Due colpe nessuno gli perdona

di Mikirise
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Tony e Steve ***
Capitolo 3: *** Steve e Tony e Peter ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Due colpe nessuno gli perdona

 
“I figli ti convertono, perché contro la tua volontà ammazzano il drago dell’egoismo, ti privano di quasi tutte le paturnie cui tanto volentieri indulgeresti, fanno emergere chiaramente tutto quello che dentro di te ha bisogno di essere guarito.” Costanza Miriano

Prima colpa


Peter piange nella sua culla da quello che a Tony, con le mani poggiate sul legno e la testa china, sembra un'eternità. Non dorme da trentasei ore. Forse è per questo che il pianto del bambino gli sembra un po' più acuto, un po' più disperato, un po' più doloroso. Peter ha dormito, forse per qualche ora, poi ha ricominciato a piangere e ogni volta c'era qualcosa, qualcosa che non andava, qualcosa che Tony non capisce. Peter piange. Prende respiri profondi e poi li prende spezzati, apre la bocca e grida con tutti i polmoni, stirando le gambe per darsi più forza, con gli occhi chiusi e le manine che sono due piccoli pugni. È diventato tutto rosso. Prende di nuovo il respiro. Di nuovo grida il suo pianto e il corpicino continua a muoversi nervosamente.

No, non piangere, pensa Tony, e non sa se lo ha detto, sa solo di averlo pensato molto intensamente. Ti prego, non piangere.

Stringe le mani contro la sbarra di legno della culla e gli sembra che Peter abbia capito, forse per questo piange in questo modo. Piange perché ha capito che tipo di padre ha. Piange perché sa che non sarà all'altezza. Piange perché, a questo punto, sarebbe stato meglio -sarebbe stato meglio. Peter piange. Non la smette e c'è sempre qualcosa che non va, qualcosa che Tony non capisce. Chiunque altro avrebbe capito. Avrebbe visto la smorfia del proprio bambino e avrebbe detto uhm, è il pannolino, okay, ha fame, capisco, vuole solo essere cullato. Il naso di Tony inizia a pizzicare e tutto intorno a lui viene offuscato da lacrime fastidiose. Lui non riesce a capire, invece. Per la prima volta nella sua vita non capisce e un essere umano è diverso. È diverso da un bot, è più complesso, è più difficile. Non ci sono meccanismi. Se ci sono non li riconosce. E lui non sa, non -ha gli occhi appannati dalle lacrime.

Peter continua a piangere. Ti prego no. Adesso piange anche Tony. Tira su col naso e Peter grida più forte, perché lo ha visto, si è reso conto che il suo papà è lì e che non sta facendo niente. Lo sapeva già, probabilmente. Suona ancora più disperato. No, ti prego, ti prego.

Tony si passa la mano sul viso, per cercare di riprendere il controllo delle sue emozioni, ma poi Peter piange e lui non riesce a non tirare su col naso, a non continuare a piangere. Ti prego ti prego ti prego.

“Cosa succede?”

Non si gira nemmeno per guardare Bruce, senza occhiali, in pantaloncini alla porta. Sente i suoi passi, ringrazia chiunque deve ringraziare per non avergli fatto accendere la luce. Bruce si avvicina a Tony con la sua solita calma e ci sono altri passi che lo accompagnano, più frenetici, meno pazienti. È Clint. Tony tira su col naso una seconda, poi una terza volta e rimane in piedi accanto alla culla, guardando Peter che viene preso tra le braccia di Clint, che sbuffa pesantemente, coi capelli spettinati e gli occhi a mezz'asta. Peter continua a piangere. Clint lo annusa. Non è il pannolino, Tony ha già controllato. Cerca di cullarlo. Salterella su e giù, continuando a fare piccoli versi per calmarlo. Sssh, inizia, ssssh, continua, ma Peter grida e diventa ancora più rosso. Scalcia sulle sue braccia e Clint continua a provare a cullarlo. Ssssh, ssssh. L'azione non calma nemmeno Tony, che prende a respirare un po' più affannosamente, sente anche un inizio di mal di testa. È la testa piena di qualcosa che non sono pensieri e che fanno male.

Bruce gli posa una mano sulla spalla ed è probabilmente questo il momento in cui si rende conto che sta piangendo. Lo vede nella sua espressione. In come unisce le sopracciglia e i lati delle labbra scendono verso il basso. “Tony” sussurra e quasi non si sente, perché Peter continua a piangere, continua a gridare e non riesce a smettere, sta respirando con fatica, sembra che le sue corde vocali si possano spezzare, che i suoi polmoni non riescano più a sopportare uno sforzo del genere e Tony deve girarsi verso Clint, deve stendere le braccia, deve essere sicuro che Peter stia bene. Questa è la cosa importante.

Non dorme da trentasei ore.

Clint alza la testa dal bambino e gli lancia uno sguardo neutro. Sbatte le palpebre, gli passa Peter con la massima delicatezza, non commenta, aspetta soltanto che il bambino si accomodi tra le braccia di Tony e lui e Bruce li osservano in silenzio, mentre Peter, quasi avesse capito in quali braccia si trova, lancia un ultimo grido, quasi fosse una punizione per averci messo così tanto a capire dove voleva trovarsi, poi sospira e inizia a fare dei versi strani, come se si stesse lamentando di aver dovuto piangere così tanto per ritrovarsi finalmente nelle braccia del suo papà. Tony torna a respirare, ma non riesce a smettere di piangere. Peter scalcia, ma senza frustrazione. Lo fa quasi sorridere quanto questo bambino continui a muoversi nonostante non possa andare da nessuna parte. Lo fa giocare con il dito, finché entrambi non si stufano e Tony tira su col naso. Sta ancora piangendo. Ma Peter non piange. Bravo, bravo, non piangere, pensa, cullandolo.

Sistema le copertine di Peter tra le sue braccia, lo tiene stretto con la stessa cura di quando è uscito dall'ospedale, perché aveva paura che gli cadesse. Ha fatto migliaia di domande su cosa sarebbe potuto andare storto biologicamente, poi fisicamente, ha anche fatto domande su quello che potrebbe andare storto emotivamente. Ha calcolato le probabilità. C'è il 68% di possibilità che distrugga la vita di suo figlio, ad esempio. Peter smette di vocalizzare. Posa una manina sulla bocca e con l'altra cerca di afferrare la barba di Tony. Non sorride. Poi afferra un pelo sul suo mento, Tony sospira una risata, e allora anche Peter ride con la bocca aperta. Tutto potrebbe ancora andare storto. 68% è un percentuale alta. E ci sono ancora tante cose che non ha tenuto in considerazione. Tutto potrebbe andare storto. La psicologia non è una scienza esatta e tutto non è un numero. Ma comunque tutto andrà storto.

“Tony” sente di nuovo sussurrare Bruce, mentre si siede per terra, perché è così stanco, sente i suoi pensieri così offuscati. Vuole riposare un po'. E che Peter riposi. Vede Clint che continua a guardarlo come se si sentisse in colpa, il che è stupido, forse dovrebbe solo smettere di non dormire. Perché Clint dovrebbe sentirsi in colpa? “Forse dovremmo chiamare Jarvis” propone dopo qualche secondo, sempre con la voce bassa, come se tenendo sotto controllo la voce potesse tenere sotto controllo la situazione.

Tony prende un respiro spezzato, continuando a guardare Peter, con le sopracciglia corrugate e una smorfia sulle labbra. “No” risponde, perché ce la può fare anche così. Ce la può fare anche da solo. Non c'è bisogno. Poi sente un peso sul petto che non lo fa respirare e Peter continua a vocalizzare, come se gli stesse raccontando qualcosa. Non sta piangendo più, non piange più. Che bravo. Che bravo bambino, non piange più. Tony invece… Potrebbe andare tutto storto. Potrebbe fargli tanto male. Non vuole che Peter stia male, non è quello che vuole. No.

“Tony” lo chiama Bruce, lanciando occhiate veloci a lui e poi a Clint. “Tony…”

“Sto bene” risponde lui, stancamente. “Stiamo bene” dice poi, e stringe un po' di più al petto Peter, che non protesta se non coi suoi versi che diventano piano piano più bassi, più sereni. Continua a giocare con il pizzetto di Tony, quando i suoi occhietti incontrano quelli di lui, ride. Il suo momento di infantile lucidità, in cui deve aver intuito che Tony è una brutta persona, figuriamoci che padre potrebbe essere, è finito. È tornato a essere un bambino felice di stare con il suo papà. Sembra che non possa fare altro se non pregare di stare il più possibile tra le sue braccia. Come se si sentisse al sicuro soltanto lì. A Tony manca il respiro. “Frequenterò il gruppo” riesce a mormorare, con la voce spezzata e piegandosi sul bambino, che non capisce cosa stia succedendo, motivo per cui scoppia a ridere. “Ma non chiamate Jarvis” chiede. Prega. Con il viso nascosto tra le coperte di Peter. “Non fatelo” finisce. Peter vocalizza. Fa un verso buffo. Tony tira su col naso.

Non vede come Clint e Bruce si lancino uno sguardo che non è soddisfatto, come pensa che invece dovrebbe esserlo, quanto preoccupato. Quanto frustrato. “Tony…” ripete Bruce a bassa voce, accarezzandosi il ponte del naso.

Tony continua a cullare Peter, che sospira sereno.






 

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Capitolo 2
*** Tony e Steve ***


Steve rimane seduto sull'angolo del letto già riordinato, guardando la finestra non ancora illuminata dalla luce del sole. Non ci sono uccellini a cantare, e non c'è il vento che spinge contro le ante. Non c'è nessun albero dall'altra parte del vetro, nessuna radio-sveglia a riempire il silenzio dell'appartamento. Ci sono i rumori della città, però. Macchine, il vociare indistinto di troppe persone che sono sveglie troppo presto. O tropo tardi. Ci sono le sue finestre, delle tende di un azzurro chiaro, un sole che sta iniziando a sorgere. E quindi lui si passa una mano tra i capelli, dedica alla giornata un mezzo sorriso e si alza in piedi, prendendo un respiro profondo, alzando le mani in aria e stirandosi la schiena. È un'altra giornata, si dice spostando le tende e poi piegandosi a prendere un paio di scarpe.

La mattina ha un suo ritmo. Una routine che ha imparato a riconoscere durante il suo addestramento e che anche nella sua vita da civile non riesce a scrollarsi di dosso. Non capisce se questa sia una benedizione o una maledizione. Sa che è passato da un tipo di vita al suo completo opposto e che gli piace sapere che c'è una costante in lui, nelle sue giornate. Lo fa sentire un po' più sicuro. Quindi esce la mattina per correre, quando per le strade di Brooklyn ci sono soltanto i netturbini e poliziotti a fine turno. Non ascolta la musica, non ha cuffiette, non ha walkman, o iPod, o cellulari con musica, quindi si limita ad ascoltare il suono delle persone intorno a lui, e il suo stesso respiro. Corre. Corre tantissimo la mattina, abbastanza da poter ammirare il cambiamento di colori in cielo, da studiare quante sfumature sono cambiate da ieri a oggi, quanto l'inquinamento stia cambiando i colori. E quanto il cielo sia stato colonizzato dall'uomo. Poi, quando sente le prime televisioni accendersi, torna a casa, sempre correndo.

In casa passa la maggior parte delle sue giornate. Si fa la doccia, si prepara la colazione, ascolta i messaggi in segreteria, che sono stati lasciati nei giorni prima, oppure durante la notte, quando non ha voglia di rispondere. Natasha è la persona che più lascia messaggi vocali. Sono brevi, coincisi, finiscono sempre con la stessa domanda, mascherata da comando. Va tutto bene. Il secondo a lasciargli più note vocali è Sam. Sono più lamenti che veri e propri messaggi e si chiede sempre perché li lascia, visto che siamo nel ventunesimo secolo, Steve. Steve ride sempre dopo aver sentito le ultime avventure di Sam e Bucky in giro per New York. E anche oggi ride. Apre gli sportelli della credenza e aggrotta le sopracciglia, perché era sicuro di aver fatto la spesa il giorno prima. Apre il frigo e le sopracciglia le aggrotta un po' di più.

Si gratta la testa e deve dirsi che i giorni gli sembrano tutti uguali, forse è per questo che gli è sembrato di aver appena fatto la spesa, quando non è decisamente così. Davanti al piano di cottura c'è scritto ricorda di comprare il pane, e Steve scuote la testa e sorride a se stesso. Forse è questo il problema.

È passato da uno stile di vita al suo completo opposto. Deve ancora abituarcisi.

Quindi si gratta la nuca, sorride a se stesso, scrolla le spalle e prende la giacca che ha lasciato sulla sedia della cucina. Se la infila e controlla che dentro ci sia ancora il suo portafogli e le chiavi (il che è stupido, perché non vive più con Bucky, nessuno può spostargli le cose). E poi decide di uscire di nuovo di casa.

C'è rumore per le scale condominiali. Questo è insolito, pensa, perché in questo condominio ci sono per lo più aziende, agenzie, studi medici, architettonici e legali, almeno gli hanno detto così. Non ci sono bambini. Non dovrebbero. Chiude la porta dietro le sue spalle, gira due volte le chiavi e scuote leggermente la testa. Deve essere stata la sua immaginazione, oppure un bambino ha un appuntamento con un dentista decisamente troppo presto la mattina. Steve ha sempre odiato gli appuntamenti dentistici. Quindi non ci pensa più. Deve fare la spesa, deve uscire dal condominio. Ma il vociare persiste e non può fare altro se non girare la testa. Non sapeva ci fossero bambini. Di solito è attento a questo tipo di vociare. Non lo sapeva proprio.

“Baba babà baba babà baba” grida un bimbo con uno zainetto colorato di blu e rosso in spalla, un cappuccio in testa, correndo per il corridoio come se non potesse farsi male.

“Sì, sì” mormora un uomo dietro di lui, con le mani in tasca e un mezzo sorriso.

“Guarda!” grida il bambino e salta in aria, cercando di dare un calcio alle sbarre del condominio, e poi tenendosi il piede in mano, perché a quanto pare si è fatto molto male. Ma non piange. Si gira verso il papà, posa il piede dolorante a terra e gli dice, con tutta la solennità che un bambino può averr: “Sono un ninja.” E la cosa fa sorridere il papà, per poi farlo decisamente ridere, e questo semplice sorriso illumina il viso del bambino, che decide di correre avanti, con le mani stese verso dietro, puntando l'ascensore. Il papà sospira.

Steve è ancora in piedi davanti alla sua porta. Il bambino corre verso di lui e si ferma a studiarlo. Sembra molto piccolo. Sembra pieno di energie. Steve gli sorride, ma il bambino non sorride. Lo studia in silenzio, con quello che gli sembra una maschera bianca in mano. Inclina la testa, assottiglia lo sguardo, come se fosse un adulto in una faccenda da adulti. Poi, dopo qualche secondo di intenso studio, gli sorride, mostrando i dentini ancora da latte, tranne uno laterale, che sembra star spuntando a fatica. Il bambino perde interesse in lui e riprende a correre verso l'ascensore.

“Peter” lo chiama dolcemente il papà, ma senza accelerare il passo. Fa un cenno col capo a Steve, Steve lo imita, e poi torna a camminare verso il bambino. Appena davanti all'ascensore che non sembra voler arrivare, gli posa una mano sulla testa e gli dà un buffetto che sembra il gesto d'affetto più intimo che un genitore possa fare. “Li metti gli occhiali da sole?”

“Baba” risponde il bambino, allungando le vocali, come se avessero già affrontato miliardi di volte questo argomento. Si guarda intorno e abbassa la voce. “Io sono un ninja” ripete e continua a cantilenare le vocali. Steve deve nascondere un sorriso, mentre si infila le chiavi in tasca e si muove verso le scale. “Yatta! Yatta! Yatta!” grida il bambino e probabilmente sta mostrando al papà delle mosse da vero ninja che deve aver imparato in televisione. C'è lo sbuffo leggero che sa di risata. “I ninja non si mettono i cappotti!” Inizia a scenderle. Steve odia gli ascensori. Lo fanno sentire in trappola. Non ne prende uno da veramente molto tempo, e preferirebbe non prenderne uno mai più. “Ma così mi rovini lo stile da ninja!”

Dopo le porte dell'ascensore si chiudono e non si sentono più i capricci del bambino. Steve scende le scale in silenzio. Non ha un cellulare, o un walkman, o un iPod. Di solito si concentra sul rumore del suo respiro.







Scott tiene tesi gli indici, che vengono afferrati dalla piccola Cassie, come se questo fosse un riflesso incondizionato, e forse lo è per davvero. Deve segnarselo. Per dopo. Quando avrà tempo di studiare. O di dormire. Tony si è ripromesso di leggere e studiare di più sui libri di Psicologia per essere sicuro che suo figlio faccia il suo percorso evolutivo e che niente vada storto. Sa che rivolgersi alla Psicologia -ugh, anche solo pensarci gli fa venire un dolore assurdo al petto, perché è l'equivalente scientifico di, cosa?, l'astrologia? A questo punto, tanto vale portare Peter sulle rive del mare e aspettare che un'onda gli dica se suo figlio è destinato a grandi cose o no. Magari alla fine scopre che in realtà la madre di Peter è una specie di ninfa. Ah. Arriviamo a questi livelli. Ugh. La bambina, che non riesce nemmeno a tenersi sulle proprie gambe, apre la bocca con due o tre denti e ride, aggrappandosi alle dita del papà, che ride a sua volta, prima di girarsi verso Tony e Janet, alzando le sopracciglia e facendo cenni con la testa, per far capire loro quanto si senta emozionato al vedere sua figlia aggrappata alle sue dita.

Tony sospira e cerca di alzare un lato delle labbra. Abbassa lo sguardo verso Peter, che sta a pancia in giù sbava sulla manina e alza la testa per guardarlo e continuare a vocalizzare. Non è neanche sicuro che sia normale che vocalizzi così tanto e si sente male al pensiero di non aver pensato a questo dettaglio prima. Si china verso di lui, e Peter, vedendolo un pochino più vicino apre la bocca e ride, lanciando un gridolino felice. Tony si inumidisce le labbra e Peter torna a vocalizzare felicemente.

“È un residuo biologico dell'evoluzione” sta dicendo Scott, continuando a tenere Cassie per aria, aggrappata a sole due dita. “Ma lei è la scimmietta più bella del mondo, vero Casseruola? Vero piccola Casseruola?” Prende la bambina da sotto le ascelle e la fa saltellare, prima di farle delle pernacchie sulle guance. Cassie ride. Poi allunga le manine per raggiungere il viso del papà, e Scott l'abbraccia e poi prende a cullarla con una naturalezza che Tony un po' gli invidia. Janet tiene Nadia appoggiata sul suo corpo in un mezzo abbraccio mentre giocano con dei cubi che si sono portati da casa. Ci sono molte lettere e decisamente troppi colori. Janet dice che Nadia le sembra una bambina decisamente precoce. Dice anche che non saprebbe dire se questa sua impressione venga dal fatto che Nadia è figlia di Hank, o perché effettivamente la bambina lo è. Intende molto intelligente. Poi ride nervosamente, portandosi la mano davanti alla bocca e cambia argomento.

Peter rimane sdraiato a pancia ingiù. Tony non lo perde di vista un attimo, è abbastanza vicino da afferrarlo se mai succedesse qualcosa di potenzialmente pericoloso, ma quando si tratta di prenderlo tra le sue braccia senza altro motivo se non che vuole tenere suo figlio in braccio, avere un contatto per creare una relazione, Tony si blocca. Si morde l'interno delle guance e porta la mani sulle caviglie, assottigliando lo sguardo per abituarsi all'improvvisa luce che il sole ha portato con sé. Peter continua a vocalizzare, prendendo in mano il lenzuolo sul quale è sdraiato.

“Come va con la tua ex-moglie?” chiede Janet, posando davanti a Nadia due cubi di due colori contrastanti. Nadia li afferra, studiandoli con un adorabile broncio sulle labbra e la fronte leggermente corrugata.

“Continua a dire che sono un'irresponsabile” risponde Scott tranquillamente, posando Cassie sulle sue ginocchia.

Tony fa una smorfia. “Aiuterebbe smettere di finire in prigione. Non dico di rubare, ma almeno di farti beccare...”

Janet ridacchia, ma scuote la testa, girandosi verso Scott. “Magari trovare un lavoro potrebbe aiutare” commenta, tornando a guardare i cubi davanti a loro e studiando come Nadia continua a sistemarli in fila, come se volesse lasciarle un messaggio segreto. Solo che IOZIK non è una parola, non che Tony sappia. Deve fare altre ricerche.

“Certo che potrebbe aiutare” risponde Scott con uno sbuffo. “Il problema è che appena scoprono che sono un pregiudicato mi tolgono il lavoro. Guardate, ero riuscito a trovare un posto alla gelateria davanti alla casa di -della mia ex-moglie. E non era il massimo, ovviamente non era il massimo, ma mi dava abbastanza tempo per stare con la mia bellissima scimmietta.” Scott abbassa la testa per baciare i capelli della bambina, “e forse non potevo pagare ancora la quota mensile ma...”

Tony sospira e ruota gli occhi. “Se il problema è trovare un lavoro, puoi lavorare con me” propone, lanciando un'occhiata veloce a Peter. Dovrebbe prenderlo in braccio? No? Sì? Il bambino continua a vocalizzare imperterrito. Alza la testa e si ferma per guardare i movimenti delle mani di Tony. “Voglio dire, lo stipendio non sarebbe granché, non ancora. La start-up ha appena un anno, e in questo momento ci lavoriamo solo io e Bruce, e nessuno dei due è un ingegnere informatico. Voglio dire, io sono un genio, ma avere un'altra persona che sa che cosa stiamo facendo non farebbe male, ecco.”

