le sei di sera, trovando il vialetto parzialmente ingombrato dall'auto di Shannon. «Adesso sei più tranquilla?» le domanda lui.

«Diciamo che per il momento non ti ucciderò» risponde lei, raccattando la borsa dal tappetino. «Ma per essere veramente tranquilla dovrò prima vedere Daria e assicurarmi che stia bene.»

«Ma tu non ti rilassi proprio mai?»

«Lo faccio di rado, in effetti. Ma quando lo faccio, cerco di farlo per bene» risponde lei nel tono malizioso che contraddistingue il suo rapporto con Jared già dalle loro prime conversazioni. «A questo proposito» riprende, tornando a farsi seria, «credo sarebbe meglio tenere la cosa per noi. Mi riferisco a quello che è successo sulle colline» aggiunge, forse pensando che Jared possa già aver dimenticato quella breve parentesi di intimità.

«Hai paura che Daria inizi ad immaginare un futuro perfetto in cui viviamo in due case vicine e facciamo crescere insieme i nostri figli?»

«Non è così idiota» taglia corto Alice. «Ammetto che è una ragazza romantica che a volte si lascia trasportare, ma non è così estrema. No, voglio soltanto evitare di caricarle un altro peso sulle spalle. Sta attraversando una fase difficile della propria vita, e non vorrei essere io a spezzare il suo equilibrio.»

«Soprattutto per qualcosa che probabilmente non si ripeterà, dico bene?» commenta lui, fissando lo sguardo sulla propria casa.

«Non riguarda soltanto me e te, Jared» continua paziente lei. «Riguarda anche Daria e Shannon. Non voglio rischiare che sprechino energie preziose per gestire anche noi due. In questo momento devono pensare soltanto a loro stessi.»

«Se la metti così, mi sta bene» risponde lui, tornando a guardarla. «Non dirò una parola.»

Entrano in casa a passo tranquillo, fingendosi di ritorno da una passeggiata in città, e ad entrambi riesce difficile trattenere un sorriso quando trovano Daria e Shannon seduti vicini sul divano, impegnati a coccolarsi come una coppia di adolescenti. È così bello rivederli insieme – e, soprattutto, rivederli in pace – che davvero sembra impossibile pensare che abbiano avuto il coraggio di separarsi. Alice incontra lo sguardo di Jared e alza gli occhi al cielo quando lui le fa l'occhiolino, come per dirle Te l'avevo detto che sarebbe andato tutto bene.


«Dove eravate finiti?» domanda Shannon, alzandosi dal divano per voltarsi verso il fratello.

«Ho portato Alice a fare un giro in città» replica Jared, abbandonando il cappello sul tavolino del salotto. «Era una giornata così bella che sembrava un peccato sprecarla.»

«Spero non ti abbia portata in uno dei tanti posti equivoci che gli piace frequentare» sorride Shannon, sapendo quanto poco i gusti di Jared abbiano in comune con il resto del mondo.

«Mi ha portata a vedere il Sunset Boulevard» risponde Alice, sforzandosi di sembrare il più naturale possibile. «Vedere tutte quelle ville mi ha fatto venir voglia di rapinare una banca per poterne comprare una.» Daria, che all'arrivo della coppia si è voltata, non fatica a capire che quella dell'amica è una bugia – la conosce troppo bene, sa che nessuna delle due è mai stata brava a mentire. Comunque decide di non dire niente e di conservare le proprie domande per un altro momento, quando saranno entrambe sole e lontane dalle orecchie indiscrete dei fratelli Leto.

«Avete programmi per cena?» interviene Jared all'improvviso.

Ancor prima di sentirlo continuare, Shannon alza gli occhi al cielo. «Che diavolo hai in mente?»

«Beh, stavo pensando che potremmo chiamare Vicki e Tomo e passare la serata tutti insieme» replica l'altro, alzando le spalle con aria innocente. «Sarebbero felici di vederti. E di rivedere Daria e Alice» aggiunge dopo un istante.

«Conoscono Alice?» domanda Shannon con espressione confusa.

«Sì, abbiamo cenato insieme già l'altra sera» risponde l'interessata. «Li ho trovati molto simpatici.»

