Adrenalina

di Slytherin Nikla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adrenalina ***
Capitolo 2: *** Meraviglia ***



Capitolo 1
*** Adrenalina ***


La Madre Superiora del convento di Santa Caterina guardò le sue consorelle attraversare velocemente la strada e si rese conto di stare scuotendo la testa. Per essere la vigilia di un avvenimento tanto impensabile, e per essere un gruppo di donne abituate ad andare a letto ben prima della mezzanotte, doveva riconoscere che nonostante fossero ormai passate le tre erano insospettabilmente in forma. Adrenalina, rifletté. Non si poteva certo dire che fosse stata una serata tranquilla.
Sorella Alma era sulla porta ad aspettarle e alla Superiora non sfuggì l’espressione elettrizzata con cui aveva riconosciuto Deloris in mezzo al gruppo – ma fu piuttosto stupita che, una volta salutate le altre e accolta con un abbraccio Deloris, si attardasse ad aspettare lei.
«Mi occuperò io del portone, Alma, non è necessario che…»
«Monsignor O’Hara è nel suo ufficio, reverenda Madre.»
«O’Hara? Perché?»
«Gli ho detto che senz’altro lei lo avrebbe informato dell’accaduto una volta di ritorno,» mormorò la suora, fedele al principio universale per cui il tono della voce di una persona sembra sempre essere inversamente proporzionale alle sue capacità uditive. «Ma ha preferito rimanere.»
«Oh,» esalò la Superiora, senza sapere con certezza se fosse una reazione di gratitudine o di disappunto. Era esausta, e l’idea di vedere qualcuno l’opprimeva. Ma aveva anche un gran bisogno di ripercorrere gli eventi di quella serata assurda. Era confusa. «Bene, vado…Vado subito. Sorelle! Sorelle! Credo che per una volta saremo giustificate se sospendiamo la preghiera del mattino… Dormite, vi aspetta un compito importante.» In un fruscio di sussurri e di pesanti abiti neri il corridoio tornò presto deserto e la Madre Superiora si diresse in fretta al proprio ufficio, per sollevare O’Hara di un’attesa che si era protratta ben oltre quanto sarebbe stato opportuno.
Aprì la porta di slancio e per un attimo se ne pentì – ma George O’Hara, che si era chiaramente addormentato con il gomito ben piantato sul bracciolo a sostenere la testa, si era svegliato con grazia inaspettata, senza trasalire: si era voltato verso di lei e aveva sorriso al di là dei propri occhi assonnati, e aveva represso uno sbadiglio e richiuso un paio di volte la mano come a scacciarne il torpore e si era alzato, questo sì rapidamente, per andarle incontro.
«Com’è…?» domandò cauto, senza finire la frase. Non era mai stato un uomo di molte parole – non che lei lo fosse – ma certe conversazioni non avevano bisogno di trovare voce per essere condivise.
«È andato tutto bene. Deloris è tornata con noi, sana e salva.» L’essenziale. Lo spazio di una frase o due, il riassunto perfetto. O’Hara annuì.
«Grazie a Dio.»
«Grazie a Dio.»
Si soffermò a guardarla: c’era in lei un’aria insolita, come un misto tutt’altro che inspiegabile di stanchezza enorme ed incredibile energia – immobile appena oltre la porta, con il suo portamento perfetto e le mani strette l’una all’altra, reduce da nientemeno che una missione di salvataggio con annesso volo in elicottero, quella donna che da sempre considerava formidabile gli sembrò adesso magnifica, così magnifica da non poterle staccare gli occhi di dosso per il timore di perdere il privilegio d’essere illuminato dalla sua semplice presenza. E lei se ne rese conto. E cinquant’anni dopo l’ultima volta che le era capitato, arrossì.
«Devo…andare, lo so. Vorrà riposare, Reverenda Madre, è stata una serata tanto ai limiti del-» ma quando monsignor O’Hara aveva distolto lo sguardo lei aveva d’improvviso realizzato la propria solitudine, riconosciuto la sensazione familiare di inevitabilità – il momento in cui avrebbe dovuto da sola fare i conti con il pericolo corso quella sera era lì, nello spazio del passo di un uomo, quell’uomo, nell’oltrepassare una porta, la sua porta, per andarsene. Il primo singhiozzo le sfuggì direttamente dalla gola. «Reverenda Madre!» O’Hara aveva alzato gli occhi preoccupato e la figura sottile e tesa che gli stava di fronte gli sembrò sul punto di spezzarsi. Le prese le mani fra le proprie, come per scaldarle, come per comunicarle attraverso la pelle che no, non doveva temere, non se ne sarebbe andato fino a che non l’avesse vista tornare se stessa. Lei, che aveva riconosciuto quella rassicurazione muta, si allontanò da lui.
«Non è niente. Non è niente,» ripeté, solenne. Non lo guardava. «Sì, ho bisogno di dormire un po’. È solo un po’ di stanchezza, non c’è niente di cui…»
«Margaret.» Pesante e definitivo, il suo stesso nome si era abbattuto su di lei come il fendente di un’arma. Quanti anni erano che O’Hara non la chiamava per nome?
«Non c’è niente di cui preoccuparsi,» insisté. «Niente che una notte di sonno non possa sistemare. Ho anche sospeso la preghiera mattutina, quindi non…»
«Dimmi cos’è successo.»
«È andato tutto bene. È questo che conta.»
