Secretly

di Restart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Michael Jackson – Black and White
 
Agosto 2014
 
        Il caldo soffocante che ha dominato su Londra per tutto agosto, si sta piano piano dissolvendo mentre settembre è alle porte e con lui anche la scuola, il lavoro, lo stress, la voglia delle vacanze invernali. Osservo il parco smembrarsi di tutte le foglie che sono prossime a formare il tappeto su cui cammineremo nei prossimi mesi.
       Okay, di solito non ho tutti questi pensieri profondi quando vengo al parco, anche perché vengo per correre, o per far prendere un po’ d’aria a Gwen, ma ultimamente vengo da sola, per ritagliarmi un po’ di privacy dallo stressante lavoro di mamma. Mi porto dietro l’ultimo classico preso in biblioteca e mi fermo su una panchina a leggere per un’ora. Poi giusto il tempo di prendere la metro, tornare a casa che già Gwen strilla tra le braccia esasperate di Michael.
        Michael, mio marito, l’amore della mia vita, la luce dei miei occhi, bla bla bla. Senza di lui non so come avrei fatto.
       Ogni tanto, la sera, quando sono nel letto, ripenso alla prima volta che lo vidi. Michael non è mai stato uno di quei ragazzi belli da portare via il fiato. Cioè è bello, ma non come quegli attori o cantanti per cui le mie alunne scrivono interminabili, come si chiamano? Via quelle storie che poi pubblicano sui siti internet. No, lui non è così.
       Comunque, ritorniamo a quando ci siamo incontrati.
       Però aspettate. Perché raccontare solo di lui e della nostra storia? Meglio partire proprio dall’inizio, in quel reparto nascite del St. Thomas di Londra, una fredda, freddissima, direi quasi gelida, mattina di marzo. Quella mattina, alle sei meno due minuti, Ronald e Jane Habbott diventarono genitori di una bambina bellissima, che poi sarei io, che chiamarono, con tutta la commozione del mondo, Sarah Wendy Habbott.
        È da quel giorno che per Sarah Wendy Habbott sono iniziati i drammi.
        Appena due anni più tardi, cioè non ebbi neanche il tempo per gustarmi i vantaggi di essere figlia unica, nacque Holly Nicole Habbott, ossia la mia adorata sorellina.
        Passata l’infanzia a suon di tirate di trecce, litigate galattiche e pianti infiniti, nel freddo ottobre del 1994, quando io avevo undici anni e mia sorella nove, i miei genitori divorziarono. Mia madre si era innamorata di un venticinquenne e aveva lasciato mio padre già da due anni. Il povero Ron non si sposò più, al contrario di quanto fece Jane, che dopo due settimane dopo il divorzio aveva già la fede al dito.
       Nel luglio del ’99, quando ormai avevo sedici anni, mi vestivo come Rachel di Friends e canticchiavo le canzoni delle Spice Girls sotto la doccia, mia madre, che aveva passato i quaranta, mi sorprese un’altra volta, annunciando la sua gravidanza. Nel gennaio del 2000, dopo aver festeggiato il nuovo millennio, nacque quel rospo di nome Vincent.
       Insomma conobbi Michael a tre minuti a mezzanotte, la notte di capodanno tra il ’99 e il 2000, quando, rimasti gli unici due single della stanza, lui, con enorme imbarazzo, mi chiese se mi poteva baciare allo scoccare del nuovo anno. Ovviamente io, sedicenne con gli ormoni a palla, imbottita di film romantici, mi vedo apparire davanti un ragazzo carino, con due occhi blu come il mare e il ciuffo nero un po’ ribelle, dicevo di no?
        Così quello fu il mio primo bacio e il nostro primo bacio; sulle note di Unchained Melody, come in Ghost (mi sentivo un po’ Demi Moore) ti tenevamo abbracciati dondolando un poco a ritmo di musica. Da quella sera ci tenemmo in contatto e un anno dopo stavamo insieme. Per modo di dire. Perché io stavo in un ammuffito college a Londra e lui nella sfavillante New York dove si era trasferito insieme alla famiglia nel ’98. E pensare che da quella sera non ci siamo più lasciati.
         Passarono mesi relativamente tranquilli e dopo il college, dove conobbi i miei due migliori amici, Cat Smith e Matt Johnson, mi iscrissi alla Queen Mary per studiare letteratura.
         Ma la vera svolta venne nel 2003.
         E questa ve la devo raccontare proprio nei dettagli.
    
 
 
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Questo è il prologo ed è in prova. Se vedo che ha un buon seguito, allora la continuerò. Però gli aggiornamenti saranno abbastanza lenti perché prima voglio finire Hear My Voice e continuare Revenir (che non ho abbandonato, solo che non ho mai tempo di copiare il capitolo 5 dal quaderno al computer).
Fatemi sapere che ne pensate!
Un bacio,
Claudia
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Sarah: Janis Joplin, Piece Of My Heart

27 agosto 2003

Mi infilo velocemente sotto la doccia e apro il getto freddo. L'acqua gelida mi scivola addosso e io sento tutta la calura provata nella giornata andarsene quando una fresca sensazione prende il suo posto. Poi mi bagno anche i capelli e li lavo col nuovo favoloso shampoo di Holly. Non è possibile che io non riesca mai a comprare i prodotti per il bagno che siano quantomeno passabili. Per questo motivo è lei a fare la spesa, sempre.
Alla fine rimango dentro la doccia più del necessario, forse per schiarire un po' le idee o forse perché mi piace fare un po' la melodrammatica con la testa appoggiata al muro, lo sguardo afflitto e l'acqua che scorre sulla schiena. Tengo anche le labbra socchiuse in modo che le goccioline d'acqua scivolino accanto e dare quel tocco in più. Insomma, è tutta una scusa per fare la diva per cinque minuti.
«Che stai facendo Sarah?» la voce di Holly mi arriva forte e chiara nonostante l'acqua goccioli anche nelle orecchie.
Che epocale figura di merda.
Tiro su la testa di scatto e mi volto a guardarla. È appoggiata con la schiena al muro di fronte al mio, le braccia secche conserte e un ghigno malefico sul viso che è solita fare quando mi scopre fare qualcosa di sbagliato o immensamente imbarazzante. Come adesso, appunto.
Le faccio una faccia mortificata, quella che mi aveva insegnato la mia migliore amica dell'asilo, Karen. Chissà che fine ha fatto...
Comunque, ritorniamo alla mia orrenda recitazione. Mentre io sono qui a sforzarmi di fare un'espressione che renda l'idea che non me ne può fregare un fico secco di quello che pensa Holly di me, quella sciagurata ha cominciato a ridere a crepapelle, con tanto di mano sulla pancia e lacrime agli occhi. Alla fine rido anche io, perché, diciamocelo, sono enormemente patetica.
«Sei ridicola. Neanche una quindicenne in piena crisi ormonale è come te.» È questa la profonda riflessione di mia sorella quando riesce a smettere di ridere. E solo in quel momento (giuro, prima non me ne ero accorta), noto che è nuda. Le punto il dito contro con un sorrisetto di scherno e le chiedo:
«Che fai conciata così?»
«Ma come, non lo vuoi più fare il bagno insieme alla tua sorellina?» tira fuori il labbro inferiore e finge un pianto infantile.
Dal canto mio, sono senza parole. Una diciassettenne –in dirittura d'arrivo per i diciotto e quindi la maggiore età – può essere così cretina?
«È da quando abbiamo sei anni tu e otto io che non facciamo il bagno insieme, che ti sei bevuta? Non ti sarai mica fatta una canna, vero?» le chiedo fingendo il falso (pensate che attrice) tono preoccupato che assume mia madre ogni volta che ci vede un po' scombussolate. Cioè tutte le volte che andiamo da lei, nel weekend, uno sì, uno no. E noi arriviamo a casa di nostra madre con gli occhi ancora socchiusi e iniettati di sangue per il poco sonno (giustamente il venerdì sera, si esce, di conseguenza si fanno le ore piccole).
Holly sorride alzando solamente gli angoli della bocca.
«Sei uguale a lei, lo sai? Ho trovato delle foto in soffitta...»
«Che coraggio ad andare in soffitta con questo caldo» la interrompo e lei mi fulmina. Lo so che è una cosa che odia essere interrotta, ma commentare ogni cosa che fa e dice ce l'ho nel DNA dal 1985.
«Sì, lo so. Ma non sapevo che fare e quindi sono andata in soffitta. Ho trovato questo baule bellissimo, tutto in legno, come quello dei pirati, ed era pieno di cose di mamma quando era giovane. C'erano un sacco di fotografie di lei e papà quando avevano forse neanche vent'anni e tu sei identica a lei» dice indicandomi con l'indice secco.
«Wow che complimento» commento sarcastica, anche se so che quello che mi sta facendo è un vero complimento. Mia madre, come me d'altra parte, ha tanti difetti, ma non si può dire che non sia bella. E quando conobbe mio padre lo era sicuramente. Io, come lei, ho i capelli quasi neri, le labbra carnose e gli zigomi alti. Sono magra, ma con le mie forme, e piuttosto alta. Il che mi rende molto simile a Jane, tranne che per la forma del viso e gli occhi (presi da Ron) e il naso alla francese (grazie nonna Margaret).
Ho sempre pensato, un po' con vanità, un po' con dispiacere, che Holly invidiasse il mio aspetto. Lei assomiglia soprattutto a nostra nonna Maggie: alta, fisico asciutto, molto asciutto, zero seno, mascella e mento pronunciati, occhi scuri e capelli castani. In pratica uno sconosciuto non penserebbe mai che noi due siamo sorelle. Come nei film, che prendono due attori che si assomigliano come una banana e una fragola, per interpretare i ruoli di due fratelli. Ecco queste siamo io ed Holly.
Nel frattempo Holly si è già lavata e asciugata. Mi chiedo come faccia ad andare sempre alla velocità della luce e fare tutto con estrema precisione.
Forse è una mutante. Devo indagare su ciò, al più presto. Stasera mando una e-mail al Professore X per sentire se l'accetta nella sua scuola in America, almeno me la levo di torno.
Chiudo l'acqua e allungo la mano fuori dal box per afferrare l'accappatoio, ma, mio malgrado, scopro che mia sorella se ne è già impossessata. Mi asciugo alla meglio con l'asciugamani e poi faccio uno scatto fino a camera mia con il quale potrei vincere la medaglia d'oro nei Giochi Olimpici delle Mezze Stagioni, specialità salto della mattonella. La sensazione di fresco sulla mia pelle si è già esaurita e ho iniziato a sudare, di nuovo. Mi stendo sul letto ancora spossata per la giornata pesante, ma nemmeno il tempo di chiudere gli occhi che il telefono suona. Faccio squillare un po’, sperando che qualche buon anima risponda, ma al quinto squillo ci rinuncio.
«Pronto?»
«Pronto, Sarah, sei tu?» è lui. L'accento inglese che inizia a sparire, lasciando al posto ad uno americano che odio tanto. Ma non glielo dirò mai.
«Ciao Michael, come stai?» ho poca voglia di parlare. Ma ad una conversazione con lui non rinuncerei per niente al mondo. Mi manca così tanto che ogni tanto mi viene da piangere. Qualche anno fa non avrei mai pensato di ridurmi in una situazione così miserabile. Eppure mi manca il suo profumo, i suoi occhi, il suo sarcasmo, la sua spiccata intelligenza. Sono passate quattro settimane da quando lui è venuto qui a Londra e sembrano mesi. La prossima volta che riuscirò a vederlo sarà a novembre e quindi tra un'eternità.
«Benone» e sbadiglia. Ha la voce ancora impastata dal sonno. Dormiglione. «Tu, Wendy?»
«Alla grande, Peter» mi manda un bacio telefonico e io ricambio. Mi piace quando mi chiama Wendy. Con la sua voce calda sembra più bello di quanto sia. Solo lui può chiamarmi così, solo lui e nessun altro. E solo io posso chiamarlo Peter. È una cosa nostra; Wendy e Peter sono la parte più divertente e intima di noi. Sono i bambini che sono in noi, quelli che non cresceranno mai. Proprio come in Peter Pan, facciamo parte dei Bambini Sperduti.
«Manca troppo tempo a novembre, Pete» gli sussurro in un momento di silenzio. Lui aspetta qualche secondo prima di rispondere.
«È l'ultimo anno Wendy, solo nove mesi e poi non dovremo più stare a contare i giorni che ci separano come il mare. Solo un ultimo fottutissimo anno» la voce gli si spezza alla fine della frase e solo in quel momento mi accorgo di avere gli occhi lucidi.
«Solo nove mesi» ripeto per rassicurarmi. Questo sarà l'anno più bello e più brutto della mia vita.
«Hai pensato dove stare?» mi chiede improvvisamente e io mi sento avvampare. Ho paura che lui voglia rimanere negli Stati Uniti e io per nulla al mondo rinuncerei all'appartamento che ho trovato a Chelsea. Carino, piccolo e a buon prezzo. Il mio rapporto di amore – odio con Londra è forte e non voglio lasciarla. Sebbene New York mi attiri, la vecchia Londra rimane nel mio cuore per sempre.
«Michael, ho trovato un appartamento a Chelsea, che ne dici?» mi mordo il labbro per il nervoso e per il terrore che lui declini la proposta.
«Quando vengo andiamo a visitarlo» la me interiore sta esaltando. Sento la gioia esplodere ed emano felicità da ogni singolo poro della mia pelle. «Ti devo dire una cosa bella, Wendy. Volevo dirtelo più in là, ma sai che io non riesco a trattenere niente. Ho trovato un lavoro. Lì, a Londra» La gioia provata prima non era niente a confronto a quella che provo ora. Ma una parte di me si sente comunque mancare perché Michael ha già trovato lavoro, guadagnerà soldi, mentre io? Io che farò? Che lavoro sceglierò? Poi ho un flash di una me trentenne isterica e depressa, circondata da marmocchi, mentre lui, veterinario super affermato, è a farsi la sua amante nel suo studio. E allora mi sento avvampare dal terrore. Mi devo rimboccare le maniche.
«È fantastico Pete, ma come...»
«Mio zio Daniel. Anche lui fa il veterinario e gli manca pochi anni alla pensione e mi ha offerto il lavoro. Certo per i primi anni la paga sarà la metà del normale, ma a noi due basta. Vero? O hai intenzione di.... Mh?»
«Oddio no, no. Per l'amor del cielo, no. Non prima dei trent'anni almeno»
«Bene» la sua voce ha assunto un tono sollevato. Lo capisco. Io ho quasi più paura di lui di avere figli.
«Michael ti devo lasciare, Gwendolyn sta urlando da dieci minuti buoni che la cena è pronta. Devo andare»
«Okay, ci sentiamo domani, ti amo» e manda un altro bacio telefonico. Io chiudo gli occhi immaginandomi le sue labbra scoccare sulle mie come faceva ogni sera prima di addormentarci.
«A domani, ti amo» gli mando un bacio. E chiudo la telefonata. Finalmente un po' di pace.
Finalmente.
Quando sto per rilassarmi quasi completamente, abbandonandomi alla voce di Janis Joplin e una delle mie canzoni preferite, Piece of my heart, il telefono squilla di nuovo.
No, per favore, placatelo.
Sbuffando e con malavoglia alzo nuovamente la cornetta.
«Pronto?»
«Sarah? Sarah? Ci sei?» la voce squillante della mia migliore amica per poco non mi rompe un timpano.
«Cat devi smetterla di urlare al telefono»
«Scusa, ma solo elettrizzata»
«Vai spara» mi raddrizzo presa da un’improvvisa scossa di adrenalina. Adoro quando Cat preannuncia un succulento pettegolezzo con quelle tre parole.
«Abbiamo un nuovo professore di letterature moderne. Si chiama Paul, è scozzese e Valentine dice che è molto sexy»
Generalmente i pettegolezzi di Cat mi caricano sempre, ma non so come, ma questa volta mi sento sprofondare. No, no, no, no.
No.
Vi spiego i motivi del mio chiaro disappunto:
Uno: Odio i cambiamenti.
Due: la mia (a questo punto dovrei dire ex) professoressa di letterature moderne, la signora Cunningham era la migliore insegnante che avessi mai avuto e ancora non mi spiego perché l’abbiano sostituita.
Tre: la mia avversione per gli scozzesi deriva dall’odio profondo che nutro nei confronti di mio cugino Neil, scozzese fiero e stronzo innato.
«Sarah sei sempre lì?»
«Insomma»
«Dai che sarà fantastico»
«Mh»
«Non fare la scorbutica, che arriva la parte migliore»
«Mi è passata la voglia del gossip, Katie»
«Mrs. Cunningham andava a letto con uno studente»
«Cosa?» ecco, ora mi ha rovinato un mito. Mrs. Cunningham è sempre stata molto gentile e io credevo che non fosse andata a letto con nessuno al di fuori del matrimonio con suo marito Bob Cunningham, professore di Matematica e, ovviamente, rettore della Queen Mary.
«Come hai fatto a saperlo?» Di solito Cat era sempre molto vaga sulle sue fonti, non le rivelava mai a nessuno, nemmeno alla sua migliore amica. La sento ridacchiare prima di rispondere: «Non lo saprai mai»
«Sei una merda»
«Grazie, anche tu» mi manda un bacio e io sorrido tra me e me. Il legame che c’è tra me e Cat è più forte di qualunque legame che ci possa essere tra me e Michael. Noi condividiamo segreti, figuracce, pianti, abbracci che ci tengono unite da sedici anni.
«E si sa chi era l’alunno?»
«Buio totale. Lo scoprirò neanche fosse l’ultima cosa che faccio»
«Ottimo lavoro, Holmes»
«Grazie Watson»
«Comunque credo che sia George Jensen, è strano quel ragazzo»
«Ma la professoressa odiava George»
«Poteva essere una tattica»
«Già». Per un po’ rimaniamo in silenzio, forse per soppesare la gravità della situazione. Poi finalmente Catherine riprende parola: «Tu me lo diresti se ti scopassi un professore?»
«Katie ma che dici?»
«Senti, devi essere sincera con me. Io se mi scopassi un prof, te lo direi»
«Anche io. Ma non lo farei mai. Anche perché i professori uomini alla Queen Mary sono tutti ultrasessantenni con i baffi e portano tutti la stessa giacca di velluto ogni giorno. Quindi non ci sono problemi»
«Dimentichi il professore nuovo. Val dice che ha poco più di trent’anni e che ha un sorriso che toglie il fiato»
«Dimentichi che è scozzese. La sua versione della giacca di velluto a coste marroni è il kilt con i calzettoni bianchi e avversione per la biancheria intima. In più avrà i capelli rossi come Neil». Cat dall’altra parte ride a crepapelle. Non posso fare a meno di sorridere anche io nel sentire la sua risata particolare.
«Beh vedremo»
«Vedrai, non vedremo. Perché io non ho intenzione di guardarlo»
«Se, se, vedremo… Senti Sarah, io devo andare, manda un bacio a Gwen e Holly»
«Va bene, ci vediamo domani, un bacio» riattacca senza neanche farmi finire di parlare. Mi stendo nuovamente sul letto e sorrido appagata nell’apprendere che la temperatura della stanza ha iniziato a calare e ora il caldo è sopportabile. Chiudo gli occhi e riaccendo lo stereo. La voce di Janis Joplin riempie di nuovo la camera e io mi sento finalmente rilassata.
2014
Michael mi apre la porta dopo qualche minuto che ho suonato al campanello.
«Gwen è un disastro oggi. Ha pianto continuamente» ha il viso stanco, molto più di quando torna da un turno completo di lavoro. Ha delle lunghe occhiaie scure e i capelli tutti scompigliati. «Ad un certo punto volevo drogarla» sorrido appena e lui mi guarda triste.
«Sono un cattivo genitore Sarah?» Lo abbraccio dolcemente e gli lascio un bacio sulla guancia.
«Facciamo schifo come genitori. Ma impareremo, prima o poi» si lascia scappare un sorriso e io gli vado dietro.
«Dov’è la peste?» gli domando gettando la borsa sul divano e guardandomi attorno.
«In cucina con Jackie. Ho chiamato lei perché ero nel panico e non sapevo più che fare»
«Potevi chiamare me» gli faccio notare, ma lui alza le spalle.
«No, quella era la tua ora sacrosanta. Io ho la mia, tu hai la tua e noi non possiamo disturbarci, ricordi?»
«Va bene, se la situazione stava degenerando fino a questo punto potevi chiamarmi» Non risponde, lo fa lasciandosi andare un piccolo sospiro. «La prossima volta». So che non si azzarderà mai. Da quando Gwen è nata ci siamo fissati un’ora ogni due giorni in cui ci dedichiamo a noi stessi, e per il momento sta funzionando alla grande. Io vado a correre e Michael va a giocare a tennis con Matt e siamo più felici.
Trovo Jackie dondolare lentamente Gwen mentre le canta una dolce cantilena: la piccola si è quasi addormentata e la ragazza sorride soddisfatta e sollevata.
«Non è stato facile» sussurra per paura di svegliarla. Dopo poco la posa nella culla e viene verso di me. «Oggi era agitata».
«Me lo ha detto Michael» lei abbozza un mezzo sorriso e si lascia fuggire un sospiro di stanchezza. «Non dovevi venire Jackie, non ti fa bene questo» la guardo preoccupata per le sue occhiaie scure e gli occhi stanchi.
«E’ stato un piacere per me. Se dovessi stare tutto il giorno a casa non saprei che cosa fare. Io e Gwen abbiamo una grande sintonia e sono sicura che l’avrà anche con lui» abbozza un sorriso e si appoggia la mano sul pancione.
«Sarà bello vederli crescere insieme» sussurro e lei finalmente sorride spontaneamente. «Vai a casa a riposarti»
«Sono da sola a casa, posso rimanere qui ancora un po’?» un velo di tristezza avvolge le sue parole. Quella che ho davanti è l’ombra della frizzante Jackie di un tempo: le occhiaie, i capelli trasandati, gli abiti tristi e anonimi che quando aveva vent’anni odiava con tutta se stessa.
«Eva è con Andrea?» annuisce silenziosamente. «Comunque certamente puoi rimanere qui. Stasera cucina Michael» le faccio l’occhiolino e lei sorride sollevata.
«Grazie Sarah»
«E’ il minimo dopo quello che hai fatto oggi con Gwen».  Lei mi ringrazia di nuovo con un cenno del capo e se ne va in cucina ad aiutare Michael.
Quando rimango da sola in camera mia, mi cambio togliendo gli abiti che ho portato tutta la giornata e indosso una tuta che avevo abbandonato sulla sedia chissà quanto tempo fa. Rimango a fissare la mia immagine allo specchio per troppo a lungo, senza accorgermi di farlo realmente.
«Sei una brutta persona» sussurro alla mia immagine, ma quella continua a fissarmi impassibile. «Michael non ti merita». Non so se quella a cui mi sto rivolgendo sia la mia coscienza sporca o meno, ma comunque sia quelle parole mi arrivano dal profondo, talmente profondo che forse neanche io credevo di avere dentro. Mi trascino dietro il peso della mia colpa da undici anni ormai e non so se mi confesserò mai. Potrei perdere Michael e so che è un pensiero altamente egoista, ma non lo sono stata per troppo tempo. Ora ho bisogno di pensare un po’ a me stessa.
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Sarah: James Blunt – Heart to Heart

