Quanto di più sbagliato

di AlnyFMillen
(/viewuser.php?uid=840285)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quanto di più sbagliato ***
Capitolo 2: *** Quanto di più doloroso ***
Capitolo 3: *** Quanto di più confuso ***
Capitolo 4: *** Quanto di più imprevedibile ***
Capitolo 5: *** Quanto di più egoista ***
Capitolo 6: *** Quanto di più bramato ***
Capitolo 7: *** Quanto di più difficile ***
Capitolo 8: *** Quanto di più chiaro ***
Capitolo 9: *** Quanto di più giusto ***



Capitolo 1
*** Quanto di più sbagliato ***


Quanto di più sbagliato 

[Adrien]

 

 

 

 

«Sta tranquilla, Ladybug. Va tutto bene. I miei occhi sono sempre rimasti chiusi, non ho visto nulla».

La strinse più a sé, mentre una scia luminosa percorreva il volto della ragazza. Pur lontano dalla sua vista, lo sguardo di lei bruciava.  E lo percepì subito, il bruciore di quello sguardo, il fuoco che divampando aveva preso la forma d'acqua. Fu alla liberazione d'una lacrima, poi d'un'altra e una ancora. Credette di piangere egli stesso ed ebbe la sensazione che, se soltanto avessero voluto, entrambi avrebbero potuto annegare nel mare  bagnato delle loro guance. 

Bastava quello, rifletté. Bastava averla accanto, accoccolata fra le sue braccia. Il resto non importava: avrebbe atteso, pazientato fin quando non sarebbe stata lei stessa, con volontà propria, a rivelargli la propria identità. Desiderava più di qualunque altra cosa sapere chi in realtà si celasse dietro la maschera a pois che tanto lo aveva conquistato, credeva fosse quello il fine più alto a cui avesse mai voluto arrivare.

Eppure, solo in quel momento, capiva quanto in realtà si stesse sbagliando. 

"Devo scoprire chi è Ladybug". Era una certezza che la sua mente aveva costruito come a rassicurarlo, a donargli un fine ultimo; era quanto di più sbagliato avesse mai potuto pensare. Una bugia stupida, plausibile, ma falsa. La verità era ben diversa.

Non doveva sapere, ma semplicemente capire.

Non voleva renderla sua, ma farla felice

Non gli serviva Ladybug, aveva un estremo bisogno di lei, lei e solo lei — con o senza l'aria da beniamina.

Che ci fosse anche dell'altro era ovvio, il suo stesso essere un uomo gli impediva di eliminare i pensieri, via via sempre più pressanti. Tuttavia, Chat Noir  — Adrien — passava ovviamente in secondo piano di fronte alle necessità della ragazza. Poteva calpestare l'orgoglio, mettere da parte i problemi, le ansie di tutti i giorni; ingoiare l'amaro, ricacciare i sentimenti e la curiosità: tutto pur di renderle ciò che meritava.

«Non sei pronta e va bene. È tutto okay», sussurrò, poggiando il mento sui capelli corvini dell'altra.

Le carezzò lentamente le spalle, cercando di calmare i singhiozzi che avevano preso a scuoterla, e circondò la vita sottile col braccio libero. Un gesto caldo, privo di malizia. 

Lei si sistemò meglio tra le sue gambe, intenzionata a rendersi il più piccola possibile, ma agendo in tal modo fece urtare la schiena del ragazzo con il muro antistante. 

Chat represse una smorfia di dolore, le labbra strette sino a divenire una pallida linea sottile. Non voleva si accorgesse che la brutta ferita alla base della schiena era tornata a pulsare. Attese qualche attimo, tempo di riprendere il controllo sul proprio corpo e accantonare il dolore cieco che aveva fatto stringere gli occhi all'inverosimile. Poi salì, con dita più leggere di una farfalla, fino al capo della Lady.  

Scivolò sino alle orecchie e prese il piccolo volto fra le mani. Poggiò la fronte contro quella dell'altra — sentiva il suo respiro appena più veloce infrangersi sulle labbra — e passò ripetutamente i pollici sulle gote di lei, in un movimento lento e ripetitivo. Piano, terrorizzato all'idea che qualunque movimento brusco, benché minimo, potesse turbarla.

«Non piangere, non ce n'è bisogno».

La tentazione di schiudere le palpebre era forte, quasi insopportabile, ma non lo sfiorò minimamente l'idea di assecondarla. 

Mai si sarebbe perdonato un simile gesto, sentendola tanto indifesa e fragile. Pari ad un cristallo troppo prezioso e sottile poggiato imprudentemente nei palmi delle sue mani, grandi in confronto a quelle di lei strette attorno alla maglia nera. Una pressione e sarebbe andata in pezzi. Non aveva intenzione di permetterlo, non proprio ora che aveva così bisogno del suo supporto. Doveva tenere a bada il potere della distruzione, non poteva frantumarla. Non poteva, non come...

Papillon.

No, non doveva. Non doveva pensarci, non doveva romperla. Lui era diverso.

Non poi così tanto.

Lui...

E se non ci fosse stato il bacio?

Il bacio. Al solo pensarci la testa gli doleva da far male, più di quanto non facesse già di per sé; proprio come nell'istante in cui aveva creduto di star per crollare, il momento in cui qualcosa era scattato. L'attimo in cui il suo sguardo, sempre pieno di gioia e genuina contentezza, s'era fatto vuoto, spento dalla crudele realtà.

Padre.

Era sempre stato lì, sotto il loro naso: il nemico di una vita, colui che mirava a distruggerli. 

Due genitori persi in così poco tempo era più di quanto un ragazzo della sua età potesse sopportare.

E mentre lui restava perso nel vuoto della propria mente, Ladybug aveva intuito la gravità della situazione, seppure non nella sua interezza. Le iridi celesti erano state attraversate da un lampo di consapevolezza. Poi tristezza, pena. Si era sporta nel mezzo della battaglia e gli aveva stampato un bacio a fior di labbra.

Per un attimo, un solo misero attimo, nonostante il fragore del combattimento, Chat Noir era stato più che sicuro di poter toccare il cielo con un dito. Nemmeno pochi secondi dopo, però, la sensazione s'era dissolta. 

Un bacio, uno come quello, era privo completamente di significato. Sarebbe stato meglio uno schiaffo. L'altruismo che albergava nel cuore della ragazza era così immenso da non poter permettere alle persone, specialmente coloro cui teneva davvero, di soffrire. Non c'era altro dietro quell'incontro di labbra, solo compassione.

La vittoria si stagliava imminente, Ladybug aveva bisogno del suo compagno di squadra. Quello che non aveva paura di prendere in giro i malviventi, che si divertiva con battutine da quattro soldi: il solito vecchio Chat. Null'altro.

Non aveva avuto il tempo di riflettere che lei si era allontanata e gli eventi avevano ripreso a rincorsi tra loro.

Lo scontro, la scomparsa, il suono di un Miraculous.

«Chat», balbettò Marinette tentando di controllare i singulti e pronunciare il suo nome.

«Sono qui, My Lady, sono qui» 

E ti amo.

No, non lo avrebbe detto. Se così avesse fatto, il precario equilibrio della ragazza sarebbe precipitato. Metterla nella posizione di trattare con sentimenti tanto importanti, per una volta messi a nudo con serietà, era assai scorretto considerando la situazione in cui si trovavano.

«Sono qui, ci sarò sempre: quando e se mi vorrai, resterò al tuo fianco».

Era il meglio che poteva fare, era gran parte della verità. Continuare a proteggerla sempre: quello sarebbe stato lo scopo della sua vita. Non c'era motivo di provare risentimento nei suoi confronti, di pensare egoisticamente a se stesso.

«Scusa», mormorò ancora lei, poggiando il viso sulla sua spalla.

«Non c'è motivo di scusarsi, non devi».

«Sì, invece».

Trovò la forza, da qualche parte, di emettere un risolino. Le poggiò una mano sui capelli, carezzandoli ripetutamente.

«Testarda di una coccinella».

Gli sembrò che anche le spalle di lei fossero scosse da un movimento diverso rispetto a quello che le lacrime provocavano, ma subito quello si arrestò, come smorzato sul colpo.

«Cosa c'è? Ti fa male qualcosa?», le chiese subito, allarmato. Non poter verificare le condizioni della sua amata lo stava corrodendo, senza l'uso della vista era inutile. 

Provò allora a sfiorarle lievemente la schiena e le braccia, così da constatare la presenza di eventuali ferite. Arrivato alla spalla destra, percepì stoffa bagnata e odore metallico. La sentì sussultare e reprimere a stento un gemito di dolore.

«La caviglia», confessò allora Ladybug con voce rotta, allontanando debolmente la mano del biondo per sviare ulteriori sospetti. «Credo sia fratturata».

«Devo portarti in ospedale», dichiarò lui risoluto.

Fece per alzarsi, digrignò i denti, ricadendo rovinosamente a terra. Le gambe non lo tenevano, dannazione! La ferita non faceva che aggravare la situazione e, doveva ammetterlo, il peso della ragazza non aiutava di certo.

«No!», gridò Marinette, un'imposizione talmente decisa in confronto ai sussurri che aveva utilizzato fin a quel momento da bloccare ogni suo scarso tentativo di assumere una posizione eretta.

«Ladybug?», chiese, inarcando un sopracciglio. Certo, se avesse avuto gli occhi aperti sarebbe stato tutto più facile.

«La polizia sarà qui a momenti...», come ad avvalorare l'ipotesi, dei rumori lontani provenienti da qualche metro sotto di loro le fecero eco. «Ecco, vedi? Probabilmente ci hanno trovati».

«Non-»

«Non puoi correre alla cieca per tutta Parigi. Sei nelle mie stesse condizioni, se non peggio, ed io ti rallenterei parecchio. Ci rintraccerebbero in pochi minuti».

«Tu-»

«Sì, Chat. Sarei un peso inutile. Ho problemi a camminare e non credo di potermi trasformare al momento. Aspettiamo, per favore».

Ci fu un attimo di silenzio, poi il ragazzo annuì lentamente. Era tornata ad essere la leader di sempre.

«Come la mia signora desidera», sussurrò, incerto ma fiducioso.

Si portò una mano sulla fronte, improvvisamente stanco. Lo stress accumulato nella giornata cominciava finalmente a farsi sentire. Lentamente, rilassò le spalle ed il dolore fisico, ma soprattutto psicologico, lo travolse come un fiume in piena. Così, con gli occhi chiusi ed il nulla più completo a fargli compagnia, era una facile preda per gli incubi. 

Deglutì a vuoto.

"Papillon è Gabriel Agreste?"

«Chat?».

"Chat Noir, coprimi!"

Era la sua Lady a chiamarlo, avrebbe riconosciuto la voce tra mille. Ma quale delle due? Non riusciva a capirlo.

"Perché l'hai fatto?"

"Non sono affari che riguardano un ragazzino impertinente come te".

«Chat Noir!».

A chi avrebbe dovuto rispondere? Non lo sapeva.

"Papillon!"

"Lascia stare Chat, è svenuto".

«Rispondimi, ti prego».

"Devo andarmene, non rimane molto tempo".

"My Lady ragiona, non sei nelle condizioni".

«Chat...».

"Ma così riveleremo le nostre identità!"

"Non ho utilizzato Cataclisma, posso rimanere trasformato. Inoltre terrò gli occhi chiusi, lo giuro".

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Quanto di più doloroso ***


Quanto di più doloroso

[Marinette]

 

 

 

 

«Chat?».

Marinette allontanò lentamente il volto dal petto dell'amico, sciogliendo piano quella stretta in cui, perfino nel peggiore dei momenti, aveva potuto sentirsi al sicuro. Sotto l'orecchio destro percepiva il cuore pulsare feroce dalla stoffa della tuta; a contatto con i capelli, lasciati liberi sulle spalle, un respiro leggero. Nulla di sbagliato, tutto nella norma.

Avevano vinto, fra non molto sarebbero stati portati in salvo e ogni cosa sarebbe tornata al proprio posto. Avrebbe dovuto inventare qualche scusa per giustificare la sua presenza lì, forse anche quella della controparte civile di Chat, ma sarebbe andato tutto bene.

