Darkness awakens

di ALoserLikeMe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 
Non avrebbe voluto guardarsi nello specchio quella sera, ma sua sorella la costrinse. Nonostante sapesse il brutto rapporto che Gothel aveva con la propria immagine riflessa, la ragazza la convinse ad alzare lo sguardo e guardarsi. Più che convincere le aveva preso il mento di prepotenza e glielo aveva alzato in modo che potesse specchiarsi. Ci aveva impiegato due ore per sistemarla al meglio –di cui un’ora e mezzo solo per domare i suoi riccioli folti e crespi- e voleva che la sua opera venisse apprezzata.
Doveva ammetterlo, aveva fatto un ottimo lavoro. Il trucco, malgrado fosse decisamente eccessivo per una ragazza della sua età, la faceva sembrare una persona completamente diversa. Più elegante e sicura di sé, una giovane donna.
Fece un timido sorriso. << Mi piaccio. >>
La sorella mostrò un sorrisetto compiaciuto, e continuò a spazzolarle i capelli. Le prime spazzolate erano state dure, Gothel avrebbe potuto giurare di aver visto le stelle fluttuarle intorno. Non si era mai presa cura di se stessa, dei suoi capelli ancora meno, riteneva che fossero tutte energie sprecate. Non le servivano dei capelli splendenti e perfetti visto che se ne stava sempre in casa senza vedere nessuno all’infuori dei suoi familiari.
<< Stasera sarà una grande serata >> annunciò Annabella con aria sognante. << Hanno organizzato un sacco di giochi che potremo fare tutti insieme. Se saremo fortunate riusciremo pure a vincere qualche volta. >>
<< Sono certa troverai il modo di imbrogliare. >>
L’altra si fece d’un tratto seria. Abbassò la testa vicino a quella della sorella, in modo che potesse guardarla dritta negli occhi. << Non ti azzardare a chiuderti in un angolo come tuo solito. >>
<< Ma- >>
<< Niente “ma”, la devi smettere di restare sempre in disparte. Se non dai modo alle persone di conoscerti rischi di restare sola per sempre. >> Si girò verso lo specchio, sorridendo alla sorella attraverso il riflesso.
In quanto gemelle si assomigliavano talmente tanto che a volte nemmeno i loro amici riuscivano a distinguerle. Stessi ricci scuri, stessi occhi celesti come l’acqua al mattino, stesso naso a patata. All’apparenza identiche, eppure erano tanto simili nell’aspetto fisico quanto diverse nella personalità e nei modi di fare. Per questo Gothel non capiva come facessero a scambiarle per la stessa persona. Sua sorella teneva sempre il mento alto, l’espressione sicura in volto, un portamento eretto. Era una persona solare, ogni occasione era buona per ridere e scherzare. Lei tutto il contrario. Se ne stava sempre con le spalle richiuse e l’espressione da cane bastonato, impaurita dal resto del mondo.
Avrebbe voluto assomigliare di più ad Annabella, conoscere nuove persone e parlarci tranquillamente, senza farsi troppi problemi. Ma non ci riusciva. Istintivamente, quando qualcuno posava lo sguardo su di lei, abbassava la testa e non la rialzava più.
I suoi parenti la rimproveravano sempre per questo fatto, avrebbero voluto che la loro bambina fosse più espansiva, come tutte le altre sue coetanee. Sapeva che glielo dicevano solo per il suo bene, aveva i genitori migliori al mondo, ad ogni modo le loro parole la ferivano, la facevano sentire un’incapace. Per questo il più delle volte fingeva, per fare piacere a loro. Si mostrava felice quando dentro avrebbe solo voluto urlare di dolore. Non aveva senso trasmettere la sua tristezza agli altri, non avrebbe certo alleggerito la propria. Tanto valeva non far preoccupare ulteriormente le persone che le stavano vicine.
Ed è quello che stava facendo anche in quel momento. Sforzò un sorriso. << Meglio andare, non vorremo far tardi alla nostra festa. >>
L’altra sorrise, ed uscì dalla loro camera, diretta in cucina.
Non appena la gemella fu abbastanza lontana Gothel si spostò nuovamente i ricci sul viso, più riusciva a tapparne e meglio era. La sua autostima era estremamente fragile, bastava una parola sbagliata che tutta la confidenza acquisita con fatica svaniva. Si era sentita carina per un paio di ore, mentre veniva acconciata, ma la magia del momento era già svanita.
Scese a sua volta in cucina, e per poco non si ammazzò cadendo dalle scale. Bella le aveva prestato un paio delle sue scarpe da sera –lei ovviamente non ne aveva di eleganti- ed erano l’indumento più scomodo che avesse mai indossato.
Ad aspettarla c’erano i suoi genitori con aria commossa.
<< Le nostre bambine compiono quindi anni oggi! >> Suo padre le strinse in un abbraccio talmente forse che si sentì soffocare. << Sembra ieri che piangevate perché avevate paura del buio. >>
Erano i classici genitori imbarazzanti, i quali, per dimostrare il loro affetto nei confronti delle figlie, dicevano costantemente cose che le facevano desiderare di essere invisibili. Fortunatamente tutte quelle frasette sdolcinate venivano pronunciate in casa, dove nessuno all’infuori della sfera familiare poteva sentirle.
La ragazza, appena sciolto l’abbraccio, si sistemò le pieghe dell’abito. Non era suo, glielo aveva prestato Annabella. A Gothel non piaceva vestirsi alla moda, o in modo appariscente, le piaceva rimanere nell’anonimato. Ciò nonostante sua sorella aveva insistito tanto affinché almeno quella sera si vestisse bene, non voleva che si presentasse alla locanda con i suoi soliti abiti da vecchia megera. A condizioni normali non avrebbe mai acconsentito a vestirsi a quella maniera, ma tutto pur di vedere Bella felice.
Sentì le dita affusolate di sua madre sotto il mento, mentre lo spingeva verso l’alto. << Fatevi guardare, tutte e due. >> Era la più apprensiva nei suoi confronti. Quando aveva soli tredici anni, Gothel era stata ritrovata proprio dalla madre in lacrime e con le mani tagliate dalle schegge dei vetri rotti. Se chiudeva gli occhi poteva ancora vederla, la sua espressione terrorizzata, gli occhi di chi vorrebbe aiutare ma senza sapere come. Quella visione l’aveva cambiata nel profondo, impossibile negarlo. Da quel giorno l’aveva tenuta costantemente sotto controllo, avrebbe donato un rene purché non si ripetesse lo stesso evento.
Tutta quella accortezza non serviva: Gothel, anche lei spaventata da quello che aveva fatto, e da quanto il suo corpo si fosse spinto oltre perché sopraffatto dalle emozioni, aveva giurato a se stessa che non ne avrebbe più avute, che le avrebbe represse fino a farle scomparire.
<< Mi raccomando, stasera fate le brave. E tornate a casa ad un orario decente –ricordatevi, compiete quindici anni, non ventuno- e comportatevi a modo. >>
Quella sera sarebbero uscite, per festeggiare insieme agli amici di Bella il loro compleanno. Erano persone dalla simpatia discutibile, ma Gothel non aveva mai espresso ad alta voce giudizi al riguardo. Ci usciva spesso, sua sorella la trascinava fuori con lei ogni volta che usciva, altrimenti avrebbe passato tutta la sua vita a giocare a carte con i genitori in cucina. Il mondo esterno la spaventava, non credeva che ci fosse niente per lei. Metteva piede fuori casa solo per rendersi conto di quanto si sentisse al sicuro e protetta tra le mura domestiche. Bella sosteneva che degli amici avrebbero potuto aiutarla ad aprirsi di più, ma quelli non li considerava amici. La consideravano pochissimo (anche perché Gothel se ne stava sempre in disparte con i capelli sul viso e le mani incrociate davanti), erano prepotenti e la usavano come zerbino. Quando le rivolgevano la parola era sempre e solo per “chiederle” di fare qualcosa.
Come quella sera, quando Garrett si girò verso di lei e le disse: << Vammi a prendere una birra. >> E lei semplicemente annuì e si alzò dal tavolino in silenzio.
Non aveva la forza di controbattere, di dire di no. Sapeva che era sbagliato, si rendeva perfettamente conto del fatto che non era giusto che la sfruttassero così, eppure non le riusciva opporre resistenza. Ogni volta che era sul punto di aprire bocca poi ci ripensava e si ammutoliva. Aveva troppa paura delle conseguenze che avrebbero potuto comportare le sue azioni. Avrebbero potuto risponderle male, decidere di non voler più uscire con lei, o peggio, con Annabella. In più non era capace di imporsi, con la voce flebile che si ritrovava non sarebbe mai riuscita a far valere le proprie idee, non l’avrebbero nemmeno sentita.
Si avvicinò quindi al bancone. L’oste, un ragazzo alto e con la barba incolta, se ne stava in un angolo a pulire un bicchiere che di sporco non aveva niente. Forse lo stava facendo di proposito per ignorarla, ad ogni modo la ragazza rimase in silenzio, aspettando che finisse le sue faccende. Quando finalmente il ragazzo alzò lo sguardo su di lei, Gothel venne spintonata da una ragazza.
<< Levati, nido di rondine! >> le urlò. Non era sola, erano un gruppo di ragazzi e ragazze, una decina di persone al massimo. Avevano tutti l’aria prepotente, un sorriso sghembo in volto di chi si sente padrone del mondo. Dal modo in cui si atteggiavano sembrava che si aspettassero che gli altri si scansassero al loro passaggio, come se li spettasse di diritto.
<< Il solito, Carson >> continuò la ragazza. Era poco più alta di Gothel, con i capelli color mogano corti sotto le orecchie. A giudicare dalle condizioni in cui versavano sia lei che i suoi vestiti le cose erano due: o non si lavava da una settimana, oppure aveva passato l’ultima mezz’ora a rotolarsi nello sporco e nella polvere. Fortunatamente non puzzava. Teneva qualcosa in bocca, qualcosa che continuava a masticare e rigirarsi, forse per darsi un tono. << E se non ce lo fai decente domani pomeriggio dietro il mercato del pesce ti prenderemo a pedate fino a farti sanguinare. >>
L’altro rise, probabilmente erano amici e lei stava scherzando, anche se Gothel ne dubitava fortemente: lei non si sarebbe mai rivolta in quel modo ad un suo amico. Dopodiché il gruppetto di tamarri si allontanò, e si sedette ad un tavolo ben distante da quello degli amici di Annabella, per grandissimo sollievo di Gothel.
<< E tu? >> le chiese Carson. << Cosa vuoi? >>
La ragazza, che intanto istintivamente si era schiacciata con le mani il suo nido di rondini, sussurrò: << Una birra, per favore. >>


Ovviamente Garrett ebbe da ridire, Gothel ci aveva messo troppo per portargli semplicemente un boccale di birra. Non gliene fregava nulla se dei colossi le erano passati avanti, avrebbe dovuto tirare fuori i cosiddetti e farsi valere. Se tirassi fuori i cosiddetti poi non avresti più nessuno che ordina da bere al posto tuo, pensò, ma non lo disse. In realtà non stava proprio ascoltando quello che stava dicendo quel coso, era troppo concentrata ad osservare la ragazza che le aveva rubato il posto in fila poco prima. Nonostante sedesse dall’altro lato della locanda, Gothel riusciva a vederla bene. La fissava senza timore di essere vista a sua volta, nessuno si accorgeva mai di lei.
Non sapeva bene perché non riuscisse a toglierle gli occhi di dosso, forse per il modo in cui si comportava. Era così sicura di sé, ma era una sicurezza completamente diversa da quella di sua sorella. Annabella semplicemente se ne fregava delle opinioni altrui, viveva la sua vita normalmente, conoscendo il suo valore. Non si sentiva né meglio né peggio degli altri. Quella ragazza invece si credeva dio sceso in terra, si comportava come se non ci fosse nessuno meglio di lei, come se tutti dovessero sentirsi fortunati a parlarci.
Il suo filone di pensieri fu interrotto dalla sorella, la quale intervenne in suo soccorso, ordinando a Garret di lasciarla in pace, e accusandolo di essere un maleducato per non averle detto grazie.
<< Lo sai, è un cretino >> le disse sorridente, mettendole le mani sulle spalle. << Ma non farti rovinare l’umore che adesso c’è la torta! >>
Gothel rimase sorpresa di vedere che sulla torta c’era anche il suo nome, e non solo quello di Bella. Mentre gli altri si stavano adoperando per sistemare le candeline sulla glassa ed accenderle, la ragazza voltò lo sguardo più avanti, verso il tavolo dei ragazzi debosciati. Quella che prima l’aveva spinta stava discutendo animatamente con un ragazzo di fronte a lei, un armadio a due ante con un collo enorme. Teneva la mano stretta attorno al manico del boccale, il quale ad un certo punto esplose in mille pezzi. Gothel spalancò gli occhi, non era possibile che una ragazzina di quindici/sedici anni potesse frantumare un boccale di vetro così spesso. Aveva sicuramente utilizzato la magia. A Camelot –città in cui si era trasferita dopo “l’incidente”- non solo non era proibita, ma era pure praticata da moltissime persone tranquillamente. Ma Gothel non aveva fatto molte conoscenze, nonostante vivesse lì da quasi tre anni ormai, e non aveva ancora incontrato nessuno con le sue stesse capacità. E i suoi genitori non avevano mai incoraggiato queste conoscenze. La figlia li aveva raccontato che il motivo per cui aveva fatto determinate cose erano state le prese in giro su i suoi poteri magici –cosa tra l’altro non vera. Non le avrebbero mai negato di conoscere altri maghi o streghe, ad ogni modo preferivano che l’argomento “magia” fosse se non proibito quanto meno evitato in casa.
E Gothel non aveva mai avuto interesse a conoscere quell’aspetto di se stessa. Fino a quel momento.


