Immortal

di ___Aliena___
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un padre ***
Capitolo 2: *** Umani ***
Capitolo 3: *** Soltanto cibo ***
Capitolo 4: *** Le campane ***
Capitolo 5: *** Il nome ***
Capitolo 6: *** Il nido ***
Capitolo 7: *** Watari ***
Capitolo 8: *** Immortal ***



Capitolo 1
*** Un padre ***


1
Un padre

 
 
Noi due soli canteremo come uccelli
in gabbia; quando tu chiederai la mia
benedizione, io mi inginocchierò
per chiederti perdono; e vivremo così,
e pregando, e raccontandoci antiche favole,
e ridendo delle farfalle variopinte.
(William Shakespeare, “Re Lear”, atto V, scena III)
 
 
 
«Ryuzaki, dov’è mia figlia?».
Erano tutti lì, riuniti nella sala di controllo del quartier generale, le camice slacciate e i volti provati dalle innumerevoli notti in bianco. Watari sgusciò inosservato in mezzo ai corpi rigidi degli agenti, tra le mani un vassoio traboccante di ogni sorta di leccornia destinato al giovane uomo dai capelli corvini accovacciato su un divanetto. Senza scomporsi, il ragazzo gli rivolse uno sguardo di sottecchi, mordicchiandosi pensieroso il pollice. «Hai detto qualcosa, Watari?».
«Mia figlia» l’anziano si schiarì la gola con un colpo secco di tosse. «Hai per caso visto mia figlia questa mattina, Ryuzaki?».
Matsuda si stiracchiò placidamente le braccia con uno sbadiglio profondo. «È l’alba, accidenti! Non potrebbe essere ancora a letto?».
Watari si accomodò gli occhiali sul naso. «Negativo, signore. Sono passato a svegliarla senza trovarla, dunque ho pensato che avesse deciso di raggiungervi qui per la colazione, ma come può constatare anche lei non è così. Qualcuno di voi saprebbe dirmi dove rintracciarla?».
L’uomo che rispondeva al nome di Soichiro Yagami si allentò il nodo alla cravatta aggrottando la fronte. «L’ultima volta che ho visto sua figlia è stata ieri all’ora di pranzo, quando è venuta a portare una macedonia di fragole a Ryuzaki. Da allora non si è più fatta viva».
«La ringrazio, signor Yagami. Da bambina aveva la bizzarra abitudine di rifugiarsi nei luoghi più impensabili e rimanere nascosta anche per giorni interi. Continuerò a cercarla nei paraggi prima di...».
«Nella mia stanza».
Gli occhi dei presenti ricaddero basiti sul divano al centro della sala. Il signor Yagami inarcò un sopracciglio. «Che cosa hai detto?».
Senza sollevare lo sguardo dal monitor del computer, Ryuzaki si portò alle labbra un pasticcino farcito di cioccolato, assaporandolo con gusto. «Si trova nella mia stanza, o meglio, sul balcone della mia stanza. È la zona accessibile situata più in alto dell’intero stabile e l’unico luogo illuminato perennemente dal sole. Tu sai meglio di me quanto la diverta il pensiero di trovarsi vicino al cielo, Watari, non può che essere lì».
Un lieve velo di silenzio calò nella stanza e le dita nodose di Watari corsero nuovamente agli occhiali, questa volta senza un apparente motivo. «Sei sicuro, Ryuzaki?».
«Conosco la tua Medea».
 
*
 
«Papà, non mi piace quella persona che hai portato qui, mandala via».
«Non è educato parlare così degli altri bambini, lo sai».
«Mi fa paura! Se ne sta sempre seduto in disparte e mi fissa con quegli occhiacci orribili. Non voglio che resti con noi».
«È appena arrivato, devi dargli il tempo di ambientarsi. Perché non vai a leggergli l’ultima filastrocca che hai composto? Magari condividerà con te un po’ delle sue caramelle».
«Ma papà...».
«Non ti piacciono le caramelle, Medea?».
«Sì, però...».
«Allora che cosa stai aspettando?».
 
 
«Signor Wammy, deve venire immediatamente!».
«Cosa è successo, Roger?».
«Si tratta di sua figlia, signore. Si è lasciata coinvolgere in una rissa con dei ragazzini più grandi durante l’uscita al parco».
«Medea in una rissa?».
«Sì, signore. Non ho ben compreso le dinamiche, ma i bambini che erano con lei continuano a dire che l’abbia fatto per difendere un compagno preso di mira da quei bulletti».
«Un compagno? E chi sarebbe?».
«Lawliet, quel ragazzo che definisce sempre “speciale” anche di fronte a sua figlia. Credo che abbia agito così pensando a lei, signore».
«Adesso come sta?».
«Ha un brutto livido sul naso e l’ho lasciata con Lawliet a medicarsi una ferita sanguinante sul labbro. Non è conciata per niente bene, ma orgogliosa com’è non si è lasciata sfuggire nemmeno una lacrima e... signore, che cosa fa? Sorride?».
«Dovresti farlo anche tu, Roger».
 
 
«Lawliet, il vecchio sta cercando Medea».
«Ah sì?».
«Ha detto che deve sbrigarsi a preparare le sue valigie altrimenti partirete per Los Angeles senza di lei. Allora, dov’è?».
«Tu credi che io lo sappia, Mello?».
«L’ha detto il vecchio, non io».
«Sta leggendo in cortile da più di due ore, seduta tra i rami di un albero. Va’ pure a chiamarla, ma a bassa voce: potrebbe essersi addormentata».
 
*
 
La trovò sul balcone, proprio come aveva detto Ryuzaki: le gambe nude avviluppate scompostamente in un lenzuolo, gli occhiali storti, un libro aperto sul petto e la testa abbandonata contro la balaustra di ferro battuto. Watari allungò titubante una mano verso di lei, scostandole dal viso placido alcuni riccioli della chioma scompigliata. Dormiva.
«Medea?».
Un moto di tenerezza gli sciolse le membra nello scorgere le piante dei piedini della ragazza sporchi di fuliggine, facendolo tornare indietro nel tempo e materializzando davanti ai suoi occhi una bimbetta irrequieta che zampettava spensierata per i corridoi della Wammy’s House invece di partecipare alle lezioni di matematica.
 
«Dove sei stata oggi, Medea?».
«In classe con gli altri bambini».
«E perché ci sono macchie di terra sul tuo vestitino?».
«Non lo so, papà».
 
«Medea...» la chiamò nuovamente, sorridendo sotto i baffi. «Medea, è mattina».
La ragazza si raggomitolò ancora di più nel lenzuolo, agitando pigramente una mano nel sonno. Bofonchiò qualcosa di incomprensibile per scacciarlo, forse senza nemmeno rendersi conto di avere accanto suo padre.
Watari sospirò. «Bé, certamente non puoi restare qui». Si chinò in avanti e la sollevò delicatamente tra le braccia, trasportandola fino al letto inutilizzato di Ryuzaki. Le si sedette accanto dopo averle tolto gli occhiali e rimboccato le coperte, smarrendosi nello scrutare l’ovale affusolato di quel volto, la curva lievemente aquilina del naso sottile, le ciglia troppo scure, le labbra troppo rosse.
Vent’anni... erano già passati vent’anni da quel fatidico incontro nei sobborghi di Winchester, vent’anni da quella notte in cui una donna logora e scarmigliata aveva insegnato ad un ricco inventore quanto fossero morbidi i corpi delle zingare... vent’anni dalla presa di coscienza di aver generato qualcosa di molto più prezioso dei suoi bislacchi marchingegni.
 
«Mi ricordi tua madre, Medea. Hai le sue stesse mani piccole, gli stessi occhi vispi e disobbedienti ed anche il suo stesso nome. Ed io cosa ti ho donato? Forse soltanto la miopia».
 
Già, le somigliava, le somigliava spaventosamente; aveva ereditato l’irruenza, la forza selvaggia delle passioni che credeva morte con quella donna e che ora ritrovava racchiuse nel corpicino esile rannicchiato al suo fianco.
 
«Mi ami, papà?».
 
Watari le accarezzò dolcemente una guancia, godendo della sensazione che la pelle vellutata dava alle sue dita callose, raggrinzite, anziane.
Nessuno ti porterà via da me.
Si fermò a riflettere e per un attimo soltanto ogni ricordo del passato, ogni aspettativa per il futuro scomparvero all’istante, inghiottiti dal desiderio di fuggire lontano da tutto ciò che lo circondava. Avrebbe detto addio al nome Watari, avrebbe abbandonato gli orfanotrofi, Ryuzaki, Kira... sarebbe stato soltanto Quillsh Wammy, un padre innamorato di sua figlia, della sua Medea, il tesoro che avrebbe tanto voluto trattenere ma che giorno dopo giorno vedeva sfuggirgli dalle dita.
Non c’è più tempo ormai.
Si ricompose deglutendo lentamente, la mente rivolta agli agenti di polizia al piano di sotto. Il destino di ognuno di loro era stato scritto nel momento in cui avevano deciso di collaborare al caso Kira e tutto quello che potevano fare era continuare a vivere senza guardare mai alle innumerevoli strade che avrebbero potuto imboccare. Anche Medea aveva fatto la sua scelta, accompagnandolo in Giappone e mettendo a repentaglio la sua sicurezza, ma andava bene così: lui l’avrebbe protetta a costo di qualsiasi sacrificio.
Prima che potesse lasciare la stanza, la ragazza sollevò piano le palpebre, schermendosi goffamente dai raggi del sole che penetravano dalla finestra. «Papà...» mugugnò con la bocca ancora impastata. «Devo alzarmi? È già l’ora della colazione?».
Watari distolse intenerito lo sguardo, affrettandosi a tirare le tende. Cercò di controllare il tono della voce. «No, Medea. Puoi dormire ancora un po’».
Lei sorrise stropicciandosi gli occhi e, senza aggiungere altro, affondò il viso nel cuscino di Ryuzaki con un sospiro estasiato.
Watari uscì in silenzio.
 
«Certo che ti amo, bambina mia».


AVVERTENZE!

Per complicare maggiormente la mia vita già impegnata eccomi in questa nuova impresa. Purtroppo o per fortuna all'ispirazione non si comanda, dunque che fare se non assecondarla? Questa raccolta è in un certo senso un tentativo di omaggiare un anime che ho adorato e un personaggio della mitologia greca a cui sono particolarmente legata per svariate ragioni. Può sembrare una cosa folle, però ricordate che "la mia non è pazzia, ma stratagemma" (Amleto).
Passiamo alle cose serie.
Le vicende narrate in questa raccolta sono frutto della fantasia dell'autrice. Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale, possibili cambiamenti rispetto all'opera originale sono fatti per esigenza di trama e il plagio e gli insulti si pagano con il sangue. Anche io ho un Death Note, sappiatelo.
Detto questo, vi ringrazio vivamente per essere passati a trovarmi, spero di aver suscitato la curiosità in qualcuno di voi. A presto!
Aliena.


 

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Capitolo 2
*** Umani ***


2
Umani


 
Io oso solo ciò che è umano;
se osassi di più non sarei uomo.
 (William Shakespeare, “Macbeth”, atto I, scena VII).
 
 
 
«Ti è mai capitato di sentirti... inutile? ».
«Inutile?».
«Ecco, sì, di troppo».
«Di troppo?».
«Non... non mi riferisco a te! Insomma, non che tu sia di troppo, però...».
«Matsuda, stai forse tentando di dirmi qualcosa?».
«No... cioè sì! Medea, tu sei la figlia di Watari e hai accompagnato Ryuzaki per tutti questi anni restando sempre nell’ombra... non ti sei mai sentita... come dire... di fronte alle sue intuizioni geniali, al suo essere così deciso in tutto ciò che fa...».
«Inadeguata? Paralizzata dall’dea di essere scacciata perché troppo semplice? Ingenua? Umana?».
«Sì...».
«No, non mi è mai capitato».
 
*
 
Irruppe nella stanza con l’irruenza di un fiume in piena e, prima che gli agenti potessero rendersene conto, si immobilizzò di fronte agli schermi, i languidi occhi sbarrati.
Matsuda balzò in piedi scompostamente, rovesciando sul tappeto la tazza di caffé che stringeva tra le mani. «Medea! Tu non dovresti essere qui!».
La ragazza parve non udirlo affatto, impietrita davanti a quelle immagini che erano riuscite a spegnere le rose delle sue guance. «Si tratta di questo?». La voce fuoriuscì gelida dalle labbra inaridite, penetrando come tanti aghi acuminati nelle orecchie dei presenti. «Ecco il tuo piano, dunque. Ed io non avrei dovuto vederlo, Ryuzaki?».
Il giovane rannicchiato sul divano continuò imperterrito ad aggiungere zollette di zucchero in una tazza fumante, leccandosi di tanto in tanto le dita. Si sfilò dalla tasca una chiave argentea e la posò sul tavolo, facendola tintinnare. «Come hai fatto ad uscire?».
«Dalla finestra».
Dall’altro lato della sala, Matsuda non riuscì a trattenere un risolino nell'immaginare quella selvaggia calarsi giù dal balcone, ma venne all'istante redarguito dallo sguardo severo di Aizawa. L’atmosfera s’era fatta d’un tratto tesa, impregnata dall'aroma dolciastro del caffé che contribuiva soltanto a rendere l'ambiente più soffocante di quanto fosse realmente. Ryuzaki si portò la bevanda alla bocca e senza scomporsi gettò una rapida occhiata ai monitor. «È necessario».
«Davvero?». La ragazza sollevò stranita un sopracciglio; sulle lucide lenti degli occhiali si rifletteva il corpo provato di una pallidissima Misa Amane, bendata e ancorata ad uno strano sedile come una bestia da macello in attesa dell'esecuzione. 
Medea strinse i pugni, respirando lentamente. «È davvero necessario tutto questo per confermare le tue ipotesi?» parlava scandendo le parole, nel tentativo invano di contenere i fremiti convulsi della voce. «Per la buona riuscita del caso, per catturare questo assassino che sembra quasi divertirsi a stuzzicarti, è davvero necessario dimenticare che anche i sospetti sono qualcosa di più di semplici pezzi di carne da analizzare in laboratorio?».
«Ho fatto imprigionare Misa Amane con l’accusa di essere il secondo Kira e l’obiettivo che bisogna raggiungere ora è una confessione che ci aiuti a risalire all’identità del primo».
«Non mi importa di Kira!». Il corpo della ragazza parve esplodere all’improvviso come un vulcano in eruzione; affondò le dita tremanti tra i capelli senza riuscire a controllarsi, gli occhi ambrati deformati in tizzoni ardenti. «Come... come diavolo fai a non renderti conto della violenza fisica e psicologica a cui, sotto gli occhi di tutti, hai deciso a sangue freddo di sottoporre questa ragazza? Guardala, Ryuzaki! Stai indagando per fermare un criminale degenerato che crede di poter trasformare gli esseri umani nelle sue personali marionette, ma come pretendi di definirti migliore dopo aver concepito una tortura del genere?».
Ryuzaki si voltò a fronteggiare con implacabile fermezza quella maschera delirante che stravolgeva il viso della giovane. Era accaduto ancora. Come alla Wammy's House quand'era bambina, come tutte le volte che permetteva anche alla più piccola delle emozioni di dominarla. 

«Vorrei che tenessi d'occhio mia figlia, Lawliet. Medea è una ragazza buona e sono sicuro che non farebbe mai del male a nessuno, ma c'è qualcosa di incontrollabile in lei, qualcosa che né la mia scienza né la disciplina della scuola sono riuscite a governare. Forse avrei dovuto adottare metodi più severi per educarla, ma guardala: porta con sé l’indomito e inconsapevole fervore di chi non è ancora stato contaminato dall’ipocrisia della società. Non ti affascina tutto ciò?».

«Non saresti dovuta uscire dalla tua stanza».
«È così giovane, Ryuzaki» Medea non lo ascoltava più, non poteva, non voleva in alcun modo accettare l’imperturbabilità di quelle parole che la trafiggevano come lame roventi. Con la voce ridotta ad un supplichevole lamento avanzò impietosita verso gli schermi luminosi, ignorando gli sguardi sconcertati degli agenti di polizia che mai avrebbero immaginato di poter assistere ad un simile spettacolo. «È così giovane... come te, Ryuzaki, e come...» si portò le mani al petto con un profondo sospiro, rincorrendo affannosamente la lucidità che sembrava averla abbandonata. «Kira vale davvero tanto? Saresti davvero disposto a tutto?».
Una colata di silenzio ricadde sulle loro teste come piombo fuso. Attonito, Matsuda continuava a torcere compulsivamente il lembo della camicia, schioccando di tanto in tanto la lingua contro il palato. Senza quasi rendersene conto, aveva cominciato a rimuginare su quelle parole che ancora aleggiavano nell'aria, avvertendo il rimbombo martellante dei suoi pensieri.
Umano... umano...
Da quando aveva accettato di collaborare al caso Kira accanto a quello strambo detective ossessionato dagli zuccheri, non c'era stata ora della sua giornata in cui innumerevoli dubbi non avessero deciso di tormentarlo.
Sarò all'altezza?
Non posso deludere gli altri agenti.
Cosa devo fare? Come devo muovermi?
Perché non riesco a ragionare come loro?