2003

«Sarah, alzati, su, forza» la voce imponente di mio padre mi sveglia da uno dei più bei sogni della mia vita. Non ricordo mi aver dormito meglio di stanotte. Mai.

«Sarah sbrigati» mi toglie la coperta e io mi lascio scappare un mugolio di protesta. Alla fine è arrivato anche il primo settembre. Purtroppo.

«Papà?» biascico con ancora la testa spiaccicata sul cuscino.

«Mh?»

«Ti mancherà svegliarmi quando andrò a vivere con Michael?» lui ritorna indietro sui suoi passi e mi guarda serio.

«Quando tu farai cosa, scusa?» Ha la fronte aggrottata e sembra veramente impaurito. C6. Colpito e affondato. Mi tiro su, seduta con la schiena appoggiata al muro e mi stropiccio il viso.

«L'altro giorno io e Michael abbiamo valutato la possibilità di andare a vivere in un appartamento a Chelsea» gli spiego con calma, mentre decido ad alzarmi e infilarmi le infradito. Lui è sempre fisso nella stessa posizione, con la stessa espressione stampata in viso. Non dice niente, se ne sta lì a guardarmi con gli occhi da pesce lesso e la bocca aperta. Sicuramente era l'ultima cosa che si aspettava.

«E... E questo quando dovrebbe succedere?» chiede alla fine, quando par aver ripreso un po' di controllo si sé stesso. Sorrido. Ron non era mai stato uno di quei padri che non vede l'ora di sbatterci fuori di casa, per vivere finalmente in tranquillità. Anzi. È sempre stato felice di averci attorno a sé.

Le mie amiche del college vivono già tutte da sole e si sono staccate dal nucleo familiare già dalla fine della scuola superiore. E Holly ha già preannunciato di fare così. Ma io non me la sentivo di andare così presto, ancora così acerba. Ma ora mi sento pronta.

Cominceremo a lavorare tutti e due e avremo bisogno di un posto nostro.

Faccio schioccare la lingua sul palato «Finito quest'anno. A novembre, quando Michael viene a trovarmi, andiamo a vederlo». Mi dileguo velocemente prima che lui possa replicare. O peggio: fare un'altra domanda. Faccio le scale a corsa e raggiungo la cucina al piano terra. Lì c'è Gwendolyn la nostra domestica, tata, colf, tuttofare insomma. È una donna sulla settantina, con una stazza importante e un viso dolce circondato da dei corti capelli biondi (tinti). È stata una madre per me e Holly quando la nostra non ci considerava.

«Buongiorno» la saluto schioccandole un bacio sulla guancia.

«Buongiorno pulce. Tieni queste» fa scivolare le uova in un piatto e me lo porge. «Ultimo primo giorno, eh? Emozionata?» domanda e io rispondo con un veloce cenno del capo. Ho già la bocca piena di cibo. Nel frattempo ci ha raggiunti anche mio padre che par non aver ancora digerito la notizia di prima. Si siede in silenzio, prendendo il Times e iniziandolo a leggere senza degnarmi di uno sguardo. Gwen gli porge la tazza colma di thè e lui si limita a ringraziare con un cenno del capo. Per qualche istante nella grande cucina color panna si sente il solo ticchettare della forchetta sul piatto.

«Padreeeeeeee» la voce squillante di mia sorella rompe il silenzio. La si sente scendere le scale con velocità e arrivare tutta trafelata con un sorriso disegnato sulle sue labbra. Ron alza lo sguardo dal giornale e la guarda perplesso. «Buongiorno» saluta Holly sedendosi accanto a me con la solita grazia di uno scimpanzé. «Ciao» mi dice prendendomi la forchetta di mano e raccattando una buona porzione delle mie uova.

«Prendi pure, fai come ti pare, mi raccomando» borbotto mentre la osservo impossessarsi della mia colazione e ingollarla a velocità stellare.

«Holly, un po' più di grazia, per favore» la rimprovera stancamente Gwen, una donna d'altri tempi cresciuta a pane e galateo.

«Sono grandiose come sempre, G, sei la meglio» si congratula mia sorella dandole un bacio sulla guancia, prima di uscire dalla stanza proprio nella stessa maniera in cui è entrata. Come un tornado.

Holly è così. Un uragano che distrugge tutto e tutti quando passa. Fa tutto velocemente, eppure non sporca mai, non è mai disordinata. Crea soltanto confusione.

Mezz'ora più tardi sono pronta.

Primo giorno, ultimo anno, stesse persone. No, non è vero. C'è quello scozzese.

Prendo la bici nera dal garage, infilo lo zaino nel cestino e mi allontano da casa con lunghe pedalate. L'aria è ancora fin troppo umida. Per fortuna andando in bicicletta, non sento il caldo appiccicarsi addosso. Poco dopo dalla partenza vedo il British Museum erigersi possente di fianco a me. Il British è il mio museo preferito fin da piccola. Mi ci portava sempre mio padre nei frequenti pomeriggi piovigginosi londinesi. Conosco ogni sua sala come il palmo della mia mano. Sono sempre stata affascinata dalla storia antica, in particolare quella greco-romana. Se mi dovessero chiedere in quale periodo storico mi piacerebbe vivere direi quello sotto Ottaviano Augu...

«Ehi, stai attenta dove vai» una voce maschile mi risveglia dai miei pensieri. Sbatto un paio di volte le palpebre per metterlo meglio a fuoco. Un uomo con il viso giovane e gli abiti un settantenne mi guarda con i suoi occhi cristallini.

«Scusaami» gli dico, ipnotizzata dal suo sguardo. Lui fa un cenno con la mano e mi sorride. Okay sono ufficialmente morta qui, in Bloomsbury Street. Sulla mia lapide scriveranno "deceduta per infarto per aver visto un sorriso troppo bello" «Non ti preoccupare. Però da qui in avanti stai più concentrata sulla strada». Il suo accento fa distrarre la mia attenzione dai suoi occhi. Scozzese. Un altro. Come se quello che mi dovrò sorbire tutti i giorni fino a giugno non bastasse. Mi saluta e si allontana, andando verso la fermata della metropolitana.

Rimonto in sella e inizio a pedalare con ancora più forza, concentrandomi sulla strada. Cerco di arrivare prima dell'inizio delle lezioni per raccontare del mio incontro con lo scozzese a Cat.

La trovo seduta sugli scalini davanti all'ingresso in atteggiamenti sospettosi con Matt, l'altro mio migliore amico. Le tiene il braccio attorno alle spalle e si sorridono in maniera altamente sospetta. Okay, dovrò indagare. Ma non ora.

«Buooongiornooo» trillo, facendoli sobbalzare. Lui fa scivolare il braccio dalle spalle di lei fino alla propria gamba, mentre Cat diventa improvvisamente tutta rossa in viso.

«Oh, buongiorno Sarah» la mia migliore amica cerca di ricomporsi schiarendosi la voce un paio di volte e evitando il mio sguardo. «Come stai?»

«Avvistamenti su Bloomsbury Street alle ore sette e venti della mattina del primo settembre 2003» annuncio ammiccando un sorrisetto malizioso. Cat si scrolla di dosso tutto l'imbarazzo precedente e mi guarda con occhi lucidi. Ahh, il potere del gossip.

«Sento puzza di apprezzamenti troppo spinti verso gli esseri del mio stesso sesso. Io mi dileguo» proclama Matt, alzandosi e entrando dentro l'edificio. Okay, ho cinque minuti per raccontare il tutto.

«Allora? Com'era?» domanda ansiosa lei, fissandomi insistente da dietro un paio di lenti da vista.

«Prima le cose negative o quelle positive?»

«Rifacciamoci la bocca con il dolce da ultimo, come sempre» risponde velocemente. Io sorrido e mi schiarisco la voce.

«Sono andata addosso ad un tipo stamattina davanti al British» comincio piano, cercando di fomentare ancor di più la sua voglia di conoscere. «Aveva indosso roba che arrivava diretta dal 1954 e, preparati per il pezzo forte, era scozzese» Cat si porta la mano davanti la bocca e spalanca gli occhi.

«Okay, questa era brutta. Ora passiamo ai pregi».

Chiudo gli occhi e inspiro a lungo cercando di ricordare il suo viso che mi aveva tanto colpito: gli occhi chiarissimi, le sopracciglia folte, il neo sullo zigomo e il sorriso smagliante. Era tutto perfetto. E poi aveva aperto bocca. E l'idillio era finito. Lo descrivo con calma a Cat che è piena di curiosità.

