Starman

di Michelena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le coincidenze non esistono. ***
Capitolo 2: *** Dietro un caffè. ***



Capitolo 1
*** Le coincidenze non esistono. ***


Le coincidenze non esistono.

Le coincidenze non esistono. Sono solo un incrocio di due o più destini, che di solito rimangono incrociati per davvero poco tempo, per poi perdersi, mentre altri, dopo essersi incontrati, iniziano a camminare fianco a fianco, molto vicini. Il problema è che il destino non puoi spiegartelo, il problema è che non sai com’è davvero nato il destino, se è scritto o raccontato o messo in codice. La teoria più diffusa è che il destino è scritto nelle stelle, ma che, se riesci a leggerle, puoi vedere solo il tuo di destino. E quindi, se le coincidenze sono incroci di destini, significa che, comunque, riusciamo a leggere un pezzetto o parte del destino di qualcun altro, o forse ci sono oscurati quegli incroci? E se il destino fosse solitario, se fosse sbagliato, proprio per evitare di capire il destino degli altri?

Troppe domande, troppe teorie, ma nessuna stella. Era quello il problema, in quel momento per il Dottore. Se ne stava per andare, stava per lasciare il suo dodicesimo corpo per poi essere sostituito da qualcun altro, ma la sua missione ancora non era finita! Doveva, voleva, poteva leggere le stelle e scoprire il suo destino, per riscoprirne la verità. Poi si sarebbe lasciato andare, avendo la consapevolezza che quella verità l’avrebbe riscoperta solo lui e sarebbe rimasta nella sua rigenerazione, nella sua memoria, e non quella del prossimo che sarebbe arrivato.

E poi era il momento migliore. Se quella sapienza, se quella verità fosse stata troppo forte, si sarebbe rigenerato nel momento in cui avrebbe iniziato a sentir dolore, come prendendo la palla al balzo. Così il dolore della conoscenza sarebbe scomparso quando sarebbe cambiato.

Ma quella potente forza rigenerativa non gli lasciava completamente pace, ogni minuto le sue mani tornavano di quel colore arancione, quasi come se si stessero dissolvendo in quella forza diventando le mani della sua prossima rigenerazione, ma era abbastanza forte da trattenersi.

Doveva essere forte e rimanere sé stesso.

E così fece, trattenne ancora una volta quella forza, e si appoggiò alla console comandi del TARDIS. Quel trattenersi gli rubava ogni energia, rendendolo stanco. Voleva lasciarsi andare, abbandonare, ma c’era qualcosa che lo teneva in piedi, sulle sue gambe, appoggiato a quel sostegno eterno.

Quel qualcosa era un rumore di passi, poco deciso, titubante, provenire da dietro di sé. Così si girò e guardo l’essere che ne era la causa.

«Come sempre.. odi i finali.»

Era una ragazza, dai capelli castani legati in una scombinata coda, e dagli occhi color ambra scura, come gemme incastonate dentro essi. Quegli occhi gli erano familiari, non erano quelli di Bill, né quelli di Clara, ma gli sembrava di averli già visti, di averli vissuti a lungo, ma non ricordava quando né come. Vestiva in modo molto semplicemente, una giacca beige dal retro lungo che le arrivava fino all’interno delle ginocchia, pantaloni scuri, camicia bianca con delle bretelle nere nascoste dalla giacca e degli anfibi parecchio consumati.

«Non sprecare le tue energie cercando di ricordarti chi sono. Quando avrai fatto la tua decisione, non sarò nient’altro che il finale.»

«Dovrei odiarti, se sei il finale, ma non mi sembri una.. creatura da odiare.»

«Non sono umana, e la tua rigenerazione precedente l’avrebbe davvero apprezzato.»

«Allora ero davvero ignobile, gli umani sono davvero la cosa che più trovo interessante, anche se altamente fastidiosi.»

Entrambi risero, il Dottore con meno allegria della ragazza che si trovava davanti. Quest’ultima allora inizio ad avvicinarsi al Dottore, con passi piccoli e timidi, che sapeva erano solo per cercare di non spaventarlo o renderlo aggressivo, ma era già impaurito. Aveva paura di tutto quello che gli poteva accadere di lì in poi, aveva paura che il nuovo corpo del Dottore non sarebbe stato accettato e che tutti non avrebbero capito cosa cercava di insegnare da sempre, ovvero che non importa come tu sia, ma importa in cosa tu creda.

«So che sei spaventato, so che credi di aver fatto una decisione..»

«Io non credo, io so per certo.»

La ragazza sorrise sospirando, mentre era a pochi metri da lui, ma il Dottore si spostò, tenendosi ancorato alla console impolverata.

«Okay.. ma hai pensato a come sviluppare questa decisione? Come potrai continuare ad essere il Dottore se starai male o in ogni momento dovrai esaurire tutte le tue energie solamente per trattenere la rigenerazione?»

«Beh, in qualche modo scoprirò come!»

Il Dottore si accasciò mentre una fitta alle gambe lo costrinse, così la ragazza si precipitò verso di lui, aiutandolo a mantenersi in piedi e poi accompagnandolo alla sedia, dove si sedette. Il vecchio saggio Dottore la guardò, mentre lei ispezionava con cautela e dedizione le sue mani. Chissà cosa ci trovava di bello, perché certe volte sorrideva e sghignazza, per poi posare i suoi occhi dentro quelli chiari dell’uomo e rimanere come incantata. Il Dottore corrugò le ciglia e, notandolo, la ragazza deglutì e si alzò, poggiando la schiena alla console.

«Chi sei?..»

Quella strana creatura, che di certo aveva solo sembianze umane e sembrava conoscerlo meglio di chiunque altro, voltò il viso verso destra, proprio verso dove si trovavano le porte del TARDIS, da cui entrava una luce soffice ma incantevole che illuminava la sala comandi.

«Io sono ciò che sono sempre stata. Una costante. Una coincidenza.»

«Le coincidenze non esistono.»

«Ma io esisto.»

La ragazza ridacchiò, tornado a guardarlo intensamente, scrutando forse ogni paura solo per poi utilizzarla come mezzo per farlo parlare, ma cosa voleva da lui? Che ci faceva lì, in mezzo a quella situazione? Come poteva essere arrivata nel TARDIS? Era già dentro? Se sì, da quanto tempo? Quando era arrivata, aveva già iniziato a rigenerarsi?

«Avrai un nome, no?»

«Mh.. Rose, Martha, Donna.. Amy! Oh.. Clara..»

A sentire il nome di Clara si alzò, preso da chissà quale istinto, ma quel gesto gli venne spontaneo, quasi automatico. Quel gesto gli costò molto, poiché la sua testa iniziò a girare, iniziando a vedere i flussi della sua potenza rigenerativa pronta a scattare fuori, ma bastò un attimo, il tempo che quella ragazza così enigmatica posasse le sue fragili e affusolate dita sulle sue tempie e tutto tornò normale. E allora capì.