Portò una mano ad accarezzarsi lo sterno, acidità e nausea d'un tratto persistenti.

Allora cos'era quella sensazione? Come una specie di morsa allo stretto dello stomaco, così violenta da far risalire in gola il sapore amaro della bile. Un sesto senso che, senza troppi preamboli, l'avvisava di stare attenta perché qualcosa non andava.

Agitò appena le spalle, reprimendo a stento un conato di vomito. Cosa le stava succedendo? Prima della mente, il corpo aveva già recepito un messaggio importante, non le era dato sapere quale.

Repentina, la mano destra salì fin alla base della gola, il capo balzò indietro.

La giovane si apprestò a cambiare posizione, sporgendo il busto verso l'esterno e sottraendosi alla stretta del ragazzo. Senza opporre resistenza, le braccia di lui scivolarono dalle sue spalle, poggiando con un tonfo sul pavimento carbonizzato. Fu il secondo segno, quello, subito a seguito del silenzio che regnava nella sala.

In un primo momento, Marinette non vi fece caso, troppo occupata a cercar di interpretare gli strani segnali che il proprio corpo le stava mandando. Quando notò la posa innaturalmente rilassata in cui giacevano gli arti che la stavano cingendo, venne percorsa da un brivido irrazionale.

Capì ed ebbe paura. Paura di scoprire che ad attenderla, alzando il mento, non avrebbe trovato il solito sguardo ridente, l'abituale sorriso giocoso.

Si sporse appena verso l'alto, quel tanto che bastava per guardare in volto l'amico. Cercava la conferma che si stesse sbagliando, che Chat stesse bene, per quanto le condizioni fisiche lo permettessero. Niente di più, niente di meno. Non voleva crederci, cadere nella morsa irrazionale del terrore.

Posando però gli occhi sulle palpebre chiuse del ragazzo, il solco tra le sopracciglia marcato a causa del dolore e la bocca tirata in una smorfia, sussultò.

Portò entrambe le mani alle labbra, schiuse per l'orrore.

No.

«Chat Noir!», le sfuggì, il tono più alto di sette ottave rispetto al normale.

Palmi ben aperti delle mani sulle guance di lui, mosse tremante le dita sugli zigomi, attorno le labbra. Sembrava caldo, presente. Impose a se stessa la calma, tirando lunghi e veloci respiri.

Sta riposando un attimo, si convinse, fra non molto riaprirà gli occhi.

Attese un attimo, un altro ancora, ma il supereroe sembrava determinato a non voler proferire parola.

«Rispondimi, ti prego», sussurrò allora, preda dello sconforto.

Sapeva che era vivo — respirava — ma non capiva il perché di quell'espressione sofferente, del silenzio. Le venne da ipotizzare uno svenimento, un coma: il peggio del peggio. Era una ragazzina, che poteva saperne lei di diagnosi mediche? Sapeva soltanto che  qualcosa non andava.

«Chat... N-Non lasciarmi sola!».

L'eco delle sue parole si perse all'interno della stanza, mentre il nulla risucchiava ogni possibilità, per quanto misera, di salvezza. Non sarebbero arrivati in tempo. Al piano inferiore era da tempo divampato un incendio, riusciva a vedere le colonne di fumo innalzarsi verso di loro. Sarebbero morti. Il panico si era ormai impossessato di lei.

Dannazione.

Nuove lacrime fecero capolino dai suoi occhi, mentre picchiava frustrata un colpo sul braccio inerme del giovane. Sarebbe morta, senza avere la possibilità di sapere chi fosse colui che fin alla fine aveva deciso di proteggerla, rispettarla, amarla. Sarebbe morta, con la consapevolezza di non poter far nulla per evitarlo, sentendosi impotente. Sarebbe morta, sapendo di aver sottratto ad Adrien l'unico rimasto fra i suoi genitori, portando con sé altre due vite innocenti. Sarebbe, semplicemente, morta e tutto ciò in cui sempre aveva creduto sarebbe scomparso.

Si voltò verso destra, dove giaceva inerme la piccola kwami della creazione.

«Mi dispiace, Tikki», mormorò. «Mi dispiace davvero».

Poggiò il piccolo corpicino sulle mani, osservandolo tra le lacrime. Non era stata capace di adempire al proprio compito, quelle erano le conseguenze.

Singhiozzò, sconfitta, proprio mentre qualcun'altro le si avvicinava.

«Ladybug?». Nel caos più totale, si fece largo un piccolo bagliore violaceo.

Marinette credette di averlo immaginato, ma, quando la luce si fece più vicina e il nome venne ripetuto, fu certa di non aver sognato. Se davvero era impazzita, tanto valeva approfondire la questione negli ultimi attimi che le restavano.

«Chi parla?», domandò, assottigliando lo sguardo.

Il piccolo esserino la raggiunse, posizionandosi a pochi metri di distanza. Sembrava molto affaticato, le piccole ali diafane raggrinzite e l'antenna bassa, eppure ricercava lei, colmo di preoccupazione.

«Un kwami».

«S-sì», balbettò lui. «Mi spiace, non c'è molto tempo. Sono qui per darle questo».

La ragazza si ritrovò ben presto un piccolo oggetto fra le mani: era liscio, ben squadrato, dalla forma animale. La spilla di Papillon.

Le appariva tutto talmente surreale e, se si fossero trovati in una situazione normale non avrebbe esitato a rimanerne affascinata. Ma il tempo a sua disposizione stava scadendo velocemente.

«I-io non posso. Non sono- Non è mio questo».

Nooroo annuì frettolosamente, lo sguardo serio e spaventato.

«So che è stata affidata a Tikki», disse chinando il capino. «Ma anche lei ha bisogno del suo aiuto, ora. Mi dispiace per i danni provocati dal mio portatore e per tutto il male che siete stati costretti a subire. Anche se è impossibile rimediare, v-vorrei provarci».

«Io...», ripeté ancora Marinette, incapace di proferire altro.

«Non intendo costringerla ad indossare spilla!», si affrettò a chiarire. «Probabilmente sarebbe inutile: è danneggiata. Lasci solo che provi a fare una cosa, la prego».

L'altra lanciò uno sguardo preoccupato alla sua piccola amica, poi al ragazzo. Se esisteva un modo per rimediare, avrebbe tentato, accettando le conseguenze. Quell'esserino poteva rappresentare la sua unica fonte di salvezza, così come l'esatto contrario: avrebbe dovuto fidarsi.

Annuì decisa, nonostante gli occhi rossi per le lacrime e il fumo, prima che il kwami della farfalla si gettasse a capo fitto verso di lei. Lottando contro l'impulso di allontanarsi, serrò le palpebre e, quando le riaprì, non trovò più traccia di Nooroo. Gli unici rumori percepibili erano dati dallo sgretolamento delle travi.

Schiuse le labbra per dire qualcosa, ma le parole rimasero bloccate in gola, mentre il riconoscibile formicolio che precedeva la trasformazione si avvolgeva tutt'attorno a lei. Inaspettato, inspiegabile, poiché Marinette non aveva richiesto nulla.

Senza che potesse impedirlo, si ritrovò immersa in un'abbagliante luce rosata, differente da quella a cui era abituata. Solo pochi attimi più tardi, capì realmente cosa fosse successo. Non credeva possibile nulla di ciò cui stava pensando, né sapeva, in caso, quali fossero le conseguenze derivanti, e per lei e per il kwami. Eppure, le ipotesi che potessero spiegare quanto accaduto erano ben poche.

Sbigottita, avvicinò una mano al proprio volto, muovendo le dita lentamente per accertarsi che le appartenessero.

Era tornata ad essere Ladybug.

Era tornata ad essere Ladybug senza Tikki.

Era tornata ad essere Ladybug senza Tikki e la sua trasformazione aveva subito un cambiamento radicale.

La kwami non le aveva mai detto nulla riguardo un cambio di colore, eppure il tessuto della tuta, pur mantenendo gli inconfondibili pois neri, era variato. Sapeva ancora riconoscere la differenza fra il rosso ed il viola, nonostante la scarsa luce dell'abitacolo.

Con uno scatto si rizzò in piedi, constatando che il dolore alla caviglia e alla spalla era, se non scomparso, almeno lievemente diminuito. Ci sarebbe stato tempo, dopo, per riflettere più approfonditamente su come Nooroo fosse riuscito a fondersi con i suoi orecchini ed apportare in lei tutti quei cambiamenti.

Fuori Villa Agreste, voci conciate, sirene lampeggianti e pompe d'acqua pronte all'utilizzo.

Marinette prese tra le mani il corpo esanime di Tikki, pregando che si riprendesse al più presto, per poi riporlo in una delle tasche che, fortunatamente, erano state incluse nel costume di Chat. Guardò quest'ultimo, la smorfia di dolore ancora persistente sul volto. Doveva portarli via di lì, alla svelta.

Trattenne un gemito di dolore e issò il ragazzo sulle sue spalle, guardandosi attorno per l'ultima volta. Sapeva che c'era ancora qualcuno all'interno, ma, con tutto quel fumo, non riusciva a capire dove si trovasse. Fece un passo avanti, cercando di scandagliare la sala, quando il pavimento franò sotto i suoi piedi e dovette indietreggiare velocemente, sin a ritrovarsi con la schiena rivolta verso il grande finestrone, ormai infranto.

In quelle condizioni, riusciva a portare una persona solo con uno sforzo immane, figurarsi due. Si morse la lingua, mentre la mente rifiutava l'idea di lasciar indietro un civile. Stava per rientrare completamente nell'abitacolo, ma un nuovo cedimento glielo impedì.

Erano fuori, questa volta per sempre.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Quanto di più confuso ***


Quanto di più confuso

[Adrien]

 

 

 

 

Buio.

Tentò di articolare qualcosa, una qualsiasi parola nata dal movimento delle proprie labbra, con scarsi risultati.

Oscillazione di un corpo, terreno assente sotto i piedi.

Dischiuse le palpebre, cercando, non senza molte difficoltà, di mettere a fuoco la situazione.

Una mano, dita mosse a fatica.

Forzò la vista per osservare le piccole goccioline d'acqua che pendevano dai polpastrelli, poi lasciò ricadere mollemente il palmo sul ventre. Davanti a lui, gli era parso di vedere lo spettro di qualche palazzina ingrigita.

Avrebbe voluto chiedere cosa stesse succedendo, non era abituato a sentirsi tanto confuso. Eppure, semplicemente, non poteva. Forse, rifletté, con un piccolo sforzo, ci sarebbe riuscito. Eppure, semplicemente, non ne aveva voglia. Come quando si sta per addormentarsi, in un limbo di dormiveglia consapevole e sogno: capiva confusamente ciò che stava accadendo, ma non vi partecipava; la mente era attiva, il corpo si rifiutava di collaborare.

Emise un lamento, poggiando il capo sulla superficie bagnata accanto la quale doveva trovarsi, mentre una fitta lancinante si propagava dal basso ventre fino al collo.

Serrò i denti con uno schiocco secco, nel vano tentativo di non urlare, e, mentre il sapore viscoso del sangue inondava il palato, Chat Noir portò una mano a tamponare la ferita.

«S-Siamo quasi arrivati. Davvero, Chat», singhiozzò una voce familiare.

Allora c'era davvero qualcuno, lì accanto a lui? Non se lo era immaginato, quel qualcuno a cui importava di lui?

Buio. Dolore: improvviso, micidiale.

Strinse un pugno al petto, artigliando la stoffa leggera della maglia per non gridare. Distrarsi, doveva distrarsi in qualche modo. 

Paradossalmente, gli tornò alla mente la lezione di storia che, poco tempo prima, la professoressa aveva assegnato in occasione della verifica. Se non ricordava male, i monaci shaolin avevano sempre sostenuto che il dolore fosse solo una mera questione mentale e che quindi potesse essere controllato. 

Passò un lembo del costume tra il pollice e l'indice, cercando di analizzarlo, e una nuova fitta si fece sentire. Ringhiò.

