Una Mano Tesa

di tixit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una Mano Tesa ***
Capitolo 2: *** L'Odore del Vino ***
Capitolo 3: *** Un Cognac Borderies ***
Capitolo 4: *** Un Impegno Inatteso ***
Capitolo 5: *** Un Passato di Verdura ***



Capitolo 1
*** Una Mano Tesa ***


Disclaimer: non posseggo i personaggi e non vi è scopo di lucro.


Una Mano Tesa

 

"Non dovrebbe bere, Madamigella."

"Mi fate la predica Girodelle?"

"No," disse l'uomo con un sorriso distratto che si fermò giusto per un istante sulle labbra e poi sparì. "No, Madamigella Oscar, non mi permetterei mai."

"E quindi?"

Lui non disse nulla, spinse solo il cavallo verso un ponte della Senna, dove i tintori versavano i loro rifiuti nell'acqua melmosa del fiume.

Osservarono in due la velenosa miscela di quello che era stato, forse, il verde di una seta per una donna orgogliosa della sua bellezza, con il rosa dei fiori di un cappellino di qualche ragazzina: si allargava attorno al pilone, impietoso, nel fango dorato. Se fosse stato un tessuto le Dame se lo sarebbero conteso senza sapere che era solo il racconto di una morte un po' meno lenta. Ciò che avanza di un po' di vanità, buona per una sola stagione.

In basso, vicino alla riva, un acquaiolo raccoglieva la melma in due vasi, un altro si allontanava con altri due posti a bilanciere sulla schiena.

"Qualcuno comprerà quell'acqua e la berrà," disse l'uomo con voce neutra, "con un po' d'aceto per mascherarne il sapore."

Lei represse un conato di vomito: l'odore pungente arrivava fino a lei... berla, ma come si poteva?

"Voi avete acqua di fonte a Palazzo Jarjayes, vero?"

Lei lo guardò con aria arrogante - lo sapeva come era l'acqua a Palazzo, e allora? "Acqua di fonte in bicchieri di cristallo."

"Tutto molto bello", l'uomo si allontanò dal parapetto, per avviarsi verso una bettola.

Lei lo seguì riflettendo che non l'aveva invitata. Nemmeno costretta per altro. E neppure pregata.

Si era avviato e basta, senza voltarsi per vedere cosa lei avrebbe fatto. 
Lo paragonò ad André per un istante, che l'avrebbe seguita in capo al mondo, sempre due rigorosi passi indietro, felice di camminare nella sua ombra. Lo paragonò e lo trovò mancante, ma di cosa, con esattezza, non seppe dirlo.

Legarono i cavalli in silenzio.


Mentre bevevano il vino - lui a piccoli sorsi, lei smodata, con aria di sfida - lui disse "Chi beve quell'acqua muore lentamente, un sorso alla volta - capisco che il vino sia una tentazione, una scelta di allungarsela la vita e non di bruciarla."

"E quindi?"

"E quindi nulla" non la guardava, "dico solo che avete acqua di fonte," sorrise "e splendidi bicchieri di cristallo..."

"Non vi piacciono i bicchieri di Palazzo Girodelle?" lo prese in giro spazientita, "Volete parlare con mio padre perché ve ne doni qualcuno?" - cosa voleva da lei, di che si impicciava, non l'aveva cresciuta, non l'aveva amata quando era piccola e non sapeva di donna, e nemmeno comandata, ma come si permetteva?

"Non avete il tempo." lo disse quieto, "Quello a Palazzo non ce l'avete: scorre rapido, non si compra e non si scambia. Si consuma... c'è chi lo consuma ridendo e donando calore, riempiendolo insomma, o riempiendo quello degli altri; voi lo bruciate in una fiamma priva di luce."

"Siete poetico." rispose piccata. "Un uomo di spada che parla di fiamme e calore... Vi sfugge che questo tempo che brucio è mio e solo mio."

"Non mi sfugge," non la guardava, "pensavo solo allo spreco. Se se ne potesse disporre a piacimento, forse lo avreste scambiato con..." fece un gesto vago." ci sarebbe stato un senso, quanto meno, nel gettarlo via."

Lei sgranò gli occhi ed ebbe un gesto di stizza. Ripensò ad una cicatrice, un omaggio alla sua arroganza, qualcosa di cui ognuno taceva, e che avrebbe scambiato... ah se avrebbe scambiato... ma lui che cosa ne poteva sapere?

"Io credo che forse Voi fate da troppo tempo le stesse cose, Madamigella." lui guardava pensoso il bicchiere, "Cambiare un dettaglio a volte fa bene."

"Mi suggerite una vacanza in riva al mare?" chiese acida - come si era permesso - non era affar suo. Non lo era mai stato.

Sorrise. "No, per piacere, pensavo a qualcosa che non fosse solo un bel gioco che trova la sua fine nella rima..."

"Un bel gioco dura poco." ribatté stizzita - detestava queste frasi involute.

"Pensavo ad un cambiamento più sostanziale..."

"Sposarmi?"

Lui rise e scosse la testa "Non ci siete portata, a condividere intendo", lei socchiuse gli occhi indurita - ma che ne sapeva? Lei aveva condiviso eccome. Ripensò ad un letto e ad un temporale - lui cosa ne sapeva?

"Pensavo a qualcosa di molto più semplice e pure assai più complicato," riprese l'uomo, in tono pacato, "Un altro lavoro - per iniziare."

