License to Science (and Kill)

di justquintessentiallymeita
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


License to science (and kill)

Capitolo 1

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just_quintessentially_me è un'autrice straniera e a gestire questo account è la persona che traduce le sue storie con il consenso dell'autrice originale, come ho scritto nelle bio. La storia originale quindi appartiene a lei mentre i personaggi ad Hajime Isayama. Come ben sapete l’inglese ha delle strutture diverse dall’italiano quindi la traduzione non è letterale, anche se cercherò di rimanere il più fedele possibile al testo. Sono solo una traduttrice amatoriale e se qualcosa non vi convince, ditemelo pure. Ci vediamo nelle note sotto! Buona lettura.
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Era una mattina ideale. L'ora di punta mattutina era arrivata ed era passata, e in quel momento lui era seduto in un angolo del suo bar preferito, bevendo una tazza bollente del suo tè speziato favorito e leggendo, nel frattempo, il giornale.
Aveva quasi finito di leggere la sezione della cronaca locale quando una leggera vibrazione interruppe la sua immaginaria solitudine. Sfilando il cellulare dal suo nascondiglio sotto il giornale, toccò lo schermo.
Apparvero delle lettere in grassetto.
BLU.
Fissando le lettere luminose, lui prese un lento e ponderato sorso del suo tè. Posando la tazza, fece un lungo e misurato respiro dalle narici. Non c'era nulla da fare. Era ora di andare.
Il messaggio era una comunicazione di un certo tipo. Un codice blu. Non bisogna confonderlo con quello della terminologia ospedaliera. Nessuno stava morendo. Non ancora almeno.
Si alzò. Sfilando la giacca dallo schienale della sedia, gettò un paio di mance sul tavolo. Lasciò il giornale su una pila ordinata sotto di esse. Era sicurissimo che non avrebbe avuto il tempo di finirlo in quel momento.
Nel suo lavoro lui rispettava un sistema di codici. I colori corrispondevano al tipo di minaccia.
Giallo - minaccia domestica. Gravità: media.
Viola - minaccia domestica. Gravità: massima.
Rosso - minaccia internazionale. Gravità: media.
Blu - minaccia internazionale. Gravità: massima.
Sistemata la giacca sulla spalla, salì a passo svelto sul marciapiede. Durante tutti quegli anni come agente, lui era stato chiamato per un totale di otto codici rossi. Addirittura il doppio delle volte dei più esperti agenti. Questo era il suo primo Codice Blu.
Quando arrivò al quartier generale, lui aveva già elaborato dieci possibili scenari riguardo a quale potesse essere il motivo del Codice Blu. Se lui fosse stato un uomo che scommetteva, e non lo era (a lui piaceva scommettere quando ne valeva veramente la pena), avrebbe ipotizzato che la minaccia avesse qualcosa a che fare con qualche arma di distruzione di massa – probabilmente in mano a una nazione instabile. Ma avrebbe dovuto aspettare e vedere.
L'edificio in sé era parecchio anonimo. Aveva una forma quadrata ed era coperto con finestre scure e tinte, sembrava un cugino noioso e monocromatico del cubo di Rubik.
Una scansione del palmo, due della retina, un rilevatore vocale e un viaggio in ascensore dopo, lui era dentro. Le porte dell’ascensore si aprirono con un suono metallico, rivelando il cuore del quartier generale.
E c’era un grandissimo casino.
C’erano fogli sparsi a casaccio e agenti che si precipitavano fermamente verso affollati stanzini. Uno avrebbe potuto attribuire l’attuale caos alla situazione che aveva portato, in primo luogo, al Codice Blu. Ma lui lo sapeva. Era stato testimone del quartier generale ridotto in quello stato troppe volte prima di quella. Certi  giorni doveva veramente lavorare per trattenersi dal fare irruzione e ordinare tutti quei dannati fogli, se non altro. Ma quello non era il suo lavoro. Questo era ciò che ripeteva a se stesso ogni volta che attraversava quel piano movimentato.
Lui lavorava là fuori. E loro, lì dentro.
Stava quasi per finire il viaggio in mezzo allo “zoo” quando lo vide: un nugolo di capelli in disordine, che andavano su e giù e ondeggiavano in mezzo alla folla.
«Levi!» l’acuta voce, libera da ogni senso del decoro, attraversò la voce come un coltello con il burro*
.
Lui accelerò il passo, piegando la testa.
Il mucchio incasinato di capelli ondeggiò. Doveva essersi alzata con le punte dei piedi, perché un paio di occhiali sbucò oltre la folla, luccicando per la luce.
«Eccoti!»
Alla sua chiamata trionfante, rallentò il passo. Era stato visto. Non aveva senso correre ora.
L’alta donna si fece strada nella mischia, tenendo nel mentre un voluminoso e disordinato raccoglitore stretto al petto. Mentre si avvicinava, il suo sorriso cresceva e i suoi occhi dietro gli occhiali avevano un luccichio quasi folle.
Quello non era mai un buon segno.
«Levi! Come sono grata di averti trovato!» lo salutò lei con una leggera pacca sulla spalla – il che le fece quasi cadere il raccoglitore. Alzandosi di scatto raccolse i fogli volanti. Una volta sistemati, lei iniziò a camminare.
Ovviamente si aspettava che Levi lo seguisse. E lui lo fece, ma non senza un udibile sospiro di disappunto.
Lei proseguì come se non avesse sentito niente. Magari non aveva sentito davvero. Hanji Zoe era il capo scienziato e la ricercatrice nell’agenzia. Era geniale – quando non era nel suo piccolo, strano mondo.
«Sarò insieme a te durante la spiegazione di Erwin, ma volevo iniziare a darti ora delle informazioni dato che c’è così tanto da dire! Insomma, dopotutto – ho studiato questi tipi-»
Uno strattone alla sua coda di cavallo attirò la sua attenzione. Lui aveva intenzione di dirle che non aveva idea di che cacchio lei stesse parlando, ma nel momento in cui le sue dite entrarono in contatto con i suoi capelli arruffati e unti, lui capì che c’era una questione più urgente che attirava la sua attenzione.
«Quando ti sei lavata l’ultima volta?»
Dietro le lenti macchiate, i suoi occhi guizzavano a destra e a sinistra. Sembrava quasi che lei stesse – contando? Un secondo passò, poi ne passarono due, tre quattro, cinque-
«Stai contando i giorni
Socchiudendo le labbra, lei sbatté le palpebre. «Probabilmente da circa tre giorni.»
Lui non poté capire se stesse mentendo.
Afferrando la sua spalla, la fece voltare. «Vai a farti una doccia. Non mi siederò in una stanza chiusa vicino a te. Probabilmente puzzi come la merda.»
Nel momento in cui lui premette in mezzo alle scapole di Hanji, cercando di spingerla nella direzione della porta, lei si piegò all’indietro affondando i talloni nel pavimento.
«Erwin ci sta aspettando!»
Lui la spinse di più.
Le scarpe di Hanji scricchiolarono, mentre perdevano l’aderenza al terreno. «Sono seria! Ci sono un sacco di informazioni che ho bisogno di passarti prima che tu parta!»
«Tu. Puzzi.» abbassando la testa, usò anche l’altra mano.
E quindi lei si stava muovendo, mentre lui la spingeva a passo lento in direzione della porta, le suole di gomma stridevano miserabilmente.
«Levi! Non sarai in grado di distruggere la TITAN se non ti fermi per un momento e ascolti cosa ti devo dire!»
Aveva detto le parole magiche. Lui si fermò poco dopo. «TITAN?»
Con le mani improvvisamente tolte dalla sua schiena, Hanji incespicò, mantenendo a malapena l’equilibrio. Soffiando via dal suo viso un capello fuori posto, si voltò per guardarlo in faccia. «Sì. L’organizzazione criminale internazionale con delle basi in tutte gli stati importanti. Quella TITAN. Sei interessato ad ascoltare, ora?»
«È la mia missione?»
Lei annuì, tetra. «Sì.»
Bene, allora. Quello spiegava il Codice Blu.
L’obbiettivo finale della TITAN, da quello che loro avevano capito, era provocare un cambiamento radicale nell’equilibrio del potere mondiale. Loro sono stati capaci di rintracciare le origini dell’organizzazione circa dieci anni prima. Da lì TITAN ha accresciuto il suo potere e la sua influenza. Fino ad allora, avevano portato a termine principalmente crimini non troppo gravi, rapine in banca, finanziamenti e supporto di certi colpo di stato. Se era stato chiamato per un Codice Blu, ciò voleva dire che qualcosa era cambiato. C’erano voluti dieci anni, ma finalmente la TITAN stava facendo la sua mossa.
«Cosa mi serve sapere?»
Lei indicò le scale con un movimento della testa. «Camminiamo.»
Sistemando gli occhiali, iniziò a parlare. «Come tu sai, ho studiato la TITAN come una sorta di progetto secondario per buona parte di questi tre anni.»
Lui sbuffò. Progetto secondario col cavolo. Ne era ossessionata. Probabilmente perché non era abituata ad imbattersi in un’organizzazione che non riusciva ad abbattere**
.
«Nel mentre, ho raccolto tutte le informazioni che potevo, esaminando fotografie, e-mail, le chiamate registrate – qualunque cosa che mi avrebbe permesso di analizzare il complesso dell’organizzazione a poco a poco.»
Le sue labbra erano piegate in una linea sottile; guardava il raccoglitore mentre camminava . «Ho avuto poco successo. La loro rete è vasta, ma nonostante ciò sono riusciti a tenere nascoste le loro comunicazioni.» I suoi occhi si alzarono, incontrando quelli di lui. «Fino a ora.»
«Hai trovato qualcosa.» Non era una domanda. Doveva aver trovato qualcosa, altrimenti lui non sarebbe stato lì.
«Fino a ora, sono stati capaci di tenere le loro comunicazioni relativamente al sicuro perché stavano partecipando a un gioco alquanto piccolo. Ma recentemente hanno fatto una mossa considerevole. Ed è arrivata voce di ciò a una coppia di canali clandestini.»
Erano quasi arrivati all’ufficio di Erwin.
«Quattrocchi. Arriva al punto.»
«All’incirca cinque giorni fa sono riusciti a rubare dei missili. Non è confermato, ma alcuni di essi potrebbero essere di tipo nucleare.»
«Mi stai prendendo per il culo. Cinque giorni fa? Perché lo sappiamo solo ora?»
«Il paese da cui sono stati rubati ha tenuto la bocca chiusa riguardo l’intera faccenda. Loro volevano recuperare i missili mentre il resto del mondo non ne sapeva nulla.» Lei bussò due volte alla grossa porta di legno. «I loro tentativi di riprenderli sono falliti.»
«Se gli stronzi non sono riusciti fin da subito a tenere strette le loro armi, loro sicuramente non sarebbero stati in grado di riprenderli.»
«L’orgoglio è certe volte la causa della rovina di coloro che pensano di possedere un grande potere.»
A quel punto la porta si spalancò.
Erwin Smith stava davanti a loro in giacca e cravatta, con un’acconciatura ordinata e da una parte asimmetrica. Sorrise. «Giusto in tempo.»
L’ufficio era ampio, spazioso e, soprattutto, pulito. Dopo il casino là sotto, Levi sentì che poteva respirare ancora una volta.
Mettendosi comodo su una sedia dallo schienale alto, Erwin si sedette da un lato della scrivania, Levi e Hanji dall’altro.
Il raccoglitore voluminoso fu lasciato cadere sommariamente sulla scrivania. Atterrò con un tonfo.
«Ho capito, hai già iniziato a spiegargli?»
Hanji annuì, raddrizzandosi sulla sedia. «Sì, signore.»
Piegandosi in avanti, sfogliò le pagine stropicciate. «Il dettaglio importante a cui stavo per arrivare è questo: due giorni fa la TITAN ha portato a termine una seconda rapina. Sono scappati con i codici di lancio.»
Levi si distese sulla sua sedia. Se quello era l’accaduto, perché non si erano ancora mossi?
«In questo caso, abbiamo avuto un colpo di fortuna. Il codice è criptato. A quanto pare, loro non sono ancora stati capaci di decifrarlo.»
«Senza quei codici, i missili non saranno lanciati. Non senza essere distrutti e rimessi insieme.» Erwin si rivolse a Levi con le mani giunte. «Pensiamo che i codici siano tenuti in una struttura sicura nella regione della Jugoslavia.» Una pausa. «Agente Ackerman, la tua missione è questa: vai in Jugoslavia e recupera i codici di lancio.» Sulle sue labbra si formò un sorriso ironico. «Preferibilmente prima che li decifrino.»
«Accetto.»
Hanji era sull’orlo della sua sedia. «Bene! Ora, non per mettere fretta, ma devo passarti i contenuti di questo,» indicò il raccoglitore pieno zeppo. «in meno di-» guardò l’orologio. «due ore.» batté le mani. «Cominciamo.»
Erwin chiuse il raccoglitore. «Non sarà necessario.»
L’occhiata che lei gli diede era scandalizzata. «Ma-»
Erwin continuò senza fermarsi. «Avrai un sacco di tempo per spiegare tutto all’Agente Ackerman sull’aereo.»
Hanji inclinò la testa. «Cos-»
Erwin si girò verso Levi. «Per la sua vasta conoscenza riguardo questa particolare organizzazione, Hanji ti accompagnerà in questa missione.»
Silenzio.
Un secondo dopo parlarono, le loro voci sorprese riecheggiarono  – quella di lei e quella di lui.
«Huh?»
«Merda.»