«Dimmi cos’è successo.»
«L’importante è che-»
«Margaret.» C’era stato questa volta, nel pronunciare il suo nome, l’eco indistinta di una minaccia, una minaccia a fin di bene che la Superiora conosceva per antica consuetudine. Non era quello il tono che tutti loro – tutti loro con un ruolo di guida nella comunità, quale che fosse la comunità – usavano come extrema ratio?
«Ora, George, ora. Per cortesia. Il paternalismo no.» Riconobbe la traccia di un sorriso all’angolo delle sue labbra. La riconobbe e ne fu oltremodo infastidita. «Sono ben oltre l’età in cui il paternalismo è tollerabile,» aggiunse piccata.
«Non era paternalismo, era preoccupazione. E comunque no, non ti servirà imbastire una discussione per distrarmi da quello che ti ho chiesto. Dimmi cos’è successo.»
«Niente che non fosse prevedibile.»
«Ti sei-Vi siete trovate in pericolo.» La Madre Superiora sospirò con cautela, nel tentativo di non stuzzicare il grosso nodo che sentiva in gola.
«Non lo so. Forse no, non noi, almeno, non io, ma quell’uomo, il modo in cui…» Nello spazio di un respiro, il nodo in gola da non stuzzicare era scomparso, sotterrato di cocci di singhiozzi spezzati e frasi interrotte e lacrime inaspettate. Provò a spiegare dell’ansia nel viaggio, dell’imbarazzo fra i tavoli del casinò; cercò di dare un nome all’incontenibile audacia con cui aveva portato le consorelle a salvare una donna che pur non essendo una di loro aveva fatto una tale breccia nelle loro esistenze, cercò di spiegargli – di spiegare a lui, l’uomo tutto altruismo e bisogno di fare il bene – quanto si fosse biasimata, nel trovarsi senza una via d’uscita, per avere lasciato che l’istinto di un attimo mettesse a rischio tante vite nel tentativo di salvarne una. E raccontò di Vince LaRocca, di quella pistola puntata contro Deloris, di quanto inevitabile era sembrata per qualche secondo la conclusione. Di come si era districata fra le sorelle per difendere Deloris. Di come con il senno di poi si era resa conto che quella non era stata una sua idea.
«Sì, anch’io sono certo che sia stato Dio a muovere i tuoi passi,» mormorò lui, accarezzandole piano le nocche. Le aveva preso le mani di nuovo non appena quel pianto era iniziato ed era particolarmente felice di averlo fatto.
«Non Dio,» esalò lei, gli occhi pieni di lacrime. O’Hara la guardò senza capire. «Non è stato Dio. Sei stato tu.» La fronte dell’uomo si corrugò, ma nemmeno allora le lasciò le mani.
«Se vuoi che capisca, devi spiegarmi…Se vuoi.»
«Oh, non è niente di che. Ho solo… Ho solo fatto quello che avresti fatto tu. E l’ho fatto perché sapevo che era quello che avresti fatto tu. Non…» rimase in silenzio per così tanto tempo che se O’Hara non l’avesse conosciuta bene quanto la conosceva avrebbe creduto che la frase si fosse, semplicemente, estinta in se stessa. Invece la conosceva. E aspettò. «Non riuscivo a pensare ad altro.»
«A cos’avrei fatto io? Addirittura?»
«No. Non a cos’avresti fatto.» Di nuovo silenzio. Di nuovo lo spettro vago di un respiro rotto dal pianto. Di nuovo un’attesa tutt’altro che vana. «A te.»
O’Hara sorrise suo malgrado, sapendo che non era il momento, sapendo che non erano le condizioni, sapendo che non erano le persone per far sì che ci fosse da sorridere. Eppure sorrise, e le lasciò le mani per sfiorarle il viso. «A me,» ripeté, in un tono indefinito a metà fra l’affermazione e la domanda.
«Ho pensato che se fossi morta me ne sarei andata senza averti visto un’ultima volta.» Aveva gli occhi chiusi, le guance rigate di lacrime. Le dita di O’Hara erano tiepide contro la pelle del suo viso. «Un pensiero stupido. Lo so.»
«Perché credi che abbia voluto restare qui ad aspettare il vostro ritorno?» le domandò lui con tenerezza, e si godette con un moto d’orgoglio la rapidità con cui era tornata a guardarlo, sconvolta. «Avevo bisogno di vederti, di sapere che eri al sicuro. Di vederti al sicuro coi miei occhi…» esitò per un istante più del necessario mentre il suo pollice sfiorava con apparente casualità l’angolo delle labbra di lei. Se si fosse sottratta a quel contatto, pensò, non avrebbe lasciato che quell’incerto argomentare arrivasse fino in fondo. Lei non diede neppure il minimo cenno di volersi allontanare. «Di vedere coi miei occhi che eri tornata da me.»
Nuove lacrime si affacciarono sull’orlo delle ciglia chiare di lei, lacrime che pure a George O’Hara parvero diverse da quelle che gli avevano bagnato le dita fino a pochi minuti prima. La vide sorridere appena, abbassare le palpebre e rialzarle su occhi arrossati, sì, ma ora limpidi. «Oh, George, che sciocchezza,» lo rimproverò, sollevandosi inconsciamente sulla punta dei piedi per essergli più vicina. «Credevo che ormai lo sapessi. Tornerò sempre da te.»
Nonostante l’abitudine ormai più che trentennale a mantenere in piedi fra loro un confine invalicabile, O’Hara la strinse contro di sé fino ad annullare ogni distanza. Notti come quella non erano fatte per la solitudine.