Scott non sta più respirando, quando Tony si gira verso di lui e Janet sta sorridendo, come se fosse fiera di loro, anche se non saprebbe esattamente per quale motivo precisamente. “Stai dicendo sul serio?” gli chiede con la voce leggermente più acuta, stringendo Cassie che inizia a protestare vigorosamente.

Tony sbatte lentamente le palpebre. “Non posso nemmeno prometterti uno stipendio alto, okay?, ma almeno puoi portarti dietro Cassie. Bruce e Clint sono molto bravi coi bambini. Clint ha nel suo appartamento una culla. Mi aiuta con Peter la notte.” Scrolla le spalle. “Quindi forse...”

“Non m'importa dello stipendio” lo interrompe con la voce strozzata.

“Ah, meno male” borbotta Tony. Aggrotta le sopracciglia e continua a guardare intensamente Peter. Stringe le mani in due pugni. Peter lo guarda e ride. Stringe anche lui le manine in due pugni, stringendo il lenzuolo. Ride ancora, aprendo la bocca. Lancia un gridolino. Tony alza un lato delle labbra.

Scott sta abbracciando Cassie, ripetendo qualcosa su come sia eccitato di andare a lavorare con lo zio Tony, cosa che è anche abbastanza dolce e triste, perché Tony non sa veramente quando riuscirà a dare a Scott lo stipendio che si meriterebbe. Janet gli dà una piccola spallata gentile. “Lo puoi anche coccolare un po', sai?” gli chiede scherzosamente.

Tony aggrotta le sopracciglia e continua a guardare Peter. Rimane bloccato. Si morde nervosamente le labbra e cerca di respirare. Solo respirare. “Lo so” mormora, ma rimane bloccato. Janet gli posa la testa sulla spalla. Nadia ha scritto SNEGOVIK. Ancora, non sa se questa è una vera e propria parola. Deve controllare. Studiare alcune lingue in più. Sa che sicuramente non è una parola cinese, di questo ne è sicuro.

Peter rimane sdraiato a pancia ingiù.






C'è una macchia di muffa sul suo soffitto, si rende conto, sdraiandosi sul divano, con le mani dietro la nuca. Sono le tre del pomeriggio. Ha appena finito di mangiare. Potrebbe fare due cose, si dice, chiudendo gli occhi ed espirando profondamente. Potrebbe dormire. Chiudere gli occhi e decidere di addormentarsi. Ed è un buon piano, perché non ha dormito molto negli ultimi -negli ultimi tre anni, probabilmente. E forse è stanco. La copertina del magazine è pronta, basta solo inviarla, un po' di riposo se lo potrebbe anche permettere. Tiene gli occhi chiusi. Aggrotta le sopracciglia. Inspira. Espira. Dormire sembra una buona idea. O potrebbe concentrarsi su qualcos'altro. Fare i pesi. Fare esercizio fisico. Scaricare lo stress. Inspira. Espira.

Potrebbe anche dormire però. C'è una macchia di muffa sul soffitto. Dovrebbe chiamare Clint. Parlare anche con gli inquilini sopra di lui. La macchia potrebbe espandersi. È probabile che si espanda.

C'è un rumore al di là delle mura. Qualcosa che cade. Steve scatta in piedi e la sua testa va qua e poi va là e controlla che niente sia cambiato nel suo appartamento. Solo per poi ricordarsi di essere nel suo appartamento. Al sicuro. Ha mantenuto il respiro, nemmeno se n'era reso conto. Ci sono delle voci soffuse. Riesce a sentire un stai bene? che non viene seguito da risposta. Su su, sente ancora ed è incredibile. Quanto sottili sono queste mura se riesce a sentire così tanto? Anche questa è un'informazione che non gli avevano dato. Ha paura che sia un'informazione vitale, almeno per lui. Ehi, campione, va tutto bene. Forse non può dormire. Forse ha perso la capacità di dormire. Il diritto di dormire.

Dovrebbe parlare con Natasha, chiederle se ha voglia di uscire, o di parlare, o di fare qualsiasi cosa che fanno le persone normali nei giorni d'oggi a Brooklyn. Gli sembra che sia cambiata così tanto la sua Brooklyn. Non gli sembra più di essere nato e cresciuto lì. Perché le cose continuano a cambiare? Si avvicina al comodino e prende in mano il cellulare. Lo rigira un paio di volte. Forse non dovrebbe chiamare Natasha, forse ha da fare coi suoi pazienti. Potrebbe chiamare Sharon. Sam. Bucky.

Bucky.

Rigira il cellulare tra le mani. Potrebbe chiamare Bucky? Si butta di nuovo sul suo divano, sdraiato, cerca di controllare il respiro. Non potrebbe chiamare nessuno di loro, vero? Perché se c'è qualcosa che non va, prima di cercare qualcun altro deve calmarsi. Perché non ha notato quella macchia di muffa prima di prendere la casa? Si stropiccia l'occhio con il palmo della mano.

Non ti preoccupare, va tutto bene, sente dire al di là del muro e sorride. Magari c'è un corso per diventare ninja. Chiude gli occhi. Karate secondo te va bene? Il suo respiro si regolarizza. E io che volevo un figlio che faceva taekwondo. Perché lo sta calmando così tanto? Certo che so fare il taekwondo. È l'ultima frase che riesce a sentire, prima di entrare in un torpore simile al sonno. Un sonno vuoto.






Tony si tiene la testa tra le mani e Peter sta dormendo nella sua culla. È seduto per terra, la schiena poggiata alle sbarre di legno e Bruce è in piedi alla porta, con quelle sue sopracciglia aggrottate e le labbra semi-aperte, come se volesse dire qualcosa, ma non ci riuscisse, il che è un bene. Potrebbe essere un bene.

Tony alza la testa, per guardarlo negli occhi e poi non riesce a guardarlo negli occhi, e quindi li chiude. Prima guarda in basso, poi li chiude. “Bruce” dice a bassa voce, strofinando le mani contro i pantaloni e poi sospirando pesantemente. “Non riesco a tenere in braccio mio figlio” mormora. E questo è veramente patetico, stupido, da persone rotte. “Forse aveva ragione lei” continua dopo qualche secondo, quando si rende conto che Bruce non sa che cosa dire. In un certo senso, beh, Bruce è la persona più appropriata con cui parlare, perché non risponde, non saprebbe come fare e quindi ti lascia parlare. “Forse io non...”

“Davvero?” chiede Bruce, assottigliando lo sguardo. Ha le braccia incrociate davanti al petto e ha anche la voce dura. Tony si tira inconsciamente indietro, sbattendo velocemente le palpebre, come se fosse stato colpito da qualcosa. “Lo pensi davvero?” Non sembra esserci giudizio nella voce di Bruce, non uno diretto a Tony. C'è solo tristezza. Un po' di amarezza. Non era quello che voleva dire.

“No.” Si accarezza il collo, lancia uno sguardo veloce alla culla. “No ma...” Tira indietro la testa. Perché non è rimasto a dormire? Perché non si è addormentato, non ha afferrato l'occasione, non ha deciso di non pensare a Scott che fa le pernacchie a Cassie e che ha quella relazione così naturale con sua figlia, nonostante sia un'idiota che non riesce nemmeno a non farsi beccare per piccoli furtarelli? Ha la gola bloccata. Perché lui non ci riesce? “Non riesco a tenere in braccio mio figlio” ripete e la voce gli si spezza all'ultima sillaba. È quello il problema principale. Perché lui non riesce a cullare suo figlio? Perché ce la fanno tutti e lui no? Perché si deve ritrovare a fallire sempre nelle cose più importanti? Prende un respiro e scuote la testa. Perché non può essere la persona giusta?

Bruce sospira e si accarezza la fronte con due dita.





“Oh” risponde Clint e qualcosa lo colpisce alla nuca, motivo per cui si gira verso il suo appartamento, infastidito. Steve deve resistere all'impulso di lanciare uno sguardo veloce oltre le sue spalle. Abbassa lo sguardo e sospira, cercando di essere il più discreto possibile. “Smettetela” mormora Clint, poi si gira verso di lui. “Quindi la muffa” cerca di riprendere il filo del discorso, cerca anche di sorridere. “Scusami ma -” Viene colpito di nuovo alla nuca, questa volta da una piccola palla rossa, quindi ruota gli occhi e si gira di nuovo, dandogli le spalle. “Kate!” grida entrando nel suo mini-appartamento. “Davvero?”

“Non sono stata io!” grida una bambina, che Steve riesce a guardare soltanto di sfuggita. I capelli le arrivano a malapena alle spalle e c'è un bambino che gli sembra familiare, che gioca seduto sul tappeto. “Non sono stata io!” ripete e Clint sospira, si gratta la nuca, alzando il gomito e girandosi verso di lui.

“Sembra un asilo qui” mormora, alzando un lato delle labbra. “Sì, comunque, non ci vuole nulla, questa sera, o domani mattina passo per il tuo appartamento e sistemo la faccenda. Non dovrebbe essere niente di molto problematico. Gli inquilini di prima, quelli che vivano nel tuo appartamento, non mi hanno mai chiamato, erano tipi abbastanza loschi. Se lo chiedi a me, spacciatori, ma ehi, chi sono io per giudicare? Quindi saranno due... forse tre anni dall'ultima manutenzione.” Scrolla le spalle.

Steve annuisce in risposta e lancia uno sguardo alle sue spalle. “Non sapevo avessi una famiglia.”

“Oh, non ci scherzare neanche” risponde Clint, ridendo. Infila le mani in tasca e questa cosa a Steve non piace, perché lui razionalmente sa che Clint Barton non è armato, che non farebbe male a nessuno, che sta solo parlando con lui, normalmente, come il civile che è, ma il suo corpo non lo sa. La sua reazione fisiologica non è razionale. Sente l'adrenalina. Sente il battito cardiaco accelerare. Sente i muscoli tesi. E si sta ripetendo che non ha problemi, che andrà tutto bene, che non deve attivarsi in questo modo, ma niente sembra funzionare. Trattiene il respiro, studia i movimenti del corpo dell'uomo davanti a lui. “Guarda, io non ho nemmeno i genitori e mio fratello ugh. Questi sono i bambini del condominio.” Clint aggrotta le sopracciglia. Sta pensando. Steve stringe i pugni. “Non tutti. Non penso che potrebbero stare qui tutti quanti. Sono i bambini della 21 e della 18B. Kate, Peter e Cassie. Peter e Cassie però sono qui -” alza la voce, gira la testa verso il suo appartamento “-con il permesso dei loro papà, al contrario di Kate.”

“Ad averlo visto mio papà!” risponde la bambina, gridando.

Clint ruota gli occhi. “Tra poco devi comunque andare a danza, signorina, quindi invece di continuare a giocare...”

“Yada yada” rispondono in coro i bambini e Clint aggrotta le sopracciglia e lancia un'occhiata a Steve, come a chiedergli che lingua i bambini stiano parlando. Steve scuote la testa. A volte non sa nemmeno in che lingua parlano gli adulti. Clint sbuffa una risata e tira fuori le mani dalle tasche. Steve può tirare un sospiro di sollievo e Clint lo studia, arricciando leggermente le labbra.

“Scusa” mormora e sembra essersene reso conto. Delle mani. Del respiro. È veramente imbarazzante. “Non ci avevo pensato. Comunque, se vuoi puoi accompagnarci alla scuola di danza, così finalmente ci liberiamo di Kate e poi porto Peter e Cassie da -che ore sono?” chiede e non aspetta una risposta, torna dentro l'appartamento e sbuffa. “Perché ancora non indossate le giacche?” Appena scompare dal suo campo visivo Steve sembra riuscire a respirare di nuovo, riesce a rilassare i muscoli.

Stava sudando. Non se n'era reso conto prima, ma a quanto pare adesso sì. Ed eppure sa di essere al sicuro. Ed eppure sa che non potrebbe succedergli niente per mano di Clint Barton. “Forse è meglio se io...” inizia a dire e sente qualcosa cadere per terra. Per questo scatta di nuovo sull'attenti e corre dentro la casa, che è piccola, che sembra decisamente piena, messa in disordine. Sbatte le palpebre. “Cosa...?” inizia a chiedere, ma una bambina coi capelli corti lo ferma. Lo ferma fisicamente, posando le mani sulla sua pancia e spingendolo indietro con la forza che una bambina di cinque anni può avere.

“Succede sempre” dice. Lancia uno sguardo dietro di lei e sospira, mentre l'altra bambina, che deve essere la piccola Kate, a questo punto, sistema le sue cose dentro lo zaino.

Anche Clint sospira e sparisce dietro una porta, solo per poi tornare con un kit di pronto soccorso.

Il bambino, Peter, rimane seduto sul tappeto, occhi vuoti e mano sulla testa, mentre un graffio sulla fronte inizia a sanguinare giusto un po'. La cosa che però sembra strana a Steve è il suo non dire niente, non piangere. Si tiene solo la mano sulla fronte, a toccare la sua nuova ferita, e non guarda niente, se non il muro davanti a sé. Clint si inginocchia davanti a lui e gli toglie delicatamente la manina dalla fronte. Steve aggrotta le sopracciglia. Non sembra una cosa normale, un bambino così immobile con un graffio.

“Sta bene?” chiede a Cassie, che sbatte i suoi occhioni e lo guarda con la testa inclinata.

“Oh, sì. Deve solo ricaricare le batterie” spiega, dando un passo indietro e poi sorridendo. “Zio Tony dice sempre così.” Poi si affianca a Kate, che sta sistemando gli zaini di tutti e tre. Clint chiude il kit del pronto soccorso e sospira. Lo sente mormorare qualcosa che non riesce a capire. Poi gli lancia un'occhiata, scrolla le spalle. È una cosa strana da dire, pensa Steve, almeno, per una persona.

Fa pensare a un piccolo robot, una specie di Pinocchio dell'epoca moderna. Un bambino che rimane immobile, a guardare il vuoto, mentre il suo papà macchinista lo ricarica, con un abbraccio, o con una presa elettrica e un filo, nascosto chissà dove.






Tony ha le sopracciglia aggrottate e stringe forte il pomello della porta e il mondo sembra essersi fermato per qualche secondo. Forse si è fermato lui. Jarvis lo osserva con un'ombra di sorriso e si avvicina quel tanto che serve per avvisarlo che lo sta per abbracciare. Tony non si muove, non ha la forza, o abbastanza elementi per capire di non star dormendo. Quindi si ritrova in un abbraccio col suo ex-maggiordomo e poi si rende conto di quanto tempo sia passato senza che lui si facesse una doccia, o da quanto tempo non tocca acqua e un po' si vergogna della sua situazione, ma Jarvis non sembra volersene lamentare.

Lo supera, entra nell'appartamento, studia ogni angolo, ogni mobile e Tony chiude la porta e ancora non hanno parlato. E Jarvis non dovrebbe trovarsi lì. Il primo istinto di Tony, passato il torpore della sorpresa è correre verso Peter, nel suo seggiolino, che allunga le manine per giocare con le stelline sopra di lui, e scappare. Non saprebbe esattamente dove, non saprebbe esattamente come, e non saprebbe nemmeno dire esattamente il perché, ma è anche vero che a questo punto della sua vita ricorda a malapena il suo nome ma che la sua testa continua a correre nello stesso modo in cui ha corso per tutta la sua vita. Quindi quello che pensa, quello che dice, quello che fa, è un agglomerato di tante idee che non pensa abbiano capo o coda. Tutto bene, insomma. Jarvis continua solo a studiare il suo appartamento. Posa una mano sul pianoforte e poi lancia un'occhiata al bambino che ha spostato la sua attenzione verso la mano. La tiene chiusa. Non sa come riaprirla.

“La sua casa è a prova di bambino” commenta e Tony sbatte le palpebre e, certo, verissimo, ha iniziato ad adattare l'appartamento ai tre mesi di gravidanza, quando ha saputo che Peter sarebbe nato. Che sarebbe cresciuto con lui. Ha sistemato la sua cameretta, poi ha fatto in modo che non cadesse per le scale, poi ha coperto ogni spigolo della casa. Clint vole che facesse un baby shower. Quando è stato? La gravidanza era ormai alle trentotto settimane, gli pare, sì, certo. Lo ricorda. T'Challa è entrato nel suo appartamento e lo ha preso in giro per tutto il tempo. Poi gli ha scompigliato i capelli e ha riso e ha detto qualcosa che... Jarvis si piega accanto a Peter, che lo osserva, prima di riaprire la mano. Quando Jarvis gli offre le sue dita, stringe le sue manine intorno all'indice. Tony deglutisce. “Mi chiedevo per quale motivo non tornava.” Evita volutamente la parola casa. Jarvis lo trovi sempre nei dettagli.

Deve guardare verso il basso. Casa è un disastro. Lui stesso è un disastro. Tira su col naso. Sembra una risposta più che sufficiente. Anche Tony lo trovi sempre nei dettagli.

“Questo fino alla visita del signor Banner.”

Quel traditore. Tony si morde nervosamente l'interno delle guance e scrolla le spalle. Deglutisce. “Non è come pensi” riesce a dire. Infila le mani nelle tasche della tuta, prende un respiro profondo e si prepara per essere colpito. Colpito emotivamente. Jarvis lo conosce da quando è piccolo. Lo sa che non può essere capace di crescere un bambino. Lo sa che la sua non è stata la scelta giusta. Sa che aveva ragione lei. E aveva -ha ragione anche suo padre. Quindi aspetta che Jarvis lo ripeta, perché lui può essere gentile e buono e sopportarlo quanto volete, ma anche Jarvis ha un limite. Aspetta che dica: una vita umana, Tony, non puoi permetterti di pensare che questo sia il tuo ennesimo gioco. E gli avrebbe dato del tu, perché quando è arrabbiato Jarvis gli dà del tu e poi gli viene quella ruga in mezzo alle sopracciglia, che ormai deve essere permanente. È invecchiato molto dall'ultima volta che lo ha visto. Quindi aspetta. Lui che si vantava di essere la ragione delle sue rughe.

“Sono venuto ad aiutare, signore” risponde Jarvis, però, e Tony alza lo sguardo, si tira un po' indietro. Jarvis prende in braccio Peter, che ride divertito, dopo aver cercato per la stanza il suo papà. “Sono offeso al pensiero che non sia venuto a chiedere il mio aiuto prima.” Fa una pausa e sembra star annusando l'aria intorno a loro. “Credo sia per lei ora di fare una doccia” mormora. “E per questa casa di prendere aria.”





Steve apre la porta dell'appartamento e, per il corridoio del condominio, riesce a sentire un uomo dire: “Fidati, ho un master in Ingegneria.” E Clint ridacchiare, prima di iniziare a salire le scale, seguito da questo stesso uomo.

Aggrotta le sopracciglia, si guarda intorno e vede quell'uomo di qualche settimana prima -quello con gli occhiali da sole che accompagnava suo figlio probabilmente a scuola. Ah, il papà di Peter, il bambino con le batterie scaricabili. Il papà di Peter, che si sta accarezzando la fronte e sospira, posando le spalle sulla porta. Gira la testa verso Steve e gli sorride, facendo un cenno veloce con la mano. Steve ripete il gesto e la cosa, per qualche motivo, fa sbuffare una leggera risata al papà di Peter.

“Sei il nuovo inquilino” dice, e non sembra una domanda.

Steve aggrotta le sopracciglia e soppesa la frase. Vive nel suo appartamento da due mesi. Quasi due mesi. Non è uscito molto. Non conosce gli altri inquilini. Conosce i nomi di tre dei bambini che vivono lì, anche se gli era stato detto da Natasha che non c'erano bimbi o rumori troppo forti. Natasha dice tante bugie, ha scoperto. E comunque lui non aveva chiesto che non ci fossero bambini perché odia i bambini o i loro giochi. Semplicemente non pensa di essere pronto per nessun rumore forte, ancora. I bambini del condominio non provocano forti rumori, almeno non lo hanno fatto fino ad adesso. “Steve” decide di rispondere. Allunga la mano verso di lui, perché gliela stringa e l'uomo esita per uno, due, tre, quatto secondi prima di afferrargliela velocemente.

“Tony” si presenta, con mezzo sorriso e lasciandogli la mano. “C'è chi mi chiama Anthony” aggiunge soprappensiero, “ma preferisco davvero solo Tony.” Non incrocia le braccia davanti al petto. Le lascia scivolare ai suoi fianchi, non giocherella con le dita. Non sembra sulla difensiva, ma Steve sente che c'è qualcosa di nascosto. Tutto nel suo linguaggio corporeo sembra studiato. Non sembra naturale.

Steve sorride di rimando, poi lancia un'occhiata alle scale. “E va tutto bene?” chiede, perché immagina che non vada esattamente tutto bene se è fermo in mezzo al corridoio e non saprebbe come altro offrire il suo aiuto. In più c'è qualcosa. Non sa come descrivere questa sensazione, ma sente che c'è qualcosa. Corruga un pochino la fronte. Tiene la porta aperta con un piede. Ha l'istinto di tornare in casa. Fare un passo indietro, e chiudere la porta con un solo movimento. C'è veramente qualcosa nell'aria.

“Beh, sì. Solo che si è rotta l'antenna del condominio” risponde Tony, facendo un cenno con la mano e poi indicando il soffitto. “Ed è caduta sui cavi del telefono. La cosa non mi darebbe molto fastidio, se solo in questo condominio telefono e internet non fossero collegati e adesso la mia connessione è molto rallentata.”

“Oh.” È l'unica cosa che gli viene in mente, prima di ridere nervosamente. “Non me n'ero nemmeno accorto.”

