Upside Town

di Frulli_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** New Year, New Beginning ***
Capitolo 2: *** Snow & Custard Cream ***
Capitolo 3: *** Blends ***
Capitolo 4: *** Poor & Rich ***
Capitolo 5: *** Music to my ears! ***
Capitolo 6: *** Shall we dance? ***
Capitolo 7: *** Phantoms & Monsters ***
Capitolo 8: *** An Unexpected Invitation ***
Capitolo 9: *** Jealousy ***
Capitolo 10: *** Past & Future ***
Capitolo 11: *** No Fear ***
Capitolo 12: *** Not so Quiet ***
Capitolo 13: *** Freedom ***
Capitolo 14: *** The Right Choice ***
Capitolo 15: *** Farewell ***
Capitolo 16: *** 16. Mr&Mrs ***
Capitolo 17: *** Christmas' Here ***
Capitolo 18: *** Back Home ***



Capitolo 1
*** New Year, New Beginning ***


1. New Year, New Beginning
 
 
Rose Castle, Norfolk, 1 Gennaio 1911
Il pendolo battè la mezzanotte. Il suo suono lento e ritmico rimbombava nel corridoio del piccolo appartamento. Si svegliò, avvolta nel buio. Non aveva paura del buio, era sempre stata una bambina assai coraggiosa: sapeva dove si trovava, sapeva che era al sicuro a casa sua. Sentì un tonfo, qualche stanza più in là rispetto alla sua. Un tonfo sordo e cupo, come quando faceva cadere per sbaglio i libri di suo padre.
«Mamma?» la chiamò, nell'oscurità. Sentì dei passi veloci nel corridoio, qualcuno che bisbigliava...il campanello interno suonò appena, come se temesse di svegliare il resto dell'appartamento. Ma la sua porta non si aprì.
«Mamma...?» la chiamò ancora, incerta. Avrebbe voluto scendere dal letto, ma si stava così bene lì sotto le coperte. Questa volta la porta si aprì lentamente, mostrando il viso di suo fratello, di due anni più grande di lei. Tremando, richiuse velocemente la porta della camera.
«Va tutto bene, Lulù...torna a dormire»
«Dov'è la mamma?» chiese al fratello, mentre questi s'infilava sotto le coperte, stringendola forte a sè.
«Dormiamo...sono stanco, Lulù...» sussurrò il fratello. Non chiese altro, lei, stringendolo a sua volta. Poteva sentire addosso al fratello l'odore della paura. La cameriera gridò, nell'altro lato della casa, soffocando a stento i singhiozzi.


«Miss Herbert, la colazione» la voce della cameriera, insieme al suo bussare incerto alla porta della camera, la fece svegliare di colpo.
«S-si, scendo subito!» esclamò, ancora confusa per via del sonno e soprattutto degli incubi in cui versava fino a qualche secondo fa. Si mise a sedere sul letto, tremando appena per il freddo invernale. Si alzò, infilò le pantofole e la vestaglia e si avvicinò alla finestra, aprendo le imposte. Era presto, avrebbe potuto dormire almeno altre cinque ore, ma a lei non piaceva dormire, lo faceva il minimo necessario. Quando dormiva aveva sempre gli incubi, ed ovviamente non era mai una bella sensazione. Si alzava presto la mattina e cercava di avere una giornata attiva e stancante, così forse la sera avrebbe riposato meglio e senza sogni. A volte funzionava, a volte no. Ma quella mattina avrebbe potuto davvero dormire di più: era il primo gennaio di un nuovo anno, la sera prima c'erano stati i festeggiamenti per il capodanno e dormire fino a tardi era giustificato.
Sciocchezze, pensò, solo sciocchezze. Quando mai aveva festeggiato capodanno, lei? Mai, negli ultimi ventitre anni. Uscì dalla camera e si diresse verso la sala da colazione, dove erano già seduti suo fratello George e la padrona di casa.
«Buongiorno zia, buon anno» annunciò sorridente, dandole un bacio sulla guancia.
«Oh buon anno a te, cara» rispose la donna, riponendo il Times sul tavolo mentre una cameriera serviva il thè.
«George, buon anno»
«A te»
Lady Maud lasciò che i gemelli si abbracciassero per tutto il tempo che volevano: George ed Ethel avevano un legame quasi sovrannaturale; non solo erano fratello e sorella, ma anche intimi amici, confidenti, compagni di avventure. Se esisteva l'anima gemella anche per l'amore fraterno, George ed Ethel ne erano la prova. A volte li invidiava, doveva ammetterlo: lei era figlia unica e non aveva mai potuto godere della compagnia di sorelle o fratelli; in quanto alla sua progenie, Alfred e Daisy erano troppo diversi per essere legati da un affetto così forte e intenso.
«Com'è andata la festa della Marchesa, zia?» chiese Ethel, mentre spalmava il burro sulla sua fetta di pane.
«Terribilmente noiosa come ogni anno, cara. Sono tornata a casa ancora prima della mezzanotte, inventando un malore non ben precisato»
I due fratelli ridacchiarono, divertiti.
«Non posso certo dire lo stesso per Daisy» continuò la Contessa, sorseggiando il suo thè «credo che sia tornata non meno di quattro o cinque ore fa. Quando ho lasciato la tenuta della Marchesa stava ballando il sesto walzer, credo, con un giovanotto assai bello»
«Non sarebbe dovuta tornare da sola, zia, è sconveniente...» commentò George, senza troppa enfasi, prima di mordere la sua fetta di pane.
«Oh ho smesso di preoccuparmi per mia figlia molto tempo fa. Era tra amici, e tutti sanno che carattere ha: dubito la scambino per una poco di buono, ed anzi sarei felice se uno di quei giovanotti che le gira attorno le facesse una proposta...ma niente, sembra che nessuno voglia diventare Conte»
Ethel sorrise tra sè, divertita. «Sono sicura che uno di questi giorni Daisy arriverà con un fidanzato nuovo fiammante e vi farà felice, zia»
«Me lo auguro proprio, mia cara, o alla mia morte questa catapecchia andrà in rovina»
"Catapecchia", pensò Ethel con ironia. Sollevò gli occhi su George, che le sorrise: stava pensando anche lui la stessa cosa. E cioè che Rose Castle non somigliava esattamente ad una catapecchia, ma più ad una tenuta con più di quarante stanze, una ventina di servitori, una chiesa, un parco, un'orangeria e una scuderia di dieci cavalli di razza, oltre che un paio di carrozze e di macchine, giusto per non farsi mancare nulla.
Josephine, la capo cameriera, entrò nella stanza e senza dire una parola porse un vassoio d'argento alla padrona di casa, dove erano sistemate le lettere del giorno.
«Oh grazie Josephine» rispose Lady Maud, raccogliendo il piccolo mazzo di lettere. Sospirò, sfogliandole «Inviti a balli, eventi, concerti...ma non hanno altro da fare queste donne? Ah, una lettera di Alfred! Vediamo che dice»
«Dirà che è troppo impegnato a giocare a fare il politico per degnarci di una visita...» mormorò George ironico verso Ethel, che sorrise divertita.
«Sarò anche vecchia, George, ma ci sento benissimo...» precisò Lady Maud.
«Scusate zia, io non...»
«Fa nulla caro, glielo detto anche io che è diventato un pomposo. Ma ecco, dobbiamo rimangiarci tutto! Dice che quest'anno avrà modo di avere più tempo libero per la Stagione, e che ci tiene molto che andiamo a Londra per farci conoscere...la sua Candice. Mpf, che nome da borghese americana»
«Zia...!» la riprese Ethel, non riuscendo a non sorridere ai commenti della Contessa.
«Che ho detto? Non puoi non essere d'accordo con me, mia cara. Comunque sia...immagino non possiamo rifiutare, no? E poi voi ragazzi non vi vedete da tanto, e Londra durante la stagione è piena di divertimenti. Dobbiamo andare»
«Ma zia, siete sicura che nelle vostre condizioni...»
«Le mie condizioni sono ottimali, George, ti ringrazio per le tue premure. Il dottore dice che sto molto meglio, e che posso affrontare brevi viaggi: Londra non dista molto in treno, ringraziando il cielo queste modernità servono a qualcosa» precisò Lady Maud, facendo un occhiolino al ragazzo prima di suonare il campanello della servitù.
«Buongiorno e buon anno, Lady Maud. Mr Herbert, Miss Herbert...» annunciò la voce gentile di Miss Rossi, la governante della tenuta.
«Buongiorno Nana» salutarono in coro i due fratelli, sorridendo dolcemente alla donna italiana, che ricambiò con dolcezza ai loro sorrisi.
«Buongiorno a te Nana, e buon anno. Avrei bisogno del tuo aiuto, sei momentaneamente libera?»
«Si, milady, assolutamente»
«Bene! Dunque, avvisa il custode di Little Hall che per gli inizi di Febbraio saremo a Londra per la Stagione. Dopo di chè invia una squadra delle nostre cameriere affinchè puliscano la casa e preparino almeno...sette o otto stanze, per sicurezza»
«Non volete assumere personale direttamente a Londra, milady?»
«Assolutamente no, Nana, ricordi cosa è successo l'ultima volta? Assolutamente! No, voglio la mia servitù. Ed a proposito, dì a Mr Conti che deve venire con noi: vorrò mangiare spesso a casa, e vorrò provare i suoi dolci ad ogni pasto»
«Ovviamente, milady. Altro?»
«Si. Abbiamo avuto riscontri per la nuova cameriera da assumere?»
«Giusto ieri, milady. Miss Murphy, diciotto anni, ha lavorato per dieci anni a Charmington House, ma ora...»
«Oh si, i Baroni di Charmington. Poveri cari...bene, direi che è il caso di fare un colloquio a questa Miss Murphy. Se la troverai adatta, si occuperà del nostro pranzo come periodo di prova. Se meritevole, sarà la cameriera personale di Ethel una volta arrivati a Londra»
«Zia, davvero, non serve...»
«Sciocchezze, Ethel, ne abbiamo già parlato. Sei una Baronessa, e non puoi vestirti e sistemarti da sola come se fossi una lavandaia. No Signore, hai bisogno di qualcuno che ti aiuti, abbiamo atteso fin troppo. E' tutto Nana, grazie»
«Molto bene, milady. Mr Herbert, Miss Herbert...»


«Domino o Isabelle?» chiese George poggiando la sella sul dorso del cavallo.
«Domino. Pensavo che sono quasi cinque anni che non vedo Alfred, sono felice di rivederlo sai?»
«Anche io, anche se l'ho visto due anni fa. E' diventato davvero un pò snob, non dicevo per scherzo. Ma immagino che faccia parte del suo lavoro»
«E' un politico e un conte, davvero pretendevi che se ne andasse in giro per orfanotrofi o a cucinare per i poveri?»
«Tu lo fai...»
«Io non sono nobile, George»
Il giovane sollevò gli occhi azzurri verso la sorella, guardandola serio. Le posò un bacio sulla fronte, prima di abbracciarla.
«Non devi consolarmi, è solo la verità!» precisò lei ridacchiando ma ricambiando l'abbraccio.
«Lo so...mi dispiace solo che sia andata così, tesoro»
«Non è colpa tua, Georgie, nè di nessuno. Non mi pesa, davvero» precisò, osservando il fratello e posandogli un bacio sulla guancia. «Andiamo?»
Finirono di sellare i cavalli ed uscirono dalle scuderie, lasciandosi invadere dalla nebbia mattutina e dal freddo invernale di quel primo giorno dell'anno. Cavalcarono per un pò, per scaldare i muscoli dei cavalli ed i propri; poi lentamente rallentarono, proseguendo al passo verso il cimitero vicino la tenuta.
«Tu l'hai conosciuta la sua ragazza?»
«La ragazza di chi...?»
«Di Alfred, George! Dio, hai una memoria davvero corta...» precisò Ethel, ridendo mentre gestiva abilmente il suo Domino.
«Ah di Alfred! Mh immagino di sì, anche se quando io l'ho conosciuta non era ancora la sua fidanzata ufficiale, diciamo. Zia Maud ha ragione, è la tipica americana ricca da fare schifo, che vive come una nobile per cercare di sembrarlo. Mi ha dato l'idea di essere parecchio stupida, o superficiale»
«Superficiale? Non è da Alfred. Ti ricordi quando si innamorò di quella poetessa, quando aveva 18 anni?»
«Te l'ho detto, è cambiato. Alfred non è più il ragazzo allegro e dolce che conosciamo, è...un uomo. Immagino che sia normale, nemmeno io sono quello di dieci anni fa, no?»
«Non saprei. Per me sei sempre uguale. Serio e musone, appiccicoso, geloso, protettivo...»
«Io non sono appiccicoso!» protestò George, lasciandosi sfuggire un sorriso leggero.
Ethel rise divertita, osservando avanti a sè. «Però sei tutto il resto»
«Non sono musone. Sono una persona pragmatica, è diverso»
«Ma smettila di darti delle arie. Ti ricordi al compleanno di zia Maud dell'anno scorso, la figlia della baronessa Williams?»
«Miss Margaret...»
«Precisamente. Si era presa una cotta per te, glielo si leggeva in viso, e tu hai fatto di tutto per evitarla come la peste»
«Non mi piacciono quelle troppo belle, che devo farci? Mi mettono in soggezione»
Ethel rise di nuovo, scuotendo la testa. «Sei l'unico ragazzo che la pensa così, davvero...»
«E poi io non ho tempo per le altre. Devo sorvegliarti» precisò George, facendole un occhiolino fugace.
«Cos'è, vuoi rimanere zitello a vita come me?» lo rimbeccò Ethel, divertita.
George sollevò le spalle. «Se dovessi sposarmi, significherebbe lasciarti da sola»
«No, significherebbe che verrei a vivere con te, abbi pazienza» precisò Ethel con la sua solita ironia. George accennò una risata diverita, rallentando davanti all'ingresso del cimitero, prima di smontare da cavallo.
«Beh non c'è rischio per ora, no? E poi cosa potrei dare ad una mia ipotetica moglie, mh? Un titolo inutile e nemmeno un penny?»
«Sono sicura che zia Maud potrebbe...»
«Zia Maud ha già fatto troppo per noi, Ethel, non voglio certo andarle a chiedere soldi per sposarmi. Non ne sento la necessità. Ho te e tanto mi basta» precisò serio, aiutandola a scendere da cavallo.
Ethel scivolò lentamente dalla sella, abile pur appoggiandosi alle spalle del fratello. Si sistemò il vestito da cavallerizza, un semplice completo di lana marrone con sopra un soprabito nero, per combattere il freddo invernale. Sistemò anche i guanti alle mani, quindi sottobraccio al fratello entrò dentro l'area circoscritta al cimitero. La nebbia del mattino si era diradata, lasciando posto ad un pallido sole non ancora posizionato al mezzogiorno. Superarono tombe tristi o magnifiche, antiche o recenti, di bambini o di anziani, fino a raggiungere un'unica tomba, sotto un albero privo di foglie. Si sedettero sulla panchina di pietra, lì vicino, e rimasero in silenzio. Ethel lesse la scritta scolpita sulla pietra, seppur la conoscesse a memoria:
Alla memoria di Edward & Eloise Herbert,
amorevoli genitori, nobili d'animo e di sangue.
Possano riposare in pace.
1 Gennaio 1888
Ricordava a malapena i suoi genitori: il profumo del padre, il sorriso della madre. Il Natale insieme, le risate, le lacrime...era tutto molto confuso. La notte in cui morirono lei si accorse di ben poche cose, e solo anni dopo scoprì che quel tonfo che la perseguitava di notte non era di un libro caduto, ma dei loro corpi caduti a terra dopo essersi avvelenati, in un suicidio di coppia e di disperazione. I debiti, il mancato appoggio delle famiglie, una casata nobile in disfatta già da prima che loro nascessero...la disperazione e la depressione fecero il resto.
Strinse la mano a George, che in tutta risposta le circondò le spalle, sospirando. Lei ricordava poco, ma George no: era stato lui a ritrovare i genitori morti, uno accanto all'altro, ed ancora lui a chiamare la cameriera e poi a nascondersi da Ethel, fingendo che nulla fosse accaduto... che non erano rimasti soli, e poveri, senza nessuno a cui poter chiedere aiuto.
Rimasero lì a lungo, a pregare, a conversare con coloro che sempre sarebbero rimasti i loro cari genitori.
«Andiamo da zio...» mormorò George, prima di chinarsi e baciare la tomba. Ethel fece lo stesso, seguendolo poi verso una cappella di marmo, ben ornata e protetta. Dentro c'era un'unica tomba occupata, in marmo bianco e inserti in argento.
Alla memoria del Conte Alexander Struan McKanzie Norton,
amorevole padre e marito, padrone giusto,
uomo di grandi valori, patriota fedele.
Che tu possa riposare in pace tra le braccia di Dio.
1850 - 1900
Che cosa avrebbero fatto senza i Norton? A quell'ora probabilmente erano ancora in un collegio per orfani, a fare la fame. Invece i Norton, loro vicini ed unici amici rimasti agli Herbert, presero con loro i due orfani seppur non li accomunasse nemmeno un briciolo di parentela. Li presero con loro come parte della famiglia, dando loro un tetto sopra la testa ed anche molto di più: agi, un'ottima educazione, accesso ad ogni tipo di passatempo ed istruzione. Alla morte del Conte, la Contessa Maud continuò ad occuparsi dei giovani Herbert come fossero parte della famiglia, concedendo loro quasi tutto quello che concedeva ai suoi figli naturali.
«Credi che mamma e papà sarebbero stati fieri di noi?» chiese Ethel, uscendo dal cimitero insieme a George.
«Di te sicuramente, di me..ho i miei dubbi» precisò l'altro avvicinandosi ai cavalli.
«Non essere ridicolo. Siamo vissuti insieme, e tu hai avuto un'educazione molto più approfondita della mia, sei stato al collegio e all'università. Che cos'hai che non va?»
«Sono povero come uno straccione, ecco cos'ho. So che quel so per gentile concessione di altri, non per miei meriti»
«George, per favore...basta con questa storia. Non vale lo stesso per me?» precisò Ethel, avvicinandosi al fratello.
«Tu sei gentile, simpatica, un talento per la musica...»
«E nonostante questo, una zitella di ventotto anni» precisò Ethel, ironica «sono quel che sono per mia indole, così come per te. Se fossi stata povera non avrei mai imparato la musica, non sarei mai diventata un...talento, come dici tu. Quel che vale per te vale per me, smettila di denigrarti»
George sorrise appena, prima di aiutarla a risalire a cavallo. «Va bene. E adesso forza o faremo tardi per il pranzo, Miss "salvatrice della patria"»
Ethel rise, afferrando le redini di Domino. «Io non voglio salvare la patria! Voglio solo salvare il tuo amor proprio...»


«Da questa parte Miss Murphy. Siete abile nel ricamo?»
«Si, Miss. Mi hanno insegnato a ricamare e cucire, stirare, rammendare...» Charlotte riusciva a parlare e a tenere velocemente il passo dietro la governante. Poteva sembrare una cosa da niente, ma solo una cameriera ben allenata era capace di muoversi abilmente tra scale e corridoi e al contempo parlare abbastanza per farsi udire ma non troppo per non disturbare i padroni della casa.
«Molto bene. Quindi negli ultimi cinque anni avete gestito la sala dei vostri ex padroni?» chiese ancora Miss Rossi, aprendo e chiudendo una miriade di porte del piano principale della tenuta.
«Si Miss. Ero responsabile del servizio a tavola di tutti i pasti» si limitò a spiegare l'altra, senza ridondare troppo. Era una cameriera di alto livello, ma nulla di cui vantarsi: la sua posizione era appena sopra quella della cameriera semplice, che accendeva i fuochi e caricava il carbone sulle proprie braccia. Nulla di eclatante. In più lei non era mai stata una ragazza vanitosa o presuntuosa: aveva cominciato a lavorare dai Charmington quando aveva otto anni, come sguattera, e nel giro di dieci lunghi e faticosi anni era riuscita a levarsi di torno l'odore di cenere bruciata e lo sporco continuo che lasciava il carbone. Sperava solo che lì dai Norton potesse trovarsi bene come si era trovata bene dai suoi precedenti padroni.
«Molto bene. Per oggi vi limiterete a guardare il lavoro delle cameriere in sala pranzo e in cucina, e da domani comincerete col servire la colazione e gli altri pasti. Fate tutte le domande che dovete alle cameriere, io ho poco tempo: fra meno di un mese dobbiamo trasferirci a Londra e c'è ancora tanto da fare. Se sarò soddisfatta del vostro lavoro, Miss Murphy, verrete con noi a Londra e diverrete la cameriera personale di Miss Herbert. Mi aspetto da voi professionalità, serietà e soprattutto discrezione. Tutto chiaro?»
«Si, Miss, tutto chiaro» precisò Charlotte. Era sveglia, era uno dei suoi rari pregi, ma certo non molto furba: non riusciva ad approfittarsi delle persone, delle colleghe soprattutto, ma la sua fedeltà e costanza era stata premiata negli ultimi dieci anni. Le piaceva quel lavoro, ed aveva bisogno di soldi per la sua famiglia: non c'erano comunque molte alternative.
Continuarono a camminare lungo un corridoio, quello delle camere da notte. Miss Rossi rallentò e le fece segno di zittirsi, quindi continuarono a camminare superando le varie porte chiuse, facendo meno rumore possibile. Charlotte fece in tempo a chiedersi come mai tutta quella discrezione quando il silenzio fu rotto da uno strillo furioso.
«Più stretto! Vuoi farmi sembrare una balena??» gridò una voce stridula e insopportabile.
Sbiancò e proseguì veloce avanti a lei. Solo girando l'angolo osò aprire bocca.
«Era...miss Herbert?» azzardò a chiedere alla governante, in un sussurro che lasciò intendere il suo terrore. Come se avesse appena udito il ruggito di un leone ingabbiato.
Miss Rossi ridacchiò appena, divertita, mentre scendeva ai piani bassi. «Santo cielo, no! Quella era la voce di Miss Norton, la figlia della padrona. Vi consiglio di essere parecchio accondiscendente con lei: potrebbe far diventare un inferno la vostra permanenza da noi»
Charlotte si pentì quasi subito di aver risposto a quell'annuncio sul giornale, ma cercò di calmarsi: quante nobili aveva incontrato nella sua vita? Troppe per ricordarle. Miss Norton non sarebbe stata la prima nè probabilmente l'ultima. Tacque, mentre scendeva nei piani bassi. Superarono la lavanderia, il magazzino della biancheria, quello del cibo, quello dell'argenteria...finchè l'ennesima porta non si spalancò su un enorme e caldo ambiente. Le pentole borbottavano sul fuoco, c'era un andirivieni di cameriere che lucidavano l'argenteria, servivano il cibo sui vassoi e almeno due cuoche che sistemavano un grosso pollo pronto per essere mangiato. Tutta quell'agitazione per un semplice pranzo settimanale? Che cosa sarebbe successo per una festa allora?
«Questa è la cucina» annunciò Miss Rossi alzando la voce per farsi sentire sopra il tintinnio metallico e le voci concitate di cameriere, cuoche e valletti. «Lì ci sono le credenze, se avete bisogno di stoviglie extra c'è il magazzino appena passato. Ovviamente chi rompe paga, Miss Murphy, senza che ve lo precisi. Josephine!» gridò alla fine Miss Rossi, facendo girare una giovane cameriera di colore.
«Si Miss?»
«Mostra a Miss Murphy come serviamo i padroni, per questa giornata sarà la tua ombra, rispondi con gentilezza alle sue domande e istruiscila su tutto, va bene? Miss Murphy, Josephine sarà la vostra maestra per oggi: vi consiglio di imparare in fretta» e detto questo, Miss Rossi sparì dalla cucina.
Charlotte si osservò intorno, prima di sorridere a Josephine.
«Allora tu sei quella nuova?» chiese Josephine, mentre le mostrava la credenza principale.
«Si. Tu di cosa ti occupi? E' tanto che sei qui?»
«Io sono la capo cameriera e sono qui da circa...dieci anni, si»
«La capo cameriera. Oh scusate, i-io non lo sapevo, Miss»
Josephine rise divertita. «Non darmi del tu, per favore! E si, sono la capo cameriera. Ora ascoltami bene. Qui ci sono le stoviglie. La colazione viene servita intorno alle otto, noi ci svegliamo alle cinque e trenta per sistemare la sala, preparare tutto l'occorrente, accendere i camini e il resto. A volte, anzi direi spesso, Miss Norton si alza tardi quindi le viene portata la colazione direttamente in camera. Se oltre mezzogiorno, come oggi, potrebbe chiamare per un semplice spuntino prima del pranzo, come potrebbe anche non chiamare. Dipende da come si sveglia. Tutto chiaro?»
«Si, signora»
«Chiamami Josephine, Charlotte, davvero. O Josie, se è troppo lungo. Ma in presenza dei nobili sempre Miss Freeman, va bene? Miss Rossi è particolarmente ancorata ai titoli, e chiama tutti per cognome...io non ci faccio troppo caso» spiegò la giovane di colore, sorridendole.
Charlotte sorrise, annuendo. «Va bene, Josephine»
«Perfetto! Adesso vieni con me, ti mostro come devi sistemare le stoviglie in tavola. Dunque! Per prima cosa la tovaglia non deve ess-»
«Giuseppina, amore mio!» una voce interruppe la lezione, una voce maschile dal forte e allegro accento italiano. Un giovane ragazzo abbracciò da dietro Josephine, che rise divertita.
«Smettila, Mark! E lo sai che mi chiamo Josephine, non...beh come lo dici tu» precisò la sua collega, divertita.
«Ma io dico semplicemente il tuo nome, solo meglio!»
«Si si certo, come no. Charlotte, ti presento Mark, il nostro pasticcere italiano. Un mascalzone, stagli alla larga il più possibile. Mark, lei è Miss Charlotte Murphy, la cameriera di sala che stavamo cercando»
«Mpf, che sciocchezze! Io un mascalzone! Non crederle, mia dolce Carlotta, sono un bravo ragazzo. Marco Conti al vostro servizio, ma puoi chiamarmi Mark» quel pasticcere aveva la parlantina veloce che avevano tutti gli italiani, oltre che quel loro colorito accento che faceva venire solo allegria. Charlotte sorrise, lasciandosi fare il baciamano ed arrossendo, seppur divertita, a quel gesto. Mark sorrise a sua volta, malizioso. Aveva l'aria da sciupa femmine, aveva ragione Josephine, ma doveva ammetterlo: era bello. Alto e dal fisico robusto e snello, capelli e occhi neri, un baffo sbarazzino sotto al naso e la pelle scura di chi è perennemente baciato dal sole.
«Si si, va bene, bellissimo» precisò Josephine, sciorinando il suo pessimo italiano «ma ora dobbiamo lavorare, se non ti spiace. Tu non devi preparare qualcosa a Miss Norton?»
Mark s'incupì, sbuffando. «Mi ha chiesto di nuovo una torta al limone! Di questo passo diventerò un limone gigante!»
Josephine e Charlotte si allontanarono dalla cucina, seguendo lo stormo di cameriere che risalivano verso la sala da pranzo.
«Il pranzo è servito alle dodici e trenta, a meno che Miss Rossi non ci ordini altrimenti per qualche richiesta della padrona. Di solito la padrona vuole pranzare e cenare con tutti i suoi figli e nipoti, quindi abbiamo di media quattro o cinque persone, se ovviamente non ci sono ospiti. Cosa che qui non capita tanto spesso. Ma a Londra...santo cielo, lì è un manicomio. Se i bicchieri sono vuoti, vanno riempiti senza che nessuno ti chieda nulla. Tieni conto che Miss Herbert non beve alcolici, solo acqua. Mr Herbert, Lady Maud e Miss Norton, invece, vino rosso o bianco, mai rosè»
«Mr Herbert?» chiese d'istinto Charlotte, risalendo le scale.
«Sì, Mr Herbert, è il fratello di Miss Herbert e nipote della Lady. Beh, in verità non sono suoi nipoti, non sono nemmeno parenti, ma Lady Maud e suo marito, che Dio l'abbia in gloria, li accolsero molti anni fa come parte della famiglia. Sono orfani, i loro genitori erano baroni caduti in disgrazia, si sono suicidati»
Charlotte si fece istintivamente il segno della croce, sinceramente dispiaciuta per le anime dei suicidi e dei loro figli orfani. Ma si pentì subito di averlo fatto quando Josephine si fermò di colpo, fissandola.
«Lady Maud è...incline alla libera professione religiosa, Charlotte. Ma ti consiglio vivamente di non farlo davanti ai suoi figli, Miss Norton soprattutto. Lei li odia quelli...beh, come voi»
Charlotte annuì, terrorizzata, senza dire nulla. Aiutò Josephine a sistemare la tavola del pranzo, osservando e imparando in fretta: d'altronde non c'era quasi nulla di nuovo rispetto a quel che faceva prima.
«Hai detto "i suoi figli", prima...chi è l'altro figlio?» chiese poi, una volta lontana da occhi e orecchie indiscrete.
«Si chiama Alfred, è l'erede e maggiore di Miss Norton di almeno...beh, dieci anni. E' un politico, lavora in Parlamento, dicono che abbia più volte incontrato Sua Maestà. Viene qui ben poco, è più comune che la famiglia vada a trovarlo a Londra, per la stagione. L'ultima volta è successo due anni fa, l'anno scorso la Lady non si è mossa da qui. E' di...salute cagionevole, ultimamente»
«Capisco...» precisò Charlotte, saziando per quel momento la sua curiosità.


Il pranzo fu servito all'una in punto. Quando Charlotte entrò nella sala, i padroni di casa stavano già mangiando. Riuscì a studiarli un poco prima di venire notata. La persona che più attirava l'attenzione era sicuramente Lady Maud: aveva un portamento elegante e composto, vestiva in maniera sobria e senza gioielli o accessori che la facessero intendere ricca. Occhi azzurri e gentili, e dei capelli grigi raccolti in un morbido chignon. Aveva un aspetto pallido, si direbbe stanco, ma ascoltava i discorsi a tavola e sorrideva, intervenendo a tratti.
Quella che parlava di più era Miss Norton, ne poteva riconoscere la voce stridula e mielosa. Era una giovane di bell'aspetto, vestita all'ultima moda, con gioielli preziosi addosso anche se si trovava solo nella sua dimora, per un pranzo. Era magra e slanciata, con una vita molto sottile -merito dei suoi corsetti stretti, immaginò Charlotte. Capelli castani tenuti alla Gibson, occhi castani ed un viso magro, troppo per i suoi gusti. Non faceva che parlare, toccando a malapena il cibo che le veniva servito.
Mr e Miss Herbert sembravano quasi volersi mimetizzare con la tapezzeria. Eppure, pensò Charlotte, non erano certo da meno in quanto a bellezza. Seppur gemelli, non erano due gocce d'acqua: avevano entrambi i tratti nobili e sani tipici di chi è benestante e in buona salute; entrambi slanciati di corporatura, sobri nel vestire quanto Lady Maud, entrambi mori, i capelli sistemati come la moda ordinava per uomini e donne. Tuttavia Mr Herbert era di un'indubbia bellezza: zigomi alti, pelle chiara, penetranti occhi azzurri, un'aria seria e composta; Miss Herbert aveva forse un'aria più...banale. Era una giovane carina, ma Charlotte non potè definirla bella, come suo fratello o Miss Norton. Passava effettivamente inosservata...o erano le infinite chiacchiere di Miss Norton a stordirla?
«Miss Freeman, è lei la nuova cameriera?» chiese di colpo Lady Maud, interrompendo sua figlia e osservando Charlotte.
«Si, milady. E' Miss Murphy, è arrivata proprio oggi»
«Buon pomeriggio, Miss Murphy»
«Buon pomeriggio a voi, milady»
«Murphy...siete irlandese, vero?» intervenne Miss Norton, fissandola con un'aria quasi schifata. Charlotte era abituata a quel disgusto che il suo sangue provocava. Deglutì, chinando appena lo sguardo.
«Sì Miss, di Dublino»
«Santo cielo, un'altra cattolica...!» brontolò Miss Norton, sollevando gli occhi al cielo.
Lady Maud sorrise con dolcezza verso Charlotte. «Non temete, Miss Murphy, avete libero accesso alla vostra chiesa durante il vostro giorno libero»
«Vi ringrazio immensamente, milady»
«Oh si, si continuate pure su questa linea di pensiero, madre. Fra qualche anno saremo invasi dai papisti!»
«Santo cielo, Daisy, parli come una donna del medioevo. Questo è quello che ha sempre deciso tuo padre, insieme a me, e questo faremo. Sono sicura che Miss Murphy è una giovane per bene, professionale e fedele; se vuole pregare Dio in maniera diversa da noi, non vedo perchè dovremmo impedirglielo»
Charlotte chinò ancora il capo, accennando un sorriso. Già le piaceva la sua Lady.

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Capitolo 2
*** Snow & Custard Cream ***


2. Snow & Custard Cream


 

Rose Castle, Norfolk, 26 Gennaio 1911


Quell'ultimo giovedì di Gennaio svegliò gli abitanti di Rose Castle in una giornata limpida e soleggiata, ma con la tenuta completamente avvolta dalla neve. Un manto bianco che ricopriva ogni superficie, azzerando tutti i suoni. Quando Ethel uscì fuori, riusciva a sentire solo il suo respiro: nessun animale, nessun essere vivente. Il tempo sembrava essersi arrestato. Si strinse bene nel cappotto, senza riuscire ad essere felice per quella nevicata a sorpresa: i suoi pensieri erano a Londra, al St'Mary's House, l'orfanotrofio di cui era direttrice. Non aveva ancora notizie dalla sua vice, sperava solo che non avesse nevicato nemmeno lì, o i bambini avrebbero sofferto particolarmente il freddo.
«Non ti preoccupare, sono sicuro che Londra è stata risparmiata da questa tempesta di neve» commentò George, raggiungendola. Come se il ragazzo potesse leggerle nel pensiero.
«Non lo so...lo spero, ovviamente. Ma spero anche che Miss Bridge non si faccia problemi ad avvisarmi: le ho espressamente chiesto di farlo ogni volta che fa troppo freddo o piove dal tetto. Sembra che le mie proteste al Council non siano servite a nulla, per la miseria!»
«Staranno bene, vedrai»
«Non puoi stare bene quando hai i geloni per il freddo, George»
«Non essere tragica»
«E tu non essere cinico»
Si sorrisero appena, finendo quel battibecco dopo essersi presi sottobraccio.
«Mancano meno di due settimane alla nostra partenza per Londra, e se Miss Bridge ti ha omesso dei problemi potrai controllare di persona»
«Questo è poco ma sicuro. Vai in città?»
«Si. Fra pochi giorni è tempo di paga e sai che non mi piace lasciare conti in sospeso con la servitù. E poi questa storia di Londra mette tutti in agitazione, sembra che dobbiamo andare a vivere in Africa»
Ethel ridacchiò appena, prima di mollare un bacio sulla guancia del fratello e lasciarlo andare. Lo vide salire sulla vettura, salutarla e partire, uscendo dal viale principale del castello. Una volta sparito, prese a camminare verso l'orangeria facendo attenzione a non scivolare sulla neve. Aprì la porta, salutando il giardiniere occupato a curare una pianta di limoni. Era difficile far crescere le piante durante l'inverno, soprattutto per il gelo, quindi erano state tutte riposte nell'orangeria, uno dei suoi posti preferiti lì a Rose Castle. C'era una temperatura perfetta, abbastanza calda da appendere il cappotto all'ingresso ma non troppo da morire. Fece un giro tra le piante, godendosi lo spettacolo di colori e odori, prima di avvicinarsi al giardiniere ed aiutarlo a cambiare la terra ad una pianta esotica.
Sorrise tra sè, pensando alla faccia che avrebbe potuto fare Daisy nel vederla lì, con le mani sporche di terra, dentro un'orangeria. Erano totalmente diverse, loro due: sua "cugina" era abituata a sentirsi bella, a stare al centro dell'attenzione, ad essere servita e riverita; Ethel, dal canto suo, veniva adulata solo per la sua bravura al pianoforte. Quando avevano ospiti Lady Maud le chiedeva di suonare: impressionava, faceva piangere, commuovere, riceveva applausi al limite della civiltà. Era quello il suo momento per stare sotto la luce della società, per essere notata, vista. Ma il resto della sua vita veniva trascorso in completo anonimato.
Non le dispiaceva, in fondo: le piaceva la sua vita semplice. Le piaceva aiutare gli orfani e i bisognosi, cosa che Daisy aborriva assolutamente, o trascorrere le giornate a leggere o chiacchierare con la servitù. Quei rari "momenti di gloria" erano più che bastevoli.
«Oh Dio mio, che schifo...» la voce sostenuta e stridula di Daisy s'intromise con sgarbo nei suoi pensieri e nel suo lavoro, costringendola a sollevare gli occhi su di lei.
«Ti sei svegliata di animo allegro, vedo» commentò ironica, pulendosi le mani interrate su uno straccio poggiato lì vicino. Daisy indossava uno splendido abito ad S, rosso fuoco, con uno scollo profondo ed una vita sottile. I capelli alla Gibson, un ciondolo d'oro e diamanti al collo. «Vai a sposarti?» le chiese, sorridendo appena.
«Simpatica, davvero» ribattè secca Daisy, prima di fare una giravolta «no, cara, è solo il mio abito nuovo. E' quello che indosserò alla prima serata a Londra. Sai, devo darmi un tono, sono una Contessa...»
Ethel sorrise, divertita. Quando Daisy voleva attaccarla nell'orgoglio faceva leva sul fatto che lei era Baronessa solo per Lady Maud.
«Oh si, certo, non oso nemmeno immaginare...» commentò Ethel fingendosi interessata. La verità era che a lei del titolo non le importava nulla, nè tantomeno quello di sistemarsi con un buon partito: i tempi delle speranze matrimoniali erano passati, ormai aveva ventotto anni e nessun rimorso nel non essersi creata una propria famiglia. A lei bastavano George e Lady Maud.
«E poi quest'anno devo assolutamente trovarmi un buon partito. Ho scritto a Candice, la fidanzata di Alfred, di portare con lei qualche suo amico o cugino. Qualcuno in cui poter sperare. Ma tu non puoi capire, d'altronde...»
«Figuriamoci» precisò Ethel, dandole retta mentre spruzzava l'acqua sulle foglie, lucidandole.
«Fingi pure di non essere interessata, Ethel, ma bada bene: mia madre non vivrò in eterno, e tutto questo un giorno...anche il tuo prezioso piano...saranno di mia proprietà»
Ethel sorrise gentile. «Tecnicamente saranno di Alfred, Daisy. Se vuoi sposarti devi rinfrescare la memoria sulle lezioni di economia domestica e diritto, santo cielo! Tu erediterai solo parte dei vostri possedimenti, mentre tuo marito borghese si effigerà del titolo di Conte, senza averne nessun diritto. Non è sempre quello che rinfacci a me e George?»
«Non è la stessa cosa...» precisò secca Daisy, incrociando le braccia al petto. La fissava irritata, gli occhi come due fessure. Sapeva che stava per scoppiare.
«Come dici tu...» precisò Ethel, scrollando le spalle. Fece cadere il discorso, consapevole che, se irritata davvero, Daisy poteva passare il giorno ad annoiare la servitù con le sue lamentele, e voleva evitare di assistere ad un massacro.
«Lasci che ti dica una cosa, razza di...»
«Miss?» la voce di Charlotte risuonò appena nell'orangeria.
«Che c'è!» gridò Daisy, scocciata nell'essere stata interrotta. La figura minuta di Charlotte sbucò da dietro una pianta, lo sguardo spaurito e una lettera chiusa in mano.
«Scusate l'interruzione, c'è posta per Miss Herbert, miss Norton...»
«Oh ma certo, la posta di Sua Eccellenza!» esclamò spazientita Daisy. Girò i tacchi e uscì via come una furia.
«Venite, Miss Murphy, lasciatela sbollire» annunciò pacata Ethel, porgendo la mani e sedendosi poi su una panchina di pietra.
«Perchè Miss Norton era qui vestita così elegante?» chiese Charlotte, non riuscendo a trattenere un tono ironico.
«Oh perchè non è consapevole di quanto ci si impieghi nel pulire un abito del genere, e perchè almeno una volta al giorno vuole...salutarmi. Sedete, sedete...» mormorò, indicando distratta la panchina dove sedeva, mentre lei apriva con ansia la lettera.


Londra, 24 Gennaio
Gentilissima Baronessa,
Vi scrivo direttamente dall'orfanotrofio avvisandovi di due grandi notizie, una fausta e l'altra infausta. Quest'ultima riguarda il clima qui a Londra: nevica da circa due giorni, e le tubature dell'acqua si sono ghiacciate. Dobbiamo raccogliere l'acqua nel vicino ristorante di Mr Adams, che gentilmente non ha sporto nessuna lamentela, ma la situazione non è eccellente. I bambini soffrono il freddo: ho dato a tutti una seconda coperta ma mi sarebbe di grande aiuto la vostra presenza qui in sede, se poteste giungermi quanto prima.
La notizia fausta, invece, mi riempie il cuore di gioia: ho giusto oggi ricevuto una lettera dalla Principessa del Galles, la quale vuole al più presto visitare il nostro orfanotrofio per visitare i bambini bisognosi. Sono onorata oltre ogni dire, ho già avvisato le altre ragazze ma, a maggior ragione, dobbiamo fare di tutto per sistemare questi problemi prima dell'arrivo di Sua Eccellenza.


Rimango a vostra disposizione,
Miss Bridge.


Ethel richiuse lentamente la lettera, sospirando. Povere creature. Riusciva a immaginarli, infreddoliti e tremanti, strette nelle loro coperte, il respiro condensato in una nuvola ghiaccio. E lei lì, al caldo e al riparo, incapace di fare nulla. Rilesse la lettera, e solo in quel momento si accorse di quella nobile che voleva far loro visita. Che scocciatura, le nobildonne non avevano altro da fare che fingere di occuparsi delle persone meno fortunate.
«Miss Murphy?»
«Si milady?»
«Chi...chi è attualmente la Principessa del Galles?» chiese Ethel, rileggendo il titolo sulla carta. La cameriera la fissò qualche istante, dubbiosa.
«Credo, milady, che si faccia riferimento a Sua Maestà Mary...la Regina, milady» insistette l'altra, pacata, quando si accorse di non aver spiegato bene alla sua padrona chi era la diretta interessata.
Ethel si portò una mano alla bocca prima di sbuffare una risatina.
«Sua Maestà, ma certo, che stupida...scusatemi, Miss Murphy. Pensavo all'orfanotrofio e non avevo capito che...che sbadata»
«Nulla di cui scusarsi, milady» precisò la cameriera, sorridendo quasi con divertimento.
«La futura Regina...in visita nel mio orfanotrofio, diavoli dell'Inferno...» mormorò Ethel, prima di alzarsi di colpo e recuperare al volo un pezzo di carta ed un carboncino, buttati lì in un angolo del tavolo. Rispose subito alla lettera, dato che non c'era tempo da perdere.


Cara Miss Bridge,
Vi ringrazio per avermi informato così velocemente. Partirò per Londra fra meno di due settimane e appena arrivata verrò a trovarvi. Nel frattempo ecco il dafarsi: chiamate immediatamente Mr Watson e la sua squadra, ditegli che deve sistemarci le tubature e che il denaro gli verrà dato a fine lavoro e solo quando vedremo un miglioramento. Non preoccupatevi per i soldi, li porterò io. Nel frattempo sistemate i bambini al meglio, magari in stanze più piccole in modo che possano riscaldarsi facilmente, e date loro zuppe calde e carne (se non ne avete, prendetela dal butcher e ditegli che passerò io a saldare il conto).
Mi fido di voi, Miss Bridge, e sono sicura che al mio arrivo avrete fatto ciò che vi sto chiedendo e, soprattutto, che penserete per primo al bene dei bambini.
A presto,
Ethel.


«Tenete, Miss Murphy, e fate in modo che venga spedita al più presto»
«Si Milady, lo faccio subito» precisò la cameriera, prendendo la lettera e, chinato il capo, fece per uscire.
«Miss Murphy?» la richiamò Ethel.
«Si?»
«Vi trovate bene qui da noi?»
Charlotte le sorrise sinceramente, annuendo. «Molto, Miss, sono tutti molto gentili con me, e comprensibili. Spero che mi terrete a lungo»
«Lo spero anche io, Charlotte» rispose la ragazza, sorridendole di rimando. Charlotte annuì, felice, ed uscì a passo svelto.
Ethel sospirò e lanciò un'occhiata alle piante: ormai aveva perso totalmente interesse e concentrazione per poter lavorarci su. Infilò velocemente il cappotto ed uscì dall'orangeria, diretta al castello.

 

31 Gennaio 1911
«E con queste fanno tre, Miss Murphy» annunciò sorridente George, porgendole la sua paga mensile «li riconti pure se vuole. Tutto bene?» chiese poi, osservandola da oltre la scrivania.
Charlotte fece un rapido conto ed aggrottò le sopracciglia, fissando il giovane.
«Mr Herbert, deve esserci un errore. E' più di quello che mi spetta...» precisò incerta, porgendo la paga indietro.
George sorrise gentile, inforcando gli occhiali sul naso e controllando il libro maestro.
«No, nessun errore. Ecco, sul registro leggo: "Charlotte Murphy, cameriera privata, 3 sterline mensili. Vedete? Nessun errore»
«Cameriera privata...?» sussurrò Charlotte, la voce tremante dall'emozione «ma...non ho svolto alcuna prova, non...»
«Non siamo in una caserma, Miss Murphy. Miss Freeman l'ha seguita per l'intero mese, siete brava, veloce, confidente...e a mia sorella siete simpatica, tanto ci basta. Cominciate da domani. Va bene?»
«Va bene? Certo, certo che va bene...» esclamò incerta Charlotte, saltando sulla sedia per il troppo entusiasmo. Tre sterline al mese. Era il doppio di quello che aveva mai guadagnato in tutta la sua vita.
«Può andare, Miss Murphy, e buona giornata»
«Grazie, grazie Mr Herbert!» esclamò l'altra, trattenendo a stento la gioia. Aprì la porta dello studio e la richiuse alle sue spalle, ritrovandosi davanti Marco, il pasticcere.
«Ciao, bambolina» la salutò il ragazzo, sorridendole gentile.
«Ciao, Marco» rispose lei, sorridente. Prendeva lezioni di italiano da circa due settimane e mezzo. Il lunedì, il giovedì e la domenica sera, prima di dormire. Era una sua curiosità, un suo interesse. Marco aveva provato a farle il filo nella prima lezione ma notando il reale interesse di Charlotte smise, offrendosi da diligente maestro. Anche Josephine, la capo cameriera, si sorprese di tale "serietà" da parte del giovane italiano che continuava comunque nel suo essere farfallone con il resto della servitù.
«Sono stata promossa a cameriera privata» sussurrò Charlotte, emozionata, prima che Mr Herbert chiamasse il ragazzo nello studio. Marco non disse nulla, si limitò a sorridere e ad entrare.
«Buongiorno Mr Conti»
«Buongiorno a lei, Mr Herbert»
«Prego, sedetevi. Tutto bene? Ha bisogno di qualcosa per la nostra permanenza a Londra? Necessità, ordini particolari?»
«No, Mr Herbert, abbiamo fatto tutto con largo anticipo, vi ringrazio»
«Molto bene, non mi piace creare problemi alla servitù, sopratutto prima di un trasferimento. La stagione sarà caotica, Mr Conti, contiamo sulla sua esperienza e professionalità» spiegò calmo Mr Herbert, porgendogli la sua paga.
«Certamente, Mr Herbert, grazie della fiducia» annunciò Marco, prendendo con garbo il salario dalla scrivania, prima di salutare ed uscire dallo studio, diretto ai piani bassi. Otto sterline al mese, cento l'anno. E solo per uno chef pasticcere. Molti dei suoi colleghi, al suo confronto, facevano la fame. Eppure, alla fine dell'anno, non riusciva a mettersi abbastanza soldi da parte per il suo negozio di dolci. Entrò nel magazzino, spostò sacchi di patate e casse di vino fino a sgomberare un angolo del pavimento. Sollevò un'asse e raccolse dal buco incassato la scatola di biscotti, aprendola. Si svuotò la tasca solo a metà, mettendo il denaro al sicuro in quel suo segreto nascondiglio. In due anni che lavorava a Rose Castle, nessuno gli aveva mai dato problemi: tutti sapevano che lì il pasticcere metteva soldi da parte per il suo futuro, ma nessuno si era mai azzardato anche solo a rovistarvi dentro.
«Maggie!» gridò il nome della sguattera che subito gli andò incontro «Sai cosa fare. E se ti azzardi a toccarli o rubarli, razza di piccola ingrata, giuro che ti taglio la gola!» esclamò, irritato. La ragazzina, ormai abituata al nervosismo mensile del pasticcere, si limitò a rassicurarlo e, preso il mantello, uscì di corsa dalla cucina.
«Razza di ingrata...se solo si azzarda...» brontolava tra sè il cuoco mentre sbatteva con violenza zucchero e uova, in tempo per la crema inglese del pranzo.
«Anne, il pranzo sarà alla solita ora» annunciò Josephine, seguita a ruota da Charlotte. Cominciarono a recuperare le stoviglie necessarie per il pranzo, e Charlotte cercò di sorridere in direzione del pasticcere che, in tutta risposta, rimase con il broncio e lo sguardo fisso sulla crema che sbatteva con furia.
«Lascialo stare, oggi è giorno di paga...» mormorò Josephine nell'orecchio di Charlotte.
«E' giorno di paga ed è triste?»
Josephine si limitò a scrollare le spalle, quindi risalì in sala da pranzo con i piatti.
L'ora del pranzo arrivò più veloce del solito, e Miss Norton era più irritata del solito.
«Ho ricevuto una lettera» annunciò Mrs Herbert, verso la fine del pasto. Charlotte sollevò la testa, istintivamente. Era la prima volta che la sentiva intavolare una conversazione di sua iniziativa durante i pasti.
«Ah si, cara? E di chi?» chiese interessata Lady Maud, mangiando la sua crema inglese.
«Miss Bridge, la direttrice dell'orfanotrofio di Londra. Oltre alle varie informazioni del mese...»
«...che a noi certo non interessano...» precisò secca Daisy, girando pigramente la sua crema.
«...oltre a quelle, dicevo, mi ha dato una splendida notizia. A breve, non so di preciso quando, una nobildonna verrà a farci visita all'orfanotrofio»
«Oh, così finalmente potrai copiare da qualcuno un pò di moda, dato che con me non vuoi imparare» precisò acida Daisy.
«Chi verrà, cara?» domandò Lady Maud, ignorando palesemente la figlia.
«Sua Maestà la Principessa del Galles» rispose Ethel, prima di imboccare un cucchiaio di dolce.
A George e Daisy andò invece di traverso, ma Lady Maud sorrise felice.
«Devi essere entusiasta di questa visita, mia cara»
«Lo sono molto, zia Maud, davvero. Sono...onorata oltre ogni dire»
«La futura Regina...ti farà visita, Ethel...» mormorò sorpreso George vicino alla sorella, che si limitò ad annuire estasiata.
Daisy, che non riusciva a sopportare che le attenzioni virassero su Ethel per più di cinque minuti, e per di più che quella nullatenente avrebbe conosciuto la Regina e lei no, prese le redini della situazione.
«Cameriera!» gridò spazientita verso Charlotte, che scattò verso di lei come un soldato.
«Sì, Miss»
«La crema non è cotta, vai dallo chef e riferisci del suo increscioso errore!»
Il gelo cadde nella sala. La servitù presente si guardò appena tra loro: tutti sapevano quanto Mr Conti fosse permaloso, specialmente quando si offendeva gratuitamente la sua arte. E per di più in giorno di paga. Josephine incoraggiò con lo sguardo Charlotte.
«Daisy, cara...la crema è perfettamente cotta, e deliziosa» commentò Lady Maud.
«La mia è cruda e immangabile. Riferisci, cameriera» precisò Daisy, seccata.
Charlotte deglutì a vuoto, quindi lentamente uscì dalla stanza, diretta verso la sua condanna a morte.
«Mr Conti...?» lo chiamò, incerta. Lo trovò girato di spalle, che lavava con energia una pentola, sotto l'acqua corrente del lavabo.
«Mr Conti, Miss Norton dice...dice che...dice che la vostra crema è ottima, e ne vorrebbe avere ancora» mentì, spudoratamente, mentre osservava la ciotola che aveva tra le mani, ancora piena di una crema ormai fredda.
«Non ti si addice mentire, Murphy. E ti ricordo che la voce di quella maledetta ragazzina si sente fin qui. Stronza viziata...» brontolò in italiano, senza girarsi.
«Per favore...non prendertela con me, riferisco solo quel che ha detto la miss, io non l'ho nemmeno provata ma sono sicura che è ottima...» mormorò Charlotte, facendo girare di scatto Marco. Il ragazzo le si avvicinò di corsa, le strappò la ciotola dalle mani e le puntò il dito addosso. La rabbia che trasmetteva era talmente feroce che la sua testa non riuscì nemmeno a decifrare le parole di conforto della collega.
«Nessuno...può osare dire...che Marco Conti non sa cucinare una crema! Nessuno! Nemmeno una mangiapatate papista come te!»
Charlotte, che fino ad un secondo prima vedeva perfino i pori della pelle dell'italiano, in quel momento aveva la vista completamente offuscata dalle lacrime. Indurì la mascella, tirò su il mento, si sistemò il grembiule e risalì in sala, asciugandosi le lacrime e non facendo in tempo a vedere il senso di colpa dipingersi sul viso del giovane pasticcere.
«Miss Norton...»
«Ebbene?»
«Mr Conti...chiede immensamente scusa per l'accaduto, e riferisce che non accadrà più»
«Vorrei ben dire...»brontolò Daisy, prima di alzarsi dal tavolo ed uscire dalla sala sbattendo la porta.
«Potete sparecchiare...» annunciò sospirando Lady Maud, alzandosi imitata da George ed Ethel «ricorda così tanto lo zio Adam, la mia Daisy...» mormorò la padrona, sconsolata, prima di uscire dalla sala.
«Charlotte, stai bene?» chiese Josephine, mentre sparecchiavano la tavola.
«Mai stata meglio»
«Te l'avevo detto che è intrattabile il giorno di paga» mormorò Josephine, scendendo verso la cucina «vedrai che per domani verrà a chiederti scusa. Qualunque cosa quell'idiota abbia fatto...»


Il destino volle che quella sera per cena mangiarono patate. Dopo che ai piani alti si erano già riuniti nel salotto per le solite esibizioni di Miss Herbert o le letture o le partite a carte, ecco che finalmente la servitù ebbe tempo di mangiare. Charlotte non poteva evitare la cucina, ma si limitò a sedersi il più lontano possibile da Mr Conti che, in tutta risposta, fece il farfallone con le cameriere. Erano tutti stanchi, spossati per l'eterno andi-rivieni che da un mese a quella parte li aveva coinvolti. Nessuno aveva le forze per ridere e scherzare e, quando Miss Rossi annunciò che mancava un'ora al copri fuoco, quasi tutti si alzarono e si trascinarono a dormire. Charlotte si attardò, come suo solito, immersa nei suoi pensieri. Le mancava casa, la sua famiglia, era stanca...avrebbe voluto essere ricca, o almeno benestante; non voleva più lavorare tredici ore al giorno, trasportando stoviglie di ceramica che rischiavano di incrinarsi al solo toccarle. Si consolò, pensando che dall'indomani mattina tutto sarebbe stato più semplice: sarebbe stata la cameriera personale di Miss Herbert, una giovane a modo, gentile e simpatica. Si sarebbe limitata a spazzolarle i capelli, stringerle il corsetto e consegnarle la posta. Paga più alta, meno lavoro. E con quella velocità, avrebbe potuto aprirsi il proprio caffè, a Londra, per la piccola borghesia. Un posto sereno e tranquillo dove poter bere in pace il proprio thè delle cinque.
«Non hai sonno?» la domanda di Mr Conti interruppe il suo fiume di pensieri. Alzò di scatto la testa, ritrovandoselo davanti, in piedi.
«Si...ora vado» annunciò Charlotte. Marco sollevò le braccia, mostrando due bicchieri, una bottiglia di vino ed una ciotola, che poggiò davanti a lei: crema inglese.
«Cos'è, una sorta di tentativo di chiedermi scusa?»
«Non sia mai. Piuttosto mi serve un parere tecnico su questa crema. Prova» precisò il ragazzo, ironico.
Charlotte gli lanciò un'occhiata dal basso, quindi prese un cucchiaio, lo affondò nella crema e lo portò alla bocca. Un'esplosione di sapori le raggiunse il cuore all'istante: non aveva mai provato qualcosa di così vagamente simile al paradiso.
«E'...passabile» non gliela diede vinta, e fece per stappare il vino.
«Passabile? Ah, questa poi! Passabile...» precisò il ragazzo, sedendosi sulla panca vicino a lei. Si fece versare il vino, quindi cozzò il bicchiere con quello della ragazza. Rimasero in silenzio qualche secondo, fissando il tavolo.
«Josie mi ha detto che hai mentito a Miss Norton»
«Cosa dovevo fare, dirle quello che mi avevi riferito tu?»
«Hai rischiato il licenziamento»
«Anche tu»
Marco sorrise appena, sincero. «Grazie..»
«Figurati. Sai, mangerò anche tante patate ma ho un cuore, io.» precisò secca Charlotte, facendo sbuffare il ragazzo già a metà della sua frase. «Ti pesa così tanto chiedere scusa, vero?» aggiunse, osservandolo.
«Abbastanza» ammise il ragazzo «ma so come farmi perdonare. Con una lezione gratuita di italiano, ora»
«Perchè, le altre le devo pagare?» chiese Charlotte accigliata.
«Vedremo..» precisò malizioso Marco «ora ripeti con me. Vuoi..»
«Vuoi...»
«uscire...»
«Ussire...»
«Con me, a Londra?»
«Con mi, a London?»
Charlotte fissò Marco, incerta. Non sapeva nemmeno cosa avesse detto, aveva solo intuito il nome della città.
«Vuoi...ussire...con me, a London?» ripetè Charlotte, cercando di concentrarsi sulla pronuncia.
«Che sfacciate che siete voi irlandesi, chiedere di uscire ad un ragazzo! Va bene, accetto ma solo perchè sei tu!» rispose Marco, alzandosi e facendole un occhiolino «Buonanotte, e spegni le luci quando vai a dormire!» la salutò a bassa voce, prima di risalire due gradini alla volta.
Charlotte spalancò la bocca, sconvolta. Aveva appena chiesto ad un ragazzo di uscire?
«Maledetto...!» esclamò divertita, scuotendo la testa e finendosi il bicchiere di vino.

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Capitolo 3
*** Blends ***


3. Blends
 


Linea Ferroviaria Norwich-Londra, 4 Febbraio 1911

La campagna inglese scivolava velocemente ai lati del treno che viaggiava a velocità sostenuta, in direzione di Londra. Era mezzogiorno e si trovavano già nel vagone ristorante di prima classe per consumare il pasto. Per una volta avrebbero potuto lasciare in pace la servitù anche se Charlotte, in ansia per il suo nuovo ruolo, era andata a controllare la sua padrona ben tre volte nel giro di quattro ore.
«Buon appetito, signori» annunciò il maitre del vagone, con un vago accento francese, una volta servito il loro pasto.
Ethel sorrise alla sua piccola famiglia e prese a mangiare, poco e niente data la perenne distrazione che aveva alla sua destra, verso il paesaggio che cambiava velocemente.
«Quando arriva Alfred con la sua fidanzata?» chiese George, prima di bere un sorso di vino.
«Non ne sono sicura, ma sicuramente non oggi. Forse domattina per colazione» precisò Lady Maud.
«Domattina?» ripetè Ethel, come se avesse appena sentito una notizia orribile «domattina devo andare in orfanotrofio...»
«Oh si certo, la paladina degli afflitti e dei deboli» brontolò acida Daisy, giocando col suo cibo. Come sempre, aveva mangiato pochissimo.
«Abbiamo problemi alla struttura, spero di tornare in tempo per il pranzo» rispose Ethel, ignorando la ragazza come aveva imparato a fare negli ultimi anni.
«Va bene, non credo che Alfred si offenderà: hai un impegno d'altronde» commentò pacata Lady Maud, tagliando la sua bistecca.
«Perchè dovrebbe offendersi, non è essenziale che Ethel sia con noi ogni santissimo istante»
«Daisy...»
«Cosa ho detto che non va?»
«Non voglio che le parli così»
«Ho solo detto che non è vitale che Alfred la veda appena arrivato. Intratterrò io mio fratello e la mia futura cognata come si deve...sono io la padrona di casa»
«Fino a prova contraria, sono io la padrona di casa Daisy» precisò sua madre, posando la forchetta sul tavolo «questo tono altezzoso non mi piace affatto, signorina. Smettila di darti tutte queste arie»
Daisy fece per aprire bocca ma a George bastò schiarirsi appena la voce: era il segnale che stava per perdere la calma, e che era meglio smetterla. Daisy strinse con forza la forchetta, facendo cadere un profondo silenzio «Con permesso...» si limitò poi a dire, alzandosi ed uscendo dal vagone.
Ethel sospirò: Daisy arrabbiata non era mai una bella cosa. Osservò George, lo sguardo irritato, e Lady Maud.
«Non guardarmi così, cara, lo sai che ho ragione: Daisy è viziata e altezzosa, deve capire come si sta al mondo. I tempi del potere nobile sono passati...» commentò la donna, riprendendo a mangiare.
Tacquero a lungo, finendo il loro pranzo avvolti da un silenzio glaciale rotto solo dallo sferragliare delle rotaie del treno. Una volta terminato il pranzo tornarono nel loro vagone: Daisy non era lì.
«Dove sarà andata?» mormorò Ethel, come se gli altri potessero saperlo. In tutta risposta Lady Maud si sedette sul divano, sistemando poi il bastone da passeggio al suo fianco.
«Sarà andata a sbollire la rabbia da qualche parte»
«Dovremmo trovarla, sono preoccupata»
«Vado io» s'intromise George avvicinandosi alla porta.
«Sicuro?»
«Si, tu resta con la zia...» mormorò George verso la sorella, prima di uscire dal vagone.


Il vento le scompigliava i capelli. Le ruote sulle rotaie sfregavano forsennate, creando un sibilo metallico fastidioso, ma che soffocava i mille pensieri che aveva in testa. Si asciugò le lacrime ormai secche sulle guance, tornò ad aggrapparsi alla balaustra esterna dell'ultimo vagone, la coda del treno. Deglutì, stringendo la bocca sottile.
«Eccoti qua» annunciò George, la voce abbastanza alta per farsi sentire. Si girò di scatto, qualche ciocca castana scivolò sul viso prima che le riportasse, ubbidienti, dietro l'orecchio. Non disse nulla al ragazzo, ma tornò a guardare davanti a sé.
«Cos'è, fai la ragazza incompresa che si abbandona al vento della natura?» chiese ironico Geroge, affiancandola.
«Va a farti fottere, George»
«Provvederò appena arriviamo a Londra»
Daisy lo fulminò, ma sollevò un angolo della bocca. Era così sveglio, dalla battuta pronta, non come quei ragazzi rigidi e seri che frequentava lei, a cui importava solo dei soldi e degli affari.
«Io ancora non capisco perchè tratti Ethel in quella maniera»
«Perchè non se lo merita? Con quella sua aria da...perbenista, perfettina»
«Ethel non è perfetta, e tu lo sai. Ma è buona, e non c'è nulla di male»
«La difendi troppo, George, la chiudi in una campana di vetro...»
«E' mia sorella, devo proteggerla, è l'unica persona a cui tenga»
«E a me?» Daisy si girò verso di lui, cercò la sua mano. George gliela strinse, lei avanzò ancora, sinuosa e pericolosa come un serpente «a me non ci tieni, George?»
«Come ad una sorella...» precisò il ragazzo, rigido, fissandola dall'alto.
«Non sono tua sorella, non sono una tua parente, George...»
«E quindi?»
«E quindi...» precisò Daisy, accarezzandogli una guancia «potremmo divertirci un po', ogni tanto»
George si ritrasse lentamente, sospirando. «Daisy, lo sai che non mi piace questa storia»
«Oh lo so bene, sono anni che provo a convincerti. Cos'è? Non sarai mica...» e sorrise maliziosa.
«Ma va a farti fottere» brontolò George, seccato e offeso nella sua virilità, prima di rientrare nel vagone sbattendo la porta. Daisy ridacchiò, divertita: adorava stuzzicarlo.
Sapeva che non era gay: da ragazzini, quando lei gli si avvicinava, lo vedeva sempre rosso come un peperone, e una notte lo sentì nel sonno chiamare il suo nome. Eppure niente, a distanza di anni non era riuscito a convincerlo a trascorrere una notte con lei. Aveva il sentore che George fosse vergine in tutto e per tutto. E la cosa la incuriosiva.
“Solo quello?” Pensò tra sé. Deglutì. Una piccola parte di sé...si, molto piccola...era attrata da lui in maniera singolare quanto irreversibile. Ma non poteva innamorarsi di lui: era un ragazzo di terza classe.


