London Calling

di PawsOfFire
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Audembert, 6 settembre 1940 ***
Capitolo 2: *** London calling to the underworld ***



Capitolo 1
*** Audembert, 6 settembre 1940 ***


Audembert, 6 settembre 1940
 
Aveva il sole diritto negli occhi, Stefan Faust.  Con i piedi a penzoloni su uno scoglio, lambiti dal mare, guardava l’orizzonte, coprendosi la fronte con la mano per poter osservare la scura linea che divideva acqua e cielo, appena increspata dal vento dell’oceano che gli riempiva di salsedine il volto ed i polmoni, facendo nascere sul suo volto un’incorruttibile sorriso.
Se solo Sophie, la sua amata, fosse stata con lui, in quel momento, ad osservare il sole calare sulla Manica…avrebbe dato qualsiasi cosa per poter condividere con lei quell’idilliaco momento.
A breve si sarebbero sposati. Aveva fatto richiesto una licenza per matrimonio qualche settimana addietro e, fortunatamente, era stata semplicemente prorogata, non respinta.
<< Lei faccia del suo meglio, soldato. Adesso è Londra che ti chiama! >> gli aveva ripetuto più e più volte il Capitano Eichel, accartocciando le labbra in un mezzo sorriso sghembo. L’aria che si respirava all’interno della loro base era incredibilmente informale e cameratesca. Quando Stefan aveva fatto richiesta di entrare nella Luftwaffe, affascinato dal sogno di volare, si aspettava un crogiolo di nobiltà tedesca ed animo cavalleresco, quel tipo di sentimento riscontrabile nella letteratura germanica che lo aveva tanto affascinato fin dai primi tempi in cui aveva iniziato ad approcciarsi alla lettura. Ma la Germania, quella nuova e nazionalsocialista, non faceva più distinzione di titoli e pronomi memorabili, così anche lui, figlio di sarti, era riuscito ad arruolarsi senza problemi, forte del fatto che fossero tutti uniti dall’amore incondizionato e sconfinato per la Patria. Pensiero si nobile ma non condiviso dai suoi fratelli maggiori Alfred e Bastian*, che si erano mossi pigramente ed in età tardiva solo quando la chiamata alle armi aveva bussato alle loro porte: a quel punto le due amebe umane avevano cambiato caserma su caserma, specializzazione su specializzazione al fine di perdere più tempo possibile. Bastian addirittura vi era persino riuscito. Mandato con poche speranze ad occupare gli stati del nord in qualità di carrista, ne era uscito vincitore ed illeso senza nemmeno sparare un colpo. Adesso, a quanto risultava nelle loro fitte missive, era stato stanziato in Boemia in una pigra marcia verso chissà dove, fatta più di birra e brindisi rispetto a guerra e cannoni. Alfred era stato un po’ meno fortunato: paracadutista, era stato mandato in Nord Africa in tempi relativamente brevi ma, di quel zuccone, non riceveva mai notizie…tranne qualche letterina scarna ed irrisoria che lui avrebbe volentieri gettato nella stufa, se non fosse stata scritta da suo fratello.
Lui era diverso. Diciannove anni e spirito di leone, si era arruolato appena ne aveva avuto la possibilità, desideroso di servire la patria e, al contempo, abbracciare il sogno più grande che ogni uomo potesse covare: il volo. Fin dal primo momento in cui era riuscito a salire su un aereo il giovane aveva capito che quello era l’elemento a cui apparteneva, che l’aria era il suo ambiente e le ali semplici estensioni delle sue braccia.
Se solo Sophie potesse vedere la sua abilità nei cieli! Come l’aquila nera che aveva fatto dipingere sulla fusoliera del suo Stuka (simbolo della sua nazione ma anche del suo sogno, due cose a cui era spasmodicamente attaccato) Stefan era in grado di librarsi nei cieli con grazia letale, eccellendo nonostante la sua giovane età.
A volare in quell’aereo, però, non era l’unico. In quanto pilota di bombardiere pesante al suo fianco poteva contare su un ragazzo poco più vecchio di lui, Siegfried Schneeden. **
Fin dai primi tempi i due avevano maturato un’amicizia profonda, fatta di stima reciproca, pur essendo caratterialmente opposti.
Stefan era un tipo silenzioso, meditativo ed un po’ ombroso. Non amava la confusione, preferendo di gran lunga passare il tempo libero a leggere, anziché a fare casino con il resto dei piloti nella mensa.
Siegfried, invece, era un girasole, una creatura così piena di vita che chiunque lo conosceva avrebbe desiderato solo vederlo crescere sano e felice, tanta era la gioia che emanava.  Adorava il casino e le grandi bevute ed era già successo che volasse in preda ai postumi della sbornia ma, grazie al cielo, i comandi non spettavano a lui in quanto bombardiere.
Non si capiva come potessero due caratteri tanto diversi andare d’accordo ma, a quanto, pare, l’accoppiata assurda si era rivelata vincente in più di un’occasione, tanto da far pensare ad una promozione in tempistiche relativamente brevi.
Si erano conosciuti in caserma d’addestramento, non troppi mesi addietro, durante un dopocena uggioso in cui non vi era niente di meglio da fare che schiamazzare fin quando un sergente non fosse intervenuto per metterli tutti in punizione, a strisciare nel fango di un marzo piovoso. Stefan, come sempre, era accartocciato sul suo letto in una esasperante lettura, il disappunto da guai-se-mi-interrompi scritto nel volto contratto ed appena esasperato della sua solita espressione di perenne negazione.
Siegfried, annoiato ma bruciante dalla voglia di stringere amicizia come un bimbo di quattro anni, si era avvicinato a lui con aria affabile, desideroso di invadere sfacciatamente lo spazio vitale dell’altro.
<< Cosa leggi? >> gli chiese, con un grande sorriso innocente che gli incoronava la pelle lentigginosa ed i capelli chiari, vagamente rossastri.
<< Atem einer Flöte >> Il respiro di un flauto, *** aveva risposto l’altro, cupo in volto come il biondo sgraziato e scuro dei suoi capelli mossi.
<< Anche a me piace Baumann, sai? Lo leggevo quando ancora ero nella gioventù Hitleriana >> aveva replicato Siegfried, senza smettere di osservare con un certo desiderio quella copertina maledetta.
<< Ma…questo è quello nuovo, no? Prestamelo quando lo avrai finito, ti prego! >>
L’insistenza del giovane nel voler quel dannato libro si dimostrò vincente nel lungo termine poiché, dopo giorni di vessazione continua, Stefan si decise a cedere la stramaledetta lettura pur di essere lasciato in pace.
Si sbagliava, letteralmente. Fu solo l’inizio di una nuova rottura, questa volta vocale, che prevedeva l’interlocuzione con quell’essere troppo estroverso e raggiante per i suoi gusti, esponendosi a commenti letterari che avrebbe preferito tenere per sé ma che, a quanto pare, erano condivisi a piene mani da molti altri nel loro ambiente, Siegfried compreso.
Erano tutti aviatori, laggiù. Gente dal naso sempre puntato al cielo, irrimediabilmente affini con l’immensità dell’aria, più che della terra: lì avrebbero passato il resto della loro esistenza, una volta morti. Che fretta c’era dunque di rimanervi spasmodicamente ancorati, se vi era la possibilità di puntare a qualcosa di molto più in alto di loro?
Anche quel giorno, davanti a quel magnifico tramonto settembrino, Siegfried si era approcciato a Stefan con l’esuberanza di un bambino di tre anni, saltellandogli accanto nel tentativo di distrarre l’amico pensieroso e strappargli un sorriso.
Non sopportava di vederlo così, perennemente imbronciato e nervoso. Solo quando stringeva i comandi di un aereo sembrava essere felice, quasi come se la terra gli fosse grave e che l’unica forma di gioia fosse l’infinito azzurro che continuamente rimirava, alzando lo sguardo…
<< Ehi, Steffi! Sempre pensieroso? >> la domanda fece trasalire il giovane che, immediatamente, sembrò ritrarsi con un certo sdegno, desideroso di essere lasciato in pace.
<< Vieni a fare un po’ di casino in mensa, dai! Hanno portato stamattina un paio di maialetti freschi. Sono talmente teneri che sembrano fatti di burro…e c’è un sacco di birra! a fiumi! >>
<< In realtà non ho molta fame… >> continuò l’altro, rivolgendogli un’espressione decisamente esasperata, nel tentativo di districarsi dal groviglio fastidioso in cui lo aveva invischiato l’esuberante amico.
<< Non venire a piangere da me, poi, se in mensa non sarà rimasto nulla da sbocconcellare.
Hai bisogno di energie per domani. Lo hai sentito anche tu, il Capitano. Domani andremo a bombardare Londra! È il giorno della svolta! >> Siegfried, non contento, si sedette accanto a lui con il genuino intento di pungolarlo fino alla resa, ricevendo in risposta solo flebili grugniti di disappunto.
<< Va bene, va bene. Hai vinto, Siggi. Solo per questa volta, sia chiaro >> rispose infine, stiracchiando il suo corpo magro ed ossuto prima di alzarsi, sbuffando come un treno.
<< Niente birra e a letto presto, però. Gradirei…essere lucido, domani >>
<< Come preferisci, signor pilota >> ridacchiò Siegfried, salutandolo irrisoriamente come se fosse un ufficiale di alto grado.
Ebbe solo uno sbuffo di dissenso in risposta.
 