“Oh, sì, certo, voglio dire, il fatto è che ci lavoro con internet e quindi...” Scrolla le spalle, fa una smorfia. Lo studia. È bravo a non farlo notare, Steve se ne rende conto soltanto perché nella sua vita da civile si deve afferrare ai dettagli per non impazzire. Si chiede perché lui sia così bravo a nascondersi, invece. Cerca di addolcire il suo sorriso. Non sa se ci riesce. “Tu, invece?” cambia argomento. Potrebbe essere una gaffe, a pensarci. “Tutto bene?”

Steve alza le sopracciglia in sorpresa, poi ridacchia nervosamente, ancora una volta. “Oh.” C'è veramente qualcosa nell'aria. “Oh, no, voglio dire sì, va tutto bene. Benissimo, davvero, solo che...” Sorride e ruota gli occhi. Sospira. “Ho sentito delle voci e...”

“Dormivi?”

“Oh, no. No no. Stavo lavorando a un...” Punta il pollice alle sue spalle e alza un lato delle labbra, in un mezzo sorriso aperto. “Stavo -stavo davvero lavorando.”

“A cosa?”

“Una -” Deve schiarirsi la gola, prendere tempo. “Una copettina non...”

Tony sorride con gli occhi. “Un artista” dice con un tono che si avvicina molto ad una cantilena. “Chi lo avrebbe mai detto.” Sta studiando ancora il suo corpo. Questa volta non si nasconde. Steve aggrotta le sopracciglia. Perché adesso avrebbe smesso di nascondersi?

“Un artista commerciale.” Si schiarisce la gola. Forse è ora che lui decida di nascondersi. Tornare nell'appartamento. “Lo dicono in modo dispregiativo” spiega, alzando una spalla.

“Un graphic designer!” esclama Tony. Unisce le mani e si gira definitivamente verso di lui. Steve sente la base del collo diventare un po' più caldo. Gli sudano le mani. “Un graphic designer che è anche un free-lance. Una mia amica -è divertente, ma questa mia amica, Janet, ha iniziato così la sua carriera da artista. Non voglio dire che -sinceramente a me piaceva molto di più quando faceva la graphic designer. Adesso la vedo a malapena.” Alza una spalla. “Ma i suoi lavori sono -erano incredibili. Mi parlavano. In realtà, penso che parlino proprio alle persone. Il logo della mia start-up lo ha disegnato lei. Scott dice che gli sembra troppo -” fa un gesto con le mani. Steve non capisce quello che vuole dire, ma annuisce, “-ma io lo trovo geniale.”

“Una start-up” ripete lentamente, con la fronte leggermente corrugata.

“Già. È un trampolino di lancio. Ci stiamo concentrando su alcuni ambiti prima.” C'è una pausa, prima che continui a parlare. Guarda dritto davanti a sé, poi lancia uno sguardo fugace all'ascensore e sorride a se stesso. “È per mio figlio” dice alla fine. “Per lasciargli qualcosa per cui essere fiero.” Sbatte le palpebre, poi sorride. “Di me, credo. E per migliorare il mondo. Le solite cose da padre.”

Steve rilassa le spalle. Non sapeva nemmeno di essere così teso. “Le solite cose da padre” ripete a bassa voce. Non ricorda suo padre aver detto o avergli fatto capire una cosa del genere. Forse per questo sorride un po' di più.

Tony fa spallucce e alza lo sguardo, verso le scale. Si deve star chiedendo quanto tempo ci possono mettere ad aggiustare qualcosa che sembra essere abbastanza grave. Steve si asciuga le mani sui pantaloni. Non sa quanto l'uomo che è anche ingegnere possa fare al riguardo. Non sa quanto lui stesso possa fare al riguardo. Ha una copertina da finire e il suo istinto continua a dirgli di scappare via, lontano da Tony, lontano da questa strana sensazione. “Io dovrei...” inizia e Tony gli sorride. Pensa che capisca. Quindi Steve fa questi due passi indietro e torna nel suo appartamento. Chiude la porta con un solo movimento e tira un altro respiro di sollievo.

Deve aspettare che il suo corpo si ricordi di essere in un posto sicuro, che non c'è nessuna minaccia, fisica o emotiva, che tutto va veramente molto bene. Respira profondamente. Espira. Inspira. Espira. Lui è al sicuro. Il suo vicino Tony e suo figlio non sono un pericolo per lui. Inspira. Espira. Inspira. Non fisico. Espira. Non emotivo. Inspira.

Dopo qualche minuto, sente la porta dell'appartamento accanto fare click.








Tony tiene in mano il pezzo di tessuto con dei motivi a cui lui non potrebbe dare un vero e proprio significato, ma è sicuro che T'Challa potrebbe farlo. Prende un respiro profondo e Peter lancia un gridolino felice, con le mani tese verso di lui. Tony gli sorride e stende il telo, per capire come usarlo propriamente. Janet gli lancia uno sguardo e inclina la testa, con un mezzo sorriso. “Se vuoi ti posso aiutare io” offre e gli si avvicina con passi decisi, facendo risuonare i tacchi sul pavimento. Nadia la osserva, seduta sul lenzuolo, con le manine a terra per tenersi in equilibrio. Dopo un po' scivola di lato e perde interesse nei passi della donna, che prende il telo dalle mani di Tony e dispiega davanti a loro, per poi fargli un cenno veloce perché si tolga la giacca. Lui fa senza pensarci due volte, facendo anche una smorfia al bambino, che dire, tenendosi il piede con la manina.

“T'Challa dice che aiuta a creare un rapporto con il proprio figlio” borbotta, alzando le spalle. “ E anche di usarlo quando Peter sarebbe riuscito a tenere su la testa. Le strane regole, eh. Me lo ha detto mesi fa. Ha anche detto che era colpito, perché non si aspettava che io decidessi di avere un bambino. In Wakanda, dice lui, io non lo so, non lo so come sono le cose in Wakanda ma -crescere un bambino è forse più importante di governare l'intero paese. Lo ha detto lui. Ci pensi? È stato così melodrammatico.”

Janet aggrotta le sopracciglia. “Magari stava solo cercando di complimentarsi. Lo sai che T'Challa è un tipo oggettivamente strano.” Gli fa un gesto col dito perché si giri e Tony alza le braccia, mentre lei gli si avvicina col tessuto stirato e sembra prendere le misure del suo busto. La scena fa ridere ancora di più Peter, che si porta il piede alla bocca e lo morde con le gengive. “Un modo per farti capire quanto è importante il compito che stai portando avanti.”

“Forse” concede lui, mentre lei inizia ad avvolgerlo nel telo. Gli fa un piccolo nodo sotto l'ascella e Tony ride al contatto, cosa che fa sorridere anche lei, che gli lancia un'occhiata veloce. “Però io ho pensato al fatto che sicuramente non avrei mai voluto fare il re. Il fratello minore del re? Sì, senza pensarci. Il principe consorte? Tanto avrei dovuto solo sorridere e essere carino per la stampa, vero?”

“No, non credo” risponde Janet, sbuffando una risata e inclina la testa, dando un passo indietro per lasciare la possibilità a Tony di muoversi, cosa che lui, girando su se stesso e poi alzando e abbassando le braccia. Muove anche i fianchi, per vedere se è libero di farlo, poi scrolla le spalle.

“Secondo me, sì” risponde dopo qualche secondo. “Io non ho mai voluto fare il re.” Scuote la testa e prova a sorridere, ma non ci riesce. Scrolla le spalle allora. “E ho perso il primo pianto di Peter perché ero in bagno a vomitare.” Fa una smorfia, prima di mordersi le labbra e scuote impercettibilmente la testa. “E sento tutte queste persone che mi ripetono quanto è incredibile fare il genitore, quanto nessuno vuole perdere alcune fasi, o quanto certe cose siano importanti e io -ero in bagno a vomitare. Nel momento in cui avrei dovuto iniziare a creare quel rapporto con mio figlio, ero in bagno a vomitare. Il primo respiro è importante, vero?” Inclina la testa e Janet aggrotta le sopracciglia, studiandolo in un silenzio grave, forse leggermente offeso. “Sarei dovuto essere lì, vero? Perché lo so quello che dicono tutti, va bene?, che quando guardano i loro figli sembra che tutto il mondo si sistemi, come se finalmente tutto avesse un senso ma -io non provo questa sensazione...? Io ho paura di prendere in braccio Peter. Perché se il posto più sicuro nel mondo per lui sono io -io non credo di esserlo per davvero. E ci sono momenti, sì, certo, ci sono momenti in cui penso che tutto vada bene e che io e Peter stiamo bene. Lui mangia, ride, dorme, non fa molto altro e io le provo queste cose, okay?, provo questa serenità, questa -voglia di creare un mondo migliore, okay? Poi però ci sono momenti in cui guardo Peter e penso...” Si gira verso il bambino, che continua a succhiare il pollice del piedino. Tony sospira, si accarezza la fronte con due dita e guarda in basso. Chiude gli occhi. “Penso: Marianne aveva ragione.” Gli sale un groppo alla gola e riapre gli occhi. Li sbarra, perché lo ha ripetuto una seconda volta, lo ha detto alla luce del sole. Alza lo sguardo e stringe i pugni. “Forse è così.”

Janet apre la bocca per dire qualcosa, poi la richiude e fa un passo in avanti. Tony risponde facendo un passo indietro.

“Lo so che questo -tutto questo è da mostri” dice, incrociando le braccia davanti al petto. Non voleva nemmeno ripeterlo ma va bene, ormai gli è uscito. Non può esserci un ritorno indietro. Si morde le labbra. Non alza la voce. La mantiene in un sussurro. Per ora. “Io adoro Peter, non potrei pensare a un mondo in cui Peter non esiste ma quando lo vedo sono terrorizzato. Non c'è serenità. Non c'è calma. Non c'è nessuna epifania. Non ho nemmeno capito che cosa dovrei fare della mia vita e... c'è questa creaturina che continua a guardarmi come se io fossi il suo sole e -lo sai che è per questo motivo che non ho mai avuto un cane? Non ci riesco. Lo guardo e penso non sento niente. Poi lo guardo di nuovo e penso io non voglio ma lo so, lo so che ti farò così male -e sarà tutta colpa mia. E cosa dovrei fare? Chi dovrei chiamare? Perché sembra che l'unica persona in questo mondo che si sente così sono io? Perché non posso essere come Scott? Perché nel gruppo sembrano tutti così fiduciosi? Perché a me sembra che loro sappiano quello che fanno? Perché mi sembra di star sbagliando tutto? Perché tutti dicono che i tuoi figli ti guariscono quando è ovvio che non è vero?” Deve fermarsi a prendere un respiro. Ha iniziato a perdere il controllo, la voce è salita di un'ottava, il ritmo delle frasi è diventato sempre più incalzante e sa di non poterselo permettere. Deglutisce e si gratta nervosamente la testa, mentre Janet sbatte velocemente le palpebre e prova di nuovo ad avvicinarsi. Nadia li osserva con un dito in bocca. Peter non si è nemmeno reso conto del cambiamento di atmosfera, ha perso interesse nella figura di suo padre. È intento a giocare con delle stelline attaccate al suo seggiolino. Tony si passa una mano sul viso. “O sono io?” sussurra con un sospiro. “Sono io, vero? Perché devo essere sempre la persona sbagliata?” Fa un gesto vago con la mano, come se questo potesse far capire tutte le cose non dette. Poi scrolla le spalle. “Perché, una volta ogni tanto, non posso essere la persona giusta?”

Janet lancia uno sguardo veloce al pavimento, prima di muoversi verso Peter e prenderlo tra le braccia, tra le proteste del bambino, che avrebbe voluto continuare a giocare con le sue stelline. Lei inclina la testa, guardandolo negli occhi e poi gli sorride. Peter non ricambia. Continua ad osservarla in silenzio. “Neanche io ho visto Nadia nascere” risponde dopo qualche secondo, girandosi verso Tony che continua a passarsi la mano sopra il labbro e a tirare su col naso. “Ma non penso di essere meno sua madre solo per questo. E certo, anche io sono terrorizzata dal fatto che ho detto di essere madre di una bambina. E senza padre. Non c'è nessuno che potrà aggiustare il tiro quando la metterò in punizione. Non c'è nessuno che le potrà rispondere sinceramente alla domanda ma da dove vengo? E io vivo con la paura del giorno in cui si rifiuterà di chiamarmi mamma. Del giorno in cui mi chiederà di Hank.” Alza una spalla e gli si avvicina di nuovo. “Essere genitore non è come essere in una canzone. Non ci possono essere solo momenti belli. E tu sei esausto. E tu non chiedi mai aiuto. Un figlio non ti può aggiustare, Tony. Siamo noi che ci aggiustiamo per loro, ci miglioriamo per loro. Non essere troppo duro con te stesso.” Peter allunga le braccia verso di lui e Tony sospira, prendendolo tra le sue braccia. “E chiedi aiuto. Puoi diventare la persona giusta. Io lo so.”

Tony abbassa lo sguardo verso Peter, che giocherella col tessuto, e Janet sorride.

“Ora, papino, mettilo nel tuo canguro wakandiano, così vi faccio una foto e la mettiamo nel vostro album.”

“Mi cala il moccio dal naso” protesta Tony in una lamentela. “E poi non si chiama canguro wakandiano. T'Challa sarebbe così deluso da te.”

“Quando mai T'Challa non è deluso” ribatte prontamente Janet, andando a cercare la sua macchinetta fotografica. O il cellulare, alla meno peggio.





“Non faccio molto” inizia Steve, con le mani intrecciate tra le gambe aperte e uno sguardo non propriamente vuoto. Si guarda intorno, guarda come i suoi stessi occhi siano replicati in ogni persona presente in questa stanza. Sam prova a sorridere, prova ad annuire, fargli capire che può comunque continuare a parlare, e Steve vorrebbe semplicemente rimanere in silenzio, ascoltare gli altri parlare e cercare di capire se per loro c'è salvezza. Finché parla, non riesce a trovarla. Si accarezza il dorso della mano con un pollice e sospira. “Mi sveglio tutti i giorni alle cinque del mattino. Esco a correre. Torno a casa, mi faccio la doccia, faccio colazione. Poi inizio a lavorare sulle commissioni delle riviste, o delle agenzie. Ogni tanto incontro amici.” Fa un gesto con la mano, a mostrare, forse, Sam, poi scrolla le spalle e intreccia di nuovo le dita. “Torno a dormire. È un routine ben consolidata.”

“E, a questi tuoi amici, si sono aggiunte altre persone? Sei riuscito a parlare con qualcuno?” chiede gentilmente Sam, lanciando un'occhiata a Natasha, che ha le gambe accavallate e non sembra nemmeno essere presente nel cerchio di sostegno. Lei dice che sono cazzate, ma che comunque deve farne parte per rimanere iscritta nell'albo da psichiatra. “Coi tuoi nuovi vicini, magari?”

“Ho parlato col proprietario del condominio. C'è una macchia di muffa sul mio soffitto.” Sam inclina la testa come se fosse molto deluso. Steve sbuffa. “Ho parlato anche con il mio vicino. L'uomo che vive sul mio stesso pianerottolo.”

“Quello che senti attraverso i muri.” Sam sorride e Natasha raddrizza la schiena, sospettosamente attenta. “L'uomo con un figlio” prova a far continuare lui.

“Sì, sì, proprio l'uomo col bambino sul mio stesso pianerottolo. Si è rotta un'antenna e sembra che per questo internet fosse più lento. Abbiamo parlato. Sembra un bravo padre.” Non crede di dover dire molto altro. Si ritrova addosso gli occhi penetranti di Natasha per uno, due, tre secondi, prima che la donna torni ad accomodarsi sullo schienale e incroci le braccia sull'addome. “Ma sono scappato” aggiunge, abbassando lo sguardo. “Non mi sentivo al sicuro.”

Sam sa che non avrà altre parole da parte di Steve, che prova a non mordersi le labbra e a non muovere nervosamente il tallone su e giù, quindi annuisce lentamente, si inumidisce le labbra e prova a sorridere. “Bene” dice, girandosi verso la restante parte del gruppo. “Bene, direi che questo ci lascia un ampio spazio per riflettere. Molti di voi, Steve come Luke e come te, Jessica, sono stati bloccati dall'idea di creare dei nuovi rapporti, forse dimenticandosi di un fattore molto importante per tutti quanti noi. Siamo al sicuro.” Fa una micro pausa, per essere sicuro di riuscire a guardare negli occhi ognuno di loro. Steve vede di sfuggita Natasha coprirsi il viso con una mano e alzare gli occhi al soffitto. La cosa lo fa sorridere leggermente. Abbassa lo sguardo per non farlo notare a Sam. “Per molto tempo abbiamo creato rapporti che non sapevamo se sarebbero durati, basati sul bisogno di proteggersi l'un l'altro, perché in guerra ti devi fidare del tuo commilitone. E chissà quanti commilitoni abbiamo lasciato indietro, nonostante loro si fidassero di noi.” Un'altra pausa. Sam è bravo a fare dei discorsi. Sta parlando di Riley. Sta parlando di Bucky, anche se in modo completamente diverso. Steve deve distogliere lo sguardo e cercare di pensare ad altro. “Abbiamo scoperto che esistono dei legami che possono avere una durata breve, ma che sono intensi e pieni di responsabilità. E io sono qui per dirvi, che qui siamo al sicuro e che parlare con una persona non significa condividere con lei gli orrori che abbiamo condiviso in guerra. Qui, a casa, possiamo creare dei rapporti passeggeri, non dobbiamo portarci dietro il peso di una valigia che è stata delusa tante volte. Si parla di rapporti freschi, pensateli come al ghiacciolo, che si mangia d'estate e poi? E poi non tutti lo mangiano d'inverno. Potete creare delle relazioni che sono già pronte a finire. Potete creare anche dei rapporti che invece non devono finire. E potete decidere voi di farlo. Qui, a casa, se decidete di non vedere più una persona, non finisce una vita. E, cosa importante, non dovete affidare la vostra vita a nessun'altro che non siate voi stessi.” Prova a sorridere. “Quindi date una possibilità alle persone intorno a voi.”

C'è il silenzio nella stanza. Per qualche secondo nessuno parla, nessuno si muove. Poi Natasha tira indietro la testa e sbuffa. Sam scuote la testa e sorride.

“Va bene” mormora, accarezzandosi la fronte. “Natasha?” Fa un gesto con la mano per invitarla a parlare e Natasha tira su la testa, dedica a tutti loro un mezzo sorriso e si gira verso Steve.

“Tu non hai amici” commenta lapidaria. Steve alza un sopracciglio e lei alza un sopracciglio solo per non dargliela vinta. Poi lei ride e torna a guardare il nulla, come se avesse già puntato la risposta dell'Universo, come se gli avesse già fatto capire cosa deve fare per migliorare. Steve scrolla le spalle e Sam si accarezza il ponte del naso.

“Okay, allora, lo so che siamo tutti contro i compiti a casa, me compreso, ma perché non facciamo così? Perché non ci diamo un obbiettivo? Proveremo a parlare con una persona. Un persona sola e va bene che poi non le parliate più. Basta che con questa persona ci parliate prima del prossimo incontro e ragioniate su cosa vi è piaciuto e cosa non vi è piaciuto del parlare con questa persona. Cosa vi ha fatto sentire, va bene?” Si guarda intorno, nessuno sembra molto convinto, ma probabilmente lo faranno. Probabilmente cercheranno di parlare con qualcuno. Steve ruota gli occhi e pensa che lui vorrebbe soltanto tornare a dipingere come dipingeva prima. E vorrebbe tornare a parlare con Bucky, come parlavano prima. Si accarezza la fronte e sospira. Sam continua a parlare. Sta ridendo. “Lo farò anche io, sì sì. E, Natasha, Clint non vale come persona.”

“Stai dicendo che Clint non è una persona?” chiede Natasha, con un tono neutro e le spalle tirate leggermente indietro.

Sam fa una smorfia, come se non volesse dire che magari quella è la verità. Quindi Natasha prima assottiglia lo sguardo, poi annuisce, come se lui avesse un punto. Si gira verso Steve, dandogli una gomitata e gli chiede: “Ehi, vuoi berti una birra oggi?”

“Pensavo non avessi amici” ribatte lui divertito.

Lei sbatte semplicemente le palpebre. “Sarebbe un no?” chiede, prima di perdere interesse nella conversazione. “Comunque quest'idea di Sam non è male. Magari ti aiuta a trovare qualcuno che non è perso quanto sei perso tu.”

Steve sbuffa quella che spera sia percepita come una risata. Poi sospira e prende a guardare insistentemente il pavimento.





Lo sguardo negli occhi di Rhodey cambia e cambia più volte. Prima Tony era riuscito a leggere la sua sorpresa quando gli ha presentato Peter, che ormai si tiene seduto e ogni tanto prova a camminare, tenendosi con le sue mani e tirando in avanti i piedini un po' storti che non sembrano ancora riuscire a tenerlo dritto. Subito dopo la sorpresa, c'era stato un dubbio. Ha chiesto: “Questo bambino è tuo?” e Tony ha annuito e Rhodey si è dovuto sedere sul divano, mentre si teneva la testa con una mano. Poi c'è stato disorientamento. Ha chiesto: “Quanti mesi ha?” e Tony ha risposto nove. Poi c'è stato un momento di terrore. Ha chiesto: “E Marianne dov'è?” e Tony ha abbassato lo sguardo e ha scrollato le spalle. E allora nello sguardo di Rhodey c'è stato panico. Ha chiesto: “Cos'è successo, Tony?” e Tony gli ha raccontato tutto, mentre Peter gattonava di qua e di là per l'appartamento, giocando coi cubi di Nadia, vocalizzando ogni tanto. E lo sguardo di Rhodey si è riempito di rabbia. E quando quella rabbia è arrivata alle sue mani, che si sono chiuse in due pugni, il suo sguardo ha già cambiato sfumatura e sembrava preoccupato. Poi era ricaduta nel ferito.

