Father.

di The Custodian ofthe Doors
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Firts memory ***
Capitolo 2: *** A little secret for us. ***
Capitolo 3: *** The foruth son. ***
Capitolo 4: *** Have a quality ***
Capitolo 5: *** Eyes of glass. ***
Capitolo 6: *** Remember. ***
Capitolo 7: *** Father. ***



Capitolo 1
*** Firts memory ***


1. First memory.


 

Quando Alec era nato per Robert era stato normale portare il figlio dal suo parabatai. Nel momento in cui si era ritrovato davanti alla porta di quella casa, però, qualche dubbio gli era sorto, dopotutto i rapporti con Michael erano diventati più distanti, più freddi, dopo quello che era successo. Eppure non era riuscito a tornare indietro, era rimasto bloccato davanti alla soglia di casa, sul vialetto, proprio ad un passo da quei due gradini che conducevano alla porta della grande residenza. Alec tra le sue braccia riposava tranquillo come lo era da quando era venuto al mondo, gli occhi blu tipici dei neonati ora celati dietro alle palpebre minuscole e sottili, così bianche da sembrar trasparenti.
Si era dato del cretino, dello stupido per essersi presentato lì a quel modo, cosa si aspettava che sarebbe successo? Che Michael sarebbe stato felice di vederlo? Che avrebbe accolto a braccia aperte quel simbolo così evidente, ora innegabilmente tangibile e reale dell'amore suo e di Maryse?
Stupido, stupido Robert, tu e le tue idee. Aveva anche discusso con la moglie su quanto fosse appropriato portare in giro un bambino di appena due settimane, si erano quasi urlati contro mentre lei lo sgridava della sua avventatezza e lui le diceva che non poteva capire, che lei non poteva comprendere il bisogno viscerale di mostrare al suo parabatai il suo primogenito, mostrare ad entrambi un pezzo di lui. Oh, si, perché Robert non si illudeva, era lì per presentare tanto Alexander a Michael, quanto Michael ad Alexander, sperando che entrambi si piacessero.
Dovevano piacersi, ne aveva bisogno.

Era rimasto fermo per quelle che gli parvero ore, un tumulto nel petto paragonabile solo all'ansia di quando Michael si ferì per la prima volta dopo la cerimonia, a quando Maryse lo aveva chiamato a gran voce in preda alle contrazioni. Neanche il giorno del suo matrimonio era stato così in ansia, neanche lì.
Alexander si mosse tra le sue braccia, la coperta celeste che lo avvolgeva lo faceva sembrare un piccolo fiocco di neve in un cielo invernale, coprendogli la testolina minuscola come ogni cosa in quel bambino. Non aveva mai pensato che un neonato potesse essere di quelle dimensioni, sua suocera l'aveva guardato con apprensione dicendogli che in effetti il nipotino era troppo piccolo, che non ne aveva mai visti di bambini così minuti, forse qualche femminuccia, ma di maschi mai.
Piccolo e delicato, tutto in lui suggeriva la cautela che si userebbe sul cristallo più fine e Robert aveva avuto paura che non fosse abbastanza forte, che non sarebbe diventato un bravo combattente perché non era il suo destino, perché la natura, lui e Maryse, lo avevano generato troppo fragile per un mondo violento come il loro, che sarebbe stato come lui, che avrebbe sofferto come lui.
Un vagito basso lo richiamò fuori dai suoi pensieri, persino quando si lamentava Alexander lo faceva piano, quasi un sussurro, come se avesse paura di disturbare, sottovoce.
Lo cullò con movimenti appena accennati, il terrore del cristallo fisso nella sua mente, troppo occupata ad affrontare mille demoni tutti assieme e della razza peggiore: i propri. Non si rese conto neanche che quella runa che tanto tempo fa lo rese la persona più felice del mondo ora era tornata nera e marcata, che pizzicava un poco sulla pelle del suo costato, che i suoi problemi, i dubbi, le paure, le stava condividendo con qualcuno. Che la porta della villa si era aperta, prima socchiusa appena, come se qualcuno si stesse sincerando che quello che sentiva non fosse solo una sua impressione, con quel misto di timore e scetticismo, per poi spalancarla completamente quando si era reso conto che non stava sognando, che malgrado tutto quello che era successo, che si erano detti, che avevano fatto, lui era lì, davanti a casa sua, con un minuscolo fagotto celeste tra le mani, una cosa così piccola che sarebbe potuto benissimo essere un pugnale ma mai una spada. Una cosa piccolissima che si era resa conto di ciò che stava accadendo prima dell'uomo e che aveva cercato di avvisarlo muovendosi con grazia e leggerezza, soffiando un vagito delicato come la brezza che soffiava quel pomeriggio.

Robert teneva il volto piegato verso la stoffa, mormorando parole gentili, domande che non avrebbero mai ricevuto una risposta, non nell'immediato e purtroppo per lui, neanche in futuro, quando avrebbe chiesto al suo primogenito cosa ci fosse che non andava, se stava bene, per sentirsi dire che era tutto apposto che non aveva nulla.
Alzò una mano, allungando poi solo il mignolo per spostare un lembo della coperta e scoprire un esserino pallido come il vetro delle torri antidemone.
Michael trattenne il fiato, guardingo, scese i pochi gradini che lo dividevano dal selciato e allora Robert non poté non sentirlo. Si bloccò in ogni sua azione, deglutendo e muovendo lentamente la testa verso di lui, verso quell'uomo che era una parte di sé da sempre, gli pareva, e che da troppo tempo ormai gli era lontano. Quando poi incontrò finalmente il suo sguardo, dopo averlo esaminato per bene e essersi reso conto che era cresciuto fin troppo dall'ultima volta che si erano visti, Robert si rese finalmente conto che tra tutti i problemi, le domande e le sensazioni che gli mulinavano in corpo, alcune non erano sue, alcune erano della persona di fronte a lui, che finalmente riusciva a risentire come un tempo e che, con grande gioia che seppe di non aver bisogno di esprimere a parole, condivideva molti dei suoi stessi sentimenti.

 

<< Si chiama Alexander.>>

 

La runa parabatai sembrò bruciare come il giorno in cui venne incisa quando Robert strinse a sé Michael, ricambiando l'abbraccio che avvolse Alexander tra le braccia dei due fratelli, facendogli muovere le manine verso le maglie di entrambi e serrando i pugni piccoli come noci proprio all'altezza della loro runa. Abbassando lo sguardo, con le fronti premute l'una contro l'altra, i capelli mischiati ed i volti felici, Robert e Michael rimasero senza parole quando il bambino aprì gli occhi, unica nota grande in quel tripudio di miniature, fissandoli con quelle iridi blu come il mare, come il cielo di notte illuminato dalle stelle, come i colori di una tavolozza, come i quadri nei grandi maestri, come i fiori più rari e delicati. Occhi innocenti e cristallini, velati di curiosità ma tranquilli, sicuri nelle braccia del padre e ora anche in quelle del parabatai di quest'ultimo.
Robert non ebbe alcun dubbio in quel momento, mentre Michael prendeva con cautela il neonato dalle sue braccia: Alexander si fidava di Michael e il suo parabatai, il suo migliore amico, suo fratello, amava già il suo bambino, completamente ammaliato e soggiogato da quell'infante che aveva ridotto in ginocchio anche lui.

Si portò una mano al petto, dove la runa spiccava scura e forte, rinvigorita da un'immagine semplicemente giusta, un'immagine che Robert avrebbe conservato per sempre nel cuore, che mai sarebbe sbiadita nella sua memoria, neanche negli attimi più neri.
Avrebbe risolto ogni problema, avrebbe parlato con Michael, avrebbero trovato la soluzione, sarebbero stati padri assieme, avrebbero fatto conoscere i loro figli, li avrebbero portati al parco, gli avrebbero insegnato a combattere e forse, chissà, magari un giorno anche loro sarebbero diventati parabatai. Sorrise finalmente tranquillo, tutto stava tornando apposto e Michael che faceva versi stupidi ad un incredibilmente divertito Alexander ne era la prova concreta.

 

 

Alec ha ricordi sbiaditi nella sua testa, non sa cosa siano, né da che epoca provengano e per tutta la sua infanzia crede fermamente che siano solo sogni, non gli da' poi così tanta importanza, non ve ne vede.
Ricorda però una distesa verde, colline dai pendii dolci e mossi dalla brezza come da una carezza, li osservava dall'alto, qualcuno lo portava in braccio e anche se ricorda solo una spalla coperta di blu ed un collo chiaro, con i capelli scuri, è sicuro, di quella strana sicurezza che danno i sogni, che si trattasse di suo padre. Ricorda parole sussurrate come un segreto, la voce gli parla di qualcuno che sta per incontrare, un uomo, ricorda un nome ripetuto all'infinito, troppe volte in un solo discorso per ignorare la felicità e l'attesa di quell'incontro. “Mich”
Mich.

Mich.
Zio Mich, forse?

Il cielo è limpido e velato di poche nuvole pigre che si attardano a seguire le compagne, una villa grande, bella e chiara e proprio sulla soglia, ad attenderli consapevole della loro venuta, un uomo, grande come il suo papà, ma dalla figura più fine. Non ha paura, Alec conosce quell'uomo, non lo sa con certezza, ma è lui che associa a quel nome.

Lo zio Mich non vede l'ora di rivederti.

Ha i capelli castani e la pelle rosea, gli occhi marroni, una sfumatura calda e dolce, il sorriso smagliante, la gioia nella voce quando li chiama.
Visto? Cosa ti avevo detto? Starà li ad aspettarci da almeno un'ora.

Scende i gradini che lo dividono dal selciato e gli viene incontro, è vestito di colori chiari, la camicia è celeste ma Alec non può sapere che è lo stesso identico celeste del tessuto della sua coperta, quella che lo avvolgeva la prima volta che era arrivato in quella casa.

Tra poco anche lui diventerà papà, sono sicuro che ti piacerà quanto ti piace lo zio.
Allarga le braccia e attende che sia lui che il suo papà arrivino abbastanza vicini da poterli stringere in un abbraccio e Alec non vede l'ora, adora gli abbracci di quell'uomo perché sono caldi e perché non sono mai solo suoi, ma c'è anche papà che lo stringe, così si sente come quelle rare volte in cui correndo a salutare i genitori tornati da un viaggio i due lo abbracciano contemporaneamente.

Tu sarai il più grande e quindi probabilmente non ti piacerà subito, ma so che poi cambierai idea, lo adorerai e ti prenderai cura di lui, lo difenderai contro tutto e tutti, come facciamo io e Mich.

La casa la conosce, il salotto dove si trovano ha una libraria piena di libri e lui se ne sta in braccio a suo padre che tiene una mano attorno alla sua vita e in un'altra tiene un biberon, vuole dargli da mangiare a quanto pare, ma poi Mich lo blocca e gli dice che vuole provarci lui.
Alec non crede sia una buona idea ma è un bambino buono e lascia che sia l'altro a prenderlo in braccio e reggergli quella bottiglietta gigantesca.
Dovrò pur imparare no? Tra poco arriverà Jonathan e non voglio finire come mio padre, che non sapeva neanche cosa fosse un pannolino. Mi insegnerai qualcosa tu Bobby, e mi eserciterò un poco con questo piccoletto qui, va bene?
Suo padre ride e vorrebbe farlo anche Alec ma non crede di esserci riuscito bene, sente solo un gorgoglio come quello che fa Isabelle quando soffia con la cannuccia nell'acqua.

Povero bambino allora! Non farti false speranze Mich, non sono tutti angeli come Alexander.

Ride anche l'altro, ridono tutti e ci riprova anche lui, a quanto pare il suono che produce diverte i due uomini che ridono ancora di più, prima che suo padre lo riprenda dalle braccia dell'amico che come illuminato da un'idea scatta a prendere qualcosa di indefinito.


