Sing Für Mich

di _Black or White_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le sirene esistono? ***
Capitolo 2: *** Il primo incontro ***
Capitolo 3: *** La castagnola rossa dell'Italia ***
Capitolo 4: *** Gusto banana ***
Capitolo 5: *** Separazione ***
Capitolo 6: *** Caccia spietata ***
Capitolo 7: *** Al di là del vetro ***



Capitolo 1
*** Le sirene esistono? ***


Dedico questo primo capitolo ad annablu
e ad AngelDeath.

annablu, grazie per quel dolcissimo messaggio. A volte tendo a dimenticarmene, e meno male che ci siete voi lettori a ricordarmelo!

AngelDeath, grazie per l’ultima recensione che mi hai lasciato, e per il sostegno che mi hai dimostrato. Non temere: non mi lascio abbattere dai malintesi! Uhm, che ne pensi di questo disegno?

Vi abbraccio tutte e due, perché è stupendo ricevere l’amore dei propri lettori, in un periodo difficile come questo, per me :)








“Cruel and cold
like winds on the sea.
Will you ever return to me?
Hear my voice
sing with the tide.
Our love will never die.”


“Davy Jones” Lyrics




SING FÜR MICH




La prima volta che lo vide fu su quello scoglio.
La tempesta era appena passata, e come ogni volta, l’intraprendente piccolo tedesco si era diretto verso la sua spiaggia preferita.
Hiddensee era un’isoletta dalla forma di un cavalluccio marino, lunga e piatta; soltanto a nord-ovest la sua pianura si raggrinziva in qualche basso e irsuto colle.
La vista era spettacolare, con il confine tra cielo e terra che si liquefaceva in una rossissima esplosione di colore; gli Hannover da competizione del signor Köhler che erano tornati a galoppare per i dolci pascoli; le grida lontane dei pescatori al porto di Vitte, e tutte quelle spirali di fumo perlaceo che salivano a ghirigori nell’aria freddissima, frizzante e ancora odorosa di pioggia.
Hiddensee si era spaventata della tempesta, e per un po’ aveva nascosto il capo sotto ai suoi tetti di legno blu.
Ludwig, invece, nanerottolo coraggiosissimo, se n’era rimasto per ore ed ore con il naso incollato ai vetri di casa, gli occhi che brillavano a ogni lampo, impaziente di poter andare in esplorazione.
E Gilbert, da bravo fratello maggiore, lo aveva imbacuccato per bene in un cappottone impermeabile, gli aveva infilato l’indistruttibile Nokia 3310 in una tasca e lo aveva lasciato uscire dopo l’ultima goccia di pioggia, annuendo soddisfatto.

Così il piccolo Ludwig, senza alcuna paura, attraversò la spiaggia scura e pastosa, calandosi il cappuccio impellicciato sul visino acceso di curiosità.
Non ebbe bisogno di fermarsi a scegliere, e puntò dritto verso il suo posto segreto: in una piccola baia di sabbia dorata, ben nascosta da un boschetto di larici e abeti bianchi, vi era una formazione di scogli a sud del grande faro, nel Dornbusch.
La roccia, o Jeliel* - come l’aveva soprannominata lui - aveva la forma curiosa di un angelo chinato in preghiera; e forse era proprio a causa di quel suo aspetto strano, se intorno a lei succedeva sempre qualcosa di speciale, dopo una tempesta.
Che cosa vi avrebbe trovato questa volta? Una buffa conchiglia? Un fossile di dinosauro? Un relitto fantasma, magari a guardia di un forziere pieno di tesori?
Eccitato come se si fosse trovato tra le pagine di uno dei suoi amati romanzi, Ludwig si arrampicò con manine decise sulle rocce incrostate di sale, chiedendosi, tra uno scivolone e l’altro, che cosa avrebbe fatto Jim Hawkins al suo posto.
Si issò sulla cima, rimase per un momento piegato sulle ginocchia, a riprendere fiato, e finalmente sollevò lo sguardo.
Bello, bellissimo: Jeliel era molto alta, e dal suo cocuzzolo si poteva spaziare con gli occhi fino alle lingue di terra dell’isola di Rügen, a ovest.
Tutt’intorno, nient’altro che mare.
A Ludwig era sempre piaciuto tanto, il mare.
Per qualcuno non era niente di più che un’inquietante distesa d’acqua salata, pericolosa e superflua.
Per lui, invece, era come una creatura viva.
Dormiva respirando profondamente, anche se a volte si svegliava di cattivo umore, come Gilbert di lunedì; e allora sbatteva i pugni e faceva i capricci, schizzando dappertutto e terrorizzando i gabbiani, sballottando qui e là i banchi di aringhe argentate e sputacchiando qualche granchio reale sugli scogli taglienti.
Il mare era volubile, intrattabile e indomabile… e Ludwig se ne era innamorato a soli sei anni.
Quel pomeriggio aveva spruzzato e schiamazzato più del solito, ma ormai la crisi gli era passata, ed era tornato calmo, piatto, a russare sulla battigia sabbiosa.
Ludwig si accucciò sui talloni, come gli aveva insegnato il suo bruder, e strisciò cautamente fino al margine frastagliato di Jeliel.
Si affacciò di sotto, per godersi la vista di quel blu feroce che parlottava nel sonno… e quasi cacciò uno strillo.
Girato di spalle, e seduto proprio sul piedistallo di Jeliel, se ne stava un bambinetto della stessa età di Ludwig.
Nudo come mamma lo aveva fatto, si prendeva in piena faccia tutti gli schizzi e gli spruzzi del basso fondale; incurante della violenza della corrente, del freddo boia che aveva già intirizzito le dita del tedesco, del sale e delle rocce acuminate sotto al sedere.
Ma chi diavolo era?
Ludwig s’inginocchiò sulla cengia e gridò forte, per sovrastare il ruggito del mare: « Ehi, tu! »
Il piccoletto trasalì e si voltò di scatto.
« Ma che fai lì?! È pericoloso! » e gli allungò una mano, «Torna subito su, che tra poco ci sarà… »
Non fece in tempo a urlare “alta marea”, che il bambinetto si tuffò in mare con un unico balzo… e fu allora che Ludwig la vide.
Soltanto per una frazione di secondo: un arco color dei granati, come quelli che portava alle orecchie la signorina Elizaveta.
Una scia di squame, che luccicarono umide negli ultimi bagliori del tramonto.
Una coda. Una coda di pesce.
S’inarcò e sparì tra le onde, insieme a lui.
Ludwig trattenne bruscamente il respiro e si chinò sul gesso salino di Jeliel.
Attese, con gli occhioni azzurri sgranati, fissi su ogni più piccola increspatura dell’acqua, con il cuore a mille e un fischio assordante nelle orecchie… ma lui non tornò più.


« Bruder!!! »
Gilbert fece un salto di mezzo metro e si strozzò con la tisana alla viperina, rovesciandola abbondantemente sulla poltrona di velluto porpora.
Ludwig entrò di corsa nel salotto e gli si catapultò addosso, tutto scarmigliato, sudato e senza fiato: « Bruder, l’ho vista! L’ho vista!! Giuro che l’ho vista! »
Gilbert si colpì più volte il petto con un pugno per liberarsi i polmoni dalla bevanda bollente, si asciugò la bocca con una manica e tossicchiò: « O-ohi, West… calmati un momento… cos’è che avresti visto? »
Il suo fratellino minore era talmente infervorato che non fece nemmeno caso a quello stupido nomignolo.
« Una sirena! »
Dapprima, Gilbert rimase a bocca aperta, incredulo.
Conosceva bene la passione di Ludwig per i romanzi fantastici e le fiabe della buonanotte, storie d’avventure piene di draghi, tesori sepolti e realtà impossibili… ma sapeva anche che il suo fratellino non era capace di raccontare bugie.
Un rompiscatole puntiglioso, sveglio e intelligentissimo, pieno di voglia d’imparare, perché mai avrebbe dovuto cambiare opinione così all’improvviso?
Non tornava proprio.
Gilbert si riprese con un’alzata di spalle, arruffò giocosamente i capelli biondissimi del fratellino e si alzò in piedi.
« E così, alla fine, anche tu hai visto una di quelle famose sirene, eh West? » gli disse con una strizzatina d’occhi, mentre recuperava un panno di camoscio da un cassetto dello scrittoio d’ebano.
« Ma c’era per davvero! » protestò il piccoletto con tutte le forze, rosso per la rabbia, e Gilbert non poté impedirsi di trovarlo adorabile.
« Beh, in effetti, su quest’isola ci sono un sacco di persone che dicono di averle viste. » e, mentre gli parlava con aria leggera, per calmarlo, si mise a tamponare la tisana versata con il panno scamosciato.
« Christoph Fischer, il guardiano del faro, ti ricordi di lui? Sono più di quarant’anni che se ne sta in veglia su quella torre infestata dagli spettri, e per quattro volte ha raccontato di aver visto le sirene. »
Ludwig stava pendendo dalle sue labbra, e per quanto fosse divertente farlo arrabbiare, Gilbert non voleva ferire la sua delicata fantasia di bambino.
« Il vecchio Christoph ha visto le sirene anche lui? » lo spronò il piccoletto, serissimo.
« Così disse. » rispose Gilbert, sorvolando sul fatto che le parole di un ubriacone non fossero proprio le più sensate da ascoltare.
« E tu l’hai sentito mentre raccontava? »
« Oh sì, eccome. »
Gilbert stese il panno sulla poltrona tutta umidiccia, che ormai profumava di viperina, vi si sedette con cautela e si caricò Ludwig su una gamba, come ai tempi aveva fatto con lui il venerabile nonno.
« In una nottata del 1991. Tu non eri ancora nato. Scesi a Vitte per comprare le medicine di nostra madre, ma ci fu quella tempesta assurda… »
« Quella che sommerse il villaggio di Grieben? »
« Sei proprio un piccolo sapientone, eh West? Sì, quella tempesta. Grandinava così forte che dovetti correre a rifugiarmi nella taverna di Fips. »
« E avevi paura, bruder? »
Gilbert si puntò il petto con un pollice: « Lo sai che sono magnifico, no? Fosse dipeso da me, avrei caricato al sicuro le medicine su una carrozza* qualsiasi e sarei tornato a casa di volata. Potevo forse lasciare la mamma e il nonnino tutti da soli? »
Ragionevolmente scettico, Ludwig inarcò un biondo sopracciglio.
« Uh… a ogni modo, dov’ero rimasto? Ah sì… dunque, i moli erano completamente sommersi e le barche si ribaltavano sulla spiaggia come tartarughe alla deriva. A Sven, lo stalliere del signor Köhler, era volato in testa il remo di una barca, e la figlia degli Ziegler era stata data per dispersa in mare. No no no… troppo pericoloso. Prenotai l’ultima stanza rimasta e me ne rimasi buono e tranquillo ad aspettare che passasse. Fu una nottata d’inferno… »
Ludwig s’intrecciò le mani in grembo, dondolandosi avanti e indietro sulla gamba del fratellone, impaziente di sentire quando sarebbero saltate fuori le sirene in quella strana storia.
Gilbert si passò una mano tra i corti capelli bianchissimi, e continuò, con un sospiro malinconico: « Ho sentito tanti brutti racconti quella notte. Chi non trovava più i suoi genitori, chi era andato in barca con il fidanzato e se l’era visto strappare via dalla tempesta improvvisa, chi si era rotto qualcosa scivolando sugli scogli, chi era rimasto schiacciato dai cavalli imbizzarriti… » scrollò il capo, « E poi, tra il baccano generale, una voce furibonda affermò di averle viste di nuovo. »
Gli occhioni di Ludwig s’illuminarono d’eccitazione: « Il vecchio Christoph? »
« Proprio lui. » annuì Gilbert, « Quella era la terza volta che raccontava di aver visto le sirene. Tutti a Hiddensee sapevano che era un po’... anziano, ma io non avevo mai sentito una delle sue testimonianze di prima mano. Così mi sedetti al suo tavolo e lo pregai di raccontarmi la storia. »
« Volevi sapere delle sirene, bruder? »
« Ero curioso, lo ammetto. Tre volte in trent’anni, per di più dal faro di Dornbusch… beh, magari non erano vere e proprie sirene, però… qualcosa di strano, di sicuro quel vecchio lo aveva visto. »
Gilbert fece una pausa a effetto, allungando un braccio verso il muro per accendere le luci del salotto; fuori era calata la sera, e in lontananza si poteva udire il mormorio del mare.
Da qualche parte, in quelle profondità torbide, si muoveva sfuggente una figura umanoide.
« E poi? » lo incoraggiò Ludwig, quando non riuscì più a resistere.
« E poi il vecchio Christoph mi raccontò la sua storia. Bada bene, West: non fu affatto facile convincerlo, perché quel vecchiaccio non si è mai fidato dei giovani. Quindi ascolta le mie parole come se ne dipendesse la tua vita. » proclamò in tono drammatico, e Ludwig deglutì intimorito, gli occhioni azzurri ormai perfettamente circolari, tanto erano spalancati.
“Che carino” pensò Gilbert, trattenendosi a stento dal pizzicargli una guancia.
« Dicevo? Oh giusto… il racconto del vecchio Chris. Ebbene, se ne stava seduto sulla torre del faro, come al solito. Aveva visto la tempesta arrivare prima di tutti, aveva acceso la lanterna e dato l’allarme. Stava gridando a una coppietta di sbrigarsi a risalire la collina, quando le vide. »
Gilbert si fece serissimo, e Ludwig si stritolò le mani in grembo.
« Sballottate dalla violenza delle onde, anche loro stavano scappando al riparo. Erano in due, e nuotavano in superficie, forse perché le correnti del basso fondale erano troppo violente. »
Ludwig spalancò la bocca: « Erano due sirene? »
« Il vecchio ne era strasicuro. »
« E… e che aspetto avevano? » insistette, sovreccitato.
« Uhm, dunque… mi disse che erano parecchio lontane, ma riuscì a vederne chiaramente le code. Sembravano molto diverse tra loro, ma i colori erano indistinguibili attraverso la tempesta. Però avevano capelli e pelle umana. » Gilbert fece spallucce, « Mi disse che l’unica cosa certa, l’unico ricordo che avrebbe conservato per sempre, fu l’incanto che provò nel guardarle. »
La magia delle sirene: Ludwig ne aveva letto qualcosa a riguardo, nei romanzi d’avventura.
Si fermò a meditare.
Il bambino sul piedistallo di Jeliel, la sirena che aveva visto lui, com’era fatta?
Gli era sembrato un essere umano normale, poco prima di buttarsi in mare.
E la coda? Non l’aveva vista che per una frazione di secondo, ma più tentava di riacciuffare indietro il ricordo, più quello sdrucciolava via dalle sue retine.
Aveva le scaglie o la pelle? La pinna caudale di che forma era? Il punto di congiunzione tra uomo e pesce era ben definito o evanescente?
Non riusciva proprio a ricordarselo.
« Eh?! Ma è già quest’ora? » protestò Gilbert, lanciando un’occhiata al bell’orologio a cucù nell’angolo, « Devo cominciare i preparativi per la cena, che stasera verrà Eliza a farci visita. »
Fece scendere Ludwig dal suo ginocchio e si rimise in piedi con un grugnito: « Ti sei fatto pesante, eh West? »
Sicché non gli rispondeva, lo sguardo fisso sui vetri delle finestre, Gilbert si piegò per poterlo guardare in viso.
« Ohi, West. » e gli pizzicò una guancia.
Ludwig si rabbuiò: « Non ho detto una bugia. Anche il vecchio Christoph le ha viste. Esistono per davvero. »
Gilbert lo osservò a lungo.
Va bene giocare, ma così era troppo.
« Ti sarai confuso. Avrai visto una foca grigia che s’immergeva, o un luccio particolarmente grosso. E il vecchio Chris… gli piace bere, no? Avrà scambiato due focene per degli esseri umani. »
Ludwig tentò di protestare, ma Gilbert gli arruffò energicamente i capelli biondi, si alzò in piedi e uscì dal salotto.
« Suvvia, West, ti facevo più terra terra. Le sirene mica esistono, no? »
Già… sarebbe stato impensabile, da parte sua, credere a una storia come quella delle sirene.
Non avevano alcuna spiegazione scientifica, specialmente le sirene descritte nei romanzi d’avventura.
Eppure lui ne aveva vista una, sarebbe stato pronto a giurarlo.
« West, ti preparo la vasca. Vai a farti il bagnetto, prima che arrivi Elizaveta, d’accordo? »
La fidanzata di suo fratello, era una signorina gentile e comprensiva: forse lei gli avrebbe creduto.
Insomma, non era proprio possibile che Ludwig avesse scambiato quel bambino per una foca, da una simile vicinanza.
E pure il vecchio Christoph… una volta poteva anche essersi sbagliato, ma tutte le altre? Aveva scambiato delle focene per esseri umani per ben quattro volte?
Doveva parlare con lui, dove saperne di più.
Non importava quanto tempo ci sarebbe voluto: avrebbe risolto il mistero di Hiddensee.


Il giovane tritone s’immerse in profondità, al di sotto della schiuma, e lasciò che le forti correnti lo trasportassero al largo.
Presto, presto! Il più lontano possibile, dove quel Nuota nel Sopra non potesse seguirlo.
Era talmente spaventato che toccò i trenta metri di profondità in cinque minuti, senza fermarsi neanche per un momento.
Trovò una densa foresta di brasche filiformi e vi si catapultò dentro a testa bassa, facendo scappare un banco di aringhe argentate.
Con la coda che pulsava ferocemente, si adagiò tra i ciuffi di alghe per riposarsi, gli occhi sbarrati verso la superficie.
Il Nuota nel Sopra era spuntato così, dal nulla, terrificante proprio come se li era sempre immaginati: la pelle chiarissima e molle, gli occhi piccoli e immuni all’accecante bagliore del sole, il loro tipico naso sporgente e portentoso, in grado di sopportare l’aria del Fuori per ore, ed ore, ed ore…
Era la prima volta che ne vedeva uno da così vicino.
Aveva ragione il nonno: i Nuota nel Sopra facevano proprio paura.
Il nonno! Se avesse scoperto che era andato di nuovo nel Fuori… ah, non voleva nemmeno pensarci.
Il piccolo tritone si mosse verso sud-est, dove una lontana formazione di grotte marine ospitava lui e la sua famiglia da innumerevoli generazioni.
Sarebbe tornato a casa facendo finta di niente, il nonno non avrebbe scoperto che era andato nel Fuori, e lui l’avrebbe fatta franca.
Sì, era un piano perfetto.
Un fruscio improvviso tra le alghe, che lo costrinse a immobilizzarsi.
Testuggine palustre? Foca dagli anelli? Squalo elefante?
Una figura emerse alle spalle del giovanotto, piegando le canne al suo passaggio, e un gorgoglio furibondo vibrò nella corrente.
Dove diamine eri finito, Efelién?!
Oh, grazie alla Grande Madre! Era solo suo fratello, Luvìs.
Per fortuna che non si era trattato di un qualche predatore affamato… o del nonno.
Ciao, Luvi! lo salutò con un gloglottio, sforzandosi di assumere un’aria innocente.
Con un frullo della coda, Luvìs si portò davanti a lui.
Le lunghe orecchie cartilaginose gli vibravano: segno che era molto, molto arrabbiato.
Possibile che lo avesse scoperto?
Dove sei stato? lo interpellò, incrociando le braccia sottili sul petto magro.
In giro rispose evasivo Efelién, e scrollò nervosamente le pinnette caudali, impaziente di svignarsela.
In giro… dove, di preciso?
Aveva un tono che non ammetteva repliche, ed Efelién cominciò ad aver paura.
U-un po’ qua intorno…
Per “qua intorno” intendi “vicino alla costa”?
No…
Gli occhi verdissimi di suo fratello maggiore mandarono un unico lampo rosso, come accadeva a tutti i Sirenii* quando si arrabbiavano sul serio, ed Efelién abbassò subito il viso, incapace di sostenere il suo sguardo un secondo di più.
Efé, sei uscito di nuovo nel Fuori?
Lo aveva scoperto.
Ma-ma certo che no!
Efé, non sei mai stato bravo a mentire. Dimmi la verità
Inquieto, Efelién cominciò a giocherellare con la propria pinna ventrale, le orecchie basse, le spine ossee della dorsale che scattavano su e giù.
Ma chi voleva imbrogliare?
Non il suo fratellone, che lo amava più della Grande Madre, più di se stesso; e di certo non il nonno, che li stava crescendo come se fossero figli suoi, ed era anziano, forte, saggio e sapeva tutto.
Meno male che il nonno non era lì ad ascoltare, oppure si sarebbe arrabbiato pure lui… e quando il nonno si arrabbiava perfino gli dei tremavano di paura.
Solo… solo un pochino confessò allora Efelién, e attese l’esplosione.
Le orecchie di Luvìs presero a frullare così velocemente che il più piccolo non riuscì più a seguirne i movimenti.
Ci sei andato ancora! Sei andato nel Fuori! ruggì, come un giovane squalo iracondo, ed Efelién si fece piccolo piccolo, come se sperasse di confondersi con le brasche verdastre che ondeggiavano intorno a lui.
Efé, quante volte devo spiegarti il perché non ci puoi andare? insistette minaccioso il maggiore, I Nuota nel Sopra, li hai potuti osservare, no?! Sono pericolosi! E se uno di loro ti avesse visto? E se ti avesse seguito? Lo avresti guidato fino a noi, fino alla tua famiglia!
Era incredibile come Luvìs riuscisse sempre a farlo sentire maledettamente in colpa.
Ma non mi hanno visto, Luvi! protestò, serrando i pugnetti lungo la coda.
Suo fratello si massaggiò la fronte abbronzata e soffiò una cascata di bollicine trasparenti dalle branchie annaspanti.
Quanto tempo ci sei rimasto?
Po-pochissimo! Dalla fine della tempesta fino a poco fa
Luvìs lo squadrò dalla testa alle pinne.
Davvero non ti ha visto nessun Nuota nel Sopra?
Nessunissimo!
Giuralo
Efelién esitò.
Non gli piaceva mentire, e poi Luvìs aveva ragione: non era bravo a farlo.
Però non poteva ammettere di essere stato visto da un cucciolo di Nuota nel Sopra, perché Luvìs si sarebbe certamente sentito in dovere di riferirlo al nonno.
Non per cattiveria, ma perché aveva delle responsabilità, in quanto fratello più grande, ed Efelién lo capiva.
Il nonno li avrebbe subito portati via da quelle acque, in un posto lontano lontano, dove avrebbero potuto ricominciare una nuova vita… ma Efelién non voleva che finisse così.
Si era affezionato a quelle correnti, aveva passato sei lunghi anni a imparare tutto della Grande Madre che lì sciaguattava, a esplorare, a memorizzare; e dentro al cuore sentiva che nessun altro posto sarebbe mai, mai stato accogliente come quell’angolino di paradiso… e come quel Fuori.
Perché, se i Nuota nel Sopra lo terrorizzavano, il loro Fuori lo affascinava da impazzire.
Anche suo fratello ne era irrimediabilmente attratto, ma a differenza sua, lui si prendeva le responsabilità di un bravo Sirenia, e non lasciava che la morbosa curiosità distruggesse la sua amata famiglia.
Come diceva sempre il nonno: “voi, per me, venite prima di tutto”, e a qualsiasi costo li avrebbe protetti.
Efelién non doveva più tornare nel Fuori.
Quella sarebbe stata la cosa giusta da fare, lo sapeva molto bene.
Doveva scegliere: giusto o facile?
Sollevò il visino arrossato verso il fratello maggiore.
Te lo giuro, Luvi. Non mi ha visto nessuno
Luvìs lo scrutò a lungo… come se, nel suo profondo, stesse combattendo per fare una scelta altrettanto difficile.
Alla fine annuì appena, si voltò e si spinse in avanti con un colpetto di coda, in direzione sud-est.
Efelién poté finalmente rilassare la schiena, tirare un sospiro di sollievo e inseguire la scia del fratellone verso casa.
Lo affiancò e gli chiese, con una vocina supplichevole: Non lo dirai a nonno, vero?
Se dipendesse da me, sì. Glielo direi eccome brontolò Luvìs, Ma poi ti prenderesti tante di quelle sculacciate che sarei costretto a portarti in spalla per tutta la durata della migrazione… e sinceramente, non ne ho proprio voglia
Efelién gli fece un sorriso gigantesco, poi lo assaltò, rotolando con lui in un vortice di bolle luminose e pesciolini che fuggivano via allarmati.
Grazie! Grazie fratellone!
Ahia! Mi stai schiacciando la pinna, cretino!
Lo aveva capito, perché suo fratello non era uno stupido, ma lo aveva capito.
“Anche a me piace qui, e non voglio andarmene. Quindi non dirò niente a nonno” sembrava comunicargli, con quel suo cipiglio rabbioso.
Avrebbero continuato a vivere lì, sarebbero rimasti per sempre.
Efelién avrebbe potuto continuare a uscire nel Fuori, a una distanza di sicurezza dai Nuota nel Sopra.
Ignorandoli, si sarebbe goduto tutte quelle cose assurde che se ne stavano lassù: quella palla di luce giallissima che gli asciugava i capelli con calore e dolcezza, quella polverina secca e soffice che ricopriva tutta la costa, quegli animali stranissimi che strillavano nell’azzurro pieno d’aria e potevano trasportarsi da una parte all’altra senza alcuno sforzo, come una magia… e quella splendida roccia dalla forma buffa, quella che se ne stava in veglia tra il Fuori e la Grande Madre.
Quella gli piaceva da morire, e non vedeva l’ora di poterla rivedere.
Con il cuoricino che gli scoppiava di gioia alla sola prospettiva, il piccolo tritone sfrecciò davanti al fratellone e si dondolò su e giù, come facevano i delfini quando giocavano.
Efé…
Sììììì? trillò felice, infilando una manina in un cespuglio di quercia marina, e tirandone fuori una piccola anguilla sorpresa.
Bada bene di non farti beccare mai più, eh? lo ammonì Luvìs, con quel tono inquietante che non ammetteva repliche, Per questa volta è andata… ma alla prossima io non ti coprirò. Hai capito?
Efelién si avvolse l’anguilla intorno al collo sottile, e se la portò in giro tutto tronfio, come se fosse un gioiello d’inestimabile valore; e quella, consapevole che ben presto il Sirenia avrebbe perso interesse per lei, lo lasciò fare, rassegnata.
Ho capito, Luvi rispose con una strizzatina d’occhi, per poi gridare come un pazzo e fiondarsi tra le ombre saline di casa, dove la sagoma della grotta li attendeva, poco lontana.
Siamo tornati, nonninooooo!
L’anguilla venne lanciata indietro, tentò di svicolare via ma si scontrò con l’occhiataccia di Luvìs, che la afferrò con le manine sorprendentemente forti.
Se poi il nonno ti scopre, saranno affaracci tuoi, Efé mugugnò, usando la povera anguilla come una corda per saltare.
Tra sé e sé, Efelién ridacchiò: non c’era proprio bisogno che Luvi si preoccupasse per lui.
Era stato beccato una volta… ma non si sarebbe fatto beccare mai più.


CONTINUA…



Note:

Jeliel: “Dio caritatevole”, angelo che come dono dispensa l’amore
Carrozza: sull’isola di Hiddensee le automobili sono vietate. Ci si sposta soprattutto in bici e a cavallo
Sirenii: ordine di mammiferi acquatici erbivori. Al maschile sarebbe Sirenio, però Sirenia mi suonava meglio.


E rieccomi tornata amiciiiii!
Che ne pensate di quest’idea? E questo primo capitolo, vi è piaciuto? Vi ha incuriositi?

Ho qualche cosuccia da discutere con voi, quindi sediamoci e prendiamoci un tè caldo, che in ‘sti giorni è arrivato il freddo polare x_x

Dunque… innanzitutto, perché Efelién e Luvìs?
Chiedo scusa ai puristi, ma chiamare Feliciano e Lovino due creature appartenenti a una specie fantastica mi suonava davvero inverosimile… per quanto si possa parlare di verosimiglianza con delle sirene.

Luvi ed Efé non parlano in acqua, ma cantano, gorgogliano e lanciano suoni ecolocalizzatori, proprio come farebbe una balena, o un beluga, o un delfino.
Ho deciso di tradurre direttamente i loro pensieri, che, non essendo dei normali dialoghi, non hanno virgolette apposite.
Avrei potuto renderli più impersonali, ma poi i due fratellini sarebbero apparsi proprio come bestie, e non come umanoidi dall’intelligenza umana.

Per le capacità dei Sirenii, e per l’aspetto fisico, attendete il prossimo capitolo, per favore, e vedrete ;) (anche se dal disegno si può già intuire… sono un genio <_<)

Per Efé mi sono ispirata alla castagnola rossa, e per Luvi al rondone del mare.
Sono pesci che vivono nei mari d’Italia, molto graziosi, quindi perfetti per i miei due latini preferiti *sbrodola*

Badate bene: ho preso soltanto l’aspetto fisico di questi pesci, quindi, quando si arriverà a parlare di come si accoppiano i Sirenii (perché ci arriveremo fidatevi o_o) non ci saranno uova né il Tiro allo Sperma tipico dei pesci.
Andiamo… ve lo vedete un Feliciano sirenetto che spruzza i suoi spermatozoi su un gruppo di ovette gridando “DOITSU VENGOOOOO” Ò_Ò io no, quindi prenderò in prestito l’accoppiamento degli squali, ma senza il secondo pene *si rotola dalle risate e Doitsu la guarda male*

Oh bene, credo di avervi detto tutto, ma se avete altre curiosità, io vedrò di rispondervi senza fare troppi spoiler.

Godetevi questa storia, perché ne varrà la pena *w*

P.S.= chi ha riconosciuto la scena del disegno?! xD

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Capitolo 2
*** Il primo incontro ***


NOTA:
Vi chiedo umilmente perdono, ma ho fatto un errore madornale.
Il Gellen non è il faro di Hiddensee, bensì una riserva di uccelli, dove sta anche un segnalatore (per questo li avevo confusi), posta a sud dell’isola.
Ho già corretto il primo capitolo, e vi chiedo scusa per questo erroraccio.
Buona lettura!





Per questo capitolo vi sarà utile una mappa. Poi capirete il perché.



SING FÜR MICH

2
“IL PRIMO INCONTRO”



Ludwig scalò le basse colline del Dornbusch, affondando con gli stivaletti nella brughiera acquosa.
Sciaf sciaf sciaf
Su, sempre più su; dove l’aria rarefatta odorava di lichene e di prataioli, dove le grandi querce e le conifere della pianura lasciavano il posto a rachitiche betulle bianche, cespugli di fragola selvatica e arbusti di elicriso.
Qualche gru dal piumaggio grigio scuro si spostava nel basso acquitrino, infilando il becco tra un ciuffo d’erica e l’altro, in cerca di gamberetti e uova di rospo.
Con il fiato corto per la salita, finalmente Ludwig raggiunse il sentiero del Schluckswiekberg, l’altura più alta di Hiddensee.
Starnutì violentemente nel freddo del primo mattino, spaventando una coppia di fraticelli assonnati, e si fermò un momento ai piedi del grande faro bianco e rosso: la sua torre slanciata appariva e scompariva, come un miraggio, attraverso le lingue azzurrine di bruma.
Faceva paura.
Gli abitanti più creduloni sussurravano che, nelle notti di tempesta, le anime dei marinai morti annegati strisciassero fuori dal terreno, dalla palude e dalle acque tumultuose; in cerca di pace e di vendetta, infestavano il pinnacolo con grida di ghiaccio e assordante stridere di unghie sul vetro.
Ludwig deglutì, soppesando l’idea di girare sui tacchi e tornarsene a casa, al calduccio, a leggersi un buon romanzo davanti al caminetto.
Il vento s’alzò forte e le mura del faro gemettero, facendo scappare uno stormo di anatre della Sassonia.
Ludwig indietreggiò e fece per lanciarsi in corsa giù dalla collina, ma poi il frammento di un’immagine sbiadita gli aleggiò davanti agli occhi: una coda rossa che s’immergeva tra le onde.
Non poteva, non poteva tirarsi indietro… perché aveva bisogno di sapere, perché erano tre giorni che sognava quelle pinne sparire nell’acqua, perché avrebbe tanto voluto ricordarsi che viso avesse quel ragazzino.
E poi, se si fosse arreso così, senza nemmeno provarci, avrebbe senz’altro deluso la signorina Elizaveta.
Era stata lei a convincerlo, quella fatidica sera.

« Una sirena? » aveva ripetuto, meravigliata.
Per fortuna che Gilbert era in cucina, a tirare fuori il salmone dal forno, oppure l’avrebbe sgridata.
Ludwig aveva annuito, un po’ rosso in viso: non gli piaceva l’idea che la signorina Elizaveta lo considerasse uno sciocco, uno poco serio.
Però lui non aveva nessun altro con cui parlarne.
« Ma è meraviglioso! Che fortuna, eh Ludwig? Io ho aspettato per trent’anni, ma non ho mai avuto l’occasione di vederne una! » aveva sospirato lei, lasciandolo a bocca aperta.
« Signorina Elizaveta… ma allora, mi credi? » le aveva chiesto, sospettoso.
« Ma certamente! » e gli aveva sorriso, facendolo arrossire ancora di più.
« Pe-però il bruder… »
« Oh, lascialo perdere, quel rompiscatole! » e ridacchiando, gli aveva accarezzato la testolina bionda, « Gilbert è un adulto, e quando si diventa grandi si finisce spesso con il perdere interesse per queste cose. Siamo troppo occupati a fare soldi e fama, e ci dimentichiamo di tutto il resto: storie, idee, creature fantastiche e il piacere di cercarle… le sirene, poi, sono sempre state le mie preferite. »
Ludwig si era tutto corrucciato: « Allora non voglio diventare grande. »
Lo aveva detto con una tale serietà che Elizaveta era scoppiata a ridere.
« Come mai, Ludwig? »
« Non voglio perdere interesse. Non voglio dimenticare. »
Dimenticare che esistono le sirene? E come avrebbe potuto?
« Allora cercale. » gli aveva detto lei, con il fuoco negli occhi, stringendogli una manina, « Cercale, e trovale, anche per me. »
« La cena è pronta! » aveva annunciato Gilbert, dalla cucina.
« Da dove comincio? » aveva chiesto frettolosamente Ludwig, ed Elizaveta si era chinata in avanti, riducendo il tono a un bisbiglio.
« Il guardiano del faro. »
Non aveva potuto aggiungere altro, perché Gilbert era sbucato nella sala da pranzo, reggendo una teglia di salmone cotto al forno e insaporito con menta, succo d’arancia e patate per contorno.
« Di cosa stavate confabulando così di nascosto, voi due? » aveva brontolato geloso, ma la fidanzata gli era saltata al collo, baciandolo su una guancia e cinguettando: « Oh, Gil, sembra squisito! »
E lui, stordito come un lepre nel periodo degli amori, aveva balbettato: « M-ma no, è una sciocchezza… »
« Ma quale sciocchezza, questo è un capolavoro! » e, levando trionfalmente coltello e forchetta, si era apprestata a fare le porzioni, « Presto, non vedo l’ora di assaggiarlo! »
Gilbert si era lasciato cadere pomposamente sulla sedia, gonfiando il petto come un tacchino orgoglioso e proclamando: « Beh, lo sai che sono magnifico, no? »
Elizaveta gli aveva tirato un tovagliolo in faccia, dissimulando un’occhiata complice a Ludwig con una risatina canzonatoria.


Ludwig riemerse faticosamente dal ricordo e serrò i pugnetti lungo l’impermeabile giallo.
La signorina Elizaveta contava su di lui: non era l’unico pazzo a volerne sapere di più.
Così prese coraggio e bussò sulla piccola porticina di legno.
Nessuno rispose.
Il faro era una costruzione del 1887, ma le successive modifiche lo avevano reso moderno, completamente automatizzato e accessibile al pubblico.
Ormai, il vecchio Christoph si occupava semplicemente di mantenere la lampada ad alogenuri metallici* ben pulita.
Ludwig bussò ancora, e questa volta una delle quattro finestrelle per l’osservatorio si spalancò con uno schianto, facendolo trasalire.
« Chi diavolo è a quest’ora?! » ruggì un guercio incartapecorito come il papiro egizio, scandagliando la collina sotto di lui.
Individuò Ludwig e sibilò una bestemmia tra i numerosi denti mancanti: « E tu chi sei?! Cosa vuoi?! »
Il giovane tedesco deglutì, chiedendosi se non fosse il caso di darsela a gambe, dopotutto.
« Allora?! » ringhiò il vecchio, « Ah, ho capito… è uno scherzetto da quattro soldi, no? Voi marmocchi non fate altro dalla mattina alla sera! » e venne nuovamente risucchiato all’interno del faro, « Sta’ fermo dove sei, che chiamo subito la polizia! »
Ludwig inorridì.
La polizia? Ma cos’aveva fatto di male?!
Nessun poliziotto, però, gli avrebbe mai dato retta: perché perfino un vecchio pazzo come Christoph Fischer aveva più credibilità di un bambinetto non accompagnato dai genitori.
Lo avrebbero riportato a casa, e Ludwig non voleva che il suo bruder venisse a sapere delle sue ricerche segretissime.
Avrebbe fallito prima ancora di cominciare.
« Per favore, aspetti! » gridò allora, col cuore in gola, « Volevo soltanto parlare con lei! »
Il vecchio guardiano si affacciò di nuovo alla finestrella, con la cornetta di un telefono dell’anteguerra già appiccicata alla guancia: « Cosa vuoi da me, marmocchio? Guarda che se vuoi visitare il faro, devi avere almeno sei anni. »
« Ho compiuto sei anni a ottobre e… » Ludwig scrollò il capo, « Cioè… no, non voglio visitare il faro. Vorrei farle alcune domande, signor Fischer. »
« Uh? » il vecchio si sporse verso di lui, così tanto che Ludwig temette di vederlo cadere e spiaccicarsi ai suoi piedi, « E che cosa diamine vuoi chiedermi, eh? »
« Ecco… » Ludwig si strizzò le mani, nel tentativo di farsi un po’ di coraggio, « Potrei salire, per favore? È una questione molto importante. »
« Ma sentilo… » brontolò il guardiano.
Esitò a lungo, grattandosi il mento ossuto con la cornetta del telefono. Alla fine parve decidersi e sparì dentro la finestrella.
Non si riaffacciò più.
Ludwig sospirò amareggiato, girò sui tacchi e cominciò a scendere cautamente dal Schluckswiekberg, chiedendosi chi altri avrebbe potuto interpellare senza risultare sospettoso, su quella piccola isola.
Uno scatto metallico alle sue spalle, e un ringhio irritato dall’alto.
« Allora?! Non volevi parlare? »
Il visetto del piccolo tedesco s’illuminò di gioia: « Grazie infinite! »
« Taci, e muoviti a salire, che non ho mica tutta la mattina, io! »
Fu così che Ludwig si arrampicò sulla scalinata a chiocciola, annaspando fino alla torre più alta, a 102 piedi da terra.
Quando sbucò nella camera della lanterna, un po’ sudato, rimase immediatamente colpito dal panorama mozzafiato.
Non era mai salito sul faro del Dornbusch prima d’ora, ed era veramente magnifico: si aggrappò alla ringhiera di metallo e percorse con gli occhi spalancati le lisce colline verdeggianti, i tassi che si abbarbicavano ai piedi del faro, gli ontani nelle chiazze paludose; seguì il volo di uno stormo di oche di Pomerania, e poi i sentieri di sabbia bianca che attraversavano i prati d’erba sbiadita, dove il mare, molto più a sud, s’accartocciava in ampie onde schiumose.
Tra quelle acque, da qualche parte…
« Ebbene?! »
Ludwig sussultò, e il vecchio Christoph zoppicò fino a una poltrona tutta malconcia, mezza sfondata, buttata in un angolo della torre.
« Vieni qui, senza nemmeno presentarti, e pretendi di parlarmi a quattr’occhi. Chi diavolo sei tu, moccioso? » mugugnò, infilandosi una pipa tra le labbra spaccate dal sale e accendendone il fornelletto con un fiammifero.
Ora che finalmente poteva vederlo da vicino, Ludwig si rese conto che era davvero molto, molto anziano.
L’occhio destro era chiuso, deturpato da una brutta cicatrice rosa scuro, dall’aspetto piuttosto recente; l’altro, invece, era d’un azzurro perlaceo, quasi bianco, spalancato verso la sua preda.
La rada chioma brizzolata era nascosta da un trapper* d’ermellino rosso, e il corpo scheletrico e ricurvo - come una di quelle betulle tra le dune - da una giacca a vento lunga fino alle ginocchia e un maglione di lana pesante.
Era inquietante, e molto diverso dai pescatori e stallieri di Hiddensee, alti, tozzi e muscolosi.
Ludwig non ebbe bisogno di chiedersi il perché ne avessero tutti paura, e perché lui li evitasse come degli estranei: nel suo unico occhio pallido languiva una dolorosa consapevolezza, come se avesse visto cose che nessuno di loro, nemmeno Ludwig, avrebbe mai potuto capire.
« Che hai da fissarmi tanto? » ringhiò il guardiano, e il giovane tedesco si affrettò a distogliere lo sguardo.
« M-molto piacere, signor Fischer. Mi dispiace di averla disturbata di mattino così presto. Io sono Ludwig. »
« Ludwig? » sbottò il vecchio, mordendo il bocchino della pipa, « Il fratello minore di Gilbert Beilschmidt, direttore della Henni Lehmann*? »
« E-esatto. » Ludwig sollevò nuovamente lo sguardo, un po’ sorpreso, « Conosce bene mio fratello? »
Il vecchio soffiò via dalle narici una nube di fumo puzzolente, accomodandosi meglio sulla poltrona sfasciata: « Ci ho parlato una volta sola, quella notte di tempesta maledetta. Voleva sapere delle sirene. »
Ludwig trattenne bruscamente il respiro; quasi senza volerlo, il suo sguardo corse nuovamente alla cicatrice fresca.
Era così strana: si diramava in cinque lunghi rami, come la zampata di una qualche bestia.
Era troppo grande per essere l’opera di un gatto, o di un cane, e di linci o orsi su quell’isola non ce n’erano.
Qualunque cosa fosse stata, gli aveva strappato via l’occhio senza pietà.
« Allora, marmocchio, cos’è che volevi chiedermi? » soffiando via altro fumo, il vecchio ghignò, mettendo in mostra i pochi denti gialli rimastigli, « Spero per te che non sia qualcosa di strano, o di illegale. »
Ludwig spalancò la bocca, inorridito e anche un po’ offeso: « No! No, niente del genere! Io volevo… uhm… » si mordicchiò il labbro inferiore, cercando di posare gli occhi su qualcosa, qualsiasi cosa che non fosse quella cicatrice.
« Entro domani, giovanotto. »
« Ecco, io volevo… volevo chiederle appunto delle… delle sirene. »
Strizzò gli occhi, incerto su cosa aspettarsi: magari un urlaccio, un’esplosione di rabbia, di farsi tutte le scale a calci nel sedere, o direttamente di essere buttato giù dal faro…
Di certo, non si sarebbe mai aspettato che il vecchio scoppiasse sguaiatamente a ridere.
Una violenta crisi di tosse asmatica lo costrinse a fermarsi, e dovette sfondarsi il petto a suon di pugni prima di poter continuare: « Mi prendi in giro, ragazzino?! »
Ludwig si erse in tutta la sua microscopica altezza: « Proprio no, signor Fischer. »
« E come mai un nanerottolo come te vuole sapere delle sirene? Non dovresti essere tra i banchi di scuola a studiare, a scambiare figurine dei calciatori con i tuoi amichetti? »
Ludwig abbassò lo sguardo.
Amici? Quali amici?
Nessuno voleva essere suo amico, nessuno gli si era mai avvicinato per parlargli, per scambiare figurine.
Chissà, forse era per colpa del fatto che era lui il migliore della classe, nella piccola scuola elementare della cittadina di Vitte.
Il vecchio lo studiò a lungo, inalando l’ennesima boccata di fumo.
« Capisco. Un altro relitto umano, mh? Solo come un lupo di mare. »
Ludwig non ebbe nemmeno il tempo di offendersi, di protestare, che il signor Fischer si tolse di bocca la pipa, ormai completamente avvolto da una nube grigia, e si piegò in avanti, facendo cantare le molle della poltrona.
« Speri forse che un’altra razza possa salvarti dalla tua solitudine? Per me non è stato così. Quindi, faresti meglio a integrarti per bene con il genere umano, invece di andare a caccia di stupide leggende. »
Ludwig aggrottò le bionde sopracciglia: per quanto rispetto potesse nutrire nei confronti dei grandi, non gli piaceva che quel vecchio, quel perfetto estraneo, gli parlasse così.
Lui non stava fuggendo dagli uomini… no? Era semplicemente curioso.
Chiunque lo sarebbe stato, di fronte a una razza sconosciuta.
« Però… però non sono soltanto leggende. Lei le ha viste, giusto, signor Fischer? »
Il vecchio lo scrutò in silenzio, come se fosse lì lì per negare, e Ludwig non abbassò lo sguardo, neanche quando gli occhi presero a bruciargli disperatamente.
Poi, finalmente, il guardiano si rilassò e tornò a fumare la sua pipa.
« Sì, le ho viste… » scoppiò in una risata rauca e forzata, « E non ce n’è uno, su questo sputo di terra, che mi abbia creduto. Al diavolo! » ringhiò, sbattendo improvvisamente un pugno sul bracciolo della poltrona, « Loro e il loro buonsenso, io so quello che ho visto! »
« Io le credo, signor Fischer!» intervenne accalorato Ludwig, senza riflettere, « Perché l’ho visto anch’io! »
L’occhio sano del vecchio lampeggiò pericolosamente, e il giovanotto si ritrasse.
« Cos’è che avresti visto, eh? »
Accidenti, si era lasciato prendere dall’emozione, e non aveva riflettuto bene prima di parlare.
Christoph Fischer era la sua unica speranza, l’unico faro in mezzo all’oceano che potesse guidarlo verso le sirene… però era pur sempre un vecchio pazzo.
Doveva dirglielo? Poteva fidarsi?
Decise per un compromesso, e gli raccontò una mezza verità.
« Uhm… qualche giorno fa, nel… nel Neuendorf. Stavo passeggiando sul porto di Plogshagen e… ho visto qualcosa che s’immergeva tra le onde. Non sembrava una focena, e nemmeno una foca, però… »
« Però non ci potevi credere. » concluse il vecchio per lui, e Ludwig annuì mestamente.
« Perciò sono venuto da lei, a farle questa strana domanda. »
Il vecchio si tolse la pipa di bocca, soppesandola nella mano grinzosa: « Sei sicuro di voler andare fino in fondo, marmocchio? Queste non sono storielle per pappamolle, o favole prima di andare a letto. Quello che ho visto, per quanto assurdo possa sembrare, è tutto vero. »
Ludwig deglutì.
« Se, nonostante tutto, vuoi comunque che io ti racconti ciò che so… »
Il giovane tedesco cominciava ad avere paura, a rendersi conto che forse quella era una faccenda troppo grande per lui.
Desiderava così tanto risolvere il loro mistero? Anche a costo di perdere tempo, di rovinare quel piccolo, piccolissimo legame che aveva stretto con gli altri cittadini? Anche a costo di perdere la testa?
Se non ci erano riusciti gli adulti, con le loro barche moderne, i loro idrofoni* potentissimi, le loro squadre di ricerca superorganizzate e le loro conoscenze infinitamente superiori alle sue, come diamine avrebbe potuto riuscirci lui, bambinetto di sei anni, tutto da solo?
« Suvvia, West, ti facevo più terra terra. Le sirene mica esistono, no? »
Avevano ragione loro, i grandi: avrebbe dovuto concentrarsi sugli esseri umani, a diventare parte di loro, a integrarsi… perché chi corre dietro alla fantasia, a ciò che non è materiale, rischia sempre di restare con un pugno di fumo tra le mani.
Se vivere su un’isoletta di pescatori gli aveva insegnato qualcosa, era che chi dorme non piglia pesci.
Sollevò il viso, e mentre guardava il mare in lontananza, i suoi occhi azzurri brillarono: « Sì. Sì, voglio che lei mi racconti ciò che sa. Perché non ci chiudo occhio, perché ormai gli esseri umani mi appaiono terribilmente noiosi, perché non so più quello che ho visto. E non è l’idea che le sirene possano esistere a spaventarmi… bensì l’esatto contrario. »
Lo aveva detto, alla fine.
Fece un lungo respiro, e guardò in faccia il vecchio.
Christoph Fischer annuì lentamente, e nel suo unico occhio latteo non pulsavano più indignazione e sospetto.
« Molto bene, giovanotto. »
Anche il tono con cui lo chiamava era molto diverso.
Il vecchio si alzò in piedi e aprì la pesante porta di ferro che conduceva all’abitacolo dell’osservatorio: « Vieni dentro, e siediti. Ti racconterò quello che so. »
Ludwig obbedì, eccitato come il cavaliere che entra nella caverna dell’anziano dragone soggiogato.