 
Note dell’autrice originale:
Eccola qui, la mia spy thriller AU dell'Attacco dei giganti. Questa è il prodotto nato dall'aver guardato troppi film di spionaggio e dall'aver sentito veramenteeee troppa musica su questi film.
Ho scritto il primo capitolo per la Levihan Week su tumblr. Ho aggiornato questa storia lì, ma ora provo a farlo pure qui.
 
Note sulla traduzione:
* In inglese sharp, aggettivo legato a voice, vuol dire anche affilato. Per cui la similitudine col coltello e il burro sta meglio in Inglese ma ho preferito tradurla comunque così perché non mi sembrava bruttissima in Italiano. Se avete delle idee migliori, riferitemelo!
** Crack, la parola usata nell’originale, può anche voler dire “inserirsi in una rete informatica rompendo i codici di protezione del sistema”. Credo che l’autrice volesse dire questo, ma ammetto che non avrei saputo come renderlo soddisfacentemente.

Note della traduttrice:
Salve! Eccomi di ritorno! Stavolta con una traduzione.
Lo ammetto: non mi piace molto il linguaggio scurrile nelle fic, ma questa l’ho proprio adorata e, quando l’autrice mi ha dato il consenso per tradurla, ero veramente contenta!
Spero innanzitutto che il primo capitolo vi sia piaciuto! So che l’attesa è lunga, ma pubblicherò circa una volta al mese, sperando di riuscirci tra impegni e altro.
Se avete domande o dubbi sulla traduzione, non esitate a dirmelo!
Per ultimo, ringrazio tutti quelli che avevano recensito la mia storia “A strange summer and a red cocktail”. Vi risponderò appena posso!
A presto,
Annabeth_Granger1.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


License to science (and kill)

Capitolo 2

Originale


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just_quintessentially_me è un'autrice straniera e a gestire questo account è la persona che traduce le sue storie con il consenso dell'autrice originale, come ho scritto nelle bio. La storia originale quindi appartiene a lei mentre i personaggi ad Hajime Isayama. Come ben sapete l’inglese ha delle strutture diverse dall’italiano quindi la traduzione non è letterale, anche se cercherò di rimanere il più fedele possibile al testo. Sono solo una traduttrice amatoriale e se qualcosa non vi convince, ditemelo pure. Ci vediamo nelle note sotto! Buona lettura.
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«Ci sono domande?»
Il raccoglitore si capovolse, chiuso. Lei alzò lo sguardo in attesa.
Levi era seduto di fronte a lei. A parer suo, dopo aver sopportato la sua spiegazione di tre ore sulla TITAN, l’uomo sembrava solo leggermente annoiato. Quando lei si era esercitata davanti ai suoi gatti, Sawney e Bean, si erano addormentati entrambi nel giro di cinque minuti. Tuttavia quello potrebbe essere effettivamente successo perché loro erano, per l’appunto, dei gatti.
Con una gamba accavallata sull’altra e il mento sostenuto dal suo pugno, lui sbatté le palpebre.
Lei provò di nuovo a chiederglielo. «Levi? Hai capito tutto?»
Muovendo le spalle, Levi si raddrizzò sul suo sedile. «Sì.»
«Perché non hai detto niente?»
«Non avevo alcuna domanda.»
«Normalmente non lavori con un collega, vero?» disse Hanji, infilando il fascicolo troppo pieno nella sua borsa.
«Questa è la tua prima missione sul campo?»
Levi stava completamente ignorando la domanda, allora. Tuttavia lei suppose che la risposta fosse “no”.
Levi era stato nell’agenzia quasi quanto lei. Non che Hanji lo tenesse esattamente sotto controllo, ma non aveva mai neanche sentito che lui avesse lavorato con qualcun altro. Infatti, guardando anche solo il suo abbigliamento, ovvero, pantaloni attillati, una stirata e abbottonata camicia bianca, con una giacca scura e brillanti scarpe, si capiva che come agente lui fosse efficiente, attraente, e che i suoi metodi fossero raffinati. Sul campo, completava una missione dopo l’altra – non importava la difficoltà – senza fallire.
Lui non lavorava spesso con altri colleghi, lei immaginò, perché non ce n’erano tanti che potevano stargli dietro.
«Quattrocchi. Ho chiesto, è la prima volta che lavori sul campo?»
«Non hai risposto alla mia domanda, per cui io non rispondo alla tua.» alzò le spalle lei, schietta.
Inclinando la testa, Levi sospirò. «Di solito no.»
«Come pensavo.»
«Allora perché-»
«No, non penso di essere mai stata sul campo.» Poi si fermò, riflettendo. Salvo che lei considerasse… «Be’, c’è stata quella volta in cui pensavano che un gruppo di terroristi stesse accumulando delle armi nelle fogne. Io sono scesa per prendere dei campioni di-»
«No.»
Lei sorrise, appoggiandosi sul suo sedile. «Mi sa proprio di no, allora. Dovrai mostrarmi i trucchi del mestiere!»
«Non c’è nessun trucco da rivelare. O sai che cavolo stai facendo, o non lo sai.»
Se il suo sguardo piatto era un’indicazione, lei sapeva bene a quale categoria tra le due Hanji appartenesse.
«Meno male che imparo alla svelta.»
Scuotendo la testa, lui guardò fuori dal finestrino. «Gli agenti che non sanno cosa fare sul campo, muoiono sul campo.» Si fermò, mentre guardava il mare di nuvole sotto di loro. Quando prese di nuovo parola, parlò più a se stesso che a lei. «A che diavolo stava pensando Erwin.»
«Stava pensando che in questa missione ti servissi.»
Girandosi dall’altra parte del finestrino, il suo sguardo incontrò quello di Hanji. Questa volta, non contestò.
Perché era vero.
Erwin aveva la rara ma funzionale abilità di separare la logica dalle emozioni. Lei non dubitava che lui avesse considerato sia la sua inesperienza sul campo sia il pericolo a cui ciò esponeva entrambi. Ma l’aveva mandata con lui comunque. Per il semplice fatto che il suo essere lì rendesse più probabile il successo della missione.
Levi conosceva Erwin tanto quanto lei. Sicuramente lui l’aveva capito.
Levi incrociò nuovamente le gambe con un sospiro. «Quando saremo fuori, solo per una volta, fa’ come ti dico.»
Lei lo rassicurò con un sorriso. «Certo.»
Lui non lo ricambiò.
►▼◄
 