«Miss, tutto bene?» chiese Charlotte entrando nel vagone salotto. Si pentì subito di aver parlato: Lady Maud dormiva sul divanetto, mentre Miss Herbert le faceva segno di fare silenzio. Si avvicinò lentamente, guardandosi attorno: era un vagone della dimensione uguale agli altri, ma arredato in maniera totalmente diversa. Le pareti erano di legno rosso, lucido, con lampadari dorati agganciati alla parete. Divanetti di velluto rosso, un tavolino agganciato alla parete, quattro sedie probabilmente agganciate al pavimento; un tappeto persiano, l'aria ben riscaldata, cuscini di velluto rosso, tutti i dettagli in oro. Sarebbe andata volentieri fino in Cina in un vagone del genere.
«Che ore sono, Charlotte?» la domanda di Miss Herbert la fece risvegliare da quelle scene immaginarie.
«Le tre, miss, mi spiace essere passata così tardi ma...»
«Facciamo così: ci vediamo direttamente quando arriviamo, mh? E se ho bisogno vengo io a chiamarti» precisò Ethel, secca
Charlotte deglutì, poi annuì lentamente e fece per uscire.
«Charlotte?»
«Si Miss?» chiese la giovane, lontandosi veloce.
Ethel sospirò, sedendosi. «Scusa, non volevo risponderti male, è che questo movimento del treno mi...mi mette la nausea»
Charlotte sgranò appena gli occhi: quando mai una nobile si scusava per il proprio comportamento? La raggiunse, con calma, mentre l'altra si sedeva al tavolo.
«Vuole che chieda di portarle del thè, Miss?»
«No, no ti ringrazio. E' che ho litigato con Daisy, Miss Norton insomma...e George è andato a cercarla e non torna, sono preoccupata. Vorresti farmi compagnia finchè non tornano?»
Charlotte annuì, rimanendo in piedi. Ethel le fece cenno di sedersi e la ragazza ubbidì, come un soldatino. Non si era mai seduta allo stesso tavolo di una nobile, né tantomeno della sua padrona di casa.
«E' colpa mia, parlo troppo e a Daisy dà fastidio. Stavo dicendo di quella visita della Regina, no? E a lei ha dato fastidio, non dovevo dirglielo» brontolò Ethel, osservando fuori dal finestrino. Charlotte tacque, non interpellata. Avrebbe chiacchierato volentieri ma tre sterline al mese la tenevano con la bocca ben chiusa.
«Ebbene?»
«Cosa?»
«No, dico...in una conversazione si parla in due, sai. Se io sono preoccupata, tu dovresti tranquillizzarmi. Sei o no la mia cameriera?»
«Lo sono»
«Appunto»
«Non...conosco Miss Norton, tanto da poter dire come avrebbe dovuto o meno reagire, Miss. Ma stavate solo facendo conversazione ed era una bella notizia la vostra, non solo per voi ma...per tutti. Siete una famiglia no?»
Ethel sorrise appena, amareggiata. «Già...Grazie, Charlotte, mi sento già meglio»
«Di nulla Miss»
La porta del vagone si aprì, accogliendo Mr Herbert. Charlotte si alzò di scatto, come colta in flagrante.
«Oh, Miss Murphy»
«Buon pomeriggio, signore. Facevo compagnia a Miss Herbert, io...»
«E' quello il tuo compito no?» le chiese George, facendole l'occhiolino. Si avvicinò a Ethel e le baciò la nuca. «Con Daisy ho risolto, sta bene, fra poco torna»
«Come hai fatto a farla sbollire?»
George scrollò le spalle, senza aggiungere altro, quindi si sedette e prese a leggere il Times.
Charlotte sorrise appena verso Ethel.
«Torno nel mio vagone, Miss. Se ha bisogno di me...»
«Ti faccio venire a chiamare, si. Grazie Charlotte»
«Di nulla Miss»


Aprire la porta del vagone della terza classe fu come prendere una boccata d'aria pura. Un paragone poco azzeccato, data la nuvola di fumo che rendeva le sagome dei passeggeri quasi lontane, impalpabili. Un forte odore di whiskey mescolato a sudore le fece arricciare il naso. Passò davanti a Marco e ad un garzone della cucina, entrambi addormentati con la testa poggiata una contro l'altra. Sorrise tra sé, quindi raggiunse Josephine e si lasciò cadere sul sedile. Lì il rumore delle rotaie si faceva sentire di più, ma veniva quasi superato dal vociare continuo: donne che parlavano tra loro, bambini che piangevano, uomini che litigavano a carte...
«Tutto bene in prima classe?» chiese Josephine, alzando la voce per farsi sentire.
Charlotte si limitò ad annuire, poggiando indietro la testa e sospirando.
«Allora...ti ha chiesto scusa?»
«Chi?»
«Quello là» Josephine indicò col mento Marco, che russava.
«No, si...cioè più o meno»
«No, si o più o meno?»
Charlotte guardò la collega, indecisa se dirle tutto, ma alla fine le raccontò brevemente quanto accaduto la sera prima. Josephine sorrise divertita e scosse la testa.
«Cosa ne pensi?» le chiese alla fine Charlotte.
«Penso che quel ragazzo è proprio strano. E' tipico di lui fare così, ma non ha mai chiesto a nessuna di uscire, non a noi della servitù almeno. Tu ti fidi?»
Charlotte si girò indietro, verso la sagoma dormiente del ragazzo, poi scrollò le spalle. «Non lo so...sembra simpatico. Possiamo provare»
«Lo sai che non possono esserci relazioni tra la servitù però...»
«Lo so, ma non ho detto che siamo innamorati no?» precisò Charlotte «usciamo da amici, in simpatia»
«Non farti solo mettere incinta»
Charlotte arrossì vistosamente, fissandola sconvolta. «Ma per chi mi hai preso?!»
Josephine scrollò le spalle, sorridendo. «Solo un consiglio»
«Certo che non mi faccio mettere incinta, non vado mica a letto con lui solo perchè mi ha invitato a uscire»
Josephine le sorrise soddisfatta. «Proponigli qualcosa di tranquillo, nessuna passeggiata romantica. Magari una pattinata al Serpentine Lake»
«Perchè no...» mormorò Charlotte, pensierosa. Tornarono in silenzio, guardando entrambe fuori dal finestrino. Il treno ebbe un forte sussulto e Charlotte si aggrappò istintivamente al braccio di Josephine che, di tutta risposta, ridacchiò.
«E' la prima volta che viaggi su un treno vero?»
«Si vede così tanto?»
«Abbastanza. Io sono abituata a seguire la Lady, e la prima volta è stata quando avevo quattro anni: dal Missouri a New York sono tante ore di treno; senza contare poi quelle per mare per arrivare a Londra...»
Charlotte si limitò a sorridere e tornò a guardare fuori. Aveva il profilo di Josephine proprio alla sua destra, che si intrometteva tra lei e il paesaggio naturale. Si mise a studiare la collega con la coda dell'occhio: aveva la pelle scura e liscia come marmo, il naso leggermente a patata, la bocca carnosa, la mascella delicata, grandi occhi marroni, i capelli neri legati in un morbido chignon. Poteva avere si e no ventidue anni. Erano appena entrati nel millenovecentoundici. Fece un rapido calcolo, poi aggrottò le sopracciglia: non poteva essere...
«Josie?»
«Si..?»
«Quanti anni hai..?»
«Venticinque, fra qualche giorno. Sono nata lo stesso giorno di mia madre e mia sorella, sai?» rispose distratta.
Charlotte deglutì a vuoto, facendo un rapido conto. Se Charlotte aveva venticinque anni, era molto probabile che i suoi genitori...Oh no, pensò.
«Josie, i tuoi...i tuoi genitori erano...?»
«Schiavi? Si. Mia madre aveva otto anni quando è stata liberata, mio padre dieci, e raccoglievano già il cotone con i miei nonni, i miei zii, i miei cugini. Nel nostro Stato le schiavitù è stata abolita del tutto solo cinque anni dopo la data ufficiale. Io sono nata lì, ma sono cresciuta in Inghilterra, come una cittadina libera»
«Mi dispiace, io non volevo farti ricordare quei fatti. Non avevo mai conosciuto..»
«Una figlia di schiavi? Oh beh, eccomi qua» rispose secca Josephine, guardando fuori dal finestrino. Charlotte le prese istintivamente la mano: le loro mani -una color latte ed una color cioccolato- facevano un piacevole contrasto insieme. Josephine si volse, fissando Charlotte.
«A me non importa nulla della tua pelle, Josie, mi importa solo di essere tua amica se ti va. Non avevo mai collegato la tua storia a quella dell'abolizionismo, e mi dispiace che la tua famiglia abbia sofferto per mano dei potenti. Non volevo crearti dolore, davvero»
Josephine sorrise appena, stringendole la mano. «Non preoccuparti...ed anzi scusami tu» mormorò, gentile.
Charlotte le lasciò la mano e poggiò la testa indietro, sorridente. Mancavano ancora tre ore alla fine del viaggio: aveva tutto il tempo per riposare. Si addormentarono quasi nello stesso momento, consapevoli che una volta arrivate a Londra avrebbero dovuto lavorare sodo fino a tarda serata.

 
Londra, lo stesso giorno
«Finalmente...» annunciò Lady Maud con un sospiro, mentre scendeva dalla vettura aiutata da George.
«Appena in tempo per il thè» commentò Ethel entusiasta.
«Londra! La città più bella del mondo, sono così felice di essere qui anziché in quella noiosa Norfolk» commentò Daisy, raggiante mentre superava il vialetto della villa, diretta al portone.
«Oh dai, Norfolk non è male...» ammise calma Ethel: non voleva farla arrabbiare.
«Si, beh, ma Londra è meglio. E' piena di gente, di posti...di divertimenti. Non vedo l'ora di cominciare!» esclamò l'altra, come se stesse per andare a caccia.
Ethel scese dalla vettura e potè finalmente godersi lo spettacolo di Little Hall, la villa di città dove aveva più ricordi della sua infanzia. Era una villa vittoriana di tre piani, bianca e celeste. Un ampio giardino, con un piccolo gazebo di pietra bianca e un'altalena appesa ad un albero; la verenda, la sedia a dondolo, i balconcini che si affacciavano sulla zona notte...tutto era identico da come l'aveva sempre ricordata. Varcarono la soglia della villa, ritrovandosi nell'ampio ingresso dove erano stati momentaneamente sistemati i bagagli. Ethel prese a girovagare per i corridoi e le stanze, facendo rimbombare i propri passi. Si sfilò il cappello dalla testa, continuando a camminare mentre le domestiche aprivano le imposte, illuminando le stanze con il sole intenso di quella giornata. Quella casa era piena di ricordi, e quasi tutti avevano come fulcro Alfred e George, i suoi “fratelli” e compagni di giochi infantili. Doveva ammetterlo: non vedeva l'ora di rivedere Alfie.
«Si hanno notizie di Mr Norton?» chiese a Miss Rossi, incrociandola nel corridoio.
«No, Miss, ancora no...ma siate certa che si farà vivo appena saprà del vostro arrivo» commentò la governante, sorridendo gentile «se volete potete accomodarvi nel salotto qui al primo piano: abbiamo acceso il camino ed il thè è quasi pronto. Fra qualche ora l'ambiente sarà ben riscaldato, gli altri sono già lì»
«Oh bene, grazie...» rispose Ethel, sovrappensiero. E se George avesse davvero ragione? Se Alfred fosse davvero un altro ragazzo rispetto a quello che lei ricordava? Non poteva essere, non si poteva cambiare così tanto, nemmeno per la carriera. Nemmeno fidanzati. Prese a camminare verso il salotto mentre i ricordi riaffioravano vividi nella sua mente...

Little Hall, estate 1890
«Più in alto, Alfie, più in alto!» gridò allegra, dondolando sull'altalena. Nel picco più in alto poteva vedere il giardino dei vicini, e persino le alte torri di Londra.
«Guarda che così cadi!» brontolò suo fratello, seduto sotto al gazebo a leggere un libro.
«Oh dai Georgie, non le succede nulla! Ci sono io qua, no?» commentò Alfred, il più grande dei tre. Continuò a spingere Ethel sull'altalena, prima di portarsi davanti a lei, sorridente.
«Guardami, Georgie, visto come volo? Guardami Alfie!» Ethel rideva, felice, e continuò a ridere fino a quando l'altalena non si fermò. Guardò Alfred, perplessa.
«Perchè non mi spingi più?»
«Perchè Georgie ha ragione, potrebbe girarti la testa. Perchè non andiamo a giocare a palla?» chiese Alfred, porgendole la mano. Ethel scese dall'altalena, si sistemò il suo bell'abito bianco, quindi prese la mano di Alfred, sorridente. Il bambino l'abbracciò, con affetto, prima di attenderla mentre raccoglieva la palla.
«Giochi, Georgie?» chiese all'altro.
«Mi limito a guardarvi da qui, grazie» commentò il serio bambino, lasciandosi sciogliere da un sorriso solo quando Ethel lo salutò dal giardino, ridente e sorridente in quella bella giornata estiva...


«Oh, un grammofono!» esclamò entusiasta Daisy mentre Ethel entrava per ultima nel salotto. Gli altri erano già intorno allo strumento, curiosi. La mobilia di Little Hall era decisamente più recente e moderna rispetto a Rose Castle, e le pareti chiare donavano più luce alla stanza.
«Deve averlo comprato Alfred, l'ultima volta non c'era» commentò Lady Maud, il fiato corto. Era stanca, Ethel glielo leggeva negli occhi nonostante cercasse di sorridere. Non sarebbero dovuti venire nemmeno quell'anno, Lady Maud non era in forze per affrontare una permanenza così lunga.
«C'è un biglietto» annunciò Daisy raccogliendo un foglio vicino al grammofono «“Per la mia bellissima famiglia, un piccolo regalo per intrattenerci durante la vostra permanenza a Londra. Ci vediamo al vostro arrivo, Alfie”» lesse, confermando così la teoria di Lady Maud.
Josephine entrò, dopo aver bussato, con il vassoio del thè. Poggiò le tazze e i biscotti sul tavolino, quindi uscì richiudendo la porta.
«Sono così felice di rivedere Alfie, e di conoscere la sua fidanzata» commentò entusiasta Daisy prendendo una tazza. Ethel le sorrise, sincera: si era dimenticata di quanto Daisy fosse a suo agio e quasi più gentile a Londra.
«Credo che siamo tutti curiosi» commentò sincera.
«Oh si. E' sicuramente bella oltre ogni dire, poco ma sicuro. Nessuno potrà tenerle testa» rispose Daisy, fiera, come se l'avesse scelta lei personalmente.
«Quanti anni ha?» chiese curioso George.
«Mh, credo venti»
«Però, bella giovane...» commentò il ragazzo, malizioso.
«Oh sono solo dieci anni di differenza, cosa vuoi che sia quando c'è l'amore?» chiese Daisy sorridente.
«Si, l'amore...» commentò ironica Lady Maud, facendo ridacchiare i due fratelli.
«La bellezza e una buona dote sono bastevoli per far innamorare, non credete madre?» chiese Daisy, piccata.
«Ne dubito fortemente. Siamo nel ventesimo secolo, Daisy, la gente può sposarsi per amore, ne ha tutto il diritto»
«Non noi, madre...noi siamo persone di prima classe. E' come mescolare il bianco col nero»
«Il bianco con il nero creano eccezionali sfumature e adorabili...mescolanze» commentò Ethel, sorridendo.
«Mescolanze, dici. Io dico che chi mescola troppo i colori rovina il dipinto» precisò secca Daisy, tornando in silenzio a bere il suo thè.


«Posso, Miss?» Charlotte bussò alla porta ed attese il permesso prima di entrare. Miss Herbert era in piedi, con le mani dietro la schiena, che cercava di slacciarsi da sola il corsetto.
«Miss, aspettate, vi aiuto» annunciò la cameriera, richiudendo subito la porta e andandole incontro.
«Grazie Charlotte. Speravo di riuscirci da sola, non volevo disturbarti almeno questa sera. Sarai esausta» mormorò stanca Ethel, lasciandosi slacciare il corsetto.
«Affatto, Miss, non dovete preoccuparvi. Ecco fatto. Vi aiuto con la veste da notte»
«Ma ci mancherebbe!» esclamò Ethel ridacchiando «ho ancora le mani, sai?» precisò ironica, infilandosi da sola l'indumento.
Charlotte sorrise, prima di chiuderle la veste. «Volete che vi pettino i capelli?»
«Se proprio ne senti la necessità...»
«Vengo pagata per farlo, Miss, il minimo che possa fare è eseguire il mio lavoro...»
«Giusto» precisò Ethel, sedendosi davanti lo specchio. Si rilassò al lento pettinare di Charlotte, socchiudendo gli occhi. Rimasero a lungo in silenzio, rilassandosi al suono lieve del fuoco e dello spazzolare la chioma nera.
«Vi sentite meglio rispetto ad oggi?» chiese infine Charlotte, in un sussurro.
«Molto, grazie. Questo posto ha il potere di...rilassarmi. E' qui che ho i migliori ricordi della mia vita, è qui che vivevo per la maggior parte dell'anno quand'ero piccola. Era lontano da...da tutto, da casa mia, dai miei genitori...in quel periodo eravamo felici e innocenti. Perchè bisogna per forza crescere?»
Charlotte sorrise, continuando a spazzolarle i capelli. «Me lo chiedo spesso, Miss. Suppongo che sia la bellezza e la bruttezza della vita: da piccoli non si può godere di molte cose, come ad esempio...l'amore, o la realizzazione personale. Non si capiscono molte cose, da piccoli, e può essere un bene od un male. “Beata ignoranza”, dice sempre mia zia»
«Tua zia ha ragione» commentò Ethel, divertita «eravamo davvero ignoranti ma beati. Ora siamo solo ignoranti» precisò ironica, facendo ridacchiare la cameriera.
«E' piacevole parlare con te, Charlotte, dico davvero...sono certa che diventeremo amiche» commentò seria Ethel, sorridendole dallo specchio.
«Lo spero, Miss...» mormorò gentile Charlotte, continuando in silenzio nel suo lavoro.

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Capitolo 4
*** Poor & Rich ***


4. Poor & Rich



Londra, 5 Febbraio 1911

Il mattino dopo, di buona lena, Ethel si svegliò presto. Dopo una colazione veloce e senza incontrare nessun altro che la servitù, uscì dalla villa diretta all'orfanotrofio. Era una bellissima giornata di sole, nonostante il freddo, così convinse l'autista a lasciarle la vettura per guidare in solitaria.
Così, sciarpa al collo e serbatoio pieno, si diresse verso la St.Mary's House. L'orfanotrofio non si trovava in periferia, come molti altri, ma quasi in centro città, in una zona tuttavia poco benestante e poco bella. Era in un perfetto crocevia, dove poteva essere ammirato da ricchi borghesi, nobili ed anche poveri, per dare un segno: qualcuno pensava anche a loro, e in maniera sincera e vera.
Era una bella casa vittoriana a due piani, con un giardino recintato ed una casupola per il guardiano, Mr Gordon, che la accolse con calore, abbracciandola.
«Bentornata Miss! Come sta? E Lady Maud?» chiese il sessantenne, un uomo socievole e affettuoso che subito aveva conquistato l'amicizia di Ethel, cinque anni prima.
«Stiamo entrambe bene, siamo arrivate ieri a Londra e non vedevo l'ora di venire a trovarvi. Stanno sistemando le tubature?»
«Come da lei ordinato, Miss. Le parcheggio l'auto?» chiese, speranzoso.
«Vedi di non rovinarla, Charles, potrebbero disconoscermi definitivamente dalla famiglia»
«Sia mai, Miss, sia mai!» esclamò divertito l'uomo, prima di salire sulla vettura. Ethel scosse il capo, divertita, quindi attraversò il giardino, pieno di bambini che giocavano nel prato. Salutò le volontarie ed alcuni ragazzi loro ospiti, i più grandi che potevano ricordarsi della loro direttrice, quindi varcò la soglia, rabbrividendo. Faceva più caldo fuori che dentro.
«Miss Herbert!» la voce delicata e ansiosa di Miss Bridge la raggiunse subito, mentre la giovane scendeva le scale andandole incontro «E' una gioia rivedervi»
«Anche per me, mia cara. Come state? Qui dentro si gela...»
«Sto bene, solo un pò di tosse. I manovali sono già al lavoro, dicono ci vorrà qualche giorno ma poi dureranno anni, dicono...Volete vedere?»
Ethel scrollò le spalle. «Per quel che ne capisco...andiamo, si. Intanto raccontami: ci sono novità?»
«Una giovane coppia, ricchi, hanno chiesto l'adozione dei Winters. Ho controllato: sono di buona famiglia, buone entrate, nessun problema con la legge, frequentano la chiesa anglicana di Londra...persone a posto, ho fatto loro un colloquio iniziale ma ovviamente spetta a lei la parola, Miss»
«Finalmente quei tre scalmanati troveranno pace! Molto bene, mi fa piacere»
«E poi c'è la nonna di Emily, che è tornata dell'America. Non sapeva che la nipote fosse diventata orfana, non aveva più legami con la famiglia...lo ha saputo dalla lettera di una sua vicina. Vuole portarla con sè in America, sempre se lei è d'accordo»
«Vorrei parlarci, prima, ma non vedo perchè no. Meno bambini ci sono qui, più ce ne sono di felici, no? Noi dobbiamo fare la loro felicità, e stare qui non li aiuta. Notizie per Joseph?» chiese, speranzosa.
Il sorriso della Bridge s'incrinò. «Ancora nulla. Nessuno lo vuole, un bambino muto»
Ethel si massaggiò il collo, sospirando. «Dopo andrò a fargli visita» mormorò, non lasciando trasparire l'affetto che provava per quel bambino, un affetto che ormai tutti conoscevano.
Arrivarono nella zona caldaia della struttura, dove quattro operai stavano lavorando.
«Buongiorno, milady! Sono Mr Frangetta. Mi sto occupando più velocemente che posso del problema, ma temo sia una questione lunga: se faccio un lavoro veloce, il problema potrebbe ritornare fra poche settimane!» gridava il capo squadra perchè i suoi sottoposti lavoravano rumoreggiando nella stanza
«Va bene, Mr Frangetta, non si preoccupi! Ci metta il tempo che le serve, ma senza esagerare: mio fratello è un uomo pratico e si accorgerà se vuole spillarci più soldi facendo più giorni di lavoro!» gridò di rimando Ethel, prima di fargli un occhiolino di intesa. L'uomo sorrise, in imbarazzo, prima di tornare al suo lavoro. Le due giovani risalirono ai piani alti.
«I camini vengono accesi nelle ore più fredde?»
«Certo Miss, e ho fatto trasferire i bambini più piccoli nelle stanze più calde. Alcuni dormono anche con le volontarie, semplicemente per riscaldarsi meglio. Ho ordinato la carne, come mi avete chiesto. Per ora nessuno si è ammalato, solo qualche starnuto»
«Molto bene, ora che li vedo mi sento sollevata. Ero in pensiero per loro...»
«Miss, vi ricordate che presto...arriverà la Regina, vero?» chiese la Bridge, timorosa.
«Certo che lo ricordo. Ma prima di invitarla dobbiamo sistemare il riscaldamento non trovi?»
«Certo. Pensavo solo che ve n'eravate dimenticata...mi sembrate un pò sovrappensiero» ammise l'altra.
«Perchè lo sono. Sono preoccupata per questi bambini, ma ringraziando Dio l'inverno sta finendo ed io rimarrò qui per tutta la stagione, verrò a farvi spesso visita. In quanto ai soldi, non dovete preoccuparvi»
«Miss Herbert, non avrete preso ancora denaro dalla vostra parte...?» chiese la vice-direttrice, mortificata.
«Da dove vengono non deve importare, Julia, purchè arrivino. Io li ho, sono miei e li gestisco come voglio. Meglio per loro che per i vestiti come fa mia cugina, no?»
«Immagino di si, Miss...» ammise l'altra, sorridendo appena.
«Appunto» precisò Ethel, sorridente.

Quando la pendola dello studio battè mezzogiorno e mezzo era nel ben mezzo di un colloquio per una coppia di aspiranti genitori. Era già ora di pranzo? Sbiancò appena, ricordandosi solo in quel momento dell'inesorabile ritardo che avrebbe fatto a Little Hall. Fece cenno a Miss Bridge di avvicinarsi e le sussurrò qualcosa all'orecchio, prima di proseguire. Le dispiaceva non poter salutare Alfred e Candice, avrebbe dovuto avvisare prima, o non prendersi l'impegno di conoscere le coppie di genitori...ma non aveva certo immaginato che Miss Bridge avesse organizzato i colloqui conoscitivi prorpio quel giorno?
Ethel si alzò lentamente dalla scrivania, imitata dalla coppia avanti a sè.
«Perdonatemi ma dobbiamo interrompere la nostra piacevole chiacchierata: i bambini devono pranzare e aiuto le volontarie a servire il pasto. Fateci sapere quando potete tornare, io sarò qui fino a giugno quindi avremmo sicuramente modo di vederci. Buona giornata» annunciò, sorridente, stringendo loro le mani prima di farli accomodare verso l'uscita.
Quando arrivò nella sala della mensa le volontarie stavano già servendo i pasti. Si aggirava tra i tavoli, salutando i bambini non visti la mattinata o incoraggiando altri a mangiare. Adorava stare con quei bambini: erano la sua seconda famiglia. Poi vide Joseph, vicino due ragazzi di dieci anni, e il suo cuore si strinse.
Buongiorno, Joseph, come stai? Gli chiese muovendo lentamente le mani nella lingua dei segni.
Non ho fame oggi, Miss Ethel, rispose il piccolo fissandola con aria colpevole. Ethel sospirò, quindi gli sorrise e gli fece segno di alzarsi. Si sedette al suo posto e lo fece sedere sulle sue gambe. Chiese a Miss Bridge di portarle il pranzo lì e così, un cucchiaio lei ed uno Joseph, lentamente finirono il pranzo.
Devi mangiare se vuoi crescere Joseph.
Perchè devo crescere, miss?
Perchè così qualcuno potrebbe adottarti, potrebbe farti diventare suo figlio, e vivresti con una bellissima famiglia...
Perchè non posso diventare suo figlio, Miss?
A Ethel si strinse la gola in un nodo. Gli baciò la fronte e lo abbracciò, colpita da quella richiesta così diretta e sincera.
Perchè non ho un marito, tesoro, e senza marito non posso tenerti a casa mia.
Allora trovatelo, così possiamo abitare tutti insieme sotto lo stesso tetto no?
Un discorso che non faceva una piega, pensò Ethel. Il problema era proprio il marito da trovare.
Giuro che proverò a cercarlo, ok tesoro? Tu però promettimi di mangiare sempre tutto, si?
Si, promesso Miss Ethel.



La pendola battè le undici e, nello stesso istante, George sentì la trombetta di una macchina risuonare per tutto il viale, festoso. Ricontrollò l'orologio da taschino, per sicurezza, quindi con un sospiro chiuse il registro e si alzò, sistemandosi il gilet e la giacca. Uscì dallo studio e camminò nel corridoio verso le scale affacciate sull'ingresso della casa.
«Dov'è la mia sorellina?!» gridò euforico la voce entusiasta di Alfred che varcava la soglia in quel momento. George, dalla cima delle scale, vide Daisy correre dal salotto verso il fratello, saltandogli addosso entuasiata.
«Eccola la mia bella Venere!» esclamò il giovane, prendendola al volo e facendola girare appena intorno a se stesso. Si baciarono sulle guance, sorridenti, prima di abbracciarsi di nuovo.
«Ah, Daisy...lei è Candice» annunciò Alfred, fiero, indicando la giovane donna al suo fianco. George la studiò qualche secondo, non riuscendo a trovarne un solo difetto: alta e slanciata, con forme burrose strette in un abito blu all'ultima moda. Labbra carnose, pelle chiara, grandi occhi azzurri e setosi capelli dorati, raccolti alla Gibson sotto l'ampio capello bianco.
«Tanto piacere, cara, e benvenuta nella nostra famiglia. Daisy Norton, tua futura cognata»
«Il mio piacere è tutto mio, Miss Daisy» annunciò Candice. Nomen omen, pensò George: aveva una voce vellutata e gentile, come una caramella.
«George!» esclamò Alfred, cogliendo l'amico in flagrante mentre l'occhio gli cadeva sul decoltè di Candice. Sorrise, congelato, quindi scese le scale.
«Quanto tempo!» esclamò Alfred, abbracciando George e ricambiato, questa volta con sincerità. Si guardarono, sorridendosi l'un l'altro, con le mani sulle spalle dell'altro.
«E' bello rivederti amico mio...»
«Anche per me, Alfie...Miss, molto piacere, George Herbert»
«Mio cugino» precisò Alfred, presentando i due.
«Candice Williams, tanto piacere» rispose, composta e gentile, stringendogli la mano.
«Mamma?» chiese Alfred verso Daisy.
«Vi sta aspettando nel salotto. Il pranzo sarà pronto per mezzogiorno, va bene?» chiese Daisy, trovando conferma nella coppia. Fece quindi da guida a Candice, verso il salotto, parlando del più e del meno. Alfred sorrise, circondando le spalle di George.
«Allora, che mi racconti Georgie? Ethel?»
«Tutto bene, grazie. Ethel è ancora via, in orfanotrofio, sperava di liberarsi per pranzo ma temo che ormai sia in ritardo...»
«Che brava che è Ethel, davvero brava. Ha trovato marito?»
«Siamo entrambi liberi e felici» precisò George sorridendo appena.
«Peccato»
«Perchè?»
«Beh, Ethel è una brava ragazza. Ed anche tu sei un bravo ragazzo, vuoi che ti trovi moglie?»
George sorrise divertito. «No grazie Alfie, sto bene così...» precisò, dandogli una pacca sulla spalla. Entrarono nel salotto, e contemporaneamente Lady Maud si alzò dalla poltrona, retta sul suo bastone. Aveva messo un vestito elegante e bello, tipico della moda dei suoi tempi, con i capelli raccolti in una crocchia severa.
«Madre...» mormorò Alfred, abbracciandola e baciandola con amore.
«Ben rivisto, caro, ti trovo bene. E questa bella ragazza chi è?» chiese retorica Lady Maud.
«Onorata di conoscervi, milady, Candice Williams...»
«Piacere di conoscervi, Miss»
Si accomodarono, sorridendosi l'un l'altro.
«Allora, cosa mi raccontate? Novità dal Norfolk?»
«Ah la solita vita, mio caro. Nulla di nuovo. Tu, piuttosto? Novità da Londra? Raccontaci un pò come vi siete conosciuti»
«Che vuoi che ti dica, madre» rispose Alfred, stringendo la mano a Candice, che sorrise dolcemente. «E' successo nella stagione scorsa. Ero ad una festa di finanziamento, e Sir Lloyd aveva come ospite un suo caro amico e sua figlia, Candice. Sono americani, sai, ed erano in visita a Londra per la prima volta. Così quando l'ho vista...è stato un colpo di fulmine»
Si sorrisero, i due innamorati, e George e Maud fecero altrettanto, leggermente più rigidi.
«Un party per un finanziamento...» rieptè George, osservando Alfred.
«Oh si, per la WSL, sai...stanno costruendo tre grandi navi crocere. Le navi più grandi e veloci del mondo»
«E grazie al finanziamento, viaggeremo gratuitamente per il viaggio inaugurale del Titanic, fra due anni» precisò Candice, sorridendo.
«Caspita, deve essere...interessante» commentò George, non sapendo che altro dire. Guardò bene Alfred, mentre parlavano di borse valori e aste: a stento riusciva a riconoscerlo. Il ragazzo che ricordava amava l'arte e la musica, le passeggiate a cavallo, si era iscritto all'università per diventare uno scienziato e sognava di entrare nella Royal Society. Ed invece davanti a sè, in quel momento, aveva null'altro che un uomo d'affari, un magnate di tecnologia, di enormi pezzi di ferro galleggianti. Ethel sarebbe rimasta sconvolta da quella trasformazione, dato che non vedeva Alfred da quattro anni e lo ricordava così come se lo ricordava lui.
Senza nemmeno che se ne accorsero, la pendola della sala battè le dodici e mezzo. Puntuale Josephine aprì la porta, con garbo, annunciando il pranzo.
«Ed Ethel?» chiese perplesso Alfred.
«La vice-direttrice dell'orfanotrofio ha appena chiamato, Mr Norton: Miss Herbert si scusa ma ha problemi e deve attardarsi nella struttura, ma promette il suo ritorno per l'ora del thè, se potrete attenderla»
«Che peccato. Oh beh, vediamo se riusciamo a trattenerci ma in caso contrario immagino la potremmo salutare nei prossimi giorni» rispose il giovane, mentre si dirigevano nella sala da pranzo.



Quando con la macchina girò l'angolo, ritrovandosi davanti il viale alberato e le delicate ville vittoriane, erano ormai le quattro. Era notte, ed i fari e i lampioni stradali tagliavano la fitta oscurità tipica dell'inverno londinese, oltre che una leggera nebbiolina che aleggiava sulle chiome degli alberi, come sospesa per magia. Accostò la macchina, poi spense il motore e scese dalla vettura, stringendosi nel cappotto. Si guardò intorno: nessuna vettura era parcheggiata davanti casa. Perfetto, Alfred era via e non l'avrebbe vista in quello stato. Varcò la soglia, sorridendo subito al tepore che l'accolse rispetto al freddo glaciale che si respirava fuori.
«Buon pomeriggio, Miss»
«A te, Josephine. Charlotte?»
«In cucina, Miss»
«Puoi dirle di salire in camera mia, per favore?»
«Certo Miss, subito»
E così salì velocemente le scale, in silenzio, diretta di filato in camera sua. Era in una mise disastrosa, e non poteva presentarsi così per il thè: nonostante Alfred non fosse in casa, era comunque indecente presentarsi in quella maniera. Aveva i capelli scomposti, lo chignon morbido si era afflosciato sciogliendo quasi del tutto i capelli. Sotto il cappotto marrone indossava un'anonima gonna nera e una camicia bianca, banale e usurata, che indossava quando stava molto tempo in orfanotrofio: il rischio di sporcare gli abiti era alto, e poi preferiva non mostrarsi troppo "benestante" agli occhi di chi la vedeva lì.
«Ci siamo quasi...» mormorò tra sè, girando l'angolo. Ma proprio in quel momento, dal fondo del corridoio, qualcun altro girò l'angolo camminando verso di lei. Si pietrificò a qualche metro da un giovane di bell'aspetto, vestito elegantemente e con folti baffi biondi rivolti appena verso l'alto.
«Ethel...» la chiamò il giovane, fissandola sorpreso.
Ethel sgranò gli occhi, riconoscendo Alfred. Era davvero lui?
«A-Alfie! Che bello rivederti» esclamò, confusa e imbarazzata. Sentiva il viso in fiamme, ma la gioia di rivederlo era troppa e superò l'imbarazzo. Si avvicinò con calma ma alla fine si abbracciarono con slancio, impacciati come due adolescenti.
«Non sapevo foste ancora qui, pensavo foste andati via! Scusa la mise, io...ero in orfanotrofio...» ammise in imbarazzo, facendo ridere il ragazzo.
«Ethel, ci conosciamo da una vita, non mi scandalizzo per due ciocche fuori posto»
«Forse tu no, ma la tua ragazza potrebbe. Quindi meglio che mi nasconda prima che la faccia svenire»
«Non essere sciocca» precisò lui, baciandole la fronte e osservandola, radioso, con le mani sulle sue braccia «va pure, tanto Candice è di sotto a parlare con Daisy di non so cosa: abbiamo deciso di rimanere giusto dopo pranzo, Candice era troppo curiosa di conoscerti...e io di rivederti, è tanto che non ci rivediamo, no?» le sorrise, circondandole le spalle in un abbraccio fraterno «Fai con calma eh, il thè viene servito fra un'ora ma tu vieni anche direttamente domattina se vuoi» la prese in giro poi, con aria divertita, prima di passare oltre e scendere le scale.
«Simpatico» commentò lei, facendosi udire dal ragazzo che le fece l'occhiolino. Sbuffò divertita prima di entrare nella sua stanza. Non si era immaginata così il suo incontro con Alfred, ma d'altronde come altro sarebbe potuto succedere? In maniera del tutto sincera, divertente e genuina. Cominciò a spogliarsi e sciogliersi i capelli, rimanendo in intimo. E nell'attesa di Charlotte, aprì l'armadio per vedere cosa indossare. Non sapeva nemmeno lei perchè tutto quel nervosismo per scegliere uno stupido abito: lei non era così, non era Daisy. Forse davvero voleva far colpo su Candice?
«Miss?» Charlotte bussò, entrando al benestare di Ethel «volete cambiarvi per il thè?»
«Si, ma prima cerchiamo di dare un senso ai capelli, mh? E trovami un abito da pomeriggio, per favore: elegante, ma niente di sofisticato. Quelli lasciamoli per la Regina..»

«Signori, il thè è servito» annunciò Josephine, poco prima che il pendolo battesse le cinque.
I camerieri entrarono con il thè e i biscotti, servendo i padroni di casa e gli ospiti.
«Lascia lascia» mormorò Ethel, sull'uscio della porta, quando l'ultima cameriera fece per richiuderla.
«Ah, eccola finalmente!» esclamò George, andandole incontro. «Sei in ritardo...» mormorò, baciandola sulle guance.
Ethel si limitò a sorridergli, prima che il fratello si fece da parte, sedendosi al suo fianco. Aveva optato per un abito di seta blu, con maniche fino al gomito, gonna stretta e un semplice ricamo dorato intorno allo scollo e alla vita stretta. I capelli raccolti in uno chignon ed un'aria pulita e semplice.
«Candice ti presento la mia cara cugina Ethel. Ethel lei è Candice, la mia fidanzata» le presentò Alfred mentre Candice si alzava.
«Miss Herbert, è un tale piacere conoscervi. Alfie mi ha parlato molto di voi»
«Ed altrettanto ha fatto di voi, Miss Williams. Tanto piacere» rispose Ethel, presentandosi.
Guardò poi Alfred, che le sorrise, e si baciarono le guance come due fratelli, salutandosi ufficialmente. Dopodichè tornarono tutti seduti, sorridenti, studiandosi l'un l'altra.
«Allora, come stanni i bambini dell'orfanotrofio?» chiese Lady Maud, mescolando il suo thè.
«Oh si raccontateci: Lady Maud ci ha spiegato che siete la direttrice della St.Mary's House, e che la Regina ha chiesto di farvi visita, vero?» chiese subito Candice.
Ethel annuì, mentre deglutiva il thè, poi osservò Candice ed Alfred. «Esatto. Abbiamo tuttavia avuto alcuni problemi con le tubature che ora stiamo risolvendo, e di conseguenza l'ambiente è molto freddo e poco accogliente di questo periodo»
«Poveri cari...» mormorò Candice «Alfie, perchè non facciamo un'offerta per aiutarli?»
«Non ce n'è bisogno, Miss, ma vi ringrazio lo stesso» rispose Ethel ancor prima che Alfred potesse aprire bocca «non è una questione che non abbiamo fondi, ma che il Council non ha a disposizione altri edifici, e quello che abbiamo noi è molto vecchio. Tutto qua. Ma con qualche lavoro di restaurazione possiamo cavarcela»
«Magari Alfred potrebbe fare pressione al Council per trovare un altro edificio» insistette Candice, sorridendo dolcemente verso Alfred.
«Posso provarci, ho qualche aggancio...» azzardò Alfred, che guardò Ethel. Quest'ultima lo fissò qualche secondo: che cosa diavolo era diventato? Un politico affarista?
«Qualche aggancio, santo cielo. Sei un parlamentare no?» intervenne Daisy, sorridendo divertita.
«Non serve, davvero» precisò Ethel, decisa ma con tono sereno. Sorrise ad Alfred e Candice «Non preoccuparti, Alfred, non ho bisogno che mi aiuti»
«Ethel e il suo orgoglio» brontolò Daisy, mordendo un biscotto.
«Non è questione di orgoglio, ma di poter contare su me stessa» precisò subito Ethel, sorridente.
«Molto bene, allora vi auguriamo di risolvere presto questo incombente. E chissà che riusciamo anche noi a visitare l'orfanotrofio quando c'è la Regina?» chiese Candice.
Ethel deglutì, in imbarazzo. «Beh, non...non vedo perchè no, certo...» si limitò a rispondere, pentendosene subito dopo.
Candice sorrise raggiante, soddisfatta. «Eccellente! Sentito, caro?»
«Sono molto contento per te, Candice...»
George si limitò a sorridere, notando una vena pulsante sulla fronte di Daisy: era furiosa.
«Pensavo che l'incontro non fosse aperto al pubblico, Ethel» commentò la giovane, senza nemmeno guardare l'altra negli occhi.
«Non lo è, infatti, ma Alfred fa parte della famiglia che finanzia l'orfanotrofio, e Candice la sua futura moglie. Non credo ci sia nulla di male nel farli venire all'evento»
«Quindi posso venire anche io» precisò Daisy. Non era una domanda, ma un ordine.
Ethel deglutì, sollevando appena le spalle. «Immagino di sì, Daisy, perchè no»
«E così un evento serio si trasforma in uno mondano» commentò secca Lady Maud, alzandosi poi dalla poltrona e suonando la campanella della servitù. Alfred fece subito per aiutarla, ma lei si limitò a sorridere «Perdonatemi, comincio ad essere stanca. Josephine, cara, cenerò nella mia stanza...Ethel, perchè non intrattieni i nostri ospiti suonando un pò?» aggiunse poi, lasciando tutti in piedi, nel dubbio.
«Si certo, zia...Miss Williams vi piace la musica?»
«Oltre ogni dire» rispose entusiasta Candice, che sembrava non aver colto la punta di fastidio nelle parole della padrona.
«Prego allora, andiamo in salotto...Alfred, George...» richiamò gli altri come a cercare un appiglio in loro.
«Andiamo, si!» esclamò allegro Alfred, prendendo sotto braccio Daisy e Candice. I giovani così uscirono dalla stanza, lasciando la cameriera in aiuto a Lady Maud.


«Allora, com'è questa Miss Williams?» chiese Charlotte verso Josephine. Era seduta al tavolo della cucina, a cenare insieme ad altre tre cameriere. Josephine era appena scesa dai piani alti. Era finita la cena, e i giovani si erano di nuovo attardati nel salotto per della musica. Avevano avuto un bel da fare per tutto il giorno: un conto era servire i loro padroni, un conto gli ospiti.
«Schifosamente bella e ricca. Ma secondo me è stupida come una gallina» rispose Josephine, facendo divertire i colleghi. Si sedette vicino Marco e si servì da sola le patate e il pollo.
«E Mister Norton?» chiese un'altra cameriera.
«Bello come il sole!» rispose Josephine entusiasta, facendo ridere le ragazze.
«Ehi, scusa un pò eh! Qui c'è gente molto più bella di Mr Norton!» esclamò Marco, indicandosi.
«Pff, ma dai per favore Mark...l'hai visto per caso?» chiese Josephine.
«Di vista...» mormorò vago il pasticcere.
«Beh ti assicuro che non sei più bello, senza offesa» precisò Josephine, sfottendolo «Mr Norton è alto e...slanciato. Spalle larghe, capelli castani tenuti con la brillantina, occhi verdi...un bel sorriso, modi affabili, belle mani...e come se non bastasse, è ricco sfondato»
Le cameriere ridacchiarono tra loro, ma Charlotte si limitò a sorridere divertita, finendo di mangiare.
«Secondo me è fin troppo bello. Voglio dire...con un ragazzo del genere una ragazza normale si sentirebbe in difetto. Ci credo che la sua fidanzata è altrettanto bella» commentò, facendo sorridere Marco che le fece l'occhiolino.
«Beh, questo è vero...ma spero che Mr Norton non sia come la fidanzata: bello e stupido» ribattè Josephine.
Il resto della breve serata si svolse tra chiacchiere e gossip, tutti felici di trovarsi a Londra, la capitale del divertimento.
«Murphy...» Marco richiamò Charlotte mentre stavano risalendo nelle camere da letto. Le strinse appena il polso, facendole riscendere i due gradini saliti poco prima.
«Ehi...»
«Allora, quando usciamo?»
Charlotte scrollò le spalle. «Non lo so, siamo appena arrivati, e io devo stare con Miss Herbert..»
«Oh avanti, ce l'avrai un giorno libero no?»
«Il lunedì»
«Domani, allora»
«No domani no, ho da fare con Josephine...»
«Bene, allora lunedì prossimo potremmo uscire, no? Magari una bella passeggiata romantica sul Tamigi...» propose lui sorridente, cercando di avvicinarsi al suo viso.
Charlotte si tirò appena indietro, ridacchiando. «Non ci pensare nemmeno, Conti. Facciamo invece un giro ad Hyde Park, che dici? La mattina»
«Mh...pieno giorno, un luogo pubblico...hai paura che ti molesto?»
«Non si sa mai» precisò lei ironica, facendo per risalire le scale.
«Ehi» mormorò serio il ragazzo, trattenendola di nuovo «so cosa pensano le altre di me, che sono un farfallone ma...»
«Beh non è che viene difficile pensarlo, Conti, dai»
«Lo so, però...tu mi piaci davvero, ok? Quindi voglio uscire con te, seriamente» precisò lui, serio, facendo arrossire la ragazza.
Sorrise appena, Charlotte, prima di annuire appena «Ok...»
«E poi se sono un farfallone perchè esci comunque con me?» chiese subito Marco, ridacchiando divertito.
Charlotte scrollò le spalle «Non ne ho la più pallida idea...» ammise sincera, prima di risalire definitivamente le scale.
Percorse velocemente i corridoi e le scale che conducevano alla camera di Mr Herbert: la fortuna voleva che quella villa fosse un ottavo più piccola di Rose Castle. Bussò alla porta ed entrò quando Miss Herbert le diede il permesso. La trovò al centro della camera, che si stava sfilando le scarpe dai piedi, muovendoli dolorante. Andò a ravvivare il fuoco, che rendeva tutto più caldo, quindi chiuse le tende e sistemò la toeletta.
«Charlotte?»
«Si Miss?» chiese, mentre la giovane si accomodava davanti lo specchio. Le sciolse i capelli e cominciò a pettinarli.
«Tu...pensi che Miss Williams sia desiderabile?»
La domanda la spiazzò, e se ne accorse quando incrociò lo sguardo della padrona attraverso lo specchio.
«Intendete fisicamente o...caratterialmente?» specificò, continuando a spazzolarle i capelli.
«Intendo...in generale»
«Beh...» cominciò Charlotte, deglutendo «io non me ne intendo molto ma trovo Miss Williams molto bella, si. Tuttavia...la bellezza non è tutto, e noi ragazze povere lo sappiamo» precisò, facendola sorridere «la bellezza e la ricchezza non valgono nulla, quando si è poveri. Vale il carattere, l'indole della persona: se è una persona assennata, dolce, amante della famiglia, seria e saggia. Ecco, potrei valutare di più Miss Williams se la conoscessi sotto questo punto di vista»
«Hai proprio ragione, Charlotte. Dato che non sono nè ricca nè bella, sono spacciata»
Charlotte sorrise divertita. «Non posso esprimermi sul primo aspetto, Miss, ma sul fatto che siate bella beh...a mio avviso siete molto graziosa»
«Dici?»
«Dico, si. Non avete nulla da invidiare a Miss Williams» precisò, sorridendole dallo specchio.

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Capitolo 5
*** Music to my ears! ***


5. Music to my ears


 
Londra, 13 Febbraio 1911
 
«Sei sicura che vuoi provarci? Voglio dire...se ti fai male non dare la colpa a me»
«Si presuppone che tu debba aiutarmi, Conti, non farmi cadere di proposito»
«E chi ha detto che ti farò cadere di proposito?»
«Io, perchè ti conosco»
Marco ridacchiò divertito, con la mano che teneva i lacci dei pattini appesi sulla spalla come un sacco di patate. Charlotte faceva altrettanto, non potendoli prendere con più grazia: quella lama sotto la suola la terrorizzava.
«Devi ancora dirmi dove accidenti hai preso i pattini da ghiaccio»
«Ehi, guarda che i soldi li ho, mica sono un poveraccio. Li ho comprati!»
«Li hai comprati...solo per oggi»
«Beh, speravo che dopo oggi potessimo pattinare ancora tante volte. Se non ti rompi una gamba ovviamente»
«Idiota» brontolò Charlotte divertita, spingendolo via appena. Marco ridacchiò, prima di circondarle le spalle con il braccio.
«Ah Murphy, ma chi ti fa ridere più di me!»
«Il fatto che tu mi faccia ridere non è proprio...una vittoria, lo sai vero?» chiese la ragazza, spostandolo con garbo.
«Beh almeno non ti faccio piangere» precisò lui, divertito.
Charlotte sorrise, scrollando le spalle. «Eccovi arrivati» annunciò poi, in prossimità del lago ghiacciato e di un gazebo di pietra «sediamoci lì, così possiamo infilarci questi cosi»
Si avvicinarono al gazebo, posto praticamente sulla riva del Serpentine Lake, completamente ghiacciato e già occupato da gente che vi pattinava sopra, chi con grazia e chi con “spirito di avventura”. Si sedettero sulle panchine di pietra, sfilandosi le calzature e infilando quelle da ghiaccio: sarebbe bastato fare un passo e “tuffarsi” sulla pista ghiacciata.
«Aspetta, ti aiuto» annunciò prontamente Marco vedendola in difficoltà a stringere i lacci. Si inginocchiò davanti a lei, facendole poggiare il piede sul proprio ginocchio, ed abile strinse i lacci.
«Non mi serviva aiuto veramente...» precisò Charlotte imbarazzata, cercando di guardare altrove.
«Non fare la forte, Murphy, non ti si addice dato quanto sei alta» commentò il ragazzo sfottendola «pensa solo a non infilazarmi questa lama nel ginocchi. Ecco fatto! Andiamo?»
«Ha parlato il gigante...» brontolò Charlotte, colpita nell'orgoglio da quella battuta. Poggiò incerta i piedi a terra e si alzò, rifiutando l'aiuto di Marco che, con un paio di passi, scivolò con grazia sul ghiaccio. Fece una piccola pattinata davanti a lei, prima di fermarsi ed aspettarla.
«Forza Murphy, che il ghiaccio non morde!» esclamò divertito.
«Idiota...» brontolò ancora Charlotte, rossa in viso, mentre si aggrappava disperata alla colonna del gazebo per scendere nella pista. Ma piuttosto che dargliela vinta, avrebbe pattinato col sedere. Alla fine vinse, poggiando incerta i piedi sul ghiaccio. La lama era troppo sottile, tuttavia, per stare ferma in piedi e senza muoversi: se ne accorse dopo due secondi, rischiando di crollare a terra, perdendo l'attrito giù labile sul ghiaccio. Si slanciò istintivamente in avanti e Marco la prese al volo, tirandola su da sotto le braccia.
«Niente male, ancora non cadi Murphy!» esclamò il ragazzo, ridendo divertito.
«Ridi ridi, aspetta che prendo confidenza e vedi tu» precisò lei cercando di allontanarlo. Tutto inutile: Marco le stringeva forte le mani, con decisione, e cominciò a trascinarla. La lama dei pattini tagliava il ghiaccio, facevandola avanzare. Sentiva l'equilibrio incerto, e si ritrovò a stringere le mani del ragazzo con una disperata necessità. Il busto inclinato appena in avanti, che dondolava per cercare di calibrare l'equilibrio, invano.
«Scivola in laterale, una gamba alla volta. Destra, sinistra, destra, sinistra...brava, così! Compi tutto il movimento, come se stessi danzando. Bravissima...»
Le dritte di Marco funzionarono in fretta e dopo qualche minuto Charlotte potè beneficiare del piacere e del divertimento di pattinare su ghiaccio: sembrava di volare.
«Come faccio a frenare?»
«Buttati addosso a me...»
«Dai, stupido!» esclamò lei, ridendo.
«Tutti questi complimenti sono musica per le mie orecchie, Murphy! Comunque per frenare basta che giri appena su te stessa, formando con i piedi una specie di...mezzo cerchio. Inclina appena i piedi, brava così, ecco. Vedi? E' facile. Vogliamo provare a pattinare un po', anziché arrancare come due animali morenti?»
Il paragone fece ridere Charlotte di nuovo, che annuì alla sua proposta. Si tenevano saldamente per mano, scivolando insieme lungo il ghiaccio. Era troppo concentrata sui movimenti che faceva per notare gli sguardi felici di Marco, che lentamente stava lasciando la presa della ragazza.
«Non guardare i piedi! Prendi il ritmo, Murphy, destra, sinistra! E rilassati!» esclamò, superando il vociare della gente, prima di lasciarle le mano.
«No, Conti, aspet...» troppi tardi, era da sola. Cercò di non impanicarsi e proseguì, come se il ragazzo fosse lì con lei. Aggirò lentamente una statua di ghiaccio, facendosi superare per ben due volta da una mamma con una bambina in braccio. Superò la vergogna e continuò dritta -e lenta- per la sua strada.
«Brava!» esclamò Conti dietro di lei, prima di raggiungerla e cingerle la vita con entrambe le mani. Si sorrisero divertiti.
«Devo ancora migliorare...»
«Migliorerai» precisò il ragazzo, stringendola appena a sè.
«Ci stai provando con me, Conti?»
«Non potrei mai Murphy, lo sai» precisò subito il ragazzo, staccandosi da lei. La banda che suonava vicino al lago cominciò a interpretare un allegro walzer. Marco, in tutta risposta, s'inchinò come un abile cavaliere, allungando la mano verso di lei.
«Mi concede questo ballo, milady?»
«Quanto sei stupido, Conti...» brontolò in imbarazzo Charlotte.
«Accetti, signorina, io un bel ragazzo così non me lo farei scappare!» esclamò a sorpresa una signora sulla cinquantina che passava di là, pattinando con una grazia che Charlotte non avrebbe mai raggiunto.
«Sentito, Murphy?»
«Va bene, va bene...accetto, ma non farmi cadere!» precisò subito Charlotte quando già il ragazzo l'aveva presa per la vita. Non furono gli unici a improvvisarsi ballerini: molte coppie, anche le più improbabili, presero a danzare sul ghiaccio, vorticando come fiocchi di neve.
«Sono una discreta ballerina e una pessima pattinatrice, lo sai Conti no?»
«Lo vedo» Marco rise divertito, stringendola più a sé. «Ti tengo io, Murphy» sussurrò poi, sorridendo gentile.



Ethel risalì lentamente le scale, stanca...esausta. Dannato ciclo mestruale, pensò. Non le dava pace nemmeno una volta sparito, lasciandole un senso di stanchezza e confusione. Aveva chiesto a Miss Rossi di servirle il pranzo nel salotto rosso, ed era lì che si stava dirigendo con ancora il cappotto addosso.
Aprì la porta, ritrovandosi dentro l'accogliente ambiente. Sorrise tra sé: non c'era un posto più bello di quella piccola e semplice stanza. Era quadrata, e veramente di dimensioni ridotte. Le pareti rosse davano il nome alla sala, illuminate dalla luce elettrica e i candelabri dorati. Un tappeto persiano a terra, il camino acceso, due alte finestre davano sulla strada principale. Una poltrona con poggia piedi, un tavolino con sopra la sua cena, e uno scaffale con qualche romanzo leggero.
Era il posto preferito di Lord Norton, ricordò con una leggera fitta al cuore. Pensava a lui ogni giorno, come avrebbe potuto fare con un padre. Lord Norton aveva accolto lei e George come dei figli quando avrebbe potuto semplicemente mandarli in orfanotrofio. Invece li ha accolti, educati, trattati come sangue del suo sangue. Era stato lui a insistere che Ethel prendesse lezioni di pianoforte, o che George ormai adulto si occupasse della tesoreria della servitù e della gestione economica della famiglia.
Si sfilò scarpe e cappotto, si sedette e prese a mangiare lo stufato di carne lasciatole lì dalla servitù. Era delizioso oltre ogni dire. Mangiò e bevve con un certo appetito, quindi suonò la campanella. Qualche minuto dopo Miss Rossi bussò ed entrò nel salotto.
«Claire, cara...prima che mi addormenti, volevo chiederti un paio di cose: puoi prepararmi l'abito per questa sera, per il teatro?»
«Certamente miss. Volete che vi faccia portare qui il thè alle cinque?» commentò l'altra, sorridendo.
«Si Claire, grazie, vorrei riposarmi prima di prepararmi per il concerto» annunciò la ragazza, sorridendo con dolcezza alla governante.
«Nessun problema, Miss» annunciò l'altra, prima di lasciarla sola.
Ethel poggiò le gambe sul poggiapiedi, incrociando le caviglie e sistemando bene la vestaglia per coprirsi. Si rilassò, sospirando, e si mise a fissare il fuoco, incantata. Avrebbe voluto leggere un po' i romanzi preferiti di Lord Norton, lì sullo scaffale. Avrebbe voluto pensare a come sarebbe stata la sera imminente, a come sarebbe stato chiacchierare con Alfred e Candice, a come si sarebbe sentita Lady Maud...non ebbe tempo, la testa crollò di lato e la mente si tuffò nei suoi sogni più profondi.
 
1 Gennaio 1888
I passi di Alexander erano veloci e concitati mentre la domestica, pallida come un cencio, lo guidava verso la stanza maledetta. La porta era spalancata e dava su una scena agghiacciante: i corpi di Edward ed Eloise erano riversi a terra e stretti tra loro, in un ultimo abbraccio. I visi irriconoscibili, gonfi e bluastri per via del veleno ingerito. Sulle guance di entrambi c'erano lacrime. Alexander si fece il segno della croce, quindi si avvicinò e chiuse loro gli occhi.
«Possiate riposare in pace, almeno ora...» mormorò.
«Milord...che dobbiamo farne dei bambini...» sibilò la domestica, spaventata.
Alexander si alzò lentamente, ricordandosi solo ora di quei poveri bambini. «Portatemi da loro, per favore, Miss Rossi»
La giovane cameriera obbedì e svelta si diresse nella camera accanto. Aprì lentamente la porta, mostrando al nobile i visi di due creature pallide e spaventate, con due grandi occhi pieni di paura che lo fissavano. Il cuore di Alexander si strinse in una morsa di ferro, e poteva percepire il respiro quasi assente della cameriera al suo fianco, come se cercasse di non piangere.
«Buonasera, cari ragazzi...»
«Buonasera, milord» rispose pacato il maschio, fissandolo con aria severa.
«E' stato lui a...» fece intendere la cameriera, in un sussurro. Povero bambino, pensò Alexander, così piccolo e già con un tale peso nel cuore.
«Mi riconosci, George?»
«Si signore...lei era amico del mio papà»
«Esatto, George. Vorrei...portarvi a casa mia, per qualche giorno, vi piacerebbe? Ho un figlio quasi della vostra età, sai, e molti giochi e...ed anche dei pony. Potreste stare con noi qualche giorno, se vi va»
Il bambino lo fissò con due occhi grigi e piatti, poi annuì. La bambina al suo fianco non diceva nulla, assonnata e stanca. Chissà se si era resa conto di quel che era successo, pensò Alexander.
«Molto bene...Miss Rossi, prepari i bagagli di questi bei bambini e li faccia caricare sulla carrozza. Io ho già chiamato la Polizia, dovrebbe essere qui a momenti, anche se temo che l'esito sia palese...»
«I bambini hanno ben poco, signore, faccio subito le valigie» annunciò la cameriera che fece per uscire. Nemmeno il tempo di varcare la soglia che la bambina scoppiò in lacrime, disperata, chiamandola a gran voce. La cameriera fece dietro front, dando alla bambina la priorità. La prese in braccio e la strinse forte a sé, sussurrandole dolci parole per cercare di farla calmare.
Alexander li osservò tutti e tre, deglutendo a fatica. «Miss Rossi, prego...venga con noi, a casa, deve essere scossa anche lei. Andiamo tutti sulla carrozza»
«Io, milord?»
«Si, lei Miss Rossi, prego...» mormorò Alexander, invitandola a uscire. Tese la mano al piccolo George che, composto, scese dal letto e si avviò da solo, stanco, trascinando i piedi.

Il giorno dopo, Alfred fu svegliato da una strana sensazione. Come se qualcuno lo stesse fissando. Aprì lentamente gli occhi, ritrovandosi davanti una figura minuta, sul lato del letto, illuminata dal sole che penetrava dalle pesanti tende rosse. Era forse un angelo?
«Chi sei...?» mormorò Alfred, assonnato. La bambina non rispose, continuando a fissarlo. Era proprio una bella bambina, pensò Alfred, ma aveva sul viso un'aria triste e calma allo stesso tempo.
«Perchè sei entrata nella mia camera?»
«Perchè in quella di fianco c'è mio fratello che russa»
Alfred era troppo assonnato per poterla capire del tutto. Sbadigliò e, senza fare domande, sollevò appena le coperte accogliendola sotto di esse.
«Tu russi?» chiese la bambina, girandosi di schiena.
«Non credo, ma tu dammi un calcio se lo faccio, ok?»
«Ok»
Quando, dopo qualche ora, Lady Maud andò a svegliare il figlio, si fermò alla vista di quello spettacolo: Alfred e la figlia degli Herbert abbracciati, a dormire uno contro l'altro. Sorrise tra sé, gioiosa: portare quei due bambini dentro la loro casa era stata la cosa più bella che Alexander avesse mai fatto. Si accarezzò il ventre rigonfio sotto l'abito, dove il loro secondo figlio -o figlia- cresceva in attesa della fine della gravidanza. Alla sua nascita, avrebbero avuto ben quattro figli, e nessuno poteva dirle che quelle due piccole creature non sarebbero potute diventare col tempo sangue del suo sangue...


«Ethel...Ethel...? Lulù!»
Aprì di scatto gli occhi, sgranandoli tanto da fare sobbalzare il ragazzo al suo fianco, che l'aveva appena svegliata.
«Tu si che hai il sonno pesante...»
«S-scusami, ero esausta, stavo sognando...che ore sono?» chiese, confusa, poggiando i piedi a terra.
«E' l'ora del tuo thè, milady, ho sollevato Miss Rossi dal gravoso compito di consegnartelo» annunciò Alfred, posando il vassoio sul tavolino e sedendosi sul poggiapiedi. Ethel sorrise, assonnata.
«Grazie...nel caso ti dovesse servire in futuro, sei un ottimo cameriere»
Alfred rise divertito. «Oh beh grazie, bella scienza che ci vuole a posare un vassoio sul tavolino. Mi ha detto Miss Rossi che sei tornata stanca. Che hai combinato all'orfanotrofio?»
«Stiamo solo preparando per l'arrivo della Regina, ma c'è tanto da fare, tutto qua. Dove sono gli altri?»
«Daisy e Candice ancora in giro per negozi, suppongo. E George ancora non è tornato»
«E tu dove sei stato?»
«In Parlamento, ovviamente»
«Oh già vero, ora sei uno importante» precisò Ethel, alzandosi lentamente dalla poltrona e stiracchiandosi con un sonoro sbadiglio.
Alfred rise, e questo non fece che attirare l'attenzione della ragazza: gli occhi del ragazzo erano quasi del tutto chiusi, e delle rughe si concentrarono intorno ai suoi occhi, come sempre quando sorrideva.
«Certo, importantissimo. Chi sognavi, a proposito?» chiese il ragazzo, alzandosi a sua volta.
Ethel prese la tazza del thè, soffiando appena sopra di essa. «Tuo padre...il primo giorno che l'ho incontrato. Intendo...per davvero. Sembrava un angelo venuto a salvarmi»
«Anche tu sembravi un angelo quando mi hai svegliato, il giorno dopo che siete venuti ad abitare qui» rispose Alfred, sorridendo divertito.
«Si, immagino...» commentò Ethel ironica, prima di affacciarsi fuori dalla finestra. I suoi genitori abitarono a Londra, non lontano da lì. Era strano come quella città potesse comunicarle sentimenti così contrastanti: ricordi belli e brutti, reali e immaginari. Poggiò la testa contro il vetro, prima di sentire il braccio del ragazzo stringerle le spalle.
«Non voglio vedere quell'espressione triste, stasera, ok? Stasera ci facciamo belli, andiamo a teatro, ascoltiamo il tuo Beethoven...e magari ti troviamo anche marito» elencò Alfred, sapendo che l'avrebbe fatta ridere.
«Ancora con questa storia? E' un mese che perseguiti me e George» esclamò Ethel, divertita. Alfred aveva il grande dono di farle passare ogni tristezza, ogni angoscia. Come aveva fatto negli ultimi quattro anni senza la sua allegria?
«E' un'urgenza! Senti, siete due persone belle e intelligenti, non è possibile che siate ancora senza nessuno» precisò il ragazzo, solleticandole il fianco.
«Alfie» rispose lei, ridacchiando «ti dimentichi un piccolo particolare, e cioè che non abbiamo il soldo di un quattrino»
«Sciocchezze, Lulù. Siamo nel ventesimo secolo, alla gente non importa più nulla di titoli o proprietà»
«Ma importa dei soldi»
«Quelli si possono sempre guadagnare»
«Ti chiedo solo di non mettermi in mostra come merce da vetrina, o come un animale da zoo ai tuoi amici ricchi, mh?» precisò Ethel, sorridendo.
«Ehi, così mi offendi. Lo sai che non potrei mai fare una cosa del genere...alla mia gallinella!» precisò Alfred, cominciando a scappare ancor prima di finire la frase.
«Non chiamarmi così!» gridò divertita Ethel, inseguendolo per la stanza.