«Wow Sarah, mica male. Io fossi in te passerei oltre il fatto che è scozzese» dice facendo schioccare sonoramente la lingua sul palato.

«Mai e poi mai, lo sai» ribatto velocemente. «E poi anche volendo, c'è Michael». Lei sospira e dà una scrollata di spalle.

«Vabbè, lasciamolo ai ricordi...»

«Ai ricordi proibiti» puntualizza lei accucciandosi per raccattare la borsa e mettersela in spalla. «E andiamo a finire questo schifo».

Mi dispiace per Cat che deve frequentare questo posto a forza. Sua madre vuole, esige, che la figlia diventi professoressa. Avrebbe preferito medico o avvocato, come si addice ad una madre dell'alta società londinese, però ha ceduto sulla letteratura che d'altronde è anche il suo impiego (in un certo senso. Non ho mai capito realmente cosa faccia, ma credo l'editrice). Cat, poverina, si è trovata a frequentare una scuola che non le piace; lei sogna di diventare attrice teatrale. Ed è anche bravina. Mi dispiace così tanto per lei.

Entriamo nella nostra aula in completo silenzio. Siamo veramente pochi, una decina, forse nemmeno. Io e Cat ci sediamo dietro a Lily e Seb, altri nostri amici che abbiamo incontrato qui. Lily è veramente una persona deliziosa, sia internamente che esternamente: ha lunghi capelli rossi fuoco e occhi azzurri, alta più di un metro e settanta, con un fisico fantastico. È sempre vestita e truccata in modo impeccabile. E poi è sempre così dolce, sempre col sorriso sulle labbra.

Seb, Sebastian, è il bello e tenebroso della situazione; con gli occhi scuri e profondi, due sopracciglia folte e i capelli castani che porta sempre lunghi. È un ragazzo buono e socievole nonostante le apparenze da persona schiva. Però è cambiato durante quest'estate: ora ha i capelli corti e una barba che gli sta divinamente. Lily e Seb sono la coppia più bella che conosca. Si vogliono bene, si amano. Si vede nei loro occhi. Però non sono appiccicosi l'un l'altro. No, hanno i loro spazi, i propri amici, le loro vite.

«Buongiorno ragazze» ci saluta Lily con due baci sulle guance. «Stavamo giusto parlando di voi»

«Sarah pure i nostri amici ci parlano e ci deridono alle nostre spalle, facciamo pena» Cat si finge triste e dà le spalle a Seb e Lily che ride fragorosamente.

«Oh no, certo che no! Vi volevamo chiedere se voi venivate alla festa di Val Adams»

«Quando c'è?» chiede Cat sgranocchiando un'arachide che ha estratto da un sacchettino nella sua borsa. Lei ha sempre del cibo con sé. Lily fruga nel sacchettino ed estrae una nocciolina. «Venerdì sera» se la infila in bocca dopo averla fissata a lungo. «Dress code: total white» conclude pulendosi le dita con gesto veloce.

«Ehi sta arrivando il nuovo prof» annuncia sottovoce Seb, invitandoci a stare zitte in maniera molto elegante. Ci sediamo composti, con il viso girato verso la porta.

Okay. Sono pronta.

Alla fine è solo un anno, no? Devo resistere fino a giugno e poi sarà tutto dimenticato.

Una figura dinoccolata, con i capelli grigio topo e degli insulsi occhialini a mezzaluna fa la sua entrata in aula. Se non conoscessi benissimo il rettore Cunningham, mi sarebbe preso un infarto. Anche perché Cat aveva detto che questo nuovo tipo doveva avere poco più di trent'anni, un piccolo genio della letter...

Oh no.

«Cazzo» impreco e Cat si volta verso di me con un sorrisetto ambiguo.

«Aveva ragione Val a dire che era sexy, cielo, potrei perdermici in quegli occhi» fa finta di sventolarsi come una donna in menopausa in uno degli attacchi di caldo e borbotta qualcos'altro (sicuramente qualcosa di molto sconcio come al suo solito) che non riesco a capire.

«Wow ragazze avete visto?» bisbiglia Lily da davanti e io ammicco un leggero sì.

«Cazzo, cazzissimo» sussurro tra le labbra e questa volta, quando si volta, Cat perde il suo sorrisetto da "mi farei volentieri il professore".

«Che succede Sarah?» domanda. Io mi volto verso di lei, coprendomi il viso col quaderno degli appunti.

«È il tipo che ho quasi investito stamani con la bicicletta» bisbiglio e a lei si allarga un altro sorriso sulle labbra ricoperte da un leggero strato di rossetto rosa chiaro.

«Avevi ragione a dire che si veste come uno di settant'anni. Pero non puoi negare che non è niente male.» Mi fa l'occhiolino e io vorrei replicare, ma sono fermata dalla voce gracchiante e fastidiosa del rettore.

«Signorina Habbott è pregata di smettere di fare la maleducata che non è il suo genere, posare il quaderno e smettere di infastidire la presentazione del professore qui accanto a me» mal volentieri sono costretta a mettere giù il quaderno e raddrizzarmi sulla sedia. Ed è proprio in questo momento che incrocio di nuovo gli occhi azzurri del prof. Appena mi vede lui sussulta e sembra improvvisamente a disagio.

Per il resto della presentazione non riusciamo a staccare gli occhi l'uno dall'altro.

Ad un certo punto mi vedo apparire sotto lo sguardo un fogliettino stropicciato riempito con diverse calligrafie. 

Wow, Sarah non fa altro che fissarti. 

Lily

Cristo, vorrei essere al tuo posto: non hai idea di quanto tu sia fortunella 

 Cat

Ma lo conosci questo qui???

Seb

Okay, è ufficiale: devo cambiare gruppo di amici. Ne devo trovare uno con delle persone normali, intelligenti e...

«Mi piacerebbe conoscere ognuno di voi. Sono ancora giovane, questo è l'unico corso che ho, l'unico gruppo che ho. Siamo sempre così pochi?» un borbottio generale si leva a mo' di sì per evidenziare la nostra gioia nell'averlo come sostituto di Mrs Cunningham, ma lui non demorde: «Quindi, dicevo, vorrei conoscervi uno per uno, beh, dunque iniziamo» con lo sguardo ci controlla uno per uno e poi si fissa su di me e sorride.

«Iniziamo con lei, signorina...?»

«Habbott, Sarah Habbott» concludo con una nota di cattiveria nella mia voce. Che stronzo, ha voluto farmi parlare per prima. Mi incita ad alzarmi sempre con quel bel sorriso sexy che mi manda le ovaie a far benedire.

No Sarah, tu sei forte. Tu resisti alle tentazioni.

«Allora Sarah, raccontami un po' di te»

Prendo un respiro profondo e cerco di non calcolare le occhiate annoiate dei miei compagni di corso che non gliene frega niente di me. In particolare cerco di evitare Cat che mi sta guardando sorridente con i pollici tirati in su come dire "fallo innamorare di te". Come se non avessi già qualcuno che è innamorato di me. E io di lui, chiariamoci eh.

«Beh, mi chiamo Sarah Habbott, ho vent'anni e sono venti giorni che non fumo» c'è una risata generale a cui partecipa anche il prof. «Dunque, dicevamo, ho una sorella, Holly, che ha due anni meno di me. Passioni? La lettura e il cinema. Non posso nascondere che uno dei sogni nel cassetto è quello di diventare sceneggiatrice o scrittrice». Mi zittisco e tutti mi fissano senza dire una parola. Anche lui lo fa, senza essere più sorridente come prima, ma con gli occhi che continuano a brillargli.

«Bene, passiamo al prossimo. Tu, davanti a Sarah» indica Seb che si alza malvolentieri e comincia a parlare con la sua voce profonda. Ma io non ascolto più. Quello sguardo che mi ha riservato prima mi ha un po' scombussolato.

Quando il giro di presentazioni degli alunni finisce, decide di farlo anche lui. «Dunque questo è il mio nome» scrive alla lavagna un nome così insulso che sicuro che mi scorderò. Anzi appuntiamolo va, magari torna utile se dovessi sporgere denuncia di molestie su luogo di studio.

Lo scrivo su un angolo del quaderno, strappo quel pezzettino di carta e me lo infilo in tasca dei jeans.

«Sono nato a Glasgow, nella remota e da voi odiata Scozia. Ma non vi preoccupate, il sentimento è reciproco» la classe ride ancora e questa volta anche a me scappa un mezzo sorrisetto. Piccolo piccolo, giuro. «I miei hobby sono la pesca e la lettura, che molte volte vanno d'accordo. Amo anche il teatro, in particolare sono appassionato di Shakespeare. La sua opera che più preferisco è Macbeth e non solo per orgoglio nazionale» mostra nuovamente uno di quei sorrisi spazza-ovaie e mi cerca con gli occhi. Quando mi trova, mi rivolge uno sguardo vagamente triste. «Bene, ora possiamo cominciare la lezione».

Ad un tipo del genere non avrei dato due penny. Cioè non in senso fisico (mi pare di aver ben espresso il mio parere qualche riga prima. Se siete smarriti vi consiglio di andarvi a rileggere le prime righe), ma mi immaginavo più uno che ogni volta che spiegava ti faceva voglia di metterti a contare quante mattonelle c'erano dietro la cattedra. Invece neanche quello.

Si sente da ogni sua parola che il suo amore per la materia è immenso. Accidenti. Io volevo dei motivi in più per odiarlo, non per adorarlo (calmi, ho detto adorarlo). Enveceno.

Quando è tempo di cambiare aula, io mi ritrovo stranamente da ultima (ma che stranamente; Cat si è dileguata cinque minuti prima con la scusa del bagno, Seb e Lily sono sempre i primi ad uscire) con lui.

«Sarah, la nostra medaglia d'oro di ciclismo su strada trafficata» mi dice sedendosi sulla cattedra.

«Mi dispiace ancora professore per stamattina» mi scuso nuovamente, ma lui mi fa ancora cenno di lasciar perdere.

«Non fa niente. Alla fine non mi hai fatto effettivamente niente. Sono stato più veloce nello scansarti» fa un occhiolino scherzoso e io abbozzo un sorriso.

«Ho grandi aspettative su di te, Sarah, non deludermi» mi dice infine, raccogliendo la sua valigetta in pelle e filandosela. Caspita che fiducia che ha in me. Finisco di raccogliere lentamente la mia roba e mi dirigo verso l'altra aula. 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


 

Sarah: Oasis – Don't look back in anger

Ho grandi aspettative su di te

Quel giorno non riuscii a pensare ad altro. E neanche quello dopo. Ma nemmeno quelli dopo ancora.

In sostanza rimasi una settimana a riflettere su quello che mi aveva detto.

Piano piano, dentro di me si stava facendo spazio l'idea che alla fine quel cambiamento non sarebbe stato così male. Anzi.

Ma questo non durò per molto.

10 ottobre 2003

«Voglio un saggio di seicento parole su questo argomento. Fatelo bene che questo sarà il vostro primo elemento di valutazione in vista dei finals di quest'anno» il professore ci guardò con un sorrisetto. «Consegnatela lunedì. Buon weekend, ragazzi» se ne andò in silenzio, lasciandoci nel bel mezzo di una polemica.

«Buon weekend un cazzo» imprecò Patrick appena lo vide sparire. «Me lo rovino il weekend così»

«Non credevo tu avessi grandi progetti per il fine settimana Pat» puntualizza Zoey guardandolo con un sorrisetto sarcastico.

«Vaffanculo» le fa lui raccogliendo la sua roba e gettandola con rabbia nello zaino verde. «Stronza».

«Ehi, calmi, che volete che sia un saggio di 600 parole?» dico, cercando di calmare gli animi. Ricevo solo insulti.

«Parli bene tu, sei la sua preferita e poi sei la migliore del corso» si lamenta David puntandomi l'indice contro. «A noi servirà tutti e due i giorni per scriverlo. Così addio festa.»

«Che festa c'è? Val ne dà un'altra? Questa volta dress code: color topo?» domanda sarcastica Cat. Effettivamente l'ultima non era stata un granché. Gli unici ad aver rispettato il dress code siamo stati io, Cat, Matt, Seb e Lily. Gli altri se ne erano fregati. E Valentine era uscita di testa, dandosi all'alcol. Siamo andati via alle 11, siamo andati a prendere da mangiare da Tesco e ci siamo guardati un film da Lily. Poi ad una cert'ora io me ne sono andata perché gli altri avevano cominciato a pomiciare e io ero rimasta a reggere il lume a due coppie. Per vendetta ho portato con me la cassetta di Pretty Woman e due pacchetti di pop corn. Ah, scusate, non vi ho aggiornato sulla news: Cat e Matt stanno insieme da due mesi. Volevano tenermelo segreto, ma dopo che li ho sorpresi ad abbracciarsi sui gradini dell'università, non hanno retto un pomeriggio.

Comunque, non facciamo digressioni inutili.

«La festa di sua sorella» risponde David indicandomi con il pollice. «Non ditemi che non ne sapevate niente».

Già. Me ne ero completamente dimenticata. Io avrei dovuto organizzarla insieme a Cat e Jackie, la sorella di Matt, nonché la migliore amica di Holly.

Mi volto a guardare Cat che ha gli occhi sbarrati. Per fortuna non sono l'unica ad essersene dimenticata. La vedo scrollare la spalle e sistemarsi due ciocche di capelli biondi dietro le orecchie.

«Certo, siamo noi a organizzarla» dice sbuffando, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ci vediamo sabato sera.»

«Ma non era domenica?» chiede David aggrottando la fronte. Mi volto verso Cat terrorizzata, ma lei sembra completamente indifferente. Che attrice.

«Oh sì, ma sabato sera è una riunione speciale per Sarah e me per controllare che vada tutto nel verso giusto» mente con una classe che le invidio da morire. Se fossi all'oscuro della situazione crederei veramente alla sua recitazione da Oscar. David è costretto ad annuire e se ne va, seguito a ruota da tutti gli altri, tranne che da Cat, Lily ed io.

«Wow, Katie, sei veramente eccezionale» si congratula Lily quando siamo da sole. La bionda con un gesto da diva si porta i capelli biondi dietro le spalle e le regala uno sguardo sfottente. «Sono un genio incompreso» c'è una punta di tristezza nella sua voce.

E così che passiamo tutto il venerdì pomeriggio e l'intero sabato a preparare la grandiosa festa per i diciott'anni di mia sorella. Ora, come potrete capire, non ci era rimasto molto tempo per scrivere il saggio per Lettere moderne.

La domenica mattina mi sveglio alle 6 per scriverlo. Ho pochissime ore di sonno alle spalle, visto che io e Cat siamo rimaste sveglie fino alle due del mattino per definire gli ultimi dettagli per la festa. Mi ci vuole tutta la buona volontà del mondo per alzarmi dal mio confortevole, caldo e profumato letto per strisciare fino alla scrivania e scrivere il saggio. Quando mi ritrovo con la penna in mano la mia ispirazione si secca. Le uniche cose che mi passano per la mente sono i festoni argentati, i palloncini rossi, la torta crema e cioccolato. Certamente non l'ultimo argomento spiegato dal professore. Poi ho un'illuminazione. Tiro fuori il quaderno degli appunti e mi leggo quello che ho scritto venerdì mattina.

Niente. Non ce la faccio a rimanere concentrata per più di dieci minuti. Sbadiglio di continuo, gli occhi mi si chiudono. Pessima idea svegliarsi così presto.

Combattuta tra l'idea di rinfilarmi sotto le coperte gialle o il mettermi le scarpe da basket e andare a fare due tiri a canestro, rimango seduta su quella sedia scomodissima a mordicchiare insistente la penna. Passano venti minuti buoni e io non ho ancora fatto niente.

Non posso continuare così. Decido di infilarmi le scarpe nere e rosse e la tuta ed esco di casa. Ho portato il pallone da basket e il quaderno.

Vediamo se riesco a schiarirmi le idee.

