Another me

di the angel among demons
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Epilogo ***
Capitolo 2: *** Rapimento ***
Capitolo 3: *** Rivelazioni -parte 1- ***



Capitolo 1
*** Epilogo ***


Ciao a tutti! grazie per essere qui a leggere questa fan fiction. Essendo un prologo è più corto dei capitoli che scriverò in futuro, è giusto per introdurre l’inizio di questa storia, dal prossimo capitolo le cose cominceranno a movimentarsi. Se vi va, lasciate una recensione su cosa ne pensate, in questo modo potreste aiutare anche me su cosa potrei migliorare. Buona lettura (:

 

 

 

 

                    “Il segreto per una vita ricca è di avere più inizi che fini.”

                                                                                                           

                                                                                                             -David Weinbaum

 

 

                 “Non arrenderti mai, perché quando pensi che sia tutto finito,

                 è il momento in cui tutto ha inizio.”     

                                                                                                  -Jim Morrison                

 

 

 

 

 

Il rumore di sottofondo dell’aereo, guardare fuori dal finestrino e le carezze sulla mano da parte del mio fidanzato Daniele, stavano iniziando a rilassarmi. Finalmente, aggiungerei.

Erano passate due ore, da quando l’aereo era decollato. Ne mancavano dieci. Dieci noiose ore che permettevano alla mia mente di far uscire tutte le mie ansie.

Chiusi i miei grandi occhi color ambra e cominciai a inspirare e espirare lentamente, come mi disse di fare Daniele quando...quando mi diedero la notizia che mia madre era deceduta, un mese prima. Eppure il dolore continuava a persistere senza darmi tregua, arrivando al punto di pensare di avere una ferita che non si sarebbe mai chiusa. A dire la verità, dopo la tristezza immediata alla notizia, arrivò subito la rabbia. Aveva solo quarantacinque anni, e la sua vita si spense così, senza che i medici mi diedero una motivazione precisa al perchè fosse successo.

- A volte capita - disse il medico in tono consolatorio e mettendomi una mano sulla spalla. Di tutta risposta, non gli dissi nulla, e scostando la spalla uscii da quell’ospedale senza neanche guardarlo in faccia.

Forse ero stata troppo cattiva, infondo non era colpa sua se non erano riusciti a trovare la causa, avevano fatto il loro lavoro. Ma in quel momento non me ne fregava nulla di niente e di nessuno. 

Be...proprio nessuno no. Daniele era stato con me fin dall’inizio, mi ha sopportato più di quanto un fidanzato può fare. In effetti, questa idea di andare in Giappone da mio padre è stata sua: Carlo, mio padre, un po più di due anni prima ha perso il lavoro. Era scienziato in una industria farmaceutica dove vivevamo noi, a Venezia. Eravamo messi davvero male, specialmente in quel periodo che c’era la crisi. Ma un suo vecchio amico, capo di un’industria farmaceutica vicino Tokyo, la “Gelzin”, gli propose di andare a lavorare da lui, siccome erano a corto di scienziati. E così accadde. Si trasferì lì e ci spedì i soldi da allora. Prendeva il doppio dei soldi di quanto ne guadagnava in Italia. Quando c’erano le vacanze, ci veniva a trovare. Poi, accadde il fatto di mia madre, e vedendo quanto stavo male Daniele mi propose di trasferirci per un tempo non definito da lui a Tokyo. Stare con papà mi avrebbe aiutato tanto. Per meglio dire, avrebbe aiutato sia me che mio padre, ora più che mai dovevamo stare vicini. Per Daniele non ci sarebbe stato problema, lavorando anch’esso nello stesso settore di Carlo, ed essendo anche un conoscente, lo avrebbero preso di sicuro. Anzi, avevano già organizzato tutto per assumerlo. Invece, io avrei fatto la cameriera come in Italia. I miei genitori ambivano che andassi in un liceo classico o robe simili, ma niente da fare, sono appassionata alla ristorazione e amo stare al contatto con i clienti. Alla fine si rassegnarono, anche se increduli che una persona possa essere interessata a quel settore.

Il pollice di Daniele mi sfiorò la guancia, e solo con quel gesto mi accorsi che avevo iniziato a piangere. In quei giorni ero così abituata a farlo, che non ci facevo più caso.

Aprii gli occhi e mi volsi verso di lui. Mi osservava con i suoi occhi azzurri, l’espressione preoccupata in volto. Gli feci un sorriso triste, ma pur sempre un sorriso. Lui scosse la testa.

- Ti conosco Eva, non devi fingere - mi diede un leggero bacio. - Non serve con me-.

Le lacrime iniziarono a farsi più feroci. - Sono ancora triste Daniele... - sussurrai, portandomi una mano alla bocca per soffocare i singhiozzi.

Questa volta, mi diede un bacio sulla fronte - Lo so amore... serve ancora del tempo. Ma poi passerà tutto -.

Sprofondai la mia faccia tra il suo collo e la sua spalla, sentendo poi la sua mano accarezzarmi la nuca. “Facile a dirsi...” pensai. 