Alec ha ricordi sbiaditi dal tempo e dalla lontananza, quel ricordo non proprio ricordo che appartiene ad un'infanzia troppo distante e che è più una sensazione, un'idea che ti sei fatto e che non sai se sia vera o no, di quelle che potrebbero diventare concrete e aggiungersi di particolari e dettagli se qualcuno sapesse che ricordi e ti aiutasse descrivendoti l'evento. Ma nessuno lo sa, nessuno sa che ricorda e Alec è abbastanza convinto che nessuno sappia di quegli incontri, o per lo meno non sappia cosa succedesse. Ha come la sensazione che sia un ricordo così caro e doloroso per suo padre che neanche alla moglie lo ha riferito, che sia il suo segreto, che se per lui è lontano e sbiadito per Robert invece è chiaro e vivido come quando lo ha vissuto, come la prima volta.
Alec ha ricordi sfocati di un uomo castano, gli occhi caldi e dolci, il sorriso smagliante di chi sapeva cosa stava per succedere e non vedeva l'ora che succedesse, ricorda che era felice come lo era suo padre, ricorda che strimpellava con una chitarra assieme a suo padre, i volti concentrati per dar da mangiare a lui e per azzeccare gli accordi, le risate perse nella sala piena di libri e le parole sicure che spiegavano passaggi e metodi di ogni cosa, dalla posizione delle dita sulle corde a come chiudere un pannolino, - anche se questo Alec non lo sa- ricorda persino una donna bionda, con una pancia gigantesca che gli sorrideva dolcemente, che gli raccontava di qualcuno che sarebbe arrivato presto per giocare con lui, che doveva solo attendere qualche altro mese e poi in quella stanza sarebbero stati in due ad ascoltare la musica di una chitarra immersi in tanti libri.
Alec ha questi ricordi che potrebbero essere un sogno o solo un miraggio, che potrebbero non essere veri, che potrebbero essere solo la concretizzazione della sua mente di un racconto se solo qualcuno gli avesse mai raccontato com'era la loro vita prima di essere esiliati da Alicante.
E' più una sensazione, calore, sicurezza, amore, fratellanza, unione, felicità, casa, la stretta di quattro braccia, due toraci ampi collegati da un filo invisibile che lo avvolgevano rendendolo parte di un patto antico e arcano, potente ed effimero, indistruttibile e labile.
Ricordi, sogni, sensazioni, miraggi, suo padre e zio Mich, i volti felici di due fratelli che non pensavano minimamente di doversi dividere da lì a poco per sempre.







 

 
Non si nasce sempre il giorno in cui veniamo al mondo. Spesso si nasce quando si guarda in faccia un genitore e si capisce quanto ci ami, quando tuo fratello tende la mano verso di te, o quando si incontra il primo vero amico, quando si riesce in qualcosa e ci si rende conto che è quello che vorremmo fare per il resto di quella vita appena iniziata.
Alcuni credono che si inizi a vivere all'incontro del vero amore. Troppi non credono nel vero amore.
Alcuni pensano che si cominci a vivere quando ci si realizzi, quando si arrivi dove volevamo arrivare, ma vedo così tante persona ancora in viaggio e mi domando se si arrivi mai alla fine.
Chiedete ad una sposa, vi dirà che la sua vita, la sua nuova vita, è iniziata il giorno del suo matrimonio.
Chiedete ad uno sposo e vi dirà che la sua è iniziata quando ha visto quell'anima affine sorridergli giurando i essere al suo fianco fino alla fine.
Chiedete a vostra madre e vi dirà che ha cominciato a vivere quando ha realizzato che aveva una nuova vita in sé, quando dopo tutto quel tempo in cui eravate solo voi due vi ha potuto finalmente stringere tra le braccia.
Chiedete a vostro padre e vi guarderà senza sapere cosa dire. Non saprà quando ha cominciato a vivere ma potrà dirvi con certezza quando è nato davvero. Quando è entrato in una stanza da cui proveniva un pianto dirotto e vi ha visto per la prima volta.
Nasce con noi nostro padre, perché fino a quel momento è stato uno, era stato l'uomo che vostra madre aveva amato ma non un padre.
Nasce con noi e cresce con noi, impara dai nostri errori e noi dai suoi. Lo conosceremo come un eroe incrollabile e lentamente ci renderemo conto che non lo è, che sbaglia anche lui, che ha fatto degli errori madornali e che pretende anche di dirci come comportarci. Non ci capirà, o forse noi non capiremo mai lui, non lo faremo sino al giorno in cui non saremo padri anche noi. Quando crescendo ci renderemo conto che anche lui è umano e che questa è la più grande dimostrazione del suo eroismo.
Un padre nasce con suo figlio e con lui diventa adulto, con lui cresce e diventa davvero un padre,.
Noi diventeremo padri quando vedremo nostro figlio e decideremo che lo proteggeremo da tutto e tutti, ad ogni coso.
Un padre nasce quando diventa un eroe.
E quando noi scopriremo che non lo è, allora probabilmente ameremo ancora di più nostro padre.
 

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Capitolo 2
*** A little secret for us. ***


2- A little secret for us.
 

Max è appena nato, il grande evento è avvenuto ben sedici giorni fa e Alec lo sa perché li ha contati, così come ha contato i giorni che l'avrebbero separato dalla nascita del fratellino quando sua madre annunciò la sua gravidanza – 258 se a qualcuno potesse mai interessare-, perché lui è grande ormai, ha ben nove anni, uno sproposito in confronto al piccolo Maxwell. E visto che è grande, certo non è stupito: ha sentito spesso sua madre e suo padre parlare di quanto il bambino sia agitato, che non dorma bene la notte ma solo il giorno, che ha orari impossibili e che non fa riposare la mamma, proprio come faceva Izzy, e Alec se lo ricorda solo vagamente un pianto ininterrotto nelle notti di tanti anni fa, ma è abbastanza sicuro che fosse molto simile a quello che sentiva durante quelle, di notti.
Mamma è stanca, Alec lo vede, vede il volto sciupato, la pancia non più gonfia e soda, le spalle curve e le occhiaie e suo padre se ne è accorto come lui, per questo le aveva detto che “le notti le faceva lui”. Qualunque cosa significasse.
Izzy dorme e non sente nulla, ma come potrebbe? La sua dolce sorellina ha il sonno così pesante che è difficile farla alzare anche alla mattina, figuriamoci la sera dopo una giornata intera passata in giro per l'Istituto a correre e giocare. La camera dei suoi genitori invece è più avanti, più lontana dalle scale e dall'ascensore, quindi è possibile che il pianto di suo fratello non arrivi proprio alle orecchie della mamma e può scommetterci che Hodge deve aver applicato una runa del silenzio alla sua porta.
Ma Alec invece sente, con quella sua dannata ipersensibilità che avrà anche in futuro verso tutti coloro che ama, in particolare i suoi fratelli; sente Robert che cammina avanti e indietro un paio di piani sotto di lui, nel silenzio dell'Istituto che di notte pare ancora più lugubre di quanto non sia di giorno. Parla con il figlioletto cercando di farlo dormire, glielo chiede per favore, cullandolo e sospirando ogni volta che riceve un lamento più forte in risposta.
Alec ci sta male, dispiaciuto per entrambi, per uno che evidentemente non riesce a dormire e l'altro che vorrebbe tanto farlo ma non può, così scosta le coperte azzurre, si alza dal letto e cerca le pantofole nel buio della sua cameretta, tanto spoglia da non sembrar minimamente quella di un bambino di nove anni. Ma lui non ha mai conosciuto altri bambini della sua età, quindi non ha la più pallida idea di come sia una camera normale e forse è anche meglio, già si sente fuori posto così, non abbastanza forte e bravo per essere già allenato al combattimento come invece facevano i suoi genitori ad Alicante, figurarsi se sapesse che di solito le stanze dei bambini sono colorate e piene di giochi, di vita.
Esce di soppiatto senza far rumore, magari non sarà già pronto per il combattimento vero e proprio, ma nessuno poteva dirgli che non avesse il passo felpato degno di un cacciatore, quello proprio no, Alec era un mito nel passare inosservato. Ma purtroppo l'ascensore non è bravo come lui ed il bambino si ritrova a pensare che, aprendo le porte, avrebbe fatto troppo rumore e magari Max si sarebbe spaventato, piangendo ancora di più. Deve ammettere che l'idea di scendere le scale scure e praticamente non illuminate non gli va troppo a genio, certo, ma se vuole arrivare in salone e fare compagnia al suo papà deve rischiare.
Che nessuno osasse dire che uno Shadowhunter ha paura delle ombre, ecco.

 

Quando socchiude la porta della sala Robert gli da le spalle, è in piedi e culla goffamente il piccolo mostriciattolo urlante che si dimena tra le sue braccia, i pugnetti alzati al cielo come a voler imprecare contro quell'uomo che non stava facendo le cose nel modo giusto, che stava sbagliando approccio. Non si poteva certo dare tutta la colpa a lui però, l'unico bambino che Rober aveva fatto addormentare da neonato era stato Alec, ma dopo di lui non aveva osato toccare Izzy, forse perché sapeva che lei non l'avrebbe potuta portare da nessuna parte, a conoscere nessuno, ma ancora una volta Alec non poteva saperlo, non gli era venuto neanche lontanamente in testa, dava così per scontato che suo padre si fosse occupato anche di loro due come faceva per Max.
Quei pensieri erano bastati a farlo stazionare sulla soglia abbastanza tempo affinché l'uomo lo notasse.
Si fissarono imbarazzati per dei lunghi minuti, mentre Max continuava ad urlare come se non ci fosse un domani, ancora più irritato dall'improvvisa stasi dell'uomo.

 

<< Mamma canta sempre per farlo calmare, funziona anche con Izzy.>>

La vocina di Alec è delicata come un fiore, quel timbro cristallino e bianco che hanno i bambini, acuto come campanelle di vetro ma estremamente dolce dalle labbra di quella piccola miniatura di suo padre, i toni bassi di Alexander gli sarebbero valsi per tutta la vita una voce melodica.
Almeno quando non avrebbe tenuto il broncio e comunicato a grugniti e risposte sarcastiche.
Robert lo guarda come incantato, ricordi di una vita passata e distante che si rincorrono nella sua testa e si ripropongono con prepotenza, senza lasciargli via di fuga.

 

<< Non so cantare, sono stonato.>>

Lo confessa come farebbe un figlio al proprio genitore, come se i ruoli si fossero invertiti per un momento e rimangono tali quando Alec gli concede un piccolo sorriso, incoraggiato da quella risposta così semplice veritiera che gli fa sperare che suo padre accetti il suo aiuto, che gli fa credere che potranno condividere quel momento, quel rarissimo momento di intimità e unione, come non ne hanno mai di solito, come ne ha visti alle volte tra Izzy e Maryse quando parlavano di cose da “donne”. Ci spera veramente anche se non sa che quella dovrebbe essere la normalità tra genitori e figli e non un evento straordinario.
Alec non può saperlo, non conosce altri bambini, altre famiglie, non ha esempi a cui paragonare la sua di famiglia e ciò non gli sembra neanche un problema perché è così che è cresciuto, è normale, tutto normale esser soli e non aver amici, non aver praticamente mai visto un bambino.
 

<< Posso provarci io se vuoi.>> fa un passo avanti e poi un altro, sempre più incoraggiato dall'imbarazzo sul volto del padre che invece che infastidirlo o sorprenderlo gli allarga il cuore: hanno qualcosa in comune, anche Robert arrossisce quanto è imbarazzato, anche lui fa quella smorfia con la bocca e muove il naso a destra e sinistra, proprio come lui.
<< Non sono molto bravo, ma posso provarci.>> lo ripete per mettere le cose in chiaro, per fargli capire che non è una cosa che sa fare ma che lo farà lo stesso perché è quello che fanno le persone grandi, provano anche se non ne sono capaci, affrontano il problema, come gli ripete sempre lui in palestra, quando deve saltare e fare le capriole: “ora non ci riesci ma se non provi non potrai mai farlo. Non esiste il 'non essere capace' esiste solo l'averci provato o meno”.
L'uomo annuisce e gli fa cenno di sedersi sul divano, Max continua a piangere e non apprezza molto quando anche lui si siede affianco al figlio.
Rimangono di nuovo in silenzio, fermi senza il coraggio di guardarsi in faccia, finché Robert non gli chiede cosa vuole cantare e rimane spiazzato dalla risposta.
 