«Tu sei una Guaritrice

«Ti ci è voluto un po’ per capirlo, Dottore..» disse, tornando in ginocchio davanti ai suoi occhi mantenendo un contatto constante, che sosteneva quel dolore così grande e pericoloso che tormentava l’uomo.

«Il mio nome è Jane.»

«Quale imperdonabile reato hai commesso per essere assegnata a me?»

«Il reato e il peccato più diffuso di questo mondo, e comunque ho deciso io di prenderti sotto la mia protezione.»

«Giusto, i Guaritori non vengono assegnati ai Signori del Tempo solo se si offrono volontari. Viene da chiedersi se pensavi di trovare un caso come il mio.»

«Se non lo sapevo, pensi che ti avrei scelto?»

Il Dottore sorrise come suo solito alzando le sopracciglia, godendosi quel momento di pace dal dolore che gli procurava l’energia rigenerativa, ma sapeva che quella pace sarebbe durata per poco, sapeva che Jane sarebbe riuscita a fargli cambiare idea e si sarebbe rigenerato.

«Sei sempre con me quando mi rigenero?»

«Solo quando indugi un po’ troppo e sei solo..»

«Ci sono abituato alla seconda.»

«Ma non alla prima, visto che scordi di essere stato solo in questi momenti..»

«Tutto finisce, prima o poi, ma io posso anche evitare questa regola.»

Jane si voltò e si alzò abbandonando quel contatto, lasciandolo al suo dolore mentre si mise a camminare intorno alla console sfiorando con la mano destra le varie leve ed i vari tasti. Il Dottore stava ritornando a provare quel terribile dolore del rigetto, quella forza che tanto odiava, mentre essa ritornò a dissolvere le sue mani.

«Voglio un ricordo..» sussurrò soffiando nel dolore il Dottore, facendo scivolare da quelle labbra screpolate quell’ultimo desiderio, quello che sicuramente avrebbe potuto cambiare o confermare la sua scelta.

«Ti metterà solo più dolore e più paura.»

«Voglio un ricordo!» urlò quelle parole con tutto la forza in corpo, questo attivò la rigenerazione istantaneamente, di nuovo, ma, fortunatamente, Jane era lì e la bloccò in un attimo, posando le sue mani piccole su quelle grandi e corrose dal tempo del Dottore. Era spaventato a morte, nei suoi occhi si poteva leggere la paura, si potevano leggere le ultime parole che voleva dire al Dottore.

«Già ci ho provato, l’ho fatto quando mi hanno addestrata per essere una Guaritrice per un Signore del Tempo! Ho fatto solo pasticci, ho.. ho mostrato a quell’uomo il suo futuro.. la sua morte e la sua nascita..» sputò la prima frase per poi dire le ultime parole quasi con rimorso, sapendo perfettamente quel terribile sbaglio del passato, che però gli costò la vita di un uomo, soffocato dal futuro che gli aspettava ma di cui era consapevole si stesse svolgendo.

«Meglio», sussurrò sorridendo il dottore, «ancora meglio, posso sapere quale sarà la mia fine, se mai ce ne sarà una.» Il Dottore continuava a sorridere, sempre al suo solito modo, emozionato dall’idea di scoprire il suo futuro. Così, vedendo quegli occhi accesi a cui di certo non riusciva a resistere, Jane decise di accontentarlo, anche se sapeva che non sarebbe successo nulla di buono. Avvicinò le piccole mani alla sua testa, poggiandole ai lati, per poi chiudere gli occhi che erano diventati lucidi.

Odiava quel dono che potevano avere i Guaritori Prescelti, erano i più fortunati, e ognuno di loro ne aveva uno diverso, erano gli unici a poter scegliere di inseguire un Signore del Tempo o altre creature che avevano una vita lunga e solitaria. E lei, quando aveva osservato il Dottore, alla sua prima rigenerazione, fare tutte quelle avventure così entusiasmanti, trovandole meravigliose con quell’animo da ragazza innocente ma intraprendente che aveva. Si era allenata, aveva superato ogni tipo di prova al primo colpo ed era stata assegnata a lui, così lo prese sotto la sua ala, aiutandolo in ogni momento, in ogni sua fine, in silenzio e all’ombra. Inutile dire che per tutti quei viaggi il suo sentimento di ammirazione si era trasformato in puro amore, ma che ovviamente non aveva mai dimostrato, o il suo viaggio insieme a lui sarebbe terminato con quelle tre piccole parole.

Prese un grosso respiro, e dopo aver sentito le mani del Dottore posarsi e avvolgere i suoi piccoli polsi, sorrise ed iniziò a concentrarsi. Non ci volle molto in realtà, in poco lei e il Dottore erano dentro il ricordo del passato che sembrava essere adatto a quella situazione che stavano passando entrambi.

Parole sparse erano nelle orecchie del Dottore rendendolo confuso, così com’era la sua vista, ma fortunatamente si destabilizzò in qualche secondo, facendogli mettere a fuoco la scena davanti a sé. Davanti a lui si trovava un uomo di spalle che abbracciava una donna, tenendola stretta al suo petto. Lentamente e silenziosamente il Dottore girò attorno a quella coppia, forse marito e moglie e guardò quello che stavano fissando loro. Era un ragazzo, con i soliti vestiti dei Signori del Tempo, guardava i genitori come perso, mentre il padre sorrideva orgoglioso e la madre aveva le lacrime agli occhi.

Poi, lentamente, vide la donna sparire, insieme al sole, facendo arrivare la notte. L’unica fonte di luce era una candela posta sopra il soppalco di quella capanna. Quella capanna, la sua capanna.

Il volto dell’uomo era cambiato, ora era quasi severo, più totalmente non mostrava una vera e propria emozione. Era come impassibile al ragazzo davanti a sé, a quello che era lui.

Ora ricordava, eccome se ricordava quella notte, chiara come quel cielo pieno di stelle all’inizio dell’Universo. Suo padre, chiamato proprio il Padre, la notte prima di mandarlo in quel postaccio, aveva deciso di fargli provare la sua uniforme di quando era ragazzo, che gli calzava quasi a pennello.

«Beh, ci stai, è questo l’importante, no?» disse il Padre, cercando di alleggerire quella situazione.

Il ragazzo non spiccicò parola, continuò a guardare il padre con indifferenza, quasi noia. L’uomo sospirò, avvicinandosi e poggiando le mani sulle spalle del suo ragazzo. Nel mentre il Dottore osservava la scena da poco più lontano, e dietro di lui, proprio come un’ombra, Jane controllava che tutto andasse per il verso giusto.

