Quello che non sai di me

di Redthread90
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** ~ ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 4: *** Capitolo Due ***
Capitolo 5: *** Continua... ***



Capitolo 1
*** ~ ***


pres

A Iris.


"E poco importa se il tempo non ci ha lasciato sperimentare.
Da qualche parte siamo invecchiati insieme,
da qualche parte continuiamo a rotolarci e a ridere."
Venuto al mondo, Margaret Mazzantini





Questa storia è protetta da © copyright, tutti i diritti sono riservati alle autrici Katia Allegretto e Italia Piro (su efp Redthread90). I contenuti non possono pertanto essere copiati, riprodotti, modificati, archiviati, pubblicati o distribuiti in tutto o in parte.

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo

Evie

Ricordavo l'amore, il vento fra i capelli, il profumo che via via sarebbe stato portato lontano, una casa gialla, un disegno di fiori. Ricordavo il sole che si infilava tra le finestre e mi veniva a svegliare, il dolce suono di una voce che udivo da sempre, e che ogni giorno mi costringeva ad aprire gli occhi con accuratezza. Ricordavo due mani che raccoglievano il mio viso, due occhi uguali ai miei. Un sorriso, una stretta, un buongiorno.

Mia madre apparteneva a quella categoria di persone che avrei definito rara, o persino un miracolo, per quanto appariva perfetta, leggera e coinvolgente. La solitudine non aveva mai fatto parte di lei, delle nostre giornate o dei miei risvegli indotti dalla sua positività; non ce n'era stata traccia durante la mia infanzia. In effetti, la ricordavo con piacere grazie alla sua infinita passione per l'esistenza e per la vita - la stessa che mi aveva regalato con ineguagliabile grazia -  e per la forza che aveva nel credere che ci fosse un qualcosa di bello in qualsiasi giornata, persino in quella più buia.

«Trova quel qualcosa che manca.» Mi diceva dolcemente: «Se anche non dovesse essere partita con il piede giusto, puoi trasformarla in luce». 
Persino quando tornavo da scuola con il broncio per via di qualche scaramuccia tra compagni o a causa di un compito andato male, aveva la capacità di rasserenarmi con quelle sue parole amorevoli. Mi portava a prendere un gelato e a guardare il mare, mi trascinava nella bontà e nella positività anche quando non credevo fosse possibile.

«Ora va meglio?» Mi chiedeva al termine di quei pomeriggi, e io non potevo che accennare un timido sorriso. Mi sentivo quasi colpevole per aver avuto il coraggio di dubitare della grandezza di ogni cosa bella intorno a me, per aver perso ore preziose della mia esistenza a raggelare il mio animo invece di trovare, anche nel peggiore degli istanti, un barlume di speranza che riaccendesse la gioia per quella vita che di certo lei era brava a farmi apprezzare.

Ed era facile tornare a casa con un sorriso e con una grande energia che riversavo nella mia voglia di fare; d'un tratto non ero più stanca per aver passato un'intera giornata fuori. Inconsciamente, realizzavo che tutto quel benessere era dovuto proprio a lei, al mio sole.

Continuava a rimettermi al mondo, a guardarmi negli occhi con la stessa meraviglia provata il giorno della mia nascita. Dal mio canto, continuavo a rallegrarmene e a desiderare che le sue attenzioni non cessassero, come se non fossero mai abbastanza. E in effetti avevo ragione nel crederlo, perché nove anni non erano stati affatto sufficienti, o almeno non per poter godere totalmente della sua vicinanza. Non ne sarebbero bastati neanche cento, a dire il vero, ma crescere sapendo di vederla invecchiare sarebbe stato sicuramente molto meglio.

«Ecco il tuo caffè, e un dolcino offerto dalla casa.» Sentii la voce di Felicity, la barista, e mi ricordai di essere all'interno di quel bar in città in cui andavo spesso e, come al solito, di essermi appena persa nei miei pensieri.

«Grazie, come sempre mi vizi un po' troppo.» La ringraziai e sorrisi con gentilezza, iniziando a mangiare e a bere la mia dose di caffeina giornaliera.

La osservai lavorare e rincorsi qualche altro pensiero sconnesso, almeno sino a quando decisi che sarebbe arrivato il momento di andarmene, se non fosse stato nuovamente per lei. «Non andrai già via, vero?» Poggiò le mani ai fianchi, alzò un sopracciglio biondo e mi osservò con un'espressione che avrei definito decisamente sconvolta. «Sta arrivando il mio fidanzato, è appena uscito dal lavoro. Te l'ho detto che te lo avrei presentato, prima o poi. Ah, eccolo lì. Evie, lui è Julian.» Continuò, voltandosi a guardare la porta del locale per poi indicarmi e presentarmi il ragazzo che stava facendo il suo ingresso.

Non appena il mio sguardo incontrò il suo, percepii un fremito che avevo atteso a lungo. Tuttavia, riuscii a nascondere le mie sensazioni e la verità che altrimenti sarebbe sgorgata facilmente dal mio sguardo.