<< La canzone che canta mamma di sicuro gli piace, ma se non funziona ne ho un altra che mi suonava da piccolo.>>

 

Suonava? Ma Maryse non suonava. Certo, sapeva pigiare qualche tasto sul pianoforte, le musiche più semplici e quelle da manuale per ogni buona ragazza di famiglia che si rispetti, ma era abbastanza certo che non lo facesse più da anni perché gli ricordava troppo Alicante.
Alec si schiarisce la voce e comincia da prima piano e poi sempre più sicuro a cantare in francese.
E da quando suo figlio conosce il francese?
Ha imparato a memoria la canzone di Maryse, Alec ne è molto fiero in effetti, e quella sembra tranquillizzare un poco Max che comunque, quasi per ripicca, non smette di piangere.
Ma Robert è perso, quel suono così bello e melodico sta davvero uscendo dalle labbra di suo figlio? Lo riporta indietro di anni ed anni, nella sala dei balli, dove in un tripudio di oro e marmi, su una scalinata, dei bambini in tunica color crema intonano canti cerimoniali con le loro vocine acute. Qualcuno gli colpisce la spalla e Robert si ritrova vicino ad un adolescente dai capelli castani che gli indica i ragazzini con un cenno della testa , “ Sono voci bianche ora, ma aspetta qualche anno e metteranno su quell'improponibile vocione che è venuto pure a te.”
Poi la canzone finisce e l'uomo si ritrova a fissare il suo primogenito per la prima volta in quella nottata, sorpreso, spiazzato, incantato, triste al pensiero che crescendo Alexander perderà quella voce così celestiale.
Il bambino interpreta male quel silenzio e quello sguardo ed abbassa la testa mortificato.
Non è riuscito ad aiutare il suo papà e ora è deluso.

 

<< Scusami, non sono stato di nessuna utilità.>>

 

Sono parole come spade, spilli roventi che gli si infilano nel cuore: un bambino non dovrebbe conoscere il senso di una frase del genere, non dovrebbe usarla.
Non sa spiegarsi quale pensiero gli passi per la testa, ma decide che da padre non può fargli credere che sia inutile, che è suo dovere fargli credere fermamente nel contrario.
 

<< No.>> gli dice lapidario attirando la sua attenzione, << Questa è la canzone di tua madre, Max lo avverte, sa che non è lei, per questo non puoi riuscirci.>>
 

Gli occhi di Alec si fanno ancora più tristi, non solo non è riuscito a cantare bene, ma suo fratello non vuole quella canzone perché è lui a cantarla, non per altro motivo. Quindi è lui il problema.
Probabilmente Robert si stava maledicendo in tutti i modi che conosceva, aveva di certo detto la cosa sbagliata ma ora cosa poteva fare? Lui mica era bravo con i bambini.
Poi l'idea.

 

<< Hai detto che se questa non funzionava ne conoscevi un'altra. Provala.>>

 

Ora è sicuro di aver detto la cosa giusta, quegli enormi occhi blu, blu come il mare di notte ed il cielo stellato, come i colori di una tavolozza ed i fiori più rari, brillano di speranza e di sorpresa, probabilmente pensava di averlo deluso e non si aspettava che gli chiedesse ancora il suo aiuto.
 

<< Aspetta però, mettiti seduto bene, più vicino allo schienale. Tienilo così e non farlo cadere.>>

Gli passa Max che ancora piange ed Alec rigido come una statua lo tiene con una cautela ammirevole, abituandosi in fretta a quel peso frignante e prendendoci confidenza, gli sorride e lo culla.
Robert li guarda con uno strano calore che gli si espande nel petto e poi corre via, a cercare qualcosa di troppo caro e che ha nascosto per troppo tempo.

 

Alec era rimasto fermo su quel divano per davvero un infinità, o così gli pareva. Max aveva cominciato a piangere di meno e Alec aveva mormorato canzoncine per tutto il tempo, aveva praticamente finito il repertorio e gli mancava solo la canzone che aveva detto al suo papà.
Si era ormai convinto che Robert avesse interpretato male le sue parole e avesse creduto che Alec volesse addormentare Max da solo, magari se ne era anche tornato al letto.
Proprio quando stava abbandonando tutte le speranze l'uomo era tornato in salone con una vecchia chitarra in mano.
 

Il bambino lo fissa sorpreso, Robert immaginò perché non aveva mai visto una chitarra e soprattutto non ne aveva mai vista una in mano a lui, ma si sbagliava: Alec non poteva credere ai suoi occhi, quella era la stessa che aveva sognato tante volte!
 

<< Come fa la canzone?>>

Il bambino si riscuote, suo padre si siede davanti a lui, un piede sul tavolino basso, curvato sulla chitarra la sta accordando e Alec per la seconda volta si schiarisce la voce e canticchia il primo pezzo.
Robert annuisce.
Era proprio come aveva immaginato, non sapeva spiegarsi bene come ma Alexander ricordava la canzone che lui e Michael gli suonavano quando era piccolo. Si ritrova a sorridere amaramente, diviso tra la dolcezza di un ricordo e il dolore che gli comporta. Prende un respiro e parte con gli accordi, seguito da Alec che non si domandò neanche per un momento, anche in futuro, come facesse il suo papà a conoscere la musica giusta.

 

Quella notte, padre e figlio, la passano a suonare una vecchia chitarra su cui è incisa una M ed una W, dove vicino c'erano state aggiunte una R e una L. Cantando con voce angelica una ballata mondana senza saperlo davvero, non entrambi almeno. Lo fanno per un piccolo mocciosetto che ha pianto ininterrottamente per ore e che improvvisamente si ferma, rapito da quella musica che non ha mai sentito e da quella voce che sembra nata per cantare quel brano. O forse è il brano ad esser stato composto per quella voce?
Max la ascolta fissando il fratellone finché non si addormenta, stretto tra le sue braccia, quelle braccia che lo avrebbero sempre protetto e ripreso al volo ogni volta che sarebbe caduto, le stesse che un giorno di nove anni dopo sarebbero state le ultime ad abbracciarlo, nel silenzio di una cripta.
Robert e Alec fanno addormentare Max tutte le notti finché il bambino non diventa abbastanza grande da prendere un ritmo suo, da non necessitare più di quelle serenate notturne che con il tempo dimenticherà, credendole un sogno esattamente come aveva fatto suo fratello con le sonate di suo padre e del suo parabatai.


Non lo diranno mai a Maryse, mai ad Izzy e non lo saprà mai Jace, in uno di quei momenti in cui lui ed Alec si confessavano i giorni di un passato che non avevano condiviso. Alec non avrebbe più cantato a dir il vero, non lo avrebbe più fatto perché era una cosa che faceva con suo padre e solo per suo fratello. Non lo avrebbe più fatto finché un altro Max non ne avrebbe avuto bisogno, quando un giorno il suo papà bravo con la musica non ci sarebbe stato e Alec si sarebbe ritrovato a dover calmare il piccolo da solo, senza aiuto. Solo quel giorno un'altra persona avrebbe scoperto quella storia ma probabilmente non l'avrebbe mai ricordata.
Ma quello sarebbe successo un giorno, troppo lontano da quella notte e da quelle che sarebbero venute.
Ora non lo sanno: è il loro segreto e lo sarà per sempre.

 







 

Cos'è un segreto se non la dimostrazione di fiducia più grande che possiamo fare?
Un amico, un fratello, un amante, sono tutte persone con cui per la vita condividerai i tuoi segreti, segreti che la maggior parte delle volte saranno stupidi ed imbarazzanti o grandi onte o quella multa che hai preso ma i tuoi non devono scoprire.
Non è curioso? Passiamo i primi anni della nostra vita a correre dai nostri genitori per raccontar loro ogni cosa, detentori assoluti di tutto il sapere sulle nostre più piccole azioni, poi un giorno smettiamo di dir loro tutto e cominciamo ad aver segreti su segreti, a nascondere verità per noi imbarazzanti o fastidiose e loro non sanno più nulla.
A nostra madre cominceremo a dire solo le cose che reputiamo più importanti e personali.
A nostro padre solo quelle più stupide per cui mamma si sarebbe arrabbiata e lui invece ride come un matto.
Ecco, credo che sia qui che si intuisce la più grande differenza tra i genitori: è la madre che ti stringe e ti consola, che ti dice che va bene e che non devi preoccuparti. È il padre invece che insegna a ridere delle brutte esperienze, a vedere il lato più comico, a farti capire che cretino sei stato.
Lei ci insegna ad accettarci.
Lui ci insegna a ridere di noi.
Entrambi sono essenziali, entrambi li ameremo e ci ameranno anche nei momenti peggiori.

Resta il fatto che è mio padre che si è messo a ridere come un deficiente quando il mio cane mi ha dato una testata sul naso e me lo ha quasi rotto. O quando sono quasi affogato perché mi ha tappato il boccaglio. O quando sono volato giù dalle scale. O quando non ho visto il vetro e gli ho dato una facciata. O quando ho aperto lo spumante e mi sono tirato il tappo in un occhio.
Non lasciate mai i bambini soli con il padre a meno che non vi fidiate di lui.
Non con qualcuno che sia a sua volta un bambino.
Non con qualcuno e ti spruzza il profumo sulle ferite perché tanto dentro c'è l'alcol e disinfetta.
Non con mio padre.
E neanche con me, che sono il suo degno figlio. Magnificamente stupido come lui.

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Capitolo 3
*** The foruth son. ***


3- The fourth son.

 

Quando arriva Jace Alexander ha undici anni ma tra un paio di mesi ne compirà dodici.
Lui ed Isabelle lo attendono davanti alle porte dell'Istituto, impazienti di conoscere un altro bambino, Max se ne sta tranquillo tra le braccia del fratello maggiore cercando di afferrare i capelli della sorella, abbastanza vicina da illuderlo di arrivarci.
Alla fine questo Jonathan Wayland non è poi così differente da loro: è più basso di Alec -ma questa non è una novità per lui- e alto quasi come Izzy. Ha i capelli di un biondo lucido e gli occhi di un oro denso come quello dei fregi della cappella, persino la sua pelle sembra dorata. A dirla tutta non è un gran ché, non a primo impatto, li fissa con il mento alzato, senza pudore e con superiorità e Alec vede sua sorella fremere dalla voglia di chiedergli mille cose, prima tra tutti chi cavolo si credeva di essere per guardarla con quella faccetta.
Alec aveva sospirato sconfortato, già prevedendo che quei due avrebbero fatto scintille.

Gli avevano detto che era il figlio del parabatai di suo padre, morto da poco, e che non aveva più nessuno al mondo. Robert non se lo era neanche fatto chiedere, se poteva prendere lui il bambino, lo aveva dato per scontato, si era semplicemente presentato ad Alicante per poterlo prelevare e portare con sé a NYC e, Alec doveva ammetterlo, al cosa lo riempiva d'orgoglio.
C'erano però delle discrepanze in tutta quella storia: per esempio, lui era un ragazzino – aveva dodici anni ora, non potevano più chiamarlo bambino- ben istruito e abbastanza intelligente, credeva, e aveva studiato molto compreso il legame parabatai, quella runa che legava due persone come neanche una runa matrimoniale riusciva a fare, che ti fa sentire l'altro anche a miglia di distanza, che ti fa condividere i sentimenti, la forza, le speranze, anche l'aria che respiri.
Allora perché lui non aveva visto il suo papà soffrire per l'improvvisa dipartita del fratello?
Secondo punto, non meno importante: Alec aveva visto la foto di tutti i primi membri del “Circolo” quando ancora non era una cosa terribile ma solo un gruppo di amici che volevano fare la differenza, lui sapeva chi tra quelli era Michael Wayland, e per l'amore del cielo non ci somigliava per niente! Quello non poteva essere il figlio del parabatai di suo padre, andiamo! Michael era castano, aveva gli occhi scuri, non era biondo con gli occhi d'oro! Somigliava molto più ad un altro tipo, no, non quello con i capelli quasi bianchi vicino alla rossa, uno sul lato, dopo Hodge e un tipo che si chiamava Lucian.
Ma ad entrambi ricevette risposte più che esaustive a cui non poté controbattere: al suo dubbio sul “sentire” la morte del compagno, che aveva chiesto ad Hodge -col cavolo che andava ad infilare il dito nella piega a suo padre- l'uomo gli aveva sorriso indulgente e gli aveva spiegato che con l'esilio la runa era stata “invalidata”, non funzionava più. Gli disse anche di chiedere a suo padre di mostrargliela, avrebbe visto solo un disegno sbiadito simile ad una cicatrice.
Alec non glielo chiese mai.
Per la seconda fu sempre il suo, come poteva definirlo? Amico? Precettore? Beh, fu sempre Hodge a dirgli che assomigliava tutto a sua madre.
In ogni caso Alec non era davvero interessato a quelle risposte, gli hanno detto che Jace da quel momento in poi sarebbe stato suo fratello e che avrebbe dovuto proteggerlo, amarlo e prendersi cura anche di lui come di Izzy e Max.
E Alexander lo avrebbe fatto come solo suo padre sperava segretamente e come invece sua madre e Hodge non avrebbero mai immaginato.
Alexander vede la dedizione e l'impegno che suo padre mette nell'educare anche lui, come sua madre lo reputi già un altro figlio -anche se Jace non se ne accorge perché quando la mamma canta per lui ormai già dorme-, come i suoi fratellini lo adorino e come anche Hodge sia fiero e soddisfatto dello Shadowhunter modello che è ed insieme a quel misto di ammirazione e gelosia, di attrazione e repulsione che prova per il bambino, c'è tantissimo orgoglio per come si sta comportando tutta la sua famiglia, per come lo stanno accogliendo e lo stanno facendo diventare uno di loro.

