Road to Ruin

di sakichan24
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Mirton si sedette sul letto sfatto, rigirandosi tra le mani il biglietto aereo che l’avrebbe portato ad Alola.
Stava tentando di fare le valigie, ma continuava a fermarsi, a guardare il biglietto già piuttosto sgualcito e a riflettere.
Stava veramente facendo la cosa giusta?
Né gli altri Superquattro né il Campione conoscevano il vero motivo per cui lui si era ritirato dal suo ruolo ed era in partenza per una regione lontana. Aveva detto di essere malato e di avere bisogno di un po’ d’aria pulita per riprendersi.
E in effetti non aveva decisamente un aspetto sano: era più pallido del solito, era dimagrito parecchio in poco tempo e stavano cominciando a spuntargli diversi capelli grigi.
Ma la causa del suo aspetto malato non era certamente la troppa ansia o la monotonia della sua vita, come cercava di far credere. Era qualcosa di molto più complesso e profondo, che doveva essere tenuto nascosto a tutti i costi.
Se si fosse scoperto, sarebbe stato comunque cacciato.
Quindi tanto valeva andarsene da solo e tentare di porre rimedio a tutte le scelte sbagliate che aveva compiuto nell’ultimo periodo.
Si rialzò, appoggiando il biglietto sul letto e ricominciando a mettere i suoi vestiti e le cose a cui teneva di più alla rinfusa nelle valigie, senza badare troppo a quello che stava facendo.
Mentre passava in soggiorno a fare un piccolo sopralluogo decidendo cosa prendere e cosa lasciare, si fermò davanti al caminetto. Sopra di esso c’era una mensola in marmo dove erano allineate diverse foto. Quella all’estrema destra lo ritraeva con gli altri membri della Lega Pokémon e Hilbert, che un anno prima era diventato Campione. Quella subito prima lo rappresentava nel giorno in cui aveva ottenuto la carica da Superquattro: sembravano passati secoli. All’estrema sinistra, invece, si vedeva un Mirton di pochi anni che giocava con un pupazzino di un Sostituto - sua madre aveva insistito tanto perché si portasse quella foto nella sua nuova casa. Subito vicino, una generica fotografia di quando, a quindici anni, aveva iniziato il suo viaggio da Allenatore.
Ma la foto che aveva attirato la sua attenzione era quella posta esattamente al centro, non solo per ordine cronologico, ma anche per importanza. Era seduto sul divano, lo stesso che aveva ancora, ma accanto a lui c’era una donna. Insieme tenevano in braccio una neonata addormentata.
Prese in mano la foto e improvvisamente si sentì le lacrime agli occhi. Il piccolo nucleo familiare, che sembrava così sereno in quella foto, si era disgregato diverso tempo prima. Ma non era questo a fargli più male: aveva accettato la cosa ormai. In più, tra la sua ex moglie e sua figlia era rimasto un buon rapporto, tutto sommato: si sentivano regolarmente e qualche volta riuscivano addirittura ad incontrarsi.
Quello che lo faceva soffrire era il chiedersi cosa avrebbero detto le due a saperlo ridotto in quello stato.
Fortunatamente non l’avrebbero saputo: Alola era molto lontana da Kanto e non c’era motivo che andassero a vivere là. E, anche se l’avessero fatto, gliel’avrebbero detto. Strinse al petto la fotografia, poi prese anche le altre e le portò nella sua camera da letto.
***
- Fai attenzione, mi raccomando! Documenti a portata di mano, non ti agitare troppo, non perdere di vista la borsa...
Catlina sbadigliò pesantemente.
- Sì, Antemia, credo abbia capito. È solo un po’ malato, mica scemo.
Si stava comportando come se l’essersi alzata presto per dare un ultimo saluto a Mirton la disturbasse più del dovuto, ma in fondo era triste anche lei.
- Non essere così cattiva, è solo preoccupata per me - rispose l’uomo dai capelli corvini con un mezzo sorriso.
Era sollevato di poter finalmente andare. Continuare a fingere di avere solo un po’ di stanchezza eccessiva era diventato faticoso: non sapeva quanto ancora avrebbe retto a mentire. Ma al contempo era abbastanza teso: il viaggio da affrontare in aereo durava diverse ore e non sapeva se sarebbe riuscito a superarle. Si disse che pensarci non lo avrebbe aiutato.
Guardò il tabellone, dove erano indicati gate e orario di partenza. Aveva tutto il tempo.