Spesso aveva la sensazione di essere adocchiato dai colleghi come l' anello debole della squadra, l'uomo goffo e disattento da tenere d'occhio costantemente, l'imbranato su cui nessuno avrebbe fatto affidamento nonostante tentasse di mettercela tutta. 
Gli uomini sbagliano. È parte della nostra natura.
Ma Ryuzaki sembrava non sbagliare mai. Senza il suo prezioso contributo, probabilmente Kira sarebbe riuscito a sgominare già da tempo le forze della polizia, mettendo fine a quella sottile resistenza che ancora gli impediva di realizzare i suoi progetti. Ryuzaki era l'unica arma nelle loro mani da poter contrapporre alla genialità di Kira. Eppure...
Umano...
Le sue decisioni erano davvero prive di errori? Dalle cimici nella casa del sovrintendente Yagami all’interrogatorio di Misa Amane, era davvero necessario adottare misure tanto estreme ? Per la prima volta avvertì l'amaro sapore della riluttanza intaccare l'infinita stima che provava per il giovane detective.
Io non sono L. Se lo fossi, a quest'ora tutte le persone in questa stanza sarebbero già morte... ma non mi importa.
 Una morsa gli avviluppò il ventre quando percepì nuovamente i cinguettii strazianti della ragazza risuonare tra le pareti cupe.
«Non c’è altra scelta? Per battere il disumano bisogna realmente cedere all’abbraccio della disumanità?».
Ryuzaki si mordicchiò il pollice. «Sapevi a cosa saresti andata incontro nel seguire me e Watari in Giappone».
«Anche se fosse Kira, è soltanto una ragazza...».
«Se non riesci a controllarti, forse avresti fatto meglio a non venire...».
Lo schiaffo echeggiò nella stanza con violenza, facendo sussultare gli agenti di polizia. Ryuzaki restò interdetto al suo posto, gli occhi spalancati e le labbra schiuse.
Medea boccheggiava esterrefatta, incapace di articolare anche la più semplice delle parole. Rendendosi improvvisamente conto di ciò che aveva fatto serrò le palpebre, quasi a voler scacciare tale immagine dalla mente, ma fu inutile. Si guardò attorno con foga, focalizzando infine la sua attenzione sulle dita spalancate della mano destra, dritte e affusolate come le inesorabili zampe di un ragno; per un attimo assecondò l’impulso di allungarle verso il viso di Ryuzaki, ma il disgusto le attanagliò il petto e con uno spasmo si afferrò la fronte, le pupille dilatate che tornavano lentamente alla normalità.
Senza ricevere alcun ordine, Matsuda le si avvicinò titubante, sentendola trasalire quando le sfiorò una spalla. «Vieni, Medea, torniamo in camera».
 
*
 
«Mai? Sul serio? Sei assolutamente sicura?».
«Mai».
«In tutti questi anni non hai mai lottato contro la frustrazione?».
«Non a causa delle indagini di Ryuzaki».
«Un po’ ti invidio, Medea. Come riesci a seguirlo ovunque vada senza cadere preda dello sconforto?».
«Il tempo ti insegnerà che l’unico modo per riuscirci è imparare a dominare le emozioni, proprio come fa lui».
«E tu quando ci sei riuscita?».
«Mai».
 
*
 
«Medea, ho delle notizie per te!»
Matsuda spalancò la porta della camera da letto, rischiando di inciampare nella marea di fogli scarabocchiati che tappezzavano il pavimento. Dopo un’occhiata cinica al disordine generale, riuscì a scorgere la ragazza oltre le tende candide della finestra spalancata, seduta sulla balaustra con le gambe penzoloni e il naso rivolto al firmamento.
Il giovane agente sospirò mestamente. Era passato più di un mese dall’incarcerazione di Misa Amane, a cui erano seguite quella del figlio del sovrintendente Yagami e del sovrintendente stesso, e da più di un mese Medea aveva smesso di svolazzare a piedi nudi nel quartier generale, murandosi ostinatamente dentro se stessa. Ryuzaki non l’aveva cercata mai, nemmeno quando, con disappunto, aveva fatto notare a Watari di essere a corto del suo dolce preferito.
 
«Credo che Medea sia malata, Ryuzaki».
«Lei come fa a dirlo, Matsuda?».
«Se ne sta chiusa nella sua stanza da giorni e temo che...».
«Di tanto in tanto anche il fuoco ha bisogno di riposare. Si fidi, è meglio così».
 
Ma a differenza degli agenti più anziani, Matsuda non era riuscito ad ignorare la situazione e, senza parlarne con nessuno, aveva preso l’abitudine di farle visita ogni sera per aggiornarla sul caso, trovandola sempre immobile sul balcone nella medesima posizione. Le uniche cose a mutare, con il passare dei giorni, erano i bizzarri indumenti dal taglio un po’ esotico indossati dalla ragazza e il numero di fogli a terra.
Una notte gli era capitato per errore di sentirla confidarsi a voce bassa con il padre, l'unica altra persona a cui permetteva di avvicinarsi:

«Papà, tu credi che se Ryuzaki sospettasse che io sia Kira, legherebbe anche me in quel modo?».
«Allora è questo che ti turba?».
«Quelle cinghie sembrano così strette...».
«Perché mai dovrebbe sospettare di te?».
«Non lo so... E tu perché non rispondi alla mia domanda?».

Era stata l'unica volta in cui, imbarazzato per aver violato un momento così intimo, non se l'era sentita di farsi avanti; ora però c’era un motivo ben preciso che l’aveva portato lì e, rammentandolo improvvisamente, si affrettò a farsi largo tra la carta per raggiungerla all’esterno. Quando fu abbastanza vicino, non poté fare a meno di notare i segni scuri di penna che le macchiavano guance e mani. Sorrise.
È soltanto una ragazza... E tu sei come lei, Ryuzaki.
 «Che cosa stavi combinando?».
Medea non si mosse, continuando imperterrita a scrutare il cielo. «Volevo scrivere una poesia sulle stelle, ma da questo punto della città non riesco a vederle».
«Bé, puoi farlo lo stesso».
«Non riesco a descrivere ciò che non vedo».
«Quindi non hai mai composto poesie su creature fantastiche come i draghi?».
«I draghi posso vederli con gli occhi della mente perché esistono soltanto lì. Le stelle invece sono al di fuori di me».
«Capisco...».
Tacquero entrambi, lei persa verso l’alto, lui ipnotizzato dalle cacofoniche melodie cittadine.
Le luci artificiali hanno spento le stelle.
«Medea, ascolta, Light Yagami e Misa Amane stanno per essere liberati». Attese un istante, sperando in una reazione che non giunse. «Ryuzaki ci ha riflettuto a lungo da quando sono ricominciati gli omicidi, ma per accertarsi che i due non siano davvero il primo ed il secondo Kira ha disposto un piano che verrà attuato tra due giorni. Dovresti assistere anche tu, Medea».
Nella quiete della notte la ragazza voltò piano la testa, agganciando gli occhi di Matsuda con le fiamme delle sue pupille. «È stato Ryuzaki a chiederti di avvisarmi?».
Il giovane agente deglutì. «Ecco... non proprio...».
«C’è un motivo se la mia presenza non è gradita, lo sai».
«Ma adesso che sei prevenuta andrà tutto bene!». Matsuda strinse le mani sulla balaustra talmente forte da sbiancare le nocche. «Non devi avere paura. Nessuno di noi due è un detective dal sangue freddo né tanto meno una macchina priva di sentimenti, ma che importa? Siamo umani, Medea. L’hai detto tu, no?».
Lei non rispose, limitandosi a sollevare nuovamente il viso.
Matsuda non demorse. «Allora, verrai?».
«Devo pensarci».
 
*
 
«Non capisco... che cosa intendi dire con "mai"?».
«Se uno spirito ti offrisse l'immortalità in cambio della felicità, tu cosa risponderesti?».
«Mai!».
«Ti è più chiaro?».



 



AVVERTENZE!
Salve! Ecco qui il secondo episodio della mia piccola raccolta, e approfitto di questo spazio per spendere due parole sul personaggio di Medea.
Dunque, Medea è un'eroina tragica, protagonista di una delle più fosche e strazianti vicende della mitologia greca, a cui artisti e scrittori di tutte le epoche hanno donato, con le loro interpretazioni, un ventaglio di sfaccettature che rendono ancora più accattivante un personaggio già di per sé prismatico. Spesso si tende ad inquadrare Medea con la madre assassina dei suoi figli, la maga folle e snaturata, dimenticandosi del suo lato ingenuo, dolce, che l'ha spinta alle tremende azioni successive perché infuocato d'amore... . Per quanto riguarda la mia Medea, bé, per adesso mi piace pensarla genuina come una bimba circondata da menti troppo razionali e ragionamenti infinitamente geniali; di fronte a queste maestose architetture, Medea rappresenta la spontaneità della fanciullezza, con i suoi pensieri semplici che brillano come stelle ardenti. Tutto questo sproloquio per dirvi...? Assolutamente nulla. Si tratta di un modo come un altro per riflettere su ciò che ho in testa. Ringrazio pazientemente chi si è spinto fin qui. Alla prossima!
Aliena.

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Capitolo 3
*** Soltanto cibo ***


3
Soltanto cibo
 
Gli uomini sono soltanto stomaco
e noi donne, per loro, siamo solo
cibo. Ci mangiano avidamente
e quando sono sazi ci rigettano.
(“Otello”, William Shakespeare, atto III, scena IV)
 
 
 
«Matsuda è in pericolo alla Yotsuba. Per tirarlo fuori dai guai ho ideato un piano, ma ho bisogno del tuo aiuto, Medea».
«Che cosa devo fare?».
«Simuleremo un incidente mortale e, per far sì che risulti credibile e che Matsuda non si faccia male, è necessario il tuo talento acrobatico. Dovrai afferrarlo al volo mentre precipiterà al suolo. Credi di potercela fare?».
«Non ti deluderò, Ryuzaki».
«Lo so bene. Va’ con il signor Yagami, ti spiegherà i dettagli dell’operazione. Mi fido di te, Medea».
 
*
 
«Che cosa te ne pare?».
Misa era di fronte alla specchiera della sua stanza, intenta a rimirare estasiata uno dei nuovissimi abiti acquistati con Mogi quello stesso pomeriggio. «Allora, che ne pensi? Non è meraviglioso?».
Seduta sul letto a gambe incrociate, Medea sollevò distrattamente il viso dal foglio su cui stava scrivendo, esponendo gli occhi ambrati agli ultimi raggi della giornata. Le rivolse un’espressione interrogativa. «Cosa penso...?».
«Del vestito, sciocca!».
«Oh» la ragazza si portò la penna alla bocca, incurante del sapore amarognolo dell’inchiostro che le punse la lingua. «Ti sta bene».
«Tutto qui?» Misa esalò un lungo, profondo sospiro, accarezzando imbronciata la stretta gonna di seta nera che le avvolgeva i fianchi sinuosi. «Non credi anche tu che Light impazzirà di gioia vedendomi?».
«Non saprei... dovrebbe?».
«Certo che sì!» la bionda si voltò stizzita, incrociando le braccia sulla scollatura vertiginosa che le evidenziava il seno. «Dopo tutto lo stress degli ultimi tempi, il mio Light ha proprio bisogno di distrarsi un po’, e voglio che lo faccia nel migliore dei modi possibili».
Erano passati alcuni giorni dall’incidente causato da Matsuda alla Youtsuba e, come volevasi dimostrare, il lavoro al quartier generale si era moltiplicato per tutti: Mogi era stato obbligato a sostituire il compagno nei panni di nuovo manager di Misa Amane, Watari si era chiuso nella sua postazione senza uscirne quasi mai ed L, ammanettato al brillante figlio del sovrintendente Yagami, era divenuto più intransigente nella coordinazione delle varie azioni da eseguire; persino Medea, in seguito al coraggio dimostrato durante il salvataggio di Matsuda, era riuscita a suscitare la sincera ammirazione di Aiber, che l’aveva reclamata accanto a sé durante le indagini.
 
«È una forza della natura. Riuscirebbe ad infiltrarsi ovunque con facilità e nessuno sospetterebbe mai di una creatura talmente fragile all’apparenza. Perché non l’hai mai coinvolta in maniera attiva, Ryuzaki?».
 
L non era sembrato particolarmente entusiasta, ma aveva comunque accondisceso alle richieste del collaboratore, imponendo alla ragazza di stilare ogni sera un rapporto sulle informazioni recuperate.
 
«Fa’ di lei quello che vuoi, Aiber, affidale qualsiasi genere di mansione, non mi importa. Bada soltanto che resti in vita».
 
Da quel momento, però, il detective aveva iniziato a frequentare più assiduamente il balcone della ragazza, particolare che non era sfuggito allo sguardo malizioso di Misa Amane, pronta immediatamente a sfruttare quella presunta intimità per allontanare Ryuzaki da Light, ancora strettamente controllato nonostante la caduta delle accuse che lo inquadravano come primo Kira.
Rivolse uno sguardo cinico alla scarmigliata figura adagiata sul suo letto, roteando platealmente gli occhi di fronte alla sciattezza del trasandato abito dalla foggia orientale che le ricadeva lungo le spalle esili. «Quando sei in missione ti vesti così?».
Medea tornò con noncuranza a scarabocchiare sul foglio. «Non proprio. Di solito indosso le scarpe».
Misa storse inorridita il naso. «E Ryuzaki non dice niente?».
«Perché dovrebbe interessarsi all'abbigliamento dei colleghi? L’importante è che io svolga al meglio il mio lavoro».
«E osa reputarti una persona professionale?».
«Se ci tieni tanto, domandalo direttamente a lui durante il tuo appuntamento. Perché tu sei consapevole che Light non sarà solo questa sera, vero?».
Un sorrisetto sornione increspò le labbra carnose di Medea, mettendo a dura prova i nervi fragili della modella.
È più dura del previsto.
Misa inspirò ed espirò più volte, facendo appello a tutto il suo autocontrollo per non scomporsi. Si avvicinò di qualche passo. «In realtà, stavo pensando che avresti potuto aiutarmi tu, cara».
La ragazza inarcò scettica un sopracciglio. «Io?».
L’altra esibì la maschera più amareggiata e persuasiva che avesse in repertorio prima di continuare con quel discorso. «È da talmente tanto tempo che io e Light non passiamo una serata tranquilla senza che quel pervertito di Ryuzaki se ne stia tra i piedi. Tu sei una donna, un po’ stramba, questo è vero, ma dovresti comunque capire i bisogni impellenti di due fidanzati. E poi, sai anche come sono fatti gli uomini quando sono stanchi: sono tutti uguali, anche se si tratta del più geniale investigatore sulla faccia della Terra».
«Ed io che cosa c’entro?».
«Perché non provi a fare un po’ di compagnia a Ryuzaki? Magari potresti anche convincerlo a lasciare libero Light per qualche ora».
Medea strabuzzò gli occhi scattando in ginocchio. «Io?».
«Perché no? A fine serata potrebbe anche nascere in quella sua mente da maniaco il desiderio di assaggiare te piuttosto che i solito dolci, e allora chissà...».
«Non sono una caramella» la ragazza balzò in piedi con foga, affrettandosi a raccogliere la sua roba. «Non farti venire in mente certe idee».
Misa batté un piede sul tappeto come una bambina capricciosa. «Perché? Guarda che vi ho sentiti, la notte scorsa, fare i piccioncini nella sala di controllo, non fingere di non capire!».
Medea trasalì con il cuore in gola, nelle orecchie l’eco remota di parole sussurrate con indolenza sotto la luce iridescente dei monitor sempre accesi.
 
«Ryuzaki, Light è esausto e ha bisogno di riposare. Starò io di guarda questa notte e se dovesse succedere qualcosa, non esiterò ad avvisarti».
«Lavori con Aiber da appena qualche giorno e brami già il mio posto?».
«L’ho detto soltanto per fare un favore a voi due; d’altronde se ti infastidisce...».
«Il tuo temperamento è però ancora troppo instabile per un investigatore, questo mi rincuora».
«Fa’ come vuoi. Me ne vado».
«Medea, ti confiderò un segreto».
«È proprio necessario?».
«Non voglio che tu diventi come me. Vederti ragionare razionalmente nel tentativo di sciogliere casi ingarbugliati come questo significherebbe uccidere la tua vera essenza, e attualmente non ho tempo per tormentarmi con sensi di colpa del genere. Preferisco di gran lunga quando mi prendi a schiaffi... o quando arrossisci, proprio come adesso».
«La mia vita non dipende da quello che vuoi tu».
«Esatto. Cerca di ricordarlo».
 