«Per me non ci sono problemi» risponde Daria. «Anche a me farebbe piacere rivederli. Quindi il tuo parere è quello decisivo, Shan» aggiunge, rivolgendogli un sorriso.

«Chi sono io per oppormi?» sospira lui, sorridendo a sua volta. «Però ci toccherà cenare a casa, perché con la mamma via non so a chi lasciare Bruce.»

«Tu non ti preoccupare, penso a tutto io» replica Jared, alzando le mani davanti al petto come a voler comunicare di aver già trovato una soluzione. «Vado a telefonare» aggiunge, sparendo rapido in cucina.

«E io a fare una doccia» gli fa eco Alice, quasi correndo in direzione della camera da letto.

Shannon e Daria, rimasti soli, si guardano dubbiosi, quasi che entrambi abbiano avuto lo stesso pensiero. «Vieni con me, facciamo due passi in giardino» le sussurra lui, prendendola per mano per guidarla fuori di corsa.


«Non trovi che quei due siano strani?» mi domanda subito dopo aver chiuso la porta scorrevole che dal salotto conduce al giardino sul retro.

«Più del solito?» rispondo divertita. «Ammetto che Alice di solito è una persona piuttosto normale, ma di tuo fratello non dovresti stupirti» aggiungo mentre ci sediamo sui gradini della veranda.

«Forse non sono mai stato un asso nel capire le persone, ma Jared lo conosco quasi meglio di me stesso» risponde lui, fissando lo sguardo su un punto lontano. «Ci nascondono qualcosa. So che la pensi anche tu così, Daria. Te lo leggo negli occhi» aggiunge tornando a voltarsi verso di me.

Cerco in ogni modo di resistere alla tentazione di dar voce ai miei dubbi, ma l'occasione è troppo ghiotta per tacere. «E va bene, ammetto che lei mi è sembrata un po' strana, ma di qui a dire che ci nascondono qualcosa...» Ripenso al mese in cui la mia migliore amica mi ha nascosto di essere in costante contatto con il fratello del mio ex, rendendomi conto che l'idea che lei e Jared ci stiano tenendo all'oscuro di qualcosa non è poi così campata per aria. «Jared ti ha detto dell'e-mail che Alice ha scritto ad Emma?»

«Cosa?»

«Ti ricordi quando ti ho detto di aver chiuso tutto quello che riguardava te in una scatola e di aver dato quella scatola ad Alice?» Lui annuisce, dimostrando di ricordare. «Un bel giorno lei ha deciso di scrivere un'e-mail ad Emma per dirle che secondo lei ero ancora innamorata di te e che ogni giorno mi pentivo di averti lasciato.»

«Beh, in fondo non aveva tutti i torti» sorride lui, stringendomi la mano un po' più forte.

«No, in effetti no. Comunque il succo è che Emma ha fatto leggere il messaggio a Jared, che ha preso il numero di Alice e l'ha chiamata per dirle che lui era convinto che tu fossi nella stessa situazione.»

«Non sbagliava nemmeno lui.»

«Già... solo che da quel momento hanno iniziato a sentirsi in maniera più o meno regolare. Stando a quanto mi ha confidato lei, non hanno fatto altro che parlare di noi e di come avrebbero potuto farci rimettere insieme, ma...»

«...ma nulla ci impedisce di credere che non ci sia stato spazio anche per altro» conclude lui con un sospiro. «Beh, se la cosa può esserti di conforto, lui è fisicamente incapace di far soffrire la gente. Il massimo che potrebbe fare è portarla all'esasperazione e costringerla a soffocarlo nel sonno. Jared non è un cattivo ragazzo.»

«Questo lo so. Lo conosco poco, ma si capisce subito che non farebbe mai del male a qualcuno intenzionalmente. In questo ti assomiglia.»

«E allora quali sono i tuoi dubbi?»

«Ho paura che potrebbe essere lei a ferire lui. Non intenzionalmente, ma potrebbe. È appena uscita da una storia di sei anni, non è pronta per ricominciare tutto dal principio. Non con Jared, almeno.»

«Credi che lui non sarebbe in grado di reggere una storia seria?»