- Beh, allora ciao - concluse, rivolgendosi ai suoi amici, - è ora che inizi ad andare. Quando arrivo ad Alola vi faccio sapere!
Antemia lo strinse in un abbraccio soffocante. Tra lei e Mirton nel tempo si era sviluppata un’amicizia speciale e le dispiaceva molto non poterlo vedere più per qualche mese. E, soprattutto, non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che dietro la malattia del suo amico si nascondesse qualcosa di più grave. Avrebbe preferito tenerselo vicino per controllarlo, ma non poteva certo legarlo sulla torre.
- Mandami una cartolina! - lo pregò, tirando su col naso.
Nardo gli diede una semplice pacca sulla spalla.
- Hai ragione, dovresti andare. Buon viaggio e riprenditi presto!
Mirton raccolse le proprie valigie e si allontanò verso l’area controlli, girandosi di tanto in tanto per vedere i Superquattro e Nardo che lo salutavano sventolando le mani.
Passò senza problemi e decise di andare al bar dell’aeroporto per mangiare qualcosa.
Non si sentiva troppo bene, in realtà: quella mattina aveva vomitato. In realtà gli capitava spesso di vomitare la mattina, ma ormai non ci faceva più tanto caso.
Scelse di prendere un tè caldo con una brioche, tanto per non restare troppo pesante.
Mentre mangiava, però, cominciò a sentire un fastidio crescente al braccio sinistro. Cominciò a grattarselo con discrezione, guardandosi intorno nervosamente. Fortunatamente, nessuno sembrava fare caso a lui. Però il prurito continuava a crescere e si stava aggiungendo anche un bruciore piuttosto fastidioso.
Finì frettolosamente di mangiare e di bere, pagò, prese il bagaglio a mano e si precipitò in fretta nei bagni, per sciacquarsi con dell’acqua fredda.
A quell’ora l’aeroporto non era molto pieno e i bagni fortunatamente erano vuoti, a parte che per un anziano signore che si stava lavando le mani canticchiando una vecchia canzone. Quando uscì, Mirton si avvicinò ai lavandini e fece per tirare su la manica del vestito.
Si bloccò.
Sapeva perfettamente perché avesse così tanto fastidio e non aveva molta voglia di vedere. Ma non poteva nemmeno passare tutto il viaggio a grattarsi e a contorcersi. Prese fiato e scoprì in fretta il braccio.
Nella parte interna del gomito c’era un ematoma gonfio e livido, causa del prurito.
Cercando di non guardarlo, Mirton aprì il rubinetto dell’acqua fredda e se lo bagnò. Bastarono pochi secondi perché il bruciore si calmasse.
E poi improvvisamente si sentì mancare.
Ebbe un violento capogiro e cadde di peso all’indietro, sbattendo il coccige sul pavimento, mentre il tè che aveva bevuto poco prima minacciava di tornare su.
Rimase seduto qualche minuto, cercando di calmarsi. Era la solita reazione che aveva quando vedeva quei lividi sul braccio. Gli facevano molta impressione.
Si rialzò lentamente, cercando di evitare di guardare il proprio riflesso nello specchio. Poi, appurato che era in grado di stare in piedi senza doversi appoggiare al muro, raccolse la sua borsa e si recò alla sala d’attesa del gate.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Quando scese dall’aereo, si sentiva addirittura peggio di quando fosse partito. Aveva ragione: era stato difficile superare quel lunghissimo viaggio.
Mentre aspettava che scaricassero le sue valigie dalla stiva, cominciò a guardare fuori dai finestroni dell’aeroporto di Akala. Il cielo era azzurrissimo, molto più di quanto non lo fosse a Unima, e faceva anche più caldo. Antemia era stata saggia nel consigliargli di vestirsi a strati.
Subito fuori si vedevano le piste di atterraggio e decollo dell’aeroporto, e sullo sfondo il mare più cristallino che Mirton avesse mai visto.
Recuperati i suoi bagagli, uscì dall’aeroporto.  Doveva dirigersi verso il porto per raggiungere l’isola di Ula Ula, più precisamente la città di Malie, dove aveva trovato una casa a basso affitto.
Fuori tirava un venticello fresco che sapeva di estate e salsedine. Mirton inspirò profondamente per godersi quell’aria pulita. Per un attimo, pensò che forse avrebbe potuto aiutarlo davvero.