«Senti, ragazzo, so quanto tu ti senta obbligato in questa faccenda e so quanto tu voglia leggere tutti i libri terrestri che il Precursore è riuscito a recuperarti dalla navicella di tua madre, invece di andare a fare quello che è il dovere di un Signore del Tempo, ma ormai hai una certa età. Non puoi stare senza far nulla per tutto il tempo..» il Padre ridacchiò dicendo le ultime parole, continuando a guardare suo figlio.

Di certo il ragazzo non aveva nella sua mente le stesse idee del padre, anzi stava già pensando a quello che avrebbe fatto dopo l’Accademia, a dove sarebbe volato, lasciando su Gallifrey il suo passato e tutte le paure.

Proprio il tempo di pensare le stesse cose del ragazzo che il Dottore venne catapultato in un’altra scena. Davanti a sé c’erano le Torri Cantanti, fra esse si poteva vedere quel magnifico ristorante. C’era il solito panorama mozzafiato, il solito canto, ma sempre unico nel suo genere e sentiva la solita malinconia. Capì di essere dall’altra parte delle torri, era seduto su una panchina e al suo fianco c’era Jane.

«E tu? Che ci fai qui? E perché sto parlando in modo cosciente in un ricordo?»

«Sto oscurando i dialoghi del ricordo, ti renderebbero instabili.»

La ragazza stava tenendo tra le braccia una chitarra acustica e suonava qualche accordo mentre, forse, aspettava che le torri si mettessero a cantare per i suoi spettatori. Il Dottore, invece, la guardava, arrabbiato perché voleva sapere il suo vero destino, voleva capire cosa ci facesse insieme a lei in quel posto che lo rendeva così vulnerabile.

«Ne sei così sicuro, Dottore?»

«Ti farò un fischio se la situazione è ingestibile, ma credo di non saper fischiare, sai?»

Jane sbuffò e dopo aver guardato il Dottore, chiuse gli occhi.

Davanti a sé c’erano le Torri Cantanti, di nuovo, e fra esse si poteva continuare ad ammirare quel ristorante così raffinato. Aveva provato ogni tipo di piatto insieme a River, ed ora sentiva un certo languorino, ma venne soffocato dai brutti pensieri e dalla malinconia perenne. Quel posto, così significativo era tutto per lui, ogni tanto era meglio ritornarci, per lui e per ciò che ne rimaneva del ricordo di River Song.

«A che pensi?»

Il Dottore si girò verso Jane, che aveva tra le braccia la sua chitarra acustica che aveva voluto assolutamente prendere quando aveva dato solo un’occhiata a quel posto, mentre lui aveva aperto la porta per uscire dalla cabina.

«Sembra un posto in cui è meglio avere un sottofondo musicale» aveva detto lei dopo che il Dottore le aveva chiesto il perché di quella scelta, ma sembrava incerta in quella risposta, come se stesse nascondendo qualcosa.

Non sapeva bene perché avesse portato Jane proprio lì, ma gli sembrava appropriato a quella situazione. Dopotutto, era sempre un posto totalmente emozionante, e la scelta di Jane di tornare sulla terra a prendere la sua chitarra, a qualunque costo gli aveva fatto pensare che quella sarebbe stata una serata davvero bella per Jane e per lui.

«Penso a una delle volte in cui sono venuto qui. Ero in compagnia, una bella compagnia.»

«Mh.. Clara?»

«River Song, mia moglie.»

Jane fece un sospiro sorpreso, quasi emozionata di sapere un’altra storia dal Dottore. Ogni giorno ce n’era una nuova, ed erano sempre delle migliori, raccontate dopo che loro ne avevano appena vissuta una. Il Dottore le sorrise, ricordando malinconicamente quella meravigliosa donna, ma gli sembrava come che qualcosa mancasse, o fosse stato rimpiazzato. Così, cerco di capire cosa fosse cambiato mettendosi a raccontare a Jane la storia abbastanza contorta della storia d’amore affrontata per River, ma niente. Non era riuscito a capire cosa fosse stato rimpiazzato e con cosa, neanche nel paesaggio davanti a sé. Poi, appena finì di raccontare qualche appuntamento di quella storia, delle note vere e proprie risuonarono nell’aria. Era Jane che si era messa a suonare una canzone terrestre.

«Didn't know what time it was and the lights were low 
I leaned back on my radio
Some cat was layin' down some get
it on rock 'n' roll, he said
Then the loud sound did seem to fade
Came back like a slow voice on a wave of phase haze
That weren't no D.J. that was hazy cosmic jive.»


Era una canzone che aveva già sentito, ma non ricordava dove né quando.
Mentre cantava l’aveva guardato perdendosi nei suoi occhi curiosi e per alcuni versi si era persa nel panorama davanti a sé.


«There's a starman waiting in the sky
He'd like to come and meet us
But he thinks he'd blow our minds
There's a starman waiting in the sky
He's told us not to blow it
Cause he knows it's all worthwhile

He told me:

Let the children lose it
Let the children use it
Let all the children boogie.»


Capì, però, che quella canzone parlava di lui, o almeno, Jane la stava cantando come se fosse stata scritta dopo averlo incontrato. Quella certezza gli metteva i brividi, per l’emozione, ma cercò di non mostrarlo, così come cercò di non smettere di avere quel suo sguardo curioso ma orgoglioso che aveva sempre. Era troppo forte per potersi mettersi a piangere, anche perché sapeva cose che Jane non sapeva, sapeva di ciò che le aveva fatto, sapeva del sacrificio che aveva fatto per lui. Solo per lui, senza spiegargli per intero il vero perché.

O almeno era quello che il ricordo gli faceva credere di sapere, perché in realtà, se cercava di visualizzare quel sacrificio che diceva di aver visto, non vedeva assolutamente nulla. Che cosa stava davvero succedendo a loro due? Cosa era successo prima di quel futuro che stava guardando?

«I had to phone someone so I picked on you
Hey, that's far out so you heard him too
Switch on the TV we may pick him up on channel two
Look out your window I can see his light 
If we can sparkle he may land tonight 
Don't tell your poppa or he'll get us locked up in fright.»


Sulle guance di Jane iniziarono a scendere delle lacrime, mentre le Torri Cantanti l’accompagnavano in quella sua malinconica canzone. Era tutto così strano. Il Dottore, che praticamente era sempre in viaggio, aveva finalmente trovato un posto dove potersi fermare e prestare attenzione a quello che aveva davvero intorno, anche se in realtà in quel momento stava prestando attenzione solamente a Jane, ma non era completamente colpa sua. Non sapeva perché, ma non riusciva a fermare quel flusso di pensieri che lo portavano a pensare che la ragazza accanto a lei avesse di certo qualcosa in più rispetto alla professoressa di archeologia di cui si era tanto innamorato, anche se davanti a lei cercava di nasconderlo.

«There's a starman waiting in the sky
He'd like to come and meet us
But he thinks he'd blow our minds
There's a starman waiting in the sky
He's told us not to blow it
Cause he knows it's all worthwhile

He told me:

Let the children lose it
Let the children use it
Let all the children boogie.»


