Saar II - La maledizione di Nerigal

di Psyker_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Cacciatrice ***
Capitolo 2: *** Le cronache di Arawyn Merhel ***
Capitolo 3: *** Nell'erba rossa ***
Capitolo 4: *** Al cospetto del Re ***
Capitolo 5: *** Identità ***
Capitolo 6: *** Prigionieri ***
Capitolo 7: *** Oltre la magia ***
Capitolo 8: *** L'uomo che non mostra mai le spalle ***
Capitolo 9: *** Tra due mondi ***
Capitolo 10: *** Libera ***
Capitolo 11: *** La sala di Alaphys ***
Capitolo 12: *** Strano risveglio ***
Capitolo 13: *** La maledizione di Nerigal ***
Capitolo 14: *** Preparazione ***
Capitolo 15: *** Inseguiti ***
Capitolo 16: *** I veri demoni ***
Capitolo 17: *** L'arena ***
Capitolo 18: *** Fratelli ***



Capitolo 1
*** La Cacciatrice ***


cap1

Saar II

 

Capitolo I – La cacciatrice

 

Un sibilo nel vento, il suono di un istante a lacerare le verdi fronde di quegli alberi che smossi dal flebile e regolare soffiare del vento, ricreavano un gioco di ombre con i caldi e rasserenanti raggi di sole filtranti: una freccia si era conficcata sulla dura corteccia di un tronco e sembrava aver colpito proprio in mezzo agli occhi uno scoiattolo ritrovatosi tra un cacciatore ed il suo bisogno di sfamarsi. Un’ombra si mosse dunque celere tra le radici e chiaramente a proprio agio con la fitta vegetazione, si avvicinò all’ormai carcassa dell’animale sfilandone dal corpo la freccia. Il cappuccio copriva i suoi lineamenti ma il corpetto che lasciava scoperta la pancia piatta metteva in risalto le curve di quella che doveva essere una giovane donna. Saltò tra un cespuglio e l’altro facendo ben attenzione a non lasciare tracce di sangue dell'animale sul percorso e quando giunse nei pressi di un piccolo casolare nella foresta, si avvicinò a piccoli passi tra un sospiro e l’altro come fosse finalmente giunto il momento di una piccola e meritata pausa in una giornata durata fin troppo. Salì gli scricchiolanti gradini in legno per poi poggiare la mano su una maniglia vecchia e malandata. La porta girò sui cardini rivelando un interno spoglio e povero non meno di quanto ci si potesse aspettare osservando l’esterno della struttura. Un letto sfatto, delle frecce sul tavolo di legno ed un pugnale dalla lama smussata dentro un contenitore di metallo vicino il camino spento. Non vi era altro se non delle bucce di mela sul ripiano della finestra che dava sul retro della casa, dove la foresta continuava ancora per chissà quanti chilometri. La ragazza poggiò a quel punto lo scoiattolo sul tavolo, prese il coltello, e rimase a guardare quella che probabilmente sarebbe dovuta essere la sua cena. Cominciò a tamburellare con le dita nervosamente sul legno e con un gesto di stizza piantò la lama dell’arma accanto la carcassa, per poi voltarsi verso la finestra come se sperasse di vedere arrivare qualcuno. Nulla, era da sola con il suo cibo e toccava a lei scuoiarlo e cucinarlo. Uscì nuovamente dall’abitazione e si avvicinò a ciò che rimaneva di un braciere per accendere la fiamma che le avrebbe garantito un pasto decente. Non fu una pratica semplice e veloce, le ci vollero almeno venti minuti per alimentare il fuoco con alcuni legnetti che aveva disposto in modo da formare una sorta di archetto, poi tenuto fermo da alcuni lacci recuperati probabilmente da qualche particolare foglia. Quindi si occupò di spellare e pulire lo scoiattolo e se l’accensione del fuoco le occupò quasi mezz’ora, questa parte le risultò ancora più difficoltosa. Con l’aiuto del pugnale ed alcune grosse foglie umide per pulirsi le mani, terminò finalmente quel supplizio e mise la carne sul fuoco lento. Intanto sopraggiunse la sera e con essa i suoni tipici della foresta che con l’avvento della luna riecheggiavano tra le fronde degli alberi anche per diversi chilometri. Ululati, inquietanti suoni causati dallo spostamento dei gufi e perfino quelle che sembravano grida umane, probabilmente il semplice verso di qualche strano animale. Il cielo era comunque celato dalla fitta vegetazione ed il riflesso argenteo della luna che filtrava era l’unica fonte di luce che garantiva la visuale del perimetro alla donna che faceva della vecchia struttura l’unico luogo in cui rintanarsi in caso di pericolo. Anche il fuoco faceva la sua parte nell’illuminazione e scaldava l’aria frizzante ma la cacciatrice sapeva bene di non poter godere di quel benessere per tutta la notte: le creature attratte dalle fonti luminose erano tante e tra le più feroci. Era dunque giunto il momento di rientrare e dopo aver spento il fuoco, la fanciulla sigillò l’entrata con un chiavistello, chiuse le finestre e si fiondò sul letto. Si sedette sospirando e finalmente liberò il viso dal leggero cappuccio che lo ricopriva, mostrando dei lucenti e corti capelli rossi e due occhi azzurri che le illuminavano le guance candide rese splendide dalla bocca rosea scolpita in quel volto meraviglioso e giovane. Non ebbe però neppure il tempo di distendersi e chiudere gli occhi ignorando i rischi della foresta che il suono di alcuni sassolini sulla finestra la destò dall’istante di riposo. Afferrò agilmente l’arco ed incoccò una freccia mentre si avvicinava alla finestra su cui continuava a picchiettare qualcosa. Allungò un braccio togliendo il chiavistello e circospetta cercò di sbirciare fuori senza sporgere troppo la testa. Apparentemente non vi era nessuno, poi avvistò un’ombra scattare in direzione di un cespuglio e senza pensarci troppo la puntò scagliando una freccia con una potenza ed una precisione invidiabili.
«Per un pelo!» sospirò una voce maschile da dietro il fogliame, mentre la fanciulla dai capelli rossi inarcava un sopracciglio cercando di associare quel tono a qualcuno di conoscente.
«Tarus?» domandò perplessa, mentre balzava fuori dalla finestra ormai sicura di non aver di fronte un qualche predatore della selva «non ti fai vedere da quanto ormai? Due mesi? E ti presenti in questa maniera?» concluse con un velo d’irritazione, alleggerito però da un sorriso che da solo valeva più di mille parole. Il piccolo Phylis balzò dal nascondiglio mostrando un taglio netto sul braccio e sebbene inizialmente si limitò ad osservare con uno sguardo impaurito la donna che stava per ucciderlo, si sciolse quasi immediatamente nel momento in cui incrociò le sue iridi dello stesso colore del cielo. Le corse incontro con un ghigno beffardo e la solita aria da maniaco ma prima che potesse saltarle tra le braccia, la cacciatrice si spostò fulminea lasciandolo sbattere contro la corteccia di un grosso albero.
«Se è rimasta la tua faccia impressa giuro che lo abbatterò» commentò acida mentre incrociava le braccia. Il piccolo umanoide scivolò sull’erba e cercò di ricomporsi nel minor tempo possibile, quindi tornò serio ed osservò soddisfatto colei che aveva davanti gli occhi.
«Sei davvero fantastica, Mera» affermò quasi commosso mentre la fanciulla si perdeva in un piccolo sorriso.
«Non sei qui semplicemente per congratularti con me suppongo, che cosa sei venuto a dirmi dopo tutto questo tempo?» lo puntò sospetta mentre si passava una mano tra i capelli dal nuovo riflesso cremisi.
«Per quanto morissi dalla voglia di rivederti… no, effettivamente c’è una ragione» terminò facendole cenno di rientrare nella struttura di legno, la selva di notte non era sicuramente il luogo più sicuro per scambiare due parole. Mera annuì e ricordando della porta chiusa dall’interno, invitò l’ospite a passare dalla finestra. A quel punto accese il camino ed offrendo una seduta al Phylis, si mostrò piuttosto curiosa:
«Di cosa si tratta?» chiese tagliando corto.
«Carian è riuscita ad amplificare i frammenti di forza rimasti nelle due gemme degli Ebrion. In qualche modo crede di poter riaprire il portale per l’altra dimensione» cominciò serio il piccolo cacciatore «il potere delle due pietre era stato assorbito da Liz ed inizialmente credevamo che le gemme si fossero fuse col suo corpo come era successo tra Seiri e la pietra nera…»
«E invece?» chiese nervosamente Mera mentre tamburellava con le dita sulle gambe.
«Le abbiamo trovate e con un po’ della sua magia particolare ne abbiamo amplificato la forza rimasta. Insomma, possiamo riprovare il rituale che aveva evocato Liz… forse potrò rivederla» commentò con voce rotta e gli occhi lucidi pronti a lasciare cadere delle lacrime che lo braccavano da quando aveva perso la sua cara guida lì al Monte Metista. Non vi furono altri commenti, Mera si limitò a riflettere su quelle parole e solo dopo qualche minuto capì che avrebbe forse potuto riabbracciare colui che aveva sacrificato la propria vita per lei e per tutto il mondo. Che fosse un demone, un angelo, uno stregone o un mago non importava più ormai, aveva un debito nei suoi confronti e doveva ripagarlo. Si alzò improvvisamente e strinse i pugni, osservò il fuoco ardente del camino senza dire una parola e lasciò parlare il proprio sguardo.
«Credo che Carian abbia già contattato suo fratello, e Ruphis è rimasto con lui in questi ultimi due anni, manchi solo tu» specificò Tarus con aria quasi malinconica. Era passato parecchio tempo dalla loro ultima riunione ed erano cambiate tante cose: quella che era la principessa del regno di Kubara sembrava essersi persa nei meandri di un’oscura foresta a favore di una guerriera, una cacciatrice, capace di badare a se stessa e pronta ad affrontare qualsiasi ostacolo tra lei ed il mago che aveva salvato il Saar.
«Sono pronta» affermò Mera mentre stava già per sistemarsi l’arco e la faretra.
«Frena un po’, sono stanco… partiremo domattina» rispose il Phylis mentre si lasciava cadere sul letto che doveva essere proprio della fanciulla.
«D’accordo. Dove vogliono vedersi?» chiese lei ormai completamente in preda all’eccitazione.
«Qui, a Nord… nell’Horion» terminò Tarus giusto prima di lasciarsi andare al lento cullare del vento ed il dolce richiamo del sonno che come un rapace sulla preda, aveva afferrato i suoi pensieri con lunghi ed affilati artigli. Mera uscì invece dalla struttura sospirando per poi balzare sul tetto spiovente: quella notte non era intenzionata a chiudere occhio e a riposare, ma avrebbe semplicemente pensato a come agire, cosa dire, alle giuste parole da riferire a Valerian nel momento in cui avrebbe incrociato nuovamente i suoi occhi azzurri. Sembrava passata ormai un’eternità ma non li avrebbe mai confusi con quelli profondi ed oscuri visti in quella giostra di colori arcani nel tempio di Nefilim. Erano ricordi imprecisi misti ai pensieri di Naos, istanti che dovevano essere dimenticati.


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Capitolo 2
*** Le cronache di Arawyn Merhel ***


cap2

La brezza carica dell’essenza del mare inondò la grande vallata che si apriva alla vista della cacciatrice: i colori infuocati del tramonto donavano al suo sguardo un riflesso scarlatto simile a quello dei suoi capelli, che raccolti in un fermaglio raffigurante un drago dorato, resistevano al vento ululante in quei meandri disabitati. Mera non aveva memoria di quel luogo, non ricordava di aver mai visitato nulla se non il proprio castello e le località attraversate durante la fuga insieme a Valerian. I suoi ricordi avrebbero dovuto fermarsi all’elegante ballo in maschera, al suo volteggiare tra le braccia del mago e il perdersi tra i suoi occhi chiari come il ghiaccio, eppure frammenti di un’esistenza mai vissuta si insediavano tra lei e le esperienze realmente conosciute, come bagliori in un contesto appena illuminato dal chiarore tenue della mezza luna, come giorni di pioggia che velano il vigore del sole. Chiuse gli occhi scuotendo il capo, il solo pensiero di essere stata qualcun’altra per un periodo durato fin troppo la disgustava, avrebbe preferito cambiare da sola, allontanarsi dalla vita di corte per una scelta consenziente ed effettivamente… così aveva fatto. Proseguì insieme a Tarus per qualche altro chilometro in quella distesa di prato incontaminato, privo di alberi, di fiori, forte soltanto della propria erba scaldata dai raggi rossi che lentamente cominciavano a sparire. Mera continuava ad annusare l’aria estasiata, non riusciva a comprendere come un luogo così isolato dal mondo potesse profumare tanto di benessere, in un gioco di odori che mescolava salsedine e terra umida.
«Ci siamo allontanati parecchio dalla costa, eppure sento ancora il profumo del mare» iniziò la ragazza mentre Tarus si lasciava pervadere da un sogghigno divertito.
«Non è l’odore del mare ciò che senti, ma quello del grande lago di Terenith, il più grande del Saar. Dicono che le sue acque siano salate, proprio come quelle del mare, ma sinceramente non sono mai stato tanto stupido da inoltrarmi così profondamente nell’Horion da vederlo» spiegò il Phylis con una punta di saccenza.
«Perché? Dove si trova?» continuò curiosa Mera che per quanto avesse cambiato totalmente la sua vita, non avrebbe mai potuto abbandonare quel lato del suo carattere che poneva il desiderio di conoscere ogni segreto del mondo oltre qualsiasi cosa. Era in fondo uno dei motivi che l’avevano convinta a lasciare Kubara la prima volta e sicuramente non uno degli ultimi che l’avevano allontanata la seconda. Il piccolo arciere indicò verso la radura a Nord che ad occhio sembrava non terminare neppure oltre l’orizzonte, lasciando all’immaginazione della fanciulla ciò che nascondevano in verità quei luoghi misteriosi del continente.
«Verso quella direzione, all’estremo Nord del mondo, vi è la famigerata Foresta dell’Eco, un luogo da cui, si narra, provengano costantemente voci e grida disperate. Nel suo cuore vi è il lago».
«Quanto è grande l’Horion? Abbiamo camminato per giorni verso Nord e della foresta non vi è traccia… solo questa distesa infinita di erba» disse la ragazza incantata all’idea di un luogo del genere su cui esistevano leggende misteriose.
«Grande, ma sono sicuro che hai cose più importanti a cui pensare» terminò il Phylis facendo un cenno col capo verso le sagome di alcune persone appena illuminate dalle ultimi luci del giorno.
«Siamo arrivati» ed afferrò per un braccio la fanciulla accelerando il passo. Mera era nervosa, eccitata, strinse i pugni e costretta dal passo dell’umanoide, faticò per non inciampare nel manto erboso della vallata. La visibilità era ormai scarsa, la notte sarebbe sopraggiunta presto ma gli occhi chiari della fanciulla dai capelli rossi avrebbero illuminato anche l’oscurità più profonda. Sul viso di Carian si aprì un sorriso sincero e felice e correndo verso l’amica, le saltò tra le braccia contenendo le lacrime; dietro di lei avanzò lo spadaccino dorato con i suoi corti capelli biondi e gli occhi dello stesso colore della sorella, anzi, l’occhio, dato che una lunga cicatrice dal sopracciglio sinistro al mento gliene era costato uno che adesso restava chiuso sotto quello sfregio. La cacciatrice se ne rese subito conto e con aria preoccupata si avvicinò immediatamente all’amico.
«Golden… che cosa è successo?» si limitò a chiedere temendo la risposta.
«La vita nelle Terre Aride può essere dura ma mi sono addestrato abbastanza da non pensarci, a te come va? Anche se a vederti non dovrei neanche chiederlo» disse sorridendo mentre anche lui si concedeva un abbraccio.
«Bene, credevo di aver vissuto un anno terribile ma dopo questo mi rendo conto di essere stata fortunata» rispose Mera un po’ titubante.
«Sapevo che te la saresti cavata, nessun problema con il castello?» chiese Carian.
«No, per quanto l’idea di cambiare colore di capelli mi terrorizzasse, è stata un’ottima scelta...» - si sfiorò la chioma - «per non parlare del fatto di tagliarli, mi ci è voluto un po’ per abituarmi» confessò infine la principessa con un velo di malinconia.
«Dov’è Ruphis?» continuò poi guardandosi intorno. A quelle parole, un singhiozzare in sottofondo fece alzare ai presenti lo sguardo verso l’alto e una piccola figura volteggiante con gli occhi bendati scheggiò tra le lacrime ad abbracciare l’ex padrona. Gli ci vollero almeno dieci minuti per riprendersi, quel pianto liberatorio era l’accumulo di due anni di sofferenze, mancanze ed abitudini compromesse di un povero Drago Nano costretto a vivere senza colei che aveva giurato di proteggere e salvaguardare, in qualunque circostanza.
«S-scusami…» riuscì a dire fra un singhiozzo e l’altro e dagli occhi chiusi di Mera fuoriuscirono poche ma significative lacrime mentre il suo volto sembrava aver finalmente ritrovato un bagliore di luce che la accomunava alla giovane e bella principessa di Kubara di due anni prima. Era cambiata, era più forte, più decisa ma quell’abbraccio, quell’incontro, la riportò indietro, smascherò la nuova figura che si era impossessata del suo viso rivelando la luce in quegli occhi chiari che avrebbero potuto rischiarare anche il cuore di un demone.
Il gruppo si accampò per la notte nella radura alternando i turni di guardia, in quel luogo non vi era nulla con cui proteggersi, non un albero, nessun cespuglio dietro cui nascondersi, solo una distesa infinita di verde con all’orizzonte una coltre di nebbia attraverso cui filtrava il bagliore della luna. Mera accese un fuoco e Carian si preparò a spiegare ciò che avrebbero dovuto fare alle prime luci dell’alba mentre le fiamme scaldavano la notte fredda.
«Dopo quasi due anni» - esordì- «sono finalmente arrivata ad una svolta fondamentale. Ho studiato e compreso fino in fondo il potere delle due gemme nate dall’unione di distruzione e creazione, gemma rossa e bianca, e vita e morte, gemma dorata e nera, giungendo alla conclusione, dopo diverse ricerche, che esiste un metodo capace di amplificare il potere rimasto al loro interno».
Mera ascoltava in silenzio così come tutti gli altri presenti, tra coloro che quella notte sedevano intorno al fuoco, Carian era l’unica capace di destreggiarsi nell’arte magica e dunque negli studi necessari per avvicinarsi quantomeno a capire la composizione delle potenti gemme.
«Nelle Terre Aride, in una caverna celata da alcune forze mistiche, si trova il teschio di un potente Ebrion Bianco, anzi, IL potente Ebrion Bianco che si racconta fosse vissuto quando nel Saar non esistevano ancora neppure i primi maghi. Alaphys, la madre dei sacri rapaci» continuò la ragazza mentre il gruppo veniva rapito da quella che sembrava l’ennesima leggenda di un mondo inesplorato. Ruphis sembrava il più informato, al punto che continuò da sé la descrizione di quella potente creatura dal manto puro e candido:
«Colei che era capace di far fiorire un’intera foresta al solo passaggio, colei il cui battito d’ali era sinonimo di nuova forza, giovinezza, benessere. Lo stesso rapace con un potere che tutti credevano essere morto con lui tanti secoli fa».
«Esatto, Ruphis» - rispose immediatamente Carian con sguardo serio - «le ossa di Alaphys mantengono le proprietà curative che le caratterizzavano. Esistono troppi studi di maghi e viaggiatori che hanno attraversato le Terre Aride per giungere a Spell per mettere le mani sui manoscritti di coloro che possono testimoniare i miracoli di quella creatura e noi… ci siamo riusciti» continuò sorridendo al fratello che scuoteva le spalle, come se quella che avesse fatto fosse stata la più semplice delle spedizioni.
«Non ce l’avrei fatta senza Ruphis che fortunatamente c’era già stato con Liz» Rispose Golden con un sorriso beffardo.
«Quando ci siamo riuniti poco fuori Kubara tempo da, ero già a conoscenza di questa storia ma avevo bisogno di conferme. Vi avrei convocato prima se giungere a Spell non fosse risultato tanto difficile. Fortunatamente in quella miriade di libri, Golden e Ruphis hanno trovato ciò che ci serviva. Sapete, non è possibile portare degli scritti fuori da Spell ma con un po’ di concentrazione sono riuscita a mettermi in contatto mentale con Ruphis. Guidandolo per le numerosi sezioni della biblioteca siamo infine giunti alle pagine che ci interessavano: “Alaphys e la piuma della Luna”».
«Sembra molto il titolo di una leggenda» commentò Tarus mentre sgranocchiava qualche frutto che si era portato con sé, poi notò lo sguardo terrificante di Golden ed intuì che forse era meglio tacere, per il proprio bene.
«Scritto un secolo fa, quando il Luthus corrotto aveva ormai devastato i maghi, quando gli stregoni popolavano le lande desolate del Saar per sfuggire alla giustizia, quando i guerrieri, i cavalieri ed i cacciatori puntavano un utilizzatore di magia oscura per accaparrarsi la sua taglia, Arawyn Merhel, uno dei più potenti maghi ad essere rimasti tali, si diresse alla caverna di Alaphys sperando di poter “curare” il Luthus e far rinascere una nuova dinastia di maghi puri. In questo manufatto vi sono le sue cronache che come in un diario personale, ha riportato ogni passaggio di quel viaggio folle nel cuore delle Terre Aride» raccontò la ragazza dai lunghi capelli rossi sotto lo sguardo attento dei presenti, perfino Tarus finì per incuriosirsi smettendola di far chiasso masticando.
«Come finisce la storia?» Chiese Mera preoccupata, ritrovandosi per la seconda volta quella notte a temere una risposta.
«Nell’ultima pagina viene descritto il teschio dell’Ebrion e parla di come un’energia benigna abbia completamente curato le ferite di Arawyn riportate durante l’attraversata della caverna» rispose Carian sorridendo.
«E poi?» continuò curiosa la ragazza con gli occhi azzurri.
A quella domanda, Golden preferì volgere lo sguardo al draghetto alla sua destra che se ne stava accucciato vicino il fuoco che gli metteva in risalto i riflessi scarlatti delle scaglie, Tarus alzò un sopracciglio e Carian si limitò ad alzare gli occhi dorati verso l’interlocutrice, sbuffando.
«Nulla, le cronache si fermano a quel punto».




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Capitolo 3
*** Nell'erba rossa ***


cap3

L’alba illuminò l’enorme vallata che si estendeva per buona parte dell’Horion mentre il vento sfiorava dolcemente il campo allestito dal gruppo per la notte e Mera, già sveglia da un pezzo, osservava l’orizzonte velato dalla nebbia che con il chiarore tenue del sole cominciava a mostrare cosa vi fosse oltre. Era seduta sull’erba immersa in chissà quali pensieri e sospirando consapevole di stare affrontando un nuovo viaggio che avrebbe potuto portarle via ogni cosa, stringeva i pugni in attesa di fare finalmente qualcosa per risanare il debito che aveva nei confronti di un demone. Ricordò il viso di Valerian, lo stesso ragazzo con cui era cresciuta, di cui si era innamorata e che aveva sempre considerato un modello ispiratore per tutti i giovani guerrieri del palazzo, del mondo. Quel giovane era però il figlio del più grande demone che la storia del Saar avesse mai raccontato e la bella ed aggraziata principessa di Kubara gli aveva affidato il proprio cuore. Era così sbagliato? Pensava che un uomo dovesse definirsi tale in base alle azioni compiute in vita e non a leggende raccontate per intimorire i bambini irrispettosi. I demoni erano creature, così come gli umani, gli Ebrion e qualunque altra vita su quel pianeta, e come tali non dovevano essere considerati nemici a priori. A pensarla in quel modo era però l’unica, o meglio, a volerla pensare così. I demoni neri avevano devastato le terre del Saar secoli addietro dominandole come tiranni e Mera non poteva cambiare la storia per un semplice sentimento. Le si avvicinò Carian sedendole accanto con un sorriso e osservò ciò che il sole stava adesso illuminando incontrastato.
«Pensi a lui?» cominciò la rossa dai capelli lunghi, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte nella nebbia.
«Penso… Penso a cosa troveremo se mai riuscissimo ad entrare nel varco creato da Liz, penso a cosa vivremo, penso a chi incontreremo. Se fosse il mondo dei demoni e si rivelasse l’inferno di cui tutti hanno paura? O se così non fosse? Se Valerian non volesse tornare?» Mera trattenne le lacrime, gli ultimi tempi avevano messo alla prova la sua resistenza, la sua abilità e il suo fisico ma quell’istante stava testando la sua stabilità morale, il suo coraggio.
«Non sarà così, Valerian non è un mostro e non lo sarà mai. Se quel luogo è davvero l’inferno allora lui avrà combattuto per restare in vita in attesa del nostro arrivo».
Era ciò che la principessa di Kubara voleva sentire, ciò che aveva bisogno di sapere ma quel viaggio li stava portando verso varchi che gli umani non avrebbero mai dovuto attraversare. Lì, in quella vallata, con nella mente gli scritti di Arawyn, stavano riscrivendo la storia del Saar.
«Ce la faremo» disse seria Carian stringendo la mani dell’amica.
«Lo spero più di qualsiasi altra cosa…» rispose Mera sorridendo e lasciando che una lacrima le segnasse il volto splendido.


Il sole si mostrò alto agli occhi della pianura ed il gruppo cominciò la marcia verso l’Est dell’Horion. I pensieri dell’alba erano per il momento stati messi da parte e con la solita curiosità che la caratterizzava, Mera si avvicinò a Golden e Ruphis che camminavano poco dietro Carian alla guida del gruppo.
«Dove stiamo andando di preciso? Le Terre Aride si trovano nell’Euvenia e non abbiamo una nave, credo» domandò curiosa Mera.
«Ad Est si trova Vhiria, la famosa e grandissima città dell’erba rossa. Lì prenderemo una nave che useremo per arrivare nell’Euvenia» rispose Golden sghignazzando dopo aver fatto un cenno d’intesa a Ruphis.
«Voi due avete legato molto in questi anni! Ehi, Drago Nano, ti ricordo che la tua padrona sono io!» precisò Mera con le mani ai fianchi ma con un dolce sorriso, mentre il draghetto se la rideva ed il biondo scoppiò in una grassa risata che fece fermare anche Carian.
«Qui non sei più una principessa, è chiaro? Non ho nessuna intenzione di trattarti come tale» disse Golden riprendendo il cammino, mentre la ragazza volgeva lo sguardo al piccolo drago che scrollò le ali con aria dispiaciuta e rimase sulla scia dell’amico. Si avvicinò a quel punto anche Tarus che si attaccò alla gamba della ragazza con l’aria di chi non volesse altro che lei.
«Sono cambiate tante cose, non sei più al castello! Se ti può consolare però, per me sarai sempre una regina!»
Mera lo colpì alla testa con un pugno secco e si allontanò velocemente con aria disgustata.
«Lo so bene, la mia era una battuta ma a quanto pare insieme alle buone maniere si è perso anche il senso dell’umorismo» concluse la fanciulla con irritazione.

Il gruppo avanzò per altre due ore sotto l’ormai sole cocente e l’assenza di un riparo rendeva ancora più lunga un’attraversata che sembrava non finire più. La città dell’erba rossa: Mera avrebbe voluto più di qualunque altra cosa sapere il motivo di un tale soprannome ma non le sembrava un buon momento per mettersi a fare domande. Le sembrò strano, non li vedeva da tempo e per quanto durante l’addestramento desiderasse tornare da coloro che riteneva una famiglia, in quegli istanti, dopo l’ultima risposta di Golden, avrebbe preferito tornare a cacciare conigli. Non aveva vissuto con loro la guerra di Liz o la battaglia tra Kubara e Vera, non aveva assistito al sacrificio di Ruphis contro il Drago Maturo o a quello di Valerian per salvare il mondo, ma non capivano che anche lei era lì, in qualche modo, a soffrire le loro stesse pene. Solo Carian sembrava la meno ostile, neppure Ruphis che dopo l’abbraccio tra le lacrime non le aveva più rivolto una parola. Era cambiato tutto.

D’un tratto, la fanciulla dai capelli di fuoco davanti al gruppo, fece cenno a tutti di fermarsi e con un sorriso radioso sul suo viso, indicò davanti a sé le grandi mura di Vhiria, tanto imponenti che era possibile ammirarle anche da quella distanza. Mera si guardò ai piedi, nessun filo d’erba rosso, nessun cespuglio ed ancora nessun albero, solo la grande ed interminabile distesa di verde incontaminato. Tarus notò lo sguardo dubbioso della fanciulla ed affiancandola prese la parola sorridendo:
«Non si chiama la città dell’erba rossa perché la sua erba è rossa, se stai pensando questo»
«Veramente a tutt’altro» rispose stizzita Mera incrociando le braccia, anche se in quella circostanza il piccolo Phylis era l’unico con cui poter scambiare due parole: Golden parlottava con Ruphis, e Carian era concentrata sulle mura.
«Piuttosto… sei mai stato in questa parte del Saar? Ho letto che ad Ovest si trova la città dei Phylis» chiese la ragazza cercando di cambiare argomento.
«Mia cara, sono cresciuto nel Kharas sotto la protezione di Liz ma il mio sangue è Phylis, è ovvio che sono stato in queste terre» rispose l’umanoide annuendo con fare saggio.
«Silenzio ragazzi, siamo quasi alle porte. Lasciate parlare me» si intromise Carian attirando l’attenzione. Il riflesso del sole illuminò lo sfarzoso castello che si ergeva dalle mura, il vento smuoveva la distesa verde per chilometri ed il gruppo si avvicinò alla città attraverso il sentiero più ad Est. In lontananza gli stendardi con impressa la freccia infuocata mostrava il dominio della stessa famiglia che da innumerevoli generazioni abitava quel palazzo. Erano presenti quattro guardie alle porte che incrociando le loro lance intimarono la bella dai lunghi capelli rossi a dire il suo nome e presentare il resto di coloro che la precedevano.
«Il mio nome è Carian Maleth, figlia di Khalaf Maleth, rispettabile fabbro di Green-Lock e abile guerriero. Lui è mio fratello Golden e dietro…»
«Io sono Mirha Tanastriel, figlia del fuoco di Vera e prima cacciatrice della Regina Marian, dominatrice del Ventus» si intromise Mera inventando sul momento un nome falso ma senza la paura di nominare la sua vera madre. Si fece avanti affiancando Carian e con lo sguardo alto e fiero, prese nuovamente la parola presentando gli altri due del gruppo:
«Lui è il mio famiglio, un Drago Nano di nome Ruphis e lui è un prigioniero» disse indicando il Phylis senza accennare ad alcuna titubanza. Golden era senza parole e pietrificata era rimasta anche Carian che non si aspettava di certo una simile spavalderia dalla principessa di Kubara.
«Abbiamo fatto un lungo viaggio per giungere qui, vorremmo riposare» concluse con grande sangue freddo. Una delle guardie batté la lancia al suolo e le altre tornarono in posizione con l’arma dritta davanti a loro.
«Che cosa potrebbero volere mai i figli di un fabbro e la prima cacciatrice di un paese lontano come il Ventus dalla città dell’erba rossa?» chiese dubbioso ma interessato colui che sembrava detenere il comando della pattuglia.
«Vorremmo chiedere udienza al Re. Ditegli il mio cognome, che sono giunta in città e vedrete che ci accoglierà immediatamente» rispose Carian con sguardo serio, sicura di quello che stava facendo. La guardia osservò a lungo le due donne per poi spostare lo sguardo sul Drago Nano: non erano più tanto frequenti in quel mondo ma nell’Horion si trovavano bestie ben più strane che arrivavano dalle Terre Aride.
«Andrò ad informare il Re della vostra presenza, intanto mi assicurerò che verrete accompagnati alla Freccia, la locanda della città dove potrete riposare».
Un soldato si allontanò mentre un altro scortò i presenti fino al luogo nominato seguendo un lungo e ripido sentiero che saliva direttamente nel cuore del borgo. Mera si guardava intorno affascinata, proprio come era successo quando era giunta a Water-Lock, aveva per un attimo dimenticato il motivo della sua presenza lì, tutto ciò che aveva alle spalle e che avrebbe dovuto fare per giungere nuovamente al cospetto di Valerian. Era come una bambina rapita da un giocattolo nuovo, sinceramente estasiata e limpida, come il cielo che mostra il proprio azzurro nel momento in cui incrocia i riflessi dorati del sole. Passarono per il mercato, la gente più strana le si rivolse cercando di vendere la merce in mostra, altri tizi la urtarono volontariamente ed altri ancora chiesero la carità con la voce velata dal largo cappuccio che copriva i loro visi. Aveva già visto qualcosa del genere, con Valerian, a Lenne, la piccola città a Sud del Kharas ma Vhiria era un’altra storia. Giunsero ad un’altissima scalinata di pietra con scolpiti sui lati due fantastici draghi con le ali spiegate, tanto reali che sembravano stessero soltanto attendendo il momento più propizio per azzannare le ignare prede che passavano da quella parte. La gente del luogo non sembrò fare troppo caso al gruppo di stranieri che scortati da una guardia si stava avvicinando alla locanda, alcuni gettarono un’occhiata, altri non ci fecero neppure caso. Mera strinse i pugni, nessuno le dava importanza, nessuno la considerava sul serio, lei che era la principessa di Kubara veniva ignorata in quel modo. Per un istante avrebbe voluto gridarlo al borgo, a tutta la città, e pensare che la prima volta che era scappata avrebbe pagato oro per restare completamente invisibile.
«Siamo arrivati, non appena avremo notizie dal Re verremo ad avvisarvi» disse il soldato fermandosi poco prima della porta di legno.
«Ti siamo riconoscenti» concluse Carian entrando per prima.
Il luogo era piuttosto sporco ma tenuto in piedi bene, la sala grande ed i tavoli innumerevoli per permettere a quante più persone possibili di trangugiare il prezioso vino di Vhiria, famoso in tutto il mondo. Ruphis avanzò titubante con aria non troppo convinta mentre Golden si lasciò andare un sorriso eloquente prima di dirigersi direttamente verso il bancone.
«Sicura non debba nascondermi?» chiese turbato il Drago Nano.
«Ci sono bestie ben più strane nell’Horion, tranquillo» rispose Golden sicuro di sé.
Fu Tarus a trovare un tavolo libero e dopo aver preso comodamente posto, fece cenno all’oste di portare un boccale capiente di quella loro deliziosa bevanda. Poi si sedettero anche le ragazze, mentre Ruphis raggiunse Golden.
«Che cosa avevi intenzione di fare prima? Avevo detto di lasciare parlare me» cominciò infuriata Carian.
«Sono una principessa, credi non sappia cavarmela per conto mio?» rispose Mera incrociando le braccia.
«Questo non è un gioco, sei fuggita da ormai oltre due anni dal castello e nomini in quel modo il nome di tua madre? Se qualcuno ti riconoscesse sarebbe la fine».
«Ho cambiato totalmente aspetto, modo di fare, è impossibile che mi riconoscano. Ad ogni modo smettila di trattarmi come una ragazzina, non sono più la tenera fanciulla che era fuggita con Valerian per esplorare il mondo… e abbassa la voce» continuò la principessa. Carian sussultò, non si sarebbe mai aspettata un simile atteggiamento dall’amica.
«Che cosa ti prende? Cosa c’è che non va?! Capisci che non possiamo sbagliare nulla o rischiamo di rimanere bloccati qui?» riprese Carian adesso stizzita.
«Dove? Nell’Horion? Nel… Saar? Dimmi un po’ Carian, perché vuoi completare questo viaggio?».
La situazione stava degenerando e Tarus cercò di sdrammatizzare:
«Ecco il vino! Che ne dite di berci su per questo giorno? Siamo stanchi e assetati! Eh?». Non lo ascoltarono neppure.
«Non hai la minima idea di quello che abbiamo passato insieme a Valerian e da cosa ci abbia salvati… glielo dobbiamo come minimo e lo stesso vale per te!» il tono della fanciulla era sempre più deciso.
«Non mi sto tirando indietro, non l’ho mai pensato ma… sono stanca di sentirmi dire questa cosa. Io ero lì, con l’anima di colei che ha distrutto Vera, combattuto Liz e Valerian stesso. Naos Echel era dentro di me e vedevo attraverso i suoi occhi… come credi che mi senta?!» gridò Mera alzandosi dalla seduta e l’uomo seduto al tavolo dietro di lei scattò repentino alle sue spalle sfoderando la sua affilata e pesante spada.
«Non mi sbagliavo, tu sei Mera O’Shiel, la principessa del regno di Kubara» esclamò in un sorriso mentre strinse in una morsa la fanciulla. La tirò a sé indietreggiando in modo che i suoi compagni non potessero intervenire. Anche Golden era stato tenuto d’occhio e dal bancone non avrebbe avuto il tempo di aiutare.
«Dal momento in cui hai messo piede in città ho riconosciuto il tuo bel faccino ma non ero sicuro. L’erede O’Shiel ha gli occhi color del cielo e la chioma come la notte… come avrei potuto avere la conferma vedendoti in queste condizioni?» spiegò l’uomo dai capelli corti neri e l’armatura scintillante.
«Lasciami bastardo! Non ho idea di cosa tu stia parlando» imprecò Mera mentre cercava di liberarsi inutilmente.
«Un linguaggio che poco di addice ad una principessa, hai proprio cambiato modo di fare».
«Lasciala, non è una principessa…» provò Carian avvicinandosi all’uomo che però fece un piccolo balzo all’indietro per evitare spiacevoli sorprese.
«Lo è e non hai idea di quanta valga nel Ventus questo bocconcino» affermò il guerriero ma prima che potesse fare qualsiasi cosa, Carian alzò un braccio facendo qualcosa al soldato che portandosi violentemente le mani sugli occhi in fiamme, tagliò superficialmente Mera al petto e la scaraventò contro il tavolo facendole battere la nuca. Golden scheggiò a quel punto verso l’amica ferita seguito da Ruphis ma prima che potesse toccarla, l’uomo riprese conoscenza effettuando un veloce fendente che per un soffio non gli tagliò la testa.
«Stregoneria… ma chi diavolo siete?!» chiese sbalordito il guerriero.
La gente nella locanda, che anche durante l’attacco del soldato aveva continuato a farsi gli affari suoi, al sentir nominare quell’arte oscura si alzò dai propri posti con aria terrorizzata. Carian si guardò intorno cercando di trovare una spiegazione plausibile ma tra un sospiro e l’altro, il soldato attaccò di nuovo in preda all’ira alzando con ferocia la propria arma che si scontrò con quella magica dello spadaccino dai capelli dorati. L’uomo con l’armatura era però troppo grosso e potente e con una spinta scaraventò il giovane oltre due tavoli sebbene perse metà della spada: la lama di Golden lacerava anche l’acciaio. Non si sarebbe fermato però per così poco, lasciò dunque andare l’arma e afferrando una sedia puntò alla giovane dai lunghi capelli rossi dopo aver steso con un pugno il piccolo Tarus. Carian si vide il volto assetato di sangue e di oro di quel mostro a pochi metri da sé ma prima che lo stesso potesse terminare il suo attacco, una freccia gli passò da parte a parte trafiggendogli il cervello e l’occhio sinistro, che rimase infilzato nella punta. L’uomo cadde nel proprio sangue con la grazia di non vivere gli ultimi momenti di un’esistenza che l’avrebbe probabilmente portato a morire affogato nel vino, piuttosto che nella pozza cremisi sul quale affondò il volto dal nome sconosciuto. Carian alzò gli occhi impauriti mentre nella locanda si alzò il silenzio della notte più buia. Mera era lì, con l’arco tra le mani tremanti.