Preso il traghetto, si ricordò che doveva far sapere che era arrivato sano e salvo - più salvo che sano, ma comunque.
Prese il telefono e mandò un brevissimo messaggio ad Antemia, chiedendole di far sapere a tutti quanti che stava bene.
Malie gli piacque subito come città: molto tranquilla e caratteristica.
La casa che aveva trovato era molto vicina al porto, fortunatamente: la individuò subito.
Davanti alla porta lo aspettavano i padroni di casa, una coppia abbastanza anziana che lo accolse con estrema gentilezza.
- Benvenuto, signor Mirton! O, come diciamo qui... Alola! - salutò la donna, stringendogli la mano. Il Superquattro ricambiò il saluto, cercando di nascondere il proprio malessere.
- Spero che il viaggio sia andato bene - disse l’uomo, prendendo le sue valigie e aiutandolo a portarle in casa.
Una volta dentro, i due mostrarono gli ambienti a Mirton, a cui ogni stanza piaceva più della precedente. Il salotto era piccolo, ma molto confortevole: c’era un divano verde molto morbido, un tavolo con tre sedie e una poltroncina accanto ad una finestra che dava sulla strada. La cucina aveva tutto ciò di cui c’era bisogno e sia la dispensa sia il frigo erano già stati riempiti dai padroni di casa. La camera da letto dava invece sul porto e la donna gli assicurò che guardare l’alba da quel punto era meraviglioso, raccomandandogli di fare quell’esperienza almeno una volta nella vita.
Ma più che il mare e i dettagliatissimi racconti sull’alba, quello che catturò l’attenzione di Mirton fu lo scatolone di cartone appoggiato sul letto. Il suo cuore cominciò a battere più forte. Era davvero riuscito ad arrivare senza problemi?
- Oh, certo, - disse il vecchio, interrompendo il filo dei suoi pensieri - questa è arrivata stamattina. Conteneva alcuni oggetti che non sarebbe riuscito a portare in aereo, giusto?
- Ah, ecco... Sì... sì, esatto,. - balbettò Mirton, - ci sono dentro delle... cose fragili.
Cercò di calmarsi. Se il pacco era arrivato fino a lì, voleva dire che nessuno si era accorto di quello che conteneva. E i due gentilissimi signori non avevano motivo di sospettare il contenuto.
Eppure aveva una paura matta di essere scoperto.
- Forse è meglio se lo lasciamo riposare, caro, ha affrontato un lungo viaggio per arrivare qui.
Mirton ringraziò nel suo cuore la donna.
I coniugi gli consegnarono le chiavi di casa, gli spiegarono brevemente dove avrebbe potuto andare a fare la spesa e gli lasciarono un bigliettino col loro numero di telefono in caso di necessità.
Rimasto solo, Mirton si precipitò verso il pacco appoggiato sul letto. Non ce la faceva più ad aspettare, era rimasto troppo tempo senza quella.
Lo aprì con molta cautela: dentro c’erano le fotografie che aveva preso dalla mensola del camino di casa sua ad Unima, qualche libro che avrebbe occupato troppo spazio in valigia e un astuccio. Mirton lo prese in mano e lo aprì: dentro, a sua volta, in mezzo a un sacco di matite spuntate, penne e gomme c’era un piccolo sacchettino di carta. Lo strappò, impaziente, e recuperò un po’ di tranquillità solo quando vide intatte le bustine di plastica che contenevano la sua polverina bianca preferita.
***
A Mirton bastarono poche settimane per abituarsi alla tranquilla vita di Alola. Passò i primi giorni ad esplorare la città di Malie e il suo promontorio, prima di spingersi verso il Villaggio Tapu e il Percorso 15. Tutto sommato, quel posto gli piaceva: le persone erano gentili, i Pokémon erano belli a vedersi e fare quelle lunghe passeggiate lo aiutava a stare meglio.
Spesso, però, ripensava a casa propria e una fortissima malinconia lo rapiva. Si ricordava dei giorni in cui era Superquattro ad Unima, quando poteva uscire a divertirsi con i suoi amici e riusciva ancora a fare a meno della droga. Cioè, non che non ne avesse mai proprio fatto a meno: un po’ di erba ogni tanto se la concedeva, quando aveva bisogno di rilassarsi. Ma quella era facile da tenere sotto controllo, non gli aveva mai dato problemi.