Jane smise di cantare, girandosi verso il Dottore, con ancor le guance bagnate dai lacrimoni che aveva versato silenziosamente, mentre le Torri Cantanti continuavano a risuonare il motivetto del ritornello. La ragazza cercava di sorridere, ma quelle lacrime, che ancora non aveva motivato, tradirono il suo gesto. Così, il Dottore avvicinò la mano alla guancia destra della ragazza e con il pollice asciugò una lacrima che stava scendendo proprio in quel momento, tutto con una delicatezza che non aveva mai mostrato a nessuno. Jane sorrise, per poi abbassare lo sguardo. Odiava piangere, soprattutto davanti a delle persone, ancora peggio davanti al Dottore che non amava la tristezza, e poi non si poteva piangere con il dottore.

Lui portava gioia nella sua vita, l’aveva da sempre fatto, gli aveva migliorato la vita, aveva colmato i vuoti della sua memoria, regalandole ricordi che di certo non avrebbe dimenticato. Aveva avuto paura per lei, e così aveva anche fatto lei per lui. Si erano avvicinati, si erano aiutati, e l’avrebbero fatto per sempre. Entrami avrebbero donato qualcosa all’altro, e lei l’avrebbe sempre perdonato e amato.

Ma questo il Dottore, uscito da quel ricordo l’avrebbe dimenticato, ne era consapevole. Tutte quelle rivelazioni, tutti quei segreti, sarebbero spariti, facendo rimanere solo il ricordo di quella canzone, delle emozioni, ma non le domande e le risposte, sarebbero rimaste le immagini del padre che gli parlava come se si sentisse fuori posto, avrebbe potuto rivedere sua madre felice, anche se per un’illusione del ricordo, ma l’avrebbe ricordata. Avrebbe ricordato quella donna che era riuscita a perdonare suo marito, sempre e comunque, anche sul punto di morte, e così aveva anche fatto il marito. Quella era una vera dimostrazione d’amore, ma che non durò quando la donna se ne fu andata, non più.

«Perché piangi?»

«Perché è la migliore cosa che davvero riesca a fare, senza creare disastri..»

«Come puoi creare disastri?»

«Lo faccio spesso, non ho mai fatto una cosa giusta.»

Il Dottore la spinse verso di sé, facendole lasciare di lato la chitarra e lasciandola sistemare sul suo petto. In quella posizione Jane riusciva a sentire i suoi due cuori battere, erano veloci, forti, ma non seguivano un ritmo in quel momento, ed era strano visto che l’ultima che si era appisolata su di lui sentiva un ritmo ben preciso.

Era emozionato?

Stava provando un’emozione che faceva perdere ai suoi due cuori il ritmo?

La mente del Dottore era, sicuramente, piena di domande quasi quanto la sua, ma di certo lui aveva delle risposte. Risposte che sarebbero rimaste ferme in quel momento, per poi essere riprese quando avrebbe rincontrato quell’istante. Era strano tenerla tra le sue braccia, averla sul suo petto. Non ricordava di averlo mai fatto con River. Si sentiva come una protezione sicura per Jane, un posto dove farla ritrovare a casa. Si sentiva felice di stare facendo quello che stava facendo.

«Dottore..» sussurrò Jane, alzando il viso verso quell’uomo dagli occhi vecchi, e dall’aspetto non da meno, ma che comunque rimaneva affascinante, in quei suoi vestiti così strani, ma eleganti. Con quegli occhi che erano due diamanti e quei capelli che erano indomabili e bianchissimi.

«Si, Jane?»

Ci fu un momento di silenzio, in cui i due si persero a guardarsi, dicendosi quello che avrebbero voluto dirsi, ma non avevano ancora trovato il coraggio e il giusto amore per farlo.

«È l’unico Natale che abbia davvero mai vissuto con una persona a cui tengo realmente.»

«Natale?»

«Sullo schermo secondario del TARDIS, c’era scritto Venticinque dicembre 5.000.468. Credo fosse la data presente sulla terra, no?»

«Si, è esattamente così, ragazza dalle mani d’oro» sussurrò il Dottore, sorridente, continuando a guardarla, pensando che fortunatamente l’ingegno e l’intelligenza le era rimasta.

Chiuse gli occhi, ispirando l’aria tiepida di quel magnifico pianeta, lasciandolo un’altra volta. Lasciando lì, ancora una volta, una parte di uno dei suoi due cuori. E stava per esaurirne i pezzi.

Il Dottore aprì gli occhi, ritrovandosi il viso contorto dal dolore e bagnato dalle lacrime di Jane, che continuava a tenere le mani sulle sue tempie. Era finito, i ricordi si erano conclusi, e lui ricordava tutto come se fosse stato solamente un sogno, un sogno bellissimo, di quelli che fai poco prima di svegliarti e che ricorderai per tutta la vita. Lentamente e con cautela si piegò verso di lei, risentendo i dolori dell’imminente rigenerazione, e poggiò la sua fronte piena di rughe su quella liscia della donna, per poi aiutarla a rialzarsi, tenendola dai fianchi.

Aveva preso una decisione. E gli occhi, che ora si erano aperti, di Jane, erano la conferma che quello che voleva era giusto, che niente sarebbe potuto andare storto se ci fosse stata ancora una possibilità di essere sé stesso, e forse proprio insieme a Jane. Niente avrebbe potuto causare tristezza nei due, ma non capiva perché lei continuava a piangere.

«Non posso lasciare andare quel futuro..»

Jane continuava a piangere, tenendo basso lo sguardo e rivolgendolo sul viso del Dottore solo per qualche millesimo di secondo.

«Ci sei anche tu, andrà tutto bene, forza! Eri felice lì!»

Peccato che non ricordasse i suoi pensieri fatti nel ricordo, peccato che non ricordasse il sacrificio che ormai era deciso da parte di Jane, peccato che quella sarebbe stata la fine della sua Guaritrice.

«Allora, dimmi, Dottore! Lo vuoi davvero?!» urlò Jane afferrandogli le mani e stringendole, tenendo in ballo la sua rigenerazione, guardandolo negli occhi e cercando in essi un’unica possibilità di una risposta contraria a quella che si aspettava sarebbe stata detta da quelle labbra che tanto voleva sulla sua fronte, solo per un bacio consolatorio.

«Si..»

C’era un qualcosa che non convinceva il Dottore, ma ormai era fatto, aveva espresso le sue volontà, dopo quella domanda di rito che era l’unica possibilità di ripensamento, ma ormai Jane era costretta a dargli ciò che voleva, così chiuse gli occhi, forse per l’ultima volta.