Medea serrò le dita sul foglio di carta facendolo scricchiolare. «Quante sciocchezze».
«Perché parli così?» la modella piagnucolava indispettita; non riusciva a concepire l’idea che quella stupida mandasse a monte i suoi piani. «Che cosa ti costa distrarre Ryuzaki dalla malsana ossessione di stare appiccicato al mio Light giorno e notte come una sanguisuga?».
«Tu... tu non capisci! Non si tratta di quanto costerebbe a me, ma di come sarebbe infelice lui nell’accontentarmi». Si portò le mani sul ventre mordendosi un labbro. «Questo caso è molto più che un semplice lavoro. Io conosco Ryuzaki da quando ero una bambina, l’ho visto trionfare e accrescere la sua fama di investigatore e l’ho visto fallire al riparo delle luci della ribalta; ho condiviso con lui una vita intera, domandandomi spesso chi fosse realmente il giovane uomo che mio padre sembrava amare più della sua stessa figlia. Non ho mai concepito il suo modo di agire, e a pensarci bene credo che mai riuscirò a comprendere fino in fondo quella mente talmente grande che sarebbe riuscita a fagocitare all'istante ogni mia resistenza, se solo gliel’avessi permesso. Ma nonostante questo, io so con certezza che interferire con le sue scelte, per quanto incomprensibili e apparentemente inutili, sarebbe come demolire all’istante la pila di zollette di zucchero che giorno dopo giorno si sta impegnando ad innalzare. Non posso fargli questo, pur comprendendo più di quanto immagini ciò che mi hai chiesto, Misa». Le sorrise teneramente, scoprendo le bianche mandorle dei denti germogliate dalle gengive. «Pensa a Light! Tu faresti qualsiasi cosa per lui, vero? Anche se dovesse significare affrontare delle sofferenze, tu lo faresti, non è così?».
Misa non rispose, avvertendo nascere dentro di sé una consapevolezza che credeva sopita ormai da tempo. Le venne in mente Light, il forte desiderio che le aveva divorato il cuore dopo il loro primo incontro e che lui si ostinava a non vedere. Ancora una volta si ritrovò quasi inconsciamente a maledire Ryuzaki per averle impedito ogni occasione di dimostrare al suo ragazzo la forza travolgente di quei sentimenti a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo, e nello stesso tempo pensò a quanto lo invidiasse in quel momento.
Light proverà mai per me le stesse cose che sente Medea?
Si riscosse dai suoi pensieri quando la porta della stanza si spalancò, permettendo l’ingresso dei due giovani ammanettati.
Ryuzaki lanciò un’occhiata inespressiva nella direzione di Medea, sondandone il volto. «Amane, stai cercando di movimentare la serata, per caso?».
Misa non poté fare a meno di notare un irresistibile velo di rossore tingere le gote della ragazza prima che si affrettasse a scomparire nel corridoio.
Si gettò senza riflettere tra le braccia rigide di Light, ubriacandosi del suo odore e ignorando la freddezza meccanica dei suoi gesti.
È soltanto questione di tempo.




AVVERTENZE! 
Terzo episodio della raccolta. Con il prossimo si arriverà alla metà della raccolta e avremo come protagonisti essenzialmente Medea ed L. Credo che sarà, forse, uno degli episodi più difficili da scrivere per me. Come avrete notato, questa raccolta non segue una trama autonoma ma ripercorre i vari momenti della storia originale, immaginando Medea presente sin dall'inizio; ad essere raccontate sono soltanto piccole scintille della vita dei vari personaggi.
Ad ogni modo vi saluto e vi ringrazio per essere passati a trovarmi. A presto!
Aliena.




 

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Capitolo 4
*** Le campane ***


4
Le campane
 
 
Ebbene, tu l’hai visto il tuo Dio.
Ma me, me... tu non mi hai mai vista.
(“Salomé”, Oscar Wilde)
 
 
 
 
«Volevi vedermi, Ryuzaki?».
«Ho riflettuto a lungo, Watari, e alla fine ho preso una decisione».
«Quale sarbbe?».
«Se dovesse accadere qualcosa ad uno di noi due, ti ordino di cancellare tutti i dati relativi al caso Kira raccolti fino ad ora. Non dovrà rimanere alcuna traccia».
«Hai paura, Ryuzaki?».
«Non c’è tempo per questi discorsi. Un giorno, forse... lontano da qui...».
«Farò tutto quello che mi chiederai, Ryuzaki, ma in cambio devi giurarmi che non accadrà nulla a mia figlia. Sono vecchio, presto o tardi sarei andato incontro alla morte in ogni caso, ma Medea no, Medea non ha niente a che vedere con questa storia. Promettimi che la salverai, Ryuzaki, ed io non esiterò ad obbedirti».
 
 
*
 
 
L, sai che gli Shinigami mangiano soltanto mele?
Ryuzaki sollevò stordito la testa dal rapporto del signor Yagami e fissò gli occhi oltre la finestra. Notte fonda, ovattata, scalfita di tanto in tanto dai sibili lamentosi del vento che si insinuavano tra le imposte; una cappa di nubi nere aleggiava sulla città dormiente, recando con sé il sentore inconfondibile di un imminente temporale.
Ryuzaki si portò un dito alla bocca mentre strofinava con insistenza i piedi nudi l’uno contro l’altro. Nonostante la solita, insondabile espressione stampata sul viso, sentiva crescere dentro di sé il desiderio di abbandonarsi completamente al potere purificatore della pioggia, consapevole comunque che nulla al mondo avrebbe scacciato il macigno che da giorni gravava crudelmente sulle sue spalle curve.
L, sai che gli Shinigami mangiano soltanto mele?
Quella frase continuava a rimbombargli nella mente senza tregua.
Gli Shinigami... gli Shinigami esistono...
Era un pensiero inconcepibile, a cui però era stato costretto a cedere nonostante avesse tentato fino alla fine di aggrapparsi con disperazione alla confortevole e nel contempo fallace luce della ragione.
Gli Shinigami...
Ryuzaki abbassò lo sguardo sul suo polso, libero ormai dalle manette che per lungo tempo l’avevano tenuto legato a Light Yagami ma avviluppato in una nuova, letale catena che non gli avrebbe concesso scampo.
Gli Shinigami...
Ogni certezza era franata all’improvviso.
L’uomo alla Yotsuba sospettato di essere Kira era stato fermato e, come in un sogno allucinato, il quartier generale s’era inaspettatamente ritrovato a fare i conti con la spaventosa verità celata dietro un effimero, funesto quaderno nero.
Non ha alcun senso.
Se l’era ripetuto giorno e notte, chiuso nella sua stanza fino ad allora inutilizzata, senza però giungere ad alcuna conclusione sensata che riuscisse a sopperire al senso di vuoto causato da quella rivelazione. Nonostante gli sviluppi delle indagini, nonostante la tenacia costante dei suo collaboratori non riusciva più a farsi strada nella nebbia fitta che lo avvolgeva. Che fare ancora? Che senso avrebbero avuto gli sforzi di un misero pugno di uomini contro gli dei della morte?
 
 
«Abbandona questo caso, Ryuzaki».
«Ti ho già detto di restare fuori da certe questioni».
«Ascoltami, almeno per una volta! Continuare imperterriti in questa direzione è soltanto sciocco e inutile, non fingere di non accorgertene. Ryuzaki, non... non si tratta più di un assassino... gli Shinigami... è qualcosa di troppo grande, anche per te».
«Ormai è tardi per tornare indietro».
«Ho paura, Ryuzaki. Per la prima volta nella mia vita io temo per te».
 
 
 
Paura... già... il morbo che aveva infettato ogni membro della squadra, il parassita che si stava nutrendo della loro forza, che stava pian piano succhiando dalle loro vene ogni goccia di vitalità. La paura... ne erano tutti succubi, eppure nessuno l’avrebbe mai ammesso, non di fronte ai compagni, non di fronte a lui; era un patto che ognuno aveva stretto con se stesso, la speranza di riuscire ad esorcizzare la morte con il silenzio. Ma non sarebbe stato così.
L si alzò in piedi e lentamente si diresse verso il balcone, permettendo all’aria fresca della sera di sferzargli il viso. La città appariva da lì come un lontano formicaio silenzioso. Non aveva mai amato l’altezza, non eccessivamente almeno, non come l’amava lei. Da bambino s’era più volte chiesto cosa ci trovasse, quella ragazza, nello stare tutto il giorno con i piedi penzoloni, senza la certezza del contatto con la terra.
 
 
 
«Che cosa ci fai su quel ramo?».
«Leggo».
«Posso salire anche io?».
«Se ci riesci».
«Perché te ne stai sempre lassù?».
«E tu perché non parli mai con nessuno?».
«Non è vero. Sto parlando con te, ora».
 
 
 
Era uno dei pochi misteri a cui non aveva ancora trovato una soluzione. Forse non ci sarebbe mai riuscito, nonostante gli sarebbe piaciuto, ma poco importava in quel momento.
Gli Shinigami...
Sollevò la testa e non poté fare a meno di ridacchiare tra sé. Era lì, lo sguardo perso all’orizzonte, incurante dei metri che la separavano dal suolo ma in fondo consapevole che il cielo stesso non le avrebbe permesso di cadere. Era in momenti del genere che la mente di Lawliet rinunciava ad ogni pretesa di razionalità, concludendo che se una creatura come quella era fatta di carne e sangue, allora anche gli Shinigami dovevano essere reali.
Gli Shinigami...
Rimase in attesa per svariati istanti, finché non la vide muoversi e spostare gli occhi nella sua direzione; un attimo dopo era già scomparsa all’interno. Trascorsero soltanto pochi minuti prima che il giovane avvertisse qualcuno bussare alla porta.
Come volevasi dimostrare.
La ritrovò ferma sull’uscio a scrutarlo con la testa reclinata, un vassoio tra le mani e il corpo esile fasciato in una tunichetta verde che le scendeva morbida sul petto, accarezzando le forme acerbe dei seni. Gli risultò spontaneo chiedersi se l’avesse indossata apposta, negando immediatamente quel pensiero puerile.
Come potrebbe?
L si mordicchiò un pollice mentre osservava il contenuto del vassoio: un plico di fogli fittamente scritti e gli avanzi della torta alle fragole di Watari. Affondò pigramente un dito nella panna montata. «Come facevi a sapere che avevo bisogno di zuccheri?».
Medea si strinse nelle spalle. «Io non so niente, è mio padre che mi manda. Ha detto che devi finirla, altrimenti andrà a male».
«E questi fogli?».
«Sono i nomi segnati in quel quaderno dello Shinigami. Li ho ricopiati in ordine, come mi avevi chiesto».
«Perfetto».
Le sfilò il vassoio dalle mani e si voltò, attendendo che lo lasciasse solo. Ma non lo fece. Rimase lì, i piedi scalzi che giocherellavano con le frange del tappeto e le labbra arricciate in una smorfietta indecifrabile. L posò la torta sulla scrivania.
«Devi dirmi altro?».
«No».
Silenzio, palpabile e denso come una colata di gelatina.
«Mi stai forse chiedendo di entrare?».
«Questa è una tua congettura. D’altronde, se insisti...».
Gli sorrise sorniona passandogli accanto, e nella mente del giovane s’affacciò vivido un ricordo che credeva ormai sopito.
La Wammy’s House, una plumbea sera di novembre, un ragazzetto curvo e scarmigliato e una bambina insonnolita.
Non era cambiato nulla. All’epoca però era stato lui a cercarla.
 
 
 
«Lawliet, questa è la mia stanza!».
«Lo so».
«Che cosa vuoi?».
«È scoppiato un brutto temporale. Tuo padre mi ha mandato a controllare che stessi bene».
«Puoi dire a mio padre che non ho paura dei tuoni».
«Bé, ora probabilmente no, ma credo che presto andrà via la luce e passeremo la notte completamente a buio».
«E allora?».
«Ti ho avvisata per prevenire un tuo improvviso accesso di pianto. Sveglieresti gli altri ragazzi e non sarebbe opportuno».
«Lawliet, mi stai forse chiedendo di restare a dormire qui?».
«Questa è una tua congettura. D’altronde, se insisti...».
 
 
Non parlarono molto, non ne avvertirono la necessità. Si limitarono ad ascoltare l'uno il respiro dell’altra, lui comodamente rannicchiato sul letto con una fetta di torta tra le mani, lei seduta sulla scrivania.
«Che cosa c’è?» L trangugiò maldestramente un abbondante boccone, intercettando lo sguardo ambrato della ragazza intento a carpire ogni suo movimento. «Vuoi un po’ di dolce?».
Medea scosse energicamente i riccioli arruffati.
«Davvero?».
Annuì.
«Prendi almeno questa fragola» il giovane le porse il frutto scarlatto che ornava la sua fetta.
«Non la voglio, davvero».
«Ma io voglio che tu la mangi».
«Non mi piace la panna».
Lawliet soppesò quelle parole con attenzione. Senza distogliere gli occhi, si portò la fragola alla bocca e leccò per bene ogni residuo di panna, analizzando incuriosito il lieve rossore che velò le gote della ragazza.
«Adesso è pulita. Mangia».
Medea lo accontentò titubante. Diede un piccolo morso al frutto che Ryuzaki le tendeva, affrettandosi immediatamente a voltare la testa verso la finestra spalancata. Esili gocce d’acqua picchiettavano sulla balaustra.
L si alzò in piedi, un sorriso ad increspargli il volto. «Lo senti?».
«Che cosa?».
«Il suono delle campane».
Medea inarcò un sopracciglio. «Non c’è nessuna campana nelle vicinanze».
«Non è vero» si sporse verso di lei, le mani affondate nelle tasche dei jeans sgualciti. «Suona da giorni, ormai. È una melodia che mi accompagna incessantemente».
«Sei completamente impazzito».
«Medea» si avvicinò ancora, sfiorandole accidentalmente un ginocchio nell’afferrare il plico di fogli. «Tu sai perché Watari ha deciso di chiamarti così?».
La ragazza arretrò istintivamente. «Era il nome di mia madre».
«E poi?».
La vide sondare l’aria circostante con il sensi all’erta, alla ricerca di una possibile via di fuga come un animale braccato. «Non lo so, non gliel’ho mai chiesto».
Ryuzaki si allontanò di qualche passo, dandole la schiena. «Cos’è che distingue Medea dalle altre eroine tragiche?».
«Di certo non un destino più clemente».
Tacquero. La pioggia aveva iniziato a scrosciare copiosamente, ruggendo un feroce requiem assieme al suono delle campane.
«Alla fine della sua storia, Medea resta in vita» Ryuzaki inspirò a fondo. «Ricordalo, perché dovrà essere lo scopo della tua esistenza. Tu devi vivere, Medea, non importa ciò che accadrà a noi altri. Tu devi vivere».
Percepì un fruscio, un lieve tocco sul gomito destro.
«Che cosa stai dicendo?».
Non rispose, non ce n’era più bisogno.
«Ryuzaki?» il tocco si fece più deciso, divenne una stretta consapevole, supplice. «Mi senti o no? Ryuzaki? Lawliet?».
Il giovane abbassò le palpebre per un istante. «Devi farlo, Medea, non devi dimenticarlo».
«Anche tu!» avvertì le sue dita aggrapparsi tenacemente a lui, strattonarlo, scuoterlo. «Lo farai anche tu! Ciò che dici non ha senso, tu...».
«Devi vivere» si voltò inespressivo, fronteggiò quelle iridi ardenti che nemmeno il temporale sarebbe riuscito a soffocare. «Lo devi fare, Medea, è nel tuo nome».
La ragazza si portò le mani alle orecchie. «Taci».
«Devi continuare a comporre poesie e leggerle ad alta voce ad Aiber, o a Matsuda, anche se non vorranno ascoltarti».
«Taci, taci».
«Devi tornare alla Wammy’s House presto, il prima possibile».
«Ho detto taci, basta!».
Fu un attimo. Un battito di ciglia. Medea lo afferrò per le spalle curve e lo spinse a terra; gli fu addosso con un balzo ferino, incurante dei fogli che si sparsero, incurante degli occhiali che volarono via e della tunica che si sollevava. «Basta, non ti voglio sentire, devi tacere! Io sono viva e lo sei anche tu! Non ci sono campane che suonano, non servono questi discorsi! Ti prego...».
L non reagì. Sapeva che sarebbe accaduto, e sapeva anche che sarebbero bastati pochi secondi prima di vederla scattare in piedi e fuggire via terrorizzata e pentita.
O forse no.
La guardò negli occhi, in quelle fiamme inquiete che lo sovrastavano, che si opponevano alla razionalità della sua mente... forse le uniche armi in grado di fronteggiare Kira senza soccombere.
L, sai che gli Shinigami mangiano soltanto mele?
Smise di riflettere. Le sfiorò il viso, spinto dal solo desiderio di toccarla, di purificarsi dal marciume che lo insozzava fino al midollo. E lei non si sottrasse.
Le imposte della finestra cozzarono l’una contro l’altra, sospinte da una folata improvvisa di vento.
Ryuzaki si tirò su con lentezza, calibrando ogni movimento con scrupolosa cautela nel tentativo di non spaventarla. Lei lo assecondò piano e si accoccolò ancora di più contro il suo palmo aperto affondandovi la fronte, le labbra, inspirando inebriata la vaga essenza di vaniglia che sgorgava da quella pelle diafana.
Il giovane chiuse gli occhi. Era già accaduto una volta, da bambini, dopo averla ascoltata recitare una poesia per suo padre. All’epoca lei s’era ritratta inorridita, nascondendosi dietro un mobile e scatenando le risa di Watari.
 