Il foyer del Queen's Hall era affollato più che mai. Era una delle prime serate della Stagione, e ricchi e nobili sfoggiavano gli abiti migliori, i gioielli più brillanti, le acconciature più elaborate. Dal canto suo, aveva fatto del suo meglio ovviamente. D'altronde era una contessa, era una Norton, non poteva presentarsi come una sciacquetta. Indossava uno splendido abito di Worth, gonna rossa e busto nero, con sopra una stola trasparente rossa che mostrava le spalle nude. I rubini splendevano intorno al collo nudo, in un tripudio di argento e rosso. Era semplicemente splendida, e aveva speso l'intero pomeriggio per diventarlo. Si osservò un istante, passando davanti il grande specchio del foyer: era snella come un giunco. Aveva la vita così stretta che in confronto Ethel sembrava una mucca.
Eccolà lì, Miss Herbert, nel suo abito di seta grigia e viola, di seconda classe, tanto da sembrare la figlia di un avvocato. A chiacchierare serenamente con Candice e Alfred, cercando di farsi amica la prima e turlupinare il secondo, cercando di rubargli più soldi di quanto già non avesse fatto: l'orfanotrofio, la ristrutturazione, uno stipendio minimo per le ragazze madri che ci lavoravano...non bastava?
Odiava quel suo comportamento perbenista, da finta onesta, da finta ingenua. La verità però era che loro non sapevano cosa ci facesse con quei soldi. Certo non il guardaroba, pensò Daisy con disprezzo: almeno per il teatro poteva indossare qualcosa di più bello che un singolo minuscolo smeraldo al collo. Ma lei no, lei doveva sempre sembrare quella controtendenza, rivoluzionaria. E si stupiva che a ventotto anni era zitella? Lei, Daisy Norton, non avrebbe fatto quella fine. Avrebbe sposato un “nuovo ricco”, magari americano, e sarebbe stata la vicina di casa di Alfred e Candice.
«Contessa, buonasera...Siete incantevole questa sera. Siete pronta per il concerto?» annunciò con garbo il Duca di Wellington, facendole poi il baciamano.
«Troppo gentile, Lord. Sì, come sempre ascoltare della buona musica è sempre un piacere. Siete con vostra moglie? Non la vedo»
«Oh no, la Lady mia moglie è purtroppo malata. Nulla di grave, i soliti malanni di stagione. Sono qui solo, come sono stato creato dal buon Dio. E vostra madre, la cara Contessa?»
«Mia madre non si sentiva molto bene, purtroppo, e ha deciso di non venire questa sera. Vi manda tuttavia i suoi più cari saluti»
«Che ricambio con sincerità, contessa. Mi chiedevo, a questo punto...se aveste piacere ad assistere al concerto dal mio palchetto. E' proprio vicino al palco reale, sapete, e si gode di una vista ideale per l'acustica. Sempre se non mi reputiate troppo insolente nel farvi questa domanda, Contessa...»
«Assolutamente, Lord, sono oltremodo onorata del vostro invito!»
Il Duca le porse il braccio e Daisy accettò, passando davanti ai nobili e ai presenti, Ethel compresa. Oh come avrebbe voluto leggerle i pensieri! Era sicuramente invidiosa, ne era sicura. Il quarto Duca di Wellington non aveva nemmeno salutato Ethel, figuriamoci poterla invitare nel suo palchetto privato. Sì, era sicuramente invidiosa.

«Oh che fortuna che ha avuto Daisy, essere invitata ad assistere allo spettacolo insieme al Duca! E guardate, il palco reale è proprio lì vicino!» esclamò Candice per la quarta volta da quando era cominciato lo spettacolo. La fortuna voleva che era l'ultima pausa, quella, prima dell'ultima esecuzione: la quinta sinfonia di Beethoven.
«Senza offesa, Miss Williams, ma non so davvero cosa ci trovate di così entusiasmante. Sapete quanti anni ha il Duca? Sessantadue, e gli puzza terribilmente il fiato» precisò Ethel, con calma, facendo ridere Alfred e sorridere George.
«Oh sopporterei volentieri, Miss, davvero. E' un Duca!»
Ethel si limitò a sorridere e, mentre Candice sorseggiava il suo brandy, lanciò uno sguardo ad Alfred. Il ragazzo non disse nulla, sembrava quasi non aver sentito. Come se non gli importasse quel che la sua fidanzata avesse detto. Lo fissò qualche istante, interrogativa, ma non disse alcunché al ragazzo. Le luci si spensero lentamente: era il segnale che lo spettacolo stava riprendendo. Si sedettero, Ethel e Candice verso il davanzale del palchetto, George ed Alfred al loro fianco. Durante il primo movimento Ethel non fece che pensare a quanto appena accaduto: nulla di esagerato veramente, ma era rimasta perplessa al commento così schietto di Candice e all'indifferenza di Alfred. Possibile che un innamorato reagisca in quella maniera se la sua fidanzata sogna consciamente la compagnia di un altro uomo, solo perchè ricco? A meno che certo, pensò...a meno che non erano innamorati.
Lì guardò due istanti, con la coda dell'occhio: seduti vicini, guardavano entrambi verso il palco. Lei annoiata, lui completamente preso. Non si tenevano la mano, non si guardavano nemmeno per sbaglio. Aggrottò le sopracciglia, tesa. Non poteva essere, Alfred non si sarebbe mai sposato per interesse. Non ne aveva nemmeno la necessità! Era ricco, di buona famiglia, un futuro brillante davanti: perchè prendere con sé una ragazza che gli era indifferente? L'Alfred che conosceva lei non l'avrebbe mai fatto. Lo fissò un ultimo istante: in presenza di Candice sembrava quasi un altro, senza energia e vitalità.
Sentì George sfiorarle la mano e si girò appena verso di lui, sorridendosi appena l'un l'altro.
«Il Maestro è eccezionale...ma attendiamo il quarto movimento per la conferma?» mormorò George vicino al suo orecchio. Ethel si limitò ad annuire d'accordo prima di tornare a guardare il palco.
E il quarto movimento arrivò, in tutta la sua gioia e allegria. D'altronde tutta la sinfonia, seppur cominciasse con un “bussare al destino” come aveva scritto Beethoven stesso, era un inno alla vittoria e alla gioia. Dimenticò completamente l'episodio accaduto nell'intervallo, e si sporse così tanto che dovette più volte ritirarsi indietro per non cadere. Le dita battevano sul velluto rosso della balaustra, seguendo il tempo perfettamente. A volte muoveva il capo, annuendo con soddisfazione: era un mix perfetto di tecnica e sentimento.
Il finale fu un gran finale, pieno di trombe e tamburi: era la manifestazione massima della vittoria. Era il finale alla Beethoven, come lo definì una volta il suo maestro di pianoforte. Era un finale che faceva commuovere di gioia, che faceva gridare e saltare per aria, in preda all'entusiasmo. Beethoven era stato il musicista più vicino alla gloria di Dio, lei lo sapeva.
Quando l'ultima nota della sinfonia si spense e il direttore d'orchestra fece per voltarsi verso la platea, il pubblico esplose in un fragoroso applauso alzandosi dalle loro postazioni. Il direttore s'inchinò più volte, insieme al resto dell'orchestra.
«Bravo!» gridò Ethel insieme ad un altro centinaio di persone, applaudendo con entusiasmo. Aveva gli occhi pieni di lacrime ed Alfred se ne accorse, al suo fianco, porgendole il suo fazzoletto. Lo ringraziò sorridendo appena, in imbarazzo.
«Oh avanti...piangere per un concerto, dite davvero?» commentò Candice mentre scendevano verso il Foyer, con il suo solito tono pragmatico e spiccio.
«Non si piange di tristezza, anzi: è gioia, è commozione, è...non ditemi che non vi è piaciuta nemmeno un po'?» s'interruppe Ethel mentre il dubbio s'insinuava nella sua mente.
In tutta risposta Candice scrollò le spalle, senza entusiasmo. «Nulla di particolare. A mio parere Beethoven è sopravvalutato»
George dovette prendere sottobraccio la sorella per non farla svenire o, peggio, portarla in prigione per aggressione.
«Beethoven...sopravvalutato...hai sentito...?» sibilò sconvolta Ethel, senza farsi sentire dalla coppia avanti a loro e calcando ironicamente il tono tragico.
George sorrise appena, tenendola ancora sottobraccio. «Non a tutti piace la musica, non a tutti piace Beethoven»
«E fin qui posso essere d'accordo. Ma...sopravvalutarlo? Santo cielo, stiamo parlando del Divin Maestro, è...come si fa a dire una cosa simile, dai...»
«Cosa vuoi che ti dica, dolcezza. E' la figlia di un imprenditore americano. A me non stupisce lei, ma lui...» e col mento indico Alfred, qualche metro più avanti, la testa che spuntava dalla ressa che c'era lungo la scalinata.
«L'Alfred che conoscevo io non si sarebbe mai messo con un pezzo di granito del genere. Bella, si, ed anche ricca...ma vuota. Eppure in sua assenza sembra davvero lui...» mormorò la sorella, pensierosa.
«A te piace Beethoven, caro?» chiese Candice ad Alfred, una volta arrivati al Foyer. Intravidero Daisy scendere col Duca intraprendendo una fitta conversazione col suo interlocutore.
«Abbastanza» rispose vago Alfred. Ethel non riuscì a trattenersi e aggrottò le sopracciglia, fissandolo. Il suo compagno di merende e avventure, quello che duettava con lei le sonate di Beethoven e Liszt, che dipingeva venti varianti dello stesso vaso di fiori, entusiasmandosi ad ogni pennellata...non esisteva più, e quello davanti a lei aveva estremizzato il detto “non di sola arte si vive”: lui l'aveva semplicemente rifiutata.
«Miss Herbert, Miss Williams...signori, buonasera! Piaciuto il concerto?» chiese il Duca di Wellington, interrompendo la loro discussione.
«Moltissimo, Lord. Stavamo giusto discorrendo sul valore musicale di Beethoven» commentò Ethel, lasciandosi fare il baciamano dal Duca.
«Oh semplicemente inestimabile, a mio parere, anche se Miss Norton qui non sembra essere d'accordo. E' nata giusto ora una discussione a riguardo»
«E lo stesso stiamo facendo noi, milord! Ho giusto ora affermato che a mio parere Beethoven è sopravvalutato. Che ne pensate?» chiese con fierezza Candice, facendo accigliare il nobile.
«Sapete cosa penso, Miss? Che questo è un discorso troppo complesso per parlarne in piedi nel foyer di un teatro. Perchè non ne parliamo tutti a casa mia, mh? D'altronde non è troppo tardi per fare una piccola fermata prima di tornare a casa, e la mia umile dimora è proprio qui vicino. Che ne dite?»
Ethel sorrise appena, approvando così con discrezione l'invito.
«Ah, musica per le mie orecchie!» esclamò Candice senza essere nemmeno molto discreta, e sorridente si mise sottobraccio al Duca, dall'altro lato rispetto a Daisy scortando così fuori il nobile.
Ethel fissò ancora Alfred, ma quello rimase indifferente, seguendo il resto della compagnia verso l'esterno. L'ennesima conferma ottenuta quella sera, e cioè che Alfred, forse, era davvero cambiato.

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Capitolo 6
*** Shall we dance? ***


6. Shall we dance?


 
Londra, 1 Marzo 1911
 
«Buongiorno!» esclamò allegra Charlotte, entrando in cucina. Era l'alba del primo giorno di Marzo, il suo mese preferito. Le cuoche avevano già acceso i fornelli ma l'ambiente non era caldo come a mezzogiorno, e istintivamente si strinse nello scialle che aveva sulle spalle. Si servì con latte e pane con burro, poi si sedette al tavolo insieme agli altri.
«Come siamo contente oggi» commentò Josephine, sorridendole.
«Che avrai da essere felice, Murphy, non lo so» rispose Mark, facendole un occhiolino.
«E' iniziato Marzo! E' il mese della primavera, del mio compleanno e...di San Patrizio» rispose Charlotte, bevendo poi il suo latte caldo.
«Il tuo compleanno?» chiese subito Mark, curioso.
«Lo sai che Miss Norton non ti farà festeggiare San Patrizio. Metà della servitù è irlandese, qua, se tutti voi ve ne andate rimaniamo in cinque» precisò secca la capo cuoca.
«Ma io devo rendere a Miss Herbert e Lady Maud, non certo a Miss Norton. Voglio solo andare a messa e vedere Londra in festa, non celebro San Patrizio da quando ho lasciato l'Irlanda...»
«Non è un mio problema» brontolò la cuoca, tornando ai fornelli.
Josephine le fece una smorfia dietro. «Comunicalo prima a Miss Rossi, anche se lei ti dirà sicuramente di chiedere a Miss Herbert. Vedrai che potrai uscire...che cos'è quell'aria riflessiva, Conti?»
«No niente...pensavo...» mormorò Mark, guardando il muro davanti a sé «comunque sia, quand'è che fai il compleanno?»
«Il diciassette marzo...» ammise in imbarazzo Charlotte. Risero gli altri, divertiti.
«Un'irlandese nata il giorno di San Patrizio, meglio di così si muore! E' come se io fossi nato il giorno di San Gennaro» esclamò divertito Mark.
Charlotte scrollò le spalle, divertita. «Speriamo che Miss Herbert sarà clemente»
«Se c'è una persona clemente, quella è sicuramente Miss Herbert...» rispose Josephine, alzandosi «Forza ora, tutti a lavoro e non battiamo la fiacca!» esclamò la capo cameriera, riportando la testa dei suoi sottoposti verso la lunga giornata che li attendeva.
Charlotte fece per uscire dalla cucina ma Mark la trattenne, tirandola appena indietro.
«Conti, dai...fammi andare a lavorare» mormorò lei, cercando di divincolarsi docilmente.
«Aspetta...che ne dici se venissi con te al San Patrizio?» le chiese lui, fissandola.
«Cosa? Vuoi venire alla festa? Lo sai che siamo tutti irlandesi, no?»
«Siete comunque cattolici. Tra me e te cambia solo la lingua in cui preghiamo»
Charlotte lo fissò, dubbiosa. Alla fine scrollò le spalle. «Come vuoi»
Mark sorrise raggiante e mollò la presa, lasciandola andare.


«Ethel, cara!» la voce mielosa di Candice irruppe nell'ingresso di Little Hall, portando una ventata di ricchezza. Era prima mattina, ed Ethel era già stufa della sua voce stridula e il suo sorriso falso.
«Candice...» rispose con garbo, andandole incontro e baciandole le guance. La guardò, mentre salutava suo fratello e Lady Maud. Indossava un completo di gonna stretta e camicia di pizzo italiano, con un soprabito lungo bianco e blu, ed un maestoso cappello a visiera ampia e piume blu che svolazzavano ovunque. Rispetto a lei, che indossava un semplice abito bianco e una cinta rossa, sembrava la Regina d'Inghilterra.
«Ci vogliamo accomodare?» chiese Lady Maud, che per un attimo squadrò da capo a piedi Candice. Si diressero tutti nella sala da thè, e Daisy si accostò lentamente ad Ethel, sorridente.
«Non ho mai visto un abito del genere qui a Londra. Viene da Parigi, sai? E costa più di quello che tu potrai mai permetterti...»
«Lo immagino. Ma mi basta quello che ho, Daisy, grazie dell'interessamento»
«Quello che hai non ti appartiene comunque, Ethel. E dubito che non ti piaccia un abito del genere: potresti persino diventare più bella con indosso una cosa simile...» sussurrò Daisy, sorridendo malevola, prima di superarla ed entrare prima di lei nella sala.
Ethel sollevò gli occhi al cielo, paziente. Solo un paio d'ore, si promise, e poi mi levo dalle scatole con una scusa qualsiasi.
«Oh vi invidio così tanto, Miss Candice» annunciò Daisy, sospirando teatreale «vorrei avere la vostra bellezza e il vostro gusto nel vestire»
«Oh nulla a cui non possiamo rimediare, Miss Daisy! Perchè non usciamo oggi pomeriggio, per qualche atelier? Miss Ethel, anche voi ovviamente!»
«Vi ringrazio per l'invito, Miss Candice, ma questo pomeriggio ho impegni inderogabili in orfanotrofio. Sto preparando i bambini per una piccola performance in via della visita di Sua Maestà»
«Oh, mi spiace...ci sono novità sulla visita?»
«Non ancora, Miss, ma vi farò sapere quando le avrò» precisò Ethel, sorridendo appena.
Cadde il silenzio, carico di indifferenza avvolta da finto interesse. Nessuno aveva più nulla da dire, e per un po' si limitarono a bere thè e mangiare brioche. Ethel lanciò un'occhiata a George davanti a lei, impassibile, come se ogni pensiero della sorella gli stesse scivolando addosso. Lui era così, totalmente diverso da lei: riusciva quasi a isolarsi dal luogo in cui era. Un'abilità quanto mai utile in casi come quelli.
Candice, dal canto suo, si limitava a sorridere tra sé, masticando quel buon cibo ed ammirando la tappezzeria e la mobilia, memorizzando facilmente quello che un giorno le sarebbe piaciuto ereditare. Sorrise verso Alfred, al suo fianco: la sua piccola miniera di nobiltà.
Bussarono alla porta, la prima occasione per tutti di ritornare alla realtà e trovare l'occasione più adatta per parlare.
«Avanti» annunciò pacata Lady Maud, la quale sembrava crogiolarsi perfettamente in quel silenzio sordo.
Josephine entrò con la posta del giorno, sorridente.
«Grazie cara...» mormorò la padrona, cominciando a sfogliare le lettere non appena richiusa la porta. L'unica interessata alla posta sembrava solamente Candice, che avrebbe pagato oro per un collo più lungo di quel che possedeva già, solo per guardare quelle preziose carte da lettera. La Contessa, di tutta risposta, ne scartò molte sbuffando.
«Ma la gente non sa che fare del proprio tempo, per sfruttarlo in stupidi balli e thè del pomeriggio? Mai un invito per un incontro letterario o un dibattito politico. Ethel, per te» e porse alla giovane una lettera chiusa.
«Come sei liberale, mamma» commentò ironico Alfred, sorridendole.
«Sono semplicemente stufa della gente. Lo sarete anche voi un giorno, vecchi come me. La gente è noiosa, Alfred, seppur finge di non esserlo. Un dibattito politico è molto più avvincente delle chiacchiere da thè»
«Davvero dite?» chiese Candice curiosa.
«Oh non ascoltate mia madre, Miss Candice. Si sta appassionando alla causa delle suffragette, con uno slancio romantico che poco si addice ad una nobildonna»
«Cara Daisy, quando io avevo la tua età non avevo diritto nemmeno a ballare con chi diavolo volevo, figuriamoci a parlare in questa maniera a mia madre. Il movimento suffragette non è un movimento politico, ma sociale: vuole rendere libertà e diritti a tutte le donne, non ad una nello specifico»
Daisy si zittì, come capitava spesso quando argomentava un discorso con sua madre: perdeva sempre, Lady Maud era troppo intelligente per farsi mettere i piedi in testa.
«Un discorso da vero Primo Ministro» commentò ironico Alfred, affatto offensivo. Lady Maud sorrise appena, prima di sbiancare appena in viso dopo aver letto il mittente di un'ennesima lettera.
«Che c'è, madre?» chiese Alfred quasi preoccupato.
«Zia Adel...» mormorò l'altra, sollevando appena la busta.
«Oh Dio, ma è ancora viva?» chiese il figlio, sconvolto.
«A quanto pare...»
«Chi è zia Adel?» chiese ingenuamente Candice.
«La sorella settantenne del mio compiato marito, Miss. Una Duchessa, di vecchio stampo oserei dire, ancorata a costumi antichi e impolverati, che ostenta con un orgoglio maniacale. In poche parole, viene in casa mia per comandare e la cosa non mi piace affatto. Ma siccome è una parente non posso cacciarla, non trovate?»
«Immagino di no...» commentò Candice, non sapendo di preciso come rispondere.
«La donna più odiosa sulla faccia della terra» precisò Alfred «una strega, che vuole comandare come se questa fosse casa sua, e noi la sua servitù, solo perchè Duchessa. Quando arriverà?»
«I primi giorni di Aprile, in tempo per Pasqua» rispose Lady Maud, richiudendo la lettera appena analizzata «e questa volta non sarà sola, con sé verrà sua nipote, la Duchessa Agatha Howard. Dovrebbe avere la tua età Daisy, se non erro, quindi mi raccomando di essere gentile con lei. E' la prima volta che visita Londra»
Daisy per poco non si strozzò con la brioche «A vent'anni è la prima volta che viene a Londra??»
«Se sei la nipote di zia Adel è già tanto. Sii gentile, te ne prego»
«Va bene, va bene..» si limitò a dire Daisy, sospirando scocciata.
«Non vedo l'ora di conoscerli!» commentò entusiasta Candice, sorridente.
«Buon per te, Candice. Anche Ethel non vede l'ora, vero?» chiese Daisy, sorridendo divertita.
«Vi è simpatica?» chiese curiosa e ingenua Candice.
«Da morire! Zia Adel tratta Ethel come io tratterei la peggiore delle sguattere»
«Daisy, può bastare...» mormorò George, aprendo bocca per la prima volta da quando erano seduti.
«Che c'è! Ho detto solo la verità, no? Vero, Ethel?»
«Perchè vi tratta come una sguattera, Miss? Siete una nobile come lei» commentò ingenua Candice. Ethel si sentiva il viso andare a fuoco: gli occhi si inchiodarono sul toast ancora immacolato nel piatto, e lo stomaco sottosopra le faceva solo venire solo la nausea.
«Beh, nobile...» commentò ironica Daisy.
«Daisy, taci» fu Alfred questa volta a parlare, rimbeccando la sorella minore insieme ad un'occhiataccia.
«Che noiosi che siete. Ethel non si è mica offesa, no?» chiese Daisy, sbuffando.
«Affatto...» mormorò Ethel, la voce roca per essere stata in silenzio tutto quel tempo. Non riuscì a guardare negli occhi Daisy, ma sollevò gli occhi davanti a sé, verso George. Così facendo incluse nel suo raggio visivo anche Alfred, che la guardava mortificato. Si limitò a sorridergli appena, riabbassando lo sguardo sul tavolo e, di conseguenza, sulla busta chiusa che Lady Maud le aveva dato. Felice di potersi distrarre dal pensiero di zia Adel, andò finalmente ad aprirla: lesse velocemente prima di sorridere raggiante.
«Abbiamo una data per la visita di Sua Maestà. Il ventitrè Aprile»
«Il giorno di San Giorgio, che scelta azzeccata» commentò Alfred sorridendo.
«Oh che gioia, Miss! Allora potrò venire?» chiese Candice entusiasta.
«Certamente, si...suppongo che possiate venire tutti, ovviamente» precisò Ethel sorridendo appena e guardandoli. Daisy si limitò a scrollare le spalle, come se la cosa non la interessasse, e cadde di nuovo un silenzio assordante finchè il pendolo non battè l'ora. Ethel si pulì la bocca e si alzò, quasi in concomitanza con George, come se si fossero letti nel pensiero.
«Già andate via?» chiese subito Candice, dispiaciuta.
«Mi dispiace Miss, devo andare in orfanotrofio»
«E io ho degli affari da svolgere in centro» precisò George, sorridendo appena.
«Mi spiace! Spero di poterci rivedere presto» annunciò Candice, sorridente.
George ed Ethel uscirono dalla sala, andando a recuperare i soprabiti all'ingresso.
«Visto Candice come ti sorrideva? Secondo me ti sta facendo la corte» mormorò Ethel a George, ironica.
«Ma smettila...» brontolò George, sistemandosi il cappello.
«Ethel!» Alfred la richiamò con garbo, avvicinandosi a loro a passo svelto.
«Si?»
«Volevo...chiederti scusa, per Daisy. E' stata maleducata e ingiusta con te»
«Non ti preoccupare, Alfie, davvero» commentò Ethel, sorridendo, mentre si sistemava il cappellino in testa.
«Insisto, invece. E per farmi perdonare vorrei invitarvi per una cena che terrò nel mio appartamento, fra due venerdì. Ci saranno altri amici. Verrete?»
«Non credo che Daisy sarà molto contenta di dividerti tra noi e lei» osservò ironico George.
«Daisy non sa della cena e non deve saperlo. E' troppo piccola e superficiale per stare sempre in nostra compagnia» precisò Alfred «Verrete, allora?»
«Va bene, certo...» mormorò Ethel, sorridendo appena.
«Bene, ottimo...ci divertiremo, vedrete» rispose Alfred, fissando i due qualche secondo prima di tornare nella sala della colazione.
«Vuole farsi perdonare per tutti gli anni in cui ha fatto finta di non conoscerci» mormorò George uscendo di casa.
«Non è sempre stato così...» rispose nostalgica Ethel, seguendo il fratello.
L'aria gelida in quel primo giorno di Marzo la colse quasi di sorpresa. Si alzò il bavero del cappotto e infilò le mani dentro le tasche, incassando la testa nelle spalle. Socchiuse gli occhi per il vento freddo che le tagliava la faccia e fece per entrare in macchina dopo che George le avesse aperto la portiera.
«Miss Herbert!» Charlotte la richiamò dietro di sé, sul ciglio di Little Hall. Si volse di scatto, osservando la giovane irlandese sulla porta, stringendo le braccia al petto.
«Non stare fuori al freddo!» esclamò Ethel, preoccupata. Tornò indietro, facendo segno a George di attenderla.
«Volevo chiedervi una cosa, Miss. Un permesso...per il 17 marzo, se possibile»
Ethel si accigliò qualche istante. Poi collegò la data familiare alla rispettiva festività. «San Patrizio...»
Charlotte annuì, con aria colpevole.
Ethel le sorrise, scrollando le spalle. «Nessun problema per me, Ethel. E' la vostra festa, ve lo meritate!» esclamò, facendole poi segno di tornare dentro casa e tornò di corsa verso la macchina, salendo.
«Tutto bene?» chiese George, accendendo la macchina mentre la sorella si sedeva al suo fianco.
«Sì, mi ha chiesto un permesso per il 17 marzo, per San Patrizio...»
«E che le hai detto?»
«Di sì, ovviamente. Chi sono io per non farla festeggiare?» chiese retorica.
«Ethel...lo sai che è lo stesso giorno che abbiamo la cena a casa di Alfred, vero?» mormorò George, immettendosi in strada.
Ethel tacque, socchiudendo gli occhi. Ovvio che non lo sapeva.
«Certo che lo so» brontolò scrollando le spalle «Sono ancora in grado di prepararmi da sola, le braccia le ho. E se proprio ho problemi, mi aiuterà Miss Rossi»


 
Londra, 17 Marzo 1911

La cena a casa di Alfred si rivelò tutto fuorchè “una cosa tra amici”. C'erano almeno venti invitati, tutti in frac e abiti da sera, ed Ethel aveva dovuto trascorrere tutto il tempo della cena tra suo fratello e un tal Mr Mallard, l'amico americano di Candice. Persino il “piccolo appartamento” di Alfred -come lui stesso l'avevo definito- era tutto fuorchè piccolo: un salone, un salotto, una sala pranzo, una cucina, cinque camere da letto con relativi bagni e persino una piccola sala da ballo. Per i popolo, quello, era un castello.
«Miss Herbert, perchè non ci suonate qualcosa al pianoforte?» chiese Candice, superando il vociare di sala e riportandola alla realtà.
«Oh, suonate, Miss Herbert?» chiese subito Mr Mallard, che non l'aveva mollata un secondo.
«Ci provo, signore...»
«Oh non badate alla modestia di Miss Herbert, Mr Mallard. E' un talento eccezionale!» esclamò Candice «vi prego, suonate per noi»
«Se proprio volete...» mormorò Ethel. All'alzarsi delle donne seguì all'unisono quello degli uomini, diretti nel salone principale.
«Permettete?» chiese Mr Mallard a George, porgendo il braccio a Ethel.
«Si certo, Mr Mallard, prego» rispose George, senza nessun accenno a sorridere. Si era limtato a farlo solo se strettamente necessario: Ethel sapeva che voleva solo fuggire. Ed anche lei, ma temeva che avrebbe dovuto sorbirsi ancora per un po' Mr Mallard. Mentre entravano nel salone, studiò ancora una volta Candice, davanti a lei. Indossava un abito di seta grigio e turchese, con una fascia nera alla vita strettissima; i ricami sul petto e sul bordo della gonna, fatti completamente a mano, riproducevano la coda aperta di un pavone. Un animale alquanto azzeccato per lei. I capelli biondi raccolti alla Gibson dietro la nuca ed un grosso zaffiro appeso al collo completavano il suo aspetto opulente, radioso, il simbolo di una ricchezza ostentata. Si sedette su un divano al centro del salone, circondata da almeno sei persone. Il pavone era decisamente azzeccato per lei.
Mr Mallard la scortò fino al pianoforte a coda, quindi la fece accomodare sullo sgabello.
«Suonateci Debussy, volete Miss?» chiese Candice, guardando Alfred che si limitò a sorridere.
Non poteva che scegliere Debussy, pensò Ethel sconfitta. Melodie melense, vellutate, che scivolano via. Se c'era un compositore che amava meno degli altri, quello era proprio Debussy. Ma era ospite a casa di Alfred, non voleva dargli un simile dispiacere.
«Certamente» annunciò.

Dopo la sua esecuzione, applausi e qualche vago complimento, aveva chiesto il permesso di allontanarsi un attimo per prendere una boccata d'aria. Con un calice di champagne e le mani poggiate sulla balaustra del balcone che si affacciava su Londra, si allontanò con i pensieri lontano da lì, da quella cena di false amicizie, false apparenze, false conversazioni. La musica del grammofono distraeva tutti, e dal vetro delle finestre vedeva solo sagome danzanti e allegre. Chissà George, povero caro...
«Sei migliorata ancora dall'ultima volta che ti ho sentito suonare» il commento di Alfred la fece quasi sobbalzare. Raddrizzò la schiena, sbuffando una risatina.
«Per favore, dai...Debussy. Più semplice di lui ci sono le ninna-nanne per i bambini» commentò di getto, non calcolando il fatto che la richiedente di Debussy era stata proprio la fidanzata del ragazzo.
Alfred tuttavia non se la prese, anzi: rise. La prima volta da quando era cominciata quella serata.
«Non hai tutti i torti. Ma che vuoi che ti dica...piace»
«Oh lo so bene, ed è davvero piacevole. Ma se devo misurare la mia bravura tecnica su qualcuno, certo non lo faccio su Debussy. Avrei compreso Listz, o Beethoven, ma...»
«Il tuo eterno amore» la interruppe lui, divertito. Si ricordava della sua passione per Ludwig?
«Sì, lui...» precisò Ethel, finendo il suo champagne e stringendo le braccia al petto. Aveva freddo ma non sarebbe rientrata lì dentro per nulla al mondo, se non per salutare ed andarsene via. La sua pazienza con i ricchi era finita.
«Hai freddo?» le chiese Alfred, leggendole nella mente. Si tolse prontamente la sua giacca, poggiandola sulle spalle dell'amica. Le sorrise, divertito.
«Che c'è, che ridi?» chiese lei, divertita a sua volta.
«E' che...mi sembri diversa, cambiata. Più insofferente, più...»
«Vecchia?»
«Avrei detto “matura”, ma vecchia andrà benissimo» rispose lui, prendendola in giro.
Ethel sospirò, teatrale. «Sono insofferente, si. Ho quasi trent'anni, e perdo facilmente la pazienza. Non dovrei, lo so, ma è così»
«Succede anche a me. Anche quando non dovrei...tipo in Parlamento» precisò Alfred, scoppiando a ridere insieme all'amica.
«E' grave!» commentò Ethel, divertita. Sospirarono e rimasero entrambi in silenzio.
«Mi sarebbe piaciuto rimenere ragazzino per sempre...» ammise Alfred, serio, affiancandola «a vivere con voi, con mamma...con papà. Persino con Daisy, se le fossi stato più vicino forse ora non sarebbe così»
«Non puoi dirlo. E purtroppo cresciamo tutti, invecchiamo tutti. Tutti dobbiamo prenderci le nostre responsabilità. I tempi dei divertimenti finiscono sempre» commentò Ethel, sorridendo.
«Ti ricordi come eravamo?»
«Abbastanza. Tu sei molto cambiato» rispose secca lei.
«Dici?» chiese sincero Alfred, confuso.
Ethel annuì, senza tuttavia spiegarsi. Indicò solo la sala alle loro spalle, con un cenno del mento. «Quella gente, Alfie...non ti appartiene, non è lontanamente come te. Tu...eri diverso, un tempo. Non so cosa sei diventato, ma a volte fai paura devo ammetterlo»
«Ma no dai, non sono così cambiato. Sono ancora un folle» precisò lui, quasi a difendersi.
«Ah su questo non ci sono dubbi!» precisò lei, ironizzando. Ridacchiaro insieme, fissando il panorama londinese.
«Ti va di ballare?» propose poi dal nulla Alfred, annoiato.
«Non ci rimetto piede lì dentro, Alfie, lo sai»
«Ma io intendevo qua» precisò il ragazzo, sorridendo divertito.
«Vuoi...ballare qui sul balcone?» chiese Ethel, divertita. Sentiva perfettamente la musica provenire da dentro la sala, seppur gli invitati fossero lontani e troppo occupati per preoccuparsi di loro. «Ok...» si limitò a rispondere, scrollando le spalle. S'infilò per bene la giacca del ragazzo e presero a danzare il valzer sul balcone, in estrema comodità, parlando e chiacchierando tra loro.
«Sarai pure brava al pianoforte, ma come ballerina fai pietà» ammise Alfred sincero, ricevendo come risposta un pestone sul piede. Risero entrambi, felici e spensierati come lo erano un tempo, da giovani. Continuarono a danzare, a scherzare e ridere uno dell'altra. Poi la musica finì ed Alfred le fece fare una giravolta, prima di porgerle un teatrale inchino.
«Alfred?» la voce interrogativa e melensa di Candice li raggiunse come una doccia d'acqua gelata. I sorrisi si spensero ed Alfred si raddrizzò di colpo, come se fosse stato colto in flagrante.
«I tuoi ospiti ti stanno aspettando, caro...»
«Arrivo subito, perdonami cara. Ethel, ci raggiungi?» il viso di Alfred era teso e duro, il sorriso scomparo.
«Si, certo...arrivo...» mormorò Ethel, sfilandosi la giacca e porgendola ad Alfred. Deglutì a fatica, incrociando lo sguardo di Candice. Per un istante, le sembrò di vedere un lampo di astio nei suoi confronti. Poteva darle torto? Alfred era fidanzato, non avrebbero dovuto ballare lì, come due bambini. Non lo erano più.

 
 
La sera stessa, sempre a Londra...
 
Mark doveva ammetterlo. C'era qualche altra piccola differenza tra irlandesi e italiani, oltre alla lingua. Il chiasso, tanto per dirne una: gli italiani erano chiassosi, ma Dio se lo erano gli irlandesi.
Erano in quel locale da circa tre ore e le orecchie fischiavano per la troppa musica, per i fischi, le grida, le risate...e le birre, sicuramente anche per quello. Aveva dovuto cedere, arrendersi e ammettere davanti a Charlotte che gli irlandesi erano più chiassosi degli italiani, aveva dovuto pagare da bere a quattro energumeni coi capelli rossi e poi si era accomodato su una sedia, a bordo pista. Le maniche della camicia arrotolate, le bretelle cadenti dalla vita, i capelli scompigliati, ed un forte odore di birra e malto che lo tormentava. Ma era felice, forse dopo anni.
Era nella tana di Murphy, era tra i suoi simili...e non erano poi così male gli irlandesi, doveva ammetterlo. Sollevò gli occhi lacrimanti per il caldo e l'alcool e incrociò la figura di Charlotte. Era estasiato, non aveva mai visto una ragazza così bella in vita sua. E di italiane belle ce n'erano, ma Charlotte...era raggiante.
Vuoi per l'alcool che anche lei aveva bevuto -seppur meno degli altri- o vuoi per la gioia di essere “tra i suoi simili”, Charlotte girava e saltellava come un folletto, ballando. Rideva e parlava con le altre ragazze...Mark si promise che da quel giorno avrebbe voluto vederla sorridere in quella maniera almeno una volta al giorno.
La canzone del momento terminò e salirono gli applausi fin sopra il soffitto, tra grida e risate. Era San Patrizio, nessun poliziotto avrebbe mai interrotto quel baccano. Senza contare che metà dei poliziotti londinesi erano irlandesi. Qualcuno poteva persino trovarsi lì, fra di loro.
Quando riprese la danza successiva, Mark vide Charlotte sgranare gli occhi e corrergli incontro, tendendogli le mani.
«Ti va di ballare?» era una domanda, ma lui sapeva benissimo che non poteva esserci risposta negativa.
«Murphy, davvero, ho i piedi che mi vanno a fuoco!» si ribellò mollemente Mark, alzandosi comunque dalla sedia.
«Bene, perchè è proprio così che si chiama questa canzone! Balla!» gridò lei, trascinandolo in mezzo alla pista. Presero a saltare e girare intorno alla pista, stretti l'un l'altro. Seppur la presa iniziale era stata timida, presto Mark aveva capito che per danzare in quella maniera doveva stringerla a sé, e con decisione.
Mica scemi questi irlandesi, pensò divertito mentre volteggiava per la sala, insieme ad altre coppie, con Charlotte che lo guidava verso quella folle danza. Danzavano così veloci che non riusciva quasi a vedersi i piedi, capendo così perchè avessero chiamato quella musica “piedi di fuoco”...
«Bravi!» gridò Charlotte verso i musicisti una volta finita la musica. Applaudirono in molti, e sembrò quasi che la serata virasse verso la fine. Molti andarono a rifocillarsi con la birra, l'ideale per il caldo infernale che si respirava nella sala. Charlotte, così come molte ragazze, si era tolta vari strati dell'abito rimanendo solo con la gonna ed una camicia bianca, le maniche ripiegate fin sopra i gomiti, e solamente le calze ai piedi.
«Allora? Ti stai divertendo?» gli chiese Charlotte, porgendogli una pinta di birra. Seppur non avesse bevuto quanto lui, Charlotte era assolutamente lucida. Strabiliante.
«Sì Murphy ma se continuo a bere in questo modo mi devi trascinare a casa, sappilo» precisò lui, confuso.
«Ma dai smettila, hai anche mangiato lo stufato! Tranquillo, questa birra è fatta bene...non ti sentirai male, te l'assicuro» commentò lei, prima di abbracciarlo «sono felice che sei venuto» mormorò nel suo orecchio, sorridendo e staccandosi da lui.
Mark la fiprese al volo, circondandole la vita. «Anche io Murphy, davvero...» rispose, cercando di avvicinarsi per baciarla. Ma si bloccò, o lo costrinsero a farlo, quando una signora prese Charlotte e la trascinò verso il centro della pista.
«Canta!» esclamò. L'invito fu seguito da tutti che dopo qualche secondo presero a incoraggiarla.
«Canta, canta Murphy!» gridava anche Mark dopo un po', vedendo la reticenza della ragazza. Alla fine accettò e salì sopra uno sgabello, ben vista e sentita da tutti. Cadde il silenzio, così intenso che sembrava quasi assordante.
Nessuno dovette dirle cosa cantare, la ragazza chiuse gli occhi e cominciò a intonare una ballata irlandese1. Aveva una voce vellutata e bassa, calma, come la voce rassicurante di una madre. Mark chiuse gli occhi, poco prima di vedere molti vicino a lui asciugarsi qualche lacrima di troppo, certo non provocata dall'alcool.
Le ballate irlandesi erano come quelle italiane: parlavano tutte di un amore perduto, che spesso e volentieri era la propria patria. Che fosse Irlanda o Italia aveva poca importanza: era casa, ed era lontana. Tutta quella gente lì intorno a lui era dovuta andare via da casa per povertà, per fame, per mancanza di lavoro, per i prepotenti che li aveva sopraffatti...proprio come aveva fatto la sua famiglia dall'Italia. Ma il fatto di vivere via di casa non significa non pensarci. Anzi, ci si pensava ogni dannato giorno di ogni dannato anno. Pochi potevano tornare a trovare le famiglie, ancor meno potevano tornare a vivere nella propria patria. Erano per sempre esuli, per sempre stranieri...
Quando Charlotte smise di cantare, gli applausi non arrivarono subito. Rimasero tutti in silenzio, interrotto solo da qualcuno che tirava su il naso o qualche sospiro pesante. Poi, lentamente, presero ad applaudire. Charlotte scese dallo sgabello, abbracciando chiunque incontrasse. Si scambiavano parole di affetto e incoraggiamento, come una grande famiglia allargata. Mark fissò la ragazza, sola e lontana da casa sua. Si sentì fortunato ad avere la sua famiglia vicina, a Londra, seppur non avesse molto modo di visitarla.
Abbracciò Charlotte con affetto prima di baciarle la fronte, accarezzandole poi le guance.
«Sei stata brava...»
«Si?»
«Si...» rispose lui, commosso, abbracciandola di nuovo lì in mezzo a tutti quei chiassosi ed emozionati irlandesi.



 
1 La ballata in questione si chiama “Black Velvet Band”, resa famosa dal gruppo The Dubliners, ma il testo è originario di una canzone del '700 circa, quando molti irlandesi, ritenuti “criminali”, venivano deportati in Australia.

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Capitolo 7
*** Phantoms & Monsters ***


7. Phantoms & Monsters





 
Little Hall, 7 Aprile 1911
 
Aprile arrivò prima che tutti se ne potessero accorgere. L'inverno freddo e piovoso si sostituì ad un'aria più mite, giornate più lunghe, il sole più presente e battente, e qualche sporadica giornata di pioggia che rendeva l'erba di casa verde come uno smeraldo. Era arrivato il tempo degli abiti più leggeri, dei colori più chiari e pastellati, delle torte di frutta di Mr Conti, delle passeggiate ad Hyde Park, della banda che suona, dei valzer e delle danze improvvisate nel parco...Ethel sorrise tra sè, sognante: adorava la primavera e poteva già assaggiare i colori e i profumi dell'estate, la sua stagione preferita. Le sue estati nella famiglia Norton le ricordava praticamente tutte....

 
Estate 1897
 
«Se starai tutto il giorno davanti la finestra non arriverà prima, Lulù» brontolò George, girando la pagina di un enorme Atlante geografico.
«Lo so, ma non riesco a distrarmi. E se non tornasse più?»
«Chi non torna più?» chiese la piccola Daisy, seduta sulle gambe del ragazzino.
«Nessuno Daisy, tranquilla. Visto dov'è il Nilo? Eccolo...» le spiegò George, indicando col dito un punto sulla cartina dell'Egitto.
Ethel li osservò un istante, sorridendo tra sè, prima di venir distratta dal clacson di una vettura che velocemente superò i cancelli di Rose Castle, divorando l'ampio viale alberato che anticipava lo spiazzo dove si sarebbe fermata.
«Eccolo!» gridò Ethel, correndo veloce verso l'uscita della porta. Le sembrava di volare, tanto correva. Non riusciva a credere che finalmente era arrivato, era tornato! Una volta arrivata all'ingresso del castello, grande com'era, la macchina era già ferma in fondo alla scalinata ed un giovanotto biondo, con ancora addosso la divisa dell'Eton College, stava salutando Lord Norton con grande affetto.
«Alfie!» gridò, sventolando in aria una mano.
«Lulù!» rispose a sua volta il giovanotto. Ethel scese velocemente la scalinata, prima di gettarsi finalmente tra le braccia del ragazzo che ridendo la prese al volo, abbracciandola.
«Finalmente, quanto ci hai messo» commentò lei, sorridendo raggiante «abbiamo aspettato così tanto!»
«Solo qualche giorno» la corresse con calma Lord Norton, osservando il primogenito «per non perderci il tuo ritorno. Ma ora che sei tornato, possiamo andare tutti a Londra no?»
I due giovani annuirono, felici, e stretti uno all'altro risalirono i gradini della scalinata, cominciando a raccontarsi a vicenda le esperienze vissute. Lord Norton, osservandoli, ebbe la certezza che nulla avrebbe mai potuto rompere quel legame che c'era tra i due ragazzi...


«Ethel?» George bussò alla porta della camera, riportandola di colpo alla realtà «Sei pronta? Stanno arrivando»
Ma certo, pensò Ethel con rammarico, ecco la nota stonata di quel mese primaverile. Zia Adel. Erano anni che non la vedeva, ma poteva ancora percepire il suo odore di cenere e candele, per le troppe preghiere dette, per essersi cosparsa il capo fin troppe colpe per i peccati del marito. Ricordava ancora l'odio con cui si rivolgeva a lei e a George. Come due schiavi, come due bestie esotiche. "Arrampicatori sociali", li aveva sempre chiamati così. Come se una bambina di dieci anni potesse capirne il significato...
Scese velocemente la scalinata che portava dalla zona notte all'ingresso, già occupato dal resto della famiglia, mentre la servitù era fuori, in fila come uno squadrone di soldati, in attesa di accogliere la Duchessa.
«Sempre in ritardo» mormorò Alfred, facendole un vago occhiolino. Ethel si limitò a sorridere appena, passando davanti a loro prima di fermarsi, in piedi, vicino a George. Stava evitando Alfred come la peste, ne era consapevole, ed il ragazzo se n'era accorto eccome. Era la verità. Dopo la cena a casa sua non voleva dare preoccupazioni a Candice, che la vedeva sempre più attaccata al fidanzato, tormentandolo in ogni maniera.
«Sei in ritardo» ripetè George, più serio rispetto ad Alfred.
«Lo so, scusa, ma ancora non sono arrivate no?» rispose subito Ethel, a bassa voce.
«Sssh!» sibilò nervosamente Daisy, davanti a loro, mentre rimaneva sottobraccio in piedi a sua madre, al centro dell'ingresso. Poi, quasi all'unisono, uscirono dalla villa fermandosi sulla soglia della porta.
Erano tutti nervosi, tutti agitati, a cominciare dalla servitù che aveva ripulito da cima a fondo tutta la tenuta, ogni angolo, ogni lampadario...zia Adel avrebbe potuto trovare da ridire per qualunque cosa.
Quando sentirono rumore di cavalli e di ruote di carrozza, capirono che erano arrivate. Tra di loro cadde il gelo. Persino Candice riuscì a percepire il nervosismo che aleggiava nell'aria, e pensò bene di tacere. Una carrozza nera e oro, di moda probabilmente cinquant'anni prima, si fermò davanti alla villa.
Due valletti andarono ad aprire la porta della carrozza, mentre l'autista scendeva e cominciava a scaricare i rumerosi bauli delle due nobili.
«Duchessa, ben arrivata a Little Hall» annunciò il maggiordomo, porgendole la mano. Un braccio magro e avvolto da una manica nera si poggiò su di essa, prima che la figura della Duchessa scendesse gli scalini della carrozza. Ethel rabbrividì: non era cambiata di una virgola. Era una figura ricurva su un bastone di ebano e argento, pienotta, vestita come una bambola di porcellana in lutto perenne. La moda non era una cosa che avesse mai interessato la Duchessa, che aveva sempre mantenuto uno stile vittoriano, spartano, vecchio di almeno cinquant'anni. Non che ci fosse nulla di male per una donna della sua età, almeno sotto quel punto di vista. Il problema della Duchessa era la sua mentalità, vecchia come il resto.
La Duchessa fece per camminare verso la soglia della porta, lentamente, lo sguardo arcigno che fissava i parenti avanti a loro. Li studiava, li analizzava, trovando critiche e difetti che avrebbe debitamente esposto più avanti.
«Muoviti, Agatha, o con la tua lentezza facciamo notte» esclamò a gran voce. Ethel si era quasi dimenticata della duchessina, ed allungò appena il collo verso la carrozza, curiosa. Un valletto porse la mano verso la ragazza, e lentamente, con aria goffa, scese dalla vettura una giovane ragazza di vent'anni, capelli biondi e un grazioso viso tondo. Era bassa di statura, e con forme curve e piene. Il problema, ovviamente, era l'influenza che zia Adel aveva su quella povera ragazza. Aveva i capelli stretti in due trecce tenute dietro le orecchie, la linea dei capelli perfettamente a metà, in pieno stile vittoriano. Anche l'abito che indossava, di un grigio spento, era completamente anacronistico, casto come l'abito di una suora. Non c'era nessun accenno di femminilità e la rigidità ed ampiezza dell'abito certo non l'aiutava.
Povera cara, pensò Ethel. Crescere sotto le direttive di zia Adel sarebbe per lei un vero incubo.
«Arrivo, zia» mormorò mesta la giovane, scendendo dalla carrozza quasi senza nemmeno vedere dove fossero gli scalini del veicolo. «Grazie...» mormorò gentile verso il valletto, che rigido s'inchinò prima di richiudere la porta. La giovane nobile affrettò il passo per seguire la zia, affiancandola, ma nel farlo non si accorse del piccolo gradino che divideva la strada principale dal vialetto del giardino. Mise il piede in fallo, cadendo miseramente in avanti, gridando appena per lo spavento.
«Sgraziata» brontolò la Duchessa, continuando ad avanzare. Ethel arrossì immedesimandosi in lei, per la vergogna di essere caduta a due metri dalla sua carrozza e per di più dietro zia Adel. Fece per avvicinarsi a lei, per aiutarla, ma qualcuno la anticipò prontamente: George, che a passo svelto superò zia Adel e si chinò verso la duchessina, porgendole le mani.
«Venite, forza...inciampo anche io su quel dannato gradino» mormorò George. La duchessina sollevò gli occhi velati di lacrime e il viso rosso verso il giovane, arrossendo ancora di più se possibile.
«Mi spiace, ho fatto una figuraccia...» sibilò mortificata sistemandosi l'abito.
«Non dovete scusarvi» mormorò a sua volta George, porgendole il braccio e scortandola verso zia Adel prima di rimettersi al suo posto, vicino ad Ethel. Gli lanciò un'occhiata, la sorella, curiosa e soddisfatta. In risposta George finse di guardare zia Adel, prima che tutti s'inchinassero davanti a lei. L'etichetta con zia Adel non doveva essere mai dimenticata, che voleva essere riverita come se fosse la Regina.
«Adelaide, che piacere rivederti. Com'è andato il viaggio?» chiese Lady Maud.
«Noioso e stancante, Vittoria, mi piacerebbe riposare subito dopo pranzo» annunciò la duchessa. Lei era l'unica che chiamava Lady Maud con il suo nome di battesimo, una cosa che la faceva andare su tutte le furie ogni volta.
«Certamente. Lascia che ti presenti Miss Candice Williams, la fidanzata del nostro Alfred. Miss Williams, lei è la Duchessa Adelaide Howard»
«Duchessa Willelmina Adelaide Alexandra Norton in Howard, ma voi potete chiamarmi Lady Howard se volete» si presentò da sola zia Adel, prima che Candice eseguisse un profondo inchino.
«Onorata, Lady Howard» rispose solamente Candice, emozionata come una bambina.
«E questa sgraziata creatura vicino a me è mia nipote, la Duchessa Agatha Cathleen Cassandra Howard» precisò zia Adel, sospirando spazientita.
«Felice di conoscere tutti voi...» mormorò la nipote, ancora imbarazzata per la caduta.
«Benvenuta a Little Hall, Miss Howard. Lasciate che vi presenti la vostra famiglia» annunciò Lady Maud, sorridendole garbata «Mio figlio, il Conte Alfred Norton, e mia figlia la Contessa Daisy Norton...Sir George Herbert, che avete conosciuto poc'anzi, e Miss Ethel Herbert, sua sorella gemella»
«Piacere di conoscervi tutti» ripetè ancora la duchessina, imbarazzata.
«Siete ancora qui, vedo...ancora a spillare soldi, mh?» commentò inesorabile zia Adel verso George ed Ethel. La sua spada della vendetta si era abbattuta ancora su di loro.
«Adelaide, lo sai che George e Ethel sono...» fece per dire Lady Maud.
«Si, certo, sono stati presi in custodia dal mio amato fratello, che Dio lo abbia in Gloria» precisò zia Adel, facendosi il segno della croca. Lanciò un'occhiata quasi disgustata verso i due fratelli, quindi sospirando varcò da sola la soglia della villa.


Un tuono profondo squarciò il silenzio nella stanza, facendo vibrare i vetri delle finestre. Cassie sobbalzò sul divano, spaventata da quel suono improvviso. Un lampo illuminò il cielo, facendo luce in un cielo improvvisamente ingombro di nuvole nere come le tenebre. Qualche secondo dopo, la pioggia si riversò inesorabile su Londra, inondando qualunque cosa.
Si posò una mano sul petto, ansante. Ti sei solo suggestionata, pensò tra sè. Era così facile spaventarla, come se avesse sempre i nervi a fior di pelle. Mai un attimo di tregua, anche quando zia Adelaide non la tormentava con le sessioni di preghiere, di etichetta, di postura...Aveva solo uno svago, la lettura, che la zia nutriva generosamente acquistandole libri di religiosi e saggisti, oltre che romanzi rosa. Ma a lei piacevano i romanzi gialli, quella loro sensazione di paura e terrore, di investigatori, sospetti e teorie...e doveva acquistarli di nascosto, senza che ne accorgesse la zia, o erano guai seri.
Si dimenticò quasi della sua lettura e automaticamente riporto gli occhi sul libro che teneva aperto sulle gambe, con entrambe le mani. La lampada sul tavolino vicino a lei illuminava solamente la sua zona, lasciando il resto della piccola biblioteca nell'oscurità assoluta. Le piaceva leggere così: la isolava dal resto del mondo. Riportò gli occhi e la mente nella lettura, immergendosi completamente in essa...
"Il fantasma è di una straordinaria magrezza e il suo abito nero svolazza sopra un'ossatura scheletrica. I suoi occhi sono così infossati che non si distinguono bene le pupille immobili. Non si vedono, insomma, che due fori profondi come nei crani dei morti. La sua pelle, tesa sull'ossatura come una pelle di tamburo, non è bianca ma orribilmente giallastra; il suo naso è talmente piccolo da non poter essere distinto di profilo e la mancanza di naso è una cosa orribile a vedersi. Due o tre lunghe ciocche brune sulla fronte e dietro le orecchie fanno le veci della capigliatura...."1
«Miss Howard?» chiamò una voce incerta.
Sobbalzò di nuovo, spaventata da quel suono improvviso. Sobbalzò anche il giovane in piedi davanti a lei, appena visibile. Mise a fuoco la figura, riconoscendo Mr Herbert. Si sentì il viso infuocarsi nel giro di pochi secondi, imbarazzata per essersi spaventata e per il ricordo di quel disastroso arrivo.
«Mr Herbert! Perdonate, i-io ero...leggevo, non vi ho sentito...» brontolò, alzandosi di scatto, sgraziata, facendo cadere il libro a terra e colpendo col gomito la lampada, che oscillò pericolosamente «Oh Dio, ecc-ecco fatto» brontolò, sempre più nel panico, sistemando al volo la lampada. Si raddrizzò, rigida come un bastone, fissando il giovane.
«Tutto bene?» chiese lui, sorridendo appena, rigido, le mani appena protese per eventualmente raccogliere al volo la lampada...o la ragazza stessa. Indossava dei semplici pantaloni scuri e stivaletti, camicia bianca, doppiopetto e giacca marroni, la catenella d'oro di un orologio da taschino pendeva sul panciotto. I capelli neri erano tenuti lunghi appena sopra le orecchie, tirati indietro con la brillantina. Non portava i baffi, come la moda maschile suggeriva, e i tratti affilati del viso erano in bella vista, duri come il ghiaccio. Le labbra carnose tese in un'aria seria, gli occhi ghiacciati che la fissavano, come privi d'espressione. Eppure Cassie non potè fare a meno di reputarlo bello, a suo modo.
«Si, tutto bene! Voi?»
«Tutto ben, grazie. Come sta la vostra caviglia?» chiese George, avvicinandosi.
«Oh sta bene, ho le ossa spesse io. E cado talmente tante volte che ormai mi sono fortificata» commentò Cassie, con un'ironia che il ragazzo sembrò non cogliere.
«Mi fa piacere...»
«Grazie...»
Cadde il silenzio fra loro, interrotto solo dallo scrosciare violento della pioggia fuori dalla finestra. Cassie si ritrovò ad abbassare gli occhi in basso non riuscendo a reggere lo sguardo gelido del ragazzo. George la imitò chinando lentamente gli occhi sul pavimento, inarcando poi un sopracciglio quando riconobbe il titolo scritto sulla copertina del libro a terra.
«"Il fantasma dell'Opera"?» chiese, curioso.
Cassie annuì. «E' la terza volta che lo leggo, veramente. Vi sarei grata se zia Adel ne fosse all'oscuro, Mr Herbert»
«Chiametemi pure George, Miss Howard...e no, zia Adel non verrà a sapere nulla. Vi è piaciuto?»
«Molto. Trovo le descrizioni dell'Opera fantastiche, e provo una sensazione di odio e amore verso Erik. E' un personaggio oscuro ma anche misero...il risultato di quel che gli è stato fatto. E chiamatemi pure Cassie» precisò poi, sorridendo appena.
«Cassie?»
«Sì, Agatha è il mio nome di battesimo, ma zia Adel è l'unica che mi chiama così. Chi mi conosce di solito mi chiama Cassie»
«Molto più carino, sì» ammise sincero George, tirando un sorriso vago sul volto che ebbe l'effetto inverso di renderlo quasi sinistro. Qualcuno bussò alla porta prima di entrare, e intravidero la figura di una cameriera sulla soglia della porta.
«Mr Herbert, chiedo scusa...vostra sorella chiede se volete entrambi unirvi al thè insieme a lei. Lady Maud e Lady Howard sono ancora nelle loro stanze a riposare, e Miss Herbert è da sola»
«Alfred e Candice?» chiese curioso George.
«Sono andati via circa mezz'ora fa, Mr Herbert. Cosa debbo dire a Miss Herbert?»
«Che stiamo arrivando, grazie Charlotte»
«Dovere, signore» e come arrivò la ragazza andò via, silenziosa.
George si voltò verso Cassie, porgendole il braccio. «Meglio non far attendere mia sorella...andiamo?»


«Allora Miss Howard, cosa vi piacerebbe fare qui a Londra? E' la prima volta per voi, e ci sono molte cose da vedere» annunciò sorridente Ethel, prima di sorseggiare il suo thè. Erano tutti e tre seduti intorno ad un tavolino, su morbide poltrone verdi, ed il camino era stato acceso per riscaldarli in quella piovosa giornata primaverile.
«Chiamatemi pure Cassie, Miss Herbert. Non saprei, in verità...vorrei visitare molti posti culturali, ma anche di svago. Potete consigliarmi?»
«Beh Londra è una città molto grande e variegata, Miss Cassie» si corresse Ethel, sorridendole «ma se fossi in voi andrei dritta dritta a visitare il British Museum, la National Gallery e poi magari un giro per i parchi, Hyde Park soprattutto. Ma c'è anche Buckingham Palace, il Crystal Palace, Westmister...»
«Accidenti, dite che mi basterà una stagione intera?» chiese preoccupata Cassie.
«Una stagione intera?» ripetè George, con una vena di preoccupazione nella voce.
«Si, zia Adel ha intenzione di rimanere fino alla fine della stagione, vuole...trovarmi marito» precisò tra i denti Cassie, sorseggiando il thè.
«Oh bene, certo...non fraintendete il tono di mio fratello, Miss, è solo che zia Adel non...ci ama molto»
«Diciamo pure che ci odia, dai» precisò ironico George, divorando un biscotto.
«Zia Adel odia tutti, se vi può consolare. Anche se non capisco perchè odia tanto voi, siete i suoi nipoti e...»
«Errore» precisò con sarcasmo George, guardando fuori dalla finestra «siamo stati adottati da suo fratello, il Conte, ma non...legalmente. Diciamo che siamo ospiti dei Norton da ventotto anni, siamo cresciuti qui, e reputiamo Alfred e Daisy come nostri cugini. Ma non abbiamo legami di sangue»
«Quindi io e voi non siamo parenti?» chiese curiosa Cassie.
«No, per vostra fortuna no» rispose George, facendole un vago occhiolino.
«Oh bene! Cioè voglio dire, mi dispiace ovviamente ma-ma sono, ecco...» Cassie osservò imbarazzata i due, arrossendo per l'ennesima volta.
«Se poteste non farvi uscire la cosa con Miss Williams, ve ne saremo grati» tagliò corto Ethel, distraendola dalle sue figuracce «non tanto per noi, ma per lei. Credo che Alfred non le abbia detto della nostra non-parentela, e temo potrebbe uscirne turbata. Insomma, noi tre siamo molto uniti e potrebbe...indispettirsi»
«Oh sarò muta come una tomba. Purchè voi mi farete da chaperon in giro per Londra» commentò Cassie, sorridente «se avete cuore, non mi farete andare in giro con zia Adel»
I due fratelli risero appena, e finalmente Cassie potè vedere un'ombra di gaiezza sul viso di George, che sembrò quasi illuminarsi, cambiare forma.
«Che ricatto bello e buono! E sia, allora. Alla prossima giornata soleggiata faremo un primo tour per la città»
«E le biblioteche?» chiese Cassie, entusiasta.
«E le biblioteche...e le sale da ballo, ovviamente. La sera dovremmo pur far qualcosa» precisò Ethel, facendole l'occhiolino.
Cassie sbiancò, fissando tutti e due. «N-no, meglio di no Miss, io...non so ballare» sussurrò, come fosse un segreto di sicurezza nazionale.
«E che problema c'è! Nemmeno io sono bravissima, ma si può sempre imparare, con un bravo maestro» precisò Ethel prima di spostare eloquente lo sguardo su George, che si era bloccato con una mano a mezz'aria, che reggeva un biscotto.
«Che?»
«Oh no, Miss, non dovete preoccuparvi, io...sono davvero un caso anomalo, disperato, sono sgraziata»
«Se Miss Cassie vuole provarci...» si limitò a dire George senza particolare enfasi.
«Visto, Miss? Provate, almeno, vi assicuro che comunque non ve ne pentirete» precisò Ethel sorridendo appena.


Lady Howard andò su tutte le furie quando si accorse di non essere stata svegliata in tempo per il tè delle cinque. Una furia che si abbattè su chiunque: sulla nipote, che segregò praticamente in camera sua a pregare e pentirsi per non aver avvisato la servitù; ai suoi ospitanti, a cui non rivolse la parola per intere ore salvo poi sfogare la sua ira su George ed Ethel; ed ovviamente sulla servitù, oggetto preferito delle sue angherie. Purtroppo Lady Howard aveva una mente antiquata, chiusa e prepotentemente ostile nei confronti di qualunque essere non fosse di sangue inglese. Il suo umore peggiorò quando venne ora di cena.
Si rifiutò di mangiare con il resto della "famiglia", irritata dal fatto che avessero fatto cucinare la cacciagione di Venerdì di Quaresima. Si chiuse nelle sue stanze e fece cucinare da principio, solo per sè, ricette vecchie di decadi riguardanti le strette e rigide tradizioni culinarie vittoriane. Nessun esoticismo era ammesso, nessun errore sarebbe stato accettato.
«Cercate di essere comprensibili, è una donna vecchia che ha tanto risentimento nel suo cuore» sussurrò Lady Maud verso Charlotte e Josephine, che si apprestavano a portarle la cena al piano di sopra. Lady Maud poteva fare solo quello: cosa avrebbe potuto dirle? Quella casa, i mobili, tutto appartenevano a suo marito e solo in parte a lei. Lady Howard era la sorella maggiore di suo marito, oltre che un membro molto familiare ai Reali. Non poteva fare molto che sopportare, come aveva fatto negli ultimi trentaquattro anni.
«E' tutto come ha ordinato lei?» sibilò Charlotte, cercando di fermare il tremolìo che aveva nelle mani che reggevano il vassoio d'argento. Faceva attenzione anche solo a respirare più del dovuto, o a camminare in maniera troppo scomposta. Aveva il terrore di quella donna.
«E' tutto apposto, vedrai, sarà un gioco da ragazzi. Entri, inchino, poggi il vassoio sul tavolo senza guardarla negli occhi, esci lentamente senza mai darle le spalle, un altro inchino e chiudi piano la porta. Io sarò proprio qui dietro, non preoccuparti» mormorò Josephine, fermandosi a pochi metri dalla porta.
«Non entri con me?» chiese Charlotte, spaventata.
«Lady Maud dice che è meglio...che non mi faccia vedere, almeno per oggi» mormorò l'altra, alludendo con un gesto alla sua pelle scura. Charlotte deglutì a vuoto, quindi afferrò saldamente il vassoio e diede il via alla capo cameriera per bussare.
«Avanti» annunciò gelida la nobildonna oltre la soglia.
Josephine abbassò piano la maniglia ed aprì la porta, mostrando a Lady Howard la cameriera con la sua cena.
«Finalmente» fu l'unico commento della Duchessa, facendo poi cenno alla ragazza di avvicinarsi. Charlotte eseguì gli ordini, ricordandosi le direttive di Charlotte: s'inchinò profondamente, il vassoio in mano, quindi si avvicinò senza guardarla negli occhi, poggiò la cena sul tavolo e, sempre a capo chino, fece per uscire senza darle mai le spalle, fissando le assi di legno del pavimento.
«Da dove vieni?» chiese la Lady, facendola gelare sul colpo. Forse era una sua impressione, ma poteva quasi percepire la nobildonna annusare l'aria, come un segugio.
«Abito in Inghilterra da quando ho cinque anni, milady...»
«Non è quello che ti ho chiesto. Ti ho chiesto da dove vieni...»
«Dublino, milady...» mormorò Charlotte, il capo ancora chino, pietrificata in quella posizione per la paura.
Lady Howard sbuffò, con risentimento. «Ecco quanto mi vuole bene mia cognata. Mi fa servire da una mangiapatate...» mormorò, composta ma le parole ben chiare, affinchè vengano ben udite dalla cameriera «spero tu non abbia toccato il mio cibo, vero?»
«No, milady...» sibilò Charlotte, sentiva la gola bloccata da un pianto che stava per scoppiare. Non piangere, si gridò nella testa, non vergognarti di quel che sei!
«Sai cosa c'è di peggio di voi irlandesi? Gli italiani2. Ah quelli sono i peggiori! Una mescolanza indegna di negri e bianchi, un sangue criminale, dei ladri approfittatori, bugiardi mendicanti...è la feccia dell'umanità! Voi irlandesi siete appena appena sopra, ed i negri sono addirittura anche al di sotto degli italiani, ma solo perchè sono più simili alle bestie che agli uomini no?»
In un colpo solo, Lady Howard aveva offeso Charlotte, Josephine e Mark. La cameriera dovette ingoiare più di un rospo per zittirsi, ricordandosi chi era lei e chi era la donna che aveva davanti. Poteva sentire il respiro di Josephine, dietro la porta, a due passi dietro di lei. Taceva, come taceva l'altra. Inermi, davanti alle offese gratuite e stupide di una nobildonna ignorante, forse più di loro.
«Vattene adesso, prima che mi passi questa vena misericordiosa e ti picchi col mio bastone...E dì a mia cognata che voglio essere servita solo da servi inglesi!» gridò quasi Lady Howard, spazientita. Charlotte affrettò il passo a gambero e chiuse veloce la porta, senza sbatterla. Si girò verso Josephine, il suo viso furente le apparve nella semi-oscurità, ma la prese per un braccio e la trascinò via da lì, più lontano possibile da quel mostro.


