E' un peccato inammissibile.

di Grell Evans
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


Sentì la sveglia suonare e disturbare quel poco sonno che aveva fatto fatica a prendere. Allungò la mano verso il pavimento cercando il telefono che continuava a squillare, portandola sulla retta via per una fantastica crisi isterica alle cinque del mattino. Si affrettò a lavarsi e a mettere in sesto il proprio viso con un po’ di trucco; disegnò le sopracciglia fine e tondeggianti, delineò l’eyeliner su entrambi gli occhi e passò il mascara sulle sue ciglia nere e incurvate. Sorrise alla sua immagine riflessa nello specchio del piccolo bagno e osservò l’outfit. Gonna in tulle e corsetto nero, stivali in pelle nera e borchie abbinati a un’ampia borsa a cartella, ovviamente nera. Non era certo l’abbigliamento che una personale ‘normale’ avrebbe indossato per il primo giorno di lavoro ma se ne fregava totalmente del giudizio degli altri riguardo al modo di vestirsi. Si sentiva bene indossando capi neri e stravaganti e niente poteva convertirla ad uno stile bon ton sui toni del rosa e del bianco. Prese le chiavi e si avviò verso la macchina, pronta per partire.
Parcheggiò in un posto riservato al personale e rimase affascinata dall’enormità del policlinico: moderno già dall’esterno la allettava tantissimo; edifici alti e larghi formano una sorta di enorme quadrato diviso in più blocchi dove ognuno ospitava un padiglione. Era arrivata con mezz’ora in anticipo e con una discreta calma si avviò verso il suo nuovo posto di lavoro. Tirò dritto verso una stradina piccola che la portò verso un lungo vialone alberato. Lesse “V padiglione” e a seguire “Medicina interna”; era arrivata.
Delle graziose panchine precedevano l’ingresso, salì quei pochi scalini e si ritrovò in un corridoio che dava verso alcune sale d’attesa adiacenti agli ambulatori. L’ascensore era già al piano e schiacciò il pulsante che segnava il numero due. Lo stomaco cominciò a dolerle ma resistette, non voleva mangiare, era troppo presto.
“Buongiorno.” - sussurrò entrando nella prima stanza che trovò segnata come ‘stanza infermieri’. 
Due donne si voltarono, fissandola stralunate. “Buongiorno a te, chi sei?” mi rispose la più alta tra le due alzando un sopracciglio.
“Artemisia Lynch, la nuova collega.”
“Ah, sei in borghese.” Soggiunse l’altra mentre chiudeva alcune compresse in una garza
Le guardò e le loro facce apparivano non molto contente di vederla. -Forse mi sbaglio- pensò.
“Beh, devo ancora capire dove sono gli spogliatoi e la mia divisa.” Richiamò la loro attenzione facendo qualche passo in avanti. Non fecero in tempo a fissarla un’altra volta che uno dei campanelli cominciò a suonare fortissimo e come due saette la sorpassarono ed uscirono dalla stanza.
Osservò l’ambiente intorno a lei curiosando un po’: due bei carrelli per la terapia sia orale che endovenosa erano sulla sua destra intervallati da un secchio per i rifiuti ospedalieri. Seguiva poi una grande scrivania con annesso computer e scartoffie, una poltrona apparentemente morbida era stata affiancata alla finestra che affacciava sul padiglione di fronte. Un bel lavandino, con tanto di specchio, era sistemato appena vicino la porta allineato ad un enorme armadio ben fornito di farmaci e ad una vetrinetta con fisiologiche, paracetamolo, glucosio al 5%, emoculture e molto altro.
“Alessia, Sara, buongior...”
Come una ladra colta di sorpresa si girò spaventata, assorta com’era nei suoi pensieri. Un uomo intorno al metro e ottanta si affacciò nella stanza, i suoi occhi azzurri sembravano due purissimi zaffiri. Non riuscì a dargli un’età precisa ma non gli attribuì più di trentacinque anni.
“E tu chi sei?”  disse guardandola dall’alto in basso, scrutando il suo abbigliamento gotico, sorridendo.
“Ahm, salve. Sono Artemisia Lynch, la nuova collega. Sto aspettando qualcuno che mi faccia capire dove devo andare per svestirmi e rivestirmi.” Sorrise a sua volta e gli porse la mano.
“Piacere mio, sono Marco De Rosa.” Mi strinse la mano e mimò un baciamano mentre lei lo ringraziò fingendo un mezzo inchino.
“La caposala mi ha raccomandato di darti la tua divisa, le chiavi dell’armadietto e di tutte le porte del reparto.” Le sorrise ancora mentre in un attimo raccolse le sue cose e gliele poggiò tra le braccia.


 
***

 
 
La divisa, di una bella punta di bordeaux, le piaceva tantissimo e trovò che le stesse molto meglio di quella bianca dell’altro ospedale. Uscì dall’ascensore e trovò Marco ad aspettarla.
“Ti va un caffè per dare una botta intensa a questa giornata?”
“Ma sì, la colazione ancora non l’ho fatta quindi non è male come idea.”
“Splendido, allora seguimi che faccio strada.”
La cucina era piccola, fatta unicamente per contenere un tavolo, un lavabo con fornelli annessi e un frigo di medie dimensioni.
“Benvenuta nella nostra super lussuosa cucina che, a confronto, quelle di Master Chef possono accompagnare solo.” Disse allargando le braccia come a mostrare un’opera d’arte.
Timidamente entrò e prese il bicchiere di plastica con il caffè caldo. Lo sorseggiò e si accorse che era amarissimo.
“Puoi chiederlo lo zucchero se vuoi e guarda, solo per questa mattina, puoi anche fare il latte e caffè.” Le porse i diversi contenitori facendole l’occhiolino avendo notato la sua espressione disgustata.
“Grazie, non volevo chiedere troppo.” Rispose assemblando la sua colazione.
“Non diventeremo poveri per dello zucchero e mezzo bicchiere di latte.”
Annuì e sorseggiò la sua bevanda fissando la finestra che affacciava dallo stesso lato di quella della stanza infermieri. Marco aveva già finito il suo caffè e si apprestò a gettare il suo bicchiere nel cestino quando Alessia e Sara imboccarono in cucina.
“Marco! Finalmente sei qui, che bello vederti!” urlò Sara baciandolo sulle guance, guardandola con la coda dell’occhio mentre Alessia riproponeva lo stesso gesto. Alzò un sopracciglio e sembrarono non notarlo, per loro fortuna. Non riuscì a capire cosa c’era da fare le lascive e le gatte morte. Era appena arrivata e già sentiva di stare sulle palle a qualcuno. Meraviglioso, tanto ricambiava la sensazione.
Si alzò e si diresse in corsia dove il lungo corridoio ospitava otto stanze con due letti ognuna, per un totale di sedici letti. La fila di destra ospitava gli uomini mentre quella di sinistra le donne.
-Non è male come disposizione- pensò mentre raggiungeva le prime due camere, una dedicata alla biancheria e alle scorte di presidi sanitari e l’altra riservata alla raccolta di biancheria usata e ai rifiuti ospedalieri, con annesso lava padelle.
Ritornò in stanza infermieri alla ricerca della consegna infermieristica per capire un po’ cosa accadeva durante la notte e farsi una vaga idea del comportamento notturno dei pazienti ospitati.
“Tutti hanno riposato quindi niente problemi notturni, effettuata terapia.” Esordì Marco alle sue spalle. La spaventò un’altra volta, ma fece finta di niente.
“Potevano anche scrivere i cognomi dei pazienti, non credi? Non si capisce nulla.” Propose mostrandogli la scarsa pagina e mezza scritta dalle colleghe. Lui fece spallucce, come se non l’avesse mai notato e chiuse il quaderno rubandoglielo dalle mani.
“Non farti il sangue amaro per queste piccolezze. Sei appena arrivata.”
Lo guardò confusa. Aveva solo fatto un’osservazione costruttiva e non una polemica sterile.
“Non ti piace sentire critiche?” gli domandai alzando un sopracciglio.
“Se non mi riguardano no. Se ti disturba un comportamento va’ dal diretto interessato. Le trovi al piano meno uno, dovrebbero essere ancora nello spogliatoio.” Le rispose intento a preparare gli stick per la glicemia.
Lei non disse niente perché sentiva che non aveva tutti i torti, così rimase a fissarlo mentre bagnava i batuffoli di cotone con il disinfettante.
“Capisco di essere bello, ma se inizi a guardarmi così spudoratamente...” Disse in tono ironico porgendole la vaschetta con l’occorrente preparato, facendole intendere il finale.
“Ti stavo solo osservando, che modestia.” Rispose afferrando il contenitore sorridendo.

