Quello che non sai di me di Redthread90 (/viewuser.php?uid=957773)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ~ ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 4: *** Capitolo Due ***
Capitolo 5: *** Continua... ***
Capitolo 1 *** ~ ***
pres
A Iris.
"E poco importa se il tempo non ci ha lasciato sperimentare.
Da qualche parte siamo invecchiati insieme,
da qualche parte continuiamo a rotolarci e a ridere."
Venuto al mondo, Margaret Mazzantini
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Capitolo 2 *** Prologo ***
Prologo
Evie
Ricordavo
l'amore, il vento fra i capelli, il profumo che via via sarebbe stato
portato lontano, una casa gialla, un disegno di fiori. Ricordavo il
sole che si infilava tra le finestre e mi veniva a svegliare, il dolce
suono di una voce che udivo da sempre, e che ogni giorno mi costringeva
ad aprire gli occhi con accuratezza. Ricordavo due mani che
raccoglievano il mio viso, due occhi uguali ai miei. Un sorriso, una
stretta, un buongiorno.
Mia
madre apparteneva a quella categoria di persone che avrei definito
rara, o persino un miracolo, per quanto appariva perfetta, leggera e
coinvolgente. La solitudine non aveva mai fatto parte di lei, delle
nostre giornate o dei miei risvegli indotti dalla sua
positività; non ce n'era stata traccia durante la mia infanzia.
In effetti, la ricordavo con piacere grazie alla sua infinita passione
per l'esistenza e per la vita - la stessa che mi aveva regalato con
ineguagliabile grazia - e per la forza che aveva nel credere che
ci fosse un qualcosa di bello in qualsiasi giornata, persino in quella
più buia.
«Trova
quel qualcosa che manca.» Mi diceva dolcemente: «Se anche
non dovesse essere partita con il piede giusto, puoi trasformarla in luce».
Persino quando tornavo da scuola con il broncio per via
di qualche scaramuccia tra compagni o a causa di un compito andato
male, aveva la capacità di rasserenarmi con quelle sue parole
amorevoli. Mi portava a prendere un gelato e a guardare il mare, mi
trascinava nella bontà e nella positività anche quando
non credevo fosse possibile.
«Ora
va meglio?» Mi chiedeva al termine di quei pomeriggi, e io non
potevo che accennare un timido sorriso. Mi sentivo quasi colpevole
per aver avuto il coraggio di dubitare della grandezza di ogni cosa
bella intorno a me, per aver perso ore preziose della mia esistenza a
raggelare il mio animo invece di trovare, anche nel peggiore degli
istanti, un barlume di speranza che riaccendesse la gioia per quella
vita che di certo lei era brava a farmi apprezzare.
Ed
era facile tornare a casa con un sorriso e con una grande energia che
riversavo nella mia voglia di fare; d'un tratto non ero più
stanca per aver passato un'intera giornata fuori. Inconsciamente,
realizzavo che tutto quel benessere era dovuto proprio a lei, al mio
sole.
Continuava
a rimettermi al mondo, a guardarmi negli occhi con la stessa meraviglia
provata il giorno della mia nascita. Dal mio canto, continuavo a
rallegrarmene e a desiderare che le sue attenzioni non cessassero, come
se non fossero mai abbastanza. E in effetti avevo ragione nel crederlo,
perché nove anni non erano stati affatto sufficienti, o almeno
non per poter godere totalmente della sua vicinanza. Non ne sarebbero
bastati neanche cento, a dire il vero, ma crescere sapendo di vederla
invecchiare sarebbe stato sicuramente molto meglio.
«Ecco
il tuo caffè, e un dolcino offerto dalla casa.» Sentii la
voce di Felicity, la barista, e mi ricordai di essere all'interno di
quel bar in città in cui andavo spesso e, come al solito, di
essermi appena persa nei miei pensieri.