Ma un giorno un suo compagno di giocate al casinò lo aveva convinto a provare della cocaina. Così, tanto per divertirsi. E Mirton non si era tirato indietro: un po’ perché era veramente curioso di provare, un po’ perché voleva vedere cosa sarebbe successo a giocare con gli effetti di quella roba in corpo. Si sopravvalutò, pensando di essere in grado di gestirne le conseguenze.
Le prime volte non furono così male: si sentiva un pochino più sveglio, più reattivo e si divertiva. Così la prese un’altra volta, e poi un’altra ancora. E in poco tempo non riuscì più a farne a meno.
Quando l’aveva realizzato, ormai era troppo tardi: aveva cercato di smettere da solo, ma non ci era riuscito.
Aveva anche valutato l’idea di andare in una clinica apposita, per poi scartare l’idea quasi subito: sarebbe stato impossibile nasconderlo agli altri Superquattro e aveva paura delle reazioni che avrebbero avuto a saperlo. Perciò aveva cercato di nascondere la cosa per un po’ di tempo e poi era partito.
Tuttavia, si vergognava tantissimo dello stato in cui si era ridotto: da Superquattro, avrebbe dovuto essere un esempio di virtù per tutti gli Allenatori di Unima. Ma aveva fallito nel suo compito, e ritirarsi gli sembrava la cosa più saggia da fare. Qualcun altro di più meritevole avrebbe preso il suo posto.
Anche ad Alola aveva cercato di liberarsi dal suo vizio, ma non era ancora riuscito. Nel primo cassetto del comodino c’era ancora il bigliettino con i nomi di persone da cui Mirton aveva cominciato a rifornirsi ad Alola: erano organizzati in una specie di gruppo che gli ricordava vagamente il Team Plasma, ma era infinitamente meno pericoloso. Si accontentavano di spaventare bambini, rubare Pokémon per poi farsi beccare in pochi minuti e pochi altri affari: forse il traffico di droga era l’unica loro attività che portasse qualche reddito.
Si facevano chiamare Team Skull.
Sapeva che comunque non era molto carino finanziare un giro di quel genere, ma non poteva proprio farne a meno.
Quel giorno aveva deciso di andare a fare un giretto sul Percorso 15 col suo Sharpedo. Aveva scoperto, tra l’altro, una cosa abbastanza interessante: il Pokémon Brutale era in grado di rompere gli scogli che si trovavano in acqua senza farsi male.
A dir la verità, quell’area non gli piaceva particolarmente: era semideserta e c’erano poche cose interessanti. Nel Villaggio Tapu non c’era nulla che valesse la pena vedere e l’ex Supermarket Affaroni era diventato noioso già la terza volta che ci aveva messo piede.
Però non aveva molti altri posti dove andare, e quindi tornava sempre lì.
Quello di cui non si era accorto è che già da qualche giorno veniva osservato.
Un uomo dai capelli grigi e gli occhi rossi aveva cominciato a seguirlo, incuriosito dalle capacità di Sharpedo. Normalmente non si sarebbe scomodato per vedere un tizio strano che andava in giro col suo Pokémon senza disturbare, ma quella volta era diverso. E, quando vide che il tipo strano aveva finito il suo giro di routine, gli si avvicinò.
- Alola, piacere di conoscerti - lo salutò, con un tono di voce piatto, - io mi chiamo Augusto e sono il Kahuna di quest’isola. Non penso di sapere il tuo nome.
Mirton rimase sorpreso. E, subito dopo, lo assalì il terrore di essere stato scoperto. Gli capitava sempre quando qualcuno gli parlava per la prima volta.
- Ahm, il piacere è mio - cominciò a balbettare, cercando di sembrare calmo, - in effetti... No, credo che non ci siamo mai visti. Io, ecco, mi... Mi chiamo Mirton, sono... ero un Superquattro della regione di Unima. Sono qui... perché... in vacanza. Sì, sono in vacanza. - concluse. Le mani gli tremavano.
- In vacanza... - ripeté Augusto. Se quello che gli avevano detto gli abitanti di Malie, cioè che era lì da più di sei mesi, era vero, si trattava indubbiamente di una vacanza molto lunga. Ma non gli importava parecchio di indagare oltre.
- Spero che Ula Ula ti piaccia. Stavo dicendo, ho da chiederti un favore.
Mirton si sentiva svenire. Come mai quello non si sbrigava a parlare?
