Stronger with you

di Lela2606
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Buonasera a tutti, cari lettori. Eccomi ritornata con una nuova storia che spero possa farvi emozionare e palpitare così come sta facendo con me mentre la scrivo. Spero di ricevere le vostre opinioni nei commenti così da poter avere sempre un confronto con chi legge: è molto importante sapere per me cosa ne pensate.

Un abbraccio, Lela.

 

 

 

 

La gente ha cicatrici in posti impensabili, sono come mappe segrete delle storie personali, diagrammi di tutte le vecchie ferite. La maggior parte delle nostre vecchie ferite guarisce, lasciando alcune cicatrici. Alcune non guariscono. 

Ti colpiscono sbucando dal nulla. Quando le cose brutte arrivano, arrivano all'improvviso, senza avvertire. È raro vedere che la catastrofe si avvicina. Non importa quanto ci prepariamo ad affrontarla. Facciamo del nostro meglio, ma a volte non è abbastanza. Allacciamo le cinture, indossiamo il casco, scegliamo strade illuminate... cerchiamo di difenderci. Cerchiamo di proteggerci con tutte le forze, ma non fa alcuna differenza. Perché quando le cose brutte arrivano, sbucano dal nulla. Le cose brutte arrivano all'improvviso, senza avvertire. Ma dimentichiamo che, a volte, arrivano così anche le cose belle.

Il destino ti mette così tanto alla prova da renderti inerme dinanzi alla catena di eventi che ti travolge, lasciandoti senza fiato. 

Allora, cosa si è disposti a fare pur di rimanere a galla, pur di riemergere e prendere fiato? 

Siamo davvero pronti a uscire la testa da sotto la sabbia e ricominciare a vivere prendendoci le nostre responsabilità?

La vita può essere così dura da farti desiderare di voler morire? 

Ci si può ritrovare tra una marea sterminata di gente eppure sentirsi così soli? 

Possono l’angoscia e la rabbia di un momento determinare gli istanti di tutta una vita? 

Come si può affrontare la propria esistenza quando quella degli altri intorno a te si sgretola come fosse un vaso di cristallo?

Questi sono gli interrogativi che mi sono posta quando i membri della mia famiglia sono stati spazzati via da un tragico incidente di cui non sono responsabile ma per il quale mi sono colpevolizzata abbastanza a lungo da sentirlo come un evento sul quale ho influito. Più volte mi sono chiesta perché le cose siano andate in questo modo e più volte sono sprofondata nello sconforto dell’incertezza e dell’ignoranza che mi faceva credere di non essere in grado di conoscere quello che sarebbe accaduto. Perché noi non siamo Dio, siamo esseri umani che sono stati messi sulla Terra per sperimentare la sofferenza al fine di tendere all’amore. 

Sebbene una fetta della sofferenza universale sia toccata anche a me, sono consapevole che nella vita non ci si può mai adagiare sugli allori: qualsiasi cosa deve essere accolta come un dono perché, se il più delle volte si rivela dolorosa, anche la vita è un dono.

 

Diretta verso una meta non ben definita, avevo deciso che la mia vita non sarebbe più stata a New York. Un volo last minute per un posto sperduto nel mondo sarebbe stato adatto nella speranza di ritrovare me stessa proprio nel momento in cui avevo perso tutte le costanti e certezze che, fino ad allora, erano state presenti nella mia vita. Purtroppo, però, non avevo considerato che l’idea di andare via non si sarebbe potuta concretizzare per un tempo così lungo. Ero tornata  per aprire una stupida busta e, appena avevo varcato le porte dello studio notarile a cui mio padre e mia madre avevano affidato le loro ultime volontà, sapevo, in cuor mio, che nulla sarebbe più stato come prima. La libertà che avevo tanto cercato di ottenere non era più nulla dinanzi all’ostacolo che mi si parava dinanzi: gestire l’azienda di famiglia dopo l’improvvisa morte dei miei genitori. Non sarei mai stata in grado di assolvere a quel compito; eppure, ci doveva essere un motivo se la metà più uno delle quote aziendali era stata affidata a me e non a mio zio che, sebbene fosse più vecchio ed esperto di me, non sarebbe mai stato in grado di essere lungimirante e e ponderando in quelli che dovevano essere gli affari di famiglia. Mio zio e mio padre erano due facce della stessa medaglia: il primo, la cui vista era ottenebrata dagli interessi che poteva ricavare, il secondo, fin troppo pietoso nei confronti di qualsiasi essere sulla faccia della terra. Io, Emily Sophie Anderson, ero chiamata a gestire una situazione molto più grande di me e a scoprire le circostanze, misteriose, che avevano condotto i miei amatissimi genitori alla morte. 