In quel preciso istante, ne avrebbe avute di cose da dire, agli accoliti. Nessuna, era certo, avrebbe confermato la loro assolutamente errata e priva di senso ipotesi.

Che poi proprio ai monaci shaolin sono dovuto andar a pensare?

«Ci siamo. È vicino». Di nuovo la voce. Vi si concentrò, studiandone ogni più piccola variazione: tutto pur di non pensare.

«Ce la faccio. Devo farcela».

Questa volta, il tono aveva assunto una marcata sfumatura di supplica.

Sporse appena un braccio nella direzione del suono, dilaniato da quella sofferenza appena percepibile e, nel farlo, entrò in contatto con un tessuto. Leggero, aderente. Non era solo l'effetto della pioggia, sotto la quale qualunque cosa bagnata diviene appiccicosa. Sembrava fatto su misura, di un materiale simile al lattice, forse allo spandex. Era per caso stato salvato da Superman? Probabilmente no. 

C'era un altro supereroe — una supereroina — di gran lunga preferibile nelle vicinanze.

Ladybug.

Non aveva idea del perché la ragazza fosse così addolorata, i suoi ricordi erano appena reperibili e perlopiù confusi. Una battaglia, un bacio, un colpo troppo ben assestato.

Il resto restava imprigionato all'interno della testa e, più si sforzava di portare alla mente gli ultimi avvenimenti, più la nuca pulsava. Troppe domande, troppe poche risposte.

Desiderava raggiungere la sua compagna d'avventure, alzarsi in piedi e affiancarla. Non sembrava stare bene e, anche se al momento ne ignorava il motivo, la cosa gli faceva più male di quanto già non ne facesse la ferita. Poteva sembrare strano, un'esagerazione bella e buona, ma di fatto era così che stavano le cose.

Con uno sforzo immane, schiuse le palpebre, intercettando lo sguardo di lei. Gli appariva, in qualche modo, diversa. Sorrise appena, pronunciò il suo nome.

Poi di nuovo buio.

*

Villa Agreste franava sotto il peso inesorabile del fuoco.

Pareti di cemento sciolte come fossero gesso; quadri inestimabili divorati senza alcuno scrupolo; ossigeno sottratto, senza chiedere, all'aria. Un intero regno, costruito col sudore della fronte nel corso degli anni, stava cedendo il passo al vuoto più totale. Non venne giù in un colpo solo, ma si frantumò con lentezza, granello per granello.

L'uomo in bianco osservò la figura della supereroina allontanarsi. Riuscì a distinguerla fin quando non balzò sull'ennesimo palazzo — il terzo, forse — poi la scarsa visibilità ed il fumo gli impedirono di seguirla ancora. Non avrebbe potuto essere altrimenti: i suoi occhiali erano rimasti schiacciati sotto qualche cumulo di legname, chissà dove, chissà quando.

Ladybug non sarebbe tornata indietro, lo sapeva. In fondo, stava facendo la cosa più giusta: lui conosceva i rischi sin dall'inizio, li aveva accettati.

Dopo la morte di Emilie, il solo dover ancora sopravvivere gli era parso faticoso, innaturale. Si sentiva stanco, immensamente stanco.

Aveva costretto Nooroo, quel piccolo esserino tanto remissivo quanto potente, ad assecondare il suo folle piano, ignorando qualunque opinione al riguardo. L'aveva reso schiavo della sua stessa natura, sottomesso sin all'inverosimile.

Mentalmente, per la prima volta, si scusò con lui. E così fece, subito dopo, con tutti coloro che avevano avuto la sfortuna di capitare sulla sua strada.

Non sapeva dove sarebbe finito e, a dirla tutta, non gli interessava poi granché. Accantonare l'orgoglio e cercare di rimediare, seppur vanamente, ai propri errori non poteva sicuramente peggiorare la sua condizione. Almeno, pensò, avrebbe avuto l'illusoria certezza di essersi pentito.

Barcollò all'indietro, braccia larghe. Cadde in ginocchio, occhi socchiusi.

Nulla di eclatante, non la morte in grande stile che credeva. Desiderava svanire, annullarsi, così da permettere alla gente di Parigi di ritrovare la propria normalità. Nessun supercattivo, Papillon avrebbe potuto dirsi solo un ricordo sbiadito sul fondo della mente. Tutto sarebbe tornato come era sempre stato prima e come avrebbe dovuto continuare ad essere.

Voleva dimenticare ed essere dimenticato. Bramava un nuovo inizio, al di là di ogni cosa materiale. E forse, paradossalmente, gli sarebbe stato concesso.

Pensò ad Adrien, giovane e promettente, frutto di un amore che aveva sempre dato troppo per scontato. Pensò alla moglie, chiedendosi se avrebbe davvero potuto rincontrarla, nonostante tutto.

Alla fin fine, i malvagi ricevono sempre quel che gli spetta, ma Gabriel sperò, nei pochi istanti che gli restavano, di riuscir a trovare la pace almeno nella morte. Niente più odio, basta distruzione.

Osservò Parigi, focalizzando l'attenzione sulle luci lontane della Tour Eiffel fin quando le voci imponenti dei pompieri non divennero ovattate.

Le palpebre fremettero, abbassandosi subito dopo. Il respiro si affievolì, scemando pian piano. Gabriel sorrise, finalmente sereno, e l'eco delle sue ultime parole si perse fra le fiamme.


Un grido terrorizzato irruppe nella quiete mattutina.

Il ragazzo si svegliò, buio a circondarne lo sguardo sconvolto. Strabuzzò gli occhi, lasciando dardeggiare le iridi smeraldo da destra verso sinistra. Disperato, ricercava qualcosa, qualunque cosa potesse cancellare dalla mente il sogno e lasciare spazio al reale. Eppure nulla, nemmeno un piccolo oggetto gli si parò davanti: solo sconfinata ed imperscrutabile oscurità, nessun'ancora cui aggrapparsi.

Portò una mano, avvolta da chissà quale stoffa, sul petto, tentando di regolarizzare il respiro.

Era solo un incubo, si ripeté, un sogno come un altro. Tuttavia, pareva essere estremamente veritiero. I colori, i suoni, perfino gli odori apparivano familiari. Ancora sentiva, nelle orecchie, la voce chiara e ben scandita del padre chiedere sommessamente perdono.

Mi dispiace.

Quelle parole continuavano a tornargli in mente, girovagando senza tregua da una parte all'altra del sistema nervoso. Avrebbe voluto scacciarle con un semplice gesto del capo, eppure sapeva che, in situazioni simili, non serviva a molto tentare di distrarsi. Il pensiero sarebbe rimasto sempre lì, cementificato in un angolo remoto della testa, pronto a riapparire di tanto in tanto.

Aveva già sperimentato una sensazione simile, il presentimento che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato. Poco dopo, sua madre era scomparsa. Ora riecco quella stessa ansia, soffocante e subdola, farsi largo nel petto. Non riusciva a scollarsela di dosso e questo non gli piaceva. Non gli piaceva affatto.

Mi dispiace.

Nonostante fosse pienamente a conoscenza dell'inutilità del gesto, scosse la testa e, causa il movimento scattante del collo, s'accorse di qualcosa.

Adrien sbatté le palpebre più e più volte, così da accertarsi che ci fosse effettivamente della stoffa davanti a lui, poco più in su del naso. Avvicinò le mani al viso, scoprendole poi coperte anch'esse, nel tentativo di capire quanto tessuto gli era stato avvolto intorno al corpo. Confuso, liberò le dita da quello che sembrava, al tatto, un guanto da forno bruciacchiato.

Forse, quella volta, scuotere il capo avrebbe aiutato a distrarlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Quanto di più imprevedibile ***


Quanto di più imprevedibile

[Adrien]

 

 

 

 

Di una cosa Adrien era assolutamente ed indiscutibilmente certo: la situazione in cui si trovava non poteva dirsi abituale. E fin lì, poteva star sicuro.

Era ovvio che, da quando il caro vecchio Plagg aveva fatto irruzione nella sua vita, ne fossero successe - oh, se ne erano successe. S'era infatti ritrovato congelato, affogato, akumizzato, appeso a testa in giù e più volte malmenato. Eppure non ricordava di essere mai finito in qualcosa di simile a... quello.

Per primo, tentò di sfiorare il collo, finendo con l'inciampare nella stoffa liscia di un foulard estivo. Era sicuro che non appartenesse alla marca Agreste, poiché, sebbene si intendesse ben poco di moda, sapeva ancora distinguere la seta pregiata che il padre utilizzava per i propri lavori da quelle meno care.

Una simile constatazione, nella sua semplicità, lo scombussolò. Così, curioso di saperne di più, continuò a perquisirsi.

La sciarpa copriva una porzione di pelle abbastanza consistente, dall'attaccatura delle spalle sino al naso, quindi dedusse che fosse abbastanza grande. Anziché rimanere stretta, così come lo portavano molte ragazze, lasciava intravedere solo in minima parte le sembianze di chi la portava.

Salendo verso l'alto, o almeno verso ciò che rimaneva del viso, non fu poi tanto sorpreso di scoprire un nuovo tessuto, leggermente più ruvido, circondargli la fronte e gli occhi. Non lo soffocava, dando così la possibilità di captare i pochi spostamenti di luce provenienti dall'esterno, ma restava sovrapposto alla sciarpa sottostante per impedire un'ulteriore visibilità.

Tirò un sospiro di sollievo. Ringraziando il cielo, ci vedeva ancora. Più o meno.

Sul capo si stupì invece di riconoscere la visiera rigida di un sombrero e, quando cercò di raggiungere i capelli, altra stoffa glielo impedì.

Dove si trovava? E, soprattutto, perché sembrava aver tutta l'aria d'essere un pupazzo di neve molto mal riuscito?

Facendo forza sugli avambracci, tentò di assumere nuovamente la posizione eretta, rialzandosi da quella stesa in cui pareva stare, ma un dolore improvviso all'addome lo fece ricadere indietro. Il gemito che gli sfuggì dalle labbra arrestò definitivamente il lieve chiacchiericcio diffuso nella stanza.

Mentre la nuca ricadeva mollemente fra i cuscini, la mente prese di nuovo a funzionare. I ricordi riaffiorarono, non contribuendo però ad aiutarlo ed, anzi, tutto il contrario.

Dov'è Ladybug?

«Finalmente! Stavo iniziando a pensare che l' avessi battuta un po' troppo forte, la testa».

Il ragazzo voltò il capo nella direzione della voce, cercando di individuare la posizione di chi aveva parlato. Inspirò ed espirò, e una e due volte, per alleviare un poco la morsa nella quale era rinchiusa la sua gabbia toracica.

«Alla buon'ora, Bell'Addormentato. La sveglia è già suonata da un pezzo».

Gli parve di sentire qualcosa toccargli la guancia destra e, prontamente, girò la testa.

«Da questa parte. Certo che la signorina ha fatto proprio un buon lavoro con quei nodi: sei cieco come una talpa».

«Plagg?», domandò Adrien, felice di sentire che l'amico stesse bene, nonostante ci fossero stati problemi nel ritrasformarsi dopo la battaglia.

Sembrava strano anche solo pensarci più del dovuto, eppure, riflettendoci con serietà, si rese conto che non avrebbe saputo perdonarsi, se fosse successo davvero qualcosa di grave al kwami. Era un piccolo genio della lampada, Plagg, probabilmente immortale, ma portava pur sempre le sembianze di un gattino indifeso.

«No, sono l'Uomo Nero. Perché, non lo vedi?».

Alzò gli occhi al cielo, anche se l'altro non poteva saperlo. Si era ripreso abbastanza bene da fare sarcasmo, quindi non aveva di che preoccuparsi.

«Veramente no», ribatté, scherzoso e infastidito al tempo stesso. «Sai per caso dove ci troviamo?».

Ci fu un attimo di silenzio, nel quale Adrien contò fin a sette, costretto nella sua piccola oscurità.