Non l’aveva mai fatto, non si era mai preparata con la pratica, sapeva come farlo solo a parole, spiegandolo, ma non realmente. Però lo sapeva, e se sapeva come donare la rigenerazione di un guaritore, una rigenerazione che faceva rinascere l’individuo, ma senza cambiargli aspetto, allora doveva farlo. Doveva sacrificare la sua ultima rigenerazione, doveva diventare come un umano. Così sopirò e tornò a guardare il Dottore.

«Appena avrò.. fatto quello che vuoi.. ti sentirai un po’ scombussolato..»

Il Dottore annuì e Jane prese un sospiro profondo, dandosi il tempo per pensare alle sue ultime parole.

«Allora buon viaggio, Dottore.»

Aveva deciso di lasciargli tutte le cose da fare quando lui si sarebbe ripreso nella sua coscienza, come video messaggio neurale, e quelle istruzioni sarebbero sparite appena le avrebbe compiute. Lei sapeva che si sarebbe pentito di quello che aveva deciso, sapendo ciò che aveva fatto a Jane. Sapendo che aveva sacrificato la sua vita, per dargli un’ultima possibilità. In quei brevi istanti stava pregando che qualche Guaritore l’avrebbe scelto per poter vegliare su di lui per il resto della sua vita, sperò che anche il suo sostituto o successore avrebbe avuto quella virtù di sacrificio che la giovane ragazza aveva.

Così gli strinse le mani e, con tutto l’amore ed il coraggio che aveva, si lasciò andare con un sospiro. Il suo cuore smise di battere per un attimo, ma quando cadde a terra priva di sensi, esso ricominciò a battere, ma lei era comunque finita, a terra, era morta Jane la Guaritrice proveniente da Antalki, ora c’era un’ordinaria umana Jane, il suo peggior incubo. Poco prima che il suo cuore si potesse fermare, però cercò di pensare al fatto che tutto quello che stava facendo era solo per il Dottore, solo per amore. E non era arrabbiata con lui per avergli portato via una delle cose più care a lei, no, anzi, lo aveva appena perdonato, lasciandosi andare di peso a terra con un sorriso stampato sulle labbra, che sarebbe rimasto fino al suo risveglio.

Il Dottore, così come aveva detto Jane, si sentì confuso per un attimo, ma si riprese abbastanza in fretta, non sentendo più la forza rigenerativa esplodergli nelle vene. Si sentì rinato, aveva voglia di iniziare a ballare per la gioia, festeggiare, andare a salvare un pianeta dall’imminente e sicura distruzione, ma vide Jane a terra. Si abbassò su di lei di colpo, cercando di capire come stesse. Le poggiò una mano sulla spalla, ma non successe nulla. Sembrava stesse dormendo tranquillamente, con il respiro un po’ affannato, ma con un timido sorriso in volto, un sorriso abbastanza rilassato, come se fosse contenta di quello che le stava accadendo, ma con ancora le lacrime di poco fa sulle guance.

«Questo è un messaggio neurale, registrato da parte di Jane Hintk mandato nella coscienza del Dottore, prego, prestare attenzione.»

Il Dottore si alzò osservando la figura davanti a sé. Era Jane, ma sembrava come un’immagine registrata, come un ologramma. Poi ci fu una transizione ed apparve Jane, che aveva le braccia al petto, le lacrime agli occhi e sembrava stesse morendo di freddo.

«Dottore, cavolo.. Sapevo che l’avresti fatto. Oh.. c-comunque, ora presta attenzione. Questo messaggio viene inviato nella mente del Protetto solo quando il Guaritore ha deciso di donare le sue rigenerazioni per fermarne una di un Signore del Tempo. È una misura drastica, mai applicata, ma inevitabile se il Protetto esprime le sue volontà, e tu l’hai fatto, non sapendo delle conseguenze.»

Cercò di stare attento, ma vederla tremare sia dalla paura che dal freddo in quell’ologramma gli rendeva difficile la cosa. Quando l’aveva registrato? Perché era in un posto dove c’era la neve? Cosa era davvero successo da farle pensare che era meglio registrare un messaggio di sicurezza in caso della sua.. morte?

«Primo punto, non cercare in qualunque modo di farmi riavere la mia forma da Guaritrice, o di rianimarmi, nel peggiore dei casi. Ormai tutto è stato compiuto, non c’è nessun modo per farmi tornare com’ero prima. Se vuoi proprio cercare di farlo, perché ti conosco abbastanza bene e so che lo farai, allora fallo in seguito, quando avrai completato tutti i punti. In caso fossi morta, per davvero, portami a casa, lì avrò una degna sepoltura, anche se preferirei essere messa nel giardino del tuo TARDIS, quello pieno di fiori di ogni pianeta e che tu visiti davvero raramente. È un perfetto nascondiglio.»

Tornò all’altezza della vera Jane, quella sdraiata a terra, priva di sensi, con ancora il sorriso sulle labbra, e la guardò, stringendole la sua mano destra. Era fredda, e sulle guance c’erano ancora delle lacrime, che con molta lentezza stavano raggiungendo l’orecchio fine della ragazza, decorato da un orecchino semplice e piccolissimo.

«Secondo punto, tu sei vivo, ma non osare sprecare questa tua seconda opportunità. I Guaritori riescono a donare la propria rigenerazione solo se c’è voglia di compiere questo sacrificio, quindi, utilizzala bene, per favore, non sarò capace di fare un’eccezione anche per me solo per ripetere quello che ho fatto.
Il terzo punto è che io, invece, sono come un’umana.. Ho una sola opportunità di vita, la potenza per compiere la donazione della rigenerazione viene sempre esaurita e quindi tutti i poteri spariscono.
Ed ecco che arriviamo alla parte più impegnativa. Devi portarmi sulla Terra, Inghilterra, in Stanley Street, il giorno Diciotto maggio 2017, ci sono le coordinate nel mio teletrasportatore al polso, se vuoi fare più velocemente. Nella mia mente è già predisposta una storia, piena di lacune, certo, ed i ricordi per lo più sono molto scuri. Da quel giorno in poi sarò un’umana qualunque, un’insegnante di scienze, di fisica e di biologia alla Coal Hill, ma ecco che arriva anche il quarto punto.
Non sarò proprio stabile i primi giorni, forse neanche per un mese, traballerò tra i ricordi e tra i sogni che mi ricordano di tutto il tempo io cui io.. io, beh, ti sono stata dietro tutto il tempo.»

Il Dottore alzò lo sguardo verso l’ologramma proiettato nella sua mente, ma che riusciva a vedere. Ora, nel video messaggio si era seduta a terra, cingendosi le gambe con le braccia, mentre la neve le cadeva attorno e sopra di lei. Gli era sempre stata accanto? L’aveva sempre seguito, solo per proteggerlo? Perché tutto quanto stava spuntando solo ora?