 

Nella Sala Conferenze dello sterminato edificio che ospitava l’azienda di famiglia, una vasta gamma di avvocati, tra cui lo spietato amico da una vita dei miei Henry Burton, sedevano attorno al grande tavolo ovale accompagnati dal notaio che di lì a poco avrebbe aperto la busta delle meraviglie. Notavo i loro comportamenti al di là della porta a vetri: mio zio era nervoso, continuava a rigirarsi attorno al mignolo l’anello in stile “ padrino ”, la gamba sinistra gli tremava e la fronte era imperlata di sudore. Non ero ingenua: nella mia breve vita avevo imparato che persone come lui era meglio farsele amiche o evitarle quanto possibile. Ambiva al posto di mio padre da anni, sin da quando mio nonno aveva deciso di affidare nelle sue mani capaci l’amministrazione di tutto l’impero. Ero libera di fare una scelta: accettare quanto c’era scritto in quegli stupidi fogli e soddisfare le volontà dei miei, oppure rifiutare gentilmente le varie proposte e andarmi a rintanare nel mio guscio protetto da qualsiasi dolore e sofferenza. Ma, in cuor mio, sapevo che varcando quella soglia avrei potuto solo fare quanto mi veniva detto. 

Con un profondo respiro, avevo deciso di andare incontro al mio destino: quello di zittire una sala conferenze piena di uomini in completo scuro con la mia sottile ma autorevole presenza. Ero risoluta, caparbia e ottenevo sempre quel che volevo, ma a patto di farlo solo per mezzo di sacrifici e duro lavoro. 

Al mio ingresso, il manipolo di uomini si alzò con sguardo desolato: in me vedevano la piccola orfanella che doveva essere protetta dal mondo. Le cose in futuro sarebbero state diverse: al mio passaggio, ognuno di loro, avrebbe tremato. Con sguardo sicuro e impenetrabile li guardai uno per uno per gli avvoltoi che erano, a partire da mio zio James. 

Il notaio, Cooper Clark, mi invitò ad accomodarmi dinanzi a lui per prendere visione di quella patata bollente che era il testamento. 

<< Buongiorno a tutti.>> esordì Clark con voce sicura nella stanza. Sapevo perché mio padre Elijah aveva scelto proprio Clark: era diretto e veloce, non si perdeva in fronzoli. << Ecco le ultime volontà dei Signori Anderson… >> Con un profondo respiro  fu poi libero di proseguire. << Le quote aziendali di mio fratello James rimarranno immutate insieme al suo posto di vice presidente nell’azienda. La casa di proprietà di South Beach rientrerà tra le sue proprietà insieme ad una liquidazione di cinquanta milioni. A mia figlia, la mia amatissima Emily Sophie, le quote di maggioranza dell’azienda, l’amministrazione della Anderson Enterprise Holdings, l’attico con vista sull’East River al 520 della East 72nd Street insieme all'attico con vista sul Lincoln Center presso 1965 Broadway ed un patrimonio stimato di cinquecento milioni sono proprietà a suo favore con la speranza che riesca a farne buon uso. >> Con “ Questo è quanto ”, il notaio aveva terminato la sfilza delle varie disposizioni.