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Capitolo 4
*** Al cospetto del Re ***


cap4

Le guardie all’esterno della locanda fecero irruzione e senza sentire storie braccarono la bella cacciatrice sequestrandole l’arco e legandole i polsi. Carian non riusciva a dire una parola, Golden si guardava intorno pronto ad attaccare chiunque provasse a sfiorarlo mentre Ruphis teneva il capo chino cercando di intuire cosa stesse succedendo mentre si sfiorava con le zampe la benda che gli copriva gli occhi. Tra tutti fu Tarus che provò una resistenza e sebbene riuscì ad assestare un paio di buoni colpi ai soldati, due delle più robuste riuscirono a bloccarlo e a gettarlo in un grosso sacco.
«Siete in arresto per omicidio ed uso di arti proibite!» affermò autoritaria una guardia mentre altre tre saettarono su Carian. Golden sfoderò la spada ponendosi fra i nuovi nemici e la sorella e con lo sguardo di chi non era più disposto a parlare, avrebbe attaccato chiunque non si fosse fatto da parte. Prima che la situazione potesse degenerare però, una voce dall’ingresso della locanda attirò l’attenzione di tutti i presenti che si inchinarono tra sospiri di sorpresa.
«Tutto ciò è ridicolo!».
Un uomo con un lungo mantello rosso e l’armatura a placche dorate giunse accompagnato da tre guardie con le mani sulle else delle proprie spade. Osservò il gruppo di stranieri venuto da lontano e con un cenno del capo ordinò che Mera venisse slegata e lasciata in pace. Poi fece qualche passo verso il guerriero deceduto concentrandosi sull’occhio rimasto infilzato sulla punta della freccia.
«Vi è un chiaro equivoco, i nostri ospiti sono stati scambiati per altre persone. Scusate l’accoglienza a Vhiria ma i miei soldati diventano sempre più paranoici. Vi prego di seguirmi a palazzo ed accettare di sedere al delizioso banchetto che ho fatto preparare».
Il Re in persona era giunto a porre fine ad una situazione che sarebbe sfociata inevitabilmente nel sangue. Il cadavere dell’uomo fu portato via tra i sogghigni del Re che con grazia ed autorità condusse il gruppo al castello attraverso il sentiero coperto da una distesa di alberi verdi e lussureggianti. Mera non disse una parola ancora sconvolta per ciò che aveva fatto mentre Golden rivelava la propria titubanza a Ruphis e Carian riguardo il comportamento del Re.
«E’ stato ucciso un uomo nella sua città e tutto quello che riesce a dire è “vi è un chiaro equivoco”?».
«Ho sentito il sibilo nell’aria, l’odore dell’acciaio e del sangue e i singulti che anticipano la morte. È stata Mera a scagliare la freccia?» chiese il piccolo Drago Nano che seppur non riuscisse più a vedere, aveva migliorato udito ed olfatto al punto da sapere bene che era andata proprio così.
«Mi ha salvato la vita» - rispose Carian stringendo i pugni, non riusciva a non pensare allo sguardo perso nel vuoto dell’amica e alle sue mani tremanti - «devo andare a parlarle» continuò.
«Non aveva mai ucciso nessuno, non ne sarebbe mai stata capace» disse Ruphis ancora incredulo.
«Ehi, sveglia! Questi tizi ci stanno portando a palazzo dopo che abbiamo ucciso un cittadino, non è sicuramente la condizione psicologica di Mera che mi preoccupa» esclamò Golden stringendo l’elsa della propria arma.
«Non possiamo comunque fare niente al momento, il Re ci ha tirati fuori da lì ed è un dato di fatto» concluse Carian guardando dietro di sé l’ammasso di curiosi che stava intanto seguendo i loro spostamenti fin dove possibile.

Entro poco giunsero alle porte dell’enorme castello che nei periodi dell’anno in cui la nebbia non inghiottiva quelle vaste terre, si rendeva visibile da ogni parte dell’Horion. Alte torri con i vessilli della famiglia reale sovrastavano la città ed una miriade di guardie si trovava nei vari livelli del palazzo per controllare il perimetro del regno. Il gruppo attraversò il ponte levatoio e giunse in un’enorme sala illuminata dai calorosi raggi di sole che filtravano dalle alte finestre. Torce e statue di valorosi guerrieri decoravano il corridoio che portava alle scale che davano sugli alloggi della famiglia reale e la grande sala dei ricchi banchetti. Al piano di sopra i presenti potettero ammirare gli splendidi quadri e ritratti che oltre ad una cultura profonda, donavano anche colore e vitalità a quell’ala del castello. Carian osservò perplessa l’immagine di una giovane e bellissima donna dai capelli corvini di fianco a quello che era chiaramente il Re mentre Tarus avanzava con la bocca spalancata dallo stupore: non aveva mai visto nulla di simile. In qualche minuto giunsero infine ad una grande porta che rivelò una lussuosa sala con al centro un tavolo imbandito delle più squisite prelibatezze del continente. Il Re si accomodò nel trono dorato posto in fondo alla stanza ed invitò tutti i presenti a prendere posto per mangiare e bere.
«Prego miei ospiti, non badate alle maniere, davanti al cibo siamo tutti uguali!» esclamò sorridendo con quei suoi occhi scuri come la pece. Tarus non si fece pregare mentre tutti gli altri non avevano di certo appetito dopo quello che era successo. Ad aprire bocca per prima fu Carian che si avvicinò al cospetto del sovrano.
«Scusateci Vostra Grazia ma abbiamo fatto un lungo viaggio per poter parlare direttamente con voi» cominciò.
«Se ho detto che dovete mangiare, mangerete!» rispose adirato il Re stringendo i braccioli del proprio trono. Due guardie misero mano all’impugnatura delle loro spade.
«… Scusate, allora mangeremo» rispose tra i denti la ragazza che prese posto insieme agli altri. Golden la osservò interrogativo mentre Mera continuava a non dire una parola. Ruphis intanto annuì ai compagni non rilevando nulla di strano nell’odore del cibo e lentamente cominciò ad addentare qualcosa.
«Che bell’esemplare di Drago Nano! Ho sempre sognato averne uno a corte ma di questi tempi non se ne vedono più» esclamò il Re sorridendo mentre Ruphis si voltava verso di lui come se potesse osservarlo. Un lungo ed imbarazzante silenzio seguì quelle parole e inaspettatamente fu ancora Carian a romperlo, provando nuovamente a centrare il punto della situazione.
«Vostra Grazia, io sono la figlia di Khalaf Maleth, mio padre mi disse, prima di morire, che la casata reale dei Riel avrebbe aiutato la mia famiglia in caso di bisogno. Sono giunta qui da lontano ripeto, vorrei potervi esporre il nostro problema».
«Sì, mi era stata riferita dalle mie guardie la tua identità e devo dire che sono rimasto molto colpito. Sarò ben felice di fare tutto ciò che mi dirai, devo molto a tuo padre» rispose il Re sfregandosi le mani.
Golden inarcò un sopracciglio camuffando la sua sfiducia con un sorso di vino, mentre Mera non aveva ancora toccato cibo.
«Abbiamo bisogno di una nave per raggiungere l’Euvenia» disse finalmente Carian ritrovando un po’ di speranza.
«Oh, tutto qui? Nessun problema, potrete prendere la più grande e più veloce» - poi si rivolse alle guardie - «fate pure entrare Lord Firion!».
Le guardie aprirono le porte e dopo pochi minuti giunse un giovane di bell’aspetto dagli occhi scuri, la lunga chioma corvina e una sfarzosa armatura che portava il simbolo dei Riel. Fece un leggero inchino alla fanciulla e raggiunse il Re di fianco al trono.
«Potrete partire anche subito dopo le nozze» disse, e Carian sussultò insieme a Golden che sfoderò a metà la spada sicuro di aver capito male.
«Dopo cosa?» chiese proprio lo spadaccino.
«Vostro padre era un mio vecchio amico che giurò di darmi in sposa una delle sue figlie per stipulare un’alleanza tra le nostre famiglie. Quando mi giunse notizia della sua morte lo piansi come un fratello, ma come vedo mantiene vivo il suo onore. Sarò lieto di darti in sposa mio figlio!» spiegò il Re con gli occhi lucidi.
La situazione era chiara, non avevano scelta a quel punto e se anche avessero deciso di rinunciare alla nave, declinare quella proposta sarebbe stata considerata una mancanza di rispetto nei confronti del Re.
«Molto bene! Celebreremo le nozze tra due giorni, in onore della ricorrenza dell’erba rossa!» sancì infine il sovrano mentre il figlio non smetteva di fissare la bella fanciulla dagli occhi dorati. Golden osservò la sorella scuotendo il capo, Tarus non ci aveva capito molto e se Ruphis aveva mostrato il suo dissenso con i suoi artigli affondati nel legno di quercia del tavolo, Mera ne fu quasi indifferente, con uno sguardo ancora indecifrabile. Carian sospirò, non aveva scelta.
«Che sia, Vostra Grazia. Sarò lieta di sposare vostro figlio» disse colei che di sangue era tra l’altro figlia di Javia lo stregone e non di Khalaf il fabbro.

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Capitolo 5
*** Identità ***


cap5

«Non accetterò mai questa follia!» disse Golden colpendo la parete con un pugno.
Carian era seduta su un grande letto a baldacchino con dei veli di seta che elegantemente ne coprivano i lati. Si alzò a quel punto con le braccia incrociate assorta fra mille pensieri e per quanto si sforzasse non riusciva propria a trovare una soluzione migliore. Il fratello sfilò la fidata spada dal fodero e rimase a guardare la sua lucentezza al riflesso delle torce accese nella camera.
«Possiamo scappare, combatterli finché possibile. Non ti lascerò sposare quel tipo» ribadì.
«Ci serve quella nave per raggiungere l’Euvenia, non possiamo di certo attraversare il mare a nuoto. Se solo quell’incendio non avesse devastato Horen forse i Phylis ci avrebbero aiutato come l’ultima volta, o magari avrebbero riparato la nostra imbarcazione…».
«Impossibile, è caduta a pezzi non appena io e Ruphis siamo turnati. Comunque sia non è stato casuale, quella nella città dei Phylis è stata opera di un mostro… di un drago maturo forse. Sai bene quanto siano terrificanti le creature nelle Terre Aride, sia nel cielo che nelle acque che bagnano l’Euvenia e l’Horion» - si passò una mano tra i capelli biondi - «quanto a Mera, come dovremmo comportarci?» continuò lo spadaccino preoccupato.
«Ruphis è con lei adesso, saprà tranquillizzarla» rispose la rossa con un sorriso, sperava nelle parole del Drago Nano che si era spesso dimostrato un buon consigliere.

 

La bella cacciatrice era in un’altra stanza, notevolmente più modesta di quella concessa all’amica ma era normale, Carian era diventata la promessa sposa del figlio del Re di Vhiria. Era distesa nel letto sfatto e con gli occhi al tetto sembrava non voler uscire da quel circolo di pensieri e ricordi che l’aveva assalita nel momento in cui aveva scoccato la freccia verso il guerriero della locanda. Si sentì perduta nel vuoto, capì in un istante quanto quella spedizione fosse inadatta per lei, quanto uccidere uno scoiattolo per la cena fosse differente dall’uccidere una persona. Poi trovò la forza di alzarsi e mettersi seduta ma tornò ad osservare le stesse mani che avevano imbracciato l’arco in quell’istante. Non riusciva a parlare, non avrebbe voluto altro che rimanere in quella stanza da sola per chissà quanto tempo ancora ma d’un tratto un suono alla porta la destò dai suoi pensieri.
«Disturbo?» la voce di Ruphis.
Mera non aveva nessuna intenzione di vedere qualcuno ma in quella circostanza non poté che accoglierlo:
«Entra pure…» rispose la principessa debolmente.
Il Drago Nano volteggiò lentamente verso la ragazza percependo immediatamente nell’aria una tensione che sarebbe divenuta presto insostenibile. Venne guidato dai suoi sospiti profondi e seppur non potesse vederla, riuscì ad affiancarla e donarle il dorso che un tempo amava tanto farsi accarezzare. La principessa fu in un primo momento titubante ma non appena vide il suo dolce e fedele compagno accucciarsi nelle sue gambe non riuscì più a trattenere le lacrime che sgorgarono copiose dai suoi splendidi occhi azzurri.
«Io… io non sono pronta Ruphis» riuscì a dire mentre affondava il viso tra le mani.
«È normale, sarebbe strano se lo fossi. Però… guardati, sei cambiata, sei più matura, più indipendente, più bella. Non sei più la ragazzina che deve essere salvata, nella locanda sei TU che hai salvato la vita di Carian, adesso l’ho capito anch’io» spiegò il drago perentorio. Anche lui era cambiato, non era più il semplice servitore della principessa, non il maledetto rompiscatole che Valerian odiava tanto, anche se in quel momento era lì a consolare colei che per tanti anni aveva servito e voluto bene, proprio come un tempo.
«Insieme ce la faremo» continuò.
La ragazza osservò la piccola creatura pensando attentamente alle sue parole ed annuì tra sé e sé cominciando ad asciugarsi le lacrime. Si alzò dunque per dirigersi verso la mensola su cui aveva poggiato l’arco e rimase qualche istante a guardarlo mentre Ruphis si chiedeva cosa stesse facendo.
«Lui ha affrontato tutto questo per me?» disse Mera con voce rotta.
«Ha combattuto una guerra per te» rispose il drago rallegrato.
«… Sarà sempre così difficile?» continuò la ragazza.
«Lo è per tutti».
La principessa si voltò abbracciando il drago stavolta senza lacrime, in modo diverso rispetto a quando si erano rivisti alla pianura dell’Horion dopo anni, come se avesse acquisito una consapevolezza che prima di giungere a Vhiria non aveva mai avuto. Rimasero in quella posizione per alcuni minuti mentre nella mente della donna apparvero ricordi contrastanti della guerra combattuta da Naos Echel e per la prima volta riuscì a schematizzarli per creare una sequenza sensata. Lei era lì, di fronte Valerian con lo sguardo furioso e tutto intorno la città bruciava nelle fiamme mentre urla di dolore si levavano nel cielo rosso. La fanciulla si rialzò facendo un passo indietro e si portò una mano al petto sicura di stare per avere un mancamento, ma resistette. Il Drago sentì i battiti del suo cuore aumentare vertiginosamente ed alzandosi a mezza altezza battendo le piccole ali, si preoccupò della sua condizione:
«Mera tutto bene?».
«Io… ho dei ricordi» disse senza grande sicurezza.
«Ricordi?» ripeté Ruphis piuttosto confuso.
«Sì e non sono miei».

 

Il sole era alto nel cielo azzurro e per un giorno la fitta nebbia dell’Horion sembrava avergli concesso il ruolo di protagonista tra quelle poche nubi. I raggi dorati illuminavano l’enorme balconata del castello piena di fiori e stendardi e sotto un centinaio di persone rumoreggiavano in preda al delirio. La porta del castello si aprì e la luce mise subito in risalto gli occhi di Carian che splendevano del loro colore dorato in quel viso candido con la chioma di fuoco raccolta in un fermaglio di zaffiro. Avanzò tenendosi leggermente su il lungo vestito blu di velluto e sospirando si affacciò al popolo di cui sarebbe divenuta principessa. Golden era ai lati del balcone e non appena incrociò il riflesso chiaro degli occhi della sorella, non riuscì più a dire una parola nonostante Ruphis continuasse a discutere di quanto fossero fastidiose le voci al livello inferiore. Tarus non si vedeva mentre Mera assisteva dall’altra parte della terrazza di pietra con un meraviglioso vestito rosso che si intonava perfettamente al suo nuovo colore di capelli. Quel matrimonio era quanto di più falso e forzato potesse esistere e lei che era di sangue nobile lo sapeva bene, ciò non toglieva comunque che sostenere la tensione di fronte un intero popolo che urlava il tuo nome e ti acclamava senza riserve, doveva essere difficile. Pensò poi che se fosse rimasta a Kubara avrebbe probabilmente sposato anche lei un qualche nobile del regno e rabbrividì: non avrebbe mai voluto essere al posto di Carian.
Da quel giorno alla locanda non aveva più avuto modo di parlarle, di discutere con lei riguardo quello che era successo, ogni membro della servitù reale non le lasciava un attimo di tregua e se a volte guadagnava dieci minuti di libertà, di sicuro non avrebbe voluto spenderli ricordando il loro litigio. Poco importava pensò, durante il viaggio nell’Euvenia avrebbero avuto ben più di un’occasione.
Lo sposo era già sul posto, con il suo già celebre sorriso sgargiante dai denti bianchissimi e l’elegante armatura dai riflessi scarlatti, con nel busto impressa la freccia circondata dalle fiamme. Carian osservò quello sguardo bramoso e strinse i pugni sperando di non fare qualche sciocchezza almeno fino alla fine della cerimonia. A sancire l’unione sarebbe stato il Re di Vhiria che con una corona d’oro a coprire i corti capelli brizzolati ed il lungo mantello tenuto insieme sul petto da un diamante dal riflesso meraviglioso, si faceva vanto della propria carica al cospetto del regno.
«Quest’oggi» - cominciò - «io, Sion Riel, Re di Vhiria, sarò testimone insieme a voi dell’unione fra mio figlio Firion e la bellissima Carian Maleth. In nome dell’intero Horion, di tutto il Saar, prego il Dio Fuoco nostro protettore che secoli addietro ha inghiottito i nostri nemici nell’erba rossa, di proteggervi e rendere forti i vostri figli».
Carian deglutì sonoramente a quelle parole e abbassò lo sguardo.
«Scambiatevi le promesse» continuò il Re.
La ragazza strinse i denti, doveva fare ancora un ultimo sforzo, resistere per qualche minuto e tutto sarebbe finito, avrebbe potuto prendere una nave e salpare verso l’Euvenia, dimenticare tutto e lasciarsi alle spalle le mura della città senza più voltarsi. Poi però qualcosa dentro di lei l’allertò: una visione, una sorta di premonizione che se vista da colei che era da alcuni conosciuta come la “Strega Celeste” non poteva che voler dire qualcosa. Firion parlò recitando i passi fondamentali della promessa, poi sorrise in attesa che la sposa facesse lo stesso per poterla baciare davanti gli emozionati invitati. Carian rialzò lo sguardo e si portò una mano al collo come se qualcosa la stesse soffocando. Il principe si chinò afferrandole la testa prima che battesse al suolo ma quando il corpo della fanciulla brillò di una luce azzurra, una forza invisibile sbalzò chi le era vicino. Alcuni, tra cui Firion, volarono giù dalla terrazza mentre gli altri vennero scaraventati al muro insieme al Re. Solo Golden sembrava aver resistito alla carica e sfidando la forza che continuava ad infuriare nella balconata, raggiunse la sorella prendendola tra le braccia: era cosciente.
«Hai fatto la cosa giusta!» disse lo spadaccino con un sorriso fiero a colorargli il viso mentre sul posto arrivavano decine di guardie.
«M-muoviti idiota, non è come pensi» concluse in fretta Carian.
Il biondo non sapeva assolutamente come muoversi in quel palazzo e Mera e Ruphis sembravano nella stessa situazione. Erano intrappolati nella terrazza destinati ad affrontare chiunque avesse varcato la soglia della grande porta.
«Potremmo saltare!» propose Mera senza troppa convinzione.
«È alto… molto alto» rispose il ragazzo deglutendo.
I soldati reali erano quasi giunti e non sembrava esserci altra scelta. Golden si avvicinò al bordo del parapetto di pietra e sospirò come non aveva mai fatto in vita sua. Prima che potesse prendere qualsiasi decisione però, una voce familiare chiamò l’attenzione del gruppo:
«Da questa parte!».
«Tarus!» esclamarono in coro Mera e Golden.
Senza perdersi in chiacchere raggiunsero il piccolo amico nei pressi di una minuscola botola, nascosta dalle foglie d’edera ai lati della terrazza: probabilmente un passaggio alternativo verso le segrete del castello per casi allarmanti, e quello lo era decisamente. Il primo ad entrare fu Ruphis, poi Mera e a seguire Carian ancora dolorante e Golden. Proseguirono per un tunnel stretto e fetido ma per sfuggire a quelle guardie bramanti le loro teste avrebbero accettato di introdursi in qualsiasi luogo. La fuga durò una decina di minuti e da quei cunicoli poteva sentirsi la folla in agitazione per quanto successo. Non era ancora chiaro a nessuno il motivo per cui la fanciulla avesse cambiato idea all’improvviso ma soprattutto non era spiegabile la ragione di un simile comportamento nei confronti del Re.
«Se non volevi sposarti potevi semplicemente rifiutarti all’inizio, ci avrebbero rimandato nella pianura senza una nave ma con almeno con la testa sul collo!» esordì Tarus dopo diversi minuti di silenzio. Carian aveva cominciato nuovamente a muoversi con le proprie gambe e concedendo uno sguardo al compagno, sospirò prima di raccontare cosa avesse visto.
«Avrei voluto tanto agire come ho agito, dal principio, ma non sono così stupida. Ho… avuto una sorta di visione. Avevo già dei dubbi ma questa cosa mi ha definitivamente fatto aprire gli occhi» - sospirò e continuò a spiegare - «nostro padre, Khalaf, mi aveva parlato tante volte della famiglia Riel descrivendola come gente di sani principi e pronta a pagare qualsiasi costo pur di soddisfare la richiesta di un amico in difficoltà. Mi raccontava dei folti baffi bianchi del Re e di come la vecchiaia stesse cominciando ad avere la meglio su di lui, ma… è un’altra cosa che più mi ha insospettita: la sua giovane e bella moglie, la Regina, mi era sempre stata descritta come “l’angelo disceso sulla terra dell’erba rossa” con la sua carnagione chiara e i lucenti capelli platinati, preziosi come il sole. Nostro padre raccontava sempre di lei a me e Golden, pensavamo l’amasse».
«Si ma tutto questo cosa c’entra con la tua visione?» interruppe Tarus senza smettere di muoversi tra i cunicoli.
«Il Re non ha i baffi come avete visto e non è vecchio come credevo e nelle sale al primo piano del castello alcuni quadri ritraevano la famiglia reale: Re Sion e un’altra donna dai capelli scuri. Quello non è l’uomo di cui mi ha parlato mio padre…» concluse Carian stringendo i pugni.
«Sì, ok, ma perché reagire in quel modo? Evidentemente è successo qualcosa al Re o magari è morto di vecchiaia visto che tuo padre lo descriveva ormai lontano dal fiore degli anni» intervenne Mera che fino ad allora si era limitata a seguire gli altri in silenzio. Carian la guardò con aria amareggiata, non aveva ancora detto tutto.
«Sion ti ha riconosciuta e non aveva nessuna intenzione di lasciarti venire con noi verso l’Euvenia. Il suo obbiettivo è il Sud, il Ventus e le sue ultime miniere di Luthus».
«Cosa?! Com’è possibile?! Sono stata attenta, non può avermi riconosciuta, non può!» rispose la fanciulla afferrando per la splendida veste blu l’amica.
«Calmati Mera, ho agito d’impulso prima e forse ho esagerato… ma almeno resteremo insieme. Ti avrebbero usata come merce di scambio!».
La cacciatrice mollò la presa e fece qualche passo indietro titubante.
«Sempre per colpa mia, prima ho ucciso la guardia rischiando di mandare tutto all’aria, adesso ho precluso l’unico modo per raggiungere l’Euvenia. Forse è giusto che mi prendano e che torni a casa» rispose decisa sotto lo sguardo attonito di Carian.
«Qual è il tuo problema Mera?!» cominciò la rossa sbattendo la principessa alla parete del tunnel, e Golden e Ruphis sussultarono senza parole.
«Siamo un gruppo! Lo siamo sempre stati e continueremo ad esserlo finché non riporteremo Valerian nel Saar! Hai paura? Tutti noi l’abbiamo ma smettila di fare la bambina e affronta la situazione! Se non ce la fai voltati e corri da Sion» continuò Carian senza mezze misure lasciando l’interlocutrice pietrificata.
«Non voglio distruggere questi tragici momenti di profonda analisi introspettiva, ma ho trovato l’uscita!» disse Tarus interrompendo le ragazze. Carian annuì e dopo un ultimo sguardo a Mera, si portò alle spalle del Phylis insieme agli altri verso un cunicolo che sembrava finalmente risalire fino alla superficie. In fondo al percorso vi era l’inconfondibile luce del sole, e la brezza ristoratrice che investì il gruppo fece saettare fuori Tarus col sorriso sul volto, distrutto immediatamente da ciò che gli si presentò davanti agli occhi.
«Ehm, forse è meglio tornare indietro?» chiese sconvolto voltandosi verso Carian e gli altri che però erano già arrivati.
«Siete in arresto in attesa di giudizio per pratica di arti oscure, atti violenti verso il regno e il Re, che il Dio Fuoco abbia pietà della vostra anima».
La caduta non l’aveva ucciso: Firion, figlio di Sion, con al seguito almeno venti uomini armati, accolse i fuggitivi con quelle parole. Sfoderò quindi la spada e sospirò amareggiato mentre incrociava gli occhi dorati della mancata sposa:
«Un bellezza così rara… sprecata in questo modo».
«Meglio del fuoco che tua» rispose lei senza pensarci.
«Già… un vero peccato».



 

 

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Capitolo 6
*** Prigionieri ***


cap6

Erano decisamente troppi: circa venti uomini armati e protetti capeggiati dal principe Firion, caduto dall’alta balconata del castello che si affacciava sulla piazza della città e sopravvissuto senza neanche un graffio. Uno scontro decisamente impari come piacque sottolineare al figlio del Re che era ancora in posizione di combattimento con la spada puntata verso la mancata sposa. Il gruppo di Carian era disarmato e con quell’abbigliamento addosso non poteva di certo pensare di combattere un’armata tanto organizzata. Golden si sfiorò il fianco imprecando per l’assenza della preziosa arma mentre Mera, senza arco e frecce, non avrebbe potuto dare un contributo concreto. Neanche Tarus aveva abbastanza assi nella manica in quel caso e Ruphis era rinomato per la sua mente piuttosto che la sua forza. Erano in trappola, schiacciati dall’esercito di Vhiria e le sue alte mura.
«Che cosa avreste fatto? Non ci avreste mai fatto lasciare questa città, non è vero?» chiese nervosa Carian.
«Ti avrei concesso il più bel matrimonio del Saar, un giorno che non avresti mai dimenticato» rispose con naturalezza il principe, poi indicò gli altri alle spalle della fanciulla:
«E poi… sareste partiti».
«Non ci provare, non osare continuare a mentire» continuò la ragazza.
Firion sorrise a quell’affermazione, trovava assolutamente meraviglioso il volto dell’interlocutrice accigliato in quel modo. A quel punto si fece avanti Mera liberando i capelli rossi dall’acconciatura. Osservò il principe e tutti gli uomini che lo precedevano e sospirò prima di prendere la parola cercando di camuffare l’agitazione che la stava pervadendo.
«Come avete fatto a capire chi sono?» iniziò.
«Ce l’hai detto tu, la prima cacciatrice della regina» rispose sarcastico Firion.
«Che cosa volete?!» continuò alzando il tono della voce.
«Il Ventus ha qualcosa che ci interessa e abbiamo semplicemente colto l’occasione al volo. Non avreste dovuto complicare tutto, tu saresti tornata dalla tua bella famiglia e loro avrebbe preso la nave promessa. Adesso però la questione si è un po’ complicata» concluse l’uomo facendo cenno ai suoi uomini che con le spade e gli scudi cominciarono ad avvicinarsi al gruppo.
«A-aspettate!» - riprese Mera ponendosi davanti l’amica e di fronte il principe - «si può ancora rimediare» e deglutì già pentita di quello che stava per dire.
«Il regno vuole un matrimonio e noi glielo daremo. Sarò io la vostra sposa, voi diventerete Principe di Kubara e delle terre che a lei appartengono nel Ventus e dunque potrete prendere ciò che diventerà vostro di diritto».
Carian sgranò gli occhi e Ruphis si fece avanti battendo vigorosamente le ali.
«Mera, ma cosa dici?!».
Il principe sembrò titubante ma tutt’altro che deciso a rifiutare la proposta, tanto che con un segnale fece rinfoderare le armi ai suoi uomini per rimanere l’unico con una spada tra le mani.
«E in cambio…».
«Ci darete la nave e ci lascerete partire, compresa me» terminò Mera sperando che quell’idea potesse quantomeno fargli guadagnare tempo. Firion sorrise, era un modo conveniente per risolvere la faccenda senza spargimenti di sangue: ai Riel sarebbe andata parte delle preziose terre di Kubara e i cinque stranieri avrebbero continuato per la loro strada senza causare altri danni con l’abilità oscura che nascondevano.
«Ne parlerò con mio padre… a cui è stata fatta una grave mancanza di rispetto» guardò Carian con uno sguardo eloquente, e continuò:
«Nel frattempo sarete tenuti prigionieri nelle celle del castello sotto stretta sorveglianza. Non provate ad abusare della mia misericordia o non avrete nemmeno il tempo di pentirvene».