 
 
Nella mensa l’aria era stranamente rilassata. Tra i piatti abbandonati e le fiasche che rotolavano sdegnosamente nel lucido pavimento bagnato, Stefan e Siegfried presero posto accanto ad alcuni membri della loro squadriglia che, sotto esplicita raccomandazione del secondo, avevano tenuto loro alcuni posti sdraiandosi sulle lunghe panche ed occupandole con degli sporchi stivalacci coperti di fango da capo a piedi. Sembravano già ubriachi, cosa che fece storcere il naso al giovane Faust, il quale occupò ciò che gli era stato riservato con sdegno, come se fosse infetto.
Premurosi fecero scivolare una portata di porco e patate lessate sotto i suoi occhi, imponendogli un boccale da litro che, prontamente, venne rispedito al mittente.
<< Hans, Paul, per favore…no. Domani devo pilotare un aereo, non un carretto di muli. Non posso permettermi di cadere negli effluvi dell’alcool… >>
<< Effluvi? Cosa? Una birra non ha mai ucciso nessuno! >>
<< Non fate bere Siggi, domani voglio che sia lucido…>>
<< Lucido, lui? >> ridacchiò Hans Schneider, sfilandogli la pinta ancora piena, tristemente scartata << Ha già provveduto a bere come una spugna prima di venirti a chiamare! >>
<< Com’era più il detto, Hans? >> lo interruppe Paul Weber, sgranocchiando una costina oramai ridotta all’osso << domani potremmo essere tutti morti, tanto vale brindare prima >>
<< Non diceva così. Era più… se domani sarò morto, voglio che mi seppelliate in una cassa. Di birra >>
I due si guardarono per qualche secondo negli occhi, prima di scoppiare in una risata sguaiata.
Ad allietare la serata, come se non bastasse, si aggiunse il Caporale Müller-del Torres, il mezzo spagnolo della squadriglia, inseparabile con la sua chitarra in mano. A gambe accavallate e sguardo assorto, intonò “Il canto della Legione Condor”**** lentamente, cercando di attirare a sé altre voci…
 
…Al quale si unirono solo biascichi ubriachi i quali, prontamente, lo investirono di fischi per reclamare un canto più conosciuto. Il Caporale Friedrich Antonio Müller del Torres digrignò appena i denti per essere stato interrotto, cosa che odiava profondamente.
<< Avete richieste più intelligenti? vi ascolto >> sbottò, appoggiando la chitarra a terra, usando la paletta come poggia-mani.
<< Qualcosa che ci faccia entrare più nello spirito dell’azione, cazzo. Niente merda nostalgica franchista, amigo >>
<< Ha ragione Paul >> continuò Hans, appoggiando al tavolo quello che fu il boccale di birra di Stefan.
<< Domani è il grande giorno, andiamo a bombardare l’Inghilterra! Ran an den Feind! Bomben! Bomben! Bomben auf England! >>
 
Wir stellen den britischen Löwen 
Zum letzten entscheidenden Schlag. 
Wir halten Gericht. 
Ein Weltreich zerbricht. 
Das wird unser stolzester Tag! 
Bomben! Bomben! Bomben auf England! *****

 
 