 

Avevo trattenuto il fiato per tutto il tempo. Erano poche istruzioni, ma chiare. Mio zio James era talmente arrabbiato che temevo sarebbe scoppiato come un palloncino da un momento all’altro. Il notaio intervenne un’ultima volta. << Miss Anderson, suo padre mi ha incaricato di affidare nelle sue mani questa lettera. Eccola… >> Mi tese la busta sottile ed io la presi tra le mie mani. 

Nel frattempo notavo le reazioni dei vari presenti in sala. << Ma stai scherzando Cooper!? Non può essere solo questo! >> 

<< Anderson, questo è il testamento puoi leggerlo e vedere con i tuoi occhi. >> Cooper tagliò corto mentre un’espressione di orrore e disprezzo gli si dipingeva sul volto. 

Non avevo più i miei genitori, ma prima che morissero si erano premurati di lasciarmi nelle mani dei loro più fedeli collaboratori. Magra consolazione!

Al momento della firma di conferma del testamento tentennai e, chiesi, rivolgendomi al notaio: << Se rifiutassi? Cosa mi resterebbe? >> Tutti rimasero interdetti per più di qualche minuto pensando che fossi una matta. Fu Burton a rispondermi. << In quel caso, Emily, avresti tutto tranne la presidenza della società che spetterebbe a tuo zio. >> Mentre decidevo le mie sorti, vidi il tipico sguardo del gatto che ha mangiato il canarino sul volto di mio zio, sicuro di avere la vittoria in tasca, talmente sicuro che gli avrei lasciato caso libero da restare interdetto al mio sorriso di sfida. Le parole che pronunciai accettando l’offerta e firmando ogni procura dissiparono nella sua mente ogni convinzione che avrebbe potuto garantirgli quella enorme ricompensa. << Emily, non sarai mai in grado di gestire tutto questo pandemonio. Io ti sto avvisando… Sei una bambolina sull’orlo di un precipizio. >> La teatralità del gesto con cui espresse il “ precipizio ” mi fece quasi ridere.

<< Non saranno di sicuro i vostri avvertimenti a farmi desistere, zio. Sarò pronta a frantumarmi se sarà necessario. >> Lo scontro verbale non si sarebbe placato se io non avessi deciso di andar via da quella stanza. Corsi verso l’uscita dell’edificio, sperando di prendere una boccata d’aria fresca prima di collassare. Ero stata fredda e distaccata sin dalla morte dei miei genitori. Ora la mia mente iniziava seriamente a realizzare che mia madre e mio padre non c’erano veramente più. Le due ancore nella mia vita erano morte ed io ero disperata. L’aria nei miei polmoni era evaporata. Burton e Cooper mi seguirono come dei segugi giù per le scale. Appena arrivai sul marciapiedi che costeggiava l’edificio, le mie gambe non riuscirono più a trattenere il peso del mio corpo, la vista mi si annebbiò facendomi piombare nell’oscurità. 

Gli ultimi ricordi: un paio di braccia forti che mi sostenevano prima di schiantarmi al suolo, le urla di Cooper e Burton, due preoccupati occhi azzurri come il mare d’estate. 

<< Emily! >>

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


 

L’episodio che si era verificato sul marciapiedi di New York, accanto alla società dei miei defunti genitori, aveva lasciato un enorme vuoto nella mia testa. Sapevo di essermi risvegliata nell’ufficio di mio padre, da allora anche mio, e di aver chiesto cosa fosse successo. Ero certa di aver sentito le voci dei migliori amici dei miei chiamarmi mentre mi accasciavo al suolo, ed ero altrettanto certa di aver fissato per alcuni attimi quegli occhi azzurri tra le braccia di non so chi ancor prima che i miei si chiudessero. Purtroppo Burton e Cooper non era stati in grado di sciogliere i miei dubbi a riguardo ed avevano liquidato la situazione ritenendola di poca importanza. 

