Vite rubate

di BrokenSmileSmoke
(/viewuser.php?uid=190851)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I - Le scarpette nell'armadio ***
Capitolo 2: *** Parte II - Le buche in giardino ***
Capitolo 3: *** Parte III - Lo psicologo ***



Capitolo 1
*** Parte I - Le scarpette nell'armadio ***


Mi svegliai alla solita ora ma già da subito avevo notato che non sarebbe stata una giornata come le altre, ma sarebbe stata come quei giorni.
Forse perché si stava avvicinando l’inverno, forse perché qualcuno dal cielo voleva a tutti i costi complicarmi la vita… Ad ogni modo quella sarebbe stata una pessima giornata. Ed avevo ragione.
Guardai la figura nel mio letto e notai con sollievo che stava ancora dormendo, per il momento andava tutto bene.
Cercai di alzarmi senza far troppo rumore e mi diressi alla finestra per chiudere le tende, pioveva a dirotto. La pioggia che picchiettava contro la finestra faceva un suono appena udibile, ma decisi di eliminarlo ugualmente.
Accesi la vecchia tv a tubo catodico in modo che coprisse la pioggia e corsi in cucina.
Preparai velocemente la colazione mettendo nella tazzina colma di caffè decaffeinato dei calmanti per mia moglie lasciandomi un po’ cadere la mano e ne misi una dose che sarebbe riuscita a stordire un cavallo, tanto Judy se ne sarebbe accorta a malapena, preparai il vassoio e sopra ci buttai con noncuranza un giglio che sarebbe appassito fra non troppo tempo.
Mentre tornavo in camera mi guardai di sfuggita allo specchio, chiedendomi come avessi fatto a ridurmi così.
La pelle pallida, il viso scavato ed un pigiama che mi andava troppo largo. Non perché fossimo poveri e quindi dovevo prendere i vestiti alla Caritas, bensì perché quegli anni di matrimonio mi avevano stremato e ridotto – letteralmente – all’osso.
Ero sposato da tredici anni, e sono negli ultimi cinque la situazione era a dir poco innaturale. A Judy, mia moglie, avevano diagnosticato un raro fenomeno di aggressività e autolesionismo insoliti, ma solo durante i giorni di pioggia. Nessuno si spiegava come la pioggia fosse collegata alla scomparsa del nostro unico figlio, ma visto che i tempi coincidevano troppo allora non restava altro che far finta che fosse così e dare come unica via di fuga temporanea i calmanti, medicine che oltretutto dopo qualche mese avevano già iniziato a dare un effetto più leggero. E allora ne dovevo aumentare le dosi, al massimo avrebbe dormito per mezza giornata, ma comunque per diminuirne l’uso ci eravamo trasferiti a Cagliari in una vecchia e malmessa casetta in una campagna lontana dalla città.
Di norma mi avevano detto non piovesse molto, ma ci sono sempre le eccezioni. Come ad esempio quella mattina.
- Judy, tesoro, dove sei? – avevo domandato non trovandola in camera, le tende spostate.
Dannazione, ci avevo messo troppo perdendo l’occasione giusta per somministrarle il farmaco. Poggiai il vassoio sul letto ed andai a cercarla.
Con mia moglie che durante i giorni di pioggia era una letale psicopatica la penombra della casa appariva ancora più sinistra di quanto già non fosse.
Mentre attraversavo il lungo corridoio che mi avrebbe portato in salotto sentì dei gemiti provenire dalla cucina, poi un urlo.
Uno… Due… Tre…
- Steven! -
Ecco.
Uno… Due… Tre…
- Ste… Steven… - la sentì singhiozzare.
Nemmeno mi affrettai nel dirigermi da lei, tanto già sapevo l’avrei trovata seduta al tavolo nella nostra piccola cucina con in mano uno straccio mentre strofinava un coltello.
Come non detto.
Era lì a cullarsi sulla sedia con lo sguardo perso nel vuoto mentre canticchiava sottovoce e continuava a dire il mio nome.
