INCANTO: L'impero del caos

di DomenicaSalatino
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Undicesimo anno del regno dell'imperatrice Ananta Lauvi'iah

L'imperatrice Ananta congedò con un cenno del capo la sua cameriera rimanendo da sola nelle sue stanze. Aveva bisogno di stare qualche attimo con se stessa, prima di affrontare quella giornata. Una giornata che avrebbe segnato a lungo la sua vita.

In verità la sua vita era cambiata in modo drastico circa sei mesi prima, quando, improvvisamente, l'imperatore Nun, suo consorte, si era ammalato. Erano stati mesi colmi di angoscia e dolore, senza la benché minima speranza che tutto potesse risolversi in meglio. In quel lasso di tempo però, contro ogni logica, lei aveva sperato e pregato affinché suo marito, l'amore della sua vita, potesse tornare a lei.

Niente era servito: la medicina non aveva potuto aiutarlo e lei aveva semplicemente dovuto assistere alla fine del suo sogno; alla malattia che aveva scavato il volto di Nun e a tutte le nuove rughe che ogni giorno erano comparse sul quel volto tanto caro.

Ora Ananta sedeva dinanzi allo specchio e poteva vedere anche quello che la sofferenza aveva fatto a lei. Era ancora bella e provava una sorta di rabbia impotente per questo. Continuava a chiedersi perché un evento tanto triste dovesse farla apparire così elegante. Sì, perché l'incarnato pallido, reso ancora più cereo dal contrasto con l'abito nero, le donava. Il suo volto non era mai stato bello nel senso classico del termine, ma sicuramente non lasciava gli uomini indifferenti, e più di una donna l'aveva invidiata per questo.

La cameriera le aveva tirato i capelli indietro, li aveva intrecciati e avvolti intorno al suo capo. Per un istante ebbe l'impulso di strapparsi tutte le forcine che le imprigionavano la chioma, urlare, piangere e disperarsi, ma non lo fece.

Ananta Lauvi'iah, imperatrice di Amrat, e prima del suo nome, non era stata educata in quel modo. Le era stato insegnato che bisognava saper reprimere le sensazioni sgradevoli e apparire in un certo modo davanti ai propri sudditi. Quei sudditi che erano venuti a esprimere il loro rammarico per una grave perdita sentita in tutto il regno, quasi dovesse toccare loro chiudere il proprio consorte in un luogo solitario, freddo e buio, per restare a loro volta soli.

Osservò ancora il proprio riflesso, cercando qualcosa, senza sapere esattamente cosa.

I capelli erano ancora neri, gli occhi sempre color cioccolato. Forse le sue guance. Aveva perso peso, ma in tal modo le si erano accentuati gli zigomi, e il collo lungo appariva ancora più slanciato. Nun aveva sempre trovato attraente il modo in cui quando si ostinava in qualcosa, lei tendesse a sollevare appena il mento, come irrigidiva i muscoli del collo, mettendo in evidenza la clavicola. Un punto che gli piaceva baciare quando l'aiutava a sciogliere i lunghi capelli.

Quei ricordi non le facevano bene, ma erano troppo vivi, troppo reali, troppo vicini, perché li potesse accantonare, dimenticare.

Eppure doveva, non aveva scelta. Non era mai stato in suo potere essere qualcun altro, essere qualcos'altro.

Quel giorno Ananta vide spegnersi la luce nei suoi occhi, e in quel momento credette che sarebbe stato per sempre. Il suo cuore batteva piano, sembrava volersi fermare, per permetterle di raggiungere Nun. Non voleva più essere donna e sposa, per lei quel tempo era finito, ora sarebbe stata solo imperatrice e madre.

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Dei rumori attutiti attirarono la sua attenzione facendola voltare appena sullo sgabello di legno intarsiato. Piccoli passi silenziosi sugli enormi tappeti intrecciati.