Il signor Fischer posò sul tavolo, davanti al bambino, una tazza fumante d’infuso di timo; si sedette sulla cigolante sedia di legno, tra la montagna di scartoffie, vecchi libri, mappe e giornali spiegazzati, e subito il vecchio gattone gli balzò in grembo, accoccolandosi fino ad assomigliare a un polletto pronto per entrare nel forno.
Era un norvegese color antracite, con una meravigliosa criniera di peli bianchi intorno al collo, e perfino Ludwig, che preferiva i cani ai gatti, non poté che ammirarne la placida eleganza.
Prese la tazza e assaggiò la profumatissima bevanda, mentre il vecchio iniziava a parlare.
« Dunque, ovviamente sai che le ho viste per quattro volte, no? Suppongo che ti sia già fatto raccontare della mia penultima, da tuo fratello maggiore. »
Ludwig si scottò quando annuì troppo in fretta, impaziente di sentire il seguito.
« Oh, bene, non sei così sprovveduto come pensavo. » il signor Fischer grattò distrattamente le orecchie del micione, che prese subito a fare le fusa, come un vecchio motorino, « Inizierò dall’inizio. La prima volta le vidi più di quarant’anni fa, quando avevo appena accettato il compito di salvaguardare questo faro. Ai tempi non era mica tutto automatico, e dovevo fare continuamente su e giù per portare il combustile alla lanterna, e pulirla, e chiudere le tendine di giorno, per tenere i vetri protetti dai raggi del sole. Un lavoraccio. Ebbene, fu al sorgere del sole di un giorno qualsiasi, proprio mentre stavo per spegnere la luce e andarmene a letto, che ne vidi una per la prima volta. »
Prrrr prrrr prrrr, il gattone faceva da sottofondo alla storia.
« Abbronzato, muscoloso, con i capelli corti e ricci: a una prima occhiata mi era sembrato un turista, uno di quei giovinastri latini a cui piace mettersi in mostra davanti alla pollastrella di turno. Ma poi s’immerse, e vidi la coda. »
Ludwig risucchiò rumorosamente la tisana, gli occhioni azzurri spalancati, e il vecchio fece spallucce: « Quella prima volta pensai di avere avuto un abbaglio. “Quando il sole spunta all’orizzonte, la rifrazione della luce sull’acqua del mare può giocarti dei brutti scherzi”, liquidai tutto così. Poi, quasi dieci anni dopo, ne vidi una di nuovo. »
Fece una pausa, aspirò una boccata di fumo e la soffiò lontano da Ludwig: « Questa volta era una femmina: una fanciulla dai lunghi capelli scuri, e dagli occhi verde foglia. Stava nuotando a pelo d’acqua, sotto ai ponti del porto di Neuendorf. Fu come se riuscisse a percepire il mio sguardo, perché si voltò verso di me, e un attimo dopo si rituffò in profondità. Vidi la sua pinna, e compresi del perché ne ero rimasto tanto incantato. »
Il signor Fischer sospirò dolorosamente: « Tu sei ancora troppo giovane, non puoi capire. »
Ludwig non replicò, e finì la sua tisana.
No, non riusciva a capire: dopotutto, aveva solo sei anni.
« Beh, la terza volta già la conosci. Una coppia: erano molto lontani, e grandinava così forte che riuscii a malapena a intravederne le code. Sembravano il giovanotto riccioluto e la splendida fanciulla, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Poi, la quarta e ultima volta. »
Il vecchio fece un’altra pausa, studiando per un momento un calendario appeso al muro: « Oh sì, giusto un paio d’anni fa. La vedi questa? » e si picchiettò con la pipa sulla cicatrice rosa acceso, « Era di nuovo lui: il riccio. Stava sonnecchiando nell’acqua bassa della baia, a qualche chilometro dal porto di Kloster. Non sembrava star bene, perché era tutto rannicchiato su un fianco, e si abbracciava la coda, respirando come fanno gli asmatici. »
“Poverino” pensò Ludwig, e subito si stupì di quella sciocchezza.
« Che cosa provò, nel vederne una da così vicino, signor Fischer? » chiese allora, affascinato.
Il vecchio fece spallucce, scosso da un improvviso colpo di tosse: « Mi faceva pena, e mi dimenticai di urlare, di chiamare qualcuno, di scattargli una foto. In quel momento non avevo davanti una creatura fantastica, bensì un essere che soffriva. Volevo aiutarlo, così corsi sulla spiaggia e cominciai a spingerlo verso il mare. Volevo ributtarlo in acqua, pensavo che gli avrebbe fatto bene, visto il suono che faceva mentre respirava. Ma poi… »
Ludwig trattenne il respiro.
Il gattone si alzò sbadigliando, fece una gobba enorme mentre si stiracchiava e poi balzò giù dal grembo del guardiano; si strusciò per un momento contro le gambe della sedia di Ludwig, e poi si allontanò mulinando la vaporosa codona a ciuffi.
« Ma poi…? » insistette Ludwig, impaziente.
Il signor Fischer fece un suono strano con la bocca: una specie di gemito soffocato.
« Quel demonio irriconoscente, non parve gradire le mie attenzioni, perché si alzò di scatto e mi tirò una bella graffiata. Proprio così. » sorrise all’espressione spaventata di Ludwig, « Sull’occhio. Aveva le unghie lunghe e forti, e si portò via buona parte del bulbo. Ero così impegnato a bestemmiare e spruzzare sangue ovunque che non mi accorsi nemmeno quando rientrò in acqua strisciando. »
Il giovane tedesco deglutì pesantemente, impallidito.
E così, le sirene non erano dolci fanciulle che pizzicavano arpe fatte con una conchiglia, incantando i marinai… bensì creature pericolose.
Ludwig cominciava a rendersi conto di non potercela fare da solo.
Finché si trattava di un cucciolo, niente sarebbe potuto andare storto; ma se avesse incrociato il cammino con un esemplare adulto? Nessuno avrebbe potuto prevedere come sarebbe andata a finire.
« Ti ho spaventato, eh? Te l’avevo pur detto che questa non era una storia per mocciosi. » osservò burbero il guardiano, ma Ludwig si affrettò a scrollare il capo.
« Non ho paura! Stavo solo pensando… mi dispiace per il suo occhio, signor Fischer. »
Il vecchio mugugnò qualcosa tra sé e sé, scuro in volto.
« Sì, beh, ormai non importa più. Abbiamo due occhi proprio per situazioni come questa. » svuotò il fornelletto della pipa in un portacenere di vetro, « Ad ogni modo, quella non fu certo l’ultima volta che ebbi un contatto con loro. »
« Ah no? » Ludwig era stupito.
« Nah. Non lo racconto in giro, perché altrimenti si metterebbero tutti a cercarle sul serio, e dopo quell’incidente col mio occhio ci ho rinunciato. Ho capito che sanno difendersi, se vogliono, quindi meglio lasciarle stare. » scoccò un’occhiataccia a Ludwig, che si fece piccolo piccolo sulla sedia, « Bada bene, giovanotto, questo vale anche per te. Va bene guardarle da lontano, al sicuro dalle loro unghiacce, però vedi di non fare il mio stesso errore, eh? Non sopporterei di avere sulla coscienza la testa di un marmocchio di sei anni. »
Ludwig annuì lentamente, concentratissimo: « Glielo prometto. Vada avanti, per favore. »
Il vecchio accavallò le gambe: « Ebbene, è da un po’ di tempo che la sento. Negli ultimi mesi si è fatta sempre più forte, più chiara, come se ogni volta si avvicinasse un po’ di più alla costa. »
Il cuore di Ludwig, chissà perché, cominciò a martellare come un pazzo.
« Che cosa, signor Fischer? » lo incalzò.
Il guardiano rovistò borbottando tra le scartoffie sparse sul tavolo, ripescò una mappa dell’isola e la lisciò per bene davanti a Ludwig.
« Non sono riuscito a delinearne un calendario preciso, ma ci sono notti in cui lo sento. »
« Cosa? Cosa? » Ludwig stava per saltellare sulla sedia, tanto era sulle spine.
« Il canto di una sirena. » il guardiano puntò il dito sulla mappa, e il giovane tedesco salì con le ginocchia sul legno.
« Dal faro non riesco a vederla, ma sembra proprio provenire da queste parti. È sempre la stessa, almeno questo sono riuscito a capirlo. »
Era proprio nella baia di Jeliel, per forza il signor Fischer non era riuscito nemmeno a scorgerla.
Ludwig annuì tra sé e sé, gli occhi che brillavano di determinazione.
Balzò giù dalla sedia e fece un saluto educato al guardiano: « La ringrazio infinitamente per tutto, signore. Adesso devo andare, mi scusi. »
Corse alla porta che dava sulla scalinata a chiocciola, ma il vecchio ricomparve improvvisamente accanto a lui, spaventosamente veloce nonostante l’età.
« Tu sai qualcosa di quella sirena, giusto? » gli chiese, stringendogli una spalla.
Ludwig esitò.
Gli aveva raccontato del porto di Plogshagen per depistarlo, per proteggere, se anche in minima parte, quel bambino.
Perché in fondo non si fidava degli adulti.
« N-no, purtroppo. Però voglio provare ad ascoltare, chissà che non riesca a sentirla anch’io. » e si sforzò di fare una faccia innocente.
« Già… chissà che tu non ci riesca. » il vecchio gli lasciò il braccio e gli aprì la porta, « È stato bello poterne parlare con qualcuno, senza sentirmi dare del pazzo ubriacone. Torna a trovarmi, eh giovanotto? E raccontami delle tue scoperte. »
« Lo farò. » gli gridò il bambino, correndo giù per le scale.
Non era un uomo malvagio, dopotutto, però Ludwig non poteva ancora fidarsi ciecamente.
Lo avrebbe messo alla prova, perché adesso aveva finalmente qualcuno con cui condividere quell’incredibile segreto.
Non c’era tempo da perdere: di volata a casa, e poi a scuola, come un bravo bambino. Non doveva dare nell’occhio, non doveva rovinare tutto, adesso che aveva una pista.


Gilbert russava già da due ore, quando Ludwig sgattaiolò silenziosamente oltre la porta della sua stanza, e poi fuori dal portone principale, in giardino.
La loro villa si ergeva orgogliosa a pochi chilometri dal porto, un po’ in disparte rispetto alle altre abitazioni, nel bel mezzo di un parchetto recintato da un alto cancello gotico.
Era notte fonda, e il respiro del mare slittava verso di lui in folate gelide e prepotenti; Ludwig si strinse nel giaccone e attraversò il vialetto di ghiaia scricchiolante.
S’irrigidì per un momento, quando i tre cagnoni che vivevano con loro gli si avvicinarono, gioiosi.
« Shhh, Blackie, Berlitz, Aster, buoni… state buoni, eh? » e per distrarli, prima che cominciassero ad abbaiare vogliosi di giocare, tirò fuori tre bocconcini di carne di pecora e li lanciò lontano, sul prato.
I cani si lanciarono all’inseguimento, aggrovigliandosi le zampe nel tentativo di divorare anche la parte degli altri, e Ludwig richiuse il cancello con un sospiro di sollievo.
Si mise in marcia sulla strada lastricata, soffiando fiato bianco dalla bocca e stringendo il piccolo involucro di carta stagnola nella sua tasca.
Venti minuti dopo avvistò il boschetto di larici e abeti bianchi, abbarbicato al ripido pendio che conduceva a Jeliel.
Con il batticuore che aumentava man mano nel suo petto, Ludwig lasciò il sentiero e si addentrò tra i tronchi odorosi di resina, camminando su un tappeto di aghi rossastri, scivolando sul terriccio fangoso e incastrandosi più di una volta nei cespugli di olivello spinoso.
Dopo un’estenuante ricerca, individuò il punto perfetto: un avallamento quasi a livello del mare, ben nascosto dall’erba incolta e dai giovani arbusti di pino.
Si accucciò il più comodamente possibile, calandosi il cappuccio sul viso infiammato dal freddo, perché non aveva idea di quanto ci sarebbe voluto, o se si sarebbe fatto vedere quella notte.
Nascose le mani sotto alle ascelle per tenerle al caldo e puntò gli occhioni azzurri sulla linea del mare, che si estendeva immensa e piatta.
E attese.


Si svegliò di soprassalto.
Che ore erano?
Il cielo era ancora nero come basalto, ma il vento si era calmato.
Il cappuccio gli era caduto indietro, e doveva essersi addormentato su di una pietra, perché aveva la guancia tutta graffiata e dolorante.
S’infilò una mano nella tasca e ne tirò fuori l’involucro di stagnola, fece per alzarsi in piedi e sgranchirsi un po’ le gambe intirizzite… ma qualcosa si mosse velocemente nell’acqua, pietrificandolo.
Gli balzò in cuore in gola: davanti a lui, a pochissimi metri di distanza, il bambino lo stava fissando a occhi sgranati.
« Ciao… » sussurrò Ludwig, ma la sirena si ritrasse immediatamente, immergendosi fino quasi a scomparire.
« Aspetta, ti prego! » Ludwig sollevò le mani nel tentativo di calmarlo, e gli sorrise rassicurante, « Non voglio farti del male, non andare via. »
Parve funzionare, ma solo in parte, perché del giovane tritone ricomparve solo la fronte.
Lo stava studiando molto attentamente, ed era chiaro che al primo passo falso se la sarebbe filata senza guardarsi indietro.
Ludwig cominciò a scendere cautamente dalla collina, temendo che a ogni scricchiolio di rametto la sirena sarebbe scappata.
Raggiunse la spiaggia e quella nuotò un po’ indietro, come se non gradisse particolarmente l’accorciarsi delle loro distanze.
« Stai tranquillo, non ti faccio niente. » gli sorrise ancora, e già i muscoli delle guance gli facevano male, perché non era abituato a tutte quelle smorfie amichevoli.
I suoi sorrisi, tuttavia, parvero rilassarlo, perché smise di allontanarsi, limitandosi a galleggiare con metà della testa fuori dall’acqua.
Era una scena incredibile, e ancora Ludwig non poteva credere di non stare sognando: si sentiva inspiegabilmente calmo, nonostante il cuore gli andasse come un treno.
Si fermò un momento per studiarlo attentamente.
Era… era…
Bellissimo.
Fu il primo aggettivo che gli venne in mente.
Un visino dolce, la pelle molto più bruna di quella di Ludwig, capelli lisci - fatta eccezione per un ciuffetto sulla tempia sinistra - e rossi come le foglie d’autunno, che umidi si appiccicavano sulla fronte e intorno ai grandi occhi color dell’ambra più pura, i quali possedevano una pupilla in grado di contrarsi volontariamente.
Sarebbe parso un normalissimo bambino, se non fosse stato per quelle lunghe orecchie di cartilagine increspata, dello stesso colore delle iridi.
Ludwig non poteva ancora vederne il corpo e la coda, nascosti com’erano dall’acqua scura, ma non vedeva l’ora di scoprire di che forma sarebbe stata quest’ultima.
S’inginocchiò piano sulla sabbia: « Riesci a capire quello che dico? »
La sirena annuì appena, e Ludwig ne fu talmente felice che per poco non spiccò un salto verso il cielo.
Le sirene potevano capire la lingua umana! Quello avrebbe reso le cose mostruosamente facili.
Scoprire piccoli particolari di lui, della sua specie, poterlo osservare da così tanto vicino che i capelli gli si erano rizzati sulla nuca per i brividi, e potergli parlare e farsi capire… era una sensazione pazzesca.
« Io mi chiamo Ludwig. » gli disse, indicandosi il petto e poi indicando lui, « Tu come ti chiami? »
La sirena esitò a lungo, poi si erse fuori dal mare per scoprire la bocca ed emise uno strano fischio.
« Come? » ripeté Ludwig, « Non ho capito. »
La sirena fischiò di nuovo.
Era un suono adorabile, ma incomprensibile per il giovane tedesco.
Fu allora che capì: le sirene comprendevano il linguaggio umano, ma non sapevano parlarlo.
« Riesci a dire “Ludwig”? » lo incoraggiò, allargando bene la bocca per mostrargli il labiale, « L-u-d-w-i-g. Coraggio, provaci. »
La sirena inclinò il viso, e per un orribile istante Ludwig temette che se ne sarebbe andata… ma poi quella socchiuse le labbra e mugugnò qualcosa.
« Liuuuu… tviiiiiik… »
Il giovane tedesco dovette trattenersi dallo scoppiare a ridere: « Non male, ma puoi fare di meglio. Ascoltami bene: Luuuudwiiiig. »
Il giovane tritone gonfiò le guance e si corrucciò tutto nello sforzo: « Liuuuu… Luuuu… dviiiiiik… »
« Ancora. » insistette Ludwig, « Puoi farcela. »
Era carino quando si concentrava, e a giudicare dalla fatica sul suo visino, quella doveva essere la prima volta che parlava fuori dall’acqua.
« Luuuuudwiiiiiiiig! » gridò, e questa volta il giovane tedesco non riuscì a fermarsi in tempo.
Scoppiò a ridere, e la sirena si spaventò di quel suono così strano, allontanandosi dalla spiaggia con un colpo di pinna.
« Oh no, scusami, ti prego! » si affrettò a calmarlo Ludwig, gattonando fino a immergere le ginocchia nella risacca, « Non volevo spaventarti, mi dispiace. Non lo faccio più, non andartene via. »
Il giovane tritone lo scrutò titubante, come se non riuscisse a decidersi se fidarsi o scappare il più lontano possibile.
A Ludwig venne un’idea.
« Ehi, vuoi provare il cioccolato? » e scartò con impazienza la stagnola dell’involucro, « È buono, sai? »
Staccò un pezzetto della barretta di cioccolato al latte, quella che si era portato da casa come spuntino, porgendola alla sirena con un sorriso amichevole.
Quella drizzò le lunghe orecchie ossee, e le sue piccole narici si allargarono confuse.
Poteva respirare, e sentire anche gli odori: altro particolare molto interessante.
« Ha un buon profumo, no? » Ludwig si avvicinò di un centimetro, pianissimo, « Assaggiala. »
Ma il giovane tritone non si fidava ancora, così il piccolo tedesco si mise in bocca il pezzetto di cioccolato: « Hai visto? Non fa male. »
Parve convincerlo, perché gli si fece appresso, nuotando nell’acqua bassa della spiaggia fino a emergere completamente.
Il cuore di Ludwig voleva scappare, e tra poco ci sarebbe riuscito, se avesse continuato a battergli così furiosamente.
S’impose di non strillare, di tenere ferma la mano che reggeva il cioccolato, anche quando la sirena si trascinò sui palmi verso di lui, gli occhi solo per quel cibo dall’odore stranissimo.
Lo prese direttamente con la bocca, e quando si rese conto che si stava sciogliendo, sgranò gli occhioni gialli e arrossì.
« Ti piace? » gli sorrise Ludwig, che si sentiva talmente euforico che presto gli sarebbe venuto un infarto, « Si chiama “cioccolato”. Riesci a pronunciarlo? »
« Sio… cio… cioooooh… »
« Piano, non ti sforzare. È ancora troppo difficile come parola. »
Troppo difficile per cosa? Mica doveva insegnargli a parlare… o forse sì?
Era un’idea meravigliosa! Geniale!
Aveva appena trovato una scusa per poterlo rivedere.
Il giovane tritone stava fissando insistentemente la barretta nella sua mano, così Ludwig gliela offrì con piccoli gesti invitanti, appallottolando la stagnola con l’altra e infilandosela nella tasca.
La sirena la mordicchiò, dapprima un po’ sulle spine, come se si fosse appena resa conto di aver mangiato cibo sconosciuto dalle mani di un essere sconosciuto; ma poi prese confidenza, perché Ludwig sapeva starsene immobile come una statua, per non spaventarlo.
La verità era che se ne stava approfittando per poterlo guardare da vicino, e imprimersi quella visione impossibile nelle retine, come quando si guarda un angelo.
Tra le dita aveva una spessa membrana di pelle, e Ludwig notò, con un piccolo brivido, che le unghie erano già piuttosto lunghe… però aveva la pelle liscia e perfetta, senza scaglie, senza un pelo.
Le branchie erano tre larghi lembi di pelle posti sui fianchi, e in quel momento erano perfettamente chiusi.
Chissà se gli dava fastidio respirare l’aria, si domandò Ludwig, ripensando al tritone sofferente che aveva accecato il signor Fischer.
Poco sotto all’ombelico iniziava ad allungarsi la coda di pesce: rossa come i suoi capelli, aveva una pinna gialla dalle estremità ben divise, non a pagaia come se le era sempre immaginate.
Sull’inguine si adagiava sulla sabbia una lunga pinna ventrale, e sul sedere ne aveva un’altra ancora.
La risacca del mare si riversava sulla sua coda, muovendogliela avanti e indietro, ricoprendogli di sabbia fradicia le squame rosse, raccogliendosi tra uno spazietto e l’altro della cartilagine giallo intenso.
Era talmente reale, lucido e stupendo, che a Ludwig venne un’improvvisa voglia di toccarlo.
« Devo trovarti un nome. » pensò a voce alta, mentre l’altro divorava l’ultimo pezzettino di cioccolata e poi annusava irrequieto il suo palmo, « Ehi… forse, se ti insegnassi la mia lingua come si deve, potresti dirmelo tu come ti chiami. »
La sirena gli leccò le dita, e Ludwig ridacchiò deliziato.
« Ti è piaciuto, eh! Va bene, te ne porterò dell’altro. »
Il giovane tritone sollevò lo sguardo su di lui.
Aveva effettivamente una seconda palpebra semitrasparente, che ogni tanto si distendeva sugli occhi per poi ripiegarsi agli angoli, segno forse che l’aria secca gli stava dando fastidio.
Ludwig doveva lasciarlo andare, lasciare che tornasse a casa, anche se non voleva; si rese conto, con una fitta di tristezza, che avrebbe potuto continuare a guardarlo e a parlare con lui fino all’alba.
« Domani… » cominciò, ma un ramo si spezzò alle sue spalle con un colpo secco.
« West! »
La voce di Gilbert li raggiunse come un fulmine a ciel sereno.
Il giovane tritone trasalì e strisciò sulla pancia all’indietro, buttò la coda di lato per potersi voltare e si rituffò in mare con un balzo.
« No, aspetta! »
Ludwig lo rincorse per i primi due metri, ma ecco che la pinna gialla comparve per un istante tra le onde basse, e quella più piccola dorsale s’inabissò fino a sparire del tutto, inghiottendolo tra i cerchi di schiuma.
Ludwig deglutì: vederlo andare via così, senza nemmeno averlo salutato, senza avergli detto di tornare lì anche domani, era stato duro come ricevere un calcio allo stomaco.
« West! »
Gilbert lo raggiunse scivolando lungo il pendio, portandosi dietro una cascata di sassolini, e lo abbracciò con forza: « Ma sei matto?! Mi hai fatto venire un colpo! Cosa stai facendo qui, a quest’ora?! »
Ludwig cercò di non mostrargli il suo sconcerto, e modulò la voce che gli tremava fra le labbra: « Non preoccuparti, bruder, sto benissimo. Ero… ero solo venuto a vedere le foche. »
« Le foche? » ripeté basito Gilbert, e il fratellino annuì con vigore.
« C’era una foca sulla spiaggia. Era vicinissima e mi sono fermato a guardarla. Vedi… ho letto in un libro che le foche a volte si fermano a dormire sulla sabbia, ma di giorno c’è troppo rumore, e loro non si avvicinano. Così sono uscito di nascosto… » fece una faccia colpevole, e Gilbert sospirò di sollievo, quando comprese.
« Ah, ecco. » si rabbuiò subito, « Però la prossima volta svegliami, che ci andiamo insieme. »
« Ma bruder! » protestò Ludwig, « Tu sei rumoroso come un cinghiale, e non sapresti startene zitto e fermo mentre le aspettiamo. Rovineresti i miei appostamenti! »
Gilbert scoppiò nella sua risata simile a un latrato, lo prese per mano e lo guidò di nuovo tra gli alberi, sul pendio.
« Allora va bene se ti lascio andare da solo? Sei sicuro? »
« Sì, ormai sono grande. »
« Ma sentilo, questo piccolo scienziato impertinente. Va bene West, però la prossima volta avvertimi prima di uscire. Voglio che ti porti dietro il cellulare, e non avvicinarti mai più così tanto all’acqua, d’accordo? Osserva i trichechi, i cetrioli di mare e tutto quel che ti pare, ma resta sull’erba, intesi? »
Ludwig sospirò: si preoccupava decisamente troppo per lui, e non che non potesse capirlo… dopotutto loro due erano rimasti senza padre dopo che era annegato in un incidente in barca.
Perciò annuì, obbediente: « Sì, bruder. »
« E torna per mezzanotte, e portati dietro un cappotto invernale, e una torcia, e… »
Ludwig si voltò per un momento, osservando malinconico il mare sotto di loro.
Gli parve di scorgere, nascosto dietro alle forme di Jeliel, una figurina umana immersa nell’acqua.
Ludwig la fissò intensamente, pensando con tutte le sue forze:
“Domani. Torna domani.”
La sagoma sparì.
Era stata solo la sua immaginazione?
Il cielo andava pian piano rischiarandosi su Hiddensee, tingendo le chiome degli alberi e i tetti di legno di una morbida aura rosata.
Si prospettava una gran bella giornata, ma già Ludwig non vedeva l’ora che arrivasse sera… e il cuore ancora non aveva smesso di battergli all’impazzata.


CONTINUA…



Note:

Lampada ad alogenuri metallici: una lampada a scarica ad alta intensità in cui la luce è prodotta mediante radiazione da una miscela di vapori di metallo, alogenuri metallici e prodotti della dissociazione degli alogenuri metallici

Trapper: cappello d’origine russa, foderato di pelliccia e con lunghe protezioni per le orecchie

Casa di Henni Lehmann: residenza estiva della famiglia Lehmann. Dal 2000 viene usata per eventi e mostre

Idrofono: microfono progettato per captare l’attività acustica sottomarina


Ed ecco il secondo capitolo!

Mi spiace di averci messo un po’, ma, come al solito, devo fare un sacco di ricerche mentre scrivo (infatti sono riuscita a sbagliarmi col Gellen… brava BoW! Un due sulla pagella di Hetalia non te lo leva nessuno!)

A mia discolpa posso solo dire che i miei problemi sono peggiorati, giustamente - _ -

Non quelli fisici, eh, bensì quelli “amorosi”.
Eh, che ci dobbiamo fare? Prima o poi le cose si metteranno a posto.

Spero che la mappa (che poi non è una mappa, ma una foto dell’isola) vi sia tornata utile. È piccola e non si vede una leppa, per via dei 500 pixel da non superare, ma comunque qualcosina dovrebbe ancora capirsi.

Con la viva speranza che vi sia piaciuto questo secondo capitolo, ci rileggiamo nel prossimo!

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Capitolo 3
*** La castagnola rossa dell'Italia ***


SING FÜR MICH

3
“LA CASTAGNOLA ROSSA DELL’ITALIA”



Il maestro stava spiegando cose vagamente importanti, ma la testa di Ludwig era da tutt’altra parte, quella mattina.
Non faceva che osservare la finestra accanto al suo piccolo banco, seguendo il volo di un paio di martin pescatori che giocavano a inseguirsi tra i rami degli aceri.
Di tanto in tanto, sul quaderno scarabocchiava qualche appunto udito a mezza voce, disegnandovi poi accanto una coda di pesce che s’immergeva tra le onde, o un fanciullo impaurito che faceva capolino dalla schiuma.
I battiti del cuore acceleravano ogni volta che si soffermava sul suo ricordo, e le gambe gli tremavano, tanto era forte l’impulso di balzare in piedi e correre da Jeliel, per vedere se fosse arrivato.
Magari lo stava aspettando, e non lo vedeva arrivare, e se ne andava deluso, senza tornare mai più…
Il ginocchio di Ludwig cominciò a scattare su e giù, mentre i suoi occhioni azzurri fissavano nervosamente le lancette dell’orologio appeso sopra alla lavagna.
Ancora due ore, che scatole.
Il maestro srotolò un’enorme cartina della loro isola, la fissò al muro e cominciò a indicare le varie cittadine con un bastoncino metallico; quando si fermò sul Dornbusch, per la prima volta in tutta la lezione, Ludwig gli dedicò la sua attenzione.
« Non è raro poter assistere agli spostamenti delle colonie di foche grigie, in questa stagione. Quelle che vengono chiamate “isole di riproduzione” saranno i luoghi dove le femmine gravide daranno alla luce i loro cuccioli. La nostra piccola isola è l’ideale per i rinnegati, dove i maschi troppo giovani o troppo deboli si riuniscono per darsi una mano l’un l’altro, scacciati dagli alfa, che si prendono i territori migliori. »
Ludwig scribacchiò svogliatamente un paio di appunti, ma all’improvviso si bloccò.
Soppesò le parole del maestro, strappò la pagina del quaderno e lisciò con impazienza quella dopo.
Gli era appena venuta un’idea brillante… beh, niente di così strano, dopotutto era un piccolo genio; ma aveva bisogno di prepararla con cura, per farla funzionare.
Trascorse le restanti due ore a scrivere, cancellare furiosamente, strappare la pagina, appallottolarla e buttarsela alle spalle con uno sbuffo d’insoddisfazione, grattando ininterrottamente la penna sulla carta.
Quando la campanella trillò allegramente, i suoi compagni balzarono in piedi e si riversarono sciamando fuori dall’aula, mentre il maestro ripuliva la lavagna e arrotolava con cura tutte le mappe.
« Oh, Ludwig, che cosa c’è? » gli chiese, quando si vide comparire accanto il migliore dei suoi allievi.
« Maestro, vorrei chiederle una cosa. »
L’occhialuto damerino infilò con cura tutti i suoi libri e le sue carte in una lustrissima valigetta di pelle, « Sì, me n’ero accorto che qualcosa ti stava turbando. Oggi te ne sei rimasto insolitamente in silenzio, senza rispondere a nessuna delle mie domande. »
Ludwig arrossì un poco e abbassò lo sguardo, scatenando una risatina nel professore.
« Non fare quella faccia, Ludwig, non ti abbasso certo i voti per così poco. Allora? Che cosa volevi chiedermi? » e si sedette sul bordo della cattedra, tanto era in confidenza con i suoi esigui allievi.
Ludwig si strinse con forza il quaderno al petto, il cuore che gli pulsava indeciso nella gola.
Poteva fidarsi? Ma quello era il suo maestro, era una brava persona… e poi, Ludwig sarebbe stato attento a non lasciarsi scappare alcun indizio.
« Uhm, è una domanda difficile. Non so come porgliela. »
Sempre più incuriosito, il professore si spinse gli occhiali su per il naso, « Provaci. Io farò del mio meglio per risponderti, come sempre. »
Che volesse sapere del Patto d’Acciaio, di Roberto* o di come venissero al mondo i bambini, non c’era niente di più soddisfacente che nutrire l’intelligenza di quel piccolo tedesco promettente, così il professore incrociò le braccia sul petto e lo incoraggiò con un sorriso.
« Oh, d’accordo… allora, diciamo che ho trovato un posto segreto sull’isola. Diciamo che in questo posto segreto ci vengono spesso le foche a riposarsi e… diciamo che vorrei osservare tutto questo. Cosa dovrei fare? »
Il maestro sollevò le sopracciglia, sorpreso: « Ma davvero? E dove sarebbe questo posto segreto, Ludwig? »
« L-la mia era solo una curiosità! » protestò prontamente il bambino, « E comunque non posso rivelarglielo: è il mio posto segreto, no? »
« Oh, giusto, giusto… scusami. Beh, se intendi osservarle, ti suggerisco di trovare un nascondiglio sopraelevato e al riparo dal vento, in modo da poterle guardare senza che sentano il tuo odore. Fai qualche fotografia, senza flash e senza troppo rumore. Prendi appunti, fai come se fossi a scuola. Non disturbarle però, mi raccomando. »
Ludwig annuì, serio e appassionato: « Potrei provare a lasciare loro qualcosa da mangiare? »
« Beh, suppongo che potresti… ma le foche sanno riconoscere l’odore dell’uomo, probabilmente si spaventeranno se gli porti qualcosa che hai toccato. »
« Ma mio fratello sa pescare, maestro. Mi farò dare qualche pesce appena preso e li trasporterò in un secchio d’acqua di mare. Cosa ne pensa? »
Il professore sbatté le palpebre, sbalordito: « Mi sembra una buona idea. »
« Bene. Maestro, la ringrazio per l’aiuto. »
Ludwig chinò educatamente la testa e corse fuori dalla classe, il quaderno ancora ben stretto tra le braccia.
« Posso chiederti almeno perché vuoi osservare delle foche? » gli gridò dietro il maestro, e la voce eccitata del suo miglior allievo rimbombò per i corridoi bianchi della scuola.
« Un progetto extrascolastico! »
Ma come faceva a conoscere già una parola del genere?
« Crescono così in fretta. » sospirò il professore, infilandosi il pesante cappotto e buttandosi la valigetta su una spalla, mentre usciva dalla classe ormai perfettamente silenziosa.
Beh, almeno non gli aveva chiesto delle api e dei fiori.


« Bruder, andiamo a pesca? » gli chiese improvvisamente Ludwig, posando la tazza ancora mezza piena di caffelatte.
« A pesca? » Gilbert sollevò lo sguardo dal giornale.
« Sì, per favore? »
« Beh… d’accordo West, ma come mai vuoi andare a pescare adesso? »
Ludwig fece prontamente spallucce: « Così… oggi a scuola mi sono annoiato un po’ e mi è venuta voglia di sgranchirmi le gambe. »
Gilbert ridacchiò soddisfatto: « Cosa stavate studiando? »
« La flora e la fauna della nostra isola. »
« E non t’interessa l’argomento? »
« Ma certo che m’interessa! Lo adoro, mi piace un sacco sapere dei pesci che nuotano nel nostro tratto di mare e che ci danno da mangiare, di come riconoscere il nido dell’aquila dalla coda bianca da quello del falco pescatore, di quali funghi si possono e non si possono raccogliere… »
Il volto di Gilbert si aprì in un gran sorriso scanzonato, si appoggiò al palmo di una mano e, mentre ascoltava i discorsi appassionati del suo fratellino e guardava i suoi occhioni azzurri bruciare d’amore, si rese conto di un’assoluta verità.
« West, lo sai… tu dovresti proprio seguire questa strada. »
« Eh? » Ludwig interruppe il suo sproloquio e sbatté confuso le palpebre, « Quale strada, bruder? »
« Quella da ricercatore. Ti piace osservare creature e piante, no? Beh, potresti farlo. Farlo come lavoro, dico. »
Ludwig rimase come folgorato, così Gilbert ripiegò il giornale e si alzò dal tavolo: « Bah, scusami West, è ancora troppo presto per parlarne. Chi lo sa… magari potresti scoprire che la vita da topo di biblioteca non fa per te, e che preferisci curare i computer, o disegnare case, o inventare nuove leggi per i tedeschi. »
Visto che Ludwig non voleva decidersi a seguirlo, Gilbert gli fece un cenno con il pollice verso la porta della sala da pranzo: « Quindi, andiamo a pescare? »
Il suo fratellino si riscosse, balzò giù dalla sedia e gridò: « Vado a mettermi il cappotto! » ed era talmente esaltato che si dimenticò completamente del caffelatte.


« Preso! » ruggì trionfante Gilbert, strattonando verso l’alto la bella canna laccata di nero e afferrando saldamente il terzo merluzzo del pomeriggio.
« Bruder, sei proprio bravo, eh? » osservò ammirato Ludwig, chinandosi per osservare il pesce che ancora si dibatteva nel secchio pieno d’acqua di mare.
« Ma è ovvio, West, io sono magnifico, no? » si pavoneggiò il maggiore, riavvolgendo il filo e lanciando l’amo con un ampio gesto del braccio.
« M’insegnerai un giorno, vero? » si raccomandò il fratellino, immaginandosi una sirena super felice che divorava una montagna di pesci, pescati da Ludwig stesso.
Gilbert scoppiò nella sua tipica risata simile a un latrato, si tolse il cappello da pescatore e lo calcò sui capelli biondissimi del fratellino, « Quando sarai più grande, West. Ci vuole un po’ più di forza, per poter tirare su questi bei figlioli. »
Ludwig sbuffò: « Ma io sono forte… »
« Non abbastanza. Finiresti col farti pescare tu dal pesce! » e rise ancora più forte, ignorando le proteste del fratellino.
Strano: non era da Ludwig essere così impaziente.
Passò un’altra ora, e il sole cominciò a rimboccarsi le coperte nella trapunta blu del mare.
« Bene, direi che per oggi può bastare. » annunciò Gilbert.
Tirò su la canna, si sgranchì le spalle e gettò un’occhiata soddisfatta ai tre secchi ricolmi di pesci: « Gran bel bottino, no? Il tuo fratellone è sempre il migliore! »
Ludwig afferrò uno dei secchi e lo sollevò con qualche difficoltà: i merluzzi che aveva preso Gilbert erano belli grassi, chissà se gli sarebbero piaciuti…
« Questi ce li facciamo fritti stasera, eh West?! » e si leccò i baffi, sollevando gli altri due secchi pieni di aringhe e papaline ancora boccheggianti.
Mulinando i secchi stracolmi sotto al naso degli altri pescatori, Gilbert attraversò la passerella di legno vantandosi a tutta voce, con Ludwig che arrossiva per il gran baccano.
Quando raggiunsero il marciapiede e la strada asfaltata, a qualche chilometro dal porto, il giovanotto lanciò un’occhiata preoccupata alla baia di Jeliel, lontana e invisibile.
Chissà se si sarebbe fatto rivedere, quella notte.


« Bruder, posso chiederti una cosa? » cominciò Ludwig, qualche ora dopo cena.
« Mh? »
Suo fratello stava guardando la televisione, spaparanzato sul divano a isola del salotto.
Solitamente crollava entro le undici; i suoi occhi rossastri, infatti, si stavano già chiudendo.
Gilbert fece uno sbadiglio enorme: « Di che si tratta, West? »
« Uhm, ecco… ci-ci sarebbe questo posto sulla spiaggia, un posto ben nascosto e segreto. Penso che sia diventato il raduno preferito delle foche stanche… e allora volevo provare a… sai, quello che mi hai detto anche tu, no? Il topo nella biblioteca e tutto il resto… »
Esitò, arrossendo quando il fratello maggiore gli indirizzò un sorriso enorme.
« Ma certo, è un’idea magnifica. Non quanto me, ma pur sempre una gran bella idea. »
Ludwig tirò un sospiro di sollievo.
« È il posto dove sei andato ieri notte? »
Si era rilassato troppo presto.
Tentò in fretta di nascondere la propria espressione colpevole, mentre borbottava confusamente: « No, non è quello. »
« E allora dov’è? »
« Un po’ più… a ovest. È al porto di Kloster. »
« Oh, ecco: è ancora più vicino. Bene bene, vai pure allora. »
Ludwig raccolse il giubbotto pesante e si diresse in tutta fretta verso la porta principale, con le guance in fiamme: prima di conoscere quel bambino, non aveva mai mentito a suo fratello. Mai.
« Ti sei preso il cellulare? »
« Sì, bruder. »
« E la torcia? »
« Sì. »
« Torna per mezzanotte, eh West? »
Un’ora sola da poter passare insieme a lui… sempre che si fosse fatto vedere.
« Va bene, bruder. »
« E digli che nemmeno loro pescano bene quanto me! »
Il giovanotto fece un nervoso cenno di saluto e si chiuse la porta alle spalle con attenzione.
Tese le orecchie, e ascoltò: attese il momento in cui Gilbert alzò il volume della tv per dirigersi verso il capanno degli attrezzi, in un angolino riparato del parchetto.
L’interno era buio, polveroso e occupato da un sacco di aggeggi e utensili, legna per il camino conservata bene all’asciutto, il tagliaerba e la vecchia barca di Gilbert: un po’ sverniciata e rugginosa, ma ancora perfettamente usufruibile.
Ludwig accese la potente torcia da escursionista - quella che usavano sempre quando arrivava una tempesta particolarmente forte, e qualche blackout faceva esplodere le lampadine in casa - e cercò attorno, tra le cassette sovraccariche di cacciaviti e chiavi inglesi, scatoloni pieni di libri e un paio di biciclette risalenti alla seconda guerra mondiale.
Alla fine individuò il gigantesco frigorifero per le scorte, incastrato tra una libreria e il generatore a gasolio; lo aprì e ne tirò fuori il secchio pieno di merluzzi, uno dei trofei prestigiosi che suo fratello si era guadagnato quel pomeriggio.
Si ficcò la torcia nella tasca esterna del cappotto invernale e sollevò il pesante tesoro con entrambe le braccia.
Presto, presto! Lui poteva già essere arrivato, sicuramente era così, e lo stava aspettando in ansia.
Ludwig caracollò fuori dal capanno - che chiuse con un tallone - e di nuovo in giardino, fermandosi giusto un momento per tirare a Blackie, Berlitz e Aster i loro tre bocconcini di carne appetitosa, e poi oplà!, oltre il cancello e già sulla strada asfaltata.
Quanto pesavano quei merluzzi! Però lasciarli a mollo nell’acqua pura di mare, nel refrigeratore del capanno, si era rivelata un’idea vincente: profumavano ancora intensamente e né gli occhi né le scaglie si erano sciupate.
Ludwig scrutò fiero il proprio dono, col foglio del quaderno ben piegato e riposto al sicuro nella tasca dei jeans.


Tremò d’eccitazione, quando riconobbe le chiome sempreverdi dei larici e degli abeti bianchi.
S’intrufolò tra i tronchi e i cespugli di olivello spinoso, scivolò cautamente lungo il pendio e si fermò sul limitare della sabbia, guardandosi attorno sospettoso.
Bene: nessuno sembrava averlo seguito.
A ovest dei tetti blu di Hiddensee sopravviveva un unico alone violetto, e nonostante l’avvicinarsi dell’estate, le giornate erano ancora corte e piuttosto freddine.
Il giovane tedesco si gettò il cappuccio impellicciato all’indietro e trotterellò verso Jeliel, incapace di fare piano, di avvicinarsi con cautela per non spaventarlo, di trattenere quel frenetico desiderio di rivederlo.
Giunse ai piedi dello scoglio col fiatone, ma il sorriso gli morì sulla bocca.
Non c’era.
Fu una delusione cocente, e il secchio gli scivolò dalle dita doloranti, atterrando sulla sabbia blu con un tonfo e una pioggia di goccioline.
Improvvisamente, Ludwig si sentì molto stupido.
Poteva anche assomigliare a un essere umano, poteva imitare i suoni di un essere umano, poteva mangiare il cibo di un essere umano… ma era pur sempre un animale.
Un mostro - come lo avrebbero chiamato gli abitanti di Hiddensee - non ha l’etica di un uomo, non conosce alcuna etichetta e di certo non si fa problemi a infrangerle.
Ludwig, forse, aveva ingenuamente pensato di aver trovato finalmente un amico, ma quel mostriciattolo non era stato nient’altro che un passatempo… come un animaletto domestico.
O era più come una bestia selvaggia, visto il modo in cui lo aveva tradito e se n’era andato chissà dove, dopo aver mangiato dalle sue mani?
Ludwig si strofinò gli occhi con rabbia e scattò in piedi.
Molto meglio che fosse successo così, all’improvviso: come quando si strappa via il cerotto da una ferita, e bisogna farlo prima che il corpo, o la mente, possano prepararsi al terribile dolore.
Così non avrebbe sofferto nel non rivederlo mai più.
E allora perché… perché piangeva in quel modo?
Mollò un calcio furioso al secchio, e vi fu uno splash improvviso alle sue spalle.
Che cosa poteva essere? Una focena? Una tartaruga? Magari una foca vera?
O forse… uno dei fantasmi del faro, riemerso dalla sua tomba di fango e alghe putride per trascinarlo con sé negli abissi gelidi dell’oceano?
Terrorizzato, Ludwig si voltò verso il mare… e per poco non cacciò un urlo.
Non di paura, ma di gioia.
« Sei… sei tu. » balbettò, incredulo.
Era lì, era davanti a lui, con la faccia fuori dall’acqua, a qualche metro dal piedistallo semisommerso di Jeliel.
Lo osservava con quei bellissimi occhioni gialli sgranati, come se nemmeno lui potesse credere al ritorno dell’umano.
E fu guardando la sua espressione di puro stucco, che la paura, la rabbia, il senso bruciante dell’abbandono si sciolsero nel petto di Ludwig, come pezzi di ghiaccio insignificanti.
« Sei tornato veramente! Non posso crederci… »
Oh, si sentiva così bene, adesso! Così sollevato!
Si vergognò da morire di tutte le cose orribili che aveva pensato di lui.
Ludwig si accucciò sui talloni, dove la risacca schiumava sotto a Jeliel, e fece un sorriso enorme al piccolo tritone.
Lui, però, non gli si avvicinava.
« Hai ancora paura di me, vero? Però sono felice che tu sia tornato per vedermi. Tu… avevi voglia di rivedermi? »
La sirena emise un fischio dolce e musicale, e Ludwig lo prese per un sì.
« Anch’io avevo voglia di rivederti. » gli sorrise di nuovo.
Chissà perché, sorridere a quel bambino gli riusciva più naturale che con gli esseri umani.
« Ehi, guarda che ti ho portato. »
Afferrò il secchio puzzolente e lo spinse verso di lui.
La sirena drizzò le orecchie, allargò le narici, e si avvicinò un po’ di più.
« È un regalo, un segno di pace. Lo mangi il pesce, vero? »
Non voleva toccare i merluzzi e appiccarci il suo odore da umano, così se ne rimase indietro, ad attendere una sua reazione.
Funzionò: incuriosito, il giovane tritone si fece piano piano appresso, fino a posare la pancia sulla sabbia della spiaggia.
Fiutò con grande interesse il contenuto del secchio, e all’improvviso vi affondò la faccia, addentò un merluzzo e fuggì sotto a Jeliel, lasciando Ludwig a bocca aperta.
Al riparo dello scoglio, si sentiva sgranocchiare con grande impegno.
« Allora ti piace! » Ludwig era al settimo cielo, « Sai, non sapevo se la tua specie fosse carnivora, erbivora, oppure onnivora, come noi esseri umani. Mangiate anche altre cose, là sotto? Chessò… alghe, crostacei, magari plancton? »
Una manina palmata sbucò da dietro Jeliel, afferrò un altro merluzzo e Ludwig dovette soffocare una gran risata.
« Peccato che non sai parlare la mia lingua, avrei così tante cose da chiederti… »
Il visino della sirena si affacciò timidamente.
« Qual è il tuo nome, se hai una famiglia, come si vive nel mare, come comunicate, se ci sono altri di voi nel mondo… »
Ludwig sospirò sconsolato, ma s’irrigidì quando la sirena nuotò verso di lui e si arrampicò sulla spiaggia, fermandosi dove l’acqua raggiungeva appena le quattro dita.
Il giovane tritone prese un bel respiro, e poi esclamò: « Lllluuuuuudddwiiiiiiig! »
Fu così inaspettato il suono della sua voce, il modo sicuro con cui lo aveva chiamato, che Ludwig boccheggiò a lungo, cercando di trattenersi con tutte le sue forze.
Non ci riuscì, e scoppiò a ridere.
Questa volta, però, la sirena non scappò: lo fissò intensamente con i suoi grandi occhi gialli, poi spalancò la bocca e fece una serie di guaiti, un surrogato di risata umana.
Ancora una volta, Ludwig rimase a bocca aperta: lo stava imitando, e quella era una notizia incredibile.
« Allora forse… »
Ce l’avrebbe fatta. Gli avrebbe insegnato a parlare.
Divenne rapidamente rosso come un pomodorino maturo, abbassò lo sguardo a terra e borbottò, rivolto alle proprie scarpe: « Se-senti… »
La sirena scrollò le lunghe orecchie cartilaginose, in attento ascolto.
« Ma… se-secondo te… noi siamo… a-a-amici? »
Era stato difficile e imbarazzante proprio come si era aspettato, e il silenzio che seguì fu assordante come lo scoppio di una bomba.
Ludwig si mordicchiò il labbro inferiore, ma a un certo punto non resistette più: sollevò lo sguardo, e quasi poté leggere il dubbio sul volto della sirena.
Amico di un umano suonava strano, e pericoloso, se ne rendeva conto lui stesso.
Chissà cos’avrebbero detto i suoi simili…
Probabilmente quello che avrebbero detto a Ludwig gli esseri umani, se fossero venuti a sapere che parlava con una sirena, e che le portava cioccolato e pesci invece di fotografarla, di catturarla e mostrarla al mondo intero.
Ludwig scrollò il capo con rabbia: che pensieri orribili, ma non gli importava di passare per egoista o anche per pazzo.
Quel mostriciattolo, quella cosa non umana, era stato il primo essere vivente sulla Terra a cercarlo di sua spontanea volontà.
Quella creatura mitologica era stata in grado di accettare Ludwig per quel che era: musone, silenzioso, schivo e inquietante.
Una bestia, nata dalla fantasia e dalle fiabe, era riuscita a farlo ridere come nessun essere umano al mondo.
Non poteva essere malvagia, una bestiola così sensibile.
La sirena allungò una mano e toccò quella di Ludwig, facendogli drizzare i capelli in testa per la sorpresa.
« Amih… amic… amico. »
Dopo un paio di tentativi riuscì a ripeterlo, gli si fece così vicino che il cuore di Ludwig saltò un battito, e premette la propria fronte contro la sua.
Oh, com’era fresca la sua pelle, e liscia, e umida, e luminosa…
Quello doveva essere il modo in cui le sirene si promettevano qualcosa, si disse Ludwig; ma poi non fu più in grado di pensare a nient’altro, stordito dal sollievo, da una felicità che sembrava troppo grande da poter contenere.
Aveva un amico, un vero amico, per la prima volta!
« Luuudwiiiig, amico! » esclamò la sirena, agitando in aria le braccia e sollevando una fontana di spruzzi verso il cielo blu cobalto.
Il giovane tedesco annuì, incapace di parlare, di muoversi.
« Luudwiig? »
« Sto… sto bene. » e si asciugò le guance velocemente, « Mi è andata… solo un po’ di sabbia negli occhi. »
« Saaaabia? »
Ludwig sorrise: « Sabbia. S-a-b-b-i-a. » e ne prese una manciata con la mano, lasciando che gli scorresse tra le dita.
« Saaaabbbbbbbbia. »
« Esatto, bravissimo. »
La sirena afferrò l’ultimo merluzzo e lo scrollò con impazienza.
« Oh, quello? Quello è un pesce. »
« Peeeeeessie. »
« No, non “s”, ma “sh”. Guarda come muovo le labbra: “shhh”. »
« Ssssssssshhhhhhhhhhhhh! »
« Bravo! Ora riprova: p-e-s-c-e. »
Imparava in fretta: sembrava molto intelligente, e molto curioso.
Trascorsero tutta l’ora a imparare diverse parole, fin quando la sveglia della mezzanotte non squillò nel cellulare di Ludwig, facendo trasalire il giovane tritone.
« Ah, accidenti, è già mezzanotte? »
Non aveva nessunissima voglia di tornare a casa… ma doveva, oppure avrebbe fatto preoccupare il suo bruder.
« Mi dispiace, devo andare. » gli disse, e un’ondata di gioia lo investì, quando riconobbe il dispiacere anche sul suo visino.
« È stato divertente, vero? Sei bravo a imparare. »
La sirena arrossì, e Ludwig quasi si sciolse, perché era troppo carina.
« Se continuiamo di questo passo, imparerai il tedesco in un baleno! »
Un pensiero improvviso lo colpì.
« Ehi, di’ un po’… eri tu che cantavi di notte, qui, su Jeliel? »
« Sce… Ieeeee… Jieliellll… ? »
« Esatto, il mio posto segreto. » e Ludwig accarezzò amorevolmente il fianco incrostato di finocchio di mare, « Jeliel piace anche a te, vedo. Allora eri davvero tu? »
La sirena inclinò il viso, poi annuì.
« Capisco… tu canti, come nelle nostre storie. » gli occhi di Ludwig brillarono, « Senti… adesso devo proprio tornare a casa, però… domani. Domani ci sarai, vero? »
Lo vide esitare, come se fosse schiacciato dal peso di quel che stava combinando, come se avesse paura di fidarsi di quell’essere umano.
Ludwig fece per parlare, ma all’ultimo istante si morse la lingua, e tacque.
Doveva essere una sua scelta, e sua soltanto.
Alla fine, dopo una lunghissima pausa, la sirena annuì una sola volta.
Ludwig non riuscì a trattenere il sorriso: « Davvero? Oh bene… »
Gli si erano inumiditi di nuovo gli occhi.
« Allora… allora se domani verrai, mi canterai una canzone, va bene? »
La sirena abbassò le orecchie e avvampò, scrollando furiosamente la testolina rossa.
« Dai, per favore? Io ti insegnerò il tedesco, ma tu dovrai cantare per me. È uno scambio. »
Ludwig si alzò in piedi, prima che potesse rifiutarsi; raccolse il secchio e si arrampicò sul pendio erboso.
« Ci vediamo domani notte, d’accordo? Hallo! »
« Luuudwiiig, haaaalllllooooo! » gli gridò, sbattendo un palmo sulla superficie dell’acqua, forse il suo modo per salutarlo, o forse un buffo tentativo di imitare il gesto degli umani.
Ludwig raggiunse la cima del pendio, si fermò e rimase in piedi, immobile per un istante.
Quando si voltò, osservò con un groppo alla gola la sua coda oro e rossa che si tuffava tra le onde.
Si afferrò con mano tremante il cappotto, cercando di calmare i battiti del cuore, di trattenerlo nel petto, perché di lì a poco gli sarebbe scappato fuori.
La cosa aveva iniziato a farsi emozionante.
Con un intenso sospiro di felicità, il giovane tedesco si avviò verso casa saltellando, roteando il secchio con una mano, e già non vedeva l’ora che fosse il giorno dopo.