"Io il mio lo faccio benissimo. Dovreste saperlo."

"Lo so," disse conciliante, "lo fate troppo bene, e così il fallimento ve lo cercate altrove, in modi poco complicati, ma di sicuro effetto." e indicò - elegante, glielo concesse - la bottiglia. "Perdere ultimamente so che vi piace,  vi state impegnando a fondo per una sconfitta eclatante... perché non provate a perdere facendo qualcosa di nuovo? basta Versailles, basta persone che conoscete a menadito, basta problemi banali..."

Non disse basta problemi di cuore e lei si chiese se per caso lo stava pensando. Ma il cuore era una cosa che lui aveva sempre finto che lei non avesse. 
Quanto a lui... non si era mai avvicinata abbastanza da poterlo sapere.

"E cioè?"

"E cioè io credo che una bella sconfitta e rialzarsi e riprovare di nuova e rifinire con la faccia nel fango - metaforico " fece un gesto vago, "metaforico, intendo, dovrebbe piacervi. Non una vacanza, ma una sfida in cui perderete e riperderete... vi piacerà e dopo che vi sarà piaciuta... chi può dirlo?"

Non era stupida. Riconobbe una mano tesa a tirar fuori qualcuno caduto nell'acqua, che non sa come uscirne. Riconobbe pure che non l'avrebbe costretta. E nemmeno pregata. E nemmeno glielo avrebbe detto di nuovo.
Come se stesse pagando un debito che aveva con qualcuno - ma con chi non sapeva, forse qualche dio a cui sacrificava le parti migliori.


"Una sconfitta dite..."

"Provare, riprovare, quel sottile piacere che per quanto si sbagli, qualcosa, ogni volta, è un pochino migliore..."

"Con la spada direi che sono brava..."

"Appunto," la voce restava paziente, "Cambiare un dettaglio. Il resto poi vedrete che viene da sé."

Lasciò una moneta sul tavolo e se ne andò "E' tardi," le disse, "ho un impegno."

Si avviò all'uscita, il passo elastico - senza voltarsi a pregarla o esortarla, nemmeno a vedere se l'avrebbe seguito.

Lei guardò attenta il bicchiere.

Poi con gesto deciso, lo capovolse e si alzò.

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Capitolo 2
*** L'Odore del Vino ***


L'Odore del Vino


I ricordi sono una cosa strana, pensò, una volta fuori.
Non affiorano mai in ordine cronologico, come una storia, o in ordine di importanza, come un rapporto militare, o una lista di cose da fare.
Arrivano a ondate, richiamati da odori o sapori, o perfino rumori. Il sapore del vino per esempio, l’odore della pioggia sulla stoffa di una uniforme, il tintinnio di un bicchiere, i passi di un uomo che se ne va senza guardarsi indietro.

Ma il vino della bettola non era quel vino, il tintinnio dello stagno non era quello del cristallo, e quei passi… non era quell’uomo. Solo una rozza rappresentazione della loro bellezza, una caricatura.


O forse, rifletté, la rozza rappresentazione era fin troppo benigna, perché, e lì sospirò, il vino sarà anche stato migliore, ma il ricordo sapeva di fiele.
 

Si appoggiò senza fiato contro la parete scabra del vicolo. L’odore era disgustoso, il peggio di un essere umano,

 

Se avesse potuto vedere il suo ricordo del vino come un quadro non avrebbe saputo da che parte osservarsi. Boucher ne avrebbe tratto una scena leggera e lasciva: una donna sdraiata davanti ad un camino che sta lentamente bruciando, un fuoco d’artificio pronto ad una esplosione festosa, narrato un attimo prima che questa succeda anche se, a dire il vero, noi non lo sappiamo se mai esploderà - non era successo, lui  non l’aveva permesso,

Dall’alto? Le schiena di lui - bella, forse, non si era spogliato - la testa sul seno, i riccioli biondi di lui a confondersi con quelli di lei. Il volto di lei… infinita dolcezza, una resa? o qualcosa di molto animale? Solo lui lo sapeva.
Lei gli occhi li teneva chiusi, ostinata, ricostruendo un volto, un sorriso, uno sguardo, non volendo vedere. Non volendo sapere.
 

Di lato? Le gambe di lei sollevate, coi pantaloni intatti, a cingere i fianchi di lui. Solo la camicia, da qualche parte a terra, il vino versato sulla pelle di lei, le labbra di lui che assaporavano la scia… avide? le sarebbe piaciuto, ma sapeva che era come una danza, una coreografia perfetta. Socchiuse gli occhi, come una prova generale prima dello spettacolo vero, qualcosa giusto per ripassare i passi, prima del vero pubblico in sala.

 

L’aveva accarezzata e baciata - mai sulla bocca - aveva sorriso - di lei o con lei? - e le aveva chiesto tu dimmelo.
Cosa? ti amo? ti voglio? Lei, non lo sapeva. Lo amava, ah se lo amava quell’uomo perfetto, e lo voleva, non era chiaro? Il fatto che lei fosse lì, in quel modo, indifesa… che altro voleva?

Noi saremmo perfetti sussurrava, sulla carta perfetti, se solo io non fossi innamorato di un’altra. Ma tu dimmelo.

 

Ma lei non glielo diceva, e così lui si fermava, la lasciava sospesa in attesa del prossimo passo, le diceva che non potevano, rivestiti e vai, si è fatto tardi, è sbagliato.

