Anathema's Apple

di silbysilby_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** BOY MEETS EVIL ***
Capitolo 2: *** LIE ***
Capitolo 3: *** BEGIN ***
Capitolo 4: *** MAMA ***
Capitolo 5: *** REFLECTION ***
Capitolo 6: *** AWAKE ***
Capitolo 7: *** FIRST LOVE ***
Capitolo 8: *** STIGMA ***
Capitolo 9: *** OUTRO: WINGS ***
Capitolo 10: *** 2!3! (STILL WISHING THERE'LL BE BETTER DAYS) ***
Capitolo 11: *** SPRING DAY ***



Capitolo 1
*** BOY MEETS EVIL ***



I'M BACK, MONDO 
E niente, eccomi. 
Ho lavorato (e sto lavorando) a questa storia da un anno ormai, sul serio. E' un'idea che mi era venuta in mente all'inizio della wings era e sarebbe dovuta essere una one shot halloweeniana. Peccato che poi ha preso il via ed è diventata una long senza fine.
Per voi ho programmato qualche contenuto ogni settimana, per cui se mi volete seguire su twitter @silbysilby troverete tutto lì E SCRIVETEMIIII, CERCO AMICI

(un ringraziamento alla mia squad che sta lavorando tanto sodo insieme a me. Grazie dell'entusiasmo girls)




But in order to be free from this crime
It’s impossible to forget and give up
Because those lips were too sweet

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BOY MEETS EVIL 

(0) September 16th, 2015

La lucina del codice a barre passò dal rosso al verde quando l'ultimo di tre biglietti venne esaminato. Si sarebbe dovuto sentire un bip, ma il vociare della gente sovrastava ogni cosa.  
Il buttafuori, un omone così largo che si doveva limitare a tenere la giubba catarifrangente della sua divisa appesa alle spalle, restituì i biglietti al ragazzino di fronte a sé. Ricambiò il sorrisetto vagamente quadrangolare di quest'ultimo con un'occhiata di pura diffidenza, giurando a sé stesso che quella era la prima e ultima volta che lasciava passare qualcuno con i biglietti ridotti in quelle condizioni. 
Si erano sorbiti, lui e tutti quei poveri cristi in fila, uno sproloquio di giustifiche su come il ragazzino si ritenesse una brava persona e su come non avrebbe mai bagnato di proposito dei biglietto falsi solo per spacciarli per veri ma rovinati. 
Alla fine il buttafuori era arrivato a un tale livello di esasperazione che avrebbe fatto passare quel trio di marmocchi anche se si fossero presentati con un pugno di ceneri in mano, proclamando di essere reduci di un terribile incendio. 
Dopo interi minuti di stallo, il suddetto trio attraversò la porta d'ingresso e la coda potè avanzare. Ci mancò poco che non partissero gli applausi. 
L'estate appena trascorsa era volata via in un soffio e si era trascinata dietro settembre. Dopo ben quattro mesi, l'Anathema, la discoteca più popolare tra gli adolescenti di Seul, era pronta a riaprire i battenti. 
Per la maggior parte della giovanissima clientela quella non era di certo la prima volta in un locale del genere, ma non c'era ragazzo o ragazza che non fosse su di giri all'idea di poter tornare a far baldoria come si deve. E tutti potevano confermare che come si faceva baldoria all'Anathema non si faceva da nessun'altra parte. 
C'era qualcosa in quel posto, qualcosa che nessuno sapeva identificare con precisione. Qualcosa che ti spingeva a tornare. Qualcosa che ti spingeva a ballare più freneticamente. Qualcosa che ti spingeva a conoscere gente, fare nuove esperienze. Qualcosa che ti faceva bere un drink in più. 
Se quelle quattro mura avessero potuto parlare avrebbero fatto venire i capelli bianchi a Dio. Neppure lui poteva dire con certezza che cosa accadeva sotto tutte quelle luci stroboscopiche. 
I biglietti per la tanto chiacchierata riapertura erano andati a ruba nel giro di pochissimo, in alcuni casi rivenduti a caro prezzo. Nessuno si voleva perdere quella che di sicuro sarebbe stata la serata più spettacolare dell'anno. L'Anathema era popolare per essere in continuo rinnovamento, per aggiungere sempre nuovi programmi, nuove attrattive: non si sarebbe certo risparmiato per quello che in pratica era il suo biglietto da visita. 
C'era una sola persona in tutta Seul che proprio non era dell'umore giusto per uscire, men che meno in un posto così affollato e claustrofobico, e quella persona era Park Jimin. 
Eppure si era ritrovato lì come tutti gli altri a farsi la fila. Lo si poteva ben distinguere tra la calca di gente: era l'unico con quell'aurea grigia, l'unico a non proferir parole e tenere la testa bassa. Indossava addirittura il cappuccio della sua felpa, ma in sua difesa si poteva dire che dagli alberi piovevano rimasugli della pioggia precedente.  
Tra quello, la sua statura e i capelli scuri appiccicati alla fronte, si poteva scorgere ben poco dei suoi occhioni neri. 
Dall'interno del locale poteva già sentire la musica battere nelle casse, ma neanche quello era in grado di risvegliare in lui la voglia di darsi alla pazza gioia.
Jimin adorava andare a ballare, la danza era letteralmente la sua vita, ma non quella sera. Non quando sapeva che all'evento avrebbe partecipato anche Chase, il suo ex. 
Aveva provato a spiegare la situazione ai suoi amici, ma loro non avevano voluto sentire ragioni. Sembrava fossero passati anni dall'ultima uscita con il gruppo al completo e questa era la prima, vera occasione di ritrovarsi tutti quanti insieme. D'altronde erano sei in totale: sarebbe stato più facile incontrarsi per puro caso a Tokyo piuttosto che trovarsi un giorno qualsiasi durante l'estate senza che qualcuno fosse in vacanza fuori città.
Pregare in ginocchio per un po' di comprensione non era servito e mostrare gli occhioni a Taehyung si era rivelata una mossa ancora peggiore. Vedere Jimin così triste aveva solo spronato l'altro a insistere di più.
Jimin apprezzava gli sforzi dei suoi amici per distrarlo e tirargli su il morale, ma davvero, voleva solo poter tornare a casa e deprimersi. L'unica compagnia ben accetta era quella di un barattolo di gelato davanti a un qualche film oscenamente patetico. 
Non voleva vedere nessuno. Non quando rischiava di imbattersi nuovamente in Chase. 
Lo aveva rivisto quella stessa mattina a scuola. Camminava per i corridoi con un braccio sulle spalle della sua nuova fiamma, un'aria fiera sul volto. Era sfilato davanti a Jimin senza degnarlo di uno sguardo, di un cenno, troppo preso a tenere il petto in fuori e le spalle dritte mentre si faceva strada tra gli altri studenti. 
E dopo tre mesi di pensieri rinnegati, Jimin ci era cascato di nuovo. 
Tutti i discorsi che si era fatto, tutte le lacrime che si era impedito di versare, tutte le foto che si era costretto a cancellare dalla memoria del cellulare; tutto andato perso nel giro di un secondo. 
Un'occhiata data di sfuggita e già Jimin si era chiesto se anche lui e Chase avevano dato quella stessa immagine di loro come coppia quando ancora stavano insieme.
Da guardarli quei due sembravano così uniti, così invincibili. Come se non avessero mollato la presa uno sull'altro neanche se qualcuno gli fosse finito addosso. Al massimo quel qualcuno sarebbe stato sbalzato a terra e loro avrebbero continuato a camminare imperterriti, senza scusarsi se gli schiacciavano un dito della mano. 
No, si era detto Jimin. Probabilmente non erano mai stati così. 
Eppure se la ricordava bene la sensazione che dava quel braccio sulla sua schiena, quella mano sul suo fianco. Chase tendeva sempre a camminare appena più avanti di lui, esattamente come lo aveva visto fare con l'altro ragazzo, dando l'impressione che stesse aprendo il passaggio per loro. Poteva sembrare un particolare da niente, ma a Jimin piaceva. Lo faceva sentire protetto. Lo faceva sentire come se qualcuno si stesse prendendo cura di lui. 
A conti fatti, la loro storia, la sua prima relazione importante, era durata poco più di un anno. Jimin era in seconda superiore, ingenuo, con tanta voglia di innamorarsi. A un ragazzo di quarta carismatico e di bell'aspetto era bastato poco per conquistare il suo affetto. 
Si erano conosciuti ad un corso locale di danza, per poi scoprire che frequentavano la stessa scuola. Jimin aveva perso il conto di tutte le volte che Chase si era meravigliato di non averlo mai notato in giro prima di quel momento. A sentire lui, l'aria timida ed impacciata che Jimin emanava ad un primo impatto nascondeva tutto il suo talento. E per talento intendeva tutto il suo fascino. 
Non era un mistero che, una volta fatta partire la musica, Jimin sembrava diventare un'altra persona. Tutto quel tenersi le braccia al petto, quel dondolare il peso da una gamba all'altra, quell'abbassare gli occhi, spariva. Puff, mai esistito. 
Solo allora uno finalmente poteva notare le forme delineate del suo corpo. O quel suo sguardo penetrante. O il modo in cui apparisse leggero e fisicamente fortissimo allo stesso tempo. 
Insomma, per farla breve, sotto quei maglioni sformati si nascondeva un pacchetto tutto-incluso per niente male.  
I due avevano iniziato a frequentarsi solamente per tenersi compagnia dopo le lezioni di danza, quando gli autobus di entrambi non sarebbero arrivati prima di una mezzora. Andavano ad occupare sempre il solito tavolino in un bar lì vicino, perdendo il suddetto autobus la maggior parte delle volte. Jimin aveva perso il conto degli innumerevoli frullati che si erano offerti offerti a vicenda, senza mai ricordarsi chi doveva i soldi a chi. 
Inutile spiegare che da cosa era nata cosa: erano finiti ufficialmente insieme nel giro di poco tempo.
Erano stati la classica coppia appiccicosa che non riesce a separarsi un attimo l'uno dall'altro.
Arrivavano a scuola il mattino con la stessa auto, passavano ogni ricreazione, ogni cambio d'ora a cercarsi e poi si trovavano anche nel pomeriggio, con o senza lezioni di danza. Erano campioni mondiali indiscussi di Smancerie e Moine in Pubblico; poco importava che gli amici di Jimin non gradissero particolarmente certi spettacoli all'ora di pranzo. 
Dal loro attaccamento asfissiante li si considerava direttamente sposati. E forse avrebbero potuto davvero prendere la cosa in considerazione per il futuro se non fosse stato per Jimin. 
Jimin, appena sedicenne, non aveva trovato il coraggio di concederglisi in quel modo. Ci erano andati vicinissimi ogni volta che si trovavano da soli con una qualsiasi superficie orizzontale disponibile, ma lui aveva sempre messo un freno alla cosa sul più bello. Le prime volte si era trattato di accumulare scuse, di fingere di avere altro da fare, di avere un qualche impedimento per cui sarebbe stato meglio rimandare. Quando poi, la sera di un loro mesiversario, il suo ex aveva preso la mano di Jimin e se l'era ficcata nei pantaloni, allora lì si era presentato il problema. 
Jimin era insicuro. Non sapeva se gli andasse completamente a genio l'idea di stare sotto. Il pensiero di essere letteralmente posseduto in quel modo era... Beh, non era piacevole. 
Perché qualcuno avrebbe dovuto infilare una parte del proprio corpo dentro di lui? Possibile che a nessun altro l'idea facesse senso?
Diciamolo pure, era terrorizzato.
Una volta spiegato questo al suo ex le cose erano parse appianarsi; avrebbe aspettato i suoi tempi. Forse dicendo così aveva pensato di rassicurarlo, di velocizzare un processo mentale che Jimin non sapeva affrontare.
Ma a quanto pare i suoi tempi furono più lunghi del previsto. Al più piccolo era stato proposto un ultimatum.  
Lì per lì Jimin era andato su tutte le furie. Aveva detto all'altro che era la cosa più squallida e ingiusta che avesse potuto fargli. 
Chase lo aveva mollato seduta stante. A sentir lui il comportamento di Jimin era infantile. 
Ed ecco che tutte le promesse, i baci e i frullati condivisi vennero spazzati via. Tutto perché non avevano fatto sesso. 
Jimin aveva mollato le lezioni di danza. Era stato rimandato in un paio di materie a scuola. Una storiella estiva aveva rimarginato le ferite di quella rottura così brusca, ma non abbastanza a quanto pare. 
Credeva gli fosse passata, ma era bastato così poco per farlo tornare a quattro mesi prima. E lì, per i corridoi della scuola, Jimin aveva visto tutti i suoi piccoli passi venire cacciati indietro con un solo calcio. 
Ecco, questo era tutto quello che aveva detto a Taehyung, ma a quanto pare le sue abilità persuasive non erano delle migliori. E se Taehyung non era dalla sua parte allora gli sarebbe stato impossibile convincere gli altri del gruppo. 
Jimin non si sarebbe ritrovato a depositare la propria giacca nel guardaroba dell'Anathema se così non fosse.
Almeno poteva consolarsi al pensiero di essersi potuto vestire come gli pareva grazie alla sua cocciutaggine. Quando Seokjin e Taehyung erano andati a prenderlo un'oretta prima avevano tentato in tutti i modi di infilargli il paio di pantaloni più stretti che avessero trovato nel suo armadio, ma Jimin non ne aveva voluto sapere. Già sarebbe uscito contro la sua volontà, ci mancava solo che fosse scomodo. 
Così Taehyung, Seokjin e Jimin erano entrati nell'Anathema, con i loro biglietti rovinati e le solette delle scarpe che scivolavano sul pavimento. Il ticchettio che seguiva ogni passo delle tante ragazze sembrava far da base musicale a tutto quello stridere della gomma bagnata.
L'odore di chiuso e di sudore li investì quando entrarono in uno dei saloni secondari per evitare la calca. La musica era travolgente e ad un volume talmente alto che il pavimento sotto i loro piedi tremava. Le luci stroboscopiche illuminavano a intermittenza la fiumane di giovani scalmanati che si dimenava in pista come un'unica massa corporea; Jimin poteva scorgerci di sfuggita facce già viste, amici, ragazzine troppo giovani anche solo per respirare l'aria nei dintorni dell'Anathema e alcuni dei ragazzi più popolari della sua scuola.
Come se si trattasse di una qualche immagine santificata, il gelato che ancora lo aspettava in freezer apparse nella mente di Jimin. Sospirò, afflitto. 
 Una cosa che lo faceva sospirare il doppio? Vedere quanto Seokjin fosse bello e sicuro di sé. 
Jimin aveva osservato il ragazzo battere una mano sulla spalla di Taehyung, chinandosi appena verso quest'ultimo per parlare. Era semplicemente stupendo quella sera e non aveva fatto altro che scompigliarsi i capelli con le mani prima di uscire. Non aveva neanche perso tempo a prepararsi dato che era abituato ad andare in giro vestito bene. 
Jimin si sarebbe soffermato anche sull'ultimo esperimento di Taehyung in fatto di stile se quest'ultimo non avesse attirato la sua attenzione. Entrambi poi si voltarono verso Seokjin, ma non riuscirono a sentire una sola sillaba di quello che stava dicendo loro. Dopo essersi ripetuto un paio di volte a vuoto, il ragazzo più grande si limitò a puntare un dito verso sinistra.
In piedi, dall'altra parte del salone, Namjoon, Yoongi e Jungkook stringevano tra le mani un qualche intruglio dal colore sospetto. Il vetro dei loro bicchieri rifletteva le luci a neon violacee che contraddistinguevano l'aerea riservata al bar, come ogni superficie bianca nel raggio di quattro metri. Tutti gli sgabelli che accerchiavano il bancone erano occupati da ragazze e ragazzi che parevano averli presi in affitto per l'intera serata; erano troppo impegnati a flirtare con i barman tra un drink e l'altro per accorgersi di dover liberare il posto per chi, come loro, stava aspettando da tempo. 
Alla vista del suo ragazzo, Seokjin partì in quarta, aprendosi un varco tra la folla danzante. Ricevendo una bella dose di gomitate e pestate di piedi, Jimin e Taehyung gli andarono subito dietro, cercando di mantenere il passo. 
Bastarono pochi secondi di lotta, una cosa più che ridicola considerando quanto fosse breve il tratto di salone che dovevano valicare, per far sparire Seokjin alla loro vista; il passaggio che si era riuscito ad aprire si era anche poi subito chiuso dietro di lui. Jimin maledì la sua statura quando un muro di ragazze dotate di tacchi a spillo gli si piazzarono davanti, sbarrandogli la strada. 
Il ragazzo allora si voltò all'indietro per controllare che Taehyung fosse ancora alle sue spalle. L'altro stava già sporgendo in avanti un braccio, le persone che gli si stavano stringendo attorno. Jimin si allungò a sua volta e la sua mano paffuta venne praticamente inglobata da quella di Taehyung; i due non mollarono la presa finché quest'ultimo non riuscì a passare e, allo stesso modo, cercarono uno spiraglio dove poter intrufolarsi. 
I due furono sollevati dallo scoprire che l'area del bar era decisamente più vivibile. Riuscivano addirittura a fare più di tre passi senza prendere contro qualcuno. 
Quando raggiunsero Seokjin dopo averlo scorto dietro uno dei tanti camerieri nella loro divisa impeccabile, quest'ultimo aveva già dato il via alla solita ronda di saluti. 
Doveva essere una cosa buffa da guardare da fuori. Probabilmente il gruppo di amici non si rendeva nemmeno conto del rito che erano andati a creare negli anni, di quella coreografia inconscia che si ripeteva ogni volta che si incontravano. Sempre le stesse azioni, sempre nello stesso ordine cronologico. 
Per iniziare, un braccio di Taehyung circondava sempre le spalle di Jungkook mentre la mano di quest'ultimo si aggrappava alla vita dell'altro, in un intreccio che emanava familiarità da tutte le parti lo si guardasse. 
Seokjin buttava le braccia al collo di Namjoon e lo baciava, incurante di spazio, tempo e persone. Che si trovassero a scuola, al supermercato o ad un ritrovo per bigotti non influenzava minimamente la cosa. 
 In tutto questo Yoongi e Jimin rimanevano proprio nel mezzo, silenziosi e con lo sguardo basso. Tiravano un sospiro di sollievo quando uno degli altri si liberava, togliendoli d'impaccio. 
Jimin veniva abbracciato calorosamente da Namjoon e stringeva Jungkook prima che il ragazzino potesse scappare via da lui. Yoongi dava qualche pacca sulla spalla ad un sorridente Taehyung e si subiva un abbraccio di Seokjin.
Tutto si svolse così, come sempre. Con l'unica differenza che Jimin non aveva abbassato lo sguardo. 
Non era riuscito a staccare gli occhi da Yoongi quando si era reso conto che il labbro inferiore dell'altro era spaccato. Dall'aspetto non sembrava trattarsi di una ferita recentissima, ma era strano che nessuno dei loro amici gli avesse menzionato la cosa. Probabilmente non doveva trattarsi di niente di importante. 
Dichiarati conclusi i convenevoli e dato qualcosa da bere anche ai nuovi arrivati, i sei ragazzi si lanciarono in pista per ballare, chi meglio e chi peggio. Iniziavano sempre in gruppo, un po' impacciati, un po' rigidi, ma poi il ritmo prendeva il sopravvento e si ritrovavano a divertirsi come tutte le altre centinaia di adolescenti presenti nel locale. Tra una canzone e l'altra finivano sempre per dividersi e perdersi di vista tra chi cercava da bere, chi andava in bagno, chi aveva avvistato qualcuno di interessante. 
Soprattutto su quest'ultimo punto Taehyung insisteva con Jimin. Aveva passato tutto il tragitto da casa sua all'Anathema a ripetergli quanto lui fosse un bel ragazzo, simpatico, gentile, solo un po' trascurato dopo gli ultimi eventi, e che era arrivato il momento di rimettersi in carreggiata.
Due orette più tardi Taehyung si sarebbe chiesto se non avesse incoraggiato l'amico un po' troppo se solo fosse stato abbastanza sobrio da ricordarsi di avere una coscienza. 
Comunque, fino a quel momento era andato tutto bene. Jimin era sceso in pista con tutti loro senza fare storie; sembrava starsi divertendo, e parecchio, anche. Ci stava prendendo gusto, inutile negarlo. 
O almeno, questo era quello che pensava prima che qualcuno urtasse contro la sua schiena. Per quel che ne sapeva poteva anche essere colpa sua dato che il ballo con cui si era lanciato con Jungkook non poteva che essere descritto come sfrenato. 
Jimin si voltò per scusarsi, l'alcool in circolo nel suo corpo che non gli impediva di essere educato. 
Il mezzo sorriso che indossava appassì in un istante.
Di tutte le persone presenti nel locale più rinomato di Seul chi poteva essere se non il suo ex? 
Proprio lui, di tutte le persone. 
Già. In compagnia del suo nuovo ragazzo, ovviamente.
Certe volte il destino era proprio una barzelletta raccontata male.
Almeno Chase gli fece l'onore di guardarlo negli occhi questa volta. Si sfregò la testa ricciuta, apparentemente in imbarazzo. Addirittura si scusò a sua volta, dicendo di non aver notato Jimin. 
Poi si allontanò con la scusa di andare a prendere da bere al bancone. 
Fine. Tutto qui. 
Come se Jimin non avesse speso come minimo una novantina di giorni a piangersi addosso per lui. A rimpiangere di non esserci andato a letto quando glielo aveva chiesto, solo per vedere per quanto sarebbero stati ancora insieme. 
Il DJ stava dando il meglio di sé con remix cadenzati e originali, ma Jimin si era pietrificato sul posto. 
Chase aveva portato un altro a ballare all'Anathema. Nel loro posto. 
Cavolo, il pavimento sotto i suoi piedi probabilmente fumava ancora tanto il furore con cui erano soliti ballarci loro due insieme e lui era già andato oltre. 
Ma come faceva a stare lì e pensare a qualcun altro che non fosse lui? No, perché era da quando era arrivato che Jimin non faceva altro che premere i ricordi verso il basso, segregandoli da qualche parte. 
Neanche a dirlo, se prima fare così era servito a qualcosa, dopo quell'incontro era andato tutto alla malora. 
Jimin desiderò un altro drink. O altri cinque.
Come avrebbe potuto dimenticare le teste appoggiate sulle spalle, le sue braccia intorno a lui, le risate alticce, i loro visi vicini, la melodia della loro canzone?
Per non parlare del modo in cui Chase lo guardava mentre ballava. Succedeva spesso che si fermasse, facesse un paio di passi indietro come per ampliare la sua visuale e se ne stesse lì a fissare Jimin. Lo faceva anche nell'ultimo periodo, il peggiore, quando avevano i giorni contati e loro uscivano insieme tanto per salvare le apparenze. Bastava che Jimin iniziasse a lasciarsi guidare dalla musica e a muoversi in quel suo caratteristico modo sinuoso che l'attenzione dell'altro era immediatamente catturata. Il suo ex diventava geloso di tutti quelli che appoggiavano gli occhi su di lui, cosa che Jimin trovava adorabile. 
Ricordava perfettamente quel suo sguardo incantato farsi sempre più voglioso. Un'ora prima non rispondeva alle sue telefonate, una mossa di bacino e pendeva dalle sue labbra. 
E invece adesso si allontanava con il suo nuovo ragazzo. 
Mai prima di quel momento Jimin desiderò così ardentemente di essere ammirato in quel modo. Desiderò sentirsi apprezzato, sentirsi attraente. 
Ma più di tutto desiderò farla pagare a Chase. Desiderò fargli rimpiangere di averlo lasciato.
Doveva mostrargli che gli era passata, che era storia vecchia. Doveva chiudere il capitolo una volta per tutte e andare avanti, doveva sbattergli in faccia che, non solo stava bene, ma stava anche meglio senza di lui.
Non ti avevo notato, aveva detto Chase. 
Beh, era arrivato il momento che lo facesse, invece. 
Jungkook era stato troppo preso dalla canzone per accorgersi della brevissima interazione tra i due. L'unica cosa che seppe era che un attimo prima stava ridendo e ballando con Jimin, un attimo dopo l'espressione dell'altro aveva subito un cambio repentino. 
Con la gente che lo sballottava a destra e a sinistra, Jungkook provò a chiedergli cosa gli prendesse, ma venne distratto da un Taehyung un po' brillo che rischiò di rovinare a terra. 
Jungkook non fece in tempo ad allacciare le braccia intorno al suo migliore amico per sorreggerlo che questo gli si appese al collo ridacchiando, facendogli perdere l'equilibrio.
Quando Jungkook riuscì a levarsi Taehyung di dosso e a rimettersi sui suoi piedi, Jimin era scomparso.
Subito diede l'allarme a Namjoon che lo rassicurò; il ragazzo sarebbe saltato fuori in un modo o nell'altro prima dell'orario prestabilito per andare via. Bastava tenere gli occhi aperti, non c'era bisogno di organizzare una spedizione di ricerca per setacciare l'Anathema. 
E anche quella volta Namjoon aveva ragione, anche se non poteva saperlo. Senza alzare un dito, il mistero della scomparsa di Jimin si risolse da sé due minuti dopo, quando Namjoon si sentì tirare leggermente per una manica. 
Yoongi era al suo fianco. Doveva essersi morso il labbro perché pareva sul punto di sanguinargli di nuovo. Namjoon stava per dirgli di starci attento, ma qualcosa stonava nel modo in cui lo sguardo dell'altro era perso lontano. 
Bastò seguirne la traiettoria per coglierne la nota che aveva portato disguido in quella sua ormai ben orchestrata sinfonia. 
Quegli occhi puntavano al salone principale dell'Anathema, al centro della pista da ballo. Un ridente quartetto di ragazze immagine stavano aiutando una figura familiare a salire sul piccolo palcoscenico che era posizionato lì. 
 Non si poteva neanche definirlo con certezza un palcoscenico, era più una variante ai normali cubi che si possono trovare in qualsiasi discoteca. Ad occhio e croce arrivava all'altezza del bacino di una persona di media statura. Era dove le ragazze immagine dell'Anathema erano solite stare, sia che si limitassero ad ancheggiare, strette nel tubino color prugna che costituiva la loro divisa, o che si esibissero con una coreografia vera e propria. 
Una volta riuscito a salire, Jimin si resettò la stoffa sulle ginocchia con le mani. Le ragazze subito lo accerchiarono, tutte in ghingheri con i loro chignon e il loro rossetto viola. Se fosse stato ubriaco duro avrebbe creduto di vederci quadruplo. 
A una ventina di metri da lì, Namjoon maledì una di loro per essere proprio in mezzo alla sua visuale. Non capiva cosa stesse succedendo e la cosa non gli piaceva. Che motivo aveva Jimin di sparire senza dire niente a nessuno e salire su un palcoscenico riservato allo staff del locale?
Se non fosse stato a conoscenza che quella sera indossava precisamente quel felpone grigio si sarebbe detto che non si trattava del suo amico.
Namjoon richiamò tutta la truppa a rapporto, dicendo loro di spostarsi nel salone principale. Taehyung era troppo andato per fare domande, ma Seokjin e Jungkook gli lanciarono uno sguardo interrogativo. Quegli stessi sguardi si riempirono di stupore quando gli fu indicato Jimin, una spiegazione più che sufficiente.
Yoongi era già metri avanti loro, senza curarsi minimamente di aspettare i suoi amici per non perderli nella folla. 
E così Jimin si era ritrovato su un fottuto palco, pronto a pentirsi delle sue azioni sconsiderate. 
 Nella folla, gli occhi di qualcuno erano già su di lui, in uno strano effetto domino che portava sempre più persone a fissarlo. Non si era minimamente reso conto di quanta gente fosse presente. Erano davvero in tanti. I suoi pensieri andarono alle uscite di sicurezza, senza ombra di dubbio insufficienti ad evacuare il locale velocemente. 
Jimin si fece coraggio e chiuse gli occhi, inalando l'aria satura della discoteca. 
Prese le persone che aveva appena visto, le prese tutte, dalla prima all'ultima, e le cancellò. C'erano solo lui e la musica.
Lui, la musica e il suo ex.
Il suo ex che da lì a poco lo avrebbe visto ballare così freneticamente che l'anima di Jimin avrebbe faticato a tenere il passo del corpo. 
Il suo piede prese a battere il tempo. Assorbì il ritmo per gradi, facendolo fluire verso l'alto. La gente mormorava, si chiedeva che diamine stesse facendo lì impalato, ma lui li lasciava aspettare.  
La musica saliva, saliva, saliva e la coscienza di Jimin scemava, scemava, scemava. 
Partì il drop della canzone e lui iniziò a muoversi liberamente, i suoi passi di danza forti e audaci velati da una grazia e un'eleganza che lo avevano sempre contraddistinto dagli altri ballerini. Tenendo le palpebre socchiuse non ebbe paura di osare, di far vedere quello di cui era capace, lasciando che la creatività lo precedesse e gli facesse piegare le ginocchia, roteare busto e fianchi, rovesciare la testa all'indietro. 
Fin da quando Jimin era stato grande abbastanza per imparare a vergognarsi aveva sempre preferito evitare di improvvisare davanti agli altri, anche quando gli veniva richiesto dagli insegnanti di danza. Lo spaventava l'idea che, vedendo quel suo modo spudorato di ballare quando non si dava freni, quasi rasente al volgare, le persone potessero farsi un'idea sbagliata. 
Jimin sapeva che qualcuno gli avrebbe dato dell'arrogante, del pieno di sé, ma in quel momento andava bene così. 
Aveva un cuore spezzato e tanta voglia di farsi aggiustare, cosa gliene importava del giudizio di un branco di sconosciuti?
Jimin riaprì gli occhi solo quando sentì un paio di mani sulle sue spalle. Erano quelle curate e leggere di una delle ragazze immagine che prese a ballare con lui, seguita a ruota dalle altre tre. Lo affiancarono, continuando ad ancheggiare e atteggiarsi. Una di loro portò alla bocca di Jimin il drink che era intenta a bere lei, approfittandone per passargli le dita tra i capelli appiccicati alla fronte. Il pubblico urlava e fischiava, apparentemente apprezzando lo spettacolo diverso dai soliti stacchetti. 
La musica cambiò e una traccia sensuale prese a rimbombare tra le pareti dell'edificio. Le ragazze sorrisero smaglianti a Jimin, incitandolo a riprendere a ballare. 
Per la prima volta in quella serata, lui ricambiò il gesto spontaneamente. Fece come gli avevano detto. 
Tre canzoni più tardi tutti i giovani che posavano gli occhi sul piccolo palcoscenico rimanevano catturati dallo spettacolo che si stava svolgendo; Jimin e le ragazze stavano dando il meglio, facendo gara a chi riusciva a provocare maggiormente il pubblico tra mosse audaci, passi a due improvvisati, risate incontrollabili e mosse all'americana tutte bacino e pensieri sporchi. 
L'apice del consenso da parte degli spettatori venne raggiunto quando la ragazza che lo aveva approcciato per prima, i capelli ormai sciolti sulle spalle, allungò le braccia intorno a Jimin e gli sfilò la maglietta madida di sudore da sopra la testa. La mandò a far compagnia alla felpa grigia, tristemente abbandonata in un angolino del palcoscenico. 
Quel fisico modellato da tanti anni di allenamento fu sotto gli occhi di tutti, mandando in visibilio l'ammasso di gente per lo più ubriaca che si accalcava contro il palchetto.  
Furono scattate foto e girati video di Jimin, delle linee degli addominali che seguivano le sue movenze, il suo corpo che diventava oggetto di chiacchiere e apprezzamenti. La sua pelle sudata venne immortalata sotto le luci dei led colorati, accentuando le ombre tra le scapole ben definite. 
In tutto questo Jimin danzava e basta. Jimin danzava e non pensava a niente.
Roteò su se stesso, accompagnando la mossa prima con la testa e poi di petto, i capelli ormai ridotti a ciocche scure che gli piovevano davanti al viso. 
Fu in quel momento che i suoi occhi trovarono il suo ex in mezzo alla folla. 
Da quel che poteva vedere da quella distanza, il suo ragazzo gli aveva affondato il viso nella piega del collo, ignaro di tutto, e Chase si limitava a stringergli passivamente i fianchi; tutta la sua attenzione era radicata proprio sulla figura di Jimin, su tutta quella pelle che non aveva potuto proclamare per sé ma che ora era sotto gli occhi di tutti. 
Jimin lanciò un sorrisetto sbieco riservato a lui prima di crollare sulle ginocchia. Dopotutto la vendetta va servita su un piatto d'argento, no?
Il ragazzo gattonò fino al bordo del palco e ci si mise seduto con le gambe a penzoloni. Faccia a faccia con il gruppo di giovani più accaniti della massa, riconobbe tra di loro uno dei ragazzi più belli e popolari della sua scuola, un qualche giocatore della squadra di atletica. 
Quei suoi occhioni azzurri si sgranarono nel momento in cui Jimin lo afferrò per il colletto della camicia e gli infilò senza esitazioni la lingua in bocca, zittendo chiunque fosse abbastanza vicino da vederli. Poi il bellimbusto aveva ricambiato il bacio con altrettanto trasporto, troppo sbronzo per ricordarsi della sua fidanzata, e la folla aveva ripreso a scatenarsi con il doppio della ferocia.
Dall'altra parte della sala, le facce di Seokjin, Namjoon, Yoongi e Jungkook erano a dir poco esterrefatte. Nessuno fece niente. Nessuno disse niente.
L'unico a dar segni di vita era Taehyung, in un vago tentativo di attirare l'attenzione di qualcuno che potesse accompagnarlo gentilmente a vomitare. 
Non proferirono parola neanche quando un paio di braccia mascoline sollevarono Jimin dal palco come se non pesasse niente. Il loro amico venne inghiottito tra la folla sottostante, una mano dietro al suo collo che fece collidere il suo viso con quello di un altro, e loro lo persero di vista una volta per tutte. 


 

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Capitolo 2
*** LIE ***



DAN DAN 
(sì, evviva le entrate in scena drammatiche)
Il primo capitolo! Si entra nel vivo della questione dopo un prologo molto vago, finalmente. 
Vi dico già che nelle primissime scene di questo capitolo sono presenti due personaggi originali: so che sono meno interessanti, ma quel pezzo è fondamentale per tutto lo sviluppo della vicenda. Stringete i denti e leggete lo stesso per favore HAHAHA

E niente, vi lascio al capitolo. Se volete seguirmi su twitter @silbysilby pubblico spesso qualcosa di speciale per voi E SCRIVETEMI, CERCO AMICI




 
 Find the me that was innocent
I can’t free myself from this lie
Give me back my laughter 

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LIE 

(1) October 31st, 2015 - Saturday                                                                      

Nessuna targa contrassegnava il minivan nero che stava girando per le strade di Seul. 
Nessun passante ci fece caso, nessun vigile fermò il suo passaggio, come se l'abbagliante riflesso del sole sulla carrozzeria costringesse la gente a distoglierne lo sguardo. Oppure quel suo passare innosservato era dovuto al silenziatore del motore. 
Ma, se così fosse stato, non ci si spiegava come mai non si sentì il minimo scricchiolio quando quelle ruote calpestarono la sottile ghiaia depositata nel parcheggio dell'Anathema. 
La luce pallida di quel tardo pomeriggio si stampò sui finestrini oscurati, permettendo agli alberi di rifletterci i loro rami spogli. L'autovettura si arrestò lì, spegnendosi. 
La portiera del conducente si aprì. L'uomo che ne scese indossava un giubbotto smanicato color porpora  su un paio di pantaloni da operaio, una mascherina anti-polvere nera a coprirgli il viso fin sotto gli occhi. Un secondo uomo conciato alla stessa maniera sbucò dai due sportelli sul retro della vettura e andò subito ad aprire la portiera del passeggero. 
L'alta statura del terzo uomo lo costrinse ad abbassare il capo per evitare di prendere contro la tettoia del minivan quando ne uscì. Parte dei suoi mocassini persero lucidità quando sprofondarono appena nella ghiaia, ma lui ci fece caso. Il classico completo nero che indossava avrebbe reso ben chiaro il suo ruolo in quel trio, ma portare sopra una giacca così elegante lo stesso giubbotto porpora rovinava la sua credibilità. E diciamo anche che quel berretto di cotone a righe non era proprio il massimo.
Con quegli occhi che sbucavano da sopra la mascherina perlustrava l'esterno del locale, lo sguardo acceso da una curiosità che avrebbe stonato nella figura di qualsiasi altro adulto. 
Ovviamente aveva già avuto modo di visitare l'Anathema in altre occasioni, ma vedere uno dei locali più rinomati di sempre alla luce del giorno faceva tutt'altro effetto. L'edificio era compatto, spoglio. Le luci a led delle grandi lettere poste sopra i vari portoni principali che lo intitolavano erano spente, grigie e tristi. 
Non si sarebbe detto esserci anima viva se non fosse stato per quel filo di musica che a malapena poteva essere percepita dall'esterno. 
Quando una vocina sottile lo chiamò da dentro il minivan, l'uomo si voltò. I segni sotto i suoi occhi lasciavano indovinare il suo sorriso mentre si sporgeva a mani protese verso la portiera da cui era uscito lui stesso. Un paio di braccine andarono subito a circondargli il collo, due gambette si ancorarono al suo busto senza che i talloni riuscissero a toccarsi dietro la sua schiena. Solo i capelli biondissimi della bambina furono visibili quando quest'ultima chinò il visino sulla spalla dell'uomo che per sostenerne il peso l'avvolgeva con un solo braccio. 
Nel frattempo gli altri due uomini si erano assicurati di aver chiuso la vettura, una valigetta nera scaricata a terra poco prima che fu raccolta dal manico da uno di loro. 
Insieme, lo stravagante gruppetto si diresse verso l'ingresso dell'Anathema, qualche foglia secca che approfittava della loro distrazione per riposare sul vano del loro minivan. 


Era da circa un'oretta che lo staff al completo dell'Anathema era in fermento. 
Solitamente, quando la discoteca dava il via alle danze alle ventitré, il loro orario standard, dovevano farsi trovare sul posto di lavoro alle ventuno, ma per l'occasione tutti erano stati convocati in anticipo. 
Era il giorno di Halloween e Patrick Daront non se ne sarebbe tornato a casa senza un nuovo record di incassi. 
Da proprietario qual'era, l'uomo si era messo a fare su e giù per gli angusti corridoi del suo locale, andando incontro a chiunque, baristi e DJ, donne delle pulizie e ragazze Immagine, pronto a impartire ordini e a sfornare soluzioni. 
Con quella sua statura nella minor media (Così la definiva lui. Chiunque altro gli avrebbe semplicemente dato del basso), il suo completo formale all'ordine del giorno che non mascherava il fisico torchiato, le basette segnate di grigio e la fronte resa troppo alta dal principio di una calvizia, pareva più un vigile stradale, trovatosi lì a dirigere il traffico pedonale a suon di fischietto e paletta. Non faceva multe, ma minacciava di licenziare chiunque gli rubasse un secondo di troppo del suo prezioso tempo per questioni inutili. 
Come per esempio il cameriere che aveva davanti a sé in quel momento. Il ragazzo non doveva avere più di venticinque anni ed era tutto curvo in avanti, come se la vergogna che gli impregnava le guance pesasse così tanto da non riuscire a sollevarsi da quell'inchino. 
Daront gli stava facendo una lavata di testa memorabile; seppur curiosi, nessuno degli altri dipendenti si era affacciato sul corridoio per paura di prenderci sotto a loro volta. 
C'era qualcosa di spaventoso nel modo in cui Daront riprendeva le persone. Sgridava senza alzare la voce, con un mormorio secco e cadenzato di sillabe. Teneva gli occhi ben aperti e li piantava in quelli del malcapitato, facendolo sentir combattuto tra l'istinto di abbassare i propri o di sostenere il suo sguardo. In tutto questo tendeva anche a gesticolare, distraendo la vittima. 
Pareva quasi lo facesse apposta: finché guardavi in giù eri umile; lo guardavi negli occhi, eri rispettoso e con un minimo di palle. Le tue pupille scivolavano di lato per una frazione di secondo? Eri un arrogante figlio di papà che non gli prestava attenzione quando parlava. 
Il cameriere in questione non faceva altro che ripetere quanto fosse desolato, ma ogni volta che apriva bocca Daront gli parlava sopra. Quando poi riuscì a chiedere il permesso per poter andare a cercare a casa propria il cravattino della divisa che a quanto pare aveva perso, Daront gli chiese se non preferisse chiamare la sua mammina.
Il ragazzo era poco dignitosamente sull'orlo del pianto quando da una delle porte sbucò l'addetto alla segreteria, il telefono premuto tra capo e spalla e una cartellina sui cui era intento a scrivere poggiata sull'avambraccio. 
"Signore," lo chiamò, il tono di voce piatto. "un uomo chiede di poterla incontrare seduta stante. Dice di essere di famiglia." 
Daront fece un cenno disinteressato con il braccio, stringendosi l'attaccatura del naso tra l'indice e il pollice. "Senza appuntamento non esisto per nessuno." 
Un attimo di silenzio mentre il segretario aspettava la risposta dall'altra parte della linea dopo aver riferito. 
"Dice che è un'emergenza, signore."
Un lungo sospiro impaziente uscì dalle narici di Daront, le folte sopracciglia che quasi si toccavano mentre valutava la situazione. 
"E va bene, fallo entrare e digli di salire al primo piano."
Daront rimase a fissare lo stipite della porta anche quando il segretario annuì con il capo e tornò all'interno della sua stanzetta. La voce incolore di quest'ultimo si perse tra i rumori della stampante in funzione e la combinazione dei tasti per aprire l'ingresso giù. Lo sguardo scocciato di Daront tornò a posarsi sul capo del cameriere, che in tutto questo non si era mosso di un millimetro; dovette trattenersi dal rifilargli un calcio poco giocoso al fondoschiena. 
"Va a casa." disse, spazientito. "Se questa sera non ti vedo con quel fottutissimo cravattino al collo e un sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia non disturbarti a presentarti la prossima settimana."
Il ragazzo sgattaiolò via il più velocemente possibile, andando a prendere le sue cose.
Daront si voltò dalla parte opposta del corridoio, andando incontro a chiunque avesse deciso di infastidirlo con quella visita inaspettata. Un paio di nomi gli balenarono alla mente, provando a ipotizzare di chi si potesse trattare.
Eppure rimase interdetto quando si ritrovò di fronte suo fratello. 
Lloyd Daront era proprio come lo aveva visto l'ultima volta un paio di anni prima. Forse le fossette intorno al suo sorriso e i segni intorno agli occhi si erano fatti più marcati, ma per il resto sembrava che i suoi trent'anni si stessero prolungando a data da destinarsi. I dieci anni di differenza che dividevano i due fratelli parevano essere diventati quindici. 
Ecco, forse a farlo rimanere così di stucco non era la semplice presenza del fratello. Era l'aurea che emanava, quel non so che di europeo o nordico a cui Patrick non era più abituato. La cosa non avrebbe dovuto toccarlo più di tanto; d'altronde poteva vedere i propri occhi azzurri ogni giorno allo specchio, chiaro segno del suo non appartenere a Seul o alla Corea in generale. 
Lloyd doveva essersi presentato lì dritto dritto dalla loro città natale, pallido e secco com'era.
Oppure a colpire Daront poteva essere stato il fatto che il fratello non fosse solo.
No, perché la bambina avvinghiata al suo collo e i due scagnozzi in borghese non se li era aspettati. 
"Lloyd." disse Patrick, lo stupore nella sua voce che suonava come entusiasmo. Continuò ad avanzare verso la piccola combriccola di persone, le braccia prima aperte e poi chiuse, come se temesse che il fratello potesse mal interpretare il gesto come un invito ad abbracciarlo. "A cosa devo questa visita inaspettata?"
La lingua calcò sull'inaspettata. Frequentato o meno durante gli ultimi due anni, Patrick aveva delle mansioni da svolgere nell'immediato. 
Porse la mano al fratello che, dopo aver poggiato a terra la bambina, ricambiò la stretta. 
Posto uno di fronte all'altro, chiunque si sarebbe messo a far confronti tra i due fratelli Daront. Dove Patrick era bassino e robusto, Lloyd era alto e smilzo. L'espressione perennemente turbata del primo compensava quella spensierata del secondo. Solo tre cose li avevano sempre accomunati, a detta di chi aveva avuto modo di conoscere entrambi: il colore degli occhi, quei capelli così scuri da sembrare neri (che Lloyd teneva attualmente nascosti sotto il berretto a righe) e la creatività nel far soldi. 
Lloyd non fece neanche in tempo a lasciare la mano di Patrick che la bambina subito si mise a tirargli un lembo dei pantaloni del completo elegante, stropicciandoli nel suo pugno. L'uomo sorrise e si chinò su di lei, premendosela contro il petto da dietro le ginocchia prima di sollevarla. 
Daront assisté alla scena senza dire una parola, ma era ovvio che fosse confuso dall'identità della bambina. Che lui sapesse, suo fratello due anni prima non gli aveva certo annunciato che sarebbe diventato zio, e lei non dimostrava meno di cinque anni. E se avesse avuto ancora qualche dubbio in merito quelle guance color pesca, i capelli di un biondo alpino e gli occhioni di un azzurro quasi grigio che aveva intravisto glielo avrebbero tolto. 
Notando lo sguardo confuso sul volto ruvido del fratello, Lloyd si affrettò a fare le presentazioni con un sorriso rinnovato. Il che ricordò a Patrick quella volta in cui, da novello adolescente, il fratello minore si era imposto di non ridere mai più. Gli avevano detto che quando lo faceva assomigliava vagamente ad un'iguana per via delle labbra sottili e lui ci era rimasto malissimo. 
Già, era stata una settimana parecchio triste in casa Daront, quella. 
"Patrick," iniziò Lloyd, la mano libera che andava ad allentare la cerniera della giacca della bambina per non farle patire caldo. "questa è Melanie, la figlia della mia compagna." 
Il fratello maggiore sollevò un sopracciglio, ma non commentò la cosa. Avrebbe potuto chiedere dove fosse la madre di Melanie in quel momento, o da quando esattamente suo fratello avesse una compagna, ma non erano informazioni che lo interessassero davvero.
Era già abbastanza imbarazzante vedere il proprio fratello incitare una bambina a salutare di rimando canticchiando il suo nome in falsetto. Ci mancava solo che le prendesse il polso per farle fare ciao ciao con la manina. 
"Gli uomini con te?" 
Lloyd smise di infastidire la bambina, come se si fosse ricordato solo in quel momento dell'esistenza degli altri due. Si rizzò meglio sulla schiena, mostrandosi in tutta la sua altezza. Teneva addirittura il mento più alto. 
"Lavorano per me. George, Matt, mio fratello Patrick Daront." 
I due uomini si chinarono in simbiosi. Si abbassarono la mascherina dal viso solo per salutarlo educatamente. 
Ancora una volta, Daront avrebbe voluto commentare sul fatto che i due fossero letteralmente vestiti come due operai, con tanto di logo bianco sulla giubba smanicata (cos'era, una specie di cuore stilizzato?). Non sapeva esattamente quale mansioni dovesse svolgere uno per essere un dipendente del fratello, ma si sarebbe aspettato qualcosa di meno... comune? 
Senza menzionare il fatto che quel color porpora della loro divisa faceva davvero scappar da ridere su tre uomini grandi e vaccinati come loro. Ecco, quello senz'altro lo aveva scelto Lloyd. Doveva davvero avere potere su di loro se non si erano ribellati a quello strazio per gli occhi. 
Comunque, qui qualcuno non stava rispondendo all'unica domanda importante. 
Patrick non fece un segreto della lunga occhiata che diede al suo orologio da polso. 
"Lloyd," chiamò, lo stesso tono che avrebbe usato con un bambino ottuso. Beh, lo stesso tono che usava con lui quando lo riteneva solo un bambino ottuso. "Che ci fai qui? Vedi, starei lavorando-"
"Siamo in gita." 
La serietà con cui Lloyd lo disse fece venire voglia a Patrick di rifilare a lui tutti quei calci che aveva risparmiato prima al cameriere. Si ritrovò a stringere i pugni, il ticchettio delle lancette che gli risuonava nelle orecchie. Non digrignò i denti solo perché la bambina lo stava fissando.
"Hai detto al mio segretario che si trattava di un'emergenza."
"Infatti, la gita era per Melanie. A me serve solo un favore." 
Patrick stava ufficialmente perdendo la pazienza. 
"Mi dispiace, hai scelto la serata sbagliata. Qui siamo nel bel mezzo dei preparativi per l'evento di questa sera, i miei dipendenti hanno bisogno di consultarmi. Non ho tempo di stare a sentire te." 
Detto questo, Patrick diede le spalle al fratello e alla sua allegra compagnia, incamminandosi giù per il corridoio. Loro gli andarono subito dietro, senza lasciarlo mai allontanare troppo per quanto lui allungasse il passo. 
"Non c'è problema," esclamo Lloyd, i talloni che battevano secchi contro le ante del pavimento man mano che recuperava campo. "Tu fa quel che devi fare, stacci solo a sentire." 
"Passate domani alla stessa ora. Mi trovate nel mio ufficio." 
"No, è urgente, davvero. Ho bisogno del tuo favore questa sera. E' una questione d'affari." 
Per poco Patrick Daront non si mise a ridere, fermandosi solo un attimo per firmare un paio di documenti portategli dallo stesso segretario che aveva risposto al telefono. Dopo un gesto veloce e svolazzante della biro, la riconsegnò a quest'ultimo e tornò a seminare il gruppetto. 
Lloyd si calcò meglio la bambina in braccio, facendola saltare. Per tutto il tragitto precedente Melanie si era divertita a passare un dito sul sottile strato di velluto che ricopriva le pareti, la stoffa così vecchia che, tra il colore verde bottiglia, l'odore che emanava, i vari fili che spuntavano dalle sfregiature e zone in cui la colla non aderiva più, sembrava sul punto di marcire.  Si poteva vedere chiaramente la sottile scia di quel ditino che aveva accarezzato il velluto contropelo, cambiandone colore. 
Lloyd schioccò un paio di volte le dita della mano, il braccio proteso all'indietro verso uno dei suoi uomini. Non rallentò e non demorse. "Ho saputo che ultimamente non te la passi molto bene. Il tuo nome e quello dell'Anathema sono ovunque sui giornali, è uno scandalo dopo l'altro." 
Daront nemmeno si voltò, si limitò a curvare le sopracciglia.
"Ho aperto una discoteca, non un convento." 
"Guarda qua," disse Lloyd, un fascicolo rilegato in pelle nera stretto a fatica in una mano. "Abbiamo pensato molto a quali sono i punti deboli di questo locale, e sono sempre i soliti, ogni volta che ti accusano." 
Un paio di ragazze sbucarono da una porta senza fare attenzione, le loro coulotte e le canottiere aderenti al corpo dal sudore dopo aver ripassato qualche nuova coreografia. Lloyd le schivò per un pelo, mentre George e Matt si dovettero scansare ai due lati opposti del corridoio per farle passare. 
Le parole di Lloyd si stavano facendo ansimanti; per quanto fosse il più giovane dei due, non era mai stato un grande sportivo. Iniziò ad elencare. 
"Risse, minorenni che abusano di alcolici, spaccio, malesseri. Sono addirittura riuscito a trovare un caso di stupro. Hai pagato il tuo avvocato affinché sistemasse la situazione anche per il tizio denunciato, non è vero?" 
Daront ignorò le parole del fratello, affiancato per pochi passi da un giovanissimo DJ dalla testa rasata, le cuffie intorno al collo e una lista delle tracce sui cui avrebbe lavorato quella sera da approvare.
"Ho documentato anche le varie dichiarazioni della polizia, quelle in cui promettono di effettuare più controlli senza preavviso. Se questo è vero tu devi star già perdendo una bella fetta di clientela tra minorenni e il giro di spaccio chiuso-" 
Alla parola spaccio, Daront si voltò di botto, l'espressione dura. Le sue labbra quasi non si mossero quando parlò, gli occhi che si guardavano intorno alla ricerca di ascoltatori sgraditi.
"Vuoi chiudere quella cazzo di bocca?" 
Lloyd rimase indifferente all'ira del fratello, contento anche solo di averlo raggiunto. Si appoggiò con una mano ossuta alla sua spalla, riprendendo fiato. 
"Aspetta a criticare, segui il mio ragionamento." disse, finalmente dando alla sua voce una pausa da tutto quel sgolarsi. "Fai in modo che i tuoi clienti possano trovare alcool e droga solo per renderli dipendenti e farli tornare all'Anathema più spesso, giusto o sbagliato?"
Patrick guardò male il fratello, ma stette al suo gioco, controvoglia. 
"Giusto."
"Con tutti questi controlli sei costretto a tenere la guardia alzata e di conseguenza stai perdendo soldi, giusto o sbagliato?"
"Sicuro che tua... nipote, figliastra, quel che è, possa ascoltare questa conversazione?" 
Lloyd si voltò verso Melanie, come se fosse apparsa magicamente tra le sue braccia. Si morse le labbra da anguilla, probabilmente immaginandosi cosa avrebbe detto la compagna se la piccola se ne fosse uscita con discorsi su vodka e hashish. 
Puntellò un indice contro il suo nasino, facendole gli occhioni grandi. E rieccolo con la voce in falsetto. "Se non dici niente alla mamma dopo ti do la merenda." 
La piccola sorrise, mostrando i dentini da latte un po' storti. Lloyd le scoccò un bacio sulla guancia e proseguì.
"Allora, giusto o sbagliato?" 
Daront ormai aveva deciso che per quella giornata non si sarebbe fatto più domande.  
"Giusto."
"Bene. Ora, se ci pensi, quando è che di solito la gente va in discoteca, beve, fuma o si fa?" La domanda era retorica, il discorso evidentemente preparato prima, per cui Patrick sapeva di non dover davvero rispondere al fratello che infatti continuò. "Quando è giù di morale. O è su di giri. Quando sta troppo bene o troppo male, oppure quando vuole uscire dal tuo locale stando meglio o stando peggio. In parole povere, le persone frequentano le discoteche per cercare emozioni o per dare sfogo a quelle che hanno già." 
Una breve fila di persone attraversarono lo stretto corridoio carichi di scatoloni, pronti a decorare le sale da ballo dell'Anathema a tema halloweeniano. I due fratelli si zittirono, vedendosi sfilare davanti più coppie di ragazzi, uno per ogni estremo di una serie di bicchieri da cocktail alti tanto quanto un ragazzino. 
Ripresero a parlare non appena svoltarono l'angolo. 
"A te non servono sostanze stupefacenti o altre porcherie. Ti serve solo che la gente spenga il cervello e si lasci guidare dagli impulsi."
"Ti avverto, se ti metti a parlare seriamente di emozioni ti butto fuori." 
Lloyd sorrise, già pregustando la fine del suo discorso sulla punta della lingua.
"Ho la soluzione che fa per te." 

Il meccanismo che teneva serrata la valigetta nera venne sbloccato facilmente. Lloyd la fece girare su sé stessa, approfittando della superficie liscia della scrivania a cui era appoggiata, mostrandone l'interno al fratello. 
Quando avevano capito che la conversazione si stava facendo più seria, e di conseguenza meno aperta al pubblico, si erano tutti trasferiti nell'ufficio di Daront. 
A differenza degli sciatti corridoi o dell'arredamento all'avanguardia delle sale da ballo, l'ufficio di Daront si poteva definire noioso. Il mobilio era per la maggior parte in legno, le tre poltroncine che attorniavano la scrivania di pelle nera. Le pareti erano di un nocciolino indefinito, ma l'unica che non fosse occupata dalla finestra, dalla porta o da un armadietto, era coperta da una grande schermata al momento spenta. 
La stanza era evidentemente pensata per ospitare solo il suo proprietario; quelle quattro pareti parvero ancora più strettine quando George e Matt furono costretti a rimanere in piedi per mancanza di sedie. Le uniche due disponibili erano occupate da Lloyd e dalla bambina.
E poi ovviamente c'era quella di Daront, una comodissima poltroncina da scrivania con tanto di manici e schienale reclinabile. Inutile dire che era assolutamente off-limits per chiunque non portasse il suo nome, cognome e numero di scarpe. 
Non appena Patrick Daront vide cosa conteneva la valigetta, un particolare che era sfuggito alla sua attenzione quando aveva dato una prima occhiata agli uomini alle spalle di suo fratello, vide morire in un nanosecondo quello sputacchio di fiducia che aveva. 
La valigia conteneva mele. 
Quattro bellissime, perfette mele. Dalla buccia levigata, senza una grinza o un punto in cui quel color porpora non fosse compatto. In ognuna di esse era appiccicato un bollino bianco, l'esatta copia del logo sui giubbotti dei tre uomini di fronte a lui.
Daront concesse mentalmente un minuto al fratello per iniziare a spiegarsi e convincerlo di avere un minimo di sale in zucca prima di alzarsi e sbraitargli contro. Mise su un sorrisino di circospezione uscito parecchio male, come a voler fare abbassare la guardia all'altro prima di attaccarlo, fingendosi divertito dallo scherzo. "Ti credevo uno spacciatore, non un ortolano." 
Per sua sorpresa, fu Lloyd il primo a rimanere serio.
Si fece passare dai suoi dipendenti un secondo fascicolo che lasciò cadere mollemente sulla scrivania, esattamente sopra quello degli articoli diffamatori sull'Anathema. Patrick ne sfogliò le prime pagine senza neanche avvicinarlo a sé, esaminandolo in modo superficiale. 
Vide solo un mucchio di numeri e calcoli. Riconobbe la tavola degli elementi chimici, ma nulla di più. 
Gli occhi di Lloyd brillavano. 
"Sono mele OGM. Modificate geneticamente. Saranno ormai un paio d'anni che ci lavoriamo in laboratorio." 
Con una delicatezza e un'attenzione nelle dita che il fratello maggiore trovò tipiche di lui, Lloyd sfilò una mela dall'apposito contenitore, alzandosi in piedi.
"Non sto a raccontarti tutta la favola. A parte che neppure io la so tutta." 
Daront si appoggiò all'indietro sullo schienale. Il minuto stava iniziando ad arrivare agli sgoccioli, ma aveva davvero voglia di starsi a sentire le scemenze con la quale se ne sarebbe uscito l'altro. 
"Mi sono semplicemente limitato a esporre la mia idea a degli ingegneri genetici, partendo dal presupposto che dovevamo trovare il modo di nascondere della roba nel cibo per farla passare alla dogana." 
Lloyd fece spallucce, un gesto sbarazzino tipico di lui.
"Hanno provato a spiegarmelo, ma l'unica cosa che ho capito è che sono partiti direttamente piantando dei semi di melo. Poi qualcosa riguardo alle sostanze con cui li innaffiavano, non so. Mi hanno chiesto di dargli, cito testualmente, la più micidiale delle mie ricette." 
Patrick annuiva con il capo, come se stesse ascoltando il fratello.
Caspita, stava provando a vendergli delle mele. Delle mele. Doveva essere caduto in disgrazia. Si, doveva essere così. Aveva perso ogni cosa in giochi d'azzardo e si era ridotto a questo. Davvero Lloyd credeva di poter abbindolare qualcuno così? Sarebbe stato meglio se si fosse limitato a elemosinare davanti alla sua porta piuttosto che cercare di fotterlo. 
Patrick mantenne un tono di voce calmo.
"Mi stai dicendo che mangiare una di queste è come farsi in vena?"
"No." disse subito Lloyd, aggiustandosi il berretto a righe sulla testa. "Non proprio. Considerale più come uno stimolante. Non creano delle sensazioni dal nulla, accrescono solo quelle che ci sono già. Diciamo che assomiglia di più a una specie di iperattività mentale e di conseguenza fisica."
Lloyd ripose la mela nella valigetta, lasciandola aperta. 
"Da quel punto di vista assomigliano di più all'alcool, ma con la differenza che si rimane lucidi. Senza parlare del fatto che gli effetti delle nostre mele durano precisamente una settimana, tutto il tempo per cui le sostanze nutritive vengono digerite e assimilate giornalmente nel corpo." 
Daront si guardò attorno, prestando attenzione all'altro solo con un orecchio. Ovviamente la bambina non era neanche da considerare, ma le facce dei due uomini erano impassibili. Il fratello più grande quasi si aspettava che qualcuno si mettesse a ridere all'improvviso, incapace di trattenersi. 
Se tutto questo era uno scherzo avrebbero fatto meglio a scoprire le carte in tavola immediatamente, perché Daront stava iniziando a permettersi il beneficio del dubbio.
"E questa tua mela" chiese, enfatizzando il nome del frutto. "com'è che farebbe al caso mio?" 
Gli occhi di Lloyd rotearono al cielo, come se il fratello fosse lento di comprendonio. 
"Pensaci bene. Non farebbe solo al caso tuo, ma a quello di tutta l'economia, in ogni suo campo. Se noi aumentiamo del triplo, del quadruplo tutte le piccole voglie della popolazione, le vendite avranno un'impennata su tutti i mercati. Pensa anche solo banalmente al cibo: chi prima aveva voglia di una caramella si ritroverà a comprare barrette intere di cioccolata." 
Tornò a sedersi, limitandosi a gesticolare dal posto. 
"Se tu ogni settimana servissi queste mele, che siano nei drink o dove ti pare, quegli stessi giovani verrebbero anche il fine settimana successivo, e così ancora e ancora. In media in discoteca non ci si va più di volte al mese, ma in questo modo tu avrai tutti i tuoi clienti tutte le serate. E-" dito puntato verso l'alto, un sorrisino sul viso. "non ti darebbero problemi con la legge. La mela è un frutto comunissimo, lo si può trovare ovunque fuori stagione. Il massimo dello scandalo sarebbe sul fatto che non sono biologiche."
Lo scetticismo era ancora lì, sotto pelle. Daront valutò anche la possibilità che Lloyd si fosse dato alla narrativa e lo stesse usando per capire se la sua storia fosse effettivamente credibile. 
 Eppure Daront chiese a quanto le vendesse di riflesso. Si rifiutò di pensare di essere influenzato da quella sottilissima scia di aroma che gli era arrivata alle narici poco prima. 
Lloyd si aprì in un sorriso. La sua aria professionale gli si sciolse sulle spalle e gli gocciolò giù per la schiena, facendolo abbacchiare sulla poltroncina.
"Sono in omaggio per il mio fratellone. Devi solo trovare la cavia giusta per noi e aiutarci con le ricerche durante la prossima settimana, poi leveremo il disturbo." 
Patrick lo guardò da sotto le palpebre, in tralice. Pescò da un cassetto un sigaro e se lo portò alla bocca, lasciando l'accendino sulla scrivania dopo averlo adoperato. 
Inalò un boccone di fumo, lasciandoselo sfuggire dalle labbra secche.
"Il tuo senso di fratellanza è commuovente, ma non basta. Se questa tua invenzione è davvero così miracolosa dovresti già avere frotte di clienti. Perché venire da me?"
La facciata del perfetto uomo pubblicitario tremolò sul viso di Lloyd, come una maschera per la cura della pelle mal applicata. Se c'era una falla nella questione, quella falla si trovava proprio lì. 
"Diciamo che, ecco, senza fare nomi, ho parlato della nostra invenzione a un pezzo grosso. Sembrava interessato, per cui non mi sono azzardato a dirgli che il prodotto non è esattamente finito." 
Il cipiglio di rimprovero di Patrick era tale e quale a quello della madre. Ci mancava soltanto che chiamasse Lloyd per nome con lo stesso tono duro, quello che non prometteva niente di buono. 
E la voce di Lloyd si fece di conseguenza più alta, proprio come ai vecchi tempi.
"Patrick, lo giuro, l'ho testata in laboratorio con tutti i tipi di animali possibili, stanno tutti una favola. Ho solo bisogno di sottoporla a delle persone per essere sicuro al cento per cento di poter mettere le mie mele in vendita. Non posso andare alla cieca e rischiare di autodiffamarmi per un qualche piccolo errore, lo sai anche tu come funziona il mercato."
Daront batté con leggerezza la punta del sigaro nell'apposito portacenere in vetro. Le frasi che disse risuonarono vuote, non davano alcun indizio riguardo la decisione che avrebbe intrapreso a riguardo. "Per cui hai subito pensato a me e alla mia massa di giovani squinternati?" 
Lloyd si strinse nelle spalle. "Da qualcuno si dovrà pur iniziare."
"E se qualcuno di loro sta male? Se alla fine sono io quello a beccarmi la denuncia? All'Anathema manca giusto il colpo di grazia."
"Non succederà, Patrick, credimi. Dai risultati dei test non è cambiato niente negli animali, né fisicamente né mentalmente. L'unica differenza è che non la smettono di abbaiare, producono il doppio del latte, sono perennemente in calore e mangiano un sacco; anche se qualche ragazzo si accorgesse della differenza darebbero la colpa a un disturbo comportamentale, non risalirebbero a noi."
I due fratelli si fissarono negli occhi per tutta la durata del discorso. Patrick rimase silente alla fine, immerso nei suoi pensieri. Lloyd sembrava crederci davvero molto. 
Infine il primo si alzò con flemma dalla sua poltroncina e andò ad appoggiarsi contro la parete che affiancava l'unica finestra presente nell'ufficio. Rimanendo in piedi, l'aprì, lasciando uscire un po' del fumo del suo sigaro. Ormai non ne era rimasto che un mozzicone. 
"Hai detto che ti serve una sola persona?" chiese, lo sguardo proiettato lontano.
Trattenersi dal cantare vittoria fu dura per Lloyd.
"Si. Ci serve qualcuno da poter avvicinare senza creare sospetti, per cui l'ideale sarebbe uno dal tuo staff o un cliente affezionato che conosci di persona. Il primo caso sarebbe perfetto, perché suppongo tu possegga già almeno un minimo di dati. Non dico che dobbiamo contattarlo tutti i giorni della prossima settimana, ma un paio di interviste al diretto interessato non guasterebbero. Sai, gli animali ancora non parlano." 
"Un uomo, quindi?"
"Sarebbe meglio così. Le ragazze notano molto più velocemente se qualcuno le pedina."
Incredulo delle sue stesse azioni, Daront tornò alla scrivania; prima di sedersi estrò un plico di fogli e cartelline da uno dei cassetti alle sue spalle. Le sue dita tozze iniziarono a scorrere velocemente gli angoli delle pagine mentre si accorgeva di quanto il suo rapporto con il personale cambiasse a differenza del ruolo che ricoprivano. Tagliando fuori subito i camerieri, con cui aveva deciso giusto l'ora prima di non volerci avere più niente a che fare, rimanevano solo i barman, il così detto corpo di ballo, i DJ ed i PR. Quest'ultimi due erano da scartare a loro volta, troppo poco contatto. 
Escluse tutte le ragazze, un nome gli baluginò in testa automaticamente. 
Osservò quella scrittura svolazzante sul contratto che aveva fatto firmare un anno prima al ragazzo, nero su bianco. 
"E come funzionerebbe la cosa? Lo costringo a mangiare con la forza? Deve arrivare fino al torsolo o qualcosa del genere?" 
Lloyd sentì le trombe squillare, vide le colombe volare e pensò di riconoscere la colonna sonora di Rocky in sottofondo. 
"Per quanto sarebbe divertente vederti andare in giro vestito da strega cattiva delle fiabe, abbiamo già pensato a tutto noi. Tu dacci solo l'occasione di incontrarlo questa sera." Il fratello più giovane si sistemò sulla sedia, tutto eccitato. "Allora, di chi si tratta?" 
Una strana sensazione si poggiò sullo stomaco di Daront. Nonostante lo sguardo del fratello fosse limpido e genuino gli parve quasi di star facendo la spia. Stava letteralmente dando a qualcuno del potere e dei diritti su di un'altra persona.
Forse se si fosse trattato di uno dei tanti camerieri non gli avrebbe fatto lo stesso effetto. 
Dapprima gli parvero sensi di colpa. Poi si rese conto che era banalissima gelosia e gli venne da ridere.
"Okay. Ha diciassette anni, uno studente. Non lavora durante la settimana, ma si trova spesso qui con le altre ragazze per provare  le coreografie. Era di turno per lo spettacolo di ieri, ma sono sicuro che non si perderà la serata di Halloween."
"Oh, un ballerino?" 
Qualche residuo di fumo irritò la gola di Daront che tossì. Oppure era tutto un protesto per camuffare il modo in cui un angolo della bocca gli si era sollevato. "Si. Il mio unico maschio."
Lloyd batté i palmi sulla scrivania, soddisfatto. 
"Bene, abbiamo il nostro candidato. George, da a mio fratello i nostri contatti. Matt, voglio una copia di quei documenti e le locazioni esatte di tutte le telecamere presenti in pista e non." 
Con un piccolo inchino, i due uscirono e si chiusero la porta dell'ufficio dietro. Lloyd si alzò in piedi e strinse animatamente la mano di Patrick da sopra la scrivania senza che questo gliela porgesse. Poi l'uomo si sfilò il berretto e si spettinò i capelli cortissimi sulla testa, tornando subito a nasconderli. In un'unica mossa si infilò il giubbotto smanicato su per le braccia, lasciandolo aperto sul completo scuro. 
In tutto questo Patrick era rimasto in piedi, l'aria di uno un po' in prestito. L'accordo che aveva appena preso aveva davvero dell'assurdo, ma si scoprì curioso di vedere il fratello e le sue diavolerie in azione. Se davvero non si trattava di un mucchio di fesserie avrebbero addirittura potuto fare la storia. E chissà che non potesse chiedere una percentuale sui guadagni.
Solo non poté evitare di sentire quel pizzico di preoccupazione, un fastidio simile se non uguale a quello raccontato nella storia de La principessa sul pisello; nonostante gli strati di materassi, non sarebbe riuscito a dormire per via di un piccolissimo chicco. 
"Lloyd." disse, serio. "Tu sei sicuro che non gli accadrà nulla di male, vero? Non voglio la vita di questo ragazzo sulla coscienza." 
La piccola giacca che l'altro stava sfilando dallo schienale della figliastra rimase sospesa a mezz'aria quando lui bloccò le sue azioni alle parole del fratello. Sospirò un sorriso rassegnato, come se fosse abituato a quella carenza di fiducia. 
Lloyd appoggiò la giacchetta contro il manico della sedia, tuffando una mano all'interno della propria giacca. Ne estrò un coltellino svizzero e un fazzoletto di stoffa pulito che dispose sulla scrivania.
Assicurandosi di avere l'attenzione di Patrick, prese una delle mele dalla valigetta e la tenne ferma contro il fazzoletto. I suoi movimenti parevano leggeri e teatrali, come se si stesse esibendo in un gioco di prestigio. 
Il coltellino penetrò la buccia del frutto, una linea bianca e dura in tutto quel porpora. Senza tagliarla fino all'estremo opposto, Lloyd arrivò al torsolo ed eseguì un secondo taglio della stessa dimensione. Pulì la parte centrale della fetta dai semini e la mostrò a Daront, in tutto lo splendore di quella polpa dall'aria fresca e croccante. 
Ripose il resto del frutto all'interno della valigetta e mise la fetta tra le mani della bambina. 
Sotto tutti quei capelli biondi, Patrick Daront vide Melanie portarsela alla bocca e staccarne un bel morso, le guanciotte piene che si muovevano a ritmo con il suo masticare. Deglutì e si spazzolò via anche l'altra metà rimanente. 
Poi non successe niente. La bambina se ne stette lì, minuta e chiara su quella poltroncina nera per adulti. 
Lloyd non aveva bisogno di guardare Daront per saper di averlo impressionato almeno un poco. Chiuse il sistema di serratura della valigetta e se la poggiò ai piedi, tornando alle prese con la giacca di Melanie. 
"Allora noi ci vediamo questa sera." disse, congedandosi con un sorriso. Chiese alla piccola di mettersi in piedi e la rivestì, bardandola fino al collo. Fece per prenderla in braccio, ma lei si sottrò alla sua presa, facendo sentire per la prima volta la sua vocina sottile quando mugugnò di voler camminare.
Con la valigetta da una parte e la manina di Melanie dall'altra, Lloyd prese l'uscio dell'ufficio con entrambe le mani impegnate. Fece un cenno con il capo al fratello prima di sparire completamente dalla sua visuale.
Daront ci mise un po' prima di realizzare di non aver aperto loro il portone principale. Accese velocemente le telecamere di sicurezza, la schermata nera sulla parete che subito prese vita; aveva fatto appena in tempo perché il gruppetto stava facendo giusto l'ultima rampa di scale. 
Dalla sua finestrella virtuale, Daront aprì il sistema elettrico del portone. George e Matt furono i primi ad uscirne, subito seguiti da Lloyd. La porta si era quasi chiusa del tutto dietro di lui, oscurando completamente la scena, quando la fessura venne riaperta per metà da Melanie. A giudicare dai capelli scompigliati doveva aver corso dietro il trio di adulti per raggiungerli. 
La bambina si voltò un'ultima volta verso l'interno del corridoio prima di accompagnare gentilmente il portone alla sua serratura. 
Daront non seppe se rimase immobile, seduto alla sua scrivania, gli occhi puntati su quel quadrato ora buio di schermo, per dei secondi o dei minuti. 
Aspettò, aspettò, ma non ci vide niente di strano, nessuna lucina insolita. Sarebbe potuto trattarsi di un fermo immagine. 
Daront deglutì e fece per riaccendere il sigaro che gli si era spento tra le dita. Si disse che tutti quei discorsi strani avevano indotto la sua vista a fargli uno scherzo. 
Gli occhi della bambina non avevano brillato al buio. Era impossibile.
L'uomo scattò in piedi. Si mise a rovistare tra i documenti che lui stesso aveva tirato fuori poco prima, cercando. Quando se lo ricordò, le mani gli si immobilizzarono da sole. 
E' vero, si disse. Aveva consegnato la scheda di Park Jimin al fratello. 

(2) October 31st, 2015 - Saturday                                                                      

La fibbia della cintura era fredda contro la pelle nuda e accaldata dello stomaco di Jimin. Il ragazzo se l'allacciò stretta in vita con un brivido, sollevando meglio il bordo dei pantaloni per evitare il contatto diretto con il metallo. 
Nonostante gli stesse dando la schiena poteva percepire gli occhi di Shou su di sé. Il ragazzo con cui era uscito quella sera se ne stava ancora spaparanzato su quel divanetto dal colore sanguigno, la scena del crimine di una scopata neanche tanto memorabile. 
Jimin si guardò attorno per la centesima volta, alla ricerca della sua maglia. Controllò sotto una credenza, dietro al divano e si pentì di aver passato in rassegna un paio di cuscini quando questi sollevarono un nuvolone di polvere.
Si portò le mani sui fianchi esposti, iniziando a sentire l'aria gelata di quell'ultima notte di ottobre pizzicargli le braccia. 
Certo che il suo amico avrebbe potuto alzare il culo ed aiutarlo al posto di starsene lì a fissarlo senza muovere un dito. A quanto pare non si sentiva più in dovere di far niente per lui dal momento che aveva già avuto quel che voleva. 
Jimin imprecò tra i denti. 
Maledetto Shou e quella sua dannata fissazione per Halloween. 
Okay, anche Jimin trovava quella tradizione americana divertente, ma gli era sembrato un tantino sopra le righe darsi appuntamento in un albergo momentaneamente chiuso. Certo, l'atmosfera cupa rendeva quella suite molto intrigante e le luci fioche delle candele facevano scintillare nel buio tutto ciò che c'era di metallizzato, tende di velluto comprese, ma niente, niente compensava il fatto che ovviamente non era dotata di riscaldamento. Di notte. Ad ottobre. Anzi, novembre, ormai. 
Quell'idiota pensava forse che ci avrebbero pensato quelle due candeline a tenerli al caldo? Che avrebbero evitato l'ipotermia standosene stretti stretti l'uno all'altro senza uno straccio addosso?
Tutto molto accattivante quando si trattava di sfondare una porta di servizio (che poi era già stata tolta dai cardini dalle numerose coppie che li avevano preceduti), divertente darsi da fare prima sul tappeto più ruvido e sporco dell'ultimo decennio e poi su un divano dal vago stile barocco. Poi però erano arrivati i morsi della fame e del freddo, e la serata non era parsa più tanto elettrizzante. 
Jimin fece l'ennesima ispezione visiva della suite, continuando a non vedere il resto dei suoi vestiti. Le dita stavano iniziando a dolergli da quanto soffriva il freddo.
Infilò le mani nelle tasche posteriori dei suoi attillatissimi jeans neri dopo aver scoperto che quelle anteriori erano fatte solo per bellezza, voltandosi verso l'altro ragazzo. 
"Hai visto le mie cose?" 
Shou si riscosse dal torpore che lo stava prendendo, sollevandosi a sedere. Doveva ancora rivestirsi, ma da quello che Jimin poteva vedere non sembrava avere la pelle d'oca come lui. 
"Prova a vedere dalla porta." bofonchiò, sfregandosi un occhio con il dorso della mano. "Credo di aver scalciato qualcosa verso quella direzione."  
Seppur sconcertato, Jimin fece come gli era stato detto e trovò quel che stava cercando. Si infilò la maglia dentro i pantaloni, sollevato dal fatto che Shou non l'avesse rovinata quando gliela aveva tolta; era un modello molto particolare, una scura seconda pelle con uno scollo da paura sulla schiena facilissimo da strappare. 
Una volta vestito, Jimin si allacciò stretti gli anfibi ai piedi e si pettinò alla bell'è meglio i capelli con le mani, tinti da poco di un grigio perlato. 
Le candele rimaste accese gettavano ombre scure sul suo profilo elegante, marcando la linea tagliente della mandibola e il volume prosperoso del suo labbro inferiore. Rendevano un punto luce i suoi occhi color pece, già sottolineati da un velo di ombretto ramato sulle palpebre. Il suo corpo snello appariva statuario. 
Anche Shou doveva essersi accorto di questo effetto teatrale, perché era ancora intento a studiare le curve di quelle gambe quando Jimin gli prestò di nuovo attenzione. Quest'ultimo si diresse verso il divanetto con passo felino, gli occhi dell'altro che si alzavano fino ad arrivare al suo viso man mano che si avvicinava. 
Per quella sera ne aveva davvero abbastanza di Shou e delle sue location strampalate, ma cosa non avrebbe dato per calmare il brontolio del suo stomaco.
Jimin gli si sedette in grembo, passando lascivamente un braccio dietro il suo collo. Almeno Shou aveva avuto il buonsenso di rimettersi addosso la biancheria intima. 
Si dovette sforzare per trovare una venatura allegra con cui parlare.
"Adesso dove pensavamo di andare?" 
Shou corrucciò le sopracciglia, le mani già appioppate al fianco dell'altro.
"Cosa intendi dire?"
"Siamo chiusi qui dentro dalle undici e l'ultima volta che ho controllato era l'una passata. Avevi detto che quando avremmo finito mi portavi a mangiare in uno di quei locali che hanno aperto da poco, no?" 
La ruga nella fronte dell'altro si approfondì quando il suo sguardo si scollò da Jimin per concentrarsi su un interessantissimo angolo buio della stanza. "Ah, intendi quello."
L'idea di stringere la presa sul suo collo fino a strozzarlo sfiorò la mente di Jimin. 
"Si, Shou. Intendo quello." 
"Eh, già, ehm. Si, te lo avevo promesso, ma ecco, i tizi a cui ho dovuto chiedere di lasciarci la suite hanno chiesto più soldi del previsto, così..."
Non ci fu bisogno di aggiungere altro. 
Shou si era trovato davanti a due opzioni ben precise: o risparmiava per poter offrire a Jimin la cena o pagava per assicurarsi di scopare con lui. Aveva fatto la sua scelta. 
E dire che all'inizio Jimin lo aveva trovato addirittura simpatico.
Jimin premette la sua bocca carnosa contro l'orecchio del ragazzo, sentendo immediatamente come i muscoli dell'altro si irrigidirono al contatto. Gli prese il mento, la pelle che impallidiva sotto la pressione delle sue dita. Si assicurò che la voce gli uscisse vellutata, carezzevole.
"Non sognarti nemmeno di chiedermi un altro favore. Puoi anche cancellare il mio numero dalla rubrica."
Shou si allontanò come poté per guardarlo in faccia e vedere se faceva sul serio. Il sorrisetto affilato che si ritrovò di fronte gli fece venire un nodo alla gola. 
"E dai, Jimin, ti ci porto appena mi danno lo stipendio. Non vorrai mica troncare il nostro rapporto solo perché hai saltato un pasto."
Jimin scese dalle ginocchia dell'altro con la stessa grazia con cui ci si era accomodato. Shou provò a trattenerlo per un polso, ma ricevette un'occhiata così livida che, oltre a mollare la presa, ci infilò pure un piccolo scusa.
L'attaccapanni venne depredato dall'unico cappotto scuro che possedeva quando Jimin ci si avvolse, sospirando di sollievo. Ovviamente non era più tanto caldo quanto lo era appena smesso, ma avrebbe fatto ammenda in breve. 
Il ragazzo dai capelli argentati fece per infilare la porta, ma non senza voltarsi un'ultima volta verso Shou.
Si detestava da solo quando faceva così, ma non poté impedire alla sua bocca di lanciare quell'ultima frecciatina. Una parte di lui avrebbe sempre cercato scuse valide per i comportamenti sbagliati delle altre persone, ma ogni tanto infierire gli sembrava quasi necessario. 
Sapeva già che se ne sarebbe pentito il giorno dopo a ripensarci, come sempre. Jimin aveva perso il conto di tutte le volte in cui si era raccomandato di essere gentile. 
"Tanto per la cronaca, non sei di certo l'unico che mi aveva chiesto di uscire questa sera. Prima di te c'erano altri due ragazzi, ma, da quel che ho capito, Tizio Uno ha mostrato alla fidanzata di Tizio Due la chat privata tra me e il suo tipo. Lei si è incazzata a morte e Tizio Due ha dovuto confessare tutto. Quando poi ha capito che Tizio Uno lo ha fatto solo per avere il via libera con me se le sono date di santa ragione." 
Jimin soffiò via una ciocca argentata dal viso, finendo di parlare. "Detesto questo genere di polveroni, per cui ho semplicemente pensato che tra i due litiganti il terzo gode. Perciò, vedi di non tirartela più di tanto."
La mano che Jimin aveva tenuto sullo stipite per tutta la durata del suo discorso scivolo giù quando se ne andò a testa bassa. A Shou venne ammiccato un occhiolino fugace che non aveva niente di erotico un attimo prima che la porta della suite sbattesse.

Jimin stava camminando per le strade desolate da una decina di minuti, diretto verso la fermata dell'autobus più vicina. Il suo fiato condensato in rivoli biancastri pareva volersi unire alla vaga nebbiolina che sfocava le luci dei lampioni. Le smaglianti luci verdi del tabellone elettronico di una farmacia erano visibili anche in lontananza, le schermate che cambiavano ogni dieci secondi, ripetendo all'infinito orario e temperatura attuali. 
Era l'una e ventisei del mattino, c'erano otto gradi, e Jimin non poteva tornare a casa.
Non era una vera e propria regola, ma sia lui che sua madre sapevano che era meglio così. 
Da quando la sua tanto chiacchierata vita sociale aveva preso il via in terza superiore le cose con la sua famiglia erano state strane. I pettegolezzi avevano inevitabilmente raggiunto le orecchie della madre, ma lei aveva preferito ignorarli, convinta di conoscerlo. 
Dio, Jimin non avrebbe mai dimenticato la faccia di sua madre la volta in cui realizzò di essersi sbagliata. 
Era successo poco meno di un anno prima, ma quella sensazione di immensa delusione era ancora lì, a decantare in una pozza all'interno del suo stomaco. 
L'episodio non era molto lungo da raccontare, anzi. Bastavano pochi elementi per far capire di che portata fosse stato il dramma. 
Elemento uno: un marmocchio di buona famiglia, a detta sua ancora parecchio confuso sulla sua sessualità. A detta di Jimin e dell'autista del taxi che avevano preso dopo aver lasciato l'Anathema, invece, il tipo era sembrato abbastanza sicuro di sé dal modo in cui aveva praticamente atterrato l'altro sui sedili posteriori. 
Elemento due: il padre del suddetto marmocchio che voleva controllare che il figlio  fosse tornato a casa per poter inserire l'allarme. Gli era bastato aprir la porta della camera per scoprire che, non solo il figlio adorato era in casa, ma aveva pure compagnia. 
Elemento tre: quando poi Jimin, raccontando questo aneddoto al gruppo, aveva detto che non c'era stato modo di far passare la posizione in cui loro due vennero trovati come amichevole, era perché era proprio così. Però, effettivamente, avrebbero avuto le carte in regola: se il metodo classico per stringere amicizia tra bambini era condividere la merenda, si poteva dire che Jimin non c'era andato tanto lontano regalando un lecca-lecca al marmocchio. 
In parole povere, l'uomo aveva attaccato a urlare e Jimin se l'era filata. 
Era corso fino a casa, sperando che la madre non avesse ancora serrato il portone principale. Per sua fortuna non era ancora così tardi, ma la donna non gli aveva risparmiato un'occhiata ammonitrice. 
Jimin si era diretto subito verso il bagno. Aveva lasciato la porta aperta nell'attesa che l'acqua della doccia si scaldasse, iniziando a spogliarsi. Sua madre lo aveva seguito passo a passo, decisa per una volta a discutere di quelle nuove abitudini malsane. Nel frattempo Jimin aveva gettato i suoi vestiti nel cesto dei panni sporchi e si stava lavando i denti a torso nudo. 
La ramanzina era partita bella carica, tutte parole coincise che filavano dritte e veloci come un siluro. E poi era andata mano a mano affievolendosi. 
La madre di Jimin si era ridotta al silenzio, gli occhi sulla figura del figlio riflessa allo specchio che lui aveva davanti. 
Lo stesso dolcissimo bambino che le aveva sempre dato tante soddisfazioni era chino sul lavandino, il collo e il petto martoriato di succhiotti. Alcuni erano violacei, altri già sbiaditi, accompagnati da un graffio dall'aria dolorosa sul fianco e un numero di telefono scritto a penna sul braccio. 
Jimin aveva fatto finta di niente. Aveva continuato a far scorrere lo spazzolino sui denti, la schiuma del dentifricio che gli era colata sul mento. Sua madre aveva lasciato semplicemente il bagno.
Nessuno dei due aveva voluto il bis di quello spettacolo. 
Così avevano stretto di comune accordo quel loro patto taciturno: Jimin poteva fare quel che gli pareva, quando gli pareva e con chi pareva, bastava che non coinvolgesse in alcun modo la sua famiglia o la sua casa. Nessuna apparizione notturna. Niente alcool. Nessun ospite. 
Una sola cosa era stata chiarita verbalmente: sua madre non avrebbe cavato un centesimo dal portafoglio. Il solo ingresso nelle discoteche non costava certo poco, e anche se loro se lo fossero  potuti permettere economicamente ogni settimana si sarebbe rifiutata di buttare così i soldi. Se Jimin si voleva divertire doveva sbrigarsela con quel che aveva.
Per questo Jimin riteneva di aver preso due piccioni con una fava quando aveva accettato il lavoro come ragazzo Immagine all'Anathema. Poteva entrare tutte le volte che gli pareva e ovviamente veniva pagato quando era di turno. 
La cosa si riteneva particolarmente utile anche in casi come questo. Senza un posto dove andare e tutta la notte davanti a sé, Jimin poteva benissimo andare all'Anathema e trovarsi qualcuno bisognoso di un po' di compagnia, preferibilmente dotato di una casa libera e di una caldaia. Magari sarebbe riuscito anche a farsi dare uno strappo fino a casa la mattina dopo.
Jimin arrivò alla fermata dell'autobus, evitando di sedersi sulle panchine di ferro ghiacciate. La tabella degli orari gli comunicò che avrebbe dovuto attendere solo altri cinque minuti, il che era un miracolo considerando che le linee notturne scarseggiavano.
Dato che di tempo ne aveva, Jimin si avvicinò alla vetrina di uno dei negozi che c'erano lì intorno. Osservando i suoi capelli scarmigliati nel suo riflesso, rovistò nella tasca dalla giacca, trovando il suo rossetto. Jimin cercò di arrangiarsi con la luce che c'era, rinunciando in partenza all'idea di un lavoro di precisione. 
Il viola era il colore simbolo dell'Anathema, a partire dall'arredamento, dalle luci e dalle divise del personale. Oltre ad essere bello esteticamente, avere le labbra tinte di scuro facilitava anche la distinzione immediata tra i clienti e il personale. Tutti portavano obbligatoriamente il rossetto, dai camerieri ai DJ.
Una volta fatto, Jimin tornò alla fermata e prese a camminare avanti e indietro sul marciapiede, cercando di non congelare. Quando l'autobus arrivò con dieci minuti di ritardo, la sua bocca sarebbe stata bluastra anche senza l'aiuto dei cosmetici.

(3) November 1st, 2015 - Sunday

"Park Jimin." 
Cazzo.
Il suo nome era stato scandito con lentezza, la "r" ben arcuata sulla lingua. Il timbro maschile della voce che lo aveva chiamato sarebbe stato profondo se una trentina di anni passati a fumare non l'avessero inaridito. Almeno così l'identità dell'uomo alle sue spalle era inconfondibile.  
I piedi di Jimin si inchiodarono al pavimento, le unghie conficcate nei palmi delle mani, la postura immediatamente sull'attenti. 
L'entrata del salone principale dell'Anathema era proprio lì, a pochi passi da lui, ma all'improvviso gli parve irraggiungibile. Si ritrovò prigioniero di quella zona del corridoio, troppo lontana per essere raggiunta dalle luci della pista, ma troppo lontana anche dall'ingresso della discoteca. Jimin aveva come l'impressione che se si fosse dato molto poco dignitosamente alla fuga verso una direzione o l'altra, avrebbe preso contro un'invisibile parete di plexiglass.
Il signor Daront. 
Niente di meno che il fondatore e proprietario dell'Anathema. 
Cazzo. 
Cazzo, davvero.
Solitamente, quando qualcuno scopriva che Jimin lo incontrava quasi periodicamente per motivi di lavoro, gli veniva chiesto spesso che aspetto avesse l'uomo in questione. Lui si limitava a dire che potevano fidarsi delle decine di foto che le pagine dei giornali locali si ritrovavano a mettere in prima pagina.
Così come sulla carta, anche dal vivo il signor Daront appariva come una persona di malafede. Gli si sarebbero dati una cinquantina d'anni, ma Jimin sapeva che l'uomo era ancora nella fascia dei quaranta. In realtà sarebbe stato curioso di vedere una sua foto da giovane, ma aveva come l'impressione che l'uomo apparisse come un adulto già da allora; torchiato uguale, anche se non propriamente grosso. Forse con un taglio di capelli più corto, senza brizzolatura. Quella perenne espressione brusca a metà tra l'arrogante e l'annoiato doveva averla di sicuro fin dalla tenera età, altrimenti non gli si sarebbe stampata in faccia a quel modo. 
E Jimin era il primo a dire di non giudicare un libro dalla copertina, ma in questo caso trovava che ne rappresentasse molto bene il contenuto. 
Solo una cosa positiva si poteva dire di quell'uomo, anche se Jimin non poteva certo immaginarsela. Era un proprietario coi fiocchi. 
Al contrario di quello che si poteva pensare, il signor Daront non passava tutto il suo tempo in qualche località vacanziera a sperperare i suoi guadagni. No.
L'Anathema era il suo gioiellino. La sua fonte di guadagno. Era il locale che aveva sempre desiderato frequentare da adolescente ma che non era mai stato aperto. 
Aveva deciso tutto lui lì dentro, dall'arredamento kitch alla scelta del personale. Era lui che si metteva alla scrivania a pensare a come realizzare gli eventi, era lui che complottava sempre nuove strategie per richiamare più gente. 
L'Anathema non doveva essere solo una discoteca, doveva essere molto di più. 
Per questo, per studiare la sua clientela in cerca di nuove idee, Daront era sempre presente quando il locale era aperto al pubblico. Non lo si vedeva praticamente mai perché girava al largo dalle sale focose gremite di gente, luci e rumore. Preferiva supervisionare tutto dall'alto, affiancato da un qualche onnipresente socio in affari. Erano soliti camminare per i corridoi laterali meno frequentati o si chiudevano nel suo ufficio in compagnia di un mazzo di carte ed un vassoio di drink preparati dallo stesso barman che si era beccato la denuncia la settimana prima. 
Daront si era sempre limitato a manovrare i giochi dall'alto, dando una sbirciatina alle telecamere di sicurezza per controllare quando le ragazze immagine avrebbero preso posizione sul palco. Solo in quel caso Daront e i suoi soci si sarebbero disturbati per assistere allo spettacolo di persona.
Ed era proprio attraverso quelle telecamere che, ormai un anno prima, Daront aveva notato qualcosa di anomalo. Si trattava di un ragazzo, la qualità delle immagini in bianco e nero che più di così non potevano dirgli; era salito su quello stesso palcoscenico, unendosi alle nuove assunte che stavano scaldando il pubblico in attesa dello spettacolo vero e proprio. L'uomo aveva lasciato che fosse, continuando a conversare con i suoi compari.  
Quando poi uno di questi era tornato dalla toilette affermando che il pubblico stava impazzendo per il nuovo ballerino, Daront si era incuriosito e aveva deciso di andare a dare un'occhiata. 
E che occhiata, ragazzi. 
Entro la fine della serata il signor Daront si era assicurato che uno dei suoi biglietti da visita finisse nella tasca del ragazzo. 
Aveva fiuto per gli affari, su questo non c'era dubbio. Ma, anche se ci fosse stato, sarebbe stato sfatato durante i giorni a venire, quando le pagine social dell'Anathema erano state tempestate di domande circa gli orari e le serate dove si sarebbe esibito il ragazzo nuovo. Le voci dovevano essere girate in fretta perché, nonostante lui non avesse ancora rilasciato nessun annuncio ufficiale, già nell'immediato del fine settimana successivo la clientela era senz'altro aumentata. Forse non di tantissimo, ma di sicuro non sarebbe stato il numero a scoraggiare Daront. I soldi erano soldi, che fossero tanti o pochi, l'importante è che fossero più di prima.  
Sarebbe andato tutto a meraviglia, se solo il ragazzo avesse richiamato. Il tempo passava e lui non si era fatto sentire. 
Daront alla fine aveva costretto il suo staff a cercare nome e numero di telefono. Ci aveva pensato lui a persuadere il giovane reticente a lavorare all'Anathema. Lui e un bell'assegno con tre zero per cominciare con il piede giusto. 
E se avesse saputo che dolcissima sorpresa si sarebbe poi rivelata la crescita di Jimin ne avrebbe scucito uno in più di quegli zeri.
Quel ragazzo era una miniera di soldi con le gambe. Una calamita per pupille. 
Le persone venivano ammaliate dalla sua aria innocente, dalla morbidezza di quelle guance paffute e dagli occhioni scuri. Poi vedevano quei tratti da bambino sparire nel nulla nel momento in cui Jimin iniziava semplicemente a camminare con il suo caratteristico passo felino. 
Park Jimin e gli scorci tra i suoi vestiti strappati erano il sogno proibito della metà della popolazione di Seul. E più la gente lo desiderava, più gli incassi dell'Anathema si incrementavano. 
A Daront aumentava la salivazione al pensiero che volendo avrebbe potuto farci ancora più soldi. Se solo il ragazzo non fosse così reticente.
Aveva provato in tutti i modi ad allacciare quello che lui riteneva un buon rapporto con Jimin, ma non c'era storia. Ogni volta che lo approcciava quest'ultimo manteneva sempre un'aria colloquiale. Sarà stato il dovuto rispetto per gli adulti, sarà stata timidezza… 
Oppure sarà stato il fatto che, come in quel momento, la salivazione a Daront aumentava anche per tanti altri motivi. I suoi occhi erano fissi sui capi vestiari di Jimin, un sorriso sornione mal celato tra le labbra scarne. 


Quando Shou aveva detto a Jimin che sarebbe stato divertente se si fossero travestiti per Halloween, lui si era limitato al minimo indispensabile. Dopotutto non valeva la pena di mettersi a cercare un costume impegnato quando l'altro non avrebbe fatto altro che strapparglielo di dosso. Jimin poi si era ritrovato a pensare che un choker con il campanellino e le orecchie da gatto fossero fin troppo essenziali, ma ormai era andata. 
Invece adesso era tutta un'altra storia. Sotto le attenzioni indesiderate di Daront, un lembo di stoffa e un cerchietto gli parvero un'oscenità.
E dire che poco prima Jimin si era sentito appagato quando un paio di conoscenti avevano fischiato al suo passaggio. Steven, senza dubbio il buttafuori più bonario che l'Anathema avesse mai avuto da quando ci lavorava, gli aveva scherzosamente chiesto se fosse sul punto di trasformarsi in una MiewMiew e la cosa l'aveva fatto ridere di cuore. 
Dannazione, Jimin si sentiva così sporco
Erano passati solo una manciata di secondi da quando Daront lo aveva chiamato per nome, eppure erano bastati per metterlo figurativamente con le spalle al muro. 
Jimin si arrese, voltandosi verso la direzione del suo capo. Passò in rassegna i tre uomini alle sue spalle, guadagnando tempo prima di incontrare lo sguardo di Daront. 
Strano. Non sembrava trattarsi dei soliti soci. Inanzi tutto erano occidentali ed erano evidentemente più giovani. Non si poteva dire fossero vestiti da giorno, ma non si trattava neanche del classico giacca-e-cravatta; era quello il marchio distintivo degli avvoltoi di Daront. 
Anche se li avesse visti nudi Jimin avrebbe potuto dire la differenza: seppure non sprizzassero gioia da tutti i pori, non avevano quell'aria cupa sul viso o quel modo molle di muovere le gambe, come degli eterni passeggiatori senza meta. E non erano minuti di quell'odioso bicchierino di Scotch. Non che a Jimin non piacesse; semplicemente gli dava sui nervi il fatto che, tutte le volte che aveva la sfortuna di incontrarli, quel bicchiere fosse sempre bevuto per metà. L'alcool, o lo bevi o non lo bevi, non stai ad aspettare che stagioni nel bicchiere. 
Probabilmente l’attuale quartetto era diretto all'ufficio, ma al solo cenno di Daront si era fermato davanti all'ingresso del salone principale. Le luci stroboscopiche colpivano gli uomini da dietro, gettando ombre ambigue sulle loro facce già scure. D’altro canto, il corpo di Jimin venne tappezzato da lucine rosate, il suo viso ben illuminato e riconoscibile. Il ragazzo era fermo immobile, rigido, il respiro sottile, come se sperasse ancora di passare inosservato. 
"Jimin." ripeté Daront, il tono di voce quasi paterno. Quasi. 
Non c'era niente che potesse dare scampo a Jimin se non stare al gioco.  
L'uomo aprì le braccia a mo' di invito e Jimin si sforzò di indossare uno straccio di sorriso e di mettere un piede davanti all'altro per raggiungerlo.
Se solo il ragazzo non si fosse perso in pensieri inutili (si sarebbe potuto evitare quest’incontro se l’autobus fosse stato puntuale?) si sarebbe accorto di altro. Forse avrebbe notato come due dei tre uomini a lui sconosciuti avessero iniziato a trafficare al cellulare non appena Daront lo aveva chiamato per nome.
Invece restò ignaro di tutto e camminò dritto nella ragnatela.
Un paio di mani scaltre si poggiarono sulla schiena di Jimin, attirandolo a Daront per un abbraccio.
Quel paio di pacche amichevoli dell’uomo volarono sempre più rasoterra, tramutandosi in carezze poco discrete. Il pugno chiuso di Jimin gli sfiorava a malapena il fianco.
Come prevedibile, a Daront bastò far risalire di poco le mani per trovare l'ampia scollatura sulle sue scapole. Jimin strinse i denti, percependo chiaramente come la postura dell'altro cambiò quando quei polpastrelli tentacolosi si ritrovarono a contatto diretto con della pelle. I due anelli che Daront era solito portare, tra cui la fede nuziale, erano cubetti ghiacciati contro di essa.
Uno strano odore impregnava il completo di Daront, e non era quello di sigaro. Era qualcosa di più dolciastro, di più familiare. 
Jimin se ne sentì inebetito.
 Se fosse stato qualcun altro, chiunque altro ci avrebbe messo meno di tre secondi per prendere le distanze e rimetterlo al proprio posto, ma qualcosa, forse nella grande differenza d'età o nell'alta posizione sociale dell'uomo, gli impediva di farlo. Jimin lo temeva come non aveva mai temuto nessun altro e preferiva di gran lunga mostrarsi accomodante e pregare di essere lasciato in pace per buona condotta che fare l'impavido e ritrovarsi nei casini. L'ultima cosa che al rapporto tra Jimin e sua madre mancava era uno strano uomo di mezza età ad aspettarlo sotto casa.
"Allora, Jimin." disse Daront senza liberarlo dalla stretta. La sua bocca schifosa sfiorava i capelli argentei del ragazzo ad ogni parola. "Sei qui per fare festa? Non mi è sembrato di aver letto il tuo nome tra il personale di questa notte."
Jimin desiderò ardentemente che il bagno del locale fosse provvisto di un qualsiasi tipo di sapone per grattarsi via la cute dalla testa. Quella vicinanza gli faceva orrore, orrore. 
Doveva aver indovinato la natura dei suoi pensieri uno degli uomini posti di fronte a Jimin, oltre le spalle di Daront. Come gli altri due teneva le distanze, ma a differenza loro non aveva il naso puntato su un cellulare. 
Era alto, smilzo, dall'aria un po' scapestrata. Sarà stata l'aria compassionevole che gli si era accumulata tra le curve di quel sorriso che rivolse a Jimin, ma gli ispirò subito più simpatia di tanti altri. 
Uno così se lo sarebbe immaginato in un qualche club del libro per donne in menopausa, o a gonfiare palloncini ad una festa di compleanno. Di sicuro non all'Anathema.
Quel paio di occhi azzurri, un colore così raro da vedere in giro per Seul, erano stranamente... curiosi. Quasi pimpanti. 
La risposta di Jimin non stava arrivando, così Daront lasciò che il ragazzo si riprendesse i suoi spazi. Un'ondata di sollievo pervase Jimin che si circondò immediatamente lo stomaco con le braccia. Stupida maglia, stupida scollatura, stupida stoffa sottile e aderente. 
Notando quel suo gesto istintivo, Daront non poté non compiacersene. Lo lusingava il fatto che uno spavaldo come Jimin sentisse il bisogno di mettere una barriera fisica tra di loro. Questo era quello che lui chiamava potere.
La voce del ragazzo uscì leggermente strozzata, come se non avesse parlato per un lungo periodo di tempo. "In realtà sono venuto qui solo per ballare. Non ho intenzione di fare grande improvvisate."
"Peccato, avresti intrattenuto il pubblico. Se hai voglia di ripensarci basta che me lo dici e io aggiungo la serata al tuo salario, non c'è problema."
"Non c'è bisogno, grazie." 
Jimin premette le labbra una contro l'altra, sostenendo lo sguardo divertito e insieme frustato di Daront. Pochi secondi e quegli occhi scivolarono sulla linea sinuosa della sua guancia, risalendo alle orecchie da gatto che spuntavano fra i capelli. Riemerse quel mezzo sorriso ripugnante.
Il cellulare di Jimin vibrò contro il suo fianco, premuto sulla pelle dal bordo aderente dei pantaloni.
"Sarà il caso di tornare ai nostri affari e lasciare che i giovani si divertano." disse Daront, aggiustandosi il nodo della cravatta spiegazzata. "Alla prossima, Jimin. Spero di vederti sul palco."
"Senz'altro."
Sfilato l’ultimo sorriso cordiale, gli uomini ripresero il loro cammino, sparendo nel buio pece del corridoio. 
Jimin poté finalmente rilassare la postura. Il cuore gli martellava all’interno della cassa toracica. 