« Io vado, bruder! »
« Ohi, West, aspetta un momento! »
Ludwig si bloccò davanti alla porta d’ingresso, saltellando impaziente, « Bruder, insomma, faccio tardi… »
« Oh, sono certo che le tue foche possano aspettare un minuto in più. » e Gilbert gli infilò in tasca il Nokia 3310, « Ti stavi dimenticando questo. Non fare tardi, mi raccomando. »
Gli arruffò i capelli biondi, osservandolo scappare fuori con un sorriso soddisfatto.
« Mamma, anch’io ero così iperattivo da piccolino? » sussurrò alla foto di una donna bellissima, incorniciata d’argento.
Fuori, Ludwig salutò i tre cagnoni con qualche carezza e grattatina dietro alle orecchie, poi si fiondò fuori dal cancello e corse sulla strada, il cuore a mille per l’eccitazione.
Presto, verso Jeliel, di nuovo da lui.
Non vedeva l’ora di rivederlo, non vedeva l’ora di sentirlo cantare.
Chissà com’era la voce di una sirena?
Provò a immaginarsela, ma riusciva soltanto a visualizzare un giovane tritone che fischiettava in modo incomprensibile; e fu un’immagine talmente buffa che Ludwig non si rese conto di ridacchiare tra sé e sé, come uno stupido.
Pensare a lui lo faceva stare bene, stare con lui lo faceva stare bene, parlare con lui lo faceva stare bene… aveva trovato il suo primo, vero amico.
Non era neanche sceso dal pendio, quando notò il suo profilo sdraiato su Jeliel, rivolto verso l’orizzonte.
Era un’immagine perfetta, commovente: lasciò che gli marchiasse dolcemente il cuore, con la certezza che non l’avrebbe mai più dimenticata.
La sirena udì il suo affannato sdrucciolare sul terreno e si voltò.
« Luudwiig! »
« Hallo, amico. » gli sorrise di rimando Ludwig, col fiatone, fermandosi proprio sotto a Jeliel.
« Hallo, amico! »
« Esatto. Sei proprio bravo. »
La sirena arrossì, scrollando le orecchie.
Più sforzava la gola e le corde vocali, più queste si scioglievano e articolavano sempre meglio il suono umano.
Adesso la sua voce aveva una forma più precisa, acuta, simpatica e piacevole, con uno strano accento poetico che Ludwig aveva imparato ad associare ai latini, forse per pregiudizio.
« Sono felice di rivederti anche stasera. » gli disse, guardandolo dal basso con gli occhi che luccicavano, « Sai… forse non dovrei essere qui, insieme a uno della tua specie… »
Le sue orecchie cartilaginose sbatacchiarono nervosamente, e per la prima volta guardò Ludwig con durezza.
Non gli era piaciuto quel modo con cui aveva chiamato il suo popolo, così il giovane tedesco si affrettò a fare marcia indietro.
« Uhm, no… volevo dire che forse non dovrei essere insieme a una sirena, ecco. »
La sua espressione si rilassò, e lui annuì piano; si toccò il petto e poi indicò Ludwig.
« Neanche tu dovresti, vero? Siamo proprio due bambini cattivi. » Ludwig scrollò il capo e si sedette sulla sabbia asciutta, « Io prego soltanto che non ci scoprano mai. »

Perché, Ludwig? Se ci scoprissero, che cosa accadrebbe?
Voleva chiederglielo, lo desiderava con tutte le sue forze… ma non sapeva come fare.

« Ah, giusto! » Ludwig ammiccò nella sua direzione, « Avevi promesso di cantare per me, ti ricordi? »
La sirena avvampò fino alla punta delle orecchie ossee, scrollò furiosamente la testa e Ludwig ridacchiò.
« Avevi promesso, non puoi rompere una promessa! »

Cantare? Per un essere umano?
Non lo aveva mai fatto, e c’era un motivo più che valido.
Il canto del suo popolo era speciale, e fuori dall’acqua diffondeva potenti vibrazioni a bassissima frequenza, in grado di colpire i tessuti molli a una velocità pazzesca.
Ciò significava che avrebbe potuto stordire Ludwig, o assordarlo, o ferirlo… o incantarlo.
Non voleva che niente di tutto ciò accadesse al suo amico, perché Ludwig era un Nuota nel Sopra stupendo, gentile e generoso; non come quegli altri, che urlavano, torturavano il mare in mille modi orribili, trascinavano enormi trappole ad anelli piene di pesci che ancora vivi si dibattevano per la vita… il peggiore incubo di Efelién.
No, Ludwig era diverso… se lo sentiva nel ventriglio.
Ed era per questo che non avrebbe voluto cantare per lui…

La sirena scosse di nuovo la testa, ma Ludwig non si arrese.
« Ehi, guarda un po’ cos’ho qua. » e s’infilò una mano nella giacca, tirandone fuori un’intera barretta ricoperta di stagnola.
Gli occhioni del giovane tritone si spalancarono.
« Scioccolattooo! » squittì, sporgendosi da Jeliel per afferrarlo, ma Ludwig lo allontanò dalle sue manine palmate.
« Eh no, troppo facile così! » e rise, quando la sirena gli scoccò un’occhiataccia offesa, « Tu canta per me, e potrai averne quanto ne vuoi. »

Che ingiustizia, Ludwig! fischiò arrabbiato Efelién, ma il suo amico rise ancora più forte, probabilmente perché non poteva capirlo.
Non c’è proprio niente da ridere! Dammi il scioccolato!
« Niente cioccolato, se prima non mi canti qualcosa. »
Uffa, non voglio cantare per te!
« È inutile che fischi così, non capisco un bel niente. »
Si stava divertendo da matti, lui, a lasciarlo con quel dubbio tremendo.
Scioccolato o canzone?
Beh… se avesse fatto attenzione, cantando a bassa voce, controllando le vibrazioni nel suo ventriglio, cauto affinché non salissero troppo d’intensità, forse…

La sirena annuì una sola volta, dopo una lunghissima pausa.
« Davvero? » Ludwig era al settimo cielo, « Allora, ti ascolto. »
La sirena buttò la pinna oltre la roccia porosa e si sedette proprio sul bordo di Jeliel; sollevò lo sguardo sul mare, chiuse perfettamente le branchie e poi la pellicola semitrasparente scivolò sopra alle sue iridi dorate.
Ludwig trattenne il respiro, e poi lo udì.
Lui socchiuse le labbra, ma non le mosse: era la sua gola a pulsare, molto velocemente, in modo simile a come accadeva ai rettili quando gorgogliavano.
Il petto magro gli faceva su e giù, le punte della pinna caudale si muovevano sinuose come capelli nell’acqua, e le orecchie si erano appiattite all’indietro.
Ludwig si era sbagliato: non era un fischio, e nemmeno un grido, o un cinguettio, o un qualsiasi suono conosciuto all’udito umano.
Era unico nel suo genere.
Basso, musicale, viaggiava nell’aria in un modo che Ludwig non avrebbe saputo descrivere.
Che cosa dicevano gli alberi quando il fuoco divorava il loro legno? Com’era il pianto del vetro quando si spezzava? Cosa gemeva la gemma appena nata, quando la brina del primo mattino gocciolava dalla roccia, punzecchiandola?
L’acuto richiamo del falco, il ruggito di un leone, il sibilo del serpente, il lamento di una balena…
Ludwig chiuse gli occhi, e lasciò che il canto della sirena lo circondasse, lo avvolgesse come una calda trapunta, divenisse parte di lui per sempre.
Si rese conto che non avrebbe mai potuto udire voce più bella, triste e preziosa di quella.
La sirena tacque, e Ludwig riaprì gli occhi.
Lui lo stava osservando, un po’ spaventato.
« Che cosa…? Oh. » Ludwig si rese conto di avere le guance bagnate, e se le asciugò con impazienza, « Non devi preoccuparti, sto bene. È che… mi sono solo commosso un po’. »
La sirena si diede la spinta con la coda e si tuffò in mare, riemerse e nuotò verso di lui, trascinandosi sulla sabbia per stringergli una mano tra le proprie.
« Davvero, sto bene. » gli sorrise, « Piango perché mi piace. Mi piace il canto delle sirene. »
Lui parve rilassarsi, e scrollò le orecchie soddisfatto.
Ludwig tossicchiò imbarazzato, scartò la barretta e gliela offrì: « Tieni. Tutta tua. »
La sirena sbatacchiò la coda per la felicità, sollevando una fontana di spruzzi, e Ludwig scoppiò a ridere, proteggendosi la faccia: « Smettila, è gelida! »

Efelién non prese la barretta con le mani, limitandosi a sgranocchiarla direttamente in pugno a Ludwig: con i pesci sapeva come fare, ma con il cibo estraneo non aveva idea di come approcciarsi.
Scioccolato… non aveva mai assaggiato niente di simile.
L’unico cibo che assomigliava a quello strano blocco marrone erano le uova di tartaruga, che se recuperate dal ventre di una tartaruga morta erano ancora dolci, fangose e scricchiolanti.
Gli piaceva da impazzire, ma era già finito.
Cominciò a fiutare Ludwig dappertutto, cercando altro scioccolato, ma lui disse qualcosa e poi parve quasi arrabbiarsi, allontanandogli il viso mentre faceva quegli strani guaiti ansimanti, che erano il suo modo di ridere.
« Non ce n’è più, smettila! Mi fai il solletico! »
Come non ce n’era più? Per mostrargli il suo disappunto, Efelién schiaffò la coda sul pelo dell’acqua e schizzò in faccia a Ludwig, che questa volta si arrabbiò davvero.
« Ti ho detto di non farlo, è freddissima! »
Efelién si rotolò sulla risacca, si raddrizzò e sgrullò velocemente le orecchie, investendo Ludwig con una pioggia di granelli umidi e gocce salate.
Altri guaiti ansimanti e proteste, Ludwig balzò in piedi ed Efelién scappò in acqua, per sfuggire alla sua vendetta.

« Oh, dunque è così, eh?! »
Ludwig esitò, ma la sirena lo stava osservando con grande aspettativa.
Così decise.
Si tolse le scarpe e il cappotto, ripiegandolo con cura e posandolo su una sporgenza di Jeliel, in modo che non si sporcasse di sabbia.
Si arrotolò i jeans sui polpacci e pizzicò con un alluce la risacca schiumosa, prima che gli arrivasse in faccia un’altra schizzata gelida.
« La vuoi smettere?! » protestò, tentando di raggiungerlo, ma il giovane tritone si allontanò prontamente, giusto un centimetro oltre la sua portata.
Ludwig lo guardò storto, con il mento che gocciolava, poi si chinò sulle ginocchia e finse di giocherellare con l’acqua.
La sirena ci cascò in pieno: curiosa di vedere quel che stesse facendo, si avvicinò imprudente, e Ludwig scattò senza dargli il tempo di fuggire.
« Ah! » e gli schizzò una manciata d’acqua in faccia.
Il giovane tritone balzò all’indietro per la sorpresa e atterrò di schiena nell’acqua bassa, ma si riprese subito e sollevò la coda, investendo Ludwig con una cascata di spruzzi.
Giocarono a quel modo, un po’ cauti e un po’ timidi, ancora turbati dalle loro numerose differenze.
Non era facile dire che cosa significassero i gesti dell’altro, se fossero un segno di rabbia o di felicità, un invito a continuare o a fermarsi… però era bello.
Ogni tanto, Ludwig si fermava per spiegare una parola alla sirena, e quella la ripeteva fino a pronunciarla correttamente, poi lo ripagava con uno schizzo negli occhi e Ludwig gli correva dietro furibondo… per poi fermarsi di nuovo, spiegargli cosa volesse dire “basta”, o “mi bruciano gli occhi”, o “è fredda” e poi prendersi un’altra schizzata addosso.
Il Nokia squillò nella tasca del suo cappotto, e fu soltanto allora che Ludwig si fermò, il fiato corto e la pancia che doleva per le risate.
« È già mezzanotte? » protestò con grande disappunto, e la sirena nuotò verso di lui.
« Ludwig, via? » gli chiese, inclinando il mento nell’acqua bassa.
« Mi dispiace, devo tornare a casa. »
La sirena si voltò verso il mare aperto.
« Io. Casa. »
« Sì, anche tu. »
Ludwig si buttò la frangia bagnata via dagli occhi, le costole che rimbombavano per i battiti impazziti del cuore, « Hai imparato molte parole oggi. Bravo. »
La sirena sbatacchiò la pinna, come un cagnolino felice.
« Sai già pronunciare bene il mio nome, però hai un accento così insolito… »
Lo aveva già sentito, forse, da qualche parte, in qualche film… forse aveva una buona idea per dargli un nome.
Ludwig ritornò sulla spiaggia e s’infilò il cappotto, mentre la sirena si appoggiava al basso fondale per osservarlo.
« Non sapresti dirmi come ti chiami, vero? » gli chiese il giovane tedesco, mentre si srotolava i jeans e si rimetteva le scarpe.
Lui inclinò il viso.
« Provaci. Pensa a come ti chiamano i tuoi simili in acqua, e traducilo in un suono umano. »
Il giovane tritone gonfiò la gola, come un rospetto, fischiò qualcosa e poi osservò Ludwig.
« Mi dispiace, non ho capito. »
Ci riprovò, questa volta con una vocale ben precisa.
« Feeeee! »
« “Fe”? “Fe” come? Ancora. »
« Feeeeeiiiiiii! »
“Fei?”
Ma per quanto ci provasse e riprovasse, non riusciva a dirgli più di così.
Ludwig se lo annotò con cura sul pezzo di carta del quaderno.
« Non temere: ti troverò un nome. Non posso continuare a chiamarti “sirena” per sempre, no? »
« Shire… shia… sireeeenaaaaaa. »
« Esatto. Perché io sono Ludwig, no? L’essere umano Ludwig. Quindi, anche a te serve un nome. »
« Ludwig! Ludwig… amico. Ludwig, domani, hallo! »
Ludwig ridacchiò.
« Hallo, Fei, ci vediamo domani. »
Si arrampicò sul pendio, e come sempre si voltò un’ultima volta per guardare la sua coda sparire tra le onde.


Ludwig non accendeva spesso il computer di casa, ma quando lo faceva, era sempre per qualcosa di serio e importante.
Gilbert lo chiamò dalla cucina per la colazione, mentre lui scorreva con la rotellina del mouse lungo una lista tanto improbabile quanto interessante.
“Lingue indoeuropee”, eh?
Più Ludwig ripensava alla cadenza della voce del suo amico, più l’occhio gli ricadeva su quelle due.
La domanda giusta era: quale?
« Com’è andato ieri il tuo appostamento? » gli chiese sbadigliando Gilbert, posandogli davanti un piatto di uova fritte, formaggio quark e pane di segale.
« Bruder, tu sei mai stato fuori da Hiddensee? » gli chiese di rimando Ludwig, giocherellando con le uova.
« Sì, dai diciotto ai ventitré anni, per studiare un po’ all’estero. Poi, quando il nonno morì, scelsi di tornare a Hiddensee per prendermi l’incarico di direttore della Henni Lehmann. Sono due generazioni che se ne occupano i Beilschmidt, non potevo lasciare che la tradizione si spezzasse proprio con me. »
Gilbert notò lo sguardo preoccupato di Ludwig, scoppiò a ridere e gli batté un colpo formidabile sulla schiena, mandandogli di traverso il succo d’arancia, « West, non fare quella faccia! Nessuno ti obbliga, e io di certo non ti passerò l’incarico se non vorrai. E comunque, io sono ancora giovane e magnifico, è inutile preoccuparsene adesso. »
« Bruder, farai mai dei figli? »
« Mah, chi lo sa… »
« La signorina Elizaveta mi ha confidato che le piacerebbero tanto. Con te. »
Gilbert divenne rosso come un peperone, e la sua fronte cominciò a fumare: « Ah, ehm, dunque, io… Eliza ti ha davvero detto questo? »
« Beh, sì. » Ludwig divorò le uova, « Anche a me piacerebbero. Sarebbero… miei nipoti, giusto? Metà ungheresi e metà tedeschi… a proposito, bruder, dov’è che hai studiato di preciso? »
Gilbert si scrollò come un cane bagnato, nel tentativo di riprendersi dall’imbarazzo: « In Italia, a Roma. »
« Oooh, in Italia? Perché non me l’hai mai detto prima? »
« Non sapevo che fossi interessato all’Italia. »
Questa volta fu il turno di Ludwig di arrossire: « No, sì… beh, non soltanto all’Italia… ero solo curioso… »
Gilbert portò via il piatto vuoto, « E come mai questa domanda, West? »
« Volevo sapere come suonassero gli accenti latini. Com’è l’italiano? »
Gilbert si sedette sul bordo marmoreo del piano cottura, mentre corrugava la fronte nello sforzo di ricordare.
« Mmmh… è passato un po’ di tempo, e a furia di vivere qui, in mezzo a tutti questi vecchiacci che parlano soltanto il basso sassone*, non è facile ricordare… »
Gilbert si massaggiò il mento, lo sguardo rossastro perso in qualche glorioso e bizzarro ricordo, con Ludwig che attendeva sulle spine.
« Beh, posso solo dirti che le parodie sugli italiani e sulla loro lingua sono tutti pregiudizi. Fanno ridere, ma non sono molto realistiche. » disse alla fine, annuendo gravemente.
« Ah no? » ripeté stupito Ludwig.
Quindi gli italiani non se ne andavano in giro gesticolando con la mano chiusa a becco d’anatra e ripetendo “mammamia” con i baffoni al vento?
« Nah. Non proprio. Quando li sentivo parlare tra loro, per strada o all’università, non ci capivo un fico secco. Altro che scandito e nasale e “pizza, pasta e mandolino”… le frasi italiane sono assurdamente versatili. Possono essere lunghe o corte, dolci o dure all’orecchio. Le loro parolacce sono buffe da morire ma quando parlano in modo formale usano un sacco di vocaboli complicatissimi. »
Ludwig era affascinato, il succo d’arancia completamente dimenticato nel bicchiere.
« Era bello? L’italiano, dico, era bello da sentire? »
Gilbert sorrise, un po’ malinconico: « Molto. »
« Non è che sapresti imitarmi una loro frase? Una che ti ricordi? »
Suo fratello incrociò le braccia e la sua faccia assunse la stessa espressione di quando si concentrava sul gabinetto: « Mmmmh… ah già, quella! Quella non me la dimenticherò finché campo… »
Gonfiò il petto e ruggì, con voce chiara, ferma e scanzonata: « Porca di quella puttana, Fra, quante volte devo dirti di non prendere la Barilla?! Mi fa schifo! » e poi scoppiò a ridere, davanti all’espressione stordita di Ludwig.
« Cosa vuol dire? » gli chiese il fratellino.
« Non ne sono sicuro. Lo sentii da dentro una finestra aperta, mentre attraversavo la strada. Penso che fosse una litigata riguardo a una marca di pasta. »
« Ooh, perché? Ce n’è più di una? »
« Ce ne sono a centinaia. Alcune di qualità sembrerebbe. »
Gilbert fece spallucce: « E tutte queste domande, West? Cosa stai combinando? »
Ludwig sussultò, come punto da un calabrone, finì in fretta il suo succo e balzò giù dalla sedia: « È una ricerca per la scuola. Io vado, che faccio tardi! »
« Quando torni, passa da Nicki e compra un luccio: gliel’ho fatto mettere da parte apposta. » e gli lanciò una sacchetta piena di monete, che Ludwig afferrò al volo e infilò in fretta e furia nella cartella.
« Lo facciamo in salsa? »
« Se studi sodo, sennò pane e acqua. »
« Che divertente, bruder. » sbuffò Ludwig, « A dopo! »


Italiano… italiano… possibile?
Non bastava un sospetto, però: aveva bisogno di più certezze.
Quando lo incontrò, quella notte, era già appollaiato sul bordo di Jeliel.
« Ludwig, hallo! » squittì eccitato, scrollando la coda, « Nome? Sì?! »
« Hallo! No, non ti ho ancora trovato un buon nome. » sorrise Ludwig, sedendosi ai piedi dello scoglio, « Però ci sono vicino. Sai, il tuo modo di parlare mi ricorda qualcosa di umano. Dimmi: da dove vieni, tu? »
La sirena inclinò la testa.
« Non sei originario del mar Baltico, vero? La tua spe… il tuo popolo, migra come le balene, per caso? »
« Noi, via, casa. Noi, qui, ora. Mare freddo. Bello però. » sbatacchiò contento le orecchie, « Io felice qui. »
Ludwig annuì: « Sono contento che ti trovi bene. Spero che… spero che rimarrai qui con me, per sempre. »
« Sempre. Ludwig amico! »
« Sì. » gli sorrise, « Sei già capace di farti capire, hai visto? Stiamo andando bene. »
Tutto soddisfatto per i complimenti, il giovane tritone emise una serie di gorgheggi e Ludwig provò a imitarli.
« Come sono andato? »
« Ludwig, tu dire “tanto cibo”, non “felice”! » lo rimproverò la sirena, e Ludwig scoppiò a ridere.
« Il tuo linguaggio è così difficile per noi umani! Però mi chiedo perché tu possa capirmi… è come se, un tempo, foste stati come noi. Ma adesso non più. »
Il suo amico gli scoccò un’occhiata indecifrabile, poi si tuffò in mare, nuotò fin sulla spiaggia e allungò una mano.
Ludwig esitò, poi vi posò contro la propria.
« Ludwig, vedi? Io, te… uguali. »
Avevano le stesse mani, le stesse dita, si parlavano e si capivano, mangiavano le stesse cose, respiravano la stessa aria.
Forse aveva ragione lui.
« Ti va di cantare per me? » gli chiese all’improvviso Ludwig, forse solo per cacciare via quei pensieri strani e dolorosi.
Fu difficile convincerlo, ma alla fine, dopo molte resistenze, la sirena cedette.
Si sdraiò nel bel mezzo della risacca, questa volta, e cantò la stessa canzone del giorno prima.
Ludwig la ascoltò in adorante silenzio.
Quando il suo amico si zittì, il giovane tedesco riaprì gli occhi, si asciugò le lacrime e disse, con voce spezzata: « Vorrei tanto che tu potessi dirmi di che cosa parla, questa tua canzone. »
La sirena drizzò le orecchie: « Ludwig, me, tedesco. Io dire te. »
« Va bene, allora. Non penso che sarà così difficile. »
Più che imparare, era come se si stesse man mano ricordando.
Trascorsero la loro ora così, giocando nell’acqua bassa e ripetendo un termine dopo l’altro.
Il suo amico squamoso era un tipetto allegro e vispo, uno che non era capace di studiare in silenzio, fermo e composto, come invece era abituato Ludwig… ma doveva ammettere che quel modo così insolito d’imparare non era poi tanto male, anche se poco serio.
Non erano ancora abbastanza fiduciosi dall’arrivare a toccarsi apertamente, e si limitavano a spruzzarsi addosso l’acqua e a rincorrersi sulla battigia, però era la cosa più divertente che Ludwig avesse mai fatto.
Quando l’allarme squillò, l’amarezza arrivò a prenderlo come al solito, e si rese conto che non ne avrebbe mai avuto abbastanza di quel giovane tritone canterino.
« Ludwig, domani, hallo! » lo salutò, un po’ triste, la sirena, « Domani tu scioccolato, sì? »
« Va bene. » gli sorrise Ludwig.
Questa volta rimase a guardarlo mentre nuotava nell’acqua profonda e poi s’immergeva con un arco perfetto, quasi senza sollevare uno spruzzo.
Finora non ci aveva ancora pensato, ma quelle pinne e quel colore non li aveva mai visti prima, su nessun pesce della sua isola.
A che specie potevano appartenere?


Ludwig si afflosciò sulla tastiera del computer, gli occhi che bruciavano.
Gilbert russava nella sua stanza, e a parte lui, l’unico rumore udibile in tutta la casa era il lieve ronzio del computer.
Erano le tre di notte, e se suo fratello lo avesse trovato ancora sveglio…
Ludwig si tirò fuori dalla tasca il foglio già malconcio del quaderno, lo lisciò sulla scrivania e vi ricopiò sopra quell’accozzaglia di lettere così strane da pronunciare.
Dopo estenuanti ricerche, aveva trovato finalmente una soluzione.
La forma delle sue pinne, il colore rosso acceso e giallo oro, il suo accento e il fatto che considerasse fredde le acque del mar Baltico…
Grazie a google translate e a wikipedia, Ludwig aveva scoperto il luogo di nascita della sua amica sirena, una sua probabile specie e un nome carino da dargli.
Spense il computer, mise al sicuro il foglietto stropicciato nella tasca dello zaino e s’infilò sotto alle coperte con un sospiro esausto, ma soddisfatto.
Non vedeva l’ora di parlargliene domani, di sapere cosa ne avrebbe pensato, di sentire come suonasse quel nome sul suo visino delicato.
Ah, e non doveva dimenticarsi del cioccolato… anzi, scioccolato.


« Ludwig, hallo! » lo salutò ventiquattr’ore dopo, appollaiato sul cocuzzolo di Jeliel.
Ludwig quasi inciampò per la fretta di raggiungerlo, e si fermò col fiatone sotto allo scoglio, « Hallo! »
« Scioccolato, sì? »
« Te l’ho portato. » e gli mostrò la barretta ricoperta di stagnola, « Per fortuna che posso comprarlo con la mia misera paghetta da cinque euro, oppure chissà cosa direbbe mio fratello, con tutte queste tonnellate di cioccolata che sto prendendo ultimamente… »
La sirena si tuffò di testa in acqua, riemerse e lo guardò con due enormi occhioni imploranti: « Scioccolato, per favore? »
« Ma non ti farà male? Non è il tuo cibo naturale, no? »
« Io, bene. Scioccolato, per favore?! »
Ludwig rise, e il suo amico aggrottò le sopracciglia rossicce: « No divertente. Scioccolato, per favore! »
« Non vuoi sentire il nome che ti ho scelto, prima? »
La sirena spalancò la bocca e drizzò le orecchie: « Nome, per me?! »
« Sì. Ci sono stato su quasi tutta la notte. » Ludwig prese un gran respiro e si sedette sulla sabbia umida, « Spero… spero davvero che ti piaccia. »
E se così non fosse stato?
Stritolò la stagnola tra le mani e cercò d’ignorare quei due fari gialli puntati addosso.
« Hai un accento particolare, che mi ha ricordato una lingua umana ben precisa. Ho fatto delle ricerche, e ho scoperto che, probabilmente, tu vieni dai mari mediterranei. In particolare, forse dall’Italia. »
Sollevò lo sguardo su di lui, che lo stava ascoltando molto attentamente.
« La tua vecchia casa era calda, e azzurra, e piena di vita? »
« Sì. »
Lo disse tranquillamente, però chiuse per un momento le doppie palpebre semitrasparenti; gesto che Ludwig aveva imparato ad associare a uno stato emotivo o molto felice o molto triste.
« Capisco… e sai niente della castagnola rossa? »
« Pesce? »
« Sì. È una specie che vive nel Mediterraneo. La forma delle tue pinne è identica alla sua, il colore pure. Insomma, penso che tu sia una castagnola rossa dell’Italia. » Ludwig gli sorrise, « È una specie bellissima. »
La sirena sorrise imbarazzata e arrossì così tanto che le sue guance divennero dello stesso colore delle squame.
« E siccome ridi sempre, ho deciso di chiamarti Feliciano. Significa “felice, contento” in italiano. » Ludwig si grattò la nuca, a disagio, « Cosa… cosa ne pensi? Ti piace? »
Fu allora che vide le prime lacrime di sirena della sua vita.
Feliciano tremò, preso dal violento impulso di saltare al collo del suo amico umano e abbracciarlo stretto stretto.
Tentò di darsi un contegno, e scrollò le orecchie per riprendersi: « Ludwig, grazie. Feliciano… mi piace. »
« D-davvero? Meno male! Che guaio, pensavo, se non ti fosse piaciuto. Io non lo so pronunciare molto bene, però penso che ti stia a pennello, no? Ah, giusto, il cioccolato. »
Glielo allungò, ma Feliciano non lo prese.
« Non lo vuoi? » chiese stupito Ludwig, ma il suo amico scrollò la testolina rossa.
« Scioccolato, lo voglio. Però… » si posò una mano palmata sulla gola e gli sorrise, « Per grazie, nome, canto. Sì? »
Il cuore del giovane tedesco si strizzò come una spugna.
Ormai… ormai la sua voce era come una droga. Non bastava mai, ne voleva ancora, e ancora, e sempre di più.
Sicuramente, doveva avergli fatto un incantesimo; ma a Ludwig andava bene così, perché quello era il periodo più bello, felice e strano di tutta la sua noiosa vita.
« Sì, Feliciano. Canta per me. » e si accomodò meglio sulla sabbia, affondando le dita nelle dune granulose e sfuggevoli, mentre il suo amico ripiegava la pinna, raddrizzava la schiena bruna e vibrava dolci note senza suono, senza voce, senza tempo.
Un giorno, molto presto, avrebbe saputo dirgli anche le parole.
Fino ad allora, Ludwig avrebbe continuato semplicemente a immaginarne il significato; perché non era tanto imparare il tedesco, o le parole della sua canzone… quanto passare più tempo possibile insieme a lui.
Lui… Feliciano, la sua amica sirena.


CONTINUA…



Note:

Roberto: ovvero Roma-Berlino-Tokio. Nome con il quale venne battezzato il patto tripartito nel 1940

Basso sassone: dialetto del basso-tedesco


E siamo al terzo capitolo!
Come stiamo andando? Vi sta piacendo?

Qualche giorno fa mi hanno tolto l’ultimo punto dell’operazione: sono ancora in fase di cicatrizzazione, ma come vedete ciò non basta a fermarmi >:D MHUAHAHAHAH

Pubblicherò ancora due disegni, e due soltanto.
Uno di questi forse sarà un po’ forte visivamente (non per sporcizie yaoiose ma per la “violenza” della scena in sé) quindi devo ancora decidere se mettere un link esterno o fregarmene e spattacarvelo in faccia brutalmente.

Ditemi, siete molto sensibili alla violenza visiva?

Spero proprio di no… altrimenti quello che accadrà più avanti vi provocherà un trauma a vita.

Oddio, non denunciatemi, vi prego D: amanti di Lovino bello, non venite a cercarmi sotto casa, per favore! >_<

Qui lo dico qui lo nego, è colpa di LB Shadow! Non so esattamente per cosa… ma cisti, tanto è sempre colpa sua!

Ci rileggiamo al quarto capitolo!

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Capitolo 4
*** Gusto banana ***


NOTA:
In questo capitolo avremo la prima scena lime.
Non sono molto pratica delle lime, quindi, se ritenete che sia ancora troppo spinta, fatemelo sapere e la alleggerirò il più possibile.
Ah, e non fate domande per il titolo.
Capirete leggendo ( ͡° ͜ʖ ͡°) buona lettura dunque!


SING FÜR MICH

4
“GUSTO BANANA”



Ludwig non mancò mai al suo appuntamento sotto a Jeliel, e nemmeno Feliciano.
Vento, pioggia, neve, calura… non importava, perché sarebbe andato da lui a qualsiasi costo.
Ogni notte lo trovava lì ad aspettarlo, sdraiato sul cocuzzolo di gesso, impaziente d’imparare tante nuove parole in tedesco, e di cantargli la sua canzone.
In un’ora che se ne volava via come se fosse un minuto, in quell’angolino di mondo che era solo per loro; dove potevano fingere di non appartenere a due mondi diversi, dove potevano divertirsi insieme, come due normalissimi amici, e scoprire che, al di là delle apparenze, avevano così tante cose in comune…
Ludwig divenne un bambino felice, il suo cuore di ghiaccio si sciolse davanti ai sorrisi, alla semplicità e alla spontaneità di Feliciano.


Gilbert, che era troppo preso dal lavoro - o troppo scemo - per rendersi conto di quel cambiamento sbalorditivo, venne un giorno illuminato da Elizaveta.
« Ma Ludwig non si sarà trovato una fidanzatina, per caso? »
« Che? Quel tipaccio tutto studio-e-lavoro? »
Lo prese da parte una mattina, prima di colazione, e lo guardò dritto negli occhi: « West, è da un po’ che voglio chiedertelo. »
Ludwig s’irrigidì, e la tachicardia scoppiò improvvisa.

Convivere con un segreto così enorme lo stava facendo uscire pazzo: era costantemente teso, sempre pronto a scattare al minimo accenno di sospetto.
Al solo sentir nominare le parole “sirena” o “amici” avrebbe immediatamente piantato tutto e raggiunto Jeliel in una quindicina di minuti.
« Ci hanno scoperti! Feliciano, scappa! »
Viveva nel terrore di farsi beccare, e che lo avrebbero costretto a mettere la parola fine alla sua amicizia con una dannatissima sirena.
Quando imboccava il sentiero per scendere da Jeliel, non poteva fare a meno di fermarsi cinque o sei volte per controllare che nessuno lo stesse seguendo.
Non si fidava più di Gilbert, né del vecchio Christoph Fischer, né del maestro, né di Elizaveta.
E se qualcuno di loro avesse visto Feliciano?
Non avrebbero mai capito.
E se lo avessero catturato?
Sarebbe stato come un tradimento da parte di Ludwig.
Vederlo andare via per sempre, perderlo per sempre, era diventato il suo peggiore incubo; e più Ludwig sprofondava nel girone del proibito, più quei sogni orrendi venivano a cercarlo.

Così anche quella mattina strizzò i pugni lungo i fianchi, trattenne bruscamente il respiro e non osò tornare a esistere fino a quando suo fratello non parlò.
« Ma che è, ti sei mica trovato una ragazza? »
Ludwig quasi non svenne per il sollievo.
Una ragazza? Certo, perché no… solitamente ai ragazzi piacciono le ragazze, giusto?
Bastava che s’immaginasse una Felicia, studentessa italiana trasferitasi in Germania, sull’isola di Hiddensee, e tutti intorno a lui avrebbero approvato senza fare troppe domande.
Così accennò un sì, e riuscì a ingannare il suo ingenuo fratellone.
Elizaveta e il maestro, che erano più svegli, non se la bevvero tanto facilmente… ma fintanto che Ludwig evitava magistralmente il discorso, si impegnava nello studio e accennava quasi casualmente all’arrivo di un possibile nipotino, Elizaveta scoppiava in un eccesso di risatine imbarazzate e il maestro scriveva un bel dieci con la penna rossa sulla sua pagella a fine anno… e tutti si dimenticavano momentaneamente di Feliciano, grazie a dio.


« Sei poi riuscito a trovarla, la fonte di quel canto notturno? » gli chiese il guardiano del faro, un pomeriggio uggioso in cima alla torre, spingendo verso di lui una vecchia scatola di latta piena di biscotti all’uvetta.
Ludwig quasi si strozzò col tè alla rosa canina.
« Ehi, piano, giovanotto! » borbottò il vecchio, battendogli qualche colpetto sulla schiena, « Non mi va di chiamare il pronto soccorso, che poi dovrei portarti giù a piedi e non ho più le gambe di un quarantenne. »
Ludwig si pulì la bocca con il polso tremante e l’occhio gli scivolò sulla strana apparecchiatura digitale, che già da qualche mese aveva visto comparire nella cabina della lanterna.
« Si-signor Fischer… cosa sono quelli? » e indicò gli schermi a cristalli liquidi, gli headset professionali attaccati a mixer pieni di levette e bottoni metallici.
Non aveva alcun bisogno della risposta del vecchio, perché finalmente aveva capito a che cosa potessero servire.
« Oh, quella tecnologia infernale? Non è mia. » il guardiano fece spallucce, « Alla fine dell’anno me ne vado in pensione, e il guardiano che subentrerà al posto mio ha fatto installare tutta questa robaccia subito dopo aver firmato il contratto. »
Colpì con l’indice uno degli schermi piatti, con aria disgustata: « Mi fosse venuto un colpo il giorno che gli raccontai delle sirene… »
Ludwig si voltò di scatto verso di lui: « Gli ha detto delle sirene?! »
« Già. Diavolaccio buono a nulla, spera di registrarne una e di portare le prove al NOAA. »
« Ma lei gli ha raccontato anche di F… di quel canto notturno?! »
Il vecchio aggrottò le brizzolate sopracciglia: « No, non gliel’ho detto. D’altronde, è già da parecchio tempo che non lo sento più. » fece spallucce, « Probabilmente sarà stato un cane dall’ululato molto, molto strano. »
Ludwig si abbandonò contro lo schienale della sedia, e il grosso gattone peloso gli balzò in grembo, attaccando istantaneamente con il motorino di fusa.
« Stai bene, ragazzo? » gli chiese il guardiano, « Ti vedo sfinito. Forza, prendi un biscotto. »
Ludwig ne prese svogliatamente uno, mentre grattava il micione dietro alle orecchie.
« A proposito… tu ne sai niente di quell’animale bizzarro? » insistette il vecchio, fissandolo molto attentamente mentre si portava alle labbra il suo terzo bicchierone di jenever*.
Ludwig scrollò nervosamente la testa, e si tuffò con tutta la faccia dentro alla tazza di tè, nella speranza che bastasse a scoraggiare altre scomodissime domande.
« Ah, ecco… mi pareva. Sarà stato un cane, o una foca in amore. Ma le foche ci vanno in calore, vero? Ho incontrato tuo fratello maggiore al mercato, e mi ha detto che sei molto informato su queste cose. Ti piace la natura, eh giovanotto? Vorresti diventare un cervellone in camice e guanti? Anche quel fessacchiotto di Jones si crede una specie di avventuriero, se ha fatto installare tutta questa ferraglia soltanto per cercare una creatura leggendaria. Ma son contento di sapere che non le troverà mai: sono troppo intelligenti per farsi catturare, e finché avranno paura degli esseri umani e staranno alla larga dalla terraferma, quel Jones non riuscirà a registrare nient’altro che le scoregge dei narvali. Ah, questi americani… »
Ludwig deglutì, lo stomaco che si faceva piccolo piccolo.


E così Hiddensee stava diventando un luogo poco sicuro per Feliciano e la sua specie, e tutto a causa della loro amicizia.
La cosa giusta da fare, Ludwig lo sapeva molto bene, sarebbe stata correre da Feliciano, spiegargli che era in pericolo e mandarlo via da quelle acque… e lui ci provava a dirglielo, ci provava veramente.
Ma poi lo incontrava sotto a Jeliel in una notte al chiaro di luna; Feliciano si voltava pieno di gioia, dalla cima dello scoglio, e lo salutava.
« Hallo, Ludwig! »
Quel suo sorriso enorme era capace di fargli dimenticare tutto: i sospetti di suo fratello e di Elizaveta, le domande scomode del maestro e del signor Fischer, la minacciosa presenza di quell’americano e dei suoi registratori.
L’uomo è una creatura egoista e vigliacca, e Ludwig si rese conto, con profondo disgusto, di non fare alcuna differenza da tutti loro.
L’americano Jones voleva Feliciano per farne una scoperta mondiale e diventare ricco e famoso, Gilbert pensava che Feliciano fosse Felicia perché così sarebbe stato socialmente accettabile, il vecchio signor Fischer voleva che Feliciano smentisse l’intera isola, che per quarant’anni gli aveva dato del pazzo ubriacone, e Ludwig voleva Feliciano perché era il suo primo e vero amico.
Una sola cosa era certa: Ludwig non lo avrebbe mai e poi mai lasciato, a nessuno di loro.
Feliciano era suo, lo aveva visto per primo, e Ludwig di sicuro non voleva strapparlo al mare né imbottigliarlo in una qualche teca di vetro né mostrarlo al mondo intero… perché era suo amico.
“C’è ancora tempo… posso tenerlo al sicuro! Basta che non mi faccia mai scoprire, che non mi sfugga mai niente, che Feli la smetta di cantare e che di giorno giri al largo dalla costa.”
In che guai enormi stava andando a cacciarsi? E tutto per una stupida amicizia con una piccola sirena chiacchierona.
Ben presto, però, Ludwig capì che non gli importava niente.
Non poteva stare senza Feliciano, senza il suo canto; e dopotutto i cattivi presagi erano ancora così lontani, soltanto delle voci di spettri oltre l’orizzonte.
Bastava che quel giovane tritone sbattacchiasse la pinna e frullasse le orecchie gridando: « Ludwig, hallo! Scioccolato, sì?! » per convincerlo a tenerlo con sé.
C’era troppo da scoprire su Feliciano e sulla sua specie per poterlo mandare via.
I primi tempi fu per puro caso, ma pian piano i loro gesti divennero sempre più mirati, la loro curiosità sempre più impellente, come una sete che non riuscivano a soddisfare.
Inizialmente, fu Feliciano a toccare Ludwig per primo: pareva affascinato dalle sue orecchie piccole e tondeggianti, dal suo naso sporgente e, soprattutto, dai suoi occhi così piccoli e incapaci di vedere al buio o in acqua.


« Ma tu come fa? Come fa, senza queste? » gli chiese una notte, a dieci anni, e chiuse le doppie palpebre semitrasparenti.
« Non tengo gli occhi aperti in acqua, e basta. Non sono fatto per vivere nel mare. » gli spiegò Ludwig, « Tu, piuttosto… come le usi? Sono come una palpebra normale? Come le idrati? Con le lacrime? E se si seccano? » e le fissò abbassarsi e alzarsi, completamente rapito.
« Posso toccarle? »
« Va bene. Ma tu piano. Molto, molto delicate. »
Feliciano si lasciò punzecchiare la spessa pellicola umida e collosa, con Ludwig che annuiva estasiato, interrompendosi di tanto in tanto per scrivere qualcosa sul suo piccolo quadernetto di pelle.
« Che cosa tu? » gli chiese a un certo punto Feliciano, osservando da molto vicino la sua mano volare sulla pagina.
« Sto scrivendo. »
« Skifendo? »
« Scrivere, leggere, contare e parlare sono le cose che distinguono gli esseri umani dagli animali. » gli spiegò meccanicamente Ludwig.
Feliciano sbatacchiò la pinna, tutto contento: « Questo significa noi come voi? »
« Non proprio, perché le sirene non sanno scrivere, né leggere e né contare. »
« Però noi parlare! Io parlo con te, adesso, no? »
Il giovane tedesco sospirò: « Sì, ma non basta saper parlare per essere come noi… »
Feliciano si mise a giocherellare con la sabbia.
« Tu dire… io animale? »
E fu solo in quel momento che Ludwig si rese conto di averlo deluso.
Cosa poteva dirgli?
« Scusami, Feliciano, hai proprio ragione: tu sei come me. »
“No, non è vero. Perché anche se parli e ti fai capire, non cammini, sei coperto di squame, vivi in mare, non puoi respirare la mia stessa aria per più di un’ora… non sei un essere umano.”
Ma non poteva mica dirgli una cosa del genere.
Forse sperava di poter leggere i suoi veri sentimenti, di arrivare a comprendere la misteriosa e complicata natura di una creatura tanto sorprendente.
Se ne sentiva attratto ogni giorno sempre di più, ed era un antico richiamo atavico, un’attrazione folle che andava ben oltre al semplice interesse scientifico.
Feliciano era stupendo, pieno di sorprese, incredibilmente intelligente, ridicolmente simile a un essere umano… e la domanda di Ludwig non trovava mai risposta.

“Che cosa sono io, Ludwig?”

Le certezze di Ludwig andavano man mano sgretolandosi.
Tutto ciò che aveva sempre pensato di conoscere del mondo, tutto ciò in cui credeva, che riteneva giusto e doveroso…
Per poter figurare quel che lui fosse, doveva prima studiarlo; proprio come gli avevano suggerito Gilbert e il maestro.
Per il momento, avrebbe semplicemente evitato di rispondergli: una cosa che faceva molto spesso, negli ultimi tempi.
« Feliciano, canteresti per me, per favore? »
Lui si protese sulla cima di Jeliel e cantò, cantò quella splendida canzone senza parole; e quando smise e si acquietò, Ludwig gliene domandò il significato.
« Io no bene tedesco. Prossima volta. » rispose Feliciano.


Una fredda notte invernale, a tredici anni, Ludwig lo raggiunse incespicando sulla sabbia, con trentanove di febbre.
« Ludwig! » esclamò turbato Feliciano, « Che cosa avere tu?! »
Ludwig tentò di spiegarsi, ma il mondo vorticò così velocemente da fargli venire la nausea, e lui si accasciò a terra.
Quando riaprì gli occhi, non vide nient’altro che Feliciano, con le orecchie cartilaginose che gli vibravano per la preoccupazione.
Gli scoppiava la testa, aveva male dappertutto e lo stomaco rivoltato come un calzino; ma sopra di lui c’erano migliaia di stelle, un’enorme luna piena, il bagliore del mare sonnolento e… c’era Feliciano.
« Mi hai soccorso…? » sorrise il giovane tedesco.
« Ma certo! » sbottò la sirena, « Che cosa succedere, eh? Che cosa avere tu? »
« Ho la febbre. »
« Fepre? E che cosa essere? »
Lo scrutava angosciato, sdraiato accanto a lui, incurante del freddo penetrante, dello strato di sabbia secca che gli aveva ricoperto la pancia e la parte inferiore della coda.
Ludwig sapeva bene che il suo amico non poteva sopportare l’aria e l’asciutto per molto tempo; e vederlo sforzarsi così, solo per aiutare lui, lo fece sentire immediatamente meglio.
« È una cosa umana, forse voi non potete contrarla. »
« Contrarre? Contrarre cosa? Ma allora tua fepre essere… mania? No… malia? »
Perfino in quelle condizioni, nonostante il cerchio alla testa più fastidioso che avesse mai avuto, Feliciano era in grado di farlo ridere.
« Vuoi dire “malattia”? »
« E io dire cosa? » s’impettì il giovane tritone, « Ludwig, tu tornare a casa. »
« No, sto bene. »
« Tu non stare bene. Tu tornare a casa adesso. » e fece per toccarlo, ma Ludwig gli prese una mano fresca e liscia, tra le proprie bollenti e ruvide.
« Feliciano… grazie, grazie per esserti preoccupato per me. Ma io sto bene. Sto benissimo. Finché sto insieme a te, sto davvero benissimo. »
Feliciano si voltò verso il mare, forse per nascondere il rossore sulle sue guance; ma il suo ciuffetto ribelle s’arricciò come se avesse vita propria, tradendolo.
« Tu bianco come fantascienza. Tu bisogno di medicina. »
« Fantascie…? Oh, vuoi dire “fantasma”? »
« Io dire questo! »
Gli toccò la fronte con le dita unghiute, « Tu mordente. Io portare te qualcosa, sì? Sì. Tu aspettare qui. » e si trascinò sui palmi verso l’acqua.
« Dove vai? » gli chiese ansiosamente Ludwig.
« Io tornare presto. Tu riposare. »
Si tuffò in mare, e Ludwig fissò a lungo i cerchi di schiuma che brillavano al chiarore lunare.
Si massaggiò la fronte con un sospiro amaro: non andava bene, affatto.
Se vederlo andare via per cinque minuti gli faceva così tanto male, cos’avrebbe potuto provare nel perderlo?
Non voleva nemmeno pensarci, nemmeno immaginarlo…
Si stava affezionando troppo, ed era sbagliatissimo.
Per il momento, le cose lì a Hiddensee procedevano calme e sempre uguali: il nuovo guardiano americano del faro non se ne era ancora uscito con registrazioni o avvistamenti sulle sirene, e Ludwig non lo aveva visto che qualche volta, a fare un giro per le città dell’isola.
Un tipo alto e ben piazzato, ancora molto giovane e zelante, con un paio di occhi svegli e azzurri dietro alle spesse lenti degli occhiali, e quel buffo ciuffo pazzo che svettava in cima alla capigliatura biondo fieno.
Tutto sommato sembrava un tipo simpatico, col suo terribile accento americano e la sua energica confidenza… ma Ludwig non avrebbe mai e poi mai abbassato la guardia.

In ogni caso, a Feliciano sembrava non importare che fosse giusto o sbagliato, pericoloso o mortale… perché era suo amico.
Ed era per questo che rischiava ogni notte, avvicinandosi alla terraferma più di qualsiasi altra sirena al mondo, per questo sopportava l’aria secca e il vento, tanto fastidiosi per la sua specie, pur di stargli accanto.
Per questo, all’insaputa di Ludwig, mentiva a Luvìs e al nonno, ogni giorno maledetto che passava in compagnia di quel Nuota nel Sopra.
Era perché erano amici, che riemerse dall’acqua e si trascinò sulla sabbia odiosamente graffiante, con qualcosa stretto in bocca.

« Che cos’hai lì? » chiese incuriosito Ludwig.
« Quefcia mavina. » e gliela sputò in grembo.
Un grumo duro di chicchi verdastri annidati in una poltiglia puzzolente: Ludwig la conosceva, si vendeva a mazzi nei mercati di pesce e frutti di mare, ma si era sempre rifiutato assiduamente di assaggiarne anche solo un gambo.
« Non la voglio. » disse subito, ma quei due fari gialli gli si puntarono addosso, fissi ed enormi.
Quando voleva, anche quel microscopico sirenetto sapeva essere inquietante.
« Tu mangiare. »
« Feliciano… »
« Quercia marina fare bene. Fa fare tanta psssss, tuo corpo buttare fuori tutti germi. Tu stare meglio molto presto. » Ludwig abbassò gli occhi sulla sbobba marina, che gli stava gocciolando tutto il suo succo marroncino sui calzoni.
Un conato gli strizzò la bocca dello stomaco: « Uh, Feliciano… »
La sirena si sedette con grazia sulla sabbia umida, lasciando che la risacca s’infrangesse dolcemente intorno alla sua coda, « Se io cantare per te, tu mangiare? »
Dannato tentatore disonesto, sapeva bene come convincerlo…
Ludwig trasse un bel respiro, si portò alla bocca quella verdura maleodorante e molliccia e la masticò con le lacrime agli occhi.
Feliciano annuì soddisfatto, rivolse il viso alla luna e cominciò a cantare.
Sempre la stessa canzone, da sette anni.
Era sempre così bella e misteriosa! Talmente tanto che Ludwig riuscì a dimenticarsi d’aver ingoiato una fanghiglia salatissima pescata direttamente dal mare.
Feliciano tacque e ammiccò: « Vedere? Tu mangiare tutta quercia marina. »
Il giovane tedesco si pulì la bocca con una manica del giubbotto, « Non credo proprio che sia igienico… »
« Però fare bene. Vedere Ludwig, e poi me ringraziare. »
« E come dovrei ringraziarti? Sentiamo. » lo invitò, anche se conosceva già la risposta.
« Scioccolato! » guaì eccitata la sirena, strappandogli infine una gran risata.
Feliciano non ebbe la sua lezione di tedesco, quella nottata, e Ludwig se ne tornò a casa con un saporaccio acidulo in bocca e la vescica pronta a scoppiare.
Tuttavia, quando si risvegliò il pomeriggio seguente, la febbre era quasi sparita.