Stefan, stretto nel suo angolo di panca oramai abbandonato, si chiedeva cosa ci fosse di così gioioso da dover essere festeggiato con ebbri canti stonati. A dirla tutta, perfino la musica lo infastidiva. Non c’era nulla, in realtà, che non trovasse fastidioso. Guidato dalle nobili gesta, sfumate in leggenda, dagli aviatori della Grande Guerra, il giovane si era arruolato con la speranza di ritrovare la stessa affinità mentale, il desiderio di restituire splendore alla sua nazione, incatenata e stuprata dai paesi vincitori e lasciata a terra, debole e senza possibilità di difendersi.
Non che i suoi commilitoni non condividessero lo stesso pensiero, ma…era più infantile, fanciullesco. In molti di loro non vi era alcuna minima traccia del desiderio di rendere forte la nazione…solo quello di menare un po’ le mani e pavoneggiarsi per combattere nei cieli, come fanno le aquile.
Un’idea nata spontanea quando ancora non conosceva il concetto di nazione e si apprestava a muovere i primi passi nel mondo. Con i suoi fratelli giocava spesso alla guerra, ad una versione rivisitata di francesi contro tedeschi che lui prendeva sempre fin troppo sul serio, rovinando sempre l’azione. Non voleva, ad esempio, mai impersonare il nemico, lasciando quello spiacevole onore ai due maggiori, i quali fingevano di accettare di buon grado solo per non farlo piagnucolare e mandare a monte il gioco.
Erano dei pessimi francesi. Se Alfred veniva puntualmente fucilato per diserzione, Bastian attuava dei subdoli e meschini piani per vincere grettamente le giocate, come scavare dei fossi e costruire piccole trappole da ricoprire con gli arbusti, nascondendole agli occhi degli incauti nemici. Irritato, un giorno Stefan gli chiese perché dover barare a tutti i costi.
<< Perché è un gioco, e nei giochi se vuoi vincere devi per forza barare, altrimenti finisci per fare la figura del fesso >>
<< Ma la guerra non è un gioco! >>
<< Sarà, ma è divertente. Forse per questo piace tanto e gli adulti e ne parlano in continuazione. Non credi, Steffi? E, per giocare, si bara. Funziona così, anche tu lo sai >>
A distanza di anni quella frase lo faceva ancora imbestialire.
 
 
 
A metà di una struggente ballata cameratesca sui cannoni e gli aerei il Capitano Eichel fece visita al suo Staffeln ancora in mensa, intento a cantar una vittoria ancora da conquistare, gettando un improvviso e tiratissimo silenzio sui volti degli uomini storditi dal gran fracasso.
Gerard Eichel era il più vecchio della squadriglia. Era un uomo dallo sguardo affabile e di buon carattere, nonostante tendesse ad incattivirsi durante le missioni.
A terra, però, sembrava prendersi a cuore le cause dei suoi sottoposti, cercando di mantenerli sempre di ottimo umore. Niente poteva condurre più facilmente ad un disastroso esito che una truppa infelice e lamentosa.
Sembrò quasi rimanerci male quando la chitarra tacque per lui. In risposta, il capitano fece spallucce, sospirando: << Peccato, era il mio pezzo preferito >>
Si sfregò le mani, sorridendo come suo solito.
<< Soldati…domani è il gran giorno. Quando Londra chiama… >>
<< Noi rispondiamo! >> canzonò un certo Fischer, dondolandosi con i piedi.
<< Non vorrà fare aspettare una bella signora, Capitano! Non sarebbe da galantuomini! >>
Ci fu un corteo di risate, che riuscirono perfino a coinvolgere Stefan.
<< Certo che no, Fischer, certo che no. Però mi aspetto un lavoro pulito domani. Ci concentreremo nella parte est della città. Il nostro obiettivo sono i moli, non i londinesi. Non prendete iniziative personali, non rompete le file e soprattutto non ingaggiate con gli inglesi a meno che non siate costretti a farlo. Bombardare e tornare in base: semplice. Ci penseranno i caccia a liberarci la strada. Non aspettatevi cieli puliti domani. Abbiamo del vantaggio e dobbiamo cercare di sfruttarlo appieno.
Domande? >>
I soldati, oramai strascichi umani, annuirono in silenzio. Conoscendolo il vecchio avrebbe rifatto lo stesso riepilogo l’indomani, con tanto di mappa dettagliata con posizione accurata di tutti gli obiettivi da distruggere. Attese qualche minuto prima di congedarsi con un cenno di capo.
Stefan fu il primo ad interrompere la quiete: stiracchiandosi le braccia il giovane si alzò, lanciando uno sguardo al malconcio orologio appeso alla parete della mensa. L’occhio, inesorabilmente, ricadde sopra un Siegfried sbadigliante ma ancora desideroso di fare baldoria. Gli diede un colpetto sulle spalle, facendogli cenno di alzarsi.
<< Vado a letto, io. Domani voglio essere fresco come una rosa…dovresti farlo anche tu >>
<< Ma è presto!>> sbottò l’amico, ben intenzionato a rimanere in mensa a fare baldoria.
<< Non lamentarti però se domani avrai la testa pesante, Siggi. Dannazione, è importante! Non vorrai farti esonerare dal volo! >>
<< Non credo nemmeno possano concedermelo… >>
<< Ecco, bravo. Vedi di alzarti e andare a dormire… >>
Si sentiva un mostro nel fare continuamente la predica all’amico un po’ troppo libertino ma, condividendo il medesimo mezzo, il rischio di finire nei casini era doppio e Stefan di certo non moriva dalla voglia di finire in cella per qualche cazzata commessa da Siegfried. L’altro, dal canto suo, prendeva un po’ troppo alla leggera il suo ruolo da bombardiere. D’altronde i comandi li aveva Faust, non lui. Anche le scimmie sanno sistemare le bombe e premere leve e pulsanti…
<< Hai vinto. Comunque, se non fosse stato per me…nemmeno saresti venuto a cenare. Dovresti ringraziarmi…pensa, se non fossi intervenuto queste bestie non ti avrebbero nemmeno lasciato il piatto di ossa da sgranocchiare >> Schneeden sorrise beffardo mentre, con lentezza incredibile, abbandonava la panca, oramai parte delle loro avventure festerecce.
Faust corrugò la fronte, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua alla ricerca di una risposta intelligente da dare. Quando si rese conto di non sapere come replicare, semplicemente, gli fece un cenno di mano, mettendo a tacere la questione e trascinando l’amico fuori dalla mensa che, con sguardo implorante chiedeva ai camerati di soccorrerlo, riportandolo alla baldoria fino al coprifuoco ma, sfortunatamente, non ottenne alcuna risposta.
 