Mi dirigo in bicicletta al campo a Bedford Square. La città è ancora addormentata e quindi i soliti rumori delle auto non si sentono ancora, o almeno non così vividi come al solito. Il parco è vuoto. Un leggero vento autunnale sta scuotendo le foglie che provocano una dolce melodia di sottofondo. Arrivo al campo in cemento e lego la bici ad un albero.

Okay, cominciamo.

Pian piano che il sudore inizia ad imperlare la mia fronte, lo stress per la festa se ne va. Ho la mente libera per pensare a ciò che scrivere. Man mano che mi vengono idee in mente le appunto sul quadernaccio che mi sono portata dietro. Dopo un'ora è già pieno di appunti vari, frasi a casaccio e quindi posso definirmi soddisfatta. Decido di fare altri due tiri prima di ritornare a casa.

Faccio palleggiare la palla davanti a me un paio di volte. Quando sono pronta per tirare una voce mi chiama.

Mi giro e incontro un paio di occhi azzurri che conosco benissimo. Mi sento cedere le ginocchia e tremare la mano.

«Michael!» gli vado incontro e gli getto le mani al collo. Che meravigliosa sorpresa. Gli bacio ogni centimetro del suo viso così bello, così familiare. «Mi sei mancato tantissimo» lo stringo in un abbraccio, non voglio farlo andare via. Mi era mancato il suo profumo, il suo sorriso, i suoi capelli neri, il suo sarcasmo, la sua voce.

«Perché sei venuto? Non dovevi arrivare a novembre? Come facevi a sapere che ero qui? Come...»

«Ehi, calma, una domanda alla volta. Risponderò dopo che avrai aperto questo» mi porge un sacchettino acquamarina e sorride dolcemente. Tiffany. Come mi conosce bene. «Ma come mai questo regalo?» domando mentre lo apro con cautela. La scatolina al suo interno è bianca come il latte. Oddio, fermi tutti. Non vorrà mica chiedermi di sposarlo eh? Non la apro e la tengo tra le dita con la mano tremante.

«Michael, ne abbiamo parlato tante volte del matrimonio, io vorrei aspettare di avere un lavoro stabile e...» comincio con tono leggermente severo, ma mi fermo perché lui ha iniziato a ridere a crepapelle. Almeno ora siamo sicuri che non vuole sposarmi. E io ho fatto una figuraccia.

«Oh, non è un anello tesoro, è solamente il bracciale che avevi visto a New York» mi rassicura lui ed io sospiro sollevata. Figuretta fatta, ma grande problema evitato. Apro la scatola e dentro è un fine filo d'argento con dei brillantini incastonati dentro. «Cavoli, Mike, ti sarà costato un occhio...»

«Tutto per te» dice, allacciandomelo al polso pallido. Lo faccio girare un po'. Dio lo adoro. Il braccialetto, che avete capito?

«Grazie» lo ringrazio, lasciandogli anche un bacio sulle labbra. «Andiamo a casa dai. Chissà come sarà contenta Holly di vederti» e ci incamminiamo verso casa mia.

*

«Miiiiiiikeeee» la figura snella di Holly si fionda addosso al mio ragazzo per abbracciarlo. «Venire è stato il miglior regalo di compleanno che tu potessi farmi». Il rapporto di profonda amicizia tra mia sorella e Michael è quasi strano. Loro due si trovano così bene insieme, hanno tante passioni in comune e forse dovrei essere un pochino gelosa. Oddio, ora che mi ci fate pensare... Nah...

Allora, ritorniamo a noi. In questi giorni non so che mi prende, queste digressioni mi fanno sembrare Victor Hugo ne I miserabili.

«Allora qual è il programma per questo grande giorno?» chiede il ragazzo strofinandosi le mani. Holly inizia a parlargli di come sarà strutturata la giornata e quindi spiegando anche il perché lei sia già alzata a quell'ora di domenica. Mentre parlano vedo scendere mio padre impeccabile come sempre. Anche se non indossa il completo come quando deve andare allo studio, è sempre molto elegante e di classe. Ha una camicia bianca sotto il maglioncino blu notte che gli abbiamo regalato per il compleanno e dei jeans scuri. È sempre così bello mio padre. Non ha più i capelli, è vero, però ha sempre dei bellissimi occhi blu che sia io che Holly ci sogniamo.

«Ho sentito che è arrivato Mike» mi dice in tono fin troppo serio. Oioi. Mi sa che ha preparato un discorsetto da fargli a proposito della casa dove andremo a vivere.

«Sì» confermo. «Però papà, risparmiati la ramanzina. Ormai abbiamo deciso. Anzi andremo in questi giorni visto che lui è qui» vedo il suo sguardo indurirsi ancor di più. Cela la paura dietro uno strato di austerità. Ha paura a rimanere solo. Nel giro di un mese sia io che Holly ce ne andremo di casa e lui questa cosa proprio non ce la fa a mandarla giù. Mi dispiace così tanto per lui. Mia madre gli ha spezzato il cuore in mille pezzi quando l'ha lasciato e lui, sebbene siano passati dieci anni, non è ancora riuscito a recuperare. È andato avanti solo grazie a noi. Si è dedicato alle sue figlie e al lavoro e basta in questi anni. E tra qualche mese gli rimarrà solamente l'ultimo dei due. Lo abbraccio stretto e lui ricambia.

«Chelsea non è così lontano da qui. Ci possiamo vedere anche tutti i giorni» gli sussurro e lui abbozza un sorriso.

«Ci conto pulce» sento le sua braccia stringermi e io affondo il viso nell'incavo tra il collo e le spalle per respirare ancora una volta quel profumo delizioso che indossa da una vita.

«Andiamo con gli altri» propongo e insieme ci dirigiamo verso la cucina.

15 ottobre

Oggi nessuno può rovinarmi la giornata: io e Mike andiamo a vedere la nostra futura casa. È piccolina, appena tre stanze, ma per noi adesso è perfetta. È tutto quello che possiamo permetterci visto che per un po' l'unico a lavorare sarà lui. Io probabilmente dovrò aspettare qualche mese per un'offerta di lavoro. Però per il momento va bene.

Faccio i trenta minuti che separano casa mia dalla Queen Mary con un sorriso a trentadue denti. Non vedo l'ora che siano le tre del pomeriggio.

«Buongiorno amici miei» becco per l'ennesima volta Cat e Matt a sbaciucchiarsi davanti all'ingresso dell'università. Si staccano e Matt arrossisce appena. Che timidone.

«Ciao Sarah» mi saluta spavalda lei, proprio l'opposto del suo ragazzo. Mi chiedo come facciano a stare insieme quei due se fino a tre mesi fa non facevano che battibeccare su ogni cosa. Sono le due persone più diverse che conosca. Eppure stanno insieme.

«Il prof ha corretto i saggi» annuncia Cat con un'insolita calma e io mi sento gelare il sangue nelle vene. Diciamo che non ho propriamente dato il mio massimo in quello scritto, però ne sono abbastanza orgogliosa. Allora direte voi: perché ti si gela il sangue nelle vene? Semplicemente perché sono la persona più ansiosa sulla faccia della terra ed ho sempre paura di aver sbagliato qualcosa. In tutto. Pensate che fino a poco fa sudavo freddo anche solo per chiamare la pizzeria e ordinare le pizze.

«Non ti agitare» mi calma lui con un sorriso che cerca di essere rassicurante. «Sarai andata alla grande come sempre.» Mah, speriamo. Cat mi prende per un braccio e insieme andiamo verso la nostra aula, dopo aver salutato Matt con un bacio. Cioè, lei l'ha baciato, io no ovvio. Ma vi devo spiegare proprio tutto, eh?

Ci mettiamo vicino a Lily e Seb che ci salutano stancamente. «Ho fatto schifo di sicuro» borbotta Seb mentre è intento a scarabocchiare su un pezzo di carta. Lily lo guarda impotente, ma con gli occhi comprensivi, mentre gli passa la mano sulla schiena.

«Come sei brontolone stamattina» scherza Cat, tirandogli una pacca sulla spalla. Lui le rivolge uno sguardo assassino, prima di ritornare a concentrarsi sui suoi scarabocchi.

«Ragazzi buongiorno» il professore entra in aula col solito sorriso ben disegnato sulle labbra. Posa con estrema e fastidiosa la valigetta sulla cattedra ed ne estrae ciò per cui siamo tutti in ansia. «Bene, signorina Tully, potrebbe consegnarli?» Zoey spalanca gli occhi e annuisce alzandosi con calma. Inizia a distribuirli in ordine alfabetico e quelli prima di me esultano tutti contenti, Seb compreso.

«Signor Cavendish mi congratulo con lei, il suo era il migliore» vedo lo sguardo del mio amico illuminarsi e Lily lo abbraccia dolcemente.

«Lo sapevo che sarebbe andato bene» gli disse la sua ragazza, lasciandogli un bacio sulla guancia. «Meriti un premio» ridiamo insieme, mentre Zoey fa scivolare lentamente sul mio banchino il mio saggio. Appena abbasso gli occhi su di esso sento il sangue gelarsi nelle vene e il cuore sprofondarmi nel petto. A malapena sufficiente. Un punto in meno e non lo sarebbe stato. Improvvisamente tutto attorno a me diventa ovattato, le voci, i rumori, non mi rendo nemmeno conto che Cat mi sta parlando.

«Ehi, sto dicendo a te» la sua mano mi sventola davanti al viso e io mi risveglio dallo stato di trance in cui ero caduta. «Com'è andata? Alla grande immagino» si sporge appena per leggere il voto e io cerco di coprirlo col gomito con nonchalance. «Appena meno di quanto aspettassi, ma mi accontento.» le mostro un sorriso tirato e anche lei lo fa, ritornando a chiacchierare con Lily, mentre io ritorno nel mio mondo. O almeno è quello che vorrei fare. I miei occhi incrociano quelli del prof che mima un mi dispiace. Stronzo. Ma io dico, come si permette di fare quella specie di finta vittima?

Il mio odio per lui è ai massimi storici. Se prima le ragioni per odiarlo erano piuttosto futili (sì, lo ammetto, erano cretine), adesso no. Sicuramente no.

Per tutta la lezione non riesco a sentire una parola di quello che dice. Sono troppo concentrata a cercare di farlo esplodere con la forza del pensiero, ma, ovviamente, tutti i tentativi sono inutili.

Alla fine, quando sono già tutti andati via, rimaniamo ancora una volta soltanto io e lui. Rimango seduta al mio posto più del necessario. Il professore invece se ne sta seduto sulla sua sedia a sistemare dei fogli e far finta di niente. Lo stronzo.

«Sarah, pensi di passare tutta la giornata seduta lì?» chiede senza scostare gli occhi dalle sue carte. Ma come si permette? Agli altri dà del lei e a me chiama per il mio nome e, oltretutto, dandomi del tu. Okay questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Raccolgo furiosa tutta la mia roba e mi posiziono davanti a lui.

«Mi può cortesemente spiegare come mai un saggio perfetto, senza nemmeno un tocco di penna può essere a malapena sufficiente?» gli sbatto il mio compito davanti e lui non fa una piega. Non alza nemmeno lo sguardo. Continua a fare mucchietti con dei fogli e poi infilarli in una cartellina dai fogli trasparenti. Quando finisce la infila nella sua borsa e si decide a guardarmi con le sue iridi chiare puntate sulle mie.

«Metti poca passione in quello che fai Sarah» spiega lentamente. «È vero, il saggio era grammaticalmente corretto e tutto non faceva una piega. Ma era freddo, discostato, senza nessun tratto personale. Scritto da una macchina in pratica.»

Cosa diavolo vuol dire? Ma che si è fumato? «Il saggio deve essere discostato» puntualizzo stizzita. Lui scuote la testa e abbozza un sorrisetto.

«Parlo del tuo stile. Sei fredda, Sarah, quando scrivi. Devi lasciarti andare» prese la sua borsa e se la mise a spalla. «Devo andare a casa, mia moglie mi aspetta» sorrise, avviandosi verso l'uscita. Ma io sono più veloce e lo blocco.

«Allora mi dica dove sbaglio, mi aiuti» chiedo, fissando gli occhi sui suoi. Rimaniamo a lungo così, senza dire parola, senza fiatare quasi.

«Domenica sul Millennium Bridge. Alle tre» e si allontana a grandi falcate, lasciandomi lì come una cretina, con mille domande per la testa.

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Sono tornata!! 
Il capitolo che avevo preparato era lunghissimo, perciò ho deciso di dividerlo in due parti per farlo un po' più "snello".
La seconda parte arriverà abbastanza presto, lo prometto!
Sto cercando, con l'anno nuovo, di riuscire a scrivere un capitolo alla settimana; vediamo se ci riesco😉
Spero che questo vi sia piaciuto😊
Fatemi sapere che ne pensate!!
Un bacio e buona settimana!
Restart 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Quel giorno a pranzo mi lamento del mio voto con Mike. Lui ascolta paziente e ho una grande compassione per lui. Anche ad Holly e Gwen è toccato sorbirsi tutto il mio brontolare. Nessun altro ha avuto occasione di parlare. Oppure non ha semplicemente avuto il coraggio di interrompermi. Alla fine mia sorella non ce la fa più e cambia argomento.
«Mike, hai visto la Champions ieri sera?» domanda al mio ragazzo che sembra le sia eternamente grato.
«Oh sì. Bella squadra l’Inter quest’anno. Non credo che abbiamo alcuna possibilità di arrivare nemmeno agli ottavi quest’anno.» commenta finalmente interessato ad un argomento di conversazione. Michael vive di calcio e tennis. E animali, ma quelli sono principalmente il suo lavoro. Poi arrivo io. Quarto gradino del podio, medaglia di legno. È vero che non può pensare solamente a me e alla nostra relazione, ma diamine, almeno contare un po’ più degli animali?
Sto impazzendo. E questo ragionamento ne è la prova. Devo calmarmi e smetterla di pensare, devo fare qualcosa che mi faccia liberare da tutto lo stress che mi ha regalato stamattina il Professore.
«Vado a giocare a tennis oggi pomeriggio. Chi vuol venire?» cala il silenzio e tutti mi guardano stupiti.
«Tesoro tutto okay?» mi chiede mio padre toccandomi il braccio. Al contatto io lo ritraggo e abbozzo un sorrisetto. «Va tutto alla grande. Io ho solamente chiesto se qualcuno vuole venire a giocare a tennis con me stasera» spiego facendo schioccare la lingua sul palato un paio di volte.
«Hai un tono leggermente acuto» mi fa notare Michael. «Comunque io non posso, abbiamo già prenotato un campo Matt per le quattro».
«Okay, chiamo Daniel e sento se è libero» annuncio candidamente e subito lo vedo irrigidirsi. Odia Daniel, il mio ex istruttore di tennis, perché crede che abbia una cotta per me e tutte le volte che gioco con lui crede ci provi. In realtà non sa che Daniel è felicemente sposato con una donna favolosa e ha due gemelli.
«Va bene, vai a giocare con Daniel» concede a denti stretti.
Quel pomeriggio gioco con troppa foga. Tiro continuamente fuori campo e il mio servizio non entra mai. Daniel rischia un paio di volte di prendersi una mia palla dritta nello stomaco.
«Va bene che devi scaricare la rabbia per un brutto voto, ma non la devi scaricare addosso a me, Sarah. Potevi fare boxe invece che tennis se volevi picchiare qualcosa» mi dice sorridendo il mio amico, sedendosi accanto a me e bevendo mezza bottiglietta d’acqua.
«Scusa Dan, oggi è proprio una giornata terribile. Dovevo andare con Mike a vedere la casa, ma l’agenzia ha rinviato a domani perché non i proprietari non hanno dato disponibilità. E in più quello che già sai» mi passa la mano lungo la schiena e mi sorride dolcemente.
«Non essere triste, vedrai che tutto andrà meglio. Tutto si risolve» mi consola, ma io non ci casco. Lo so che niente si sistemerà, o perlomeno non come voglio io.