Tiphereth Lauvi'iah, principessa del regno di Amrat e prima del suo nome, era solo una bambina che aveva compiuto cinque anni due mesi prima; un avvenimento mai festeggiato a causa della malattia di suo padre. Aveva due enormi occhi color cannella in un visino minuto e pallido.

La figlia dell'imperatrice aveva pianto, era evidente dalle guance arrossate e dal modo in cui tirava su con il naso. Un comportamento niente affatto consono a una del suo rango; ma lei era così giovane, così indifesa!

«Madre», fu tutto ciò che la bambina disse. E poi restò come in attesa, aspettando che fosse lei ad aggiungere qualcosa.

Per un istante madre e figlia si guardarono smarrite, l'una e l'altra senza parole, senza sapere cosa fare, a causa della tragedia che le aveva colpite. Poi la più piccola si lasciò sfuggire un singhiozzo, e un altro ancora. Presto le lacrime inondarono il suo volto e non fu quasi più in grado di respirare. Si stropicciò gli occhi con i pugni chiusi, ma nulla fu in grado di fermare quel pianto.

Ananta prese un respiro profondo cercando di ritrovare la compostezza e si chiese come avrebbe fatto quel piccolo, tenero pulcino ad andare avanti. Certo, lei era addolorata, spezzata dentro per quella perdita, ma per Tiphereth suo padre era stato tutto. E il sentimento era stato reciproco. Da quando Nun aveva posato gli occhi su quel fagottino roseo e urlante che era stata la sua bambina, non aveva avuto occhi che per lei. Aveva sempre potuto leggere in lui l'orgoglio che provava nell'aver generato con lei quella straordinaria creatura. I due avevano avuto un rapporto fatto di segrete complicità e tenero amore, diverso da qualunque cosa Ananta avesse mai visto.

Non era mai stata gelosa per questo, perché aveva sempre pensato che il suo momento con Tiphereth sarebbe venuto dopo; quando già cresciuta avrebbe dovuto affrontare il suo essere donna e principessa in un mondo matriarcale; in cui un giorno avrebbe sposato un uomo e creato con lui la generazione successiva. In quel momento avrebbe avuto bisogno di sua madre, dei suoi consigli, della sua guida.

Ora tutto sarebbe stato diverso, loro erano diverse.

«Vieni qui, Tiphereth», Ananta prese gentilmente la mano di sua figlia e le fece spazio sullo sgabello.

La bambina continuava a piangere, segnando il suo cuore con altre profonde cicatrici.

«Tuo padre ci ha lasciati. E questo fa male, molto male. Ma dovresti chiederti una cosa. Lui vorrebbe vederti piangere in questo modo?», Ananta inclinò leggermente il capo e aspettò che quelle parole penetrassero nella coscienza della piccola.

Proprio come aveva sperato, dopo qualche istante, i suoi singhiozzi si affievolirono e il respiro sembrò lentamente tornare alla normalità. Ora la bambina era pronta per ascoltare il resto di quello che aveva da dirle. Non importava se avrebbe capito o meno, con il tempo quelle parole avrebbero assunto un significato. Per il momento bastava che sedimentassero dentro di lei; un giorno avrebbero portato dei frutti.

«Sentirai ogni giorno la sua mancanza, per tutto il resto della tua vita, che essa sia breve o lunga non avrà importanza. Lui continuerà a mancarti. Eppure i vivi devono andare avanti. Devono vivere la propria vita anche per coloro che non ci sono più. Tuo padre avrebbe voluto vederti crescere forte e felice ed è quello che devi fare: vivere».

«Ma fa male», disse semplicemente Tiphereth, portandosi una manina al cuore.

«Devi sforzarti ogni giorno per trasformare il tuo dolore in qualcosa d'altro. Non sarà facile, ma so che puoi riuscirci».

La piccola corrugò la fronte, come se stesse cercando di capire un problema di difficile risoluzione. Nun aveva la stessa abitudine: quando c'era qualcosa che non capiva, l'analizzava, sperimentava, sbagliava e riprovava. Quella bambina aveva così tanti tratti che glielo ricordavano.