È bravo a leggere Rhodey. Così come Rhodey è bravo a leggere lui.

“Perché non mi hai chiamato?” chiede, ma la risposta vera la sa già, come sa già che non l'avrà mai a voce alta.

Tony alza una spalla. “Eri in missione” risponde e nello sguardo di Rhodey c'è senso di colpa, perché entrambi sanno che non si è preoccupato di chiedere come stava. Perché dava per scontato che stesse bene. Perché pensava che l'allontanamento dalla sua famiglia fosse dovuto forse a un capriccio. In sua difesa, Tony ha fatto di tutto perché chiunque intorno a lui la pensasse in questo modo. Ma Rhodey è il suo migliore amico e lo conosce, ed era lontano a salvare il mondo in una missione importante, e ha dato poco peso agli indizi. E Tony non gliene fa una colpa. Davvero. “Comunque, se vuoi, puoi ancora essere il padrino di Peter. Lo puoi viziare, prendergli dolcetti, insegnargli a giocare a baseball, dargli il buon esempio nell'essere un cittadino americano coi fiocchi e...”

“E stai bene?” lo interrompe Rhodey e insieme alla colpa c'è anche la preoccupazione. Tony arriccia le labbra in una smorfia non proprio sicura. “Sei stato solo?”

Ci mette un po' a rispondere, perché prima deve rimettere in ordine anche i suoi di sentimenti. Non è arrabbiato con Rhodey. Davvero. È felice che sia venuto a trovarlo, che la prima cosa che gli è venuta in mente quando ha saputo di avere una licenza è stata di andare a rintracciare Tony e controllare quello che stava facendo. È felice anche di vederlo sano e salvo e tutto intero. È felice di averlo abbracciato. È felice di riaverlo con lui. Ha paura di farlo preoccupare. Ha paura anche di non potergliene parlare più, di tutto questo, però. “Sono in cura dal professore Xavier” dice e scrolla le spalle. “Riesco a prendere Peter in braccio, prima -qualche mese fa non ci riuscivo. E... e riesco a dormire. Il ritmo di sonno mio e di Peter sembra coincidere e, so che sembra strano, ma Tony Stark ogni tanto fa riposini pomeridiani. Il professore dice che sono gli effetti collaterali dei miei farmaci quindi... sono anche sobrio, ovviamente. Sobrio da... più di un anno. Più o meno. Tranne per... Bruce si è trasferito qui. Per la start-up, dice, ma penso che volesse essere sicuro che non facessi niente di stupido. Clint ha proprio detto che non voleva facessi qualcosa di stupido. Quindi, vedi?, sto bene. Faccio anche parte di -non mi prendere in giro, faccio parte di un gruppo di sostegno per genitori disastrati. Gruppo in cui ho incontrato il mio terzo collaboratore, che guarda caso è un incredibile hacker e anche molto economico.”

“Tutto questo mentre ero in missione” dice Rhodey e continua a lanciare sguardi veloci a Peter, che si è stufato dei cubi e che adesso sembra essere molto interessato a delle paperelle di gomma. “Sei dovuto crescere mentre io ero via.

“Sono felice che tu sia tornato” risponde Tony e intanto annuisce con la testa, come se volesse rafforzare le parole appena dette. “È stato veramente molto difficile. È stato... È stato un incubo... è stato...”

Rhodey gli circonda la testa con un braccio e fa in modo che si appoggi nella sua spalla, come facevano al college quando uno dei due pensava di aver bisogno di sostegno, o almeno di un abbraccio. Quando Rhodey prendeva voti bassi, quando pensava di non riuscire a laurearsi in tempo, quando Tony tornava dalle sue visite a casa a Malibù, quando tutti e due avevano bevuto troppo e si sentivano come se l'unica roccia solida in questo mondo fosse l'altro. “Va tutto bene” mormora Rhodey e posa la guancia sui capelli spettinati di Tony. “Posso aiutarti a viziare questo ragazzino anche per tutta la vita.” Guarda il bambino sbattere le mani sul pavimento, ripetendo un Da Da che non sembra ancora una vera e propria parola e sorride. “Va tutto bene” mormora. “Va tutto bene.”






Steve esce alla solita ora quella mattina, per andare a correre, e quando chiude la porta di casa dietro alle sue spalle, si rende conto che l'ascensore è stato smontato. Non vorrebbe accorgersene ma ci sono veramente molti rumori. C'è del metallo che va contro il metallo e poi qualcosa che sembra girare e qualcuno che borbotta. Steve gira la testa e prova ad aguzzare lo sguardo.

Non che comunque la cosa lo colpisca personalmente, solo che gli sembra strano. Per questo si avvicina, con le sopracciglia aggrottate, guardandosi intorno per riuscire a capire la situazione. E c'è una chiave inglese sul pavimento, la giacca di una tuta e una cassetta degli attrezzi per terra. Posa la mano sul muro, si affaccia, aspettandosi forse Clint, che forse ha finalmente deciso a fare il giro degli appartamenti a sistemare quello che dovrebbe sistemare. Ha anche un mezzo sorriso, è pronto a fare una battuta che nessuno oltre a se stesso capirà, ma si ritrova il papà di Peter, Tony, in canottiera in una tuta da lavoro e degli occhialetti e le mani sporche di olio, gli occhi puntati verso l'alto e in un equilibrio precario dovuto a un piede steso per la scala e un ginocchio piegato sempre su questa. Ha le cuffiette alle orecchie. Non sembra essersi reso conto di Steve. Non canticchia. Ha una rughetta in mezzo alle sopracciglia. Muove le mani velocemente.

Si gira verso di lui solo dopo molti secondi, Steve non sa perché non si è mosso nel frattempo. Forse Tony doveva prendere un attrezzo che gli serviva, ma quando lo vede sbatte velocemente le palpebre, si passa una mano piena d'olio trai capelli e poi gli offre un sorriso a metà. “Steve,” lo saluta, prendendo uno straccio macchiato e cercando di togliersi dalle mani l'unto degli ingranaggi. “L'artista commerciale” continua, scendendo dalle scale. “Mi spiace tantissimo, l'ascensore è -vorrei dire non reperibile, ma non penso che sia l'espressione giusta, vero? Ci metto un -veramente poco a finire.”

“No, io non devo usare l'ascensore” risponde Steve in un fil di voce, muovendo le mani tra loro e Tony aggrotta le sopracciglia e lancia uno sguardo alle sue spalle. Sembra sta calcolando qualcosa, mettendo insieme dei puntini che riesce a vedere solo lui.

“Ti avrei preso in giro se lo avessi usato,” dice, dopo aver rilassato i muscoli facciali e tornare a sorridere. Si sistema lo straccio accanto alla cintura. Adesso è Steve ad aggrottare le sopracciglia. “Sì, perché sembra che tu debba uscire a correre” spiega Tony, venendo in suo soccorso. Il suo sorriso si amplia un po' di più quando si rende conto che lo sta iniziando a capire. “Un corridore che prende l'ascensore? Capirai l'ironia.”

Steve lancia un'occhiata alle sue scarpe e si accarezza il collo, mentre si sforza di ridere. “Sì, sì, immagino che lo potrei capire.” Deglutisce e poi sospira. “Non sapevo aiutassi Clint con questi...” Non trova la parola, motivo per cui non finisce la frase. Fa un gesto vago per indicare la cassetta degli attrezzi. Pensa sia sufficiente, perché l'uomo scrolla le spalle.

“Solo quando non riesco a dormire. O quando ho bisogno di schiarirmi le idee.”

“E quindi oggi non riuscivi a dormire o avevi bisogno di schiarirti le idee?” chiede. In realtà non aveva intenzione di chiedere nulla, semplicemente le parole gli sono scivolate dalla bocca, neanche troppo bruscamente e una parte di lui se n'è pentita, l'altra parte di lui è felice che gli occhi scuri di Tony lo stiano studiando con vivace curiosità. (Gli ricordano quelli del bambino, Peter, ma questo non è un pensiero conscio.)

“Entrambi...?” Tony sospira e scuote la testa. “Invece tu? Ti torturi con jogging alle...” Guarda il suo orologio al polso e corruga la fronte. “Sono le cinque del mattino?” chiede incredulo, tornando a guardare Steve che annuisce in risposta. “Oh, okay.”

“Che ore credevi che fossero?” chiede con un mezzo sorriso divertito, e lo vede scrollare le spalle e poi tornare a calcolare qualcosa, mentre si guarda intorno e sembra notare per la prima volta la luce fievole dell'alba.

“Pensavo fossero le tre o le quattro” risponde distrattamente. “Ho perso la cognizione del tempo. Ma, in mia difesa, mi è venuta un'idea per migliorare quest'ascensore e mi manca solo installarlo.”

“E che cosa avresti...?” inizia a chiedere ma si blocca di nuovo, questa volta non perché non torva le parole ma perché viene colpito dagli occhi di Tony, che torna a concentrarsi su di lui. Gli sorride. Anche Steve allora sorride.

“Ho costruito il quadro di manovra, fatto in modo che entrasse nel vecchio quadro di manovra, sistemato i nuovi bottoni di chiamata nel condominio, tranne che qui, controllato il contrappeso dell'ascensore, che i cavi fossero ben oleati, ripulito alcuni punti oscuri dell'ascensore, spero che non ti tocchi mai farlo, quindi ho tolto il vecchio quadro di manovra e adesso sto parlando con te.”

“A che ore hai detto di aver iniziato?”

Tony assottiglia lo sguardo. “Ti ha mandato Rhodey?” chiede, poi ruota gli occhi e sbuffa una risata. Fa un gesto con la mano, come a voler passare alla prossima pagina della conversazione, la cosa confonde Steve, ma Tony sembra essere completamente a suo agio. “Comunque devo solo sistemare il quadro. La parte faticosa è già passata.” Fa spallucce. “Tu invece? Non riesci a dormire o hai bisogno di schiarirti le idee?”

“Come?”

“Beh, io per tenermi occupato quando non ho sonno sistemo gli ascensori. C'è gente che fa jogging per lo stesso motivo.” Cammina verso la cassetta degli attrezzi, si inginocchia, aprendola e iniziando a cercare Dio sa solo che cosa.

“Schiarirmi le idee” risponde, dopo averci pensato su. Tony ha trovato un cacciavite e torna dentro l'ascensore, osservando il pavimento come se gli avesse fatto attivamente del male.

“E dopo mangi?” chiede senza nemmeno guardarlo in faccia. “Sto -sto cercando delle viti che penso mi siano cadute qualche ora fa, perché lì non ci sono.” Indica con un dito uno spazio abbastanza ampio. Steve si porta la mano sulle labbra per nascondere un sorriso. “Comunque, sì, dopo esserti schiarito le idee, mangi?”

“Credo di sì.”

“Bene, perché, sai?, Peter è con Rhodey e quindi è molto possibile che io mi dimentichi di fare cose abbastanza basilari e-...”

“Come dormire?”

“Sì. Come dormire. E non posso saltare la colazione, altrimenti mi ritroverei veramente tante persone molto arrabbiate. Il fatto è che non mi va di chiederlo a Clint, perché poi Clint si mangia questo mondo e pure quell'altro, e poi si ritrova a vomitare nei bagni pubblici, o nel mio bagno, che è peggio, perché è come il suo cane. Finché gli metti cibo in tavola lui mangia. Non si sa autoregolare, è assurdo.” Alza lo sguardo dal pavimento per guardare Steve, che pensa di aver capito, ma non vorrebbe fare una gaffe. Tony si inumidisce le labbra. “Sì, insomma. Ti sto chiedendo, da bravo vicino di casa, se ti andrebbe di fare colazione con me, dopo esserti schiarito le idee, ovviamente, tra due o tre ore. Giusto il tempo di sistemare le ultime cose qui e... questo ovviamente se vuoi. Posso chiederlo a Clint.”

“Sì, ma poi Clint si ritroverebbe a vomitare nel tuo bagno” risponde scherzosamente, fa anche un mini gesto delle pistole con le dita, per poi ritrovarsi a sorridere divertito, quando Tony sbuffa una risata.

“Finalmente qualcuno che mi capisce” mormora e rimangono a guardarsi negli occhi, entrambi con un mezzo sorriso ed entrambi rimanendo completamente immobili, forse studiandosi a vicenda, forse cercando di capire la situazione. Nel caso di Steve è questo. È esattamente questo che sta succedendo, finché non sente un quantitativo non indifferente di adrenalina farlo entrare in uno stato di allerta. Non capisce se c'è un pericolo. Non capisce se un rumore in sottofondo ha risvegliato qualcosa. Apre la bocca per dire qualcosa e punta con il pollice lo spazio dietro le sue spalle.

“Io...” inizia e Tony scuote la testa poi annuisce.

“Certo!” esclama, forse un po' troppo ad alta voce. “Ci vediamo... ci vediamo dopo. Se non qui -se non sono qui, puoi tranquillamente bussare al mio appartamento. Anche perché penso tu abbia cose da fare, certamente hai cose da fare e certamente non ti voglio trattenere. Non -non è mia intenzione, davvero. Quindi, uh, vai a schiarirti le idee... o a tenerti occupato o a -sto straparlando. Okay.” Preme le labbra una contro l'altra e alza le spalle. “Ci vediamo. Dopo.” Poi chiude gli occhi come se avesse detto la cosa più stupida del mondo e Steve sorride. Sorride perché gli fa tenerezza. Perché in un qualche modo, in questi secondi in cui non riusciva a smettere di parlare, gli ha riscaldato un po' il cuore.

Fa un cenno con la mano, prima di girarsi e muoversi verso le scale e lo sente. Sente fisicamente Tony coprirsi gli occhi con la mano e mormorare un ugh. Questo lo fa sorridere un po' di più.





C'è un libro che Tony ha comprato a Peter. Lo ha comprato prima che lui potesse veramente capire le parole, quando ha iniziato la terapia con il professor Xavier. Si chiama Le mani di papà. Peter lo terrà con sé per tutta la vita.

Rhodey sorride e chiama Peter. Vieni qui, dice, prova a fare questi due passi! Vieni dallo zio!

Inizia elencando tutte le cose che le mani di un padre fanno. Ad esempio, non appena nato -nel caso di Peter e Tony è stato il giorno dopo, ma lo ha preso in braccio perché non piangesse più. E questa è la prima cosa al mondo che le sue mani hanno fatto come mani di un papà. Lo ha cullato. Lo ha tenuto in braccio.

Peter ride e lancia uno sguardo divertito a il suo baba.

Una delle altre cose che fanno le mani del papà è creare tanti oggetti per i propri bambini. O far fare loro vola vola, con la sicurezza che lì riusciranno a riprendere ogni volta. E questo Tony lo ha fatto. Lo continuava a fare.

Con le mani crea anche immagini sulla parete, e quelle ombre fanno ridere il bambino così tanto che non riesce a smettere di farlo.

Vogliamo provare ad andare dallo zio Rhodey? chiede baba, con un sorriso e allora Peter ride un po' di più.

Una delle altre cose che fanno è tenere in piedi il loro bambino, quando lui prova i primi passi per il mondo. E Tony lo ha fatto. Lo continua a fare.

Peter ride e fa un passo incerto avanti e Rhodey continua a chiamarlo dolcemente, con il suo pupazzetto preferito, che continua a fare qua qua. Poi ne fa un altro e Tony inizia ad attenuare il suo appoggio perché cammini. Peter ne fa un altro. Lo fa da solo. Il primo passo è seguito da passi più piccoli e veloci, che terminano quando casca tra le braccia dello zio, che lo prende in braccio e ripete bravo! Quanto sei stato bravo, Peter!

E Tony sorride e si avvicina a loro e anche lui dice bravo il mio campione! Vedi che c'è l'hai fatta? Questo è mio figlio!

Lo appunta sul calendario. 21 Aprile. I primi passi dell'indipendenza, dice sempre. Un minuto prima camminano incerti per il salotto, il minuto dopo, eccoli con la loro ribellione adolescenziale. Peter riderà della melodrammaticità, poi ribatterà con un non dovrei ribellarmi se le vostre regole non fossero così stupide! Finiva così Le mani di papà. Con un'enorme disegno delle mani del papà che lascia andare il proprio bambino.

“Va tutto bene, Tones?” chiede Rhodey, mentre Peter fa le pernacchie.

Tony non ne è molto sicuro, perché come cosa lo fa sentire un po' disperato, un po' felice e orgoglioso e un po' più in ansia. “Lo posso ancora tenere in braccio per un po' di tempo” risponde lui con mezzo sorriso e Rhodey gli scompiglia i capelli e torna a giocare con Peter.







Steve lo aveva ovviamente visto ancora intento a sistemare l'ascensore quando è tornato, ma ha preferito prima andarsi a fare una doccia. Perché la sua routine va in quest'ordine. Deve dire, però, che a questo punto si aspettava di non trovare Tony sul pianerottolo, sulla scala, a controllare le luci che indicano il piano in cui l'ascensore si trova. Allora forse era serio. Forse davvero si dimentica di fare le cose più disparate. E quindi era tornato nel suo appartamento. Ha provato a chiudere la porta con meno rumore possibile. Si era mosso verso la cucina e aveva controllato la credenza, il frigorifero e la frutta sul tavolo che aveva dimenticato di aver usato. Si muove con calma. Con precisione. Tutto questo fa parte della sua routine. E quando aveva finito di cucinare, aveva infilato il tutto in contenitori di plastica, aveva afferrato qualche cuscino, tenendoli sotto le ascelle.

Non ha avuto problemi ad aprire la porta. E non ha avuto nemmeno problemi a ritrovare Tony, che sta sistemando il bottone per chiamare l'ascensore, con il suo straccio. Deve essere stato trasportato da un flusso di coscienza.

Steve sorride.

Gli si avvicina, alza la testa e assottiglia lo sguardo e Tony ha di nuovo le cuffiette alle orecchie e lui non sa come attirare la sua attenzione. Arriccia le labbra e pensa che magari tutto questo è uno sbaglio. Sistema i contenitori sotto il mento e si schiarisce la gola. “Tony?” chiama con un tono incerto e pensa che probabilmente questo non sarebbe bastato per fargli togliere le cuffiette, ma l'uomo si gira velocemente verso di lui e sbatte velocemente le palpebre.

“Cosa?” inizia a mormorare, guardandosi intorno e poi tornando a guardare il cibo tra le mani di Steve e sembra solo molto confuso. “Che -okay, può essere una domanda davvero strana ma... che ore sono?”

Steve non può fare a meno di sorridere un po' di più da un lato. “Forse dovresti chiedere il giorno” risponde divertito e vede come Tony alza le sopracciglia e apre la bocca per dire qualcosa che viene bloccato immediatamente.

“Ah” esclama, sbuffando una risata. “Mi stai prendendo in giro, va bene.” Poi inclina la testa e controlla l'ora sul suo orologio da polso. Questo dettaglio sembra essere così fuori e allo stesso tempo così nel personaggio che Steve preferisce non pensarci troppo su. Sono le cose che ha imparato a ignorare, quelle che sembrano avere troppe risposte. Quando Tony alza di nuovo gli occhi, Steve scrolla le spalle. “Poteva andare peggio” commenta. “Potevo continuare a sistemare l'ascensore per decenni.”

“Costruire un ascensore coi propulsori” scherza Steve, alzando una spalla. Alza i gomiti e lascia che i cuscini cadano per terra.

“O un ascensore senziente!” Lancia un'occhiata al pavimento e sta per dire qualcosa, ma scrolla le spalle.

“E quindi iniziare la rivolta dei robot contro l'umanità.” Steve gli offre mezzo sorriso e qualche contenitore di plastica, che Tony afferra senza pensarci due volte. “Meno male. La stavo aspettando da quando ho visto per la prima volta Io Robot.”

“Anche io.” Schiocca le dita e poi fa un occhiolino. “Ho sempre voluto costruire dei laser per poter combattere i cattivi. E le pistole laser? Pensa poter costruire delle pistole laser? E poterle usare? Uau. E poi, ho sempre pensato, secondo me sarei troppo affascinante -affascinante con una cicatrice qui.” Si indica un punto vicino all'occhio. “Qui? Che dici? Sarei incredibile.”

“Le cicatrici hanno un fascino. Vero.” Indica il pavimento e i cuscini, e poi ci si siede, con le gambe incrociate e alza la testa, per guardare Tony che sbatte le palpebre lentamente, prima di sedersi accanto a lui, sistemandosi sul secondo cuscino.

“Perché?” Alza le sopracciglia. “Tu hai qualche cicatrice?”

“Tu?” chiede Steve, passandogli una forchetta e Tony sorride, gonfiando le guance. “Io parlo solo se tu parli” finisce, ridendo leggermente. Apre il contenitore col bacon e lo poggia tra loro. Alza un sopracciglio quando lo vede infilzare con la forchetta il cibo.

“Davvero?” chiede lui.

“Davvero” conferma Steve.

Allora Tony fa una smorfia e si indica dietro l'orecchio. “Caduto da un albero a sette anni” inizia, ruotando gli occhi. Indica la spalla. “Una volta io e Rhodey abbiamo litigato in un parco e siamo arrivate a darci pugni. Solo che era una lotta impari, no, davvero, perché lui è -Rhodey è sempre stato più forte. Solo che quella volta ho vinto moralmente, perché mi ha buttato giù per il campo da baseball e sono finito contro una trave.” Scrolla le spalle e si riporta in bocca un altro pezzo di bacon. “Non ne mangiavo da un po'. Ultimamente mangio molto tofu. È facile da fare, il tofu. Bruce, poi, ha questa cosa del voler essere vegetariano e Jarvis pensa che io non mangi abbastanza verdure, il che è stupido. Mangio molte patatine fritte.” Sbuffa e una sua mano passa distrattamente sul petto. C'è un momento di silenzio, come se stesse valutando l'idea di continuare a parlare oppure no. “Tocca a te, artista commerciale.”