 
 
A differenza di molti altri reparti loro, avendo necessità di possedere una base fissa, potevano permettersi il lusso di possedere un edificio intero, così come un ospedale vero, in mattoni, perfettamente fornito e funzionante. A Stefan faceva piuttosto ridere il fatto che fossero così ben serviti: era normale ferirsi in azione ma, il più delle volte, gli aviatori nemmeno riuscivano a tornare alla base. C’era un termine specifico che utilizzavano per rendere la morte meno amara.
Essere inghiottiti dalle nuvole, sparire dentro di esse e non tornare mai più, dissolvendosi nell’aria fino a diventare vento.
Romantico fino a risultare struggente. Loro sapevano bene cosa significasse non poter piangere un amico disperso, probabilmente inghiottito nelle profondità dell’oceano assieme al suo aereo, negando al suo corpo l’eterno riposo in patria.
Pensiero che saettò nella mente di Stefan, come ogni sera prima di dormire. Avevano previsto una bella giornata di sole per il domani. Alcuni speravano come sempre la pioggia: se il terreno è bagnato gli aerei non possono decollare: il che significava, grezzamente, un giorno in più da vivere. C’era chi
Pregava la notte con la speranza di udire nella notte il fragore di un temporale. I più, semplicemente, non riuscivano a dormire.
Siegfried era uno di questi. Dopo essersi sdraiato nel suo lettino, con la testa gonfia ed i sensi annebbiati, si girò verso l’amico che, nel frattempo, aveva preso un libro dal suo comodino.
Era una sciocchezza ma trovava confortante leggere anche solo una pagina a sera: i soldati sono creature molto scaramantiche e, avendo qualcosa da continuare, sarebbe certamente tornato alla base illeso, pronto per dedicare ancora un po’ di tempo alla sua lettura.
<< Cazzo, che serata. Non c’è niente di meglio di porco, patate e birra>> Schneeden sospirò, socchiudendo gli occhi e portandosi una mano alla fronte << credo di avere mal di testa… >>
<< Te lo avevo detto di non bere. Dovremo ringraziare il Signore se domani riuscirai a salire sull’aereo >> continuò Stefan, gli occhi ancora fissi sul libro.
Non ebbe risposta. Solo un lamentoso grugnito di disappunto.
<< Guastafeste che sei. Domani è il gran giorno! Festeggiare è lecito, non credi?  >>
<< Non abbiamo ancora fatto nulla, in realtà… >>
<< Sarà, ma è stato divertente…se sai cosa significhi divertirsi, ovviamente-  >>
<< Vorrei leggere ancora un po’, se mi permetti. Tu invece dovresti provare a dormire. Magari domani la sbornia ti sarà passata e potremo volare in pace.
Adesso, se permetti… >>
Siegfried sbuffò, girandogli la schiena.
<< Uh, scuuuusa, non ti interromperò più…Buonanotte Steffi >>
<< Buonanotte >>
Stefan lesse ancora qualche pagina poi, mentre lesti i loro camerata tornavano stanchi ed intontiti a letto, si stiracchiò come un gatto e chiuse gli occhi, immaginandosi già in alto nel cielo, con le mani ben salde nel volante del suo Stuka e quasi gli sembrava davvero di volare…planare lento ed imponente sulla costa inglese come aveva fatto molte volte nel corso dell’estate prima.
Sembrava così vivido da essere reale. Poi l’aereo perse quota ed iniziò ad avvitarsi su sé stesso, sprofondando in un sonno agitato e senza sogni.
 
Note
 
*Capitan Carrista Bastian Faust, capocarro del famigerato Panzer Tiger “Furia Nera” a cui è dedicata l’omonima long.
**Schneeden: riferimento a Snowden (da “Schnee” neve in tedesco) di Comma 22
*** Baumann. Autore per libri dell’infanzia molto apprezzato dal regime nazista per i suoi insegnamenti patriottici.
**** Legione Condor – volontari tedeschi impiegati durante la guerra civile spagnola in supporto alle forze franchiste.
 
***** Presentiamo al leone britannico
L’ultimo colpo decisivo
Distruggere un impero (regno unito)
Sarà il nostro giorno più orgoglioso!
 (traduzione adattata del canto “Bomben auf England” “Bombardare L’Inghilterra)
 
 
Note d'autrice:
Buonsalve! questa storia è una mini-long di due capitoli incentrata sulla figura di uno dei fratelli di Bastian, Stefan.
Ha dei collegamenti con il Capitolo 26 di "Furia Nera" e, per chi ha letto la storia principale, potrebbe trovare qualche legame, nonostante le vicende qui narrate si svolgano tre anni prima rispetto a "Furia Nera"
Ti ringrazio moltissimo, lettore, per aver dedicato del tempo a questa storia. Mi auguro possa essere stata di tuo gradimento.

 

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Capitolo 2
*** London calling to the underworld ***


Audembert, 7 settembre 1940
6.30 – prime luci dell’alba

 
Rannicchiato sul letto, in posizione fetale, Stefan Faust pregava.
Ad occhi chiusi e mani conserte, sul suo volto vi era dipinta un’espressione serena ed assorta, intenta a recitare in silenzio il rosario invisibile che sembrava stringere tra le mani. La sua famiglia non era particolarmente credente. A dirla tutta, suo padre ed i suoi due fratelli erano piuttosto blasfemi.
Lo faceva ogni giorno, prima del suono della sveglia.  Confidarsi con Dio lo faceva sentire meglio…come se alleggerisse, in qualche modo, il silenzioso senso di colpa che il giovane si portava addosso, ben nascosto sotto coltri di amor di patria, sentimento, ragione di rivalsa.
E lo faceva in latino: quello grezzo, brutto, che forse nemmeno vi assomigliava ma ricalcava come suono le parole dei parroci cattolici della sua amata Monaco di Baviera.
In quei momenti, così assorto, si ricordava delle lunghe messe di Natale passate nell’immensa cattedrale dell’arcidiocesi.
Alta, bianca e buia, aveva solo uno spiraglio di luce, estremamente lontano, che si rifletteva come pennellature sulle lamine d’oro e le statue di bronzo.
Nel silenzio più totale della caserma, quasi gli sembrava di udire le prorompenti e mistiche note dell’immenso organo maggiore che sembravano trascendere al divino, con quel suono grave e potente che destava nel sé stesso bambino stupore e meraviglia…
Quando finì di recitare gli ultimi grani del rosario invisibile, il giovane aprì gli occhi, stiracchiandosi mollemente come un gatto ozioso. Fuori i motori dei Messerschmitt al decollo rombavano come tuoni, spezzando il silenzio e riportando la vita nella caserma che, lentamente, stava iniziando a svegliarsi.
Non ci sarebbero state missioni di volo per loro, non fino al tardo pomeriggio. Il Capitano Eichel era stato chiaro al riguardo con il suo Staffeln. Anche per i piloti di caccia quella doveva essere una giornata relativamente tranquilla, scandita da brevi ricognizioni nei cieli alla ricerca di segni di vita da parte della Royal Air Force britannica.
Stefan aveva preso più volte in considerazione, sotto le pressioni insistenti di Siegfried, l’idea di passare le ore libere nel vicino paese di Audembert assieme a tutti gli altri membri della squadriglia.
 Lo aveva accontentato infine, a patto che lo lasciasse da solo per qualche ora, il tempo per scrivere una lettera a casa, alla sua amata.
 