«E' vero...?» chiese George.
L'ora di cena era passata da un bel pò. Josephine e Charlotte avevano detto a Miss Rossi quel che Lady Howard aveva detto per sommi capi, e Miss Rossi non ebbe dubbi: si rivolse immediatamente a Mr Herbert e Lady Maud. Si ritrovarono tutti nelle cucine, compresi Mark e Miss Herbert, che si era unita a quella piccola riunione per partito preso.
«Si, signore, confermo tutto quello detto da Miss Murphy. Ogni parola...» rispose Josephine dopo l'ennesimo resoconto di Charlotte.
«E' gravissimo» ammise serio George «Non possiamo permetterle queste offese gratuite. Finchè si rivolge a noi non ha importanza, zia, perchè sappiamo com'è. Ma la servitù che colpe ha?»
«E' inammissibile» sottolineò Ethel in un sospiro, accarezzando la spalla di Charlotte seduta vicino a lei, che sorseggiava del vino rosso, come se fosse stata appena sottoposta ad una tortura.
«Vi do ragione, ma cosa posso fare? Nulla. E' sempre stato così. E' una maledetta strega, e questo lo sappiamo tutti. Ho sbagliato io a mandare Miss Murphy, la prossima volta sarà servita da persone...a lei congeniali» precisò Lady Maud, mesta.
«E dargliela vinta? No, zia, lo sai che così peggiori solo le cose»
«Andrà via fra qualche settimana, George, lo sai che a fine maggio va in costiera. Durerà poco, voi stringete i denti» annunciò la nobile, dando poi la buonanotte e risalendo ai piani di sopra.
«Mi dispiace...sono mortificato» ammise George, sospirando. Diede la buonanotte e risalì lentamente insieme alla sorella, lasciando la servitù vigile e tesa.
«Non incolpate Lady Maud, purtroppo lei cerca di essere benevola con tutti, cosa che non si dovrebbe sempre fare. Per ora atteniamoci a quel che vi ha detto: servite Lady Howard solo con chi è inglese, e se ve lo chiede i cuochi sono inglesi anch'essi. Non verrà mai qui sotto a mescolarsi con noi comuni mortali» precisò Miss Rossi, con una nota di ironia finale.
«Ah ma se vuole venire nelle cucine può farlo eh! Io non vedo l'ora di offenderla in italiano, sai che divertimento? Non capirebbe nulla sicuramente» precisò Mark facendo sorridere Charlotte, per la prima volta da quella sera.
«Miss Rossi, accompagno Miss Murphy a letto se non le spiace. E' meglio andarci a riposare: domattina Lady Howard sarà sicuramente furiosa» ammise Josephine, alzandosi.
«Sì, credo sia la miglior cosa» annunciò Miss Rossi, prima di dare anche lei la buonanotte.
«Forza, andiamo Charlie...» mormorò Josephine, prendendo sottobraccio l'amico insieme allo chef pasticcere.
«Questa giornata è stata fin troppo lunga» ammise sincera Charlotte. Presero a risalire le scale verso le camere, in silenzio, cercando di non disturbare la famiglia che era andata a dormire.
«Stai bene...?» chiese Mark in un sussurro, affiancandola.
Charlotte annuì, sorridendo appena, cercando poi nel buio la mano del ragazzo. Dopo qualche secondo sentì la presa decisa della mano del ragazzo che stringeva la sua. In silenzio, senza dirsi null'altro, risalirono nella zona notte della servitù.


 
1G. Leroux, "Il Fantasma dell'Opera", p.12.
2Fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale, seppur in maniera minore, gli italiani all'estero erano oggetto di razzismo, insieme ad altre minoranze etniche. Erano particolarmente denigrati per i loro modi di vivere e le loro maniere.

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Capitolo 8
*** An Unexpected Invitation ***


8. An unespected invitation


 
23 Aprile 1911



Quel che sarebbe dovuto essere un “giorno qualsiasi”, si rivelò l'evento più importante della loro vita. La notizia che la Regina avrebbe visitato un orfanotrofio di Londra, proprio il giorno di San Giorgio, raggiunse anche i villaggi più sperduti. E quando quella mattina Ethel raggiunse il St.Mary's House con largo anticipo si ritrovò a dover quasi spintonare la gente che si era accalcata intorno alla struttura, speranzosa di vedere la Regina in carne ed ossa. I poliziotti avevano aperto un varco tra la folla, per collegare la strada all'orfanotrofio, e fino a quel momento la riuscivano a contenere.
Doveva proprio ammetterlo: non aveva previsto tutta quella folla. Si ritrovò persino ad arrossire, in imbarazzo, quando un giornalista le chiese un'intervista. Tirò dritto avanti a sé, sfilandosi i guanti e varcò la soglia dell'orfanotrofio.
«Oh Miss Herbert, meno male che siete arrivata!» esclamò con ansia palpabile Miss Bridge, andandole incontro. Indossava un completo di gonna blu e camicia bianca, come la moda imponeva, ed una giacca blu sopra di essa. I capelli ben raccolti e sistemati, non come era di solito: scompigliata e felice.
«State calma, mia cara, la Regina arriverà fra almeno due ore. E' tutto pronto?» chiese, osservandola.
«Sì, i bambini sono lavati e le ragazze li stanno vestendo e pettinando. La sala è in ordine, il fioraio porterà i fiori quarantacinque minuti prima, freschi...se li porta prima c'è il rischio che appassiscano proprio quando dovrebbe arrivare Sua Maestà»
«E noi certo non vogliamo che accada, ben fatto cara. Andiamo ad aiutare le ragazze, forza! Sarà una giornata grandiosa, vedrete» annunciò Ethel, prendendola sottobraccio e sorridendole. Non le stava mentendo, era sicura che sarebbe stata una giornata perfetta e memorabile, e che la Regina sarebbe stata colpita dal loro lavoro.
Joseph le corse incontro, con il cravattino appeso al collo più come un cappio per criminali che come un ornamento maschile.
Mi vogliono strozzare! Le mani del piccolo quasi tremavano di rabbia mentre si fermava davanti ad Ethel, la quale poggiò un ginocchio a terra per abbracciare il bambino. Capì subito la sua paura e rise appena, cercando di sistemargli la cravatta. Ma il giovane testardo gliela strappò dalle mani, fissandola come se anche lei volesse ucciderlo.
Non ti voglio strozzare, Joseph. Quella è una cravatta, la portano gli uomini. Vedi? Simile a te ce l'ho anche io, e si indicò la camicia bianca che indossava, stretta al collo e chiusa da cravattino nero femminile. Il ragazzino la fissò, incerto, prima di avvicinarsi e docile lasciarsi sistemare dalla Direttrice.
E' vero che oggi conosciamo la Regina?, chiese Joseph. Ethel annuì. Allora magari possiamo chiedere a lei se puoi adottarmi! Lei è la Regina, è lei che decide no?
Ethel sospirò, amareggiata: non si era dimenticato della sua “promessa”.
Facciamo così, glielo chiedo io va bene? E soprattutto, signorino, non vai da nessuna parte se non ingrassi un po', e per precisare la minaccia provò a fargli il solletico, facendo uscire dalla bocca del bambino solo un rantolo simile all'eco di una risata, seppure il suo viso fosse piegato in un'aria divertita.
Forza, andiamo! Devi ancora metterti le scarpe, se ti ammali vedi tu dove ti mando!
Dove?
In ospedale, ecco dove!
No, Miss Herbert per favore, in ospedale no!
Sei un ragazzino troppo chiacchierone per avere solo cinque anni, sai?
Ma se sono muto!
Ethel rise. Non faceva una piega...


«Santo cielo quanta gente» mormorò Candice entusiasta, notando la calca di persone fuori dall'orfanotrofio. Erano tutti in attesa all'ingresso della struttura, Ethel e Miss Bridge in prima fila, il piccolo Joseph che non aveva voluto staccarsi dalle gonne della Direttrice.
«Le notizie viaggiano in fretta a Londra, cara. E una visita della Regina fa sempre clamore» commentò Daisy, scrollando le spalle. Calma, quasi indifferente.
«Chissà come mai Miss Howard non è voluta venire, ad Ethel è dispiaciuto molto...» chiese Alfred , cambiando argomento.
«Ha avuto un ripensamento all'ultimo momento» rispose Candice, sorridendo «non credo se la sentisse, a dirla tutta. Un vero peccato»
«Già...» ammise Alfred vago, osservando Ethel davanti a lui. La studiò, seppur di spalle, come se fosse la prima volta: non era più una ragazzina, la piccola Lulù. Era una donna, una brava persona; un'ottima direttrice, aveva notato l'amore che tutti i bambini lì provavano per lei. Aveva empatia da vendere, forse fin troppa. Non aveva più l'indole spensierata e folle che si ha da ragazzini, ma la maturità di una donna vera. Aveva notato i capelli grigi ai lati della testa, che mostrava senza alcuna vergogna. Li aveva anche lui, quei dannati capelli grigi. Si girò lentamente verso Candice: non potevano essere più diverse, lei ed Ethel. Candice incarnava in pieno quel periodo che l'Europa stava attraversando: la spensieratezza, l'eccesso, l'opulenza, l'esagerato. Era sempre felice, sempre entusiasta della vita. Ma era davvero un bene? A volte si rendeva conto che la felicità di Candice era finta, era apparenza: come il resto della società. Non aveva davvero empatia, non aveva amore verso qualcosa. Forse nemmeno per lui...
«Tutto bene?» a chiederlo non fu Candice, ma George. Alfred sollevò gli occhi verso l'amico, evadendo dai suoi pensieri. Sorrise appena, annuendo e tornando a guardare avanti a lui. Non si era minimamente accorto che la folla esultante stava accogliendo la Regina. Poco dopo, eccola varcare la soglia dell'orfanotrofio insieme ad un piccolo seguito di damigelle.
Ethel si prese del tempo per studiare bene quella figura che vedeva per la prima volta, così da vicino: era di media statura, ma aveva un'aria così composta e regale che sembrava una colonna di granito. Petto in fuori, l'aria sicura di sè, il sorriso gentile sulla bocca, due occhi chiari e profondi, calmi...sembrava il ritratto di qualche antica ed eroica Regina. Qualcuno ci nasce davvero col sangue blu, pensò tra sé non potendo fare a meno di guardarla, come fosse una calamita.
«Vostra Altezza Reale, benvenuta» annunciò alla fine, con garbo, avvicinandosi a lei. Porse un lieve inchino, insieme a Miss Bridge che tremava come se fosse sul patibolo. La Regina, dal canto suo, sorrise e porse la mano verso Ethel.
«Miss Herbert, grazie mille e perdonate il ritardo. Il traffico londinese è insopportabile, non trovate?»
Ethel si rialzò e incerta strinse la mano, prima di sorridere. «Dicono che a New York sia anche peggio, ma'am. Posso presentarvi la mia vice-Direttrice, Miss Bridge?»
«Onorata, Vostra Altezza...» mormorò nervosa Miss Bridge, stringendole la mano solo dopo che la Regina gliela ebbe porta.
«Tanto piacere, Miss Bridge. E questo è il vostro piccolo seguito?» chiese, indicando con lo sguardo le persone dietro di lei.
Ethel arrossì, in imbarazzo, e si girò notando come Daisy fosse arrossita anche lei, ma di rabbia: come osava la Regina darle della “damigella”?
«No, ma'am, sono parte della mia famiglia. Mr Herbert, mio fratello...Lord Norton, Miss Norton e Miss Williams, la fidanzata di Lord Norton»
Dopo essersi presentati come etichetta imponeva, la Regina sorrise verso Ethel.
«Siete fortunata ad avere una famiglia così numerosa. Anche io ho molti fratelli, sapete?»
«Si...lo so, ma'am» ammise sincera Ethel, facendola ridacchiare.
«Certo che lo sapete, che domanda sciocca» rispose la Regina, sospirando «Volete mostrarmi l'edificio? Sono molto curiosa»
«Da questa parte» annunciò Ethel indicando la scalinata che portava ai piani superiori.
Le mostrò così i dormitori, i bagni, il piccolo ambulatorio dove un medico privato visitava i bambini una volta al mese; scesero poi al piano inferiore dove la Regina ebbe modo di visitare la cucina, l'ufficio di Ethel, la sala giochi ed infine il refettorio.
«Quanti bambini avete detto che accogliete, Miss Herbert?»
«Trenta, allo stato attuale. Alcuni vengono adottati, altri tornano dai parenti prossimi, altri invece rimangono qui per anni, purtroppo. Noi cerchiamo di farli sentire il più possibile a loro agio»
«Compreso quel giovanotto che vi sta attaccato alle gonne da quando sono arrivata?» chiese sorridendo la Regina, composta.
Ethel si era quasi dimenticata di Joseph che era diventato quasi invisibile. Arrossì, prendendolo poi in braccio continuando a camminare al fianco della Regina.
«Perdonatelo, ma'am. E' molto timido, non gli piacciono gli estranei. Senza offesa per Voi, ovviamente»
«Oh nessuna offesa, nemmeno a me piace che la gente si intrufoli in casa mia senza permesso. Ma purtroppo non posso dirgli di no» ammise ironica la Regina, prima di sorridere verso Joseph che di tutta risposta si strinse ad Ethel, abbracciandola.
«Non parla?» chiese con tatto la Regina.
«No, ma'am. E' muto dalla nascita, io Miss Bridge e le altre ragazze dell'orfanotrofio siamo le uniche con cui può comunicare»
«Spero davvero che possa trovare una famiglia prima o poi. Siete sposata, Miss Herbert?»
Ethel deglutì a fatica, sentendo già gli occhi di Daisy trapassarla, il suo cuore stringersi in una morsa di imbarazzo nel doverlo dire proprio davanti a tutti, e alla Regina.
«No, ma'am»
«Oh...oh, sono stata indiscreta, mi spiace Miss Herbert»
«Mia sorella si è votata anima e corpo a questi bambini, Vostra Altezza Reale, tanto da dimenticare di avere quasi una vita all'infuori di questo edificio. A volte non la si vede per giorni» la voce di George fu l'unica che venne in suo soccorso. Ethel lo osservò, ringraziandolo con un sorriso.
«Oh posso capire! Vedrete che vostro padre vi troverà una sistemazione adatta anche senza matrimonio...»
Ethel sentì Daisy sbuffare appena, come se stesse per scoppiare a ridere.
«Io e mio fratello siamo orfani, ma'am, Lady e Lord Norton ci hanno cresciuti come figli loro, siamo parte della famiglia»
«Oh...oh, Lord Norton certo! Era molto amico di mio padre, sì. Mi spiace, Miss, sto facendo una figuraccia dietro l'altra. E' che in queste situazioni non so mai di cosa parlare...» ammise in un sussurro la Regina, in una confessione genuina. Ethel notò la sua aria insicura, di una persona costretta a fare ciò che non vorrebbe. Le sorrise, con sincera empatia.
«Possiamo anche stare in silenzio, ma'am, se vi aggrada. O potete ascoltare quel che dico e fare finta che vi interessi, salutarci e tornare ognuno nella nostra dimora, che ne dite?» chiese sorridendo.
«Dico che è un'ottima idea, mia cara...?»
«...Ethel»
«Ethel, giusto. Proprio un'ottima idea...»



«Com'è andata?» chiese Charlotte a Marie, la loro prima cameriera inglese.
«A momenti mi richiedeva il certificato di nascita» brontolò l'altra, lasciandosi cadere sulla panca del tavolo della cucina.
«E' faticoso, lo so. Resistiamo ancora qualche settimana e poi, a detta di Lady Maud, non ci romperà più le scatole» brontolò Josephine, dando qualche pacca a Marie per consolarla e incoraggiarla. Versò alle ragazze il thè e Mark portò poco dopo dei biscotti al burro.
«Miss Howard?» chiese Charlotte sempre a Marie, prima di prendere una tazza di thè. Dal primo momento si era presa a cuore la sorte di quella povera ragazza: vuoi per la Lady sua zia, o vuoi per l'empatia che anche Miss Herbert provava per lei.
«A piangere in camera sua. E' così da quando gli altri sono partiti» ammise Marie, sospirando.
«E perchè sta piangendo?» chiese confuso Mark.
«Non lo so, ma prima che gli altri partissero per il St.Mary's House ho visto Miss Williams uscire dalla sua camera. E da lì non ne è più uscita...»
«Chissà cosa gli avrà detto, quella femme fatale» mormorò Amélie, la sguattera francese.
«Lo scopriremo presto. Quando Miss Herbert verrà a saperlo ci sarà un putiferio. Ma prima...qualcuno deve scoprire che cosa è successo» precisò Josephine, e automaticamente tutti girarono il capo verso Charlotte, fissandola.
«Cosa...? No, scordatevelo. Io non faccio la spia» precisò secca la ragazza.
«Avanti, non è fare la spia! Vogliamo solo sapere cosa le ha detto quella stupida ragazzina» precisò Mark, calmandola «tu fai finta di salire su per chiederle come sta, essendo la cameriera personale di Miss Herbert si aprirà...et voilà»
«Io...» mormorò Charlotte, incerta.
«Senti...qui a nessuno sta simpatica Miss Williams, Charlie. E se magari riusciamo a trovare un modo per metterla in cattiva luce agli occhi di Lord Alfred, allora...» precisò Josephine, scrollando le spalle.
«Certo che siete proprio malvagi» sentenziò Charlotte, ridacchiando.
«No, è solo istinto di sopravvivenza. Da che gira il mondo, la servitù è sempre stata la sorvegliante della famiglia: dobbiamo analizzare bene chi entra qui dentro. Pensi che non l'abbiamo fatto su di te?» precisò l'altra, facendole un occhiolino.
«Giusto per essere chiari: a me sei piaciuta da subito!» precisò Mark, ironizzando.
Charlotte sorrise prima di alzarsi, poi sospirò «E va bene...vediamo che cosa riesco a scoprire» annunciò, lasciando poi i colleghi in cucina e risalendo ai piani alti, verso la camera di Miss Howard.
Cosa poteva dirle? Non aveva mai consolato una ragazza, né tantomeno cercato di carpirle informazioni. Si sentiva in colpa per quel che stava per fare, ma Josephine aveva ragione: Miss Williams la odiavano tutti, e secondo lei era anche una persona falsa. Superò la camera di Lady Howard quasi senza respirare, quindi camminò fino in fondo al corridoio, davanti la camera di Miss Howard. La sentiva, oltre la porta, tirare su col naso, come se stesse piangendo. Ma con quale scusa si sarebbe presentata? Sollevò gli occhi verso l'orologio appeso nel corridoio: era quasi ora di pranzo. Perfetto, pensò prima di bussare.
«Si?» la voce della ragazza arrivò ovattata oltre la porta.
«Sono Miss Murphy, Miss. Per il pranzo» annunciò, senza alzare troppo la voce: aveva il terrore di svegliare Lady Howard, che a quanto pareva trascorreva la maggior parte del suo tempo a dormire, o pregare.
Sentì dei passi oltre la porta, poi Miss Howard fece capolino oltre di essa, aprendola solo in parte. Aveva gli occhi rossi e lucidi, cristallini per le eccessive lacrime piante. Cercava di non far tremare il mento davanti alla cameriera, riuscendosi egregiamente.
Charlotte deglutì, sinceramente dispiaciuta. «Ci chiedevamo se volevate mangiare in camera, Miss, o attendere il resto della famiglia»
«Non ho fame, grazie»
«C'è lo stufato, Miss, se posso permettermi...è ottimo»
Miss Howard tentennò, prima di ricominciare a piangere, in silenzio. «A che serve tanto? Sono grassa e brutta!»
Charlotte sgranò appena gli occhi per quella “confessione” così diretta. Ma poi si irrigidì, sentendo dei passi in fondo al corridoio. Senza nemmeno girarsi per vedere chi fosse, spinse la porta della camera ed entrò, facendo arretrare la ragazzina. Richiuse la porta, l'aria un po' spaventata.
«Scusate, ma sono terrorizzata da vostra zia» ammise Charlotte, in un sussurro. Cassie sorrise tra le lacrime.
«Io ormai quasi non ci faccio più caso» commentò l'altra. Dentro la camera c'era un vero disordine: quasi tutti i vestiti erano stati tirati fuori dagli armadi, messi sottosopra, e così il resto degli accessori.
«Volete...che vi sistemi la camera?» chiese Charlotte, incerta.
«N-no, io...sto bene così. E' solo che...» la voce tremolante della nobile fece stringere ancora il cuore a Charlotte «voi siete la cameriera personale di Miss Herbert, vero? Posso fidarmi di voi?»
Charlotte deglutì, prima di annuire. Sarebbe andata all'Inferno per aver mentito a quella povera anima pura.
«Ebbene, io stamattina mi sono alzata di buona lena, e dopo aver esaudito ogni capriccio di mia zia finalmente mi stavo preparando per la visita della Regina. Voi l'avete mai vista? Io nemmeno» precisò, al diniego di Charlotte «ed ero così curiosa! E Miss Herbert mi aveva promesso che poi saremmo andate al British Museum, con Mr Herbert ma...ma poi, ecco, Miss Williams è venuta a salutarmi, e mi ha dispensato qualche...consiglio»
Charlotte la fissò, in silenzio. Poteva ben immaginare quale consiglio avesse dispensato quella strega.
«Mi ha detto che certo non potevo farmi vedere dalla Regina conciata così» e indicò il suo abito, che effettivamente Charlotte aveva visto indossare solo a sua nonna...e forse nemmeno a lei «che avrei fatto una pessima figura. Che era inutile che gironzolavo intorno a Mr Herbert perchè egli è già promesso a Miss Norton e che quindi...»
«Ma questa è una bugia» la interruppe Charlotte, perplessa «non è vero, Miss Howard. Mr Herbert non è fidanzato, o la servitù sarebbe stata la prima a venirlo a sapere, credetemi. Mr Herbert è privo di ogni dote, purtroppo, e di ogni titolo. Miss Norton è troppo altezzosa per potersi fidanzare con lui, seppur egli sia un giovane per bene»
Cassie la fissò, perplessa. «Allora...Miss Williams mi ha mentito...?» chiese, come se fosse la notizia più orribile del mondo.
«Temo di sì, Miss Howard...»
«Io...non capisco, perchè mentirmi? Io non ho nessun interesse verso Mr Herbert» precisò l'altra, arrossendo in viso «cerco solo la compagnia sua e di sua sorella, come se fossero miei cugini. Io qui non conosco nessuno e loro mi sono sembrati così alla mano...perchè mentirmi così?»
«Non saprei, Miss Howard, ma fossi in voi chiederei a Miss Herbert. Le state molto simpatica e sono sicura che...»
«No, assolutamente! Non voglio imbarazzarla con certi discorsi ridicoli, e vi chiedo la cortesia di non dirle nulla, Miss Murphy, ve ne prego! Va bene così, io...farò finta di nulla, attenderò il mio ritorno a casa come se nulla fosse. La Regina...la conoscerò un'altra volta» ammise la giovane, triste.
«Sono sicura che ci sarà altra occasione, Miss, non preoccupatevi. E riguardo a voi...non avete nulla da invidiare alle altre ragazze, se posso permettermi. Siete una ragazza bella e molto per bene, e l'abbigliamento certo non è una cosa a cui un uomo baderebbe, non trovate?»
«Immagino di no...grazie Miss Murphy» mormorò Cassie, sorridendo appena.
«Allora, com'è andata?»
Charlotte sollevò gli occhi dai propri piedi, come era solita fare quando scendeva le scale, e si ritrovò a guardare Mark in fondo alle scale.
«Ma che ci fai tu qui?» sibilò preoccupata la ragazza, prendendolo per un braccio e cercando di trascinarlo via da là.
«Ero troppo curioso, non potevo resistere. Allora, abbiamo ragione? Miss Williams è una vipera?»
«Puoi scommetterci. Ha detto a Miss Howard che praticamente è troppo brutta e grassa, e vestita male, per presentarsi in pubblico. Povera ragazza, era totalmente in crisi. Dovrò farlo intendere a Miss Herbert, lei saprà come aiutarla»
«E così forse ci leviamo di mezzo Miss Williams. Anche se certo è un toccasana per gli occhi eh...» precisò l'italiano, prendendosi uno scapellotto dietro la nuca «Che c'è?!» protestò divertito, consapevole di aver ravvivato la fiamma della gelosia dell'irlandese.
«Sei un porco» brontolò Charlotte, trascinandolo verso l'ingresso.
«Ma che ho detto?» sussurrò Mark, sorridendo sotto i baffi «Aspetta, dai, fammi curiosare in giro»
«Conti, se ti vede Lady Howard lo sai che sono guai, vero?»
«Perchè, un pasticcere deve stare confinato in cucina?»
«Finchè c'è lei si»
«Dai, una cosa veloce, solo il salotto!»
«Una cosa veloce...» sussurrò agitata Charlotte, trascinandolo in fretta e furia verso la stanza prescelta. Una volta entrati richiuse velocemente la porta, per attutire i suoni.
«Caspita, che roba...ti immagini ad avere noi una casa così?» chiese Mark, girandosi intorno prima di sedersi su una poltrona. Accavallò le gambe e finse di fumare un sigaro immaginario, con tanto di aria da nobile mentre la fissava.
«Cara, stasera abbiamo il gran ballo a corte, vero?» chiese, con un forte accento inglese.
Charlotte rise appena, a bassa voce, scuotendo poi la testa. «Tu sei matto...»
«Matto? Peste e corna! Non era stasera il gran ballo? Eppure ero sicuro di sì...oh beh, vorrà dire che balleremo solo noi. Mi permetti questo ballo, tesoro?» annunciò, prima di alzarsi ed inchinarsi da bravo cavaliere.
«Conti, dai, basta scherzare...»
«Eddai Murphy, solo un ballo!» sibilò il ragazzo ancora a testa china.
Charlotte sospirò: meglio assecondarlo, così quella farsa sarebbe finita e con un pizzico di fortuna nessuno li avrebbe visti ballare nel salotto dei padroni.
«E va bene...» brontolò, stringendogli la mano. Il ragazzo si sporse verso il grammafono, fece partire la musica e prima che l'altra potesse obiettare abbassò il volume al minimo, così basso che a malapena si sentiva.
Tornò a guardarla, prima di stringersi appena per un lento1. Charlotte avvampò ma non disse nulla, stringendo la sinistra del ragazzo con la propria destra e portando l'altra intorno al collo. Mark la strinse più a sé, petto contro petto, e presero a muoversi lentamente, con la musica di sottofondo.
Il tempo sembrò fermarsi, la realtà quasi modificarsi. Non sentiva nessuno intorno a lei, solo la musica e il profumo del ragazzo. Il sole penetrava dalle ampie finestre, illuminando tutta la sala. Mark le sorrise prima di farle fare una giravolta, facendola ridacchiare appena. Tremava, e se ne rendeva conto. Cercò di calmarsi, ma percepiva quasi la paura di quel che stava per accadere. L'ansia da prestazione la strinse lo stomaco in una morsa di ferro: e se avesse sbagliato? Se le puzzava l'alito? Se non avesse colto nel segno la bocca? Ad occhi chiusi era difficile, non era sicura di potercela fare, e poi...
«Murphy...?»
Sollevò di scatto gli occhi sul ragazzo, quasi dimenticandosi che c'era anche lui, lì con lei. La musica si era fermata, ma loro danzavano ancora in un ritmo quasi naturale del corpo.
«Guarda che se ci pensi così tanto sbagli sicuro» commentò il ragazzo, come ad averla letta nel pensiero. Charlotte arrossì prima di ridere appena, in imbarazzo.
«E' che non ho mai...» il ragazzo la interruppe di nuovo, come due secondi prima, ma questa volta sentì qualcosa di morbido e soffice posarsi sulla sua bocca. Sgranò appena gli occhi, irrigidendo poco la schiena. Il cuore cominciò a martellarle nel petto come un tamburo, prima che un brivido le scivolasse lungo la schiena.
Mark si staccò lentamente, fissandola con un sorrisetto divertito.
«Sì, sei davvero una frana Murphy» annunciò, da vero esperto.
«Ma io...!» cercò di obiettare Charlotte, per difendere il proprio orgoglio. Tutto vano, Mark la ribaciò di nuovo, con più trasporto di prima. La strinse più a sé e chiuse persino gli occhi, cosa che fece anche lei quasi automaticamente. Sentiva la bocca di lui stampargli baci sulla pelle, con un'attenzione con cui si possono baciare solo le persone che si amano. Lo spinse via di colpo, appena.
«Mi fai parlare?!» brontolò appena, cercando di ritrovare un contegno. Forse anche per paura che qualcuno si ritrovasse ad aprire la porta del salotto proprio in quel momento.
«No» precisò Mark, riprendendola a sé per baciarla con passione, come se non potessero stare staccati uno all'altra.
Mi sembra giusto, pensò Charlotte, arrendendosi.




«Bentornati, signore e signori. E' stata una visita gradevole?» annunciò la governante mentre due cameriere raccoglievano i soprabiti di tutti.
Si era fatto più tardi del previsto, e così quando arrivarono a casa era passata l'ora del pranzo da quasi due ore.
«Sì, grazie Claire. Puoi servirci qualcosa da mangiare ed anticipare il thè, per favore? Abbiamo una fame da lupi» annunciò Alfred, facendo gli onori di casa.
«Certamente, Lord» rispose Miss Rossi con un inchino, prima di incamminarsi svelta verso le cucine.
«Chi ha fame?» chiese Alfred, sorridendo allegro.
«Oh io sto morendo» commentò entusiasta Ethel. Era su di giri, se ne rendeva conto, ma la conoscenza della Regina era stata speciale. Avevano conversato molto, come due vecchie amiche, e prima di salutarsi la Regina l'ha salutata sperando di rivederla presto. Quante volte l'aveva detto ad altre persone? Forse tante, ma quella volta l'aveva detto a lei.
«Quando mai non hai fame? Diventerai un bue fra qualche mese» il commento gelido di Daisy arrivò inesorabile. Si guardò istintivamente allo specchio verticale nell'ingresso, consapevole di aver soddisfatto lo spirito critico e cattivo di Daisy. Ma non potè farne a meno: era alta più di lei, ma sicuramente era anche più in carne, seppur di poco. Aveva tutto sommato un fisico slanciato, ma sapeva che il vestito mascherava bene il sedere tondo, le cosce morbide...Daisy era l'unica che riusciva a farle una visita medica con i vestiti addosso.
«Non ascoltare mia sorella, Ethel, stai benissimo» precisò Alfred, prendendola sotto braccio. Ethel si irrigidì appena a quel contatto, che non percepiva più dal ballo a casa di lui. Ma non disse nulla, limitandosi a sorridere.
«Andiamo?» chiese Candice, prendendo sottobraccio Alfred. Ethel lentamente sfilò il braccio da quello del ragazzo, sorridendo appena. Alfred si girò appena verso di lei mentre Candice lo trascinava verso la sala da pranzo.
«Miss Howard?» chiese Ethel a Josephine, una volta dentro la camera.
«Non ha voluto pranzare, Miss Herbert» rispose la cameriera con tono sommesso. Ethel ebbe la sensazione di aver sentito Daisy e Candice sbuffare, quasi a trattenere una risata. Si girò verso George, che sembrò non aver colto o sentito nulla.
«Lady Maud e Lady Howard?» chiese ancora, sedendosi lentamente.
«Hanno mangiato entrambe nelle rispettive stanze, Lady Maud credo stia arrivando per il thè. Volete che controllo?»
«Si, grazie, e chiedi a Miss Howard se vuole unirsi a noi per favore» precisò gentile Ethel.
«Subito, signora» mormorò l'altra, uscendo svelta dalla stanza.
«Da quando in qua dai ordini alla servitù al mio posto, Ethel?» chiese piccata Daisy. Cadde il silenzio.
«Non stavo dando gli ordini, Daisy, sto cercando di essere gentile con un'ospite, nonché tua cugina, che preferisce chiudersi in camera piuttosto che stare con noi. Evidentemente non si sente abbastanza a suo agio, e dobbiamo fare in modo che lo sia»
«E chi l'ha detto?»
«Ti ricordo che è la nipote di zia Adel. Pretende che ci comportiamo bene con lei»
«Si, beh, allora sai cosa ti dico?»
«Daisy, taci» Alfred intervenne, e questa volta era serio. Fissava la sorella deciso, con una vena che gli pulsava pericolosamente sulla tempia. Ethel non l'aveva mai visto così serio, sapeva che stava per scoppiare.
«Cosa vuoi, tu!» esclamò spazientita Daisy, facendo esplodere quel che Ethel temeva. Alfred si alzò così velocemente che colse tutti di sorpresa. Si sporse sul tavolo e con una velocità inaudita colpì la guancia di Daisy con uno schiaffo deciso. Ethel si alzò a sua volta dal tavolo, spaventata, e George fece altrettanto, cercando di farlo sedere.
«Che ti serva da lezione, quella che nostro padre non ha fatto in tempo a darti!» gridò Alfred furioso, risedendosi a forza spinto da George.
«Alfie, ehi amico...calmati...» mormorava George, la voce così gutturale che sembrava quasi un rantolo.
«Alfred, per amore del cielo...» mormorò Candice, piccata.
«Non ti intromettere!» esclamò Alfred, facendo sgranare gli occhi ad Ethel.
«Ok, Alfred, basta, non...perchè non ci calmiamo?» chiese Ethel, tremando appena per la paura. Non lo aveva mai visto così. Daisy era rimasta con la mano sulla guancia colpita, gli occhi gonfi di lacrime.
Poi la porta si aprì e Lady Maud apparve sulla soglia della stanza, accompagnata da Miss Howard.
«C'è qualche problema?» chiese con educazione l'anziana madre, respirando ancora il putiferio appena accaduto. Daisy si alzò di scatto e spingendo appena via Miss Howard uscì dalla stanza.
Alfred e George si ricomposero, calmi, il primo ancora col fiatone.
«N-no» precisò, tornando a sedersi. George rimase in piedi e spostò la sedia a zia Maud prima, a Miss Howard poi.
«Ho sentito delle grida...» insistette Lady Maud, calma.
«Parlavamo di politica, zia» commentò subito Ethel, deglutendo.
«Le bugie non sai dirle, cara, ma grazie comunque per lo sforzo» precisò la donna, facendola sorridere appena.
Tacquero tutti a lungo. Alfred fissava il suo biscotto nel piatto, Candice mangiava con l'aria offesa, George come se nulla fosse successo e Cassie intimorita, pallida: aveva dovuto sentire quel caos dalla sua stanza.
«Ho ricevuto un invito inatteso» annunciò alla fine Lady Maud, estraendo dalla tasca dell'abito una lettera, che porse ad Alfred.
«Cos'è?» chiese curiosa Ethel, cercando così anche di distrarre gli altri.
«Un invito ad un ballo in costume, in memoria di Shakespeare2»
«Un ballo?» ripetè Candice, dimenticandosi ogni offesa e spalancando un sorriso raggiante: doveva sembrarle di essere nata in un regno fatato, dall'espressione che si pose sul viso.
«Si, al Royal Albert Hall...Ci saranno vari Reali europei, i nostri inclusi ovviamente, e molte personalità della politica e non. Siamo tutti invitati, e c'è ovviamente l'obbligo del costume. Inoltre, chi vuole, potrà inscenare una piccola fetta di un'opera del Poeta, è tutto scritto nell'invito comunque»
«Due giorni prima dell'incoronazione del Re e la Regina, geniali. E' l'ideale, a Londra ci saranno i vari parenti della famiglia reale, Re e Regine a loro volta di altri paesi. Raccoglieranno una fortuna» calcolò George, improvvisamente eloquente.
«Ovviamente dovrete andarci, senza eccezioni» precisò Lady Maud, seria come se stesse parlando di una riunione di Gabinetto.
«Cosa? Dai zia...vestirci in costume...» commentò Ethel, ridacchiando.
«Perchè io e te non insceniamo Romeo e Giulietta?» chiese sognante Candice, girandosi verso il proprio fidanzato.
«Non fanno propriamente una bella fine...» brontolò Alfred, poco in vena di sorrisi.
«Ma che importa? E' romantico!»
«Se posso permettermi» s'intromise Ethel, sorridendo appena «Romeo e Giulietta sarà sicuramente fatto e rifatto da molte coppie. Se volete attirare l'attenzione, Miss, vi consiglio qualche scena di “Molte rumore per nulla”, con la coppia Beatrice e Benedetto. Sono due personaggi che piacciono e divertono, ma commuovo anche»
«Ed ecco la nostra acculturata» commentò ironico George, finendo il suo thè prima di buttare un'occhio all'orologio da taschino.
«E sia, allora! Io farò Beatrice e tu Benedetto» precisò Candice, sorridendo verso Alfred. Questo si limitò a sorridere appena, incerto, prima di lanciare un'occhiata ad Ethel.
“Che c'è?”, sembrava volergli dire mentre lo guardava con aria innocente, come quando da piccoli lei faceva i danni e lui doveva sorbirsi la punizione, da bravo cugino maggiore.
«Fate quel che volete, purchè vi sbrighiate. Mancano due mesi, e quel tipo di abito va fatto su misura» precisò Lady Maud, finendo il suo thè
Quando tutti finirono la campanella risuonò in cucina, dando la notizia alle cameriere che potevano risalire a sparecchiare.
«Noi andiamo a casa» annunciò Candice, prima di uscire dalla sala «ti aspetto all'ingresso caro!»
«Arrivo» annunciò Alfred, mogio. Uscirono in fila indiana, e gli unici ad attardarsi furono Ethel ed Alfred: la prima perchè non aveva fretta, il secondo perchè non aveva voglia.
«Alfred?» lo richiamò la ragazza, sorprendendolo.
«Dimmi...»
«Perchè hai schiaffeggiato Daisy...?»
«Perchè se lo merita, e tu lo sai» precisò secco Alfred.
«Sì ma, voglio dire...perchè te la sei presa così tanto?» chiese Ethel senza nemmeno accorgersene. Che cosa pretendeva come risposta?
Alfred le si avvicinò, fissandola dal basso. «Perchè quel che ho detto è vero. Noi siamo una famiglia, e voi ne fate parte. Tu...sei come una sorella per me, Lulù, e sarà sempre così no?» mormorò, accarezzandole una guancia.
Ethel annuì, sorridendo appena. Lo salutò, rimanendosene dentro al salotto, le mani poggiate sullo schienale della sedia. Che cosa si aspettava? Una morsa allo stomaco la allarmò. Non osare nemmeno pensarlo.
Non poteva permettersi cambi di sentimento, non dopo tutto quel tempo...





 
1Era raro trovare gente “normale” che sapesse ballare il valzer, che era invece tipico della classe benestante. Il popolo ballava al più le quadriglie, e quando la musica lo consentiva anche una versione primordiale dell'attuale lento.
2Lo Shakespeare Memorial Ball è un evento realmente accaduto il 20 giugno 1911, per una raccolta fondi dedicata alla fondazione “Shakespeare Memorial”. Fu un grande evento che ebbe un enorme successo, vuoi anche perchè molti reali europei erano a Londra per l'incoronazione di Re Giorgio V, che ci sarebbe stata da lì a due giorni. La serata raccolse 10.000 sterline, una cifra esorbitante per quei tempi.

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Capitolo 9
*** Jealousy ***


9. Jealousy



 
22 Maggio 1911


«Vogliamo ricapitolare, Miss Williams?» chiese per l'ennesima volta Ethel, sospirando appena. Non riusciva a credere come Candice potesse essere così...Era almeno un mese che provavano quell'unica romantica e divertente scena di “Molto rumore per nulla”, e lei non era riuscita a imparare nessuna battuta, se non qualche parola qui e là. Era negata, per la recitazione e per la memoria letteraria.
«Sì, meglio Miss Ethel, scusatemi» rispose Candice in ansia. Ethel sorrise appena, posando il copione sul tavolo. Le faceva tenerezza, un po', d'altronde lei era americana, forse loro non avevano quel gusto innato e quasi malsano che avevano gli inglesi per Shakespeare e la recitazione.
«Dunque, siamo alla fine dell'opera. Ero e Claudio, dopo malintesi e ostacoli, riescono finalmente a sposarsi. Accorrono tutti al matrimonio, compresi ovviamente Benedetto e Beatrice» e si fermò, indicando Candice ed Alfred al suo fianco «e, seppur abbiano confessato il loro amore ai rispettivi amici e cugine, riescono ancora a battibeccare prima di baciarsi, confessando così pubblicamente il loro amore. Dovete ricordarvi, tuttavia, che il rapporto tra Benedetto e Beatrice è sempre stato molto amichevole, non facevano che battibeccare, litigare, a volte anche offendersi. Beatrice nutriva del risentimento per lui, perchè innamorata anni prima era stata rifiutata, ma lentamente quel sentimento negativo si è trasformato prima in amicizia, poi in amore. Va bene?»
«Ok! Quindi non devo essere dolce e amorevole, ma...frizzante, giusto?» propose Candice.
«Esatto, direi che frizzante è il termine adatto!»
«O in alternativa, possiamo non svolgere questa farsa e farci gli affari nostri» precisò ironico Alfred.
«Oh taci tu, che hai solo qualche battuta, e poi ormai abbiamo dato la nostra disponibilità» rispose Ethel divertita.
«Vuoi vedere che lo fai tu Benedetto, allora?»
«Sarei sicuramente molto più capace di te, se fossi un uomo»
«Quindi vuoi intendere che sei più virile e mascolina di me?» chiese Alfred, assottigliando gli occhi.
«Tu lo dici...» rispose Ethel, scrollando le spalle.
«Ok, se era un esempio di “battibecco”, ho perfettamente capito» precisò Candice ridacchiando. Ethel ed Alfred si guardarono un secondo, seri. Si stavano comportando come Beatrice e Benedetto? Ethel sperò fosse solo l'influenza di quelle prove.
Si schiarì la gola e riprese il copione.
«Molto bene, comincia Alfred con “Qual è Beatrice?”» annunciò, mentre Candice si risistemava il velo bianco sul capo.
«Ah si, giusto» Alfred si schiarì la gola, ricomponendosi. Guardò Candice, seppur non guardava davvero lei. « “Qual è Beatrice?” »
« “Io mi chiamo così” » rispose Candice, seria, togliendosi il velo «Che intenzioni avete?»
Bene, almeno questa la ricorda, pensò Ethel. Le sorrise, incoraggiandola.
« “Non mi amate?” »
« “Non più di quanto la ragione comandi..” »
« “Diamine allora vostro zio il principe e Claudio sono stati ingannati: hanno giurato che mi amavate...” »
« “Non...mi amate voi?” » Candice osservò incerta Ethel: stava già dimenticando le battute. Ethel le fece cenno che andava bene, sorridendole per incoraggiarla.
« “No, in verità non più di quanto la ragione comandi...” » rispose Alfred, lanciando occhiate ad Ethel. Quest'ultima finse di non notarlo, puntando gli occhi dritta verso Candice.
« “Bene allora...le mie cugine, eh...Orsola e...e Sabrina?” » azzardò Candice.
«Margherita» sussurrò Ethel, sforzandosi di non perdere la calma.
« “Hanno giurato che eravate mezza inferma per me” » continuò Alfred, per non ricominciare da capo.
Candice aprì la bocca ma non uscì nessun suono. Ethel ed Alfred attesero, speranzosi, ma alla fine la ragazza sbuffò spazientita.
«Non mi ricordo...» ammise, portando le mani ai fianchi.
«“No, in verità se non per contraccambio d'amicizia”» risposero in coro Ethel ed Alfred, affranti. Candice piagnucolò, nervosa, e cominciò a camminare su e giù per la stanza come una primadonna in crisi.
«Ascoltate, perchè non andate fuori a prendere una boccata d'aria? Copritevi!» le gridò quasi dietro Ethel dato che la ragazza uscì come una furia, nervosa.
Cadde il silenzio tra i due rimasti dentro la stanza, adibita ad una sorta di teatro per l'occasione.
«Non ce la faremo mai» ammise Alfred, sedendosi su una sedia.
«Non dire così, dai...è difficile memorizzare le battute di un'opera, poi è un linguaggio arcaico...»
«No, è che non l'ho scelta per la sua intelligenza» mormorò Alfred, facendo sgranare gli occhi ad Ethel.
«E per cosa l'hai scelta allora?» chiese Ethel, senza nemmeno pensarci. Si morse la lingua: doveva imparare a stare zitta, ogni tanto.
Alfred sorrise, amaramente. «L'hai vista, no? E' una ventata di frescherezza, è un uragano, è entrata nella mia vita quasi a forza...e me ne sono invaghito subito»
«Capisco...» si limitò a dire Ethel, sorridendo appena «Spero sia abbastanza per passarci il resto della tua vita»
«Lo spero anche io» tagliò corto Alfred, facendo tornare il silenzio tra di loro. Seduti uno accanto all'altro, fissavano entrambi il muro davanti a loro. Presto l'imbarazzo svanì, lasciandoli ognuno nei propri pensieri. Per quanto riguardava Ethel, non faceva altro che pensare a quella sfuriata che Alfred aveva fatto a Daisy, quasi un mese fa. Da quel giorno i rapporti tra i due fratelli si erano incrinati, limitandosi alla fredda convivenza, e Daisy era diventata più irascibile e scontrosa con la servitù e con il resto della famiglia. Ma a tormentare Ethel non era Daisy, ma proprio Alfred: aveva reagito con troppa “gelosia” all'ennesima offesa di Daisy per lei, e questo l'aveva illusa...si, quasi illusa che forse qualcosa era tornato a nascere in Alfred. Ma poi quella sua affermazione finale, che lei era solo una sorella...?
Sbuffò, senza rendersene conto: che cosa pretendeva? Che cosa voleva davvero? Dopo tutto quel tempo, dopo quello che gli aveva fatto, era già tanto che le voleva ancora così bene. Alfred sembrò quasi leggerle nella testa, in quella matassa di pensieri e contraddizioni, perchè andò a stringerle lentamente la mano, con delicatezza.
«Mi dispiace di come siano andate le cose...» sussurrò, in genuina confessione. Ethel deglutì a fatica, senza dire nulla. Sapeva perfettamente a cosa si stava riferendo, ad una promessa fatta tanti anni addietro...


 
Rose Castle, Estate 1897

Il vento gli scompigliava i capelli. Sentiva il cavallo respirare furioso per la veloce cavalcata a cui lo stava sottoponendo, ma non aveva molto tempo. Doveva parlare con Ethel. Aveva già parlato con suo padre, gli aveva comunicato la sua decisione, fermo e deciso. Suo padre l'aveva guardato dall'alto, sospirando e precisandogli che quelle non erano decisioni da prendere in una giornata, ma doveva prima chiedere ad Ethel cosa ne pensava...
Eccola, la vedeva in lontananza nel parco del castello. Era seduta sotto l'ombra di un'enorme quercia, al riparo dal caldo di quel pomeriggio. Leggeva, lei leggeva sempre. Man mano che si avvicinava poteva vederla meglio: indossava un abito bianco, con una fascia rossa alla vita, e i capelli tirati sopra la nuca. Si mordeva il labbro e non si era accorta nemmeno del suo arrivo tanto era concentrata nella lettura.
«Lulù!» la richiamò a gran voce, rallentando il cavallo al trotto. Ethel sollevò il capo ed alzandosi sorrise, attendendolo paziente. Aveva solo quattordici anni, ma era la ragazza più bella che avesse mai visto.
«Alfie!» esclamò lei mentre scendeva da cavallo. Andò ad abbracciarlo, lasciando cadere il libro sul prato «Quando sei tornato?»
«Poco fa, sono stato a parlare con papà, circa una cosa importante...e volevo chiederti un parere» annunciò lui, legando il cavallo all'albero prima di prenderle la mano, in imbarazzo. Deglutì, la gola gli si seccò improvvisamente.
Ethel lo guardava, sorridendo gentile «Dimmi pure»
«Ebbene, mi chiedevo...come ben sai alla fine dell'estate parto per Parigi, per la carriera militare. Finirò la scuola fra cinque anni, quando tornerò qua e mi chiedevo se per allora...beh se insomma...se potevo sposarti»
Ethel deglutì, forse anche a lei s'era seccata la gola. Rimase a fissarlo qualche istante, a studiarlo in viso. Ma poi sorrise, d'improvviso, e lo abbracciò con slancio.
«Me lo prometti?» sussurrò, stringendolo.
«Te lo prometto...»



«Eccomi tornata!» annunciò Candice, facendo trasalire Ethel ed Alfred, che subito lasciarono la mano dell'altro.
Candice fece finta di non accorgersi di nulla, seppur Ethel fosse convinta del contrario.
«Vi siete calmata?» chiese alzandosi dalla sedia.
«Oh si, ora ho la mente sgombra da ogni dubbio, sono prontissima! Ah a proposito, Miss Ethel, vi ricordate del nostro amico della cena, Mr Mallard? Ebbene, dal giorno dopo la cena non ha fatto che tormentarmi! Vuole assolutamente rivedervi, e quando ha saputo che saremo andati al ballo in costume ha voluto unirsi anche lui, per l'occasione. Non vi dispiace vero?»
Ethel deglutì a vuoto. «Certo che no...ma può parteciparvi?»
«Miss Ethel, Mr Mallard non sarà nobile ma è certamente in grado di fare un'offerta gentile per potersi pagare il suo ingresso a quel ballo...» commentò Candice eloquente.
«Certo, non lo metto in dubbio. Molto bene, allora...» rispose vaga Ethel, non sapendo cosa dire. Era quasi la prima volta che un uomo si interessava a lei, di solito risultava molto banale e noiosa. Forse anche per sua colpa: non riusciva a rendersi interessante e accattivante come Daisy.
«E chissà che magari non è la volta buona che vi sposiate, eh Miss Ethel?» Candice sorrise gentile, ed Ethel fece altrettanto.
«Chissà, infatti»
«Scusate se interrompo le vostre chiacchiere da donne» brontolò Alfred, seccato «ma dov'è Georgie?»
«A lezione di ballo...» rispose Ethel, sorridendo divertita.


«Di preciso, cos'è che hai detto a zia Adel per togliertela di torno?» chiese curioso George, rompendo il silenzio che si era creato tra loro due, entrambi seduti sul pavimento di legno della stanza della musica. Per l'occasione, avevano spinto ogni mobile contro i lati della camera, creando un discreto spazio per danzare. Il grammofono vicino a loro era un'ora abbondante che ormai ripeteva la musica della Lavolta1.
Cassie sorrise divertita, sistemandosi nervosamente l'ampia gonna a ruota.
«Le ho precisato che imparare questa danza sarebbe stata un'ottima occasione per trovarmi marito la sera del ballo» ammise, quasi in colpa, prima che entrambi scoppiassero a ridere divertiti.
«Pensi che si sia convinta?» chiese George, osservandola divertito.
«Non lo so, ma ancora non torna dalla Chiesa e questo tanto mi basta. Mi opprime, mi...soffoca»
«Lo so, capisco la sensazione. Bene, torniamo a lavoro, o un marito così non lo troverai mai»
«Tu sei sempre così positivo e incoraggiante?» chiese Cassie ironica, facendolo sorridere appena mentre l'aiutava a rialzarsi dal pavimento.
«Mia sorella dice che sono un tipo molto gioviale e positivo, sai?»
«Oh sì, immagino...» commentò ironica Cassie.
Le piaceva George. Non come potevano piacerle i garzoni o ragazzini del paese dove abitava. Era una bella persona, con un carattere interessante, tutto da scoprire. Si trovava bene in sua compagnia, seppur Daisy e Candice l'avessero molto messa in guardia sull'indole rigida del ragazzo. Eppure a lei non sembrava così male. Sapeva di non essere il suo tipo, e fin da subito aveva rimosso quell'idea dalla sua testa. Erano amici, stava crescendo in loro un affetto sincero e genuino, e tanto le bastava.
«Così però non va bene» annunciò serio George, aiutandola ad alzarsi «Senti quanto è pesante questo abito? E' troppo ingombrante, non riesco nemmeno a vedere come posizioni gambe e piedi. Non puoi...? Non so...togliere qualche strato...?» chiese incerto George.
«Cos...? No, sei matto? Qui sotto ho solo l'intimo...» sussurrò in imbarazzo Cassie.
«Ok va bene, scusa» precisò subito il ragazzo, ridacchiando «ma almeno questa impalcatura puoi toglierla, no?» chiese, toccando appena la criolina legata alla vita «sarebbe già qualcosa»
«Potrei...ma devi aiutarmi» annunciò Cassie, arrossendo «alza il tessuto della gonna, io lo slaccio e lo sfilo dai piedi. Ma chiudi gli occhi! E prega che non entri qualcuno proprio in questo momento»
George ridacchiò divertito, prima di chinarsi, prendere il bordo della gonna e tirarlo su, ad occhi chiusi, verso la vita della ragazza.
«Ok, ci sono...» annunciò Cassie, concentrata a tenere via il tessuto dell'abito, rendendo visibili i lacci della criolina. Li slacciò facilmente e la struttura si afflosciò appena ai suoi piedi. Con una mano cercò quella di George, mentre l'altra sollevava appena la gonna.
George aprì gli occhi e l'aiuto ad uscire da quella gabbia, che Cassie con un calcio buttò in un angolo.
«E vai al diavolo» brontolò, prima di sistemarsi la gonna che ricadeva in più pieghe ai piedi.
«Per la miseria...sei la metà di quel che sembravi» ammise George sgranando gli occhi.
«Dovrebbe essere un complimento o cosa?» chiese Cassie, le mani sui fianchi.
«Un complimento. Sei anche più alta!» esclamò il ragazzo sconcertato «quella roba è veramente demoniaca. Ma torniamo a noi, allora...» andò ad avviare il grammofono, che partì di nuovo con una vecchia registrazione della Volta.
«Piede destro e un, due e salto...un, due e salto, ancora...a giro...» presero a girare per la stanza, in tondo, con dei saltelli leggeri ed appena accennati. Senza la criolina Cassie pesava praticamente la metà, George poteva percepirlo dai movimenti più liberi, seppur ancora rigidi.
«Ed ora il salto, pronta? Ricorda, io ti spingo con la gamba ma tu devi darti una spinta con i reni, ok? E ti appoggi a me, mani sulle spalle, così ti slanci meglio. Io ti prendo dal corsetto, non ti faccio cadere. Ci sei? Ora!»
George, girando, sollevò il ginocchio sinistro e spinse lacoscia sotto il sedere della ragazza, per darle la spinta verso l'alto. Le mani ai lati del busto, la sollevava verso l'alto. Ma Cassie era rigida, e fuori tempo, ancora sgraziata sgraziata.
«No, non ci siamo» annunciò, fermando la musica. «Cassie...che cos'è che ti fa irrigidire così tanto?»
«Non lo so, io...mi sento un elefante» brontolò la ragazza, sbuffando, rossa in viso «come se stessi per cadere»
«Ma non puoi cadere, ti reggo io. Qual è il vero problema?»
«Non lo so..mi vergogno...» sibilò lei, chinando la testa. George la fissò, paziente. Doveva trovare una soluzione. Si guardò intorno, cercando un aiuto.
«Proviamo così» annunciò di colpo, recuperando la sua cravatta appesa alla finestra. Si fermò alle spalle di Cassie e con la cravatta le bendò gli occhi.
«C-che stai facendo?» chiese la ragazza, incerta.
«Vediamo se così ti vergogni. Se non vedi dove vai, dovrai lasciarti guidare dall'istinto no? O almeno proviamoci, tentar non nuoce»
Cassie sorrise tra sé, un po' incerta. «Ma se non vedo niente, non è che poi ti calpesto i piedi?»
«Tanto me li calpesti comunque» precisò George, evitando al volo il tentativo di Cassie di dargli uno schiaffo.
«Non è colpa mia se non mi hanno insegnato a ballare»
«Sia mai. Riproviamo?» la musica ricominciò a suonare. Impiegò qualche minuto ancora, ma alla fine Cassie cominciò a rilassarsi, con movimenti più fluidi, lunghi, delicati. Sorrideva tra sé, divertita. George la faceva saltare e volteggiare, sorridendo tra sé. Non era come le altre ragazze, con le altre lui percepiva sempre un disagio intrinseco, che mascherava con una gelida diffidenza. Come con Daisy, che crescendo da primadonna lo aveva definitivamente allontanato.
Ethel aveva ragione, era strano con le ragazze, ma che poteva farci se quelle femme fatale che andavano di moda lo inquietavano e lo mettevano in soggezione? Ed alla fine, era diventato lui l'homme fatale, quello che dava l'impressione di affascinare, l'uomo bello e maledetto. Eppure lui non era nulla di tutto ciò, la vita lo aveva cresciuto diffidente verso le persone, per istinto di sopravvivenza.
Ma Cassie? Forse anche grazie a zia Adel, Cassie era cresciuta lontana da ogni artifizio, da ogni falsità, ed aveva mantenuto un animo puro e genuino, sicuramente insicuro. Ma quell'insicurezza a George piaceva, ed era anche consapevole che Cassie si stava trasformando sotto i loro occhi, giorno dopo giorno. Provava un profondo affetto per lei, un bene che era cresciuto col passare del tempo. Senza secondi fini, senza illusioni: non sarebbe mai stato il tipo ideale per Cassie, né tantomeno di zia Adel.
«George?» la ragazza lo richiamò, facendolo tornare alla realtà. Aveva il viso girato verso l'alto, non sapendo di preciso dove stesse guardando lui.
«Si?»
«Grazie. Davvero, stai facendo più tu che tante altre persone abbiano fatto in vent'anni» disse sincera Cassie, forse disinvolta da quella benda sugli occhi.
«Figurati, è un piacere. Ma posso chiederti una cosa?»
«Certo, dimmi»
«Quel giorno della visita della Regina...» cominciò George, e Cassie si fermò subito nella sua danza, rimanendo bendata ma immobile «Cosa è successo...» riprese lui, volendo andare in fondo a quella storia.
Cassie abbassò lentamente la benda dagli occhi, portandoli su George. Non disse nulla, come se non ne avesse il coraggio.
«Dimmi almeno chi è stato a non farti venire. Daisy?» chiese George, con tono rassicuratorio.
Cassie scosse il capo. «No, Miss Williams...»


Era il suo giorno di riposo, era una bellissima giornata e sarebbe andata a passeggiare con Josephine ad Hyde Park. Nulla, davvero nulla, poteva renderla triste in quel momento.
Erano nel pieno della primavera, che aveva abbandonato il suo clima capriccioso per uno più mite e soleggiato. La gente in giro per la città si era raddoppiata, sbucando fuori come funghi nel bosco. Ma non le dispiaceva: a lavorare nella servitù, vedendo sempre le stesse persone, dopo un po' ci si stufa.
Da quando lei e Mark si erano baciati non riuscivano a stare uno lontano dall'altro, con le dovute precauzioni: nessuno, ad eccezione di Josephine, sapeva della loro storia. In caso contrario, uno dei due sarebbe stato licenziato -lei, probabilmente- e non potevano certo permetterserlo di quei tempi. Così, se ogni tanto i padroni e i colleghi la vedevano uscire con Josephine, non potevano sospettare di nulla. O almeno così sperava. E poi quel giorno Mark non poteva comunque esserci: lavoro extra a Little Hall.
«Comunque la prossima volta andiamo dove avevo detto io. Per una volta che cambiavamo posto, anziché il solito parco...» brontolò Josephine, sarcastica, prima di osservarla «Pensierosa?»
«Cosa? Oh no niente...così, pensavo»
«A cosa, di preciso?»
«A come deve essere lavorare per contro proprio, o avere una casa per conto proprio»
«Io non ci penso mai, o almeno ho smesso di pensarci da tempo. Se ci pensi e non è realizzabile, è anche peggio no?»
«Immagino di sì» ammise Charlotte, sorridendo appena.
«Cosa vogliamo fare? Ci sediamo sulle panchine e diamo da mangiare ai cigni sul lago?» propose Josephine, vedendo subito accettata la sua richiesta. Comprarono del mangime per cigni da un ambulante lì vicino, quindi si sedettero sulla sponda del lago, lanciando pigramente il cibo alle bestie. Era sempre così: durante le ore di lavoro sognavano di fare chissà cosa nel giorno di riposo, ma quando poi questo arrivava erano troppo stanche per farlo. Ma a lei Hyde Park piaceva: era un posto allegro, spensierato, dove poteva spiare i vestiti delle donne alla moda e, a dispetto di quel che le aveva detto Josephine, fantasticare su come sarebbe stata lei vestita in quella maniera. Forse un giorno, avendo abbastanza da parte...magari con Mark...
Fermò quel fiume di pensieri quando Josephine fede cadere il sacchetto di briciole a terra «Tutto bene?» le chiese, osservandola in viso.
«S-sì, scusa, ahm...dicevamo?»
«Nulla in verità, ma che hai? Ti senti poco bene?» chiese confusa Charlotte. La collega era diventata tesa, nervosa, e non riusciva a guardarla negli occhi.
«Sì, sì! Non mi sento bene!» esclamò, come se le fosse appena venuto in mente quel dettaglio «ti va di tornare a casa? Mi spiace...» mormorò lei, alzandosi di scatto.
«Ok...però sei strana» precisò Charlotte, alzandosi lentamente a sua volta. Fece per girarsi indietro e sentì Josephine che cercava di trascinarla nella direzione opposta, ma era troppo tardi.
Ormai l'aveva visto. Tornò a girarsi dietro di lei, seppur l'espressione disperata di Josephine stesse cercando di impedirglielo, e pregò che avesse visto male. Ma non fu così.
Tra la folla, a qualche metro distante da loro, c'era Mark che abbracciava un'altra ragazza.
Era bella, italiana quasi sicuramente. Lunghi capelli neri, la pelle olivastra, un bell'abito rosa. Si abbracciavano e si sorridevano con dolcezza, mentre Mark le accarezzava una guancia e le baciava la fronte. Così, alla luce del sole, nel ben mezzo di Hyde Park.
«Charlie...andiamo via, dai» sussurrò Josephine, quasi temesse la reazione della collega che fino a quel momento si era limitata a fissare i due.
Sentì qualcosa, nel petto. Non era solo gelosia, era...delusione, si. Delusa da se stessa, dall'idea che si era fatta raggirare, usare e sfruttare. Lo aveva persino baciato, quel disgraziato. Si era fatta abbindolare come una stupida, una bambina. E lui se la faceva con un'altra, più alta e ricca di lei, come se nulla fosse.
«Andiamo, si» annunciò decisa, trascinando Josephine dritto verso Mark.
«No, Charlie, a-ascolta, non credo che sia...siamo in pubblico...!» sibilò vicino al suo orecchio, cercando di frenarla. Ma Charlotte non sentiva, andava dritta come un treno. Passò accanto alla coppia, fingendo di sbattere per sbaglio contro la giovane compagna di Mark.
«Oh, mi scusi tanto signorina!» esclamò, mortificata, prima di incrociare lo sguardo del ragazzo: aveva l'espressione tesa e terrorizzata allo stesso tempo.
Tirò dritto, trascinandosi dietro Josephine. Quello, si disse, era solo l'inizio della sua vendetta.



«Come sono andate le vostre lezioni di recitazione?» chiese a Miss Herbert, il mattino dopo, mentre le pettinava i capelli davanti allo specchio.
«Discretamente. Forse sono riuscita ad insegnare a Miss Williams la scena che deve recitare al ballo. Ma ho come la sensazione che lei sappia recitare bene solo il bacio...» commentò la nobile, assonnata, mentre fissava il proprio aspetto disordinato.
Charlotte sorrise appena, istintivamente, e continuò a spazzolare.
«Sono una pessima maestra, lo so» ammise Miss Herbert.
«Oh non intendevo quello, affatto Miss! Sembrate solo un po'...gelosa» teorizzò la cameriera, istintivamente. Ormai lavorare con Ethel da cinque mesi ed un po' di confidenza l'aveva guadagnata.
La ragazza infatti arrossì e sorrise. «Gelosa? Ma no che dici...non sono gelosa. Tu piuttosto...rispetto a ieri hai una bella forza vigorosa, che è successo?» chiese, facendo allarmare Charlotte.
«Mi dispiace Miss, non volevo...vi ho fatto male?» chiese preoccupata, allentando subito la presa dalla spazzola: la stava stritolando.
«No, affatto, ma non hai risposto alla mia domanda. Anche tu con problemi di uomini?»
Charlotte arrossì e chinò gli occhi, fissandoli su un capello argentato che si mescolava tra quelli castani della padrona. «N-no, cosa dite Miss, io non...»
«Ah si certo, sono nata ieri. Va bene, se non vuoi dirmelo non fa nulla, ti capisco. Anche io sono molto riservata, a malapena ne parlo con George»
Quel nome le fece tornare in mente la storia di Miss Howard, così sgranò appena gli occhi. «A proposito, Miss, ho effettivamente da confidarvi qualcosa ma...»
«Dimmi pure, e non temere...» annunciò l'altra, facendole segno di sedersi vicino a lei. Le raccontò brevemente quanto accaduto davvero quel giorno, ed alla fine del suo “resoconto” la nobile sospirò, seria.
«Hai fatto bene a dirmelo, Charlotte. Non posso credere che Candice abbia potuto essere così cattiva. Ma il fatto ancora più grave è che non è così dolce e gentile come lascia apparire. Ne ho cominciato ad avere qualcosa sospetto quando ho...» si bloccò, osservando la cameriera e sorridendo appena «nulla, comunque...grazie per avermelo detto, cercherò di stare più vicina a Miss Howard, e dato che si trova tanto bene con George lo dirò anche a lui. Fosse la volta buona che uno di noi due si sposa» commentò con ironia, facendo sorridere appena Charlotte.
Dopo aver aiutato Miss Herbert ed averle dato la buonanotte, Charlotte ridiscese lentamente ai piani bassi. Non voleva andare in cucina, là sapeva che ci sarebbe stato Mark, ma d'altronde non aveva scelta: non poteva chiudersi in camera sua, doveva ancora cenare. Decise che avrebbe mangiato qualcosa al volo e sarebbe risalita a dormire. Veloce e indolore.
Ma quando aprì la porta della cucina dovette ricredersi: era completamente vuota, ad eccezione di Josephine. Si guardò intorno, circospetta.
«Non c'è» commentò seria la collega, finendo la sua cena. Non disse nulla e le si sedette affianco, mangiando distrattamente un pezzo di pane: le si era chiuso lo stomaco di colpo.
«E' arrabbiato, lo sai?» commentò Josephine, con sarcasmo.
Charlotte sgranò gli occhi, sorpresa. «E' arrabbiato...lui?»
«Sì, pare che ci siamo sbagliate su quella ragazza. Dice che non è chi pensiamo, ma non mi ha voluto dire chi è. E ha detto anche che se tu non ti fidi di lui, lui non può farci nulla. Tanto vale non cominciare per niente»
«Ah davvero? Ma pensa un po'! E lui allora che mi mente, dicendomi che era qua e invece era a passeggio con un'altra??» sbraitò Charlotte, alzandosi dalla sedia.
«Charlie, calmati...»
«No, non mi calmo! Al diavolo!» brontolò, furiosa, uscendo dalla cucina. Non riusciva a crederci! Non solo Mark era nel torto marcio, ma faceva anche l'offeso perchè non si fidava di lui? Aveva capito dove voleva andare a parare: si era divertito con lei, ed ora cercava una qualunque scusa per togliersela di torno.
Salì i gradini delle scale due a due, col fiatone, la testa che rimbombava di parolacce, solo parolacce. Aprì di scatto la porta della propria stanza, la richiuse e si guardò intorno. Per poco non lanciò un grido, e dovette portarsi entrambe le mani per non farsi sentire da tutta la villa.
Aveva evidentemente sbagliato stanza, sovrappensiero com'era. Davanti a lei, attoniti, c'erano due garzoni della villa in veste da notte e Mark, con solo i calzoni addosso, che si stava finendo di sfilare la camicia. Si guardò appena attorno: aveva decisamente sbagliato stanza.
«Io, ah...ho sbagliato stanza» annunciò secca.
«Sì...credo tu abbia sbagliato Murphy» annunciò Mark, che aveva assunto un'aria quasi indifferente.
«Si, beh...va al diavolo» brontolò Charlotte, sbattendo la porta. Non le importava nemmeno che qualcuno nella villa avesse potuto sentirla: aveva troppa rabbia in corpo, ed era convinta che quella notte l'avrebbe trascorsa in bianco, per colpa di quel bugiardo.