- Stiamo andando in Giappone per un nuovo inizio - disse in tono fermo a pochi centimetri dal mio orecchio.

Si. Stavo cambiando completamente vita. Avevo lasciato in Italia il mio passato e con esso dovevo riporre la malinconia. Nonostante stavo andando da mio padre, non era comunque facile. La routine giornaliera che si ha nella propria città è difficile eliminarla completamente. Stavo abbandonando i miei pochi amici, o per meglio dire conoscenti. Ora che ci pensavo meglio non avevo dei veri e propri amici, ero rimasta sola fino all’arrivo di Daniele. Il perchè non li avessi non lo saprei dire, fino ad allora sembrava che nessuno si fosse affezionato a me, o forse non mi hanno mai trovato simpatica.

“Chissà...”

Nonostante questo, sembravano quasi dispiaciuti che io me ne andassi. Come io ero dispiaciuta di lasciare il lavoro, a quanto pareva era la cosa a cui tenevo di più. Facevo la cameriera, vestita in giacca e cravatta, in uno dei ristoranti veneziani più di lusso. Aveva due piani, atmosfera cupa illuminata da dei lunghi lampadari che creavano quella luce soffusa dolce e tranquilla. Non c’era mai troppo rumore e mi inebriavo ogni volta del profumo dei vini proveniente dalla cantina. Amavo lavorare in quel ristorante. E amavo Venezia. Il gondoliere che cantava una serenata a due innamorati...piazza San Marco, considerata un po come il salotto della città e dove avvenivano gli avvenimenti più importanti...il maestoso e antico ponte di Rialto...gli originali ed eleganti costumi di carnevale che rendevano Venezia ancora più stupenda... 

“Sto lasciando tutto questo per migliorare la mia vita” continuavo a ripetermi mentre trainavo la mia ingombrante valigia per l’aereoporto. 

Daniele mi tirò su il mento. Facendo incrociare i nostri sguardi mi dimenticai quello che stavo pensando. Ci osservammo per un po intensamente, non capendo cosa volesse fare,  iniziai a pensare che si fosse arrabbiato perchè stavo piangendo, di nuovo. Ma poi, mi baciò tenendomi ancora per il mento. Sentivo il gusto della sua mentina mangiata prima, il che mi diede come una ventata d’aria fresca.

- Vai a darti una risciacquata sul viso - mi disse dopo essersi staccato dalle mie labbra.

Io annui solamente, e a passi lenti e testa bassa attraversai il piccolo corridoio dell’aereo, arrivando alla porta del W.C. Bussai, e non avendo sentito nessuna risposta entrai. Quel bagno era veramente piccolo, beh per lo meno era pulito, mi chiesi come facevano nei film a intrufolarsi lì dentro per fare le loro cosacce visto che ci stava giusto una persona.

Aprii il rubinetto e misi le mani a coppa per prendere un po di acqua, me la buttai sul viso e appena venne a contatto con l’acqua fredda togliendo di torno le lacrime calde mi sentì subito meglio. Mi asciugai con la carta, e poi mi soffermai a guardarmi allo specchio, anche se essendo alta (o per meglio dire bassa) solo un metro e cinquantacinque mi vedevo solo dalla vita in su.

I miei capelli lunghi rosso fuoco (tinti, ovviamente) erano sciupati e secchi, nell’ultimo periodo non me ne ero presa molta cura. Le mie forme erano diminuite un po, perchè non mangiavo piu come prima, per non dire che non mangiavo affatto. Non ero mai stata una ragazza molto magra, non ero neanche grassa ma possiamo dire che ero ben messa soprattutto nel seno e fianchi, rendendo il mio corpo sinuoso. Conoscevo molte ragazze che ci tenevano a essere magre come un chiodo, mentre io me ne fregavo, mi trovavo bella anche con quella ciccetta in più. Il viso pallido, con gli occhi struccati ancora arrossati e le labbra carnose screpolate mi facevano sembrare un piccolo mostriciattolo. 

Sbattei la schiena e la testa sul piccolo muro dietro di me, lasciandomi crollare a terra. Sospirai. “Nuovo inizio...”

 

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Capitolo 2
*** Rapimento ***


Nonostante fossimo a Tokyo, il nostro appartamento si trovava in un quartiere tranquillo. E fui felice che non stessimo andando ad abitare in un grattacielo, ma in una normale comproprietà. Quella zona era veramente carina: i condomini erano a quattro piani, tutti simmetrici e di color canarino. Davanti a se avevano ognuno un piccolo cancello con la buca delle lettere, e per finire, un alberello ci ciliegio. Più guardavo la mia nuova casa, e più ero soddisfatta di aver scelto quella. Daniele stava optando di stabilirsi al centro della città, ma fu un idea che troncai subito, e fortunatamente non obiettò più di tanto. Con tutto il traffico che c’era lì, non avrei resistito più di due giorni.