Quello che lui non diceva eppure anche lui lo sapeva è, proseguiremo la prossima volta, con il prossimo messaggio, per un altro appuntamento mancato. Se sarai brava.

 

Il peggio del peggio di un uomo. Pensò sospirando.

 

Eppure per tre sere aveva aspettato che Lei le chiedesse di portargli un messaggio, e poi era corsa fino alla casa di lui, trovandolo lì, in attesa. Aveva accettato che lui la trattasse come un omaggio da unire ad un biglietto di scuse non posso venire, gradite questa semplice rosa - se l’era chiesto se Lei lo sapeva, non sapendo cosa fosse peggio, essere solo uno scambio, o essere quella che tradisce un’amica. Sperò ogni volta la seconda, vergognandosene, ma non abbastanza.

 

“Non siete una dea, siete solo una donna” gorgogliava per ogni sospiro che le strappava.

 

Ogni volta una carezza più ardita - le mani sotto la stoffa, solo l’ultima sera la camicia era finita in terra con un fracasso assordante (lo sentì solo lei) - ogni volta il solito pentimento - tutto di lui, lei era persa sotto le sue mani, nodo di desiderio e sospiri - non possiamo, non dobbiamo, non sei lei, non sono io, non siamo noi. L’avesse detto un altro si sarebbe irritata. Non siamo?

 

Girodelle lo sapeva? Se lo chiese e decise di sì: lo sapeva.

La terza volta che non fu la terza Girodelle l’aveva fermata, una questione urgente le disse, ore per delle scartoffie. Lei che fremeva e poi piano piano pensava che forse era meglio così.

 

Quando lui se ne stava andando, lì sulla porta, i capelli più lunghi dei suoi, s’era voltato, come per un ripensamento, e le aveva detto “Giocate a carte?”

Aveva scosso la testa.

“Peccato perché allora sapreste… a volte è necessario vedere la mano dell’avversario per capire se si è vinto o se si è perso… ma un giocatore un pochino più esperto” le aveva sorriso “non ne ha bisogno, sapete? Lo capisce da solo...”

“Giocare per giocare va bene…” aveva aggiunto, “non siamo bambini... è giocare per vincere, o per rifarsi, che è solo un disastro.”

Poi era sparito.

 

Allora lo aveva pensato uno sciocco, un giocatore che si crede esperto di carte, parlare con lei dell’azzardo, lei che non rischiava mai nulla.

 

Si staccò dal muro, l’odore del vino ancora sulle labbra a prenderla in giro.

 

Adesso tradurre era facile pensò non serve andare a vedere, sdraiata sulla schiena, se un uomo ti ama o ti vuole. Se Fersen l’avesse voluta l’avrebbe afferrata per un polso in uno dei corridoi di Versailles e portata… ovunque perfino una stalla le sarebbe bastato. Sorrise. Perfino la lavanderia dove le serve puliscono le pentole, le mani nell’acqua bollente, l’odore dell’unto e del fondo bruciato.
 

Se Fersen l’avesse amata non avrebbe permesso che lei gli portasse biglietti d’amore di un’altra.

 

Non avrebbe mai detto non siamo.

Noi siamo.
Avrebbe detto noi siamo.


Cattivi, fedifraghi, infedeli… liberi, giovani, belli. Innamorati.

 

Noi siamo.


Sospirò e montò a cavallo. La prima goccia di pioggia la colpì sulla guancia, bacio inaspettato, tradimento da Giuda. Quello non lo voleva ricordare decise. Con rabbia spronò il cavallo verso casa.

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Capitolo 3
*** Un Cognac Borderies ***


3. Un Cognac Borderies

Innervosita si ritrovò a percorrere con passi lunghi il suo salottino – il tacco degli stivali affondava nel tappeto e lei si sentiva come un felino che cammina senza far rumore, ma dove era la sua preda? E, soprattutto, chi avrebbe dovuto attaccare?

“Acqua di fonte in bicchieri di cristallo” mormorò indispettita, ma come si permetteva? Un uomo dai capelli lunghi che le dava consigli di vita? A lei? Proprio a lei? Il suo capo?
Quello era chi avrebbe voluto attaccare: un uomo dai capelli troppo lunghi per essere preso sul serio.

Con un gesto brusco aprì uno stipetto e ne trasse una bottiglia di cognac – veniva dalle Borderies, non era quel tipo di bere che servono nelle guinguette fuori porta, dove il vino costa troppo poco perché valga la pena di pagare il dazio e portarlo dentro Parigi: quello era cognac da meditazione.

Tolse il tappo con un gesto deciso ed annusò rapita: burro, gelsomino e incenso. Altro che acqua di fonte. Acqua gelida come un uomo che non alzava mai la voce, il suo eterno secondo. L’acqua andava bene per lui, come il cristallo, per lui che era ghiaccio. Per lei, che era di fuoco, ci voleva ben altro.

Si versò un bicchiere e sedette su una poltrona accanto al camino.

Annusò agitandolo piano il bicchiere, scaldato dalla sua stessa mano... aroma rustico come una cucina normanna dove il burro non mancava mai: il gusto delle sue estati di ragazza – sempre accanto ad André, il suo migliore amico. Si rabbuiò e bevve il primo bicchiere d’un fiato. Le parve salato come le lacrime che aveva versato. Rabbiosa non volle ricordare.

