Gli ultimi

di Camila Serpents
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Formiche. ***
Capitolo 2: *** 2. Bambi. ***



Capitolo 1
*** 1. Formiche. ***


La macchina del suo ormai ex cliente scomparve in fondo alla strada, lasciandola dove l’aveva caricata. Il tizio l’aveva pagata e poi salutata con una poderosa pacca sul sedere. Sentì l’imminente bisogno di rimettere. I lavori di bocca li avrebbe evitati volentieri, ma la maggior parte degli uomini non era intenzionata a rinunciare a tale piacere. Lei ovviava alla cosa infilandosi due dita in gola.
Le mille luci della città catturavano i suoi occhi, lei le guardava imbambolata, come per distrarsi dal posto in cui era. Seguì con lo sguardo il profilo del golfo e delle acque marine che conteneva, si concentrò nel buio pesto per delimitarne le onde, quasi volesse smaterializzarsi e non essere dove era. Scosse la testa, voltandosi verso la strada dando le spalle al paesaggio di quella città bella e dannata.
Quando era adolescente aspettava l’autobus ad una fermata poco più avanti di casa sua, non era importante come fosse vestita, qualche decerebrato che le suonava c’era sempre. Nell’immediato lei gli alzava il dito medio, sprezzante. Ora, invece di quel gesto, si metteva in posa e faceva uno sguardo accattivante con tanto di saluto con la mano.
Quella notte faceva freddo, le sue calze a rete e la sua minigonna non la aiutavano a superare quelle temperature. Se non fosse stato per il suo giacchetto con pelliccia finta rossa non avrebbe potuto resistere a quel gelo. Frugando nella borsetta prese l’accendino con una sigaretta e l’accese. Era l’unico metodo che aveva per riscaldarsi.
Le era stato impossibile non notare un grande via vai di macchine verso il locale infondo alla via, la maggior parte erano ragazzi giovani, gasati e pieni di voglia di sballarsi. Il posto non era uno dei migliori, ma era rinomato per il non rispettare il limite di età per quanto riguardava la vendita di alcolici, e oltretutto all’interno ci si poteva procurare una vasta quantità di droga, per tutte le tasche.
Ma quella sera c’erano così tante persone che molti avevano parcheggiato lungo la strada e se la facevano a piedi fino al locale, passando, chi con aria indifferente chi con scherno e malizia, accanto alla piccola rientranza dove lei era solita appostarsi. Sosteneva i loro sguardi con dignità, infondo non li avrebbe mai più rivisti.
Purtroppo o per fortuna ci furono pochi clienti: purtroppo perché aveva meno soldi nel portafoglio, per fortuna perché non ne poteva più di viscidi vecchi, uomini sposati con prole, camionisti ed ubriaconi.
Si strinse nel suo giubbottino rosso, raccolse la borsetta e da una busta di plastica tirò fuori delle ballerine che si mise al piede, i tacchi che si era appena tolta li mise al posto delle ballerine e si incamminò verso il locale.
Nel parcheggio un gruppo di adolescenti si passava qualche canna, il fumo denso degli spinelli mischiato a quelle delle sigarette fluttuavano nell’aria, in faccia avevano un’aria molto divertita ed entusiasta, alcuni canticchiavano il ritornello di qualche canzone rap facendo commenti che non riusciva bene a capire.
Davanti alla porta del locale, trovò le risposte alle domande che si era posta tutta la sera. Quella gente era lì per un certo Enzo O’Mal. Occhi azzurri, classico taglio rasato ai lati con capelli neri folti al centro, sopracciglia spesse ma definite, e ovviamente l’immancabile baffo. Tutto accompagnato da un classico outfit da tamarro con: dieci collanine, mille tatuaggi, un dente dorato, e capi firmati.

Il classico tipo che canticchia con l’autotune. Pensò.

Non era lì di certo per ammirare quel poster, ma bensì per andare nel retro del locale per una dose.
Davanti a lei c’erano due tizi in attesa, che se ne andarono di lì a poco. Diede due pugni sulla porta e la fessura nel mezzo si aprì.

"La solita Gabri". 
Disse tranquilla, come se stesse ordinando la colazione al bar sotto casa.

"Anche stasera eccotela qua". Rispose. "Prezzo speciale per te, Marta. Sono quaranta euro".

Sfilò dalla borsetta il portafoglio e mise i soldi nella mano di lui, in cambio ricevette una bustina di plastica piena di polvere bianca.
Il parcheggio ormai era quasi vuoto, tutti quei ragazzetti se ne erano andati. Il vento freddo le entrava fin dentro le ossa, ma le importava poco, quasi niente.
C’era un posto in cui andava quando aveva voglia di sniffare e non riusciva a resistere. Si appartava dietro una macchina ormai lasciata lì a marcire, si sedeva sul marciapiede e stendeva una riga di cocaina sul dorso della mano sinistra. Ma quella sera, il suo posto era già occupato.
Il rapper, senza crew, senza manager, solo come un cane dietro un vecchio rottame con una siringa nelle vene.
"Se vuoi un autografo te lo faccio senza problemi, basta che non mi fissi in quel modo".
Con disinvoltura fece scivolare via la siringa, e slacciò il laccio di plastica dal bicipite. Con la mano destra si strofinò gli occhi celesti.