 

Il silenzio echeggiante nell’area fu spezzato soltanto da un ritmico gocciolio sulla superficie umida su cui era poggiata Carian, che aprì gli occhi e si destò totalmente dal sonno forzato che aveva vinto sulla sua lucidità. Si guardò intorno ma tutto ciò che poté vedere fu l’oscurità dentro la quale era stata gettata come inutile immondizia. Non era ferita e a parte un leggero fastidio alla nuca, poteva affermare di stare piuttosto bene. Non le ci volle molto per mettere insieme tutti i pezzi che l’avevano condotta in quel luogo maleodorante: Firion aveva stordito lei e i suoi amici in qualche modo, sebbene non lo ricordasse, e li aveva trascinati nelle prigioni del castello, proprio come aveva detto. La ragazza provò dunque a capire quanto fosse grande la cella e realizzò intanto di essere completamente sola e vestita con ciò che rimaneva della veste nuziale.
«Ragazzi, siete qui?» disse a bassa voce.
Un suono verso destra la fece trasalire ma non perdere d’animo e stringendo i pugni si avvicinò coraggiosa e pronta ad affrontare qualsiasi cosa le si fosse presentato davanti.
«Chi è là?».
Solo il silenzio le concesse risposta.
«C’è qualcuno?!» riprese più decisa, e un altro rumore l’allertò prima che una voce finalmente le rispondesse:
«Non fare chiasso ragazzina, sto cercando di riposare… non che sia possibile con questo odore nell’aria» parlò una voce calda e virile oltre la parete di pietra a destra della cella.
«Chi sei?» chiese Carian rimanendo comunque a debita distanza, non si fidava più di nessuno in quella città.
«Un prigioniero, proprio come te» rispose il tipo semplicemente.
La rossa era confusa, decise comunque di avvicinarsi maggiormente per udire meglio le parole dell’interlocutore, e afferrò le sbarre di ferro.
«Che cosa hai fatto? Una ragazza giovane e bella come te non sembra molto il tipo da vita malavitosa. Hai sedotto la persona sbagliata?» continuò l’uomo accennando a un sogghigno che fece sorridere anche Carian.
«Che tu ci creda o no è l’esatto opposto: un uomo ha sedotto la donna sbagliata».
«Aspetta un attimo… sei Carian del Kharas? La sposa di quell’idiota di Lord Firion?» chiese scandendo l’aggettivo affibbiato al principe.
«Mancata sposa» precisò la donna.
L’uomo lasciò andare una risata naturale e commentò divertito:
«Ora capisco tutto. Le voci del tuo arrivo in città erano arrivate fin qui come puoi notare, anche se…» - cominciò il prigioniero suscitando la curiosità della fanciulla - «quelle più interessanti riguardavano senz’altro l’altra ragazza, almeno per gli altri».
«Che cosa si racconta?» chiese Carian cercando di mantenere la calma all’affermazione dell’interlocutore.
«La principessa di Kubara, dico bene? Sua madre ha promesso una ricompensa da Re per chi l’avesse riportata viva a palazzo, non dico di non averci fatto un pensierino ma il Ventus è una terra lontana e sono piuttosto pigro. A quanto pare alla fine si è mostrata lei eh?».
Carian chiuse gli occhi e chinò il capo ripensando alle discussioni che aveva avuto con lei prima di finire in trappola al cospetto di Firion: la principessa aveva paura di mettere in pericolo i suoi amici, di viaggiare lasciando la sua famiglia col rischio di non rivederla mai più, era così scorretto?
«Io… avrei dovuto fermarla. Sono stata una stupida a pensare di poterle fare cominciare una nuova vita. È una principessa e il suo sangue reale la porterà sempre ad affrontare le sue origini» disse Carian più a se stessa che al tipo oltre il muro, che intanto ascoltava interessato.
«Senti, io non ho idea del motivo per cui è scappata e non voglio sapere perché siete finiti in quest’angolo di mondo, però… ho sentito parlare di te e di quello che sei capace di fare» andò al punto l’uomo con la sua voce che si fece più chiara: si era avvicinato alla parete che lo divideva dalla ragazza.
«Potremmo unire le forze e provare a fuggire da qui, così tu potrai salvare la tua bella principessa e io finalmente assaporare di nuovo l’aria fresca. Che ne dici?» continuò.
Carian riaprì gli occhi valutando la proposta del prigioniero e con un occhiata intorno a sé decise che peggio non sarebbe comunque potuta andare.
«D’accordo, a patto che mi dirai, una volta al sicuro, che cosa si racconta di me» rispose con un sorriso la donna.
«Affare fatto. Il mio nome è Feras, piacere di conoscerti Carian del Kharas».

 

Non smetteva di lagnarsi di quel fetore che invadeva la cella ed aveva anche ferito la guardia incaricata di tenerlo d’occhio costringendone altre due a giungere sul posto. Golden non stava zitto un attimo e continuava a punzecchiare chiunque avesse a tiro con la speranza che qualcuno aprisse la cella per colpirlo, stupidamente.
«Non hai una gran voglia di tapparmi la bocca? Vieni qui e picchiami» ripeteva da ormai oltre un’ora, pronto a caricare chiunque si avvicinasse.
«Se non la smetti immediatamente giuro che chiamo altri dieci uomini per tagliarti la lingua» lo sfidò una delle guardie che tra tutte era l’unica che continuava ancora a rispondergli.
Il giovane dai capelli biondi se la rideva, comodamente appoggiato alla parete di fronte le sbarre e i nemici, come se la sua fuga fosse soltanto questione di tempo.
Poi cambiò d’un tratto espressione e concesse un attimo di tregua alle guardie abbassando il capo.
«Ce l’ho fatta!» affermò Ruphis dopo essersi messo in contatto mentale con l’amico.
«Lo sapevo! Sei grande. Dove sei?» rispose lo spadaccino alla stessa maniera. In quegli anni avevano imparato molte cose l’uno dall’altro.
«Vicino, temporeggia ancora po’, sto arrivando».
«Fai in fretta, qui dentro non si respira» concluse Golden con un nuovo sorriso che la guardia notò immediatamente:
«Che diamine hai da ridere? Anche se Sua Maestà dovesse accettare il matrimonio tra suo figlio e la tua amica, giuro che lotterò per farti ugualmente condannare a morte» rivelò in tutta onestà.
«Prima di progettare le morti altrui… cerca di tenerti stretta la tua vita che potrebbe volare via che neanche te ne accorgi» continuò a provocarlo Golden.
«Quando sarà il momento, sarò io stesso a tagliarti la testa. Lo giuro» concluse l’uomo in armatura.
Passò un’altra manciata di minuti e fortunatamente in silenzio. Golden cercò di non pensare alla voglia di distruggere a pugni quel maledetto oltre le sbarre e trascorse buono e accucciato quegli istanti in attesa di Ruphis che ancora non si vedeva. Lo spadaccino cominciava a spazientirsi e per due volte provò a rimettersi in contatto con il Drago Nano senza riuscirci. Doveva essere vicino oppure gli era successo qualcosa. Quando l’inconfondibile suono del battito nell’aria di quelle piccole ali riecheggiò tra i cunicoli oscuri delle prigioni, il giovane sospirò però rincuorato, pronto a entrare veramente in azione per uscire da quella cella sporca e nauseabonda. Anche una guardia si allarmò, indicando senza parole il punto in cui credeva di aver sentito qualcosa di sospetto. Una rimase quindi a guardia di Golden mentre l’altra si mosse circospetta oltre l’angolo.
«Non sembra esserci nulla» disse rinfoderando la spada.
Intanto la parete sulla quale era appoggiato Golden divenne d’un tratto incandescente, costringendo lo spadaccino a balzare in piedi senza apparente motivo agli occhi delle guardie.
«Che diavolo hai?» lo beccò una.
«C-credevo di aver visto un insetto, ma in effetti in confronto alla tua faccia era anche carino» rispose spavaldo Golden mentre si avvicinava alle sbarre, pensava di aver capito cosa stesse succedendo.
«Dimmi un po’, ti pagano abbastanza per questo lavoro? Non deve essere piacevole sorbirsi gli insulti di un prigioniero senza neppure un buon compenso» ricominciò il ragazzo con un sogghigno che alla guardia non piacque affatto.
«Continui a ridere, forse sei semplicemente pazzo. Beh, alla tua condanna a morte!» rispose bevendo d’un sorso tutto il vino della caraffa.
Fu proprio quello il momento in cui il muro della cella divenne rosso ardente per un istante prima di distruggersi sotto i colpi del Drago Nano, che irruppe sotto gli occhi attoniti delle guardie.
«Ma che diavolo?!» esclamò una balzando dalla sedia.
«Golden, di qua presto!» disse di fretta Ruphis passando qualcosa al giovane dai capelli biondi e tornando da dove era sbucato. Una guardia aprì dunque la cella per bloccare i fuggitivi ma Golden rimase stranamente fermo e si voltò verso di lui con il sorriso perverso di chi avrebbe goduto soltanto alle grida di morte del proprio carnefice.
«Che avevo detto?» cominciò scattando verso l’avversario per poi colpirlo con un ginocchio sul fianco e un pugno sul volto, rompendogli rispettivamente alcune costole e la mascella.
«Prima di progettare la morte degli altri… tieniti stretta la tua vita» e fece volteggiare tra le dita il coltello che gli aveva appena donato il Drago Nano.
«S-sei un demone…» disse tra i denti la guardia prima di sentire affondare nella propria carne la lama di quell’arma corta ma affilata, piccola ma mortale.
«Golden, forza!» lo destò Ruphis.
«C’era un’altra guardia, deve essere scappata a dare l’allarme… devo fermarla» e corse alle spalle del soldato con uno sguardo che ricordò quello che l’aveva pervaso durante l’assalto al Kharas anni prima da parte di Javia, suo padre, il giorno in cui Valerian aveva affrontato Naos Echel con davanti gli occhi il dolce volto di Mera deturpato da quell’aura violetta, il giorno in cui Green-Lock era stata battuta e devastata. La raggiunse immediatamente e sbattendola al muro con la forza e la rabbia di dieci uomini, la interrogò:
«Dov’è Carian?» gli chiese con voce ancora tranquilla.
«I-io, io non…».
Gli ruppe un braccio.
«Allora?» continuò afferrandogli anche l’altro.
«O-ok fermo… ascolta: s-segui il lungo corridoio di destra e s-scendi la rampa di scale. La troverai i-in una delle celle di quel livello…» borbottò l’uomo tra le fitte di dolore.
«Vedi? Sei stato bravo. Ora muori» e gli recise la carotide, lasciandolo lì insieme alla pozza del suo sangue. Intanto giunse anche Ruphis che poteva soltanto immaginare quello che era successo in base agli inquietanti rumori che aveva sentito.
«Era proprio necessario…?» disse il drago titubante.
«Avrebbero avvisato il Re, così invece non potranno più nuocere a nessuno. E poi mi avevano provocato».
Il Drago Nano scosse il capo rassegnato, non condivideva quel lato oscuro del carattere di Golden ma ormai ci aveva fatto l’abitudine.
«Quanto a te, non mi avevi detto che riuscivi a utilizzare il fuoco soltanto in luoghi pieni di Luthus? Hai praticamente incenerito la parete della cella» continuò Golden.
«Si dia il caso che quest’ala del castello lo sia, a livelli inimmaginabili».
«Davvero? Credi sia per la vicinanza alle Terre Aride?».
«Non credo, c’è qualcosa di strano in questo posto. Ora però sarà meglio andare».
«D’accordo, forza» terminò lo spadaccino facendo strada. Seguirono il corridoio sulla destra come aveva detto la guardia e giunsero alla tromba di scale da scendere per giungere nei livelli più bassi delle segrete. Il buio faceva come sempre da padrone ma il fiuto sviluppato del Drago Nano garantiva una certa sicurezza.
«Ecco, è il profumo di Carian» disse Ruphis fermandosi d’un tratto. Non riusciva a capire bene da dove provenisse però, dato che era presente per tutto il piano.
«Credo sia riuscita a scappare anche lei ma dovremmo raggiungerla se seguiamo velocemente i suoi spostamenti. L’odore è più forte da questa parte».
Scattò svolazzando come se i suoi occhi potessero vedere di nuovo, come se, nonostante il buio, il drago potesse riconoscere la fragranza piacevole della ragazza dalla chioma cremisi e renderla tanto brillante e colorata da illuminare perfino quel luogo immerso nell’oscurità. Il puzzo terrificante delle segrete era ormai un ricordo, il drago si lasciò inebriare dal profumo dell’amica e dopo un paio di svolte nei cunicoli labirintici del posto, giunse davanti una grossa porta di ferro socchiusa.
«È qui» disse il drago fermandosi.
I due cercarono dunque di spostare la pesante porta e poco prima di varcare la soglia, Ruphis scattò all’indietro coprendosi il muso.
«Luthus, Luthus a livelli incredibili» affermò indietreggiando.
Golden non si lasciò intimorire e proseguì stringendo i pugni. Entrò alzando il capo e per quanto il suo animo potesse essere ferreo e fiero, quello che gli si presentò davanti gli occhi gli gelò il sangue: un uomo ricoperto di sangue era appeso per le braccia al tetto con delle pesanti catene d’acciaio, il suo viso era deturpato, il corpo pieno di ferite e nell’aria stessa sembravano udirsi i suoi lamenti dilanianti.
«Golden!» la voce di Carian destò finalmente lo spadaccino da quella visione.
«C-Carian! Stai bene?» chiese con un filo di voce.
«Sono stata meglio ma sono viva…» rispose la ragazza con un mezzo sorriso.
«E quello chi è?» riprese il giovane indicando con un cenno l’uomo dai lunghi capelli color smeraldo e il particolare trucco pece, che gli contornava gli occhi verdi e gli scendeva sulle guance disegnando due frecce con la punta rivolta verso il basso.
«S-si chiama Feras, mi ha aiutata a scappare» rispose la giovane mentre l’interessato non perse tempo neppure a volgere lo sguardo per un saluto.
«E… questo invece?» chiese ancora Golden tornando a osservare l’uomo appeso al centro della stanza.
Carian sembrò intimorita:
«È un mago, lo sento, un mago potentissimo…».

 
 


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Capitolo 7
*** Oltre la magia ***


cap7

Nella camera piombò il silenzio. Golden fissò il prigioniero più intensamente notando quanto le ferite che deturpavano il suo corpo fossero profonde e letali: che fosse un mago o no, chi l’aveva gettato lì dentro si era proprio divertito a vederlo soffrire. Carian afferrò intanto la leva che lo teneva al soffitto e l’azionò sperando di alleviare quanto possibile le pene atroci che quell’uomo stava probabilmente sopportando tacitamente.
«Che cosa stai facendo?!» sbottò lo spadaccino prendendo il braccio della sorella.
«Nessuno merita un simile destino, e vorrei comunque fargli qualche domanda. Sai bene che non esistono più maghi nel Saar e anche nel caso dovesse essere uno stregone potrebbe fornire notizie interessanti».
«Ma di che cosa stai parlando? È stato legato e torturato, ci sarà un motivo» continuò il ragazzo che non aveva mai nascosto la sua avversione per la magia.
Carian lo ignorò e poggiò a una parete il mago senza sensi. Feras se ne stava intanto da parte con le braccia incrociate senza dire una parola mentre Ruphis non era ancora riuscito a entrare a causa dell’enorme quantità di Luthus nell’aria.
«Credo di aver capito a cosa serve il Luthus di Kubara a Vhiria» - cominciò Carian - «lo usano come arma per sedare i maghi, anzi, questo mago nello specifico. Il Luthus è nocivo per loro, quindi inibisce il loro potere».
Golden scosse leggermente il capo e parlò:
«Dunque chi o cosa è questo qui? Se il Re di Vhiria voleva spingersi fino al Ventus soltanto per un po’ di Luthus, deve senz’altro essere qualcuno di importante».
«Aria… a-aria…» disse il mago tra un colpo di tosse e l’altro, mentre altro sangue gli colava dalla bocca. La fanciulla dai capelli rossi si morse un labbro e osservò il fratello in cerca di consensi, senza trovarli.
«Potrebbe sapere qualcosa di interessante, dobbiamo aiutarlo».
«Non se ne parla, se è davvero un mago quel tipo è pericoloso e sicuramente in cerca di vendetta verso coloro che l’hanno ridotto in questo modo» affermò irremovibile lo spadaccino.
«Esatto, verso chi l’ha ridotto così… non verso di noi. Potrebbe aiutarci» continuò Carian.
«Non abbiamo tempo! Mi dispiace davvero per lui ma dobbiamo muoverci. Ho fermato tutte le guardie venendo qui ma prima o poi si accorgeranno della nostra fuga, e dobbiamo trovare Mera e quel piccoletto» concluse dunque il ragazzo indicando la porta con un cenno. Ruphis era ancora fuori vicino la porta di ferro e si limitava ad ascoltare.
La ragazza non sembrava avere intenzione di schiodarsi da lì però, per nessuna ragione, a meno che non avessero accettato di portare con sé il mago moribondo. Era risaputo che la “Strega Celeste” amasse qualsiasi cosa avesse a che fare con la magia e poter parlare direttamente con un altro mago capace di sopravvivere all’era del Luthus corrotto era già un motivo più che valido per salvargli la vita.
«Posso tenere a bada un mago, lo sai. Comunque sia non mi sembra in condizione di fare del male…» insistette ancora la ragazza che intanto stava provando a medicare le ferite più profonde del prigioniero con una strana energia azzurra.
Feras inarcò in un primo momento un sopracciglio, poi nascose un sorriso che per sua sfortuna a Golden non sfuggì.
«Cos’hai da ridere?» e gli lanciò un’occhiataccia.
«Ehi, hai qualche problema?» rispose l’uomo con un altro sguardo ancora più freddo ed eloquente.
«Silenzio! Sta riprendendo conoscenza» intervenne Carian a sedare gli animi mentre il mago apriva gli occhi mostrando delle iridi smeraldine.
«T-tu, ragazza… portami fuori di qui, t-ti prego…».
Carian deglutì mentre Golden si sfiorò il fianco imprecando per l’assenza della sua spada.
«Maledizione Carian, dobbiamo muoverci!» riprese a dire proprio il ragazzo.
«Non senza di lui» disse lei senza distogliere lo sguardo da quegli occhi stanchi e feriti ma ancora splendidi.
Golden alzò la testa portandosi una mano sulla fronte, già pentito per quello che stava per dire:
«Ok, d’accordo… ma ora fuori di qui. Carian, se succede qualcosa giuro che lo sopprimo a modo mio» e uscì dalla stanza incrociando il volto titubante di Ruphis che aveva ascoltato tutto. La ragazza si prese dunque in spalla il mago con l’aiuto di Feras e seguì il resto del gruppo verso le scale che salivano ai piani superiori.
«Torniamo verso la cella in cui mi avevano rinchiuso, per quanto lì l’aria puzzasse di qualsiasi cosa esista di sgradevole, non c’era traccia di Luthus. Lì potremo parlare con il mago» affermò il Drago Nano facendo strada al gruppo. Feras aggrottò le sopracciglia confuso e si rivolse a Carian:
«Quel Drago Nano ci vede? Vedendo la benda agli occhi avrei giurato di no» disse a voce bassa.
«Ti sorprenderà scoprire tutte le sue abilità» rispose la ragazza con un mezzo sorriso.
Raggiunsero velocemente il piano superiore delle prigioni e finalmente lontani dal Luthus, fecero sedere il mago nel letto di una cella aperta. Carian gli accarezzò la chioma scura rapita da quello sguardo sofferente e smarrito e per un attimo dimenticò che con lei vi erano anche gli altri. Si isolò in quegli occhi smeraldini, profondi, eloquenti e improvvisamente anche vivi e luminosi: il ragazzo strinse i denti e scaraventò alla parete tutti coloro che si trovavano nella cella, poi si alzò ansioso e con l’aria spaventata ma non percependo più nessuna traccia di Luthus, riuscì a calmarsi un po’ e tornare seduto con le mani tra i capelli arruffati.
«Maledizione…» cominciò, ignorando completamente chi aveva appena attaccato.
Golden non riuscì a passare oltre quel piccolo dettaglio e afferrando il ragazzo per la maglia logora, cercò il suo sguardo per percepire anche solo un motivo per metterlo a tacere per sempre.
«Fermo!» si intromise Carian tra i due riuscendo a dividerli.
«Stupidi maghi, si comportano sempre come se tutto girasse intorno a loro. Chi diamine sei?!» continuò lo spadaccino facendo un paio di passi indietro.
Prima che qualcuno potesse aggiungere altro però, si udirono dei passi celeri e decisi giungere dalle scale.
«Mi chiedevo quanto ci avrebbero messo a scoprire la nostra fuga» commentò lo spadaccino mentre faceva volteggiare tra le mani il suo pugnale.
«Non la vostra… la mia» precisò il mago alzandosi, suscitando lo stupore dei presenti.
Non c’era comunque tempo per le spiegazioni, nel giro di pochi secondi lo stretto corridoio su cui dava la cella brulicava già di guardie armate fino ai denti.
«Non ti è bastata l’ultima lezione? Non opporre altra resistenza!» disse una con la spada sguainata.
«Siamo disarmati, non riusciamo mai a batterli» affermò Golden cercando di trovare alla svelta un’altra soluzione. Il mago fece intanto qualche passo verso la porta di ferro aperta e si fermò udendo la schiera di soldati giungere. Strinse poi i pugni e i denti, si voltò verso il gruppo alle sue spalle e fermò poi il suo sguardo in quello dorato di Carian, colmo di ansia e preoccupazione per quella circostanza. Non sembrò pensarci troppo, semplicemente aprì il palmo di una mano e creò una fioca luce bianca che investì tutti i presenti prima di implodere e sparire insieme a tutto ciò che si trovava in quella piccola prigione di ferro.

Golden si destò, non seppe dire quanto tempo fosse passato ma il sole che gli scaldava l’animo e il viso bastò a fargli capire che non si trovasse più in quelle maleodoranti segrete del castello. Alzò dunque lo sguardo cercando i propri compagni e si rasserenò quando vide la sorella insieme a Ruphis e quell’uomo strano dalla chioma smeraldina.
«Golden!» si avvicinò il Drago Nano festoso. Gli era bastato sentire tornare regolare il respiro dell’amico per capire che si fosse svegliato.
«Che è successo? Dove siamo? Dov’è quel mago?».
«Siamo sulla cima di una delle torri del castello, quel tipo deve averci teletrasportato fin quassù».
Intanto giunse anche Carian con un sorriso, era felice di vedere che anche il fratello avesse resistito al “trasporto”.
«Se hai la nausea è normale, tra poco passerà» disse con aria quasi divertita.
Lo spadaccino se ne accorse e di certo non gradì:
«Che cosa ci trovi di tanto divertente? Potevamo rimanerci secchi, non gli ho chiesto io di fare quel trucchetto» disse accorgendosi a quel punto del mago sul bordo della torre.
«Che diamine sta facendo?» chiese cominciando a perdere la pazienza.
«Non lo so, ho provato a parlargli ma sembra quasi assente, con lo sguardo smarrito. In ogni caso le guardie del Re ci stanno cercando per tutto il castello, prima o poi arriveranno fino a qui, dobbiamo trovare Mera e Tarus e andarcene».
«Ok… d’accordo» concluse Golden alzandosi, quindi si avvicinò alla grossa porta della torre per aprirla ma finì per imprecare tirandogli un calcio.
«È chiusa e massiccia… che cosa facciamo?».
«Troppo tardi, sento numerosi passi giungere dal fondo della torre. Stanno salendo qui» intervenne Ruphis che tra tutti era quello con l’udito più sviluppato. Carian si morse un labbro nervosa, poi decise che l’unico modo per uscire da quella situazione era chiedere nuovamente aiuto al mago. Li aveva teletrasportati lì una volta, avrebbe potuto farlo di nuovo.
«Dobbiamo andarcene da qui! Capisci che le guardie stanno arrivando?» provò la fanciulla ma il ragazzo non sembrava destarsi dalla vista dell’enorme panorama che poteva ammirarsi da quell’altezza.
«Ehi, moriremo qui sopra se non mi dai una mano!».
Il mago diede un pugno sulla balaustra di pietra e afferrò per il colletto la fanciulla dai capelli rossi.
«Dove siamo?! Dove mi hanno portato quei maledetti?!» sbottò improvvisamente.
Golden intervenne all’istante e allontanò con un calcio colui che aveva già sopportato per troppo tempo.
«Toccala di nuovo e ti farò saltare le mani».
Il giovane non sembrava però intimorito dalla minaccia dello spadaccino, la sua angoscia era data da qualcos’altro, da ciò che aveva visto dalla sommità della torre. Cercò di contenere le lacrime rialzandosi confuso e guardò il gruppo che si era involontariamente portato dietro con aria interrogativa. Era consapevole che da lì a poco avrebbe dovuto affrontare nuovamente le guardie che l’avevano imprigionato, preferì dunque schierarsi con chi era nella sua stessa situazione, in un certo senso.
«Scusatemi… non era davvero mia intenzione» provò a dire.
«”Scusatemi”? Oh tutto risolto, potremo essere buoni amici. Tu sei malato!» rispose Golden prima di essere afferrato dalla sorella.
«Potremo parlare di scuse dopo che riusciremo a fuggire dal castello, devi portarci fuori di qui» continuò Carian con ritrovata calma.
«Io… io non so come ho fatto a portarvi qui, non è un’abilità che conosco. Dobbiamo combattere» rispose il mago.
«Eh?! Sei cieco? Sono disarmato!» gridò furioso lo spadaccino tenuto buono dalla sorella.
Troppo tardi: una schiera di guardie aprì la grossa porta e si posizionò davanti di essa in formazione. Tra tutte, una si fece avanti alzandosi la visiera dell’elmo robusto che gli ricopriva il capo.
«Siete fuggiti dalle prigioni, ucciso i nostri compagni e fatto evadere un pericolosissimo individuo… dopo che il principe Firion aveva accettato il vostro compromesso. Siete dei pazzi! Adesso verrete giustiziati, senza altri accordi. Guardie, portiamo al Re le loro teste!» disse l’uomo dando inizio alla battaglia.
Ruphis saettò alle spalle di Golden che impugnò il pugnale usato in precedenza, Feras rimase indietro insieme a Carian che era indietreggiata intimorita. L’unico rimasto in prima fila fu il mago che alzando le braccia al cielo creò un particolare vento ardente che bruciò l’aria rarefatta della sommità della torre. Il turbine investì alcuni nemici che cedettero al suolo logorati da fiamme e dolore ma altri riuscirono a venirne fuori scoccando delle particolari frecce dalla punta dorata. Il mago se ne accorse e aprendo i palmi delle mani creò una barriera su cui si infransero i dardi. Carian osservò spaventata il fratello ma non avrebbe atteso un istante di più il termine di quella battaglia da spettatrice: fece qualche passo in avanti e congiunse le mani innalzando l’energia azzurra che contraddistingueva il suo potere. Dunque indirizzò quella sorta di nube verso i soldati rimanenti che in preda alla follia cominciarono a colpirsi tra di loro a morte prima anche dell’intervento di Golden che rimase basito. Il gruppo uscì vittorioso, l’unica guardia rimasta era la stessa che aveva dato l’ordine di attacco, che adesso tossiva sangue al suolo in preda al dolore.
«Mi dispiace… non sarebbe dovuta finire così» disse Carian col cuore in gola.
«Voi… voi siete demoni. Non r-riuscirete mai a fuggire dalla c-città» rispose la guardia prima di prendere fuoco sotto il volere del mago.
«Demoni? No… tu non conosci i vedi Demoni» e proprio lui attese che il fuoco divorasse anche l’anima di quell’uomo prima di proseguire.
Demoni, proprio come Valerian, l’uomo che aveva salvato il Saar e per il quale Carian e il suo gruppo stavano lottando, per il quale Mera era arrivata a uccidere. Un pensiero che sfiorò la giovane dai capelli cremisi che rabbrividì.
«Muoviamoci, dobbiamo trovare Mera prima che vengano altre guardie!» disse intanto Ruphis che cominciò a fare strada. Il gruppo lo seguì con Golden in coda che notò nel frattempo l’assenza di Feras.
«Dov’è quel tuo amico, Carian?».
La ragazza si guardò intorno sorpresa: era scomparso davvero.
«La cosa non mi piace ma non c’è tempo per questo, forza» rispose senza alternative, Mera aveva la precedenza.
Scesero una lunga e grossa rampa di scale giungendo finalmente in quelle che sembravano le stanze interne del palazzo, quelle in cui dovevano trovarsi le camere degli ospiti.
«Sento l’odore di Mera, da questa parte» disse Ruphis imboccando un corridoio sulla destra. Proseguirono ancora per qualche stanza e finalmente il Drago Nano si fermò davanti una porta regale dalla maniglia in oro e il simbolo della famiglia del Re inciso sulla parete a fianco. Golden l’aprì e trovò la bella principessa di Kubara seduta sul trono in fondo alla grande sala. Il gruppo entrò avvicinandosi all’amica chiaramente senza sensi ma trasalì nel momento in cui udì il tipico suono di una freccia che viene sfilata dalla faretra: almeno venti guardie tenevano sotto tiro i nuovi arrivati dalle balconate al secondo piano della sala. Un battito di mani riecheggiò a quel punto nel luogo e da dietro l’alto trono comparve il Re di Vhiria.
«È strepitoso il potere dei maghi, così forte e affascinante… quasi inarrestabile. A volte penso che sia opera di un essere ancora più alto del Dio Fuoco».
«Non vogliamo combattere… non vogliamo causare altre morti» disse secca Carian.
«Il tuo giochino alle nozze però è stato qualcosa di ancora più grandioso. Conosco ormai così bene la magia da poter dire che la tua non lo era, o almeno… non era semplicemente magia» continuò il Re.
«Che cosa volete da noi?!».
«Non vi nascondo che inizialmente volevamo davvero soltanto le terre di Kubara, altro Luthus avrebbe garantito protezione. Poi ho visto te alle nozze e ho rimproverato mio figlio per averti semplicemente rinchiusa, meriti ben altro».
Il mago si guardava intanto intorno cercando il momento giusto per stanare gli arcieri in alto ma il Re lo beccò:
«Quanto a te… sei stato utile abbastanza».
Due frecce vennero scoccate e lo colpirono prendendolo alla sprovvista. Si accasciò al suolo grondante di sangue. Gli altri presenti non ebbero neppure il tempo di preoccuparsi per lui:
«Uccideteli tutti, lasciate viva solo la ragazza» sancì infine il Re.







 

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Capitolo 8
*** L'uomo che non mostra mai le spalle ***


ahiahia

Gli arcieri presero la mira mentre il Re si lasciava vincere da un ghigno malefico ma Carian non aveva nessuna intenzione di lasciare la propria vita tra quelle mura. Chinò il capo, chiuse gli occhi, strinse i pugni e quando un goccia di sangue gli colò dalle orecchie, la sala fu investita da una nube azzurra che entrò direttamente nella testa dei soldati sulle balconate. La ragazza rialzò la testa osservando lo sguardo confuso del Re, e parlò lentamente:
«Hai ragione, non è solo magia…».
Gli arcieri cambiarono obbiettivo incoccando le frecce in direzione del Re di Vhiria.
«Ehi! Che cosa fate?! Vi ordino di ucciderli, uccideteli!» provò a dire disperatamente.
Le frecce vennero scagliate verso ogni punto vitale di Sion che volò all’indietro spinto dall’urto insieme al sangue che schizzò al suolo. La fanciulla perse a quel punto le forze ma Golden l’afferrò prima che potesse cadere per terra.
«Ha perso i sensi e continua a sanguinare dal naso e dalle orecchie. Dobbiamo andarcene da qui e alla svelta!» gridò lo spadaccino cercando di contenere la rabbia.
Ruphis era intanto corso verso il trono su cui era appoggiata Mera e fortunatamente i respiri e il battito cardiaco sembravano regolari.
«Qualcuno mi aiuti a sollevarla!».
Golden era impegnato però con Carian.
«Riesci a muoverti?» chiese intanto lo spadaccino gettando un’occhiata al mago.
«N-non preoccupatevi per me, non hanno colpito punti vitali» rispose senza convincere troppo gli altri. Nella camera irruppe a quel punto Feras, facendo volteggiare tra le dita una lunga freccia dalla punta splendente e acuminata. Era apparso da un passaggio segreto alle spalle del trono su cui era appoggiata Mera e con noncuranza osservò prima il cadavere del Re, poi la principessa leccandosi i baffi.
«E questa chi sarebbe?» domandò soffermandosi sui lineamenti deliziosi del suo viso e la veste regale che le donava l’aria da nobile che le spettava di diritto.
«Tu… da dove diamine arrivi?» lo beccò Ruphis che nonostante non potesse vedere, diede a Feras la sensazione di essere scrutato da capo a piedi. L’uomo sorrise e senza chiedere consensi prese in braccio la fanciulla per poi tornare al passaggio appena varcato.
«Che cosa stai facendo?» chiese il Drago Nano acuendo l’udito.
«Da questa parte, forza!» concluse l’uomo con un mezzo sorriso. Golden inarcò un sopracciglio, come poteva un prigioniero conoscere tali stratagemmi del castello? Le domande lo assillavano ma il tempo stringeva e tornare indietro non era contemplato. Al momento doveva fidarsi di quell’uomo.
«Se questo percorso ci porta in una trappola, non credere di farla franca» disse lo spadaccino intrufolandosi nel passaggio polveroso e oscuro, lasciando il sorriso nel viso di Feras. Anche il mago li seguì, le ferite che aveva riportato non erano gravi, proprio come aveva detto, nonostante la violenza con cui le aveva subite. Probabilmente era riuscito in qualche modo ad attutire i colpi con un incantesimo.
«Dove eri finito?» chiese Ruphis che continuava a non fidarsi di colui che li stava guidando fuori di lì, o almeno così aveva detto.
«Non crederai che mi abbiano rinchiuso perché ho causato una rissa in una taverna, vero?» rispose ridacchiando sebbene fosse in qualche modo ciò che era invece successo a loro.
«Dovevo infiltrarmi nel castello per “prendere” una cosa. Purtroppo mi avevano catturato. Il resto lo sai».
«Non mi importa niente di chi tu sia, spera soltanto che questo tunnel ci conduca fuori dal castello» si intromise Golden facendo intuire la sua voglia di prendere a pugni chiunque in quel frangente.
«State tranquilli, Carian mi aveva detto che avevate bisogno di un passaggio per l’Euvenia e le devo un favore. Andremo con la mia nave» affermò Feras sorprendendo i presenti.
«Hai una nave?!» dissero in coro Ruphis e l’amico mentre il mago li seguiva più indietro con passo lento.
«Già, piuttosto… come è finita in quelle condizioni? Mi sono allontanato un attimo» continuò l’uomo riferendosi alla fanciulla che Golden portava sulle spalle. Lo spadaccino si morse un labbro e se non fosse stata per l’imbarcazione appena rivelata, l’avrebbe volentieri colpito.

 

Nella stanza del Re giunsero intanto Firion e altri quattro uomini. Il principe spalancò la porta con agitazione e si fermò alla vista del padre perforato da una miriade di frecce. Rimase per qualche istante immobile e in silenzio, lasciando che lo stupore di coloro che lo avevano accompagnato colmasse la stanza a sfavore del puzzo terribile di sangue e morte che regnava tra le pareti.
«Padre…».
Il giovane nobile si avvicinò al Re a piccoli passi e cadde in ginocchio davanti il suo corpo esanime, con un viso smorto e uno sguardo perso nel vuoto. Il silenzio fu l’unica cosa udibile in quella stanza testimone dell’uccisione di un sovrano e sarebbe stata spettatrice dell’animo oscuro di un uomo in cerca di vendetta.
«Fermateli… uccideteli…» delirò a bassa voce.
«Signore?» si avvicinò una guardia.
«Braccate ogni uscita, tutti i moli, ogni possibilità di fuga dalla città. Distruggeteli!» ordinò il principe mentre i suoi occhi divennero dorati e un’energia fluì nella sua lama, facendo tremare l’intera stanza. Si alzò dunque sfoderando l’arma e la conficcò con forza al suolo.
«L’erba di Vhiria si infiammerà di nuovo, alla sua ricorrenza».