Da allora era passato qualche tempo ed io mi trascinavo malamente tra gli uffici della società cercando di amministrarla al meglio. Ma, nel frattempo, iniziavo ad infilarmi in qualcosa da cui difficilmente sarei riuscita ad uscirne. L’ufficio di mio padre era rimasto intatto come una sorta di tempio mentre io ci trascorrevo molto più tempo di quanto avessi mai fatto studiando all’università davanti ad una scrivania, sui libri. Le porte per me si aprivano all’alba e si chiudevano la sera tardi. Avevo bisogno di sapere quanto più possibile sulle condizioni della società e come mai ci fossero così tanti buchi nei bilanci. Ad attirarmi, però, non erano i libri contabili che coprivano l’enorme scrivania dell’ufficio. La lettera che mi era stata consegnata il giorno dell’apertura del testamento era ancora sigillata ed avevo paura di aprirla. “ Aprila quando sarai pronta ” mi aveva detto il notaio che rispettava le volontà dei miei e voleva che lo facessi anche io. A quel punto dei giochi non dovevo più temere nulla perché la cosa più brutta che mi sarebbe potuta capitare era avvenuta circa un mese prima quando i miei genitori erano morti.  

Chiusi a chiave la porta dell’ufficio e, anche se sapevo che non c’era più nessuno tra i corridoi, mi diressi verso la cassaforte nascosta dietro l’enorme ritratto di mia madre. Digitai la combinazione e presi la busta sottile. Con un enorme sospiro e con un tagliacarte aprii la busta ed estrassi il foglio. La cautela mi accompagnava mentre leggevo: quelle erano le ultime parole che i miei mi avrebbero rivolto prima di morire misteriosamente. 

 

La lettera iniziava così: << Emily Sophie, tesoro, se leggi questa lettera significa che abbiamo lasciato questo mondo. Non dubitare mai dell’amore che io e la mamma nutriamo e nutriremo per te. Per sempre. Fa che la giustizia trionfi. So che sarai in grado di assolvere a questo compito. Anzi, ne sono certo. Non dubitare mai delle tue capacità ma non essere troppo sicura da considerarti infallibile: questo ti renderà vulnerabile. Non avere paure nemmeno nelle condizioni più critiche, sarai in grado di affrontare tutto a testa alta. Abbi cura di te ma, soprattutto, sta attenta alla tua sicurezza: sono molti i nostri nemici e non esiteranno nemmeno per un istante ad eliminare ciò che ostacola il loro obiettivo. Siamo fieri di te, piccola Lily. >>

 

Con le lacrime che scorrevano sul mio viso e poi cadevano sul foglio immacolato, sporcato solo dall’inchiostro con cui i miei genitori mi rivolgevano quelle parole, mi diressi verso la scrivania e mi sedetti sulla poltrona. Non so quanto tempo passò prima che le lacrime si placassero e i singhiozzi cessassero, sono solo certa di essermi addormentata lì e di aver visto, il mattino successivo, il volto arrabbiato di Cooper che con un filippica interminabile mi diceva di darmi una rinfrescata prima che qualcuno potesse entrare e vedermi  con un volto che avrebbe fatto invidia alla terrificante Samara di The Ring. 

 

Dopo una rinfrescante doccia a casa decisi di ritornare in ufficio anche se la schiena mi doleva per la nottata che avevo passata china sulla scrivania a sonnecchiare. Dal momento che non potevo essere sicura dei pericoli cui sarei andata incontro, Cooper, sotto consiglio del suo fidato braccio destro e amico Burton, decise che mi sarebbe servita una guardia del corpo. Ero del tutto contrariata da questa scelta ma ormai non avevo più voce in capitolo riguardo questa decisione. Così iniziarono i colloqui e chi, se non loro, dovevano decidere chi sarebbe stato il più adatto ad assolvere a quel compito? La velocità con cui fu presa la decisione mi sorprese tanto quanto la discrezione e la delicatezza dell’uomo che mi seguiva fedelmente tra le fila degli uffici che si disperdevano lungo il piano del grande edifico della mia società. Ben presto venni a sapere che ci sarebbe stata una cerimonia per il passaggio di consegna e, in quanto amministratore delegato, ci sarei dovuta essere. Al solo pensiero di essere in compagnia di persone che avevano conosciuto i miei e che avrebbero potuto giudicare il mio lavoro le mie gambe iniziarono a tremare. A tranquillizzarmi fu il fatto che a quell’evento mancassero alcuni giorni e in quel lasso di tempo, seppur breve, avrei potuto rinforzare la mia corazza dimostrando che, anche se la direzione mi era stata gentilmente concessa  -  per non dire forzata -  dai miei genitori, avrei potuto fare qualsiasi cosa e affrontare chiunque incrociasse il mio sguardo. Nel frattempo, però, mi resi conto che avrei dovuto rispettare un dress code per quel tipo di evento. La tentazione di andarci in tuta era troppo forte. Erano a malapena passate alcune settimane da quando avevo assunto l’incarico e già non sopportavo di recarmi al lavoro in tacchi e tailleur. Appena spalancavo le porte dell’edificio le lanciavo accanto ad una poltrona e le rimettevo solo per recarmi a casa. 