Passò un po’ di tempo, tra lezioni di tedesco e pagine su pagine di appunti segretissimi sulle sirene.
Una notte, Ludwig gli infilò un dito dentro alle branchie, le sollevò delicatamente e guardò la carne pulsare di vita.
« Se le tiro troppo, ti fanno male? » chiese, uncinandole come si faceva con le guance dei pesci per tirarli su.
« Ah! Un po’… »
« S-scusami! »
Provava dolore, ma poteva anche sanguinare?
« Posso farti un taglietto? Uno piccolissimo? »
Feliciano abbassò le orecchie, scrutando il suo coltellino multiuso con evidente antipatia.
« Solo se domani tu scioccolato. »
Ludwig sorrise, intenerito: « D’accordo. »
A Feliciano non piacevano gli aggeggi umani: ne aveva una paura profonda, ancestrale, indomabile.
Come un animale, pensò tetro Ludwig.
La sirena si lasciò prendere il polso e strizzò gli occhi, e quando il dolore arrivò, gonfiò la gola come un rospo minacciato, sollevando istintivamente le labbra in un ringhio che voleva essere intimidatorio.
Il suo sangue non era rosso, ma blu come lo zaffiro più puro; non aveva odore di ferro, come Ludwig si era aspettato, bensì di sale.
« Sangue blu… curioso. » osservò affascinato Ludwig, e rispose alla muta domanda di Feliciano, incidendosi l’avambraccio e mostrandogli la gocciolina rossa come un rubino.
La gioia della sirena era genuina come quella di un bambino: « Noi sanguiniamo uguali, Ludwig! Questo significa io sono come te, giusto? »
« Ehi, aspetta un momento: anche gli animali sanguinano, no? »
Feliciano abbassò le orecchie, deluso; chinò il viso e gli leccò via il sangue dalla pelle, scaricandogli un lungo brivido lungo la schiena.
« Che cosa sono io, Ludwig? »
La bocca dello stomaco del giovane tedesco si strizzò come un cencio… perché non voleva rispondere a quella domanda, perché non sapeva cosa rispondergli, era stanco di farlo stare male e non aveva la minima intenzione di perderlo come amico.
« Feliciano, ti va di cantare per me? »
E lui cantò per Ludwig, sdraiato sopra a Jeliel, lo sguardo malinconico rivolto all’orizzonte.
« Che cosa significa la tua canzone? »
« Non so come spiegare. Prossima volta. »


Passava del tempo, Feliciano diventava sempre più bravo col tedesco, e Ludwig imparava sempre più cose di lui e della sua specie.
« Tu hai… dei canini davvero appuntiti. Posso vederli? » gli chiese una sera, dopo averlo osservato molto attentamente mentre divorava una barretta di cioccolato.
Feliciano gonfiò il petto, orgoglioso e mai stanco delle sue attenzioni, e rispose con aria d’importanza: « Solo se dopo io tocco le tue gambe. »
« Affare fatto. » rispose senza pensare Ludwig, troppo smanioso di mettere le mani su quello scintillio di zanne bianche.
« Ludwig, tu vuole diventare tennista? » gli chiese curioso Feliciano, mentre Ludwig gli sollevava il labbro.
« Intendi “dentista”? No, mi interessa di più studiare le altre forme di vita. »
« Ome u a aesso? » (trad. “come tu fa’ adesso?”)
« Già. Penso che potrebbe essere questo il mio futuro. Mio fratello me ne ha parlato, una volta… ooh, interessante! Hai una dentatura da onnivoro, come noi. »
I canini erano decisamente molto più lunghi e appuntiti di quelli di un essere umano, ma gli incisivi e i molari erano identici a quelli di Ludwig.
Che la figura del vampiro fosse stata ispirata dalle sirene?
« Uwig, u gabe. U poesso…! » protestò a un certo punto la sirena, stufa di lasciarsi guardare in bocca come si faceva ai cavalli.
« Ah, giusto! Scusami. »
Ludwig si sdraiò sulla sabbia e si liberò di calze e scarpe, arricciando le dita davanti a un incredulo Feliciano.
« Come fa tu a muovere loro? Difficile? »
« Beh, suppongo che funzionino proprio come la tua coda. Sono dei muscoli, quindi li muovo e basta. »
« E come tu corre? Mostra! »
« Va bene, va bene… ma in cambio, mi farai toccare le tue pinne. »
Ludwig si alzò in piedi e si sgranchì un po’ le lunghe gambe pallide, poi partì: corse sulla sabbia morbida, menò calci a piccole pietre in un’esplosione di terriccio ed erba, si raccolse sui polpacci muscolosi e balzò in aria, sollevando spruzzi di granelli umidi e sassolini, lasciando Feliciano a bocca aperta.
« Camminare, correre, saltare… sembra bello. » gli disse la sirena, stringendosi la coda contro al petto.
Con un po’ di fiatone, Ludwig andò a sedersi accanto a lui, « Perché dici così? Non ti piace nuotare? »
« Mi piace, perché io così, sono a casa e quando nuoto sono vero me stesso. » Feliciano rivolse lo sguardo all’orizzonte, « Ma esseri umani non nuotano. Io diverso da Ludwig, dopotutto. »
Il giovane tedesco gli scoccò un’occhiata e gli toccò una spalla abbronzata, insicuro su cosa dire.
« È vero, siamo diversi. Però anche noi esseri umani possiamo nuotare. »
« Ma voi non avete pinne! » e le sbatté sulla risacca, schizzando schiuma ovunque, arrabbiato.
Quando Feliciano smetteva di ridere, il mondo perdeva tutti i suoi colori, e Ludwig non poteva fare a meno di chiedersi se anche quello non fosse una qualche sorta d’incantesimo.
« Posso toccarle? » gli chiese con un sorriso, desideroso di vederlo nuovamente felice.
Feliciano esitò, improvvisamente molto a disagio: « Uhm… Ludwig, questa non è buona idea. Sai, nostre pinne… »
« Sì, lo so… sono delicate, vero? » e gli toccò la caudale, tirandone i filamenti cartilaginosi, osservando la propria mano trasparire attraverso la membrana dorata, « Sono molto belle, sai? »
Siccome non gli rispondeva, cercò il suo sguardo.
« Feliciano? »
E lo trovò che si mordeva il labbro inferiore con i canini appuntiti, le unghie affondate nella sabbia, le orecchie piegate all’indietro come quando aveva paura.
Ludwig smise subito di punzecchiarlo, allarmato: « Feliciano?! Cosa succede? Ti faccio male? »
« N-no… no male… »
« Ma allora… ? »
La sirena scosse furiosamente il capo, facendo dondolare come un pazzo quel buffo ciuffetto ribelle: « Io non sa come spiegare! Ma per favore, Ludwig, per favore… tu non tocca più! »
Il giovane tedesco aggrottò le sopracciglia, ma non insistette; invece, allungò una mano e gli accarezzò la pinna ventrale.
« Come va con questa? »
Anche Feliciano sembrò sorpreso: « Questa no. »
« E quest’altra? » chiese Ludwig, tirandogli le ossicine della dorsale.
Feliciano scoppiò a ridere, e finalmente il mondo esplose in colore ancora una volta.
« Tu smette, Ludwig, solletico! »
« Ah, soffri il solletico? »
« Basta! Basta! » rise come un matto e gli schizzò acqua di mare addosso.
Ludwig si fece pensieroso all’improvviso: « Forse la pinna caudale è ipersensibile nelle sirene… »
Feliciano smise di ridere e si voltò verso l’orizzonte, come se avesse paura di guardarlo negli occhi, e di tradirsi.
Ludwig non demorse, troppo curioso: « Forse è come i piedi di alcuni esseri umani, che soffrono molto il solletico. Una grande quantità di nervi potrebbe renderla molto sensibile, in effetti… »
« … »
« Certo, se ti fa così tanto male non ti costringerò a farmela rivedere. Però mi piacerebbe studiarne la muscolatura. O è solo la parte squamosa che ti dà fastidio? In quel caso, potrei toccarti dalla pinna in su, così non dovrebbero esserci problemi… »
« Ludwig. » lo interruppe, il viso ancora nascosto, « Io non parla ancora bene tedesco per spiegare. »
« Oh. »
La delusione era chiara nella sua voce.
« E la tua canzone? »
« Io… io non… »
Divenne rossissimo in volto, raspandosi il petto con le unghie affilate, agitando la coda avanti e indietro fino a scavare profondi solchi nella sabbia.
Qualcosa lo turbava, ma che cosa poteva mai esserci di così complicato in quella canzone?
Ludwig lo voleva sapere a tutti i costi, era diventata un’ossessione.
« Shhh, basta così, non ti agitare. Magari un’altra volta? »
« Sì… altra volta. »


Ma il tempo passava, Feliciano migliorava col tedesco, e ancora non si decideva a spiegargli un bel niente.
Più e più volte Ludwig tentò di toccargli la pinna caudale, e Feliciano, con la tipica giocosità dei delfini, gli schizzava acqua in faccia o si tuffava in mare per seminarlo… perché sapeva che Ludwig non poteva seguirlo.
« Sei cattivo! » gli gridava Ludwig dalla riva, agitandogli contro il quadernetto di pelle degli appunti, sempre più consumato dal tempo.
« Quando ti deciderai a imparare? » rispondeva impaziente Feliciano, « Non puoi rimanere a terra tutta la vita, Ludwig! »
« E chi lo dice, eh?! »
Feliciano gli sorrideva per un momento, prima di immergersi nelle profondità blu.
Però aveva ragione lui: se voleva diventare un bravo biologo, se voleva avvicinarsi ancora di più al suo amico, Ludwig doveva imparare a nuotare.


« Hai paura? » gli chiese comprensivo il giovane tritone, seduti fianco a fianco nell’acqua bassa, una splendida sera tersa e gelida.
« Io non ho paura. » sbottò Ludwig, orgoglioso.
« Non devi: ti insegnerò io! » gli sorrise smagliante la sirena, prendendolo per mano, « Andiamo a nuotare, Ludwig. Adesso, subito! »
« Ti ho detto che non ho paura! » e si riprese la mano con un gesto offeso, « E comunque, sei matto? È inverno. Andrà anche bene per quelli della tua specie, ma per noi esseri umani è troppo freddo. »
Il silenzio si prolungò per troppo tempo, così Ludwig cercò il suo sguardo e lo vide taciturno, quasi arrabbiato.
« Cosa c’è adesso? »
« Continui a chiamarci “specie”… noi siamo un “popolo”, sai? » mugugnò, ruotando l’indice nella sabbia bianca.
« Oh, ancora con questa storia? Non ti sarai mica offeso, vero? » sospirò Ludwig, « Lo sai cosa intendo quando vi chiamo così… »
« No. No, non lo so. »
Iniziarono a frullargli le orecchie, come sempre quando si arrabbiava.
« Dimmelo chiaramente, Ludwig. È da un sacco di tempo che ti faccio questa domanda, e tu non mi rispondi mai. »
Lo fissò dritto in faccia, strisciando in avanti sui palmi, intrappolandolo contro la parete di Jeliel.
« Che cosa sono io, Ludwig? »
Ed ecco che quell’orribile bivio tornava per allontanarlo da Feliciano.
Si ripresentava sempre, come un vecchio dolore, come un incubo inseguitore, ma Ludwig non poteva continuare a scappare.
Erano passate settimane, e poi mesi, e poi anni: aveva imparato a conoscerlo, aveva cozzato contro i suoi peggiori difetti e si era goduto i suoi pregi più belli, era diventato una presenza essenziale come l’aria per lui, e che fosse ricoperto di squame o di pelle non importava più… perché Ludwig gli voleva un mondo di bene.


Una nottata profumata di pino, nella primavera dei suoi quindici anni, Ludwig raccolse alcune piccole fragoline selvatiche e le trasportò fino a Jeliel in un fazzoletto.
« Che cos’hai lì?! Che cosa mi hai portato, eh?! » mugolò eccitato Feliciano, tuffandosi in mare per raggiungerlo sulla spiaggia.
« Non ti agitare, per favore. Sono solo fragole. »
« Frakole? »
Feliciano le annusò con le orecchie basse, come sempre quando Ludwig gli portava qualcosa di nuovo da provare, ma poi le ingoiò quasi senza riprendere fiato.
« Ehi, piano! » ridacchiò Ludwig, « Allora, ti piacciono? »
La sirena scrollò la testolina, i baffi di succo rosso: « Preferisco il scioccolato. »
« Ma se le hai divorate! E comunque non hai ancora imparato a pronunciarlo correttamente: è “cioccolato”. C-I-O-C-C-O-L-A-T-O, d’accordo? Adesso ripetilo. »
Feliciano borbottò qualcosa.
« Cos’hai detto? »
« Niente. »
« Allora ripetilo, forza. Non ti sarai mica dimenticato della nostra lezione di tedesco, vero? Hai ancora una pronuncia terribile e sbagli un sacco di verbi e neutri. Avanti. »
La sirena giocherellò con la propria pinna ventrale, come faceva sempre quando era in vena di capricci, e Ludwig sbuffò: il momento da babysitter della serata era arrivato, di nuovo.
« Cosa c’è adesso? »
« Non mi va di studiare, oggi. »
« E quando mai ti va di farlo? »
« Ma oggi proprio non mi va… »
Ludwig si accasciò sulla sabbia, « E cosa vuoi fare, allora? »
Il modo in cui lo guardò Feliciano gli fece perdere un battito o due: un’altra delle sue idee pazze, di sicuro.
« Tu mi porti sempre un sacco di cose dal Sopra. Io non ti porto mai niente. Così non è giusto. »
Si trascinò in mare e si voltò a guardarlo.
Un po’ titubante, Ludwig s’alzò in piedi, « Dove mi vuoi portare? »
La sirena sbatacchiò impaziente la pinna, « Tu vieni. »
« Feliciano, lo sai che non posso. »
Lui gli sorrise, gli allungò una mano palmata, senza distogliere lo sguardo: « Non ti fidi di me? »
Certo che si fidava, perché era il suo primo e unico amico.
Ludwig si liberò delle ciabatte e si arrotolò i bermuda fino alla coscia, fece qualche passo nell’acqua bassa e afferrò la mano di Feliciano, un po’ teso.
La sirena lo tirò gentilmente verso il largo, e Ludwig la seguì obbediente… ma quando l’acqua gli ingoiò il ginocchio, s’irrigidì come un pezzo di legno.
« Feliciano, per favore… »
Odiava ammettere di avere paura, di essere debole, di non possedere il controllo su qualcosa, e non aveva nemmeno voglia di morire affogato così giovane.
Non sapeva farlo, e non avrebbe mai imparato, a nuotare.
« Va tutto bene. » gli sorrise la sirena.
« Col cavolo che va tutto bene, fammi tornare a riva! »
Il giovane tedesco strattonò la mano, ma Feliciano non si lasciò spaventare dalla sua rispostaccia e dal suo sguardo truce, perché aveva imparato a conoscerlo.
« Ludwig, guardami. »
Si rizzò sulla pinna per raggiungere il viso del suo amico, gli posò una mano sulla guancia chiazzata di rosso e lo accarezzò.
« Guardami negli occhi. Se continui a guardarmi, andrà tutto bene. »
Il giovane tedesco deglutì pesantemente, annuì secco e si lasciò tirare delicatamente verso l’acqua alta.
A sette metri dalla riva, Feliciano s’immerse fino alle spalle e gli fece cenno di seguirlo.
« Uhm, devo entrare in acqua? » Ludwig era terrorizzato.
Si era fatto davvero alto negli ultimi tempi, e si stava irrobustendo come un atleta, grazie alla squadra di calcio alla quale si era unito da un paio d’anni.
Pallido, biondissimo, e con gli occhi più azzurri dell’oceano stesso.
Feliciano distolse rapidamente lo sguardo, il ciuffetto che s’arricciava traditore, e lo guidò ancora un po’ più avanti.
« Forza, ce la puoi fare. »
« Non è vero. Cadrò, affogherò e morirò… »
« Oh Ludwig, non dire schifezze. Ti lascerei mai morire, secondo te? »
« Vuoi dire “sciocchezze”, vero? »
La sirena fece frullare le orecchie come un piccolo elicottero arrabbiato: « Non è una lezione di tedesco questa, ma una di nuoto! »
Ludwig tentò un’ultima volta di tornare a riva, « Non ricordo di averti mai chiesto d’insegnarmi a nuotare… »
La sirena gli scivolò davanti per bloccargli la traversata, e Ludwig barcollò, gli occhi sgranati e la pelle d’oca.
« Dannazione, Feliciano! »
« Se anche dovessi cadere, pensi forse che non ti terrei a galla io? »
Il tedesco non replicò.
« Quindi, per una volta, permettimi di ricambiare il favore. Permettimi di fare qualcosa per te. » e gli indicò il largo con un ampio gesto del braccio, invitante e rassicurante.
Ludwig guardò quel viso, quegli occhi appannati dietro alla pellicola semitrasparente, e prese un lungo, incerto sospiro.
Sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto imparare per forza, ma non pensava che sarebbe stato quella notte.
Non voleva che Feliciano lo vedesse come un codardo, così si decise.
« Che scocciatura che sei, a volte. »
« Lo so. » e scrollò felice la pinna dorsale, « Vieni, ti guiderò io. »
Che follia, pensò Ludwig, mentre l’acqua gli saliva fino al petto e la canottiera gli si appiccicava addosso come una seconda pelle, vorticandogli attorno come fumo quando la coda di Feliciano si scuoteva, agitando la corrente.
Quando la sabbia del fondale divenne gelida, e il mare arrivò a solleticargli il mento, Ludwig cominciò a respirare affannosamente, il collo buttato all’indietro e gli occhi fuori dalle orbite.
« Feliciano… »
« Non tocchi più? Bene… »
Come “bene”?!
Fin dove aveva intenzione di portarlo?!
Ludwig mosse un altro passo, lento e pesante, ma il piede gli affondò nel vuoto cosmico, e lui si tuffò in avanti con un singulto, subito soffocato da una bella bevuta salata.
« Fel… »
Il sale gli esplose nelle cornee, vorticò in avanti in un buio verdastro e denso come fango, il gelo talmente penetrante da assordargli le orecchie.
Agitò le braccia come un dannato, ma la luce sopra di lui non si avvicinava, anzi, si allontanava sempre di più.
Qualcosa si mosse velocissimo al suo fianco, un paio di braccia sottili gli avvolsero il petto e una forza sconosciuta lo attirò fino in superficie.
Ruppero la linea perfetta del mare e Ludwig ingurgitò boccate d’aria, arrivando quasi a tossire fuori i suoi stessi polmoni.
Smise di sbattere furiosamente braccia e gambe quando si rese conto che era Feliciano a tenerlo a galla, proprio come gli aveva promesso.
« Che diavolo, te l’avevo detto che non ero capace… » ringhiò, sputando un viscido filamento di alga.
« Ma non è vero! Guarda: stai andando benissimo. » e gli prese le mani, reggendolo mentre nuotava lentamente all’indietro.
« Cristo, Feliciano, sono quasi affogato! »
« Bravo, così. Muovi le gambe… »
Per un istante, Ludwig vide tutto rosso.
« Ma cosa vuoi saperne tu, eh?! Tu non hai le gambe! »
Aveva appena finito di dirlo che si pentì immediatamente.
Feliciano abbassò le orecchie, e si vedeva lontano un miglio che lo aveva ferito.
« Cioè, no, non volevo dire questo… »
« Va tutto bene, Ludwig. Hai ragione tu: non ho le gambe, quindi non posso dirti come farebbe un Nuota nel Sopra. Però posso dirti come facciamo noi, e sperare che ti aiuti almeno un pochino. »
Ludwig lo guardò negli occhi, attraverso la patina traslucida, e per l’ennesima volta da quando lo conosceva, si sentì molto fortunato a essere suo amico.
« Quando ti deciderai a chiamarci “esseri umani”? »
Il tritone gli sorrise di nuovo, e tutto divenne calmo, spaventosamente facile.
La paura di annegare, il mare nero e minaccioso intorno a loro, la forza dell’acqua che lo risucchiava verso il fondo… niente di tutto ciò aveva più importanza, perché Feliciano era con lui, e non lo avrebbe mai lasciato.
Si attaccò alle sue esili spalle abbronzate, chiedendosi se quel corpicino magro e sottile avrebbe mai potuto reggere una zavorra da cinquanta chili come lui.
« Sei attaccato per bene? Allora si parte! »
Nell’acqua lui rinasceva, volava privo di peso e di legami, si liberava come un dio nel suo elemento, e niente poteva sperare di eguagliarlo: non i rapidissimi delfini, non i narvali stupendi, non le imponenti balene.
Erano le sirene le vere regine del mare.
Gli bastava qualche colpetto di pinna per spingersi attraverso la cortina d’acqua salata, disegnando un sentiero di schiuma lattea sotto alla luna, con le branchie bene aperte e gli occhi coperti dalla spessa pellicola.
I suoi capelli turbinavano come dardi fiammeggianti, le scaglie brillavano di bagliori oro e rossi nel nero dell’oceano inospitale e spaventoso.
Che cosa nascondevano quelle acque profonde? Quali creature orrende e inimmaginabili si acquattavano negli abissi, rivolgendo i loro occhi sporgenti e i loro tentacoli mollicci verso le gambe di Ludwig?
Un brivido di paura gli punse la nuca, ma poi la sirena si voltò verso di lui.
« Va tutto bene? »
Non importava che fosse piccolino, rachitico e un po’ sciocco… era il suo migliore amico, e lo avrebbe difeso da qualsiasi cosa, mostro marino o crampo che fosse.
« Ludwig? »
« Verdammt, la gamba! »


« Tu sei il mio migliore amico. » gli rispose così, una notte in pieno autunno, a diciassette anni.
« Il tuo migliore amico? » ripeté stolidamente Feliciano, sbattendo le ciglia rosse.
« Sì. »
« Ma… »
« Non importa quel che sei. Sei la creatura più meravigliosa che abbia mai incontrato. Sei la persona più divertente che abbia mai conosciuto. Sei… sei la cosa più importante di tutta la mia vita . »
Ludwig sentì la faccia andargli a fuoco, mentre strappava un filo d’erba giallastra dalle rocce di Jeliel e lo faceva a pezzi tra le dita sudate, « Ecco che cosa sei. Contento adesso? »
Feliciano gli saltò al collo, abbracciandolo così stretto da fargli schizzare fuori gli occhi dalle orbite.
« Sì! Sono contento! »
« Mi stai so-soffocando, Feliciano! »
« Me lo dici di nuovo, Ludwig? Per favore! »
« No! E adesso lasciami! »
« Daidaidaidaidai! »
« No vuol dire no, Feliciano! »
« Se non me lo dici, ti abbraccio più forte! »
SQUIZ
Feliciano non aveva idea di cosa fosse il pudore, e naturalmente non aveva alcuna intenzione d’indossare le felpe e le magliette che gli portava Ludwig, perché le sirene erano molto fisiche e amavano toccarsi per entrare in confidenza; concetto che, ultimamente, quel piccolo impiastro adorava mettere in pratica con il suo amico umano.
Ormai vicino all’iperventilazione, Ludwig - che da bravo tedesco sopportava a malapena una stretta di mano formale - cedette per pura disperazione, desideroso di staccarselo di dosso il prima possibile.
« E va bene, va bene! Basta che mi molli! »
« Nossignore! Prima dimmelo, amico! »
“Pazienza Ludwig, pazienza… fai un respiro profondo e diglielo.”
« Sei… sei il mio migliore amico. »
Il suo sorriso gli fermò il cuore in petto.
« A-adesso però levati… » e gli spinse un palmo sulla fronte, andando a sedersi in cima a Jeliel, al sicuro dalla sua imbarazzante confidenza.
Lo osservò strisciare sulla risacca per bagnarsi un po’ le branchie sui fianchi magri e i capelli, e un’idea lo illuminò improvvisamente.
« Ehi, visto che siamo migliori amici, perché non mi spieghi quella cosa? »
« Quale cosa? » domandò distrattamente Feliciano, buttando la coda sull’acqua e sollevando un piccolo spruzzo.
« Quella cosa, dai… quella della tua pinna, no? »
Vide il suo sorriso perenne congelarsi, neanche gli avesse spiegato cosa fosse la mattanza dei tonni.
« Avevi detto che prima o poi me lo avresti spiegato, no? Quando avresti imparato per bene il tedesco. »
Feliciano si abbracciò le spalle nude e lucide, lo sguardo basso: « Tu… tu pensi che sia pronto? »
« Ma certo, lo parli molto bene ormai. » Ludwig si sedette a gambe incrociate, aprì il quadernetto di pelle consunto e fece scattare la molla della penna contro al ginocchio, « Dai, racconta. Ti ascolto. »
Le orecchie di Feliciano si abbassarono al livello delle guance, le mani corsero subito a giocherellare nervosamente con i capelli rossastri, la pinna che sbatacchiava nell’acqua bassa.
« Che c’è? » lo incoraggiò Ludwig, « È una cosa così terribile? »
« Non… non saprei. È una cosa… strana. Forse succede solo a me, forse succede anche alle altre sirene. Dovrei parlarne con… mio fratello. »
« Tuo fratello? »
Feliciano gli aveva parlato vagamente di Luvìs e del nonno, e Ludwig sapeva che non gli permetteva di incontrarli per due ottime ragioni: l’odio indiscriminato ed eterno del vecchio nonno per i Nuota nel Sopra, e il forte desiderio di proteggere entrambi.
Feliciano si fidava di Ludwig, ma consegnare alla terraferma la sua amata famiglia era chiedere troppo.
« Allora? »
Ludwig balzò giù dallo scoglio e gli venne incontro: alto, muscolo, un po’ minaccioso, si chinò su di lui e gli accarezzò la pinna con due dita.
« Non è poi così difficile, Feliciano: dimmi cosa provi. »
La sirena sussultò e affondò le unghie nella sabbia, appiattì le orecchie all’indietro, chiuse gli occhi dietro alle doppie palpebre, si morse con rabbia il labbro inferiore… fece di tutto, pur di non colpire Ludwig.
« Feliciano? »
« Sto… sto bene. »
“Non è vero: non stai bene.” pensò accigliato Ludwig, osservando come il petto gli facesse su e giù freneticamente.
Feliciano gli raccontava tutto del suo corpo, svelandogli i misteri più reconditi della sua specie meravigliosa… ma non quella stupida cosa della pinna.
Cosa diavolo poteva esserci di così proibito, di così malvagio da dire, se neanche un chiacchierone come lui riusciva a confidarsi?
« Vuoi che la smetta? » gli chiese allora, guardandolo tremare… ma poi lo vide.
Dal basso ventre, tra le scaglie rosse della coda, stava spuntando un qualcosa di rosa scuro.
« Cos… »
« Devo andare! » sbottò la sirena, allontanandogli la mano con uno schiaffo e buttandosi in acqua.
« Ah, aspetta! »
Ludwig lo rincorse per i primi metri, affondando con gli stivali nella risacca sciaguattante, « Feliciano, aspetta! »
Non era mai successo prima; il suo “hallo, Ludwig, a domani!” era diventato come un rituale di buon augurio per lui.
Forse lo aveva offeso sul serio.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Ludwig temette di non rivederlo la notte seguente.


Efelién nuotava alla cieca, agitando le braccia come per scacciare i demoni della perdizione, e fu soltanto quando sbatté la zucca contro una secca* che riuscì a fermarsi.
Stordito, si abbandonò mollemente sul fondale roccioso, massaggiandosi l’enorme bernoccolo sulla fronte.
Il cuore gli andava come un pazzo, non riusciva più a riprendere il controllo delle proprie branchie e del… maledizione.
Efelién si rivoltò sulla pancia in un turbine di bollicine argentate, stringendosi tra le mani tremanti l’emipene* quasi del tutto eretto, che spuntava dalla piega di pelle come a volersi prendere gioco di lui.
Sono… sono proprio un mostro si disse, abbassando le orecchie pieno di vergogna.
Ludwig è mio amico… non devo. Non devo sentirmi così. È sbagliato…
Ma era stata colpa sua, che gli aveva toccato la coda… gli aveva accarezzato la pinna, con quelle mani forti e calde, guardandolo negli occhi.
Qualsiasi altro Sirenia, al suo posto, si sarebbe sentito allo stesso modo, ecco! Efelién non aveva fatto proprio nulla di male.
Bastava… bastava solo inventarsi una scusa con Ludwig - un dolore inspiegabile alla coda, soltanto quando lui la toccava - e dimenticare tutto.
Non avrebbe dovuto lasciarlo avvicinarsi alla sua pinna, mai più.
Compiendo uno sforzo enorme su se stesso, Efelién ritrasse l’emipene e si mosse soltanto quando il batticuore si fu calmato.
Sperava tanto di non trovare il nonno alla grotta, perché si sentiva ancora così strano e a disagio… e non aveva coraggio di chiedere consigli su certe cose.
Baldanzoso e inopportuno come sempre, il nonno lo avrebbe preso sottobraccio e gli avrebbe fatto una lunga lista non richiesta delle sue numerose esperienze amorose.
E la giovane Sirenia dai capelli scuri che proveniva dalla loro stessa culla calda e azzurra, e quell’altra dal caschetto moro e dalla pelle scurissima che viveva in una Grande Madre salatissima, e poi quell’altra ancora dagli occhi verdi e dalle chiome brune che abitava in mezzo a coralli colorati e coste d’avorio…
Però, forse, qualche consiglio utile gliel’avrebbe saputo dare; dopotutto il nonno era il nonno, e conosceva ogni cosa.
Se Efelién avesse finto di aver incontrato una Sirenia di un altro clan, una femmina, come sarebbe stato giusto aspettarsi…
Immerso nei suoi pensieri, Efelién s’infilò in un prato di quercia marina, ma qualcosa lo afferrò per un polso.
Terrorizzato, si contorse su se stesso con un fischio acuto, scoprendo istintivamente i canini all’idea del pesce spada, che sicuramente stava per sventrarlo con il suo lungo becco mortale.
Stupido, sono io!
Il familiare gorgoglio di Luvìs fu un tale sollievo che Efelién si sentì svenire.
Fratello! Non farlo mai più, mi è venuto un infarto! protestò, posandosi una mano sul petto sottile.
Ma visto che mi hai trovato, possiamo tornare a casa insieme, ti va?
Fece per nuotare avanti, ma Luvìs lo trattenne bruscamente per il polso.
Efé, sei andato nel Fuori, vero?
Efelién non si voltò nemmeno.
Dimmelo
Poteva quasi vedere le lunghe orecchie di Luvìs frullare all’impazzata.
ammise alla fine, in attesa dell’esplosione.
Avvertì la stretta intorno al polso farsi ancora più forte, e per un istante temette che suo fratello lo avrebbe colpito.
Cos’hai fatto nel Fuori?
N-niente… cos’avrei dovuto fare?
Efé, non sono così stupido
I gorgheggi di Luvìs gli gelarono il sangue nelle vene.
Efelién si liberò con rabbia della sua presa e nuotò in avanti a tutta velocità, rifiutandosi fino all’ultimo di incrociare il suo sguardo accusatorio.
Mi sono soltanto seduto su uno scoglio, va bene? Non ho fatto niente di male, non ho visto nessun essere uma… Nuota nel Sopra, e comunque sono tornato indietro subito, no? Andiamo a casa, adesso, che nonno sarà in pensiero
La voce di suo fratello viaggiò nella corrente come il lamento di una balena che soffre:
Come li hai chiamati?
Efelién non sapeva cosa diamine rispondergli, così nuotò verso casa dandogli le spalle, con l’angoscia nel cuore e la speranza che si sarebbe presto dimenticato di quel dialogo.
Erano anni che gli faceva domande sempre più invadenti, e certo, suo fratello non era mica uno stupido, ma Efelién era sempre stato molto attento a non farsi vedere insieme a Ludwig.
Era impossibile che avesse più di un misero sospetto.


La notte dopo, Ludwig s’infilò in tasca una barretta extralarge di cioccolato, s’infilò il cappotto di pelle e prese le chiavi dal gancio accanto alla porta.
« Io esco, bruder! »
« Ohi, West. »
Gilbert comparve dal bagno, con lo spazzolino che spuntava dalla bocca e il fidato piccolo pulcino piumoso che gli sonnecchiava su una spalla.
Era invecchiato, ma il suo sguardo strafottente e la sua risata sguaiata non cambiavano mai.
« Vai da Felicia o dalle foche? »
« Vado… da Felicia. » rispose Ludwig, ormai avvezzo nel mostrare un’espressione il più neutrale possibile, mentre mentiva a suo fratello.

Che continuassero pure tutti a credere che Felicia fosse molto malata e che non potesse uscire di casa, che certo, prima o poi avrebbero potuto andare a trovarla con un mazzo di fiori, e che lei e Ludwig probabilmente si sarebbero sposati e avrebbero fatto anche dei bambini…
Chissà che faccia avrebbe fatto Gilbert se avesse saputo che in realtà Felicia scoppiava di salute, aveva pinne e branchie e un bel pistolino pescioso pronto a fare cucù al posto della patatina umana.
Ludwig non si era mai vergognato tanto nel fare qualche ricerca, ma i risultati ottenuti erano stati così inaspettati, e così stranamente soddisfacenti, che aveva infine deciso di parlarne faccia a faccia con Feliciano.

« Salutamela tanto, allora. Ah, West… »
« Cosa? »
« Prendi uno di questi, non si sa mai. »
E gli lanciò un pacchettino di plastica colorata. Ludwig lo afferrò al volo e divenne rosso come un pomodoro.
« È alla banana, ma se vuoi ho anche mela verde e arancia. »
« BRUDER!!! »
« Che hai da scandalizzarti tanto, West? Il sesso protetto è molto importante, te l’ho già spiegato, no? »
Gilbert fece per tornarsene in bagno, ma all’ultimo momento s’immobilizzò così bruscamente che il pulcino, mezzo addormentato, perse la presa sul suo pigiama a wurstel e crollò sul pavimento con un pigolio offeso.
« West… non vorrai dirmi che non lo avete ancora fatto? »
Ludwig spalancò la porta e se la sbatté alle spalle così forte che i cani nel giardino si misero a ululare.


Merda… più ci pensava, più si sentiva male.
Preservativo significava sesso, e da poche ore lui aveva scoperto che Feliciano poteva eccitarsi sessualmente.
Non volute, evocate dalla maledettissima malizia di suo fratello, idee malate e inaccettabili iniziarono a vorticare nel cervello di Ludwig.
Sesso… con Feliciano?
Si bloccò in mezzo alla strada, tirò lentamente fuori il pacchettino e lo fissò nel palmo della mano, come se sperasse di vederlo prendere vita, per suggerirgli la cosa giusta da fare.

Ohi, è un maschio, eh. Te ne sei dimenticato? gli disse il preservativo giallo alla banana.
« Certo che no, che diamine… »
Ah beh, tanto meglio. A me va bene tutto, purché ci sia un buco.
« Che schifo… non è nemmeno un essere umano! »
Ehi bellezza, puoi mentire a quel rimbambito di tuo fratello e alla gnocca ungherese, ma non puoi mentire a LUI.
Ludwig sentì qualcosa gonfiarsi dalle parti basse, e ringhiò una maledizione tra i denti.
Adesso comprendi? “Se il cazzo s’impenna, non c’è ‘ma’ che tenga!”
« Sei così volgare! »
Sono un preservativo, alla banana per giunta. Cosa ti aspettavi? Adesso prendi in mano la situazione, e lui pure, e vai a sedurre quel dolce, piccolo e sexy sirenetto!

Ludwig sbatté più e più volte le palpebre, scrollò il capo e fissò con aria minacciosa il pacchettino.
“Dai, parla ancora, se ne hai il coraggio! Prova a dirmi un’altra volta che devo andare a scoparmi il mio migliore amico!”
Lo strumento del peccato se ne rimase fermo e zitto, assolutamente inanimato.
Ludwig si massaggiò la radice del naso con un sospiro esaurito, si passò le dita tra i corti capelli biondissimi e si rimise nervosamente in cammino.
Si fermò sul limitare dei larici e dei cespugli di olivello spinoso, sbirciando col batticuore in basso, verso Jeliel.
Quasi sperava di non vederlo davvero, quella sera… ma quando non riconobbe il profilo sinuoso della sua coda, si spaventò a morte e scese ruzzolando dal pendio.
« Feliciano?! »
Non c’era per davvero. Per la prima volta in undici anni, non era venuto al loro appuntamento.
Gli crollò il mondo addosso.
Ludwig si sedette sulla sabbia bagnata e appoggiò la fronte sulle ginocchia, fregandosene dell’acqua gelida che gli investiva con forza le gambe, riempiendogli le scarpe e inzuppandolo fino alle mutande.
Aha, quindi ti importa.
« Ma tu parli ancora? Lasciami in pace. »
Nossignore. Lo hai fatto scappare, con le tue molestie da nabbo. Per colpa tua, non vedrò un buco fino alle prossime Olimpiadi, considerato il livello di attività sessuale che arricchisce la tua vita già così noiosa…
« Ma che vuoi da me?! Secondo te posso approfittarmi così di un amico? Posso fare certe cose con… con un maschio? Con una sirena?! E comunque, perché parli come un nerd che rosica? »
E che diavolo ne so! Sono frutto di quella squinternata della tua immaginazione, no? Capisci che intendo? Sei una persona sclerata, devi fartela una scopata nella vita! Almeno una? Per favore?! Nei prossimi mille anni magari, prima che mi biodegradi e muoia vergine come te?
« Ehi, vaffanculo. Sei solo un preservativo alla banana, e a me neanche piacciono le banane… »
« Ludwig, cos’è un preservativo? »
Il tedesco sussultò così forte che il pacchettino gli scivolò in acqua.
« Accidenti! »
Fece per afferrarlo, ma Feliciano fu più rapido.
Lo pescò dalla risacca, che cospiratrice parve spingerlo verso di lui, e se lo rigirò incuriosito tra le dita palmate.
« A cosa serve? Che forma buffa… è giallo, e ha un odore strano, che non ho mai sentito prima. Che cos’è, eh Ludwig? Me lo dici? »
Sollevò lo sguardo sul suo amico.
« Ludwig, stai bene? »
Ludwig non rispose, e per una volta non pensò: si buttò con le ginocchia in acqua e lo abbracciò stretto, così stretto che le sue ossa sottili scricchiolarono.
« Uh… Ludwig, mi soffochi… »
« Sei tornato. »
Feliciano si spaventò, perché non lo aveva mai visto così fragile.
Gli accarezzò la nuca pallida: « Ma certo che sono tornato. »
« Pensavo… pensavo che non volessi più vedermi… dopo ieri. »
Stava piangendo? Gli aveva affondato il volto contro al collo, e lo teneva così stretto che Feliciano non riusciva ad allontanarsi per guardarlo in faccia.
« Ludwig, non hai ancora capito? Se mai un giorno non dovessi venire da te, vuol dire che sono morto. »
Ludwig scoppiò in una risatina incerta, folle di gioia, e Feliciano sorrise a sua volta.
« Adesso puoi lasciarmi, per piacere? Con tutti questi muscoli non riesco a respirare… »
Finalmente lo mollò, si asciugò in fretta gli occhi e scoccò un’occhiataccia al preservativo in mano all’amico.
« Uhm, quello… »
« Mi spieghi che cos’è? » insistette la sirena, mordicchiandone la confezione e fiutandolo con gran interesse.
Ludwig distolse lo sguardo, in tremendo imbarazzo.
Feliciano riuscì quasi a vedergli le rotelle girare nel cervello, e le sue orecchie sensibili avvertirono perfettamente il folle battito del suo cuore.
Ludwig era così rosso in faccia che presto gli sarebbe venuto un colpo apoplettico.
« Quello… quello è un preservativo. »
« Sì, lo so già. A cosa serve? »
« Uh… era… era appunto di questo che volevo parlarti… »
Si alzò in piedi e tornò con passo malfermo sulla spiaggia, strizzandosi la maglietta fradicia e borbottando qualcosa tra sé e sé.
« Feliciano… avvicinati, è una cosa molto importante. »
Incuriosito, il tritone uscì dall’acqua e strisciò per qualche metro sulla sabbia umida.
« Ti ascolto, Ludwig. »
Il tedesco sollevò il volto verso il pendio sopra di loro, prese un bel respiro, si scrocchiò sonoramente le nocche e parlò, senza guardarlo negli occhi.
« Come si accoppiano le sirene? »
Questa volta fu il turno di Feliciano di arrossire.
Non che non si fosse aspettato una domanda del genere, visto l’incidente della notte prima.
Ludwig era un Nuota nel Sopra sveglio e intelligente, e non gli sfuggiva mai niente di Feliciano: era prevedibile che avrebbe notato la sua involontaria erezione, che si fosse incuriosito, e che adesso volesse saperne di più.
« Perché me lo chiedi? » replicò la sirena, giocherellando con la sabbia, prendendo tempo.
« È per… per la mia ricerca su di voi, no? Ormai so un po’ di tutto, l’unico aspetto che non conosco affatto è la vostra riproduzione. Lo… lo so che è un argomento imbarazzante da discutere tra amici! Puoi parlarmene anche solo superficialmente, se vuoi. »
Feliciano lo fissò a occhi sgranati, nel panico.
Non fu Ludwig a rompere il silenzio, che si protrasse all’infinito tra di loro.
« Cosa vuoi sapere? » chiese alla fine la sirena, col cuore che le batteva a mille.
« Beh, per esempio… che cosa ti è successo ieri? »
Ludwig sapeva già che cosa fosse capitato a Feliciano, ma avrebbe preferito mangiarsi una tonnellata di quercia marina appena pescata, piuttosto che ammettere di aver fatto ricerche sull’accoppiamento di cetacei e pesci.
Non si voltò verso di lui, ma riuscì a figurarsi la sua espressione estremamente a disagio, mentre gli rispondeva con voce tremante.
« Ormai credo che sia inutile nascondertelo ancora… mi sono eccitato. »
« L’ho notato. »
« Ma… ma mi hai toccato la p-pinna! »
Adesso gli suonava sulla difensiva.
« La pinna? Sarà mica un punto erogeno per voi? »
« Un punto… cosa? »
« Un punto che se stimolato vi fa eccitare. Come… come per noi esseri umani sono i capezzoli, o gli stessi organi genitali. »
« Oh… sì. Per alcuni di noi lo è. Non è uguale per tutti. A mio fratello, ad esempio, piace sulla pinna ventrale… » ma si tappò la bocca con entrambe le mani, sconvolto.
Ludwig ebbe la sensibilità di far finta di non aver sentito; incrociò le braccia sul petto e continuò a parlare, rivolto al pendio d’erba sopra di loro.
« Quindi le sirene possono eccitarsi sessualmente anche al di fuori del calore? »
« Cosa significa “calore”? »
« È il lasso di tempo durante il quale gli animali, in genere le femmine, diventano fertili e pronte per accoppiarsi. »
La secchiata gelida sulla nuca non se la sarebbe mai potuta aspettare.
Si voltò di scatto, i capelli grondanti e i peli dritti per il freddo.
« E questo per che cos’era?! »
« Piantala di darmi dell’animale, Ludwig! »
Il tedesco ammutolì: Feliciano era in lacrime, i canini affilati scoperti nella sua direzione.
Gli stava ringhiando contro, per la prima volta, lo stava minacciando sul serio.
Fu un’immagine talmente sconvolgente, che Ludwig si dimenticò di tutto.
Del preservativo parlante, delle insinuazioni di suo fratello, delle ricerche imbarazzanti su google…
Si mosse verso di lui.
« Feliciano… »
La sirena emise un soffio simile a quello di un gatto, ma molto più stridulo e agghiacciante.
Ludwig aveva passato troppo tempo ad ascoltarne le canzoni e a guardarlo ridere, e si era completamente dimenticato dell’occhio del vecchio signor Fischer.
Si avvicinò di più, profondamente convinto che Feliciano non gli avrebbe mai fatto del male.
« Ti prego… »
« Tu parli sempre di ricerche! Scuola, studio, lavoro… non ti importa niente di me! Tu vuoi soltanto studiarmi, come se fossi un animale qualsiasi! Mi hai chiamato tuo migliore amico, hai detto che ero la cosa più importante di tutta la tua vita, ma erano tutte bugie! Bugie! Bugie! »
Ludwig boccheggiò, pietrificato.
Non lo aveva mai visto così arrabbiato, ed era feroce, disgustosamente simile a una bestia messa alle strette, un qualcosa di completamente diverso dal suo dolce e gentile sirenetto.
Il colore dei suoi occhi si era intorbidito, le cornee pulsavano di cattiveria rosso sangue.
Era un demone del mare, quello… non il suo Feliciano.
Ludwig allungò una mano verso il suo viso.
« Non ti avvicinare! »
« Vuoi mordermi? »
Il suo tono rassicurante fu come uno schiaffo in piena faccia per Feliciano.
Aveva minacciato Ludwig… come se fosse un nemico, come avrebbe fatto il nonno che odiava i Nuota nel Sopra, come se fosse pronto a ferirlo davvero.
Scrollò le orecchie e i suoi occhi si sciolsero di nuovo nell’oro più puro e sereno, le labbra coprirono i canini affilati e le doppie palpebre si sollevarono, umide di lacrime.
« E io che sono anche tornato… non dovevo. »
Si voltò di scatto e fece per ributtarsi in mare.
In quell’unico battito di ciglia, giusto una frazione di secondo prima che la sua pinna balzasse, Ludwig capì.
Capì che non gli importava più che fosse un pesce, un essere umano, un maschio, un amico, un mostro… non poteva perderlo.
Se il mare glielo avesse portato via per sempre, il cuore di Ludwig sarebbe annegato insieme a lui.
Tutti quegli anni insieme, trascorsi su una lingua di sabbia lambita dal sale e dal chiarore lunare, all’ombra fresca di uno scoglio a forma d’angelo, che immobile pregava per loro…
Ludwig gli afferrò con forza il polso e Feliciano cadde nell’acqua bassa con un tonfo.
« Lasciami andare! » gli ringhiò, ma il tedesco calò su di lui e per un istante mozzafiato la sirena temette che lo avrebbe picchiato.
Quando si ritrovò tra le sue braccia forti, stretto al suo petto che batteva come un pazzo, non poté fare altro che fissare il cielo sopra di loro, completamente stordito.
« Scusami… ti prego, scusami. » gli sussurrò Ludwig contro la cartilagine umida dell’orecchio, accarezzandogli i capelli sulla nuca, « Sono stato uno stronzo, ma tu mi conosci, no? Lo sai meglio di chiunque altro che non sono capace di dire quello che penso, quello che sento e che provo. Sai cosa provo, Feliciano, lo sai? Non lo riesci a capire? »
Feliciano mosse appena il capo, intrappolato nei suoi muscoli enormi, mentre il suo calore lo faceva sciogliere dalla testa ai piedi e quel profumo particolare si sprigionava dai suoi capelli d’oro, togliendogli il fiato dal petto.
Ludwig emise un verso di dolore, come se i pensieri che teneva incatenati nel profondo dell’animo lo stessero facendo a pezzi.
« Lo… lo ammetto. Prima era per curiosità, perché è questo che voglio diventare: un bravo biologo. Desidero studiare te e il tuo meraviglioso popolo, perché… perché mi sono reso conto di amarvi. Siete la specie più bella che questa terra maledetta abbia mai ospitato. Ma adesso… adesso non me ne frega più niente della ricerca. »
Prese un lungo, sofferto respiro tremante.
« Ti ho fatto quelle domande per un altro motivo. »
Feliciano non resistette più: gli spinse sul petto e si allontanò quel tanto che bastava per fissarlo dritto negli occhi.
Ludwig era rossissimo, sudava e respirava forte dal naso, però non abbassò mai lo sguardo.
« Dimmelo chiaramente. » gli impose Feliciano.
Lungo, lunghissimo silenzio.
Sotto alle dita, la sirena poteva sentire il tamburo potente del suo cuore, e i pettorali scolpirsi sotto alla maglietta ancora fradicia.
Circondati dal rumore della risacca che s’infrangeva sulla sabbia, dalle stelle e dagli alberi, completamente soli in tutto l’universo.
« Ti voglio. »


Lo disse a voce così bassa che Feliciano non fu sicuro di aver sentito bene.
Spaventato dal suo silenzio, Ludwig distolse lo sguardo e divenne paonazzo: « S-scusami, Feliciano… sono stato troppo brusco… »
La sirena sbatté le lunghe ciglia rosse e si riscosse, come colpita da un fulmine, « Oh… oh! Capisco. »
Fissò i muscoli rigonfi di Ludwig, il suo collo marmoreo, il suo volto bellissimo, severo, perfetto, il suo cipiglio statuario.
« Anch’io. Anch’io ti voglio, Ludwig. »
Il tedesco credette di crollare come un castello di carte.
« Da-davvero? »
« Sì. »
Le orecchie gli si afflosciarono, il ciuffetto ribelle s’arricciò come una stella filante, e le doppie palpebre scattarono a coprire le lacrime di gioia.
« Però… non so come si fa. » sussurrò, impacciato.
« Neanch’io. Non l’ho mai fatto, e tu? »
« Mai. »
Ludwig lo prese in braccio con uno slancio, e Feliciano cacciò uno strillo eccitato, gli si avvinghiò al collo e fissò terrorizzato l’acqua bassa e la sabbia sotto di lui, mentre Ludwig lo riportava a riva.
« Vorrà dire che la nostra prima volta sarà insieme. »
La sirena gli nascose il volto contro la gola.
« Sì. »


Ludwig lo fece sdraiare delicatamente sulla superficie porosa di Jeliel, nel punto più alto, dove la fredda luce delle stelle pizzicava loro la pelle.
« Ludwig… cosa fanno gli esseri umani quando si vogliono tanto bene? » gli chiese Feliciano, mentre Ludwig si liberava della giacca e la buttava a terra.
« Si accarezzano. »
Una mano palmata gli toccò le guance in fiamme, scese sui tendini del collo, sul profilo dei pettorali, fino a fermarsi sul cuore.
« Ti batte così forte… »
« È colpa tua. »
Feliciano abbassò le orecchie: « Scusami! »
Ludwig rise e si tolse la maglietta bagnata, « Non è mica una brutta cosa. »
Esitò, la pelle bianca che si ricopriva di brividi per il freddo autunnale.
« E invece… che cosa fanno le sirene? »
Feliciano distolse in fretta lo sguardo, nel panico, « Noi… noi ci tocchiamo le pinne. »
Ludwig allungò l’indice tremante, « Posso toccarti? »
« Ludwig… »
Le unghie arrivarono a grattargli gentilmente le ossicine della caudale, i polpastrelli percorsero la cartilagine color del miele, stringendo delicatamente tra pollice e indice una delle estremità lunghe e filiformi.
« Così ti piace? »
Domanda retorica, visto il rosso fuoco che chiazzò le guance del tritone e il modo spasmodico in cui si chiusero le doppie palpebre.
« Lud-Ludwig… »
Enorme e voglioso, il tedesco lo spinse all’indietro e lo intrappolò contro Jeliel, arrivando persino a strizzargli la pinna nella mano per la foga crescente.
« Ah! »
« Feliciano… »
Era talmente bello mentre provava piacere… non somigliava affatto a un essere umano, ma raggiungeva una bellezza ultraterrena, bestiale.
Forse era il modo in cui lacrimava dalle doppie palpebre, che si schiudevano e richiudevano con umidi ciocchi, o le lunghe orecchie che sbattevano contro le tempie, o il ciuffetto ribelle che s’arrotolava come una stella filante, o le branchie che annaspavano per riflesso…
Ludwig fissò l’emipene fuoriuscire lentamente dalla piega di pelle, e si rese conto di non trovarlo ripugnante, o spaventoso, o strano.
Forse era solo colpa delle sue inclinazioni pesciofile, però quel fagiolo rosa che sbucava timidamente all’esterno, coperto di umori e dall’intensissimo odore di mare, non era niente di più che il pene del ragazzo del quale si era innamorato.
E come ogni uomo, davanti al godimento del proprio amore, Ludwig si eccitò. Da morire.
Si slacciò con impazienza i jeans, lo guidò con un fremito contro quello di Feliciano e un lungo gemito scaturì dalla dolce collisione.
« Ludwig, ti prego… ti prego! »
Come tutti i pesci, le sirene avevano un apparato digerente, e quindi un modo per eliminare le scorie in eccesso.
Ludwig strappò con i denti la confezione del preservativo alla banana, lo srotolò con molta attenzione e fece gentilmente rivoltare Feliciano sulla pancia.
« Cosa… cosa fai? » gli chiese la sirena con una vocina tremante, carica di desiderio.
« Mi vuoi? » gli sussurrò Ludwig in un lungo orecchio, scatenandogli un potente brivido lungo le spalle.
« Oh, sì… »
« Allora fidati di me. »
Si posizionò sopra di lui a gambe larghe, gli intrappolò un polso con la mano libera, e con l’altra si guidò verso di lui.
Feliciano capì le sue intenzioni, divenne completamente paonazzo e irrigidì la spina dorsale.
« Feliciano, devi rilassarti. »
« Ma… ma ho paura! »
« Ti farei mai del male? »
Il tritone deglutì pesantemente e si artigliò a Jeliel.
« Però… però fai piano. Io non… non ho mai fatto niente del genere e… e ho tanta, tanta paura… »
Ludwig lo baciò tra i capelli rossi, « Te lo giuro. »
L’inesperienza non aveva più alcun potere su di lui, perché adesso erano i battiti impazziti del cuore a guidarlo, il feroce pulsare nel bassoventre, il doloroso panico nello stomaco.
Gli bastava guardare il rotondeggiante fondoschiena scaglioso di Feliciano, o la sua spina dorsale abbronzata che s’inarcava, o lo scorcio di viso rosso e stravolto che gli mostrava di tanto in tanto, pavido, lussurioso, tutto per lui.
Ludwig prese un profondo respiro, e fu sopra di lui.
Una vocina fastidiosa parve rimbombare come dall’interno di una caverna:
Fuck yeah, finalmente vedo un buco!