 

Il gruppo si mosse velocemente tra i cunicoli del passaggio segreto sotto l’abile guida di Feras e finalmente riuscì a raggiungere l’esterno del palazzo e quindi l’esterno immerso nell’oscurità totale della notte. Quella parte dell’Horion era per la maggior parte dell’anno inghiottita nella nebbia e la luna, per quanto chiara e lucente, non riusciva a far filtrare i propri raggi argentei. Da lì in avanti sarebbero stati essenziali il fiuto di Ruphis e la memoria di Feras.
«E adesso?!» chiese nervosamente Golden.
«Calmati ragazzo, ho studiato perfettamente la mappa di questo castello e dei suoi dintorni. Il passaggio segreto ci ha portati alle spalle della città e dovremmo essere al sicuro».
«Dovremmo?».
«Se la conosco io, penso anche il figlio del Re. Ci saranno alle costole in non troppo tempo. Muoviamoci» e fece strada avanzando cauto nel buio.
La strada che si apriva davanti al gruppo era esattamente come ci si poteva aspettare a giudicare dalla zona pianeggiante su cui si ergeva la città di Vhiria. Non erano presenti nascondigli, arbusti o alberi di alcuna sorta, soltanto il buio e la nebbia garantiva una qualche speranza di protezione. Camminarono per circa dieci minuti e per quanto cercasse di non darlo a vedere, il mago cominciava a soffrire le ferite. Il tempo non era però il loro miglior alleato in quella circostanza, avrebbero dovuto resistere fino all’arrivo della costa e possibilmente all’imbarcazione di Feras. Carian e Mera non si erano intanto ancora riprese ma la prima era al sicuro tra sulle spalle del fratello mentre la principessa tra le braccia di un uomo sconosciuto di cui nessuno sapeva nulla. Feras aveva mostrato di sé soltanto la lunga chioma smeraldina come i suoi occhi e degli scopi che andavano ben oltre il voler semplicemente evadere da Vhiria, varcare le mura della città dell’erba rossa per tornare alla fantomatica imbarcazione inghiottita dalla nebbia. D’un tratto si fermò poi, invitando gli altri alle sue spalle a fare lo stesso. Indicò più avanti con un cenno e qualche altro passo rivelò l’oceano a Nord-Est dell’Horion, mai tanto desiderato. L’acqua era piatta come una tavola, non vi era un filo di vento a smuoverne la superficie e senza la nebbia quella meraviglia naturale sarebbe stata investita dal chiarore argenteo della luna.
«Ecco la mia barca, forza» esordì Feras facendo un cenno a Golden.
Lo spadaccino tirò un sospiro di sollievo, non aveva mai cominciato a fidarsi di lui e il fatto di essere costretto a seguirlo in mezzo al velo della nebbia gli faceva ribollire il sangue, ma quella era un’imbarcazione abbastanza grande per accogliere tutti i presenti: in un modo o nell’altro sarebbero arrivati nell’Euvenia per lasciarsi alle spalle definitivamente Vhiria, il Re e tutto quello che avevano affrontato in quegli ultimi giorni. La barca era abbastanza modesta ma il legno sembrava resistente e la presenza di una cabina avrebbe protetto i feriti durante il viaggio, in caso di piogge, attacchi dall’alto e chissà cos’altro che abitava nei paraggi delle Terre Aride. Feras poggiò dolcemente la principessa di Kubara su un letto abbastanza pulito e ne indicò un altro a Golden decisamente meno “curato”. Il giovane gli gettò un’occhiata glaciale ma in assenza di alternative, quello era l’unico posto oltre al pavimento per far distendere la sorella. Il mago si poggiò invece a una parete facendo qualcosa con le mani e pronunciando alcune parole incomprensibili. Ruphis ne capì qualcuna e rimase sorpreso nel riconoscere un antico linguaggio legato ad alcuni culti di Ebrion ormai andato perduto nei secoli.
«Che cosa stai…» riuscì a dire prima che qualcosa a distanza lo distraesse. Si voltò verso il punto in cui credeva di aver sentito qualcosa e isolò ogni suono che aveva vicino concentrando tutte le sue energie nella fievole e impercettibile vibrazione dell’oceano causata dall’avanzare di qualcosa nella sua superficie.
«Ragazzi… una nave, no… tre navi» cominciò inizialmente a bassa voce.
«Che stai blaterando, Ruphis?» chiese Golden infastidito da quel comportamento.
«No… sei navi, davanti a noi» concluse indicando con la zampa l’orizzonte velato dalla nebbia. Feras corse all’istante a guardare e gli si gelò il sangue: sei navi di Vhiria gli sbarravano la strada, erano in trappola.
«Questa… non me l’aspettavo» disse l’uomo semplicemente, abbozzando un sorriso. Golden lo afferrò sbattendolo selvaggiamente alla parete e lo fissò intensamente con i suoi occhi dorati come il sole. Lo tenne in quella posizione per alcuni interminabili istanti, poi parlò sospirando:
«Ci hai messi in questo casino, adesso tiracene fuori».
«Mmh… forse un modo c’è, ma devi levarmi le mani di dosso» rispose Feras allontanando lo spadaccino con una spinta decisa. Ci pensò ancora un attimo ma dopo aver osservato nuovamente ciò che si stava avvicinando dal mare, si convinse: prese dalla tasca qualcosa avvolta nella stoffa e si concesse due profondi respiri prima di rivelarla alla vista dei presenti.
«Potrebbe essere l’unica soluzione, ma… potrebbe portare anche conseguenze abbastanza spiacevoli» e lo mostrò: un piccolo minerale azzurro che emanava tanta luce da poter cancellare ogni angolo d’ombra dalla cabina dell’imbarcazione. Ruphis scostò il viso disturbato da tanta energia, lui tra tutti ne sentì l’importanza sulle scaglie ma a sorpresa, fu il mago a sgranare gli occhi. Osservò la pietra avvicinandosi e quando fu sul punto di prenderla, Feras si tirò indietro repentinamente inarcando un sopracciglio.
«Ehi, che stai facendo? È la mia pietra» gli ricordò perdendosi nei riflessi celesti del particolare cristallo.
«Tu… tu hai idea di cosa sia? Dove l’hai trovata?!» disse il mago cercando di contenere lo stupore.
«Diciamo che sono arrivato a Vhiria per… un motivo preciso. In ogni caso, puoi farci nulla, mago? Qui dentro è sigillata l’anima di un qualcosa di grosso, no?» chiese Feras che sembrava saperne più di quanto volesse dimostrare.
«C-cosa? Di cosa state parlando?» intervenne Ruphis che poteva soltanto sentire la forza del cristallo senza ammirarne i riflessi.
«I-io… sì, p-potrei fare qualcosa» disse il mago chiaramente titubante.
«Ti senti bene? Ehi, sveglia! Siamo circondati!» esclamò Golden che aveva ormai perso la pazienza da un pezzo.
«Queste sono preziose reliquie che fungono da prigione per i demoni, quelli minori il più delle volte. Da dove vengo io, noi maghi stessi celebriamo i rituali di sigillo…».
«Da dove vieni tu? Maghi? Ma di che cosa stai parlando? Non ci sono più maghi nel Saar, il Luthus corrotto li ha uccisi tutti» - disse Ruphis sempre più confuso - «Si può sapere chi sei?» concluse.
«Che cosa stai dicendo? Certo che esistono i maghi, a Spell! Nell’Euvenia» rispose il mago sinceramente convinto delle proprie parole. Il Drago Nano scosse il capo e Golden afferrò per la maglia il giovane.
«Ci stai prendendo in giro?».
«Ma c-che cosa vi prende? È da lì che vengo!» e gemette di dolore ancora visibilmente provato per le ferite, per quanto tramite una qualche magia fosse riuscito a chiuderle.
«Adesso basta! Stupidi idioti, capite o no che siamo circondati?!» sbottò Feras furioso e i presenti tornarono all’attenzione seguendo lo sguardo dell’uomo oltre la finestra della cabina in legno, per notare che anche dalla radura si stava avvicinando qualcosa.

 

«La loro testa sarà il premio, la loro anima il nostro obbiettivo,  la loro vita l’eco della vendetta. Andate guerrieri della fiamma e distruggete al vostro passaggio, infiammate la costa sopra la terra che per la seconda volta verrà incenerita dal Dio Fuoco. Andate, ADESSO!» Firion diede ordine ai suoi soldati di caricare l’imbarcazione di Feras e questi eseguirono l’ordine sguainando delle spade che risplendevano di una luce cremisi. Avanzarono celeri attraverso la spiaggia e la forza con cui si stavano preparando a sfondare le fiancate della barca, lasciava presagire l’epilogo dell’attacco. Il principe innalzò intanto al cielo la sua arma, pronunciando alcune parole a bassa voce, come se stesse eseguendo un rituale propiziatorio prima di una guerra. La lunga spada con sulla lama impresso il simbolo della famiglia reale, si infiammò dunque improvvisamente e un’onda d’urto ad altissima temperatura investì i diversi metri che la circondavano fino a smuovere anche l’imbarcazione dove si trovavano Golden e gli altri. Fu quello il momento in cui il nobile conficcò la spada sul prato, evocando una forza naturale che fece tremare l’intero Horion.

 

«C-che diamine sta succedendo?» chiese Golden mentre cercava di non capitolare al suolo a causa delle continue scosse.
«Ehi maghetto, qualsiasi trucco hai da fare, fallo alla svelta!» disse amaro Feras che vide il gruppo di soldati ormai a pochi secondi da loro.
Il mago strinse i denti, cercò di trovare un’alternativa a quella che si stava rivelando l’unica cosa da fare e accettando ciò che il destino gli stava riservando, posizionò la pietra sul ponte dell’imbarcazione, sotto il cielo coperto dalla nebbia.
«È incredibile ma… questo sembra il frammento che io stesso ho sigillato ormai anni fa. Non capisco come possa essere finito qui, non capisco come io possa essere finito qui. È tutto confuso, sbagliato, ma… la forza del demone rinchiuso è reale» cominciò il mago prendendo a sospirare profondamente.
«Che sta dicendo?» chiese Golden a Ruphis che scosse il capo confuso.


«Ajmuusar bilok wdygjmaros dia bilok qyojmaros, sxirtesdos sle dia Yhos sle kehis fj ykjkusar bjx rkyamea mbo ykbuhos:
Iyeqjsdos ru, Wxeihxus!»


Le parole del mago risuonarono come una voce tra le montagne che echeggia in preda al vento e al vuoto occupato dalle nubi chiare. La nebbia venne sovrastata da una luce azzurra che in pochi attimi venne affiancata da un’altra più scura, quasi nera, che aveva di certo poco di positivo. Golden e Ruphis vennero sbalzati all’indietro e il mago cercò di non perdere la concentrazione per completare il rituale. Chiuse gli occhi ripetendo ancora una volta la frase che aveva anticipato quell’esplosione di energia e finalmente un varco nella nebbia si aprì, rivelando una sfera oscura che esplose a mezz’aria.
«Che cosa… ha liberato?» Ruphis era inquieto e spaventato.
«Wxeihxus, Rwhigjjdos hlok!» gridò infine il mago.
Dal vortice di energia comparve un essere mostruoso: una creatura con delle grandi ali celesti e il corpo scuro e squamoso simile a quello di un umano. Dalle braccia e dai fianchi sbucavano aculei dragonici e dalla fronte due corna circondate di elettricità. Il suo volto aveva due occhi fiammeggianti, i canini allungati così come il naso e le orecchie. Il demone udì le parole del suo evocatore e accennando a un sorriso, si levò in volo allargando braccia e ali per creare un’onda d’urto verso gli uomini che si stavano avvicinando dalla radura, devastandoli completamente. Golden non riusciva a credere ai propri occhi mentre a Ruphis bastò percepire l’energia illimitata che emanava la creatura per non osare uscire dalla cabina dell’imbarcazione. Almeno quindici uomini del principe vennero schiacciati da quella potenza ma altri cinque e Firion stesso erano riusciti a rimanere in piedi. Il giovane sovrano ordinò il contrattacco e in quel momento la terra tremò nuovamente, smossa dalla forza che la sua spada stava riuscendo a produrre.
«Non lascerete mai l’Horion…».
Mentre la creatura alata preparava un altro colpo, Firion puntò l’arma verso l’imbarcazione ancora lontana del gruppo di fuggiaschi e nel momento in cui un nuovo raggio d’energia oscura venne sparato verso la radura, lui scomparve, inghiottito da un varco che lo trasportò istantaneamente al cospetto di Carian, nella cabina con Golden, Ruphis, Feras e Mera ancora incosciente. Si presentò agli occhi dei presenti in uno stato quasi d’agonia: non aveva più un braccio, sanguinava da un occhio e parti delle sue vesti e della pelle erano state strappate via. Sembrava essergli rimasta soltanto lo forza di alzare la spada luminosa per infilzare colei che aveva ucciso suo padre e l’intera Vhiria con lui. Golden non riuscì a capire come avesse fatto a muoversi così velocemente ma agì d’istinto provando a colpire il nemico prima che fosse troppo tardi. Firion lo vide arrivare e con un abile movimento schivò il suo pugno per poi contrattaccarlo con una ginocchiata in pieno stomaco. Anche Ruphis provò ad agire ma il principe mosse la spada e lacerò il fianco squamoso del Drago Nano. Golden non aveva però intenzione di cedere in quel modo e mentre all’esterno le esplosioni lasciavano presagire la fine dell’esercito di Vhiria, lui in quella stanza avrebbe posto fine alla vita del principe. Si rialzò riuscendo a colpirlo con un pugno ma per quanto fisicamente devastato, Firion continuava a restare in piedi con la sua arma nella mano destra. Proprio in quel momento il principe afferrò al collo l’avversario, permettendo alla sua spada di risucchiargli ogni briciola di energia.
«Q-quell’arma… è stata f-forgiata con il Luthus…» disse fra i denti Golden.
«E nel Luthus… v-voi morirete» rispose Firion con un sorriso maligno ricoperto di sangue.
Poi però una voce, una frase, che in quella guerra portò silenzio e per un attimo la fine di ogni paura.
«”L’uomo che non mostra mai le spalle”… rivela finalmente il suo punto debole» la voce di Feras. Tre sibili nell’aria anticiparono tre frecce che andarono a conficcarsi in un unico punto al centro della schiena di Firion, che rilasciò un’energia dorata che fece tremare l’imbarcazione più di quanto non stesse facendo il demone all’esterno. Il principe si voltò lentamente mollando il collo di Golden e afferrò la propria arma saldamente, pronto ad attaccare l’ennesimo nemico.
«È finita» affermò l’uomo mentre anche l’ultimo della famiglia reale di Vhiria cadeva, logorato da una luce che sembrava si stesse cibando di ciò che rimaneva di quel corpo martoriato.
Intanto l’orizzonte era un cumulo di fumi e luci infuocate, mentre la radura nell’entroterra era ricoperta da un manto di fiamme, ormai distrutta.
«Hai avuto la tua profezia: Vhiria, la città dell’erba rossa» concluse Feras.


 



 

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Capitolo 9
*** Tra due mondi ***


cap 9

Nel silenzio della notte, la cupa e densa nebbia che avvolgeva l’Horion era l’unica certezza di quegli attimi rapidi e inarrestabili di cui i giovani all’interno dell’imbarcazione sul filo dell’oceano si erano resi protagonisti. Feras osservava il corpo di Firion inerme ai suoi piedi e vinto da un sorriso eloquente, se ne rimase in quella posizione ancora per qualche secondo, mentre fuori il demone dalle ali azzurre gridava la propria vittoria al cielo coperto dal candido manto. Golden era ancora incredulo, con le spalle alla parete e una mano sul collo che il principe gli aveva stretto con la forza di dieci uomini. Sullo sfondo solo il crepitio delle fiamme e il potere della creatura, il resto non era che un misero ricordo scacciato dalla forza di misteri, velati dallo sguardo di Feras e le parole del mago. Lo spadaccino osservò colui che aveva risolto quella disputa ma non aprì bocca, si limitò ad avvicinarsi alla sorella per sincerarsi delle sue condizioni. Intanto sul ponte, il demone evocato continuava a gridare ed emanare energia insostenibile, tanto potente che le acque dell’oceano cominciarono a smuoversi, creando delle onde sempre più alte. Il mago era in ginocchio, con le mani poggiate al suolo sopra un particolare disegno ovale con due simboli incomprensibili ai poli. Sembrava stesse lottando contro la creatura stessa che ormai libera e con la facoltà di poter riassaporare l’essenza della libertà, non aveva nessuna intenzione di tornare tra le pareti magiche del particolare sigillo. La barca venne a quel punto investita da una pericolosa onda e Feras e Golden si precipitarono fuori per capire qualcosa di quello che stava facendo il mago.
«Che sta succedendo?!» sbottò Golden ancora dolorante per la colluttazione con Firion.
«Evocare un demone non è uno scherzo, tanto meno sigillarlo! Se non lo fermiamo subito spezzerà il legame che ho creato tra lui e la pietra. Vedete le ali azzurre? Se diventano nere è finita» spiegò il mago con il fiatone, quel rituale lo stava logorando minuto dopo minuto. Golden osservò il mostro dimenarsi in aria e gettò poi un’occhiata sulla spada di Luthus di Firion.
«Non pensarci nemmeno, quella spada lo ha fatto impazzire» lo anticipò Feras serio.
«La mia spada è stata costruita con lo stesso principio, e quel tizio me l’ha portata via… è il minimo che io possa fare» rispose deciso lo spadaccino, correndo in coperta e afferrando saldamente l’arma del principe defunto. Vide il Luthus di cui era formata la lama risplendere e lo sguardo di Golden si lasciò pervadere dalla forza che sentì scorrergli nelle vene.
«Getta quell’arma!» gridò Feras fra i denti mentre il demone continuava a cercare di divincolarsi.
Il guerriero dai capelli biondi sospirò e gustò con un sorriso la nuova energia che lentamente assorbì dalla spada. La quantità enorme di Luthus sprigionato disturbò i sensi di Ruphis e perfino quelli del mago all’esterno per quanto avesse dimostrato di poterne resistere a quantità ben maggiori rispetto alla media dei maghi devastati proprio dalla sostanza corrotta.
«Aiuterò a sigillare nuovamente quel mostro» disse a bassa voce Golden che alzò il capo verso il demone. Dunque scattò spingendo di lato Feras e balzò effettuando un fendente dorato che squarciò il velo di nebbia. La creatura accusò il colpo e tra grida e getti d’energia che smossero ancora di più le acque, permise per un istante al mago di intervenire definitivamente. Congiunse le mani e chiuse gli occhi mentre intorno a lui le acque dell’oceano si alzavano sorrette da un’energia spirituale. Era la forza della magia, l’abilità mistica capace di manovrare fuoco, aria, terra e… acqua, la potente virtù di cui il Saar aveva perso ogni traccia, fino a quell’istante miracoloso: i vortici acquatici avvolsero il corpo del demone e quando il mago pronunciò le ultime parole del rito di sigillo, il silenzio sovrastò il fragore della battaglia.
«
Lbybeehus bfy Wxeihxhis!».
La creatura gemette sofferente ma non riuscì a resistere a quell’ennesimo richiamo dell’evocatore che lo attirò a sé sfruttando l’energia che celava ancora la pietra. Provò a battere le ali ancora un paio di volte ma il riflesso azzurrino che le contraddistingueva, si espanse per tutto il corpo squamoso e in poco tempo ne inibì ogni movimento, ogni potere. Secondi di lamenti, di forza e pura magia, poi finalmente le acque tornarono sulla superficie dell’oceano, la nebbia tornò a velare anche gli squarci causati dal fendente di Golden e il crepitio delle fiamme echeggiò dalle orecchie dei presenti all’orizzonte. Il mago aveva il fiatone ma era cosciente, l’unica cosa chiara nel suo volto era un sorriso compiaciuto che allo spadaccino non piacque al punto che lo spinse ad avanzare verso il ragazzo alzandolo dal colletto con una mano.
«Dovrei staccarti la testa» inveì Golden in un primo momento, poi lo lasciò andare voltandosi verso Feras e Ruphis, quindi indicò la radura e l’orizzonte.
«Sono morti tutti, ce ne andiamo da qui o no?!» affermò furioso, l’arma che stringeva tra le mani sembrava renderlo più aggressivo del solito. Feras non aveva comunque intenzione di perdere tempo in quel luogo, altri soldati sarebbero potuti giungere e loro si erano ormai dichiarati una chiara minaccia per Vhiria e l’intero Horion. Raggiunse dunque i due grandi alberi al centro dell’imbarcazione spiegando ciò che rimaneva delle vele, tirò l’ancora e virò verso il mare lasciando che il vento favorevole li guidasse lontani da quella terra.

Superarono velocemente i relitti delle navi abbattute dal demone e passarono attraverso le fiamme galleggianti, immergendosi nella fitta nebbia che in quel luogo non avrebbe reso distinguibile il giorno dalla notte. Passarono alcune ore, nessuno seppe dire con certezza quante e tanto meno se nel cielo il sole avesse finalmente sostituito la luna. La barca era inghiottita nel buio più totale e se Feras era sicuro di stare intraprendendo la via corretta, lo doveva soltanto a Ruphis che seguiva le scie di Luthus più nette: le Terre Aride erano il luogo con la più alta concentrazione di Luthus corrotto dell’intero Saar, una vera tortura per un mago e chiaramente anche per un Drago Nano con l’olfatto più sviluppato del normale.
«Non è la prima volta che mi avvicino alle Terre Aride, ma non mi sono mai addentrato nelle profondità del suo deserto… Siamo ancora distanti, eppure posso già sentirne la corruzione» disse Ruphis svolazzando al fianco di Feras, mentre osservava fuori attraverso una finestra rotta.
«Ma tu sei cieco davvero?» chiese l’uomo inarcando un sopracciglio.
«Ti sorprende?» rispose il draghetto divertito ma prima che potesse continuare, una voce proveniente dalla cabina li allertò.
«È Golden» e sfrecciarono entrambi chiaramente preoccupati, le ultime vicende non avevano dato le basi per una navigazione propriamente tranquilla. Giunti, videro invece lo spadaccino felice di mostrare la bella Mera ridestarsi, per quanto ancora confusa e dolorante. La principessa di Kubara alzò il capo e riconobbe immediatamente il viso dei suoi amici, ritrovando serenità. Poi si fermò sullo sguardo criptico di Feras e fece come per prendere una freccia dalla faretra alle spalle che però non c’era.
«Scusatemi se non vi ho concesso di riposare armata, Altezza» commentò sarcastico l’uomo a quel gesto.
«Chi è?» chiese Mera a Golden mentre si rialzava.
«È a posto…» rispose il giovane senza voltarsi a guardarlo.
«Sentito? Sono a posto, dovreste fidarvi di me… visto che siete sulla MIA barca».
«Che cosa è successo? L’ultima cosa che ricordo sono le sporche mani di Firion che provano a toccarmi, è stato disgustoso».
Rimasero qualche minuto a raccontare ciò che Mera si era persa: la prigionia, la fuga, la lotta sul tetto del palazzo, la barca e l’evocazione del demone. Si soffermarono su quel particolare, sul fatto che fosse stato un mago a sciogliere e ripristinare il sigillo e che avesse affermato di provenire da Spell. Si riunirono tutti nella piccola cabina della barca mentre Carian continuava a riposare, quinsi Ruphis riaprì il discorso dell’evocazione e del mago:
«Allora, qual è il tuo nome e da dove vieni realmente? Non siamo nemici, non abbiamo nessuna intenzione di imprigionarti, solo sii sincero».
«I-il mio nome è Amel e come vi ho già detto vengo da Spell, l-la grande città dei maghi».
«Perché continui a mentire?!» sbottò Golden stringendo i pugni.
«Perché dovrei farlo? A dirla tutta non capisco perché continuate a non credermi!» rivelò il mago amareggiato, sembrava sinceramente confuso.
«La grande battaglia dei maghi ti dice nulla? L’Euvenia è stata distrutta in seguito a una guerra civile tra maghi tanto tempo fa, ciò che seguì fu la corruzione del Luthus, la fine di quelle terre e la nascita degli stregoni. Da quel giorno ogni mago ha cominciato a soffrire il Luthus finendo per morire o… abbracciare l’arte oscura» spiegò il Drago Nano che ricordava ancora quando ne aveva parlato con Liz, proprio a Spell.
Amel sgranò gli occhi, era davvero all’oscuro di quelle notizie, come se in vita avesse vissuto tutt’altre esperienze.
«Non… non è possibile».
«Spell è stata ricostruita sulle sue macerie ed è diventata la più grande biblioteca del Saar, custode di manufatti antichi e scritti che hanno centinaia di anni» continuò Ruphis.
«Allora… raccontaci la tua storia, cerchiamo di capire quello che è successo» intervenne Mera pensierosa, con qualche strana idea in testa.
«Io sono un semplice mago alla corte di Spell, uno dei sette mistici che si dedicano della creazione di prigioni demoniache. Abbiamo il compito di incantare determinati minerali e renderli vere e proprie celle magiche per creature demoniache, minori il più delle volte. La pietra azzurra che avete trovato era probabilmente una di quelle che il mio gruppo avrebbe dovuto presentare al Guardiano Arcano dopo i rituali».
«Guardiano Arcano?» ripeté tra sé e sé Ruphis confuso da quelle rivelazioni.
«Sì, i Guardiani Arcani sono le guide di Spell, coloro che tengono l’ordine dell’intero Continente. Comunque sia, ricordo un fragoroso terremoto che investì tutto il continente e il panico che si espanse velocemente nelle città. Poi il buio, fino al momento in cui mi ritrovai legato e senza forze nelle prigioni di Vhiria». Terremoti, maghi, rituali, Guardiani Arcani… il Drago Nano scosse il capo non riuscendo a centrare la questione, che quel mago venisse da un’altra epoca?
«Perché la gente si era lasciata prendere dal panico per un solo terremoto? È stato così terribile?» si intromise Carian che nel frattempo sembrava essersi ripresa. Golden corse a sincerarsi delle sue condizioni ma la fanciulla annuì con un sorriso lasciando intendere di stare bene, mentre Mera si limitò a concederle uno sguardo eloquente, avrebbe voluto parlarle a lungo ma per il momento si sarebbe dovuta accontentare di quello. Amel rimase sorpreso da quella domanda, effettivamente vi era una ragione precisa:
«Una profezia affermava che un giorno la terra avrebbe tremato in concomitanza al ritorno del Demone Supremo. Sapete, per molti decenni il mio mondo è stato dominato da una potente creatura immortale e imbattibile che teneva ogni continente in una morsa. Nessuno osava contrastarla e chi credeva di avere qualche chance, veniva disintegrato fisicamente e spiritualmente. Un giorno però, una donna, un’umana, era riuscita ad avvicinare il mostro. Nessuno seppe in che modo, se pacificamente o dopo una battaglia, in ogni caso era riuscita a stargli davanti senza cedere in preda ai dolori. Qualcuno diceva che il Demone se ne fosse innamorato, che avesse visto negli occhi di questa donna il potere che la luce ha sul mondo, più forte dell’oscurità, del buio, della notte più profonda. Qualsiasi fosse la verità, per diverso tempo il mondo sembrò riacquisire quella serenità che mancava ormai da troppo, e capirete che la paura di tornare agli anni bui ha reso la gente sensibile alle dicerie».
Ascoltarono tutti assorti quel racconto e lentamente la verità cominciava a rendersi più nitida, Carian tra tutti socchiuse gli occhi facendo scorrere nella sua mente le immagini della battaglia contro Liz e Seiri, contro i Cacciatori della Notte, la battaglia per cui Valerian aveva deciso di sacrificarsi. Poi tutto fu chiaro:
«Vieni da un altro tempo, il terremoto che ha investito la tua terra potrebbe essere…» - e si fermò un istante - «il rituale compiuto da Liz nella grotta di Nefilim» terminò, lasciando i presenti a bocca aperta.
«Vuoi dire che il varco aperto dalla strega crea un collegamento con il passato?» chiese Ruphis attento.
«Potrebbe essere, o magari è semplicemente… un altro Saar, una dimensione alternativa» rispose la giovane sfiorandosi la punta delle dita.
Feras si era intanto alzato per controllare la navigazione: non era ancora visibile nulla a causa della nebbia ma era possibile ammirare un fioco chiarore che sembrava far risplendere di luce propria la caligine: era giorno.
Il mago annuiva evidentemente d’accordo con le parole della ragazza dai capelli rossi, era l’unica spiegazione a ciò che gli era successo in quegli ultimi anni.
«Due anni fa Liz apriva il varco, è logico pensare che devono essersi scambiate alcune cose tra le epoche. Tu e la pietra siete finiti qui e Vhiria ti ha catturato, quindi anche lì deve essere finita qualcosa di questo mondo… Comunque sia, raccontaci un po’ del posto da dove vieni, potrebbe essere il nostro passato» disse Carian in un sorriso.
«Beh… Non sono mai stato un tipo che viaggia molto. In vita mia ho sempre servito i maghi, ma posso parlarvi dell’Euvenia, il mio continente. Spell è la grande città dei maghi, circondata da un’altissima cinta muraria costantemente sorvegliata. Il nostro è un popolo ricco di conoscenza e il palazzo al centro della città nasconde tanta magia da poter distruggere il mondo nelle mani sbagliate, per questo ci occupiamo della sua protezione prima di tutto. Siamo in contatto con la tribù a Nord, gli Azhari, con cui commerciamo manufatti e nuovi rituali per incantesimi o sigilli particolari».
«Azhari? Non c’è nulla di simile nei libri di storia» commentò Ruphis.
«Devo a loro la maggior parte della conoscenza magica che possiedo. È brava gente… se non viene minacciata» continuò Amel.
«Che cosa sono questi Azhari? Maghi?» chiese a quel punto Mera.
«Oh no, o almeno, non nel modo che intendete. Non sono umani ma più un tipo di… demoni, anche se non malvagi».
«Come possono essere “non malvagi” se sono demoni?» commentò sardonicamente Golden sotto lo sguardo ravvivato di Mera. Era proprio quello che lei aveva sperato fin da quando era partita per Vhiria, ciò che aveva alimentato la sua speranza di poter riabbracciare Valerian: i demoni potevano avere una ragione, una mente, una coscienza. Voleva crederci.
«Quindi questi Azhari vivono a Nord, in pratica nelle attuali Terre Aride» intervenne Ruphis ancora poco convinto.
«Non so nemmeno di cosa tu stia parlando» rispose il mago sinceramente.
«I nostri libri raccontano che il Nord fu il campo di battaglia finale della sfida fra il Re di Magrand e il rivoltoso Hanamir, la famosa guerra civile che portò all’estinzione del Luthus e dei maghi. Quel luogo ormai non è che una distesa di nulla, abitata da esseri ripugnanti soggetti al Luthus corrotto. Se in passato ci vivevano gli Azhari, perché non hanno fatto qualcosa per difendere le loro terre?» chiese infine Ruphis, sempre più convinto che quello che si celava “dall’altra parte” non fosse il passato.
«Si vede la costa, ci siamo ragazzi» si intromise a quel punto Feras attirando l’attenzione dei presenti. Golden gettò un’occhiata all’orizzonte attraverso il vetro frantumato della cabina, poi uscì sul ponte per sentire sulla propria pelle l’aria dell’Euvenia, per l’ennesima volta. Giunsero anche Ruphis, Carian, Amel e infine Mera che con il cuore in gola sentiva per la prima volta dopo due anni di essersi finalmente avvicinata di un piccolo passo a colui che l’aveva salvata.
«Spero solo che Tarus sappia nuotare» disse infine Golden contenendo una risata.
 