 
«È soltanto una carezza, Medea».
«Non la voglio».
«Non essere scortese. Lawliet vuole congratularsi con te».
«Ha le dita troppo fredde».
 
 
Era cresciuto e quelle dita non s’erano riscaldate affatto, almeno non fino a quel momento. La ringraziò in silenzio.
Appoggiò le spalle curve al bordo del letto e le permise di insinuarsi tra le sue gambe, di sprofondare il viso nel suo petto scarno, di circondarlo con le braccia nude. Intrecciò le mani in quei riccioli scomposti, percependo all’istante il fremito che le attraversò il corpo. «Tu vivrai, Medea. Io so che lo farai».
Intanto la pioggia precipitava con furia e i rintocchi delle campane si avvicinavano nel buio.
 

 
*
 

Medea si svegliò il giorno dopo nel letto di Ryuzaki, un lenzuolo adagiato sulla pelle candida. Si sollevò in piedi con una mano sulla fronte, nella testa l’eco dell’acqua che batteva contro la finestra. Trovò gli occhiali sulla scrivania, accanto al vassoio vuoto. Il dolce non c’era più, erano rimaste soltanto alcune grosse fragole succose, abilmente ripulite dalla panna. Medea sussultò e arrossì. Ma non ebbe il tempo di ricordare. Un grido di dolore al piano di sotto la colpì in pieno, togliendole il respiro. Seguirono scalpiccii concitati, tonfi attutiti, voci confuse.
Medea si precipitò alla porta e impallidì all’istante trovandola serrata. La nebbia nella sua testa iniziò a diradarsi.
L'ha fatto apposta...
Urlò, scalciò, batté i pugni fino a ferirsi le nocche, ma fu inutile. La stanza prese a vorticare forsennatamente, le pareti sembravano sul punto di crollarle addosso.
Lawliet...
Scavalcò il letto con un salto e uscì sul balcone, incurante delle gocce che le sferzavano il corpo, taglienti come cocci aguzzi di vetro. Tentò di arrampicarsi sulla balaustra ma le braccia cedettero, le gambe tremarono.
La città era così piccola da lì, il cielo così lontano...
Boccheggiò alla ricerca di ossigeno.
Vertigini?
E di colpo tutto cessò. Due braccia forti la trascinarono dentro, la avvolsero in qualcosa di asciutto e la costrinsero dolcemente a sedersi sul materasso.
Papà...
«Signorina Medea...». Soichiro Yagami le asciugò il viso con le mani ruvide.
Sull’uscio della porta c’era il resto degli agenti della squadra. Immobili. Medea lasciò vagare lo sguardo allucinato dall’uno agli altri, nelle orecchie l’incessante rintocco delle campane.
E capì.
 
 
NOTA DELL'AUTRICE.

A casa ho un gattino bianco e nero  che ama arrampicarsi sugli alberi. Non è mai stato molto affettuoso, nemmeno con me. A volte però se ne sta immobile anche per ore intere a fissarmi, soprattutto quando fingo di non considerarlo. Non si avvicina, a meno che non lo si chiami, e quando finalmente mi decido ad accarezzarlo, resta accoccolato sul mio gembro facendo le fusa. Una volta ebbi una terribile giornata e scoppiai a piangere senza controllo. Il gattino mi si avvicinò, si arrampicò sulle mie ginocchia e con la zampetta tentò di raggiungere una mia lacrima. Non è una favola, è realtà. Si tratta di cose che mi hanno da sempre fatto riflettere. Cosa c'entra il mio gatto con la storia? Sinceramente non lo so, però scrivendo pensavo intensamente a lui. Sono una gattara pazza.
Siamo a metà della raccolta. Chi sarà il protagonista del prossimo episodio? Lo scoprirete a breve... spero!
Grazie a tutti quelli che si sono fermati a dare una sbirciatina.
A presto!
 
 

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Capitolo 5
*** Il nome ***


Il nome
 
Che cosa c’è in un nome?
(“Romeo e Giulietta”, William Shakespeare,
atto II scena II)
 
 
 
«Che stai facendo, Ryuzaki?».
«Niente, non sto facendo assolutamente niente di particolare. Ascolto il suono delle campane».
«Le campane?».
«Già. Oggi però devo dire che fanno davvero un baccano assordante».
«Io non sento niente...».
«Dici sul serio? Eppure è da giorni che vanno avanti, è impossibile ignorarle. Deve essere una chiesa... forse c’è un matrimonio, o forse...».
«Ma che stai dicendo, Ryuzaki? Smettila con queste sciocchezze e torna dentro».
«Sai, Light, nemmeno lei riusciva a sentirle, ieri sera... ma è giusto così. Dimmi una cosa: se io ti chiedessi di non permetterle mai di udire questo suono, tu lo faresti, non è vero, Light?».
 
 
*
 
 
«E non tornerà mai più? E non tornerà mai più?».
Light spalancò gli occhi di soprassalto, venendo investito in pieno dal buio della notte. L’aveva sentita, era sicuro. Non s’era trattato del solito, diafano sogno che serpeggiava via dalla sua mente al sorgere del sole, questa volta era reale. Rimase in attesa con il fiato sospeso, sondando l’aria circostante come un predatore famelico.
«No, no, morto è il mio diletto».
La udì di nuovo, perfettamente. Non poteva averla immaginata.
«Misa» si chinò sulla modella avvinghiata al suo petto. «Misa, hai sentito anche tu?».
Lei mugugnò qualcosa nel sonno, scuotendo piano la testa e solleticandogli il pomo d’Adamo con i capelli sciolti.
«Riposa nel suo letto».
Light avvertì un tiepido languore lambirgli il basso ventre ed irradiarsi lungo il corpo. La ricordava, nonostante fossero passati anni dall’ultima volta che quelle stilettate argentine l’avevano trafitto, sapeva con tutto se stesso che quella voce non poteva essersi spenta, non ancora almeno.
Sollevò il viso al soffitto e gli parve di scorgere due iridi di pece sin troppo familiari che lo scrutavano intensamente, consapevolmente, quasi supplici. Piegò le labbra in un bieco sorriso.
Si liberò dalle braccia nude di Misa e si precipitò per le scale del suo appartamento, dirigendosi verso una piccola porta socchiusa da cui s’irradiava una tenue luce giallastra.
Erano trascorsi cinque anni dalla morte di L, cinque anni dal trionfo della vera giustizia e dall’avvento del regno di Kira sulla Terra. C’era riuscito, aveva trionfato e le voci del dissenso avevano pian piano iniziato ad affievolirsi. Proprio come la sua.
All’inizio non l’aveva notato, troppo occupato a studiare la sottile, necessaria arte della dissimulazione, quella che gli avrebbe permesso di svettare silenziosamente sulle teste di quanti lo circondavano. Celato dietro la maschera dell’agente di polizia, aveva assistito all’erompere di quella marea concepita nella noia e nutrita dagli spasmi dai condannati a morte; aveva gustato il nettare di un lento e implacabile trionfo che, a detta di Ryuk, aveva il sapore delle mele.
Era stato soltanto con il trascorrere del tempo che l’aveva percepita, quell’unica nota stonata in un requiem ineccepibile. Inizialmente s’era deciso a non eliminarla. No, sarebbe stato troppo semplice. L’avrebbe piegata al suo virtuosismo musicale, componendo così la melodia perfetta, un ultimo dono di scherno per la sconfitta del più geniale investigatore del pianeta. In fin dei conti, l’aveva chiesto proprio lui.
«E mai più tornerà...».
Un brivido gli trafisse la spina dorsale. Qualcosa era andato storto, qualcosa che non aveva calcolato: lo strumento s’era rotto all'improvviso e la nota aveva smesso di suonare.
Tutto aveva avuto inizio al funerale di L. L’aveva vista sbucare da un cespuglio di rose, le mani insanguinate strette sugli steli di fiori strappati senza cura, i capelli raccolti in una grossa treccia che le scendeva oltre le spalle scarne e il viso smunto, quasi lattescente, su cui spiccavano le labbra cremisi, umide.
S’era accostata ad una lapide e vi aveva poggiato dolcemente la fronte, accarezzando con un dito il nome inciso sulla pietra.
Quillsh Wammy.
«Hai freddo, papà?».
Soichiro Yagami aveva distolto lo sguardo con i pugni serrati. Light le si era avvicinato cautamente, sfiorandole piano la schiena. «Medea, lascia questi fiori, ti stai facendo male».
Lei l’aveva ignorato, limitandosi a spostarsi accanto ad un'altra tomba, quella che più di tutte aveva ricevuto le attenzioni degli agenti lì presenti. Era rimasta immobili per svariati istanti, gli occhi velati, indecifrabili. All’improvviso s’era portata una mano al viso e, afferrati gli occhiali, li aveva scagliati al suolo, pestandoli intensamente con un piede.
Matsuda era sobbalzato. «Medea, no!».
«È colpa tua, lo sai?» aveva parlato alla terra, alla polvere. «È sempre stata colpa tua... però io non ti odio... non ci riesco...». S’era voltata verso Light con un sorriso amaro, porgendogli il mazzo di rose selvatiche e macchiandogli di sangue i polsini della camicia. Non una sola lacrima le aveva solcato le guance. «Sono per lui, Light, un dono mio e tuo. Ne sarebbe felice, non credi?».
Non aveva più udito la voce di Medea. Da quel fatidico giorno s’era barricata in un ostinato silenzio, rifiutandosi di rispondere a qualsiasi domanda riguardante suo padre, L, il suo passato, il suo nome... Perché Medea non era il suo vero nome, Misa l’aveva confermato dopo aver effettuato nuovamente lo scambio degli occhi.
«E allora come si chiama?» aveva subito domandato Light, incapace di trattenere la bramosia.
Contro ogni previsione, Misa aveva fatto spallucce e s’era sottratta al freddo abbraccio del giovane. «Che importanza ha? In fin dei conti Ryuzaki è morto e lei non è pericolosa. Lasciamola vivere nel suo delirio».
Light era rimasto interdetto. Misa Amane aveva disobbedito ad un ordine. Per la prima volta. Non c’era stato modo di persuaderla, nemmeno quando aveva offerto a Medea una stanza nel suo appartamento, un luogo dove stare tranquilla, protetta. Braccata.
Misa l’aveva tenuta accanto a sé, aveva iniziato a comprarle vestiti, ad acconciarle i capelli, quasi nel tentativo inconscio di squarciare il velo invisibile con cui s’era coperta il volto. Una sera, risalendo dal lavoro, l’aveva udita confidarsi con Medea a bassa voce.
«Come hai fatto?» aveva chiesto la modella in un sussurro. «Come hai fatto a convincere Ryuzaki a permetterti di dipingere il suo viso nei tuoi occhi? Passano gli anni, ma lui è sempre lì, riesco a vederlo. Io con Light non ci sono mai riuscita. Come hai fatto? Non so nemmeno perché te lo sto chiedendo, in realtà. Ho come l’impressione che non potresti mai insegnarmelo, non è così?».
Era rimasto folgorato all’istante. Il calore che lo attanagliava seguito da brividi di gelo ogni volta che le passava accanto, l’odio che s’era sentito riversare addosso da quello sguardo miope eppure intenso quando era stato nominato dalla squadra secondo L, ogni cosa era improvvisamente divenuta chiara. Il requiem non sarebbe mai stato perfetto se lui non fosse stato scacciato da quegli occhi, se non avesse scoperto quel nome che ancora lo separava dal controllo assoluto. Era diventata la sua ossessione. Notte dopo notte aveva iniziato a sognare la voce di quella maledetta, singhiozzi strozzati che lo imploravano e gemevano un nome impalpabile e inafferrabile come lei. Ma presto sarebbe tutto finito. Lo sentiva nelle ossa.
Light strisciò all’interno della stanza come una serpe inquieta, lasciandosi scivolare nel caos di stoffe, libri e oggetti sparsi sul parquet. Medea era alla finestra, scalza come un tempo, i riccioli sciolti, le nocche bianche. Cantava. Un canto stridulo, cristallino e tagliente come vetro acuminato. Nessuna intonazione, nessuna tecnica. Soltanto istinto.
«E non tornerà mai più?
 E non tornerà mai più?
No, no, morto è il mio diletto,
riposa  nel suo letto
e mai più tornerà...
Bianca era la barba
bianca come la neve,
e lino la sua testa.
Se n’è andato, e quaggiù
Solo il pianto ci resta.
Della sua anima, mio Dio, pietà!».
Light tentò di accostarsi circospetto, ma lei parve percepire il suo odore perché si interruppe e si voltò di scatto. Un’ombra nera calò all’istante sulle iridi ambrate della giovane, un’ombra che conosceva molto bene.
Light rabbrividì.
Ryuzaki...
«Continua, non volevo interromperti» anni di bugie gli permisero anche in quell’occasione di reprimere il nervosismo. «È una canzone molto bella. L’hai scritta tu?».
Medea si catapultò di fronte alla specchiera, inciampando nei suoi passi. Incominciò a spazzolarsi malamente la chioma arruffata. Fremeva.
Light si guardò attorno. Sul letto troneggiava un logoro borsone da viaggio con una W ricamata in fili d’argento. Accanto, adagiata su una pila di vestiti, una lettera spiegazzata.
 
Adesso che sono qui, non ha più senso rimandare ancora.
Ti aspetterò, perché entrambi sappiamo che verrai. 
 
N
 
«Hai deciso di andare, dunque?» Light mantenne un tono neutro, privo di inflessioni che potessero tradirlo. «Non ti biasimo, è una tua scelta libera. Sai, in realtà avevo capito che l’avresti raggiunto sin dalla prima volta che si mise in contatto con il nostro quartier generale. Lo conosci bene, non è così?».
Medea non rispose. La stretta sulla spazzola si serrò maggiormente.
«Quando te ne andrai?».
Silenzio.
«Non voglio influire sulla tua decisone, ma io e Misa stavamo pensando di telefonare ad un oculista per farti preparare un nuovo paio di occhiali. Consideralo il nostro ultimo regalo. Mi permetterai di farlo?».
Medea posò la spazzola e si immobilizzò, quasi a soppesare quella proposta. Infine scosse lievemente la testa.
Light sospirò. «Come vuoi tu».
Passo dopo passo, era riuscito ad accorciare la distanza che li separava, trovandosi ad un palmo dalla sua nuca. Fermo in quella posizione, gli parve di percepire distintamente il sangue che le ribolliva nelle vene, il respiro che si insinuava nelle sue piccole narici e le gonfiava il petto, la prepotenza inebriante del suo profumo.
Terra bagnata e gigli.
 Le scoprì delicatamente un orecchio. «Credo di aver fallito, Medea. Il giorno che se ne andò, Ryuzaki mi chiese di tenerti al sicuro. Buffo, vero? Il suo ultimo pensiero è stato per colei che forse lo disprezza più di tutti». La sentì irrigidirsi, gli occhi sbarrati riflessi nello specchio. «Ma se tu te ne andrai, come farò a tener fede alla mia promessa? N ed io siamo entrambi in lotta contro Kira, ma è a me che lui ti ha affidato, ti ha messa in queste mie mani». Le sfiorò il collo, il pallido, soffice scrigno della voce. Avrebbe voluto frantumarlo lì, all’istante. «Ho davvero fallito, Medea? Non ho più niente da offrire al ricordo di Ryuzaki?».
Senza rendersi conto aveva aumentato la pressione delle dita, sgualcendo quella carne prima così liscia e inviolata. Medea si girò a fronteggiarlo, gli occhi strabuzzati per mettere a fuoco la sua immagine. E Light lo scorse di nuovo, questa volta nitidamente. Era lui, il suo sguardo, il suo spirito tornato a tormentarlo, a ribadirgli che non gli avrebbe permesso di trionfare.
Questo è il mio gioco, Ryuzaki.
Medea ansimò per la mancanza d’aria, tentò di divincolarsi da quelle spire. Gli afferrò i polsi debolmente. «Light...».
Light avvertì l’incendio divampare. Ce l’aveva fatta, lei aveva parlato per lui, come nei suoi sogni. Mancava soltanto il nome, quel dannato nome che le avrebbe fatto sputare a costo di soffocarla, di spaccarle la testa contro lo specchio. Soltanto allora anche l’ultima nota avrebbe suonato secondo le sue regole.
Le senti adesso le campane, L?
La tenne stretta, gli parve quasi di averla sollevata da terra. «Dillo, avanti».
«Light... lo sai... che gli Shinigami... mangiano soltanto... mele...».
Tutto si fermò all’istante. Light si tirò indietro inorridito, vide quel corpo accartocciarsi su se stesso ed esplodere in eccessi fragorosi di tosse che si trasformarono pian piano in una risata acuta, stonata.
Uscì dalla camera senza voltarsi indietro e corse immediatamente a lavarsi le mani.
Questo è il mio gioco, Ryuzaki, mio!
 