Oh, Judy. Vederla in quelle condizioni mi faceva sempre piangere il cuore.
L’avevo conosciuta che eravamo adolescenti durante una sagra in primavera e ricordo che me ne innamorai subito. Allegra, spensierata, gentile ed anche molto divertente. A quei tempi avevo paura di un suo rifiuto, mi ci vollero tre mesi di frequentazione per riuscire a dichiararmi.
Ricordo perfettamente quel pomeriggio.
Dopo varie prove davanti allo specchio sotto le battute che mi facevano i miei genitori ero uscito di casa e mi ero diretto al nostro punto d’incontro, riconoscendola già da lontano.
Una ragazza con dei bellissimi capelli rossi, ondulati, lunghi e con un adorabile vestito bianco in pizzo che la rendeva più esile e graziosa di quanto già non fosse.
Mi ero avvicinato e l’avevo salutata con due baci sulle guance, come al solito, e le avevo offerto un tè freddo.
Avevamo passeggiato nel piccolo paesino e per evitare di fare un fiasco l’avevo portata in riva ad un lago dove finalmente ero riuscito a parlarle dei miei sentimenti.
Tutto il discorso che avevo preparato e studiato attentamente era svanito, lasciando il posto ad un orrendo balbettio e a due parole.
- Ti amo – avevo detto guardandola negli occhi.
Non l’avevo mai vista così felice, se non nel giorno del nostro matrimonio.
- Ce ne hai messo di tempo, Ven – mi disse prima di baciarmi.
Da quel momento nessuno ci aveva separati.
Ci eravamo sposati a vent’anni, dopo tre nacque il nostro primo ed unico figlio, Jay, che scomparse a cinque anni.
A nulla erano servite le indagini ed i vari appelli ai giornali locali e nazionali e alle reti televisive. Jay era scomparso nel nulla lasciando di sé solo un paio di scarpette blu, le sue preferite ed uniche scarpe, nell’armadio.
Nonostante il suo corpo non fu mai ritrovato il parroco ci aveva consigliato di fare ugualmente il funerale in modo che, ovunque fosse, alla sua anima era possibile trovare la pace, non che noi fossimo credenti, quel gesto serviva solo a farci illudere che Jay era in un posto migliore.
Poi, qualche giorno dopo, Judy cadde in quel limbo. All’inizio non ci avevo fatto molto caso, in fin dei conti avevamo da poco perso il nostro unico figlio, qualche episodio di isteria e aggressività era comprensibile, ma poi mi resi conto che era un problema mentale, così cambiammo città spendendo tutti i soldi che avevamo conservato per gli studi di Jay in quei cinque anni per comprare la casa lontana da occhi indiscreti e malelingue.
Ed ora quella ragazza spensierata, quella moglie felice e madre responsabile era lì davanti a me che sussurrava il mio nome.
Ad un tratto si fermò guardandomi negli occhi con lo sguardo acceso.
Continuava a lucidare il coltello con un panno, e non si rese conto quando l’oggetto le fece un taglio sulla mano. Il sangue iniziò ad uscire immediatamente, così mi precipitai velocemente da lei per fasciarle la mano sinistra con il panno. Lei non smetteva di fissarmi negli occhi e ciò mi fece rabbrividire. Quello era un nuovo stadio.
Non era mai arrivata a tanto.
Senza che io me ne accorgessi mi piantò il coltello nella coscia, lo estrasse senza indugiare e lo infilzò nuovamente nel ginocchio.
Mi sorpresi di quel gesto, e rimasi stupito di quanta freddezza c’era nel suo sguardo.
Con il sangue che ormai usciva coma dalla carne tagliata come un rubinetto dell’acqua lasciato aperto sentivo un bruciore che mi fece accasciare a terra con la gamba che andava in fiamme.