 
 
7.30 – primo mattino
 
“Cara Sophie,
Il cielo è quieto, stamattina. Velato di grigio, con il sole che si intravede appena dietro le nuvole. Sembrano essere passati anni dall’ultima volta che ci siamo abbracciati, invece sono solo tre mesi. Dicono che a breve potrei ricevere una promozione. Spero con tutto il mio cuore che mi diano qualche giorno di licenza, così finalmente potremo sposarci. Quando la guerra sarà finita te lo giuro, ti porterò a Parigi come hai sempre sognato. Adesso sono di fronte al mare, con il vento salino che mi scompiglia i capelli. Ti invierò una conchiglia assieme a questa lettera: se appoggi il guscio all’orecchio sentirai il suono del mare e ci illuderemo di essere più vicini.
Tuo,
 
Stefan Faust
 
Stefan amava quel posto.
Nato ai piedi delle montagne, non aveva mai pensato di poter vedere l’oceano in vita sua.
Tra il gracchiare dei gabbiani e l’odore del guano, in quel luogo ritrovava sé stesso, osservando la lunga linea dell’orizzonte incresparsi leggera, mossa dal vento.
Laggiù, dove il blu si perdeva, c’era l’Inghilterra. Un bombardiere amico volteggiava in cerchio sopra la sua testa, a bassa quota, come un falco alla ricerca di prede.
Aveva una…birra.
Dipinta sulla fusoliera…
<< Paul sei un idiota! >> gridò Stefan dopo aver capito chi stesse pilotando quel dannato velivolo. Quel matto di Paul Weber aveva annunciato in grande pompa magna che in mattinata avrebbe portato un novellino a fare un giro d’addestramento. Tutti avevano giustamente dubitato della sua buona fede poiché nessuno sano di mente avrebbe mai assegnato a lui una simile mansione. In pochi mesi di carriera lui ed il suo socio Hans Schneider erano già stati abbattuti tre volte dallo stesso fottutissimo caccia inglese. Due domande il Capitano avrebbe dovuto farsele…
<< Non sei capace! >> urlò Stefan, saltellando improvvisamente in uno strano moto di vivacità per farsi notare dall’amico.
In risposta, come se lo avesse udito, l’aereo di Paul Weber sollevò appena l’ala in un cenno di saluto, fece mezzo giro e, scendendo di quota, virò in sua direzione sorvolandolo spaventosamente, generando una forte corrente d’aria che, per un soffio, non catapultò Stefan in acqua.
Solo dopo aver terrorizzato l’intera base militare l’aereo riprese quota, tornando a beccheggiare a distanza di sicurezza.
 
Quando finalmente Paul decise di decollare, il povero novizio che era con lui per il volo di addestramento si catapultò a terra come Cristoforo Colombo quando vide le Americhe, scivolando a gattoni sull’asfalto duro della pista in preda a spasmodici conati di vomito.
Il Pilota, però, sembrava alquanto soddisfatto della sua prestazione. Mentre curiosi e meccanici li raggiungevano trotterellando, Paul si chinò verso il malcapitato, esordendo in un poco rassicurante: << Oggi ero sobrio…pensa quando sono ubriaco, che volteggi! >>
<< Paul, smettila di spaventarlo. È verde >> Il Capitano Eichel nel frattempo si era avvicinato allo strano duo, senza levarsi l’ebete e perenne sorriso dal volto. Era vestito in pompa magna, con la divisa grigio-blu blasonata e carica di mostrine. La tenuta tipica delle parate, delle riunioni tra ufficiali, ben diversa da quella che indossava durante le sessioni di volo.
Gerard Eichel era un alsaziano, un vecchio mezzo francese costretto ad emigrare nel cuore della Germania dopo la fine della Grande Guerra. Nessuno più di lui aveva a cuore quel conflitto, la soddisfazione di poter nuovamente vivere nella sua terra natia in beffa ai fottuti parigini. Aveva prestato servizio militare volontario ben prima dello scoppio della guerra e partecipato attivamente alla campagna francese, desideroso di mettere a tacere quelle bocche da mangiarane che lo avevano privato della sua patria.
In memoriam, il suo aereo portava il simbolo di una corona dorata a tre punte. *
<< È stato divertente, però! Se non avesse la bocca piena lo ammetterebbe anche lui >> rispose Paul, picchiettando sulla spalla del poveretto ancora preda dei conati di vomito. Il Capitano era un tipo molto informale. Credeva, infatti, che troppa formalità generasse malcontento. Così si limitava a far rispettare alla lettera le regole veramente importanti, sulle quali era intransigente, specialmente in azione.
<< Va bene così, per oggi. Domani lo faremo volare con qualcuno più affidabile, Stefan mi sembra decisamente più adatto…oh, parli del diavolo e spuntano le corna >>
<< Capitano. Weber >> Stefan doveva aver corso per raggiungerli. Accaldato, con la camicia aperta e stropicciata, stringeva ancora tra le mani la lettera che aveva scritto alla sua amata.
<< Sempre di fretta >> Lo ammonì il Capitano, cercando distrattamente del fumo nella tasca della giacca.
<< A correre, in guerra, non si guadagna mai niente >>
<< Si, ma… >>
Eichel porse loro il suo prezioso porta sigarette in acciaio, finemente decorato. Paul si servì avidamente mentre Stefan lo rifiutò con un certo sdegno.
<< Oggi è una bellissima e calda giornata di settembre. Non dovresti essere così ansioso. Londra chiama, ma adesso è presto. Immagino che abbia bisogno di dormire, ogni tanto. Sei in libera uscita, oltretutto.
Esci, rifocillati. Non bere. Dillo anche a quel disgraziato di Siegfried che deve guardarti le spalle. Ad Audembert fanno delle fantastiche salsicce di maiale e delle ottime zuppe di pesce. Se ti stanchi già adesso quei falchi della Royal force ti faranno a pezzi. Fidati del tuo Capitano >>  
Per rafforzare il concetto, Gerard gli diede qualche pacca sulle spalle nel tentativo di confortare quel giovane sempre teso e privo di quella vivacità che caratterizzava tutto lo staffeln.
Stefan fece una smorfia, annuendo con poca convinzione, congedandosi dal suo superiore solo quando Paul lo prese per un braccio, con la forza e senza il suo consenso, per trascinarlo lontano dalla pista, ben intenzionato a portarlo al paese per imporgli un po’ di sano divertimento.
 