(4) November 1st, 2015 - Sunday

Lo stomaco vuoto di Jimin non accolse molto volentieri la serie di drink che gli furono offerti nell'ora a seguire. Di solito reggeva bene l'alcool, ma forse avrebbe davvero fatto meglio a mettere qualcosa sotto i denti prima di bere. 
Dopo essersi assicurato dell’assenza di sigarette ed erba, Jimin aveva accettato di buon grado l'invito a sedersi ad un tavolo da parte di un gruppetto misto di ragazzi e ragazze. Non era sicuro di aver già fatto la conoscenza di quella piccola compagnia, ma il fatto che sapessero chi fosse e lo trattassero come uno di loro non escludeva nessuna possibilità. 
Avevano fatto spazio a Jimin sul divanetto in pelle dove si erano accalcati, passandogli subito un drink. Un paio di ragazze particolarmente affettuose gli si erano strette attorno, già brille; appoggiavano le loro lunghe gambe avvolte nelle calze velate sulle sue ginocchia, gli passavano le mani curate tra i capelli con il pretesto di volerne ammirare quel colore così insolito e delicato, gli accarezzavano le braccia da sopra la maglia. 
Chiunque conoscesse Jimin anche solo di nomea sapeva chiaramente quali fossero le sue preferenze sessuali, ma questo non impediva ad un sacco di fanciulle di farsi avanti. A Jimin non davano fastidio, anzi. Trovava le ragazze in un qualche modo dolci nei loro modi di fare. Gli piaceva da morire ballarci insieme, con i loro profumi sempre all’orlo dello stomachevole ed i capelli lunghi che si appiccicavano ai loro rossetti. 
Una delle ragazze si alzò dal divanetto e si mise a fatica in piedi sul tavolino laccato di nero. Jimin vide giusto le sue caviglie gracili traballare in avanti su quei tacchi vertiginosi prima di sentire un rumore di vetri rotti. Un secondo bicchiere seguì subito il primo oltre il bordo del tavolo, rovinando sul pavimento. 
La ragazza si coprì la bocca con una mano, camuffando una risata argentina. La piega ondulata che una volta doveva essere stata impeccabile della sua chioma gli era tutta colata sul viso. 
Come se niente fosse, lei iniziò a seguire il ritmo della musica. Il vestito corto non ne voleva sapere di coprirle le cosce e le sue mosse teoricamente accattivanti rese bieche dall’alcool non erano d’aiuto.
Ormai ballava da un paio di minuti quando incrociò lo sguardo di Jimin. Al ragazzo venne immediatamente offerta una mano, accompagnata da un gran sorriso. Lei ne scosse le dita, come se gli stesse lanciando un incantesimo, incitandolo ad afferrarla e farle compagnia. Jimin non si fece pregare. 
Un paio di occhiate storte volarono verso la direzione della ragazza, ma lei nemmeno se ne accorse. Jimin era salito sul tavolo per affiancarla e lei si poteva dire felice così. Inebriata dall’alcool, non riuscì a smettere di ridere quando il ragazzo la tenne stretta per la vita incredibilmente sottile, accusandolo di farle il solletico. Visto il paio di trampoli che l’altra si ostinava a tenere ai piedi, Jimin non mollò comunque la presa.
Ballarono insieme per un paio di canzoni, i movimenti disordinati di lei accompagnati da quelli contenuti di lui. Jimin aveva lasciato che la musica lo affondasse, il sorriso della ragazza così dolce e incosciente da fargli compassione. 
Per un attimo valutò la possibilità di tornare a casa con lei. Non che Jimin desiderasse farci qualcosa, ma di sicuro la ragazza aveva un posto dove far ritorno. Senza contare che le notti passate in compagnia del sesso opposto erano sempre state caratterizzate dai sonni ristoratori migliori di sempre. Per adesso nessuna di loro aveva mai cercato di forzare qualcosa; al massimo gli chiedevano di spogliarsi, giusto per potersi abbarbicare al suo petto. 
Si, Jimin avrebbe optato per quello. Poteva chiedere alla ragazza di farsi venire a prendere anche in quel momento considerando la quantità di alcool che aveva già in corpo. 
Jimin si sporse verso l’orecchio di lei, pronto a chiederlo senza mezzi termini.
“Hai casa libera?”
La ragazza corrugò le sopracciglia disegnate, facendo un evidente sforzo mentale prima di scuotere il capo. “Genitori.” si limitò a bofonchiare. 
Okay, possibilità svanita. Jimin doveva trovare qualcun altro. 
Stava cercando le parole per congedarsi da lei quando si sentì afferrare da dietro per i polpacci. In un tentativo di mantenere l’equilibrio, Jimin mollò la ragazza, il suo ballo compromesso. 
Quando si voltò si ritrovò davanti uno dei ragazzi della compagnia. Se ne era rimasto in disparte a bere fino a quel momento, ascoltando distrattamente i discorsi altrui. Il modo in cui la sua attenzione era stata tutta focalizzata su Jimin, o più precisamente sul modo in cui la pelle lucida dei suoi pantaloni rifletteva le luci dell’Anathema, non era passato inosservato. Essere squadrato dalla testa ai piedi non era certo una novità, per cui Jimin non ci aveva dato tanto peso. 
Non era brutto, davvero. Anzi, era carino. O forse chiunque sarebbe sembrato carino avvolto dalla penombra. Doveva essere altissimo, perché il suo capo arrivava al petto di Jimin nonostante questo fosse in piedi sul tavolino. 
Mentre Jimin era intento ad analizzare la situazione, le mani dell’altro iniziarono a risalire; passarono oltre le ginocchia, scorsero tra le grinze dei pantaloni, tastarono le forme sode di Jimin fino a quando non trovarono un punto saldo nei suoi fianchi. Lo sconosciuto strinse la presa attorno ad essi e Jimin si ritrovò sollevato di peso. Se solo quest’ultimo fosse stato un po’ più sobrio, l’altro avrebbe avuto ben poco da sballottare in giro con quei modi bruschi e inaspettati. 
C’erano un paio di cose che la gente tendeva sempre a dimenticare di Jimin, tra cui il fatto che il suo essere fisicamente flessibile e minuto non dava loro il diritto di spupazzarselo letteralmente. L’altra cosa riguardava il suo ruolo a letto: non c’era scritto da nessuna parte che i suoi tratti somatici delicati lo costringessero a stare sotto ogni volta. 
Jimin venne rimesso sui suoi piedi. Lo sconosciuto non gli diede tregua e lo afferrò subito per un polso in una sequenza veloce; trascinandolo giù per la breve scalinata che rialzava la zona tavoli di un piano, si era poi messo a scansare senza tante cerimonie quella miriade di corpi accalcati in pista.
Jimin si voltò all'indietro una sola volta, incontrando lo sguardo immensamente triste della ragazza. Aveva smesso di ballare, una spallina che le ciondolava sulla clavicola. 
Se non fosse stato per la voglia di andare a dormire, e di conseguenza l'urgente necessità che qualcuno se lo portasse a casa, Jimin si sarebbe assicurato di farla salire in auto con i suoi. Sperò solo che lo sconosciuto avesse voglia di una scopata, o tutto ciò sarebbe stato inutile. 
Le istruzioni erano chiare, semplici, collaudate da lì in poi. Bastava seguire la indole del tizio. 
Ballarci insieme. 
Essere provocante. 
Lasciare che lo toccasse, ma non troppo. 
Baciarlo. 
Farlo eccitare. 
Farsi portare ovunque lui residesse. 
Scopare. 
Dormire. 
Svegliarsi. 
Tornare finalmente a casa.
E Jimin avrebbe subito dato il via a tutta quella trafila se qualcosa non avesse attirato la sua attenzione. 
Degli enormi bicchieri da cocktail alti quanto una persona erano stati posizionati solo per quella serata ai lati del palchetto come ornamento per Halloween. Dovevano far parte della scenografia degli spettacoli di burlesque infrasettimanali; una volta Danielle, una delle ragazze con cui era solito esibirsi, si era quasi rotta un polso nel tentativo di salire dentro il boccale per improvvisarci uno stacchetto. 
Come Jimin ne vide il contenuto i suoi piedi si fecero di granito. 
La musica che un secondo prima gli sfondava i timpani divenne lieve, modificando suoni e ritmo in una storpiatura che nessun altro parve notare. Il suo polso scivolò dalla presa ferrea dello sconosciuto che continuò a camminare imperterrito; le dita gli restarono arcuate dietro di sé come a portare a spasso un amico immaginario. 
Jimin si guardò intorno, unico corpo immobile in una marea in tempesta. Non solo nessuno si mostrava infastidito dai nuovi esperimenti del DJ, ma tutti si ostinavano a ballare secondo un basso inesistente. La sua attenzione tornò al bicchierone da cocktail. 
Lo stomaco parve ruggirgli quando riconobbe la forma familiare del frutto che pareva galleggiarci all’interno.
Mele. 
Jimin iniziò a scivolare fra la gente, sinuoso, felino, passando tra schiene, gomiti e braccia senza che nessuno si accorgesse di lui, la fame che lo accecava. 
Arrivò al cospetto del bicchiere da cocktail, constatando che fosse alto poco meno di lui. Doveva essere di vetro o di un altro materiale abbastanza robusto da permettere a una persona di tuffarcisi dentro senza romperlo. Catturava e rifletteva i fasci di luce rosati, violacei e bluastri che piovevano dal soffitto del locale, proiettando una bizzarra aurora boreale sul viso di Jimin. L’acqua al suo interno, anch’essa tinta dai colori che sembravano ricoprire e amalgamare ogni superficie disponibile di uomo, donna, mobilio o parete, sobbalzava ogni volta che i bassi della musica battevano nell’aria. 
Jimin non si curò del fatto che sia il livello dell’acqua che la gente pressata attorno a lui continuassero a muoversi ad un ritmo ben scandito mentre nelle sue orecchie la canzone era strascicata, un inno lamentoso. 
Tutta la sua attenzione era su quelle mele poggiate sul pelo dell’acqua, lucide e grosse, di un rosso cupo che prometteva dolcezza. La buccia perfetta e senza una grinza gli misero il sospetto che fossero finte, l’ennesimo oggetto di scena, ma Jimin ne desiderava una così tanto che avrebbe corso il rischio di ritrovarsi in bocca del polistirolo. 
Il ragazzo dai capelli argentei si alzò sulle punte dei piedi e allungò una mano oltre l’orlo del bicchiere. Si stupì quando sentì davvero la pelle bagnarsi, quasi si aspettasse che anche il liquido fosse in un qualche modo fasullo. Immerse più deciso le dita nell’acqua e le strinse intorno al frutto più vicino. Con una pazienza innaturale per una persona così torturata dai morsi della fame, Jimin estrasse la mela lentamente, come il ladro che teme di far scattare l'allarme. Le goccioline gli solleticarono l’interno del palmo mentre la sollevava oltre il bordo e se la portava alle labbra, indugiando sulla consistenza della buccia e su quel profumo familiare. 
Jimin affondò i denti nella mela, abbassando le palpebre. Ne staccò un morso e il suono croccante della polpa che veniva spezzata parve sovrastare ogni rumore. 
Una volta inghiottito quel boccone un po’ acidognolo si sentì immediatamente sazio. 
Qualcosa nel suo corpo scattò. Partì dallo stomaco e crebbe, arrampicandosi come linfa tra le sue vene, toccandogli la punta dei piedi e affluendo verso il suo cervello, bloccandogli il respiro. Gli parve di perdere sensibilità agli arti, un fastidioso formicolio in espansione che gli diede l’impressione di essere appena stato affetto da un virus.
Poi tutto scemò così come era iniziato. La musica tornò al volume originario e le dita riacquistarono sensibilità. Jimin aprì gli occhi, inconsapevole di come le sue pupille si fossero ridotte a due cerchi piatti e dorati, come quelle dei gatti al buio. Lasciò ricadere la mela nel bicchiere da cocktail e si allontanò. 
Il frutto galleggiò per pochi secondi prima di affondare, inghiottito dal liquido. Anche da sotto di esso si poteva vedere chiaramente la polpa bianca rivelata dal morso di Jimin, in netto contrasto con il colore scuro del resto del frutto. Tracce di rossetto viola venivano lavate via in turbini sottili e impalpabili, disperdendosi. 
Jimin si ritrovò di nuovo trascinato per il polso dallo sconosciuto del tavolo, come se non si fosse mai liberato dalla sua presa. Come se non si fosse mai fermato e non avesse mai assaggiato quella mela. 
Si sarebbe detto che non si era mai davvero allontanato se non fosse stato per la sua vista. Gli si appannava ad ogni passo un po’ di più, come se delle gocce gli incrostassero le ciglia. Le persone intorno a lui diventavano sagome confuse, le luci stroboscopiche giocavano ai lati della sua mente rendendo tutto più caotico di quanto già fosse. 
Finalmente il ragazzo che lo stava guidando sembrò trovare un punto del salone che lo soddisfacesse e i due poterono fermarsi. Jimin cercò di danzare ma le ginocchia gli cedettero da subito e fu costretto ad aggrapparsi alle spalle dell'altro. Quest’ultimo scambiò il suo gesto per un approccio fisico e, dato che non sembrava aspettare altro, si fiondò con la bocca sul suo collo.
Jimin alzò il viso verso il soffitto del locale, lasciando allo sconosciuto più spazio d’azione. I contorni dei tubi e dei cavi che sorreggevano tutto l’impianto luci tremolavano, il luccichio del metallo che rifletteva i led colorati era prepotente, gli segnava la retina. 
Tutto si fece ovattato, sempre più ovattato e scuro. 
Quando tutto fu buio pesto Jimin seppe di essere caduto. Dove? Non lo sapeva. 
Probabilmente nell’ombra della mela. 
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Tutto era nero, tutto era silenzio. 
Le orecchie gli fischiavano fortissimo dopo essere state sottoposte all’incedere continuo della musica. 
Jimin era certo di trovarsi sempre all’interno dell’Anathema; le punte delle sue scarpe potevano raschiare le scanalature tra una piastrella del pavimento e l’altra. Protese le mani davanti a sé, convinto di trovare il ragazzo con cui stava ballando, ma non trovò altro che il vuoto. Si girò velocemente dalla parte opposta, ma era chiaro che anche lì non ci fosse nessuno. Il rumore dei suoi passi echeggiava nell’immenso salone principale, rendendo evidente la sua solitudine.
Si volse una seconda volta verso un punto indefinito, come per cogliere di sorpresa i colpevoli di quella malefatta. Sussultò: qualcosa gli aveva sfiorato la pelle esposta della schiena. Successe di nuovo e lui si piantò immediatamente le mani all’indietro, bloccando contro di sé qualsiasi cosa lo stesse facendo  impazzire. 
Se poteva fidarsi del proprio tatto, avrebbe giurato di riconoscere una striscia di stoffa. Ne risalì la lunghezza passandola tra l’indice e il dito medio, saggiandone la consistenza vellutata. Culminava in un nodo legato contro la sua nuca. 
Con una delicatezza intrinseca di timore, Jimin fece scorrere i polpastrelli di entrambe le mani ai lati, arrivando fino a toccare da sopra la stoffa i propri occhi chiusi. Provò a sollevarsi la benda sulla fronte, a strattonarla via, a scioglierne il nodo, ma quella non si mosse di un centimetro. Fu inutile anche provare ad aprire le palpebre da sotto, nella speranza di vedersi i piedi. 
Non c’era niente che potesse fare se non restare immobile in mezzo alla pista. Jimin tenne i pugni stretti contro le cosce, nell’attesa che succedesse qualcosa. 
Ma il tempo passava e non accadeva niente. 
Solo quando Jimin fece per sedersi a terra venne strattonato all'indietro per la testa, come se qualcuno avesse tirato l'altra estremità della benda. In quella nuova situazione, l'unica azione concessagli era girare il capo. 
Un gemito femminile gli solleticò l’orecchio, un tipo di sospiro inequivocabile. Due mani si poggiarono sul suo braccio e presero ad accarezzarlo. Jimin non fece in tempo a rivolgersi in modo brusco a chiunque lo stesse toccando senza il suo permesso che un terzo paio di mani, più robuste e forti, gli pressarono sullo stomaco, facendolo indietreggiare. Una quinta e una sesta mano si strinsero sul retro delle sue ginocchia, una settima formicolava sul suo petto. 
Il numero delle mani raddoppiava, triplicava, tutte intente a strusciarsi contro il suo corpo. Con gli occhi bendati Jimin non avrebbe mai potuto dirsene certo, ma tra le tante mani gli pareva di sentire anche la presenza di dita solitarie, senza palmo e senza polso, tutte unghie e falangette che brulicavano sulla sua carne e si accalcavano le une sulle altre per conquistare un centimetro di pelle. Un concerto di gemiti e mugolii di piacere coprivano i respiri affannosi di Jimin, il panico e un senso di claustrofobia che lo prendeva alla gola. 
Era come se, non solo tutte le persone con cui aveva fatto sesso, che non erano certo un numero limitato, ma anche tutte quelle che si erano permesse letteralmente di allungare le mani si fossero date appuntamento per inchiodarlo lì, per toccarlo nello stesso modo in cui l'avevano già toccato in passato.   
Una delle mani ammucchiate contro la sua schiena si separò dal gruppo, ritenendo inutile insistere su un punto sovraffollato. Corse giù per lo stomaco di Jimin e giù per metà coscia, arrivando sul ginocchio. Le dita sforbiciarono per allargare lo strappo dei suoi pantaloni, intrufolandocisi sotto. A contatto diretto con la pelle, Jimin sentì chiaramente il tocco freddo di due anelli. La mano gli accarezzò l’interno coscia, spingendosi a palpare dove la pelle era più sensibile. 
Posseduto da un orrore sordo e paralizzante, a Jimin salì un grido in gola.

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(5) November 1st, 2015 - Sunday

Jimin per poco non cadde in avanti. 
Il ragazzo che gli stava tenendo compagnia ballava con la sensualità di un armadio a doppia anta. Patrick Daront era sicuro che se avesse bussato contro la sua testa e poi contro il suddetto pezzo da mobilio il suono sarebbe stato identico. Almeno si poteva dire che la prontezza di riflessi non gli mancasse, perché aveva afferrato subito Jimin da dietro la schiena.
Le figure dei due giovani si fecero troppo vicine, troppo confuse, troppo in ombra. Era difficile distinguere chi fosse chi tra tutto quel bianco e nero. 
Tutte le telecamera di sicurezza erano accese in quel momento, ma i due fratelli Daront avevano impostato lo schermò affinché mostrasse quella particolare inquadratura più grande delle altre. 
Il bianco degli schermi si rifletteva sulle pareti opposte dell'ufficio, rischiarandolo. Patrick era seduto sulla sua poltroncina, lo schienale buttato all'indietro e le caviglie poggiate al bordo della scrivania, mentre Lloyd se ne era rimasto in piedi tutto il tempo, le mani sui fianchi e la silhouette sottile che si stagliava scura.
Una volta individuato chi fosse Jimin durante quell'incontro nei corridoi ed essere entrati virtualmente nel suo cellulare, George e Matt lo avevano pedinato nella maniera più discreta possibile. La telecamera nascosta tra i loro vestiti era mal camuffata, ma tra tutti quei costumi di Halloween nessuno ci avrebbe fatto caso. 
Le loro riprese balzavano subito all'occhio nella grande schermata, essendo le sole a non essere statiche.
Un bip precedette un rumore ruvido ed elettronico. 
Dalla radiolina che Lloyd teneva appoggiata sulla scrivania, George li informò che Jimin aveva ufficialmente ingoiato il boccone. 
Il fratello più giovane si affrettò a dare una qualche conferma, parlando dritto dentro il microfono, poi sfilò velocemente il proprio cellulare da una tasca, la lucina supplementare dell'aggeggio che gli illuminava gli occhi azzurri.
Da dov'era seduto, Patrick lo vide scorrere i pollici sulla home di un'app che non riconosceva. Lloyd aveva fatto partire un timer. 
"Due del mattino." annunciò una voce robotica. "L'evento scadrà tra: una settimana."
Daront si allargò il colletto della camicia con l'indice. Ancora non ci credeva di star vivendo una situazione del genere in prima persona. 
"Sicuro che la tua roba non nuoccia? Stava perdendo i sensi, è evidente." 
Lloyd, evidentemente più rilassato di pochi istanti prima, si appoggiò con il fondoschiena alla scrivania, neanche a dirlo, sorridente. 
"Starà benone, tranquillo. Non te la rovino la tua bambolina."
L'uomo più giovane si voltò solo con il capo, trovando esattamente l'espressione che si aspettava dal fratello. 
"Che c'è?" disse Lloyd, la faccia da gnorri. "Pensavi di essere discreto? Ti avevo detto di avvicinare Jimin il minimo indispensabile per fargli respirare l'essenza della mela, giusto per aiutarlo a trovare il frutto vero e proprio. Tra le mie istruzioni non c'era tutto quel tocca-tocca." 
Patrick grugnì. Non tentò neanche di negare l'evidenza, anche se la cosa lo infastidiva. 
Invece pescò una bottiglia di Scotch, accompagnata dai famigerati bicchierini. Li riempì senza badare alle gocce sfuggitegli via che avrebbero reso appiccicaticcia la scrivania. 
Lloyd prese il suo e lo tintinnò contro quello di Patrick, buttando giù l'alcool in un solo sorso.
"A quel mucchio di soldi che mi ritroverò sul conto corrente." disse. "E alla star del mio show: buona settimana, Park Jimin."

SPAZIO AUTORE:
E voi? 
Team Lloyd o Team Patrick? 
Il televoto è aperto per scegliere il vostro Daront preferito.
DAN DAN (pure l'uscita drammatica era d'obbligo)

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Capitolo 3
*** BEGIN ***


Volevo scrivere qualcosa di intelligente prima di lasciarvi al capitolo, ma ho appena sentito Mic Drop di Desiigner E IL BABY WATCH YOUR MOUTH NON ME L'ASPETTAVO, YOONGI MA CHE FAI
E niente. Finalmente questo capitolo ha davvero l'atmosfera giusta. LIE e BOY MEETS EVIL non ci erano arrivati del tutto. 
Vi dico solo: tenete gli occhi aperti. Voglio vedere chi nota gli intrusi. (Tipo "Dov'è Wally?") (scrivetemi se li trovate hahahaha) 

Se volete seguirmi su twitter @silbysilby pubblico spesso qualcosa di speciale per voi AMICI CERCASI


I feel like dying when my brother is sad
When my brother is sick, it hurts more than when I’m sick
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BEGIN 

(6) November 1st, 2015 - Sunday

Passarono pochi secondi tra il suono del campanello e il momento in cui la porta si aprì. 
Una signora abbastanza avanti con l'età fece la sua apparizione sullo stipite, un sacchetto di plastica in mano e un sorriso bonario già impresso sulle rughe che le circondavano la bocca. Anche se non conosceva le persone che si ritrovò davanti non si trattava certo di una visita inaspettata. 
Persino lei che era anziana si era sforzata di stare sveglia un'oretta in più del solito in occasione della notte di Halloween. I bambini venivano sempre a farle visita e a lei poteva solo fare piacere. Aveva anche comprato una piccola lanterna dotata di candela da mettere sul muretto che separava la strada dal suo giardino per segnalare la propria casa.
Il trucchetto pareva funzionare. Era la dodicesima volta che le suonavano al campanello. La signora andò ad aprire la porta, tutta curiosa di vedere chi avrebbe trovato sul proprio vialetto. 
Bastò una sola occhiata per farle capire che il gruppetto era piuttosto insolito. Resi visibili dal lucernario, vide una bambina, un bambino e due adolescenti. La luce giallastra li illuminava dritta in faccia, alle loro spalle un mantello di notte e buio.
"Dolcetto o scherzetto?" le venne chiesto, un coro di voci alquanto dissonante. 
La vecchietta rise, limitandosi a scuotere il sacchetto che teneva in mano. La bambina le si avvicinò con un sorriso sdentato, le manine protese in avanti che tenevano ben aperta una fodera di cuscino. Intuendone l'uso, la signora ci versò all'interno una buona metà delle caramelle che le erano rimaste. 
Il gruppetto aveva già iniziato a chinare il capo per ringraziare e passare alla casa successiva quando uno dei due adolescenti frenò tutti quanti. 
"Mi scusi, signora." disse, la voce più profonda di quanto ci si aspettasse da uno così magrolino. "Possiamo chiederle se riconosce i nostri costumi?"
La signora non rispose e non annuì; si limitò ad eseguire la richiesta. Tamburellò con le dita raggrinzite contro lo stipite della porta mentre faceva scorrere lo sguardo da un giovane all'altro, pensierosa. 
"Campanellino." disse all'indirizzo della bambina.
"Un robot." aggiunse guardando il bambino, quei suoi occhioni neri tenuti bassi.
"E... le due gemelle di Shining? Il film di paura?" 
Uno dei due adolescenti a cui si era appena riferita, quello di un biondo innaturale che gli aveva rivolto la parola per primo, si piegò in due dal ridere. L'altro si limitò a un sorriso cordiale.
"Non proprio." 
Un broncio era andato a formarsi sul viso della bambina che lanciò un'occhiata accusatoria al ragazzo che ancora se la rideva. "Siamo i personaggi di Alice nel paese delle meraviglie." protestò. 
Una delle sue manine andò a stringersi al pesante cappotto nero. Esso nascondeva la maggior parte del suo costume, ma da sotto sporgeva un lembo azzurro di quella che aveva tutta l'aria di essere plastica. 
"Io sono Alice." aggiunse, come per voler chiarire il concetto. Un moto di pietà si mosse nel cuore della donna; la piccola suonava vagamente esasperata. 
Il bambino si decise a parlare solo quando venne fissato troppo a lungo per poter continuare a far finta di niente. Sopra la giacca indossava una maglia extra-large, delle striscie di nastro adesivo telato poste orrizzontalmente tutt'intorno a lui. 
"Lo Stregatto."
Quando la signora portò nuovamente la sua attenzione su di loro, i due adolescenti si erano messi uno di fianco all'altro, a braccetto. Sembrava più un gesto dettato dal freddo che dall'affetto; era l'ultima notte di ottobre e i due portavano lo stesso pigiama un po' retrò, senza nessuna giacca a coprirli. L'anziana sperò bene che sotto quella stoffa leggerina i due portassero strati e strati di magliette e canottiere. 
Per sua sfortuna era troppo lontana (essersi dimenticata gli occhiali da vista in casa non era d'aiuto), altrimenti avrebbe notato le lenti a contatto azzurre che indossavano entrambi. 
"Pincopanco." disse il castano. 
"Pancopinco." finì il biondo. 
L'anziana rivolse un mezzo sorriso di scuse a tutti. Disse di non conoscere il tema, ma il quartetto sapeva benissimo che stava mentendo. Se così non fosse gli occhi non le si sarebbero dovuti accendere man mano che le loro identità venivano rivelate. Era solo troppo gentile per dir loro che i costumi facevano pena. 
Senza rubarle altro tempo, il gruppo salutò l'anziana, ripercorrendo il vialetto da cui erano venuti. 
La notte, anche se di sera si sarebbe dovuto parlare dato che erano appena le nove e mezza, era silenziosa come sempre. Ogni tanto si sentiva qualche bambino schiamazzare nelle vie vicine, i trilli dei citofoni, il rumore di piccoli passi concitati. I lampioni e le finestre delle case erano le uniche fonti di luce che assicuravano un minimo di visibilità a tutti quanti, anche se vedere gruppi e gruppi di bambini marciare per le strade come formichine non avrebbe mai intimorito nessuno. 
Ogni volta che ne incrociavano uno, il quartetto ne guardava i costumi, indicandosi i più belli. O almeno, i tre maschi se li indicavano, la bambina si limitava a controllare che la cerniera del suo cappotto fosse ben chiusa sotto il suo mento. 
Questa volta, però, la bambina non si limitò al silenzio. Stavano camminando per una delle tante strade quando tutto ad un tratto lasciò cadere la federa con le caramelle a terra. Puntò i piedi. 
"Il mio costume fa schifo, Taehyung!" 
Il ragazzo chiamato in causa sospirò. Eonjin aveva proprio preso da loro madre: usava il suo nome di battesimo per intero quando la faceva arrabbiare. 
"Non si dice che fa schifo. Al massimo non ti piace. Guarda che io l'ho fatto con amore." 
La voce già squillante di suo di Eonjin raggiunse livelli paranormali. "Mi hai messo addosso un sacco del pattume azzurro!" 
A questa affermazione, Taehyung dovette davvero trattenersi dallo scoppiarle a ridere in faccia. Si scostò da davanti gli occhi la frangia bionda, le labbra tremolanti. 
"Lo sai anche tu che quest'anno abbiamo deciso di risparmiare. E poi sei tu che non hai voluto mettere il costume che ti abbiamo preso a Carnevale."
"Non mi hai nemmeno fatto i capelli gialli come Alice." 
"Eonjin, te l'ho già spiegato. Non puoi decolorarti per una serata soltanto e le bombolette spray non si vedono sui capelli scuri come i tuoi." 
"Ci sono le parrucche."
"Non possiamo permetterci dei costumi, secondo te potevamo comprare una parrucca?" 
Jungkook decise che era arrivato il momento di intervenire.
Se c'era una cosa peggiore dei bisticci tra Eunjin e Jeonggyu, l'altro bambino, erano i bisticci tra Eonjin e Taehyung. Erano cresciuti una più testarda dell'altro e non se la davano vinta a vicenda neanche a morire. Si sarebbe detto che quest'ultimo, essendo il figlio maggiore, avrebbe posto fine ad ogni questione con maturità, ma non era così. 
Quella notte, più che fare da babysitter ai due piccoli di casa Kim con il suo migliore amico, al castano era parso di fare da babysitter per i Kim e basta. Terzo bambinone incluso. 
E dire che Taehyung aveva un anno in più di lui. Pff. 
Jungkook poteva ben vedere perché la madre di quei tre mostricciatoli gli avesse addirittura offerto dei soldi pur di accompagnarli a fare il solito giro di ronda di Halloween. Sarà stato che non era di famiglia o che piaceva di più caratterialmente, ma i due bambini a lui obbedivano (cosa che con Taehyung non avveniva). Specialmente Eonjin. Era sempre più timida con lui nei paraggi. Jungkook decise di usare la cosa in suo favore. 
“Stai così bene mora," disse. "perché farti bionda? Preferiresti essere riconosciuta come Alice per una sola sera e essere brutta tutto l’anno?”
La cosa parve fare immediatamente effetto. Il broncio che corrugava il visino della bambina si distese, sfumandosi di vergogna. Le guance gli rimasero rosee di rabbia, il nasino rosso dal freddo. 
Eonjin alzò gli occhioni su Jungkook, facendogli un po’ pena. Così come il fratello maggiore, anche lei odiava essere ripresa o sgridata.
“Ma Tae non ha dato retta alla mamma e si è fatto i capelli gialli…” disse, lamentosa.
“Infatti, lui è brutto.”
Un risentito “Ehi!”, poi Jungkook ricevette una gomitata.
Il castano ci provò a stare serio, a continuare a guardare Eonjin negli occhi come niente fosse, ma non ce la fece. Non quando Taehyung alzava le mani su di lui per giocare. Non quando richiedeva inconsciamente la sua attenzione. Non quando sorrideva a quel modo. 
Jungkook rise, il fiato che gli si tramutava in nebbia.
Da quando aveva superato Taehyung in altezza era stato più semplice placcare i suoi attacchi, soprattutto considerando che l’altro era troppo magrolino per poter sperare di vincere contro di lui. Non che Jungkook fosse un armadio. Amava stare in forma, ma rientrava comunque nel normo-tipo. 
Con il pugno di Taehyung chiuso nel suo, faccia a faccia con quegli occhi momentaneamente celesti che parevano catturare tutta la luce presente per le strade notturne, Jungkook sentì chiaramente sbadigliare. La bocca di Jeonggyu era ancora aperta quando i due adolescenti si voltarono verso di lui. 
Il più piccolo della banda aveva cinque anni, due in meno rispetto a Eonjin, e come fosse riuscito ad arrivare a quell’orario senza appisolarsi o chiedere di andare a casa era un mistero. Un mistero che poteva facilmente essere sfatato da tutte le cartacce nascoste sotto il suo letto: qualcuno non aveva saputo aspettare Halloween per abbuffarsi di caramelle. 
Battendo in ritirata dal suo precedente attacco, Taehyung controllò l'orario sul cellulare. Lo aveva tenuto in mano per tutto quel tempo dato che i pigiama non avevano tasche né sui pantaloni né sul petto. Effettivamente si presupponeva che uno non ci andasse in giro. 
“Sono le nove e mezza. Massimo un altro campanello e poi torniamo a casa.”
Per sua sorpresa e sollievo, Eonjin non protestò. Jeonggyu sembrava più che felice della cosa, le palpebre che iniziavano a vacillargli.
Vedendolo così assonnato a Jungkook venne spontaneo abbassare la voce. Si chinò verso il basso nello stesso momento in cui il bambino alzò le manine al cielo, lasciandosi sollevare da quelle braccia ormai familiari. “Possiamo anche fare direttamente ritorno, Tae. Questo qui non sta in piedi.”
Taehyung annuì. Cercò subito Eonjin con lo sguardo, trovandola già qualche passo più avanti di loro. A quanto pare non vedeva proprio l’ora di levarsi quel costume di dosso. Non gli diede neppure la mano quando lui gliela offrì. 
Taehyung sospirò con il naso. Doveva ritenersi fortunato che la bambina non stesse insistendo per rimanere ancora in giro. A parte il fatto che era davvero buio come se fosse notte fonda, il ragazzo ci teneva che tornassero tutti a casa sani e salvi. Si sapeva che Halloween era anche la celebrazione degli scherzi di cattivo gusto oltre che quella delle caramelle; fratellino e sorellina si sarebbero spaventati a morte se fossero incappati in un petardo.
E poi quella serata era stata speciale a modo suo. Prolungarla poteva significare dargli il tempo di rovinarsi. 
Era stato tutto divertente, dalla cena all’uscita. 
Okay, Taehyung doveva ammetterlo: lui e Jungkook si erano fatti fin troppe risate quando era arrivato il momento di travestire Eonjin e Jeonggyu.
I quattro avevano cenato insieme abbastanza presto, in modo da poter iniziare con i preparativi il prima possibile. La signora Kim si era limitata ad ordinare della pizza, troppo stanca per mettersi ai fornelli; quell’anno aveva davvero deciso di affidarsi a Taehyung e Jungkook in tutto e per tutto, ritenendo i rispettivi diciassette e sedici anni più che sufficienti per badare a due bambini delle elementari. Inoltre, suonare a casa degli sconosciuti poteva rivelarsi abbastanza imbarazzante per un adulto, anche con la scusa di essere un accompagnatore. 
Perciò si erano dovuti arrangiare anche con i costumi. Tra la velocità assurda con cui quei due bambini stavano crescendo e il continuo cambio delle mode a cui erano tanto soggetti, comprarne di nuovi sarebbe stato uno spreco di denaro. 
Era stato così che, per fare più in fretta, i due migliori amici si erano presi un marmocchio a testa. 
Per quanto si fidasse più di Jungkook, Eonjin si era vista costretta a seguire Taehyung e il suo dubbio gusto nel vestire. Quando si trattava di cambiarsi d’abito faceva troppo la vergognosa in presenza di Jungkook, ma forse avrebbe cambiato registro se avesse potuto vedere come sarebbero andate a finire le cose. Di certo al suo mi serve un vestito azzurro non si era aspettata che il fratello maggiore le mettesse addosso un sacchetto per il pattume, giusto ritagliato per dar spazio a testa e braccia. Sotto le aveva fatto indossare maglia, maglione e pantaloni lunghi, tutto rigorosamente bianco.
Taehyung non aveva davvero niente di meglio da offrirle: il guardaroba di loro madre era off-limits e lui non ci avrebbe pensato neanche per sogno di far indossare alla sorellina pasticciona una delle sue magliette. 
Jungkook se l’era cavata meglio con lo Stregatto, anche se aveva dovuto chiedere a Taehyung cosa si trovasse dove più o meno ogni cinque secondi.
Jeonggyu era facile da accontentare. Era bastato prendere in prestito una delle maglie sportive del signor Kim e farla diventare a strisce. Con tutto quel nastro adesivo telato il bambino era pure catarifrangente per le strade, non poteva chiedere di meglio. 
Jungkook aveva disegnato sul suo visino naso e baffi da gatto. Poi aveva dovuto aggiungere un paio di orecchie direttamente sulla fronte; avevano provato a convincere Jeonggyu ad indossare un cerchietto di cui Eonjin era già in possesso, ma non c’era stato verso. Adesso, se lo si guardava da lontano, sembrava avere due grossi triangoli al posto delle sopracciglia. 
Taehyung aveva provato a fare un po’ di terrorismo anche sul fratellino minore, fallendo. Lo spolverino di casa cadeva in continuazione se infilato nel retro dei pantaloni, la brutta imitazione di una coda. 
E niente, Taehyung si era divertito da matti, non sapeva come altro dirlo. 
Se gli fosse stato chiesto tempo prima anche lui avrebbe detto che trascorrere Halloween a tenere d'occhio dei bambini sarebbe stata una rottura, ma non era così. Perché quando si è in compagnia del proprio migliore amico tutto diventa estremamente divertente. 
Lui e Jungkook si sarebbero potuti fare preti, avrebbero potuto frequentare una facoltà universitaria di chirurgia plastica o avrebbero potuto passare una notte intera chiusi in un museo delle scienze naturali in allestimento che avrebbero trovato il modo di farsi due risate.
Taehyung ricordava abbastanza bene gli anni in cui era stato lui stesso il bambino iperattivo a fare dolcetto o scherzetto, ma questa nuova esperienza stava sovrascrivendo tutto quanto. 
Chissà come sarebbe stata la sua infanzia se solo avesse conosciuto Jungkook alle scuole elementari e non durante il suo primo anno di superiori. Non che Taehyung avesse avuto un’infanzia solitaria, ma con Jungkook le cose erano sempre state diverse. Se con gli amichetti delle medie Taehyung si era sentito in dovere di dimostrare la sua non ancora acquisita virilità, con Jungkook si era sentito, e si sentiva, apprezzato per quello che era. Deboluccio e ingenuo.
Alla fine i due adolescenti avevano passato il loro trentuno ottobre così. A fare il giro del vicinato a piedi, a tenere i bambini lontani dalla strada, a scegliere le loro vittime tra le persone più anziane e le famiglie, a prediligere le vie ben illuminate...
Ed era stato memorabile. Niente party, niente casini. 
Le luci delle case stavano già iniziando a scarseggiare quando la truppa fece ritorno a casa Kim.  
La madre di Taehyung, Eonjin e Jeonggyu li accolse tutti nell'appartamento non appena entrarono. Era avvolta in una vestaglia da notte, evidentemente sulle spine per aver affidato i propri figlioletti (amico-accessorio incluso) a sé stessi. 
Jeonggyu scese dalle braccia di Jungkook per andare a rifugiarsi in quelle calde della madre mentre Taehyung riponeva le chiavi di casa al loro posto. Anche Eonjin si diresse verso di lei, mostrandole come era stata conciata. 
La signora Kim non seppe come fece a fingere di fulminare il suo primogenito con un’occhiataccia. Gli fece addirittura i complimenti più tardi. 
Le luci vennero spente. 
Eonjin e Jeonggyu vennero messi a letto. 
Una favola della buonanotte fu raccontata.
La madre di Taehyung riemerse dal corridoio che separava la sala da pranzo dalla zona notte una decina di minuti dopo. Andò in cucina, dove Taehyung e il suo migliore amico si stavano preparando della tisana. Dovevano aver pensato anche a lei, perché le tazze poggiate sul bancone erano tre. 
La donna esibì un sorriso stanco, grata per quel piccolo gesto. Raggiunse i due ragazzi, guardando come tutto fosse già pronto. 
“Ti prego, Jungkook, portati a casa metà di ‘sta roba.” disse, gesticolando in direzione delle due federe strapiene di dolciumi poggiate a terra. “Non ho abbastanza risparmi per star dietro a tutte le carie che i miei figli si faranno venire.”
La zazzera corta di capelli le scivolò via da dietro l’orecchio, coprendole un occhio. Jungkook si limitò a sorriderle, porgendole una tazza per il manico. Gliela posò delicatamente tra le mani, temendo di far strabordare parte della bevanda bollente.
Mentre la signora Kim andava ad accomodarsi al piccolo tavolo della cucina, Jungkook preferì rimanere in piedi; con la schiena poggiata al bancone prese tra le mani la propria tisana, portandosela alla bocca. 
Mettere qualcosa di caldo in corpo era una sensazione magnifica. Per quanti strati di maglie si fosse messo, uscendo in pigiama a quel modo si era assicurato un buono sconto per una polmonite. Taehyung aveva fatto tanto lo spavaldo per tutta la serata riguardo la questione, ma alla vista di Jungkook non era sfuggito quel pacchetto di fazzoletti che l'altro si era infilato in tasca di contrabbando non appena erano rientrati a casa. Lo aveva pure beccato sfregarsi il dorso della mano sotto il naso subito dopo aver passato un sottobicchiere alla madre. Persino in quel momento sembrava tutto intirizzito, seduto anche lui al tavolo. 
Jungkook era tutto occhi. Ogni volta che madre e figlio stavano uno di fianco all'altro era sempre uno spettacolo.
C'era poco dei lineamenti di una nell'altro, i capelli biondissimi di Taehyung che fuorviavano non poco, ma il temperamento del carattere era lo stesso.
La signora Kim era proprio una tipa tosta. Per lei ogni scusa era buona per organizzare cene e non faceva altro che invitare tutto il gruppo di amici da loro, anche quando la casa era particolarmente impresentabile. Certo, da quello che gli confidava Taehyung, Jungkook non poteva certo dire che si trattasse della madre perfetta, ma a parere suo ci si avvicinava molto. Era la classica una mamma per amica
Anche per questo il castano si aspettava già la prossima domanda di lei.
“Resti a dormire?” 
“So che da domani avrete ospiti e io non voglio rallentare i preparativi. Ci guardiamo un film e poi vado.” 
Un’ulteriore offerta di disponibilità. “Vuoi che ti accompagno a casa con l’auto?” 
“Abito letteralmente nella via di fianco, non c’è bisogno. Ma grazie.” 
La donna regalò un sorriso affettuoso a Jungkook, illuminato dalla luce scarsa che sovrastava l’area cottura. Finì la sua tisana e si alzò da tavola per riporre la tazza nel lavandino, la bustina dell’infuso dimenticata al suo interno. “Vado a rimboccare le coperte alle due scimmiette. Buona notte, ragazzi.” 
Lei e la sua vestaglia sparirono nel corridoio che portava alle camere da letto, ma non prima che la donna avesse stritolato affettuosamente le guance di suo figlio. Taehyung fece un verso di protesta contro l’indelicatezza del gesto, ma si ritrovò a sorridere quando gli vennero sconquassati i capelli lisci.
“Buona notte.” ripeté la signora Kim, lasciandoli soli.
Jungkook e Taehyung rimasero in silenzio fino a quando non sentirono la porta del corridoio chiudersi dietro di lei. 
“Allora, film?” chiese subito il più giovane. 
“Mia madre ti adora.” rispose Taehyung. I suoi occhi erano ancora posati sul punto dove aveva visto uscire il soggetto dei suoi pensieri, un’espressione indefinita che ci vacillava all’interno. “Dovresti sentire come parla bene di te ogni volta che ti menzioniamo a qualche conoscente. Oh, mio figlio si è trovato gli amici giusti. Oh, dovreste conoscere il suo migliore amico, un ragazzo così per bene. Eonjin e Jeonggyu diventano degli angioletti con lui.” 
L’imitazione di Taehyung sarebbe dovuta risultare divertente, ma in un qualche modo non lo era per niente. Jungkook sapeva che non era con lui che Taehyung ce l’aveva. Alle volte, la mente del biondo era intelligibile come carta velina controluce per lui. 
“Dice così solo perché non sono suo figlio.” 
Il biondo nascose metà del suo viso dietro la tazza, inclinandola più che poté. Quando ne riemerse, buttando fuori il respiro bollente che gli aveva lasciato la bevanda, Jungkook poté dedurre due cose dalla faccia che fece: o quell’ultimo sorso era davvero amarognolo o Taehyung non era affatto convinto che Jungkook avesse ragione.
Taehyung scese dalla sua sedia, seguendo l’esempio dato poco prima dalla madre. Il leggero clangore del fondo della tazza che veniva appoggiata sul metallo del lavandino sembrò spezzare quell’atmosfera vaga che si era venuta a creare. “Dai, guardiamo cosa c’è in televisione. Qual’era quel canale che avevi trovato con la maratona notturna di horror?” 

Quando aprì gli occhi, Jungkook realizzò una cosa alla volta.
Primo: a svegliarlo era stato un urlo agghiacciante.
Secondo: la televisione stava ancora andando e il ragazzo non aveva idea di che film si trattasse, di cosa fosse quello strano mostro gelatinoso che occupava metà schermo e del perché stesse azzannando il pollicione di una presentatrice radiofonica. 
Terzo: il suo televisore non era così grande. 
Quarto: quello non era il suo salotto. 
Quinto: quello non era il suo divano. 
Sesto: quello premuto contro le sue caviglie non era il suo cane. 
Cavolo. Jungkook si era addormentato a casa Kim. 
Il ragazzo balzò su con la schiena, mettendosi seduto. Il divano era un bordello di gambe, coperte, cartacce di barrette al cioccolato e ulteriori coperte. La stanza sarebbe stata immersa nel buio più totale se non fosse stato per la televisione che proiettava luci e colori su ogni superficie disponibile. Persino l’incarnato di Taehyung fungeva da tela. 
Jungkook si diede una frenata quando vide come quest’ultimo stesse dormendo pacificamente. Il biondo era tutto accovacciato contro lo schienale del divano, alla ricerca di calore. Solo una spalla gli sbucava da sotto la coperta, tenuta stretta stretta all’orecchio. 
A premere contro le caviglie di Jungkook dovevano essere stati proprio i piedi scalzi dell’altro.
Per sua fortuna il telecomando era appoggiato sul tavolino di fronte a loro, per cui Jungkook non si dovette alzare. Mettendo in muto il televisore, controllò l’orario sulle impostazioni: non era tardi, di più. Anzi, era così tardi che poteva essere considerato presto, ma della mattina dopo. 
Non sapeva neanche lui cosa fosse meglio fare. Aveva detto ai suoi che sarebbe tornato a casa verso mezzanotte, l’una, giusto il tempo di vedersi il film per l’appunto. Okay che non sarebbe stata la prima volta che Jungkook si addormentava a casa del suo migliore amico, ma tutte le altre volte ci aveva pensato la signora Kim ad avvisare i suoi. Invece lei era andata a dormire ancor prima di loro, per cui i suoi genitori dovevano essere all’oscuro di tutto. 
Jungkook aveva paura a cercare il suo cellulare. Quella volta una bella ramanzina non gliela risparmiava nessuno. 
Jungkook guardò Taehyung, indeciso. Avrebbe dovuto svegliarlo, farlo andare a dormire su un letto vero e proprio se non voleva ritrovarsi l’indomani con un torcicollo allucinante. 
Eppure il biondo dormiva così bene. Le sue palpebre chiuse sembravano talmente lisce da essere più lucide rispetto al resto della pelle.
Ma d’altronde, che poteva farci Jungkook ormai? Erano le tre di notte passate, tornare a casa a quell’ora non gli pareva la più grande delle idee. E poi il danno ormai era fatto. Un altro paio di ore di sonno non avrebbero fatto la differenza.
Cercando di muovere il meno possibile il divano sotto di sé, Jungkook si allungò sulla metà che non gli spettava. Ripescò i calzini di Taehyung e glieli mise nonostante quest’ultimo odiasse dormirci. Gli rimboccò la coperta su quella spalla esposta, accumulandogliela sotto il mento scarno. 
Una volta tornato al suo posto, Jungkook si riposizionò con il capo su uno dei braccioli, stringendo un cuscino quadrato al petto. Spense il televisore, facendo calare definitivamente il buio. 
Il tempo di appoggiare alla cieca il telecomando sul tavolino che i piedi freddi di Taehyung tornarono a infilarsi tra i suoi polpacci.

(7) November 1st, 2015 - Sunday

La prima cosa che comparve nella visuale di Jimin quando aprì gli occhi fu il retro di un cellulare. Successivamente, la ragazza dietro di esso. 
Lo sguardo di lei si allacciò al suo non appena si accorse che era sveglio, l’espressione stupita e vagamente abbindolata. Abbassò il cellulare dal viso, mostrandosi in tutta la sua giovinezza. Doveva essere una studentessa più piccola d’età di Jimin, al massimo una sua coetanea. 
Neanche a dirlo, il ragazzo non aveva la benché minima idea di chi fosse. E neanche del perché lei fosse seduta a terra con la schiena contro la parete mentre lui se ne stava spaparanzato a letto. 
Jimin si sollevò a sedere. Il lenzuolo bianco che lo copriva fino a sotto il mento scivolò giù, il suo essere nudo, la seconda, non tanto grande, rivelazione della mattinata. 
Per evitare altre rivelazioni si tenne stretta la coperta sull’inguine prima di guardarsi intorno.
 Il fatto che si trovasse su un letto, in compagnia di un tizio che continuava a dormire alla grossa, in una camera che non riconosceva minimamente non era una grande sorpresa. Dio solo sapeva quante volte gli era capitato di ritrovarsi alla mattina in posti inimmaginabili, i ricordi delle nottate precedenti un puzzle dai pezzi mancanti. 
I suoi vestiti erano piegati con cura su una seggiola lì a fianco, con tanto di guanti, il cerchietto con le orecchie da gatto ed il rossetto viola. I suoi anfibi erano ben disposti sotto di essa, il cellulare in carica sul comodino. Almeno questa volta non avrebbe dovuto tirar su una squadra di ricerca per trovare i suoi indumenti.
L’unica cosa a non essergli familiare nella situazione era quella ragazza vestita dalla testa ai piedi, i capelli raccolti in una crocchia ed il telefono tra le mani. Jimin, meno a disagio di quanto ci si possa immaginare, si schiarì la gola. 
“Ciao.” 
“Ciao, Jimin.” rispose lei. Il suo nome venne scandito in tono carezzevole, come se la ragazza si stesse gustando il suono di quelle sillabe.
"Ehm," Jimin si passò una mano tra i capelli, indeciso su come muoversi. "Ti dispiacerebbe dirmi in che zona di Seul siamo?" 
"Siamo appena fuori dal centro. Non so esattamente come tu e mio fratello abbiate fatto a tornare a casa dato che eravate entrambi ubriachi. E anche piuttosto focosi. Vi sareste messi a fare sesso sullo zerbino se non vi avessi ricordato che non distavate molto dal letto in camera sua.”
Jimin non si mostrò impressionato dalla cosa. Erano cose che capitavano quando la persona con cui stava per darci dentro dimenticava le chiavi di casa. 
Fece la sua solita domanda di circospezione. "I vostri genitori?" 
"Non abitano qui. In questo appartamento ci siamo solo io, mio fratello e un paio di amici." 
Jimin annuì, sollevato. Si sentiva la testa troppo pesante per anche solo pensare di doversi calare da qualche finestra o sorbirsi le scenate peggiori. Ma c'era ancora una cosa che non quadrava.
"E tu ora saresti in questa camera perché...?" 
"Me lo ha chiesto lui. Di filmare, intendo."
Le sopracciglia scure di Jimin schizzarono verso l'alto e scomparirono sotto la frangia scarmigliata. Aprì la bocca per parlare ma si ritrovò a corto di parole. Questa sì che gli era nuova.  
L'accanimento delle dita della ragazza sul cellulare aumentò. Le unghiette tinte di un blu elettrico tamburellavano contro la cover, come se temesse che il ragazzo potesse saltare giù dal letto da un momento all'altro per strapparglielo via. L'espressione bambina di lei era piatta, gli occhioni grandi e ingenui mentre si stringeva le ginocchia ossute contro il petto. 
Tutto normale. Come se non avesse appena ammesso di aver assistito a un rapporto sessuale che coinvolgeva il fratello. 
"Hai intenzione di metterlo in rete?"
"No, lo terrò per me."
Jimin era confuso. Era sveglio da troppo poco tempo per poter ragionare su certe questioni. Si strofinò un occhio con il dorso della mano e fece per stirarsi la schiena. Il modo in cui i muscoli guizzarono sotto la sua pelle attirarono immediatamente gli occhi della ragazza. 
Davvero, non sapeva come sentirsi a riguardo. Avrebbe dovuto sentirsi oltraggiato? Divertito? D'altronde, cosa mai poteva essere un video che lo incriminava esplicitamente? Non era come se nessuno fosse a conoscenza del fatto che in qualità di essere umano potesse scopare, o del fatto che lui in particolare lo facesse parecchio e di sicuro non con una persona esclusiva.  
In un qualche modo, considerato il suo stile di vita, sembrava quasi sbagliato sentirsi in disaccordo, come se avesse perso i diritti d'autore sul proprio corpo. O forse era talmente abituato ad essere indicato con il dito dalla gente che una pecca in più non avrebbe cambiato niente.
Il ragazzo ancora sdraiato al suo fianco, il fratello della ragazza, si mosse nel sonno, aggrappandosi al fianco di Jimin da sotto il lenzuolo. Il suo corpo era caldo, ma appiccicaticcio. 
"Ho fatto un incubo terribile..." bofonchiò Fred, la guancia premuta contro le ossa del bacino di Jimin. 
Né quest'ultimo né la sorella lo assecondarono, evitando di chiedergli ulteriori particolari che non interessavano a nessuno. Jimin si allungò verso il comodino per staccare il proprio cellulare dalla corrente, ignorando le proteste di Fred che aveva tutte le intenzioni di rimettersi a dormire sfruttando lui come cuscino. 
Il ragazzo dai capelli argento si sottrò alla sua presa senza tante cerimonie e arruffò un altro po' di lenzuola contro il suo stomaco, sedendosi a gambe incrociate. Una volta aumentata la luminosità, sbloccò lo schermo del proprio cellulare. Stava scorrendo velocemente le notifiche dei vari social network quando ne vide una anomala. 
Proveniva dallo Store del suo cellulare e confermava che un'app era stata scaricata con successo. Il che era strano, perché la memoria del suo cellulare era piena da mesi. Non aveva spazio neppure per scaricare immagini, figurarsi un'intera app. 
Confuso, Jimin la cliccò per cercare di capire di cosa si trattasse. La schermata divenne dapprima scura, poi una lucina bianca iniziò a girare in tondo sullo schermo, accerchiando quello che sembrava il simbolo dell'app. La sagoma bianca di una mela era stagliata in mezzo a tutto quel nero, con tanto di picciolo. 
Ci stava mettendo troppo a processare, per cui Jimin decise di rinviare le sue ricerche a più tardi. Tanto doveva trattarsi di uno di quei link diretti che ti si installavano sul cellulare quando premevi per sbaglio una pubblicità. L'importante era non seguire le istruzioni per scaricare la vera app. Una volta gli era capitata una cosa simile con la MacDonald. 
Una nuova notifica fece vibrare il suo cellulare, spodestando tutte le altre. 
Spodestò anche tutti i pigri pensieri di Jimin quando vide di cosa si trattava. 

Promemoria: 1 Novembre 2016, martedì 
                      Festa di Ognissanti 
9.30: Colazione con il gruppo da Cup's 

Erano le otto e quaranta. Se davvero si trovava appena fuori il centro di Seul e se si fosse dato una mossa avrebbe potuto raggiungere i suoi amici senza dover chiamare un taxi o prendere i mezzi pubblici.
Jimin bloccò con uno scatto secco la mano del bel addormentato al suo fianco, che a quanto pare non era più così addormentato. Stava per chiedere a lui o alla sua strana sorella se sapessero dirgli quanto tempo avrebbe impiegato a piedi per raggiungere il centro, quando la porta della stanza venne spalancata. Un tizio alto e biondo, ormai è superfluo dire che non aveva la minima idea di chi si trattasse, entrò come un ciclone. Con una mano si frizionava i capelli bagnati, con l'altra si spazzolava i denti. 
"Fred, si può sapere dove diamine hai ficcato il deodoran-" 
Gli occhi del nuovo arrivato avevano seguito la curva delle lenzuola arruffate sul corpo dell'amico ed erano finiti dritti dritti sulla figura di Jimin. Dal suo punto di vista quest'ultimo era girato di tre quarti, tutto pelle in vista e capelli argentati. 
Sarà stata la luce soffusa del mattino che giocava con il suo profilo, sarà stato lo sguardo curioso che gli rivolse, sarà stato il modo pudico con cui tentò inutilmente di sfilare un po' più di coperta da sotto Fred per coprirsi meglio, ma lo spazzolino da denti del biondo finì a terra, macchiando la moquette di dentifricio. Era ovvio che non si aspettasse di ritrovarsi sotto lo stesso tetto con Park Jimin, probabilmente uno dei tanti ragazzi popolari di cui aveva solo sentito parlare o aveva visto di sfuggita per le strade.
Jimin diede un cricco indelicato alla fronte di Fred, ottenendo il risultato sperato. Quest'ultimo si mise sulla schiena, liberandolo finalmente dal suo tocco indesiderato e permettendogli di riconoscerlo come la persona con cui aveva ballato la sera prima all'Anathema. Il ragazzo colpito strinse gli occhi, infastidito dalla luce troppo intensa, prima di notare la presenza dell'amico sullo stipite di camera sua. Tra i due iniziò una conversazione che voleva essere discreta, tutta occhiate e cenni con la testa. Jimin si sforzava di ignorarli solo per non rendere la cosa più pietosa di quanto già fosse. 
Alla fine Fred, dato che non sembrava capire cosa intendesse l'amico, si mise in piedi e lo raggiunse dalla porta dove presero a sussurrare, le voci che ogni tanto rischiavano di ingrossarsi in una conversazione abbastanza accesa. Nel frattempo Jimin si fece passare dalla sorella di Fred un paio di boxer puliti che indossò da sotto le coperte, non volendo dare spettacolo. Poi si alzò anche lui dal letto e finì di vestirsi in tutta tranquillità. 
Finse di non sentir volare nell'aria i bisbigli concitati del biondo che rimproverava l'altro di non averlo chiamato per fare una cosa a tre, ma quando sentì Fred rispondere che ci sarebbero state altre occasioni decise che era arrivato il momento di porre fine alle sue fantasie e togliere il disturbo.
Jimin, con di nuovo addosso la sua tenuta nera e gli anfibi allacciati ben stretti ai piedi, si assicurò di prendere contro le spalle di entrambi quando passò tra i due a mento alto. Non li degnò di una parola o di uno sguardo d'intesa, inforcando la porta e il corridoio che l'avrebbero portato all'ingresso principale.
I due ragazzi lo guardarono andare via, il loro piccolo dibattito estinto con la stessa velocità con cui Jimin gli era sfilato d'avanti. Spostarono lo sguardo sulla ragazza ancora presente nella stanza solo quando sentirono il portone sbattere.

(8) November 1st, 2015 - Sunday

Un vassoio con sopra sei tazze di porcellana venne appoggiato con cura al centro di una tavola ben apparecchiata. La cameriera, una ragazza che non doveva avere più di una ventina d'anni, le dispose una per una davanti ai ragazzi già seduti ai loro posti, preceduta da un'altra che distribuiva dei piattini dall'aria delicata. Quando quest'ultima ebbe finito si allontanò verso il bancone per poi tornare con un cestino colmo di ogni genere di biscotto, bustine di zucchero fino o di canna, fruttosio, caffè in polvere e una piccola confezione di panna spray.
I ragazzi ringraziarono un po' impacciati le cameriere e guardarono tutto quel ben di Dio che gli era appena stato servito con l'acquolina in bocca: Cup's era senza dubbio il locale migliore dove potersi godere una ricca colazione senza pagarla un occhio della testa.
Il gruppo aveva scovato quel posto agli esordi della loro amicizia. Al tempo, essendosi tutti appena iscritti alla prima superiore (Seokjin a parte che già frequentava il secondo anno), si erano concentrati per lo più nel conoscere i loro compagni di classe, senza considerare quelli delle altre. Poi era capitato di scoprire amicizie in comune, qualcuno dalle scuole medie, qualcun altro per la città in cui vivevano o per via di un qualche corso o club extra scolastico. 
Più precisamente, Namjoon era in classe con Yoongi e Jimin che già erano conoscenti di vista; Yoongi conosceva Taehyung, dato che entrambi avevano vissuto a Daegu; il migliore amico di Taehyung era Jungkook, che ancora era uno studente delle medie; Jungkook frequentava un corso di danza con Jimin; Jimin aveva detto a Namjoon di voler conoscere il suo ragazzo, Seokjin. 
Alla fine, gira che ti rigira, capitava spesso che la compagnia con cui si usciva fosse sempre formata dagli stessi elementi, per cui lo avevano reso ufficiale. Avevano deciso di comune accordo che questa fitta rete di conoscenze sarebbe stata da sbrogliare entro la fine del primo anno. Così avevano cercato un locale in centro che potesse intermediare tra le abitazioni di tutti, che non fosse troppo affollato e costoso per non creare disagi a nessuno. 
Cup's aveva subito fatto al caso loro: era in un angolo un po' appartato, invisibile a chi non sapeva della sua esistenza, la sua entrata confusa tra vari edifici dall'aria un po' austera. Serviva principalmente la colazione, ma vendeva anche cose salate e piatti caldi, in modo da garantirsi una clientela anche durante l'orario del pranzo e della cena. 
I ragazzi avevano potuto constatare che la clientela era principalmente formata da famiglie con i loro bambini, lavoratori e qualche studente come loro, rendendolo un posto tranquillo e piacevole. Anzi, talvolta erano proprio loro a risultare i più chiassosi.
E dopo tre anni eccoli ancora lì, sempre insieme, sempre allo stesso tavolo. 
Il personale ormai li conosceva: le cameriere sorridevano loro quando li vedevano entrare tutti insieme e l'omaccione che stava chiuso in cucina sapeva perfettamente quanti caffè, thè o cappuccini costituivano il loro solito ordine. Lasciavano sempre che l'affiatato gruppetto occupasse il tavolo fino all'orario di chiusura anche se avevano finito di consumare ore prima; capitava spesso che Cup's si ritrovasse ad essere sede dei loro studi o delle loro ricerche scolastiche.
Andare da Cup's per la colazione era una tradizione, così come quella di farlo la domenica, nei giorni festivi o in quelli lavorativi in cui l'entrata a scuola era posticipata di un'ora o due. 
E, se non si fosse già capito, per il gruppo le tradizioni erano una cosa seria.
Così, anche quel primo novembre, il giorno di Ognissanti, si erano dati appuntamento. Per l'occasione Cup's era stato decorato in pieno stile Halloween, dai servizi di piatti di porcellana decorati da disegni di zucche e pipistrelli, alle foglie autunnali dei centrotavola, mantenendo l'aria un po' rustica che lo contraddiceva. 
Anche quella mattina, come tutte le mattine, il gruppo si era disposto al tavolo secondo un ordine ben preciso, proprio come si fa in famiglia. Una sola volta in quattro anni avevano provato a scambiarsi di posto, ma l'esperimento pareva aver disorientato tutti quanti. 
Essendo in sei persone si erano divisi in due, tre per ogni panca modulare. Jungkook sedeva tra Yoongi e Taehyung, che fronteggiava Namjoon. Alla sinistra di quest'ultimo c'era Seokjin, i due piccioncini che non smettevano di mettersi le braccia intorno alle spalle neanche quando mangiavano, e infine Jimin. 
L'unica cosa ad essere diversa dal solito era quell'ultimo posto ancora vacante.
Appena le due cameriere sparirono dietro il bancone, Jungkook e Taehyung fecero subito per allungarsi verso il cestino di biscotti, ma Namjoon schiaffeggiò loro le mani.
"Non aspettiamo Jimin?" chiese il ragazzo, il punto interrogativo nel suo tono di voce molto retorico. 
I due si guardarono negli occhi, l'aria un po' colpevole per non aver pensato prima all'amico. Jungkook tornò subito ad appoggiarsi allo schienale di legno. Lo stomaco di Taehyung brontolò in protesta.
"Ma chissà quando arriverà quello lì. Di sicuro ieri sera avrà fatto tardissimo, sarebbe capace di farci aspettare per ore..."
Namjoon appoggiò il mento sul palmo della mano, rifilando a Taehyung un'occhiata storta per la sua poca fede.
Battendo su quei suoi capelli scuri, la luce artificiale ne mostrava chiaramente i riflessi verdastri, il pessimo risultato di una tinta sbagliata. Il suo volto appariva ancora più stanco, I lineamenti morbidi più marcati del solito.
Se ne era accorse Seokjin che subito prese ad accarezzargli la nuca con fare preoccupato. 
"Arriverà, arriverà." rispose allora quest'ultimo, senza guardare direttamente Taehyung. 
C'erano certe volte, come quella, che Seokjin, più che il ragazzo di Namjoon, sembrava il suo interprete. Come se servisse un intermediario tra le parole e i pensieri del primo e il resto del mondo.  
Taehyung annuì con la testa ed imitò Jungkook, gli occhi che vagavano per il locale alla ricerca di una distrazione qualsiasi per ammazzare il tempo. 
La cosa durò più o meno sette secondi, poi lo stomaco gli brontolò di nuovo. 
"E se io e Kookie intanto andassimo a saldare il conto? Così almeno prendiamo il lecca-lecca omaggio." 
"Ma se ne avete letteralmente un sacco pieno con voi." gli fece notare Seokjin.
"Tecnicamente è una federa per cuscini."
"Lecca-lecca omaggio?" fece Nam, sollevando il capo. 
Taehyung annuì per la seconda volta, un sorriso piccolo piccolo sul viso. 
Si sarebbe vergognato un po' ad ammetterlo, ma si era intristito per un attimo. Voleva un bene dell'anima a Namjoon, odiava sentirsi anche solo minimamente responsabile per il suo morale basso. In confronto a lui, Taehyung si vedeva solo come un ragazzino frivolo e viziato. 
"Sono per i clienti venuti in maschera, Joonie. Più precisamente per i bambini." spiegò Seokjin, scoccando una frecciatina ai due ragazzi di fronte a loro.
"Non disperare, Jin" disse Jungkook, unendosi alla conversazione con quello che non si poteva non descrivere come un sorriso birichino. "Con quei capelli potreste sempre dire di esservi travestiti rispettivamente da alga e da salmone crudo. Avrete anche voi il vostro lecca-lecca." 
Seokjin puntò un dito accusatore contro Jungkook, il collo che già gli si arrossava. 
Lo abbassò quando sentì Namjoon ridacchiare alla sua destra. 
Si voltò verso il suo ragazzo, un'aria offesa così falsa che neppure lui riusciva a stare serio. "Tu, traditore. Avevi detto che il rosa mi dona." 
La risata di Namjoon si fece più forte quando Seokjin si mise a scansare il suo tocco con l'espressione più indignata di sempre. Stringeva la mano dell'altro tra i palmi e l'abbassava ogni volta che faceva per avvicinarglisi, scuotendo la testa. Quindi Namjoon lo attaccava con la mano libera che a sua volta veniva braccata. Così, in un gioco infinito di mani. 
Alla fine Seokjin gli prese entrambe le mani contemporaneamente e Namjoon si chinò in avanti per baciarlo. 
Taehyung e Jungkook si scambiarono un'occhiata. E poi erano loro i bambini.  
Senza dire altro (e a chi avrebbero dovuto? Quei due erano troppo presi a succhiarsi la faccia, Yoongi non si staccava dal cellulare), scorsero dalla panca e si diressero verso il bancone. 

(9) November 1st, 2015 - Sunday

Un gentile "Mi scusi?" detto alle sue spalle fu l'unico preavviso dell'arrivo dei clienti che le venne dato. 
La cameriera si voltò, ancora intenta a sistemare per bene la miriade di monetine con cui un cliente aveva pagato la sua colazione. 
I suoi denti vennero scoperti automaticamente da un sorriso quando vide chi stava dall'altra parte del bancone. Per non parlare del fatto che la cicca che stava masticando quasi gli scese in gola quando notò tutto il resto.
Non appena il cliente precedente e quel suo orribile giubbotto color porpora uscirono dalla sua visuale, poté vedere quei due ragazzi spalla contro spalla, lo stesso identico costume addosso. Forse dire costume era dire troppo; parevano più dei vecchi pigiami un po' retrò pescati in chissà quale cantina, con l'orlo rovinato e i bottoni allentati. 
La cameriera non era sicura se fossero adatti per Halloween o meno. Per quel che ne sapeva lei, i due avrebbero potuto indossarli anche solo per dimostrare come continuassero ad essere attraenti anche conciati a quel modo. E non avrebbero avuto tutti i torti, per giunta. 
Ma il colpo di grazia erano quel paio di lenti a contatto azzurre che entrambi portavano. Se qualcuno glielo avesse chiesto, lei non sarebbe stata in grado di scegliere a chi stessero meglio.
Anzi, il vero colpo di grazia era che andavano in giro insieme. Se non fosse stato che i capelli di uno erano tinti di un prepotente biondo color limone mentre quelli dell'altro erano castani avrebbero sicuramente trovato un qualche modo per divertirsi con la sanità mentale della gente. Sembravano due gemelli, a guardarli così.
Il mondo poteva sopportare tanta bellezza? La cameriera non lo sapeva. Di sicuro lei faceva fatica. 
"Come posso esservi utile?" chiese in automatico, sperando con tutta sé stessa di non essere arrossita.
"Ci puoi dare i lecca-lec-" 
La richiesta del biondo fu interrotta da un pizzicotto ben assestato al suo braccio da parte del castano. 
"Vorremmo saldare il conto." intervenì, rubando la parola all'altro.
La cameriera lanciò loro un paio di sguardi allarmati mentre batteva sui tasti della cassa.
I due si erano messi a bisticciare. Jungkook, o come le era parso di capire che si chiamasse il castano, rimproverava l'altro a furia di mormorii per la sua naturale indelicatezza, guadagnandosi un becco da parte di Taehyung, il biondo. 
Quest'ultimo si teneva il braccio colpito con una mano, bisbigliandogli di rimando che doveva imparare a dominare la sua forza. A sentire questo, l'atteggiamento di Jungkook cambiò immediatamente: il taglio dei suoi occhi parve farsi più morbido quando si mise a tastare con delicatezza il braccio dell'amico, chiedendogli se davvero gli avesse fatto male. Taehyung gli sorrise mite e gli fece segno di no con la testa. 
I due tornarono a rivolgersi verso la cameriera quasi simultaneamente. I loro visi erano sereni, il braccio di uno intorno alla schiena dell'altro e viceversa. 
Lo scontrino non aveva fatto in tempo ad iniziare a fuoriuscire dalla cassa ed essere strappato dal resto del rullo che quei due avevano iniziato a litigare, avevano discusso e si erano riappacificati. 
Cosa saranno stati, dieci secondi? Meno? 
Se non fosse stato incredibilmente strano, la cameriera avrebbe applaudito. 
I ragazzi pagarono la colazione di tutto il tavolo, i soldi già contati in precedenza. 
Il viso di Taehyung si illuminò quando la cameriera posò una manciata di lecca-lecca nel minuscolo vassoino apposito per scambiarsi il resto delle monete. 
Jungkook ringraziò educatamente, chiedendole se fosse sicura di potergliene dare così tanti. Dopotutto, ad essersi travestiti erano solo in due. 
Lei fece un gesto dissimulato con le mani, dicendo qualcosa riguardo al fatto che per gli habituè di Cup's si poteva fare un'eccezione. 
I ragazzi stavano per allontanarsi dopo aver chinato il capo in segno di ringraziamento, i bastoncini dei lecca-lecca stretti in mano, quando si ricordarono all'improvviso di una cosa. Tornarono subito al bancone, quei quattro fanali azzurri che avevano al posto degli occhi ravvivati da una nuova luce. 
La cameriera cercava di seguire il discorso che stava andando avanti tra i due per capire se ci fosse qualcosa di sbagliato nello scontrino o altro che potesse fare per loro, ma era impossibile. I due si erano messi a parlottare fitti fitti, accordandosi su qualcosa.  
Lei si stupì, ma non troppo, quando gli parve di sentir parole come anniversario, dolce e prenotare. 
Sarà stato poco professionale ma non poté frenare la propria curiosità. Dopotutto osservava da lontano quel gruppo di ragazzi più spesso di quanto uscisse con i propri amici. Dover lavorare era sempre una rottura di scatole, ma in tutti quei mesi di part-time loro erano stati decisamente utili a far scorrere le lancette dell'orologio più in fretta. 
Taehyung e Jungkook neanche sentirono la domanda. Erano troppo presi a biasimarsi l'uno con l'altro per aver quasi dimenticato l'anniversario del loro primo incontro. 
Se uno sconosciuto si fosse limitato ad ascoltare la conversazione si sarebbe preoccupato, ma bastava una sola occhiata per capire che non ce n'era affatto bisogno. I due battibeccavano come bambini, con tanto di labbro inferiore sporgente e dito puntatore. 
A detta di Taehyung, avevano già parlato della questione in lungo e in largo, programmando minuziosamente come avevano intenzione di festeggiare. Jungkook in tutto questo non ricordava nemmeno di aver sollevato l'argomento. 
Ma davvero, quando è che l'avrebbero fatto? Avevano passato tutta la serata precedente ad accompagnare Eonjin e Jeonggyu, rispettivamente la sorellina e il fratellino di Taehyung, a fare dolcetto o scherzetto per tutto il vicinato. Okay, poi si erano visti dei film insieme, ma si erano limitati a commentare quanto fosse penoso il trucco di certi zombie.
Jungkook lo fece presente a Taehyung che si prese un attimo per pensarci sopra. 
Un piccolo sorriso gli crebbe all'angolo della bocca quando lasciò vagare la mente nei ricordi della serata precedente. Non c'era stato molto tempo per parlare, doveva ammetterlo. Forse Taehyung si era ritrovato a rimuginarci durante la notte, convincendosi così di aver interpellato Jungkook. 
La cosa non era da escludere a priori. L'evento era di fondamentale importanza per Taehyung, non c'era da riderci sopra. 
Era il quarto. Il quarto anniversario da quando aveva capito che se avesse cercato sul dizionario la definizione di amico di fianco ci sarebbe stato il nome di Jungkook. E tra i sinonimi avrebbe benissimo potuto trovare: uno, migliore amico; due, complice; tre, braccio destro; quattro, spalla su cui piangere
Loro due erano semplicemente i migliori amici per eccellenza. Con il tempo si era sviluppata una tale affinità tra i loro modi di pensare che bastava loro scambiarsi pochi sguardi d'intesa per comprendere battute mai fatte ad alta voce e ridersela a crepapelle. Il cibo preferito di uno era diventato anche quello dell'altro, si dividevano le spese per i videogiochi troppo cari. Le loro madri erano talmente abituate a trovarsi l'amico del figlio per la casa che avrebbero potuto benissimo adottarseli a vicenda. 
Senza contare che c'era la possibilità che l'anno a venire non avrebbero potuto festeggiare insieme. Jungkook ancora non aveva ricevuto notizie, ma Taehyung sapeva con certezza che il ragazzo sarebbe stato accettato a quel programma per studiare all'estero a cui si era iscritto. 
Il solo pensiero della partenza di Jungkook fece evaporare qualsiasi traccia di testardaggine nel biondo. Ammise di non ricordare effettivamente l'occasione in cui ne avevano parlato. Tutto pur di riportare il loro rapporto all'equilibrio perfetto a cui erano abituati. 
Tre secondi dopo i due stavano già valutando serenamente se preferissero la crema alle nocciole o la marmellata. 
La commessa osservò come la questione si fosse risolta per una seconda volta in un batter d'occhio. Ci era voluto un po' più di tempo rispetto la precedente, ma considerando l'argomento puntiglioso era davvero un record. 
A questo punto la ragazza avrebbe fatto loro una standing ovation, invece si schiarì la gola, prima di ripetersi. 
"Non sapevo foste una coppia."
Un bicchiere d'acqua gettatogli in piena faccia avrebbe più o meno sortito lo stesso effetto sorpresa. I due si zittirono subito. 
Privato del loro chiacchiericcio in un modo così repentino, il locale sembrava due volte più silenzioso. Le bocche dei due ragazzi erano rimaste semi aperte, la loro attenzione ora su di lei. 
Il biondo fu il primo a riprendersi. Ridacchiò, appoggiando una mano sul fianco dell'altro in modo giocoso. Non era certo la prima volta che succedeva una cosa del genere. 
Jungkook non reagì alla sua provocazione. Aveva i suoi occhi piantati in quelli della ragazza, così intensi dietro quello strato artificiale di azzurro. Il suo viso bambino era diventato improvvisamente serio, come se qualcuno avesse premuto un interruttore. 
"Non lo siamo." disse in un tono che voleva essere pratico. "Solo amici." 
La cameriera si sentì subito in dovere di scusarsi. Si era forse offeso perché lei gli aveva dato implicitamente dell'omosessuale? 
D'altro canto, il ritrovato buon umore di Taehyung non era stato minimamente scalfito. Appoggiò il mento sulla spalla di Jungkook, correggendolo.
"Migliori amici."
La cameriera chiese scusa per aver frainteso con più leggerezza possibile e cercò di spingere la conversazione sul tipo di dolce che, a quanto aveva capito, i due volevano che Cup's gli facesse trovare in un determinato giorno. 
Jungkook lasciò a Taehyung il compito di spiegare tutto. Si limitò ad annuire di tanto in tanto, le dita che giocherellavano distrattamente con i bastoncini dei lecca-lecca, lo sguardo caduto a terra. 

(10) November 1st, 2015 - Sunday

Yoongi non alzò neanche gli occhi quando Taehyung e Jungkook lasciarono il tavolo. 
Vestito con uno dei suoi soliti felponi abbondanti che lo facevano sembrare ancora più piccolo di costituzione di quanto non fosse di suo, la zazzera di capelli neri trascurata che gli sfiorava le ciglia, teneva gli occhi abbassati sulle proprie gambe, dove aveva appoggiato il cellulare. 
Dato che se non erano al completo non potevano mangiare, si era detto che fino al momento in cui non avessero toccato cibo lui sarebbe potuto stare al telefono a tavola senza sentirsi maleducato. 
Rifilò solo un'occhiata veloce al suo caffè nero quando gli venne posato davanti agli occhi da una delle cameriere, il tipico aroma invitante che raggiunse le sue narici. Il bisogno di berlo e scrollarsi il sonno di dosso una volta per tutte era impellente, ma bastò un'occhiata al posto a sedere ancora vuoto di fronte al suo per frenarlo. 
Yoongi guardò quella parte esposta dello schienale in legno. Guardò quella tazza di cioccolata calda con il rispettivo cucchiaino appoggiato ordinatamente sulla tovaglia e si chiese se lui sarebbe mai arrivato in tempo per fare colazione. 
Probabilmente, considerando quella che già era una mezz'ora di ritardo rispetto all'orario prefissato, da lì a poco uno di loro avrebbe ricevuto un messaggio che diceva di iniziare senza di lui. Il che lasciava implicito il fatto che se la sarebbe presa comoda con chiunque si fosse svegliato e sarebbe arrivato quando ormai avevano finito. O magari non sarebbe arrivato affatto. 
Intanto caldi rivoli di fumo avrebbero continuato a uscire da quella tazza di cioccolata, raffreddandola.
Prima che se ne potesse rendere conto, le mani pallide di Yoongi si erano già allungate sopra il tavolo. Avevano sollevato la tazza per il manico e avevano sfilato il piattino da sotto, posizionandolo delicatamente sopra al bordo di essa, come un coperchio. 
Il ragazzo tornò al suo cellulare come niente fosse, ignorando il sorriso dolceamaro che Seokjin gli rivolse. 
Il suo pollice continuò a scrollare la home di Instagram senza che lui prestasse veramente attenzione a quella sfilata di pose, costumi ed espressioni ammiccanti; la foto più decente che aveva trovato era quella di Jungkook e Taehyung, in compagnia dei fratellini di quest’ultimo. Yoongi era deciso a chiudere l'app nel tentativo di salvare i giga del suo contratto internet per qualcosa di meno futile quando, aggiornando di riflesso un'ultima volta, comparve una foto.
Il suo primo istinto fu quello di chiudere immediatamente tutto e cacciarsi il cellulare in tasca. Peccato che i suoi occhi avessero indugiato un secondo di troppo ed ora gli era impossibile distoglierli. 
L'immagine era stata appena caricata da Fred Johnman, un suo vecchio compagno di scuola risalente alle elementari. Non aveva mai avuto una vera e propria conversazione con il tizio in questione ma, seppur considerando che non lo vedeva da un bel po' di tempo, quello raffigurato non era di certo lui. 
La fotografia era sgranata e mossa, una luce giallo ocra che modificava quelli che dovevano essere i colori naturali. Sullo sfondo si intravedeva un letto ancora ben fatto e una parete spoglia. In primissimo piano, sulla destra, c'era Jimin.
I suoi occhi erano fuori dall'inquadratura, così come la maggior parte del suo naso, ma sulla sua identità non c'erano dubbi. Yoongi avrebbe riconosciuto la forma di quel sorriso ovunque, con o senza quel rossetto scurissimo che terminava in una sbavatura. 
Era girato di tre quarti, la postura curva della schiena che suggeriva la sua posizione seduta. Nel quadrato che Instagram concedeva era ripreso solo per mezzo busto, ma questo non aveva impedito alla sua spalla nuda di rientrarci. Confuso dalle grinze della stoffa e dalle ombre, pareva che Jimin fosse stato catturato mentre si sfilava la maglia di dosso. Da destra sbucavano quelle sue dita infantili, intente ad allentare un collarino di stoffa sottile che presto non gli avrebbe più circondato il collo. 
Come a voler dare l'ennesima prova che si trattasse proprio di Jimin, il suo orecchino a forma di croce penzolava dal lobo dell'orecchio, un scintillante punto luce che bucava lo schermo.
L'intimità che trasudava quella foto fece contrarre lo stomaco di Yoongi. Il modo in cui l'angolo di quella bocca maliziosa era piegato, la leggiadria e la sensualità di quelle dita lo fecero sentire un guardone.
La didascalia sotto la foto si limitava ad un banale #Halloween2016 con tanto di emoticon a forma di zucca. Il profilo di Jimin non era stato taggato, ma nei già numerosi commenti il suo nome aleggiava ovunque, tra gli insulti nei suoi confronti e le lodi per Fred. 
Per poco il cellulare non cadde di mano a Yoongi quando Jungkook gli rifilò una gomitata al braccio nel tornare a sedersi. Il castano si voltò verso di lui per scusarsi con un cenno della mano. 
Taehyung, dall'altra parte della panca, allungò un braccio davanti a Jungkook, passando a Yoongi uno dei tanti lecca-lecca.
"E questi da dove li avete tirati fuori?" chiese quest'ultimo, non davvero interessato alla risposta della sua stessa domanda. 
Jungkook non batté ciglio davanti alla sua espressione corrucciata. Erano tutti piuttosto abituati a vederla. 
"Li davano in omaggio se venivi travestito per Halloween." 
Yoongi squadrò i due ragazzi dall'alto verso il basso. "E voi due chiamate quello un travestimento?" 
Taehyung si sfilò dalla bocca il lecca-lecca per parlare, tenendoselo a pochi centimetri dalle labbra. 
"E' stato Jungkook a sceglierli." disse, il dito puntato verso l'amico e gli occhioni grandi da bambino. L'accusato si girò verso di lui, il naso appena corrucciato in un'espressione indispettita. Quando fece per addentare quel dito, Taehyung lo ritirò velocemente, un sorriso che traboccava dal suo viso mentre tentava di tenere lontano per le spalle l'altro e la sua ira.
La bocca di Yoongi si piegò in una smorfia. "Strano."
Taehyung alzò lo sguardo su Yoongi, scoprendo dai suoi occhi rudi che il destinatario di quell'ironia era proprio lui.
Ma cos'era, la giornata internazionale di Roviniamo l'umore a Kim Taehyung? No, perché lui credeva fosse quella di Ognissanti.
Il cellulare di Yoongi con la foto incriminata scivolò dentro il tascone della sua felpa,  raggiunto poco dopo dal lecca-lecca intoccato.
Jungkook catturò l'attenzione di Seokjin, distraendolo dal notiziario mandato in onda in una piccola televisione che invece Namjoon continuò a seguire. Una delle caramelle gli venne passata da sopra il tavolo. 
Anche se non si sarebbe detto dalle guance paffute e dai capelli rosa, Seokjin era un anno più grande di tutto il resto del gruppo e proprio quell'anno stesso avrebbe finito le scuole superiori. Un po' per quello, un po' per una sua indole caratteriale, era disponibile e affabile con gli altri cinque ragazzi, sempre pronto a dare consigli e ad aiutare nel momento del bisogno, ad essere il fratello maggiore che non tutti avevano avuto. Il suo ragazzo escluso, ovviamente. Anche ai tempi in cui l'aveva conosciuto, Namjoon aveva sempre avuto le idee chiare sui suoi principi e valori, una maturità mentale alla pari con la sua, se non adulta, che lo aveva affascinato da subito.
Seokjin era sul punto di scartare il lecca-lecca quando lo scampanellio dello scacciapensieri appeso alla porta di Cup's annunciò l'arrivo di un nuovo cliente. 

(11) November 1st, 2015 - Sunday

Il capo di Yoongi sprofondò verso il basso mentre i ragazzi seduti al tavolo con lui si ravvivarono tutti, felici di poter finalmente iniziare a far colazione.
Senza smettere di attraversare il breve tragitto che lo separava da loro, Jimin si sfilò il cappotto, evidentemente sollevato dal calore che aleggiava nel locale. La matita nera con cui si era truccato la sera precedente gli era crollata sotto gli occhi e sia la chioma grigia che la vestita succinta avevano l'aria un po' scarmigliata, ma per quello non si era fatto tanti problemi; dopotutto si trattava solo di una colazione in compagnia dei suoi migliori amici. 
Taehyung e Jungkook notarono entusiasti il cerchietto con le orecchie da gatto, facendo partire una serie di ovazioni quando Jimin mostrò a loro (e a tutto il resto della clientela di Cup's) la profonda scollatura sulla schiena, una distesa di pelle olivastra in quel completo total black.  
"Visto, non siamo gli unici ad essere venuti in costume!" esclamò Taehyung all'indirizzo di Seokjin. "Jimin, li abbiamo già presi io e Kookie i lecca-lecca, ti sei travestito per niente." 
Jimin mollò il proprio cellulare sul tavolo e appoggiò il cappotto sulla sua parte di schienale, rimanendo in piedi. La sua voce si fece calda e promettente, più per far divertire i suoi amici che per una sua malizia. 
"In realtà non me lo sono tolto da ieri sera. O meglio, me lo hanno tolto due volte, ma non avevo un cambio con me."
Quattro dei cinque ragazzi sorrisero, ridacchiarono o si limitarono a scuotere la testa, consapevoli di non dover mai dare troppa corda al ragazzo quando se ne usciva con questo tipo di affermazioni; nessuno di loro voleva davvero scoprire quanta verità ci fosse dietro quelle che parevano battute. 
Avevano imparato ad adattarsi e ad amare anche questo lato scabroso di Jimin, apprezzandolo e trovandolo divertente quando lui per primo ci scherzava sopra. Chi li ascoltava poteva fraintendere il suo atteggiamento e scambiarlo per vanità, finendo per ritenerlo un ragazzo superficiale e civettuolo, ma la realtà era che non lo conoscevano. 
Jimin non aveva mai ferito nessuno di proposito nell'andare a letto con le persone solo per puro e semplice svago. Alla fine della fiera si trattava solo di due o più corpi che bruciavano calorie insieme in un modo alternativo neanche tanto creativo, e dato che lui non era né fidanzato né sottomesso a un qualche contratto di castità non vedeva cosa ci fosse di male. 
Il fatto che la sua vita sessuale fosse più attiva della norma non cambiava la persona che sapeva di essere. Non significava che i suoi principi sulle relazioni in cui entrava in gioco l'affetto valessero meno di quelli degli altri, ma questo sembravano ignorarlo in molti.
Come d'abitudine, Jimin fece il giro del tavolo per posare un bacio veloce sulla guancia di Taehyung, il bastoncino del lecca-lecca che gli graffiò appena il mento. Poi la bocca di Jimin volò sull'angolo di quella di Jungkook con leggerezza, quest'ultimo che aveva rovesciato il capo all'indietro sullo schienale. 
Il castano fece subito una faccia schifata e si raddrizzò tutto, Jimin attaccò a ridere a crepapelle. 
Nell'automatismo di quello che per il gruppo era ancora il rituale di abbracci e saluti del buongiorno, poteva capitare che si prendesse male la mira su certe cose. Nessuno ci dava più troppo peso, ormai. 
Jungkook si stava ancora strofinando il dorso della mano contro la faccia quando fu colpito da una fitta di mal di testa. Serrò istintivamente gli occhi e si portò una mano alla fronte, massaggiandosi le tempie. 
Era una sensazione strana, come se un ago lo avesse punto sulle labbra. Il dolore era sottile, ma infido. 
Solo dopo essersi seduto Jimin notò il cambio di atteggiamento nell'amico. Per una manciata di secondi lo vide dolorante, perso. 
Poi le pieghe sulla fronte di Jungkook si distesero, il male improvviso svanito così come era arrivato. Il suo corpo parve rilassarsi tutto, come se non fosse mai successo niente. 
L'unica differenza che sarebbe potuta essere visibile agli altri era stata celata da quel paio di lenti a contatto azzurre. Le pupille di Jungkook assunsero un colore metallico, tornarono neri e poi di nuovo dorati, fino a quando non sfumarono nel loro colore naturale. 
Nel guardarlo Jimin sentì chiaramente un sapore di mela contro la lingua. 
Jungkook alzò gli occhi, incontrando i suoi. Si fissarono confusi, consapevoli che qualcosa non andasse.  
Jimin si scosse, recuperando un sorriso al volo. Prima di togliersi i guanti ed infilarli su per una manica del cappotto, si sfilò le orecchie da gatto dai capelli argentei e le sistemò sulla testa di Seokjin, al suo fianco. Il ragazzo sorrise, piacevolmente stupito, andando subito a tastare il cerchietto con le mani; si voltò verso Namjoon che gli sorrise a bocca chiusa. Sempre lui allungò una mano per raddrizzargliele e con quella stessa mano scese a stringergli delicatamente il mento per dargli il terzo bacio della giornata. 
Nel frattempo, Jimin aveva tolto il piattino da sopra la propria tazza e aveva morso uno dei biscotti del cestino dopo averlo affondato nella cioccolata calda, affamato. In un qualche modo vedere come un gesto così piccolo da parte sua avesse scaturito quel momento di tenerezza tra la coppia gli aveva stretto il cuore.
"Saresti benissimo potuto tornare a casa tua per cambiarti e farci aspettare ancora. Così fai schifo." 
L'atmosfera allegra e calorosa che contraddiceva Cup's parve essere spazzata via dalla voce tagliente di Yoongi. 
Le tazze e i dolci che tutti i ragazzi si stavano finalmente portando alla bocca rimasero a mezz'aria, le loro espressioni festose scemarono appena. Si sforzarono per non voltarsi verso la fine del tavolo e continuare a mangiare come nulla fosse. Il silenzio che piombò sul gruppo era comunque carico di disagio. Non serviva un genio per capire a chi si stesse riferendo.
Yoongi sorseggiò un goccio del suo caffè nero senza alzare la testa, i capelli che nascondevano i suoi occhi alla vista. 
Di fronte a lui, un'espressione bianca non fece neanche in tempo a formarsi sul volto di Jimin, già sostituita da un sorrisetto ammiccante. Quest'ultimo si piegò in avanti sul tavolo, come per non voler essere sentito, le mani aggrappate al bordo in legno. 
"Che c'è, l'odore ti fa bruciare l'astinenza?" sussurrò. 
Il suo tono era scherzoso, forzatamente accattivante, lo stesso che aveva usato al suo arrivo con gli altri ragazzi. 
Jimin si era rivolto a Yoongi guardandolo da sotto le ciglia, le palpebre ancora striate di matita nera. Tutto quello che poteva vedere dell'altro erano una cascata di capelli mori e la pelle quasi diafana della metà inferiore del suo viso. Sicuramente tanto pallore era dovuto alla stagione, ma il ragazzo gli parve esangue. 
Poi l'altro alzò il capo e Jimin desiderò subito che avesse continuato ad ignorarlo. Un rancore duro e piatto parve traboccare da quegli occhi un po' incavati, tutto riservato solo ed unicamente a lui. 
Le parole seguenti di Yoongi furono appena udibili, ma sputate con cattiveria. 
Piantò il suo sguardo fisso in quello di Jimin, ignorando il modo in cui le sue labbra si separarono appena o il modo in cui le punte di una ciocca argento sfioravano una guancia all'apparenza morbida. 
"Sei proprio una troi-"
"Ragazzi," esclamò Namjoon appena in tempo, sovrastando la sua voce. "Calmate i bollenti spiriti. Siamo qui per fare colazione insieme e goderci la mattinata di libertà. Non voglio discussioni." 
La stessa occhiata di biasimo venne lanciata ad entrambi, l'aria terribilmente adulta che era motivo di tanto rispetto per il ragazzo dai capelli verdi. Seokjin, Taehyung e Jungkook si voltarono verso di lui, grati di quell'intervento; quando la loro attenzione si spostò nuovamente sui due in fondo al tavolo non poterono evitare di sembrare tutti mortificati. 
Yoongi aveva nuovamente abbassato il viso, le mani affondate nella tasca della felpa, la linea della bocca piatta. Jimin era tornato ad appoggiarsi allo schienale, la gola asciutta e la facciata più impenetrabile che gli riuscisse. 
La cosa divertente di tutto quello era che, a dispetto di quello che poteva dettare la logica, tutti ebbero un moto di pietà nei confronti di Yoongi. 
I minuti passarono. Il silenzio venne riempito solo dal suono tintinnante delle posate contro la ceramica e dallo sgranocchiare dei biscotti. 
Fortunatamente Seokjin riuscì a rompere il ghiaccio, chiedendo agli altri se per la sera avessero qualche piano in particolare. A malincuore, Jungkook dovette rifiutare, già impegnato con un intenso programma di studio, mentre Taehyung ricordò al gruppo che quel pomeriggio stesso sarebbe arrivato in città suo cugino Hoseok, per cui avrebbe speso l'intera giornata in sua compagnia. 
Seokjin annuì con la testa, già progettando dove potessero andare lui e il suo ragazzo da soli. Non provò neanche a chiedere agli altri due componenti del gruppo, sapendo già che in quel momento non erano certo dell'umore per parlare e organizzarsi. 
Alla fine i sei terminarono di far colazione e ringraziarono ancora il personale di Cup's, per poi separarsi all'uscita in coppie o trii per fare le varie strade di ritorno verso casa in compagnia. 
Tutti imbacuccati nelle loro sciarpe e nelle loro giacche, l'escursione termica tra l'interno di Cup's e le strade di Seul che arrossava loro i nasi, si salutarono, augurandosi di vedersi il giorno a seguire. 
Jungkook, Taehyung e Yoongi imboccarono subito una via laterale, Seokjin ne prese una seconda, mentre Jimin e Namjoon rimasero un altro minuto fermi a parlare. 
Taehyung e Jungkook erano così presi dalIa loro discussione su un qualche nuovo videogioco che non si accorsero quando, al momento di svoltare, Yoongi si fermò per allacciarsi una scarpa. Le sue dita piegavano e stringevano le stringhe tra di loro senza neanche guardarle, la sua attenzione che correva una trentina di metri più indietro.
Jimin era ancora lì, una figura alta quanto una spanna tutta in nero. Ora che era rimasto solo con Namjoon la sua postura pareva più rilassata, ma il ragazzo non aveva più sorriso da quell'infelice scambio di battute.
Yoongi aveva la parola scusa incastrata in gola, ma si affrettò a mandarla giù.
Distolse lo sguardo quando passò per di lì un minivan nero, interrompendo il contatto visivo. Si rimise in piedi e andò dietro agli altri due.

(12) November 1st, 2015 - Sunday

Sotto la luce artificiale che vigeva dall'alto le lunghe strisciate di evidenziatore giallo apparivano lucide. Jungkook ne tirava una dopo l'altra, probabilmente sottolineando dati meno fondamentali di quel che credeva. 
Era seduto a gambe incrociate sul proprio letto da quelle che parevano ore, i libri di scuola aperti sulle ginocchia e tutt'intorno a lui. Sua madre avrebbe dato di matto nel vedere tra le coperte, oltre a fogli volanti e penne, anche trucioli di gomma. Quando succedeva il ragazzo si giustificava dicendo che quello scempio era il risultato del suo profondo impegno nello studio, ma la madre si limitava a sorridere alla battuta e a portargli l'aspirapolvere.
Le dita di Jungkook tamburellavano in modo assente sulla copertina rigida di un dizionario d'inglese pericolosamente vicino all'orlo del materasso. Da lì a poco avrebbe dovuto affrontare per la seconda volta nella sua vita un test di lingue straniere. Non riteneva di averne bisogno, ma senza il certificato che avrebbe ottenuto non sarebbe nemmeno stato preso in considerazione per lo scambio culturale a cui voleva partecipare.
Quell'anno di studi all'estero era il meglio che potesse desiderare. Sognava di farlo da quando era in prima, incantato dagli aneddoti che il fratello maggiore gli raccontava sempre riguardo quell'esperienza che, come gli ripeteva in continuazione, gli avrebbe aperto la mente
Da programma, Jungkook sarebbe dovuto volare in Europa l'anno precedente ma, nonostante avesse già fatto richiesta e si fosse iscritto al test, alla fine si era ritirato. Aveva detto a tutti di sentirsi impreparato per  affrontare una situazione del genere così giovane e che avrebbe riprovato l'anno dopo. 
Adesso il ragazzo era in terza e la quarta sarebbe stata la sua ultima occasione per aderire al progetto: alla fine del quinto anno tutti gli studenti erano sottoposti all'esame e non avrebbe potuto sostenerlo senza frequentare regolarmente. 
Perciò era o quell'anno o mai più. Mostrarsi insicuri una seconda volta avrebbe significato perdere l'opportunità. 
Jungkook controllò l'orario sul cellulare. Sospirò di stanchezza, vedendo che era arrivato il momento di mettere da parte i libri. Impilò tutti i tomi uno sopra l'altro e li appoggiò a terra, la scrivania già occupata dal computer e da altre cose. Si infilò il pigiama e sgombrò definitivamente il letto prendendo le coperte e scuotendole vigorosamente, promettendosi che avrebbe spazzato il pavimento l'indomani. 
Finalmente poté sdraiarsi, il corpo appesantito dalla giornata passata con i parenti. Alla fine si era ritrovato così stanco che lo studio serale, il motivo per cui aveva dato buca ai suoi amici, non era stato particolarmente fruttuoso. Jungkook ormai si riteneva pronto per affrontare e superare quell'esame, ma quella stupida inerzia da parte sua lo infastidì lo stesso. 
Il castano rispose agli ultimi messaggi e impostò la sveglia per la mattina dopo. L'interruttore della abat jour sul comodino gli sembrò troppo lontano quando le palpebre pesanti di sonno lo pregarono di chiudere baracca e burattini. 
Il tentativo di Jungkook di accumulare forza mentale per compiere quell'ultimo gesto prima dell'agognato riposo divenne vano dopo che il ragazzo si girò su un fianco. Il tepore delle coperte lo invitava a non muoversi più, a non cacciare un braccio fuori al freddo. 
Alla fine si costrinse ad allungarne uno alla cieca, ma urtò una cornice che cadde all'indietro, appiattendosi sul comodino. 
Spaventato dal rumore neanche troppo forte ma improvviso, Jungkook strabuzzò gli occhi. Afferrò un lato della cornice e la rimise in piedi, assicurandosi che il sostegno nel retro non si fosse rotto. Fu sollevato di dedurre che, come si era aspettato dal suono sordo che aveva fatto cadendo, il vetro che proteggeva la fotografia non si fosse neanche scheggiato. 
Annebbiato da tutta quella stanchezza e con ancora i capelli rizzati dallo spavento, un pallido sorriso spuntò sulle labbra di Jungkook. Per quanto quella foto fosse rimasta sul suo comodino non lo avrebbe stancato mai.
Era stata scattata proprio da Cup's, l'anno prima, il giorno stesso in cui Taehyung era stato dimesso dall'ospedale locale. Il biondo (che al tempo non era biondo) aveva il braccio destro ingessato, già pieno di firme e scarabocchi a dir poco osceni che i suoi amici gli avevano lasciato. Teneva la bocca goffamente aperta mentre Jungkook alla sua destra lo stava imboccando con un cucchiaio, la zuppa calda che tremolava e gocciolava sui suoi pantaloni ogni volta che Jungkook non riusciva a trattenersi e scoppiava a ridere. 
Ricordava quella sera fin troppo nitidamente, come se qualcuno avesse aumentato la luminosità di tutti quei colori, il profumo delle spezie nei cibi e il volume delle voci, divertendosi anche a strascicare momenti, risate e sguardi.
Jungkook ricordava bene anche il giorno precedente e successivo a quello. 
Se ci pensava gli saliva ancora l'ansia al petto. 
Il giorno precedente: la telefonata da parte della madre di Taehyung, la notizia che quest'ultimo aveva fatto un incidente con lo skateboard ma che non era nulla di grave. La corsa per andare a svegliare la propria madre che era andata a letto presto per farsi portare all'ospedale seduta stante. Il percorso dell'ascensore che andava su, su, su, ma non arrivava mai. Taehyung cosciente in una stanza antisettica, sdraiato su un letto dall'aria troppo dura. Oltre al braccio già immobilizzato, un macchinario teneva ferma anche una caviglia a sua volta fasciata. Le abrasioni sul quel viso spaesato che si fece subito sorridente non appena Jungkook entrò. Una sedia comoda su cui sedersi, l'unica mano sana di Taehyung tra le sue. I piccoli movimenti circolari dell'altro sul dorso della sua, come se fosse lui quello da consolare. La realizzazione di star piangendo per lo spavento e il sollievo insieme. Le pessime battute di Taehyung, quel suo elenco di tutte le canzoni più drammatiche che sarebbero state perfette come colonna sonora del filmino che la polizia stradale aveva trovato. 
E quel pensiero, quel pensiero che si era esplicitato così chiaramente nella sua testa. Sono fregato. 
Il giorno successivo: l'email per annullare la sua domanda di iscrizione allo scambio culturale. 
Con un piccolo sforzo, Jungkook riuscì ad arrivare all'interruttore dell'abat jour. La stanza calò in un buio che sarebbe stato totale se il ragazzo non avesse avuto impressa nelle retine una macchia di luce verdognola. 
Si perse a guardare quelle forme insensate, i colori che oscillavano verso delle tinte più grigiognole, l'immagine che formicolava. 
Era ormai sul punto di addormentarsi quando un granello di quella suddetta macchia di luce vorticò nell'aria e gli atterrò sulla fronte. 
Nel giro di pochi secondi lo stesso malessere che lo aveva colpito quella mattina parve sprigionarsi esattamente da quel punto. Si espandeva a macchia d'olio per tutta la testa di Jungkook, facendolo gemere di dolore. Voltò il capo nel cuscino con uno scatto, come per scacciarlo via. Alla seconda fitta piantò le unghie tra le coperte, le mani che farneticavano alla ricerca di qualcosa di più solido della stoffa su cui sfogarsi, i denti digrignati. 
Poi il dolore venne risucchiato dallo stesso punto di origine sulla sua fronte, svanendo. 
Le pupille di Jungkook erano di un scintillante giallo quando socchiuse le palpebre, il respiro affannato. 
La sua caduta nell'ombra della mela coincidette con la sua caduta nel mondo dei sogni. 