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Capitolo 10
*** Libera ***


libera

Niente più nebbia candida, adesso il sole filtrava attraverso una coltre di caligine dorata e azzurra, e illuminava una distesa apparentemente infinita di terra che al contrario dell’Horion e dei pressi di Vhiria, non mostrava neppure un filo d’erba. Era un deserto caldo e desolato, silenzioso e ventoso, il caldo afoso arroventava le rocce e mozzava i respiri. Il gruppo avanzò lasciandosi alle spalle l’imbarcazione, da lì in poi avrebbe dovuto proseguire a piedi attraverso un luogo inesplorato che pochi uomini al mondo avevano osato profanare: sembrava di essere nel vuoto, di avanzare in un percorso interminabile senza orizzonte, che si cibava di ogni passo, di ogni briciola di energia, di tutti i pensieri e i ricordi.
Durante l’attracco, Carian aveva raccontato al giovane mago il motivo che li aveva spinti a raggiungere Vhiria in cerca di una nave e il perché del loro bisogno di arrivare alle Terre Aride: provare a ricreare il varco tra le due dimensioni come aveva fatto Liz sfruttando il potere del grande Ebrion bianco leggendario per amplificare il potere latente nella gemma che custodiva. Fu a quel punto che Amel storse il naso, chiaramente sorpreso di vederla parlare senza problemi di una fantomatica gemma di Ebrion, dato che erano appena evasi da una prigione dopo essere stati spogliati di ogni equipaggiamento.
«E la pietra… è ancora in mano vostra?» chiese.
«Certamente, è qualcosa di troppo prezioso, non avrei mai permesso che qualcuno me la portasse via» rispose Carian sorridendo.
«E dov’è?» continuò il mago affascinato dall’energia arcana che quella donna emanava costantemente.
«Al sicuro in un altro luogo. Negli ultimi anni ho affinato la mia capacità di interagire con le anime e le menti delle persone ma soprattutto ho dedicato un anno allo studio della forza che è possibile catturare dal Luthus corrotto per piegare un’area infestata da esso» si sentiva bene a parlare con Amel, l’unico nel gruppo capace di ascoltare le sue parole e capire in qualche modo la grandezza di quanto stesse affermando.
«Questa non è magia, tu stessa hai detto che non è più possibile attingere al Luthus per controllare le forze naturali e poi… non sarebbe neppure quello stai dicendo. Piegare un’area? Non è la forza del vento immagino e neanche della terra… tu parli di dimensioni, varchi nel tempo».
«Proprio così, è un’arte nuova, possibile solo grazie all’essenza che il Luthus corrotto ha sviluppato nei decenni. In seguito alla grande guerra civile che ti raccontavamo, i maghi sono stati costretti a cercare un’altra fonte di energia per usare i loro poteri ed è così che è nata la Stregoneria: la pratica che permette di agire nella mente delle persone usando la forza vitale e non quella naturale» spiegò la fanciulla mentre continuava a camminare.
«Questo… questo è un potere demoniaco, da dove vengo io si teme quest’abilità, si evita, è… mortale per chi la pratica. Come è possibile che umani possano usarla? È qualcosa che nemmeno gli Azhari commercerebbero mai» Amel sembrò turbato da quelle rivelazioni ma non aveva intenzione di interrompere l’interlocutrice.
«È pura sopravvivenza, un mago deve sempre trovare una fonte di energia e finisce per adattarsi. Io… ho provato a sfruttare anche la corruzione del Luthus che adesso infesta il Saar e ho scoperto quest’altra pratica. La magia dunque, che usava il Luthus puro per manovrare le forze naturali, la stregoneria, che usa la vita per manovrare le volontà e… la magia Celeste che piega il cielo, la terra e il tempo per collegare epoche e luoghi distanti migliaia di chilometri».
Il mago era senza parole, quanto si era progredita la conoscenza magica nel mondo in cui era finito? E quanto avrebbe potuto portare vantaggio a una società che dall’arte spirituale era sempre stata timorosa? Non sembrò apprezzare quello studio così approfondito e arcano, così abusato, ma poteva che ammirare la forza e l’intelligenza della donna che da sola stava per mettere le mani su una conoscenza che avrebbe potuto cambiare un’era. Ruphis era lì vicino e aveva ascoltato tutto, per quanto il Luthus corrotto nell’area fosse forte e insostenibile per il suo olfatto sviluppato, cercava di non mostrarsi troppo affaticato per non far preoccupare il gruppo. Intervenne dunque a quel discorso e rabbrividì al nominar di colei che era riuscita ad assorbire il potere di tutte e quattro le gemme di Ebrion.
«Liz usava questa pratica, si spostava nello spazio-tempo. È questo tipo di magia che le ha permesso di aprire il varco per “l’altro mondo”, vero? Il potere delle gemme è semplicemente la chiave dei sigilli che tenevano chiuso il passaggio ma è la magia Celeste che ha permesso il trasporto…» capì a quel punto che la grande potenza della Strega del monte Metista proveniva dal Luthus corrotto stesso, quella sostanza che aveva sterminato i maghi e che avrebbe potuto crearne una nuova stirpe più potente e pericolosa.
«Sì, è quello che ho pensato. Non ci resta che raggiungere la grotta e scoprirlo con i nostri occhi» terminò Carian.
Mera seguiva il gruppo rimanendo un po’ più indietro, non aveva ancora avuto la possibilità di chiarirsi con Carian o con Golden dopo quello che era successo, non c’era tempo per rammarichi o sensi di colpa in quel contesto e ciò non faceva altro che alimentarlo. Non era afflitta però soltanto da quei pensieri ma se un tempo non avrebbe avuto problemi a parlarne con Ruphis, adesso preferiva tenere per sé le preoccupazioni per non appesantire ulteriormente il gruppo. Feras era lì vicino e notando il viso preoccupato della donna, le si avvicinò con passo felpato alle spalle.
«Qualcosa vi affligge?» chiese l’uomo facendola trasalire. Era strano come tra tutti, fosse proprio colui che non conosceva per niente a notare i suoi problemi.
«S-sto bene, non preoccuparti» - mentì - «piuttosto, perché sei ancora con noi?».
«Beh, Principessa, come ho già accennato nella mia barca, sono un cacciatore di tesori e a quanto ho potuto capire, la nostra meta è la leggendaria caverna di Alaphys. Sapete quanto possa valere una piuma di quel pennuto?» rispose Feras semplicemente, come se attraversare le Terre Aride fosse soltanto un piccolo intoppo.
«Hai la tua pietra, non ho visto l’evocazione del demone perché ero ancora senza sensi ma… Ruphis mi ha detto che Amel è riuscito e sigillarlo nuovamente. Non ti basta? Una gemma con dentro l’anima di un demone?» e a quella parola il volto di Valerian tornò tra i pensieri di Mera e altre immagini cominciarono a scorrere come un fiume in piena nella sua testa, come era già successo al castello di Vhiria.
«Vi sentite bene, Principessa?».
«Smettila di chiamarmi Principessa, ho perso quel titolo da quando sono fuggita da Kubara. Che cosa vuoi da me? Lasciami in pace!» sbottò la fanciulla allontanando l’interlocutore con una spinta, quindi si avviò verso il resto del gruppo con una mano tra i capelli, cercando di contenere quell’afflusso di pensieri prima che la potesse sopraffare. Quei fenomeni erano sempre più frequenti, ogni volta che cercava di ricordare le vicende che avevano preceduto il sacrificio di Valerian, finiva per cadere vittima di quelle immagini, pensieri e parole che rimbombavano nella sua testa come ricordi. Feras incrociò le braccia incuriosito e provò a seguirla nel manto ardente del deserto.
«Aspetta, non volevo essere scortese. Semplicemente mi eri sembrata pallida» le si rivolse dandole del tu per la prima volta, aveva capito che un titolo onorifico non valeva più nulla in quel contesto, neppure uno Reale.
Mera si morse un labbro per l’insistenza dell’uomo ma non poté far altro che fermarsi e rivolgergli nuovamente la parola:
«Chi sei?» chiese Mera secca.
Feras sgranò gli occhi sorpreso da quella domanda ma mantenendo il suo innato autocontrollo, si accinse a spiegare ciò che aveva già raccontato più volte, ma la ragazza lo anticipò:
«Non voglio sapere di come sei diventato un ladro o di come Vhiria sia riuscita a catturarti, o ancora di come tu e Carian siete scappati dalla cella… Voglio sapere da dove vieni, il colore dei tuoi capelli è particolare e negli ultimi due anni ho avuto molto tempo per leggere e studiare la geografia del Saar e la sua popolazione».
«C’è qualcosa che non va nel colore dei miei capelli? Eppure il riflesso dello smeraldo fa gola a molti. Io sono qualcuno che caccia per vivere, che siano bestie da mangiare o oggetti da barattare… ciò che viene prima, scusami se te lo dico, ma non sono affari tuoi. Adesso tutti voi avete un debito con me a causa del passaggio in barca e lo ripagherete. Chiaro dolcezza?» rispose lasciando Mera dubbiosa. La fanciulla si aspettava una risposta del genere ma non credeva che avrebbe subito sottolineato il fatto, in quel modo. In ogni caso, Feras sembrava qualcuno con le idee abbastanza chiare: se li stava seguendo fino alla grotta di Alaphys, allora cercava qualcosa in particolare che solo lì avrebbe potuto trovare.
Golden confabulava intanto con Ruphis riguardo il discorso di Carian, la magia Celeste spiegava a quel punto diversi interrogativi che la battaglia stessa contro Vhiria aveva creato:
«Io… io ho visto il Principe Firion muoversi attraverso il tempo. Un momento era sulla radura a decine di metri di distanza, l’istante dopo davanti a me con la sua arma puntata sul mio collo. È la magia Celeste che ha usato, sfruttando il Luthus corrotto. Firion però non era un mago, come è possibile?» chiese Golden esponendo all’amico i dubbi che lo assillavano.
«Probabilmente è a causa della spada, quella che adesso possiedi tu. È talmente piena di Luthus corrotto che potrebbe donare parte di un potere al suo utilizzatore che normalmente solo un mago riuscirebbe a utilizzare, o ancora meglio, forse è la spada stessa che ha permesso il trasporto, non l’abilità del Principe unita a quella dell’arma» rispose il Drago Nano da dietro una sorta di grossa sciarpa che gli copriva il volto e il naso, la maglia bianca smanicata che lo spadaccino gli aveva donato per proteggerlo dal puzzo di Luthus.
«In effetti ho notato come fosse completamente devastato dopo quel “trasporto”, deve essere come hai detto» e sfiorò l’elsa della spada che teneva legata alla cintura, tra l’euforia e l’angoscia di possedere un’arma tanto potente quanto pericolosa e il ricordo della spada che a Vhiria gli avevano portato via.
Il percorso in quell’arido deserto si stava rivelando duro ma possibile, non si era ancora presentata nessuna delle strane creature che i libri rappresentavano come enormi esseri informi capaci di enormi abilità fisiche e spirituali. Carian seguiva la via verso Nord, aveva studiato attentamente la posizione della grotta e sebbene la visibilità fosse limitata, non sembrava avere problemi a orientarsi. Nel gruppo rimaneva del malcontento però, la scomparsa di Tarus era un problema e per quanto il piccolo Phylis si fosse dimostrato utile in più di una circostanza, rimaneva un’incognita pericolosa senza una stretta sorveglianza. Voleva soltanto rivedere Liz, avrebbe fatto di tutto pur di raggiungere “l’altro mondo” e l’idea di non poterlo tenere d’occhio non rassicurava i presenti, soprattutto chi aveva ormai imparato a conoscerlo al meglio. Golden ci scherzava comunque su, non lo aveva mai visto di buon occhio e il pensiero di considerarlo ormai ucciso dagli uomini di Firion gli strappò più di una volta un sorriso. Stranamente neppure Mera si mostrava preoccupata per lui: avevano vissuto insieme per un periodo e Tarus le aveva insegnato tutto ciò che conosceva della caccia e del tiro con l’arco. Per quanto fosse inaffidabile e irrispettoso, gli doveva comunque molto.

Passò in quel modo circa un’ora e la stanchezza e la sete cominciavano a pesare sul gruppo. In particolare Ruphis iniziò a dare segni di cedimento, il Luthus corrotto nell’aria lo stava logorando.
«Non possiamo accamparci, è troppo pericoloso. Dobbiamo raggiungere la grotta al più presto» disse Carian cercando di rimanere risoluta, sapeva che l’amico non avrebbe retto ancora a lungo ma aveva ragione: fermarsi li avrebbe condannati a morte.
«Fermi tutti! Ci siamo, sento una presenza avvicinarsi…» rivelò Amel voltandosi repentinamente verso destra. Carian chiuse gli occhi e lo stesso fece Ruphis cercando di tenere a bada la tosse.
«E-era questione di tempo prima che le Terre Aride si accorgessero di noi…» disse a bassa voce il Drago Nano mentre Golden estraeva la spada appartenuta al Principe di Vhiria e Mera si metteva in allerta. Nell’aria vi era il solo suono del vento che portava con sé la sabbia infuocata del deserto, non un intruso, non un'altra nota osava disturbare la melodia armoniosa di un ambiente che aveva raggiunto la sua perfezione nella rovina. Poi la videro: un’ombra varcò il cielo velato dalla nebbia azzurrina, ovunque in quel luogo, e un potente battito d’ali creò una ventata che innalzò una gran quantità di sabbia. Il gruppo si portò un braccio a coprirsi gli occhi e prima che potesse tornare a vedere, si ritrovarono con la faccia al suolo e i caldi granelli del deserto in bocca. Golden strinse i denti e con un agile movimento tornò ritto vorticando la spada tra le mani: cercava la creatura.
«State tutti bene?» disse senza distogliere lo sguardo dal cielo.
A quel punto Feras balzò sullo spadaccino salvandolo da un’artigliata micidiale, Golden poté sentirne il sibilo passargli a pochi centimetri da un orecchio.
«Fai attenzione, idiota» disse Feras mentre estraeva una freccia da uno dei suoi stivali adornati con una splendida pietra verde. Quindi la incoccò nel suo arco e mirò verso un punto indefinito del cielo velato dal Luthus corrotto.
«C-che cosa stai facendo?» chiese Golden incredulo.
L’uomo lasciò la corda e la freccia perforò quel velo di nebbia azzurra dietro cui si celava la creatura, che venne colpita all’ala destra. Planò al suolo gemendo e Feras la indicò agli altri.
«Come sapevi dove si trovasse?».
«Sono un cacciatore, se non riuscissi a colpire rapaci grossi come quelli, morirei di fame» rispose ironicamente l’arciere, quindi afferrò la mano di Mera aiutandola ad alzarsi e corse attraverso il deserto. La creatura si mostrò in tutta la sua grandezza: era una sorta di leone alato con artigli lunghi almeno mezzo metro. Il suo manto era dorato, così come la sabbia su cui poggiava adesso le zampe, ed emanava un’energia azzurra a testimonianza del fatto che aveva subito delle mutazioni a causa del Luthus corrotto. Amel deglutì ed era pallido, quel luogo era per lui una tortura, non avrebbe potuto usare alcun incantesimo. Carian, Golden, Feras e Mera si misero invece in posizione pronti a combattere.
«Mirate alle ali, se riprende a volare sarà impossibile batterlo» ordinò Feras mentre estraeva un’altra freccia dall’altro stivale.
«Una faretra piena sarebbe stata più utile» commentò acida Mera osservando le armi del compagno.
«Porto con me le armi necessarie, abbondare sarebbe uno spreco» e puntò l’arco. La creatura si era intanto ripresa e con un ruggito che echeggiò per tutte le Terre Aride, alzò un tormenta di sabbia. Quindi balzò in avanti ed effettuò un’artigliata verso Mera che riuscì istintivamente a schivare movendosi verso il basso. Golden sfruttò il momento per infilzare la zampa del mostro e vide il suo sangue schizzargli sulla maglia bianca. Il leone accusò l’attacco ma con un colpo d’ala allontanò violentemente lo spadaccino.
«Fatelo restare fermo!» gridò Feras mentre cercava di mirare a un punto vitale. Il mostro non aveva intenzione di collaborare e con un altro ruggito creò un’onda d’urto che sbalzò a diversi metri l’arciere e la sua arma. Quindi batté le ali cercando di riprendere il volo e dopo aver ferito Golden con un’artigliata, concentrò una gran quantità di Luthus tra le fauci. Carian se ne accorse e congiungendo le mani, provò a giocare ogni carta.
Feras cercava intanto di alzarsi ma il vento era troppo forte.
«M-maledizione…» riuscì a dire immerso nella sabbia.
Ancora in piedi e in forze però, Mera riuscì a raggiungere il punto in cui era stato scaraventato Feras e raccolse il suo l’arco finito nel deserto.
«Dov’è la freccia?!» gridò per farsi sentire.
«S-sarà ormai sepolta…» disse l’uomo scuotendo il capo.
La fanciulla si guardò intorno ma ritrovare sia arco che freccia nel bel mezzo di una tormenta sarebbe stato troppo, dunque concluse per l’unica soluzione: osservò il grosso leone alato e avvistò la prima freccia scoccata da Feras, conficcata sull’ala.
«Carian, la freccia sull’ala, mi serve la freccia sull’ala!» gridò sperando che l’amica la sentisse. La Strega Celeste annuì e puntò le mani sul dardo scaricando l’ormai celebre energia azzurrina che fece vibrare il Luthus nell’aria. La freccia comparve magicamente tra le mani di Mera che sorridendo la incoccò senza pensarci, mirando al mostro.
«Che punto?!» chiese a Feras con il cuore palpitante.
«Mira al cuore!» rispose l’uomo che ormai non poteva che sperare in quella ragazzina.
Mera chiuse per un attimo gli occhi, sospirò sentendo sulla propria pelle l’aria calda del deserto, isolò ogni suono portato dalla tormenta e scoccò rimostrando il suo profondo sguardo marino.
Il leone aveva intanto creato una sfera di energia pronta ad essere lanciata ma la freccia sfidò i secondi per giungere in tempo e contro il vento, gli istanti e la paura di sbagliare, la punta si conficcò sul petto del felino che ruggì di dolore lasciando andare tutte le energie accumulate che inondarono il vento e parte del Luthus di quella zona, permettendo al sole di mostrarsi nel cielo per un momento libero. Feras sorrise, Carian cercò lo sguardo dell’amica e Mera sentì finalmente il suo animo caricarsi di nuova tensione, stavolta tutta da sfruttare. Nessuno strano ricordo, in quel momento era lei e soltanto lei, la Mera cacciatrice lontana dagli O’shiel, dal castello e anche da Valerian.


 

 



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Capitolo 11
*** La sala di Alaphys ***


La sala di Alaphys

Le Terre Aride erano il luogo più inospitale dell’intero Saar. Le storie, le leggende che si tramandavano da decenni, le creature che le infestavano, il potere rivelato del Luthus corrotto, erano elementi che avrebbero scoraggiato ogni avventuriere, ogni viaggiatore e qualunque marinaio che avesse avuto la sfortuna di imbattersi in quelle sabbie per un crudele scherzo del vento. Mera era però sorridente e soddisfatta, non si tirava indietro al pericoloso calore di quel sole e stringendo con una mano l’arco che teneva su una spalla, ripensava all’istante in cui aveva lasciato la corda per permettere alla freccia di lacerare il colore azzurrino della nebbia e perforare il cuore del mostro. Era tornata in pace con se stessa, sapeva di poter finalmente contare sulle proprie forze e forse per la prima volta, sentiva di poter realmente essere utile in quel viaggio verso chissà quale mondo. Carian guidava il passo del gruppo orientandosi con le sue capacità e per quanto il cammino si stesse rivelando atroce, la sete non attanagliò le gole dei presenti, come se qualcosa nell’aria gli stesse permettendo di non cedere al manto di sabbia ardente, per continuare ad avanzare verso una direzione che sembrava quella giusta. Dovevano essere passate circa tre ore e finalmente, tra la strana nebbia e la sabbia che veniva innalzata lentamente dal vento, si rese visibile una grotta, alta e oscura e dimenticata dal mondo, circondata da un’energia tanto potente e influente, che sembrava poter respingere qualsiasi presenza. Carian fece cenno agli altri di fermarsi, era consapevole di essere di fronte alla leggendaria grotta di Alaphys, e soltanto l’idea di poter davvero sfruttare l’energia della madre di tutti gli Ebrion, la faceva tremare, e per un attimo esitò.
«Tutto bene?» le chiese Golden vedendola di colpo impallidire.
«Benissimo, non preoccuparti. State indietro» rispose sospirando.
Il gruppo obbedì e la “Strega Celeste” allargò le braccia, provando ad ascoltare le forze e le anime che si aggiravano per quel luogo, talmente numerose ed evidenti che perfino Mera, che non possedeva alcuna conoscenza magica, poté percepirne la presenza. Carian chiuse gli occhi e concentrò la propria energia per creare un collegamento con quella del Luthus corrotto che la circondava, il suo obbiettivo era probabilmente quello di creare un varco che li trasportasse direttamente all’interno della grotta senza passare per l’entrata, ben protetta e sorvegliata da spiriti che di umano non avevano nulla. A differenza di quando si trovava al castello, in quel luogo avrebbe avuto una fonte illimitata di Luthus da sfruttare per poter spostare tutto il gruppo, o almeno così sperava. Una forza azzurra si raggruppò dunque sopra Carian, che intanto stringeva i denti percorsa da fitte che le stavano logorando corpo e mente.
«Carian!» la chiamò il fratello, che non appena fece un passo verso di lei, venne scagliato violentemente sulla sabbia del deserto diversi metri all’indietro. Feras osservava incuriosito con le braccia conserte, mentre Mera lottava contro la voglia di intervenire.
«Non avvicinatevi!» ribadì Carian che aveva intanto alzato intorno a sé un tornado di sabbia. A quel punto, dei fumi neri vennero sprigionati dalla ragazza e velocemente sembrarono prendere possesso dell’aria stessa del luogo, come un parassita bisognoso di energia, di vita, che in breve assimila tutta la forza dell’ospite e lo rende un inutile recipiente senza più volontà.
«Adesso!».
Un muro invisibile che divideva l’entrata della caverna al resto delle Terre Aride, venne incrinato irrimediabilmente e quando Carian puntò i palmi delle mani verso di esso, il suono di un vetro che si infrangeva riecheggiò per tutta l’Euvenia. La ragazza fece dunque cenno al gruppo di entrare e in pochi attimi, si ritrovarono tutti con alle spalle una schiera di strani esseri alati che gridavano lacerando l’aria colma di forza, infranta dall’abilità della potente e particolare strega.
«Stanno entrando anche loro!» fece notare Golden stringendo l’elsa della spada appartenuta a Firion, ma Carian annuì tranquilla e allungò le braccia verso le Terre Aride e i mostri che si stavano insinuando nell’apertura del “muro”. Una luce bianca investì i presenti e quella che sembrava essere una gemma argentata comparve tra le mani della fanciulla, che sentì la propria energia tornare alta e potente.
«Non andrete oltre!» esclamò rivolgendosi alle creature e insieme alle sue parole, esplosero anche delle particolari onde d’urto azzurre su cui si schiantarono gli esseri alati. Lo stesso potere andò poi a riparare il varco aperto dalla donna, ripristinando il muro che teneva al sicuro la purezza di quella grotta. Il silenzio si impadronì a quel punto dell’area, i versi agghiaccianti degli esseri alati erano scomparsi e il melodico suono del vento che trasportava nel suo scorrere i granelli infetti del deserto, era sparito lasciando spazio a un’assordante e tacita quiete che non riusciva proprio a farsi apprezzare. Amel sentì intanto la propria energia tornare, quella grotta era come divisa dal resto del mondo, come se si trovasse in una sorta di realtà parallela indipendente dal normale scorrere del tempo e dunque, teneva lontano anche il terribile puzzo del Luthus corrotto tanto odiato dal mago. Proprio lui si avvicinò alla fanciulla dai lunghi capelli rossi e rimase a osservare la gemma dal riflesso particolare che continuava a brillare, producendo costantemente nuova energia.
«È quella la gemma di cui parlavi, l’hai evocata» disse Amel serio in viso, mentre Carian se la rideva compiaciuta, consapevole di aver appena fatto un gran lavoro.
«Tempo fa ero già capace di qualche incantesimo di teletrasporto ma questa è tutt’altra storia. Passare da un luogo conosciuto a un altro è qualcosa di già grandioso ma creare una dimensione alternativa che non esiste e passare da quella alla realtà con la propria energia…» rispose più a se stessa che all’interlocutore, facendo intuire come la gemma fosse custodita in un luogo che mai nessuno a parte lei avrebbe potuto raggiungere.
«È strano, tutte queste facoltà mistiche sarebbero immediatamente bandite da dove vengo io. Sono troppo pericolose, anche tu potresti diventare un flagello per il mondo e ne sei consapevole» continuò cupo il mago che più comprendeva il potere che celava quella donna, più la temeva.
«La magia non è semplicemente il saper controllare gli elementi naturali, la nascita della stregoneria era soltanto questione di tempo, così come quella della magia Celeste. Tutta questa conoscenza deve essere tutelata, indirizzata, non proibita. Tu più di tutti dovresti capirmi, tu che capisci di cosa parlo dovresti essere d’accordo con me».
«La magia è pericolosa e fa gola a troppi uomini» ribatté ancora Amel.
«No, sono gli uomini a essere pericolosi ma purtroppo loro non possono essere proibiti».
Con quelle parole, Carian riprese la testa del gruppo e stringendo la gemma tra le mani, invitò i presenti a seguirla verso il cuore di quell’oscuro covo di misteri.
La grotta era peculiare, l’illuminazione al suo interno non proveniva dal sole cocente all’esterno, ma erano le piante azzurre che fuoriuscivano dalla roccia umida a creare un chiarore che permetteva al gruppo di vedere qualcosa. Lo spettacolo che gli si presentò davanti era splendido: il terreno di terra e pietra su cui i viaggiatori stavano camminando, lasciò il posto a un luminoso manto erboso, e se non fosse stato per il rumore delle pozzanghere che venivano calpestate, Ruphis avrebbe potuto giurare di aver sentito il guaito di un qualche animale. Carian era estasiata da quell’ambiente, non riusciva a credere come nelle Terre Aride potesse esistere un luogo con tutta quella vita, con un’energia positiva nell’aria che lentamente stava risanando tutte le ferite dei presenti. Non era difficile immaginare il motivo, se davvero si trovavano nel covo della madre di tutti gli Ebrion bianchi, stavano per incontrare colei che la giovinezza, la forza e il benessere, li rappresentava più di qualsiasi altra cosa. Ruphis annusava invece le varie piante e fiori che si presentavano davanti e gli sembrò per un istante di poter immaginare in quale vortice di colori fosse finito. Tonalità di rosso, di verde, di blu e di azzurro proiettavano il loro chiarore sulle pareti, ed erano solo alcune delle bellezza che quella caverna, improvvisamente così lontana dal deserto delle Terre Aride, stava offrendo. Proprio quando però quel sogno a occhi aperti aveva ormai conquistato l’attenzione di tutti i presenti, un verso lancinante crepò le pareti e piegò in ginocchio i sei “estranei”.
«Questo… questo era il verso di un Ebrion» commentò Ruphis intontito.
Carian sorrise. Quella era la dimostrazione che il potere del sacro rapace dell’eterno vigore era vivo e più forte che mai. Si rialzò a fatica tenendosi le orecchie sanguinanti ed espandendo nell’area un’energia candida e ristoratrice, curò i malesseri dei compagni.
«Ci siamo quasi, forza!».
Gli spifferi d’aria che arrivavano dal fondo delle insenature della caverna erano gelidi e insopportabili, bizzarro  ripensando al contesto desertico all’esterno di quel luogo, anche se la potente barriera che Carian dovette infrangere per entrare la diceva lunga sulla vera posizione geografica e temporale di quei cunicoli. Erano ormai ore che avevano cominciato il cammino in direzione del cuore della caverna e sebbene l’energia nell’aria si rendeva sempre più palpabile, non si udirono altri strani versi. Carian si fermò però d’un tratto quando percepì sulla propria pelle uno strano velo di magia che la mise immediatamente in allerta. Con un cenno della mano arrestò dunque i suoi compagni e chinandosi sulle ginocchia, sfiorò la pietra di cui era formato quel passaggio che sembrava scendere sotto il deserto.
«Ci stiamo avvicinando alla fonte di energia che ho continuato a percepire per tutto il percorso…» bisbigliò la ragazza con la paura di essere sentita da qualsiasi cosa si celasse oltre quell’oscurità.
Amel annuì tranquillizzandola e con gli altri al seguito, riprese a camminare, giungendo infine a un’ampia sala circolare scavata nella roccia, con al centro una sorta di altare che illuminava di azzurro l’area.
«È incredibile» esclamò il mago, estasiato da quel colore così chiaro e puro che sembrava poter ridare vitalità al suo corpo affaticato dall’aria corrotta. Eppure non era piacere quello che stava sentendo scorrere nel corpo, quanto più una flebile brezza di Luthus che lo costrinse in breve tempo al suolo. Anche Ruphis smise di volteggiare, intontito dal forte odore della sostanza di cui le Terre Aride erano colme.
«Ehi, state bene?» chiese Carian perplessa. Da quando erano entrati nella grotta e lei aveva risanato la barriera, il Luthus corrotto sembrava essersi notevolmente ridotto, eppure i due più vulnerabili ai suoi effetti nocivi, erano già alle strette. Mera si avvicinò al Drago Nano preoccupata e accarezzandogli il manto squamoso, cercò di tranquillizzarlo.
«Ce ne andremo presto… cerca di resistere».
Ma colui che sembrava soffrire maggiormente a quel punto era il mago, che non era mai stato preparato a nulla di simile.
«Ti è stato detto: nel nostro mondo il Luthus corrotto ha estinto i maghi. Questo non potrà mai essere il tuo posto» gli ricordò Golden con un mezzo sorrisetto: proprio non riusciva a celare il suo odio verso i maghi.
«Tacete in po’?!» intervenne Feras improvvisamente, quando l’altare cominciò a brillare e una voce bassa e roca cominciò a espandersi nella sala.

«Troppi anni che qualcuno non penetra la barriera, troppi anni che questa grotta non viene lesionata dal veleno del Luthus corrotto. Come avete osato profanare un luogo così sacro? Come avete osato portare qui dentro il male?!».

A Carian gelò il sangue, a chi poteva appartenere la voce di un uomo in un luogo che mai nessuno aveva osato avvicinare? La ragazza strinse però i pugni provando a rispondere, cercando di nascondere il timore di poter peggiorare una già delicata situazione.
«Siamo qui soltanto per ristabilire l’ordine delle cose. Non avremmo mai osato intaccare questo luogo sacro senza una ragione importante».

«Ragione importante? Chi siete? Di cosa state parlando?».

Amel era estasiato da quella situazione, la compagna stava parlando con qualcosa vissuta in quella caverna inghiottita nelle profondità della magia.
«Circa due anni fa, una strega ha aperto un varco tra due dimensioni che pensiamo possa aver causato delle anomalie in entrambi i mondi. Vorremmo soltanto un po’ di energia di Alaphys per riaprire il varco e sistemare le cose» disse sinceramente la ragazza, sperando nella misericordia di quell’entità che si faceva sempre più influente. La sua energia si rese percepibile e le pareti della caverna cominciarono a tremare.

«Una… S-strega?»

La caverna venne smossa da un pericoloso terremoto e tutti i presenti vennero scaraventati alla parete da un’improvvisa energia esplosa dall’altare. La fanciulla strinse i denti e cercò di scrutare oltre quella ventata insostenibile, e vide una sfera crearsi al centro della sala circolare.
«Aspetta, ti prego, vogliamo soltanto aiutare i maghi a riconquistare il loro vero potere!» disse disperata Carian, credendo di aver capito con chi avesse a che fare. La sfera di energia azzurra diminuì l’intensità del potere sprigionato e la figura spiritica di un uomo apparve dinnanzi al gruppo. Era un’entità intangibile, incolore, con quella che un tempo doveva essere una scintillante armatura con il simbolo di una gemma, e un lungo bastone con incastonata una pietra. Il viso era giovane e forte, il suo sguardo incuteva timore e i presenti sentirono il bisogno di abbassare lo sguardo per non finire investiti da quella luce devastante.

«Maghi? Che ne sai tu dei maghi? Ormai sono morti tutti, ormai non c’è più speranza».

Amel alzò lo sguardo sofferente e chiaramente si sentì chiamato in causa. Aveva conosciuto la stregoneria in modo diverso rispetto a chi era vissuto nell’epoca che seguì la guerra civile dei maghi, ma era abbastanza per comprendere quanto fosse maledetta. Carian lo vide e si rialzò, prendendo nuovamente la parola:
«C’è un mago con noi, un mago che soffre come voi la presenza del Luthus corrotto. Mentre io non mi considero una maga, ma neanche una strega. Sono qualcosa di diverso che si è adattata al mutamento dell’energia che un tempo rendeva forti e fieri i maghi. Arawyn, siamo qui per ridare onore alla magia e per distruggere chi ha contribuito a sporcarla…».
Arawyn Merhel, colui che aveva attraversato la caverna di Alaphys ed era riuscito a raccontarlo. Erano passati decenni da quel giorno, troppi eventi erano accaduti, troppe guerre erano state combattute, eppure era lì, come un’anima pura e immortale pronta a difendere il nome di quel potere mistico e sacro che era la magia.
L’entità titubò a quelle parole, riusciva a scorgere verità nell’animo virtuoso della fanciulla dai capelli rossi che aveva davanti, eppure non riusciva ancora a fidarsi.
Carian non aveva raccontato la storia di Valerian, qualcuno che aveva salvato il Saar dalla distruzione ma che rimaneva comunque un demone, esseri che utilizzavano la stregoneria da ancora prima che i maghi la scoprissero.
Arawyn si avvicinò dunque al viso della fanciulla e ne lesse lo spirito penetrando nel suo sguardo. Riuscì a guardare direttamente la sua abilità magica, il suo rapporto con la conoscenza mistica e si voltò soddisfatto, forse pronto a lasciarli passare.

«Le tue parole nascondono verità, anche se non mi hai detto tutto. È però troppo tempo che attendo qualcuno capace di continuare ciò che avevo cominciato, qualcuno che sappia trattare la magia con la giusta considerazione. Vi concederò parte del potere di Alaphys ma prima dovrò ripulirvi dal Luthus corrotto che avete assunto fuori da questa grotta».

Ruphys e Amel sorrisero, non avrebbero chiesto di meglio, mentre Mera e Feras rimasero in disparte, leggermente turbati dalle parole di Carian e Arawyn. Mera in particolare, che fino ad allora aveva soltanto sentito i racconti del periodo passato come Naos Echel, non riusciva a credere a quanto la magia potesse essere vasta, potente e pericolosa. Solo in quel momento riuscì a immaginare la pioggia di fuoco caduta su Vhera durante la guerra, o l’esplosione che aveva disintegrato Water-Lock.

Arawyn alzò allora le braccia verso l’alto, lasciandosi illuminare da una forza bianca proveniente dalle pareti della grotta che avvolse i presenti come una coperta calda e rassicurante. Per un paio di minuti il silenzio divenne il padrone di quei cunicoli e la terra venne smossa dalla potenza della vita che Arawyn stava richiamando da Alaphys. D’un tratto però, un’altra luce dalla sfumatura leggermente celeste, andò a contrastare quella candida del sacro rapace e in breve tempo, nella sala venne sprigionata un’onda d’urto che interruppe quel rituale. Carian e Amel si guardarono intorno cercando di capire cosa fosse successo mentre Arawyn sgranò gli occhi vitrei nel momento in cui capì da dove provenisse tanta energia.

«No… voi mi avete ingannato».

Carian seguì il suo sguardo e allora capì anche lei: la spada di Golden, la stessa appartenuta al principe di Vhiria, si stava ribellando a quel potere di purificazione. Golden comprese immediatamente la situazione ma per quando provasse a liberarsi dell’arma, questa continuava a rilasciare un’energia che stava letteralmente facendo a pezzi la grotta.

«Non avrei dovuto fidarmi, fuori! Fuori da questo luogo sacro!».

Lo spadaccino strinse i denti logorato da quella luce: il fianco su cui era legata la lama stava bruciando e anche il braccio sinistro finì avvolto da quel fuoco inarrestabile.
«Carian ti prego, aiutami!» gridò finendo con le spalle su una parete, mentre lacrime di dolore gli rigarono il viso. Intanto Arawyn, che congiunse i palmi delle mani creando una sfera azzurra indirizzata a Golden, rendeva vani gli attacchi di Mera e Feras che sembravano passargli attraverso; Amel e Ruphis erano totalmente fuori gioco e Carian provò a far ragionare l’anima nel potente mago.
«Arawyn ti prego, è la spada il nostro nemico. È stata forgiata con Luthus corrotto, mira solo a quella!».

«Basta, FUORI DALLA MIA GROTTA!».

La sfera fu lanciata ma l’impatto devastante che la giovane ragazza si aspettava non avvenne: sembrava che l’energia scaturita dalla spada avesse davvero indebolito e intaccato quel luogo sacro.
«Non mi resta che…» disse tra sé e sé Carian osservando quel vortice di poteri contrastanti.
«È inutile Arawyn, non hai abbastanza forza per contrastare il Luthus corrotto!».
L’anima si piegò in due, impaurita dalla possibilità di perdere l’eternità a cui era riuscita a legarsi, e volando fin sopra l’altare al centro della sala, congiunse le mani davanti il petto, pronunciando poche ma significative parole di preghiera.

«Alaphys, proteggi la sacra purezza del mio cuore, come io ho protetto la celestialità del tuo nome. Rendimi la forza di scacciare la distruzione con la creazione, donami la capacità di volare sopra l’umana corruzione».

Fu un attimo ma Carian riuscì a vederle: due enormi ali piumate comparvero sulle spalle dell’entità eterea e l’intera area fu attraversata da una strana sensazione di benessere, di ritrovata vitalità. La potenza della spada sembrò placarsi e anche Amel e Ruphis riacquistarono colore, ma tutto ciò grazie anche alla ”Strega Celeste” i cui occhi divennero rossi, la pelle più scura e anche sulle sue spalle, due ali bianche la sollevarono da terra.
«Che diamine…» riuscì a dire Golden sul punto di perdere i sensi.
Poi parlò proprio Carian, in quella strana forma, stringendo in entrambe le mani due gemme attraversate dai colori dei quattro tipi di Ebrion.

«E sarà grazie alla forza che hai evocato di Alaphys che io sfrutterò il Luthus corrotto della lama di Vhiria…» disse Carian facendo riecheggiare quelle parole per tutta la caverna.

«Che cosa hai fatto, demone? Corrompendo Alaphys, hai compromesso tutto il mondo!».

Le gemme brillarono e sopra l’altare, un vortice di luci d’oro, nere, bianche e rosse, aprì un piccolo portale. Poi un’esplosione e tutto fu buio.