 

 
***

 
 
Decise di annotare sul registro dei parametri vitali le evacuazioni, le diuresi e le temperature che aveva precedentemente appuntato sul suo blocchetto che aveva sempre, fin dai tempi dell’università, nella tasca posta in alto a sinistra della casacca.
“La signora al letto otto ha segnato qualche antipiretico?” domandò mentre segnava il numero trentotto nella casella giusta.
“Mh sì, ha del paracetamolo al bisogno.” le rispose Marco consultando la scheda unica di terapia.
Lo guardò aprire la vetrinetta, prendere il flacone, inserire il deflussore nell’apposito buco e far scorrere un po’ di farmaco fino ad eliminare tutta l’aria. Sentì alcune gocce bagnarle il viso e in una frazione di secondo realizzò che Marco la stava schizzando con la flebo.
“Smettila che appiccica!” disse ridendo, cercando di nascondere il viso dietro le mani.
“Addirittura, per due goccioline hai bisogno di difenderti? Ti porto uno scudo così eviti lo tsunami!” imitò una grossa onda con le braccia e poi uscì diretto verso la stanza infondo al corridoio.
-Chissà come fa ad avere sempre quel sorriso dipinto in faccia-  pensò. -è quasi surreale-
Si accarezzò gli avambracci, passando con delicatezza sulla lira che si era tatuata a vent’anni poco sotto la piega del gomito. Sorrise al ricordo di quella giornata con il suo ragazzo e la sorella. Una pazzia partorita nel bel mezzo di una passeggiata al centro commerciale qualche settimana prima del suo compleanno. Lui e la sorella non avevano paura, anzi erano super entusiasti all’idea di tatuarsi, lei invece aveva più timore della reazione dei suoi genitori che di altro. Si rattristì mentre il ricordo diventava più intenso e le lacrime istintivamente cominciavano a riaffiorare; non voleva piangere quindi tirò indietro la testa cercando di respingerle.
“Ti mancavo così tanto?” esordì Marco avvicinandosi.
Lei lo guardò con un’espressione indecisa tra il sorriso e la tristezza. Come se non sapesse se rispondere a quelle parole con ironia o con un racconto deprimente sul suo passato, così decise di rimanere in silenzio.
“Capisco. Una storia brutta lunga e triste, non è vero?” incalzò lui osservando il tatuaggio sull’avambraccio sinistro di lei. “Non l’avevo notato.” disse indicandolo.
Provò a formulare una frase ma dalla sua bocca non uscì alcun suono e nel frattempo i pensieri continuavano ad affollarsi nel suo cervello come incastrati. Incastrati tra la voglia di non parlarne e l’intenzione di liberarsi di un peso troppo grande.
“Scommetto che non hai voglia di parlarne.” continuò lui controllando le schede di terapia. “Prima o poi, con chiunque tu voglia, dovrai liberarti di ogni dolore e parlarne. Non ha senso accumulare dolore, su dolore, su dolore.” I suoi occhi azzurri tornarono a guardarla. “Si vede che soffri.”
“Non mi conosci...” ebbe solo il coraggio di rispondergli intrecciando le dita in un gesto nervoso.
“È vero. Ma basta soffermarsi un attimo di più sul tuo viso per capire che non sei felice. I tuoi occhi sono un libro aperto che nessuno per stupidità o indifferenza non ha mai voluto leggere.”
“Ne parliamo dopo il turno, se hai tempo da dedicarmi, sennò un’altra volta...” gettò l’invito senza pensarci. Infondo aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno e Marco, anche se lo conosceva da sole quattro ore, sembrava un buon ascoltatore e consigliere. Lo vide sorridere e notò una fossetta formarsi sull’angolo destro delle sue labbra. Era un sì.
 


 
***

 
 
Marco la stava aspettando seduto su una delle panchine appena fuori il padiglione. Indossava una camicia bianca messa all’interno di un paio di pantaloni blu e delle sneakers bianche.
“A cosa devo tutta questa eleganza?” disse in modo ironico scendendo i pochi gradini.
“E io a cosa devo tutta questa trasgressione?” rispose altrettanto ironicamente rivedendo il suo outfit.
“C’è un ristorante nei dintorni molto carino, dove si mangia bene, se ti va possiamo iniziare la nostra conversazione lì.”
“Andiamo a piedi?” approvò lei avviandosi sul viale.
“Beh, è qui vicino quindi direi di sì.” Ribatté lui mettendosi al suo fianco.
 
Scelsero un tavolo vicino alla vetrata; la giornata era bella e soleggiata, il cielo chiaro e senza nuvole trasmetteva un senso immediato di libertà.
“Dunque, io inizierei dalle presentazioni, visto che sappiamo solo il cognome e il nome l’uno dell’altra. Comincia pure.” esordì lui sistemandosi l’orologio sul polso destro.
“Mi chiamo Artemisia Lynch. Ho una sorella gemella e un fratello più grande. Lavoro da circa cinque anni da quando mi sono laureata e posso dire di essere stata fortunata. Ah, dimenticavo, ho ventisette anni.” bevve un sorso d’acqua e si asciugò le labbra con il tovagliolo.
“Breve ma interessante. Io ho trentadue anni e sono nato e cresciuto qui. La vita in città mi ha stufato e a un certo punto della mia vita ho deciso di trasferirmi vicino al mare. Amo viaggiare, tremendamente.” concluse lui spostando le posate più a destra.
“Marco De Rosa... sembra più un nome da medico che da infermiere.” aggiunse lei giocando con il bicchiere.
“Dici?” sorrise. “I medici non sono dei bei tipi.” continuò lui.
“C’è sempre l’eccezione, non credi?”
“Lo credo.”
Vennero interrotti dall’arrivo della cameriera che consegnava loro i primi piatti.
“Hai un grazioso anello all’anulare. La tua dolce metà sarà d’accordo con questo tuo pranzo in compagnia?” la guardò mentre masticava un boccone dei suoi maccheroni alla carbonara.
Artemisia portò lo sguardo sul suo solitario che indossava sulla mano destra. “Non sono sposata.” soggiunse tagliando un piccolo pezzo della sua bistecca.
“Non era questa la domanda.” rise. “Hai l’anello dalla parte opposta e comunque neanche io lo sono, se può esserti di conforto.”
Sentiva l’ansia salire alle stelle e non capiva perché. Marco la stava mettendo a proprio agio e lei di rimando si stava chiudendo nel suo guscio protettivo ed autodistruttivo. Si concentrò sull’osso della carne come a sfogare la sua frustrazione.
“Okay.” decise che era il caso di iniziare il discorso. Doveva smettere di fare la bambina e cominciare a costruire questo monologo e liberarsi. Era lì per quello.
“Stamattina, mi hai trovata sull’orlo del pianto per una ragione. Quando guardo il mio primo tatuaggio mi tornano nuovamente in mente il mio fidanzato Vladimir e la mia gemella Devonne.”
“Capisco.”
“Una notte di quattro anni fa stavamo tornando a casa dopo aver mangiato come dei maiali al ristorante. Vlad non aveva bevuto, cosa che faceva sempre quando sapeva di dover guidare. Una macchina ha pensato bene di sorpassare entrando sulla nostra corsia, coinvolgendoci in un incidente frontale. Devonne è morta sul colpo...” si fermò. Sentiva un grosso nodo alla gola tipico di quando sopprimeva i singhiozzi dovuti al pianto.
“Vladimir è morto in ambulanza. Aveva la gabbia toracica sfracassata e non è potuto scampare all’arresto respiratorio.” fece un’altra pausa bevendo un sorso d’acqua. Intanto la cameriera portò il conto e vide Marco pagare per entrambi. La sua espressione era piuttosto contrariata ma lui sembrò non notarla.
“Andiamo.” si alzò e si avviarono fuori il locale. Attraversarono la strada e tornarono nel parcheggio dell’ospedale. Lei lo seguì, intuendo il motivo.
“Non mi sembrava il luogo adatto per una conversazione simile. Troppo andirivieni, siediti.” disse indicandole il sedile di una moto sportiva nera come la notte più buia mai vista. Lei tentennò.
“Forza non morde, è la mia. Continua pure.” sorrise immaginando il perché della sua esitazione.
“Io ho riportato un trauma cranico importante. Ero in coma quando sono arrivata in ospedale e ci sono rimasta per due settimane. Svegliarmi è stato terribile perché appena è accaduto sentivo un peso enorme sul petto, avvertivo che qualcosa non andava ma non credevo minimamente che la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Le due persone più importanti della mia vita erano morte ed io ero l’unica sopravvissuta a quell’incidente.” Cominciò a piangere e forse non se ne rese neanche perfettamente conto. Rivoli di lacrime scendevano come piccoli affluenti verso il suo collo facendola sentire tremendamente fragile. Sentì la mano di Marco cingerle la testa e attrarla verso il suo petto mentre l’altra le carezzava la schiena.
“Sfogati, piangi, urla se vuoi. Tenerti dentro tutto questo dolore ti logora e non ti permette di iniziare nuovamente a vivere. Non puoi restare rinchiusa in questa gabbia di solitudine e di ricordi, devi essere felice anche per loro perché i tuoi occhi sono anche i loro adesso, come ogni tua emozione e sensazione. Ricordali con amore e vivi.”