Era orgoglioso soprattutto di suo padre, perché sapeva che lo stava facendo per Michael.

 

Solo anni dopo, quando lui e Jace – Jace non Jonathan- sarebbero diventati parabatai, quando si sarebbe scoperta tutta la verità su di lui, quando non avrebbe più potuto ignorare le domande martellanti nella sua testa, domande che non avrebbe dovuto avere perché gli era stata fornita una risposta esaustiva, quando né le parole dei suoi genitori o di Jace stesso avrebbero più potuto convincerlo, quando avrebbe sentito la sua anima tendersi verso il baratro nel disperato tentativo di non separarsi dalla sua metà, di non far spezzare quella corda che partiva dritta dal suo cuore per finire in quello ormai fermo del parabatai, del suo miglior amico, di suo fratello, Alec avrebbe capito tutto.
Robert non poteva aver scambiato Jace per il figlio di Michael, non poteva proprio, era impossibile. Non poteva non aver avvertito la morte del suo parabatai, quella notte ad Alicante di sedici anni prima, non avrebbe mai potuto vedere in Jace suo fratello, quando Alec avrebbe riconosciuto un figlio di Jace tra mille, anche solo con uno sguardo o entrando semplicemente nella stessa stanza, quando lui di Jace avvertiva anche i suoi respiri.
E forse suo padre si era voluto illudere, che Michael fosse vivo, che quel dolore lancinante che aveva sentito quella notte era solo il bruciore della sconfitta e della lotta e che Jace assomigliava tutto a sua madre.

Ma poi si ricordava che quelle domande le aveva poste a chi aveva tradito la sua fiducia, la fiducia di tutti e che forse lo aveva ingannato, che Robert lo aveva sempre saputo.
Allora perché lo aveva adottato? Perché non aveva detto che non era un Wayland, perché non aveva detto che somigliava a Stephen Herondale e non lo aveva riportato da sua nonna?
Suo padre era ed è un uomo strano, davvero contorto -forse era da lui che aveva ripreso quel carattere del cavolo che aveva- ma anche se non sa dimostrarlo Alec sa che li ama, tutti quanti, e quando si rende conto che Robert sapeva e che ha accettato ed amato Jace come un figlio perché lo era, lo è, non per Michael, non perché si sentiva obbligato, Alec lo stima ancora di più.







 
Avere un fratello è un'esperienza di vita. Nessuno che non ne abbia uno può capire, è il lavoro più impegnativo che si ha per tanto, troppo tempo, prima di quando non si avrà un figlio tra le braccia.
I fratelli sono quegli esseri fastidiosi all'ennesima potenza, quelli che defenestreresti volentieri e gli tireresti un pugno in faccia, infierendo una volta caduti a terra.
I fratelli sono quelli che li vedi cadere e ti metti a ridere, perché ben ti sta, così impari, questo è il karma, te lo sei cercato, la vita ti ripaga di tutte le volte che hai rotto l'anima a me. Eppure poi sei a terra anche tu, seduto vicino a lui, a soffiargli sulla ferita e dirgli che non è niente, che ora passa. Poi ti ritrovi a caricartelo in spalla anche se è più grande di te, anche se sei tu il fratello minore, a cadere quasi sotto il suo peso solo perché si è sbucciato il ginocchio e ha pianto un po', solo perché mamma e papà fanno così quando vi fate male e allora lo fai anche tu.
Li odiamo, con tutto il nostro cuore. Odiamo i nostri fratelli con la stessa facilità con cui si odia il tipo che ti ha rubato il posto in metro dopo una giornata passata in piedi al lavoro. Li odiamo tutti i giorni della nostra vita e glielo rinfacciamo per altrettanti.
E lì, tra una lamentala e l'altra, tra un rimprovero, un pugno, una spinta e una cattiveria, si annidano i momenti in cui ridi fino a sentirti male, in cui ti basta un'occhiata e sai cosa sta pensando l'altro. Quando dici le cose al posto suo o spieghi a terzi i suoi mugugnii incomprensibili. Ci sono gli attimi in cui fai le cose in automatico come piace a lui, o per lui o pensando a lui, lo fai e basta, non gli chiedi se voleva anche lui un panino, ti presenti lì, davanti alla scrivania e gli molli il piatto sotto il naso.
Vanno odiati ed amati, questa è la regola base dei fratelli, ma mai vanno dimenticati, non è possibile, non ci si riesce.
I fratelli non te li scegli, così come non ti sei scelto il resto della tua famiglia, ma saranno per te i primi nemici ed i più grandi confidenti.
E ogni volta che a loro verrà concesso qualcosa tu sarai lì a roderti dalla gelosia, la stessa che ti prenderà quando li vedrai allontanarsi mano nella mano con qualcun altro. C'è un misto di sentimenti contrastanti e contraddittori che alberga nel cuore di ogni fratello, senza che noi possiamo farci niente.
Non ci rendiamo mai conto di quanto siano anche fonte d'orgoglio per noi, quanto una loro vittoria sia anche nostra. Come dei genitori che si vantano delle prodezze dei figli, noi ci vantiamo di quelle dei nostri fratelli, forse con ancora più orgoglio, perché credevamo in loro, perché credevamo che ce l'avrebbero fatta in quel modo sincero e disinteressato che solo un fratello può avere. E anche un poco ossessivo, va, ma alle brutte avevamo già il piano b, perché insomma, va bene la fiducia, ma mio fratello è sempre quel deficiente di mio fratello e poteva anche cadere all'ultimo passo, lo so perfettamente.
Riconosciamo negli altri l'amore fraterno, le azioni che loro intraprendono in loro onore e in loro nome.
Perché gli amici sono la famiglia che ti scegli, ma i fratelli sono gli amici con cui nasci e non potrai mai farne a meno, ovunque loro siano. Sempre.

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Capitolo 4
*** Have a quality ***


4- Have a quality.

 