L’aereo s’inclinò per atterrare quando il sole sorgeva all’orizzonte. Hanji guardava con le palpebre pesanti come le nuvole si dividevano e come la città di Belgrado, che si espandeva alla sola vista, si apriva sotto di loro. La città, un affollato insieme di quartieri e torreggianti paesaggi urbani, sembrava un dipinto fatto con gli acquarelli; il sole che sorgeva l’aveva bagnata nelle vibranti tonalità del rosa e del giallo.
Mentre lei guardava, con la testa appoggiata al finestrino, gli edifici s’ingrandivano e poteva vedere le prime macchine, mentre strascicavano come delle formiche attraverso gli edifici squadrati. Era la prima volta che vedeva Belgrado, a dire il vero, quella era assolutamente la prima volta che metteva piede nella parte di territorio dell’ex Jugoslavia. Viaggiare non era un privilegio che il suo lavoro poteva permettersi.
Prima di atterrare e prima che lei si affrettasse in giro per l’aeroporto con una borsa in spalla e una valigia a rotelle che trascinava dietro di lei, era riuscita a liberarsi dell’iniziale mal d’aereo. Era stata obbligata a farlo: Levi era pronto a lasciarla indietro.
Lei stette sulle punte dei piedi, sforzandosi di tener d’occhio l’uomo più basso. Oppresso solo dal compatto borsone, lui si muoveva senza sforzo tra la folla.
Quando finalmente era riuscita a raggiungerlo, la sua oscillante borsa colpì la spalla di Levi. Lei cominciò ad ansimare. «Santo cielo, Levi. Ti muovi come un velocissimo scoiattolo.»
Levi roteò gli occhi verso di lei. «Non riesci a starmi dietro perché hai portato troppo schifo. Ti avevo detto di viaggiare leggera.»
Come aveva fatto lui. Ma be’ – che cosa significava leggera? Era un termine così relativo. «Ah, ma come si fa a scegliere cosa prendere? Fuori in una regione straniera, a rubare dei codici di lancio – non si può capire cosa potrebbe tornare utile!»
Lui sibilò, guardando per una volta da entrambi i lati. «Non puoi dire cagate del genere all’interno di un aeroporto.»
Giusto. Lei abbassò la voce fino a farla diventare un bisbiglio. «Inoltre, io e Moblit abbiamo trascorso le ultime settimane a perfezionare dei nuovi gadget. Dovevo portarli con me.»
Mentre parlava, loro camminarono attraverso alle porte scorrevoli. Il marciapiede fuori era pieno di persone di fretta. Malgrado la folla, Hanji stese le mani, prendendosi un momento per respirare in quell’aria frizzante.
«Ciao, Belgrado!»
Un pesante uomo si fece strada accanto a lei, mentre Hanji si accigliò alle sue spalle quando questo passò.     
Levi guardò dietro di lui. «Mi ero dimenticato di quanto tu faccia schifo a essere discreta.» 
«Non siamo tutte fighe spie che vanno in giro per il mondo. È la prima volta che sono qui. Non posso farci nulla! Sono eccitata!» Lei allungò poi il collo, cercando di dare un’occhiata alla città.
«Andiamo.» Mentre lui affrontava la folla, parlò alle sue spalle. «Il quartier generale ha ordinato una macchina?»
«Ho fatto sì che il mio team si occupasse appositamente della nostra sistemazione.»
L’ultima parte della folla si diradò rivelando un lucente, brillante veicolo che aspettava ostentatamente sul marciapiede.
Levi si fermò subito dopo. «Quella è… una Ferrari?»
Lei sorrise. «Ho detto a Nifa di darci una macchina veloce. Nel caso ci sia un inseguimento ad alta velocità o simili.»
Lui sembrava esaurito. «Uno, sai che gli inseguimenti ad alta velocità ci sono solo nei film, vero? E due, il tuo team ci ha dato la macchina meno adatta fra tutte quando si lavora sotto copertura.»
Lei mosse la mano con sprezzo mentre apriva il portabagagli. «Questa è l’Europa. Tutti guidano belle macchine.»
Lui guardò visibilmente una sporca Volkswagen che aveva scelto quell’esatto momento per passare.
Dopo aver lasciato cadere la borsa nel portabagagli, lui girò intorno alla macchina con veloci falcate. «Guido io.»
Dopo aver schiacciato le altre borse, lei riuscì a far entrare a forza il suo borsone pieno zeppo. Il portabagagli si chiuse con un click, resistendo ai bagagli fin troppo pieni con un debole cigolio.
Quando lei scivolò sul sedile del passeggero, Levi stava facendo scorrere un set di chiavi dal parasole.
Lei a malapena ebbe il tempo di mettere la cintura di sicurezza prima che loro stessero già partendo, mentre gli pneumatici stridevano sul marciapiede. Il motore vibrò, cercando con forza di accelerare mentre loro si spostavano nel lento traffico. Lei notò il modo in cui il suo pollice scorreva sul volante in pelle con apprezzamento.
«Dopo tutte quelle proteste, guarda chi si sta divertendo con la macchina sportiva!» 
Un angolo delle sue labbra si alzò. «Quel che è fatto, è fatto. Tanto vale goderselo.»
«Disse il tizio che guida la Ferrari. La prossima volta, guido io.»
«In che hotel hanno prenotato la stanza? Ci servirà un po’ di tempo per esaminare la disposizione della struttura dove tengono i codici e sistemare il nostro piano.»
«Umh…» mormorò lei mentre frugava nello zaino ai suoi piedi. Moblit l’aveva preparato. Quindi doveva esserci per forza un fascicolo con dentro, da qualche parte, la prenotazione dell’hotel. Alla fine le sue dita si chiusero sopra una lucida cartella. Spingendo giù un kit di pronto soccorso, un maglione extra e una torcia elettrica, Hanji riuscì a tirarlo fuori dallo zaino.
Inumidendo il suo dito, sfogliò le carte al suo interno. «Ecco qui. Sembra che hanno prenotato al… Metropol Palace Belgrade.»
Lui fece una leggera risata. «Ovviamente.» Il motore andava su di giri mentre Levi aggirava un lento camion.
L’hotel raffigurato era un torreggiante muro di finestre. Un cortile platealmente acceso si stagliava davanti. «È bello?
»
«Diciamo così.»
        
Note dell'autrice:
La prossima volta: le nostre spie preferite si infiltrano nella struttura di ricerca della TITAN! Tutto sembra andare bene e secondo il piano… oppure no.

Note della traduttrice:
Faccio schifo, vero? Aggiorno dopo praticamente un anno e parecchi mesi. Non so che dire, senonché mi vergogno, terribilmente. Tuttavia sono tornata, e sono pronta ad andare avanti, imperterrita, con questa traduzione. La storia originale è completa, quindi non avrò problemi a riguardo. Adesso ci sono le vacanze estive, e mi impegnerò, nonostante i problemi personali – che mi hanno bloccata – ci siano, a tradurre il più possibile e a portarvi quanto posso. Non vi garantisco aggiornamenti il più presto possibile, ma con maggior frequenza, sì. Per voi, per l’autrice, per questa magnifica storia. Perciò... look foward to it!
Grazie per aver letto fino a qui.
Annabeth_Granger1.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Originale

 
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just_quintessentially_me è un'autrice straniera e a gestire questo account è la persona che traduce le sue storie con il consenso dell'autrice originale, come ho scritto nelle bio. La storia originale quindi appartiene a lei mentre i personaggi ad Hajime Isayama. Come ben sapete l’inglese ha delle strutture diverse dall’italiano quindi la traduzione non è letterale, anche se cercherò di rimanere il più fedele possibile al testo. Sono solo una traduttrice amatoriale e se qualcosa non vi convince, ditemelo pure. Ci vediamo nelle note sotto! Buona lettura.