«Sto registrando questo messaggio mentre tu sei insieme a River, per forse l’ultima volta. Oh, quanto ami quella donna.. l’ami quasi più della donna che ti ha donato il tuo primo figlio. Spero tu possa davvero amare ancora qualcuno, perché è davvero una bella sensazione farlo, potresti prendere proprio quest’ultima possibilità per rifarti. Il.. dodicesimo Dottore, che può ricominciare a vivere e rifarsi una vita, finalmente.»

Jane ridacchiò un po’ e si alzò lentamente, togliendosi la neve rimasta dalla sua giacca, la stessa che indossava realmente in quel momento. Nel video si avvicinò lentamente a quella che doveva essere la telecamera e sospirò, allungando una mano dietro di essa e fissando l’obbiettivo.

«Quinto punto..» la ragazza sospirò, trattenendo le lacrime, negli occhi si poteva leggere la paura di lasciarlo andare per l’ultima volta, anche se era un ologramma, ma continuò «non ho mai smesso di amarti, realmente, e non sono arrabbiata per quello che hai deciso di fare, non potrei mai esserlo. Sei perdonato, Dottore. E lo sarai per sempre.»

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Capitolo 2
*** Dietro un caffè. ***


Dietro un caffè.
 
Essere in tempo non era di certo il suo forte. Il tempo non era per niente il suo forte.

Erano due frasi che se le ripeteva come un mantra, ogni volta che sfrecciava nel traffico in sella alla sua Harley Davidson nera, cercando di arrivare alla Coal Hill, per iniziare le sue lezioni di scienze e fisica, in orario. Di certo decidere di lavorare in una scuola che distava dal suo appartamento minimo dieci chilometri, sempre strabordanti di traffico, non era stata proprio un’ottima idea.

Alla fine arrivò poco prima del suono della campana che segnava l’inizio delle lezioni. Corse dentro la scuola e, passando attraverso i giovani studenti, arrivò alla sua classe, in cui già qualche ragazzo era presente.

«Buongiorno signorina Hintk!»

Coma al solito, Penelope Sang, una delle ragazze che mirava a voti alti solo adulando i professori, le diede il solito benvenuto, e quello faceva parte della normalità, ma sentiva che c’era qualcosa che non andava, tra le cose che regolavano la sua normalità e le sue abitudini da ormai due anni.

Abbassò lo sguardo sulla cattedra, dopo che si fu seduta sulla sedia dietro essa. Sopra il piano di legno non c’era nient’altro che la sua borsa e un portapenne pieno di materiale scolastico. Tutto normale, per gli altri professori di quella scuola, ma non per lei. Sulla cattedra non c’era la solita tazza blu scuro, che, a suo parere, era sempre stato un blu raro, con dentro del caldo e fumante caffè, che ogni mattina trovava, normalmente. Non sapeva da chi le arrivasse quel grande regalo, ogni giorno da quando aveva iniziato a lavorare lì, e sembrava essere un trattamento speciale che ad altri colleghi non veniva effettuato.

Perché quella mattina non c’era? Cosa era successo al suo “cameriere” segreto, che ogni mattina si premurava di farle trovare un caldo buongiorno, che migliorava di certo quello della Sang, da non poterle potare quella gioia mattutina? Quello le sembrava un mistero, e lei adorava i misteri.

Sospirò, pensando che il suo risveglio avrebbe comunque dovuto aspettare alla prima ora buca che aveva, per poi rivolgersi agli studenti ed iniziare la sua lezione riguardante lo spaziotempo.

Non ci volle molto, affinché raggiungesse quella striminzita pausa. I suoi studenti non le avevano fatto pesare quelle tre ore di spiegazioni diverse, quindi, quando raccattò le sue cose e si alzò, uscendo dall’aula per dirigersi verso la sala professori, non si sentì come se finalmente avesse trovato un attimo di pace, ma il desiderio di scoprire cosa fosse successo al suo caffè quella mattina la rendeva ansiosa, curiosa e le sembrava come stesse per iniziare un giallo, dalla trama piuttosto sciocca, ma dal movente molto misterioso.

Posò, sospirando, la borsa sul divano e si avvicinò alla brocca che doveva contenere il caffè, ma quella mattina qualcuno aveva deciso di far estinguere dalla faccia della terra quel liquido afrodisiaco e di farla arrabbiare con il mondo, quindi, sbuffando, recuperò la borsa con uno scatto e a passo, abbastanza scocciato, andò verso la stanza del custode. Odiava chiedere favori troppo egoistici alle persone sotto di lei, ma aveva bisogno del suo caffè assolutamente, stava diventando quasi una questione di vita o di morte.

«Senta, ho un assoluto bisogno di un..»

Quando si rese conto che in quella stanza non c’era nessuno, si ammutolì e si guardò in giro, cercando il volto del vecchio custode, con scarsi risultati. Poi, nell’oscurità di quel vecchio e disordinato magazzino, vide una specie di cabina blu, più precisamente era una cabina della polizia, dalle finestre illuminate e dall’aspetto così nuovo da sembrare “lavata con Perlana”. Non l’aveva mai vista, non ne aveva mai vista una, né in giro per Londra, né in altre città che aveva visitato, ma sapeva di certo che il suo posto non era il magazzino di un custode di una scuola.

Si avvicinò lentamente, vedendo che la porta era aperta, pensando che forse era lì dentro, con la mano destra, alzata pronta per appoggiarsi alla superfice di legno e spingere la porta. Ma si bloccò, vedendo su uno scaffale due tazze blu, lo stesso blu di quella cabina, la stessa tazza che di solito vedeva sulla sua scrivania di prima mattina, illuminate dalla luce del sole che riusciva a passare attraverso le finestre sporche del magazzino. Cambiò rotta, girandosi verso quello scaffale, e avvicinando la mano a una di esse, la prese e, tremando non troppo vistosamente, la guardò con attenzione.

Non poteva essere lui, non poteva essere lui quel suo “cameriere” mattutino che le dava quel buongiorno così segreto e dolce. Come poteva essere lui? Perché un semplice custode avrebbe dovuto darle quel piacere mattutino? Era forse innamorato di lei?

«Oh, signorina Hintk!»

Si girò di scatto, tenendo stretta la tazza in mano, cercando di non lasciarla durante lo spavento che quello strano e misterioso custode le aveva causato. Stava chiudendo dietro di sé la porta con un cigolio, per poi sorriderle e avvicinarsi mentre si sfregava le nocche in un gesto forse ansioso, come se fosse stato catturato con le mani nel sacco.

«Non l’avevo sentita arrivare. Come posso aiutarla?»

«Uhm.. signor. Smith, prima di tutto.. cosa ci fa una cabina della polizia nel suo stanzino?»

Il custode voltò la testa verso la cabina alle sue spalle per poi voltarsi di nuovo verso Jane accennando una risata, quasi forzata ed imbarazzata.