Si era sempre reputato un ottimo osservatore, lui. Nel corso di quello che ormai aveva ribattezzato come il periodo della captivitas, aveva avuto modo di coltivare i più svariati interessi e, esclusi la scherma, il cinese, il piano e la carriera da modello, restava uno ed uno solo l'hobby che attirava maggiormente la sua attenzione: osservare. Aveva sviluppato un interesse quasi morboso verso tutto ciò che lo circondava, persone incluse. 

Certo, poi c'erano gli anime e i manga, i fumetti e i libri... ma quella era tutta un'altra storia. Che si trattasse di posare gli occhi su uno schermo o al di là delle vetrate della propria camera, trovava estremamente affascinanti i comportamenti umani.

Aveva sempre creduto, seppur in modo inconscio, che la curiosità verso l'animo altrui potesse saziarsi esclusivamente attraverso l'uso della vista. Quell'occasione, però, gli forniva la possibilità scoprire  altri sensi, forse acuiti dalla possessione del Miraculous del Gatto Nero, capaci di interpretare azioni e conseguenti reazioni ancor più accuratamente.

Finalmente, il kwami riprese la parola.

«In realtà...», iniziò con tono stridulo e petulante, subito prima di emettere suoni indistinti.

Di nuovo silenzio.

«Sì, insomma...». Altri borbottii incomprensibili. La voce dell'esserino virava via via ad un tono sempre più basso.

«Plagg, non sono ancora diventato sordo, ma credo dovresti parlare un po' più forte».

Udì uno sbuffo, relativamente lontano da dove si trovava. Poteva immaginare bene l'espressione scocciata del kwami e il lieve disagio che sembrava attanagliarlo.

Qualcuno ridacchiò, ed era abbastanza sicuro che non si trattasse di nessuno di loro due, ma, proprio quando stava per chiedere spiegazioni, venne interrotto.

«Non posso dirtelo, Adr- ragazzo».

Fu il suo turno di tacere, perplesso e dimentico del pensiero precedente. Non capiva quel comportamento così inusuale.

«E perché no?».

«Non provate a mettermi in mezzo. La ragazza mi ha chiesto di tenere la bocca chiusa ed io ho accettato in segno di riconoscenza per averci salvato. Te la sei vista più brutta di quanto pensi».

«Aspetta, frena un attimo. Cosa c'entra Ladybug? Ѐ stata lei a bendarmi?».

Tentò nuovamente di alzarsi, stringendo i denti per il dolore e cercando di sfilare almeno la fascia sugli occhi. Stava giusto per intrufolare l'indice in una piega più marcata delle altre, quando venne fermato.

«Non farlo!», lo rimbeccò una flebile vocina a lui sconosciuta.

Interdetto, lasciò cadere le braccia lungo il corpo, mentre appoggiava la schiena al muro antistante per non stendersi ancora. Credeva fosse passato relativamente poco dal suo risveglio, seppur non poteva esserne davvero certo, e già quella situazione cominciava a sfiancarlo. Avrebbe voluto dare tutta la colpa alla spossatezza e alle ferite post-battaglia, ma il suo stesso carattere gli imponeva impazienza e curiosità inesauribili. In un certo senso, gli mancava il periodo di dormiveglia in cui era stato immerso fin a poco tempo prima.

«Chi ha parlato?».

Il rumore delle zampine di Plagg che entravano in contatto con la propria fronte si diffuse per l'ambiente. Adrien giurò di averlo sentito ringhiare per l'irritazione.

«Sono stata io, Monsieur Chat Noir».

Il tono di quella che decretò essere un secondo kwami lo raggiunse, fiacco ma dall'inclinazione decisa. Possibile fosse...

«Tikki! Pensavo avessimo chiarito la questione "presentazioni"».

«Mi dispiace, non ho saputo contenermi».

«Ora Mar-», un suono simile ad un sibilo lo interruppe, «la tua protetta dovrà spiegargli un po' di cose fuori programma».

«Lo avrebbe fatto c-comunque più tardi», dichiarò allora la coccinella, interrotta da piccoli colpi di tosse, proprio nello stesso istante in cui Adrien si schiariva la voce per ricordare la propria presenza.

Avrebbe voluto parlare, fare domande su domande senza fermarsi più. Il tono di Plagg appariva denso di sottintesi, segreti non detti, e l'accortezza con cui aveva pronunciato le parole lasciavano intendere che il discorso fosse destinato ad orecchie ben differenti dalle sue.

Con fatica, si fece pian piano strada in lui la consapevolezza che il kwami sapesse. Se davvero si trovava dove credeva di trovarsi, se quella vocina apparteneva davvero a chi credeva appartenesse, sembrava pressoché impossibile che Ladybug non si fosse rivelata.

Sì, concluse, Plagg sapeva. Eppure aveva tutta l'intenzione di tacere, così come Tikki.

A confermare le sue ipotesi, sopraggiunse il chiarimento tanto sperato ma che, ne era consapevole, non gli avrebbe rivelato poi molto.

«Ci scusi, Chat Noir», enunciò la kwami e, in quel momento, il ragazzo si accorse del disagio che quel tono rispettoso, rimarcato dal uso del lei, gli provocava.

«Ladybug dovrebbe essere qui a momenti e sicuramente avrà modo di spiegarle...».

Non ebbe modo di concludere la frase, poiché il rumore improvviso di una camminata veloce la interruppe.

Adrien aguzzò l'udito, tendendo le orecchie e trattenendo perfino il respiro pur di carpire quanto più gli fosse possibile. Non dovette fare uno sforzo poi tanto grande per percepire i singhiozzi sommessi di chi s'apprestava ad entrare nella camera. Quando il suo cervello recepì finalmente a chi appartenevano, boccheggiò alla ricerca d'aria.

«My lady?».
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quanto di più egoista ***


Quanto di più egoista

[Marinette]

 

 

 

 

Parigi in fiamme: l'ultimo addio a Gabriel Agreste.

"Place du Châtelet si tinge di rosso, mentre la tragedia torna ad abitare Villa Agreste.

L'incendio, di carattere ancora sconosciuto, è divampato tra le sei e le sette del pomeriggio, finendo per protrarsi sin alle prime ore della sera.

All'arrivo delle autorità, l'edificio si trovava già immerso in una nube di fuoco, originato, secondo le indagini, dal piano più alto dell'abitazione.

Alcuni testimoni oculari attestano la presenza dei due supereroi, Ladybug e Chat Noir, sul posto, ma fonti più attendibili smentiscono tali constatazioni.

Tra le vittime accertate, il noto stilista Gabriel Agreste, creatore dell'omonimo marchio di fama internazionale. Secondo i dipendenti, l'uomo sarebbe stato sorpreso dal fumo durante il lavoro, prendendo coscienza del pericolo quando ormai era troppo tardi.

A coinvolgere la famiglia è il secondo lutto, preceduto da quello della giovane coniuge Agreste, scomparsa in circostanze misteriose un anno fa.

Modello di punta e pupillo della maison e figlio del designer, Adrien Agreste sembra tutt'ora scomparso".

Marinette serrò le palpebre tanto forte da farsi male agli occhi, mentre i titoli sulla linea di fondo del telegiornale si ammassavano gli uni sugli altri.

Villa Agreste in fiamme.

La polizia indaga: "possibile suicidio".

Rinvenuto il corpo senza vita di Gabriel Agreste.

Disperso il figlio di sedici anni, ormai orfano.

Adrien: il ragazzo nuovo che aveva sin da subito giudicato bello e impossibile, il compagno di classe che le aveva sorriso quel giorno di pioggia, l'amico che si era curato di regalarle un portafortuna così simile al suo. Adrien: non una semplice cotta, ma l'amore indiscusso della sua breve, intensa, vita adolescenziale.

Dove si trovava, ora? Come si sentiva? Perché lei non era lì, accanto a lui? Quanto poteva star soffrendo, esattamente, pur non conoscendo nel completo la realtà crudele a cui il destino aveva deciso di sottoporlo? 

Non lo sapeva.

Era impotente, Marinette, posta al di fuori di qualunque possibile informazione potesse farle comprendere il dolore dell'altro. Voleva sapere, doveva sapere, e il non poterlo fare la stava — come un tarlo, un viscido verme sotto pelle — divorando dall'interno.

Subdola, meschina, semplice ossessione.

Tanto occupata a struggersi, non si chiese nemmeno come potesse essere scaturito un qualcosa di così orrendo dal sentimento vero e puro che si annidava nel suo cuore. Ci volle qualche tempo prima che riuscisse a prendere nuovamente il controllo di sé.

Deglutì, sfregò le mani fra loro, rabbrividendo al percepire i polpastrelli gelidi e le dita innaturalmente tese. Resistette. Si impedì la trasformazione in Ladybug, concentrandosi sulle condizioni già precarie del suo corpo, la salute di Tikki e chissà cos'altro, pur di non pensare ai due smeraldi verdi che le appestavano la mente. Passò i palmi ben aperti sul viso, verificando la sua effettiva presenza nel mondo, scacciò il tremito che pareva scuoterla. Infine, raggiunse la posizione eretta, finalmente certa e consapevole delle proprie intenzioni.

Non poteva far nulla, al momento, per aiutare colui che amava. Doveva concentrarsi su ciò che le era possibile migliorare, qualcosa nelle sue capacità. Di fatto, appariva inutile persino ad una mente offuscata dal dolore come la sua portare avanti riflessioni tanto inconcludenti.

Strinse i pugni, racimolando la determinazione che, per un lungo attimo, l'aveva abbandonato.

Poteva ancora sistemare le cose, un pezzo per volta; alleggerire, almeno in parte, almeno minimamente, il peso che portava sul petto. Tutto incominciando da Chat.

Gli occhi le si riempirono di lacrime, al pensiero dell'amico. Tentò di impedirlo, invano.

Era stato disposto a rischiare la vita, lui, pur di non lasciare che la compagna d'avventure si ferisse. La situazione nella quale si trovavano era solo ed esclusivamente colpa sua, del suo stupido capriccio.

La folla gridava il nome della supereroina, quando un akumizzato veniva sconfitto; Parigi contava su di lei, quando si trovava in pericolo. La stessa Alya aveva fondato un blog in suo onore: non lo Chatblog, che dir si volesse, ma solo ed esclusivamente il Ladyblog. In realtà, Ladybug dubitava che il suo così immeritato successo sarebbe continuato a durare, se qualcuno l'avesse conosciuta per quel che era realmente. 

Si chiese cosa avrebbe potuto pensare la gente dei gesti che aveva compiuto nelle ultime ore ed ebbe l'irrazionale voglia di uscire allo scoperto, raccontare tutto a tutti pur di essere trattata come dovuto. Aveva sempre odiato piangere sul latte versato, Marinette: preferiva di gran lunga reagire, anziché crogiolarsi nell'autocommiserazione. Eppure trovava inevitabile rinfacciarsi le proprie colpe in un momento come quello.

Erano Ladybug e Chat Noir — sempre prima il suo, di nome, poi quello dell'altro — quando in verità lei non  avrebbe anche solo potuto esistere senza l'aiuto dell'amico.

I sensi di colpa gridavano tanto forte da farle girare la testa.

Egosita.

«Marinette, tesoro?».

La ragazza alzò il capo di scatto, le guance rosse per il pianto trattenuto, mentre la signora Dupain-Cheng spegneva il televisore con un sospiro. Sabine poggiò lo sguardo sulla figlia, carezzandole piano i capelli, preoccupata. «Va tutto bene?».

Marinette restò a fissarla qualche secondo più del necessario: desiderava sfogarsi, raccontarle tutto come faceva sempre appena tornata da scuola, lasciare che la consigliasse e la consolasse. Tuttavia, si costrinse ad annuire, tirando su con il naso e passandoci poi una mano sotto.

Chat Noir è quasi morto, a costo di salvare te e la tua fantomatica identità segreta, eppure tu non fai altro che pensare ad Adrien. Non meriteresti l'amicizia di nessuno dei due.
Sei soltanto un'egoista.