 
*
 
 
La stanza era buia, illuminata soltanto dalla luce iridescente dei monitor accessi. Medea chiuse gli occhi. Era come essere tornata indietro nel tempo, come se la morte non fosse mai entrata nella sua vita.
Ma non era così, lo sapeva fin troppo bene.
L’uomo dai capelli scuri le sfilò delicatamente il borsone dalle mani e si rivolse a quella che le parve una candida nuvola vaporosa accovacciata tra i binari di un trenino giocattolo.
«Signore» mormorò schiarendosi la voce. «lei è qui, proprio come aveva detto».
La figura voltò il capo candido e Medea trattenne il respiro. Un fresco balsamo le scivolò lungo la gola riarsa. «Nate...».
Il giovane abbozzò un sorriso e, tendendole la mano, la invitò a chinarsi accanto a lui. Le pizzicò delicatamente una guancia e lei fece lo stesso senza titubare. I contorni delle cose iniziarono a diventare più nitide, concrete, permettendo a ondate inarrestabili di ricordi di pervaderla e trasfigurare la sala in un brulicante corridoio della Wammy's House.
«È bello rivederti, Madison».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Quinto episodio della raccolta, un po’ sperimentale. Come al solito i personaggi, miei e non, danzano sulla carta per conto loro, dunque credo che tutti i gesti compiuti da loro siano simbolici.
Il dialogo iniziale tra L e Light è, ad eccezione della frase finale, ripreso da un episodio dell’anime, quello della morte di L.
La canzone cantata da Medea è invece la stessa che intona Ofelia nell’”Amleto” di Shakespeare quando impazzisce per la morte di suo padre Polonio.
Ho lievemente modificato il carattere di Misa Amane perché non ho mai creduto che fosse soltanto un’oca sciocca e persa per Light. È una ragazza con la sua fragilità, una fragilità che la risucchia pian piano, portandola ad attaccarsi anche inconsciamente all'unica persona realmente estranea al marcio che la circonda. 
Light in questo episodio è allucinato, vive un delirio quasi onirico, tutto suo, in cui troneggia l’ossessione per L. Non so se Medea abbia realmente iniziato a sospettare della colpevolezza di Light. Forse è solo una sensazione, forse è stata Misa o forse semplicemente non sopporta vederlo insignito del ruolo di L. A volte lei fa tutto da sola...
Il vero nome di Medea è Madison Wammy, che significa “battaglia vigorosa”.
Se volete un'immagine concreta di Medea, in questo episodio l'ho immaginata tenendo presente Helena Bonham Carter quando, giovanissima, interpretò il ruolo di Ofelia nel film di Franco Zeffirelli "Hamlet". Assieme alla Ofelia di Kate Winslet, quella di Helena è una versione che mi piace tanto, perché da a un personaggio dolce come Ofelia quel non so che di selvaggio, insito a mio parere proprio nella persona dell'interprete.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, leggono e leggeranno questa mia storia, nata in un momento di noia e diventata parte integrante di me. Presto si giungerà al termine e questo un po’ mi rattrista. Non so, forse più in là proverò a scrivere qualcosa sull'infanzia di Medea alla Wammy's House. Vedremo.
Grazie ancora per essere passati a curiosare.
Alla prossima!
 

 

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Capitolo 6
*** Il nido ***


Il nido
 
 
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano;
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
(“X Agosto”, Giovanni Pascoli).
 
 
 
«Il sovrintendente Yagami è morto».
«Addio colombello...».
«Che cosa dici?».
«E lui? Lui dov’è?».
«Non lo so».
«Sta bene? È ancora vivo? Me lo devi dire, dimmelo!».
«Non so niente».
«Sei un bugiardo. Ma non importa, no, non importa! Lo cercherò io, smuoverò il cielo e la terra se necessario, e lo troverò. Lo porterò qui e quando quest’incubo sarà finito torneremo a casa, noi tre, insieme. Lo farò e tu non mi fermerai».
«Madison...».
«Io mi chiamo Medea».
 
 
*
 
«Facciamo un gioco tutti insieme?».
«Che genere di gioco?».
«Near è la preda e noi altri i predatori. Chi lo catturerà per primo lo divorerà».
«Non ho nessuna intenzione di mangiare Near».
«Allora sarai una preda come lui».
«Va bene, ma ad una condizione».
«Quale?».
«Io sarò sua madre».
«Perché?».
«Perché le madri divorano i predatori dei loro figli. Ovvio, no?».
 
 
*
 
«Halle, mi faccia un favore: questa sera le consegnerò i rapporti contenenti le deduzioni di N relative al caso Kira. Voglio che giungano al più presto nelle sue mani».
«Di cosa sta parlando, signorina Medea?».
«Non lo ripeterò ancora. Mi ascolti, io so che lui è vivo, lo sento qui, nella pancia. Non mi importa incontrarlo né tantomeno sapere dove si nasconde ora. Ma lei deve fare ciò che le sto chiedendo e assicurarsi che sia al sicuro. Non ne ho la certezza, ma qualcosa, nel suo viso, mi fa pensare che lei l’abbia già incontrato più volte... se fosse così, significherebbe che lui si è fatto scovare perché si fida di lei, Halle, e ciò mi basta».
«È stato N a volere tutto questo, signorina?».
«Lo voglio io. Obbedisca, la prego, e le sarò eternamente grata».
«Trovarlo è davvero così importante per lei, Medea?».
«Tanto quanto la mia vita».
 
*
 
Il gorgoglio incessante dell’acqua impregnava le pareti. Mello chiuse gli occhi, affondando le mani nelle tasche del cappotto. Entrare in quella stanza non era stato difficile, nonostante avesse dovuto affidarsi ad Halle Lidner per eludere la sicurezza. Aveva riflettuto a lungo prima di andare. Due voci, nella sua testa, lottavano da giorni senza dargli tregua, l’una spronandolo a scomparire dalla circolazione, l’altra carezzandogli dolcemente i pensieri ed evocando colori, profumi e suoni che avrebbe tanto voluto cancellare. Confidarsi con Matt non l’aveva portato a nulla: con il viso affondato nella console, s’era limitato ad inarcare scetticamente un sopracciglio mentre aspirava a pieni polmoni da una sigaretta.
 
 
«Vuoi vederla?».
«Non è questo il punto».
«E quale sarebbe allora?».
 
 
Non lo sapeva, e questa incertezza gli faceva ribollire il sangue nelle vene. Non s’era recato lì per una visita di piacere: desiderava soltanto strappare una dannata fotografia dalle mani di quel bastardo e dileguarsi in fretta, senza nemmeno guardarlo in faccia.
Un moto di repulsione gli pungolò lo stomaco. Halle avrebbe potuto condurlo da lui con facilità, ne era consapevole, ma un’anomala sensazione l’aveva spinto a cambiare i suoi piani. Senza riuscire a frenarsi, la mente volò immediatamente ai dossier che gli erano stati recapitati tempo addietro, qui fogli non stampati ma arati illegalmente dall’inchiostro rosso di un pennarello. Aveva riconosciuto la grafia all’istante, la stessa che ornava ancora i muri candidi della Wammy’s House.
 
 
«Che stai combinando?».
«Scrivo una poesia».
«Ma stai sporcando tutto il corridoio!».
«Sporcando? Oh, no! In realtà sto ricostruendo il corridoio. Quando sarai più grande capirai».
 
 
 
Oltre la porta chiusa del bagno, una voce femminile cinguettava mestamente le strofe di una nenia. Mello si spostò accanto alla specchiera, stando ben attento a non scorgere il suo riflesso. Halle l’aveva guidato fino a quel piccolo appartamento all’ultimo piano dello stabile, intimandogli di attendere in silenzio. Varcata la soglia, aveva avvertito immediatamente un sentore familiare, penetrante come un raggio di luce tra le tenebre, e non aveva avuto più dubbi: ogni cosa, in quel luogo, dal manto scricchiolante di carta sul parquet al profumo di gigli selvatici, decantava la sua presenza. Nascosto in un anfratto accanto alla finestra, l’aveva vista rientrare dopo interminabili ore, ritrovandosi a maledire infinite volte la stretta che gli aveva avviluppato il cuore.
Eccoti qua, dopo tutti questi anni...
Era rimasto a scrutarla nel buio mentre lei si spogliava pigramente dei propri indumenti ed esponeva la diafana pelle della schiena, così aderente alle costole, i fianchi spigolosi, le cosce striate dalle vene. Da bambino non s’era mai soffermato troppo a riflettere su quel corpo; non era bello né invitante come quello delle altre ragazzine più grandi, non presentava quelle morbidezze, quelle rotondità in boccio, quell’armonia che avrebbe dovuto contrassegnarlo. Una volta s’era anche azzardato a prenderla in giro, ma lei l’aveva inchiodato al suo posto con un solo sguardo, riversandogli nell’anima le fiamme ardenti che le danzavano dentro. Era rimasto folgorato, ma non dalla paura: era stato come specchiarsi in una pozza d’acqua e scorgere sul fondo il proprio riflesso increspato dalle onde. Da quel momento non aveva più potuto fare a meno di abbeverarsi a quella fonte, cercandola nei corridoi dell’a Wammy’s House anche dopo la sua partenza per il Giappone. Era stato spossante sopportare l’astinenza e vivere all’ombra di quel maledetto albino che sembrava sempre sul punto di divorarlo col silenzio. Sin da piccolo, il suo obiettivo nella vita era stato quello di porre Near sotto scacco almeno per una volta, di imprigionarlo in giochi mortali, in puzzle labirintici nei quali avrebbe perso il senno. Non c’era mai riuscito fino in fondo, ostacolato sempre da una bianca mano che si ostinava a stringere quella del nemico.
 
 
«Se gli fai del male, io ti uccido».
«È soltanto un gioco».
«Ti uccido per gioco».
«Non è giusto. Perché stai sempre dalla sua parte?».
«Io non sono dalla parte di nessuno».
«Però continui a salvarlo».
«Se lui morisse in condizioni naturali, io non interverrei. Non capisci? Non sto salvando lui... sto salvando te».
 
 
Detestava accettare quegli assurdi ragionamenti, eppure non riusciva ad escluderla dai giochi, a stare lontano dalla sua voce, da quella pelle rovente e sudaticcia, da quel seno candido e acerbo, troppo occupato a trastullare il suo rivale per accoglierlo.
 
 
«Sono arrivato secondo al test».
«Non sei contento?».
«No, perché il primo è sempre lui».
«Dovete smetterla con questa ridicola competizione».
«Io voglio diventare il nuovo L».
«Di L ce n’è uno solo. Pensa ad essere Mello, piuttosto».
«Tu invece? Hai fatto il test?».
«Sì».
«E che punteggio hai ottenuto?».
«Basso, per fortuna. Adesso potrò concentrarmi soltanto su Medea».
 
 
Le labbra del giovane si piegarono in una smorfia mesta.
Concentrarsi soltanto su Medea.
Non l’aveva mai fatto, non c’era mai riuscita. Lui la comprendeva perché erano uguali. Avevano la stessa brama negli occhi, la stessa inquietudine nelle viscere che li attanagliava e li spingeva a muoversi verso obiettivi esterni, lontani, a tendere le braccia verso menti poste troppo in alto per essere anche solo sfiorate. Ancorati alla terra dal ribollire del loro sangue, avevano trascorso tutta la vita a scrutare il cielo, inconsapevolmente attratti e nel contempo intimoriti dalle vertigini dell’altezza.
Nella sala da bagno l’acqua cessò di scorrere, interrompendo i suoi pensieri. Mello estrasse la pistola e, acquattatto nell’ombra, trattenne il respiro. La porta si aprì cigolando. Un estenuante languore gli scivolò lungo la gola, ma questa volta non provò alcun fastidio. Lei era lì, di fronte a lui, il corpo nudo avvolto malamente in un asciugamano, i capelli zuppi pesantemente abbandonati sulle spalle e il viso arrossato, non sapeva dire se a causa dei vapori della doccia o per un improvviso accesso di pianto. Medea si diresse ignara verso il letto, tirando fuori dalle lenzuola una vecchia camicia bianca con una W ricamata sui polsini spiegazzati. La indossò sospirando. Mello si mosse, facendo scricchiolare gli ingranaggi della pistola e annunciando la sua presenza. La vide voltarsi forsennatamente indietro e restare paralizzata, strabuzzando attonita le ciglia nere imperlate d’acqua. «Chi sei?».
Il ragazzo corrucciò la fronte.
Non mi vede.
Senza darle il tempo di aggiungere altro, gettò via la pistola e le afferrò il volto tra le mani, avvicinandolo pericolosamente al suo. L’espressione della giovane mutò all’istante, illuminandosi di una tenerezza soffusa che contribuì a sciogliergli le membra.
«Sei tu...» l’emozione le soffocò la voce in gola. «Sei tu... sei qui...».
Mello non riuscì a rispondere, a reagire. Cadde in ginocchio, sospinto dolcemente dalle esili dita di Medea che si attorcigliavano ai suoi capelli e gli spingevano il viso contro il petto fremente. «Sei tu... sei tu...».
Il ragazzo inspirò a pieni polmoni il tenue aroma di bagnoschiuma e chiuse esausto gli occhi.
 
*
 
«Come hai fatto ad entrare?».
«Dalla finestra».
«Non dovresti essere qui».
«Lo so».
«Sono in punizione».
«So anche questo. Ho della cioccolata per te, così non morirai di fame».
«Cosa? Dove l’hai presa?».
«Dal carrello che mio padre ha portato a Lawliet. Sono sicura che non se ne accorgerà».
«L’hai rubata?».
«Se non la vuoi, la mangio io».
«No».
«Bravissimo. Adesso torno a dormire. Noi due non ci siamo mai visti».
 