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Capitolo 2
*** II ***


-Oggi il mare è stranamente calmo- pensò Marco guardando fuori dalla finestra. Le poche nuvole in quel cielo azzurro lo invitavano a tuffarsi tra le onde blu incurante dell’acqua gelida. Dopo essere tornato a casa il giorno precedente sentiva come un piccolo fuoco nel petto, come se qualcosa si fosse risvegliato dentro di lui. Era una sensazione scomoda, che non l’aveva fatto dormire come desiderava, come quando cominciano a formicolare le mani o i piedi e si fa fatica ad arrestare quella percezione. Solo a tarda notte era riuscito ad assopirsi; la troppa stanchezza aveva avuto la meglio anche sul suo cervello. Vide lo schermo del cellulare illuminarsi. Un messaggio. Lesse il nome ‘Celeste’ in alto e maledisse il primo santo che gli apparve in mente. Lei si divertiva a tornare e a sparire a suo piacimento, non curante che la sua vita scorresse ugualmente senza di lei, non curante che nel profondo questo gioco aveva in teoria smesso di infastidirlo, in pratica ancora lo indisponeva.
“Che ci fai qui?” disse aprendo la porta della piccola villetta.
“Ti ho portato la colazione, non mi ringrazi?” esordì lei varcando l’ingresso, sgusciando verso il salotto.
La osservò posare il vassoio della pasticceria sul tavolo, accomodarsi sulla sedia e accendersi una sigaretta.
“Fai con comodo.” questo fare da padrona in casa sua lo infastidiva terribilmente.
“Vuoi cacciarmi Marco? Ne avresti il coraggio?” incalzò lei aspirando una boccata di fumo.
“Non potrei, Celeste?” si fermò a guardarla qualche secondo. Il suo atteggiamento era sempre più insopportabile. “Sparisci così come sei entrata. Questa storia mi ha stufato, tutto mi ha stufato. Tu non hai alcun potere sulla mia vita, quindi prima che perda la pazienza ti prego di uscire e di finirla di tormentarmi con le tue incursioni giornaliere.” il suo tono era visibilmente alterato ma cercò di non far sfociare quella conversazione in una raccolta di urla.
La vide alzarsi e sistemarsi il tubino nei pressi delle cosce. Afferrò la borsa e si avviò verso la porta d’ingresso.
“Bastava dirlo che non mi vuoi più.” proferì lei mantenendo un’aria dignitosa ma sull’evidente punto di crollare. “Hai un’altra?” suggerì, fissandolo dritto negli occhi.
“No Celeste. Mi sono solo stancato dei tuoi giochetti. Non puoi divertirti con la vita degli altri usando le persone come scarpe vecchie. Nessuno ti deve niente. Io non ti devo niente.” rispose impassibile. Lei si accorse di quella freddezza e una lacrima solcò il suo viso, segno di una sconfitta.
 

 
***

 
 
Era rimasta a crogiolarsi tra le lenzuola, liberandosi di ogni pensiero. Aveva la mente vuota e la sensazione di oscillare nel nulla la tranquillizzava fortemente. Sentiva gli uccellini cantare fuori dalla finestra, un dolce vento soffiava delicato carezzandole la pelle. Quando iniziavano queste giornate si sentiva completamente a proprio agio nel mondo, come se fosse l’ultimo tassello mancante e perfetto di un puzzle. Poi i pensieri tornavano fieri e pesanti nella sua testa come a ricordarle che nulla avrebbe evitato di farla smettere di pensare e che solo un evento avrebbe potuto porre fine a tutto quel ciclo. Decise ormai di alzarsi, prese il telefono e si diresse in cucina dove si affrettò a versare in un bicchiere del succo alla pesca. Sua madre l’aveva chiamata già due volte e non volle richiamarla; non voleva parlarle perché non le era mai piaciuto farlo. Da adolescente perfino la odiava per tutto il male che aveva fatto a lei e a sua sorella, per l’eccessivo senso di protezione, per le continue vessazioni verbali e talvolta fisiche, per le sue fisime mentali che non le erano mai andate giù. Il loro legame non era mai stato il classico madre-figlia, anzi. Per lei i suoi genitori erano come delle scelte obbligate che tutti fanno perché è giusto così, perché tutti ce li hanno e allora li hai anche tu. Non ne sentiva un bisogno viscerale, senza di loro non stava male, piuttosto si sentiva in una profonda pace quando meno li sentiva. Si sforzava di capire cosa l’avesse portata a quel distacco tremendo fin dall’adolescenza ma nulla le appariva come la conclusione giusta. Alla base c’era la mancanza d’affetto, l’assenza totale di un punto di riferimento. Percepiva sua madre come un essere che dava ordini e che odiava essere contradetto, con il quale era impossibile confidarsi perché tutto ai suoi occhi appariva come una grande sciocchezza. Una biblica cazzata che non aveva alcun tipo di peso e sulla quale non valeva la pena discutere. Quindi fondamentalmente era cresciuta sentendosi una persona senza un minimo di importanza, con l’autostima sotto i piedi che non valeva nulla per nessuno perché neanche per sua madre lei aveva un valore.
Vladimir le aveva sempre consigliato di ignorarla, che prima o poi avrebbe smesso di sgridarla e rimproverarla, ma niente sembrava porre fine alla sua scontentezza. Andava sempre tutto male; quando chiamavano dei parenti raccontava sempre di quanto lei e Devonne la facessero arrabbiare e di quanto dovesse subire il loro menefreghismo. Per sopravvivere aveva eretto un muro, dove qualsiasi cosa negativa, sì, rimbalzava ma inevitabilmente la feriva e andava ad aggiungersi alle altre piaghe precedenti.
Pensò di farsi una doccia, rilassante e fresca, così da lenire quei ricordi difficili da dimenticare. Aprì l’acqua, si svestì della canotta e del pantaloncino nero che usava come pigiama, e si gettò nella cabina. -Chissà dove diavolo è Loris- chiese a sé stessa frizionando lo shampoo tra i capelli. Non vedeva suo fratello da diversi anni, più o meno da quando l’ultima volta era venuto a trovarla in ospedale, poi si era volatilizzato come il pulviscolo atmosferico che prima noti e poi non vedi più. -Dannato Loris- continuò a rimuginare strofinando lo scrub sulle braccia. “Maledetto.” sussurrò sull’orlo di una crisi di pianto. “Perché mi hai lasciata sola anche tu?”
 

 
***

 
 
Sentì qualcuno fischiettare e si accorse che era proprio Marco che si apprestava ad uscire dall’ascensore pronto per iniziare il turno.
“Ciao Artemisia.” disse avvicinandosi e baciandole delicatamente le guance.
Lei ricambiò il saluto e sorrise. “Ehi, buon pomeriggio.”
“Ciao ragazzi buon lavoro!” dissero in coro due voci provenienti dall’imbocco delle scale.
“Grazie, ci vediamo domani!” urlò Marco per entrambi, alzando una mano simbolicamente in segno di saluto.
“Carlo e Francesca sono davvero delle persone deliziose.” esordì lei con un timido sorriso.
“Non posso non essere d’accordo.” rispose dando una leggera occhiata ai fogli della consegna. “Come ti senti oggi?”
“Neutra e un po’ apatica, ad essere sincera.” il suo sguardo si posò su di lei, penetrante e indagatore.
“Nonostante non ti conosca affatto l’avevo intuito.” un leggero sorriso gli decorò il viso.
Artemisia sorrise di rimando perché non poteva fare diversamente.
Prepararono la terapia insieme; Marco si occupò della terapia orale mentre lei di quella endovenosa. Adorava diluire i farmaci fin dal suo primo tirocinio: ovviamente la prima volta le mancava la manualità e riusciva a stento ad aspirare i diversi contenuti dai flaconi.
“Sai” disse interrompendo il silenzio. “Durante la mia prima esperienza in reparto mi è esploso un antibiotico mentre lo stavo inserendo in una siringa. Ha impuzzolentito tutta la stanza per non parlare di quanto erano diventate appiccicose e puzzolenti le mie mani.” cominciò a ridere piano come quando si ricordano dei momenti buffi e poi li racconti ai tuoi amici che non potranno capirti.
“Ah, sì?” incalzò Marco guardandola. “Non avevo dubbi.”
“Ma come?! Che stronzo!” urlò ridendo abbandonando la siringa e tirandogli uno schiaffo sul braccio.
 