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«Potresti definitivamente dire così.» borbottò Hanji, la sua voce era colma di stupore. Inclinò il collo, adocchiando il lampadario sospeso sopra di loro.
La busta con le loro prenotazioni penzolava dalle sue mani. Lui, passandole davanti, gliela strappò dalla sua presa.
Il tavolo della reception era scolpito in chiaro marmo, come il pavimento della hall. Un tappeto scarlatto portava al bancone e al sorridente receptionist che stava in silenzio dietro tale mobile.
Levi colpì leggermente il bancone con la busta. «Abbiamo già prenotato.»
L’uomo dietro alla reception, una farsa composta da fin troppo gel per capelli e acqua di colonia, sorrise. «Buon giorno, signore.» Posò gli occhi su Levi, poi sui documenti, e finalmente sul luminoso schermo del suo computer. «Sì, avete prenotato una delle nostre executive suites.» Strizzò gli occhi e schiacciò dei pulsanti sulla tastiera. «Due letti e un bagno.»
Allora avevano prenotato una sola stanza per loro. Levi si guardò dietro le spalle.
Hanji, con il collo ancora piegato, si avvicinò al bancone lentamente.
Lui non era così contento di condividere la camera, ma doveva ammettere che il team di Hanji aveva scelto intelligentemente di prenotarne una al posto di due. Durante missioni come quella, i partner erano più vulnerabili quando erano separati, a prescindere dalle loro personali abilità. Se qualcosa fosse andato storto, il più delle volte sarebbe successo quando uno dei due era da solo.  Anche dormire divisi sarebbe stato pericoloso, nel caso un particolarmente abile nemico fosse stato nelle vicinanze.
Le valigie di Hanji furono deposte vicino al bancone con un tonfo.
Non appena lei si mise di fianco a lui, Levi parlò. «Condivideremo la stanza.»
«Okay.» Sbatté le palpebre lei, non scomponendosi.
Il receptionist si schiarì la gola. «Ecco le vostre chiavi.» Due carte luccicanti furono fatte trascinare sul bancone.
Levi le mise entrambe in tasca.
Lo sguardo del receptionist cadde sulla montagna di valige ai piedi di Hanji. «Puoi lasciare qui le tue borse. Manderò un fattorino a-»
Le mani di Hanji serrarono la presa sulle maniglie delle valige, facendo diventare le nocche delle mani bianche.
Levi poteva solo immaginare gli inestimabili gadget che era riuscita a mettere all’interno di esse. Quando il receptionist si mosse per chiamare il fattorino, Levi intimò con una voce tagliente. «Ci pensiamo noi.»
Dando le spalle all’uomo con gli occhi in quel momento sbarrati, prese dalle mani di Hanji il borsone pieno. Non appena lui si diresse verso l’ascensore, lei si affrettò dietro di lui, mentre le ruote della sua valigia scricchiolavano contro il marmo del pavimento.
«Grazie, Levi! Hai capito che quella lì stava diventando troppo pensante per me, eh?»
Lui aveva notato, infatti, che lei avrebbe quasi fatto cadere il borsone, ma decise di non menzionarlo. «Sei troppo lenta, quattrocchi. Vorrei arrivare alla nostra stanza prima di mezzogiorno.»
Stettero l’uno di fianco all’altro nell’ascensore, mentre dei “ding” enfatizzavano la loro veloce salita.
«Pensi che la nostra stanza sia carina tanto quanto la hall?»
«Probabilmente sì.»
E certamente lo era.
Delle spesse porte si aprirono, rivelando un’ampia stanza con una moquette bianca. Sfarzosi piumoni e tende rossi regalavano al luogo un tocco di regalità.
Con le borse dimenticate vicino alle porte, Hanji girò su se stessa, cadendo sul letto ridendo. Il suono della sua risata era leggero, spensierato. Lei strofinò le braccia e le gambe divaricate sulle coperte, come se fosse stata un bambino che faceva l’angelo sulla neve.
«Sei... mai stata in un hotel prima d’ora?»
Lei soffiò. «Certo, ma non in uno come questo!» Stiracchiando le braccia, si girò sdraiandosi sulla sua pancia. «Il dipartimento di ricerca dell’agenzia non viaggia molto. E se mai lo facciamo, non andiamo in posti del genere
Lui si fermò un attimo, cercando di risolvere l’intricata logica in quella sua frase. «Il tuo team ha prenotato qui.»
Lei sorrise. «Penso che loro stiano cercando di darmi la massima esperienza di spionaggio internazionale.»
Lui si strofinò le tempie. «Questo non è...»
Era vero, lui era stato in hotel come quello prima di allora – di solito quando era sotto copertura. Tuttavia più di una volta la Marriott faceva il suo lavoro.
Lui sospirò, lasciando la sua valigia ai piedi del letto di Hanji. «Tu e il tuo team dovreste lasciar perdere i film.»
Aprendo la cerniera della sua valigia, Levi iniziò a disfare accuratamente il bagaglio. Mentre mormorava a voce bassa, aprì l’armadio. Al suo interno c’erano già pronti dei liberi appendiabiti. Estraendo la sua prima camicia, la avvolse sulla sottile struttura dell’appendiabiti.
«Cosa stai facendo?»
Lui alzò lo sguardo dal paio di pantaloni che stava piegando e riponendo in un cassetto. «Sto mettendo a posto i vestiti. Cos’altro ti sembra io stia facendo altrimenti?»
Lei sbatté gli occhi. «Io credevo che la missione sarebbe dovuta durare un giorno. Forse due.»
Lui alzò le spalle, prendendo un’altra camicia. «Abbastanza tempo da far sì che i miei vestiti diventino spiegazzati.»
Hanji rise. «Maniaco della pulizia, questo è il motivo per il quale le stanze degli hotel forniscono un ferro da stiro.»
«Uso anche quello.» Non c’era alcuna possibilità che i suoi vestiti non accumulassero alcuna piega mentre erano riposti in valigia per un intero viaggio.
Alla fine lui estrasse un paio di luminose scarpe nere di riserva.
Hanji si sistemò gli occhiali, adocchiando l’armadio che era pieno per metà. «Come hai fatto a porre tutti quei vestiti in quella valigia?»
La sacca da viaggio, vuota, era rimasta ormai sgonfia sul letto. Sembrava addirittura più piccola in quel momento di quando era piena.
«È tutta una questione di appropriato uso dello spazio.»
«Dimentichiamoci delle abilità di Moblit nel fare le valige. La prossima volta mi aiuterai tu.»
«Non credo proprio.» disse lui, chiudendo il borsone.
~▼~