 

 

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Capitolo 12
*** Strano risveglio ***


parte 2

Era vento ciò che sentiva scorrere lentamente sopra la sua testa, non poteva essere altro con quell’ululare tipico che accompagna il movimento delle fronde degli alberi e il loro verde danzare fatto risplendere dal sole. Sentì un dolore alla testa e istintivamente si portò una mano dietro la nuca per verificare che fosse ancora tutta intera. Percepì il calore del sangue e rabbrividì quando pensò a quanto potesse essere grave. Non riusciva ancora a muoversi, per quanto provasse a spostare anche l’altro braccio, l’unica cosa che otteneva erano altri acuti dolori che le pervadevano la schiena. Poi un urlo, un verso agghiacciante, spaventoso, che fece volare via gli uccelli che si erano comodamente rannicchiati sui rami degli alti fusti presenti. La ragazza aprì a quel punto gli occhi, senza pensare a cosa stesse facendo prima di risvegliarsi in quel modo, senza riflettere sul perché si trovasse in quella selva e senza porsi alcuna domanda. Riuscì ad alzarsi stringendo i denti e soffocando le grida di dolore ma quando puntò i suoi occhi marini verso la direzione da cui sembrava essere provenuto il verso, sembrò trovare la forza di incamminarsi dalla parte opposta. Mera era da sola, con il passare dei minuti collegò gli ultimi ricordi e tornò al momento in cui Carian si sollevava da terra in un aspetto mostruoso e recitava alcune parole prima che l’intera sala di Alaphys finisse avvolta da quel bagliore devastante. Scosse la testa confusa, poi si guardò le mani sporche di sangue e ricordò della ferita alla nuca che doveva essere medicata. La foresta era però fitta e intricata e per quanto in alto il sole riuscisse a far filtrare qualche raggio, il fogliame oscurava la maggior parte del luogo. Non vedeva soluzione, ma soprattutto non riusciva a spiegarsi l’accaduto: un incantesimo di teletraporto?
Poi ancora quel verso e stavolta più vicino, più acuto, tanto che la ragazza sembrò riuscire a sentire sulla propria pelle l’aria spostarsi. Doveva uscire alla svelta da quel luogo, prima che la vista le si appannasse più di quanto non lo fosse già. Si fermò d’un tratto ad un grosso masso incastrato tra due alberi massicci e si poggiò attendendo che la fastidiosa fitta alla testa passasse. Temporeggiando senza una cura però, quella ferita sarebbe peggiorata e la notte sopraggiunta.
«Chi è là?!» disse udendo un suono nel fogliame alla sua sinistra. Non aveva più neppure l’arco di Feras che aveva usato per sconfiggere il mostro delle Terre Aride, era totalmente disarmata e indifesa, ferita e stanca e più di ogni altra cosa confusa. Afferrò disperatamente un pietra abbastanza grossa e attese impaurita che ciò che si nascondesse venisse fuori. A quel punto un piccolo scoiattolo fece la sua comparsa osservando indispettito la figura che gli si parò davanti, per poi, senza restare un secondo di più, continuare la veloce fuga. Mera ebbe giusto un istante per tranquillizzarsi, poi un intero stormo di uccelli la investì e alcuni animali, che non aveva neppure mai visto, le passarono a fianco in corsa. Terminata quell’orda terribile, la fanciulla rialzò il viso leggermente graffiato dagli artigli dei volatili e vide gli occhi fiammeggianti di un essere che giunse volteggiando sulle sue grandi ali nere. Il suo corpo era quasi umano, aveva dei lunghi artigli da cui colava ancora del sangue e sul viso era possibile scorgere lo sguardo furioso di chi avrebbe trapassato da parte a parte qualsiasi intruso avesse visto nel suo territorio. Mera poggiò le spalle al masso chinandosi istantaneamente e si tappò la bocca per evitare che qualsiasi gemito potesse attirare la sua attenzione. Non aveva mai visto qualcosa del genere, ma dopo il mostro affrontato nelle Terre Aride poteva ormai aspettarsi davvero di tutto. Si guardò velocemente intorno cercando una soluzione e di non pensare alle ferite ma in quei pochi secondi riuscì soltanto a farsi pervadere dalla paura. Non aveva i mezzi né le forze per combattere, non rimaneva che scappare come gli animali che l’avevano anticipata. Tirò un profondo sospiro e senza voltarsi cominciò a correre seguendo lo stormo di uccelli passato prima, allertando la creatura che si lasciò vincere da un inquietante sorriso. Proprio questa spiegò dunque le possenti ali scure e si alzò in volo tra il fogliame.
«D-dove sono finita?!» gridava Mera mentre zoppicava verso un luogo che fosse quanto più lontano possibile da quell’essere alato. Superò un altro albero, saltò delle radici e quando si fermò improvvisamente in prossimità di un altissimo precipizio, fu costretta a voltarsi e incontrare nuovamente quegli occhi fiammeggianti che non l’avevano mai persa di vista. La creatura l’afferrò per il collo sollevandola da terra e avvicinandola a sé, annusò i suoi capelli sporchi di sangue.

«La forza dei Cacciatori e l’abilità degli antichi maghi. Da dove arrivi, straniera? Chi sei?»

La lasciò andare pronunciando quelle parole, poi indietreggiò attendendo che la fanciulla rispondesse a quella domanda. Mera non riusciva a crederci, cadde in ginocchio portandosi una mano alla gola tossendo, poi alzò il viso cercando di capire se colui che aveva pronunciato quelle parole fosse effettivamente la creatura oscura.
«T-tu parli?» provò a dire, sentendosi immediatamente stupida.

«Rispondimi!» continuò.

Mera tremava in un misto di dolore e paura, non sapeva che cosa dire, come agire, se fosse effettivamente sveglia o se quello che stesse vivendo non fosse altro che un incubo dovuto magari all’eccessiva esposizione di Luthus nelle Terre Aride. Improvvisamente l’essere si voltò però verso Est attirato da qualcosa, e la ragazza guardò il fondo del precipizio cercando di capire se la pendenza non esattamente verticale potesse in qualche modo salvarle la vita. Non ebbe scelta, fece dunque un passo all’indietro e trattenendo il respiro si lasciò cadere lasciando interdetta la creatura. Rotolò per diversi metri tra rami e fogliame, sentì le proprie ossa scricchiolare e infine un dolore talmente lancinante che le fece perdere conoscenza.

 

Voci. Un brusio riecheggiava nell’area e sullo sfondo un ritmico e familiare suono accompagnava quel tacito chiasso, un frastuono che riconcesse immagini e ricordi a una mente che per attimi interminabili era caduta nel buio. Era la pioggia che scendeva veloce e pesante, troppo lontana per poter godere della sua freschezza ma abbastanza vicina da poterne annusare l’umida essenza. Mera riaprì gli occhi a quel punto rendendosi conto di essere viva, provò ad alzarsi a mezzo busto ma una fitta al ventre la costrinse a tornare distesa. Era avvolta da coperte e il piacevole tepore che stava percependo proveniva da un camino acceso nella stanza dalle pareti in pietra. Era strano quel luogo: esattamente quadrato e senza mobilia, soltanto con massi, polvere e appunto quel prezioso camino. La donna si accorse solo allora di non essere sola, nel momento in cui si guardò alle spalle e vide una schiera di strani esseri alati guardarla preoccupati. Lei sussultò impaurita ma non le ci volle troppo per capire che quelle creature erano esattamente uguali a Ruphis.
«Si è svegliata davvero! Si è svegliata! Dobbiamo festeggiare!» gridò uno dei presenti cominciando a svolazzare festoso. Aveva delle squame dal riflesso smeraldino, così come gli altri lo avevano blu, azzurro, dorato e… rosso, proprio come il piccolo Drago Nano che per anni l’aveva servita.
«Dove… dove sono?» osò chiedere intuendo di non essere in pericolo.
«A Dragoon, nella nostra umile città! Spero che la camera sia di vostro gradimento, il Saggio Vharal ha usato tutta la sua conoscenza magica e medica per curare le vostre ferite» rispose il Drago Nano dalle scaglie verdi.
Mera sembrò confusa, poi si portò una mano sul fianco notando la fasciatura e allora ricordò la caduta dal dirupo per sfuggire alla creatura con le ali. Scosse il capo ancora una volta, le capitava sempre più spesso ultimamente.
«Ma voi…» iniziò fermandosi subito titubante. Come poteva credere a quello che stava vedendo? I Draghi Nani erano ormai quasi tutti estinti e lei stava riposando in una terra che le era stata presentata come “la loro città”. Dragoon non era riportata su nessuna mappa e di questo era sicura.
«Ho bisogno di alzarmi» disse infine cercando nuovamente di sollevarsi ma due Draghi Nani la bloccarono all’istante.
«Non potete alzarvi, ordini del Saggio Vharal» dissero perentori.
«Allora portatemi da questo Vharal, dovrò pur ringraziare chi mi ha salvato, no?».
«Beh, Vharal vi ha curato le ferite ma è un altro valoroso guerriero che vi ha salvato e portato qui. È stato molto coraggioso, ha affrontato un Mago di Luthus da solo» continuò uno.
«Allora fatemi vedere lui!» rispose Mera che cominciava a perdere le staffe.
I due draghi si guardarono interrogativi, poi videro quello dalle scaglie verdi annuire e si convinsero. Svolazzarono dunque verso una parete della stanza e si misero uno di fronte all’altro.
«Che cosa fanno?» chiese sorpresa la fanciulla.
«Vi permettono di uscire, ma fate attenzione Principessa» rispose il Drago Nano, stupendo la ragazza che non si aspettava certo di essere stata riconosciuta.
«C-cosa?» riuscì a dire, come se per un attimo avesse sentito il fiato del castello sul collo. Si alzò di scatto nonostante i dolori, rimanere al cospetto di quei Draghi Nani la faceva sentire denudata dell’esperienza accumulata in quegli ultimi due anni nella foresta con arco e frecce. Allora vide le due piccole creature illuminarsi di una luce bianca e un’apertura rivelarsi nella parete che proseguiva per diversi metri.
«Per qualsiasi cosa chiamateci, saremo immediatamente da voi. Troverete l’uomo di smeraldo sulla piazza a Est, subito dopo il corridoio di pietra. Vi prego Principessa, fate attenzione, fuori piove e l’aria è umida» si raccomandarono i due draghi mentre Mera passava e si chiedeva quale strana magia avessero appena usato. Non perse tempo dunque e camminando avvolta da una lunga veste si lasciò alle spalle la camera dentro cui si era risvegliata.
«Pensi possa davvero essere lei? E anche se fosse, ti fidi così tanto dei maghi?» chiese titubante il Drago Nano con le scaglie bianche.
«È lei. Il suo sangue è nobile, proprio come quello nero del Demone. Sono sicuro che Vharal non sarebbe riuscito a salvarla senza una precisa ragione. È così che deve andare ed è così che andrà» terminò quello dalle scaglie verdi, guardando la donna allontanarsi lungo il corridoio di pietra.

Lo scrosciante suono della pioggia non dava pace alla ragazza, eppure la città era coperta da uno spesso tetto di pietra che non le permetteva di filtrare, come se quel luogo fosse stato scavato nella roccia per permettere ai Draghi Nani di nascondersi dalla luce del sole e dall’oscurità della notte. Dopo qualche minuto di cammino ecco quella che doveva essere la “Piazza a Est”, un locale aperto circolare completamente fradicio in cui era possibile entrare attraverso una piccola scalinata che scendeva. Il temporale sembrava non allagare però il luogo, grazie probabilmente ad alcune aperture disseminate intorno tutto il perimetro circolare che permettevano all’acqua di filtrare fino all’esterno della città. Mera fu titubante ma quando attraverso la bruma vide una chioma smeraldina e fluente, capì chi fosse colui a cui doveva la vita. Scese i gradini e si inoltrò nella pioggia senza badare alle ferite e lasciò che l’acqua le scivolasse sui lineamenti nobili e deliziosi che per quanto confusi, continuavano a mostrare la loro innata gentilezza e bellezza.
«Grazie Feras» disse lei senza aggiungere altro. In quel momento era più importante mostrare gratitudine piuttosto che cercare di capire cosa realmente fosse successo alla caverna di Alaphys, senza contare che Mera un’idea se l’era già fatta.
L’uomo era disteso su un rilievo di pietra e osservava il cielo piangente. Il suo viso sembrava sereno nonostante tutto.
«Sei troppo debole Mera, troppo debole per poterlo affrontare».
«Cosa? Di che cosa stai parlando? Tu sai che cosa è successo agli altri? Dove siamo?».
«Siamo nel Saar. Siamo tornati per ristabilire l’ordine degli eventi, per fare in modo che la storia possa continuare a esistere» rispose l’uomo in tono criptico.
Mera strinse i pugni e gli afferrò la maglia colma d’acqua osservando intensamente quegli occhi verde smeraldo.
«Che cosa è successo?!» sbottò.
«Calma ragazza, ti racconterò tutto» e si alzò raggiungendo una parte della piazza coperta da quella pioggia furiosa con Mera che lo seguì senza fiatare.
«Non sono un ladro, o almeno, non come lo puoi intendere tu. Vengo da questo mondo e sono stato mandato nel vostro per recuperare alcune reliquie che sono finite disperse a causa di Liz. Ti hanno raccontato che la strega ha aperto un varco dimensionale per raggiungere questo mondo con il Demone, no? Bene, quel passaggio ha portato loro qui, ma qualcosa nel vostro mondo. Io avevo il compito di recuperare quelle cose… e di rapire l’unica persona capace di evitare l’ennesima guerra mondiale».
Mera non riuscì a dire una parola, non credeva di aver capito tutto o almeno, sperava di non averlo fatto.
«Vuoi dire che questo… non è il Saar? Il mio Saar?».
«Esatto, e per salvare sia la vostra che la nostra terra, c’è bisogno del tuo aiuto» precisò Feras.
«Allora quello che diceva Amel era vero, c’è un altro mondo. Allora Valerian è davvero qui!» disse Mera con una nuova luce negli occhi. Per un istante aveva dimenticato tutto e tutti, soltanto Valerian era rimasto nei suoi ricordi, colui che aveva salvato il mondo rinnegando le sue origini.
«Sì, è qui, ma non è chiunque tu pensi che sia. È un mostro, un Demone con nessuna umanità».
«No, non ci credo, non Valerian. Tu non sai che cosa ha fatto nel mio mondo» affermò convinta la ragazza, pur non avendo vissuto in prima persona la vicenda che aveva portato al suo sacrificio finale.
Feras incrociò le braccia e si appoggiò alla parete di pietra vicina, perdendosi nei suoi pensieri.
«È per questa tua convinzione che sei qui. I maghi di Spell affermano che esiste solo un modo per fermare la furia del Demone, così come in passato. Una donna, la SUA donna, capace di donargli l’amore e la capacità di amare».
Mera sembrò sorpresa, per un istante non riuscì più ad avercela con Feras per averla ingannata e per un attimo capì quale sarebbe dovuta essere la sua missione: Valerian in passato aveva sacrificato se stesso per amore e per un mondo che neanche gli apparteneva, forse adesso toccava a lei agire per gli stessi principi, in nome di una terra che non meritava di scomparire.
«Io voglio vederlo… ho bisogno di vederlo» rivelò la ragazza con agli occhi lacrime che minacciavano di uscire.
«C’è tempo, adesso torna dai Draghi Nani che si sono presi cura di te. Ti daranno dei vestiti asciutti e adatti alla tua bellezza. Noi ci rivedremo domani» terminò dunque l’uomo con un inchino, prima di allontanarsi verso la zona più interna di quel labirinto di cunicoli di pietra e lasciare Mera in preda a mille domande.

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Capitolo 13
*** La maledizione di Nerigal ***


huhu

Un altro mondo, un altro Saar, un’altra storia. Mera rifletteva sulle parole di Feras mentre si lasciava bagnare dalle calde acque termali di una sezione della grotta che i Draghi Nani le avevano rivelato per permetterle di riprendere le forze rilassandosi. Il drago dalle squame verdi aveva detto che le terme della città dei Draghi Nani avevano il potere di risanare tutte le ferite più superficiali e di concedere ristoro all’anima e alla mente. Dopo le ultime vicende, Mera sentì di averne bisogno, i suoi vestiti erano luridi e sporchi di terra, puzzavano di sangue e non aveva intenzione di indossarli nuovamente in quelle condizioni. Si lasciò cullare dai vapori delle acque e pensò a quanto successo nella foresta, nella sala di Alaphys e ancora prima al castello di Kubara. Era fuggita nuovamente lasciando un regno, una madre e tanti cari che avevano bisogno della sua presenza a palazzo. Rimanere nel Ventus non avrebbe però aiutato Valerian, rimanere nel mondo che un Demone aveva salvato sacrificando se stesso, non le avrebbe dato pace e su queste convinzioni aveva affiancato Carian e gli altri alla ricerca di una soluzione.
«Carian…» disse tra sé e sé, abbassando gli occhi e sospirando. Non sapeva dove fosse o se stesse bene e pensare che dopo Vhiria non aveva ancora avuto la possibilità di parlarle sul serio. Poi Feras e la sua storia: che fossero dei segni? Che lei fosse realmente destinata a placare l’ira del Demone? Non riusciva a non pensarci, non riusciva a trovare serenità neppure con il calore e il ristoro di quelle acque. Strinse i pugni nervosa e all’ennesimo respiro sentì l’acqua divenire sempre più calda, bollente, presto insostenibile, al punto che sgranò gli occhi e balzò fuori dal bacino soffocando un grido. Si guardò le gambe e il corpo snello arrossato, sicura di aver sentito un’ondata di calore che stava per ustionarla, quindi si avvicinò lentamente all’acqua bagnandosi una mano e aggrottando le sopracciglia verificò che fosse in realtà calda come dovesse essere. Scosse il capo confusa e seppur titubante, prese l’accappatoio che gli avevano preparato i Draghi Nani entrando nella camera dove si sarebbe finalmente potuta vestire con qualcosa di pulito.
Passarono alcuni minuti quando Mera comparve con un lungo a magnifico vestito rosso, i capelli raccolti grazie a un piccolo bastoncino di legno e una serie di bracciali sfavillanti che a confronto al blu dei suoi occhi sembravano dei semplici gingilli. Venne avanti elegantemente e il Drago Nano dalle squame verdi l’accolse sorridente.
«Qualcuno di noi aveva ancora qualche dubbio… ma vedendovi così non possiamo che inchinarci a voi Principessa».
«In questo posto non sono Principessa di nulla… Perché avete voluto che mi conciassi così?» chiese dubbiosa la fanciulla.
«Il Saggio Vharal voleva vedervi al massimo del vostro splendore. Vi sta aspettando nella parte centrale della città, a Ovest del lungo corridoio di pietra. Vi accompagnerò se volete» continuò senza alzare la testa squamosa.
Mera strinse i denti. Non si sentiva per nulla a suo agio in quella situazione ma era sicura che parlare con questo fantomatico Saggio Vharal le avrebbe fornito qualche informazione. Dunque cercò di mostrarsi gentile e per il momento di stare al gioco.
«D’accordo, fai strada… - si interruppe rendendosi conto di non sapere ancora il nome dell’interlocutore – qual è il tuo nome?».
«Sono Ramui, per servirvi».
I due si incamminarono per il celebre lungo corridoio di pietra di Dragoon che tagliava tutta la città e in breve tempo raggiunsero una scalinata che saliva verso Ovest. Mera rimase fino a quel punto totalmente in silenzio, poi provò a rompere il ghiaccio domandando qualcosa su Vharal, che tutti sembravano venerare e rispettare.
«Che tipo è? Come dovrei comportarmi?» disse, pensando che il suo unico rapporto fino ad allora con un Drago Nano l’avevo avuto con Ruphis, che al castello era al suo servizio.
«Oh non preoccupatevi Principessa, il vostro sangue nobile saprà donare la giusta riverenza al Saggio. Siate semplicemente voi stessa».
La fanciulla annuì ma non sembrava meno nervosa di prima. Gli ultimi anni li aveva passati lontano dal castello, imparando a sopravvivere, a cacciare, perfino a uccidere, e quella nobiltà che Ramui e tutti gli altri in quella città si aspettavano, poteva di fatto essere svanita. Camminarono per circa venti minuti tra cunicoli e rampe di scale, quando finalmente si presentò davanti gli occhi blu della fanciulla, una grande porta di pietra incisa, che si aprì alla sua vicinanza.
«Da qui dovrete andare da sola, il Saggia Vharal ha chiesto di poter parlare con voi privatamente» disse a quel punto Ramui dispiaciuto.
«Non sarà presente neppure l’uomo che mi ha salvato la vita?» provò Mera intuendo però già la risposta. Il Drago Nano scosse la testa amareggiato, dunque indietreggiò per permettere alla Principessa di varcare la soglia che portava alla sala del consiglio dei draghi.
«Venite avanti, Principessa» disse una voce calda e autoritaria, e Mera entrò non prima di essersi concessa un profondo respiro. La porta si chiuse alle sue spalle e dall’oscurità in cui era immersa la camera, si accesero improvvisamente delle fiaccole disseminate lungo tutte le pareti. La mobilia era estremamente più curata rispetto al resto della città: erano presenti alte librerie ricolme di libri, scaffali adornati con oggetti rari e particolari ma ciò che più di ogni altra cosa attirò l’attenzione della Principessa, fu la tavola al centro imbastita di cibo. In fondo vi era una figura incappucciata seduta su quella che aveva tutta l’aria di essere una postazione regale, un alto trono rivestito di gemme che brillavano di luce rossa e bianca.
«S-salve» riuscì a dire Mera mentre si avvicinava al tavolo.
La figura si alzò su due gambe e con gran sorpresa della fanciulla, abbassò il cappuccio rivelando sembianze umane. Apparentemente sembrava un ragazzo con al massimo trent’anni, la barba incolta e i lunghi capelli scuri legati in un codino che gli scendeva su una spalla. I suoi occhi erano vitrei, assenti, tanto spettrali da lasciare un senso di inquietudine alla fanciulla dal momento in cui ci si era ritrovata a specchiarsi.
«Sembrate sorpresa, vi aspettavate un Drago Nano ad accogliervi, non è così?» chiese in un sorriso con lo scopo di smorzare la tensione, ma che finì per alimentarla.
«Sì, è così se devo essere sincera ma b-bando alle ciance, ho diverse domande per voi».
«Rilassatevi principessa e vi prego, datemi del tu, non merito tanta riverenza da parte di una nobile elegante come voi. Prego dunque, sono qui per ascoltarvi».
La giovane donna deglutì, poggiò le mani sullo schienare dorato di una delle sedie del tavolo e provò a cominciare con qualche domanda, senza prendere troppa convinzione.
«Mi è stata raccontata una storia, mi è stato detto che qualcuno aveva il compito di rapirmi per portarmi sul Saar, su questo Saar che a quanto pare differisce da quello da cui provengo. Che cosa significa? Siamo su un altro pianeta? Che cosa volete da me, dove sono i miei amici?».
«Ti è stato detto bene. Abbiamo motivo di credere che la tua presenza in questo momento possa essere l’unica possibilità di salvezza per tutti noi. Capisci dunque che non è una questione che riguarda solo me, o solo i Draghi Nani, ma tutto il Saar. Qui non ti trovi su un altro pianeta ma su un’altra dimensione, su una realtà alternativa che esiste come esiste la tua terra».
«Che cosa vuol dire? Se io tornassi a Kubara non troverei il mio castello?!» chiese quasi indispettita la Principessa.
«Proprio così. Non trovereste il vostro castello, o meglio, non apparterrebbe alla tua famiglia che qui non esiste. Queste due realtà esistono e convivono da tempo immemore, fin da quando i primi due uomini svilupparono la magia e nacquero gli Azhari».
Mera aguzzò le orecchie, aveva già sentito quel nome da Amel quando parlava della civiltà che viveva nelle Terre Aride nel mondo da cui proveniva.
«Gli Azhari… cioè i Demoni?» chiese la fanciulla ricordando le parole del mago.
«Esatto ma gli Azhari non sono sempre stati Demoni. Sono stati maledetti. Vi racconto una storia: Arion e Zarion erano due fratelli ambiziosi, due studiosi, che svilupparono l’abilità magica per la prima volta nella storia. La capacità di dominare gli elementi, di modificare i fenomeni atmosferici, la possibilità di interagire con la forza del sole e dell’acqua sono tutte  abilità che agli occhi di un Dio si mostrano inadatte nelle mani di due umani».
«Un Dio?».
«Sì, Nerigal, colui che tantissimi millenni fa creò il Saar: si tramanda che fosse invidioso e timoroso nei confronti di tale potere tanto da arrivare a sfidarlo finché ancora acerbo per poi condannare per sempre i due fratelli dopo averli sconfitti a sì, vivere come sovrani del Saar, ma separatamente, in due luoghi contemporanei ma differenti. È per questo che esistono due Saar, è questo che racconta la leggenda. Zarion allora impazzì per la lontananza del fratello e tramutò il suo odio verso Nerigal in Stregoneria, la capacità di entrare nell’anima e nella mente delle persone per controllarle tramite l’energia vitale presente nella terra, negli uomini, negli animali e in tutto ciò che vive. Tramite questo potere si impossessò dell’anima degli uomini che lui riteneva più forti e creò un esercito imbattibile di guerrieri e cui insegnò la forza della magia».
Mera ascoltava assorta, non aveva mai sentito parlare di quelle vicende nelle storie raccontate nel Saar da cui proveniva.
«Voleva affrontare di nuovo il Dio?» chiese a quel punto la Principessa.
«Esatto. Inizialmente Nerigal decise di separarli e non di ucciderli perché voleva studiare la loro particolare abilità. Pensava che una volta da soli, per quanto potessero diventare potenti, non avrebbero più rappresentato una minaccia. Mentre da una parte di Arion nessuno sentì più parlare, Zarion, come ti dicevo, marciò dunque con il suo esercito verso la dimora di Nerigal, nella cima del Monte a Nord-Ovest del mondo, e diede inizio a quella che nei libri viene descritta come la “Guerra del Crepuscolo” in quanto per alcuni mesi dopo il termine della battaglia, tutto il mondo fu avvolto dal primo velo di oscurità che annuncia il crepuscolo. Come in un tramonto eterno».
«Chi vinse?».
«Zarion – continuò Vharal – riuscì ad abbattere le difese di Nerigal, riuscì ad arrivare a lui e a conquistare la sua mente tramite la Stregoneria ma nonostante tutto non riuscì a far annullare la maledizione che lo teneva diviso dal fratello. A quel punto lo uccise, ignorando però le sue ultime parole: “se ucciderai me, ucciderai per sempre te stesso, la tua famiglia, i tuoi uomini e… il tuo nome”. Zarion effettuò il colpo di grazia uccidendo definitivamente Nerigal, gettò il mondo nel “crepuscolo” ma finì per perdersi nell’ultima maledizione del Dio: Zarion e i suoi uomini divennero Azhari, potenti stregoni condannati ad essere Demoni, per sempre».
Mera abbassò il capo pensierosa. Quella storia poteva spiegare tanti dubbi quanti farne nascere. Aveva troppe domande, voleva approfondire troppi aspetti e finì invece col tacere sotto lo sguardo vitreo di Vharal.
«Tutto questo si ricollega alla vostra presenza qui» aggiunse Vharal con sguardo serio.
La ragazza rialzò gli occhi verso l’interlocutore, non capiva ancora:
«In che modo? Che cosa c’entro io con tutto questo, che cosa c’entra Valerian?».
«In una storia più recente, parliamo di qualche secolo fa, un Azhari di nome Locherizun braccò il mondo con la sua Stregoneria. Tutto il Saar rimase in guerra con questo Demone per generazioni, finché circa vent’anni fa, una donna di nome Moria, un’umana, rese possibile l’impossibile: superò le barriere della maledizione di Nerigal, riuscì a toccare il profondo dell’anima dell’Azhari e finì per innamorarsene, facendosi ricambiare. Questo era ritenuto impossibile dai maghi di Spell, che avevano da sempre descritto quella maledizione come il più terribile dei riti demoniaci, che risucchiava completamente l’umanità e i sentimenti di tutti coloro che avevano la sfortuna di finirne vittima. Potrai immaginare dove voglio arrivare…» disse l’uomo avvicinandosi a Mera.
«N-non ti seguo» mentì a se stessa la ragazza.
«Non possiamo esserne certi, ma a Spell studiano il caso ormai da vent’anni. Colui che tu chiami Valerian è il figlio di Locherizun, l’Azhari tiranno con cui il Saar ha combattuto per almeno quattrocento anni, nonché un antenato di Zarion».
Adesso tutto prendeva senso, dopo quella storia si spiegava la natura di Valerian e il motivo per cui era riuscito per tanti anni a celare la sua parte maledetta dietro il viso di un uomo dagli occhi azzurri: era anche un umano, nel suo sangue scorreva anche il sangue di una donna che era riuscita a far innamorare un mostro. Rimanevano però delle questioni da chiarire, dei punti irrisolti che neppure la storia precisa di Vharal sembrava aver colmato. Mera ci pensò un attimo e allora espose i suoi dubbi:
«Se tutto quello che mi hai detto è vero, allora perché Valerian si trovava nel Saar da cui provengo io? È stato Zarion ad essere maledetto e a causa sua nascono gli Azhari. Nel mio Saar non dovrebbe esserci nulla di tutto questo, che cosa è successo?».
Vharal annuì a quelle perplessità, riconoscendo che fossero delle domande lecite.
«Moria fece un patto con Locherizun: lei sarebbe per sempre stata sua se lui avesse lasciato in pace il Saar e avesse abbandonato ogni proposito di guerra o vendetta verso chi adorava Nerigal. Allora dei due non si seppe più nulla per un paio di anni, finché da Spell non cominciarono a giungere voci riguardo un bambino, il loro bambino, condannato alla maledizione del padre e al sangue umano della madre. Il cielo del Saar venne oscurato per due giorni, al termine dei quali un varco di dimensioni pazzesche ricoprì il cielo di tutto il mondo. Un terremoto alzò le acque e spostò la terra, causò centinaia di morti e migliaia di feriti, e risultò talmente brutale che i maghi rinominarono quel giorno come “La Vendetta di Nerigal”. In seguito a quell’avvenimento, per tre anni circa, vi fu una ritrovata pace, periodo durante il quale non furono più registrate guerre o altri incidenti legati all’Azhari e all’umana, e fu organizzata una spedizione a Spell verso la sede del Demone. I maghi riuscirono a penetrare nella caverna al centro del mondo, è lì che si pensava vivesse Locherizun, e giunsero fino alla sala centrale, luogo in cui vennero ritrovati due corpi umani senza vita, mano nella mano: uno era di Moria, l’altro di un uomo che non fu possibile riconoscere. Non c’erano tracce demoniache e dunque di Locherizun, né di bambini. A Spell il caso fu archiviato dopo almeno dieci anni, in quanto i maghi erano sicuri della nascita di una nuova vita che su di sé portasse la maledizione di Nerigal per eredità. A ogni modo la storia finì in quella maniera, con l’epilogo che viene raccontato come la “Vendetta di Nerigal” verso gli antenati di colui che era riuscito ad ucciderlo».
«Ok… ho capito. Tu credi che vent’anni fa qualcuno abbia aperto il varco così come è successo ultimamente e Locherizun sia scappato con il bambino lasciando l’amore della sua vita in balia di chissà cosa?» disse Mera che provava a ragionare insieme a Vharal per ricostruire i fatti, ma ci credeva ancora poco.
«È possibile, magari proprio a causa dell’uomo trovato a fianco della donna. Forse il Demone aveva scoperto una relazione segreta della sua amata con un umano e li ha uccisi, per poi fuggire. L’unica cosa che non torna è che nelle sacre scritture che parlano di Nerigal, è riportato che i due mondi creati per dividere i due fratelli non sarebbero mai potuti entrare in contatto, e invece…» commentò dubbioso Vharal.
«E invece ho vissuto quasi tutta la vita insieme a Valerian, che tu credi essere figlio di quell’Azhari rivoltoso, e io sono qui davanti i tuoi occhi» disse Mera stringendo lo schienare della sedia su cui era appoggiata.
«Non ho mai detto che nutro dei dubbi riguardo il fatto che i due mondi siano entrati in collegamento. Tanto è vero che i maghi di Spell avevano previsto un secondo grande terremoto che si è puntualmente verificato circa due anni fa, che guarda caso ha portato due nuove minacce, così come il primo l’aveva fatte scomparire: il Demone Nero e la Strega Rossa, ma di questo ti parleranno a Spell».
«Di cos’altro parli? Chi sono questi due?» chiese la fanciulla temendo di sapere già la risposta.
«Vi ho detto abbastanza Principessa, questo è un argomento di cui si occupano i maghi e personalmente non ho molte informazioni. Quando sarete a Spell potrete fare le vostre domande» terminò Vharal versandosi del vino su un calice.
«Bene, allora come posso arrivarci?!» riprese la ragazza.
«Il mio scopo è quello di portarvi lì, Principessa. Vorrei che restasse qui ancora per un po’, almeno per concedermi la vostra bellezza ancora per qualche giorno, ma capisco che il tempo stringe e non possiamo permetterci piaceri. Domani mattina presto vi darò tutte le informazioni per giungere a Spell il più velocemente possibile, ma vi prego, per questa sera liberatevi dei pesi, dimenticate le storie che vi ho raccontato, e lasciatevi incantare da questo meraviglioso cibo e dal nostro prezioso vino rosso».
Mera non rispose. Adesso che conosceva in qualche modo la vera storia di Valerian non riusciva a non pensare al suo lato umano che lottava contro la maledizione. Non avrebbe potuto concedersi altre distrazioni, altre perdite di tempo che avrebbero potuto tenerla lontana da colui che l’aveva salvata. Eppure le parole di Vharal non finirono al vento, ma soprattutto l’irresistibile profumo di quel banchetto aveva ormai raggiunto ogni angolo della stanza. Fu così che la fanciulla si decise finalmente a sedersi e a cominciare ad addentare qualcosa tra un sorso di vino e l’altro. Poi da lì giunse la notte, in attesa di un alba che avrebbe proiettato la fanciulla verso una nuova e precisa meta in quella terra straniera e sconfinata.