Quella sera le due sorelle tornarono a casa ad un orario decente, come le era stato imposto dai genitori. Gothel l’ultimo tratto di strada lo aveva percorso scalza: le scarpe di Annabella, per quanto fossero bellissime da guardare, erano tremendamente scomode da indossare. Sentiva la terra umida sotto i piedi e la sensazione le faceva schifo, camminava con il terrore di pestare gli escrementi di qualche animale selvaggio. Sua sorella invece era allegra come sempre, si era divertita moltissimo quella sera, era stata proprio la sua festa. Per quanto a Gothel non stessero affatto simpatici i suoi amici, doveva riconoscerli il merito di tenere veramente a Bella, la trattavano come la principessa che era. Poco importava se lei veniva sbatacchiata a destra e a manca per servirli, ne valeva la pena per vedere quegli occhi azzurri brillare di felicità.
I genitori ovviamente le avevano aspettate alzati, e avevano controllato che non avessero bevuto alcool. Accertatisi delle condizioni delle loro figlie si erano diretti in camera, e così avevano fatto anche le gemelle.
Si tolsero i bellissimi vestiti che avevano indossato quella sera, si misero la vestaglia da notte, si tolsero il cerone dal viso e poi si fiondarono sotto le coperte.
Annabella, il cui letto distava la lunghezza di un braccio da quello della sorella, le diede una botta leggera sulla schiena. << Ehi, che desiderio hai espresso quando hai soffiato sulle candeline? >>
<< Non posso dirtelo, altrimenti non si avvera. >> Rispose l’altra.
<< Vero… peccato. >> Sembrava seriamente dispiaciuta. << Mi sarebbe piaciuto sapere di cosa si tratta. C’è qualcosa che posso fare per renderlo realtà? >>
<< No. Ma lascia stare, è una scemenza, nemmeno so perché l’ho espresso. È solo uno stupido desiderio. C’è invece qualcosa che posso fare io per rendere il tuo di desiderio realtà? >>
Annabella sorrise teneramente. << Direi che tu abbia fatto abbastanza finora. Buona notte. >> Si girò dall’altra parte e piombò il silenzio tra le due.
Gothel sistemò meglio la testa sul cuscino. Non riusciva a dormire. Anche se aveva passato l’ultima ora a camminare, quella non era stata una giornata pesante, l’aveva passata principalmente a sedere sullo sgabello a farsi sistemare.

 
La mente era perfettamente lucida, non ne voleva sapere di addormentarsi. Continuava a rimuginare sul desiderio espresso poche ore prima: rivedere la ragazza della locanda.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 
 
La mattina dopo si svegliò presto. Annabella e suo padre avevano programmato una giornata di caccia, in cui avrebbero ammazzato gufi, lepri, e tutti quegli animali che il suo vecchio non voleva comprare al mercato, in quanto fosse possibile trovarli gratis in natura. Gothel non avrebbe partecipato. Aveva provato una volta, giusto per far contento suo padre, e aveva constatato che non faceva per lei. La sua pazienza era oltremodo limitata, stare appostata dietro un cespuglio per ore in attesa di un miracolo l’aveva sfiancata. Preferiva avere tutto e subito.
Sua sorella invece adorava la caccia, aspettava con ansia i giorni in cui suo padre non doveva andare giù in paese a lavorare per accompagnarlo nel bosco. Non era lei a lanciare con la balestra, troppo piccola ancora per quel compito così importante. Si limitava a fare da assistente, e questo le bastava. La sera tornava a casa e mostrava alla gemella il bottino con sguardo fiero. Gothel osservava le carcasse con disgusto, le preferiva tutte belle pulite dal sangue, spelate e sulla tavola pronte per essere mangiate.
Così Bella si era svegliata all’alba, e con la grazia di un drago in un calice si era vestita ed era uscita. Gothel si arrabbiava sempre con lei, tutte le volte la svegliava e poi non riusciva più ad addormentarsi, eppure lei continuava involontariamente a fare un gran baccano. Non le restò quindi nient’altro da fare se non affacciarsi alla finestra per osservare padre e sorella allontanarsi dalla loro casa, con in groppa tutto l’occorrente.
Annabella e il Signor Gothel trascorrevano tantissimo tempo insieme, molto più di quanto non ne passasse con Gothel, ma a lei non dispiaceva affatto. Sua sorella si meritava tutte le attenzioni del mondo. Inoltre, la loro madre stravedeva per la gemella più chiusa in se stessa. Si era attaccata a lei come una cozza dopo essersi trasferiti a Camelot, non la perdeva mai di vista un attimo, ci si dedicava completamente. Ad aumentare la sua preferenza c’era il non approvare poi più di tanto i comportamenti di Annabella, le rimproverava di atteggiarsi a maschio, spesso le ricordava che determinate cose non si addicevano ad una ragazza. La discussione veniva sempre troncata sul nascere dal padre, il quale con una battutina smorzava la tensione. Rimaneva comunque il fatto che alla Signora Gothel non andava giù che sua figlia non fosse il fiore delicato che avrebbe voluto. Non che Gothel fosse femminile o una ragazza servizievole, guardava sempre la madre cucinare e pulire casa ma non alzava mai un dito per aiutarla. Il non preoccuparsi derivava dal fatto che sapeva che la ragazza non usciva mai, quindi nessuno la conosceva. I suoi comportamenti non erano sotto la luce di tutti come quelli di Annabella, Gothel sarebbe sempre rimasta nell’ombra qualsiasi cosa avesse fatto.
Così passo tutta la mattina a pensare alla ragazza conosciuta la sera prima. Aveva un forte desiderio di rivederla. Sapeva che quel pomeriggio si sarebbe trovata al mercato del pesce, il problema stava nel trovare la forza per andarci. Raramente usciva di casa, e quando lo faceva era sempre in compagnia di qualche suo familiare. Non si era mai addentrata in città da sola. Non aveva paura che qualcuno potesse derubarla o altro, temeva semplicemente il mondo esterno, specialmente se non con qualcuno vicino pronta a difenderla. Le persone, le loro parole, i loro gesti, la terrorizzavano. Gesti che all’apparenza possono sembrare molto innocenti, come qualcuno che nel passare ti spinge e ti urla di guardare dove vai, lei non aveva la forza per affrontarli, l’avrebbero demoralizzata più del dovuto. A casa nessuno l’avrebbe squadrata dalla testa ai piedi, nessuno l’avrebbe fatta sentire fuori posto.
Dentro di sé ad ogni modo sentiva che le cose dovevano cambiare, o che almeno lei voleva che cambiassero. Non poteva rimanere attaccata alla sottana della madre per il resto della sua vita. Voleva essere come tutti gli altri, nonostante le sembrasse un traguardo impossibile.
In tarda mattinata scese in cucina, trovando sua mamma a sedere su una sedia che rammendava la gonna del vestito. Aveva sempre una faccia rilassata, qualsiasi cosa facesse sembrava in pace con se stessa. << Oh, ciao tesoro. >>
Gothel fece qualche passo verso di lei, con le mani incrociate dietro la schiena, lo sguardo basso e strusciando i piedi. Si sedette su una sedia, vicino a lei. Voleva esternare il suo desiderio di uscire, ma non sapeva come fare. Non era brava con le parole, probabilmente non lo sarebbe mai stata. Ad un certo punto se ne esordì con: << Mi va del pesce. >>
La signora Gothel la guardò confusa, increspando la fronte. << Come scusa? >>
<< Sì beh… mi va di mangiare del pesce stasera. Magari potrei andare al mercato a prenderlo. >>
<< Ma tua sorella e t-… >> La donna si interruppe, e i suoi occhi si spalancarono dallo stupore. In cuor suo aveva smesso di sperare che quel giorno sarebbe arrivato, il giorno in cui la sua amata figlia avrebbe finalmente avuto il coraggio di affrontare il mondo da sola. Si era rassegnata al fatto che sarebbe rimasta chiusa in casa per il resto dei suoi giorni.
Vedere tutto quell’entusiasmo metteva a disagio la ragazza. << Non lo so, forse non è vero che mi va così tanto. >>
Sentì una forte presa sulle mani, sua madre le stava stringendo fortissimo. Il suo sguardo era orgoglioso, la voce tremolante. << Tesoro, ti posso assicurare che il mondo è pieno di cose bellissime da offrirti. Chiuderti per sempre in quattro mura non può solo che danneggiarti. >>
Lo sapeva, Gothel l’aveva sempre saputo che la reclusione non l’avrebbe portata a niente di buono. Più i giorni passavano e più sentiva la sua mente appassirsi. Non aveva stimoli di nessun tipo, niente che la motivasse ad andare avanti. Viveva in un circolo monotono ed infinito, ogni giorno si ripeteva a quello precedente. Sentiva di voler qualcosa di più dalla sua vita.
Guardò oltre la finestra. << Ho tanta paura, mamma. >>
Si sentì avvolta in un caldo abbraccio. << Se vuoi posso accompagnarti un pezzettino >> propose la donna.
<< No, è una cosa che devo fare da sola, altrimenti non migliorerò mai. >> Migliorare, perché il suo rifiuto verso il mondo esterno era un suo enorme problema che andava affrontato e risolto.
Si alzò in piedi, e con le gambe tremolanti si avvicinò alla porta di casa. Una volta aperta una forte brezza le investì il viso, arrossandole le guance. Era una bellissima giornata, pur essendo autunno pieno. Il sole splendeva in cielo, nemmeno una nuvola all’orizzonte. Era sulla soglia di casa, un piccolo passo e sarebbe stata fuori, in balia del mondo. Si voltò verso sua madre, la quale le mostrò un sorriso di incoraggiamento.
E se avesse incontrato un cane randagio per strada? E se un mendicante le fosse andato incontro chiedendole dei soldi? E se semplicemente qualche ragazzino avesse deciso di prenderla di mira?
<< Un passetto alla volta >> si disse, e poggiò un piede sul prato, poi l’altro.
Era ancora viva, nessun’aquila si era buttata in picchiata contro di lei. La terra non le si era aperta sotto i piedi. Tutto sembrava esattamente come prima. Era a cinque centimetri da casa sua, eppure le sembrava di aver fatto un passo lungo tre miglia.
Si voltò verso sua madre. << Allora io vado. >>
In risposta ricevette un sorriso di incoraggiamento. << E mi raccomando, fa’ attenzione. >>
 
Ottomilatrentasette passi e ancora non le era successo niente di mortale, e nessuno aveva fatto caso ad una ragazzina tutta capelli che camminava gobbuta, stringendosi la bisaccia come se ne andasse della sua vita –dentro c’erano giusto giusto i soldi per comprare qualche etto di pesce, se l’avesse persa o gliel’avessero rubata la sua famiglia non sarebbe di certo andata in bancarotta, il suo attaccarsi così tanto era dovuto unicamente allo stress del momento. La strada per il mercato se la ricordava molto bene, aveva un ottimo senso dell’orientamento, nonostante non ci fosse andata molte volte, non si era mai persa durante il tragitto. Le persone sembravano normali, non si accorgevano nemmeno di lei, nessuno sembrava intento a rivolgerle la parola. Nessuno si accorgeva mai di lei, Gothel era dotata del dono dell’invisibilità; ovunque andasse passava inosservata, troppo insulsa perché gli altri la notassero. Ma la paura rimaneva, sapeva che avrebbe comunque trovato il modo di combinarne una delle sue e farsi notare dai passanti. Per questo camminava rasente le mura, quasi strusciandoci contro, e teneva le testa bassa. Sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe camminato a testa alta in mezzo alla folla, fregandosene degli sguardi che le venivano rivolti, per il momento si limitava a starsene in disparte. Aveva già fatto più di quanto avrebbe creduto, non vedeva l’ora che arrivasse sera per raccontare a Bella questa sua esperienza.


Ottomilacentoquindici passi. Occorrevano ottomilacentoquindici passi per arrivare al mercato del pesce, proprio davanti ad un bellissimo bancone con sopra le migliori trote di Camelot. Ma il pesce non era il motivo per cui era arrivata fin laggiù. Sapeva che “dietro il mercato del pesce” si sarebbero incontrati la ragazza e i suoi amici, dove si ubicasse con precisione questo “dietro” tuttavia non lo sapeva.
Ci mise un po’ di tempo per trovarla. Stavano tutti vicino ad un barroccio vuoto, chi c’era seduto sopra, chi intorno. Erano girati di spalle rispetto a Gothel, quindi non potevano vederla. Riconobbe subito la ragazza, era seduta al lato del barroccio, e stava facendo la treccia ad un’altra.
Voleva parlarle, tuttavia non voleva che gli altri la sentissero, che la guardassero. Avevano l’aria di essere persone sempre pronte a giudicare, a trovare un capo espiatorio con cui divertirsi per passare le giornate. Notò con tristezza che già ne avevano uno, un povero ragazzino qualche anno più piccolo di Gothel, un povero indifeso con la pelle bianca come il latte, le lentiggini sul volto e gli occhi di un azzurro talmente chiaro da sembrare cristallo. Tre ragazzi –tra cui Carson, il locandiere che la sera prima le aveva versato da bere- stavano “scherzando” con lui. Perché era quello il termine che li piaceva utilizzare, scherzare, come se far sentire una persona inferiore a te spingendola e facendole battutine fosse un gioco, fosse divertente. Forse per loro, magari per loro era proprio esilarante, ma per la vittima assolutamente no. Se fosse stata una persona completamente diversa sarebbe intervenuta e avrebbe difeso quel ragazzino, ma non aveva nemmeno la forza di difendere se stessa, figurarsi gli altri. In più, era meglio farsi notare il meno possibile.
Si avvicinò in punta di piedi alla ragazza, e quando fu abbastanza vicina le picchiettò l’indice e il medio sulla spalla. L’altra si voltò, e la squadrò dall’alto in basso con il sopracciglio inarcato e la bocca aperta. << Ti conosco? >> chiese, non sembrava affatto felice di vederla.
<< No, non proprio. In realtà volevo chieder… >>
Fu subito interrotta. << Puoi alzare la voce, per piacere? Non sei al cospetto del re. >> Si voltò, ed indicò che il ragazzino che stava venendo punzecchiato. << Lo vedi quello là? Lui è Roger, anche lui parla a voce bassa e non si capisce niente di quello che dice, per questo lo maltrattiamo. Vuoi essere come Roger? >>
Decisamente non voleva fare la fine di Roger, non era in grado di affrontare un’altra volta una compagnia di persone che la deridevano, la sua autostima era troppo fragile per reggere il colpo di una sola altra battutina su di lei. Si sentiva già in imbarazzo a stare là in mezzo a tutti, con gli occhi puntati su di lei, occhi tra l’altro per niente simpatici. Sentiva le loro, sebben silenziose, critiche, sapeva a cosa stavano pensando, seppure non lo stessero esprimendo ad alta voce. Era stata una sciocca ad andare fin laggiù, l’unica cosa che aveva ottenuto era ancora più ansia sociale di quanta già non ne avesse. Se fosse rimasta a casa tutti quei pensieri nebulosi e cupi su se stessa non si sarebbero ripresentati. Ma ormai la frittata era fatta, tanto valeva arrivare fino in fondo.
Le parole della ragazza avevano attirato l’attenzione di Carson, il quale perse completamente l’attenzione su Roger per guardare Gothel attentamente. Odiava essere osservata, non le piaceva quando qualcuno la guardava, anche se era un membro della sua famiglia. Non si piaceva, non si sarebbe mai piaciuta e il pensiero che altre persone la vedessero e notassero tutti i suoi difetti la faceva stare male. Istintivamente, quando qualcuno le rivolgeva uno sguardo, anche se amichevole, il suo cervello iniziava a fantasticare su cosa potesse pensare, e non erano mai fantasie felici.
<< Tu >> disse il ragazzo, puntandole il dito contro. << Ti ho vista ieri sera alla locanda, hai ordinato una birra, giusto? Talitha, non te la ricordi? >>
Talitha, allora era così che si chiamava, finalmente lo aveva scoperto.
Lei in tutta risposta guardò nuovamente Gothel, con il labbro sporto in avanti. << Ad essere onesti, no, ma mi fido di quello che dici. >> Scese dal barroccio e fece qualche passo verso l’altra ragazza, la quale, istintivamente guardò dietro di sé e cominciò ad arretrare.
Non le piaceva dove stava andando a parare la situazione, tutti ormai la stavano guardando, il suo peggiore incubo era diventato nuovamente realtà ed era pure tutta colpa sua. Se fosse rimasta a casa non avrebbe avuto di questi problemi. Se la sera prima, invece di festeggiare il suo compleanno lontano dalle mura domestiche, fosse rimasta con i suoi genitori, non avrebbe avuto la curiosità di conoscere una persona in grado di istruirla sui suoi poteri magici. Perché, per quanto l’idea di avere degli amici tutti suoi, e non solo persone che fanno finta di sopportarla per amore di sua sorella, l’allettasse parecchio, il motivo principale per cui si era diretta là era la magia. Non pensava, si era ripetuta per tutto quel tempo che l’unica cosa che voleva era conoscere Talitha. E voleva conoscerla, ad ogni modo se fosse stata una comune ragazza, non dotata di poteri magici, non si sarebbe mai sforzata così tanto per conoscerla, non si sarebbe messa in ridicolo davanti a tutti. Era la magia ad attirarla, il pensiero di conoscere quest’arte a lei completamente sconosciuta. Non si era resa conto di quanto in realtà desiderasse esplorare questo lato di se stessa, quanto volesse esercitarsi per diventare, se non brava, quantomeno decente. In famiglia era l’unica ad avere quelle capacità, capacità che, se non completamente soppresse, emarginate moltissimo. Non parlavano dei suoi poteri da più di due anni ormai, non sapeva nemmeno come le fossero venuti, perché a lei sì e a sua sorella gemella no. Era una parte di sé, una parte che non aveva coltivato e che aveva voglia di fare. Rivolgersi ad una ragazzina della sua stessa età e pretendere che le insegnasse la divina arte della magia era stato un po’ ambizioso, ma non avrebbe saputo a chi altro rivolgersi.
Talitha arricciò il naso. << Dunque, ieri sera ci vedi alla locanda, e oggi ti presenti qui. Che cosa sei, una stalker? >>
<< Certo che no! >>
<< E allora come facevi a sapere che saremmo stati qui? E, cosa più importante, si può sapere che cosa vuoi >>
Non voleva esporsi, parlare con tutti quegli occhietti malefici puntati addosso la infastidiva. << Possiamo parlare in privato? …Un pochino più lontano da qui. >>
<< Scordatelo, siamo tutti curiosi di sentire cosa hai da dire. >>
<< Ecco, io… è una scemenza, lo so. Però vedi, mi piacerebbe che tu mi insegnassi la magia. >> Quando in ricambio ricevette solo una faccia sconcertata si affrettò ad aggiungere: << Ce li ho i poteri magici, ce li ho tutti, credo, vorrei solo imparare ad usarli. >>
Per qualche istante rimasero tutti in silenzio, poi scoppiarono a ridere fragorosamente.
<< Per chi mi hai preso, per il tuo gran maestro? Nemmeno ti conosco, certo che non ti aiuto! >>