Il nostro appartamento era al terzo piano, notai di buon gusto che c’era l’ascensore. Aperta la porta ci si ritrovava in un piccolo corridoio con a destra il bagno. Più avanti la cucina sulla destra e il salotto al centro nella stessa stanza, non molto grande ma per due persone andava più che bene. A separarli non c’era nessun muro, ma una penisola divisoria (tipo i banconi da bar, per intenderci). Una grande finestra con due tende faceva entrare bene la luce del sole. Nel muro a sinistra, la nostra camera da letto. Il design era classico, neutro e le pareti arancioni.

“Molto cute...”

Cominciai ad aprire la valigia, e ad un certo punto mi uscì uno sbadiglio. Sull’aereo avevo dormito poco e anche male. Quella sera, dovevamo andare a cena da mio padre, quindi mi mancavano ancora un po di ore prima che potessi dormire. “D’altronde...”. Nessuno aveva detto che dovevo smontare la valigia adesso, potevo anche farmi un riposino. 

Stiracchiandomi mi buttai a peso morto sul divano. Daniele, covacciato a terra intendo a tirar fuori la sua roba, mi guardò con un sopracciglio alzato e l’aria confusa.

- Cosa pensi di fare, pigrona? - mi domandò come per dirmi di muovere il culo.

- Non è abbastanza chiaro? -  risposi sarcasticamente. 

A passo svelto si avvicinò verso di me. - Te lo scordi, tu non dormirai ora -.

Odiavo quando faceva il burbero. - Eddai sto morendo di sonno, perchè non dovrei dormire un po? - lo guardai accigliata.

Lui si avvicino al mio viso, tanto da sentire il suo profumo di vaniglia, che per me era droga, e i suoi capelli castano scuro sfiorarmi la fronte. - Perchè volevo fare qualcos’altro - sussurrò in modo seducente, e un istante dopo cominciò a baciarmi il collo.

“Stronzo, lo sa che è il mio punto debole”.

- Che ne dici di inaugurare la nuova casa? - continuò a dirmi senza staccare le labbra dalla mia pelle, e la sua mano sotto la mia maglietta.

Mi feci scappare un mugolio. - Dico che è una bella idea - sibilai, e giusto il tempo di finire la frase mi alzò in un attimo prendendomi dai fianchi. Sembravo un koala che si teneva al suo albero. 

Mi strinse il sedere e mi morse il labbro. - Ti amo, Eva - 

Sorrisi automaticamente - Anche io - risposi, e di rimando gli morsi il labbro pure io.

Con ancora me aggrappata al suo collo, si avvicinò alla camera da letto e aprì la porta. - Di ciao al nostro nuovo letto -.

- Ciao letto - risposi divertita.

 

Quando uscimmo da quella stanza, io con addosso la sua maglietta e lui solo con le mutande,  non sapevamo che ore si fossero fatte. Guardando il soggiorno, ancora vuoto e un po della nostra roba sparsa, ci mettemmo a ridere.

- Che disgraziati che siamo - disse Daniele andando a rovistare sulla sua valigia aperta qualche indumento da mettere quella sera.

Lo spinsi amorevolmente - Ed è colpa tua! - risi. - E del tuo essere così sexy -

- Colpa mia ma... non sembravi essere stata così dispiaciuta, di non avere dormito, lì dentro - rispose facendomi l’occhiolino. Alzai gli occhi al cielo, non potevo darli torto.

Mi presi l’intimo e andai verso il bagno. - Facciamo la doccia insieme? - chiesi aprendo già il rubinetto, e togliendomi la maglia.

 Lui mi raggiunse subito e mi diede una pacca sul sedere -Vuoi il secondo round? -

Sorrisi - No scemo, dobbiamo lavarci e prepararci - risposi mettendomi sotto la doccia.

- Come vuoi capo - finse di fare il soldato con il gesto della mano, e entrò anche lui.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Carlo abitava a Yokohama, una città vicino Tokyo. Vicino per modo di dire, visto che con il treno ci mettevamo un ora ad arrivarci, ma era anche vero che i treni giapponesi sono molto più veloci rispetto a quelli italiani, se no ci avremmo messo due ore. “Quante volte mi sarebbero serviti anche in Italia...”

Come cittadina dovevo dire che mi piaceva più di Tokyo, i grattacieli c’erano lo stesso...ma era più ‘aperta’, c’erano molti più praticelli, una ruota panoramica e si affacciava sull’oceano. Apprezzavo anche il fatto che rispetto alla capitale, qua le persone non andavano tutti di fretta per qualsiasi commissione avevano. Erano molto più tranquilli.

Arrivammo all’indirizzo giusto, e riconobbi subito la sua casa perchè me la ricordavo dalle foto che ci mandò qualche tempo prima. Come zona e condomini erano molto simili a quelli del nostro nuovo quartiere.

Notai Daniele un po in difficoltà: in una mano aveva il prosecco e con l’altra si aggiustava la cravatta. Gli presi il prosecco dalla mano, così poteva sistemarsi per bene.