Steve fa una smorfia con le labbra, spostandole di lato. “Beh, facendo il soldato mi sono guadagnato molte ferite -e cicatrici.”

Tony smette di mangiare e aggrotta le sopracciglia. Mette insieme un altro pezzo di puzzle, poi torna a sorridere. “Davvero?” chiede con un tono leggero. “Sei stato un soldato e adesso fai il graphic designer? Eri un soldato e ti hanno mandato proprio a Brooklyn per…? Cosa ti porta a Brooklyn?”

“Sono nato a Brooklyn” risponde Steve con semplicità e inizia anche lui a mangiare, sotto lo sguardo attento dell'altro. “Penso non possa farmi che bene.”

“Nato e cresciuto a Brooklyn?”

“Sono un ragazzo di Brooklyn DOC.”

“La cosa divertente è che ne sei anche fiero.”

“Cosa? Non dovrei -e da dove vieni tu?”

“Malibù.”

“E Malibù dovrebbe essere meglio di Brooklyn?” chiede Steve, con le sopracciglia alzate e la bocca aperta in un sorriso anche troppo divertito. Tony posa la forchetta sulle labbra e nasconde un sorriso che assomiglia molto a quello di un bambino.

“Malibù è cento volte migliore di Brooklyn. C'è il sole. Fa caldo. C'è il mare. E ci sono sicuramente molti meno pseudo-intellettuali che se ne vanno in giro con gli occhiali da sole quando piove e le maniche corte quando nevica.”

Steve aggrotta le sopracciglia, ma decide di non avere abbastanza elementi per ribattere a questa critica. Quindi scuote la testa e alza le mani in aria, come ad arrendersi. “Allora non capisco cosa tu stia facendo qui” dice però.

E Tony arriccia le sopracciglia e fa un leggero broncio, aprendo un secondo contenitore. Pancake. Ovviamente. Steve gli passa lo sciroppo d'acero e Tony inizia ad affondarli in questo come se non ci fosse un domani. Sbuffa e alza lo sguardo verso di lui. “A Malibù non ci sono gli pseudo-intellettuali” ammette alla fine, e la cosa fa scoppiare Steve in una risata improvvisa. Si posa una mano sul petto e si tira leggermente all'indietro. “Sì, sì, certo. Bravo. Prendi in giro.”

“Non volevo.”

“Nah.” Tony mangia velocemente, come se stesse cercando di non perdere tempo. Parla e mangia. E nel frattempo sembra calcolare. Fa molte cose in contemporanea. Il multitasking, immagina. Muove in continuazione le mani. Gesticola ampiamente. Parla ad alta voce. “Per il mio progetto ho bisogno delle menti più brillanti di questa e della prossima generazione. E purtroppo sembra che il polo culturale statunitense sia questo. Quindi devo sopportare neve e gelo, per il bene di un futuro migliore.”

“La start-up?”

“Sì. Beh, sarà la start-up ancora per poco. Serviva, a me e Bruce, il mio socio, capire in che cosa siamo bravi. Quando Scott si è unito a noi, non ho dormito per una settimana, e non solo perché Peter non faceva altro che svegliarsi e piangere, ma perché avevo bisogno di capire che cosa potesse caratterizzare quest'organizzazione. Bruce è ferrato nelle biotecnologie mediche, io sono un ingegnere meccanico e Scott è un ingegnere informatico. E ci siamo resi conto di essere incredibilmente bravi con le nanotecnologie. Quindi, per prima cosa abbiamo programmato ognuno una app a pagamento, per poterci finanziare l'avvio. Una app per aiutare studenti in matematica, una app per controllare le funzioni biologiche del proprietario dello smartphone attraverso sensori intelligenti, e Scott ha progettato un gioco fantasy che va ancora forte. Partiti da lì, abbiamo iniziato a progettare i nostri prodotti.” Ha smesso lentamente di mangiare. Steve se ne rende conto perché ci sono veramente molti pancake ancora e lui riesce a mangiare al suo quieto ritmo, mentre lo guarda gesticolare e muovere la mano con la forchetta sempre più velocemente. “Sono per lo più prodotti per i servizi pubblici. Macchinari per gli ospedali, ad esempio. Attrezzature per proteggere -E c'è un ente nazionale che le compra. Per ora va bene. Mi fido di quest'ente. Ma non è questo quello che vogliamo fare.”

“No?”

“Vogliamo rendere alcuni settori più consapevoli. Far capire alle industrie che quello che fanno ha un impatto sull'ambiente circostante. E con questo parlo delle emissioni di gas tossico, com'è successo per colpa della Rand, ma anche quello che sta facendo Bishop con il suo doppio gioco politico...”

“O la Stark Industries con la vendita di armi ai nemici.”

Tony si tira indietro come se fosse stato colpito al petto e sbatte velocemente le palpebre, prima di annuire gravemente. “Già” riprende a parlare lentamente, guarda i pancake e ne taglia un pezzettino, di malavoglia. “Un mio amico è -penso che questo lo sappia soltanto chi è stato là, vero?” Lo vede mettere insieme un altro tassello del puzzle. Poi annuisce. “La Stark Industries deve prendersi molte responsabilità.” Sospira, accarezzandosi la fronte con due mani. “Ma non lo farà, come non lo farà nessuna di queste industrie finché qualcuno non le metterà di fronte a quello che stanno facendo.” Ride, forse per sdrammatizzare la situazione. “E il primo passo è detronizzarle dal loro monopolio.”

“Una start-up alla volta?” chiede Steve, con le sopracciglia aggrottate.

“Come hai fatto a scoprirlo?” chiede Tony con un falso sorriso divertito. “Beh, sì, vedi le start-up sono fatte per non durare a lungo in quanto start-up. Quindi fisicamente non possono essere un'eredità. Ma socialmente possono esserlo. Qui non parlo di fare beneficenza a persone che poi non vedrai. Io -non vivo di questo. O almeno, non vivrò di questo per molto. Ma ci sono delle idee là fuori che devono essere portate avanti, credo. Se riuscissi a mettere insieme queste due parti -se potessi finanziare le idee che potrebbero aiutare sotto questo punto di vista, mentre alcune persone di fiducia lavorano per togliere il potere politico dall'altra parte dell'economia...”

Steve sorride. “Lo trovo ammirevole.” Sente di nuovo quel calore nel petto, come se finalmente si fosse smosso qualcosa in lui. Mastica lentamente e annuisce. “E se mai succedesse qualcosa, potrai sempre sistemare ascensori” scherza e Tony ride, scuotendo la testa.

“Bene, ho delirato anche per troppo tempo” decide, battendo le mani sulle cosce. “Tocca a te.”

“Tocca a me?”

“Certo, ovviamente, tocca a te. Mi hai fatto blaterare sul perché sono tornato a Brooklyn e che cosa sto facendo -e spero che tu non mi prenda per un pazzo che sta gridando alla cospirazione e...”

“So quello che vuol dire. Tutto quello che hai detto.” Fa una pausa. Non sa quanto oltre può andare nel parlare. Sa che doveva essere qualcosa di leggero e invece questa conversazione è diventata intensa. Intensa e sicura. Tony si fida facilmente. Anche questo sembra un paradosso. “Ho aspettato per settimane, insieme alla mia squadra che una bomba con sopra il nome Stark ci uccidesse. E pensavo che lo avrebbe fatto. E ci sono persone che lì, in quella buca, ci sono rimaste. Ma quando sono tornato qui, Howard Stark era su tutti i giornali, su tutte le televisioni. Lo acclamano come eroe nazionale. E io invece so qual è la verità. Hanno dato dei pazzi a troppe persone che hanno detto la verità. Non farò la stessa cosa.”

Tony lo guarda con un'espressione addolorata, prima di cercare di forzare un sorriso. Posa delicatamente la forchetta vicino al contenitore e si porta una mano trai capelli. “Bene” riesce a dire dopo un po'. “Sarebbe stato brutto e stigmatizzante essere chiamato pazzo” ride nervosamente, grattandosi dietro l'orecchio. Deglutisce. È nervoso. “La Stark Industries prenderà le sue responsabilità, Steve.” Annuisce più volte, prima di alzarsi in piedi. “Okay, ehm, io penso di dover andare a dormire.” Lancia un'occhiata alle sue spalle all'ascensore che, probabilmente ai suoi occhi è pieno di difetti, ma che Steve trova perfetto. “Prima che torni quel mostriciattolo e mio figlio, sai?, però, è stato un vero piacere parlare con te. Lo dico sul serio. Fai dei pancake strepitosi ed era veramente molto tempo che non mangiavo bacon.” Prende i suoi attrezzi dal pavimento e li butta poco delicatamente nella cassetta degli attrezzi. “Grazie.” Sembra sincero. Si è fermato, lo ha guardato negli occhi e sembra sincero come poche altre persone potrebbero esserlo.

Steve lo osserva, seduto sul cuscino, con la fronte corrugata e sente di non capire la situazione, ma di dover dire: “Mi piace parlare con te.”

Tony alza un lato delle labbra, poi fa un gesto con la mano, che deve essere sicuramente un modo per salutarlo, prima di rientrare nel suo appartamento. Steve non vorrebbe dire che il suo comportamento sembra un modo per scappare via. Ma sembra un modo per scappare via.

Non ne capisce il motivo. Sistema i contenitori di plastica, infilandoli uno dentro l'altro, prende i suoi cuscini e torna verso il suo appartamento. Nel farlo, si ferma a guardare il campanello della casa di Tony. Non lo fa consciamente. Non lo fa perché vuole farlo. Lo fa solo perché è un suo istinto farlo. Perché sono le cose che lui farebbe normalmente.

Legge l'etichetta e apre la bocca in stupore e aggrotta le sopracciglia perché non riesce a capire. Stark. Tony Stark?

Tony. Stark. Tony Stark?

Oh, ora capisce.

 

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Capitolo 3
*** Steve e Tony e Peter ***





Peter è un parlatore tardivo.

Tony non vorrebbe leggere troppo in questo dettaglio, ma non è colpa sua. La sua mente corre veloce. Ha letto troppi libri sulla crescita dei bambini per sapere che, proprio perché la prima parola di Peter sia arrivata soltanto pochi mesi prima, è possibile che suo figlio abbia problemi di attenzione o di comunicazione. Potrebbe avere un disturbo del linguaggio. O potrebbe essere affetto da autismo. O potrebbe essere un bambino affetto da ADHD.

“O potrebbe essere un parlatore tardivo” ribatte Scott, davanti al suo computer, con la mano chiusa in un pugno e le sopracciglia aggrottate. Bruce annuisce distrattamente per dimostrare il suo sostegno e Tony si gira a guardare Peter, intento a giocare con il cucchiaio con cui poco prima ha mangiato dell'omogeneizzato alla frutta. “Sai quante persone in questo mondo hanno iniziato a parlare tardi? L'importante è che a due anni sappiano dire papa ti voglio bene. Tutto il resto? Roba inutile.”

“Baba!” grida Peter e Tony inclina la testa e lo guarda muovere le gambine nel seggiolino e tenere alte le braccia. Peter ride quando si rende conto di aver ottenuto la sua attenzione. Tony arriccia le labbra e poi lo prende in braccio, per pulirgli la bocca dalla frutta e per sentirlo vocalizzare un po' più da vicino. E dire. Sembrava che sarebbe stato un parlatore provetto.

“A trentasei mesi fanno la diagnosi” borbotta, togliendogli il bavaglino e facendo boccacce a suo figlio, che risponde divertito. “Peter ne ha diciotto.” Indica un lato della stanza, ma il bambino rimane a fissare il suo dito per tre, quattro, cinque secondi prima di seguire la direzione. Corruga anche la fronte quando non vede niente di interessante sulla parete.

“È davvero così importante?” chiede Bruce, girandosi verso di lui e lasciando il tablet sul tavolo. Tony sbatte un paio di volte le palpebre, poi gli lancia uno sguardo non molto convinto e sospira.

“Non è come pensi” risponde. Torna a fare boccacce a Peter, che ha comunque perso interesse. Ha preso a giocare con il tessuto della giacca. Buon intenditore, ovviamente. Con un padre come il suo. “Voglio solo essere pronto. Per qualsiasi evenienza, okay? Così Peter si potrà sempre vantare di aver avuto il papà più incredibile del mondo. Vero, Peter? Vero campione?” Gli fa fare dei piccolissimi salti tra le sue braccia e Peter ride, allungando le braccia verso di lui.

“Baba” risponde e ride.

“Senza offesa, eh, Scott” aggiunge in un secondo momento.

“Uhm? Oh, sì. Io rimango il papà cool perché sono stato in prigione.”

Bruce scuote la testa e non sembra molto divertito dalla frase, ma decide, probabilmente per quieto vivere, di non commentare. Torna al suo quaderno e alla sua matita. Tony lascia un bacio sulla fronte di Peter, che risponde con un'altra risata, prima di essere infilato nel suo seggiolino. “Anche lo zio Clint è stato in prigione.” Arriccia le labbra. “Ma lui non potrà mai essere più figo dello zio Scott, vero campione? E nessuno dei due può essere più figo del tuo papà che ti costruirà un robot. Vero?”

Peter apre la bocca e ride.







Natasha si porta alla bocca una manciata di patatine, mantenendo il contatto visivo con Steve, che la sta osservando come se fosse la cosa più disgustosa che abbia mai visto. “Tony?” chiede, lasciando cadere delle briciole ai suoi fianchi. “Tony Stark?” chiede un'altra volta, spingendo contro il fianco di lui con una scarpa.

Steve ruota gli occhi e calcola mentalmente quanto tempo ci vorrà per ripulire tutto dal disastro che lei sta combinando volutamente. “Sì” sbuffa dopo qualche secondo. Natasha ha preso a mangiare con la bocca aperta. “Come puoi essere così sciatta?” le chiede e lei scrolla le spalle e continua a masticare a bocca aperta. Lo fa veramente soltanto per farlo irritare.

“Ovviamente conosco Tony” risponde dopo averlo studiato per qualche secondo. “Suo figlio è in cura da me.” Gioca con la caviglia, facendo ruotare il piede. “Siamo amici.”

“Non pensavo tu avessi amici” ribatte Steve, con una smorfia.

“Sei tu che non hai amici” ride lei, tirando su la testa e poggiandola sulla mano aperta.

Steve arriccia le labbra e poi sospira, lasciando correre le parole di lei. “Non potresti -ti ricordi quella cosa che hai fatto per tranquillizzarmi? Non puoi fare quella cosa -scrivermi un rapporto su Tony Stark? Come hai fatto con Clint e anche con -il rapporto su Sam era veramente molto bello. Dettagliato. Profondo. Potrebbe essere un best seller.”

“Lo so, sono sempre molto brava a stilare profili di persone. Dovrei renderlo il mio lavoro.” Però sorride. Torna a mangiare le patatine fritte, mezza sdraiata, con le scarpe sui pantaloni di Steve, perché in fondo a nessuno piacciono i suoi pantaloni.

“Beh, perché non me ne puoi fare uno su Tony Stark?”

Lei alza un lato delle labbra. “Perché dovrei farlo?”

“Perché…” Si blocca. Perché. Non riesce a capire pienamente il perché. Perché non riesce a inquadrarlo. A comprenderlo. Però, poi, allo stesso tempo, riesce a capirlo. E lui di solito su certi dettagli preferisce sorvolare. Ma quando parla con Tony si sente in pericolo. E poi completamente al sicuro. Com'è possibile? “Progettava le armi della SI?”

“Ovviamente.”

“Ed è amico o nemico?”

“Cosa?” Natasha scoppia a ridere, tira la testa indietro e si mette a sedere, tirando indietro i piedi. Steve si è seduto accanto a lei solo perché non sporcasse il suo divano. Adesso lei ha le scarpe sui cuscini e sta continuando a sorridere. Fa paura. “È un civile, Steve.”

“Lo è anche Norman Osborn. Harnold Meachum. Victor von Doom e-...”

“Non penso che ora Victor von Doom sia un civile” obietta lei, con un dito alzato. Continua ad avere questo sorriso di scherno, che Steve mal sopporta, ma che si rende conto di non poterle togliere dal viso. “Non più. Sai, con la faccenda del paesino in…”

“Tu sai quello che voglio dire.”

“Ovviamente lo so” ammette Natasha, scuotendo la testa. “Ma non vorrai paragonare Tony, Tony Stark!, con Victor von Doom!”

“Ti ho solo chiesto se è amico o nemico. E di stilarmi un rapporto su di lui.”

Natasha ruota gli occhi e gli dedica una delle sue migliori occhiatacce, cosa che fa abbassare lo sguardo a Steve. “Non scriverò un rapporto su Tony, Steve” dice alla fine. “E non siamo in un campo nemico, in cui devi avere un rapporto di ogni persona che incontri.”

“Ma per Clint lo hai fatto!”

“Era uno scherzo!”

“Uno scherzo di trentadue pagine?”

“Le cose o le fai bene o non le fai.”

Steve sbuffa e guarda dritto davanti a lui. Natasha incrocia le gambe e sbuffa, passandosi una mano sulla guancia.

“È una brava persona” lo rassicura, dicendoglielo come se fosse un segreto. “Un po' narcisista e quando si tratta di Peter un bel po' ansioso, ma è una brava persona, va bene?”

“E vuole davvero…?”

Natasha alza una spalla. “Ha ancora l'ottimismo degli scienziati.” Sospira, facendo un gesto vago con la mano. “Pover'uomo” borbotta, prima di ricominciare a mangiare patatine.






I tasti sono bianchi e neri, e questo è il primo ricordo di Peter.

È seduto sulle ginocchia del suo baba e tiene le mani sulle sue mentre lui suona il pianoforte. Ha mani veloci, il suo baba e anche una barba che pizzica. Dopo qualche secondo toglie le mani da sopra la tastiera e Peter preme tutti i tasti che può premere con le sue due mani. Esce fuori un bruttissimo suono, non sembra lo stesso strumento che ha suonato baba, quindi Peter aggrotta le sopracciglia e alza lo sguardo.

Baba ride. Allora ride anche lui.

“Howard non è stato un padre. Come può essere un nonno?” chiede a Jay e Peter aggrotta le sopracciglia.

“Dia almeno alla signora Stark l'occasione di entrare di nuovo nella sua vita.”

Peter alza di nuovo il mento per guardare il suo baba che gli sorride. Allunga il braccio per prendergli il naso. Baba è più veloce a spostarsi, però. Per questo Peter ride. Apre la bocca e posa la testa sulla pancia del suo papà e sente tutti i rumori del suo stomaco e ride di nuovo.

Questo è il primo ricordo di Peter.






Steve suona alla porta di Tony e nessuno risponde. Lo fa una volta, con le nocche, e nessuno risponde. Quindi aggrotta le sopracciglia e si muove nervosamente sul posto, perché non saprebbe cosa dovrebbe fare. Forse tornare a casa sua. C'è un tonfo dietro la porta, allora Steve aggrotta le sopracciglia e prova a bussare di nuovo, dicendo: “Va tutto bene?” C'è un altro tonfo e Steve sta per posare tutto per terra e sfondare la porta, ma questa viene aperta prima che lui possa farlo. Tony lo guarda col mento insù, la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati. Fa un passo indietro. “Ho sentito un tonfo” dice Steve e Tony aggrotta le sopracciglia e fa un passo indietro.

“Mi è caduto un prototipo dalle mani.” Cerca di guardare dietro le sue spalle e tiene una mano sul pomello. È pronto a chiudere la porta, per qualche motivo. Rilassa le spalle solo in un secondo momento, quando vede il cibo tra le mani di Steve. A quel punto sembra leggermente confuso. “Tutto bene?” chiede.

“Uhm? Oh, sì, ovviamente. Volevo solamente -lo so che sei Tony Stark.”

“Non lo nascondo.”

“Sì, lo so. Quello che volevo dire è che dopo la storia della bomba -penso che forse tu ti possa… o che io… non so la... okay, questo è più difficile di quello che pensavo… Io…”

“Cos'hai lì?” chiede Tony, avvicinandogli si è lasciando andare il pomello della porta. “Non sembra una torta di mele.”

Steve sorride nervosamente, accarezzandosi il collo. “Avresti preferito una torta di mele?”

“No.” Tony ride, portandosi una mano sulle labbra. “No, solo che mi sembrava più nel personaggio. Una torta di mele. Il dolce preferito dell'America. Cose così.”

“Perché avrei dovuto…?”

“Invece è un… uhm…” Assottiglia lo sguardo, per poi stropicciarsi gli occhi. Non sembra vederci bene. La luce del pianerottolo scatta e si ritrovano al buio. Tony ride. “Una torta di patate?” chiede comunque, con la testa inclinata e Steve si morde via un sorriso.

“Un pasticcio di patate” lo corregge e Tony allunga la mano per arrivare all'interruttore sul muro. Con lo stesso movimento chiude la porta alle sue spalle. “La ricetta Rogers” propone, allungando il contenitore. “Sono venuto adesso perché è tardi, quindi, ho pensato, magari adesso Peter sta dormendo e non disturbo e poi non so se -e volevo essere sicuro che tra noi non fosse strano.”

Tony prova a sorridere, mentre aggrotta le sopracciglia. “Strano” ripete lentamente con un cenno della testa.

“Sì, per la cosa del -non sono un pazzo che si è trasferito qui per vendicarsi, quindi…”

“Questo lo so.” Scrolla le spalle, sorride con una punta di senso di colpa. “Me lo ha detto Natasha che non lo sei” ammette. Alza le mani in aria e poi sorride genuinamente. “Dice anche che sei una brava persona.”

“Dice la stessa cosa di te.”