Non le restò altro che accettare questa piccola sconfitta personale. Se lo sarebbe dovuta aspettare, Talitha non le era mai sembrata una tipa tanto socievole o disponibile. Ad ogni modo non riteneva di aver buttato via quella giornata, era stata alquanto produttiva, nonostante non avesse raggiunto lo scopo finale. Per la prima volta in anni era uscita di casa da sola, aveva parlato con persone che non conosceva e non aveva voglia di rinchiudersi in casa per la prossima decade dopo la brutta figura che aveva fatto nel primo pomeriggio. Sicuramente se mai avesse incontrato nuovamente Talitha e la sua banda sarebbe corsa a nascondersi, ma non escludeva il pensiero di poter uscire nuovamente per fare qualche commissione per sua madre.
Si era quasi dimenticata di andare a prendere il pesce. Quando si avvicinò al banco notò subito che l’espressione del pescivendolo mutò in un sorriso sghembo. Stava infatti cercando di truffarla, di farle pagare più di quanto avrebbe dovuto. Gothel non era una scema, si era informata su quanto avrebbe dovuto pagare, e il prezzo che stava richiedendo l’uomo era decisamente esorbitante. Stava per rinunciare e tornare a casa a mani vuote -forse sarebbe arrivato il giorno in cui si sarebbe saputa imporre, ma decisamente non era quello il giorno- quando vide il volto dell’uomo incupirsi, quasi spaventato. In silenzio prese il pesce, lo avvolse in una stoffa sporca, e lo porse alla ragazzina chinando il capo.
<< Tenete, offriamo noi. >>
Incredula, Gothel prese in silenzio il pesce senza fiatare, non voleva tentare la buona stella e far cambiare idea al tizio. Si voltò e vide Talitha che la guardava, con le mani sopra i fianchi.
<< Fammi indovinare, senza l’aiuto di qualcuno non riusciresti nemmeno a mettere un piede dopo l’altro. >>
<< Ehm… >>
<< Lascia stare >> fece un gesto della mano per farle capire che non le interessava minimamente la sua risposta. << Ho cambiato idea, ti insegnerò tutto quello che so! >>
Stava sorridendo, e Gothel non riusciva a capire se la stesse prendendo in giro, se fosse seria, o se volesse portarla in un vicolo buio per tagliarle la gola.
<< Perché hai cambiato idea così dal niente? >>
<< Quando sarai più grande te lo spiegherò. >>
<< Scommetto che sono più grande di te. >>
Talitha alzò gli occhi al cielo scioccata. << Ma che spina nel fianco che sei! Vedi di presentarti qui fra due giorni all’alba o evita proprio di rivolgermi la parola in futuro. >>
Se ne andò senza nemmeno aspettare una risposta da parte di Gothel, la quale, si limitò semplicemente a stringere il cartoccio e sorridere.


 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

 
 
Se qualcuno fosse passato per la radura quel giorno, avrebbe sentito Gothel urlare dalla frustrazione. Aveva passato tutta la mattina insieme a Talitha, la quale aveva posizionato una brocca di ceramica sopra un tronco d’albero piano, dicendole che avrebbe dovuto romperla, e chiaramente la ragazza non ci era riuscita. Era difficile apprendere la magia da una persona che l’aveva studiata a sua volta in modo superficiale. Da quel che ne sapeva Gothel, Talitha da bambina era andata tutti i pomeriggi a trovare lo stregone del villaggio, dal quale aveva imparato con gioia e passione fino a che la morte di quest’ultimo e problemi familiari non l’avevano portata ad abbandonare lo studio di questa arte. Purtroppo il suo allenamento si era interrotto agli albori, aveva appena iniziato le lezioni pratiche; inizialmente lo stregone le aveva insegnato la parte teorica, tutta la storia della magia e di come essa si era sviluppata durante il tempo. La ragazza ne parlava sempre all’amica nel tragitto per arrivare e tornare dalla radura –che ormai avevano stabilito come luogo in cui si sarebbero dirette tutti i giorni. Nei suoi occhi brillava sempre una luce particolare quando raccontava a Gothel di tutte le battaglie magiche che si erano susseguite durante il corso dei secoli, si immedesimava talmente tanto in quello che diceva da non rendersi conto del completo disinteressamento proveniente dalla controparte: alla ragazzina non interessava sapere che trecento anni prima qualcuno si era combattuto e cose di questo tipo, voleva semplicemente imparare ad utilizzare il potere che aveva, né più né meno.
Non era una brava allieva, non perché non si impegnasse a dovere o trascurasse la materia, semplicemente ci impiegava un po’ a “sciogliersi”, lasciarsi andare e permettere alla magia di confluirle in tutto il corpo. Ormai era quasi iniziata la primavera, percepiva le giornate allungarsi e farsi sempre più calde, la neve a poco a poco si stava sciogliendo. Aveva iniziato in autunno, subito dopo il suo compleanno, e da allora non aveva fatto degli enormi passi avanti: ogni volta che aveva uno scatto di emozioni –negative o positive che fossero- riusciva a fare qualche incantesimo, ma erano imprecisi, dettagli dai sentimenti e non dalla tecnica. Probabilmente, se in quel momento fosse stata arrabbiata con qualcuno o qualcosa, sarebbe riuscita a far esplodere l’anfora, ma in condizioni normali non ne era in grado.  E Gothel non era una persona indulgente con se stessa, era tremendamente ambiziosa, pretendeva delle prestazioni sempre ottime e sempre migliori di quelle precedenti, non si sarebbe accontentata di un “sei stata bravina”, lei voleva essere perfetta. Di conseguenza si innervosiva, e più si innervosiva e peggio le riuscivano i compiti che Talitha le assegnava -la quale si era rivelata una maestra molto migliore di quanto Gothel si fosse mai aspettata, era tanto scontrosa quanto disponibile nell’insegnarle le cose.
Così, sconsolata, era tornata a casa ed aveva pranzato con la propria famiglia. Avrebbe sempre ricordato la sera in cui era tornata a casa, dopo essere uscita per la prima volta dopo anni da sola ed essere andata al mercato, non si sarebbe mai e poi mai dimenticata la faccia di sua madre quasi spiaccicata contro la finestra in attesa del suo ritorno. Inizialmente aveva creduto che la signora Gothel sarebbe svenuta, data l’espressione che aveva avuto in volto non appena l’aveva vista. E quello era stato solo l’inizio, poiché suo padre e sua sorella non avevano idea di quello che era successo, pensavano che quella fosse stata una giornata come le altre. Erano rientrati in casa con il volto soddisfatto: lo avevano sempre ogni volta che andavano a caccia insieme, il loro rapporto padre-figlia si intensificava sempre di più. Avevano porto il bottino catturato alla madre e poi erano andati a lavarsi e cambiarsi. Si erano successivamente seduti a tavola, intenti a raccontare aneddoti sulle loro avventure (Gothel aveva sempre creduto che moltissimi dettagli fossero inventati per arricchire e rendere la storia più interessante di quello che già non fosse, eppure aveva sempre ascoltato volentieri), finché la donna non aveva posizionato al centro della tavola un piatto pieno di pesce affumicato.
<< Questo pesce l’ha comprato nostra figlia oggi al mercato >> si era affrettata a dire, notando le facce sconcertate dei due cacciatori. << E’ andata personalmente a prenderlo. >>
Non lo aveva detto esplicitamente, ma aveva lasciato intendere il particolare più importante: era andata da sola, senza nessuno che la accompagnasse. Gothel fu eternamente grata per sua sorella e suo padre, i quali erano stati molto più discreti rispetto alla madre. A Bella si era illuminato il volto, che aveva voltato verso la gemella in segno di profonda ammirazione, per poi mascherare quell’emozione appena provata. E così per la prima volta la ragazzina non era stata quella che ascoltava passivamente e si limitava a fare qualche commento sporadico, quella sera era stata lei a raccontare la sua avventura. E non aveva inventato alcunché, non aveva aggiunto nessun aneddoto particolare, niente che potesse abbellire la sua storia in quanto, per lei, era già bellissima così. Era stata completamente onesta, anche per quanto riguardava la magia, argomento che non era stato preso tanto bene dai suoi genitori. Temevano che qualcosa potesse andare storto, che potessero ripresentarsi i problemi di un tempo. Ma non le avrebbero mai impedito di incontrarsi con Talitha e praticare questa sua dote, non erano il tipo di genitori che volevano tapparle le ali: le davano consigli, esprimevano la loro opinione, ma poi la lasciavano libera di scegliere come meglio credeva.
Gothel era grata per i suoi genitori, nonostante tutte le difficoltà che li aveva fatto affrontare, tutti i suoi problemi che avevano dovuto sopportare e gestire, erano sempre stati buoni e giusti con lei. Non l’avevano mai fatta sentire inferiore ad Annabella, un peso per la famiglia. E di questo non avrebbe mai potuto ringraziarli abbastanza. Sua madre ogni tanto le chiedeva pure di mostrarle i suoi progressi, i pochi obiettivi che era riuscita a raggiungere, e non importava quanto piccoli fossero i passi che aveva compiuto sua figlia, lei era sempre estremamente orgogliosa. Ma la gioia più grande gliel’aveva data sua sorella: era proprio fiera di lei, se ne andava girando per locali con i suoi amici dicendo “mia sorella è una strega, mia sorella è una strega potentissima!”, e questo rendeva Gothel estremamente felice.
 