Lei si alzò dalla sedia e se ne andò lasciandomi da solo, così cercai di aggrapparmi al tavolo ed alzarmi. Zoppicando mi diressi al cassetto dove tenevamo le tovaglie. Ne strappai una e fasciai nel modo più sbrigativo possibile la gamba.
Ogni movimento portava a fitte di dolore acute, ma dovevo ritrovare Judy. Non era in se’ e non potevo lasciarla di certo girovagare per casa a mani libere.
Mi auguravo solo che avesse bevuto il caffè che le avevo lasciato in camera.
Appoggiandomi con i palmi delle mani alle pareti ero riuscito ad arrivare da lei, e la trovai accasciata accanto all’armadio, aperto. I tranquillanti iniziavano a fare effetto.
Corsi, per modo di dire, da lei e le tolsi il coltello dalle mani, poi seguì il suo sguardo vitreo nell’armadio nonostante qualcosa mi dicesse di non farlo.
Me ne pentì subito dopo.
Nell’armadio c’erano un paio di scarpette blu, impolverate e sgualcite.
Le scarpe di Jay, quelle che io avevo lasciato chiuse in una scatola nella vecchia casa.
Erano lì, qualcuno le aveva riportate, e questo voleva dire solo una cosa.
Gli attacchi di Judy sarebbero stati più forti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte II - Le buche in giardino ***


Guardai le scarpette che avevo di fronte ed in un baleno riaffiorarono in me i ricordi di Jay, quanto amava quelle scarpe. Non le toglieva mai e piangeva quando dicevamo che per dormire doveva privarsene.
Guardai mia moglie, era ancora lì immobile e le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi.
Un fascio di luce mi fece voltare verso la finestra: a quanto pare aveva già smesso di piovere.
Mi ero preso delle coltellate nella gamba per nulla.
La presi in braccio e la portai con fatica nel letto, non che lei fosse pesante, anzi, era la gamba ad impedirmi i movimenti.
Judy tremava come una foglia.
- Lui ci osserva – sussurrò.
Cercai di non darci troppa importanza, a malincuore dovevo ammettere che quelle erano le parole di una pazza.
Aspettai che si addormentasse e andai in bagno a disinfettare i tagli, bruciavano da morire.
Cercai di unire i tagli con dei cerotti, avevo smesso di recarmi in ospedale da anni, guardai le mie gambe, le cicatrici erano ovunque.
Tornai in camera e senza svegliare mia moglie presi le scarpette dall’armadio e le chiusi in una busta nera.
Mi domandavo come fossero arrivate lì, le avevo lasciate nella soffitta della nostra vecchia casa.
Judy di per se era già ingestibile, il ritorno di qualcosa che apparteneva a Jay avrebbe solo peggiorato le cose.
Guardai il cielo dalla finestra, il sole cocente faceva credere che fosse ancora estate, non c’era traccia di pioggia nell’aria.
Presi la busta con le scarpe e andai in macchina diretto in città.

- Dottore, credo che le crisi di mia moglie stiano aumentando. -
Lo psicologo che seguiva Judy da quando ci eravamo trasferiti mi guardò comprensivo, poi si tolse gli occhiali e mi guardò dritto negli occhi.
- Non possiamo alzare la dose dei tranquillanti, rischierebbe una morte celebrale –
Feci un lungo sospiro, sapevo il motivo di quella frase.
- No, non farò rinchiudere mia moglie in un manicomio –
No, non avrei fatto questo alla mia amata.
Certo, quando pioveva era un problema, come quella mattina, ma non potevo rinchiuderla lì per venti giorni l’anno in cui stava così, ma nelle belle giornate tornava ad essere la mia Judy.
- Steven, ti sto parlando da amico. Lì ci saranno persone in grado di aiutarla, tu hai fatto del tuo meglio -
No, non avrei accettato il suo consiglio.
Lo salutai bruscamente, nonostante lo volessi non riuscivo a far finta di nulla.