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Era accompagnato da un cigolio persistente. Mai più distante un secondo prima, mai più vicino un secondo dopo.
Era ben scandito, ferroso, come se qualsiasi cosa lo stesse producendo non fosse stato oliato da un bel po' di tempo. Le rare volte in cui perdeva il suo ritmo per sospendersi un secondo soltanto erano sempre seguite da uno scossone, poi riprendeva uguale a prima.  
Fu proprio una scossa più violenta delle altre a destare Jungkook. 
Quel cigolare, la colonna sonora di tutti i suoi sogni, parve emergere dal buio dopo aver perso quella patina che lo soffocava. 
La seconda cosa che il ragazzo percepì fu il materasso sotto di sé, con esso il tepore del suo stesso corpo sotto le coperte. 
Jungkook avrebbe semplicemente ripreso a dormire se non si fosse reso conto che tutto il letto, compresa la testata e la rete, stava tremando. Come se fosse poggiato su un vulcano assopito per cui era arrivata la fine dell'ora del pisolino. Ci pensarono l'aria che gli soffiava in faccia e gli scossoni adesso più numerosi a suggerirgli che era il letto stesso ad essere in movimento, spinto da una forza invisibile che faceva correre quelle rotelle arrugginite alla base dei piedi giù per un corridoio. 
Era buio, ma dalle fessure di luce poste a intervalli regolari che dovevano provenire da delle finestre era chiaro che all'esterno di quell'edificio sconosciuto fosse pieno giorno. 
Jungkook si alzò a sedere per guardarsi intorno. La sua sagoma era un tutt'uno con quella del letto e insieme sfrecciavano alla stessa velocità di un'auto in corsa, oscurando una per una tutte le finestre. Il corridoio continuava e continuava, le ombre grigie delle tende e dei pochi mobili che si intravedevano una volta che gli occhi si erano abituati al buio. 
Solo in un secondo momento Jungkook si accorse che, più che essere spinto da dietro, il letto pareva tirato in avanti dalla forza di gravità. La pavimentazione del corridoio era una distesa di piastrelle lucidissime e pareva inclinarsi sempre di più; il soffitto e i suoi candelabri si facevano un centimetro dopo l'altro sempre più alti. Almeno il castano era riuscito ad associare gli scossoni ai punti in cui le piastrelle erano irregolari o mancanti.  
Jungkook si cavò di dosso le coperte; subito l'aria veloce gliele rubò di mano, lasciando che quella massa di un candido bianco volasse verso la direzione da cui era arrivato. Diventarono presto una macchia pallida, una comparsa sullo sfondo.
Jungkook si mise sulle ginocchia e si aggrappò forte alle sbarre della testata del letto, così gelide contro le sue mani sudaticce. I suoi occhi guardavano oltre di esse, alla disperata ricerca di una parete, un bivio, una grande sala, qualsiasi cosa che avrebbe segnato la fine di quel corridoio maledetto. Eppure continuava a percepire che non stava semplicemente andando dritto, stava proprio andando in discesa. 
Continuando a tenersi ben stretto, si voltò all'indietro, i capelli castani che gli frustavano il viso: nel momento in cui si lasciava alle spalle un tratto di corridoio quello diventava magicamente visibile, limpido, come se qualcuno avesse aperto le imposte delle finestre un altro pochino. Poteva vedere grandi cornici vuote, mozziconi di candela, strati su strati di polvere che ingrigivano quel poco che c'era di colorato, i punti dove arrivavano gli orli delle tende che ancora dondolavano dopo essere state mosse dall'aria meno opachi del resto. 
Davanti a lui il niente. Pochi passi di piastrelle e poi il nero. 
Una sensazione di perdita parve venire a galla nel petto di Jungkook. No, non esattamente venire a galla. Era più come se il suo petto fosse una spugna asciutta che si imbeveva inesorabilmente di nostalgia. 
Nei confronti di cosa, Jungkook non lo sapeva. 
Sapeva solo che più guardava indietro, dove tutto era chiaro, dove tutto era semplice, più gli veniva paura di quello che sarebbe stato davanti a lui. 
Neanche paura era il termine giusto. Jungkook non ne aveva solo paura. La sua era una frustrazione incondizionata, un voler sapere disperatamente cosa ci fosse oltre il buio. 
Una terrificante consapevolezza affondò le proprie grinfie nello stomaco del ragazzo. 
Si sarebbe schiantato. Andava troppo veloce. Anche se ci fosse stata una fine a quel corridoio, la storia si sarebbe sempre conclusa con il suo cranio sfracellato contro una parete. 
Doveva saltare giù, doveva buttarsi e ruzzolare sul pavimento per non farsi troppo male. Avrebbe pensato dopo a cosa avrebbe effettivamente fatto una volta sceso dal letto, se sarebbe rimasto seduto ad abbracciarsi le gambe nell'attesa di essere svegliato, se sarebbe andato in esplorazione o se avrebbe provato a uscire dalle finestre. 
Il tempo di formulare questo pensiero e sporgersi con la testa verso un lato del letto che i polsi e le caviglie di Jungkook vennero stretti in una morsa, ovunque essi si trovassero. Il ragazzo urlò e provò a scalciare e a divincolarsi, ma non c'era davvero niente di visibile a inchiodarlo al materasso. 
Lui prese a contorcersi tutto, a gridare, a conficcarsi le unghie nei palmi della mano nella speranza che il dolore lo destasse, ma non ci fu verso. 
Non poteva far altro che guardare il soffitto affrescato scorrere sopra di lui, una sfilata di candelabri spenti.
A Jungkook non rimase che aspettare il grande schianto. 
Si disse che avrebbe colpito il fondo immediatamente con la testa, che sarebbe stata una morte veloce, il rumore del cranio che si incrinava verso l'interno e basta. 
Parve passare così tanto tempo che Jungkook si chiese se non potesse riaddormentarsi di nuovo. Era solo un incubo, poteva far quel che voleva. Poteva andarsene l'attimo prima della collisione. Poteva fare in modo che il corridoio non avesse mai fine. 
Poteva fare tante cose, ma non previse mai che le ruote anteriori avrebbero inchiodato e la parte posteriore del letto si sarebbe impennata. 
Qualsiasi cosa legasse Jungkook per le caviglie e i polsi scivolò giù, aprendo squarci per buona parte del materasso con uno strappo orripilante. 
Il ragazzo volò in avanti, ritrovandosi in men che non si dica rovesciato su quelle piastrelle gelate. Il contatto era così solido, duro e statico dopo tutta quella sfilata da essere un sollievo. Jungkook quasi baciò il pavimento, grato di essere stato liberato da quella tortura. 
Non guardò la struttura metallica del letto pericolosamente in bilico sopra di lui. Non notò il modo in cui quell'ombra lo sovrastava, non sentì le rotelle impazzite cigolare ancora a vuoto. 
Non vide come decine di  piume nere uscirono dall'imbottitura del materasso e piovvero leggere e delicate intorno a lui, sui suoi capelli, sulla sua schiena. 
Un clangore secco vibrò tra le pareti di quel corridoio. Le piume nere si imbrattarono di sangue. 

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Uno spasmo violento del corpo di Jungkook fece tremare l'intero letto. 
Gli occhi gli si spalancarono all'inverosimile, catarifrangenti nel buio della sua stanza. 

(13) November 1st, 2015 - Sunday

"Okay, alla prossima volti a destra. Sì. Dopo la rotonda." 
La voce giovanile della madre di Taehyung era l'unico suono forte a riempire la via in cui vivevano. Tutti i rumori che le facevano da sottofondo, tutti quei bisbigli delle foglie, il serpeggiare dell'elettricità tra i lampioni accesi e le televisioni all'interno degli appartamenti più vicini parevano intimarle di fare silenzio. 
La donna neanche li considerava. Saranno state le dieci di sera, c'era un buio pesto e faceva così freddo che pure i denti avevano smesso di battere pur di starsene vicini vicini. Lei se ne stava in piedi sul marciapiede che portava all'ingresso del suo condominio, stretta nel giaccone più ingombrante che ci potesse essere, cellulare all'orecchio e primogenito alla sua destra. 
Primogenito che, a differenza sua, indossava solo una felpa. L'unica spiegazione che la donna aveva trovato a quella prova di insofferenza termica era data dal fatto che Taehyung non faceva altro che saltellare sul posto dall'entusiasmo, lo sguardo vispo puntato sulla strada. 
"Da lì in poi sempre dritto, fino al cartello. No. No. Dall'altra parte. Tornate indietro." dettò ancora la signora Kim, alzando gli occhi al cielo. 
Allontanò il ricevitore dalla bocca, probabilmente dando il tempo a chiunque fosse dall'altra parte della linea di far manovra. 
"Sono anni che ci vengono a trovare e ancora non sanno la strada." borbottò all'indirizzo di nessuno. Poi, rivolta a Taehyung: "Va in casa e dì a quei due che se non vanno a letto immediatamente domani niente televisione." 
Perplesso, Taehyung guardò sua madre. Gli bastò seguire la traiettoria di quegli occhi accigliati per capire a che cosa si stesse referendo. 
Scorrendo con lo sguardo i diversi piani del loro condominio, l'edificio in netto contrasto con il cielo nero, si poteva vedere anche da quella distanza che una delle finestre del loro appartamento era illuminata. Due ombre minute ci si muovevano dietro, velate dalle tende. 
Eonjin e Jeonggyu dovevano essere sgattaiolati fuori dalla loro cameretta.
A Taehyung venne prima da sorridere, poi da lamentarsi. 
Era divertente vedere i suoi fratellini trasgredire il coprifuoco perché troppo eccitati dall'arrivo dei loro ospiti, ma non se poi toccava a lui andare a rimproverarli. Oltre al fatto che non ne aveva voglia, per nulla al mondo si sarebbe fatto tutta la rampa di scale per andare da quei due marmocchi, lottare per metterli nei loro letti, lottare per quando avrebbero finto di mettersi buoni per poi rialzarsi nel momento in cui lui avesse finto di andarsene e rifare la rampa di scale; non quando l'attesa rendeva intrepido anche lui. 
Voleva essere presente quando il camion dei trasporti sarebbe arrivato.
Vedendolo esitare, la signora Kim gli lanciò un'occhiataccia, intimandolo con le pupille di andare verso la porta. 
Anche lei era piuttosto divertente quella sera, pensò Taehyung. 
Era la prima ad essere contenta dell'arrivo di sua sorella, un evento che pianificavano tutte eccitate da tempo, degne di due sedicenni alla ricerca dell'abito per il ballo, ma era evidentemente nervosa. Di sicuro si sarebbe sciolta in chiacchiere e risate non appena l'altra fosse arrivata. 
A malavoglia, Taehyung percorse il tratto di marciapiede che lo separava dal portone d'ingresso. Aveva già le chiavi infilate nella toppa quando sentì la madre esultare un: "Vi vedo!" 
La bocca del biondo venne squarciata all'istante da un sorriso, la testa girata di scatto per guardarsi alle spalle. 
Un camion relativamente piccolo aveva appena svoltato nella loro via, un bianco mostro di latta che si aggirava solitario nella notte. E lui sarebbe dovuto andare ora dai suoi fratellini. 
Ma neanche per sogno.
Taehyung pestò con l'indice il campanello del proprio appartamento, il suono così irruento in tutto quel silenzio che lo si sentì addirittura da lì, quattro piani più in basso. Sua madre chiamò il suo nome con tono di rimprovero, ma a lui non gliene poteva fregar di meno. 
Almeno la donna non poteva dire che non fosse stato efficace: la finestra divenne subito buia, segno che i bambini avevano capito il messaggio forte e chiaro. 
Taehyung oltrepassò la madre, veloce come una scheggia. La donna poteva solo vederne la silhouette  mentre quest'ultimo correva giù per la via, i fanali del camion che gli si stagliavano contro.
Il veicolo frenò, una manovra che non gli sarebbe stata concessa con il traffico del giorno, seppur limitato. 
La portiera del passeggero si spalancò. Ne uscì una figura allungata, le gambe sottili che dovettero saltare a terra per scendere dal camion. 
La donna si sentì rincuorata quando sentì gli schiamazzi del figlio in lontananza. Stette a guardare con un sorriso quando quest'ultimo si lanciò letteralmente sul nuovo arrivato, aggrappandoglisi con le gambe al busto in una presa ferrea.


SPAZIO AUTORE:
... li avete trovati?

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Capitolo 4
*** MAMA ***


E' appena finita la Wings Era. 
Piango.
(Piangete con me su @silbysilby twitter) 


Hey mama
You can now lean on me, I’ll be always next to you
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MAMA

(14) November 2nd, 2015 - Monday

Hoseok non avrebbe dovuto essere così nervoso. 
Taehyung lo aveva rassicurato decine e decine di volte. Non c’era davvero niente per cui essere anche solo vagamente preoccupati, ma l'altro non poteva farne a meno.
Aveva sempre sentito parlare degli amici del cugino, di quello che facevano insieme, delle cose che gli capitavano. Addirittura sua zia aveva da sempre raccontato aneddoti su quello squinternato gruppo di ragazzi, e dovevano essere davvero dei tipi a posto per essersi guadagnati a quel modo l’affetto della donna. 
Forse era proprio quella loro apparente perfezione a metterlo in soggezione. Quel loro essere descritti tutti e cinque belli, bravi e buoni. 
E quella mattina stessa Hoseok li avrebbe incontrati per la prima volta. 
Inutile ed impossibile nasconderlo, il ragazzo ci teneva a dare una buona prima impressione. 
Era per quello che stava passando più tempo del solito davanti allo specchio del corridoio di casa Kim, l'area più trafficata di tutta la casa. Taehyung, Eonjin, Jeonggyu e la signora Kim, sua zia, si stavano ancora preparando per uscire, mentre Hoseok era già pronto da qualche minuto.
Hoseok si aggiustava i capelli in modo che gli scoprissero una parte della fronte, li arruffava, valutava se fosse il caso di indossare un berretto per celare quella tinta aranciata-rossastra. Poteva ritenersi fortunato per non aver dovuto passare molto tempo a scegliere i vestiti dato che si sarebbe tenuto addosso il cappotto. L’unico capo vestiario visibile sarebbero stati i pantaloni, ma almeno su quelli Hoseok non aveva grandi incertezze. 
E poi niente, la sua faccia era sempre la stessa. Da cavallo, la descrisse lui ad alta voce, guardandone la forma allungata con un sospiro. 
“Per me hai un profilo molto elegante.” disse invece Taehyung, passando dietro di lui con le scarpe già ai piedi. 
Hoseok girò automaticamente il viso di lato, come per controllare. 
Divertito da quella sua espressione incerta, il biondo si calcò per bene la giacca a vento sulle spalle prima di andare ad abbracciare il cugino da dietro. Le sue mani si allacciarono contro quello stomaco piatto con una familiarità dettata dal tempo, il mento che andava a puntellare una spalla; Hoseok era un po' più alto di lui, per cui Taehyung era costretto ad allungare il collo per poterci arrivare. 
Il rosso accettò di buon grado quella dimostrazione d'affetto, dando una pacca leggera sulle mani dell'altro. Lo strato di giacca che li divideva era così soffice.
Per un attimo i due si soffermarono a guardare allo specchio le loro figure unite in un'unica, lo sguardo un po' vacuo e i sorrisi assonnati. 
Glielo si leggeva in faccia: ancora non ci credevano di essere finalmente sotto lo stesso tetto, anche se con i giorni contati. Per due famiglie che avevano sempre vissuto a due ore e passa di distanza era davvero un piacere poter stare un po' di tempo insieme al di fuori delle vacanze. 
Anche la madre di Taehyung doveva essere della stessa idea; un'ovazione intenerita le uscì dalla bocca quando vide i due accoccolati in mezzo al corridoio, lo zaino di Jeonggyu che le pendeva dalla spalla.
"I cuginetti che vanno a scuola insieme." cantilenò. Il miele nella sua voce fece arricciare loro il naso, ma senza infastidirli davvero. 
"Tecnicamente, io accompagno soltanto." disse Hoseok. 
La zia gli rispose sventolando una mano. 
"Shh, non dirlo. Tanto presto sarà così." 
Con una smorfia divertita, Taehyung mollò la presa per andare a finirsi di preparare. Diede un'ultima pacca sulla schiena di Hoseok, scuotendo la testa in direzione della madre. 
Con quel gesto, a lei disse: ehi, sei imbarazzante, ma tu e la zia sognate di riunire la famiglia da così tanto tempo che non posso darti torto. 
E' bello averti qui
, aveva detto invece a Hoseok.
L'appartamento divenne finalmente silenzioso quando la famiglia ne uscì. L’unica persona a rimanere in casa era la madre di Hoseok, ancora dormiente nella camera degli ospiti. 
Dopo aver scavalcato un paio di scatoloni vuoti impilati nell’atrio, Eonjin e Jeonggyu scesero le scale di corsa, gli zainetti di scuola che battevano contro le loro schiene e loro madre che gli urlava dietro. 
Una volta chiuso il portone principale, Taehyung regalò un sorriso genuino a Hoseok. Gli fece cenno con la testa di iniziare pure a scendere, gli occhioni luminosi anche se ancora un po' pesti. 
La sera prima avevano dormito davvero poco e niente tra accogliere cugino e zia e trasportare qualche scatolone in casa; la maggior parte della loro roba sarebbe stata messa in un magazzino apposito che avevano fatto riservare alla ditta di traslochi. 
Usciti dal condominio, i cinque si incamminarono verso il garage. Una volta che i due piccoli di famiglia furono saliti in auto i due cugini più grandi gli assicurarono per bene le cinture di sicurezza. 
Lanciando un’occhiata a Taehyung dal lato opposto della vettura, attraverso le aperture degli sportelli posteriori, Hoseok esternò l’ennesima insicurezza riguardo l'imminente incontro.
“E se mi trovassero invadente? Dopotutto tu e i ragazzi avete così tante abitudini, così tante tradizioni. Non voglio essere di troppo.” 
Il biondo disincastrò la sciarpa a Jeonggyu dalla cerniera della giacca, tirandola.
“Hobi,” disse, rassicurante. “le tradizioni possono cambiare.”

(15) November 2nd, 2015 - Monday

Quel lunedì mattina un sole pallido e malaticcio era tutto quello che era concesso agli abitanti di Seul. 
Le foglie secche che nel tempo si erano accumulate per le strade erano state calpestate così tante volte che, dopo un’abbondante pioggia come quella della notte appena passata, si erano ridotte a brandelli di poltiglia informe.  
L’asfalto era insidioso e pieno di buche talmente grandi che se uno ci incappava quando erano piene d’acqua si sarebbe ritrovato le caviglie in ammollo. 
Fu proprio una di queste pozzanghere che Namjoon beccò in pieno quando scese dall’auto nel parcheggio principale della scuola; ci finì dentro a piedi piatti, infradiciandosi completamente le scarpe. Il ragazzo sospirò, ancora troppo assonnato per arrabbiarsi o pensare di uscire dalla buca. 
Quando Seokjin capì a cos'era dovuta quella sua espressione inebetita scoppiò a ridere, chinandosi sul volante con la fronte. La sensazione doveva essere parecchio spiacevole, ma sapeva che Namjoon non era il tipo da prendersela più di tanto per queste cose. 
Certo, però, che un po' di affetto in situazioni come queste non avrebbe guastato. 
Seokjin si slacciò la cintura di sicurezza e allungò un braccio oltre il sedile del passeggero. Tirando Namjoon a sé per il cappuccio della giacca lo fece risalire in auto, consolandolo con un bacio. 
Namjoon ritenne necessario averne subito un altro, questa volta più lungo e approfondito. Si ritrovò a scrollarsi la giacca a vento dalle spalle quando, tra il riscaldamento che andava a manetta e le mani calde di Seokjin poste ai lati del suo viso, gli iniziò a venire caldo. 
Era pieno giorno e la loro auto era in bella vista dall'ingresso della scuola, ma nessuno dei due pensò che fosse meglio rinviare a più tardi. Una volta entrati nell'edificio avrebbero dovuto mantenere un profilo basso e questo assicurava loro un minimo di cinque ore di completa astinenza da effusioni.
Non che la loro relazione fosse segreta, anzi. Seokjin e Namjoon facevano coppia fissa da quando si erano conosciuti tre anni prima e più o meno chiunque ne era al corrente. Ormai nessuno faceva più una grinza quando li vedevano seduti troppo vicini o quando si tenevano per mano durante la pausa pranzo, ma non era sempre stato così. 
C'erano stati pettegolezzi, c'erano state risate alle loro spalle. C'erano state occhiate disgustate e amicizie perse. 
Per Namjoon la cosa era stata più facile da sopportare. O meglio, a lui la cosa non era nuova, per cui c'era passato sopra più facilmente. 
In prima superiore era già stato relegato alla figura idealizzata dell'adolescente ribelle e problematico, un soggetto che i professori dovevano rimettere in carreggiata. Namjoon non aveva fatto niente per farsi dare quell'etichetta; a quanto pare era bastato che un angolino del suo primissimo tatuaggio sbucasse dal colletto della camicia a fargli da biglietto da visita. 
Era appena all'inizio del primo anno e i suoi coetanei neanche si avvicinavano a parlargli, giudicandolo un poco di buono. 
Forse fu quella disperata voglia di farsi qualche amico a spingerlo ad accettare seduta stante la proposta di uno dei suoi insegnanti. Avrebbe iniziato a dare ripetizioni d'inglese, materia per cui era incredibilmente portato, ad un ragazzo di seconda che a quanto pare era in difficoltà. 
Ragazzo che si era rivelato essere Seokjin. 
Seokjin a cui non poteva fregargliene meno di quello che diceva la gente fino a quando Namjoon lo avrebbe aiutato a studiare quei maledetti verbi irregolari. Al loro primo incontro nella biblioteca scolastica si era limitato a chiedergli la sua media di voti e quanti soldi chiedeva all'ora.
Ai due non c'era voluto molto per innamorarsi. Namjoon non aspettava altro, Seokjin neanche se ne accorse. 
Avevano preso a passare tutti i pomeriggi insieme, che fosse in biblioteca o in un qualche caffè della zona. Trascorrevano ore ed ore a scrivere, ripetere frasi, correggere pronunce. Ad un certo punto Seokjin aveva iniziato a portarsi dietro merende, panini e snack che casualmente non aveva mai voglia di mangiare; Namjoon gli aveva confessato, dopo essersi sentito chiedere perché spesso e volentieri fosse introvabile durante la pausa pranzo, che non voleva starsene in mensa a guardare gli altri mangiare quando lui cercava di risparmiare i soldi che ci avrebbe speso.
Seokjin capì di non vedere l'altro come un semplice amico poco a poco, tra un esercizio e l'altro. Lo capì dal modo in cui la sua mente pareva azzerarsi al suono della voce calda con cui Namjoon parlava sia coreano che inglese, dalla curiosità ossessiva per cui voleva tanto vedere quel tatuaggio sulla schiena dell'altro, dalla frequenza con cui si ritrovava a desiderare che l'altro poggiasse il capo sulle sue spalle quando lo vedeva particolarmente stanco. 
I due ancora ridevano quando ricordavano insieme la faccia esterrefatta di un'insegnate di sostegno che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nel luogo sbagliato, nel momento sbagliato. 
Seokjin aveva tenuto la verifica di inglese più importante dell'anno, quella che avrebbe dovuto cambiare la sorte della sua media bassa. Si trovava di fronte alla bacheca dei voti in compagnia di Namjoon, le mani sugli occhi. 
Se non sei passato ti ridò metà dei soldi, continuava a scherzare l'altro, mettendogli ancora più ansia. 
Quando Namjoon gli lesse il voto che aveva preso, Seokjin non ci credette. Si era levato le mani dalla faccia ed era andato a vedere di persona. Poi dall'entusiasmo aveva buttato le braccia al collo di Namjoon per la prima volta in tutta la storia della loro relazione e gli aveva stampato un bacio sulla bocca. 
Si erano guardati negli occhi, sorpresi. Poi si erano voltati verso l'insegnante di sostegno che li fissava, ancora più sorpresa. 
Se il ricordo del loro primo bacio era divertente, quello del loro primo appuntamento vero e proprio era, come lo descriveva Seokjin, un'ansia assurda. 
Era rimasto ad aspettare Namjoon ad un parco per quelle che gli erano parse ore. Al tempo non poteva immaginare che l'altro avesse perso il treno e avesse il cellulare scarico. Seokjin era rimasto lì, sotto gli alberi di ciliegio in fiore, convinto di star ricevendo il bidone più colossale di sempre. 
Quando aveva visto Namjoon correre tutto trafelato verso la sua direzione ricordava un sollievo immenso, una risata dal retrogusto lacrimoso che gli era salita per la gola. 
Tutti questi ricordi facevano diventare Seokjin malinconico. Lo era spesso, ultimamente. 
E non solo ricordi di Namjoon, ma anche della sua famiglia, dei suoi amici. 
La scuola per lui quell'anno sarebbe giunta al termine e sembrava un po' l'apocalisse. Gente, sbandierate i conti alla rovescia, correte a far scorta di cibo in scatola. 
L'ultimo anno. L'ultimo ponte di Halloween. 
Seokjin pensava a tutto questo chiuso in auto con il suo ragazzo, tra un bacio e l'altro. 

(16) November 2nd, 2015 - Monday

Jungkook e Yoongi alzarono lo sguardo quando videro emergere Namjoon e Seokjin dal parcheggio. I bordi dei jeans del ragazzo dai capelli verdognoli erano di qualche tonalità più scura rispetto al resto della stoffa, ma i due non si fecero domande. 
Scambiandosi gli ultimi commenti entusiasti su un programma tv che seguivano entrambi, li aspettarono sul marciapiede che portava all’ingresso principale della scuola, sotto il lampione mal funzionante che usavano sempre come riferimento per incontrarsi.
I quattro si scambiarono pacche e abbracci, eseguendo solo metà dell'inconscio rituale del gruppo. 
Chiacchierarono un po', chiedendosi a vicenda come avevano passato il resto della giornata di Ognissanti dopo la colazione da Cup’s. 
"Allora, quando arrivano gli altri?" chiese Namjoon, il freddo pungente che gli stava facendo rimpiangere di aver lasciato l'auto. 
Yoongi si limitò ad alzare le spalle. L’espressione distesa che aveva avuto fino a un secondo prima si annuvolò. Ci pensò Jungkook a rispondere. 
"Jimin è gia arrivato. E'..." 
Occhiata a Yoongi. 
"...da qualche parte." 
Tutti sorvolarono sulla cosa, cambiando argomento. Jimin a parte, all'appello mancava solo Taehyung; il biondo li aveva già avvisati del suo ritardo sulla loro chat di gruppo. 
Come aveva ricordato loro spesso, il giorno precedente erano arrivati sua zia e suo cugino, e sarebbero rimasti a casa sua fino a quando l'appartamentino che avevano già trovato non sarebbe stato abitabile con acqua e gas. 
Non si era mai perso troppo a raccontare le cose nel dettaglio, anche perché non gli sembrava giusto sbandierare ai quattro venti quelli che non erano fatti suoi, ma la vita della famigliola non era stata proprio tutta rose e fiori; gli ultimi eventi li avevano portati a decidere di trasferirsi a Seul. 
Taehyung aveva chiesto al gruppo di essere i più gentili e amichevoli possibili nei confronti del cugino. Dopotutto, Hoseok, o detto più affettuosamente Hobi, aveva lasciato tutti i suoi amici nella vecchia città e ne avrebbe avuto bisogno di nuovi. 
Con questi propositi Taehyung aveva cercato di organizzare un breve incontro prima dell'inizio delle lezioni, dando appuntamento agli altri fuori dall'edificio. Peccato che i due parenti fossero in ritardo, cosa che penalizzava il già ristretto lasso di tempo rimanente.  
Mancavano appena cinque minuti e ancora non si vedevano. Gli unici veicoli ad essere entrati in quella zona del parcheggio erano quello di Seokjin e un minivan nero da cui non era uscita un'anima.
Quando Yoongi gli chiese per l'ottava volta quanto mancasse al loro arrivo, Jungkook diede una scrollata di spalle. Come poteva saperlo? Non è che essendo il migliore amico di Taehyung aveva una qualche sorta di cerca-persone interno che gli segnalava dove si trovasse l’altro. E più Yoongi glielo chiedeva più lo innervosiva, quasi facendolo sentire in colpa per non averlo davvero. 
Già la mattinata non era partita bene per lui. Non che fosse partita particolarmente male, ma anche solo cambiare un particolare della sua routine quotidiana lo aveva fatto sentire fuori fase. 
La madre di Taehyung era solita dargli uno strappo fino a scuola ogni mattina, ma con l’aggiunta del cugino a bordo l’auto era al completo. Jungkook non se l’era sentita di insistere quando quella povera donna faceva già così tanto per lui. 
Jungkook appoggiò la schiena al palo del lampione, seppellendo il naso nella sciarpa. 
Inutile negarlo, non era entusiasta dell’arrivo dell’altra metà della famiglia di Taehyung; non è che non volesse, semplicemente non si sentiva euforico all'idea. La cosa lo faceva sentire terribilmente in colpa, ma non poteva farci niente. Sperò almeno che non gli si leggesse in faccia.
“Allora, Kookie, tu l’hai già conosciuto questo Hoseok? Com’è?” 
Alla domanda di Namjoon, il ragazzo interpellato smise di ticchettare le unghie contro il ferro opaco del palo. Rispose fissandosi le punte delle scarpe, desiderando di essersi portato dietro qualcosa con cui coprirsi il capo. 
“No, non l’ho mai incontrato. Ho visto delle foto e so un paio di cose sul suo conto, ma non so bene neanche io chi aspettarmi. Posso solo dirvi che a detta di Tae è una specie di prodigio della danza e che è un tipo alla mano.”
Jungkook avrebbe potuto aggiungere qualcosaltro, ma non fece in tempo. 
La strada scricchiolò al passaggio di un'auto. Tutti e quattro i ragazzi si voltarono verso la stessa direzione, vendendo la suddetta auto entrare nel parcheggio. Una portiera anteriore e quella del passeggero si spalancarono quasi in simultanea, senza che il motore venisse spento. 
Jungkook deglutì, liberando il lampione dal proprio peso e raddrizzando le spalle.
Dalla prima portiera uscì Taehyung, lo zaino che ciondolava da una spalla e un sorriso già stampato sul viso scarno, la chioma giallo limone che lo distingueva sempre e comunque. Dalla seconda uscì un ragazzo abbastanza alto, dal fisico slanciato, i capelli arancio. 
Due vocine acute e strillanti distrassero Jungkook dalla sua primissima ispezione visiva: dalla portiera anteriore ancora aperta, Eonjin e Jeonggyu si stavano sbracciando come potevano dai loro seggiolini, tutti imbacuccati tra sciarpe, guanti, berretto e cintura di sicurezza. Il fratellino e la sorellina di Taehyung lo stavano salutando a gran voce, i loro faccini luminosi e spensierati. 
Per un attimo i pensieri di Jungkook vennero messi da parte. Si mise a scuotere la mano verso la loro direzione, gli angoli della bocca sbarazzini che si alzavano di loro spontanea volontà. Se quelle due piccole pesti ne sapevano sempre una in più del diavolo e si divertivano a fare dispetti a Taehyung, in presenza di Jungkook diventavano magicamente docili e affettuosi, sempre a strattonarsi per farsi prendere in groppa per primi. 
Hoseok era già stato accalappiato da Taehyung per le spalle. Quest’ultimo lo stava spingendo verso i propri amici quando l'altro venne richiamato indietro dalla zia; cacciò la testa dentro l’auto e ne uscì con una vistosa impronta di rossetto sullo zigomo. I due cugini camminarono fino al gruppetto formatosi sotto il lampione, uno imbarazzato e l’altro raggiante. 
La manica della giacca di Taehyung poteva benissimo essere stata cucita direttamente con il colletto del cappotto di Hoseok per quanto il biondo non si allontanasse nemmeno di un centimetro. In quel suo fare protettivo, nel modo in cui mostrava fisicamente dalla parte di chi stava, come per mettere in chiaro per tutti quanti che la persona sotto la sua ala era da rispettare, Jungkook riconobbe lo stesso atteggiamento che aveva tenuto nei suoi confronti agli esordi del suo inserimento nel gruppo. Jungkook era stato l'unico a frequentare ancora le scuole medie mentre tutti gli altri erano delle superiori; non era stato facile provare agli altri che volendo poteva essere forte e maturo quanto loro. 
Peccato che adesso Taehyung non si stesse scollando neanche per dare un abbraccio al suo migliore amico, scombussolandogli per la seconda volta tutta la cosa della routine. Si limitò a rivolgergli un sorriso smagliante, lo stesso che aveva condiviso con tutti quanti gli altri. 
Il nuovo arrivato tossì un paio di volte, la punta del naso arrossata che faceva presumere fosse raffreddato. Si mise le mani nelle tasche del cappotto, lasciandosi guidare dal cugino. 
Sotto il nervosismo che era impossibile da nascondere, il modo in cui il sorriso di Hoseok era piegato aveva davvero qualcosa di buono e umile. Ora che era vicino a loro, i ragazzi poterono notare la forma allungata del suo viso, il naso sottile e quelle guanciotte che completavano il tutto.
Taehyung liberò Hoseok dalla sua presa e fece un passo indietro, l'aria solenne di chi sta facendo gli onori di casa.
“Hobi,” gesticolò. “ti presento i miei amici. Ragazzi, mio cugino Hoseok. Trattatemelo bene.” 
Tutti abbassarono appena il capo prima che Hoseok si mettesse a stringere loro la mano uno ad uno. Dovette ringraziare mentalmente Taehyung per avergli mostrato tutte quelle foto negli anni: era un sollievo sapere già in partenza associare facce e nomi senza ulteriori imbarazzi. 
In partenza si mostrò un po’ intimorito da Namjoon, probabilmente sapendo che in quel gruppetto di amici così affiatato sembrava lui quello a tenere le redini, a preoccuparsi sempre del benessere degli altri, a mettere fine ai conflitti. 
Come infatti ci si aspettava da lui, vedendolo teso, Namjoon provò subito a spezzare il ghiaccio. “A guardarvi non l’avrei mai detto che siete parenti. Non vi assomigliate per niente.”
Hoseok lanciò un’occhiata al cugino, come per assicurarsi della cosa. “Credo sia perché entrambi assomigliamo di più a nostro padre e non alle nostre madri.” 
Namjoon annuì con un sorriso, sfoderando un paio di fossette che non potevano che essere definite adorabili. Anche così, Hoseok avrebbe detto che a guardarlo sembrava il più grande fra tutti, nonostante sapesse che non era vero. 
La presa di Seokjin gli parve solida e rassicurante, ma Hoseok non sapeva se questo pensiero fosse tutta farina del suo sacco o se era dovuto a tutte le cose belle che Taehyung gli aveva detto di lui. Quel ragazzo aveva un che di dolce, e non era tutto merito della chioma rosata. 
Quando toccò a Yoongi, Hoseok, che ormai si stava tranquillizzando e sorrideva con più naturalezza, si ricordò subito del video che il cugino gli aveva mostrato una volta. 
“Tu sei quello che suona il pianoforte, giusto?"
Yoongi si sorprese. Non poté evitare di sentirsi un minimo lusingato, anche se non si trattava di un complimento.    
“Si. Si, sono io.” rispose, stringendogli la mano con le sue dita pallide. Regalò un sorriso a Hoseok e ne concesse uno più piccolo anche a Taehyung. 
“E’ la prima volta che vieni a Seoul?” chiese, infrangendo in via del tutto eccezionale la sua regola del non parlare se non interpellato. 
Il rosso avrebbe risposto in modo affermativo se non fosse stato afferrato per le spalle e fatto voltare indietro, un paio di labbra morbide che si stamparono sulle sue.
Il contatto durò appena due secondi, ma il suo corpo venne pervaso da una scossa. Le orecchie gli si riempirono di un rumore vibrante, come se due oggetti in ferro fossero collisi. 
Sotto la luce bianca di quel mattino, Jimin non fece nemmeno caso quando quello che per lui era ancora uno sconosciuto aprì le palpebre, svelando delle pupille piatte e uniformi. 
Il ragazzo dai capelli argentei sorrise languidamente a Hoseok, facendo ben mostra di una dentatura perfetta e dei suoi zigomi morbidi. Tornò ad appoggiare i talloni a terra dato che si era dovuto mettere sulle punte dei piedi per poter arrivare al suo viso. 
“Bacio di benvenuto a Seul.” disse con nonchalance. 
Gli occhi di Hoseok, tornati al loro colore scuro, rimasero sgranati dalla sorpresa. Taehyung poggiò una mano sulla sua spalla e lo scosse affettuosamente; lanciò un'occhiata storta a Jimin per aver vanificato gli sforzi di tutti per creare una sorta di clima accogliente.
“Te lo dicevo che erano amichevoli.” 
Il colpevole ridacchiò, non potendo trattenersi dall'ammiccare a quella parola. Cercando di fare la persona civile fece per stringere la mano di Hoseok, quando la sua attenzione si focalizzò sulla persona dietro di lui.
Jimin avrebbe dato oro per sapere se Yoongi indossava quell’espressione irascibile ventiquattro ore su ventiquattro o solo in sua presenza.  
Lanciò un sorriso canzonatorio anche nella sua direzione. Non è che avesse molto da perderci; a quel punto essere odiato un po’ di più non gli faceva alcuna differenza. 
Notando lo sguardo tra i due, Taehyung si affrettò a sospingere Hoseok verso Jungkook, togliendolo d'impiccio. 
Il castano protese la sua mano che subito venne stretta calorosamente. Il viso di Hoseok parve ravvivarsi.
“Tu devi essere Jungkook. Taehyung non fa altro che raccontare di cosa combinate insieme.”
"Davvero?" 
Gli occhi di Jungkook volarono un attimo su quelli del biondo, accogliendo finalmente la prima interazione della giornata con il suo migliore amico. Per Taehyung doveva essere stranissimo ritrovarseli uno di fronte all’altro dopo aver passato una vita a raccontare aneddoti e confidenze ad entrambi. Soprattutto certe confidenze.
Jungkook gli sembrava normalissimo, eppure Taehyung era sicuro che, facendo la conoscenza del famigerato cugino, stesse pensando ad una sola cosa. 
Fatte e finite le presentazioni ufficiali i ragazzi avrebbero volentieri fatto un po’ di conversazione, ma la campanella della scuola suonò in lontananza. La seconda, quella che determinava l’inizio della prima ora di lezione, sarebbe suonata da lì a cinque minuti e i ragazzi avrebbero fatto meglio ad affrettarsi. 
Salutarono nuovamente Hoseok con la promessa di rivedersi le mattinate successive fino alla cena di venerdì sera per cui si erano già organizzati. 
Facendosi precedere dagli altri cinque che si incamminarono verso l’ingresso principale, Taehyung rimase un attimo indietro, assicurandosi che il cugino ricordasse di dover restare dov'era ad aspettare sua madre. 
L’idea di lasciarlo lì da solo, al freddo, in un posto che non conosceva non gli piaceva per niente, ma non poteva permettersi di saltare la prima ora. 
Cercando di prendere tempo, Taehyung allungò una mano e cancellò con il pollice i rimasugli di rossetto sullo zigomo di Hoseok, il dito che a sua volta si macchiava di rosso. 
I due parenti si scambiarono un sorriso complice prima che il biondo, con un’ultima pacca sulla schiena, si decise ad avviarsi per il marciapiede. 

(17) November 2nd, 2015 - Monday

Appena entrato in aula Yoongi venne subito chiamato a gran voce; il professore, intento a leggere un giornale nell'attesa che suonasse la seconda campana per poter fare l'appello e iniziare la lezione, lanciò un'occhiata di rimprovero da sopra gli occhiali a Kihyun, intimandogli di fare meno chiasso. Il ragazzo gli fece un sorrisetto di scuse e si limitò a sbracciarsi per farsi notare dal moro. Yoongi lo vide comunque e lo raggiunse, mollando lo zaino a terra. 
Entrati subito dopo di lui, anche Namjoon e Jimin presero posto: quest'ultimo si diresse direttamente verso il suo banco nella fila centrale, abbastanza lontano dalla cattedra per permettergli di farsi gli affari propri ma neanche troppo in fondo per essere costretto dai professori a spostarsi più avanti. Appese borsa e cappotto allo schienale della sedia, attirando l'attenzione del suo compagno di banco che fino a quel momento era stato preso da un qualche giochino nel suo cellulare. Come ogni giorno venne squadrato dalla testa ai piedi. Poi il ragazzo in questione gli ammiccava un occhiolino, dando una seconda occhiata al capo vestiario di Jimin che preferiva; quel giorno si meritò questo privilegio il nuovo paio di jeans a vita alta, con una nota di merito a come fasciava perfettamente le sue cosce muscolose. 
Ma una terza occhiata venne concessa ad un punto preciso sotto la sua mandibola: un paio di succhiotti visibilmente nuovi di pacca gli spiccavano rossi e impertinenti, sottolineando ogni guizzo sotto la sua pelle. 
Il compagno di banco alzò gli angoli della bocca alla vista di essi. Sorrise al proprietario, come se ammirasse la sua abilità nel riuscire a ritagliarsi il tempo per delle sveltine prima della scuola; era chiaro come il sole che non essere stato lui a procuraglieli lo infastidiva. Sentendo odore di rogne, Jimin si alzò il collo alto del suo dolcevita più su che poté, nascondendo i succhiotti. 
Forse avrebbe dovuto farlo prima, perché non appena si sedette l'altro iniziò ad accarezzargli la gamba con aria casuale. Le dita di Jimin andarono a districare nodi inesistenti tra la sua frangia argento, senza curarsi della cosa. 
Il compagno di banco, ancora più scocciato da quell'indifferenza totale, lasciò la mano scivolare in avanti, verso l'interno coscia, ottenendo così l'effetto desiderato: gli occhi grandi e tondeggianti di Jimin saettarono sui suoi, il viso che non si era spostato di un millimetro, ma non gli venne dato quel sorriso intrigante che si aspettava di ricevere. Le gambe un po' divaricate di Jimin si erano sigillate con uno scatto repentino, le ossa delle ginocchia che probabilmente avevano sbattuto insieme.  
Non fece in tempo a succedere niente tra i due, perché uno zaino in pelle tutto malconcio venne poggiato sui loro banchi. L'espressione cordiale di Namjoon nascondeva molto male l'antipatia per il compagno di banco di Jimin che batté automaticamente la mano in ritirata. 
Jimin non seppe se sentirsi irritato da tutta quella monitorazione che il suo amico esercitava spesso e volentieri su di lui o s e essergli grato. Stava per chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, ma Namjoon non si rivolse a lui. 
"Amico," disse al suo compagno di banco. " possiamo fare cambio posto? Solo per quest'ora, poi torniamo come prima." 
Il suo suonava più come un ordine che come una richiesta, ma l'altro sembrò sul punto di protestare comunque. L'intervento di Jimin e dello squillo della campanella capitarono tra capo e collo al ragazzo, dandogli ben poco tempo per barattare.
"Oh, è vero. Scusa, mi sono dimenticato di dirti che avevo chiesto a Namjoon se poteva aiutarmi durante matematica." Jimin lo guardò un po' da sotto le ciglia, mordendosi le labbra carnose. "Lo sai che sono un disastro con la geometria analitica."
Per dare quell'ultima spinta verso la decisione giusta al ragazzo, Namjoon incrociò le braccia, sollevando appena le maniche del suo maglione. Ancora gli era impossibile capire il perché, ma finché la vista dei suoi tatuaggi avrebbe messo in soggezione le persone sarebbe stata un'arma che avrebbe continuato ad usare. 
Il compagno di banco di Jimin sospirò, rassegnato. Si alzò e raccattò astuccio e quaderno, andando a sedersi al posto che spettava a Namjoon in seconda fila. 
Il professore alla cattedra sembrò risvegliarsi dal suo letargo e intimò agli alunni ancora in piedi di accomodarsi e di spegnere i cellulari. La porta dell'aula venne chiusa, segno che chiunque fosse arrivato da quel momento in poi si sarebbe beccato un ritardo sul registro. 
Dopo essersi seduto, Namjoon aveva aperto il libro di esercizi sul banco, aveva tirato fuori l'astuccio possibilmente ancora più mal ridotto dello zaino. Se ne stava a guardare dritto davanti a sé, in attesa dell'inizio della lezione. Jimin provò a lanciargli un paio di occhiate interrogative, ma l'altro lo ignorò, la punta della penna che teneva in mano che tamburellava ossessivamente contro le pagine.
Sapeva bene dove la paternale che sarebbe partita da lì a breve andasse a parare, e di sicuro non si trattava di geometria analitica. 
 
(18) November 2nd, 2015 - Monday


Hoseok si infilò gli auricolari nelle orecchie, sperando che la musica aiutasse a far passare il tempo più velocemente. 
A parte un paio di studenti in ritardo che gli erano passati di fianco sfrecciando, la strada era deserta. Era solo più o meno da una decina di minuti, ma a stare fermo il freddo si faceva sentire. 
Sua zia gli aveva promesso che avrebbe accompagnato i suoi cuginetti alle elementari il più velocemente possibile per poi tornarlo a prendere, ma anche se non avesse beccato semafori rossi ci sarebbe voluta come minimo una mezz'ora.
Non era sicuro di quel che avrebbero fatto una volta tornati a casa loro: probabilmente avrebbero aspettato che sua madre si alzasse per andare a fare colazione, la seconda della giornata per Hoseok, in un qualche centro commerciale dove avrebbero potuto fare anche compere. 
Per quanto l'idea di gironzolare per i negozi in compagnia di due donne non allettasse molti giovani, a Hoseok non dispiaceva passare del tempo con madre e zia insieme. Non si vedeva mai con quest'ultima, se non per le festività, e pure con la prima si era visto di rado nelle ultime settimane. Tra gli scatoloni per un trasloco senza meta e le giornate di straordinari a lavoro, sua mamma era stata sempre via, sempre distratta. 
Erano a Seul dal giorno prima, ma lei doveva ancora riprendersi da tutta quella fatica. L'avevano lasciata dormire indisturbata e lei si era svegliata autonomamente giusto per l'orario dei pasti, per poi tornare a letto. 
La madre di Hoseok stava affrontando un altro dei suoi momenti difficili. Da tempo aveva iniziato a nascondere il suo malumore al figlio, ma lui sapeva che doveva essersi trattato del periodo peggiore di tutti dato che l'aveva spinta dopo tanti anni a scegliere definitivamente di trasferirsi. 
Il doloroso divorzio dal padre di Hoseok era avvenuto quando quest'ultimo frequentava l'ultimo anno di elementari, ma la donna pareva ancora portarsi dietro spettri e insicurezze di quei tempi. 
Ogni volta che Hoseok si diceva che era finito tutto, che era arrivata l'ora di guardare avanti e voltare pagina, sua madre ci ricascava di testa.
Solo Dio sapeva cosa non avrebbe dato pur di vederla serena. Era impossibile toglierle ogni peso dalle spalle e farsene carico, ma Hoseok avrebbe voluto almeno che lei lo lasciasse sollevarne una parte.
La schiena della donna era stata provata da troppe fatiche, prima o poi si sarebbe spezzata una volta per tutte. Hoseok era forse ancora troppo giovane per capire, troppo immaturo, ma la sua di schiena era ancora sana e robusta ed era pronto a sacrificarla per lei. 
Cercava di chiederle il meno possibile, arrangiandosi come poteva con la paghetta mensile per ogni bisogno. Quando gli avanzavano dei soldi glieli restituiva a sua insaputa. Se lei per prima non lo avesse considerato indipendente e maturo, sarebbe stato impossibile convincerla a fidarsi e lasciare che il ragazzo restituisse il bene ricevuto. 
Un brusco colpo di tosse colpì Hoseok, come per fargli presente che evitava anche di farle sapere quando non si sentiva in forma per paura che lei lo considerasse viziato e fragile. Lui tentò di camuffarlo con la sciarpa, approfittandone per stringersela al collo.
Non passò molto tempo prima che tossì violentemente per una seconda volta, la testa che gli iniziò a pulsare dalla foga. Si piegò in avanti con il capo e si coprì la bocca con la mano, la gola che gli doleva. 
I suoi occhi gentili si tinsero di un bronzo metallico e lucente, il confine tra la pupilla e il suo esterno inesistente. La tosse continuò a scuoterlo per le spalle fino a quando, con un ultimo colpo dal retrogusto sanguigno, qualcosa colpì l'interno della mano che si teneva a coppa sul viso.
La tosse smise di tenerlo piegato in due e Hoseok poté ridistendere la fronte e aprire gli occhi, stranito. Aveva fatto colazione più di un'ora prima, se gli fosse rimasto qualcosa incastrato in gola avrebbe dovuto infastidirlo da un pezzo ormai. 
Quando Hoseok staccò la mano dal viso, il suo alito caldo che si tramutava in bianco fumo, sul suo palmo era poggiata una pillola. Era perfettamente integra, asciutta, le due parti tinte rispettivamente di giallo e arancio.
La testa del ragazzo si svuotò da ogni pensiero, il suo respiro si calmò fino quasi ad azzerarsi. La pillola gli cadde di mano e colpì l'asfalto. 

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La pillola gli cadde di mano e colpì il pavimento.
Per sua fortuna le dure piastrelle del bagno erano ricoperte da uno spesso tappeto blu che attutirono l'impatto ed impedirono alla piccola capsula di rompersi. Hoseok la raccolse, ci soffiò sopra e la reinserì nel suo barattolino, disperdendola tra decine di simili. 
Poggiò il barattolo su una delle mensole, fuori dalla portata di un bambino. 
Doveva essere domenica. C'era tanta luce per essere mattina presto, ma la casa era ancora silenziosa. Sua mamma sarà stata ancora a letto. 
Hoseok non aveva bisogno di guardarsi intorno per capire di trovarsi in quella che ormai doveva considerare la sua casa d'infanzia. Aveva salutato per l'ultima volta quelle mura pochi giorni prima, si era tirato dietro il portone e aveva affidato le chiavi al nuovo acquirente. 
Eppure si ritrovava di nuovo lì, come se non se ne fosse mai andato.
Non ebbe bisogno di cercare nessun calendario per sapere in quale periodo della sua infanzia si trovasse: le sue mani si aggrapparono ai pomelli dei cassetti del lavandino, aprirono ante, frugarono tra cosmetici e saponi, ma non trovò traccia di schiuma da barba e rasoi. 
Hoseok uscì dal bagno e si addentrò per un corridoio, la luce diurna che si incupiva man mano che si avvicinava alla stanza dei suoi genitori. Ne aprì la porta, pregandola di non far rumore. Entrò con passo felpato, trattenendo il respiro come quando da piccolo fingeva di essere un agente segreto in missione. All'interno l'aria sapeva di chiuso, le tapparelle erano ancora serrate e sua madre era riversa sul materasso a dormire con gli occhi aperti, dieci anni in meno di segni sul viso.
Lui raggiunse l'armadio dei vestiti dall'altra parte della stanza e ne aprì le ante, per sottoporre anch'esso alla sua inquisizione. Niente cravatte tra tutti quei pizzi. 
L'Hoseok di quei tempi doveva avere otto anni e suo padre se ne era già andato di casa.
Non era scappato, non era fuggito senza preavvisare. Semplicemente un giorno lui e sua madre avevano preso Hoseok da parte e gli avevano detto che papà si sarebbe trasferito fuoricittà e non avrebbe più vissuto lì con loro. Sarebbe potuto andare a trovarlo ogni volta che lo desiderava, oltre che passare il fine settimana da lui a sabati alterni. 
Hoseok era rimasto solo con la madre, più pallida e smunta che mai. 
All'uscita delle scuole elementari aveva iniziato a passarlo a prendere la nonna. Poi era sempre lei a preparargli il pranzo e controllare che facesse i compiti. Verso il tardo pomeriggio lo accompagnava a casa sua con la cena ancora calda chiusa in un contenitore. La nonna scaldava il cibo e gli faceva compagnia per assicurarsi che il bambino mangiasse. 
Quando Hoseok gli chiedeva perché la mamma non uscisse dalla sua camera per stare un po' con loro, l'anziana donna si limitava a fare un sorriso bieco e a dirgli che la figlia era andata in letargo. 
Avrebbe scoperto solo in futuro che era la depressione a calamitare sua madre a letto. Gli antidepressivi erano all'ordine del giorno. Le confezioni che la donna comprava a pacchi erano sempre in giro per la casa, come se volesse accertarsi di non rimanere mai troppo lontana dai suoi preziosi farmaci. 
Hoseok lanciò un'occhiata verso la sveglia poggiata sul comodino della madre, fortunatamente una di quelle elettroniche leggibili anche al buio. Entro un'oretta sarebbe dovuto passarlo a prendere suo padre. 
Il ragazzo uscì dalla camera della madre nello stesso modo in cui ci si era introdotto, tirandosi la porta dietro con delicatezza. Attraversò nuovamente il corridoio e svoltò sulla prima stanza a destra, un finto cartello stradale che avvisava qualsiasi adulto di prepararsi all'imminente disordine appeso alla maniglia.
La stanzetta era rimasta arredata proprio come tanti anni prima, quando il letto era ancora ad una piazza singola, i suoi poster di cartoni e videogiochi ricoprivano le pareti ed i suoi giocattoli erano sparsi per tutto il pavimento. 
Respirando nostalgia a pieni polmoni, Hoseok si avvicinò cautamente alla figurina sommersa sotto le coperte. 
Dato che nessuno si conosce meglio di sé stesso, il ragazzo sapeva già che sfilare di sorpresa le coperte o aprire le finestre all'improvviso lo avrebbe fatto svegliare con un diavolo per capello. Si limitò a sedersi sul materasso e sbrogliare delicatamente le lenzuola arruffate intorno alle gambine sottili del bambino dormiente. Gli infilò subito un paio di calze fin sopra i polpacci per evitare che prendesse freddo. Il piccolo Hoseok mugolò appena e si girò dalla sua parte tenendo gli occhietti chiusi, i capelli neri scarmigliati. 
Con tanta pazienza, il ragazzo aspettò che l'Hoseok bambino si lasciasse prendere in braccio per una coccola mattutina. Lo convinse a lavarsi e vestirsi, promettendogli la colazione non appena fosse stato pronto. 
Come il bambino uscì dalla stanza, Hoseok si ritrovò al tavolo della cucina, la schiena ben dritta contro la sedia, i suoi movimenti lenti e rigidi. Il suo piccolo alter ego era seduto di fronte a lui, i loro abiti identici, anche lui innaturalmente composto. D'avanti ad entrambi poggiavano due ciotole piene fino all'orlo di un liquido lattaginoso, due cucchiai eleganti al loro fianco. Il resto della tavola e dei ripiani della cucina erano sgombri di qualsiasi mestolo o cibo, la luce artificiale del lampadario fioca e malaticcia. 
Hoseok bambino impugnò il cucchiaio in modo buffo, troppo grande per le sue manine, Hoseok adolescente si ritrovò a fare lo stesso. Come se fossero l'uno una sorta di specchio extra-temporale dell'altro, entrambi tuffarono la posata nella tazza. 
A tratti Hoseok si ritrovava nel corpo di sé stesso bambino e altri in quello del sé stesso adolescente, una connessione mal funzionante e turbolenta. 
Le loro tazze si invertirono, cambiarono colore, cambiarono forma, persero e aggiunsero manici, il tutto senza spostarsi di un millimetro. I due sollevarono il braccio in simultanea con un movimento meccanico, facendo riemergere il cucchiaio. 
Nel latte candido e freddo raccolto dalla posata galleggiavano una manciata di pillole colorate, il liquido che colava ai lati. 
Dall'altra parte del tavolo Hoseok bambino le guardava galleggiare senza osare mangiarle. Le lacrime gli solcarono il visino paffuto e innacquarono la sua colazione. 

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Una voce maschile adulta lo strappò via da quelle pareti familiari.  
Ai piedi di Hoseok la pillola che aveva tossito non c'era più, volatilizzata. 
La prima cosa che Hoseok notò quando aprì gli occhi era che un uomo lo stava fissando. La seconda fu che il suddetto uomo gli stava anche porgendo una mano mentre lui se ne stava raggomitolato sulle ginocchia. 
"Ehi, ragazzo. Tutto a posto?" gli venne chiesto, ma quella voce sembrava arrivare lontana alle sue orecchie, come se le avesse riempite di cotone. 
Hoseok annuì con il capo e accettò l'aiuto dello sconosciuto per rimettersi in piedi, anche se non era sicuro di poter reggere il peso del suo stesso corpo sulle caviglie.
Cos'era appena successo? Era svenuto? La colazione l'aveva fatta, non poteva trattarsi di un calo di zuccheri. Forse la spossatezza del viaggio?
Lo sconosciuto continuava a scannerizzare il suo volto con lo sguardo, senza lasciar andare il suo braccio. "Vuoi venirti a sedere un attimo in auto da me? Sei pallido." 
Hoseok seguì con gli occhi la traiettoria accennata dal capo dell'altro, trovando un minivan nero.
"No, grazie, non voglio disturbare. E' già stato gentile a venire in mio aiuto." 
"Figurati. Dai, non ho alcuna fretta di ripartire e dentro c'è il riscaldamento. Se vuoi puoi anche sdraiarti sui sedili posteriori." 
La mano di Hoseok fece un segno dismissivo, declinando una seconda volta l'offerta. Davvero, non avrebbe potuto approfittarsene così. L'uomo di fronte a lui aveva tutta l'aria di essere un operaio e di sicuro era già in ritardo sul luogo di lavoro. 
"Sul serio, sto bene." ripeté. "Mi devono venire a prendere a momenti."
E, come quando si dice che se parli del diavolo ne spuntano le corna, una vettura familiare svoltò all'interno del parcheggio, fermandosi a pochi metri da Hoseok e l'uomo. 
Da dietro il parabrezza sua zia, la signora Kim, gli fece cenno di salire, il motore dell'automobile che continuava a macinare.
Con un ultimo ringraziamento all'altro, il ragazzo si diresse verso l'auto, reprimendo la tristezza che .
Come faceva spesso, si impose di trovare velocemente una canzone felice, una battuta divertente, un impegno a cui dover pensare, prima che la tristezza che qualsiasi cosa gli fosse appena successa gli aveva lasciato addosso potesse venire assorbita.
Vedendolo in panne, ci pensò la maledizione della mela a dargli una mano. 
Ributtato indietro di una decina di minuti, una mano tornò a strofinarsi appena contro lo zigomo di Hoseok. Una vividezza nel ricordo gli diceva esattamente quanto quel pollice fosse stato premuto, gli faceva percepire quella puntina di pelle ruvida dovuta ad il brutto vizio che aveva Taehyung di mordicchiarsela. 
Hoseok raggiunse l'autovettura e sparì attraverso la portiera del passeggero.
Guardandolo andare via, l'uomo si portò alla bocca il walkie-talkie che aveva tenuto per tutto quel tempo nella tasca del giubbotto.

(19) November 2nd, 2015 - Monday

Il tamburellio della penna di Namjoon era diventato una costante. 
Ormai la lezione andava avanti da una decina di minuti e ancora non si era deciso a parlare. Il dubbio che forse avesse altri motivi per fare cambio posto con il suo originale compagno di banco sfiorò Jimin, ma la cosa gli sembrava altamente improbabile. 
Intanto il professore continuava a chiamare alla lavagna le persone che non avevano fatto la verifica, sottoponendoli ad un'interrogazione di quarto grado che avrebbe steso chiunque. Tutti quelli che l'avevano già fatta perché non erano stati assenti quel determinato giorno si limitavano a seguire passivamente, ancora troppo intontiti dal sonno per fare chiasso. 
Jimin capì cosa Namjoon stesse aspettando quando Yoongi venne chiamato alla lavagna. Essendo distratto dal professore e a quella distanza, non avrebbe potuto sentire cosa avessero da dirsi loro due. 
Infatti Namjoon avvicinò subito la sedia alla sua, facendogli cenno di spostarsi a sua volta in modo da essere spalla contro spalla per non dover parlare troppo forte. Se si fossero voltati uno verso l'altro, Jimin sarebbe riuscito a vedere chiaramente i due buchini che contrassegnavano l'assenza di un piercing al sopracciglio dell'amico.
Guardarono Yoongi prendere il gessetto più lungo tra i vari monchini e accingersi a scrivere l'esercizio dettatogli dal professore, rivolgendo la schiena ai compagni. Namjoon poté dare il via alle danze. 
"Lo sai che per me non è un problema, ma era proprio necessario baciare Hoseok?" 
Jimin inarcò un sopracciglio, non felice di averci preso sull'argomento. "A me non sembra che gli sia dispiaciuto..."
Sia Namjoon che Jimin restarono chini ognuno sul proprio foglio a scrivere numeri su numeri, nella speranza di attirare meno attenzioni possibili. Il silenzio del primo fu abbastanza eloquente per suggerire all'altro di cambiare registro. 
La voce bassa di Yoongi che spiegava i passaggi dell'esercizio mentre lo svolgeva veniva quasi sovrastata da un coro di penne, starnuti, sbadigli, ticchettii e mormorii che non cessava mai. Il sospiro più simile ad uno sbuffo che Jimin emise andò disperso tra essi. 
Quando parlò di nuovo il suo timbro vocale sempre così dolce e morbido era irrigidito dalla rabbia, le parole ben scandite anche se sussurrate. 
"E' affar suo. Se a Yoongi non sta bene che io baci, esca o faccia qualsiasi altra cosa con altri non me ne può fregare di meno. Non è colpa mia. Non ho intenzione di sforzarmi per rispettare i sentimenti di uno che non posso neanche definire un amico." 
"Hai mai pensato di prenderlo da parte per chiarire una volta per tutte?" 
A Jimin quasi venne da ridere. "Si, molte volte. Tu quando mi consigli di farlo? Prima o dopo gli insulti?"
Namjoon non riuscì a biasimare il sarcasmo che impregnava le sue parole. Dopotutto non si poteva negare che Jimin avesse tutte le ragioni per non voler fare la prima mossa; era sempre Yoongi quello a colpire verbalmente per primo, lui alle volte non si sforzava neppure di difendersi. Ma la situazione stava diventando insostenibile. Il rapporto tra i due non faceva altro che peggiorare e Namjoon non poteva lasciare che si dichiarassero ufficialmente guerra. Loro ne soffrivano, il gruppo ne soffriva, e nessuno voleva essere messo nella posizione di scegliere da che parte schierarsi. 
E dire che, da quello che aveva scoperto Namjoon nel tempo, Jimin e Yoongi già si conoscevano alle scuole medie. Gli era stato detto che frequentavano classi diverse, ma per via di un qualche laboratorio e collaborazione tra sezioni era capitato di incrociarsi. Se però aveva capito bene, i due si erano rivolti la parola solo durante la fatidica prima uscita del loro gruppo. 
Namjoon aveva speso un pomeriggio intero a cercare di capire le dinamiche tra i due con Seokjin, alla ricerca di quel difetto meccanico da aggiustare. Insieme avevano notato come, a giudicare dal tempo record con cui avevano trovato interessi in comune e dal volume delle loro risate, fin dall'inizio tutti i membri del gruppo sembrassero combaciare come tessere di un puzzle. Tutti meno che Jimin e Yoongi, gli unici due pezzi che proprio non si incastravano tra di loro. 
Al tempo Namjoon aveva scambiato quella loro incapacità di interagire per timidezza. Non sembrava esserci astio: Jimin provava spesso a mostrarsi disponibile e aperto nei suoi confronti, ma Yoongi proprio rimaneva nel suo bozzolo. 
Nessuno aveva dato molto peso alla cosa. Prima o poi avrebbero legato.  
Poi era arrivata la seconda superiore e Jimin si era tuffato nella sua prima, grande storia d'amore; Yoongi era passato dall'essere timido all'essere taciturno e i quattro ragazzi restanti capirono come stavano davvero le cose. Terza superiore, Namjoon non se la sarebbe mai dimenticata: il cuore di Jimin ridotto a coriandoli insieme al suo senso del pudore, gli inizi dell'avversione di Yoongi nei suoi confronti. 
E il tutto era sfociato in quel quarto anno che stavano vivendo. Yoongi aveva deciso che stare zitto non gli andava più bene e non faceva segreto delle sue opinioni su Jimin e il suo stile di vita. 
Era stato Seokjin a trarre le conclusioni per Namjoon: Yoongi era convinto che il ragazzo di cui si era invaghito fosse stato spazzato via da una specie di sgualdrina esibizionista e questo non glielo avrebbe mai perdonato. 
A Jimin non era servito provare al gruppo di non essere cambiato, che era lo stesso di sempre, solo un po' più sicuro di sé stesso e con una taglia di abiti in meno. Yoongi lo guardava e vedeva tutto quello che non c'era più.
Namjoon scosse la testa senza smettere di scrivere sul suo quaderno, un sorriso triste e rassegnato sulle labbra. 
Alzò il viso per vedere se avesse svolto l'esercizio correttamente. Non potè evitare di soffermarsi sulla figura di Yoongi quando si accorse che l'interrogato non era neanche a metà. Dietro quella sua figura sempre più sottile ed emaciata, la statura ridicolizzata dall'altezza del professore al suo fianco, la sua calligrafia svolazzante e tarchiata appariva nettamente sulla lavagna nera.
Namjoon poté sentire chiaramente le voci di tutti i professori della sua vita ripetergli in un coro degno d'orchestra che il disordine nei quaderni rifletteva il disordine nella testa. 
Intravide il viso pallido dell'amico sotto tutti quei capelli mori solo quando quest'ultimo si rivolse al professore per domandargli qualcosa. 
Si chiese se Yoongi avesse mai provato a dimenticare Jimin. Per un qualche motivo la risposta non gli sembrava così scontata. 
Già, Jimin aveva davvero tutte le ragioni, ma era così inconcepibile che un affetto smisurato e intenso come quello non fosse corrisposto. Namjoon non poté trattenersi.
"E' totalmente perso di te."
A questa nuova uscita dell'amico, Jimin strinse le labbra insieme, la rabbia che rendeva i tratti del suo viso così particolare solo più interessanti. 
Namjoon poteva vedere benissimo quali fossero, invece, le ragioni di Yoongi. 
Jimin non era da considerare una bellezza convenzionale, ma il suo fascino aveva qualcosa di assurdo. Pure in quel momento, banalmente seduto con i gomiti appoggiati al banco e il viso sorretto dalla mano, sarebbe riuscito a distinguersi dagli altri studenti. Certo, i vestiti e il taglio di capelli giusti facevano la loro parte, ma era proprio quella sua innata eleganza nel modo di porsi che attirava sguardi e pensieri come il miele con le mosche.
Invaghirsi di una persona del genere era estremamente facile. Continuare ad esserlo dopo anni e anni d'indifferenza era da pazzi masochisti. 
"Questo non gli da il diritto di trattarmi così." rispose Jimin, le sue parole secche. 
"Jimin, te lo chiedo come un favore. So che non lo fai intenzionalmente per provocarlo, ma potresti andarci piano con effusioni varie e ragazzi quando è nei paraggi? Non farlo per Yoongi, fallo per il gruppo, va bene?" 
Jimin mollò la penna sul quaderno e incrociò le braccia al petto. Quel suo esercizio pieno di cancelloni e scarabocchi non doveva sperare di trovare risposta da parte sua. 
Yoongi nel frattempo era riuscito a prendersi la sua sufficienza, cedendo il gessetto al prossimo interrogato. 
Non volendo attirare l'attenzione di quest'ultimo mentre passava tra i banchi per tornare al proprio in fondo all'aula, Jimin si limitò ad annuire distrattamente a Namjoon. Un cenno del capo era sempre meglio che promettere verbalmente, in questo caso. 
Dieci minuti più tardi, quando ormai la conversazione tra i due momentanei compagni di banco era definitivamente conclusa, un bigliettino di carta passò di mano in mano, un risolino generale che lo seguiva come una scia, fino a quando non atterrò tra le mani di Jimin. Il ragazzo lo aprì a sua volta, essendo il destinatario. Appena lo lesse percorse con gli occhi tutto il tragitto del bigliettino, per poi incontrare lo sguardo beffardo del mittente; l'amico che Namjoon aveva spodestato all'inizio dell'ora era evidentemente curioso di vedere la sua reazione in diretta.
Scritto con una penna con l'inchiostro agli sgoccioli, il bigliettino chiedeva esplicitamente come il ragazzo dai capelli argento fosse disposto a farsi perdonare quel piccolo contrattempo di Namjoon, con tanto di tre opzioni. La prima era troppo scontata. La seconda troppo insulsa. La terza era alla sua portata.
Jimin si guardò attorno, assicurandosi che il professore fosse distratto. Quando ritenne fosse arrivato il momento giusto, una risata mal trattenuta sull'orlo delle labbra e gli occhi che continuavano a girovagare per la classe, strinse con entrambe le mani l'orlo della propria maglia. Lo sollevò e l'abbassò in fretta in direzione del suo compagno di banco, in una parodia della classica scena da film della ragazza esibizionista che mostra il reggiseno. Ovviamente Jimin non ne aveva uno, ma c'era qualcosa di profano nel far vedere i capezzoli, seppur di un uomo. 
Per quanto veloce, quel suo gesto fu notato da metà della classe, afflitta pesantemente dalla noia. Un brusio di risatine e mormorii serpeggiò tra i banchi, sovrastate dalla piena risata del compagno di banco di Jimin. Namjoon si limitava a scuotere la testa, rassegnato. Come se non si fossero mai detti niente.
Jimin rise insieme a tutti gli altri, tornando ad appoggiarsi contro lo schienale della sua sedia. 
Se si escludeva Namjoon, c'era solo un'altra persona la cui espressione era rimasta invariata.
Jimin non si rese nemmeno conto di aver smesso di comunicare con l'altro ragazzo ed essersi messo a fissare Yoongi fino a quando quest'ultimo non incontrò il suo sguardo. Il sorriso che gli era rimasto addosso si allargò a dismisura di sua spontanea volontà, una dolcezza che sfiorava i limiti del crudele. 
Si rendeva perfettamente conto di starsi comportando da stronzo, ma non poteva farne a meno: aveva bisogno di fargli pressione, di metterlo alla prova, come se non ci credesse davvero che sotto quello spesso strato di odio si potesse celare qualcos’altro.
Gli occhi neri di Yoongi perforavano lo spazio che li distanziava e picchiavano direttamente contro i suoi, rabbiosi. 
In tutta risposta, Jimin piegò la testa di lato e si passò una mano tra i capelli lisci, senza perdere la sua aria beata. Il moro strinse i pugni e si impose di guardare dritto davanti a sé, la gamba sotto al banco che tradiva il suo nervosismo.  Pochi secondi dopo, le pupille di Yoongi scivolarono velocissime nell'angolo dell'occhio, ma non abbastanza veloci per impedirgli di scorgere Jimin alla sua destra, quei suoi occhi grandi ancora su di lui. 
Le dita leggere del solletico gli percorsero la nuca, gli strinsero il petto. Yoongi scosse la testa bruscamente e si voltò dalla parte opposta, verso Kihyun. Si disse di focalizzarsi sullo sprazzo di cielo incorniciato dalla finestra dietro al suo amico. 
Chiuse le palpebre solo per un attimo. La sua mente ricreò immediatamente il momento appena vissuto fissandone i colori, le luci, l'esatta tonalità dei capelli argento di Jimin sotto le lampadine, la piega delle sue labbra, le sue dita corte nascoste per metà dalle maniche troppo lunghe. Yoongi fissò il ricordo nella sua memoria, lo lucidò e lo mise in un punto abbastanza alto da risultare scomodo andare a cercarlo. 
Poi creò un ricordo a parte per gli occhi, come sempre. Di quelli ne aveva a centinaia. 
E' quello che faceva da un paio di anni a quella parte: conservava i ricordi con gelosia, li riordinava, fingeva di dimenticarsene e lasciava che prendessero la polvere. Li odiava tutti ma non si sbarazzava di nessuno. 
Yoongi appoggiò il mento sul palmo della mano, nascondendo in parte la bocca. Studiò il cielo grigio di nuvole fuori dalla finestra e ne trovò una copia verosimile nel suo passato. Esattamente risalente a quattro anni prima, quando frequentava la terza media. 
Buffo come la copia di quel cielo contenesse anche un doppione degli occhi di Jimin. Anzi, non un doppione, bensì il primissimo ricordo, l'originale, l’intoccabile.
Era proprio quello a vagargli sempre per la mente in mille sfumature diverse, un film senza finale masterizzato su un DVD usurato. 
Ed era proprio quello a fregarlo ogni volta. Anche quando Yoongi credeva di poter voltar pagina, di averla fatta finita, di essere riuscito a spingere tutti i suoi sentimenti oltre la linea che dava inizio all’odio, gli bastava uno sguardo di Jimin e tutto andava all’aria. Per quanto il ragazzo fosse cambiato, sia esteriormente che interiormente, i suoi occhi erano sempre rimasti gli stessi.
Ma quegli occhi erano un filo conduttore, un biglietto di andata e ritorno per ogni ricordo del passato. 
Forse, se avesse cambiato magicamente la parte superiore di quel viso, Yoongi avrebbe potuto realizzare che il ragazzino di tredici anni e l'adolescente di diciassette non avevano niente a che fare l’uno con l’altro. 
Già. Se fosse stato possibile Yoongi non si sarebbe ritrovato con il suo amore per Jimin incrostato sotto le unghie dalle scuole medie. Per quanto lavasse e strofinasse non andava mai via. 

(20) November 2nd, 2015 - Monday

Le mani al tempo piccole e morbide di Yoongi avevano esitato sulla tastiera elettronica dell’ampia aula di musica, un gioiellino di laboratorio per le scuole medie che frequentava. 
Nonostante lo strumento fosse più intonato e offrisse una scala di suoni e strumenti molto ampia, il ragazzino si era ritrovato a rimpiangere il suo pesante e vecchio pianoforte a parete di casa; con quello poteva suonare dando le spalle ai parenti, dimenticarsi della loro presenza. La leggerezza di quella tastiera la rendeva troppo comoda da spostare in giro, costringendo Yoongi ad esibirsi di fronte a tutti. Il leggio per gli spartiti era stata la sua unica fonte di privacy. 
Ma la cosa peggiore non era stata la tastiera. La cosa peggiore era stata la presenza, non solo dei suoi soliti compagni, troppo abituati a sentirlo suonare per prestargli attenzione, ma l'aggiunta in via del tutto eccezionale di un’altra classe del terzo anno. Con il tempo non si ricordava più molto bene, ma doveva essere stato per via di un professore di laboratorio artistico assente. 
L’essere estroversi non era mai stato di casa per Yoongi: mentre i suoi compagni avevano fatto chiasso e avevano riso con le vecchie amicizie delle elementari, lui se ne era rimasto in disparte, seduto su uno sgabello troppo alto per le sue gambine corte.
Ovviamente c’era stato un che di soddisfacente nell’essere l’unico alunno del suo corso a potercisi accomodare. Tutti gli altri non sapevano suonare, o se lo facevano preferivano cimentarsi in strumenti tipo la chitarra o il flauto, lasciandogli il titolo di unico pianista ad ogni concerto di fine anno. 
L’insegnante, una donna allegra e svampita che non aveva mai imparato a tener testa agli studenti peggiori, aveva smesso di zittire i vari gruppetti che si erano venuti a creare e si era limitata a spiegare i nuovi spartiti ad ogni bambino che stringesse tra le mani uno strumento. Avrà pensato che il coro generale se la sarebbe cavata in un modo o nell’altro. 
Il quartetto di chitarre avevano suonato il loro pezzo e gli schiamazzi erano aumentati. Si era passato ai flauti e quelli del coro avevano cominciato a tirarsi palline di carta con le cerbottane. L’unico flauto traverso si era esercitato sulla sua parte solista e l’insegnante non era riuscita a sentire una singola nota. 
Era arrivato il turno di Yoongi e la donna si era girata di colpo verso quella maramiglia di ragazzini e ragazzine, l’espressione più cattiva che le riuscì. Cacciando un urlo aveva intimato loro di tacere, facendo calare un silenzio di piombo. Poi si era voltata, apparentemente soddisfatta con sé stessa. Aveva battuto il tempo con il piede un paio di volte e aveva fatto segno a Yoongi di attaccare. 
Il ragazzino aveva premuto le prime note scritte sullo spartito con successo, il labbro inferiore intrappolato fra i denti. Poi un qualche sussurrio era partito nel gruppo più scalmanato e le dita gli si erano impappinate sui tasti, stonando la melodia. 
Un’infantile risata contagiosa era passata di bocca in bocca. Yoongi aveva alzato lo sguardo sull’insegnante ancora di fronte a lui, implorandola silenziosamente di farlo sparire. 
Ma non fu lei, le sue parole o le sue minacce a farli smettere. Era stata una voce sottile, a malapena udibile in mezzo a tutte quelle chiacchiere. 
“Dai, ragazzi, piantatela. Mi state facendo venire il mal di testa.” 
Yoongi aveva spostato lo sguardo dalla faccia esasperata della professoressa al punto indefinito dall’altra parte dell’aula da cui era provenuta la lamentela.
 Si era imbattuto nella figura di un suo coetaneo, uno dei tanti ragazzi che avrà visto centinaia di volte per i corridoi; aveva una zazzera di capelli corvini quasi peggiore della sua che gli tagliavano indecentemente il viso, una maglietta a maniche corte su un fisico ancora rotondetto.
Il resto della classe si era zittito per un attimo, qualche d’uno che si voltava per vedere chi era stato ad intervenire. Poi ripresero a vociare tutti insieme, pari pari a prima. 
Seppur distante, il ragazzo aveva rivolto un accenno di sorriso a Yoongi, come per dirgli che almeno ci aveva provato. 
La professoressa era tornata a dare il tempo, arrendendosi al fatto che il chiasso non sarebbe mai cessato. Yoongi aveva ripreso a suonare, la schiena china sulla tastiera e il viso piantato nello spartito, come se bastasse per nascondersi. Aveva superato il pezzo che aveva stonato poco prima e aveva continuato a far scorrere le dita sui tasti senza incidenti, completamente concentrato sulla musica. 
La melodia era semplice, ripetitiva, adattata ai suoi studi ancora acerbi. 
Il ragazzo moro che aveva chiesto silenzio poco prima aveva seguito con gli occhi i movimenti leggeri delle sue mani, aveva studiato le linee dei polsi tenuti ben in alto e il modo in cui ogni dito premeva un tasto e poi saltava subito su un altro, come se il pianista conoscesse già quello spartito che gli era stato appena consegnato.
Le ultime note erano risuonate nell’aria e Yoongi aveva tolto le mani dalla tastiera, rivolgendosi subito all’insegnante per chiederle se andasse bene. Entrambe le classi avevano continuato imperterrite con i loro pettegolezzi e le loro storie, ma almeno Yoongi era rassicurato dal fatto che nessuno gli stesse prestando attenzione. Nessuno tranne il tipo di prima che lo aveva guardato con una strana espressione assorta. 
Yoongi si era accorto che la professoressa gli stava parlando solo dopo una manciata di secondi e si era ritrovato ad annuire convinto, a che cosa non ne aveva la minima idea. Gli occhi gli erano sfuggiti per toccare un solo attimo in più quelli distanti del ragazzo moro. Lì aveva trovati ancora su di sé e aveva deglutito. 
Gli erano parsi così grandi, dalla linea morbida, ma soprattutto vivaci in mezzo a tutto quel mare di ragazzini annoiati o menefreghisti.
La campanella poi era suonata e quella quarantina di studenti si erano alzati in simultanea e si erano spintonati fuori dall’aula di musica. Erano rimasti solo i pochi che dovevano riporre uno strumento con cura nella custodia apposita, che poi erano gli stessi che aiutarono l’insegnante a riordinarli nell’armadio e chiudere a chiave. 
Nonostante il ragazzo dell’altra classe non avesse utilizzato niente, fu uno dei pochi a rimanere per dare una mano. Un paio di ragazze gli avevano detto come ordinare gli spartiti secondo l’ordine dettato dalla professoressa e, da quel giorno in poi, tutte le volte che la sua classe dovette frequentare le lezioni di musica, quel compito era spettato a lui. 
Yoongi aveva iniziato ad andare a scuola con rinnovato nervosismo, sempre in ansia e sull’attenti all’idea di sbagliare per una seconda volta davanti a tutti quelli che per lui continuavano ad essere sconosciuti. Sapeva poi di essere controllato a vista da quel tipo, il che non lo aveva aiutato a rilassarsi. 
Ogni volta che aveva suonato, che fosse per accompagnare un altro strumento o come solista, che ci cantassero sopra o improvvisasse su delle scale, quegli occhi lo avevano perseguitato. Yoongi lo aveva ignorato ed aveva evitato di guardare nella sua direzione. In certi momenti avrebbe voluto alzarsi, raggiungere quel tipo e girargli con la forza la testa verso un qualche altro punto dell’aula. 
Ebbe poi occasione di scoprire il suo nome quando il preside affidò ufficialmente la sua classe all’insegnante di musica; ormai si erano avvicinati alla fine dell’anno scolastico e anche se l'insegnante di laboratorio artistico fosse riuscito a riprendersi per tempo non avrebbe potuto svolgere un quarto del programma di studio. 
La professoressa di musica finalmente godeva del silenzio che gli era dovuto, dal momento che gli era stato dato potere su voti e note. Aveva chiesto a quelli della nuova classe di alzare la mano e dire il proprio nome e cognome in ordine alfabetico, per creare un registro temporaneo; aveva dato il compito di trascrivere a Yoongi, senza dubbio uno degli studenti che più gli stavano a cuore, mentre lei si era concentrata per memorizzare facce e nomi. Yoongi aveva preso un foglio volante e aveva iniziato a scrivere sotto dettatura quell’interminabile lista, sperando che la sua calligrafia risultasse leggibile. 
Aveva finto indifferenza quando era arrivato il turno del ragazzo moro. Aveva scritto velocemente Park Jimin ed era passato oltre.  
Era arrivata poi la fine della terza media. L’esame imminente e con esso il concerto di fine anno. 
La classe aveva eseguito tre canzoni in totale, preceduta da quelle di prima e seconda. Era toccato proprio a Yoongi chiudere il concerto con un assolo, come se le centinaia di genitori che avevano assistito allo spettacolo sarebbero tornati a casa con un’idea migliore dell’evento in sé se almeno l’ultimo brano fosse stato orecchiabile. 
Le mani sudate di Yoongi avevano sfilato lo spartito dalla cartellina della professoressa, grato di doversi limitare a sfilare l’ultimo foglio senza mettersi lì a cercarlo. La carta era spiegazzata e scarabocchiata un po’ ovunque, tempestata di aggiustamenti e colori che insieme avevano studiato e praticato decine e decine di volte. 
Yoongi si era seduto allo sgabello, la sua presenza fisica minuscola nell’aula magna così enorme e piena di adulti. Calato il silenzio, si era sistemato i fogli sul leggio, intimando mentalmente loro di tacere quando questi frusciarono appena. Aveva sistemato le dita sui tasti, la pressione che gli calcava sulle spalle sottili. Nonostante ormai conoscesse il brano a memoria, aveva lanciato uno sguardo allo spartito. 
In un angolo, alla destra del titolo, c’era un ghirigoro che non aveva mai notato, forse una qualche nota aggiunta all’ultimo momento della professoressa. 
In bocca al lupo, c’era scritto. P.J. 
Per un attimo Yoongi credette di sentirsi male. 
Qualche d’uno del pubblico aveva tossito, evidentemente chiedendosi cosa aspettasse il marmocchio a suonare così da poterla fare finita ed andare a casa. 
Yoongi aveva serrato gli occhi per recuperare tutta la concentrazione di cui aveva bisogno, cacciando quella morsa che lo aveva preso allo stomaco, rinviando qualsiasi cosa gli stesse prendendo a dopo. Dopo l’esibizione, dopo la scuola, dopo, quando sarebbe stato a casa. 
Aveva lasciato che la musica prendesse il sopravvento anche in quella situazione, aveva riempito le sue orecchie solo di note e suoni, escludendo a priori qualsiasi altro verso molesto. 
Senza che se ne accorgesse il brano era già concluso e il pubblico stava applaudendo, infrangendo l’atmosfera idilliaca che era riuscita a creare la musica. Yoongi si era alzato dallo sgabello, le guance a fuoco dall’imbarazzo, chiedendosi chi glielo avesse fatto fare. 
Solitamente si sarebbe limitato a tenere la testa china e ad accettare gli applausi, contando fino a cinque prima di precipitarsi giù per il palco e sparire dalla faccia della terra per un po’. Ma aveva finalmente finito di suonare, non doveva più controllare un bel niente e la sua testa era partita dritta sparata sul messaggio nello spartito. Con un senso di urgenza, Yoongi aveva frugato con gli occhi tra tutte quelle facce mai viste, alla ricerca di un viso in particolare. 
Aveva trovato Jimin sulla destra, appoggiato con la schiena alla parete, distante dal gruppetto della sua classe. Applaudiva entusiasta, illuminato dalla luce calda di mezzogiorno che entrava dalle finestre. 
Quando si era accorto che l’altro stava guardando proprio lui le sue labbra carnose si erano aperte in un sorriso vero e proprio, le guance paffute che gli avevano ridotto gli occhi a fessure.  
Fu in quel momento che Yoongi capì di esserci cascato a piedi pari. 
Era alle prese con la sua prima cotta da mesi e non se n’era accorto neanche per sbaglio. La consapevolezza tutto d’un tratto lo aveva travolto, spaventandolo a morte. 
Jimin era rimasto lì, ad applaudire, e Yoongi si era dato dell’ingenuo. 
Ma d’altronde se uno non si è mai innamorato non si può pretendere che riconosca i sintomi al primo colpo. Chi glielo dice ai poveri disgraziati come lui che non si tratta di mal di pancia ma di farfalle nello stomaco? Perché non avrebbe dovuto pensare di avere freddo quando la pelle d’oca gli aveva attraversato le braccia? E perché nessuno lo aveva messo al corrente che i capelli sulla nuca non si rizzano solo dalla paura?
Poi, i giorni successivi, Yoongi aveva realizzato che le scuole medie erano finite e lui non avrebbe più avuto modo di vedere Jimin. 
Aveva deciso di seguire il suo istinto, dato che non gli era mai neanche passata per l’anticamera del cervello l’idea di farsi avanti; si era messo alla ricerca delle tracce invisibili dei sentimenti che si erano nascosti ai suoi occhi, desiderando  tenerle per sé. 
L’unica cosa che gli era venuta in mente era stato quel foglio di carta usato come registro temporaneo dove aveva scritto per la prima volta il nome di Jimin. Quando aveva chiesto alla sua professoressa a riguardo, accampando una qualche scusa assurda, gli venne detto che una volta ricevuto il registro ufficiale la donna lo aveva gettato. 
Yoongi allora si era accontentato di tenere il prezioso spartito con il messaggio nell’angolo, sicuro che fosse l’ultima cosa di Park Jimin che gli sarebbe rimasta per il resto della sua vita. 

(21) November 2nd, 2015 - Monday

Il chiacchiericcio si sovrapponeva alla radio tenuta in sottofondo in uno dei tanti atri del centro commerciale. Nonostante fosse lunedì mattina la clientela non scarseggiava, anche se per lo più si trattava di casalinghe o pensionati. 
Seduto in uno dei tanti divanetti, immerso nella luce soffusa del giorno che le grandi vetrate lasciavano trapelare, stava Hoseok. 
Non era mai stato al centro commerciale di Seul, ma si era aspettato quella stessa atmosfera distesa che caratterizzava quello vicino alla sua vecchia casa. Poteva vedere perché tanti giovani sembravano sceglierlo come meta per le loro uscite: tra tutta quella sfilza di colori pastello che caratterizzavano gli atri si trovavano un sacco di negozi dai prodotti più disparati, dall'elettronica ai capi vestiari. C'erano anche dei punti ristoro all'apparenza niente male da quel che il ragazzo aveva potuto vedere. 
Era così pacifico starsene seduti lì, la gente che passava in continuazione dietro e davanti a lui senza correre, una barretta al cioccolato tra le mani e la madre aldilà della vetrina di fronte a lui. 
Partite con l'intenzione di comprare esclusivamente articoli per la casa, lei e la zia si stavano provando paia su paia di scarpe da una quindicina di minuti, chiedendo il parere di Hoseok gesticolando da quella distanza. Lui si limitava a sollevare il pollice o ad arricciare il naso, scatenando le ovazioni delle donne che talvolta potevano essere sentite anche attraverso il vetro. 
Se gli sguardi della gente non erano già attirati da quel fiammeggiante color di capelli sarebbe bastato il sorriso di Hoseok. Il ragazzo non ci pensava proprio a contenerlo un minimo. Neanche quando dovette recuperare con il dito parte del ripieno caramellato della barretta prima che colasse. 
Guardava sua madre e la vedeva spensierata come una ragazzina. La sua espressione si era fatta disperata davanti a due paia di scarpe a detta sua incredibilmente simili ma totalmente diverse.
Era quasi tentato di alzarsi in piedi per raggiungere le due sorelle e dire la sua quando una manciata di capelli biondi gli svolazzarono davanti. 
Una bambina occidentale era sbucata da dietro il divanetto, la sua chioma divisa in due codini belli alti. Hoseok ricambiò d'istinto il sorrisone sgangherato di lei, guardandola scavalcare lo schienale con le sue gambine per poi lasciarsi cadere di fianco al ragazzo. 
La bambina sembrava parecchio agitata mentre, incapace di star ferma, allungò una mano verso la barretta di Hoseok, le ditina che si aprivano e si chiudevano ripetitivamente. 
Il ragazzo stava per spezzare una metà del dolce per offrirgliela, gli occhi chiari di lei stretti da quelle guanciotte irresistibili che lo avevano subito corrotto, quando una mano adulta si posò gentile sulla spalla della bimba. 
Sia lei che Hoseok spostarono i loro sguardi verso l'alto, incontrando la figura di un uomo. Il cappotto che indossava era elegante, ma quel mezzo sorriso e il berretto colorato gli donavano un'aurea più domestica. 
"Scusa," disse a Hoseok, la voce calda. "ancora non ha imparato che non deve importunare gli estranei." 
Il ragazzo si affretto a rispondere, sperando che la bambina non fosse sgridata in futuro. "No, no, si figuri. Non mi ha infastidito. E' solo affamata, suppongo." 
L'uomo sollevò la bimba da sotto le ascelle, coricandosela su un braccio. Hoseok non vedeva una gran somiglianza, ma doveva trattarsi senza ombra di dubbio del padre. 
"Non è affamata, è solo golosa." rispose, una punta di rimprovero in quella faccia sorridente. "Melly, lo sai che la cioccolata ti fa venire la carie. Non avresti dovuto chiederla al signore, che tra l'altro l'ha pagata con le proprie monetine."
Le guance di Hoseok si tinsero d'imbarazzo. Davvero, non ce n'era bisogno, ma d'altra parte capiva che il genitore dovesse correggere la figlia per educarla. Con Hoseok le era andata bene, se si fosse trattato di un anziano sarebbe stato peggio.
Un piccolo scusa uscì dalla bocca della bambina che non sembrava davvero pentita. 
Come per premiarla, l'uomo le offrì una mela, presa dal carrello alle sue spalle di cui Hoseok non aveva nemmeno registrato la presenza. 
In realtà non la registrò nemmeno in quel momento, perché i suoi occhi erano subito stati abbindolati dal frutto, incapaci di scollarsi. 
La bimba si limitò a tenerla tra le manine, così candide rispetto alla buccia scura. L'uomo osservava la reazione di Hoseok a sua insaputa, una certezza che inorgogliva il suo sorriso. 
Senza una parola, il duo si allontanò per l'atrio. Hoseok rimase solo su quel divanetto, con la sua barretta smangiucchiata e gli occhi gialli. 
Appena svoltato l'angolo, Melanie restituì immediatamente la mela a Lloyd che la ripose all'interno della tasca del cappotto. 
Non solo il suo esperimento pareva funzionare. Era addirittura trasmissibile per contatto. 




 

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Capitolo 5
*** REFLECTION ***



 
I want to caress me
But sometimes, I really really don’t like myself
Actually, I really don’t like myself often
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REFLECTION 

(22) November 3rd, 2015 - Tuesday

Il calendario amava prendersi gioco di Namjoon.
Il ragazzo era appena stato buttato giù dal letto dalla sveglia, puntata in anticipo rispetto il suo solito orario. Non che dieci minuti fossero tutta sta gran cosa, ma quella mattina potevano fare tutta la differenza. 
Ancor prima di andarsi a lavare la faccia, ancor prima di vestirsi, ancor prima di fare colazione, Namjoon doveva prendere una decisione dell'ultimo minuto. Era andato a dormire la sera precedente con i sensi di colpa, dandosi del codardo per averla procrastinata per quell'ennesima ed ultimissima volta.
Quindi, come il martire che accetta il suo destino, il ragazzo era scivolato via dalla presa confortante delle coperte e si era messo in piedi. Le sue palpebre avrebbero avuto bisogno di un po' di sostegno morale mentre se ne stava lì, impalato in camera sua, le braccia ciondolanti e i capelli verdognoli arruffati. L'unica azione che era riuscito a compiere di sua volontà era stata quella di infilare la prima felpa che aveva trovato, coprendosi i troppi centimetri di pelle e tatuaggi esposti dalla canottiera che usava la notte. 
Visto che Namjoon cercava di mantenere una relazione sana con i suoi occhi (che fino a quel momento non avevano ancora minacciato di scaricarlo per un paio di occhiali graduati), non accese immediatamente il lampadario. L'unica abat-jour che avesse era deceduta un paio di settimane prima, lasciando a Namjoon l'unica opzione di accecarsi in modo drastico ogni mattina. Per cui, la seconda opzione che aveva deciso di adottare, era quella di brancolare nella cecità fino a raggiungere la maniglia della porta che dava sul corridoio, aprirla e lasciare che la sua camera venisse illuminata dalle luci pacate delle stanze vicine. 
Come un animale notturno, il ragazzo compariva in tutto il suo metro e ottanta di sonnolenza, il mobilio attorno a lui che riaffiorava dal buio. Pareti bianche, spoglie, con ancora il segno di certe pennellate impresse nel colore. Armadio, scrivania, mensole e cassettiera appartenevano tutti a set di arredamento diversi. 
In quel momento Namjoon non doveva certo essere un grande spettacolo; nonostante Seokjin gli ripetesse in continuazione che nei suoi tratti decisamente maschili ci fosse qualcosa di affascinante, di sicuro la cosa non poteva coesistere con quelle guance gonfie di sonno e le labbra carnose da cui colava un filo di saliva.
Per lo sguardo imbambolato non poteva usare la scusa di essersi appena alzato: Namjoon appariva disperso nel labirinto che era la sua testa ogni volta che non stava intrattenendo qualcuno con i suoi discorsi filosofici sulla vita e le persone.
Sforzandosi di aprire gli occhi una volta per tutte, si era posizionato davanti al calendario che teneva appeso al muro. Con un sospiro-mezzo-sbadiglio si stirò la pelle intorno alla fronte con le mani, cancellando rughe che ancora non segnavano il suo viso da giovane adulto. 
Per sua sfortuna, durante la notte il calendario non aveva magicamente cambiato i suoi programmi. La data di quello stesso giorno presentava ancora quel ritaglio di giornale dondolante, un annuncio per un colloquio lavorativo, tenuto stretto da una graffetta. E, visibile solo una volta che lo si sollevava, verifica di chimica era scritto a caratteri cubitali, in rosso. 
Il dilemma era ancora lì, mutato neanche di una virgola. Namjoon doveva decidere che pila di vestiti prendere con sé in bagno. Maglia o camicia, felpa o gillette.
Fino al giorno prima era stato sicuro di volersi presentare al colloquio nonostante la verifica fosse piuttosto importante e dura da recuperare, ma ora non ne era più convinto. Lo sapeva, non avrebbe dovuto aspettare il mattino per darsi l'ultima possibilità di cambiare idea. Le prime ore del giorno erano sempre la sua debolezza, filtrate da una pigrizia che faceva apparire ogni evento così distante, ogni problema così semplice. Poi, man mano che la vita di tutti i giorni gli si srotolava davanti gli occhi, Namjoon riprendeva coscienza di sé, del mondo che lo circondava e di quanto non fosse né distante né semplice. 
Al momento (non in quel preciso momento. Era più un pensiero da due del mattino, quando il suo cervello aveva ancora qualche neurone collegato dall'insonnia.) era indeciso fra quella teoria e una seconda. 
Forse non era l'orario a influenzarlo, ma il suo essere solo. 
Quando era in mezzo alla gente, Namjoon era costretto ad essere un uomo. 
Con i suoi genitori voleva sembrare responsabile. Con i suoi amici doveva essere responsabile. A scuola doveva essere semplicemente perfetto, inattaccabile sotto ogni punto di vista; era il prezzo che doveva pagare per non lasciare che la sua, a quanto pare così malfamata, reputazione da omosessuale tatuato prendesse il sopravvento su tutto. 
Namjoon aveva ben poche opportunità al di fuori della sua camera da letto di essere il diciassettenne che era. 
Era anche questa una delle tante cose che lo attraevano di Seokjin. Essendo più grande di lui, anche se solo di un anno, in sua compagnia poteva permettersi qualche debolezza. 
Fu con questi pensieri in testa che Namjoon prese maglia e felpa dalla sedia e si diresse verso il bagno, ma non senza prima infilare i libri di testo giusti nello zaino. 