 
11.30 – tardo mattino
 
Lo staffeln era affamato e chiassoso. Nella piccola tavernetta, stretti in un minuscolo tavolo di legno, la squadriglia del Capitano Eichel aveva trovato di che sfamarsi, sotto lo sguardo vigile e preoccupato della popolazione locale che, per il quieto vivere, non faceva mai troppe domande, a patto che pagassero profumatamente le loro pietanze.
Dopo il primo giro di birre (che Stefan evitò come se fossero boccali di peste al gusto di rogna) vennero servite Adouillettes e montagne di patatine fritte, cosa che li fece andare in visibilio.
Schiena contro schiena, braccio contro braccio, i famelici soldati facevano letteralmente evaporare il contenuto nei loro piatti, quasi come se fossero nutriti da giorni con sole croste di pane e tinozze d’acqua piovana. Nella confusione qualche ragazzotta locale, povera di denaro ma ricca di ottime intenzioni, si era approcciata a loro e adesso sedeva tra le gambe di qualche fortunato, scroccando birra, cibo e denaro in cambio di qualche toccatina coraggiosa ed un po’ di affetto.
Stefan, ovviamente, non era tra questi.
A capotavola, irritato, digeriva acqua e bile nel tentativo volontario di allontanarsi dai suoi stessi camerati che sembravano prendere la guerra decisamente poco sul serio…fraternizzando col nemico, poi! Siegfried si era preso una cotta incredibile per una giovane francese dai capelli rossi e, oltretutto, sembrava ampiamente ricambiato nonostante la barriera linguistica. Ovviamente nessuno dei due sapeva se fosse un amore per necessità o genuino. Ma l’estate, quella lieta e frizzante che si stavano lasciando alle spalle, l’aveva passata cogliendo mazzi di papaveri e spighe da regalare alla giovane. Un giorno, seduti tra i campi rossi di papaveri ed il grano giallo arso dal sole, lei gli aveva regalato una corona di margherite e, poggiandola sul suo capo, lo aveva chiamato “Le Roi Lion”
Quella sera stessa Siegfried era piombato in officina ubriaco marcio, chiedendo di rimuovere l’aquila dal suo Stuka in favore di una testa di leone con una corona di fiori. Richiesta che fu prontamente respinta.
 
Anche quel giorno la ragazza godeva della loro compagnia. Elodie, questo il suo nome, gli sedeva in braccio e lui, con fare possessivo, sembrava proteggerla come se fosse una sua proprietà. Lei non capiva il tedesco ma sorrideva sempre, anche quando gli altri soldati le rivolgevano volgarità e pesantezze. Lui, anziché calcare la mano come facevano molti altri, la difendeva a spada tratta, completamente accecato da quell’amore effimero, talmente credibile e melenso da sembrare reale agli occhi di tutti.
Come sempre, quando c’era lei, Siegfried tendeva a cambiare carattere e disprezzare la compagnia dei suoi commilitoni, preferendo mille volte lei a tutti gli altri.
Anche quel giorno si era alzato a pasto finito, battendo una mano sulla spalla di uno Stefan ancora intento a sezionare la sua salsiccia in cinque fette uguali.
<< Io…io vado. Ci vediamo dopo, in pista >>
<< Siegfried…per l’amor del cielo. Sei ubriaco >> Stefan aveva sollevato lo sguardo, ricevendo in cambio una zaffata di alito pesante ed alcolico.
L’amico si era limitato a sorridere, socchiudendo gli occhietti chiari e velati di stanca ebrezza. Rivolse uno sguardo alla giovane, la quale lo ricambiò con un raggiante sorriso.
<< Lui non capisce. Nessuno capisce. Andiamocene via >> le aveva preso la mano ed erano usciti da quella piccola tavernetta di legno tra i fischi ed i plausi di almeno una ventina di soldati tedeschi d’aviazione.
A Stefan non rimase altro che sospirare profondamente ed abbassare lo sguardo sul suo salsicciotto bianchiccio ed insipido che assomigliava vagamente ad un fante inglese. Piantò il coltello su di esso con una certa rabbia, cercando di dimenticare quanto stupido e credulone fosse il suo amico.
 
 
16.00 – campo di aviazione
 
Gli Stuka erano già in pista. I meccanici erano appollaiati sopra i loro musi verdastri, più interessati a scambiarsi divertenti battute che a compiere il loro lavoro. Il più laborioso, infatti, stava controllando con poco entusiasmo le eliche del bombardiere di Paul Weber e Hans Schneider. I due, forse in preda a qualche strano estro artistico, avevano chiesto di far dipingere sulla fusoliera un boccale stracolmo di schiuma e la scritta “è meglio, con la birra!”
Gli aviatori, invece, stavano ultimando i loro preparativi. Il Capitano Eichel li aveva richiamati un’ora prima nel suo ufficio per gli ultimi dettagli. Non che ci fosse molto da chiarire. Avrebbero viaggiato in formazione rettangolare, a gruppi di quattro ed accompagnati da un nutrito gruppo di caccia che avrebbe coperto loro le spalle dalla Royal Force inglese.
Il loro obiettivo erano i moli situati nella parte est di Londra. Una zona poco interessante e povera…ben fornita, però, di installazioni militari da distruggere.
A metà dell’ennesimo riepilogo Siegfried era entrato sciatto e confuso nell’ufficio del Capitano. Aveva l’imbracatura al contrario, il che suscitò profonda ilarità nello Staffeln. Gerard Eichel si limitò a continuare il discorso, senza dargli molta importanza.
Stefan, invece, aveva una gran voglia di prenderlo a pugni.
Cosa che tentò di fare, peraltro, all’uscita dall’ufficio.
Quando il Capitano diede loro il congedo per invitarli a prendere posto sugli aerei, Stefan braccò alle spalle l’amico, strafatto d’alcool e d’amore, inchiodandolo al corridoio con tutta la rabbia che aveva in corpo.
<< Sei ubriaco! >> Gli aveva urlato, prendendolo per il bavero della divisa.
<< Sei…sei pazzo >>
Siegfried sorrideva, sprezzante. Al collo portava una collana di margherite…
<< Non ti voglio con me, oggi! Sei un fottuto bastardo, ecco quello che sei! >> continuava ad urlare Stefan, scrollando l’amico nel vano tentativo di farlo rinsavire…come se, magicamente, potesse riprendersi dalla colossale sbornia che si era preso.
E lo avrebbe sbattuto nel muro ancora mille volte se Muller e Fischer non fossero intervenuti per dividerli con la forza.
 
Il Caporale Muller avrebbe comunicato l’accaduto al Capitano alla fine della missione.
Stefan digrignò i denti stringendo con forza la barra di comando. Dietro di lui Siegfried giaceva calmo e tranquillo al suo posto, mansueto come un cagnolino. Lo aveva impasticcato con la forza con la speranza che riprendesse un po’ i sensi e, in effetti, sembrava vagamente più cosciente rispetto a prima.
Si chiedeva quanto effettivamente potesse essere efficiente portarsi dietro un mitragliere in quello stato, con una collana di margherite fresche e l’alito sfatto di alcool.
Sarebbe riuscito a coprire l’aereo se, a momenti, nemmeno riusciva a badare a sé stesso?
<< Stefan. Non so se posso farcela stasera. Dio, quanto sono ubriaco! >>
<< Non sono cose che mi riguardano, Siegfried. Te lo avevo detto, io >>
Siegfried disse qualcosa ma le sue parole vennero coperte dal rumore del motore, svanendo infine in un flebile sussurro.
 