Passai davanti ad un raccoglitore di abiti usati e ci buttai dentro le scarpette. Jay era morto, quelle potevano servire a qualcuno meno fortunato.
Tornai a casa che si era fatta ora di pranzo, e l’odore di cucinato mi arrivò alle narici ancor prima di aprire la porta.
Poi, quando entrai, la trovai di fronte a me con addosso il grembiule mentre mi guardava con rabbia.
- Come hai osato? – mi urlò contro ferocemente.
La guardai facendo finta di non capire, era impossibile che ricordasse ciò che era successo, non lo faceva mai.
- Uscire di casa senza dire nulla… Mi hai tradito, eh? Brutto porco! – mi sbraitò contro.
Sospirai sollevato. Era da lei avere costanti crisi di gelosia: a suo modo dimostrava di tenerci.
Le sorrisi dolcemente.
- Cosa stai cucinando? -
Mi fece un sorriso sghembo che mi fece venire la pelle d’oca.
- È una sorpresa – poi notò la mia gamba e la sua espressione mutò immediatamente, sembrò seriamente preoccupata, poi la vidi scivolare contro il muro con le mani che le coprivano il volto – Non possiamo continuare così, Steven, guardati -
Cercai di calmarla, inutilmente.
- Perché non hai seguito il consiglio di Paolo? -
Mi si gelò il sangue nelle vene.
Cercai di far finta di nulla, ma mi fu inutile anche questo.
Notai il suo cambio d’espressione, ed anche la sua volontà nel mantenere la calma, la situazione stava decisamente degenerando.
Mi invitò freddamente a pranzare, ed una volta finito mi diressi in bagno per fare una doccia calda, lasciandola in cucina a lavare le stoviglie.
Mi ritrovai a pensare se veramente il consiglio dello psicologo era utile, e mi sorpresi nel dargli ragione.
Sì, avevo promesso nel giorno del matrimonio di restarle accanto in ricchezza e in povertà, in salute ed in malattia, e anche se per trasferirci ci eravamo ridotti sul lastrico poteva essere che la ragione del suo malessere fossi io, magari la soluzione migliore era affidarla ad uno specialista.
La mia idea si fece più forte nel momento in cui il tocco dell’acqua calda sulle nuove ferite sembrò bruciare come fuoco.
Avevo fatto tutto il possibile, anche cambiando casa, ma l’unica cosa che era cambiata era il saldo del nostro conto in banca, i sintomi di Judy erano solo leggermente diminuiti.
Pensai all’inverno che stava incombendo, se fosse stato come lo scorso sarebbe stato un miracolo che io arrivassi alla primavera vivo.
Mi privai di quella meravigliosa, e allo stesso tempo dolorosa, sensazione dell’acqua calda che scorreva sul mio corpo, ormai mi ero abituato al dolore della ferita.
Uscì dalla doccia indossando un accappatoio, poi aprì l’armadietto dietro lo specchio e presi dei cerotti per coprire la ferita, poi mi affacciai dalla piccola finestra incuriosito dal rumore che proveniva dal giardino.
Spalancai prepotentemente la porta del bagno e corsi, zoppicando ed in accappatoio, in giardino.
Vedevo quella pala che si alzava ed abbassava andando a coprire una buca troppo grande per essere stata fatta da una sola persona in poco tempo.
- Che modi! Non avere rispetto delle cose altrui! – la sentì sussurrare arrabbiata.
- Cos’è successo tesoro? – domandai gentile, io ero in accappatoio e zoppo mentre lei con una pala in mano.
- Steve, se i nostri vicini non la smettono di scavare buche nel nostro giardino chiamerò i carabinieri, qualcuno potrebbe farsi male seriamente, non credi? -
La guardai preoccupato.
Vicino a noi non abitava nessuno, c’era solo un enorme terreno abbandonato da anni.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte III - Lo psicologo ***


- Tesoro posa quella pala ed entriamo in casa, poi la sistemo io – le dissi poggiando una mano sulla sua spalla mentre con l’altra prendevo cautamente l’oggetto.