Quella domenica mi faccio trovare puntuale sul Millennium Bridge alle tre. Lui, al contrario, è in ritardo. Come al solito.
C’è fin troppo vento per i miei gusti e per questo mi sono avvolta la mia sciarpa di cachemire attorno al collo fin sotto il naso. È troppo freddo per essere i primi di ottobre, soprattutto dopo l’estate che ha appena fatto. Mi appoggio al parapetto e chiudo gli occhi.
«Esprimilo in versi»  sbatto velocemente le palpebre per mettere a fuoco e lo vedo benissimo davanti a me. Sorride, tenendo in mano un sacchetto di nocciole pralinate. È vestito in maniera impeccabile come al solito. Cioè impeccabile per uno nato negli anni venti.
«Che vuol dire esprimilo in versi?» domando un po’ stizzita. Okay, lo ammetto, sono un po’ con la coda di paglia, ma sono domande da farsi queste?
Lui non si scompone, anzi, s’infila una nocciola in bocca. «Prova a dirmi quello che senti in questo momento». Sbuffo e alzo gli occhi al cielo. Ma io dico, mi sta trattando come una scema? Queste domande me le faceva la maestra in seconda elementare. Erano i temi che odiavo di più in assoluto, semplicemente perché non riuscivo mai a mettere per iscritto quello che provavo. Secondo me non ha senso. Le emozioni sono state create per vivere dentro di noi, qual è lo scopo dirle agli altri? Nessuno.
Lo guardo con la coda degli occhi e noto che sta ancora aspettando la mia risposta, ma si è appoggiato al parapetto e sta osservano la nuvolosa Londra, mentre mangiucchia le sue noccioline.
«Posso averne una?» domando, ma lui scuote la testa.
«Quando avrai risposto alla mia domanda». Sbuffo nuovamente, appoggiando i gomiti sul ferro e guardando verso il Tower Bridge. Rimaniamo per circa dieci minuti così senza dire niente, finché io non mi stufo del silenzio. Okay, riflettiamo per bene. Cosa sto provando? Rabbia, voglia di mangiare le noccioline prima che le finisca, una punta di fame, odio profondo verso di lui. Mh, mi sembra di aver fatto una bella raccolta di emozioni.
«Rabbia, odio…» non mi fa nemmeno finire che si mette a ridere. Che maleducato.
«Non nei miei confronti, Sarah» si lascia scappare un’altra mezza risata. «Dimmi quello che provi nel vedere Londra con questo cielo come sfondo» me la indica con la mano dritta davanti a sé e io mi concentro sul profilo della mia città.
«Malinconia, tristezza, sento odore di casa. Ma la vedo anche come una cella da cui non mi pare d’essere capace di uscirne» dico, lasciandomi un po’ andare, trasportata dal mio cuore. Il professore mi sorride contento, porgendomi un pacchetto pieno di noccioline. «È il tuo premio» ed io lo accetto ben volentieri.
«Grazie»
«Bene, io ho finito per oggi. Vado a vedere uno spettacolo al Globe, vuoi venire anche tu?» mi domanda sistemandosi la sciarpa in tartan attorno al collo. Patriottico. Penso che non sia una cattiva idea alla fine. Ho sempre amato l’atmosfera dentro quel teatro, mia madre mi ci portava sempre quando ero piccola. Non andavamo nel pit perché ero ancora troppo bassa, ma nelle tribune. Poi mi viene in mente Michael, al fatto che si è fatto New York – Londra solo per stare con me e io non posso dedicargli tanto tempo a causa dell’università. Però lui è allo stadio con Holly, quindi non possiamo stare insieme comunque.
«Okay» accetto e lui si fa scappare un sorrisetto compiaciuto.
Hamlet è sempre stata la mia tragedia shakespeariana preferita. Il personaggio di Amleto è così bello, intrigante, brillante, così come l’attore che lo interpreta. Con i suoi occhi chiari e i capelli biondissimi che gli toccano appena le spalle, è così affascinante. Vengo assorbita totalmente dalla sua voce fin dall’inizio della rappresentazione  e non riesco a distogliere lo sguardo dalla sua carismatica performance.
Mi accorgo che è finita solamente quando parte il secondo scroscio di applausi. Alcune persone stanno ancora applaudendo quando altre si apprestano ad andarsene. Io non voglio, voglio rimanere qui, in questo posto meraviglioso.
«Piaciuto, eh?» lo vedo sorridere maliziosamente e non vorrei dargli questa soddisfazione, ossia di credere che mi sia piaciuto così tanto. Ma proprio non ce la faccio a nascondere le mie emozioni così bene come sono abituata a fare. Mi sembra d’essere stata quasi scorticata e che la mia interiorità sia stata esposta a tutti gli occhi degli sconosciuti. Non voglio che mi veda così.
«Mh, sì»
«Sarah, quello che ti ho chiesto di fare prima vale ancora. Esprimiti, forza» mi esorta con un sorriso che gli arriva da orecchio ad orecchio.
«Okay, glielo concedo. L’ho amato. Ho sempre amato l’Amleto e l’attore che lo ha interpretato è stato veramente… Travolgente»
«Ti ringrazio» una voce profonda e segnata da un forte accento di Liverpool. Mi volto di scatto e incontro due occhi azzurri che mi guardano sorridenti. «Ciao»
«Ciao» ricambio il saluto, arrossendo. Lui mi porge la mano e io la stringo timidamente.
«Nathan»
«Sarah» passano dei momenti estremamente imbarazzanti in cui nessuno dei due dice niente, ma vorremmo, ma non sappiamo come fare. Poi penso a Michael, e subito tutti i pensieri impuri su Nathan vengono forzatamente rinchiusi in un angolo della mia mente.
«Sarebbe bello andare a bere qualcosa insieme, eh? Che ne pensi?» propone alla fine, e la cosa gli costa visibilmente un grande sforzo.
«Come amici?» domando, e lui accusa il colpo. Ma non può far altro che rispondere con un sorriso.
«Certo, come amici. Ti lascio il mio numero» mi porge un fazzoletto di carta con scarabocchiato un numero sopra. «Spero tu mi chiami, Sarah» mi fa un occhiolino e si allontana senza lasciarmi dire parola.
 
 

2014, 31 agosto
«A che ora ci vediamo?» la sua voce mi arriva gracchiante come non mai. Deve essere ancora a casa di sua madre, lì prende terribilmente.
«Alle sei, alla fine di Oxford Street, come sempre» rispondo velocemente, quasi distrattamente, mentre finisco di scrivere il programma della prossima settimana sull’agenda di Michael.
«Okay, a dopo tesoro» attacca frettolosamente. Io butto il telefono sul divano vicino a me e chiudo gli occhi. Il discorso che mi sono fatta l’altro giorno allo specchio vale ancora, ora più che mai.
Sono una persona terribile.
«Signora, a che ora esce stasera? Perché oggi pomeriggio vorrei andare a trovare mio nipote che si è rotto la gamba» la figura minuta di Daisy entra silenziosamente nello studio e mi guarda con i suoi occhietti vispi, incorniciati da pesanti rughe.
«Esco verso le cinque e mezza. Quindi fino a quell’ora sei libera; vai e portagli un mazzo di fiori anche da parte nostra» lei mi ringrazia con un cenno del capo e poi esce nella stessa maniera in cui era entrata.
Mi ritrovo da sola in quell’enorme studio. Il silenzio che domina casa mia è inquietante. Non voglio passare qui un altro minuto. Prendo di nuovo il cellulare e chiamo mio padre.
«Ciao papà, sei a casa? Volevo venire oggi pomeriggio con Gwen»
«Ma certo tesoro. Anzi, dovrebbe venire anche Holly a pranzo con gli altri, vi unite a noi?»
«D’accordo, tra venti minuti sono lì, a dopo». Rilancio il cellulare sul divano e vado a preparare mia figlia.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Sarah – Damien Rice, The Blower’s Daughter
2003
«Allora? Non mi racconti niente della tua uscita domenicale col prof?» sussulto perché non l’avevo sentita arrivare, lei e il suo passo felpato. Cat scuote la testa all’indietro e la cascata di capelli biondi ondeggiano freneticamente davanti alla sua schiena, poi mi guarda ammiccando ad un sorrisetto malizioso.
«Shh, abbassa la voce» la ammonisco, continuando a sistemarmi un po’ il trucco.
«Okay, scusa, ma io voglio sapere cos’è successo. È passata quasi una settimana e tu non mi vuoi dire niente» acconsente, avvicinando il suo viso al mio e obbligandomi a fermarmi.
«Cat, abbiamo lezione adesso, ne parliamo dopo»
«Non me lo vuoi dire! Ah! C’è qualcosa che nascondi!?» scuoto la testa vigorosamente, ma a lei questo non basta. Vuole tutto il resoconto dettagliato, da buona ciacciona. «È una promessa?» mi chiede sbattendo un paio di volte quelle ciglia lunghissime e bellissime.
«Ma cosa? Io non ti ho promesso niente»
«Che me lo dici dopo. È una promessa?» annuisco stancamente e lei torna a sorridere. «Andiamo a lezione, via».
Non riesco a sopportarlo. In realtà non è che non riesco proprio a sopportarlo, né proprio lui. Ma non riesco a sopportare questo mio dissidio interiore. Mi spiego meglio; vorrei tanto adorarlo, ma c’è una parte di me, che punta i piedi e mi impone di odiarlo prepotentemente. E io non vorrei, veramente. Perché ha una passione immensa per quello che insegna, la letteratura, l’arte e professori come lui sono gemme rare. Ma al contempo non sopporto il fatto che si sia fatta quest’idea sbagliata di me. Cioè che sia un pezzo di ghiaccio e che quindi i miei scritti ne risentano. Non voglio finire l’anno come una studentessa mediocre. Il mio grande orgoglio m’impone di dare sempre il massimo e quando prendo una valutazione che sia inferiore a quella a cui pensavo ci rimango enormemente male. Son fatta così, purtroppo. Testarda, e orgogliosa fino all’osso.
«Sarah? Che fai, non vai a pranzare?» la mano del professore mi ondeggia davanti agli occhi. Mi risveglio come da un sogno. Improvvisamente quella tiepida bolla in cui mi ero rinchiusa a rimuginare, scoppia. «Stai bene?» sbatto un paio di volte le palpebre e finalmente riesco a mettere a fuoco.
«Ehm, sì, grazie» rispondo piano, iniziando a mettere i libri e i quaderni dentro la mia borsa di tela rossa. Il professore torna alla cattedra, ma sento il suo sguardo ancora puntato addosso. «Le succede spesso questa specie d’“imbambolamento”?» mi chiede mentre sistema le sue cose dentro la consunta valigetta in pelle.
«A volte. Inizio a pensare a molte cose e mi estranio dal mondo reale. Faccio digressioni su digressioni e alla fine mi sembra di essere dentro una bolla inaccessibile al mondo» abbozzo un sorriso, fermandomi un secondo per guardarlo negli occhi. Mi osserva tristemente, con le sue iridi azzurre puntate sul mio volto.
«Succede anche a me a volte» dice a bassa voce. «Esco per quelli che sembrano solamente pochi secondi, invece possono essere ore intere. Mia moglie non lo sopporta questo mio atteggiamento» conclude, arricciando le labbra in un sorriso amichevole. C’è un po’ di silenzio tra noi, ci limitiamo a fissarci negli occhi, ma alla fine lui decide di parlare. «Domenica prossima stesso allenamento, stesso posto?» e io mi limito ad annuire in silenzio. Non dice altro e se ne va, gettando uno sguardo al mio viso per l’ennesima volta prima di varcare la porta.

«Okay, hai un quarto d’ora per parlare prima che arrivi Matt» mi avverte Cat tra un morso al suo sandwich e l’altro. «Spara tutto».
«Okay, va bene, mi arrendo» mi schiarisco un paio di volte la voce prima di cominciare. «Siamo stati un po’ sul Millennium Bridge e abbiamo parlato un po’ e mangiato le noccioline quelle che ti piacciono tanto. Poi mi ha portata a vedere l’Amleto al Globe». La vedo sorridere, con gli occhi che le si illuminano. Lo fa sempre quando viene a contatto con un gossip interessante.
«Che bello! Tu adori quel posto! Oddio sembra un vero appuntamento!» stilla stringendo i pungi vicino al suo viso. Mi scappa una mezza risata nel vederla così.
«Sei fuori come un terrazzo» le dico, ma lei pare non farci troppo caso. Alza le spalle e dà due grandi morsi al suo panino.
«Poi dell’altro mi racconterai un’altra volta, okay? Quando sarai più pronta» sussurra, senza nemmeno guardarmi, perché i suoi occhi sono concentrati sul sandwich che tiene in mano. Io non riesco a rispondere, boccheggio solamente. Come fa a sapere di Nathan? “Mi conosce fin troppo bene” è la risposta.
«Come fai a saperlo? Io non te ne ho accennato» puntualizzo. Lei finalmente alza lo sguardo e mi fissa negli occhi.
«Ti ho visto Sarah» risponde semplicemente, ma c’è un po’ di durezza nella sua voce. Come se mi stesse rimproverando. «Non fare idiozie. Mike è un ragazzo d’oro, saresti una cretina a fartelo scappare. E io non aggiungo più niente perché sta arrivando Matt.» Cambiò velocemente espressione e sul suo volto apparve un dolce sorriso sognante, un sorriso che dedica solamente al suo ragazzo.
«Ciao bellezze» si siede accanto a Cat e si sporge per darle un bacio sulla guancia. «Che mi raccontate?». Potrei anche iniziare a parlare, ma la mia amica mi ferma e inizia a blaterare di idiozie varie, cose come feste, riunioni, un monte di roba da studiare. Sono nella loro bolla felice, la stessa che io uso per estraniarmi dal mondo esterno, ma più bella. Finisco il mio panino e la mela mentre loro non mi degnano neanche di uno sguardo. Se ne stanno lì a rimirarsi, a parlare delle loro cose, a darsi due baci ogni tanto. Che brutto fare il terzo incomodo. Vorrei che Michael fosse qui, vorrei anche io qualcuno da abbracciare e sbaciucchiare durante la pausa pranzo. Invece mi trovo con quattro amici, tutti fidanzati e io sono il quinto incomodo. Almeno Seb e Lily ora non ci sono.
Li saluto frettolosamente, inventandomi la scusa del bagno e mi dirigo verso la aula della prossima lezione.