«Grazie,
come sempre mi vizi un po' troppo.» La ringraziai e sorrisi con
gentilezza, iniziando a mangiare e a bere la mia dose di caffeina
giornaliera.
La
osservai lavorare e rincorsi qualche altro pensiero sconnesso, almeno
sino a quando decisi che sarebbe arrivato il momento di andarmene, se
non fosse stato nuovamente per lei. «Non andrai già via,
vero?» Poggiò le mani ai fianchi, alzò un
sopracciglio biondo e mi osservò con un'espressione che avrei
definito decisamente sconvolta. «Sta arrivando il mio fidanzato,
è appena uscito dal lavoro. Te l'ho detto che te lo avrei
presentato, prima o poi. Ah, eccolo lì. Evie, lui è
Julian.» Continuò, voltandosi a guardare la porta del
locale per poi indicarmi e presentarmi il ragazzo che stava facendo il
suo ingresso.
Non
appena il mio sguardo incontrò il suo, percepii un fremito che
avevo atteso a lungo. Tuttavia, riuscii a nascondere le mie sensazioni
e la verità che altrimenti sarebbe sgorgata facilmente dal mio
sguardo.
«Ciao,
piacere.» Mantenni sulle labbra un sorriso che celava intenzioni
ancora indicibili. Osservai brevemente il suo bell'aspetto: i suoi
occhi azzurri distoglievano l'attenzione dall'evidente stanchezza che
aveva trascinato con sé. Strinsi una sua mano con sicurezza e mi
presentai.
In quei frangenti, la mia mente fu capace di cristallizzarsi su un unico pensiero: quello era l'uomo che cercavo da tempo.
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Capitolo 3 *** Capitolo Uno ***
Capitolo Uno
Julian
Camminavo
per le strade di Atlanta e alzavo di tanto in tanto il viso al sole,
bello e caldo. Mi ero sorpreso nel trovare quel clima così
piacevole una volta uscito dall'ospedale; la mia città non era
famosa per il bel tempo: il più delle volte, infatti, pioveva a
dirotto. Ero reduce dalle ultime ore che avevo trascorso in compagnia
di un'ennesima manciata di cadaveri. Il solo fatto che non fossero dei
gran chiacchieroni non mi aiutava per niente a restare sveglio;
ricordavo i tempi in cui avevo dovuto sgobbare prima di arrivare a
essere dov'ero, ottenendo una posizione di rilievo in quello che adesso
era il mio reparto.
Anche
quella notte avevo coperto il turno di uno dei miei colleghi che, a
causa di una sventura, si era dovuto assentare per un'intera settimana,
dando del filo da torcere a chi si era ritrovato a sostituirlo, me per
primo. Avevo bevuto tanti di quei caffè che ormai la mia bocca
impastata non avrebbe saputo più riconoscere alcun sapore.
Tuttavia, nell'intento di poter fare colazione - o cena, visti gli
orari di quei giorni - mi incamminai verso il bar dove sapevo che avrei
trovato Felicity, sempre pronta a farmi dimenticare di aver passato
l'ennesima nottata in bianco da solo.
Entrai,
mi guardai intorno e squadrai quelle persone che si erano appena alzate
dal letto per andare a far colazione in quel posto. Al contrario, io
stavo tentando di ottenere un ultimo pasto prima di rincasare e
tornarmene a dormire, con la voglia matta di rimettermi tra le lenzuola
e porre fine a quella settimana infernale. Cercai Felicity con lo
sguardo e andai verso di lei non appena la vidi, pronto a far notare la
mia presenza nel locale. Ero cosciente di quanto le facesse piacere che
passassi di lì prima di andare a casa e, di volta in volta, come
in quell'ultima settimana, continuavo a farlo in modo da tener fede a
quel nostro rituale.
Non
feci in tempo a salutarla che, con il suo solito fare dinamico e
caotico, mi presentò una donna, sicuramente a me sconosciuta.