(a questo punto, domandone: Secondo capitolo?)

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Capitolo 2
*** Meraviglia ***


E così, alla fine è nato un secondo capitolo. E sì, è assai probabile che ce ne sarà un terzo (non me la sento di garantire sulle tempistiche, oggettivamente, ma ce la possiamo fare). Buona lettura! ;)

Di tre cose George O’Hara si scoprì grato aprendo gli occhi: di avere preso un taxi per recarsi al Santa Caterina la sera precedente; di essere un uomo dal guardaroba inevitabilmente immutabile; e soprattutto, per la donna straordinaria che ancora dormiva fra le sue braccia.
Certo l’ampio ventaglio di intorpidimenti e fastidi articolari minacciava di ridimensionare almeno in parte tutta quella sua gratitudine, ma era pur vero che non ci sarebbe stato modo di aspettarsi qualcosa di diverso dopo avere dormito, e in due, su un divanetto striminzito e chiaramente disegnato per esser scomodo anche in posizione seduta. Era sempre stato scomodo, su quel divanetto, e aveva sempre sospettato che avesse come unico scopo quello di far terminare nel minor tempo possibile qualsiasi incontro al quale fosse richiesto d’essere amichevole e informale – Margaret era sempre stata un totale disastro, con gli incontri amichevoli e informali.
Senza nemmeno rendersene conto, le passò una mano fra i capelli.
Come avesse potuto pensare, anche solo lontanamente, che per lei il tempo non fosse passato andava al di là di ogni possibile ragionamento. Forse perché sotto tutti quei metri di stoffa, sotto quell’armatura di pesante lana nera e cotone inamidato, era riuscita a nascondersi così bene da diventare immutabile; forse perché per lui era stato più facile, alla fine, convincersi di essere l’unico a stare invecchiando, perché lei non sarebbe mai cambiata, perché lei era destinata a rimanere in eterno la magnifica, rigida, severa ragazza dai capelli rossi che aveva conosciuto una vita prima; di fatto, però, George O’Hara aveva registrato con un sussulto di autentica sorpresa la realizzazione che di quel rosso fiammeggiante ora, un  numero di anni più tardi così consistente che non voleva contarli, non fosse rimasta che qualche esile traccia fra la cenere. Era invecchiata, lei, così com’era invecchiato lui. Ma perché allora gli sembrava addirittura più bella?
Di nuovo le sue dita le scivolarono fra i capelli, delicate come un soffio.
E lei – lei, che era sempre stata, fra loro, la paladina del senso pratico; lei, che non perdeva mai la lucidità; lei, che pensava sempre due mosse avanti al resto del mondo e accusava lui di essere un inguaribile, insopportabile ottimista – si svegliò con un tremito. E una domanda che era così lei da far quasi male. «Avevo chiuso la porta, vero?»
O’Hara rise, rise così di cuore da rimediarne una gomitata al fianco e un’intimidazione stizzita e perentoria a non fare rumore. Rise e continuò a ridere – certo, più piano – e l’abbracciò stretta, il viso sepolto contro il collo di lei. «È la prima cosa che hai fatto,» mormorò contro la sua pelle. «Ma in fin dei conti, se anche entrasse qualcuno, non ci sarebbe niente da vedere…»
«Niente da vedere?» ripeté indignata. «Niente da vedere? Hai dormito con una donna e lo chiami niente da vedere
«Precisamente. La cosa cambierebbe se fossi tu ad aver dormito con un uomo, certo... Oh,» esclamò O’Hara, divertito ben oltre l’accettabile. Lei chiuse gli occhi, cercando di ignorare il richiamo ineluttabile della realtà, e lui non faticò a leggere in quell’improvviso, statico silenzio la direzione che i suoi pensieri avevano preso.  «Margaret…»