- Ho visto che il tuo Sharpedo è in grado di frantumare gli scogli - continuò il Kahuna, non sembrando notare il disagio del suo interlocutore, - e volevo chiederti se fosse possibile registrarlo nel Poképassaggio. Sai cos’è, vero?
Il battito del cuore di Mirton diminuì notevolmente. Ma effettivamente non aveva mai sentito parlare di Poképassaggio.
Augusto gli spiegò brevemente che lì ad Alola non esistevano le Macchine Nascoste, ma alcuni Pokémon addestrati per certi compiti come spostare in volo le persone, spingere massi, attraversare specchi d’acqua eccetera; e lo Sharpedo di Mirton sarebbe stato un ottimo aiuto per gli Allenatori che compivano il giro delle isole.
- Io... Uhm, penso...
Non era molto sicuro, in realtà. Rompendo gli scogli del Percorso 15 ci si apriva la strada per Poh, che era tenuta in mano dal Team Skull. E Mirton aveva paura che, se qualcuno fosse andato a ficcare il naso e avesse scoperto quello che succedeva, avrebbe sicuramente fatto più fatica a procurarsi droga. E sapeva di non essere in grado di resistere senza.
C’era anche da dire che se qualche forza di polizia avesse voluto entrare nella cittadina non avrebbe di certo aspettato il suo Sharpedo. Forse non c’era nulla da temere.
- Sì, va bene. Per te è ok, Sharpedo?
Il Pokémon emise il suo verso, che Mirton interpretò come un assenso.
- Perfetto - rispose Augusto, - dovremo metterlo in una Ball particolare in modo che possa essere trasportato nel luogo in cui c’è bisogno di lui. Grazie, signor Mirton.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


- Svegliati, tesoro! Tra poco atterriamo.

La donna scosse la figlia seduta nel posto accanto.

Moon si stiracchiò, sbadigliando. Aveva cercato di rimanere sveglia durante il viaggio per vedere dall’alto il paesaggio che scorreva, ma dopo poco si era addormentata: faceva molta fatica a svegliarsi presto e ancora più fatica a stare sveglia mentre aveva sonno.

Appena ebbe preso coscienza di dove si trovasse e cosa stesse facendo, però, si allacciò la cintura e appiccicò il naso al finestrino dell’aereo. Vide a poca distanza una grande isola montuosa in mezzo ad un vastissimo oceano azzurro che pareva piatto come una tovaglia appena stirata dalla sua mamma.
- Guarda, mamma! Quella deve essere Akala. Secondo te da qui si vede Mele Mele? - chiese, eccitata.
L’atterraggio avvenne senza particolari problemi e le due si recarono al nastro trasportatore da dove avrebbero preso i loro bagagli. Moon si era ormai svegliata del tutto e stava osservando qualsiasi cosa: Alola sembrava così diversa da Kanto.
Imbarcatesi sul traghetto che le avrebbe portate a Mele Mele, la ragazza tirò fuori la sua macchina fotografica alla ricerca di qualche soggetto interessante. Fotografò l’acqua azzurrissima del mare, i Pokémon che ogni tanto nuotavano vicino alla barca nella speranza di ricevere qualche bocconcino e le coste dell’isola di Akala che si allontanavano.
Sua madre, osservando quei comportamenti, non poté fare a meno di mettersi a ridere.
- Cosa c’è, Moon? Hai paura di dimenticarti tutto quanto appena sposti lo sguardo?
La ragazzina arricciò il naso, fingendo di essere offesa.
- Ma no! Lo so che posso rivedere questo paesaggio tutte le volte che voglio, soprattutto quando comincerò il mio giro delle isole. Volevo solo… Raccogliere foto per mostrarle a papà la prossima volta che lo vediamo. Sai quando sarà?
La donna non smise di sorridere. Moon era molto legata a suo padre, nonostante non si vedessero molto spesso. Appena ne aveva l’occasione, gli telefonava e gli faceva un resoconto dettagliato delle avventure vissute fino a quel momento e lui le ascoltava con pazienza e attenzione.
Fisicamente si assomigliavano anche un pochino: avevano gli occhi dello stesso colore. Inoltre, Moon stava crescendo parecchio: un’altezza del genere non poteva averla presa che da suo padre.
- Non so quando lo vedremo, piccola. Sai che è molto impegnato… Comunque, sei sicura di non volergli dire nulla?
La ragazzina rifletté un attimo prima di rispondere. Aveva sempre detto tutto a suo padre e si sentiva un po’ in colpa a tenergli nascosto un evento così importante.