*
 
Medea lo fece accomodare sul suo letto, liberandolo dalla pesante giacca nera che lo ingombrava. Mello la lasciò fare in silenzio, assecondandola nei movimenti come un bambino indifeso e fragile tra le braccia della madre. Si ritrovò pian piano scalzo e disarmato, accoccolato in posizione fetale con la testa sulle cosce di lei. Le permise di accarezzarlo, di vezzeggiarlo giocosamente, scoprendosi quasi regredito ad uno stato di grazia primordiale, di unione mistica con quella terra e quel fuoco che plasmavano la sua stessa natura. Non erano mai stati così vicini.
Fu solo quando le dita della giovane presero a tracciare sinuosamente i solchi della sua cicatrice che tentò per un attimo di sgusciare via e allontanarla, ma lei glielo impedì, chinandosi a scoccargli un lieve bacio sulla tempia. Mello avvertì un rivolo di freschezza pervadergli le vene.
I baci della mamma guariscono le ferite.
«Sei cresciuto così tanto» Medea sorrideva trasognata. «Mello... ti ho cercato a lungo, ho iniziato a farlo di nascosto, sin dai tempi del rapimento della figlia del sovrintendente Yagami».
Il giovane deglutì rumorosamente.
«All’epoca non sapevo che fossi tu l’artefice di quel colpo, anche se, conoscendoti, avrei dovuto immaginarlo. Anche alla Wammy’s House agivi spesso senza pensare alle conseguenze, proprio come facevo io. Sai, quando il sovrintendente e suo figlio partirono per attuare lo scambio, io rimasi in Giappone, sola con i miei dubbi, con le infinite domande che mi rimbombavano nella testa. Fu proprio allora che ricevetti la prima lettera di Near. Non so come fece a trovarmi, ma ho il presentimento che sia stato mio padre. Lo so, è folle, ma non riesco a scacciare questo pensiero. Forse, prima di morire, mi ha iniettato qualche strano chip nel sangue e adesso, alla Wammy’s House, tutto sono a conoscenza dei miei spostamenti. O forse l’ha fatto iniettare a Lawliet, quella notte in cui...» il ragazzo la sentì rabbrividire. «In fondo avrebbe senso. Credo proprio che quei due avessero programmato ogni cosa sin dall’inizio, persino la loro fine e la mia vita».
Tacque per un istante.
«Near mi parlò di te, mi spiegò quello che stavi combinando con la mafia, ed io non rimasi affatto stupita. Poi mi disse di raggiungerlo, di unirmi a lui... Oh, avevo atteso quell’invito per anni interi!» rise, un risolino amaro, stridente. «Sono successe tante cose da quando sono arrivata qui... il sovrintendente Yagami è morto, lo sai, vero? Lo sai perché hai letto i miei rapporti?».
Mello annuì.
«Adesso però non ha importanza! Tu sei venuto, sei qui con me! Da ora in poi ogni cosa andrà bene, Kira non mi fa più tanta paura!» sussultò, scossa dal turbine incontrollato di emozioni che la stava sommergendo. «Ti porterò da Near! Sì, ti condurrò da lui e tu gli parlerai, lo convincerai a lasciar perdere questo caso! L non mi ascoltò quando ci provai io, ma Near... Near è diverso da L, Near non vive perché vive Kira. E gli Shinigami non si prenderanno Near, gli Shinigami non si prenderanno te!».
Mello sollevò allibito la testa, permettendole di poggiare la fronte contro la sua. I loro respiri si mescolarono, si confusero in un’unica, affannosa esalazione. Medea continuava ad avvinghiarsi a lui con disperazione. «Vi porterò via con me, vi porterò sulle tombe di Lawliet e di mio padre e da lì ricostruiremo tutto quello che ci hanno portato via. Torneremo alla Wammy’s House, torneremo da Roger... Non esisterà più nessun successore di L, ma saremo soltanto noi, per sempre».
Mello avvertì un conato salirgli alle labbra mentre la realtà gli si stagliava bruscamente nella mente.
Quanto vorrei che fosse possibile.
Si scansò delicatamente da lei e si soffermò a scrutare intensamente quella creatura inquieta che pareva supplicarlo a non abbandonarla, a continuare a nutrirla con quell’unica, fallace illusione, partorita dal dolore per rischiarare i suoi occhi miopi.
Non posso farlo.
Si alzò dal letto e recuperò in fretta la pistola. «Sono qui per la mia foto».
Un gelo improvviso li avvolse, solidificandosi tra loro in una lastra impalpabile che li divise irrimediabilmente.
Medea non si mosse. «È così dunque?».
«Sì».
«Hai bisogno di me per arrivare a lui?».
Mello distolse lo sguardo con un grugnito.
Devo vincere questa partita.
«Sì».
«Va bene».
Lo rivestì con religiosa premura, senza badare alla canna dell’arma puntata alla sua testa. Infine si avvicinò ai cassetti del comò, tirandone fuori una barretta di cioccolato. Tentò di sorridere ma le labbra le tremarono. «L’ho comprata questa mattina. Che meravigliosa coincidenza, non trovi?».
 
 
*
 
«Sono venuto qui solamente per riprendermi la mia fotografia».
«Va bene. La foto è questa, non ne esistono altre copie. Inoltre, sappi che ho già sistemato le cose con tutti coloro che in passato ti hanno visto in volto alla Wammy’s House. Non posso assicurartelo al cento per cento, ma ora non dovrebbe essere possibile ucciderti con il quaderno della morte. Abbiamo altro da dirci, Mello?».
«Near. In realtà, io non ho nessuna voglia di allearmi con te».
«Questo lo so».
«Però ti confesso che mi secca molto prendere questa fotografia e andarmene via così. Il quaderno assassino appartiene a uno Shinigami che può essere visto solo da chi possiede il quaderno».
«Ti credo. Anche Medea ha parlato di Shinigami, appena è arrivata qui. Sapevo che non poteva trattarsi soltanto di un delirio ed ora ne ho la certezza. Inoltre, che cosa ne ricaveresti dal dire una bugia tanto assurda? Se proprio avessi voluto mentirmi, avresti cercato una menzogna più plausibile. Ne deduco quindi che gli Shinigami esistono».
«Il quaderno che ho avuto per le mani era già stato di qualcun altro, oltre che dello Shinigami stesso. Inoltre, non tutte le regole che vi erano scritte erano vere. Questo è tutto ciò che posso dirti».
«Capisco».
«Near».
«Mello?».
«Vogliamo vedere chi sarà il primo a trovare Kira?».
«Vuoi fare una gara?».
«Tanto la nostra meta è la stessa. Aspetterò al traguardo sia te che lei».
 
 
*
 
«Medea...».
«Non dirlo. Lo so già».
«Che cosa sai?».
«Un altro brandello del mio cuore è stato strappato via».
«Ascolta...».
«È morto, vero?».
«Sì».
 
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Terzultimo momento di questo mio bizzarro esperimento. Protagonisti, ovviamente, Mello e Medea. Personalmente mi piacciono tanto Mello e Near, anche se penso che avrebbero potuto sfruttarli molto di più.
Dunque, passiamo a delle piccole precisazioni.
La frase “Addio colombello” è tratta anch’essa dal delirio di Ofelia nell’”Amleto” di Shakespeare.
Il rapporto tra Medea, Mello e Near è molto particolare, a tratti anche un po’ morboso. Sinceramente all’inizio pensavo soltanto ad una sorta di legame madre-figli, sviluppato anche dal fatto che Medea è più grande di loro, ma poi è venuto fuori così. Forse la perdita del padre e questa sorta di delirio lucido in cui continua a vaneggiare l’hanno portata ad estremizzare i suoi sentimenti. A volte ho quasi l’impressione che questo mio personaggio mi sfugga dalle dita...
Il titolo e la citazione iniziale del capitolo sono tratti dalla poesia “X Agosto” di Pascoli e rimandano al tentativo disperato di Medea di “ricostruire” il nucleo familiare Watari-L-Medea che Kira ha distrutto. È come se l’ipotetico e non realizzato nuovo nucleo, Medea-Near-Mello, fosse lo specchio del primo. Inoltre, a Medea non importa nulla del caso Kira. Non le è mai interessato, in realtà: è andata in Giappone solo per seguire Watari, ha assecondato L nelle indagini per affetto verso il padre (e forse un pochino anche verso di lui); con la scoperta degli Shinigami e successive, dolorose scomparse, però, questo disinteresse si è completamente trasformato in disgusto.
Il dialogo tra Mello e Near è tratto, con opportune modifiche, dall’episodio 30 dell’anime.
La scena è la stessa in cui Halle Lidner trova Mello nella sua stanza, dopo essere uscita dalla doccia. Ovviamente, per quanto apprezzi il personaggio di Halle, in questa versione è Medea a trovarselo di fronte.
Siamo quasi giunti al termine di quest’avventura e già inizio a sentirne la mancanza. Sinceramente non sono ancora pienamente consapevole di come concluderò il tutto... staremo a vedere!
Grazie per essere passati a trovarmi. Alla prossima!

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Capitolo 7
*** Watari ***


WATARI
 
 
 
 
Nel mio cuore c’è un uccello azzurro che
vuole uscire
solo di notte qualche volta
quando dormono tutti.
Gli dico: lo so che ci sei
non essere triste
poi lo rimetto a posto,
 
ma lui lì dentro un pochino canta,
mica l’ho fatto davvero morire,
dormiamo insieme così
col nostro patto segreto
ed è così grazioso da far piangere
un uomo, ma io non piango,
e voi?
(Charles Bukowski, “Un uccello azzurro”)
 
 
 
 
 
«Che cosa c’è, Near?».
«Indossa le scarpe. Gevanni ti accompagnerà da un oculista che ho scelto personalmente. Ti visiterà ed entro questa sera avrai degli occhiali nuovi».
«Non li voglio».
«Non sei stanca delle ombre, Medea?».
«Siamo tutti ombre. Ci dissolviamo per niente, basta venire investiti da una luce al neon».
«Credo sia giunto il momento che tu torni a vederla, quella luce».
«Va bene. Ma quando incontrerai Light Yagami e la sua squadra, io verrò con te».
«Lo so. Proprio per questo hai bisogno di occhiali nuovi».
 
 
*
 
 
Erano lì, immobili, il fiato sospeso come in una bolla.
Near se ne stava accovacciato a terra, delle minuscole bamboline di pezza tra le ginocchia, la camicia sbottonata e tra le mani il Death Note, quello vero, quello che lei aveva ricostruito con meticolosa cura.
 
 
«Lo farò io, Gevanni».
«Ma signorina...».
«Non insista».
«Near mi ha esplicitamente ordinato...».
«È stato un quaderno come questo a portare via mio padre ed L, ed è in un quaderno come questo che sarebbe dovuto trovarsi anche il mio nome. Adesso tocca me».
 
 
Nel turbamento generale Light Yagami rideva sardonico, la testa reclinata all’indietro, gli occhi iniettati. Di tanto in tanto la guardava, avvinghiava le sue pupille con uncini d’acciaio, come a volerle strappare via. Intanto rideva, guaiva, parlava... fece scattare l’orologio.
E infine accadde.
Un  colpo di pistola, il primo, un singolo proiettile sibilante che andò a conficcarsi tra le sue carni molli. Esplose il caos.
Medea lasciò cadere l'arma sottratta ad Halle Lidner e restò ferma al suo posto, le narici leggermente dilatate e il petto scosso da fremiti soffocati. Near le afferrò dolcemente una mano e se la portò alle labbra, assorbendone il calore.
«È finita, Medea».
 
 
*
 
 
«Light! Light, aspetta!».
«Signor Aizawa! Non ha più il frammento di quaderno che teneva nascosto, e con quelle ferite non può andare molto lontano. Si fermerà da solo, senza il nostro intervento».
«Near. Io non prendo ordini da te».
«Bene, come vuole. Pensateci voi».
«Medea, non è necessario che tu venga con noi. Ma se lo volessi, saresti libera di farlo in ogni momento. Saremo per sempre debitori a L e a Watari».
 
 
*
 
 
Near sgusciò oltre la porta socchiusa come un cucciolo di gatto nella notte, i piedi scalzi e una barretta di cioccolato tra le mani pallide. Rimase sulla soglia, le orecchie tese a carpire il respiro regolare che promanava dalla figura nel letto. Oscillò lievemente la testa bianca. Gli parve così bizzarro trovarsi lì, in piedi, senza sapere con precisione cosa lo avesse spinto a muoversi. Sin dal giorno del suo arrivo, era stata lei a trascorrere notti insonni e a vagare senza meta come uno spettro che avesse smarrito la strada per l’aldilà. Near era convinto che quelle continue veglie non fossero altro che una imposizione involontaria, nate un po’ per fuggire agli incubi della sua mente, e un po’, forse, per tenere in vita la memoria di L, imitandolo inconsapevolmente. In fin dei conti, tutti sapevano quanto lei gli fosse riconoscente, nonostante titubasse ancora nel parlare di lui. Era come se arrancasse in una nebbia di ricordi, dalla quale estrapolare vaghe immagini nebulose.
 
 
«Pioveva  forte e suonavano le campane. Io ero chiusa in camera, alla ricerca dei miei vestiti. Lui era giù, con lo Shinigami. Ho battuto sulla porta per farmi aprire, ma non mi hanno sentita. Le mie dita hanno sanguinato a lungo. Poi mi hanno tirata fuori, ma lo Shinigami se l’era già portato via».
«Lo Shinigami hai detto?».
«Sì. Se l’era preso, mi restava soltanto il corpo freddo, più freddo del solito... Aveva ancora la bocca sporca di fragole... Credevo le avesse lasciate tutte a me... Mio padre invece era bellissimo, sembrava che dormisse».
 
 
Gevanni l’aveva da subito squadrata col cinico sguardo di un medico di fronte al delirio di un folle, ma ben presto si era dovuto ricredere. Near, dal canto suo, non aveva mai avuto dubbi.
 
 
«Non è pazza. Vuole mostrarci il corso degli eventi attraverso i suoi occhi. Non ignorate quello dice».
 