Cosa ne poteva sapere Girodelle dell’agnello cotto nel burro sfrigolante, del pane immerso nel sugo unto, del sapore delle erbe selvatiche, mentre il vino scorre e le risate rotolano su un tavolo? Lui che di sicuro aveva un cuoco e cenava impettito in qualche salone del suo palazzo, solo come un boia?

Solo come lei, pensò irritata stringendo il bicchiere tra le dita.

Si versò ancora da bere, e ripeté il rito... eccola la nota carnale come il fiore del gelsomino.

Carnale come lei era stata solo una volta, malata d’amore per un uomo che non la voleva – e avrebbe potuto averla, ah se avrebbe potuto... - eppure la assaggiava, mani pronte a saggiare la sua reazione come lei avrebbe fatto con un cavallo o con una pistola, giusto per capire come reagiva, che ci si poteva fare con una come lei, che piacere gli avrebbe dato in cambio sotto le sue mani, che trucchi le avrebbe potuto insegnare, per cosa era portata.

Lui le aveva letteralmente buttato giù il sorriso a colpi di pistola, mentre inseguiva, ridendo, la scia della sua pelle d’oca con la punta delle dita, un dolore peggio che il ramo nel braccio quando non aveva ancora venti anni. Non una parola d’amore da quelle labbra. Nemmeno una rassicurazione su quello che stavano facendo, su cosa faceva lei... solo il pentimento, dopo, di lui verso Lei, la donna che davvero amava, quella che se non ci fosse stata allora lui forse con lei...

Ma per lei, mentre la sfiorava, solo una risata gorgogliante “Non siete una dea dunque, siete una donna” come se essere donna fosse solo essere una scia di desiderio sotto le dita di lui e null’altro – forse era vero, le donne, lei, le aveva sempre disprezzate (tranne le sue sorelle, anche se poi, quel tranne, non era stato poi nemmeno per tutte e nemmeno tutte le volte, e, a dire il vero, nemmeno proprio tutto il tempo).


Le frasi di Girodelle allora le avevano bruciato i pensieri,  più che la pelle sotto le dita di quell’altro – l’aveva paragonata ad un giocatore, di quelli che si rovinavano alla luce delle candele, incapaci di dire basta sia quando vincevano sia quando perdevano. Gente sciocca, debole e malata che riempie i vuoti complicandosi la vita.

Non lo aveva capito nella stanza, quando s’era voltato a dire la sua, saggio come il corvo di una favola e altrettanto indisponente. Sgradevole consigliere che non gracchiava, ma sussurrava frasi sibilline che al momento giusto prendevano un significato che faceva male.


Non lo aveva capito subito, ma dopo,  la volta dopo, da Fersen, lo aveva capito che ogni pezzetto della sua pelle che lei concedeva era una puntata disperata, sempre un po’ più alta, per cercare di recuperare quello che aveva già perduto. Candele anche lì. Anche lì qualcuno che vinceva e qualcuno che perdeva.
Il silenzio? lo stesso delle puntate pesanti.

Come si era vergognata che lui, Girodelle, il corvo, Maitre Corbeau, sapesse quello che lei faceva, lui che avrebbe dovuto solo fare quello che lei gli ordinava e starsene in silenzio, ma cosa ne poteva sapere lui del sentirsi vivi sotto le mani di qualcuno? Cosa ne poteva sapere del desiderio un damerino di Versailles che ballava con più grazia di lei?

Bevve d’un fiato anche il secondo bicchiere. E pure il terzo.

Le era costato alzarsi da quel tappeto quella sera e dire no, mi fermo qui, volevo solo vedere come era, altro non mi interessa – e non era vero, non era vero, se lui le avesse detto che c’era anche solo una minuscola briciola di affetto, lei si sarebbe voltata sulla porta, non sarebbe scivolata via libera come una piuma che se la porta il vento e non decide lei dove diavolo andare.
Si versò di nuovo da bere e aspettò, mentre il calore la invadeva piano, aspettò la nota di incenso, sacro come l’interno di una chiesa, dove si va per meditare sulle cose serie come la vita e la morte – pure per i matrimoni, sogghignò. Di quello Girodelle qualcosa sapeva pensò tra sé ridendo e bevve d’un fiato.

Il quarto. Il quinto. Il sesto.

Faceva caldo e piano si slacciò la camicia, allungando le gambe.

Lei c’era stata al fidanzamento della sposa di Girodelle, c’era pure suo padre – elegante come suo solito e freddo, freddo come sempre -  e c’era Girodelle appoggiato ad uno stipite di una porta – color avorio, coi fregi verdi, molto elegante, la porta s'intende: lui, invece, era vestito di blu scuro, coi ricami argentati sulle maniche. Abito sobrio adatto a un funerale.

Girodelle osservava quella ragazza, imperturbabile, come avrebbe guardato un bicchiere di cristallo, o un quadro molto bello, ma che non gli apparteneva.

Non era lui il fidanzato.
Non ci si aspettava che facesse nulla, se non decorare la stanza e questo lo faceva con un certo impegno.

Lei non aveva capito. Nessuno aveva capito.