 


***
 


“Sai è sempre stato difficile per me esprimere le mie emozioni, soprattutto durante l’adolescenza.” afferrò la sigaretta gentilmente offerta da Marco e l’accese.
Lui la guardò, mentre aspirava un po’ di fumo. I suoi occhi la invogliavano a continuare, curiosi di scoprirla.
“Tutt’ora parlarne comporta per me un grande sforzo perché il mio cervello continua a sussurrarmi che forse al mio interlocutore non importa niente di chi sono e di cosa ho passato. Quindi me ne sto zitta e la finisco così.” osservò il viso di lui tranquillo e rilassato.
“Un metodo troppo disfattista per affrontare la vita.” aggiunse Marco fissando all’orizzonte il sole che tramontava. Una nuvola rada di fumo uscì dalle sue labbra dischiuse, dileguandosi in pochi secondi.
“Tu come la affronti la vita?” gettò lì la domanda a bruciapelo.
Lui la guardò e rivelò un sorriso mesto. “Io?” domandò. “Ho imparato a perdonare me stesso per il male che mi sono fatto fare da chi pensavo mi amasse e non ha fatto altro che ferirmi.” aspirò nuovamente socchiudendo gli occhi. “Vedi, non è importante che il diretto interessato lo sappia. Sei tu che devi trovare la pace perdonandoti.”
“E ci sei riuscito?” proseguì lei sfiorandosi il mento con la mano come per appoggiarci su il viso.
“Perdonare un padre anaffettivo che non ti ha mai regalato una carezza in tutta la tua vita né un abbraccio e una madre assillante fino al midollo con la tendenza soffocare ogni tua indole? Posso solo dirti una cosa piccola Artemisia. Non è un percorso facile ma piuttosto contorto, complesso e a tratti doloroso. Fare i conti con sé stessi è la battaglia più difficile senza la quale la guerra non potrà mai essere vinta. Rischi tutto, compresa la sanità mentale e l’unica cosa che avrai in cambio sarà la vera libertà, non quella del corpo ma quella dello spirito.” la sigaretta era quasi finita, consumata anche un po’ dal vento.
Lei assorbì quelle parole come una spugna cattura l’acqua saponata, riflettendo sul senso che queste avrebbero potuto assumere nella sua vita. Erano frasi enigmatiche, alcune più chiare, ma il segreto era tutto lì in quel vago alone di mistero. L’essenza del cambiamento consisteva nella ricerca costante di un senso che avrebbe mutato lentamente la sua vita.
“Ti vedo turbata.” disse lui piano.
“Probabilmente è così.” rispose lei sospirando. Aveva smesso già da tempo di mentire su come si sentiva; se si notava tanto valeva accettare la cosa, senza stare a negoziare sul suo stato d’animo.
“Non ti piace ‘sta cosa vero?” aggiunse spegnendo la sigaretta calpestandola con la scarpa.
“Che non mi piace è riduttivo, la odio profondamente.” asserì lei osservando il mozzicone rotolare fino all’ultimo gradino.
“Cos’è che ti piace allora?” domandò lui cercando i suoi occhi verdi in quel viso pallido, circondato da lunghi capelli neri.
Lei si ritrovò a guardarlo di rimando incontrando l’azzurro dei suoi occhi, così penetranti e profondi.
“Mi piaceva essere amata e considerata l’unica donna per il mio uomo. Mi piaceva essere un punto di riferimento per mia sorella e per gli altri e...  adoravo uscire con il mio gruppo di amici. Costatando che la maggior parte di questi elementi ora non ci sono più, direi che la lista si è quasi del tutto annullata.” un sorriso rassegnato comparve sul suo volto. I ricordi erano la peggiore cosa che potesse rattristirla e ci riuscivano sempre benissimo. “Sai, vorrei tanto non essere sopravvissuta. È diventato un enorme peso per me vivere con la consapevolezza di aver perso gli unici due elementi che mi tenevano in vita. Ho perso Devonne e Vladimir in un modo così ingiusto e inaspettato che volevo suicidarmi appena tornata a casa. Avrei voluto aprire l’acqua nella vasca da bagno, riempirla, per poi immergermi e tagliarmi le vene. Volevo galleggiare nel mio stesso sangue perché non meritavo di vivere senza di loro. Erano le mie rocce ed io il castello costruito su di loro, ma quando una frana porta via le fondamenta è quasi impossibile che tutto ciò che c’è costruito sopra rimanga in piedi. Ebbene sono ancora qui, perché sono una codarda e non ho il coraggio di togliermi la vita.” non pianse perché non voleva, era stufa di versare lacrime ogni maledetto giorno.
 “Non sei codarda... hai solo voglia di vivere.” commentò Marco continuando a guardarla. “Vieni.” le strinse la mano e la trascinò nel parcheggio diretto verso la sua moto.
“Tieni, indossalo.” le porse il casco e indossò il suo. “Salta su.”
Artemisia lo guardò stupita. Aveva una paura fottuta delle moto fin da adolescente ma calzò il casco ugualmente. Decise che il timore non l’avrebbe più fermata, che avrebbe vinto questa piccola e insignificante battaglia seppur per lei significasse tantissimo.
“Dove andiamo?” domandò lei montando sul sedile e stringendosi timidamente alla schiena di lui.
“In un posto magico, che durante la sera lo è ancora di più.”
Sentì il motore riscaldarsi e accendersi, la moto partì a una velocità sempre più crescente. Il vento le scompigliava i lunghi capelli neri e una forte emozione cominciò a crescere dentro di lei come un piccolo fuoco appena acceso che a mano a mano prende piede.
“Guarda dritto di fronte a te.” urlò marco indicandole l’orizzonte scuro dove il cielo e la terra non si distinguevano più.
Percepì l’aria frizzantina tipica delle zone di mare e il profumo della salsedine che le pizzicava le narici. A poco a poco che si avvicinavano alla costa il rumore del mare, in quella notte silenziosa, si faceva sempre più chiaro come una canzone fatta partire allo stereo. Era davvero una sensazione magica, che non provava da tanto tempo. Lasciò per alcuni attimi il busto di Marco, che ancora guidava sulla lunga strada principale a pochi passi dal mare, e liberò le braccia verso il cielo accogliendo tra le mani il vento e diffondendo nell’aria un urlo liberatorio.
Marco parcheggiò la moto a qualche metro dal mare perché la sabbia già prendeva il sopravvento sull’asfalto. Erano arrivati in un piccolo quartiere zeppo di villette dove la maggior parte delle persone passavano unicamente l’estate. Poi c’erano quelli come Marco che avevano deciso di viverci durante ogni stagione dell’anno.
“Grazie.” disse lui dopo essersi tolto il casco e aggiustato alla meglio i capelli biondi.
“E di cosa?” rispose lisciandosi la chioma nera con uno sguardo curioso.
“Ti sei fidata di me e questo vale molto.” un sorriso apparve sul suo volto illuminandolo come una stella meravigliosa fa risplendere un cielo buio.
Proseguirono la serata passeggiando sul lungomare, a qualche centimetro di distanza l’uno dall’altra come per mantenere un rispetto reciproco dei propri spazi. Giunsero poi in una spiaggia libera e decisero che avrebbero continuato a parlare lì.
Marco si apprestò a sedersi a qualche metro da dove le onde del mare terminavano il proprio corso per poi tornare indietro, facendo segno ad Artemisia di sedersi. Rimasero per diversi istanti in silenzio, cullati dal rumore del mare calmo come fosse una ninna nanna, a pensare a chissà cosa ognuno per conto proprio.
“Vorrei tanto essere un’onda.” sussurrò lei disegnando nella sabbia dei ghirigori.
“Ah, sì?” si voltò verso di lei per osservare, per quanto permesso dall’oscurità, tra i bagliori della luna, l’espressione di lei. Traeva da quella penombra una sentita malinconia che le sue parole non mascheravano di certo.
“Libera da ogni emozione e sentimento e vivere così; senza uno scopo e senza una meta, spostata a piacimento dal vento.” alzò la testa volgendo lo sguardo alla luna piena che si rifletteva magnificamente sullo specchio dell’acqua.  “Sento di aver bisogno di qualcosa che mi stravolga la vita in modo così violento da spedire tutti i ricordi tristi e dolorosi nei posti più reconditi della mia mente, così da poter iniziare da capo un’altra volta.” strinse le ginocchia al petto poggiando su di esse la testa rivolta verso di lui.
“E se l’unica cosa di cui tu avessi davvero bisogno fosse il ritrovare te stessa?” suggerì Marco aprendo il pacchetto di sigarette estraendone due. “Ti sei solo persa e hai smarrito la via. Prendi in mano la bussola, ritrova il nord e presto la strada ti sarà familiare e luminosa.” accese la sigaretta e porse quella ancora spenta ad Artemisia.
“Io forse la mia strada non l’ho mai trovata.” disse lei aspirando un lungo tiro dal filtro.
“Comincio a pensare che nel profondo questa sensazione di smarrimento tu non la voglia abbandonare. È come se ormai la ritenessi parte di te.” si sdraiò sulla sabbia fredda con le braccia dietro la testa. “Sei così diversa da tutte le persone che ho incontrato finora. Nel tuo non voler emergere tra la folla tu spicchi ugualmente; il tuo aspetto gotico affascina anche solo guardandoti di sfuggita ma più di tutto è come se tu emanassi un’energia diversa, una sorta di magnetismo.” una modesta nuvola di fumo emerse dalle sue labbra e sparì dissolta dal vento in un attimo.
“Cos’è un complimento?” domandò Artemisia mentre cercava di liberarsi dalla cenere che pendeva dalla sigaretta.
“Anche.” si limitò a rispondere Marco facendole cenno di sdraiarsi al suo fianco e dopo qualche attimo di esitazione si accomodò anche lei tra la sabbia a pochi centimetri da lui. Rimasero a guardare la volta celeste per quasi un’ora in silenzio, consumando quel poco tabacco che rimaneva, illuminati dalla luna e da quella miriade di stelle sopra di loro.
“Abbracciami.” sussurrò Artemisia accoccolandosi vicino al suo petto. “Per favore.” sembrò quasi una supplica, ma nascosta dietro a un muro di delicata dolcezza.
Marco rimase colpito da quella richiesta perché in parte non se l’aspettava e poi nessuno gli aveva mai chiesto di essere abbracciato; di solito era una cosa che veniva naturale e per la quale non c’era bisogno di chiedere. Quindi la strinse a sé, carezzandole i lunghi capelli neri contaminati dalla sabbia, stampandole un soffice bacio sulla fronte.