“Quindi tutt'e due conosciamo Natasha. E siamo tutti e due delle brave persone, secondo lei. Un urrà per noi” ride Tony, prima di prendere il contenitore di plastica dalle mani i Steve. “Voleva scrivermi un rapporto su di te.” Scuote la testa.

“Stava scherzando.”

“È difficile da dire...”

“Vero.”

Ridono tutti e due. Tony si inumidisce le labbra e guarda verso il basso. C'è un secondo di silenzio è la luce del pianerottolo scatta di nuovo e si ritrovano di nuovo al buio. “Beh, io…” inizia a dire, ma Steve prende un respiro e vorrebbe fermarlo con la mano, ma si ferma giusto in tempo.

“Hai senso” dice, e questo funziona come potrebbe funzionare una mano sulla spalla. Tony torna ad alzare leggermente il mento per poterlo guardare negli occhi.

“Cosa?” chiede in un fil di voce.

“Tu hai -da quando sono tornato, tutto questo non ha avuto senso. Brooklyn non ha senso, okay? Non ha senso le cose che passano in televisione. Internet è completamente senza senso! I negozi, le persone!, tutto è così difficile da capire e da riordinare nella mia testa, okay? Vedo spie che si prendono cura di bambini. E persone che non tornano e… A volte mi chiedo se la lingua sia la stessa che parlavo io. E poi invece tu hai senso. Sei la prima persona che ha senso, per me. Riesco a capirti. Linguisticamente. E mi è piaciuto parlare con te.” Si morde l'interno della guancia e prende un respiro. “Pensavo che potremmo… uhm, continuare a parlare. Un'altra volta. Quando vuoi. Se vuoi. Io non-”

“Vuoi entrare?” lo invita Tony, interrompendolo. Apre la porta con una semplice spinta e c'è una luce calda alle sue spalle. Loro due, sul pianerottolo sono ancora al buio.

“Scusami?”

“Per mangiare il pasticcio di patate” risponde lui. “Non possiamo certo mangiarlo sul pianerottolo. Non con la luce che si spegne quando vuole lei. O Clint.”

“O Clint?”

Tony scuote la testa. Steve è sicuro che non vuole sapere. Alza la mano, in un cenno perché l'altro si fermi dallo spiegargli qualsiasi cosa e poi fa spallucce con un piccolo sorriso. “Era… volevo solo portarti il pasticcio di patate. Perché, ugh, dovrei andare a… dormire. Ma davvero, mi piacerebbe… e poi non vorrei addormentarmi mentre… e quindi preferirei… perché… sì, okay. Prima o poi finirò una frase. Voglio dire che…”

“Non ti devi giustificare” ride Tony, ed è immerso in quella luce calda che Steve sente ingiusto raggiungere. Per ora.

Si gratta il retro del collo. “Il fatto non è che non voglio, davvero.”

“Okay, non ti devi preoccupare di -non ti stavo chiedendo di venire a casa mia a fa-…”

“Non ci avevo nemmeno pensato!” lo interrompe Steve e si rende conto di avere le mani aperte tra loro. Vuole dimostrare di essere innocente. Di non aver pensato a… Non lo ha fatto, davvero. Tony ride di nuovo e scuote la testa. “Non era certamente mia intenzione. Non volevo sottintendere niente e -oh mio Dio.” Si accarezza la fronte con due dita e tutto questo è solo un continuo cadere più in basso.

“Questa è la conversazione più surreale e imbarazzante della mia vita” dice in una risata. “È incredibile.”

“Vorrei poter dire la stessa cosa” borbotta Steve in risposta è la cosa fa solo ampliare il sorriso di Tony, che inclina teneramente la testa. Forse Steve ha un leggero broncio. Forse la conversazione non sta andando come dovrebbe andare. “Beh, allora io vado.” Indica con un dito il buio accanto a lui. Lo fa in modo impacciato.

“Allora tu vai” gli fa eco Tony, sempre con quel mezzo sorriso. Steve fa un passo di lato e assottiglia lo sguardo per essere sicuro di non aver nessun ostacolo nel suo cammino. Certamente non accenderà la luce per due o tre passi. “Comunque, grazie” lo saluta Tony, facendo un passo indietro e chiudendo la porta.

E adesso è tutto buio sul pianerottolo.







Questo ricordo viene da un video, il che è strano, perché è come se qualcuno gli avesse fatto vedere la sua vita con altri occhi. Lo ha fatto zia Janet.

La vita è molto bella e a Peter piace tantissimo la sua casa. Nella sua casa ci sono le scale e anche gli ascensori. Di solito lui prende le scale, perché a zio Rhodey piace così. A casa sua ci sono lui e baba e zio Rhodey. Baba dice che zio Rhodey non paga l'affitto ma che è okay, perché gli vuole bene. Zio Rhodey dice che sopportarlo è un pagamento. Poi ridono tutti e due. E zio Rhodey c'è in ogni suo ricordo di quando era molto piccolo. È stato lui che gli ha insegnato a nuotare. Lo ha accompagnato anche il primo giorno di scuola, insieme a baba. Poi però non sono solo loro tre. C'è anche Jarvis, che Peter a volte chiama Jay e a volte chiama nono. Quando lo chiama nono gli occhi di Jay diventano umidi e sorride. Ha deciso che lo chiamerà così più spesso. Poi c'è zia Janet e la cugina Nadia, che sorridono sempre. C'è lo zio Scott e la cugina Cassie, e lo zio Scott gli piace, ma Cassie gli morde sempre l'orecchio, quindi preferisce quando non sta lì. C'è zio Clint, che dice che deve fargli da baby-sitter e che non lo deve chiamare zio, perché lo fa sentire vecchio. E zio Bruce. E, ultimamente, con lo zio Bruce c'è il suo fidanzato Thor, che è Thor e basta. È bella la vita, perché ha tanti zii e vuole tanto bene al suo baba.

“Ma guarda te” dice zia Janet dietro la macchinetta fotografica. “Questi bei tre ometti.” Ride. “Peter e i suoi papà.”

Allora Peter scoppia a ridere, mostrando i denti e lancia un'occhiata al suo baba. “Nooo!” dice, allungando la o e con il naso arricciato. “No” ripete e si copre la bocca con le mani. Gli cade dalla testa il berretto del festeggiato. Sta facendo gli anni. Tre. Non ci sono molti bambini a festeggiare. Lui è le sue cuginette. Zio Bruce gli ha fatto una provetta per regalo. (Peter la conserva neanche fosse un cimelio.)

“Perché no?” chiede zia Janet, mentre zio Rhodey e baba ridono e si inginocchiano per parlare faccia a faccia. Lo fa anche la zia. “È strano avere due papà?”

Tony la fulmina con lo sguardo. Peter non si rende conto di questo dettaglio, perché sta contando sulle dita. (Davvero, il video è come guardare la sua vita da altre paia di occhi.) “Nooo!” ripete lui col suo tono cadenzato e prende la mano dello zio. “Zio Rhodey è padrino!” spiega, alzando lo sguardo. “Baba è papà. E zia Jan è madrina.”

“E quindi?”

“Quindi sei madrina, non mamma!” Si tappa la bocca di nuovo con le due mani, per coprire la sua risata. “Non puoi fare tutti e due.”

“E zio Clint? Potrebbe essere il tuo altro papà?” chiede divertita zia Janet.

Peter si porta una mano sotto il mento e assottiglia lo sguardo, puntandolo verso l'alto. “Uhm” inizia. “Preferisco Thor come nuovo papà!” decide con un enorme sorriso e tutti scoppiano a ridere.

Baba gli scompiglia i capelli. “Oh, ma davvero?” gli chiede, facendogli il solletico e Peter lancia un grido e scoppia a ridere con tutti i polmoni.

Poi il video di blocca. È finito.

Quanto è strano quando qualcuno ti racconta un tuo ricordo.







“Come ti senti?” chiede con l'orecchio attaccato al cellulare è una mano stretta sul tavolo. Le nocche sono diventate bianche. Sta cercando di tenere tutto sotto controllo. Le parole. La voce. “Secondo te, va tutto bene?”

Bucky risponde a monosillabi e solo qualche volta. Dice: “Il braccio mi prude.” E poi grugnisce. “Lo chiamano arto fantasma ed è un vero schifo.” Della persona che lui ricordava rimane veramente poco, ma questo non toglie che continui a volergli bene. Che vorrebbe per lui solo un altro pom di felicità.

Steve sospira e si stropiccia gli occhi con le dita, prima di tornare a guardare la finestra. Rimangono in silenzio. C'è il rumore del frigorifero nella cucina, che scatta appena sono stati superati i due gradi centigradi. C'è anche il rumore in sottofondo delle strade, sempre loro. E una lampadina che è rimasta accesa e che è ad un passo così dal fulminarsi. Ma loro due non parlano molto. Rimangono in silenzio ad ascoltare ognuno il vuoto dell'altro. Ci sono poche persone in questo mondo con cui lo puoi fare. C'è chi lo spazio cerca sempre di riempirlo. Steve si inumidisce le labbra e decide che non vuole muoversi dalla sua posizione, nel caso possa cadere la linea. La linea non cade mai a Brooklyn ma è comunque un suo modo per tenere tutto sotto sotto controllo. Non si muove.

“Stavo pensando” dice Bucky, dopo un po'. “A quella volta che siamo andati in Chiesa con tua mamma. Avevi riempito le scarpe di giornale, per sembrare un po' più alto e un po' più grande.”

Steve non risponde perché sa che non deve rispondere per forza. Muove la mano, trattiene il respiro. Poi torna a respirare lentamente, profondamente. Bucky si è preso una lunga pausa. Si chiede se il suo ragionamento fosse finito lì. Se il suo fosse un solo e semplice rivangare il passato.

“Sei finito a prendere pugni e calci dai chierichetti.”

“Uau. Davvero?” gli chiede, scuotendo la testa e poi sospirando. “È di questo che vuoi parlare?”

“Il giornale nelle scarpe non ti hanno fatto sembrare più grande” continua Bucky con lo stesso tono. “Però volevi veramente prenderle da quei chierichetti.”

Steve sbuffa. “Sono felice che ti stia tornando il senso dell'umorismo” commenta sarcasticamente e sente Bucky ridere. Ridere. Non lo sentiva ridere da mesi. Sbatte lentamente le palpebre e guarda verso il basso. Sam sta facendo un ottimo lavoro. Sorride. Bucky che ride.

“Tu non ne hai mai avuto uno” risponde dopo qualche battito e poi tornano in silenzio, a sentirsi non parlare per qualche minuto. “Forse sarebbe ora di trovartelo, invece di dare il tormento a me, non credi?”

“Io non ti do il...”

“Fatti una vita” lo interrompe. “Lo dico sul serio. Esci da quel tuo appartamento e vivi una tua vita, invece di chiamare me. In continuazione.”

“Tu sei il mio migliore amico” risponde ostinatamente Steve, con le sopracciglia aggrottate e lanciando uno sguardo veloce al cellulare. “Io non potrei…”

“È proprio per questo che te lo sto dicendo.” Bucky dall'altra parte del telefono interrompe la comunicazione. Attacca. Steve rimane in silenzio, a guardare il vuoto davanti a lui. Sospira. Non era esattamente così che sperava che sarebbe andata la chiamata.

Però Bucky ha riso. Quindi, lui qualche passo avanti lo sta facendo. Almeno lui.







Ci sono giorni in cui baba ha tanto da fare e non può stare con Peter. Gli lascia un bacio sulla fronte, dice che gli vuole veramente tanto bene e lo lascia con zio Clint, o con zio Rhodey, e Peter ha imparato tante cose che sa dai suoi zii.

Zio Rhodey gli lancia una palla da baseball e Peter la prende al volo. Rimane a guardarla nel suo guantone e poi alza lo sguardo solo per sorridere verso lo zio, che ride con la bocca aperta. È la prima volta che riesce ad afferrare una palla da baseball. Allora alza le braccia e esulta e zio esulta insieme a lui, in mezzo al parco. Baba lo deve proprio vedere! Corre in circolo e ride e ride e ride. Poi piange. Non riesce ancora a capire il perché ma scoppia in un pianto disperato. Zio Rhodey corre verso di lui, lo prende in braccio gli fa ssh, ssh, e gli chiede perché piange. E Peter risponde che avrebbe voluto che anche baba lo vedesse, ma che baba ultimamente è veramente tanto impegnato.

Allora zio lo sistema sul braccio e dice che baba lo può vedere quando vuole e che comunque è un po' offeso, perché c'è lui. C'è il suo padrino. E Peter alza un lato delle labbra e dice sì, in fondo può andare bene. Zio Rhodey gli scompiglia i capelli.

Dice beh, lo sai che se non c'è baba ci sono io. Su di me puoi sempre contare.

C'è una foto di Peter e zio Rhodey al parco. Peter è un po' più grande. Il guantone gli sta un po' più stretto. Zio Rhodey sorride e baba sta dietro all'obiettivo. Ha sempre detto che loro son due delle persone che ama di più al mondo.







“E tu, Steve?” chiede Sam, con le mani intrecciate e la voce grave. “Hai parlato con qualcuno?”

Natasha alza un sopracciglio e si gira vistosamente verso di lui. Aspetta la sessione di gruppo per spettegolare, lo ha sempre detto. Quando Steve le ha detto che lei non sembra il tipo di persona che spettegola (non come lo fanno le altre persone), lei ha riso e ha cacciato via le sue parole con una tranquillità disarmante. Questo non vuol dire che Steve non ha ragione. Natasha estorce informazioni. Spettegolare è uno scambio di informazioni. E Steve sta rimanendo in silenzio, sta guardando dritto davanti a sé, senza dire nulla. “Uhm” riesce a dire, sistemandosi sulla sedia.

“Ha parlato col papà” fa la spia Natasha, indicandolo. Gli dedica un sorriso divertito e poi torna a poggiarsi allo schienale della sedia, con le braccia incrociate. Sam ha provato a lanciarle un'occhiataccia, ma le occhiatacce non hanno valore né conseguenze su di lei.

“Questa chiacchierata,” prova il ragazzo, attirando l'attenzione di Steve. “Come ti ha fatto sentire? Che voto gli dai?”

Steve ci deve pensare. Muove la caviglia, posa i gomiti sulle cosce e sospira. “Alla prima darei un discreto” risponde dopo un'attenta analisi. “Perché abbiamo parlato e sembrava una conversazione normale. Alla seconda darei insufficiente. Perché lui ha detto di non aver mai avuto una conversazione così surreale.”

“Tipico” borbotta Natasha. “Gli hai chiesto i voti” dice girandosi si verso Sam, scuotendo la testa. È un gioco che gli piace, far dubitare Sam dei suoi metodi. Sorride di lato e Sam sospira, mentre Steve inclina la testa e tiene le braccia incrociate.

“In cui un discreto sarebbe un sette, giusto?” la ignora il ragazzo.

Steve non ne è molto sicuro, ma crede che Luke stia ridendo, con la mano che gli copre tutto il viso. Calcola le possibilità che tutto questo finisca con lui che non deve dire neanche una parola. Le probabilità sono veramente poche. “Direi di sì.”

“E un insufficiente è un due, tre, o un quattro?” continua a chiedere.

“Già, sì, Steve” commenta alla fine Jessica, con la testa inclinata e la sua espressione perennemente arrabbiata. “Che voto è numericamente?” Stira le gambe e incrocia le caviglia in mezzo al cerchio che hanno creato con le sedie. “Per la scienza. Per la pace nel mondo. Condividi, Steve.”

Steve chiude gli occhi e sospira. “Tre?”

“È una domanda?” chiede Luke e non può sopportare questa tortura oltre. “Non ne sembri molto sicuro.” Steve gli lancia un'occhiata tra l'annoiata e l'infastidita. Luke alza le mani in segno di resa, ma sta continuando a ridere e la cosa infastidisce Steve ancora di più.

“Sta facendo lo sguardo da soldato.” Natasha alza il dito per indicare il suo viso. “Lo fai per allontanare le persone.”

“Ahi ahi” le dà man forte Jessica, con le mani nella sua giacca di pelle. Sbatte lentamente le palpebre. “Non dobbiamo allontanare le persone, Steve.” Fa un piccolo broncio, come se la cosa la potesse rendere triste.

Steve si gira verso Sam, per chiedere aiuto, almeno qualcuno che stia dalla sua parte, ma il ragazzo alza un lato delle labbra e fa spallucce. Se n'è lavato le mani. “Hanno ragione” dice. “Non dovresti allontanare le persone.” Sbatte le mani contro i polpacci.

Steve ruota gli occhi. “E se me lo dicono persone così brave a non farlo” borbotta e Jessica sembra star sorridendo, non esattamente uno dei sorrisi più luminosi che lui abbia mai visto, ma un sorriso divertito. Dev'essere raro quanto un sorriso di Bucky, Luke scuote la testa.

Ma perché si ostina ad andare a queste terapie di gruppo?





Casa della nonna è molto diversa da casa sua. È alta. Bianca, molto bianca, e ci sono pochissime cose. Sembra che nessuno abiti a casa di nonna. Ma c'è nonna, Peter ne è sicuro. E c'è anche il nonno, anche se nonno lo ha visto veramente poche volte nella sua vita. E preferisce Jarvis come nonno. E forse anche Jarvis preferisce Peter come suo nipote. Nonno non sembra entusiasta di lui.

La prima volta che sono andati a casa di nonna, Peter tiene la mano di baba e baba continua a giocare con una parte del suo abito scuro e sospira tanto. Sospira veramente tanto. Allora anche Peter sospira e poi alza lo sguardo verso baba che scuote la testa con un mezzo sorriso. La prima volta baba era veramente molto nervoso.

Ci sono persone che Peter non ricorda di aver mai conosciuto. Nel senso, non ricorda la prima volta che le ha incontrate. Zia Jan è lì da tutta una vita, insieme a Nadia e così anche zio Scott. Zio Rhodey è sempre stato lì, a comprargli dolcetti e fargli mangiare carne vera, non tofu. Peter e zio Rhodey odiano il tofu di baba. Anche Jarvis è sempre stato lì e lo cullava sempre, il suo primo ricordo con lui è Jarvis che lo culla e poi dice che non dovrebbe tenere sempre la mano in bocca. Ma la nonna... Peter ricorda perfettamente il giorno in cui ha conosciuto nonna.

Li aspetta alla porta con un sorriso e quando vede baba apre le braccia e lo soffoca, con una risata sollevata, e poi, quando guarda Peter sorride e si inginocchia, gli posa le mani sulle spalle e poi abbraccia anche lui e li guarda. Li studia. Guarda Peter, poi baba e abbraccia di nuovo Peter.

“Ho sognato questo momento per così tanto tempo” dice e Peter aggrotta le sopracciglia, perché non ha mai sentito parlare di nonna, se non due o tre giorni prima, quindi non capisce. “È uguale a te alla sua età.”

Baba sorride a metà, poi si guarda intorno. “Papà?” chiede e nonna si alza in piedi e scuote la testa, prima di prendergli la mano e stringergliela forte. “Sì, un po' me lo aspettavo” dice baba, scrollando le spalle. “Allora mangiamo?”

Peter, per tutto il tempo, non lascia andare la mano di baba.




Steve saluta con un gesto impacciato della mano, e stringe le labbra una contro l'altra e prima di sospirare e guardare come Tony sbatta velocemente le palpebre, prima di sorridere e girarsi verso di lui. Tiene per la mano Peter. Steve riesce a vederlo solo adesso e il bambino continua a lanciare occhiate veloci all'ascensore, come se stesse aspettando che qualcosa o qualcuno si faccia vedere da un momento all'altro.

“Hai di nuovo un problema con l'antenna?” ride Steve, salutando con la mano Peter, che si stringe nelle sue spalline. “O l'ascensore?”

“Uhm, no” risponde con un sorriso. “Peter pensava di aver sentito qualcuno uscire dall'ascensore” inizia a spiegare, girandosi verso il bambino, che con i lati delle labbra piegati verso il basso e un'espressione accigliata. “Quindi siamo venuti a controllare. Ma, a quanto pare zio Rhodey ancora non-...”

“Allo zio non piace l'ascensore” borbotta Peter, con una smorfia, alzando la testa verso Tony, che cerca di sorridere, stringendogli la mano. “Quindi forse è ancora sotto e non vuole prenderlo. Magari è così.”

“O forse ancora non è arrivato.” Tony si inginocchia e gli scompiglia i capelli. “Perché è abbastanza presto, sai?” Alza una spalla, girandosi verso Steve e poi sospirando. “Penso che staremo qui fuori per davvero molto tempo.”

Steve sorride e scrolla le spalle. “Beh, allora sarà divertente” commenta, prendendo un respiro profondo e guardandosi intorno.

“Oh, sì” risponde gentilmente Tony, girandosi verso di lui e costringendo, con un gesto gentile il bambino a girarsi verso Steve. Peter fa il broncio, prima di trattenere il respiro e incrociare le braccia. Quando i loro sguardi si incontrano non sembra estasiato. “Io e Peter potremmo anche tornare dentro casa e aspettare zio Rhodey, che prima o poi arriverà, te lo prometto, dentro il nostro bellissimo appartamento che pago mensilmente anche un bel po'. Che dici?”

“No” borbotta Peter e si morde il labbro con violenza. “No, dobbiamo aspettare qui” insiste e piega le labbra verso il basso e stringe la mano di suo padre un po' più forte e Tony sospira. “Lo dobbiamo fare perché zio Rhodey...”

“Odia gli ascensori” sospira Tony e scuote la testa, passandosi la mano libera sugli occhi. “Va bene. Okay.” Si siede per terra e Peter sorride un po', sedendosi vicino a lui e alzando i suoi occhi marroni su Steve, che si muove nervosamente sul posto. Peter gli sorride, mostrando un dente che sta crescendo lentamente. “Non hai salutato Steve” mormora.