La madre di Namjoon muoveva appena i fianchi a ritmo di musica, un vecchio pezzo Jazz tenuto come sottofondo alla radio. Era impegnata a lavare le stoviglie con cui aveva fatto colazione, lo spazio del lavello troppo piccolo per poterlo utilizzare comodamente. Alle sue spalle, al centro della modesta cucina, suo marito era seduto a tavola, ancora intento a bere il suo caffè.
La donna non si sorprese quando il figlio le piombò addosso da dietro in tutta la sua inesistente delicatezza, premendole un bacio sulla guancia morbida. Appoggiò la tazza che aveva appena sciacquato su uno strofinaccio e si diresse verso il frigo, aprendone l'anta. 
Stretto nel suo felpone e nel suo paio di jeans, Namjoon si era già accomodato di fianco al padre, sistemando tazza e cucchiaio di fronte a sé. Sua madre non poté fare a meno di lanciare l'occhiata giornaliera desolata a quei poveri capelli rovinati mentre poggiava il cartone del latte sulla tavola, insieme a quello dei cereali. Il ragazzo si servì, buttando giù manciate di roba senza neanche masticare. 
Felice di starsi riempendo lo stomaco dopo essere finalmente arrivato ai conti con quella decisione che si portava dietro da settimane, Namjoon poté guardarsi attorno. In casa non aveva mai niente di nuovo, ma in un qualche modo lo rilassava riempirsi gli occhi di particolari a quel modo. Un po' come se facesse un esercizio propedeutico per cervelloni. 
La piccola cucina era sempre tutta in legno, mai totalmente in ordine. Sua madre appariva sempre femminile nonostante fosse sempre più in là con l'età. Suo padre aveva sempre i soliti baffoni sotto il naso, un accessorio di cui non lo aveva mai visto sprovvisto. Entrambi i suoi genitori vestivano sempre formali per andare a lavoro, ma in un modo che qualcuno avrebbe definito scialbo. 
L'unica differenza che quella mattina gli si presentava chiara davanti agli occhi era quella marea di scartoffie che sembravano occupare metà del tavolo. Quasi sommergevano la tazzina di caffè di suo padre, andata dispersa una volta finita. 
Namjoon si imboccò il decimo cucchiaione di cereali, andando a raccogliere subito una goccia di latte che gli scivolò sul mento. 
Due cucchiaiate più tardi, sua madre si unì a loro a tavola, facendosi vicina a suo marito con la sedia. Insieme, i due si misero a sfogliare i vari documenti, appuntandosi di tanto in tanto qualcosa su un taccuino a cui lui non aveva nemmeno fatto caso.
Non ci voleva un genio per capire di cosa si trattasse: conti da saldare, tasse, rate.
Anche se Namjoon non fosse stato abbastanza vicino da leggerne i contenuti, ci avrebbe pensato l'espressione grigia di suo padre a farglielo intuire. Lui e sua madre avevano preso a confabulare sottovoce, come se Namjoon fosse un bambino da non svegliare. Al di sotto della musica Jazz, il ragazzo poté comunque distinguere una bestemmia da parte di suo padre quando la donna sfilò dal plico un foglio che a quanto pare stavano dimenticando. 
La mano di Namjoon era già per strada verso la scatola di cereali, pronto a una seconda razione, quando si bloccò. Prendendo un pugno d'aria, venne riposta sul grembo del proprietario. 
Come detto prima. Con lo scorrere della giornata riprendeva coscienza. 
Gli occhi di suo padre si posarono su di lui quando ne richiamò l'attenzione. L'uomo di mezza età si teneva la fronte con una mano, piegando la pelle resa meno elastica dal tempo; il suo sguardo preservava quella luce sconsolata, ma sotto i baffoni si poteva intravedere un sorriso mesto. 
"Papà, mi presteresti una delle tue giacche da completo? Oggi c'è la foto di classe." 
"Certo," rispose l'altro, la sua voce la copia usurata di quella di Namjoon. "sono nel mio armadio, nel porta abiti di plastica."
"Perfetto, grazie." 
Senza aggiungere altro, Namjoon schizzò via dalla sedia e su per le scale che portavano alla camera dei suoi, abbandonando a metà la sua colazione. Sentì a malapena le raccomandazioni della madre di non perdere l'autobus. 

Namjoon si dovette ritenere fortunato quando nessuno dei suoi genitori lo beccò prima che uscisse di casa. Gli avrebbero fatto troppe domande, domande che avrebbero portato a discussioni a vicolo cieco che avevano già affrontato in passato. 
Avrebbero iniziato chiedendogli dov'era il suo zaino, perché aveva già addosso la giacca del padre nonostante la madre gli avesse consigliato di portarla a scuola con la gruccia. Con tanto spirito d'osservazione avrebbero poi chiesto perché si fosse tolto tutti i piercing dalle orecchie, che cosa fosse quel ritaglio di giornale che teneva in mano. 
E Namjoon avrebbe solo potuto rispondere loro che non poteva permettersi di essere un diciassettenne. 

(23) November 3rd, 2015 - Tuesday

Quando il suo cellulare vibrò contro la superficie del comodino, Jungkook era già sveglio. 
La sera prima doveva essersi dimenticato di chiudere gli scuri, perché non appena aveva aperto gli occhi si era ritrovato inondato di luce. 
Jungkook maledì la sua distrazione. Se non fosse stato per quella dimenticanza, forse quella notte sarebbe stata la volta buona in cui sarebbe riuscito a dormire fino al suono della sveglia. Era da un paio di settimane che puntualmente la batteva sul tempo, senza apparente ragione. 
Rimanendo sdraiato a letto, Jungkook allungò un braccio e si portò il cellulare di fronte al viso. 
La sua casella della posta elettronica segnalava l'arrivo di una e-mail. Si rizzò a sedere, le coperte improvvisamente troppo ingombranti. Osservò la notifica con gli occhi scuri ben aperti, i capelli scarmigliati. 
Poi incrociò le dita e cliccò l'icona. 

(24) November 3rd, 2015 - Tuesday
 
Se i corridoi dell'ala ovest della scuola avessero potuto parlare avrebbero tessuto lodi infinite a Min Yoongi. 
Dopo minuti, ore, giornate intere ad essere calpestati, ad essere riempiti da un chiacchiericcio perpetuo, da schiamazzi e pianti adolescenziali, ci pensava lui a ridare loro un po' di pace. 
Yoongi aveva stretto un accordo con l'insegnante che dirigeva la piccola orchestra scolastica da quando aveva appurato che la banda non faceva per lui. Non che non gli andassero a genio i suoi compagni, semplicemente non era quello che cercava. Yoongi voleva suonare per stare bene, non se ne faceva niente di tutte quelle ore spese a provare e riprovare la stessa sinfonia. 
L'insegnante aveva riconosciuto il suo disagio e, dopo aver saputo che il ragazzo non possedeva più un pianoforte a casa propria per via di un incidente domestico che lo aveva gravemente danneggiato, aveva dato il suo permesso affinché gli fosse riservata l'aula di musica una volta a settimana. A detta sua, Yoongi aveva troppo talento per lasciarlo arrugginire per via del mancato esercizio. 
Così, ogni martedì pomeriggio, quando tutti gli studenti tornavano a casa loro o frequentavano i numerosi club della scuola, Yoongi prendeva possesso dell'ampia aula. Impilava le sedie disposte a semicerchio e puliva la lavagna con il cancellino, facendo il minimo per ricambiare il favore al professore. Poi abbassava le veneziane, offuscando la luce del sole. Si sedeva al pianoforte e lasciava le dita correre. 
Con tutto quel silenzio tra le aule svuotate, la sua musica si sentiva per tutti i corridoi più vicini. Quando decideva di tenere la porta socchiusa per far girare un po' d'aria la si poteva sentire perfino negli spogliatoi al piano inferiore. 
Infatti era proprio in questi spazi che, durante i mesi precedenti, Jimin aveva notato la regolarità dell'evento: ogni volta che finiva le ore di ginnastica con la sua classe si sentiva un pianoforte suonare. Gli era bastato salire le scale per scoprire chi ne era l'artefice. 
Quindi, dietro la routine di Yoongi, iniziò a nascondersi anche quella di Jimin, che non si sarebbe mai accontentato di quel vago sottofondo. Lui, la musica, la voleva sentire davvero.
Yoongi prendeva possesso dell'ampia aula; Jimin faceva gli ultimi tiri a canestro. Yoongi impilava le sedie disposte a semicerchio e puliva la lavagna con il cancellino; Jimin si dirigeva verso le docce. Yoongi abbassava le veneziane; Jimin si vestiva. Yoongi si sedeva al pianoforte; Jimin saliva le scale. Yoongi lasciava le dita correre; Jimin non aspettava altro per sedersi a terra, la schiena appoggiata alla parete che affiancava l'entrata dell'aula di musica.
Poi entrambi chiudevano le palpebre e stavano in ascolto. 
Yoongi iniziava a suonare e la melodia era sempre diversa, ma in un qualche modo era sempre la stessa. Jimin riconosceva brani pop riarrangiati, colonne sonore di film e drama, ma era come se la base fosse uguale per tutte. 
Era in momenti come quello che stava vivendo in quell'esatto istante in cui, con la sua cartella abbandonata di fianco alle gambe, la nuca contro il muro e la musica di che lo riempiva dentro da minuti e minuti, Jimin osava pensare che forse qualcosa di Yoongi lo aveva capito davvero. 
Il moro pareva avere la capacità di raccontare storie al pianoforte. Dio, Jimin non sapeva cosa avrebbe dato pur di poter assistere a quello spettacolo non solo con le orecchie ma anche con gli occhi. I ricordi delle medie non erano sufficienti. 
Ogni martedì Jimin tornava a casa sentendosi come se non avesse più bisogno di mangiare per essere sazio. Non sapeva spiegare l'effetto che gli faceva se non così. 
La vulnerabilità di Yoongi lo rendeva vulnerabile. 
Ed era proprio per questo che, si ripeté mentalmente Jimin, quel giorno avrebbe fatto meglio ad andarsene dritto a casa dopo ginnastica. Le parole di Namjoon e quella sua richiesta per un confronto verbale tra i due lo tormentavano. Poteva quasi sentire la voce del ragazzo dai capelli verdognoli, nonostante questo non si fosse neanche presentato a scuola quella mattina: lo incitava, lo spronava ad andare da Yoongi in quell'esatto momento, gli diceva che non ci sarebbe stata occasione migliore per parlare da soli. 
Eppure era così bello, così pacifico poter stare lì a godere della compagnia di Yoongi a sua insaputa. Jimin non poteva privarsi anche di quello. 
All'improvviso Jimin credette di sapere perché la tinta di Namjoon fosse venuta di quel colore incerto. Almeno così poteva interpretare alla perfezione quel grillo parlante che era diventato per lui. 
Era da lunedì che non faceva altro che tornargli in mente quell'episodio. L'Episodio. Con la "e" maiuscola. Ne avevano passate tante prima, ma quello sembrava lo spartiacque tra il prima e il dopo.
Prima dell'Episodio tutto era stato indefinito. Ostile, ma indefinito. 
Tutto poteva essere ricondotto a quella famosa serata d'apertura dell'Anathema che aveva avuto luogo l'anno prima: dopo aver ballato su quel palchetto per la prima volta, Jimin non si era più ricongiunto con i suoi amici. Avevano potuto constatare che stesse bene solo il lunedì successivo a scuola, ma nessuno di loro cinque aveva saputo come reagire e tanto meno come gestire la cosa. Sempre che fosse una cosa da gestire. Anzi, non avevano neanche ben capito come fossero andate le cose. Avevano fatto tutti finta di niente ed una settimana più tardi gli era già sembrata acqua passata. 
Ma quella che sia Jimin che gli altri avevano reputato come una notte fuori dagli schemi si ripeté, più o meno con le stesse dinamiche. E ancora. E ancora una volta. 
Jimin aveva iniziato a frequentare l'Anathema sempre più spesso, senza farsi problemi se i suoi amici non potevano accompagnarlo. Aveva fatto nuove conoscenze, aveva ampliato i suoi orizzonti. Per un breve periodo era stato anche un amico abbastanza di merda, questo lo doveva ammettere. Anche il suo guardaroba aveva preso a cambiare, ma di quello a loro non gliene fregava più di tanto.  
Poi con il tempo Jimin era riuscito ad aprirsi. Prima con Seokjin, poi aveva incluso man mano anche tutti gli altri. 
Meno lui si prendeva sul serio, meno i suoi amici si preoccupavano. D'altronde sembrava così sicuro di sé, così spensierato, non poteva esserci davvero niente di male. Era tornato l'amico gentile e disponibile a cui loro volevano bene, era sempre pronto a farsi due risate o aiutarli con i loro problemi. 
Nonostante la cosa a volte gli avesse fatto rabbia, Jimin aveva accettato quando alcuni di loro non erano riusciti subito ad adattarsi completamente al suo nuovo stile di vita. A metà dell'anno scolastico, circa tre mesi dopo, l'unico ad essere ancora restio era Yoongi. 
Era allora che era accaduto l'Episodio. 
Il gruppo si era trovato a casa di Taehyung per una cenetta tranquilla a base di pizza al metro e patatine bruciacchiate. Era stata la loro tipica serata perfetta, con tutti mezzi stravaccati su qualsiasi superficie libera del salotto, i vestiti comodi e tanto cibo da mangiare. Senza dimenticare che avevano avuto casa libera.
Era girata anche qualche lattina di birra, ma niente con cui potessero sbronzarsi. Li aveva solo fatti parlare di più e pensare di meno. 
Ma Jimin  non aveva creduto di parlare un po' troppo quando aveva raccontato loro in tutta tranquillità che, alla fine, con il suo ex ci era andato a letto. Ecco, forse avrebbe potuto evitare di descrivere meglio la cosa specificando che andare a letto non era l'espressione esatta. Diciamo che Jimin si era fatto fare un servizietto di bocca nei bagni della scuola, per poi mettersi al cellulare quando gli parve che l'altro non stesse facendo un granché. 
Jimin l'aveva chiamata vendetta, un sorriso sghembo sulle sue labbra piene. 
Yoongi l'aveva chiamata stronzata
Il moro si era alzato di colpo, facendo zuccare Taehyung che aveva appoggiato il capo sulla sua gamba. Sotto lo sguardo già affranto degli altri era sparito nella stanza affianco per recuperare la sua giacca e aveva infilato la porta d'ingresso con i talloni fuori dalle scarpe, sbattendola. 
Tutti poi si erano guardati tra di loro, i loro sorrisi che sembravano aver preso l'uscio con l'amico che se ne era appena andato. 
Il primo a rompere il silenzio era stato Taehyung, la mano che si massaggiava la testa. Era sbottato con un incredulo: "Hai fatto sesso con lui? Dopo quello che Yoongi ha fatto per te?" 
Al che Jimin, i sensi di colpa che lo tenevano sulla difensiva, aveva risposto: "Perché, cosa avrebbe fatto per me? A malapena mi parla."
"Secondo te come se lo è procurato quello spacco al labbro con cui è andato in giro per delle settimane? Cadendo di faccia?
I restanti tre amici si erano voltati tutti verso Taehyung, come a intimargli qualcosa. Avevano taciuto quando Jimin, più confuso che mai, aveva preteso spiegazioni. Namjoon e Seokjin si erano scambiati uno sguardo d'intesa prima che quest'ultimo annuisse. 
Così lo avevano riportato indietro nel tempo, a una serata molto simile a quella, quando lo stesso Jimin aveva detto loro il motivo per cui Chase lo aveva lasciato. Poi avevano scorso il calendario un po' più avanti e gli avevano raccontato di come Yoongi era andato a prendersela con il suddetto ragazzo senza valutare l'evidente differenza di stazza. 
Jimin ricordava ancora l'isteria che per poco non lo aveva preso. Si era messo a ridere senza sentimento, incredulo.
"Lui mi odia." 
"E' innamorato di te." 
Lo aveva detto Jungkook, con un mormorio appena udibile e lo sguardo perso nel vuoto. "E da un bel po', anche." 
Per Jimin era stato come se glielo avesse urlato in faccia. 
Questo era stato l'Episodio. 
Da lì in poi era stato tutto un riconoscere segnali a cui non aveva mai fatto caso. A ripensarci attualmente, Jimin si dava dello stupido per non aver mai preso in considerazione quell'opzione. 
Rivedeva i rari sorrisi che Yoongi gli rivolgeva, vedeva le sue occhiate piene di astio. Rivedeva tutte quelle volte in cui si era riempito un bicchiere d'acqua e poi l'aveva versata anche a Jimin senza chiedere niente. Rivedeva tutto quello che aveva già visto centinaia di volte, ogni gesto un remake di un altro. 
Yoongi non aveva mai avuto occhi che per lui e Jimin era stato così stupido da non accorgersene prima. 
Ne pagava le conseguenze ora, seduto a terra per il corridoio, pronto a darsela a gambe ad ogni spostamento inaspettato dell'altro. 
Tanto alla fine se ne dovette andare comunque prima, perché il nome di Jungkook apparve sulla schermata del suo cellulare.

(25) November 3rd, 2015 - Tuesday

Quando Namjoon spezzò malamente una delle sue bacchette di legno Seokjin rise. Avendo già previsto la cosa frugò nella busta di plastica che si era portato con sé, dandogliene un secondo paio. 
I due ragazzi erano seduti sulla gradinata di una piccola fontana non in funzione situata in un parchetto, gli alberi e i cespugli tutt'intorno a loro spogli e ramosi. Nonostante fossero appena le due del pomeriggio, la fascia oraria che si supponga sia la più calda, la gente se ne stava rintanata in casa o in qualche locale, lasciando le strade vuote. 
Al secondo tentativo Namjoon separò le bacchette una dall'altra con successo e poté finalmente iniziare a mangiare. 
Quando, una decina di minuti prima, aveva visto Seokjin aspettarlo fuori dall'edificio dove aveva passato la sua mattinata, armato di quello che presumeva fosse cibo, si era dovuto dare un contegno per non gettarsi a terra ed abbracciargli le ginocchia.
Il suo ragazzo era semplicemente il migliore. Namjoon aveva ricevuto valanghe di messaggi di incoraggiamento da parte sua, nonostante sapesse bene che a Seokjin non andasse a genio l'idea che saltasse la scuola per presentarsi a un colloquio di lavoro.
Inoltre doveva essersi firmato un permesso per uscire prima. Se così non fosse non avrebbe mai fatto in tempo a presentarsi in quella zona di Seul con tanto di pranzo già comprato.  
Per quante volte l'avessero fatto, Namjoon non si sarebbe mai stancato di mangiare ramen d'asporto con lui. Sapeva benissimo che Seokjin avrebbe anche potuto permettersi di frequentare spesso ristoranti o locali un attimo al di sopra delle classiche catene alimentari, ma lui neanche li nominava. Pensava sempre prima a Namjoon.
Il ragazzo dai capelli rosacei si ficcò in bocca un bel po' di noodles e prese a masticare rumorosamente. "Com'è andata?" 
Namjoon avrebbe voluto poter rispondere con un: domanda di riserva?
Ora che era tutto finito sentiva il peso dello stanchezza piombargli addosso. Dopo essere uscito di casa aveva preso i mezzi pubblici e aveva raggiunto a piedi lo stabile dove l'indirizzo scritto sul giornale diceva tenersi i colloqui. Si era seduto nella sala d'aspetto insieme ad altre decine di giovani che sembravano tutti più in gamba di lui, più grandi di lui, più di bella presenza di lui per quelle che erano state ore di noia e tensione. Aveva avuto tutto il tempo di pensare al fatto che la giacca del padre gli stesse un po' troppo piccola di spalle, che non si fosse portato niente per ingannare l'attesa e che non avesse cibo. 
"Non saprei." disse, sincero. "Credo bene. Ma non sarebbe la prima volta che mi sembra così e poi non mi richiamano."
L'espressione allegra di Seokjin si rattristì. 
Era vero. Namjoon cercava un lavoro part-time da una vita ormai. Si era dovuto  limitare a dare ripetizioni a quanti più studenti potesse fino a quando non aveva raggiunto la maggiore età e con essa la fine del tempo dei giochi. Doveva iniziare a fare sù un po' di soldi e al più presto. 
I suoi genitori non ne facevano parola, ma Namjoon sapeva benissimo che non potevano permettersi l'università alla quale lui puntava. Sapeva anche che suo padre già progettava di farsi gli straordinari durante quegli ultimi due anni di scuola del figlio. I sensi di colpa lo schiacciavano.  
Namjoon avrebbe studiato sodo e sarebbe uscito dalle superiori con una borsa di studio, parziale o totale. Avrebbe cercato di coprire tutte le spese possibili con i suoi guadagni, lasciando ai genitori solo quello che rimaneva da pagare. 
Peccato che quei guadagni ancora scarseggiassero, e di parecchio. 
Se ci fosse stato un modo di preservare tutti i sospiri che Namjoon aveva emesso al pensiero di quello che gli pareva un vicolo cieco, avrebbe potuto camparci un anno sott'acqua. 
Alla fine i sospiri erano tutto quel che gli rimaneva. Non gli piaceva parlare della faccenda con il gruppo; odiava vedere tutti quei visini rattristarsi per lui. L'unico che rendeva partecipe era il suo ragazzo, per ovvie ragioni. 
E forse aveva fatto male pure lì. 
"Nam," lo chiamò Seokjin, quel tono dolce a cui il più giovane avrebbe fatto le fusa. "La mia offerta è sempre valida." 
"Non prenderò i tuoi soldi, Jin." 
Namjoon mise da parte la sua porzione di ramen ormai agli sgoccioli e tuffò una mano nella tasca della giacca, sfilando l'orecchino che si era tolto per l'occasione. Lo porse a Seokjin che appoggiò a sua volta il ramen sul gradino della fontana. 
"Non sarebbero un regalo. Me li potrai sempre restituire dopo gli studi, quando avrai un lavoro stabile. Se ti fa stare meglio lo facciamo pure mettere nero su bianco."
Namjoon si allungò verso il suo ragazzo con il busto, girando il capo in modo da facilitargli la cosa. 
"Jin. Non. Voglio. I tuoi. Soldi." scandì, ma senza alcuna traccia di astio. Era solo molto annoiato con sé stesso. 
Seokjin gli chiuse l'orecchino intorno al lobo e gli rifilò un buffetto dove si sarebbe dovuta trovare una fossetta. 
"Allora ti lascio." disse, il tono di voce pratico. "Così poi posso assumerti come gigolò personale e sarai costretto ad accettare i miei assegni." 
Quella fossetta comparve sulla guancia di Namjoon quando quest'ultimo sorrise. Guardò il suo ragazzo, divertito e pieno d'affetto. "Come in Pretty Woman?" 
Seokjin rise a sua volta. 
"Nam. Sii la Vivian del mio Edward." 
Il ragazzo dai capelli verdognoli spostò di mezzo le loro confezioni di ramen e scorse sul gradino per poter sedere vicino a l'altro, passando un braccio dietro la sua schiena. Seokjin completò il tutto abbracciandolo mollemente, la sua testa appoggiata su quella di Namjoon. 
"Ci riuscirai." disse Seokjin. "Per te c'è ancora tempo."
A sentire l'inflessione categorica della sua voce, Namjoon si strinse di più a lui. Strofinò la fronte contro quei capelli rosati, l'odore familiare dello shampoo che gli riempiva le narici. 
Se Seokjin sapeva a cosa stava pensando Namjoon, anche Namjoon sapeva a cosa stava pensando Seokjin.
"Ce ne è anche per te." 

(26) November 3rd, 2015 - Tuesday
 
Un cellulare iniziò a squillare, distraendo Yoongi. 
La musichetta proveniente da fuori dall'aula di musica venne subito zittita, ma non abbastanza in fretta. Yoongi ne aveva già riconosciuto la suoneria.
Stupido Park Jimin. 
Le sue dita si piantarono sui tasti del pianoforte, stonando. Una serie concitata di passi si allontanarono dal corridoio. 
E fu così che tutta la tensione di cui Yoongi si era liberato nell'ultimo quarto d'ora si riaccumulò nel giro di un secondo. Grazie a Jimin, ovviamente. 
Prima che la sua mente potesse mettersi a fare domande o supposizioni, Yoongi si diede un freno. Non valeva la pena di perdere tempo a rimuginare su queste cose. Non ne era valsa la pena per quattro anni, di sicuro non avrebbe iniziato al quinto. 
Il ragazzo provò a rimettersi sugli spartiti, a riconcentrarsi, ma per quante storie si raccontasse non c'era niente da fare. Quel primo istinto di spalancare la porta dell'aula di musica e correre dietro a Jimin era ancora lì. 
Alla fine Yoongi ci diede a mucchio, dicendosi che, se per rilassarsi non funzionava il metodo spirituale, sarebbe passato a quello meccanico. 

Taehyung era impegnatissimo con un qualche gioco del Nintendo DS quando Yoongi uscì dalla porta che dava sul retro della scuola.
"Che ci fai qui?" chiese curioso il biondo. Sollevò appena gli occhi dallo schermo, abbarbicato sui gradini della scala anti-incendio. 
"Pausa dal pianoforte. Tu?" 
"Aspetto mio cugino." 
Fu a quella frase che Yoongi si accorse della solitudine del ragazzo. I suoi occhi scorsero velocemente la zona, non trovando altro che muri ricoperte di scritte, cicche di sigarette e cartacce. L'unica macchia di colore era il giacchetto dell'altro, di una fantasia astratta che poteva stare bene solo ed esclusivamente a lui.
"Jungkook?" chiese automaticamente. 
Taehyung corrucciò la bocca, le dita che premevano freneticamente su qualche pulsantino della console. Dal sorrisetto che fece subito dopo, Yoongi dedusse che aveva centrato il suo obbiettivo virtuale in pieno. 
"E' rimasto al club di scherma. Oggi non aveva voglia di saltarlo." 
"Non sapevo neanche faceste parte del club di scherma." 
"Appunto." fece Taehyung. 
Yoongi mantenne la sua aria impassibile, ma avrebbe volentieri inarcato le sopracciglia. 
Sempre il moro si appoggiò con i gomiti al corrimano delle scale su cui era seduto l'amico, sfilando una sigaretta dalla tasca interna del piumino a vento che indossava. Se la mise fra le labbra e ne bruciò l'estremo, l'accendino che per tutta la durata di quella conversazione era rimasto stretto nel suo pugno. 
Gli occhioni di Taehyung si alzarono verso di lui, abbandonando di punto in bianco il suo videogioco. 
Yoongi fece un primo tiro, poi proseguì. 
"Posso chiederti cosa hai detto a Jungkook che avreste fatto se avesse saltato il club?" 
Il biondo rispose mantenendo un'espressione candida, ignorando del tutto l'inusualità di tanto interesse su certe cose da parte di Yoongi. "Niente di che, a dirla tutta. Che avremmo passato il pomeriggio in giro lui, io e Hoseok." 
Un secondo, lungo tiro. Yoongi soffiò il fumo fuori dalla bocca, osservandolo con sguardo vacuo arrotolarsi nell'aria e disperdersi. 
Quasi poteva vedere Jungkook, seduto in disparte mentre aspettava il suo turno per tirare di scherma, una maschera rigida che copriva il suo viso triste. Essere la terza ruota del carro non aveva mai divertito nessuno. 
Taehyung parlò una seconda volta, senza aspettare una risposta che potesse controbattere la sua affermazione precedente. Dopo aver salvato la partita aveva chiuso il DS, guardando fisso la sigaretta che Yoongi stringeva tanto elegantemente tra le dita. 
Il biondo si leccò le labbra, come fossero secche. 
"Posso provare?" 
Yoongi inalò male il fumo. Iniziò a tossicchiare, puntando l'occhiata più severa che poté contro l'altro che aveva parlato tanto innocentemente. 
"Cosa? No, ovvio che no!" 
"Eddai, mica te la consumo tutta. Un tiro solo. Piccolo piccolo."
"Non se ne parla. Scordatelo." tagliò corto Yoongi. 
Il moro si guardò intorno, come se volesse controllare che nessuno nei paraggi avesse sentito la richiesta del biondo. Ci mancava solo che lo accusassero di portare sulla cattiva strada gli altri studenti. 
E poi con tutte le persone che poteva corrompere di certo non sarebbe andato da Taehyung. Quello era meglio lasciarlo nel mondo dei balocchi finché ci stava. 
Taehyung mise il broncio. Ogni volta che lo faceva i suoi occhi scuri parevano farsi dieci volte più grandi. Puntò lo sguardo davanti a sé, e ci mancava poco che gonfiasse le guance e incrociasse le braccia. 
Lasciò passare qualche istante in cui la sconfitta gli bruciò, poi parlò, per ripicca. "Jimin non sopporta il fumo." 
"Sai quanto me ne frega." 
"Beh, effettivamente non te ne dovrebbe fregare. A volte mi chiedo se sei stupido o se sei semplicemente cieco. Non vedi proprio come lo ferisci, eh?" 
Yoongi sbottò, ridendo dalla rabbia. 
"Oh, non venire tu da me a darmi del cieco verso i sentimenti degli altri, Kim Taehyung." 
Il broncio di quest'ultimo si distese, l'espressione gli si fece bianca. 
"Perché, che ho fatto?" chiese, genuinamente confuso. 
Yoongi non aveva più voglia di starsene lì. Neanche il metodo meccanico gli era concesso.
"Niente, ovviamente." 
Si staccò dal corrimano della scala anti-incendio e gettò la sigaretta a terra, ancora fumante e appena iniziata. 
"Buon divertimento con quella." disse, salutando così Taehyung che rimase pietrificato al suo posto anche quando l'altro rientrò a scuola, sbattendosi il portone dietro. 
Il biondo rimase a guardare la sigaretta buttare fuori rivoli di fumo bianco fino a quando non si spense, sentendosi tanto piccolo. 

(27) November 3rd, 2015 - Tuesday

"Tu non l'hai raccolta, giusto?"
Un sospiro, il rumore di carta stropicciata.
"No, alla fine no."
"Certo che anche tu, a chiedergli di provare. La zia ti falcerebbe a mani nude. Oppure userebbe queste." 
Taehyung rise quando vide tra le mani del cugino un paio di pinzette per sopracciglia nuove di pacca. Dopo averle mosse a mo' di tenaglie, Hoseok ne lasciò cadere la confezione all'interno delle buste della spesa, come se non le avesse mai viste. Passò a Taehyung una serie di confezioni di legumi che l'altro ripose nell'apposito sportello. 
I due cugini se ne stavano in cucina da qualche minuto, intenti a mettere via la spesa che le rispettive madri avevano fatto poco prima. Erano passati a prendere Taehyung a scuola direttamente dopo essere state per il secondo giorno di seguito al centro commerciale, comprando così tanta roba da sfamare un esercito. La loro unica scusa per tutto quello shopping compulsivo era stata che, con due membri della famiglia aggiunti temporaneamente a tavola, non sapevano più come regolarsi con il cibo. 
Non che i due se ne lamentassero. Soprattutto quando da una delle quattro buste piazzate sul pavimento della cucina iniziarono a farsi trovare patatine e salatini. 
Hoseok trovava tutto così bello. 
Non faceva che pensare a quell'aggettivo da quando era arrivato a Seul. Bello
Ancora non riusciva a capacitarsi di essersi trasferito, di non essere solamente in visita alla capitale. Eppure era lì, in una casa disordinata e umile, e non c'era niente che potesse desiderare di più. 
Ora che ne era uscito gli sembravano così lontani quei pomeriggi passati in solitudine in camera sua, chino sui libri, nell'attesa che sua madre lo chiamasse per una cena durante la quale la conversazione sarebbe stata a senso unico. In quel silenzio opprimente anche solo deglutire a volte gli era sembrato fuori luogo. 
Invece adesso erano lì, tra delle mura prive di ricordi tristi. Hoseok guardava la cucina in cui si trovava e ne vedeva i colori tenui, le piastrelle lucide, i ripiani spaziosi. Nessun fantasma del passato. Nessun bicchiere chiazzato di vino nel lavandino. 
Era semplicemente una bella cucina.
Per non parlare del fatto che fosse divisa solo in parte dal salotto da un muretto. Hoseok avrebbe potuto studiare in cucina mentre qualcuno leggeva sul divano e non sarebbe mai stato davvero solo. Bello
C'era qualcosa di bello nel rispondere a tutte le volte che Eunjin gli chiedeva quanto tempo mancasse prima che il padre tornasse a casa da lavoro la sera. 
Ma l'apice della felicità per Hoseok erano i pasti. Non solo perché adorava mangiare, ma perché erano in così tanti ad essere seduti a tavola che dovevano usare le posate con i gomiti alzati. Era sempre un macello, tra bicchieri che si rovesciavano, piagnistei contro le verdure, discorsi sul maschilismo in politica, guerre e piselli che rotolavano a terra, il tutto sempre con la solita discussione di contorno tra chi voleva vedere il telegiornale e chi Big Bang Theory. 
Era bello, bello sentirsi parte di una famiglia.
Hoseok quasi sperava che l'appartamento che aspettava lui e sua madre fosse misteriosamente venduto a qualcun’altro. Ma, finché quel momento non sarebbe arrivato, anche mettere via la spesa con suo cugino era bello.
Ignaro dei pensieri felici dell'altro, Taehyung sporse il labbro inferiore in un piccolo broncio, deciso a non ammettere le sue colpe. 
Si appoggiò con la schiena al lavandino, il bordo bagnato che gli macchiò la camicia colorata. Lui non s'accorse di niente, avendo sotto maglietta e canottiera a interferire.
"Ero solo curioso. Yoongi non fuma quasi mai in nostra presenza" disse, incompreso. "E poi a me piace sperimentare." 
Una risata tirò l'angolo della bocca di Hoseok. Evitò di guardare direttamente l'altro, chinandosi a sistemare una serie di conserve nei cassetti più in basso. 
"Ah, quello lo so." 
Le sue premure non servirono a niente, perché Taehyung era già sull'attenti. Se avesse avuto un paio di orecchie da cane gli si sarebbero rizzate verso l'alto, gli occhi vispi. Beh, se fosse stato un cane la sua coda avrebbe preso a scodinzolare così tanto che avrebbe buttato giù metà delle scatolette di tonno ancora sul davanzale.
"A proposito..." iniziò. 
Il modo in cui la voce di Taehyung si era fatta tutta d'un tratto carezzevole fece venire a Hoseok voglia di colpirlo con la scatola dei cereali. Così, per autodifesa.
"...dovremmo parlarne." concluse al posto dell'altro, a sua volta lascivo. 
In tutta risposta, Taehyung fletté le sopracciglia un paio di volte, un sorriso sornione sul viso pulito. Il rosso fece scontrare giocosamente i loro fianchi.
"Allora, l'estate scorsa?" 
La serietà della messa in scena del biondo venne spezzata immediatamente dal modo in cui entrambi inorridirono. Hoseok si coprì le orecchie, mentre Taehyung si piegò direttamente in due; scuoteva le mani verso l'altro, la voce di un ottava più alta ed un'espressione a metà tra lo schifato e il divertito. "Nonono, bleah. Sono andato troppo in là, resetta tutto. Chiedo perdono." 
Reazioni a parte, quella battuta non sarebbe mai invecchiata tra di loro. Dovremmo parlarne
C'era una storia piuttosto divertente dietro, una storia che avrebbero fatto  entrambi meglio a portarsi nella tomba per la sanità mentale dei loro cari.
Taehyung rise sonoramente quando vide il cugino fingere di scrollarsi di dosso l'ennesimo brivido, la bocca a forma di cuore corrucciata verso il naso. 
Lo spintonò per una spalla, protestando. "Dai, non sono così male."
Riprendendo a mettere via la spesa, Hoseok fece un versetto di sufficienza, come se l'altro l'avesse sparata grossa. 
La bocca di Taehyung si aprì in un'espressione esageratamente offesa.
Non ricevendo alcun tipo di reazione, gli rubò di mano l'ennesima confezione a cui l'altro stava cercando un posto. 
Hoseok si chinò a prendere la farina e Taehyung lo privò pure di quella, facendo scivolare il sacchetto per il piano di marmo. Velocissimo, Hoseok afferrò una scatola di thé e la buttò dentro la credenza, chiudendoci dietro lo sportello con un po' troppa forza. 
Presto i due si ritrovarono a ridere e a fare un gran macello per la cucina. 
In un modo o nell'altro, la cosa si era trasformata in una competizione a chi riusciva a mettere via più cose, il cui risultato consisteva solo in un bel po' di disordine per le credenze e un rumore di buste incessante. Persino Jeonggyu si lamentò del baccano, ed il bambino era seduto sul divano del salotto a giocare con la console. 
Hoseok e Taehyung continuarono a sfilarsi gli articoli freschi di supermercato l'uno dalle grinfie dell'altro, sordi e ciechi a tutto il resto. 
Sarà stato infantile e stupido, ma era così che loro si erano sempre passati il tempo. Non a mettere via la spesa, intendiamoci, ma a giocare letteralmente. Fin da piccoli erano sempre stati compagni di giochi e la cosa con il tempo non era cambiata. 
Il rapporto tra i due cugini era la combinazione perfetta di amicizia e sangue: erano sicuri del fatto che, se si fossero conosciuti per caso senza sapere che le loro madri erano sorelle, sarebbero comunque diventati amici. In questo caso, quel loro essere parenti aveva solo velocizzato il processo. 
Essendo stati cresciuti insieme si erano schivati quella normale fase di diffidenza pre-amicizia in cui, quando ancora ci si sta studiando a vicenda, nessuno è mai pienamente sé stesso. 
Invece loro si erano semplicemente ritrovati a dover giocare insieme quando, prima che la madre di Taehyung si trasferisse a Seul con figlio e marito, ogni fine settimana la famiglia al completo si incontrava a casa dei loro nonni. 
Essendo entrambi due bambini più agitati della norma, sempre dietro a saltare, correre o rompere qualcosa, in quelle occasioni gli adulti li avevano sempre mandati all'aria aperta, in cortile. Hoseok e Taehyung eseguivano gli ordini e giocavano tra di loro fino ad esaurirsi. 
Di norma, quelle giornate finivano con i genitori che si bevevano un'ultima tazza di thé prima di levare le tende e i due bambini addormentati da qualche parte per la casa dei nonni materni. 
Poi, per via di cose, quella tradizione settimanale si dovette ridurre alle sole festività. 
Taehyung e Hoseok erano arrivati all'adolescenza separatamente, sviluppando caratteri simili ma diversi. Ogni volta che si organizzava un qualche pranzo speciale erano entrambi sulle spine, non sapendo quale alieno potesse essergli presentato al posto del cugino. Ed ogni volta bastavano due chiacchiere, una risata, e si rivelava essere tutto così semplice. Non avevano le ansie o paranoie del dover stringere amicizia; erano già legati dalla famiglia di principio, non dovevano conquistarsi a vicenda. 
Taehyung ricordava di aver pensato una volta che Hoseok fosse un po' come il suo cartone preferito dell'infanzia: per quanto fossero passati gli anni, per quanto i gusti fossero cambiati, per quanto la grafica dei disegni potesse svilupparsi secondo uno stile molto più vicino al suo attuale, Hoseok rimaneva un classico, unico ed inimitabile. 
E anche se stavano sotto lo stesso tetto da ormai due giorni, giocare a quel modo fu come dirsi ciao per la prima volta da quando si erano ritrovati.
I due cugini andarono avanti così per più del necessario, divertendosi come bambini. In tutto quel passarsi cose e rubarsi altre, il loro chiacchiericcio era allegro e spensierato in una vita che per nessuno dei due era né allegra né spensierata negli ultimi tempi. 
Tutto quel vociare giunse a capolinea quando rimase una sola confezione di pane da tostare all'interno dell'ultima busta. Rendendosene conto, Hoseok ci si tuffò, volendo per forza vincere quella sfida mai lanciata a voce.
L'aveva già quasi sollevata oltre la spalla quando Taehyung gli afferrò stretto il polso a mezz'aria, immobilizzandolo. Al rosso sfuggì di mano la confezione che cadde a terra con un tonfo leggero. 
Gli occhi dei due ragazzi si incrociarono solo per un attimo prima che Taehyung mollasse la presa. 
Chinandosi a raccoglierlo, il biondo sistemò il sacchetto dentro la dispensa, canticchiando una qualche marcia vittoriosa. Sapendo di aver giocato sporco, lanciò un'occhiata al cugino per provocarlo, ma Hoseok teneva il capo basso.
Taehyung rise. Pensava fosse il modo in cui l'altro stesse accettando la sconfitta, ma non sapeva quanto fosse fuoristrada. 
Andando ad appoggiarsi con una mano al bancone della cucina, Hoseok tentava di nascondere i suoi occhi gialli. 
Ovviamente non poteva sapere del cambio cromatico, ma, come la prima volta che gli era successo, aveva la sensazione di aver le pupille dilatate. Come se fossero più grandi, più presenti, una lente a contatto particolarmente spessa. 
Solo le sue orecchie avevano prestato attenzione a Taehyung, cogliendone il motivetto; i restanti quattro sensi si erano espansi al massimo della ricettività.
Il tatto di Hoseok percepiva ancora quella mano attorno al suo polso. Le sue vene appena in rilievo si sentivano ancora schiacciate da quella presa di ferro, un dito premuto nella giuntura tra polso e palmo. Dita gelide erano serrate come una gabbia attorno ad un punto così sensibile alla temperatura. 
Davanti agli occhi di Hoseok passò una prima diapositiva, quell'inafferrabile respiro corto che Taehyung aveva rilasciato quando era scattato. Il modo in cui gli si era abbassato il petto quando aveva espirato l'aria, il modo in cui gli si era rigonfiato quando aveva posato gli occhi sui suoi, scuri come due tazze di caffé.
Inevitabilmente, i pensieri di Hoseok finirono su dovremmo parlarne. La maledizione della mela non poté che sfregarsi la pancia, pronta al ricco banchetto che l'aspettava.
In un batter d'occhio, la mente del ragazzo venne cacciata indietro di quattro mesi. 
Non era un'esperienza simile a quella avuta il giorno precedente, ancora inspiegabile; quella gli aveva dato l'impressione di essere davvero nella sua vecchia casa, davvero nella sua vecchia vita. Era stato come vivere un incubo di persona, smettere di esistere nella propria realtà per teletrasportarsi momentaneamente in un'altra dimensione. 
Questa nuova sensazione appioppata al retro del suo cranio era diversa. Hoseok non era interamente lì, nella cucina di casa Kim, ma non c'era neanche parzialmente. 
Poteva percepire l'atmosfera intorno a sé, il riscaldamento dell'appartamento, la voce del cugino, ma non vedeva niente. Era come se la sua testa fosse diventata una mini sala proiezioni. 
Non ci fu bisogno di grandi titoli d'apertura ad annunciare il film; era già fin troppo popolare tra i pensieri di Hoseok.
La maledizione della mela doveva aver restaurato una vecchia pellicola di ricordi, affogati nell'inconscio del ragazzo da una bottiglia di birra scadente. 
Tutto quello che contornava quell'episodio in particolare, Hoseok se lo ricordava bene. Apparteneva a quella stessa estate, quando lui, Taehyung e le rispettive famiglie erano andati al mare insieme, come ogni anno. 
I due avevano fatto amicizia con un gruppetto di coetanei del posto; non erano esattamente il tipo di persone che avrebbero frequentato di solito, troppo superficiali e competitivi, ma per quella settimana di vacanza era stato divertente passare del tempo con loro. 
Quella sera in particolare Hoseok e Taehyung avevano accettato il loro invito di unirsi a loro dopo cena per far baldoria. Forse era stata per via di quella strana legge per cui quando stai con delle persone tendi a far tue delle caratteristiche, ma i due erano andati oltre il tasso di alcol che si erano prefissati (dopotutto i genitori li avrebbero sicuramente aspettati alzati in hotel), facendosi venire l'allegria. 
Ecco, questo era tutto quello che Hoseok sapeva di ricordare con la propria testa. Quelle che gli si stavano srotolando davanti agli occhi, invece, erano cose che gli erano solo state raccontate il mattino successivo da quegli stessi ragazzi. 
Tutto era striato di rosso e di nero, il rosso di quel falò improvvisato sulla spiaggia e il nero della notte. La memoria di Hoseok andava a scatti, suoni e immagini che non coincidevano, ma lui riconobbe comunque le facce degli altri.  
Ad Hoseok tornò alla mente il tintinnio di quell'ultima birra, passata di persona in persona fino a quando non venne svuotata completamente. Poi la vide roteare veloce sulla pancia di vetro, troppo veloce per essere reale.  
Un coretto di ovazioni si alzò: era stato Taehyung a farla girare ed il collo della bottiglia puntava proprio Hoseok. 
L'espressione interdetta dell'altro. Ma è mio cugino!
Le risposte erano voci senza corpo.
Le regole sono regole, ha scelto la bottiglia. Almeno cinque secondi.
Gli occhi di Taehyung che si chiudevano, le palpebre strette strette. 
Il rumore delle onde sulla riva.
Le braccia troppo scoperte.
L'aria freschina della sera e la bocca di Taehyung sulla sua, bollente in confronto.
I cinque secondi passarono, divennero nove.  
Mmh. Una vibrazione appena percettibile di quella voce profonda.
Il senso di alienamento quando si separarono. Occhi su occhi, sguardo su sguardo, dovremmo parlarne. 
La battuta che gli era stata riferita sempre il giorno dopo. Peccato che la ragazza non si ricordasse che a dirla era stato Taehyung. 
Le risa di tutti, le risa di loro due. Il gioco che continuava, la bottiglia che girava
Gli occhi di Hoseok tornarono a vedere. Le buste della spesa erano ancora ai suoi piedi, vuote, pronte ad essere ripiegate e messe via.  
Taehyung ancora cantava, come se non fosse trascorso un nanosecondo. 
Hoseok aveva bisogno di un bicchier d'acqua.
Tre mesi e duecentosettantasei pasti dopo, poteva giurare di avere ancora sulla lingua il sapore del cugino.

(28) November 3rd, 2015 - Tuesday

Si erano fatte le otto di sera quando l'auto di Seokjin parcheggiò di fronte alla casa di Namjoon. 
Dato che quella mattina non aveva potuto prevedere a che orario si fosse svolto il suo colloquio, quest'ultimo aveva già avvisato i suoi genitori che sarebbe tornato per cena con la scusa di dover partecipare ad alcune attività pomeridiane a scuola. Non aveva nemmeno dovuto chiedere a Seokjin di passare tutto quel tempo fuori casa con lui; l'altro si era limitato a trascinarlo in giro per tutta Seul a fare commissioni. 
Una volta che il motore dell'auto si fermò i fanali si spensero, facendo soccombere nuovamente tutto il viale sotto il peso del buio. Con già la mano di Namjoon sulla maniglia dello sportello del passeggero, i due ragazzi si sporsero uno verso l'altro in simbiosi, un bacio a stampo da scambiarsi come saluto pronto sulle labbra.
 Il padre di Namjoon scelse proprio quel momento per bussare al finestrino. Il suo viso era riconoscibile attraverso i vetri offuscati solo dalla sagoma scura di quei baffoni. I due giovani saltarono sui sedili, più spaventati che imbarazzati. 
Con le fossette del suo sorriso tagliate di netto dalla luce del lampione che picchiava contro la cappotta dell'auto, Namjoon pizzicò comunque le labbra piene di Seokjin con le sue prima di aprire la portiera. La richiuse subito dietro di sé, ma l'altro ne abbassò il finestrino. Ci teneva a salutare come si deve il padre del suo ragazzo. 
Abbassandosi con il capo per poter incontrare lo sguardo dell'uomo attraverso l'apertura, Seokjin sorrise, le mani ancora sul volante e il berretto scuro che gli premeva i capelli contro gli occhi. "Buona sera."
Anche l'uomo si era chinato in avanti con la schiena, il naso che faceva capolino all'interno del veicolo. Un grosso sciarpone spuntava dal colletto della sua giacca, bardandogli il collo. La copia originale del sorriso di Namjoon gli venne restituita. 
"Come va, ragazzo? E' da un po' che non ci vediamo."  
"Tutto bene, grazie. Lei?" 
Decidendo che le chiacchiere di cortesia erano superflue, l'uomo andò dritto al punto. Batté insieme le mani avvolte nei guanti senza produrre alcun rumore. 
"Avete già cenato?" 
Namjoon rispose prima che potesse farlo l'altro. "No." 
Suo padre tornò ad aprire la portiera dell'auto, autoritario. "A tavola." 
Seokjin iniziò subito a far segno di no con la testa, le sopracciglia flette in un'espressione dispiaciuta. "No, non c'è bisogno. Non voglio essere di disturbo, e poi sua moglie avrà già preparato la cena, non posso presentarmi così." 
"Ma figurati, un piatto in più lo troviamo. Dai, scendi." 
Con un'ultima pacca alla tettoia dell'auto, il padre di Namjoon si ritirò, privando l'altro della possibilità di ribattere. Sospirando, Seokjin sfilò le chiavi dal cruscotto. 

Una differenza sostanziale d'atmosfera aleggiava per la casa quando Seokjin li veniva a trovare. Il ragazzo era una miscela di educazione, bella presenza e battute dai gusti arretrati. Il modo in cui sembrava sempre avere la parola grazie sulla punta della lingua per ogni sciocchezza lo aveva reso il benvenuto in famiglia fin dagli antipodi di quella relazione. Per farla breve, i genitori di Namjoon lo trovavano adorabile. 
Il ragazzo aveva quel non so che. Era così buono che faceva venir voglia a chi lo circondava di ingentilirsi a sua volta. Con lui attorno il padre di Namjoon tendeva sempre a sedere con le spalle più dritte, come a voler affermare il suo ruolo di capobranco, ma non con arroganza. Più come avrebbe fatto Papà Orso. Sua moglie diventava tutto un cinguettare di ricette e cose che aveva visto per televisione; tendeva a sorridere per tutto il tempo, aggiustandosi ogni volta i capelli dietro le orecchie. E c'era davvero bisogno di parlare di Namjoon? 
Namjoon era semplicemente al settimo cielo, o qualche piano più su. Avere il suo ragazzo tra le mura familiari della sua casa, al calduccio, intento come tutti loro a rovesciare crostini di pane all'interno della passata di zucca, era quanto più potesse desiderare. C'era qualcosa nel condividerlo con i suoi genitori che lo rendeva euforico. 
Seokjin era il premio che la vita aveva deciso di concedergli e Namjoon ne andava fiero. 
Ogni volta che i quattro si erano trovati nella stessa stanza durante tutti quegli anni, il ragazzo dai capelli verdognoli poteva dire con certezza che i suoi non smettevano mai di analizzare con discrezione il loro rapporto. Volevano assicurarsi che Seokjin fosse giusto, in un qualche modo. 
Come in quel momento: le scartoffie di quella mattina erano state relegate chissà dove, la cucina profumava di cibo. Un crostino di Namjoon cadde sulla tovaglia per poi rotolare alla sua destra. Battendolo sul tempo, Seokjin lo raccolse e se lo pappò senza esitazioni, guadagnandosi un'occhiata risentita che non durò a lungo. Namjoon rubò a sua volta un crostino dal piatto di Seokjin, pareggiando i conti. Poi Seokjin gliene offrì un secondo. 
Il sorrisetto che si scambiarono era sfuggevole, ma così intrinseco di complicità che gli angoli della bocca della madre di Namjoon si alzarono da soli. Eppure la donna non aveva alzato gli occhi dal proprio piatto nemmeno una volta.
L'unica nota dolente della serata arrivò verso la fine del pasto, quando gli argomenti di circostanza iniziarono a scarseggiare.
Era partita dal padre di Namjoon che stava portando in tavola un po' di frutta secca. "Allora, la foto di classe?" 
Lo sguardo di Seokjin andò automaticamente sul suo ragazzo, non sapendone niente. Namjoon prese tempo, soffiando diligentemente sul suo ultimo boccone di zucca.  Fece come per masticare, nonostante si trattasse di passata. 
"Tutto bene, suppongo. Sai com'è, non l'abbiamo ancora vista." 
L'uomo si limitò ad annuire, tornando ad accomodarsi. 
Portandosi una mandorla alla bocca, Seokjin mantenne lo sguardo basso per timore che i suoi occhi rivelassero un segreto che non gli apparteneva. 

 (29) November 3rd, 2015 - Tuesday

Come Jimin mise piede sull'asfalto, una decina di teste si voltarono verso la sua direzione. 
L'autobus della linea notturna fermava direttamente sullo spiazzo su cui dava l'ingresso dell'Anathema, dove la gente si accalcava per entrare, con o senza biglietto. Nonostante il veicolo fosse munito di riscaldamento per grazia divina, Jimin si ritrovò a rabbrividire mentre attraversava a piedi la carreggiata, tutti quegli sguardi addosso a lui e ai suoi vestiti; si impose di tenere il mento alto e camminare dritto, come se tutto quel darsi di gomito di certi ragazzi gli fosse indifferente. 
E davvero, a Jimin piaceva essere desiderato. Gli piaceva sapere che il suo nome corrispondeva a una figura ben precisa e non ha un vago ragazzo di quarta superiore, ma a volte desiderava solo che tra quei tanti occhi ce ne fossero un paio senza pregiudizi, completamente vuoti, pronti a essere inscritti con informazioni non precedentemente elaborate da altri. 
Jimin raggiunse l'altra sponda della strada, trovandosi faccia a faccia con quei ragazzi, quelle ragazze, studenti, lavoratori, disoccupati illuminati da quelle luci a led che davano a tutti un'aria malaticcia. 
Il tutto durò meno di un battito di ciglia: la vista di Jimin si appannò, il fiato gli si mozzò in gola, una distesa di mani brulicarono sul suo corpo. 
Non si rese conto di star lentamente scivolando verso il basso fino a quando qualcuno circondò il suo collo con un braccio, facendolo sbalzare via da quello stato di trance. 
I muscoli gli si sarebbero sciolti dal sollievo quando vide chi stava al suo fianco. Mormorando un saluto, Jimin si strinse a Jungkook, tuffando il viso sulla sua spalla. 

Quando Jungkook uscì dal bagno adiacente alla propria camera, maglietta bianca extra-large e pantaloni del pigiama indosso, Jimin era già stravaccato sulla sua brandina. La luce bianca del cellulare gli si rifletteva sul viso, stonando in tutto quel giallo soffuso che emanava la abat jour.
Nella noia dell'attesa, il ragazzo dai capelli argentei era tornato alle prese con quella strana app anomala di qualche giorno prima. Dire che tra una cosa e l'altra se ne era completamente dimenticato era un eufemismo. 
Jimin cliccò il simbolo della mela, facendo comparire la stessa schermata dell'altra volta. Quando finì di processare, dopo un'eternità e mezzo, non successe niente. Non gli venne proposto di comprare alcun gioco, non si ritrovò del porno scadente. Semplicemente la mela si fece più grande e si spostò verso la parte alta dello schermo, lasciando spazio per una piccola scritta. 
DL, ci lesse. A seguire, una sfilza di numeri.
Jimin ci diede a mucchio vedendo l'amico uscire dal bagno.
Jungkook avrebbe pensato che sarebbe stato strano ritrovarsi l'altro lì, di fianco al suo letto, su una brandina, pronto a passare la nottata a casa sua dopo essere usciti a divertirsi, come se fossero due amichette delle scuole medie. Invece c'era qualcosa di familiare nel vedere Jimin con i capelli morbidi e puliti sulla fronte, alcune ciocche umide tralasciate dal phon. Il pigiama che Jungkook gli aveva dato era evidentemente troppo grande per la sua statura. Non era lui a indossare il pigiama, era il pigiama a indossare lui. Lo scollo a "v" formato dal colletto gli lasciava scoperta mezza clavicola, mentre la stoffa liscia, interrotta solamente da quella fila di bottoni centrali, neanche gli sfiorava i fianchi. Ci navigava dentro. 
La serata era proceduta secondo i piani: i due erano entrati all'Anathema senza fare la fila, approfittando dell'entrata riservata allo staff a cui Jimin aveva pieno accesso. Avevano ballato come pazzi per un'oretta, senza mai concedersi una pausa. Il ragazzo dai capelli argentei aveva messo da parte il suo repertorio di passi provocanti per andarci giù pesante di tecnica e stile, seguendo l'indole del castano. Si erano divertiti così tanto che si erano resi conto di non aver bevuto un goccio d'alcool solo quando erano usciti. 
Si erano poi fatti venire a prendere dalla madre di Jungkook molto presto. Erano già d'accordo dalla telefonata di quel pomeriggio sul fatto che Jimin avrebbe passato la notte a casa Jeon, per poi andare insieme a scuola l'indomani. 
Tra il viaggio di ritorno ed i turni per le docce si erano fatte le tre di notte. I due si muovevano per la camera sulle punte dei piedi, la luminosità delle abat-jour tenuta al minimo e le frasi sussurrate. 
Dopo essersi assicurato per l'ultima volta che tutto fosse a posto, Jungkook poté infilarsi sotto le coperte del proprio letto. Si voltò verso Jimin alla sua destra, la brandina posta più in basso del suo materasso. 
Quest'ultimo piegò le sue labbra in un sorriso quando vide spuntare quel viso dai tratti ancora infantili, l'aria da coniglietto che non gli si sarebbe mai scollata di dosso. Per un suo istinto, il braccio si liberò dal dolce peso delle coperte e si allungò verso l'alto, premendo con leggerezza la punta dell'indice contro il naso di Jungkook. 
A quel gesto il più piccolo roteò gli occhi, ma Jimin sapeva che, per quanto si atteggiasse da uomo, in realtà gli piaceva che i suoi amici gli riservassero quelle piccole attenzioni.
Poi Jimin sospirò, sfinito. Davanti a lui si prospettava la notte di sonno più ristoratore degli ultimi trecentosessantacinque giorni, ma non era ancora arrivato il momento di dormire. 
"E' successo qualcosa, Kookie?" 
Le parole fecero subito effetto su Jungkook, la cui espressione rilassata scemò. Guardò Jimin con occhi troppo grandi per essere sinceri, le labbra separate, pensieroso. 
Incapace di restare bello comodo si mise sui gomiti, il busto sollevato. Le sue parole suonarono esitanti. "Cosa te lo fa pensare?" 
Rimanendo sdraiato, Jimin si strinse nelle spalle. "Non so. Sembravi strano al telefono." 
Jungkook rimase in silenzio, soppesando frasi che ancora non avevano lasciato la sua bocca. 
"Sai," riprese Jimin. "Il mio primo pensiero è stato: perché sta chiedendo di uscire a me e non a Taehyung? E con questo non sto dicendo che non mi abbia fatto piacere, anzi." 
Ancora nessuna risposta. 
"E poi... scherma? Da quando fai scherma?"
Lo sguardo vacuo di Jungkook prese un minimo di colore all'osservazione buffa dell'amico. 
Stava facendo il codardo. Aveva disturbato Jimin per una ragione ben precisa e ora si stava penosamente aggrappando agli specchi. 
Jungkook prese un bel respiro e... nascose il capo sotto le coperte. 
Jimin dovette trattenersi per non lasciarsi scappare un'ovazione intenerita, ridacchiando. Si alzò dalla branda e fece il giro del letto di Jungkook a piedi nudi, il bordo del pigiama sotto i talloni e trucioli di gomma sul pavimento che gli si attaccavano alla pianta del piede. Il materasso si piegò sotto il suo peso quando si sedette nello spiazzo che il suo amico non occupava. 
Poggiò una mano dove intuì esserci la spalla di Jungkook, dandogli qualche pacca affettuosa per rassicurarlo. Poi gli strattonò via la coperta, scoprendogli il viso.
"Che hai?" chiese una seconda volta.
La vergogna e il disagio cucivano insieme le labbra di Jungkook. Le sue guance erano arrossate, il segno del cuscino che si era stampato su una di loro. 
Rimasero così per una manciata di secondi. Jimin in attesa e Jungkook silente, le sue dita che attorcigliavano distrattamente le lenzuola e la postura della sua schiena molle contro il materasso. 
Sotto quello spesso strato di imbarazzo, negli occhi dell'altro Jimin poteva dire esserci qualcosa di più cupo. 
Ci volle un altro minuto di incitamenti prima che Jungkook si decidesse a parlare. 
"Ricordi, vero, quando ho detto al gruppo che per adesso non voglio relazioni amorose?" 
La smorfia buffa con cui Jimin reagì gli fece scappare una risatina nervosa. Probabilmente non era questo l'argomento di cui si aspettava di sentire. 
"Certo," disse. "il tuo fantomatico voto all'assessualità." 
Jungkook lo colpì con leggerezza all'avambraccio. La tensione gli ribolliva sottopelle.
Si stavano riferendo a un episodio accaduto a maggio. Era una delle loro ultime uscite prima che la scuola finisse e tutti partissero per le vacanze. 
Jungkook aveva detto di essere intenzionato a riprovare per la seconda volta a far parte dello scambio culturale organizzato dalla scuola. Aveva reso partecipe il gruppo di alcuni suoi pensieri per la prima volta, circa il fatto che, nel caso fosse stato preso, tra studi, fuso orario, nuove conoscenze e lezioni, non avrebbe avuto senso iniziare un'ipotetica storia. Se l'avesse avuta in Corea avrebbe dovuto metterla in pausa al momento della partenza, se l'avesse avuta all'estero l'avrebbe poi stroncata alla scadenza del soggiorno. 
Quindi, in pratica, se tutto fosse andato secondo i suoi piani, Jungkook non avrebbe potuto avere una relazione seria per il terzo e il quarto anno scolastico. E di sicuro lui e il suo essere impacciato con gli sconosciuti non avevano una gran voglia di storielle senza importanza. Ovviamente se fosse capitato non avrebbe potuto farci niente, ma lui non se le andava a cercare di sua iniziativa. Già Jungkook non sapeva come avrebbe fatto a stare così tanto tempo senza i suoi amici e la sua famiglia, figurarsi se avesse aggiunto sofferenze e drammi ulteriori.
Al tempo ci avevano tutti riso sopra. Jimin ricordava di come aveva finto di mettersi a piangere insieme a Seokjin, che quella sera aveva bevuto un bicchierino di troppo. Tra le lacrime, il ragazzo più grande aveva detto a Jungkook che riusciva a rinunciare alle passioni della carne solo perché non aveva mai avuto modo di sperimentarle. Il che, a rifletterci, era vero. Era più facile rinunciare a qualcosa che non si aveva mai provato. 
"Ecco, io- io continuo a pensarla allo stesso modo, ma-" Jungkook deglutì, prese tempo. "Ultimamente penso che potrei esplodere se continuo così."
Jimin avrebbe fatto partire gli applausi. Annuì per non interromperlo, un grande sorriso comprensivo sul volto. 
Che sollievo sapere che anche il suo amico, così bravo e talentuoso in qualsiasi campo, aveva un punto debole. 
"Io, davvero, non voglio una storia d'amore." ribadì Jungkook. 
Ci mancava poco che si mettesse a gesticolare pur di spiegarsi nel modo giusto. Era così frustato da essere tenero. Jimin capì che era arrivato il momento di dargli una spintarella in avanti. 
"Mi stai dicendo che vorresti degli amici con benefici? Una botta e via?" 
All'espressione con benefici Jungkook ripescò il lembo della coperta e se lo buttò sulla faccia, deciso a non mollarlo mai più e ad addormentarsi seduta stante. 
Jimin rise ancora, ma non lo forzò a parlare. Come aveva previsto, dopo poco gli occhi irrequieti dell'altro fecero capolino da tutta quella stoffa di loro spontanea volontà.
"Non mi piace l'idea di andare spudoratamente a cercare uno sconosciuto con quell'unico fine." ammise Jungkook, la voce camuffata. 
Jimin si sistemò meglio sul materasso, rimanendo seduto. L'abat jour lo illuminava da dietro e addolciva la sua figura, la testa inclinata di lato. 
"E quindi cosa hai intenzione di fare?" 
Jungkook si decise ad incontrare una volta per tutte gli occhi scuri di Jimin. Abbassò anche la coperta sotto il mento, in modo che l'altro potesse vederlo chiaramente in faccia. Come per provargli che era serio.
Le parole che teneva sulla lingua avevano un potere distruttivo. Jungkook prese un bel respiro e le pronunciò.
"Mi fido di te più di tanti altri."
Jimin rimase di sasso. 
Era da un bel po' che aveva tirato una spessa linea immaginaria, un limite, un confine, una barriera invalicabile tra i suoi veri amici e tutto il resto. Tra loro e l'Anathema, Daront, le scopate, le bevute. 
Come ci era finito Jungkook dall'altra parte del filo spinato? Come poteva trovarsi improvvisamente da ambo le parti?
La sorpresa di Jimin assomigliava tremendamente a quella sensazione di disorientamento che si prova quando si incontra per caso un proprio conoscente in un altro stato. 
Ovviamente Jungkook fraintese la sua reazione. 
Si sollevò a sedere, spingendosi all'indietro fino a quando la sua schiena non toccò la testata del letto, ampliando le distanze. Quando parlò, la sua espressione era mortificata. 
"Oddio, scusa. Scusa. Io... Non pensare che non ti rispetti. Io ti rispetto molto, Jimin. Dio, mi dispiace, non avrei dovuto-" 
"Non scusarti." lo interruppe l'altro, l'espressione ancora illeggibile. "Anche io preferisco saperti con me che con altri."
La prima reazione spontanea di Jimin era stata quella di rispondere con un categorico rifiuto. Poi ovviamente ci aveva pensato su, perché Jungkook non era certo uno che faceva le cose alla leggera. Conoscendolo, se gli aveva implicitamente proposto una relazione esclusivamente sessuale doveva aver valutato la cosa in tutte le sue sfaccettature. Non era una cosa nata così, dal nulla. Jimin sarebbe stato un pessimo amico a non prendere nemmeno la cosa in considerazione. 
Dio, chissà da quanto tempo era che gli baluginava in testa un'idea simile. Jimin non poté fare a meno di ripensare a tutte quelle volte in cui le loro labbra si erano sfiorate, tra un buongiorno e l'altro. 
"Non so cosa dirti, Kookie. Non lo so davvero." 
Jungkook parlò tenendo lo sguardo basso. "Non sei costretto a farlo. Ti posso solo giurare che la nostra amicizia non ne soffrirà, che tu accetti o meno. Non cambierà. Me lo hai detto tu che alla fine si tratta solo di corpi in movimento, no?"
"Dovresti prendere in considerazione anche l'idea di far l'avvocato, sai? Qualcosa mi dice che te la caveresti." 
I due ragazzi sbuffarono una risata, approfittandone per spazzare via quella tensione che si era depositata tra di loro.
Non c'era niente di male, si disse Jimin. Lui non era stato giudicato dai suoi amici quando aveva intrapreso quello stile di vita, per cui non aveva il diritto di impedire a Jungkook di fare lo stesso. Non poteva negare a qualcuno quello che aveva scelto per sé stesso, sarebbe stato da ipocriti. 
Eppure Jimin gli voleva così bene. Come poteva lasciare che finisse per ridursi a chiedere a uno come lui? Jungkook era un ragazzo d'oro, bello e intelligente. Jimin si riteneva quel che era. 
Intuendo il suo conflitto interiore, una mano di Jungkook si poggiò al suo ginocchio. Jimin percepì subito l'immensa differenza tra il  tocco del castano e quello lascivo e pieno d'aspettative dei ragazzi con cui era solito stare. 
Era confortante, solido. Non sembrava covare desiderio, ma bisogno. Quando parlò di nuovo anche la sua voce era stabile e sicura di sé. 
"Jimin." chiamò Jungkook, facendo in modo che quel paio di occhi grandi si focalizzassero sui propri. "Lo sai che non mi innamorerò di te. Potremo smettere quando vogliamo, non ti darò rogne." 
Jimin si prese un ultimo istante per pensare. Strinse tra le mani l'eccesso di stoffa delle maniche del pigiama, stropicciandolo. 
Jungkook era in difficoltà e gli aveva chiesto un favore. Un favore che a lui non sarebbe costato nulla. 
Semplice, pratico. 
Se c'era un motivo per cui negarglielo, Jimin non lo vedeva più.
"Sopra o sotto?" mormorò. 
Un sorrisetto stupito ravvivò il viso serio di Jungkook, la sua voce salì di un'ottava. 
"Cosa?"
Le mani di Jimin corsero ai bottoni della propria maglia del pigiama. Li allentò uno per uno, alzando il viso verso l'amico.  
"Vuoi essere attivo o passivo?" 
Jungkook fece una faccia strana. Bastò quello affinché Jimin recuperasse sorriso e aurea spensierata. 
"Che c'è? Come pensi che si faccia tra due maschi, scusa?"
L'altro si lasciò andare a un risolino nervoso e si grattò la nuca, le punte delle orecchie avvampate. "Suppongo attivo." 
Jimin lasciò scivolare giù dalle spalle la maglia, mollandola sulla brandina rimasta vuota di fianco al letto. La pelle di Jimin era tesa sullo stomaco ora esposto, ma sembrava più una reazione automatica al freddo.
Ovviamente tutti i ragazzi del gruppo avevano avuto più e più occasioni di vedersi svestiti, tra vacanze al mare, cambi d'abito in spogliatoio e giornate d'estate particolarmente calde, ma qualcosa nella semi-nudità di Jimin crebbe una sensazione buffa in Jungkook. Forse era il fatto che questa volta si supponeva che lui allungasse le mani, che tracciasse percorsi tra nei e macchie.
Non l'avrebbe definito desiderio o istinto. Più che altro Jungkook iniziò a capire cosa intendesse Jimin quando diceva di fare tutto in nome del divertimento. Quel divertimento non sapeva di superficialità, di menefreghismo. Sapeva di spensieratezza, di libertà autoconcessa. 
Realizzando queste cose, Jungkook non batté ciglio quando Jimin gli disse di fargli spazio sul letto. Il ragazzo dai capelli argento sollevò un poco le coperte e ci si stese di schiena, tornando a coprirsi. Il cuscino era così morbido sotto il suo capo. Aveva lo stesso odore dolciastro che impregnava ogni centimetro di casa Jeon.
Jungkook ancora sedeva con la schiena appoggiata alla testata del letto, per cui Jimin gli fece segno di scendere al suo fianco. I due si ritrovarono spalla contro spalla, uno che guardava l'altro e l'altro che guardava il soffitto della propria camera. 
"E ora?" chiese Jungkook. 
Jimin alzò gli occhi al cielo, ma gli fece piacere sentire come la voce di Jungkook si fosse sciolta un po', facendosi più casuale.
"Hai bisogno del libretto delle istruzioni o dopo il primo imput ti applichi?" 
Il materasso sotto di loro oscillò leggermente quando il ragazzo più piccolo ridacchiò. 
Capendo di dover prendere le redini della situazione, essendo il più grande e il più esperto tra i due, con un ultimo sospiro Jimin si scrollò di dosso il sonno e si voltò con tutto il suo corpo verso Jungkook, sovrastandolo in parte. Con una mano poggiata cautamente al suo petto, sporse il mento in avanti, il viso dell'altro a meno di una decina di centimetri. 
"Non devo ricordarti che dall'altra parte di questo muro ci sono i tuoi genitori per cui non ti conviene fare troppo rumore, vero?" 
Jungkook annuì.
Jimin lo baciò.

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Capitolo 6
*** AWAKE ***


Questo è probabilmente uno dei miei capitoli preferiti. Dategli (e datemi) tanto amore con recensioni o commenti, anche su twitter @silbysilby 
Spero vi piaccia. Ehe. 


I want to dream a little more
But still
It is time to leave
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AWAKE

(30) November 4rd, 2015 - Wednesday

Come la professoressa gli aveva anticipato, quel giorno la classe di Seokjin aveva ospiti. 
Si trattava di tre studenti delle medie, un ragazzo e due ragazze, venuti a fare orientamento alla sua scuola superiore. Gli avevano offerto la possibilità di assistere a una delle lezioni, ma a quanto pare non gli era andata molto bene; li aspettava una lunga e impestata ora di scienze che li avrebbe solo motivati a non scegliere quell'indirizzo. Già quel programma era spaventoso per quelli che frequentavano l'ultimo anno, figurarsi per dei marmocchi. 
Appena arrivati, i tre avevano chinato il capo in segno di rispetto prima all'insegnante, poi al resto della classe. Si vedeva dal sorriso falso di cui la professoressa faceva bella mostra che quest'ultima era parecchio su di giri; la loro scuola non era certo riservata ai maschi, ma la popolazione femminile scarseggiava. Solo recentemente il numero di ragazze era aumentato, ma le classi più datate, come quella di Seokjin, ne erano del tutto privi. Quindi era comprensibile che la donna volesse dare il meglio di sé per accaparrarsi due studentesse in più. 
Peccato che i suoi sforzi per essere accogliente non sembravano dare i frutti sperati. I tre erano uno più timido dell'altro e avevano tutta l'aria di volersi andare a rintanare da qualche parte.
La classe non poté evitare che un minimo di brusio serpeggiasse per i banchi. Tutti erano stupiti di quanto, in confronto a loro, sembrassero davvero dei bambini. Era buffo, perché nessuno alla loro età si era mai considerato tale. 
I nuovi arrivati vennero fatti accomodare in fondo all'aula, costretti a stare con la sedia contro il muro per l'assenza di banchi e spazio. Terminata la curiosità iniziale, la lezione proseguì come sempre, tra una spiegazione e l'altra. 
L'unico che faceva fatica a seguire era Seokjin. Essendo seduto nell'ultima fila, non aveva potuto fare a meno di notare che una delle due ragazze non aveva una bella cera. Sembrava non riuscire a trovare una posizione che la soddisfacesse, appariva scomoda nei suoi stessi vestiti. Continuava ad accavallare le gambe, a rimetterle giù, ad incrociare le braccia, a grattarsi la nuca. Seokjin non poteva dirsi un esperto in materia, ma era truccata pesantemente, come chi non ha ancora fatto abbastanza esperienza. Mentre gli altri due studenti parevano essersi rilassati (o meglio: parevano aver capito che non c'era niente per cui preoccuparsi e tanto da annoiarsi), questa era un fascio di nervi. Le sue tempie si facevano sempre più lucide di sudore, le guance più rosse.  
Andò avanti così per metà lezione, fino a quando la ragazza non si decise ad alzare la mano per farsi notare dalla professoressa. 
"Mi scusi," disse, con voce flebile. "posso andare in bagno?" 
La donna tornò subito a voltarsi verso la lavagna, una risposta automatica. "Certo, cara."
La ragazza si mise in piedi, camminando per il mini-corridoio che portava alla cattedra. Si stringeva le mani tra di loro, incapace di stare buona. Diede a Seokjin l'impressione di aver appena ingoiato un rospo quando deglutì.
"Mi scusi," ripeté. "Non so dove si trovi..." 
La professoressa si voltò verso di lei, finalmente abbassando il gesso e dandole la sua attenzione; doveva essere rimasta un po' interdetta per non averci pensato prima. Da dietro le lenti i suoi occhi iniziarono a girovagare per la classe, passando in rassegna uno per uno i suoi studenti. ll suo sguardo si posò su una chioma rosacea e ci rimase. 
"Seokjin, la puoi accompagnare tu?" 
Risvegliato dalla sua bolla di pensieri, Seokjin annuì con il capo. Si alzò dal suo banco e si infilò il maglione che aveva appoggiato allo schienale, raggiungendo subito dopo la ragazza per guidarla fuori dalla classe. 
I bagni delle ragazze erano un po' distanti da dove si trovavano, per cui Seokjin previde un lungo silenzio imbarazzante. Gli sarebbe piaciuto fare qualche domanda di circostanza, chiedere da che scuola venisse, che studi pensava di perseguire, ma la ragazza teneva lo sguardo puntato a terra, ancora più imbarazzata di prima. Certo, doveva essere strano farsi accompagnare al bagno da un ragazzo. Non poteva sapere che la professoressa aveva scelto lui perché senza ombra di dubbio sapeva della sua relazione con Namjoon. Doveva aver pensato che essendo omosessuale non avrebbe dato rogne ad una ragazza, come se tutti gli etero del mondo fossero degli esseri indecenti. 
Seokjin si chiese se non fosse anche la sua presenza fisica a metterla a disagio. Lui era alto, oggettivamente di bell'aspetto, eccentrico con quei capelli. Magari se si fosse trovata come accompagnatore uno basso, brutto e anonimo sarebbe stato meglio. 
Per il corridoio vuoto si sentiva solo il rumore dei loro passi, un sottofondo ripetitivo al brusio di voci che provenivano dalle aule a cui passavano d'avanti. Quando furono a metà strada si aggiunse all'orchestra anche il respiro pesante della ragazza. 
E poi, l'inizio di un intermezzo. La ragazza singhiozzò. 
Seokjin ignorò la cosa all'inizio, non sapendo esattamente a cosa fosse dovuto. Sarebbe stato rude da parte sua fissarla per vedere cosa le prendesse, se avesse bisogno di qualcuno che le facesse paura o di un fazzoletto. 
Poi gliene scapparono altri due, consecutivi, e Seokjin si sentì in dovere di intervenire. Si voltò verso di lei, trattenendosi dal frenarla per un braccio nel caso il gesto venisse mal interpretato. Gli occhi di lei erano due pozze d'acqua macchiate di nero. 
"Tutto a posto?" 
"Sì, sì, non è niente." 
Non sembrava niente. Non dal modo in cui aveva parlato, con la gola tutta stretta attorno alle sue parole. 
Seokjin era indeciso se insistere o lasciar perdere, se essere gentile o educato, ma lei non gliene diede occasione. Non appena intravide i bagni delle femmine corse verso quella direzione, lasciandolo solo. 
Quando ne uscì un minuto dopo il trucco era sbavato, gli orli della felpa bagnati, il viso umido. Come se si fosse lavata la faccia o come se avesse pianto. 
Tornò da Seokjin tutta mesta. Probabilmente aveva sperato che il ragazzo se ne fosse tornato in classe. 
"Scusa, io... Scusa." 
Seokjin piegò gli angoli della bocca carnosa verso il basso, la stessa espressione seria che metteva su quelle rare volte in cui Taehyung e Jungkook litigavano per una sciocchezza e nessuno dei due voleva fare la prima mossa per riconciliarsi. 
"Sicura che vada tutto bene?" 
"Sì, certo." Lei prese a giocherellare con i capelli sciolti sulle spalle, lo sguardo sempre a raso terra. 
I due avevano preso a camminare a rilento verso la direzione da cui erano venuti. Questa volta Seokjin non mollò l'osso. "Non dobbiamo tornare in aula subito se non te la senti." 
"Non ti preoccupare. E' una stupidaggine, davvero." 
"Io non la definirei così. Sembrava che tu stessi per avere un attacco di panico, prima." 
Un sorriso agrodolce spuntò sulle labbra di lei. I suoi occhi da panda si innalzarono fino ad incontrare quelli di Seokjin. Improvvisamente i suoi lineamenti si fecero più infantili. 
"Si vedeva tanto?" 
Lui annuì, dispiaciuto. 
La ragazza si asciugò la punta del naso con il dorso della mano, continuando a camminare. "Scusa, è stato un momento di debolezza. Hai presente quando sai da tempo che deve succedere una determinata cosa ma vieni comunque colpito da quei momenti di realizzazione?" 
Già felice che si stesse aprendo, Seokjin cercò di non forzare troppo la mano. 
"Cosa hai realizzato? Che scienze è proprio una brutta materia?" 
Lei sorrise un po' di più, ricalcando dei segnacci rossi che aveva sulle guance con la manica della felpa. Lui seppe di essersi guadagnato un'unghia della sua fiducia ed era più che abbastanza. 
"Questo è proprio il mio ultimo anno di scuole medie. Devo lasciare i miei amici, scegliere cosa fare in futuro."
Un verso di gola le uscì, un pianto isterico mozzato da una risata ancora più isterica. 
"Non sono pronta. Ho passato l'ultimo anno ai litigare con i miei per tutto, per i trucchi, per il cellulare, per il coprifuoco, dicendo tanto di essere grande abbastanza ormai, da potermela cavare senza che loro mi stiano con il fiato sul collo, ma la realtà è che sono un'incapace, non so fare niente.  Non sono stata neanche in grado di prendere i mezzi pubblici per venire qua, ho dovuto chiedere all'ultimo minuto un passaggio ai miei nonni. E poi mi dicono tutti di non seguire i miei amici, ma il punto è che nessun indirizzo mi piace davvero e tutto il programma di orientamento fa schifo. Mi sento con l'acqua alla gola, non so più dove andare a sbattere la testa. Non sono pronta per le superiori." 
La ragazza prese fiato dopo il suo sproloquio. Tornando nel suo bozzolo, concluse con un: "Questo tipo di cose stupide." 
Seokjin corrugò le sopracciglia.
"Se le ritieni stupide mi offendo." 
Stranita, la ragazza tornò a guardarlo negli occhi. 
"Sai," disse lui. "sono all'ultimo anno anche io." 
Un piccolo oh uscì dalla bocca dell'altra. 
Il sorriso del bel ragazzo sapeva di fragole, resa e tanta paura.
 
(31) November 4rd, 2015 - Wednesday

Non era la prima volta che Jimin andava all'Anathema in quel periodo della giornata, ma non aveva mai avuto occasione di entrare nell'ufficio di Daront. 
Illuminato a giorno, l'atmosfera nella stanza non cambiava un granché; sembrava solo più squallida. I raggi del sole erano filtrati da un paio di grossi fogli marroncini, probabilmente carta da pacco, appiccicati ai vetri dell'unica finestra. Così in controluce, una miriade di granelli di polvere erano visibili, dispersi nell'aria. 
Erano le quattro di mercoledì pomeriggio e Jimin non si sarebbe dovuto trovare lì.
Di solito andava all'Anathema per provare con le altre ragazze durante i fine settimana, o al massimo il venerdì. Quando all'uscita di scuola aveva ricevuto quel messaggio dal numero privato di Daront aveva pensato che fosse stato chiamato all'appello l'intero staff per una qualche riunione speciale. Ci era rimasto quando, invece, il segretario dell'uomo gli aveva detto di andare ad aspettare direttamente in ufficio. 
Jimin se ne era rimasto da solo nello stanzino per un'eternità, indeciso se rimanere in piedi o accomodarsi. L'idea di mettersi a curiosare tra i cassetti per far passare il tempo lo aveva sfiorato, ma non avrebbe mai voluto farsi beccare in una situazione del genere senza una buona motivazione. L'unica cosa che si era permesso di fare era stata socchiudere le ante della finestra. Tutto in quell'ufficio, dalle poltroncine in pelle alle tende, era impregnato dall'odore di fumo.
La maniglia della porta venne abbassata in modo brusco, spaventando Jimin che si diede dello stupido. Era lui ad essere in territorio altrui, non poteva certo aspettarsi che bussassero.
Appena entrato nel suo ufficio Daront gettò sulla scrivania le chiavi dell'auto e il cellulare, un'azione evidentemente di routine. Un sorriso spuntò su quella sua faccia mal rasata quando vide Jimin in piedi contro la finestra, come se non si aspettasse di trovarlo lì. 
L'uomo indossava quei completi formali anche in pieno giorno, notò Jimin. Solo senza la cravatta e con un paio di bottoni della camicia slacciati. 
A quanto pare non era l'unico a stare analizzando i capi vestiari dell'altro. Jimin si sentì più sicuro di sé, consapevole che per una volta Daront non avrebbe potuto apprezzare niente al di fuori del suo viso; indossava un paio di jeans di due taglie più grandi rispetto a quelli con cui era solito farsi vedere all'Anathema e si era inglobato in un maglione lungo e peloso. Nessuno scorcio di pelle, nessuna trasparenza. 
Ma quello che Jimin non aveva ancora capito era che poteva anche vestirsi come un barbone o indossare un abitino per donne incinte. Certe cose non importavano quando era la persona dentro ai vestiti a piacere.
Forse lo intuì dallo sguardo mellifluo di Daront quando gli sorrise. 
"Sembri così giovane." 
Jimin per poco non si aggrappò alle ante della finestra con le unghie. Si sarebbe andato a nascondere dentro l'armadio se avesse potuto. 
"Lo sono." 
La cosa fece ridacchiare Daront, provocandogli una serie di suoni rauchi. Gli fece segno di sedersi dall'altra parte della scrivania, prendendo posto lui stesso. 
Jimin si odiò per l'aria intimidita che era sicuro di avere addosso, come un profumo che non gli si addicesse. D'altra parte non voleva neanche fare lo spavaldo. In quelle occasioni i sorrisi di Daront tendevano a raddoppiare in numero e ampiezza. 
Il ragazzo si sedette su una delle due poltroncine, composto. 
L'uomo provò a offrirgli qualcosa, un caffè, un té freddo dal mini-frigo, qualcosa da mangiare che il suo segretario potesse procurargli, ma niente. Jimin rimase in silenzio, limitandosi a rispondere a monosillabi o a scuotere la testa.
Non capiva perché Daront non iniziasse a parlare. Conosceva il suo modo di fare da uomo d'affari, non si sarebbe mai messo a bighellonare in quel modo. Lui era un tipo pratico e conciso. 
Il ticchettio dell'orologio attaccato alla parete lo stava snervando. Jimin osservò l'uomo dare un'occhiata al cellulare, per poi riporlo di lato. Sembrava star aspettando qualcosa. 
"Allora," sospirò Daront, spingendosi contro lo schienale. "ho una nuova proposta per te."
Jimin aspettò che continuasse. 
"Sei mai stato ad una delle serate infrasettimanali che organizzo qui, all'Anathema?" 
Le dita del ragazzo maltrattavano un lembo di ecopelle scollato sotto la sua seduta, tirandone le squamette.
"Si, un paio di volte."
"Posso chiederti quali?" 
"Erano spettacoli di burlesque. Ci sono andato per vedere Denise, ha presente?"
Daront annuì, pensando a una delle tante ragazze Immagine. Continuò a parlare con tono casuale, come se si stessero facendo una chiacchierata. 
"Ti sono piaciuti? E' stato divertente?" 
"Si." rispose Jimin, sincero. "Il pubblico andava matto per certi numeri." 
Un sorriso compiaciuto modellò la bocca di Daront. Prese a giocherellare con la fede nuziale, sfilandola dal dito.
"Io invece non ho potuto fare a meno di notare che a quegli eventi non ho visto una sola donna tra il pubblico. Neanche una. L'ho trovato un po' ingiusto." 
Pausa studiata. 
"Per cui mi sono detto, perché non aggiungere un'altra serata sullo stesso genere ma con degli uomini sul palco? Magari a cadenza mensile, per iniziare, o una ogni due settimane." 
Jimin si mosse sulla sedia, a disagio. Cominciava a intuire dove la cosa andasse a parare. 
Gli occhi azzurri dell'uomo si erano accesi. 
"Non immaginartelo proprio come quelli di burlesque che hai visto tu. Togli tutti quei costumi e quegli oggetti di scena. Non penso che alle donne o, sai, agli omosessuali, importi molto di tutti quella cianfrusaglia." Daront tossicchiò, camuffando una risatina. "Uno spogliarello classico, semplice." 
La mano di Daront atterrò la fede nuziale con il palmo, appiattendola sulla superficie della scrivania con un rumore metallico.
L'uomo incontrò lo sguardo di Jimin, l'espressione immutata per tutta la durata del suo discorso. Attentò l'ennesimo sorrisetto dopo aver ricontrollato il cellulare, sporgendosi sulla scrivania con i gomiti.
"Mi chiedevo se tu non volessi partecipare al progetto."
Automaticamente, a Jimin si serrò la mandibola.
"Gli spogliarelli sono vietati ai minori." disse senza alcuna inflessione nella voce. 
"Che io sappia solo per i minori fra il pubblico." ribatté Daront. "E poi tu compierai gli anni a breve, no? Potremmo benissimo farla franca fino ad allora."
I capelli argentei del ragazzo si mossero con lui quando scosse la testa, impuntandosi. "Non credo faccia per me." 
La barba di Daront era mal rasata, gli ingrigiva la faccia.
"Andiamo, Jimin, non essere timido. Non è nulla che tu non abbia già fatto." 
"Mi scusi?" 
"Devo aggiungere che la paga è buona?"
"Sono soddisfatto con quella che mi da già, grazie."
Alla risposta repentina, una punta di delusione si affacciò nell'espressione di Daront. Poi l'uomo lanciò al ragazzo quello che poteva essere descritto come un sorriso magnanimo. 
"Si tratta solo di ballare in intimo per un pubblico più adulto, Jimin. Per non menzionare il fatto che devo effettuare dei tagli sul personale, per cui potrebbe essere la tua unica possibilità per continuare a lavorare all'Anathema. Ma posso capire; a quanto pare la tua mentalità non è tanto aperta quanto fai credere." 
Questa a Jimin bruciò. Sarà stato infantile, ma bruciò.
Se c'era una cosa di cui potesse andare fiero era il modo in cui credeva di riuscire a capire il mondo senza pregiudizi, senza barriere di perbenismo. Solo per quell'ultima frase, il suo rifiuto categorico tentennò.
Era un ricatto bello e buono. Daront stava mentendo di certo. Non lo avrebbe licenziato per nessun motivo al mondo.  
Ma valeva la pena di rischiare?
Jimin sbuffò, combattuto. 
"La risposta è urgente o posso farle sapere più avanti?”
Marcia della vittoria per Patrick Daront, signore e signori. 
Daront sorrise e con lui tutte le pieghe profonde o meno del suo viso.
"Facciamo che è meglio se la prossima volta che ci vediamo hai una risposta."
Jimin mormorò un okay. Già prevedeva il tormento dei prossimi giorni con il tarlo di quella proposta in testa.
Il ragazzo si alzò dalla poltroncina senza tante cerimonie e si diresse verso la porta. Ancora una volta, era incredibile come Daront riuscisse a farlo arrabbiare con sé stesso. 
Nello stesso momento in cui sentì un aspetta alle sue spalle, la maniglia a cui stava per aggrapparsi si abbassò da sola. 
Un uomo alto entrò nella stanza, ad occhio e croce un trentenne. 
Quest'ultimo abbassò subito lo sguardo azzurro su di lui, e Jimin riconobbe uno dei tre sconosciuti che aveva incontrato la sera di Halloween in compagnia del suo capo lungo i corridoi dell'edificio. 
"Finalmente sei qui," borbottò Daront. Strascicò le gambe della poltroncina quando si alzò. "Non sapevo più che inventarmi per trattenerlo. Fa quello che devi fare, io vado a prendermi un caffè." 
Jimin si voltò di scatto all'indietro, poi ancora verso il nuovo arrivato, le pupille fuori dalle orbite. "Che vuol dire? Cosa significa tutto questo?" 
Preso il cappotto dall'appendiabiti, Daront batté una pacca sulla spalla dell'altro uomo. Rifilò a Jimin uno sguardo divertito quando prese l'uscio, chiudendosi la porta dietro di sé. 
La chiave scattò nella serratura. 
Jimin si tuffò sulla maniglia, strattonandola verso il basso con tutta la forza che aveva, a vuoto. 
Quando l'uomo parlò ne sentì la voce leggera, spensierata. Intanto lui si era lasciato cadere sulla poltrona di Patrick, sfilandosi dalla testa il berretto a righe. "Tranquillo, non c'è niente di cui preoccuparsi. Mio fratello è sempre stato un po' melodrammatico." 
Jimin, la mano ancora sulla maniglia, lo guardò, confuso e per niente rassicurato.
"Fratello?" 
"Ti vedo bene." disse l'uomo, ignorando la sua domanda. 
Aveva tirato fuori una mela da chissà dove e la stava facendo rotolare in aria per poi riprenderla al volo, come fosse una palla da baseball. 
Jimin ne fu ipnotizzato.
"Non hai niente da raccontarmi, Jimin?"

(32) November 4rd, 2015 - Wednesday

Era una tipica serata infrasettimanale da Cup’s.
Il brusio della gente intenta a cenare non cessava mai, l'atmosfera rilassata e casalinga che faceva sentire a proprio agio chiunque. Rispetto al mattino, quando il locale era frequentato per lo più da studenti di passaggio, colleghi, mamme e bambini, tutti talmente presi dalla frenesia della routine quotidiana che si concedevano giusto un caffè veloce e una pasta prima di volare via, a quell'ora della sera la clientela era composta più da uomini e coppie. Dalla cucina uscivano le solite cameriere, il trucco sotto i loro occhi che ormai tendeva a crollare, con piatti, vassoi, spezie in polvere e condimenti vari. Dopo il lavoro tutti erano più calmi e rilassati, si divertivano, perdevano tempo in chiacchiere, senza quella fretta che distingueva il resto della giornata. C'era chi rimaneva fino alla chiusura, chi aspettava una delle cameriere, chi andava fuori a fumarsi una sigaretta tra un piatto e l'altro. 
Il tavolo a cui i sette ragazzi erano seduti, ovviamente il solito, era disseminato di piatti vuoti e contenitori di salse non finiti. Parlavano e scherzavano come avevano fatto centinaia di volte, la presenza di Hoseok come unica eccezione. Il ragazzo era stato sistemato a capotavola, tra Taehyung e Namjoon, e sembrava districarsi più che bene tra tutti i discorsi che quel gruppo di amici così affiatato riusciva a intraprendere nell'arco di una sola cena; spesso capitava che gli facessero qualche domanda sul posto dove viveva, sulle differenze con Seul o cose del genere. Il ragazzo si ritrovava al centro dell'attenzione, dodici occhi puntati su di lui.
Hoseok stava anche iniziando a scherzare più facilmente, specialmente con Seokjin. Nonostante quei primi momenti di imbarazzo, era felice di incontrare i ragazzi ogni giorno, anche se per poco, tutte le volte per accompagnare Taehyung a scuola; in quel modo il ghiaccio era già stato sciolto e ora poteva passare tranquillamente più ore di seguito con loro senza sentirsi sulle spine. 
Neanche a dirlo, anche tutto quello era bello.
Un suono argentato e ripetitivo distolse chiunque dai propri pensieri, distraendo persino un paio di clienti che si voltarono verso la loro direzione. 
Taehyung stava suonando una forchetta contro il bordo del bicchiere, presto fermato da Jungkook che gli sottrò la posata. I due si misero a confabulare, il collo di quest'ultimo vagamente arrossato. 
Fu chiaro subito a tutti che c'era sotto qualcosa. 
Dopo averlo pregato per un po', il gruppo riuscì a convincere Jungkook a parlare. Lui scavalcò Yoongi e rimase in piedi a capotavola, impacciato.
Anche la gente attorno si era fatta guardinga, specialmente le coppiette o le persone che erano venute da Cup's senza compagnia. Jungkook lanciò un sorriso nervoso al suo migliore amico, contorcendosi le mani nelle lunghe maniche del maglione. Lo minacciò per aver catturato l'attenzione di mezzo mondo a quel modo. In tutta risposta Taehyung si limitò a fare lo gnorri, incitandolo. 
Jungkook premette le labbra rosee insieme, guardando i suoi amici uno per uno. Aprì bocca, pronto a sganciare la notizia. 
"Ieri mi è arrivata l'email con l'elenco delle persone ammesse allo scambio culturale." 
Come se avesse premuto un interruttore, gli occhi di tutti si accesero, gli stessi sentimenti riflessi su sei visi in sei modi differenti. 
Non ci sarebbe stato bisogno di proseguire: anche se lui non fosse stato un libro aperto, ci avrebbe pensato l'evidente entusiasmo di Taehyung, che in qualità di migliore amico sapeva sempre tutto prima degli altri, a confermare qualsiasi dubbio. 
Seokjin lo chiese comunque. 
"E?" 
Jungkook chinò il capo, mostrando loro la ricrescita già presente alla radice dei suoi capelli castani, come se si vergognasse del sorriso che gli andava da un orecchio all'altro. 
"Sono dentro." 
Un'ovazione generale fece saltare la clientela di Cup's al completo.
I ragazzi gioirono tutti insieme, uno più stupidamente sorpreso dell'altro. Attaccarono tutti ad alzarsi per abbracciare orgogliosi il più piccolo del gruppo, sapendo quanto avesse studiato per poter avere quell'occasione. 
Jungkook non era mai stato così frizzante. Accettava ben volentieri le pacche di tutti e rideva, rideva tanto.
Improvvisarono un brindisi con quel che avevano, che fosse acqua, birra o spremuta. Se ne rimasero per un po' tutti in piedi da quell'estremo del tavolo, bloccando il passaggio alle cameriere che erano costrette a fare il giro. Nemmeno loro volevano rovinare il momento. 
Non appena la prima ronda di congratulazioni finì, Taehyung si fece avanti per il secondo turno. Si avventò addosso a Jungkook da dietro, costringendolo a chinarsi con la schiena in avanti per potergli tenere ferma la testa con un braccio e scombinargli i capelli con la mano libera. Quando la chioma dell'altro non ebbe più una piega allentò la presa, lasciando che si raddrizzasse. Le guance di Jungkook erano rosee dopo che il sangue gli era andato al cervello.
Dandogli il tempo di riprendersi, Taehyung gli cinse gentilmente le braccia intorno al collo. In un moto di affetto e risate gli chiese scusa, giurandogli che per quella sera non lo avrebbe infastidito più. Jungkook ricambiò l'abbraccio, senza controbattere. Si sentiva la testa leggera, come quella volta in cui aveva dovuto gonfiare più di dieci palloncini per il compleanno di Eonjin. 
Non c'era storia tra gli abbracci dei suoi amici e quelli di Taehyung. Solo con lui i muscoli parevano irrigidirglisi e sciogliersi allo stesso tempo. Solo quelle sue mani grandi le sentiva pesare sulla schiena a quel modo. Solo nella piega del suo collo aveva trovato il perfetto incastro con la sua fronte.
Nonostante fosse stato l'unico ad aver l'anteprima sulla notizia, la sua reazione era stata comunque la più importante. 
Taehyung era l'unico per Jungkook, davvero. 
"Fatti da parte, Tae. Tu hai avuto tutto il tempo per spupazzartelo ieri."
Qualcuno sciolse l'abbraccio dei due. Jungkook si lasciò inglobare da Seokjin per la seconda volta, protestando quando il più grande lo strinse con troppa forza al petto. Se stava cercando di fargli schizzare i polmoni fuori dal corpo era sulla buona strada. 
Nello spezzarsi del loro legame, le braccia di Taehyung erano semplicemente scorse giù dalle sue spalle alle sue braccia, rimanendo infine allacciati per una mano. 
Jungkook cercò il suo sguardo oltre la spalla di Seokjin, ma Taehyung si era voltato per assicurarsi che Hoseok fosse coinvolto nel momento. 
Il più piccolo incontrò invece gli occhi caldi di Jimin, che erano appena corsi da quel paio di mani ancora unite al viso di Jungkook. Quest'ultimo provò a cambiare la sua espressione, ma l'altro ci aveva già letto quanto bastava. 
Dopo un primo momento di elaborazione, Jimin gli sorrise, dispiaciuto. 
Qualcuno iniziò a proporre idee per festeggiare l'evento, magari andando a cercare un po' di musica dal vivo, ma non sembrava essere la serata adatta. L'indomani avrebbero avuto scuola e nessuno di loro sarebbe potuto rimanere fuori di casa ancora per molto. Senza contare che la metà di loro aveva una qualche verifica in ballo. 
Per la seconda volta in quella serata, Jungkook sentì una punta di delusione pungergli le guance, ma non lo diede a vedere. Non che volesse essere festeggiato in grande stile, ma aveva troppa adrenalina in corpo per andarsene a dormire. 
E, come per la prima volta, Jimin fu l'unico, forse non ad accorgersene, ma a fare qualcosa a riguardo. 
Il ragazzo dai capelli argentei si premette contro il fianco di Jungkook, aggrappandosi a una delle sue spalle con entrambe le mani e posando il mento sulle proprie dita incrociate. Non era niente di provocatorio, si stava solo appoggiando. 
"Ci penso io a festeggiare con te." disse, genuino. "Sempre se tua madre è d'accordo ad ospitarmi per la notte." 
Jungkook voltò il viso verso di lui, trovando il proprio naso a pochi centimetri dalla sua fronte. Avrebbe potuto accusare Jimin di star svelando la nuova relazione che avevano intrapreso di comune accordo, ma in realtà non si erano neanche confrontati sul metterne a conoscenza il gruppo o meno. 
E poi, Jungkook si scoprì indifferente alla cosa. Anche se gli altri avessero capito cosa intendesse Jimin (fattore da non dare per scontato) non sarebbe cascato il mondo. Magari avrebbe zoppicato un paio di giorni, ma poi sarebbe tornato a girare come sempre. 
In fondo, Jimin era una delle persone più buone che conoscesse. 
Ma le cose non andarono come si aspettava. Dopo un paio di secondi in cui tutti al di fuori dei due interessanti si erano guardati confusi, c'era stato un riso generale. Avevano capito benissimo cosa intendesse Jimin, solo che lo reputavano uno scherzo, uno di quei momenti in cui al ragazzo piaceva recitare la parte della femme fatal per divertirli. 
Jimin sollevò il mento dalla spalla dell'altro e li guardò straniti. Gli bastò condividere un piccolo sguardo complice con Jungkook perché le sue labbra carnose si aprissero in un sorriso.  
E alla fine andava bene così. Il castano si ripromise di dirgli quanto gli fosse grato più tardi, quando sarebbero andati a casa sua. 
"Perché non torniamo a sederci? Siamo tra i piedi." 
In mezzo a tutta quella baldoria, la voce di Yoongi era paragonabile a un coltellaccio affondato nella panna montata. 
Il moro era già al suo posto, a guardarli dal basso verso l'alto. "E già tanto che non ci abbiano ancora fatto sgombrare il tavolo. Almeno occupiamolo."
Guardando i camerieri come per cercare conferme, i ragazzi si accomodarono ai propri posti. Yoongi non aveva tutti i torti, nonostante i suoi modi non fossero dei migliori. Glielo fece notare Seokjin, ma senza fare il serio. 
"Sei proprio un guastafeste."
Yoongi scrollò le spalle. "L'ho fatto per la reputazione di Jungkook." 
Seokjin non capì. Stavano celebrando, che c'era di male?
"In che senso?"
La porcellana di cui era fatto il viso dell'amico si era trasformata in granito senza che nessuno lo notasse. Qualcosa nel modo in cui Yoongi continuava a battere l'unghia del pollice contro il cellulare tenuto sullo stomaco non andava. 
"L'ultima volta che siamo stati qui è stato baciato, ora ha appena ricevuto un avance a sfondo sessuale. Non credo che il nostro pubblico apprezzi particolarment-." 
"Non metterlo in mezzo, cazzo."
Le posate presero le une contro le altre quando Jimin sbatté una mano sul tavolo. 
L'espressione serena sul suo viso si era sgretolata tutta in una volta. Sotto quella piega morbida dei suoi occhi non era rimasto che metallo. 
"Hai voglia di insultarmi? Mi vuoi trattare di merda a prescindere?" chiese Jimin, insensibile. "Mi sta bene. Ma smettila, smettila di rovinare tutto solo perché sei geloso."
Le stesse persone che poco prima avevano sorriso nel vederli festeggiare ora distoglievano lo sguardo, percependo il cambio repentino d'atmosfera. Ed era colpa di Yoongi e della sua incapacità di trattenersi. Stavano vivendo quello che si supponeva essere un ricordo felice, uno dei pochi che gli rimanevano come gruppo al completo, e naturalmente lui si era sentito in diritto di far prevalere qualsiasi cosa fosse il suo stupido conflitto interiore. 
Le cose non erano come lui le desiderava, se ne doveva fare una ragione. 
Come Yoongi fece per aprir bocca, il veleno già sulla punta della lingua, Namjoon intervenì. Al ragazzo bastò alzare un palmo in aria come a chiedere parola per far scendere il silenzio sulla tavolata. Gli si vedeva in faccia quanto fosse amareggiato. 
"Adesso basta." disse, calmo e irremovibile. "Ora voi due andate a prendervi una bella boccata d'aria, calmate i bollenti spiriti, e parlate." 
I suoi occhi passarono da Jimin a Yoongi, da Yoongi a Jimin. Namjoon odiava fare da arbitro, ma se non lo avesse fatto lui non lo avrebbe fatto nessun altro. 
Jimin seguì gli ordini senza battere ciglio: prese il suo cappotto dalla panca e si diresse verso l'uscita di Cup's, la camminata intrinseca di rabbia che attirava ancora più sguardi del normale. 
Yoongi seguì solo con gli occhi quelle gambe. Cercò nello sguardo di Namjoon un segno di benevolenza, ma l'altro glielo negò. 
Se solo sapessi, pensò a suo indirizzo. Se solo sapessi non mi faresti questo. 
Jimin era sparito dietro la porta. E adesso era là ad aspettarlo. Fuori, dove non c'era nessuno, per parlare. 
A Yoongi si strinse il petto in una morsa.
Evitando gli sguardi dei suoi amici, arraffò la giacca a vento e se la calcò sulle braccia, avviandosi verso l'uscita.
Gli altri cinque ragazzi rimasero per un attimo fermi a fissare le vetrine che davano sulla strada. Le figure di Jimin e Yoongi si affiancarono solo per un secondo prima che quest'ultimo precedesse l'altro a passo spedito. 
Una volta spariti dalla loro visuale, Namjoon si abbandonò sui gomiti con fare esausto, tirandosi i capelli all'indietro. Era la cosa giusta da fare. Lo era. 
In tutto questo, Hoseok era più mortificato che mai. Credeva che tutti i membri di quel gruppo fossero amici, se non migliori amici. Da dove era saltato fuori tutto quell'astio, tutto quel risentimento? 
Quel che più lo scioccava era che sui visi di Soekjin, Jungkook, Namjoon e Taehyung non c'era la minima traccia di agitazione, solo una grande tristezza.
Il primo a spezzare quell'incantesimo silenzioso lanciato sul tavolo fu Seokjin che accarezzò la schiena del suo ragazzo con movimenti circolari. 
"Sicuro che sia una buona idea lasciarli soli, Nam? Almeno da qui potevamo metterci in mezzo." 
La voce di Namjoon arrivò camuffata, gocciolante di stanchezza. "Non sono sicuro di niente. So solo che a questo punto qualsiasi cosa facciano sarà meglio che rimanere fermi a questa situazione." 
Hoseok bevve un sorso dell'acqua rimasta nel suo bicchiere e si schiarì la voce, sperando di non fare la figura del curioso. "Correggetemi se sbaglio, ma non è la prima volta che litigano, vero?"
"Non sbagli." spiegò Seokjin. "Yoongi e Jimin hanno, diciamo... un rapporto travagliato." 
"Avevo dato per scontato che fossero amici. Siete un gruppo molto affiatato." 
 "Credo che quei due potrebbero essere di tutto fuorché amici." intervenne Jungkook, lo sguardo assente. "Secondo me questa è la volta buona che si scannano."
Gli occhi di Taehyung alla sua destra scivolarono in un attimo su quelli di Hoseok. Nella piega delle sopracciglia indossava un'espressione ambigua che l'altro conosceva bene. 
"O che finiscono a letto." 
Gli altri non commentarono quest'ultima aggiunta, ma fu un silenzio pieno d'assenso. 
Dopo poco, Seokjin, decidendo che non potevano certo passare il resto della serata a chiedersi quando, se e in che condizioni i due litiganti sarebbero tornati, spostò l'argomento nuovamente su Jungkook. Gli fece varie domande su come pensava di organizzarsi in vista dell'Europa. Anche Hoseok stava seguendo la conversazione, sempre alla ricerca di qualcosa che potesse permettergli di conoscere meglio quei ragazzi. 
E sarebbe anche riuscito ad introdursi e partecipare se non fosse stato distratto dalla scarpa di Taehyung che aveva accidentalmente preso contro la sua. 
I due si guardarono di riflesso, per poi lanciare contemporaneamente un'occhiata verso il basso, come se potessero vedere attraverso il legno del tavolo. 
"Oh." fece Taehyung, prima di mormorare una scusa di cortesia. 
Hoseok si limitò a fargli un cenno con il capo, come a dirgli che non faceva niente. Entrambi avevano già fatto arretrare in automatico di pochi centimetri i piedi.
E niente. Sarebbe dovuta finire lì. 
Sarebbe. 
Certe persone non hanno bisogno di mordere una mela per commettere quello che la società considera un peccato. Basta avere così poca stima di sé stessi da pensare che un'ammaccatura in più non faccia la differenza. 
La scarpa di Taehyung tentò un secondo approccio. Iniziò ad alzarsi lentamente, strusciando contro la caviglia dell'altro. 
Hoseok non seppe che faccia fece nel momento in cui lo realizzò. La forma dura e inflessibile della calzatura smorzava di molto il lavoro del cugino, ma il messaggio era arrivato forte e chiaro. 
Taehyung aspettò che gli venisse opposta resistenza, che il cugino gli facesse capire in un qualche modo che quello che stava facendo lo metteva a disagio, ma questo non accadde. 
Hoseok si sforzò di rimanere impassibile, ma le guance lo tradirono quando il piede di Taehyung scivolò all'interno del suo polpaccio.  
Il biondo continuava a fissare da tutt'altra parte. Teneva il mento appoggiato al palmo della mano, apparentemente attento alla conversazione che si stava svolgendo al tavolo. 
Dietro a quelle dita che gli coprivano il viso fin sotto il naso, a Hoseok non sfuggì la sbavatura malandrina del suo sorriso. 