CONTINUA…



Note:

Jenever: distillato di ginepro, dal quale si è evoluto il gin. Molto diffuso in Belgio e nei Paesi Bassi.

Secca: tratto del fondale marino poco profondo, dove il fondale roccioso risale verso la superficie.

Emipene: plurale “emipeni”, è l’organo riproduttivo maschile di alcune specie dei rettili e dei pesci.
Gli emipeni sono nascosti all’interno del corpo, e vengono scoperti durante la riproduzione dal tessuto erettile.
Vi sono due punte per due emipeni, ma ho deciso di mantenerne uno solo nel caso dei Sirenii (come vi avevo accennato nell’Angolo di BoW del primo capitolo).
Ergo, funziona proprio come quello umano: ne hanno uno solo, che ritraggono all’interno del corpo e fanno uscire durante l’accoppiamento.


FINALMENTE

*si trascina verso il pubblico* salvate il soldato BoW x_x scherzi a parte, ecco qui il quarto capitolo, *crolla con la faccia nel fango* non potete avere idea della fatica che ho fatto…

Perché ci ho messo così tanto ad aggiornare?

Vi sembrerà assurdo… quindi non ridete, ok? Me lo promettete? Se anche una sola di voi ride, non finisco la storia, lo giuro sul sacro culetto pescioso di Fifino! è_é yaoiste avvisate… yaoiste avvisate, come diceva Paolo Bitta.

Allora, ve lo confido, però mi raccomando!

È da dieci giorni che ho il capitolo pronto.
Una sera tentai di pubblicarlo, ma mi suonarono alla porta.
Andai ad aprire, convinta che fosse la pizza che avevo ordinato.
Sapete chi era, invece?
C’era un uomo sulla soglia di casa mia: alto un metro e ottanta, biondissimo, con due occhi azzurri e gelidi.
Mi era venuto un mezzo infarto, però mi aveva ovviamente ricordato Doitsu, e decisi di ascoltare che cosa volesse, prima di sbattergli l’uscio in faccia e chiamare la polizia xD <----- BoW è una cacasotto
Ebbene, gli feci “Buonasera, chi è lei?”
E lui, sapete cosa mi rispose?
Con accento durissimo, mi fece: “Puonazera zignorina, cerco *nome vero di BoW*”
Doitsu is coming, pensai con le stelline negli occhi.
“Chi lo vuole sapere?” gli ribattei sospettosa, col culo sempre più stretto dalla paura.
E lui mi rispose.

Tenetevi forte, preparatevi psicologicamente, perché io per poco non svenni.

“L’apiamo contattata per eccezziva divulkazione di materiale porno gerita. La preko di venire in Germania con me, zignorina.”


…..
…….
Ci siete cascate?

Aspettate prima di uccidermi! Voglio raccontarvi il vero motivo del mio ritardo! xD

E niente, non sapevo proprio come impostarlo, come strutturarlo, quindi scrivevo dieci spezzoni, li cancellavo, li spostavo, li modificavo, mi fermavo, bestemmiavo in aramaico antico, ricominciavo…

Un macello, vi giuro. Però alla fine sono riuscita a destreggiarmi e a sbloccarmi.
Non so se sia venuto decentemente, se sia riuscita a trasmettere quello che volevo vi arrivasse… spero proprio di sì.

Ah, giusto: non fate domande per il preservativo parlante. Ero ubriaca, credo ° -°

Per la prima scena d’amore tra Lud e Feli, spero tanto di non esserci andata giù troppo pesante, considerato il rating arancione.
In caso, fatemi sapere se è ancora troppo spinto, e modificherò.

Bene, al prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Separazione ***


NOTA:
Per farvi un’idea più chiara di come potrebbe suonare il lamento di Efelién all’orecchio umano, ascoltate attentamente questa registrazione del famoso “bloop” su youtube:

https://www.youtube.com/watch?v=oCw16_Yxid0

In questa pagina di wikipedia, invece, potete trovare un elenco di suoni, marini e non, di origine sconosciuta:
https://it.wikipedia.org/wiki/Suoni_di_origine_sconosciuta

Andateci cauti, perché c’è da cagarsi addosso.



SING FÜR MICH

5
“SEPARAZIONE”







Un sole insolitamente radioso s’insinuò nella grande camera da letto.
Gilbert si alzò con uno sbadiglio enorme, scostò le tende dalla finestra e si stiracchiò.
La linea del mare piatta e scintillante, un cielo terso e azzurro, all’orizzonte soltanto un morbido ammasso di nuvolette: non male per una giornata d’autunno a Hiddensee.
Il piccolo pulcino decollò dall’elegante trespolo in stile romantico e si appollaiò con un dolce pigolio sulla spalla del sonnolento padrone.
Gilbert arrancò giù per le scale di splendido palissandro rosso, attraversò il salotto immerso nella pacifica quiete mattutina ed entrò in cucina grattandosi solennemente le natiche.
« Buongiorno, bruder. »
Gilbert ebbe un sobbalzo tale che il povero pulcino crollò sul pavimento con un cinguettio offeso.
« West! Ma… già sveglio? »
« E che c’è di strano? Ho fatto uova strapazzate e strudel alle mele per colazione. »
Ludwig si versò succo d’arancia freschissimo e sfogliò pigramente il quotidiano locale.
Gilbert scambiò un’occhiata basita con Gilbird, si lasciò cadere sulla sedia imbottita e inforchettò un pezzetto di uova e di pastella croccante.
Era tutto delizioso.
Strano, fin troppo strano: West non cucinava molto spesso, e quando lo faceva i suoi piatti non superavano la qualità del “minimo indispensabile per sopravvivere”.
In famiglia il vero cuoco era sempre stato Gilbert.
“Con calma, vecchio mio, non affrettare le tue conclusioni! Raccogli indizi, indaga…”
« Lo strudel l’hai cucinato tu? »
« Ovviamente. »
Il maggiore gli scoccò un’occhiata di sbieco, nascondendosi dietro alla forchetta carica di bacon croccante e pezzi di mele zuccherose: West aveva le guance rosee, occhi che brillavano più del mare a mezzogiorno, petto in fuori e gambe orgogliosamente accavallate.
Si era pure vestito con una certa cura, e il profumo di quel dopobarba speciale stava facendo perdere le piume a Gilbird per una reazione allergica.
Gilbert posò la forchetta e incrociò le dita come un avvocato gongolante.
« Presuppongo che la serata con Felicia sia andata benone. »
Ludwig si strozzò col succo d’arancia e macchiò la pagina sportiva con una pioggia di goccioline, « C-cosa… cosa te lo fa pensare?! »
« Mah, non so… » l’albino infilzò un pezzo di mela cotta e ci giocherellò con un ghigno sardonico, « Istinto di fratello maggiore, presumo. Allora? » e si sporse minacciosamente verso Ludwig, « Com’è stato? »
L’imbarazzo esplose sulle guance del minore, che tentò inutilmente di seppellirsi tra le pagine del giornale spiegazzato.
« Felicia sta bene? Da quel poco che mi hai raccontato di lei, sembra una frugolina piccola e delicata… l’hai trattata con gentilezza, vero? Ti è tornato utile il regalino alla banana del tuo magnifico fratellone? Le è piaciuto? West, è inutile che continui a ignorarmi, lo sai che non ti lascerò vivere fino a quando non mi avrai raccontato tutto. »
Ludwig aprì bocca, pronto a mandarlo a quel paese, ma il suo sguardo venne attirato da una scritta a caratteri cubitali, che campeggiava trionfante nel bel mezzo della pagina.



UNIVERSITÀ DI HEIDELBERG OFFRE BORSA DI STUDIO PER STUDENTI DI SCIENZE NATURALI, ARTI E MEDICINA

Hai meno di trent’anni? Sei un giovane e intrepido studente all’Università Heidelberg di Berlino? Il tuo sogno è quello di diventare biologo, medico o pittore?




« Sì… » rispose meccanicamente Ludwig.
« Sì cosa? Sei stato delicato? Le è piaciuta la banana? Lo avete fatto alla vecchia maniera oppure… »
« Che? No, non intendevo quello! Bruder, guarda qui! » e gli ficcò l’annuncio sotto al naso.
Le iridi rosse di Gilbert si sfocarono nella fretta di leggere tutto l’articolo, e alla fine il volto gli si aprì in un enorme sorriso soddisfatto.
« West, ma è fantastico! »
Balzò in piedi, lanciando per aria la forchetta e spargendo uova strapazzate ovunque, « Berlino… e i prossimi corsi iniziano tra una settimana! Ma se chiamo quello lì… presto, presto Gil! »
Si fiondò in salotto, inciampò nel divanetto di velluto e fece cadere per la seconda volta il piccolo pulcino sfinito.
« Bruder? »

CRASH

« Va tutto bene? »
« Pronto, buongiorno! Sono Gilbert Beilschmidt, direttore della Henni Lehmann a Hiddensee. Sì, sì esatto. Potrebbe passarmi Francis… cioè, volevo dire: potrebbe passarmi il professor Bonnefoy, per cortesia? Sì, attenderò in linea, grazie! »
Incuriosito, e anche un po’ ansioso, Ludwig lo raggiunse in salotto e rimise a posto il delicato tavolino di vetro, che era stato mandato gambe all’aria.
Francis Bonnefoy, il famoso amico d’infanzia di suo fratello: Ludwig non lo aveva incontrato che una o due volte da piccolo, e sapeva soltanto che era francese, insegnava all’università di Berlino, ed era un dongiovanni senza speranze.
« Francis? Sono Gilbert. Ho letto l’annuncio, sì. Sei stato tu a convincere il preside, vero? Lo sapevo. E hai contribuito alla somma da versare per la borsa? Sei sempre il solito…»
Gilbert si catapultò verso l’elegante libreria vetrata, ne aprì cassetti su cassetti, col cellulare incastrato tra la spalla e l’orecchio, e cominciò a buttare al vento fascicoli di documenti.
« Uh, aspetta… l’ho trovato! Sono diciassette anni che lo conservo. Che? Un appartamento vicino alla scuola? Ma è fantastico! Però… lo sai, vero? West non è un ragazzo molto socievole, quanti altri studenti ci convivono? Un giapponese e uno spagnolo? Sembra una barzelletta… ah, e per l’affitto? Trecento euro a testa, in Centro, con i mezzi pubblici a due passi. Ci sta. E senti, c’è ancora quel supermercato? Oh perfetto, non è cambiato niente. Sarà un gioco da ragazzi per lui. Sì, è qui accanto a me, vuoi che te lo passi? »
E prima ancora che Ludwig potesse aprire bocca, Gilbert gli schiaffò il cellulare bollente contro l’orecchio e tornò a tuffarsi nelle profondità della libreria.
« Il tuo nuovo professore di scienze vuole parlare con te, West. »
« Cos… »
Rosso in faccia e con la mente completamente svuotata, Ludwig cercò velocemente qualcosa di educato da dire.
« Buongiorno, professor Bonnefoy. Sì, sono Ludwig Beilschmidt. Già, quanto tempo… eh, sì, ho letto l’annuncio. Davvero molto, molto interessante. Però vede, mio fratello deve essersi dimenticato un piccolo dettaglio, quando le ha detto di sì. » e fulminò Gilbert con i suoi occhi di ghiaccio.
« Io ho solo diciassette anni, professore. Non ho ancora terminato il mio ciclo di formazione dell’istruzione superiore, non ho conseguito la maturità, non ho il diploma d’istruzione secondaria, insomma. Anche se lo desidero con tutto il cuore, non posso iscrivermi all’Università di Heidelberg come se niente fosse. Eh? Sì, io studio ancora alla scuola superiore di Rügen. Sì, prendo il traghetto tutte le mattine. Uh, sì, ho sentito il discorso che ha fatto con mio fratello, però io non… oh… oh, capisco. »
Gilbert riemerse dai cassetti, coperto di polvere, e sventolò trionfalmente un blocchetto di fogli ingialliti verso Ludwig, che gli fece cenno di starsene buono per un momento.
« Come? Io sarei iscritto fin dalla nascita…? Ma… ma è meraviglioso… ah, il nonno, dovevo immaginarlo. Oh beh, è tutto così inaspettato, non so bene cosa risponderle… »
Ludwig ammutolì all’improvviso.
Berlino, università, laurea, lavoro… era la promessa per il futuro che aveva sempre sognato, era il cammino che si scolpiva davanti a lui, e alla fine di tutto c’era Feliciano.
Avrebbe imparato come studiarlo senza far soffrire lui o la sua specie, avrebbe trovato un modo per incontrare la sua famiglia senza metterli in pericolo; e poi avrebbe potuto mostrarli al resto del mondo, in pace assoluta, perché sarebbe diventato il biologo più famoso e rispettato di tutti, e avrebbe guadagnato così tanto da poter costruire un laboratorio, un parco, una riserva naturale, dove trasferire Feliciano e il suo clan, dove studiarli in amicizia, dove… dove avrebbe potuto vivere accanto a lui, per sempre.
Perché era stanco d’incontrarlo di notte, come due ladri; era stanco di desiderarlo di nascosto, quando qualsiasi altro uomo innamorato poteva dichiararsi alla luce del sole.
Era stufo di salutarlo in piedi sulla spiaggia, di farselo portare via dal mare.
Perché lo amava, diamine se lo amava, ed erano dovuti passare undici anni per capirlo.
Quindi non importava quanto tempo ci sarebbe voluto, quanto male gli avrebbe fatto… ci sarebbe riuscito, per lui; ma per realizzare il suo sogno, avrebbe dovuto studiare tanto.
Ludwig si riscosse come da un’allucinazione.
« Professor Bonnefoy, è ancora in linea? Mi scusi. La mia risposta è sì. »
Gilbert spalancò la bocca, spiccò un salto con i pugni al cielo e cacciò un ruggito di vittoria tanto rumoroso che Blackie, Berlitz e Aster iniziarono a ululare in risposta, dal giardino.
« Uh, sì, era mio fratello… come? Ah, i moduli… » Ludwig gesticolò verso il fratello maggiore, cercando di farlo stare zitto e facendogli fretta affinché gli passasse il fascicolo di vecchi fogli.
« Li compilerò al più presto. Va bene, farò in modo che arrivino direttamente sulla sua scrivania. Li consegnerà personalmente lei al preside? La ringrazio infinitamente, professore. Sì, sì. Ce la farò entro una settimana? Oh, bene! Allora, la saluto. »
Ludwig abbassò il cellulare e si strofinò l’orecchio paonazzo e bollente.
Gilbert gli fu immediatamente addosso.
« B-bruder! »
« Sono così contento, West! Studierai a Berlino! Potrai diventare veramente un biologo! Ah, meno male che non ho mai buttato questa vecchia domanda d’iscrizione! Sai, me la consegnò quell’uomo-baguette quando tu nascesti, perché il desiderio del nonno era che studiassimo a Berlino e ci facessimo una vita lì. Stare dietro alla Henni Lehmann non era lavoro per due teste come noi. Ma io lo delusi, tornando a Hiddensee dopo la sua morte, per occuparmi della vecchia attività di famiglia. Così le sue speranze cadono tutte su di te, il più piccolo dei Beilschmidt. »
Gilbert si asciugò le lacrime con un gesto teatrale e stritolò il fratellino minore - già più alto e muscoloso di lui - in un abbraccio spaccacostole.
Ludwig sorrise, imbarazzato, e gli batté qualche colpetto sulla schiena.
« Farò del mio meglio, bruder, per non deludere né te né il nonno. »
Gilbert lo lasciò andare e lo fissò dritto negli occhi: « West, non far finta di non essere terrorizzato. Hai sempre vissuto su quest’isoletta, non ti sentirai spaesato? E Felicia? Cosa le dirai? E i tuoi amici? »
Ludwig fece un verso buffo con il naso, a metà tra un sospiro e una risatina.
Di amici veri non ne aveva, soltanto qualche conoscente della squadra di calcio locale.
Sì, era spaventato a morte: dopo anni di pace sulla piccola isola di Hiddensee, sempre uguale e sempre tranquilla, la prospettiva di andare a vivere in una città enorme e pulsante di vita come Berlino era… era come quando il terreno ti crolla davanti ai piedi, e un baratro di enorme ignoranza si apre, pronto a inghiottirti.
Ce l’avrebbe fatta? Si sarebbe ambientato? Si sarebbe sentito solo?
Ma soprattutto, era il pensiero di avere lui lontano a fargli più male in assoluto.
Adesso poi, che finalmente erano più vicini che mai, era come ricevere un’accoltellata dritta al cuore.
Però non sarebbe stato per sempre.
Ludwig sarebbe tornato indietro, un giorno, su quella stessa spiaggia; lo avrebbe chiamato e Feliciano sarebbe emerso con la testolina fuori dall’acqua, diffidente, spaventato, bellissimo… come al loro primo incontro.
« Non preoccuparti, bruder. » disse allora, il petto che si stringeva per il dolore ma gli occhi che brillavano, « Mi capiranno. »
Gilbert inarcò un sopracciglio pallido e tentò di dire qualcosa, ma le sue parole vennero soffocate da un coro di ululati disperati.
Il fratello maggiore cacciò il blocchetto di fogli in mano a Ludwig e uscì in giardino con un bel bestemmione.
« Ohi, qual è il problema?! Berlitz, a cuccia! Ahia, Aster, non mi tirare la manica! Blackie, fai la guardia, che non passi nessuno! E adesso zitti, che ho dei preparativi da fare! West? Weeest! Stasera party hard, chiamo Eliza e i tuoi compagni di scuola, che ne pensi? »
Sballottato in un vortice di felicità, paura e ansia, Ludwig si lasciò scorrere una pagina dopo l’altra sotto ai polpastrelli, prese un lungo respiro e seguì il fratello in giardino.
Non solo avrebbe dovuto salvare suo fratello dall’eccitazione dei tre cagnoni, ma era di vitale importanza impedirgli d’invitare tutta Hiddensee alla festa.


Era l’una di notte passata, quando Ludwig riuscì finalmente a congedarsi dai festaioli instancabili.
Raccolse la sua giacca di pelle e si mosse cautamente verso l’ingresso, ma qualcuno gli comparve alle spalle all’improvviso.
« Ohi, West, dove pensi d’andare? »
« Bruder, che cavolo! »
Gilbert ridacchiò e gli pungolò il petto con fare malizioso: « Vai da Felicia, no? »
« Q-questi non sono affari tuoi… »
« Dai, non t’imbarazzare! Fai bene ad andare da lei. Salutamela tanto, eh? Ah, giusto, e portati dietro questa. »
Per un istante, Ludwig temette che suo fratello stesse per passargli un altro preservativo - non che ne avesse bisogno, visto che ne teneva segretamente uno già pronto nella tasca -ma quando Gilbert gli mise in mano una bella tavoletta di cioccolato, un sorriso spontaneo non poté che affiorargli sulle labbra.
« A Felicia piace tanto la cioccolata, no? »
« Già. »
« Allora portagliela da parte mia, e goditi questi ultimi giorni con lei. »
Già, questi ultimi giorni.
Ludwig gli fece un cenno di saluto e uscì fuori, nell’aria fredda e odorosa di pino.
Ripercorrere per l’ennesima volta quella strada, rivedere i familiari profili dei larici e degli abeti, scivolare lungo il pendio ricoperto di olivello spinoso e aghi secchi, annusare l’odore di sale che il vento trasportava dal mare: Ludwig non poteva credere che ben presto non avrebbe più fatto quella vita.
Raggiunse Jeliel e si accorse subito di una sagoma sdraiata sulle rocce più alte.
« Ludwig, hallo! » ululò eccitato Feliciano, sbatacchiando la pinna per la felicità, « Mi stavo preoccupando da morire! »
« Scusami. » gli sorrise Ludwig, la faccia che si scaldava a quella vista meravigliosa, « Ho avuto un impegno. Però ti ho portato qualcosa. »
« Cosa? Cosa mi hai portato? È qualcosa da mangiare? È nuovo? »
« Calmati, non è nulla di che. Vieni giù. »
La sirena si buttò in mare con un colpo di pinna, serpeggiò nell’acqua bassa fino alla riva e si trascinò sulla sabbia scura ai piedi di Ludwig.
« Cos’è? Eh? Cos’è? »
Ludwig si accucciò sui talloni e scartò la tavoletta di cioccolato.
Feliciano emise il suo tipico fischio sirenesco: « Scioccolato! »
« Per farmi perdonare del ritardo. Grazie per avermi aspettato. »
« Mio! »
La sirena addentò il cibo con i canini appuntiti e fuggì al sicuro sotto Jeliel, strappando una risata al tedesco, che si sedette su un vecchio pezzo di legno portato lì dalla marea e se ne rimase a osservarlo, mentre sgranocchiava rumorosamente.
Più lo guardava, più un senso d’angoscia strisciava nel suo cuore.
Ludwig era sempre stato convinto di dover diventare il successore di suo fratello alla Henni Lehmann; giocare al ricercatore, studiando Feliciano e le altre creature dell’isola, non era servito ad altro se non come passatempo.
Mai, prima di allora, si era deciso a rincorrere il suo sogno nel cassetto.
Mai avrebbe pensato di dover dire addio a lui.
« Feliciano. » lo chiamò, e il giovane tritone sciaguattò allegramente nella sua direzione.
« Era buona, grazie Ludwig! » e gli strusciò il piccolo naso sul mento, vagamente simile a un gatto, « Io però non ti ho portato niente, mi spiace. »
« Non ho bisogno di nulla. » ribatté il tedesco, sostenendogli il viso abbronzato mentre calava come un falco sul topolino, « A parte una cosa. »
Feliciano arrossì ed emise un fischio basso e vibrante.
A Ludwig bastò guardarlo in quegli occhi profondi come il mare per prendere una decisione.
Gli baciò la fronte con stanchezza, malinconia e dolore, lasciando scorrere una mano lungo la sua schiena liscia, fino a toccargli la pinna dorsale, scagliosa e fredda.
Le branchie di Feliciano annasparono quando l’altra mano dell’uomo gli accarezzò la coda, le orecchie gli si afflosciarono, e la sua gola cominciò a emettere istintivi versetti di sottomissione.
« Ludwig…? »
« Shhh… non parlare, non pensare. »
Lo prese da sotto le ascelle e se lo caricò in grembo, gli infilò le dita tra i capelli rossi e chiuse gli occhi.
« Ludwig, cosa fai? » balbettò Feliciano.
Quale modo migliore per insegnargli a baciare?
Ludwig non era certo un buon maestro - i baci sulla guancia del suo bruder e di Elizaveta contavano come esperienze? - ma aveva troppa voglia di scoprire come sarebbe stato baciare una sirena, per potersi vergognare.
Incontrò le sue labbra chiuse e le assaggiò cautamente, profondamente, come si assaggia un frutto esotico e sconosciuto.
Sapeva di sale, aveva una lingua molle e tenera e il suo respiro si lasciava dietro un forte sentore di pesce fresco.
Si allontanò leggermente da lui e lo vide paonazzo e confuso.
« C-cos’era questo? » gli chiese la sirena, frullando le orecchie.
« Un bacio. »
« Che cos’è un bacio? »
« Un segno d’affetto per noi esseri umani. » e quindi, per fargli capire bene il concetto, gliene diede un altro, ancora più intimo ed erotico.
Gli passò la punta della lingua sui canini affilati e penetrò gentilmente le sue labbra con un indice, per costringerlo ad aprire di più la bocca.
Lo udì guaire appena dal profondo del petto, scrollare la coda sulla sabbia bagnata e abbassare le doppie palpebre lacrimanti.
Ludwig gli sorresse il mento con due dita, « Ti piace? »
« Uh… n-non lo so. Mi sento così strano… non capisco. »
Una traccia di saliva gli stava gocciolando all’angolo della bocca, continuava a tenere le orecchie basse e gli occhi nascosti dietro alla pellicola.
Ludwig lo conosceva meglio di chiunque altro, e col tempo aveva imparato a riconoscere tutti i segnali della sua paura.
« È una cosa nuova per te, va tutto bene. » e si mise a massaggiargli la pinna ventrale, il punto migliore per tranquillizzarlo quando era nervoso o impaurito, « Piano piano, d’accordo? Fai come me. »
Non smise di giocherellare con quel pezzo di cartilagine un po’ viscido e soffice, lo attirò a sé con l’altra mano e gli mostrò come fare ancora una volta.
La sensuale carezza della lingua di Ludwig, e i meravigliosi massaggini delle sue dita sulle scaglie, calmarono pian piano la sirena e la sciolsero nell’abbraccio possessivo dell’amante.
Feliciano tentò goffamente d’imitare i suoi baci, lappando e mordicchiando il volto di Ludwig come un animaletto innamorato, ma lui lo trovò irresistibile.
Il giovane tritone gli tirò il labbro inferiore tra i denti, rosicchiò lungo la linea della sua mandibola e arrivò a leccargli i tendini marmorei del collo, prima di rendersi conto di qualcosa di duro che gli premeva contro lo stomaco.
Abbassò lo sguardo e puntò le orecchie in avanti: « Ludwig, il tuo… »
Il tedesco gli tappò la bocca, « Non c’è bisogno che me lo fai notare. »
« Oh no, ho sbagliato qualcosa, vero? » si preoccupò Feliciano, « Scusami! Non so dare i baci, noi non lo facciamo! »
A proposito: chissà cosa facevano le sirene quando si accoppiavano?
« Beh, ti ho insegnato una cosa nuova. » rispose Ludwig, soddisfatto di se stesso, « Adesso tocca a te. Mostrami cosa fate voi. »
Feliciano avvampò fino alla punta delle orecchie cartilaginose, « M-ma io n-n-non ho m-mai… »
« Feliciano… » Ludwig si sdraiò sulla schiena e lo trascinò giù con sé, « Ti ho detto di non pensare, no? Fallo e basta. »
« Non è così semplice! » protestò la sirena, per poi sobbalzare quando il tedesco gli strizzò la pinna caudale in una mano.
« Non ti viene voglia? A me viene una voglia matta. » gli sussurrò sulle labbra Ludwig, muovendo i polpastrelli lungo le ossicine elastiche della coda.
« N-non puoi fare così… aah, Ludwig, no! Non riesco a c-controllarmi… »
Ludwig gli accarezzò la piega di pelle con indice e medio, la penetrò appena e stuzzicò l’emipene fradicio di umori odorosi.
« Non ti va? »
Feliciano sollevò lo sguardo di creatura selvaggia sul viso dell’amato, gli attorcigliò stretta la coda intorno a una gamba e cominciò a strusciare velocemente il bacino sul suo inguine.
« Mmh, Ludwig… »
Ed eccolo che fuoriusciva: bagnato e rubicondo.
Il tedesco si slacciò i jeans e rotolò su un fianco, ribaltando le posizioni.
Lo baciò ancora e ancora, non protestò quando la sirena gli graffiò la schiena con le unghie dure e affilate e lasciò che gli serrasse la gamba ancora di più tra le spire della coda.
« Vuoi farlo? » sussurrò Ludwig, toccandogli l’emipene eretto, « Vuoi farlo di nuovo, con me? »
Si sentì scoppiare dalla gioia, quando Feliciano emise un adorabile richiamo d’amore e gli leccò la bocca sbatacchiando eccitato le orecchie.
« Aspetta. »
Tirò fuori dalla tasca la piccola confezione di plastica e la strappò con i denti, srotolò il profilattico con attenzione e si dedicò completamente al suo giovane tritone impaziente.
Feliciano aveva ancora paura di fare l’amore con lui, d’altronde Ludwig lo stava spingendo ad accoppiarsi in un periodo non naturale per la sua specie.
Che lo stesse turbando o meno, in quel momento proprio non sembrava, visto come si aggrappava a lui e quanto alto inarcava il sedere per offrirgli un paradiso umido, bollente e annaspante.
Il tedesco non riusciva a scacciare via dal cuore l’ombra di un pessimo presentimento; e mentre lo accarezzava, lo baciava, lo possedeva, si ritrovò quasi a piangere dalla tremenda malinconia che gli attanagliava le viscere.
« Feliciano, canta per me. » gli sussurrò in un orecchio, da dietro, e la sirena allungò il collo verso il cielo.
Le sue dolci parole incomprensibili erano scosse dalle spinte di Ludwig, ma in un qualche modo, quella notte la canzone di Feliciano era ancora più bella.
Lo distese sulla risacca schiumosa e si accasciò accanto a lui, lasciando che il mare lavasse via la fatica.
« Ludwig… »
« Mh? »
« Oggi voglio raccontarti il significato della mia canzone. »
Il tedesco deglutì, con quel pessimo presentimento che andava intensificandosi.
Perché, dopo tanti anni, decideva di svelarglielo soltanto adesso?
Feliciano rotolò a pancia in su e si mise a osservare la volta notturna, spolverata di costellazioni e un velo di nubi sottili.
« Non è facile per me tradurre in lingua umana. » si scusò, sbatacchiando la pinna nell’acqua bassa, « Però posso provarci. »
Ludwig si sdraiò sulla sabbia con le mani dietro la nuca, « Ti ascolto. »
Feliciano ci pensò su a lungo, poi parlò.
Non era una vera e propria canzone, somigliava più a un lamento mesto e musicale.


Un giovane pescatore attraversò il mare in barca.

Da lontano udì una splendida voce cantare,
e seguì il suono fino a una grotta profonda.

Trovò una fanciulla seduta su uno scoglio,
così le offrì un posto sulla sua barca.

Lei si voltò tranquilla, curvando la sua pinna azzurra.

Il pescatore si innamorò della sirena,
così bella e selvaggia e libera.

“Vieni con me mia signora,
vieni a vivere tra gli uomini.”

Ma lei scrollò il capo e cantò:

“Non chiedermi di seguirti,
non posso vivere tra gli uomini.”

Il giovane pescatore attraversò il mare fino alla grotta,
trovò la sirena seduta sullo scoglio e le offrì un posto sulla sua barca.

“Vieni con me mia signora,
farò di te la mia sposa.”

Ma lei scrollò il capo e cantò:

“Non chiedermi di seguirti,
non posso diventare la tua sposa.”

Il giovane pescatore attraversò il mare fino alla grotta,
trovò la sirena seduta sullo scoglio e la intrappolò nella sua rete.

“Tu verrai con me mia signora,
adesso appartieni alla terra.”

Ma lei pianse scrollando il capo e cantò:

“Non chiedermi di seguirti,
non posso appartenere alla terra.”

Il giovane pescatore ritornò a riva con la sua barca e trascinò la sirena sulla spiaggia.
Lei si accasciò sulla sabbia e si trasformò in spuma brillante, piena di rimpianto e di dolore.

Il giovane pescatore attraversò il mare fino alla grotta,
ma non trovò più alcuna sirena seduta sullo scoglio.

Non avrebbe dovuto chiedere
a chi non avrebbe potuto seguirlo.




Ludwig sbatté le palpebre e si rese conto di avere gli occhi lucidi.
« È una canzone molto triste. »
Accanto a lui, Feliciano annuì lentamente: « Me l’ha insegnata mia nonna, prima di andarsene. Sai… » esitò, tormentandosi la pinna ventrale, « È questa la ragione per cui il nonno vi odia. »
« Per via di tua nonna? »
« Lei aveva fatto una cosa che nessuno di noi dovrebbe fare mai. Una cosa proibita, pericolosissima. »
« Che cosa? »
Feliciano si voltò a guardarlo, « Si era avvicinata a un essere umano. »
Lungo silenzio.
« Davvero? »
« Sì, proprio come noi. » Feliciano sorrise mesto, e si voltò nuovamente verso il cielo stellato.
« Quando dici “come noi”, intendi…che tua nonna si era innamorata di lui? »
« Non lo so, nonno non me l’ha mai raccontato. Forse lei e quel Nuota nel Sopra erano soltanto diventati amici. »
Che ironia, la storia si ripeteva.
« Che cosa le accadde? » chiese Ludwig.
« Non lo sappiamo. »
« Come? »
Feliciano sospirò amareggiato: « Semplicemente, un giorno lei emerse per andare a trovarlo, ma non tornò mai più. »
E così era quello il motivo della diffidenza e dell’astio del vecchio tritone.
Chissà cosa le era accaduto veramente…
« Allora, adesso conosci il significato della mia canzone. » sorrise Feliciano, « Ho cercato di tradurre meglio che ho potuto. Naturalmente, tra di noi non si dice “pescatore”, né “mare”, né “barca”, né “sirena”. Però ho scelto quei termini in modo da farti capire meglio. »
Il tedesco gli accarezzò un orecchio cartilaginoso, « Sei stato bravo. Io non saprei come tradurre la lingua del tuo popolo. »
« Sarebbe quasi impossibile. » ridacchiò Feliciano, scavando con la pinna nella sabbia bagnata.
Ludwig osservò intensamente il suo profilo, e in un battito di cuore si rese conto dell’immensità del legame che li univa.
Com’era possibile che a lui, semplice essere umano, fosse concesso di stare così vicino a una sirena?
Com’era possibile che Feliciano esistesse veramente? Che esistesse il suo popolo mitologico?
Era arrivato il momento di rispondere a tutte quelle domande.
« Feliciano… » cominciò esitante, chiedendosi quale sarebbe stata la sua reazione.
« Sì? »
« Ehm… che cosa provi per me? »
Il giovane tritone si voltò verso di lui, in parte confuso e in parte imbarazzato: « Si chiama amore, no? »
« Beh, dipende. » Ludwig si tirò su a sedere, giocherellando nervosamente con la sabbia, « Dipende da quello che senti. »
« Quello che sento? »
Anche Feliciano si sollevò, lo sguardo lontano e indugiante sui profili dell’isola di Rügen.
« Le prime volte avevo molta paura di te. »
« Comprensibile. »
« Poi, dopo un po’ di tempo, ho iniziato a fidarmi. Ero semplicemente felice di vederti. Stavo bene con te, proprio come ci si aspetterebbe da un amico. Ma poi… poi le cose hanno iniziato a cambiare. »
Feliciano abbassò le orecchie, la pinna che si muoveva avanti e indietro agitata, « Ogni giorno che passava ero sempre più attratto da te, dal tuo mondo, e mi sentivo meno felice nel mio. Era come se mi mancasse qualcosa, e mi faceva male… » cercò lo sguardo di Ludwig, « Tanto male che mi sembrava di morire ogni volta. »
Ludwig avvampò, e quasi scivolò all’indietro quando la sirena si allungò verso di lui, appoggiandosi col petto sul suo ventre.
Ecco di nuovo quello strano incantesimo di cui aveva parlato il vecchio Fischer.
« F-Feliciano… »
« Quindi capisci, Ludwig? Credo proprio che sia amore. » gli sorrise, splendido, coi capelli umidicci e un velo di sabbia bianca che gli ricopriva le spalle e la coda, « Tu che cosa provi per me? »
Era quello il momento giusto.
Ora o mai più.
Ludwig gli accarezzò una guancia e il giovane tritone si strusciò contro al suo palmo come un gattino fedele, dando al suo cuore una stretta tremenda.
« Anch’io ti amo, da impazzire. Ed è per questo che devo farlo. » sospirò, « Devo andare via, Feliciano. »
La sirena s’immobilizzò.
« Andare dove? »
« Lontano da quest’isola. Vado a studiare a Berlino. È una città, una specie di Hiddensee molto più grande e piena di umani. »
Ludwig si rivolse verso l’orizzonte piatto e calmo, e i suoi occhi azzurrissimi si accesero della luce della passione, mentre parlava concitato.
« È un’opportunità unica per me, per noi. Una volta all’università potrò studiare come si deve, diventare un bravo biologo. Avrò tutte le carte in regola per occuparmi di te e del tuo popolo come avrei sempre voluto. » si voltò infervorato verso il giovane tritone, « Non è una cosa stupenda? »
« Vuoi andartene via da qui? » gli chiese Feliciano, con le orecchie basse.
« Cosa…? No! Non devi pensare che voglia abbandonarti! È un viaggio di formazione il mio, capisci? » gli spiegò ansioso il tedesco, « Come… come quando i giovani squali imparano a cacciare, o le foche diventano abbastanza mature da cavarsela da sole nel mare.»
Era vitale che Feliciano capisse, perché Ludwig non avrebbe mai potuto lasciare Hiddensee sapendo di aver tradito i suoi sentimenti.
Gli sollevò il mento gentilmente, « È vero, me ne sto andando via, ma soltanto per un po’. »
« Per quanto? »
« Cinque anni. Poi tornerò a prenderti, te lo prometto. »
La sirena sbatté lentamente le lunghe ciglia rosse; qualcosa, nel suo sguardo profondo come un oceano di miele, si era spezzato per sempre.
Ludwig dubitò di se stesso, quando gli lesse un tale dolore negli occhi.
Perché non riusciva a capire che quello era l’unico modo per restare insieme? Che non sarebbe stato un addio, ma un arrivederci?
« Feliciano, ascolta… »
« Cinque anni… sono tanti? » chiese la sirena, « Io non so ancora contare. Sono tanti cinque anni? »
Che cos’avrebbe dovuto rispondergli?
Sì, cinque anni erano tanti, anzi: sarebbero sembrati come una vita intera, senza averlo al suo fianco.
« Sì, sono tanti. »
Feliciano si allontanò da lui di scatto, come se non sopportasse più l’idea di toccarlo.
« Lo sapevo, vuoi abbandonarmi! »
« Non è così… »
« Sei sempre lo stesso, non cambi mai. » gli ringhiò contro, appiattendo le orecchie all’indietro, « Biologo… cosa vuol dire? Uno di quei Nuota nel Sopra che intrappolano le altre creature e le fanno a pezzi dietro a un vetrino, non è così?! »
Come diavolo faceva a sapere dell’autopsia una sirena come lui?
« Ma cosa stai dicendo? Feliciano, pensi che io potrei mai farti una cosa simile? » si difese il tedesco, afferrandogli il viso con mani tremanti, « Il biologo non fa questo genere di studi. »
« Bugie! Lo hanno fatto alla mamma, e a papà… anche la nonna, sicuramente… e adesso io sono il prossimo! »
Ludwig si ritrasse, nauseato.
Davvero i genitori di Feliciano erano stati vivisezionati dai ricercatori?
Doveva essere la verità: il giovane tritone non lo aveva mai chiamato in quel modo, non lo aveva mai guardato con tanto odio, puro e selvaggio.
« Sai solo pensare a me come a un animale. » sibilò la sirena, « Il nonno me lo aveva detto, che siete tutti così. »
Fu come un’accoltellata dritta nello sterno.
“Che diavolo sta succedendo?” pensò Ludwig, con le orecchie che fischiavano assordanti.
La spiaggia sotto di lui sembrava ondeggiare mollemente, la testa gli divenne fredda in pochi secondi e tutto si fece ovattato, sfocato.
Non era possibile… semplicemente, non stava accadendo sul serio.
« Feliciano… »
La sirena si voltò e strisciò sui palmi e sul ventre, in direzione del mare.
« E io che ti ho detto tutte quelle cose… » arrossì per la vergogna, mentre s’immergeva nell’acqua bassa.
Ludwig scattò come una molla e gli afferrò un braccio, « Dove vai adesso? »
« Lasciami. »
« Feliciano, io capisco la tua rabbia, davvero… anch’io sto male al solo pensiero, ma cerca di capirmi anche tu. È un’occasione irripetibile per me, ho ricevuto un’offerta perfetta per i miei progetti e non posso proprio lasciarmela scappare. »
Si accucciò sui talloni per guardarlo negli occhi, « Ti giuro che tornerò, un giorno. E allora potremo stare insieme per sempre. »
Feliciano scoprì i canini appuntiti, « Sei rimasto accanto a me per tutto questo tempo, e ancora non sei riuscito a capire niente di noi. »
Che cosa voleva dire? Dove stava sbagliando Ludwig? Cosa c’era di così malvagio nel chiedergli di aspettarlo?
« Io non sono un animaletto addomesticato. » sibilò Feliciano, la pupilla che si macchiava di rosso, « Se vuoi andartene, fallo pure. Ma non chiedermi di scodinzolare mentre aspetto il tuo ritorno. »
Si liberò con violenza dalla stretta di Ludwig.
“Che diavolo sta succedendo?”
Sembrava che il suo cervello non fosse più in grado di formulare qualsiasi altra domanda.
Soltanto qualche minuto prima, quel dolce e gentile sirenetto aveva mangiato dalla sua mano, gli aveva confessato il suo affetto incondizionato, aveva fatto l’amore con lui sulla sabbia bianca di una spiaggia notturna…
Perché? Perché una cosa simile?
« Feliciano, ti prego… » balbettò il tedesco, allungando una mano per accarezzarlo.
La sirena si acquattò nell’acqua schiumosa, le orecchie aperte e vibranti come il collare di un dilofosauro, la gola gonfia e spalancata che lanciò un sibilo agghiacciante.
Con la testa completamente svuotata per la paura, Ludwig indietreggiò proteggendosi il collo, pronto a combattere per la vita.
L’animale davanti a lui si voltò e serpeggiò velocemente sulla riva, si spinse in avanti con la grande pinna e si tuffò in mare, sparendo alla vista.
Stordito dall’adrenalina che ancora gli elettrizzava i muscoli, Ludwig se ne rimase lì in piedi per un bel pezzo, a fissare i cerchi di schiuma sulla superficie nera come pece.
Lentamente, batté le palpebre e i battiti impazziti del cuore si calmarono.
Feliciano non stava tornando.
Perché non riemergeva?
Ludwig si mise a correre, schizzando sabbia e gocce dappertutto.
« Feliciano! »
Non si fermò nemmeno quando l’acqua gli arrivò al petto, spingendolo indietro di prepotenza.
« Dove sei?! » urlò, avanzando ancora e ancora, col fiato corto, « Ti prego, torna qui! TI PREGO!!! »
Gridò e gridò fino a sgolarsi, inciampando nel basso fondale e ritornando su fradicio e disperato, facendo saettare gli occhi da una parte all’altra di quel mondo piatto, oscuro e lamentoso.
Di Feliciano, neanche una pinna all’orizzonte.
« No, ti prego… non puoi lasciarmi così! »
Intorno a lui c’era soltanto silenzio, acqua scura, qualche onda schiumosa, il profilo triste di Jeliel che pregava sulla riva, un cielo immenso e stellato sopra la testa e il boschetto di larici e abeti alle spalle.
Se n’era andato. Per sempre.
Ludwig lanciò un lungo urlo e colpì il mare con i pugni.
Come aveva potuto avere paura di lui?
Feliciano non era una bestia, non gli avrebbe mai fatto del male; e invece Ludwig si era difeso come se si fosse trovato davanti a un mostro sconosciuto.
Lo aveva insultato, deluso, ferito… era colpa sua se Feliciano lo aveva lasciato.
Ludwig rimase a fissare la linea piatta dell’orizzonte per un tempo infinito, senza neanche preoccuparsi delle membra rigide come pezzi di legno, del freddo penetrante nella carne e delle lacrime che gli gocciolavano dal mento.
Se n’era andato… se n’era andato e niente sembrava più avere un senso.
L’alba lo sorprese ancora in piedi nell’acqua, ad aspettare il ritorno di Feliciano.
Perché Ludwig non poteva credere che non avrebbe mai più rivisto la sua testolina riemergere timorosa, i suoi grandi occhioni d’oro scrutarlo pieni di curiosità, la sua pinna meravigliosa inarcarsi sopra le onde…
Non poteva perderlo, non poteva: si era innamorato come un folle e non avrebbe potuto vivere senza di lui.
« Se non vuoi tornare da me, allora verrò a prenderti io. » mormorò all’orizzonte con voce roca, « Odiami pure, ma io verrò. »
Voltò le spalle e arrancò fino a riva, zoppicando verso casa con il corpo congelato, rigido e insensibile.
L’abbandono faceva male, troppo male; gli toglieva il respiro, rendeva tutto il mondo grigio, inguardabile, insopportabile da resistere senza di lui.
Quella era l’ennesima conferma: doveva essere caduto preda dell’incantesimo di una sirena, perché nessun essere umano avrebbe saputo ammaliarlo fino a tal punto.
Crudele giovane tritone, che lo stregava per poi fuggire via.


Efelién schizzò attraverso la corrente, si catapultò nel bel mezzo di un banco di aringhe argentate e le fece disperdere come nebbia nell’acqua.
Via, via da quella spiaggia, per il resto della sua vita.
Non voleva mai più vedere Ludwig, non voleva più pensare a lui, non voleva più amarlo.
Nuotò come un piccolo delfino braccato da uno squalo affamato, non si fermò nemmeno quando i muscoli della coda cominciarono a pulsare lancinanti e giurò a se stesso che non si sarebbe voltato nemmeno una volta.
Incontrò un bagliore inquietante sul fondale profondo e roccioso: era il relitto di un peschereccio affondato chissà quanti anni prima.
Efelién vi nuotò attorno indeciso, ma poi si allontanò con un colpetto di pinna, sfinito.
Non voleva avere più niente a che fare con i Nuota nel Sopra e con i loro aggeggi terrificanti.
Trovò una piccola grotta di scogli contorti e vi si rintanò dentro, abbracciandosi la coda e dondolandosi angosciato nella corrente tranquilla.
Male, male, male… non aveva alcuna ferita nella carne, eppure il petto gli faceva un male da morire.
Non riusciva a far passare abbastanza acqua attraverso le branchie, i fianchi erano stritolati come in una morsa d’acciaio e si sentiva strozzare.
Sollevò il volto verso il Fuori e pensò a Ludwig.
Semplicemente, non ce la faceva a non rimuginare su di lui, a non guardarsi indietro e a non rimpiangere la sua dura decisione.
Era a causa del suo sangue selvaggio, che non gli permetteva di rimanere sdraiato su uno scoglio ad aspettare il ritorno di un Nuota nel Sopra, come un cane addestrato.
Era una cosa più forte di lui, come il dolore nella pancia quando aveva fame, o come il brivido caldo e profondo quando incontrava una bella femmina, o come quell’attrazione irresistibile per il Fuori.
Efelién buttò il capo all’indietro e pianse, pianse così forte che il suo lungo ululato di disperazione fece scappare via i pesci e cantare le balene.