«Povero ragazzo, deve essere sconvolto. Tuo padre è già fuori a cercarlo con gli altri: metà Parigi si è mobilitata appena venuta a conoscenza dell'accaduto. Lo troveremo, sta tranquilla», cercò di rassicurarla la donna, ignara dei pensieri che la tormentavano. Detto ciò, sospirò nuovamente davanti al mutismo ostinato della figlia, la baciò sulla fronte e lasciò il salone per dirigersi verso la boulangerie incustodita.

In Marinette si ripresentò prepotente la tentazione di fermarla, così da raccontare quanto in realtà fosse accaduto, ma, ancora, non cedette.  Al contrario, si trovò a riflettere sulla propria incoscienza. Non aveva prestato sufficientemente attenzione alla madre e quella, nella più malaugurata delle ipotesi, avrebbe potuto accedere al piano superiore, ritrovandosi faccia a faccia con uno sconosciuto. 

Scosse il capo, tentò di non rimproverarsi e rivolse il suo completo interesse alla botola che dava accesso alla sua camera, subito prima di spingere il legno verso l'alto.

Concentrazione: l'unica cosa di cui al momento aveva bisogno. Non pensare a Gabriel Agreste, al figlio, ai suoi stessi genitori o a se stessa. Doveva concentrarsi solo ed esclusivamente sulle condizioni di salute di chi si trovava in quella stanza.

Tikki, lo sapeva, necessitava delle cure del Maestro Fu — lo strano omuncolo che ormai aveva scoperto Gran Guardiano dei Miraculous — il prima possibile. Le ferite di Chat erano però di natura quantomeno umana e quindi, seppur limitatamente, più di sua competenza. Si sarebbe occupata di entrambi come meglio poteva, almeno fin quando non fosse divenuto possibile spostarsi assieme per raggiungere l'abitazione del Maestro. Lei non aveva la minima idea di dove fosse situata e Tikki si era rifiutata categoricamente di fornirle informazioni, almeno fin quando Chat Noir non avesse ripreso parzialmente le proprie capacità.

Plagg, l'esserino eccentrico che durante la permanenza nella stanza aveva assistito ad alcuni dei momenti più imbarazzati della sua vita, si era adoperato per cercare di far ragionare l'amica, ma quasi subito arreso, causa la preoccupazione per la kwami e per il proprio portatore. Tuttavia, Marinette aveva apprezzato davvero quell'aiuto, dopo il primo momento di totale solitudine nel quale si era trovata.

Era a quello che pensava, quando un grumo informe di tessuti e vestiti in movimento si sporse verso la sua direzione con aria curiosa. Lì per lì, non lo aveva notato e, nel momento in cui lo fece, tutto le venne in mente tranne che, sotto quella stoffa, si nascondesse uno dei suoi amici più cari.

Indietreggiò d'istinto e, così facendo, cadde all'indietro. Entrata a contatto con il duro del pavimento, prese effettivamente coscienza della strana situazione nella quale aveva finito per invischiarsi e che, anzi, aveva creato lei stessa. Certo, era sembrata un'idea geniale, quella di coprire per bene ogni centimetro del corpo di Chat, prima; doveva essere stata troppo preoccupata per accorgersi di quanto fosse in realtà folle.

Arrossì, sbiancò, arrossì di nuovo.

«My... My lady?», esordì con voce incerta il foulard che qualche amica (Juleka o Rose?) doveva averle regalato per il compleanno.

Ed era così strano quel tono, quella sciarpa parlante, quell'idea di un supereroe rintanato nel suo letto che, in modo del tutto spontaneo, Marinette rise. Cercò di trattenersi, in modo tale da non confondere più di quanto già non fosse il ragazzo, ma inutilmente. Più ci pensava, più le veniva da ridere.

Con la coda dell'occhio, una risatina trattenuta tra le labbra, le parve di vedere il kwami della Sfortuna guardarla storta e Tikki, che più la conosceva, piegare la piccola bocca in un sorriso.

A causa della gola arrossata, le parole le graffiarono il palato in modo sgradevole, ma fu certa che fossero veritiere e sincere.

«Sono felice che tu sia sveglio, Chat».

Forse, poteva definirsi un po' meno egoista.
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Quanto di più bramato ***


Quanto di più bramato

[Adrien]
 

 

 

 

 

Appena l'ovatta imbevuta entrò in contatto con la pelle del braccio, Adrien sussultò. Sapeva che i tagli, profondi o meno che fossero, dovevano sempre essere disinfettati con cura. Ma la procedura non poteva rimanere la stessa, non in quella situazione. Almeno per quella volta, avrebbero potuto fare un'eccezione, no? 

Subito dopo essere entrata nell'abitacolo, Ladybug gli aveva comunicato la gravità delle sue condizioni fisiche. Lui, d'altro canto, non aveva mancato di giudicare il proprio stato "non poi così critico", pur essendo perfettamente consapevole del dolore che gli tormentava la base della schiena. 

Ladybug aveva insistito, certo, eppure non avrebbe mai pensato che avesse davvero intenzione di trattare le sue condizioni. Era assurdo che volesse occuparsi personalmente di curarlo. Insomma, le ferite dovevano essere tenute sotto controllo, in qualche modo... ma non in quel modo! 

Un conto era mostrare più pelle scoperta del dovuto durante i servizi fotografici, eventuali gite in piscina o visite mediche, un altro era... 

Certo, non poteva davvero definirsi una personcina timida — come spesso gli ricordava la voce inquietantemente somigliante a quella di Plagg che abitava ormai la  sua testa —,  nei panni dell'alter-ego felino ancor meno di quanto già non fosse. Ladybug, però, lo aveva sempre trovato più o meno padrone della propria situazione e, al minimo, rigorosamente vestito.

A dirla tutta, gli pareva una circostanza abbastanza inadatta.

Ebbene, aveva subito espresso la propria opinione al riguardo, inutilmente: la super-eroina era stata irremovibile, benché ben attenta a specificare il mero scopo medico della questione.

La stessa sicurezza sotto cui Chat si era visto costretto a cedere, tuttavia, mentre le mani della ragazza si curavano di non sfiorare neanche per sbaglio la cute del compagno, stava scemando sempre più, lasciando spazio all'imbarazzo.

«Quanto?», domandò, schiarendosi leggermente la voce prima di parlare. Nonostante i suoi sforzi, quest'ultima mantenne un accenno rauco, più basso del normale.

Avrebbe voluto attribuire la causa di quell'inusuale sfumatura al fumo ispirato durante la battaglia o, in alternativa, al sonno da poco interrotto. Tuttavia, si era fatta largo in lui la sensazione che così non fosse.

Altre volte il suo abituale tono aveva subito variazioni senza che lui se ne accorgesse: era successo il giorno del quindicesimo compleanno, quando il padre gli aveva consegnato, per la prima volta, un regalo fatto col cuore; era successo un pomeriggio qualunque, quando qualcuno (non riusciva davvero a ricordare chi) si era premurato di comunicargli che la madre non sarebbe tornata; era successo il giorno di Natale, quando tutti i suoi amici lo avevano abbracciato, dopo ore passate a cercarlo; era successo poco tempo prima, quando aveva preso coscienza di essere rimasto davvero solo al mondo.

Se sottoposto a emozioni fin troppo violente, il suo corpo si ritrovava, in qualche modo, incapace di contenerle. Chiunque avesse prestato poca più attenzione al modo nel quale tendeva a relazionarsi col mondo, avrebbe certamente notato l'abbassamento di voce momentaneo che seguiva alla rielaborazione di un concetto di particolare spessore, benché egli tentasse di nasconderlo.

«C-Cosa?», chiese dopo un attimo Ladybug, sforzandosi di sembrare naturale.

Era lei, la causa del suo piacevole scombussolamento interiore. Come sempre, avrebbe potuto aggiungere, ma non capiva davvero cosa ci potesse esserci di ordinario in ciò che sentiva. Non si trattava più solo di un sentimento vano, seppur veritiero, di fantasticherie: a sopportarlo, ora, c'erano i fatti.

Ovvio che Adrien, da parte sua, avrebbe sacrificato ciò che più gli era caro per lei, qualunque cosa gli si chiedesse pur di proteggerla. Eppure stentava a credere che la ragazza avesse deciso di portarlo addirittura con sé, che tenesse a lui, in verità uno sconosciuto, tanto da ospitarlo. 

«Quanto ho dormito?».

Sì, decretò, era decisamente la domanda che meno gli premeva fare.

Gli parve di udire un «troppo», borbottato da qualche parte accanto a lui, ma poi la ragazza parlò: «Quasi tre ore piene. Hai... — la frase rimase sospesa a mezz'aria per un attimo — Potresti girarti, per favore? Verso destra. Non la tua, la mia destra. Cioè la tua sinistra, ecco, la parte che non ho medicato».

Adrien ritirò il braccio, posandolo sulle coperte. Poi tentò di assecondare, per quanto possibile, le istruzioni della ragazza. Da un punto indefinito della stanza, s'udi tossire.

«Così va bene?», domandò e, non ricevendo risposta né controindicazioni, credette che lei avesse annuito.

Mentre slegava il pezzo di stoffa arrotolato intorno alla parte lesa e il bendaggio sottostante, Chat si accorse di volerla sentir parlare ancora. Il contatto con le dita gelide della giovane donna sarebbe dovuto bastare per rendergli palese la sua presenza nella stanza, la realtà della situazione in cui stava vivendo. E invece sentiva il bisogno disperato di ascoltarla, capire quanto stesse bene lei.

«Cosa stavi dicendo prima? Ti sei interrotta all'improvviso».

«Ah, certo. Stavo dicendo che hai...».

L'ascoltò deglutire a vuoto, le mani percorse da un tremito quasi impercettibile. Tanto bastò per fargli recuperare lo strano umorismo che aveva abbandonato a causa dello sviluppo degli ultimi avvenimenti. Unico scopo, quello di alleggerire almeno un po' l'atmosfera.

«...Compiuto un atto meowravigliosamente eroico? Salvato la vita di una fanciulla indifesa e ripristinato la pace nella ora sicura Città dell'amour? E, ricordiamolo, il tutto mantenendomi in purfetta forma. Non c'è bisogno che tu me lo dica, Insettina, davvero».

«Hai preso davvero una bella botta, Gattino», ribattè lei, a metà tra il contrariato e il divertito. «Dopo tutto questo tempo passato senza battutine, cominciavo a chiedermi se anche la testa avesse subito danni. Ora, però, devo dedurre che sia tutto in regola».

Con l'utilizzo del braccio libero, il ragazzo si picchiettò leggermente il capo. «Sano come un pescegatto, My Lady».

Ci fu un attimo di silenzio, meno teso di quello che li aveva accompagnati fin ad allora. Adrien poteva sentire con chiarezza la sofferenza della compagna, quasi la stesse gridando, ed era certo che anche i suoi dubbi tormentati potessero essere percepiti altrettanto lucidamente.

I graffi, ora, sembravano bruciare meno.

«Senti Chat, io... Grazie», disse lei ad un tratto, proprio mentre lui pensava di fare lo stesso.

Aprì la bocca, la richiuse: «Per cosa?».

Ladybug sospirò pesantemente e il ragazzo non dovette sforzarsi poi tanto per immaginarsela. La sua ombra si spostò leggermente, così che lui potesse visualizzare più nitidamente la forma soffusa dell'abat-jour.

«Per aver rispettato la mia volontà, anche in un momento difficile come quello che abbiamo passato».

Pausa, un piccolo suono graffiato in lontananza.

«Ha significato molto e mi dispiace: non avrei voluto che andasse così. Sei una persona importante per me, Chat, se ti fosse successo qualcosa non avrei saputo perdonarmelo».

Ancora pausa.

 «Tra poco però torneremo alla nostra solita routine. A dirla tutta non so bene cosa succederà, l'importante è che le nostre identità siano rimaste segrete: se tutta Parigi ne fosse venuta a conoscenza sarebbe stato un bel-»

«Di cos'è che hai tanta paura, Ladybug?».

Fu più forte di lui, non riuscì a trattenersi, le parole uscirono prima che potesse fermarle.