- Non c’era bisogno che ti vestivi così elegante, lo sai vero? - 

- Si invece! sto per incontrare tuo padre per la prima volta devo fare una buona impressione - dal tono della sua voce notai che era davvero in ansia.

- Non devi preoccuparti, gli piacerai sicuramente - cercai di tranquillizzarlo mentre gli sistemavo i capelli.

Sospirò. -Okay...sono pronto - disse riprendendosi in mano il prosecco. Detto ciò, allungai il dito verso il citofono, ma prima di pigiare il pulsantino, esitai un attimo. Stavo per rivedere il mio papà dopo tanto tempo, e stranamente mi accorsi di essere in ansia anche io. Forse stavo così perchè volevo che davvero Daniele gli piacesse. No, non era per quello, sapevo benissimo che si sarebbero piaciuti a vicenda. Non volevo entrare solo per paura di vederlo in una brutta condizione dopo la vicenda della mamma. E se lo avessi visto stare male, sarei stata più triste di quel che già ero. E’ terribile vedere una persona a cui vuoi bene, non che familiare, in una brutta condizione.

- Tutto apposto? - mi chiese a un certo punto Daniele vedendomi imbambolata in quella posizione.

Le sue parole mi scossero portandomi dov’ero. - Si - e suonai al citofono senza ripensarci. Si sentirono dei passi dall’altra parte della porta, e successivamente si aprì. 

Mio padre, vestito con una camicia e dei jeans, si stava asciugando le mani sul piccolo grembiule che portava alla vita, i capelli ormai tutti grigi erano tutti al loro posto come sempre, sul viso aveva un’espressione dolce e tranquilla. Il che mi rassenerò.

Istintivamente, lo abbracciai. Lo strinsi forte come non avevo mai fatto prima. Non credevo che mi fosse mancato così tanto fino a quando non lo ebbi avuto davanti. Lui mi strinse a sua volta. - Ciao tesoro mio - la sua voce si era fatta più profonda.

Dopo qualche secondo, si staccò piano. - Avanti, fammi conoscere il giovanotto - disse aggiustandosi gli occhiali.

“Giusto”. - Papà, lui è Daniele - immediatamente, si diedero la mano.

- E’ un piacere signor Rinaldi - si affrettò a dire muovendo la mano meccanicamente, evidentemente in imbarazzo.

- Il piacere è mio, ma per favore, chiamami pure Carlo - rispose mio padre rivolgendogli un sorriso. - Prego, entrate - aggiunse, facendosi da parte.

Appena entrati la cosa che andava subito all’occhio, era il tavolo circolare apparecchiato alla perfezione, le posate in scala e addirittura delle candele al centro del tavolo. “Questo non è da lui”.

- Avendo lavorato in un ristorante di lusso, ho dovuto fare del mio meglio per cui non mi potessi criticare male - mi disse papà vedendo la mia faccia stupita. 

Risi. - Non ce n’era bisogno! ma è davvero un gesto carino -  poteva sembrare una cavolata, ma quel gesto mi riempì il cuore di tenerezza.

- Posa pure il prosecco al tavolo Daniele, ora si inizia la cena - comunicò Carlo, e subito mi si aprì lo stomaco dalla fame.

 

Finimmo il primo e il secondo, e mi stupì di come papà abbia imparato a cucinare giapponese così bene siccome in Italia non cucinava quasi mai, e il poco che faceva non era mai molto buono. Ad ogni modo, la serata prese una piega per tutti inaspettata: non ci fu mai un momento di silenzio, parlammo del più e del meno e spesso ci ritrovavamo anche a ridere di buon gusto.

- Tenetevi un posticino allo stomaco, ora vi servo il dolce - 

- Lascia che ti aiuti - disse il mio ragazzo, alzandosi e sparecchiando.

- Grazie molto gentile - rispose mio padre andando a prendere dal frigo il dolce, che si trattava di un tiramisù.

- Papà, hai cucinato tutto giapponese e ora ci servi un dolce italiano? - chiesi un po stranita.

- Cosa vuoi che ti dica, lo sai che vado pazzo per i dolci, e qui in Giappone non ne ho trovato nessuno che mi abbia conquistato lo stomaco - disse poggiando il tiramisù in tavola, e dopo che Daniele mise i piatti e posate nuove, cominciai a tagliarlo e a dare una fetta a ciascuno.

- Allora, Daniele, sei pronto a lavorare alla Gelzin? - gli chiese mio padre alla sprovvista.

Lui lo guardò con gli occhi sgranati, non capendo se fosse una domanda ironica o seria - Ehm, si certo, e ti sono molto grato per aver insistito al tuo capo di assumermi -

- Il capo è un mio grandissimo amico, non c’è stato bisogno di insistere. Piuttosto, cerca di non fare errori, non subito almeno, i giapponesi sono molto severi riguardo a questo - lo avvisò lui.

- Ovvio farò del mio meglio, posso sapere quando inizierò? - 

- Dopodomani, ho voluto che prima respirassi un po e che ti organizzarsi tutto per bene prima di cominciare - disse ingerendo l’ultimo boccone di tiramisù.