«Questa è la mia.. cabina degli attrezzi.. ci tengo tutto quello che mi serve. È della polizia poiché sono un appassionato di questo genere di cose..»

La donna osservò con più attenzione quella cabina degli attrezzi alle sue spalle per poi fare un viso compiaciuto e sospirare. Ognuno ha le proprie passioni dopotutto. Non l’avrebbe di certo criticato e non avrebbe fatto domande.

«Beh.. non sono venuta qui solo per questo.. odio chiedere favori troppo grandi, ma ho davvero bisogno di un caffè..»

«Oh..» sospirò il custode, girandosi per un secondo verso la tazza rimasta sullo scaffale alla sua sinistra per poi tornare a guardare l’insegnante, mentre capiva che sì, era proprio lui.

Lui era il suo salvatore mattiniero, il cavaliere che ogni volta le dava una gioia alla mattina rendendo la giornata più dolce, ma amara allo stesso tempo, così come il caffè. Come era possibile? Perché lui? Perché lei? Come mai era così impossibilmente simpatico e gentile con lei? Cosa aveva fatto per meritarsi tutto quello?

«Non si preoccupi.. ora vado a prendere una tazza di caffè dal bar più vicino, dovrà essercene uno nelle vicinanze, no? Lei può tornare al suo lavoro..»

Anche se le aveva rassicurato che avrebbe recuperato quello che desiderava, Jane non sembrava intenzionata a muoversi, neanche un po’, neanche di un millimetro, venendo catturata dalla cabina dietro il custode. Era così strana, quelle luci che emanava, quel colore così profondo, quelle venature del legno, la rendevano come “attraente”.

«Potrei vedere cosa c’è dentro?..» chiese, avvicinandosi per superarlo e per entrare lì dentro, ma non fu possibile.

Il custode si spostò, rendendole impossibile avvicinarsi alla porta di quel fantastico pezzo da collezione. Era come se emanasse una specie di rumore che assomigliava al canto delle sirene, capace di attirarti e incantarti. Ma l’uomo davanti a lei non voleva proprio darle modo di passare e di farle dare un’occhiata, neanche un po’.

«Se c’è qualcosa da nascondere che potrebbe cacciarla nei guai, sarebbe meglio che lei lo dicesse prima di cacciarsi in faccende serie e rischiare di venire licenziato.»

Il custode la guardò con sguardo serio, senza muoversi e senza dire nulla, come se le parole di Jane non l’avessero per niente spaventato. Quindi, la donna sospirò facendo un passo indietro, e, dopo essersi lentamente allontanata, i muscoli del custode si rilassarono lentamente, guardandola andare via senza dire una parola. Aprì la porta, ma, prima di mettere piede fuori, si voltò di nuovo verso l’uomo, guardandolo con un leggero sorriso, un sorriso furbo e un’occhiata saccente.

«Lo sa.. lei non mi è mai piaciuto.»

«Oh, sarebbe davvero sconvolta se un giorno scoprisse che non è vero..»

«Dovrebbe dimostrarmelo, che ne dice di un caffè.. in orario?» disse la donna, indicando le due tazze blu, entrambe di nuovo al loro posto, sorridendo per poi girarsi e uscire, chiudendosi la porta alle spalle con un sospiro.

Quando tornò nella sua aula, felicemente, sulla cattedra, c’era quella tazza blu, fumante e piena di caffè, anche se aveva appena lasciato il custode e non l’aveva visto in giro. È incredibilmente veloce, pensò accennando un sorriso.

Ma il suo mistero rimaneva ancora irrisolto e pieno di domande, a cui non poteva rinunciare. Quella cabina era come se la richiamasse, come se aumentasse di sua volontà la sua curiosità.

Così, al termine delle lezioni, decise di provare ad andare in quello stanzino. Dopo averlo distratto, fingendo un’emergenza nella sala professori ed essersi accertata che era lì, a smanettare con quella stampante e quel computer fintamente difettosi.

Corse senza sembrare troppo di fretta e senza essere notata, entrò nello stanzino e guardò quella cabina, che continuava come a cantare per lei, ad attirarla sempre di più. Si avvicinò sempre di più, e poggiò la mano sulla superficie di legno blu scuro, accarezzandola lentamente, per poi cercare di spingerla, per aprirla, senza successo. Sospirò, era ovvio, dopo aver visto la curiosità della donna, era abbastanza ovvio che avesse chiuso la cabina. Così si girò, e riprese a camminare verso la porta d’uscita, iniziando a pensare di essere pazza e che in realtà quel “richiamo” era solo qualche giochetto della sua mente, ma qualcosa la fermò. Era la collana che portava, come ciondolo c’era una chiave, che in quel momento si riscaldò, facendole sentire il calore sul suo petto. Non ricordava precisamente da quando l’aveva, sapeva solo che da sempre teneva molto a essa, e quindi aveva deciso di non toglierla mai. Ma questa volta, finalmente dopo tanto tempo, la tirò fuori, sfilandosela dal collo, per poi girarsi di nuovo. Non si fece domande, camminò verso la cabina, di nuovo, e infilò la chiave, per poi girarla, e la porta si aprì inspiegabilmente.

Sospirò sorridendo, aspettando mezzo secondo per realizzare quello che era appena successo, iniziando a pensare, forse un po’ troppo. Si rese conto di temere, in un certo senso, cosa c’era realmente là dentro, aveva paura di rimanere delusa, quindi socchiuse la porta, tenendosi ancora alla maniglia argentata e fredda, sospirando e, guardandosi la punta di quelle scarpe lucide nere, continuò a pensare, ascoltando quel richiamo che sembrava essere lì solo per lei, che sembrava essere udibile solo alle sue orecchie.

«Allontanati.»

Alzò lo sguardò, spaventata a morte da quella voce autoritaria, prendendola nelle mani del sacco, appoggiandosi alla porta per il colpo improvviso e per l’instabilità, ma essa si aprì, facendola cadere di spalle. La malefatta era compiuta: era caduta di spalle, ma senza sbattere la testa contro attrezzi o altro, misteriosamente. Il custode corse vero di lei, aiutandola a rialzarsi e a portarla fuori dalla cabina il più velocemente possibile, ma, come già detto, ormai il pasticcio era fatto. Jane aveva visto l’interno di quella cabina, vedendo quello che era il rifugio e la casa del custode.

«Non dovevi vederlo..»

Si alzò grazie all’aiuto dell’uomo, che sussurrò quelle parole con rammarico e paura, mentre lei continuò a guardare sconvolta quello che era l’interno, quella che era un’enorme stanza circolare, con una cupola come soffitto, quella che sembrava una sala comandi di chissà cosa. Così entrò lentamente, facendo passi stentati, sconvolti, incantati.

«È più grande all’interno che è all’esterno! La mia intera comprensione dello spazio fisico è stata trasformata!»