Quel pomeriggio vado a giocare a basket con Mike, anche se in realtà non ne ho molta voglia. Lui, invece è carico e per la prima volta mi straccia.
«Bellissima, che hai?» mi chiede baciandomi sulla guancia. Io alzo le spalle, per fargli capire che non è niente, ma so che non è niente. Mi sento questo strano rimescolio allo stomaco da stamattina, ma non riesco a decifrarlo. In questo momento ho solo voglia di andare a casa a farmi una doccia e leggere un libro.
«Mike andiamo a fare un giro in centro stasera? Ho proprio bisogno di svagarmi» propongo mentre torniamo a casa, uno accanto all’altro, camminando piano. Lui accetta subito, dicendo che sperava che gli chiedessi di fare qualcosa del genere da quando è arrivato.
Forse questa strana malinconia che sento dentro è dovuta al fatto che debba ripartire e che non lo potrò vedere fino a Natale, visto che non può ritornare a novembre. Vorrei che stesse sempre qui con me, poterlo chiamare ad ogni ora, senza la paura di svegliarlo. Una parte di me vorrebbe sempre sapere dov’è, con chi è, vorrei conoscere i suoi amici, vorrei conoscere la gente con cui esce occasionalmente nella bella New York, magari anche quelle meravigliose ragazze americane che a malincuore ha dato due di picche perché non mi voleva tradire.
Non sono mai stata una tipa gelosa, anzi. Ho sempre criticato coloro che morivano dalla voglia di conoscere qualunque cosa facesse il partner, con chi uscisse, con chi andasse a bere una birra al pub il venerdì. E piano piano mi sto trasformando in una di queste persone. E io non voglio.
Quella sera quindi usciamo insieme ai soliti quattro, più altri ragazzi nostri amici, cioè soprattutto amici di Michael. C’è Chris, il suo migliore amico, Hugh (per cui avevo una cotta colossale, ma questo non lo dirò mai a Mike), il ragazzo australiano conosciuto al liceo e suo compagno di squadra di calcio, Lea e Molly, della mia squadra di basket del liceo e poi dovrebbe arrivare un amico di Micheal che non ho mai conosciuto, un amico d’infanzia che viveva accanto a casa di sua nonna del Devonshire. Quest’ultimo, tra parentesi, è in ritardo.
«Ha detto che ha avuto dei problemi a lavoro, ma che ce la farà per la cena. Intanto andiamo a berci qualcosa al bar, tanto il tavolo non è ancora pronto» Mike mi bacia sulla fronte e mi passa la mano tra i capelli, credendo di fare un gesto carino. Ma io potrei picchiarlo. Mi ci sono volute una grande quantità di tempo e pazienza per farli così belli mossi e rischia di poterli spiaccicare solo per fare un gesto totalmente inutile. Gli lancio un’occhiata di fuoco e lui capisce all’istante, visto che smette di carezzarmi.
Siamo tutti a bere tranquilli, quando Chris dice di aver visto “l’anello mancante” del gruppo dall’altra parte della strada. E io esulto interiormente. Finalmente si mangia! Ma non faccio in tempo a distendere le labbra in un sorriso tra il contento per l’arrivo del cibo e cortesia, che subito mi si spegne appena vedo questo amico misterioso.
Merda!
Il cuore comincia a battere all’impazzata e io vorrei sotterrarmi. Cerco con lo sguardo Cat, che è troppo impegnata in una conversazione sui film di Batman con Hugh e Lea. Tento con Lily, ma lei si sta presentando all’ultimo arrivato. Mi hanno abbandonato! Aiuto!
Penso freneticamente come potrei evitare di parlarci, d’incontrarci con lo sguardo. Svenire? No! Peggio! Tutta l’attenzione sarebbe focalizzata su di me e poi magari mi sveglierei tra le sue braccia che veloci hanno impedito che sbattessi la testa a terra e ci guarderemmo negli occhi e… NO! Sarah, basta fantasie! Hai un ragazzo!
Sennò? Che potrei fare? Con la coda dell’occhio lo vedo superare tutti gli ostacoli delle presentazioni e intanto io cerco di nascondermi dietro Hugh e il suo fisico da nuotatore.
Pensa, Sarah, pensa ad una via di fuga! Scappare dalla finestra? No, sono sigillate.
Andare in bagno e poi filarsela con la scusa che mi sono sentita male? Eh, questa non è male, anche se mi perderei tutta una serata meravigliosa dove siamo finalmente tutti insieme, cose che non succedeva da mesi. Allora le opzioni sono due: o affrontare il problema, o scappare dal bagno.
Non ci penso neanche mezzo secondo. Scappare dal bagno.
Cerco di sgattaiolare verso la porticina nera che porta al corridoio delle toilettes, ma sento una mano stringermi la spalla, costringendomi a fermarmi. Merda! Il mio piano è andato in fumo!
Mi volto e lo vedo, davanti a me, più bello che mai. I suoi occhi stasera sembrano ancora più brillanti con questa luce soffusa del ristorante. Indossa un completo blu, che oltre a mettere in risalto le sue iridi, esalta anche il colore meraviglioso dei suoi capelli. Emana un profumo dolce, ma allo stesso tempo sicuro, forte.
Vedo Michael sorridente e orgoglioso al suo fianco, lo vedo parlare, aprendo velocemente la bocca, ma non riesco a sentire una parola di quello che dice.
Anche lui sembra un po’ scombussolato nel vedermi. Me ne sono accorda dallo sguardo scioccato che mi ha rivolto non appena ci siamo finalmente visti in viso. Sembra emanare sicurezza, ma lo vedo profondamente a disagio. Vorrebbe andarsene, ma non sa come fare. Vorrei proporgli mentalmente la fuga dal bagno, ma non sono ancora telepatica, purtroppo.
«Sarah, posso presentarti il mio più vecchio amico? Lui è…»
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Sarah – Elton John, Your Song
«Sarah, lui è Nathan» lui allunga timidamente la mano e stringe la mia, già tesa in avanti. Mi rivolge un sorrisetto amichevole, ma nei suoi occhi leggo la paura più pura. Vorrebbe scappare. Eh, non dirlo a me.
«Bene vi faccio conoscere ancora un po’ tanto ha detto la host che per il tavolo dovremmo aspettare ancora un poco» Michael se ne va da Chris e ci lascia soli, liberi di sclerare.
«Che situazione da commedia americana» ridacchia, non riuscendo ancora a mettere completamente a fuoco la situazione. «Eri proprio l’ultima persona che potevo aspettarmi di vedere insieme a Mic». CHE COSA VUOL DIRE CON CIÒ? Non mi sta prendendo per il culo, vero?
«Scusa perché credi che non sia alla sua altezza?»  attacco inviperita, pronta a fare una scenata essenzialmente inutile, se non per il mio orgoglio ferito. Ma lui scuote la testa, continuando a mostrare quel suo sorriso bellissimo che mi ha mandato a benedire le ovaie quasi una settimana fa.
«Credo tu sia troppo bella e troppo sveglia per uno come Mic» risponde sorridente. Okay, ciccio, mettiamo in chiaro le cose. Non ti puoi permettere di sorridermi così, soprattutto col mio fidanzato vicino. Né tanto meno dire delle cose del genere. Lo prendo per il braccio e lo porto fuori, utilizzando la scusa che avevo bisogno di aria, mentre lui di fumare. Michael sembra neanche sentirmi, annuisce appena.
Quando siamo fuori dal ristorante gli rivolgo un’occhiata di fuoco. «Come ti permetti? Stai forse cercando di flirtare con me? Ti ricordo che non è successo niente domenica» lo rimbecco, cercando di strillare il meno possibile. Lui sembra confuso, ma allo stesso tempo divertito da una pazza come me che sta facendo una scenata per una cosa che probabilmente si è solo immaginata.
«Sarah, calmati, l’hai appena detto tu, domenica non è successo niente di niente. E nemmeno due minuti fa, stavo solamente sorridendo e dicendo la verità. Conosco Mic molto più di chiunque altro e non mi aspettavo qualcuno come te come fidanzata. Stop. Penso che sia molto fortunato ad averti. Sei tu che stai facendo una stupida scenata» spiega lentamente, gesticolando un poco, ma si vede che sta dicendo la verità.
«Come fai a dire che conosci Michael meglio di chiunque altro? Meglio di Chris e di me?»
«Sono cresciuto insieme a lui a Plymouth» rispose semplicemente, leccandosi le labbra screpolate. Ora, ditemi voi se non sta flirtando. Non ti lecchi le labbra in maniera sexy quando stai parlando con una donna semplicemente perché le avevi secche. No, non si fa. Un po’ di decoro, suvvia.
«Vi vedevate solo in estate e fino ai quindici anni. E poi se eri tanto importante per lui, perché non mi ha mai parlato di te?» Yes! Un punto a favore di Sarah Habbott! Nathan Wright zero. Ah – ah.
Lo vedo pure smettere sorridere, come se stesse per riaffiorare un ricordo estremamente doloroso per lui. Rimane qualche secondo di troppo a fissarsi le punte delle scarpe, come se stesse scegliendo le giuste parole per dirmi la verità.
«Non sei nessuno tu. Non devo dirti niente» sussurra alla fine, tirando su col naso. Non mi dà nemmeno il tempo di replicare che se ne va dentro il ristorante, lasciandomi lì come una stupida, con i sensi di colpa che mi mordono lo stomaco e la voglia di tagliare questa linguaccia che mi ritrovo. Rientro lentamente, col passo pesante di un condannato a morte.
«Ehi, Wendy, ci hanno dato il tavolo finalmente, dai forza, entra dentro!» Michael mi mette la mano dietro la schiena e mi accompagna alla mia sedia. Ma sento che i suoi polpastrelli sono come carboni ardenti che mi bruciano la pelle, riuscendo perfino a superare gli strati del cappotto e dell’abito. Mi nasconde una cosa da tre anni e io ne vengo a sapere solo da un suo ex-amico che poi è ritornato ad essere suo amico per chissà quale ragione. Nonostante questa sensazione terribile mi attanagli e non riesca a pensare ad altro, cerco di far buon viso a cattivo gioco. Mi siedo sorridente dalla parte opposta di Nathan, che sento rivolgermi un paio di occhiate taglienti durante la serata, ma io tento di non farci caso.
2 novembre 2003, domenica

Monto in sella alla mia bicicletta e pedalo con più forza che ho. Il freddo si è abbattuto tutto d’un colpo su Londra, non lasciando scampo ai più deboli di salute. Anche Gwen, a causa della sua età, è ferma a letto da un paio di giorni, per questo ad occuparsi della casa è papà quando non lavora. Io e mia sorella invece ci prendiamo cura di lei, come ha fatto per tanti anni lei con noi. Holly presidia la cucina, rivelandosi una cuoca niente male. Io pulisco un po’ insieme a papà, quando lo studio mi lascia degli attimi di respiro.
Michael è partito quasi due settimane fa, ma da quel venerdì sera le cose tra di noi sembrano un poco diverse. Non mi manca più come prima. C’è un moto di rabbia contro di lui represso in me, pronto ad esplodere. Lui pare essersene accorto fin dalla mattina dopo e per questo mi è stato un po’ meno vicino gli ultimi giorni. Non abbiamo parlato di quello che mi ha detto Nathan, eppure sono sicura che Michael sappia che io so qualcosa. È una logica complessa, ma spero abbiate capito.
L’unica gioia che mi è rimasta, credeteci o no, sono i pomeriggi durante i quali mi esercito con il Professore. Ci vediamo più spesso, tre volte alla settimana, ed ogni volta in un posto diverso. Oggi ad esempio, mi port- ehm, andiamo alla National Gallery.
Non è che mi abbia emozionato più di tanto questa scelta, lo devo ammettere. Ma devo ammettere anche la mia colpa di esserci stata una sola volta e di essermi annoiata a morte. Avevo quindici anni e l’unica cosa bella della Galleria, secondo me, erano i grandi divani su cui ho rischiato di fare un pisolino. Non sono mai stata una fan della pittura, nonostante sia un’amante dell’arte. Ho sempre preferito la scultura, credo che fosse semplicemente incredibile quello che riuscivano a fare gli artisti con un blocco di marmo. Non ho neanche tentato a ritornare, mea culpa, alla National Gallery, neanche per sbaglio. E invece oggi ci torno, con lui.
Devo ammettere che è una bella persona, ma questo né lo dirò a lui, né ad alta voce. Questo rimane un segreto tra noi, inteso? Ecco, patti chiari e amicizia lunga. Deve ancora credere che io provi un grande disprezzo per lui.
Arrivo a Trafalgar Square prima di quanto credessi. Non sono nemmeno le tre. E lui non c’è, non sia mai.
Lego la bicicletta alla ringhiera e mi siedo sui gradini ad aspettarlo. Che bello questo posto, che bella Londra. Certe volte, quando la osservo in silenzio, non riesco capacitarmi della sua bellezza. È sicuramente una città che diventerà senza tempo, non come New York che è in continuo cambiamento. Eppure certe volte vorrei scappare da questa gabba di nebbia opprimente.
Il vento inizia a soffiare ancor più prepotentemente, gli sbuffi sembrano uno più gelido dell’altro. Mi stringo, per quanto posso, nel mio cappotto, ma questo non pare reggere i colpi. Affondo il volto nella sciarpa e impreco contro il prof e la sua brutta abitudine di essere sempre in ritardo.
«Ohi, questa era pesante. Devo stare attento ad attraversare la strada per un po’, soprattutto se c’è una certa squilibrata in bicicletta» il suo accento scozzese arriva alle mie spalle come una ventata gelida. Merda, ha ascoltato tutto. Alzo lo sguardo e lo vedo in piedi accanto a me, con i soliti vestiti che sanno di vecchio, i soliti capelli in ordine, il solito sorrisetto dolce sulle labbra, i soliti lucenti occhi azzurri. Indossa un lungo cappotto verde che gli arriva fino alle ginocchia e attorno al collo ha la solita sciarpa in tartan. Ma questa volta non è la solita rossa e blu. Questa è verde e blu, due colori che gli stanno sicuramente meglio. Mettono in risalto il colore delle iridi e il biondo dei capelli. Per quanto possa sembrare vecchio, incrostato nella muffa, non riuscirei a vederlo con abiti più moderni. Lui è così, è la sua personalità. È bell- ehm, concentrati sul duro lavoro da fare, su Sarah! Non distrarti.
Mi porge una tazza in cartone, continuando a sorridere. «È una cioccolata calda. Ho pensato fosse l’ideale per una giornata come questa» mi spiega con calma, come fa di solito. «Andiamo lì sotto a berla. Quando abbiamo finito, entriamo» mi tende la mano per aiutarmi ad alzarmi e io lo ringrazio anche per la cioccolata.
Che vi dicevo? È proprio una bella persona e no, questa volta non mi autocensuro. Sembra arrivato dall’Ottocento, con i suoi modi composti, ordinati, la sua gentilezza infinita e la sua galanteria che ormai è rarissima.
«Hai già iniziato un po’ da sola, oppure mentre aspettavi ti sei dedicata solo all’imprecazione agonistica?» ridacchio, anche se in realtà la battuta era un po’ fiacca. Ma allora perché l’ho fatto? Se devo essere sincera, non lo so nemmeno io. Ho solo creduto che fosse la cosa più giusta da fare. No, in realtà non lo so neanche io. Sono stanca, troppo stanca in questo periodo, che mi lascio andare anche quando non voglio. Mi scolo la cioccolata più veloce che posso, nonostante sia bollente, ma io sembro non sentirne il calore.
«Wow, avevi sete, eh?» scherza, bevendo l’ultimo sorso della sua prima di buttarla. Ma io non riesco a farmi spuntare nemmeno mezzo sorriso sul volto. Sento la fronte aggrottarsi come quando sono estremamente triste.
 «Va tutto bene Sarah? Se oggi non te la senti, possiamo non fare niente, fare solamente un giro, guardare un po’ i quadri e poi dopo a prenderci un thè, eh? Che ne dici?» domanda e poi fa un gesto che non avrebbe dovuto mai fare. Mi stringe delicatamente le braccia con le sue mani e io sento una scarica elettrica partire dai suoi polpastrelli e diffondersi in tutto il mio corpo. Sembra che anche lui l’abbia sentita, perché l’espressione sul suo viso è cambiata notevolmente. Pare essere messo di fronte ad una verità che non voleva sapere. Ce ne rimaniamo un po’ così, a fissarci negli occhi e a respirare piano, con le sue dita attorno alle mie braccia. Delle nuvolette di vapore escono dalle nostre labbra, che non decidiamo a muovere per dire una singola parola.
Solo dopo interminabili secondi riesco a formare la prima frase. «Penso sia un’ottima idea». Pare sollevato dalla mia iniziativa e stacca le mani, infilandole rapidamente nelle tasche. Ma quando fa ciò sento nuovamente il mondo esterno ancora più fastidioso e martellante di prima di quel contatto. Era come se fossimo entrati in un batuffolo d’ovatta che, oltre a proteggerci dall’esterno, ci faceva solamente sentire i nostri respiri e i battiti nel nostro cuore farsi sempre più insistenti, più rumorosi. Anche a distanza di anni, non riesco ad esprimere al meglio quello che ho provato in quei lunghissimi minuti. L’unica cosa che so, è che questo ricordo mi scalda il cuore, mi fa stare bene.
Quel pomeriggio facciamo come lui aveva suggerito. Facciamo un giro dentro la Galleria e grazie alle sue spiegazioni riesco a rivalutarla enormemente. Ci fermiamo davanti a Lo Stagno delle Ninfee di Monet e io rimango ferma, in estasi e non riesco a capire perché. Questo quadro mi tranquillizza in maniera sorprendente. Improvvisamente tutte le ansie, tutti gli stress di questi giorni si volatilizzano. Non sento nemmeno la voce del prof che spiega ogni singolo dettaglio. Siamo solo io e i colpi di pennello dell’artista francese. Per un secondo mi sembra d’essere una di quelle meravigliose dame francesi mentre passeggiano vicino a quel piccolo stagno. Mi sembra quasi di sentire i suoi della natura.
Anche il prof ha smesso di parlare. Si è seduto ancor più vicino a me e adesso le nostre braccia si sfiorano e posso percepire nuovamente quella scossa che si dirama in tutto il corpo. Mi sento bene, lo devo ammettere. Sto bene.
Mi trovo a sorridere, anche se non vorrei.
Non è giusto, non va bene. Tutta questa situazione non va bene. Dovrei sorridere per un messaggio di Michael, per la sua cartolina di Boston, non perché il mio professore di Letteratura si è seduto accanto a me, perché mi ha stretto la mano mentre mi aiutava ad alzarmi, perché mi ha comprato la cioccolata calda. E poi lui è il mio professore, con almeno quindici anni più di me, sposato, magari con anche dei figli. Dov’è finito tutto il mio odio per lui? Eh? Mi sono bastate solo qualche uscita pomeridiana, qualche esercizio per farle volatilizzare? Erano così futili? Forse sì, ma comunque, sono così facilmente suggestionabile? Perdo la testa per qualunque uomo che mi dedichi un minimo di attenzioni? Da quando sono diventata così? Da quando Mike non è più così fondamentale per me? Ma soprattutto, da quanto cavolo di tempo sto toccando la sua mano? Aiuto! Panico! Cosa, quando è successo? Perché lui non ha reagito? Perché non ha detto nulla? Che provi le mie stesse contrastanti emozioni? Okay, calma Sarah, stai calma. Ora te lentamente la togli e poi proponi di andarvene da questo posto, da questo quadro malefico che ti fa impazzire. O forse sei già pazza, visto questi tormenti interiori che neanche Hamlet nelle giornate peggiori. Tu sei un essere o non essere vivente. Ti fa un baffo il soliloquio shakespeariano.
Così, tormentata dalla pazza me interiore, una terribile ghostwriter, faccio scivolare la mia mano dalla sua e mi alzo in piedi, più veloce che posso. Lui sembra sconcertato da questo mio gesto così repentino, ma soprattutto dal fatto che abbia scostato la mia mano dalla annullato questo nostro contatto. Si guarda il palmo per qualche istante, forse per riuscire a mettere a fuoco la situazione, e poi si alza anche lui.
«Andiamo a berci un buon thè» dice, quell’espressione ferita che prima era brevemente apparsa sul suo volto è stata sostituita dal suo solito sorriso gentile e accomodante, che all’inizio mi infastidiva tanto.
Il resto del pomeriggio non è niente di speciale. Parliamo tanto, tantissimo, ma i nostri argomenti sono strettamente legati alla letteratura, all’arte. Evitiamo di parlare di noi, delle nostre vite. Abbiamo paura che possa essere qualcosa che non può essere, ovvero un appuntamento.
Me ne torno a casa più leggera e spensierata di quando sono partita, circa tre ore fa. Non riesco ad andare in bicicletta perché è troppo freddo così mi faccio tutto il tratto in metro. Quando arrivo in casa trovo Gwen e mio padre davanti alla tv. Li saluto con un veloce ciao e mi fiondo a fare la doccia.
 