Mezz’ora dopo si ritrovarono circondati da due laptop, un tablet, e pile caotiche di progetti e note. O, più accuratamente, Hanji era quella circondata.
Levi era strategicamente appollaiato su una sedia, lontano dal letto di lei completamente reso un casino dalla stessa.
Con i capelli da poco legati e gli occhiali ben appoggiati sul dorso del naso, Hanji si piegò, mentre le sue gambe erano incrociate davanti a un ronzante laptop. Si morse il labbro mentre le sue dita smanettavano sulla tastiera. Lo schermo s’illuminò nel momento in cui aprì le cartelle.
Lui la guardava, pazientemente, mentre lei si spostava più indietro per squadrare il tablet che aveva lasciato acceso dietro di lei.
Nonostante lui fosse soprattutto un uomo d’azione, che si affidava di più all’istinto che a piani complessi, apprezzava la necessità d’imbarcarsi in una situazione delicata come quella con tutte le informazioni possibili e un piano a disposizione.
Sebbene lei fosse un disastro ambulante – lui notò in quel momento che Hanji era sobbalzata verso una nota, mentre afferrava una matita dal punto in cui l’aveva incastrata tra i suoi capelli – quella donna sapeva meglio di chiunque altro come ricavare delle informazioni. E più che quello, lei era abbastanza intelligente da applicare tali preziose notizie per formulare un piano quasi infallibile. Quella era la ragione per la quale a Erwin non piaceva solitamente farle rischiare la vita sul campo.
Con gli occhi che saltavano da uno schermo all’altro, lei morse la punta della sua matita.
«Abbiamo tutto ciò che ci serve per entrare e uscire fuori da lì?»
Lei annuì distrattamente, mentre sfogliava un raccoglitore. «Tutto e di più.» togliendo la matita dalla stretta dei suoi denti, appoggiò la punta con la gomma sui fogli posizionati sul suo grembo. «Un agente è morto per darci queste informazioni. L’avevo visto qualche volta nel dipartimento. Non lo conoscevo così bene, però.» Lei alzò gli occhi.
Lui si rilassò sulla sedia. Una morte sul campo non era un avvenimento insolito. Ogni agente era conscio dei rischi che correva quando intraprendeva una missione. Tuttavia ogni vita aveva un suo valore. La morte di un agente non avrebbe dovuto significare niente. «Allora è il nostro compito far sì che non sia morto in vano.»
Raddrizzandosi, lei prese un bel respiro. Lui poteva vedere la sua determinazione trasparire davanti ai suoi occhi.
«Ecco il piano.»
~▼~