- Mi sembra perfetto -rispose bevendo un pò di spumante.

- E tu Eva, dove lavorerai? -

- I tipo di ristoranti come quello in cui lavoravo io non accettano stranieri che non parlino bene la loro lingua, perciò nel frattempo che non l’avrò imparata del tutto lavorerò in un maid cafè, mi sono già informata e lì le straniere sono ben accette - affermai io.

Senza che me lo aspettassi, scoppiò a ridere, e io lo guardai confusa.

- Scusa cara...è che non ti ci vedo a comportarti come loro - disse facendosi scappare un altra risatina.

- In effetti l’idea non mi fa impazzire che degli sconosciuti ti vedano con quel tipo di divisa...ammetto di essere geloso - mi guardò male Daniele.

- Ma almeno è sicuro che mi assumono e i soldi ci servono specialmente ora che ci siamo appena trasferiti, per ora mi sembra la cosa migliore - feci spallucce.

 

Parlammo ancora per un bel po di tempo, e quando si stava facendo tardi, con i vari saluti e ringraziamenti, uscimmo di li con l’ultimo pezzo di tiramisù lasciatoci da mio padre.

- Visto? - dissi prendendo a braccetto Daniele avviandoci alla stazione - Non è andata così male -

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Passò una settimana da quando ci trasferimmo, e come immaginavo al maid cafè, situato al centro di Tokyo, mi assunsero subito. Ero l’unica occidentale non che l’unica con delle forme evidenti, e questo piaceva molto ai clienti.

Non sopportavo di essere osservata, soprattutto se in quel modo, ma continuavo a dirmi che era solo questione di tempo.

Tutta via il locale non mi dispiaceva affatto, era molto ampio, luminoso e colorato, metteva vivacità. Alla fine il suo compito era proprio quello. Anche come dovevo comportarmi lì dentro mi stava iniziando a piacere, cioè da ragazzina kawaii come quelle che si vedono negli anime, più che altro la cosa mi divertiva molto. A volte avevo difficoltà con la lingua (nonostante ebbi iniziato a studiarla giorno e notte in Italia appena decidemmo di trasferisci, e tutt’ora a casa sto ore sui libri) ma le mie colleghe arrivavano subito ad aiutarmi. Perchè tutto sommato eravamo una squadra. I miei orari erano dalla mattina verso le dieci, fino alle cinque del pomeriggio. Non potevo assolutamente lamentarmi.

Per tornare alla stazione, in certi punti dovevo per forza passare per dei vicoletti stretti e oggettivamente non molto sicuri. Mi rassenerava il fatto che non uscissi molto tardi e quindi c’erano meno possibilità che accadesse qualcosa, e anche se fosse successo urlando sarebbe arrivato qualcuno.

Ma quel giorno qualcosa andò storto.

Uscita dal locale e con finalmente i miei normali vestiti addosso, notai subito che passava di lì molta meno gente del solito. Solo una figura sembrava non c’entrare molto in quella strada, con le persone occupate a far qualcosa, lui non faceva niente. Aveva un lungo cappotto nero, un cappello marrone e gli occhiali da sole. Era appoggiato al muro, le mani in tasca e guardava per terra.

Era strano, ma non ci diedi molto peso in quel momento. Perciò come al solito mi feci i fatti miei, avviandomi per la mia solita strada.

Arrivata al primo vicolo in cui dovevo svoltare, noto che quell’individuo si era mosso, sempre con lo sguardo giù, a quindici metri da me.

“Sta passeggiando per i fatti suoi Eva, non farti paranoie”.

Continuando a camminare, in poco tempo sentii dei passi dietro di me. Presi in mano il telefono per riflettere l’immagine di chi avevo dietro. 

Trasalii. Era ancora quel tizio.

Istintivamente velocizzai il passo facendo finta di non averlo visto. Ma lui fece lo stesso.

Ormai era sicuro: mi stava seguendo.

In quei momenti uno deve cercare di mantenere la calma, ma l’ansia mi travolse piu di quanto avrei voluto, e iniziai quasi a correre, sbloccando il telefono e andando nella rubrica pronta a chiamare qualcuno.

A pochi metri, saranno stati cinque, sarei uscita da quel vicoletto arrivando in strada e a quel punto sarei stata più sicura. 

Sospirai vedendo la luce (che in quel vicolo i tetti oscuravano) sempre piu vicina.

Ma proprio mentre stavo facendo l’ultimo passo, mi sento tirare indietro con forza.

Cercai di urlare e dimenare le braccia, ma mi tappò subito la bocca con un fazzoletto, inzuppato di cloroformio, ovviamente, e mi bloccò le braccia stringendomi forte.

Vedevo la strada allontanarsi sempre di più e con esse le mie forze di reagire.

In pochi secondi, il mio campo visivo si fece sfocato fino a non vedere più nulla: le mie palpebre non riuscivano più a stare aperte.

Feci un ultimo tentativo di liberarmi, ma il corpo mi cedette abbandonandosi a quel sonno ingannevole, e traditore.