“Oh” esclama Peter. Si porta una mano sulla fronte, mentre si siede vicino al papà, e inclina la testa. “Io... ciao Steve.”

“Ciao Peter” lo saluta indietro lui, con mezzo sorriso, e quindi anche il sorriso di Peter si amplia un po'. Cerca lo sguardo di Tony, che sta prendendo il cellulare dalla tasca e alza le sopracciglia per invitarlo a continuare a parlare. Lascia il cellulare per terra e sospira. “Stai aspettando qualcuno” prova a conversare.

Il bambino ridacchia. “Sì. Vuoi unirti a noi?” lo invita, indicando il pavimento. “Possiamo sederci come i nativi americani e fumare la pipa.”

“Non ti lascerò fumare una pipa, rag-...”

“Una pipa immaginaria, baba.”

“Non fumo nemmeno con l'immaginazione” risponde Steve, sedendosi con le gambe incrociate davanti a loro. “Mi dispiace.”

Tony alza un sopracciglio e condivide un'occhiata veloce con suo figlio, che scoppia a ridere con la bocca aperta e tirandosi in avanti. “Oh, no, campione” gli dice. “Invece tu lo ascolti. Sono sicuro che Steve non dice nemmeno parolacce.”

“Tutti dicono le parolacce” protesta Peter.

“Steve.”

“Mi spiace tantissimo” risponde. “Le parolacce sono il modo di esprimersi di chi non ha parole.”

Tony che allarga il suo sorriso, cercando di morderselo via, è uno spettacolo bellissimo, si dice e forse per questo motivo si perde Peter che si porta una mano sulla fronte e scuote lentamente la testa, sussurrando un: “Non ci posso credere.” Non è ancora molto bravo a capire l'ironia, quindi. “Sei un soldato, vero?” chiede il bambino, raddrizzando la schiena. “Zio Clint dice che sei un soldato e che una volta hai salvato trecento bambini da un'esplosione, tutti insieme. Come hai fatto a salvare trecento bambini tutti insieme?”

Steve aggrotta le sopracciglia. “Quella storia me la ricordavo diversa” borbotta e gli occhi del bambino si illuminano, mentre Tony sbuffa una risata.

“Quindi sei un soldato!”

“Davvero è questo che gli vuoi chiedere?”

Peter aggrotta le sopracciglia e arriccia le labbra. “Sei un soldato come zio Clint?” chiede dopo averci pensato per qualche secondo. “Zio Clint era una specie di ninja, vero baba? Faceva di qua e di là e nessuno se ne rendeva conto. E zio Scott non era tanto un ninja quanto un Robin Hood e per questo non ha potuto fare il soldato, vero baba? Zio Rhodey invece era tipo un soldato che volava.” Alza le braccia e la sua espressione è terribilmente seria. “Poi non ha più potuto volare. Tu sei un ninja? Zio Clint era un ninja, vero baba?”

Tony sospira. “Tuo zio continua a fare il ninja. Ecco il probl-...”

“Mi ha insegnato come arrampicarmi sui muri, lo sai?” chiede estasiato il bambino, saltellando sul posto. “Zio Clint è proprio forte. Steve, sei un ninja?”

“Purtroppo no.”

“Allora sei tipo Robin Hood.”

“Rubi ai ricchi per dare ai più poveri?” Steve ride. “Questo non è più tuo padre?”

Peter sbatte le palpebre lentamente e lancia uno sguardo veloce a Tony, che non sta nemmeno facendo finta di coprire la sua risata. “Noi siamo dall'altra parte del capita-lismo, Steve” dice dopo un po'. “Mia nonna ha una casa grande quanto Central Park. No. Non come Central Park. Sto usando qualche cosa che usano i poeti normalmente, vero baba? Comunque, hai capito. Noi siamo ricchi e ai miei ventuno anno, baba smetterà di farmi vivere come un bambino povero e finalmente potremo andare a vivere in un castello.”

“Non ho mai detto niente del genere.”

“Era sottinteso” risponde con un sorriso.

“Scusa, ma quando ti avrei fatto vivere come un bambino povero?”

“Cassie mi prende in giro perché a scuola porto sempre lo stesso zaino.”

“Tu adori quell-...”

“Sì!” lo interrompe ancora una volta Peter. “Ma lei mi prende in giro, perché zio Scott gliene compra uno nuovo ogni anno.”

“Tuo zio Scott non è molto bravo ad amministrare soldi.”

“Soldi? Cos'altro si può amministrare?” chiede Steve, con le sopracciglia aggrottate e vede ancora una volta Tony alza un lato delle labbra verso di lui.

“Case” risponde il bambino. Okay. La cosa sta diventando sempre più divertente per lui. “Cassie amministra orsacchiotti.”

“Come fa a...?”

“Cassie per me è un mistero che non voglio svelare. Tipo quelle cose che sai che se capirai ti faranno diventare una persona peggiore. Secondo me lei è un po' così.”

“Non puoi parlare male di tua cugina.”

“Non è veramente mia cugina.”

Tony lo rimprovera con lo sguardo e Peter abbassa lo sguardo e si morde le labbra. “Scusa” sussurra, tirando su le ginocchia e scrollando le spalle. Gioca con le mani, sembra togliersi qualche pellicina accanto alle unghie e poi sospira, tornando a guardare Steve. Tony ha posato la testa contro il muro e ha chiuso gli occhi, accarezzandosi il ponte del naso. “Quindi sei un soldato come zio Rhodey? Volavi anche tu?” Steve scuote la testa e sta per rispondere, ma il bambino prende un respiro e torna a parlare. “È un peccato che tu non volassi, sai?, perché zio Rhodey dice sempre che è una sensazione bellissima. Che quando sei in mezzo alle nuvole tutto sembra essere molto diverso da quando invece sei quaggiù. Zio Rhodey dice sempre che è la sensazione più bella del mondo, sai? Ho sempre pensato che fosse bello.”

Steve gli sorride dolcemente e annuisce. “Deve esserlo stato.”

Peter assottiglia lo sguardo e allunga la gamba, dandogli un calcio sugli stinchi e poi tornando a guardare negli occhi. “Ti ha fatto male?” gli chiede e Steve aggrotta ancora una volta le sopracciglia.

“Peter” lo rimprovera Tony, prendendolo per il braccio.

“A zio Rhodey non fa male” continua il bambino, tornando a incrociare le gambe. “Quando gli do un calcio, lui dice che non gli fa male. Ci abbiamo provato tante volte. Prima giocavamo a baseball.” Lancia uno sguardo al suo papà, poi torna a guardare Steve. “Ma tu le gambe le sai usare.”

“Tuo zio non sa usare le gambe?” gli chiede dolcemente, inclinando la testa e cercando lo sguardo del bambino.

Peter, però, gira la testa verso l'ascensore e sembra dimenticarsi di trovarsi lì. I suoi occhi diventano vuoti. Li sbatte un paio di volte, ma Peter non sembra essere più lì. Tony si gira verso di lui e sospira, scompigliandogli i capelli e facendogli posare la testa sulla sua spalla. Il bambino gli lancia un'occhiata curiosa, poi chiude gli occhi e sospira. “Oh” inizia, nascondendo il viso tra le mani. “Scusa, baba” mormora e Tony scuote la testa, forse per ricordargli che non deve scusarsi di niente. Lancia uno sguardo a Steve e alza le spalle.

“Ogni tanto gli si scaricano le batterie” spiega a bassa voce, tirando teneramente indietro la frangia, con una carezza delicata.

Steve li osserva in silenzio, annuisce lentamente. Il bambino con le batterie scaricabili e suo padre. Eccoli, proprio davanti a lui.




Zio Rhodey è rimasto fuori dalla palestra, mentre baba parla con la maestra e Peter ha provato a dirgli che è tutto un malinteso e che non voleva veramente mordere quel bambino, ma soltanto un modo per poter difendere i propri amici, che non possono stare sempre lì, ad aver paura di Flash. Flash non può fare bello e cattivo tempo. Glielo ha insegnato proprio lui. E anche baba, ovviamente. Zio Rhodey lo tiene sulle ginocchia e lo ascolta pazientemente, non come il nonno, che ha sentito il suo nome, lo ha guardato a malapena e poi ha fatto quello strano gesto con la mano, come se volesse andare oltre. Lo sente dire: “Ma non puoi rispondere alla violenza con la violenza. Devi usare le parole.” E Peter sente questo peso nel petto che deve essere un po' di vergogna. Perché lo sa che deve usare le parole, ma a volte le parole non vengono. Viene solo questa grande rabbia che non lo fa respirare e poi gli si offusca il cervello e dimentica cosa sta facendo e non le trova le parole. Le parole non ci sono sempre. Agli altri bambini, le parole vengono sempre? Allora perché a lui no? “Scusa zio” dice allora e lo zio sorride, ride dopo un po'. “Beh, ma almeno hai vinto” dice, per farlo sorridere.

Peter sorride, anche se non crede di aver proprio vinto. Lo abbraccia. Le parole arriveranno.

Baba esce dalla palestra e Peter vuole correre tra le sue braccia e abbracciarlo, fargli una carezza sulle guance e dirgli che non è come dice la maestra. Non è veramente come dice lei. C'è un motivo se ha fatto tutto quello che ha fatto e alla maestra lui non piace tantissimo, perché dice che sta sempre a chiacchierare e che dovrebbe fare più cose che lei dice di fare. Ma l'espressione di baba. Quell'espressione è così persa, così strana da fargli fare un passo indietro e tornare tra le braccia dello zio. Alza il mento. Chiede mute spiegazioni.

“Cosa succede?” sente zio chiedere, e baba sbatte velocemente le palpebre e finalmente sembra essere lì. Sorride, scuote la testa, prende Peter da sotto le ascelle e gli sorride dolcemente e allora Peter non può fare nient'altro se non abbracciarlo forte. Sospira e sente di essere a casa.

“Abbiamo ancora...” Sbatte le palpebre e sospira. Peter lo stringe un po' di più, sistemandosi tra le sue braccia. Sente baba ridere. “Penso di dover parlare col professor Xavier.” Posa il mento sulle spalline di Peter. “Per un consiglio.”






“Riesco a prenderlo in braccio” protesta Tony, dietro alle sue spalle, seguendolo dentro casa sua come se fosse un ospite. “Davvero. Ha solo sei anni, ancora non è un mostro. Riesco a prenderlo davvero in braccio!”

Steve gli lancia un'occhiata veloce e si rende conto di star entrando in casa sua come se fosse un completo estraneo. Gli fa cenno con la testa di mostrargli dove portare Peter, mentre Tony continua a sbuffare, come se avesse preso la storia del prendere in braccio Peter troppo sul personale. Lo supera velocemente, per poi correre nel corridoio e aprire una porta, invitandolo ad entrare con un gesto melodrammatico delle braccia. Steve gli sorride.

“Preparo del caffè” lo sente mormorare.

“Oh, io non bevo caffè” scherza Steve e Tony gli lancia un'occhiata veloce e poi scuote la testa.

“Meno male” borbotta. “Non avevo intenzione di fartelo.” Poi sorride e mentre Steve posa Peter sul suo lettino, in una stanza che non sembra essere quella di un bambino di sei anni, ma di un adolescente. Peter si gira automaticamente sul fianco, poi sospira e si rannicchia, coi pugni chiusi. Ha aspettato per un'ora sul pianerottolo. Si merita un po' di riposo.

Steve si muove lentamente e senza fare rumore, uscendo dalla stanza e studiando la casa, cercando di seguire i rumori della cucina. Tony è una persona rumorosa. È un po' la sua caratteristica principale, pensa Steve, e questo non potrebbe dirlo ad alta voce, ma prima di vedere il suo viso ha sentito la sua voce. È stata la sua voce ad aiutarlo a dormire, a guidarlo, in un certo senso, e, uau, questo sembra essere ancora più inquietante, quindi no, continua a camminare, continua a cercare di non pensare e si siede al tavolo, davanti a un Tony con le sopracciglia aggrottate e una tazza in mano. Una tazza vuota. La guarda come se fosse il suo peggiore nemico. “Era piena cinque secondi fa” borbotta e si guarda intorno. Sembra essere un disastro, quest'uomo.

Steve sorride, mentre lui si gira e torna a prepararsi altro caffè. “Peter è un bravo bambino” cerca di iniziare una conversazione, posando i gomiti sul tavolo e con un mezzo sorriso. Vede Tony girarsi verso di lui, e lanciargli uno sguardo veloce da dietro le spalle, prima di riempire la sua tazza e alzare le spalle.

“Deve essere il mio DNA,” scherza, girandosi verso di lui e sedendosi dall'altra parte. Gli passa la tazza, facendola scivolare sull'isola di marmo. “Io alla sua età ero un disastro” ride, alla fine, prendendo un'altra tazza.

“Tutti a sei anni erano un disastro” risponde prontamente Steve, con il suo me mezzo sorriso e senza capire cosa dovrebbe fare esattamente con quella tazza non voluta davanti a lui. “Aspetta di sedici.”

“Ho un vago ricordo dei miei sedici anni…”

“Beh...”

“Probabilmente ho rimosso l'ottanta percento di quello che ho fatto a sedici anni.”

Steve sorride verso la tazza e scuote dolcemente la testa. “Cosa mai avrai fatto per dimenticare così tanto di quello che hai fatto da adolescente?” gli chiede, a mo' di scherzo e vede Tony arricciare le labbra e poi alzare una spalla.

“Ho iniziato a mescolare alcol e droghe varie tutte insieme” dice e la frase viene seguita da un momento di silenzio che non è nemmeno troppo teso. Steve aggrotta le sopracciglia e Tony scoppia a ridere. “Tu non hai mai provato le droghe, eh?”

Steve ci mette qualche secondo a rispondere. Sta guardando Tony, che sorride come se stesse dicendo le cose più naturali del mondo, come se quello di cui parla lo hanno fatto tutti. Quindi ci mette un po' ad alzare un lato delle labbra. “Sembra essere un rito di passaggio” risponde.

“Non come l'ho fatto io, ma sì.” Gira la tazza tra le mani e si morde il labbro inferiore. “Tutti i genitori cool si fumano un po' di erba.” Alza lo sguardo e poi arriccia le labbra. “Tu fumi erba?”

“No.”

“Ed è vero che non dici parolacce?”

“Preferisco non farlo.”

Tony si passa una mano sul viso e sorride divertito. “Non puoi essere reale” ride, sistemandosi sulla sedia e posando la guancia sulla mano. “Sei -una specie di personaggio venuto fuori da un libro per bambini?”

“No...?”

“Sei sicuro?”

“No, a volte mi sveglio, mi guardo allo specchio e ho lo strano impulso di chiedere a persone che non esistono dov'è finita la mia maglietta? E poi rimango immobile a fissare il vuoto. La maglietta, di solito, sta proprio vicino a me.”

Tony scoppia a ridere. Steve lo osserva mentre si porta la mano davanti alla bocca ed è come se si stesse nascondendo tra le sue spalle. C'è un momento in cui chiude gli occhi e quando smette di ridere continua a sorridere. Steve non è bravo a descrivere certi momenti, è uno dei motivi per cui ha voluto imparare a dipingere e questo? Questo è un sorriso che dipingerebbe. Sbatte lentamente le palpebre e continua a studiarlo, mentre continua a mordersi via quel suo sorriso. “Meno male che i bambini ti aiutano tutti i giorni a ritrovare quelle fantastiche magliette.”

“Hai qualcosa contro le mie magliette?”

La risposta non arriva a parole. C'è un mezzo sorriso e una spalla che si alza, poi nient'altro. Tony torna a giocare con la sua tazza mezza vuota. “Sono riuscito a farti entrare in casa” dice, piuttosto e non lo sta nemmeno guardando in faccia. Ha lo sguardo basso, sembra starsi concentrando su qualcos'altro. “E ora ti renderò la permanenza altamente imbarazzante.”

Steve scuote la testa. “No, niente potrà mai superare quella conversazione.”

“Cosa? Vuol dire che non sai fare di peggio?”

“È una sfida?”

Tony assottiglia lo sguardo. “Diciamo che è una sfida.” Passa il dito sul bordo della tazza e alza lo sguardo, e sta guardando proprio lui. “C'è un manuale per rendere le conversazioni imbarazzanti?”

“Rendere le conversazioni imbarazzanti per idioti.”

“Quella collana ormai ha tutti i tipi di libri.”

“È molto utile.”

“Come fai a dire cose del genere con un'espressione seria?” gli chiede, tirandosi in avanti. “Hai fatto un corso?”

“Fai tante domande.”

“Tu no?”

“Dovrei farle?”

“Non sei curioso?” gli chiede Tony con un mezzo sorriso. “Io sono curioso. Non ho mai incontrato un ex soldato che si è dato all'arte per vivere dopo l'esercito. Vicino al mio appartamento, poi. Nell'appartamento che volevo comprare per rendere il mio appartamento più grande, capisci che cosa brutta che hai fatto?”

“Volevi -cosa?”

“Ho iniziato ad affittare questo appartamento sei... sette anni fa? Credo, sì, più o meno sette anni fa.” Aggrotta le sopracciglia e fa una smorfia. “Poi la coppia dell'appartamento di sopra se ne sono andati e ho detto a Clint ehi, amico, lo prendo in affitto, posso farci dei piccoli rifornimenti? E, sbem, ho un appartamento su due piani. Così avrei uno spazio per lavorare e uno solo per Peter. E poi gli studenti accanto all'appartamento di sopra se ne sono andati e ho detto, ehi, perché no? Mi manca il tuo appartamento.”

“Cosa?” Steve sbatte velocemente le palpebre. “Non fai prima a comprare il palazzo?”

“Stai scherzando? No. No no no. Clint è un fantastico padrone di casa e nessuno dovrebbe togliergli questo ruolo. Ho altre cose da fare, comunque.”

“Non ti darò il mio appartamento.”

Tony fa una smorfia. “Troverò un modo per averlo” sbuffa poi. “È una sfida anche questa.”

“Oh, va bene.”

“E tu non sei curioso?”

Steve ride nervosamente, accarezzandosi il collo e poi grattandosi proprio sotto l'orecchio. Tony apre la bocca e lo punta con un indice.

“Ah!” grida, appoggiando la gamba per terra e rimanendo a metà tra il seduto e in piedi. Cerca di riprendere l'equilibrio e ripete: “Ah!” Si tira in avanti, ancora una volta. “Lo sapevo, sei curioso!”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

“Okay, che cosa ti incuriosisce? È tutto su internet.”

“Non penso sia vero che sia tutto su internet. Non si dice nemmeno il nome di Peter…”

“Allora sei andato a cercarmi!” Tony assottiglia lo sguardo con un sorriso, poi aggrotta le sopracciglia. “Ovviamente non ci sono informazioni su mio figlio. Ha sei anni e so come fare per proteggere la sua identità. Pensa che cosa strana per lui, che degli estranei sappiamo il suo nome. Mi sembra giusto per la sua crescita sana.”

“Per questo hai un triplo appartamento a Brooklyn?” chiede Steve con un sopracciglio alzato. “Non per il potenziale intellettuale.”

“Per entrambe le cose. Quindi, dimmi, tu a Brooklyn, alla ricerca delle tue origini lontano da una tua ipotetica famiglia?”

“Mia madre vive a pochi palazzi da qui.”

“Ma non vai a trovarla spesso.”

“Cosa fai? Spii dalla finestra quando uno degli inquilini esce dal palazzo?”

“Cosa? No!” risponde indignato Tony, poi ride. “Ho un sistema di protezione che filma tutti i vostri movimenti. Secondo te, lascerei Peter da solo con Clint senza una specie di baby monitor?”

“Sei un papà ansioso.”

“Sì, me lo dicono tutti.”

“Non fa bene né a te né a Peter.”

“Peter non saprà mai che sono un papà ansioso.”

“Ah, no?”

“Ah. No.” Sospira pesantemente prima di grattarsi la testa. “Facciamo una domanda alla volta. Così tutti e due smetteremo di essere curiosi dell'altro e potremo diventare dei bravi vicini di casa. E potrò rubarti l'appartamento senza sentirmi in colpa.” Fa un gesto veloce della mano. “Graphic Designer?” chiede poi.

“Devo pur vivere di qualcosa.”

“Fai le copertine delle riviste? Dei libri? Siti web? Come hai iniziato?” Alza le sopracciglia, si sistema sulla sedia, tiene le spalle in avanti e sembra voler annullare la distanza dovuta all'isola di marmo tra loro. Sorride anche. Sembra davvero interessato in quello che Steve potrebbe rispondere. “Hai iniziato durante il periodo da soldato? Oppure dopo? Prima? Lavori solo al computer? Sei vecchia scuola e prima fai gli schizzi a mano?

“Sto facendo dei corsi per i disegni digitali” inizia, con una punta di diffidenza. Poi vede Tony sorridere e sbuffa una risata. “Per ora mi occupo di alcune pubblicità per piccole imprese.”

“Si inizia sempre dal piccolo.”

“Sì, ma,” Steve alza una spalla e si morde il labbro. “In realtà sono in trattative per un posto d'insegnate d'Arte in una scuola privata, poco lontano -beh, in realtà, abbastanza lontano da qui. Un certo professor Xavier ha aperto un centro ascolto per dei ragazzi…”

“Con difficoltà?” completa Tony, annuendo lentamente. “Sì, conosco Charles.”

Steve aggrotta le sopracciglia. “Sta pensando di aprire una scuola e -ma tu conosci tutti?” gli chiede, inclinando la testa.

Tony fa spallucce. “Le persone idealiste tra loro si conoscono. E poi, Charles è un evoluzionista e anche uno psichiatra.” Arriccia le labbra. “Mi ha aiutato nei primi anni da papà.” Fa una breve pausa, senza rompere il contatto visivo con Steve. “Hai deciso di accettare? Sto parlando del posto di lavoro come professore d'Arte.”