A molti chilometri di distanza, Luvìs percepì il lamento del fratellino e drizzò le orecchie turbato.
Efelién?
Verso sud-est, non troppo lontano dalla costa.
Non sembrava un richiamo d’aiuto, era più come… la delusione per una perdita? L’ammissione di una sconfitta?
Suo fratello aveva perso la lotta per una femmina? Una cosa del genere non poteva aver scatenato in lui un simile richiamo straziante.
Era molto difficile da decifrare.
Efelién stava soffrendo, ma non era stato attaccato da un pescecane o da un altro predatore.
Eppure quello che stava gridando alla Grande Madre era proprio: “soffro, l’ho perso, ho rinunciato”.
Luvìs si spaventò a morte e si tuffò nella direzione di quel pianto terribile.
Quello scemo… qualsiasi cosa gli fosse successa, si stava sfogando troppo, troppo rumorosamente; perfino le focene, con il loro udito limitato, erano rimaste scosse dalle intense vibrazioni del suo richiamo.
Se continuava così, anche i Nuota nel Sopra… Luvìs non voleva nemmeno pensarci.
Era soltanto a metà strada quando il richiamo si spense, rimbombando per molto tempo ancora.
Luvìs seguì quell’eco sempre più debole e giunse in vista di una grotta sul fondale, trovò il suo fratellino abbandonato tra le alghe e si catapultò su di lui.
Efé, cos’è successo?! fischiò, scuotendolo per una spalla, Chi hai perso? A chi hai rinunciato? Cos’era quel pianto? Parlami!
Il fratellino scrollò furiosamente il capo e si aggrappò a lui come se le pinne non lo reggessero più.
Luvi… oh, Luvi… mi dispiace, mi dispiace così tanto! si lasciò scivolare sul fondale e gli nascose la faccia contro al petto, incapace di guardarlo in faccia, Tu me lo avevi detto, vero? E io che non ti do mai ascolto! Perdonami, Luvi, perdonami se puoi…
Ma cosa stai dicendo, Efé? gorgheggiò spaventato il fratello maggiore, Mi vuoi dire cosa ti è successo?
Efelién scrollò ancora la testa.
Non dirmi che… Luvìs tentennò, Nel Fuori, per tutto questo tempo, tu…
Il fratellino si rifiutò di rispondere, con gli occhi spalancati d’orrore e le orecchie appiattite lungo le guance.
Efelién, cos’hai fatto?
Il gorgoglio furioso di Luvìs gli diede una stretta al cuore.
I-io…
È un Nuota nel Sopra, non è così? Non mentire! Ormai non ti serve più a niente
Luvìs aveva ragione: ormai Ludwig era tornato a essere nient’altro che un alieno, un estraneo, un nemico.
Sì, è vero. sussurrò Efelién, chinando il capo per la vergogna.
Luvìs barcollò sconcertato, afferrò il fratellino per le spalle e lo esaminò da ogni angolazione.
Ti ha fatto del male?
N-no! Davvero, Luvi, sto benissimo
Luvìs lo lasciò andare e si massaggiò l’ampia fronte abbronzata, cercando di schiarirsi le idee.
Non ci posso credere… proprio tu, tra tutti noi, che hai sempre paura di tutto
Il maggiore gli scoccò uno sguardo di ghiaccio, ed Efelién si preparò al peggio.
Io lo sapevo che eri fin troppo strano, da un sacco di tempo. Te ne sparivi chissà dove e non si riusciva a trovarti neanche con il richiamo*. Quando tornavi, qualche volta, ti lasciavi dietro una traccia strana, di cibo sconosciuto, e puzzavi di Nuota nel Sopra
Luvìs chiuse gli occhi, come se la sola idea lo disgustasse fin nel profondo.
Ti sei avvicinato a lui?
Efelién ammutolì, si afferrò la testa che pareva esplodergli e scoppiò a piangere.
Ti prego, Luvi, perdonami!
Come hai potuto? ringhiò Luvìs, A uno di loro, Efé!
M-ma Ludwig…
Liutvik?
È il suo nome
Oh, quindi adesso parli la loro lingua, eh?
Luvìs era fuori di sé, sembrava pronto a picchiarlo.
Che cosa gli hai detto?
Efelién trasalì.
Niente, Luvi, te lo giuro!
Sa dove vivi?
N-no
Gli hai parlato della tua famiglia? Di noi?
S-soltanto un po’, ma… ma non ha alcuna intenzione di catturarci!
Efelién, sei proprio un ingenuo lo schernì il fratello, scoprendo i denti affilati in un sorriso storto, Pensi forse che la parola di un Nuota nel Sopra valga quanto la nostra?
No Luvi, quella di Ludwig vale, te lo assicuro! protestò il giovane tritone con tutte le sue forze.
E tu come fai a esserne tanto sicuro?
Perché lo conosco
Luvìs lo fissò così a lungo che Efelién sentì i bulbi oculari esplodergli fuori dalle orbite, ma non osò abbassare lo sguardo.
Alla fine, il fratello maggiore incrociò le braccia e scrollò infastidito le orecchie.
Perché ti fidi così tanto di uno di loro?
Te l’ho detto, lo conosco. Sono stato suo amico per un sacco di tempo, fin da quando eravamo piccoli
Ammirevole. sibilò glaciale Luvìs, Sei stato capace di mentire a me e di tenere all’oscuro il nonno fin dalla tenera età
Efelién boccheggiò, ferito.
E cos’è che faresti per tutto il tempo, con questo Nuota nel Sopra? continuò il maggiore, il tono che s’alzava minacciosamente.
L-Ludwig mi ha insegnato la sua lingua. rispose cauto Efelién.
Ovvio, così può farsi svelare tutto su di noi
Ludwig vuole diventare un ricercatore pacifico, non ha alcuna intenzione di catturarci! ripeté disperato il fratellino, Lui pensa che siamo un popolo meraviglioso, rispetta il mare, è buono e gentile e… ed è diverso da tutti gli altri
Il fratello maggiore fece un gorgoglio stizzito e scrollò rabbiosamente le orecchie.
Se questo Nuota nel Sopra è tanto buono, perché piangevi a quel modo?
Efelién non rispose, pallido come un beluga.
Oh, a quanto pare non è poi così diverso da loro, no? infierì Luvìs, Scommetto che ha cercato di scoprire dove vivi, o di catturarti in una di quelle loro trappole infernali…
Non è così! protestò Efelién, Ludwig non mi farebbe mai del male, mai!
Luvìs lo colpì.
In uno scatto d’ira, gli tirò un graffio con le lunghe unghie della mano destra, e l’acqua della grotta si colorò di sangue azzurro chiaro.
Efelién si toccò i cinque lunghi squarci con mano tremante, ma non abbassò mai lo sguardo.
Ludwig non lo farebbe mai. singhiozzò.
Per la Grande Madre, Efelién, devi svegliarti! ruggì Luvìs, afferrandolo per le spalle e scrollandolo furiosamente, Sono pericolosi, lo vuoi capire?! Poteva catturarti, poteva intrappolarti e fare di te quello che hanno fatto a mamma e papà! Poteva ucciderti!
Efelién scosse la testa come un pazzo, rifiutandosi di ascoltare, di credere che Ludwig avrebbe mai potuto tradire così il loro amore… sebbene, in fondo al cuore, la vocina della coscienza gli sussurrasse un insopportabile ha ragione.
No, non è vero!
Il maggiore lo spinse indietro nauseato.
Smettila di difenderlo
NO!
Tra di loro cadde un silenzio pericoloso.
Un’orrenda consapevolezza oscurò il viso di suo fratello.
Aveva finalmente capito, ed Efelién tremò di paura: quel graffio sulla guancia non sarebbe stato niente, niente, a confronto.
Ecco che cos’era quell’odore rivoltante che avevi addosso ieri. sibilò il maggiore, scoprendo i canini appuntiti in un ringhio, Speravo tanto di essermi sbagliato…
Afferrò il fratellino per un polso e lo strattonò verso di sé, respirando dalle branchie il sentore sulla sua pelle abbronzata.
L-Luvi…
Proprio come temevo. gli stritolò il polso e i suoi occhi si fecero rossi, sfolgoranti nell’oscurità degli abissi marini, Efelién, dimmi la verità
Il tono di suo fratello non ammetteva repliche.
Io… io…
Ti sei accoppiato con lui?
Efelién non sapeva come rispondergli; non si era mai sentito così tanto terrorizzato da suo fratello.
Luvìs arricciò il naso in un ringhio minaccioso.
Dimmelo
Ormai era inutile continuare a mentirgli, avrebbe soltanto peggiorato la situazione… così Efelién chinò il capo in segno di sconfitta.
Avvertì la mano palmata di Luvìs che scivolava via dal suo polso, ma non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo e osservare la sua reazione.
Non posso crederci…
La delusione cocente nel gorgogliare di suo fratello fu la cosa peggiore.
Luvi, mi dis…
Sta’ zitto, Efé.
Efelién deglutì pesantemente, ma non obbedì.
Ti p-prego, Luvi, lasciami almeno spie…
Taci. Non voglio sentire più niente da te, traditore del tuo stesso sangue
Gli occhioni di Efelién si sbarrarono inorriditi, sollevò il volto di scatto e tentò di difendersi, ma dalla gola non gli uscirono altro che fischi striduli.
T-ti s-s-scon…
E io che pensavo ti stessi disperando per una femmina. Luvìs scrollò il capo, stordito, incredulo, Come sei potuto arrivare a tanto…
Il fratellino serrò i pugni, col cuore che batteva impazzito nel suo piccolo petto annaspante, un fischio assordante nelle orecchie e il sangue che rombava da una tempia all’altra, minacciando di farlo svenire da un momento all’altro.
Non poteva più tirarsi indietro.
Doveva dirlo bene, forte e chiaro, perché era di vitale importanza che suo fratello capisse quanto vero e sincero fosse il suo sentimento per Ludwig.
P-perdonami… ti prego, Luvi, perdonami. Non ho potuto farne a meno. Io… io… io mi sono innamorato di lui.
Il silenzio che seguì fu ancora peggio.
Efelién esitò a lungo; infine, spinto dall’angoscia profonda, sollevò il viso e cercò lo sguardo di suo fratello.
Luvìs lo stava fissando come se non lo riconoscesse più.
Si portò le mani alla bocca, impallidito, Che cosa dirà il nonno…? sussurrò.
Si voltò di scatto e fece per lanciarsi fuori dalla grotta.
Non dirglielo, Luvi! gemette il più piccolo, afferrandolo per un braccio, Non dirlo a nonno, ti supplico!
Ma non capisci?! ribatté il maggiore, nel panico, Non riguarda più soltanto te, razza d’idiota! Non siamo più al sicuro qua, dobbiamo andarcene subito!
Efelién gli abbracciò la coda e andarono a sbattere dolorosamente contro la parete rocciosa.
Sei impazzito?! Lasciami andare! gli ringhiò contro Luvìs, scuotendo la pinna per staccarselo di dosso.
Efelién gli si aggrappò al collo, folle di paura.
Ti scongiuro, Luvìs, ti scongiuro! Farò tutto quello che vuoi! Non uscirò mai più nel Fuori, non andrò mai più a cercare Ludwig, non mi farò mai più vedere da nessun Nuota nel Sopra! Ma ti prego, ti supplico, non andare a dirlo a nonno!
Efé, tu non…
Ragazzi?
I due giovani s’immobilizzarono, agghiacciati.
Una figura emerse dall’oscurità verdastra e nuotò verso di loro con potenti colpi di pinna fulva.
Siete qui?
Il nonno sbucò all’entrata della piccola grotta, con le orecchie dritte per la preoccupazione.
Ah, ecco dov’eravate finiti!
Anteromiàs era un tritone anziano, ma ancora forte e muscoloso come un narvalo di primo dente, con una lunga coda a pagaia in grado di spezzare la mandibola a qualsiasi squalo troppo esuberante, una corta chioma riccioluta e scura, il mento rasposo di barba e un paio di occhi energici e dorati.
Ho sentito Efé piangere, così mi sono… ma si azzittì davanti alle loro facce bianche di paura, Ehi, cos’è successo?
Luvìs scoccò un’occhiata di sbieco al fratellino: con l’aria di chi è appena stato tramortito da una balena, Efelién fissava il nonno con la bocca aperta, le branchie che avevano preso ad allargarsi e chiudersi spasmodicamente.
State bene? Avete l’aria di aver visto un Nuota nel Sopra armato di arpione e rete! ridacchiò il vecchio nonno.
Efelién boccheggiò.
N-n-no…
Noi stiamo benissimo, nonno! lo precedette Luvìs, afferrando il fratellino per un polso, un po’ guidandolo e un po’ trascinandolo fuori dalla grotta, Stavamo giusto per tornare a casa
Anteromiàs si grattò la testa, assai poco convinto.
Sicuri che vada tutto bene?
Benissimo, nonno!
Il vecchio tritone li seguì fuori.
Efé, cos’è quel graffio sulla faccia? E come mai piangevi a quel modo?
Il minore cominciò a tremare, Luvìs gli stritolò un polso per fargli capire di mantenere la calma, e sussurrò nell’orecchio del nonno.
Una femmina
Oho, non mi dire! Anteromiàs annuì comprensivo, Fossi stato tu Luvi, ma per Efé mi sembrava ancora un po’ presto… ah beh, d’altra parte siete sangue del mio sangue: dei veri alfa!
Gonfiò orgogliosamente i grossi pettorali abbronzati e accarezzò la testolina del più piccolo dei suoi nipoti.
Non è ancora primavera, Efé, è normale che le femmine non siano pronte per accoppiarsi. Non devi rimanerci male
È soltanto un po’ scosso, nonno, ma sta bene. A lui ci penso io
Bravo, Luvi. scrollò la pinna e li precedette attraverso la corrente infestata di alghe e piccoli pesci danzanti, Dritti a casa, non è sicuro stare in giro con l’Occhio Bianco così alto: è proprio ora che quelli più pericolosi di loro escono sulla Grande Madre a cercarci
Efelién rimase indietro, poi si fermò, si voltò verso la superficie ed ebbe un singhiozzo angosciato.
Non poteva credere che non avrebbe mai più rivisto Ludwig… faceva troppo male da sopportare.
Luvìs lo prese per mano con gentilezza, ma i suoi occhi erano dardi accusatori.
Giurami che non uscirai mai più nel Fuori, Efelién. Giurami che non andrai ma più a cercarlo
Il fratellino deglutì, si affondò le unghie nello sterno magro e soffiò una cascata di bollicine dalle branchie affannate.
M-ma io lo amo, Luvi…
Giuralo
Efelién si sentì stringere il cuore.
Avrebbe dovuto immaginarlo: per loro due, per lui e Ludwig, non c’era mai stata una sola possibilità di stare insieme.
Fin dal principio, si era trattato di una follia da ragazzini incoscienti.
Erano troppo diversi; vivevano in due mondi completamente contrastanti, dove la specie di uno odiava o dava la caccia a quella dell’altro, dove non avrebbero potuto vedersi nemmeno una volta senza mettere in pericolo la loro vita.
Era durata undici anni, e a ripensarci adesso, pareva davvero un miracolo che nessuno li avesse ancora beccati.
Efelién doveva essere grato di ritrovarsi ancora libero e al sicuro, doveva sentirsi felice per Ludwig e sperare che vivesse a lungo e realizzasse tutti i suoi sogni.
Doveva chiedere perdono per il peccato di essersi innamorato di un essere umano, e portare ogni singolo ricordo che aveva di Ludwig con sé, nelle profondità dell’oceano.
Avrebbe dovuto fare tutte quelle cose, crescere e diventare responsabile come suo fratello maggiore… ma in quel momento riusciva semplicemente a soffrire, soffrire così tanto che gli sembrava di morire.
Abbassò il capo e annuì una sola volta.
Bravo
Il maggiore gli batté qualche colpo sulla spalla magra e spigolosa, poi lo tirò verso il nonno.
Arriviamo!


Con la bocca spalancata e gli occhiali che pendevano da un orecchio, Alfred F. Jones se la russava della grossa sulla poltrona della sua postazione, nella stanza più alta del faro del Dornbusch.
Dove un tempo avevano occupato il posto la grande libreria, il mappamondo e la riserva di jenever del vecchio signor Fischer, adesso ronzavano incessantemente schermi e computer dall’aria molto costosa.
Su alcuni dei monitor danzavano incessantemente piccolissime variazioni di segmenti, come lo spettro di un elettroencefalogramma; su altri si potevano osservare i soggetti delle videocamere subacquee a ricerca di calore, come ipnotici fiori di colori fluo, e su altri ancora le riprese fisse di una grotta marina, una foresta di alghe o il fondale sabbioso e inquietante del mare.
Nella cabina del guardiano tutto taceva ed era immobile, a parte quel giovane americano profondamente addormentato, con una lattina di Coca Cola ancora stretta in una mano e il Nintendo 3DS abbandonato nell’altra.
Aveva appena cominciato a parlottare nel sonno, quando dalle cuffie del suo headset professionale uscì un rumore bizzarro.
« Roooonf… no Artie, non ce la voglio l’acciuga nel mio tramezzino… »
La morbida spugna dell’apparecchio emise una seconda frequenza, più lunga, più chiara, e il grafico azzurrino su uno degli schermi ebbe un picco di 50 Hz*.
« Tu e le tue mutande a donuts… »
Alfred si svegliò di soprassalto e la lattina gli cadde di mano, rovesciandosi sul pavimento e spargendo ovunque quel poco di liquido frizzante avanzato.
« Aah, che diavolo… » borbottò assonnato l’americano, raddrizzandosi gli occhiali e buttando il Nintendo sul divanetto contro la parete, « Che cavolo era quel suono? Queste stupide cuffie si sono già ro… »
I suoi occhi azzurri s’incollarono allo schermo luminoso del computer, a tutte quelle piccole lineette che facevano su e giù.
« Non è possibile… » esalò senza fiato.
S’incastrò l’headset nella testa, ruotò una manopolina e abbassò tre piccole levette del mixer principale.
Si premette le cuffie contro le orecchie e tacque.
Che cos’era?
Agghiacciante e lento, era il ruggito dagli abissi: Alfred poteva quasi vedere una sagoma enorme muoversi nell’oscurità vorticante, pinne fendere l’acqua infestata di particelle, occhi sporgenti e ciechi ruotare in orbite mollicce e una cavità piena di denti affilati spalancarsi nelle gelide profondità.
All’improvviso quel richiamo ebbe una vibrazione tale che il cuore nel petto di Alfred si fermò per lo spavento.
Lo spettrogramma sullo schermo crollò da 50 a 20 Hz, le cuffie presero a stridere e l’americano dovette levarsele.
Segnò col mouse il punto esatto della registrazione, lo copiò, lo incollò e spedì il file sulla posta del suo finanziatore russo, uno dei pochi che si era dimostrato interessato quanto lui a svelare il mistero delle sirene di Hiddensee.
Con dita che tremavano per l’eccitazione, scrisse velocemente un messaggio:

Signor Braginski,
questa mattina, alle quattro e cinque minuti,
l’idrofono autonomo, da me installato nei pressi della costa a sud-est dell’isola di Hiddensee, ha captato questo suono.

Potrei passare per un impulsivo se affermassi, senza alcuna ombra di dubbio, che si tratta di un suono di origine biologica.

Perciò, almeno per il momento, dirò solo che non assomiglia a niente che io abbia mai ascoltato in tutta la mia vita.

Forse abbiamo trovato qualcosa, laggiù in quelle acque.




CONTINUA…



Note:

Richiamo: Luvìs intende l’ecolocalizzazione, o biosonar, un sonar biologico usato da alcuni mammiferi.
Organi appositi emettono onde sonore focalizzate, che rimbalzano contro oggetti e altre creature, producendo eco in grado di creare una mappa mentale perfetta per muoversi nell’oscurità e cacciare.

50 Hz: l’hertz è l’unità di misura del Sistema Internazionale della frequenza.
In questo caso, 50 hertz è una frequenza ultrabassa, e 20 hertz tocca un picco a malapena distinguibile dall’orecchio umano.


Sììì ce l’ho fattaaaa! *festeggia suonando trombette e spargendo coriandoli ovunque*

Non credevo che sarei mai riuscita a pubblicare questo difficile capitolo, ci ho messo veramente i secoli per scriverlo.
Se ne stava lì a fare la muffa da mesi, e chi ha letto la mia oneshot Pruita sa di cosa parlo x_x

Ohibò, l’importante è avercela fatta, no?

Al solito, vi chiedo scusa per gli errori di battitura/grammatica, il finale l’ho scritto al volo e lo sto pubblicando subitissimo.

Ah, e scusatemi anche per avervi messo i link all’inizio del capitolo, e non alla fine, magari tra le note.
Suona un po’ di spoiler, ma immagino che non tutti i lettori si fermino anche sulle note dell’autore, quindi i link ve li spiaccico in faccia così, di prepotenza.
Non siete contenti? Incubi sonori per tutti! :D

No seriamente.
Io mi sono cacata addosso quando ho ascoltato quelle registrazioni.
Proprio io, che ho pure la fobia del mare e delle bestie marine, dovevo mettermi a scrivere una fic sulle sirene xO sono stupida…

Vi avverto subito che coi prossimi capitoli andremo accelerando di trama, perché ho già ricevuto qualche sollecitazione per la mancanza di Spamano e, soprattutto, voglio farvi soffrire il prima possibile °3°

Al prossimo capitolo, dove pubblicherò finalmente una nuova fan art! Mi mancava disegnare per le mie schifezze di fic :_3

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Capitolo 6
*** Caccia spietata ***


NOTA:
Vi lascio la fan art a fine capitolo, ma non guardatela prima di aver concluso la lettura.
Pericolo spoiler.



SING FÜR MICH

6
“CACCIA SPIETATA”




15 ottobre 2014




Il treno si fermò con un fischio stridulo e una valanga di passeggeri armati di ventiquattrore sciamò fuori dalle porte scorrevoli.
Ludwig seguì la folla lungo i binari rumorosi, superò i cinque livelli e i rimbombanti corridoi sotterranei, prese due ascensori e tre scale mobili; infine riemerse in superficie, tra il chiacchiericcio e l’ordinato avanzare di migliaia di altri suoi connazionali.
La stazione di Berlino Centrale, la gigantesca e perfetta Hauptbahnhof, era un magnifico edificio a salienti, ricoperto da un’arcata di vetro azzurro.
Colpita dai raggi pomeridiani del sole autunnale, la facciata pareva risplendere come uno zaffiro mistico.
Il ragazzo si guardò attorno a bocca aperta, completamente spaesato: tutto, intorno a lui, era enorme, pulito, al suo posto.
Non c’era una persona che non sapesse esattamente dove andare, cosa fare, come farlo in modo rapido e ineccepibile.
Blocchi di vetture lucidissime e autobus rossi si spostavano lungo grandi strade decorate da querce e pioppi domestici; i semafori scattavano con la precisione di un orologio svizzero, guidando mandrie di pedoni tra i labirinti di case dai tetti rossi e palazzi bianchi come il marmo.
In lontananza spuntavano le cime acuminate di torrette gotiche, lunghi cavalcavia sospesi sopra al canale Landwehrkanal, graziose barchette che attraversavano il lago Schlachtensee e grandi parchi fiammeggianti dei colori autunnali.
Gli accenti esotici dominavano l’aria della stazione, dove turisti e pezzi grossi in carriera si allontanavano trascinando enormi valige, coi costosi cellulari sempre appiccicati all’orecchio.
Ludwig dovette battere le palpebre un paio di volte, disorientato come un pesce nella boccia di vetro.
Niente ponticelli di legno, né boschi di abeti, né profumo di mare: a Berlino tutto era ordine, funzionalità, cemento e rombo di mezzi pubblici costantemente in movimento.
Ludwig si posò ai piedi la pesante valigia e fece per tirare fuori il cellulare, già pronto a farsi guidare da google maps, quando una voce gridò nella sua direzione, facendolo trasalire.
« Sei tu Ludwig Beilschmidt?! » gli chiese eccitato un ragazzo poco più vecchio di lui, scuro di pelle, con un paio di vivacissimi occhi verde foglia e un’aria latina che sprizzava da tutti i pori.
Abbagliato da quei denti bianchi, Ludwig annuì incerto e rispose: « Sì, sono io. Per caso lei conosce il professor Bonnefoy, dell’Università di Heidelberg? »
« Ma certo! È stato il prof a chiedermi di venirti a prendere, Ludwig.E non provare a darmi del “lei”! Guarda che ho soltanto un anno in più di te, sai? »
Tutta quella confidenza già al loro primo incontro? Che ragazzo strano… e aveva anche un accento buffo, scandito e poetico.
Un accento simile a quello di Feliciano.
Ludwig scrollò il capo, e quasi gli venne un infarto quando il ragazzo gli marciò incontro a braccia aperte.
« Finalmente ci incontriamo, compagno di corso! Il prof mi ha parlato tanto di te. Lui e tuo fratello maggiore erano amici d’infanzia, lo sapevi? »
« Ehm, scusami, non vorrei sembrarti maleducato… » intervenne il tedesco, « Ma chi saresti tu? »
« Che? Non mi sono ancora presentato? Mierda, ma dove ho la testa?! Hola, io sono Antonio Fernández Carriedo, uno dei tuoi coinquilini. » si presentò con una gran pacca sulle spalle quadrate di Ludwig, « L’altro è Kiku. Kiku Honda. L’ho lasciato a fare la guardia alla playstation 4: sia mai che ce la rubino, proprio ora che sto finalmente finendo la remastered di Skyrim. Adesso ti faccio vedere dov’è l’appartamento, così può presentarsi anche lui. Ah, lascia, te la porto io questa. »
Gli rapì la valigia e lo guidò attraverso vie piene di profumi di strudel caldi e negozi dalle luci sfavillanti.
Tra un metro e l’altro, Antonio gli indicava un buon ristorante dai prezzi abbordabili, un lavasecco che non riducesse i maglioni della misura di una Polly Pocket o un supermarket aperto fino a tardi, rivelandosi una guida estremamente logorroica.
Ludwig si chiese ansiosamente come avrebbe potuto studiare sodo, se sotto al suo stesso tetto viveva un tipo così casinista.
Poteva semplicemente sperare che quel Kiku Honda non fosse fatto della stessa pasta, o in alternativa poteva dire addio ai suoi progetti per la laurea più veloce della storia.
Raggiunsero un palazzo elegante e storico, nei pressi di un piccolo parco ben curato, dove la fermata dell’autobus si affollava di vecchietti con in braccio microscopici cagnolini pelosi e altri studenti universitari.
Ludwig si guardò attorno con attenzione, eccitato e preoccupato: quell’angolino di mondo sarebbe stata la sua casa per i prossimi cinque anni.
« … e di là c’è il supermercato dal quale ci riforniamo regolarmente. Abbiamo un calendario con i turni di pulizie, cucina e commissioni, d’accordo? Di notte puoi studiare finché ti reggono gli occhi, basta che dalle undici in poi spegni la luce e non fai rumore. Se vogliamo fare after, dobbiamo chiedere almeno ventiquattr’ore prima. Non per me o per te, ma per Kiku, che studia in un altro corso e c’ha orari ed esami molto diversi dai nostri. Comunque, di solito lui non ha problemi per una festicciola o un pigiama party. Vedrai, è una persona mooolto tranquilla, quasi non si capisce che è in casa. Ah, Kiku ha un gatto. Si chiama Tama ed è un Bobtail Giapponese. Non sei allergico, vero? »
Ludwig capì che il suo coinquilino aveva smesso di parlare quando gli puntò addosso quegli occhioni verdi brillanti.
« Uhm… no, non sono allergico. »
« Fiuuu, meno male! Scusami, mi ero completamente dimenticato di dire al prof di Tama e di fartelo sapere. Che guaio, come avresti potuto concentrarti per il nostro corso con uno starnuto sui libri ogni cinque minuti? » e rise solare, armeggiando con lo zaino a tracolla che portava addosso, « Ma dove avrò messo le chiavi… »
« Uhm, scusami se te lo chiedo… » butto lì il tedesco, « … ma quando dici “il nostro corso” intendi che siamo in classe insieme? »
Antonio gli scoccò uno sguardo sorpreso, le mani ancora affondate nella borsa, « Il prof non te l’ha detto? Bah, quel mangia-baguette, fa fare tutto a me! »
Si grattò la testa, un po’ imbarazzato, « Sai, io sono stato bocciato l’anno scorso, per un soffio. Accidenti alla Biologia Animale, non mi ricordavo cosa fosse l’opercolo… »
« Oh, capisco. Mi spiace che ti siano andate così le cose. » rispose Ludwig comprensivo, « Quindi anche tu stai studiando per diventare biologo? »
« Già. Io sono di un anno più vecchio, ma puoi anche non chiamarmi “senpai”, ahaha! Oh, ecco dov’erano le chiavi… » tirò fuori due mazzi e ne lanciò uno a Ludwig, « Questo è il tuo. Mi sono preso la libertà di farti un regalo di benvenuto. »
« Grazie. » commentò Ludwig, chiedendosi che cosa significasse quel portachiavi a forma di pomodoro.
« Allora, Ludwig, entriamo? » gli sorrise invitante Antonio, infilando la chiave nella serratura del pesante portone, « Kiku si starà chiedendo se siamo sopravvissuti al traffico della Stresemannstraße. Di domenica pomeriggio c’è il mercato e non si riesce a fare due metri senza essere importunati da qualche pescivendolo. »
Gli fece cenno di precederlo sulla rampa di scale di mattoni rossi, mentre lui si occupava di controllare la buca della posta.
Ludwig contò i gradini fino al terzo piano, cercò la seconda porta a destra e lesse i nomi sul campanello.

Fernández
Honda
Beilschmidt


Avevano già aggiunto il suo.
Antonio lo raggiunse con una mano aggrappata alla gola e un paio di buste infilate nell’elastico dei pantaloni.
« Coh… come faih…? » gli chiese asmatico, barcollando fino all’uscio e bussando come fece la madre di Quasimodo alla porta della Chiesa.
Gli aprì un ragazzo giovane, pallido come un fantasma e affascinante come un samurai del periodo Edo, con una matita infilata dietro l’orecchio e un paio di occhialoni a fondo di bottiglia sollevati sulla lunga frangetta nerissima.
« Antonio-kun, le tue chiavi… » esordì, ma lo spagnolo agitò una mano come per dire “non ora, sto morendo” e si trascinò all’interno.
Il giapponese gli scoccò uno sguardo di disapprovazione e fece un profondo inchino a Ludwig, « Ti prego di scusarlo, ha il fisico di un novantenne. Hajimemashite, io sono Kiku Honda e frequento il corso di Medicina e Chirurgia. Spero che ti troverai bene qui con noi. »
Educato, formale, conciso: quel Kiku già gli piaceva.
« Piacere mio. » annuì serioso Ludwig, stringendogli una mano.
« Prego, entra pure. »
Kiku chiuse la porta alle sue spalle e gli fece fare un giro dell’appartamento.
Vi era un balcone fuori dalla sala da pranzo, due camere da letto, un salotto che lo spagnolo aveva monopolizzato come “area svago”, un bagno e una cucina piccola e funzionale.
Non era neanche lontanamente spazioso oagiato quanto la sua villetta a Hiddensee, però si respirava un’aria particolarmente accogliente e rilassata.
Un po’ ovunque si potevano notare calzini appallottolati, cartoni della pizza vuoti, custodie di videogiochi, libri di testo e cartacce di merendine; un disordine che non poteva appartenere certo a quel piccolo orientale tranquillo, e Ludwig arricciò il naso con aria di rimprovero.
Un bel gattone nero a macchie bianche balzò giù dalla lavatrice nel bagno per andarsi a strusciare contro le sue caviglie.
Gli ricordava un po’ il trapassato norvegese del signor Fischer, così bonaccione e amichevole con qualsiasi estraneo.
« Da bravo, Tama, non importunare il nostro nuovo coinquilino. » lo rimproverò Kiku, spostandolo con un piede, « È buono, sai, lo abbiamo castrato. Aveva la brutta abitudine di fare pipì sul cuscino di Antonio-kun. »
« Questo perché il tuo gatto mi odia! » gli urlò lo spagnolo dal divano, e Kiku arrossì elegantemente.
« Ti mostro dove dormirai, Ludwig-san. »
« Ehi, perché a lui l’onorifico e a me il colloquiale?! »
Kiku ignorò le proteste di Antonio e aprì la porta di una delle due camere da letto.
« Spero non ti dispiaccia dormire con Antonio-kun. » e fece un cenno col pollice verso lo spagnolo semi-svenuto sul divanetto, « È per lo studio, sai. Tu e lui siete nello stesso corso di Biotecnologie e Scienze, quindi è molto probabile che farete gli stessi orari. Dico “molto probabile” perché in genere Antonio-kun passa il suo tempo a giocare alla ps4 e a leggere i miei manga senza permesso, quindi… »
« Kikuuuuu, ti sentooooo! » intervenne una voce dal salotto, « Non è vero che ti rubo i manga, imbécil! »
« E allora dov’è finito il numero cinque di “Black Butler”? E il due di “Nine Stones”? » rimbeccò Kiku, prossimo a perdere il suo solenne contegno orientale.
« Ah non so! Li avrai persi… »
« Nandato?!»
Il piccoletto lasciò Ludwig per precipitarsi in salotto, armarsi di un cuscino e tentare di soffocare Antonio, « Io non perdo mai niente, soprattutto gli esemplari rari! “Nine Stones” è un fumetto italiano, non si trova così facilmente in Germania… »
« Ahia! Vabenevabenevabene ho capito! Te li ridò, ma non mi uccidere! »
Ludwig accostò la porta e si lasciò cadere stancamente sul bordo del suo letto a una piazza, incastrato contro una delle pareti ricoperte di poster di famose modelle in bikini e cantanti pop.
Al suono della fatidica parola “italiano” il suo cuore si era stretto come in una morsa spinosa.
Chissà dov’era Feliciano in quel momento, chissà cosa stava facendo… chissà se sentiva la sua mancanza quanto Ludwig.
La settimana prima della partenza per Berlino era stata la peggiore di tutta la sua vita: ogni giorno sveglio alle cinque di mattina, a correre sulla spiaggia di Jeliel, pregando e sperando di rivederlo almeno un’ultima volta.
E ogni volta la delusione era disarmante, con la vista dello scoglio così orribilmente vuota, inusuale, sbagliata.
Non c’era più e mai più sarebbe tornato da lui.
Ludwig avrebbe dovuto farsene una ragione e andare avanti, diventare un biologo degno di questo nome e lottare per difendere lui e la sua splendida specie.
Era un cammino lungo e difficile, e sarebbe cominciato dall’indomani mattina.
« Ludwig, aiutamiiiii! » lo chiamò disperatamente Antonio, « Omicidio domestico! Invasione giapponese! Salva un compagno europeo! »
« Smettila di dire fesserie e va’ a fare spesa, che stasera vi cucino ramen e tempura. »
« Davvero?! Kiku, ti amo! »
« Ma non stavi gridando aiuto, un attimo fa? »
« Ludwig, mi accompagni al supermercato? Ohi, Ludwig, ci sei? Ahia! Tama, non mi attaccare i piedi, stupido sputa-boli senzapalle… »
Ludwig si asciugò gli occhi con impazienza e uscì dalla stanza, sforzandosi di assumere un’aria normale.
Cinque anni in quel manicomio sarebbero stati lunghi.


29 dicembre 2014




Erano le sei del mattino quando qualcuno bussò al faro di Hiddensee.
Alfred F. Jones si alzò con gambe incerte e caracollò fino alla porta.
« Mr. Braginski, welcome. » lo accolse con un cenno del capo, « È arrivato presto. »
Un russo alto un metro e ottanta, largo come un armadio a due ante e massiccio come un buttafuori entrò nella stanza, portando con sé il gelido soffio dell’inverno e una cupa aura minacciosa.
Si fece scivolare giù dalle spalle il pesante pastrano impellicciato e fradicio di neve fresca, si sfilò i guanti con i denti e si scostò la lunga frangia color cenere dai placidi, magnetici occhi color pervinca.
Buttò l’abito sul divanetto nell’angolo della stanza e batté qualche colpetto degli stivali sul pavimento, per liberarli dal ghiaccio e dal fango.
« Ho preso il primo volo disponibile. » rispose sorridente, « Visto la fretta che mi ha messo, ho dovuto lasciare a metà la mia riunione sul recap annuale delle azioni in Bielorussia. »
« Ne sono costernato. » rimbeccò Alfred, anche se non suonava affatto sincero, « Prego. » e gli mostrò una poltrona accanto alla sua.
Il russo si accomodò e Alfred alzò col telecomando la temperatura di una moderna stufa a muro.
Si lasciò cadere stancamente al suo posto e spinse verso il finanziatore un bicchiere pieno di un alcolico trasparente dall’odore fortissimo.
« Si riscaldi un po’ le ossa. Fuori si gela in questo periodo. » « La ringrazio. »
Ivan Braginski buttò giù un sorso di vodka e spense velocemente il cellulare.
« Allora, che cosa voleva mostrarmi? » cominciò poi, con quell’angelico sorriso fuorviante, « Al telefono mi era sembrato molto scosso. »
« Infatti è così. » rincarò Alfred, versandosi a sua volta un goccio di vodka, « In tutta la mia vita non mi era mai capitato di registrare una cosa simile. Più ci penso più mi viene da ridere. » scrollò il capo con un verso buffo.
Con l’aria innocente di un bambinone incuriosito, Ivan gli versò dell’altro vodka, « Jones, non l’avevo mai vista in questo stato. Cos’ha registrato? »
Alfred svuotò il bicchiere in un sorso solo.
« È qualcosa peggiore del richiamo? » chiese emozionato il russo, « Ha trovato loro tracce? Si sono fatte vedere, finalmente? »
Lentamente, riluttante, l’americano annuì.
Ivan stritolò il bicchiere pieno di vodka tra le grosse dita rovinate dal gelo.
Con gli occhi che brillavano sinistramente, sussurrò: « Mi mostri. »
Alfred si alzò in piedi, barcollò fino al divanetto, recuperò un portatile e lo posò con mani tremanti sul tavolo tra le due poltrone.
« Ieri notte, intorno alle tre. La numero B-76 ha registrato questo. »
Aprì un file con un doppio clic sul tastierino e girò il portatile verso il finanziatore.
Ivan aggrottò scettico le folte sopracciglia pallide e si fece più vicino allo schermo.
All’improvviso sbarrò gli occhi, stupito.
Una delle numerose telecamere subacquee aveva ripreso qualcosa di veramente interessante, una volta tanto.
Che cos’era?
Risultava difficile da distinguere nell’oscurità verdastra e vorticante del fondale marino, ma qualcosa, senza dubbio, aveva nuotato a pochissimi metri dalla videocamera.
« Sembrerebbe una coda. » osservò Ivan, massaggiandosi il mento, « Ma potrebbe trattarsi di una focena, o di uno squalo. »
Alfred fece un sorriso tirato: « Anch’io la pensavo così, finché non ho visto questo. »
Schiacciò un tasto per mandare avanti veloce e ingrandì il video a schermo intero, « Si prepari mentalmente, potrebbe avere uno shock. »
Il russo ridacchiò incredulo, ma il suo sorriso si congelò all’istante, quando vide quella testa.
Un profilo bizzarro, piatto e fastidiosamente familiare: non c’era altro modo di descriverlo se non “umano”.
Emerse dalla nebbia di sabbia e fanghiglia, una chioma si gonfiò nella corrente e uno sguardo scintillò nelle profondità.
La strana creatura, qualsiasi cosa fosse, ruotò su se stessa con un’agilità serpentesca, passò una seconda volta davanti al vetro della videocamera e si dileguò nell’oblio del mare con un colpo della grande pinna.
Ivan si alzò in piedi e afferrò lo schermo del computer, « Non ci posso credere! »
« A me non sembra più un semplice pesce. » infierì Alfred, pigiando un altro tasto per ripetere in slow motion quella frazione di secondo allucinante.
« Guardi attentamente: si vedono quasi le braccia e il volto. Sembra un essere umano, no? Ora, nessuno può mettere in dubbio che il video sia molto sgranato. Dopotutto, non è così semplice avere immagini d’alta qualità da questo tipo di apparecchiature. Però posso ancora mettere le mani avanti, e accettare teorie di foche grigie e beluga che sembrano teste umane se ripresi nel buio dell’oceano… » l’americano ebbe uno sbuffo strafottente, « Teorie che con le ultime riprese mi sembrano sempre più ridicole. »
« Non diciamo idiozie. » cinguettò il russo, recuperando faticosamente il suo tono amichevole e tranquillo, « Guardi quegli occhi, guardi quel naso! Non c’è il modo di schiarire l’immagine? »
« Sinceramente, avevo paura di farlo. » rispose cupo Alfred, « Dopo quel richiamo e queste riprese sto cominciando a spaventarmi. Per questo l’ho chiamata qui, in Germania. »
Aprì un programma dall’aria complicatissima e scrisse velocemente qualche comando sulla tastiera.
« Volevo farlo insieme a lei. Così, nel caso dovessi sentirmi male, ci sarà qualcuno pronto a soccorrermi. »
Cliccò una sola volta col tastierino, e il fermo immagine s’illuminò a giorno.
Ivan si lasciò cadere mollemente sulla poltrona e Alfred scoppiò in una risata folle e stridula.
Catturato nell’atto di voltarsi, Efelién apparve, sfocato e in bassa risoluzione, sul computer dell’americano.
« Non può essere… ma allora… » sussurrò il finanziatore, accarezzando lo schermo con la punta delle dita tremanti, « Lo guardi! È così simile a un essere umano! »
Alfred si passò una mano tra i disordinati capelli biondi, con l’aria distrutta di chi non ha dormito né mangiato per giorni.
« Io lo sapevo. Lo sapevo che c’erano. » sorrise emozionato il russo, « Da quando vidi quel giovane esemplare in Cina, durante l’estate della mia infanzia, non ho mai smesso di cercarle. Lo sapevo. »
Si voltò verso il socio, senza fiato, con gli occhi color mammola che bruciavano di ossessione, « Lo catturi. Non m’importa come, non m’importa quante risorse ci vorranno. Voglio che lo catturi e che lo porti da me. Vivo. »
L’americano annuì gravemente, pallido come un cencio.
Ivan si alzò in piedi, la vodka completamente dimenticata nel bicchiere; recuperò il cappotto e si avviò con passo imponente verso la porta.
« Riceverà un assegno ogni giovedì del mese, con la dicitura “fondi per la ricerca scientifica di Hiddensee”. Il banchiere non le farà domande, ci ho pensato personalmente. »
Alfred deglutì e non osò commentare.
Per quanto comodo gli facessero i soldi di quel russo fissato, non gli andavano particolarmente a genio i suoi metodi coercitivi, corrotti e ambigui.
Però, se accompagnarsi alla tirannia di quel potente e ricco uomo d’affari significava riuscire a catturare e studiare una vera sirena… ebbene, Alfred avrebbe stretto i denti e sopportato in silenzio.
« Mi tenga informato, Jones, e mi mandi il video sulla posta. »
« D’accordo. »
Ivan stava per sbattersi la porta della cabina alle spalle, ma all’ultimo momento si voltò verso il socio e gli scoccò uno sguardo penetrante, il sorriso che mai abbandonava il suo volto bonaccione.
« Ah, e non ne parli con nessun altro. Non ancora. »
Alfred esitò, ma solo per un istante, e annuì.
« Sarà fatto, Mr. Braginski. »
L’uscio si chiuse con un tonfo, ma l’aria nella stanza pareva ancora avvelenata dalla presenza nefasta di quell’uomo.
Alfred ebbe un sospiro esaurito e si lasciò cadere sul divanetto.
Una nuova specie meritava tutte quelle attenzioni, e l’americano non resisteva all’idea di poterla finalmente studiare, osservare da vicino, dare un senso a tutti quei racconti mitologici, a tutte le cose assurde che aveva visto e sentito nella sua carriera di Direttore di Ricerche Acustiche ad Harvard.
Tuttavia, l’insano interesse di Ivan Braginski andava ben oltre la semplice curiosità scientifica.
Diceva di aver avuto, da bambino, un contatto accidentale con una vera sirena.
Per lo shock la sua mente si era ritorta e deformata, creando un vero mostro, un pazzo con il viso d’angelo che sarebbe stato capace d’inseguire quelle pinne fino in capo al mondo.
Quale fosse il suo scopo, però, Alfred non riusciva proprio a immaginarlo.
Ne voleva una tutta per sé, ma perché?
Voleva farci degli esperimenti top secret per il governo russo?
Voleva lucrarci sopra per diventare ancora più potente?
O forse, semplicemente, voleva dimostrare al suo lato oscuro di avere sempre avuto ragione?
Sfinito, l’americano lasciò che le palpebre gli scivolassero irresistibili sugli occhi, la misteriosa creatura che ancora nuotava sullo schermo del computer, ignara dei terribili progetti che andavano costruendosi sopra la sua testa.


4 giugno 2015




« Ludwig… »
Una voce familiare lo stava chiamando.
Si voltò nella sua direzione, e qualcosa gli scivolò intorno alle gambe con un fruscio setoso.
« Vieni, Ludwig… vieni con me. »
Lo chiamava con un canto musicale, lo attirava come un assetato alla fonte, e Ludwig non poteva certo disobbedire.
Camminò sospeso in un vuoto galleggiante, azzurro e fresco: sembrava il sogno di un oceano pacifico e accogliente.
Di nuovo, qualcosa gli sfiorò i polpacci e poi scappò via velocissimo, con una risata d’acqua.
« Feliciano, sei tu? » lo chiamò Ludwig, allungando una mano in quella seta trasparente, « Lo so che sei tu. »
Una figura sinuosa gli nuotò incontro saltellando, elegante e allegra come un delfino, gli circondò la nuca con le braccia sottili e strofinò il piccolo naso contro al suo.
« Sono qui, Ludwig, sono tornato. Ti sono mancato? » fischiò Feliciano.
« Da morire. » singhiozzò Ludwig, le lacrime che sbocciavano e rotolavano lungo le guance rosse.
Gli allacciò le braccia sulla schiena abbronzata e lo stritolò con disperazione, enormemente sollievo.
« Dio, fa’ che non sia solo un sogno, ti prego. »
Dita gentili gli accarezzarono la nuca e i capelli.
« Certo che è un sogno, Ludwig… ma ciò non significa che non sia tutto vero. »
Ludwig ebbe una risata sconfortata e gli affondò il viso nel petto magro, respirando il suo profumo di sale e aghi di pino fino in fondo all’anima, baciando la sua gola e assaporando la sua pelle scura e liscia, lasciando scorrere le mani lungo il suo sedere e godendosi i muscoli sodi e slanciati della sua meravigliosa coda rossa.
« Sei così reale… » pianse, sollevando il volto e incrociando i suoi occhi d’oro, « Dimmi che non mi stai mentendo. Dimmi che non è un altro dei tuoi incantesimi. »
Feliciano sorrise, gli strinse delicatamente il volto tra le dita palmate e calò sulle sue labbra.
« Te lo dimostrerò. »

« Ludwig… »
Una voce molto diversa, e qualcuno che lo scuoteva per la spalla.
« Mmh? »
Feliciano e l’oceano azzurro scomparvero come vapore, quando il volto bruno e divertito di Antonio comparve nel suo campo visivo.
« Ti sei addormentato, scemo. »
Il tedesco staccò la guancia dal libro di testo e sbloccò la schermata del cellulare.
« Le quattro? E ancora non ho finito il capitolo… » sospirò con aria esaurita.
Tama entrò nella stanza come un re obeso e balzò subito sulle ginocchia del tedesco.
Antonio gli chiuse il libro e spense la lampada da scrivania, « Amigo, prenditi una pausa. Se continui così finirai col beccarti un infarto fulminante. »
« Ma a luglio ho il primo esame di Biologia Animale… »
« E allora? Anch’io ce l’ho, eppure mica vivo nell’ansia! »
« Già… » ghignò Ludwig, mentre metteva a terra Tama e riponeva ordinatamente fogli e libri nella grande libreria a muro, « Infatti verrai bocciato anche quest’anno. »
Uno dei cuscini del letto lo colpì in piena nuca.
« Ripetilo se ne hai il coraggio! »
« Ahia! Stupido, abbassa la voce: sveglierai Kiku. »
« Meglio, così può aiutarmi a legarti al letto e costringerti a dormire. »
Ludwig sbuffò scocciato, tirò giù altri tre libri da quattrocento pagine l’uno e tornò a sedersi stancamente sulla scrivania, « Parla quello che sta alzato tutta la notte a fumare spinelli e bere Tequila Sunrise comprata al Lidl… »
Questa volta riuscì a schivare il cuscino, che colpì la libreria, fece crollare un quintale di volumi e strappò a Tama un’espressione del tipo “questi umani”.
« Se hai finito di lanciarmi cose, vorrei prepararmi per l’esame di luglio, grazie. » sibilò gelido Ludwig.
« Aaah, Lud, di che ti preoccupi? » cantilenò spensierato Antonio, lanciandosi a volo d’angelo sul suo letto e ripescando il cellulare da qualche parte tra le lenzuola accartocciate, « Manca ancora un mese e mezzo! »
« Antonio, io sono stato ammesso all’università con un’accordanza speciale. » gli ricordò il tedesco, forse per la millesima volta, « Ho praticamente saltato l’ultimo anno del liceo, e se non voglio rimanere indietro devo studiare il triplo degli altri. »
« Ma che stai dicendo? Appena messo piede nella classe eri già bravo quanto tutti noi. Ti sono bastati due mesetti e tiè: ecco a voi il primo del corso. » sorrise Antonio raggiante, come se fosse stato fiero del suo fratellino prodigio.
Gli ricordava un po’ Gilbert; quella piattola, che chiamava Ludwig praticamente tutti i giorni.
Gli mancava da morire suo fratello, e anche Elizaveta.
Gli mancava il brusio del mare all’alba, l’odore di resina fresca che riempiva i boschi, la sensazione dei granelli di sabbia che scorrevano tra le dita, di soffici pinne scivolose e di rosse scaglie che facevano delicatamente presa sulla sua pelle…
« Ludwig… »
Il tono improvvisamente curioso di Antonio lo riscosse bruscamente dai suoi pensieri dolorosi.
« Che vuoi adesso? »
« Mi dici una cosa? Poi ti lascio studiare in pace, te lo giuro. »
Ludwig ne dubitava alquanto, ma sbuffò e lo invitò a continuare con un mugugno, mentre finiva quel goccio di caffè avanzato nella tazza e prendeva appunti sull’apparato respiratorio dei pesci.
« Chi è Feliciano? »
Il tedesco si strozzò con la bevanda e fu squassato da un attacco di tosse.
« F-Feliciano? »
« Sì, Feliciano. Continuavi a chiamarlo nel sonno. » butto lì lo spagnolo, giocherellando svogliatamente a Temple Run, con Tama compostamente raccolto sul suo stomaco.
Ludwig strappò rabbiosamente un fazzoletto dalla scatolina sulla scrivania e asciugò le chiazze di caffè dal suo prezioso libro, « Nessuno. »
« Oooh, davveeeero? »
« Antonio, non incominciare… »
« Fiato sprecato, Lud! Avresti dovuto ascoltarti: manco io davanti a Maria Clara*. »
Ludwig avvampò, « È s-soltanto un amico, okay? Adesso lasciami in pace. »
« Perché t’imbarazzi? Mica ho dei pregiudizi, io. »
« Ti ho detto che è soltanto un amico! »
Antonio abbassò il cellulare e gli lanciò uno dei suoi rari sguardi intensi, uno di quelli che facevano sentire Ludwig come se lo stesse passando sotto i raggi X.
« Un amico… davvero? Ludwig, ma chi credi di prendere per i fondelli? Stavi praticamente venendo, e sbavavi pure. »
Il tedesco sussultò e si voltò di scatto verso il compagno di stanza, « Io non stavo v… e comunque, a me non piacciono i… bah, ma che te lo spiego a fare?! »
« È tutto a posto, a me sta bene. » ripeté pazientemente Antonio, « Mi interessa molto di più sapere chi è del sesso che ha. »
Ludwig si rigirò stizzito e scarabocchiò qualcosa sul foglio con un po’ troppa energia, borbottando tra sé e sé.
« Allora, non me lo dici? » insistette suadente lo spagnolo, « Ti prometto che non lo dirò a nessuno. Nemmeno a Kiku. »
E che diamine avrebbe dovuto raccontargli?
“Guarda Antonio, puoi pure prendermi in giro, ma mi sono innamorato di una sirena. Un tritone, per la precisione. Ebbene sì, esistono e ti giuro che se ti azzardi a dirlo in giro, a metterle in pericolo, prendo i tuoi amati jalapeno e te li ficco su per il culo.”
« Dalla tua espressione incazzata oserei dire che è il tuo fidanzato. Ci ho preso? »
« Va’ a quel paese. »
« Ludwig… »
Il tedesco sospirò spazientito, posò la penna e si voltò verso Antonio, « Cosa vuoi che ti dica? »
« Tutto. » rispose lo spagnolo, allungandosi per accendere un piccolo ventilatore posato sul pavimento.
Ludwig arricciò il naso per quello spreco d’elettricità, ma non fece commenti.
« Quando fai così sei veramente stressante. »
« Lo so, ma che posso farci? » e gli fece un occhiolino eloquente, « Cosa direbbe il prof? Ah, l’amour! Giusto? Quindi smettila di fare il timido e raccontami tutto. »
Ludwig non rispose, pensieroso.
Otto mesi.
Conosceva Antonio e Kiku da otto mesi.
Erano brave persone, ma se Ludwig aveva fatto tanti sforzi per nascondere la verità su Felicia persino a suo fratello, perché mai avrebbe dovuto rivelarla a quei due?
Otto mesi, si disse amareggiato, non bastavano per poter rivelare un segreto così importante.
Scrollò il capo e tornò chino sul libro, « Non c’è niente da dire. Adesso lasciami in pace. »
Antonio si grattò la testa e scambiò un’occhiata confusa con Tama.
Era tipico di Ludwig evitare qualsiasi discussione sull’amore, e da che Antonio e Kiku lo conoscevano, non aveva portato a casa una ragazza che fosse una.
Sempre piegato su quei testi pesanti e infernali, studiava fino a tarda notte, mangiava, dormiva, cagava e poi studiava ancora.
Quante volte erano riusciti a convincerlo a prendersi la serata libera per una bevuta? Forse un paio di volte, ed era sempre finita con Ludwig rintanato in un angolino della discoteca a ripassare di nascosto gli appunti scaricati sul cellulare.
Era un tedesco all’antica, tutto doveri e perfezione, ma la sua fretta di laurearsi sembrava andare ben oltre la semplice passione per la biologia.
Era come se stesse seguendo un percorso già prestabilito, una corsa a ostacoli il quale traguardo lo avrebbe inevitabilmente abbandonato, se non fosse riuscito a raggiungerlo il prima possibile.
Forse aveva la ragazza a Hiddensee, la sua isola natale, che lo stava pazientemente aspettando per maritarsi?
Non sembrava un’ipotesi così tanto fuori dal mondo, per un tipo come Ludwig… ma allora, chi era questo Feliciano?
Nessun uomo chiamava un altro uomo con quel tono, e i sogni si sa, son desideri; inoltre, la totale assenza di riviste porno e manga ecchi la raccontava più lunga di qualsiasi altra prova.
Ludwig era innamorato perso, e Antonio non vedeva l’ora di scoprire chi fosse Feliciano.
Se ne rimase buono e tranquillo a messaggiare sul letto.
Intorno alle sei di mattina, la testa di Ludwig ciondolò in avanti e il ragazzo si addormentò ancora una volta, spalmato sullo schema dell’anatomia di una piuma.
Antonio bloccò lo schermo del cellulare, spinse giù Tama, che uscì dalla camera con aria offesa, e scese dal letto.
Non che non avesse mai rovistato tra la roba di Ludwig - la filosofia di Antonio era semplice: compagni di stanza? Quel che è mio è tuo e viceversa -, ma c’era sempre stato un posto dove non aveva mai guardato.
Il portafoglio di Ludwig se ne stava nella borsa di scuola, ed era uno di quei modelli molto grandi, funzionali e noiosi, esattamente come il suo proprietario.
Antonio lo prese con mani tremanti d’eccitazione, vi rovistò dentro e scartò cose normali come paypal, carta d’identità, banconote, scontrini della caffetteria dell’università e la tessera per il club di calcio.
Stava già per rinunciare, tanto lì dentro non sembrava esserci nulla d’interessante, quando un piccolo quadernetto sgualcito gli saltò all’occhio.
Ficcato in una delle numerose tasche interne del portafoglio-borsetta, aveva l’aria di essere stato nascosto per un qualche ignoto motivo.
Ludwig scelse proprio quel momento per russare rumorosamente, facendo trasalire Antonio.
Eccolo di nuovo con i suoi “Feliciano… Feliciano…” sussurrati a fior di labbra come un amante in astinenza.
Lo spagnolo si allontanò in punta di piedi e si sdraiò sul suo letto, tirandosi il lenzuolo sopra la testa come una tenda.
Quel piccolo quadernetto cadeva a pezzi, in mezzo alle pagine c’era qualche granello di sabbia bianca e alcuni fogli erano staccati dal centro.
Sembrava molto, molto vecchio, ed era chiaro che Ludwig lo avesse usato per tanto tempo, senza mai separarsene.
Eccitato e col cuore che batteva forte, come quando si ruba il diario del fratello maggiore, Antonio sfogliò a caso e cominciò a leggere.
Riga dopo riga, le sue sopracciglia color carbone si aggrottarono sempre di più, e la bocca gli ciondolò incredula.
« No, dai, non ci credo… » sbottò, strappandosi di dosso il lenzuolo e correndo in camera di Kiku.
Bussò con impazienza ed entrò ancor prima che l’assonnato giapponese potesse borbottare un “avanti”.
« Ohi, Kiku, sveglia. » lo chiamò, scuotendogli energicamente una spalla.
« Che succede…? Non mi ha suonato la sveglia? » chiese disorientato il giovane, tastando alla cieca sul comodino in cerca del suo cellulare.
« No, no, niente del genere. Guarda un po’ qua piuttosto. » e lo spagnolo si buttò sul letto del coinquilino, ficcandogli sotto al naso il quadernetto malconcio.
Dopo un enorme sbadiglio, Kiku sollevò l’oggetto tra il pollice e l’indice, un po’ come faceva il suo adorato L di Death Note, e cacciò un’occhiataccia di rimprovero all’amico: « Antonio-kun, hai di nuovo frugato tra la roba di Ludwig-san, vero? »
« Lascia perdere! Leggi un po’ che c’è scritto. » lo spronò impaziente lo spagnolo, « Dimmi che sono io troppo credulone oppure ci esco pazzo. »
Con l’aria di uno che disapprova con tutte le sue forze, ma al contempo vagamente incuriosito, Kiku si tirò su a sedere e cominciò a leggere gli appunti sbiaditi di Ludwig.
La sua reazione fu identica a quella di Antonio: dopo le prime righe, aggrottò la fronte e spalancò la bocca.
« Può mai essere…? » balbettò.
« Hai visto?! Hai visto, che strano? »
« Ludwig non sta scrivendo un romanzo fantasy, vero? » tentennò il giapponese, sfogliando il quadernetto dall’inizio alla fine.
Antonio scrollò energicamente il capo, « Non che io sappia, e vivo con lui ventiquattr’ore su ventiquattro. In classe prende appunti, a casa prende appunti, fuori non esce se non per andare a fare la spesa. Che poi, andiamo… »
Girò qualche pagina fino a uno schema delle branchie di Feliciano, « Guarda qua che precisione, quanti dettagli. E qui invece… » saltò gli appunti fino a una piccola nota scarabocchiata in un angolo.
“Castagnola rossa del Mediterraneo” « Lud, il nostro Lud, che scrive quattro parole su un argomento? Troppo strano da parte sua. »
« Non hai tutti i torti. » osservò pensieroso Kiku, « Ci sono pagine su pagine d’informazioni anatomiche e comportamentali, ma alcune cose sono lasciate completamente allo sbando. »
« Esatto. » continuò concitato Antonio, « Inoltre, spiegami questo. »
Gli indicò un nome annotato nella prima pagina.
« “Ferishiano”… » lesse Kiku, con un accento tutto orientale, « Che vuol dire? »
« Credo sia un nome italiano. Ma vuoi sapere la cosa più creepy? » sussurrò Antonio, gli occhioni verdi sbarrati nella penombra della stanza, « Qualche ora fa ho sentito Ludwig dire quel nome nel sonno. »
« Davvero? »
« Sì. Lo stava chiamando come fa il prof Bonnefoy quando incontra il tuo insegnante di Anatomia. Com’è che si chiama lui? Mathias? Maximillian? »
« Matthew Williams sensei? Ma… lo sanno tutti che tra lui e il professor Bonnefoy c’è qualcosa. » rispose turbato Kiku, « Vuoi forse dirmi… no, Antonio-kun, non è possibile. »
« E se invece fosse proprio così? » insistette Antonio, « Se Ludwig avesse trovato una vera sirena, e se ne fosse innamorato? »
Il silenzio cadde tra di loro, pieno di dubbi e di paura.
Alla fine, dopo una lunga pausa, Antonio chiuse il quadernetto e se lo infilò nella tasca dei pantaloni del pigiama.
« Cosa… cosa intendi fare adesso? » chiese titubante il giapponese.
« Mi sento in colpa a sequestrarglielo, ma voglio saperne di più. » rispose con decisione lo spagnolo, alzandosi dal letto.
Kiku esitò.
Non gli piacevano quelle cose meschine fatte alle spalle degli amici; soprattutto di Ludwig, con il quale aveva legato molto di più che con qualsiasi altro compagno d’università.
« E… cosa farai quando si accorgerà che gli è sparito il quaderno? » chiese a disagio, alzandosi a sua volta e seguendo Antonio in cucina.
Lo spagnolo si buttò su una sedia e si abbandonò contro lo schienale di legno, massaggiandosi la fronte che pulsava ferocemente, « Lo affronterò. Gli chiederò cosa significa tutta questa storia. »
Scoccò uno sguardo preoccupato a Kiku, mentre si affaccendava per preparare la colazione, « So che questo genere di cose non ti piacciono e non ti chiederò di sostenermi. Vorrei solo che non intervenissi, d’accordo? »
Kiku annuì gravemente e gli posò davanti una ciotola piena della tipica colazione giapponese, composta da nattō - fagioli di soia fermentati, conditi con salsa di soia e amalgamati nel riso bollito caldo -, una fetta di sgombro essiccato e una bella tamagoyaki salata - omelette di uova fritte, in quel caso ripiena di cipolle, erba cipollina e formaggio quark, in una variante tedesca -, dopodiché si sedette stancamente accanto al coinquilino.
« Stiamo parlando di Ludwig, questa cosa accadrà molto presto. Lo sai, vero? »
« Non importa. » ribatté cupo Antonio, « Devo sapere. »