«Ciao, piacere.» Mantenni sulle labbra un sorriso che celava intenzioni ancora indicibili. Osservai brevemente il suo bell'aspetto: i suoi occhi azzurri distoglievano l'attenzione dall'evidente stanchezza che aveva trascinato con sé. Strinsi una sua mano con sicurezza e mi presentai.

In quei frangenti, la mia mente fu capace di cristallizzarsi su un unico pensiero: quello era l'uomo che cercavo da tempo.

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Capitolo 3
*** Capitolo Uno ***


Capitolo Uno

Julian


Camminavo per le strade di Atlanta e alzavo di tanto in tanto il viso al sole, bello e caldo. Mi ero sorpreso nel trovare quel clima così piacevole una volta uscito dall'ospedale; la mia città non era famosa per il bel tempo: il più delle volte, infatti, pioveva a dirotto. Ero reduce dalle ultime ore che avevo trascorso in compagnia di un'ennesima manciata di cadaveri. Il solo fatto che non fossero dei gran chiacchieroni non mi aiutava per niente a restare sveglio; ricordavo i tempi in cui avevo dovuto sgobbare prima di arrivare a essere dov'ero, ottenendo una posizione di rilievo in quello che adesso era il mio reparto.

Anche quella notte avevo coperto il turno di uno dei miei colleghi che, a causa di una sventura, si era dovuto assentare per un'intera settimana, dando del filo da torcere a chi si era ritrovato a sostituirlo, me per primo. Avevo bevuto tanti di quei caffè che ormai la mia bocca impastata non avrebbe saputo più riconoscere alcun sapore. Tuttavia, nell'intento di poter fare colazione - o cena, visti gli orari di quei giorni - mi incamminai verso il bar dove sapevo che avrei trovato Felicity, sempre pronta a farmi dimenticare di aver passato l'ennesima nottata in bianco da solo.

Entrai, mi guardai intorno e squadrai quelle persone che si erano appena alzate dal letto per andare a far colazione in quel posto. Al contrario, io stavo tentando di ottenere un ultimo pasto prima di rincasare e tornarmene a dormire, con la voglia matta di rimettermi tra le lenzuola e porre fine a quella settimana infernale. Cercai Felicity con lo sguardo e andai verso di lei non appena la vidi, pronto a far notare la mia presenza nel locale. Ero cosciente di quanto le facesse piacere che passassi di lì prima di andare a casa e, di volta in volta, come in quell'ultima settimana, continuavo a farlo in modo da tener fede a quel nostro rituale.

Non feci in tempo a salutarla che, con il suo solito fare dinamico e caotico, mi presentò una donna, sicuramente a me sconosciuta.

«Ciao Evie.» La salutai con aria un po' confusa e allungai una mano verso di lei come a voler procedere in quelle presentazioni. Sorrisi seppur mi stessi chiedendo cosa l'avesse spinta a farmela conoscere, visto che ero appena arrivato e mi sentivo decisamente intontito da quella nottata.

«Io devo sbrigare un attimo una faccenda, voi due tenetevi pure compagnia, arrivo tra poco.» Dichiarò Felicity, servendomi inaspettatamente una colazione che non avevo ancora ordinato, con una velocità inumana. Seguii a stento le sue parole quando in un attimo andò via, lasciandomi solo con quella ragazza che non conoscevo affatto.

Nel tentativo di evitare l'imbarazzo che altrimenti avremmo condiviso, provai a dire qualcosa per metterla a suo agio: «Ti ha presa in ostaggio o sei qui di tua spontanea volontà? Potrei aiutarti a scappare, giuro che farò finta di niente.» Ironizzai sui modi sempre troppo espansivi e coinvolgenti della mia fidanzata.

«Entrambe le cose, credo.» Rise per poi continuare a dire, punzecchiandomi: «E poi ammettilo, probabilmente sei tu che vorresti filare via, forse un letto farebbe comodo. E no, non l'ho capito perché hai troppe occhiaie, è stata Felicity a dirmi che hai appena finito di lavorare. Immagino che tu sia stanco.»

Risi di conseguenza e scossi il capo; alzai per qualche istante lo sguardo sul suo viso e mi soffermai sulla piega delle sue labbra e sui suoi occhi di un verde luminoso.

«Già. È stata una lunga notte; anzi, sono state sette lunghe notti, ma per fortuna sono finite. Adesso non mi resta che festeggiare prima di andare in letargo.» Mi stropicciai il viso con una mano, certo di non avere proprio un bell'aspetto visto che ero reduce da quella settimana che aveva sconvolto il mio ciclo vitale.

«Che lavoro fai? Ti capita spesso di fare le notti? Io penso che morirei. Mi viene da sbadigliare al solo pensiero.» Mi chiese con aria curiosa mentre mi decidevo ad addentare la mia colazione, consumando qualche morso e rispondendole subito dopo: «Sono un medico legale. Lavoro nell'ospedale qui vicino. Non scendo nei dettagli visto che ciò che faccio non è esattamente un'ottima materia di conversazione, soprattutto a quest'ora. Diciamo solo che lavoro nei piani bassi, molto bassi.» Feci spallucce e mostrai un sorriso ironico, certo che non avrebbe fatto fatica a comprendere ciò che celavano le mie parole.