«Perché?», ed ecco la domanda più difficile, quella per cui Ananta non aveva una risposta semplice e neanche definitiva.

«Cosa ti dice sempre Lady Nili?», stava scegliendo la via più lunga, ma non sapeva neanche lei cosa dire alla sua bambina.

Un senso di oppressione le calò addosso: dovette combattere con un sentimento che non per la prima volta le si presentava innanzi. La sensazione di non essere una brava madre, di non essere in grado di educare e crescere la futura imperatrice di Amrat.

«Stai dritta e non distrarti?», chiese titubante la principessa.

Quel commento ingenuo le strappò un lieve sorriso velato di tristezza.

«Forse non era l'esempio migliore, dato che Lady Nili dice molte cose».

«Parla sempre tanto e mi annoia a morte con i suoi questo puoi farlo e quest'altro no. Mio padre diceva...», Tiphereth si interruppe sconvolta. Aveva appena parlato di lui al passato, con una naturalezza che aveva raggelato entrambe. Passarono dei minuti prima che Ananta fosse di nuovo in grado di parlare.

«Tiphereth, tu sei una lady e come tale ci saranno molte cose che potrai fare, ma altrettante che ti saranno vietate. Sempre, per tutta la tua vita. Ma tu sei anche la principessa di questo regno e sei diversa da ogni altra lady. Il tuo compito sarà guidare l'intero regno, far rispettare le leggi, proteggere e servire il tuo popolo», cominciò pazientemente Ananta.

«Servire? Ma ci sono già dei servitori, perché dovrei farlo io? E poi, per chi?», chiese la bambina sbarrando gli occhi.

Era evidente che stesse immaginando chissà quale sorta di stranezza.

«Molti credono che essere imperatrici significhi fare tutto quello che si vuole, comandare ed essere al di sopra di tutti. Si sbagliano. Un buon regnante deve fare tante cose, essere tante cose, ma soprattutto amare il suo popolo ed essere un esempio per lui. Esempio significa che anche se non ti senti bene devi dimostrare il contrario e così via», Ananta annaspava nel suo stesso discorso e vedeva chiaramente sul volto di Tiphereth la confusione.

«Vuoi dire che devo dire delle bugie?».

Ananta sospirò ancora. Si ricordò, del giorno in cui Nun aveva sgridato aspramente sua figlia perché lei aveva mentito su dove era stata, e li aveva fatti preoccupare non poco.

«In un certo senso, è come dire una bugia, ma si tratta di bugie a fin di bene. E poi non è bello vedere piangere o star male qualcuno, ed è per questo che sin da oggi non devi più farlo in pubblico. Ciò significa che quando tra poco andremo di là, dovrai trattenere le lacrime e restare composta fino alla fine della giornata. Sono stata chiara?», le ultime parole le erano uscite in un tono assai aspro.

Doveva fare in modo che Tiphereth capisse in un modo o nell'altro.

Si alzò dallo sgabello e guardò sua figlia fare altrettanto, scivolando dolcemente sul folto tappeto azzurro. Si specchiò un'ultima volta per controllare di essere in ordine. Lo scollo dell'abito di lana era rotondo, il corpetto aderente alle sue grazie e le maniche ampie sfioravano appena il pavimento.

Anche Tiphereth indossava un abito simile al suo, della sua taglia. I capelli però erano quasi completamente sciolti. Non glieli aveva mai fatti tagliare, perciò le arrivavano quasi a metà schiena, ed erano leggermente ondulati. La sua cameriera aveva preso le ciocche laterali e le aveva unite in una morbida treccia che aveva poi fermato con un nastro nero di seta. Le bambine della sua età, infatti, non portavano mai i capelli completamente legati. Certi tipi di acconciature erano riservate solo alle donne ormai adulte.