"Allora foglio e penna non li hai?"

"Veramente io non so neanche chi tu sia. Ho visto la tua faccia dieci minuti fa su quella locandina. Di solito ci vengo io qua".

Il suo volto assunse un’espressione sorpresa, gli occhi grandi di lui la squadrarono dai piedi fino ai capelli. Nonostante fosse seduto, notò che non era alta più di un metro e sessanta.

"Scusami se non mi alzo, ma fra poco dovrebbe salirmi la botta".
Rise, pareva un bimbo che aveva appena ammesso davanti alla mamma di aver fatto lo scivolo al contrario.
Lei senza farsi molti problemi si sedette accanto a lui.

"Non preoccuparti, rimane comunque il mio posto, con o senza te".
Dalla tasca interna del giubbotto sfilò la busta di plastica, e non curante della presenza di lui, fece quello per cui si era andata a rifugiare lì.

"Ecco perché non mi hai cacciato, siamo sulla stessa barca".
Appoggiò il gomito sul ginocchio e con la mano sosteneva la testa, volta verso di lei.
Per chi li avrebbe potuti vedere da fuori sarebbero parsi come due poveri tossici intenti a drogarsi in una fredda notte invernale, per lei invece la cosa era imbarazzante. La guardava in un modo in cui nessuno l’aveva guardata mai. Per la prima volta si erano posati su di lei degli occhi intenzionati a non giudicarla, a non guardarla con disprezzo.
Timidamente richiuse la bustina alla meno peggio e la rimise al suo posto, si strofinò il naso guardando fisso lo sportello ormai mangiato dalla ruggine e dal tempo.

"Non ti sbilanciare con certi commenti Malament". Sorrise.
Alle volte anche a lei faceva piacere condividere la sua solitudine con qualcun altro. Era più facile farlo con uno sconosciuto, anche se avesse voluto confidarsi con una persona cara, non avrebbe potuto.

"Perché non è vero che ti sei appena tirata una striscia di coca?"

"Sì".

"Ti vergogni di quello che fai?"

"No".

Prese fra le dita qualche sassolino del marciapiede e incominciò a impilarli. Lo faceva spesso quando al liceo il professore di educazione fisica li portava in palestra e lei se ne andava fuori a fumare seduta sul marciapiede. Per passare il tempo radunava uno sopra l’altro dei sassolini come se volesse creare una montagnetta, che poi crollava appena ne metteva uno nel posto sbagliato.

"Cos’è che fai, un hotel per formiche?"

"Ho capito cosa potrò fare nella vita al posto della puttana. L’albergatrice per famiglie di formiche, la prima nel mondo".

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Capitolo 2
*** 2. Bambi. ***


La mano destra appoggiata sul microfono della sala registrazione era abbellita con due anelli dorati, uno con una tigre con le fauci aperte con al posto degli occhi due pietre rosse, l’altro un anello a scudo con su inciso O’Mal. Le cuffie gli incorniciavano la testa da un orecchio all’altro, dalle labbra carnose aderenti al metallo freddo del microfono uscivano le strofe che aveva scritto con un’energia che trasudava voglia di riscatto. Gli occhi azzurri fissavano raramente il vetro dove c’erano i suoi amici e produttori, erano sempre diretti verso il basso, malinconici.

"Fratmo sto ultimo pezzo spacca".

Enzo sfilò le cuffie e sorrise soddisfatto.
​"Grazie frà".

Lo studio era piccolo, lo avevano ideato in un appartamento del palazzo in cui vivevano. Era tutto fatto da loro, niente case discografiche o manager prepotenti. Enzo si era circondato di alcuni buoni amici su cui contare. Lo accompagnavano ai live, si occupavano dell’organizzazione delle serate, delle grafiche, dei beat. Dietro di lui c’era un mondo, un mondo in netto contrasto con quello interiore.

"Ieri notte che fine avevi fatto? Ti abbiamo aspettato più del solito".

"Nulla, non trovavo la vena".
Stappò una bottiglia di birra e ne prese un sorso.

"E la tipa che abbiamo accompagnato qua alle Vele chi era?"
Mattia lo guardava con aria sospetta.

"Dai diccelo che te la sei chiavata".

Questa frase provocò un momento di ilarità nei ragazzi che aspettavano una risposta.
Enzo li guardò uno ad uno, poi sorrise.

"Non ti tradirei mai, ammò".
Diede un buffetto sulla nuca al suo interlocutore e prese la via della porta. Scese le scale di ferro a passo svelto, fino ad arrivare nel corridoio principale che collegava tramite altre infinite rampe di scale i due grossi edifici. Imboccò la terza sulla destra, e si ritrovò, dopo aver sceso una seconda scalinata che convergeva verso il basso, davanti ad un’unica porta.
Non era certo che quella fosse proprio casa di lei, ma si ricordava di averla accompagnata fino a quell’immenso corridoio e l’aveva guardata confondersi con il buio mentre imboccava la terza rampa di scale.
Era incapace di capire perché fosse davanti a quella porta così mal messa, in fondo non la conosceva affatto. Eppure aveva visto in lei quell’aria da bambina che era in netto contrasto con quello che era esteriormente. Probabilmente la cosa che lo aveva colpito all’inizio era che lei non lo conoscesse. Cosa che lo stranì ancora di più quando venne a scoprire che abitavano nello stesso squallido e fatiscente plesso di case.