Passarono due giorni, e una sera tranquilla lo spagnolo rientrò in casa dopo un giro veloce al supermercato.
« Kiku, Ludwig, ci siete? » chiamò, posando la busta sul tavolo e liberandosi subito della maglietta sudaticcia, « Ho preso i wurstel, le uova e il riso. Facciamo quella specie di cantonese fasulla? »
Kiku lo raggiunse in cucina con gli occhialoni da studio calati sul naso, « Bentornato, Antonio-kun. »
Lo spagnolo tentò subito un approccio molesto, passandogli un braccio intorno alle spalle e sussurrandogli in un orecchio: « Ti sono mancato, mio piccolo kohai? »
Kiku arrossì fino alla punta delle orecchie e lo spinse via con dignità, « Primo: non sono il tuo kohai, visto che siamo dello stesso anno. Secondo: non gradisco che mi vieni così vicino quando puzzi di sudore. »
Antonio scoppiò a ridere e si allontanò verso la sua camera da letto, « Ciò significa che se mi faccio una doccia potrò sbaciucchiarti quanto mi pare? »
« Un po’ di eterosessualità in più non farebbe male a questa casa. » gli rispose Kiku dalla cucina, mentre tirava fuori gli ingredienti e cominciava a lavare il riso.
« Pff, senti chi parla! » sbottò Antonio, aprendo la porta, « Quello che custodisce gelosamente tonnellate di manga yaoi! »
« Nani?! »
« Non è stato facile scovarli. Devo ammettere che il doppiofondo nel cassetto è stata un’idea genia… » ma lo spagnolo ammutolì, non appena si trovò davanti quella scena inquietante.
Spettinato, con la canottiera spiegazzata e gli occhi cerchiati come un folle, il tedesco aveva messo sottosopra l’intera stanza.
« Ludwig, ma che stai facendo? » gli chiese turbato Antonio.
Il coinquilino trasalì e si voltò di scatto.
« Antonio, sei tornato…? » scrollò il capo, strappò via un cassetto dal comodino e lo svuotò sul pavimento, « Scheiße, non lo trovo! Non c’è più, da nessuna parte… è assurdo, io non perdo mai niente! »
Sul volto di Antonio si dipinse la consapevolezza.
Serrò i pugni e chiese, con voce ferma: « Che cos’hai perso? »
« Un quadernetto. Un quadernetto vecchio e nero. L’hai visto? Per caso l’hai visto? » Ludwig rivoltò la borsa di scuola, tirò giù file di libri dagli scaffali e mucchi di vestiti dall’armadio.
Quando Antonio non gli rispose, il tedesco si fermò, si alzò lentamente in piedi e si voltò verso di lui.
« Hai visto il mio quaderno, Antonio? »
Kiku comparve timorosamente alle spalle dello spagnolo, che scambiò con lui un’occhiata d’avvertimento e rispose: « Sì. Sono stato io a prenderlo. »
Ludwig sbiancò, barcollò all’indietro e dovette appoggiarsi al bordo del letto.
« Ludwig… » cominciò Kiku, ma Antonio gli afferrò un polso.
Soppesò la reazione di Ludwig, e tacque, in attesa della sua prossima mossa.
Ludwig era visivamente instabile, gli occhi azzurri sgranati, il respiro accelerato.
Sembrava che stesse per svenire.
« Tu… tu l’hai… » deglutì e riprovò, « L’hai… l’hai letto? »
« Sì. » rispose Antonio, senza cedere terreno, « E l’ha letto anche Kiku. »
Il tedesco cercò il suo sguardo e il giapponese annuì appena, « È vero. » Le gambe di Ludwig cedettero, facendolo crollare sul materasso.
Era finita.
Un unico, semplice lavoro: badare a un dannato quaderno.
Non era stato capace di fare neanche quello, e se due cretini come loro erano riusciti a scoprire delle sirene, chi diavolo pretendeva di proteggere Ludwig?
Se potevano Antonio e Kiku, avrebbe potuto anche il mondo intero.
Alzò la testa di scatto: « È un progetto extrascolastico… »
« Ehi, Ludwig, falla finita. » lo interruppe arrabbiato Antonio, « Non insultare la nostra intelligenza. »
« I-io… no, davvero! Io non… »
Kiku spinse da parte Antonio e raggiunse l’amico sul letto, « Ludwig-san, è tutto a posto. » scoccò uno sguardo allo spagnolo, « Non lo diremo a nessuno. Vero? »
Antonio annuì, « Ci mancherebbe altro. »
Ludwig riprese a respirare, si piegò in avanti e si nascose il volto tra le mani che tremavano incontrollabilmente.
« Dio… grazie, grazie, grazie… »
« Shhh, calmati. » gli mormorò il giapponese, accarezzandogli la schiena, « Manterremo il segreto, eh? Quindi, va tutto bene. »
« Già. » si unì a loro Antonio, lasciandosi cadere sul letto e battendo qualche colpo sulla grossa spalla del tedesco, « Il tuo amichetto squamoso è al sicuro con noi. Rilassati. » fece una risata per rompere la tensione, « Ti verrà un’embolia. »
Ludwig stirò le labbra in un accenno di sorriso e respirò profondamente dal naso.
« Dunque… » ricominciò lo spagnolo, tirando fuori il quadernetto dalla tasca dei bermuda mimetici e riconsegnandolo al tedesco, « Credo proprioche tu ci debba qualche spiegazione, entiendes? »
Ludwig lo prese, lo accarezzò e annuì lentamente.
Sollevò il volto sfinito e fissò gli amici dritti negli occhi: « Giuratemelo. Giurate che qualsiasi cosa io vi dica, non uscirà da queste quattro mura. »
Kiku gli strinse un braccio con forza, in segno di lealtà.
« Non lo andrò a dire nemmeno al gatto. » ribatté Antonio, mettendosi nella stessa posizione del saluto di Shingeki no kyojin.
Tama entrò in camera proprio in quel momento, scoccò loro un’occhiata che voleva dire “insulsi umani, dov’è il mio cibo?” e lo spagnolo fece una bestemmia nella sua lingua nativa.
« Troppo tardi. »
Kiku ridacchiò e perfino Ludwig si lasciò andare a un sorriso sollevato.
« Va bene, stupido gattaccio, puoi sentire anche tu. »
Antonio lo chiamò con qualche colpetto di palmo sul materasso e il micio gli balzò sulle ginocchia, attaccando istantaneamente con le fusa.
« Sai, Lud, dopotutto io e te diventeremo colleghi. » disse lo spagnolo dopo un po’, « Se ti sta bene, potremmo studiarle insieme. Mi ha sempre affascinato il mito delle sirene. »
Kiku annuì energicamente, « È un’idea meravigliosa. »
Ludwig si strofinò gli occhi, « Sì, magari… »
Strinse il quadernetto tra le dita e si fece coraggio, « D’accordo. Vi racconterò tutto. »


17 novembre 2015




« Hello? »
« Arthur, sono Alfred. »
« You fucking bloody bastard, com’è che ti fai sentire soltanto adesso?! » lo salutò il collega inglese dall’altra parte del telefono, col suo dolce e soave tono inviperito.
Alfred sospirò, « Hai ragione, mi dispiace. Sono stato molto impegnato in questi ultimi mesi, non ho avuto tempo manco per pisciare. »
« Shit, vuoi dire che ci sono state delle novità? » sbottò Arthur, dimenticandosi di maltrattarlo, « Non ne avrai mica presa una? »
L’americano sbuffò frustrato e si lasciò cadere stancamente sul divanetto.
« Dalla tua reazione oserei dire di no. »
« Eddai, piantala. Ci sono fottutamente vicino. »
« Ma non mi dire… »
« Dico sul serio. Arthur, mi serve il tuo aiuto. »
« Immaginavo. Ormai mi chiami soltanto per lavoro. »
Alfred sospirò pesantemente, « Ti ho detto che mi dispiace. Braginski mi sta col fiato sul collo, e se venisse a sapere che conosci la ricerca mi farebbe impacchettare in una cassa di legno e spedire in Madagascar. »
« Il sogno di una vita. »
« Arthur, non sto scherzando. Quel russo è malato. »
« Ma che vuoi che ti faccia? Senza di te non potrebbe pescare nemmeno una conchiglia senza farsi inseguire fino in capo al mondo dalla marina militare tedesca. Ha le mani legate. Quindi, se vuole portare avanti questo benedetto progetto, dovrebbe starsene zitto e fermo e lasciarci lavorare in santa pace. »protestò offeso l’inglese.
« Beh, non credo proprio che sia legale quello che stiamo combinando qui a Hiddensee. » osservò ironico Alfred, « Per questo Braginski mi ha imposto il silenzio. Teoricamente dovrei fare tutto da solo, ma di certe cose proprio non me ne intendo. »
« Ad esempio? » tagliò corto Arthur, in tono annoiato.
« Ad esempio il comportamento dell’ordine Mammalia. »
Dall’altra parte del telefono, l’inglese scoppiò in una risata canzonatoria: « Holy shit, Alfred, non vorrai venirmi a raccontare che le tue sirene sono mammiferi, vero? »
L’americano si alzò in piedi, cliccò un paio di volte sul tastierinodel portatile e si allontanò svogliatamente verso il frigobar nell’angolo della stanza, « Sapevo che non mi avresti creduto facilmente. In effetti, nemmeno io avrei potuto crederci senza averlo visto con questi stessi occhi. Perciò ti ho spedito i file più succulenti degli ultimi mesi. »
« Uhm… cosa intendi con “succulenti”? » chiese preoccupato l’inglese, « Se hai intenzione di farmi vedere qualche porcata di video in bassa risoluzione dove salta fuori una mano palmata dal nulla che si spiaccica sul vetro della telecamera, beh… puoi scordartelo. »
« Arthur… » sospirò Alfred, mentre tirava fuori una bottiglia di Fanta e un KitKat dal frigobar, « Questa è una ricerca vera, non un fake caricato su youtube. La questione è terribilmente seria e pericolosa. Ho davvero bisogno del tuo aiuto. »
Fece una pausa.
Dall’altra parte del telefono, si udì un lieve fruscio.
« Cosa faresti senza di me? » gongolò Arthur, « D’accordo, yankee, ma prima voglio vedere il materiale raccolto. Non posso aiutarti se non so di che cosa stiamo andando a occuparci. »
« Va benissimo. »
« Attacca ed entra su Skype. Ci rivediamo lì. »
La chiamata s’interruppe.
Alfred ebbe appena il tempo di bere un sorso scoppiettante della sua Fanta, dare un morso al KitKat cremoso e aprire il programma sul portatile, che davanti agli occhi gli apparve una schermata blu scuro, con la foto profilo di Arthur che facevail segno di vittoria accanto a una guardia reale inglese.
Premette sulla cornetta e le due webcam si collegarono laggando.
« Sei orribile. » lo accolse l’inglesino con aria di superiorità, « Per quante ore consecutive ti sei messo a spiare pescioni nell’oceano? »
Alfred sollevò un sopracciglio biondiccio e dette un altro morso al cioccolato, « Hi, Artie. Tu invece sei sempre bello. »
Arthur fece un versetto stizzito col naso e gli puntò addosso una stilografica di marca Mentmore, « Sta’ fermo dove sei, guardo i video al volo e sono subito da te. »
Cliccò col mouse e nei suoi grandi occhi verdi si rispecchiò lo schermo del suo pc, « Ci sono anche dei file audio? » ridacchiò scettico, « Cos’è, le hai beccate mentre cantavano “In fondo al mar”? »
Alfred non commentò. Ci avrebbe pensato la realtà a fargli passare la voglia di scherzare.
« Arthur, solo un consiglio. »
« Cosa? »
L’americano ghignò.
« Tieni il volume basso. »
Fu esilarante osservare la sua espressione che mutava passo dopo passo, i suoi tratti sciogliersi nella paura e nell’incredulità, la pelle sbiancarsi e gli occhi spalancarsi.
A un certo punto sussultò: doveva aver ascoltato il richiamo registrato quella fatidica notte.
Si lasciò scivolare le cuffie sul collo sottile e balbettò qualcosa rivolto alle proprie ginocchia.
« Artie, stai bene? »
« Pollici… e naso? E il bacino rivolto in avanti. Come se un tempo… no no no, impossibile. Anfibi e rettili d’accordo, ma questi sono come scimpanzé acquatici… »
« Arthur. »
« Eh?! » saltò su come punto da un calabrone, spaventato, disorientato.
« Stavi parlando da solo. » gli disse Alfred in tono morbido, « Qualsiasi considerazione tu abbia da fare, ti prego di farla anche con me. »
Arthur sbatté le palpebre e parve riprendersi molto faticosamente.
« Oh, sì… hai ragione. M-mi dispiace. » « Ti dispiace per cosa? »
« Per non averti creduto. »
L’americano fece il gesto di brindare con la bottiglia di Fanta, « Neanch’io credevo alle tue fatine, da piccoli. Ti ricordi? »
« For God’s sake, Alfred, quello era un gioco tra marmocchi! » proruppe Arthur, « Questo è molto diverso! Ma ti rendi conto di che cosa hai registrato?! »
« È per questo che quel pazzo maniaco del mio finanziatore vuole che gli riempia l’acquario il prima possibile. » commentò aspro l’americano, « Ed è per questo che mi serve il tuo aiuto. »
Arthur si passò una mano tra gli impeccabili capelli dorati, si slacciò il papillon del gilet di tweed e si abbandonò sullo schienale della sua poltrona di pelle.
Già era possibile leggere sul suo volto l’esaurimento nervoso che stava portando via Alfred.
« Non lo so, Al. Questa è una faccenda molto seria. »
« Io ti avevo avvertito. » ribatté Alfred, « Si può sapere che ti aspettavi di vedere? »
« Non… non lo so, che diamine! La carcassa mezza decomposta di un qualche cefalopode irriconoscibile. Il canto di una balena scambiato per qualcos’altro. Anche la punta di una lancia conficcata in un tonno mi sarebbe andata bene… sono cose che capitano, no? Sono cose spiegabili! Ma non questo. Cristo santo, Alfred, non questo! »
Lo fissò sconvolto, nella webcam.
« Si può sapere cosa ne vuole fare un riccone come Braginski? »
« Arthur. » il tono dell’americano si fece improvvisamente pungente, minaccioso, « Non posso dirti più di così. Ti ho già detto e mostrato fin troppo. »
Profondamente a disagio, l’inglese si abbracciò le spalle, come se un brivido gelido gli fosse scivolato lungo la spina dorsale.
Alfred si avvicinò allo schermo e mormorò nella webcam: « Sarebbe un problema se ti confidassi che stiamo organizzando una battuta di caccia in acque non consentite, capisci? »
L’inglese s’immobilizzò, prese la stilografica e con dita tremanti cominciò a scrivere qualcosa su un foglietto di carta.
« Mi metterei nei guai se mi lasciassi sfuggire che tutte le attrezzature per contenerne una sono pronte, e che l’unica cosa che ci manca è una trappola per attirarla. »
Gli occhi verdi di Arthur si sollevarono sull’americano, sbarrati e inorriditi.
« Sai già dove trovarle? »
« Le ho tenute d’occhio per un anno intero. Sempre gli stessi tre esemplari: un gruppo famigliare, probabilmente. Un adulto e due giovani. Uno dei due si avvicina regolarmente alla costa, ma non esce mai in superficie. »
L’inglese si massaggiò il labbro inferiore col cappuccio della penna, « Il momento in cui è più vulnerabile! In acque poco profonde sarà svantaggiato. Intendi catturarlo in uno di quegli appostamenti, vero? »
« Se ci riesco. » incalzò Alfred, « Si ferma sempre nello stesso punto, in una baia sabbiosa a sud del faro. Ho provato non so quante volte a raggiungerlo con il motoscafo, ma tempo che lasciavo il porto di Kloster e già era scappato via. Mi serve una trappola. »
« Devono avere un ottimo udito. » osservò affascinato Arthur, « Shit, non sarà facile, Al. »
« Fa’ tutto quello che puoi, usa tutto quello che conosci. Purché non lo uccida. »
Arthur annuì, immerso in terribili pensieri.
« Quanti uomini hai a disposizione? »
« Cinque. »
« Ma non dovevi lavorare da solo? » osservò beffardo l’inglese.
« Braginski sa come farti passare la voglia di cantare. Sono tutti schiavetti suoi, ben corrotti o ben ricattati. »
Arthur scrollò il capo, « Bloody hell, in che razza di schifo sei andato a cacciarti, Alfred… »
« Non avevo altra scelta. » si difese l’americano, « Tu non capisci. Sei un topo di biblioteca, un mago del computer, un nerd sfigato che vive col culo attaccato alla sedia. Non potrai mai comprendere il mio desiderio di prenderne una con le mie stesse mani. »
Arthur lo fissò a lungo, ed era come se un po’ lo stesse compatendo.
« No, infatti, non capirò mai. Dal mare vengono e nel mare devono restare. Siamo troppo diversi, da questo punto di vista. » alzò le mani in segno di resa, « Però condivido la voglia irrefrenabile di studiarle. Quindi d’accordo. Ti aiuterò a preparare una trappola. »
Alfred annuì con un cenno secco, sfinito, sollevato.
« Artie, non serve certo che ti spieghi cosa accadrebbe se quel materiale e questa conversazione dovessero essere rintracciati, specialmente dai tedeschi. »
Arthur fece un gesto spazientito, come per dire “per chi mi hai preso?” e scrisse qualcos’altro sul foglietto di carta, « Parlando di cose serie: mi serve una lista completa delle attrezzature che hai a disposizione. Io vedrò di fare quello che posso con quel che hai tu, d’accordo? »
« Non ci sono problemi. Il russo… » cominciò Alfred, ma l’inglese troncò subito la cosa sul nascere.
« Niente materiale illegale che arriva dall’estero. Sarà già abbastanza difficile fare del bracconaggio in Germania. Intesi? »
Arthur afferrò lo schermo del computer, come se potesse stringere il volto di Alfred tra le mani, « Non devi fare cazzate. Una sola mossa falsa e siamo tutti fuori. »
Bracconaggio di specie sconosciuta fuori dalla stagione di pesca, in acque non autorizzate con veicoli non brevettati, in un paese rigido come la Germania.
Suonava dannatamente pericoloso, ed eccitante.
Alfred annuì e gli fece un saluto militare.
« Let’s do it, mate. »


8 gennaio 2016




Ludwig scrollò velocemente la pagina online del Bild-Zeitung*, gli occhi che cascavano sulla tastiera del pc, Tama che gli faceva le fusa sulle gambe addormentate e la puzza di uomo che non si lava da tre giorni ben presente nelle narici.
Antonio russava felicemente, col volume dieci di One Punch Man, rigorosamente rubacchiato a Kiku, spalmato sulla faccia a mo’ di mascherina per dormire.
La porta della stanza si aprì con un quieto cigolio, il giapponese entrò in punta di piedi e posò una mano fine sulla grossa spalla del coinquilino tedesco.
« Oh, ciao Kiku. » lo salutò sfinito Ludwig, strofinandosi gli occhi così energicamente da farseli lacrimare.
Tama spalancò la boccuccia baffuta in uno sbadiglio enorme, saltò giù dalle ginocchia crucche e andò a strusciarsi svogliatamente contro le caviglie esili del padrone asiatico, per poi allontanarsi verso la sabbiera fuori in balcone, mulinando il suo mozzicone di coda nera.
« Non vai a riposarti? » gli chiese premuroso Kiku, a bassa voce per non svegliare Antonio, « Dopodomani hai l’esame di Scienze Naturali, no? Il professor Bonnefoy ci resterà male se non prendi 30 e lode. »
Ludwig sbuffò, « Non ti ci mettere anche tu, Kiku. Mi ha già chiamato mio fratello quattro volte, ed è dovuta intervenire Elizabeta per farlo smettere. »
Il giapponese ridacchiò, « Si preoccupa che tu riesca nel tuo sogno. È un bravo fratello, no? »
« Sì, certo. Ma ciò non toglie che sia anche un rompiscatole. »
Antonio mugugnò qualcosa nel sonno, qualcosa che suonava terribilmente come “Maria, te lo faccio assaggiare io un buon churros”, e i due amici gli rivolsero uno sguardo affettuoso.
« Allora, che cosa ti tiene sveglio a quest’ora, se non i tuoi soliti venti ripassi? » ricominciò Kiku, sedendosi sulla poltrona di Antonio e scivolando sulle rotelle accanto a Ludwig.
« Feliciano. » rispose lui, ricominciando a scrollare la pagina.
« Ci sono novità? » gli chiese il giapponese, improvvisamente serio.
Ludwig arrivò fino in fondo alle notizie del giorno, gli occhi rossi e gonfi che scorrevano ogni più piccolo e insignificante titolo.
Alla fine emise un lungo sospiro sfibrato: « No. Ancora niente. »
« Beh, è una buona cosa, no? Significa che si sta nascondendo bene, che non sta rischiando. »
« Certo, certo… »
Kiku osservò la sua ampia fronte aggrottata.
« Ludwig-san, ormai ti conosco fin troppo bene. Tu sei preoccupato. Preferiresti quasi che trapelasse qualche notizia, anche la più banale, tanto le altre persone non capirebbero. »
Al suono di quelle parole, il contegno impeccabile che Ludwig era solito ostentare si spezzò dolorosamente, mettendo a nudo le sue lacrime, le ferite che si riaprivano ogni giorno, l’aria distrutta di chi non ha mai smesso di sperare.
Si piegò in avanti e seppellì il volto in una mano, « Mi sento un mostro, Kiku. Voglio che stia nascosto, che non metta mai neanche la punta del naso fuori dal mare… e al contempo vorrei che qualcuno lo vedesse, che i giornali ne parlassero, che mostrassero la sua foto. Vorrei sapere se sta bene, quanto è cresciuto, se si ricorda come parlare, o che sapore abbia il cioccolato. Vorrei sapere se si è trovato una compagna, se ha già avuto dei piccoli, se gli manco, o se mi ha già dimenticato. »
La sua ampia schiena venne scossa dai singhiozzi, le lacrime gocciolarono tra le dita.
Dietro di loro, Antonio russava ignaro e fuori dal balcone Tama grattava energicamente nella sabbietta.
« Co-come posso pensare una cosa del ge-genere? » Ludwig si morse a sangue il labbro per trattenersi, « Sono un e-egoista. »
« Non è così. » lo interruppe Kiku, forse un po’ duramente, « È un sentimento umano. Vorresti soltanto rivederlo, ma non intrappolato. »
« No… mai, mai, mai. »
Kiku gli accarezzò la schiena, cercando di fargli un po’ di coraggio, « Io lo so quel che si prova, Ludwig-san. Quando ti manca da morire qualcuno, un amico o un amante che sia, e sapere di non poterlo raggiungere. »
Gli strinse una spalla con forza: « Ma devi essere forte e resistere. Arriverà il giorno in cui sarai pronto, e allora potrai tornare da lui. »
« Kiku, ve l’ho raccontato… lui mi odia. »
« No che non ti odia. Ti ama ancora, e sente la tua mancanza almeno quanto tu senti la sua. Ti sta aspettando in cima a Jeliel, e non vede l’ora che tu torni a prenderlo. »
Il tedesco ebbe un singulto e deglutì, « Come fai a saperlo? »
Il giapponese sorrise appena, eppure apparve più luminoso di un astro, « Me lo sento. »
Ludwig se ne rimase zitto per un bel pezzo.
Alla fine si strofinò un polso sugli occhi e si sforzò di riprendere il controllo, « Ti prego di scusarmi. Non è da me crollare in questo modo. »
« Non importa. » Kiku gli fece un occhiolino complice, « Non dirò niente ad Antonio-kun. »
« Mrmblrmlbmhbm… dirmi cosa…? » mugugnò lo spagnolo nel dormiveglia, sbavando.
« Ehm… che Maria Clara-chan voleva un appuntamento con te. » buttò lì Kiku, scambiando uno sguardo divertito con Ludwig.
Antonio grugnì soddisfatto e abbracciò il cuscino, una delle lisce cosce abbronzate che faceva capolino dalle coperte, « Ditele che arrivo… appena ho finito coi pomodori… roooonf… »
Kiku ridacchiò a bassa voce, si alzò dalla poltrona e fece per andarsene.
Ludwig lo afferrò per un polso e mormorò ai suoi piedi, troppo imbarazzato per poterlo guardare in faccia: « Grazie. »
Il giapponese annuì, semplicemente.
« Ora cerca di riposare, Ludwig-san. » e uscì dalla camera, chiudendosi piano la porta alle spalle.


20 febbraio 2016




Un allarme perforante lo svegliò di soprassalto.
Alfred rotolò giù dal divanetto, si trascinò fino al tavolo e aprì il programma delle videocamere subacquee.
« Eccolo… »
S’incastrò il cellulare tra un orecchio e la spalla, scrisse velocemente qualcosa sulla tastiera del portatile e pregò in tutte le lingue del mondo che funzionasse.
« Avanti, Arthur… rispondirispondirispondi… »
Una delle videocamere a infrarossi aveva captato la sua pinna fendere l’oscurità delle acque basse: come ogni giorno, si era avvicinata alla costa.
« Pronto? »
« Arthur, finalmente! È qui. »
« Cosa?! Holy fucking shit… ce-cerchiamo di non perdere la testa, okay? Abbiamo una sola occasione. »
Dall’altra parte del cellulare, Arthur respirò profondamente: « Non fallire, Al. Se non ci riusciamo oggi, non lo prenderemo mai più. »
Alfred schiacciò un tasto con rabbia, strappò via il suo cappotto dallo schienale della sedia e afferrò la chiave del peschereccio.
« I’m on it. »
Il segnale arrivò tempestivo a tutti e cinque i suoi aiutanti, e quando Alfred li raggiunse col fiatone sul molo di Kloster, lo stavano già aspettando ansiosi.
« Capitano, è a trecento metri dalla costa. » lo informò uno dei più robusti, un cubano col sigaro in bocca.
« Perfetto. » ansimò l’americano, rallentando sulla passerella di legno cigolante, « Montiamo sulla Rosa dei Venti. »
Si trattava del peschereccio d’altura* fornitogli da Ivan: un bestione di metallo bianco dal muso allungato, un ponte spazioso e la cabina dei comandi sistemata al secondo piano.
Un braccio meccanico e una gru si stagliavano contro il cielo invernale, come a voler suggerire qualche intento malvagio.
Gli uomini si disposero intorno al parapetto e attesero, parlottando a bassa voce tra di loro.
Era ancora notte fonda, il mare era talmente nero da mescolarsi perfettamente con la volta priva di stelle.
Spirava un vento crudele e gelido, qualche fiocco di neve scivolava vorticando dalle nubi e una fitta nebbia spettrale galleggiava a pelo dell’acqua.
Era spaventoso.
I bracconieri continuavano a scrutare l’orizzonte inutilmente, come se temessero di veder saltare fuori qualcosa da un momento all’altro, pronto ad afferrarli, a farli cadere dalla barca, a trascinarli con sé nell’oblio.
« Mantenete la calma. » li riprese in tono aspro Alfred, « Non dobbiamo fare rumore. »
In un qualche modo, nebbia e freddo sembravano aver assorbito ogni più piccolo suono: non si udivano più i larici e gli abeti frusciare, i gabbiani starnazzare sugli scogli semisommersi, il mare lamentarsi mentre si ritorceva tra le onde schiumose.
Alfred si strinse nel collo impellicciato del cappotto, senza mai staccare gli occhi dal radar nella cabina di controllo.
« Capitano, è a cento metri. » saltò su un giovane finlandese terrorizzato.
« Väinämöinen, prendi i bengala. Aspettiamo il segnale. »
Nel radar, un piccolo pallino luminoso si avvicinò lampeggiando.
Il cubano si sporse dalla ringhiera del tetto, scandagliando quell’oceano di nebbia soffocante, « Non si vede niente! »
« Cinquanta metri, Capitano! »
“Che diavolo stai aspettando, Arthur?!” pensò angosciato Alfred, sibilando all’equipaggio: « Fate silenzio. »
Il pallino arrivò a sfiorare l’epicentro del radar, le acque nere accarezzarono i fianchi della Rosa dei Venti e il segnale di Arthur, finalmente, fiammeggiò dall’altra parte del porto, nella piccola baia sabbiosa a sud del faro.
« L’ha visto! Accendete il sonar! »
Il giovane finlandese fece partire il pesante apparecchio lamentoso, diffondendo a bassissima frequenza un richiamo molto simile a quello che aveva sconvolto l’americano, due anni prima.
L’eco scosse il fondale, seducente, terrificante, ingannevole; viaggiò rimbalzando da uno scoglio all’altro, fino a sbattere contro un lungo orecchio cartilaginoso.
Il lavoro di Arthur era stato fine e spietato, ma che fosse sufficiente per attirare una creatura del genere… beh, lo stavano per scoprire.


Efelién s’immobilizzò, sgranando gli occhi nell’oscurità verdastra.
Qualcuno lo stava implorando, con un lungo urlo sofferente.
Chiunque fosse, era incredibilmente vicino: giusto qualche colpo di pinna più a ovest.
Nell’udire quell’atroce richiamo il giovane tritone si acquattò su se stesso, spaventato, tremante.
Aveva un’intonazione conosciuta ed era sicuramente una voce di famiglia, eppure c’era qualcosa di strano.
Luvìs?
Chi altri avrebbe potuto essere?
Efelién si spinse insicuro in quella direzione, fendendo l’acqua un po’ a zigzag, sondando con le dita e ruotando le orecchie a ogni vibrazione.
Fischiò di nuovo.
Luvìs, sei tu?
Davanti a lui si stagliò una grossa sagoma nera, una specie di balena allungata che galleggiava fuori dalla Grande Madre.
Che cos’era?
Efelién si fermò bruscamente, ma era già troppo tardi quando capì.


« È qui! È sotto di noi! »
« Calate le reti! »
Uno scroscio assordante spezzò il silenzio della notte, quando le corde affondarono nel mare.
Qualcosa si agitò forsennatamente nelle acque intorno al peschereccio, schizzi alti tre metri inondarono il ponte e accecarono i suoi uomini urlanti.
« Capitano, è nella rete! »
« Lo abbiamo preso! »
Alfred si sporse oltre al parapetto e li incitò, col cuore che sembrava scoppiargli: « Well done! Adesso tiratelo su! »
Col cubano in testa, i cinque uomini si disposero tre da un lato e due dall’altro, afferrarono le pulegge e sollevarono un centimetro alla volta la pesante rete aggrovigliata, a ritmo di “Issa! Issa! Issa!”.
Qualunque cosa avessero pescato, stava lottando con tutte le sue forze, e sembrava anche parecchio furiosa: bastarono infatti un paio di contorsioni per strappare le corde umide dalle loro mani sbucciate, mandandoli uno dopo l’altro a scivolare sul pavimento bagnato e a sbattere sulla ringhiera.
« Merda! Capitano, ci sta sfuggendo! »
Dagli anelli intrecciati sbucò graffiando una mano palmata.
Fu una visione da incubo.
Come colpito da un fulmine, Alfred si lanciò fuori dalla cabina di comando, sul ponte, a tirare insieme al suo equipaggio.
« Ricompattatevi! Puntate i piedi contro al parapetto! Quelli dietro issano e quelli davanti inchiodano! Forza, non lasciatelo scappare proprio adesso! »
Un urlo straziante fece gelare loro il sangue nelle vene, la rete dondolò come un pendolo impazzito, sballottata da quel peso che mordeva e graffiava nel disperato tentativo di liberarsi.
Quando la zavorra toccò il braccio trainante del montacarichi, Alfred mollò la presa e corse a sciogliere i nodi della gru.
« Aprite la rete! » comandò, calando il cavo d’acciaio.
Gli uomini allentarono le corde e il tramaglio si schiantò sul ponte, aprendosi in mezzo a loro.
Quel che ne uscì si agitava come un delfino in agonia, con lo stesso fischio raccapricciante di poco prima, avviluppato negli anelli, sbattendo la coda e sollevando una cortina di spruzzi.
« Svelti, prima che salti! » urlò il cubano, strattonando la rete per trascinarlo lontano dal parapetto.
« Oi jumalani… » sussurrò scioccato il giovane finlandese, « Ma che cos’è…? »
La creatura si sollevò sulle braccia e tentò di strisciare verso la ringhiera, gli occhi fuori dalle orbite per la paura.
« Bloccatelo! Bloccatelo! » urlò Alfred, « Se si rituffa non lo riprenderemo mai più! »
L’essere si piegò sulla coda, pronto a scattare, ma gli uomini diedero un violento strattone alla rete, ancora aggrovigliata intorno alle sue mani e alla sua testa, e lo sbatterono sul ponte.
Alfred si lanciò giù dal tetto, aggrappato al cavo d’acciaio come uno stuntman senza alcuna paura, atterrò sopra la bestia e gli serrò la pinna caudale nella trappola.
« Väinämöinen, tiralo su. » ordinò, ma qualcuno dovette dare uno spintone al giovanotto stordito, per convincerlo a salire in cabina.
Il finlandese ruotò una manopola molto simile al joystick di un aeroplano, fece sollevare la gru e riavvolse il cavo d’acciaio.
Progettato apposta per sopportare il peso di uno squalo bianco, il braccio meccanico sospese senza alcuno sforzo il bottino di quella battuta di caccia davanti ai loro occhi.
Era ancora più terrificante, così appeso per la coda: li fissava da sotto in su con gli occhi sbarrati, e con quelle bizzarre orecchie che sbattacchiavano, schizzando dappertutto gocce gelide.
Le branchie si allargavano e si stringevano affannosamente, le mani pericolosamente unghiute si allungavano verso di loro, per ridurli in pezzi o per chiedere pietà?
In testa aveva una zazzera color rame intenso, che fradicia si appiccicava alle guance e alla fronte; una squamosa coda rossa, che appariva tanto esile, ma che sarebbe stata perfettamente capace di spezzare loro l’osso del collo con un unico colpo, e una pelle brunita e glabra.
« Che razza di mostro… » osservò scosso il cubano, pungolandolo con un arpione, « Avvertiamo Mr. Braginski, Capitano? »
« Prima il segnale. » ribatté Alfred, « Spara quel bengala, Väinämöinen. Tenetelo sotto tiro, non sappiamo come potrebbe reagire. »
Il lampo di fuoco rosso salì fischiando nel cielo notturno, la bestia appesa per la coda si contorse con un fischio acuto e gli uomini furono costretti a tapparsi le orecchie.
« Merda! Fatelo smettere! »
« Mi esplode la testa! »
L’acqua ribollì a qualche metro dalla Rosa dei Venti e qualcosa si spostò lungo il suo fianco destro.
Una pinna frangiata, d’un blu argenteo ed elegante come un’ala infranse la superficie.
Il cubano si sporse oltre il parapetto e ringhiò: « C’è qualcosa di strano qui sotto, Capitano. »
Alfred lo raggiunse e tenne d’occhio la creatura che nuotava circospetta intorno alla loro imbarcazione.
« Non si vede niente… »
« Che… che cosa potrebbe essere? » balbettò il finlandese, aggrappandosi alla ringhiera con l’arpione in una mano.
« Mantenete la calma! » sbottò l’americano, « Von Bock, quanti bengala ci restano? »
« Soltanto due, Capitano. »
« Sparane uno in acqua. »
L’estone premette il grilletto della piccola pistola segnalatrice e il razzetto fiammeggiò di un intenso bagliore rossastro, si spense a contatto con l’acqua e affondò con un sibilo inquietante.
La pinna argentea s’immerse in profondità e la bestia appesa per la coda emise un urlo angosciato.
Alfred sbatté un pugno sul parapetto, « Lo sapevo! È uno di loro. »
Il finlandese indietreggiò dalla ringhiera, « Ce ne sono altri?! »
« Machado, torniamo a terra subito. Non staremo certo ad aspettare che ci raggiunga di nuovo. Von Bock, tieni pronto l’ultimo bengala, e sparagli addosso non appena lo vedi. Yong Soo, invia un segnale radio alla Elisabetta II, che attracchi con noi al porto di Kloster. Avvertili del pericolo con la parola d’ordine “World Stars incoming”, il Capitano capirà. »
Gli uomini si divisero per seguire gli ordini.
Alfred scrutò un’ultima volta le nere acque agitate sotto di loro, si voltò verso la creatura e le lanciò uno sguardo di sfida.
« Siete molto intelligenti, devo ammetterlo… ma il vero padrone del mondo è l’uomo. »
La bestia era sotto shock e non faceva altro che fissarlo come un animale messo all’angolo, ma rizzò le orecchie al suono della sua voce, come se lo stesse ascoltando.
Alfred scrollò il capo con un verso divertito, fece un cenno al finlandese e all’ultimo uomo dell’equipaggio, un lituano dall’aria seria e preoccupata.
« Tra poco faremo porto. Meglio portarlo a terra di nascosto. » e indicò la stiva, « Tirate fuori la vasca. »
I due giovani marinai si affaccendarono per trascinare sul ponte un pesante contenitore a parallelepipedo in vetro temperato, pieno d’acqua di mare.
Il finlandese tremava come una foglia, il cavo d’acciaio continuava a sfuggirgli via dalle dita insicure e ghiacciate; così il lituano gli posò una mano sulla spalla, slegò il cavo al posto suo e insieme sbatterono prontamente il coperchio quando la creatura cadde nella vasca aperta.
Fu orribile guardare come si contorceva tra quelle quattro pareti soffocanti, come continuava a sbattere la fronte e le pinne contro al vetro, disorientato, incapace di capire il perché non riuscisse a nuotare via, che cosa diamine fosse quel campo di forza invisibile che lo tratteneva lì, in mezzo a quei nemici terrificanti.
La pinna argentea emerse di nuovo e li inseguì instancabile, senza mai mostrarsi e senza mai superarli o perderli di vista anche solo per un istante.
La sirena nella vasca sbatté le mani palmate contro al vetro e fischiò come una disperata, chiamando e implorando l’aiuto del suo compagno in acqua.
L’estone puntò la pistola contro il loro inseguitore, ma Alfred gli afferrò il braccio: « Non sprecarlo adesso. Siamo quasi arrivati, signori, tenete duro! »
La Rosa dei Venti raggiunse il porto di Kloster sana e salva, ma la pinna nell’acqua si spostò esattamente tra loro e la passerella di legno, sfidandoli a scendere in ampi cerchi silenziosi, come uno squalo a caccia.
« Capitano… » sussurrò terrorizzato il finlandese.
Si udì uno scoppio, un lampo rosso colpì l’acqua fischiando e la pinna s’immerse un’ultima volta.
Sconfitto, almeno per il momento, l’inseguitore non riemerse più.
La sirena catturata premette la fronte contro al vetro ed emise una serie di gorgheggi affannosi, da spezzare il cuore.
Alfred si voltò di scatto e cacciò un urlo trionfante: « Arthur, vecchia canaglia! »
L’inglese soffiò sulla canna della pistola e gli fece un cenno, « Eccomi a salvarti di nuovo la vita, marmocchio. »
« Ma finiscila, era tutto sotto controllo. » borbottò l’americano, facendo cenno ai suoi uomini di portare giù la vasca.
Arthur ebbe una risata compiaciuta e si avvicinò al molo con aria vittoriosa, « Bella pesca stanotte. »
Gli uomini caricarono la vasca su un carrello e la spinsero lungo la passerella cigolante.
L’inglese si chinò sui talloni per guardare la creatura dritta negli occhi, « Wow… impressionante. » batté sul vetro con l’indice e la creatura tentò di ritrarsi, folle di paura.
« Ma che diavolo sei, eh? » Arthur scrollò il capo, « Quel russo ubriacone sarà contento, spero. È stato un lavoraccio. Ehi Al, la prossima volta sarà il Bigfoot o Nessie? »
L’americano scoppiò in una risata canzonatoria, « Divertente, Artie. Allora, signori… » e si rivolse all’intero equipaggio, « Per ringraziarvi dell’ottimo lavoro svolto, siete tutti invitati a farvi una bella bevuta. Offro io! »
Gli uomini esultarono, chi euforico e chi esausto, chi annuì appena, troppo scosso per poter parlare, e chi accettò solo per paura di ritrovarsi Ivan alle calcagna.
« Awesome! Portate quella cosa al sicuro, alla Henni Lehmann Haus. Ci ritroviamo tutti alla taverna di Fips, a Vitte, tra un’ora. »
Il gruppo si divise in due squadre: un paio spingevano il carrello - saggiamente coperto da un telo nero - in direzione del villaggio di Vitte, e gli altri rimontarono sulla Rosa dei Venti, per liberarsi in fretta della rete e di ogni traccia della caccia illegale.
« La Landhaus Lehmann? » ripeté sorpreso Arthur, affiancando Alfred mentre si avviava con passo baldanzoso lungo la passerella, « Ma non era custodita da un tedesco dell’isola? »
« Ci ha pensato Braginski, non ti preoccupare. » rispose l’americano, stiracchiandosi nell’aria fredda dei primissimi albori, indolenzito dall’aria di mare e dalla battuta di pesca più adrenalinica e pericolosa che avesse mai affrontato, « Sotto a quella residenza si trova un vecchio bunker per difesa costiera, risalente alla seconda guerra mondiale. Il direttore è un certo Gilbert Beilschmidt. Braginski è riuscito a convincerlo ad affittargli il bunker per… uhm, come le ha chiamate? “Ricerche autorizzate sulla fauna dell’isola”. »
« Ma davvero? » Arthur fece un sorrisetto, con l’aria di chi ha già capito, « Quindi questo Beilschmidt non sa niente della sirena. Non me lo dire: il russo ubriacone vuole trasferire lì il suo bottino. »
Alfred si scoccò uno sguardo diffidente attorno e gli fece segno di abbassare la voce, « Non dovrei dirtelo, Arthur. Se ci sentisse qualcuno mi darebbero fuoco con della vodka e un fiammifero. »
« Ormai ci sono dentro fino al collo, che piaccia o meno al tuo finanziatore comunista. » ribatté pungente l’inglese, « Cosa c’è là sotto, Alfred? Cosa ci ha messo quel pazzo malato? »
L’americano gli strizzò un occhio con aria complice.
« Lo vedrai. »


CONTINUA…



Note:

Maria Clara: intesa come Maria Clara C. Cruz, ovvero Filippine.

Bild-Zeitung: il quotidiano più letto in Germania. La sua sede di reazione è a Berlino, e vanta 2,1 milioni di copie vendute al giorno.


Peschereccio d’altura: un tipo di bastimento che può arrivare a pesare oltre le mille tonnellate, molto più imponenti dei normali pescherecci per la pesca commerciale.
I pescherecci d’altura, o motopesche d’altura, sono dotate di abbondanti reti e apparati radar e sonar.





Prima di qualsiasi altra cosa, desidero ringraziare nihil_can che mi ha offerto aiuto con questa fanfiction estenuante.
Grazie mille carissima, potrei spuntare da un momento all’altro implorandoti di leggere la beta dei prossimi capitoli, strillando come una pazza “sono sicura di aver fatto almeno 3 triliardi di errori ortografici, mettimi due in pagella e facciamola finita” stile Hermione Granger xD

Fiuu, l’ho terminato!
È stata dura e spero che sia venuto decentemente.
Il capitolo intendo eh, il disegno è stato il problema minore xD

Come al solito, vorrei chiacchierare con voi di alcuni dettagli del capitolo *si butta su uno sdraio al mare, con una noce di cocco con ombrellino per cocktail*

Seee certo, mi piacerebbe <_< a proposito, voi come state passando l’estate?
Spero bene!
Io purtroppo ho ancora delle magagne burocratiche e sanitarie da risolvere e non posso muovervi dalla città, tzé…
Beh, almeno così scrivo a raffica! E posso farvi compagnia con questa fic, ovunque voi siate <3 *sparge amore nell’aria*

Allora, tanto per cominciare, vorrei proporvi un giochino spastico:

Tutti i nomi dell’equipaggio di Alfred sono Nazioni di Hetalia, naturalmente.
Sapreste scrivermi i loro nomi umani completi? Senza guardare su internet, altrimenti non c’è sfida u_u
Sono curiosa di sapere quanto conoscete bene Hetalia :D

A parte le stupidaggini, parliamo seriamente di alcune cose.