Nonostante tutto, sebbene all'apparenza sembrasse che i fatti lo contraddicessero, non aveva mai fatto pressioni di alcun tipo sulla ragazza. Sin dall'inizio aveva rispettato le sue scelte, andando volenterosamente contro la propria natura: anche nei momenti in cui l'occasione di conoscere chi davvero lei fosse si presentava lampante, ecco che dedizione e la stima nei suoi confronti gli ricordavano la potenza del sentimento che custodiva con gelosia sul fondo dell'animo. Eppure, appena sveglio, si era subito chiesto il perché di tutta quella messa in scena tanto curata: sapeva quanto lei tenesse a mantenere separate le due vite, quella super e quella quotidiana, ma non credeva si sarebbe spinta così oltre pur di mantenersi nella sua posizione.

Era testarda —  se lo era! lo faceva impazzire anche per questo —, ma perseverare sin a tal punto gli pareva più di un semplice capriccio. Doveva esserci qualcosa sotto.

Perché non riesco a capire cosa ti succede? Perché fai di tutto affinché io non lo sappia?

D'altro canto, fu la prima volta che Marinette si sentì davvero sollevata per aver bendato l'amico. Se così non fosse stato, era sicuro, quello si sarebbe ritrovato davanti i suoi occhi sgranarti, la bocca schiusa per lo stupore.

Non avrebbe sopportato di essere guardata con condiscendenza, non avrebbe potuto resistere alla consapevolezza negli occhi dell'altro. Non di nuovo.

La ragazza tacque, ed Adrien si accorse di riuscir a sentire gli ingranaggi che si muovevano frenetici nella mente di quella. Qualche minuto, poi arrivò a pentirsi della propria indiscrezione. Era pur sempre uno sconosciuto, no? Fidato, amabile, innamorato, ma estraneo. Un gatto randagio in piena regola. 

Sospirò: il silenzio era di gran lunga peggiore dei rifiuti che solitamente gli riservava.

Ormai il contatto fisico tra loro era nullo e la distanza divenne insormontabile quando la ragazza si alzò di scatto, bloccando ogni tentativo di fugare i dubbi che lo attanagliavano.

 «Tikki!».

Quel tono non prometteva nulla di buono.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Quanto di più difficile ***


Quanto di più difficile

[Marinette]

 

 

 

 

Era accaduto tutto troppo in fretta: un attimo prima stava riflettendo sulla domanda che Chat le aveva posto, l'attimo dopo la stanza aveva iniziato a ruotare su se stessa. Davanti a lei pareva ora esserci, non più un solo cumulo di coperte, ma ben tre.

Il ragazzo aspettava una risposta, lo sapeva bene, eppure Marinette sembrava essere fin troppo dimentica degli avvenimenti subito precedenti al presente per potersi concentrare sul discorso che avrebbe voluto articolare.

Stava per comunicare al compagno il proprio malessere, poiché non voleva credesse che il silenzio in cui regnava la camera fosse causato da una mal disposizione nei suoi confronti. Poi la situazione peggiorò. 

Sporse il busto in avanti, così da appoggiarsi più saldamente al letto.

Un dolore acuto la colpì improvvisamente all'altezza della nuca, come fosse stata punta da due insetti nello stesso istante, sia dal lato destro che dal sinistro. D'istinto, portò le mani sulle orecchie, ritraendole subito dopo, spaventata e confusa: erano i suoi orecchini – il suo Miraculous – a bruciare.

Socchiuse gli occhi, mentre il calore del ferro pareva intensificarsi ancor più. Una strana fitta le colpì il torace, le gambe, le braccia.

«Tikki!», chiamò, terrorizzata da ciò che le stava accadendo e dalle conseguenze che un simile evento avrebbe potuto avere sulla kwami.

Il Miraculous non funzionava più? L'aveva forse rotto? I lobi bruciavano, così come il collo; una debolezza innaturale le avvolgeva le membra. Possibile, si chiese, che non le fosse concesso di riposare nemmeno per un istante?

Percepì appena la flebile vocina della coccinella che le rispondeva: «Mar- Ladybug!».

«Tikki, Plagg, cosa sta succedendo? Cosa ha Ladybug?».

Il fuoco si espanse e un sibilo di dolore si fece largo dalla bocca tremante della giovane, il labbro inferiore intrappolato con violenza fra i denti. Sentiva le forze venirle meno.

«Deve aiutarla, Chat Noir!».

«Cosa? Come? Che devo fare?».

«Parlale, è lì accanto a te», intervenne Plagg. «Tikki non può avvicinarsi a lei in questo stato».

«Ma Plagg-».

Chat, tuttavia, sembrava aver messo da parte la discussione tra i due kwami.

Marinette si accorse concretamente di lui solo quando arrivò a scuoterla per le spalle. Allora sussultò, spalancò gli occhi chiusi senza consapevolezza. Tentò di allontanarsi per cercare un modo di sopprimere il dolore, la respirazione più frettolosa del normale e le ciglia bagnate.

Lui non glielo permise. «My lady, per favore», supplicò. «Dammi la possibilità di aiutarti».

Le parole le uscirono dalle labbra prima che potesse rendersene conto, eppure, paradossalmente, con una fatica immane. «Il Miraculous», sputò finalmente lei tra i denti. «Sta bruciando».

Vide quella che doveva essere la mano del ragazzo avvicinarsi all'orecchio destro e seppe che anche lui aveva percepito il calore improvviso quando si ritrasse di scatto. Lo sentì deglutire, poi interpellare nuovamente il kwami della Fortuna.

«Io non credo di saperlo», pigolò quell'ultimo. «Mi dispiace tanto».

«Okay, va bene lo stesso Tikki», rispose Chat, il tono che lasciava trapelare una parte del nervosismo. «Passerà, My Lady. Ti giuro che passerà. Devi essere forte come solo tu sai esserlo un altro po', okay? Anche se per te non sarà il massimo — lo interruppe un riso agitato — prova a concentrarti sulla mia voce».

La ragazza lo rimbeccò brevemente, portandosi le mani sulla fronte.

«Ecco, così ti voglio. Prendi dei bei respiri», continuò lui. Incominciò poi a inspirare ed espirare, in modo tale che anche lei potesse seguire l'esempio, le mani sempre ben ancorate sulle sue spalle.

La presenza di Chat Noir, constatò, aveva su di lei come un potere calmante e ciò, per quanto naturale si stesse rivelando, le mise addosso uno strano senso di colpa.

«Pensa a qualcosa per distrarti, qualcosa di piacevole».

Era ovvio credere che le sarebbe venuto naturale volgere la propria attenzione su fantasie riguardanti il giovane Agreste: appariva normale, dopotutto, un'abitudine. Quando però fece per visualizzare il suo volto, un altro viso ben conosciuto, quello di Chat, le si parò davanti, con tanto di maschera e orecchie da gatto. In realtà, non riusciva a vederlo. Poteva solo intuire la forma confusa del suo volto, il profilo degli zigomi e la mascella leggermente pronunciata; la linea dritta del naso, le labbra stese sopra la dentatura ben allineata.

Il super-eroe s'era infiltrato senza poche pretese fra le pieghe della sua mente, surclassando quasi il compagno di classe e mandandole la testa in...

In sovraccarico.

«Ho capito», balbettò, stringendo gli occhi quando il bruciore si mostrò più forte che mai.

Fece per parlare di nuovo ma, scostandosi con un movimento brusco, gli orecchini che portava finirono per sfiorare inavvertitamente il Miraculous del ragazzo. Non le era chiaro come fosse successo, la parte di tessuto che avrebbe dovuto coprire l'anello era scomparsa nel nulla: al suo posto, un foro di piccole dimensioni dai bordi nerastri.

Lampi. Luce improvvisa, accecante.

Marinette percepì il corpo balzare indietro contro la propria volontà. Strinse i denti.

Silenzio, poi la voce di Plagg, incerta e sorpresa: «Nooroo?».

Cosa?

Se si guardava intorno, poteva notare con chiarezza le conseguenze che quella strana esplosione aveva portato con sé, dal letto innaturalmente girato su un fianco alla figura, ormai quasi completamente priva di una copertura che la rendesse irriconoscibile, affianco ad esso.

Quasi si aspettava che, da un momento all'altro, qualcuno si introducesse nella camera, poiché era probabile che tutti quei rumori sospetti avessero attirato fin troppa attenzione. Ciò, con sua grande sorpresa, non accadde.

Distolse lo sguardo, impedendosi di concentrarsi troppo sui lineamenti eccessivamente familiari del partner, catalizzando l'attenzione sulla figura minuta che stava a terra.

«Il kwami della farfalla», sussurrò Marinette, a voler dar conferma, concretizzare le proprie teorie. 

Fece per avvicinarglisi, mentre quello socchiudeva gli occhi, stanco come Tikki dopo l'uso del Lucky Charm, e ritrovò più potente di prima il dolore alla caviglia e alla spalla. A compensare, però, s'accorse di non sentir più alcun tipo di fastidio alle orecchie e ne rimase immensamente grata: il Miraculous era salvo.

«Il kwami di... Papillon? Cosa ci... Perché è qui? Come può essere? Non dovrebbe essere con lui?». Fu Chat Noir a porre quelle domande, ma incarnò null'altro che l'eco dei suoi stessi pensieri. 

Non aveva risposte da dargli, nessuna rassicurazione o consiglio. Non poteva nemmeno guardarlo. Appariva tutto fin troppo privo di logica. Di nuovo, le sembrava d'essere tornata nel covo di Papillon, mentre tutto continuava a sfuggirle di mano.

«Gabriel Agreste è scomparso». Lo disse prima che qualcosa potesse frenarla dal farlo, prima che avesse modo di pensare alle conseguenze.

Credeva, chissà perché, che Chat già ne fosse a conoscenza, eppure il pensiero di ciò che era accaduto gridava troppo forte nella sua mente: impossibile trattenerlo ancora.

«È colpa mia. L'ho ucciso io».

Silenzio.

 «No», la negazione arrivò più decisa di qualunque altra risposta si sarebbe mai aspettata: nessun rimproverò, né la tristezza né il disgusto che sarebbero potuti risultare normali. «Non è possibile». 

Lo sentì stroncare brutalmente la frase, incapace di concluderla.

«Chat...».  

Non faceva quasi più caso al freddo del pavimento, la stanchezza delle membra.

«No. È impossibile».

«L'ho ucciso», ripeté lei, le sopracciglia aggrottate, Nooroo ormai sui palmi delle mani. Non si era mai sentita tanto debole. «È morto tra le fiamme di quell'incendio, bruciato assieme a tutto ciò che resta di Villa Agreste. Suo figlio è sparito da allora ed è praticamente certo che anche lui abbia fatto la stessa fine. Lo dicono tutti: le televisioni locali, quelle nazionali; i giornali e perfino i passanti. Il sindaco stesso ha fatto le sue condoglianze — condoglianze, non rassicurazioni sulle ricerche ancora in corso — agli amici e compagni di scuola del ragazzo.
Era in casa, forse nella sua stanza a giocare ai videogiochi, a leggere qualcosa o chissà cos'altro, aspettava che qualcuno lo salvasse, magari. Ma non c'era nessuno, lì. Io stavo combattendo contro il suo stesso padre, senza nemmeno saperne la ragione. Sono morti, li ho uccisi». 

«Noi stavamo combattendo, non tu. Noi. Adrien è vivo, potrebbe esserlo anche Gabriel».    

«Hai ascoltato una sola parola di quello che ti ho detto? Sono morti, nessuno potrà riportarli indietro».

«Dobbiamo andare dal Maestro Fu, Tikki, lui potrebbe saperne più di noi su questa storia».    

Marinette sgranò bocca ed occhi, sbigottita. «Sono morti», ribadì, una nota isterica nella voce distorta. La testa le pareva tanto leggera da farla sentire inconsistente.
«Sono morti, sono morti entrambi!».

Nel mentre, il ragazzo s'era alzato a fatica, aveva chiesto al proprio kwami di trasformarlo.