«Ripeti un attimo, quale parte di questo schifoso piano richiede che io ti porti con me?»
Lei alzò la mano, zittendolo, mentre lo strumento tra le sue mani emetteva un ronzio. Lo schermo blu si illuminò, ed ecco che apparve l’immagine. Hackerare satelliti stranieri di solito era un lungo processo che richiedeva un concertato impegno. Almeno, è così per qualcuno che non era abbastanza fortunato da entrare in possesso dell’H2.0. Hanji si agitò, quasi saltellando per la sua felicità, mentre abbracciava il dispositivo tenendolo vicino al petto. L’aveva perfezionato la notte prima della partenza. E fino ad allora fungeva da portafortuna. Un completo attacco informatico in meno di quarantadue secondi – quella era la materia con cui erano fatti i sogni tecnologici.
Tenendolo con le mani a coppa sullo schermo, Hanji fu attenta ad attutirne il bagliore. Erano a un isolato di distanza dall’area da raggiungere, ma era sempre meglio prevenire che curare.
«Riesco a vedere in piani del complesso. Presto sarò capace di verificare se le informazioni riguardo ai turni di guardia siano attendibili. In tal caso, la nostra migliore occasione per entrare si presenterà...» Lei guardò il suo orologio. «tra circa quattro minuti.»
Con le braccia incrociate sul petto, Levi diede un’occhiata ai contorni della forma dell’edificio. «Posso vedere anch’io da qui.»
Lei guardò lo schermo. «Ma io posso farlo meglio. E inoltre con tutti i soldi che hanno accumulato, c’è una grande possibilità che la TITAN abbia qualche tecnologico asso nella manica. Questo è il motivo per il quale io sono qui con te.»
«Mi sono scontrato con più di un nemico tecnologicamente avanzato prima. Non sono il dinosauro* che tu credi che io sia.»
«Il destino di alcune nazioni dipende dalla nostra conquista di questi codici. Se c’è anche la più piccola possibilità che la mia presenza ci renda più probabile il successo della missione, è un mio compito stare qui.»
«Perché non lasci che le tue sopracciglia crescano e diventi Erwin ormai. Inizi a parlare come lui.»
Lei rise, tenendo gli occhi fissati sullo schermo. «Penso che il mondo abbia bisogno di un solo Erwin Smith.»
«Concordo con te a riguardo**.» Una pausa. «Sembra che si stiano preparando a cambiare il turno. Lo vedi?»
Lei lo guardò di traverso. Piccole macchie infrarossi danzavano sullo schermo squadrato. «Sì, si stanno muovendo.»
Levi si alzò. Sbirciando dietro l’angolo, alzò l’orlo della sua giacca, tastando il suo petto con una mano. Nascosta appena sotto il tessuto del suo giaccone, c’era un’elegante, splendente arma appesa alla fondina attaccata sulla sua spalla. Delle cinghie nere la tenevano allacciata a quel lato del suo petto.
«Avrò anch’io una pistola?»
Lui la guardò dietro. «Hai mai fatto un addestramento con delle armi da fuoco?»
«No.»
«Allora non avrai una pistola.»
Lei mise il broncio.
«Solo,» esitò lui, controllando nuovamente i confini dell’edificio. «stammi vicino. È il momento di muoverci.»
Uno sprint, due recinti sormontati, e una snodata*** strisciata sotto un insieme di cespugli dopo, erano dentro.
Hanji ansimò. Inginocchiandosi, tirò fuori un dispositivo dalla tasca della sua veste. Pure il VFD era stato un lungo progetto. Ma dopo averlo testato per mesi, lei era più che sicura che avrebbe svolto il suo compito bene quanto si aspettava. Sopra il rettangolare strumento, s’illuminò una luce verde. «Ogni segnale video prima attivo dovrebbe essersi interrotto. Dovremmo riuscire ad addentrarci all’interno senza che alcuna telecamera ci filmi.»
Occupato a guardare uno dei più grandi cespugli, Levi grugnì in risposta.
Lei rimise il VFD dentro la tasca, dandogli un colpetto con la mano. «Grazie, Hanji.» borbottò lei a bassa voce, imitando quella di lui. «È una bella cosa che tu abbia passato tanto tempo e messo tanto impegno nel perfezionare questi gadget.» lei stessa rispose, con un tono normale. «Oh, grazie, Levi. È sempre bello essere apprezzati.»
Raddrizzandosi, lui la tirò per la manica. «Sta zitta e muoviti.»
Mentre correva sull’erba, adocchiava l’H2.0. Fino a quel momento tutto andava bene. I puntini più vicini erano ben lontani da loro.
Lei aveva appena girato l’angolo, quando lui le prese il braccio, fermandola.
«È qui.»
Rimettendo a posto i suoi occhiali, Hanji guardò in alto. Ed eccolo lì, il tubo di scarico che lei aveva creduto fosse un ideale (per non dire silenzioso) mezzo per raggiungere il tetto. Anche se, adocchiandolo ora, esso sembrava piccolo e la sua parete era particolarmente liscia.
Levi mise le sue mani attorno al cilindrico pezzo di metallo e tenne un piede fortemente ancorato al muro. «Andrò prima io, tu controlla il tetto. Arrampicati dietro di me. Cerca di non finire col culo per terra.»
«Non finirò...» Hanji analizzò il tubo, che copriva in altezza più piani. Lei deglutì. «col culo per terra.»
Levi si stava già arrampicando. Con entrambe le mani attorno al tubo e i piedi attaccati fermamente alla parete lui si elevava con piccoli salti.
Lei non riusciva a decidere se lui assomigliasse di più a una rana o a una scimmia. Ma suppose che non importava. Ci stava riuscendo. In poco tempo aveva scalato la parete con un impressionante ritmo.
Allungando il passo verso la parete, lei piegò le mani. «Okay, Hanji. Non sei una super spia come il tipo là sopra, ma hai fatto anche tu l’allenamento di base. Tutti quelle flessioni che Mike ti ha obbligato a fare daranno finalmente i loro frutti.»
Afferrando saldamente il tubo, ancorò una lunga gamba al muro. Piegando le ginocchia, si spinse verso l’alto. Facendo una smorfia, pose una mano sopra il punto dove c’era l’altra. Il tubo era sorprendentemente freddo al tatto.
Il corpo piegato in una strana angolatura (lei dedusse che la sua forma più smilza non era così predisposta all’arrampicata rispetto al corpo più compatto di Levi), lei lentamente spinse di nuovo e si mosse verso l’alto.
Quando le sue dita s’incurvarono finalmente sul bordo del muro, lei sorrise, trionfante. Durante il periodo in cui lei si era accovacciata sopra quel bordo, Levi era piegato su un quadrato condotto di ventilazione.
Lui guardò in alto. «È questo?»
Chiudendo gli occhi, lei consultò le note che aveva memorizzato nelle ore precedenti. Loro si erano arrampicati sulla facciata che guardava verso ovest. Sul lato a nord dell’edificio c’era una porta, protetta da una password e la cui stanza era sorvegliata attentamente. Nella parte a sud del tetto c’era un condotto di ventilazione che arieggiava gli uffici al secondo piano. A est c’era un simile condotto, ossia quello davanti a loro, che ventilava il laboratorio e i magazzini.
Lei aprì gli occhi. «È questo.»
Lui annuì. Estraendo un oggetto dalla tasca interna della sua giacca, fece un passo indietro. Premette un pulsante e il tetto fu illuminato da una luce rossa. Con una mano ferma diresse il flusso del laser attorno ai bordi del condotto d’aerazione. La luce si spense, e usando l’altra mano, immerse le dita negli spiragli della grata di metallo, afferrandola prima che potesse sferragliare all’interno del condotto.
Inginocchiandosi di fianco a lui, Hanji gli strappò lo strumento cilindrico dalla sua presa.
«Un ER7.» girò il compatto laser con la mano. «Questo modello è di anni fa. Avresti potuto dirmelo, ti avrei dato un ER11.»