- Oh che sei dolce, tesoro – mi guardò negli occhi dolcemente – ma come abbiamo fatto a restare insieme così a lungo? -
Me lo domandai anche io, anche se la mia domanda consisteva nel motivo, o nel miracolo, per il quale ero riuscito a sopravvivere.
- Vado a fare il caffè, vieni? – mi propose.
Accettai: al massimo, visto l’andamento della giornata, poteva essere avvelenato.
Mi accomodai in salotto e accesi il televisore, più tardi sarei andato a coprire la buca, anche se mi chiedevo ancora chi mai l’avesse potuta fare.
Stavo per sprofondare nel sonno quando una notizia mi fece riaprire gli occhi.
Al notiziario stavano trasmettendo la morte di Paolo, lo psicologo.
Un rumore di vetri rotti e bruciore sulla pelle distolse il mio sguardo verso mia moglie, aveva sentito tutto ed era in un visibile stato di shock: il vassoio con il caffè le era caduto dalle mani, finendo sul pavimento e su di me.
Si coprì la bocca con la mano, mi guardò e sussurrò.
- Chi ha mai potuto fare una cosa del genere? Era un uomo così buono – singhiozzò.
Ero spaventato anche io, ed invece di lamentarmi della sua distrazione feci finta di nulla e mi tolsi la maglietta, rimanendo a petto nudo.
- Ma non ti vergogni? Hanno appena trasmesso la morte di Paolo e tu mi vuoi portare a letto, sei uno schifoso insensibile! – iniziò ad urlare.
Non le diedi retta, giustificarmi era solo una perdita di tempo.
Mi misi le mani ai capelli, ora che Paolo era morto non sapevo più cosa fare.
I migliori psicologi di Cagliari si erano rifiutati di seguire mia moglie, solo Paolo aveva detto che il caso lo interessava a tal punto di venirci a trovare a casa di tanto in tanto, anche quando non c’ero.
Non me ne feci un problema, tanto mia moglie era diventata mentalmente instabile e l’aiuto di uno psicologo che veniva direttamente a casa non poteva che portare dei benefici.
Chiamai il suo studio, e la segretaria mi comunicò che probabilmente non ci sarebbe stato alcun funerale.
Chiesi ulteriori informazioni in merito, ma lei ne sapeva tanto quanto me.
Si era allontanato dall’ufficio e una mezz’ora dopo aveva chiamato i carabinieri dicendo di essere in punto di morte, qualcuno lo aveva accoltellato e la chiamata era terminata ancor prima che riuscisse a dire dove si trovava.
Il suo corpo non si trovava, e la chiamata non si riusciva a rintracciare.
- Signor Steven, so che il signor Paolo ci teneva particolarmente al suo caso, lei è sicuro di non saperne nulla? – mi domandò un po’ troppo curiosa.
Dissi quello che era successo quella mattina, di quando ero passato da lui e poi tornato a casa, precisando che da quel momento non lo avevo più sentito.
La sentì piagnucolare, ma non sulla morte del suo capo, piuttosto sulla sua difficoltà nel trovare un altro lavoro.
- Chi mai prenderà una donna che ha lavorato per un uomo che è stato brutalmente ucciso? – aveva detto tra una cosa e l’altra.
Riattaccai chiedendo di informarmi su eventuali dichiarazioni e scoperte, volevo essere d’aiuto nelle indagini.
Nel frattempo tornai in giardino a ricoprire la buca, si stava già facendo buio.
Ci misi un bel po’, in fin dei conti era abbastanza larga e profonda, poi vidi un luccichio nella terra, e ne estrassi un orologio maschile.
Chissà come era finito lì, ma non mi feci troppe domande. L’avrei portato l’indomani al commissariato, non era mio.
Ricoprì completamente la buca, poi tornai in casa per cenare, fare una doccia ed andare a dormire, sperando solo che Paolo adesso fosse in un posto migliore.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3754696