 
1La “Lavolta” o “Volta” è un antico ballo, precedessore del Valzer, molto in voga nel 1600 nella corte della Regina Elisabetta. Era reputato un ballo “scandaloso” per la vicinanza con cui danzavano di dama e cavaliere, ma la Regina le fece diventare famoso e frequente presso praticamente ogni serata di ballo, tanto che Shakespeare stesso lo inserì nel suo Enrico V.

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Capitolo 10
*** Past & Future ***


10. Past & Future


 
20 Giugno 1911


«Questo vestito mi irrita la pelle...» brontolò Cassie, cercando di smuovere il corsetto esterno dell'abito d'epoca.
«Ehi..non ti lamentare» commentò ironico George al suo fianco, indicando le calzamaglie che indossava. La ragazze rise sotto i baffi, divertita.
«Ti donano, sai?»
«Simpatica, davvero» precisò George, prendendola poi per mano «Dai, andiamo a dare una dimostrazione a questi quattro popolani come si danza davvero la Volta»
Cassie sorrise tra sé, stringendo appena la mano del ragazzo. Quell'ultimo mese lo avevano trascorso a danzare quel ballo antico, e con quella scusa zia Adel l'aveva lasciata fare, fingendo indifferenza quando si parlava di George. La verità? Gli piaceva, e tanto. Forse non gli era piaciuto mai nessuno in quella maniera. Non riusciva a definire ancora il sentimento: forse lo vedeva come un amico, forse come qualcosa di più. Ma non aveva importanza: non aveva ansie per il futuro, perchè sapeva che George le voleva bene, gli piaceva la sua compagnia. Tanto bastava.
«Ethel?» gli chiese, mentre si facevano largo tra la folla.
«Con Alfred. Sono entrambi ansiosi per la loro recita, come due adolescenti, staranno ripassando le battute. Ah no, guarda...eccoli là» rispose George.
«George, Cassie!» esclamò Ethel, andando loro incontro. Alfred si unì al gruppetto.
«Daisy?» chiese George, non vedendola.
«E' in giro, da qualche parte. Non è voluta stare con noi...» commentò Alfred scrollando le spalle.
«E' ancora arrabbiata» precisò Ethel, lanciando un'occhiata all'amico.
George sorrise appena verso Alfred, prima di sospirare. «Noi andiamo a ballare, vi unite a noi o state qui?» chiese ironico, facendo sorridere i due.
«Restiamo qui. Ma occhio che dopo il ballo tocca a noi» precisò Ethel, sorridendo.
«Un vero peccato che Candice si sia ammalata proprio qualche giorno fa, una vera sfortuna...» commentò George, facendo poi l'occhiolino a sua sorella, che finse di non aver visto nulla.
«Già, purtroppo non è ancora abituata al clima capriccioso di Londra, è uscita spesso senza coprirsi bene e...ecco qua» ammise Alfred «Ethel l'ha gentilmente voluta sostituire, sapendo le battute a memoria»
«Che gesto gentile da parte tua» commentò George, sfottendo la sorella.
«Vero? Lo so, sono davvero gentile. La verità è che voglio fare colpo su qualche nobile, magari mi fanno un bell'assegno per il St.Mary's House»
Cassie sorrise, divertita. Le piaceva stare in compagnia di loro tre.
«Ed a proposito...guarda un po' chi ti sta cercando, smanioso?» annunciò George, indicando col mento qualcuno dietro Alfred ed Ethel. Si girarono entrambi, notando come Mr Mallard, vestito da cortigiano elisabettiano, si guardava intorno.
Ethel, sospirò.
«Togliti questo dente, dai» la incoraggiò Alfred, serio, come se fosse una salita al patibolo.
«Lord Norton! Ser Herbert, Miss Howard...Miss Herbert» salutò educato Mr Mallard una volta raggiunto il gruppo. Salutò per ultima Ethel, volutamente, baciandole la mano e sorridendo sognante «Che gioia rivedervi, tutti voi»
«Come state, Mr Mallard?» chiese Ethel, cercando di essere gentile.
«Molto bene, vi ringrazio Miss Herbert. Vi state divertendo?» chiese, guardando tutti.
«Molto, sì, è davvero una bella serata» rispose Alfred, fermo vicino ad Ethel.
«Avete visto i drappi blu sul soffitto, per imitare il cielo?» chiese, osservando in alto.
«Sì, molto belli davvero. Siete in buona compagnia?» domandò Ethel, sperando in una risposta positiva.
«Sono da solo, in verità. Come sapete Miss Williams ha preso un brutto malanno e lei era la mia unica conoscente, oltre a Lord Norton e a voi, ovviamente, Miss Herbert...»
«Sono sicura che troverete compagnia fra tutta questa gente» commentò gentile Ethel, cercando di evitarsi il pesante onere di fargli compagnia, ma ebbe un effetto opposto a quello desiderato: il sorriso da ebete di Mr Mallard si allargò.
«Oh ma io l'ho già trovata! Mi chiedevo per l'appunto se voi potevate, ecco...»
«Sir Churchill!» gridò di colpo Alfred, sorpreso, sventolando appena la mano in alto. Distrasse tutti, compreso Mr Mallard, e si volsero verso la figura salutata dal ragazzo.
Fu così che Ethel vide per la prima volta il controverso Segretario di Stato. Era un giovane uomo, avrà avuto qualche anno più di Alfred, ma di statura molto più bassa. Non era bello, ma aveva un'aria scaltra e intelligente, e già saggia, cosa rara nei politici di quella età. Il cipiglio allegro e la bocca sorridente lo rendevano assai unico e particolare.
«Lord Norton...sapete che le calzamaglie vi donano?» ironizzò il Segretario, facendo sorridere Alfred.
«Vi ringrazio, Sir. E voi? Non rendete onore all'antica casata Spencer?»
«Oh no, ci hanno pensato già i miei familiari. Io preferisco di gran lunga i tempi moderni, Lord: una lingua lingua come la mia non sarebbe vissuta a lungo nella Londra di trecento anni fa» precisò Churchill, facendo un occhiolino allegro a Ethel ferma accanto ad Alfred.
«Posso prentarvi Miss Ethel Herbert, Sir?»
«Tanto piacere, Miss»
«Il piacere è tutto mio, signor Segretario. Tra i londinesi siete una sorta di leggenda» rispose Ethel, volendosi tagliare la lingua da sola, in quel preciso istante.
«Ah lo so bene! Non godo di ottima fama tra il popolo. Me ne rammarico: d'altronde lo scopo del politico è quello di fare il bene del popolo, non il contrario. Come dicevano i Romani?»
« “Vox populi vox dei” » commentò George, inserendosi nella conversazione «nobile pensiero sicuramente. Ma quanti politici attuali lo pensano davvero? Affacciatevi oltre la Manica, signor Segretario: il nazionalismo avanza»
«Oh noi inglesi siamo nazionalisti da sempre, non è una novità» commentò Churchill ironico.
«Vero, ma questo nazionalismo è diverso. Non sono certo io a doverlo insegnare a voi...»
«Se vi riferite alla situazione attuale del governo Bismark, signore, vi assicuro che è tutto sotto controllo. Il suo governo espansionistico non nuoce né noi né le potenze europee. Ci sono situazioni interne all'Inghilterra molto più importanti»
«Come il movimento delle suffragette?» chiese Ethel, fissando il giovane Segretario, che sorrise, come colto in flagrante.
«Come quello, si. Una questione spinosa, alla quale ho cercato più volte di porre rimedio. Ma il pregiudizio, Miss, è un veleno difficile da debellare»
«Sono pienamente d'accordo con voi, signor Segretario...»
«Ma basta parlare di politica! Lord Norton, mi hanno detto che stasera sarete un attore shakesperiano, sbaglio?»
«Affatto, signor Segretario. Stasera io e Miss Herbert saremo Benedetto e Beatrice»
«Uh, “Molto rumore per nulla”, una delle mie opere preferite...nonchè la mia citazione preferita» precisò l'uomo, facendo l'occhiolino ai suoi interlocutori «quante volte in Parlameno si fa tanto rumore per nulla, Lord Norton?»
«Fin troppe volte, signore, ma che volete che vi dica: la democrazia è così» commentò ironico Alfred, reggendo il gioco.
«Ebbene, sarò felice di assistervi allora, sarò un giudice impietoso, sappiatelo Miss Herbert. Sir Churchill non perdona»
«Ne terrò debito conto, signore» commentò Ethel, sorridendo divertita. Si salutarono, ed Ethel sperò che Mr Mallard si fosse quasi dimenticato di quel che stava dicendo poco prima: nulla di più sbagliato.
«Allora, Miss Herbert? Almeno concedetemi un ballo» supplicò il giovane. Ethel deglutì, indecisa.
«Va bene, danzerò con voi» annunciò, sentendo lo sguardo sospreso di Alfred su di lei. Prese la mano sudata di Mr Mallard, cercando di non assumere espressioni schifate per non ledere all'orgoglio altrui. Si posizionarono sulla pista da ballo, con George e Cassie a qualche passo distanti da loro. La musica riprese a suonare, proveniente dagli strumenti di una piccola orchestra. Anche quella volta suonarono la Volta, la danza più richiesta quella sera. Ma per la beneficienza, questo ed altro.
«Siete un'abile ballerina, Miss Hebert, ne sono assai felice» commentò Mr Mallard, mentre giravano per la pista.
«Egregia appena, in verità, Mr Mallard»
«Chiamatemi pure Absalom»
Ethel lo fissò qualche istante, pensando la stesse prendendo in giro «E' il vostro...nome?»
«Sì, di battesimo. Genitori ebrei» si giustificò, scrollando le spalle.
«Oh, capisco, certo. Bene, Absalom sia allora. Come vi trovate qui a Londra?»
«Molto bene, vi ringrazio! Mi avevano narrato la bellezza della città, nulla a che vedere con New York: rumorosa, sporca, priva di ogni antichità e bellezza. Forse per alcuni lo è, ma per me no. Io preferisco molto di più San Francisco, si, ha un tocco...particolare, quasi esotico. Voi quale città americana preferite?»
«Io? Non saprei, a dirla tutta, non sono mai stata in America...»
«Dite davvero? Che stramberia è mai questa! Mai stata in America, che assurdità»
«Non è poi così assurdo, Mr Mallard, dato che sono gli americani a venire da noi, e non viceversa» precisò piccata Ethel. Churchill aveva ragione: gli inglesi avevano il nazionalismo nel sangue.
«Oh non dico che l'America sia più bella dell'Inghilterra, anzi! Dico solo che è la prossima prima potenza europea, e perdersela nel suo momento di sviluppo e splendore è un vero peccato! Entro la fine di questo anno tornerò a casa, e se volete potrei...ecco, farvi da chaperon in giro per l'America»
Ethel lo fissò qualche istante. E quella sarebbe una proposta di matrimonio? Non ne era molto sicura.
«Vedremo cosa succederà a fine anno, Mr Mallard. Per ora godiamoci questa bella serata»
«Sì, avete ragione Miss Herbert» annunciò l'altro, raggiante, prima che la musica terminasse.
Ethel lanciò un'occhiata disperata a George, che nemmeno la notò: era troppo intento a sorridere verso Cassie, mentre la ragazza parlottava al suo fianco. Era così strano vedere George sorridere, e ad un ragazza per di più. Aveva sempre pensato che sarebbe stata gelosa di una ipotetica cognata, ma Cassie no: lei era speciale. Era un animo puro e gentile, una vera forza della natura che stava per esplodere. E faceva sorridere suo fratello, già un enorme traguardo.
«Ethel?» Alfred la richiamò, una volta usciti dalla pista da ballo «sei pronta? Dobbiamo andare»
«Ah si certo. Mr Mallard, è stato un piacere...» annunciò di fretta.
«Anche per me!» gridò quasi l'altro, cercando di raggiungerla con la voce mentre Ethel veniva trascinata da Alfred dietro le quinte del palco montato nella Hall.
«Appena in Alfie, appena in tempo...» mormorò ironica Ethel, prima di ridacchiare e sistemarsi bene l'abito, in attesa del loro turno.
«Perchè, stava per chiederti di sposarlo?» chiese ironico Alfred.
«E' così strano che qualcuno possa farlo?» ribattè secca Ethel, offesa.
«N-no, certo, io non...ma perchè, te l'ha chiesto?» rispose l'altro, sgranando gli occhi.
«Si...sì, me l'ha chiesto!» brontolò lei facendosi spazio alla fine dei gradini del palco.
«E tu che gli hai risposto?!» esclamò sconvolto Alfred. Ethel si girò di scatto verso di lui, ritrovandoselo davanti.
«Sono affari miei» brontolò secca prima di veder scendere la precedente coppia di attori dal palco. «Forza tocca a noi»
«Ethel...»
«Zitto...!» sibilò, salendo sul palco insieme al ragazzo. Ci fu un applauso tiepido, indeciso. Ethel ed Alfred si posizionarono uno davanti all'altro, lei con le braccia conserte. Era la posa da inizio scena, ma alla fine non c'era molta differenza in quel momento: era seccata dalla reazione di Alfred, pizzicata nell'orgoglio. Si sentiva in colpa per avergli mentito, seppur non le interessassero le avanches di Mr Mallard...ma era necessaria una reazione così “sorpresa”?
« “Qual è Beatrice?” » la voce di Alfred ruppe il fiume dei suoi pensieri.
« “Io mi chiamo così” » rispose, seria, togliendosi il velo che aveva sul capo. Fece un passo avanti «Che intenzioni avete?»
« “Non mi amate?” »
Ethel deglutì. Sapeva che era la domanda di Benedetto, non di Alfred. Ma sembrava così serio, così “reale”. Socchiuse appena gli occhi, alzando il mento stizzita.
« “Non più di quanto la ragione comandi..” »
« “Diamine, allora vostro zio il principe e Claudio sono stati ingannati: hanno giurato che mi amavate...” » precisò Alfred, sospirando teatrale. Il pubblico rise sommessamente, divertito.
« “Non mi amate voi?” » chiese Ethel, le mani sui fianchi.
« “No, in verità non più di quanto la ragione comandi...” » rispose Alfred, facendo ridere di nuovo il pubblico. Ethel sentì la stizza tra loro due sciogliersi insieme alle risate del pubblico. Si sarebbero solo divertiti, da quel momento in poi.
« “Bene! Allora le mie cugine Orsola e Margherita sono state ingannate! Hanno giurato che mi amavate” » esclamò Ethel, come spazientita.
« “Hanno giurato che eravate mezza inferma per me” » precisò Alfred, facendo un passo avanti.
«“Hanno giurato che eravate mezzo morto per me” » gli rifece il verso Ethel, avanzando a sua volta e facendo scoppiare la platea in una divertita risata. Avevano fatto centro.
« “Non vuol dire, mi volete bene o no? » rispose stufo Alfred, sbuffando.
«No in verità, se non per contraccambio di amicizia » precisò Ethel, stizzosa.
Alfred le prese la mano con slancio, stringendola tra le sue e portandole al petto.
« “Un miracolo! Le nostre mani contro i nostri cuori. Vieni io ti sposerò ma per la luce di Dio lo faccio solo per pietà” »
« “Io non vi dirò di no per questo felice giorno, cedo perchè proprio ci sono indotta” » Ethel sospirò teatrale, facendo ridacchiare le donne in sala « “ e poi per salvarvi la vita perchè mi hanno detto che ci morivate tisico” » precisò.
Erano alla fine, la gente rideva e da lì a pochi secondi si sarebbero dovuti baciare. Avevano optato per un semplice abbraccio, qualcuno si sarebbe lamentato ma nulla di grave. Non potevano farlo, no?
« “Basta vi chiudo la bocca” » annunciò Alfred, fingendosi seccato seppur ridesse, teatrale. Strinse Ethel definitivamente a sé, e fece quel che Ethel non aveva calcolato. La baciò.
Chiuse istintivamente gli occhi, sentendo la bocca umida del ragazzo sulla sua, stretti in un abbraccio appassionato. Sentirono gli applausi quasi far crollare il teatro, il sipario chiudersi lentamente, ma Alfred ancora non si staccava da lei. Sentì un brivido lungo la schiena, come una scossa, e istintivamente si strinse di più a lui. Il bacio era diventato meno forte ma quasi più sincero. Aprì appena la bocca, lasciandosi andare entrambi ad un bacio più dolce e lungo.
«Ehy, voi due, prima che qualcuno vi veda!» brontolò di colpo la voce di Cassie, ai piedi del palco dietro le quinte.
Si staccarono velocemente, riprendendo fiato. Ethel fissò ad occhi sgranati Alfred, non sapendo che dire.
«Io...scusami...»
«E voi due, ancora lassù?! Scendete, tocca ad altri!» sibilò spazientito il regista, poco importandosene dei titoli nobiliari sulla testa dei due.
Ethel fu la prima a scendere. Volò quasi via dal palco, non facendo caso a chi o cosa le andasse incontro.
«Ethel...!» sibilò Alfred, cercando di recuperarla, inutilmente. La ragazza si tuffò tra la folla, prendendosi i complimenti di tutti e raggiungendo Mr Mallard, il più presto possibile.
«Miss Herbert, che piacere riv...»
«Mr Mallard, accetto volentieri il vostro invito a venire in America» annunciò di colpo, ansante, fissandolo.
Il giovane deglutì, non sapendo cosa dire. «Dite...sul serio?»
«Sì»
«Bene, ehm...ne sono felice, sì» annunciò il giovane impacciato, osservandola. Sorrise, prima di porgerle la mano.
E' l'unica strada per la felicità, pensò triste tra sé. Quel che aveva alle spalle doveva rimanere alle spalle.


«George?»
«Mh?»
«Posso chiederti una cosa? Spero non ti offenderai...»
«Vai»
«C'è stato qualcosa tra tua sorella e Alfred?»
La domanda diretta di Cassie lo zittì. Non aveva davvero peli sulla lingua quella ragazza, almeno non con lui. Non rispose subito, si diede del tempo. Parcheggiò la macchina davanti al vialetto di Little Hall, poi spense il veicolo e si girò verso Cassie, sospirando.
«Non lo so nemmeno io cosa c'è stato di preciso. Ethel me ne ha parlato poco, Alfred affatto. E' successo un po' come...Benedetto e Beatrice, sai?» ammise alla fine, sorpreso di aver trovato quell'accostamento letterario.
«Cioè? Che lei provava qualcosa per lui ma lui l'ha rifiutata?»
«Il contrario, in verità. Beh no, non proprio...»
«Mi sembri alquanto confuso» ammise Cassie, ridacchiando.
«Te l'ho detto, è una situazione strana. Loro...erano promessi sposi»
Cassie sgranò gli occhi, sconvolta. «Dici...dici davvero?»
«Mh-mh» George annuì, sistemandosi nervosamente il cappotto: non gli piaceva sparlare alle spalle di sua sorella, ma d'altra parte portava quel peso sul cuore da troppo tempo, doveva sfogarsi «da ragazzini, lei aveva appena quattoridici anni. Alfred chiese la mano a me, e io gliela diedi. Forse è colpa mia, feci male a...»
«Non dirlo nemmeno, George. L'amore sincero è quello adolescenziale, rifiutandoti avresti fatto del male a tua sorella»
«Lei era così...innamorata» ammise George, sorridendo tra sé «e per me Alfred è come un fratello. Vederla sistemata, felice con qualcuno che non fosse il fratello squattrinato...era perfetto per me»
«E poi...?»
«L'accordo era che Alfred sarebbe partito per Parigi, per la scuola militare, per cinque anni...e al suo rientro avrebbe sposato Ethel. Ma quandò Alfred tornò, non lo so...erano cambiati, entrambi. Ethel era fredda con lui, lui sembrava quasi uno sconosciuto: rigido, serio. Alfred da ragazzo non era lontanamente...così. Deve essere successo qualcosa, sicuramente, e così ruppero il fidanzamento ed Alfred ripartì quasi subito. Si evitarono, in poche parole, rivedendosi solo qualche anno fa. Sono tornati amici, ignorando quanto è accaduto, credo che lo abbiano confinato nelle “follie adolescenziali”. Ma a quanto pare così non è...»
«Lo hai visto anche tu come si baciavano...» sussurrò Cassie, perplessa.
«Speravo che fossero davvero amici» ammise George, sospirando «Alfred è fidanzato, prossimo alle nozze, ed oggettivamente parlando nemmeno conviene annullarlo. Candice, odiosa quanto vuoi, è ricca. E la nobiltà al giorno d'oggi non è tutto»
«Nemmeno il denaro»
George sbuffò una risata, divertito. «Cassie, sei così ingenua...»
Cassie arrossì, imbarazzata. «Non è vero...!»
«Invece sì. O non potresti pensare che il denaro non sia tutto. Altrimenti perchè pensi che sia ancora scapolo? Non ho i soldi nemmeno per comprare il pane a mia moglie» ammise, deglutendo a fatica.
Cassie non disse nulla, stringendogli la mano. «Io i soldi li ho, George, ma non ho l'affetto che provi tu per Ethel. Non ho nessuno, i miei genitori pensano io sia un “investimento”, come la vendita di una casa. Un premio da dare al miglior offerente. Io dico che i soldi non sono tutto, e che l'amore è un grosso inizio...»
George sorrise appena, prima di circondarle le spalle, affettuoso.
«Rientriamo? Comincia a fare freddo qui dentro»
«Sì, andiamo» rispose Cassie, sorridendo appena. Uscirono dalla vettura e rientrarono insieme a Little Hall, sperando che zia Adel fosse più che dormiente.




Le venne quasi un colpo quando, violento come un colpo di pistola, sentì il rumore assordante e nevrotico della campana che richiamava la servitù alla sveglia e/o al servizio. Saltò giù dal letto, il cuore a mille e già il nervosismo addosso. Ormai aveva preso il ritmo di svegliarsi appena sorta l'alba, e quasi non ci faceva più caso: gli occhi si aprivano in automatico. Ma quella volta fu diverso: si accorse, infatti, che fuori dalla finestra era buio pesto, e la luna brillava alta in cielo.
Il suonò della campana si ripetè, più furioso, e si sbrigò a vestirsi il più velocemente possibile. Aprì la porta qualche minuto dopo che la campana suonò la terza volta, immettendosi nel corridoio insieme al resto della servitù, agitata e scompigliata.
Josephine aveva indossato la cuffia di traverso, Marie aveva il fiocco del grembiule storto e persino Miss Rossi, si accorse, aveva indossato malamente le scarpe. Scesero lungo le scale, finchè non si affacciò il viso pallido e spaventato di Miss Herbert dalla stanza di Lady Maud.
Era in camicia e vestaglia da notte, i capelli stretti in una morbida treccia, pallida e gli occhi velati di lacrime.
«Miss Rossi, Lady Maud si è sentita male. George ha già preso la macchina per chiamare il medico, vi prego di prepararle del thè e qualcosa di zuccherato. Qualcuno invece porti altri cuscini, non riesce a respirare...» mormorava quasi, la ragazza, ma c'era così silenzio in quella casa che tutti la udirono perfettamente.
In men che non si dica, la macchina della servitù si attivò alla sveglia. C'era un via-vai silenzioso: nessuno osava parlare, né chiedere qualcosa. Passò almeno mezz'ora prima che potessero sentire i freni di un veicolo stridulare ed infine la porta di Little Hall aprirsi. Passò per primo il dottore della Lady, poi Mr Herbert, pallido come un cencio. Salirono entrambi di corsa verso la zona notte, borbottando tra loro prima che le loro voci venissero spente dalla distanza e dalla porta chiusa.
Quando riuscirono, era sorto ormai il sole e gran parte della servitù era all'ingresso, in attesa trepidante. Charlotte ebbe tempo solo in quel momento di girarsi verso Mark, cercando di non farsi scoprire. Aveva l'aria assonnata, profonde occhiaie e il grembiule da cucina macchiato di crema inglese, la preferita di Lady Maud che le aveva appena finito di preparare. Arrossì violentemente quando Mark si girò di colpo su di lei, incrociandone lo sguardo per due secondi prima che tornasse a guardare dritta avanti a lei. Ancora non si rivolgevano la parola, se non stressamente necessario. Il loro rapporto si era raffreddato, e inevitabilmente.
Si alzarono tutti come soldatini quando videro scendere Mr e Miss Herbert, accompagnati dal medico.
«Come sta Lady Maud?» chiese la governante, non potendo attendere oltre. Era sull'orlo delle lacrime.
«Fuori pericolo, per ora» annunciò quieto il medico, facendo tutti sospirare «Lady Maud ha avuto una brutta crisi respiratoria, dovuta anche alla sua salute malferma e all'aria insalubre di questa città. Per ora sta bene, ma deve riguardarsi»
«Ci prenderemo cura di lei, grazie dottore» annunciò Miss Herbert, accompagnandolo all'ingresso. Quando il medico uscì, fu Mr Herbert a prendere parola.
«Il medico le ha ordinato assoluto riposo. Dovrà bere molto e mangiare in maniera molto salutare: verdure bollite, frutta, nulla di alcolico o pesante. Appena sarà possibile, infine, dobbiamo andare via da Londra: l'aria di città non le fa bene. L'aria di mare sarebbe l'ideale, ma se zia Maud si rifiuta come sta facendo ora andrà bene anche l'aria di campagna di Rose Castle. Miss Rossi» richiamò poi la governante, serio «chiamate Lord Norton e informatelo dell'accaduto, per favore»
«Subito signore» annunciò Miss Rossi, scattando subito verso il telefono.
«Tenetevi pronti a partire» commentò Mr Herbert, prima di risalire verso la zona notte.




«Come sta la Lady?»
La voce di Mark la colse quasi di sorpresa, non aspettandosi una domanda diretta proprio a lei. D'altronde erano gli unici in cucina, a quell'ora del giorno. Era passato un giorno intero dal malore della Lady, ed era trascorso in fretta e freneticamente. Erano tutti all'erta, in attesa che qualcosa potesse o meno succedere. Non c'era una domestica in ozio, anche solo per il nervosismo, per non pensare, per non farsi vedere tranquille e beate dal resto della famiglia, teso e nervoso. E così, a quell'ora dopo cena, Charlotte esausta si era limitata ad entrare in cucina, riscaldandosi del latte per mettere qualcosa di caldo dentro lo stomaco.
Sollevò gli occhi verso Mark, non reggendone lo sguardo più di tanto.
«Il dottore dice che la crisi è passata, ma il malessere rimane. Aspettiamo qualche giorno per farla ristabilire, poi torniamo a Rose Castle»
«Chi è stata con lei l'altra notte?» chiese curioso il ragazzo, insistendo nel guardarla.
«Lady e Miss Howard»
«Quella strega maledetta cercava di velocitarle il trapasso, ci scommetto...»
Charlotte si sorprese a sorridere, un gesto che nascose velocemente e con stizza: non gliela data vinta così facilmente, a quel bugiardo.
«Non lo so, ma Miss Howard ha pregato tanto al suo capezzale. E così anche Miss Herbert»
«Lord Norton invece?»
«Lui è venuto poco dopo l'alba, tutto scompigliato. Senza Miss Williams. Ha trascorso molto tempo con la madre, si è anche addormentato sulla poltrona con lei, poi hanno pranzato insieme e solo dopo aver visto la madre acquisire del colorito in viso si è permesso di dormire qualche ora, nel pomeriggio. Sembra molto preoccupato, più di Miss Norton.
Mr Herbert invece ci ha messo a malapena piede durante il giorno. Sembra quasi che non gli importi»
«Non tutti reagiamo nella stessa maniera agli eventi che ci propone la vita, Murphy»
Charlotte gli lanciò un'occhiata: sapeva che non si riferiva solo a Lady Maud. «Si beh, come ti pare Conti» brontolò, alzandosi dal tavolo e facendo per andarsene via.
«Murphy»
«Che vuoi?»
«Mi dispiace per come siano andate le cose tra noi»
«Ah ma davvero? Peccato che non sembra affatto, sai? Non mi pare tu abbia fatto qualcosa per dimostrarlo»
«Ho provato a spiegarti ma non mi hai voluto sentire!» si difese debolmenteil ragazzo.
«E quando sarebbe successa questa cosa?» chiese indagatoria Charlotte. Stava cercando di trattenere la rabbia che le ribolliva in petto.
«La sera stessa, quando sei entrata nella mia stanza per sbaglio»
«Ah. Non credo di averti sentito parlare, men che meno rincorrermi disperato cercando perdono»
«Ma io non...non stavo facendo nulla di male, non è come pensi tu» mormorò il ragazzo, sospirando.
«Sì certo, la storia che quella è tua amica, o tua cugina, com'è che era? Senti, io non sono stupida. Ti sei voluto divertire con me, volevi mollarmi e non sapevi come fare. Poi la fortuna ha voluto che io ti vedessi ad Hyde Park e finito qua, nessun'altra spiegazione è necessaria»
«Non è così»
«Ah no? E allora come?» Charlotte lo fissava, in attesa. In cuor suo, sperava il ragazzo spiegasse davvero le sue motivazioni. Ma quello tacque, torturandosi il labbro.
«E' una parte del mio passato, che mi tormenta anche ora nel presente»
Una ex-fidanzata, perfetto! Pensò Charlotte. Aveva sentito abbastanza idiozie.
«Buonanotte Conti» si limitò a dire, uscendo dalla cucina, nemmeno quella volta inseguita o supplicata al perdono come si leggeva nei romanzi d'amore. Avrebbe tanto voluto avere uno di quegli autori sotto mano, per spiegargli a modo suo che le relazioni della servitù non finiscono mai bene come dicono loro...

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Capitolo 11
*** No Fear ***


11. No Fear


 
Little Hall, 1 Luglio 1911

Anche con gli occhi chiusi riusciva a percepire la luce del sole che, violento, penetrava dalle finestre della camera. Poteva vedere perfettamente la polvere vorticare lungo i raggi del sole, depositandosi sul tappeto persiano ai piedi del letto. Il foglio e la penna sulla scrivania erano ancora là, ne era sicura: ce li aveva lasciati lei la sera prima, insieme alla lampada spenta ad ora tarda. Sentiva l'odore del soprabito e del cappello da passeggio, puzzavano di fumo e di scarico della macchina: un odore insopportabile per lei, che al massimo gli abiti le odoravano di umidità e fiori.
Si decise finalmente ad aprire gli occhi, appena in tempo per sentire la pendola in corridoio battere le sette del mattino. Scivolò fuori da letto, infilandosi vestaglia e pantofole, e poggiò la mano sulla maniglia della porta. Come ricordandosi di qualcosa si fermò, girandosi verso la scrivania e quel foglio vuoto. Deglutì, incerta se uscire o meno. Sapeva perfettamente che là fuori c'era più di un problema da affrontare. E non sapeva se ne aveva le forze.
Prima di tutto, c'era Lady Maud. Il medico aveva raccomandato assoluto riposo prima di partire, ma dopo venti giorni dal suo malanno ancora non era in grado di sopportare tutto quel viaggio fino a casa. Lei si dimostrava forte e felice, ma Ethel lo sapeva benissimo che stava male: la sua salute era peggiorata, e le visite ravvicinate del notaio erano un segno inevitabile che Lady Maud non avrebbe superato quell'anno.
Una morsa invisibile le si strinse intorno alla gola e allo stomaco, facendola sudare freddo. Aveva sofferto per la morte di Lord Norton, ma la morte di Lady Maud sarebbe stata terribile da affrontare, per tanti motivi. Uno dei tanti era che, senza di lei, Daisy era senza freni ed avrebbe portato tutti alla rovina.
Cercò di non pensarci, ma nel farlo la mente si spostò su tutti gli altri problemi. Zia Adelaide, che aveva preso la malattia di Lady Maud come la sua personale vendetta. Era “risorta” dal suo periodo placido mettendo tutta la casa sotto un regime di vita spartana, essenziale, priva di divertimenti.
Daisy, che reagiva malamente alla quasi morte della madre e alla dittatura della zia, tornando la mattina dalle sue uscite, che sperperava il denaro come fossero spiccioli, che girava con uomini diversi ogni sera.
Cassie, che dopo il risveglio della zia aveva abbandonato totalmente lei e George, chiudendosi in camera nelle preghiere ed evitando contatti con praticamente tutta la famiglia.
Ed infine c'era il problema maggiore, e cioè Alfred. Candice aveva scoperto del bacio tra di loro ed era andata su tutte le furie: aveva fatto una scenata da melodramma greco davanti Zia Adel e Lady Maud, aumentando l'astio della prima e la pena della seconda nei suoi confronti. Alfred, dal canto suo, si era limitato a sparire dalla faccia della Terra. Non avevano sue notizie da giorni, non veniva più nemmeno a trovare sua madre. Ed era quella la cosa che la faceva più arrabbiare, ed il motivo principale per cui la sera prima avrebbe voluto scrivergli, senza tuttavia aver trovato le parole giuste.
Aprì finalmente la porta, buttandosi in quel marasma di problemi. Consapevole che li avrebbe dovuti affrontare, uno ad uno, senza paura.
La prima cosa che notò, una volta nel corridoio, fu il caos che regnava in quella casa, un caos allegro e felice. Si accigliò, confusa: non era possibile, da quando comandava zia Adel lì dentro doveva regnare l'assoluto silenzio, anche tra la servitù.
«Buongiorno...» annunciò perplessa, incrociando una sorridente Charlotte.
«Miss Herbert, buongiorno! Stavo giusto venendo da voi»
«Cosa...cosa succede qui dentro?» chiese confusa, osservandosi intorno.
«Oh certo, voi vi siete appena alzata e non potete saperlo. Vostro fratello, Mr Herbert, ha deciso di organizzare un pic-nic!»
Ethel si accigliò ancora di più, confusa più di prima.
«Aspetta, non capisco...e zia Adel non ha detto nulla?»
«Lady Howard ancora non lo sa, ancora non torna dalla Chiesa. Ma Mr Herbert ha precisato che con l'opinione di Lady Howard ci si pulisce il...beh insomma, avete capito»
Ethel rise, sconvolta. Che davvero fosse in atto una rivoluzione, dentro quella casa?
«Molto bene. Vorrà dire che prenderò il mio abito da pic-nic» annunciò Ethel, divertita «Miss Howard?»
Il viso di Charlotte si oscurò, triste. «In camera sua, come sempre Miss»
«Vieni con me. Dobbiamo trovarle qualcosa da mettersi»
Bussarono alla porta di Cassie, qualche stanza più in là della sua, ed Ethel aprì nonostante il “no” deciso di Cassie.
«Buongiorno, cara»
«Miss Ethel, vi avevo detto di non entrare...» brontolò Cassie, seduta sulla scrivania, al buio e scompigliata.
«Oh davvero? Non avevo sentito» annunciò Ethel, diretta verso le finestre. Spalancò le tende e poi le ante, facendo entrare aria fresca e luce solare. Cassie assottigliò gli occhi, come un animale notturno che si risvegliava dal suo letargo.
«Andiamo a fare un pic-nic, oggi. Dovete aiutarmi a trovare qualcosa da mettermi, e poi faremo lo stesso per voi»
«Non siate ridicola, Miss Ethel, dove volete che vada. Zia Adel...»
«Al diavolo zia Adel, Cassie» precisò secca Ethel, girandosi verso di lei «è un ordine di George»
«Cosa...? E' stato George a organizzare il pic-nic...?» chiese Cassie, drizzando le orecchie.
«Mh-mh, proprio così. E se zia Adel prova a dirci qualcosa dovrà vedersela con me. Sono stufa di tutti questi problemi»
«Oh no, Ethel, ti prego non andarle contro. Tu non sai di cosa è capace...»
«Oh si, lo so bene Cassie, credimi. Le conosco le persone come lei: si fanno scudo con un titolo e i soldi, e pensano di poter governare il mondo. Ma ascoltami bene: io non sono la serva di zia Adel, e men che meno lo sei tu. Siamo giovani, è estate, fuori è pieno di gente e non me ne starò a pregare e pentirmi di peccati che non ho commesso, solo perchè li ha commessi lei! Chiaro?»
Cassie deglutì, come colpita in pieno da quella cascata di parole. Poi annuì e si alzò.
«Ma io non ho nulla per uscire»
«Qualcosa lo troviamo. A lavoro» annunciò sorridente Ethel.


«Siete pronte, signorine?» esclamò George dal fondo del corridoio. Doveva ammetterlo: non sapeva nemmeno lui che cosa diavolo gli era preso, ma non ci aveva dormito la notte ed era arrivato all'idea finale che quella non era vita. Per lui, per Ethel, per Cassie e soprattutto per zia Maud. Non era vita quella, e se alla morte di zia Maud avrebbero perso tutto almeno non avrebbero perso la libertà e la dignità. Voleva ringraziare zia Maud per quel che aveva fatto per loro: e alla sua morte se la sarebbero cavati da soli, in un modo o nell'altro.
«Eccoci!» esclamò Ethel, uscendo dalla sua stanza insieme a Cassie. Sua sorella indossava un adorabile abito bianco, in organza e cotone, con una semplice fascia rossa in vita ed un grosso capello colorato in testa. Cassie invece indossava un semplice abito di cotone azzurro, secondo la moda, che le rendeva le forme più lineari, delicate e -sì, doveva ammetterlo- sensuali. Provò un'ondata di gelosia per chiunque avesse osato guardarla, fosse anche il lattaio, e cercò di metterla a tacere.
«Cominciate a scendere, vado a prendere zia Maud»
«Cosa...?» chiesero entrambe, confuse.
George sorrise appena. «Cosa credevate, che non avrei invitato la zia per un pic-nic estivo? Su, scendete in giardino»
Le due ragazze cominciarono a scendere, ridacchiando tra loro, quindi George entrò in camera di zia Maud dopo aver bussato.
«Zia, sei pronta?»
«Sì, George, eccomi» annunciò la donna. Nel giro di venti giorni era invecchiata parecchio, come se la malattia l'avesse divorata tutta in un colpo solo. Ma era meno pallida delle altre volte, e cercava di camminare da sola sul suo bastone. Indossava poco più che una tunica sotto un soprabito color crema. George le poggiò uno scialle sopra le spalle, quindi le baciò la guancia e le sorrise, aiutandola ad uscire.
«Quando ci vedrà zia Adel...» mormorò la donna, timorosa.
«...le prenderà un colpo, mi hai scoperto zia: è quello il mio scopo»
Lady Maud rise appena, divertita. «Georgie, sei proprio un cattivo ragazzo»
«Ma sono i cattivi ragazzi che conquistano di più, non lo sapevi zia?»
«Oh lo so si, non sai tuo zio quanto mi ha fatto penare da giovane!»
George sorrise divertito, e scendendo lentamente le scale condusse la donna fuori, al caldo e al sole. La servitù, per l'occasione, aveva sistemato il tavolo sotto al gazebo di pietra con tutto l'occorrente per il pic-nic, più ovviamente sedie e coperte sul prato ben tagliato. Fuori, l'attendevano Ethel e Cassie, e tutta la servitù al completo.
«Biscotti al limone e torta di fragole, milady, solo per voi» annunciò Conti, chinando il capo.
«Oh i miei dolci preferiti, grazie caro» commentò Lady Maud, sorridente. Si guardò intorno, come a cercare qualcuno. «Daisy...?» chiese alla fine, in un fil di voce.
Vide l'incertezza nel visi degli altri, e George la strinse poco di più. «Sta arrivando, zia, vedrai che fra poco arriva...Perchè intanto non ci sediamo e prendiamo il thè?»
«Meglio, si» brontolò Lady Maud. La sua non era tristezza, era rabbia: Daisy era fuori controllo, e la colpa era solo sua. Sua e di Alfred, che non erano stati capaci di educarla come si conveniva. Era viziata, con le mani bucate, era frivola, superficiale. Le ricordava così tanto zio Adam...
«Cassie, è un piacere rivederti»
«Anche per me, zia Maud. Come ti senti?»
«Oh, come una vecchia ciabatta, ma nulla di nuovo no?» precisò la donna facendole un occhiolino e sedendosi «Ethel, tesoro, come stai...?»
«Sto bene zia, grazie» chiese Ethel, abbracciandola. Deglutì, ricacciando indietro le lacrime. Le sorrise e la baciò, godendosi quegli attimi felici con quella che reputava come l'unica madre che avesse mai potuto desiderare.
«Ti alleni tutti i giorni al pianoforte, si? Ti sento, dalla mia camera, sono felice che hai ripreso a suonare quotidianamente. Quando torneremo a Rose Castle, voglio organizzare una bella festa e mi dovrai suonare il tuo intero repertorio, mh?»
«Vuoi fare una festa che duri un mese, zia?» chiese ironico George, facendo ridere tutti.
«Miss Rossi, non statevene lì impalata! Sedetevi, forza» annunciò Lady Maud, osservando la governante, l'unica ancora in piedi.
«Ma milady, io non so se è...»
«Niente paura, Miss Rossi, ancora non divento una megera come zia Adel, potete sedervi senza timore»
Miss Rossi sorrise appena, lasciandosi sfuggire un'aria divertita, quindi si sedette insieme a tutti gli altri: cameriere, cuochi, duchesse, baroni...un'accozzaglia perfetta.
Trascorsero un'ora a ridere e chiacchierare, mangiando e bevendo insieme. Ethel osservò attentamente zia Maud: sembrava rinata, come se non fosse mai successo nulla.
Sorrise mentre la donna raccontava aneddoti imbarazzanti del piccolo George, rivolgendosi soprattutto a Cassie: ormai tutti avevano capito l'intesa che c'era tra i due, tranne forse i diretti interessati.
Scoppiarono tutti a ridere alla fine dell'aneddoto tranne il povero George, rosso in viso per l'imbarazzo. Fu in quel momento che Ethel, trovandosi di fronte a lui, lo vide lentamente irrigidirsi. Guardava oltre la sua testa, verso la strada alle sue spalle. Si volsero tutti, notando la carrozza di zia Adel girare l'angolo e dirigersi verso l'ingresso di Little Hall.
«Lasciate parlare me, non dite nulla. Qualunque cosa dica o faccia, restate qui» annunciò serio George.
Ethel si girò verso la carrozza, ormai ferma, ed il valletto scendere ed aiutare la vecchia megera a scendere dalla vettura. Il cancello si aprì, mostrando così l'anziana e ricurva figura, accigliata e scura in volto. Si diresse spedita verso l'ingresso, poggiandosi al bastone, ma lentamente rallentò il passo, come accorgendosi di qualcosa di anomalo. Li aveva visti.
Si fermò a metà vialetto, sollevando gli occhi verso il gazebo e verso di loro. Li fissò a lungo, e sembrava quasi che stesse per unirsi a loro, quando alla fine scoppiò a ridere, portandosi la testa indietro.
«Sapete, stavo aspettando il giorno in cui sarebbe successo! Servi e nobili allo stesso tavolo, come in una tribù di incivili!» esclamò, ridendo divertita. «Prima che mi infuri, tornate in casa e preparatemi un maledetto thè»
La servitù fece per muoversi ma George li fulminò. Faceva sul serio.
«Beh? Nessuno vuole aiutarmi?» chiese ironica zia Adel, divertita.
«Puoi unirti a noi, se vuoi, ma adesso stiamo festeggiando. Servitù inclusa» annunciò Lady Maud.
«E cosa festeggiate, di preciso?»
«La vita. Quella vera»
«La vita, certo...la malattia ti ha dato alla testa, Victoria. Il mio thè!» gridò alla fine, facendo agitare tutti.
In tutta risposta, George si alzò dal tavolo lentamente e le si avvicinò.
«Non sei più la benvenuta qui, Lady Howard» annunciò, serio. Tutti si immobilizzarono, fermi.
Zia Adel lo fissò dal basso, senza paura. Confusa. «Come hai detto, scusa?»
«Ho detto che non sei più la benvenuta»
«Come osi rivolgerti a me in questa maniera...»
«Non sei mia zia, me lo hai sottolineato per circa una vita. Non devo prendere ordini da te, tanto meno che non sei la padrona, qui...»
«Ah no? E chi sarebbe?»
«Lady Maud»
«Ah! Quella vecchia malata non ha nulla su cui padroneggiare»
«Questa casa è sua, le è stata donata da Lord Norton come regalo di matrimonio. E' sua, legalmente e sentimentalmente. Quindi, a nome suo e di tutta la famiglia, ti ripeto che non sei la benvenuta» precisò George, fissandola.
«Come osi...»
«Ah, e per inciso: vostro marito vi ha raccontato un sacco di bugie, perchè tutto quello che è di proprietà di Lord Norton è stato donato a Lady Maud come doni di nozze, Rose Castle compreso. Se quindi sperate che alla sua morte voi possiate avere qualche percentuale...vi sbagliate di grosso»
«Questo è troppo, basta! Me ne vado da questo posto orribile, da questa famiglia dedita al peccato! Cassie, muoviti, torniamo a casa!» gridò, furiosa, facendo per rientrare a casa.
«No» annunciò secca Cassie, alzandosi in piedi.
Ethel sgranò gli occhi: era decisamente la giornata delle rivoluzioni!
«Come...?» mormorò zia Adel, tremando di rabbia.
«Ho detto...no. Non torno. Mi piace stare qui, tornerò a casa alla fine della stagione» annunciò Cassie, impettita.
Zia Adel si avvicinò come una furia, sollevando minacciosamente il bastone. «Ti ha dato di volta il cervello, ingrata che non sei altro?!? Tu sei sotto la mia custodia, sono io che comando! Io decido cosa devi fare!»
«Fino a prova contraria, sono maggiorenne, zia. Ed ho già scritto a mio padre, sa dove mi trovo, si fida dei Norton e mi farà tornare a fine stagione, come pattuito prima di partire. Con o senza di te»
Ethel ebbe la sensazione che zia Adel stesse per svenire, ma al contrario girò i tacchi e rientrò in camera, seguita dal suo valletto, gridando “ve ne pentirete! ve la farò pagare!”
«Hai fegato da vendere, Cassie» esclamò Ethel, sorridendo alla ragazza.
«Ho imparato da qualcuno...» mormorò l'altra, osservando George «ero stufa delle sue angherie. Sono sicura che papà mi capirà, non la sopporta nemmeno lui» precisò ironica, facendo ridere gli altri mentre sentivano zia Adel fare casino il più possibile, dentro casa, mentre il valletto faceva le sue valigie in fretta e furia.
“Ve ne pentirete!” continuava a gridare zia Adelaide quando ripercorse il vialetto, senza più l'aiuto del bastone, con un diavolo in corpo. Si fermò sulla soglia del giardino, fulminandoli tutti mentre il valletto caricava i bagagli sulla carrozza.
«Avete oltrepassato ogni limite» annunciò, come se fosse una maledizione.
Nessuno riuscì a gioire apertamente per quella veloce partenza. Come se tutti avessero percepito il peso di quelle parole.
Lady Maud sorrise mesta tra sé. «Lo farà, ma il piano è riuscito George, bravo ragazzo...»
«Cosa? Eravate d'accordo?» chiese Ethel sorpresa, osservando i due.
«Non mi sarei mai permesso senza il suo consenso»
«Diciamo che c'erano alcune cose da sistemare. Questa era una delle tante: zia Adel mi girava intorno da troppo tempo, e così ho chiesto un favore al notaio. E ha sistemato per sempre questa storia delle proprietà. Ora quando m...» Lady Maud si bloccò quando sentì rumore di clacson e una vettura all'ultima moda frenare davanti la casa.
Cadde di nuovo il silenzio, che si gelò quando Daisy aprì il cancello di casa. Era visibilmente brilla, completamente scompigliata e scomposta, e salutava un giovane seduto alla vettura che l'aveva riportata fino a lì. Quando Daisy incrociò i loro visi scoppiò a ridere, visibilmente fuori di sé.
«Non dovevate...essere da qualche altre parte?» chiese ridendo.
«Siamo dove dovremmo essere, Daisy. Tu piuttosto, dove sei stata» rispose Lady Maud, fissandola.
«In giro...»
«In giro, certo. Quanto hai bevuto?»
«Quel che era necessario. Vado a farmi un bagno» brontolò Daisy, attraversando il vialetto. Lanciò un'occhiata ad Ethel, seduta al fianco della madre, prima di tirare dritto.
Lady Maud sospirò, massaggiandosi una tempia.
«State bene, zia?» chiese Ethel, a bassa voce.
«Si si, certo. Miss Rossi?»
«Sì, milady»
«Sono dell'idea che prima torniamo a casa e meglio sarà per tutti. Questa città ci ha messo tutti sottosopra. Gli eccessi stanno rovinando la serenità di questa famiglia. Fate i preparativi per la partenza, voglio tornare a Rose Castle il prima possibile»
«Zia, te la senti?» chiese incerto George.
«Voglio morire a casa mia, George, ti assicuro che non lo farò in questa città» mormorò la donna vicino al suo orecchio mentre l'aiutava a tirarsi su.
George annuì, deglutendo a vuoto, quindi lentamente la riaccompagnò nella sua stanza.
Qualche ora dopo, Ethel rientrò nella sua stanza. Era sconvolta: erano giorni che non incrociava Daisy ma averla vista in quello stato l'aveva sconvolta. Era completamente...fuori di sé. Quel che stava facendo non era vita mondana, non era corteggiare, non era divertirsi. Era una vita sregolata, era vendersi, era distruggersi.
Lady Maud aveva ragione: Londra li stava trasformando. Avrebbe voluto tornare indietro nel tempo e non essere mai venuti lì, non aver mai accettato l'invito di Alfred. Se fossero rimasti a Rose Castle, zia Adel non li avrebbe fatto visita, zia Maud non si sarebbe sentita male, e lei e Alfred...deglutì a vuoto. Era quello il vero problema, alla fine. Lei e Alfred. Era sempre stato quello il problema.
La verità era che quello era l'unico problema: l'astio di Daisy, la rabbia di zia Adel, la diffidenza di Candice...erano tutti derivati da quella maledetta promessa di matrimonio. Daisy era gelosa che suo fratello e la sua intera famiglia amassero una “straniera” e non lei stessa, zia Adel era furiosa che l'unico erede maschio Norton si sposasse una giovane senza soldi e senza titoli, e Candice...come biasimarla?
Si sedette alla scrivania, decisa a risolvere anche quel problema. Senza paura, prese a scrivere il suo fiume di parole.



Era felice che sarebbero andati presto via da Londra. Tutto sommato, preferiva Rose Castle: lì era tutto calmo, tutto sereno, e la vita era pacifica. Forse noiosa, ma priva di problemi. Se fossero rimasti lì, magari non si sarebbe mai potuta innamorare di Mark.
Deglutì, mentre sistemava gli abiti di Miss Herbert: era quello il problema, alla fine. Che si era innamorata del ragazzo sbagliato, come succedeva sempre. Ed ora era costretta a viverci sotto lo stesso tetto. I rapporti tra loro due non erano migliorati, ma nemmeno peggiorati. Si limitavano a parlare il minimo indispensabile circa il lavoro e le necessità dei Norton, potevano anche sedere insieme agli altri, e fingere insomma che non era successo nulla.
Ma qualcosa era successo, e quel qualcosa bruciava ancora nel cuore di Charlotte. Gli irlandesi non dimenticano nulla, lo diceva sempre suo nonno.
«Sei contenta di tornare a Rose Castle, Charlotte?»
«Sì Miss, molto, devo ammetterlo. Qui è troppo caotico»
«Sono d'accordo. Io...ho scritto ad Alfred» annunciò la giovane, girandosi verso di lei. Charlotte la fissò, in attesa di sapere altro. Dopo la serata shakespeariana e quella scenata che aveva fatto Miss Williams, Miss Herbert le aveva spiegato tutto per filo e per segno. In poco tempo, era diventata la storia preferita dalle domestiche che seguivano le novità con appassionato interesse.
«Gli avete detto che stiamo ripartendo?»
Ethel annuì. «E che sua sorella è fuori controllo, se ha quindi la decenza di venire a casa e parlarle perchè sta diventando ingestibile. In poche parole, gli ho detto questo. Ho fatto male? Ho fatto intendere che per quanto mi riguarda può anche non passare a salutarmi, Rose Castle è talmente grande che potremmo semplicemente non incontrarci»
«Gli avete anche detto che Mr Mallard viene a trovarvi quasi tutti i giorni?»
«Suppongo lo sappia, Candice non farà che elogiarlo. Come se servisse qualche metodo per levargli dalla testa la mia immagine»
«Credo che l'intento di Miss Williams sia proprio quello, Miss. Ma dubito ci riuscirà»
Ethel sorrise appena. «Io invece credo di sì. Alfred si sta rivelando quel che è: e cioè uno stronzo» precisò, facendo sobbalzare appena Charlotte «Pardon, ma è così. Sua madre è in fin di vita e lui che fa? Nemmeno viene a trovarla, nulla»
«Ci deve pur essere un motivo, non può essere così insensibile, non credete?»
«Lo spero davvero, anche se non lo giustifica. Comunque sia...» smise di parlare, di colpo, quando suonarono al campanello. Guardò l'orologio da taschino e sospirò: si era completamente dimenticata della visita quotidiana di Mr Mallard.
«Puoi continuare tu da sola, Charlotte?»
«Certo, Miss, fate pure» annunciò la cameriera, chinando appena il capo.
Ethel uscì dalla svelta dalla stanza, scendendo poi svelta le scale che davano sull'ingresso.
«Mr Mallard! In perfetto orario»
«Miss Ethel, è una gioia rivedervi. Siete incantevole»
«Sono esattamente come due giorni fa, signore» commentò ironica Ethel, lasciandosi baciare la mano.
«Oh vogliate perdonare la mia assenza per ieri, impegni inderogabili. Ma attendevo con ansia il nostro incontro. Come state?»
«Bene. Prego, venite in salotto, il thè è stato appena servito. Ho ottime notizie sapete? Zia Adelaide è andata via»
«Oh quella serpe in seno. Quale angelo divino l'ha spinta fuori di casa?» chiese ironico il ragazzo, facendola ridere.
«Mio fratello, aveva deciso che era stufo delle sue angherie. Miss Howard è rimasta tuttavia con noi»
«Quella cara ragazza, me ne compiaccio. Anche io ho ottime notizie sapete? Ho due biglietti per il teatro, fra due settimane, e volevo chiedervi se...»
«Oh, Mr Mallard mi spiace ma noi a breve torneremo a Rose Castle! Questione di giorni, ecco...mia zia vuole tornare, non riesce più a stare qui in città»
«Oh...» commentò l'altro, senza aggiungere altro per alcuni secondi «bene, beh, immagino potrò andarci con qualche amico. Di solito ci andavo con Miss Williams ma credo che ormai non possa più...»
«Come mai?» chiese Ethel, drizzando le orecchie e la curiosità.
«Non lo sapete? Pensavo Lord Norton ve l'avesse comunicato: si sposano fra meno di due mesi»
Una secchiata di acqua gelida si riversò improvvisamente su Ethel, facendole sgranare appena gli occhi. Deglutì a fatica, la gola arsa. Prese la sua tazza di thè, cercando di fermare il tremore che aveva alle mani.
«Pensavo di sarebbero sposati l'anno prossimo, prima del viaggio sul Titanic...»
«Lo pensavamo tutti! Ci hanno colti davvero di sorpresa. Ma credo che Candice non voglia attendere molto. Si sposeranno qui a Londra, e se la conosco bene nei prossimi due mesi sarà completamente assorbita dai preparativi. Dite che potremmo andare insieme al loro matrimonio?»
«C-certo, si...certamente...» mormorò Ethel, ascoltando a malapena le parole del giovane. Due mesi, appena due mesi. Era per quello che Alfred era sparito, Candice l'aveva minacciato ed accorciatoi tempi di attesa per il matrimonio. Voleva vincere ed aveva vinto. Tanto valeva arrendersi. Sorrise verso Mr Mallard, cercando di mostrarsi calma e serena.
«Spero che possiate venire a trovarci a Rose Castle, Mr Mallard, e rimanere qualche giorno da noi. E' una dimora splendida, sono sicura vi piacerà»
Mr Mallard spalancò gli occhi per la sorpresa e la gioia di quell'invito inaspettato. «Posso dirvi senza paura che accetto volentieri, Miss Ethel? Sarebbe un onore per me. E poi magari potremmo discutere di quel nostro...viaggio in America, si?»
Ethel sapeva a cosa si riferiva realmente. Ormai il “viaggio” era diventata la parola corrispondente per “fidanzamento”. Aveva potuto rallentare, fino a quel momento, con la scusa del conoscersi meglio. Ma ormai era quasi un mese che il ragazzo veniva a trovarli ogni giorno. Venti giorni, ad essere precisi, e già non sapeva più cosa raccontargli. Ma era un bravo ragazzo, era molto benestante e pareva non importargli molto della sua povertà economica e onorifica. Era l'uomo giusto per la sua situazione, avrebbe sistemato lei e George una volta morta zia Maud. Avrebbero vissuto una vita serena e placida. Forse non si sarebbero mai innamorati, ma si sarebbero voluti bene.
«Si, certo Mr Mallard, parleremo anche di quello. Ora vogliate scusarmi, i preparativi per la partenza mi attendono...»
«Oh si, certo certo. A presto allora, Miss Ethel»
«A presto, Mr Mallard»



Quando riuscì a scendere in cucina e finalmente cenare era ormai sera. Crollò sgraziata sulla panca del tavolo e divorò in due secondi lo stufato freddo lasciato lì dalle cuoche, per chiunque dovesse ancora cenare. Non c'era nessuno in cucina, ormai erano tutti rintanati nelle loro camere, troppo stanchi per mangiare. Ma lei era sempre pronta a mangiare: da piccola aveva patito troppola fame per potersi permettere di saltare dei pasti.
«Era mia cognata» la voce di Mark la fece saltare per aria.
«Che cosa?» chiese, confusa. Si girò, ritrovandosi davanti, con una bottiglia di vino, due bicchiere, ed una ciotola di crema inglese. Deglutì, sbuffando una risata. «Devo provarla di nuovo?»
«Giusto per sicurezza...» commentò ironico lui, prima di sedersi al suo fianco. Lo lasciò fare, e mentre versava il vino lo ascoltò.
«Era mia cognata, quella ragazza ad Hyde Park. Si chiama Lucia, siamo cresciuti insieme, vicini di casa praticamente. Io lei e mio fratello Giovanni eravamo inseparabili, poi loro si sono innamorati e lei è rimasta incinta che aveva solo quindici anni. Ma mio fratello, anziché prendersi le sue responsabilità, ha lasciato lei e il bambino ed è tornato in Italia. Così mi occupo io di Lucia e di Franco, mio nipote» sorrise Mark, nominando il piccolo «pago per mio fratello, e butto quasi tutto il mio stipendio per non far mancare loro nulla. Lucia lavora qui e lì, ma avendo un figlio nessuno vuole assumerla per sempre. Quando aprirò il mio negozio, lavorerà da me. Ma ci vuole tempo...»
«Perchè non me l'hai detto subito...?» chiese perplessa Charlotte.
Mark scrollò le spalle. «Ho avuto paura. Che non mi credessi, che...non so, che ti deludessi. Ed alla fine è successo comunque»
«Non sarebbe successo che me lo avessi detto subito. Pensavo fosse la tua vera ragazza...» ammise Charlotte. Si sentiva un'idiota.
«Beh, io veramente una ragazza ce l'avevo. Era irlandese, sai. Bella da far morire»
Charlotte arrossì, fingendo di non capire. «E poi che è successo?»
«E' successo che ho rovinato tutto, come sempre. Non sono stato sincero, non mi fido molto delle persone»
«Fai bene, anche se non in questo caso. Pensi di poter rimediare?»
«Ah lo spero, lo spero proprio. Vorrei invitarla a uscire, prima che vada via. Pensi che possa accettare?»
Charlotte sorrise divertita, fissando il sorrisetto di Mark. «Quanto sei stupido, Conti» commentò, prima di abbracciarlo.
«Lo so, Murphy, lo so...» ammise il ragazzo, serio, stringendola forte a sé, come se tramite quell'abbraccio potessero suggellare finalmente la loro pace.