«Ladybug», pronunciò quindi, ben attento a tener gli occhi chiusi. «Ti affiderei la mia stessa vita, l'ho già fatto. Questa volta però devi fidarti di me. So quel che dico».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Quanto di più chiaro ***


Quanto di più chiaro

[Marinette]

 

 

 

 

«Ti affiderei la mia stessa vita, l'ho già fatto. Questa volta però devi fidarti di me. So quel che dico».

E lei aveva acconsentito, per una volta senza fare storie. Glielo doveva, in fondo.

Si era già ritrovata in una situazione simile, la sera della battaglia, quando Chat le aveva proposto di avviarsi verso l'ospedale prima che i soccorsi arrivassero. Ovvio che Marinette fosse ancora della stessa opinione: non voleva far saltare sui tetti di tutta Parigi un ragazzo completamente cieco, con qualche ammaccatura di troppo e un abbastanza consistente peso morto a gravargli sulle spalle.

Tuttavia, aveva lasciato decidere lui. Non soltanto perché le mancavano le forze, ma soprattutto perché glielo doveva e la mente sembrava intenzionata a ripeterglielo all'infinito.

Perciò eccoli, un apparente duo molto mal assortito a spasso per la fortunatamente addormentata Ville Lumière.

Tikki, con la sua vocina appena percepibile, illustrava alla ragazza quale percorso avrebbero dovuto intraprendere per arrivare sin dal Maestro Fu; Marinette, a sua volta, dava indicazioni al giovane supereroe, comunicandogli quando fosse opportuno andar dritto, svoltare verso destra, verso sinistra, fermarsi.

Non si prospettava un viaggio facile, pareva ovvio a tutti men che meno a Nooroo, addormentato in una delle tasche della giacca che Marinette si era premurata d'indossare. Più e più volte erano costretti a fare pause non richiese, causa i pochi passanti a cui non potevano mostrarsi, la stanchezza, il dolore d'un tratto troppo persistente.

Fu proprio durante uno di quei momenti di stasi che la giovane iniziò ad illustrare al compagno quanto avesse scoperto, o meglio ipotizzato, riguardo gli ultimi avvenimenti.

Raccontò lui i fatti subito successivi alla perdita di coscienza, soffermandosi sulla trasformazione in Ladybug e sul kwami di Papillon. Quando tentò un accenno a Gabriel Agreste, tuttavia, Chat liquidò la questione, esprimendo l'intenzione di parlarne più ampiamente solo dopo essere arrivati dal Maestro. Marinette continuò il resoconto, convinta nel voler mantenere salda la voce come meglio potesse e nel riuscire a concentrarsi sugli indizi puramente logici che l'avevano portata alle conclusioni ancora ignote all'amico.

«Non avevo compreso», disse una volta ripreso il cammino, «come era possibile che, senza Tikki, fossi riuscita nella trasformazione. Non mi appariva chiaro nemmeno con quale criterio fossi tornata in vesti civili e neppure dove fosse finito il kwami subito dopo la trasformazione. Il mio cervello sembrava aver smesso di funzionare.

Lo stesso avrebbe dovuto essere per il corpo, eppure mi accorsi di non avvertire nulla più di una leggera debolezza. Ignorai la cosa: avevo intenzione riflettere meglio sulla questione in un secondo momento, con mente più lucida. La variante di colore del costume, però, assieme con la scomparsa di Nooroo, avevano fatto sì che avessi modo di ipotizzare quel che poi ritengo sia stato confermato. Nel momento in cui... Ecco, mentre io...».

Marinette tentennò, attardandosi nel ricordare cosa esattamente avesse fatto scattare in lei l'illuminazione. Lanciò un'occhiata al volto affaticato del ragazzo, soffermandosi sulle labbra schiuse.

Sarebbe stato il caso di confessare a Chat – proprio in quel momento, proprio in quel contesto – ciò che neanche lei era ancora riuscita ad accettare?

Arricciò il naso, pensando alle parole che fosse più opportuno utilizzare.

Lo aveva osservato, era certo. Tuttavia, un termine come "osservare" non le sembrava adatto a descrivere le sue azioni. Da un lato lo reputava fin troppo incline a fraintendimenti: Chat avrebbe potuto trovare nelle sue attenzioni ciò che in realtà non esisteva. D'altra parte, non era più così fermamente convinta – come invece era sempre stata – che quel qualcosa di inesistente fosse davvero tale. Le appariva sbagliato ridurre le emozioni ad un semplice dardeggiare di pupille, tanto che si sarebbe sentita in colpa a descriverle così.

Sospirò seccamente. 

A farla breve, la sua mente stava elaborando le più misere riflessioni pur di evitare di concentrarsi sul vero e proprio problema. Era confusa, i suoi pensieri lo erano con lei.

Cercò di concentrarsi sul senso che il discorso avrebbe dovuto assumere, poi continuò: «Subito prima che avvenisse l'esplosione ho avuto come l'impressione che tutti i tasselli stessero tornando al loro posto. Analizzando i fatti, l'ultimo mio ricordo di Nooroo la sera della battaglia lo vede gettarsi a capo fitto verso di me. Questo perché un istante dopo stringo gli occhi, attendendo l'impatto, che tuttavia non avviene. Da lì in poi, nessuna traccia del kwami ed ecco che riesco a trasformarmi nuovamente. Non ho pronunciato una sola parola, ma il costume si è avvolto attorno al mio corpo, riportando alcune sostanziali modifiche».

«Sembra quasi che...», azzardò Chat, poggiato pesantemente sul muro di un'abitazione.

Si erano fermati da poco e lei aveva preso le distanze dal supereroe sin da subito, in modo tale che potesse riprendere fiato adeguatamente. O almeno era ciò che continuava a raccontarsi.

«Sia stato assorbito dagli orecchini? Per quanto appaia inverosimile, è quello che penso anch'io».

Marinette vide il ragazzo stringere le labbra fra loro. Poteva quasi percepire il rumore metallico degli ingranaggi muoversi nella sua mente, mentre tentava di capire se fosse possibile arrivare a una simile conclusione. Attese che si schiarisse vagamente le idee, poi fece per chiedergli cosa ne pensasse.

Gli ultimi avvenimenti le fornivano un insieme fin troppo bizzarro di coincidenze. Ci aveva riflettuto abbastanza e si sentiva tanto certa delle sue elucubrazioni da esporle, ma non da estraniarle da dubbi o critiche. Voleva perciò discutere la questione con l'amico.

Chat la batté sul tempo. «Come hai fatto a tornare in abiti civili?», chiese.

«Non so bene come sia accaduto. Mi sentivo immensamente stanca, sebbene percepissi il dolore fisico in minima maniera. Merito della trasformazione, immagino. Poco dopo che siamo entrati in casa mia, la vista si è offuscata per un attimo. Nello stesso istante, ho percepito chiaramente il potere del Miraculous scivolar via e un indolenzimento più persistente colpire ancora la caviglia e il braccio.

Nooroo deve essere rimasto rinchiuso negli orecchini fin quando, entrando in contatto con il tuo anello, non si è sprigionata tutta quell'energia». La voce le si bloccò in gola quando Chat le fece nuovamente cenno di avvicinarglisi per continuare il percorso.

Si trovavano, a detta di Tikki, ormai nelle prossimità dell'abitazione del Maestro. «Ancora una traversa o due», li aveva incoraggiati prima che si fermassero. «Manca poco».

Eppure a Marinette sembrava un'infinità, forse proprio perché sapeva che avrebbe dovuto trascorrere quel lasso di tempo a stretto contatto con il compagno. Erano stati vicini fin a poco prima, ma ad ogni passo, ad ogni respiro, sentiva lo stomaco attorcigliarsi e il cuore battere forte. Distrarsi pareva un'impresa impossibile e pensare a come imbastire il resoconto degli ultimi avvenimenti si era rivelata l'unica sua fonte di salvezza. Ora, però, non poteva più contare su nulla, nemmeno sulle domande senza senso che le affollavano la mente.

«Una specie di sovraccarico, quindi», volle sincerarsi il ragazzo sovrappensiero, invitandola a guidare le sue braccia affinché potessero stringerla senza inconvenienti.

La ragazza tacque. Chat Noir non sembrava aspettare una qualche risposta, perciò lei non dovette preoccuparsi di fornirgliene. Non le rimaneva che concentrare la propria attenzione sulle dita affusolate che, esitanti sotto il suo tocco, le avvolgevano l'avambraccio e la coscia sinistra. Avrebbe dovuto provare dolore, quando la caviglia si sollevò da terra e quando la spalla entrò in contatto con il petto del giovane, eppure non se ne lamentò. Non c'era nessun Miraculous ad alleviare i suoi sintomi, il merito doveva essere tutto della sua immancabile capacità di viaggiare sulle nuvole.

«My Lady?». Un sussurro, così dolce da darle i brividi.

Notando il suo silenzio prolungato, Tikki si schiarì la voce e disse qualcosa piano, nel tentativo improvvisato di attirare l'attenzione su di sé prima che fosse troppo tardi. Il tono oscillava fra l'irritato e il condiscendente, tipico di quando la kwami si ritrovava a fare i conti con le debolezze adolescenziali della giovane portatrice.

Marinette deglutì, il palato improvvisamente viscoso e la gola secca. «Sì?», ebbe la forza di fiatare. Cosa diamine le stava succedendo?

«Ehm... Dovresti dirmi dove andare».

La ragazza sgranò gli occhi – quando, esattamente, li aveva chiusi? – e posò veloce lo sguardo sul viso del compagno. Quello spostava il peso da un piede all'altro, in evidente disagio. La bocca corrugata, il sopracciglio alzato, l'espressione perplessa: attendeva.

Ancora una volta, fu grata che lui non potesse vederla. Altro che coccinella, al momento poteva solo somigliare a un pesce fuor d'acqua! Le era capitato molte volte di balbettare, ma mai di boccheggiare. Ci mancava solo che sbavasse. La situazione le stava sfuggendo di mano, poco ma sicuro.

Controllati! Ti sembra il luogo, il momento e la situazione per lasciarti andare a simili fantasticherie? Non sei mica in camera tua davanti a un poster di Adrien!

«Certo. Subito. Ma che dico, subitissimo! È a questo che servono gli amici, no? I buoni amici, intendo», rise nervosamente. Un dolore alla spalla, causato da quel suo distintivo gesticolare, la fece rinsavire: doveva calmarsi. «Tutto dritto».

Chat Noir rimase fermo ancora un'istante. 

Una sensazione di disagio l'avvolse e pregò che lui non decidesse di dire alcunché di troppo compromettente. Aveva davvero il terrore di guardarlo nuovamente in volto, ma azzardò una sbirciatina. Si sarebbe aspettata di vederlo interdetto,lui  invece sorrideva. 

«E dritto sia, Principessa».

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Quanto di più giusto ***


Quanto di più giusto

[Adrien ]

 

 

 

 

Nel silenzio, un sospiro.

«Si riprenderà, non è vero?»

Se lo figurava, il vecchietto, con gli angoli degli occhi tutti raggrinziti e un mezzo sorriso sulle labbra.

«Il ragazzo non corre alcun pericolo. Ha bisogno solo di un po' di riposo e... beh, di qualcuno che possa accudirlo come di dovere. Tuttavia, mi sembra che fin ora tu abbia adempiuto adeguatamente al compito: saprete prendervi cura l'uno dell'altra».

Tra i mormorii incomprensibili, uno con un certo peso: «Lo vorrei, maestro, lo vorrei davvero».

«Le convinzioni, più delle bugie, sono nemiche pericolose della verità. Si può perdonare se stessi, mia cara. Tanto più se ciò è utile a riparare il torto compiuto nei confronti di chi si ama».

Occhi bassi. Pugni stretti. Il cigolio di una porta.

Adrien serrò le palpebre di scatto, privandosi ancora una volta della vista. Non che l'abitacolo in cui si trovata fosse così interessante: solo qualche tappetino di juta steso sul pavimento, un paio di mobiletti addossati alle pareti e resti di garze sporche nel cestino lontano pochi metri da lui. Eppure aveva trovato una sorta di soave rassicurazione, nonostante lo sguardo appannato e stanco, a verificare quanto effettivamente potesse essere utile tornare a distinguere, pur nella penombra, gli oggetti nel mondo circostante. Anche solo per rimettere in ordine i propri pensieri.