(33) November 4rd, 2015 - Wednesday

Il campanello appeso alla porta di Cup's suonò per la seconda volta di fila.
Yoongi non accompagnò la porta contro lo stipite ma essa si chiuse da sola, ovattando l'allegro chiacchiericcio e il rumore di stoviglie. 
Lampioni e insegne luminose rischiaravano quella notte autunnale di Seul, anche se gran parte della visibilità era dovuta ai fari delle auto che sfrecciavano per la strada a fianco. 
Jimin era lì, alla destra della porta. La luce proveniente dall'interno del locale attraversava la vetrina e gli si proiettava contro la schiena, trasformando i suoi capelli in un'aureola blasfema. Yoongi non lo guardò nemmeno; tirandosi la cerniera del piumino più in alto che poté, la sciarpa già arrotolata attorno al collo, si precipitò direttamente giù per i pochi gradini che separavano l'entrata di Cup's dal marciapiede. 
"Ehi, dove vai? Dobbiamo parlare." 
Jimin gli andò dietro. Ad ogni scalino gli sbucavano le ginocchia dal lungo cappotto, il respiro che gli usciva dalle labbra come lo sbuffo di un treno a vapore. Yoongi era già qualche metro più in la, il passo veloce e le mani in tasca. Non aveva nessuna intenzione di aspettarlo. 
"Non ho niente da dire a te." 
Si fermò sul ciglio della strada, voltando il capo a destra e a sinistra. Per tutto quel tempo aveva tenuto il cellulare stretto in mano, per cui per adoperarlo gli bastò portarselo davanti gli occhi e sbloccarlo. "Io chiamo un taxi, tu fa quel che ti pare. Di' pure a Namjoon che abbiamo parlato se la cosa ti fa stare meglio." 
Quel suo tono di sufficienza fece andare Jimin in bestia. Era lo stesso che gli rivolgevano tutte quelle persone che lo conoscevano solo di nomea. C'era quella punta di sarcasmo, quell'io-sono-meglio-di-te. Come se un paio di pettegolezzi su di lui bastassero per definirlo automaticamente una persona superficiale e menefreghista.  
Ed, essendo una persona superficiale e menefreghista, loro si sentivano in diritto di trattarlo come se non avesse sentimenti feribili. 
Ma qui era di Yoongi che si parlava. Yoongi, che lo conosceva da cinque anni e ancora non aveva capito che a Jimin importava. 
Importava di tutto. 
Lo sfrecciare delle auto copriva il suono dei passi dei due ragazzi.
"No, tu adesso resti e parliamo. Questa situazione sta diventando invivibile." 
Una volta raggiunto l'altro, la mano di Jimin sfiorò istintivamente il gomito di Yoongi; voleva solo richiamare la sua attenzione, ma gli venne sottratto con uno scatto iracondo. 
Yoongi si voltò verso di lui, i fari delle macchine che a turno lo illuminavano da dietro. Quella stessa luce colpiva Jimin in pieno viso, portava l'ombra netta del suo naso contro la guancia e la faceva roteare man mano che l'auto passava oltre, subito sostituita da un'altra.  
Nelle fessure a cui gli occhi di Yoongi si erano ridotti le pupille erano a malapena visibili, le palpebre che neanche battevano tanta la rabbia. 
La rigidezza della sua postura, le nocche sporgenti della mano che ancora impugnava il cellulare, quella sua tendenza a chinare il capo in avanti per non essere guardato mentre guardava, fecero realizzare a Jimin il gesto appena commesso.
Poteva ancora sentire sulle dita la stoffa scivolosa  di quella giacca. 
Nel momento in cui provò a pensarci, Jimin si stupì di non ricordare l'ultima volta che aveva cercato un contatto fisico con Yoongi. Quando era stata l'ultima volta che le loro mani si erano sfiorate accidentalmente nel passarsi bottiglie d'acqua? Quando, durante una foto di gruppo, uno si era ritrovato la mano dell'altro sulle spalle? 
Sfuggente e impenetrabile. Anche se riuscivi ad acchiapparlo non c'era modo di andare oltre quello spesso strato di menefreghismo di cui si era avvolto. 
 E in quel momento, sentire che sotto il proprio tocco c'era stata della carne, un corpo solido e fisico, sorprese Jimin più del necessario. Poi si sentì rassicurato dalla cosa, come se prima non fosse certo dell'umanità di Yoongi. 
Come il bambino che scopre di poter spegnere le candeline con le dita senza bruciarsi, il primo istinto di Jimin fu quello di ritentare. 
Yoongi non pareva pensarla allo stesso modo. Quella sua rabbia vergognosa e, agli occhi di Jimin, irrazionale continuava ad accumularglisi sullo stomaco e non sarebbe passato molto tempo prima che iniziasse a traboccare. 
Aveva passato mesi, anni, a tracciare e rintracciare quel solco per Jimin, quel limite che diceva da qui non puoi passare. E l'altro lo aveva saltato con una casualità ed una leggerezza a cui non voleva credere.
"Non mi toccare." 
Per una volta le sue parole erano ben scandite, anche se sovrastate dal rumore dei clacson. 
Jimin afferrò il polso di Yoongi, immobilizzando la mano che andò a stringere con la propria. La presa del ragazzo dai capelli argento era calda e forte e morbida ed erano palmo contro palmo e Yoongi si sentì i piedi sprofondare nel cemento, ma se ne liberò, perché era la cosa giusta da fare. 
Mosse qualche passo all'indietro, stando solo attento a non finire per strada. Una volta ripristinata la distanza minima che reputava indispensabile tra sé stesso e l'altro, si voltò; infilò una via laterale, dimenticando i suoi propositi di chiamare un taxi. L'importante era andarsene, raggiungere casa e lasciare invecchiare il presente. 
Senza esitazioni, Jimin ci si infilò subito dietro, spavaldo. Quel paio di pantaloni attillati gli si tiravano sulle cosce ad ogni passo troppo lungo. 
"Ma non lo vedi come ti comporti? Mi insulti e poi te la dai a gambe. Se ti degnassi di farmi capire cosa sto facendo di così sbagliato nei tuoi confronti per meritarmi di essere trattato in questo modo ogni singola volta che ne hai occasione, io potrei anche provare a non farlo più, non credi?" 
Yoongi urlò di rimando, continuando a camminare dritto davanti a sé. 
"Fottiti, Jimin, okay? Fottiti. O va a farti fottere che ti riesce tanto bene." 
Un insulto come tanti per Jimin. Niente di specifico.
Così non andava, Namjoon aveva ragione. Loro due dovevano parlarne faccia a faccia, trovare un punto d'incontro. O chiudevano la questione o la iniziavano.
Era finito il tempo per far finta di niente, per usare il tatto, per essere delicati e comprensivi. Se andarci piano non aveva funzionato, a Jimin non rimaneva altro da fare se non colpire per affondare. 
Yoongi camminava spedito, ma Jimin non demordeva. La sua voce si alzò, arrivando forte e chiara alle orecchie degli occasionali passanti, ma ancora più forte e più chiara alle orecchie del destinatario che raggelò.
"E' una scopata che vuoi? Una botta e via? Fai tanto il perbenista quando in realtà sei solo geloso di chiunque riesca ad infilarsi nei miei pantaloni."
Yoongi si calcò il cappuccio sulla testa. Continua a camminare, si disse. Continua a camminare.
Lui si dava ascolto, metteva un piede davanti all'altro, ma già quelle parole si incidevano a fuoco, gli scavavano dentro, lo denutrivano da tutto. 
Jimin era a conoscenza dei suoi sentimenti, e allora? Non doveva importargli. Le carte in tavola rimanevano le stesse. 
Ma era davvero stato così ovvio, per tutto quel tempo? 
Dio, che disastro.
E mentre Yoongi si biasimava, l'esasperazione prese il sopravvento su Jimin. 
Tutto quello che aveva mai provato nei confronti dell'altro gli piombò addosso in un colpo solo, come una gomitata che mozza il respiro. A torreggiare su questa montagna di tristezza, rabbia e musica da pianoforte, Jimin si sentì dispettoso. Dispettoso, come quando gli aveva sorriso durante la lezione di matematica, sapendo di sbagliare, o come quando lo aveva toccato una seconda volta pochi momenti prima. Per ripicca. 
A Jimin venne voglia di sorpassare ogni limite, ogni valico, ogni barriera posta da Yoongi per metterlo con le spalle al muro e spolparlo di ogni difesa. Di dimostrargli che poteva disprezzarlo quanto voleva, ma alla fine era sempre lui ad avere il coltello dalla parte del manico.
D'altronde, era una persona che si faceva guidare troppo dagli istinti, glielo avevano sempre detto. Fare pensieri ingiusti non era una pena per cui lui avrebbe pagato. 
Lo stretto viale che stavano percorrendo era tutto un'ombra, un retro di negozi, ristoranti ed edifici. Se non ci fosse stato così freddo uno avrebbe potuto assaporare l'odore di cibo. 
Non era certo in un posto così che Jimin si era immaginato quel preciso avvenimento, ma a un certo punto bisognava accontentarsi. 
Aumentò di velocità i suoi passi, fino a quando non gli bastò allungare un braccio per arpionare una spalla di Yoongi, frenandolo. Con uno strattone lo girò verso di sé e poggiò la bocca sulla sua. 
Il bacio risultò solo uno sbieco, un contatto durato una frazione di secondo prima che, con tutta la forza che aveva in corpo, il moro spinse via Jimin. Nel silenzio della tarda sera, lo schiocco umido delle loro labbra che venivano separate così brutalmente parve rimbombare. 
Yoongi era fuori di sé, fuori da Seul, fuori dal mondo.
Non fece in tempo a dire niente prima che, con rinnovata foga, Jimin tentò di bruciare il metro di marciapiede che si era posto tra di loro, facendogli quasi perdere l'equilibrio quando di conseguenza lui mosse dei passi all'indietro.
La sua testa era un totale macello di emozioni. Era talmente sovraccarico di parole, pensieri e sensazioni che ne sarebbe esploso. Tenendo le braccia protese in avanti, come a prevenire ogni movimento dell'altro, Yoongi guardava Jimin con occhi piatti e dorati. 
Qualsiasi dolore istantaneo la condanna della mela gli stesse affliggendo lui non lo percepì nemmeno. Si limitava ad ansimare, come se avesse corso per miglia. 
Jimin se ne stava al suo posto, lo fissava in silenzio. 
Smettila di ferirmi, avrebbe voluto sussurrargli Yoongi, il testo di una vecchia canzone troppo smielata per essere scritta da lui. Sono a corto di disinfettante.
"Non mi piace la merce usata." sbraitò, invece. 
Jimin si impose di non credergli. La conferma che cercava era davanti il suo naso, palese. Yoongi lo guardava con una tale intensità da accapponargli la pelle. Sputava odio da tutte le parti e con le parole peggiori, eppure i suoi occhi accarezzavano i contorni dell'altro, bramosi, disperati. 
La vittoria di Jimin non ci mise molto per mostrarsi come la sconfitta che era. Per la seconda volta nella sua vita, anche chi era innamorato di lui decideva di non volerlo al suo fianco. 
Non valevano niente tutte quelle cottarelle che gli erano state confessate, tutti quegli apprezzamenti ricevuti in giro. 
Era tanto aspettarsi un sorriso, un cenno di affetto da chi sai per certo ricambiare i tuoi sentimenti? Perché Yoongi non poteva amarlo e basta, perché lo doveva anche odiare? Perché Jimin non aveva saputo dei suoi sentimenti in prima superiore, quando era ancora tutto possibile? Perché Yoongi non si era fatto avanti, perché non gli aveva semplicemente lasciato un biglietto nello zaino il giorno di San Valentino? Perché si era ostinato ad aspettare fino a quando qualcun altro lo aveva preceduto? 
E forse nessuno dei due aveva il coltello dalla parte del manico. Forse si trattava di una stupida lama a doppio taglio.
Quando Jimin rispose, la voce gli uscì rauca. 
"Non parlarmi così. Come se non valessi niente." 
Sul fondo delle sue pupille si accumularono lacrime rabbiose. Il ragazzo si promise di conservarle lì, di non piangerle. 
Dall'espressione che fece, era evidente che Yoongi si sentiva preso in contropiede.
Per un attimo Jimin ne fu convinto: Yoongi aveva capito. Aveva capito. Finalmente. 
Poi vide le sue sopracciglia incattivarsi, gli occhi farsi aspri. 
Eppure Jimin credeva di essere stato abbastanza esplicito per una volta. O Yoongi era ottuso, completamente ottuso, oppure doveva esserci qualcos'altro sotto. 
Il moro non si preoccupò certo di metterlo al corrente di quale si trattasse delle due. L'unica cosa che vedeva chiaramente era un bambino dai capelli scuri che aveva sempre amato, sepolto da qualche parte dentro un adolescente dai capelli argento che aveva imparato a detestare. Ma gli occhi erano sempre rimasti gli stessi, quello non lo aveva mai negato. E ora gli occhi di quel bambino erano arrossati, infelici e lo facevano sentire così in colpa. 
Come al solito, Jimin non gli permetteva mai di dimenticare. Mai. E Yoongi lo odiava per questo. 
Odiava le sue manine. Odiava quei capelli insulsamente chiari in contrasto con le sopracciglia scure. Odiava le pieghe esposte del suo collo. Odiava quelle guance invitanti che nessuno dei suoi ammiratori considerava mai. Odiava il suo naso e odiava la sua bocca carnosa. Odiava la sua pelle e i muscoli che guizzavano sotto di essa. Odiava il modo in cui sorrideva, odiava i suoi denti bianchi e regolari. Odiava quando i suoi occhi si assottigliavano mentre rideva. Odiava le sue orecchie tondeggianti e odiava quando giocherellava con gli orecchini durante le lezioni. Odiava il suo passo felpato, odiava il profumo che portava ai polsi. 
Per quanto quegli occhi fossero fuorvianti, bastava la presenza solida del proprio cellulare stretto in mano a ricordarglielo: odiava questo Park Jimin, completamente. 
"Puttana." 
Yoongi sputò fuori quella parola e non c'era modo di rimangiarsela.  
L'epiteto rimase vacillante nell'aria per un attimo eterno, le occhiate dei pochi passanti calamitate automaticamente sulla scena. Poi la mano aperta e ben tesa di Jimin si schiantò sulla guancia di Yoongi che vacillò all'indietro. 
Il ragazzo colpito rimase a testa bassa, la schiena incurvata in avanti. Si portò una mano sul viso per sentirne la pelle bruciare. Rimanendo in quella posizione, guardò l'altro da sotto la frangia. 
Jimin, sempre così posato, così invulnerabilmente fine, aveva le gote chiazzate di rosso, le ciglia più visibili perché bagnate. Teneva le mani strette a pugno vicino al petto, incapace di rilassarle contro le cosce. Gli angoli della bocca erano rivolti verso il basso in un'espressione prossima al pianto. 
Yoongi avrebbe voluto immortalare la sua rivincita per ricordarla ogni volta che in futuro Jimin lo avrebbe fatto penare di nuovo. Poi avrebbe voluto ricevere un altro schiaffo, perché se lo meritava davvero. 

(34) November 4rd, 2015 - Wednesday

"Okay, io vado a vedere che succede."
Passati neanche cinque minuti, già Namjoon non si teneva più. Da quando Yoongi e Jimin erano usciti da Cup's i suoi occhi avevano fatto avanti e indietro per tutto il tempo, tra le vetrine e l'orologio a parete. 
Seokjin avrebbe voluto dirgli di stare tranquillo, di fidarsi di loro per una volta, ma persino lui non ci credeva. Qualsiasi fosse la direzione che la chiacchierata dei due aveva intrapreso aveva bisogno di essere rallentata; se c'era una cosa a cui entrambi erano pessimi, era il contenersi. 
A quanto pare non era l'unico a pensarla così, perché anche Jungkook balzò in piedi, già intento a calcarsi la giacca sulle spalle. "Aspettami, vengo con te." 
Una volta che anche Namjoon si fu vestito, al tavolo rimase soltanto Seokjin. I due cugini si erano allontanati giusto un minuto prima per andare al bagno del locale. 
Il ragazzo dai capelli verdastri doveva essersene accorto. Un sorriso di scuse gli spuntò sulle labbra mentre sollevava per bene la cerniera fin sotto il mento. 
"Puoi dare un occhio alla roba? Vedrai che torniamo subito." 
"Non preoccuparti per me, Nam. Per qualsiasi cosa chiamami, tengo il cellulare vicino." 
Come per provare la cosa, Seokjin raddrizzò l'aggeggio sulla tovaglia, alzandone il volume della suoneria. 
Namjoon annuì con il capo e fece cenno di andare a Jungkook. I due si allontanarono, infilando a loro volta l'uscita di Cup's. 
Una volta rimasto solo, il ragazzo dai capelli rosacei tentò di ammazzare il tempo stando un po' al cellulare. Scrollava per le pagine dei social passivamente, distratto dal riflesso del proprio viso. Quando finì la propria bibita, per Seokjin fu naturale allungare un braccio e servirsi con quella di uno dei suoi amici. Sapeva che non se la sarebbero presa se mai se ne fossero accorti. 
Ovviamente non poteva sapere di star commettendo un errore con lo scegliere quella da cui Jimin aveva bevuto a collo. Seokjin posò la bocca sull'anello di quella birra, arricciando il naso quando ne sentì il sapore. Controllò l'etichetta appiccicata al vetro, perché non gli risultava che Cup's servisse birre dal gusto fruttato. 
Quel sorso di birra che aveva ingoiato gli scorse gelato giù per la gola, facendone pizzicare le pareti come acqua frizzante. 
Annoiato a morte, senza niente da fare e nessuno con cui parlare, lo sguardo di Seokjin divagò per il locale. Nell'osservare la clientela notò più cose in due minuti che in tre anni. All'improvviso, tutte le persone parvero dividersi davanti ai suoi occhi per colore, età, eleganza. 
Fu impossibile non vedere come tutte le persone più giovani fossero in famiglia, in gruppo o a coppie, mentre quelle più grandi se ne stavano in disparte nei loro tavolini singoli, attaccati con il portatile ad una presa o in compagnia di un libro di testo. 
Seokjin trascorse un po' di tempo a classificare tutti quanti in queste due categorie, curioso di sapere quale sarebbe stata la maggioranza. Ormai aveva quasi passato in rassegna tutto Cup's quando smise di trovare quel gioco divertente.
Non gli aveva fatto piacere scoprire di far parte della seconda categoria. 

(35) November 4rd, 2015 - Wednesday

Namjoon e Jungkook uscirono da Cup's, guardandosi intorno. 
Una pioggerellina impalpabile aveva iniziato a scendere e nella zona del marciapiede di Yoongi e Jimin non c'era neanche l'ombra. Provarono a chiedere ad un uomo, intento a portare a spasso il suo cane, ma non aveva visto niente. 
Jungkook stava per chiedere se non fosse il caso di fargli uno squillo quando si sentirono delle voci concitate provenire da sinistra. Namjoon si diresse subito verso quella che sembrava una stradina secondaria, assicurandosi che l'altro lo stesse seguendo. Arrivarono puntuali, giusto in tempo per vedere Jimin dare uno schiaffo a Yoongi in pieno viso. 
Namjoon scattò. 
Piombò tra i due litiganti, mettendosi fisicamente in mezzo con tanto di braccia alzate. Jimin e Yoongi lo guardarono, trasognati. Come se non lo avessero sentito arrivare nonostante il passo pesante con cui era corso da loro.  
Subito dopo, quando il più piccolo li raggiunse, i nuovi arrivati fecero lavoro di squadra, allontanandoli l'uno dall'altro senza aver bisogno di scambiarsi una parola. Jungkook prese i pugni di Jimin nelle proprie mani, come se il ragazzo dai capelli argentei avesse potuto decidere di ribellarsi, scavalcare Namjoon e assestare un gancio a Yoongi. 
Namjoon, invece, aveva preso quest'ultimo per le spalle e lo stava costringendo a indietreggiare ulteriormente. Cercava di tenerlo buono, sfruttando la propria altezza per coprire i due alla vista reciproca. 
Yoongi ormai era senza freni. Si dimenò, riuscendo a cogliere un'altra visuale di Jimin. Si sarebbe strappato le labbra pur di liberarsi della sensazione indelebile, per quanto sfuggente, di quella bocca morbida.
"Dato che stiamo parlando a cuore aperto, toglimi una curiosità: ti sei fatto pure il professore di matematica? No, perché è l'unico modo in cui vedo che uno come te possa prendere certi voti." 
Namjoon tentò di far tornare Yoongi dietro di sé tirandolo per il bavero della giacca, ma il moro era recalcitrante. Jungkook doveva aver avuto le sue stesse difficoltà a trattenere Jimin, perché Namjoon fece appena in tempo a girarsi di centottanta gradi prima di afferrare quest'altro per i polsi. 
Jimin non oppose resistenza a quel placcaggio, ma si sporse da una parte comunque, incontrando l'oggetto di tanta rabbia con lo sguardo. 
"Non me ne frega più niente di te e dei tuoi sentimenti, Yoongi, non me ne frega niente!"  
Namjoon smise di andarci piano. Serrò la presa su Jimin e lo sospinse metri più in là, facendo segno a Jungkook di mantenere Yoongi dove stava. 
Il ragazzo dai capelli argentei si lasciò condurre docilmente, abbassando il capo. Quando i due si fermarono, Namjoon si ritrovò la fronte dell'altro premuta contro il proprio petto, la cerniera aperta della sua giacca a vento che doveva stargli seghettando delicatamente le tempie.
Alle sue spalle poteva sentire Yoongi mugugnare qualcosa in risposta a Jungkook. Non capì tutto, ma le parole Jimin, stronzate e fanculo gli arrivano abbastanza chiaramente alle orecchie. 
Tutto rimase silenzioso e immobile per una manciata di secondi. Poi Namjoon sentì la stoffa della sua maglietta inumidirsi. 
Non un singhiozzo usciva dalla bocca di Jimin, ma il sobbalzare delle spalle lo tradiva. Non ci volle un genio per capire come stessero le cose.
Namjoon doveva essere più ottuso di quel che credeva per non aver valutato prima anche quell'eventualità. Aveva sempre biasimato Jimin, aveva sempre sottoposto lui a paternali e rimproveri. Non se la sarebbe potuta prendere con il povero Yoongi che già doveva penare tanto per il suo amore non corrisposto. 
Mortificato, Namjoon posò una mano rassicurante sulla nuca di Jimin. Prese ad accarezzargli i capelli sottili, con tutta la delicatezza che il caso richiedeva.
In quel momento, l'altro gli sembrò così piccolo. Non era solo una questione d'altezza, anche se oggettivamente gli arrivava poco più sopra delle clavicole. Era una questione di innocenza. Se Jimin fosse stato il protagonista di una favola, sarebbe stato un bambino con il capriccio di voler crescere in fretta; una volta resosi conto che essere grandi non era poi un granché, non poteva che piangere sul latte versato.  
Svuotata dal loro litigio, l'aria notturna pareva disabitata. Ora che i bollenti spiriti si erano calmati iniziò a far sentire la sua presenza il freddo pungente di novembre. 
"Torniamo dentro." disse Namjoon rivolgendosi a tutti loro, la calma dopo la burrasca. "Prenderemo un accidente se restiamo qui fuori." 
Con un'ultima pacca staccò gentilmente Jimin da sé, come per avvisarlo del suo spostamento. 
Namjoon si voltò verso Yoongi e Jungkook nello stesso momento in cui Jimin si girò dalla parte opposta, rivolgendo la schiena al trio. Non era ancora pronto ad essere esposto così. 
Le parole successive di Yoongi furono prevedibili. 
"Io vado a casa. Di' agli altri che ci vediamo a scuola." 
Il moro non aveva  una bella cera sotto le luci dei lampioni e il suo viso non era di certo il ritratto della serenità. L'unico punto in cui aveva un po' di colore era la guancia destra. 
Questa volta né Namjoon né Jungkook lo fermarono. Non gli dissero di aspettare o di farsi accompagnare per strada da qualcuno del gruppo. Se Yoongi non aveva espressamente chiesto compagnia allora non era il caso di imporgliela, non quella sera. Namjoon si limitò a guardarlo negli occhi e ad annuire. 
Lanciando un ultimo sguardo alla schiena di Jimin, Yoongi si incamminò giù per la via laterale. Jungkook e Namjoon guardano la sua figura farsi sempre più piccola e confusa, le ombre del viale che lo facevano scomparire di tanto in tanto. 
Jimin trattenne il fiato finché il rumore dei suoi passi contro il marciapiede in pietra non svanì. La pioggerellina impalpabile di poco prima tentava di consolarlo, pizzicandogli le guance già bagnate e arricciandogli i capelli. 
Fece un lavoro migliore Jungkook, circondandogli la vita con un braccio. Insieme, il trio rientrò da Cup's, tornando da Seokjin; bastò un'occhiata d'intesa tra lui e il suo ragazzo per fargli capire che non era il caso di fare domande. 
Nonostante mancasse la metà dei componenti del gruppo, quelli che c'erano si sistemarono ai rispettivi posti, rimanendo in silenzio.
Una decina di minuti più tardi, una pioggia con la 'p' maiuscola si sentì scrosciare da fuori, rendendo terribile la prospettiva di lasciare il locale caldo e luminoso. La mano di Jungkook aveva preso a viziare quella di Jimin al di sopra del tavolo, accarezzandone il dorso e intrecciando le loro dita. Lo sguardo di quest'ultimo era rimasto assente, perso a guardare gli effetti delle luci a led sulle miriadi di gocce che deformavano le vetrine. 
Da qualche parte là fuori, Yoongi salì su un taxi che non ricordava aver chiamato. Ci si addormentò quasi subito, registrando solo l'esistenza di quel berretto a righe di pessimo gusto sulla testa dell'autista dopo aver detto il proprio indirizzo. 
La pioggia batteva anche contro la finestrella nel bagno di servizio dei maschi, un quadrato di vetro troppo alto per essere aperto senza l'ausilio di un'asta apposita. 
Da uno dei cubicoli uscì Hoseok, impegnato ad allacciarsi la cintura dei pantaloni. Si avvicinò alla serie di lavandini posti di fronte a lui e si lavò le mani; immerse i polsi nell'acqua fredda, rinfrescandosi successivamente anche il viso. 
Una sola delle due lampadine che fiancheggiavano lo specchio di fronte a lui funzionava, la sua compagna bruciata. Il rosso poté vedere che, alle sue spalle, lo sportello dalla quale era appena uscito stava ancora svalvolando. Avrebbe continuato a fare avanti e indietro per un po' se non fosse stato bloccato da una mano. 
Da quello stesso cubicolo uscì Taehyung, i capelli scarmigliati e gli occhi d'oro.  
Rimase lì a fissare Hoseok per un po', ricambiando il mezzo sorriso che l'altro gli rivolse attraverso lo specchio. 
Se avesse mai imparato ad aver cura dei propri vestiti, Taehyung non si sarebbe passato il dorso del braccio contro la bocca. E di certo non si sarebbe messo sulle ginocchia sul pavimento di un bagno pubblico. 
"Dovremmo parlarne."

(36) November 4rd, 2015 - Wednesday

La chiave girò il più lentamente possibile nella toppa della porta di ingresso. La serratura scattò e Seokjin tenne ben stretto nel suo palmo il mazzo di chiavi, impedendo loro di tintinnare le une contro le altre.  
Era divertente come, nonostante lui fosse il più grande del gruppo, anche i suoi genitori si sarebbero arrabbiati nel saperlo rientrare a casa ad orari come quello durante la settimana. 
Lui e Namjoon avevano lasciato Cup's alle undici e mezza, dopo essersi assicurati che tutti i loro amici avessero un passaggio per tornare a casa. La madre di Taehyung era stata la prima a passare a prendere figlio e nipote, l'aria di chi era stata appena svegliata sul viso; aveva chiesto a Jungkook se volesse salire, ma il ragazzo aveva declinato l'offerta. Era stato un sollievo per Namjoon quando poi aveva visto i genitori di quest'ultimo caricare in auto anche Jimin. Se aveva ben capito, lo avrebbero ospitato per la notte e poi i due sarebbero andati a scuola insieme il giorno successivo, e questo non poteva che essere un bene: più o meno chiunque, arrivati a quel punto, poteva dire che l'accoppiata Jimin e cuore spezzato poteva dare risultati sconcertanti. 
Quindi, una volta che tutti furono partiti, anche Seokjin e Namjoon avevano potuto far ritorno al nido. E con nido intendevano la camera da letto del primo. 
Seokjin si sfilò le scarpe bagnate pestandosi i talloni, facendo poi cenno a Namjoon di seguire il suo esempio e poggiarle sullo zerbino. Gli tenne il portone aperto mentre entrava in casa.
La luce flebilissima di una abat-jour illuminava un angolo del corridoio, lasciatogli accesa dai genitori attualmente dormienti. Era una cosa che facevano quando il figlio programmava di tornare tardi. 
A Seokjin veniva da ridere tutte le volte che la vedeva. Non era stato sempre così. 
I suoi avevano preso quell'abitudine da quando, agli esordi della sua relazione con Namjoon, i due erano arrivati a notte inoltrata. Si erano mossi nel buio con la sola luce del cellulare a guidarli, ma questo non aveva salvato il prezioso vaso cinese posto all'angolo del corridoio. Il più giovane ci aveva preso contro, mandandolo in frantumi. 
Quindi sì, poteva sembrare una carineria, ma in realtà i signori Kim stavano solo preservando la vita di mobili e soprammobili. Tutto il loro appartamento poteva essere considerato fragile, tra tavolini di vetro, cristallerie, set di calici e credenze in noce, per cui era meglio se quella palla da demolizione ambulante vedesse dove metteva i piedi. E avevano continuato a farlo per quattro anni di relazione. Così come continuavano a sperare che Seokjin si trovasse una compagnia migliore in futuro, ma almeno questo avevano la decenza di non dirlo ad alta voce. 
La famiglia Kim di solito evitava l'argomento, come se Namjoon fosse il grande elefante rosa al centro della stanza. Seokjin aveva perso il conto di tutte quelle domeniche mattina in cui suo padre bucava le pagine del giornale con lo sguardo pur di non alzarlo quando i due ragazzi si presentavano nella bella cucina, i pigiami stropicciati ancora addosso.
Non era un segreto che i due dormissero insieme, anche perché Seokjin non aveva mai chiesto la chiave della camera degli ospiti. Aveva sempre fatto pernottare l'altro nella propria stanza, dove c'era un solo letto. 
Il signor Kim era stato tentato migliaia di volte di rimpiazzare quel materasso matrimoniale con uno singolo, un messaggio indiretto piuttosto esplicito, ma sarebbe stato inutile. Seokjin era grande, vaccinato e testardo. Se i suoi genitori avessero mai avuto voce in capitolo sulla sua vita sentimentale l'avevano persa da un periodo di tempo non indifferente. 
Dopo aver dato tutte le mandate possibili al portone, Seokjin e Namjoon attraversarono il corridoio. Camminarono sulle punte dei piedi, i calzini freddi e umidicci di pioggia che filtravano la freddezza del pavimento. Prima di infilarsi in camera spensero l'abat-jour, facendo cadere l'appartamento in un buio totale. 
A Namjoon venne quasi da sospirare di contentezza. 
Dopo aver cercato a tentoni l'interruttore, il lampadario brillò a nuova vita nella stanza di Seokjin. Lo zampino della madre nell'arredamento era inconfondibile, ma Namjoon aveva sempre potuto ben vedere anche quello di Seokjin. Lo ritrovava nella pila di videogiochi di Mario Bros, nelle cornici perfettamente dritte dove erano stati appesi poster colorati, dopo che da piccolo gli era stato vietato di appenderli alla parete direttamente con lo scotch. 
Namjoon non sapeva dire se era la camera a profumare di Seokjin o era Seokjin a profumare come la sua camera. 
Il ragazzo dai capelli rosa fece sparire le loro giacche umide di pioggia dentro l'armadio, per poi sfilarsi in una sola mossa maglione, maglia e canottiera. Fece cadere quegli indumenti nel cesto dei panni sporchi, le scapole e i muscoli della schiena che si fletterono quando si allungò per raccogliere un paio di calzini da terra. 
Namjoon lo osservava, come se non fosse già stato in grado di disegnare anche bendato ogni particolare, ogni neo, ogni cicatrice che l'altro nascondeva sotto i vestiti. Tutta quella pelle in vista gli fece venir voglia di appoggiare le mani su quelle spalle ampie, le punta delle dita premute nei solchi di quelle clavicole.
Seokjin recuperò da sotto il cuscino la maglia del pigiama, facendo calare il sipario sullo spettacolo che era il suo corpo. 
Sì, Namjoon doveva ritenersi fortunato. Era raro che qualche nuovo ammiratore si facesse avanti data la popolarità della loro relazione, ma certi sguardi si posavano comunque su Seokjin. Lui riusciva a rendere un'esperienza ultraterrena anche il suo arrivo in mensa, spodestando tutte le ascensioni angeliche sulla terra.  
Namjoon era cosciente che soldi e bellezza avevano garantito da sempre un biglietto d'accesso a tutte le cerchie più esclusive della scuola, ma Seokjin aveva sempre disprezzato chiunque lo identificasse come il figlio di suo padre. D'altronde, se così non fosse stato, in quel momento non si sarebbe trovati insieme in quella stanza.
Il ragazzo dai capelli verdastri si levò la propria felpa, rimanendo in canottiera. A contrasto con la stoffa bianca, i suoi tatuaggi parevano più fitti e scuri, qualche d'uno che lo si vedeva trasparire anche da sotto la stoffa. Si pose davanti lo specchio a parete prima di concentrarsi su uno in particolare. 
Sulla parte alta del suo avambraccio si trovava un'anella di scritte in inglese, fitte e in corsivo, ricoperta da uno strato di pellicola trasparente. Namjoon fece per rimuoverla, ma venne in suo aiuto Seokjin, il pigiama al completo addosso. Srotolata via la plastica, la pelle al di sotto era lucida di crema, ancora chiazzata di rosso. D'istinto, Seokjin ci soffiò sopra. 
"Non è ancora guarito." notò, deluso. 
Namjoon diede un'occhiata più approfondita al tatuaggio attraverso lo specchio, sistemandosi in modo da non farsi ombra da solo. Dovette resistere all'urgenza di grattare via le pellicine. 
"E' ancora un po' presto." spiegò. "Vedrai che per la prossima settimana sarà a posto." 
Seokjin abbracciò Namjoon da dietro, aggrappandosi mollemente alla sua canottiera già slargata. Petto e bacino aderirono al corpo dell'altro come una seconda pelle. 
"Lo spero. Ultimamente non c'è stato un periodo in cui non ho dovuto fare attenzione a dove metto le mani." 
Namjoon sbuffò una risata, attento a mantenere il silenzio per gli adulti ancora dormienti dall'altra parte dell'appartamento.
"Giuro, è stato l'ultimo tatuaggio per quest'anno. Quando guarirà potrai fare di me quello che vuoi." 
Seokjin rise a sua volta, più rumorosamente. Chinò il viso per premere le labbra su una delle spalle dell'altro, schioccando un bacio prima di rifilargli una pacca giocosa sul sedere e separarsi da lui. 
Andò a scagionare i lati dalle coperte da sotto il materasso, cercando di reprimere quella vocina nella sua testa che già faceva sentire cosa aveva da dire in merito. 
L'ultimo tatuaggio per quest'anno.
Forse anche l'ultimo di cui hai ricevuto le prime idee, i primi schizzi. L'ultimo a cui è stato chiesto il tuo parere, quello decisivo. L'ultimo a cui hai assistito mentre veniva inciso sulla pelle, l'ultimo per cui hai distolto lo sguardo dall'ago. L'ultimo che vedrai guarire. 
Forse, il primo che non vedrai sbiadire. 

Seokjin scosse la testa, facendo perdere l'equilibro a quei pensieri negativi. 
Doveva smetterla. La fine delle superiori non avrebbe segnato la fine di tutto. Loro due non si sarebbero lasciati per ancora molto, molto tempo. 
Namjoon si lasciò cadere sul letto disfatto, ignaro di tutto. Vestito dai soli boxer e dalla canottiera, si girò sullo stomaco con un colpo di reni, appioppandosi a uno dei cuscini con le braccia. 
Seokjin ebbe pochi secondi di tempo per ammirare una margherita dai petali lunghi quanto il suo dito mignolo disegnata sulla scapola dell'altro, uno dei pochi tatuaggi a colori, prima che quest'ultimo tornasse a cambiare posizione. 
Namjoon sospirò, il palmo della mano premuto malamente contro la fronte per bloccare la luce del lampadario. 
"Sono stanco morto." 
Seokjin gli si buttò praticamente sopra, incurante di fargli o farsi male. Tentò di infilarsi sotto le coperte muovendosi solo il minimo indispensabile, ma la cosa lo faceva assomigliare ad un lombricone senza arti più che rivelarsi efficace. 
Un verso soffocato di protesta uscì dalla bocca di Namjoon. Il suo ragazzo sarà pure stato uno schianto, ma non era certo un pesopiuma. 
Dopo averlo sistemato al suo fianco (ovvero, dopo esserselo scansato di dosso con un po' troppa forza e aver rischiato di farlo cadere dal materasso), Namjoon parve accorgersi dello stato di catalessi di Seokjin. Scosse la mano davanti ai suoi occhi un paio di volte. 
"Jinnie? Amore, tutto bene?" 
La voce dell'altro parve riscuoterlo. Gli occhi di Seokjin tornarono a focalizzarsi quando si voltò verso il suo ragazzo, la bocca semi-aperta, lo sguardo confuso e una ciocca rosacea di capelli a dividergli in due la fronte.
Intenerito da quell'espressione bambina, Namjoon si protese verso di lui, attento a non prendere contro il tatuaggio nuovo, e gli chiuse le labbra con le proprie. 
Seokjin non riuscì a ricambiare, destabilizzato. 
Quasi gli parve di sentire un filo di elettricità sulla pelle, come quando ci si sfrega un palloncino sui capelli.
Namjoon si separò per poi allungarsi ancora più avanti, raggiungendo l'interruttore della luce. Il buio calò nella stanza e i due ragazzi si sistemarono sotto le coperte alla cieca. Finalmente sdraiati sulle loro schiene, lasciarono che il sonno li tirasse verso il basso, inglobandoli. 
La mano di Seokjin vagò sul materasso, percorrendone le pieghe del lenzuolo; stava cercando la mano di Namjoon, ignaro che anche l'altro stesse facendo lo stesso. 
Si addormentarono prima di potersi trovare.
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Seokjin era in piedi quando aprì gli occhi su un mare di nero. 
Non era il nero della notte, vasto e arioso. Sembrava più il nero delle sale del cinema, le pareti ricoperte di quella spessa stoffa che attutisce ogni fonte di luce. Era uno spazio indefinito, senza ubicazione. 
Fu d'istinto che Seokjin si voltò quando una porta scorrevole venne aperta alle sue spalle, proiettando un rettangolo giallognolo ai suoi piedi. E come i girasoli, come gli animali, come le persone, sempre alla ricerca di uno spiraglio di luce, Seokjin ne valicò il passaggio.
Subito venne accolto in un'atmosfera più che familiare. Il chiacchiericcio della gente, le posate che prendevano contro i piatti, l'aroma di basilico nell'aria. Si trovava da Cup's. 
Senza dubbio si trattava di quel locale in particolare, ma pareva che qualcuno ne avesse ritagliato un perfetto quadrato, tagliando via gran parte della sala. Esattamente parallela alla porta scorrevole da cui era arrivato, nella parete opposta, se ne trovava un'altra; la porta in sé era ritirata all'interno del muro, mostrando la stanza a fianco. Da quel che Seokjin poteva vedere, aveva le stesse misure di quella in cui si trovava lui. E oltre a quella un'altra porta, un'altra stanza, e un'altra porta, e un'altra stanza, così, ancora e ancora, fin dove la sua vista si allungava. 
Prima di attraversare quella seconda porta, il ragazzo dai capelli rosacei si guardò intorno. 
Tutta la clientela di Cup's, ogni bambino, ogni cameriere era fermo immobile, bloccato nel tempo con la bocca aperta e una forchetta a pochi centimetri da essa, con il tovagliolo caduto a terra e una mano protesa, con un bicchiere in bilico e la tovaglia ancora asciutta. E il fulcro della scena era questo tavolo circondato da ragazzi, le loro espressioni entusiaste e i bicchieri alzati verso l'alto. 
Erano loro. Era il loro gruppo al completo qualche ora prima, quando Jungkook aveva annunciato la sua partenza. I vestiti erano gli stessi, ogni cosa era identica.
Seokjin si avvicinò a Hoseok, la sua bocca congelata in un sorriso perenne. 
Allungò una mano per richiamare l'attenzione del ragazzo, ma le sue dita ci passarono attraverso con un ronzio. Un ologramma. 
Non capendo, Seokjin passò oltre la terza porta.
Le foglie erano sospese nell'aria, come se il vento fosse in procinto di portarsele via. Al di sotto di esse, Namjoon e Seokjin sedevano su una fontana in disuso, intenti a pranzare. 
Oltre la quarta porta, Seokjin si vide stringere la mano del cugino di Taehyung. Passata la quinta sorrideva triste a Yoongi, le dita di quest'ultimo ancora strette sul piattino della tazza di Jimin. 
Erano tutti ricordi. Fotografie in quattro dimensioni.
Poteva sentirne suoni e odori, ma le immagini erano fisse. Ognuna di esse era immortalata in una cornice di sei metri per sei, collegate le une alle altre da un corridoio di porte. A Seokjin venne da pensare ai braccialetti di perline, tenute insieme da un filo di spago. 
Il ragazzo si voltò verso il ricordo da cui era venuto, penetrandolo con lo sguardo. Poteva ben vedere quella prima porticina in fondo che aveva valicato, chiusa. 
Adesso poteva indovinare perché tutto al di là di essa fosse così buio. 
Seokjin rimase immobile a guardarla da lontano, come se facesse parte del ricordo anche lui. Serrò la mascella, il suo tipico sguardo dolce spiegazzato dalle sopracciglia. 
Con il cuore e il passo pesanti, Seokjin percorse a ritroso tutti i ricordi, sfogliandoli in ordine cronologico. Una volta raggiunta la porta, la fece scorrere di lato; si assicurò di tenere una mano contro lo stipite per non farla richiudere, sporgendo il capo nel buio. 
Poteva vedere la pavimentazione continuare là dove era illuminata, poi il vuoto. 
Tirando a indovinare, si poteva dire che il corridoio proseguiva con le stesse logiche: c'era una stanza quadrangolare, divisa da un'altra stanza da una porta che a sua volta comunicava con un'altra stanza ancora, uguale a prima. 
Solo che di ricordi non ce n'erano. Erano tutti ancora da vivere. 
Seokjin guardò il suo futuro. Non vedendolo, ne ebbe paura.  
E quando Seokjin aveva paura c'era solo un posto in cui desiderasse essere. 
Tornò alla luce, ai ricordi, e si mise a correre. Corse indietro nelle settimane, nei mesi, negli anni, con un ricordo ben preciso in mente. 
Inspirò a pieni polmoni l'aria primaverile quando lo raggiunse, ansimante. Il profumo degli alberi di ciliegio l'inibriò, consolando in minima parte la sua angoscia. 
Un Seokjin di seconda superiore se ne stava in piedi di fianco a una panchina vuota, le mani nelle tasche della giacca per proteggere le dita dall'aria ancora fresca e il labbro intrappolato dai denti. Il suo sguardo era rivolto lontano, verso l'unica stradina che passasse per quella zona del parco. 
Il suo primo appuntamento con Namjoon. 
Il Seokjin del presente si sedette sulla panchina per riprendere fiato. Avrebbe voluto rassicurare il proprio double ganger, dirgli che non c'era bisogno di stare tanto in ansia. Il ritardo del loro ragazzo era dovuto alla solita sfortuna che pareva perseguitarlo, tutto qui. Non gli avrebbe dato buca.
Così Seokjin fece per poggiargli una mano sulla schiena, sapendo già quale sarebbe stato il risultato. Ma al posto di trapassarlo, sprofondò nell'oleogramma fino al gomito. Ritirò il braccio, sorpreso. Girò la mano un paio di volte ma gli parve immutata. 
Senza farsi più domande, Seokjin si alzò e mise i piedi esattamente sopra quelli del suo ricordo. 
Non indossava più il suo pigiama. Non era più a piedi nudi. Non poteva vederli, ma sapeva che il nero dei suoi capelli naturali aveva preso il sopravvento sul rosa. 
Si ritrovò stretto in quella giacca che ormai aveva buttato da tempo, il vecchio modello del cellulare spesso e pesante il doppio in tasca. 
Seokjin non stava semplicemente ricordando il momento, lo stava vivendo.
Una soffiata di vento gli alzò la frangia, strappò qualche petalo di ciliegio dagli alberi che lo sovrastavano. Quei petali vacillarono nell'aria, gli si posarono sulla spalla. 
Seokjin li lasciò lì, incurante. Tutta la sua attenzione era sul fondo di quella stradina. 
Per questo non si accorse di come, anche senza l'intervento del vento, una serie di petali e boccioli interi si staccarono dai rami, atterrando ai suoi piedi. 
Una distesa di rosa gli arrivò presto alle caviglie, ma lui era distratto. 
Il ragazzo pareva essersi dimenticato che Namjoon sarebbe arrivato prima o poi, in un modo o nell'altro. Lo stesso sottile senso di disperazione di quel giorno si era fatto strada in lui. 
I petali cadevano come neve. Lui pregava che l'altro si presentasse anche solo per dirgli che tra di loro non avrebbe funzionato. 
I fiori gli arrivarono alle ginocchia. Seokjin si dovette sforzare per non mettersi a piagnucolare.

Il nodo era troppo stretto alla gola di Namjoon. 
Lui si allentò la cravatta, ma gli risultò comunque difficile respirare. In realtà era impossibile fare praticamente qualsiasi cosa stretto in quel completo formale da lavoro. 
L'unico gesto che gli riusciva di compiere, che gli sembrava di aver già compiuto un centinaio di volte, era alzare il braccio per firmare quella sfilza di contratti che gli sfilavano davanti. 
Namjoon firmava senza leggere una singola clausola, senza neanche sapere che azienda lo stesse assumendo. Non aveva mai avuto la possibilità di firmarne anche uno solo, non avrebbe perso quell'occasione irripetibile. 
I fogli parevano svolazzare nell'aria, dandosi una raddrizzata solo quando gli si ponevano di fronte. 
Con una ventiquattrore alla mano e gli orecchini in tasca, Namjoon sollevò quella penna a sfera per la millesima volta. Non rimaneva che firmare l'ultimo contratto, l'ultimo scarabocchio, e finalmente avrebbe avuto un lavoro. Avrebbe potuto continuare gli studi e la sua famiglia non avrebbe più dovuto soffrire la sua retta scolastica. 
Ma l'ultimo foglio della pila si sollevò e volò lontano. 
Interdetto, Namjoon gli corse dietro. Lo bloccò al pavimento calpestandone un angolo con il mocassino. Il pezzo di carta parve immediatamente inanimarsi, arrendendosi al primo colpo. 
Namjoon si chinò a terra, ma qualcosa impediva alla punta della sua penna di poggiarsi al foglio. 
Quello che fino a quel momento era stato uno spazio ignoto si trasformò: una serie di specchi a figura intera emersero dal pavimento, circondandolo. Namjoon si ritrovò in almeno cinque riflessi differenti, più confuso che mai. 
Si guardò intorno, come per chiedere istruzioni a qualcuno che non era lì. Non c'era nient'altro. Nessun altro. Nessun rumore, niente di niente. 
La sua vista divenne tutta un biancore quando il foglio del contratto si liberò dalla sua presa per gettarglisi in faccia. Staccandoselo di dosso, Namjoon finì per guardarlo. 
Ne lesse il contenuto, come non aveva fatto per tutti i contratti precedenti. 
Quando finì, la soddisfazione nel suo sguardo gli era scivolata giù per le guance, scolorendole. Ma a Namjoon quel lavoro serviva davvero e ne avrebbe rispettato le condizioni. Poggiò la ventiquattrore a terra e l'aprì, pronto a fare la cosa giusta. 
All'interno, una spugna galleggiava nell'acqua pulita che aveva racchiuso per tutto quel tempo. Namjoon lasciò cadere la giacca del completo in un angolo del pavimento, si arrotolò le maniche della camicia fino al gomito. Prendendo un bel respiro, capovolse la ventiquattrore sopra il proprio capo, inzuppandosi. L'acqua era fredda, lo fece gemere. Namjoon sfregò le mani sugli occhi, tentando di alleggerire le ciglia bagnate da quel peso. 
Quando li riaprì, poté vedere la propria immagine oltre gli schizzi sugli specchi: la camicia gli si era incollata al corpo, facendosi trasparente; al di sotto di essa erano visibili i suoi capezzoli e tutti i suoi tatuaggi. 
E Namjoon avrebbe seguito le istruzioni. 
Al passaggio della spugna, i suoi tatuaggi sfumarono in macchie d'inchiostro nero. La pelle sottostante si arrossava, ma lui non smetteva di sfregare fino a quando non ne rimaneva che una distesa rosa. 
L'anella di parole inglesi si sciolse, la margherita sulla scapola appassì. I rami di un albero vennero spazzati via con niente dall'avambraccio, mentre una gabbietta per uccelli oppose più resistenza, ben appigliata al suo costato. 
Namjoon si passò poi le mani tra i capelli. Il colletto della camicia, ora aperta e inutilizzabile, si tinse di verde. 
Completamente ripulito ma senza più un singolo grammo di forza in corpo, Namjoon raccolse il contratto da terra, bagnandolo con le sue ditate. Andò ad appoggiarsi ad uno degli specchi e firmò, non trovando più resistenza. 
Per un attimo rimase a fissare la propria scrittura, gocce nerastre d'acqua che nel frattempo gli colavano giù per le braccia. Poi gli specchi si incrinarono, aprendo una voragine nera. 
Namjoon si aggrappò al pavimento con anche le unghie mentre tutti i contratti già firmati vennero risucchiati via. Vide sparire anche la spugna e la giacca del completo. Imprecò contro il pavimento scivoloso quando non riuscì a resistere e venne inghiottito pure lui. 
Namjoon si aspettò dolore, si aspettò schegge. Invece si stupì di essere vivo quando cadde di schiena in un mare di petali rosa. 
Fece per scattare subito in piedi, intenzionato a capire dove si trovasse, ma venne trattenuto a terra. 
Seguendo con lo sguardo la mano che lo tirava per un lembo della camicia, Namjoon trovò Seokjin. Subito si allarmò, temendo che il suo ragazzo stesse soffocando così sepolto sotto tutti quei fiori. Si mise a scrollare i petali dal suo bel viso con entrambi i pollici, le mani chiuse gentilmente intorno alla sua mandibola, ma il ragazzo non sembrava stare male: è vero, aveva le lacrime agli occhi, ma Namjoon non aveva mai visto un sorriso così beato sulle labbra di nessuno. Gli venne automaticamente da fare lo stesso, anche se dovette trattenere un singhiozzo.
E, come al solito, Seokjin non aveva bisogno di spiegazioni da parte sua per sapere. 
Ripescando la penna a sfera dell'altro tra i boccioli di ciliegio, il ragazzo dai capelli rosa prese il polso di Namjoon e lo pose sulle proprie ginocchia raccolte. Lo girò con delicatezza, in modo da avere la parte più interna, quella liscia dove l'abbronzatura non arrivava mai, rivolta verso di sé. 
Sovrastando tutte quelle striature nere, Seokjin ci disegnò una piccola rondine dalle ali spiegate.
 
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I due non seppero perché si svegliarono. 
Semplicemente aprirono gli occhi, contemporaneamente. 
Non si stupirono di ritrovarsi abbracciati, in un groviglio di braccia, gambe e coperte; quello succedeva spesso. 
Namjoon teneva il capo appoggiato al petto di Seokjin, la presa calda di quest'ultimo sulla sua schiena nuda che se lo premeva addosso. Il mento dell'altro riposava sopra il suo capo, le labbra carnose sfiorate dai capelli. 
Storditi, in un miscuglio di ricordi, paura, lacrime, sorrisi e buio, i due non osarono separarsi di un millimetro nonostante il sudore. Erano entrambi consapevoli che l'altro fosse sveglio, lo potevano dire dal respiro irregolare. 
Seokjin non seppe neanche che cosa gli prese all'improvviso. O forse lo sapeva, ma accusò il sonno di inibirgli i pensieri. 
"Joonie?" chiese, con un fil di voce. 
"Si?" 
Seokjin si inumidì le labbra prima di parlare, la bocca impastricciata di saliva. 
"Tu mi sposeresti?"

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Capitolo 7
*** FIRST LOVE ***


ECCOCI QUI. 
In questo capitolo c'è la scena che ha fatto nascere tutto sto mostro di storia. Vi sfido a capire qual'è e dirmelo nelle recensioni o su twitter DOVE VI ASPETTO SEMPRE EH @silbysilby 
Buona lettura. Ehe.


 
When I was in a pit of despair
I pushed you away and resented that I met you

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FIRST LOVE 

(37) November 5th, 2015 - Thursday

Le dita di Yoongi erano troppo intorpidite per snodare quel groviglio di fili che erano diventati i suoi auricolari. Si limitò a scrollarli un paio di volte, illudendosi di poter risolvere le cose a quel modo. 
Alla fine ci diede a mucchio e se li infilò alle orecchie così com'erano, con il malloppo direttamente sotto il mento. Sarebbe stato scomodissimo se stesse camminando, ma per fortuna non era il suo caso: Yoongi era ancora a letto, sdraiato al di sopra del morbido piumone. 
Erano le sette e mezza del mattino. Se non ci fosse stata religione come prima lezione del giorno sarebbe già dovuto essere su un qualche mezzo pubblico di trasporto. Questa ricorrenza settimanale era sempre stata celebrata da lui dormendo per tutto il tempo, fino all'ultimo secondo disponibile, facendo puntualmente tardi per la lezione successiva. 
Eppure, la cosa non sembrava valere per quella mattina. 
A dirla tutta, Yoongi non riusciva neanche a ricordarsi se alla fine si fosse addormentato.
Dopo che il taxi lo aveva riportato a casa la sera precedente si era buttato sul suo letto sfatto senza nemmeno cavarsi i vestiti di dosso. Si era sfilato giusto le scarpe bagnate e la cintura dei pantaloni, mollando il tutto sul pavimento. Aveva desiderato solo addormentarsi, addormentarsi e staccare la spina per un po'. 
Era esausto in tutti i modi in cui una persona poteva essere esausta, ma non era riuscito a prendere sonno. Doveva aver passato un bel po' di tempo in dormiveglia, palpebre e bocca socchiuse, ma non cadeva mai pienamente fra le tanto agognate braccia di Morfeo. 
Quando finalmente il sole aveva bussato alle imposte della sua finestra, ingiallendo tutto quanto, Yoongi non aveva saputo come reagire: da una parte si sentiva sollevato, libero di fare qualcosa che non fosse tentare di non fare niente; dall'altra gli venne solo voglia di alzarsi per chiudere la tapparella meglio. 
Doveva riuscire a dormire. Doveva. Fino a quando non avesse dormito sarebbe rimasto intrappolato nella giornata precedente, come se qualcuno gliene stesse servendo una seconda porzione. E lui non aveva digerito neanche la prima portata. 
La camera diventava sempre più calda, sempre più piccola, sempre più chiusa. Non aiutavano tutte quelle cartacce in giro, quelle pile di cose, oggetti, giornali, quaderni, libri, rovesciate ovunque, senza un filo logico, su ogni superficie disponibile. Un ospite avrebbe potuto pensare che la famiglia Min si fosse trasferita da poco, che dovevano ancora comprare mensole ed armadi, ma in realtà quella situazione di disordine era perenne, a dir poco storica. 
Yoongi sudava, eppure non mosse di un centimetro la coperta stropicciata attorno al suo corpo. Probabilmente i vestiti che aveva ancora addosso puzzavano da morire. 
Fino a quando nessuno sarebbe venuto a spronarlo giù da quel letto, lui ci sarebbe rimasto appigliato. E la cosa sarebbe potuta andare avanti per le lunghe, perché suo padre era già uscito per andare a lavoro e sua madre si stava facendo la doccia. Poteva dirlo dallo scrosciare dell'acqua, insistente contro la parete che la sua stanza condivideva con il bagno. In sottofondo si sentiva una qualche stazione radio, il volume indecente considerato l'orario. 
Il ragazzo non seppe dire se la sua mano trovò il cellulare in mezzo alle coperte o se semplicemente lo avesse impugnato per tutta la notte. 
Fatto sta che si portò il dispositivo a pochi centimetri dal viso e le dita di Yoongi non poterono frenarsi dal cercare un file preciso. Si disse che non lo avrebbe aperto. Che voleva giusto controllare che ci fosse ancora, che esistesse, come se la notte prima potesse essere stata tutta un grosso equivoco. 
Ma Yoongi era debole e masochista. Aveva schiacciato play ancor prima di finire di elencare i suoi buoni propositi.
Alla scadenza dei due minuti della durata del video, si ripromise di cancellarlo. 
Play.
Altri due minuti. Play
Play. 
Questa volta lo cancellava davvero.
Play. Play. Play.
A un certo punto, Yoongi smise semplicemente di raccontarsi storie. Ogni rimorso era stato segregato sotto una teca di vetro, lontano dalla sua ragione, quando lo fece ripartire per l'ottava volta. 
Tanto sapeva che sarebbe finita così. Era stato prevedibile dal momento in cui non aveva bloccato il video il giorno precedente, non appena aveva capito di cosa si trattasse. Quando uno dei suoi compagni di classe lo aveva condiviso in una chat di gruppo, Yoongi non aveva avuto modo di sapere cosa si sarebbe ritrovato salvato nella memoria del cellulare, ma non era una scusa abbastanza valida. 
Aggrovigliato in quella gabbia di stoffa e fili, il moro si sdraiò sullo stomaco, la fronte premuta contro un braccio. Aveva smesso di guardare il video, limitandosi ad ascoltarlo. 
Con gli occhi chiusi, l'effetto che aveva su di lui triplicava. 
Con le immagine private del potere di distrarlo, ogni soffio, ogni fruscio catturato da quello che era senz’altro un comunissimo cellulare, cacciavano la sua razionalità in un qualche buco nero della Galassia. 
Per l'ennesima volta, ad un suono ben preciso lo stomaco di Yoongi venne contorto da un piccolo spasmo. 
La volta dopo, stesso secondo dello stesso minuto del video, i suoi fianchi scattarono automaticamente in avanti.
A quel punto, Yoongi si bloccò. 
Sfilò un auricolare dalle orecchie, stando in ascolto. Il rumore della doccia c'era ancora. Quello della radio pure. 
Yoongi prese tutti i suoi valori e principi morali e li mandò a far compagnia alla sua razionalità. 
Gli occhi gli bruciavano, secchi. La sua bocca pareva aver ospitato il deserto del Sahara. Dopo aver passato una notte insonne, non ne aveva più per nessuno, neanche per sé. Avrebbe cercato la sua dignità sotto al letto più tardi. 
Sentendosi la persona più orribile e squallida del mondo, Yoongi fece scivolare un braccio a mediare tra il materasso e il proprio corpo, la schiena inarcata verso il soffitto, come un gatto. Con le nocche che sfregavano contro le lenzuola, slacciò il primo bottone dei suoi jeans e ci calò la mano dentro. 

(38) November 5th, 2015 - Thursday

Il cellulare di Jimin non smetteva di vibrare un attimo. Il ragazzo lo aveva ficcato nella tasca del cappotto dopo averlo messo in muto, ma si vide costretto a togliere anche la vibrazione. 
Era abituato a ricevere tante notifiche dai social, ma quella mattina parevano essere esplose. Lui non aveva avuto la forza e la voglia di darci un'occhiata, tanto meno dopo gli avvenimenti della giornata precedente. Ignorare quell'arnese infernale non avrebbe potuto causare tanti danni, anzi.
Jimin decise di concentrarsi sul presente. Su Jungkook e quella sua mano calda che lo guidava verso il fondo dell'autobus su cui erano appena saliti. 
Doveva essere a causa dell'orario, ma il veicolo era vuoto. Gli unici a fare compagnia ai due adolescenti erano un paio di signore anziane armate di buste della spesa, un gruppetto discreto di ragazzini e l'autista. D'altronde, l'ora di punta doveva essere finita una trentina di minuti prima. Jungkook e Jimin sarebbero arrivati in ritardo a scuola, ma ne valeva la pena. 
Quella mattina, non appena Jungkook aveva zittito la sveglia, non aveva potuto fare a meno di notare come l'altro stesse dormendo profondamente. Jimin sembrava così in pace con sé stesso, così bambino con la chioma arruffata e lo stesso pigiamone della volta precedente; ronfava beato tra le coperte pesanti, un involtino di calore e sogni da scordare. Jungkook si era vestito e lavato come al solito, ma aveva chiesto alla madre se fosse possibile lasciare che l'altro dormisse mentre lui andava a scuola.
La donna, ricordando al figlio che lo studio sarebbe dovuto essere la priorità di ogni ragazzo della loro età, gli aveva detto che Jimin poteva dormire un altro po', a patto che entrambi fossero presenti a scuola per la seconda ora. 
Jungkook aveva accettato il compromesso, soddisfatto. Si era potuto ritenere fortunato del fatto che sua madre non si fosse precipitata in camera sua all'istante per svegliare il povero Jimin. Di sicuro si sarebbe fatta un paio di domande sul perché la brandina fosse vuota e il letto del figlio occupato. 
Jungkook prese posto sui seggiolini più in fondo dell'autobus, quella fila da cinque sempre occupata dai ragazzi più chiassosi. Le loro cartelle vennero appoggiate nei posti lasciati vacanti, mentre i due si sedettero in quelli centrali.
Trattandosi di un mezzo pubblico, i seggiolini non avevano nessuna comodità particolare, né per la seduta rigida né per la stoffa ispida e sporca. Il castano si costrinse ad allontanare qualsiasi pensiero si avvicinasse all'evidente scarsità di igiene. D'altra parte, Jimin sembrava meno schizzinoso di lui. Quello, oppure era ancora molto stanco. 
Il ragazzo dai capelli argentei aveva aspettato che Jungkook si accomodasse prima di sistemarsi alla sua destra; si mise tutto scomposto, con una spalla premuta contro lo schienale, le gambe al petto e le punte delle scarpe contro le cosce dell'altro. Con uno sbadiglio più grosso del suo viso, la testa gli ciondolò di lato, premendosi a sua volta sull'orlo di plastica. 
Tra l'orario a cui era andato a letto la sera prima (direttamente con le galline considerando i suoi parametri) e quello posticipato di un'oretta del suo risveglio, Jimin aveva davvero dormito per un lasso di tempo imbarazzante. Eppure era ancora stanco. 
Jungkook non commentò, si limitò a guardarlo. 
Amava come le mattine fossero così pacifiche con Jimin. Era solo la seconda che passavano insieme loro due da soli, ma poteva già dire che fossero tutte così. La filosofia spensierata dell'altro pareva valere anche in questo. C'era silenzio, ma non dava l'impressione di dover essere riempito.
Perfino il modo in cui indossava il cappotto suggeriva sonnolenza. Jimin se lo teneva tutto chiuso attorno al collo con le mani, spiegazzando come poteva quella stoffa robusta. 
Jungkook si stava scaldando le nocche delle mani sfregandole contro i propri jeans quando Jimin tornò ad aprire gli occhi, tenendoli bassi. Erano più vispi di quanto tutto il resto del suo corpo non suggerisse. 
Il suo mormorio non infranse quella bolla di placidità che li avvolgeva. Avendo la guancia premuta contro lo schienale, le parole risultarono scandite male, come se stesse masticando. "Scusami per ieri sera. Alla fine mi sono addormentato."
Jungkook sbuffò, tutt'altro che irritato. Jimin non se li sarebbe nemmeno dovuti porre certi problemi. 
"Non ti devi scusare. Neanche io ero molto in vena."
"Forse lo saresti stato se non mi fossi messo a frignare." 
Un dito del castano schioccò sotto il mento dell'altro. Il gesto ebbe l'effetto desiderato, perché Jimin alzò lo sguardo su di lui in tutta la sua tristezza disarmante.
La voce uscì un filo troppo severa a Jungkook, ma era quello di cui l'altro aveva bisogno. "Non osare sentirti in colpa, Jimin, hai capito? Non mi devi niente. Sarei davvero un amico di merda a pretendere certe cose dopo quello che è successo." 
Jimin continuò a guardarlo dritto negli occhi, insicuro. 
Jungkook aggiunse un pezzetto in esclusiva al suo discorso. Non perché ci teneva che l'altro avesse quell'informazione, ma perché sembrava la cosa giusta da dire. Era ridicolmente vera. 
"E poi ieri sera ho rischiato la morte precoce, avevo bisogno di riprendermi. Per un attimo ho creduto che Yoongi sapesse di noi due." 
La lingua di Jungkook schioccò all'interno della bocca, come per pronunciare una singola 'c'. In contemporanea, il suo pollice tracciò una linea immaginaria che percorreva la sua gola orrizzontalmente, la testa che fingeva di cadere penzoloni.
Jimin ridacchiò. Non appena Jungkook risorse dal mondo dei morti lo premiò con un occhiolino affettuoso. 
La genuinità radiosa con cui il più piccolo subito dopo gli sorrise spinse Jimin a premiarlo una seconda volta; districò una mano dal cappotto solo per andarla a posare sul retro del collo di Jungkook, sbilanciandolo tutto verso di sé fino a quando le proprie labbra non furono premute contro quella guanciotta invitante. Al posto di stamparci un semplice bacio e rilasciarlo, Jimin lo trattenne vicino per strascicare tutta una serie di bacetti rumorosi, di quelli che si danno solo alle facce paffutissime dei bambini non abbastanza grandi da ribellarsi. 
Jungkook protestò tutto il tempo, mosse di qua e di là le braccia, ma non fece davvero niente per sottrarsi a quella presa. Quando venne liberato si sfregò il viso con la manica della giacca, l'espressione stomacata. 
Jimin rideva, rideva, e il suo sorriso non sarebbe mai stato troppo dolce per nessuno. 
Seduto su un autobus pubblico diretto verso la loro scuola, vestito dalla testa ai piedi, i capelli trattenuti da una berretta invernale e con ancora il profumo di sua madre impresso nella sciarpa allacciata al collo, Jungkook pensò che tutto ciò era quanto di più vicino ci fosse a fare davvero l'amore con Jimin. 
La situazione poi si calmò, ma Jimin non tornò alla stessa serietà di poco prima. Si limitò a distendere le gambe su quelle di Jungkook, facendoglisi più vicino. Appoggiò il capo alla spalla dell'altro, impedendo ad entrambi di guardarsi in faccia. 
"E allora grazie per avermi ospitato a casa tua anche 'sta notte." 
Jungkook intortò un sorriso a denti scoperti con una smorfia, sollevando gli occhi al cielo. "Sei così riconoscente con tutte le persone con cui vai a letto o siamo noi due a essere gli amici con benefici più deprimenti di Seul?" 
Il sorriso di Jimin era percepibile dalla sua voce. 
"La seconda, definitivamente."
Quando loro due smisero di parlare, l'autobus parve farsi silenzioso. Sì, gli altri giovani chiacchieravano, della musica commerciale suonava da più punti, ma non erano comparabili. Ci volle qualche minuto in cui Jungkook e Jimin godettero semplicemente della reciproca presenza prima di ritrovare un cappio al discorso. 
"Oggi hai qualche laboratorio pomeridiano a scuola?" chiese Jimin. 
"No, vado a casa di Tae. Perché? Avevi bisogno?" 
"No, no, tranquillo. Mi chiedevo solo se avessi il club di scherma, tutto qui."
Jungkook rifilò all'altro un colpetto con il gomito, percependo l'umorismo. Non sapeva come, non sapeva perché, ma a quanto pare le motivazioni riguardo a questa sua improvvisa passione erano più ovvie del previsto.
Jimin glielo confermò quando le sue risa si ridussero ad un sorriso prima di sparire del tutto. Il nuovo silenzio con cui inzuppò Jungkook era bagnato di parole impronunciate. 
"Kookie," disse, l'aroma del dispiacere che aleggiava nella sua voce. "penso che tra Taehyung e suo cugino ci sia qualcosa."
La serenità del più piccolo si scheggiò. 
Questa volta fu lo stesso Jimin ad auto-imporsi di non sentirsi in colpa. Non esistevano i momenti giusti per quel tipo ti cose. Preferiva essere sincero con il suo amico fin da subito piuttosto che far finta di non aver notato le condizioni in cui i due cugini erano usciti dal bagno di Cup's la sera precedente. Niente di indecente, ma era abbastanza ovvio che non si erano semplicemente fatti compagnia come due amichette. O almeno, sperava fosse la cosa giusta da fare. 
Jungkook sospirò attraverso il naso.
"Lo so." 
Le sopracciglia di Jimin si arricciarono, sorprese. "Come?" 
"Tempo fa si sono baciati. Me lo ha detto Tae."
Il tono che aveva usato sapeva di rassegnazione, come se si fosse già arreso alla cosa e fosse passato oltre. Ma quella sbavatura nella voce, il modo in cui le dita parvero irrigidirglisi qualsiasi cosa stessero facendo, lo smascheravano agli occhi di Jimin. Quell'ultima vocale, più che una 'o', gli era parsa più una piscina contenente tutta la tristezza di questo mondo.
Una mano di Jimin andò a posarsi sul ginocchio di Jungkook; si sistemò sul suo seggiolino, in modo da poterlo guardare degli occhi. 
"Stai bene?" chiese. 
Si aspettava che quella piccola scheggia iniziasse a crepare, facendo collassare tutto quanto, ma tutto rimase saldo al suo posto. Invece di rispondere, Jungkook avvolse le sue braccia attorno a Jimin, quasi fosse una colonna portante. Il ragazzo dai capelli argentei venne fatto sedere direttamente sulle cosce dell'altro, il mento di quest'ultimo appoggiato al suo capo. 
Sotto di loro il motore dell'autobus era un ronzio continuo, accompagnato dalla tipica vibrazione ogni volta che si fermava ad un semaforo. 
Jungkook poteva ben vedere come mai Jimin fosse tanto richiesto. 
Con quella statura minuta sembrava letteralmente pregare di essere sovrastato, di essere stretto. E il fisico tonico, ben delineato, era una calamita per mani. 
Jimin non possedeva neanche la metà delle caratteristiche estetiche di cui dovevano essere muniti i ragazzi per essere considerati oggettivamente belli, ma risultava perfetto comunque. 
Per non parlare del suo carattere. Jimin era la persona più piacevole che Jungkook conoscesse. Se c'era qualcuno che era in grado di avvicinarlo, fargli moine ed infastidirlo senza fargli desiderare di allontanarlo, quello era lui. 
Quindi Jimin era bello, era gentile e aveva consentito ad andare a letto con lui, fattore non trascurabile.
E allora perché Jungkook non smetteva di pensare a Taehyung una volta per tutte?
Forse per lo stesso motivo per cui Jimin trovava Jungkook adorabile e divertente, ma continuava a litigare con Yoongi. 
Il castano sostituì il proprio mento con la fronte, seppellendo il naso contro la chioma di Jimin. Poté sentire le braccia muscolose dell'altro ricambiare come potevano la stretta seppure la posizione non fosse delle più comode. 
Vista la reazione taciturna, Jimin non se la sentì di insistere. Si limitò a fare una domanda retorica ad entrambi prima di chiudere gli occhi, inconsapevole che Jungkook aveva appena fatto lo stesso. 
"Non sarebbe tutto più facile se ci fossimo messi insieme io e te fin dall'inizio?"
Qualcuno chiamò il campanello della loro stessa fermata. 

(39) November 5th, 2015 - Thursday

La fiamma dell'accendino non ne voleva sapere di stabilizzarsi. Taehyung continuava a far scattare la rotellina, ma poteva già sentire la punta del pollice irritarsi. 
"Sta attento. Così ti brucerai le dita." 
Jungkook fece per togliergli di mano l'aggeggio, ma Taehyung portò il braccio dietro di sé, mettendolo fuori dalla sua portata. Urtò la credenza alle sue spalle con le nocche, ma non se ne preoccupò. 
I due migliori amici erano accucciati sul pavimento della cucina del biondo, circondati da cartacce e sacchetti di caramelle. Fuori il tempo non doveva essere dei migliori, perché la luce pomeridiana che filtrava dalle finestre era opaca, grigiastra. Avrebbero fatto meglio ad accendere il lampadario, ma entrambi erano troppo pigri per alzarsi da terra e raggiungere l'interruttore. 
Un sorrisino sbucò sulla bocca di Taehyung, le sopracciglia che gli si inarcarono verso l'attaccatura dei capelli. Sapeva benissimo quanto l'altro fosse competitivo anche per le cose più futili e vedersi sottrarre a quel modo l'accendino doveva averlo irritato. 
Jungkook lo ignorò, ma quel suo corrucciare la bocca ovviava il suo fastidio. Tentò di camuffare la cosa bevendo un sorso di aranciata; quando ebbe finito, ripose il bicchierone azzurro di plastica rigida a terra, di fianco a quello in vetro di Taehyung. 
Quest'ultimo riuscì a far brillare una scintilla, ma non successe nient'altro. "Eddai," disse Taehyung scuotendo l'accendino, come se potesse effettivamente farlo funzionare. "Non mi sono sorbito tre anni di boyscout per dovermi ridurre ai fiammiferi." 
Al millesimo tentativo fallito, Jungkook porse una mano ben aperta a Taehyung. Sbuffando, l'altro ne fece un ultimo, poi ripose l'accendino sul suo palmo. 
Quella sua espressione imbronciata si tinse di una luce rossastra quando, nella penombra della stanza, Jungkook riuscì al primo colpo a far comparire la tanto agognata fiammella.
"Non è giusto..." brontolò il biondo. Jungkook andò a riparare con la mano l'estremo dell'accendino da un'aria invisibile. 
"Prendi i marshmellow, sono nella busta." 
Sentendosi già meglio all'idea di poter finalmente proseguire con la prima fase del loro piano, Taehyung sfilò uno stuzzicadenti dall'apposita confezione, anch'essa pronta all'uso sul pavimento. Fece uno spettacolo dell'infilzare una delle tante caramelle rosate, flettendo la sua voce profonda in un gemito di piacere. 
Lo sguardo di Jungkook si sollevò su di lui, il principio di un sorriso che gli tirava la bocca semiaperta. Per un attimo il riflesso limpido della fiammella non fu l'unica cosa ad illuminargli gli occhi. 
Poi Taehyung fece per mettere il marshmellow sulla fiamma, per cui Jungkook si disse che non era il caso di farsi distrarre. Nessuno voleva che quei capelli biondi prendessero misteriosamente fuoco, men che meno lui. 
I due osservarono in un silenzio religioso come le striature di nero tinsero lo zucchero. Le dita di Taehyung facevano ruotare lo stuzzicadenti per poterlo cuocere in modo vagamente uniforme. 
"Se mia madre ci vedesse in questo momento..." 
Nonostante la frase di Taehyung presagisse un continuo negativo, il ragazzo non si levò quell'espressione sbarazzina dal viso. Come se cuocere dei dolci senza niente a riparare il pavimento pulito lo rendesse un ribelle di prima categoria. 
La luce sempre più bluastra che inondava l'appartamento tingeva ogni cosa di lui, approfondiva le ombre celate nella sua felpa, scuriva il dorso delle sue mani. Allo stesso tempo, la luce emessa dalla fiamma dell'accendino gli tingeva i palmi di calore, baciava la punta lucida del suo naso. 
Era nei momenti come quello che Jungkook si diceva che l'unica cosa al mondo che non sarebbe mai stato capace di fare neanche con forza di volontà e allenamento, era staccare gli occhi dal suo migliore amico. 
Tenendo gli occhioni ben aperti, come per concentrarsi sul gusto, Taehyung si portò lo stuzzicadenti davanti al viso, ci soffiò appena e diede un primo morso. 
Il castano aspettò il verdetto. La lingua dell'altro fece capolino tra le labbra per raccogliere un filamento di zucchero bianco. 
"Com'è?" 
Taehyung non rispose. Si limitò a poggiare la metà restante del marshmellow sulla bocca di Jungkook che si ritrovò genuinamente curioso di sentirne il gusto. 
I due migliori amici si guardarono negli occhi, entrambi intenti a masticare. Quando presero ad annuire con il capo all'unisono, i volti della soddisfazione, scoppiarono a ridere. 

Jungkook e Taehyung erano sulla buona strada per onorare gli ultimi rimasugli di Halloween. Il sacchetto di marshmellow aveva fatto in fretta a finire; pure Eonjin si era presentata in cucina, reclamando qualche schifezza anche per lei e Jeonggyu che l'aspettava in camera. 
Come Taehyung aveva temuto, la sorellina se ne era approfittata. Mentre aspettava che il fratello arrostisse abbastanza caramelle, aveva buttato le braccia al collo di Jungkook. Avendolo lì, seduto sul pavimento, per una volta alla sua portata, non aveva neanche provato a resistere alla tentazione. Poi, come era prevedibile, la bambina aveva iniziato a far storie quando Taehyung ebbe finito, dicendo di voler restare lì con loro. 
Alle solite, Jungkook aveva provato a dire che gli stava bene, che la presenza della piccola non gli era di alcun fastidio, ma l'altro era entrato in modalità voglio-poter-stare-con-i-miei-amici-senza-marmocchi-intorno. Aveva messo il piatto pieno di marshmellow nelle mani della sorellina e le aveva fatto segno di lasciarli in pace, ignorando le sue proteste. Eonjin aveva lasciato la cucina sbuffando, il passo più pesante che una bambina delle elementari riuscisse a produrre. Quando arrivò alla porta che dava sul corridoio si voltò un'ultima volta, una boccaccia dispettosa sul viso. 
Da fratello maggiore qual'era, un ragazzo maturo con una decina di anni in più di esperienza, Taehyung le aveva fatto il verso. 
Si sentì la porta della cameretta di Eonjin sbattere. A seguire, un lungo silenzio. 
Questo tipo di battibecchi non erano certo una novità per Jungkook (anzi, erano la prassi giornaliera), ma non avrebbero mai smesso di imbarazzarlo un minimo.
Di solito il disagio veniva spazzato via semplicemente continuando a fare quello che si stava facendo prima dell'interruzione, o facendo cose nuove, ma nessuno dei due amici prese l'iniziativa. Continuarono a spizzicare tra i vari sacchetti, passando dal dolce al salato come niente fosse. Solo il rumore della plastica e dello scrocchiare delle patatine sotto i loro denti riempiva la cucina. 
Per quanto cercasse di non darlo a notare, il cambio di umore in Taehyung era lampante agli occhi di Jungkook. 
Normalmente addirittura il suo masticare era rumoroso e di presenza, ma sembrava che qualcuno gli avesse staccato la corrente. Teneva gli occhi bassi, lo sguardo nascosto sotto le lunga ciglia. Quando iniziò a prendere le patatine una alla volta al posto di ficcarsene una manciata in bocca, Jungkook si preoccupò. Smise di mangiare a sua volta, deglutendo il boccone prima di parlare. 
"Sono stato cattivo?" 
Taehyung lo aveva preceduto. 
Il castano si ritrovò spiazzato. Come avrebbe dovuto rispondere?
Cattivo non era la parola giusta, poco ma sicuro. Cattivo Taehyung lo sarebbe stato se avesse alzato la voce, se avesse torto un capello a qualcuno, se si fosse permesso di parlare al posto di loro madre, se avesse mandato via la sorellina dal principio. 
Jungkook era figlio unico e non aveva neanche tutto questo gran rapporto con cugini o altro, per cui non poteva davvero dare il suo giudizio per buono. Escluse a priori la possibilità di mentire: non ci avrebbe creduto nessuno dei due. 
"Cattivo no. Forse un po' prepotente."
Un sorriso amareggiato crepò le labbra di Taehyung, gli occhi gialli a terra. 
"Ultimamente non faccio che rispondere male a tutti." 
La mano di Jungkook volò automaticamente sul suo ginocchio. Non seppe cosa lo colpì di più, le parole di Taehyung o il modo in cui le aveva pronunciate. 
"E' un periodo stressante." provò. "E' normale che ti venga da sfogare così le tue-"
"No, Jungkook, non è normale. Non importa se sono stanco o altro, se tratto male gli altri sono una persona di merda a prescindere."
Taehyung aveva raddrizzato la schiena e ora guardava l'altro dritto nelle pupille. La pelle sulla sua mandibola era tesa, le sopracciglia screziate.
Jungkook si dovette ricordare che Taehyung non era arrabbiato con lui, ma con sé stesso. 
Tutte le volte che lo vedeva triste, arrabbiato, giù di tono, agitato, non poteva non sentirsi responsabile, anche quando non centrava niente. Come se fosse compito suo, in quanto migliore amico, mantenerlo stabilmente felice.
Jungkook sospirò, ritirando la mano. 
"Hai voglia di parlarne?" 
Taehyung tuffò una mano nei propri capelli, tirando appena una manciata di ciocche bionde. Tagliò i ponti con lo sguardo del ragazzo di fronte a lui, facendolo girovagare per i mobili della cucina. "Non è che ci sia molto da dire. Solo che negli ultimi tempi mi sento ancora più stupido del solito. Non faccio altro che perdere tempo e oziare, dalla mattina alla sera. Mi dico ogni giorno che quello successivo combinerò qualcosa, ma non muovo mai un dito. Siete tutti così impegnati con le vostre cose, con il lavoro, le scelte universitarie, le vostre passioni e a me sembra solo di rubare il vostro tempo."
Buttò giù un sorso di spremuta, come se il liquido potesse ammorbidirgli le pareti della gola e rendere meno evidente l'incrinarsi della sua voce. 
"Non so, ti sei mai sentito una totale nullità? Non nel senso di persona non popolare o con pochi amici, intendo più... non avere personalità. Non essere in un certo modo, non avere qualcosa che ti distingua dagli altri. Non essere insostituibili." 
Jungkook fece per aprir bocca, ma non ne venne fuori niente. 
Voleva essere comprensivo, far capire a Taehyung che quel che provava era normale, che non era il solo. Ma la verità era che poteva capirlo, ma non percepirlo. Jungkook aveva sempre così tante cose da fare, obbiettivi da raggiungere, allenamenti, corsi. Lui non aveva avuto neanche il tempo di fermarsi e guardarsi intorno, confrontarsi con gli altri. Era sempre stato troppo occupato a seguire la sua indole, semplicemente. 
A questo doveva star pensando anche Taehyung. Si lasciò sfuggire una risatina dal nulla, più un colpo di tosse che altro. 
"No. Ovvio che no." 
Taehyung si strinse nelle spalle, annuendo con il capo ad un pensiero a cui Jungkook non aveva accesso. 
La mente di quest'ultimo era una tavola rasa. Una vocina continuava a spronarlo di fare qualcosa, di mettere fino a questo sfogo che non aveva visto arrivare, a far tornare il buon umore così da potersi divertire insieme come prima. L'altra gli intimava il silenzio; che Taehyung stesse ferendo lui, sé stesso o entrambi, era uno spettacolo a cui doveva continuare ad assistere.  
Il ragazzo biondo era un fiume in piena. Era ovvio dal modo in cui parlava, dal peso di ogni sua parola pronunciata come fosse una condanna, che doveva essersi tenuto tutti quei pensieri per sé da molto tempo. 
Da parte sua, Taehyung si pentiva di ogni frase nel momento stesso in cui gli scappava dalla bocca. 
Era consapevole di star solo dando aria ai denti; non era certo parlandone che avrebbe risolto le cose. L'unica persona che aveva da biasimare era sé stesso, l'unico con il potere di cambiare le carte in tavola. Confidarsi con un'altra persona non aveva senso: stava solo aggiungendo un'ulteriore nota stonata alla sua immagine già imperfetta.
"Ti saresti potuto trovare un migliore amico migliore, Jungkook. Qualcuno che fosse speciale."
Taehyung sbuffò per un'ultima volta, esasperato. Arraffò con una mano la ciotola vuota sul pavimento e si alzò. L'altra mano appallottolò la manica lunga della maglia e strofinò ruvidamente una gota. 
Jungkook si alzò in piedi a sua volta. Fece un paio di passi nella stessa direzione, calpestando qualche cartaccia delle caramelle appena mangiate. Taehyung aveva raggiunto il non così lontano ripiano in marmo della cucina e, come aveva previsto, era intento a scuotere un sacchetto di patatine verso il basso, ammonticchiandole all'interno del contenitore. L'altro poteva solo fronteggiare la sua schiena, le spalle curve ed il capo chino. 
Certo, Jungkook si era sentito pungere il petto durante tutto il discorso di Taehyung, ma percepì comunque la differenza quando un fuoco parve premergli all'interno della bocca. Faceva male, un male bestia, ma non era descrivibile come un dolore fisico. Era come quando, mentre guardava un film, qualcuno veniva colpito a morte in modo particolarmente cruento; veniva naturale tastarsi la  parte del proprio corpo corrispondente, sentire ferite inesistenti. 
Una cosa era certa: non era la prima volta che provava qualcosa di simile.
Jungkook considerò l'idea di bere qualcosa, ma sapeva già che sarebbe stato inutile. Quel bruciore pareva volergli aprire le labbra a forza, ma lui avrebbe resistito. Sapeva che parole ne sarebbero uscite. 
Se lo era giurato tanti mesi prima. Non le avrebbe pronunciate.
Ma, per quanto fosse risoluto, il ragazzo riuscì solo a deviarne la forma.
"Lo sei. Speciale." 
Gli erano fuggite via, come pesciolini che nuotano controcorrente.
Jungkook restò fermo dov'era, le mani strette a pugno. Okay, non era stato in grado di tacere completamente, ma poteva ritenersi fortunato. 
Nonostante tutto, la casa gli parve all'improvviso dieci volte più silenziosa, dieci volte più vuota, dieci volte più blu. Deglutì, ma un altro pesciolino sfuggì alla sua rete. 
"Per me." 
Taehyung ripose il sacchetto nella credenza dopo averlo chiuso con un elastico. Restando appoggiato al ripiano della cucina si voltò verso l'altro ragazzo, gli occhi tristi e il sorriso grato. 
E' così bello, pensò Jungkook. Così infinitamente bello. 
Pur di vedere quel sorriso splendere un po' di più, la bocca di Jungkook quasi si aprì senza l'aiuto della maledizione della mela. Altre due paroline erano tutto quello che bastavano. 
Jungkook si dimenticò momentaneamente di tutte le cose che non andavano, dell'anno all'estero che doveva affrontare, della conversazione avuta con Jimin quella mattina. 
Dimenticò tutto e vide solo Taehyung. Taehyung così vulnerabile, con le sue ciglia lunghe, il viso sottile e le mani grandi. 
Per cui Jungkook si preparò a dirlo, una volta per tutte.
"Taehyung, ti-"  
Il campanello di casa squillò, irrompendo nell'atmosfera latente dell'appartamento. La persona alla porta doveva essere parecchio di fretta, perché due secondi dopo tornò ad attaccarsi al campanello, suonando a intermittenza. 
Il biondo camminò veloce verso la porta, le spalle rigide dalla sorpresa. Fece appena in tempo a scansarsi quando, non appena l'ebbe aperta, un esemplare selvatico di Kim Namjoon entrò in casa con la delicatezza di un ippopotamo. 
"Hoseok è qui?" 
Non si capì bene a chi stesse rivolgendo la domanda, ma il suo sguardo, dopo essersi guardato intorno come una furia, finì su Jungkook. Quest'ultimo batté le palpebre una, due volte, ma la sua espressione rimase impassibile. 
La realizzazione colpì il più piccolo del gruppo una manciata di secondi più tardi, mentre Taehyung era intento a dire al loro amico che il cugino non si trovava in casa in quel momento. Si diede un grande schiaffo da solo quando si tappò la bocca con una mano, incredulo. 
Jungkook si diede una scantata. Vide appena in tempo Namjoon uscire nello stesso modo in cui era entrato, più frenetico di quanto lo avesse mai visto. 
"Namjoon!" chiamò Taehyung dallo stipite, quel nome che rimbombava per le scale. "Tutto bene, amico?" 
"Non voglio parlarne con voi," fu la risposta dell'altro, la sua voce lontana. "mi serve un parere oggettivo!" 
Il biondo restò con lo sguardo fisso oltre la porta per un po' prima che qualcosa gli balenasse in mente. Tornò a rivolgersi a Jungkook, il suo tono di voce normale. "A proposito di Hobi."
L'aria afflitta che fino a un minuto prima aveva afflitto Taehyung pareva essergli stata sbalzata via dalle spalle con l'arrivo di Namjoon. Se fosse per autodifesa o altro, Jungkook non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo che, conoscendosi, entrambi ne avrebbero approfittato per riportare il loro pomeriggio su una strada più allegra, come se non si fossero mai aperti l'uno con l'altro.
Taehyung si voltò verso Jungkook, un nuovo tipo di imbarazzo ad impatinargli il viso. "Avrei un favore da chiederti." 
Jungkook si ripromise che più tardi avrebbe ringraziato Dio per avergliela fatta scampare bella. Se l'altro gli avesse chiesto di finire cosa stava dicendo prima non avrebbe saputo cosa inventarsi. 
"Dimmi pure." 
Taehyung appoggiò la mano a un fianco, rimanendo dalla porta che stava dimenticando di chiudere. "Non è che domani mi terresti Eunjin e Jeonggyu?" 
"Intendi prima di uscire con il gruppo?" 
L'altro annuì.
"Uhm, okay. Direi che non c'è problema. Hai qualche impegno particolare?" 
Il castano lo chiese per pura curiosità. Arrivato a metà della risposta di Taehyung, capì che avrebbe preferito rimanerne all'oscuro.  
"Mia madre e mia zia staranno fuori tutta la giornata e ci hanno detto che torneranno per cena. Sai, Hobi ed io, ecco..." 
Un sorriso, diverso da tutti quelli che erano mai stati rivolti a Jungkook. 
"...domani vorremmo portare un po' di roba al nuovo appartamento. Dovrei lasciare i due marmocchi da soli, e se combinano qualcosa mamma mi uccide. E poi dobbiamo parlare e a casa non esiste la privacy." 
"Oh," fu l'unica cosa che riuscì a dire Jungkook. Oh
Lui non era stupido, e non era neanche cieco, ma la cosa lo prese alla sprovvista. Un conto era sapere, immaginare cosa legasse i due cugini. Un altro era venire coinvolto per facilitargli il tutto, qualsiasi cosa tutto fosse.
Per la terza volta nel giro di una sola chiacchierata, Jungkook sentì un altro tipo di dolore. 
Taehyung, d'altro canto, non era mai stato un gran osservatore, su questo Yoongi aveva ragione. Al disagio dell'altro cercò di far ammenda con una risata nervosa, grattandosi il capo. 
"Giuro che per oggi i discorsi imbarazzanti sono finiti. Ti va di giocare alla Wii?" 
La risposta di Jungkook sarebbe tardata ad arrivare anche se un ciocco non fosse risuonato per le scale del corridoio. Lo seguì quello che era senza dubbio un gemito di Namjoon che nel giro di mezzo minuto fu di nuovo all'interno dell'appartamento. Entrò tenendo il cellulare in bella mostra davanti a sé, come fosse un pass o il distintivo di un poliziotto. Con i frammenti dello schermo distrutto che ancora cadevano a terra, prese il telefono di casa di Taehyung, blaterando scuse su scuse. 
Sempre più confusi dal comportamento atipico del ragazzo, i due migliori amici guardarono Namjoon attraversare la porta a vetri che dava sul balcone, chiudendosela alle spalle. 