In famiglia hanno tutti le loro peculiarità, Alec questo lo sa bene, come sa che tutti sono stonati tranne sua madre, che l'Angelo cancelli il giorno in cui Iz e Jace si erano messi a fare quel...coso, che non poteva essere chiamato assolutamente duetto. Così come sa che Isabelle, anche se non dovrebbe mai più cantare in vita sua, è brava a ballare, lo fa in un modo così sinuoso ed accattivante che si potrebbe rimanere delle ore a fissarla. E Jace suona divinamente il piano, dando vita a quelle melodie che non sono altro che un semplice susseguirsi di note scritte su di un pentagramma ma che il fratello riesce a trasportare fuori dalla carta solo schiacciando i tasti d'avorio.
Sa che Max, tanto piccolo e indifeso, in verità a un cervello che lavora il doppio del loro, che è attento e non gli sfugge nulla, che legge e assorbe tutto quello che gli capita sotto tiro.
Sa anche che lui, purtroppo, è quello che di pregi ne ha davvero meno di tutti, se poi essere alto come un palo della luce è un pregio e se essere un bravo arciere rientra tra le doti innate o tra quelle che ha faticosamente allenato e perfezionato.
Sa anche che suo padre, burbero ed impacciato in ogni gesto d'affetto, che probabilmente con le sue bugie e i suoi segreti farà crollare la loro famiglia prima o poi, sembra chiedere sempre tutto di tutti solo per il puro gusto di poter poi criticare ogni cosa.
Robert Lightwood ha tanti di quegli scheletri nell'armadio che forse, e dico forse, Alec prima o poi dovrà chiedergli di buttarne qualcuno, che non c'è più spazio e se portano un altro armadio in casa, o un altro scheletro, allora dovrà uscire uno di loro. Ma a parte questo, sembra buono solo a lavorare, a cercare di tornare il prima possibile ad Idris, a criticare ogni loro scelta, ogni loro avventata azione e ogni loro singolo gusto.
Gli ci è voluto un po' per accettarlo, ma alla fine si è reso conto che Robert, il padre, non è in grado di farlo.
Perché poi? Forse il suo di padre è stato uno stronzo? Forse per quel problema che ebbe con le rune, che lo fece rimanere indietro così tanto e lo sottopose all'umiliazione di tante, troppe persone? O forse perché spesso si scontrava con Maryse, con le sue idee su come crescere i figli?
A quei pensieri Alec sbuffava sempre, ironicamente divertito dall'ipocrisia di entrambi i genitori che si ostinavano spesso a dare all'altro la colpa per un comportamento, a loro dire, errato dei figli. Tanto nessuno dei due era meglio dell'altro, forse poteva concedere un punto in più a sua madre, che testarda come Isabelle aveva retto quella situazione opprimente per tutti quegli anni solo perché il loro matrimonio doveva durare per sempre e tutte quelle puttanate là. Ma da una parte capiva anche il desiderio di suo padre di essere libero, la sua decisione di rimanere con loro invece di andarsene come aveva programmato. In sostanza, però, reputava entrambi due grandissimi deficienti che si erano rovinati la vita da soli e l'avevano rovinata a loro, decidendo di tenere in piedi quello spettacolo fino a che il palco non si era definitivamente sfondato, facendo cadere a terra tutti i commedianti.
Non poteva pretendere di capire come si sentissero i due, quali fossero i loro sentimenti: lui aveva amato per anni la persona sbagliata, suo fratello per l'Angelo, il suo parabatai, e poi aveva trovato la felicità, non osava dire “amore”, forse nell'essere più sbagliato che potesse trovare e che poteva vantare tre fondamentali e magnifiche pecche: era un nascosto, era immortale, era un uomo.
Evviva Alec e la semplicità con cui riesce a rovinarsi la vita, facciamogli tutti un applauso di cuore.
Magnifico.
Comunque, lui di certo non poteva parlare di amore e legami lunghi e definitivi come un matrimonio, quello no, ma poteva dire per certo che, malgrado si fossero fatti una guerra fredda per anni, i suoi genitori si erano amati, davvero, e ogni tanto si amavano ancora.
Se con sua madre lo si poteva intuire da tanti fatti, con suo padre si doveva andar a guardare con attenzione ai dettagli più piccoli che potevano nascondersi anche nelle cose più banali che l'uomo chiedeva ogni giorno. Per questo, quando una mattina Robert gli chiese di cosa stesse blaterando prima Izzy, Alce gli rispose trattenendo un sorriso, spiegandogli che la ragazzina aveva visto delle scarpe in una vetrina mondana e che stava assillando sia lui che Jace per accompagnarla a prenderle. Com'era prevedibile l'uomo gli espresse tutto il suo disappunto per la cosa: pensare ai vestiti era l'ultimo dei loro problemi, Izzy doveva allenarsi duramente come facevano lui e suo fratello, anche se persino Jace ultimamente faceva un po' il diavolo a quattro.
Ancora una volta Alec si era trattenuto dal sorridere e gli aveva solo detto che, dopo aver visto un manuale riportato proprio da loro di recente da Idris, il ragazzo si era fissato nel voler provare una speciale spada a doppio filo.
Cominciava sempre così, di solito il periodo era quello subito successivo al suo rientro da qualche Istituto sparso per il mondo, dopo un'assenza anche di mesi. Robert tornava, si riabituava al tran-tran dell'Istituto di New York e poi cominciava con quelle sue domande, apparentemente così innocenti e anche fastidiose alle volte.
Alec lo incrociava per i corridoi ed il padre lo fermava per chiedergli qualcosa: Max aveva lasciato non sapeva bene dove uno dei suoi stupidi fumetti, ma lui si scordava sempre come si chiamava, quale tra i tanti era. Oh, Naruto? Bene, avrebbe cercato di tenerlo a mente, intanto, se lui lo vedeva in giro, che lo riportasse al fratellino. Poi si voltava di nuovo e gli chiedeva che cosa ci fosse in copertina.
“ Che numero era?” l'ultimo, Max perdeva sempre l'ultimo e Alec sospettava di sapere perché. Annuiva e diceva sovrappensiero che doveva essere il sesto all'ora, forse c'erano due ragazze in copertina? Beh, prima o poi sarebbe rispuntato fuori.
E se non era un fumetto perduto dal fratellino era uno strano tessuto che aveva visto da qualche parte, in una delle mille sale di quella cattedrale gigantesca, gli ricordava vagamente un vestito che sua madre metteva ai tempi di Alicante, mentre lui era via si era decisa a buttare quello straccio? Ah, Maryse, sempre così dannatamente attaccata al passato.
C'erano giorni poi che Robert era così indaffarato da non riuscire neanche a mettere il naso fuori dall'ufficio, giorni in cui sembrava che fosse di nuovo partito.
Poi una mattina Izzy si alzava sovreccitata: aveva trovato una scatola ai pedi del letto e dentro c'erano proprio le scarpe che voleva. E Jace correva fuori dalla palestra brandendo un'arma particolare che non avevano mai visto, una lama doppia che di certo era un nuovo acquisto e che faceva urlare a squarciagola Maryse per la millesima volta che non dovevano correre per i corridoi con le armi sguainate. In tutto ciò, Max se ne stava sprofondato in qualche poltrona a leggere il numero sette del suo manga, sul bracciolo, impilati in equilibrio precario, altre cinque volumetti.
Se poi la sera passava silenzioso vicino alla camera dei suoi genitori, avrebbe potuto scorgere Maryse guardare con affetto e nostalgia un suo vecchio vestito di quando era solo una giovane shadowhunter come tante, ora di nuovo integro e perfetto.
Il giorno seguente Robert avrebbe fatto colazione con la testa immersa nelle scartoffie, ammonendo come sempre i figli perché facevano troppo chiasso o perché leggevano a tavola, senza degnare di uno sguardo il vestito che indossava sua moglie, senza darle il minimo indizio che lo avesse riconosciuto.
Ma Alec sapeva che gli sarebbe bastato aspettare che suo padre scostasse un poco i fogli da davanti al volto per bere il suo caffè, in quel momento, per una frazione di secondo avrebbe visto le labbra dell'uomo piegarsi in un leggero sorriso, timido, soddisfatto ed incerto come lo era i suoi e tanto gli sarebbe bastato.
La sua famiglia era particolare, lo è tutt'oggi, ma Alec ha sempre saputo che ognuno aveva la sua particolarità: sua madre era l'unica che sapeva cantare, in quel modo dolce che riusciva a farti credere che nulla potesse esistere di brutto al mondo. Sua sorella ballava come un soffione nel vento, ipnotizzando lo sguardo come una falena è ipnotizzata da una fiamma. Jace riusciva a far diventare quei puntini neri su infinite righe dei suoni soavi e pieni di sottintesi, di sentimenti mai detti e parole mute. Max era un piccolo genietto e vedeva più cose di quante non avrebbe dovuto, capiva meglio di loro che erano adulti ciò che provavano le persone. Lui era ben o male nella norma, forse gli si sarebbe potuto concedere che aveva una gran pazienza, ma era anche un fifone che si era nascosto per anni solo per non ferire gli altri, quindi meglio soprassedere. Ma suo padre, lui era quel genere di persona che sembrava non ascoltarti mai, se non per correggerti e rimproverarti, per darti ordini e dirti che non si fa, ma in realtà era un uomo impacciato che amava i suoi figli e non sapeva come dimostrarglielo. Con al capacità innata di ricordarsi le cavolate ed esaudire i piccoli desideri dei suoi ragazzi e anche di sua moglie, ma senza il coraggio di dire apertamente che era stato lui, costantemente nella vergogna di un'azione o del dubbio della sua esattezza.
Forse lui e suo padre erano simili sotto quel punto di vista, nessuno di loro due aveva un talento assoluto come gli altri, ma ne avevano uno costantemente messo sotto pressione, costantemente in dubbio, combattuto.
Beh, non sapeva come spiegarlo a parole, come lo avrebbe detto agli altri se avesse deciso di renderli partecipi della cosa, ma nella sua testa era piuttosto chiaro.
 

Si passò una mano tra i capelli scompigliati, si sarebbe dovuto mettere la tuta e poi filare giù in palestra a riscaldarsi per la lezione del giorno, invece che pensare ai bizzarri tentativi di suo padre di renderli felici.
Chiuse la porta della camera e si voltò verso l'armadio ma qualcosa attirò la sua attenzione: sul letto rifatto era posto un lungo involucro di carta, delle dimensioni all'incirca tubolari, legato con un filo da pacco. Si avvicinò guardingo e sospettoso, sperando che non fosse di nuovo qualcosa di Jace o Izzy che i fratellini avessero intelligentemente deciso di ordinare a suo nome perché era maggiorenne. Sospirò pesantemente e si decise a scartarlo, tanto al massimo glielo avrebbe rinfacciato fino alla morte a quei due, ma fortunatamente non ce ne sarebbe stato bisogno. Con sua grande sorpresa la carta rivelò davvero un cilindro, sembrava di legno o forse di cartone, fino in ogni caso e rivestito di pelle nera, il tappo era ad incastro e ruotandolo leggermente il ragazzo riuscì a sfilarlo e a riversare il contenuto sul letto. Dieci scintillanti frecce di metallo dalla coda piumata di nero e blu si infilzarono sulla stoffa consunta della federa, le punte affilate risplendevano della stessa pallida luce del cristallo delle spade angeliche.
Un piccolo sorriso appena accennato cominciò a farglisi strada sul volto, fino ad allargarsi completamente al ricordo della sua discussione con Jace su come sarebbe stato utile avere delle frecce non solo consacrate ma anche ricoperte di cristallo, una cosa davvero difficile da realizzare e certo altrettanto costosa.
Rimise tutto al suo posto e poi pose il cilindro al centro del letto, gli avrebbe legato un filo e poi l'avrebbe appeso sulla testiera.
 

Quella volta, vicino a loro due che discutevano, suo padre stava allenando impassibile Isabelle, senza prestar loro la minima attenzione, o almeno questo era ciò che credeva.
 

Robert pare non aver particolarità se non quella del padre burbero che si interessa alle cose solo per criticarle, impacciatamente distante, ma per Alec, in tutti i suoi difetti, è perfetto.









 
Le famiglie sono un sistema complesso che trascende ogni logica di questo mondo.
Siamo agglomerati di caratteristiche e sfaccettature che spesso non combaciano, che cozzano le une con le altre e riflettono malamente la nostra luce accecandoci.
Non siamo noi a sceglierci, giusto? I nostri genitori si incontrano, si piacciono e decidono di passare la vita assieme, o almeno di provarci, ma non ci danno la minima possibilità di sceglierli. Nasciamo che abbiamo “ripreso” dall'uno o dall'altra, ci sentiamo più affini con uno e in conflitto con chi resta. Ci domandiamo come, se siamo identici a nostro padre, lui abbia potuto scegliere ed amare nostra madre quando noi ci sentiamo così incompresi.
Ecco, questo forse è uno dei punti più importanti di una dinamica famigliare: siamo incompresi. Come ogni essere su questa terra abbiamo l'arroganza ed il dolore di sentirci completamente ignorati, lasciati da parte. Crediamo che nessuno capisca come ci sentiamo, come siamo davvero e non ci rendiamo conto che spesso, fin troppo in effetti, i nostri genitori ci capiscono eccome, solo hanno la delicatezza di non farcelo notare.
Perché poi? Probabilmente perché rivedono in noi i loro errori, le loro debolezze, le loro forze e i loro successi. Se ci vedono timidi cercano di non farcelo notare perché si ricordano come si erano sentiti loro al tempo. Se siamo testardi e facciamo sempre come ci pare si scontrano con noi per impedirci di sbagliare come hanno fatto loro, scatenando automaticamente una lotta intestina che si risolve, se lo fa, solo quando saremo grandi abbastanza per ritrovarci al loro posto.
Impariamo a vivere in un equilibrio precario e continuamente in pericolo, assalito dalla nostra infanzia prima e dall'adolescenza dopo, dal nostro desiderio di indipendenza, da quello di protezione dei nostri genitori.
La nostra famiglia è il primo grande approccio alla vita sociale e diciamocelo, spesso è uno schifo totale.
Ci ritroviamo a rapportarci meglio a sconosciuti, ai nostri amici, ci siamo mai chiesti perché? Forse perché non ci conoscono davvero, non sanno quanto abbiamo sbagliato in passato, non ci hanno visto cadere e rialzarci a fatica o non farlo per niente. Loro impareranno a conoscerci con il tempo e questo tanto basta per il momento.
Ma una grande verità è che, volenti o dolenti, ricerchiamo sempre gli stessi modelli che compongono la nostra famiglia. Perché? Beh, ma perché sono la nostra famiglia.
Ognuno di noi ha una peculiarità, qualcosa che ci porta ad essere amati od odiati maggiormente. Molti di noi non si rendono conto di cosa caratterizzi di più uno dei membri della propria famiglia, guardiamo la sua scorza esterna, ci fermiamo ai suoi modi e non osserviamo. Sentiamo le sue parole ma non le ascoltiamo. Ci basta ciò che appare e siamo arrabbiati, siamo sconfortati, siamo disillusi o delusi e non cerchiamo di andare oltre, non cerchiamo il perché e il come delle loro azioni, delle loro idee, dei loro demoni.
Non siamo ipocriti, nessuno di noi capisce fino in fondo un genitore finché non lo è a propria volta, finché non si raggiunge quell'età in cui la logica accetta finalmente la mano che la saggezza e l'esperienza hanno tanto atteso per porgerli.
Possiamo arrivarci a capire ma non a comprendere temo, e ciò è tanto triste quanto vero.
Ma ci sono quei rari casi, quei momenti in cui i pianeti si allineano e tutto pare andar al suo posto, in cui riusciamo a scorgere una di quelle mille sfaccettature che compongono i nostri cari senza venir accecati da quella fastidiosa luce riflessa.
Ogni figlio conoscerà un lato del proprio genitore che suo fratello ignorerà per gran parte della sua vita. Li comprenderemo a poco a poco, prima uno e poi l'altro, alternando la nostra vita in preferenze che non dovremmo o vorremmo avere ma che sono naturali in ogni uomo. E arriverà il giorno in cui li vedremo per ciò che sono realmente, il giorno in cui finalmente apriremo gli occhi e la luce che entra dalla finestra sarà così chiara e forte da illuminare anche gli angoli più bui e fare in modo che i riflessi si armonizzino mostrandoci ciò che i nostri genitori sono: umani.
Non conosceremo mai una persona fino in fondo, probabilmente è solo un utopia quella in cui crediamo, ma alle volte è maglio così, è meglio conoscere poco e lasciare il resto al suo destino.
Restare vicino ad una persona di cui si conosce la maggior parte ma non l'intero, che ci nasconde ancora tanti scheletri del suo armadio, essere consapevole di ciò e non scappare, per me è la più grande dimostrazione d'amore.
Incompresi, si, ma amati incondizionatamente.