Piegò l'avambraccio e lo portò a coprirgli il viso, nel momento in cui percepì i fruscii alla sua destra farsi più presenti, reali. Un ultimo quanto debole tentativo di rimandare quel che sarebbe venuto per certo.

Sapeva che lei era lì, subito vicino all'uscio. Non lo guardava, probabilmente, neanche per sbaglio.

Riusciva a percepire tutta l'ansia, la paura. Ladybug non aveva semplicemente timore di quell'ormai inevitabile rivelazione, ne era terrorizzata. Lo sapeva, l'aveva capito, visto qualcosa al di là della maschera. Metaforicamente, s'intende: dopotutto, era ancora perlopiù cieco.
La sentì muovere un passo nella sua direzione, poi un altro. Ponderava attentamente l'appoggio dei piedi nudi sul parquet.

In un certo senso poteva ben comprenderla: stava accadendo tutto molto in fretta, forse troppo freneticamente. Lui era certo dei propri sentimenti da sempre – costituivano forse una delle poche certezze della sua vita –, ma doveva ammettere che il bisogno di qualche momento per riflettere s'era manifestato. Sentiva la necessità di realizzare, ecco.

Erano alla resa dei conti. Tuttavia, ancora non aveva avuto l'ardire di rendere quella stessa affermazione un pensiero coerente, qualcosa più di una massa informe all'interno del suo subconscio. Così facendo, la piccola fiamma di speranza che ancora albergava in lui si sarebbe tramutata in un incendio devastante.

«Come stanno Tikki e Nooroo?». Non riuscì a trattenersi e parlò appena gli sedette accanto.
Lei si irrigidì, bloccandosi per un attimo come pietrificata.
Adrien trattenne il respiro.

Non andartene.

«Meglio», rispose. Sembrava che parlare le costasse una fatica immane. «Il Maestro si sta occupando di entrambi».

«Gabriel...»

«Fu me lo ha già detto. Non avrei acconsentito a stendermi, altrimenti». 

La ragazza aprì la bocca, poi la richiuse. Non c'era bisogno che parlasse, immaginava perfettamente ciò che poteva voler dirgli. «Mi dispiace», disse invece.

Lui sorrise: sentiva montare dentro di sé fin troppe emozioni. Prese quelle scuse come una confessione, qualcosa di simile a un permesso. Non avrebbe avuto senso rivolgere delle scuse a Chat Noir.

Prese coraggio, tentennando in una tacita domanda.

Posso?

E lo fece. Piano, con lentezza. Schiuse le palpebre. Non si diede tempo di passar in rassegna dettagli insignificanti come il buio della stanza, la luce dei lampioni che filtrava dalle finestre. Non si accorse della porta socchiusa, dei quadri appesi alle pareti o dello strano contenitore sul quale stava inciso lo stesso simbolo che aveva notato sulla scatoletta nella quale Plagg gli era stato consegnato. 

Lei era lì, distesa supina davanti a lui, il volto fisso ostinatamente in avanti. Le fasciature coprivano la parte superiore del busto e il braccio destro in tutta la sua lunghezza. Non riusciva ad ammirarla nel suo intero, steso com'era a pancia sotto, con la mano destra sulla schiena e la sinistra sotto la guancia. Tuttavia ne era certo: sarebbe bastato un movimento pressoché impercettibile e le loro dita si sarebbero sfiorate. 

Senza un motivo ben preciso, arrossì sulle guance.

La conferma di quanto fosse ottuso e stupido gli si stagliava a pochi centimetri di distanza. Non avrebbe mai pensato di gioire nell'accorgersi di essere un totale e completo idiota. Certo, era capitato che tra le sue ipotesi strampalate capitasse di ipotizzare che fosse lei Ladybug, ma non ne aveva avuto mai la conferma. Vederselo sbandierare a quel modo non era fra le sue speranze più rosee. 

Forse era stupido. Stupido e sicuramente folle, perché, prima che potesse accorgersene, si ritrovò un sorriso ebete stampato sugli zigomi. Era da pazzi essere tanto felici, dopo tutto quello che avevano passato? Eppure non poteva farne a meno e, guardandola, gli sembrava impossibile non pensare a quanto tutto gli apparisse giusto. Dopo tanta fatica, la sua tenacia era stata premiata. Il suo sogno d'amore si era realizzato.

Poco importava che lei non avesse ancora svelato nulla riguardo ai propri sentimenti: aveva  la sua Lady e si era rivelata quanto di più stupefacente potesse sperare.

«Non smetti mai di sorprendermi, My Lady».

La vide sussultare, mentre chinava leggermente il capo nella direzione opposta alla sua, vergognosa.

«Non dovresti chiamarmi a quel modo, Chat», pronunciò le parole arricciando le labbra, quasi stesse reprimendo un moto di disgusto nei propri confronti. «E nemmeno guardarmi così».

«Guardarti come, My Lady?». Non era ostinazione, quella nella sua voce, nel suo tono; non stava giocando al gatto e al topo per farla innervosire. Voleva provare a farle capire, poiché finalmente poteva, come ogni suo gesto, ogni sua parola tentasse disperatamente di esprimere amore.

«Smettila. Lo sai»

«Non so proprio niente. Né capisco come tu possa sapere come io ti stia guardando se non ti giri verso di me. Magari sto osservando il panorama».

«Non stai osservando il panorama».

«Forse sì, forse no».

«Lo... sento. Riesco a sentire quando mi stai guardando».

Lui rise appena, sottovoce, per non contestare quell'assurdità così incredibilmente adorabile che solo Marinette avrebbe potuto pronunciare ad alta voce con tanta innocenza. 

La vide imbronciarsi – e come diamnie potevano essere così irresistibili quelle piccole labbra leggermente sporte in avanti?

«N-non è divertente», ribatté ancora, stringendo appena gli occhi. Poi si fece nuovamente seria, la voce scese a un mormorio sommesso: «Ho quasi ucciso tuo padre...».

Adrien affondò appena il volto nella piega del gomito. Attese un attimo, prima di rispondere.  Poteva ritenersi in pace con se stesso, almeno dal punto di vista amoroso. Sul fronte familiare, le cose erano sempre state abbastanza disastrate.

«Lui... ha commesso degli sbagli. Insieme, potremmo aiutarlo a riparare. Se vorrà».

«Non sappiamo nemmeno con certezza se è sopravvissuto!».

«Lo è, deve esserlo», sorrise tristemente, la voce quasi si ruppe. «È tutto ciò che mi resta».

Fu troppo per la ragazza. O almeno, così gli parve. Senza pensare, tenendo gli occhi bassi e fissi al pavimento, fece per sporsi verso di lui. Prima con accortezza, per tastare bene il perimetro prima di agire. Poi, senza timore, quasi avesse trovato in sé una nuova forza, quella di sempre. 

Le loro dita si intrecciarono, delicatamente. Si trovarono con con sicurezza, si strinsero con pudore. Nuove, eppure così familiari.

«Questo comunque non cambia le cose». Quel sussurro permise al dubbio di farsi strada nella sua mente e d'intaccare la serenità che l'aveva pervaso. Aveva sentito, per un attimo, tutti i tasselli del mondo tornare al proprio posto. 

«Sei...», tentò. Deglutì. «Sei delusa che sia io?». 

È ancora solo pena, quella che provi per me?

«Tu? Io? Tu? Non so di cosa tu stia parlando». 

«Marinette». Finalmente era riuscito a pronunciare il suo nome, eppure la dolcezza con la quale l'aveva lasciato libero di attraversare le sue labbra era intaccata da un tono duro che non gli apparteneva.

«Ti prego», gli parve quasi una supplica. «Non posso».

Stette ancora in silenzio e sembrò che si fosse allontanata da lui anni luce. Sentiva ancora i palmi delle loro mani stretti, arti incuranti dei sentimenti di coloro che li possedevano.

«E se si presentasse un nuovo super-cattivo? Lo sai, è contro le regole conoscere le rispettive identità. Sarebbe troppo pericoloso». La vide scuotere il capo, come a scacciar via un pensiero troppo invadente. I suoi occhi erano nuovamente chiusi.

«Mi dispiace, mi dispiace così tanto, ma io non sono Ladybug.  Sono maldestra. Ogni cosa che faccio ha a dir poco il novanta percento di possibilità di non riuscire e, per il restante, la possibilità di riuscire in un modo talmente astruso e contorto da risultare un fallimento. 

E non posso permettere che tu viva ancora nell'illusione di vedermi essere una persona che non sono. Vorrei... lasciar perdere tutto, lo vorrei davvero, ma non posso.

Sono semplicemente carina e non bellissima e attraente come tutti sembrano vedere lei. Non sono così coraggiosa, non così altruista come la maschera vuole far pensare. Sono solo una... ragazza. Una ragazza che, senza Miraculous, vale quanto chiunque altro. E io non voglio che vi accada nulla di male, siete troppo importanti per me. Tu sei troppo importante».

Era tutto ciò che aveva bisogno di sentire.

«Marinette», pronunciò nuovamente il suo nome, saggiandolo appena: nulla era paragonabile alla sensazione di calore che gli avvolgeva il cuore al comprendere che lei era lì, era reale. Doveva farle capire e c'era un unico modo per farlo.

«Per favore, Marinette. Guardami».

Portò i loro corpi più vicini, mantenne saldo l'intreccio delle loro mani. Le prese il volto fra le mani: non cristallo, ma diamante. Bellissima e forte, fragile solo in apparenza. Mai avrebbe potuto farle del male, neanche involontariamente. Ora ne era sicuro.

«Apri gli occhi», disse. E lei li aprì.




 

Considerazioni dell'autrice e ritorni di fiamma:

Ebbene sì, sono tornata.  Non molti si ricorderanno di me, di questa storia: spero vivamente che ci sia ancora qualcuno in grado di provare interesse per contenuti simili. Sono passati cinque lunghissimi anni. Sono cambiate così tante cose! Tornare a rivedere, a pubblicare qualcosa pare un'esperienza di un'altra vita. E' una sensazione strana, ma piacevole. 

Tempo fa, ho lasciato questa storia irrimediabilmente incompiuta. Era un conto in sospeso che ho tenuto aperto con me stessa, forse anche con voi. Oggi, finalmente, posso scrivere la parola fine al finale alternativo che una piccola me aveva pensato di regalare ad Adrien Marinette. E' una narrazione di vicende semplice, senza pretese. Non ha nulla a che spartire con gli intrichi contorti della terza stagione. Non c'è Kagami, non c'è Luka, non ci sono ancora così tanti kwami da non riuscire a contarli sulle punta delle dita. 
E' una storia nostalgica che vuole ritagliare un po' di tempo solo per i due protagonisti, senza intrecci di alcun tipo. Ho pensato di cambiarla, nel rivederla e concluderla: tutto sommato, avrei potuto stravolgerla alla luce delle nuove rivelazioni di Thomas Astruc. Ho persino ipotizzato un sequel, nel quale poter inserire tutto ciò che non avevo avuto modo di sperimentare qui - e forse chissà... 

Eppure ho creduto fosse meglio che Quanto di più sbagliato restasse quello che ho sempre voluto che fosse: il tentativo di mostrare la debolezza, la dedizione, la paura, il dolore, l'amore, il completo spaesamento incontro a cui due adolescenti qualunque (o quasi) possano andare incontro. 
Il mio scopo è sempre stato quello di mostrare le emozioni al di là delle maschere. Poco importa se l'ambientazione che ci fornisce l'autore della serie sia completamente cambiata, nel corso degli anni, rispetto a quella della prima stagione. Spero comunque che il mio obiettivo sia stato raggiunto.
E quindi nulla, un po' tutto ciò mi commuove. Grazie a voi, che avete letto, forse pazientando fino al mio ritorno, forse leggendo la storia come se fosse nuova di zecca, forse lasciandola a metà come io stessa ho fatto per molto.

See ya

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3662215