Il rapporto con gli amici di Bella tuttavia non era migliorato, continuava a non andare d’accordo con quelle persone, a trovarle strafottenti e maleducati, e loro continuavano a considerarla semplicemente l’ombra di sua sorella. Continuava ad uscire con loro, per far contenta Annabella e passare più tempo possibile insieme a lei, sapeva quanto ci tenesse alla sua presenza, nonostante sapesse che Gothel non si sentiva a proprio agio. Era convinta che prima o poi sarebbe riuscita ad inserirsi, a stringere un rapporto di amicizia come aveva fatto lei. La strega non ne era mai stata convinta di questo fatto, non le piaceva farsi finte illusioni, sognare ad occhi aperti ed immaginarsi un mondo surreale con avvenimenti che mai nella vita vera sarebbero potuti verificarsi. Era realista, leggeva le cose e le persone esattamente per quello che erano, non aggiungeva mai niente, né che fosse in positivo né in negativo. E sapeva con certezza che quei ragazzi non l’avrebbero mai accolta completamente, e non riusciva a spiegarsi perché. In realtà, per quanto il modo in cui si rapportavano con lei fosse estremamente discutibile, erano dei ragazzi simpatici e spiritosi, provavano un bene sincero nei confronti di Bella: di qualsiasi cosa avesse mai avuto bisogno l’avevano sempre aiutata, la trattavano benissimo e non le avevano mai mancato di rispetto. Erano dei buoni amici, eppure non volevano che nessun altro entrasse nella loro cerchia, desideravano che rimanessero loro e loro soltanto, tutti gli altri –come Gothel- erano degli intrusi, degli estranei. Mesi fa la ragazza aveva guardato a loro e si era sentita inadatta, l’avevano fatta sentire male con se stessa, come se la colpa fosse sua. Ora era cambiata, aveva capito che il problema risiedeva in loro, non in lei, e quasi quasi le scocciava uscirci insieme. Lo faceva solo perché sua sorella glielo chiedeva e le dispiaceva dirle di no, ad ogni modo iniziava ad infastidirla il fatto che non riuscisse a vedere che lei non era la benvenuta. E quindi molte sere si ritrovava in loro compagnia a chiedersi quando sarebbe finalmente tornata a casa.
Quella sera erano in piazza, nella quale stava recitando una piccola compagnia teatrale- Gothel non avrebbe saputo dire di cosa parlasse lo spettacolo, erano arrivati per ultimi e quindi si erano dovuti accontentare delle ultime file. Gli altri si erano messi a sedere, chi dietro altre persone chi su un muretto, lei si era limitata ad arrampicarsi sul ramo di un albero basso, lontana da tutti. Lo spettacolo era iniziato da tre quarti d’ora quando Garrett la raggiunse sul ramo, sul quale lei era sdraiata. Senza chiederle il permesso le fece segno della mano di alzarsi per fargli posto, suscitando in lei non poco fastidio.
<< Ti stai annoiando anche tu, non è vero? >> le chiese. << Credevo saresti uscita con la tua nuova cerchia di amici. >>
Lo avrebbe preferito di gran lunga, invece di sentire il suo alito pesante costantemente sul collo. Non usciva sempre con gli amici di Talitha, per quanto ci si trovasse molto meglio che con loro, in quanto molto spesso si comportavano in un modo che a lei non piaceva per niente: atti di vandalismo vari, trattavano male i passanti, tutta una serie di gesti che lei non approvava. Non ne vedeva il senso, non riteneva divertente trattar male un povero vecchietto indifeso che sta tornando a casa dopo aver comprato delle spezie per la moglie malata, non le interessava andar a svaligiare i negozi dei poveri commercianti. Non aveva mai affrontato l’argomento apertamente con la sua amica, le aveva semplicemente lasciato intendere che determinate azioni non era disposta a commetterle, l’altra aveva capito e l’aveva lasciata in pace. Tuttavia aveva tanta voglia di farle presente che quello che faceva era sbagliato, prima non si era mai azzardata perché non aveva mai sentito di avere la confidenza giusta per poterle dire determinate cose, credeva che la sua opinione non fosse così importante da esporla a terzi. Ma il loro rapporto era molto cresciuto e maturato, quasi al pari di quello tra lei e sua sorella Annabella.
Garrett, quando vide che la ragazza non avrebbe risposto alla sua conversazione, e sarebbe rimasta a guardare l’orizzonte con l’aria crucciata, chiese: << Come va lo studio della magia? La tua amica è una brava insegnante? >>
<< Va molto bene, grazie. Talitha è meglio di quanto pensassi. >>
<< Un giorno dovrai farmi qualche trucco di magia. >>
<< Non penso proprio. >>
Gothel sapeva che non stava intrattenendo una conversazione con lei per il semplice piacere di farlo, non le aveva mai rivolto la parola se non per chiederle qualcosa che gli potesse tornare utile. Infatti, alla sua risposta secca, rimase in silenzio qualche minuto, fingendo di prestare attenzione all’attrice che, in preda all’angoscia, si contorceva sul pavimento di legno del palco. Poi disse: << Vorrei chiedere a Bella di mettersi insieme a me. >>
<< Spero ti risponda di no.>>
<< Io non ti piaccio, vero? >> chiese sorridendo, per niente infastidito da quello che aveva appena detto la ragazza.
<< Per niente, credevo fosse ovvio. >> Era fiera di se stessa e di quanto era cambiata negli ultimi tempi. Qualche mese prima, per il suo compleanno, era andata a prendergli una birra solo perché lui glielo aveva ordinato. Quella sera non l’avrebbe mai fatto, non si sentiva a disagio per avergli risposto in quella maniera, per essere stata onesta e aver detto un’opinione negativa nei suoi confronti.
Il ragazzo continuò a non perdere le staffe, aveva un sorrisino calmo sul volto. Era tranquillo, come se stessero parlando del più e del meno. << Hai intenzione di mettermi i bastoni fra le ruote?>>
<< Assolutamente no. Non mi stai simpatico ma non sei un delinquente, è compito di Bella decidere se gli piaci oppure no. >>
<< Mi fa piacere sentirtelo dire. Sai, lei mi piace molto, >> avvicinò la sua bocca all’orecchio della ragazza, sussurrando. << E se tu piccolo mostro ti azzardi ad intrometterti tra noi due io ti distruggo. >>
Detto questo le mostrò l’ennesimo sorriso gentile e pacato e, silenzioso come era arrivato, scese dall’albero e si unì al resto del gruppo. Gothel in tutto quel lasso di tempo era rimasta immobile, non aveva mosso un muscolo. Avrebbe voluto, voleva rispondergli a tono e dirgli che le minacce non avrebbero avuto alcun effetto su di lei. Ma era rimasta impietrita, perché per quanto fosse riuscita a cambiare era ancora molto lontana dalla ragazza che sarebbe voluta diventare, una di quelle che non hanno paura di niente, con la risposta sempre pronta. Invece si ritrovava su quel ramo a tremare come una foglia, a rimpiangere di essere stata così strafottente con lui, di essersi presa delle libertà che le si erano rivoltate contro. 
Fortunatamente tra la folla intravide quattro braccia che si agitavano per attirare la sua attenzione: erano quelle di Talitha e Roger. Gothel non era mai stata così felice di vedere la sua amica in vita sua, senza rifletterci su due volte fece un balzo e atterrò vicino a Bella, che non salutò nemmeno e si diresse verso l’uscita della piazza. Da dietro sentiva la voce di sua sorella chiamarla ma non si girò, non aveva la forza di affrontarla, di parlarle come se pochi minuti prima non fosse successo assolutamente niente. Non le importava nemmeno di cosa stessero combinando quei due, era talmente spaventata che avrebbe preferito svaligiare qualsiasi locanda piuttosto che restare un minuto di più nei pressi di Garrett. Non ne comprendeva bene il motivo ancora, ma aveva notato che quest’ultimo aveva timore di Talitha, quando era nei paraggi non si atteggiava così tanto a strafottente, per questo motivo quando era con lei si sentiva protetta, al sicuro.

I tre si dileguarono dalla folla, dirigendosi fuori città. Talitha stava raccontando all’amica di quello che avevano fatto quella sera: avevano umiliato un uomo davanti a tutti, lo avevano minacciato e fatto piangere, successivamente era scappato a gambe levate. Mentre raccontava aveva un tono di voce orgoglioso, quasi lo urlava per la strada di campagna desertica. Gothel era rimasta in silenzio tutto il tempo, non voleva darle spago e supportare degli atti così deplorevoli.
Dopo un po’ Talitha si voltò stizzita: << Com’è che quando ti racconto di queste cose te ne stai sempre zitta? >>
<< Semplicemente non capisco perché tu e i tuoi amici vi divertite così tanto a comportarvi male con gli altri. >>
Lei scosse la testa, sorridendo. << E’ qui che ti sbagli. Noi non ci divertiamo, ci vendichiamo. >> Vedendo come risposta solo una faccia confusa, aveva continuato: << L’uomo di stasera? Ha abbandonato moglie e figli per un’altra donna, lasciando la sua famiglia sul ciglio della strada a morire di fame. Il vecchietto dell’altro giorno? È un pedofilo. >>
<< Questo comunque non giustifica i vostri comportamenti, non è compito vostro esercitare la giustizia. >>
<< La giustizia non esiste, Gothel >> rispose secca Talitha. << Tu per caso hai ricevuto giustizia per tutte le cose brutte che ti sono capitate? Io non credo proprio. Ma non sei stanca di vedere che tutti si approfittano di te senza ricevere mai niente in cambio? Non hai mai voglia semplicemente di lasciar uscire tutta la tua rabbia?>>
Rabbia. Era una sensazione che la strega non sentiva da moltissimo tempo, da quando a tredici anni aveva preso a pugni lo specchio e chiesto ai suoi genitori di trasferirsi. Da quel giorno in poi aveva cercato di sopprimerla, di non farla mai più riuscire. Per i suoi genitori, che si erano preoccupati tantissimo. Per Annabella, che si era sentita impotente e questo l’aveva fatta soffrire. E per se stessa, perché aveva giurato che non avrebbe più provato alcun tipo di emozione in vita sua. Però la sentiva ribollire dentro di sé, sentiva il fuoco bruciarle dentro al petto. Aveva tenuto tutti quei sentimenti repressi per troppi anni che, ora che glielo aveva fatto notare, non riusciva più a trattenerli.
Non ebbero modo di continuare la conversazione che Talitha era arrivata sulla soglia di casa propria. Dopo essersi salutate Gothel posò il proprio sguardo su Roger, il quale era rimasto in silenzio con gli occhi bassi per tutto quel tempo.
<< Anche tu devi tornare a casa? >> gli chiese.
<< Sì, ma non ti preoccupare, tanto abito qua vicino. Vado a piedi. >>
<< Sciocchezze, ti accompagno volentieri. >>
Così cominciarono a camminare in silenzio, lui che teneva costantemente lo sguardo basso. Guardandolo Gothel si rivedeva un sacco in Roger: minuto di costituzione, timido, sempre con la paura che gli altri potessero notarlo. Provò tenerezza per quel ragazzino.
<< Tu cosa ne pensi di questa faccenda? >> gli domandò.
Si strinse nelle spalle. << Penso che Talitha non abbia tutti i torti, ha solo un modo sbagliato di esprimere le sue idee, riuscirebbe a far passare dalla parte del torto qualsiasi cosa con i suoi modi bruschi. Però quello che fanno è giusto. >>
<< Fanno? Perché, tu non partecipi? >>
<< Non sono proprio il tipo, non riesco ad impormi con le persone, nemmeno volendo. >> Fece una lunga pausa, meditando se dovesse andare oltre e raccontarle fatti personali, oppure lasciar perdere. Alla fine scelse la prima opzione. << Sai, io ho un padre molto violento. In casa mia giustizia non sarà mai fatta, se fossi come Talitha avrei la forza necessaria per affrontarlo. E invece non mi resta altro che subire.>> Si fermò, in quanto era arrivato davanti al sentiero che portava a casa sua. Con un lieve segno della testa indicò verso la finestra, oltre la quale Gothel intravide la figura del padre con una bottiglia di liquore in mano, come a dimostrazione di quello che Roger aveva detto poco prima.

Per tutto il tragitto di ritorno aveva pensato alle parole del ragazzo. Le avevano smosso qualcosa dentro: lei non voleva essere come lui, era stanca di subire le angherie altrui, di essere sempre quella che china la testa.
Rientrata in casa trovò ad aspettarla sua sorella, la quale la rimproverò per essersene andata su due piedi senza avvertirla. Gothel non le prestò minimamente attenzione, si diresse verso la mensola da cui estrasse una brocca di vetro e la posò sul tavolo. Tese la mano verso di essa concentrandosi, fino a che la brocca non esplose in mille pezzi.
<< Ma che stai facendo? >> sbottò Annabella.
Gothel si sistemò i capelli, spostandoseli dal viso. << Mi sto prendendo la mia rivincita. >>