Luvìs non è una castagnola rossa, bensì un rondone del mare, come specificai nell’angolo autore del primo capitolo.
Si tratta di una specie mediterranea molto elegante, una sorta di pesce volante.
Lo vedevo bene su Lovino, anche se, essendo due fratelli, avrebbe avuto senso dare a entrambi la stessa specie d’ispirazione.

Chi mi segue da tempo ormai lo sa: per ogni mia fanfiction m’informo molto, a livello ossessivo compulsivo oserei dire, ma trattandosi di storielle pubblicate su internet per passione, alcuni dettagli non li ho curati in maniera professionale.
Vi chiedo quindi di chiudere un occhio se doveste incontrare imprecisioni ed errori.

Oh beh, potrebbe anche rivelarsi un passatempo divertente: andate a caccia di queste piccole cose, dettagli che ho seguito alla lettera e invenzioni puramente personali.
Io lo faccio sempre nei libri o nei film, è troppo bello scoprire un particolare che esiste veramente o una licenza poetica dell’autore! * _ *

La fan art sarebbe la rappresentazione di una pagina di giornale, ma è una scena puramente illustrativa: figuriamoci se Ivan vuole far sapere al mondo intero di aver trovato una sirena vera!

Spero di avervi detto tutto >.< ci rileggiamo nel prossimo capitolo!

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Capitolo 7
*** Al di là del vetro ***


SING FÜR MICH

7
“AL DI LÀ DEL VETRO”




15 ottobre 2014




NONNO!!!
Luvìs si catapultò nella grotta e cadde tra le braccia dell’anziano tritone.
Luvi, che è successo? gorgogliò Anteromiàs, sollevando il viso sconvolto del nipote.
Il giovane tentò di rispondere, ma dalla gola non gli uscì altro che un fischio strozzato.
Troppi pensieri in testa, non sapeva da dove cominciare, Efelién poteva già essere stato fatto a pezzi e Luvìs stava per impazzire dalla paura.
Efé… Efé è stato… oh nonno, cosa possiamo fare?! Io glielo avevo detto, glielo avevo detto di non fidarsi! E adesso cosa gli faranno? Oh no, no no no no…
Anteromiàs drizzò le orecchie cartilaginose, allarmato.
Ehi, giovanotto, aspetta un momento! Efé? Cos’è successo a Efelién?
Lui… lui… la balena bianca… e quella trappola enorme… lo hanno tirato fuori dall’acqua e io… io…
Luvìs era bianco come la spuma di mare, sembrava sul punto di svenire.
Il nonno lo afferrò per le spalle e lo scrollò una sola volta, duramente.
Luvìs, cos’è successo?
Il nipote sbarrò gli occhioni verdi.
Se gli avesse raccontato tutto, cosa sarebbe successo?
Il nonno odiava i Nuota nel Sopra, li odiava più di ogni altra cosa al mondo; più degli squali affamati, più dell’aria secca nelle branchie inaridite, più della fame nella pancia e più della solitudine.
Se Luvìs gli avesse raccontato tutto, il nonno non ci avrebbe pensato un solo istante: sarebbe emerso dalle acque e li avrebbe divorati vivi, ma cosa mai poteva fare un tritone anziano, da solo contro centinaia di mostri simili?
Lo avrebbero ucciso.
Niente più nonno, niente più Efé: Luvìs sarebbe rimasto completamente solo.
Così il giovane scrollò il capo e si lasciò scivolare sul fondale, stringendosi la testa tra le mani palmate che tremavano.
Il gorgoglio del nonno fu così potente da scuotere le pareti rocciose della caverna.
Non te lo chiederò un’altra volta, Luvìs. Cos’è successo a Efelién?
L’istinto primordiale della paura pizzicò nel cuore di Luvìs, perché conosceva bene il suo posto nel branco, e sapeva che osare disobbedire al nonno, al capo-famiglia, all’alfa, sarebbe stato un disonore peggiore della morte.
Abbassò le orecchie e le pinne gli si afflosciarono per l’angoscia.
Quei mostri orribili… oh nonno, ho cercato di fermarlo, te lo giuro! Ma Efé si è innamorato… innamorato, capisci? Glielo avevo detto che non c’era da fidarsi di loro… ma lui si è avvicinato troppo alla balena bianca, e allora… con quella trappola…
Luvìs si tappò le orecchie e sbatté furiosamente la coda contro la roccia.
Urlavano forte, e poi lo hanno tirato fuori. Non riuscivo a capire niente, ma gli stavano facendo male, e allora ho sentito male anch’io. Non sapevo che cosa fare. Avevo paura, volevo fuggire via, venirti a chiamare… ma non potevo lasciarlo lì! Ha urlato così forte che ho sentito qualcosa scoppiare nella mia testa, ma non me ne importava niente del sangue e della luce e dell’aria… così ho seguito la loro balena bianca. Mi hanno lanciato qualcosa di rosso e caldo, mi sono ferito, ma sono tornato su di nuovo. Uno di loro mi ha quasi colpito alla testa, erano nel Fuori e ho capito che non avrei potuto più fare niente per Efelién.
S’interruppe soltanto quando la voce gli mancò per il pianto.
Buttò la testa all’indietro e cantò, e allora Anteromiàs poté vedere il timpano sinistro spappolato che gli colava fuori dall’orecchio, la bruciatura d’un rosa accesissimo sul collo e la striatura rossastra sulla tempia, dove i bengala di Arthur e Von Bock lo avevano colpito.
Serrò i pugni così forte che le dita scrocchiarono sonoramente, le unghie piantate nei palmi sprigionarono un sottile filo di sangue azzurro nell’acqua calma della grotta.
Innamorato? Efelién… si era innamorato di un Nuota nel Sopra?
Glielo aveva detto, o no?!
Glielo aveva detto, il nonno, di stare lontano dal Fuori e da quei mostri!
Si era raccomandato, aveva raccontato ai suoi nipoti della pericolosità, crudeltà e spietatezza della loro orrida razza.
Eppure, dopo tutto quello che Anteromiàs aveva passato, uno di loro tornava per distruggere ancora una volta la sua amata famiglia.
Non gli era bastato prendersi Akanthìas… adesso anche Efelién.
Così piccolo, e fragile, e ingenuo, era caduto nella trappola di quei codardi, che avevano avuto il coraggio di strappare alla Grande Madre un esserino tanto gentile e innocente…
Mostri.
Chissà cosa diamine gli stavano facendo in quello stesso momento, chissà quanta paura doveva avere, chissà quanto forte li stava chiamando; lontano dal mare, dalla sua famiglia, da tutto ciò che amava.
“Stupido! Sei uno stupido, Efé. Ne è forse valsa la pena? Tutto questo dolore, per uno di loro” pensò rabbioso il nonno, ergendosi in tutta la sua altezza.
Luvìs, raccontami tutto dall’inizio alla fine, e mostrami il punto dove lo hanno catturato
Il maggiore dei suoi nipoti, l’ultimo frammento d’amore che gli era rimasto al mondo, sollevò il viso e boccheggiò, terrorizzato.
N-nonno, non puoi farlo! Ti u-uccideranno!
Anteromiàs calò su di lui, terrificante e minaccioso, e per un istante mozzafiato Luvìs si rannicchiò, aspettandosi un colpo.
Le mani forti del nonno lo presero da sotto le ascelle e lo rimisero dritto, gli accarezzarono il viso con una dolcezza struggente e lo afferrarono per le spalle.
Non posso vivere senza la mia famiglia, Luvìs. Ho già perso vostra nonna, non potrei sopportare di perdere anche voi, mi capisci?
Luvìs squittì come un cucciolo di foca e abbracciò il nonno con tutte le sue forze.
Ce-certo… certo che ti capisco!
Anteromiàs lo strinse disperatamente e gli accarezzò la nuca.
Allora raccontami tutto, e guidami da loro. Riporteremo indietro tuo fratello, fuggiremo da qui e non ci faremo trovare mai più
Suonava così dolce, rassicurante e impossibile.
Non ce la faremo mai da soli, nonno. singhiozzò Luvìs, Loro sono così tanti, e noi soltanto due. Non possiamo farcela
Aveva ragione: in due era impossibile.
Nell’acqua erano in vantaggio, ma Efelién era stato portato nel Fuori, dove né Anteromiàs né Luvìs sarebbero stati in grado di lottare o respirare a lungo.
Ci serve aiuto, nonno
Il vecchio tritone serrò gli occhi.
Luvìs, non dirlo
Tu non lo hai sentito, nonno! Non hai sentito come gridava Efelién!
Il maggiore dei suoi nipoti scrollò le orecchie e si premette le mani sulle tempie, gli occhi strizzati, i denti scoperti, Me lo sento ancora dentro la testa. Voglio raggiungerlo, tranquillizzarlo, portarlo al sicuro… non riesco a sopportare l’idea di saperlo qui, proprio sopra di noi, e non poterlo aiutare.
Cercò lo sguardo del nonno, che non batté ciglio nemmeno per un istante.
Ho sentito mio fratello pregarmi, l’ho visto soffrire, ho lasciato che me lo portassero via. Non sarò mai più in grado di dimenticarmelo
Anteromiàs irrigidì la schiena e gonfiò la gola, in un comportamento da tritone dominante.
Luvìs piegò le orecchie all’indietro ma non abbassò lo sguardo.
Se non facessi tutto il possibile per salvarlo, non potrei mai perdonarmelo disse al nonno.
L’anziano tritone arricciò il naso piatto in un ringhio di disgusto.
Non lo accetterò mai. Piuttosto che farmi aiutare da loro…
Lasceresti Efelién morire? ribatté aspro Luvìs, Lo abbandoneresti così?
Il nonno spinse da parte Luvìs e nuotò fuori dalla grotta.
Nonno! lo richiamò il nipote, seguendolo affannosamente, Chi altri potrebbe aiutarci?
Gli altri clan risponderanno alla chiamata…
Gli altri clan? Anche loro hanno le loro famiglie da proteggere! Non rischieranno la vita per uno solo di noi. Nessuno risponderà alla nostra chiamata, nessuno verrà ad aiutarci. Siamo soli. Luvìs ebbe un singulto e si abbracciò al coda, Efelién è solo… tutto solo, lassù, in mezzo a quei mostri
Anteromiàs si voltò e gli scoccò uno sguardo straziato, pieno solo di dolore e rabbia cieca.
Efelién è in trappola a causa di uno di loro!
È vero, l’ho detto io stesso. replicò Luvìs, E sono così arrabbiato con lui… così arrabbiato che vorrei ammazzarlo con le mie stesse zanne
Sollevò il viso e guardò il nonno dritto negli occhi.
Ma adesso la cosa più importante di tutte è salvare Efelién
Anteromiàs lo fissò in silenzio, a lungo.
Alla fine si voltò e nuotò nel Fuori.


Gilbert infilò i documenti nella carpetta di plastica verde, si buttò sulle spalle il cappotto di pelle e aprì la porta dell’ingresso.
« Eliza, io sto uscendo! » gridò, mentre gli anziani Blackie, Berlitz e Aster si trascinavano pigramente ai suoi piedi, per farsi dare una grattatina.
Elizaveta lo raggiunse dalla cucina, una padella in mano e un grembiule tutto fronzoli legato in vita, « Stai andando da Mr. Braginski? »
« Già. Ho le ultime firmette da fargli fare, ma spero di sbrigarmela prima di pranzo: quel tipo mi fa venire i brividi. » Gilbert scrollò il capo e si grattò il mento appuntito con uno degli angoli della carpetta, « “Ricerche autorizzate sulla fauna dell’isola”, eccerto… »
La fidanzata si appoggiò allo stipite della porta e aggrottò le fini sopracciglia, « Anche a te puzza il suo cosiddetto permesso? »
« Ma quale permesso e autorizzato! » sbottò cupo l’albino, afferrando una pallina da tennis e lanciandola in giardino, per convincere i tre cagnoni a lasciarlo passare, « I suoi assegni non sono riscuotibili in nessuna banca tedesca. Non credo nemmeno che abbia il permesso di sbarcare qui, figurarsi di affittare un locale. »
« Ma allora… perché gli hai lasciato quel vecchio bunker? » chiese Elizaveta.
Gilbert ebbe un ghigno gongolante, « È da una settimana che cerco d’intrufolarmi là sotto, o almeno di dare una sbirciatina. » fece spallucce, « Magari non sta facendo niente di male… ma sai, prima di correre da Klaus e fargli arrestare quel russo inquietante, vorrei capire che cosa sta combinando. »
L’ungherese annuì, ma con quella piccola smorfia che voleva dire “ti stai andando a cacciare in un mare di guai”.
« Cerca di non fare stupidaggini. » commentò alla fine, accarezzando la guancia pallida del compagno, « Non mi ispira niente di buono. »
« Eliza, mi conosci: io sono magnifico, no? » sorrise strafottente, salutandola con un bacio sulla bocca, « Augurami buona fortuna. Magari questa volta ce la faccio. »

Ivan passò il tesserino nella fessura metallica e la porta scorrevole si aprì con un acuto bip.
Avvolto da un lungo camice bianco, Alfred interruppe la sua concitata conversazione con Arthur e si voltò con un cenno secco verso il finanziatore.
« Good morning, Mr. Braginski. »
« Dobroye utro a lei, Jones. » sorrise radioso il russo, « Oh, già al lavoro? Kirkland, da quanto tempo! Sono felice di rivederla in perfetta salute. »
« Thank you, Mr. Braginski. » lo accolse educatamente Arthur, non senza scoccargli uno sguardo ostile, « Allora, come funzionano le nuove porte di sicurezza? »
« Ottimamente. » rispose Ivan con aria soddisfatta, apparentemente ignaro dell’atmosfera gelida che aveva portato con sé, « Suo fratello ha fatto un buon lavoro. La prego, si ricordi di ringraziare Allistor da parte mia. »
Arthur arricciò il naso e rispose, gelido: « Sarà molto felice di sentirlo. »
Alfred annusò l’aria di pericolo e fece segno all’inglese di farsi da parte, « Mr. Braginski, se vuole seguirmi, le mostro il laboratorio. »
Lo portò lontano da Arthur, oltre una fila di computer ancora spenti o in aggiornamento; aprì una seconda porta con il suo tesserino personale e guidò il russo in una grande camera rivestita di tristi pareti di ferro.
In fondo, incassata nella parete più spaziosa, svettava una lunga vasca di vetro temperato, riempita d’acqua chiara.
« Ooh! » esclamò affascinato il russo, fermandosi proprio davanti alla vasca e posando una mano sul vetro, « Eccoti qua! »
La creatura scattò all’indietro, terrorizzata, e andò a rintanarsi in uno degli angoli.
« Lo avete già trasferito, vedo. È andato tutto liscio? » chiese Ivan, gli occhi che brillavano per l’emozione.
Alfred lo affiancò, le mani affondate nelle tasche del camice, « Più difficile del previsto. »
« Ah sì? »
« Si è ribellato un po’. Quando lo abbiamo caricato sul sollevatore ha cominciato ad agitarsi. » rispose Alfred con un’alzata di sopracciglio, scoccando un’occhiata all’essere schiacciato nell’angolo, « Ha quasi rotto il vetro della vasca da trasporto. Non sembra così forte dall’aspetto fisico, vero? Ma abbiamo dovuto mettere un altro strato per questa. » e ammiccò verso la vasca, « Non si sa mai. »
Ivan sollevò una mano, esitò per un momento, poi bussò sul vetro con le nocche.
La sirena trasalì, allargò le orecchie cartilaginose come un collare da dilofosauro e soffiò nella loro direzione, mettendo in mostra i canini affilati.
Il russo ne rimase colpito.
« È arrabbiato? O spaventato? »
Alfred fece spallucce, « Non riusciamo ancora a interpretare il suo comportamento, ma ci stiamo lavorando. »
Ivan bussò sul vetro una seconda volta e la creatura rispose con un altro soffio agghiacciante, facendo schioccare le mascelle.
« Che c’è? Non ti piace quando faccio così? » le chiese con un dolce sorriso, bussando di nuovo.
Le orecchie della sirena presero a frullare selvaggiamente, creando una corrente di bollicine argentate nell’acqua azzurra.
« Uhm, signore… » cominciò Alfred, ma Ivan lo interruppe subito.
« Sembra particolarmente sensibile a suoni e vibrazioni. Cominceremo i test da qui. »
« Sissignore. » rispose l’americano, « Ma potremo iniziare soltanto domani mattina. Mancano ancora molte attrezzature all’appello, e i sonar sono tuttora imballati. »
Ivan sorrise alla creatura, si voltò e uscì dalla grande, triste stanza metallica, « Forse è meglio così. Tra poco devo firmare gli ultimi documenti con Beilschmidt, e preferirei chiudere tutti i conti, prima d’iniziare con lei. »
Alfred lo seguì fuori, e la porta scorrevole si chiuse con uno stridio alle sue spalle.
Efelién rimase immobile nel suo angolino, in ascolto: le voci umane si spensero in lontananza, e tutto tornò immobile.
Che bello che era quando se ne andavano!
La sirena si avvicinò a quel Fuori così strano, che semplice Fuori non poteva essere, perché era troppo duro per essere fatto di aria.
Per l’ennesima volta ci sbatté contro i palmi, arrabbiato con quella barriera d’invisibile potenza, impossibile da superare.
Si spostò con un colpo di pinna più in alto e colpì di nuovo il vetro, tentò di morderlo, di graffiarlo e di sfondarlo con la coda.
Quanto rimbombava…
Lo stordiva e disorientava, come se già non bastassero quelle luci insopportabili e quella Grande Madre microscopica e troppo dolciastra, che invece di riempirgli le branchie sembrava svuotargliele.
Efelién nuotò fino a toccare uno degli angoli di vetro, si voltò e tornò indietro, risalì verso l’alto e poi scese a toccare il fondo.
Piccolo, troppo piccolo: si sentiva soffocare e stritolare, era come girovagare nello stomaco di uno squalo.
Non poteva nemmeno sgranchirsi i muscoli della caudale, o lanciarsi alla massima velocità.
Sarebbe morto in quel pelo d’acqua insignificante, rigido e solo come una pietra.
Ebbe un attacco di panico e schizzò in avanti, sbatté la fronte contro la barriera e barcollò sul fondo della vasca.
Lovi, dove sei…? pianse in bassi gorgheggi, ma il dolore alla trachea lo costrinse ad ammutolirsi.
Aveva gridato così forte, quella terribile notte, che qualche nervetto nella gola si era lacerato con uno schiocco secco, lasciandolo senza voce per un’intera settimana.
Sarebbe stato saggio risparmiare le ultime forze, riprendere fiato e non fare cose stupide, ma quando uno di loro spalancava la grande barriera grigia e gli si avvicinava, la paura diventava così forte da cancellare qualsiasi altro istinto o pensiero razionale.
Un fischio acuto che fece vibrare il vetro.
Efelién sollevò il volto di scatto.
“Oh no, ti prego, no” pensò inorridito, quando vide due figure avvolte di bianco avvicinarsi alla barriera invincibile.
“Basta, lasciatemi in pace!”
Li fissò con gli occhi sbarrati.
Erano in due e si stavano parlando concitati, passandosi qualcosa tra le mani.
Li conosceva: uno era quel Nuota nel Sopra biondo, quello che aveva attaccato Luvìs con la Luce Rossa; l’altro era il giovane esemplare timido.
Sembrava spaventato quasi quanto lui.
Che cosa volevano fargli questa volta?

« Hai capito, Väinämöinen? Dobbiamo essere veloci. » disse Arthur, digitando su un tastierino installato accanto alla vasca, « Ancora non sappiamo quanto possa sopravvivere fuori dall’acqua. »
Il finlandese deglutì pesantemente e annuì, stritolando tra le mani guantate la pinzatrice e la siringa.
L’acqua nella vasca cominciò a ribollire sempre più velocemente, mentre il miscelatore ronzava così forte da far tremare il vetro.
La sirena si guardò attorno spaventata e sgranò gli occhi.
La testa cominciò a ciondolarle e le branchie si chiusero istintivamente, quando la salinità dell’acqua non fu più sufficiente per tenerla sveglia.
Con gli occhi che si chiudevano, scivolò sul fondo della vasca e si appoggiò al vetro con le braccia, annaspando in direzione di Väinämöinen.
Il finlandese boccheggiò, « Uhm… Si-signor Kirkland, sembra quasi che voglia comunicarci qualcosa. »
« Sul serio? »
Arthur le si avvicinò e la sirena rispose premendo la fronte contro la parete trasparente.
“Vi prego, non fatemi questo”
Il linguaggio del suo corpo era così chiaro che il finlandese provò un violento senso di disagio, come se stesse torturando un essere perfettamente senziente.
« Sembra che abbia capito quel che gli sta per succedere. » osservò Arthur, « Molto interessante. Ricordati di annotarlo, quando avremo finito. »
Abbassò una levetta e l’acqua nella vasca prese a calare lentamente.
« È pronto il lettino? »
« S-sì. »
La sirena si afflosciò sul pavimento di marmo azzurro, le doppie palpebre semiaperte e spiegazzate sui bulbi oculari ciechi, ed emise un ultimo debole gorgoglio.
« Bene, è svenuto. » constatò Arthur, bussando sul vetro con le nocche, « Tiriamolo fuori. »
Quando anche l’ultimo centimetro d’acqua venne risucchiato dalla grata nell’angolo, Arthur premette un pulsante e il vetro si sollevò con uno sbuffo di vapore.
I due uomini lo afferrarono dagli estremi, per la coda e sotto le ascelle.
« Ugh, quanto pesa…! » sbuffò l’inglese, arrancando verso un letto a carrello, « Sembra tanto magrolino, ma come ogni creatura d’acqua ha una massa più consistente dei mammiferi. Forza! »
Lo scaricarono sul telo bianco e sterile, e la grande coda frangiata ciondolò dal bordo, gocciolando sul pavimento metallico.
« Al lavoro, Väinämöinen. Abbiamo non più di cinque minuti. »
Il finlandese si calò una mascherina sul volto e si risistemò i guanti chirurgici, caricò la molla della pesante pinzatrice e la serrò con uno scatto metallico su una delle punte della pinna caudale.
La targhetta di plastica recitava “Numero 2, maschio, 74 kg, 172 cm”.
Väinämöinen si occupò di tamponare la ferita con un batuffolo di cotone asciutto, mentre Arthur prendeva un campione di sangue con il contagocce e lo sigillava in una provetta etichettata.
« Ehm… signor Kirkland? » cominciò esitante il finlandese, tirando qualche colpetto alla siringa per preparare l’iniezione.
« Mmh? » mugugnò l’inglese, concentrato sulla sua carpetta per le annotazioni.
« Questo è l’unico esemplare che abbiamo a disposizione, giusto? »
« Sì, per fortuna. » replicò Arthur, scrivendo velocemente un “numero 2” sull’etichetta dell’ampollina, « Non sopporterei di avere altre paia di occhi così che mi fissano dal vetro. Brrr… mi fa venire i brividi. » scoccò un’occhiata incuriosita all’assistente, « Perché lo chiedi? »
« Ecco… mi domandavo perché lo abbiamo chiamato “numero 2”, se è l’unico esemplare qui in laboratorio. » rispose timidamente Väinämöinen.
Arthur si guardò alle spalle per un momento, come per assicurarsi che la porta fosse ancora saldamente chiusa e che nessuno stesse origliando.
Si chinò in avanti e sussurrò nell’orecchio del finlandese: « Girano delle voci sul perché Mr. Braginski stia conducendo degli esperimenti su queste creature. Che abbia incontrato una sirena da bambino lo sapevi già, vero? »
Väinämöinen annuì concitato, impaziente di sentire il resto.
« E che l’abbia catturata e uccisa, sapevi anche questo? »
Arthur ridacchiò a bassa voce davanti all’espressione sbigottita dell’assistente.
« Perché dovrebbe aver fatto una cosa del genere? » rimbeccò il giovane, « Non voleva studiarle? »
« Bah, sono solo delle voci, non farci troppo caso. » tagliò corto l’inglese, tornando a scribacchiare sulla sua cartella, « Ma chi lo conosce da tanto tempo vocifera sempre la stessa storia. Braginksi ha ucciso la sirena a causa di esperimenti fin troppo crudeli e disumani. Ed ecco perché questo sarebbe il “numero 2”. »
Ammiccò alla sirena svenuta, « Che dici, Mr. Vodka avrà imparato la lezione? »
Il finlandese sbiancò e Arthur scoppiò in una risata senza gioia, scoccò un’occhiata all’orologio da polso e fece cenno all’assistente di darsi una mossa.
Väinämöinen affondò l’ago della siringa nell’avambraccio della creatura, ma qualcosa attirò la sua attenzione.
« S-signor Kirkland… »
« Che c’è adesso? »
« Per quanto tempo ha detto che sarebbe rimasto svenuto? »

Gilbert venne scortato davanti alla piccola porticina di ferro, l’entrata per il bunker sotterraneo, e si fermò ad aspettare l’arrivo del russo inquietante.
Il salone della sua amata Henni Lehmann era accogliente come sempre, con la sua sfilza di scaffali, librerie e grandi finestre rettangolari.
Gilbert si mise a passeggiare attorno alla porticina, giocherellando con la carpetta di plastica verde, con quel cubano grande e grosso che gli faceva svogliatamente la guardia, fumando il suo sigaro maleodorante.
Fintanto che quel colosso se ne stava nei paraggi, sarebbe stato impossibile intrufolarsi nel bunker per dare un’occhiata in giro.
Gilbert gli scoccò un’occhiata di sbieco.
Bastava una sola distrazione, un piccolo casino, un po’ di rumore…
Aveva appena finito di pensarlo, che un urlo disumano fece tremare il pavimento.
Il cubano sussultò e il sigaro gli cadde di bocca.
« Mierda, che diavolo è successo?! » sbottò, calpestando in fretta e furia il mozzicone, per evitare che prendesse fuoco il tappeto.
La porticina si spalancò con un tonfo e Väinämöinen arrancò nel salone, trascinandosi dietro l’inglese semisvenuto.
« Un medico! » gridò il finlandese, e Machado si affrettò verso l’uscita della Henni haus, inciampando nei suoi stessi piedi per lo shock.
C’era un mare di sangue che sgorgava dalle dita tranciate di Arthur, e la puzza invase velocemente il salone, così aspra da far pizzicare gli occhi.
Gilbert indietreggiò spaventato e Ivan accorse dal portone spalancato sulla strada.
« Svyatoye nebo, cos’è successo qui? » esclamò a bocca aperta, correndo in aiuto dello scienziato.
Väinämöinen scrutò di sottecchi Gilbert e sussurrò nell’orecchio del russo: « Il Numero 2, signore. »
« Immaginavo. » ribatté turbato Ivan, « Dobbiamo fargli fare degli esami del sangue, non sappiamo ancora se il loro morso sia velenoso o che altro… Svyatoy Khristos, non mi aspettavo che fosse così aggressivo. »
Il russo si voltò verso Gilbert, « Mi perdoni, Beilschmidt. Potrebbe aspettarmi fuori? Sarò da lei tra cinque minuti. »
« Uh, certo. » replicò il tedesco.
Prima di avviarsi, si voltò verso la porticina di ferro: vide il corridoio stipato di computer e schermi luminosi e, oltre le porte disattivate, la triste stanza di ferro con la vasca incassata sul fondo.
Un lettino su un carrello… e una coda di pesce penzoloni.
SBAM
Ivan sbatté la porticina con un tonfo minaccioso, ma il suo sorriso era più gentile che mai: « Fuori, Beilschmidt, se non le dispiace. »
Gilbert gli scoccò uno sguardo di profonda diffidenza, e in quello stesso istante Ivan capì che lo avrebbe perseguitato.
Non appena il tedesco albino ebbe lasciato il salone della Henni Lehmann, uscendosene fuori all’aria aperta, Ivan prese un profondo respiro e si chinò su Arthur, esaminandone attentamente la ferita: indice, medio e anulare della mano destra erano stati strappati via di netto, come da una tagliola per orsi, e i moncherini pallidi delle falangi pisciavano un torrente di sangue rosso sul legno del pavimento e sul tappeto.
« Com’è successo? » chiese, senza riuscire a nascondere l’angoscia sul suo viso d’angelo.
« Lo avevamo tirato fuori dalla vasca per etichettarlo e prendere qualche campione, signore, ma... » Väinämöinen deglutì, sudato e pallido, « Si è svegliato un minuto prima che potessimo finire, e ha morso Kirkland. » Ivan annuì distrattamente mentre strappava l’orlo del camice di Arthur e ne fasciava alla bell’è meglio l’orribile mutilazione, « Questa proprio non ci voleva, proklyatiye, adesso che avevo compattato una buona squadra... »
Si massaggiò la radice del naso e passeggiò avanti e indietro per l’elegante salone, borbottando tra sé e sé qualche impropero in russo.
Dopo un po’ il cubano Machado fece ritorno con alle calcagna un infermiere in divisa chiara e uno dei pochissimi dottori dell’isola, armato di valigetta.
Il russo rimase a guardare un po’ in disparte i due uomini che sorreggevano Arthur e lo accompagnavano fuori dalla Henni haus, verso una barella che attendeva proprio davanti al portone.
L’inglese mugugnava sottovoce, troppo stordito per dire alcunché, e venne immediatamente sospinto verso il porto di Kloster, dove un traghetto lo avrebbe portato di volata all’ospedale più vicino.
« Nessuno su quest’isola deve sapere dell’accaduto. » disse con decisione Ivan, scoccando al finlandese un’occhiata truce.
« Sissignore. »
« Mi servirà un rimpiazzo, nel più breve tempo possibile. Non sarà affatto facile, ma fintantoché io e il signor Jones non avremo trovato qualcuno di qualificato, voialtri dovrete lasciarlo nella vasca e non avvicinarlo, sono stato chiaro? Non ho intenzione di perdere altri uomini. »
Väinämöinen annuì rigido, ancora profondamente scosso dalla violenta scena assistita.
Ivan scoccò un’occhiata preoccupata e tesa alla stanza in fondo al bunker, dove la coda di pesce rossa se ne stava afflosciata sul lettino, e ordinò al finlandese di farsi aiutare per rimetterlo nella vasca.
« ... e pulite questo macello. » aggiunse con una smorfia di disgusto, scrollando uno dei suoi pesanti stivaloni imbrattati del sangue dell’inglese, prima d’infilare la porta e sparire nella luce del giorno, corrucciato.

« ELIZAVETA!! » urlò Gilbert, fuori di sé, arrivando con uno scivolone davanti al cancello della sua villa.
I tre vecchi cagnoloni si agitarono udendo il padrone sbraitare così e cominciarono a correre per tutto il giardino, abbaiando forsennati, ma l’albino li rimise a cuccia con ampi gesti delle mani tremanti e si catapultò subito oltre l’uscio di casa.
Inciampò nel tappeto dell’ingresso mentre sbraitava: « Eliza! ELIZA!! Non ci crederai MAI!!! Oh Gott! »
L’ungherese apparve sulla soglia della cucina, con uno straccio a quadri buttato su una spalla e un piatto insaponato tra le mani ricoperte dai guanti, « Gil? Ma che diamine sta succedendo? »
Il fidanzato le si aggrappò alle spalle e la scosse agitato, tutto rosso e sudato in faccia, « Non ci crederai mai! Neanch’io potevo crederci, eppure... eppure! Oh no, oh no, e adesso cosa facciamo?! » « Calmati Gil. » rispose Elizaveta, sforzandosi di mantenere un tono tranquillo, « Vieni a sederti e raccontami cosa ti prende. »
Lo accompagnò a una delle sedie in legno del tavolo da pranzo, versò una birra gelida in un bicchiere e gliela posò accanto, sedendosi davanti a lui.
« Dunque » cominciò, « Cos’è successo? » Gilbert bevve un lungo, lunghissimo sorso di birra, poi posò il calice sul tavolo con un po’ troppa forza, sconvolto e scosso.
« Sono... sono andato alla Henni haus, e... stavo aspettando Braginski nel salone... c’era questo tipo con un sigaro che mi faceva la posta come un cane da guardia, e non potevo entrare nel bunker, ma poi... ma poi... » Gilbert s’interruppe e svuotò il calice con un risucchio.
Elizaveta lo osservava preoccupata, non avendolo mai visto così tanto preso dal panico.
« Cos’hai visto, Gil? » lo spronò.
Il suo fidanzato sbatté le palpebre e si passò una mano sulla faccia, tentando di schiarirsi le idee e di fare ordine nella mente che ancora si rifutava di credere.
« Ho visto una coda di pesce. »
Elizaveta inarcò un sopracciglio bruno, « Una coda? »
« Una grossa, rossa coda di pesce abbandonata su un lettino. » continuò l’albino, stritolando il calice tra le mani sudate, « So cosa stai pensando. “Gilbert, è normale che un centro di ricerca catturi qualche specie e la studi. Magari era una specie nuova, che ne sai?” Ma tu non l’hai vista Eliza, non hai idea... era troppo grossa. Un pesce così sarebbe stato avvistato molto prima dai nostri pescatori, e in ogni caso non mi sembrava normale che lo avessero adagiato su una barella. Aveva... aveva anche un’etichetta pinzata sulla pinna caudale, l’ho intravista a malapena, prima che quel russo mi cacciasse praticamente fuori dalla mia Henni Lehmann! »
Gilbert soffiò dalle narici come un toro infuriato, ed Elizaveta, nonostante fosse sconvolta, gli accarezzò un braccio per calmarlo.
« Gil, ma tu pensi che fosse... qualcosa di diverso da un semplice pesce? »
« Non lo so, diamine, non ci capisco più un cazzo! » ringhiò il tedesco, « Sapevo che stava facendo qualcosa di strano e illegale, lo sapevo! »
Elizaveta rimase per qualche secondo a fissare fuori dalla grande finestra della parete piastrellata, persa nei suoi pensieri.
Una grossa coda di pesce... quel particolare le fece tornare a galla un ricordo molto preciso: un piccolo Ludwig dagli occhi sfavillanti che le raccontava tutto trafelato di aver visto una sirena, molti anni fa, seduti a quello stesso tavolo.
Elizaveta sbatté gli occhioni verdi e afferrò di scatto la mano del fidanzato, stritolandogliela per la foga.
« Cosa c’è? » le chiese Gilbert, spaventato e sorpreso, « Non dirmi che tu ne sai qualcosa! »
« Gil, adesso non ho tempo di raccontarti tutta la storia, ma ti giuro che lo farò. Devi chiamare immediatamente tuo fratello. »
« E perché? » chiese l’albino, sbarrando gli occhi, « Cosa mi state nascondendo voi due? Sapete qualcosa di tutta questa storia e ancora non mi avete detto niente?! »
« Oh, non è il momento di fare il geloso. » lo liquidò impaziente Elizaveta, correndo a prendere il cellulare e posandolo con decisione tra le mani del fidanzato, « Svelto: chiama Ludwig. Devo parlargli subito. »
Gilbert sbatté confuso e offeso i suoi occhi rubicondi per qualche istante, poi mugugnò qualcosa e pigiò velocemente sullo schermo del telefono con le dita insicure.
« Sia mai che mi venga spiegato qualcosa! » muggì, tamburellando con le dita sul tavolo mentre aspettava che West rispondesse alla chiamata.
Elizaveta si alzò e gli versò un altro calice di birra. Ne avrebbe avuto bisogno.


Ludwig corrucciò la fronte mentre rispondeva alle domande del test del professor Bonnefoy.
Era una mattinata soleggiata e gelida a Berlino, e l’aula colma di studenti risuonava a malapena dei fruscii dei fogli e delle penne che grattavano risposta dopo risposta.
Accanto al banco di Ludwig, Antonio mordicchiava il cappuccio della sua biro e si grattava svogliatamente la testa.
« Ehi.. psss... Lud! » lo chiamò con un filo di voce, « Dammi la 3B, non me la ricordo! »
Ludwig arricciò il naso in segno di sdegno e si sforzò d’ignorarlo con tutto sé stesso.
« Lud... »
« ... »
« Ehi... ehi Lud... Luuud... Ludi ludi lud... »
« Sssh, deficiente, ti farai beccare! » bisbigliò infastidito il tedesco.
« E tu dammi la 3B, daaaai, tipregotipregotiprego... »
Il professor Bonnefoy si avvicinò ai loro banchi con le mani tranquillamente nascoste dietro la schiena, sorrise con fare splendido e sbatté le ciglia stranamente lunghe e biondicce: « Va tutto bene, ragazzi miei? »
Ludwig assottigliò le narici nervoso, ma Antonio scrollò il capo con decisione e rispose, in un tono di voce squillante e decisamente troppo alto: « Mi dispiace un botto, prof, ma proprio non mi ricordo la risposta alla domanda 3B. Ho chiesto un aiuto a Ludwig, ma non ne vuole sapere. »
Il tedesco gli scoccò un’occhiataccia. Quello spagnolo disinibito riusciva sempre a sorprenderlo con la sua sincerità disarmante.
Perfino il loro professore francese si grattò il pizzetto per qualche secondo, senza sapere cosa dire.
« Massì » esclamò alla fine, mentre tutti gli altri studenti li guardavano incuriositi, « La 3B è una delle più difficili del test, lo so molto bene ragazzi miei. Quindi per questa volta, ma solo per questa volta, vi darò un piccolo suggerimento... ma guai a voi se lo spifferate al preside, d’accord? » e fece scorrere un’azzurro sguardo d’avvertimento per tutta la classe, che in risposta lanciò un grido di apprezzamento al professore e qualcuno si batté il cinque entusiasta.
Ludwig scrollò il capo con rassegnazione: il professor Bonnefoy era sempre troppo indulgente con tutti, e comunque la 3B non era poi così difficile come sembrava...
Il francese si accostò alla grande lavagna appesa alla parete, impugnò un gessetto e si mise a scrivere velocemente, mentre Antonio e molti altri compagni leggevano il suo suggerimento e ci ragionavano sopra.
« Grazie prof, lei sì che ci capisce. » sorrise soddisfatto Antonio, lanciando poi una pallina di carta masticata in faccia a Ludwig, che gli rispose spingendogli di scatto la testa contro il banco, facendogli tirare una notevole capocciata.
« Ahia! »
« Da bravi ragazzi miei, adesso concentratevi. So che potete farcela. » disse il professore, posando il gessetto e tornando a osservare la sua adorata classe.
Il silenzio e il lieve grattare delle penne continuò per qualche altro minuto, ma poi qualcuno bussò alla porta dell’aula.
« Avanti. » disse il professor Bonnefoy, e un bidello in camice lungo e azzurrino entrò un po’ trafelato, reggendo uno dei telefoni scuri dell’università.
« Professor Bonnefoy, mi scusi per l’interruzione, ma un parente del signor Beilschmidt ha chiamato per un’urgenza. »
Ludwig smise di scrivere sul test e alzò lo sguardo.
Qualcuno in casa stava male? Elizaveta? Gilbert? Era successo qualcosa di così grave da doverlo raggiungere a Berlino durante un esame?
Antonio guardava a intervalli prima Ludwig poi il professore, accigliato.
« D’accordo, nessun problema. Signor Beilschmidt, vada a rispondere. » rispose il professore, facendogli un cenno.
Il tedesco si alzò dal banco, scambiò una rapida occhiata con Antonio e poi uscì dall’aula, seguito da molto sguardi curiosi, e prese il telefono che il bidello gli stava porgendo.
« Pronto, Gil? » ma si stupì quando dall’altra parte della cornetta riconobbe la voce di Elizaveta.
Sembrava spaventata e confusa.
Ludwig ascoltò il suo discorso in silenzio, con la fronte che si aggrottava sempre di più.
Antonio, che si era allungato sul banco per sbirciare oltre l’uscio della porta, intravide Ludwig in piedi davanti al bidello con il telefono attaccato all’orecchio, mentre balbettava appena qualche parola indecifrabile.
Il telefono gli sfuggì quasi di mano e Ludwig dovette riacciuffarlo al volo, si mise una mano nei capelli biondi e farfugliò qualcosa rapidamente, prima di spegnere il telefono e riconsegnarlo al bidello.
Si catapultò nell’aula e raggiunse il suo banco, raccolse la cartella e ci buttò dentro tutte le penne e le matite, strappò via la giacca dalla sedia e corse verso il professor Bonnefoy, ignorando gli sguardi sgranati dei suoi compagni.
« Va tutto bene Beilschmidt? » chiese il francese, aggrottando le sopracciglia.
Ludwig era paonazzo in viso, affannato, e sembrava sul punto di beccarsi un infarto: « No... no professore... mi dispiace, ma devo tornare immediatamente a casa mia... »
I compagni e il professore sembravano turbati dalla sua reazione terrorizzata.
« Beh, d’accordo Beilschmidt, hai tutto il diritto di tornare a casa tua se è successo qualcosa di grave. » gli disse il francese, alzandosi dalla scrivania e mettendogli una mano sulla spalla massiccia, « Il test lascialo sul banco, lo recupererò così com’è, tenendo conto del tuo imprevisto. Se vorrai tornare più avanti, quando si sarà risolto tutto, ti aspetteremo a braccia aperte. »
Il tedesco annuì con il volto in fiamme e si voltò di scatto verso Antonio, lanciandogli un'unica occhiata significativa, e lo spagnolo capì subito: era accaduto proprio quello che temevano. Qualcuno aveva trovato Feliciano.
« Ahem... professore? » saltò su Antonio, alzandosi dal suo posto, « Non è che potrei accompagnare Ludwig in stazione? Ho praticamente finito il test, e mi dispiacerebbe un botto non salutarlo come si deve. »
Il professor Bonnefoy si grattò il pizzetto e li squadrò entrambi per un minuto, soppesando la richiesta.
« E va bene, Fernàndez. » si arrese alla fine, « Lo so che siete molto amici, ma vedi di non metterci una vita e torna immediatamente a scuola, d’accordo? » e lo minacciò con un croissant posato sulla sua cattedra, prima di fare cenno loro di sparire e staccandone un morso.
Ludwig e Antonio lo ringraziarono frettolosamente ed entrambi si precipitarono fuori dall’aula, seguiti dagli sguardi ansiosi dei compagni.

Mentre correvano per i marmorei corridoi dell’università, quasi inciampando per la fretta, Antonio si fece spiegare per filo e per segno quello che Ludwig aveva sentito al telefono, e non fu facile davvero raccontargli la vicenda, perché Elizaveta era stata molto sbrigativa e affannata.
« Cosa?! » sbottò lo spagnolo, mentre saltavano l’ultima rampa di scale e quasi si rompevano l’osso del collo, « La fidanzata di tuo fratello ha detto che un imprenditore russo è arrivato sulla vostra isola ed è riuscito a catturare Feliciano?! »
Ecco il portone d’ingresso, spalancato sulle vie trafficate e colme di sole.
« Ma com’è stato possibile?! »
« Non lo so! Mein Gott, glielo avevo detto di stare attento! Glielo avevo detto di stare alla larga dalla superficie! » gridò Ludwig, lanciandosi fuori dall’università, con Antonio che gli ansimava alle calcagna, « Io lo sapevo che non avrei dovuto lasciarlo solo, scheisse! Avrei dovuto rimanere! A quest’ora non sarebbe successo niente! »
Raggiunsero di volata la Derbi nera e rossa di Antonio, la sua fidata moto di marca spagnola parcheggiata nel cortiletto sul retro dell’università, insieme alle biciclette e alle auto degli studenti e dei professori.
Antonio montò in sella, s’infilò il casco e ne porse un altro a Ludwig.
« Qualsiasi cosa sia successa, adesso voliamo a casa e avvertiamo Kiku. Svelto Lud, sali! »
Ludwig si era sempre rifiutato categoricamente di salire su quella trappola mortale, ma in quel frangente non ci pensò un solo secondo: inforcò il sedile di cuoio dietro ad Antonio e si calcò il casco tutto sbucciato sulla testa.
« Parti! » spronò l’amico spagnolo, che girò le chiavi e accese la sua fedele cavalcatura con un rombo potente.
Imboccarono la via ingombra di automobili e zigzagarono tra i pioppi infreddoliti, sfrecciando tra gli autobus e le vetture ben oltre il limite di velocità.
Col cuore che gli batteva impazzito nel petto, Ludwig si stringeva ai fianchi di Antonio e riusciva solo a pensare “più veloce!”, incredulo, stordito da quell’assurdo incubo nel quale era precipato in meno di cinque minuti.
Antonio prese una curva così stretta che le loro ginocchia quasi sfiorarono l’asfalto umidiccio, si fermarono sotto il loro condominio e il tedesco balzò giù dalla sella, correndo a suonare il citofono.
Kiku, che quel giorno era libero da lezioni ed esami, andò a rispondere con la sua solita voce cortese.
“Chi è?”
Ludwig gli raccontò velocemente dell’accaduto e gli riferì che stava volando a prendere il treno insieme ad Antonio, ma aveva appena finito di spiegare che il giapponese lo fermò, mantenendo un tono di voce calmo, anche se teso.
“Ludwig-san, io vengo con voi.”
« No, aspetta, ma che dici...? » tentò di protestare Ludwig. Dall’altra parte del citofono calò un silenzio inquietante.
« Dannazione, Kiku! »
« Cosa c’è? » chiese Antonio, ancora seduto sulla moto e con il casco addosso.
« Vuole venire anche lui! » sbottò Ludwig, quasi saltellando sul posto per l’impazienza e l’angoscia.
« Beh, è naturale, Lud. »
Ludwig si mise di nuovo una mano nei capelli e prese a fare avanti e indietro sotto al condominio, mordendosi il labbro inferiore, incapace di calmarsi.
Il suo Feli... catturato, imprigionato, preda di esperimenti di chissà quale tipologia, lontano dal mare e dalla sua famiglia, lontano da Ludwig, che adesso non era lì per poterlo difendere... oddio no, perché? Perché?!
Il portone del condominio si aprì cigolando e Kiku uscì fuori, carico di due grossi borsoni.
« E quella roba? » gli chiese Antonio, decisamente più calmo e ragionevole di Ludwig.
« Vestiti e altro. Se dobbiamo arrivare fino all’isola di Hiddensee, sarà meglio portarsi dietro qualcosa di utile. » rispose il giapponese, dando un’occhiata dubbiosa alla moto di Antonio, « Ma è meglio se prendiamo un taxi, non ci stiamo in tre lì sopra, figuratevi le valige. »
Antonio annuì, si tolse il casco e lo incastrò sotto a un braccio, mentre tirava fuori il cellulare e chiamava un taxi.
« Mi spiegate cos’avete in mente, voi due? » chiese loro Ludwig, facendo saltare lo sguardo dall’uno all’altro, « Non dovevate accompagnarmi fino alla stazione e basta? »
« Kiku, ce li hai i soldi per la corsa? Dovevo prelevare stamattina ma mi sono dimenticato. » continuò Antonio, ingorando il tedesco, e Kiku aprì il suo portafoglio decorato a Pokémon, tirò fuori qualche banconota e gliela consegnò.
« E per il traghetto? » aggiunse il giapponese.
« Ragazzi, volete spiegarmi? »
« Ci arrangeremo. Ma Tama, piuttosto? »
« Ho chiamato un mio amico di corso e gli ho chiesto di venire a dargli la pappa, pulirgli la cassetta e fargli un po’ di compagnia un paio di volte al giorno, se ci riesce. Mi ha assicurato che almeno una volta al giorno può farlo, ma cercherà di esserci più spesso che può. »
« Verdammt, volete ascoltarmi?! » ruggì Ludwig, e i due amici si voltarono finalmente a guardarlo.
« Non se ne parla, non verrete con me sull’isola... » cominciò il tedesco, ma lo spagnolo gli lanciò un’occhiataccia fulminante, e perfino Kiku lo guardò serio e irremovibile.
« Cosa?! » sbottò Ludwig. Non aveva mai avuto tanta angoscia e tanta fretta in vita sua, e non c’era proprio il tempo di mettersi a discutere con quei due testardi.
« Lud... » cominciò pazientemente Antonio, « Te lo avevamo detto, che ti avremmo aiutato con Feliciano, non ti ricordi più? »
« Ma è ancora troppo presto! Non mi aspettavo certo che lo avrebbero catturato prima che riuscissimo a laurearci tutti e tre! Ma non capite che è un vero disastro?! Non siamo pronti, siamo ancora troppo giovani e inesperti e nessuno ci darà ascolto, scheisse! »
Kiku posò una mano pallida e gentile sulla spalla scossa dai tremori dell’amico, guardandolo con quei suoi grandi occhioni neri.
« È vero che non siamo ancora preparati » gli disse in un tono di voce fermo e deciso, « Ma te lo avevamo promesso, Ludwig-san. Noi verremo con te fino in capo al mondo, se serve. »
« Ma... ma...! » si affannò Ludwig, sconcertato e disorientato.
« Troveremo un modo per aiutare il tuo Feliciano, Lud, fidati di noi. Siamo amici, no? » rincarò Antonio.
Un taxi giallastro parcheggiò nella strada davanti al condominio e cacciò un piccolo colpo di clacson nella loro direzione.
Antonio spinse la moto nel suo angoletto accanto all’edificio e mise via i due caschi dentro al bauletto posteriore, prese le due borse e si avviò verso il veicolo.
Kiku prese gentilmente Ludwig per un polso e lo tirò verso il taxi: « Andiamo Ludwig-san, presto. »
Stava accadendo tutto così in fretta che il tedesco non ebbe nemmeno il tempo di metabolizzare. Salì in macchina stretto tra Antonio e Kiku, lo spagnolo comunicò la meta e partirono rombando lungo le strade fredde e sciamanti della città, in direzione della stazione di Berlino Centrale.
Antonio e Kiku parlottarono a bassa voce per tutto il tragitto, mentre Ludwig, stordito e col batticuore costante, si mangiava il fegato per la preoccupazione.
Tutto sommato era davvero contento che Antonio e Kiku avessero insistito per venire con lui; era un comportamento coraggioso e leale, e il tedesco si sentì inumidire gli occhi al pensiero che i suoi due unici amici avessero deciso di mollare tutto e seguirlo.
“Sto arrivando, Feliciano.” Pensò con rabbia, stritolandosi le mani sulle ginocchia.


CONTINUA…




Sing Für Mich è stata aggiornata! Finalmente, vero?
Chiedo venia per averla interrotta così, mi dispiace davvero tanto ☹
Qualche giorno fa ho ricominciato a spulciare EFP dopo veramente un secolo che non ci tornavo (se non contiamo le storie su Good Omens che ho scritto non troppo tempo fa) e ho riletto questa mia vecchia fic inconclusa.
Cavolo, mi dispiaceva da matti non concluderla, considerati soprattutto tutti quei lettori e lettrici che mi hanno scritto e pregato di continuarla e finirla... non volevo farvi un torto, quindi rieccomi qua!
Spero che qualcuno sia rimasto per leggerla, spero che il nuovo capitolo vi piaccia, e spero di non avervi feriti troppo, facendovi aspettare tutto questo tempo! Vi do un bacione enorme <3

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