"Scusami cerchi qualcuno?"
Una voce femminile interruppe il filo dei suoi pensieri, si voltò e la vide. Leggins grigio, maglioncino di ciniglia rosa e delle scarpe da ginnastica bianche. In mano aveva diverse buste della spesa e le chiavi di casa.

"Cercavo te".
I loro occhi si incontrarono per qualche secondo, lei gli sorrise imbarazzata. Non era abituata a certe frasi.
Enzo sperò di non avere stampata in faccia l’espressione di un idiota, la raggiunse sull’ultimo gradino su cui era e le prese le buste della spesa da mano.
Lei sorridendo mollò la presa dai manici e li posò nelle mani di lui.

"Grazie mille".

Un piccolo sorriso fece capolino sulle labbra spoglie di Marta, prive di rossetto. Era completamente struccata, gli occhi castani sembravano ancora più grandi senza quel trucco pesante e sul viso notò una spruzzata di lentiggini che le ricopriva il naso e le gote.
Le chiavi fecero due giri nella toppa e la porta si spalancò.

"Poggia pure il tutto sul tavolo, io arrivo subito".

La vide entrare nella stanza sulla sinistra poco più avanti della cucina che era inglobata nel salotto. Una casa per niente sfarzosa, si vedeva che non se la cavava bene. C’erano delle infiltrazioni di acqua nel soffitto che non promettevano nulla di buono, le finestre avevano solo gli infissi ma erano prive dei vetri, evidentemente avevano occupato quelle quattro mura abusivamente. 

"Ti affascina la muffa Enzo?"
Anche stavolta lo aveva preso di sorpresa.

"Ti diverti proprio a prendermi nei momenti in cui sto assorto".

Lei aveva stampato in faccia un sorriso da furbetta che lo intenerì nell’immediato.

"Ti faccio un caffè, lo prendi?"

"Sì grazie, zuccherato".

Marta mise su la macchinetta piccola, dopo aver messo l’acqua e poi il caffè cercò di avvitarla.

"Visto che ci sei, assicurati che sia ben stretta".

Enzo la prese fra le mani e la strinse con forza.
"Son proprio curioso di sapere poi come la sviterai".

Marta si limitò ad alzare un sopracciglio, fissandolo in quegli occhi color ghiaccio.

"Che hai da guardare Bambi?"
Sorrise scherzosamente cercando di sostenere lo sguardo di lei. Aveva un taglio degli occhi orientale, grandi e con l'iride scura, con toni caldi ed ambrati a seconda del sole. Non sapeva perchè ci stava pensando così tanto, eppure di ragazze avvenenti in quello squarcio di quartiere ce ne erano.
Ma Marta era particolare e questo lui lo aveva intuito.
La macchinetta incominciò a sbuffare, e Marta spense il fuoco.

"Niente, non posso guardarti Malament?"

"Certo che puoi nonnina".

"Almeno il mio maglione di ciniglia è del mercato del rione, ma non lo spaccio per originale come fai tu".
Posò la tazzina di fronte a lui, mettendo un cucchiaino di zucchero al suo interno.

"Basta così?"

"Sì, grazie. E comunque i miei capi sono finti originali, ma hanno stile".

Risero come i bambini che fanno uno scherzo durante la lezione, sommessamente ma di gusto. Enzo non si era mai trovato così a suo agio con nessuna donna. Aveva sempre avuto come obiettivo quello di non impegnarsi seriamente e di vivere delle relazioni libere e senza vincoli. Non sapeva identificare il valore dell’amore, in fondo lui di amore non ne aveva mai avuto esempio, il padre in carcere e la madre sempre con compagni differenti. Avrebbe dovuto avere un fratellino qualche anno fa, ma la madre lo aveva solo partorito e poi dato in adozione, non sentiva l’istinto materno. Non aveva voluto neanche prenderlo in braccio dopo che le ostetriche lo avevano pulito. Lui lo venne a scoprire solo qualche mese dopo, tramite una discussione fra sua madre e il compagno.

"Che hai tatuato sul polso?"
La voce pacata di Marta interruppe l'immensa cascata dei suoi pensieri.
​Lui le sorrise convergendo il suo sguardo nell'esatto punto che lei stava indicando.

"C’è scritto Gratia. E’ una parola latina che identifica il gesto che faceva l’imperatore quando durante uno scontro nel circo, durante i giochi, doveva decidere sulla sorte del gladiatore in fin di vita. Se poneva il pollice verso, lo condannava. Se lo alzava, allora lo graziava, salvandogli la vita".

"E allora?"
Marta sentiva che c'era qualcosa di incompiuto nelle sue parole.

"Spero che Dio faccia la stessa cosa con me".

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