- Sì. Voglio completare il giro delle isole e fargli una sorpresa. Pensa alla faccia che farà quando lo scoprirà!
In realtà, avrebbe preferito raccontargli del viaggio e fargli vedere i suoi progressi mano a mano che li otteneva. Ma lui aveva una posizione importante in un’altra regione e sperava con quella sorpresa di renderlo fiero di lei.

***

Mirton strinse tra le mani il fazzoletto macchiato di sangue, respirando pesantemente. Aveva appena avuto un terribile eccesso di tosse e, come se non bastasse, aveva tossito sangue.
Non era la prima volta che gli capitava.
Purtroppo l’atmosfera di Alola, per quanto fosse piacevole, non l’aveva aiutato minimamente. Aveva provato ancora a smettere con la cocaina, ma non ci era riuscito. E aveva cominciato a pensare seriamente che non sarebbe riuscito a smettere mai.
Si sedette lentamente con la schiena contro le piastrelle del bagno della sua casetta a Malie, disperato. La sua vita, prima tranquilla e piena di soddisfazioni, si stava sgretolando tra le sue dita e  non riusciva a fare niente per metterla a posto. Si sentì gli occhi lucidi e si rannicchiò ulteriormente, appoggiando il volto contro le ginocchia e scoppiando a piangere. Si sentiva malissimo: la gola e il naso gli bruciavano e sentiva ancora in bocca il sapore del sangue, ma soprattutto non riusciva a non odiarsi per quello che si era fatto. Non era stato capace né di controllarsi prima né di chiedere aiuto poi. Spesso pensava che ad Unima non sarebbe tornato mai: non voleva farsi vedere dai suoi amici in quello stato pietoso.
All’improvviso avvertì una piccola pressione: Liepard era arrivata e gli aveva poggiato una zampa sulla spalla.
A suo modo, era preoccupata: il suo Allenatore ultimamente stava parecchio male e lei non sapeva esattamente come comportarsi. L’unica cosa che riusciva a fare era stargli vicino, fare le fusa e tentare di consolarlo quando aveva i momenti peggiori.
Mirton le poggiò una mano sulla testa e la accarezzò dietro le orecchie, tirando su col naso. Non riusciva a riprendersi nemmeno pensando ai suoi Pokémon: cosa sarebbe successo a loro se lui fosse morto? Per quello che stava succedendo, non era un’ipotesi così lontana dalla realtà.
All’improvviso il suo cellulare si mise a squillare: si alzò in fretta e raggiunse la camera, dove l’aveva lasciato una volta rientrato dalla sua passeggiata. Rispose: era Antemia.
- Ciao, Mirton! - esordì la Superquattro con voce squillante - Come stai? Era da un po’ che non ci sentivamo, vero?
- Ehi, Antemia - balbettò lui - Io… Sto abbastanza bene, dai.
Non era convincente per nulla. Aveva ancora il respiro affannoso, e la voce roca e rotta dai singhiozzi.
Dall’altro capo, Antemia, a sentirlo così, si spaventò non poco.
Lo chiamava spesso, ma le sembrava che il suo amico non migliorasse mai. Anzi, forse stava continuando a peggiorare. Si morse il labbro, senza sapere bene come continuare la conversazione.
- Sei sicuro? - rispose poi. Mirton non disse nulla.
- Senti, Mirton… Io lo capisco che c’è qualcosa che non va. Non so perché non ce l’hai detto, ma… sappi che sono tua amica, ok? E che puoi dirmi tutto. Io ti posso aiutare, se vuoi…
- Antemia. - la fermò Mirton. - Io… Lo so che siamo amici, davvero. Ma veramente, non c’è niente sotto. È solo una malattia particolarmente brutta, tutto qua.
Si lasciò cadere seduto sul divano. Più di una volta aveva pensato di confidarsi almeno con lei, ma aveva troppa paura del suo giudizio. Non voleva mostrarsi debole e inetto, soprattutto davanti a lei. Si passò una mano sugli occhi, asciugandosi le lacrime.
Antemia rimase in silenzio. Avrebbe voluto prendere il primo aereo per Alola e raggiungerlo, ma non poteva abbandonare così la Lega Pokémon. Già avevano faticato a trovare un sostituto per Mirton, trovarne uno per lei sarebbe stato impossibile. Fece un respiro profondo.

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