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Capitolo 5
*** Eyes of glass. ***


4- Eyes of glass.
 

Quando fa coming-out non era proprio il momento ideale per farlo, diciamo così.
Quello che legge nel volto di sua madre è sconcerto, in suo padre per un attimo legge nero terrore.
Non è facile, non lo è per nessuno, sia per la situazione in cui si trovano sia per il soggetto: Magnus è un uomo ma soprattutto è uno stregone e questo, questo si che è il problema principale e nessuno in famiglia ha il benché minimo modo, o la voglia, di affrontare il discorso.
Poi gli eventi si susseguono, per giorni non parla con i suoi, poi divengono settimane, la guerra, il lutto, il dolore, le colpe, i litigi, i mesi, il divorzio, l'allontanamento, l'inquisizione.
Lui e suo padre si lasciano così, che non si sono ancora davvero chiariti, che non si sono detti niente, lasciando troppe parole sospese tra di loro nell'aria densa e irrespirabile.
Ma Alec non può continuare a vivere in questo modo. Si è lasciato soffocare per troppi anni per continuare a farlo, i suoi polmoni non reggono più lo sforzo di trattenere il fiato e vuole liberarsene, vuole espirare tutta quell'aria viziata di paure e terrori e respirare aria pulita, profumata, che sa di zucchero bruciato e legno di sandalo. È per questo che decide di parlare con l'uomo il prima possibile, per sé, per Magnus e anche per Robert stesso.
L'imbarazzo è cocente e Alec, in quella biblioteca che lo ha visto crescere e studiare, si sente di nuovo in gabbia come non lo era da tempo.
Poi prende i coraggio a due mani, perché ama Magnus ma anche suo padre, nonostante tutto, e non può non cercare di farlo ragionare, di spiegargli il suo punto di vista, i suoi sentimenti.
Sono chiusi nella sala, in un opprimente silenzio, quando Alec decide di cominciare quel suo discorso così ben progettato e a prova di boma, per venir subito interrotto da un brutale:

<< Pensi che me ne fotta qualcosa che sei gay?>>

Il silenzio torna prepotente tra di loro ed un brivido freddo scivola lungo il collo di Alec.
A primo impatto non lo capisce, non comprende perché lo ha interrotto, non riesce a capire il senso di quella frase. Se la deve ripetere più volte in testa per riuscirci e poi, inevitabilmente, capisce male.
Un senso di nausea opprimente lo schiaccia contro la poltrona su cui è seduto e non vuole guardarlo, non vuole vedere ancora il terrore e il disprezzo negli occhi di qualcuno che ama così tanto e da così tanto tempo. Alec lo sa, sa che non ce la potrebbe fare a perdere anche lui, anche se forse è già successo e lui non se n'è neanche reso conto.
È Robert stesso a strapparlo dalla distruzione dei suoi pensieri, dall'oscurità nefasta in cui stava cadendo, una cripta che avrebbe occupato anche le ceneri di quell'amore paterno che Alec ancora ricercava dopo tutto quel tempo.
L'uomo lo guarda con lo stesso sguardo smarrito e terrorizzato che ha lui, la scorza dura della pietra brulla dei suoi occhi è stata scheggiata così tante volte da finire in frantumi e Alec ora può leggervi dentro tutto quell'animo fragile e solo che è suo padre.
Lo vede come si agita sul posto, come cerca la posizione comoda e lo rivede per un attimo nel tentativo di sistemarsi al meglio Max sulla spalla senza quella solita disinvoltura e sicurezza che contrassegnava ogni sua azione.
Non lo disturba il fatto che ami un uomo, o meglio, lo fa, lo disturba ma non perché è un uomo, non perché non è una coppia “canonica”, lui- Dio, come glielo spiega ora? Non è omofobo. Si, lo sa cosa ha detto, le sue parole ed il tono della sua voce sono impressi a fuoco anche nella sua di mente, ma non è così, è complicato e forse lui non dovrebbe neanche dirglielo, lui… non è omofobo, no, questo no, ecco, partiamo da qui.
Lo ammette, lo disturba o più che altro lo intristisce l'idea che non potrà mai vedere un figlio suo, non vedrà mai il suo… bambino, diventare padre e non c'entra niente il portare avanti il nome di famiglia, tanto ormai quel nome è in cenere come i corpi dei loro antenati, con tutte le scelte sbagliate che lui e Maryse avevano fatto… in parte accetta anche che non ci sarà mai più un Lightwood, che Alec non avrà una famiglia come l'ha sempre conosciuta lui, forse lo accetta proprio perché sa che si può amare un bambino non tuo così tanto da dimenticarsi che non avete lo stesso sangue, come Jace.
Ah, Jace, il suo Jace. Forse lui è quello che lo ha capito di meno, forse ancor meno di Izzy, forse è quello che lo vede più di tutti come un estraneo e Robert se ne rammarica.
Alec sente il tremolio di un vetro incrinato nella sua voce, le parole vibrano filtrando nella crepa che si è creata in quell'uomo di ghiaccio mentre ammette quanto lo ferisca sapere che i suoi figli lo odino e che non potrà mai far nulla per farsi amare come -forse- si illude abbiano fatto un tempo.
Ma non riesce a dirgli altro, tentenna, si guarda le mani, si rigira l'anello con il blasone al dito, la “L” fiammeggiante che ricorda loro quanto, secondo il loro nome, dovrebbero essere un faro nell'oscurità, un'oscurità che invece ha cominciato ad inghiottirli da tempo e ancora non ha smesso.
Robert si schiarisce la gola e prova a guardarlo in volto: è invecchiato in quei mesi come se fossero passati anni. Lo era anche appena ha visto il corpo di Max, quello che un tempo cullava nel tentativo di far addormentare e che invece ha dovuto consegnare per l'ultima volta al sonno eterno.
Il suo problema, inizia a dire a bassa voce, sta tutto nella parte “stregone”.
Si preoccupa perché nonostante tutto, nonostante i patti, la guerra e il reciproco aiuto dato da tutti, i pregiudizi sui nascosti sono ancora radicati nel profondo, perché alcuni lo sono ancora in lui, che non riesce a guardare con completa fiducia quelle creature -quegli uomini dice e Alec trattiene il fiato perché Robert ha appena messo i nascosti sul suo stesso piano, umani- perché gli è stato insegnato per tutta la vita di essere superiore a loro, che il sangue demoniaco che gli scorre nelle vene li rende corrotti e- si, che non lo guardasse in quel modo, lo sa anche lui che pure gli Shadowhunters possono essere corrotti, siamo tutti umani no? Però...insomma, si sta spiegando un po'?
Si mette seduto sul bordo della poltrona e si stringe le mani l'una nell'altra. Il punto è che quando ami qualcuno condividi il peso della sua vita sulle tue spalle e gli stregoni ne hanno fin troppo, centinaia di vite che li attendono dietro ad un angolo o stipati nei cassetti. Perché uno stregone è immortale e no, lui proprio non riesce a pensare che un giorno Bane potrebbe avere un altro compagno e dimenticarsi di Alec, l'amore è unico e-
Si blocca.
Alec lo guarda preoccupato, una sensazione di vischiosa pesantezza che gli si libera dal petto mentre assimila le parole di suo padre e si rende conto che le sue paure, se così può chiamarle, sono le stesse che hanno attanagliato lui per tanto tempo e che spesso lo svegliano ancora la notte.
Suo padre che si da del deficiente ipocrita da solo lo fa saltare sulla poltrona.
Robert scuote la testa con disprezzo verso sé stesso, che è così debole, lo è sempre stato e ha sempre avuto paura che anche loro nascessero con questa sua stessa onta.
Lui ha divorziato, ha tradito sua moglie, non dovrebbe neanche osare parlare d'amore.
Quando lui e Maryse non ci saranno più poi, nessuno lo proteggerà dal mondo ottuso a cui Robert stesso appartiene e poi, con voce bassa, come un segreto, gli sussurra che ha paura anche per Magnus, perché se ami qualcuno profondamente quando muore anche una parte di te lo fa e lui, re degli ipocriti, degli stupidi, lo sa fin troppo bene.
C'è tanto dolore e rimpianto nella sua voce, c'è un segreto che non vuole rivelare, non ancora probabilmente, ma tra tutte le motivazioni per cui non accetta il suo rapporto con Magnus, tra tutte le parole, Alec sente solo la paura, quel cieco e nero terrore che aveva letto nei suoi occhi il giorno della battaglia, di un uomo, un padre, per suo figlio, per ciò che sarà, per come vivrà e tutto il suo rimpianto di non aver fatto abbastanza prima, per ciò che non potrà mai fare, per ciò che si è perso.
Non ha mai fatto abbastanza per nessuno dei suoi figli, “nessuno dei quattro” dice sovrappensiero.
Le sue ultime parole sono probabilmente quelle che abbattono le ultime difese rimase in piedi di Alec.

 

Quando Robert se ne va Magnus entra di carica nella biblioteca, seguito da tutto il plotone che aveva atteso impaziente la fine di quell'incontro.
Alec è ancora sulla poltrona, le mani sul viso, scosso da singhiozzi silenziosi.
La rabbia dilaga in poco tempo tra tutti i presenti, da Jace che vuole rincorre l'uomo e dirgliene quattro ad Izzy che non gli parlerà mai più. Da Maryse che gli giura, glielo giura che non lo farà mai più entrare nell'Istituto e al diavolo che è l'Inquisitore, a Magnus che lo vuole solo uccidere per come ha ridotto il suo Alexander.
Gli dicono tutti di non fare così, che non ne vale la pena, che è un uomo spregevole e che non merita il suo dolore e solo allora Alec percepisce davvero il senso delle loro parole e si riscuote.
Alza il volto tra gli sguardi furenti e preoccupati di tutti per lasciarli scioccati e a bocca aperta.
Gli occhi lucidi ed umidi gli brillano come se fossero frammenti di vetro bagnati, quello stesso vetro che si era rotto negli occhi di suo padre e che lui in un qualche modo gli aveva donato. Le gote rosse ed il labbro inferiore stretto tra i denti, a trattenere gli angoli della bocca atteggiati in un sorriso sincero.
 

<< Ha detto che non gliene fotte nulla se sono gay.>> silenzio.
Alec si gira verso Magnus, allungando la mano per prendere quella del compagno.
<< Ma che non devi azzardarti a scegliere il rosa se mai ci sposeremo Mags, quel colore gli sbatte terribilmente in faccia.>>
 