La ragazza li aveva ringraziati tutti – cortese – che la perdonassero, ma cambiava fidanzato, le piaceva un altro, avrebbe pure potuto funzionare come amante – un tipo elegante, il marito avrebbe di certo gradito - ma non sarebbe stato serio: le piaceva troppo quell’altro ed era giusto che si prendessero cura, lui di lei e lei di lui, fino alla morte. Se lui voleva. E sennò nulla – non sarebbe morta per quello.

Imperturbabile lei, imperturbabile il fidanzato – l’aveva presa per un polso, ma poi, incerto l’aveva lasciata andare.
C’erano tanti pesci nel mare, aveva detto la ragazza, ben più appetitosi di lei, non era il caso di farne una tragedia: non si stava certo parlando d’amore in quella stanza, non se ne era mai parlato (solo di soldi) – quanto ai regali lei si sposava lo stesso. Solo con un altro. Se lui voleva. E sennò nulla.

Nel silenzio gelido della vergogna – di tutti loro - la ragazza era scivolata via dalla stanza, libera come un uccello, che non se lo porta il vento e che sa bene dove se ne vuole andare. S’era bruciata i ponti, s’era arresa, s’era fatta radere al suolo le mura difensive, aveva abbassato il ponte levatoio – forse era stato quello il solo modo per farsi ascoltare. Non glielo chiese mai – e avrebbe tanto voluto.


Girodelle, le braccia conserte, appoggiato pigro allo stipite non aveva detto nulla, l’aveva lasciata passare, sogghignando divertito. Imperturbabile ed elegante – l’ospite perfetto che non si scandalizza di nulla e non bisbiglia.

Lei non aveva capito. Nessuno aveva capito.

Tre giorni dopo Girodelle se l’era sposata - il tempo per le pubblicazioni e per renderla economicamente indipendente (sposa bizzarra, acquistata direttamente dal marito, invece che il contrario, come era uso). Cerimonia discreta, lei non era andata (forse avrebbe dovuto, ripensandoci, in ogni caso era un suo uomo, lavorava per lei, lo vedeva ogni giorno), quasi nessuno della famiglia della ragazza, gelati dalla disapprovazione, quasi nessuno della famiglia di lui. Non che a quei due importasse, le era chiaro. A lei come a tutti.
Quei due facevano come gli pareva.

Si chinò a fissare il bicchiere. L’ottavo. La bottiglia era finita, altrimenti c'era spazio pure per un nono e pure per un decimo, per quanto la riguardava.

A Girodelle non importava quello che gli altri pensavano dei suoi capelli. Se ne sbatteva proprio.

E si, Girodelle, coi suoi capelli lunghi e le sue frasi oblique, qualcosa del desiderio la sapeva, pure sul giocare d’azzardo e sulle mura abbattute, e sul veder giocare una posta alta (davvero alta) senza sperare in nulla. Sapeva tutto sui colpi di fortuna, quelli spettacolari.

Pure sull’incenso, le chiese e i matrimoni – e per tanto tempo non aveva cenato solo come un boia. Le sfuggì una lacrima e la lasciò andare.

E il cognac da meditazione è una gradevole abitudine di cui non abusare, altrimenti è come l’acqua vicino al ponte dei tintori, che lentamente t’avvelena e basta. Un altro modo di giocare d’azzardo sapendo di perdere e basta. Riempire un vuoto.

Con rabbia gettò il bicchiere nel camino – schegge nel fuoco, qualcuno avrebbe pulito, non certo lei, lei non si curava mai dei disastri che si lasciava dietro.

Si gettò stanca sul letto e s’addormentò di colpo.

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Capitolo 4
*** Un Impegno Inatteso ***


4. Un Impegno Inatteso

Oscar sbatté le carte sul tavolo. “Dove è Girodelle?” chiese bruscamente al suo attendente, Albert, che la guardò atterrito. “Allora?”

Oggi era il giorno in cui arrivava il bollettino dall’America. Se Lafayette fosse morto, oggi era il giorno in cui l’avrebbero saputo tutti a Corte.
Se un uomo di Lafayette fosse morto, oggi era il giorno in cui sarebbe arrivata la notizia.
Oggi, quindi, non sarebbe rimasta intrappolata nel Salone delle Guardie. Oggi doveva solo sapere.

Toccava a lei, e toccava a lei saperlo per prima, mentre Lei sprecava fascino e sorrisi tra le dorature degli specchi. Ignara.

Se fosse successo qualcosa avrebbe dovuto raggiungerla, prima che la voce serpeggiasse dietro i ventagli ed arrivasse fino a Lei, cogliendola impreparata, con la pelle viva esposta.
Glielo doveva, anche se Lei non glielo aveva mai chiesto e probabilmente nemmeno ci pensava, ma lei era Oscar François de Jarjayes, era la figlia di suo padre e non si sarebbe rimangiata la sua parola: da ragazza aveva giurato di proteggerla, ritenendolo un grande onore.
Allora non sapeva quanto le sarebbe costato.

Non sapeva che le Regine hanno un cuore vulnerabile da ragazzina.
Non sapeva che le Regine pensano di esserlo per diritto divino, e credono che nulla di male possa capitare proprio a loro.
Non sapeva che nessuno dice dei no alle Regine, e quando a quello ci pensa la vita, fa male più di un ceffone e lei, di ceffoni, era esperta.
Non sapeva, soprattutto, che i nemici di una Regina spesso non maneggiano spade, ma lingue appuntite.

E poi era un modo come un altro per espiare - c'erano altre promesse a cui aveva mancato e non ne era orgogliosa.