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Capitolo 12
*** Not so Quiet ***


12. Not so Quiet
 

Rose Castle, 8 Luglio 1911

L'estate era arrivata anche a Rose Castle, e al loro ritorno furono accolti da una giornata soleggiata, un cielo limpido ed una piacevole temperatura estiva. La servitù rimasta nel castello li accolse aiutandoli con i bagagli e con Lady Maud, affaticata dal lungo viaggio. Eppure, seppur malandata, la Lady sorrise a tutti e soprattuto all'antica dimora, avvolta da ettari ed ettari di giardino, alberi, cespugli in fiore...
«Io vado a dormire» brontolò Daisy, superando tutti e rintanandosi in camera sua, al buio. Da quando erano partiti non aveva aperto bocca e nemmeno George era riuscito a farla parlare, né tanto meno sorridere. Non aveva preso bene la decisione di ritornare nella tranquilla, pacifica e noiosa Norfolk.
Ethel sospirò, sorridendo appena a Lady Maud, a mo di incoraggiamento, quindi si volse indietro verso George e Cassie. Erano raggianti e sorridenti, e sentì una stretta allegra stringerle il cuore: era così felice per George...aveva finalmente trovato l'amore, quello vero, e non avrebbe potuto scegliere di meglio. Forse Cassie non era bella e snella come i canoni moderni dettavano, ma aveva un cuore buono e gentile, ed amava sinceramente suo fratello. Ma ce l'avrebbero fatta? D'altronde la loro situazione era la stessa sua e di Alfred: lui squattrinato, lei ricca e nobile. Lei lo sapeva: a volte, l'amore non basta. Riportò lo sguardo in avanti, chinando il capo.
«Vedrai, ce la faranno» mormorò qualcuno al suo fianco. Era Lady Maud che, come sempre, le leggeva nella mente.
«Lo spero per loro, zia, sono due bravissimi ragazzi»
«Anche tu ed Alfred lo siete» mormorò la Lady, facendole un'occhiolino. Ethel deglutì a vuoto e fece finta di non aver sentito. Rallentò il passo e si volse verso la coppia dietro di lei.
«George, perchè dopo aver mangiato qualcosa non fai vedere tutto il parco a Miss Cassie? E' una così bella giornata!»
«Perchè no, se a Miss Cassie fa piacere...» rispose vago George, che davanti agli altri non mostrava particolare enfasi nei confronti di nulla e nessuno.
«Oh si, mi farebbe molto piacere! Sembra grande quanto Hyde Park» ammise Cassie, sorridendo entusiasta.
«Oh non è lontanamente grande quanto Hyde Park, Miss, ma abbastanza per farci entrare tutti gli abitanti di Norfolk» commentò ironico George, facendole un'occhiolino «vieni anche tu con noi, Lulù'?»
«Ma io il parco lo conosco già» precisò Ethel ironica «ho da scrivere della corrispondenza per l'orfanotrofio, ma poi credo che vi raggiungerò: mi farebbe molto piacere mostrarvi l'orangeria, Miss Cassie, ci sono dei fiori esotici assolutamente sbalorditivi»
«Ne sarei onorata, Miss»
«Allora è deciso!» esclamò felice Ethel, tornando poi al fianco di Lady Maud.
«Hai scritto al mio Alfred?» chiese la donna, in un sussurro affaticato dalle scale che salivano ai piani superiori.
«Sì, zia, gli ho scritto. Dice...che sta arrivando, il tempo di sistemare due affari e verrà a trovarci» mentì, sperando che la zia non se ne accorgesse. La verità era che Alfred non aveva nemmeno replicato alla sua lettera. Completamente ignorata, Ethel si era arresa all'ipotesi di Charlotte secondo cui Candice controllasse la corrispondenza del fidanzato, e non solo quella. Possibile che non era libero nemmeno di visitare sua madre morente? Se il problema era la presenza di Ethel nel castello, se ne sarebbe andata.
Una volta in camera sua, si sfilò velocemente soprabito e cappello ed andò nella camera accanto, quella di George. Bussò ed entrò senza attendere il permesso, come suo solito: dentro, George si stava sfilando la camicia del completo da viaggio, mostrando la sua pelle bianca e il fisico snello ai raggi solari che penetravano dalla finestra.
«Ethel, che succede?» chiese il fratello, preoccupato dall'urgenza disegnata sul volto della sorella.
«Devi scrivere ad Alfred» annunciò seria Ethel, avvicinandosi alla sua scrivania e preparandogli il necessario.
«Cosa...? E per dirgli che?»
«Che deve tornare, per sua madre. Non fa che chiedere di lui»
«Lulu, ascoltami...» fece per dire calmo George.
«No, ascoltami tu» precisò la sorella, decisa «lo so perchè non torna, quindi tu gli scriverai che io sono via, inventati qualche scusa: una visita dai parenti, che sono andata sulla costa, quello che ti pare. E se serve lo farò davvero. Ma lui deve tornare, deve salutare la madre, santo cielo...» brontolò alla fine, secca.
«Ok ok, gli scrivo» sospirò George, sedendosi alla scrivania ancora mezzo svestito, le bretelle appese alla vita. «Ma tu dettami, lo sai che sono una schiappa con la corrispondenza»


Trascorsero quattro giorni dalla seconda lettera che mandarono ad Alfred, ma ancora non ricevevano risposte. Era normale, pensò Ethel, Rose Castle non era esattamente vicina a Londra. Ma ormai sarebbe dovuta arrivare, ed Alfred avrebbe potuto avvisare telefonicamente. E invece nulla, tutto taceva. In compenso, Mr Mallard era arrivato il giorno prima, frettoloso di vedere la tenuta della famiglia, sempre allegro e felice. Quella mattina, si era alzato di buona lena, aveva sellato il cavallo e da solo si era messo ad esplorare i boschi e la campagna circostante. “Strana gente, gli americani” aveva commentato Lady Maud vedendolo andare via da solo, appena dopo l'alba.
«La corrispondenza per voi» annunciò Josephine, quella mattina a colazione, porgendo una lettera ad Ethel.
«Grazie. Daisy?»
«Miss Norton è nella sua stanza, Miss»
«Va bene, grazie...» mormorò. Sollevò gli occhi sul pendolo: erano le nove passate, dove diavolo era stata la sera prima?
Aprì la lettera, lesse il resoconto settimanale dall'orfanotrofio, quindi la ripiegò infilandola sotto al piatto.
«Pensi di accettare?» chiese di colpo Lady Maud, osservandola. Per un attimo, non capì di cosa stesse parlando. Ma poi capì, e sorrise appena.
«Ho scelta?» rispose Ethel, versandosi il thè.
«Puoi sempre rifiutare, Lulù, non devi sposarti per forza» commentò serio George, come se avesse letto il pensiero di entrambe.
«E' la prima proposta di matrimonio che ricevo da quando sono nata, secondo te devo davvero rifiutare?» chiese ironica Ethel.
«La seconda, a dirla tutta. E' la seconda proposta di matrimonio» precisò seria Lady Maud.
«E come ben sappiamo la prima non è andata a buon fine» commentò secca Ethel.
«Lulu...» la richiamò calmo George, stringendole la mano.
«Ha solo detto la verità, Georgie. Mio figlio è uno stolto, che vogliamo fare? Sono tutte teste calde, i Norton, mai nessuno che abbia ripreso dai Connington» commentò la Lady, facendo sorridere i presenti. Ma i sorrisi si spensero quando in stanza entrò Daisy, trascinandosi verso il tavolo. Ethel dovette ammetterlo: era in uno stato pietoso. Solitamente la si vedeva arrivare per la colazione già pronta, vestita e ingioiellata, pettinata alla perfezione e raggiante, ben riposata dopo un lungo sonno. Quella mattina, invece, era completamente stravolta: ancora in veste da notte, la vestaglia era a malapena allacciata alla vita, i capelli sciolti e scompigliati, pesanti occhiaie intorno alle borse e l'aria pallida, malata, stanca.
Rimasero tutti in silenzio, a fissarla, mentre lei spalmava il burro sul pane, sbadigliando maleducatamente.
«Beh, che avete tutti da guardare?» brontolò alla fine, scrollando le spalle.
«Sei in uno stato pietoso, Daisy» annunciò secca Lady Maud.
«Senti chi parla...» biascicò la figlia.
«Daisy!» esclamò sconvolta Ethel, non riuscendo a trattenersi. Sapeva che la madre era malata o viveva in un altro mondo?
«Che ho detto? Non è forse la verità?»
«Sinceramente? No. Tu sei molto più pietosa» precisò secco George «dove diavolo sei stata, Daisy...? Anche qui nel Norfolk riesci a tuffarti nei vizi anima e corpo? Se continui così morirai giovane»
«Zitto tu, cosa ne sai, cosa t'importa» brontolò Daisy, mordendo il suo pane e burro.
«M'importa, perchè sei nostra cug...»
«Alt! Piantiamola con questa storia della cugina, mh? Non siamo parenti, né tanto meno amici mi pare. Se vuoi tenerti cara mia madre per cercare di ereditare qualcosa una volta che crepa, fa pure! Ma smettiamola con queste sviolinate: io non sono niente per te, né tu per me»
«Siamo cresciuti insieme, Daisy, come puoi dire che non siamo niente? Non abbiamo lo stesso sangue, ma ti vogliamo bene come a una sorella. C'è una cosa, nel mondo, che fa restare uniti le persone. Si chiama “affetto”» replicò calma Ethel.
«Oh si certo, ora tutti buoni e cari. Tu non devi parlare Ethel, tu sei la prima falsa in questa stanza: ti prodighi tanto per noi, per i poveri, ma tanto alla fine lo sappiamo tutti che cerchi solo di sistemarti per la vita. Che sia sotto la gonna di mia madre o dentro i pantaloni di mio fratello, che differenza fa?»
La risposta di Ethel non arrivò, e nemmeno quella di George, perchè Lady Maud li anticipò entrambi con sorprendente velocità. Si alzò, poggiata al bastone, tremando per lo sforzo e la rabbia. Sollevò il bastone e lo abbattè sulla schiena di Daisy, facendola gridare di dolore.
«Alfred ha ragione, ti dobbiamo dare quel che non ti abbiamo dato fino ad ora, razza di viziata! Stai dilapidando tutta la tua rendita, bestia! Sei il disonore della famiglia, sei un'anima nera!»
«Zia, calmatevi, vi prego...» Ethel si alzò di scatto, sostenendo la donna con l'aiuto di George e di un'altra cameriera. Daisy fu bloccata da altre due cameriere, pazza di rabbia, prima di uscire dalla stanza come una furia, gridando parolacce e maledizioni.
«Disgraziata...disonore...maleducata...» blaterava a bassa voce Lady Maud, pallida «chiamate Alfred!» gridò con le ultime forze rimaste, prima di accasciarsi sulla sedia, cosciente ma senza energie.
Trasportarono la Lady in camera sua e chiamarono il medico d'emergenza. Ethel e George rimasero al capezzale della donna, che continuava a mugugnare contro Daisy. Ethel strinse la mano del fratello, seduto al suo fianco.
«Non ascoltare le parole di Daisy, la sua è solo gelosia. Io...non so nemmeno dove abbia imparato ad usare quel linguaggio. Abbiamo sbagliato a portarla con noi a Londra, è troppo giovane per subire il fascino della città...»
«George, ha vent'anni, l'anno scorso è andata a Londra ed anche senza di noi. Sta soffrendo, a modo suo ma sta soffrendo. Cerchiamo di evitarla per un po', e speriamo che la presenza di Alfred la calmi un pò» lanciò un'occhiata d'intesa a George, indicando con lo sguardo Lady Maud. Non una parola doveva uscire sul fatto che Alfred ancora non rispondesse alla lettera mandatagli.
Trascorsero la mattina insieme a Lady Maud, ed il medico raccomandò assoluto riposo, nessuno sforzo né fisico né mentale.
«Perchè non vai a riposarti? Rimango io qui con zia Maud» sussurrò George verso Ethel, seduta vicino al letto della donna, stanca.
«Pur volendo, fra poco suppongo ritorni Mr Mallard. In verità mi chiedo dove si sia cacciato, è così sbadato...»
«Allora è deciso? Gli dirai di sì?» sussurrò George, fissando la sorella.
Ethel deglutì. «Non lo so...ma non cambia nulla. Non posso fare quel che voglio, tanto vale fare il gioco di Daisy. E' ricco, mi farà vivere bene, no? Sistemerà me, te...»
«Io non ho bisogno di essere sistemato» precisò subito George, orgoglioso.
«Ah no? E come intendi sposare Cassie, rapini una banca?» chiese ironica Ethel, ricevendo un'occhiataccia fraterna.
«Io non devo sposare nessuno, io e Cassie...» provò a difendersi il fratello.
«Si certo, George, queste bugie raccontale a qualcun altro, non a me. Sono la tua gemella, io so»
«Anche io so...» replicò l'altro, fissandola. Ethel sorrise appena, poi lo baciò e si alzò.
«Vado a prepararmi» annunciò calma, uscendo dalla stanza.


Mr Mallard tornò per il pranzo, coperto di fango da capo a piedi e leggermente zoppicante. “Sono caduto da cavallo” si giustificò, ridendo di se stesso, ma Ethel sospettò da subito che probabilmente era caduto solamente dentro qualche pozzanghera, sbadato com'era. Dopo il pranzo si concesse una passeggiata nel parco, portando con sé il suo ospite e mostrandogli così le splendide siepi all'inglese, gli arbusti, le rose in fiore, e tutta quella grazia divina che con cura veniva cresciuta lì a Rose Castle.
«Devo ammetterlo, voi inglesi avete un gusto per l'estetica che mi affascina. Negli Stati Uniti esistono poche case così grandi, e giardini privati così...enormi» commentò Mr Mallard, guardandosi intorno.
«Non esistono i castelli, lì?» chiese curiosa Ethel.
«Temo di no, se non delle innocue imitazioni di castelli medievali. Il nostro è uno Stato recente, molto recente, e prima della nostra conquista era abitata da popolazioni indigene, che certo non vivevano nei castelli. La nostra storia è molto giovane»
«Quella europea ha giusto qualche anno in più» commentò ironica Ethel.
«Già...eppure gli Stati Uniti hanno fascino per altri punti di vista. La modernità, l'efficienza, il primario in ogni tecnologia. Prendete la ferrovia! Quando veniva costruita da noi, qui in Europa era solo utopia, e in qualche zone remote lo è tutt'ora»
«Pur tuttavia non è cosa essenziale. La cultura, invece, divide l'uomo dalla bestia. E di cultura in Europa ce n'è quanta ne volete»
«Touchè» ammise il giovane, ridacchiando. Si fermarono vicino una fontana gorgogliante, e si sedettero sul bordo di pietra, osservando l'affascinante e pacifico paesaggio che si stagliava davanti i loro occhi.
«Si sta bene qui, è così calmo..tutto diverso da Londra»
«Oh si, potete ben dirlo»
«Vi...piacerebbe vivere in una città?»
Ethel ci pensò su, osservandosi i piedi. «Non ho particolari problemi a vivere in questo o quel posto, seppur preferisca la campagna. Ma non zone isolate, ho comunque piacere nello stare in compagnia. Ma a volte un po' di silenzio fa piacere...»
«Sono d'accordo con voi. Miss Herbert?»
«Si?»
«Devo...chiedervi una cosa, ma vorrei una risposta franca»
Ethel deglutì: stava per chierderglielo. Lo fissò, prima di annuire.
«Ebbene...» annunciò il giovane, inginocchiandosi davanti a lei «Miss Ethel Herbert, volete sposarmi?»
“Si!” avrebbe voluto gridarlo. Ma le parole non uscirono. Perchè? Fissava il ragazzo ai suoi piedi, gli sorrideva felice, eppure non usciva nessuna parola. Solo un gorgoglio, come di uno sforzo vocale. Perchè non riusciva a dirlo, a sforzarsi anche solo a dire una bugia? Perchè non riusciva ad accontentarsi?
“SI!” dillo, per carità! Starai bene, al sicuro, finalmente sposata a qualcuno che ti vuole bene, prova affetto sincero per te e...
«Ethel!» esclamò qualcuno, come a richiamarla da quella decisione così sbagliata e affrettata.
Rossi in volto per essere stati disturbati in un momento così delicato, si voltarono entrambi oltre le spalle di Ethel, che assottigliò gli occhi, cechi per il sole, per riconoscere la figura che veniva loro incontro.
«Alfred?» chiese incerta, non essendo sicura che fosse proprio lui.
«Lord Norton?» ripetè a sua volta un confuso Mr Mallard, portando la mano sopra gli occhi per ripararsi dal sole.
Alfred si fece avanti fino a fermarsi davanti a loro. Era vestito con un completo da viaggio, segno che era appena arrivato. Aveva lo sguardo sconvolto, un sentimento che malcelava con un sorriso smagliante.
«In persona, Mr Mallard, vogliate perdonare l'intrusione, ma è questione urgente. Mia madre...»
«Sta male?» chiese allarmata Ethel, facendo un passo avanti.
«No ma chiede di te con molta insistenza. Va, presto, e poi ci saluteremo come si deve» rispose Alfred, prima di sorridere appena verso Mr Mallard «E' un piacere rivedervi, signore...»



«Avete sentito?»
«No, cosa?»
«Ma come cosa?! E' la notizia del giorno! Pare che Mr Mallard, l'amico di Miss Herbert, le abbia chiesto di sposarlo...!»
«No, non ci credo! Giuralo!»
«Giuro! Pare che le fa la corte da mesi, da quando si sono conosciuti, e che solo ora le abbia chiesto di sposarlo»
«E Miss Herbert cosa ha risposto?»
«E' questo il problema, non si sa! Alcune dicono di si, altre di no...quel che è certo, è che proprio alla fine della richiesta è arrivato Lord Norton, venuto a chiamare d'urgenza Miss Herbert richiesta dalla Lady. Quel che si sono davvero detti, rimane per ora un mistero...»
Charlotte scosse la testa, rigirando il thè ormai freddo tra le mani. Non riusciva più ad ascoltare i pettegolezzi strambi delle cameriere, ma d'altro canto quel che dicevano in parte sembrava fosse vero. E se era vero, erano guai per lei e Mark. Proprio ora che era tornati insieme e in pace, ecco un nuovo problema: l'eventuale trasferimento di Miss Herbert. Che, per Charlotte, poteva significare due cose: o il licenziamento o il trasferimento negli Stati Uniti. In entrambi i casi, un disastro per la sua relazione clandestina con Mark.
Finse di bere il suo thè, che alla fine rovesciò nel lavabo. Lavò la tazza usata, si asciugò bene le mani, prese tempo. Non le andava di risalire ai piani alti, non aveva voglia di sentire Miss Norton. Era diventata odiosa, più di prima se possibile. Era irascibile, scontrosa, capricciosa. E spesso e volentieri doveva aiutare Betsy, la sua cameriera personale, a vestirla o prepararla, o semplicemente a calmare la sua ira improvvisa. Era intrattabile, e sapeva di non starle a genio: l'amicizia tra lei e Miss Herbert non era cosa segreta, e Charlotte era sicura che Miss Norton fosse gelosa di quell'amicizia tra lei e la sua padrona.
«Murphy» la voce di Mark la distrasse da quei pensieri, facendola sorridere appena «Tutto bene?»
«Sì, no...non lo so. Non ho voglia di sentirmi ancora comandare da quella ragazzina viziata» sussurrò, sospirando «e pare che Miss Herbert si sposi...»
«Bella scelta, quel tizio è più insipido degli hambuger che fanno a Little Italy. Ma comunque non è una bella notizia?»
«Dipende. Il mio futuro diventerebbe incerto. Potrebbero licenziarmi...o trasferirmi con lei negli States»
Mark deglutì, osservandola. «Se ti licenziano troverai un altro lavoro, Murphy, non ti devi preoccupare»
«E se dovessi partire...?» chiese incerta, fissandolo.
Mark deglutì, preoccupato. Cercò di sorridere. «Non ci pensare...» mormorò, cercandone la mano. Charlotte gliela strinse volentieri ma la lasciò di colpo quando sentì la porta della cucina aprirsi.
«Miss Rossi, risalgo subito» annunciò Charlotte, notando l'aria tesa e lugubre che la governante aveva sul viso. «Miss Rossi...?» la richiamò, come ad assicurarsi che stesse bene.
«Miss Murphy...dovete seguirmi nell'ufficio di Mr Herbert, per favore» annunciò, lentamente, come se fosse costretta a parlare per cause divine.
L'invito in ufficio del responsabile della servitù poteva significare solo qualcosa: guai. Deglutì, sentendosi impallidire.
«Ho fatto qualcosa di male, Miss Rossi?» chiese, cercando di capire dove avesse sbagliato. Mark fissava le due, confuso.
«Seguitemi» ripetè la governante, calma «da sola» precisò, lanciando un'occhiata a Mark.
Charlotte prese a salire le scale, lanciando un ultimo sguardo a Mark, preoccupato quanto lei. Il tragitto ai piani alti fu silenzioso e veloce, come fu il suo primo ingresso in quella casa. Ma a differenza della prima volta, non c'era silenzio dentro il castello, anzi: più si avvicinavano nella zona padrona, e nell'ufficio di Mr Herbert, più sentiva qualcuno gridare e discutere.
Deglutì, nel panico: era Miss Norton, e stava pronunciando il suo nome. Non chiese nulla alla governante che camminava davanti a lei, lenta, come stesse andando al patibolo. Si tormentò le mani, cercando di ricordare se aveva fatto qualcosa di male alla giovane, ma la sua memoria non la stava aiutando.
Si fermarono davanti la porta chiusa dell'ufficio, da cui sentiva provenire ancora discussioni e grida, quindi Miss Rossi si girò verso di lei, calma.
«Non devi preoccuparti, ci siamo noi con te» le sussurrò, dandole del tu per la prima volta dopo mesi.
Ancora più preoccupata, annuì appena prima di varcare la soglia dopo la governante. Intimidita, entrò con la testa appena incassata nelle spalle.
«Ah, eccovi Miss Murphy» annunciò Mr Herbert, sereno ma senza sorridere. «Prego, sedetevi»
Charlotte obbedì, automaticamente, e prese a fissarlo. Miss Norton era in piedi accanto a lui, paonazza di rabbia, ma la cameriera non osava guardarla in volto.
«Dunque, Miss Murphy...quand'è stata l'ultima volta che siete entrata in camera di Miss Norton, per aiutarla a prepararsi?»
Charlotte fece mente locale. «Ieri mattina, signore. Betsy era andata a trovare la famiglia, e così mi ha chiesto di sostituirla solo per quella mattinata»
«Bene. E non ci sei più tornata?»
«No, signore, dopo ieri mattina no»
«Bugiarda...» sibilò Miss Norton, sporgendosi appena. Charlotte impallidì, deglutendo.
«Miss Norton, io sono venuta solo ad aiutarvi a vestirvi, non...» sussurrò Charlotte, intimidita da quella ragazza che poteva avere si e no la sua stessa età.
«Bugiarda! E allora mi spieghi chi li avrebbe rubati?!» gridò furiosa la nobile.
Charlotte ebbe un sussulto quando sentì l'ultima parola. «R-rubati cosa...» mormorò, preoccupata.
Miss Norton fece per parlare ma Mr Herbert la fulminò, prima di tornare a guardare la cameriera. «Miss Norton sostiene che le sono stati rubati dei gioielli. Un collier di smeraldi, due anelli di rubini ed un paio di orecchini di perle, per l'esattezza. E sostiene che l'unica persona che sia entrata nella sua stanza, oltre a lei...siate voi»
Il silenzio calò nella stanza per una manciata di secondi. Charlotte deglutì a vuoto, fissando Mr Herbert a bocca appena aperta. Cosa poteva dire? Era innocente, ma era la parola di una nobile contro la sua.
«Mr Herbert, Miss Norton, dovete credermi io...io non ne so niente. Cosa...io non so nemmeno distinguere un rubino da uno smeraldo, non so come...» cercò di spiegarsi, ma le lacrime le stavano già rigando il viso.
«Oh non fare la finta tonta e la finta innocente con me, Charlotte!» esclamò innervosita Miss Norton «sono mesi che lavori per Ethel, avrai imparato la differenza tra i vari diamanti! Ma non è una giustificazione, comunque, ti è bastato infilare la mano nel portagioie, consapevole che qualunque cosa prendevi fosse di valore. Le conosco, le tipe come te! Gli irlandesi, cattolici poi...»
«Daisy, per favore...» brontolò Mr Herbert «Miss Murphy, temo che dovremmo controllare la vostra stanza: solo così posso capire se dite o meno il vero. Va bene?»
«Certo, signore, non ho nulla da nascondere...» Charlotte ebbe le forza di alzarsi, insieme agli altri, ed uscire per penultima.
Il tragitto fino alle stanze della servitù fu un vero calvario: Miss Norton non faceva che brontolare, Mr Herbert la rimbeccava pacifico e Miss Rossi era tesa come una corda di violino. In quanto a lei, sapeva che era nel giusto, lei non era una ladra, ma perchè Miss Norton voleva gettarle fango addosso? Che cosa le aveva fatto di male?
Miss Rossi entrò per prima nella stanza che condivideva con Josephine ed altre due cameriere. Prese a rovistare, controllata a vista da Mr Herbert. Aprirono i cassetti, guardarono sotto al letto, sotto le coperte, persino dentro il lavabo.
«Qui non c'è nulla» annunciò Miss Rossi, tesa. Charlotte riprese a respirare.
«Oh per l'amore di Dio, facciamola finita!» esclamò Miss Norton, stufa. Si diresse a passo deciso verso il letto di Charlotte, prese il cuscino e lo rovesciò a testa in giù sul letto. Dal copri cuscino uscì fuori la refurtiva.
«Visto? Non mentivo! Ladra!» gridò furiosa Daisy «Chiamate subito la polizia!»
La polizia? Charlotte crollò definitivamente a piangere, nel panico.
«Signore, vi supplico non mandatemi in prigione! Io non ho rubato, non so chi ce l'abbia messi quei gioielli lì!» esclamò, tra i singhiozzi, mentre Miss Rossi cercava di sollevarla da terra, l'aria così tesa che sembrava stesse per piangere anche lei.
Daisy le inveiva contro e Mr Herbert, dal canto suo, non faceva che fissare la contessina. Dubbioso, incerto...come se qualcosa non gli tornasse.
La porta della camera si aprì di colpo, e la stanza si riempì ancora di più.
«Che cosa diavolo succede qua?» chiese Miss Herbert, appena arrivata e vedendo lo stato di rabbia in verteva Daisy. Dietro di lei, Mr Mallard e Lord Norton in persona. Quando Charlotte vide il padrone di casa, sbiancò del tutto e riprese a piangere disperata tanto da attirarne la sua attenzione.
«Questa ladra mi ha rubato i gioielli!» gridò Daisy furiosa, mostrando ai nuovi arrivati la refurtiva.
«Daisy, che cosa stai dicendo, Charlotte non lo farebbe mia» precisò secca Ethel, avvicinandosi a Charlotte.
«Ah si, difendila pure! Ringrazia Dio che non ha rubato i tuoi, di gioielli! Sempre che siano davvero tuoi...»
«Daisy non ricominciare!» blaterò Lord Norton.
«George» Daisy lo richiamò, seria «devi chiamare la Polizia, non puoi negarmi giustizia»
«Qui nessuno chiama nulla. Daisy, riprendi i gioielli e mettiteli sotto chiave, se non vuoi spiacevoli incidenti. Miss Rossi, tenete qui Miss Murphy finchè non prendo una decisione, ovviamente portatele su la cena e tutto quel che le serve»
«Si signore»
«George! Non osare negarmi giustizia!» gridò Daisy, seguendolo fuori dalla stanza.
«Oh ma sta zitta Daisy» sbottò l'altro, stufo, allontanandosi dalla zona servitù insieme al resto dei nobili. Ethel rimase lì con loro, aiutando Miss Rossi a far sedere Charlotte.
«Miss Rossi, Miss Herbert, io...davvero...io non ho rubato, non rubo io...» mormorò Charlotte, sconvolta, sedendosi sul proprio letto.
«Charlotte, ascoltami...George cercherà di quietarla, ma in questi casi lo sai cosa succede...deve licenziarti, lo sai. Hai un posto dove andare?»
Charlotte guardò la sua cameriera con le lacrime agli occhi poi scosse appena il capo, come ipnotizzata.
«Te lo cercheremo noi, non ti preoccupare. Ma devo chiederti una cosa: c'è qualcuno che ti odia, qui? Tra le tue colleghe, dico. Qualcuno che ti porta rancore, a cui hai fatto uno screzio, o non hai ricambiato il favore...»
Charlotte scosse di nuovo il capo, ora più sicura.
«Eppure deve esserci. Perchè se non sei stata tu, è stato qualcun altro che sta cercando di farti fuori. E devo scoprire chi è stato»


George sollevò gli occhi dalla carte solo quando la pendola battè la mezzanotte. Si stiracchiò sulla poltrona, si stropicciò gli occhi e inforcò gli occhiali, cercando di concentrarsi sulle carte. Ricontrollava le lettere di referenza di Charlotte, per capire se era una ladra davvero, e soprattutto leggeva i documenti degli altri membri della servitù: doveva scoprire chi aveva potuto rubare quei gioielli, facendo ricadere le colpe su Charlotte. Perchè ne era sicuro: non era colpa sua. Daisy poteva dire ciò che vuole, sapeva che la cameriera era innocente.
Qualcuno bussò alla porta, aprendola lentamente.
«Ancora indaffarato?» chiese la voce mielosa di Daisy.
George non sollevò nemmeno lo sguardo dalle sue carte.
«E' colpa tua, Daisy, ma pur di dimostrarti che Charlotte è innocente mi cecherò gli occhi» brontolò George, serio. La sentiva camminare lentamente, dirigendosi verso la sua scrivania.
«Forse...potresti fare una pausa» precisò Daisy.
«Queste carte non si guardano da sole, Daisy. Va a dormire, sono già abbastanza occup...» fece per dire George, ma alzando lo sguardo si zittì di colpo, rimanendo di sasso.
Daisy, davanti a lei, indossava una vestaglia di seta cinese, finemente ricamata. Lascia morbidamente aperta, mostrava senza troppi segreti la pelle nuda della ragazza che lo fissava, sorridendo divertita.
«Non pensavo reagissi così, sinceramente. Dici che te li puoi prendere due minuti per me?»
«Daisy, non...mi pare il caso, vai a dormire, ti prego...» brontolò George, sbuffando.
«Oh avanti, non dirmi che non sei tentato, nemmeno in questo momento...!» esclamò Daisy ridacchiando. Fece lentamente il giro della scrivania, spostò appena George e si sedette sopra di lui, completamente in balìa della femme fatale.
«Daisy, vai a dormire...lo sai che sono occupato»
«Intendi adesso, o in generale?»
«Entrambi» precisò secco George, costringendosi a guardarlo negli occhi.
«Oh avanti! Lo so che sono stata il tuo primo amore, l'ho capito!»
«E' successo molto tempo fa, Daisy, quando eri ancora...normale»
«Normale?» ripetè Daisy, ridendo «io sono normale, sei tu che sei così...rigido e...severo...» precisò, accarezzandogli il petto.
«Adesso basta» annunciò George, alzandola e alzandosi a sua volta. La prese per le braccia e la spinse verso la porta «te ne devi andare. E ti devi trovare un marito, Daisy, e alla svelta»
Daisy lo fissò, offesa. Non disse nulla, si chiuse bene la vestaglia e fece per uscire. Proprio in quel momento, la porta si aprì dal corridoio.
«George, ti ho portato dell'altro thè se...vuoi...oh» la voce di Cassie lentamente si spense. La giovane rimase immobile, davanti la soglia della porta, con la tazza di thè in mano, a fissare le mezze nudità di Daisy e, dietro di lei, George in piedi.
«Cassie, il thè, grazie! Ahn...Daisy voleva sapere come stavano andando le indagini, io...ecco, grazie» brontolò George, rosso in viso, prendendo il thè dalle mani di Cassie, impalata come una statua a fissare i due.
«Bene, io...io torno a dormire...» si limitò a dire la povera ragazza, fissando ancora l'ombelico e la pancia piatta di Daisy, sfiorato appena dalla preziosa vestaglia cinese.
«Si, ok beh, anche Daisy sta andando via» precisò secco George.
Cassie fece dietro front, marciando come un soldato, prima di sparire oltre l'angolo del corridoio. Daisy fissò George, divertita.
«Sai...se pensi che abbia pensato che stavamo giocando a bridge...ti sbagli di grosso» precisò, prima di scivolare lentamente fuori dalla stanza.
George richiuso la porta a chiave, prima di poggiare la fronte sull'anta.
«Merda...!»

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Capitolo 13
*** Freedom ***


NdA: Eccomi ritornata! Chiedo umilmente scusa per il lunghissimo ritardo ma mi sono trasferita, il lavoro è aumentato ed in più ero priva di Internet per poter fare le mie solite ricerche che faccio per ogni capitolo :) ma eccomi qua, se i miei fedeli lettori ci sono ancora :P Buona lettura!


 
13. Freedom


9 Luglio 1911


La colazione, il giorno dopo, non fu delle migliori. Cassie e Mr Mallard non si presentarono, inventando scuse per evitare l'imbarazzo del giorno appena passato. Charlotte era ancora sotto chiave, la servitù in piedi nella sala da colazione, immobili e tesi. Daisy fingeva tranquillità, come se parte di quella tensione non fosse colpa sua. Lady Maud mangiava lentamente, debole e consapevole della situazione rigida che si era creata in famiglia.
Ethel aveva trascorso la notte in bianco, rigirandosi tra i suoi mille pensieri. Non era riuscita ancora a dare una risposta a Mr Mallard, ma sapeva già cosa doveva fare: gli eventi del giorno prima ne erano la conferma. Daisy stava diventando ingestibile, persino George era riuscito in qualche maniera a lasciarsi abbindolare da quella che un tempo era una bambina dolce, ma la cui anima si era tinta di rabbia e rancore. Una volta morta Lady Maud, una volta che Alfred si sarebbe sposato, Daisy avrebbe scatenato la sua vendetta. E lei, Ethel, sarebbe stata la prima a subirne le conseguenze.
Non voleva essere lì quando Daisy avrebbe distrutto la sua famiglia, fisicamente e sentimentalmente. Se ne sarebbe andata prima, con i ricordi felici e ancora intatti. Avrebbe rimosso quelle giornate, avrebbe portato Charlotte con lei, al sicuro. Avrebbe fatto visita a suo fratello, scrivendogli ogni settimana...e sarebbe andato tutto per il meglio.
Sollevò lentamente gli occhi verso George, deglutendo a fatica. Percepiva le lacrime salire fino agli occhi, ma le ricacciò indietro con coraggio e determinazione. Non poteva rimanere solo per suo fratello, non era più una bambina, non aveva bisogno di essere protetta dai mostri sotto il suo letto. Aveva bisogno di sicurezza e stabilità economica.
«Ho un'annuncio da fare» le parole le uscirono di bocca quasi senza che se ne accorgesse. Si irrigidì: ormai era troppo tardi per tornare indietro. La stavano tutti fissando, consapevoli di quel che stava per dire.
«Ieri pomeriggio Mr Mallard mi ha chiesto di diventare sua moglie. Ed ho intenzione di accettare»
Calò il silenzio nella sala. Ethel prese a fissare il burro ingiallito sopra il proprio toast, ormai freddo. E fece finta di mangiare, pur di evitare i loro sguardi, pesanti e penetranti.
«Andrai ad abitare in America?» chiese lentamente Daisy. Ethel percepì una vaga nota di invidia nella sua voce.
«Suppongo di sì, dato che qui non ho beni né immobili da poter offrire al mio promesso sposo» rispose, calma, sorseggiando poi il tè.
«Sono felice per te, mia cara. Dobbiamo festeggiare al più presto, prima che tu parta. A quando la partenza?» chiese Lady Maud. Ethel la guardò un istante: non era felice, ma si costringeva ad esserlo, per lei.
«Fine estate, suppongo»
Lady Maud si limitò ad annuire, e tornò di nuovo il silenzio. Ethel deglutì a vuoto, evitando volontariamente lo sguardo di George: il fatto che avesse commentato l'annuncio con il totale silenzio la preoccupava, seppur suo fratello avesse fatto della quiete la sua migliore amica.
Il pendolo nella sala batté l'ora, così forte e chiaro che sembrava voler rompere i timpani delle orecchie. Ethel finì la sua colazione, lo stomaco in subbuglio, e fece per alzarsi quando la voce di Alfred irruppe nella stanza, seria e composta.
«Non puoi accettare l'offerta di Mr Mallard» disse, pulendosi gli angoli della bocca col tovagliolo.
Ethel sollevò gli occhi su di lui, per la prima volta da quando erano seduti a quel tavolo. Lo studiò, così fermo e serio: non stava scherzando.
«Come scusa?»
«Sì...come scusa, Alfred?» ripetè Daisy, seccata da quel commento.
«Ho detto che non puoi accettare l'offerta, non puoi sposarlo» precisò Alfred, fermo nella sua voce. Tutti si girarono verso di lui, in silenzio.
Ethel si alzò lentamente dalla sedia, fissandolo. «E perchè non potrei? Mr Mallard non ha richieste sulla mia dote, né tanto meno pretese su di voi, è ricco abbastanza da pagare il matrimonio da sé e...»
«Non è quello il problema» la interruppe Alfred.
«E allora quale sarebbe il problema, per amore del cielo?!» blaterò Daisy, infastidita. L'idea di potersi finalmente sbarazzare di Ethel era un sogno che diventava realtà.
Alfred si alzò a sua volta, guardando Ethel dritta negli occhi.
«Il problema è che io ti amo, Ethel Herbert, e devi sposare me, non Mr Mallard»
La servitù trattenne il fiato, e lo stesse fecero Daisy e Lady Maud. La più giovane lanciò uno strillo seccato, la più anziana fece per alzarsi, in maniera scomposta, come se volesse fuggire da quel che stava per accadere lì dentro. La bomba che era in preparazione da quindici anni era esplosa.
«Tu sei pazzo, rimangiati quello che hai detto» commentò Ethel, rimanendo ferma e in piedi. Non gli credeva, come poteva?
«Si, rimangiatelo!» gridò Daisy, alzandosi a sua volta.
«Taci, prima che ti picchi di nuovo!» esclamò Alfred alla sorella, minaccioso, poi tornò su Ethel e scosse il capo «Non rimangio una sola parola di quel che ho detto. Ho interrotto il fidanzamento con Candice e voglio sposare te, Ethel, prima che sia troppo tardi»
«E' già troppo tardi, razza di un folle!» esclamò lei, aggirando il tavolo «hai avuto tutto il tempo del mondo per poterlo fare, e pensi che ora tutto possa sistemarsi?! Sei un folle!»
«Ethel, ti prego!» Alfred cercò di fermarla ma Ethel fu più lesta ad uscire dalla sala, dove regnava ormai il caos. Intravide lo sguardo afflitto e deluso di George, corse ancora più veloce quando sentì la voce di Alfred rincorrerla.
«Ethel!» gridava il ragazzo, cercando di superare il caos che proveniva ancora dalla sala della colazione. Scese velocemente le scale, ai piani bassi, sempre più in basso, verso le cucine.
«Ma...Miss Herbert, dove...dove...?» la cuoca confusa la vide aprire la porta sul retro che sbucava direttamente sul cortile. Lo attraversò come una furia, diretta alle stalle poco lontane.
«Miss Herbert, devo sellarvi il cavallo...?» chiese un confuso stalliere, vedendo arrivare la baronessa con tanta velocità
«No» rispose la voce roca e secca di Ethel, mentre faceva uscire Domino dal suo box. Lo montò a pelo, quindi lo colpì al ventre col tallone, lanciandolo in una corsa verso l'uscita della stalla e via, verso il cancello principale del castello.
Nessuno la seguiva più ormai, ma non si rese nemmeno conto che Domino galoppava a piede libero, nitrendo furioso, e che non sapeva nemmeno dove stessero andando.
Gridò, insieme alla furia del suo cavallo, entrambi liberi per un istante. Liberi dalle briglie della società, dai finimenti degli obblighi, dalla sella delle necessità. Liberi di cavalcare e correre, senza mèta e senza direzione.
Quando furono ormai stanchi ed esausti, Domino rallentò lentamente ad un trotto naturale. Ethel lasciò appena la presa dalla sua criniera, senza più necessità di reggersi, e ammorbidì anche la presa sul suo ventre, lasciando i piedi liberi di molleggiare lungo i fianchi della bestia.
Respirò a pieni polmoni l'aria fresca del piccolo bosco dove si erano addentrati. Si lasciò cullare dai suoni naturali e primordiali: i passerotti che cantavano allegri, le foglie mosse dal vento leggero, il sottobosco calpestato lentamente da Domino, l'aria fresca che le riempiva i polmoni...non poteva vivere così, libera? Doveva sempre e per forza decidere, organizzare, prendere decisioni, vedere le persone...fingere? Non poteva essere libera di fare e dire quel che voleva?
Si mise a cantare, ad occhi chiusi, lasciandosi guidare da Domino anziché guidare da lei. Canticchiava, senza pensare che qualcuno potesse o dovesse ascoltarla, giudicarla, darle un voto, un commento. Cantava perchè lo voleva, permettendosi anche di stonare -perchè no? Così, senza pensieri, quasi sovrappensiero, con i raggi del sole che penetravano a tratti nella boscaglia, accecandola piacevolmente.
Una morsa le strinse lo stomaco quando la mente, dispettosa, la riportò a quanto accaduto poco prima. Sbuffò, pensando alla becera figura fatta da lei e da Alfred. Come aveva potuto fare quella scenata, davanti a tutti? Sarebbe diventata lo zimbello di tutta la residenza, come se essere stata chiesta in sposa e poi mollata non fosse abbastanza. Come poteva credergli? D'altronde era già successo, ormai tanto tempo prima, ed aveva fatto male a fidarsi di lui. Molto male...


 
Rose Castle, estate 1904
Non sapeva davvero perchè fosse così in agitazione. Tornò seduta, riprese in mano il libro e la lettura che stava svolgendo. La mente tuttavia era distratta continuamente dai suoni e i rumori che venivano al piano di sotto, dalla musica e dalle risate. Deglutì a vuoto, cercando di concentrarsi su Charles Darwin, invano.
Alla fine, esausta, gettò il libro sulla poltrona affianco alla sua, riempiendosi la testa dei suoni che venivano dalla festa al piano di sotto. Aveva inventato una stupida scusa per non scendere ai piani inferiori, tra gli amici politici e militari di Alfred e Daisy. George era stato costretto dal primo, in nome del suo ritorno da Parigi e della loro amicizia, ma Ethel aveva inscenato un malore “femminile” e lasciata così libera di non scendere. Tuttavia se ne stava quasi pentendo...Quante donne potevano esserci di sotto, nella sala? Con quante di esse Alfred avrebbe ballato, o rivolto anche solo la parola?
Il vulcano della gelosia ribollì nel suo petto, si alzò e prese a camminare su e giù per la stanza. Non poteva scendere ora, sarebbe stato chiaro che voleva solo vederlo, sorvegliarlo. Avrebbe chiesto a Miss Rossi, il mattino dopo, che cosa fosse successo. Qualcuno bussò alla porta, interrompendo il marasma dei suoi pensieri. Si sedette velocemente alla poltrona, riprendendo a fingere di leggere.
«Avanti!»
«Si può?» la voce di Alfred la fece arrossire ancora prima di poterlo vedere entrare, avvolto nella sua divisa della British Army. Portava con sé due bicchieri di champagne, ed un sorriso sgargiante. «Posso tentarti, Lulù?»
«Lo sai che sto male, Alfred, dai...»
«Ma smettila, lo vedo quando dici le bugie...Bevi e taci» ribattè lui, divertito, sedendosi al suo fianco.
I polmoni di Ethel si riempirono della colonia da uomo indossata da Alfred, la gola si rinfrescò con lo champagne che, velocemente, andò alla testa. Alfred notò la sua aria spaesata e rise appena. «E' champagne parigino, ti fa subito ubriacare» precisò il ragazzo.
«Ah è per questo che me lo offri? Vuoi farmi ubriacare?» chiese Ethel divertita, posando il flute vuoto sul tavolino davanti a loro.
«Se serve a farmi guardare si, sono sincero»
«Ma io ti sto guardando...» precisò Ethel in un fil di voce. Ma sapeva benissimo che cosa intendeva.
«No, non come mi guardavi prima. Quando eravamo piccoli, prima che io partissi, prima che io...»
«Alfred, non siamo più piccoli. Siamo adulti, siamo cresciuti, e le cose sono diverse...» rispose Ethel sulla difensiva, alzandosi dalla poltrona.
«Perché! Perché le cose sono diverse, Lulù? Il mio sentimento per te non è cambiato, le mie intenzioni sono ancora le stesse» Alfred la seguì, prima di girarla verso di lui ed abbracciarla. Non le ci volle tanto per capire che il ragazzo era poco lucido a causa dei fiumi d'alcool che aveva bevuto.
«Non dire sciocchezze, Alfred. Tu sei un Lord, io sono...nulla»
«Sei Ethel, e tanto mi basta. Ti prego...chiamami ancora “Alfie”»
«Che cosa...?»
«Ti prego, fallo» la supplicò il ragazzo. Ethel capì subito che quel gesto aveva un significato profondo: era il nomignolo con cui lo chiamava da giovane, quando si amavano ancora. Deglutì a vuoto, guardandolo negli occhi mentre il ragazzo ancora l'abbracciava, accarezzandole i capelli.
«Alfie...» sussurrò incerta Ethel, in un fil di voce.
Alfred sorrise, come in pace, baciandole poi la fronte. «Sposami, Ethel, te lo chiedo di nuovo. Da adulto, con più coscienza e ragione»
«E con molto più alcool in corpo dell'ultima volta» commentò ironica Ethel, cercando di staccarsi da quell'abbraccio.
«Sono serio, Lulù, mai stato così serio» precisò il ragazzo, inginocchiandosi davanti a lei e tenendole le mani. Il sangue si gelò nelle vene di Ethel.
«Lucretia Ethel Herbert, vuoi sposarmi?»
«Alzati Alfred, dai...potrebbe arrivare qualcuno» brontolò agitata Ethel.
«Rispondimi e mi alzerò»
«Alzati ho detto...!»
«Rispondimi!»
«NO!» esclamò in un sussurro deciso Ethel. Non voleva essere così irruenta, ma ormai il danno era fatto. Il sorriso di Alfred si sciolse, i muscoli si irrigidirono uno ad uno, incerto si alzò, barcollando appena.
«Perchè no....?»
«Perchè no, Alfred. Guarda in che stato sei, sei ubriaco. Perchè devi sposare proprio me, che sono senza titoli e soldi? Non hai nessun altro a cui chiedere la mano?»
«Effettivamente stasera sei la terza o la quarta a cui lo chiedo» precisò Alfred, ridacchiando e avviandosi verso la porta «evidentemente non è destino che io mi sposi!» esclamò teatrale, prima di uscire dalla biblioteca sbattendo la porta.
Ethel socchiuse gli occhi per il rumore causato da quel gesto, quindi si sedette lentamente sulla poltrona, scossa. Aveva davvero chiesto ad altre ragazze di sposarlo? Deglutì a fatica, la gola completamente arida. Non riusciva a crederci, l'aveva illusa di nuovo. Ma che cosa poteva davvero aspettarsi? Pianse in silenzio, delusa e affranta, mentre di sotto la musica e l'alcool scorrevano a fiumi.



Un tuono improvviso la sollevò dai quei lontani ricordi, facendola sobbalzare. Domino sbuffò nervoso, tenuto a bada dalla sua padrona. Il sole era scomparso e le nuvole nere si addensavano sul cielo plumbeo facendo sembrare l'ora già tarda, quasi notturna. Tornò così alla cruda realtà, e all'idea che forse George era in pensiero per lei. Si girò indietro a guardare il bosco appena superato, realizzando che non l'aveva mai visto in vita sua. Dove diavolo l'aveva portata Domino?
Calma, niente panico. Siamo via da poco, non possiamo essere andati così lontano. Devo solo trovare una strada e seguirla fino a trovare una casa, e li chiedere di avvisare Rose Castle, pensò tra sé. Il problema, ovviamente, è che erano nella campagna più aperta. Deglutì, cercando di mantenere la calma e la razionalità. Sollevò gli occhi al cielo: il sole era sparito, e figuriamoci se c'erano stelle visibili. Non aveva punti di riferimento, né sopra nè avanti a lei. Poi, quasi di colpo oltre una piccola collina, la vide: una magione, con un lago ed un parco privato annesso. Sorrise felice: se era fortunata gli abitanti della magione avevano persino un telefono e poteva chiedere di avvisare immediatamente a Rose Castle.
Non vedendo strade nel d'intorni andrò dritta verso di lei, cominciando a scavalcare la collina: una volta superata, avrebbe potuto sicuramente individuare l'accesso principale della casa.
«Vai bello, forza» incitò dolcemente Domino, stanco ma deciso a portare la sua padrona al sicuro. Un fulmine improvviso squarciò il cielo in due, illuminando la campagna. Ethel cercò di controllare il cavallo, sapendo che al tuono successivo si sarebbe spaventato, ma non aveva calcolato la potenza del suono che si abbattè su di loro, così forte che il suo udito vibrò. Gridò appena, sorpresa da quel tuono così potente. Simultaneamente Domino nitrì di terrore, s'impennò appena e cominciò la sua folle corsa lontano dalla paura. Ethel non cadde per miracolo, aggrappandosi con forza alla criniera del cavallo che, sommando anche quell'improvviso gesto, prese a correre e impennarsi ancora di più, come impazzito.
«Domino! Domino!» gridava Ethel, cercando di superare lo sconquassare di tuoni e fulmini. Probabile che non aveva mai visto un temporale così nel Norfolk, erano stati davvero fortunati. Domino non ne volle sapere nulla e continuò a correre, fortunatamente verso la casa individuata, illuminata a tratti dai fulmini. All'ennesimo tuono, stanco di tutto quel baccano, Domino scalciò con una tale violenza da sollevare in aria la sua padrona e farla ricadere a terra con violenza.
Il dolore fu violento quanto breve. Riuscì appena in tempo a sentirlo sulla testa prima che tutto diventasse oscurità e silenzio. L'ennesimo fulmine illuminò il cielo prima che secchiate d'acqua si rovesciassero sulla campagna inglese, inondando le strade di terra battuta. Il frastuono dell'acqua non riuscì tuttavia a superare il rombo di un motore a scoppio che si avvicinava sempre di più al cottage e alla povera Ethel, riversa sul ciglio della strada in una pozzanghera di acqua e sangue.




Il pendolo nel corridoio della servitù battè l'ora di pranzo, ma Charlotte non sentiva nessun passo concitato, nessun tintinnio di posate nella sala da pranzo sotto di lei. C'era un silenzio di tomba, dentro quel castello, uno strano silenzio che era praticamente impossibile percepire durante i normali giorni. Ma in quella giornata la tensione di tagliava con una lama: Lady Maud aveva avuto una pesante ricaduta alla notizia che nessuno riusciva a trovare Miss Herbert, e Mr Herbert era caduto in uno sconforto disperato e glaciale quando Domino, il cavallo della Miss, era tornato al castello dopo il feroce temporale, zoppicante e soprattutto da solo. Le ricerche durante la tempesta erano state vane, ed il ritorno in solitaria del cavallo aveva peggiorato i pensieri dei nobili abitanti del castello.
Qualcuno bussò alla porta della sua camera, distraendola da tutti quei pensieri, prima di poterla aprire. Mark varcò la soglia della stanza con il vassoio del pranzo tra le mani. Sorrise appena, incerto, il viso pallido e teso.
«Ehi...come va?»
«Va, mi annoio a stare qua da sola chiusa in camera. Che c'è per pranzo?»
«Stufato di manzo e carne. Mr Herbert aveva intenzione di liberarti questa mattina, ha detto Miss Rossi, ma poi è successo quel casino di Miss Herbert e Miss Norton si è chiusa in camera sua, non vuole uscire nemmeno per parlare con lui riguardo le tue sorti»
«Non fa niente, per ora sono solo preoccupata per Miss Herbert. Non ci sono novità?»
«Purtroppo no. Piove ancora troppo per poter uscire, ed ormai tutte le impronte del cavallo, pur volendole seguire, sono state cancellate dalla pioggia. Stanno aspettando che la pioggia rallenti per poter uscire e controllare tutto il circondario. Ma sotto c'è una brutta aria, farei volentieri a cambio con te...»
«Perchè?» chiese istintivamente Charlotte.
Mark scrollò le spalle. «Non è solo perchè Miss Herbert è sparita, è tutto quel che è successo prima. Pare, e dico pare, che durante la colazione Miss Herbert abbia annunciato il matrimonio con Mr Mallard»
«Oh mio Dio»
«Già, ma non è tutto. Lord Norton, come dire...non l'ha presa bene. Si è infuriato, dicendole che non doveva sposarsi, perchè...beh, praticamente le ha chiesto la sua mano. E' successo un putiferio: Miss Herbert era furiosa, Mr Herbert reggeva Lady Maud che sembra aver avuto un crollo, e Miss Norton era fuori dalla grazia di Dio. A quanto ho sentito dai suoi strilli, non le piace imparentarsi con i poveracci»
«Oh mio Dio...!» esclamò di nuovo Charlotte. Possibile che si era persa tutto quel baccano?
«Già. E in più...Mr Mallard ha sentito tutto, ha fatto le valigie ed è andato via»
«Oh santo cielo, che disastro!» esclamò sconvolta la cameriera, fissando il ragazzo «Almeno Miss Howard, è ancora qui con noi?» chiese con ironia.
«Beh, per ora diciamo di sì. Pare che sia successo un bel casino anche per lei. Ieri sera ha visto Miss Norton, in vestaglia, dentro lo studio di Mr Herbert. E sotto la vestaglia era nuda»
«Non ci credo! Ma ho sempre pensato che Mr Herbert e Miss Howard...»
«Già, lo so, lo pensavano tutti. Ed infatti non credo l'abbia preso molto bene, è chiusa in camera sua da ieri notte, nessuno l'ha vista, l'hanno solo sentita piangere»
«E Mr Herbert, non fa nulla?!»
Mark scrollò le spalle. «Che ne so io come ragionano questi nobili. Sembra una gabbia di matti, questa...» brontolò, prima di sporsi per rubarle un bacio sulle labbra. Charlotte sorrise poi lo abbracciò forte, trovando conforto nelle sue braccia.
«Come pensi che finirà questa storia?» gli chiese alla fine, osservandolo.
«Non lo so, e non mi interessa. Ma ovunque tu andrai io verrò con te, Charlie. Ho dei soldi da parte, quanto basta per affittare un locale ovunque vogliamo andare, ed aprire la mia pasticceria. Ce la possiamo fare, io e te...da soli. Magari come...come moglie e marito» precisò Mark, sorridendo.
Charlotte arrossì prima di sorridere come un ebete. «Come marito e moglie...?»
Mark annuì, con l'aria di chi fosse in attesa di una risposta. Charlotte sorrise ancora di più, prima di abbracciarlo e ridere felice. Quel momento sereno e felice fu interrotto bruscamente da un suono, lontano ma chiaro: lo squillo del telefono.
Si guardarono automaticamente, faccia a faccia.
«Miss Herbert?» chiese Charlotte speranzosa.
«Vado a vedere» annunciò Mark uscendo di fretta. Ripercorse velocemente tutto il tragitto fatto col vassoio, entrando dentro al salotto con la maggior parte della servitù accalcata nella stanza, mentre Josephine ascoltava la voce proveniente della cornetta, poggiata contro l'orecchio con mano tremante.
«Si...si signora, va bene, arriviamo subito...si signora, conosciamo bene l'indirizzo. Grazie mille, arrivederla» lentamente Josephine riagganciò, pensierosa.
«Ebbene, era Miss Herbert?» chiese George ansioso.
«Non lei, signore, ma la governante della casa dove è stata soccorsa. E' stata visitata, sta bene, ora sta dormendo»
«Dio sia ringraziato!» esclamò George. Tutti nella sala tirarono un sospiro di sollievo «dove si trova?» chiese ancora il giovane baronetto.
«Si trova...a Sandringham, signore» annunciò la cameriera.
Mark vide la maggior parte dei presenti in sala sbiancare, altri sorridere emozionati.
«Chi diavolo abita in quell'indirizzo?» chiese ad alta voce, curioso.
Fu Lord Norton a rispondere. «C'è solo una dimora a Sandringham, ed è quella di Sua Maestà il Re, Mr Conti»



La prima cosa che percepì, ancora prima di aprire gli occhi, fu il dolore persistente e martellante alla testa e alla caviglia. Era così forte che non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Così, impossibilitata per quel momento ad usare la vista, cercò di capire dove fosse tramite l'udito e l'olfatto.
Un pendolo, lontano, battè le tredici. Seppur non fosse così assordante, ogni battito rimbombava nella sua testa. Cercò di concentrarsi su altri suoni, e ne colse uno immediatamente: quello rilassante della pioggia, che batteva feroce fuori da lì, accompagnata da tuoni roboanti.
Fuori da qui, pensò. Già, dove si trovava? Annusò l'aria, lentamente: non era certamente fuori, all'agghiaccio. Avrebbe sentito odore di fango, muschio o erba bagnate. Avrebbe percepito l'acqua su di sé, prima di tutto. Ma nulla di tutto ciò: si sentiva al caldo e all'asciutto, adagiata nel letto più morbido in cui avesse mai riposato. Sentiva la testa affondare tra i cuscini ed ogni singola parte del suo corpo rilassato, affatto in tensione. Quello non era il suo letto, però, e l'odore di legno laccato non era quello di Rose Castle, più vecchio e muschiato.
Si convinse così ad aprire lentamente gli occhi, dato che con gli altri sensi non capiva dove fosse. Le palpebre sembravano pesanti come macigni ma alla fine si sollevarono lentamente. Non c'era nessuna luce artificiale intorno a lei, solo la luce plumbea che arrivava dalla finestra, da dove intravedeva il cielo grigio e la pioggia torrenziale. Si focalizzò gradualmente sul resto della stanza, senza girare troppo la testa: percepiva che, se l'avesse mossa anche solo di poco, avrebbe sentito le pene dell'inferno.
Era in una camera da letto di modeste dimensioni: un'ampia finestra, un piccolo camino, una scrivania con sedia, un armadio e un lavabo. Tutto era molto semplice, elegante ma sobrio. Riportò gli occhi sulla sommità del camino, studiando qualcosa che aveva visto due secondi prima senza troppo pensarci: uno stemma, due leoni rampanti che sorreggevano uno scudo diviso in quattro. Deglutì, riuscendo subito a ricordare di chi fosse quello stemma.
Il corpo prese ad agitarsi insieme alla mente, cercò di capire se era in uno stato decente nel caso qualcuno dovesse entrare nella stanza: anche la servitù, lì dentro, importava più di lei. Ma poi pensò che, se era lì, qualcuno l'aveva vista in condizioni ben peggiori. Arrossì, pentendosi amaramente del suo gesto sciocco e istintivo. Nemmeno una bambina avrebbe reagito in quella maniera così...stupida. Aveva combinato solo casini, George sarebbe stato in pensiero per lei e...
«Miss Herbert...?» una voce femminile e gentile oltre la porta la distrasse dai suoi pensieri. Cercò di parlare ma non ci riuscì, accorgendosi solo in quel momento che aveva la gola arsa per la sete. Così la porta si aprì, mostrando una giovane e sorridente cameriera con in mano un vassoio.
«Vi ho portato dell'acqua e qualcosa da mangiare, Miss, dice il dottore che dovete farlo. Come vi sentite?» chiese la cameriera, poggiando il vassoio sul comodino e sorridendole.
Ethel si limitò a sorridere e cercò di prendere il bicchiere, aiutata dalla giovane. Beve a più non posso, prima di sospirare e riportare la testa dolorante sul cuscino.
«Cosa mi è successo...» mormorò, osservandola ad occhi socchiusi.
«Siete probabilmente caduta da cavallo, Miss, ed avete battuto forte la testa. Vi siete anche slogata la caviglia, ma il dottore vi ha rimesso in sesto. Dovete solo riposare, riposare tanto. Non vi preoccupate, abbiamo già avvisato Rose Castle, vostro fratello sta venendo qua»
Ethel sorrise appena, felice di sapere che presto ci sarebbe stata una faccia conosciuta lì.
«Come avete fatto a capire che...?»
«...che eravate Miss Herbert?» terminò la cameriera, divertita. «La Regina, sapete...vi ha riconosciuto lei»
«Oh cielo, che amara figura...»
«Oh no, anzi! Credo sia molto curiosa di sapere perchè scappavate da Rose Castle ad essere sincera, Miss. Non vuole disturbarvi ora, sono entrambi a Londra, ma spera che presto possiate raccontarle tutto»
«Lei disturbare me, questa poi...» ammise Ethel, confusa da quella situazione «Grazie mille...»
«Mary, mi chiamo Mary, Miss. Ora riposate, vostro fratello sarà qui a momenti» annunciò la cameriera, uscendo dalla stanza con garbo.
Ethel si godette il tepore delle coperte, il silenzio e il suono rilassante della pioggia. Rilassante solo quando si è al sicuro e al caldo, pensò. Avrebbe scritto al St.Mary's al più presto possibile, voleva notizie dei suoi piccoli.
Il tempo da sola non durò molto perchè qualcuno tornò a bussare alla porta, prima di aprirla lentamente.
«Lulù!» il viso smunto di George si affacciò insieme al resto del corpo, che svelto si condusse sul bordo del letto. Abbracciò la sorella con delicatezza ma amore, baciandole più volte le guance.
«Georgie, scusa...non volevo farvi preoccupare, sono stata una stupida»
«Lascia stare, è tutto passato ora. Come ti senti?»
«Dolorante, la testa soprattutto, ma bene. Domino?»
«E' tornato a casa, è riuscito a trovare la via del ritorno» rispose il fratello, accarezzandole la mano. Rimasero in silenzio, a studiarsi l'un l'altro.
«Che cosa è successo ieri sera?» chiese poi Ethel, in un sussurro.
«Che cosa è successo stamattina?» ribattè il fratello, facendola sorridere.
«L'ho chiesto prima io. Sputa il rospo»
«Non è successo nulla, davvero. Daisy è...la solita, ha cercato di convincermi a stare dalla sua parte ma io sono convinto che Charlotte non...»
«Si questo l'ho capito, Georgie. Ma Cassie? Mi ha detto che l'ha vista nuda, nel tuo studio, e tu eri tutto rosso. Voglio dire...»
«Ethel, lo sai che io non provo nulla per Daisy. Ha provato a convincermi in quella maniera, e io sono pur sempre un maschio...se vedo una donna nuda a due centimetri da me non è che faccio finta di nulla. Ma l'ho mandata via, e con Cassie non...so che dirle, io...voglio dire, che cosa posso dirle?»
«Ah non lo so, ma se fossi in te le direi che sei innamorato, e proverei a chiedere la sua mano a Lord Howard. Magari Alfred potrebbe garantire per te e...»
«Tu sei pazza. Sposare un nobile senza beni non è come sposare una nobile, Ethel. Io sono l'uomo, io devo provvedere al suo mantenimento, non il contrario. Non se ne parla, prima...prima Cassie si dimentica di questa storia, meglio è. Io sono un uomo libero e...e...»
«Ma taci, per favore» brontolò Ethel, fissandolo «e tu? Tu come farai a dimenticarla, mh? Sentiamo...»
«Io...siamo solo amici, ci sentiremo ogni tanto per corrispondenza e...andrà bene così»
«Ah si? Ottimo modo di risolvere le cose. Lo sai che i titoli si possono riacquistare, si?»
«Non c'entra nulla, Ethel. Prima di tutto riacquistare un titolo costa, secondo potrei anche ritornare barone, ma certo non sarò ricco come un barone. Non abbiamo più niente. Senza contare la vergogna che ne deriva nel comprarsi un titolo nobiliare»
«Lo fanno tutti da almeno un secolo, Georgie»
«Ma noi non abbiamo mai dovuto farlo. Noi siamo baroni da quando è nata questa famiglia, e adesso...è tutto morto»
Ethel tacque, non sapendo che altro dire. Si limitò a stringergli la mano, in silenzio.
«E tu? Che è successo stamattina?» chiese George alla fine, dopo un po'.
Ethel scrollò le spalle. «Sono scoppiata di rabbia, non ce la facevo più. E' stato un gesto folle e stupido ma..bello. Mi sono sentita libera, per un po' almeno. Ma ora immagino che debba sistemare le cose...»
«Mr Mallard è andato via» la informò George «ha sentito tutto e...ha pensato di uscire di scena, ecco»
«Cosa? Diavolo...» brontolò Ethel, sospirando. La testa cominciò a farle male più di prima.
«Ma davvero volevi sposarlo?»
«Ho scelta, secondo te?»
«Puoi sempre ascoltare cosa ha da dirti Alfred...» propose timidamente il fratello.
«E a che pro? Per sentirmi dire di nuovo che mi ama ma non può sposarmi? O che vuole sposarmi e dopo qualche tempo sparire?»
«No ascolta Ethel, non è come dici tu...»
«E come allora?»
«Lascia...lascia che te lo spieghi lui, ok?»
Proprio in quel momento, qualcuno bussò di nuovo alla porta e la aprì lentamente. Sulla soglia della camera si presentò un mortificato Alfred, la testa incassata nelle spalle. Ethel distolse gli occhi da lui e si volse verso George, che si limitò a sorridere.
«Ha insistito nel venire con me...ascolta cosa ha da dire» sussurrò, prima di alzarsi e lasciare la stanza. Alfred lo ringraziò con lo sguardo, quindi lentamente si avvicinò al letto di Ethel, sedendosi al suo fianco.
«Ehi...» mormorò, sorridendole appena, prima di accarezzarle la fascia che avvolgeva la testa, poi la guancia e infine la mano, che baciò con dolcezza. «Come stai?»
«Sono stata meglio. Ma suppongo sia colpa mia, e dei miei gesti sciocchi e infantili»
«Se c'è qualcuno a cui dare la colpa, quello sono io» precisò serio Alfred. Le sistemò dolcemente le coperte, poi le riprese la mano «Ho rovinato tutto, ho rovinato...la mia intera famiglia»
«Non esageriamo adesso, non sei così importante» precisò ironica Ethel, facendolo sorridere appena.
«E' vero però. Da quando...da quando è morto mio padre non ho fatto che scappare. Dagli impegni, dai doveri, dalla famiglia. Sono entrato prima nell'esercito, poi nella politica...perchè è più semplice impegnarsi per gli altri che per se stessi. E poi ho conosciuto Candice, che ha peggiorato tutto. Serate fino all'alba, fiumi di alcool, eccessi, mondanità. Mi sono rovinato...non mi riconosco più. E tu e George mi ricordavate la mia vecchia vita, quello che non sono riuscito a fare, quello in cui ho fallito. Ma voglio rimediare...» le strinse ancora la mano, sorridendo tra sé.
«Alfred, io non....»
«No, zitta e ascoltami. Tu non ti fidi di me, e io ti capisco. Ma lasciami provare, un'ultima volta. Non ti chiederò di sposarmi, non farò l'errore che faccio sempre. Sono un idiota, ma un idiota che impara dai suoi errori...dopo un po' magari, ma imparo» precisò ironico «ti chiedo un appuntamento, uno solo. Appena ti rimetterai da qui ti invito a cena...a Rose Castle, niente di ufficiale, mh? Solo per dimostrarti che ci tengo davvero a te, che posso cambiare»
«E Candice...?» chiese incerta Ethel.
«Candice è andata, l'ho lasciata davvero Lulù. Per te...» le accarezzò una guancia, prima di posarle un bacio sulla guancia, lento e delicato. «Allora? Accetti?»
«Devo pensarci, non posso risponderti così su due piedi. Lasciami riposare e pensare, e quando starò meglio ti potrò dare una risposta»
«Va bene, mi sembra giusto. Io domani devo tornare a Londra per qualche giorno, il tempo di sistemare due affari e tornerò. Ti aspetto nella sala della musica di Rose Castle, diciamo fra quattro giorni, al tramonto...va bene?»
«Sembra l'accordo tra due romantici di qualche libro di Jane Eyre» commentò Ethel, sfottendolo appena.
«Ma io sono romantico, sei tu che rovini sempre tutto!» precisò l'altro, facendola ridere «Riposati ora, ci vediamo presto...» annunciò alla fine, posandole un bacio sulla guancia. Si guardarono qualche secondo, sorridendo come due ebeti, quindi il giovane Lord si alzò ed uscì dalla stanza.
Ethel si impose di non sorridere, né di fantasticare. Non le bastava esserci cascata due volte, ne voleva una terza? La sua testa le ordinava di non andare a quell'incontro, ma il suo cuore...quello le diceva di pensare al vestito più bello che aveva per indossarlo nella sera in cui finalmente lei ed Alfred si sarebbero potuti fidanzare, e quella volta per davvero.