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Capitolo 3
*** III ***


-Dannazione- pensò Marco scalciando via le coperte per il troppo caldo. -Cosa diavolo mi sta succedendo- si scompigliò i capelli biondi come per scacciare quei pensieri che gli vorticavano nella mente. I suoi lunghi capelli neri, il corpo pallido e formoso, quegli occhi verdi velati di tristezza lo avevano folgorato e non se l’aspettava. Non credeva di potersi invaghire così in fretta non solo di un corpo ma soprattutto di un’anima malinconica e oscurata dal dolore.  Decise che era meglio alzarsi e prepararsi un caffè, quindi imboccò il corridoio e arrivò in cucina. Stava cominciando a bruciare dentro di lui un intenso fuoco, un forte desiderio di calore umano, quella sensazione piacevole che inebria l’essere nella sua totalità e che da tempo non provava più. Cominciò a sorseggiare il caffè caldo con attenzione, mescolando col cucchiaino per far sciogliere quel poco di miele che aveva aggiunto. Osservò al di fuori della finestra la tranquillità della mattina presto quando solo chi va a lavorare fuori sede è in giro per strada insieme a qualche valoroso corridore.
Era tutto perfettamente in pace, tranne sé stesso. Percepiva un tornado di emozioni che non facevano altro che versare altra benzina sul quel piccolo fuoco che sarebbe diventato di quel passo un incendio; e purtroppo per lui non c’erano pompieri da chiamare o vestiti da gettare al di sopra. Il suo cuore voleva tornare ad amare terribilmente, voleva di nuovo impazzire d’amore per inebriarsi di quella sensazione ma il suo cervello e l’orgoglio ferito bloccavano questo flusso sempre più forte e vigoroso con la paura. La paura di essere usati e poi gettati via, di struggersi per amore e rimanere delusi, di dedicarsi troppo e con eccesiva dedizione e ricevere in cambio solo della fredda indifferenza. Si sentiva esattamente come sul l’orlo di un precipizio: con coscienza o torni indietro consapevole di non procurarti sicuramente del dolore o azzardi un salto e rischi di farti male, tanto o poco non si sa.
“Fanculo.” sussurrò gettando con noncuranza la tazzina nel lavabo della cucina.
 
 
***
 
 
Rachel aveva la nomina di essere una grande ritardataria e anche quel pomeriggio non aveva smentito l’epiteto affibbiatole da Artemisia fin dai tempi del liceo. Sapeva che per lei le diciassette sarebbero diventate le diciassette e trenta ma si ostinò ad arrivare puntuale, prendendo posto al bar nel quale si erano date appuntamento. Inaspettatamente notò la chioma bionda riccia, sfumata verso il castano, varcare la soglia del locale e un sorriso nascere sul suo volto.
“Amore mio!” esclamò allargando le braccia e stringendola forte fino a quasi toglierle il fiato.
L’amica ricambiò l’abbraccio stampandole due baci sulle guance.
“Allora racconta, sono curiosissima!” disse Rachel sedendosi e mimando un applauso muto.
Artemisia la guardò, poi abbassò lo sguardo stringendo i pugni in un gesto nervoso.
“Mi trovo bene, non poteva capitarmi partner migliore.” affermò sorridendo alla cameriera che portò al tavolo una porzione di tiramisù e una fetta di torta al cioccolato.
“Non ti sembra di star parlando troppo?” ironizzò Rachel assaggiando il dolce al cacao. “Argomenta!” aggiunse quasi irritata.
“Beh, è un bell’uomo, alto, occhi azzurri e capelli biondi e.… sembra capirmi senza che io stia a parlare per ore.” rispose Artemisia concentrandosi sul piattino in ceramica bianco, sporco di mascarpone.
L’amica la guardò intensamente per qualche secondo. “La cosa ti turba?”
“In realtà mi fa comodo ma, allo stesso tempo, mi inquieta perché non capisco come faccia a comprendermi così efficacemente sapendo poco e niente di me. Lo conosco da due giorni e mi sembra come se fosse sempre stato accanto a me.” quasi si vergognò di quelle parole ma era quello che sentiva.
Un’espressione soddisfatta apparve sul viso di Rachel come se le sue supposizioni fossero sempre state giuste.
“Prendimi pure per stupida per quello che sto per dirti ma devo farlo; credo che lui sia la tua ‘scheggia d’anima’. Forse è troppo presto per poterlo decretare quindi... col tempo me lo confermerai o no.” disse raccogliendo con la forchetta le briciole lasciate dalla torta. “Ora vado, ho le prove con la compagnia teatrale.” aggiunse alzandosi e abbracciando l’amica che ricambiò stringendola ancora più forte.
“Cos’è una scheggia d’anima?” sussurrò Artemisia all’orecchio di Rachel.
“È l’ultimo tassello che rende la tua anima completa.” rispose lei mentre abbandonava il loro abbraccio.
 