 
Era stato un conforto averla vicino, vederla affannarsi alla ricerca di un modo per aiutarlo ad ogni costo; era come quando, ai tempi della Wammy’s House, lei gli restituiva i pezzi dei puzzle che i compagni dispettosi si divertivano a nascondere.
L'epilogo era ormai giunto; lui era riuscito ad uscirne salvo, e questo lo doveva soltanto a L, a Mello... Ed anche a lei.
Le lenzuola si mossero con un fruscio leggero, scuotendolo dal turbine dei suoi pensieri. Medea sollevò piano il busto, stropicciandosi il viso con uno sbadiglio. «Nate... che succede?».
Il ragazzo sorrise nell’udire quella voce impastata pronunciare il suo nome. Le dita corsero immediatamente a tormentare una ciocca di capelli sulla tempia. «Ho fatto un sogno».
«E allora?».
«Ho sognato che Gevanni ti chiedeva di sposarlo, ma tu lo rifiutavi perché eri innamorata di Roger».
Dopo un attimo di attonito silenzio, una risata cristallina sgorgò con irruenza dalle labbra della giovane. Erano passati anni dall’ultima volta che Near aveva potuto godere di quella melodia genuina.
Stavo quasi per dimenticarla...
«È stato soltanto un sogno, Nate».
«Lo so».
Medea allungò la mano verso il comodino per afferrare gli occhiali e accese la luce, riuscendo così a scorgerlo nitidamente. «Che cosa c’è?».
Near le porse la barretta di cioccolata, la testa piegata verso il basso. «Mi aiuti ad aprirla?».
Medea sorrise ancora, liberandosi dalle coltri e facendogli posto sul letto.
Mangiarono la cioccolata senza nessuna fretta, godendo appieno l’abbraccio della quiete. La giovane si portò un quadratino al naso, assaporandone l'aroma penetrante. «Ti piace?».
Lui scrollò le spalle. «Più o meno».
«È abbastanza amara, ma credo che sia buonissima. Basta un pezzetto per riscaldare tutto il corpo».
«Proprio come Mello».
«Lo so. Sono fiera di ciò che avete fatto, Nate, ed anche Lawliet lo è. Siete rimasti fedeli a voi stessi fino alla fine, avete piegato il corso degli eventi a vostro vantaggio e siete riusciti dove lui, in passato, ha fallito». Un velo di malinconia le adombrò il volto. «Sai, c’è stato un momento in cui ho sperato davvero che Kira vincesse, che le forze a lui contrarie riconoscessero il suo operato e si arrendessero; ho sperato che il mondo intero diventasse miope, proprio come lo sono io... e volevo  vederti fuggire lontano, saperti al sicuro in un luogo dove nessuno avrebbe potuto guardarti in faccia e scoprire il tuo nome. Sono stata così sciocca!». Si lasciò cadere di peso sul cuscino, stringendo contro il ventre l’involucro vuoto della cioccolata. Near le si accostò a carponi, stendendosi supino accanto a lei. Alla fioca luce che rischiarava la stanza, notò per la prima volta gli intricati ghirigori tracciati dalla giovane sul muro e pensò che il direttore dell'albergo avrebbe senz'altro preteso un risarcimento.
Quillsh Wammy. Nato il 1° Maggio 1933. Morto il 5 Novembre 2004.
«Una vera stupida» Medea si lasciò sfuggire un sospiro. «Ma poi mi sono ritrovata tra le mani quel quaderno della morte e all’improvviso ho capito. Mello, il sovrintendente Yagami, mio padre... erano andati via per un motivo, erano andati via per noi. È stato come svegliarsi da un sogno durato centinaia di anni, più spaventoso di Gevanni o Roger che chiedono la mia mano» sghignazzò sommessamente, lancandogli un’occhiata di sottecchi. «Avevi ragione tu: non potevo continuare a vivere di ombre». Ogni traccia di ironia scomparve a poco a poco dalle sue labbra. «Interrogai me stessa, interrogai mio padre giorno e notte e lo supplicai di suggerirmi che cosa avrei dovuto fare. Lui era coraggioso, era molto più della semplice spalla di L... Alla fine mi ritrovai a pensare che lo scopo della sua intera esistenza è stato quello di proteggere me, ed io, nel profondo, desideravo soltanto proteggere te».
Near si puntellò sui gomiti. «Per questo hai sparato a Light Yagami?».
Medea assentì decisa. «Sì. Avrebbe scritto il tuo nome, ne ero sicura, e sapevo molto bene che non sarei riuscita a sopravvivere a qualcun altro».
«Hai sofferto per lui?».
«Una parte del mio cuore si è disintegrata con quella pallottola. Non giudicarmi, Nate, ma non riesco ad odiarlo. Era infantile, annoiato, fragile... era soltanto un uomo. Non mi è mai importato niente di Kira, e sinceramente non m’importa nemmeno adesso, ma credo che con quello strumento omicida tra le mani, una persona comune avrebbe potuto reagire unicamente in due modi: morire di paura oppure bramare il ruolo di un dio».
«Potrei ribattere a questa opinione con innumerevoli motivazioni contrarie».
«Lo so, ma la mia mente è troppo semplice per comprenderne anche soltanto mezza».
Tacquero un istante.
«Lui lo sapeva» la ragazza abbassò mestamente le palpebre. «Lawliet... Ha sempre saputo che Kira fosse Light Yagami. A volte penso che anche lui avesse alle spalle un qualche spirito pronto a sussurrargli la verità. È solo una fantasia, certo, anche se in effetti non ho mai compreso il suo metodo investigativo... Procedeva per prove e per errori, e di solito non sbagliava mai».
«E tu invece? Avevi capito che si trattasse di Light?».
«Io sapevo che in Giappone c'era un uomo convinto di poter cambiare il mondo con il potere della Morte. Sapevo che il grande L aveva sfidato quest'uomo in diretta come se fosse soltanto un gioco. Sapevo che, in attesa della risoluzione del caso, sarei stata libera di comporre delle poesie e di esercitarmi con una delle tante lingue che avevo appreso alla Wammy's House. Sapevo che, una volta tornati a casa, avremmo brindato nell'ufficio di Roger in attesa del risveglio di un nuovo assassino. Di certo non immaginavo che questo Kira avrebbe sconvolto ogni mia convinzione».
Un moscerino andò a posarsi sulla lampadina incandescente con uno sfrigolio sommesso. Medea si tirò su a sedere. «Che cosa faremo ora?».
Near si volse verso di lei. Le pupille dilatate avevano invaso quasi completamente le iridi ambrate, facendole apparire come due profondi pozzi oscuri circondati da un’aureola di luce. Incastonata in quel viso esangue, improvvisamente assorto, insondabile, gli parve di scorgere per una frazione di secondo l’ombra di L che ammiccava compiaciuto nella sua direzione.
Sei sempre stato lì, vero?
Medea continuò imperterrita. «Adesso sei tu l’investigatore più geniale della Terra, colui che è riuscito addirittura a porre Kira sotto scacco. Immagino che inizierai presto ad occuparti di un altro caso, non è così?».
Il ragazzo annuì.
Lo sguardo della giovane di addolcì, assorbendo pian piano ogni traccia del riflesso di L. «Potresti accompagnarmi alla Wammy’s House, che ne dici? Mi piacerebbe tornare lì per un po’, respirare di nuovo il profumo delle tende, dei tappeti... Adesso che sei salvo, ho bisogno di un nuovo obiettivo e credo che quello sia l’unico luogo dove cercarlo».
«Oppure potrei offrirtelo io» Near prese ad attorcigliarsi nervosamente i capelli alle dita, distogliendo pensieroso lo sguardo. L'invito pronunciato tempo prima da Aizawa continuavano a rimbombargli nelle orecchie come una incessante eco; non sapeva spiegarne il motivo, ma lo riempiva di un'agghiacciante inquietudine.
Saremo per sempre debitori a L e a Watari.
Medea gli sollevò il mento con un ghigno malizioso. «Vorresti forse sposarmi prima che lo faccia Gevanni?».
Lui la ignorò. «Vorrei che accettassi di ricoprire il ruolo di nuovo Watari, Madison, e restassi con me».
Medea si ritrasse con uno scatto repentino. «Che diavolo stai dicendo?».
«Non è uno scherzo».
«È il ruolo di Roger».
«No, è il tuo ruolo». Questa volta fu lui a prenderle il viso tra le mani per evitare che lo abbassasse. «Ascoltami. Quando hai raggiunto l’SPK, io sapevo perfettamente che, senza nemmeno accorgertene, avresti contribuito a sbrigliare la matassa in cui eravamo invischiati. Mi hai rivelato l’esistenza degli Shinigami, hai trovato Mello, hai creato una copia esatta del quaderno... Non ti imporrò nessun vincolo, sarai libera di agire e andartene via quando e come vorrai, ma ti chiedo di provarci, Madison». Si scostò un poco. Incrociò l’indice e il medio delle due mani in modo da formare una M con le dita; la capovolse lentamente e, sotto lo sguardo sbigottito della ragazza, la M divenne una W. «È nel tuo nome».
Medea boccheggiò alla ricerca di ossigeno. Una voce familiare fece capolino nella sua testa, inondandola completamente e avvolgendole le membra.
Devi vivere. Lo devi fare, Medea, è nel tuo nome.
Con un balzo si sollevò in piedi e si diresse verso la finestra. Il cielo continuava a versare lacrime incessanti, come l'ultima volta. «Nate!» ingoiò a fatica un singhiozzo. «Nate, le senti le campane?».
Near sgranò impercettibilmente gli occhi, la candida chioma completamente arruffata. Soppesò con attenzione quella domanda tanto insolita. «Io non sento niente».
Medea sorrise. «Nemmeno io».
 
 
 
 
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Penultimo capitolo della raccolta, protagonisti Medea e Near, o meglio, Madison e Nate. Come sempre, alcune precisazioni:
il dialogo tra Near e Aizawa è tratto dall’ultima puntata dell’anime, ovviamente con modifiche funzionali alla storia;
la vicenda si svolge non molto tempo dopo la chiusura del caso;
per quanto riguarda le date, ho seguito la cronologia del manga. Nell’anime, queste sono spostate di circa tre anni, se non mi sbaglio.
Ringrazio tutti quelli che continuano a leggere questa storia, spero vi stiate divertendo a leggerla. Ancora un episodio e si giungerà alla fine... Mi sembra così strano pensarci! A presto!

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Capitolo 8
*** Immortal ***


8
Immortal
 
 
 
Medea non può morire
per mano di Medea
(“Medea”, Franz Grillparzer)
 
 
 
 
Arriviamo. Salto giù dall’auto e chiudo la portiera. L’edificio a più piani sfavilla nel cielo come una torre d’argento. Una fitta mi sconquassa il cuore, deglutisco. Una mano mi sfiora il fianco sinistro. Near avanza titubante, la testa reclinata, lo sguardo assente.  «È proprio necessario?».
Tra le dita stringe un cubo di Rubik. Lo brandisce come una pistola, me lo punta contro.
Io agito il capo, i ricci si incastrano agli occhiali. «Sì».
Entriamo dentro. Non c’è quasi nessuno, ad eccezione di sparuti agenti della polizia giapponese. Li riconosco, trattengo il respiro. Matsuda mi si getta con irruenza tra le braccia, non badando alla freddezza del mio corpo. Lascio che mi stringa a sé; Near lo ignora. Il signor Aizawa ci raggiunge lentamente, barcollando. Ha il volto stanco, gli occhi stanchi, i piedi stanchi. Sembra un vecchio mozzo sul pontile di una nave. Mi prende una mano, la trattiene. I suoi calli mi solleticano il palmo. Sussurra parole, io non ascolto. Riconosco il nome Yagami pronunciato quasi con referenza e mi ritrovo a pensare a quanto sia fievole il suono prodotto da quelle labbra. Seguiamo gli agenti nella stanza attigua. Entriamo. Mogi è fermo sull’uscio con la mascella contratta. Al centro del pavimento un letto a baldacchino dalla foggia antica, con lenzuola bianche, cuscini bianchi. Adagiato sul materasso, un corpo femminile, composto. Mi avvicino. I capelli biondi sono sciolti, sparsi intorno alle spalle come i raggi di una ruota. Le labbra sono fredde. Le mani sono fredde. Il collo è freddo. Il seno è freddo. Deglutisco piano, quasi col timore di svegliarla. È vestita completamente di bianco, come le coltri che la accolgono. Le calze candide le avvolgono le caviglie, i polpacci, le cosce. Le sfioro un braccio, avverto le ossa rotte. Guardo il signor Aizawa. «Suicidio?».
Lui annuisce. «Sì». Inspira a denti stretti. «In fin dei conti, è stato meglio così».
Matsuda alza la voce indignato. «Le sembrano discorsi da fare?».
Aizawa tace, io taccio. Mi siedo al capezzale del cadavere. I fiori sparsi intorno riempiono l’aria di un sentore dolciastro, che si unisce inevitabilmente a quello della carne non più viva. Sollevo tra le dita un giglio, lo lascio cadere. Sollevo una rosa, la lascio cadere.
Dalla porta entra Halle Lidner col suo ticchettio di tacchi. Entra Anthony Rester a capo chino. Entra Stephen Gevanni. Lancio loro un’occhiata di sottecchi. Gevanni sospira. Near li osserva da lontano.
Passano le ore, non cambia niente. L’odore dei fiori si fa più acuto, melenso. Rifiuto il cibo e l’acqua che mi offrono. Rimango accanto al corpo. Un capogiro mi spinge a sorreggermi per un istante al ginocchio ossuto della morta. Mi ritraggo con un sussulto.
Gevanni si accosta, non mi tocca. «Ha bisogno d’aria, signorina Medea?».
Soppeso con attenzione le sue parole. Cerco Near con lo sguardo. Lo trovo disteso in un angolo, intento a risolvere il cubo. Scuoto la testa. «Voglio rimanere con Misa».
Il sole continua il suo corso, si erge in alto, comincia a declinare. Alcuni raggi penetrano da una finestrella accanto al soffitto e si abbattono sul viso cinereo della defunta. Le lunghe ciglia nere sembrano proiettare un’ombra sinistra sulla pelle, ne accentuano le macchie violacee celate dal belletto. Estraggo un fazzoletto dal petto e provo a struccarla senza successo. Gli agenti non intervengono. Mi ritrovo a domandarmi se oltre quella maschera si nasconda un’espressione serena, sollevata. Penso allo scopo a cui aveva sacrificato la sua esistenza, penso al suo sogno di riuscire ad imprimersi negli occhi il volto di Light Yagami. Pur conoscendo la realtà, mi piace immaginare che ce l’abbia fatta, che lui, alla fine, l’abbia permesso.
Mi alzo in piedi, raggiungo Near. Gli sfilo il cubo dalle mani prima che possa terminarlo per l’ennesima volta. Stacco i bollini rimasti in disordine e li riattacco, componendo i colori. Gli restituisco il gioco. Lui si porta un dito alla tempia, tormenta una ciocca lattescente. «Non funziona così».
Gli do un buffetto. «Lo so».
Usciamo dall’edificio. Per le strade sfrigolano le schiere ordinate di luci artificiali. Prima di andare mi fermo sul marciapiede, pensierosa. Mi volto indietro per l’ultima volta. Sorrido tra me.
Near mi si accosta senza guardarmi. «Che cosa c’è?».
«Le sono grata, sai?» mi accomodo gli occhiali sul naso, un gesto che faceva sempre mio padre. «A Misa. Se sono qui, salva, un po’ è anche merito suo».
«Stai parlando del secondo Kira».
«Lo so. E le devo la vita».
 
 
Raggiungiamo l’albergo dove alloggiamo io e Near. Rester, Halle e Gevanni restano per cena, comprano del vino, lo consumano in fretta. Rester si lamenta del lavoro, del tempo. Gevanni ride, Halle un po’ meno. Io percepisco le loro voci senza ascoltarle realmente. Mi siedo nel vano della finestra aperta, inspiro l’aria frizzante della sera. Scrivo qualcosa su un foglio, lo cancello.
Near si ritira presto nella sua stanza, Halle e Rester ci salutano poco dopo. Resto sola con Gevanni.
Non mi guarda, io non guardo lui. Assiso sulla sedia, traccia con l’indice il profilo del bicchiere di cristallo. Il vino, all’interno, si agita in onde circolari, scarlatte.
«Quanto tempo è passato dall’ultima volta?». La sua voce mi giunge atona alle orecchie.
Mi porto le ginocchia al petto. La gonna che indosso si solleva, svolazza. Tento di tirarla giù, rinuncio subito. In fin dei conti non m’importa.
«Non lo so. Un giorno, magari due».
Forse mento, forse no. A volte mi pare di vivere in una dimensione dove le ore non trascorrono, non come dovrebbero. Penso a dov’ero alcuni giorni prima. Non lo ricordo. Penso a cosa facevo. Non lo so. Da qualche parte, nella mente, sento risuonare le parole di Matsuda, la notizia della morte di Misa Amane, l’invito a rendere un ultimo omaggio al corpo. La camera ardente era silenziosa. Nessun parente. Nessun amico. Soltanto agenti in borghese; gli stessi che per anni avevano dato l’anima nella caccia a Kira, ora presenziavano al suo funerale. Certe volte il destino ha un amaro senso dell’umorismo.
Gevanni si solleva, si accosta alla finestra. Cerca le stelle nel cielo. Sono tutte spente. Si allenta la cravatta. «Hai voglia?».
Poggio la fronte sulle ginocchia. Noto che non mi chiama più “signorina”.
«No. E tu?».
«No».
Sorrido mestamente. «Allora possiamo ancora».
«Sì».
Mi tolgo gli occhiali e il vestito; lui fa lo stesso, gli occhi bassi. Non guarda me ed io non guardo lui. Ad entrambi sta bene così. Lascio che mi prenda lì, nel vano della finestra, lo sguardo perso a scrutare l’orizzonte.
La mia prigione dorata. L’ho costruita da sola, perché non sentivo più niente. Dopo la morte di Light Yagami, dopo la proposta di Near, tutto era cessato. Dolore e inquietudine. Nessun turbamento. Nessuna passione. Ero atrofizzata, completamente. Ed era sbagliato.
Ho passato giornate intere a guardarmi allo specchio. Cercavo quell’ombra, quell’immagine che Misa era sicura di scorgere incastonata in me. Possibile che, per colpa sua, avessi iniziato anche io a vivere in funzione di Kira? Sempre più spesso mi ritrovo a chiedermi se il vero obiettivo di L fosse trovare Kira o impedire che qualcun altro lo trovasse.
Gevanni l’ho cercato perché Near si fida di lui. Gli ho detto la verità. Gli ho detto che avevo bisogno di ritrovarmi. Lui non ha capito. S’è limitato a gettarmi l’elemosina, come ad una mendicante solo perché si fidava di Near. Non ho avuto paura perché non avevo più nulla da custodire. Non mi aspettavo affatto che lui potesse darmi qualcosa di nuovo, di prezioso; volevo solo che qualcuno mi risvegliasse da quel torpore, in fretta... Non è servito a niente, ma questo lo sapevo già.
Al termine dell’amplesso rifuggo l’asfissia di quella stretta. Raccolgo i miei vestiti, li indosso. Prendo una barretta di cioccolato da uno stipo. Mi arrampico sul davanzale. «Vado da Near».
Lui annuisce, chiude gli occhi. Spero che sparisca prima del mio ritorno.
Con un balzo raggiungo il balcone attiguo. Le imposte sono aperte. Trovo Near seduto su una sedia, una gamba contro il petto e l’altra penzoloni. Tra le mani ha il cubo di Rubik, a cui sta staccando i bollini colorati.
Rido. «Non funziona così».
Lui solleva appena lo sguardo. «Lo so».
Attendo in silenzio. A Near non importo ciò che faccio. Il suo primo pensiero è ottenere un Watari che non lo lasci solo, il mio primo pensiero è saperlo vivo, salvo. Ma posso davvero salvarlo, io?
Le facce del cubo vengono pian piano ricomposte. «Che cosa c’è?».
Mi passo una mano tra i ricci scomposti. «Non mi ha portato le fragole».
Non dico altro. Mangiamo la cioccolata lentamente, come se fosse un rito. Near decide di iniziare un nuovo puzzle, io lo fermo e lo costringo a mettersi a letto. Si rannicchia tra le coltri in posizione fetale, il mento affondato nell’incavo del braccio destro. Lo osservo. So che da quella posizione non si sarebbe mosso per il resto della notte. Penso a tutte le volte che gli sono rimasta accanto alla Wammy’s House, per evitare i dispetti dei ragazzini più grandi. Penso a Lawliet, che di tanto in tanto si sedeva accanto a me per ordine del suo Watari. Penso a Mello e al suo sonno nervoso, inquieto, agli sguardi ardenti con cui mi trafiggeva quando tentavo di consolarlo in pubblico, alle sue dita avviticchiate ai miei capelli, alle mie mani sul suo collo. Lottavamo senza farci male. Lottavamo perché era l’unico modo per entrare in contatto. In quei momenti avrei voluto stringerlo forte a me e sussurrargli che non ce n’era bisogno, che io capivo. Secondo Roger ci somigliavamo, secondo mio padre no. In realtà eravamo perfettamente identici, con l’unica differenza che lui era stato allevato con un obiettivo preciso, opprimente, io ne ero rimasta esclusa. Halle Lidner mi ha detto che alla fine, però, è morto per amore del suo rivale. Io dico che è morto e basta.
Spengo le luci, mi dirigo verso la finestra. Near solleva piano la testa. La sua voce nel buio è come un sussurro dall’altro mondo. «Che cosa hai deciso di fare?».
Io esco sul balcone. Mi volto. «Portami alla Wammy’s House».
 