«Sei pronta Tiphereth?», le chiese Ananta.

La bambina annuì e sollevò appena il mento, ricacciando indietro le lacrime che ancora una volta minacciavano di sommergerla. Dopotutto Tiphereth era anche sua figlia.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Le campane avevano annunciato a tutti la morte dell’imperatore Nun il giorno prima. Da allora avevano continuato a suonare ad intervalli regolari, scandendo la tristezza che avrebbe dovuto pervadere l’intera popolazione di Amrat.
In realtà solo poche persone avrebbero davvero sofferto per quella perdita; alcune di esse se le era lasciate alle spalle quella notte, prima che l’alba si affacciasse, quando era salito a cavallo per intraprendere la strada verso il castello. Era stato uno dei primi a ricevere la notizia, giunta con una civetta messaggera.
Era stata solo questione di tempo. Erano giorni che attendeva quell’annuncio. Aveva capito molto tempo prima che non vi era più nulla da fare per suo fratello Nun. La consapevolezza era giunta il giorno in cui era entrato nelle sue stanze e lo aveva visto disteso nel letto, la pelle tirata sulle ossa del volto, incosciente e incapace anche solo di emettere un lamento di dolore.
L’imperatrice era seduta poco lontano, lo sguardo fisso su quel volto irriconoscibile; gli aveva rivolto solo un secco gesto del capo. Si era avvicinato al letto e aveva preso la mano di suo fratello; un arto privo di forze e quasi inanimato, freddo come gli inverni di Glasil, già morto.
Aveva subito inviato un messaggio a suo padre Ephram affinché iniziasse a preparare sua madre. Lei era una di quelle che stava soffrendo per quella perdita. Il primo rintocco di campane, il giorno prima, l’aveva colta impreparata, seppur non totalmente all’oscuro della triste notizia, ed aveva avuto un mancamento. Per quella ragione erano rimasti ad assisterla sua moglie Gali e suo padre. Solo lui sarebbe giunto a palazzo in rappresentanza della sua casa; la casa dei Talel.
Zohar Talel era il secondo figlio maschio di Ephram Shiloh e Eliora Talel. La famiglia era composta da loro due, più tre figli maschi: Nun, lo stesso Zohar e il figlio minore Jethro. Come consuetudine nel regno di Amrat, aveva ereditato il nome della casa materna e sarebbe morto con loro, visto che erano tre maschi. Infatti, nella loro famiglia, non vi era nessuna oscura e remota parente femminile che avrebbe potuto trasmetterlo alle generazioni successive.
Il cavallo procedeva a passo lento ma sicuro sulle pietre della strada che conduceva al Borgo. Si fermò presso le mura il tempo necessario a rivolgere un distratto cenno del capo alle guardie poste davanti alle porte aperte. Esse avevano il compito di controllare chiunque oltrepassasse quelle mura e assicurarsi del motivo per cui fossero lì. Come se ce ne fosse bisogno.
Invariabilmente la risposta di quella giornata era soltanto una: dalle case più importanti e nobili, ai contadini più sconosciuti, tutti erano lì per testimoniare la loro vicinanza alla casa regnante, sicuri che non sarebbero mai stati ammessi nella sala del trono. Ma, quanto meno, avrebbero potuto dire di esserci stati.
Le guardie ricambiarono il suo saluto e lo fecero passare senza chiedergli niente. Tutti conoscevano la sua identità. Ma anche se non avessero riconosciuto il suo volto, il mantello di pelliccia viola con il simbolo della sua casa bastava per renderlo quello che era.
Appena superate le mura che proteggevano il Borgo, imboccò la via più ampia, quella che portava direttamente al castello. Il suo cavallo conosceva bene quella strada avendola percorsa molte volte soprattutto negli ultimi mesi e non aveva neanche bisogno della sua guida per prendere la direzione giusta. Questo gli diede modo di osservare ciò che lo circondava.