Intanto, più scavavo nella storia e nelle condizioni della società e più mi rendevo conto che c’erano buchi di vario genere all’interno del bilancio. Mio zio non si era più visto da quando era stato aperto il testamento e non avevo la minima voglia di vederlo. Sapevo bene che l’avvertimento che mi era stato rivolto dai miei genitori era soprattutto riguardo il comportamento poco etico di mio zio e del suo “ entourage ”. 

Quando iniziai a capire in quale tipo di affari stavo iniziando ad entrare provai un misto tra paura e intraprendenza, ma non potevo comunque vedermela da sola ed allora invocai aiuto. Prima del consiglio d’amministrazione mio zio doveva sapere che io sapevo cosa avevo scoperto sui suoi loschi affari. E sapevo che moriva dalla voglia di venire ad intralciare il mio lavoro. 

Prima che terminasse la settimana avevo visto gran parte dei libri contabili con l’aiuto di un nutrito gruppo di esperti che erano già stati al servizio della società. Sapevo che il duro lavoro mi avrebbe ricompensata ma non quanto la faccia che avrei visto sul volto di mio zio quando avrei tirato dall’armadio tutti i suoi scheletri.  

Non temevo solo la serata di gala ma anche l’incontro d’affari che sarebbe seguito nei giorni successivi. Certo, potevo contare sull’aiuto di alcune persone fidate ma la sensazione di essere una principiante non avrebbe potuta togliermela nessuno di dosso. Così arrivò quella fatidica serie di giorni che più di tutti avrei dovuto temere. 

In ufficio c’era stata un gran confusione per i preparativi mentre io continuavo a lamentarmi per l’inutilità di quella serata di gala. Non era una giornata lavorativa, perciò ritornai a casa con la speranza di riuscire a concentrarmi sull’incontro di lavoro del lunedì successivo. Mentre il lavoro mi prosciugava le energie, la domestica decise di venire a disturbarmi nello studio ricordandomi che avrei dovuto iniziare a prepararmi. Non sapevo nemmeno da dove cominciare: i capelli erano una massa inestricabile di nodi, sul mio viso sembrava essere passato un carro armato e per di più mi sentivo alquanto stanca tanto da poter essere arruolata nella pubblicità di un ansiolitico. Fortunatamente un team per restaurare il mio viso era stato chiamato ed i miei capelli erano stati acconciati in modo da ricadere in morbide onde sulla schiena. L’abito che avevo deciso di indossare si era dimostrato una valida scelta: ricadeva in maniera incantevole sui miei fianchi tanto da sentirlo quasi come una seconda pelle; le maniche ad aletta contrastavano con il profondo scollo che arrivava sino allo stomaco. La mia guardia del corpo mi seguiva come un’ombra mentre lasciavo l’attico con vista sull’East River e il mio cellulare squillava incessantemente per comunicarmi che dovevo sbrigarmi. Fortunatamente il traffico scorrevole permetteva la libera circolazione così in men che non si dica ci eravamo ritrovati dinanzi all’edificio della società con tanto di tappeto rosso ad accoglierci. Prima di varcare la soglia, però, avevo trovato Cooper con un sacchetto di velluto in mano. << Sei favolosa, Emily ma hai bisogno di questa affinché tu possa essere completa. >> Aprii il sacchetto trovandoci dentro una maschera elegantemente decorata e impreziosita da dettagli che la rendevano semplicemente stupenda. << Come hai fatto a sapere cosa avrei indossato? >> chiesi poi. << La tua domestica è stata così gentile da dirmelo. >> disse e le risate mi travolsero. Prima di entrare mi porse il suo braccio domandandomi: << Pronta? >> 