 
 
17.00 canale della Manica, in prossimità di Dover
 
Gli inglesi diedero l’allarme prima di intravedere anche solo un muso giallo di Messerschmitt.  
In breve tempo, interi Squadron di Spitfire furono loro addosso.
Stefan trovava quella situazione davvero irritante. Dovevano procedere lentamente, a bassa quota, ben attenti a non rompere la formazione mentre i Bf 109 potevano godersi il pieno della battaglia. Non poteva nemmeno distrarsi un attimo per ammirare la magnifica vista di un’Inghilterra trafitta dal sole di un tramonto di settembre…uno sfondo stupendo per ambientare emozionanti battaglie aeree tra RAF e Luftwaffe.
I loro aerei non erano fatti per combattere. Lenti e goffi, gli Stuka erano prede facili per le formazioni inglesi di caccia, ben più veloci.
I loro mille difetti, però, venivano compensati con una mira precisa ed infallibile.
Gli Spitfire non tentarono mai di rompere le loro file, né di attaccarli.
Un classico. Conoscevano molto bene gli inglesi, erano vecchi come le loro tradizioni.
Destabilizzare, isolare ed affondare. Erano loro gli obiettivi, non i caccia. Il Capitano li aveva rassicurati più e più volte riguardo la missione. Loro, come bombardieri, non avrebbero subito perdite. Avevano una scorta infinita di Messerschmitt, disposti a quattro come loro solito e ben distanziati…nessuno li avrebbe toccati.
Stefan ghignò.
Era vinta.
 
17.30 East End, Londra
 
Palloni di sbarramento ricoprivano tutta Londra.
Se non avessero avuto l’ululato dei motori a riempire loro le orecchie, avrebbero sentito le sirene antiaereo fischiare.
Era Londra che chiamava. Una litania prolungata ed insistente che precedeva il loro passaggio.
Sotto di loro uomini come formiche brulicavano alla ricerca di un riparo.
“Rompete le righe! In posizione!” gridò in frequenza il Capitano Eichel tuffandosi per primo sopra i moli galleggianti del Tamigi.
Lo aveva sentito tante volte, Stefan, il grido di morte provocato dai loro bombardieri in picchiata.
Il canto lugubre ed acuto di uno Stuka in affondo faceva gelare il sangue nelle vene.
Al suo udirsi perfino la terra si spaccava. Si sentiva un po’ un dio, lassù.
Immortale e capace di uccidere centinaia di essere viventi con la forza di una mano.
Respirò forte Stefan prima di lanciarsi ad ali spiegate verso i moli, mentre la litania funebre della picchiata si alzava in un coro di mille voci, talmente forte da fargli fischiare anche le orecchie.
E riemerse, poco dopo, tra le spesse nubi di fumo di una città in fiamme.
Era diventato la morte, distruttore di mondi**
 
Provava una sensazione strana.
Un misto di compiacimento e, allo stesso tempo, una profonda sensazione di vuoto.
Stava sudando, Stefan. Le mani, umide sotto i guanti, tremavano appena.
Cabrò cercando di levarsi dallo spesso fumo che oramai trasudava dalla periferia della città.
Intravide la fusoliera con la Birra di Paul e Hans e cercò di ricomporre la formazione.
Ancora poco e,  finalmente, sarebbero tornati al campo.
 
 
 
<< Por amor de Dios >> Urlò Muller - del Torres in frequenza.
<< Davanti a noi, ore undici>>
Nessuno di loro si sarebbe mai aspettato di ritrovarsi davanti più di quaranta caccia tra Spitfire ed Hurricane *** a gruppi di dodici e ben distanziati tra loro, perfettamente coordinati come un’unica, grande, ala.
Gli inglesi.
I prevedibili inglesi.
Era una formazione così stupida, così classicamente tedesca e conosciuta da risultare spiazzante. I BF 109 tedeschi di copertura sembravano impazziti e, ben presto, si staccarono dalla formazione di difesa per entrare in quella di combattimento, più preoccupati nel portare a casa la pelle che nel salvare i bombardieri che oh, al diavolo, se la caveranno da soli…
<< In formazione! >> Il Capitano scelse una mossa sicura, disponendoli a testa di freccia sfasata, con un solo aereo alla sua sinistra e due alla destra in modo tale che i piloti potessero proteggersi a vicenda. ****
<< Siegfried, vedi qualcosa? >> ululò Stefan all’amico, posto dietro di lui, alla sua schiena.
Il giovane mitragliere sembrava essersi un po’ ripreso dalla sbornia.
Rispose alzando il pollice come un imperatore romano, sorridendo oltre la maschera.
<< Tutto ok qua dietro. Sgombero come un…oh cazzo >> Osservò il cielo color ambra con una certa perplessità quando intravide uno Hurricane piazzarsi dietro di loro.
<< Cazzo Stefan, ce lo abbiamo dietro! >>
Lo Stuka virò a destra, accelerando. Rollando per evitare un pallone di sbarramento, l’inglese alle calcagna scomparve per qualche secondo, inghiottito dalla luce del sole.
Quando finalmente si illusero di averlo seminato ecco che lo Hurricane riemerse sotto di loro, rollando pigramente per evitare i colpi di mitragliatrice.
<< Merda… >> cabrando appena, nel tentativo di portarsi più in alto possibile, un secondo Hurricane li avvistò e scese in picchiata verso di loro, straziando una serie interminabile di colpi sulla cappottina prima che Siegfried intervenisse con la mitragliatrice ed un colpo di fortuna: l’abitacolo del caccia si riempì di fumo ed iniziò a perdere quota, trivellando pericolosamente verso la terraferma.
Ne uscì un piccolo paracadute bianco.
La loro cappottina di vetro, però, era pericolosamente scheggiata e sembrava sul punto di spezzarsi.
In quel momento Stefan si rese conto di essere ferito.
 