Ogni uomo, donna e bambino che viveva nel Borgo di Amrat sapeva che lui era il fratello dell’imperatore. Molti lo sbirciavano appena, alcuni distoglievano addirittura lo sguardo, come se si aspettassero che facesse qualcosa di strano o insensato. In verità si sentiva un estraneo, come se la pelle che lo ospitava non fosse la sua, o comunque quel giorno gli appartenesse meno del solito. La morte di suo fratello non avrebbe affatto cambiato la sua esistenza. Essendo maschio non poteva ereditare nessun titolo o ricevere benefici da quella perdita, avrebbe semplicemente continuato a dirigere la tenuta di famiglia, l’antica casa dei Talel, che si trovava ad Andro.
Volse lo sguardo in alto, verso le imponenti mura del castello. Sulle torri, che le intervallavano, erano stati stesi drappi neri, al posto di quelli purpurei che sempre le adornavano e che erano il simbolo delle case regnanti. Sui camminamenti che collegavano una torre e l’altra, passeggiavano delle guardie che potevano in tal modo controllare la situazione dall’alto.
Il castello di Amrat, edificato quasi cinquecento anni prima, per volere dell’imperatrice Anon, era una costruzione magnifica, imponente ed elegante al tempo stesso. Era stata eretta su una collina per dominare il territorio circostante, munita di una cinta di mura per proteggerla. Attorno ad essa si era sviluppata una sorta di piccola città che provvedeva ai bisogni più immediati degli abitanti del castello. Con il tempo, il piccolo agglomerato di case si era esteso fino a diventare un Borgo vero e proprio e ad avere bisogno a propria volta di una cinta di mura che lo proteggesse. In quel Borgo vivevano artigiani e lavoranti di ogni tipo, ma nessuna casa nobile; come se l’ingombrante presenza, a poca distanza della casa regnante, avesse reso quel posto troppo piccolo per altre famiglie importanti.
Giunto nel cortile interno del castello, scese da cavallo con un abile balzo. Subito un giovane stalliere lo affiancò per prendere il suo stallone della valle e occuparsene.
Non lo degnò neanche di un cenno, concentrato com’era nell’osservare il portone della grande dimora. Sembrava volesse perforare quelle antiche pietre, penetrare dentro, per vedere cosa, o meglio, chi ci fosse all’interno.
Qualcuno avrebbe avuto il coraggio di avvicinarglisi per proporgli dubbie alleanze o semplicemente per accattivarsi la sua simpatia in qualche modo?
Sperava che almeno quel giorno lo lasciassero in pace, in fondo, alcuni avevano già fatto le loro mosse, presentandosi da lui, appena ricevuta la notizia della malattia di Nun. Tutti avvoltoi pronti a contendersi i resti di un pasto che poteva rivelarsi avvelenato.
Salì i gradini ignorando chiunque cercasse anche solo il suo sguardo. Superati gli immensi portali lignei, fu accolto dal penetrante odore di incenso, emanato da grossi bracieri strategicamente incassati in alcune nicchie delle mura. Candele nere bruciavano ovunque cercando di illuminare, con scarso successo, quella grigia giornata invernale. Percorse con passo marziale i lunghi corridoi che portavano alla sala del trono, sapendo che era là che avrebbe trovato l’imperatrice Ananta.
Nella sala erano già presenti molti altri volti noti, alcuni nella balconata inferiore, altri sparsi per la stanza in attesa che l’imperatrice li degnasse della loro presenza. Sulla balconata destra riconobbe Lady Fiorluna, della casa degli Oded, una donna bella ed elegante con un abito blu scuro, perfetto per quella giornata di lutto, ma anche per ricordare a tutti i colori della sua casa. Nirit Oded, infatti, proveniva da una famiglia nobile che aveva acquisito prestigio solo negli ultimi centocinquant’anni grazie alla produzione dei fiori della luna; da qui il bizzarro soprannome. Come api sul miele, era circondata da altri nobili, uomini e donne, con meno potere e prestigio, probabilmente pronti a cercare di ottenere i suoi favori.