 
Restiamo in Giappone ancora per un po’, sospesi in quell’albergo come in un limbo.
Viene a trovarmi Tota Matsuda. Viene a trovarmi Shuichi Aizawa. Near non è contento. Dice che in troppi, ormai, conoscono le fattezze dei nostri volti. Io rispondo che è inevitabile.
Un giorno visito la tomba di Light Yagami. È stato sepolto accanto a suo padre. Gli porto delle rose, perché la terra nuda mi fa ribrezzo. Lì incontro una ragazza che gli somiglia, inginocchiata. Quando si accorge di me, mi rivolge un’occhiata vacua, assente. Ho l’impressione che, in realtà, non mi veda affatto.
«Eri una sua amica?» la voce è melliflua tanto quanto la figura.
Scuoto la testa.
Lei torna a concentrarsi sulla sua preghiera. Lascio le rose accanto alla lapide. La pietra è umida. Forse sono le lacrime di Soichiro Yagami. Scaccio quella fantasia.
Gevanni continua a trattenersi dopo cena. A me non importa. Una sera mi chiede di restare a dormire. Rabbrividisco con ribrezzo. Acconsento, ma passo la notte accanto a Near. Il mattino seguente gli dico di non tornare più. Lui mi scruta perplesso. «Hai iniziato a volerlo?».
Non riesco a mentire. «Io no. E tu?».
Torniamo a darci del “lei” anche in privato.
Col passare del tempo, le domande di Near iniziano a diventare fastidiosamente incalzanti. «Che cosa hai deciso di fare?».
Io non demordo. «Portami alla Wammy’s House».
Alla fine riesco a persuaderlo.
Varchiamo i cancelli dell’orfanotrofio in primavera, investiti dal profumo delle mimose. Un antico languore mi avvolge le viscere, ma non riesco a piangere. I bambini ci accolgono curiosi. Alcuni si accalcano attorno a Near, altri tentano di cogliere nel mio viso qualche tratto familiare. Non ci riescono. Sono stata via per troppo tempo.
Roger ci attende nel suo ufficio. Quando mi vede, mi prende le mani e me le bacia con trasporto. A me viene da ridere nel ricordare tutte le volte che, da bambina, sono stata rimproverata da quell’uomo flemmatico e un po’ burbero. Sulla scrivania ha una foto di mio padre. Dice che posso tenerla, come posso tenere ciò che desidero. Adesso l’orfanotrofio è mio. Rimugino dentro l’anima le sue parole, senza riuscire a sistemarle in un ordine possibile.
Anche Roger mi domanda: «Che cosa hai deciso di fare?».
Near si trastulla con un robot giocattolo. Finge di non ascoltare. Io non ho una risposta. Chiedo di poter restare lì per un po’.
I giorni si susseguono l’uno dopo l’altro ma il limbo non mi abbandona. Vado alla ricerca del mio passato. Mi sistemo nella stanza di mio padre perché la mia è ora occupata da tre ragazzine. Una di loro mi fa il ritratto e lo appende sulla porta. Mi dipinge con gli occhi neri. Quando le domando il motivo, lei scrolla le spalle. Per un attimo affiorano in me dubbi sul mio reale colore.
Roger mi consegna le chiavi del laboratorio di Watari. Per anni è rimasto chiuso, ma io ora lo apro e spalanco le finestre. Voglio che i ragazzi lo frequentino liberamente e assaporino il sentore di muschio e ferro che vi alberga. Near ci si nasconde di tanto in tanto, in segreto, quando ha qualche nuovo puzzle da terminare. Io non lo dico a nessuno.
Ricomincio ad arrampicarmi sul mio albero. È diventato più folto. Alcuni bambini si affezionano subito e mi chiedono di giocare con loro; altri, diffidenti, non si avvicinano, ma mi salutano nei corridoi. Ce n’è uno molto piccolo che soffre di vertigini. Ha la pelle mulatta e i capelli neri, gonfi come la criniera di un leone. Si fa chiamare Robin. Canta sempre, anche nei sogni. Ha la voce acuta, da bambina, e raggiunge note impensabili per la sua età. Quando mi addormento sui rami, canta per svegliarmi. Vuole che gli insegni a vincere la paura dell’altezza. Lo giuro solennemente con le mani sul cuore e lui ride. Spero che non si metta in testa di voler prendere il posto di Near.
Quando sono sola, mi guardo nello specchio e mi ostino ancora a cercare Lawliet. Non vedo niente. Mi chiedo se sia davvero possibile assorbire una persona o se la gente è davvero suggestionabile a tal punto.
Trascorrono Marzo e Aprile, Maggio bussa alle porte. Roger continua a pormi lo stesso quesito, io continuo ad ignorarlo.
Una mattina Robin viene a svegliarmi eccitato e mi trascina di fronte al cancello dell’orfanotrofio. Near e Roger sono già lì. Il ritmico suono di un tamburello permea l’aria circostante. Un gruppo si zingari danza sotto gli occhi incantati dei bambini. Roger s’incupisce e si allontana di qualche passo. Io resto dove sono, sgomenta. Seguo rapita le movenze caotiche di quel ballo e mi sembra di esserne accarezzata. Un giovane dalla pelle d’ebano e gli occhi di smeraldo batte le mani sul tamburello. Resto a fissarlo attonita per lunghi istanti. Lui se ne accorge, mi sorride. Ha i canini aguzzi, come quelli di un felino. Con un cenno della testa mi invita a raggiungerli. Vuole farmi danzare. Io guardo Near e noto che ha lasciato cadere il modellino che si è portato dietro. Inspiro forte, l’aria mi ferisce. Mi strappo la gonna con le mani e mi arrampico sul cancello. I bambini sussultano sorpresi. Roger piega la bocca in una smorfia. Con un balzo sono di fronte al giovane. Lui consegna il tamburello ad una compagna, tenta di prendermi le mani. Io gli sfuggo d’istinto, lui sogghigna. Iniziamo a rincorrerci al ritmo incalzante della musica, dentro e fuori dal cerchio creato dagli altri zingari. Il mio corpo non risponde più ai comandi. In preda ad una frenesia furiosa, inizia a contorcersi, a stendersi, a roteare senza alcuna regola. Divento un serpente che striscia, divento un falco nel cielo, divento una lince famelica. I contorni delle cose perdono consistenza, i colori vorticano, si sovrappongono. Nelle narici ho solo l’odore della mia pelle madida e della terra. Alla fine la caccia si ribalta e sono io ad afferrare il giovane. Lui dice qualcosa in una lingua che non conosco, eppure comprendo alla perfezione. Mi slancio contro le sbarre del cancello e prego Roger di aprire, di farli entrare nel giardino. Lui è titubante, ma acconsente. I bambini si ritirano intimoriti, ma quando la musica ricomincia a martellare si lasciano trasportare nel vortice. Robin canta a squarciagola dalle spalle di uno zingaro senza denti che ride di gusto. Cerco Near. Trovo il modellino ancora a terra. Lo raccolgo, lo ripongo ai piedi di un albero. Una ragazzina dai capelli intrecciati lo tiene per un braccio. Lui la segue goffamente, in imbarazzo. Sembra felice.
Qualcuno mi posa una mano sul viso e mi sfila gli occhiali. Sussulto. Riconosco nell’orecchio la voce del giovane dagli occhi verdi. Ricomincio a danzare.
 
 
Gli zingari si accampano nel giardino della Wammy’s House e vi restano per tutta l’estate. La loro presenza dona una nuova luce all’orfanotrofio, una leggerezza che non avevo mai gustato nel passato. Io trascorro con loro le mie giornate, imparo la lingua.
Agli inizi di Settembre decidono di partire e nella mia mente fa nuovamente capolino quella dannata domanda.
Che cosa hai intenzione di fare?
Passo le notti a rimuginare, senza chiudere occhio. Penso a Near e alla sua paura di restare solo. Penso al sacrifico di Mello. Mi risuonano nelle orecchie le parole di Halle Lidner.
È morto per amore del suo nemico.
Mi convinco che potrebbe essere vero.
Penso a mio padre, al mio nome. Madison Wammy. Lo scrigno ideale per accogliere la maschera di Watari. Ma qualcosa mi dice che il vecchio Quillsh non l’avrebbe voluto. In fondo, mi ha chiamata Medea. L forse l’aveva capito. Near no.
Penso anche a lui, a Lawliet, al riflesso che gli altri vedono nei miei occhi. Decido di tenerlo con me, in un certo senso lo ringrazio... anche se non danzeremo mai insieme.
Entro nell’ufficio di Roger, gli comunico la mia decisione. Lui annuisce e mi consegna un anello di rubini. «Era dei tuoi genitori. Di entrambi».
All’alba raggiungo Near nel laboratorio di mio padre. Sta impilando una torre di dadi. Penso che Lawliet faceva la medesima cosa con le zollette di zucchero.
Restiamo in silenzio, non c’è bisogno di spiegazioni. Lui mi consegna l’ultimo dado, io gli do l’anello. Lo posiziona in cima alla torre. Mi guarda. Annuisce. Mi getto verso di lui con l’irruenza di un tempo e gli schiocco un bacio sulla fronte. Gli sorrido. «Grazie, Nate».
 
 
Parto con la carovana di zingari verso una città più calda di Winchester. Li paragono mentalmente agli uccelli, fragili, precari, ma liberi. Mi adeguo a quella condizione di vita come se fossi nata tra loro. Sopporto il freddo, i bivacchi improvvisati, la diffidenza della gente, la mancanza di cibo. Le donne portano coltelli sotto le gonne. Alcuni di loro rubano, altri litigano fino ad arrivare al sangue; ma nello stesso tempo si amano incondizionatamente, di un amore primitivo, terreno, privo di sovrastrutture. Io continuo a scrivere poesie. A volte mi chiedono di leggerle ad alta voce. Io li accontento, loro ascoltano. Molti piangono silenzio, inseguono ricordi. Io ho terminato le lacrime. La ragazza dai capelli intrecciati mi chiede spesso di parlarle di Near. Lo faccio. Lei arrossisce. Un giorno mi dice che, quando torneremo a Winchester, lei si fermerà lì con lui. Le accarezzo teneramente la testa come mio padre faceva con me. Le confido che, nonostante non parlassero la stessa lingua, lei era stata l’unica a farlo ballare. Rimane estasiata.
In primavera giungiamo alla Wammy’s House. Roger è divenuto il nuovo Watari, Near è ufficialmente conosciuto come nuovo L. Ha già risolto un paio di casi importanti, decidendo però di non allontanarsi da Winchester. Forse è un modo per vincere la solitudine.
Robin è cresciuto. Adesso si arrampica sugli alberi come uno scoiattolo. Dice di voler diventare un cantante.
Vedendomi, Near abbassa la testa e si lascia baciare la fronte. Porta al collo l’anello di rubini. Trascorriamo la primavera e l’estate lì, come l’anno passato. La ragazza con le trecce danza con Near ogni giorno. Questa volta lui non si limita ad assecondarla passivamente ma decide di condividere con lei i suoi preziosi giocattoli. Li ho visti risolvere puzzle insieme e mangiare cioccolata. Guardandoli, Roger mi ripete le parole di mio padre: «Si salveranno l’un l’altra».
Io non capisco, ma penso ugualmente che suoni molto bene.
Decido di raccogliere le mie poesie, decido di pubblicarle. In autunno riparto con gli zingari, ma questa volta il nostro non sarà un peregrinare senza meta: con i proventi ricavati dal progetto, viaggeremo di città in città per far conoscere alle persone quelle poesie, gli scritti, le lacrime e il sangue di una vita intera fatta di stelle soffocate, di pile traballanti di zucchero, di alberi nodosi come le dita di un vecchio inventore. Roger è sollevato all'idea che non si ruberà più. Io non ne sono convinta ma preferisco non turbarlo ancora.
Ci salutiamo nuovamente, con la rinnovata promessa di ritrovarci alla Wammy’s House in primavera. Proprio come uccelli migratori, fragili, precari, ma liberi.
Non so per quanto tempo continuerò a condurre questa vita. Forse un giorno deciderò davvero di ricoprire il ruolo di Watari, forse no. Forse Robin diventerà un cantante famoso, o forse lo costringeranno a gareggiare per il trono occupato ora da Near. Non so assolutamente niente, ma l’ignoto mi spaventa meno delle certezze.
La sera, guardando la luna, ripenso al passato, e mi domando se io l’abbia vissuto o sognato. Penso ai giorni che mi separano dalla primavera e ai chilometri che mi dividono dal Giappone. Penso alla giovane china sulla tomba di Light Yagami e al fallace desiderio di Misa Amane. Penso ai nomi delle persone che ho incontrato, ai loro volti, e mi dico che sfruttarli per uccidere è davvero troppo semplice. Penso che la vita non sia scritta in nessun nome, anche se spesso è più confortante appellarsi ai simboli che alla realtà. Penso alle fragole con cui Roger mi accoglierà quando tornerò alla Wammy’s House. Ma senza panna.
Non mi è mai piaciuta.
 
 
 
 
AVVERTENZE!
 
Siamo giunti alla fine di questo viaggio. Sono al contempo triste e serena, e credo di non sapere proprio che dire. Ho iniziato a scrivere in un momento di noia proprio come Light ha iniziato ad uccidere. Avevo incontrato il personaggio di Medea, quello del mito si intende, e avevo urgenza di capire delle cose. Avevo bisogno che mi parlasse e ho deciso di inserirla all’interno di questo contesto. Il contesto di Death Note. Un mondo che, per i suoi temi, i personaggi, mi ha da subito rapita. Il mio obiettivo era parlare di amore, un amore non idealizzato ma animale, privo di sovrastrutture del pensiero. Volevo parlare di istinto, quello che ci spinge a fare le cose più incomprensibili e contraddittorie senza un apparente motivo. Non so se ci sono riuscita fino in fondo, ma questo è stato un esperimento importante per me, che mi ha permesso di approfondire certe questioni altamente care. Ed è venuta fuori Medea. Medea è stata per me più di un personaggio. È stata una Voce, la sintesi delle eroine letterarie che ho sempre amato, la spinta a ricercare quel senso di libertà che spesso manca in tutti. E la ringrazio. Credo di aver iniziato ad amarla come una figlia. Forse la mia visione di Quillsh Wammy non è altro che l’amore che nutro per questo personaggio.
Vi confesso che inizialmente avevo davvero intenzione farla diventare il nuovo Watari. Ma lei si è rifiutata. Mi ha chiesto di fidarmi di lei e di lasciarla fare. Io non ho potuto fare altro che acconsentire. Come Atena è uscita adulta e armata dal cranio di Zeus, così Medea è uscita disobbediente dal mio. Inoltre ho deciso di dedicare quest'ultimo momento a Misa Amane e il motivo è davvero puerile, a tratti direi sciocco: Misa, in questa storia, ha salvato la vita alla mia Medea, e io, da ''madre'' la ringrazio.
Ci sono alcune cose che mi sono ancora poco chiare, alcune sfumature che forse svilupperò, forse no. Come Medea, io non so niente. Il percorso che lei ha affrontato è stata una crescita non ancora conclusa, e che credo non potrà mai concludersi. Quello che è venuto fuori è un racconto quasi "a singhiozzi", fatto da brevi lampi inframezzati da salti temporali enormi, episodi scissi, tenuti insieme non da una solida architettura ma da un sottile filo di lana. Questa scelta è stata voluta un po' perché è nella mia natura cogliere le scintille prima delle cose vere e proprie, e un po' perché non avevo il tempo necessario per costruire l'impalcatura di una storia dall'intreccio complesso; avevo bisogno di una palestra per allenare me, delle idee, dei personaggi... Magari il futuro mi riserverà la capacità di mettere in piedi qualcosa di più articolato. "Chi vivrà, vedrà"!
Vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno sostenuta in questa avventura, tutti coloro che hanno letto, leggono e leggeranno. Medea è viva anche grazie a voi. Per qualsiasi domanda, opinione, o semplicemente per scambiare due chiacchiere, non esitate a contattarmi. È sempre bello scambiare pensieri. Io vi saluto e vi abbraccio forte. Alla prossima!

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