 

 

 

 

 

 

Nota: se non sapete cos’è il maid cafè, vi consiglio di andarlo a cercare su internet per avere un idea chiara di cosa sia (:

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Capitolo 3
*** Rivelazioni -parte 1- ***


Nota: questo capitolo non è lungo quanto avrei voluto, ma è gia tanto che sono riuscita a scrivere questo, perciò ho preferito fare così piuttosto che fare aspettare più giorni. Spero vi piaccia comunque (:

 


 

 

Freddo. La prima cosa che percepii, fu il freddo pungente. I sensi riemersero pian pian, e un intenso odore di pulito mi inebriò le narici, facendomi credere in un primo momento di essere a casa mia. Muovendo i piedi, senza scarpe ne calzini, percepisco un tessuto morbido, era...moquette? Ma, un momento, a casa mia nn c’era...

Poi, dei flashback.

Io che esco da lavoro, un tipo strano che inizia a seguirmi, io che mi sento tirare da dietro...

“Sono stata...r-rapita...”

Spalanco gli occhi. Ma continuo a vedere nero. Ci metto qualche secondo per capire di essere in una stanza buia e non ancora nei miei sogni. 

Provo a muovermi, ma non ci riesco: mi avevan legata ad una sedia.

Il panico mi pervade. Cosa potevano volere da me? Io non avevo niente di costoso addosso, a men che...

“Mi vogliono v-violen-ta-r-re?...”

Il cure salta un battito, i polmoni smettono di funzionare per un istante, sudore freddo inizia a scendere dalla fronte.

Senza che me accorgessi, iniziai ad urlare spinta da tutta la paura che avevo in corpo.

- VI PREGO, LASCIATEMI ANDARE, LIBERATEMI - un fiume di lacrime si fa breccia sulle mie guance - AIUTO, CHE QUALCUNO MI AIUTI, PER FAVORE! -

Sapevo che se chi mi aveva rapita voleva quello dal mi corpo, non avrebbero mai avuto tenerezza di me, ne compassione, e che nessun avrebbe potuto  salvarmi. Ma, la speranza è l’ultima a morire, giusto? Solo in quel momento mi resi conto di quanto fosse vero. 

“Papà...”

Singhiozzai.

“Daniele...”

Singhiozzai ancora.

“Mamma...” 

E ancora, e ancora...

- LASCIATEMI STARE...VE NE PREGO...- la gola iniziò a farmi male dalla potenza delle grida.

All’improvviso una lampadina si accese sopra di me, mostrando in realtà non molto essendo il resto della stanza completamente buia. L’unica cosa tangibile di dov’ero, era che sia la moquette, la sedia su dove sedevo, le corde con cui ero legata e le pareti eran nere.

Ma il dettagli che mi fece trasalire e non di poco, era che fossi vestita solo di una t-shirt completamente bianca larga il doppio della mia taglia, l’odore di pulito che sentivo prima proveniva da quell’indumento. Ora capivo anche perchè sentivo freddo.

Questo voleva dire non solo che mi avevano spogliata e vestita con una maglia di chissà quale maniaco, ma che avrebbero potuto già avermi fatto qualcosa mentre ero incosciente. 

Scossi la testa cercando di togliermi dalla mente l’immagine di quei maiali che mi toccavano, ma il pianto non voleva saperne di cessare, e con esse si aggiunsero degli spasmi involontari.

-LASCIATEMI ANDARE - arrivata ormai all’esasperazione, lasciai cadere il mi corpo, trovandomi con la testa tra le gambe.

Per qualche minuto mi limitai a osservare le lacrime che si scagliavano sui miei piedi, con la mente che si annebbiava sempre di più a ogni goccia.

“Quindi è questa, la mia fine?”

Il rumore di una maniglia ruppe il silenzio assordante di quelle quattro mura, lasciando a un altro spiragli di luce di farsi breccia, dall’altra parte della stanza.

- Allora, hai finito di strillare? - 

Mi gelai, e continuando a stare in quella posizione, sentii la porta chiudersi alle spalle di quello che sembrava essere il mi rapitore e i sui lunghi passi che si avvicinavano. Subito dopo, nel mi campo visivo di fronte ai miei piedi, ci furono anche dei scarponcini.

Con il poco coraggio che mi era rimasto, alzai lentamente la testa, ritrovandomi davanti un ragazzo occidentale sulla ventina come me, molto magro, vestito di jeans e un gilè di pelle neri, i capelli a caschetto con una frangetta sul biondo. Il suo sguardo era terribilmente serio e impassibile, mi osservava e basta, come se si aspettasse che iniziassi a dire qualcosa. Ma cosa potevo dire, se ero io la vittima? Piuttosto, cercavo di prepararmi psicologicamente a quello che poteva farmi.

- Andiamo subito al sodo, Evangelina Rinaldi. - sbottò a un certo punto.