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Sarah
 
«Sarah, ho bisogno di un consiglio» la voce di mia sorella sembra quasi un pigolio. Ha la porta di camera sua socchiusa e sta facendo vedere solo la testa. «Puoi venire a darmi una mano?». Sbuffo e malvolentieri la vado ad aiutare, ma mi fermo sulla soglia. In camera sembra esplosa una bomba. Tutti i suoi vestiti sono sparsi da ogni parte, mentre lei indossa solo l’intimo. È disperatissima, non sa come fare. Si mangiucchia le unghie già corte di suo e i suoi capelli sono raccolti in una coda spettinata.
«Non so che mettermi. E sono in ritardo. Sono nella merda fino al collo» . Si accascia a terra e continua a fissarmi ansiosa, con un espressione che mi fa sfuggire un risolino divertito.
«Non ridere, stronza» mi ammonisce puntandomi il dito magrissimo contro. «È la prima volta per me, lo sai benissimo. Per questo, sei profondamente pregata di aiutarmi». Cavoli, non ho mai visto mia sorella così agitata. Deve essere qualcuno di veramente significativo per lei, la mia sorellina.
«Lo conosco?» chiedo e lei sembra indugiare. Mi guarda a lungo negli occhi e poi annuisce.
«Dan» bisbiglia, finalmente abbassando lo sguardo e a me scappa una risatina.
«Dan? Dan Hooper? Daniel Brufolo Hooper?»
«Non lo insultare Sarah. Non essere così cattiva. È cambiato molto in questi sei anni» risponde rapidamente, stringendo le sue sopracciglia in un cipiglio rabbioso. «Ho sbagliato a chiederti aiuto. Vattene, dai» mi spinge fuori dalla porta.
«E dai, stavo scherzando, lasciati aiutare Holly» lei smette di spingere e mi guarda in cagnesco. «Ti lascio rientrare solo perché sei l’unica che potrebbe aiutarmi… ma che odore hai addosso?»
«Che cavolo dici?» cerco di annusare la manica del mio maglione e anche se per qualche istante non lo sento, poi piano piano quel profumo pungente mi entra nelle narici. Il suo profumo è addosso a me, nonostante non siamo mai stati troppo vicini. Eppure eccolo, inebriante, buono, ma allo stesso tempo soffocante. Una parte di me vorrebbe che se ne andasse, l’altra no. L’altra vorrebbe che se ne stesse ancora lì, tra le trecce della lana.
«Con chi sei stata oggi pomeriggio, eh?» mi domanda, ma io non voglio rispondere. Le faccio cenno di lasciar perdere e di concentrarci sul problema più grosso, ossia cosa si sarebbe messa quella sera per uscire con Bru- ehm, Dan Hooper.
Ora, vi chiederete chi sia. Beh, è il nostro ex vicino di casa. Un bimbo con dei tristissimi capelli color topo e due occhi grandi e sempre fissi su ogni cosa, come due telecamere. Un nerd fin da piccolo, un bambino fin troppo intelligente per la sua età. E troppo sfortunato, purtroppo. Dopo il divorzio dei suoi si è dovuto trasferire in Irlanda col padre, poi sua madre è morta. Insomma, non è che la sua vita sia andata un granché. Ma ormai sono sei anni che non lo vedo, forse ha ragione lei.
Ci mettiamo a sedere sul letto con le spalle al muro e guardiamo l’insolito disordine della camera. La osservo con la coda dell’occhio e percepisco la sua ansia.
«Sembra molto importante, giusto?» Non risponde, si limita ad annuire lentamente, continuando a cincischiare il bordo della coperta. Allora mi si accende una lampadina in testa. Mi alzo di scatto e corro nella mia stanza. Ritorno pochi secondi dopo con in mano il mio abito rosso. È lo stesso che indossavo la sera del mio primo appuntamento con Micheal, quasi quattro anni fa. È semplice, leggero, stretto in vita  adatto per lei che è senza seno.
«È Jimmy, non ci credo» si mette le mani sulle guance imitando un verso di stupore. È stata proprio lei a chiamarlo Jimmy, ma non mi vuole dire il motivo. «Non ho mai pensato che tu potessi farlo vedere a qualcuno, figuriamoci indossarlo. Che grande onore conoscerti Jim» prende la stoffa della gonna e la stringe tra le sue dita ossute. Quando alza lo sguardo, noto che c’è un velo di lacrime a coprirgli gli occhi. Mima un grazie e io rispondo con un cenno del capo.
«Dai, muoviti che a momenti arriva.» la esorto sorridendo, mentre me ne vado, finalmente orgogliosa di una mia azione.

 
 
Holly

Sarah mi ha aiutato a sistemare i capelli e a passarmi un filo di trucco sul viso. Mi ha sussurrato che sono uno schianto e che Brufolo Hooper sverrà, appena mi vedrà. Ma adesso che sono da sola, qui davanti al grande specchio del corridoio di casa mia, mi sento la solita goffa Holly. Quella bimbetta che da piccola era derisa per il monociglio e per la sua sfrenata passione per il calcio. Non avevo amiche femmine, fatta eccezione per Jackie. La nostra amicizia non ha nemmeno avuto un proprio inizio. Siamo sempre state vicine, sempre. Non ricordo un momento della mia vita senza di lei.
Mi passo la mano lungo le pieghe dell’abito sconsolata. Non mi sento bene, non mi sento a mio agio con questo vestito. Faccio un passo verso le scale per andare in camera mia quando sento il terribile suono del campanello. Eccolo, è qui. Sento i passi di mio padre al piano di sotto dirigersi verso la porta e il mio stomaco si stringe per l’ansia. Non volevo che lo vedesse, non volevo che facesse quei cinquanta passi che separano la strada dal portone d’ingresso.  Sarebbe dovuto rimanere in macchina, io sarei uscita con una scusa senza farmi vedere e sarei andata da lui. Invece no. Non mi ha ascoltato.
«Sei qui per Hollie?» Chiese sospettoso mio padre. Dopo qualche secondo di titubanza rinuncio all’idea di cambiarmi e corro al piano di sotto, prima che gli faccia un interrogatorio. Faccio di fretta le scale, evitando di inciampare con questi stivaletti (anch’essi di Sarah) col tacco, attirando così l’attenzione su di me. Sorrido sornione appena lo vedo. È così carino con quei jeans e con quella camicia azzurra.  Con la coda dell’occhio noto anche l’espressione corrucciata di Ron, che non capisce, o forse non vuole capire.
«Andiamo?» suggerisco, avvicinandomi a lui. Salutiamo velocemente mio padre, che è rimasto impassibile.
«Ti avevo detto di aspettarmi in macchina» lo rimbecco non appena usciamo dal cancelletto del giardino.
«Ti stavo aspettando infatti. O almeno, ti ho aspettato per quaranta minuti. Ma tu non arrivavi.» risponde sinceramente e io non posso fare a meno di arrossire. Sono costantemente in ritardo e penso  questo sia uno dei miei più grandi difetti. M’impegno ad essere in orario, ma tanto so che sempre, anche la cosa più piccola può distrarmi. E così perdo tempo e arrivo tardi agli appuntamenti. Sempre.
«Ma aspettare quaranta minuti ne è valsa la pena, sei uno splendore» deve essersi conto del mio senso di colpa e ha cercato di rimediare con una frase sdolcinata… che volete che vi dica? Con me le frasi sdolcinate funzionano sempre. E il mio arrossire ne è il testimone. Sussurro un timido grazie ed entro in macchina, cercando di nascondere il viso. Lui si mette al volante e poi mi guarda sorridente.
«Ti porto in un posto magnifico» mi dice e poi accende il motore. 
Mi porta a teatro.  A vedere Les Misérables. Se ne è ricordato, allora. Glielo avevo detto la sera che ci siamo rivisti, quest’estate al compleanno di Jackie, che è sempre stato il mio sogno andarci. Non credevo che se ne sarebbe mai ricordato visto che eravamo entrambi un po’ brilli.
Siamo seduti accanto, nel palchetto, ma siamo entrambi troppo timidi perfino per guardarci. Un silenzio angosciante e imbarazzante cala tra noi. Per fortuna lo spettacolo comincia. E improvvisamente io mi sento catapultata nella Parigi agli inizi del 1800. Ci sono anche io, sento quello che sentono i personaggi. Sento tutto il dolore di Fantine convertirsi in lacrime. Con la coda dell’occhio lo guardo: anche lui sta piangendo. La mano, poggiata sulla coscia destra, gli trema visibilmente. Ed è quando vedo questo che faccio una cosa inaspettata. O meglio, inaspettata per me. Allungo la mia e gliela stringo forte. Lui sussulta, quasi impaurito dal mio gesto. Cerco di sorridergli, per quanto mi sia possibile, visto i lacrimoni che non esitano a scendere copiosi, rovinandomi il trucco. Anche lui sorride dolcemente. È così carino. Avvicina a me e mi pulisce il volto con i pollici, facendo scivolare poi i palmi dietro la nuca. Rimane lì, la sua mano, fredda, calda, non lo so nemmeno. Sento un pizzicorio fastidioso che parte dalla punta dei capelli e arriva fino ai piedi. Non so spiegarmelo, e questo m’infastidisce.
Ci fissiamo a lungo, lasciando lo spettacolo al suo ruolo di mero sottofondo. La voce straziante di Fantine è solo una richiesta d’aiuto lontana, ovattata. Mi sembra di essere sola con lui, che tutto il mondo attorno sparisca, o semplicemente non importi. Tutto passa in secondo piano. Adesso c’è solo lui, ci sono i suoi occhi grigi, grandi, tristi, come sempre, le sue labbra arricciate in un sorriso che va piano piano scomparendo. Mi rendo troppo tardi di essermi fermata fin troppo sulle labbra. Improvvisamente le ritrovo sulle mie, dolci, passionali, e finalmente il pizzicorio scompare, come se mi stesse dicendo che va tutto bene, che questa cosa va bene. Il mio primo vero bacio. Mi toglie il respiro, mi sento affogare, ma allo stesso tempo, mi sembra di tornare a respirare di nuovo dopo un periodo di tempo lunghissimo.
La sua mano, che prima si trovava dietro la nuca ora è scivolata nell’incavo tra le scapole. Lo stringo, lo abbraccio forte, non voglio lasciarlo andare. Voglio rimanere così per sempre, vicino a lui, a baciarlo, a guardarlo negli occhi.
All’improvviso si stacca. E sempre all’improvviso torno al mondo reale.
Per il resto dello spettacolo non diciamo niente, rimaniamo solamente abbracciati, immersi nel musical. 
La serata fila liscia come l’olio. Andiamo a cena in un locale veramente carino e accogliente, ma soprattutto dove c’è un tepore che fa rinsavire i miei piedi che avevo smesso di sentire di funzionare qualche minuto fa.
Dan è veramente una persona dolcissima. Per tutta la sera ho la testa tra le nuvole, mi sento persa nel suo sguardo, persa nelle sue parole. Non riesco a capire cosa significhi questa stretta allo stomaco. Non lo so, non riesco a classificarlo e questo mi fa imbestialire. Voglio conoscere ogni mio sentimento, voglio poterlo controllare. E invece no, con lui mi sento in questo turbine che mi scuote, che mi sbatte, che non riesco a fermare. Mi chiedo se questa sia la cosa di cui tutti parlano, questo amore di cui ci riempiamo sempre la bocca. Questo amore che illumina gli occhi di mia sorella quando parla di Mike. Questo amore che fa divenire più evidente quella vena sulla fronte di mio padre quando incrocia gli occhi di mia madre. Quando si sono lasciati credevo che il loro amore fosse finito, invece no, lui la ama sempre così tanto. E io fino a questo esatto istante non lo avevo mai capito. Ma ora sì. Se Dan dovesse andarsene, soffrirei in silenzio, lo odierei in silenzio, ma urlerei ancora il mio amore per lui con ogni parte del mio corpo. Il mio sguardo sfugge sulle nostre mani che si stringono dolcemente sul tavolo.
Lasciatemi in questo posto meraviglioso. In questo momento meraviglioso.