«Non voglio che finisca.» La guardò staccarsi da lui, sedersi sul bordo del divanetto – severa, rigida, magnifica – e sfuggire il suo sguardo. La guardò in silenzio, ancora una volta, con quella pazienza fedele e inattaccabile che da una vita intera riservava a lei sola. Sarebbe arrivata, lo sapeva. Aveva solo bisogno di tempo. Aveva sempre bisogno di tempo, e di tentativi a vuoto, e di una montagna di forza di volontà, quando lasciava che fosse il cuore a parlare invece della testa. L’istinto di Margaret non partiva mai dal cuore – il cuore era faticoso, il cuore era fragile: e lei lo aveva sempre protetto con quella monolitica fortezza mentale che era diventata la sua seconda natura. Aveva bisogno di tempo perché le parole si formassero, perché trovassero la strada. O’Hara lo sapeva – e aspettava, seduto accanto a lei. «E finirà tutto non appena girerò la chiave nella serratura.»
«Tutto?» domandò con gentilezza, non perché avesse bisogno di spiegazioni ma perché lei – lo sentiva – aveva bisogno di una mano cui aggrapparsi lungo il sentiero tortuoso che collegava il suo cuore al cervello.
«Questo sogno sciocco e vano, questo…calore. Aprirò la porta e rientreranno i nostri ruoli e noi usciremo per sempre, e io» esitò, così a lungo che perfino O’Hara dubitò di poterne quella volta vedere la conclusione, «e io non voglio,» la sentì dire invece, con un filo di voce. Allungò una mano a racchiudere le sue, senza voltarsi – aveva bisogno di coraggio, non di interruzioni, lo sentiva. A voler essere sinceri, doveva ammettere che anche lui aveva bisogno di coraggio. «Promettimi almeno che non torneremo a prima di ieri sera. Non la formalità, ti prego, non credo che ce la farei…» O’Hara si irrigidì. Quello era un epilogo. Gli stava costruendo una via di fuga. A dispetto dei gesti, delle parole, a dispetto di quella notte di sonno scomodo ma condiviso, a dispetto di tutto – gli stava aprendo una via di fuga. Mantenere lo status quo, ma con il compromesso di un po’ più di tenerezza: O’Hara non riuscì a determinare se quella fosse la strada più facile o la più difficile. Le strinse le mani, e questa volta cercò i suoi occhi.
«Possiamo trovare un modo, Margaret. Possiamo…» la frase rimase sospesa nel vuoto non appena lei si alzò, e morì agonizzando mentre lui si incantava a guardarla indossare il soggolo con la naturalezza di un gesto ripetuto migliaia di volte. «Margaret,» tentò, senza convinzione, un’ultima volta. Lei gli prese il volto fra le mani, con un sorriso triste che gli spezzò il cuore.
«Abbiamo un concerto importante di cui occuparci, e tu un ospite illustre da accogliere. Ci aspetta una giornata impegnativa…» Parole dette e ascoltate mille volte, commiati visti e rivisti. O’Hara sospirò, accarezzandole i polsi con la punta delle dita. Quel bacio improvviso e delicato lo sorprese come un acquazzone, troppo breve per reagire, troppo inaspettato per poterne godere appieno. Lo scatto della serratura, qualche istante più tardi, lo riscosse – e ancora una volta aveva avuto ragione lei, e i loro rispettivi ruoli erano entrati nella stanza e tutto era tornato com’era stato prima.
O’Hara raccolse il colletto romano dalla scrivania e l’abbottonò sulla nuca senza il minimo sforzo, esattamente come ogni altra mattina della sua vita. Non era cambiato niente, in fondo. Eppure non riusciva a liberarsi dalla sensazione che fosse cambiato tutto.

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