Due colonne dopo, c’erano le sorelle Merton, Karmia e Talia, due donne che avevano deciso di non sposarsi e i cui cuori si diceva fossero freddi come le terre da cui provenivano. Non parlavano con nessuno, si limitavano semplicemente a tenere gli occhi puntati sul seggio reale come se in quel modo potessero far apparire l’imperatrice Ananta.
«Fratello», lo chiamò qualcuno alle sue spalle, e lui sussultò, come se non si fosse più aspettato di poter udire ancora quell’appellativo, ora che Nun era morto.
Nell’angolo sinistro dell’imponente sala, quasi nascosto da una colonna, stava suo fratello Jethro. Indossava il mantello amaranto, che lo qualificava come Capo delle guardie del Borgo, segno che la sua fedeltà andava all’imperatrice quasi più che alla sua casa natale. Fece alcuni passi nella sua direzione, ma rallentò quando vide l’uomo che lo affiancava. Era parzialmente nascosto da una colonna. Ma quegli occhi verdi sotto le palpebre pesanti, erano facilmente riconoscibili. Jeremiah Elraz, marito di Elda Yiftach, casa nobile di Drama.
Strinse i pugni, lasciando che le unghie penetrassero nella carne dei palmi, per soffocare sul nascere l’odio che provava per quell’avido uomo. Quando fu loro vicino, niente trasparì dai suoi gesti. Ignorando l’altro uomo osservò suo fratello, mentre lui faceva lo stesso. Jethro aveva gli stessi occhi chiari di Nun e i capelli castani sempre un po’ spettinati. Al contrario di lui, che considerava la serietà quasi un’arte, il più piccolo dei fratelli Talel rideva spesso e quando lo faceva gli si formava una fossetta sulla guancia sinistra. Era più basso di lui di qualche centimetro e per questo non gli andava mai troppo vicino, per non essere costretto a sollevare la testa per guardarlo.
Erano diversi quasi quanto il giorno e la notte, come lo erano stati anche dal loro fratello maggiore. Sembrava quasi che la loro madre si fosse divertita a dare alla luce personalità tanto diverse per dare al mondo più varietà possibili di caratteri.
Fu di nuovo Jethro a rompere il silenzio calato tra loro.
«Sei venuto da solo», esclamò, anche se non era una vera e propria domanda.
«Mi pare ovvio che nostra madre non fosse in grado di essere presente», spiegò duro.
«Come avrebbe potuto! L’unica volta che il suo figlio preferito l’ha delusa, morendo senza salutarla, doveva pur mostrare il suo disappunto in qualche modo».
Quel tono, del tutto fuori luogo, era tipico di Jethro. Non perdeva mai l’occasione di sottolineare come la loro madre avesse amato profondamente Nun. Eppure non aveva mai fatto mancare niente neanche agli altri due figli, soprattutto l’affetto e le attenzioni un po’ soffocanti.
Lanciò un’occhiata d’ammonimento a suo fratello, per intimargli di tacere. Non avrebbero dato spettacolo nella sala del trono, davanti a quell’uomo insignificante, davanti a tutti quegli sciacalli, né quel giorno, né mai.
Jethro fece spallucce e cambiò discorso, nulla che meritasse l’attenzione di Zohar, che riprese a far vagare lo sguardo lungo il salone. In quel momento fece il suo ingresso lady Aviel Orien, preceduta dal suo insignificante marito. Effettivamente lord Elraz era in buona compagnia. Quella donna stava tramando qualcosa ed era evidente dallo sguardo avido che si posava sui vari esponenti nobili lì presenti.
Sentiva che presto sarebbe esploso; non avrebbe potuto reggere ancora per molto tutta quella squallida situazione. Fu allora che l’imperatrice Ananta e la principessa Tiphereth entrarono, accomodandosi sui loro troni.

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