(40) November 5th, 2015 - Thursday

Le dita di Yoongi affondarono tra i tasti del pianoforte. 
Le lezioni erano finite, i laboratori pomeridiani iniziati, tanti studenti se ne erano tornati a casa e altri avevano pranzato insieme. Non che gliene fregasse molto. Per lui l'importante era che l'aula di musica si fosse svuotata. 
Tecnicamente non si sarebbe dovuto trovare lì; il patto con il professore era valido una volta a settimana, ma Yoongi riteneva che almeno un'eccezione gli fosse concessa. Non progettava di allenarsi per ore ed ore, gli sarebbe bastato sgranchirsi le dita per una ventina di minuti e poi avrebbe lasciato l'edificio senza dare problemi a nessuno. 
Doveva soltanto sperare che i bidelli non lo chiudessero dentro a chiave per ripicca, che a pensarci bene non sarebbe stata comunque una cosa così grave. Quasi trovava l'idea allettante. Yoongi poteva nascondersi nel grosso armadio delle percussioni e passare la nottata all'interno dell'aula, pronto a tornare a lezione l'indomani mattina. 
Non aveva neanche il problema del cibo: chiuso com'era il suo stomaco, non sarebbe riuscito a buttar giù qualcosa neanche se lo avesse avuto con sé. 
Per far passare tutto quanto gli bastò arrotolarsi le maniche della maglia oltre il gomito, la felpa e la giacca che pendevano dall'attaccapanni riservato agli insegnanti. Con il bordo sfilacciato dei jeans ancora nero di pioggia, Yoongi pigiò uno dei pedali del pianoforte, regolandone il suono. 
Chiuse gli occhi ancor prima di iniziare a suonare. 
Non aveva preso spartiti con sé, non aveva niente sui cui esercitarsi o nuove scale da memorizzare. Aveva tutte le intenzioni di lasciarsi andare, di far scorrere le dita sotto dettato dell'istinto, pescare in un mare di note l'unica melodia che potesse assomigliare a quello che si teneva dentro. 
Quando faceva così capitava spesso che incappasse in melodie già familiari, magari studiate tempo prima, ripetute al punto che le sue dita ne seguivano automaticamente il percorso già tracciato. Di solito non appena se ne accorgeva si limitava a stravolgerle, a mischiarle con altro, fino a renderle irriconoscibili. 
Ma questa volta Yoongi si estraniò al punto da non riconoscere lui stesso quel motivetto già sentito. E si sarebbe anche dovuto accorgere che qualcos'altro non andava, che qualcos'altro si stava velocemente facendo strada in lui. 
Se non fosse stato così travolto dai suoi sentimenti, il moro avrebbe potuto sentire quel qualcos'altro nascere la sera prima, aggrovigliarsi alle sue viscere e appisolarsi lì. Era solo grazie a quel suo reprimere le emozioni troppo forti che la maledizione della mela non era riuscita a far presa su di lui nell'immediato, quando Jimin lo aveva baciato. 
Ma adesso Yoongi aveva abbassato le difese per trasformare ogni cosa in musica, esponendosi. Non sarebbe stato risparmiato. 
La maledizione non parve neanche inglobarlo in un sol boccone. Ne venne assorbito gradualmente, come se la realtà stessa si stesse trasformando. Yoongi non percepì la differenza; continuò imperterrito a suonare alla cieca, l'ombra che cadeva tutt'intorno a lui sotto forma di polvere.
Aprì gli occhi solo quando tutto si era fatto nero. 
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La stanza non possedeva più pareti. O forse era semplicemente il mondo a non esistere più. 
A Yoongi non importava, come sempre del resto. 
Aveva il suo pianoforte, un pianoforte a coda magnifico che in nessuna vita passata o futura avrebbe mai potuto descrivere come suo, e aveva tutto il tempo per suonarlo.
L'acustica era perfetta. Le note erano cristalline, pulite, accordate con precisione. 
Se si fosse trattato di un sogno qualsiasi, se Yoongi fosse stato di un altro umore, ci avrebbe suonato la più fine delle melodie, la più dolce delle ninne-nanne.
Peccato che lo spirito di Yoongi fosse tutto acido e fumo.  
Le sue mani piombarono sui tasti, pesanti, veloci. Correvano furiosamente su e giù, picchiavano con cattiveria sui toni più bassi per poi farli stridere con una seconda voce acutissima. 
Non lasciava neanche il minimo respiro tra una nota e l'altra, riempiva il silenzio di rumore e caos. La melodia originaria si percepiva appena sotto tutto quel trambusto e Yoongi continuava a seguirla facendola crescere, crescere, crescere, lavorandoci sopra, improvvisando scale sempre più fisicamente contorte e veloci da eseguire. 
I capelli scuri del ragazzo gli si attaccarono alla fronte per il sudore mentre trovava sempre più difficile rimanere seduto allo sgabello. Il suo viso era una maschera di rabbia, gli occhi docilmente chiusi fino a pochi attimi prima ora strabuzzati, le pupille piatte, dure e color giallo. 
Yoongi calciò via lo sgabello che cadde alle sue spalle con un tonfo tremendo. Tenendo le ginocchia piegate, continuò a suonare all'impazzata, ogni mano che andava per i conti propri.
Fu allora che si accorse di una macchiolina color porpora sulla sua maglietta. 
La musica stonò, tuonando. 
Per un attimo la testa di Yoongi si svuotò completamente dalla curiosità. 
Con le mani dolenti, andò a premere l'indice sulla macchiolina in estensione. Non solo gli parve di pungersi, ma la punta del suo dito si macchiò dello stesso rosso. 
Yoongi si sollevò la maglietta verso l'alto senza sfilarsela, scoprendo giusto la zona interessata. Il suo sussultò risuonò dieci volte più forte in quel silenzio di tomba. 
Qualche centimetro sopra il suo ombelico e sotto il costato, una piccolissima puntina triangolare spuntava dal suo stomaco. Ne avrebbe potuto vedere il bianco cangiante se non fosse stata ricoperta di sangue. 
Cercando di mantenere la calma, Yoongi la prese tra l'indice e il pollice e la tirò in avanti, come se si trattasse di una scheggia. Con suo orrore, la ferita si allargò di conseguenza, provocandogli un dolore lancinante che lo piegò in due. Quella che prima era una puntina di bianco ora era una vera e propria linguetta di carta. 
Con le lacrime agli occhi e i denti digrignati, Yoongi la strattonò via dal suo corpo. In un qualche modo ne sentì subito la mancanza, come se fosse stata per tutto quel tempo stretta tra due lembi di carne viva che ora trovavano difficile riallacciarsi tra di loro.  
Yoongi si premette forte una mano contro lo stomaco, pregando che il gesto potesse rallentare, se non fermare, la perdita di sangue. Si appoggiò con l'altra mano al pianoforte, raschiando aria per i suoi polmoni. Solo in un secondo momento si decise a dare un'occhiata a cosa cavolo si era sfilato di dosso. 
Quando i suoi occhi si posarono sul quel rettangolo cartaceo, che per sua fortuna non era più largo di un palmo della mano, gli venne voglia di piantarsi le unghie nella ferita ed allargarla per vedere se sarebbe morto dissanguato. 
Se fosse stato lucido avrebbe potuto capire anche solo al tocco che quel tipo di carta rigida era quella che si usava per stampare fotografie. 
E infatti era quello che si era ritrovato tra le mani. Una fotografia venuta un po' mossa, macchiata in più punti di un rosso che le dita di Yoongi si affrettarono a far scivolare via. 
Jimin, sempre così posato, così invulnerabilmente fine, aveva le gote chiazzate di rosa, le ciglia più visibili perché bagnate. Teneva le mani strette a pugno vicino al petto, incapace di rilassarle contro le cosce. Gli angoli della bocca erano rivolti verso il basso in un'espressione prossima al pianto. 
Cazzo.
Come cazzo era possibile. Come. 
A giudicare dalla prospettiva, dal modo in cui gli occhi di Jimin così rossi e grandi guardavano dritto nell'obiettivo, pareva fosse stato Yoongi stesso a scattare la foto. 
Il moro non si diede tempo di pensare. 
Aprì il coperchio superiore del pianoforte a coda e lasciò cadere l'immagine al suo interno. La osservò finire subito in basso, appesantita dal liquido che la impregnava almeno in parte. Quando atterrò non venne accolta dagli interni dello strumento; una distesa di fotografie della stessa misura tappezzava tutto quanto, si infilava negli ingranaggi e veniva stropicciata da questi ultimi. Incredulo come non mai, Yoongi allungò una mano verso una manciata di loro, portandosele vicino al viso. 
Jimin. 
Jimin. 
Ancora Jimin. 
Jimin alle medie, Jimin in seconda superiore. 
Erano tutti momenti su di lui, tutti ricordi che per Yoongi avevano un certo peso, che fosse positivo o negativo. Erano tutti quegli episodi a cui ripensava quando suonava il pianoforte. 
Ormai il moro si muoveva in automatico, senza rispondere più al cervello. 
Sfilò dalla tasca dei pantaloni il suo accendino e diede fuoco alle fotografie che aveva in mano, per poi farle ricadere dove le aveva trovate. Restò a guardarle contagiare tutte quelle intorno, dando inizio a un crepitio leggero leggero che accompagnava l'aggrinzirsi dei bordi e l'oscurarsi delle immagini. 
Un minuto dopo, Yoongi, ritrovata la sua calma flemmatica, andò a raccogliere lo sgabello da terra e si risedette al pianoforte.
Come lo strumento potesse suonare tanto bene quando persino gli ingranaggi interni stavano prendendo fuoco era un mistero. 
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(41) November 5th, 2015 - Thursday

L'appartamento di Taehyung faceva parte di un condominio. Anche se l'informazione fosse passata prima per la testa di Namjoon, il suo problema era così urgente che se ne sarebbe fregato comunque. Gli altri condomini erano tutti molto vicini, gli appartamenti dello stesso in cui si trovava ancora di più, e di sicuro lui non era conosciuto per la sua vocina delicata. Mezzo mondo avrebbe sentito la sua telefonata, era ufficiale. Almeno avrebbe ravvivato il loro noioso giovedì pomeriggio.
Namjoon premette veloce i tasti sul telefono, portandosi l'aggeggio all'orecchio. Mentre aspettava che la chiamata partisse si voltò verso l'interno della casa, le gambe che non riuscivano a stare ferme. Attraverso la vetrata, Taehyung e Jungkook ancora lo stavano fissando; fece segno loro di sparire, intimandogli di non origliare. Scambiandosi occhiate confuse, i due furono accondiscendenti e si diressero verso il salotto lì a fianco. 
Namjoon saltellò, batté la mano libera contro la coscia, improvvisò un motivetto con la punta del piede, ma niente lo aiutò a far passare più velocemente gli interminabili secondi che ci vollero a Hoseok per rispondere. 
"Pronto?"
"Ehi, Hoseok. Sono Namjoon, l'amico di Tae. Mi serve un parere oggettivo. Ti disturbo? Giuro, ci vorrà poco." 
Anche se non avesse precisato quest'ultima cosa, Hoseok lo avrebbe dedotto comunque. Qualsiasi conversazione mantenuta allo stesso ritmo con cui Namjoon aveva appena parlato, iniziando una frase ancor prima di finire l'altra, non mangiandosi ma ingurgitandosi le parole, non sarebbe durata a lungo. Era già tanto che fosse riuscito a capirci qualcosa. 
"No, non mi disturbi. Hai detto che hai bisogno di un parere oggettivo?" 
"Hai presente Seokjin? Spalle larghe, capelli rosa, risata stramba? Ecco, lui è il mio ragazzo. Noi due siamo innamorati. Vuol dire che stiamo insieme. Facciamo sesso." 
Il principio di una risata scappò ad Hoseok. Non aveva certo avuto molte occasioni per conoscere l'altro, ma questo ragazzo con cui stava parlando al telefono tutto agitato e logorroico gli stava già in simpatia. "Si, lo avevo notato." 
Namjoon si aggrappò con una mano alla balconata, sfidandosi a rimanere fermo per più di cinque secondi. Aveva già dedotto che il balcone era lungo e largo abbastanza per farci avanti e indietro una decina di volte (o un centinaio).  
Lo stava per dire ad alta voce, lo stava per rendere reale. Solo al pensiero gli si stringeva la gola. 
"Credo mi abbia chiesto di sposarlo." 
Il silenzio dall'altra parte della linea durò un nanosecondo prima che la voce di Hoseok esplose, di un paio di ottave più alte. 
"Oh mio Dio! Congratulazioni!" 
"Nonono, non congratulazioni! E' un gran casino! Stavamo dormendo e lui a un certo punto me lo ha chiesto e io ho detto sì e lui è tornato a dormire e io sono rimasto sveglio tutta la notte a pensare, quando avrei dovuto pensarci prima! Insomma, stiamo insieme dall'era dei dinosauri, ma siamo giovani, è presto, e inoltre io e lui ci confrontiamo sempre su ogni minima cosa, anche sulla politica o sui nuovi cartoni animati di Barbie, che a quanto pare sono ancora più ignoranti di quando eravamo piccoli noi, com'è possibile che non abbiamo mai, e dico mai, parlato di matrimonio? E' per questo che non riesco a credere che l'abbia fatto. Magari era ubriaco marcio e io non me ne sono accorto."
I polmoni di Namjoon lo costrinsero a inalare un filino d'aria, o sarebbero collassati.
"Ma adesso come faccio? Non posso affrontarlo. Se lui stava scherzando e io gli chiedo se era una vera proposta risulterò pietoso e un idiota, se invece glielo chiedo ed era serio penserà che allora sarò stato io a rispondergli alla leggera, scambiando uno dei momenti più importanti della nostra storia- ma che dico, uno dei momenti più importanti delle nostre fottute vite, per una barzelletta e rovinerò tutto, in entrambi i casi. Ommiodio. E se la prossima volta mi chiede i nomi dei nostri figli?" 
"Namjoon. Frena. Prendi fiato."
Il ragazzo dai capelli verdi seguì le istruzioni. Era nei momenti come quello, quando si faceva prendere dal panico e blaterava parole su parole, che si diceva che in un'altra vita avrebbe benissimo potuto perseguire la carriera del rapper. Altroché lavoro d'ufficio. 
"Non fasciarti la testa prima di romperla. Vediamo di affrontare una questione alla volta." 
"Okay." rispose Namjoon. Tentò di riprendere il controllo di sé, costringendosi a svuotare liberare la testa e pensare in modo chiaro e pulito. Si appoggiò con la schiena alla parete alle sue spalle, il berretto rosso che attutiva il contatto tra la sua nuca e i mattoni. 
"Rispondi a una semplice domanda: Namjoon, tu vuoi sposare Seokjin? Sì o no?" 
Sposare Seokjin. 
Già solo quelle due parole gli sapevano di calore. Di promesse. Di pan di zenzero e cioccolata.
Namjoon si ritrovò a socchiudere le palpebre. Un sipario calò su quel cielo plumbeo che si stagliava sopra di lui. 
"Si." disse, la voce ferma. "Lo voglio." 
Il sorriso di Hoseok era percepibile attraverso la linea.
"E allora il problema qual'è?"
Una fossetta fece capolino sulla guancia dell'altro. Sembrava tutto così semplice messa così. Forse lo era davvero.
Intuendo che Namjoon avesse bisogno di pensare, Hoseok lo rassicurò come meglio poté. 
"Non avere paura di parlarne con Seokjin; scommetto che anche lui è nella tua stessa situazione ed è indeciso se affrontarti o meno. Vedrai che andrà tutto bene. Solo, non menzionare la cosa dei vostri figli, magari." 
Namjoon annuì, anche se l'altro non poteva vederlo. 
Era definitivamente più tranquillo. Non del tutto, ma di più. Non sapeva se la cosa fosse dovuta al semplice potere terapeutico dello sfogarsi, ma l'importante era che fosse servito a qualcosa. E aveva fatto bene a cercare Hoseok; gli altri erano troppo coinvolti, sarebbero stati di parte. Yoongi non avrebbe cavato un ragno dal buco, Jungkook avrebbe trovato mille e più motivi per cui la cosa era troppo precoce e Taehyung si sarebbe impuntato per essere quello a consegnare loro le fedi durante la cerimonia. 
"Grazie, Hoseok. Sei un amico, davvero." 
"Non c'è di che. Dovere." 
Con un ultimo ringraziamento, Namjoon pose fine alla telefonata. Questa volta, sospirare fu un sollievo. 
Dall'altra parte di Seul, Hoseok appoggiò il cellulare sul divano a cui era seduto con un sorriso. 
"Cosa ha detto?" 
Di fronte a lui, tutto accucciato in una poltroncina dal design elegante, Kim Seokjin lo guardava con occhi speranzosi, due guance chiazzate di rosso e una montagna di fazzoletti umidi ammonticchiati sulle ginocchia.

(42) November 5th, 2015 - Thursday

Un gran bel paio di bicipiti tenevano Jimin stretto ad una parete. Erano notevoli, soprattutto se esposti a quel modo. 
Il ragazzo rimasto in canottiera che lo sovrastava era a dir poco altissimo; doveva starsene tutto curvo con la schiena per poter arrivare con la bocca alla sua gola. Jimin avrebbe tanto voluto dire di starsi godendo la cosa, incoraggiare l'altro a far di più, ma quel giorno non era proprio in vena di bugie. 
Non era sicuro che quel Dean gli stesse facendo un succhiotto. Era più probabile che stesse tentando di prosciugargli tutto il sangue che aveva in corpo a giudicare da quella sua tendenza ad affondare un pelino di troppo i denti. La sua presa sui polsi del più piccolo era troppo ruvida, come se lo volesse appendere al muro. 
I due si trovavano all'interno dello sgabuzzino dei bidelli, stretti tra credenze di prodotti per pulire, interi pacchi di rotoli di carta igienica e mocci. Jimin si sarebbe completamente scordato di quell'impegno se non glielo avesse ricordato il suo cellulare con un promemoria. Era già da qualche settimana che Dean insisteva affinché si trovassero il giovedì, dopo le lezioni: la sua ragazza a quell'ora aveva il club di cucina, ma voleva comunque essere aspettata fino a fine lezione per tornare a casa insieme. Inutile dire che, in quell'ora di attesa, Dean si era sempre annoiato a morte. 
Quando si erano dati appuntamento, Jimin non ci aveva visto niente di male, anzi.
Invece adesso sembrava tutto così sbagliato. 
Non perché Dean fosse impegnato, quella era una storia che aveva sentito troppe volte per poterlo vagamente scalfire. Per quello si era sempre detto che certe persone semplicemente non erano nate per le storie d'amore esclusive o avevano bisogno di una distrazione dal solito partner di tanto in tanto. 
Jimin si sentiva sbagliato perché non riusciva a divertirsi. Non riusciva a farsi coinvolgere dalla passione dell'altro, non sentiva risvegliarsi quel lato giocoso che aveva sempre la meglio su di lui in questo tipo di occasioni. Il corpo che premeva contro il suo era solo un peso. 
La cosa gli ricordava vagamente di quando da piccolo si addormentava sul divano; sua madre insisteva nel mettergli la coperta, anche se era estate e faceva caldo.
Mangiarsi una barretta al cioccolato fondente per colazione era stato dieci volte più appagante. Ecco, ora che aveva fatto questo paragone, Jimin poteva vedere con chiarezza il suo futuro: sarebbe diventato una palla di ciccia apatica. Di sicuro era sulla buona strada. Con il mento oltre la spalla di Dean, fissava con occhi vacui quell'unica lampadina nuda appesa al soffitto.
Jimin si sarebbe voluto raccontare di non sapere perché si sentisse così. Eppure, quando prima aveva evitato di proposito un bacio diretto sulla bocca, lo aveva capito benissimo. 
Al contrario, Dean non doveva essere uno molto perspicace. Aveva continuato dritto per la sua strada, indisturbato. Jimin lo aveva lasciato fare, ma pensò che fosse il caso di mettere un punto alla cosa quando un paio di mani andarono ad aggrapparsi alla cintura dei suoi jeans.
"Dean," chiamò. Appoggiò i palmi delle mani sul petto dell'altro, allontanandolo. "Non sono dell'umore oggi. Scusa."
Lo spilungone non batté ciglio. Fece subito per chiudere il nuovo spazio tra di loro. "In teoria queste cose non si fanno per migliorarlo l'umore?"
"Non insistere. Non ne ho voglia." 
Jimin fece forza con le braccia e si guadagnò un po' di ossigeno. Capendo l'antifona, Dean si limitò ad appoggiarsi con la schiena sulla prima superficie verticale a disposizione in quello spazio ristretto. La delusione sul suo viso era evidente, così come lo era il rigonfio sotto i suoi pantaloni.
Il ragazzo dai capelli argentei era intento a richiudersi i bottoni della camicia quando le parole dell'altro lo interruppero. 
"E' per via del video? Ti hanno dato noie?" 
Dean venne guardato con tanto d'occhi. 
"Che video?" 
"Quale video secondo te?" 
La domanda di Dean era ironica, come se il soggetto della loro chiacchierata fosse più che ovvio. Evidentemente l'espressione dell'altro era abbastanza confusa, perché gli diede un indizio, come a voler risvegliare la sua memoria. 
"Dai. Il video. E' iniziato a girare ieri sera. Tu e Fred Johnman." 
In un tentativo di capire, Jimin ripeté pari pari. Si indicò il petto con l'indice, inconsciamente. 
"Io e Fred Johnm-"
Capì. 
Jimin capì. 
Jimin capì e gli venne voglia di urlare. 
Gli balenò tutto alla mente in un secondo: la mattinata dopo Halloween, la camera da letto; quella strana ragazza seduta a terra, la sorella di Fred Johnman; "Me lo ha chiesto lui. Di filmare, intendo."
Aveva detto che non l'avrebbe messo in rete e Jimin si era fidato, da stupido qual'era. Avrebbe dovuto farle cancellare tutto a prescindere. Aveva ogni diritto di farlo eppure non aveva mosso un dito. 
Una seconda consapevolezza colpì Jimin, dritta come un pugno sul naso. L'esistenza di un suo sex-tape spiegava tante cose, ma il fatto che fosse stato pubblicato proprio la sera precedente ne spiegava una in particolare. 
Spiegava perché, dalla primissima frase con cui aveva attaccato Jimin e Jungkook, Yoongi non avesse mollato il cellulare neanche un secondo. Spiegava da dove era sfociata tutta quella rabbia, così fuori posto, così violenta, così imprevista durante quella serata tra amici.
E ci credeva che Yoongi fosse andato letteralmente in bestia. Con il moro bastava la minima battuta, il minimo sguardo per scatenare un putiferio. Figurarsi un sex-tape. 
Jimin aveva scazzato. 
Aveva davvero, davvero scazzato. 
Non poteva neanche immaginare come si doveva essere sentito Yoongi. La reazione se l'era sorbita tutta, invece, personalmente ed in diretta. 
Si rivide d'avanti agli occhi quello sguardo furioso, il modo in cui gli era apparso spezzato dentro. E lui l'aveva pure preso a schiaffi. 
Senza grandi congedi, Jimin uscì dallo stanzino. Dean sembrava stargli dicendo qualcosa riguardo al sentirsi per messaggio, ma lui era già a metà del corridoio. 
Tutto quello a cui pensava era cercare Yoongi, chiamarlo al cellulare, dargli delle spiegazioni, ma la cosa non gli andava totalmente giù. Sarebbe stato come porgli le sue scuse e Jimin non aveva oggettivamente niente di cui scusarsi. Yoongi non aveva alcun diritto su di lui. 
Tutte queste pare mentali si rivelarono inutili quando una melodia familiare giunse alle sue orecchie, lontana.
I piedi di Jimin si piantarono sul posto, immobilizzandolo al centro del corridoio vuoto. 
Era un pianoforte. Era senza dubbio un pianoforte. Non si trattava di un cd di una qualche orchestra. Era un pianoforte e quello a suonare era lo stesso pezzo che era stato eseguito da Yoongi al concerto delle medie. Sembrava in un qualche modo diverso, più tetro, ma avrebbe riconosciuto quella manciata di note arrangiate in tutti i modi possibili. 
Un senso di leggerezza gli prese il petto, la testa, tutto. 
Jimin si mise a correre per i corridoi della scuola, sapendo perfettamente dove trovare l'unico pianoforte presente nell'edificio. Quando ormai fu in procinto di avventurarsi all'interno dell'aula di musica, la melodia così forte da rimbombargli nella testa, i suoi occhi si erano fatti gialli. 
La porta non era stata chiusa a chiave, per cui gli bastò abbassare la maniglia e spalancarla; il pensiero di bussare educatamente non gli sfiorò nemmeno il cervello. 
Min Yoongi gli dava le spalle ed era così preso a suonare che non si accorse del suo arrivo. 
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Tutto era così buio, come la prima volta in cui Jimin era caduto nella maledizione della mela. L'unica luce a divampare al centro della stanza stava letteralmente divorando il legno del pianoforte. Le fiamme si facevano sempre più alte, assorbivano tutto l'ossigeno di cui disponevano. 
Accolto in un secondo momento dall'odore di bruciato, Jimin raggiunse lo strumento musicale per sbirciare all'interno del cofano; era lì che l'incendio pareva avere origine.
Oltre agli ingranaggi, le aste, le corde, si intravedevano delle fotografie. Tante fotografie. Decine su decine. 
E tutte ritraenti lui. 
La maggior parte erano già carbonizzate, ridotte a un friabile ricciolo nero, ma altre erano ancora fuori dal tiro delle fiamme. Jimin allungò automaticamente una mano. 
"Lasciale lì." 
Lo sguardo di Jimin saettò su Yoongi, colto di sorpresa. Fino a un attimo prima l'altro pareva essere immerso in un profondo stato di trance; aveva continuato a suonare imperterrito da quando l'altro era entrato nell'aula di musica, senza battere ciglio. Neanche in quel momento le sue mani smisero di pigiare su quei tasti bianchi, tasti che solo adesso notava essere sporchi di ditate scure. 
"No," deglutì Jimin, la gola resa secca dal fumo. "Sono mie." 
"Sono mie." lo corresse Yoongi, impassibile. 
Nessuno si stupiva più ormai di quanto azioni e parole venissero fuori naturalmente sotto la maledizione della mela: Jimin affondò una mano all'interno del cofano del pianoforte, fregandosene delle fiamme. Ne venne fuori con una manciata di fotografie che strinse nel pugno, come per mostrarle bene a Yoongi. 
"Io non sono tuo." 
Detto questo, Jimin scattò verso la direzione da cui era venuto, fuggendo via con la refurtiva. Yoongi gli fu dietro in un nanosecondo.
Era da pazzi, il moro lo sapeva, ma quelle fotografie dovevano sparire tutte quante. Se lo avessero fatto, forse lui avrebbe iniziato a dimenticare. E dimenticare era la sua priorità assoluta dopo la sera precedente. 
Jimin correva come un forsennato, il panico e l'adrenalina dell'inseguimento che mettevano le ali alle sue gambe. Non si voltava all'indietro per paura di perdere terreno, non si guardava intorno per la stessa ragione. Non si accorse neanche di non trovarsi più nella sua scuola. 
Quello in cui si muovevano era un nuovo spazio. Sempre di corridoi si trattava, ma parevano più quelli di un ospedale abbandonato. I loro ansimi lo riempivano tutto, il rumore dei loro passi frettolosi parevano spezzarne l'incantesimo. Da qualche parte, il pianoforte continuava a suonare. 
Il pavimento era visibilmente sudicio e Jimin dovette rallentare quando intravide il tipico riflesso di una superficie bagnata. Senza mai smettere di correre, cercò con gli occhi una zona che potesse attraversare senza rompersi l'osso del collo, ma esitò un istante di troppo. 
Yoongi placcò Jimin da dietro. Andò contro la sua stessa politica dell'evitare contatto fisico, come se si trattasse dell'ultimo sacrificio necessario per scacciare via un male peggiore. A malapena riusciva a realizzare di aver serrato entrambe le braccia contro lo stomaco dell'altro, di starselo premendo addosso al proprio corpo. La macchia di sangue sulla sua maglietta si stampò sulla camicia di Jimin.
Con la rabbia che gli impediva di distrarsi, Yoongi immobilizzò alla cieca una di quelle manine, cercando di scagionare le fotografie dalla gabbia che erano le sue dita. Stava sottovalutando la forza fisica di Jimin, perché all'altro bastò pestargli il piede con tutta l'energia che aveva in corpo per liberarsi dalla sua presa. 
Un paio di foto caddero a terra, ma nessuno dei due si fermò a raccoglierle. 
Approfittando del fatto che Yoongi era rimasto chino a terra a tenersi il piede dal dolore, Jimin fece una svolta brusca a sinistra, filandosela oltre una porta nella speranza di farla franca. 
Aveva sperato male, perché non si ritrovò nell'ennesimo corridoio, bensì in un'unica stanza.
Più specificatamente si trattava di una sala da bagno piccola e diroccata. Non c'erano i comuni servizi igienici, c'era solo questa vasca da bagno molto larga, evidentemente pensata per poter ospitare i pazienti con impedimenti alle gambe.
 Lo squallore che provocò a Jimin non fu un toccasana per il suo stomaco. La vasca era piena d'acqua fino all'orlo, come se qualcuno ne fosse uscito un minuto prima. Strisciate bianche di quello che lui voleva sperare fosse sapone galleggiavano sulla superficie del liquido, mentre sul fondo si potevano intravedere rimasugli di intonaco. 
Oltre alla vasca quella, c'erano solo pile di asciugamani, armadietti dondolanti e una piccola panca.
Nessuna via di uscita, neanche una finestra. 
Jimin fece subito per uscire, ma quasi non fece un frontale con Yoongi. Impotente, il primo si ritirò subito di qualche passo, mentre lo sguardo del secondo analizzava velocemente la nuova ambientazione propostagli dal loro incubo; in tutta la sua magrezza, Yoongi sembrava ancora più spigoloso con quella postura in allerta, come se fosse pronto a riprendere l'inseguimento. 
Nello sguardo buio di Yoongi si poté vedere il preciso istante in cui realizzò la cosa. Qualcosa cambiò. Come se qualcuno avesse inserito una chiave all'interno della serratura che erano i suoi occhi e l'avesse girata nella toppa, lasciando la porta chiusa. Tutte le possibilità erano ancora lì, intatte. Stava a lui decidere di cosa farsene. Se aprire la porta o no. 
Vicolo cieco. Fine della corsa. 
Quella fottuta porta andava aperta. 
Con quei capelli neri e il silenzio incauto che lo avvolgeva, Yoongi ricordò a Jimin di una pantera. 
Dal modo in cui gli si avventò contro di sicuro poteva essere definito come tale. La nuca di Jimin colpì la parete alle sue spalle con un suono sordo, le sue spalle spinte all'indietro dalle mani di Yoongi. 
Jimin non fece neanche in tempo a gemere dal dolore, a portarsi le mani dietro il capo per tastare i danni, che subito quelle mani tornarono ad artigliarsi attorno alle sue clavicole e lo scaraventarono all'interno della vasca da bagno.
La temperatura dell'acqua fu la prima cosa che lo colpì. Era calda, giusto ad un soffio dall'essere tiepida. Il ritrovarsela tutta d'un tratto ovunque gli mozzò il fiato, come quando al mare si decide di buttarsi direttamente anziché bagnarsi una parte del corpo alla volta. 
Spodestata dal suo corpo, l'acqua lasciata a decantare si rovesciò tutta sul pavimento, facendo gara a chi si tuffava prima dal bordo. Ne cadde una quantità ancora maggiore quando anche Yoongi si calò all'interno della vasca, immobilizzando Jimin in quella posizione semi-sdraiata; piantò entrambe le ginocchia ai lati del suo bacino, sovrastandolo. 
Dove fossero finite le tanto disputate fotografie non importava a nessuno. 
Il ragazzo dai capelli argentei venne distratto. Con il viso all'altezza del petto dell'altro, non poté fare a meno di notare come l'acqua si faceva rosata a contatto con il corpo di Yoongi. Un tipo di panico differente da quello che lo aveva posseduto per tutta la corsa gli salì al petto quando vide appieno la chiazza di sangue sulla maglietta. 
Era ferito? Si trattava di sangue raffermo o stava avendo un'emorragia in corso? Se era così, Jimin doveva assolutamente fare qualcosa, cercare una qualche benda, un kit del pronto soccorso, un dannato medico; dopotutto erano in un ospedale, ci doveva essere qualcuno a cui chiedere aiut- 
Yoongi gli spinse la testa sott'acqua. 
Uno, due, tre secondi e lo lasciò riemergere. 
I capelli, il viso, le ciglia di Jimin erano zuppe d'acqua, il fiato corto. Gli occhi erano sgranati, pieni di sorpresa.
"Stronzo-"
Il respiro di Jimin si perse una seconda volta nell'acqua. Decine di bollicine d'aria si dispersero nella nuvola che erano diventati i suoi capelli argentei.
Uno, due. 
Il ragazzo prese a scalciare, ad agitarsi, a graffiare quelle braccia che lo trattenevano sul fondo della vasca.
Tre, quattro, cinque, Yoongi lo lasciò tornare in superficie. 
Quest'ultimo osservò come l'acqua grondò dal mento di Jimin, come le sue guance fossero paonazze, come i suoi respiri gli sollevassero il petto, ogni movimento reso più evidente dalla camicia che vi aveva aderito.
Una parte di Jimin era piena di terrore. L'altra era tranquilla come la morte. 
Tutto quello stava succedendo era così vero e irreale allo stesso tempo, come se lui e Yoongi fossero personaggi di un videogioco con la realtà aumentata; nel caso l'altro l'avesse affogato davvero avrebbero sempre potuto annullare la partita e ricominciare da capo.
Un strozzato per favore gli sfuggì quando Yoongi affondò le dita nei suoi capelli. 
Jimin tornò con la testa sotto.
Uno, due. 
Al terzo conto le mani di Yoongi si spostarono dietro alla sua nuca e Jimin si sentì strattonare verso l'alto. Il suo viso non fece neanche in tempo a riemergere del tutto che un paio di labbra si erano già fiondate sulle sue, i denti che sbattevano insieme. Boccheggiando, Jimin ricambiò immediatamente il bacio, come se lo avesse aspettato per tutto quel tempo.   
Le stesse braccia che fino ad un momento prima avevano lottato per liberarsi, fendendo pugni a destra e a manca che venivano attutiti dalla pesantezza dell'acqua, ora si appesero al collo di Yoongi, decise a non lasciarlo andare mai, mai più. 
I due si baciarono senza darsi tregua. Con lo spillare dall'acqua fuori dalla vasca a fargli da colonna sonora, quel loro respirare affannoso e irregolare dal naso era l'unico suono ad ovattare completamente la stanza, accompagnato dallo schioccare continuo delle loro lingue insieme.
Ad una prima occhiata non si sarebbe detto se si stessero azzuffando o se stessero facendo l'amore. Entrambi si stringevano a vicenda così forte, tutte carezze rudi e permessi non chiesti. 
Con le bocche lubrificate dall'acqua che scivolavano l'una dentro l'altra, si riacchiappavano, cercavano dominio, Yoongi capì di essere morto ed essere finito per un qualche disguido in paradiso quando poté, dopo aver bramato per così tanto tempo il minimo tocco dell'altro, inglobare il labbro inferiore di Jimin tra i denti. Sentì quanto fosse veramente carnoso e morbido, provò a succhiarlo appena.
Yoongi non aveva tutta questa esperienza, ma poteva dire con certezza che Jimin con i baci ci sapeva fare. 
Nulla in tutta la sua vita gli aveva mai stretto lo stomaco tanto quanto fece il ragazzo dai capelli argentei quando cambiò l'inclinazione dei loro visi, quasi a voler cercare l'angolazione perfetta per arrivare più a fondo, per ritirarsi un pochino e tornare a spingere la lingua contro la sua con più decisione di prima, ogni volta, ripetitivamente.
Le dita di Yoongi si piantarono nella schiena scaltra di Jimin, cercando sollievo nel premerselo addosso quanto più potesse. Avendo fatto aderire i loro petti ed essendo incapace di lasciare andare, le ginocchia sulla quale era rimasto puntato per tutto quel tempo gli slittarono all'indietro, facendolo cadere di conseguenza in avanti. 
Per un attimo i due furono una cosa sola. 
Si ritrovarono completamente immersi, il fondo della vasca e la superficie dell'acqua intoccati da entrambi che li chiudevano insieme. Non si capiva quale braccio appartenesse a chi, dov'era lo strato di carne che li teneva separati in due entità diverse. Ciocche argentee brillavano in un mare di nero. 
Per via di tutto quel movimento il livello dell'acqua sopra di loro altalenava: a momenti sì e a momenti no bagnava i polpacci di Yoongi che sbucavano fuori dalla vasca, le scarpe da ginnastica zuppe che gocciolavano. 
Il bacio fu interrotto solo dal bisogno urgente di tossire. 
Riemergendo, Yoongi si mise da una parte della vasca, lasciando che Jimin si potesse finalmente mettere seduto nell'altra. Quest'ultimo si appoggiò con la schiena all'indietro, respirando a pieni polmoni per la prima volta negli ultimi due minuti. 
Ad un metro da lui, il moro era un po' curvo in avanti. Anche i suoi vestiti ora erano completamente bagnati, la macchia rossa sulla maglietta ormai sfumata. Con la frangia ridotta a ciocche spesse che gli calavano sugli occhi, tossicchiò un paio di volte senza mettersi la mano davanti alla bocca. 
Nel giro di poco un silenzio irrequieto tornò a regnare. 
Jimin non voleva silenzio. Jimin non voleva distanza. 
Non voleva rimuginare su quello che era appena successo. Voleva che continuasse a succedere.
Non guardando nella sua direzione, Yoongi vide l'altro allungare le mani solo con la coda dell'occhio. Lo sfruscio dell'acqua che veniva scostata precedette un paio di mani che si aggrapparono al colletto della sua maglia; Jimin appoggiò la propria fronte contro una delle sue tempie, le labbra chiuse sulla sua guancia. 
Yoongi venne sospinto verso un estremo della vasca, quello opposto al precedente in cui Jimin si era ritrovato prigioniero, fino a quando non se ne ritrovò la parete contro la schiena. Con una delicatezza sovrumana nelle dita, Jimin mise una delle sue mani attorno al coppetto di Yoongi, l'altra che divagava su una delle sue spalle; chinandosi verso il basso, baciò a stampo il pomo d'Adamo dell'altro, poi sollevò di poco la traiettoria, puntando alla gola. 
Tenendo la testa rovesciata all'indietro sul bordo, Yoongi sospirò, la schiena completamente rilassata che si adattava alla forma della vasca. Non si rendeva neanche più conto della propria presa salda sui fianchi di Jimin, i fianchi di Jimin, come a tenerlo sul posto. 
Il tocco delicato delle labbra di Jimin si posò sul suo mento, salendo ancora. 
Yoongi socchiuse gli occhi. Dietro le sue palpebre, l'ombra dell'altro ragazzo torreggiava sulla luce. 
A contrasto con i brividi di freddo che gli percorrevano braccia e schiena quando un soffio d'aria smuoveva quell'acqua ormai tiepida, quel raschiare così intimo delle dita di Jimin sul retro del suo collo era caldo, promettente. 
Il moro socchiuse la bocca per sospirare una seconda volta, aspettando solo che Jimin accogliesse quel gemito contro la propria.
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(43) November 5th, 2015 - Thursday

Una pioggierellina autunnale ticchettava contro i vetri dell'aula di musica. 
Se uno studente ritardatario o un bidello fosse passato di fretta davanti alla porta rimasta aperta non avrebbe visto nulla di insolito: il pianoforte forse era leggermente girato verso il centro della stanza, ma per il resto tutto uguale. 
Una seconda occhiata più approfondita avrebbe permesso di notare quel paio di gambe inermi che spuntavano da dietro i tamburi. Seduto a terra con la schiena contro il muro, Yoongi tratteneva Jimin vicino a sé per i lembi della camicia. Come se Jimin, seduto tra le sue gambe, non fosse stato troppo impegnato per pensare minimamente di andarsene. 
I due si limitavano a tenere premute insieme le bocche con la dolcezza di un primo bacio. Ogni tanto qualcuno strofinava appena di più le labbra su quelle dell'altro, senza fretta. 
Yoongi contò ognuno di quei singoli tocchi, se li stampò sul cuore. Ad ogni tre o ad ogni quattro si diceva che poteva andare bene così, che erano più che abbastanza, ma non era vero. Voleva un bacio per tutte le volte che non ne aveva potuti dare e non era esattamente un calcolo fattibile sulle dita di una mano. 
Un tripudio di suoni argentini parvero esplodere nella placidità quando un cembalo cadde dal chiodino che lo teneva appeso alla parete. Jimin e Yoongi sussultarono uno nella bocca dell'altro, risvegliati dalla maledizione della mela.
Automaticamente si erano voltati all'unisono verso la fonte di quel rumore. Non appena ebbero individuato l'innocuo cembalo, i loro sguardi divagarono, riconoscendo l'aula di musica. Le loro posture si fecero pietra. 
Jimin si voltò verso Yoongi, quei suoi occhioni scuri così troppo vicini. La mano parve farglisi nuovamente tattile quando percepì i capelli ispidi dell'altro contro il palmo, le punte delle falangette che sfioravano un orecchio. I loro nasi si toccavano ed i loro respiri si infrangevano uno contro l'altro come correnti opposte.  
L'espressione di Jimin era friabile quanto la neve. 
Una lacrima rotolò giù dalla guancia di Yoongi. 
Adesso tutto sarebbe tornato come prima, vero? 
"Yoongi,"
"Lascia stare."
Il moro riuscì ad alzarsi con un po' di difficoltà prima che Jimin capisse da sé di doversi fare fisicamente da parte e arretrare.
Senza aggiungere un'altra parola o dare una seconda occhiata, la porta si chiuse alle spalle di Yoongi quando ne uscì. Scosse la testa per tutto il breve tragitto, come se no fosse la risposta ad ogni domanda. 
Dalla finestrella in vetro si poteva vedere Jimin all'interno dell'aula di musica ancora seduto sui talloni,  le mani in grembo e lo sguardo perso.

(44) November 5th, 2015 - Thursday

La batteria del cellulare di Jimin era morta. 
Considerando la luce naturale potevano essere le sette, le otto di sera. 
Stava camminando da quello che sembrava un decennio, tutto solo, soletto per le vie residenziali di Seul. 
Non erano stati quelli i piani, in realtà. Dopo essere rimasto in catalessi totale nell'aula di musica ed essere stato sbattuto fuori dai bidelli, i suoi pensieri erano subito volati ad amici, locali, paesaggi notturni. Aveva preso un autobus con destinazione il centro, ma si era ritrovato a scendere alla primissima fermata. 
Da quanto era che non tornava a casa? 
Secondo i suoi calcoli da lunedì. 
Jimin non poteva credere di aver davvero passato quattro giorni senza far vedere la sua faccia a sua madre. Okay, si erano scambiati un paio di messaggi quando le aveva riferito che sarebbe rimasto a dormire da Jungkook, ma per il resto il vuoto più totale. 
Così era sceso e aveva deciso di farsela a piedi. 
La strada era lunga, ma in quelle condizioni Jimin non si faceva certo problemi per il tempo che avrebbe perso. Tanto non avrebbe combinato nulla di buono neanche una volta arrivato. 
Si sentiva prosciugato. Completamente prosciugato. 
Come se le emozioni ed i pensieri fossero stati talmente tanti che arrivati ad un certo limite si erano dati alla fuga per evitare di fargli saltare il cervello. Si limitava a mettere un piede davanti all'altro per inerzia, la testa di una leggerezza pericolosa. 
Se c'era una cosa che Jimin desiderava in quel momento, quel desiderio era uno dei suoi vecchi felponi con il cappuccio dai colori smorti. Forse con quello addosso sarebbe riuscito a mimetizzarsi almeno con il cielo plumbeo. 
Per l'orario a lui sconosciuto a cui arrivò all'inizio della sua via, c'era il crepuscolo. I lampioni illuminavano già tutto con la loro luce biancastra nonostante per la strada ci si vedesse ancora. 
Jimin non ebbe neanche il tempo di crollare dalla stanchezza una volta per tutte alla vista della propria casa, perché il destino quel giorno pareva avercela a morte con lui. 
Fu proprio calando lo sguardo da uno dei suddetti lampioni che il ragazzo notò i volantini. Erano del classico formato da stampante ed erano a decine. Parevano essere ovunque: appesi ai lampioni, appiccicati sui cancelli delle case, a infestare i muretti. Addirittura ce ne erano di caduti a terra, marchiati dai pneumatici di un'automobile. 
Più Jimin si addentrava per la via, più ce ne erano. Erano impossibili da non notare, come uno stormo di carta schiantato a terra. Se fossero stati presenti anche per le strade che aveva appena percorso se ne sarebbe accorto.
Un leggero venticello ne sollevava gli angoli, mostrandogli il contenuto in controluce; preso un minimo dalla curiosità, il ragazzo si avvicinò ad un palo della luce e ne appiattì uno.
Jimin ne aveva vissuti parecchi di brutti momenti, ma quello li batté tutti. 
Era una foto in bianco e nero. Si trattava evidentemente di un fermo-immagine fatto da un cellulare considerando tutti i vari loghi delle app che incorniciavano uno dei lati corti. Al centro si poteva vedere una massa mal definita di braccia e gambe, un groviglio di corpi nudi, i volti non visibili per via dell'inquadratura. 
Se ci fosse stato qualche dubbio in merito all'identità dei due protagonisti era chiarito dalla stanza di Fred Johnman che fungeva da sfondo e dal numero privato di cellulare di Park Jimin, scritto a caratteri cubitali da un pennarello rosso. 
L'apatia che aveva afflitto Jimin per tutto il pomeriggio gli scivolò giù dalle spalle come olio sull'acqua. 
Volò di palo in palo, di cancello in cancello, di muretto in muretto. I volantini erano tutti identici, l'unica cosa a cambiare erano le calligrafie e i colori con cui insulti e nomignoli facevano compagnia a quella manciata di cifre. Jimin iniziò a staccarli tutti quanti, uno per uno, senza curarsi minimamente dello scotch che rimaneva attaccato alle diverse superfici. 
Nel giro di un minuto, tra le sue braccia si era già formato un bel bouquet di carta stropicciata, il premio di una sgualdrina. 
Jimin continuava imperterrito a staccare, staccare, staccare, e più staccava più i suoi occhi si facevano umidi. 
Che stupido che era stato a pensare che la cosa non gli faceva ne caldo ne freddo. A dirsi che poteva benissimo passarci sopra, che tanto il suo era solo un corpo nudo, niente che la gente non avesse mai visto, colto in un'azione che non fosse niente che la gente non avesse mai fatto. 
C'erano delle cazzo di foto di un suo sex-tape appese per la via di casa sua, dove abitavano le persone che lo avevano visto crescere, dove aveva imparato ad andare in bicicletta, dove aveva giocato per pomeriggi interi con i figli dei vicini e un paio di gessetti colorati. 
Dire che Jimin si sentiva totalmente umiliato era un eufemismo. 
Vista da fuori, le luci di casa sua erano spente, ma lui sapeva che la sua famiglia doveva trovarsi in salotto, a guardare la televisione dopo aver cenato. 
Con quel malloppo di carta sottobraccio, Jimin aprì il portone d'ingresso il più discretamente possibile. Non accese neanche lui le luci, non si tolse le scarpe sullo zerbino come i suoi avevano sempre raccomandato di fare; si infilò subito in cucina prima di poter incontrare qualcuno. 
Con la sera che ormai si affrettava ad arrivare, anche quell'ambiente era tutto un grigiore. Jimin andò direttamente allo sportello sotto il lavandino, dove sapeva esserci la pattumiera.
Una voce lo chiamò, qualche stanza più in là.
"Jimin? Sei tu?" 
Jimin si affrettò a tirare fuori il cestino del pattume. Sollevò con le mani quanti più rifiuti poté, intenzionato a nasconderci sotto i volantini. 
Con i sudori freddi, poteva sentire un rumore di passi farsi sempre più vicini. 
Jimin cercò di ficcare più brutalmente tutta quella carta nella pattumiera, ma sembrava essere troppo piena per poterla contenere. 
La luce della cucina venne accesa. 
Il primo pensiero di Jimin, chino sul pavimento con uno sproposito di volantini fra le mani che lo raffiguravano fare sesso con uno sconosciuto e sua madre alle spalle, fu: voglio morire. 
Il suo secondo pensiero fu: voglio morire
Ci credeva che non riusciva a farci stare i suoi volantini: ora che le ombre erano sparite poteva ben vedere che il fondo del sacco della spazzatura era già foderato da una ventina di fogli identici. 
Jimin si appoggiò con il braccio al bordo del contenitore, la fronte che subito ci si nascose contro. Se avesse avuto con sé quella pozione di Alice nel paese delle meraviglie se la sarebbe trangugiata tutta pur di diventare piccolo, piccolo, piccolo, piccolo.  
Si costrinse a parlare, semplicemente perché doveva. Lo fece anche se la voce gli uscì roca, piena di pianto. 
Arrivati a questo punto, dopo quella giornata, dopo quella settimana, dopo quell'anno, Jimin non sapeva neanche più per cosa stesse piangendo esattamente. 
Piangeva per sua madre, per quello stupido video, per Yoongi, per Chase, per la sua prima volta buttata via. 
"Mi dispiace, mamma." 
Le sue parole furono seguite da un rumore di chiavi, la zip di una cerniera che veniva sollevata.
Quando Jimin si decise a guardare in su dalla sua posizione accovacciata, sua madre era sullo stipite della porta vestita di tutto punto, la borsa alla mano. Non seppe dire se gran parte fosse dovuta dalla vecchiaia avanzata in soli quattro giorni, ma quella sul suo viso era la più stoica, la più seria, la più autorevole, la più incazzata espressione di sempre. 
"Rimetti il cappotto. Andiamo a sporgere denuncia a chiunque sia il bastardo." 


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Capitolo 8
*** STIGMA ***


Ci stiamo avvicinando alla fine della storia. Zan Zan. Secondo i miei programmi dovrei finire di pubblicarla per fine marzo. 
Ci ho messo così tanto a scriverla e così poco tempo a pubblicarla haha
(Prossimamente vi farò sapere anche riguardo alla pubblicazione della prossima storia ma SHH)
Venite a trovarmi su twitter! @silbysilby


 


Stop crying and tell me something
Tell me, I am a coward
“Why were you like that to me back then?”
“I’m sorry”

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STIGMA

(45) November 6th, 2015 - Friday

Quando Taehyung ci tornò dopo aver affrontato un giorno di scuola come tanti, l'appartamento sembrava vuoto. 
Gli bastò chiamare un paio di volte i nomi dei suoi familiari per scoprire che effettivamente lo era. Un messaggio scritto di fretta lo aspettava appeso all'anta del frigo, ma lui non poteva saperlo. 
Dopo aver richiuso la porta dietro di sé, Taehyung lasciò che lo zaino piombasse a terra. Si sgranchì la schiena indolenzita mentre scalciava via le scarpe, una di queste che fece un pelo alla parete immacolata. 
Il ragazzo andò direttamente in cucina, trovando il biglietto da parte di sua madre. La donna gli spiegava come riscaldare il pranzo, avvisandolo che lei, sua sorella e Hoseok erano andati al magazzino per misurare dei mobili. Non avrebbero fatto ritorno prima di un'ora. 
Taehyung fece scorrere l'acqua dal rubinetto, lavandosi le mani. Quando si accorse di starsi bagnando i bordi della giacca se la tolse a malo modo, come se improvvisamente se ne sentisse soffocato. Una volta abbandonata a terra anch'essa, Taehyung afferrò la pentola che lo aspettava sui fornelli spenti. Arraffò una forchetta dal cassetto e andò a sedersi a tavola.
Si dovette alzare una seconda volta per prendersi un bicchiere; si limitò a riempirlo d'acqua quanto più poté anziché usare una bottiglia.
Tornato sulla sua seggiola, il biondo iniziò a mangiare. 
L'unica prova esistente del fatto che un tempo quel cibo fosse stato caldo era il modo in cui in certi punti si era attaccato alla pentola. Taehyung masticava in automatico e a grandi bocconi, senza davvero sentirne il sapore.
I suoi occhi grandi e vuoti erano persi sulla tovaglia. Ne collegava visivamente le centinaia di briciole che senza dubbio erano state lasciate da Jeonggyu, trovando costellazioni che sparivano nel momento in cui si concentrava su di un'altra. 
Quando il contenuto della pentola finì, Taehyung ci lasciò la forchetta all'interno, appoggiando il tutto sul tavolo. 
Non valeva neanche la pena di sospirare se nessuno lo poteva sentire. 

(46) November 6th, 2015 - Friday

La musica venne tagliata prima che la canzone giungesse al termine. 
Le ultime note ribombarono contro le pareti spoglie della piccola sala prove dell'Anathema, una stanzetta poco più grande di due aule di scuola messe insieme. L'unica fila di specchi a figura intera era appannata in diversi punti. 
Le ragazze immagine sciolsero la formazione della coreografia che avevano provato fino a quel momento per dirigersi ognuna verso la propria borsa. 
Tracannandosi mezza bottiglia d'acqua, Jimin recuperò al volo il suo asciugamano; se lo appoggiò sulle spalle, andando a frizionare i capelli sul coppetto. 
Come lui, chiunque all'interno di quella stanza era sudato e con i vestiti appiccicati al corpo, gli stomaci di alcune ragazze che ballavano con solo il top sportivo lucidi come i loro volti. Persino in quel momento, sporche e maleodoranti, alcune di loro riuscivano ad ostentare quel fascino che le caratterizzava con trucco e tubino addosso. Jimin non sapeva se ammirarle o sperare di fare parte anche lui di quella categoria. 
Il tempo di riprendere fiato, poi tutte le conversazioni interrotte all'inizio delle prove ripresero da dove erano state lasciate. Il chiacchiericcio era allegro, soddisfatto. 
Jimin si era appoggiato alla parete per allacciarsi una scarpa quando una delle ragazze si separò dal gruppetto per andare da lui. Era Denise, con la sua coda da cavallo e l'apparecchio ai denti. 
"Minnie, sei dei nostri questa sera?" 
Il ragazzo scosse la testa, non senza averle prima rivolto un sorriso sfiancato.
"No, mi dispiace. Questa sera sono fuori servizio, ma vengo comunque con i miei amici."
Le sopracciglia di Denise parvero troppo distanti dagli occhi, un'espressione che non voleva essere delusa. Fece per aprir bocca, ma-
"Park Jimin?" 
Anche se il nome chiamato era uno solo, tutto il corpo di ballo dell'Anathema si voltò. 
L'addetto alla segreteria se ne stava sulla porta, il naso storto per l'odore. Dopo aver lanciato un'occhiata generale a tutti, gli occhiali da vista appoggiati sulla punta del naso a mo' di professore, ricontrollò l'onnipresente cartellina che teneva sottobraccio. Come se gli servisse una foto per riconoscere l'unico maschio del gruppo.
Jimin diede un ultimo strattone alle stringhe delle scarpe. Prese una felpa dal suo borsone e si fece avanti, infilando le braccia in quelle maniche troppo lunghe. 
"Si?" 
"Il signor Daront ha bisogno. Non è ancora arrivato, ma dagli un paio di minuti e sarà in ufficio." 
Automaticamente, gli occhi del ragazzo dai capelli argentei si assottigliarono appena, inquisitori. 
Il segretario lo guardò con quella sua faccia da schiaffi: era l'espressione che aveva addosso ventiquattro ore su ventiquattro, quella di chi si credeva una colonna fondamentale nella gestione del locale. 
Breaking News, avrebbe voluto dirgli Jimin. Non lo sei. 
A porre rimedio alla interazione taciturna dei due ci pensarono le ragazze, un cinguettio di ovazioni. Jimin sorrise ad un paio di commenti maliziosi. Non era certo una novità per loro che Daront non fosse esattamente il datore di lavoro più imparziale di sempre, anzi. Era una delle loro fonte di battute preferite.
Probabilmente si sarebbe unito alle ragazze, avrebbe ignorato l'impegno fino a quando non fosse stato considerato in ritardo, ma qualcosa non andava. 
C'era un tarlo nella testa di Jimin. Un tarlo che non era riuscito né a risolvere né a buttar giù in due giorni. 
L'ultima volta che aveva visto Daront era stata quel mercoledì. Ricordava di averlo aspettato da solo nel suo ufficio, ricordava la nuova proposta di lavoro, ricordava l'arrivo del secondo uomo, il fratello. 
Ma Jimin come diamine ci era arrivato a casa? 
Probabilmente non era il segretario ad averne la risposta.
Avendo fatto il proprio dovere, quest'ultimo levò il disturbo. 
Una dopo l'altra, Jimin vide le sue colleghe andare via. Tutte se ne andavano sventolando la mano, borsa sulla spalla, sorriso sbarazzino e passo elegante. Il ragazzo uscì dalla sala prove insieme all'ultima, inforcando però la direzione opposta nel corridoio. 
Andò a bussare alla porta dell'ufficio di Daront, ma nessuno gli diede il permesso di entrare. Provò la maniglia, ma era chiusa a chiave. 
Jimin sospirò, stufo. Già gli pesava di dover restare, se poi Daront ritardava pure era a posto. Era andato all'Anathema direttamente dopo scuola, mangiando giusto qualcosina dalla macchinetta riservata al personale; se pensava ai compiti che lo aspettavano a casa gli veniva male. 
Faceva troppo freddo nei corridoi per restarci ad aspettare. Jimin tornò alla sala prove, dove almeno poté indossare sciarpa e cappotto. 
Limitandosi a restare in piedi, al centro e con le mani in tasca, quella stanza gli sembrava molto più spaziosa senza le sue colleghe. Gli specchi a parete ne raddoppiavano otticamente le misure, dando a Jimin un doppelganger a tenergli compagnia. 
Per la prima volta da quando ce l'aveva addosso, la maledizione della mela riuscì a colpirlo nel momento in cui non aveva niente e nessuno a sorreggerlo. 
Le assi mal disposte del parquet tremarono quando Jimin cadde steso a terra. 
La vista veniva e andava, veniva e andava. 
Veniva, e Jimin vide un paio di mocassini comparire sullo stipite della porta, e andava. 

(47) November 6th, 2015 – Friday

La luce artificiale del lampadario era accesa nonostante fuori fosse ancora giorno. 
L’appartamento dei Kim era stato tutto chiuso, pronto ad essere lasciato. Un paio di scatoloni di cartone aspettavano pazientemente di essere raccolti, abbandonati nell’atrio da più tempo del previsto.
Taehyung si riaprì la cerniera della giacca, accaldato. 
“Hobi, ci sei?”
Dell’altro arrivò prima la voce, poi la figura. Il ragazzo dai capelli rossi passò dalla zona notte alla cucina, uno zaino sulle spalle e il telefono in mano. Era tornato a casa con i mezzi pubblici pochi minuti prima, lasciando zia e madre alle loro faccende.
“Ho parlato con la zia.” disse. “Ha detto di prendere un po’ delle vostre stoviglie per questo fine settimana. Quelle che hanno ordinato non arriveranno prima di martedì.”
Taehyung annuì, tirando una striscia di scotch sullo scatolone che sapeva essere al completo. La cosa aveva senso, effettivamente.
Lui e Jungkook avrebbero festeggiato il loro anniversario d’amicizia la notte tra sabato e domenica, ed avevano già reclamato il salotto di casa Kim per loro. Piuttosto che rimanere sveglie tutta la notte per colpa del baccano che sicuramente avrebbero fatto, le due sorelle avevano saggiamente deciso di andare in campeggio con il resto della famiglia nel futuro appartamento di Hoseok; qualcosa con cui poter fare colazione e un paio di piatti avrebbero fatto comodo di sicuro.
Stoviglie mancanti a parte, l’appartamento non era messo così male. Taehyung non ci era ancora stato, ma voleva ben sperarlo considerando tutto il tempo che quella settimana le due donne avevano e stavano passando in giro per i centri commerciali. 
Hoseok si diresse verso il cucinotto, iniziando ad aprirne le credenze. “Va bene se prendo anche qualche tovagliolo?”
Taehyung ripeté una frase che doveva aver già detto milioni di volte quella settimana: “Fa come se fossi a casa tua.” 
Fece in tempo a vedere solo un angolino del sorriso tranquillo di Hoseok quando andò ad aiutarlo. I due si misero a frugare in cassetti e scompartimenti, sistemando la roba nell’unico scatolone rimasto ancora aperto; si accumularono piatti di plastica, forchette, tovaglioli e qualche bottiglia d’acqua. 
Quel silenzio senza tensione che era sceso venne spezzato poco dopo dalla voce del biondo. 
“Ah, quelli no.”
La mano di Hoseok si fermò a mezz’aria, protesa verso una credenza particolarmente alta. Le sue dita puntavano ad una pila di bicchieri in plastica rigida, un set dai colori accesi. 
Sfiorando il cugino con la spalla, Taehyung lo affiancò. Scelse per lui un altro tipo di bicchieri, infilandoli in un angolino dello scatolone. 
Nella voce di Hoseok non c'era altro che semplice curiosità. "Perché quelli no?" 
Taehyung lanciò un’occhiata alla credenza ancora aperta, come se la risposta si trovasse là. 
“Sono dei ragazzi del gruppo. Casa mia intermedia più o meno tra le abitazioni di tutti, per cui vengono spesso qui quando non abbiamo voglia di andare da Cup’s.” spiegò. “E’ accaduto un paio di volte che qualche bicchiere di vetro si rompesse, per cui mia madre ci ha preso quelli. A prova di Namjoon.” 
“Certo che a voi piacciono proprio le tradizioni.”
“E’ una cosa tanto brutta?” 
Gli occhi buoni di Hoseok parvero brillare, un sorriso d’invidia sulle labbra.
“No. Sembrate una famiglia.” 
Un moto d’affetto passò sul viso di Taehyung. Andò nuovamente alla credenza e fece ritorno al tavolo su cui avevano appoggiato lo scatolone con i cinque bicchieri in mano. Ne mise giù uno per uno, scandendo il nome dell'amico a cui apparteneva. 
Un primo bicchiere, rosso.
"Yoongi."
Azzurro. 
"Kookie." 
Rosa.  
"Seokjin." 
Viola.
"Jimin." 
Infine verde, "Namjoon." 
Taehyung si mise le mani sui fianchi, come per lasciare che il cugino ammirasse quella fila ordinata di stoviglie in tutta calma. In realtà era lui ad essere il primo a volerli guardare; solo alla vista gli sapevano di pigrizia, risate, di birra scadente mischiata a Sprite.
Hoseok sorrise con lui nonostante non potesse condividerne i ricordi. 
"E il tuo?" chiese. 
"Io uso i bicchieri normali di casa. Non ne ho uno mio." 
Se la voce piatta di Taehyung avesse lasciato trapelare qualcosa, l’altro non lo colse. Hoseok fece come per annuire, ma improvvisamente si batté una mano sulla fronte. 
“Ho dimenticato una cosa.” disse. “Torno subito. Tu intanto chiudi tutto.”
Il rosso scomparve nella zona notte, cercando di darsi una mossa. Taehyung rimase nuovamente solo, lo sguardo che vagava tra i cinque bicchieri ancora in bella mostra. 
Dio, quanto era patetico. Patetico ed inutile.
Il biondo fece come l’altro gli aveva detto, riportando il secondo scatolone a far compagnia all’altro. Tutto d’un tratto si sentì gli occhi pesanti, come se avesse dormito poco. 
Dato che Hoseok tardava, fece per accomodarsi al tavolo da pranzo, la testa che già progettava di andarsi a posare sulle proprie braccia incrociate. Taehyung cadde invece con il sedere a terra, come se qualcuno gli avesse sottratto la sedia da dietro. 
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Non sapeva come faceva a dirlo, ma quella era casa sua. 
Sapete, no? Quella strana regola per cui nei sogni puoi riconoscere persone e luoghi senza che i loro aspetti combacino con quelli della realtà. 
Quella era casa sua, il suo salotto, e quello su cui stava poggiando la schiena era il suo divano; solo che il suo non aveva quel delicato rivestimento color panna, non con due bambini delle elementari armati di pennarelli che ci giravano sempre attorno.
Un senso di stordimento colpì Taehyung quando fece per guardarsi intorno. I suoi movimenti parevano ritardati, i suoni ovattati.
Seduti rispettivamente tre sul divano e tre sul pavimento con lui, uno alla sua destra e due alla sua sinistra, i suoi amici lo circondavano.
Erano tutti presi a guardare un film che nessuna televisione stava mandando in onda. O almeno, se c’era si stava nascondendo agli occhi di Taehyung. Ogni tanto ridevano, commentavano, indicavano qualcosa.
Nessuno di loro gli chiese perché non facesse altro che voltarsi all'indietro e fissarli. Neanche Jungkook che sarebbe dovuto esserne infastidito dato che teneva un braccio sulle sue spalle.
Al contrario della solita atmosfera da cinema che al gruppetto piaceva ricreare con le tapparelle abbassate, il salotto era investito da una luce bianca, limpida. Faceva spiccare ancora di più i vestiti che gli altri indossavano, degli abbinamenti impossibili da non notare per Taehyung. Non che fossero robe strane o di marca. Semplicemente, tutti, tutti erano in tinta unita. 
Taehyung invece era vestito come ogni giorno. I soliti vestiti. 
Al suo fianco, Jungkook portava un paio di jeans, la felpa di un bel celeste. Yoongi sembrava essersi arruolato nel corpo dei pompieri sotto tutto quel rosso, mentre Seokjin era così rosa che avrebbero potuto venderlo come la nuova Barbie 2015. Non che il look non gli donasse. 
Il biondo stava ancora studiando i suoi amici quando tutto ad un tratto questi si riscuoterono; il film doveva essersi concluso perché presero tutti a stiracchiarsi la schiena e alzarsi da terra, commentandone il finale insieme. Taehyung li guardò in silenzio, mettendosi in piedi a sua volta. Non conoscendo il film, era completamente tagliato fuori dalla conversazione.
Poi Namjoon disse di dover andare. Un coro di saluti si alzò, spezzando quel chiacchiericcio tranquillo. Vedendolo avvicinarsi a lui, Taehyung credette che il ragazzo volesse abbracciarlo, magari per ringraziarlo dell’ospitalità. 
Venne invece spogliato dalla felpa che indossava senza alcun preavviso. Taehyung rise allo scherzo, ma chiese subito all’altro di restituirgliela dato che aveva freddo.
Namjoon non lo guardò neanche negli occhi: indossò lui stesso la felpa prima di uscire dalla porta di ingresso. 
Effettivamente, la felpa era verde. Taehyung non poteva saperlo, ma forse gli era stata prestata all’inizio del film. 
Non ebbe molto tempo per rimuginarci sopra, perché una mano lo tirò per la collottola della maglia. Il ragazzo venne derubato da Jimin di un sottile choker viola, un accessorio che aveva sempre desiderato acquistare ma che trovava troppo lontano dal suo stile. Il ragazzo dai capelli argentati poi sparì, portato via dal vento.
Taehyung non aveva nemmeno realizzato di indossare un berretto color fucsia quando Seokjin lo raccolse da terra, caduto nel momento in cui Jungkook aveva sfilato una maglietta blu notte dalla testa del suo migliore amico. 
Con un minimo di gentilezza, Hoseok si riprese un paio di bracciali che il cugino portava ai polsi, salutando con la mano prima di prendere l'uscio. 
Per tutta la durata della cosa, dalla bocca di Taehyung uscirono solo inizi di frasi ed esclamazioni. Non riusciva a fermare a parole o con la forza i suoi amici. Dopotutto, nessuno di loro dava l'idea di stargli rubando qualcosa; parevano più riscuotere quel che era loro di diritto.
Per ultimo, gli scappò un verso di sorpresa quando toccò a Yoongi. Il moro aprì con gesti secchi la cintura rossa dei suoi pantaloni, sfilandola in una sola mossa dai passanti. Se l'arrotolò intorno alla mano per poi ficcarsela nella tasca della giacca prima di lasciare l’appartamento con un grugnito.
In quella stanza troppo illuminata, Taehyung rimase solo. 
Addosso non gli era rimasto che la canottiera, un paio di pantaloncini sportivi dalla quale sbucavano le sue ginocchia ossute ed i calzini. 
Tutto rigorosamente bianco. 
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(48) November 6th, 2015 - Friday

Il vociare argentino dei bambini veniva portato via dalla brezza. 
Nonostante fosse un venerdì di novembre, non esattamente un giorno di vacanza in un mese non esattamente caldo, più famiglie avevano messo il naso fuori di casa per portare figli e nipotini al parco. Alcuni gruppetti di adulti venivano direttamente tutti insieme, altri li si poteva vedere formarsi con il tempo; era più facile attaccare bottone tra genitori single quando i propri figli giocavano insieme con la stessa disinvoltura di chi si conosce da una vita. 
Se poi al quadretto si aggiungevano altalene, scivoli e cani portati al guinzaglio, l'atmosfera si faceva piuttosto allegra. 
La cosa ti rendeva ancora più depresso se eri Jeon Jungkook. 
Il ragazzo, l'unico adolescente che si potesse trovare a quell'ora in quell'enorme spiazzo d'erba, sedeva su una delle tante panchine, le mani in mano. 
Quando si era chiesto dove avrebbe portato Eonjin e Jeonggyu dopo averli aspettati all'uscita delle scuole elementari, il parco era stato il primo posto a venirgli in mente. Lì almeno avrebbe dato loro modo di distrarsi per un'oretta o due, senza rischiare di farli piangere dalla noia.  
Sperando che si trattasse di massimo due ore. Taehyung gli aveva solo detto di tenere d'occhio il cellulare; avrebbe ricevuto un messaggio da parte sua quando avrebbe potuto riportare i due fratellini a casa. 
Questo implicava più cose per Jungkook, una più spiacevole dell'altra. 
Uno: avrebbe perso un intero pomeriggio di studio. Non si era neanche preso con sé qualcosa da fare; si sentiva troppo responsabile per l'incolumità dei due piccoli Kim per levar loro lo sguardo di dosso. 
Due: non solo poteva già intuire cosa stessero facendo Taehyung e il cugino, ma sarebbe anche stato messo al corrente dell'orario esatto in cui i due avrebbero finito. 
Tre: subito dopo avrebbe dovuto trovare il coraggio di riportare i marmocchi a casa con quella consapevolezza. 
E, come se non bastasse, quella sera il gruppo al completo aveva già in programma di andare a ballare. 
Le dita di Jungkook si strinsero attorno al proprio cellulare. Lo teneva in un tascone della felpa, sotto la giacca slacciata. Il vento gli accarezzò il viso attraverso la sua frangia castana, apprezzando quei lineamenti puliti.
Probabilmente sarebbe bastato un solo messaggio per fermare Taehyung. Jungkook avebbe potuto chiamarlo, dire di aver bisogno, fingere che Jeonggyu non stesse bene, ma a che pro? Sarebbe stato tutto inutile. 
Se Taehyung voleva stare con Hoseok ci sarebbe stato. Punto. E lui, in quanto migliore amico, se lo sarebbe fatto piacere, che approvasse o meno. 
Jungkook sospirò. L'aria sapeva di pioggia. 
Non riuscì a cavar fuori un sorriso neanche quando arrivò Seokjin. 
Il ragazzo dalla chioma rosacea fece la sua apparizione a sorpresa; arrivò alle spalle della panchina di Jungkook, occupandone lo spazio libero con una busta di plastica.  
Le famose buste di Seokjin, miniere di cibo per tutti i suoi amici.
Si poteva intuire che qualcosa non andasse nel più piccolo anche solo in quella sua assenza di reazione. Di solito era un grande fan del cibo d'asporto.
Invece Jungkook si limitò a restare seduto, il capo rovesciato all'indietro per poter guardare l'amico in faccia. La luce naturale del giorno lo costringeva a stringere le palpebre degli occhi, pallida ma intensa. Faceva apparire Seokjin e il suo viso principesco ancora più idilliaci.
"Grazie per essere venuto." 
Alle parole di Jungkook, Seokjin fece un cenno noncurante con le spalle. Si era messo a rovistare sul fondo della busta, dalla quale se ne uscì con due tazze take-away ancora fumanti.
"Thè?" chiese. Non aspettò nemmeno che l'altro rispondesse prima di porgergliene una. Per sua fortuna Jungkook aveva tutta l'intenzione di accettarla. "E non ti preoccupare. Tanto non sarei riuscito a concentrarmi sullo studio comunque."
Lui che faceva fatica a studiare? Con la sua ansia da ultimo anno di superiori? Strano. 
Jungkook non espose questi suoi pensieri, per cui giustamente Seokjin non gli diede risposta. 
Ancora in piedi, la busta che occupava quello che sarebbe dovuto essere il suo posto sulla panchina, quest'ultimo mise un attimo da parte la propria tazza. Si voltò verso il parco, gli occhi che frugavano tra la marmaglia di bambini intenti a giocare. Qualcuno di loro stava puntando il dito nella loro direzione, indicando esplicitamente quel ragazzo alto dai capelli rosa.
Seokjin tornò a girarsi verso Jungkook, l'aria interrogativa di un alpaca. 
"I nostri?" 
Rizzando la schiena, il castano chiamò a gran voce. 
"Jeonggyu! Eonjin!" 
L'effetto fu quello desiderato: i due piccoli della famiglia Kim lo sentirono nonostante la distanza (e con loro anche tutte le madri presenti al parco. Non ce ne fu una che non si sentì in dovere di fissare l'adolescente), ma non sembravano così convinti di volerlo raggiungere. Stavano giocando sugli scivoli con una bambina così bionda che Jungkook se la sarebbe ricordata se l'avesse mai vista prima.
Probabilmente i due avrebbero pure fatto finta di niente se non avessero avvistato Seokjin. Come per magia gli spuntarono le ali ai piedi tutte d'un colpo, così.
Seokjin uguale cibo. Pure loro lo sapevano. 
Tre secondi dopo i due bambini erano arrivati alla panchina. Il nuovo arrivato si ritrovò le lunghe gambe abbracciate da Eonjin, il visino di lei sprofondato nel cappotto, mentre Jeonggyu preferì scambiarci un batti cinque. Gli fecero letteralmente le feste quando a ciascuno venne dato un dolcetto con cui fare merenda; Seokjin doveva averli presi allo stesso Caffé delle loro bevande a giudicare dal marchio stampato sull'involucro.
Disse a Jungkook che ce ne era uno anche per lui, ma l'altro si limitò ad annuire. Al momento non si ricordava neanche più di dove fosse di casa la fame.
Jeonggyu e Eonjin tornarono di corsa dalla stessa biondina di poco prima; ripresero a giocare con lei, ma avere una mano impegnata li impacciava un po'. Non ci volle molto prima che qualche amichetto si avvicinasse a loro, chiedendo un pezzetto di dolce. 
Continuando a tenerli d'occhio, Jungkook si schiarì la gola e buttò giù un sorso di thé.
Una volta finito di distribuire cibo a destra e manca, Seokjin ripose la busta sull'erba e si sedette al suo fianco, imitandolo. Sospirò contento quando le sue mani infreddolite poterono stringersi alla sua tazza ancora calda. 
"Davvero, grazie per essere qui." gli disse il castano. "Spero Namjoon non mi odi per averti rubato a lui." 
Nella testa di Jungkook la frase era suonata molto più allegra. Almeno poteva dire di starci provando.
 "Non ti preoccupare," rispose Seokjin. "Oggi non avevamo in programma di vederci. Usciamo tutti insieme questa sera."
Questo sì che era insolito. 
Già i due piccioncini non dovevano aver passato insieme la giornata di ieri, ora non trascorrevano insieme neanche questa? Ben due giorni di distacco quando tra un po' si telefonavano a scuola tra una lezione e l'altra per dirsi che si mancavano? Ed erano ancora tutti e due vivi e vegeti?
Jungkook non stava scherzando. Una volta era successo davvero, glielo aveva detto Jimin. 
Questa volta la voce del più piccolo suonò genuinamente preoccupata. 
"Va tutto bene fra di voi?" 
Le labbra carnose di Seokjin si piegarono in un sorriso. "Anche troppo." 
La vaghezza di quella risposta pungolò la curiosità dell'altro, ma il ragazzo dai capelli rosa si affrettò a cambiare argomento. 
"Fa freddo, eh? Chissà se quest'anno verrà a nevicare." 
Come previsto, l'altro ragazzo si accese tutto. Adorava l'inverno e Seokjin lo sapeva bene. 
"Spero di si. Voglio tantissima neve, come quella volta in cui hanno dovuto chiudere le scuola." Jungkook bevve dalla sua tazza. "Ricordi? Per festeggiare siamo andati da Cup's e poi ci siamo rimasti bloccati dentro." 
Seokjin sorrise al ricordo. Avrebbe fatto meglio a stare più attento, perché per poco non si rovesciò il thé addosso.
"Si, non sarebbe male. Mi piacerebbe ricordare il mio ultimo inverno così." 
Quest'ultima frase si meritò un'occhiata sconcertata da parte di Jungkook; era sul punto di ridere a quella che gli era sembrata una battuta, ma la malinconia con cui era stata pronunciata lo tratteneva.
"Il tuo ultimo inverno? Jinnie, non morirai mica dopo le superiori." 
Seokjin guardava dritto davanti a sé senza incontrare lo sguardo di Jungkook. L'ombra di quel sorriso gli era rimasta addosso, ma aveva perso di significato. Gli schiamazzi dei bambini erano un sottofondo spensierato e crudele. 
"Ma sarà l'ultimo che passeremo insieme come compagni di scuola, come gruppo. Chi lo sa dove sarò a Natale l'anno prossimo. E chissà dove sarete voi per tutti quelli dopo. Pensa: tra due anni sarai il solo a frequentare ancora le superiori, il solo a poter stare a casa quel determinato giorno di neve."
Jungkook si morse l'interno di una guancia. Seokjin maledì la sua linguaccia. 
Sbuffò, esasperato con sé stesso. 
"Io- scusa, non volevo certo darti un dispiacere. Dimentica quello che ho detto." 
Anche se un po' spiazzato da questa uscita che non aveva visto arrivare, Jungkook lo rassicurò. "Non ti scusare, hai solo detto le cose come stanno. Non è colpa tua."
Seokjin annuì con il capo, ma i sensi di colpa erano evidenti.   
C'era questo peso sul suo petto. Un piccolo, enorme peso costante. 
Era uno di quei problemi incredibilmente stronzi, appartenenti alla categoria inesorabile: non si poteva far niente se non restare a guardare. Quei problemi lontani, rinviabili, ma che sono sempre in agguato in un angolo del cervello. Quelli che negli attimi di felicità sbucano per ricordarti che c'è sempre qualcosa che non va. 
Un pallone arrivò ai loro piedi. Jungkook si alzò per calciarlo in direzione del proprietario; la madre di questo gli face un cenno di ringraziamento. 
Nel ripercorrere i pochissimi passi di cui si era allontanato dalla panchina, a Jungkook la voce di Seokjin parve molto più adulta e composta di quanto non l'avesse mai sentita.
"Mi sento sempre come se con le superiori finirà il mondo. Come se dopo non ci sarà nient'altro." 
Jungkook tornò a sedersi, una mano sul ginocchio dell'altro.
"Buffo," rispose. "Io a stare a scuola mi sento sempre come se il mondo dovesse ancora iniziare." 
I due amici si guardarono in faccia. Per quanto le loro idee fossero opposte, capivano perfettamente cosa intendesse l'altro.
Capirono anche che doveva essergli appena successo qualcosa quando si ripresero dopo essere caduti nella maledizione della mela. La stessa aria stralunata stravolgeva l'espressione di entrambi, le loro schiene accasciate all'indietro sullo schienale della panchina. 
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La giostra andava veloce, veloce, non si fermava. 
Girava su sé stessa come una ballerina sulla sua scarpetta a punta, promettendo un bel capogiro a tutti quelli che erano a bordo. 
Era uno sciame di lucine, un carillon fuori misura. 
Seokjin e Jungkook ci si erano ritrovati sopra. I loro cavalli di plastica erano stati uno di fianco all'altro prima che la giostra si accendesse. 
Non era stato un graduale aumento di velocità; erano partiti subito in quarta, il vento che gli fischiava nelle orecchie. Si faceva fatica a tenersi stretti. 
Il cavallo di Jungkook procedeva in senso antiorario, avanti, avanti, avanti.
Il cavallo di Seokjin procedeva in senso orario, indietro, indietro, indietro. 
Tutto vorticava, svirgolava, roteava. Giocattoli e macchinine diventavano mostri quando gli si dava le spalle. 
A intervalli di tempo regolari i cavalli di Jungkook e Seokjin si incrociavano. I due ragazzi non facevano neanche in tempo a sfiorarsi la mano che venivano strattonati via.
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(49) November 6th, 2015 - Friday

Taehyung non si teneva più dalla curiosità. 
Dopo aver affrontato un viaggio con l'autobus ed essersi fatto tutto un pezzo di strada a piedi in compagnia di uno scatolone a testa, lui e Hoseok erano finalmente arrivati al nuovo appartamento di quest'ultimo e di sua madre. Si trovava in una palazzina, ma era molto più piccola e umile rispetto al condominio in cui vivevano i Kim. 
I due ragazzi mandarono gli scatoloni su con l'ascensore, mentre loro si fecero le scale. Aspettarono che le loro cose li raggiungessero al terzo piano e poi si diressero verso le tante porte, Hoseok che faceva strada. 
Quando arrivarono a quella giusta, quest'ultimo poggiò tutto a terra per aprirla; la chiave girò nella toppa e i due poterono entrare. Taehyung quasi ci si precipitò dentro, gli occhi grandi e un sorriso entusiasta sulle labbra. 
L'interno dell'appartamento era buio tra la mancanza di corrente elettrica e le tapparelle delle finestre abbassate, ma i pochi raggi di sole che riuscivano a penetrarvi facevano in modo che ci si vedesse comunque. Con un colpetto del piede, Hoseok si chiuse la porta alle spalle.
Considerando posizione e dimensioni, Taehyung dedusse che lo spazio subito davanti a lui fosse il salotto, mentre alla sua destra si apriva un brevissimo corridoio. Gli bastarono due passi per infilarcisi, scoprendo altre tre diramazioni: camera da letto uno, bagno, camera da letto due. 
Il ragazzo si soffermò un attimo sullo stipite di queste per guardarne gli interni: ovviamente era tutto spoglio dato che i mobili dovevano ancora arrivare, ma c'era qualcosa di affascinante nel vedere quelle scatole di muro vuote. Uno le poteva guardare e immaginarsi come sarebbero state una volta arredate di tutto punto, riempite di cose, affetti. Non sarebbero mai state più belle di quanto lo erano nella sua testa. 
Taehyung uscì e tornò in salotto. 
Hoseok stava accatastando i pacchi contro un divano, l'unico mobile presente che non avesse bisogno di essere montato. C'erano una miriade di scatole e imballaggi tutt'intorno, depositati lì da giorni. 
Hoseok tornò a drizzarsi sulla schiena, battendo insieme le mani per pulirle di una polvere immaginaria. 
Quando ne incrociò lo sguardo vivace non poté non sorridere al cugino. Taehyung era appena riemerso dal buio del corridoio, la sua figura sottile ovattata dal giaccone che teneva ancora addosso. 
Hoseok non si spiegava come mai, ma non aveva potuto fare a meno di notare un cambiamento di umore nel cugino. Poco prima, a casa Kim, dopo essersi dovuto assentare per prendere una cosa, si era ritrovato un Taehyung taciturno, afflitto. Vagamente stralunato, ma quello era nella norma. 
Invece adesso Taehyung gli restituiva il sorriso appena ricevuto con un modello tutto suo. Teneva le labbra unite, una piega placida più di guance che di bocca.
Hoseok ne era contento. 
Non poteva sapere che parte della tranquillità di Taehyung era frutto della distrazione che il nuovo appartamento comportava. Finché era lì, finché aveva qualcosa da visitare e da scoprire, sarebbe stato facile dimenticare l'incubo che neanche un'ora prima lo aveva scombussolato. 
Per questo motivo il biondo non poté non dispiacersi quando il cugino gli ricordò che entro massimo un'oretta avrebbero dovuto far ritorno a casa. 
Taehyung continuò la sua ispezione: diede un'occhiata anche alla cucina e provò a intravedere il panorama su cui dava una delle finestre. Concluse facendo un segno d'approvazione con il pollice in su a Hoseok che ridacchiò di rimando.
Insieme, i due tornarono al corridoio dove Hoseok indicò a Taehyung quale fosse la sua futura stanza. Anche se il biondo c'era già passato ci entrò una seconda volta, come se dovesse respirarne meglio l'aria ora che sapeva chi sarebbe stato il suo abitante specifico. 
Hoseok andò a socchiuderne appena le tapparelle. Quell'atmosfera soffusa era troppo gradevole per squarciarla con la luce del giorno, seppur pallida.
Ora che ci si vedeva meglio era evidente che i lavori fossero già in corso. Taehyung seguì con gli occhi un breve tracciato sul pavimento, pezzettini di scotch lucidi a cui era rimasto attaccato un angolo di giornale. 
"Ehi, ma le pareti sono colorate. Non ci avevo fatto caso." 
Hoseok si allacciò le braccia al petto, divertito. 
"Bhe, grazie. E' bello aver passato ogni mattinata dal mio arrivo a Seul a dare mani su mani di vernice per poi sentirsi dire che non ci si fa neanche caso." 
Taehyung si voltò verso di lui, stupito. 
"Ecco cosa fai mentre sono a scuola! E io che pensavo mi stessi bruciando tutti i livelli di tutti i videogiochi." 
Hoseok si piantò per bene al centro di una parete. Scosse la testa prima di iniziare a parlare, i capelli che gli scorsero da una parte della fronte all'altra. 
"Qui ci andrà il letto." Spalancò le braccia per imitarne le dimensioni. "Lì ci metterò un armadio. All'inizio pensavo di metterlo sull'altra parete, ma con la finestra in mezzo era un po' un problema."
Andò avanti così per un po'. Hoseok indicava zone e descriveva cosa ci avrebbe messo in futuro, i progetti evidentemente ben stampati nella sua mente. A Taehyung sembrava di vedere ogni mobile che aggiungeva all'elenco, ogni poster e ogni mensola, quasi gliela stesse montando sotto gli occhi. 
Hoseok era così entusiasta. Aveva uno sguardo particolare sul viso, un miscuglio di espressioni che Taehyung doveva aver già avuto modo di vedere singolarmente. Forse era la postura. C'era qualcosa nel modo in cui si muoveva o nel modo in cui stava fermo. 
Hoseok venne scrutato in silenzio mentre si perdeva a parlare della sua indecisione riguardo il mettere o non mettere un tappeto (era il massimo se ad uno piaceva camminare scalzo, ma sua madre se lo sarebbe poi ritrovato da lavare).
Taehyung lo sapeva che cos'era. 
Era ammirazione. 
Orgoglio.
Senso d'appartenenza. 
La felicità di Hoseok sembrava cantare e cantava sono a casa.
Taehyung lo sapeva: era uno di quei momenti.
Uno di quei momenti in cui la figura del cugino era una calamita da cui i suoi occhi non riuscivano a separarsi. Uno di quei momenti in cui vedeva il rosso dei suoi capelli e notava come l'ultimo lavaggio li avesse scoloriti. In cui quel sorriso sembrava più a cuore, quella vita più sottile. 
Hoseok amanava gentilezza. Non la emanava nei confronti di una persona precisa; era come un'aurea, una sottocategoria dell'atmosfera terreste creata esclusivamente per lui. E la emanava con ogni fibra di sé, dalla voce ai gesti delle mani.
Ne emanava così tanta che Taehyung iniziò a pensare che forse un granello di quella gentilezza gli si sarebbe conficcato nel petto e lui sarebbe diventato un pizzico meno cattivo. 
Ma Taehyung sapeva che quel granello non era abbastanza. Dopotutto, buono non lo sarebbe mai stato. Aveva bisogno di più. Tanto di più. 
Avevano a disposizione un'oretta? Taehyung si sarebbe accertato di non andare via un solo minuto prima pur di vedere Hoseok così il più a lungo possibile. 
Fu di istinto che lo propose. 
Cioè, proprio d'istinto no. Dopotutto avevano già pattuito che quello fosse il giorno in cui ci si sarebbero costretti, ma Taehyung si aspettava molti più giri di parole da parte sua.
"Ti va di parlare?" 
L'atmosfera nella stanza fu stravolta. La tranquillità che avvolgeva il nuovo appartamento venne dissipata da un senso di aspettativa. Per chi o nei confronti di cosa non era molto chiaro.
Non corrispondeva esattamente a quello che Taehyung aveva appena desiderato, ma ehi, il ragazzo era un macello negli ultimi tempi. Che volete da lui.
Anche l'espressione di Hoseok era mutata all'istante, presa alla sprovvista. Il ragazzo abbassò le braccia con cui stava tracciando uno specchio immaginario per portarle lungo i fianchi.
Si erano detti dobbiamo parlare così tante volte che ormai era un gioco. Non aveva mai davvero creduto che quel momento sarebbe arrivato.
Solo a pensarci gli venivano i sudori alle mani. Come se suo cugino non gli avesse fatto un pompino in un bagno pubblico giusto due giorni prima. 
"Okay." disse Hoseok, ma entrambi sapevano che aveva esitato troppo per poter sembrare disinvolto.
I due ragazzi si fissarono, silenziosi. Gli occhi di Hoseok fecero su e giù dagli occhi di Taehyung alla sua bocca quando questo si morse una guancia, sulle spine. Se ne stettero semplicemente con le braccia penzoloni in mezzo alla camera spoglia; non avevano niente con cui occupare le mani, non un tavolo a cui sedersi o un paio di sedie da mettere una di fronte all'altra. C'erano solo loro due, le quattro mura che li circondavano e qualche goccia di vernice sul pavimento. 
Ma in che diamine di situazione si erano andati a cacciare. 
"Possiamo andare di là, se vuoi." 
La voce di Hoseok era titubante, così come lo era il cenno che fece con il capo verso il corridoio. 
"Credo che il divano sia l'unica cosa che abbiamo su cui sederci. A meno che tu non preferisca il pavimento." aggiunse. 
Taehyung alzò le spalle, un gesto qualunque che non gli uscì bene. 
"No, no. Il divano è okay."
I due cugini tornarono in salotto. Si dovettero dar da fare per sgombrare il divano da tutte le cose del trasloco che ci erano state ammassate sopra, ma alla fine ci riuscirono. Tutt'intorno continuava ad essere una giungla di roba, ma poco importava. 
Taehyung ci si buttò sopra con un tonfo di plastica. I quattro cuscini che ne formavano lo schienale e la seduta erano stati avvolti singolarmente da uno sottile strato di cellophane; probabilmente sua zia aveva deciso di non rimuoverlo fino a quando il salotto non sarebbe stato tinteggiato. 
Hoseok si limitò a spingergli le gambe nella sua zona di divano, accasciandocisi a sua volta. Taehyung ridacchiò, ma diede qualche pacca alla gamba del cugino. Decisi a non girarci troppo intorno, i due cugini tentarono di sedersi più composti. 
Si misero entrambi a gambe incrociate in modo da fronteggiarsi. Il divano non era tanto grande, ma se avessero voluto avrebbero potuto mettere un po' di distanza in più. 
Una volta che si furono sistemati non ci fu molto da fare se non tornare a guardarsi dritti negli occhi, lo stesso silenzio denso di prima.
Il rosso si inumidì le labbra, nervoso. "Quindi?" 
E quindi niente. Dovevano parlare. 
Dovevano parlare ma nessuno si azzardava ad aprir bocca. I due ragazzi audaci dell'altra sera dovevano essere andati a prendersi un caffé, lasciando quei due timidoni come rimpiazzo.
D'altronde cosa c'era da dire? Il bisogno di parlare c'era stato quando al mare si erano baciati, quando avevano sentito quella vaga tensione tra di loro anche da sobri, quando c'erano stati sguardi fraintendibili.
Ma adesso? 
Suonava molto più scandaloso detto così, ma Taehyung e Hoseok avevano fatto sesso orale.
La questione non era più parlare, e lo sapevano entrambi. Adesso si trattava di ricominciare da dove erano stati interrotti e vedere dove sarebbero andati a finire. 
Provavano attrazione fisica l'uno per l'altro, questo ormai era innegabile. Non aveva senso continuare a reprimersi se era una cosa che volevano entrambi. A questo punto lo avevano capito anche i muri che qualsiasi decisione avessero preso sarebbe arrivata dopo essere stati insieme, se ci fossero stati.
Insomma, o andava bene o andava male. 
Potevano fare sesso e vedere se era un tipo di relazione che volevano mantenere. O potevano fare sesso e fingere che niente di tutto ciò gli fosse anche solo passato per la testa. Quale fosse bene e quale fosse male era poi tutto da vedere. 
Basta, dovevano farlo. Fine. Punto. No esitazioni. 
Le loro ginocchia si scontrarono quando Hoseok fece leva sulle braccia per spingersi in avanti, riducendo le distanze. Notando inevitabilmente quella mossa di bacino, Taehyung staccò qualsiasi tipo di spina collegasse il suo cervello al resto del corpo, gettandone l'adattatore sotto il divano. 
Taehyung andò a stringere con leggerezza i gomiti del cugino, non sapendo dove altro mettere le mani. 
Certo che mettersi a fare queste cose nel bel mezzo di quello che sarebbe stato il salotto di una casa pienamente funzionante faceva strano. Come se qualcuno potesse decidere di entrare dalla porta d'ingresso all'improvviso e coglierli sul fatto. Suonava anche più incestuoso, anche se l'incesto era un dato di fatto non quantificabile.
Avvolti nella penombra, i cerchietti di luce delle tapparelle si proiettavano sulla schiena di Taehyung e sul viso di Hoseok. 
Gli occhi di quest'ultimo ne sarebbero stati infastiditi se non fosse che contornavano da dietro i capelli biondi dell'altro. Tra la sua fisionomia sottile e quei tocchi di luce, Taehyung sembrava incredibilmente soffice e questo sembrò ad Hoseok un incentivo più che valido. 
Si sporse in avanti e subito l'altro fece per incontrarlo a metà strada. 
Era questioni di centimetri prima che i due potessero baciarsi quando Hoseok chinò il capo in avanti e si lasciò sfuggire una risata. 
Il rosso cercò di riprendersi in fretta: appoggiò una mano dietro il collo di Taehyung per attirare il suo viso verso il proprio, ma fu il turno dell'altro di non riuscire a restare serio. Taehyung sviò e appoggiò la guancia contro la mandibola ben delineata di Hoseok, il petto leggero. Gli venne rifilata qualche pacca sulla schiena per farlo raddrizzare. 
Hoseok e Taehyung presero un paio di respiri, dandosi una calmata. Allacciarono insieme le mani e ritentarono. 
Si diedero un minuscolo bacio a stampo prima di scoppiare a ridere all'unisono. Le loro bocche giocarono per un po' a rincorrersi, troppo impegnate a sorridere tra un bacetto e l'altro. 
Taehyung si trasferì sul grembo di Hoseok, avvolgendone il busto con le gambe. Gli piantò scherzosamente i talloni nella schiena quando l'altro si ritirò con il capo prima che lui potesse raggiungerlo.
Una strana morsa si era fatta spazio nello stomaco di Taehyung. Poteva dirsi che si trattava di mancanza di fiato fra tutto quel ridere e trattenere il respiro, ma in quel caso l'avrebbe dovuta sentire al petto. 
Per quanto non stesse fermo un secondo, aveva sempre il viso di Hoseok a una spanna dal suo. Quasi non riusciva a mettere a fuoco i suoi occhi tanto era vicino, ma per fortuna non era così. Poteva vederne chiaramente il taglio morbido, il colore scuro, la patina lucida dovuta alle tante risa che presto si sarebbe raggrumata in una lacrima. 
Taehyung si accorse di aver smesso di ridere solo quando suddetti occhi si appigliarono ai suoi in modo stabile. 
Mentre la risata spensierata di Hoseok riempiva le pareti del salotto, un semplice, grande sorriso a labbra chiuse si era impadronito del viso di Taehyung. Sapeva di foglie di menta. Di succo alla pesca. 
Le grandi mani del biondo rinviarono in un solo gesto i capelli del cugino all'indietro. Le primissime ciocche aranciate della frangia tornarono subito al loro posto sulla fronte, ribelli. 
Hoseok fece appena in tempo a chiudere gli occhi prima che l'altro gli sigillasse la bocca con la propria. Un paio di braccia gli si allacciarono con più decisione intorno al collo, altrettante mani trovarono un nido nei suoi capelli, ciocche rosse che sbucavano tra dita bianche.
Così annodati insieme, Taehyung si sbilanciò in avanti quando il cugino iniziò a separargli le labbra con le proprie. Un rumore di plastica accolse la schiena di Hoseok quando cadde all'indietro sul divano. 

(50) November 6th, 2015 - Friday
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Nello scenario che la maledizione della mela gli propose questa volta, Jimin stava già camminando. Il ragazzo non riusciva a cambiare rotta, a rallentare il passo, a girare la testa, ma qualcosa in lui conosceva già le fattezze di quella stanza.
Era rettangolare, non particolarmente lunga. La parete alla sua sinistra era mancante, come se un gigante se la fosse portava via per metterla sotto la gamba di un tavolo ballerino; il mondo esterno su cui faceva da finestra era di un bianco smagliante. 
A contrasto con esso, Jimin era una silhouette di un blu notte pregnante, quasi viola. 
Più il ragazzo avanzava, più gli saliva un senso di aspettativa. Il suo inconscio sapeva cosa lo aspettava al traguardo, ma non volle dargli indizi. 
Tutto parve acquisire un senso quando un altro rumore di passi si unì al suo.
La persona che gli stava venendo incontro non aveva faccia, non aveva nome. Pareva quasi un manichino, l'allegoria di un qualche ideale, ma a Jimin non importava. Era blu, come lui. 
Le sue mani lo precedettero, correndo verso quelle dello sconosciuto. Le prese tra le sue, incrociò le loro dita, lo attirò a sé. L'altro si chinò a baciarlo e Jimin dovette alzarsi sulle punte dei piedi per poterlo incontrare a metà strada. 
In quel soffio che divideva la sua bocca da quello dello sconosciuto, Jimin sorrise. Un senso di serenità lo inondò da capo a piedi, il suo corpo che diventava armonia, pronto ad allacciarsi a quello del suo amante. 
Il labbro inferiore gli venne strappato via, il crimine di un becco d'aquila. 
L'urlo di Jimin fu un verso gutturale. Il ragazzo andò a premere una mano sulla bocca, il corpo piegato in due.
Più la toccava, più urlava. Più urlava, più sanguinava.
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Il ciondolio argentino delle chiavi dell’auto precedevano Patrick Daront. L’uomo le teneva ancora in mano, indifferente a quel loro accompagnamento musicale. 
Lloyd Daront camminava subito dietro di lui, lo sguardo annoiato che divagava tra le pareti del corridoio. Non era la prima volta che gli spazi angusti del retro dell’Anathema gli ricordavano gli alberghi inglesi che gli era capitato di frequentare in passato. 
La conversazione che i due fratelli stavano tenendo non doveva essere delle più brillanti, perché Patrick ne dimenticò completamente l’oggetto una volta arrivato al proprio ufficio. Entrò senza esitazioni nella stanza, gli occhi che già rovistavano ovunque.
Non fece neanche in tempo a metterci piede dentro che già lo vide: Jimin non si trovava lì. 
Una volta mollate le chiavi dell’auto sulla scrivania, le mani di Daront andarono subito a ripescare il cellulare da una delle tasche della costosa giacca. Andò nella sezione delle chiamate veloci, portandosi l’aggeggio all’orecchio. 
Lloyd se ne stette sullo stipite, assistendo a come l’espressione dell’altro si crucciò ancora un po’ di più. Patrick non si era seduto alla sua scrivania, il che era già un brutto segno. Quell’irritazione che aveva sempre addosso in minima parte parve aumentare visibilmente, una palla di neve che rotola già da una montagna innevata.
Non chiese cosa ci fosse che non andava. Un po’ perché poteva già presumerlo da sé (erano lì solo per interrogare Jimin, e Jimin non c’era. Non ci voleva un genio a fare due più due.), un po’ perché aveva imparato con l’esperienza che, qualsiasi cosa lo affliggesse, era meglio lasciare Patrick nel suo brodo. 
Daront chiuse la telefonata con un grugnito. 
“Il mio segretario non risponde. Vado da lui e torno.” 
Detto questo, l’uomo uscì dal suo stesso ufficio. Non ci badò, ma poté sentire chiaramente che dopo poco il fratello uscì a sua volta.
Patrick Daront attraversò di nuovo i corridoi del suo locale, dirigendosi verso la segreteria. Lo fece a grandi falcate, quasi volesse seminare il fratello: era tutto il giorno che ce lo aveva tra i piedi, esattamente come ai vecchi tempi.
Sfilando tra le diverse porte, fu il turno dei mocassini che teneva ai piedi a tenergli compagnia. Erano nuovi di pacca e producevano un suono gommoso che avrebbe presto segnato la loro villeggiatura permanente nel ripostiglio di casa. 
Mancavano pochi metri allo stanzino in cui era stata stipata la segreteria quando suddetti mocassini si piantarono a terra. Daront fece un paio di passi a ritroso, tornando all’unica porta da cui proveniva la luce artificiale dei lampadari. 
Gli bastò soffermarsi un attimo sullo stipite per riconoscere Jimin in quella figura accovacciata a terra.
Daront si precipitò all’interno della sala prove. Se ne fregò completamente dell’avviso che lui stesso aveva fatto appendere su una di quelle pareti, quello che raccomandava ai ballerini di cambiarsi le scarpe fuori per poter mantenere tutto più pulito. 
Prima il rumore dei suoi pestoni sul parquet, poi le sue ginocchia che collidevano con esso.
Daront non credeva fosse fisicamente possibile smettere di pensare, eppure nella sua testa non ronzava una parola.
Park Jimin era schiantato sul pavimento del suo locale, le ginocchia che volevano raggiungere il petto. Lo si sarebbe detto sdraiato su un fianco, ma c’era qualcosa di orribilmente contorto nel modo in cui teneva la schiena, il viso nascosto tra braccia e legno. 
Era agonizzante. Letteralmente agonizzante. 
Il suo corpo era rigido, spigoloso, ghiacciato da una bufera che non era mai arrivata. Continuava a fare piccoli movimenti, come quello secco della spalla, le gambe che si stendevano appena per poi tornare a piegarsi di scatto, una corda troppo tirata che si spezzava.
Non c’era niente in lui dell’attraente diciassettenne che era stato assunto all’Anathema come ballerino.  
Daront non aveva mai saputo cos’era davvero il panico fino a quando un rantolo non uscì dalla bocca del ragazzo. 
L’uomo parve ridestarsi tutto d’un colpo. 
“Jimin.”
Già chino a terra, Daront afferrò l’unica mano che Jimin non stesse tenendo schiacciata sotto il suo stesso corpo. Si stupì di sentirla calda, quasi sudata. E tremava così tanto. Tremava così tanto che a Daront venne istintivo stringerla di più, come se potesse frenarla.  
Con l’ennesima convulsione, la mano gli venne sottratta. 
Jimin se la portò al mento, trascinando anch’essa nel nascondiglio che si era andato a creare tra braccia e capo, un bunker per proteggersi da tutto e tutti. Anche il colletto del suo cappotto e la sciarpa contribuivano, coprendolo fin sotto la guancia. 
Patrick chiamò il suo nome ancora una, due volte. Provò a scrollarlo per una spalla, ma niente. Dovette usare la forza per smuovere il braccio da quella posizione di difesa, ma alla fine ci riuscì. 
Non seppe come fece a trattenersi dal sussultare.
Le palpebre di Jimin erano aperte a mezz’asta. Tagliavano le sue pupille in due mezze lune di un giallo smagliante. 
Quegli occhi confermavano cose per cui non c’erano dubbi. Daront se li sarebbe dovuti aspettare, ma se ne scoprì comunque inquietato, una paura soffocata negli anni dell’infanzia. 
Gli occhi gialli appartenevano ai gatti delle streghe, agli animali notturni, ai mostri nascosti nell’armadio.
Un conto era stato vederlo attraverso delle telecamere a bassa definizione, sul visino fisicamente piccolo di Melanie; allora era quasi sembrato uno scherzo della luce, un bagliore dettato da un’illusione. Un altro era ritrovarselo di fronte, su qualcuno che conosceva da tempo. 
Daront cacciò ogni pensiero nell’angolo più remoto della sua testa, un chirurgo che doveva operare a sangue freddo. La sua mente lavorava freneticamente, le mani ruvide che aleggiavano sul viso di Jimin senza permettersi di toccare. 
Non c’era soluzione, cazzo, non c’era.
Disperato, Patrick fece l’unica cosa che gli venne in mente. 
“LLOYD!” urlò, all’indirizzo della porta. “LLOYD!”
Non ci volle molto prima che il fratello comparisse sulla porta in tutta la sua altezza, il berretto a righe che spuntava dalla tasca del giubbotto. Probabilmente doveva già essere nei paraggi. 
“Che c’è?” chiese, il tono di voce svogliato.
Gli ci volle un attimo per abbassare lo sguardo sulla scena che gli si presentò davanti. Le labbra gli si separarono appena, interdetto.
Stretto nel solito completo formale, il fratello maggiore gli dava la schiena. Era sulle ginocchia, una posizione umile in cui non pensava di averlo mai visto, tutto chino sul corpo di Park Jimin. 
E, già, quest’ultimo non aveva esattamente una bella cera.
“Chiama un’ambulanza!” 
Lloyd non si fece impressionare dal tono usato da Patrick. L’espressione del giovane uomo era turbata, ma non più di quanto non lo sarebbe stata se avesse perso dieci won per strada. Rimase sulla porta, a studiare la situazione dall’alto.
“Datti una calmata, Patrick. Sta solo sognando.”
Quando Patrick si voltò verso la porta della sala prove, il suo sguardo era amianto. Da sopra la sua spalla si poteva vedere che aveva messo una mano tra il viso del ragazzo e il pavimento, il palmo a coppa contro quella guancia.
Il collo dell’uomo si era fatto incredibilmente rosso, la sua voce un boato.
“Sta solo sognando? Sta solo sognando? Porca puttana, ma non lo vedi?
Un altro rantolo uscì dalla bocca di Jimin.
Anche con l’arrivo dell’altro, le sue pupille non si erano smosse di un millimetro. Quegli occhi erano del tutto vitrei, guardavano senza vedere. Jimin non era lì con loro.
Patrick guardò da lui al fratello un paio di volte, indeciso se soccorrere il primo o ammazzare il secondo. Alla fine si decise per la prima opzione; non ci avrebbe guadagnato niente se poi le persone da portare all’ospedale erano due. 
“Dammi una mano.” ordinò. 
Lloyd lo guardò. Si decise ad entrare nella stanza e fare il giro del corpo di Jimin quando capì le intenzioni del fratello. 
I due sollevarono Jimin di peso. Sarebbe dovuto essere un lavoro imparziale, ma Daront teneva il ragazzo completamente nelle sue braccia, disprezzando l’aiuto che aveva richiesto lui stesso. Si diressero verso l’unico divanetto presente nella stanza, quello su cui di solito le ragazze del corpo di ballo si limitavano ad accumulare montagne di giacche e borse.
Fino a quando non l’ebbero messo giù, Daront non parve realizzare l’atto in sé. Se qualcuno gli avesse predetto che quel giorno avrebbe preso in braccio il suo ragazzo Immagine per farlo sdraiare su un divanetto di certo non si sarebbe immaginato uno scenario del genere. 
Non sarebbe riuscito a godersi il corpo dell’altro premuto contro il petto neanche se ci avesse provato; non avrebbe percepito la rotondità di quelle cosce che sosteneva con l’avambraccio, non avrebbe sentito il calore di quel respiro. Patrick maneggiava Jimin come avrebbe maneggiato una persona ferita qualunque. 
La pelle del divanetto si piegò sotto il peso di quest’ultimo. Gli spasmi che avevano posseduto il suo corpo parvero calmarsi immediatamente, spaesati dal nuovo ambiente. Patrick gli tenne le braccia distese lungo il busto fino a quando non le sentì smettere di opporre resistenza. 
Ci volle un po’, ma le membra si rilassarono, quelle palpebre si chiusero.
Jimin smise di essere un mostro e tornò ad essere Jimin. Affascinante, giovane, dormiente Jimin.
Patrick Daront non si sarebbe sentito così sollevato neanche se fossero state ritirate tutte le denunce sporte all’Anathema in tanti anni di apertura. 
Si sarebbe messo ad accarezzargli i capelli via dalla fronte se non fosse stato per la presenza, no, per l’esistenza di suo fratello.
“Sapevi quali sono le conseguenze. Ce le ha raccontate lui stesso.” esordì Lloyd. Evidentemente era pronto per quel litigio che si erano giusto schivati prima. 
Patrick ora era più calmo, ma non meno furioso. Si alzò in piedi, riguadagnandosi la sua imponenza da quarantenne. 
“Adesso basta. Hai avuto le tue prove, le tue mele del cazzo non funzionano come dovrebbero. Esperimento fallito, fratellino.”
“A me non sembra proprio. Da perfezionare, sì, ma non fallito.”
“Avevi detto che il tuo obbiettivo era quello di aumentare le vendite di mezzo mondo, dare una spintarella all’economia.” disse Patrick, narrando le intenzioni di Lloyd come se fossero gesta eroiche. “A me sembra che hai solo reso un gruppo di ragazzi dei piagnoni arrapati.” 
Lloyd inarcò un solo sopracciglio. Sembrava tranquillo come sempre, ma chi lo conosceva bene poteva notare come si fosse offeso. 
“Non potresti tirarti indietro dal nostro accordo neanche volendo. Gli effetti della mela durano una settimana, non un giorno in più, non uno di meno, ricordi?”
“Avevi detto che non sarebbe stato male.” 
Quella di Daront era un’accusa. La delusione trapelò nella sua voce; si era fidato, aveva voluto fidarsi del fratello minore, ma a quanto pare aveva sbagliato.
Doveva essere trapelato qualcosa di più oltre alla delusione, perché sul viso di Lloyd sbucò un sorriso sottile sottile. Da iguana. 
“Il tuo attaccamento a lui è malsano.”
Patrick distolse lo sguardo da Jimin. Non si era nemmeno accorto di star controllando per l’ennesima volta le sue condizioni, pronto a tornare al suo fianco in qualsiasi momento.
“Se fosse stato la tua bambina l’avresti fatta curare.” 
“Lei è troppo piccola. Non può provare un’emozione così forte da sopraffarla.” disse Lloyd. “Ma, anche se fosse stato, avrei tutto il diritto di preoccuparmi, io. Melanie e sua madre sono la mia famiglia; questo qui è un ragazzino. L’unico problema in cui rientra Park Jimin di cui ti devi preoccupare verrà quando tua moglie ti scoprirà a farti una sega pensando a lui.” 
Patrick dovette deglutire. Un misto di indignazione e vergogna si dipinse sulla sua faccia mal rasata. Guardava il fratello, chiedendosi quali azioni da parte sua lo avevano spinto a crescere così. Quali prese in giro, quali brutti scherzi. Era sempre stato molto diretto, sincero al limite dello spudorato, ma credeva fosse una caratteristica persa con il tempo.
“Bene. Tu hai la tua famiglia, io ho l’Anathema. Jimin è un mio dipendente ed ha avuto un infortunio sul luogo di lavoro. Ho tutto il diritto di preoccuparmi anche io.”
“Pensala un po’ come ti pare, basta che non chiami nessuno.” 
Lloyd era evidentemente stufo di quella conversazione. Si era messo a dondolare il peso da una gamba all’altra, le mani nelle tasche dei pantaloni. 
“Mi dispiace, okay?” aggiunse all’occhiata bieca di Patrick. “Ti giuro che perfezioneremo le mele, ma ora non posso farci niente.”
Altro silenzio. 
Terzo e ultimo intervento. “Vado a prendere un po’ d’acqua. Tu intanto cavagli quella sciarpa, la sento soffocarmi da qui.” 
Quando il fratello minore ebbe lasciato la stanza Patrick si ritrovò a sospirare. Se solo li avesse visti loro padre, intenti a bisticciare come due bambini testardi. Si poteva dire che in vent’anni non era cambiato proprio niente.
Nonostante tutto, decise di seguire il consiglio dell’altro: la faccia di Jimin era piuttosto rossa, la fronte che iniziava ad imperlarsi di sudore. 
Con quanta più delicatezza poté, Patrick si mise a sedere sul bordo del divanetto dov’era sdraiato Jimin, sfiorandolo appena. Si mise a trafficare con la sua sciarpa, cercano di snodargliela dal collo. 
Una volta che ci riuscì la spostò di lato, andando a slacciare almeno il primo bottone di quel cappotto.
E ovviamente Jimin doveva riprendere i sensi proprio in quel momento.
I suoi occhioni scuri fecero capolino da sotto le palpebre, pesti e con la retina arrossata.
Non ci fu molto da fare per evitare quello che successe nell’immediato: Jimin mise prima a fuoco le mani sui bottoni del suo cappotto, poi la sciarpa a terra, il divanetto sotto di sé e infine la faccia di Patrick, più vicina delle normo-distanze.
Daront rimase in silenzio un secondo di troppo. Jimin fraintese tutto. 
I suoi occhi diventarono sempre più grandi, la realizzazione di un’idea sbagliata che li riempiva tutti. 
Quello che più ferì Daront non fu l’inconfondibile paura che si rifletté sul viso di Jimin. Quello che davvero gli fece male fu vedere come il corpo di Jimin si paralizzò sul posto, inerme a tutto quello che chiunque avrebbe potuto decidere di fargli. Semplicemente se ne rimase lì, braccato sul divano, senza muovere un dito.
La sua bocca parve sul punto di dire qualcosa, ma non una sola sillaba ebbe il coraggio di farsi avanti per contrastare quello che ai suoi occhi era in tutto e per tutto una molestia sessuale. 
Ci volle un po’ prima che Jimin riprendesse vita. Non ebbe bisogno di spintonare via Patrick perché l’uomo si era già fatto da parte. 
Vedendolo infilare la porta della sala prove letteralmente di corsa, sciarpa e borsone lasciati indietro, Daront si chiese se il ragazzo dai capelli argentei gli avrebbe mai creduto se gli avesse detto di essere innocente. 
 