«Ciao
Evie.» La salutai con aria un po' confusa e allungai una mano
verso di lei come a voler procedere in quelle presentazioni. Sorrisi
seppur mi stessi chiedendo cosa l'avesse spinta a farmela conoscere,
visto che ero appena arrivato e mi sentivo decisamente intontito da
quella nottata.
«Io
devo sbrigare un attimo una faccenda, voi due tenetevi pure compagnia,
arrivo tra poco.» Dichiarò Felicity, servendomi
inaspettatamente una colazione che non avevo ancora ordinato, con una
velocità inumana. Seguii a stento le sue parole quando in un
attimo andò via, lasciandomi solo con quella ragazza che non
conoscevo affatto.
Nel
tentativo di evitare l'imbarazzo che altrimenti avremmo condiviso,
provai a dire qualcosa per metterla a suo agio: «Ti ha presa in
ostaggio o sei qui di tua spontanea volontà? Potrei aiutarti a
scappare, giuro che farò finta di niente.» Ironizzai sui
modi sempre troppo espansivi e coinvolgenti della mia fidanzata.
«Entrambe
le cose, credo.» Rise per poi continuare a dire, punzecchiandomi:
«E poi ammettilo, probabilmente sei tu che vorresti filare via,
forse un letto farebbe comodo. E no, non l'ho capito perché hai
troppe occhiaie, è stata Felicity a dirmi che hai appena finito
di lavorare. Immagino che tu sia stanco.»
Risi
di conseguenza e scossi il capo; alzai per qualche istante lo sguardo
sul suo viso e mi soffermai sulla piega delle sue labbra e sui suoi
occhi di un verde luminoso.
«Già.
È stata una lunga notte; anzi, sono state sette lunghe notti, ma
per fortuna sono finite. Adesso non mi resta che festeggiare prima di
andare in letargo.» Mi stropicciai il viso con una mano, certo di
non avere proprio un bell'aspetto visto che ero reduce da quella
settimana che aveva sconvolto il mio ciclo vitale.
«Che
lavoro fai? Ti capita spesso di fare le notti? Io penso che morirei. Mi
viene da sbadigliare al solo pensiero.» Mi chiese con aria
curiosa mentre mi decidevo ad addentare la mia colazione, consumando
qualche morso e rispondendole subito dopo: «Sono un medico
legale. Lavoro nell'ospedale qui vicino. Non scendo nei dettagli visto
che ciò che faccio non è esattamente un'ottima materia di
conversazione, soprattutto a quest'ora. Diciamo solo che lavoro nei
piani bassi, molto bassi.» Feci spallucce e mostrai un sorriso
ironico, certo che non avrebbe fatto fatica a comprendere ciò
che celavano le mie parole.
«Credo
di aver capito. Dev'essere un lavoro... Interessante. In realtà
non so trovare un aggettivo adatto.» Rise e lo feci anche io,
come a voler sdrammatizzare quella mia occupazione che, a molti,
avrebbe probabilmente fatto venire il voltastomaco.
«E
tu invece? Di cosa ti occupi?» Chiesi dopo aver stemperato quella
piacevole risata, cercando con interesse una risposta nei suoi occhi,
senza immaginare che avrei dovuto accoglierla con estrema sorpresa
considerato che, con fare piuttosto tranquillo, asserì:
«Sono un'investigatrice privata.»
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Capitolo 4 *** Capitolo Due ***
Capitolo Due
Evie
Non mi interessava essere capita da qualcuno, essere guardata, talvolta non mi importava che mi vedessero davvero.
Potevo tranquillamente vivere come un fantasma. La mia presenza furtiva
scattava tra le esistenze altrui come alla ricerca di un vago volto, di
un segno che mi dicesse che quella era la strada giusta da percorrere.