 

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Capitolo 14
*** The Right Choice ***


14. The Right Choice


 
12 Luglio 1911



I giorni passarono velocemente a Sandringham House. Continuava a piovere in maniera incessante e, nonostante fosse quasi metà Luglio, le temperature erano scese precipitosamente, costringendoli ad accendere il camino e a riprendere dagli armadi abiti non propriamente estivi.
In quanto ad Ethel, trascorreva le giornate nella sua stanza o nel salotto adiacente, lontano dai padroni di casa, quasi dei fantasmi nella loro dimora. Non li si vedeva né sentiva, o almeno lei non li aveva mai incrociati. Mary, la cameriera che si occupava di lei, continuava a ripeterle che presto la Regina sarebbe andata a trovarla, ma Ethel pensava solo a riprendersi da quell'incidente, tornare a Rose Castle e, se Dio l'avrebbe assistita, incontrare Alfred. Sarebbe stata la volta buona? E soprattutto, era la scelta giusta? Non faceva che pensarci. La mente ormai era cotta dai troppi pensieri, dai dubbi, dalle domande senza risposte. Era esausta, più nella testa che nel corpo, ormai guarito.
Fu una lettera, quella mattina, a darle il colpo di grazia. Mary bussò nella stanza con la sua solita grazia, annunciando la corrispondenza per lei.
«Non viene da Rose Castle, Miss, ma da Londra» precisò la curiosa domestica, divenuta ormai una sua confidente.
Ethel sorrise: non poteva che essere Alfred, che le chiedeva del suo stato di salute. Per un attimo ogni dubbio svanì, riproponendosi però quando andò ad aprire la lettera. Il mittente non era Alfred, ma Mr Mallard.

Mia cara e adorata Miss Herbert,
apprendo solo ora del vostro stato attuale e me ne rammarico profondamente. Mi sento, in parte, colpevole per quanto vi è accaduto. Avrei dovuto propormi a voi con più calma e tempo, lontano da orecchie e occhi indiscreti. In principio, dopo gli accadimenti dell'altra mattina, ero furioso e offeso: mi sentivo preso in giro, così ho fatto i bagagli e sono tornato a Londra. Ma la solitudine mi ha aiutato a riflettere, e sono giunto alla decisione che il mio amore per voi, Miss Ethel, è più grande dell'orgoglio.
So perfettamente che non mi corrispondete nel sentimento, e che il legame che avete con Lord Norton è più grande di ogni altra amicizia. So anche che non sono nobile come voi o egli, ma sono un uomo ricco e influente nel mio paese. Posso darvi una vita felice e sicura, e molto agiata. Forse non avrò mai il vostro amore, ma potremmo essere comunque felici, come amici e compagni di vita.
Non pretendo una vostra risposta immediata, pensateci. Vi attenderò fino alla mia partenza per l'America, alla fine dell'estate. Fino ad allora, vi rinnovo il mio sentimento ed i miei saluti.

Vostro,
Mr Mallard.

Ethel sollevò lentamente gli occhi dalla lettera, che posò sulla scrivania.
«Miss Herbert, tutto bene?» chiese preoccupata Mary.
«Cosa? Oh si...tutto bene» ammise Ethel, sovrappensiero. Fissò qualche istante il viso perplesso di Mary, poi le sorrise appena «sono indecisa su una scelta da fare. Se seguire la testa o il cuore, insomma, con tutti i dovuti pro e contro del caso. E' una scelta importante, che non posso prendere sotto gamba. E sopratutto, devo scegliere quella giusta»
«Beh...» prese a dire Mary, sedendosi davanti a lei «non potete sapere qual è quella giusta, finchè non la sceglierete. Voglio dire...è come quando siete venuti qui da noi, no? Non sapevate dove stavate andando, se era la via giusta o no, ma poi vi siete ritrovata qua ed è stato un bene»
«Anche se in questo caso è stato il destino a scegliere, o la provvidenza, chiamatela come volete. Non certo io»
«Allora forse è questo il trucco: lasciate scegliere al destino, non scegliete voi. Attendete, guardatevi intorno e...aspettate»
Ethel sorrise appena, incerta, prima di annuire. «Forse...forse hai ragione, sai Mary? Attenderò»
«Molto bene! Anche perchè oggi la Regina vi vuole a pranzo con lei» precisò Mary ridacchiando.
Ethel sbiancò in viso. «E quando volevi dirmelo? Io non ho nulla da indossare»
«Oh non vi preoccupate, quello che avete andrà benissimo. La Regina non è affatto fiscale nell'abbigliamento a casa sua, anzi...qui non siamo a Buckingham Palace» precisò Mary facendole un occhiolino. Uscì dalla stanza, lasciando Ethel nella confusione più totale.


Si sistemò per l'ennesima volta la piega frontale della gonna, quella piega che c'era sempre stata ma che in quel momento le dava un fastidio tremendo. Sapeva benissimo che quel fastidio era dato dal nervosismo. Da lì a pochi minuti, forse secondi, avrebbe rivisto la Regina e conosciuto personalmente il Re. Un onore che poche persone al mondo avevano, tra cui lei. Proprio lei, che non aveva nessun merito, solo quello di fare brutte figure.
La porta si aprì di colpo, facendo entrare la governante che fece segno di alzarsi. Servitù ed Ethel scattarono dritti, in tempo per veder entrare i coniugi reali, che ridevano tra di loro, complici. Si limitò a guardarli, incantanti: era una scena così lontano dalle rigide notizie e pompose foto del loro matrimonio o della loro incoronazione, sembravano quasi una normale coppia di sposi.
«Ah, Miss Ethel! Finalmente ci rivediamo. Georgie, caro, lei è Miss Ethel Herbert, è la nipote di Lady e Lord Norton, ti ricordi di loro vero?»
«Ma sì, certo, Lord Norton abitava proprio qui vicino a noi. Tanto piacere, mia cara» rispose il sorridente Re. Ethel s'inchinò profondamente prima di sorridere appena.
«E' un onore conoscervi, Maestà. E non potrò mai rigraziarvi per avermi accolto in casa vostra. Anche se non sono la nipote di Lord Norton, ad essere precisi»
«Nessun problema, Miss Herbert. Quando vi abbiamo visto in quella pozza di fango, con il sangue in testa, non potevano certo lasciarvi no?» precisò il Re sorridendo. «E dunque non siete la vera nipote di Lady Maud? Questa storia mi incuriosisce, cominciamo a mangiare e ditemi un po'!» disse entusiasta l'uomo, sedendosi al tavolo imbandito.
Ethel prese a raccontare la sua storia, tra un boccone ed un sorso di vino. Chiaccherava come tra amici, confidando i suoi pensieri e le sue paure come non aveva mai fatto, nemmeno con George. I Reali ascoltavano con estremo interesse e in silenzio, annuendo ogni tanto e mangiando con lentezza e compostezza.
«Che storia affascinante avete, Miss Herbert. La mia vita, in confronto, è un mortorio» commentò il Re alla fine, facendo sorridere le due donne.
«Beh in effetti voi dovete solo governare un Regno, Vostra altezza» commentò ironica Ethel.
Il Re rise divertito, prima di osservarla con attenzione. «E così siete una baronessa senza titolo. Pur sempre una baronessa, no?»
«Beh, sì, ma senza beni e proprietà a cosa serve farsi chiamare baronessa? I miei genitori erano pieni di debiti, e Lord Norton ha dovuto vendere tutte le nostre proprietà per evitare che i loro debiti tornassero a noi. Siamo già abbastanza nullatenenti così...»
«Ma i beni possono essere riacquistati, e così anche il titolo sapete? E con un titolo c'è una rendita minima, sia come nobile e sia come membro del Parlamento, nel caso di vostro fratello. E con un giusto matrimonio voi potrete...»
«Senza offesa, Maestà, ma non è esattamente così facile. Pur riavendo il titolo, come dicevamo prima, nessuno si sognerebbe di sposare una baronessa senza dote, soldi, proprietà. Nemmeno questo abito che indosso è mio, per essere precisi»
«Santo cielo, che storia intricata...» ammise la Regina preoccupata.
«Non temete, Altezza, fortunamente ho ricevuto...una proposta di matrimonio. Due, in verità. Devo solo fare la scelta giusta»
«Ah, voi donne! La scelta giusta è quella che vi porta più agiatezza, Miss!» esclamò il Re sospirando.
«Indubbiamente, Maestà. Ma come si vive per il resto della vita senza amore? E' quello che mi tortura il cuore e la mente»
Il Re si zittì, lanciando un'occhiata d'intesa alla sua Regina. «Touchè, Miss Ethel. Il vostro ragionamento non fa una piega: ringrazio Dio ogni giorno che mi ha dato in sposa questo splendore di donna, che amo con tutto me stesso» ammise, stringendo poi la mano alla sua consorte, che sorrise dolcemente.
«Sono sicura che farete la scelta giusta, Miss Ethel. Non avrete il sangue di Lord e Lady Norton, ma siete stata comunque cresciuta da loro, persone di alta caratura morale ed etica. Sceglierete al meglio. Ed a proposito, come sta Lady Norton?»
«Non molto bene, putroppo. La sua malattia la sta lentamente divorando, abbiamo dovuto persino rimandare il nostro annuale soggiorno in Cornovaglia, che gioiva molto alla sua salute. Ha alti e bassi, ma ormai nemmeno con la lettura e la musica riesco a sollevarle il morale. E' dura...»
«Suonate, Miss Ethel?» chiese interessato il Re.
«Discretamete, Maestà, è l'unica cosa che so fare in verità» ammise sincera Ethel.
«Oh non siate modesta! Lord Norton tesseva sempre le vostre lodi. Perchè non venite a suonare qui, per noi e i nostri amici, una di queste sere?» propose la Regina, sorridendo.
«Come? Io, suonare per voi?» chiese Ethel, sgranando gli occhi.
«Beh, le mani mi pare che le avete no?» ribattè il Re, ironico «io non mi intendo molto di musica, ma la mia signora, qui, sì. E se si fida del parere dei Norton, mi fido anche io. Siete ufficialmente invitata a suonare per noi, Miss. Sceglieremo più tardi una data che si confà a tutti noi»
Il Re si alzò, e così fecero i presenti in Sala. «Cara, credo che sia ora di partire per Londra, ora, o non arriveremo in tempo per l'appuntamento di domani»
«Si, certo. Bene Miss Ethel, è stato breve ma intenso. Vorrei avere più tempo, per ogni cosa o persona, ma purtroppo non è così. Vi auguro ogni bene ed ogni fortuna, se possibile, e a presto» annunciò la Regina, baciandola e sorridendole.
Ethel arrossì per quel contatto, quindi s'inchinò profondamente. «Vostra Maestà, Vostra Altezza...grazie, e fate buon viaggio»
Una volta usciti i Reali, la servitù prese a sparecchiare velocemente.
«Mary?»
«Si, Miss Ethel?» la cameriera le andò incontro.
«Potreste organizzare il mio ritorno a Rose Castle? E' ora di tornare a casa...»


 
13 Luglio 1911

«Josephine?»
«Si signore» la giovane capo cameriera inchiodò lungo il corridoio, dopo averlo incrociato due secondi prima. Ritornò indietro, guardandolo con una certa fretta.
«Ahn...che succede? Sembra esserci del movimento qui» chiese George, indicando con un cenno del capo il corridoio dove sostavano.
«Stiamo aiutando Miss Howard...con i bagagli» precisò la cameriera, deglutendo a vuoto.
«Miss Howard va via?»
«Sì signore, la accompagneremo in stazione fra un'ora, per andare a Londra e da lì tornare a casa»
«A casa...» ripetè George, fissandola «Grazie mille Josephine, puoi andare»
«Grazie signore»
Una volta resosi conto che non ci fosse nessuno nel corridoio, si diresse verso la camera di Cassie. Bussò alla porta delicatamente e, una volta sentito l' “Avanti” della ragazza, aprì la porta. Rimase a studiare la stanza da fuori, con una spalla poggiata all'anta della porta.
«E così te ne vai senza salutarmi...» annunciò pacato, con quel suo tono di voce basso e quasi apatico.
Cassie, china su un baule, sobbalzò e si tirò su velocemente. «Pensavo fossi la cameriera» brontolò, arrossendo. Andò a chiudere il baule, prima di guardare George, come a sfidarlo «Sì comunque, me ne vado»
«E volevi farlo senza salutare me ed Ethel?»
«Ethel l'ho già salutata, veramente»
«Ah, quindi non salutavi solo me» precisò lui ironico.
«Se ti avessi incrociato, magari...»
«Beh, eccomi qua» George si avvicinò e fece per abbracciarla ma Cassie fece un passo avanti.
«Non te la cavi così facilmente, George Herbert»
Sapeva che aveva perfettamente ragione. Fece un passo indietro, mentre la ragazza sistemava dei cappellini estivi in valigia.
«Mi dispiace»
«Di cosa, di preciso? Che tua cugina sia una puttana? O che tu sia uno stronzo?»
George spalancò appena gli occhi, sorpreso di sentire un linguaggio così sboccato uscire dalla bocca di Cassie, ma alla fine sorrise.
«Esatto, mi dispiace per quello. Senti...» fece per avvicinarsi a lei, di qualche passo, ma Cassie non accennava nemmeno a guardarlo «Daisy è...fatta così. Lei pensa che con il suo corpo e due moine può abbindolare le persone, è sempre stato così. Sa che ho avuto una cotta per lei, tanto tempo addietro, ed ha sempre marcato su quel punto. Ma è acqua passata, io voglio bene a Daisy come ad una sorella, e quella sera...non è successo nulla ovviamente, sarebbe stato come farlo con mia sorella. Pensa che schifo» precisò sorridendo. Ma Cassie non sorrise, continuava a sistemare i cappelli nel baule e nelle scatole.
«In quanto a me...» riprese George, sospirando «...io sono fatto così, mi disp...»
«Ma smettile, George, smettila di nasconderti dietro questa maschera del “io sono fatto così”» precisò lei, scimmiottando la sua voce «anche io ero fatta in un modo, ma sono cambiata. E sono cambiata grazie a te, e a tua sorella. E anche grazie a Daisy, almeno mi sono resa conto che razza di bugiardo sei»
«Io non ti ho mai promesso nulla, Cassie...» sussurrò George, fissandola.
Cassie si girò di scatto, gli occhi gonfi di lacrime. «E credi che possa bastare come scusa?! Non mi hai mai promesso nulla con le parole, ma con i fatti? Senti...io ti capisco, davvero. Hai trovato compagnia in una ragazzina che non aveva mai visto il mondo, pensavi che sarei stata un buon partito per i miei soldi ma poi hai visto due belle cosce magre, che io non ho, ed hai desistito. Va bene! Va bene così, ma ammettilo. Non dire altre menzogne»
«Cassie, non è vero, io non...» George cercò di spiegarsi, ma la verità era che nemmeno lui sapeva che dire.
«Senti lasciamo stare, mh?» riprese Cassie, sospirando e sistemandosi i capelli «Siamo amici, abbiamo litigato, fra qualche settimana ci scriveremo come conoscenti di vecchia data e ognuno per conto proprio, io tornerò a casa a sorbirmi zia Adel e tu qui, a...beh non lo so, qualunque cosa tu faccia qui»
George sentì una fitta di offesa trapassargli il busto, ma tacque. Aveva ragione, anche in quel caso.
«Mi dispiace, Cassie...di tutto» ammise sincero, osservandola sistemarsi un cappellino di paglia in testa.
«Anche a me» brontolò Cassie, prima di guardarlo un'ultima volta. Raccolse gli ultimi pezzi del suo orgoglio ed uscì dalla stanza, uscendo alla svelta dal castello.
George rimase lì, fermo in mezzo alla stanza, a fissare la servitù che man a mano entrava, raccoglieva i bagagli ed usciva. Che cosa doveva fare? Perchè non c'era Ethel lì a consigliarlo, dov'era andata a finire? Nella sua orangeria, probabilmente, a decidere che fare della sua vita. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare lui. Cassie aveva ragione, su tutto, tranne che su una cosa.
«Signore?» la voce di una cameriera lo riportò alla realtà
«Sì? Sì...vado via, certo» brontolò George, rendendosi conto di essere ancora dentro la stanza di Cassie.
Uscì e prese a salire lentamente verso i piani più bassi, la zona delle cucine. Lì, lo attendeva un secondo compito ingrato.


«Sei pronta?» mormorò per l'ennesima volta Mark, accarezzandole i capelli.
«Eddai che così mi fai agitare ancora di più» brontolò Charlotte, allontanandolo delicatamnte. Si guardò attorno, studiando la stanza in cui si trovavano.
Era tornata in cucina per la prima volta dopo giorni che era stata chiusa nella sua camera, e forse ora per la prima volta la vedeva per davvero. Quella crepa nel pavimento, quella pittura del muro venuta via, proprio sopra il lavabo di marmo bianco. Le pentole, appese in ordine lungo una parete. Il tavolo centrale, e poi quello in disparte dove la servitù mangiava. Quante cose erano succese lì dentro? Quanti ligiti, quanti baci rubati, quanti sorrisi? Pensandoci bene, quella cucina era diventata la sua vera casa, la sua unica casa. Ed ora rischiava di perderla, e nemmeno per colpa sua.
«Lasciala stare Mark, così la agiti ancora di più» precisò Josephine, prima di abbracciare forte Charlotte e sospirare «Scopriremo chi è stato ad incastrarti, ma se ti mandano solo via ho dei risparmi da darti, ti aiuterò»
«No, assolutamente no Josephine. Sono i tuoi risparmi, solo tuoi. Se non chiamano la Polizia, e mi mandano solo via, starò qualche giorno a Londra, c'è una mia zia lì che lavora come sarta. E poi da lì vedrò...»
«Non se ne parla nemmeno...» brontolò Mark.
«Buongiorno a tutti» la voce di Mr Herbert fece sobbalzare i pochi membri della servitù raccolti lì per quella piccola udienza domestica. Insieme a Mr Herbert c'era ovviamente Miss Norton, con la sua aria vittoriosa e baldanzosa, e Miss Herbert, l'aria tesa e preoccupata.
La servitù fece eco al saluto dei padroni di casa, prima di attendere con ansia la fine di quella storia.
«Sarò breve» annunciò Mr Herbert, serio più che mai «non abbiamo la prova che sia stata Charlotte a rubare quei gioielli, ma nemmeno il contrario. Abbiamo parlato con ognuno di voi, ed alla fine sono arrivato a questa decisione, anche con l'aiuto di Lady Maud»
«Hai parlato con mia madre...?» sibilò Miss Norton, sbiancando.
«Certo che ci ho parlato, Daisy, la servitù non è certo mia. E nemmeno tua» brontolò Mr Herbert «la decisione è la seguente: non accuseremo Charlotte di furto, quindi la Polizia non saprà nulla. Ma tuttavia...» sospirò, osservando già lo sguardo eloquente della domestica presa in oggetto «non puoi più rimanere qui, Charlotte, mi dispiace. E' la regola della servitù, purtroppo dobbiamo allontanarti. Hai tempo fino a domattina per raccogliere le tue cose, ti darò la tua ultima paga per aiutarti nel tuo soggiorno provvisorio, ovunque esso sia. Mi dispiace»
«Verrà con me» intervenne subito Miss Herbert «la prenderò io in servizio» e sorrise, verso la sua domestica personale. Charlotte la ringraziò con lo sguardo, seppur una parte di sé stesse cercando un appiglio per rimanere lì, o a Londra, da Mark.
«Molto bene. Buon proseguimento, e buona fortuna Charlotte»
«Grazie, signore...»
«Cosa?! Tutto qui?! Questa è la grande punizione?!» esclamò furiosa Miss Norton, seguendo Mr Herbert lungo le scale. Ancora potevano sentire le sue urla di vendetta, di come avrebbe rovinato tutti loro.
Miss Herbert era rimasta là, impietrita, prima di osservare la servitù.
«Mi dispiace molto, ma purtroppo Miss Norton...» fece per dire, non sapendo che altro aggiungere. Scrollò le spalle.
«Non vi preoccupate Miss, ci siamo abituate. Ma dove andrete, voi?» chiese Mark curioso. Più interessato a dove sarebbe stata mandata la tua fidanzata, che per reale motivazione. Lo sguardo quasi disperato, che Miss Herbert parve cogliere al meglio.
«Ancora non lo so, in verità. Ho delle...richieste, diciamo. Tra Londra e l'America»
«Ah, bene, sono...molto felice per voi, Miss»
«Non vi preoccupate, Mr Conti, sarete il primo a sapere dove andrò a finire» precisò Miss Herbert, facendogli un occhiolino d'intesa prima di risalire a sua volta ai piani alti.
Charlotte tirò un sospiro di sollievo e lentamente si sedette al tavolo della cucina, mentre Josephine le offriva biscotti e thè.
«Molto bene, non è andata così male...» annunciò la cameriera verso l'amica, accarezzandole la schiena.
«No infatti, ho solo perso il lavoro»
«Ma ne hai già trovato un altro. Hai l'ultima paga da poter usare per un soggiorno qui a Norfolk, in qualche camera, prima che Miss Herbert parta e...»
«E se andrai in America? Come faremo?» sussurrò Mark, triste, interrompendo i pensieri razionali di Josephine.
«Sentite...è essenziale che Charlotte lavori. Mark, non siete sposati, non puoi trattenerla qui, non ce la fai con la tua sola paga»
«Ma io veramente...» Mark cercò di difendere il suo onore.
«No aspetta, ma tu come fai a saperlo?» precisò Charlotte, osservando la sua collega.
Josephine sbuffò divertita. «Ma pensi che sia stupida? Lo vedo come vi guardate. Il punto è che ora tu devi pensare a te, poi potrete vedere come fare. E nel frattempo noi cercheremo di capire chi è stato a mettere quei gioielli in camera tua. E' chiaro che qualcuno voleva fregarti, Charlie, e ci è riuscito alla grande»
«Secondo me è stata Miss Norton...» sussurrò Mark, con fare cospiratore.
«E perchè mai? Che cosa le ho fatto di male?» precisò Charlie, bevendo il suo thè. Era la domanda che tornava nella sua mente da giorni, ormai.
«Beh forse tu niente...ma Miss Herbert?» sibilò ancora Mark «lo sanno tutti qui dentro che non scorre buon sangue tra loro due, e le cose sono peggiorate da quando Lord Norton ha fatto quella scenata a colazione, giorni fa. Le sguattere hanno origliato un colloquio tra Mr e Miss Herbert, pare che Lord Norton l'abbia richiesta in sposa...ma che anche Mr Mallard si sia rifatto avanti...!»
«Mark, sei peggio di una donna» brontolò secca Charlotte, scuotendo la testa.
«Ecco perchè ha detto che è indecisa tra Londra e America, allora!» esclamò in un sussurro Josephine, sedendosi vicino a loro «perchè deve decidere a chi dare la sua mano»
«A questo punto, e per tanti motivi, preferirei che desse la sua mano a Lord Norton» ammisse Charlotte, rimanendo poi in silenzio e con il cuore a soqquadro.


La sera non tardò ad arrivare, e con essa l'ansia dell'incontro che stava per avvenire nella Sala della Musica. Si era presentata lì con un certo anticipo, un'ora prima del tramonto, ma era consapevole che Alfred sarebbe arrivato solo al tramonto, e non prima: era una persona molto puntuale, non certo ansiosa come lei.
Prese a camminare su e giù per la stanza, poi cercò di suonare qualcosa al pianoforte, stonando più di una volta per via della poca concentrazione. Sbuffò, sollevando gli occhi sui busti di marmo dei grandi musicisti che avevano fatto la storia, posizionati nelle nicchie sopra la sua testa. Anche loro avevano avuto problemi di cuore? Osservò Beethoven, sorridendo appena: lui è stato il capo delle disavventure amorose, che lei in confronto non poteva proprio lamentarsi.
Riprese a camminare su e giù per la stanza, intrattenendosi come poteva per far passare il tempo. Si affacciava spesso fuori dalla finestra, seppur la stanza desse sul parco e non sull'ingresso alle vetture. Ma affacciarsi le dava più sicurezza e controllo della situazione, seppur potesse vedere solo il giardiniere che controllava la zona, o qualche sporadico falco pellegrino volare in cielo.
Lentamente, il sole cominciò a scivolare oltre le morbide colline inglesi, ed il cielo si terse di arancio e giallo, con tinte di azzurro e indaco. Era giunto il momento. Si affrettò a posizionarsi davanti all'ingresso, ma poi si spostò davanti una vetrata, per ricontrollare di nuovo la sua mise: indossava uno scialle di cotone bianco sopra le spalle, ed un vestito celeste sotto di esso, leggero nel tessuto ma a manica lunga, dato il tempo incerto. Era ancora pallida, per via del suo incidente, ma tutto sommato non stava così male. Per quel che potesse valere: non era mai stata una bellezza canonica del suo tempo, forse più di cento anni addietro, con quel corpo esile e delicato, la pelle chiara e priva di trucco, e seppur vestisse alla moda non erano mai abiti che esaltassero eccessivamente le sue forme, come spesso faceva Daisy.
Tornò davanti all'ingresso, sistemandosi nervosamente lo scialle ed attendendo. Controllò più volte l'orologio posizionato nella stanza: il tramonto era quasi andato via, e la notte stava calando lentamente sopra Rose Castle. Era in ritardo. Non fa niente, a pensarci bene lui è sempre in ritardo, avrà avuto un contrattempo col treno, pensò giocando distrattamente con il bordo dello scialle.
Stanca di stare in piedi, prese a camminare lentamente su e giù sul tappeto centrale, così tanto che cominciava quasi a impararsi a memoria i tanti ghirigori ricamati su di esso. Sollevò lo sguardo sull'orologio: era passata un'ora dal tramonto. Le speranze cominciavano a scemare. Doveva aspettarselo, d'altronde era di Alfred che stava parlando. L'ennesima delusione, l'ennesima conferma che non poteva esserci futuro tra loro.
Stava ormai abbandonando ogni speranza quando sentì dei passi, nel corridoio davanti la stanza. Passi svelti e veloci. Il cuore prese ad accellerare di nuovo e si volse, speranzosa, verso la porta. Questa si aprì lentamente, ma sulla soglia non apparve Alfred ma Josephine, il viso tirato in un'espressione tesa.
«Miss Herbert, Charlotte vorrebbe salutarla prima di andare a dormire, domattina andrà presto a Londra...e vi aspetterà là» annunciò la cameriera.
Il cuore di Ethel si sforzò di continuare a battere, mentre lentamente con gli occhi andava a guardare ancora l'orologio: erano passate due ore dal tramonto, non aveva nemmeno cenato ed era quasi ora di andarsene a letto.
Sorrise, amareggiata, ed annuì verso la cameriera. «Dì a Charlotte che la raggiungo subito, grazie»
«Prego, Miss, si figuri...» mormorò Josephine, mortificata. La cameriera richiuse la porta ed Ethel guardò il cielo stellato fuori dalla finestra. L'ennesima delusione, l'ennesima conferma.
Mary, la cameriera dei reali aveva ragione: aveva lasciato al destino scegliere per lei, e il destino le aveva dato la risposta che cercava.
Aveva trovato la scelta giusta.

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Capitolo 15
*** Farewell ***


15. Farewell

Norwich, 20 Agosto 1911
 
Era stata ben poche volte in città, ma andò comunque dritta per la sua strada in quel giorno estivo e soleggiato. Tutti conoscevano la pensione di Miss Rose, quella vicino alla stazione. Un punto strategico ideale, da dove passavano i membri della servitù, in attesa di essere trasferiti alla vicina Rose Castle. Lì, tutti conoscevano i Norton e Miss Rose aveva fatto un prezzo di favore a Charlotte, che aveva candidamente omesso il fatto di essere stata licenziata.
Attraversò velocemente la strada, prima che una vettura ed una carrozza a traino la investissero. Si guardò attorno, sorridendo tra sé: tutto sommato, Norwich era una bella cittadina, vivace e movimentata. Ma nulla in confronto a Londra, che le metteva sempre uno stato di ansia e frenesia addosso. Camminò sul marciapiede per una decina di minuti, incrociando mamme con bambini, coppie di anziani, qualche ragazza che faceva compere nelle boutique...e finalmente, la pensione di Miss Rose.
Salutò la padrona e tirò dritto verso la stanza di Charlotte, dove era già stata quando l'aveva accompagnata più di un mese fa.
«Charlotte, cara...come stai?» andò subito ad abbracciare l'amica, accarezzandole i capelli. Si sentiva così in colpa per lei, così responsabile per quanto accaduto: lei era la capo cameriera, era lei che avrebbe dovuto sorvegliare le sue sottoposte, e capire chi aveva incastrato Charlotte.
«Josephine...grazie di essere passata a trovarmi. Vogliamo fare due passi fuori?» le chiese subito Charlotte, il sorriso finto di chi cerca di trasmettere calma e sicurezza.
«Certo...andiamo»
«Allora...ci sono novità dalla tenuta?» chiese la ex cameriera, mentre uscivano dalla pensione. Il sole illuminava la via principale, costringendola a socchiudere gli occhi prima di poter svoltare verso il parco cittadino.
«Oh di novità ce ne sono tante, ma nulla di positivo. Tranne una: abbiamo trovato la colpevole del tuo licenziamento» annunciò trionfale Josephine, sorridendo.
«Davvero?! E chi?» chiese curiosa l'amica, continuando a camminare, lentamente.
«Betsy...»
«Betsy?! Ma non è possibile, non può essere stata lei, era...»
«Lontana, a trovare la famiglia? Certo, in questo modo hanno potuto scaricare la colpa su di te, lei e Miss Norton. Ma a quanto pare Betsy è stata obbligata da Miss Norton a mettere i gioielli nel tuo cuscino la sera prima. Ti ricordi che tu la notte prima hai dormito nel mio letto, perchè io ho vegliato sulla Lady? Loro ovviamente ne erano a conoscenza, e sapevano anche che quindi non te ne saresti accorta...»
«Per quello Miss Norton è andata a colpo sicuro, in camera nostra, nel recuperare i gioielli. Solo adesso capisco...! Ma perchè? Perchè mi hanno voluto fare una cosa simile?»
«Per fare uno sgarro a Miss Herbert, povera cara. Miss Norton non l'ha mai sopportata, era gelosa della vostra amicizia e così, non potendo colpire lei direttamente, l'ha colpita alle spalle, togliendole l'unica amica che aveva in quell'enorme castello»
«Povera Miss, mi spiace così tanto. Ma tu come hai scoperto tutte queste cose?»
«Oh non ci siamo nemmeno dovuti sforzare più di tanto» ammise Josephine ridacchiando «ce lo ha riferito Mr Herbert, che a sua volta lo aveva carpito da Miss Norton, ubriaca. Ha confessato tutto. Betsy è stata licenziata e Miss Norton è stata praticamente cacciata via. Si è trasferita a Londra, questa è la versione ufficiale, ma la verità è un'altra»
«Santo cielo, quante cose sono cambiate nel giro di un mese...» ammise Charlotte, accomodandosi su una panchina davanti al laghetto dei cigni.
«E questo non è niente! Le cose sono peggiorate, praticamente per tutti. Ti ricordi di Miss Cassie, vero? Beh è andata via lo stesso giorno che sei andata via tu, e da quel giorno Mr Herbert è come...non lo so, cambiato. E' sempre stato un bravo ragazzo, ma ora sembra rinato come se si volesse far perdonare, come se volesse cambiare. Dicono che stia risparmiando, per riacquistare il titolo di Barone ed avere una sua personale rendita»
«Mi fa molto piacere. E Lady Maud, come sta?»
Il sorriso di Josephine scemò lentamente, trasformandosi in una leggera smorfia di tristezza.
«Male, purtroppo. La sua salute è peggiorata, non può più camminare, ha dei profondi momenti in cui si assenta, o dorme per giorni. Il medico...il medico dice che ormai è questione di giorni, forse settimane. Qualche giorno fa è passato il notaio, per aggiornare il testamento, mi pare si dica così»
«Povera Lady Maud, mi spiace così tanto...»
«Già. Ed oltre per lei, devi dispiacerti anche per noi...»
«Perchè?»
«Perchè quando Lady Maud morirà, non si saprà di preciso che fine faremo tutti noi. Miss Norton è a Londra, ed ha una nuova servitù che non sa niente di lei. In quanto a Lord Norton...ormai è uno straniero in casa sua, se prima veniva poche volte adesso è un'apparizione, come un fantasma. Alla morte della padrona, potremmo perdere il lavoro»
«Oh santo cielo, ma sono sicura che la Lady e suo figlio non lo permetteranno...»
«Tu forse non hai capito. Lord Alfred non esiste più. Da quando ha mollato pe l'ennesima volta Miss Herbert, ormai non possono più vedersi. Viene raramente a trovare la madre e, quando lo fa, Miss Herbert cerca di non stare nei paraggi. Si salutano a malapena»
«Che peccato. Quei due si amano follemente, ma non riescono a incontrarsi»
«Il problema è un altro, Charlie, e tu lo sai. Miss Herbert è nulla tenente, come me e te, e secondo te chi sposerebbe una allo stesso livello di una cameriera? Nessuno, nemmeno una persona di cuore come Lord Norton»
«Ma loro si amano...»
«Possono amarsi quanto vuoi, ma l'amore non paga la servitù, non cucina, non fa le feste, non crea affari vantaggiosi. L'amore rovina solamente, e per i ricchi questo vale ancora di più»
«E quindi ora che faranno?»
«Ah non lo so. Lord Norton viene raramente, ma da quel che so è a Londra e lì rimarrà a vita. In quanto a Miss Herbert, mi ha detto di riferirti che a fine mese lei partirà per New York, con Mr Mallard»
«Lo sposa...»
«Già, così pare. Non sembra molto felice, seppur non lo dia a vedere, ma d'altronde anche lei ha la sua età. Ed ora che Lady Maud è in fin di vita, potrebbe mettersi male anche per lei e suo fratello. Ma capisci che significa questo per te, Charlie, vero?»
Charlotte sospirò, tacendo. Una morsa le strinse lo stomaco. «Significa che devo partire per New York anche io»
«Se vuoi, Miss Herbert ti dà modo di scegliere. Ma...beh, non credo tu abbia molta scelta. Puoi sempre portare Mark con te»
«Lo sai che non può. Sta risparmiando per la pasticceria, dice che quando sarà pronta mi verrà a riprendere...» mormorò la ragazza, deglutendo a fatica.
Josephine le strinse dolcemente la mano. «Mi dispiace che sia andata così...se fossi stata più attenta, mi sarei resa conto di quel che stava tramando Miss Norton. E forse tu avresti ancora il tuo lavoro, Miss Ethel un'amica e tu e Mark...»
«Non avresti comunque potuto fare nulla, Josephine. Va bene così...» mormorò Charlotte, ricambiando la sua stretta di mano, il cuore gonfio di tristezza «Va bene così...».


Il pendolo rintoccò le dodici ore, facendo rimbombare il suono lugubre e maestoso nel silenzioso e desolante castello dei Norton. Ethel si svegliò di soprassalto, catapultata dal suo solito incubo alla realtà. La luce soffusa nella stanza di Lady Maud sembrava pugnalarla gli occhi, e ci mise qualche istante per mettere a fuoco l'interno della camera e la donna, sdraiata nel suo letto ma sveglia, che le sorrideva. Ethel sapeva benissimo che ormai la donna era quasi completamente cieca, e che percepiva solo le ombre e gli odori delle persone.
Si alzò, assonnata, avvicinandosi. «Zia...ti senti bene?» chiese a bassa voce, sedendosi al suo fianco.
«Mai stata meglio, cara...dormivi? Fai ancora gli stessi incubi, vero? Non te l'ho più chiesto...»
«Non fa niente, zia. Sono solo incubi...»
«No, è la realtà, purtroppo. Avremmo dovuto capire che i tuoi genitori avevano bisogno di aiuto, erano nostri amici, e li abbiamo ignorati...»
«Zia, ti prego, non ti agitare. Ora sono in pace, è questo quel che conta no? Sono in pace, e tu e lo zio vi siete presi cura di me e George come due figli»
«Avrei dovuto fare di più, ma ora vedrai...ora che io me ne andrò, voi sarete ben sistemati. Mi premeva farlo, premeva anche al mio caro amore...Siete ben sistemati cara, non serve che tu vada via...non serve...» sussurrò l'anziana donna, gli occhi velati di lacrime.
Il cuore di Ethel si rimpicciolì tanto che le mancò il fiato. «Zia, non fate così, vi prego...va bene, non partirò più. Siete contenta? Rimarrò qui, con voi»
«Anche dopo che morirò?»
«Anche dopo che...che ve ne andrete»
«Grazie...sono più tranquilla ora» mormorò Lady Maud, socchiudendo gli occhi, stanca. Rimasero in silenzio, ad ascoltare ognuno il respiro dell'altra, in pace. Ethel accarezzava lentamente la mano della donna, osservandone le macchie della pelle, le rughe, le unghie curate, le dita che ogni tanto stringevano le sue, debolmente. Poi lentamente la donna aprì gli occhi e sollevò appena un dito verso un quadro, appeso alla parete davanti a lei. Non le serviva guardare davvero, per indicare oggetti nella sua stanza. A Ethel sembrò di osservare quel quadro per la prima volta, seppur ci avesse posato gli occhi innumerevoli volte. Era un ritratto di una giovane donna, forse poco più grande di lei. Grandi occhi castani, uno stile imperiale nell'abito e nell'acconciatura, lo sguardo severo e deciso, la bocca distesa in un'aria pacata e fiera. Somigliava incredibilmente allo stesso sguardo di Lady Maud, anche in quel momento che era malata.
«E' mia nonna, Catheleen Barrington. E' morta quando io avevo otto o nove anni, ma me la ricordo bene sai? Mio padre diceva sempre che le somigliavo tanto, in tutto e per tutto. Era una donna...forte, giusta, e dolce con noi nipoti. Ci raccontava sempre tante storie e favole, ci portava in giro, ci ha educato alla pietà e alla misericordia, all'aiuto verso chi ha bisogno. E gli Herbert, sai...erano loro amici di famiglia, da generazioni. Tuo padre e tuo nonno si erano di origine irlandese...si trasferirono in Inghilterra nel Settecento, facendo amicizia con i Barrington e i Colborne, la famiglia di mia nonna. Conoscevo i tuoi genitori come fossero miei cugini e...e non sono stata capace di aiutarli...» la voce di Lady Maud si ruppe, le lacrime scivolarono lungo le tempie.
Ethel strinse dolcemente la donna a sé, ricacciando indietro le lacrime. «Zia...zia vi prego, non agitatevi. Sono sicura che mamma e papà non siano mai stati adirati con voi, mai! E che vi ringraziano per esservi presa cura di me e di George, vi prego...non fate così...» mormorò a voce tremante, accarezzandole le guance.
«Oh mia dolce Ethel, mio tesoro. Che stolto è stato Alfred a perderti, che stolta Daisy a odiarti così tanto...ma vedrai, ho sistemato tutto io, ho sistemato tutto...» sussurrò la donna.
«Va bene zia, non devi preoccuparti. Ma ora riposati...» Ethel si alzò asciugandosi le lacrime e versò il calmante nel bicchiere d'acqua della zia. L'anziana bevve tutto d'un fiato e, lentamente, tornò a dormire.
Ethel si avvicinò alla finestra, piangendo in silenzio le lacrime più amare e più forti. Dopo aver placato i singhiozzi e il fiume di tristezza che finalmente aveva esondato, lentamente uscì dalla camera della donna, percorrendo il corridoio con gli occhi gonfi di lacrime. Non sapeva bene dove andasse ma conoceva così bene quel castello da poterlo percorrere ad occhi chiusi. Ma dovette subito ricredersi quando andò a sbattere contro qualcosa, o qualcuno.
«Oddio...» mormorò, asciugandosi velocemente le lacrime. Mise a fuoco, nella penombra, la figura seria di Alfred. Arrossì con violenza, non aspettandosi di certo il ragazzo lì, a quell'ora di notte. «Scusa, non ti avevo visto...»
«Non potevi di certo, con quelle lacrime. Come stai...?» mormorò Alfred, osservandola.
«Bene»
«Sicura...?»
«Tua madre sta morendo e mi ha appena chiesto di rimanere qua, anche dopo la sua morte, dove c'è Daisy che mi odia. Come vuoi che stia?»
«Ah, pensavo stessi piangendo perchè parti con quel Mallard, lì, in America» rispose secco Alfred.
«Sono felice di partire, invece»
«Ah si? Quindi partirai nonostante la richiesta di mia madre...?» insinuò Alfred sorridendo.
«E tu? Lo sai che ti chiederà di rimanere anche a te, si? Che fai, rimarrai o tornerai nella bella Londra?»
«Non sono affari tuoi...» brontolò secco Alfred, superandola.
«Ah no, certo che no. I tuoi “affari”, come dici tu, non sono un mio interesse. Ti auguro una bella vita a Londra, con la tua Candice»
«Il mio fidanzamento con Candice è rotto, ti ricordo. Io le promesse le mantengo...» precisò Alfred davanti la porta della madre.
Ethel si volse verso Alfred, fissandolo qualche istante, perplessa. Il ragazzo aprì la porta e sparì nella stanza della madre. Ethel rimase lì, con l'amaro in bocca, fissando il corridoio ormai vuoto.
Alfred aveva davvero rotto il fidanzamento con Candice? E perchè allora non le aveva scritto, anche dopo il loro mancato incontro? Orgoglio, pensò piccata mentre scendeva velocemente le scale, il suo maledetto orgoglio.
“Io le promesse le mantengo” ripensò all'ultima frase detta da Alfred e si fermò, quasi convinta a chiedergli cosa volesse dire. Da quel che le risultava, era lei tra i due ad aver ricevuto tre delusioni da lui, non il contrario. Lei le sue promesse le aveva mantenute, che cosa voleva intendere Alfred? Scosse la testa, arresa: probabilmente non sapeva cosa dirle, ed ha provato a stuzzicarla, senza grossi risultati.
Sospirò, continuando a scendere le scale. Il suo rapporto con Alfred ormai era perso.



«Ehi...»
«Ehi, Lulù...come stai...» la voce del fratello era roca e bassa, segno che, come suo solito, era stato molto tempo in silenzio. Andò a sedersi vicino a lui e rimasero abbracciati, lì seduti sul divano del suo studio. Ascoltò il cuore di suo fratello, energico e pimpante. Quello di Lady Maud batteva lento e malato, come una vettura ormai vecchia e rotta che non riusciva più a camminare.
«Triste. Sono triste» ammise alla fine, osservando la finestra davanti a sé.
«E stanca. Perchè non vai a dormire? E' passata la mezzanotte da un bel po'. Riposati...»
«No, no, non sono stanca. Sono preoccupata, sono...ho come un dolore qua, nel petto»
«E' il tuo cuore, tesoro...soffre» George la strinse più a sé, accarezzandole i capelli «mi dispiace che tu debba vivere tutto questo, sarebbe stato meglio che tu fossi partita prima»
«No, volevo essere qui quando la zia se ne sarebbe andata. Ma perchè non vieni con me, in America? Non c'è più niente per noi qua»
George scosse il capo. «Vorrei, ma non posso. Devo prima cercare me stesso, e devo farlo qua. Devo trovare la mia strada, scappare non avrebbe senso. Devo sistemare le cose, ed ho cominciato già da Daisy»
«Daisy?»
«Mh-mh. Le ho scritto, due giorni fa. Una lunga lettera dove le ho scritto la verità, i miei sentimenti fraterni verso di lei... Le ho anche scritto che sua madre sta morendo, e che se ha un briciolo di umanità dovrebbe tornare per salutarla»
«Hai fatto bene. Devono parlare, devono sistemare le cose, prima che zia Maud parta. Non possono lasciarsi così. Tu credi che verrà?»
«Sarebbe dovuta già arrivare, tecnicamente...» ammise George mesto.
«E a Cassie? A lei hai scritto?» chiese la sorella dopo qualche secondo di silenzio.
George rimase in silenzio, poi sospirò «Ancora no. Te l'ho detto, devo prima risolvere delle cose tra me, devo...capire cosa voglio fare “da grande”. E poi le scriverò..»
«Sei innamorato di lei?»
«Come tu di Alfred»
Ethel deglutì, sciogliendo l'abbraccio col fratello. «Non è la stessa cosa»
«Oh si che lo è» precisò George, ancora ben spaparanzato sul divano «è esattamente la stessa cosa, solo che nel nostro caso è lei quella ricca e io il nullatenente. E siccome non posso sposarla senza offrirle nulla, prima devo trovare la giusta “offerta”»
«Cioè vuoi metterti a lavorare?» chiese curiosa Ethel.
«Una mezza specie. Vedrai, non posso dirti nulla prima che accada. Tu piuttosto...tornerai a trovarmi vero?»
Ethel fissò qualche istante il gemello, prima che gli occhi si velassero di lacrime «Certo che tornerò...»
«Non piangere, dai, al giorno d'oggi i mezzi di trasporto sono veloci, e nella tua ricca casa avrai sicuramente il telefono. Potremmo sentirci spesso!»
«Si...certo...» mormorò Ethel distratta. Stava davvero lasciando suo fratello gemello, per andare dall'altra parte del mondo? Si alzò sospirando. Aveva la testa completamente piena di dubbi e domande, e il cuore ricolmo di ansia e tristezza. Non si era mai sentita così, in un profondo bivio. Pensava di aver agito bene, di aver fatto la scelta giusta, finchè non aveva rivisto Alfred. Ma era davvero solo colpa di Alfred? La verità era che nemmeno lei sapeva se stesse facendo la scelta giusta.
«Non ci pensare» mormorò alla fine George, osservandola. Si alzò e lo abbracciò in silenzio, prima di strofinarsi appena gli occhi «Riposati Lulù, almeno qualche ora, ti prego. Se succede qualcosa ti chiamo»
«Solo cinque minuti, mi sdraio qui sul divano» precisò Ethel, accomodandosi. George le sistemò la gonna prima di coprirla con una coperta lì vicina. Le posò un bacio sulla fronte. Il tempo di uscire ed Ethel si era già addormentata.


Le sembrò di aver dormito davvero per soli cinque minuti, ma quando aprì gli occhi vide il sole penetrare dalle finestre, inondando di luce lo studio di George. Era una splendida giornata estiva e per un attimo si dimenticò di ogni problema, di ogni lutto imminente: solo il sole sembrava l'unica certezza reale della sua vita, in quel momento.
Si alzò, stiracchiandosi. Si specchiò, sistemandosi i capelli e l'abito alla bell'e meglio quindi uscì dalla stanza e si diresse verso la sala per la colazione. Aveva un appetito famelico, cosa assai strana negli ultimi giorni, ma si ricordò solo sulla soglia della stanza che la sera prima non aveva nemmeno cenato per stare al fianco di Lady Maud. Sospirò, dandosi un contegno prima di entrare, consapevole che oltre quella porta ci sarebbe stato Alfred, il suo incubo vivente.
«Buongiorno» annunciò, composta, senza guardare i presenti in sala. Per questo, quando alzò lo sguardo su di loro, sobbalzò appena, sorpresa, nel vedere Daisy seduta che sorseggiava il thè.
«Buongiorno a te, Ethel. Sorpresa di vedermi?» chiese calma la ragazza. Aveva un aspetto diverso rispetto al mese scorso: era magra fino allo stremo, pallida sotto il trucco calcato sul viso, un abbigliamento succinto e alla moda, ma troppo estremo per i suoi gusti. Sembrava malata, o comunque poco in salute.
«N-no, certo che no. In verità non sapevo che saresti venuta così presto questa mattina. Ti trovo...bene» azzardò Ethel, sedendosi vicino a George, ritrovandosi così davanti a Ethel ed Alfred.
«Non era necessario che tu lo sapessi, infatti. Anche io ti trovo bene comunque. Quand'è che parti?» chiese la ragazza, con improvviso interesse.
«Alla fine del mese corrente»
«E quando ti sposi?»
«Ancora non c'è una data...pensavamo a prima dell'arrivo dell'inverno, pare che a New York sia molto rigido»
«Beh, ti auguro un felice matrimonio allora» precisò secca Daisy, prima di lanciare un'occhiata a suo fratello, chino sulla colazione e che fingeva una totale indifferenza circa l'argomento.
«Grazie...» precisò vaga Ethel, prima di lasciar cadere il silenzio nella sala. Fecero colazione, ognuno per conto loro, senza dire più una parola.
Fu Josephine a interrompere quella quiete apparente, aprendo la porta della sala con gli occhi gonfi di lacrime. Tutti si girarono verso di lei, fissandola.
«Mi dispiace disturbare, Lord Norton...ma vostra madre vorrebbe vedervi...tutti e quattro» mormorò la capo cameriera, la voce rotta da un pianto trattenuto a stento. Si alzarono tutti insieme, uscendo dalla sala e salendo lungo le scale, in rigoroso silenzio, i cuori pesanti d'ansia e tristezza.
La camera di Lady Maud era fresca e ben ordinata, le tende chiuse per via della quasi cecità della Lady; dei fiori freschi erano stati sistemati al posto di quelli vecchi, come a poter bilanciare in qualche maniera l'aspetto malato e vecchio che aveva assunto la padrona di casa negli ultimi mesi. Si sedettero intorno al suo capezzale, ed Alfred le strinse dolcemente la mano, facendole aprire debolmente gli occhi.
Non appena posò lo sguardo cieco su di lei, Ethel sentì gli occhi bruciare di lacrime. Chinò il capo per non farsi scoprire, e vide due grosse lacrime crollare sulle sue gambe, prima di diventare completamente cieca per il pianto.
«Non dovete piangermi, né essere tristi...la morte è una cosa naturale, come la nascita. Ho vissuto una vita piena e felice, vi ho visto crescere e maturare, litigare e sorridere. Ho vissuto un solo rimpianto: non avervi sistemato a dovere, o con una famiglia o con una rendita. Ma ho risolto tutto, ora che sto per salutarvi...sarete a posto, ed io in pace»
Si interruppe, riprendendo fiato e forze.
«Madre, vi prego, non vi sforzate...» mormorò Alfred, stringendole la mano con affetto.
«Fammi parlare, Alfie, prima che mi addormenti. A te lascio la nostra famiglia, Alfred: è tuo il compito di far stare tutti loro al sicuro e protetti, senza problemi e senza necessità. Devi prometterlo, qui davanti a tutti e davanti a Dio Onnipontente, che sta venendo a prendermi. Prometti»
Alfred deglutì, ricacciando indietro le lacrime. Guardò Daisy, pallida, Ethel in lacrime e George, serio e rigido come una statua di cera.
«Lo giuro» annunciò solenne alla fine.
Lady Maud sembrò accennare un sorriso, prima di chiudere lentamente gli occhi, lasciando sulla bocca fredda e rigida un leggero accenno di pace e felicità.



 
Rose Castle, 22 Agosto 1911


«Condoglianze...»
«Ancora sentite Condoglianze, Miss...»
«Oh Miss Herbert, forza e su con la vita...condoglianze...»
Doveva essere sincera: non pensava che Lady Maud conoscesse tutta quella gente. I funerali si era svolti nella cappella privata di Rose Castle che, per quell'occasione, aveva accolto pubblicamente chiunque avesse voluto salutare un'ultima volta la donna. Ma la cappella non poteva contenere nemmeno un quarto delle persone venute ai funerali. Il bel tempo aveva concesso ai più di sostare fuori, durante la Messa, e di viaggiare serenamente verso il cimitero dove sarebbe stata sepolta, vicino a suo marito.
Dopo i funerali, come d'usanza, i padroni di casa offrirono un rinfresco per i loro ospiti che andarono via solo dopo pranzo, nel primo pomeriggio. L'unico a rimanere a Rose Castle fu il notaio testamentario di Lady Maud.
Ethel lo osservava, ancora in piedi sulla soglia della porta, che parlottava serio con Alfred, che annuiva con altrettanta serietà.
«Signori...» annunciò alla fine il notaio «quando volete, possiamo aprire i testamenti»
Si spostarono così nello studio di George, sedendosi tutti e quattro davanti alla scrivania, oltre cui si era accomodato il notaio. Questi inforcò un paio di occhiali ed aprì non una ma due lettere sigillate. Poi osservò i quattro presenti da oltre gli occhialini a mezzaluna.
«So che il dolore vi sta lacerando il cuore, perchè è quel che sto vivendo anche io, quindi sarò breve: i testamenti rimarranno sotto la mia custodia, ma siete liberi di poterli leggere, una volta annunciata l'eredità. Andremo a leggere anche il testamento di Lord Norton che, per suo espresso ordine, doveva essere aperto solo quando sua moglie sarebbe morta a sua volta. Dunque possiamo proseguire?»
Tutti e quattro annuirono, seri, quindi il notaio prese il primo foglio.
« “Io sottoscritto, il Conte Alexander Struan McKanzie Norton nomino mio figlio, William Albert Alfred Norton, unico erede della famiglia. A lui il compito di proteggere e custodire la famiglia, la servitù e le proprietà che gli competono. A lui rimane il titolo di Conte, da concedere ai figli venturi. A mia figlia secondogenita lascio in eredità Little Hall di Londra, dato il suo amore per la città: ne potrà fare l'uso che più crede...” »
«Bene» annunciò Daisy interrompendo il notaio. Fece per alzarsi, ma l'uomo la fulminò. «Se volete sedervi, Miss Norton. Ancora non abbiamo finito. Ci sono ancora le volontà di vostro padre e vostra madre circa Mr e Miss Herbert»
«Cosa? Anche loro hanno ereditato?!» esclamò sconvolta Daisy. Ethel assunse la stessa espressione, ma George e Alfred non si scomposero.
«Siediti...» sibilò quest'ultimo fra i denti, fulminando la sorella. Daisy si sedette sbuffando, visilmente contrariata da quella notizia.
«Dicevamo...» riprese seccato il notaio « “lascio a George James Herbert, primogenito dei miei cari e sfortunati amici, cinquemila sterline, una somma da usare solo ed esclusivamente per il recupero del titolo di Barone, da elargire di conseguenza, come unico capostipite rimasto, anche a sua sorella e alle future generazioni. Spero che questo sia un inizio da cui poter ripartire, per te e per tua sorella»
«Ah fantastico, adesso i poveri sono tornati ricchi!» esclamò acida Daisy, alzandosi di nuovo. Alfred si alzò a sua volta e le strinse così forte il braccio che la fece risedere, facendo poi lo stesso poco dopo.
«Queste...sono le volontà di nostro padre, ti ricordo. Qualunque cosa ci sia scritto lì dentro deve valere ed essere rispettato, e passerai sotto le mie mani se commenterai di nuovo quanto deciso da loro. Porta rispetto per i morti, Daisy, soprattutto per chi ti ha dato la vita»
Daisy deglutì a vuoto, poi lanciò un'occhiataccia a George ed Ethel prima di tornare ad ascoltare il notaio.
«Passiamo ora al testamento di Lady Maud» annunciò l'uomo, cambiando foglio « “Non ho molto da lasciare ai miei figli, dato che quel che avevo l'ho donato a mio marito che, a sua volta, lo donerà sicuramente ad Alfred e Daisy. Lascio perciò l'unica proprietà che ho, la mia tenuta in Cornovaglia, al mio nipote acquisito George James Herbert, affinchè possa occuparsi delle terre circostanti, dei fattori che vivono nella tenuta e di trovare così, forse, la sua strada»
Il viso di Daisy era paonazzo, sembrava che stesse per scoppiare. E finalmente ci fu una reazione anche da George, che sgranò appena gli occhi come se lo avessero pugnalato o fucilato.
«Bene, questo è quanto» annunciò il notaio, togliendosi gli occhialini dal naso.
Daisy si alzò di scatto, con aria stizzita, e si girò verso George ed Ethel.
«Spero siate contenti, finalmente. Avete raggiunto il vostro scopo: dilapidare l'eredità dei miei genitori, senza nessun diritto. Gli avete incastrati, eh? Avete recitato la parte dei poveri orfani in maniera eccellente»
«Daisy, ti prego, lo sai che noi non sapevamo nulla...» la supplicò Ethel, stanca di tutti quei litigi.
«Ad essere precisi, chi sta dilapidando l'eredità dei tuoi genitori...sei tu, Daisy» precisò secco e gelido George, facendo arrossire Daisy.
«Come osi...» sibilò la ragazza, sputando odio e veleno dallo sguardo.
«Ora basta» annunciò secco Alfred «nostra madre è morta da appena due giorni, Daisy, non serve buttarci veleno addosso. Hai ottenuto ciò che volevi, ora basta»
La ragazza sollevò gli occhi sul fratello, seria. «Tu li difendi...lo hai sempre fatto, sempre. Ti sei fatto fregare anche tu, Alfred, non me lo sarei mai aspettato da te. Il finto amico e la finta fidanzata» sorrise divertita, Daisy, facendo arrossire Ethel di vergogna.
«Non sai quel che dici, Daisy, quindi per favore taci e scompari dalla mia vista prima che...»
«Prima che cosa? Prima di darmi un altro ceffone? Sono una donna, ormai, gli schiaffi non mi fanno più effetto» precisò Daisy, che aveva già preso le distanze del fratello e si dirigeva verso la porta della stanza.
«Tu disonori il ricordo dei nostri genitori, Daisy. E' solo per loro che ti faccio ancora entrare dentro questa casa, sappilo» precisò serio Alfred, vedendo solo in quel momento Ethel e George alzarsi. Daisy, in tutta risposta, uscì e chiuse la porta violentamente.
«Miss Herbert» il notaio distrasse i tre dal pensiero di Daisy. L'uomo si avvicinò ad Ethel, porgendole quel che pareva una lettera chiusa. «Questa è per voi Miss Herbert: è una lettera, che vi ha lasciato Lord Norton all'interno del suo testamento»
«Cosa c'è scritto?»
Il notaio scrollò le spalle. «Non lo so. Il Lord mi diede il preciso ordine che venisse aperta solo da voi, e solo alla morte di Lady Maud. Ora, se volete scusarmi...ancora le mie più sentite condoglianze» e detto questo, uscì delicatamente dalla stanza.
Ethel osservò incerta George ed Alfred, quindi lentamente aprì la lettera e si avvicinò alla finestra, per vedere meglio.

14 Aprile 1900

Mia cara Ethel,
Mi immagino già la tua espressione di sorpresa nel constatare che ho lasciato una lettera privata a te, e non ai miei figli o a George. Non me ne vogliano, ma tu mi sei sempre stata cara. Forse per la tua indole mite e quasi “trasparente”, non ci hai mai dato problemi, né ansie. Eppure sei una ragazza -una donna, forse, quando leggerai questa mia- che ne ha passate molte già in tenera età. Sei orfana, e come tuo tutore mi sento in dovere di aiutarti, come ho fatto con tuo fratello George, come forse già saprai. Non posso donarti una rendita né una dote, non essendo tu mia figlia nemmeno acquisita. La cifra che ho lasciato a George è solo un piccolo inizio, che gioverà anche a te. Per questo ti lascio in dono nessun bene, ma solo un indirizzo. In questo indirizzo troverai tuo cugino di secondo grado, il reverendo John Herbert, che vive con sua moglie e i suoi figli. E' l'unico parente che vi è rimasto, mia cara Ethel, e spero che tu possa un giorno abbracciarlo. Perchè tutti, nel mondo, abbiamo bisogno di una vera famiglia. Tu e tuo fratello più di tutti.
Se ti sentirai sola, o avrai bisogno di aiuto, potrai contare su tuo cugino John, ne sono sicuro.

Che Dio ti protegga sempre, mia dolce Ethel.
Tuo,
Zio Alexander.


Le lacrime offuscarono la sua vista. Si portò la lettera al petto, cercando di placare i singhiozzi che le scuotevano il petto. Sentì l'abbraccio del fratello, la sua colonia impregnarsi sugli abiti. Si lasciò consolare, la lettera ancora stretta al petto.
Quando finì di versare tutte le lacrime si asciugò gli occhi e mostrò al fratello e a George la lettera e l'indirizzo allegato.
«Bushmills?» lesse Alfred, confuso.
«Pare che sia nella contea di Antrim, nell'Ulster. Mai sentito in vita mia» commentò George serio. «Perchè non vai a trovarli?» chiese poi, osservando la sorella.
Ethel deglutì, gli occhi gonfi di lacrime. «Tenterò, prima di partire. Salperemo da Belfast, spero non sia così lontano da questa...Bushmills»
«Ma non sei contenta? Hai un cugino, un parente...» commentò incoraggiante Alfred.
«E cosa me ne faccio, ora che sto partendo?» precisò Ethel amareggiata, facendo per uscire dalla stanza.
«E allora nemmeno mi saluti?» precisò Alfred. Ethel si fermò, girandosi verso di lui.
«Cosa? Vai già via?»
Alfred annuì. «Riparto oggi, starò via qualche giorno. Il tempo del mio trasferimento...»
«Trasferimento...?»
«Si. Torno ad abitare qui» precisò Alfred, sorridendo «è quel che avrebbe voluto mamma, ed anche mio padre. George si occuperà della tenuta finchè non tornerò, e poi sarà libero» annunciò, cingendo le spalle dell'amico, che sorrise appena di rimando.
«Davvero...davvero lasci Londra?» chiese confusa Ethel.
«Sì, perchè ti sorprendi tanto? Non ho più nulla da condividere con quella città, ad eccezione del Parlamento. Ma ormai i treni sono veloci, basterà pernottare qualche giorno in hotel, durante le sedute importanti, e per il resto del tempo me ne starò qui...a curare le tue piante»
Ethel sorrise appena, sentendo le lacrime che risalivano di nuovo. «Grazie...che te ne occuperai tu, dico»
«Figurati, spero di esserne all'altezza»
Ethel sbuffò appena una risata. Poi si avvicinò e abbracciò delicatamente Alfred. «Addio, allora, Alfred. Buona fortuna per ogni cosa»
«Buona fortuna a te, Lulù» rispose il ragazzo, abbracciandola appena. Le posò un bacio sulla fronte, sorrise e la lasciò andare. Fu come se in quel momento ogni litigio, ogni screzio, ogni rancore venisse spazzato via dal dolore che li accomunava, e da quasi una vita trascorsa insieme.
Ethel lanciò un'occhiata al fratello, che come sempre aveva il volto privo di ogni espressione, quindi fece per uscire, lentamente. Incerta, sempre più confusa. Prese a camminare in quel castello vuoto e silenzioso, sospirando.
Non pensarci nemmeno, pensò tra sé. Lo hai inseguito fin troppe volte, ora è lui che deve farlo, se ti vuole.
Era vero, la sua razionalità aveva ragione. Aveva dato tre possibilità ad Alfred, e in tutte e tre aveva fallito. Non poteva più sprecare tempo ed energia per lui. Non aveva più ragioni per restare.
Non aveva più amici, non c'era più nemmeno Lady Maud. Rimanendo a Rose Castle, sarebbe stata comunque lontana da George, e sotto lo stesso tetto di Alfred e, sicuramente, anche di Daisy. Non poteva sopportare l'idea di vivere insieme ad Alfred, come una cugina zitella, sapendo che non avrebbe mai potuto averlo. No, bastava così.
Doveva pensare al suo bene. E il suo bene era dall'altra parte dell'Oceano.

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Capitolo 16
*** 16. Mr&Mrs ***


16. Mr&Mrs


NdA: Chiedo umilmente perdono, non mi è mai capitato di aver ritardato così tanto l'aggiornamento di una storia ç_ç ma tra lo stress da lavoro e l'estate, qui fatico ad andare avanti! Ma eccomi qui, chiedo venia, atterrando verso la fine di questa storia che, come sempre -e nonostante i miei ritardi disastrosi- spero vi continui a piacere :)




 
Belfast, 31 agosto 1911


Il porto era così affollato, quel giorno, che non si riusciva a camminare decentemente. Dovevano fermarsi ogni cinque minuti, per far passare facchini carichi di valigie e pacchi, vetture che strombazzavano, fiumi di gente che cercavano di non dividersi, dirigendosi compatti verso la nave che avrebbero dovuto prendere quel giorno. Probabilmente la stessa che avrebbe preso Ethel. Solo in quel momento si rese conto che lei, in vita sua, non era mai stata su una nave. L'aveva vista già dall'ingresso al porto, maestosa e magnifica, da incutere quasi timore.
«Viaggerai in prima classe?» la voce alta di George cacciò momentaneamente la sua paura.
Si limitò ad annuire, guardandosi intorno: Mallard ancora non era lì, ma il luogo d'incontro era proprio quello. Si sistemò, agitata, prima di osservare George al suo fianco e Charlotte, appena dietro di lei, che li stava raggiungendo. Riconobbe subito i facchini di Mallard, che aveva mandato per prendere i bagagli della sua futura sposa.
«Bene...allora io vado» annunciò George, vago.
Ethel gli prese la mano, stringendola. «No! Aspetta...» esclamò, cercando poi di modulare il tono di voce, da disperato a calmo.
George sorrise divertito, stringendo la mano a sua volta. «Hai paura che ti abbandoni e non si presenti?»
«No. Ma non voglio partire da sola, come un'estranea...» ammise sincera, ricevendo in risposta un abbraccio dal fratello. Si strinsero più che potettero, ricacciando indietro le lacrime.
«Non sei sola, Lulù...tu avrai sempre me. Sei parte di me...» sussurrò il fratello nel suo orecchio, stringendola ancora di più se possibile.
Ethel si lasciò andare in quell'abbraccio forte e deciso. Aveva una paura vergognosa: di partire, di sposare quasi uno sconosciuto, di stare da sola, lontano da tutti...di lasciare George, l'orfanotrofio...e Alfred.
«Grazie...grazie davvero...» mormorò Ethel nell'orecchio del fratello, rimanendo ancora abbracciati.
«Murphy! MURPHY!!» dovettero subito mollare la presa, sentendo quelle grida furiose. Ethel vide Charlotte arrossire e guardarsi intorno, speranzosa. Poi, dopo qualche istante, lo videro: sbucato da dietro un grosso lampione, il pasticcere di Rose Castle correva loro incontro, vestito di tutto punto con un bel cappello di paglia in testa. La pelle abbronzata dell'italiano spiccava tra tutti quegli anglosassoni.
«Mr Conti! Ma...voi che ci fate qui?» il tono di George era sinceramente curioso.
«Sssh, fallo parlare...» lo rimbeccò Ethel, emozionata. Sorrise alla sua cameriera, che rossa in viso gurdava il ragazzo riprendere fiato.
«Mr Herbert...Miss Herbert...scusate il disturbo» il povero Mark annaspava, le mani sulle ginocchia e il busto che si muoveva velocemente, cercando di ritovare un respiro regolare «Io...volevo chiedere una cosa a Miss Herbert»
«A me?» chiese Ethel, confusa «Dimmi pure, se posso aiutarti...»
«Sì, a voi miss. Volevo chiedervi...se la qui presente Miss Murphy vi fosse proprio necessaria, a New York. Sapete, c'è una mia cugina di secondo grado che abita proprio lì e che fa proprio la domestica! Non è che prendereste lei, già che si trova in città? E lascereste qui Miss Murphy?»
«E perchè dovrebbe?» chiese curioso George.
Ethel sollevò gli occhi al cielo: suo fratello aveva la sensibilità e il tatto di un toro.
«Perchè io me la vorrei sposare, a Miss Murphy, signore. Quindi se Miss Herbert mi fa la gentilezza di non portarmela via...»
«Conti!» brontolò imbarazzata Charlotte «non essere presuntuoso»
George ed Ethel si guardarono divertiti. «Sai, George...penso proprio che Mr Conti abbia ragione, le cameriere americane hanno un...tocco in più. E poi conoscono meglio la città, sapranno aiutarmi. Che dici?»
«Credo che sia un'ottima idea, si. Miss Murphy...potete andare» annunciò George, sorridendo appena, divertito.
«Ma...Miss io davvero non voglio crearvi disagio...» ammise Charlotte guardando Ethel.
«Charlotte...tu che puoi, sposati per amore. Vai» rispose la ragazza, prima di abbracciare la sua amica.
«Grazie...Ethel» rispose la cameriera, sorridendole.
«Ah, prima che me ne dimentichi! Non potrò esserci al vostro matrimonio, quindi vi do ora il regalo di nozze»
«Cosa? No, Miss davvero, voi avete fatto amche troppo, non serve...»
«Lasciala fare, Charlotte, di solito non cambia idea» commentò divertito George.
Ethel aprì una delle due borse da viaggio e ne cacciò fuori un cofanetto di mogano, che porse a Charlotte.
«Queste te le regalo, dopo tutte le volte che me le hai fatte indossare. Le perle mi piacerebbe che le indossassi il giorno delle tue nozze, ma gli altri gioielli puoi venderli se vuoi...ne ricaverai abbastanza per un nuovo inizio»
«Miss, io non posso accettare, davvero...» ammise Chalotte, arrossendo.
«Mi sembra il minimo per averti fatto perdere il lavoro» disse George intromettendosi nella disputa.
«Esatto. E perchè sei mia amica, l'unica che ho. Scriverò il mio indirizzo a George, una volta arrivata, e lui te lo manderà così potrai scrivermi, ogni tanto»
«Lo farò, certo...Grazie mille ancora allora, e buona fortuna per tutto» annunciò Charlotte, osservandola. Ethel sapeva che cosa le stava chiedendo, con lo sguardo: se era sicura che partire fosse la scelta giusta.
Le sorrise in tutta risposta. «Vai...non ti preoccupare, vai»
Charlotte sorrise e strinse la mano a Mark, entrambi emozionati e sorridenti.
«Pronta?» chiese Mark.
«Pronta...» mormorò Charlotte, felice.