Guardandola in malo modo, l’uomo riprese l’oggetto. «Mi piace questo. È facile da usare e fa il suo lavoro.» Detto questo ficcò lo strumento di nuovo all’interno della tasca.
«Oddio, tu sei un dinosauro con la tecnologia.»
Lui premé una mano sulla schiena della donna. «Entra nel condotto, quattrocchi.»
Alzando le sue mani in segno di resa, si precipitò sul bordo. Prima di caderci dentro, lo salutò. «Certo, Ackersaurus-rex.»
«Chiudi quella bocca.»
Lei cadde immersa nel buio. Atterrò, con il metallo risonante, arrotolandosi sulle punte dei piedi. Un attenuato rumore sordo dietro di lei le fece capire che Levi l’aveva seguita.
Dopo che lei ebbe rigirato l’anello che adornava il suo indice, il passaggio fu illuminato da una tenue luce.
Levi avanzò dietro di lei. «L’hai messa al minimo?»
«Sì.»
«Bene. Ora muoviti e gattona. Abbiamo... quanti? Sei metri da percorrere?»
Lei posizionò fermamente i palmi sul metallo freddo, facendo i calcoli a mente. «Cinque metri e sessanta centimetri.»
Una mano premette il tacco delle sue scarpe. «Va.»
Mentre procedevano all’interno del condotto, ogni suono era amplificato. Pure i respiri di Hanji sembravano esageratamente rumorosi. Mordendosi le labbra, iniziò a inspirare lentamente dal naso.
Mentre gattonava, Hanji contava le grate che scorrevano sotto di loro. Erano quasi arrivati a destinazione, quando lei lo vide. Era un debole bagliore di luce nell’offuscato tunnel.
«Levi.» il nome fu un sibilo emanato dalla voce della donna. «Fermo. Non muoverti.»
Lui s’immobilizzò istantaneamente. «Che succede?»
«Qualcosa-» lei strizzò gli occhi, cercando di notarlo di nuovo. «c’è qualcosa nel condotto. Laggiù.»
«Si sta muovendo?»
«Sì.»
Ed eccolo di nuovo. Un bagliore di luce in fondo, alla loro sinistra. Lampeggiando, la luce fu verde, poi diventò rossa. Le si rivoltò lo stomaco. Sapeva cosa fosse.
Balzando indietro, lei colpì Levi. Mentre lui grugniva, lei metteva le mani dietro la schiena, immergendole febbrilmente all’interno della tasca. «Una cimice, Levi. Hanno una cimice.»
Una cimice era un piccolo drone specializzato per la ricognizione – con un ritocco. I suoi sensori di movimento, per quanto limitati in raggio, erano spaventosamente accurati. Poteva essere programmato affinché rilasciasse gas tossico o proiettili paralizzanti quando i suoi sensori percepivano il minimo movimento.
Le mani dell’uomo s’irrigidirono, le sue dita s’immersero nella schiena di lei. «Merda.» Lei sentì il respiro del suo compagno, tagliente, come una freccia scagliata contro il suo orecchio. «Hai un-»
«Sì.» le goffe mani estrassero il dispositivo simile a un telecomando. Lei poteva sentire ora un ronzio metallico mentre la luce lampeggiante si avvicinava. Ponendo l’oggetto davanti al petto, lei digitò un codice irrequietamente. Il ronzio persisteva. «Non muoverti.»
«Tu ti stai muovendo.» La sua voce era calma. Se non fosse stato per la sua stretta presa alla maglietta di lei, Hanji avrebbe creduto che lui fosse tranquillo.
«Non posso fare altrimenti.» “Ci sono quasi”. Spingendo la lingua tra le labbra, lei digitò la rimanente parte del codice numerico.
La lampeggiante luce divenne rossa. Un acuto “bip” si fece sentire, riecheggiando tra le mura di metallo.
«Hanji-»
«Aspetta.» “Invio. Invio. Invio.” Il suo pollice premette il tasto, ponendo termine al comando.
La luce lampeggiò, fortemente rossa. Il “bip” raggiunse il suo picco di volume.
Lei fu strattonata, il che la fece ritrarre. Il collo scattò in avanti, le mancò il respiro.
Poi, il silenzio.
Con il petto ansimante, lei adocchiò il soffitto metallico del condotto. Levi era appoggiato per metà sotto di lei. Una mano rimaneva sulla schiena della donna, il punto usato per spingerla indietro. L’altra teneva la sua pistola allentata. Un dito era sul grilletto, l’arma era alzata, sul punto di sparare al drone.
Hanji, faticando, si rialzò.
La pistola si abbassò.
Le lampeggianti luci del drone erano state spente. Non più in volo, rimaneva steso sul pavimento del condotto, muto.
Rimettendo l’arma dentro il fodero, Levi disse una parolaccia sottovoce. La sua spalla era affilata nel punto in cui premeva sulla schiena della donna.
Lei passò una mano sul telecomando. Era riuscita ad annullare i controlli della cimice e a zittirla. «Giusto in tempo.» Lei sospirò, inclinandosi all’indietro.
Delle mani la spinsero verso l’alto. «Togliti.»
Cadendo sulle sue ginocchia, lo guardò accigliata in risposta. «Tu sei quello che mi ha fatto arretrare in primis.» Dopo aver sistemato il telecomando nella tasca, lei cominciò a gattonare. «Non che io non apprezzi il gesto. Chiaramente stavi cercando di salvarmi il culo da qualunque cosa sarebbe potuta uscire da quel drone.»
Lui non rispose.
Lei diede un’occhiata verso il basso mentre girava attorno al drone in miniatura. In parte voleva prenderlo e portarselo a dietro. Anche quando le sue mani fremettero, pronte ad afferrarlo, lei premette le sue ginocchia sul pavimento del condotto e procedette. Per quanto lei lo volesse, non c’era un modo efficace per portarlo con sé. Lei non desiderava correre il rischio che la cimice avesse un malfunzionamento ed emettesse qualunque sostanza che aveva al suo interno durante la loro fuga. La missione in questione aveva la priorità.
«Come riferimento futuro però, sparare a una cimice non è un metodo infallibile per disattivarla. La metà delle volte funziona. Ma c’è la stessa probabilità che la cimice rilasci qualunque tossico materiale sia contenuto al suo interno.»
Levi grugnì. «Lo terrò a mente.»
Passarono sopra a un’altra apertura del condotto. E poi, arrivarono a destinazione. Mentre lei usava il suo H2.0 per scansionare la stanza alla ricerca di cimici – o peggio –, Levi prese il suo laser preistorico e iniziò a usarlo sulla grata.
Mentre sorreggeva una mano su di essa, lui la guardò.
Lei annuì. «Campo libero.»
Tirando su l’apertura del condotto, la spia si lasciò cadere.
Tenendosi attaccata al ripiano, lei si abbassò dopo di lui.
Nel momento in cui lei si fece cadere e i suoi piedi iniziarono a picchiettare leggermente sul pavimento, Levi si diresse vero la cassaforte. Lontana un piede da loro, essa sembrava essere stata realizzata in duro metallo. Era incastonata nel muro.
Accovacciandosi di fronte a essa, Levi si sporse verso la manopola. Le sue dita avevano a malapena sfiorato la sporgenza rotonda, quando la spessa porta si aprì. Il compatto spazio all’interno era vuoto.
Appoggiandosi sulle sue ginocchia, Levi si allungò, probabilmente per controllare se ci fosse al di sotto un comparto nascosto. Quando ritornò alla posizione iniziale, il suo viso era cupo.
Le braccia di Hanji penzolavano, molli, ai lati del suo corpo. «Non è qui?»
Lui si leccò le labbra. I suoi occhi sfrecciarono attorno alla piccola stanza. Mai così cautamente come allora, lui si sporse verso la sua giacca.
Nel frattempo, anche lei si era avvicinata alla cassaforte. «Com’è possibile?»
L’informazione proveniva da una fonte affidabile. Non era possibile che fosse falsa.
Un allarme risuonò.
Lei si girò. Sopra la porta delle luci rosse e bianche iniziarono a lampeggiare.
«Ehi, quattrocchi, è il momento di andare.» Con la pistola in mano, Levi fronteggiò la porta.
 