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 
 
Gothel aprì gli occhi. Il volto di Annabella, quando dormiva, era completamente identico al suo: avevano gli stessi lineamenti, il mento allungato e il naso aquilino, le ciglia lunghe e folte che coronavano gli occhi dalla forma stondata. Quando erano sveglie, tuttavia, era come se sembrassero un po’ meno gemelle, entrambe assumevano delle espressioni e degli atteggiamenti talmente diversi che a volte Gothel avrebbe potuto giurare che non sembravano nemmeno parenti.
Si trovavano nello stesso letto, fianco a fianco. Le due, nonostante avessero due letti nella loro camera, dormivano insieme da sempre, inseparabili anche nel sonno. Ultimamente però, nonostante non avesse avuto il coraggio di dirlo ad alta voce per paura che l’altra potesse prendersela a male, Gothel si sentiva stretta in quel letto, non le andava più di condividere tutto quello spazio con sua sorella. Si sentiva come a disagio, voleva più spazio e più tempo per sé stessa. Oltre a questo, le due gemelle ormai non erano più inseparabili come un tempo, se in passato avevano condiviso l’una con l’altra tutto quello che avevano dentro, adesso il rapporto sembrava più freddo. Annabella in verità mostrava lo stesso affetto per la sorella che aveva sempre mostrato, era orgogliosa di lei e allo stesso tempo aveva sempre quel suo modo di fare minaccioso verso chiunque provasse a ferirla. Gothel dal canto suo si sentiva sempre più distante da quella che un tempo era stata la sua unica e più cara amica, non le andava di raccontarle quello che aveva fatto durante le sue giornate -in parte perché sapeva che Bella non approvava, in parte perché era diventata molto riservata. Un po’ questa situazione la spaventava, non riusciva a capacitarsi di quanto fosse cambiata nel giro di un anno, di quanto non solo non avesse più bisogno di sua sorella ma quasi non sopportasse più la sua presenza. Non sopportava il fatto che la trattasse ancora come una ragazzina problematica da difendere da tutto e da tutti, non sopportava come facesse finta di non notare i difetti nei suoi amici, incolpando sempre Gothel se qualcosa andava storto, e più di tutto non sopportava il fatto che non fossero cresciute insieme. Erano sempre state diverse, con l’unica differenza che adesso Gothel non aveva più bisogno di un posto sicuro in cui rifugiarsi, qualcuno dietro cui nascondersi. Giorno per giorno diventava sempre di più sé stessa, una persona che a quanto pare ad Annabella -e alla sua famiglia- non andava bene.
Per il momento quelli erano tutti sentimenti che stava cercando di reprimere dentro di sé, ancora non aveva la forza di opporsi alla sua famiglia, di dire qualcosa che avrebbe potuto turbarli o farli arrabbiare. E quindi dormiva ancora insieme ad Annabella, la quale aprì gli occhi e le sorrise. << Buon compleanno, sorellina. >>
Quello era il giorno del loro sedicesimo compleanno. Da tradizione Annabella aveva insistito affinché lo festeggiassero insieme come avevano sempre fatto da quando si erano trasferite a Camelot tre anni prima: andare alla solita locanda con le solite persone per mangiare la solita torta insipida. Gothel non aveva invitato la sua nuova cerchia, sia perché non le interessava poi più di tanto festeggiare il proprio compleanno, sia perché sapeva che se lo avesse fatto ci sarebbero state diverse tensioni e voleva evitare.
Mentre scendevano le scale per dirigersi in cucina, Annabella sembrava molto emozionata: << Ho già pensato a come ci vestiremo e acconceremo, Camille è stata così gentile da offrirsi di cucirmi un pezzo del corpetto. Oggi pomeriggio ti farò vedere, sono certa che lo adorerai. >>
Gothel le fece un sorriso forzato, e stava per rispondere quando notò che seduto al tavolo di cucina stava Roger, incappucciato che teneva lo sguardo basso. Suo padre, il quale stava pulendo i piatti, non appena le vide andò incontro a Gothel, sussurrando: << Finalmente sei sveglia, il tuo amichetto non ha aperto bocca da quando è arrivato. >>
Gothel non rispose, si limitò a storcere il labbro di lato, guardando il ragazzino con le spalle ricurve. Da quando lo aveva conosciuto, quasi un anno prima ormai, era leggermente cambiato: aveva le spalle più larghe e piazzate, gli zigomi erano più accentuati, le braccia invece erano sempre magrissime e bianco latte. Aveva da poco compiuto quattordici anni, e nonostante il suo corpo stesse iniziando ad entrare nella pubertà aveva ancora il viso tenero e spaventato di un ragazzino. Lui, a differenza di Gothel, non era affatto cambiato.
Prese dal tavolo due tozzi di pane e gliene lanciò uno contro. << Dai, andiamo a mangiare fuori che è una bella giornata. >>
In verità era una pessima giornata, l’autunno era appena iniziato e la pioggia e il freddo la facevano da padroni, ma i due avevano bisogno di parlare indisturbati. Salirono sul tetto della sua casa, negli ultimi tempi lo avevano fatto spesso, quando Roger andava a trovarla.
Una volta seduti Gothel addentò un morso al tozzo di pane. << Adesso te lo puoi togliere il cappuccio. >>
E Roger lo fece. Come ci si sarebbe potuto aspettare, aveva il volto coperto di lividi, il labbro gonfio e viola, e sulla fronte aveva un taglio da cui usciva ancora sangue fresco.
<< Lo ha fatto di nuovo, vero? >> esordì lei infuriata. << Tuo padre ti ha picchiato un’altra volta! >>
Il ragazzo non rispose, si limitò a stringersi nelle spalle e guardare nel vuoto. Suo padre era un uomo violento e alcolizzato, capitava ormai troppo spesso che bevesse e alzasse le mani contro la moglie. Roger, stando a quello che diceva lui, interveniva sempre per difendere la madre, ma come risultato purtroppo otteneva solo schiaffi e pedate anche per sé stesso. Tutte le volte che capitava, successivamente si dirigeva verso casa di Gothel, per farsi consolare da lei, la quale aveva dei modi molto bruschi e sgarbati, più che consolarlo lo sgridava per non essersi ribellato a dovere. Eppure lui persisteva nel rivolgersi a lei per supporto, per un motivo alla ragazza oscuro. Gothel aveva mantenuto il segreto, non ne aveva parlato nemmeno con Talitha, per rispetto del suo povero amico. Malgrado ciò non riusciva a non infuriarsi quando lo vedeva conciato a quella maniera. << Io sono stufa marcia di vederti sempre ridotto così >> disse lei, con un tono di voce fermo e quasi scocciato. << Non vuoi essere aiutato, non vuoi ribellarti. Cosa ti costa alzare di più la voce? >>
<< Non tutti sono come te, Gothel. >> Fu la semplice risposta del ragazzino, pronunciata quasi sottovoce. La verità era che la ragazza non riusciva ad assistere a quelle scene perché Roger le ricordava troppo la sua io del passato. Anche lei non molto tempo prima aveva subìto tutto quello che la vita le aveva lanciato contro, aveva sopportato tutte le violenze e tutti gli abusi. Trovare la forza per reagire non era stato facile, ma una volta che l'aveva raccolta non era più riuscita a fermarsi. Adesso era come un fiume in piena, pronta a scoppiare al primo problema le si presentasse davanti. Sebbene ancora non avesse il coraggio di imporsi con la sua famiglia, nessuno si era più permesso di metterle i piedi in testa, perché lei non solo non lo aveva più permesso, ma aveva sempre messo le mani avanti, mostrandosi più dura di quello che in realtà si sentisse. la migliore difesa è l'attacco le aveva detto un giorno Talitha, e Gothel non si sarebbe mai più potuta dimenticare quella frase. << Almeno lascia che ti aiuti. >> Appunto perché si rivedeva in Roger, trovava snervante il fatto che non avesse la forza per ribellarsi come aveva fatto lei. E, non essendo brava con le persone, non riusciva nemmeno a trovare il modo più corretto per stimolarlo.
<< È un qualcosa che devo gestire per conto mio. Piuttosto, in città si sta già spargendo la voce di quello che è successo ieri sera. >>
Gothel non poté fare a meno di sorridere alla notizia. Se all'inizio era rimasta restia e non aveva approvato quello che facevano Talitha, Carson e gli altri amici che si era fatta nel corso dell'ultimo anno, adesso faceva parte anche lei di quella banda. Non avevano un nome, Talitha sosteneva che darsi un nome avrebbe significato darsi importanza, e darsi importanza avrebbe significato che non sarebbero rimasti nell'anonimato tanto a lungo. Con il tempo la ragazza aveva capito lo scopo di quella banda: era formata interamente da ragazzini che si sentivano ai margini della società, che sostenevano di aver ricevuto diverse ingiustizie nel corso della vita. E quindi avevano creato una giustizia tutta loro, quando notavano un torto non rivendicato intervenivano, poco importava di chi o di cosa si trattasse, lo erano sempre lì. La sera prima, per esempio, avevano pestato in piazza un mercante, il quale in realtà non era altro che un usuraio che approfittava dei prestiti che faceva alle persone in stato di difficoltà per chiedere degli interessi troppo alti, intrappolando queste povere persone in una spirale di prestiti sempre più sconvenienti.
Il pomeriggio, prima che tutto fosse organizzato e messo in atto, Gothel aveva visto negli occhi di Talitha come delle stelle luminose. << Sono veramente fiera di quello che stiamo facendo >> Le aveva detto presa dall'entusiasmo. << Di bande di teppisti ne è pieno il mondo, ma noi siamo diversi. Diamo voce a chi non si sente ascoltato. Forse i nostri metodi non sono proprio convenzionali, ma il fine giustifica il mezzo, ne sono convinta. >> Gothel le aveva sorriso in risposta. Non l’aveva compresa appieno all'inizio, aveva pensato che Talitha fosse una delle tante ragazze prepotenti, invece era tutto l'opposto. Aveva una natura fondamentalmente buona. E forse è per questo che un giorno le cose si sarebbero inclinate.
 
Anche quell’anno Annabella aveva insistito affinché sua sorella si vestisse elegantemente per partecipare alla propria festa di compleanno. E, anche quell’anno, Gothel si stava sentendo come una vera e propria scema. Gli amici di Annabella continuavano ad ignorarla, o a rivolgerle dei finti sorrisi di circostanza, e quel vestito la faceva sentire a disagio, dandole ancora più problemi a socializzare.
<< A breve arriverà la nostra torta preferita >> le riferì allegramente Bella, poi si guardò intorno, aggrottando la fronte. << Per caso hai visto Garrett? Ovviamente mi aveva detto che sarebbe venuto stasera. >>
La ragazza dovette impegnarsi proprio per non dar a vedere tutto il fastidio che provava per quell’individuo, non lo aveva mai sopportato, e da quando si era ufficialmente fidanzato con sua sorella, Gothel aveva iniziato a tenerlo costantemente sott’occhio. Annabella l’aveva un po’ delusa, sotto quel punto di vista, l’aveva sempre creduta troppo intelligente e sveglia per finire con una persona del genere. Si meritava molto di meglio, Gothel non poteva fare altro che sperare che un giorno sua sorella ci arrivasse. A onor del vero, con lei Garrett si era sempre comportato da vero principe azzurro, quasi fin troppo, e Gothel aveva sempre storto la bocca di fronte a tutte le carinerie che faceva a sua sorella.
Si limitò a scuotere la testa. << No, non l’ho visto. Avrà avuto un contrattempo. >>
<< Beh, sicuro non lo aspetterò per mangiare la nostra torta preferita. >> E detto questo Annabella sparì fra la folla.
Con la coda dell’occhio Gothel notò Carson in piedi dietro il bancone, intendo a servire boccali di birra e a ridere sotto i baffi di lei. Strinse forte i pugni: era come se in quell’anno non fosse cambiato niente, lei si sentiva molto più sicura di sé, non aveva più bisogno dei suoi genitori per uscire ed andare in qualsiasi posto, aveva trovato degli amici tutti suoi e aveva imparato a rispondere a tono a determinate categorie di persone. Eppure si trovava ancora una volta lì, trattata come lo zimbello di turno. Alcune persone, come Carson e Garrett, continuavano a fare gli sbruffoni con lei, a trattarla come uno zerbino da calpestare. Voleva liberarsi da questo enorme peso sullo stomaco, affrontarli a testa alta, ma ancora non ci riusciva.
Ad interrompere questo suo flusso di pensieri fu Annabella, che comparve con una torta gigante fra le mani. Quella torta la mangiavano tutti gli anni per il loro compleanno, perché sua sorella sosteneva fosse la loro preferita. In realtà era la sua preferita, Gothel la detestava, ma aveva sempre taciuto per non farla rimanere male. Oltre alla torta Bella teneva stretta fra le dita un cero da accendere, e posato il dolce sul tavolo lo passò alla gemella affinché lo accendesse con i propri poteri. E Gothel lo fece più che volentieri, con un sorriso smagliante accettò la candela fra le sue mani, con il palmo destro la strinse, mentre le dita della mano sinistra volteggiavano delicatamente in aria, un movimento sinuoso che diede vita ad una piccola fiammella. In quell’anno aveva imparato a gestire e controllare i propri poteri, non era stato facile all’inizio e si era dovuta impegnare parecchio affinché non fossero troppo fiacchi o troppo potenti. Non si sentiva ancora completamente padrona della propria magia, c’erano ancora così tante cose che avrebbe dovuto imparare a gestire. Annabella era l’unica a cui raccontava e mostrava periodicamente i suoi progressi. I suoi genitori, sebbene si fossero dimostrati comprensivi e contenti all’inizio, con il tempo avevano iniziato a sospettare che forse stesse esagerando. Gothel aveva discusso più e più volte con loro, provando a spiegargli che non c’era nulla di sbagliato nella sua magia, che non l’avrebbe mai utilizzata contro qualcuno o per fare del male, che voleva semplicemente comprendersi meglio. Ma tutte le volte le sembrava di parlare con un muro, non sembravano capire il suo punto di vista. Non si schieravano apertamente contro il praticare la magia, ma la demoralizzavano talmente tanto che forse era perfino peggio. Così aveva semplicemente imparato a tenergli nascosto tutto quello che imparava. Annabella era completamente diversa, ascoltava con curiosità e amore quello che la sorella le raccontava, e a sua volta lo andava a riferire con orgoglio a tutti quelli che conosceva, ad ogni occasione voleva che Gothel mostrasse di cosa era capace.
Ai suoi amici non era mai importato più di tanto, infatti nessuno si era scandalizzato poi più di tanto quando aveva visto accendere la candela.
Nel mentre Gothel posava il cero sul tavolo, la porta della locanda si spalancò, e la luce soffusa della lampada mise leggermente in risalto la figura di Garrett. Era completamente sudato e con il fiatone, come se avesse corso fino a là, aveva lo sguardo corrucciato e i denti che digrignavano, il petto gli si alzava e abbassava con violenza. Aveva gli occhi iniettati di sangue, i quali si posarono subito su Gothel. Lei, assolutamente confusa, lo vide camminare nella sua direzione, con un dito puntato contro e minacce di morte.
<< Brutta strega maligna, io ti ammazzo! >>
Per fortuna due suoi amici gli misero le mani sul petto, fermandolo prima che potesse farle del male. Garrett si dimenava, intimando i suoi amici di lasciarlo stare. Non ne voleva sapere di placare la rabbia.
Annabella, con le braccia aperte lungo i fianchi e l’espressione allibita, si avvicinò al gruppetto, guardando prima il proprio fidanzato e poi sua sorella. << Gothel, ma che gli hai fatto? >>
<< Assolutamente niente! >>Gothel era veramente confusa, non capiva cosa potesse aver mai fatto a Garrett per farlo arrabbiare così tanto, specialmente ultimamente. Proprio perché sapeva di non andarle troppo a genio, e che il sentimento fosse reciproco, aveva cercato di mantenere le distanze.
<< Lasciatemi stare! Io devo ammazzare quel mostro! >> urlò Garrett, e a quelle parole la schiena e tutto il corpo di Gothel si irrigidirono, quasi impallidì. Non veniva chiamata così da più di tre anni ormai, da quando gli abitanti del villaggio in cui abitavano prima di trasferirsi a Camelot, una volta scoperti i poteri magici di Gothel, aveva iniziato a chiamarla con quel termine, offendendola e minacciandola di morte, proprio come stava facendo in quel momento Garrett.
Anche Annabella aveva notato quale parola aveva utilizzato il suo fidanzato, ed era intervenuta. << Non chiamarla così! >>
Ma ormai era troppo tardi. L’aria nel locale si era fatta strana, come se si fosse venuta a creare un’energia troppo forte per essere contenuta in quella stanza. Quell’energia era Gothel. I bicchieri e le posate che si trovavano sui vari tavoli iniziarono a tintinnare, le tegole di legno lungo tutto il pavimento tremavano al punto che spostavano la polvere sopra.
<< Gothel, smettila! >> le urlò sua sorella, ma Gothel nemmeno la sentiva.
Le persone nel locale, che prima avevano guardato con disinteresse la scena, adesso stavano cominciando a preoccuparsi di quello che stava succedendo. Garrett non la smetteva di sbraitarle contro e offenderla, senza ancora spiegare il motivo di tanto accanimento. Urlava che Gothel gli aveva rovinato la vita, che per colpa sua non avrebbe più potuto vivere un giorno in pace, cosa avesse fatto rimaneva ancora un mistero tuttavia.
In quella locanda erano presenti due fuochi, uno era Gothel che, pur rimanendo immobile e con lo sguardo fisso sull’altro, creava un’atmosfera di terrore intorno a sé, e dall’altra parte c’era Garrett, il quale continuava leggermente ad avanzare verso di lei, e se solo i suoi amici non lo avessero tenuto a freno le si sarebbe scagliato contro. A fianco di Gothel si mise pure Carson, e la ragazza apprezzò molto quel suo gesto: benché non avessero un rapporto troppo intimo, l’avrebbe difesa in caso di pericolo.
Annabella continuava ad urlare ad entrambi di calmarsi e provare ad avere un dialogo finché, stanca di sgolarsi, non prese Gothel per un braccio e la trascinò fuori dalla locanda.
 