Si alzò in piedi e fissò Albert negli occhi, lo raggiunse con lunghe falcate sprezzanti, vedendolo arretrare - come era diverso… non ci provava nemmeno a tenerle testa - poi secca impartì gli ordini “Vai a cercarlo e portamelo qui.”

Lo vide uscire senza voltarle le spalle, a marcia indietro, senza inciampare - ottima educazione, doveva ammetterlo, ma niente oltre quella - poi tornò alla sua scrivania ed aprì il secondo cassetto sulla destra alla ricerca di un vecchio amico.
Svitò il tappo d’argento con noncuranza, poi bevve senza fretta, apprezzando il bruciore nella gola che le quietava la rabbia. Che le toglieva il dolore.

Un’ora dopo un Albert imbarazzato e tremante le comunicò che ieri era finito il turno di quel corvo dannato di Girodelle e che non era a Versailles.




Pioveva.
Parigi faceva schifo con la pioggia, decise Oscar guardando il ruscellare lurido dei rifiuti lungo la strada. Per fortuna che il buio si stava ingoiando quello schifo di giornata - Lafayette non era morto, non stavolta. Lui non era morto. Non era morto nessuno. Lei era al sicuro, convinta che la vita fosse un prato fiorito in modo geometricamente ordinato.

In realtà non sapevano nulla di nulla e festeggiavano il niente: una pallottola avrebbe potuto colpirlo ora, al di là del mare. Ora o il giorno prima. O una settimana prima.
Una nave francese ci metteva 29 giorni per la tratta, carica delle merci americane che le coste inglesi non volevano più, carica delle notizie e delle lettere.

La felicità si nutriva di bugie ed illusioni, di tutte le cose che non sapevi.




Giunta davanti al portone, usò il batacchio con foga. Maitre Corbeau non meritava gentilezza, se l’era filata in licenza a farsi i fatti suoi. Non doveva permettersi mai più.

Scostò il servitore con un gesto imperioso e salì per lo scalone che portava al piano nobile della casa.

“Buona sera,” la voce di Girodelle era irritata e Oscar pensò che forse in casa c’era qualche amante - le si era parato davanti non lasciandola proseguire. Quindi erano stati quelli i fatti suoi per cui l’aveva costretta ad agonizzare per ore, fatti con tette e culo, ma che banalità.

“Non mi fate entrare?” chiese ironica, “Volevo vedere i vostri bicchieri di cristallo e scoprire se sono più belli di quelli di Palazzo Jarjayes.”

Si guardarono a lungo, poi Girodelle disse con cortesia inappuntabile “Il mio lavoro ha un inizio ed una fine. Io sono sempre disponibile per le urgenze, ma c’è una linea netta che separa il tempo della Guardia Reale ed il mio.”

“Non è presentabile?” chiese brusca.

“Chi?”

“La vostra ospite.” poteva sentire il rumore nella stanza di una sedia sposata - molto maldestramente. “E' per questo che mi state trattenendo sul pianerottolo? Forse pensate che io sia un fiorellino delicato che non sa che la gente, nel suo tempo, scopa? O il problema è che ve ne vergognate? Ha un linguaggio così da trivio? La grammatica non è il suo forte? E così fuori posto in questo palazzo che dovete tenerla nascosta?”

Girodelle la guardò a lungo, poi sorrise divertito “Sinceramente pensavo che foste voi a non essere nel posto giusto, ma, in effetti, avete ragione: la grammatica non è il suo forte.”
Scosse la testa, “Passiamo nel mio studio, ditemi quello che mi dovete dire e poi, per piacere, andate. E’ davvero tardi.”

Stava per rispondere molto male, quando vide spuntare dalla porta una bambina, due occhioni azzurri brillanti ed un sorriso sdentato. La vide correre da Girodelle - da suo padre, comprese, nel momento in cui lui la prese in braccio senza sforzo, e si sentì fuori luogo.
Sporca di pioggia, gli stivali luridi di fango, la giacca dell'uniforme aperta sul panciotto, la voglia di litigare sotto la pelle, il fiato che sapeva di alcol. Si vergognò di colpo, felice che non ci fosse uno specchio - e così era questa l’ospite segreta di Girodelle, quella per cui esisteva una demarcazione tra il tempo dovuto a Versailles ed il tempo che Versailles non poteva assolutamente toccare.

Sapeva che aveva due figli, ma li aveva sempre immaginati relegati in qualche castello in campagna, o in un collegio, in un convento di suore, in un posto, insomma, dove di solito andavano messi i bambini fino a che non diventavano adulti presentabili.

Cercò di sistemarsi la divisa, arrossendo sotto lo sguardo perplesso della piccola. Le mani le tremavano e si sentì colpevole - avrebbe dovuto essere lei l'adulto presentabile - sperò che non avesse sentito, o, che, per lo meno, non avesse capito.

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Capitolo 5
*** Un Passato di Verdura ***


5. Un Passato di Verdura

“Ci farà tardare la cena!” la vocetta irritata filtrò attraverso la porta dello studio, proprio mentre Girodelle la stava chiudendo, ed Oscar arrossì infastidita. E così agli occhi di quella smorfiosetta lei era diventata una rompicoglioni. Quando era successo? In che giorno esatto era diventata una adulta vecchia e noiosa?