(51) November 6th, 2015 - Friday

Il ditino di Eonjin premette il campanello di casa propria, facendolo suonare. Non ci volle molto prima che qualcuno venisse ad aprire la porta.
Taehyung si ritrovò davanti un Jeonggyu mezzo addormentato aggrappato al collo di Jungkook, e una paziente Eonjin, che si accontentava di tenere il ragazzo per mano. 
L'atrio del condominio era mal illuminato, ma la stanchezza che emanava il trio era ben evidente.
Dal canto suo, Taehyung sembrava essersi appena alzato dal letto. Letteralmente. 
I suoi capelli lisci non erano particolarmente arruffati ma sembravano comunque fuoriposto, come se se li fosse pettinati con le dita. Indossava dei pantaloni della tuta troppo larghi per le sue gambe magre e una camicia gli pendeva da una spalla, sgangherata. Era ovvio che l'avessero interrotto mentre si preparava per andare all'Anathema. 
C'era qualcosa di diverso nel suo viso. Nel modo in cui il suo sorriso era piccolo, ma gli occhi luminosi. 
A Jungkook venne voglia di urlare.
"Ehi, vi siete divertiti? Che avete fatto di bello?" 
Eonjin guardò stranita il fratello maggiore. Tutto quel buon umore dove lo aveva tirato fuori? 
La bambina decise di ignorare la cosa. Liberò a malincuore la mano di Jungkook quando rispose: "Siamo andati al parco." 
Intanto quest'ultimo si era chinato, facendo in modo che Jeonggyu potesse poggiare i piedi a terra. Il bambino non ne voleva sapere di mollare la presa su di lui, ma lo fece quando venne esortato da un paio di pacche affettuose sul sedere. Jeonggyu varcò la soglia di casa strofinandosi gli occhioni con i pugni, un qualche saluto mugugnato. 
Approfittando del fatto che Jungkook fosse ancora abbassato, Eonjin gli diede un timido bacio sulla guancia prima di scappare anche lei all'interno dell'appartamento. 
Taehyung la seguì con lo sguardo. Scosse appena la testa, divertito. 
Si voltò poi verso il suo migliore amico, appoggiandosi con una mano allo stipite della porta. La sua voce voleva suonare in un qualche modo dispiaciuta, ma proprio non ce la faceva. 
"Allora, ti hanno dato problemi? Mi sono pure reso conto di non averti dato niente nel caso volessero far merenda, scusa."
In contrasto con il suo, il tono di Jungkook era un condensato di grigio. Una volta liberatosi dei due marmocchi le sue mani erano andate a rifugiarsi nelle tasche, incapaci di starsene distese lungo i fianchi. Il suo sguardo era perso da qualche parte tra le striature del pavimento. 
"Tutto a posto, ci ha pensato Seokjin a darmi una mano."
Taehyung stava per dire qualcosa, probabilmente sul fatto che di sicuro il ragazzo più grande doveva essersi preso cura di loro per bene, quando un'altra voce parlò per lui. 
"Ehi, Jungkook!"
Alle sue spalle, qualche metro più in là, Hoseok stava attraversando la cucina con una piccola pila di piatti in mano. Intento ad apparecchiare, era tornato sui suoi passi quando gli era parso di sentire la voce di Jungkook. 
Il rosso sorrise all'istante, un gesto che l'altro non potè non ricambiare. Se c'era una cosa che Jungkook odiava di tutta quella situazione era che Hoseok non era detestabile sotto nessun punto di vista. 
Attento a non far cadere a terra le forchette posate in cima ai piatti, Hoseok approcciò i due migliori amici.
"Resti a mangiare? Ordiniamo la pizza..." 
Il ragazzo interpellato avrebbe voluto almeno fingere di prendere in considerazione la cosa, ma venne distratto. Rimase in silenzio per un attimo, guardando come Taehyung aveva voltato il capo verso Hoseok. 
Da dove si trovava, Jungkook non poteva vedere l'espressione sul suo viso, ma il modo in cui quella guancia sporgeva non poteva che suggerirgli un grosso, grosso sorriso squadrato. 
Jungkook si focalizzò su Hoseok. Il ragazzo ancora lo guardava, aspettando una risposta. 
"Mi piacerebbe, ma mia madre avrà già scongelato la cena." disse. "Ci vediamo direttamente all'Anathema." 
"Oh, okay." fece Hoseok, dispiaciuto. "A più tardi, allora." 
Jungkook annuì. Fece un cenno con la mano ai due cugini prima di girare i tacchi e scendere le scale del condominio. 
Per tutta la durata della conversazione non aveva incrociato gli occhi di Taehyung nemmeno una volta. 

(52) November 6th, 2015 - Friday

Per essere la sua prima volta all'Anathema, Hoseok aveva già attirato l'attenzione di tutti. 
La sua chioma rossa si vedeva sbucare di tanto in tanto tra la folla, un piccolo varco che si stava venendo a formare tutto intorno a lui. La gente lo filmava con il cellulare, faceva il tifo per lui. 
Per quanto si stessero divertendo, Jimin non potè evitare di preoccuparsi. Quasi aveva voglia di dire all'altro di andarci piano con il ballo: metti caso che qualcuno venisse a fargli strane proposte di lavoro. Ma Hoseok danzava come se in quel suo corpo non possedesse un solo osso, e non sarebbe certo stato Jimin a rompergli le uova nel paniere. A lui e al resto del gruppo. 
Erano arrivati tutti insieme all'Anathema più o meno da un'oretta. Jimin aveva provato a farli passare dall'entrata riservata allo staff, ma l'addetto alla sicurezza li aveva beccati. Il ragazzo dai capelli argentei aveva poi preferito fare la coda insieme ai suoi amici piuttosto che entrare da solo. 
La parola chiave di Jimin quella sera era: profilo basso.
Era con quelle due parole in mente che aveva deciso il suo outfit. Con il cappotto nel guardaroba, se ne andava in giro per il locale con un semplice paio di jeans neri e una canotta da basket che si limitava ad esporre parte del suo costolato. Indossava pure un cappello dalla visiera piatta che andava a nascodergli quella chioma tanto popolare. 
Anche quando non era di turno Jimin era solito mettersi comunque il rossetto viola della divisa. Invece quel venerdì sera la sua faccia era pulita, una striscia di matita nera appena visibile all'interno delle palpebre inferiori.  
Le motivazioni per cui Jimin voleva mantenere un profilo basso avrebbero benissimo potuto fare a gara per eleggere la peggiore tra di loro. Era una medaglia molto contesa quella, ultimamente.
Così il ragazzo si limitava a stare in compagnia dei suoi amici e a ballare nel pieno della mischia. Niente spettacoli. Niente nuovi incontri.
Jimin era preso dal battere le mani a tempo per Hoseok quando quello che poteva benissimo chiamare come il suo spirito di sopravvivenza si fece sentire. 
Il suo sguardo si era alzato autonomamente sulla balconata interna del locale, molti metri più in là. Lì, tra tavolini e divanetti, la figura torchiata di Daront attirò subito la sua attenzione.
L'uomo sembrava preso in una conversazione con quello che doveva essere un socio, ma i suoi occhi scorrevano sulla pista veloci. Cercavano, raspavano via gente.
Smettendo di molleggiare sul posto, Jimin deglutì. Chiese un appuntamento dell'ultimo minuto con il suo ritrovato istinto di sopravvivenza: quello gli consigliò di andare a nascondersi. 
E okay, era stupido, ma Jimin gli diede retta. Si rigettò nella folla, abbandonando il suo posto come spettatore di Hoseok. 
Jimin non voleva incontrare Daront. Non voleva incrociare il suo sguardo, non voleva respirare la sua stessa aria.
Da quando quel pomeriggio era scappato a gambe levate dall'Anathema aveva fatto di tutto per non pensare all'accaduto, ma la cosa si rivelava piuttosto impossibile al momento. 
Jimin non sarebbe voluto passare a conclusioni affrettate, ma non vedeva come poter giustificare le mani del suo capo sui suoi vestiti. L'uomo non era mai stato un santo, ma Jimin non voleva credere a quell'unico scenario così ovvio. 
Era indicibile. 
Era squallido. 
Era troppo, troppo dopo tutto quello che stava passando.
Jimin continuò a farsi strada tra la calca di persone. Al contrario suo, Daront passeggiava tranquillo sulla balconata; non doveva lottare per ogni metro di pavimento che attraversava. Si faceva sempre più vicino alla zona dove si trovava il ragazzo, ma non sembrava averlo avvistato.
Jimin si mise a guardare a destra e a sinistra, come per attraversare la strada. 
A quel punto, se davvero voleva passare inosservato, non gli rimaneva che confondersi tra gli altri giovani. Unico problema: tutte le persone che lo accerchiavano parevano già essere occupati da rispettivi partner o amici. 
Ma il problema non era neanche quello in realtà. 
Park Jimin ci avrebbe messo meno di dieci secondi a inserirsi in un gruppo qualsiasi, e gliene bastavano la metà per approcciare il primo bel ragazzo in vista. 
Il problema era che quella sera era venuto all'Anathema con i suoi di amici e non voleva farsi vedere da loro in certi atteggiamenti. O meglio, non voleva essere visto da una persona in particolare. 
Non poteva neanche dirsi che c'era talmente tanta gente che di sicuro l'altro non lo avrebbe colto sul fatto. Questo perché, quando Jimin smise di guardare a destra e a sinistra, scoprì che Yoongi era proprio dritto davanti a lui. 
Quando il moro si era allontanato per andare a restituire al bar i bicchieri dalla quale lui, Taehyung e Seokjin avevano bevuto i loro cocktail, non si era aspettato di incontrare Jimin da solo sulla strada del ritorno. 
E non si era neanche aspettato che Jimin si gettasse su di lui senza dire una parola.
Okay, gettasse era un parolone. Diciamo che il ragazzo aveva chiuso le distanze tra di loro in un paio di falcate ed era subito andato ad appoggiare le mani sulle spalle di Yoongi. Ci si era poi tutto chinato sopra con il capo, la fronte premuta contro le proprie nocche. 
Yoongi si era ritrovato con la stoffa ruvida del cappello di Jimin contro la guancia, l’orecchio dell’altro contro la mandibola. 
Preso completamente alla sprovvista, Yoongi non fece in tempo a reprimere quel moto di contentezza che gli prese al petto. 
Quando prima si erano incontrati con tutto il gruppo fuori dall'Anathema si era stupito di vedere Jimin vestito così. Non che gli stesse male, ma era uno stile con cui non lo si vedeva spesso. Di solito era sempre elegante, tutto colori scuri e squarci di pelle. 
Quel cappellino, poi. La visiera gli metteva in ombra metà viso, ma quei suoi occhioni scuri riuscivano a brillare lo stesso. Sarà stato perché gli teneva la frangia voluminosa all'indietro, facendoli risaltare di più. 
Il contrasto tra la tenuta sportiva e il solito atteggiamento aggraziato faceva sembrare Jimin uno di quei bambini che per gioco se ne andavano a zonzo con gli abiti dei genitori. Completamente fuori contesto, ma terribilmente tenero. 
Tutto questo passò per la testa di Yoongi nell'arco di un secondo e mezzo. Poi Jimin parlò, mantenendo il capo chino. 
"Giuro che non ti voglio infastidire, appena posso vado via." 
Lo aveva detto tutto d'un fiato. Era evidente che si aspettava di essere scacciato da Yoongi nell'immediato. 
E forse Yoongi avrebbe dovuto, davvero.
“Cosa stai facendo?” 
Premuto contro la spalla dell'altro, Jimin socchiuse la bocca, interdetto. Le parole di Yoongi non erano brusche. Non erano un invito ad andarsene. Suonavano più come la domanda che erano.
C'era comunque qualcosa di ingessato, di non genuino, ma sarebbe stato strano il contrario. Dopotutto, la settimana che ormai stava svolgendo al termine non era stata proprio una passeggiata per il loro rapporto.
Avevano litigato. Si erano urlati contro le cose peggiori. Erano arrivati alle mani. Si erano baciati. Si erano baciati di più. 
Nessuno dei due aveva provato a contattare l'altro per chiedere o dare spiegazioni. Probabilmente il ragionamento di entrambi era stato quello di non farne parole fino a quando non avessero trovato una soluzione, ignorandosi nel frattempo. Non avevano messo in conto che, essendo parte della stessa compagnia di amici, quel frattempo non sarebbe durato a lungo.
Jimin non sapeva se rispondere sinceramente fosse una grande idea, ma lo fece comunque. 
“Mi nascondo da una persona.” spiegò, vago. Sollevò appena il capo per cercare di intercettare Daront. L'uomo era ancora in vista, per cui Jimin tornò a sprofondare il viso sulla spalla dell'altro.
Yoongi lo sorprese una seconda volta. Stava davvero contribuendo a portare avanti la conversazione?
“Da chi?” 
“Il proprietario dell'Anathema. Il signor Daront, presente?” 
“Perché lo eviti?” 
Jimin si morse l'interno della guancia.
Yoongi attese risposta, ma quella non arrivò. Un pezzo dai bassi molto più insistenti aveva iniziato a suonare nel locale, sovrastando ogni tipo di rumore. Forse Jimin non lo aveva sentito.
“Jimin.” riprovò, senza successo.
Il moro girò il capo quanto bastò per portare la bocca vicino all'orecchio dell'altro. 
“Jimin, perché?” 
Le spalle di Jimin sobbalzarono di pochi millimetri, una reazione automatica al solletico. La sua voce riuscì a suonare piccola anche quando dovette parlare più forte.
“Non è nulla, davvero.” 
“Non saremmo qui in questo momento se fosse così.” 
La voce di Yoongi aveva qualcosa di inflessibile. 
Senza allontanarsi di un centimetro con il resto del corpo, Jimin sollevò il capo e si lasciò guardare in viso. Un sorriso tremulo acconciava quelle labbra carnose, mettendo in piazza una vulnerabilità atipica. 
Vedendolo, Yoongi capì di doversi preoccupare sul serio. Jimin non era il tipo da silenzi. Era il tipo di persona che affrontava i problemi di petto, a testa alta, e con la schiena dritta. Se si stava letteralmente nascondendo dal proprietario dell'Anathema ci doveva essere qualcosa sotto.
"Jimin.” chiamò Yoongi. Quarta volta. 
I loro occhi si incontrarono. Tutt’intorno a loro era un miscuglio di luci stroboscopiche, colori sgargianti e musica, ma le pupille di Jimin magnetizzavano l'attenzione di Yoongi in modo totale. Erano due pozzi neri, due finestre su un mondo dal colore della cioccolata fondente. 
Senza interrompere il contatto visivo, Jimin sospirò. Sarà stato il modo in cui gli fece corrugare la fronte, o come gli era uscito dalla bocca zoppicando, ma c'era qualcosa di inconsolabile in quel gemito.
Non aveva il coraggio di parlarne con Yoongi. Non quando le mani dell'altro si tenevano aggrappate così delicatamente alla stoffa in eccesso della sua canotta.
Jimin voleva solo dimenticare. Dimenticare ed essere felice.
Le sue dita scivolarono lungo la stoffa che copriva le spalle di Yoongi, accarezzandole. Ritrovarono il posto che gli era stato negato il giorno precedente, tra i capelli tagliati corti della nuca dell'altro.
Il moro neanche se ne accorse all'inizio. Era completamente in balia di Jimin, perso in quello sguardo troppo vicino per permettergli di respirare normalmente. 
Il ragazzo tinto di argento aveva preso a spostare il peso da una gamba all'altra, mollemente. Non staccava neanche i piedi da terra, non seguiva la musica. L'altro ne aveva seguito le movenze pacate in automatico, un ballo statico per cui non servivano passi.
Qui la storia andava corretta.
Yoongi e Jimin avevano litigato. Si erano urlati contro le cose peggiori. Erano arrivati alle mani. Si erano baciati. Si erano baciati di più. E ora ballavano. 
Una sensazione di miele si fece strada nel petto del moro. Con le palpebre abbassate a mezz'asta, Jimin gli stava fissando la bocca.
Bacio, gli intimò una vocina dentro di lui.
Bacio
E Yoongi voleva farla finita. Voleva baciare il ragazzo di fronte a lui e basta. 'Fanculo i suoi principi, 'fanculo tutto quanto.
Ma se una vocina gli diceva di baciare Jimin, altre nove gli urlavano di non cadere in tentazione. Se lo fai, dicevano, non tornerai più indietro. Lo perderai per sempre.
E' solo un bacio, controbatteva la vocina solitaria.
Finirete per andare a letto insieme.
La vocina non ribatté. Yoongi non poteva assicurare che questo non sarebbe successo. E si vide costretto a dar ragione ai nove grilli parlanti. Una volta arrivati a quella seconda fase, Yoongi sapeva già quali sarebbero state le sue opzioni il famigerato mattino dopo.
Opzione numero uno: Yoongi si svegliava da solo nel proprio letto.
Opzione numero due: Jimin avrebbe aspettato che Yoongi si svegliasse per fargli capire a parole o ad azioni che si era trattato di un solo episodio.
Opzione numero tre: Jimin avrebbe aspettato che Yoongi si svegliasse per dirgli che gli era piaciuto e che ogni tanto avrebbero potuto ripetere la cosa. 
Qualcuno (Namjoon, Seokjin, il mondo intero) avrebbe potuto suggerire finali più rosei, ma Yoongi non li volle prendere neanche in considerazione. Quello con cui aveva a che fare era Park Jimin, non doveva dimenticarlo.
Yoongi non poteva lasciarsi andare a quel modo. Già stava facendo un grosso sbaglio a permettersi così tante piccole libertà.
Ci aveva passato la notte in bianco. 
Probabilmente quella era tutta una tattica per farlo star buono. 
Magari Jimin voleva solo accontentare Namjoon e smettere di litigare una volta per tutte. Non avrebbe avuto modo migliore di farlo se non illudendo Yoongi con nuovi tipi di attenzioni. In fondo era bastato un solo bacio per renderlo più docile di quanto non fosse mai stato.
Anche qui, le nove vocine si infuriarono. Quella solitaria gli sussurrò di accontentarsi e prendere quel che veniva. 
Per un lungo, intenso momento, Yoongi si permise di pensare che anche se le cose fossero state così gli sarebbero andate più che bene. Bastava mettere le cose in chiaro. 
Per un bacio al giorno Yoongi avrebbe smesso di attaccare briga. Un paio di carezze e avrebbe ignorato certe abitudini. Sarebbe addirittura potuto diventare simpatico se Jimin gli avesse fatto spazio sotto le coperte. 
Quella vocina solitaria sarà stata pure piccola e maltrattata, ma accidenti se strillava. Le altre nove presero il sopravvento, l'azzannarono.
Yoongi era uno sciocco per aver anche solo preso in considerazione la cosa. Non era quello che voleva da Jimin. Beh, ovviamente voleva anche quello, ma di sicuro non era l’unica cosa. 
Quello che Yoongi voleva davvero era non essere uno dei tanti. Voleva avere un ruolo importante nella vita di Jimin, un ruolo che solo lui poteva interpretare. Voleva essere insostituibile, voleva essere indispensabile. 
Quindi si tornava dritti al punto di partenza. Tanti complimenti per il fiato sprecato. 
Yoongi , ma Yoongi no.
E Jimin era semplicemente troppo dolce per poter stare di fianco a lui e non essere tentati di dare un morso. 

(53) November 6th, 2015 - Friday

"Questo sì che è un debutto in società." 
La voce era quella di Taehyung.
"Scherzi a parte, sei stato un grande." 
Hoseok si voltò verso il cugino, sorridendo per il complimento. 
L'inizio dell'ennesima canzone aveva segnato la fine dell'improvvisata del rosso. Si era semplicemente ributtato nella mischia, bisognoso di un attimo per riprendere fiato. Taehyung lo aveva colto durante la sua disperata ricerca per una bottiglietta d'acqua naturale che fosse sigillata.
Con le mani sui fianchi e il respiro pesante, Hoseok si fermò da lui. Avrebbe potuto farsi indicare la strada per il bar non appena avessero finito di parlare.
"Dici che ho esagerato? Non pensavo che così tanta gente si sarebbe messa a fissarmi." 
"Tanto qui non ti conosce nessuno." disse Taehyung con una scrollata di spalle. 
Il biondo teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, la posa disinvolta che contrastava con la luminosità dei suoi occhi. 
Era da tanto tempo che desiderava vedere il cugino ballare dal vivo: aveva sempre visto video di saggi ed esibizioni della classe di danza che frequentava nella sua città natale, ma non c'era paragone. 
Hoseok si scusò, la gente che si pressava attorno a lui. Aveva davvero troppa sete. "Giuro, vado a cercare un po' d'acqua e sono subito da te. Vuoi qualcosa da bere?" 
Si aspettava unod un no, non il discorso serio che l'altro tirò fuori dal nulla.
Taehyung sembrava incredibilmente giovane ed avventato sotto le luci stroboscopiche. I suoi capelli biondo platino assorbivano ogni colore che ci si proiettasse contro. 
"Non sei costretto a seguirmi, Hobi. Sei all'Anathema. Se hai voglia di andare in esplorazione puoi farlo." 
Le sopracciglia di Hoseok si corrucciarono appena. Era un'espressione genuinamente confusa, come se stesse per fare un'osservazione qualunque. 
"Ma io sono venuto qui per ballare con te." 
Taehyung diede un colpo di risata. Gli ci volle un po' per capire che l'altro non stava scherzando. I suoi occhi si fecero subito più grandi, l'aria incredula. Aprì bocca, ma ci volle un po' prima che quella sua voce profonda si fece sentire. 
"Ma mi vedi tutti i giorni." 
L'insicurezza impregnava le sue parole nello stesso modo in cui le foglie vengono affondate dall'acqua piovana. Come potessero raggiungere l'orecchio dell'altro con tutto quel baccano era un mistero.
Hoseok fece spallucce. Quelle sue guanciotte gli si riempirono tutte quando abbassò le palpebre, un'espressione fugace che voleva sottolineare quanto la cosa non avesse importanza.
La bocca di Taehyung si aprì in un sorriso sgangherato. Prese poi la solita forma squadrata, senza fretta. 
Doveva essere così che ci si sentiva ad essere speciali.

(54) November 6th, 2015 - Friday

"Scusa." mormorò Yoongi, ma nessuno lo sentì. 
Il moro prese una delle mani poggiate sulle proprie spalle, sollevandola verso il soffitto dell'Anathema. Jimin si aprì nel più bel sorriso che l'altro gli avesse mai visto in volto quando capì di dover fare una piroetta. 
A metà giro, Yoongi gli lasciò la mano. Per sua fortuna si allontanò in tempo.  Non dovette assistere alla reazione che Jimin ebbe dopo aver ingenuamente concluso il passo da solo. Quel sorriso di un istante prima scemò alla velocità della luce. 
Yoongi non era più lì. 
Smarrito, il ragazzo dalla chioma argento si guardò intorno un paio di volte. La folla era un muro di braccia e gambe, non gli permetteva di vedere ad un metro dal proprio naso. Non seppe quanto tempo passò così, solo in un mare di gente, ad aspettare che Yoongi tornasse. 
L'unica cosa che fu in grado di risvegliarlo dallo stato di catalessi in cui era rimasto ingarbugliato fu venire stretto d'impeto da dietro. 
Jungkook quasi lo fece cadere in avanti quando chiuse le sue braccia forti intorno al busto di Jimin, la schiena curva per poter affondare il viso nella spalla del più basso. 
Andando contro il suo essere piuttosto stoico, il castano stava piangendo a dirotto; Jimin poteva sentire ogni singolo singhiozzo che scuoteva il petto dell'altro attraverso la schiena. Non molto più in là, Hoseok e Taehyung si stavano baciando senza ritegno, consapevoli che nessuno lì dentro era a conoscenza del loro grado di parentela. 
Portando una mano al di sopra della propria spalla, Jimin accarezzò il capo di Jungkook alla cieca. La tristezza inibiva ogni suo gesto, ogni inclinazione della sua voce. 
“Hai ragione, Kookie. Ci saremmo davvero dovuti mettere insieme io e te.” 
 

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Capitolo 9
*** OUTRO: WINGS ***



I went on the road that I was told not to go
I did things I was told not to do
I wanted things I couldn't want
I got hurt and hurt again
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 OUTRO: WINGS
 
(55) November 7th, 2015 - Saturday
 
Una mano sfiorò il polso di Jimin. 
Il ragazzo spalancò immediatamente gli occhi chiusi, l'aria che gli si bloccò in gola. 
Si trattò di una frazione di secondo, ma fu sufficiente per darsi la colpa di tutto: non sarebbe dovuto essere lì. Non si sarebbe dovuto concedere quel minuto di pausa, non si sarebbe dovuto appoggiare alla parete del corridoio, neanche per distendere i nervi. Al contrario di quello che avrebbe voluto credere, nemmeno la scuola era un posto sicuro. 
Ma, con la schiena ritta contro il muro ed entrambe le mani chiuse sulla cinghia della sua borsa a tracolla, Jimin si dovette dare dello stupido. 
Davanti a lui c'era Kim Taehyung, gli occhi sgranati tanto quanto i suoi.
A guardarla da fuori la scena sarebbe anche risultata comica; Taehyung richiamava l'attenzione di Jimin, Jimin si spaventava, Taehyung si spaventava perché Jimin si era spaventato. 
Il biondo lo guardava interdetto. La mano con cui aveva toccato Jimin era ancora vacillante nell'aria, subito scattata all'indietro a quella reazione inaspettata. Il ronzio della musica che stava ascoltando era l'unico suono a riempire lo spazio tra di loro, uno dei due auricolari che ciondolava a vuoto. 
La tensione abbandonò immediatamente la schiena di Jimin.
"Grazie al cielo sei tu." 
Il ragazzo dalla chioma argentea si allontanò dalla parete di un solo passo, giusto per potersi buttare contro Taehyung. Lo strinse a sé per un attimo, poi lo rilasciò.
Taehyung sorrise, stranito. L'abbraccio era terminato ancor prima che lui potesse ricambiarlo. "E chi mai dovrebbe essere?” 
Jimin spinse gli angoli della sua bocca carnosa verso l'alto. Scosse la testa, come se si trattasse di una stupidaggine. 
"Avevi bisogno?" disse, invece. 
La perspicacia di Taehyung doveva aver fatto progressi negli ultimi tempi, perché il ragazzo capì di non dover indagare.
"Sei libero adesso?” chiese. "Mi servirebbe una mano con dell'attrezzatura." 
Jimin ci mise tre secondi buoni a capire cosa intendesse l'altro.
Cavolo, era vero. Quel pomeriggio a scuola si sarebbe tenuto il primo torneo sportivo dell'anno. Se lo sarebbe dovuto ricordare nel momento in cui aveva notato che Taehyung indossava maglia e felpa della divisa di educazione fisica; il ragazzo non era mai stato un tipo vanitoso, ma i suoi abbinamenti di solito non cadevano nello sciatto. 
Jimin non si stupì di aver completamente rimosso l'evento dalla sua memoria. D'altronde gliene erano capitate di tutti i colori quella settimana. Senza contare che non faceva parte di nessuna squadra, per cui il suo compito consisteva solo in assistere alle partite altrui dagli spalti. 
"Si," disse Jimin. "tanto non ho niente da fare." 
Taehyung inarcò un sopracciglio. "Non hai lezione?"
"Ho il permesso per stare fuori dall'aula."
L'altro sopracciglio imitò il primo. 
"Giuro." fece Jimin. Tirò fuori dalla borsa a tracolla il foglio volante firmatogli da un suo professore, gli occhi che roteavano al cielo per tutto quello scetticismo. Lo sventolò sotto il naso di Taehyung, pizzicandogliene giocosamente la punta. 
Il biondo lasciò fare all'amico, le braccia conserte. Quel suo sorriso quadrangolare si mise a fare a spallate con le sue guance per averla vinta sulla sua espressione scettica. 
"Okay, okay, ti credo. Andiamo."
Senza dare un'occhiata al permesso di Jimin, Taehyung diede a quest'ultimo una pacca affettuosa sul braccio, spronandolo verso una direzione del corridoio. 
La scuola era tutta per loro. All'orario di pranzo mancavano più o meno una ventina di minuti, per cui tutti gli altri studenti dovevano essere a rodersi lo stomaco in classe. Solo le sezioni che in quel momento avrebbero dovuto fare ginnastica erano state mandate a zonzo; i vari professori di motoria si erano messi a impartire ordini a destra e a manca pur di terminare la preparazione dei vari giochi pomeridiani in tempo. Quello era l’ultimo compito che Taehyung aveva da portare a termine prima di poter entrare in pausa.
I due ragazzi attraversavano l'edificio in silenzio, ma non c'era tensione. Ogni tanto qualcuno diceva qualcosa, ma niente di memorabile.  
Jimin seguì l'altro giù per la scalinata principale, dritto dritto al piano terra dove si trovava la palestra. 
Taehyung camminava più svelto di lui. Fu d'istinto che Jimin si allungò per aggrapparsi alla manica della sua divisa sportiva, le dita che si arricciavano nella stoffa. 
Taehyung lanciò un'occhiata all'indietro, continuando a camminare. Non disse niente, ma si ritrovò a sorridere come un beota alla tenerezza di quel gesto. Gli ricordava di quando Eonjin era nei suoi giorni buoni, bisognosa delle coccole e delle attenzioni del suo fratellone. 
Ma da quanto tempo era che Jimin e Taehyung non passavano un po' di tempo insieme, solo loro due? 
La realizzazione colse Jimin di sorpresa. Se non riusciva a ricordarsi neanche quando era stato, la cosa era grave. 
Non sentirsi in colpa era impossibile. Taehyung, come tutti gli altri ragazzi del gruppo, era una fonte inesauribile di scoperte, passioni e debolezze. Meritava di più.
Se solo Jimin avesse potuto sarebbe stato ventiquattro ore su ventiquattro il migliore degli amici per tutti e cinque, ora sei, i ragazzi del gruppo, ma restare in pari era una missione; crescevano tutti così in fretta, chi in una direzione, chi in un'altra. Per quanto fosse naturale, non voluto e del tutto umano, odiava riuscire a dare la propria attenzione a pochi di loro alla volta. 
Di certo non sarebbe bastato quello a porvi rimedio, ma Jimin non poté non essere felice quando Taehyung lo prese per mano. L'altro doveva essersi accorto che la stoffa della sua tuta gli era già scivolata via dalle dita un paio di volte. 
Insieme, i due amici varcarono l'entrata della palestra.
Gli studenti che erano alle prese con i preparativi non avevano fatto molti progressi dall'ultima volta che Taehyung era passato per di lì. Sì, coni di plastica, funi e cinesini erano stati accumulati in un unico spazio, qualche compagno di classe stava applicando dello scotch a terra per delineare i limiti dei campi da gioco, ma c'era ancora tanto lavoro da fare. 
La porta dello sgabuzzino verso la quale Jimin e Taehyung si stavano dirigendo appariva minuscola sovrastata dall'alto soffitto della palestra. 
Il click dell'interruttore della luce risuonò particolarmente forte quando lo premettero, un suono secco che faceva temere per l'incolumità di quel vecchio pezzo di plastica. Taehyung chiuse la porta dietro di loro, mettendo a tacere tutti quei piccoli suoni che l'enormità della palestra tendeva a far rimbombare.
Lo sgabuzzino era completamente incasinato, come sempre. 
Esattamente come Jimin si ricordava dall'ultima volta che ci era dovuto passare, quella cameretta era stipata di roba: tappetini, armadietti, scatoloni, materassi e palloni non lasciavano libero un angolo di parete, il tutto accomunato da una fitta rete di ragnatele. I classici colori sgargianti degli attrezzi sportivi erano un'accozzaglia totale da guardare, la luce altalenante dei led che non migliorava la situazione. 
Un ronzio insistente aveva accolto i due ragazzi da subito. Era bastato far girare lo sguardo verso il punto da dove proveniva per trovare un mini frigo. 
La mano di Taehyung ci mise un po' a separarsi da quella di Jimin, come se sottrargliela fosse un gesto troppo rude. 
Il biondo si addentrò nella confusione dello sgabuzzino. Andò a battere le mani su un cesto porta-palloni, provocando un suono argentino nella gabbia metallica che fungeva da coperchio. 
"Dobbiamo controllare che questi siano gonfi. Il prof mi ha detto che da qualche parte ci dev'essere una pompa o una qualche sorta di ago. Non ho ben capito." 
Jimin annuì, raggiungendo l'amico. Gli diede una mano ad aprire il cesto, subito iniziando a sollevare i palloni in cima al mucchio. La maggior parte erano palloni da basket e da pallavolo, ma ce ne era anche qualche d'uno da calcio. 
Il ragazzo dai capelli argentei provò a stringere tra i palmi uno di questi, una piega invisibile tra le sue sopracciglia.
"Come faccio a capire se vanno bene?" chiese. 
"Aspetta."
Taehyung andò al suo fianco, prendendogli il pallone di mano. Se lo rigirò un attimo tra le dita prima di infilarlo in qualche modo tra braccio e busto per poterne sollevare un secondo. 
"Questo è troppo morbido." disse. Porse uno dei due a Jimin, facendoglielo tastare. "Quest'altro va bene." 
Di nuovo, Jimin si limitò ad annuire. Fece come gli era stato detto, cercando di capire cosa differenziasse i due palloni, ma non poté trattenere il suo sguardo dal volare su Taehyung. 
L'altro non si accorse di essere guardato sottecchi. Anzi, tra un pallone e l'altro dava istruzioni, dicendo di rimettere nel cesto i palloni gonfi, mentre quelli sgonfi potevano lasciarli a terra; nel caso avessero trovato la pompa-ago-coso avrebbero provato a gonfiarli.
A Jimin quasi venne da sospirare. 
Faceva uno strano effetto vedere Taehyung così serio e composto, tutto preso dallo svolgere bene il compito che gli era stato dato; il suo aspetto fisico pareva combaciare per una volta con quella sua voce profonda. Era ormai da tempo che la bellezza giovanile che si era sempre portato dietro si stava lentamente trasformando in fascino.
Oppure era stato Jimin a non notarlo prima. Probabilmente se si fosse consultato con Jungkook gli sarebbe stato chiesto che cosa avesse al posto degli occhi. 
E, a proposito di Jungkook.
"Hoseok viene a vederti giocare oggi?"
Alla domanda di Jimin, Taehyung non fece una piega. La fece però l'angolo della sua bocca, appena appena. 
"No," disse. "ma mi viene a prendere a fine partita se vuoi salutarlo."
"Peccato. Si sarebbe divertito sugli spalti con me e Joonie." 
Momento di silenzio. Con un po' più di forza di volontà Jimin se ne sarebbe potuto stare zitto, ma non ce la fece. "Alla fine con lui come va?" chiese.
Jimin poté ritenersi doppiamente incapace di chiudere il becco. Perché (non avendo capito l'antifona) Taehyung gli rispose con un semplice: "Si sta ambientando, direi." e Jimin avrebbe potuto approfittare del malinteso per chiuderla lì. Eppure non si diede per vinto.
Non lo stava facendo per Jungkook. Qualsiasi cosa ne fosse venuta fuori non pensava l'avrebbe mai detta al ragazzo in questione. Quella di Jimin era più una curiosità personale, una tessera mancante del puzzle che formava la sua realtà di tutti i giorni.
"Ieri sera vi ho visti baciarvi." 
Taehyung si immobilizzò per un attimo solo. Tornò quasi subito a rovistare in un angolo del cesto, gli ultimi palloni troppo lontani per poterci arrivare comodamente. 
La casualità della sua risposta aveva tutta l'aria di essere la prima cosa che gli fosse venuta in mente. "Ah, sì." 
"E' una cosa seria? O vi divertite e basta?" 
Taehyung non seppe di essere teso fino a quando il tono tranquillo di Jimin non lo calmò. Era così preparato ad affrontare psicologicamente qualsiasi brutta reazione alla scoperta del rapporto tra lui e il cugino che se ne sorprese lui stesso.
Non avrebbe dovuto dubitare di Jimin. Se c'era una persona in tutto il mondo che non lo avrebbe giudicato senza prima sentire cosa aveva da dire, quella era lui. Le sue parole erano osservazioni, non accuse. Anzi, non seppe come aveva fatto a non pensare prima di consultare Jimin. 
Taehyung dovette comunque farsi un minimo di coraggio per cogliere l'occasione e parlare di sua iniziativa. Non realizzò neanche di non aver risposto alla domanda precedente.
"Secondo te è una cosa tanto brutta? Sinceramente."
Il ragazzo dai capelli argentei smise di scartare palloni. Si aggrappò con le dita al bordo metallico del cesto, lo sguardo serio di chi sta pensando. 
Jimin non aveva morali. Non conosceva il bianco ed il nero, il giusto e il sbagliato. Non era fedele ad una sola causa, non avrebbe mai parteggiato a prescindere per nessuno. In cuor suo dovette chiedere scusa a Jungkook, ma non mentì. 
"No. No, non credo." 
Subito due fazioni si contrapposero in Taehyung: uno gioiva, l'altro tirava su con il naso. Quasi avrebbe preferito sentirsi dire di star sbagliando. Almeno avrebbe avuto qualcuno da additare nel caso in futuro avesse rimpianto di aver lasciato Hoseok sotto consiglio.
Taehyung parlò con voce piatta, come se stesse leggendo. I suoi occhi non si erano ancora decisi sulla questione guardare-o-non-guardare Jimin.
"Sai, viene considerato incesto se ad essere coinvolti sono due parenti che rientrano nell'ottavo grado, e noi lo siamo. Quindi la cosa è ufficialmente illegale." 
Jimin evitò di commentare l'affermazione implicita che gli era stata appena data. Di certo non si era letto un'enciclopedia sull'argomento, ma quel poco che sapeva gli poteva bastare in quel caso. Era evidente che Taehyung avesse fatto ricerche, non poteva non sapere che si parlava di incesto solo nel caso coinvolgesse rapporti sessuali o il matrimonio. E di sicuro i due cugini non rientravano nella seconda categoria.
Per cui Jimin fece spallucce. 
"Se non importa a te, non importa a me." 
L'insoddisfazione di Taehyung a quella risposta era così evidente che lo fece sorridere. Il biondo se ne stava lì, un pallone da basket tra le mani, imbronciato come un bambino.
"Tae, mi conosci. Se cercavi un consiglio vero e proprio sei venuto dalla persona sbagliata." aggiunse, ridacchiando. "Ovviamente non potete andare in giro a sbandierarlo ai quattro venti come avete fatto ieri sera, ma io personalmente non ci vedo niente di male. Il problema di base dell'incesto è che i bambini concepiti rischiano di nascere con deformazioni e cose del genere, no? Tu e Hoseok di sicuro non avrete figli. Il problema si risolve da solo." 
Taehyung incontrò lo sguardo di Jimin. Si era conficcato i denti nel labbro inferiore mentre ascoltava l'altro. 
Si mise ad annuire, come se il suo cervello stesse assorbendo la breve lezione per gradi. Quando ebbe finito di elaborare se ne uscì con un sospiro. Pareva sul punto di strofinarsi gli occhi dal sonno. 
"Wah. E' così complicato."
Il sorriso di Jimin era tutta comprensione. Il ragazzo fu costretto ad aprire una piccola parentesi nella loro conversazione, gesticolando verso i palloni che nel frattempo erano stati lasciati a terra. "Tutti questi sono da gonfiare. Cos'hai detto che ci serviva? Un ago?" 
"Lo cerco io." 
Taehyung tornò verso la porta dello sgabuzzino, scavalcando a ginocchia alte tutta la serie di palloni. Raggiunse uno degli armadietti incastrati nell'angolo, iniziando ad aprirne gli sportelli.
Avendo portato a termine il suo compito, Jimin si limitò a seguirne i movimenti da dov'era. Riprese il discorso. 
"A me sembra molto semplice, invece. Dipende tutto dal tipo di relazione che cercate voi due: se volete solo spassarvela non c'è problema, se volete una storia seria dovete davvero pensarci bene. Tu che intenzioni hai?" 
Taehyung continuò a rovistare tra lo sproposito di roba che riempiva l'armadietto.
"Non ne ho idea." disse. "Abbiamo avuto dei trascorsi, ma pensavo che sarebbe bastato toglierci il pensiero, diciamo, ma non è stato così. Almeno, non per me. Più sto con Hoseok più voglio starci." 
Il biondo non aveva mai visto un ago per palloni. Non aveva neanche capito se fosse da collegare ad una normalissima pompa o se servisse un altro aggeggio. L'unica descrizione che era riuscito ad estrapolare al suo professore prima che quest'ultimo andasse ad occuparsi d'altro era quella di un cilindro metallico grande quanto un dito. 
Se indietreggiava di qualche passo poteva vedere sull'ultima mensola un aggeggio che sembrava corrispondere all'idea che si era fatto, doveva solo riuscire a tirarlo giù. Dopo aver dedotto che nello sgabuzzino non c'era l'ombra di una sedia o di una scaletta, Taehyung si mise a saltellare. Ogni volta che lo faceva traballava tutto l'armadio. 
Jimin giurò che quella era l'ultima domanda. Poi avrebbe smesso di dar aria ai denti e si sarebbe fatto gli affari suoi.
Perfino il tono della sua voce si fece soffice, quasi si stesse scusando. "Posso chiederti perché Hoseok?" 
Gli occhi di Taehyung furono su di lui in un secondo. Jimin sentì subito il bisogno di aggiustare il tiro.
"Voglio dire, lui è uno schianto, ma potresti davvero avere chiunque tu voglia. Perché andarti a infognare con un tuo familiare?"
La risposta di Taehyung non fu immediata. Se ne stette qualche secondo con una mano appoggiata ad una delle mensole, la bocca chiusa. Non sembrava star valutando le sue parole. Sembrava starne creando di nuove.
"Quando sono con Hoseok mi sembra davvero di poter cambiare." 
Jimin ribatté senza pensare.
"Perché, così non vai bene?" 
L'espressione di Taehyung crollò.
E fu così che Park Jimin vinse con il massimo del punteggio a tiro con l'arco, per aver fatto breccia nel cuore dell'altro al primo tentativo. 
Fosse finita lì. Tempo tre secondi e qualcosa cadde da una delle mensole più alte, probabilmente fatta rotolare giù da tutto quello sconquassare l'armadietto. Il clangore di quell'insetticida spray che atterrava sul pavimento coprì il gemito che scappò a Taehyung quando venne colpito dritto in faccia. Jimin non fece neanche in tempo a registrare l'accaduto che si precipitò sul suo amico. 
Taehyung si teneva metà viso con la mano, il palmo che calzava a pennello nell'orbita dell'occhio. Era chino in avanti con la schiena, per cui a Jimin venne quasi naturale farlo sedere a terra. 
Il ragazzo dai capelli argentei non poté evitare di allarmarsi quando l'altro non gli lasciò vedere la fronte. Taehyung l'aveva serrata dietro le sue dita, i lacrimoni agli occhi e le guance cremisi. Jimin gli mise le mani sulle spalle, cercando di farsi guardare in viso. 
"Ti ha colpito l'occhio? Sanguini? Devo chiamare qualcuno?" 
La raffica di domande non aiutò la situazione di Taehyung. Non sapeva se stesse sanguinando o meno. Era troppo impegnato a piangere.
"Sto bene." 
"Aspetta un attimo."
Jimin si rimise in piedi. Si riaddentrò nella selva dello sgabuzzino e scavalcò un paio di palloni, avvicinandosi al mini-frigo. Non doveva assere la prima volta che soccorreva qualcuno lì a scuola, perché sembrava sapere dove trovare delle buste di ghiaccio istantaneo. Una volta premuta la bolla interna, la temperatura del sacchetto iniziò immediatamente a calare.
Taehyung osservò l'amico tornare da lui, i denti digrignati dal dolore. 
Jimin gli si chinò di fronte. Accovacciato a quel modo, con le ginocchia al petto e il maglione troppo largo, sembrava così minuto da essere tascabile. Taehyung non poté opporre resistenza quando le mani gli vennero sollevate con gentilezza dalla fronte, scoprendola.
Il ragazzo dai capelli argentei sospirò di sollievo. Un segnaccio rosso spaccava in due il sopracciglio sinistro di Taehyung, chiaramente il punto della collisione. Solo guardandolo si poteva dire che presto si sarebbe gonfiato e avrebbe preso dieci tonalità diverse di viola, ma niente sangue. 
Le mani di Taehyung si erano attorcigliate intorno ai cordoncini dei pantaloni, lasciando all'altro ragazzo ogni libertà.
Quel gavettone d'acqua fredda era una benedizione. Jimin glielo premette delicatamente sopra l'occhio, l'altra mano messa a coppa sulla mascella di Taehyung. Il suo sguardo era solenne, ben attento a quello che faceva.
Fu proprio quell'essere accudito che spezzò definitivamente Taehyung. Quell'avere il suo amico così vicino a lui da occupare per intero la sua visuale. Quel sentire una propria lacrima venire sfumata via da un dito solitario.
Jimin non faceva domande. Forse fu per questo che Taehyung si sentì in dovere di dargli risposte.
"Vi stancherete di me." 
"Cosa?" 
Taehyung guardò Jimin dritto negli occhioni scuri, la voce rauca. "State tutti crescendo così tanto mentre io sono sempre lo stesso. Vi stancherete di me."
La bocca di Jimin si aprì, scandalizzata. Non era possibile. Taehyung non poteva pensare davvero una cosa del genere. Loro erano una famiglia.
"Taehyung, ma stai scherzando?"
Il modo in cui Taehyung se ne stava accasciato contro la porta dello sgabuzzino aveva qualcosa di sbagliato. Come se fosse caduto lì per caso, uno spaventapasseri imbottito di paglia e foglie. Le labbra parevano muoversi in autonomia, gli occhi glassati di lacrime. 
"Come hai fatto a cambiare così tanto, Jimin? Un giorno eri in un modo, quello dopo in un altro. Cos'è successo nel mezzo?" Taehyung ridacchiò, autocommiserevole. "Quella sera ho bevuto troppo. Non riesco mai a ricordare."
Jimin quasi non mollò a terra il ghiaccio istantaneo. Un fiotto di amarezza gli salì in gola, ma non ce l'aveva con l'altro. 
Lo spiegò come l'avrebbe spiegato ad un bambino.
"Non funziona così, Tae. Non si cambia dal giorno alla notte, non succede tutto d'un colpo. E' più come portare a galla qualcosa che hai già dentro. Come accorgersi di essere sempre stati in un certo modo." 
Taehyung tirò su con il naso. 
"Tutte le volte che penso di star diventando più responsabile succede qualcosa che mi fa pensare oh, ecco, ci risiamo. Sei sempre il solito, non cresci mai.
"Ma crescere non significa troncare con una parte di se stessi. Anche se per un periodo ti comporti o ti senti in un certo modo non vuol dire che dentro non hai più tutto quello che avevi prima. Siamo sempre i soliti, in fondo."
Jimin riposizionò il sacchetto del ghiaccio più in alto dopo che la mano gli era un po' scivolata. Taehyung avrebbe voluto essere meno egoista e sorreggerlo da sé. 
Preso dai suoi pensieri, quest'ultimo continuò a guardare il ragazzo dai capelli argentei come un bambino perso in un supermercato avrebbe guardato la prima commessa che gli prometteva di portarlo dalla sua mamma. 
"Quindi cambiamo sempre ma non cambiamo mai?" 
Jimin si intenerì. Fece una carezza a Taehyung, sospirando dal naso. 
"Hai troppa considerazione delle mie idee." 
Taehyung cercò di sorridere, ma gli riuscì meglio premere la guancia contro quella mano già aperta, un micio alla ricerca di attenzioni. Aveva decisamente bisogno di più Park Jimin nella sua vita. 
La campanella di fine lezioni fu un suono distante, così estraneo al loro ritaglio di realtà. Entrambi i ragazzi sollevarono lo sguardo di riflesso, risvegliati dall'abitudine di dover far su la loro roba per andarsene. 
Jimin rincontrò gli occhi di Taehyung. Non avrebbero perso quel rossore tanto in fretta. 
"Si sta gonfiando." sentenziò dopo aver dato una sbirciatina al suo sopracciglio. Si alzò in piedi, un ginocchio gli scrocchiò. "Se vuoi restare ancora un po' qui non c'è problema. Posso andare io a dire al tuo professore che ti sei fatto male."
"No, no, ci vado io dopo. Andiamo in mensa. Gli altri ci aspettano là." 
"Ce la fai ad alzarti? Ti gira la testa?" 
Taehyung si limitò a stendere le braccia verso l'alto. Jimin gli prese le mani e lo tirò su di peso, sorridendo a quella richiesta muta. 
Approfittando della spinta che gli era stata data, nel momento in cui il biondo fu sui suoi piedi avvolse Jimin di gettò. Le sue braccia circondarono l'altro all'altezza del petto, tenendogli incollati i gomiti al busto.
Dopo un primo momento di sorpresa, Jimin si sciolse in un sorriso. Così braccato non aveva modo di ricambiare il gesto affettuoso dell'altro se non baciandogli la spalla. I vestiti andarono a mediare tra labbra e pelle, ma Taehyung lo sentì lo stesso. 
"Io tifo per te, Tae."
 
(56) November 7th, 2015 - Saturday
 
Per la seconda volta nel giro di dieci secondi, una polpetta di carne rischiò di rotolare a terra. Namjoon riuscì a salvarla per un pelo, raddrizzando velocemente il vassoio che stringeva con entrambe le mani. 
La polpetta si allontanò dai bordi del piatto e il ragazzo poté tirare un sospiro di sollievo; il suo equilibrio non era mai stato impeccabile, e di certo il percorso a zig zag che gli toccava fare tra i tavoli e gli studenti che affollavano la mensa non era d'aiuto. 
Quando finalmente poté appoggiare il vassoio al suo tavolo gli sembrò di aver appena affrontato le intemperie dei sette mari: dover camminare pian pianino per non rovesciare niente gli aveva portato via minuti interi. Namjoon si limitò a far scivolare il tutto verso il suo solito posto con una mano sola, mettendosi seduto.
Yoongi, Jungkook e Taehyung, seduti di fronte a lui, avevano già iniziato a pranzare, mentre le due sedie alla sua sinistra erano vuote. I ragazzi lo salutarono con un cenno.
"Ma che hai fatto alla faccia?" 
A questa esclamazione più o meno la metà degli studenti che li circondavano diedero almeno un'occhiata verso la loro direzione. Namjoon si guardò attorno con un sorrisino di scuse, la voce che gli si era alzata un filino di troppo. 
Di fronte a lui, Taehyung avrebbe inarcato un sopracciglio volentieri se il gesto non gli avesse procurato un male cane. Sospirò quando Yoongi si allungò dal suo posto per rifilargli metà delle sue patatine fritte nel piatto, una reazione automatica alle parole di Namjoon. 
"Yoongi, ti ho detto che sto bene." disse, il tono rassegnato. 
"Non lo faccio mica per te." Ribatté il moro. "Non ho più fame, tutto qui." 
"Ma se prima ti lamentavi perché ti hanno dato troppa poca carne." 
Namjoon non ci stava capendo niente. "Qualcuno mi spiega cos'é successo?"
Jungkook cavò il naso fuori dal suo piatto, un chicco di riso appiccicato all'angolo della bocca.
"Tae si è preso una bomboletta in faccia." 
"Come?" chiese Namjoon. Il livido che sovrastava il sopracciglio del biondo era davvero brutto a vedersi. E, ora che lo notava, un sacchetto di ghiaccio istantaneo affiancava il vassoio di quest'ultimo. 
"Mi è caduta addosso mentre cercavo una cosa per il prof." 
Taehyung tagliò corto il racconto, le guance piene di cibo. Il suo viso scarno era serio, ma gli angoli degli occhi lasciavano intravedere la sua gratitudine per tutte quelle attenzioni. 
Se fosse stato abituato ad essere un po' più fisico con lui, Namjoon gli avrebbe dato qualche pacca sulla mano da sopra il tavolo. Invece si limitò a sorridergli, l'espressione sconsolata di un padre alla marachella del figlio.
Il ragazzo dai capelli verdastri inforcò la sua prima polpetta. Il suo sguardo saettò solo per un attimo alla sua sinistra, dove i posti erano vuoti: un solo vassoio se ne stava incustodito sul tavolo, il cibo intoccato.
Era di Jimin, non c'erano dubbi. Quel giorno Seokjin era andato ad uno dei suoi tanti openday per le università, per cui li aveva già avvisati che non avrebbe fatto in tempo a raggiungerli per pranzo.
Gli angoli della bocca gli si piegarono verso il basso. Pranzare senza Seokjin sarebbe stato la norma a partire dall'anno successivo. 
Namjoon non si sarebbe neanche accorto di essersi incantato se non fosse stato per la patatina che gli venne sventolata davanti agli occhi. Gliela stava porgendo Yoongi, una facciata di indifferenza che più finta non si poteva. 
"Non farlo." pregò Namjoon. 
Yoongi non ritirò la mano. "Mangia e tirati su il morale." 
"Se mi dai del cibo adesso per compensare la mancanza di Seokjin l'anno prossimo ti toccherà darmene tutti i giorni." 
Dall'altra parte del tavolo Taehyung mollò la sua forchetta nel piatto, l'espressione tradita. "Argomento tabù." sentenziò. Si andò a coprire le orecchie con le mani. 
Namjoon non sapeva bene cosa rispondere. Chiese scusa, ma suonava più come una domanda. 
Taehyung non si decideva a rimettere giù le mani. Namjoon prese la patatina da Yoongi e la spezzò in due, offrendone la metà più grande al biondo. 
La patatina era stata accettata di buon grado quando qualcuno prese posto al loro tavolo. Namjoon si voltò per salutare il nuovo arrivato, ma non era Jimin quello che si ritrovò di fianco. 
Non riconobbe a prima vista il ragazzo. Gli ci volle un po' per associare quel fisico robusto ad uno dei compagni di classe di Taehyung. (Com'è che si chiamava? Jason? Jackson? James?)
Alle loro spalle aveva fatto la sua apparizione un secondo ragazzo. Quest'ultimo ignorò la presenza dell'unica sedia libera, rimanendo in piedi.
Come Taehyung, entrambi i ragazzi indossavano già la divisa sportiva della scuola. Ed entrambi se ne stettero zitti per un momento, guardando una ad una tutte le persone sedute al tavolo, come se gli intrusi non fossero loro. 
Taehyung non aveva mai raccontato granché su questi due soggetti in particolare, chiaro segno del fatto che non gli andassero tanto a genio. Il gruppo di amici non poté che guardarsi tra di loro, confusi, occhiate interrogative che volavano a destra e a manca.
Per il momento in cui Jason-Jackson-James parlò, sembrava di essere ad una conferenza stampa. 
"Cambio di programma dell'ultimo minuto: Taehyung fuorigioco." 
La bocca del biondo restò aperta sul pezzo di polpetta che aveva infilzato con la forchetta, gli occhi grandi.
"Cosa? Perché?" 
Il suo compagno di classe ricambiava lo sguardo senza un minimo di compatimento, un sorrisino di circostanza sulle labbra. "Il coach ci ha detto del tuo infortunio." 
"C'è chi ha giocato in condizioni peggiori." protestò Taehyung. "Per correre dietro ad un pallone non mi serve la faccia. Se proprio non volete rischiare potete mettermi in difesa, o in panchina."
Namjoon, Jungkook e Yoongi potevano solo fare avanti e indietro con il viso, da uno all'altro. Non ci voleva un genio per capire che si stava parlando della formazione delle squadre per il torneo. Taehyung non era mai stato un campione, ma aveva sempre messo anima e corpo nei giochi di squadra.
Il ragazzone poggiò i gomiti sul tavolo, scansando di lato il vassoio di Jimin. Si mise a gesticolare, come se farlo aiutasse a trasmettere il concetto.
"Per noi non è un problema, Tae. Puoi stare giù del tutto." 
I nervi di Jungkook erano in fibrillazione. Lo conosceva: la cosa era chiaramente un problema, ma per Taehyung.
"Ma non ha senso. Sto bene, posso giocare." 
Taehyung era esasperato. Cavolo, si era impegnato durante gli allenamenti. La loro sezione teneva il primato di quel torneo da anni ormai; anche quelli non particolarmente interessati allo sport volevano fare bella figura.
Fu Ragazzo Due a sbottare. Se ne era rimasto in silenzio da quando era arrivato, le braccia conserte e lo sguardo annoiato. 
"Senti, ieri sera ti hanno visto tutti in discoteca. A te e a quell'altro ragazzo." 
"E con questo?" 
"Non ti vogliamo in spogliatoio, okay?" 
Quattro mascelle caddero in contemporanea. 
Adesso si spiegavano tante cose. Roba da non credere. 
Taehyung sapeva che nella sua classe non c'erano altre persone della comunità LGBT, ma da lì ad essere omofobi ne passava.
L'amarezza fu la prima cosa che gli salì alla gola, poi gli venne semplicemente da ridere. Era ridicolo.
"Siamo ancora a questi livelli? Davvero?" chiese, ironico. "Sapete quante volte vi ho visti in mutande in tutti questi anni? Ho mai assalito qualcuno?" 
Jason-Jackson-James riprese parola. Prima sembrava averla perduta, faccia a faccia con l'espressione più brutale che qualcuno avesse mai visto sulla faccia di Jeon Jungkook. "La cosa ci mette a disagio, è normale." 
"La tua testa su per il tuo culo, ecco cos'è normale." 
Il commento di Yoongi fece solo scaldare Jason-Jackson-James di più. Si rivolse direttamente al moro, la vena del collo che si faceva più sporgente.
"Che cazzo vuoi saperne tu? D'altronde, essere froci sembra il tratto distintivo di questa compagnia. Tra la coppietta felice, quella troia di Park Jimin e te, non poteva essere altrimenti per Taehyung. E a pensarci bene non ho mai visto neanche Jungkook in compagnia di tutte queste ragazz-" 
Una bottiglietta d'acqua venne poggiata al centro del tavolo, il suono indelicato di chi vuole annunciare il suo arrivo. 
Jason-Jackson-James fu gettato in ombra dalla figura minuta di Jimin. 
Il sorriso che il ragazzo dai capelli argentei rivolse direttamente a quest'ultimo era tutto un programma. La Tour Eiffel di Las Vegas era meno finta a confronto. 
"Scusami," disse, la voce zuccherosa. "quello è il mio pranzo." 
Jason-Jackson-James guardò prima lui, poi il vassoio che aveva scansato poco prima. A quanto pare l'arrivo di Jimin era un inconveniente che non aveva messo in conto quando lui e il suo amico avevano deciso di discriminare Taehyung. 
La sua espressione strafottente perse molti punti quando, sedutosi al suo fianco, Jimin si appoggiò al suo braccio per allungarsi verso il proprio vassoio. 
Evidentemente a disagio, ci volle qualche secondo a Jason-Jackson-James per tornare ad attaccar briga. Quando lo fece sembrò più una forma di autodifesa più che di attacco. 
"Sapete cosa si chiedono tutti? Siete amici perché siete froci o siete froci perché siete amici?" 
Con ancora il primo boccone di riso da buttar giù, la mano di Jimin virò dalla sua forchetta alla tasca del cappotto. Prese fuori il cellulare, ignorando tutti quanti. 
Essendo l'unico a conoscere davvero i due intrusi, Taehyung sapeva di dover essere lui a scacciarli. 
Tanto non aveva paura di loro. Si rifiutava di chiamare tutto quello bullismo, non quando gli aguzzini erano persone con cui stava condividendo un percorso da ben quattro anni. Arrendersi non era certo la cosa giusta da fare, ma Taehyung non aveva nemmeno la voglia di discutere con delle persone così ignoranti. 
"Va bene, non parteciperò al torneo. Basta che ci lasciate pranzare in pace."  
Namjoon, Jungkook e Yoongi iniziarono a protestare tutti insieme. Per dieci secondi buoni non fecero altro che parlarsi uno sopra l'altro, un ronzio di discorsi incomprensibili. 
Fu un: "Ma che schifo!" a far calare il silenzio.
Cinque facce con cinque sguardi interrogativi si voltarono contemporaneamente verso l'intruso rimasto in piedi. 
Ragazzo Due guardava fisso lo schermo del suo cellulare, l'aria di chi aveva bisogno di un sacchetto per rimettere; teneva il labbro superiore tutto corrucciato, i canini che si intravedevano. 
Jimin parlò subito dopo, le cinque facce che spostarono su di lui l'occhio di bue.
"Non dirlo a me." disse il ballerino, continuando a masticare. Il suo cellulare era stato appoggiato a faccia in giù sul tavolo. "Ho avuto la stessa identica reazione quando il tuo amico qui presente mi ha inviato quella foto. L'ho dovuto bloccare." 
Occhio di bue su Jason-Jackson-James che scattò in piedi. 
La sua faccia andava a fuoco. Veniva da chiedersi se con quello sguardo furioso non potesse scavare un buco nella testa di Jimin. 
A contrario suo, quest'ultimo era tutto sorrisi e occhi dolci. 
"Avevi giurato che se la smettevo non l'avresti detto a nessuno." 
"Devi imparare ad essere più specifico quando minacci le persone. Mi hai detto di non parlare. Non mi hai detto di non condividere la foto del tuo cazzo." Jimin bevve un sorso d'acqua. "O forse sei arrabbiato perché preferivi che girasse quella a figura intera con tanto di cesso sullo sfondo?" 
Yoongi singhiozzò nel tentativo di trattenere una risata.
Jason-Jackson-James continuava a fissare Jimin dall'alto, dritto negli occhi. 
"Pezzo di merda." 
Il mittente di tanto affetto si limitò ad ingoiare un altro po' di riso. 
"Non dimenticarti di tenere un posto per Taehyung in spogliatoio." disse, tranquillissimo. "Sai, non vorrei mai che venissero tutti occupati." 
Jason-Jackson-James provò a trovare le parole con cui ribattere, ma non ci riuscì. Si limitò a strappare il cellulare di mano a Ragazzo Due, allontanandosi come una furia. Un paio di studenti lo guardarono male quando prese loro contro, incurante di star rovesciando più di un piatto a terra.
Il gruppo di amici lo osservò attraversare la mensa in silenzio. 
Tempo tre secondi e Jungkook iniziò ad applaudire. Tra risate nascenti e commenti entusiasti, Jimin si limitò a mangiare il suo pranzo, affamato. 
 
(57) November 7th, 2015 - Saturday
 
Il rimbalzare della palla si sentiva appena sotto tutto quel vociare.
Solo metà del pubblico era davvero interessano alla disputa che si stava svolgendo in campo, mentre l’altra metà stava solo cercando di ammazzare il tempo. 
Tra questi c’erano anche Namjoon e Jimin. Seppur si fossero tirati indietro dal partecipare al torneo, il loro professore di ginnastica aveva lasciato intendere molto chiaramente che chi non giocava avrebbe fatto meglio a farsi trovare sugli spalti.
Con tutta quella gente in divisa sportiva seguire i movimenti di Jungkook era dura, anche se la sua rinomata bravura lo metteva in risalto. Doveva essere un’amichevole, ma la competitività con cui il castano scagliava il pallone faceva pensare il contrario. 
Ogni volta che segnava un punto c'era sempre un'ovazione più alta di tutte le altre: seduto in panchina, Taehyung si divertiva fin troppo a sbracciarsi e far baccano. I suoi compagni di classe sembravano dividersi tra chi lo guardava male e chi lo ignorava. Migliore amico o no, stava sempre facendo il tifo per un avversario. 
Colpito da una misteriosa forma di sordità, Jungkook faceva come niente fosse. Continuava a correre avanti e indietro per il campo, le punte della frangia bagnate di sudore, incitando gli altri a fare o non fare certe azioni, ma mai una volta che si lasciasse distrarre da Taehyung. 
Dalla sua postazione momentanea, Jimin guardava i due dall'alto.
Si limitava a starsene seduto senza dire una parola, la testa sostenuta da una mano. Non aveva idea di quanto ne sapesse Namjoon sulla questione, ma ad un osservatore attento come lui l'interazione mancata dei due migliori amici non sarebbe sfuggita. 
La sua domanda non arrivò inaspettata, infatti.
“Sai che cosa ha Jungkook?” 
Jimin si strinse al petto la cartella che teneva sulle ginocchia per mancanza di spazio. In tutta sincerità non sapeva come rispondere. La questione non riguardava lui in primis, non era libero di sbottonarcisi con altre persone. 
“Non saprei. Forse lui e Tae hanno avuto uno dei loro bisticci. Non avranno fatto in tempo a riappacificarsi prima dell’inizio della partita.” 
Namjoon fece un cenno con il capo, ma non commentò. 
Jimin provò a lanciargli un'occhiata, giusto per controllare di non avergli acceso nessuna lampadina nel cervello, ma era difficile farlo in modo discreto; i due si erano ritrovati schiacciati insieme da quando un armadio d'uomo (l'esagitato padre di qualcuno) si era seduto sulla loro stessa fila. Se non fosse stato per le braccia in bella vista di Namjoon, i tatuaggi che fungevano da repellente anche per gli adulti, probabilmente a quest'ultimo sarebbe toccato di farsi prendere in braccio dal ragazzo dai capelli argento. 
Gli occhi di Namjoon erano tutti presi dalla figura lontana di Jungkook, intento a raggirare i ragazzi della squadra nemica con un paio di finte. Jimin si fidava così tanto di quel profilo familiare. Non si dovette fare pressioni per parlare. 
"Posso chiederti una cosa?" 
L'improvvisa richiesta fece subito voltare Namjoon. La distanza che separava i loro visi si rivelò essere più corta di quanto lo spazio personale di ogni persona conceda. 
"Certo." rispose, un attimo sorpreso. 
"Secondo te ho sbagliato? Prima, quando ho mandato quella foto all'amico di Tae. In mensa."  
Per un paio di secondi i labbroni di Namjoon penzolarono a vuoto. Il ragazzo dai capelli verdastri guardava Jimin come se stesse aspettando di sentirlo ridere, ma niente. 
I sensi di colpa che sembravano agitarsi dietro il nero di quelle pupille lo intristirono. 
"Jimin, gli sta sol bene. Ci stavano infastidendo e tu lo hai spiazzato." 
"Ma è esattamente quello che altri hanno fatto a me. Non ho il diritto di essere arrabbiato se poi sono il primo a mettere alle strette qualcuno con gli stessi mezzi." 
"Il tuo caso è diverso." 
"Non così tanto." 
L'arbitrò fischiò. Alle spalle di Namjoon l'armadio d'uomo scattò in piedi, i pugni all'aria ed un urlo trionfante.
Dopo aver lanciato un occhiata stranita a quest'ultimo, il ragazzo tornò a concentrarsi sull'amico. Si girò verso di lui con il busto per fronteggiarlo meglio, approfittando del momentaneo spazio d'azione. 
"E' stato Jason a mandarti quelle foto. Non le hai chieste tu e di sicuro non gliele hai rubate. Anzi, quello che ha fatto è da considerare in tutto e per tutta una molestia." 
Alla parola molestia Jimin perse metà del suo colorito. Si appoggiò con la schiena alla parete dietro di lui, abbacchiandosi. "Basta. Pure lui no." 
Namjoon aggrottò le sopracciglia. Se non ci avesse affibbiato quel termine l'altro non avrebbe realizzato da solo quanto fosse grave la cosa? 
Fu solo l'ennesima conferma che il ragazzo stava racimolando: Jimin non si rendeva nemmeno conto di quante libertà si prendessero gli altri su di lui, che fossero fisiche o di pensiero. 
A questo punto doveva continuare ad indagare. Sapeva che l'argomento non era dei più felici, ma non c'era altro modo per capire quanto fosse davvero brutta la situazione. 
"A proposito, come sta andando con la cosa del video? Hanno trovato i responsabili?" 
Jimin fece un segno vago con la mano. "Questa mattina sono andato dal preside. Gli ho spiegato la situazione, gli ho detto che la polizia postale ha scoperto che il video è stato caricato su internet dalla scuola. E' stato imbarazzante, ma almeno mi è sembrato più comprensivo di quel che credevo." 
Namjoon sbuffò. Se era stato usato uno dei computer della scuola allora avevano ben poco da sperare; i computer della biblioteca e quelli delle aule di informatica erano accessibili a chiuque. La cerchia non si stringeva.
La sua voce era andata man mano ad aggravarsi. "E se neanche qui trovano il responsabile? Qual'è il passo successivo?" 
Jimin scosse la testa. Non ne aveva idea. 
Aspettò comunque a rispondere, come se a forza di pensarci prima o poi gli sarebbe apparsa la risposta in mente. Alla fine se ne uscì con un frustato: "Il punto è che Fred mi ha detto di non essere stato lui." 
"E la polizia gli crede?" 
Gli occhi di Jimin tornarono alla partita. 
Namjoon lanciò un'occhiata nella stessa direzione, ma non c'era niente che potesse aver distratto Jimin. Fu solo a ben guardare che notò come le labbra di Jimin si fossero premute insieme, silenziose. 
Namjoon dovette fare un verso interrogativo per fargli capire di star aspettando. 
Quello di Jimin fu poco più di un sussurro. "Non ho fatto il suo nome."
Le spalle di Namjoon si incurvarono, sconfitte.
"Ma come? Jimin..."
"Rischia come minimo tre anni di galera, Joonie. Tre." interruppe Jimin. La voce gli tremò, instabile. "Il mio culo su uno schermo non li vale tre fottutissimi anni di galera." 
Namjoon non ci poteva credere. In mezzo a tutti i tifosi, sugli spalti di una partita insulsa e con un baccano infernale, gli venne da piangere. 
"Ma non è giusto." disse. "Non possono passarla liscia così." 
Un sorrisino triste si dipinse sulla bocca di Jimin, lo sguardo perso.
"Lo so." 
Rabbia, indignazione e pietà erano tutto un unico malloppo che si fermò a metà strada nella trachea di Namjoon. Non poteva mandarlo giù. Non poteva.
Ma a quanto pare non era lui ad avere voce in capitolo, per cui avrebbe dovuto. 
Per cui Namjoon fece l'unica cosa che era in potere di fare: la sua fronte accaldata andò a premersi contro il collo di Jimin quando si curvò tutto quanto su di lui,
Jimin appoggiò il capo su quello dell'altro, sospirando. Dal modo in cui prese ad accarezzargli le braccia tatuate si sarebbe detto che era Namjoon quello da consolare, non il contrario.
Gli ci volle un minuto intero, ma alla fine quest'ultimo riuscì a spostarsi il minimo indispensabile per non avere il maglione dell'altro in bocca mentre parlava. Da quella posizione non riusciva comunque a vedere Jimin in viso, ma gli sembrò più importante averlo vicino.
"Fammi un favore, almeno." disse Namjoon, tentando di alleggerire la situazione. "Lascia un bigliettino anonimo tra i libri di Yoongi, fagli capire chi è stato."
Jimin ridacchiò. Namjoon lo percepì più attraverso il piccolo spasmo del suo petto che dalla sua voce.
"E' andato a fare a pugni con Chase perché mi aveva lasciato. Ho paura di sapere cosa farebbe in questo caso."
Namjoon tornò a sprofondare nel maglione dell'altro prima di sorridere. "Il tuo vendicatore personale." 
Jimin rise un'altra volta. 
"Non credo più di piacergli tanto da farsi spaccare un labbro." 
A questa cavolata immane Namjoon dovette tornare in sé. Liberò l'altro dalla sua presa solo ed esclusivamente perché voleva far passare il concetto una volta per tutte. 
"Jimin," iniziò Namjoon. Fece un cenno con il mento verso l’uscita della palestra, gli occhi ancora lucidi. “perché non lo vai a chiedere a lui?” 
 
(58) November 7th, 2015 - Saturday
 
Era facile dire così. Andare a chiederlo a Yoongi. Come se dovesse chiedergli in prestito un libro o domandargli l’orario. 
Al momento Jimin non desiderava guastarsi anche questa giornata, ma capiva anche lui che era inutile fuggire all'inevitabile. Non aveva più scuse per prolungare l'attesa, né da dire agli altri né da dire a sé stesso. Quindi si era alzato dal suo posto sugli spalti ed era uscito dalla palestra. 
D’altronde, non è che potesse succedergli chissà cosa ad andare a parlare con Yoongi. Erano addirittura già riusciti ad alzare le mani uno contro l’altro; si poteva benissimo dire che da lì in poi la strada doveva per forza essere tutta in discesa. 
Dove portasse la strada, poi, era un altro paio di maniche. 
Jimin aveva anche chiesto a Namjoon se non gli dispiacesse essere lasciato solo, ma l’altro gli aveva dato il via libera. Anzi, si era pure fatto augurare buona fortuna mentre si infilava la giacca in tutta fretta, senza dire a Jimin a cosa gli servisse. 
E fu così che il ragazzo dai capelli argentei si era ritrovato a girovagare per il retro della scuola, il cappotto slacciato che gli teneva improvvisamente troppo caldo. Quando avvistò Yoongi seduto lungo la scalinata antincendio dovette trattenersi dal girare i tacchi e volare via. Cercò invece di darsi un contegno, imponendosi di darsi una calmata.
Yoongi non abbassò lo sguardo su Jimin. Lo ignorò quando lo avvistò da lontano e lo ignorò quando iniziò a salire i gradini. Lo ignorò anche quando si sedette alla sua sinistra, ringraziando il cielo che almeno gli erano stati lasciati i suoi spazi dato che la scalinata era larga. 
Il nuovo arrivato venne inglobato da una nuvola di fumo. Con i gomiti appoggiati alle ginocchia, Yoongi si portava continuamente alla bocca un moncherino di sigaretta. Le nubi che si stagliavano in cielo non lasciavano spazio al sole per splendere, ma tingevano la pelle del moro di un bianco latte a dir poco smagliante. Solo le sue dita erano rosee, intirizzite dal freddo. 
Il panorama davanti ai due ragazzi non era certo dei migliori; oltre ad una bella fetta di cortile asfaltato, faceva bella mostra di sé una rete metallica che divideva l’area della scuola da quella pubblica. Tutto il resto erano edifici tristi e pattumiere. 
Quella vista non avrebbe ispirato a Jimin le parole giuste, poco ma sicuro.
Seduto composto nel suo posticino sul gradino, come se dovesse ridurre al minimo lo spazio occupato dal suo corpo, il ragazzo dai capelli argentei rimase in silenzio per un po'. Confidava sul fatto che prima o poi Yoongi avrebbe attaccato discorso, anche solo per chiedergli cosa volesse o di andarsene, ma neanche l’altro sembrava in vena di chiacchiere. 
Per cui Jimin si limitava ad ascoltare l’altro inalare ed espirare nicotina. Certo, gli diede anche un paio di occhiate sfuggevoli, giusto per ammirare il modo in cui la bocca di Yoongi soffiava via quel vapore bianco, fuori dal suo corpo. Quello stesso vapore bianco saliva verso l’alto, si dissolveva nell’aria. Pareva quasi che il cielo ne fosse tappezzato, come se le nuvole fossero fatte della stessa sostanza che Yoongi si teneva dentro.
Gli angoli delle labbra di Jimin si alzarono di un poco, gli occhi grandi rivolti verso l’alto, meravigliato. Pareva quasi uno spettacolo di magia. 
Era affascinante. 
Anzi, no, non lo era per niente. Cioè, lo era, ma Jimin doveva essere coerente al suo pensiero. Aveva sempre odiato il fumo, che si trattasse di sigarette elettroniche, erba, sigaro o pipa. Non poteva certo cambiare idea solo perché a fumare era una persona in questione. 
Per questo sentì il bisogno di ribadirlo, come per veder bene di non dimenticarselo. Non pensò che quella era effettivamente la prima frase che stava rivolgendo al moro, la prima di un discorso serio. 
“Odio il fumo.” 
Yoongi finì il tiro che stava esalando prima di parlare. Guardava dritto davanti a sé. 
“E allora?” chiese, una vena d’impertinenza nella voce. 
Jimin avrebbe dovuto rispondere in fretta, attaccare bottone, ma quando finalmente riuscì a dare vita ad pensiero sensato era passato troppo tempo. A quanto pare era stato affetto da quella grave malattia per cui si hanno uno sproposito di cose da dire e zero parole per farlo. 
Le mani di Jimin giocherellavano nervose con l'interno delle tasche del suo cappotto. Un centinaio di plausibili domande lo assediavano, ma più lui cercava di snocciolarle più queste si rivelavano custodi della stessa, unica desinenza.
Per cui le opzioni erano due: o si metteva a fare giri di parole o andava dritto al sodo. Non era troppo difficile scegliere dato che sia lui che Yoongi erano persone schiette; le chiacchiere di cortesia erano una convenzione che non faceva al caso loro. 
Per cui Jimin lo chiese, guardando ovunque tranne che Yoongi. Lo fece con l’incoscienza del tuffatore che si butta dal trampolino, un’azione irreversibile e determinante.
“Alle medie ti eri innamorato di me?” 
Il tuffatore si infilò nell’acqua con una precisione geometrica.
La risposta di Yoongi fu secca, immediata. “No.” 
Jimin si girò con il corpo a tre quarti, voltandosi verso di lui. Il pianista continuava a guardare di fronte a sé, una maschera di marmo sul viso; all'altro non sfuggì il modo frettoloso in cui inspirò il tiro di sigaretta successivo.
Quei suoi occhi neri dalla forma già tagliente si erano fatti ancora più sottili per via della luce. Le striature violacee che ne tingevano la pelle sottostante urlavano di voler essere strofinate via da un pollice. 
Trattenendo la propria mano contro lo stomaco, Jimin prese un bel respiro dal naso. Se ne pentì subito quando il fumo gli andò dritto in gola, irritandola. La voce gli uscì piccola, instabile, come se si stesse scusando per qualcosa di cui doveva vergognarsi. 
“Mi ami ancora?”
Yoongi si attaccò alla sigaretta. Voltò il capo nella direzione opposta all’altro ragazzo, la sottile colonna di tabacco che si consumava a vista d'occhio. 
Allungando il braccio con una mossa repentina, Jimin gli sfilò quel moncherino dalle labbra e lo gettò via. Evidentemente sorpreso, Yoongi restò immobile per qualche secondo, l'ultimo fiato di fumo che si volatilizzava sopra di lui. 
Anche senza la sigaretta a fargli da impedimento non si azzardò a parlare. Era ostinato a ignorare Jimin, anche quando questo accorciò le distanze tra di loro. Gli si sedette solo di pochi centimetri più vicino, come a non voler spaventare un gatto randagio.
Il silenzio di Yoongi era eloquente. 
Jimin doveva sforzarsi di ritrovare uno sputo di fiducia in sé stesso e continuare. Se lo era ripromesso prima. Quella era l'ultima volta che prendeva iniziativa e cercava di intavolare una conversazione civile. Dopodiché lui ci avrebbe dato a mucchio. Quindi tanto valeva dare il cento per cento e qualcosina di più. 
"Non sono stato con nessuno da quando ci siamo baciati." confessò. 
Se si trattava di usarle in modo rude Yoongi le ritrovava tutte le parole. 
"Due giorni di astinenza, i miei complimenti." 
"Non aveva senso stare con altri quando posso avere te." 
Jimin proseguì, come se Yoongi non avesse aperto bocca. Ora che era partito non staccava gli occhi dai suoi, come a volerli richiamare con lo sguardo più intenso che gli riuscisse. 
Con le mani disoccupate strette tra di loro, Yoongi se ne guardò bene dal ricambiare l'attenzione. Balzò in piedi senza preavviso, iniziando a scendere la scalinata antincendio. "Il fatto che provo qualcosa nei tuoi confronti non significa in automatico che voglio stare con te." 
"E se sono io a voler stare con te?"
La voce di Jimin gli arrivò alle spalle, ma non per questo meno chiara. Gli frenò i piedi dove si trovavano, qualche gradino più in basso.
"Jimin."
"Sono serio."
"Anche io."
Yoongi non ebbe il coraggio di voltarsi e fronteggiare Jimin. 
Le vocine che popolavano la sua testa furono tutte chiamate d'emergenza. Avevano una barricata alta un cuore e tre centimetri da costruire attorno al suo petto. 
Sono solo parole, si diceva. Le parole sono fraintendibili, mentono, cambiano chiave di lettura a piacimento. 
Le palpebre di Yoongi si socchiusero. Tutta la tristezza provata in tanti anni gli si accalcò addosso nel giro di un secondo, come una cena mai digerita. Era una sofferenza sopita, decantata tra strati e strati di pelle. Yoongi ne era così straziato da implorare pietà. 
Era un vigliacco, lo sapeva benissimo. Se in quel momento avesse avuto gli occhi di Jimin nei suoi si sarebbe limitato a scappare via senza proferir parola, come d'abitudine. 
"Ti sono venuto dietro per tre anni, Jimin." disse Yoongi, umidificandosi le labbra. "Non prenderti gioco di me, ti prego." 
Okay, danno fatto. 
Ora Yoongi poteva accettare scettro e corona per l'auto-sputtanamento e finire di scendere le scale, chiedendosi dove poter andare a nascondersi. 
Un rumore di stoffa accompagnò l'alzarsi in piedi di Jimin. Il ragazzo rimase fermo sullo stesso gradino, la voce che sarebbe bastata a raggiungere l'udito dell'altro.
Risuonò forte nell'aria di quel pomeriggio novembrino, limpida come solo una sincerità totale la poteva rendere. 
Quello che aveva da dire sradicava il problema alla radice. Lo portava sotto la luce del sole e lo lasciava lì affinché tutti vedessero. Se questo non avesse cambiato le cose Jimin poteva mettere una pietra sopra a Min Yoongi.
Se Yoongi avesse potuto sentire la voce di Jimin senza ascoltarne le parole avrebbe detto che l'altro stava raccontando una fiaba. C'era qualcosa di malinconico in quel suono familiare, un mezzo sorriso che si poteva intuire. 
"Ricordi quando eravamo alle medie? L'insegnante di musica aveva chiesto a te di fare l'elenco di tutti gli studenti della mia classe per usarlo come registro." Una risatina nervosa che terminò in un sospiro tremolante. "Se avessi saputo che alle superiori ci saremmo reincontrati non lo avrei rubato dalla pattumiera a fine anno." 
Gli attimi divennero ore. 
Le ore divennero anni. 
Yoongi si voltò e alzò lo sguardo verso Jimin. 
Il suo viso inespressivo pareva essere stato tinteggiato a nuovo. Era sempre pallido come un cencio, ma una nuova luce gli accarezzava le guance. Il nero dei suoi occhi si era fatto vibrante, un guazzabuglio di sentimenti. 
La voce gli uscì piatta, ma era a tanto così dallo strabordare.
"Davvero?" 
Jimin annuì con il capo. 
"Mi piaceva il mio nome scritto con la tua calligrafia." 
Al ragazzo dai capelli argentei le guance dolevano da quanto stava sorridendo, ma non poteva farci niente. Si sentiva un grandissimo sciocco a starsene lì impalato con le lacrime agli occhi ed una quantità spropositata di speranza nella tasca interna del  cappotto. 
 Yoongi se ne stava lì, cinque gradini più in basso, con i piedi ancorati alla pavimentazione del cortile. I pugni in cui aveva annodato le mani si erano sciolti, messi a riposare contro le cosce. 
Non sapeva se fosse la distanza, l'angolazione, la luce, ma per la prima volta dopo tanto tempo guardava Jimin e non gli veniva in mente nessun fantasma del passato. Jimin era Jimin, con il suo passato e con il suo presente. O forse lo era sempre stato ed era lui ad essere stato cieco.
Tenendo gli occhi fissi su quelli dell'altro, Jimin scese i gradini, fermandosi sull'ultimo. Aveva Yoongi dritto di fronte a sé, più basso di una ventina di centimetri per via del dislivello. 
Non ebbe neanche il tempo di vedere la maschera di marmo crollare.
Il busto di Jimin venne avvolto dalle braccia di Yoongi, il viso di quest'ultimo sepolto contro il suo petto. Lui ricambiò la stretta come poté, la guancia poggiata sul capo dell'altro, le mani sul suo coppetto. 
Tempo dieci secondi e Yoongi sollevò il ballerino di peso per farlo scendere dal gradino e ripristinare le loro altezze. Ora che si potevano stringere più comodamente, le dita di Jimin andarono ad aggrapparsi alla giacca di Yoongi, il naso immerso in quello stesso colletto alla ricerca di calore. Il moro cercava di stamparsi l'altro dentro premendoselo contro il torace, le braccia serrate sulla sua schiena. 
I due non si baciarono immediatamente, non ne approfittarono per dichiararsi in modo più esplicito. Si limitarono a fare ammenda per quando, come da tradizione, Taehyung aveva circondato le spalle di Jungkook e Seokjin aveva buttato le braccia al collo di Namjoon. 
Yoongi e Jimin rimasero abbracciati, recuperando tutte quelle volte in cui erano rimasti nel mezzo, separati, silenziosi e con lo sguardo basso. 
 
(59) November 7th, 2015 - Saturday
 
La macchia rosa che era il cappotto di Seokjin spiccava tra tutte le persone che stavano uscendo in massa dalla metro. 
Aldilà dei tornelli, Namjoon lo avvistò subito. Più il suo ragazzo si avvicinava, più gli si schiudevano le labbra in un sorriso.
Una volta che Jimin aveva lasciato gli spalti per andare a cercare Yoongi, a Namjoon era sembrato abbastanza inutile starsene lì a far niente. Gli dispiaceva per Jungkook e per Taehyung, ma le partite potevano essere una vera noia se il gioco non ti appassionava. Così aveva levato i tacchi pure lui; aveva scritto un messaggio al suo ragazzo per sapere a che ora sarebbe stato di ritorno ed era andato direttamente in stazione. Si era completamente auto-sabotato il pomeriggio di studio, ma non importava. 
Sarà stato perché non lo aveva visto per tutto il giorno, ma Seokjin era davvero stupendo. 
Okay, Namjoon non smetteva mai di ripeterlo, ma non era colpa sua se la bellezza dell'altro veniva portata ad un livello superiore di giorno in giorno. E poi non si poteva non pensarlo dato il completo formale che l'altro era andato a tirar fuori dall'armadio. Lui personalmente non si sarebbe vestito tanto elegante per un openday universitario, ma Seokjin doveva essersi sentito più sicuro di sé stesso così. 
E se sembrare più adulto rientrava negli obbiettivi ci aveva preso in pieno: con camicia e cravatta nera che si intravedevano in mezzo a tutto quel rosa e i capelli ben disposti ai lati del suo viso, Seokjin appariva come un giovane uomo in carriera. Namjoon quasi si aspettava di ritrovarsi sotto il naso un biglietto da visita fresco d'inchiostro.
Pochi metri separavano i due ragazzi, ma la calca di lavoratori stava rendendo l'attesa infinita. Namjoon nascose un sorrise nel colletto della sua giacca, gli occhi sul suo ragazzo. 
Se Seokjin era il giovane uomo in carriera, allora lui poteva essere il suo autista personale? Non era così difficile immaginare di esserlo venuto a prendere dopo uno dei tanti viaggi d'affari; sarebbero usciti dalla metro e se ne sarebbero tornati a casa a bordo di un'auto decapottabile, con tanto di fazzolettino da legarsi sotto il mento.
A Namjoon la fantasia non dispiaceva neanche tanto. Lo avrebbe fatto più che volentieri, a patto che potesse indossare un bel paio di occhiali da sole con le lenti spesse. O si addicevano di più ad una guardia del corpo?
Seokjin passò i controlli di sicurezza e Namjoon rispedì la risposta alla sua domanda al mittente. Scansando le persone più lente, il ragazzo dalla chioma rosacea gli venne incontro a braccia aperte, pronte a gettarsi al collo dell'altro. Come da prassi, gli stampò un bacio sulla bocca. 
Namjoon gliene piazzò subito un altro sulla guancia, guadagnandosi un sorriso smagliante. 
"Non dovevi disturbarti." disse Seokjin.
Aveva già provato con una decina di messaggi a convincere l'altro a non venire, ma non poteva negare che la cosa era gli faceva più che piacere.
Namjoon minimizzò: "Non c'è problema." 
E davvero, non c'era. Aveva genuinamente voglia di vedere il suo ragazzo. 
Uscite di gruppo a parte, nei giorni precedenti i due si erano sentiti solo per messaggio, senza ritagliarsi un po' di tempo l'uno per l'altro come facevano sempre. Namjoon aveva temuto gli effetti della possibile tensione che poteva esserci tra di loro, ma l'aveva sentita volatizzarsi nello stesso istante in cui aveva visto Seokjin. Si era tanto preoccupato per niente.
In fondo si conoscevano bene, no? E allora perché erano stati così stupidi da farsi prendere dal panico? Lo sapevano che nessuno di loro due era una testa calda; erano abituati a parlare di tutto e ad ascoltare le reciproche opinioni riguardo le questioni più svariate. Erano persone mature e ragionevoli, ne sarebbero potuti uscire in tutta tranquillità con una chiacchierata.
Namjoon pensava a questo mentre camminava attraverso gli antri spaziosi della metro, un braccio attorno alle spalle di un Seokjin quasi trotterellante. 
"Allora, cosa hai visto? Commenti a caldo?" 
La mano del ragazzo dei capelli rosa si teneva aggrappata da dietro alla sua giacca, stropicciandola. 
"Non male." sentenziò. C'era una nota soddisfatta sotto la stanchezza per il viaggio. "Quando siamo a casa aspettiamo che i miei genitori si liberino e poi vi racconto tutto a tavola." 
Namjoon annuì distrattamente. Sperò che il suo entusiasmo nei confronti di quella che sarebbe stata una cena in famiglia come tante altre non si vedesse così tanto.
Dopo aver passato tre giorni a preoccuparsi, a chiedersi se la loro relazione stava funzionando a dovere, sentirsi invitare a cena senza neanche l'uso di un punto interrogativo era musica per le sue orecchie. Seokjin era sempre solito fare così, e lui lo adorava per questo. 
Lasciava sempre sottinteso il fatto che Namjoon potesse restare a mangiare, a dormire, a fare i compiti, a fare la doccia, a guardare un film. Ci mancava solo che gli desse una copia delle chiavi di casa. Quando l'altro gli chiedeva il permesso di fare qualcosa si arrabbiava, ripetendogli fino allo sfinimento che poteva fare quel che gli pareva (fino a quando la cosa non avrebbe intaccato l'incolumità dei mobili).
Seokjin chiese a Namjoon com'era andato il torneo sportivo, ma l'altro esitò a rispondere. Oltre al fatto che non aveva la benché minima idea di quali fossero i punteggi, i due avevano una questione in sospeso da risolvere. 
Dovevano parlare e mettersi il cuore in pace. 
Era meglio farlo finché erano fuori di casa, senza la presenza genitoriale a fiatargli sul collo. Ne dubitava altamente, ma nel caso tutto fosse finito per il peggio sarebbe stato meglio evitare quel determinato pubblico. E poi si doveva togliere il peso, insomma, anche se si era fatto infinitamente più leggero ora che il suo ragazzo era di fianco a lui. 
Con la scalinata che portava direttamente all'aria aperta ad una cinquantina di metri di distanza, Namjoon frenò Seokjin per la spalla, gentilmente. Fece scivolare giù le loro braccia dalle reciproche schiene e lo fronteggiò, rimanendogli vicino. 
Per un attimo Seokjin lo guardò con occhi curiosi, le luci trasandate della metro che lo illuminavano dall'alto. Gli altri passeggeri, di ritorno o all'andata,  iniziarono automaticamente a girare intorno loro per scansarli, senza degnarli di un'occhiata.
Namjoon si fece forza. 
"A proposito di mercoledì notte-" 
"Non dire niente." intimò Seokjin, interrompendolo. A giudicare della velocità dello scatto alla risposta doveva aver aspettato anche lui l'occasione giusta per tirar fuori l'argomento. Si era fatto subito serio. "Non so cosa mi stesse passando per la testa. Ti ho fatto la domanda più impegnativa del mondo nello stesso modo in cui ti avrei chiesto se ti andava di uscire fuori a cena, come se tu avessi potuto rispondermi con un sì, mi va. Sarebbe una cosa carina." 
Namjoon diede una risatina quando l'altro aggravò il tono della voce per farla somigliare alla sua. Le espressioni facciali in cui si cimentava erano uno spettacolo.
Seokjin si affrettò a concludere, dando una scrollata di spalle. "Quindi si, ecco, mi dispiace. Scusa. Sbaglio mio." 
Il ragazzo dai capelli verdastri non dovette neanche pensare prima di chiudere una mano del suo ragazzo in una stretta confortante. Riusciva a sentire il proprio battito cardiaco senza tastarsi il petto. Seppur allegra, la voce gli uscì un po' sfiancata, come se avesse corso per mille miglia.
"Quindi siamo a posto? Tutto bene tra di noi?" Namjoon sorrise al cenno positivo dell'altro. "Dio, che sollievo... Mi hai gettato nel panico più totale, Jin." 
L'occhiataccia che gli rifilò Seokjin fu magistrale. Il ragazzo dai capelli verdi rise ancor di più. Qualche passante si voltò verso di loro a sentirlo sghignazzare. 
"Non in quel senso! Era il dubbio a tormentarmi!"
Seokjin fece un verso a bocca chiusa, non molto convinto. All'altro bastò mettere in mostra le proprie fossette per essere premiato con un sorriso arrendevole. 
La coppia riprese a camminare, rimanendo mano per mano. Per un po' non dissero niente, lasciando che un silenzio di assestamento spazzasse via i rimasugli di agitazione rimasti. Loro si limitavano a dondolare avanti e indietro le mani unite, ascoltando lo sferragliare delle metro, il chiacchiericcio di lingue straniere, le musichette delle pubblicità mandate in onda dagli schermi. 
Uno dei punti di ristorazione doveva aver messo a riscaldare qualcosa a giudicare dall'odore.
Seokjin sbuffò una risata dal nulla. I capelli gli rimasero al proprio posto anche quando scosse mollemente la testa. 
"Povero Hoseok." disse. "E' a Seul da neanche una settimana e già lo abbiamo coinvolto nei nostri drammi." 
Namjoon non poté che dirsi sorpreso. Si calcò una berretta di lana sul capo, tirandola fuori da uno dei tasconi della giacca; uno spiffero d'aria aveva già raggiunto il suo collo scoperto.  
"Perché, pure tu lo hai chiamato?" 
"Peggio, l'ho fatto venire a casa mia. Ero con lui quando gli hai telefonato." 
Le sopracciglia di Namjoon si inarcarono. "Ah, si?"
Seokjin annuì. 
Dopo quell'osservazione i due tornarono a rintanarsi nelle proprie teste. 
L'odore di cibo sparì. Dovevano aver passato la zona riservata ad esso. 
Tutto era perfetto, in teoria. Si erano riappacificati. Non c'erano tensioni. 
Eppure qualcosa stonava. 
Qualcosa stonava e Namjoon sentì il bisogno di esternarlo subito. Gli erano bastati quei giorni di fraintendimenti per imparare la lezione, grazie tante. 
"Adesso però è strano. Mi ero quasi abituato all'idea." 
Seokjin fece un verso tra l'intenerito e l'irritato, pronto alla dose di smielataggine a cui Namjoon amava sottoporlo. Intrecciò le loro dita insieme, prendendolo un po' in giro. 
"Ammettilo, volevi solo una scusa per indossare un vero vestito da sposa al tuo addio al celibato. E io che già ci vedevo insieme per sempre, felici e contenti, con tanto di lucchetto con i nostri nomi lungo la Senna. Io e il mio ranocchio." 
Intento a camminare, Seokjin non vide il modo in cui il sorriso di Namjoon gli si allargò a macchia d'olio a quel nomignolo. 
Non vide come la luce nei suoi occhi cambiò. 
Non vide l'attimo del dubbio, quello dell'incertezza, quello della risposta. 
Non vide l'affetto di cui quello sguardo zampillò, tutto d'un colpo.
Seokjin non vide niente. Si sentì solo tirare da dietro quando l'altro si piantò per la seconda volta in mezzo alla metro. 
La mano rimastagli libera andò a coprirgli automaticamente il viso quando vide Namjoon inginocchiarsi. 
Con i pantaloni premuti su un pavimento che era tutto tranne che pulito, Namjoon Namjoon sfilò dalla tasca della giacca un comunissimo pennarello nero, accingendosi a scribacchiare qualcosa sulla mano di Seokjin. 
Quest'ultimo si mise a sussurrare, tutto agitato. "Alzati. Cosa stai facendo?" 
Ora sì che la gente li fissava. Qualche donna sorrideva nella loro direzione, mentre un uomo abbastanza in là con l'età sollevò il pollice in aria.
Seokijn avrebbe potuto dedurlo dal modo in cui la sua pelle era stata solleticata, ma dovette riempirsi comunque i polmoni d'aria quando lo vide con i propri occhi: due righe parallele, nere ed un po' storte gli solcavano l'anulare. 
Namjoon chiuse il pennarello con il tappo e se lo ricacciò in tasca. Poi prese la mano di Seokjin tra le sue, fregandosene di quanto gli stessero sudando. 
Era uno dei quei momenti. 
Qualcuno avrebbe dato colpa all'adolescenza, al mancato senso della realtà, ma Namjoon era un uomo tutto l'anno. Per una volta voleva essere giovane, avventato e senza rimorsi.
"Kim Seokjin," disse, un sorriso incosciente sul viso e le guance lucide. La voce gli uscì tutta strana, come se non respirasse bene. "mi vuoi sposare?" 
Il mondo era davvero un posto divertente a volte. Lo era davvero. 
Il ragazzo dai capelli verdi corrucciò le sopracciglia e aprì la bocca in un'espressione indignata quando Seokjin rimase letteralmente senza parole. 
"Che fai, ci pensi?" 
Bastò alzarsi in piedi e fare finta di andarsene per scantarlo da quello stato di shock; Seokjin arraffò i lembi della giacca di Namjoon e se lo tirò contro, baciandolo sulle labbra. In un secondo momento le sue braccia circondarono il collo dell'altro, ancorandosi lì anche quando il bacio terminò. 
Chiunque avesse guardato verso la loro direzione avrebbe potuto vedere quei due alti ragazzi abbracciati, una macchia rosa nel grigiore della metro. I più anziani avrebbero distolto lo sguardo, scandalizzati da quei loro visi tanto vicini che i nasi si sfioravano.
Seokjin guardò Namjoon fisso negli occhi. Si sentiva così felice che avrebbe potuto vomitare.
"Sì, mi va. Sarebbe una cosa carina." 
"Sai che sono serio, vero?" 
Namjoon si ritrovò a dover ricambiare un altro bacio, molto più passionale del primo.
"Già."
 