Note sulla traduzione:
 
*Dinosaur è letteralmente la parola del testo originale. Considerato che è usata anche dopo, sembra sia uno slang/modo di dire per indicare una persona che non è tecnologicamente al passo con i tempi.
** “Won’t argue with you there” significa letteralmente “non discuterò con te a riguardo”, ma una tale traduzione non avrebbe riportato, secondo me, il fatto che Levi fosse praticamente d’accordo con Hanji. L’ho tradotta quindi molto liberamente.
***army, questa era strana. Molto strana. Credo che in questo caso con “army” si volesse dire in maniera divertente un “bracciosamente”, cioè, una gattonata con molte bracciate. Ma ovviamente non potevo tradurre in tale modo, quindi ho optato per “snodato”.
Ultimo appunto: non ho assolutamente idea se i nomi della maggior parte dei dispositivi usati dai personaggi nella fanfiction siano veri. Colpa mia che inizio a tradurre una fic di spionaggio senza essere una vera esperta nel genere. Ho deciso di lasciare i loro nomi originali, eccezione fatta per bug, sebbene la traduzione della stessa, ossia cimice, mi lascia tutt’ora perplessa. Spero sia giusta.
 
Note della traduttrice:
 
Finalmente, sì, finalmente. Il terzo capitolo... un vero parto. Soprattutto la parte finale, la cui traduzione mi lascia completamente insoddisfatta, ma spero sia comunque corretta. Almeno ci ho messo meno di un anno? Ahah. Ah. Magra consolazione, lo so. Non continuerò a dire i perché di questi miei ritardi, sappiate però che non ho intenzione di abbandonare questa traduzione. Solo, gli aggiornamenti non saranno frequenti, ma sicuramente cercherò di portare almeno un capitolo ogni due mesi. Ci proverò! Su EFP c’è bisogno di più Levihan di sicuro.
Intanto la storia si fa molto più intrigante, yep! Oh, il rapporto Levihan è ancora freddo, ma non vi preoccupate, pian piano questo cambierà.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Grazie per aver letto fino a qui! Se avete qualunque cosa da dire riguardo alla traduzione, alla storia – che non è mia, ma dell’autrice originale, come già ribadito –, scrivetelo in un commento.
A presto! (Si spera).
Annabeth.

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