Girodelle la invitò a sedersi con un gesto elegante, facendo finta di nulla - la cosa la irritò parecchio: era solo una bambina, non una anziana zia ormai svanita da tempo, accidenti! Se fosse cresciuta a Palazzo Jarjayes non l’avrebbe passata liscia.

“Cosa posso fare per Voi?”

Niente, pensò, non potete fare proprio niente e non avreste dovuto fare proprio niente, solo essere a Versailles al momento giusto, in modo da lasciarmi fare il mio dovere. Dovere che non vi posso spiegare perché dovremmo ammettere qui a quattro occhi che la Regina si incontrava con Fersen di nascosto, e forse si guardavano solo negli occhi, come degli angioletti in un dipinto di Raffaello, con gli uccellini che cinguettavano ed i cori dei cherubini, e forse no, forse lei gemeva sotto le sue dita - io di certo l’ho fatto e me ne vergogno - ma voi siete un modello di decoro ed io sono un modello di lealtà e quindi fingeremo di non sapere nulla di tutto ciò e di tutto quello che ne consegue e questo non ci lascia molto margine per una conversazione significativa su un argomento così ampio ed in fondo così ridicolo come l’amore.

Lo guardò di sottecchi, e poi d’impulso le sfuggì dalla labbra: “Potreste invitarmi a cena.”

Girodelle corrugò la fronte e lei si incupì - il corvo stava per perdere il suo aplomb, giunti al dunque, quindi.
“Vostra figlia ha fame.”borbottò, strofinandosi le tempie con un gesto irritato, “Parleremo dopo averla messa a dormire.”

“E’ anche piuttosto viziata.” aggiunse, mentre lo precedeva verso la porta con passi decisi. E forse, pensò irritata, dovreste pensare ad educare lei e non me.

Come si accomodò sulla sedia alla destra di Girodelle, vide i bambini sobbalzare e fissarla sgomenti. Si accorse solo allora che per lei avevano apparecchiato il posto di sinistra e goffamente si alzò, cercando di non fare rumore, mentre la spada le sbatteva contro gli stivali inzaccherati.

A quel punto notò le sue stesse impronte che dall’ingresso sbiadivano sopra il tappeto e d’istinto cercò nello spazio sopra il camino una rassicurazione. Quello che vide la sorprese - aveva gli occhi pesti ed i capelli erano un groviglio di bronzo, scuro di pioggia. Era lei quella? E da quando?

Si sedette rigida e guardò i suoi commensali, sentendosi fuori posto. Fermarsi in una guinguette prima di entrare a Parigi era stata una pessima idea, ma aveva cavalcato furibonda sotto la pioggia e ad un certo punto non aveva sentito più le briglia sotto le dita irrigidite - aveva dovuto fermarsi e cercare un po’ di calore.

 

La bambina la osservava sospettosa ed Oscar abbassò lo sguardo a disagio.
Era in trappola, pensò di colpo, tra la saccenza del corvo e l’impertinenza della sua prole.
E aveva fatto tutto da sola.

Un valletto le versò la minestra e lei fu felice di avere un motivo per non parlare - quale sarebbe stato l’argomento di conversazione consigliato da Madame de Noailles, in presenza di due bambini? Lei, in fondo, non si era mai seduta al tavolo degli adulti quando aveva la loro età - i bambini, come i cani, in una "magione" non si devono né sentire, né vedere. Specialmente durante una cena.
Con decisione affondò il cucchiaio nel passato denso di verdura, fissando il piatto rabbuiata. Avrebbe ingoiato la rabbia a bocconi.
Fu solo quando si accorse che nella stanza si sentiva solo il tintinnio delle sue posate, in un silenzio raggelante, che si bloccò.

“Noi diciamo una preghiera in silenzio, prima.” la bambina era davvero irritata. Degna figlia di suo padre, pensò. Una piccola civetta, animaletto domestico di qualche vecchia strega.

Girodelle intervenne pacato “Madamigella Oscar, che è nostra ospite, è abituata diversamente.”

Non le sfuggì il piccolo sospiro trattenuto - evidentemente un rimprovero non era gradito alla principessina di casa - ma la bambina la stupì: “Scusate madamigella, sono stata scortese ed una pessima padrona di casa. Prego continuate, pure. Mi fa molto piacere che il nostro cibo Vi piaccia.”

La sorprese più che altro il tono, dispiaciuto senza esagerare.
Il dispiacere non era per lei, se non in modo marginale, lo sapeva, era per suo padre, che non aveva sbattuto i pugni sul tavolo, e non l’aveva picchiata e nemmeno rimproverata aspramente.

Lei da piccola era molto più scontrosa, rifletté, teneva il punto. Il primo passo toccava sempre a… toccava sempre agli altri.

“Scusatemi Voi,” si sorprese a dire, pensandolo, per altro, davvero. Altro non le uscì dalla gola perché faceva male - era tanto che non cenava con qualcuno, chiacchierando del più e del meno, era tanto che non si adeguava ai ritmi di un altro. E anche questo lo aveva scelto lei.

Il valletto si chinò per versarle il vino e lei di scattò coprì con la mano il bicchiere “No grazie,” sussurrò, diretta a tutti e a nessuno.