Gothel camminava a passo così spedito che sua sorella quasi doveva correre per starle dietro, nel mentre le urlava di fermarsi. << Come hai potuto fargli una cosa del genere? >> le chiedeva, con fare quasi disperato. Fra una minaccia e l’altra Garrett era riuscito finalmente a spiegare il motivo di tanto accanimento: stando a quanto diceva lui il mercante che la sera prima avevano pestato in piazza altri non era che suo zio, il quale ora, a causa della brutta reputazione che si era creato, temeva non sarebbe mai più riuscito a stringere affari con nessuno.
Gothel si fermò di scattò e si voltò, giusto in tempo per vedere Annabella fermarsi a sua volta e quasi andarle a sbattere contro. << Per tua informazione, non sapevo che quello fosse suo zio >> sibilò lei tra i denti. Non che comunque, se lo avesse saputo avrebbe cambiato le cose. Anzi, forse gli avrebbe pure tirato qualche calcio in più.
<< Garrett dice che vuoi semplicemente farlo star male perché non ti sta troppo simpatico. >>
<< E tu gli credi?! >> Di tutta quella faccenda, quello che le faceva più male era sapere che sua sorella non era dalla sua parte, che sarebbe stata disposta a prendere le parti di chiunque pur di cercare di comprendere il suo punto di vista. << Non ti riconosco nemmeno più. >>
<< Sono io che non riconosco più te! >> Fu la risposta isterica di Annabella, con i riccioli spiaccicati sulla fronte sudata e gli occhi spiritati. << Gothel, ma cosa sei diventata nell’ultimo anno? Ogni giorno ti guardo e vedo una persona diversa. >>
La ragazza rimase un attimo spiazzata. Rispose con un sospiro, talmente leggero che, se qualcuno non avesse prestato attenzione non lo avrebbe sentito. << Me stessa. Sono semplicemente diventata me stessa. >> Pausa. << Non sono un mostro >> si sentì in dovere di aggiungere.
<< Ma certo che non lo sei. >> Sua sorella cambiò completamente espressione, che diventò quasi dispiaciuta, affranta. Le si avvicinò e fece per prenderle la mano, gesto che Gothel non approvò affatto, e si scansò. L’altra fece finta di non badarci. << Solo che, ti sembra normale fare quello che fai tu? E non parlo solo dello zio di Garrett, questa è solo la ciliegina sulla torta… non mi piacciono i tuoi amici, credo che tu l’abbia capito. >>
<> Gothel ripensò a tutte le sere che, per farla contenta, era uscita insieme a quella manica di snob insolenti che non l’avevano mai accettata né accolta. Lei dal canto suo non l’aveva mai forzata a fare incontri che non voleva fare, l’aveva sempre lasciata libera di scegliere. A differenza di Annabella, non le aveva mai fatto alcun tipo di pressione. << Detesto ogni singola persona che frequenti, detesto quella sudicia locanda in cui mi costringi ad andare e più di ogni cosa detesto quella disgustosa torta di compleanno che ti ostini a farmi mangiare ogni anno. >>
Di tutto quello che le aveva detto, Annabella sembrò colpita più di tutto dalla storia della torta. << Credevo ti piacesse. >>
<< No, mi fa schifo. >>
Calò per un po’ il silenzio tra le due. Una aveva ancora il fiato affannato, e cercava di placare la rabbia, l’altra aveva lo sguardo basso e apprensivo.
<< Dai, ne riparliamo domani con più calma. Adesso andiamo a casa >> disse Annabella.
<< No. >>
<< No? >>
Gothel si tolse tutti i capelli dal viso, e guardò sua sorella a mento alto. << Esatto, ho detto di no. Non ho intenzione di tornare a casa questa sera. Me ne vado dall’unica persona in grado di capirmi a questo mondo. >> E, senza nemmeno aspettare la risposta dell’altra, si girò e se ne andò.
Nel camminare si tolse le scomode scarpe eleganti che Bella le aveva fatto indossare, e le buttò nel cespuglio più vicino.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

 
 
Probabilmente per la prima volta in vita sua, Gothel si risvegliò senza avere Annabella di fianco a sé. Nello aprire gli occhi provò una stranissima sensazione, una sorta di disorientamento. Era assolutamente lucida, eppure guardava verso il soffitto e il cornicione sulla finestra alta con fare confuso. Era la prima volta che dormiva fuori casa, durante il corso dell’ultimo anno, anche quando aveva fatto molto tardi la sera, era sempre tornata a dormire nel suo letto, accanto a sua sorella. Adesso invece si trovava su un materasso fine e scomodo, talmente basso e sottile che poteva sentire le natiche toccare il pavimento. Sotto il materasso non c’erano le classiche assi di un letto.
Voltò leggermente lo sguardo e vide, poco più in alto di lei, un vero letto senza nessuno dentro, e le coperte non sistemate. Dopo l’iniziale disorientamento, Gothel ricordò tutto quello che era successo la sera prima: il litigio con Annabella, la festa di compleanno, la torta… e anche il fatto che si era diretta da Talitha per passare la notte da lei. La ragazza non aveva fatto tante storie al riguardo, né le aveva chiesto cosa fosse successo. Non aveva nemmeno provato a consolarla, si era semplicemente limitata a stendere un materasso sul pavimento, e darle una coperta calda così che non sentisse freddo durante la notte.
Gothel, dopo un anno che la conosceva, ancora non era riuscita ad inquadrarla per bene. Insomma, non si poteva certo dire che non fossero in ottimi rapporti, eppure Talitha si dimostrava ancora molto fredda e distante, non aveva mai delle parole o dei gesti carini per gli altri. Non faceva amicizia facilmente, e anche quando lo faceva non si apriva mai veramente -per esempio, erano sole in casa, Gothel non aveva visto nessuna figura genitoriale o fraterna, Talitha ce l’aveva un padre e una madre? Se sì, cosa facevano nella loro vita? Alla piccola strega questo suo atteggiamento non dava fastidio, era semplicemente il suo modo di essere, e l’accettava così com’era. Avrebbe sicuramente voluto al suo fianco un’amica un po’ più entusiasta della vita e di lei, come lo era Annabella, ma sapeva di non poter avere tutto dalla vita.
Si alzò a fatica, con la schiena dolorante e i piedi quasi paralizzati dal freddo. Talitha stava in aperta campagna, ancora più lontana dal centro di Camelot di quanto non fosse la casa di Gothel. Si alzò in piedi e si ravviò leggermente i capelli. Aveva ancora addosso i vestiti della sera prima, un vestito elegante che le stringeva sui fianchi, che sua sorella le aveva fatto indossare perché credeva che sarebbe sembrata fantastica. Si sentiva tutto meno che attraente, in quel momento.
In cucina trovò Talitha a sedere su uno sgabello, con le ginocchia rannicchiate vicino al petto, una tazza in mano che guardava fuori dalla finestra. Non voltò nemmeno lo sguardo per salutarla, rimase immobile a guardare la natura fuori da casa propria. Gothel, in punta di piedi perché non voleva disturbarla, si avvicinò leggermente al tavolo e prese un tocco di pane per farci colazione.
Talitha, sempre con lo sguardo perso nel vuoto, sospirò: << Dicono che una volta che compi sedici anni acquisti un senso di libertà tutto nuovo. Chissà se è davvero così. >>
Gothel rimase per qualche secondo a riflettere sulle parole dell’altra. << Aspetta, tu non hai ancora compiuto sedici anni? >> Piccola pausa. << Lo sapevo di essere più grande di te. >>
In tutta risposta Talitha sorrise, forse il primo sorriso genuino che non sembrasse un ghigno da quando si conoscevano. Posò la tazza sul tavolo, e successivamente le gambe a terra. Si alzò e andò a buttare altra legna nel camino per ravvivare il fuoco. Quando si voltò il suo volto era più serio, come se le fosse venuto in mente un episodio spiacevole in mente. Per un momento Gothel pensò che volesse parlarle della sera prima, chiederle com’erano andate le cose per filo e per segno con sua sorella. Ma Talitha non sembrava il tipo di persona che si interessa a drammi di questo genere, li considerava come minori e a volte addirittura inutili.
No, in quel momento voleva parlare di Gothel, e del suo modo di comportarsi ogni volta che andavano “in missione”. La Strega non poté fare a meno di sgranare gli occhi, di fronte all’accusa che le era appena stata posta, perché riteneva di essersi sempre comportata in modo corretto.
Talitha, con tono calmo e, stranamente, non accusatorio, provò a spiegarsi: << E’ una cosa che inizialmente mi era stata riferita, ma con cui mi sono ritrovata ad essere d’accordo. Sei molto… come dire? Aggressiva, lo sai questo vero? >>
Gothel la guardò confusa, no che non lo sapeva. Aggrottò la fronte, e tutta quella situazione le sembrò quasi surreale. Non poteva criticarla veramente su quel punto, non lei che a malapena trovava la forza di aprire bocca e parlare per esprimere la propria opinione. Talitha l’aveva spesso ripresa, durante il corso di quell’anno, dicendole che era troppo remissiva e quindi era per questo che le persone si approfittavano di lei, che quando parlava lo faceva con un filo di voce e nessuno la capiva. Tutti punti su cui Gothel aveva concordato, e aveva cercato di cambiare. E comunque quello che era diventata sembrava non andare bene.
Talitha, che non voleva ferire i sentimenti della sua amica, provò a spiegarsi meglio. << Sono sicura che tu non lo faccia con cattiveria, probabilmente non te ne rendi nemmeno conto, ma quando… ti esprimi, diciamo, quando manifesti i tuoi poteri lo fai con decisamente troppa potenza. Sei troppo esagerata >>
<< Troppo esagerata? >>
<< Sì… >> La ragazza si stava tormentando le dita delle mani, in cerca delle parole giuste da usare. Non la guardava nemmeno negli occhi, alzava lo sguardo verso il soffitto, oppure lo voltava di lato. << Noi siamo solo dei teppistelli, niente di più, non so se mi spiego. >>
<< No, non ti spieghi. >>
<< Nel senso che sì, ci divertiamo a spaventare determinate persone, farle prendere paura o cose del genere. In questo modo ci sembra di riportare un senso di giustizia a questo mondo. Solo che tu… >>
Quando non sentì terminare la frase, Gothel iniziò a spazientirsi. << Solo che io cosa? >>
<< Ecco, Gothel, tu la prendi decisamente più sul personale, ti accanisci veramente tanto contro le persone che ti ritrovi davanti. Porti tutto ad un livello troppo più grave. >>
La piccola strega rimase senza parole, non replicò oltre. Non sapeva nemmeno quali emozioni stava provando dentro di sé, un misto tra delusione e rabbia. Talitha, così come i suoi amici, avevano passato un intero anno a dirle di uscire dal guscio, di farsi valere e far sentire la propria voce. Talitha stessa aveva insistito affinché Gothel riuscisse ad utilizzare correttamente i propri poteri, eppure adesso che era quasi completamente padrona delle sue abilità veniva fuori che era troppo potente? Non capiva, l’avevano spronata a esprimersi al massimo delle sue capacità, solo per dirle successivamente che queste sue capacità erano troppo pericolose.
<< Stiamo un po’ tutti rivalutando quello che stiamo facendo, sai? >> continuò Talitha. << Quando io e Carson avevamo deciso di formare questa banda, questo assurdo gruppo, eravamo poco più che dei ragazzini arrabbiati con il mondo. Credevamo che così saremmo riusciti a portare giustizia in questo mondo. Solo adesso mi rendo conto di quanto sciocco tutto questo sia. >>
Gothel, ancora incapace di aprire bocca, non riuscì comunque a non dimostrare quanto sbigottita fosse da quella affermazione. Non poteva essere vero, quelle erano state decisamente le ventiquattro ore più brutte della sua vita. Talitha non poteva assolutamente sciogliere quel gruppo, era l’unica cosa al mondo a dare gioia e senso di vitalità a Gothel. Quelle persone la facevano sentire come se appartenesse a qualcosa, come se avesse uno scopo nella vita, invece di semplicemente esistere e occupare spazio. I suoi poteri avevano un senso, un significato, in questo modo le sembrava di utilizzarli per un fine ben preciso, per fare del bene -per quanto “bene” fosse una visione puramente soggettiva della questione.
<< Gothel, non voglio che questa suoni come una minaccia, però i tuoi modi rendono tutto questo >> e agitò le braccia in aria per definire “questo” << più complicato, più serio. Più le persone si fanno male e più le autorità si metteranno a cercarci, a farci del male in caso ci beccassero. E nessuno ha più voglia di partecipare a tutto ciò, il gioco non ne vale decisamente la candela. >>
Se non avessero più avuto un obiettivo comune, un qualcosa che li accumunava tutti, Gothel era certa che si sarebbero sciolti, che nel giro di qualche mese non si sarebbero più frequentati. Non era una sciocca, per quanto non volesse ammetterlo, dentro di sé sapeva che quell’aggregato di persone funzionava unicamente perché avevano un qualcosa che li legava. Senza lei sapeva che li avrebbe persi ad uno ad uno, anche Talitha. Si sarebbe nuovamente ritrovata sola con la sua famiglia che la capiva sempre meno, con gli amici di sua sorella che detestava.
Tenne la testa bassa. << Se in futuro dovessi fare la brava, se dovessi imparare a controllarmi, credi che potrebbe essere la soluzione? >>
Il volto di Talitha si illuminò di gioia. << Direi che questo può essere un inizio. >>
In quel momento Gothel accettò più che volentieri quel compromesso. Non era pronta a perdere quella parte della sua vita, non era disposta a lasciarli tutti andare per le loro strade, strade che non avrebbero incluso anche la sua presenza. Credeva che limitarsi per accontentare gli altri non sarebbe stato poi così male. Certo, in passato aveva compreso che non ne valeva la pena, che non doveva mettersi dei limiti per accondiscendere ai desideri di tutti meno che dei suoi. Ma loro erano diversi, erano i suoi amici, e Gothel credeva che le loro fossero delle richieste innocenti, che non ci fosse niente di male. In una società civile non si può fare sempre cosa ci pare, bisogna anche venire incontro ai bisogni degli altri.
Perciò, per il momento, Gothel accettò di buon grado il compromesso.
 
Quella sera tornò a casa, per ritrovare quasi sulla porta di casa i suoi genitori e sua sorella che la stavano aspettando. Annabella appena la vide le buttò le braccia al collo, le chiese infinitamente scusa per come si era comportata. Le disse che non pensava seriamente tutte le cose che aveva detto, che era stata unicamente colpa della rabbia e dell’impeto del momento. Gothel, mentre veniva stretta tra le braccia della sorella, non ricambiò molto l’abbraccio, si limitò ad appoggiare lievemente le dita sui fianchi di Annabella, guardando un po’ a disagio i suoi genitori che stavano assistendo alla scena. Lì osservò, e le sembrarono dei completi estranei, perfino i lineamenti del loro viso era come se non avessero niente a che fare con i suoi.
Subito dopo essersi staccata, Annabella la rimproverò per essere sparita senza dire dove stava andando, senza dare notizie di sé per un’intera giornata. Le riferì che tutti loro si erano spaventati, e preoccupati per lei. Gothel non rispose, a nessuna delle critiche, ascoltò in silenzio e poi salì in camera. Avrebbe potuto difendersi e dire che in realtà aveva avvisato Annabella di dove era diretta, ma si era fermata, perché sapeva che non aveva senso: nessuno sembrava capirla, parlava ma nessuno ascoltava veramente cos’aveva da dire.
Quella notte, per la prima volta in vita loro, Annabella e Gothel dormirono in due letti separati.
 