18:30 Canale della Manica, in prossimità di Dover
 

Gli inglesi erano ancora in battaglia e nessuno sembrava riuscire a disfarsene.
Il cielo rosso sangue oramai era invaso dai loro caccia verdastri ed a fatica si intravedevano i musi gialli dei Bf 109
La loro squadriglia era andata completamente allo scatafascio. Avevano chiaramente visto l’aereo di Paul e Hans piroettare a peso morto sulla campagna inglese.
 Siegfried aveva urlato.
L’aereo del Capitano si era letteralmente sfracellato sulla costa inglese. Muller giurava di aver visto il suo paracadute aprirsi.
<< Cazzo, Stefan. Non avrei mai giurato di uscirne vivo da qui…ho la testa pesante, Steffi, ti giuro, sto malissimo… >>
L’amico non rispose. Si limitò a digrignare i denti, ancora una volta, trattenendo una smorfia di dolore. Il suo braccio, il destro, era come intorpidito, bloccato dal dolore. I movimenti dello Stuka, di conseguenza, divennero più lenti e scattosi, sottoponendo l’aereo a continui oscillamenti.
D’altro canto, gli Hurricane, come falchi, notarono immediatamente il bombardiere debole, la preda facile. Per un po’ i tre caccia si limitarono ad inseguirlo blandamente, osservandolo dal basso verso l’alto, come fosse un gioco divertente. Quando infine divenne noioso, i tre ruppero la formazione e si lanciarono in un feroce inseguimento.
Sfiorarono il pelo dell’acqua e guizzarono verso di lui nel tentativo di circondarlo.
Stefan vedeva solo le luci muoversi.
<< Muovi questa carretta, Steffi! >> lo implorò Siegfried mentre tempestava il caccia alle calcagna. La sua mira era imprecisa ed offuscava e l’inglese si limitò a rollare pigro per scansare i colpi.
Tentò una scivolata a sinistra nel tentativo di sottrarsi alla presa nemica, scendendo in picchiata fino a toccare il mare. Uno dei tre Hurricane, forse per una manovra errata, finì per portarsi davanti a loro. Stringendo i denti Stefan cercò di abbatterlo ma quello, appena sentì il proiettile scheggiargli la cappottina, cabrò nel tentativo di sottrarsi al suo tiro e Stefan, ingenuamente, decise di seguirlo.
Quando riuscirono ad abbatterlo – ed ammirare la sua figura piroettare a gran velocità nell’oceano – realizzarono di essere caduti in una trappola mortale.
Entrambi i caccia inglesi erano dietro di loro, attaccati alla coda.
Ancora una volta Stefan tentò in extremis di lanciarsi verso sinistra nel tentativo di scollarseli di dosso. Aveva il sole negli occhi e faticava a muovere il braccio.
La cappottina era saltata. Quello che rimaneva era una coltre grigia e densa nuvola di fumo che sfrigolava dal motore.
I comandi schizzavano come fossero impazziti.
Erano stati colpiti.
<< Io mi lancio >> aveva esordito Siegfried, cercando di scivolare dal suo posto nel tentativo di arrampicarsi sulla coda per paracadutarsi.
<< Non voglio rimanere nemmeno un secondo dentro questa scatola >>
<< Siamo vicini alla costa… >>
Il fumo si fece sempre più denso. Nonostante i tentativi di Stefan di riprendere quota, lo Stuka sembrava aver accettato pienamente il suo destino ed aveva smesso di rispondere ai comandi, le pale a bandiera ne commemoravano l’immeritata fine.
<< Non fare l’eroe, Stefan! Lo vedi anche tu, che sto affare è completamente andato!>>
L’amico si limitò a non rispondere. Mentre l’aereo tentava una blanda planata Siegfried gli lanciò un’occhiata esasperata, di supplica.
Poi si lanciò dall’abitacolo ed aprì il paracadute, ondeggiando sospinto dal vento puntando alle azzurre braccia del mare.
In breve tempo il fumo riempì gli occhi di Stefan, fino a farlo lacrimare, riempiendogli i polmoni fino a svenire.
 
 
 
19.30 Canale della Manica, in prossimità di Audembert
 
Con un urlo soffocato Stefan rinvenne.
Era stato ferito alla testa. Sentiva il sangue colare lungo il suo viso ma non percepiva dolore…come se tutto fosse stato ricoperto di ovatta. Vedeva solo delle lucine riflesse…
E l’immensità dell’oceano che rapidamente incombeva su di lui.
In un ultimo sforzo, nonostante le ferite, provò invano a rallentare la caduta mirando alla soffice sabbia delle coste francesi che oramai riusciva chiaramente a vedere.
Forse avrebbe fatto come il suo grande mito Von Richtofen e sarebbe riuscito a portare l’aereo a terra prima di morire.
Magari sarebbe perfino riuscito a sopravvivere. D’altronde gli inglesi avevano smesso di inseguirlo…
Chiuse i serbatoi ed inclinò il muso del bombardiere verso le coste francesi, in un disperato tentativo di salvezza.
 
 
19.45 Canale della Manica, in prossimità di Audembert
 
Lo Stuka rivolse un ultimo sguardo alla costa.
Si chiedeva, distratto, se qualcuno dei suoi compagni fosse riuscito a planare sano e salvo in pista, lontano da quell’inferno di fumo e frattaglie disseminate tra cielo e terra.
Pigramente, quasi fosse un saluto, l’aereo sollevò un’ala verso la piccola cittadina che per mesi era divenuta la sua casa.
 
*
 
Ed Impattò contro le acque dell’Oceano improvvisamente dure come l’acciaio.
Alcuni rottami galleggiarono per un po’, baluginando sotto i raggi di un sole di fuoco oramai al tramonto, sprofondando infine nell’immenso azzurro.







 
 Note:

 * Simbolo dell'Alsazia. Attualmente parte della Francia, da secoli è stata una regione ampiamente contesa (assieme alla vicina Lorena)
All'epoca della narrazione e prima della grande guerra faceva parte della Germania. 
 ** Citazione al Banghvad-Gita
 ma più comunemente ricordata come la frase pronunciata dal fisico Oppenheimer durante i test sulla bomba atomica.
*** Big wing, tattica militare inglese utilizzata per la prima volta il 7 settembre 1940, che prevedeva una formazione composta dai tre ai cinque squadron di caccia ampiamente distanziati tra loro.

**** Disposizione delle "quattro dita" formazione largamente utilizzata dalla Luftwaffe per la sua flessibilità.

Note finali:

Con questo capitolo finisce il breve spin-off dedicato alle tragiche imprese di volo del promettente Stefan Faust. E' la prima volta che mi diletto con le battaglie aeree e spero di aver conferito  alla Luftwaffe ed alla Royal force almeno un po' della dignità che meritano. Ovviamente fatemi sapere nel caso notiate qualsiasi genere di incongruenza, soprattutto tecnica/storica oltre che beh, qualsiasi cosa.
Provvederò a correggere! Non si finisce mai di imparare...

Ringrazio infinitamente Mystery_Koopa, alessandroago_94, Saelde_Und_Ehre e Old Fashioned per  aver dato una chance a questa storia ed avermi aiutato a riprendere quota ogni volta che rischiavo di perderla. Non vi ringrazierò mai abbastanza.
 

 
 
 
 

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