Guardò la sedia vuota davanti a sé evitando accuratamente lo sguardo di Girodelle - il corvo avrebbe gioito, tronfio come una rana in uno stagno, perché sembrava che stesse seguendo i suoi consigli? Non era così, era solo il pensiero del mal di testa del giorno dopo.
O era solo sollevato perché Madamigella Oscar non avrebbe dato scandalo davanti ai suoi preziosi bambini? Alla civettina imperiosa?
Fissò con ostinazione la sedia - fino a che non comprese che quello, il posto che aveva cercato di occupare sotto gli occhi della bambina, era il posto della sposa di Girodelle.

Una scriteriata, pensò inacidita sentendosi in colpa.
Aveva ancora in mente il giorno del suo fidanzamento - c’erano tutti quelli che contavano in un tripudio di seta ed organza, le due famiglie riunite, la limonata e i regali rigorosamente d’argento massiccio.

Era chiaro che li aveva restituiti e che i suoi le avevano tagliato i fondi e la dote - quello non era un Palazzo, non come Palazzo Jarjayes, ma una casa, un hotel particulier, stretto tra altri hotel particulier in una via di Parigi, nel Marais, che la nobiltà alla moda ormai stava abbandonando. Ne era valsa la pena?
Lo sguardo corse alle pareti di un verde leggermente acido, con poche dorature - indubbiamente elegante, ma, di certo, non sfarzoso.

Solo adesso le riusciva di dare un senso all’abito sobrio che Girodelle aveva indossato quella sera - per lui non c’era stato niente per cui gioire a quella festa. Per il resto era stato un ospite inappuntabile. L'unica sbavatura quel suo sorriso divertito quando lei gli era passata accanto per andarsene, incurante del vistoso imbarazzo di suo padre e di sua madre.

Nessuno sapeva, o aveva intuito, che quella stupida amava Girodelle, che lo amava sul serio - o forse credeva di amarlo e basta: non sarebbe stata la prima e nemmeno l'ultima a confondere i desideri con i sentimenti.
Non era paziente, avrebbe solo dovuto dare un erede al marito, forse anche uno di scorta, e poi avrebbe potuto prendersi il corvo come amante - qualche amica fidata avrebbe portato biglietti a Girodelle sotto la pioggia e magari Girodelle...

Pensò a Fersen e le mancò il fiato. Quando la camicia era finita sul tappeto e lei l’aveva seguita, subito dopo, con la lana che le solleticava le spalle nude, le dita di lui erano risalite dallo sterno alla gola, pazienti, mentre,impazienti, i suoi seni sbocciavano.
Oscar ricordava l’onda lenta del desiderio, i capezzoli induriti, la fame disperata di una carezza sulla pelle, ma lui aveva riso, felice, toccandola con la punta delle dita, su e giù tra la pelle sensibile della gola, indugiando tra i seni, senza mai donarle un piacere che la saziasse, per poi risalire, di nuovo a sfiorare il battito affrettato del suo cuore.
L’aveva fatta morire di desiderio e vergogna, mentre la dichiarava donna. Donna come tutte le altre.

“Vi spiace?”

Oscar fissò lo sguardo sull’uomo - le aveva chiesto qualcosa ma non sapeva cosa, e, onestamente nemmeno le importava: venire a cercare Girodelle era stata una pessima idea, avrebbe solo dovuto aspettarlo al varco a Versailles.

La bambina sospirò, poi disse parlando lentamente: “Oggi avevo la febbre, papà mi ha promesso di leggermi una storia prima di andare a letto… Voleva sapere se Vi spiaceva aspettare.”

Oscar trattenne un sorriso - e così non solo era vecchia e rompiscatole per la piccola, ma pure sorda e dura di comprendonio. Scosse la testa, poi li seguì in un salottino, sedendosi su una poltrona avvolgente, vicino al fuoco.

I tre si accomodarono sul divano, enorme, i piccoli con le gambe incrociate e le testoline sotto le braccia dell’uomo, stretti a lui come se stessero difendendo il loro territorio. Pensò ad altri due ragazzini e il ricordo stranamente non le fece così male come temeva.
Girodelle aveva una voce noiosa decise. Senza accorgersene piano piano si addormentò.

 

Subito dopo era buio. Qualcuno le aveva sfilato gli stivali, pensò confusa, e l’aveva avvolta in almeno due strati di coperte. Sentì i passi dei bambini e capì che erano stati loro a svegliarla

“Per Voi.” La piccola le mostrò con aria complice uno scaldaletto che infilò con destrezza sotto le coperte. “Papà ci ha detto che avete perso qualcuno.”

Oscar la fissò stralunata, puntellandosi su un gomito, ma, prima che potesse lasciar esplodere tutta la sua rabbia verso quel maledetto corvo che credeva di sapere tutto, il bambino le sussurrò “Noi abbiamo perso la mamma.” lasciandola senza parole.

“E’ per quello che siete un po’ strana.” disse la bambina, con una vocetta giudiziosa. Poi le porse una caramella, prima di zampettarsene via.

 

Sapeva di Madame Girodelle, anche se non era andata al suo funerale - il cuore non le reggeva in quei giorni, aveva perso un po’ troppe cose, anche il senso di certi rituali e forse aveva sbagliato.
Si chiese se quella preghiera prima del pasto - era chiaro a chi era diretta - se il Corvo ci credesse davvero, o se era solo una illusione per i bambini, per fargli credere che un giorno le cose perse sarebbero state tutte ritrovate e restituite con sollecitudine al legittimo proprietario.

Il Corvo sbagliava.
E si impicciava di cose che non lo riguardavano affatto.

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