«Credo di aver capito. Dev'essere un lavoro... Interessante. In realtà non so trovare un aggettivo adatto.» Rise e lo feci anche io, come a voler sdrammatizzare quella mia occupazione che, a molti, avrebbe probabilmente fatto venire il voltastomaco.

«E tu invece? Di cosa ti occupi?» Chiesi dopo aver stemperato quella piacevole risata, cercando con interesse una risposta nei suoi occhi, senza immaginare che avrei dovuto accoglierla con estrema sorpresa considerato che, con fare piuttosto tranquillo, asserì: «Sono un'investigatrice privata.»

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Capitolo 4
*** Capitolo Due ***


Capitolo Due

Evie


Non mi interessava essere capita da qualcuno, essere guardata, talvolta non mi importava che mi vedessero davvero. Potevo tranquillamente vivere come un fantasma. La mia presenza furtiva scattava tra le esistenze altrui come alla ricerca di un vago volto, di un segno che mi dicesse che quella era la strada giusta da percorrere. Lo facevo con tutta calma, in realtà, perché avevo imparato a mie spese che, in quella caccia, la fretta non avrebbe dato i suoi buoni frutti. Attendevo, mi esponevo quel tanto che bastava a fare piccoli passi avanti o, talvolta, a non farne minimamente: apprendevo l'arte della pazienza e dell'attesa
Ero lontana anni luce dalla mia esistenza, ma non mi mancava per niente.

Non avevo fatto altro che rincorrere quel momento. Quel bar, quella ragazza, quel caffè bollente, le giornate passate a cercare ciò per cui ero arrivata fin lì, nella mia città natìa. La ricordavo a stento e onestamente non mi faceva né caldo né freddo: Atlanta non era una casa, per me. In fondo sapevo di non averne una, di non conoscere radici e di non avere un passato a cui sentirmi legata e a cui pensare con nostalgia. Avevo solo il presente, gli occhi cerulei di quella barista che mi guardava dai suoi occhiali, la sua gentilezza e il mio bisogno di sapere che tra quelle persone avrei trovato chi stavo cercando.

Accadde quella mattina. Potevo aspettarmi di tutto, in effetti non credevo che avrei trovato in quel luogo proprio lui. Dopo tutte le giornate terminate con un nonnulla, ormai credevo che avrei dovuto scovare un altro modo per arrivare a conoscerlo.

Presi a parlargli come se niente fosse, come se non sapessi cosa avrebbe detto e come avrebbe risposto alle mie domande; tentai di essere naturale e di non affrettare le cose. Sapevo che il mio bisogno di verità non avrebbe dovuto offuscare il mio giudizio né il percorso che avrei dovuto fare pian piano, senza rischiare che il mio istinto rovinasse tutto.
Non avevo fatto tanta strada inutilmente, non mi ero messa sulle tracce di un passato apparentemente introvabile per correre un pericolo che nessuno avrebbe dovuto subire, soprattutto io.

Sul suo viso comparve un'espressione sorpresa: «Un'investigatrice privata?! Non l'avrei mai detto, sul serio. Sembra bello. Comunque ancora non so come mai conosci Felicity. O se sei di qui. Non credo di averti mai vista.» Ripetè la mia professione, probabilmente molto meravigliato dal mio lavoro che, forse, di consueto non veniva svolto da molte donne.

«Ci siamo conosciute in questo bar. È così socievole che è impossibile non fare la sua conoscenza. Comunque sono nata qui, ma mi sono trasferita altrove da bambina. Sono tornata da poco.» Soddisfai la sua curiosità, per poi chiedere: «Tu sei di Atlanta?»

«Nato e cresciuto qui. Purtroppo o per fortuna, ma non mi lamento.» Annuì, dimostrando a parole quella sorta di status da cittadino modello, voltandosi a cercare Felicity con lo sguardo che, come a rispondere al suo richiamo, tornò verso di noi.

Decisi che sarebbe arrivato il momento di lasciarli soli, così recuperai la mia borsa e mi alzai dalla mia seduta. Per quella mattina ero sufficientemente soddisfatta.

«Beh, credo che per me sia arrivata l'ora di andare. È stato un piacere conoscerti, Julian. Se dovesse mai servirti un'investigatrice... » Sorrisi con cordialità, convincendomi a non dargli ulteriormente fastidio, o almeno non subito.

Restò appoggiato al bancone e mi rispose con un altro sorriso volto a mostrare la sua dentatura perfetta: «Vale anche per me, Evie. Grazie, ci penserò su!»

Uscii da quel bar con l'impressione di aver già fatto qualcosa di buono. La conoscenza con Felicity aveva dato i suoi frutti: finalmente lo avevo incontrato.

Julian era la persona più vicina alla verità. 
Avevo bisogno di risposte. Non importava come le avrei avute.

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Capitolo 5
*** Continua... ***


Continua...


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A presto!
Katia e Lia

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