«Tutto bene?» chiese George alla sorella, una volta che Charlotte e Mark sparirono tra la baraonda di gente.
«Sì...tutto bene...» annunciò Ethel sorridendo appena. «Riesci a vedere Mr Mallard? Ormai dovrebbe essere qui» qualcosa, nel petto, cominciò a crescere. Speranza. Speranza che Mallard non si sarebbe presentato, o magari fosse già partito, o...
«Eccolo là» annunciò George senza enfasi, indicando un punto davanti a lei. «Allora...io vado, mh?»
«Cosa? Non aspetti che salgo?» chiese Ethel, con l'angoscia nel cuore. L'ultima speranza si era sciolta davanti a lei, come burro al sole.
George scosse la testa. «No, Lulù, è meglio che non mi veda...magari si offende. Allora...arrivederci, Lulù, e scrivimi presto»
L'abbraccio fra i due gemelli fu lungo e forte, come se non volessero lasciarsi più. Gli occhi di Ethel si riempirono di lacrime mentre George la salutava e andava via, sparendo tra la folla.
«Miss Ethel! Perdonate il mio ritardo, sono imperdonabile, davvero. E' tanto che aspettate?»
Mr Mallard aveva un'aria agitata e preoccupata, ma cercava di sorridere verso la sua futura sposa.
«Sì, cioè no! No non è tanto che aspetto»
«Meno male. E la vostra cameriera?»
«Ci ha ripensato, ed ho preferita lasciarla qui...»
«Avete fatto bene, le cose contro voglia non sono mai le migliori...»
Sono pienamente d'accordo, pensò amareggiata Ethel, limitandosi a sorridere.
«Andiamo?» annunciò Mallard, porgendole il braccio. Sorrideva, ma fingeva solamente.
Ethel sorrise appena di rimando, stringendogli il braccio. Ogni passo verso la passerella della nave, ogni singolo passo era pesante, come se avesse delle pietre incollate ai piedi. Ogni respiro sembrava stringergli il cuore, soffocarla. Perchè? Perchè doveva fare una scelta obbligata, costretta solo dall'idea di doversi per forza sposare? Non poteva semplicemente...non sposarsi? Essere solo Ethel? E quei suoi parenti irlandesi? L'avrebbero accolta?
«Biglietti per favore» annunciò serio lo stuart in fondo alla passerella, bloccando il passaggio ed attendendo i biglietti.
«Oh si certo, aspetta un attimo cara» annunciò nervoso Mallard. Gli tremavano le mani e gli cadde il cappello, nella ricerca dei biglietti. «Dove diavolo sono...» brontolò agitato.
«Mallard» Ethel lo richiamò, istintivamente, senza nemmeno accorgersene «Posso parlarti?»
«Cosa? Si, si certo...un attimo» annunciò serio Mallard, raccogliendo le sue cose e spostandosi dalla fila.
«Ascolta Mallard, noi...io non...non ce la faccio...» ammise Ethel, il tono mortificato.
Il giovane la guardò qualche istante, serio, prima di sorridere. «Stiamo facendo una stupidaggine, vero?»
Ethel sorrise, sollevata, riprendendo quasi a respirare. «Credo proprio di sì, amico mio...»
«Lo so, hai ragione cara. Non sapevo come dirtelo, avevo paura di...abbandonarti, ecco. Ma ti saresti stufata di me velocemente, credimi»
«E tu di me, ne sono sicura»
«Che farai, ora?» le chiese, preoccupato.
«Andrò a trovare dei miei lontani parenti, non dovrebbe essere tanto lontano da qui. Andrò alla stazione e prenderò il primo treno. Non voglio tornare a Rose Castle, non...non voglio rivedere Alfred. Voglio fare quel che voglio, voglio solo essere me stessa»
«Ed io me stesso, mia cara Ethel. Quando tornerò a casa lascerò l'agenzia di mio padre, odio quel lavoro. Voglio aprirmi dei grandi magazzini d'abbigliamento! Che ne dici?»
«Credo che sia una splendida idea» commentò Ethel sorridendo. Lo abbracciò, sinceramente. «Grazie, davvero, per tutto quello che hai fatto per me. E scusami, se puoi»
«Scusami tu, Ethel. E grazie...scrivimi, quando sarai dai tuoi parenti, te ne prego» annunciò il ragazzo, prima di baciarle la mano e sorriderle. Poi girò i tacchi, mostrò il suo biglietto allo stuart e salì sulla passerella. Salutò Ethel, che ricambiò, prima di entrare nella nave e sparire.
Ethel deglutì, sollevata ma spaventata. Era libera. Era libera da ogni decisione, da ogni scelta, da ogni obbligo. Era solo lei e la sua borsa, non aveva nemmeno degli abiti da potersi cambiare. Sorrise divertita, affatto preoccupata o ansiosa: avrebbe ricomprato qualcosa una volta arrivata da suoi parenti, aveva ancora qualche gioiello da poter vendere. Poi avrebbe scritto a George, sperando sarebbe venuto a trovarla, e avrebbe trovato lì in Irlanda qualcosa da fare. Non avrebbe più fatto scelte stupide o avventate, solo per far piacere a qualcun altro, o solo per dovere. Sarebbe stata libera.
Prese a camminare verso l'uscita del porto, chiedendo scusa e avanzando a fatica, tenendo ben stretta la borsa a sé. Tutta quella gente le faceva venire l'ansia: non riusciva a reggere il troppo caos, come quando erano a Londra. Vivere in un paesino sarebbe stato perfetto. Lontano dal rumore cittadino, ma con l'essenzialità a portata di mano. Forse suo cugino aveva una fattoria, o una piccola serra. Si sarebbe presa cura dei fiori e delle piante...almeno loro non l'avrebbero delusa.
«Ma insomma, signorina, vogliamo muoverci?!» esclamò un grosso signore dietro di lei, che evidentemente andava di fretta.
Ethel arrossì, facendosi da parte e brontolando scuse generiche. Riprese a camminare, più veloce di prima, uscendo finalmente dal porto. Fuori, un marasma di taxi, macchine e omnibus che si fermavano, facevano scendere fiume di persone, e ripartivano alla velocità della luce.
Deglutì, ricordando solo in quel momento di non aver mai preso un omnibus in vita sua. Forse avrebbe potuto prendere un taxi, almeno fino alla stazione dei treni. Aprì appena la borsa, controllò di aver denaro sufficiente per la tratta, quindi prese a fare pazientemente la fila per uno di essi. Davanti a lei c'erano almeno altre quindici persone, che attendevano in piedi. Continuava a guardarsi intorno, preoccupata: non aveva mai viaggiato da sola, e la preoccupava avere tutta quella gente attorno. E se l'avessero derubata?
Non essere sciocca, fai la fila come tutti gli altri e non fare la faccia da turista, pensò tra sé facendo un bel respiro e continuando pazientemente ad aspettare. I taxi venivano riempiti velocemente ma impiegavano un'eternità a tornare. Osservò l'orologio all'ingresso del porto: era già mezz'ora che aspettava, e nessun taxi all'orizzonte. Sbuffò, spazientita, prima di sentirsi afferrare per un braccio ed essere trascinata via dalla fila.
Fece per gridare, ma si girò verso il suo aguzzino.
«George!» esclamò sconvolta, liberandosi dalla sua presa «ma ti ha dato di volta il cervello?! Mi hai spaventata»
«Era proprio quello che volevo fare, Lulù. Sei impazzita a prendere il taxi da sola?»
«Beh, io ero da sola, dove volevi che andassi? Piuttosto...che ci fai tu qui?» chiese Ethel accigliata, capendo solo in quel momento che, un'ora prima, George l'aveva salutata.
«Lulù...ti ricordo che sono tuo fratello. Avevo capito che non avresti preso quella nave da circa un mese. Ho solo aspettato che uscissi dal porto, e che capissi che senza di me non vai da nessuna parte»
«Ah beh, grazie. Sono grande abbastanza da...»
«Ma per favore, che non sai nemmeno come si paga un taxi» brontolò il fratello, facendole cenno di seguirla.
Ethel tuttavia non si mosse da lì, fissandolo offesa.
«Se mi avete rinchiuso in una teca di vetro per ventotto anni non è colpa mia, sai?» precisò lei, seccata.
George sospirò, tornando indietro da lei. «Hai ragione...scusa, ma non mi piace che vai in giro da sola. Almeno prima devi imparare a fare da sola. Dove vuoi andare?»
«Alla stazione. Voglio prendere un treno per Bushmills»
«Ti accompagno con la macchina, allora. E ti faccio salire sul primo treno»
«Come? Non...non vieni con me?» chiese Ethel, seguendolo solo in quel momento verso la sua vettura.
«Hai detto che volevi andare da sola, no? Allora andrai da sola...»
«Ma...sto andando a trovare i nostri ultimi parenti rimasti vivi, Georgie. Perchè non vieni anche tu?»
«No, non posso. Ho da fare»
«E cosa, di preciso?»
«Devo andare a sposarmi...» precisò George ironico, facendole un occhiolino mentre la faceva salire sulla vettura.
Ethel sorrise raggiante, sistemando la borsa nei sedili dietro di lei. Si rilassò, diretti verso la stazione degli autobus. Le cose, pian piano, si sarebbero sistemate. «»




Non poteva immaginare che, per arrivare a Bushmills, il treno avrebbe impiegato quasi cinque ore. Seduta comodamente nel suo vagone di prima classe, dopo un lauto pranzo, vedeva la campagna che velocemente veniva sostituita da case e strade.
Era agitata, non sapeva che cosa avrebbe trovato una volta arrivata in paese. Non sapeva se Bushmills fosse un villaggio per bene o un porto di mare. E i suoi parenti? Forse erano dei criminali, o magari non l'avrebbero accolta e sarebbe dovuta tornare indietro, fino al Norfolk. Sarebbe stata capace di viaggiare da sola per così tanto tempo?
Non fare la bambina frignona, la voce della sua razionalità le fece mantenere il controllo e la calma. Il treno cigolò, le rotaie fischiarono metallicamente. Si stavano fermando.
Cominciò ad alzarsi lentamente, quindi recuperò il suo unico bagaglio e, una volta fermi, scese quasi per prima dal treno. Si guardò intorno, osservando i pochi viaggiatori che erano scesi a quella stazione, e gli altrettanti pochi presenti fermi sulla banchina. Quel villaggio doveva essere veramente piccolo.
Uscì dalla stazione, ritrovandosi su quella che doveva essere la strada principale, nonché la più trafficata. Un pomeriggio soleggiato e fresco l'aveva accolta, e subito sentì una strana sensazione. Come un sentimento di appartenenza. Le case, lì, era state costruite una dietro l'altra, basse e grigie, con tetti e porte variopinte per bilanciare i colori scuri del materiale di costruzione. Vedeva un piccolo parco pubblico, in lontananza, e una sfilza di piccoli negozi locali, scritti in inglesi e in quello che suppose fosse gaelico.
Si guardò intorno, sospirando. Dove avrebbe trovato i suoi parenti? Entrò nel primo negozio che si ritrovò vicina, per cercare informazioni. Era un locale piccolo ma accogliente, con ampi scaffali in legno che esponevano stoffe di ogni tipo.
«E' permesso?» chiese, alzando appena la voce.
Dalla porta dietro il bancone uscì una donna in carne, capelli neri come la pece ed occhi scuri, tanto da sembrare più di origine italiana che irlandese.
«Mi dica pure, signorina» annunciò la donna, sorridendole.
Ethel si fece coraggio, avvicinandosi. «S-salve, vorrei un'informazione se possibile...sa dirmi per caso dove posso trovare John Herbert?»
La donna si accigliò, perplessa. «John Herbert...Ce ne sono tanti che si chiamano così, può essere più specifica?»
Il cuore di Ethel perse qualche colpo, ma non la speranza. «Dovrebbe essere il Reverendo del paese...»
Gli occhi della donna s'illuminarono. «Oh il Reverendo dici, certo! Sei una sua parente?»
Ethel sorrise sentendosi dare del “tu”: quella donna le era già simpatica. Annuì e dalla borsa prese l'indirizzo lasciatole da Lord Norton. La donna annuì, soddisfatta.
«Una cugina di secondo grado...credo. In verità sono venuta a conoscenza della sua esistenza da poco. Può dirmi per caso come posso arrivare a casa sua? Magari con un taxi o...»
La donna rise divertita, osservandola. «Sei una ragazza di città, vero? Altrimenti sapresti che qui non esistono i taxi! Ma c'è comunque un modo per arrivarci...SAAAAAM!» gridò, muovendo appena la testa verso la porta da cui era entrata in negozio. Da lì, dopo qualche secondo, ne uscì un ragazzino alto e magro, con folti capelli rossi e una spruzzata di lentiggini sul viso.
«Che c'è?» chiese il ragazzo, assonnato.
«Prepara il carretto, e porta questa signorina a casa del Reverendo. E non correre troppo! E non darle noia!» precisò l'apprensiva donna verso il ragazzino, che annuì sbuffando.
«La ringrazio, Mrs» rispose Ethel, sinceramente.
«Murphy, Mrs Murphy cara. Ma chiamatemi pure Elizabeth. Andate ora...e benvenuta a Bushmills!» esclamò la donna mentre Ethel usciva dal negozio. Le sorrise, da oltre vetrina, prima di salire sul carretto insieme al giovane figlio della commerciante, diretta verso la casa del Reverendo.


Il viaggio non fu lungo, ma alquanto avventuroso. Il Reverendo viveva in campagna, ed il tragitto tra il piccolo paese e l'enorme campagna irlandese consisteva nell'attraversare una mulattiera, piena di buche e massi, con greggi di mucche e pecore che attraversavano in folti gruppi, facendoli attendere.
Tuttavia Ethel non si lamentò: adorava la campagna e potè godersi il clima mite di quell'estate, con il sole che brillava nel cielo illuminando il verde intenso delle colline intorno a loro. In quel momento capì perchè l'Irlanda veniva chiamata dai poeti “L'isola smeraldo”. Qualunque cosa fosse intorno a loro, dal prato ai fiori fino agli alberi, aveva colori intensi e brillanti grazie alle innumerevoli piogge che si abbattevano sull'isola. Piogge che, in quel giorno, avevano deciso di risparmiarla dall'inzupparsi dalla testa ai piedi.
«Siamo quasi arrivati Miss!» esclamò Sam vicino a lei, e con una mano libera dalle redini del carretto indicò una piccola villa a due piani, avvolta da un bel giardino curato e circondata da un recinto di legno.
Era un'abitazione di campagna a pianta quadrata, con le persiane di legno, l'edera che si arrampicava su parte della parete frontale, coprendo quasi del tutto il secondo piano ad eccezione delle ampie finestre che si affacciavano sull'ingresso.
Sam fermò il carro davanti al cancello, quindi l'aiutò a scendere e le prese l'unica borsa che aveva. Aprì il piccolo cancello e attraversarono il vialetto. Ethel si guardò attorno: il giardino circondava tutta la piccola villa, con una cura maniacale che poteva solo far intendere l'amore e la dedizione dei padroni di casa. Un'altalena appesa ad un grosso faggio, delle panchine di pietra vicino ad una fontana, aiuole di rose e gelsomino, una piccola serra che sbucava da dietro la tenuta...sembrava un piccolo paradiso in terra.
La porta si aprì, mostrando una donna sulla quarantina, i capelli grigio-neri raccolti in uno chignon. Si pulì le mani sul grembiule stretto in vita mentre fissava Ethel, curiosa.
«Si?»
«Buongiorno signora, lei non mi conosce...ed anzi mi scuso per il disturbo arrecato. Mi chiamo Ethel, Ethel Herbert e...»
«Herbert hai detto?» la interruppe la donna, sorridendo radiosa «devi essere la cugina di John allora! Vostro zio ci ha inviato una lettera, anni fa»
Ethel sorrise incerta. «Ho saputo di voi solo pochi giorni fa, Mrs...»
«Cathleen, chiamami pure Cathleen. Siamo cugine acquisite no? Vieni, entra pure. Sam, ringrazia tua madre per aver accompagnato Miss Ethel da noi»
Ethel salutò Sam quindi varcò la soglia della porta, ritrovandosi nel piccolo ingresso.
«Prego, poggia pure le tue cose qui, le sistemeremo dopo» annunciò Cathleen.
Ethel si sfilò il cappello e la giacca di dosso, appendendole insieme alla sua borsa.
«Hai viaggiato molto leggera, hai fatto bene»
«In verità ho...beh, a quest'ora avrei dovuto prendere una nave per le Americhe ma ho cambiato idea. I bagagli erano già in stiva, quindi fra qualche mese torneranno nel Norfolk, immagino. Ho comunque del denaro con me per comprarmi le cose necessarie»
«Oh non volevo insinuare questo cara, non preoccuparti» precisò Cathleen sorridendo «Siediti pure, vado a chiamare John. Sarà così felice...» annunciò, indicandole un divano, l'unico presente nel salotto.
Ethel si accomodò e attese qualche minuto, il ticchettìo dell'orologio a pendolo come unica compagnia. Agitata, non faceva che guardare la porta da cui era sparita la moglie di suo cugino. E se non l'avesse voluta conoscere o, peggio, ospitarla? D'altronde lei non sapeva fare nulla, non poteva aiutarli in nulla, era solo un peso. Avrebbe chiesto denaro a George, ma fra qualche tempo, aveva anche lui le sue spese. E avrebbe cercato di tenersi occupata e di meno peso possibile.
Ma forse John non voleva affatto conoscerla, o forse si sarebbe rivelato una cattiva persona. O forse...
La porta si aprì e lei scattò in piedi, il cuore in gola. Vide entrare prima Cathleen, sorridente, e poi un uomo alto e dall'aria curiosa e serena. Aveva lo stesso colore di occhi e capelli di George, e somigliava scandalosamente a suo padre. Sentì subito gli occhi velarsi di lacrime ma cercò di trattenersi, seppur anche John avesse gli occhi lucidi.
«Ethel, vero...?» mormorò l'uomo, avvicinandosi.
«S-sì, e tu sei John...» non era una domanda, ovviamente.
John sorrise, emozionato, prima di abbracciarla in un caldo abbraccio.
«Benvenuta a casa, cara Ethel» mormorò il cugino.
«Io...mi dispiace aver disturbato, ma non sapevo dove andare e non volevo tornare a Norfolk, allora ho pensato che sarei potuta venire qui ma se arreco disturbo io...»
«Non essere sciocca, perchè dovresti arrecare disturbo?» intervenne Cathleen, sorridente «sei parte della famiglia, ed anche John pensava di essere l'ultimo della sua famiglia, no?»
John annuì, sorridendo felice «Infatti. Se non sai dove andare, cara Ethel, sei la benvenuta qui tra noi»
Ethel sorrise e, per la prima volta forse da quando ne aveva memoria, si sentì veramente a casa.


 
Arundel Castle, West Sussex, 3 Ottobre 1911


Fermò la vettura davanti all'ingresso principale del castello, sospirando. Come diavolo avrebbe fatto a convincere Lord Howard? Senza contare che probabilmente zia Adel era lì, da qualche parte, in attesa della sua piccola grande vendetta per essere stata cacciata da Little Hall qualche mese prima.
Avanzò lentamente e si fece annunciare dal maggiordomo che, in tutta risposta, lo guidò verso corridoi e scale, in un labirinto di stanze, salotti, tappeti persiani e vecchie armature medievali. Quella famiglia era chiaramente molto antica: alle pareti erano appesi quadri anche di cinquecento anni prima.
Il maggiordomo si fermò davanti ad una porta, prima di bussare ed entrare.
«Lord Howard, il Barone Herbert è qui in visita ufficiale e fomale»
«Oh, certo...fatelo entrare»
«Prego, signore» annunciò il maggiordomo verso George, che lo lasciandolo entrare. Si ritrovò così in un salotto intimo e raccolto, con un camino acceso, alte e ampie librerie e comodi divani. Su uno di essi erano seduti Lord Howard e Cassie, che lo fissava confusa, rossa in viso. Su una poltrona invece, posizionata in un angolo come un avvoltoio, era ben comoda zia Adel, poggiata al suo bastone con le mani, che sorrideva divertita.
«Barone Herbert...» ripetè la vecchia megera, come se le suonasse strano quel titolo accostato al cognome del ragazzo.
«Buongiorno, Lord Herbert...Lady Howard...Miss...» George salutò formalmente tutti quanti, seppur gli occhi si fermarono qualche istante di più su Cassie, che sembrava come colpita da un fulmine.
«Sir Herbert, prego, accomodatevi. Immagino ricordiate mia figlia Cassandra» annunciò il Lord, facendo cenno al maggiordomo che prontamente servì del brandy ai due uomini.
«Si, signore. Miss Cassandra, state bene?» chiese George sedendosi e sbottonandosi il bottone della giacca.
Cassie arrossì e si limitò ad annuire prima di uscire velocemente dalla stanza, facendo calare il silenzio nella stanza.
Lord Howard sorseggiò il suo brandy prima di osservare con attenzione George. «Fa così da settimane, sapete? Mangia molto poco e spesso la sento piangere la notte. Temo che siate voi la causa del suo male, Sir»
George fu piacevolmente colpito dalla schiettezza del Lord, che lo fissava con estrema calma. «Me ne rammarico molto, Lord Herbert. E' mia intenzione rimediare, comunque sia»
«E come, di grazia?» intervenne Zia Adel, ridacchiando divertita «col vostro titolo nuovo fiammante»
«Il mio titolo non è nuovo, milady. La mia è una famiglia di antichi baroni, antica come la vostra. Ma se proprio non vuole bastarvi...ho questo per voi» annunciò George, estraendo dalla tasca interna della giacca un foglio ripiegato, che porse a Lord Howard.
«E' una lettera, scritta e firmata dal notaio di Lord Norton -ed anche mio- che mostra su carta la mie rendite annuali»
«Le 5.000 sterline derivate dal vostro titolo e dalla vostra presenza in Parlamento? Volete far vivere mia nipote con 5.000 sterline l'anno?» interruppe ancora zia Adel, sconvolta.
«No di certo, milady. Vedete, questa lettera elenca solo la mia rendita annuale delle mie fattorie in Cornovaglia, ereditate dai Norton, che Dio li abbia in gloria. Sono di mia esclusiva proprietà e gestione, ho quasi cento fattori e dipendente con me, e la mia rendita annuale, per esempio del prossimo anno, è stata calcolata di-»
«10.000 sterline...» mormorò Lord Howard, facendo quasi strozzare zia Adel col brandy. George, in cuor suo, sperò tanto che ciò potesse accadere.
«Esattamente. E' stato calcolato che Miss Cassandra potrebbe vivere in completa agiatezza come mia moglie, con questa rendita totale, per circa...settant'anni. E' bastevole?»
«Direi di si, Sir Herbert. E la vostra dimora in Cornovaglia, com'è? Adeguata per una Duchessa?»
«E' una villa vittoriana assai incantevole, Lord, ed una servitù composta per ora da dieci soggetti, che riescono tranquillamente a coprire la gestione di dieci stanze da letto. Oltre ovviamente a due giardinieri ed un pasticcere, appena arrivato da Parigi. Ovviamente vostra figlia avrà una sua cameriera personale, nuova o di vecchia amicizia, a sua discrezione»
Lord Howard fissò con attenzione George, scrutandolo attentamente. «Avete lavorato molto in soli due mesi, come avete fatto? Non mi starete ingannando?»
«Se la firma di un bravo notaio non vi basta, Lord, potete sempre venire in Cornovaglia e guardare voi stesso, sfogliare i miei registri e calcolare voi stesso i miei guadagni. Le terre erano già avviate e i fattori esperti, quel che ho aggiunto io è stata un'ottima gestione del personale...e un tocco di fortuna e di colpi di testa, che ogni tanto fanno solo che bene»
Lord Howard sorrise, finalmente «State pur certo che controllerò di persona, prima di affidarvi la mia unica figlia. Ovviamente i titoli nobiliari verranno separati, così che mia figlia possa rimanere una Duchessa»
«Ovviamente»
«...e ovviamente prima devo capire se mia figlia è d'accordo su questo matrimonio»
«SONO D'ACCORDO!» gridò Cassie da oltre la porta chiusa, facendo sorridere George e Lord Howard.
«Bene...non devo fare altro, allora, che venire a trovarvi nella vostra tenuta, Sir Herbert» annunciò Lord Howard alzandosi dalla poltrona.
«Vi aspetto, milord» rispose George facendo altrettanto. Uscì dalla stanza per ultimo, incrociando Cassie nel corridoio. Lord Howard lanciò loro un'occhiata, poi sospirò e porse il braccio a zia Adel, che borbottando si allontanò dai due.
«Ciao...» mormorò George, cercando la mano di Cassie, che dolcimente se la lasciò stringere.
«Ciao...io...» mormorò Cassie, gli occhi colmi di imbarazzo.
«Volevo solo essere un buon partito per tuo padre...»
«Lo vedo» ammise la giovane, gli occhi fissi su quel nodo legnoso del pavimento proprio davanti ai suoi piedi «e Miss Norton?»
«Miss Norton...» ripetè George, sbuffando. Prese anche l'altra mano di Cassie, stringendole tra le sue «Non c'è mai stata nessuna Miss Norton, Cassie. Daisy ha solo cercato di ottenere un capriccio, qualcosa che lei avrebbe voluto...ma che non ha mai ottenuto. Ora è lontana, a Londra, a rovinarsi la vita in qualche maniera, passando da letto a letto»
«E tu? Non eri fatto in una sola maniera?» chiese la ragazza, con aria saccente.
George sorrise appena. «Sono cambiato, per te. Ho preferito rimboccarmi le maniche anziché farmi campare da Alfred. E comunque sia, lo avrei fatto comunque. Avevo solo bisogno della giusta...spinta» precisò, osservandola intensamente.
«Dunque...» mormorò Cassie.
«Dunque sono cambiato per te, sei tu la mia spinta. E se tu vuoi davvero, io vorrei diventare tuo marito, Cassie»
«Facciamo fra una settimana?» commentò ironica Cassie.
George sorrise divertito, si guardò intorno prima di stringerla a sé con entrambe le braccia, con passione. «Pazienza, pazienza...in primavera faremo una bella festa»
«George, sei impazzito? Ci possono vedere» mormorò la ragazza, arrossendo.
«E che ci vedano! Sai che m'importa...» brontolò George prima di baciarle una guancia e sciogliere poi l'abbraccio.
«Fino a prova contraria, sono ancora una giovane rispettata» precisò Cassie, sistemandosi l'abito.
«Oh beh, in tal caso...prego Miss Howard, meglio non far arrabbiare vostro padre» annunciò George, porgendole il braccio e sorridendo divertito.

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Capitolo 17
*** Christmas' Here ***


17 . Christmas' here


NdA: ed eccoci arrivati alla fine di questa storia! Ringrazio tutti voi, singolarmente, per avermi seguito con pazienza e amore -anche quando sparivo xD-. Spero che vi sia piaciuto e vi attendo nell'Epilogo.
Grazie a tutti voi!

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Bushmills, 10 Dicembre 1911
 
Mia cara Charlotte,
sono felice che le cose a Londra stia proseguendo nella maniera migliore possibile. Ho apprezzato molto la tua ultima lettera, ho visto la foto del vostro matrimonio, eravate bellissimi.
Spero che la pasticceria prosegua a gonfie vele, e spero anche di potervi venire a trovare in primavera.
Per quanto mi riguarda qui procede tutto bene. Mio cugino John è così gentile con me, e sua moglie così buona. Ho una stanza tutta per me, e mi occupo del loro giardino e della loro serra: probabilmente la prima baronessa giardiniere femmina! Oltre al giardino studio molto, vorrei un giorno diventare infermiera. Inoltre seguo ancora il St.Mary's, non certo come Direttrice ma ricevo spesso lettere per consigli e domande da parte della mia sostituta.
Le giornate trascorrono velocemente, mi tengo molto occupata nelle mie varie attività, e Rose Castle non mi manca affatto. Lì ormai non c'è nulla o nessuno che mi possa far pensare con malinconia a quel posto.
Non ho notizie dei suoi abitanti, George mi ha solo riferito che Miss Norton è ancora a Londra ed è molto cambiata, ma non ha aggiunto altro nella sua lettera e, sinceramente, poco mi importa. Ora la mia vita è qui, ed è un'altra.


Spero di rivederti molto presto amica mia.
Tua,
Ethel.


Sollevò gli occhi verso l'ampia finestra davanti a sé. Grandi fiocchi di neve vorticavano nel cielo, nero e coperto da grigie nubi. Uno spesso strato di neve già ricopriva ogni superficie tangibile, e nevicava solo da un'ora appena. Prima di cena, constatò John, ci sarebbe stata tanta neve da dover aprire un sentiero per poter camminare in giardino. Non che si potesse andare chissà dove con quel tempo. Il freddo glaciale che proveniva dalla vicina costa aveva congelato ogni albero, filo d'erba e zolla di terra. La neve cadeva copiosa e loro erano a miglia di distanza dal paese più vicino, senza contare che erano appena le cinque ed era già buio pesto.
John, Cathleen e lei avevano trascorso le ultime settimane a raccogliere legna, fare provviste e prepararsi per l'inverno. Ethel era stata entusiasta di poter aiutare suo cugino, ed in generale di poter fare qualcosa di utile: non aveva mai preparato le provviste invernali, a Rose Castle non ve n'era praticamente bisogno. Ma lì, in Irlanda, a Bushmills...era essenziale, ed il clima più capriccioso di una donna francese.
La pendola battè le cinque e mezza e puntualmente Cathleen entrò con il vassoio del thè, sorridendo.
«Oh qualcosa di caldo ci voleva proprio cara» annunciò John alzandosi dalla poltrona e chiudendo il suo libro di preghiere. Ethel lo imitò, ripiegando la lettera appena scritta e riponendola in una busta: l'avrebbe mandata non appena sarebbe stato possibile dirigersi in paese.
«Grazie Cathy» mormorò una volta seduta vicino agli altri, prendendo la tazza servita dalla cugina acquisita. Rimasero in silenzio per una manciata di secondi, assaporando quel tepore intimo dato dal fuoco acceso, il thè fumante e la neve, fuori dalla piccola casa, che tappava ogni suono o alito di vita: non si sentiva volare una mosca, dentro o fuori la sala.
«Sai, Ethel...» annunciò alla fine Cathleen, vaga, poggiando la sua tazza sul piattino «stavamo pensando, io e John...che magari per Natale potremmo andare tutti in Cornovaglia, da tuo fratello. Vorremmo molto conoscerlo»
«Certo, non vedo perchè no. Sempre che riusciamo ad arrivare a Bushmills, con questa neve» rispose Ethel, sorridendo appena.
«Oh da qui a quindici giorni sono sicuro che andrà meglio, vedrai. Qui in Irlanda non nevica mai tanto, l'ultima volta che si è raggiunto il metro di neve forse è stato..cento anni fa» commentò John, ridacchiando.
«In tal caso, sarò felicissima di farvi conoscere mio fratello George e la sua fidanzata Cassie, che immagino per l'occasione trascorrerà anche lei il Natale in Cornovaglia, con il resto della sua famiglia»
«E' deciso, allora. Sarà un Natale fantastico!»
«Ed il primo dopo tanti anni che celebriamo in compagnia, cara»
«Vero, si...e così anche tu, Ethel, avrai modo di rivedere la tua famiglia e...»
«La mia unica famiglia siete voi, e George» precisò Ethel, seria. Sentì gli sguardi di John e Cathleen addosso, così si limitò a sorridere «non mi è rimasto nessun altro»
«Ma se non sbaglio, cugina, sei cresciuta insieme a due giovani tuoi coetanei, e...»
«Miss Norton vive stabilmente a Londra, e ci odiamo a vicenda» la corresse Ethel, seria «In quanto a Lord Norton...» si zittì, deglutendo a fatica.
Alfred.
Erano almeno quattro giorni che non pensava a lui, ma quel pensiero l'aveva fatta ricadere nell'abisso di memorie e rimpianti. Il suo ricordo la perseguitava, l'idea di non aver sposato Mr Mallard né tantomeno lui, di non aver regolato nessun conto, di non aver risolto nulla...di non averlo più visto, né sentito sue notizie.
Forse era in America, forse era già sposato con Candice, forse aveva ripreso in mano la sua finta vita e...
«Cara, tutto bene?» la voce calma di Cathleen la fece tornare alla realtà. Si limitò ad annuire e sorridere appena, prima di riprendere a bere il suo thè.
«Organizzeremo il viaggio con calma» si limitò a dire John, avendo notato un cambiamento nella cugina «d'altronde non abbiamo mica fret...»
La frase di John venne interrotta, a sorpresa, dal suono squillante del telefono, l'ultimo acquisto di casa Herbert, e probabilmente l'unico in tutta la zona.
«Oh cielo, e chi sarà mai adesso?» chiese preoccupata Cathleen.
John si alzò, serio. «Vado io cara, state pure qui» annunciò. Uscì dal salotto, chiudendo la porta. Lo sentivano parlare, la voce ovattata per via delle porte chiuse. Ma sembrava alquanto scosso e perplesso. Cathleen ed Ethel si osservarono più volte, confuse, rimanendo in silenzio.
La porta del salotto si aprì dopo qualche secondo, e John rientrò nella sala accomodandosi sulla sua poltrona.
«Chi era caro?» chiese Cathleen, osservandolo.
«Era Mrs Murphy, della merceria di Bushmills. Dice...dice che c'è un uomo, all'osteria del paese, che sta cercando un modo per arrivare qui da noi. Dice che vuole parlare con te» rispose John, andando a guardare Ethel.
«Me?» sottolineò confusa Ethel, cercando di capire chi potesse mai essere. Non certo Mr Mallard, sapeva dalle sue ultime lettere che era felicemente stanziato a New York. «Oh cielo non sarà mica George? Forse ha bisogno di aiuto e..»
«No cara cugina non preoccuparti, non è George» precisò subito John, calmo.
«Come...fai a saperlo? Mrs Murphy ti ha dato un nome?» chiese Ethel, osservandolo.
John deglutì, sorridendo appena. «Mrs Murphy...lo sai quanto male riesca a non capire un accento che non sia irlandese, no? Hai problemi anche tu, ricordi? Magari ha capito male e...»
«John, che nome ti ha dato Mrs Murphy?» insistè Ethel, fissandolo.
«Norton. Lord Norton»
Fu come se una secchiata d'acqua fredda si rovesciasse improvvisamente su Ethel, facendole sgranare gli occhi. Alfred? Alfred era arrivato fin lì, in Irlanda, sotto la neve ed il freddo, per lei? Che cosa diavolo voleva...? La risposta la sapeva benissimo: probabilmente aveva rotto con Candice, di nuovo, e stava cercando in Ethel un porto sicuro a cui promettere mare e monti prima di tornare dalla sua fidanzata ufficiale, fra qualche giorno.
No, pensò, non gli avrebbe permesso di umiarla ancora.
«Richiama pure Mrs Murphy, e dille che Miss Herbert non ha nessuna intenzione di riceverlo» annunciò calma, alzandosi dalla poltrona.
«Ma cara, ha fatto un lungo viaggio, voleva venire da Bushmills a qui a piedi, ha la vettura rotta e...»
«Non m'importa, John. Non voglio vederlo, non voglio riceverlo»
«Ethel» la voce calma di Cathleen la richiamò alla razionalità e alla calma «riflettiamo un attimo. La tormenta non finirà prima di una o due ore, ed è ormai molto tardi per poter viaggiare. Lord Norton non potrà muoversi prima di domattina, e nel frattempo tu hai tutto il tempo per poter valutare i pro e i contro di questa visita. Mal che vada, avremmo conosciuto un tuo...amico di vecchia data, prenderete un thè e vi saluterete promettendovi di scrivervi ogni tanto. No?»
Ethel ascoltò attentamente la cugina, prima di annuire appena. «Va bene..» mormorò, prima di tornare seduta e finire il suo thè, in silenzio.

 
11 Dicembre 1911


Il mattino successivo la campagna irlandese fu svegliata da un sole intenso che, in aggiunta ad un freddo glaciale e quasi da record, ghiacciò ogni superficie calpestabile della terra.
Ethel aveva trascorso la notte in bianco, come una sposa emozionata per il suo grande giorno, ma la verità era che non sapeva che cosa aspettarsi dalla visita di Alfred. Era stufa delle sue promesse, delle sue romantiche frasi che poi non attuava mai, di aspettare...aspettare che lui decidesse, che si rendesse conto di quel che davvero voleva. Ed ora, cosa voleva? Fare altre promesse da non mantenere?
Si alzò dal letto, avvolta nel pesante scialle di lana. Il fuoco in camera era ancora acceso, alimentato tutta la notte. Si sedette sulla poltrona vicino ad esso, posando gli occhi sul tavolino affianco a lei. C'era una lettera, lì, poggiata da settimane. Recava l'indirizzo di Little Hall, ed il nome di un mittente che non si sarebbe mai aspettata: Daisy.
Non aveva il coraggio di leggere le sue offese, le sue ingiurie o prese in giro, le sue ennesime angherie. Voleva dimenticare, anche lei. Ma a quanto pare il destino le stava giocando brutti scherzi.
«Avanti, non fare la bambina» brontolò tra sé, afferrando la lettera ed aprendola.
 
Londra, 1 Novembre 1911

Non so come cominciare questa lettera, quindi dirò solo “Ciao Ethel”,
So che non vorresti vedermi o sentirmi, figuriamoci leggere una mia lettera. So che impiegherai ore, forse giorni per deciderti ad aprirla: ti capisco. Non ti amo nemmeno io, se è questo che stai pensando. Ci siamo arrecate odio e rancore per fin troppo tempo, e non pensare che la colpa sia solo mia. E' di entrambe. Ma non ti scrivo per chiederti scusa, o per riceverle. Ti scrivo per Alfred, che riempie entrambi i nostri cuori.
E' giusto che la verità venga fuori. Perchè la mia vita non ha più senso, ed ho sofferto troppo per poter andare avanti in questa maniera. Comincio a fare ammenda proprio da voi, chiedendoti scusa non per la mia gelosia verso di te, ma per quello che ti ho arrecato.
Se le cose tra te e Alfred non sono andate è stata colpa mia, sempre colpa mia. Quando lui era a Parigi ero io che intercettavo le vostre lettere, bruciandole e facendovi così credere che non vi fosse più interesse uno per l'altra. La prima volta che ti chiese di sposarlo lo feci ubriacare io, ed io lo gettai tra le braccia di altre. Lui non fece nulla, non a fatti, ma ovviamente l'alcool diede i risultati da me sperati. Anche l'ultima volta è stata colpa mia: Alfred stava venendo da te ma io e Candice ci siamo accordate per fermarlo, e lui è stato costretto ad abbandonarti.
La verità, eccola: ero gelosa, ero furiosa con voi. Non mi facevo capace di come Alfred, così ricco nobile e bello, potesse innamorarsi di te, così banale e semplice. Ma adesso ho capito, sai: gli uomini tascorrono le serate con me solo per la mia bellezza, ma nessuno vuole sposarmi, ho un carattere troppo strano, come dice George. Ho deciso di “arruolarmi” nella Croce Rossa, con la speranza di potermi così redimere e, in un certo senso, sposare una buona causa.
Ti sto scrivendo tutto questo perchè è Alfred che me lo ha chiesto. Lui ti ama ancora, sta venendo in quel buco dove ti trovi attualmente ed ha voluto che ti scrivessi, affinchè capiate entrambi che non è colpa vostra, ma mia e di Candice soltanto.
Non hai idea di quanto mi pesi scrivere tutte queste verità, denudarmi dalle mie menzogne...ma immagino che il cammino della redenzione cominci proprio da qui.


Vi auguro il meglio,
Daisy.


Ethel sollevò gli occhi dalla lettera, sconvolta, poggiando il foglio sul tavolino affianco a sé. Non sapeva cosa pensare. Era davvero una lettera di Daisy, quella? Non riusciva a crederci...eppure la calligrafia era sua, e lo stile anche. O avrebbe sinceramente pensato che avesse scritto sotto dettatura.
Daisy aveva creato tutto quel male. E se n'era anche pentita. Sbuffò, perplessa: davvero la vita era strana. Una persona altezzosa e snob come Daisy che va a curare i malati, chiedendo prima scusa per i danni fatti. Poteva davvero capitare una cosa simile?
Ma la questione era un'altra: Alfred. Ecco perchè era a Bushmills, perchè sapeva che Daisy le avrebbe detto la verità circa il loro passato. Le azioni di Daisy avevano portato una rottura tra loro, entrambi convinti che fosse colpa dell'altro, o di un ma cato sentimento...ma ora? Era tutto diverso, era tutto un altro punto di vista, che non aveva mai valutato. Non avrebbe mai pensato che Daisy sarebbe stata capace di tutto ciò. Non l'avrebbe perdonata, non subito almeno. Forse, col tempo...
«Ethel, cara? E' pronta la colazione» la voce di Cathleen dal corridoio interruppe il fiume del suo ragionamento.
«Arrivo!» esclamò, alzandosi e prendendo a vestirsi. Si impose di non indossare nulla di speciale o elegante: l'arrivo di Alfred non doveva sconvolgere la sua vita. Non più di quanto non avrebbe già fatto. Scese in salotto e consumò la sua colazione in silenzio, sentendosi addosso gli sguardi dei cugini. Poi si alzò, diretta all'ingresso e infilandosi cappotto, stivali, guanti e scialle.
«Se arriva qualche visita per me, sono nella serra!» gridò da lì, alludendo ovviamente all'unica visita possibile quel giorno. Una risposta chiara alle loro domande non chieste Quindi aprì la porta, venendo subito colpita dal freddo glaciale della costa irlandese, un freddo a cui a stento si era abituata ma che, tutto sommato, non le dispiaceva. Solo perchè sapeva che aveva un tetto sopra la testa ed un pasto caldo. E questo la riportò al pensiero del suo ex-orfanotrofio. Chissà cosa stavano facendo i bambini, e Joseph...
Aprì la porta della serra, sbattendo appena gli stivali e scuotendo l'orlo del vestito per evitare che la neve in eccesso entrasse nella struttura, bagnando il pavimento. Subito potè percepire il caldo stazionario dentro la serra, e sorrise fra sé. Si spogliò del soprabito e degli indumenti eccessivi, quindi si arrotolò le maniche sopra i gomiti e cominciò a controllare pianta per pianta, lucidando le foglie, annaffiandole o eliminando qualche foglia secca. Era troppo distratta per dedicarsi alle piante in maniera decisa e pratica. Troppo agitata. Guardava i limoni e le arance senza davvero osservarli, studiarne la crescita o una eventuale regressione o malattia.
Aveva il cuore che batteva come un martello e si impose di respirare regolarmente, di fingere che non ci fosse nulla da temere o...
«Ethel? E' permesso?» annunciò la voce educata e composta di Cathleen, aprendo la porta della piccola serra. Quando la cugina assumeva quel tono voleva dire che c'era qualcun altro presente, oltre a lei. Ethel sussultò, si ricompose e lentamente uscì da dietro una grossa pianta di limone.
«Eccomi Cathleen» annunciò, avvicinandosi lentamente. Potè così scrutare tra le foglie delle piante la figura di Alfred, imbacuccato in un pesante pastrano. Doveva gelarsi di freddo, lì, in confronto al clima più temperato di Norfolk o Londra.
«C'è qui Lord Norton, per una visita...vi porto il thè?» chiese la cugina.
Ethel sollevò gli occhi sul ragazzo, incontrandone lo sguardo: non era molto cambiato, rispetto a qualche mese prima. Sembrava solo teso, e nervoso, come forse lo era lei.
«Miss Ethel...»
«Lord Norton...benvenuto in Irlanda. Sì Cathleen grazie, portaci pure il thè» rispose Ethel pacata, parlando più di quanto si sarebbe mai aspettata.
«Bene...» Cathleen si strinse nel cappotto ed uscì dalla serra, richiudendo bene la porta.
«Togliti pure il cappotto, qui fa abbastanza caldo. O quando uscirai ti ammalerai» commentò seria Ethel, prima di girarsi e prendere a lucidare delle grosse foglie verdi ed esotiche.
«E così passi il tempo qui alla serra?» chiese Alfred come nulla fosse, togliendosi di dosso il pastrano. Le si avvicinò, affiancandola senza avvicinarsi troppo.
«Mi rilassa. Sto anche studiando, come infermiera»
«Ah si? Anche Daisy, sai? Beh lei veramente più come...»
«...come crocerossina. Lo so» precisò Ethel, senza guardarlo «mi ha scritto...»
«Davvero?» chiese Alfred, con la voce leggermente incrinata dall'agitazione.
«Già...» precisò lei, riprendendo a camminare. Alfred la seguì come un'ombra.
«Come ti trovi qui?»
«Bene, grazie. Il clima è un po' rigido, ma la calma è paradisiaca. Meglio di Londra sicuramente. Ma immagino che a te piaccia ancora»
«Non mi è mai piaciuta, in verità. Infatti adesso abito in campagna, verso Oxford. Vado a Londra solo quando necessario. Ho...venduto Little Hall e Blue House, la villa al mare. Con il ricavato ho acquistato un piccolo cottage in campagna»
«E Daisy dov'è andata ad abitare?» chiese curiosa Ethel, senza ancora guardarlo.
«Abita con un'altra ragazza, ha praticamente sperperato tutti i suoi soldi. Quando vogliamo ci ritiriamo a Rose Castle. Avrei dovuto venderla, ma...non ce l'ho fatta. Ho troppi ricordi in quel castello, ci siamo nati e cresciuti...papà non avrebbe voluto»
«Nemmeno Lady Maud, no. Hai fatto bene...» ammise Ethel «E così Lord Norton vive in un cottage...»
«Già, assurdo no? E George, che dice?»
«Immagino lo vedrai più tu di me, sicuramente. Dice che sta bene, che l'azienza procede bene e che in primavera si sposerà con Cassie. Sono molto felice per loro...»
«Verrai al matrimonio?» chiese Alfred.
Ethel annuì. «Anche prima. Mio cugino John voleva conoscerlo e pensavamo...di andare in Cornovaglia per Natale, partendo fra una decina di giorni circa. Neve permettendo»
«George ha invitato anche me, sai? Potremmo...sedersi vicini durante la cena, se ti va. Ti va?»
Ethel sollevò solo in quel momento gli occhi sul ragazzo. Deglutì, ma alla fine sorrise appena.
«Va bene...»
«Va bene?» chiese Alfred, come se non fosse sicuro.
«Si, va bene ho detto» precisò Ethel ridacchiando.
«Bene...ottimo...» mormorò il ragazzo, tornando in silenzio a guardare le piante.
La ragazza si sentì le dita sfiorare da quelle di Alfred e incerta rispose prima che il ragazzo le afferasse con dolcezza la mano nella propria.


 
24 Dicembre 1911


In Cornovaglia non nevicava mai, figuriamoci la Vigilia di Natale. Ma quell'anno la Provvidenza aveva voluto regalare una serata indimenticabile, magica.
Ethel non faceva che guardare fuori dalla finestra, incantata da quello spettacolo come fosse la prima volta che vedeva la neve ricoprire di bianco immacolato ogni cosa su cui si posasse. Ma forse sì, forse era davvero la prima volta che era felice a Natale, la prima volta che non pensava ai suoi genitori. Non nella maniera in cui aveva pensato a loro negli ultimi decenni. Osservò il riflesso che emanava il vetro della finestra, l'interno del salotto in cui si trovava.
Suo fratello George aveva fatto le cose in grande, e non solo per impressionare i suoi futuri suoceri. Anche lui, come Ethel, voleva festeggiare quel Natale come si conveniva, con le persone che amava.
C'era un enorme ceppo che ardeva nel camino, biancospino e ghirlande di pini e nastri rossi che pendevano intorno alle pareti. Un enorme albero di Natale era magnificamente decorato e sembrava brillare di luce proprio. Sotto di esso, una catasta di regali per tutti loro. Sul tavolo al centro della sala la servitù serviva salmone affumicato e sidro per le signore, o brandy per gli uomini. Chiacchieravano allegri gli ancora pochi presenti nella sala, ed Ethel si girò proprio verso di loro. Posò gli occhi verso George, che intratteneva allegramente John e Cathleen. Sorrideva, seppur con pacatezza, ma aveva gli occhi che brillavano e l'allegria che lo avvolgeva in quell'atmosfera calda ed intima. John e Cathleen si muovevano all'unisono, come fossero uno l'ombra dell'altra, e sorridevano raggianti nell'ascoltare il loro unico parente maschio, l'unico che a Dio piacendo avrebbe portato avanti il buon nome della famiglia Herbert.
Ethel si girò ancora, verso Charlotte e Marco, anche loro invitati da George in quel giorno di festa. Vestivano bene e con sobrietà, segno che il negozio a Londra non andava poi così male. Ma doveva ammetterlo: il vestito di Charlotte cominciava ad essere troppo stretto intorno al ventre rigonfio della sua appena scoperta gravidanza. Le sorrise con dolcezza, prima di volgersi verso Cassie, che si stava versando l'ennesimo sidro, sorridente. Salutò con un cenno elegante i genitori di Cassie, seri e sulle loro in un angolo della sala, prima di avvicinarsi a lei.
«Non starai esagerando?»
«Oh ma dai, questo sidro è così leggero...non fare come zia Adel, su» precisò Cassie ironica.
«Per amore del cielo, non sia mai! Allora...sei emozionata?» mormorò all'amica, lanciando un'occhiata alla sala.
«Se conti che la prima volta che si sono visti mi hanno venduto come una vacca da monta sì, sono molto emozionata»
«Cassie!» esclamò Ethel in un sussurro, ridendo a quel suo paragone contadino.
«Che c'è? E' la verità. Ma suppongo sia la parte pragmatica di un matrimonio. All'amore ci pensiamo noi» precisò Cassie, prima di sorridere verso George il quale, con tutta risposta, sollevò appena il bicchiere verso le due ragazze.
«E tu, sei emozionata? E' la prima volta che rivedi Alfred dopo il vostro breve incontro a Bushmills no?»
«Sì, è così. Sono...agitata, è vero. Ma voglio godermi questa bella serata, in onore della nostra bella famiglia e di chi non c'è più...»
Cassie sorrise e le strinse una mano. «Sono sicura che sarebbero felici per voi, cara» mormorò la giovane con empatia.
La porta del salotto si aprì lentamente e il vociare si zittì nel salotto alla vista degli ennesimi ospiti di quella serata. Alfred e Daisy fecero il loro ingresso, eleganti come sempre ma con l'aria serena e sorridente lui, tesa e agitata lei.
Ethel deglutì, irrigidendosi appena.
«Immagino che una seconda possibilità si dia a tutti, no Ethel?» mormorò Cassie, leggendole nel pensiero.
Il primo che andò a salutare Daisy fu George, il padrone di casa.
«Benvenuta Daisy, e Buon Natale»
«Grazie George, Buon Natale anche a te. Miss Howard...Buon Natale anche a voi» rispose Daisy, stretta al braccio del fratello, come spaventata.
Era miracolosamente in carne, o almeno non era più anoressica. Vestiva in maniera sobria e leggera, con pochi gioielli addosso. Non sembrava nemmeno lei. Ethel si avvicinò lentamente, facendosi coraggio con gli sguardi eloquenti di Alfred.
«Buona sera Daisy...Buon Natale. Ti trovo...in ottima forma» annunciò, senza particolare enfasi e cercando di sorridere. Poteva essere fisicamente cambiata quanto voleva, per Ethel era ancora la ragazzina viziata e antipatica di sempre. Ma la sua risposta la sorprese.
«Buona sera a te Ethel, Buon Natale. E grazie...il lavoro in Croce Rossa è faticoso, ed ho aumentato i pasti giornalieri, per avere più forze durante il giorno. Alfred mi ha detto che anche tu stai studiando come infermiera, vero?»
«Ho appena cominciato, sì...è faticoso ma interessante»
«E' un lavoro che dà molte soddisfazioni»
Ethel rimase senza parole. Non aveva mai sentito la parola “lavoro” uscire dalla bocca di Daisy, se non per disprezzo e derisione. Daisy Norton, la non più ricca Contessa, che lavorava...forse aveva ragione Lady Maud, forse davvero i tempi stavano cambiando, e la nobiltà un giorno non avrebbe più avuto nessun peso.
«Bene, ci accomodiamo nella sala da pranzo?» chiese George, interrompendo quella situazione di imbarazzo. Tutti gli invitati seguirono il padrone di casa verso la stanza adiacente, ben addobbata e imbandita.
«Allora posso...sedermi vicino a te, sì?» Alfred rimase in piedi vicino ad Ethel in attesa di risposta.
«Sì...certo» mormorò Ethel, ostentando malamente una certa reticenza.
«Grandioso...!» Alfred sorrise e le allontanò appena la sedia prima di riavvicinarla al tavolo, una volta seduta. Poi fece la stessa cosa con Daisy, poco lontano, ed infine si sedette.
Ethel sorrise a Charlotte e Marco, seduti proprio davanti a loro.
«Mr Conti, Mrs Murphy! Che piacere rivedervi! Come state? La gravidanza procede bene?» chiese Alfred, cercando di evitare gli sguardi di paura che la giovane sposata, a buon motivo, lanciava verso Daisy. D'altronde non c'era da meravigliarsi: per colpa di Daisy, lei perse il lavoro a Rose Castle.
«Molto bene, vi ringrazio signore...»
«Quale signore, Mrs Murphy. Chiamatemi pure Alfred, mh?» precisò il ragazzo senza alcuna finta gentilezza.
«Alfred...certo» precisò Charlotte, incera «E voi, Miss? Come state...?» azzardò a chiedere a Daisy, la quale forse non si aspettava nemmeno che la giovane le rivolgesse la parola.
Rimase spiazzata, arrossendo in viso. «Io? Io sto bene, si...molto. La gravidanza vi dona, sapete...avete già delle voglie? So che le donne incinte ne hanno molte»
«Crema inglese soprattutto, Miss...la adora» precisò secco Marco, beccandosi puntulamente un pestone dalla moglie «Che c'è...!» protestò il ragazzo, scrollando le spalle.
Daisy sorrise appena, come mortificata. «Non stento a crederlo, Mr Conti...la vostra crema era deliziosa. Ero io che ero salata come il Mar Morto» precisò sincera Daisy.
Ethel stentava a credere a quel che aveva appena sentito. Daisy Norton che si auto-criticava?
Si girò verso Alfred che si limitò a scrollare appena le spalle.
«Che c'è? Ti avevo detto che era cambiata...»
«Si ma...non pensavo così» ammise sincera Ethel.
«Quando si cambia, si deve cambiare solo in meglio. Ah, prima che me ne dimentichi...ti saluta la Regina»
Ethel quasi si strozzò con l'acqua a quella notizia. Arrossì. «La Regina si ricorda di me?»
«Mh-mh, puoi scommetterci. Mi ha pregato di convincerti a riportarti alla Direzione del St.Mary's House, con nuovi fondi per la sistemazione dell'edificio. Dicono che la tua sostituta non sia brava come te. E poi mi ha detto un'altra cosa...»
«Cosa?»
«Ti passare a trovarla dopo il nostro matrimonio»
Ethel avvampò di colpo e di nuovo. «Ma davvero?»
«Già...beh diciamo che forse ho esagerato leggermente nell'illustrarle la nostra attuale situazione...sentimentale. Ma era così entusiasta che mi sono lasciato andare alla fantasia»
«Oh...capisco» si limitò a dire Ethel, in imbarazzo. «Sappi Alfie che questa è la richiesta di matrimonio più assurda che abbia mai sentito» precisò poi, sorridendo senza guardarlo.
«Lo ammetto, alquanto bizzarra. Ma ho capito una cosa: le situazioni romantiche, a noi, portano sfiga»
Ethel ridacchiò divertita, sentendosi stringere la mano dal ragazzo, rispondendo alla stretta.
«E' un sì, vero?» mormorò Alfred, speranzoso.
Ethel sollevò gli occhi per guardarlo ed annuì, sorridendo.
«Signore e signori» la voce di George si alzò, come tutto il resto del corpo, con il calice in alto. Gli invitati fecero altrettanto, imitandolo. «Un brindisi! Alle nuove scelte e ai cambiamenti positivi, alla famiglia e agli amici...che questa sera possa essere la sera più bella della nostra vita! Toast!»
«Toast!» esclamarono gli altri, prima di bere e cominciare così la deliziosa cena.
Quella, davvero, sarebbe stata la più bella serata della loro vita.

 

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Capitolo 18
*** Back Home ***


18. Back Home


Poteva ancora sentire il sapore del pudding in bocca.
L'odore del vino rosso sotto il suo naso, la sua consistenza vellutata lungo la gola...le luci soffuse della Sala...il calore del camino...
Rideva, Ethel. Quella sera era felice, e rideva. Guardava Alfred con gli occhi luminosi, era felice. Erano marito e moglie, e parlavano tra loro...
Si girò, si guardò intorno...poteva sentire l'erba fresca tra i piedi nudi, ed il sole che brillava alto in cielo. Cassie sorrideva.
Gli sorrideva, e lo salutava da lontano. Gridava per farsi sentire, da sotto il gazebo ombroso, mentre gli uomini giocavano a cricket.
Sorrideva, ma di lì a poco avrebbe pianto, solo pianto...
I lampi del tuono, la luce in casa che va via, le lampade si fulminano...Ethel piange, grida furiosa.
Pazzo. Sei un pazzo.
Vuoi farti ammazzare?
I fuochi d'artificio...ci sono i fuochi d'artificio! Oh Georgie, per me? Grazie...Grazie...
I fuochi scoppiano in cielo, rimbombando tra le colline, mentre la polvere da sparo si colora nel cielo, creando meravigliose figure colorate, che illuminano per pochi secondi i loro visi.
Grazie, Georgie...


 
Somme, Ottobre 1916


E' un trattore. E' solo un trattore.
Se lo ripeteva da settimane, giorni. Era solo un trattore quel rumore insistente, pressante, continuo. Metallico. Sanguinoso. Era solo un trattore della sua campagna in Cornovaglia, pensava.
Lo pensava, ad occhi chiusi e stretti, le mani ormai gelate intorno al fucile, che stringeva con forza come se fosse l'unica cosa rimastagli. Lo pensava, per non pensare alla verità: l'aviazione tedesca volava sopra le loro teste, in continuazione. E al nemico che sparava oltre la trincea, alla mitragliatrice, alle grida, ai pianti...agli schizzi di sangue, altrui, di cui si era ricoperto fin dal primo giorno.
Compagni? Nemici? Non faceva più nessuna fottuta differenza.
Aprì lentamente gli occhi, e solo quando quel rumore sembrava essere passato. Ma rimaneva sempre quel fischio nelle orecchie, costante, a cui faceva fatica ad abituarsi.
Guardava oltre la trincea, in una finestrella fatta con i sacchi di sabbia misti ormai al sangue, al fango, alla pioggia che incessante si abbatteva su di loro. Non si guardava mai indietro, mai.
Non era concesso. La pena, era soccombere. Non si poteva guardare dentro la trincea, il suo addestratore glielo disse dal primo giorno: la trincea è l'inferno, bisogna sempre rivolgere lo sguardo verso il campo di battaglia. Paradossalmente, l'aria da quel lato era più respirabile.
Quando si camminava in trincea, si doveva camminare pensando ad altro. In silenzio. Si ascoltano gli ordini, si eseguono gli ordini e si sta zitti. A pensare a casa.
Al vino. Al pudding. Alla pelle calda di sua moglie. Al sorriso. Al pianto.
«La mamma...voglio la mamma...» sibilò qualcuno ai suoi piedi. Abbassò appena lo sguardo.
Era il soldato semplice Thompson. Soldato. Che parolone. Quanti anni poteva avere, quel ragazzo? Quindici? Forse sedici?
Puzzava, era probabile che si fosse pisciato sotto. Capitava a tutti, i primi giorni. Era capitato anche a lui, a volte non c'è nemmeno il tempo di farlo, e te la fai nei pantaloni. Anche se nella maggior parte delle volte, ci si pisciava addosso per paura. Pura e semplice paura, allo stato brado, primitiva.
«Thompson, alzati. Alzati! E' un ordine!» gridò, per farsi sentire. Lo prese per una spalla e fece alzare. Il ragazzo sembrò come svegliarsi da un incubo, e fissava il suo superiore con spavento.
«Io...voglio andare via...» sibilò il ragazzino.
Lo guardò, ed ebbe solo compassione per lui, nient' altro che compassione.
«Non puoi andartene, ragazzo. Saresti un traditore e processato come tale con la pena di morte, e lo sai. Devi stare qui, devi ascoltare gli ordini...eseguire gli ordini...e stare zitto, in silenzio. Ad aspettare. La guerra sta per finire, vedrai. E' quasi finita. Stai qui, sorveglia questa postazione, ok? E riferisci qualunque cosa a me, a me soltanto ok?»
«Signor si, signore!» esclamò il ragazzino, sbattendo il tacco nella pozzanghera di fango dove si trovava.
Ordini. La mente umana, in quei casi, ha solo bisogno di ordini. Di sapere cosa fare, di avere un punto di riferimento. Lui era il punto di riferimento dei suoi uomini, e il suo superiore lo era a sua volta per lui. Funziona così l'esercito.
Ordine e disciplina. Testa china e si lavora. E si spera. Di tornare a casa il più presto possibile.
«Sentito mamma? La guerra sta finendo...!» brontolava tra sé Thompson, entusiasta.
Si sentì in colpa, ma fece finta di nulla.
Sollevò gli occhi al cielo grigio e carico di nubi. Stava per piovere di nuovo.
Se c'era una cosa che non sarebbe mai finita, era quella fottuta guerra. Forse un giorno le potenze europee avrebbero smesso fisicamente di combattere, ma loro? Quei soldati, quando avrebbero finito di combattere?
Mai.
Ficcò la mano destra nella tasca della giacca lurida e cacciò nella mano una medaglietta, ammaccata ma viva. Era diventato mezzo cieco, forse aveva bisogno degli occhiali, ma poteva vedere con gli occhi del cuore i ritratti di Cassie ed Ethel. Richiuse la medaglietta, la strinse forte nella mano e se la ricacciò in tasca.
Si era fatto una promessa. Tornare a casa, vivo, per loro.
E l'avrebbe fatto.




NdA: Lo so lo so, non è l'Epilogo che vi aspettavate ahahah! Ma eravamo nel 1911, non potevo non scrivere qualcosa sulla vicinissima prima guerra mondiale! E così ho sacrificato il nostro caro vecchio Georgie.
Precisazione storica: Georgie, come altri 478.892 inglesi, si arruolarono volontariamente nell'esercito inglese grazie alla propaganda bellica di Sir Horatio Kitchener, allora Ministro della Guerra nonché veterano bellico. Non c'erano praticamente limiti di età o sociali, e pur essendo sposati si poteva partire (l'unica eccezione era avere figli, cosa che per ora George non ha xD), e così nel 1914 circa, George è partito per il fronte francese.
Ho volutamente scritto la prima parte -i suoi ricordi- come se fosse in uno stato confusionario. Ricordi in piccoli pezzi, vaghe memorie di una vita civile che sembra lontana secoli in un inferno come quello della prima guerra mondiale, un inferno che possiamo solo lontanamente immaginare.
Per quanto rimarrà via? Tornerà a casa?
Chissà... ;)

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