Lo facevo con tutta calma, in realtà, perché avevo
imparato a mie spese che, in quella caccia, la fretta non
avrebbe dato i suoi buoni frutti. Attendevo, mi esponevo quel tanto che
bastava a fare piccoli passi avanti o, talvolta, a non farne
minimamente: apprendevo l'arte della pazienza e dell'attesa.
Ero lontana anni luce dalla mia esistenza, ma non mi mancava per niente.
Non
avevo fatto altro che rincorrere quel momento. Quel bar, quella
ragazza, quel caffè bollente, le giornate passate a cercare
ciò per cui ero arrivata fin lì, nella mia città
natìa. La ricordavo a stento e onestamente non mi faceva
né caldo né freddo: Atlanta non era una casa, per me. In
fondo sapevo di non averne una, di non conoscere radici e di non avere
un passato a cui sentirmi legata e a cui pensare con nostalgia. Avevo
solo il presente, gli occhi cerulei di quella barista che mi guardava
dai suoi occhiali, la sua gentilezza e il mio bisogno di sapere che tra
quelle persone avrei trovato chi stavo cercando.
Accadde quella mattina. Potevo aspettarmi di tutto, in effetti non credevo che avrei trovato in quel luogo proprio lui.
Dopo tutte le giornate terminate con un nonnulla, ormai credevo che
avrei dovuto scovare un altro modo per arrivare a conoscerlo.
Presi
a parlargli come se niente fosse, come se non sapessi cosa avrebbe
detto e come avrebbe risposto alle mie domande; tentai di essere
naturale e di non affrettare le cose. Sapevo che il mio bisogno di
verità non avrebbe dovuto offuscare il mio giudizio né il
percorso che avrei dovuto fare pian piano, senza rischiare che il mio
istinto rovinasse tutto.
Non avevo fatto tanta strada inutilmente, non mi ero messa sulle tracce
di un passato apparentemente introvabile per correre un pericolo che
nessuno avrebbe dovuto subire, soprattutto io.
Sul
suo viso comparve un'espressione sorpresa: «Un'investigatrice
privata?! Non l'avrei mai detto, sul serio. Sembra bello. Comunque
ancora non so come mai conosci Felicity. O se sei di qui. Non credo di
averti mai vista.» Ripetè la mia professione,
probabilmente molto meravigliato dal mio lavoro che, forse, di consueto
non veniva svolto da molte donne.
«Ci
siamo conosciute in questo bar. È così socievole che
è impossibile non fare la sua conoscenza. Comunque sono nata
qui, ma mi sono trasferita altrove da bambina. Sono tornata da
poco.» Soddisfai la sua curiosità, per poi chiedere:
«Tu sei di Atlanta?»
«Nato
e cresciuto qui. Purtroppo o per fortuna, ma non mi lamento.»
Annuì, dimostrando a parole quella sorta di status da cittadino
modello, voltandosi a cercare Felicity con lo sguardo che, come a
rispondere al suo richiamo, tornò verso di noi.
Decisi
che sarebbe arrivato il momento di lasciarli soli, così
recuperai la mia borsa e mi alzai dalla mia seduta. Per quella mattina
ero sufficientemente soddisfatta.
«Beh,
credo che per me sia arrivata l'ora di andare. È stato un
piacere conoscerti, Julian. Se dovesse mai servirti
un'investigatrice... » Sorrisi con cordialità,
convincendomi a non dargli ulteriormente fastidio, o almeno non subito.
Restò
appoggiato al bancone e mi rispose con un altro sorriso volto a
mostrare la sua dentatura perfetta: «Vale anche per me, Evie.
Grazie, ci penserò su!»
Uscii
da quel bar con l'impressione di aver già fatto qualcosa di
buono. La conoscenza con Felicity aveva dato i suoi frutti: finalmente
lo avevo incontrato.
Julian era la persona più vicina alla verità.
Avevo bisogno di risposte. Non importava come le avrei avute.
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Capitolo 5 *** Continua... ***
Continua...
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Katia e Lia
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