<< Non lo sono mai stata così tanto. >>

Varcai la soglia dell’edificio e mi resi subito conto della perfezione di tutti i decori, dello sfarzo dell’ambiente. Il ricevimento ospitava un nutrito gruppo di persone, molte delle quali non sapevo nemmeno chi fossero. Sin da subito ero stata messa sotto la lente d’ingrandimento in azienda e allo stesso modo, quando percorrevo il corridoio centrale, mi sentivo osservata, sotto i riflettori, come una sorta di esperimento scientifico. 

Molte di quelle persone avevano collaborato con mio padre e mio zio e sapevo che avrei potuto conoscere da loro molti particolari dell’azienda, come era stata gestita e cosa era successo mentre io ero beatamente accoccolata sotto le coperte del mio appartamento da fuori sede per l’Università.

Mentre io ed i commensali ci gingillavamo come delle bomboniere nei nostri abiti da sera, il maestro di cerimonie guidava la serata in maniera piacevole e poco tediosa. Una musica soffusa aleggiava nell’ambiente sontuoso, riuscivo a riconoscere le note di Lost di Michael Bublé, un testo così calzante data la situazione in cui mi ritrovavo.

Mi sentivo scoperta, pur avendo una maschera, come se la morte dei miei genitori mi avesse tolto di dosso una corazza protettiva contro gli sguardi ed i giudizi degli altri. La serata procedeva speditamente e, dal mio posto, potevo vedere la gente divertirsi, delle coppie ballare e poche persone stare sedute sedute dritte su una sedia così come lo ero io. 

Burton, Cooper e le rispettive mogli si avvicinavano e sapevo già cosa mi avrebbero detto. L’ora di pronunciare un discorso era arrivata ed io non ero per niente in vena di farlo. Allora presi l’ultimo briciolo di fegato che mi era rimasto per chiedere ai due migliori amici dei miei di farlo al mio posto. << Per favore… >> chiedevo con la voce implorante ridotta ad un filo. << So che spetta a me, ma non ne ho la forza mentre dietro di me scorrono le loro ultime foto. Vi prego… >>

 

Forse la libertà non è  poter fare ciò che si vuole senza limiti, ma piuttosto saperseli dare. Non essere schiavi delle passioni, dei desideri. Essere padroni di se stessi. 

 

Queste furono le parole che presero forma dai miei pensieri poco dopo.

 

Uno sguardo di comprensione, e forse anche di compassione, attraversava i loro volti e l’unica cosa che fui capace di fare immediatamente dopo fu scappare via nell’aria fresca della sera. Mi tolsi i tacchi, che stavano uccidendo i piedi, varcai la soglia della sede della società e sul marciapiedi mi bloccai, o forse mi scontrai, contro il petto di un uomo alto e che per non farmi ricadere indietro mi afferrò per le braccia in un morsa da cui nessuno sarebbe riuscito a sfuggire. << Mi scusi. >> fu l’unica cosa che riuscii a dire. 

Lentamente alzai gli occhi per vedere di chi si trattasse e subito riconobbi gli occhi azzurri che avevo visto prima di schiantarmi al suolo. 

Il cuore mi batteva all’impazzata. 

Le mie gambe diventarono gelatina. 

Il mio cervello non era in grado di formulare una frase di senso compiuto.

Poi lui parlò, il suo sorriso mi folgorò ed ebbe inizio tutto. 

<< Non si preoccupi. Tutto bene? >> 

 

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