Avrei potuto immaginarmi tutto, ma non una frase del genere. Rimasi confusa e stupita allo stesso tempo, non perchè sapesse il mi nome e cognome (quello poteva averlo visto sulla carta d’identità che tenevo in borsa) ma perchè si stava davvero aspettando che gli dissi qualcosa che volesse sapere. 

- Dimmi cosa sai su Wiler - mi chiese, anzi, pretese.

Ma nella mia mente, buio totale, continuando ad essere confusa e incredula di quello che mi stava succedendo.

Il biondo sbuffò. - Hai mai sentito parlare della Wiler? -

“Ma di cosa sta parlando?...”

Disturbato dal mi prolungo silenzio, si innervosì più di quanto non lo fosse prima.

-RISPONDI! - 

Mi irrigidì, e la voce sembrava davvero essersi rotta, non voleva proprio uscire fuori. Allora mi affrettai a scuotere la testa velocemente.

- Adesso il gatto ti ha mangiato la lingua? Fino a qualche minuto fa gridavi come una pazza - mi schernì piegando la testa di lato, come se mi stesse scrutando. Io, ancora zitta.

Senza che me lo aspettassi, mi prese le guance con la mano stringendo violentemente, facendomi aprire in automatico la bocca, e con due dita dell’altra mano mi prese a forza la lingua.

- Visto? E’ ancora qui. Scommetto che l’hai usata bene in sti giorni con Daniele Rizzo - un ghigno divertito li si dipinse in volto.

Il suo nome pronunciato da quel tizio, che ora mi stava a due centimetri dalla faccia riuscendogli a vedere ogni sfumatura azzurra dei sui occhi minacciosi, mi paralizzò. Come faceva a sapere di lui? Era forse un stalker? Fatto sta, che nn sapendo bene come avessi fatto, gli morsi le dita, di conseguenza quest’ultimo si ritrasse di qualche passo indietro gridando.

- Stronza! - disse alzando la mano, che pareva stesse per avere un incontro ravvicinato con il mi viso.

D’istinto l’unica cosa che riuscii a fare, fu serrare gli occhi aspettando il dolore che mi sarebbe arrivato pochi secondi dopo.

 

Ma lo schiaffo, non arrivò.

 

- Si può sapere che cosa stai facendo, Mello? - una voce ‘gratinata’ giunse alle nostre orecchie.

“Mello. Quindi si chiama così questo pazzo?”

Riaprii prima un cchio, poi l’altro, scorgendo la figura di quello che sembrava essere il mio salvatore sulla soglia della porta da cui era entrato anche il biondo. 

Ma costui, aveva i capelli...

“Bianchi??”

Anch’esso sulla ventina, più basso del mi rapitore, gli occhi grandi e grigi, leggermente ricurvo con la schiena, e indossava una camicia, pantaloni e calzini bianchi. Sembrava appena uscito da una clinica d’ospedale.

- Lasciami fare il mio lavoro, Near! - gli ringhiò Mello.

“Near? Ma che nomi hanno?”

- Non erano questi i metodi che aveva detto di utilizzare Elle - gli rispose tranquillo avvicinandosi a noi.

- Io lo so che lei mente. Sa qualcosa ma non vuole dircelo - insistè.

- Non credo proprio - disse Near osservando la mia faccia ancora terrorizzata e segnata dalle lacrime. - E anche Elle crede che lei sia innocente - continuò spostando lo sguardo su di lui.

Mello alzò gli occhi al cielo sbuffando. Da come discutevano, non sembrava la prima volta che il biondo facesse di testa sua, disobbedendo.

- Evangelina Rinaldi, giusto? - mi chiese Near come per togliersi un dubbio, ma non ritrovando di nuovo la mia voce, mi limitai a rispondere con un accenno. Non seppi neanche perchè feci qual gesto con calma, (al contrario di come avevo fatto con Mello) ma quella persona mi ispirava fiducia.

- Capisco - disse cominciando ad attorcigliarsi una ciocca di capelli al dito. - Mello, slegala - ordinò successivamente.

Lui serrò la mascella - Cosa? E perchè? -

- Perchè la portiamo da Elle, semplice - disse con nn chalanse, come se la risposta fosse ovvia. - ora, se nn ti dispiace...-

Mello serrò i pugni. - Nn è giusto - si lamentò, ma stranamente neanche più di tanto, venendo poi a slegarmi.

Appena le corde si sciolsero, mi passai subito le mani sule braccia. Bruciavano tremendamente e notai si eran formati dei lividi. Guardai subito male Mello per avermi legata così stretta, per non parare di come mi aveva trattata. 

“Quanto ti odio...”

Con mi grande stupore, mi porse la mano per aiutarmi ad alzarmi.

“Prima mi maltratta e poi fa come se niente fosse?”

Quel gesto che dovrebbe essere da gentil uomini, a me fece solo arrabbiare vista la situazione. Per tanto, tenendomi alla sedia, mi alzai con un piccolo sforzo, sfoggiandogli uno degli sguardi più aggrottati che potessi fare.

Lui alzò le mani - Come vuoi - disse fingendosi offeso, e cominciò ad avviarsi.