Iniziò a girare attorno alla console dei comandi, toccando il bordo di essa, sorridendo sempre di più. Tutto quello la incantava, aumentava la sua curiosità in modo esponenziale, rendendola euforica, mentre il custode la guardava come preoccupato, inabile di parlare o fare altro, anche se sorpreso dalla scarica perfetta e attenta di parole dopo aver ammirato quel capolavoro di tecnologia dei Signori Del Tempo.

«Cosa può fare? Com’è possibile questo.. miracolo?»

Il custode decise di avvicinarsi, lentamente a lei, per poi allontanarla con cautela dalla console dei comandi, guardandola negli occhi, cercando qualcosa che però Jane non riusciva a decifrare, qualcosa che forse avrebbe scoperto in seguito, che di certo avrebbe scoperto. Dopotutto aveva svelato quel segreto, quindi non le sarebbe mancato molto al decifrare lo sguardo del custode.

«Magnifico, no?»

L’insegnante di fisica annuì guardandosi ancora in giro, facendo un giro su sé stessa, con il sorriso sulle labbra, con gli occhi pieni di gioia, per poi rivolgersi verso l’uomo, che continuava a guardarla con quello sguardo poco sicuro, incapace di leggere il suo sguardo incantato da tutti i minimi dettagli di quella che sembrava una nave.. spaziale.

«Si chiama TARDIS, Time And Relative Dimension In Space. Significa vita.»

«È suo?..»

Il custode sorrise, appoggiandosi alla console e guardando un attimo il tetto di quella fantastica stanza. Sembrava essersi calmato, o forse aveva trovato le risposte che cercava, ma continuava a guardarla come se notasse che qualcosa mancava, come se c’era ancora un tassello che non riusciva ad entrare nella sua perfetta costruzione. Però, forse, si era in un certo senso arreso, e aveva lasciato un attimo di pace alla sua ricerca di quel posto così nascosto per quel mattoncino lego in più, dandosi un momento per guardare il viso così rilassato, ma sconvolto, della donna.

«Facciamo che vado a mettermi qualcosa di più.. consono per poi spiegarti tutto!»

Così il custode si voltò, scendendo da una scaletta poco lontana e sparendo dietro una colonna, senza lasciarle un attimo per rispondere alla sua sentenza. Così sospirò, e si riavvicinò alla console, girandoci intorno e esaminando ogni pulsante, leva o manopola. Guardò i due display, per poi perdersi a guardare quello che c’era nel soppalco che delimitava la sala circolare. Ci salì e iniziò a buttare gli occhi su tutti i vari libri o oggetti che erano disposti in giro. La grande varietà di oggetti strani e mai visti prima rendevano quel posto migliore di quanto potesse pensare, e tutto le faceva pensare che sì, quella era una nave spaziale e che sì, c’erano delle altre forme di vita in giro per l’Universo, che avevano creato tutti quegli oggetti e che ora erano lì esposti.

«Eccomi qui! Allora..»

Si girò di scatto, trovando il signor. Smith completamente cambiato. Indossava un completo nero, molto elegante, con una camicia bianca perlata, che faceva risaltare i suoi occhi celesti tendenti al grigio. Il tutto era caratterizzato dalla giacca, che all’interno era ricoperta da una stoffa rossa accesa, forse raso. Jane sorrise, guardandolo ed ammirandolo, mentre faceva una giravolta su sé stesso, facendosi ammirare.

«Bel completo, signor. Smith.»

«Dottore, chiamami Dottore..»

Jane sorrise, scendendo le scale e tornando nel piano dove si trovava la console di comando e dove si trovava il Dottore. Lo guardò, mantenendo quel sorriso furbo, curioso e ispettore, come se si aspettasse qualcosa, una qualche risposta alle sue precedenti domande o viceversa. Le parole dell’uomo non le diedero nulla di particolare, o almeno questo era quello che credeva quest’ultimo, fino a quando non poggiò la mano sulla leva principale, che faceva partire il TARDIS, e così fu. Il solito rumore stridulo, ma pieno di speranza, che la nave causava, si sparpagliò in tutta la sala, mentre i tre cerchi sopra le loro teste si mossero, e con una leggera turbolenza, tutto si fermò.

La donna sorrise, mentre il Dottore la guardò contrariato. Come poteva aver solamente messo le mani sui comandi della sua nave? Com’era possibile solamente che Jane sapeva dove metter le mani per far partire quel fantastico marchingegno?

Così la mano ossuta dell’uomo si posò su quella leva, e, dopo aver smanettato con qualche comando, la riabbassò, andando chissà dove. La donna lo guardò di nuovo con quello sguardo che il Dottore iniziava ad odiare, quello sguardo che sapeva cosa fare e cosa stava per fare, uno sguardo che di certo non avrebbe lasciato il viso dell’intrusa molto rapidamente.

Così velocemente andò verso le porte e aprì quella di sinistra, per poi ritrovarsi non più nello sgabuzzino, ma nella camera da letto del suo appartamento. Uscì, mentre il Dottore si affacciava alla porta, e si guardò intorno, osservando ogni minimo dettaglio e pizzicandosi il braccio, assicurandosi che quello non era assolutamente un sogno, che tutto quello che stava vedendo era vero, senza “se” e senza “ma”.

«È inutile provare a capire se questo sia un sogno, visto che sei caduta poco meno di dieci minuti fa e, poco prima dell’impatto, ti saresti dovuta svegliare..»
Jane si girò di scatto sorridendo, facendo svolazzare i suoi capelli, mentre guardò il Dottore stupita, ammaliata, inaspettatamente interessata e non più annoiata da quella monotona vita. Poi l’uomo le porse la mano e sorrise, come a dirle di rientrare.

«Hai un viaggio gratis, poi potrai decidere se averne altre mille, al mio fianco, e tornare qui, senza perder tempo, o tornare e basta, ritornare a vivere la tua vita, senza me.»

Gli occhi di quello strano uomo, sicuramente non proveniente dal suo stesso pianeta, erano pieni di qualche strano sentimento che non riusciva a capire. Forse era speranza? Speranza di averla al suo fianco, e di tornare in giro per le galassie, salvando pianeti sconosciuti a lei, e forse, sperare ancora di farle riavere ciò che aveva perso sacrificandosi, anche se gli era stato espressamente vietato dalla ragazza di fronte a lui?

Lasciò perdere qualunque pensiero, sorrise ancora, con occhi ancor pieni di gioia e di aspettative, e prese la mano ruvida del Dottore, venendo tirata dentro quella fantastica macchina, che nascondeva storie, avventure, gioie, sacrifici, lacrime e tante, troppe altre cose che sono indescrivibili per noi umani; e sapendo che quel gesto non era qualcosa di sciocco, e che tutto sarebbe cambiato per lei, che la sua vita sarebbe migliorata, andando incontro ad ogni possibile pericolo.

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