 
***
 
 
Il turno di notte iniziò nel peggiore dei modi desiderabili: sembrava che in alcuni giorni i parenti dei pazienti si mettessero d’accordo per infuriarsi con gli infermieri di turno e quella volta toccò a Marco e ad Artemisia sorbirsi lamentele di ogni tipo.
‘Come mai a mia madre è spuntato questo livido sulla mano? Ma è normale ‘sta cosa? Che diavolo le fate?’ oppure ‘Perché mio padre ha i polsi legati? Cos’è un animale?’ e ancora ‘Da quando mia madre è in isolamento? A casa stava benissimo: è arrivata qui e si è presa le peggiori malattie!’.
Artemisia aveva ascoltato e compreso le loro preoccupazioni rispondendo ad ogni dubbio anche se esposto in maniera maleducata ed incivile. ‘Il livido lo ha già da tempo, purtroppo può capitare nei pazienti anziani un versamento di sangue dopo l’inserimento di un ago cannula e l’estrazione di quest’ultimo per uno scarso funzionamento.’ e ‘Suo padre ha i polsi legati perché ha tentato più volte di strapparsi il catetere e il picc e il medico ha quindi deciso, per preservare la sua incolumità, di adoperare dei mezzi di contenimento per limitare i danni.’ oppure ‘Sua madre è immunodepressa per questo ha contratto l’infezione da Clostridium che purtroppo attacca spesso tutti coloro che sono più deboli dal punto di vista immunitario.’
Quando l’orario di visita terminò, il reparto sembrò tornare ad un’apparente pace che tranquillizzò tutti i ricoverati. Artemisia durante i pochi anni di lavoro e l’esperienza fatta negli anni di tirocinio aveva potuto appurare che erano i parenti ad agitare i pazienti portando eccessiva ansia ed apprensione nelle loro stanze. Figli che obbligavano i genitori più che novantenni a ricoverarsi quando questi desideravano semplicemente morire tranquilli a casa loro e non subire lo stress della routine ospedaliera, anziani parcheggiati in ospedale come se fosse una casa di riposo per poter andare in vacanza senza preoccupazioni, altri lasciati soli durante tutti i giorni o le settimane di ricovero. Una realtà degradante che lei stessa faceva fatica ad accettare e che anzi, le forniva più elementi per contestare i criteri di accettazione dei ricoverati.
Erano da poco passate le ventidue e Marco era intento a preparare la terapia orale come al suo solito, ma non sembrava il Marco di sempre, qualcosa in lui non andava. I suoi occhi azzurri le erano apparsi spenti, privi di quel bagliore che li aveva contraddistinti durante quei giorni. Anche nel suo modo di fare sembrava meccanico, privo di passione, come agisce un robot tramite l’invio di alcuni comandi così appariva Marco quella sera: senza emozioni.
“Qualcosa non va?” domandò lei preparando alcuni flaconi di soluzione fisiologica sul carrello delle diluizioni.
“Mh?” mugugnò lui ruotando leggermente la testa verso Artemisia che era intenta a scegliere alcune siringhe. "Come?” fece finta di non aver compreso la domanda.
“Non fare il finto sordo, hai capito. Se non vuoi parlarne è un altro paio di maniche.” lo guardò con decisione, come a non voler essere presa in giro.
“A cosa devo quest’aggressività?” propose Marco fissandola intensamente.
“Non sono affatto aggressiva.” rispose lei alzando lievemente un sopracciglio.
“Ah, no?” tolse dal blister una compressa di ferro.
“Sono responsabile di quello che dico non di quello che percepisci tu.” fu decisamente una risposta acida.
“Sei acida e aggressiva stasera, ti sta marcendo il sangue o qualche organo in particolare, tipo il cervello?” le lanciò una forte provocazione pronto a coglierne anche gli effetti pur di non dover parlare di sé.
Il sopracciglio di Artemisia si alzò di nuovo, stavolta in modo più teatrale. “Scherzi, vero?”
Un interminabile silenzio si instaurò tra i due che nervosamente ripresero a fare il proprio dovere.
“Non è mia intenzione farmi i fatti tuoi.” aggiunse la ragazza mantenendo un certo contegno.
“Nessuno ha detto che non puoi.” disse Marco avvicinandosi ad Artemisia sfiorandole delicatamente una guancia con i polpastrelli. “È che non voglio far pesare i miei problemi su di te, hai già tanti pensieri per la testa.” concluse fissando il suo viso stupito da quel tocco. Notò l’arrossire sulle sue gote che risplendeva dolcemente sul pallore del suo volto.
“Tu credi che io non possa ascoltare ciò che ti tormenta perché ho ferite ancora aperte che non intendono rimarginarsi?” lui abbassò lo sguardo come a sentirsi colpevole per ciò che aveva detto un attimo prima. “Il fatto che sto soffrendo non vuol dire che non possa essere d’aiuto a chi mi è stato vicino.” i suoi occhi brillarono come feriti, come se quelle parole l’avessero toccata troppo nel profondo, intaccandole l’orgoglio.
Marco si allontanò, avvicinandosi alla finestra. La notte era ormai calata e il cielo scuro, ornato da qualche stella, ospitava un grande luna piena e luminosa. “Scusa.” disse infine lui appoggiando la schiena alla finestra chiusa. “Non volevo farti sentire inutile.”
Lei lo guardò intensamente, intenta a capire se mentiva o meno, ma non riuscì a cogliere alcun elemento che potesse confermare una delle due tesi. Continuò a scrutarlo, dando importanza al viso definito, senza barba, dove i suoi occhi troneggiavano imponenti incorniciati dai capelli biondi. Sembrava turbato, come se quella conversazione l’avesse sconvolto, come se quelle parole fossero state pronunciate d’impulso senza la ragione a sostenerle. Ebbe il sospetto che quelle frasi potessero essere solo uno strumento di difesa, non mirate ad offenderla, ma piuttosto a proteggere sé stesso dall’affrontare un argomento spiacevole.
“Non si reagisce così, Marco.” continuò a diluire gli antibiotici posti sul carrello distogliendo lo sguardo.
“È solo che ultimamente non riesco a capire me stesso, ed essendo io una persona razionale, non mi capacito di come alcune cose possano accadere senza poter essere spiegate.” ammise lui tornando al carrello della terapia orale.
“Forse perché al momento non hai ancora le capacità per capirti a pieno.” aggiunse la ragazza tornando a guardarlo. “Tempo al tempo.” e gli sorrise.
“Quando non riesco a spiegare razionalmente qualcosa mi agito come se il mio cervello volesse a tutti i costi trovare una soluzione. Penso e ripenso, ma niente.” disse quasi rassegnato.
“I sentimenti e le emozioni spesso non si possono spiegare a parole, figurati se si può conferire loro un aspetto sensato. Non si può Marco, semplicemente non possiamo concretizzare l’amore, la paura o l’ansia pensando che una volta avvenuto questo si possa trovare una soluzione definitiva ogni volta che queste emozioni verranno tirate in ballo. Ogni volta che ci innamoriamo proviamo una sensazione diversa, come quando sentiamo la paura o l’ansia. Non ci sono procedure standard, vanno vissute e basta.” Artemisia tornò a sorridergli come per rassicurarlo. Marco sentì un brivido corrergli lungo la schiena e di nuovo un calore riscaldargli il petto. Percepì il bisogno di abbracciarla, di sfiorarle di nuovo la pelle spettralmente bianca, di condividere quel calore che gli avvampava il petto.
“Sembra che la mia anima apprezzi la tua.” disse infine Marco terminando col traffico delle compresse.
“Penso che la mia ricambi il sentimento.” rispose lei evitando intenzionalmente il suo sguardo.
Lui si limitò a sorriderle e delle graziose fossette apparvero sul suo viso, tirò il carrello verso di sé e si avviò verso l’uscita. “Andiamo.” le consigliò mentre imboccava il corridoio del reparto.
 
 
***
 
 
Ci sono luoghi, parole, canzoni che riporteranno sempre alla memoria determinati eventi o ricordi. Momenti dolci, forti o terribili che vissuti nuovamente risvegliano sensazioni che forse sarebbe meglio socchiudere in un cassetto della mente.  Avrebbe desiderato volentieri dormire, ma il suo corpo voleva restare vigile. Diede uno sguardo alla sua camera da letto, che un tempo era anche di Vladimir, e ricordò quanto amavano ritrovarsi a casa dopo una giornata intera, passata separati a causa del lavoro, e quanto lui adorasse sdraiarsi completamente nudo a fianco a lei totalmente svestita. Le piaceva guardarla, ammirare le morbide curve che formava il suo corpo adagiato su un lato, sfiorarle con i polpastrelli e vederla rabbrividire. Passavano le nottate uno di fronte all’altra, carezzandosi e regalandosi piccoli baci.
“Ti amo, principessa.” sussurrò Vlad prendendola per i fianchi e attirandola a sé.
“Ti amo.” rispose piano Artemisia affondando il viso nell’incavo del suo collo, sfiorando il leone tatuato sul suo bicipite. Ruggiva.
Rimase immobile sulla soglia della porta a fissare il letto vuoto, come se avesse avuto un’allucinazione e scivolò lungo lo stipite fino a toccare il pavimento.
“Solo la morte ci poteva separare, vero principe? Dopo dodici anni, insieme solo la morte.” strinse attorno a sé le sue stesse braccia come a simulare un abbraccio. “È così che doveva andare? Sono stata felice e amata troppo a lungo, doveva finire prima o poi.” scosse la testa come a negare le sue parole. “Perché a me? Sono stanca di lottare Vlad, dove sei? Torna da me.” fu quasi un urlo, un grido disperato che intendeva varcare qualsiasi mondo ultraterreno, come Orfeo tentò tutto per riprendere Euridice, anche lei era disposta a sacrificare qualsiasi cosa per rivederlo anche solo per l’ultima volta, dargli un bacio e dirgli addio. Ma come spiega il mito è impossibile riportare i morti nel mondo terreno; ciò che si può fare è convivere con il proprio dolore, lavorare con esso e trasformarlo in amore per la vita.
Si alzò di scatto, strappò le lenzuola da letto con violenza gettandole a terra, urlò trascinando a terra tutto ciò che c’era sulla scrivania di fronte alla finestra, poi batté i pugni contro la parete continuando a urlare come se mille avvoltoi le stessero divorando gli organi, uno ad uno. Cadde a terra, rannicchiandosi in posizione fetale con le mani strette tra i lunghi capelli neri. Scoppiò in un pianto nervoso e violento, si dimenò, tirò qualche debole calcio e sempre più lentamente si addormentò come se qualcuno le avesse somministrato qualche calmante. Il suo respiro affannoso e accelerato, col passare dei minuti, si regolarizzò, le dita abbandonarono il cuoio capelluto portandosi dietro alcuni capelli e le lacrime cessarono di cadere. Rimase immobile sul pavimento per ore, assopita in un sonno nervoso, indotto dalla stanchezza e dalla violenza di quei ricordi.
Il sogno che fece era piuttosto confuso, scuro e al risveglio non ricordò nulla, nessun dettaglio. In un battito di ciglia era tutto svanito. Aveva un forte mal di testa dovuto al pianto isterico che l’aveva messa al tappeto, seguito da un forte dolore articolare. Quando provò a mettersi in piedi vacillò come disorientata ma ritrovò subito l’equilibrio. Evitò con menefreghismo il caos da lei stessa prodotto poco tempo prima e raggiunse il telefonino per orientarsi e capire che ora fosse; lesse le quattordici e zero due.
Il campanello suonò insistentemente, procurandole un fastidio di dimensioni bibliche. Si avviò alla porta e curiosando dallo spioncino rimase di stucco e indugiò sull’aprire la porta o meno.
-Che diavolo vuole- pensò tra sé e sé mentre tentava di eliminare il nero colato nella zona perioculare. -Cazzo-
“A cosa devo questa visita?” disse Artemisia con il tono più amichevole possibile aprendo la porta e facendo segno di entrare alla figura minuta che aspettava lì fuori. “E soprattutto dov’è Loris?”
“Ci siamo lasciati un’altra volta, non so dove sia.” rispose lei entrando e chiudendo la porta dietro di sé.
“E allora che vuoi?” domandò con insofferenza prendendo una sigaretta dal portaoggetti e accendendola senza farsi troppi problemi. “Non sono una terapeuta di coppia.”
Serena rimase in silenzio come per scegliere le parole più adatte per iniziare il suo discorso. “Artemisia, so che mi detesti e che mi hai aiutata in passato solo perché mi vedevi veramente in difficoltà, ma stavolta la cosa è più seria del previsto e io devo trovare Loris.”
Rise di gusto sentendo quella richiesta. “Ma ci sei o ci fai? Non vedo mio ‘fratello’ da tre anni, perché avete ben pensato di spassarvela in giro come se io non esistessi più, e ora che lui è scappato un’altra volta vieni a chiedermi aiuto? Tra un po’ non so neanche che faccia abbia e vieni a chiedermi una mano per cercarlo?” aspirò abbondantemente un tiro di fumo e restò a guardarla disgustata.
“Sono incinta.” ammise Serena carezzandosi debolmente il ventre.
“Raccontala a qualcun altro, io le tue finte gravidanze non me le bevo più. È rimasto solo quel cretino di Loris che ti crede...o forse neanche lui.” il tono sprezzante in cui le rispose era quasi umiliante.
“Come puoi dubitare?” sussurrò offesa la ragazza raccogliendo la borsa e tornando verso l’ingresso.
“Ho smesso di credere alle vostre cazzate. Sparite tu e Loris, non fatevi più vedere.” non si alzò neanche per aprirle la porta che sbattè rumorosamente.
Si era stancata di essere sempre disponibile per chi non lo meritava come se a lei dovesse importare per forza dei problemi degli altri mentre questi potevano deliberatamente infischiarsene di lei. In fondo la colpa era solo sua se si era resa così disponibile per certi personaggi che poi si erano rivelati dei perfetti approfittatori ed i peggiori erano proprio coloro che in teoria le sarebbero dovuti stare vicino.
Spense la sigaretta e la accartocciò nel posacenere, con un moto di stizza. -Maledetti- pensò, mentre incoscientemente
ne accese un’altra.