«Credo che finirebbero come te e me» rispondo, incrociando il suo sguardo. «Forse non cadrebbero in basso quanto noi, ma... non puoi credere che sarebbe una storia semplice.» Shannon distoglie lo sguardo e si passa la lingua sulle labbra, come se si fosse appena reso conto di non avere argomenti con cui ribattere. «So che non dovrei preoccuparmi, perché sono due adulti perfettamente in grado di badare a loro stessi, ma...»

«...ma siccome vuoi loro bene preferiresti che non soffrissero» sussurra, trovando ancora una volta la naturale conclusione ad una mia affermazione.

«Per me Alice è praticamente una sorella» aggiungo, stringendo la sua mano tra le mie. «Mi è stata accanto nei miei momenti più bui e per questo non la ringrazierò mai abbastanza, ma... ho paura che potrei non riuscire a fare lo stesso, se fosse lei a soffrire. Non credo riuscirei ad affrontare tutto come ha fatto lei.»

«Magari stiamo volando troppo con la fantasia, che dici? Può darsi che siano solo usciti per fare un giro» dice all'improvviso lui, passandomi un braccio intorno alle spalle. «Non è detto che debba per forza esserci qualcosa, tra loro. Magari stanno solo provando a fare amicizia. Visto che pare che io e te resteremo insieme per un po'...» aggiunge con una risatina.

«Non lo so, non riesco a convincermene. Non credo all'amicizia tra uomo e donna.»

«Quindi per te ci deve sempre essere di mezzo qualcosa di sessuale?»

«Quanti dei tuoi amici hanno un paio di tette?» lo prendo in giro. L'ho preso alla sprovvista, lo capisco dal mondo in cui aggrotta la fronte cercando una risposta. «Appunto. E se consideriamo te come prototipo dell'uomo medio, ecco la risposta.»

«Quindi secondo te ci nascondono qualcosa?»

«Secondo te no? In fondo stiamo sempre parlando di tuo fratello.»

«Mi hai convinto» risponde lui con un deciso cenno del capo. «Non resta che vedere come si comporteranno. Non so Alice, ma Jared non è mai stato capace di nascondere un segreto.»


«Sapevo che affidare l'organizzazione a te sarebbe stata una pessima idea» sbuffa Shannon dal sedile del passeggero, mentre Jared si infila nel parcheggio del ristorante con un paio di manovre. «Dovevi proprio scegliere un ristorante in centro?»

«Scusa, ma ho dato per scontato che sia tu che io avessimo la dispensa vuota, e mi sembrava un tantino scortese chiedere ad una donna in avanzato stato di gravidanza di cucinare per sei persone» replica Jared, spegnendo il motore e sfilando le chiavi. «E poi qui accettano anche i cani, così abbiamo anche risolto il problema di Bruce» aggiunge, voltandosi verso il sedile posteriore per guardare il cane, compostamente seduto tra Daria e Alice.

«Ma non sarà un po'... pericoloso?» continua Shannon, e anche senza fare domande Daria capisce che ciò che lo preoccupa è la possibilità che lui, Jared e Tomo vengano riconosciuti e importunati per tutta la serata.

«Non siamo in Afghanistan, Shan. È un ristorante in piena Los Angeles.»

«Appunto.»

«Tranquillo, mi sono fatto dare un tavolo ben nascosto. Non ci saranno paparazzi o fan urlanti pronti a saltare sul nostro tavolo non appena avremo ordinato.»

Shannon alza gli occhi al cielo e si rassegna a scendere, sapendo che con Jared non riuscirà mai a spuntarla. Apre lo sportello e aiuta Daria a scendere, come farebbe un vero gentiluomo. Lei ricambia con un sorriso, stringendogli un po' di più la mano. Mentre si avviano verso l'ingresso del ristorante Daria non riesce a smettere di guardare il suo uomo, chiedendosi se i problemi siano davvero finiti, o se ancora dovranno imparare a salvarsi.



1Lo sanno tutti che in caso di pericolo si salva solo chi sa volare bene: quindi se escludi gli aviatori, falchi, aerei, nuvole, aquile e angeli, rimani te. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone Alla mia età di Tiziano Ferro, contenuta nell'album Alla Mia Età (2009).

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