(60) November 7th, 2015 - Saturday
 
Un fischio prolungato aveva segnato la fine del torneo. 
La maggior parte dei giocatori si erano riversati in massa negli spogliatoi mentre qualche d'uno era rimasto in campo a chiacchierare con parenti o studenti di altre classi. La grande palestra era disseminata di piccoli gruppetti, le loro voci che rimbombavano solitarie dopo tutto il trambusto che fino a pochi minuti prima le aveva riempite. 
Arrivato da poco, Hoseok se ne stava seduto sulla zona degli spalti più vicina all'uscita. Era entrato non appena i genitori avevano sgomberato il luogo, la zia che aspettava in auto. 
Un po' gli era dispiaciuto non assistere al torneo, ma ci sarebbero state altre occasioni.
Il rosso stava passando quel tempo di stallo a far rimbalzare da seduto uno dei tanti palloni lasciati in giro. Era leggermente a disagio per essere in uno spazio completamente estraneo, come se qualcuno potesse saltar fuori all’improvviso per dirgli che non poteva stare lì.
Fu anche per questo che quando vide Jungkook sbucare da uno degli spogliatoi si illuminò tutto. Il ragazzo era imbacuccato in una sciarpona che gli arrivava fin sotto al naso e teneva il berretto ben calato sul capo, probabilmente temendo di prendere freddo dopo aver sudato. Il borsone sportivo che gli pendeva da una spalla prendeva contro le sue gambe ad ogni passo, intralciandolo. 
Hoseok dovette chiamarlo un paio di volte per farsi notare, le braccia all’aria.
Stringendo gli occhi per vederci anche a quella distanza, Jungkook alzò una mano in segno di saluto e aumentò il passo per raggiungerlo. Il brusio che era la sua voce divenne più chiaro quando fu abbastanza vicino, il cellulare premuto contro un orecchio. 
"Sì. Si, ti aspetto qui. Sono dall'uscita della palestra. Okay, a dopo." 
Terminata la chiamata, il cellulare venne messo in tasca ed a Hoseok venne regalato un piccolo sorriso.
"Se vuoi ti diamo noi uno strappo a casa.” propose quest’ultimo. “Abiti vicino al condominio di Tae, no?" 
"Oh, no, non c'è bisogno che vi disturbiate. Prima devo passare da Cup's, per cui..." 
Jungkook fece un segno eloquente con la mano, come a voler dire che ci sarebbe voluto del tempo. Si andò ad appoggiare con la schiena contro la parete più vicina a dove sedeva Hoseok, sapendo che sua madre sarebbe stata lì a momenti.
Hoseok si aprì in uno dei suoi sorrisi.
Jungkook non avrebbe mai smesso di meravigliarsene. Di solito le persone erano dotate delle espressioni più svariate, tra cui il sorriso, ma quel ragazzo no; lui aveva un sorriso per ogni espressione. Quello di adesso era allegro, curioso. 
"Ah, è vero. Tae mi ha detto che vi siete fatti preparare un dolce per il vostro anniversario. E' intorno alle due di questa notte, vero?"
Jungkook non ebbe bisogno di pensarci. "Sì. L'una e cinquantasei." 
"Come fate a saperlo con tanta precisione?" 
"E' l'orario che segnava la notifica di quando ci siamo alleati in un gioco. Prima era solo capitato di scontrarci in un qualche livello." 
Un sorriso stupito. 
"Aspetta un attimo, vi siete conosciuti online? Anche se abitate così vicini?"
Il castano annuì. Ogni volta che raccontava quella storia le reazioni erano sempre le stesse. 
"Eravamo entrambi troppo impegnati con i video games per mettere naso fuori casa." 
Questa volta fu Jungkook a sorridere. Ricordava bene la sorpresa di quando, chattando un po' tra una vittoria ed una sconfitta, i due avevano scoperto di essere entrambi di Seul. Taehyung aveva poi aggiunto in che zona abitava e Jungkook era stato talmente euforico che tutti i messaggi a seguire erano stati un guazzabuglio di parole confuse. Si era azzardato a scrivere il suo indirizzo e cinque minuti più tardi il citofono di casa era suonato.
Era stata quella la prima volta che aveva incontrato Taehyung, un ragazzino delle medie dall'aria scapestrata.
Non appena questo aveva visto il giovanissimo Jungkook uscire dal portone d'ingresso aveva mollato il manubrio della bicicletta con cui era arrivato fino a lì, facendola cadere sul selciato. Poi aveva allungato un braccio magrolino, la mano aperta che non aspettava altro che scuotere la sua. 
La voce di Hoseok fece scoppiare la sua bolla di ricordi.
"Beh, spero che voi due vi divertiate, perché Taehyung ci ha praticamente sfrattati di casa. Siete fortunati che domani è domenica."
Jungkook abbassò il capo, come se se ne vergognasse. Sapeva che era stato il biondo a decidere così, ma lui si sentiva un po’ in colpa lo stesso. "Dove la passate la notte?”
"Nel nuovo appartamento mio e di mia madre. Non ha ancora la corrente attaccata, per cui potremo ritenerci in campeggio." 
Il cellulare di Jungkook gli vibrò all'interno della tasca, ma venne ignorato. 
"Quindi ti trasferisci qui? E' definitivo?"
La schiena di Hoseok si rizzò, ma il ragazzo rimase seduto. Si dovette solo girare un po' di lato per poter continuare a conversare, o gli sarebbe venuto un torcicollo.
"Sì," spiegò, la contentezza che gli riempiva la voce. "L'unica cosa che mi dispiace è che perderò l'anno scolastico. Tra i costi del trasferimento e quelli per arredare casa siamo un po' al verde, per cui credo vivrò di part-time fino a settembre. Anche mamma sta cercando lavoro." 
Jungkook non poté non sentirsi dispiaciuto per lui. Doveva essere brutto mettere in stallo gli studi per un tempo così lungo. 
Fu allora che lo realizzò. 
Jungkook sollevò il capo, guardando l'altro negli occhi. "Ma allora non frequenteremo la scuola insieme. Quando tu arrivi, io me ne vado." 
Il sorriso del rosso era malinconico.
"Temo di sì." 
La vibrazione del cellulare si sentì chiaramente nell'aria quando tra i due scese il silenzio. 
Jungkook deglutì la saliva che gli si era accumulata in bocca. Parlò guardandosi la punta delle scarpe, cercando di nascondere l'amarezza che impregnava la sua voce.
"Beh, almeno così non dovrete cambiare i posti a tavola. Tu ricordati soltanto di sedere sempre tra Yoongi e Tae. E  quando vi incontrate tutti insieme devi assolutamente salutare lui per primo, o rimarrà senza abbracci fino a quando qualcun altro non si libera." 
Il castano si grattò il lobo di un orecchio, pensieroso e con lo sguardo vuoto. "Se mi viene in mente qualcos'altro te lo scrivo."
Hoseok rimase in silenzio per un po', una rara assenza di sorrisi sul viso. Smise di palleggiare, attività che aveva continuato a svolgere per tutta la durata di quella conversazione. Lo sguardo con cui osservava Jungkook sembrava preoccupato. Quello, o semplicemente lo stava compatendo. 
"Ti prego, Jungkook, non pensare a me come al tuo rimpiazzo. Sei insostituibile per quei ragazzi. Ognuno di voi lo è." 
La vibrazione del cellulare tornò giusto in tempo. Se avesse ignorato le chiamate di sua madre ancora una volta, Jungkook avrebbe rischiato davvero di essere lasciato a piedi. 
Il ragazzo sospirò mentre tirava fuori il cellulare dalla tasca. Lo mostrò a Hoseok, come per scusarsi. Venne congedato con un cenno del capo, per cui Jungkook sparì oltre l'ingresso della palestra in poche falcate.
Il rosso si ritrovò a sospirare a sua volta, rattristato dalla piega che aveva preso la conversazione. Appoggiò il pallone di fianco a sé; non gli rimaneva che aspettare Taehyung. 
Neanche dieci secondi e si sentirono una serie di passi concitati. Jungkook sbucò nuovamente in palestra, questa volta senza borsone. Hoseok lo guardò sorpreso. Forse aveva dimenticato qualcosa. 
Da fuori si sentiva chiaramente un rumore di clacson, presumibilmente quello di sua madre, ma Jungkook camminò dritto verso Hoseok. Il castano non riprese nemmeno fiato prima di estendere la sua mano in avanti, con decisione. 
"Hobi," disse, ad alta voce, serio come la morte. "prima di partire per l'Europa voglio diventare tuo amico." 
La faccia di Hoseok sarebbe stata da fotografare. Prima la sua bocca formò una "o" perfetta, le sopracciglia inarcate verso l'attaccatura dei capelli. Poi si era sciolto in un sorriso a dir poco smagliante a cui aveva aggiunto una risata. 
Si era allungato oltre gli spalti per stringere la mano di Jungkook, reggendo il gioco a quell'aria professionale.
"Io credevo lo fossimo già." 
 
(61) November 7th, 2015 - Saturday
 
"Mi rifiuto di venire all'Anathema a quest'ora." 
 
"Patrick, sono le sei del pomeriggio, non ci penso neanche." 
 
"Te l'ho detto, la settimana scadrà precisa alle due. No. No. Non vedo perché agitarsi tanto prima di mezzanotte." 
 
"Okay, va bene. Sarò lì dopo cena. Si. Ciao." 
 
Con un bip appena udibile, Lloyd Daront si sfilò l'auricolare dall'orecchio. Lo ripose in una tasca del giubbotto smanicato, tornando a spingere il carrello della spesa.
L'uomo sfilava tra le corsie riservate agli ortaggi, gli occhi puntati su un dipendente del supermercato; lo incitò mentalmente a sistemare i prodotti sugli scaffali più in fretta, impaziente. Tempo un minuto e la zona fu liberata. 
 
Quando Lloyd oltrepassò le casse dopo aver pagato la sua spesa, qualcosa nel reparto frutta era cambiato. Una mela color porpora spiccava tra tutte le altre, un bollino familiare appiccicato alla buccia. 

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Capitolo 10
*** 2!3! (STILL WISHING THERE'LL BE BETTER DAYS) ***



It’s okay, now count one two three and forget
Forget all the sad memories, hold my hand and laugh

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2!3! (STILL WISHING THERE'LL BE BETTER DAYS)


62) November 8th, 2015 - Sunday

Era l'una e cinquantaquattro di notte.
Taehyung fece ritorno dalla cucina del proprio appartamento, il passo svelto. Poggiò sul tavolino basso che stava di fronte al divano del suo salotto lo stesso accendino che aveva utilizzato pochi giorni prima. Seduto a gambe incrociate sul pavimento, Jungkook si allungò subito verso l'aggeggio. 
Casa Kim svuotata di ogni parente era così silenziosa che si potevano sentire i passi dei piedi nudi di Taehyung. A suggerire quell'atmosfera calma e soffusa ci pensavano anche le piccole luci bianche del cucinotto, accompagnate da un paio di lampade regolabili in sala. Per ultimo, ma non per importanza, l'alone creato dallo schermo di un cellulare si rifletteva sulla superficie liscia del tavolino a cui era appoggiato.
L'otto di novembre. Anniversario di amicizia. 
La serata stava procedendo alla grande. Non che ci fosse stato molto da pianificare: ogni anno Jungkook e Taehyung si limitavano a giocare ai videogiochi, ordinando del cibo d'asporto da una qualche catena americana. L'unica differenza dagli anni precedenti consisteva nell'aver già indossato il pigiama (in un modo o nell'altro finivano sempre per addormentarsi fuori dai loro letti, convinti che la notte fosse giovane). 
Quando Taehyung ci si sedette sopra, il tappeto del salotto non si smosse di una virgola, rigido. Il biondo tornò a mettere i gomiti sul tavolino, la stessa identica posizione in cui si trovava prima di alzarsi per andare a prendere l'accendino. Le velature violastre che accerchiavano il suo sopracciglio erano meno visibili tra le ombre della stanza; alla fine non c'era neanche stato bisogno di metterci una benda. 
Il ragazzo era sul punto di dire qualcosa al suo migliore amico quando lo sguardo gli cadde verso il basso. 
Okay che non era tutto questo gran cervellone, ma ricordava bene cosa c'era sul tavolino dieci secondi prima. C'era l'enorme biscotto con le gocce di cioccolato che si erano fatti preparare da Cup's, un mostro di burro alto tre centimetri e largo venti ricoperto di panna montata e smarties. C'erano le posate con cui mangiarlo direttamente dalla confezione. C'era il conto alla rovescia sul suo cellulare, pronto a scoccare l'ora esatta in cui i due si erano conosciuti, impostato in modo che non andasse mai in stand-bye. Ma quel pacco no. 
Era un fagottino di carta da giornale grande quanto un telecomando, tenuto insieme da un lustrino e chili di scotch. 
Seduto dall'altra parte del tavolino, il sorriso di Jungkook si fece angelico quando ricevette un'occhiata sospettosa. Taehyung puntò un indice in direzione del pacchetto; se ne stava a debita distanza, come se si trattasse di esplosivo. 
"Avevamo detto niente regali. Il dolce era il nostro regalo reciproco." 
Jungkook fece un verso tra lo scherno e il gongolante. Si accarezzava distrattamente le caviglie, nervoso. Il pigiama gli andava un filino troppo corto.
"Te lo avrei comprato a prescindere, con o senza il nostro anniversario di mezzo." 
Senza ritirare il dito accusatore, lo sguardo di Taehyung fece un paio di volte avanti e indietro dalla faccia di Jungkook al pacchetto. "Mi fai venire i sensi di colpa." bofonchiò, l'accenno di un broncio. 
"Dai, dai, aprilo." incitò l'altro. Controllò l'orario sul cellulare. "Hai ancora due minuti, muoviti." 
Taehyung sbuffò, ma alla fine gli angoli di quella bocca si rivolsero verso l'alto. Jungkook dovette impedirsi di corrucciare il naso quando un moto di tenerezza gli salì al petto; tra il pigiama e quegli occhioni vispi che scannerizzavano il regalo, il biondo sembrava il più cresciuto dei bambini a Natale. 
La carta da giornale andò a far amicizia con il tappeto, ridotta a brandelli. L'oggetto di tanta curiosità rimase nudo sotto le attenzioni di Taehyung.
Quel bicchierone di plastica rigida non era a tinta unita come quello dei suoi amici. Era trasparente, disseminato ovunque di disegnini colorati e fantasie. Taehyung se lo rigirò fra le mani un paio di volte, a bocca aperta. Di tutte le cose che si poteva aspettare questa non rientrava neanche nella lista. 
Gli zigomi di Jungkook erano lune gialle nel buio del salotto. Il ragazzo andò a districarsi la frangia castana con le dita, vagamente in imbarazzo. La sua voce era cosparsa di stelle, fragili, appuntite e luminose. 
"Ho cercato la stessa linea di bicchieri che abbiamo già, ma è fuori produzione da un po'." spiegò. "Ho visto questo ed ho pensato fosse carino lo stesso." 
Taehyung non riusciva a togliere gli occhi dal suo regalo. Non era carino, era stupendo. Ovviamente non in senso oggettivo, ma il ragazzo aveva già voglia di invitare tutto il gruppo di amici a casa sua per poterlo sfoggiare in mezzo ai loro. 
Si sentì in dovere di commentare, ma l'espressione con cui Jungkook lo guardava la diceva lunga: Taehyung doveva essere meno bravo a trattenere la commozione di quanto credesse. Non gli rimase che buttarla sul ridere. 
"Sicuro di non averlo preso nella sezione per bambini?" 
"Perché, tu cosa sei?" 
Alla risposta dispettosa di Jungkook, Taehyung sollevò lo sguardo verso l'amico che se la stava ridendo di gusto. Finse di volerlo colpire con il bicchiere, troppo contento anche solo per ribattere.
La sveglia del cellulare suonò.
Sguardi e risate si congelarono per un attimo.
"Meno un minuto." disse Jungkook, ma non ce n’era bisogno. 
In fretta e furia, il bicchiere venne messo via, una candelina venne piantata nel biscotto e fu accesa. 
Un silenzio carico di attesa scese tra i due migliori amici. La sensazione che formicolava sotto la pelle di entrambi era terribilmente simile a quella che si prova la notte di capodanno, ma meno illusoria. 
Di sicuro non era carica di speranza. Almeno, per Jungkook. 
Era da tutta la sera che si scrollava di dosso qualsiasi pensiero negativo, ma quelli se ne stavano sempre in agguato. Era ovvio che si sarebbero approfittati del primo momento di debolezza. 
Quei sessanta secondi erano infiniti. Jungkook non poté fare a meno di guardare quella catastrofe di diabete che era il loro dolce e pensare che l'anno successivo non ci sarebbe stato.
Era già capitato di parlarne: se fossero riusciti a mettersi d'accordo tra l'orario locale della Corea e quello europeo, Jungkook e Taehyung potevano festeggiare l'anniversario successivo via web-cam. Si sarebbero comprati un dolcetto munito di candela a testa, piccolo e triste. 
Un tic pizzicò l'angolo della bocca di Jungkook. 
Sulla schermata del cellulare di Taehyung non rimanevano che trenta secondi.
Venticinque.
Venti. 
Quindici.
Le labbra di Taehyung avevano sillabato ogni cifra. La voce iniziò ad uscirgli dal dieci in poi, subito accompagnato da Jungkook. 
"Tre."
"Due."
"Uno." 
Zero.
Il conto alla rovescia terminò.
Taehyung e Jungkook sarebbero dovuti balzare in piedi. Avrebbero dovuto mettere su un po' di musica, fregandosene delle lamentele dei vicini. Si sarebbero dovuti stritolare di abbracci e avrebbero dovuto fare un pomposo brindisi alla loro amicizia. E già che c'erano avrebbero potuto girare un video da mandare ai ragazzi del gruppo, come gli anni precedenti, quando si erano preparati dei discorsi così smielati che si erano presi a sberle a vicenda per tutta la lettura.
Ma nessuno dei due scattò su.
Rimasero entrambi seduti. Fermi. In silenzio. 
L'unica cosa a muoversi era la bocca di Taehyung, piegata in un sorriso a labbra chiuse che straripava d'affetto. Gli occhi di Jungkook erano lucidi e la cosa lo spezzava dentro.
Il conto alla rovescia fece in tempo a superare il limite dato di ben sette secondi prima che il biondo emise un verso a metà tra una risata e un'ovazione addolorata. "Non piangere!" 
Gli occhi dell'altro si ingrandirono all'inverosimile quando gli venne lanciato contro un pacchetto di fazzoletti, un accessorio che in ogni casa piena di bambini e germi dovrebbe sempre essere a portata di mano.
"Non sto piangendo!" esclamò Jungkook, la voce salita di un'ottava.
Tirò indietro all'altro i fazzoletti inutilizzati. Rise quando lo colpì dritto in fronte con un tonfo plasticoso. 
L'espressione indignata di Taehyung fu epica con la bocca aperta e le mani chiuse sul sopracciglio infortunato. Si sistemò meglio sulle ginocchia, come se avesse intenzione di allungarsi oltre il tavolino per colpire Jungkook e la sua mancanza di rispetto, ma si bloccò a mezz'aria.
Nel giro di un nanosecondo il pollice di Jungkook era saettato sotto l'occhio del proprietario, asciugando una lacrima di cui non c'era più traccia. Se sperava di passare inosservato prese un granchio quando gli venne da tirare su con il naso. 
Taehyung ritirò la mano all'interno della manica del pigiama, portandosela al fianco. La voce gli uscì vellutata quando parlò a cuore aperto, senza vergogna.
"Ti voglio bene, Kookie." 
Con una risata un po' sfiatata, Jungkook reclinò il capo verso il basso. Non riuscì a cogliere quella seconda lacrima sul fatto; poté solo guardarla una volta stampata sui pantaloni del suo pigiama, un piccolo cerchietto scuro.
Quando tornò a rivolgere il viso verso il suo migliore amico, il suo sguardo era cambiato. Aveva una fermezza tipica di lui e di quel suo crescere troppo velocemente. Le briciole di un sorriso precedente erano ancora sparpagliate attorno alla sua bocca. 
"Ti amo, Taehyung." 
E finalmente il pesciolino riuscì a scappargli dalle labbra.
Jungkook aveva deciso di liberarlo lui stesso. Non sapeva come aveva fatto a mantenere la voce così piatta, ma i suoi occhi scuri erano turbini di materia.
I colori sul viso di Taehyung si spensero. 
Tutto tornò blu, come quel pomeriggio di pochi giorni prima. 
Il ragazzo più giovane venne guardato senza battere ciglio, gli angoli della bocca piegati male. 
Taehyung scosse la testa, un movimento impercettibile. 
Parlò, la voce roca di chi ammette le proprie colpe. 
"Speravo tanto che non me lo dicesti mai." 
Kim Taehyung non mentiva quando diceva di essere cattivo. 
Non come un bullo od un antagonista. Cattivo come i bambini, troppo piccoli per capire che al mondo non esistono solo loro. Per capire che durante i giochi di ruolo tutti quanti si devono divertire e che non si può fare sempre la parte dell'eroe protagonista. Per capire che le parole non solo sono tante e sono complicate, ma fanno anche male. Per capire che anche quando la mamma ti mette in punizione rimane comunque bella e buona.
Jungkook era innamorato di lui e Taehyung era cattivo per averlo sempre saputo e non aver mai fatto niente in merito. 
Lo sguardo di Jungkook piombò a terra per restarci per sempre. L'unica parte del suo corpo a reagire meccanicamente al rifiuto furono le sue mani; i palmi gli si riempirono di mezzelune.
Non si era aspettato niente di diverso. 
Niente di niente.
Zero assoluto.
Ma cazzo, quel detto per cui la speranza doveva essere l'ultima a morire era proprio una presa per il culo.
Così come i suoi occhi, anche le sue parole suonarono vitree.
"Vuoi che me ne vada?”
Se Taehyung avesse potuto si sarebbe strappato il cuore dal petto e lo avrebbe consegnato a Jungkook. Gli avrebbe procurato anche una mazza da baseball, giusto per assicurarsi che non ne sarebbe rimasto niente.
"Oddio, no, Kookie..." 
Jungkook non alzò lo sguardo, non si mosse, non respirò nella manciata di secondi che ci vollero a Taehyung per fare il giro del tavolino e lasciarsi cadere al suo fianco. Un paio di braccia lo strinsero, una mano ampia e familiare si immerse nei suoi capelli lisci, dove la cute era più calda.
Immobile nella sua seduta a gambe incrociate, Jungkook provava davvero a mantenere i suoi pensieri sui binari, a non deragliare. Secondo la sua logica non c'era molto da fare a quel punto: poteva ricambiare l'abbraccio e accettare di buon grado il cucchiaino di zucchero con cui ingoiare la pillola amara; oppure poteva rifiutare a sua volta Taehyung e chiedere una tregua alla loro amicizia.
Ma Jungkook non voleva niente di tutto questo. Non voleva zucchero, non voleva tregue. 
Con le stelline che poco prima avevano inzuppato la sua voce tutte accumulate allo sbocco della gola, il castano voleva soltanto piangere fino a quando il suo corpo non sarebbe collassato per disidratazione. 
Più Jungkook non reagiva più le braccia magroline di Taehyung si stringevano a lui. Persero la loro forza più tardi, quando un dolore lancinante colpì entrambi alla testa. 
Sullo schermo del cellulare erano scattate le due di notte. 

(63) November 8th, 2015 – Sunday

Una fronte si premette contro la sua schiena nuda. La presa attorno al suo busto si serrò. 
Namjoon non seppe se a svegliarlo furono le dita di Seokjin piantate nel suo stomaco o il martellio che sentiva al capo. Il mal di testa era atroce; sembrava quasi che il cervello stesse tentando di schizzargli via.
Con il sonno scivolato di dosso all'istante, Namjoon districò le mani del suo ragazzo per potersi girare dalla sua parte. Dovette lottare un po' con le coperte per allungarsi sul letto senza morire di freddo. 
Riuscì a raggiungere l'interruttore della luce. 
Namjoon si ritrovò faccia a faccia con un paio di occhi già aperti, le sopracciglia di Seokjin corrugate in un'espressione sofferente. 

(63) November 8th, 2015 – Sunday

"Tesoro, tutto bene? Cos'hai?"
Furono queste le uniche parole che Hoseok registrò. 
Madre e zia erano chine sul sacco a pelo in cui stava dormendo fino ad un attimo prima. Le due donne erano state intente a farsi una tranquilla partita di carte al lume di candela quando gli era parso di sentir mugolare il ragazzo. Gli era bastato solcare il minuscolo tratto di corridoio per essere nella futura camera di Hoseok. 
Brandendo in mano i loro cellulari come torce, l'energia elettrica ancora mancante nell'appartamento nuovo di zecca, avevano trovato il rosso raggomitolato su sé stesso, la testa fra le mani. 

(63) November 8th, 2015 – Sunday

Le ragazze immagine dell'Anathema si stavano dando fin troppo da fare per soccorrere Jimin. 
Avevano appena terminato una delle loro esibizioni quando, nello scendere i gradini del palco, il loro unico beniamino di sesso maschile aveva avuto un giramento di testa. Vedendolo barcollare verso il basso, era stato afferrato per le braccia dalle prime due colleghe con i riflessi pronti.  
Jimin era stato fatto sdraiare su uno dei divanetti del locale. Avrebbero anche potuto portarlo nell'area riservata ai dipendenti dove di sicuro circolava un minimo d'aria, ma non si sapeva mai che un po' di dramma non attirasse l'attenzione di futuri clienti.

(63) November 8th, 2015 – Sunday

Le mani di Yoongi si aggrapparono al bordo del primo tavolo che gli capitò sotto tiro. 
La sua faccia non doveva essere delle migliori, perché il gruppetto di adolescenti seduti al tavolo in questione si scambiarono un paio di occhiate perplesse. Nessuno di loro gli rivolse la parola per primo; dopotutto, all'Anathema non accadeva mai niente di troppo strano.
Yoongi si piegò in avanti, provocando un gridolino isterico. Aveva solo bisogno di accucciarsi a terra per poter sopportare quel dolore.
"Non osare vomitare sulle mie scarpe!"

(63) November 8th, 2015 – Sunday

Già seduto a terra da prima, Jungkook era piegato in due. 
Con una mano tremante digitava un numero sulla tastiera del cellulare, con l'altra strofinava la schiena del suo migliore amico con movimenti circolari. Forse erano fin troppo energetici per essere di conforto, ma poco importava.
Taehyung continuava a uggiolare, il viso sepolto contro la sua spalla. Se non fosse stato nella stessa identica situazione, Jungkook sarebbe riuscito a pensare lucidamente, a trovare una soluzione.
La chiamata partì. Jungkook parlò subito, senza lasciare al mittente il tempo di aprir bocca.
"Jin, Taehyung sta male. Riesci a portarci al pronto soccorso più vicino?" 

"Come, anche voi?" 

(64) November 8th, 2015 - Sunday

Quando un'auto svoltò sul retro dell'Anathema, Yoongi venne investito dalla luce dei fanali anteriori. Il ragazzo stava aspettando i suoi amici da una decina di minuti, solo in mezzo a quel piccolo parcheggio riservato ai dipendenti del locale. 
Se non avesse avuto un minimo di alcool a circolargli in corpo sarebbe crepato di freddo. 
Erano le due di notte passate, quasi le tre, molti giovani iniziavano ad andarsene, ma dove si trovava Yoongi non passava un'anima; l'unico segno di vita era qualche schiamazzo proveniente dalla parte opposta dell'edificio. Degli ubriachi dovevano star dando un gran da fare al buttafuori quella sera.
L'auto appena arrivata lo abbagliò un'ultima volta prima di spegnersi. Era stata parcheggiata di fretta, tutta storta sulle linee che delimitavano i singoli posti per ogni veicolo. Con i nasi rossi e le sciarpe fin sopra la bocca, i primi a scenderne furono Namjoon e Seokjin, seduti nei posti davanti; Hoseok, Jungkook e Taehyung ci misero un po di più. 
Yoongi poté sentire i muscoli delle spalle rilassarsi quando i suoi amici lo approcciarono. Il lampione che li sovrastava era abbastanza scarso, ma avrebbe riconosciuto quelle silhouette tra milioni.
Nessuno di loro aveva esattamente una bella cera. Saranno stati gli occhi pesti di sonno, i capelli arruffati, ma agli occhi di Yoongi sembrarono tutti provenire dallo stesso esercito di zombi. Se non fosse stato così buio forse avrebbe notato l'imbarazzante paio di pantaloni del pigiama di Seokjin, l'unico capo visibile da sotto il cappotto rosa. 
Fu quest'ultimo a parlare, stizzito dal freddo. 
"Si può sapere perché abbiamo deciso di ritrovarci qui? La casa di Tae è già libera, non era meglio?" 
Quando gli altri lo raggiunsero, Yoongi recitò a macchinetta il messaggio che aveva ricevuto poco prima. 
"Jimin sta lavorando, deve restare qui fino alla chiusura. Ci raggiunge a momenti." 
Neanche l'avesse chiamato a gran voce, un terzo fascio di luce si riversò sul gruppetto di ragazzi. La porta che dava sul retro dell'Anathema era stata aperta da un Jimin tutto trafelato, le labbra tinte di viola e le maniche del cappotto che gli pendevano vuote ai lati delle spalle; se ne ne teneva i lembi stretti al collo con le mani. 
Gli si poté vedere il faccia il momento in cui realizzò che c'era davvero tanto freddo. Sotto non doveva indossare altro che la divisa da ballerino e per giunta era ancora sudato dall'esibizione precedente. 
"State tutti bene?" chiese nella direzione generale, raggiungendo gli altri. 
Sei teste annuirono, sei nuvolette di fiato bianco nell'aria. I ragazzi si erano disposti in cerchio, come d'abitudine.
"Okay, cerchiamo di andare dritti al punto, allora. La mia pausa non dura molto." continuò Jimin. "C'è qualcosa che ricordiamo di aver preso tutti insieme? Un drink, da mangiare... "  
"L'ultima volta che siamo usciti insieme è stata l'altra sera, proprio qui, all'Anathema, ma il malessere non può essere dovuto a quello. Io dovevo guidare, non ho toccato alcool. E se non sbaglio neanche Hoseok ha bevuto." ragionò Seokjin.
"Magari si tratta di un virus. Hoseok potrebbe averlo portato da fuori Seul." 
Qualcuno si sarebbe dovuto mettere a ridere per l'assurdità dell'ipotesi di Taehyung, ma la situazione era così strana. Perfino il diretto interessato sembrava già pronto a prostrarsi ai piedi di ognuno di loro per implorare perdono.
Ci pensò Jungkook a far notare che non era possibile. 
"Non può essere." disse, le mani in tasca. "Mi è già capitato di avere dolori simili, e ancora non avevamo incontrato Hoseok." 
Qualcuno chiese quando fosse accaduto. Il più giovane del gruppo raccontò della scarica che si era sentito dentro la mattina di Ognissanti, quando si erano incontrati per far colazione da Cup's; poi aggiunse un secondo orario della stessa giornata, alla sera, dopo essersi preparato per andare a dormire. 
Se ci fosse stato silenzio totale si sarebbero sentite tutte le rotelline nelle loro sette teste girare all'impazzata.
Yoongi si grattò la guancia con fare pensieroso prima di aprir bocca. "Due volte in un giorno solo? Ma identiche, sempre alla testa? Stessa intensità?" 
Jungkook scosse il capo. 
"Sinceramente della seconda volta non ricordo molto. Credo di essermi addormentato quando ancora stavo male, per cui non doveva essere così forte. Forse è per quello che ho avuto gli incubi." 
Quest'ultima aggiunta era poco più di un borbottio, un pensiero privato espresso ad alta voce, ma riscosse l'attenzione di Seokjin. 
Il ragazzo dai capelli rosacei alzò il capo, guardando Jungkook dritto negli occhi.
"Un incubo, dici? Subito dopo il dolore?" 
"Sì, e anche molto vivido. Non riuscivo nemmeno a svegliarmi." 
Momento di pausa. Tutti pensarono qualcosa di simile ma nessuno disse niente, se non Seokjin. I bei lineamenti del suo viso erano corrucciati dalla concentrazione.
"Anche a me è successo qualcosa di simile. Ero a letto con Joonie quando ho fatto questo sogno stranissimo..." 
"Per caso finiva con me, te e qualche trilione di petali?" 
Seokjin guardò il suo ragazzo con occhi sbarrati, le labbra aperte in sconcerto.
"E tu come lo sai?" 
Namjoon non disse niente. Gesticolò appena mentre la realizzazione di quello che era stato appena detto cadeva sulle loro spalle come fiocchi di neve. 
Con le guance che avevano preso colore, Seokjin fu veloce a puntare l'indice di nuovo verso Jungkook, il filo dei pensieri che scorreva troppo veloce per poter esternare tutto a voce. 
"Kookie. Io e te, al parco. Eravamo seduti sulla panchina e c'è stato quel- quel momento, in cui noi” Faticava a spiegarsi. "La giostra coi cavalli."
Il castano non fece che annuire per tutta la durata di quel balbettio, lo sguardo stralunato. 
Fu Namjoon a prendere parola. 
"E voi altri? Non vi è capitato niente del genere?" 
Il gesto che Jimin fece con un braccio attirò l'attenzione. La sua mano passò distrattamente da sé stesso a Yoongi, da Yoongi a sé stesso. 
"Io e Yoongi..." Uno sguardo  fugace venne scambiato con il moro. Forse non era il caso di dare certi particolari. "...qualcosa del genere. E poi ho fatto anche io un paio di incubi da solo." 
"Quando?" 
"La prima volta la notte di Halloween." L’altra venne omessa. 
Con quei capelli verdastri sparati da tutte le parti, Namjoon sembrava un qualche genio all'opera mentre tentava di segnarsi tutto mentalmente. Si voltò verso gli unici ragazzi che ancora non avevano condiviso niente. 
"Hobi? Taehyung?" 
Il biondo aveva lo sguardo perso quando rispose meccanicamente: "Venerdì pomeriggio." 
"A me è successo subito dopo avervi incontrato per la prima volta, fuori dalla scuola." contribuì Hoseok. 
"Okay, escludiamo del tutto l'opzione cibo e bevande. Quella mattina non abbiamo consumato niente tutti insieme." affermò Namjoon.
Seokjin si rivolse al rosso. 
"Riesci a ricordare con precisione cosa può essere successo di insolito? Sei l'unico qui in mezzo che di sicuro non può averla presa prima di lunedì."
Hoseok si passò una mano tra i capelli. "Non saprei. Siamo arrivati in ritardo, mi sono presentato e poi voi siete andati a scuola. Non ci vedo nulla di strano."
Qualche secondo di scervellamento per tutti, poi Yoongi si ravvivò. Le sue labbra sottili si socchiusero prima di parlare. 
"Jungkook, quando hai detto che hai avuto il tuo primo malore?" 
"Da Cup's." 
"Con cosa hai fatto colazione?" 
"Non avevamo ancora cominciato a mangiare quando è successo, ne sono sicuro. Jimin era appena arrivato e noi stavamo aspettando lui per iniziare."
Namjoon interruppe l'interrogatorio. 
"Yoongi, è inutile. Abbiamo già detto che Hoseok non ha mangiato niente con noi." 
Il tono con cui rispose Yoongi era pacato, ma un retrogusto amaro fu percepibile da tutti.
"Sì, ma sia Jungkook che Hoseok hanno baciato Jimin." 
Nell'aria gelida della primissima mattina ci mancava soltanto un sussulto per drammatizzare la situazione. 
Jimin era intento a infilarsi le maniche del cappotto su per le braccia quando si sentì preso in causa. Le facce di Hoseok e di Jungkook mal celavano l'imbarazzo; lui si sistemò il colletto. 
"Non è possibile," disse, un sorrisetto buffo sul viso. "Non ho mica fatto il giro per baciare tutti quanti." 
Per una volta Yoongi era incredibilmente pratico. 
"Eppure la prima volta che io mi sono sentito male è stata mercoledì sera. E tu mi avevi appena baciato." 
La situazione stava degenerando.
Cinque su sette ragazzi erano passati dall'essere confusi e spaventati a ridersela sotto i baffi. Se una ciotola di popcorn fosse apparsa dal niente, Taehyung e Jungkook si sarebbero messi da parte per assistere alla scena. Divertente come venissero fuori le cose quando uno era troppo distratto per tenerne gli altri all'oscuro. 
Persino Namjoon si dovette sforzare per mantenere una facciata seria. "Non puoi essere serio, dai. E poi io non ho baciato Jimin. Che io sappia." 
Folgorato da un'idea, Seokjin tornò a puntare il dito, questa volta verso la sua dolce metà. 
"Ma hai baciato me. Io mercoledì ho bevuto la birra di Jimin direttamente dalla bottiglia!" 
Il ragazzo dai capelli argentei corrucciò le sopracciglia. 
"Una cosa trasmissibile per saliva, quindi? Torniamo alla teoria del virus?" chiese Taehyung. "Spiegherebbe anche il mio caso." 
Hoseok cercò di tirare le fila. "Se è vero anche Jimin deve averla presa da qualcuno." 
"Sì, buona fortuna a trovare il colpevole, allora." 
Il commento scappò a Yoongi prima ancora che avesse finito di pensarlo. L'occhiata ostile di Jimin non servì; non appena aveva chiuso quella sua boccaccia il moro aveva serrato gli occhi, maledicendosi. 
Il tono del ragazzo dai capelli argentei non poté che essere sulla difensiva. "Da quello che state dicendo il dolore dovrebbe essere immediato, ma l'ultima volta che quella sera ho baciato qualcuno risaliva ad ore prima." 
Jimin si sentì in dovere di continuare. Sapeva che gli altri si fidavano di lui, ma non sembravano troppo convinti. D'altronde, non poteva non dargli ragione: per quanto lui potesse parlare in buona fede, non potevano sapere se e quanto avesse bevuto la settimana precedente.
"Ne sono sicuro, lo giuro. Sono arrivato all'Anathema da solo e sono stato per un po' ad un tavolo senza che succedesse niente. Mi sono sentito male dopo, in pista, quando ho-"
Preso dal gesticolare, la mano di Jimin si bloccò a mezz'aria, quando si ritrovò a imitare il gesto di portarsi qualcosa alla bocca. 
La mela. 
Aveva mangiato quella mela quando all'Anathema non c'era mai stata ombra di cibo. 
Jimin poté risentirne il sapore ambiguo, il modo in cui quel morso gli era caduto nello stomaco. 
Tirò fuori il cellulare. Jimin fece scorrere le varie schermate della home con l'indice, soffermandosi su una in particolare. Tra tutte le cose successe quella settimana quasi si era dimenticato di quella strana app; la cliccò, aspettando che si prendesse il suo tempo per aprirsi.
Già, si ricordava bene. Il logo era quello di una mela. 
Così come era successa la prima e unica volta a casa di Jungkook, il logo si fece più grande e si spostò verso la parte alta dello schermo. Comparve la stessa scritta. 
"Ragazzi," disse, gli occhi incollati allo schermo. "qualcuno con internet alla mano." 
Hoseok fu il più veloce a tirar fuori il cellulare di tasca, il motore di ricerca già aperto e i pollici pronti a scrivere. 
Jimin dettò: "Cerca: D, L, entrambe maiuscole. Tre; otto; nove; due; zero.
La luce della schermata bianca si rifletté sul viso di Hoseok quando si caricarono i risultati. Il ragazzo lesse ad alta voce, sei paia di occhi tutti su di lui. 
"Qui mi apre un profilo. Daront Lloyd, trentasette anni. Nato in Europa." 
Lo sguardo di Jimin saettò dal cellulare tra le mani di Hoseok al viso di quest’ultimo. 
"Daront?" ripeté, la voce più alta di un'ottava. 
Il rosso annuì. Chiese se dovesse leggere anche le ricerche correlate. 
Fu in quel momento che il cellulare di Jimin gli vibrò in mano. Il ragazzo fissò lo schermo con occhi grandi: la misteriosa app sembrava essersi sbloccata senza che lui cliccasse niente. Su di uno sfondo nero comparve una nuvoletta di dialogo, come quelle delle chat. All'interno non c'era un testo scritto, ma il codice di un file. Jimin lo scaricò subito, senza pensare ad eventuali virus.
Impallidì quando un'immagine gli si aprì davanti agli occhi.
Jimin si voltò di scatto, dando le spalle agli altri ragazzi. Scrutando lungo le alte pareti dell'Anathema, non ci volle molto per trovare l'unica finestrella, appartenente all'ufficio di Daront. La luce da dentro era accesa, un'ombra si muoveva dietro la tenda. 
Dato che il loro amico non si decideva a parlare, Jungkook gli prese il cellulare di mano per darci un'occhiata, subito accerchiato dagli altri. 
Una fotografia un po' sgranata li ritraeva tutti insieme. Il punto di vista molto alto catturava benissimo la forma del cerchio in cui si erano disposti e i tettucci delle auto parcheggiate intorno a loro. Non potevano sapere su che stanza desse quella finestra, ma seguirono comunque lo sguardo di Jimin. 
Quest'ultimo riprese il suo cellulare. Si incamminò spedito verso la stessa porta da cui era uscito poco prima, una fiamma nello sguardo scuro.
"Venite con me. Credo di sapere a chi dobbiamo rivolgerci adesso." 

Il segretario di Daront fu costretto ad abbandonare la propria tazza di caffè sulla scrivania del suo minuscolo ufficio quando si vide arrivare quel gruppo di adolescenti incontro. 
Se si fosse messo a contarli avrebbe realizzato che erano solo in sette, ma gli spazi dell'Anathema erano stretti. La metà di loro aveva il naso per aria, gli occhi che guardavano lo spazio circostante con la stessa curiosità di un bambino in gita scolastica. 
Il segretario balzò su dalla sua sedia e si precipitò fuori dalla stanzetta. Si posizionò al centro del corridoio con le braccia aperte, come se la cosa avesse fisicamente potuto fermare il gruppo dal passare oltre. 
"Questa zona dell'edificio è riservata allo staff del locale." abbaiò, isterico. Non amava proprio certi tipi di imprevisti. 
"Ho bisogno di vedere Daront." 
Il giovane uomo si stupì nel riconoscere quella voce. Jimin era proprio di fronte a lui, irruente come al solito. Il ballerino era di turno quella notte, come si poteva ben vedere da abbigliamento e trucco, ma quello non spiegava la presenza degli altri sei adolescenti. 
"Non dovresti essere in sala a fare il tuo lavoro?" 
"Sono in pausa, posso fare quello che voglio." 
Il segretario arruffò una mano contro il petto: si sentiva nudo senza l'onnipresente cartellina sottobraccio. 
"Daront è nel suo ufficio. Hai una ragione valida per disturbarlo?" 
"Sta aspettando una risposta per una proposta di lavoro." mentì Jimin. 
Il segretario lanciò a tutti loro un'occhiata diffidente. Si appoggiò alla parete rivestita dalla moquette con una mano, rendendo ben chiaro il concetto.
"Puoi passare," disse, il tono di voce piatto. Non gli piaceva mai darla vinta a Jimin. "ma l'allegra combriccola si può accomodare nella sala d'aspetto." 
"Non sono giornalisti e nemmeno ispettori. Non c'è bisogno di metterli nell'unica stanza videosorvegliata."
"O quella o lasciano l'edificio, Jimin. Non vogliamo problemi qui." 
Il ragazzo dai capelli argentei sospirò. Fece un gesto eloquente ai suoi amici, voltandosi verso di loro. 
I ragazzi non protestarono. Jimin li guardò seguire il segretario lungo una parte del corridoio e fin dentro una stanzetta lì vicino. Era un po' angusta, specialmente perché una sfilza di scatoloni e abiti di scena ne occupavano un terzo, ma c'erano comunque una pila di sedie e un distributore d'acqua. Oltre alle telecamere che spiccavano nere contro le pareti bianche. 
Il segretario era sul punto di chiudersi la porta dietro quando Yoongi ne trattenne la maniglia. 
"Neanche uno solo può andare con Jimin?" 
L'altro chiuse la porta con uno strattone.
Nella stanzetta calò il silenzio.
Namjoon e Hoseok si misero a sedere mentre gli altri curiosavano tra i costumi e gli oggetti di scena più svariati. Erano tutti ancora impegnati ad elaborare quello che avevano constatato insieme, ma era difficile. Anzi, più che difficile era incredibile, nel senso letterale del termine. 
Ognuno moriva dalla voglia di confrontarsi con gli altri riguardo gli incubi avuti, ma nessuno di loro si voleva sbottonare più di tanto per il momento. Forse più avanti, quando certi timori si sarebbero risolti e sarebbero diventati ricordi. 
Fu la domanda di Jungkook a tirare fuori tutti quanti dalle proprie teste.
"Com'è che tu non hai avuto bisogno di un passaggio per venire all'Anathema, Yoongi?" 

(65) November 8th, 2015 - Sunday

Jimin non bussò quando si ritrovò davanti la porta dell'ufficio di Daront. 
Spinse la maniglia verso il basso ed entrò, dirigendosi subito all'unica finestra della stanza. Scostò le tende giallognole per guardare fuori; la fotografia era stata scattata proprio da lì. 
Solo dopo Jimin si degnò di voltarsi verso i due uomini seduti alla scrivania. Com'era prevedibile data la sua entrata in scena, il signor Daront e l'uomo che pochi giorni prima si era presentato come il fratello di quest'ultimo lo stavano fissando. Erano seduti a lati opposti della scrivania, fronteggiandosi. Non sembravano star facendo niente di particolare per intrattenersi. Forse gli bastava quella bottiglia di vodka aperta e un mazzo di carte. 
A differenza sua, loro potevano ben vederlo in viso. Le luci della stanza erano quasi tutte spente; la risorsa di luce maggiore proveniva dalle schermate che ricoprivano la parete della scrivania. Jimin non perse tempo ad analizzare ogni singolo video che queste proiettavano, ma bastò un'occhiata per distinguere in quali si stava svolgendo la serata evento dell'Anathema e in quali ci fossero i suoi amici.
Dopo aver passato il fine settimana ad evitare il suo datore di lavoro, Jimin si sarebbe dovuto sentire un minimo minacciato, ma in quel momento non era così. Era lì per avere spiegazioni e non se ne sarebbe andato senza. 
Se ci stava vedendo giusto, se davvero quei due avevano a che fare con quella storia assurda, allora non l'avrebbero passata liscia.
L'espressione tuonante di Jimin venne ricambiata con un sorriso entusiasta da parte del Daront che non conosceva. 
"Oh, finalmente sei qui. Pensavo che saresti rimasto a chiacchierare con i tuoi amici per tutta la notte." 
Era una presa in giro? Quel tono genuinamente allegro era un cazzotto ai nervi. Il ragazzo non ebbe paura di guardarlo dritto negli occhi limpidi.
"Lloyd Daront?" chiese.
"In persona." 
Tutto contento, con il suo giubbotto ed il cappello dai colori della bandiera giamaicana, quest'ultimo rimase seduto, limitandosi ad allungare una mano verso Jimin. "Molto piacere. Sono il fratello di Patrick."
Un cenno del capo di Lloyd fu sufficiente per spostare l'attenzione sull'uomo alle proprie spalle. Daront, Patrick Daront, si ritrovò a ricambiare lo sguardo più bruciante che Jimin gli avesse mai rivolto con uno annoiato. Al sicuro dall'altra parte della scrivania, giocherellava con il portacenere sporco. 
La mano di Lloyd venne ignorata. 
Jimin ci vedeva rosso. Non gliene poteva fregare di meno delle buone maniere, del rispetto che doveva portare agli adulti. Tutto l'astio che aveva in corpo si riflesse nella sua voce; nemmeno quando aveva litigato con Yoongi gli era uscita così dura.
"Voglio delle spiegazioni." 
Deluso, Lloyd ritirò la mano. Il ragazzo gli stava troppo in simpatia per compatirlo. 
"Calmati, biscottino. Non c'è niente di cui ti devi preoccupare."
Col cavolo che Jimin si calmava. 
"Che roba c'era in quella mela? Non sto scherzando, se mi avete drogato vi denuncio alla polizia." Gli occhi scuri di Jimin tornarono a balzare su Patrick, un dito accusatore e la voce instabile tanta la rabbia. "Questa è la volta buona che ti faccio chiudere l'Anathema, Daront, lo giuro." 
Era da quando era iniziata quella storia che Patrick si era detto che, quando sarebbe arrivato il momento, avrebbe lasciato tutte le spiegazioni al fratello, ma non ce la fece; la bocca gli si aprì da sola, bisognosa di difendere lui ed il suo regno. Tramutare i sensi di colpa in rabbia era incredibilmente facile.
"Nessuno ti ha torto un capello, ragazzino. Non c'è bisogno di scaldarsi tanto." 
"Perché mi hai drogato?" 
"Io non-" 
Vedere il fratello maggiore in difficoltà era uno spettacolo per Lloyd. Lo era stato da quando aveva capito che la scelta del candidato per il suo esperimento non gli andava completamente a genio e lo era ancora. Ma un po' gli faceva pena. 
L'attrazione di Patrick per Jimin faceva parte di un mondo troppo contorto in cui lui non si voleva addentrare neanche con il pensiero, ma di certo non si era aspettato di vederlo così vulnerabile. Lo era persino più di quanto non lo fosse stato quella volta in cui aveva trovato Jimin a terra nella sala prove.
Effettivamente, Patrick glielo aveva chiesto più volte prima di accettare il patto: niente danni collaterali per Park Jimin. 
O forse, a giudicare dall'aria bastonata, i danni collaterali che non voleva riguardavano il suo rapporto con il giovane. Era chiaro come il sole che non gli piacesse l'idea di essere odiato sinceramente da lui. Di sicuro non credeva di stargli simpatico prima, ma questa era tutt'altra cosa. 
Lloyd conosceva persone che se lo sarebbero letti volentieri un libro così, ma non lui e non in quel momento. Parlò, spezzando lo sguardo che scorreva tra i due. 
"Prima di tutto, non è una droga. Secondo, è roba mia, grazie. Non pensavo che ti avessimo stordito al punto da non ricordarti nemmeno questo." 
Allora Jimin aveva ragione a credere di avere dei vuoti di memoria. Non stava impazzendo. 
"Cosa dovrei ricordare, esattamente?" 
"I nostri incontri qui, le tue testimonianze..."
"Testimonianze su cosa?"
Lloyd girò la poltroncina su cui era seduto. Se avesse continuato a parlare a Jimin in quella posizione si sarebbe fatto venire il torcicollo. Si schiarì la gola prima di cominciare a spiegare, come se usare le sue tecniche da venditore potesse persuadere Jimin a calmarsi.
"Puoi considerarlo un esperimento a tutti gli effetti. Ti abbiamo somministrato una sostanza, che non è una droga, e ti abbiamo tenuto d'occhio, tutto qui. Tu ed i tuoi amici avete avuto qualche acciacco, fatto un paio di brutti sogni, ma state tutti benone, no?"
"No." esclamò il ragazzo. "Non erano semplici sogni, erano delle visioni, delle cavolo di allucinazioni. E' come esserci dentro, come viverle. Potevate traumatizzare qualcuno, se non lo avete già fatto." 
Quel tono aggressivo non smosse Lloyd di una virgola. 
"Le visioni non mostrano niente più di quel che uno ha già nella testa. Se uno di voi si fosse buttato giù da un palazzo vuol dire che covava già pensieri suicidi." 
"Sarebbe stata comunque colpa vostra. Un pensiero non equivale ad un'azione." 
La voce di Jimin si abbassò, ma non per questo suonò meno pericolosa. 
"E se fosse successo davvero?" chiese. "Chi si sarebbe preso la responsabilità se avessi infettato la persona sbagliata? Come avevate intenzione di intervenire, se ce l'avevate?" 
"A dirla tutta non ci aspettavamo che fosse trasmissibile con la saliva. E' stata una sorpresa anche per noi." 
"Beh, almeno adesso sapete per tempo che in tribunale non vedrete solo me." 
Lloyd non perse il suo sorriso quando si fece sinceramente stupito. 
"In tribunale? Per cosa?" 
Lo prendeva in giro. Doveva starlo prendendo in giro. Jimin si rifiutava di credere che non ci arrivasse davvero. Se continuavano così avrebbe avuto un esaurimento nervoso.
"Per averci somministrato stupefacenti contro la nostra volontà, forse?
Un'esclamazione lasciò la bocca di Lloyd, come se avesse capito solo in quel momento cosa intendeva l'altro. 
"Jimin, oltre al fatto che non avete prove, tu eri consenziente. Abbiamo dei documenti cartacei e anche un paio di video che lo confermano." 
"Stai bleffando." 
Alla risposta repentina di Jimin, le schermate sulle pareti cambiarono. Patrick Daront aveva ancora la mano sul mouse.
La discoteca sparì. Comparvero decine di Park Jimin, tutti seduti tranquilli nella poltroncina attualmente occupata da Lloyd. Dovevano trattarsi di vari spezzettoni di uno stesso video, perché in ogni rettangolo il ragazzo sembrava parlare di qualcosa di diverso, le bocche non in sincrono e le voci che si sovrastavano. A parte quei pochi che lo avevano catturato mentre firmava delle carte che non aveva mai visto in vita sua, tutti gli altri erano accomunati dalla stessa postura innaturalmente composta e lo sguardo perso nel vuoto. 
Jimin ebbe la sua conferma: nel video indossava proprio gli abiti usati mercoledì. Le unghie gli si conficcarono nel palmo della mano.
"Spiegherò anche questo alla polizia. Non ero in grado di intendere e di volere." 
Sopra quel coro di interviste la voce di Patrick suonò così profonda da stonare. L'uomo non staccò gli occhi dagli schermi. 
"Jimin, sii concreto." disse, ragionevole. "Vuoi andare dalla polizia e dirgli cosa? Che due uomini cattivi ti hanno fatto mangiare una mela avvelenata? Che tu e i tuoi amichetti non avete fatto sogni? Non dimenticarti di raccontare la parte in cui gli hai passato la maledizione con un bacio." 
Jimin guardò il suo capo con tutto il disprezzo di cui era capace. La luce degli schermi lo dipingeva in modo grottesco. 
"Posso farmi anche tutto il corpo di polizia se questo li aiuterà a credermi."  
Lloyd si lasciò scappare una risata. Il ragazzo era divertente. 
"Mi dispiace informarti che il tempo dei baci è scaduto, rubacuori." quasi cantilenò. "L'effetto della mela durava una settimana precisa. Hai perso i tuoi superpoteri esattamente alle due di questa notte." 
Un'altra domanda.
"E quell'app che mi sono ritrovato nel cellulare?" 
"E' un localizzatore GPS." 
"Ah." 
Per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, Jimin non trovò le parole per ribattere. Che dire, lo avevano messo con le spalle al muro. Se l'erano pensata bene la faccenda prima di metterla in pratica. 
Continuava a pensare a vie d'uscita, scappatoie, cose che non aveva valutato, eventuali prove lasciate in giro, ma la sua mente era un buco nero. Non era in possesso di niente che potesse provare che tutto quello era successo davvero. Perfino rubare quei file video non sarebbero servito.
Jimin si ritrovò a scuotere la testa, i capelli argentati che gli dondolavano sulla fronte. 
"Non potete farla franca così. Non è giusto." 
Abituato ad approcciarsi ai bambini, Lloyd avrebbe fatto un paio di carezze al capo del ragazzo. Non lo fece solo perché sapeva che rischiava di perdere un braccio. 
Gli faceva un po' pena, poverino. 
"Se ti può sollevare il morale l'esperimento non ha dato i risultati sperati. Abbiamo ancora tanto cose da perfezionare." 
Il ragazzo sbuffò. Bella consolazione. 
Sarà stato il fatto che con quell'aria avvilita Jimin assomigliava più alla persona a cui era abituato, ma Patrick ritrovò un po' di arroganza con cui farsi avanti. 
"Senti, è una cosa più grande di te. Non puoi semplicemente metterti in mezzo e pensare di fermarla sul nascere. Lascia perdere e fingi che tutto questo non sia mai successo." 
L'altro non lo guardò nemmeno negli occhi. 
A Patrick bruciò da morire. 
"Cos'è che ti turba tanto, esattamente? Ti senti violato? Te l'abbiamo già detto, non è successo niente che non sarebbe accaduto senza il nostro intervento." 
Niente. 
"E anche se fosse non mi risulta che ti sia andata tanto male a giudicare da quello che abbiamo visto." 
La luce nella stanza cambiò di nuovo. Con un paio di click, Patrick tornò a collegare la schermata con le telecamere sparse per il suo locale. Jimin alzò lo sguardo verso la parete luminosa, cercando i suoi amici. 
Non poteva sentire la conversazione in corso nella stanzetta in cui erano stati praticamente rinchiusi, ma poteva immaginarne il chiasso. Doveva star succedendo qualcosa: tutti continuavano ad abbracciarsi, incapaci di star fermi. C'erano troppi sorrisi, troppa agitazione.
Più gli occhi di Jimin rimanevano posati sul quelle immagini, più il peso che aveva sul petto si alleggeriva.
Poco a poco, ma si alleggeriva.

(66) November 8th, 2015 - Sunday

"Io e Jimin ci siamo messi insieme." 
Yoongi non seppe in che reazione stesse sperando finché non la ricevette. 
Seokjin e le sue spalle enormi quasi lo sollevarono da terra, in un abbraccio così stretto da fermargli la circolazione del sangue. Un sorriso incredulo andava in crescendo sul viso di Namjoon a giudicare dalle fossette sempre più profonde. Jungkook rideva e sparava domande a raffica su come, quando e dove fosse successo. 
Yoongi provò il terrore vero quando, ancora appeso alle spalle del più grande del gruppo, vide Taehyung avvicinarsi con un sorrisetto gongolante. Il biondo non avrebbe perso l'occasione di rimpinzare un po' di affetto nel moro finché era placcato; lo strinse da dietro, abbracciando anche Seokjin.
Nel giro di dieci secondi Yoongi si mise a sparare cattiverie nei confronti dei ragazzi che lo stavano impaninando, ma i due non demordevano. Provò pure a chiedere aiuto ad Hoseok, ma il rosso se la stava ridendo.
Avrebbe dovuto saperlo che c'era solo un modo per liberarsi di quel supplizio: il chiodo-scaccia-chiodo.
Involontariamente, fu comunque Hoseok a salvarlo. 
"E quello?" strillò, di punto in bianco. Più o meno tutti si voltarono verso di lui, zittiti. I suoi occhi erano così grandi che ci si sarebbe potuto giocare a ping-pong. 
Quando capì dove puntava lo sguardo dell'altro, Seokjin impallidì. 
Cercò di nascondere la mano, ma Taehyung fu più veloce. Risparmiando un ceffone a Yoongi per un pelo, gliela afferrò stretta tra le sue e la sollevò, così da poterla vedere. Yoongi ne approfittò per sgattaiolare via, ripristinando la sfera del suo spazio personale. 
La voce profonda di Taehyung fu poco più di un sussurro. 
"C'è disegnato un anello..." 
La realizzazione colpì, stravolgendo l'espressione del biondo. Seokjin si vide costretto a scegliere quale orecchio salvare dalla sordità con l'unica mano disponibile in quel momento.
"E' UN ANELLO!" 
Il boato che esplose avrebbe potuto tirar giù l'Anathema. 
Chiunque non fosse Seokjin o Namjoon si mise ad urlare; i due vennero accerchiati e tempestati di domande. Gli altri facevano tanto baccano che anche quando provarono a spiegarsi non li sentì nessuno. Parole e discorsi erano da rinviare a data da destinarsi.
Yoongi si teneva le mani tra i capelli; aveva addosso un sorriso atipico e si sentiva vagamente fuori di testa. Continuava a chiedere cosa significasse tutto quello anche se non c'erano molti modi per fraintendere la situazione.
Namjoon era andato a rifugiarsi sulla spalla di Hoseok. Sovrastato fisicamente, quest'ultimo non faceva altro che ridere e accarezzargli la schiena. Non finse nemmeno di volersi trattenere dal piangere e Seokjin lo seguì a ruota. Con Jungkook appeso al collo, il ragazzo dai capelli rosacei era paonazzo.
Taehyung non aveva mollato la presa sulla mano di Seokjin neanche per sbaglio. Aveva incrociato le dita con le sue e se ne premeva le nocche contro la guancia morbida, gli occhi chiusi. Quel sorriso dolce che gli piegava le labbra venne attraversato da una lacrima salata che lui leccò via. 

(67) November 8th, 2015 - Sunday

Ancora in piedi nell'ufficio di Daront, c'era solo una cosa su cui Jimin aveva potere.
"Mi licenzio." 
L'espressione di Patrick Daront fu impagabile.
L'uomo scattò in piedi, già sulla via di aggirare la scrivania per raggiungere il ragazzo.
"Questo non ha niente a che fare con il tuo lavor-" 
Jimin alzò entrambe le mani in avanti. L'uomo non doveva osare avvicinarglisi. Un pizzico della rabbia con cui si era presentato lì era tornata in lui, incitandolo a compiere quell'ultimo passo. 
"Non voglio essere qui quando vi servirà un'altra cavia." 
Jimin si costrinse ad inghiottire il rimorso che subito gli salì in gola. Spinse le sue parole in avanti, verso la direzione che sapeva essere giusta.
"Per la parte burocratica fammi contattare dal tuo segretario. Non voglio avere più niente a che fare con te." 
Jimin non seppe da quando aveva smesso di dare del lei al suo capo, ma la cosa non aveva più importanza. Senza congedarsi, il ragazzo girò sui talloni e imboccò la porta. 
Patrick rimase in piedi in mezzo al suo ufficio, i pugni chiusi. 
Lloyd scoppiò in una risata fragorosa. 

(68) November 8th, 2015 - Sunday
 
Jimin già sorrideva mentre percorreva il corridoio che lo separava dai suoi amici. I loro schiamazzi erano udibili anche con la musica delle sale che rimbombava fin lì. Una volta raggiunta la stanzetta ne aprì la porta, curioso di sapere cosa stesse succedendo.
"Ehi, cosa avete da esultare tant-" 
"SEOKJIN E NAM SONO PROMESSI SPOSI!"
L'urlo di gola di Taehyung fece sussultare Jimin; per un attimo valutò l'idea di tornare quando le acque si fossero calmate. Poi il cervello assorbì il significato di quelle parole. 
La mascella gli cadde, molto poco elegantemente. 
Ancora sullo stipite si mise a guardare uno per uno tutti i suoi amici, cercando la verità. "Se questo è uno scherzo farete bene a dirmelo subito." 
Ricevette in cambio solo espressioni felici.
Anche se gli avessero detto che era uno scherzo, Jimin non ci avrebbe creduto. Lo si vedeva dalla luce negli occhi di Seokjin che non lo era. Era scritto nel sorriso indelebile di Namjoon. Era immortalato tra gli spazi vuoti delle loro mani, unite. 
Al ragazzo dai capelli rosati bastò annuire con il mento per innestare le gambe di Jimin nella modalità corsa. Quest'ultimo si buttò sulla coppia, appendendosi con le braccia al collo di entrambi. Li strinse forte insieme, incredulo, letteralmente incredulo, ma così contento.  
Tempo dieci secondi (abbastanza per far piangere di nuovo Seokjin) che un paio di braccia forzute lo strapparono via dai due. Stretto da dietro, Jimin venne sballottolato per tutta la stanza, i piedi che non toccavano terra. Ebbe modo di riconoscere la voce di Jungkook. 
"Dovresti evitare di saltare addosso a uomini già impegnati. I tuoi giorni da scapolo sono finiti." 
L'atmosfera era così gioiosa, a Jimin girava la testa. Non venne rimesso sulle sue gambe fino a quando non si trovò di fianco a Yoongi. 
Il sorriso che quest'ultimo gli rivolse era disarmante. Jimin quasi non sentì quello che Jungkook gli disse quando poggiò le labbra contro il suo orecchio. 
"Sii felice, Jimin. Te lo meriti." 
Era stato un sussurro, un soffio diretto al suo timpano. 
Jimin fece per voltarsi verso Jungkook, desideroso di vedere in faccia l'amico. Aveva bisogno di sapere con che espressione gli stesse parlando per dare il giusto senso a quelle parole. E voleva dirgli che anche lui si meritava di essere felice, ma Jungkook fu più veloce e sgattaiolò via. 
Jimin cercò contatto visivo con lui, ma così facendo si rese soltanto conto del fatto che chiunque in quella stanza fissava lui e Yoongi con aria di aspettativa. 
"Che c'è?" chiese all'indirizzo di tutti. Forse non aveva ancora capito l'antifona della situazione.
Ci pensò Namjoon a chiarirgli le idee, come sempre. Il ragazzo dai capelli verdastri stava circondando il fidanzato con un braccio, altrimenti si sarebbe messo a braccia conserte.
"Sono tre anni che aspetto questo giorno. Se non vedo non credo." 
"Guarda che solo ai matrimoni si possono richiedere effusioni. Aspetta il tuo."
Jimin non finì neanche di parlare. Sapeva che le labbra di Yoongi erano già sulle sue. Il moro aveva fatto un solo passo in avanti, le mani sui suoi fianchi. 
Tra le ovazione esagerate degli altri, i due si separarono dopo un semplice bacio a stampo. 
Rimasti con i visi vicini, Jimin notò la sfumatura viola del proprio rossetto sulla bocca del suo ragazzo. Prese a strofinarla via con il pollice, incapace di smettere di ridere. 
Con l'espressione beata di chi può affondare i denti in una pagnotta calda dopo aver patito la fame, Yoongi tornò a sporgersi in avanti, baciandolo ancora. 
Erano a tanto così da far entrare la lingua in gioco quando Taehyung lanciò loro un cappello a cilindro, trovato probabilmente nello scatolone dei costumi per il burlesque.
Yoongi glielo tirò indietro. A quanto pare il biondo non aveva il diritto di protestare fino a quando suo cugino avesse continuato ad abbracciarlo da dietro, quasi cullandolo. 
Nessuno dei sette ragazzi si capacitava di quell'atmosfera così spensierata da essere surreale. I loro problemi erano sempre in agguato, rintanati in un angolo buio, ma l'euforia che bruciava dentro tutti loro illuminava ogni cosa. 
Quella notte Jimin si dimenticò di riferire quello che era successo nell'ufficio di Daront e nessuno glielo ricordò.


SPAZIO AUTRICE:
Il prossimo capitolo sarà l'epilogo. Piango. Soffro. Sto male. 

Il mio twitter: https://twitter.com/silbysilby?lang=it


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Capitolo 11
*** SPRING DAY ***


Pronti all'epilogo? Io no.



You know it all
You’re my best friend
Morning will come again
Because no darkness and no season
Is eternal 

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SPRING DAY 


(69) August 25th, 2016 - Thursday

Namjoon aveva quasi freddo alle braccia con tutta l'aria condizionata che c'era all'aeroporto. Quando quella mattina aveva scelto cosa mettersi aveva pensato che l'unico problema di indossare una delle sue maglie smanicate fossero i tatuaggi in bella vista, non la temperatura; dopotutto, era ancora estate. Aveva chiesto a Seokjin se non avesse freddo anche lui, ma il fidanzato era troppo impegnato a non lasciarsi andare ad un pianto isterico per considerarlo. 
L'aeroporto era immenso e pieno di luce. Pur di dare un bacio d'addio ad ogni passeggero che se ne andava anche i raggi del sole attraversavano le grandi vetrate. 
L'atmosfera estiva cozzava tremendamente con il morale dei sette ragazzi. Tutti loro avevano stampato in viso un sorriso incoraggiante, ma era evidente che sarebbe ceduto alla prima occasione.
Il primo blocco di controlli era ad una ventina di metri da loro. Le valigie di Jungkook erano state appoggiate a terra per dargli occasione di salutare i suoi amici senza intralci. 
La settimana appena conclusa era stata uno strazio, ma non in senso negativo. C'erano stati innumerevoli discorsi e ancora più innumerevoli abbracci. Più o meno tutti i ragazzi del gruppo si erano ritagliati un momento privato con il castano, ma a quanto pareva non erano bastati. Pensavano di essersi già lasciati le lacrime alle spalle, che quello sarebbe stato un arrivederci veloce e sereno, ma ovviamente non poteva essere così.
Persino i genitori di Jungkook si erano limitati a salutarlo a casa, senza accompagnarlo all'aeroporto. Sapevano bene che il figlio era una persona molto più estroversa quando stava con gli amici e volevano che li salutasse senza sentirsi in alcun modo imbarazzato dalla loro presenza. 
Seokjin ingolfò Jungkook in uno dei suoi abbracci: rischiava di soffocarlo tanto si premeva forte il suo viso contro il petto. L'altro lo lasciò fare, ma solo perché non aveva la forza di dimenarsi; il cuore gli si era incrinato a sentire così chiaramente i singhiozzi del più grande. 
Seokjin provò a dire qualcosa, ma ne uscì un mugolio sconnesso. 
"Se mi dici che questo è il nostro ultimo abbraccio non torno più dall'Europa." scherzò Jungkook, tentando di consolarlo. 
Il ragazzo dai capelli rosa diede un colpo di risata. Stritolò l'altro più forte prima di liberarlo del tutto, cedendo il posto agli altri.
Jimin diede al castano un veloce bacio a fior di labbra prima di accasciarsi con la testa sulla sua spalla. Jungkook gli avvolse la schiena e poggiò il capo sul suo, respirando a pieni polmoni quel profumo familiare. Avrebbe voluto scambiare qualche parola con lui, ringraziarlo per tutte quelle notti passate a confidarsi e di quelle poche in cui al posto di parlare era successo altro. In un qualche modo, Jimin lo aveva fatto crescere.
Jungkook stava per chinarsi verso l'orecchio dell'amico quando dagli altoparlanti una voce femminile fece proprio il suo nome. A quanto pare l'aereo su cui doveva salire era già ai posti di partenza; gli unici passeggeri a non essere ancora a bordo erano lui ed un altro paio di persone.
Momento di panico generale. 
Taehyung spintonò via Jimin senza tante cerimonie e si aggrappò al suo migliore amico. Jungkook avrebbe desiderato ricambiarne le attenzioni, ma nello stesso momento Namjoon si era avvicinato per scompigliargli i capelli, Hoseok gli stava dando qualche pacca sulle spalle e Yoongi stava mettendo fretta a tutti quanti. Il moro scansò la concorrenza per poter passare le valigie a Jungkook. Si prese anche lui un mezzo abbraccio prima di incitarlo a darsi una mossa. 
Afferrati i manici dei suoi trolley, Jungkook si incamminò a passo spedito verso la zona dei metal detector, il biglietto con il codice a barre alla mano.
Stava succedendo tutto troppo velocemente. Lo sapeva, sarebbero dovuti partire da casa almeno una ventina di minuti prima. Forse così avrebbe avuto il tempo di salutare tutti quanti come si deve. A malapena era riuscito a guardare i suoi amici negli occhi.
E non si erano fatti la foto di gruppo! Si erano ripromessi di farne una pre-partenza da affiancare a quella che avrebbero scattato quando sarebbe tornato. Dannazione.
Dormire quella notte era stato tutto tempo sprecato. Avrebbero fatto meglio a godersi quegli ultimi momenti tutti insieme a casa di Taehyung, con i loro bicchieri personali ed il volume della musica troppo alto. 
La fine della coda a cui si doveva allineare distava pochi metri. Un fiotto di rimpianto risalì il petto di Jungkook: avevano sbagliato proprio tutto, davvero. 
Il ragazzo avrebbe deglutito quel boccone amaro se un peso non gli fosse piombato da dietro sulle spalle. 
Un paio di braccia sottili gli stringevano troppo alla gola. Taehyung stava sprofondando il viso sul retro del suo collo, le guance umide. 
Jungkook mollò le valigie. Dovette aspettare che il suo migliore amico allentasse la presa per voltarsi verso di lui e ricambiare l'abbraccio con tutta la forza che aveva in corpo. Taehyung se lo tenne quanto più vicino possibile, il naso ora premuto nella piega del collo, una mano tra quei capelli scuri. 
Quella sua voce profonda stridette quando parlò, le parole camuffate dalla maglia di Jungkook.
"Mi chiami appena arrivi, vero?"
"Prima dei miei genitori."
Gli altoparlanti si fecero sentire una seconda volta.
Taehyung prese il viso di Jungkook fra le mani. Lo fece dondolare giocosamente a destra e a sinistra, come si fa con i musi dei cani. Un gran sorriso squadrato si aprì sul suo volto, la pelle chiazzata di rosa. 
A quella distanza così ravvicinata era impossibile non vedere come nuove lacrime andarono a formarsi nelle pieghe di quegli occhi grandi. Jungkook sentì i suoi farsi a loro volta lucidi, la stretta al petto che ormai era di casa più forte che mai.  
Il sospiro del biondo risultò tutto tremulo. Fissò il suo sguardo in quello del castano, serrandoli insieme. Le sue parole suonarono più come una promessa.
"Ti aspetto online. Qualsiasi chat di qualsiasi gioco." 
Jungkook annuì con il capo prima di farsi della violenza fisica e lasciare andare il suo migliore amico. 
Una volta abbandonate contro le proprie cosce, le mani di Taehyung si serrarono a pugno. A guardarlo si sarebbe detto che stare in piedi era un'attività difficile.
E lo era, eccome se lo era.
Taehyung sapeva che era solo un viaggio, un periodo limitato e ben definito, ma non riusciva a non guardare Jungkook come se fosse l'ultima volta. Guardava quella sua figura così familiare, quelle braccia che lo avevano avvolto tante volte, quel suo sguardo bambino che non aveva mai avuto occhi che per lui.
Jeon Jungkook, il suo migliore amico. 
Al suo ritorno, Taehyung sperò di essere diventato il migliore degli amici anche per lui. 
Per la seconda volta, Jungkook tornò a prendere i manici delle sue valigie. 
"Ciao, Tae." disse, la voce graffiata. 
Taehyung non riuscì a rispondere. Il suo sorriso fu un disastro. 
Asciugandosi entrambe le guance con il dorso delle mani, quest'ultimo tornò dal resto dei loro amici mentre Jungkook si metteva in coda. 
Per fortuna la fila procedette molto più velocemente del previsto e il ragazzo superò i controlli senza problemi. Da lì in poi non gli rimaneva che proseguire per l'unico, grosso corridoio e raggiungere il suo gate. 
I piedi di Jungkook si frenarono lì. 
Era fatta. Stava davvero partendo. Dopo tutto quel tempo passato a studiare, l'attesa del responso, i crolli emotivi e l'ansia, finalmente avrebbe visto l'Europa. Avrebbe passato un anno intero a parlare in inglese, farsi nuovi amici, scoprire nuove cose, respirare un'aria diversa. 
Sarebbe diventato grande.
E chissà quanto sarebbero diventati grandi i suoi amici in sua assenza.
Jungkook si voltò un'ultima volta, lo sguardo puntato lontano. 
Dall'altra parte di tutti i metal detector, oltre agli addetti ai controlli, oltre la vetrata che separava quella zona dal resto dell'aeroporto, poté vedere i sei ragazzi seguire i suoi movimenti con lo sguardo. Appena si resero conto di essere fissati a loro volta iniziarono tutti a sbracciarsi, come i casinisti che erano sempre stati. 
Jungkook inspirò profondamente prima di aprirsi nel sorriso più felice che gli riuscì. Preso dalla timidezza sollevò una mano a mezz'aria e la scosse, salutandoli con quel gesto semplice.   
Poi Jungkook prese le sue valigie e scomparve giù per il corridoio. 

(70) August 25th, 2016 - Thursday

Melanie tornò sgambettando dal suo giro d'ispezione, il vestitino che le svolazzava intorno ad ogni passo. 
"Hai ragione, zio, sono proprio loro!" 
La bambina si buttò sulle gambe di Lloyd Daront. L’uomo era seduto nell'area check-in, in una delle file di panchine ai lati. Tutt'intorno a lui era un via e vai di borse, borsoni, valigie, gente che doveva partire, gente che aspettava qualcuno. La sua presenza pimpante spiccava tra tutte quelle persone dall'aria stanca. 
A volte era proprio bello avere una figlioccia, anche se ancora non lo chiamava papà.
Lui e Melanie erano all'aeroporto da un quarto d'ora, in attesa che la madre di quest'ultima li raggiungesse. Nonostante non si trattasse poi di così tanto tempo, era dura distrarre un bambino senza essersi portati niente dietro. Il gruppo di ragazzi era capitato a fagiolo. 
Lloyd se li era visti sfilare davanti poco prima, tutti presi nel loro mondo di sorrisi malinconici e amicizia. Li aveva indicati a Melanie, chiedendole se si ricordasse di alcuni di loro.
Poi la cosa era stata matematica: lui era curioso, lei era annoiata.
L'uomo prese la bambina in braccio, sistemandole i capelli biondi dietro l'orecchio. 
"Allora, cosa hai visto?" 
"Il ragazzo con i capelli gialli sta piangendo su quello con la testa rossa" disse Melanie. 
"E poi?" 
"Quello che sembra una bambola piange peggio di lui." 
Lloyd corrucciò le sopracciglia. "Intendi Jimin?" 
"No, no. Jimin me lo ricordo. Quello con i capelli rosa." 
"E Jimin che faceva?" 
"Si teneva per mano con un altro. Ma non è strano che due maschi si tengano per mano, zio?" 
"Aveva i capelli neri l'altro?"
"Sì."
"Allora non è strano." Lloyd slacciò un bottone della sua camicia hawaiana con una mano sola, sovrappensiero. "In realtà non è strano in generale." 
La bambina fece il broncio con la boccuccia, cercando di assimilare questa nuova informazione. 
"Mancano due ragazzi all'appello." le fece notare Lloyd. 
"Quello con i tatuaggi distribuiva fazzoletti." 
"E quello castano? Con i capelli marroni?" 
Melanie assottigliò appena gli occhi, concentrandosi su quello che la sua memoria aveva incamerato. 
"Quali capelli marroni?" 

(71) August 25th, 2016 - Thursday

"Se la caverà senza di noi?"
La situazione era più grave del previsto. 
Seokjin non si era rallegrato neanche alla prospettiva di andare a pranzare in qualsiasi posto servissero della carne. Aveva fatto quella domanda con lo sguardo ancora puntato dove Jungkook li aveva salutati un minuto prima. 
Yoongi si lanciò un'occhiata intorno, vedendo come i suoi amici fossero ridotti uno peggio dell'altro. Non aveva visto tante lacrime tutte insieme da quando erano andati a vedere Your Name al cinema. 
E sarebbe stato il bugiardo del secolo se non avesse ammesso di sentire i propri occhi umidi.
Ma in fondo non c'era bisogno di piangere. Un anno era un arco di tempo relativamente breve, sarebbe passato in fretta. Jungkook sarebbe tornato più in fretta di quanto si aspettassero e avrebbe rotto le palle a tutti quanti con i suoi racconti sull'Europa. 
E poi non era come se non avessero niente da fare nell'attesa.
Dovevano aiutare Hoseok a inserirsi a scuola, metterlo in guardia da insegnanti e studenti. 
Tutti loro si sarebbero dovuti dare un bel da fare per gli esami che li aspettavano a fine anno e dovevano scegliere che corso di studi intraprendere dopo. 
Seokjin si sarebbe fatto nuovi amici all'università e di conseguenza Namjoon si sarebbe fatto tre volte più alto nella speranza di intimorire possibili corteggiatori. 
Quest'ultimo doveva anche dividersi tra lavoro e studio dopo che, quasi per caso, Taehyung era riuscito a trovare un part-time per entrambi. Sì, perfino il biondo aveva deciso che era arrivato il momento di darsi da fare, anche se non era spinto da motivi economici. 
Jimin sarebbe stato parecchio impegnato con tutti quei corsi di danza a cui si era iscritto, come se l'hip-hop e la danza contemporanea non gli bastassero. Yoongi aveva il suo bel da fare a scorrazzarlo avanti e indietro con la patente che aveva appena preso, ogni volta minacciandolo di presentargli il conto della benzina. D'altronde, si stava esercitando per entrare al conservatorio; non aveva tempo da perdere lui.
Sì, sarebbe stato un anno piuttosto intenso.
Yoongi si ritrovò a sorridere, tra sé e sé. Probabilmente nessuno sentì la sua risposta.
"Ce la caveremo noi senza di lui?" 

(72) August 19th, 2016 - friday

Quando il video partì, la fotocamera del cellulare era puntata sul pavimento. 
Per qualche secondo l'inquadratura rimase fissa sulle piastrelle di ceramica, il pallino rosso del REC come unica prova che non si trattasse di una fotografia.
Seokjin alzò il cellulare, rivelando una cucina disordinata. 
"Okay, ci siamo, sto girando. Dite tutti ciao a Kookie!" 
Dalle stanze vicine si sentirono un paio di urletti, ma niente che il microfono riuscisse a captare. 
Il ragazzo dai capelli rosa rivolse la fotocamera verso di sé, le guance paffute che gli sporsero quando sorrise. Iniziò a girare sul posto, il braccio libero tenuto alzato dietro di sé, come per mostrare all'obbiettivo il luogo in cui si trovava. Se Jungkook Del Futuro non si fosse già piegato in due per vomitare, in tutta quell'altalenante sequenza di muri e mobilia avrebbe distinto l'appartamento di Hoseok. 
Seokjin tornò a girare il cellulare verso l'esterno, riprendendo quello che aveva di fronte a lui. Aggiunse un: "Vediamo chi abbiamo qui.", come se la telecronaca fosse necessaria.
La sera si stava avvicinando, ma non c'era ancora bisogno di accendere le luci; i visi dei due ragazzi che erano all'opera attorno ai fornelli della cucina erano ben visibili. Seokjin fece un primo piano su Hoseok e sulla nuvola di vapore che gli arrossava le guance.
"Il padrone di casa." annunciò.
Hoseok terminò di scolare del riso nel lavandino prima di alzare lo sguardo. Sorrise subito, nonostante la fotocamera fosse fin troppo vicina al suo naso. Il suo amico avrebbe fatto meglio a non fare riprese strampalate.
"Sei venuto a controllare che la cena non vada a fuoco?" chiese. 
"Non sono io a controllare." si difese l'altro. "E' Jungkook Del Futuro. Lui ci tiene al mio intestino." 
"Non è vero!" urlò dal salotto una voce fuoricampo.
Senza distogliere la fotocamera da Hoseok, Seokjin si mise a urlare in risposta. Non pensò alle orecchie di cui avrebbe fatto strage ogni volta che quel video sarebbe stato visto.
"Zitto! Tu non ci dovresti neanche essere in questo momento!" 
Seokjin non era abbastanza vicino alla porta della cucina per vederlo, ma poteva immaginarsi benissimo il sorrisino impertinente che Jungkook sfoggiava in questi casi. Gli venne quasi da piangere.  
Una terza voce intervenne, molto più vicina.
"Stai davvero girando quel video per Jungkook? Con lui ancora presente?" chiese Yoongi, il tono scettico. "Aspetta almeno che parta prima di darti alle attività terapeutiche."
Il moro venne subito inquadrato. Era intento a sminuzzare delle verdure in tutta tranquillità, Hoseok di fianco a lui che gli dava indicazioni di tanto in tanto.
"Sono sicuro che se lo guarderà ogni volta che non riusciremo a vederci su skype." 
Dal salotto si sentì una risata. Seokjin si infervorò tutto.
"Ridi, ridi. Vedrai come mi ringrazierai! Non durerai due giorni senza di me!" 
"Se ci credi tu!"
 
Un angolo della bocca di Yoongi si rivolse verso l'alto.
Seokjin sospirò. Tornò a puntare il cellulare su Hoseok. 
"Tu che mi capisci," disse, l'aria esaurita. "intratteni Jungkook Del Futuro." 
Appoggiata la pentola del riso abbastanza lontana da non potercisi scottare per sbaglio, il rosso si mise a rovistare in una busta della spesa. Canticchiò una sigla tutta sua, facendo uno spettacolo del tirar fuori il suo nuovo acquisto. Seokjin si unì a lui con uno schiamazzo che voleva essere il suono di una tromba quando un bicchierone di plastica ne venne fuori. Aveva ancora il codice a barre appiccicato sulla fantasia a righe gialle. 
I due andarono avanti per un po' a fare versi e riprese spastiche. Yoongi doveva intervenire. Per la sua sanità mentale e quella di Jungkook Del Futuro.
Una minuscola porzione di kimchi venne piazzata davanti alla fotocamera, il piatto bianco che ne occupava interamente lo schermo. Yoongi si rivolse direttamente a Seokjin, dando un taglio a quel trambusto.
"Chiedi a Jimin se è buono." 
Perplesso, l'altro ne afferrò il bordo con la mano libera.
"Non posso assaggiarlo io?" 
"Portaglielo e basta." 
Tre secondi di silenzio, uno sguardo d'intesa tra Hoseok e Seokjin. 
Dovendo prendere un qualche ingrediente, Hoseok andò alle spalle di Yoongi. Una volta nascosto alla vista di quest'ultimo piegò le braccia a forma di cuore sulla testa, la faccia di chi la sa lunga rivolta direttamente alla fotocamera. Gli scappò una risata quando Seokjin fischiettò la classica marcia nuziale. 
Yoongi non alzò il capo, continuò a mescolare il kimchi. Gli bastò alzare il dito medio. 
Gli altri due risero ancora di più. Hoseok scrollò la spalla del moro, intenerito da quell'espressione imbarazzata che la fotocamera non riusciva a catturare.
Con il bordo del piatto sempre visibile dal cellulare, Seokjin uscì dalla cucina che ancora stava ridacchiando. Attraversò il salotto velocemente, riprendendo Jungkook solo di sfuggita. Si mise a sibilare un Jungkook Dal Futuro, Jungkook Dal Futuro, quasi si trattasse di un avvistamento alieno.
Il castano lo seguì con lo sguardo, confuso e divertito insieme. Se ne stava mezzo stravaccato sul divano con una pila di dvd tra le gambe, intento a scegliere il film da guardare dopo cena.
Passato oltre il corridoio, Seokjin sbucò in camera di Hoseok. Si mise a cantilenare il nome di Jimin ancor prima di vederlo.
Il ragazzo in questione rizzò la schiena, voltandosi verso di lui. Se ne stava in piedi in mezzo alla stanza arredata di tutto punto, un paio di guanti di lattice tirati sui polsi. Di fianco a lui, seduto composto su una sedia di legno rubata dalla cucina, Namjoon lanciò uno sguardo curioso al nuovo arrivato. 
A Seokjin venne da ridere, di nuovo. Se c'era qualcuno che si meritava un'occhiata curiosa quello non era certo lui. 
Con un asciugamano vecchio a circondargli le spalle e solo la canottiera addosso, i capelli del suo fidanzato erano stati arrotolati nella carta stagnola ciocca per ciocca. Sulla fronte aveva qualche schizzo di tinta, lo stesso colore che macchiava i guanti di Jimin. 
Seokjin porse in avanti la mini-porzione di kimchi. 
"Devo assaggiarlo io?" chiese il ragazzo dai capelli argento. Si sfilò i guanti e li  ripose in una busta già preparata da prima, attento a non sporcare niente.
"Ordini di Yoongi." 
Jimin prese il piatto di mano a Seokjin che poté abbassare il braccio. Fissò il kimchi per un attimo prima di notare una cosa. Uscì dalla camera di Hoseok a passo leggero, congedandosi con un: "Non ho le posate."
Seokjin si spostò di lato per farlo passare. Tornò a voltarsi verso Namjoon subito dopo, finalmente soli. Per niente al mondo avrebbe perso l'occasione di prendere il fidanzato un po' in giro. 
Era già pronto ad attaccare quando... venne attaccato. 
Non sapeva cosa avrebbe pensato Jungkook Del Futuro visionando quella parte del video. La ripresa fece un'impennata, accompagnata dal gemito strozzato di Seokjin.
Quest'ultimo traballò fino al bagno, una risata familiare che si univa a quel suo farfugliare accidenti. La fotocamera del cellulare venne puntata sul grosso specchio sopra il lavandino, smascherando Taehyung.
Tutto gongolante, il biondo se ne stava a cavalluccio sulla schiena di Seokjin, le braccia strette attorno al suo collo. Fece un sorrisone al riflesso dell'obbiettivo, agitandosi tutto.
"Kook!"
La solita voce giunse dal salotto.
"Eh?"
Taehyung si ripeté come niente fosse, lo stesso tono entusiasta di prima.
"Kook Del Futuro!" 
"Ah." 
Seokjin diede qualche pacca alle cosce di Taehyung, i bermuda che gli erano tutti saliti oltre le ginocchia. Quando l'altro gli scese di dosso lo mise subito con le spalle al muro, il cellulare inquisitore che lo riprendeva dritto in faccia.
"Non stavi studiando, tu?" 
Il sorriso del più piccolo si sgangherò. "Volevo vedere come stavano venendo i capelli di Namjoon." 
"Ti chiamo io quando ha finito. Fila a studiare."
Con un calcio giocoso ben piazzato sul fondoschiena, Taehyung venne rispedito in camera della madre di Hoseok. Si era segregato lì dentro di propria volontà un'oretta prima, sapendo che sarebbe stata l'unica area della casa in cui gli altri non si sarebbero azzardati ad entrare. Non era il massimo della comodità dato che non era munita di scrivania, ma almeno c'era silenzio. 
Seokjin aspettò giusto di vedere la porta chiudersi. Si girò di centottanta gradi, puntando di nuovo la camera di Hoseok. Dal modo in cui parlò si sarebbe detto che si stesse sfregando le mani insieme, un sorrisetto diabolico sulle labbra piene. 
"Ed ora..." 
La faccia arrendevole di Namjoon quando vide rientrare Seokjin e l'aggeggio infernale che teneva in mano fu immortalata per i posteri. Nel giro di dieci secondi  venne ripreso a destra e a sinistra, vicino e lontano, sopra e sotto, nello spot pubblicitario più frenetico di sempre. Dopo un po' decise semplicemente di stare al gioco, posando con le dita a forma di "L" sotto il mento.
Seokjin si stava divertendo un mondo.
"Com'è sexy il mio uomo con il look da nonnetta." commentò. Poi portò la sua mano chiusa alle labbra di Namjoon, a mo' di microfono. "Kim Namjoon, spieghi a Jungkook Del Futuro cosa sta facendo in questo momento." 
"Mi tingo i capelli." 
"Colore?" 
"Nero."
"E perché?" 
"Per fare il cameriere part-time."
Preso dal suo ruolo di intervistatore improvvisato, Seokjin finse di perdersi in mille esclamazioni e complimenti. Gli occhi di Namjoon si sollevarono appena, sorridenti. Era ovvio che stesse guardando il suo fidanzato in viso, ignorando la fotocamera davanti a lui.
Trovò una domanda da porgli a sua volta quando si rese conto di aver perso il filo del discorso. Seokjin stava dicendo che secondo lui sarebbe dovuto andare a lavoro direttamente con la stagnola in testa. Così sì che avrebbe attirato un po' di clienti. Le nonnette di sicuro.
"Sbaglio o anche tu hai una novità per Jungkook?" 
Seokjin si zittì per un attimo. 
"Io?" 
Namjoon si allungò verso il cellulare dell'altro, le clavicole che gli sporgevano da sotto la canottiera.
"Dammi qua."
Dopo un bel po' di tremolii, di dita e di mani, il ragazzo dai capelli rosacei comparve sullo schermo, ripreso dal basso.
Fu il turno di Namjoon di schiarirsi la gola. 
"Il nostro Kim Seokjin ha deciso di deludere mamma e papà e passare al lato oscuro." 
"Oscurissimo." commentò l'altro. Non lo dava a vedere, ma chi lo conosceva bene poteva dire che era un filino in soggezione. 
Namjoon lo incoraggiò. "Dai, faglielo vedere." 
Un ultimo sorriso da parte di Seokjin. Poi il ragazzo si voltò, dando la schiena all'obbiettivo. Sollevò la propria maglietta, scoprendosi un fianco. 
Sette, piccole rondini stilizzate erano state tatuate sulla sua pelle. Alcune erano più vicine, altre più lontane, ma facevano tutte parte di un unico stormo. Guardandole attraverso lo schermo, Namjoon non poté evitare di collegarle mentalmente tra di loro, come se si trattasse di una costellazione.
"Ormai è guarito." 
"Già."
Seokjin si contorse un po', cercando di vedere il tatuaggio con i propri occhi. Namjoon tornò a riprendere quel bel viso, ma la sua mano andò a sfiorare la pelle esposta. 
"Almeno a Jungkook lo vuoi svelare il significato profondo?" 
"I tatuaggi non si spiegano, lo dici sempre tu." 
Un touché venne mormorato. Namjoon non faceva certo fatica ad interpretare il disegno che l'altro si era fatto fare, è solo che gli sarebbe piaciuto farselo raccontare da lui.
Gli occhi dei due ragazzi dovevano essere rimasti ingarbugliati tra di loro un momento di troppo, perché Seokjin reclamò il suo cellulare. Nell'abbassare lo sguardo non poté evitare un'occhiata fugace all'anulare della mano sinistra. 
"Questo video sta durando un'eternità. Sarà meglio lasciarti alle tue cose, Kookie. Avrai sempre il tempo di riguardartelo e piangere dopo."
Preso per mano il fidanzato, Seokijn lo guidò fuori dalla camera da letto. Chiamò anche Taehyung a rapporto, bussando contro la sua porta con il gomito. Il trio interruppe le chiacchiere di Hoseok e Jungkook quando entrò in salotto, Namjoon che subito si unì a loro sul divano. Seokjin sapeva già dove cercare le persone mancanti.
Per sua fortuna il bancone della cucina separava Jimin e Yoongi. I due se ne stavano con i gomiti poggiati su di esso, tutti protesi l'uno verso l'altro. Conversavano, ma le loro parole erano così docili che non era possibile sentirle. 
Sollevando un paio di bacchette, Yoongi portò alla bocca di Jimin il kimchi di poco prima.
Quasi si spaventarono quando Seokjin attirò la loro attenzione.
"Ehi, voi due. Venite di là, dobbiamo salutare Jungkook." 
Il ragazzo non li aspettò. Tornò subito in salotto dove iniziò a cercare il punto perfetto da cui fare quell'ultima ripresa. Quando lo trovò i due morosi erano già andati a sedersi ai loro posti.
Far rientrare tutti e sette i ragazzi nel piccolo schermo era più difficile di quanto si pensasse. Seokjin se ne stava il più lontano possibile dal divano nel tentativo di rimpicciolire i suoi amici. Per quanto tenesse iperteso il braccio che sosteneva il cellulare, dovette tagliarsi via metà viso per lasciare spazio a loro.
Alle sue spalle, i suoi amici sembravano una squadra sportiva in posa per la foto dell'annuario, solo meno composti: Hoseok, Jungkook e Namjoon erano rimasti sul divano, mentre Yoongi, Taehyung e Jimin si erano seduti a terra, in seconda fila. 
Seokjin guardava dritto nell'obbiettivo del cellulare, ma le sue parole erano tutte rivolte a quel ragazzo castano sullo sfondo.
"Allora, Jungkook." iniziò. "Mi raccomando, mangia come si deve. Non prendere freddo e non esagerare con lo studio." 
Il vero Jungkook sbuffò, ma risultò poco convincibile.
"Guai a te se resti sveglio fino a tardi. Se non riesci a dormire devi chiamare uno di noi. Non messaggi, chiamate. E se usi il fuso orario come scusa per non disturbarci vengo lì e ti riporto in Corea per un orecchio." 
Nonostante non avesse detto niente di che, le raccomandazioni di Seokjin fecero scendere il silenzio nel salotto. 
Il più grande del gruppo sorrise quando vide l'espressione che era cresciuta sul viso del più piccolo. Jungkook si teneva il labbro inferiore intrappolato fra i denti, chiaramente in ascolto. 
Se Seokjin aveva potuto confidare sul fatto che la fotocamera del cellulare non fosse così buona da catturare la lucidità dei suoi occhi, ci pensò la sua voce rotta a smascherarlo.
"Salutate, ragazzi." 
Si aspettava che i suoi amici iniziassero a protestare o che lo guardassero strano, come avevano fatto quando aveva proposto l'idea di girare un video per Jungkook Del Futuro, ma tutti, tutti iniziarono a scuotere le mani.
Chi riusciva si sbracciava, come Hoseok, mentre Namjoon preferì circondare le spalle di Jungkook con un braccio. Jimin si era raggomitolato contro il fianco di Taehyung e salutava con una mano sola. Il modo di salutare di Yoongi era un po' impacciato, come se non avesse fatto tanta pratica. Taehyung salutava con entrambe le mani; i sentimenti gli impregnavano il viso come foglie di thé bagnate.
Tra saluti mezzi urlati, hello canzonatori e il silenzio di chi non voleva scoppiare a piangere, l'unico a ridere di cuore era Jungkook. 
Il castano non aveva neanche bisogno di girare la testa per vedere tutti i suoi amici tanto erano appiccicati l'uno all'altro, agglomerati in un misto di colori, taglie, età. Erano così stupidi a sventolare tanto quelle mani per lui che quasi si vergognava di loro.
Jungkook già lo sapeva. Sarebbe stato il suo video preferito di sempre. 




SPAZIO AUTRICE:

Ehi. Ehilà. 

Mh.

Ho finito un'altra storia, dannazione. 

ORA è IL MOMENTO PER VOI DI SFOGARVI, VOGLIO TUTTE LE CRITICHE NEI COMMENTI, DATECI DENTRO CON IL FEEDBACk

Prima di tutto. Questa storia significa davvero tantissimo per me e pensare che ho finito di pubblicarla è troppo strano (non che sia finita qui. Almeno, per ora si, ma direi che tra un decennio potete aspettarvi good news hahaha) (NON CI SARà UN SEQUEL, sono solo io che ho manie di grandezza e voglio pubblicare robe lol)

Per favore, fatemi sapere cosa ne pensate, è davvero importante per me. Anche un commentinoinoinoino. 

Per ora non posso dare troppi spoiler o dare notizie con certezza, ma sto già lavorando ad un'altra storia. Di sicuro non ne sentirete parlare fino a settembre, per cui mi sa che questo è un arrivederci piuttosto lungo. Non si sa mai che mi venga voglia di scrivere qualche one shot nel frattempo. 

Potete sempre trovarmi su twitter, per qualsiasi cosa (  @silbysilby ) 

Grazie per aver letto la cosa più lunga che io abbia mai scritto! Andate in pace! * benedice i suoi inesistenti fan *



P.S.

avete già ascoltato la playlist completa di Anathema's Apple?


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