“Scherza?!” Dio, quel ragazzo mi faceva davvero ribollire dalla rabbia.

- Ci segua, Evangelina - mi disse Near guardandomi e avviandosi anche lui.

Detto fatto, iniziai a camminare dietro di loro, e finalmente uscimmo da quella stanza arrivando in un lungo corridoi luminoso (tanto che per un attimo dovetti coprirmi gli occhi essendo stata abituata per chissà quanto tempo a quel buio) orizzontale e completamente vuoto. Alla fine di esso, un ascensore.

Dopo qualche passo mi ricordai di essere vestita solo di una maglia larga (Chissà di chi, tra l’altro). Imbarazzata mi tirai giu con le mani il più possibile la t-shirt cercando di coprirmi il sedere, e per tutto il tempo della camminata rimasi così, con le guance che andavano a fuco sempre di più.

- Dove son i sui vestiti? - chiese il mi salvatore a quel maleducato di Mello, percependo il mi enorme imbarazzo.

Quest’ultimo mi lanciò un occhiata - Ah si, glie li ho tolti per vedere se aveva cimici, mini videocamere o micro chip col gps attaccati ai tessuti - rispose chiamando l’ascensre.

“Me li ha tolti LUI?” 

- Stai tranquilla, uscirai da qui con di nuovo i tuoi vestiti addosso - sospirò il biondo pensieroso - Sempre se ci esci da qui -

Spalancai gli occhi e risentii il sudore freddo scendermi di nuovo dalla fronte. E quella frase cosa voleva dire? Io dovevo uscire di lì appena avrei potuto, e se non avessi potuto piuttosto sarei scappata. Non esisteva al mondo che io rimanessi lì, oltretutto dov’è ‘lì’? Non sapevo neanche dove ero!

- E’ per questo che non ci sai fare con le donne - disse quasi tra se e se Near, ancora intento a intrecciarsi una ciocca al dito.

- Pff, come se tu ne sapessi qualcosa di femmine - ribattè Melln, mettendo piede nell’ascensore appena arrivato.

Come se l’argmento non glie ne importasse, Near fece spallucce, e entrammo anche noi due.

Mi misi nell’angolo, cercando di nascondermi il più possibile vergognandomi ancora del mi stato, e chiuse le porte scorrevoli, mi venne in mente una tale confusione che a momenti non capivo più neanche io chi fossi.

Ero venuta qui per un nuovo inizio, per riprendermi da un brutto e improvviso lutto, un nuovo lavro, una nuova lingua...ma mai mi ero aspettata di ritrovarmi in una situazione simile.

Era successo tutto così in fretta che ancora non realizzavo davvero la cosa. Perciò, cercai di ripensare a tutto quanto dall’inizio. Ricapitolando, sono stata rapita e portata qui, o meglio all’inizio sembrava così, ma poi quando hanno iniziato a parlare quei due ragazzi strambi...la condizione pareva più complessa, anche se ancora non avevo capito in cosa. Una certezza, era che chissà come mi conoscevano, addirittura sapevano il nome del mi ragazzo. Mello insisteva su una cosa chiamata Wiler, e credeva fermamente che io ne sapessi qualcosa. Ma i non ne avevo mai sentito parlare. E ora, mi stavano portando da questo Elle. Voleva sapere anche lui qualcosa da me di cui però non sapevo dargli risposta, o era lui che mi avrebbe spiegato cosa stava succedendo?

- Siamo arrivati al quarantesimo pian - annunciò il biondo risvegliandomi dai miei pensieri.

“Quarantesimo?” Bene, almeno ora sapevo di essere in un grattacelo, e quasi sicuramente ancora a Tokyo.

Appena usciti, i miei piedi nudi percepirono subito di nuovo la moquette, e con il freddo pavimentale del corridoio di prima non potei che ringraziare tutti i santi.

Entriamo quindi in questa grande stanza, con delle enormi finestre affacciate su Tokyo, “proprio come pensavo” e potei constatare che si stava facendo buio, perciò erano passate alcune ore da quando ero uscita dal locale. L’arredamento mi stupì, c’erano solo un tavolino quadrato (con sopra una coppa di fragole) e attorno quattro divanetti. E basta.

“Che spreco di spazio...”

- Elle, qui c’è Evangelina Rinaldi - disse Near a un tratto, e solo allora mi resi conto che c’era una persona a una delle finestre: capelli neri disordinati, una larga felpa bianca, blue jeans altrettanto larghi e scalzo come me. Teneva una mano appoggiata al vetro e l’altra in tasca, ci dava le spalle. Non si capiva se era concentrato a osservare la città, o se semplicemente pensava ai fatti sui, o non pensava affatto.

Volse solo la testa nella nostra direzione, e vidi che come il ragazzo dai capelli bianchi aveva due grandi occhi, ma contornati da due profonde occhiaie.

Nessun ‘ciao’, nessun ‘state bene’ disse come prima frase, ma...

- Se è conciata così è merito tuo, vero, Mello? -

 

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