 
Passiamo la vita a cercare di compiacere i nostri genitori. Non ce ne rendiamo neanche conto, non lo facciamo di proposito, ma è ciò che ci viene naturale.
Cominciamo da piccoli, quando alla riuscita di una buona azione, alla dizione approssimativa e balbettante di “mamma” o “papà” veniamo festeggiati con mille vezzeggiamenti. Così ci prendiamo gusto, vediamo che loro sono felici e ci rendiamo conto che lo sono per merito nostro, di ciò che abbiamo fatto. Cerchiamo di replicare la cosa e quando non ha più effetto troviamo altri modi per renderli orgogliosi di noi, per fargli dire che siamo bravi, che siamo proprio diventati grandi, che siamo la loro gioia.
Per quanto tempo continuiamo a farlo? Inconsciamente per tutta la vita credo.
Arriva il momento in cui però ci pare che nulla vada bene, che le nostre azioni non siano abbastanza, è l'attimo in cui passiamo da “bravo hai preso un buon voto” a “così poco? Non potevi impegnarti di più?”. Non lo capiamo inizialmente, non ci capacitiamo di questo cambiamento e ci sentiamo delusi, da noi e da loro.
Questo è il bivio della nostra storia, da qui possiamo andare avanti, impegnarci per noi e comprendere quando i commenti dei nostri genitori sono volti a spronarci o a sgridarci, il percorso che ci porta a dire “va bene, pensa ciò che vuoi, questa è la mia vita e ne farò ciò che reputo più giusto”. Ma c'è sempre l'altra strada, quella che ci mette sotto pressione, che ci fa sentire inadeguati, che ci fa soffrire di ogni traguardo non raggiunto e che non ci permette di goderci quelli a cui siamo arrivati.
Camminiamo per troppo tempo su entrambi, non facciamo altro che zoppicare per il secondo e poi farci prendere da quelle botte di ribellione adolescenziale, di propositi mandati al diavolo, e correre verso il primo. Continuiamo così finché non ci rendiamo conto che entrambe le strade, prima o poi, si rincontrano, perché tutti abbiamo sempre una seconda possibilità.
Ad essere onesti ogni giorno abbiamo una seconda possibilità, possiamo alzarci la mattina e decidere che questa è la volta buona per cambiare tutta la nostra vita, ma siamo esseri abitudinari e pigri, che vivono nella procrastinazione e nell'ottusa idea che nulla può cambiare a meno che non vi sia un evento spettacolare.
Siamo tutti Zeno Cosini e non smetteremo mai di fumare, neanche quando i pianeti si allineeranno, perché troveremo comunque qualcosa che non va.
Aspettiamo quell'allineamento planetare anche per avere la nostra rivincita, per guardare in faccia i nostri genitori e sentirci dire che siamo arrivati proprio dove loro avrebbero voluto, anzi, ancora più su. E siamo stupidi, siamo estremamente stupidi, così stupidi che spesso mi domando come possiamo essere la specie dominante. Non ci rendiamo conto che loro non voglio altro che la nostra felicità, che sognano per noi le migliori delle ipotesi e che ci spingono verso quello che credono sia il meglio per noi. Dimentichi di quando erano loro ad essere sospinti verso una meta e di quanto questo li mettesse sotto pressione.
Figli e genitori non si capiscono quasi mia sotto questo punto di vista: i primi perché non sono ancora genitori a loro volta, i secondi perché si sono dimenticati com'è essere figli ed aver sulle spalle le aspettative di qualcuno che cerchi di compiacere da una vita.
Ci dividiamo, ci scontriamo, ci urliamo contro o sprofondiamo nel silenzio più totale quando il peso diventa troppo e cediamo sotto di esso e si rompono gli argini e non possiamo più contenere la pressione devastante che ci ha schiacciato a terra. È il momento in cui “tagliamo” definitivamente il cordone e diventiamo persone che si muovono e fanno ciò che è nel loro interesse, che non cercano più di sentirsi dire quanto sono bravi.
Poi un giorno ci si ritrova seduti tutti allo stesso tavolo e tra una chiacchiera futile e l'altra, tra una risata ed una battuta, Pulcinella disse la verità e ti scappa di quella volta che non sei riuscito in qualcosa e di come ci siano rimasti male i tuoi. E tua madre ti guarderà e ti dirà che gli è dispiaciuto tanto, soprattutto che tu ci sia rimasto così male. Sarà il momento in cui tu gli dirai che non te n'è mai fregato nulla del calcio e che giocavi solo perché lei ti aveva iscritto e ti aspettava tutti i giorni fuori dal campo qualunque fossero le condizioni meteorologiche.
È il giorno in cui tu ammetterai che facevi una cosa solo per loro e loro ti diranno che gli importava tanto solo perché credevano impostasse a te.
Quando ammetterai che ti sei sempre vergognato di una tua passione perché pensavi che loro non l'approvassero e tuo padre riderà, dicendoti che lo ha sempre saputo che sei strano e che si, forse non capisce come tu possa restare ore impalato davanti ad uno spettacolo di lirica o ad un balletto, ma che questo non fa di te un disonore, sei sempre suo figlio, qualunque siano i tuoi gusti.
Verranno fuori tanti di quei discorsi, di quelle confessioni, che ne rimarrai sorpreso, sconvolto nel sapere che per tutta la vita te e loro avete condiviso lo stesso obbiettivo: la felicità e l'orgoglio dell'altro.
La stupidità umana non ha mai fine, quando si tratta dell'amore di una persona cara è ancora più disarmante. Ci mettiamo così tanto a capirlo, ci saremmo potuti risparmiare tante pene e dolori eppure, in conclusione, quanto ci scalda il petto sapere che nonostante tutto, loro vogliono solo la nostra gioia?
Incredibilmente tanto, quasi quanto le volte in cui ti darai del cretino per non averlo capito prima.
Ma va bene così, siamo umani e questo comporta anche essere ottusi, specie d'amore.

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Capitolo 6
*** Remember. ***


6- Remember.
 

Quando Alec si deve sposare pensa amabilmente che potrebbe morire.
Il suo completo è oro puro, rifulge di luce propria, quasi quanto la stregaluce o forse proprio come quella visto che il tessuto ne è pregno, Sole accecante nella sua piccola celletta. È lì ad attendere e la camera non gli è mai parsa così vuota e al contempo così piena di ricordi.
Posa lo sguardo su un segno sul muro, proprio sopra la testiera del letto, dove spunta ancora un chiodo a cui un tempo era attaccato un oggetto che Alec ha sempre tenuto in grande cura e che ora è nel loft, nascosto dove né Max né Rafael possono vederlo e prenderlo.
Qualcuno bussa alla porta e Alec prega che non siano di nuovo sua madre o sua sorella, o Clary che vuole chiedergli qualcosa in vede delle altre, o Jace che cerca di far passare lui per quello agitato quando è evidente che il biondo lo è ancora di più e sta rischiano l'attacco di panico imminente.
Non capisce proprio perché la gente debba credere che lui sia in ansai, non sta mica andando a morire, sta per sposarsi con un uomo con cui convive già da anni e con cui ha già una famiglia, è solo un ufficializzazione, un poter finalmente essere riconosciuti come compagni anche da una legge che non li ha mai davvero aiutati ma che ha fatto passi da gigante da quando hanno cominciato la loro storia.
La presenza di Helen Blackthorn nel giardino dell'Istituto ne è la prova e lo fa gonfiare d'orgoglio.
La sua attenzione torna alla porta quando una chioma nera ma sbiadita sbuca dall'uscio ed Alec si ritrova a fissare una versione di sé più vecchia di trent'anni.
Robert entra di soppiatto, cercando di non farsi vedere da fuori, si poggia alla porta e lo guarda attento, in silenzio.
Rimangono così per un tempo indefinito, senza sapere cosa dirsi come non lo sanno da una vita.
Alec ha solo il coraggio di mormorare che ha paura di calpestare i piedi a Magnus durante il loro primo ballo, perché si, lo stregone vuole farlo a tutti i costi e lui non ha avuto possibilità di replica.
Si stropiccia le maniche della maglia che ha indosso e alza di scatto la testa quando Robert, improvvisamente lontano, gli ricorda che glielo aveva insegnato a ballare.

 

La palestra è grigia di ombre pomeridiane, il grammofono suona la sua melodia girando e rigirando su se stesso come un hoolahop impazzito. Sono note di un lento cadenzato e ripetitivo, ben scandito ed ideale per imparare a tenere il tempo.
Alec è di fianco a suo padre che gli indica il piede con cui iniziare, glielo sistema in posizione con il suo e gli intima di tenere la testa alta, reclinata leggermente all'indietro.


<< Un giorno dovrai prendere il mio posto, andrai ad Idris e dovrai saperti rapportare alla più alta società del nostro paese. Ballare valser e lenti è un ottimo modo per instaurare amicizie.>>

Gli prende le mani e gliele posiziona come si deve, abbassa il suo braccio e gli dice di reggersi, così provano a fare un paio di passi in sequenza.

Quando Izzy farà otto anni lo insegnerà anche a lei, ma per ora è troppo piccola, non imparerebbe nulla e si limiterebbe a ballicchiare come fa da sola, scoordinata e indisciplinata. Glielo dice con tono sicuro, certo che avrà il tempo di fare tutto ciò che si è ripromesso.

 

Poi i viaggi si erano fatti serrati, era nato Max, era arrivato Jace e tutto era sfumato.

Alec guarda suo padre e lo vede triste, la stessa patina opaca che oscura i suoi occhi da quando è nato, che non ha mai capito a cosa fosse dovuta.
Rimpianti e dolore, ora lo sa, ora lo capisce, lo capisce fin troppo bene Alec.
Se ne è reso conto in quegli anni, quando hanno trovato Max e poi quando hanno adottato Rafael, non lo giustifica, non giustifica assolutamente le azioni di suo padre, ma ora che lo è anche lui a sua volta, lo capisce. Così come capisce che il giorno del suo matrimonio non vuole vederlo in quello stato.
Con il coraggio che ha accumulato in quegli anni, la tranquillità verso sé stesso e coloro che ama, verso il suo essere e le sue azioni, con la pacatezza e la delicata gentilezza che lo caratterizzano da quando è nato Alec si alza dal letto che lo ha visto spesso insonne o distrutto da cacce, allenamenti e dolori e chiede a suo padre di aiutarlo a rivedere i passi.
Si pone al suo fianco e aspetta paziente che Robert metabolizzi la sua richiesta e gli mostri come muovere i primi passi, proprio come fece quando aveva otto anni e gli insegnò a ballare. Proprio come fece quando erano ancora ad Idris e gli insegnò a camminare.
Il primo ballo del giorno del suo matrimonio Alec lo fa con suo padre, che canticchia a mezza bocca un ritmo famigliare e nostalgico, accompagnato da una chitarra fantasma e dalla voce lontana di un bambino che ricorda come in un sogno le parole di una canzone sentita in un'altra vita.
Sa che ufficialmente sarà sua madre a ballare con lui in pista e si gode quel momento da solo con un uomo che ama come solo un figlio può amare suo padre e non comprende per le stesse identiche ragioni.
Lascia che suo padre gli mostri come posizionare le braccia e gli rammenti che il primo ballo lo deve fare per bene e che avrà tutto il resto della serata per dondolare senza senso al centro della pista stretto a suo marito.
Alec non osa dirgli che quella definizione -marito- gli ha scosso il corpo di brividi e Robert non sembra averlo notato.
Ballano così, per ricordarsi come si fa, sia a muover passi a tempo di musica, sia ad essere padre e figlio. Per rimparare a camminare, con la sicurezza che ci sarà sempre qualcuno pronto a prenderci quando cadiamo.
Quando si fermano Robert non riesce a lasciare la presa sul braccio del figlio e lo guarda come se lo vedesse per la prima volta o lo ammirasse per la millesima.
Quante parole c'erano non dette, quante occasioni sprecate che si stavano tutte condensando in quel singolo momento, in quella piccola bolla solo loro.
L'uomo si riscuote solo per mormorare un basso e flebile “Scusa”, che si riferisce a tutto e a nulla.
Si schiarisce la voce e gli dice che gli dispiace aver rubato a Magnus il loro primo ballo.
Alec scuote la testa e rafforza la presa: va bene così, non si pente di nulla, non si è perso nulla, Magnus avrà il loro primo ballo da sposati, suo padre l'ultimo da “uomo libero”.

<< L'ultimo da ragazzo...>>

Che probabilmente vuol dire che è l'ultimo ballo in cui Alec è ancora solo il bambino che lo aiutava a far addormentare il fratellino la notte o che proteggeva sempre gli altri, ma Alec lascia che rimanga nell'aria come quello 'scusa' mormorato appena, come tutto ciò che non si sono detti e che mai faranno ma che alla fine hanno comunque capito.
Alec gli sorride.

<< L'ultimo con il mio papà.>>

Robert lo guarda con uno strano scintillio negli occhi e Alec ci mette una frazione di secondo di troppo per capire che sono lacrime quelle che illuminano lo sguardo di suo padre.
Le stesse che inumidiscono i suoi di occhi quando gli dice che è fiero dell'uomo che è diventato – Sono fiero di tutti e tre a dir il vero- e che saranno sempre loro il suo vero grande amore.

Sono confessioni di una vita, che se fossero arrivate prima avrebbero risparmiato loro tanto dolore e tanta distanza, ma va bene anche così, va bene tutto purché alla fine ci si ritrovi.

Questo è solo un altro dei loro segreti.