“Penso che lo farò, sì.”

“E allora,” Tony aggrotta le sopracciglia e si stringe nelle sue spalle. “Che cosa ci fai con un appartamento a Brooklyn?” chiede, grattandosi la nuca. “Non sembra essere qualcosa che farebbe un professore di provincia fuori dalla città. Ci devi pensare? A cosa pensi? Ti piace troppo fare l'artista libero da ogni legame?”

Steve sbatte velocemente le palpebre e guarda verso il basso, giocando con le dita intorno alla tazza. Scrolla le spalle. “Non lo so” risponde in un sussurro. Ed è la verità. Non lo sa che cosa ci fa qui. In questo appartamento, in questo momento. Natasha ha ragione. È perso. “Non ne ho la più pallida idea, in realtà.” Non sa nemmeno dove si trova precisamente.

Tony alza un lato delle labbra e sembra capire. Abbassa lo sguardo verso la sua tazza, ancora una volta, e si acciglia, probabilmente trovandola vuota e questa semplice espressione fa riprendere il respiro a Steve. Sente come se riuscisse a respirare. Come se adesso invece sapesse perfettamente dov'è. Deglutisce.

“Conosci Xavier per via di Peter?” gli chiede, continuando a giocare con le dita. E Tony alza lo sguardo.

“Ah, no no. Non era quello il senso” risponde con una risata non molto nervosa. “Dopo la nascita di Peter ho avuto una -Janet la chiama depressione post-partum, ma la verità è che è stata solo una coincidenza. Peter è nato e io ho avuto un attacco depressivo.” Scrolla le spalle, non sembra star dicendo nulla che lo metta a disagio. Steve si chiede se il suo parlarne così apertamente, di cose che tante altre persone non direbbero, non farebbero nemmeno sapere, sia dovuto al suo modo di vivere con tutte le carte in tavola. Tony si fida in fretta. Si apre ancora più in fretta. Si rende vulnerabile in ancora meno tempo. “Il professore è stato il mio psichiatra.”

“E Natasha segue Peter” continua Steve, con le sopracciglia aggrottate.

Vede Tony annuire lentamente. “È affetto da ADHD.” Fa di nuovo spallucce. “Avrebbero potuto diagnosticarlo prima, ma tutti mi dicevano che ero un papà ansioso.” Ride un po' e si stropiccia l'occhio. “Peter è stato un parlatore tardivo, okay?, e gli mancavano alcune parole e a volte capita che gli si scarichino le batterie sociali e rimanga incastrato in altri pensieri o -vabbè, comunque. Ci hanno mandato da Natasha dopo che ha preso a pugni un bambino a scuola.”

“Peter?”

“Proprio Peter. Pare che questo bambino desse fastidio a un suo amichetto e…” Scuote la testa e sospira. “E Natasha è entrata nelle nostre vite. Lo segue, non prescrive farmaci e lo segue con una psicoterapia per lo più. Per lo più psicoterapia. Non ero sicuro dell'Adderall quindi... Come è entrata nella tua?”

“Gruppo di sostegno” risponde brevemente Steve. Tony apre la bocca e poi la richiude, annuendo. “E Peter ha una mamma?”

“No.”

“Un altro papà?”

“Ora chi fa tante domande?”

“Hai detto che potevo farti tutte le domande che volevo.” Steve alza le sopracciglia e Tony fa una smorfia.

“Le fai su mio figlio.”

“Tony Stark, figlio di Howard Stark che abbandona tutto e si impegna per rendere il mondo un posto migliore” inizia Steve, tirando avanti le spalle. “C'è ovviamente un prima e un dopo.”

Tony scuote la testa, ma sorride. “La madre biologica di Peter non lo voleva. È una scienziata ed eravamo entrambi veramente molto giovani. Avevamo tra le opzioni l'aborto ma -lei era una microbiologa che non se la sentiva si uccidere neanche una mosca, figuriamoci un essere vivente dentro di lei. Quindi adozione? Io sono stato convinto da Clint che sarei riuscito ad essere un miglior papà dei suoi padri, che erano padri affidatari e Peter sarebbe arrivato fino a lì? Sarebbe stato adottato? Io non… e quindi… lei comunque non ha cambiato idea e mi ha detto se vuoi fare questa cosa del papà, dalla da solo. E poi, ah, sì, lei era molto brava nel capire le persone. Mi ha detto che avrei rovinato il ragazzino.” Sospira, posando le dita della mano in fronte, forse per nascondersi il viso. “Lo ha detto in buona fede, però.”

“Quindi sei un papà single.”

“Ah, ho capito. Ci stai provando con me” ride ancora una volta Tony, e Steve sente le orecchie iniziare a diventargli rosse, mentre abbassa lo sguardo e continua a ripetere: “No, no, non era quello…” e Tony gli sorride. “Non male, si vede che non ho ancora perso il mio tocco magico.”

“O che sono disperato.”

“O entrambe le cose.”

“O entrambe le cose” ride Steve. “Sarebbe veramente una brutta combinazione, non pensi anche tu?”

“Ne ho viste di brutte combinazioni” risponde senza dare troppo peso alle loro parole. “Questa non sarebbe davvero una delle peggiori. Beh, se in mezzo non ci fossi io.”






Peter aveva dimenticato questo tema. Baba conserva tutto quello che lo riguarda in tanti scatoloni, classificati per anno, con addirittura delle sottosezioni e la cosa può risultare malata, forse, ma è anche così tanto da baba che non può sorprendersi. Ha conservato il suo tema sui suoi nonni. Deve aver avuto, chissà, forse cinque anni. Suo figlio ingiallito c'è il disegno di nonna, nonno e Jarvis e nonno ha le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate. È divertente perché passa il tempo ma lui non cambia mai.

Nel tema Peter ha scritto:

“Io ho due nonni e una nonna. Nonno Jarvis è vecchissimo. Baba lo prende sempre in giro perché ha visto i dinosauri e io questo lo trovo tanto forte. Nonno Jarvis è il nonno che ci prepara le verdure e ci prepara sempre la colazione, che mangiamo tutti insieme, e dice sempre che forse noi saremmo morti senza di lui. Baba dice che è vero, ma che non gli vuole dare ragione. Io non lo dico a Baba, ma a volte dico a nonno Jarvis che è vero, perché mi piace e così capisce che gli voglio bene. Nonno Jarvis è il migliore.

“Nonna l'ho conosciuta dopo, ma mi piace tanto anche lei. Sa suonare il pianoforte e lo suona tante volte con Baba. Suonano roba difficilissima e nonna dice che baba cambia qualche nota solo per darle fastidio. Dice che lo fa da quando era piccolo così. Sembra difficile pensare a Baba piccolo così. A volte fanno suonare anche me. Mi metto sulle ginocchia di nonna, o di baba, e premo tasti a caso e baba ride e nonna dice sei bravo sei bravo, ma io lo so che sta solo facendo finta.

“Nonno Howard anche mi piace. È un po' brontolone e fa sempre un'espressione annoiata, ma penso che gli piaccio anche io. Mi lascia entrare nel suo laboratorio. Una volta mi ha detto che avrei potuto stare lì solo se fossi stato zitto. Allora io sono stato zitto e ho progettato un aereo. Per zio Rhodey. E lui a un certo punto è comparso e ha guardato il mio disegno e ha sorriso. Poi mi ha fatto pat sulla testa. E allora ho capito che mi vuole bene. Solo che non è bravo a farlo vedere. A far capire che vuole bene alle persone. Baba ci ha messo anni per capirlo. Dice che sono fortunato. Io ci ho messo pochi mesi.”

Peter prende un respiro profondo e controlla l'anno. Poi sorride. Certo. A quei tempi erano ancora solo lui e baba.





“E tu non...” Natasha non riesce nemmeno a finire la frase, alza le mani in alto e scuote la testa. “Era ovviamente un modo per... Sam!”

“Ehi, non eri tu l'esperta?” ride il ragazzo, passandosi una mano sul viso e tornando a guardare Steve. Lo stesso Steve che sta cercando di non guardare nessuno di loro negli occhi. “Vorrei concentrarmi sulle parti positive delle tue azioni, va bene?” inizia con il suo tono più gentile e Steve ruota gli occhi, grattandosi via le pellicine ai lati delle mani e sbuffando. “Voglio dire. A quanto pare questa persona ti piace, o ti piaceva, e ti sei buttato. Nonostante quello che sarebbe potuto succedere e...”

“E che è successo” sbuffa Jessica, in mezzo ad una risata. Tiene le le gambe larghe e un mezzo sorriso decisamente troppo divertito. “Voglio dire. È successa la cosa peggiore che sarebbe potuta succedere, giusto? Questo tipo -com'è che si chiama?” Non riesce nemmeno a parlare seriamente. Deve dire di non averla mai vista così sorridente e divertita. Quindi Steve fa una smorfia e fa la stessa cosa che farebbe un bambino delle elementari. Cerca di farla scomparire dal suo campo visivo.

“Tony” risponde Luke, lanciandole un'occhiata veloce e sorridendo per una frazione di secondo, prima di tornare serio e guardare Steve, che li sta ascoltando mortificato. Perché sembra che in queste sessioni si divertano tutti così tanto a volerlo umiliare con le sue stupide avventure quotidiane. “Fossi in te, amico” continua Luke. “Accetterei il lavoro in periferia e sparirei.”

Sam ruota gli occhi, e lo fa anche Natasha, che comunque rimane in silenzio, osservandoli e probabilmente decidendo quali informazioni condividere con il gruppo e quali no. Natasha è amica di Tony.e avrebbe dovuto chiedere a lei, privatamente. Magari. “Io sono invece molto fiero dei passi avanti di Steve” dice Sam, con le mani unite e un sorriso che dovrebbe nascondere una risata. “Chiedere a Tony di uscire è stata una mossa coraggiosa e...”

“Dolorosa.”

“Umiliante.”

“Ma sono sicuro che è stato un modo per aprirti al mondo, a quello a cui avevi detto che avresti rinunciato senza problemi e tu...”

“Steve non ha chiesto a Tony di uscire” s'intromette Natasha, accarezzandosi le tempie e sospirando. Tiene gli occhi chiusi e la fronte corrugata. Sembra starsi concentrando per non uccidere nessuno dei presenti. “Ha fatto capire che sarebbe interessato a farlo, ma quando Tony ha scherzato su quanto sarebbe stato difficile, si è tirato indietro.”

“Non è andata così!” cerca di protestare Steve, ma Natasha lo fulmina con lo sguardo e lui aggrotta le sopracciglia, tirandosi leggermente indietro. “Ne sono ragionevolmente sicuro” prova poi.

Natasha sospira. “La cosa non m'interessa” sbuffa, alzando le mani in aria.

“Ma?” chiede Jessica, con un sopracciglio alzato. “La cosa non t'interessa ma?”

“Ma sono tutti e due così stupidi” sbuffa l'altra. “Sarebbe stato davvero coraggioso se avesse veramente chiesto a Tony di uscire, invece di parlare per sottintesi. Quanti anni hai, Rogers? Quindici? E tu, Sam? Tu sei davvero orgoglioso di lui?” Sbuffa. “Patetici.”

Jessica ridacchia, sistemandosi i guanti che non le servono nemmeno al chiuso. Torna a guardare Steve, e così fa anche Luke, interessato dai risvolti della conversazione. “Quindi?” chiede.

“Quindi cosa?”

“Quindi che cosa hai intenzione di fare?” Jessica ruota gli occhi e dà una gomitata a Luke. “Spero che si umili definitivamente” sussurra, come se Steve non potesse sentirla.

“Qualunque si la tua decisione” inizia Samlanciando occhiatacce un po' a tutti. “Noi saremo fieri di te. Vero Natasha?”

“No” risponde lei seccamente. Poi ruota gli occhi, scivola sulla sedia, e torna a fingere di non star ascoltando nessuno. Sam sospira e si passa una mano sul viso.





Peter ricorda quel giorno, perché è stato il giorno più triste della sua vita. Era tra le braccia di zio Rhodey, ma zio Rhodey aveva la sua uniforme che lo faceva sembrare più un militare che uno zio. Gli aveva toccato il naso con l'indice e aveva aspettato che sorridesse, prima di lasciarlo a terra, accanto a baba. E stava dicendo addio.

“Ora dovrò trovarmi un vero baby-sitter” aveva mormorato baba, cercando di scherzare. Peter aveva alzato lo sguardo e li aveva guardati, con la testa inclinata. Zio Rhodey aveva sorriso. E baba anche aveva sorriso, soltanto che erano sorrisi così tanto tristi che Peter non era riuscito a capire molto bene.

“Basta che non provi ad insegnare al nostro campione come tirare una palla da baseball, no?” aveva detto lo zio, chinandosi su Peter e scompigliandogli i capelli. E Peter aveva riso, arricciando il naso. “Sappiamo entrambi che baba non sa lanciare una palla.”

“Quando torni dobbiamo andare al parco!”

“Dove vuoi. E verrà anche baba, così anche lui potrà finalmente vedere che cosa vuol dire fare sport.”

“Io so lanciare meglio di baba” aveva detto Peter, con le sopracciglia aggrottate. “Lo prendi tu nella tua squadra.”

“Molto bene” aveva sbuffato baba. “Sto avendo un flashback delle medie. Complimenti a tutti e due.”

Zio Rhodey gli aveva sorriso. Lo aveva ripreso in braccio e lo aveva abbracciato forte. Stretto stretto. Poi aveva preso il braccio di baba e aveva abbracciato anche lui. E non c'erano state parole tristi. Solo battute. Solo sorrisi. Ma si sentiva che c'era qualcosa che non andava. Si sentiva l'aria d'addio.

Ecco, questo. Questo è il ricordo di Peter che saluta suo zio che va in guerra.







Ad aprire la porta è un uomo sulla sedia a rotelle. Steve ha il fiatone e quindi non riesce a capire immediatamente che cosa sta succedendo, ma l'uomo alza un sopracciglio e subito dopo Peter corre verso di lui e si arrampica sulle gambe dello zio, prima di girarsi e gridare: “Steve!”

Steve deve ancora riprendere fiato. Ha fatto le scale tutte insieme, dopo aver corso nel condominio dal luogo in cui si tengono gli incontri del gruppo di sostegno, e, ora che ci pensa, è stata una mossa stupida. Apre la bocca per rispondere al bambino e aggrotta le sopracciglia e chiede: “Chi è Steve?” a Peter, cosa abbastanza bizzarra, al pensarci.

Il bambino gira la testa verso l'uomo, sistemandosi sulle sue gambe e dondolando i piedi. “Ah, sì, certo” risponde lui con un aperta. “Zio Rhodey, lui è il nostro vicino di casa. Steve. Era un ninja, ha salvato trecento bambini tutti d'un colpo e penso che abbia una cotta per baba.”

“Cosa?” È l'unica parola che esce dalla bocca di Steve, mentre Rhodey ride piano, scuotendo la testa.

“È quello che dice zio Clint” spiega Peter, girando la testa per poter vedere entrambi. “Uhm. E Steve. Lui e mio zio Rhodey, lo zio che volava con gli aerei, mi ha insegnato ad allacciarmi le scarpe e... c'è qualcosa di importante, zio? Ah, sì, ha insegnato anche a baba come allacciarsi le scarpe.”

“Una presentazione spettacolare, campione” si congratula Rhodey e Peter mostra il suo sorriso con denti mancanti, prima di girarsi di nuovo verso Steve e aggrottare la fronte. “Penso che il nostro ospite abbia bisogno di un bicchiere d'acqua, glielo vuoi portare tu?”

Il bambino scivola di nuovo verso terra, annuendo. “Chiamo anche baba, così si sbriga e andiamo al parco.”

“O potremmo lasciare baba qui a lavorare.” Rhodey sorride e alza lo sguardo verso Steve. “O con Steve.”

“Perché dovremmo lasciarlo da solo con Steve?” chiede Peter confuso, prima di scomparire trai corridoi della casa. E nel frattempo Steve ha ripreso il fiato e potrebbe anche riuscire a parlare, se solo sapesse che cosa deve dire. Okay. Quindi ha finalmente conosciuto questo fantomatico Rhodey. Deve essere una cosa buona. O una cattiva, visto che a presentarlo è stato un bambino di sei anni.

Rhodey lo osserva con mezzo sorriso stampato sulle labbra. Lo indica con un dito. “Questa è la parte della commedia romantica in cui capisci di amare il co-protagonista e fai la classica corsa fino ad arrivare a casa sua per fargli una lunga dichiarazione d'amore?” Ride passandosi una mano sul viso. “Ma perché queste cose capitano solo a Tony?” chiede, quando Steve chiude gli occhi e sospira. “Sei veramente un soldato? Ex-soldato? Perché questo debole che ha Tony per il mondo militare è addirittura tenero.” Si sistema i pantaloni e torna a guardarlo. “Tutto bene?”

“Sei il famoso Rhodey” risponde Steve, con una risata nervosa e Rhodey sorride un po' di più.

“Non devi essere nervoso nel conoscere me” lo rassicura, con una risata. “Dovrai essere nervoso quando conoscerai Jarvis.”

“Cosa?”

“Chi stai spaventando, Orsacchiotto?” chiede Tony. Peter è tra le sue braccia ed è un dettaglio strano. Questo voler tenere in continuazione in braccio un bambino nonostante sia considerato abbastanza grande per camminare da solo. Quando vede Steve, lo saluta così. Con un sorriso e a Steve manca un battito e poi lo riprende d'un colpo, sentendo come il cuore gli inizia a battere all'impazzata. Perfetto. “Steve!”

“Steve è venuto per fare la sua dichiarazione d'amore alla commedia romantica” avverte Rhodey, girando la sua sedia a rotelle. Peter ride, nascondendo il viso tra le clavicole di Tony. “E che bello. Io sono di nuovo qui.”

“Oh, bene. In realtà speravo la facesse entro oggi, altrimenti avrei trovato qualcun altro che potesse recitarmi qualche monologo triste... o mi sarei dato all'Amleto.”

“L'Amleto ti si addice” ribatte Rhodey, alzando una spalla. Steve li osserva con lo sguardo assottigliato e mezzo sorriso e non sa nemmeno il perché.

“Vero?” Tony sistema Peter tra le sue braccia e lancia un'occhiata veloce a Steve, per sorridergli. “Sto solo aspettando che Obadiah uccida mio padre per poter finalmente portare il mio dramma sul teatro della vita.”

“E nell'Amleto ci sono anche io, baba?”

“No, tesoro. Alla fine della tragedia dobbiamo morire tutti. Io e zio Rhodey ce ne andremo via su un aereo, che dici?”

“Baba no!”
“Tony!”

“Che c'è? Okay, vuoi che la facciamo diventare una commedia shakespeariana? Tipo Tanto rumore per nulla? Di cui non ricordo la trama, però.”

Rhodey si schiarisce la gola e anche questa volta Steve riceve un'occhiata nervosa. “Tony,” lo chiama. “Tony, stai dimenticando la dichiarazione d'amore alla commedia romantica.”

“Ti giuro che non l'ho dimenticato” gli risponde, con le sopracciglia aggrottate. “Solo che non penso sia il momento di rispondere, proprio ora.”

“Sei crudele.”

“Sono un padre.” Sorride e scrolla le spalle. “E devo ancora pensare ad una risposta da commedia romantica.”

“Non ce ne sarebbe bisogno” risponde Steve, alza una spalla e si ritrova sei occhi che lo scrutano, come se avesse detto la cosa più particolare del mondo. “Nel senso, magari la dichiarazione da commedia romantica, non era esattamente una dichiarazione da commedia romantica.”

“Troppo sofisticata?”

“Troppo. Sarei arrivato qui per dire ehi bro vuoi un po' di fonduta?”

“Un po' di fonduta?” ride Tony, mentre Peter stringe le braccia al collo, lanciando sguardi curiosi allo zio. “Davvero?”

“Sono entrato nel panico.”

“Baba. Anche io voglio la fonduta.”

“Vacci piano campione.”

“Quindi...”

“Tony,” lo richiama di nuovo Rhodey. Sta ridendo, passandosi la mano sul viso. “La risposta.”

“Oh, sì, certo. Vada per la fonduta.”

“La fonduta.”

Steve guarda verso il basso, con la fronte corrugata e un braccio che cade sui suoi fianchi. “Non ho mai mangiato fonduta” ride piano e poi alza lo sguardo verso Tony che sbatte lentamente le palpebre.

“Che voi ci crediate o no, questo, non supera minimamente il livello di imbarazzo di quella conversazione.”

È la volta di Steve di ridere piano, nascondendosi il viso dietro la mano.






Peter ricorda il letto bianco. Il bip delle macchine. Quella maschera sul viso dello zio. E ricorda baba con la mano sulla bocca, come se stesse cercando di non far uscire parole, o qualcos'altro, da dentro di lui. E zio sembrava star solo dormendo.

Peter gli aveva accarezzato piano piano la fronte, poi la guancia e aveva sorriso. “Ti devi svegliare presto, zio” aveva sussurrato. “Ché sono mesi che non gioco a baseball, perché baba non sa tirare le palle.”

“Ti devi svegliare presto, Rhodey” gli aveva fatto eco baba con la voce spezzata. “Ché altrimenti io come faccio?” Aveva scosso la testa e chiuso gli occhi, prima di sedersi accanto allo zio, sulla poltrona vicino al letto.

Peter lo aveva osservato, ma non aveva capito bene, quindi aveva continuato ad accarezzare la faccia di zio Rhodey e a pensare a quale gara avrebbero potuto fare, una volta che lui si fosse svegliato. Si era sdraiato accanto a lui e aveva preso a guardare intensamente il soffitto. Gli avrebbe lasciato baba in squadra, aveva pensato. E poi doveva chiedergli di insegnargli come fare il calcio rotante.

 

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