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Capitolo 14
*** Preparazione ***


asffghjkl

Lentamente le nubi cominciarono a ritirarsi e finalmente il sole mostrò la sua brillantezza anche alla grande città di pietra di Dragoon. Una decina di Draghi Nani si sistemò in due file davanti la porta della sala del consiglio e Mera attendeva al centro in piedi che Vharal finalmente parlasse. Aveva cambiato lo splendido vestito indossato la sera prima durante la cena e adesso sembrava essere tornata la cacciatrice che aveva imparato a sopravvivere alla foresta con l’aiuto di Tarus, di cui dalla fuga dal castello di Vhiria non si seppe più nulla. Aveva dei calzoncini neri, un lungo coltello legato alla gamba sinistra e un corpetto scuro e attillato. Sul fianco aveva legata una faretra senza frecce e non aveva ancora un arco: i Draghi Nani le avevano fornito tutto ciò che aveva chiesto a parte le armi, evidentemente Vharal preferiva spiegare bene il percorso che avrebbe condotto la fanciulla fino a Spell, nell’Euvenia, prima di passare agli atti pratici. Era presente anche Feras nella sala, con i suoi lunghi capelli smeraldini che gli ricadevano fin sotto il collo e lo sguardo magnetico che lo caratterizzava. Anche il suo abbigliamento ricordava quello di un cacciatore e anche lui non aveva armi, con la differenza che non possedeva neppure una faretra.
«Molto bene Principessa, siete giunta fin qui da un’altra terra, da un’altra realtà, e tutto per salvare sia il nostro che il vostro mondo. La vostra prossima mossa sarà quella di arrivare a Spell, lì i maghi sapranno dirvi come poter interagire con il figlio di Locherizun» esordì Vharal avvicinandosi alla tavola centrale su cui stavolta erano appoggiati alcuni fascicoli.
«Questa è una mappa molto dettagliata della zona ed è stata mia preoccupazione segnare il percorso più agibile per raggiungere il continente dell’Euvenia».
Mera si avvicinò osservando la carta e rimase sorpresa nello scoprire che Dragoon si trovasse in una delle isole dell’arcipelago Marhus, a Sud dell’Horion. Non aveva mai esplorato quei luoghi, da sempre considerati selvaggi e pericolosi da Kubara, ma sapeva che probabilmente Valerian durante il viaggio per cercare di liberarla, aveva attraversato anche le fitte foreste di quel luogo.
«Siamo su un’isola, come arriviamo sulla terra ferma?» chiese spontaneamente la fanciulla.
«In realtà noi abitanti della città di Dragoon non abbiamo mai avuto la necessità di spingerci oltre oceano, in quanto grazie alla nostra abilità di comunicare telepaticamente, siamo sempre stati in contatto con le popolazioni Phylis dell’Horion. Di conseguenza per qualsiasi necessità scambiamo il ricavato dei nostri raccolti, o i minerali delle nostre miniere, con beni di prima necessità che ci portano in groppa ai loro draghi».
«Il che non risponde alla mia domanda, anzi…» fece notare Mera storcendo il naso.
«Non ho finito Principessa, volevo infatti dire che esiste in effetti un modo per raggiungere le vicine terre dell’Horion. C’è un… un uomo che vive a Nord-Est di Dragoon, in prossimità del mare, che possiede una barca abbastanza resistente» disse Vharal senza però mostrare troppa sicurezza.
A quel punto Feras deglutì sonoramente cercando di non darlo troppo a vedere a chi gli stava intorno, soprattutto a Mera. Se ne rimase comunque zitto lasciando finire il Saggio Vharal.
«Ecco, chiedete a lui la barca, promettendogli particolari ricchezze da parte di Dragoon. Vi darò anche una lettera da consegnargli da me firmata che attesterà l’attendibilità delle vostre parole».
«Una lettera da te firmata? Che bisogno c’è di fare una cosa del genere? Basterà vederti per credere alle nostre parole» disse ingenuamente Mera.
Vharal abbassò il capo incrociando le braccia e si prese qualche secondo per rispondere:
«Io non verrò con voi, è per questo che dovete comprendere bene ogni singolo passaggio di questo viaggio e la mappa che vi ho fornito».
«Che cosa?! E perché mai? Tu sai bene come muoverti, sai tutto di questo mondo. Ti ricordo che io provengo anche da un’altra dimensione!» sbottò Mera che non aveva chiaramente nessuna intenzione di fare quel viaggio da sola.
«Mi dispiace ma io non posso lasciare Dragoon. Verrà Feras con te, avrà il compito di proteggerti in qualunque situazione e di farti arrivare sana e salva a Spell» rispose Vharal pacatamente e con un velo di rammarico.
Mera si voltò verso l’uomo dalla chioma smeraldina e in un primo momento non seppe se essere sollevata o meno. Se non altro le aveva già salvato la vita una volta.
«Faremo attenzione, Saggio Vharal» rispose Feras accennando un inchino.
«In ogni modo, giungere nell’Horion sarà la parte facile, sarà poi arrivare a Horen, la terra dei Phylis, il difficile. Questo perché l’Horion è circondato da alte montagne e gli unici punti di attracco arrivando da Sud sono le spiagge che danno sulla foresta di Mainyu. È un luogo totalmente inesplorato, una selva fitta e profonda in cui l’oscurità è perenne. In quel luogo vivono creature della notte, esseri generati dalla grande quantità di Luthus presente e chissà cos’altro. Un’alternativa potrebbe essere circumnavigare l’intero continente e arrivare al porto di Horen, ma non penso che l’imbarcazione che userete sia tanto resistente da effettuare un viaggio del genere».
«A proposito, anche prima, quando mi sono ritrovato in una foresta qui vicino, mi sono imbattuta in un uomo alato con degli artigli. Era anche capace di parlare, che cosa era?» chiese Mera incuriosita.
«Li chiamiamo Maghi di Luthus: erano maghi inviati da Spell a studiare quei luoghi particolarmente saturi di Luthus. L’abuso di tale sostanza può però diventare nocivo anche per i maghi, l’esposizione prolungata può causare diversi effetti e quello che tu hai incontrato è proprio uno di questi».
Maghi divenuti dei mostri a causa del Luthus: era una storia troppo familiare per Mera che veniva da una terra in cui i maghi avevano cessato di esistere a causa del Luthus corrotto. Magari era destino, prima o poi, anche senza la famosa guerra di Magrand e la nascita degli Stregoni, i maghi avrebbero cessato di esistere. Era comunque una situazione piuttosto diversa e non era il caso di parlarne, tutto ciò che riguardava la magia, Valerian o qualsiasi altra situazione del Saar da cui proveniva, l’avrebbe esposta ai maghi di Spell.
«Ho capito, dunque potremo imbatterci in altri di questi di esseri?» chiese dunque la fanciulla.
«Non lo escludo, è per questo che dico che giungere a Horen sarà la parte più difficile. Vi forniremo tutte le armi di cui avrete bisogno. Dunque, continuando, superata la foresta e proseguendo verso Nord-Ovest, arriverete alla piana di Horen e da lì vedrete la città. Una volta giunti dovrete salire a bordo di una delle tante navi dirette a Magrand. Ne troverete tante, Spell commercia ogni giorno materiali con Horen. L’unico problema potrebbe essere la diffidenza dei phylis verso gli umani, non è gente cattiva ma tra loro e gli umani non è mai corso buon sangue. Non avrete problemi a farvi accogliere ma salire in una delle navi sarà già più difficile. Insomma, giunti a quel punto mi aspetto un po’ di ingegno da parte vostra, Feras poi è abile in queste cose».
Mera sorrise senza neanche accorgersene, ripensò a quando si era infiltrata in quella nave di carico diretta nel Kharas con Valerian e Ruphis. Quella volta non ebbero problemi ma avevano accanto un mago, anzi, un potente antenato di Zarion. Sembrava essere passato un secolo da quei momenti che rimanevano però vividi nella sua mente come esperienze che adesso le avrebbero permesso di affrontare con lo giusto spirito quel viaggio verso Spell, verso Valerian.
«D’accordo, io sono pronta» affermò la ragazza con tono deciso.
«Molto bene, a quanto pare non avrò a che fare con una ragazzina» disse Feras in un sorriso.
«Perfetto, il consiglio è sciolto. Principessa Mera, Feras, seguitemi da questa parte, vi fornirò tutte le armi di cui avrete bisogno» concluse dunque Vharal, facendo un cenno a Ramui e al Drago Nano dalle squame rosse. Le due creature alate si avvicinarono a una delle pareti della sala e come era già successo prima, un’apertura si rivelò, svelando una grande stanza colma di armi: spade, lance, archi, scudi, elmi scintillanti riposti sugli scaffali in alto e tantissimi altri strani oggetti. Mera si avvicinò sorpresa, sfiorando con la mano l’elsa di una lunga spada in mano a un cavaliere di pietra.
«È incredibile, da dove vengono tutte queste armi?» chiese a quel punto.
«Le forgio io e sono frutto di duro lavoro» rispose Vharal sorridente, compiaciuto delle sue grandi opere.
«Quest’isola è piena di materia prima da lavorare. La roccia stessa su cui è stata costruita la nostra città è un materiale duttile e malleabile, con cui si possono creare armature molto resistenti. Inoltre a Sud sono presenti diverse cave d’argento, ottimo per costruire armi da scambiare con i Phylis che a loro volta vendono ai maghi di Spell che le incantano. È un mercato vasto e florido quello del Saar Settentrionale e Orientale, immagino che anche da dove venite voi sia così».
Mera si portò una mano tra i capelli cercando di nascondere le sue perplessità. Non sapeva moltissimo di quella parte del mondo ma preferì non farlo notare.
«Sì beh, possiamo dire così» tagliò corto.
Intanto Feras aveva già scelto la sua arma: un grande arco e due sole frecce che ripose nei suoi stivali. Mera aveva già notato quella strana particolarità dell’uomo dalla chioma smeraldina, magari quella volta avrebbe finalmente avuto la possibilità di chiedergli il motivo. Anche lei intanto scelse il suo arco: più piccolo rispetto a quello di Feras ma seguito da una dozzina di frecce che sistemò nella faretra legata sul fianco.
«Prendete anche queste, Principessa» disse Vharal avvicinandosi con tre particolari frecce che sembravano brillare di luce propria.
«Per queste ho usato un particolare materiale dato dalla miscela di roccia e Luthus grezzo. È letale per qualsiasi creatura di Luthus che incontrerete nel vostro cammino, in quanto a contatto con il loro sangue rilascia altro Luthus che va ad aggiungersi a quello già presente nel loro corpo e nella loro testa, facendola letteralmente esplodere per overdose. Mi fido di voi, Principessa. Sono sicuro che riuscirete ad arrivare a Spell e una volta lì, riusciremo a porre fine a quest’ennesima guerra».
La fanciulla si trovò a specchiarsi nuovamente in quegli occhi vitrei ma stavolta non ne ebbe paura, anzi, provò un grande senso di rispetto e riverenza verso “l’uomo dei draghi”, e allora non poté che annuire con un sorriso sincero e determinato, e uno sguardo che apparteneva senz’altro a una cacciatrice ma anche a una principessa.

Mera e Feras prepararono gli ultimi dettagli e dopo aver salutato e ringraziato Vharal e i Draghi Nani, si lasciarono alle spalle Dragoon. Davanti a loro si apriva adesso la lunga strada verso Horen e quindi Spell, ma bisognava trovare un’imbarcazione, prima avrebbero dovuto fare un’amara deviazione.
«Conosci il tipo a cui dovremo chiedere la barca? Hai fatto una faccia strana prima, quando Vharal ne ha parlato» chiese la fanciulla con le mani dietro la schiena, come se stesse insinuando qualcosa.
«Non l’ho mai visto, né sentito prima» rispose secco Feras, con uno sguardo che diceva tutt’altro.

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Capitolo 15
*** Inseguiti ***


bravo

Dragoon era già distante, Mera e Feras avevano attraversato vittoriosi parte della foresta centrale di quell’isola dell’arcipelago Marhus, la stessa in cui la Principessa aveva fatto la spiacevole conoscenza del Mago di Luthus. Stavolta nessun intoppo particolare intaccò la loro avanzata, solo qualche bestia feroce abilmente neutralizzata dalle frecce dei due arcieri che evidentemente, con le armi in mano, si trovavano più a loro agio a cacciare piuttosto che a riposarsi sotto calde coperte. Durante il tragitto, Feras aveva raccontato come fosse eroicamente riuscito a far fuori il Mago di Luthus mentre la fanciulla era finita svenuta dopo la caduta nel precipizio. Lei annuiva a ogni parola, sarcastica: quelle storie, per quanto affascinanti, finivano inesorabilmente per perdere di credibilità se a dirle era un ladro col sorriso perennemente beffardo e lo sguardo acuto.
«Che c’è, non mi credi? Allora secondo te come è andata? Ho tirato alla cieca qualche freccia sperando di colpire i suoi punti vitali? Ammettilo, sono un eroe» disse sghignazzando Feras portandosi le mani tra i capelli.
«È questo che vorresti essere? Un eroe? Non ti ci vedo. Se hai fatto quello che hai fatto, in qualunque modo sia andata, è stato perché ti conveniva che io rimanessi in vita. In ogni caso ti ringrazio ugualmente, stai tranquillo» rispose acidamente la Principessa che continuò a camminare senza voltarsi verso l’interlocutore.

Il cielo era cupo, quell’angolo di mondo era spesso teatro di grossi acquazzoni come quello che la sera precedente aveva colpito Dragoon e a giudicare dall’abbassamento della temperatura e il nero di quelle nubi che coprivano l’azzurro del cielo, presto se ne sarebbe scatenato un altro. Feras conosceva bene la zona e si preoccupò di informare la compagna di viaggio:
«Dobbiamo trovare alla svelta un rifugio, entro sera probabilmente una tempesta si abbatterà sull’isola, avrai notato come la temperatura si sia abbassata di colpo».
«In effetti sì ma che opzioni abbiamo? Questa foresta è troppo pericolosa per passarci la notte» rispose Mera guardandosi intorno.
«Allunghiamo il passo, l’abitazione di Aremhet deve essere ormai vicina, ci rifugeremo lì» aggiunse l’uomo riprendendo a camminare.
La fanciulla incrociò le braccia inarcando un sopracciglio e sbarrando la strada al compagno, attese spiegazioni:
«Aremhet? Si tratta di colui a cui dobbiamo chiedere la barca, vero? Avevi detto di non conoscerlo, che cosa è successo fra voi due?».
Prima che Feras potesse rispondere però, uno stormo di uccelli si levò improvvisamente al cielo e una folata di vento devastante si abbatté sui viaggiatori. Mera conficcò una freccia sulla corteccia di un albero per crearsi un appoggio mentre Feras si mise con le spalle contro un tronco per non finire strattonato via.
«Che cosa succede?!» gridò la ragazza mentre cercava di non mollare la presa.
«Ehm… forse… diciamo pure che effettivamente proprio un eroe non sono, no» rivelò Feras mentre attendeva con lo sguardo fisso sul fitto della foresta che l’autore di quel tornado si mostrasse. Proprio in quel punto dunque, la vegetazione si aprì manovrata dalla furia dell’elemento che non accingeva a placarsi e una creatura dalle grandi ali nere, i lunghi artigli e gli occhi fiammeggianti, comparve allargando le braccia e sorridendo.
«Ti ho ritrovata»  si limitò a dire mentre avanzava verso Mera.
La ragazza guardò per un attimo il compagno scuotendo il capo, poi afferrò l’arco e si preparò a combattere il mostro in qualche modo. Stavolta era armata e in salute, non si sarebbe mostrata nuovamente debole, e afferrando una freccia dalla faretra, puntò la creatura con decisione.
«Mera, quello è un mago! Che cosa vuoi fare con una freccia? Scappa!» gridò Feras mentre si allontanava verso Nord, sperando di arrivare presto alla radura che li avrebbe presentati al mare che divideva l’arcipelago dall’Horion. La ragazza non stette però a sentire e dopo un agile balzo sopra un ramo di quei grossi alberi, scoccò la freccia che andò inesorabilmente a sbattere contro una barriera di energia.
«Non è possibile!» affermò stupita.
Il mostro se la rise di gusto, poi alzò una mano al cielo generando una sfera di energia oscura che cominciò a risucchiare tutto ciò che si trovava da quelle parti, compresa la cacciatrice.
«Mera corri! Corri!» insistette Feras.
A quell’ennesimo richiamo, e costretta dal potere che stava generando la creatura, la fanciulla decise finalmente di allontanarsi dal raggio d’azione di quel colpo, sfruttando le frecce come leve. Non si voltò più, continuò a camminare seguendo il passo di Feras, cercando di resistere al risucchio del Mago di Luthus che stava strappando anche gli alberi dalle loro radici. La foresta tremava e sullo sfondo si alzò un grido agghiacciante a cui seguì un rinvigorimento del potere che costrinse i due fuggitivi a fermarsi.
«Risucchierà tutto in quella strana sfera nera, non riusciremo mai a uscire dalla foresta in tempo» disse l’uomo sporgendosi dal tronco dietro cui si era rifugiato.
«Ecco, la sfera, è quella che dobbiamo attaccare. Colpiamo la sfera nera!» rispose Mera che con ritrovata determinazione, si lanciò nuovamente in direzione della creatura.
«La sfera? A-aspetta Mera! Accidenti a quella ragazza!» terminò Feras rimanendo alle spalle della compagna, con l’arco ben stretto tra le mani e un pessimo presentimento.
La creatura alata era ancora lì, con gli occhi chiusi e la sfera oscura che continuava a gonfiarsi, dando l’impressione che da un momento all’altro un’esplosione devastante avrebbe avvolto tutto l’arcipelago Marhus. Mera si fermò a circa venti metri dal nemico e incoccando un freccia, mirò attentamente a quella sfera senza neppure sapere il reale motivo che la stesse spingendo a quell’estremo tentativo. Feras giunse subito dopo di lei afferrando una delle due frecce che celava negli stivali, e si limitò a guardare curioso il risultato dell’attacco della compagna, titubante.
«Quella sfera risucchia tutto, inghiottirà anche la tua freccia. Che cosa vuoi fare?» disse sconsolato.
«È la cosa giusta, vedrai» rispose la ragazza senza voltarsi, con lo sguardo fisso al suo bersaglio.
Fu dunque il momento, tirò la corda dell’arco e trattenne il respiro per minimizzare il tremore delle braccia. Dunque spostò leggermente l’arco verso destra percependo la direzione del vento e finalmente lasciò andare la freccia che perforò Luthus, aria e perfino la sfera, andandosi a conficcare nel grosso albero che vi era oltre. Feras si portò una mano al volto scuotendo il capo, Mera deglutì spaventata e il mostro riaprì gli occhi fiammeggianti notando immediatamente i due ragazzi. Prima che potesse fare qualsiasi cosa però, la sfera di energia esplose rilasciando un forte bagliore che diede fuoco alla vegetazione vicina e alla creatura stessa, che in preda alle grida cominciò a rotolarsi per sfuggire al calore di quell’inferno.
«Ha funzionato!» esclamò Mera incredula, prima di essere presa in braccio forzatamente da Feras ed essere condotta nuovamente per la strada a Nord-Est alla ricerca di Aremhet. L’uomo corse senza voltarsi sicuro che la creatura non fosse ancora morta, e tutt’altro che disposto ad affrontare un altro conflitto diretto, sperava di trovare il mare ogni volta che superava uno di quegli arbusti. Mera cercò invano di divincolarsi dalla salda presa del compagno ma riuscì a tornare con i piedi per terra solo quando qualcosa arrestò l’avanzata di Feras. La fanciulla si voltò e sgranando gli occhi, vide il cielo cupo sovrastare il mare dominato da alte e pericolose onde.
«Siamo arrivati» disse Mera più a se stessa che al compagno.
«Non noti niente di strano?» chiese Feras con aria interrogativa.
La ragazza incrociò le labbra cercando di capire che cosa intendesse l’uomo, poi se ne rese conto e sgranò gli occhi:
«Le onde… non le sento».
«Esatto. Ho un udito abbastanza sviluppato e mi chiedevo perché non le sentissi ancora nonostante la strada corretta… le avrei sentite anche da lontano. C’è una sorta di barriera che divide la foresta dalla spiaggia».
Feras avanzò dunque per circa tre metri con la mano alzata ed effettivamente toccò infine una base solida e invisibile.
«Eccola, questa barriera ci separa dalla spiaggia. Di questo Vharal non ci ha parlato» affermò a quel punto.
«Come passiamo adesso?» chiese Mera guardandosi alle spalle, il Mago di Luthus poteva essere ancora sulle loro tracce. Feras ci pensò un attimo, poi tornò a sfiorare la barriera cercando di capire il materiale di cui era formata.
«È frutto di un incantesimo, potrebbe averla creata il Mago di Luthus per non far uscire le sue prede dalla foresta. Dobbiamo romperla».
L’uomo prese una delle frecce che teneva nello stivale, si allontanò di qualche metro e scoccandola la vide battere contro la barriera che non venne neppure scalfita.
«Niente. Mera, Vharal ti ha dato delle frecce speciali vero? Magari con quelle riusciremo a creare un varco».
La ragazza annuì e ne prese una facendo risplendere la punta di Luthus alla luce del sole. Feras la incoccò dunque nel suo arco e mirò nuovamente verso la barriera, sperando di riuscire a combinare qualcosa. Nel momento stesso in cui tirò la corda dell’arma però, una sorta di energia innaturale avvolse il cacciatore e una carica di elettricità interagì con la barriera rendendola visibile.
In quel momento Feras scagliò la freccia che non solo incrinò il muro di energia, ma riuscì perfino a perforarlo creando un’apertura grande quanto il pugno di una mano. A ogni modo l’intera barriera risentì di quel colpo, l’elettricità che l’aveva resa visibile si estese infatti per tutta la sua superficie che cominciò a rilasciare impulsi magici che costrinsero i due ad arretrare per non finirne vittima.
«Ma che?!» esclamò Feras cercando un appiglio per non finire scaraventato nuovamente nel cuore della foresta.
«Feras, dietro!» disse Mera balzando di lato. Il Mago di Luthus li aveva raggiunti nuovamente ma più che a loro, stavolta sembrava interessato a ciò che stava accadendo alla barriera.

«Era ovvio, gli antichi maghi sarebbero riusciti e spezzare i confini, per salvare se stessi».

La creatura alzò le braccia al cielo lasciando che delle sfere infuocate avvolgessero le sue mani, quindi puntò all’apertura del muro magico e gli scagliò contro tutta la forza magica accumulata. La spaccatura si allargò e tra le risa, il mostrò riuscì finalmente a passare.
«Perché ho come la sensazione che quella barriera non serviva per tenere dentro le prede della creatura?» disse tra sé e sé Feras intuendo di averla fatta grossa.
«Non c’è tempo, muoviti!» esclamò Mera rialzandosi e correndo sulla scia della creatura, passando per il buco che si era creato.
«Forza, non dobbiamo farlo allontanare!».
Feras sbuffò già pentito di quel viaggio e raggiunse la compagna nella spiaggia. Lì il Mago di Luthus li attendeva a mezz’aria battendo le grandi ali, e mostrando gli artigli sembrò deciso a mettere fine a quella caccia che si era prolungata già per troppo tempo.

«Mi hai salvato ma adesso devo ucciderti per essere di nuovo libero. Non temo le streghe ed essendo già morto una volta, non temo neppure la mia fine».

«Questo coso ce l’ha con te» fece notare Feras con un sorriso amaro e fuori luogo. Nonostante tutto riusciva a mantenere costantemente una calma invidiabile. Mera invece era colta da brividi ogni volta che quel mostro apriva bocca, e non per paura di morire, di finire infilzata da quegli artigli che avrebbero lacerato anche l’acciaio, semplicemente si era accorta di una consapevolezza inspiegabile riguardo tutto ciò che lo riguardava. Era come se sapesse esattamente come affrontarlo, come parlargli, andando a scovare ricordi ed esperienze mai vissute. Tutto ciò la spaventava e allo stesso tempo le dava sicurezza.
«Non vogliamo ucciderti, fatti da parte creatura» disse infine.

«Mi avete rinchiuso e lasciato morire in quella foresta nera. Non avrò pietà di voi come voi non ne avete avuta di me. Distruggerò l’intera isola e piangerete quel potere che volevate tanto» rispose il mostro, che incrociò gli artigli e partì finalmente all’attacco. Mera si gettò verso destra riuscendo a evitare il colpo e con agilità scagliò una delle sue frecce verso la testa del nemico. Quest’ultimo si alzò però a venti metri da terra con un forte battito d’ali che respinse perfino la freccia della ragazza, quindi si stabilizzò a quell’altezza e concentrò tra le grosse mani una pericolosa sfera infuocata.
«Se scaglia quella palla di fuoco da quella posizione non avremo scampo, Mera scappa!» gridò Feras dopo essersi guardato intorno ed essersi reso conto di non avere praticamente ripari vicini. La ragazza non lo ascoltò, prese dunque una delle frecce di Luthus, la incoccò nel suo arco e mirò verso una delle ali nemiche.
«Così funzionerà» disse dopo un sospiro, quindi liberò la corda, lasciò partire la freccia e la vide tracciare una scia violacea prima di andare a colpire le piume nere del mostro. L’ala sinistra prese fuoco e un fascio luminoso avvolse completamente il Mago di Luthus che sembrava in preda a un dolore lancinante. Tornò al suolo in ginocchio e con le mani alla testa cercò di limitare il dolore acuto che lo stava logorando dall’interno.
«Che cosa mi hai fatto?!» disse mentre il manto nero che copriva la sua pelle si incrinava e distruggeva sotto gli impulsi dell’energia che continuava a martoriarlo. Pochi minuti dopo era lì, immobile, senza più le grosse e inquietanti ali nere e quell’aria spaventosa che l’aveva contraddistinto nella foresta. Mera gli si avvicinò lentamente, nonostante fosse sicura di essere riuscita a sconfiggerlo, non aveva intenzione di abbassare la guardia. Anche Feras era curioso di osservare da vicino la creatura che aveva affrontato ma rimase a circa dieci metri di distanza con l’arco teso e una freccia incoccata. Il Mago di Luthus allora emise un gemito e con un sforzo atroce, riuscì a voltarsi per osservare il cielo: i suoi occhi non erano più rossi ma blu, proprio come il mare che adesso veniva fatto risplendere dal chiarore del sole. Mera si chinò per aiutarlo a mettersi seduto, per qualche ragione sapeva di non dover più avere timore di lui.
«Riesci a parlare?» chiese lei, mentre Feras sgranava gli occhi e puntava l’arco verso la compagna.
«Vuoi farci ammazzare?! Stagli lontana!» gridò.
A quelle parole il mago sussultò, in un primo momento non sembrò aver chiaro quello che stava succedendo intorno a lui, poi si guardò le mani non più annerite dall’energia oscura che l’aveva chiuso in una prigione invalicabile e svenne sfinito, con sul volto l’accenno di un sorriso.
«Dobbiamo trovare il tuo amico e medicarlo» affermò Mera con un tono che non ammetteva repliche.
«Eh? Prima di tutto non è da un mio amico che stiamo andando e poi vuoi davvero portarti dietro qualcuno che negli ultimi giorni non ha fatto altro che darti la caccia? È una follia, finiamolo mentre è incosciente!» ma quelle richieste furono semplicemente ignorate e Mera stava già provando a portare da sola il corpo del ragazzo prendendolo di peso dal braccio. Feras sbuffò sonoramente ma capendo di non aver la minima possibilità di far cambiare idea alla compagna, ripose la sua freccia nello stivale e prese sul collo l’altro braccio del mago.
«Il mio istinto da cacciatore dice che stiamo facendo un’idiozia. Per non parlare di quando Aremhet lo vedrà. Non vuole avere a che fare con i feriti, non è un dottore e non ci darà aiuto se abbiamo palle al piede. Anzi, sai cosa? Non vuole avere a che fare con nessuno lui. Siamo rovinati».
«Già, Aremhet… non mi hai più risposto prima. Allora vi conoscete?» chiese Mera cercando di spostare l’attenzione più sull’uomo che avrebbe dovuto garantirgli una barca che sul mago che avevano sulle spalle.
«Accidenti, è inutile che te ne parlo, lo vedrai da te. Ti prego solo di una cosa, non dirgli che questo qui era un Mago di Luthus».
«E perché?» continuò la ragazza.
«Perché è un pazzo» concluse Feras passandosi una mano sul volto.



 

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Capitolo 16
*** I veri demoni ***


sbav2

«Allora?! C’è nessuno?!».
Mera continuava a battere sulla porta di un piccolo casolare sulla spiaggia. La legna raccolta e ammassata vicino all’ingresso lasciava dedurre che fosse effettivamente abitata ma dall’interno non provenivano suoni di alcun genere. La ragazza incrociò le braccia stizzita e congedandosi con un calcio tornò dal compagno che intanto cercava di far rinvenire il giovane in cui si era trasformato il Mago di Luthus dopo essere stato sconfitto. Era ancora svenuto e non dava segni di miglioramento, non che a Feras dispiacesse visto che l’idea di portarlo con loro non era di sicuro stata sua. In ogni caso la porta dell’abitazione non si apriva e le scelte si limitavano a forzare la serratura o semplicemente continuare a costeggiare l’isola sperando che Aremhet si trovasse più avanti: effettivamente nelle vicinanze non vi era nulla che potesse far pensare che il casolare fosse suo, né una barca, o comunque un molo. Mera non riusciva a calmarsi, era stanca e aveva quasi già finito la scorta d’acqua che le aveva fornito Vharal.
«Ho sete…» disse.
«Ti avevo detto di dosare meglio i sorsi e poi è inutile che continui a sperare che Aremhet possa in qualche modo aiutarci. Non ci darà la barca, non ti darà da bere e nel migliore dei casi ci lascerà tornare nella foresta» rispose Feras sbuffando. Proprio a quelle parole però, la porta della casupola di legno si aprì scricchiolando e dal suo interno uscì un uomo con dei lunghi capelli bianchi e le vesti lerce, con sulla mano sinistra un’ascia sporca di rosso, probabilmente sangue. Fece qualche passo in avanti e rimase a guardare i presenti come fossero insetti da dover scacciare al più presto dal suo territorio. Feras balzò in piedi afferrando l’arco e con un cenno ordinò alla compagnia di fare lo stesso.
«Guarda un po’ che cosa ha sputato fuori la foresta. E’ il mio giorno fortunato o il vostro sfortunato?» cominciò l’uomo dalle iridi scure come la pece.
L’arciere dai capelli smeraldini deglutì sonoramente, temeva quella figura più di quanto in precedenza avesse temuto il Mago di Luthus ma sembrava deciso a cominciare una conversazione, in qualche modo.
«Non ti ricordi di me? Sono Feras di Lenne».
Mera rimase sorpresa nel sentire quella parola, quella città, la stessa su cui era sbarcata insieme a Valerian e Ruphis subito dopo essere fuggita la prima volta da Kubara. Ricordava con esattezza quel luogo: un piccolo villaggio portuale stracolmo di criminali e in generale gente poco raccomandabile. In un primo momento pensò che in fondo non poteva che essere quella la terra d’origine di Feras ma pensò poi che i ricordi che aveva lei del Saar non dovevano corrispondere alla realtà nella terra su cui si trovava adesso.
A ogni modo, le parole di Feras sembrarono aver avuto un qualche effetto sull’uomo, che aveva abbassato la guardia e cominciato quello che sembrava essere un sogghigno. Si avvicinò di qualche altro passo portandosi proprio al cospetto del cacciatore e rimase a guardare i suoi occhi verdi, lasciando che solo le onde del mare rompessero il silenzio che impazziva nei dintorni di quella spiaggia desolata. Poi girò gli occhi anche verso Mera e si portò l’ascia su una spalla prima di prendere la parola:
«E lei chi sarebbe? La tua nuova fiamma?».
La principessa rimase impietrita. Avrebbe voluto puntargli contro l’arco per fargli rimangiare la parola, ma l’unica cosa che ottenne dal suo corpo fu una sensazione di strana paura.
«E’ sotto la mia protezione, dobbiamo arrivare a Spell passando da Horen» disse Feras cercando di mantenere un velo di sicurezza.
L’uomo scoppiò a quel punto a ridere facendo riecheggiare la sua voce per tutta la spiaggia e fece per tornarsene verso la porta da cui era uscito.
«Non ho intenzione di perdere il mio tempo con una ragazzina e un ladruncolo di Lenne. Andatevene dalla mia spiaggia!».
Feras strinse i pugni nervosamente ma quando alzò la testa verso Mera per dirle qualcosa, la ragazza raggiunse il Mago di Luthus svenuto e si rivolse ancora verso quello che doveva essere Aremhet.
«Ti prego, ha bisogno di cure o non supererà nemmeno la notte. Ha la febbre alta».
Feras sgranò gli occhi terrorizzato per la bravata della compagna ma prima che potesse aggiungere qualsiasi cosa, l’uomo si fermò e girò la testa verso il giovane senza sensi tra le braccia della fanciulla.
«Dove avete trovare quell’ammasso di ossa?» si limitò a dire, notando la sua corporatura esile e malnutrita.
«Era un Mago di Luthus ma lo abbiamo sconfitto. Poi è tornato così, un umano, come tutti noi» rispose secca Mera, con uno sguardo tanto determinato da nascondere la delicatezza e la fragilità da principessa che si celava dentro di lei.
L’uomo rimase per un istante in silenzio come se stesse valutando la situazione, poi continuò il cammino verso l’abitazione ed entrando lasciò la porta aperta.
Feras non riusciva a crederci e l’unica cosa che gli risultò naturale in quel frangente, fu sorridere alla compagna annuendo e aiutarla a portare dentro l’esile mago.
L’interno della struttura era inospitale a dir poco: il puzzo terribile di morte che avvolse i nuovi arrivati avrebbe fatto titubare anche il meno attento dei viaggiatori ma in quella circostanza non potevano che fidarsi dell’unico uomo che avrebbe potuto portarli al di là del mare. Vi era comunque qualcosa di strano in tutta quella situazione e l’assenza di una barca e di un molo nei pressi della modesta abitazione non lasciava tranquilla Mera, che cercava intanto di occupare i pensieri prendendosi cura del giovane Mago di Luthus. Il grosso uomo armato di ascia afferrò a quel punto due cosce di cervo dalla mensola di legno della cucina e le lanciò sul piccolo tavolo al centro della stanza quasi totalmente spoglia di mobilia. Feras continuava a guardarsi intorno e non aveva la minima intenzione di accettare quel cibo nonostante fosse affamato. Più osservava quel luogo, più non poteva che associarlo a una sorta di magazzino di carcasse e a un laboratorio di un pazzo dove provare nuovi tipi di arma contro gli animali morti.
«Sei cambiato dall’ultima volta che ci siamo visti, o almeno, hai cambiato stile di vita» esordì il cacciatore dalla chioma smeraldina per smorzare la tensione. Da quando lui e Mera erano entrati lì dentro, nessuno aveva più aperto bocca.
«L’importante è sopravvivere no? In fondo anche tu sei finito a fare la guardia del corpo di ragazzine, eppure non ti sto giudicando» rispose Aremhet concedendosi una grassa risata. Poi conficcò la lama della sua arma sul tavolo di legno e mentre addentava un pezzo di carne, afferrò il giovane svenuto scaraventandolo a una parete. Mera rimase senza parole ma prima che potesse anche soltanto pensare di reagire, Feras l’afferrò pregandola di calmarsi.
«Mesi di trappole e attacchi e poi due stupidi viandanti riescono a catturarlo?».
«È stata fortuna…» - iniziò Feras, poi fece due passi avanti e decise di non perdere altro tempo - «a ogni modo ascolta, siamo giunti fino a qui dall’entroterra per chiederti un passaggio fino all’altra parte del mare. Il Saggio Vharal ti promette ricchezze in cambio di questo piccolo favore e abbiamo una lettera a testimoniarlo».
L’uomo si perse in un sogghigno e mentre il suo respiro diveniva più evidente e affannato, le sue pupille scure si dilatarono.
«Un passaggio? Sì… certo. Penso di poterlo fare» rispose con tono afono e senza troppa convinzione, tornando poi a osservare ammaliato il corpo del mago. Mera strinse i pugni impaurita e bastò uno sguardo con il compagno per capire che qualcosa non andasse, più di quanto si aspettassero.
«Eppure… non ho visto barche qui fuori» rischiò a dire il cacciatore. Di tutta risposta, Aremhet afferrò nuovamente con forza l’arma sul tavolo e puntò lo sguardo verso gli occhi verdi dell’interlocutore.
«Si trova più avanti, lungo la costa. Partiremo domani, per stasera riposatevi» rispose in un sospiro, sembrava stesse cercando di calmarsi. Passarono dunque nel silenzio le due ore successive e nonostante i due ospiti non volessero assolutamente mangiare nulla del cibo offertogli, accettarono di riposarsi fino all’alba. La sera era sopraggiunta e di certo non avrebbero potuto navigare con la compagnia della notte: le nubi erano tante e cupe e neppure l’argentea illuminazione della luna rifletteva il suo chiarore sulla costa e sul mare. Mera non riusciva a dormire e quando alzò lo sguardo poté notare che anche Feras non ne aveva nessuna intenzione: osservava fuori dalla finestra il mare nero con il suo tipico sguardo criptico e beffardo, nel riflesso smeraldino che lo caratterizzava. Non si era mai fermata a guardarlo così attentamente e solo allora rimase affascinata da quei colori così peculiari per un uomo del suo mondo. Era così diverso il Saar in cui si trovava? Quanto diversi potevano essere Arion e Zarion? Mille domande l’assillarono per tutta la notte ma almeno, quei dubbi, l’avrebbero tenuta sveglia. Poi dei mugugni nella notte, deboli lamenti provennero dal letto in fondo alla stanza che attirarono l’attenzione della cacciatrice.
«È il mago, forse si sta svegliando» disse con voce sommessa e Feras annuì avvicinandosi. Era effettivamente lui e nel sonno non riusciva a non lamentarsi in preda probabilmente a terribili incubi. D’un tratto però aprì gli occhi e riprese pochi istanti di lucidità quando osservò il viso di Mera e i suoi occhi blu.
«Il mago… fermate il mago» iniziò a dire, poi sembrò voler aggiungere ancora qualcosa ma un terrificante sibilo nell’aria costrinse i riflessi dei due cacciatori a spostarsi di lato e a temere il peggio nel giro di pochi istanti: il viso del ragazzo venne letteralmente spappolato dall’ascia che Aremhet aveva lanciato nell’oscurità della stanza mentre una risata folle e sommessa ricoprì il buio della notte. Mera cadde all’indietro soffocando un grido mentre Feras afferrò il suo arco e puntò una freccia verso l’uomo che si stava avvicinando.
«È incredibile quanto utile può essere una buona costituzione, non credete? Non sarei mai riuscito a lanciare un’arma del genere con quella forza» disse l’uomo dai lunghi capelli bianchi.
«Chi diamine sei?» sbottò il cacciatore sempre più convinto che l’unica cosa da fare fosse lasciare andare la corda dell’arco.
«Qualcuno che vi ringrazia enormemente. Sapete, non è da tutti aiutare un Mago di Luthus ormai a quel punto della trasformazione. Siamo considerati demoni, chi vorrebbe mai aiutare i demoni?».
«Tu… tu sei il mago?» disse Feras pentendosi di aver ceduto ai capricci di una ragazzina. Mera trovò però finalmente la forza di rialzarsi e reagire e affiancando il compagno decise di prendere anche lei la parola:
«Perché? Non volevamo farti del male» si limitò a dire.
A quelle parole, l’uomo si guardò le mani e strinse infine i pugni e gli occhi.
«Non è malvagità la mia. Sono i maghi di Spell i veri demoni, i veri uomini che dovrebbero soffrire le pene di Nerigal, e lo faranno» terminò con quella frase prima di alzare una mano verso i due viaggiatori ed evocare un’energia dall’aria stessa che tramutò in un vento forte e dirompente che distrusse prima la freccia scagliata da Feras, poi l’abitazione di Aremhet, insieme a tutti coloro che vi erano all’interno.