 

 





 
I giorni importanti della nostra vita sono un'infinità. Se vogliamo essere del tutto sinceri ce li scegliamo da soli, siamo noi a definire un giorno “importante”.
Può esserlo per il lavoro, per la scuola, per la famiglia, per gli amici. Un giorno ha l'importanza che noi gli diamo, indipendentemente da quella che gli affibbia la società.
Il matrimonio è uno di quei giorni, quelli universalmente riconosciuti come importanti.
Per le spose è “il loro giorno” e spesso, con una punta di rammarico, da una parte gli uomini non comprendono come possa esserlo, dall'altra, con l'orgoglio borioso, credono che sia tutto merito loro.
È davvero il giorno della nostra vita il matrimonio? Ne dubito fortemente.
Il matrimonio non è altro che un'ufficializzazione, il momento in cui si pone la propria firma -che deriva da “fermo” e vuol dire bloccare un attimo, un'azione, un patto nel tempo- e si diventa parte di qualcosa di nuovo non per noi, non per gli altri, ma solo ed unicamente davanti alla legge.
E che la legge sia terrena o di Dio questo spetta solo a noi deciderlo.
Tristemente il matrimonio non nacque per amore, ma per assicurare le due parti che lo contraevano, un vincolo che obbligava l'uomo e la donna a certi doveri e certi diritti. Come è cambiata la sua concezione nel corso del tempo, quanto gli abbiamo dato di magico, mistico, santo ed importante.
Non lo è davvero, è solo una festa, una festa per far sapere a tutti che finalmente si è assieme, si è lasciato il proprio nido e ci si è accomodati in uno nuovo, costruito con fatica e dedizione, un ramo alla volta, come un tempo fecero i nostri genitori.
Ha davvero importanza chi c'è in quel nido? Importa davvero se sia sullo stesso albero di quello vecchio o se si trovi nel parco affianco?
Abbiamo così tante idee, così tante aspettative dal matrimonio da farci vivere inizialmente come se la nostra relazione fosse appena iniziata, senza renderci conto che non è altro che l'ennesima replica di una sceneggiatura già provata e riprovata negli anni e che continueremo a ripetere finché ci sarà amore.
Credo che la parte più importante del matrimonio non sia l'anello e le promesse, il vestito elegante e la torta sontuosa. Credo che sia proprio la firma, proprio quella linea nera che si arrotola su se stessa e forma le lettere del nostro nome ora, per iscritto, fermo nel tempo, vicino a quello di chi amiamo.
Il domani non sarà diverso dall'oggi, non si rivelerà nei primi giorni, neanche nei primi mesi, la differenza arriverà quando non sarà più nostra madre a poter entrare con noi da un medico perché è richiesta la presenza del coniuge, quando nei momenti difficili non saranno i genitori dell'altro ad essere chiamati a prendere una decisione, ma noi. Quando le lettere arriveranno ad uno e all'altro. Quando prenderemo un mutuo, quando ci saranno l'aspettativa per maternità o per paternità.
La differenza arriverà quando nascerà nostro figlio e vivrà esattamente come siamo sempre vissuti noi, convinto che questa sia la sua famiglia, senza mai sospettare che un tempo noi siamo appartenuti ad un altro nido.
Si chiama “nucleo famigliare” ed è nostro.
Lo è quando siamo nati ed i nostri genitori ci hanno visti per la prima volta e muterà quando saremo noi a vedere i nostri figli.
Cos'è il matrimonio dunque, se non il preludio del cambiamento?
Perché i genitori piangono e gli amici credono che non ci vedremo più come un tempo?
Il giorno del nostro matrimonio è l'ultimo in cui il mondo ci vedrà come singoli ed il primo in cui ci vedrà come coppia. E non importa se sia quella che tutti si aspettano o una coppia “non convenzionale”, non importa neanche se una chiesa, una sinagoga o un templio vedranno le nostre promesse, se sarà un ufficiante in nome di Dio a renderci uniti o un avvocato in nome della legge e della sempiterna dea bendata.
La verità è che non importa neanche se ci sposeremo o meno, la nostra famiglia nasce con il tempo, spesso senza che ce ne rendiamo conto.
Nasce cominciando a portare i nostri vestiti in una casa, lasciare un cassetto alla nostra metà.
Ed i nostri genitori piangono perché sanno che ora, al termine di ogni estate, all'inizio di ogni inverno, non migreremo più nel loro nido ma ci poseremo su di un altro che impareremo a chiamare nostro.
Il matrimonio non è altro che l'ufficializzazione, la nota finale, l'attimo fuggente in cui ai nostri genitori è permesso stringerci un ultima volta e dire che siamo “i loro bambini”, l'ultimo giorno in cui se avremo bisogno di qualcosa chiameremo loro e non i nostri compagni.
È l'ultimo giorno per dirci di prepararci e non mollare, che il matrimonio -l'amore- è fatto di alti e bassi, spesso molto più bassi che alti. Che siamo umani e che alle volte le urla significano interesse ed il silenzio arresa. Che arriverà il giorno in cui ci domanderemo cosa abbiamo fatto, perché arriverà di sicuro, e che quello sarà anche il giorno in cui dovremmo ricordarci più di tutti perché abbiamo scelto proprio quella persona. Perché potevamo avere il mondo ma abbiamo voluto lui.
È l'ultimo giorno per imparare a camminare sulle nostre gambe sorretti dalle mani di chi ci ha dato la vita, che sia in senso letterale o che ci abbiano cresciuto come se fossimo figli loro -i figli che siamo-.
Ci diranno cose, quel giorno, che avrebbero potuto dirci prima, che ci avrebbero risparmiato tanti problemi e tante fisime, che ci avrebbero aperto gli occhi e ci avrebbero fatto fare meno errori o che forse ci avrebbero fatto cadere meglio.
Ma lo hanno fatto, i nostri genitori non devono insegnarci a non cadere ma ha farlo bene e poi a rialzarci.
Quello sarà solo il giorno in cui realizzeranno quanto siamo cresciuti, quanto ha corso il tempo e che non potremo più tornare indietro, non saremo più i bambini che chiedono di esser presi in braccio e gli adolescenti che chiedono di essere trattati da adulti.
Quello sarà l'ultimo giorno in cui potranno prenderci in braccio e trattarci comunque da adulti.
Non serve aver rimpianti, ce ne renderemo conto quando ci guarderemo indietro e loro saranno lì ad aspettare di vederci sparire all'orizzonte.
Perché alla fine, quando la nostra nuova vita sarà diventata la normalità, quando saremo nella nostra “nuova famiglia”, ci renderemo conto che il ramo su cui è posto il nostro nido è proprio di fronte a quello vecchio.
La famiglia non ti lascia mai, ma questo è un segreto che impareremo solo con il tempo.
E sarà la sorpresa più bella di tutte.

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Capitolo 7
*** Father. ***


7- Father.


 

Ovvero la volta in cui Robert Lightwood è stato un padre esemplare e l'hanno potuto ammirare tutti tranne Alec.
In verità di momenti come questi ce ne sono stati diversi nel corso del tempo: Maryse non avrebbe mai dimenticato la luce accecante che era brillata negli occhi di suo marito la prima volta che li aveva posati sui suoi figli. L'azzurro limpido di un cielo solcato appena da qualche pigra nuvola, che non ne danneggiava la bellezza e lo splendore ma che aiutavano a segnare punti di luce in quelle iridi cangianti, sprazzi bianchi illuminati dal sole che vi filtrava attraverso disegnando dense pennellate come un pittore esperto replica i riflessi sul mare infinito. Quando la consapevolezza di stringere tra le braccia una nuova vita, un pezzo di loro, lo aveva fatto tornare ad essere il ragazzo felice che era agli albori del Circolo, quando tutti loro non erano altro che amici uniti da un'idea e da un'ambizione, da un affetto ed un senso d'appartenenza che li avrebbe avvicinati solo per rendere ancor più dolorosa la separazione.
Allo stesso modo non avrebbe mai scordato la dedizione e la sua determinazione nel voler crescere Jace, nel poter finalmente, in un qualche modo per lei incomprensibile, riavvicinarsi a Michael e dimostrargli quanto gli avesse voluto bene volendone a sua volta al figlio.
E né lei né Izzy avrebbero mai potuto cancellare dai loro ricordi lo sguardo di puro orgoglio, lucido di quel sentimento che gli gonfiava il petto e lo faceva sembrare più giovane, più forte e più felice, il semplice e complesso reticolato di emozioni che gli era affiorato in volto il giorno in cui Alec e Jace divennero parabatai, illudendosi forse che così le cose sarebbero tornate al loro posto, che lui e Michael sarebbero stati di nuovo vicini, che suo fratello ora sarebbe stato fiero di lui, di suo figlio e del proprio. Convinto che da qualche parte quell'anima affina li stesse guardando felice e soddisfatto.
Molte più persone sarebbero state testimoni, un giorno, dell'aura di melanconica gioia che lo avvolgeva al matrimonio di suo figlio, come ogni padre che vede allontanarsi definitivamente il proprio bambino, che forse ha ancora molto da dirgli, da raccontargli, da spiegare e farsi perdonare, ma che decide di fare un passo indietro e lasciare che la luce di quel giorno continui a brillare nella vita di suo figlio senza essere oscurata dai suoi demoni e dai suoi rimpianti. Che si faceva da parte e accettava l'implacabile scorrere del tempo senza proferir parola, sereno, ormai, nella serenità della sua progenie.
Ma solo le persone più vicine, quelle più importanti, la famiglia, avrebbe ricordato al tempesta d'emozioni che l'uomo racchiudeva entro di sé il giorno in cui vide Alec stringere tra le braccia quel piccolo stregone blu.
Per una frazione di secondo l'aria era diventata elettrica e tutti si erano girati verso di lui, accorso alla chiamata della sua famiglia alla notizia di un evento inaspettato e che doveva ancora ben classificare come buono o cattivo.
C'era incomprensibile sul suo volto, come se stesse febbrilmente cercando di capire, di comprendere, e nessuno aveva osato fiatare, in attesa che Robert Lightwood se ne uscisse con una delle sue solite sparate che avrebbero rovinato tutto il clima gioioso della camera.
Maryse aveva alzato gli occhi dal figlio, che non aveva ancora notato la presenza del padre o forse non gliene importava nulla, e dal bambino che sonnecchiava tranquillo e silenzioso solo in braccio ad Alec, quasi avesse già riconosciuto in lui una figura protettiva, come se già lo avesse scelto. Incontrò quegli occhi stupendi ma sbiaditi dal dolore e dalle battagli, lontani anni luci da ciò che erano stati e rimase affascinata come lo fu in passato ma in modo del tutto diverso davanti all'immagine di Robert Lightwood completamente perso nella contemplazione di suoi figlio con in braccio il proprio.
Maryse non si rese conto neanche di aver dato per scontato che quel bambino sarebbe entrato a far parte della sua famiglia, troppo sconvolta da ciò che poteva leggere negli occhi di un uomo che aveva tanto amato, che l'aveva tanto amata, e che a volte amava ancora.
Tutti erano rimasti folgorati, mentre gli occhi di Robert tornavano lucidi, vigili e limpidi come un tempo, giovani e vitali come una vita fa.
<< È così piccolo. >> aveva detto Alec senza alzare la testa, ignorando la scena davanti a lui, mentre suo padre si avvicinava piano per veder meglio il bambino e posare la mano sulla spalla del figlio.
<< Non ha ancora un nome, ma potremmo chiamarlo Max...>> Continuò carezzando la testa del bambino con un dito e perdendosi così la lacrima che scivolò lungo la guancia dell'uomo.
<< La trovo una bellissima idea.>> sussurrò con voce atona, stentata, quasi balbettando.
Non riusciva a distogliere lo sguardo dai due ma ciò che vi era riflesso dentro non era la loro immagine, non c'erano dubbi o paure, risentimento o disgusto, confusione o incomprensione. Nei suoi occhi c'era posto solo per l'amore.
<< Davvero bellissima, figliolo.>> avvicinò la testa alla sua, pochi centimetri dal suo orecchio. << Sono fiero di te.>> mormorò appena.

Questo, era solo per lui.

 






 
Un giorno saremo genitori, probabilmente mai come ce lo eravamo immaginato, magari non di figli nostri, magari non verremo mai chiamati papà o mamma, forse saremo genitori senza rendercene conto. Ma su una cosa sono abbastanza certo: più che chi ci da la vita è importante chi ci ha amato e ci ama durante questa. È una delle poche certezze che abbiamo.

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