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Capitolo 4
*** IV ***


Quando smontava dal turno di notte percepiva come il completamento di un ennesimo ciclo; aveva fatto il suo dovere con passione e responsabilità e questo lo rendeva orgoglioso di ciò che era diventato. Ora lo aspettavano due giorni liberi e non aveva ancora idea di come occuparli, quindi, una volta arrivato a casa passò la mattinata oziando sull’amaca fuori al terrazzo coccolando il suo gatto, Shinobi, leggendo un buon libro e, a volte, cadendo addormentato sfiorato dal vento tiepido.
-E se...- pensò mettendosi seduto con le gambe a penzoloni. - Andassi in giro per locali stasera? - infilò gli infradito evitando la palla di pelo che sonnecchiava vicino alle sue scarpe. -Magari la invito? – scosse la testa come a negare a priori questa possibilità. -Che palle- sospirò. -Ma che mi sta succedendo? – entrò dalla porta che dava verso la cucina preparandosi un toast con prosciutto e formaggio.
“Potremmo divertirci, passare una serata diversa in un locale dove suonano musica latina... non ho voglia di andare da solo.” disse rivolto al gatto bianco che rispose con un ‘miao’. Guardò l’animale che si strusciò contro il suo polpaccio e poi si andò ad accoccolare nuovamente all’aria aperta.
Addentò il toast rimuginando sul da farsi, indeciso ed insicuro. Era come se una crisi adolescenziale l’avesse colto in pieno investendolo con tutte le emozioni possibili tipiche di quell’età. Non sapeva come agire e si sentiva completamente smarrito in quel gorgo sentimentale che lo stava disorientando.
Non ricordava che al liceo si sentisse così quando voleva uscire con una ragazza: era molto più spavaldo, sicuro di sé e i rifiuti non lo spaventavano affatto. In quel periodo non era un ragazzo da relazione seria e stabile, voleva divertirsi e non prendere impegni con nessuna perché sapeva che non avrebbe adempito al ruolo di fidanzato modello. Nonostante questo, un esiguo gruppetto di ragazze, non si arrendeva a quest’evidenza senza badare a questo suo sentirsi inadeguato e lui continuava ad ignorarle sotto quel punto di vista. Tutti erano soliti pensare che fosse andato a letto, almeno una volta, con ognuna di loro e Marco non si preoccupò mai di smentire questa diceria. Avrebbe alzato un polverone inutile di pettegolezzi su quella storia e allora tanto valeva lasciarla così com’era; lui la coscienza l’aveva apposto. All’università poi la svolta; continuava ad andare a ballare e ad uscire la sera con gli amici ma cominciò a sentire dentro di sé l’esigenza di avere una donna al suo fianco, una donna che avrebbe percepito in tutte le sue sfumature e non solo come amante. Non era solo un bisogno fisiologico dettato dall’istinto ma un desiderio potete di legarsi a qualcuno con l’anima, con la mente e con il corpo.
Incontrò Celeste durante l’estate di cinque anni prima, sul lungomare dove era solito ritrovarsi al bar con i colleghi dell’università. La vide passare con il suo immancabile tubino e i sandali con il tacco alto, i capelli castani legati in una coda alta ed il trucco ben sistemato. Stava chiacchierando con una sua amica sotto braccio quando voltandosi incrociò i suoi occhi e lui le rispose con un sorriso. Da allora cominciarono a frequentarsi, dopo poco si scambiarono il loro primo bacio a cui seguì una nottata a casa sua che all’epoca gli sembrò il meglio che potesse capitargli. I primi mesi di una relazione sono quelli che fanno apparire il partner come il migliore al mondo; c’è il buon sesso, si parla e pare che ci si ami. Fino a quando iniziò a legarsi a lei più profondamente e in quel momento cominciarono ad emergere i difetti, le paranoie, le ossessioni e le possessioni, sulle quali lui aveva sorvolato per molto tempo, perché sentiva di amarla fortemente ma, allo stesso tempo, ebbe il sentore di essere privato della sua libertà. Dopo due anni, con un dispiacere immenso, decise di porre fine alla loro storia, ma non fu mai un capitolo chiuso. Continuarono a vedersi sporadicamente, facevano sesso e poi se ne andavano uno per la propria strada. Capì che lei accettava di incontrarlo perché non poteva ammettere di non aver più il possesso sulla sua vita, quindi quando si ritrovavano, lei godeva di questa sensazione mentre, per Marco, era diventato più uno sfogo fisico ormai e niente di più. Aveva poi deciso di mettere un punto a quella storia e di chiudere il libro definitivamente perché nel tempo i suoi comportamenti erano diventati sempre più invadenti e inoltre voleva interrompere questa sciocca dipendenza da una donna che l’aveva reso arido.
Afferrò il cellullare e chiamò Artemisia, così da poterle spiegare tutti i dettagli.
“Pronto?” rispose lei cordiale come a mascherare dello stupore.
“Ciao... come va?” domandò lui giocando con il tovagliolo ormai in brandelli sul tavolo.
“Beh, si tira avanti. Dimmi tutto.” disse con calma.
“Pensavo di andare a ballare e mi chiedevo se ti andasse di venire con me.” sorrise anche se lei non poteva vederlo.
Qualche secondo di silenzio calò tra i due interlocutori. “Perché no?” decretò infine lei.
“Fantastico! Allora vengo a prenderti alle ventidue.” cercò di limitare la contentezza il meglio che poteva.
“A dopo allora.” concluse la ragazza dall’altra parte entusiasta.
 