I mesi passarono in maniera piuttosto monotona, niente di speciale accadde nella vita della strega, se non le solite uscite con amici. Il rapporto con Annabella diventava sempre più freddo, e le due avevano addirittura quasi smesso di parlarsi, da quando Garrett era diventato un ospite abitudinario della loro famiglia. I suoi genitori stravedevano per lui, lo definivano “un ragazzo per bene di buona famiglia e educato”. Gothel non poteva fare a meno di alzare gli occhi al cielo ogni volta che veniva descritto con quegli aggettivi, e si sentiva particolarmente ferita da sua madre, la quale le aveva sempre riservato delle attenzioni speciali. In passato le aveva odiate, perché la facevano sentire come la pecorella nera, una persona problematica a cui dover star dietro. Ma non apprezzava nemmeno venir ignorata completamente. O meglio, a volte le faceva piacere, perché se essere presa in considerazione voleva dire sentirsi ripetere continuamente cosa non andava bene in lei, e in cosa invece Garrett eccelleva così tanto, allora preferiva essere lasciata in pace. Era difficile per lei spiegare -a se stessa in primis- cosa provasse, era come se volesse tornare a un qualcosa che non c’era mai stato, un’armonia familiare che avevano perso ormai troppi anni prima, e che non sarebbe più stata ritrovata.
Non parlarono mai più di quell’evento fatidico, tra Gothel e Garrett sembrava esserci questo accordo non verbale secondo cui non si sarebbero scambiati alcuna parola né sguardo, e alla ragazza andava più che bene così. Pur non volendo ammetterlo, con Annabella si comportava benissimo come aveva sempre fatto, non c’era stata una volta in cui era stato sgarbato con lei, o che semplicemente non l’avesse portata su un vassoio d’argento. Anche con i suoi genitori sembrava andare più che d’accordo: quasi tutte le sere si recava da loro per cenare, e passavano ore infinite in cui raccontava aneddoti interessanti, battute divertenti e storie emozionanti. Gothel iniziò dunque a pensare che forse il problema in quel contesto era lei, dato che tutti andavano così tanto d’accordo.
Aumentarono quindi le uscite serali e notturne, ormai in quella casa lei era come una presenza fantasma, andava e veniva senza avvisare né dare troppo fastidio. Eppure anche quando stava con Talitha qualcosa non andava bene, non quadrava. All’inizio aveva percepito quel nuovo gruppo di amici come una ventata d’aria fresca, un luogo in cui poter per la prima volta essere se stessa, senza limitazioni di alcun tipo. E invece era venuto fuori che anche loro non la accettavano, che doveva controllarsi in loro presenza perché i suoi poteri erano troppo imprevedibili e li spaventavano. Questo faceva molto soffrire la povera Gothel: accettare i propri poteri non era stato affatto facile per lei, li aveva soppressi per molti anni e, adesso che era più brava nel manovrarli, doveva ancora una volta contenerli. Era diventata abbastanza padrona della sua magia, ormai, non era una grandissima esperta, ma sapeva quanto meno dosare la forza. Quindi, quando ne usava “troppa”, non era perché non era capace di usarne meno, ma perché voleva ottenere quell’effetto. Doversi limitare la struggeva e la intristiva, la magia per lei era il modo migliore per esprimersi, e non poter tirare fuori tutto quello che aveva dentro la faceva sentire come sull’orlo di un precipizio.
Iniziò un periodo molto strano per lei, iniziò quasi senza che se ne rendesse conto, e quando realizzò cosa stava facendo era ormai troppo tardi per tirarsene indietro, era diventato come una dipendenza. Una sera, non sapeva nemmeno lei bene perché, notò un tizio -molto probabilmente ubriaco- che stava barcollando verso casa propria. Quando fu in un vicolo buio Gothel lo pestò, gli fece proprio male, lo prese a pugni e a calci urlando. Non conosceva quell’uomo, non le aveva fatto niente di male e, almeno per quello che aveva potuto vedere, era innocuo, eppure fargli del male le procurò tanta di quella gioia che non riuscì più a staccarsene. Iniziò così a cercare persone con l’unico intento di farle del male fisico, pestarle per poi sparire e non rintracciarle mai più. Le vittime erano tutte soggetti randomici, la cosa non era mai premeditata, improvvisamente sentiva questo innato bisogno di sfogare tutte le sensazioni che provava. Non usava mai i propri poteri, visto che a quanto pare nessuno apprezzava il fatto che ne fosse dotata, e quindi si sfogava con la sola forza fisica.
Non ne parlò con nessuno, si vergognava di quello che faceva, sapeva che c’era qualcosa di sbagliato nel farlo, ma non riusciva a trattenersi. Si controllava su qualsiasi ambito della propria vita, tanto che su quello si lasciava completamente andare. Veniva proprio risucchiata da quel vortice.
 
Il suo diciassettesimo compleanno si potrebbe definire uno dei giorni più tristi della sua vita. Per la prima volta in vita sua non lo festeggiò con Annabella. Lei, a onor del vero, aveva insistito affinché lo festeggiassero insieme come ogni anno, come da tradizione, ma Gothel aveva rifiutato dicendo che aveva altri programmi quella sera. Le aveva detto che sarebbe uscita con Talitha e i suoi amici. Non aveva intenzione di passare un altro compleanno come quelli precedenti, dove sembrava fosse la festa solo di Annabella e non la sua. Odiava vestirsi con vestiti che a lei non piacevano, per andare in un posto che lei non sopportava, e fingere di interagire con persone che detestava. Non avrebbe mai più festeggiato un compleanno con sua sorella, aveva deciso.
Malgrado ciò, non lo festeggiò nemmeno con Talitha. Non aveva voglia di stare con loro, non aveva voglia di stare con nessuno. Sentiva un peso enorme nel petto, un senso di malinconia misto a tristezza. Se ne andò sulla riva di un lago, sotto il chiaro di luna, a guardare le leggere increspature dell’acqua e piangere.
C’era qualcosa di profondamente sbagliato nella sua esistenza, per quanto ci provasse non riusciva mai a raggiungere un po’di benessere interiore. Non riusciva a liberarsi di quel macigno che si portava sul petto da anni.
Pianse unicamente perché non c’era nessun altro intorno.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 5

 
 
Da più di un anno a quella parte, Gothel aveva visto sorgere il sole ad oriente innumerevoli notti. Anche quella mattina in cui, con i capelli scapigliati e le mani zuppe di sangue, si apprestava a fare ritorno a casa propria. Nel mentre camminava, affaticata un po’ dai chilometri trascorsi e un po’ da… l’attività che aveva fatto, si rese conto di quanto tutta quella situazione fosse fuori controllo. Era diventata dipendente dal dover fare del male fisico alle persone, e con il passare del tempo si era scoperta sempre più cattiva e crudele. Quando vedeva il sole sorgere, il cielo rischiararsi e la natura risvegliarsi, guardava dentro di sé e si rendeva conto di star sbagliando, di star facendo qualcosa di sbagliato e soprattutto che, se si riduceva a picchiare sconosciuti, voleva dire che non stava bene a livello psicologico. L’alba le donava sempre un po’ di lucidità, le rischiarava i pensieri. La luce del sole faceva luce anche nelle ombre della sua anima. Ogni mattina si riprometteva che avrebbe chiesto aiuto, che ne avrebbe parlato con qualcuno e che si sarebbe fatta aiutare. Ma poi il giorno trascorreva, e tutte le persone con cui aveva a che fare sembravano non capirla nemmeno quando provava a mostrarsi al meglio di sé, figurarsi parlare di un argomento tanto delicato.
Abbassò lo sguardo un attimo sulle sue scarpe vecchie, e logore da quanti chilometri camminava la notte. Quando alzò di nuovo gli occhi vide casa sua: era una piccola ma rustica casetta, con un portico ben curato e le finestre grandi con i vetri leggermente appannati. Era costruita in legno, di un legno molto buono e dal color ebano, lucidato e pulito. Quella casa era esattamente come la sua famiglia: ottima vista da fuori, un incubo se vissuta da dentro. Gothel vide sua madre che si affacciò alla finestra e la guardò, con il suo solito fare accigliato. I suoi genitori sapevano che lei la notte la passava sempre fuori, credendo tuttavia che fosse in compagnia di Talitha e gli altri, non da sola. Quel giorno la signora Gothel sembrava ancora più arrabbiata del solito, più adirata con sua figlia. La ragazza tuttavia non vi prestò molta attenzione ed entrò in casa, strofinandosi prima le mani sulle vesti nere per ripulirsi del sangue.
Seduto al tavolo della cucina trovò Roger, incappucciato e con la testa china sul tavolo. Suo padre guardò lei, poi guardò il ragazzino, e poi guardò di nuovo lei. Le visite di Roger nel corso di quell’anno si erano fatte sempre più frequenti, andava da lei ogni volta che suo padre picchiava lui o sua madre. Diceva che Gothel era l’unica amica che aveva, l’unica persona con cui sentiva di potersi confidare. E lei, nonostante apprezzasse questa sua fiducia nei suoi confronti, sapeva anche di non meritarsi tanta stima, e assolutamente non ricambiava tutto quell’affetto. Per carità, gli voleva bene, ma non era così dipendente da lui. In verità, in quell’ultimo periodo, era diventata insofferente nei confronti di tutto e tutti, in un grande senso di apatia misto a disprezzo da cui non riusciva a liberarsene.
Roger, che ormai aveva imparato la prassi, prese tue tozzi di pane nero -uno per lui e l’altro per Gothel- ed uscì dalla casa. Di solito si recavano insieme sul tetto, e là parlavano per ore, ore in cui Roger piangeva tra le braccia della ragazza. Gothel prese un terzo pezzo di pane, per poi seguire il ragazzo. In quel momento suo padre le afferrò il braccio, una presa forte e decisa. << Poi noi dobbiamo parlare >> disse a bassa voce, poiché Roger non era ancora abbastanza lontano da non poterlo sentire in caso avesse parlato ad un tono di voce più alto. La guardò fissa negli occhi, occhi pieni di rabbia, e la ragazza gli strattonò il braccio. Non gli rispose, ma gli fece un piccolo cenno della testa per dirgli che aveva capito.
Roger aveva da poco compiuto sedici anni. Ancora non era sviluppato, era bassino e magrolino, e il suo stare sempre con le spalle ricurve lo faceva sembrare ancora più minuto e indifeso. Gothel provava sincera pietà per lui, gli dispiaceva sapere che un ragazzo così di buon cuore dovesse soffrire così tanto nella vita. Non se lo meritava. Ma non se lo meritava nemmeno lei.
<< Un’altra notte difficile? >> gli chiese, porgendoli un po’ di crosta di pane.
Come suo solito, Roger si tolse il cappuccio. Ogni volta che si recava a casa sua lo faceva con il volto ben coperto, nascosto dagli occhi dei genitori di Gothel. E poi, quando loro due erano soli, si tirava giù le pesanti vesti e lasciava che l’altra guardasse tutto il male che il padre gli aveva fatto. Ogni volta che lo vedeva Gothel impallidiva. Quel giorno però la sua faccia non aveva nemmeno un graffio, sembrava che fisicamente stesse benissimo. Però i suoi occhi portavano tanta tristezza, tanto malessere.
<< Ieri… >> Provò a parlare, ma il fiato gli morì in gola e scoppiò a piangere. Spesso piangeva, eppure Gothel non lo aveva mai visto piangere così disperatamente come quella mattina.
E lei, che non era una persona di tatto o in grado di consolare decentemente qualcuno, non sapeva che dire. << Adesso però calmati, altrimenti non riesco a capire. >>
Roger a poco a poco si calmò, strusciandosi il manico della casacca sugli occhi. Addentò il pane e, nel mentre masticava, parlò. << Ieri sera è stata… una sera come tutte le altre. >> Lo disse con una triste consapevolezza, come se subire violenze dal padre fosse un’abitudine come un’altra. Deglutì a fatica, tanto che Gothel poté sentire il rumore del pane che gli raschiava la gola. Poi Roger distolse lo sguardo. << Solo che ieri sera papà aveva bevuto più del dovuto, e le cose sono degenerate. >> Chinò la testa, e i due piombarono nel silenzio.
<< Tu però vedo che stai bene. >> Gothel parlò prima di pensare e, dopo aver finito la frase, si portò una mano alla bocca spaventata. << Tua madre…? >>
<< E’ viva >> si affrettò a dire Roger, guardandola con sguardo consolatorio. << E’ viva. Ma non sta bene. Le sue condizioni ieri notte erano molto gravi, così gravi che l’ho dovuta portare dal primo dottore vicino. Proprio in casa del dottore, sai? Ha detto che rimarrà lì in convalescenza fino a che non si rimetterà in sesto. >>
Una leggera sensazione di sollievo pervase Gothel. Non sapeva che dire, principalmente perché si sentiva l’ultima persona che avrebbe potuto giudicare suo padre, dato che lei non era certo da meno. Ma adesso era giorno, e di giorno lei stava bene, sentiva di essere lucida e in controllo delle sue emozioni. Il problema era quando giungeva la sera, quando la luna cominciava ad affacciarsi in cielo e i pensieri a farsi sempre più nebulosi. La sera Gothel perdeva sempre il controllo di sé e, pur non essendo mai ubriaca o alterata, sentiva questa sofferenza ribollirle dentro, un malessere così acuto e invalidante che non se ne sarebbe andato a meno che non lo avesse passato a qualcun altro. Ogni volta che maltrattava qualcuno piangeva, per una serie di sensazioni mischiate tra di loro che nemmeno lei riusciva a spiegare, ma piangeva con la stessa intensità e disperazione con cui piangeva quella mattina Roger.
Ma, come già detto, in quel momento era mattina, e Gothel si sentiva perfettamente in controllo delle proprie emozioni. << Ma questa è una cosa buona, giusto? >>
Roger si strinse nelle spalle. << Come potrebbe essere una cosa buona? Adesso mamma starà lontana da mio padre per un po’, e avrà modo di guarire. Ma prima o poi si sarà messa in sesto, e tornerà di nuovo nella tana del lupo. >> La guardò, gli occhi che la supplicavano di risolvergli questo enorme problema. << E se la prossima volte che papà beve dovesse essere ancora peggio per mamma? E se un destino ancora più crudele dovesse capitare a me? >>
Gothel non sapeva che rispondere. In più occasioni gli aveva proposto di andare a vivere con lei e la sua famiglia, di spiegare la situazione ai suoi genitori i quali sicuramente lo avrebbero accolto e trattato come se fosse figlio loro -anche perché comunque, non avrebbe mai potuto essere peggio di Gothel. Eppure lui si era sempre rifiutato, dicendo che non avrebbe mai e poi mai potuto lasciare sua madre da sola in balia di quell’uomo tanto disumano. Sì, Gothel pensava spesso ai termini con cui Roger definiva suo padre: disumano, mostro, demonio, tutti termini che altre persone in passato avevano usato per descrivere lei. Gothel era semplicemente diventata ciò con cui tutti l’avevano sempre descritta.
Roger si decise ad aprire nuovamente bocca. << Sai, a volte mi piacerebbe che mio padre non ci fosse. È brutto sperare che muoia? >>
<< Ma no che non lo è! È una persona orribile. >>
<< Ma è pur sempre mio padre. >>
<< Il sangue non vuol dire nulla, Roger. Se una persona è marcia dentro lo è a prescindere. Forse desiderare che muoia non è il pensiero più buono che potresti avere, ma non è nemmeno da biasimare. >>
Un piccolo, minuscolo sorriso apparve sul volto del ragazzo. Voleva veramente bene a Gothel, un bene genuino e incondizionato. E fu il suo errore madornale, perché Gothel era una macchina di distruzione, capace di disintegrare ogni granello di bontà che qualcuno poteva provare per lei.
 