 
 
2014

Oliver mi fissa con i suoi occhioni grigi. La sua manina paffuta mi accarezza la guancia e io gli faccio il solletico sotto il mento. Lo guardo ridacchiare contento. Io lo sono un po’ meno. Vedo la fossetta formarsi sulla sua gota piena. “La sua fossetta”, mi ritrovo a pensare.
Cerco di scacciare dalla mia mente quell’immagine gelida, cristallizzata nella mia mente. Una parte di me è arrabbiata con quella piccola creatura che in realtà non ha fatto niente di male. Ma gli ha rubato tutto. Lo sguardo, il sorriso, il naso. Non sono suoi. Non gli appartengono.
Mi ricordo la prima volta che lo vidi, avvolto in quella copertina azzurra, con quella faccina tonda e rossa. Mi ricordo della rabbia e del dolore che provai appena aprì gli occhi e mi mostrò le sue iridi grigie. Lo volevo dare via, non lo volevo più vedere.
Quel giorno non passai molto tempo insieme a lui. Stette quasi sempre tra le braccia di Sarah oppure di mio padre finché Jackie non arrivò, trascinandosi dietro Eva.
Mi abbracciò stretta e finalmente potei piangere tutte le lacrime che mi tenevo dentro. Mia madre, stupidamente, pensò che fossero lacrime di gioia. Ma non riusciva nemmeno a immaginare tutto il dolore che stessi provando in quel momento. Quel bambino era la sua copia. Tutto in lui mi ricordava dell’altro. E solo in pochi lo capivano. E tutt’ora in pochi lo capiscono.
«Mi manca Jackie, mi manca da togliermi il respiro» avevo singhiozzato sulla spalla della mia migliore amica. Lei non rispose, si limitò a stringere ancora più forte.
E ancora oggi, dieci mesi dopo, la sensazione è la stessa.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Sarah
Il resto della sera lo passo arricciata sul divano, pensando a tutto quello che è successo nel pomeriggio. Penso alle nostre mani che si sono strette, al calore della sua pelle sulla mia, al suo profumo e mi chiedo come possa essere successo tutto questo. Com’è potuta nascere questa strana sensazione in così poco tempo? Soprattutto perché il mio odio sembra essersi volatilizzato in un battito di ciglia?
Stringo le palpebre e cerco di scacciare quei pensieri dalla mia testa, m’impongo che non devo più pensarci, che non posso farmi ammaliare da lui. Potrebbero licenziarlo e potrebbero espellermi nel caso in cui dovesse nascere una relazione.
E alla fine riesco a convincermi. Devo tenere duro fino a luglio, quando riuscirò a prendere la laurea. Forse. Sempre che lui non me lo impedisca.
Alla fine mi addormento tra i grandi cuscini rossi che sanno ancora di mia madre, del suo intenso profumo di Saint Laurent.
Sono risvegliata verso l’una dal ticchettio di un paio di tacchi. Holly.
«Hey sorellina» la chiamo e vedo la sua ombra sussultare. Si affaccia e nella penombra riesco a vedere il suo sorriso che arriva da un orecchio all’altro.
«È andata alla grande, vero?» Lei annuisce vigorosamente, senza smettere di sorridere.
«Una delle serate più belle della mia vita» risponde. Non ci diciamo più niente, so già che è successo, lo si capisce da ogni suo movimento, da ogni suo gesto.
Andiamo nelle nostre camere nel completo silenzio, augurandoci solo dei deboli saluti.
23 novembre 2003
Mi trovo sola dentro un caffè a South Bank. Oggi avrei dovuto avere un incontro con il professore, l’unica dopo quel pomeriggio passato alla National Gallery. Ma non ce l’ho fatta ad andare. Non me la sentivo di passare del tempo da soli. Tradotto: ho deciso che smetterò questi incontri pomeridiani per cercare di smettere di pensare a lui. Le due domeniche precedenti sono riuscita a trovare dei pretesti, sebbene estremamente stupidi, per evitarle. Ma non so che mi è passato per la testa giovedì quando ho accettato il suo invito. Forse delle scimmie urlatrici.
Fatto sta che cinque minuti dopo me ne stavo già pentendo. Enormemente. Perciò oggi mi sono rifugiata dall’altra parte della città, sicura che qui non mi avrebbe trovata.
Mi porto alle labbra la tazza e sorseggio appena il delizioso caffè. Dio, com’è buono. Ci potrei fare il bagno dentro. Vedo Lizzie, mia ex compagna di liceo e cameriera al Lafferty, uno dei miei posti preferiti a Londra, schizzarmi veloce accanto, rivolgendomi uno sbrigativo sorriso. Fino ad un paio di anni fa, cioè quando non stavo ancora con Mike, questo era un appuntamento settimanale fisso, ma da quando ho cominciato la Queen Mary non ho un pomeriggio libero da dedicare ad un caffè e ad un muffin al cioccolato di questo posto.
Ma oggi mi sono decisa a togliermi questo sfizio.
Mi sono posizionata fuori, sotto il tendone, in un minuscolo tavolino all’angolo sinistro, da cui si vede tutta la città che inizia a illuminarsi. La osservo estremamente ispirata e orgogliosa, tanto che potrei cominciare a piangere. Vedo la gente passeggiare tranquilla, coppie mano nella mano, anziani con i nipoti, gruppi di ragazzini chiassosi.
Poso la tazza e prendo in mano Cime Tempestose, che tra parentesi è il mio libro preferito, e comincio a leggerlo per la quinta volta. Ogni tanto m’interrompo e lancio un’occhiata alla città e sorrido come un ebete.
La quarta volta che alzo la testa, scorgo qualcosa d’insolito alla mia destra. Dei capelli biondi, luminosi, le mani grandi, ruvide, il cappotto blu abbottonato e la sciarpa attorno al collo. E per poco non mi strozzo con il boccone di muffin che ho in bocca.
Non mi aspettavo di vederlo qui.
Improvvisamente vengo colta dal senso di colpa: mi sono comportata veramente di merda con lui, merita almeno delle scuse sincere. Con la coda dell’occhio lo vedo sorseggiare assorto il suo thé, mentre con una mano sta tenendo quello che sembra un copione.
Prendo tutto il mio coraggio e decido di sedermi accanto a lui. Dal canto suo fa uno salto sulla sedia notevole. Sembra realmente scioccato da me. Cerco di sorridergli, ma quello che viene fuori è solamente uno sbieco abbozzo di quello che intendevo fare. Vi spiego perché:
Uno: sono terribilmente in imbarazzo, visto che non ho mai fatto un gesto così audace e poi perché ho fatto una grande figuraccia con lui.
Due: la sua bellezza è sconcertante. Veramente, non riesco a descriverlo con le parole. È disarmante, è disumano.
Mi sono appena accorta che non ho specificato di chi si tratti. Ecco, non è il Professore. No, lui probabilmente mi sta aspettando davanti a London Eye, guardando disperato in mezzo alla folla, sperando di scorgere una testa a pinolo coperta da una cascata di capelli corvini.
È Nathan. Il famoso Nathan l’attore, l’amicone di Michael. Nathan con gli occhi dell’oceano e i capelli d’oro. Ehm, forse è meglio fermare questa specie d’ammirazione sconfinata. Sono ancora fidanzata. Teoricamente. Ma ritorniamo al presente.
Piano piano la sua espressione turbata cambia in una sorpresa (positivamente aggiungerei, se fossi ottimista. Ma io e l’ottimismo procediamo su binari paralleli, quindi negativamente). Ammicca ad un minuscolo sorrisetto, e vidi appena i suoi denti perfetti.
«Penso tu fossi l’ultima persona che mi sarei mai aspettata qui» mi dice lentamente, al suo solito. Io mi sento appena arrossire e balbetto qualcosa come fuga dal presente, o una cavolata del genere, giusto per rompere il ghiaccio. Alla fine mi schiarisco la voce e inizio a dire ciò che era mia intenzione.
«Senti Nathan, vorrei scusarmi per quella sera. Sono stata una vera stronza, e tu avevi ragione»
«Esatto» conferma, portandosi la tazza alle labbra. Io rimango appena di stucco. Mi sarei aspettata un “ma no Sarah, anche io sono stato uno stronzo, ti ho risposto male eccetera”. E invece no. Lui ha detto esatto. Che stronzo.
Cala tra di noi un silenzio angosciante, un silenzio del quale lui pare fregarsene altamente. Continua a bere il suo fottuto thè e leggere il suo copione, come sei io non ci fossi.
Mi trovo in un limbo: andarmene, oppure rimanere qui come se nulla fosse? Gradisce la mia presenza, vuole che me ne vada? Forse è meglio così. Scosto la sedia e faccio per alzarmi, ma il suo braccio si allunga velocemente ed afferra il mio in una stretta solida.
«Per favore, resta.» Alza gli occhi dai suoi fogli e mi fissa a lungo, ammutolito. E ancora una volta tra noi scende un silenzio, ma questa volta non è più angosciante come quello di prima. Ora siamo solo noi due, nessun altro attorno, non c’è più il lieve brusio del Lafferty, il tintinnare delle tazze, dei cucchiaini. Ho i brividi, non so come fermarmi. Lui non stacca gli occhi dai miei, quasi ipnotizzato.
Ed è proprio adesso che faccio ciò che non avrei mai dovuto fare: mi chino verso il suo viso e avvicino il mio naso al suo. Le nostre punte di strofinano dolcemente per qualche secondo, finché non mi decido a baciarlo. Un forte odore di agrumi m’invade, mi riempie la bocca.
Non dura tanto, giusto qualche secondo. Ma quando ci stacchiamo io ho subito voglio di ritornare lì, sulle sue labbra morbide e rosee.
«Non possiamo farlo» mi sussurra, invitandomi a sedermi di nuovo. Lo guardo a lungo, un po’ ferita dalle sue parole, un po’ sollevata, perché so che io non sarei mai stata in grado di dirle. Alla fine mi siedo lentamente, non lasciando il contatto con lui. Le nostre mani sono ancora intrecciate, il suo pollice ruvido sta ancora accarezzando il mio.
Non so dire per quanto tempo rimaniamo così, immobili, senza dire parola, concentrati sui nostri sguardi, con solo i nostri respiri a farci compagnia.
Alla fine decido di andarmene. Lui non prova nemmeno a fermarmi, i suoi occhi pieni di vergogna non incontrano nemmeno i miei. E io gliene sono grata. Non lo sopporterei.
Il viaggio di ritorno verso casa lo faccio a piedi, cercando di non pensare a cosa ho fatto. Ma è inutile. Le domande mi ronzano in mente, un perché sovrasta l’altro.  Quando passo davanti al British, vedo il professore seduto sugli scaloni. Ha lo sguardo concentrato a cercare qualcuno tra la folla. Tiene in mano un busta, se la rigira tra le dita lunghe e affusolate, leggermente screpolate per il freddo.
Rimango a fissarlo a lungo, forse più del necessario. Quando si alza, i suoi occhi incrociano i miei. Li vedo pieni di disappunto, di delusione. Poi distoglie lo sguardo e si concentra sulla donna bionda che gli sta andando incontro. L’abbraccia, si abbracciano, e poi lui la bacia, con una delicatezza infinita. E dopo essersi staccati se ne vanno, lentamente, con le mani intrecciate, scomparendo nella folla.
Ritorno a casa ancora più affranta, con i piedi e le gambe pesanti, ogni passo mi costa un’infinità di energia. Ringrazio il cielo che non ci sia nessuno in casa e mi chiudo in camera, a riflettere.

Michael
Peter sta bevendo il secondo Long Island. Di seguito. Ha gli occhi lucidi dalle lacrime e dall’alcool.
«Perché vedi, io l’amavo veramente, quella stronza» biasciaca stropicciandosi gli occhi. «Non credevo che mi lasciasse così, mentre ero in ginocchio con un anello tra le mani» continua a lamentarsi, ma io non riesco a sentirlo. Sono tra le nuvole da qualche giorno. O meglio, da quando sono tornato da Londra. Sento una sensazione strana allo stomaco, una sorta di stretta che non decide di andarsene.
«Ehi, Mike, se non mi vuoi ascoltare vai pure via, tanto c’è Alan» dice Peter indicando con il bicchiere quasi vuoto verso Alan, il barman, nostro compagno d’università.  Lo vedo rivolgermi un’occhiata sofferente, come per dirmi “non mi lasciare solo con questo qui, per favore”. Sbuffo piano, cercando di non farmi sentire da Peter che nel frattempo ha ricominciato la sua lagna, senza che io gli dicessi niente. Ma io non riesco a sentirlo. Un po’ perché sono sempre gli stessi discorsi, un po’ perché una bella ragazza si è seduta accanto a me. Ha gli occhi color nocciola e dei corti capelli biondi. È carina, semplice, mille volte meglio di tutte quelle eccessivamente truccate che si sono sempre avvicinate.
«Ciao»
«Ciao» la saluto, quasi timidamente. Per fortuna è lei ad attaccare bottone, sennò non avrei avuto idee. Sono così arrugginito per queste cose. L’unica ragazza con cui sono stato è Sarah, e tra di noi c’è stato un inizio piuttosto veloce. Non ci sono stati discorsi nel mezzo, no. Quella sera siamo passati direttamente al bacio.
Immediatamente la mia mente viaggia a lei. L’amore della mia vita. Ne sono sicuro. Nel mio futuro la vedo al mio fianco.
C’è un però. Sono sempre giovane, ho ventidue anni, ho voglia di fare qualche esperienza. E magari anche lei.
Ci siamo detti questo a Heathrow, quel giovedì pomeriggio quando ho lasciato l’Inghilterra. Ci siamo presi una di quelle famose pause. Dieci minuti per respirare. E devo dire che non è tanto male.
Fa male dirlo, è vero, ma mi sento quasi sollevato senza di lei, senza la tremenda morsa della gelosia, della nostalgia.
La ragazza fa allungare la mano sul mio braccio e mi sorride, un sorriso brillante, senza paura, senza voglia di aspettare un momento di più. Mi sta chiedendo di andarcene, di andare a casa mia magari. Ci penso un po’. Magari no, rispondo, la casa è un macello. Andiamo a casa tua, propongo allora e lei si limita ad annuire, a prendermi per un mano e trascinarmi fuori dal bar, nel freddo newyorkese.
Camminiamo per le lunghe strade intorpiditi dal vento gelido e ammutoliti da un imbarazzante silenzio. Ogni tanto, con la coda dell’occhio la vedo aprire la bocca, per poi richiuderla subito, scuotendo appena la testa.
È bella, con i suoi capelli che le arrivano a metà schiena, come uno scivolo d’oro lucente. Tutto il contrario delle ciocche ebano di Sarah. Proprio l’opposto.
Mi ficco le unghie le carne del palmo perché ho pensato di nuovo a lei e mi sono ripromesso che non lo avrei fatto. Almeno per qualche settimana, almeno fino a Natale, quando verrà qui.
Nel frattempo lei mi ha trascinato dentro un atrio stretto e buio alla fine del quale di vede un bagliore chiaro e fastidioso. La porta verde scuro si apre dopo qualche spintone e ci rivela una stanza in perfetto ordine, con un forte odore di pulito a impregnare ogni tessuto.
«Vivi qui?» domando mentre faccio scendere le spalline del suo abito viola, troppo leggero per essere indossato a novembre. Lei annuisce silenziosamente, mentre infila le mani gelide dentro la mia camicia bianca. Mi bacia lentamente e io mi sento invadere dal suo profumo di fiori freschi. Nel frattempo mi aiuta a sganciarle il reggiseno e lo butta sul divano rosso, dove poi ci sdraiamo.
La mattina dopo vengo svegliato dallo sbattere delle padelle sui fornelli. Intravedo le sue gambe nude e l’orlo di una lunga maglietta grigia, macchiata di vernice. Sorrido in silenzio, assaporando la pace di una domenica in tranquillità dopo un sabato frenetico. Lei smette di cucinare, facendo scivolare i pancakes sul piatto. Mi si avvicina e finalmente riesco a vederla in maniera chiara in viso.
Mi rimangio tutto.
Per poco non mi prende un colpo.
Le parole mi escono tremolanti dalle labbra. «Jasmine, ma che diavolo..?»
E lei sorride maliziosa.

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