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Capitolo 17
*** L'arena ***


L'arena

La folla si stava accalcando intorno alla gabbia al centro dell’arena, e quando alcuni uomini in armatura argentata si avvicinarono per farla disperdere e allontanare, un brusio di dissenso provenne dagli spalti in agitazione. Cori e grida, fischi misti ad applausi: la gente che si trovava a osservare l’uomo all’interno della grata non sembrava aver esattamente preso posizione, a lei bastava azione, movimento, sangue, non importava il vincitore in quella circostanza. Con il passare dei secondi, la tensione divenne quasi insostenibile e il desiderio dei presenti di assistere alla gara superò la pazienza dei più tranquilli. D’un tratto giunse un uomo dai corti capelli scuri con sulla testa una corona dorata, che sfoggiando la sua lunga tunica bianca decorata con spille in puro oro, alzò un braccio per salutare il pubblico numeroso. Un’esaltazione generale rispose al gesto del Re del regno e finalmente, due cavalieri si diressero verso il grosso lucchetto della gabbia e liberarono colui che vi era all’interno. Un improvviso silenzio avvolse l’arena: il pubblico tratteneva il fiato, il Re attendeva in piedi e sorridente e il vento soffiava soltanto per spostare la sabbia sul terreno e ricreare un gioco di taciti ululati in quegli attimi glaciali. Il sole batteva forte sulla schiena nuda dell’uomo che a piccoli passi provò a uscire dalla gabbia con un braccio a protezione degli occhi. Lì dentro aveva vissuto diverse ore completamente nell’oscurità a causa degli spessi teli che coprivano le grate, dunque il calore di quei raggi gli si avventò sulla pelle come un parassita,  entrando in contrasto con l’aria tetra e i brividi che lo assalirono. Era chiaramente ferito, gli ematomi sui fianchi erano ancora visibili e le cicatrici di decine di frustate descrivevano tutta la perversione di chi se la rideva all’interno del sopraelevato palco regale. Dei suoi capelli una volta biondissimi non rimaneva che una ribelle chioma sporca e macchiata di rosso, in tutta probabilità parte di quel sangue ormai asciutto che gli aveva completamente ricoperto il corpo durante le frustate. Eppure si trovava lì, in piedi e con il volto finalmente libero di osservare la folla in tumulto per lo spettacolo di cui da lì a poco avrebbe goduto. Golden strinse i denti e i pugni, chiudendo in seguito gli occhi per dimenticare almeno per qualche secondo il supplizio che aveva passato, e concentrarsi sulle abilità che fino a quel momento gli avevano consentito di sopravvivere a scapito di chiunque avesse affrontato la sua arma. Non sapeva nemmeno perché continuava a sperare di vedere la luce alla fine di quel tormento, perché non la facesse semplicemente finita per non dover più ascoltare le urla eccitate di quegli uomini che non meritavano altro che la morte. La speranza era sparita da tempo e con lei anche la motivazione stessa per continuare a sopravvivere . A ogni modo, voltò il capo e puntò lo sguardo verso il Re e i tre uomini che sedevano di fianco a lui nella postazione regale sugli spalti. Non disse nulla in modo esplicito, forse perché il dolore alla mandibola, tra gli altri, non glielo permetteva, ma quel lungo discorso non espresso dai suoi occhi dorati, avrebbe incrinato anche l’animo più ferreo. Camminò verso un lato dell’arena e una delle guardie gli lanciò una spada smussata e un piccolo scudo di legno dall’aria terribilmente fragile. Il ragazzo afferrò l’arma ma colpì proprio lo scudo con un fendente talmente forte e netto che ne decretò la fine in mille piccoli pezzi. La folla apprezzò e cominciò a rumoreggiare più di quanto non stesse già facendo, e nell’aria poté percepirsi la voglia e la tensione che l’intero popolo  stava generando, pronto a deliziarsi del sangue dei suoi campioni. Le grosse porte di ferro ai due estremi dell’arena si aprirono, rivelando due guerrieri per parte, armati di mazza e scudo di ferro. Golden roteò la spada pronto a dar battaglia ma prima che potesse abbattere sugli avversari la sua rabbia, il Re alzò un braccio e prese la parola, ottenendo nuovamente quel silenzio minacciato soltanto dall’inquietante soffiare del vento:
«Tredicesimo giorno di giudizio. Il colpevole affronterà fino alla morte i suoi stessi peccati per sconfiggerli e purificarsi. Quest’oggi però, la mano omicida non impugnerà armi e resterà soltanto a guardare la gemella battersi per lei e per la sua salvezza. Straniero senza nome, combatterai usando la tua mano destra!» sancì il Re generando il tumulto tra i presenti.
Golden sgranò gli occhi inizialmente confuso e sorpreso: a causa della sua natura mancina, in quegli scontri, aveva sempre usato la mano sinistra per combattere e a chi era stato incaricato di studiare ogni possibile situazione che potesse metterlo in difficoltà, non era certo sfuggito un simile dettaglio. Il giovane abbassò il capo osservando il terriccio, perso in quello sguardo vuoto e senza più il minino desiderio di sopravvivere, almeno in apparenza. D’altronde era ancora lì, pronto a combattere nonostante tutto. Spostò la spada nell’altra mano e facendola roteare un paio di volte, si lanciò contro la prima coppia di avversari colpendo i loro scudi. Uno di loro indietreggiò impaurito dall’aggressività del giovane, mentre l’altro effettuò un abile movimento verso destra indirizzando la sua mazza chiodata proprio sull’unico braccio concesso a Golden. Quest’ultimo intuì però con un sorriso quell’ovvia e debole offensiva, muovendo quindi abilmente la spada per parare il colpo e trafiggere il petto dell’uomo sfruttando all’istante la minima apertura che si era creata nelle sue difese. L’altro titubò un istante e prima che potesse prendere una decisione sulla prossima mossa, si ritrovò la spada in mezzo agli occhi. Gli altri due si guardarono scambiandosi un’intesa, e correndo su entrambi i lati del giovane, sperarono di precludergli ogni possibilità di difesa, sfruttando il suo essere al momento disarmato. Golden effettuò però una capriola all’indietro portandosi proprio di fianco al cadavere con sulla testa infilzata la spada smussata e quando giunsero gli avversari, aveva già recuperato l’arma, percorso altri due metri verso di loro, parato il primo fendente e infilzato lo stomaco di quello più robusto. Erano rimasti uno contro uno e lo spadaccino dai capelli biondi si fermò a contemplare chi era stato gettato come lui nel macabro gioco perverso del Re e del suo popolo: era un semplice soldato con un’armatura troppo pesante per anche solo sperare di competere alla pari contro chi poteva quantomeno godere della libertà di movimento. Il vento batteva forte nell’arena e accompagnando la danza di chi volteggiava tra i suoi soffi, sembrava aver già deciso anche per quel giorno, il vincitore della tenzone. Il giovane mosse la mazza chiodata per intimorire l’avversario ma Golden gli girava intorno godendosi il fiato corto del pubblico che attendeva l’affondo finale, che continuava a essere rimandato. L’avversario tremava, senza più speranze, e dal suo sguardo pietrificato si intuiva la flebile volontà di morire senza altre attese per non dover più sopportare la terribile angoscia che lo stava logorando. Golden volteggiò l’arma attaccandolo e riuscì facilmente a disarmarlo e atterrarlo, puntandogli infine l’arma alla gola.
«In un’altra vita, mi ringrazierai» disse lo spadaccino a voce bassa prima di affondare la spada nel cuore del giovane e allontanarsi a pugni stretti verso la postazione regale.
Il Re si alzò applaudendo, sinceramente colpito dalla bravura in combattimento dello spadaccino dai capelli biondi e prese la parola versandosi altro vino sul suo grosso calice:
«È davvero impressionante, impressionante! Tanto che sono dispiaciuto dell’ormai prossima fine del tuo percorso di purificazione. Hai conquistato il mio cuore e quello dei tanti qui presenti… ma la legge è legge» - si fermò solo un attimo per bere - «oggi però non hai ancora terminato la tua tappa, Straniero senza nome. Affronterai un altro dei nostri valorosi arbitri… nelle fiamme».
Il centro dell’arena fu invaso da una grossa e alta fiammata che costrinse tutti i più vicini a coprirsi il volto, compreso Golden che serrò la mascella in preda a una rabbia che dovette necessariamente sopprimere. Una delle porte di ferro si aprì nuovamente ma stavolta ne uscirono due strane creature dal manto dorato simili a uccelli, la cui natura ricordava chiaramente quella degli Ebrion a causa delle gemme argentate sul capo. Trainavano una grossa gabbia su ruote di legno e quando si fermarono a qualche metro dal fuoco, nell’esatta posizione opposta rispetto a Golden, attesero che alcune guardie giungessero per aprire anche quel lucchetto. Lo spadaccino sgranò gli occhi alla vista di quegli animali e non riuscì a non pensare a quanto fossero simili ai grandi sacri rapaci dai poteri divini che aveva imparato a conoscere e combattere. Sapeva che non sarebbero stati quelli però i suoi avversari e che probabilmente non possedevano neppure una traccia del potenziale dei loro simili se accettavano di essere trattati come strumento da traino. Dunque spostò la sua attenzione verso la gabbia, cercando di scorgere attraverso le lingue di fuoco, colui che avrebbe versato altro sangue sulla sua spada. Il pubblico rumoreggiava festoso, probabilmente non consapevole dell’identità del nuovo “campione” ma poco gli importava, la speranza di uno spettacolo senza precedenti era viva e quella fiamma che bruciava al centro dell’arena sembrava fosse alimentata proprio dalla voglia di quella gente di vedere altro sangue e altre battaglie. La porta della gabbia si aprì e dal telo scuro che ne teneva celato l’interno, uscì un uomo che Golden riconobbe immediatamente, nonostante il fuoco lo tenesse ancora distante. I suoi capelli argentati, gli occhi grigi e quel suo modo fiero di presentarsi alla luce forte del sole, non potevano che rivelare il nome che volava attraverso il vento tra le labbra dello spadaccino dai capelli biondi:
«No, non può essere… Javia».
Il Re era sorridente e fiero, sicuro che tutti i presenti avrebbero apprezzato lo spettacolo che aveva scelto per quel giorno.
«Lo Spettro grigio contro lo Straniero senza nome. Entrambi peccatori alla ricerca della purificazione della propria anima. Quale modo migliore del liberare il proprio nemico dal male, sacrificando se stessi all’atto impuro, per ricevere la purificazione? Il sopravvissuto avrà l’onore di affrontare l’ultima sfida, davanti i propri sbagli, il proprio dolore. E allora, peccatori, date battaglia con il vostro oscuro trascorso!». Il Re terminò quel discorso godendo dell’applauso dei presenti e degli sguardi confusi e sconcertati dei due nell’arena, divisi dall’alta fiammata. Golden non riusciva a darsi una spiegazione, così come Javia non sembrava avesse la forza di dire nemmeno una parola. Entrambi si limitarono ad osservarsi camminando attorno al fuoco, che con il passare dei secondi diventava sempre più alto e pericoloso. Il pubblico rumoreggiava mentre i due continuavano a tardare l’inizio del combattimento. Iniziarono ad arrivare anche i primi fischi e lo stesso Re cercò di capire perché ci stessero mettendo tanto. Non poteva sapere la vera identità dei due che si erano ritrovati faccia a faccia, non poteva sapere che proprio Javia, uno dei cinque cacciatori della notti, fosse il padre dell’altro prigioniero. Golden aveva sognato spesso il giorno in cui avrebbe potuto affondare la propria spada nel petto di quell’uomo spregevole, che avrebbe venduto ogni avere per mettere le mani sul potere che Carian aveva cominciato a sviluppare fin da quando era ancora una fanciulla. Ma non riusciva a muoversi, bloccato da dubbi e domande troppo importanti per rimanere irrisolti. Doveva parlare con Javia, in un modo o nell’altro, ed era convinto che anche lui stava pensando la stessa cosa, poteva leggerlo nel suo sguardo grigio, cupo, spento come non lo era mai stato. La folla beccò nuovamente i contendenti con fischi di disapprovazione, quella fase di studio era durata fin troppo e Golden percepì il pericolo di mettersi contro anche il popolo che si era più volte schierato dalla sua parte, dunque roteò la spada e fece cenno all’avversario di venire avanti, attraverso le fiamme. A quel punto Javia si fermò, alzò il braccio verso due cavalieri ai lati dell’arena e si fece lanciare un’arma, quella con cui avrebbe combattuto il proprio figlio: un bastone con all’estremità una lunga e affilata lama, che roteò più volte prima di infilzare al suolo e inchinarsi verso Golden. Il pubblico apprezzò, lo spadaccino dai capelli biondi pensò che potesse essere uno dei suoi metodi per accalappiarsi i favori di quella “giuria” che dall’alto della sua postazione, non faceva altro che tifare e giudicare.
«Fatti sotto, Straniero» disse sorridendo Javia, riafferrando il bastone e spostandosi attorno al fuoco per avvicinarsi quanto più possibile all’avversario. Golden non seppe dire se fu un’abilità magica delle sue o semplicemente una fisicità tale che gli permise di muoversi a quella velocità, ma di fatto si ritrovò lo sfidante a un palmo dal naso prima che potesse battere due volte gli occhi. Alzò la spada smussata parando un paio di colpi ben assestati ma il terzo riuscì a deviarlo, lasciando il fianco di Javia scoperto. Non affondò, non voleva ucciderlo prima di avergli parlato, per quanto per uscire da lì avrebbe necessariamente dovuto farlo.
«Tu sai dove diamine siamo?» si limitò a dire il ragazzo a bassa voce.
«E tu?» rispose lo stregone, mentre con una capriola tornava in una posizione di vantaggio alle spalle di Golden. Quindi roteò l’arma e con la lama provò a colpire la sua gamba sinistra. Lo spadaccino frappose fra sé e il colpo nuovamente la spada, e parò anche quel fendente, indietreggiando incolume. Rimasero in quella posizione un paio di secondi, poi Golden scattò provando un affondo ma Javia saltò di lato agilmente schivando, e riuscì anche a colpire al braccio il figlio con un veloce movimento del bastone dalla parte della lama. Il giovane si portò una mano sul taglio e sentì il calore del sangue bagnargli le dita. Sorrise, quasi contento di quella svolta imprevista e improvvisa.
«Vuoi davvero combattermi in duello?» chiese Golden, come volesse sottolineare il fatto che senza strane magie e stregonerie, quello scontro era già deciso.
Javia rispose con un singolo sorriso e balzando nuovamente verso l’avversario, effettuò due giravolte con il bastone, costringendo Golden a chinarsi celere prima, e saltare all’indietro dopo, mentre la lama gli passava esattamente sotto la testa. Stavolta non avrebbe però aspettato un’altra offensiva e scattò spada alla mano: provò un affondo prontamente schivato ma quando Javia si portò verso destra, Golden si chinò su se stesso allungando la gamba per colpire con forza la caviglia d’appoggio dell’avversario, che finì rovinosamente al suolo.
«Lento» disse Golden mentre saltava e con la punta della spada trafiggeva la sabbia dell’arena: Javia era riuscito a rotolare schivando all’ultimo istante. Il giovane dai capelli biondi continuò però a essere aggressivo, sfilando la lama ed effettuando un’altra serie di fendenti, che stavolta ruppero in due il bastone e ferirono all’addome lo sfidante. Javia cadde in ginocchio nel sangue, mentre la follia era nel delirio più assoluto.
«Bene… s-sei ancora abbastanza forte per questo» bisbigliò lo stregone mentre cercava di mantenere lucidità. Golden si avvicinò credendo di non aver sentito bene, ma quando protese verso lo sfidante il volto, il pezzo di bastone rimasto tra le mani di quest’ultimo colpì con un botta terribile lo stomaco del ragazzo che si piegò in due tossendo sangue.
«Maledett…» riuscì a dire Golden, poi vide Javia avvicinarsi zoppicante verso di lui: era circondato da una lievissima energia violetta, quella che caratterizzava la stregoneria, e in quel modo partì all’ennesimo assalto colpendo con un singolo e violento pugno il volto dello spadaccino che non riuscì a difendersi a causa di una strana forza spirituale. Golden imprecò nel sangue ma quei secondi di paralisi e paura terminarono in breve, e quando riuscì a rialzarsi e ad afferrare la propria spada caduta lì vicino, balzò furioso sull’avversario e infilzò con tutta la rabbia repressa l’uomo di cui condivideva il sangue e nient’altro. Riuscì a vedere il suo volto spegnersi lentamente e un sorriso formarsi nelle sue labbra.
Lacrime calde inondarono gli occhi dorati di Golden e una gli rigò il volto inespressivo. Poi si rialzò stringendo i pugni, ignorando le urla soddisfatte dei presenti e lo sconforto che lo colse. Lo aveva ucciso, voleva farlo da troppo tempo, eppure erano rimaste in sospeso troppe domande.
Intanto il Re si alzò e con tono solenne richiamò all’attenzione il pubblico impazzito di gioia:
«La giustizia ha parlato: lo Straniero senza nome affronterà domani l’ultima tappa della sua purificazione!».

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Capitolo 18
*** Fratelli ***


Fratelli Urla e lamenti erano ciò che nel silenzio era possibile udire nella fetida prigione dentro cui era trattenuto Golden. In quelle profonde segrete il sole non arrivava e le lampade a olio che avrebbero dovuto garantire un minimo di illuminazione, erano logore e stavano per spegnersi. Erano dettagli di poco conto agli occhi del giovane dai capelli biondi che se ne stava in un lato della cella con le spalle poggiate alla parete rocciosa. Non alzava il capo da ore ma non dormiva, non riusciva a riposare lì dentro e con la mente non riusciva a staccarsi dall’idea che tra qualche ora avrebbe affrontato la sua “ultima prova”. Gli altri prigionieri erano per lo più ladri e stupratori, feccia della peggior specie il cui destino era fare da vittime sacrificali per chi aveva la fortuna di poter impugnare una spada e provare a vincere la propria innocenza. Golden non se ne curava ma almeno nessuno aveva il coraggio di provocare il guerriero che aveva superato quasi tutte le prove del Re. A tutti era permesso assistere agli scontri in arena, anche ai prigionieri, e tutti avevano visto l’abilità dello spadaccino nel battere orde di uomini e poi il lanciere dai capelli argentati. Molti si chiedevano da dove venisse lo “Straniero senza nome” ma per qualche ragione, non ve n’era ancora stato uno che aveva osato chiederglielo. Golden dal canto suo taceva, quantomeno non avrebbe dovuto difendersi anche fuori dall’arena. Passarono un paio di ore nel silenzio più totale: anche i lamenti che facevano da sfondo a quell’immagine d’oscurità si erano placati e proprio quando il guerriero sembrò sul punto di socchiudere gli occhi per risposarsi qualche minuto, alcuni passi rimbombarono nella sala delle prigioni e due soldati si avvicinarono alla cella di Golden.
«Straniero, hai una visita. Se a letto sei bravo la metà di come combatti, stasera passerai ore di fuoco prima del grande giorno» disse uno dei due suscitando risa generali. Dunque gli incatenarono i polsi e lo scortarono attraverso un lungo e buio corridoio. Il tanfo terribile che accompagnò il giovane per tutto il tragitto l’aveva quasi portato a reagire alle continue spinte dei carcerieri, ma in qualche modo riuscì a controllarsi, preferendo lasciare esplodere dentro di sé la rabbia e soffrirne in silenzio, piuttosto che allungare una pena che era già durata troppo. Giunti davanti a una robusta porta di ferro, una guardia infilò nella toppa una grossa chiave dello stesso materiale e spinse dentro il prigioniero.
«Se sentiremo urla ti rigetteremo nella cella. Dì alla tua sgualdrina di andarci piano» disse sghignazzando, quindi richiuse la porta e si allontanò, lasciando Golden con l’ospite che era venuto a trovarlo. Il ragazzo dagli occhi dorati fece qualche passo in avanti imprecando contro quelle due fecce che avrebbe volentieri fatto a pezzi, ma sospirò cercando di ritrovare la calma. Le due lampade sistemate sui due lati opposti della camera ne descrivevano la pessima condizione, non diversa dalle altre celle in cui venivano lasciati a marcire i prigionieri. Anche quella stanza era una prigione, solo un po’ più grande e con alcune sedute disseminate per il pavimento di pietra. Una sala visite, in qualche maniera.
Poggiata al muro di fronte a Golden vi era una figura incappucciata nell’ombra, nascosta anche dal tacito chiarore dei due fuochi vicini, ma non appena vide arrivare il giovane guerriero, alzò il capo e gli corse incontro gettandogli le braccia al collo tra le lacrime. Golden pensò per un momento di agire e contrattaccare ma per istinto, si lasciò vincere da quella presa, da quei singhiozzi e immediatamente ne percepì la familiarità.
«N-non puoi essere tu…» disse in un sibilo lo spadaccino dagli occhi d’oro.
«Golden… non posso crederci» la voce di Carian rotta dalle lacrime. Le parole le si strozzavano in gola e non riuscì a dire nulla al fratello ritrovato, preferendo rimanere semplicemente tra le sue braccia. Era ancora vivo ed era lì, erano di nuovo insieme.
«È stato terribile, ho passato dei momenti in cui ho pensato che potesse essere la fine e non immagino nemmeno che cosa abbia passato tu qui dentro. Che cosa ti è successo?» cominciò finalmente Carian d’un tratto. Golden si allontanò di un passo sospirando, poi restò a guardare il riflesso dorato delle iridi della sorella, rischiarate dal riflesso del fuoco nelle lampade.
«Io ero da solo, Carian. Da solo in un mondo che non mi apparteneva. Ho cacciato, ucciso, rubato. Passavano i giorni e non riuscivo più a capire chi fossi, dove mi trovassi. Poi ho capito di essere nel Kharas, nel Nord, nelle terre abbandonate che circondano Kaimar. Ho provato a spostarmi a Sud, attraversando foreste, sperando nei loro fiumi d’acqua dolce. Niente di tutto ciò, ho trovato una landa arida, senza acqua, senza cibo».
Al solo ricordare di quei giorni, Golden si portò una mano alla testa come se stesse riassaporando la sofferenza che aveva dovuto sopportare.
«Non mi ci volle molto per capire che questo non era il Kharas che conoscevo, ma ho continuato ad andare verso Sud, forse con la speranza di trovare l’erba di Green-Lock, la grandezza di Water-Lock» continuò tornando agli occhi della sorella.
«E non le hai trovate» disse Carian scuotendo leggermente il capo malinconica «non quelle che Kubara stava ricostruendo dopo la guerra e l’attacco di Naos Echel e Javia».
«Non le ho trovate. Un uomo e sua figlia hanno però trovato mezzo morto me nelle cupe foreste di Sunar. Ho passato con loro qualche settimana in una piccola città a Sud e il mio corpo cominciò a riprendersi, a tornare a vivere ed ero tornato a chiedermi dove mi trovassi davvero. Loro mi avevano confermato, prendendomi probabilmente per pazzo: era il Kharas e a Sud-Est avrei trovato Water-Lock. Mi hanno parlato di un Re folle, di un regno retto dalla sua tirannia, di un popolo corrotto e malato e non sapevano assolutamente nulla di una guerra tra Green-Lock e Kubara, della magia di fuoco di Naos Echel. “I maghi vivono a Spell, non si allontanano quasi mai da lì e in ogni caso non prenderebbero le parti di nessuno in una guerra tra regni. La loro guerra è quella contro il Demone Oscuro e la Strega Rossa, la guerra di tutti noi è quella contro di loro” mi disse Liania, la figlia dell’uomo che accettò di salvare la vita a un estraneo».
Carian ascoltò in silenzio fino a quel punto, quindi fece un cenno con il capo e parlò cercando di riprendersi definitivamente dal pianto che l’aveva colta.
«Siamo nell’”altro Saar”… la terra di Amel» confermò.
«È quello che ho pensato» rispose Golden ancora malinconico.
«Ma come sei finito qui? Che cosa è successo all’uomo e alla figlia che ti hanno ospitato?» chiese nervosamente la fanciulla, stringendo la sua lunga chioma cremisi. Golden si morse un labbro e indietreggiò lentamente fino a raggiungere la parete con le spalle.
«Ero con lei nella foresta e alcuni uomini ci hanno teso un’imboscata: non erano semplici banditi, il loro attacco era ragionato, studiato e non hanno rubato nulla. Hanno preso solo la sua vita… solo… la sua vita» rispose scivolando fino al suolo, cercando di ricostruire ciò che lo aveva portato a dover affrontare i giochi perversi di quel Re nell’arena della morte.
«Un omicidio? Qual era la storia di Liania? Chi era, Golden?» chiese Carian preoccupata. Il fratello scosse il capo e continuò: «ne ho respinti alcuni, poi il resto del gruppo è scappato. Quando ho portato al padre il corpo insanguinato della figlia non riuscivo a pensare. Si è messo a urlare e a incolparmi e senza neanche accorgermene mi sono ritrovato incatenato e in viaggio verso Water-Lock, scortato dalle guardie del Re, a scontare la mia pena. Liania era morta e io stavo per essere giustiziato per questo». Una lacrima gli rigò il viso e i suoi occhi dorati osservavano il buio senza vedere. Non sapeva neppure quanto tempo fosse passato, da quanto lottava per sopravvivere nella foresta di Sunar. Per quanto cercasse di ricordare, non capiva da quanto Liania fosse morta. Il tempo, in quella terra così simile e così diversa, era come distorto.
«Golden, mi dispiace ma anch’io ho passato momenti in cui avrei preferito morire lì fuori, e non hai idea di cosa ho passato per essere qui a parlarti, ma ora dobbiamo andare, dobbiamo scappare da questo posto» disse Carian con ritrovata determinazione, allungando una mano verso il fratello.
«Mi manca l’ultimo incontro e poi sarò libero, non posso scappare proprio adesso» rispose lo spadaccino ignorando il braccio della sorella.
«Golden! Svegliati! Domani potresti morire nell’arena, come potevi morire oggi. C’è anche Ruphis con me che attende un mio segnale, sono qui per farti uscire» continuò la ragazza.
«Già… lo scontro di oggi. Tu l’hai visto? Eri presente? Quell’uomo…» cominciò Golden stringendo i pugni, cercando di ricordare lo sguardo del lanciere d’argento. Carian scosse il capo con decisione, aveva intuito cosa stesse per dire il fratello: «non era lui, non poteva essere lui. Eravamo gli unici con le gemme in grado di riaprire il portale e lo sai bene».
Il ragazzo abbassò il capo ripensando a quelle iridi grigie e al riflesso argenteo dei suoi capelli al bagliore del sole. Non era lui? Come poteva non esserlo? Aveva camminato su quel suolo consapevole di avere davanti lo stregone Javia che sapeva essere suo padre, sotto gli occhi testimoni di tutti i presenti, e alla vista del Re nella sua scintillante armatura di smeraldo. Nel sorriso di quell’uomo ripugnante sembrava esserci consapevolezza, eppure non poteva conoscere la vera identità dello “Straniero senza nome” e di quel lanciere d’argento.
«E se avesse trovato un altro modo per raggiungere questo posto?»
«Allora hai posto fine alla vita di un pericoloso stregone» rispose Carian determinata, come se non avesse avuto nulla a che fare con colui che per anni aveva agognato il suo potere celeste. Golden annuì debolmente. Erano passati mesi da quando si era risvegliato in quella foresta a Nord del mondo, oltre qualsiasi mappa e conoscenza, in un luogo che non aveva stranamente mai visto. Doveva abituarsi all’idea che non si trovava rinchiuso nelle stesse terre che aveva lasciato anni prima, dove aveva combattuto la guerra al fianco di Valerian e di tutti gli altri. Solo allora realizzò le parole della sorella: Ruphis era con lei e attendeva soltanto un segnale per poter mettere in atto un qualche piano dei suoi per tirarlo fuori dalla cella. Non era la prima volta che finiva prigioniero ma insieme al Drago Nano era sempre riuscito a sfuggire al patibolo.
«Che avete in mente?» chiese cercando di tornare in sé. Carian tornò a sorridere e rispose controllando che nessuno arrivasse dal corridoio buio da cui era giunto prima il fratello.
«Darò il mio segnale a Ruphis che riempirà queste segrete di una potente nube velenosa. Le guardie saranno costrette ad aprire i cancelli per le vie sotterranee che attraversano tutta la città fino a fuori le mura. Un po’ come quando siamo scappati da Vhiria».
«Nube velenosa?» chiese Golden scettico.
«I poteri di Ruphis, in questo mondo, sono cambiati, mutati. Non hai idea di quello che è riuscito a fare da quando ci siamo incontrati» rispose la fanciulla in un sogghigno, lasciando intendere al fratello che il meglio doveva ancora arrivare. Lo spadaccino annuì a quel punto, con più decisione, e attese che Carian si mettesse in contatto con il Drago Nano, ricordando a quel punto di come lui non ne fosse più capace.
«Perché io non riesco a sentirlo?» chiese.
«Perché non è la sua abilità che sfrutteremo, ma la mia».
Carian chiuse gli occhi e la cella si colorò di un inquietante velo violetto che si rese immediatamente riconoscibile agli occhi di Golden, che afferrò la sorella per un braccio.
«Questa è stregoneria, quale energia stai usando?» sbottò il giovane, ricordando tutta la repulsione che provava verso i maghi. Sua sorella però era sempre stata diversa, lei aveva sviluppato una nuova forma di magia e il suo colore non era oscuro, violetto, ma azzurro e puro come la sua stessa anima. In quel momento però, Golden riuscì a vedere soltanto un ennesimo stregone che dava dimostrazione di come tutto poteva essere ucciso e distrutto con la forza della vita stessa, del sangue di chi era a loro vicino.
Lei non rispose, si limitò a poggiarsi alla parete rocciosa quando ebbe finito e alzando gli occhi verso il fratello, mostrò una goccia cremisi colarle lungo la guancia. Erano lacrime di sangue.
«Non avremo molto tempo e le guardie correranno qui per occuparsi di te. Non opporrai resistenza, non farai niente di stupido, finché non vedrai la luce del sole. Potrebbero volerci delle ore e la nube di Ruphis potrebbe raggiungervi. In quel caso non respirare».
«E tu che cosa farai?» chiese Golden confuso, cercando di ricordare ogni passo.
«Me la caverò. Adesso colpiscimi» disse la ragazza.
«Cosa?».
«Colpiscimi!»
Il rumore di passi infuriò nel corridoio che portava alla stanza in cui stavano parlando i due fratelli.
«Perché?!» Golden non capiva e un dolore alla testa gli annebbiò la vista.
«Colpiscimi, Golden!» esplose Carian che si vide finalmente arrivare un manrovescio poderoso dal fratello. Lei cadde al suolo gemendo e proprio in quel momento due guardie aprirono la porta di ferro, afferrando il prigioniero con forza per poi coprirgli il volto con uno scuro cappuccio scuro.
«E lei?» chiese una delle due.
«Abbiamo ordini solo sul prigioniero, lasciala morire!» rispose l’altra gettandosi nell’oscurità del lungo corridoio.

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