Roger se ne andò, silenzioso e incappucciato come era arrivato. Gothel lo osservò allontanarsi con la testa bassa e le spalle ricurve, fin quando la sua figura non divenne piccola e sfuocata. Storse un angolo della bocca, voleva seriamente fare qualcosa per lui, aiutarlo in qualche modo, ma sembrava che l’unica soluzione fosse troppo drastica perfino per lei.
Così rientrò in casa, quasi dimentica dell’occhiataccia e delle parole di suo padre poco prima, il quale non se ne era affatto scordato, e sembrava aver riunito tutta la famiglia al tavolino di casa. Erano presenti tutti, perfino Garrett. Annabella tuttavia gli fece un segno della testa, e lui si alzò per andarsene al piano di sopra. Gothel, per quanto apprezzasse quel gesto, sapeva che presto o tardi si sarebbero messi ad urlare, e quell’incapace avrebbe comunque assistito alla discussione.
Suo padre, l’unico che non si era ancora seduto, girava in modo nervoso intorno al tavolo.
<< Sinceramente >> disse Gothel, << di tutta la mia “adolescenza problematica”, questi giorni mi sono sembrati fin troppo normali per meritarmi una riunione familiare del genere. >>
Suo padre sbatté così forte le mani sul tavolo che la ragazza sobbalzò e quasi si spaventò. Inizialmente ebbe quasi timore del suo sguardo arrabbiato, ma poi lo ricambiò decisa. Era sempre stato una persona debole di carattere, incapace di difendere sua figlia di undici anni nel momento in cui ne aveva più bisogno. Di fronte ai bulli, e agli abitanti del villaggio che la maltrattavano non era riuscito a muovere un dito, e adesso, con lei, sua figlia, si comportava così. Forse, forse, se avesse dimostrato di possedere quella spina dorsale sette anni prima, adesso non si sarebbero trovati in quella situazione.
<< Quante altre volte ancora dovremo vedere quel ragazzino venire a casa nostra conciato a quella maniera? >>
Gothel non rispose, ma espresse chiaramente tutta la sua confusione. E lei cosa avrebbe dovuto saperne? Magari Roger avesse smesso di andarla a trovare per parlarle di suo padre.
Sua madre, forse provando a mitigare gli animi, intervenne: << Tuo padre pensa che forse dovresti smetterla di farlo cacciare nei guai. >>
<< Credete che sia colpa mia se Roger è ridotto così? Voi siete fuori. >>
<< Gothel! >> La riprese Annabella.
Tra tutti, lei era la persona che Gothel meno sopportava. Era facile stare sempre dalla parte di mamma e papà quando loro a loro volta stavano dalla tua. Annabella era sempre stata la preferita di suo padre, perché era avventurosa, intrepida, espansiva e spiritosa. E negli ultimi anni aveva ottenuto anche tutto l’amore della madre, la quale prima non voleva più bene a Gothel, semplicemente aveva avuto pietà di lei. Nonostante l’affetto iniziale per la figlia più emarginata, ora sembrava aver quasi paura di lei. In casa Gothel aveva completamente smesso di utilizzare i propri poteri magici perché lei si spaventava a priori, anche se l’incantesimo era estremamente semplice e innocuo.
<< Ma credi che non ce ne accorgiamo delle gore di sangue che hai sui vestiti? >> continuò suo padre, e Gothel subito mise una mano sul punto della veste in cui poco prima si era strusciata le mani.
<< Guardate che io non c’entro niente con quello che succede a Roger >> si sentì in dovere di precisare.
Sua madre scosse le spalle. << Ma anche fosse, tu non puoi sparire tutta la notte senza dirci dove vai, e tornare la mattina piena di graffi ed ematomi. Siamo semplicemente preoccupati per te. >>
<< Lasciatevelo dire: vi preoccupate nel modo sbagliato. >>
<< La Gothel che conoscevo non avrebbe mai scaricato la colpa sugli altri >> disse Annabella, guardandola con occhi languidi. << Si sarebbe presa tutta la responsabilità delle sue azioni. >>
<< La Gothel che conoscevi non è la vera Gothel. >> La guardava e, nonostante continuassero ad essere biologicamente gemelle, le sembrava che si assomigliassero meno che mai. Se prima erano state inseparabili, e due persone con una connessione mentale forte e genuina, ora erano completamente su due lunghezze d’onda differenti. Il loro rapporto era irrecuperabile, e a Gothel faceva troppo male il fatto che proprio lei, sua sorella, non capisse che in passato non è che si fosse presa la responsabilità delle proprie azioni, bensì si fosse fatta carico di tutte le colpe degli altri. Si era data la colpa per sbagli che non aveva commesso, per errori che avevano fatto gli altri nei suoi confronti, solo per non farli sentire a disagio o tristi.
<< Non è vero >> continuò imperterrita Annabella. << Io l’ho conosciuta la vera Gothel, ed è una persona meravigliosa. E farò di tutto perché tu ritorni sui tuoi passi, anche se questo vorrà dire che per un po’ di tempo mi odierai. >>
<< Annabella ha ragione >> convenne suo padre, e Gothel non poté fare a meno di roteare gli occhi al cielo. Figurati se la cocca di papà non ha ragione, pensò. L’uomo tuttavia fece finta di non notare quel gesto, e proseguì il discorso. << Siamo stati fin troppo accondiscendenti con te, ti abbiamo lasciata esprimerti come meglio credevi, frequentare le amicizie che volevi senza opporci più di tanto. Ma quando è troppo è troppo. >>
<< Tutto ciò è assurdo, vi comportate come se non vi foste mai opposti a niente di quello che ho fatto. Quando non avete fatto altro che dirmi che stavo sbagliando. >>
<< Scusa, Gothel, ma cosa avremmo mai dovuto dirti? Di continuare così come stai facendo? >> Sua madre la guardò scioccata, con un sopracciglio inarcato e la bocca spalancata.
Gothel sbuffò, e non rispose.
Suo padre si passò le mani sopra la fronte, la quale negli ultimi anni si era completamente riempita di rughe. Erano invecchiati moltissimo da quando si erano trasferiti, i suoi genitori. Forse era semplicemente dovuto all’avanzamento dell’età, o forse era colpa di tutto il costante stress a cui la loro figlia li sottoponeva.
<< Non credere che ci faccia piacere metterti in punizione. >>
Gothel non poté fare a meno di ridere. << In punizione? Non sono mica più una bambina, ho compiuto diciannove anni appena lo scorso mese. Ormai sono grande. >>
<< No, non lo sei. >> Il tono di suo padre era duro e deciso. << Hai dimostrato di essere una bambina immatura e irresponsabile. Non hai la testa sulle spalle e non ti rendi assolutamente conto di quello a cui portano le tue azioni. Perciò, fino a quando non avrai imparato la lezione, ti proibiamo di vederti con la tua amichetta. >>
<< No! >> urlò Gothel con tutto il fiato che aveva in gola, alzandosi e sbattendo le mani sul tavolo. Sua madre sussultò, e fece pure per abbracciarsi con le mani, forse per difendersi da sua figlia, che nemmeno fece caso alla sua reazione. << Non potete togliermi Talitha. >>
<< Da quando la conosci non sei più la stessa, ha una pessima influenza su di te. >>
<< Non è affatto vero. È forse la cosa migliore che mi sia mai capitata. >>
Annabella alzò gli occhi al cielo. << Papà lascia perdere, finché non si disintossica da questo rapporto morboso che si è venuto a creare non capirà mai il nostro punto di vista. >>
Suo padre, ovviamente, le diede ragione, annuendo la testa. << Infatti tu non la rivedrai più. >>
Gothel, che fino a quel momento si era controllata, abbassò le mani e stese le braccia lungo i fianchi. Non disse niente in un primo momento, ma nei suoi occhi si poteva leggere tutta la rabbia che aveva in corpo. I piatti sul tavolo cominciarono a tremolare, le stoviglie quasi saltellavano sulla tovaglia. Sua madre, che aveva visto quel tipo di sguardo in più di un’occasione, si alzò dalla sedia preoccupata, ed indietreggiò talmente tanto da sbattere la schiena contro il muro. Vedendola così in preda al terrore, la ragazza sorrise. Adesso loro avevano paura di lei, se prima avevano passato anni a provare pietà, impietosirsi per lei, adesso la temevano. Temevano una sua possibile reazione. E facevano bene. E Gothel, adesso che se ne era resa conto, ne avrebbe sicuramente approfittato. Non si sarebbe mai più fatta dire da qualcuno cosa avrebbe o non avrebbe dovuto fare. Non avrebbe più ascoltato i finti consigli moralisti degli altri, che in realtà non volevano fare altro che controllarla, farla sentire in colpa per quello che era così che, presa dalla vergogna, non avrebbe potuto essere un pericolo per nessuno.
<< Gothel smettila! >> Le urlò Annabella. << Accetta la punizione di mamma e papà. >>
<< Ho detto di no. >> E, nel pronunciare quelle parole, la sua rabbia divenne tale che le stoviglie volarono e si andarono a schiantare contro il muro.
Sua madre iniziò ad urlare come una pazza, piangendo e ficcandosi le mani nei capelli. Suo padre corse subito ad abbracciarla, un senso di protezione verso la figlia pericolosa. Annabella fu l’unica che non rimase più di tanto sconvolta, continuò a guardare la sorella negli occhi, senza mostrare il minimo timore.
Ma a Gothel non importava più niente. Per questo motivo, senza aggiungere altro, si voltò di spalle e se ne andò.
 
Quello che accadde dopo, nonostante fu molto veloce e quasi inaspettato, fu in realtà il risultato di un processo molto lungo e frastagliato, costituito da varie fasi e molti passaggi intermedi.
Gothel si diresse al solito luogo di ritrovo di tutti i suoi amici, dietro il mercato del pesce, dove ormai quattro anni prima vi si era recata per la prima volta, la prima volta che era uscita da sola di casa senza nessuno che l’accompagnasse dopo moltissimo tempo. I suoi compagni erano tutti lì, e quando la videro la salutarono in modo abbastanza caloroso. La ragazza ricambiò il saluto, non con la stessa intensità. Ormai da un bel po’ sentiva che a legarla a quel gruppo non era affetto vero, quanto il timore che, senza loro, si sarebbe sentita sola e abbandonata -di nuovo. Avrebbe voluto girare i tacchi ed andarsene, lasciarsi alle spalle anche questo ultimo fardello che le era rimasto, ma non poteva pensare di affrontare la vita completamente da sola, senza l’appoggio degli amici o della famiglia. Per questo aveva ingoiato il rospo, e si era trattenuta dal manifestare i propri poteri magici. Talitha, nonostante continuasse a trattarla con gli stessi atteggiamenti che le aveva sempre riservato, sembrava aver condiviso insieme agli altri tutti i suoi timori riguardo Gothel e il suo “problemino”. Quest’ultima, per non deludere e ferire nessuno, era stata mansueta, quasi una presenza inesistente.
Quella sera tuttavia -invero, quando arrivò lì, il sole stava lentamente calando- i ragazzi, dopo un saluto veloce, tornarono a parlottare tra di loro. Parlavano con un tono di voce relativamente basso, quasi a non voler farsi sentire dai passanti. Gothel si chiese di cosa potessero mai conversare, e la risposta che ricevette quando lo domandò le fece tremare le ginocchia: avevano visto il padre di Roger passare di lì poco prima, con una bottiglia di liquore vuota in mano, e un fiato da fare invidia agli ubriaconi che tutte le sere frequentavano il locale di Carson. Roger era infatti l’unico a non essere presente in quel momento, probabilmente era a casa. Sicuramente era solo, ed in pericolo.
Gothel non indugiò quindi oltre, e congedandosi in fretta e furia, corse a per di fiato verso la casa del suo amico. Da quello che lui le aveva raccontato quella mattina, temeva per la sua vita. Quell’essere abominevole di suo padre era imprevedibile e molto ubriaco, senza più sua moglie da tormentare avrebbe potuto riversare tutta la sua rabbia sul povero Roger. Gothel sapeva di non essere certamente uno stinco di santo, era piena di difetti e problemi attitudinali, ma se tanto aveva già fatto i conti con il fatto che la sua anima fosse ormai dannata, avrebbe quanto meno potuto salvare quella del suo amico.
Quando arrivò di fronte a casa di Roger, quasi svenne dalla stanchezza -non era per niente una ragazza atletica o in forma. Ripreso fiato, alzò il mento verso l’alto e osservò attraverso la finestra dentro la casa. Vide l’uomo camminare con la testa ciondoloni in su e in giù per il soggiorno, ma non sembrava esserci segno di Roger.
Bene, pensò Gothel. Con non troppa forza, ruppe la maniglia della porta ed entrò. Fece dei passi brevi e cadenzanti, entrò quasi in punta di piedi in quella casa. Poi fu tutto semplice, più semplice di quanto si sarebbe aspettata fosse l’atto di uccidere effettivamente qualcuno. Non toccò nemmeno il corpo, e non gli fece alcun tipo di violenza, cosa molto inusuale per lei. A differenza delle altre volte era calma, molto calma, sentiva il sangue freddo e i nervi saldi. Sollevò con un gesto mellifluo la mano destra, la quale produsse un leggerissimo vortice d’aria, abbastanza tuttavia da scaraventare i coltelli posati sul tavolo contro il padre di Roger, con la lama ben conficcata nel torace e nel petto. L’uomo quasi non se ne rese conto, tanto era ubriaco e colto di sorpresa, non si era nemmeno accorto che Gothel era entrata. Si era voltato giusto in tempo perché i coltelli lo trafiggessero e, dopo aver buttato un fiocco di sangue dalla bocca, cadde a terra esamine, la bottiglia vuota ancora in mano.
Gothel prese un respiro profondo, pensando che ormai fosse tutto finito, e che i demoni di quell’uomo da quel giorno in poi avrebbero solo tormentato lei e non più Roger. Ma si sbagliava, perché non appena si voltò, si ritrovò davanti il volto del suo amico.
 

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