 

 
***



La vide uscire dal portone e guardarsi intorno; evidentemente si aspettava di vederlo in moto e non in macchina quindi suonò il clacson per attirare la sua attenzione. La sentì imprecare per lo spavento. Rise.
“Che Zeus ti fulmini!” disse Artemisia entrando in macchina e assicurandosi che il vestito le coprisse il fondoschiena.
“Buonasera anche a te.” rispose ridendo Marco non tanto per la frase ma tanto per l’espressione sul suo viso. Mise in moto e accese la radio per avere un piacevole sottofondo musicale durante il tragitto.
“Come mai hai deciso di invitarmi?” domandò lei curiosa, voltandosi leggermente sul sedile per guardarlo meglio.
Improvvisamente si irrigidì non aspettandosi quella domanda precisa. Prese tempo, adocchiando quale uscita prendere per arrivare al locale. Sentiva i suoi occhi scrutare ogni suo movimento.
“Pensavo potesse essere utile per il nostro ancora prematuro rapporto e consentirci di conoscerci meglio.” disse con tono aulico come ad imitare un lord inglese.
“Lei crede che in un locale dove si balla musica latina si possa incrementare una conoscenza?” rispose Artemisia restando al gioco.
“Lo credo signorina, perché la porto a scoprire un posto che mi piace frequentare e che magari potrebbe gradire anche lei.” rallentò e parcheggiò vicino un marciapiede sul quale la ragazza poté scendere in tutta sicurezza.
Camminarono per qualche metro illuminati dalla luce dei lampioni; entrambi i marciapiedi che delimitavano la strada a senso unico erano gremiti di gente che aspettava fuori dai locali fumando e ridendo allegramente. Artemisia era tutta concentrata sull’evitare le buche o le crepe dell’asfalto risultando parecchio goffa a causa dei tacchi alti mentre Marco, tranquillo nelle sue scarpe non troppo eleganti, avanzava adagio.
Una fila di dimensioni rilevanti scorreva fluida all’interno del locale ‘Sweet Mamba’. Aspettarono il loro turno con calma scambiando qualche parola e dopo circa una mezz’ora furono dentro.
La musica sparata ad un volume altissimo stimolava tutti i presenti a lanciarsi in balli energici e mosse voluttuose dividendo i ballerini amatoriali in due grosse categorie: coloro che assumevano pose soavi e seducenti, armonizzando le mosse del proprio corpo alla musica e chi invece risultava volgare, per nulla sensuale e scoordinato nei movimenti.
Il locale si espandeva su un unico piano parecchio ampio e, sui due lati, due piani rialzati ospitavano la console del dj e il privè, mentre la pista principale occupava la maggior parte dello spazio disponibile insieme al bar che era stato sistemato lungo un’intera parete.
Artemisia, vestita con un abito nero di merletto reso più voluminoso dall’anca a metà coscia da uno strato di tulle, camminava vicino a Marco cercando di non urtare nessuno per raggiungere il bar.
“Cosa prendete?” disse il barman strofinando un bicchiere per asciugarlo con un panno.
“Un mojito e ...” rispose lui cercando il nome del cocktail sulle labbra di lei. “Un Planters.” rispose la ragazza con un lieve sorriso scaturito dall’espressione apparsa sul volto di Marco. “Giù col rum.” aggiunse lui con un occhiolino. “Impazzisco per il rum.” disse infine prendendo il suo massiccio bicchiere di vetro e recandosi verso l’interno della pista.
Le luci intermittenti e colorate invadevano l’intero locale proiettando sui presenti in pista fasci di luce assumendo forme strane. Marco ballava tranquillo a pochi passi da Artemisia che, anche se impacciata e a disagio, cercava di non darlo a vedere. Non era abituata a quei luoghi chiassosi e pieni di gente ma stava cercando di ridimensionare la sua vita e, divertirsi in una discoteca, rientrava negli obiettivi. Era scontato che il suo cervello la stesse suggestionando facendole credere che tutti la stessero guardando per prenderla in giro e che perfino Marco si fosse unito a quelle persone. Fece una giravolta su sé stessa come per scacciare quei pensieri malevoli; non aveva più quindici anni, era ora di finirla.
Bevve un sorso del cocktail dalla cannuccia e ondeggiando si avvicinò a Marco mantenendo però una piccola distanza tra i loro corpi. Sentì le dita di lui stringerle la mano sinistra, attrarla verso di sé, farla piroettare e poi allontanare di nuovo muovendo sobriamente il bacino a ritmo di musica.
“Sotto una divisa bordeaux si nasconde un ballerino appassionato.” disse Artemisia il più vicino possibile all’orecchio di lui. Aveva un buon profumo, fresco ma avvolgente.
“Nascosta, tra quei vestiti gotici, c’è un’anima colorata, che pulsa.” rispose Marco guardandola negli occhi.
“Probabile, altrimenti sarei un cadavere.” aggiunse lei sorseggiando l’ultimo assaggio di rum rimasto sul fondo, nascondendo un sorriso.
Posarono i bicchieri sul primo tavolo apparentemente libero. Marco mandò giù l’ultimo sorso del cocktail e, prendendo entrambe le mani di lei, si trascinarono lungo la pista ballando facendosi trasportare completamente dalla musica.
“Ya no te escondas más que yo te encuentro mira que es el momento para lucir los sentimientos. Tus besos son mi delirio, sálvame de ese vacío, no jueges a las escondidas oh, oh. Espero que no estés perdida vida mía oh, oh. Yo no me cansaré de buscar este amor, yo sé que te hice daño y hoy soy preso del dolor.” Marco ricalcò sussurrando le stesse parole della canzone che stavano ascoltando in quel momento, prendendole il viso tra le mani poggiando la sua fronte sulla sua. Lei provò a comprendere quelle parole anche se non conosceva per nulla lo spagnolo, ma riuscì a intendere il concetto di quelle parole.  Un significato dolce, forse passionale che lui le stava trasmettendo con quel semplice tocco. Si lasciò coccolare da quel gesto e trascinare dal ritmo, sì travolgente ma allo stesso tempo riusciva a percepire al suo interno della malinconia.
“... ando buscando ...” ripeté Artemisia ciondolando con la testa il titolo della canzone che le era entrato nel cervello.
“Cosa cerchi?” tradusse Marco il più vicino possibile alla ragazza per farsi sentire.
Lei, dopo aver alzato lo sguardo, strinse la mano di lui girando su sé stessa, poi rispose. “Potenzialmente, la felicità.”
 
 

 
***



 Era calata la notte che portò con sé una gradita frescura e un cielo limpido gremito di stelle.
Aprì la portiera, osservando la strada deserta a quell’ora tarda e così silenziosa.
“Grazie Marco.” disse lei voltandosi verso di lui e baciandolo sulle guance per salutarlo.
“E di cosa?” rispose lui sorridendo sinceramente.
Ricambiò il sorriso e fece per scendere dall’auto. “Questa serata mi è stata molto d’aiuto, non mi divertivo da un po’.”
“Anche io ne avevo bisogno.” confermò tamburellando le dita sul volante.
Un silenzio che parve infinito scese tra di loro, interrotto solo dalla sirena di un’autoambulanza lontana chilometri e da qualche straziante miagolio. “Sali?” domandò piano, col viso volto verso la portiera semi aperta.
“È successo qualcosa?” ribatté Marco incuriosito da quella richiesta.
“Volevo offrirti qualcosa di fresco e fare due chiacchiere. Io e il sonno non andiamo molto d’accordo ultimamente.” confessò lei girandosi per cercare una risposta sul suo viso.
  “Ho ancora le pile cariche, reggo ancora un po’.” spense l’auto e la seguì.
Salirono due rampe di scale, poi varcarono la prima porta a destra. Un bel salotto ampio, con cucina annessa, si espandeva dall’uscio decorato in uno stile sobrio ma per niente banale.
“Accomodati.” lo invitò a sedersi mentre sparì per un attimo nel corridoio.
Scelse una poltrona bianca posta nei pressi di un divano dello stesso colore decorato con dei cuscini con diverse stampe damascate. Lo colpì la parete alla sua sinistra riempita di quadri e fotografie sulla quale si soffermò per diversi minuti; una foto resa quadro del ‘Ratto di Proserpina’ di Gian Lorenzo Bernini troneggiava al centro del muro, altre cornici, decisamente più piccole, circondavano la gigantografia.
“Cosa preferisci: succo alla pesca, thè, caffè, dimmi.”  disse Artemisia sorprendendolo assorto nel guardare le foto appese.
“Del succo va benissimo.” rispose disinvolto mentre ancora osservava quelle strane fotografie.
Si avvicinò con i due bicchieri colmi e poi si sedette sul divano, accavallando le gambe.
“Mi sembri sorpreso.” dichiarò schiettamente lei voltando lo sguardo nello stesso punto dove era poggiato il suo.
“Curioso.” la corresse lui ancora imbambolato. “Non avevo mai incontrato persone che incorniciassero foto di cimiteri.” aggiunse bevendo un po’ di succo.
“C’è sempre una prima volta.” commentò lei come a dichiarare un’ovvietà.
“È stranamente inquietante e affascinante allo stesso tempo.” si voltò verso di lei per poi appoggiare il bicchiere sul tavolino basso a un piede di distanza da lui.  “Come te.”
“Accetto il complimento.” rispose con un tono velato di ironia. “Non farti strane idee; mi piacciono i cimiteri e in ogni nuovo posto che visito li fotografo, mi affascinano.”
“Sicuramente sono posti inusuali nei quali fare foto artistiche, ma questo non le rende meno belle.”
Lei annuì, poi si portò una mano al viso. “Sono veramente maleducata! Vieni, ti faccio vedere casa mia.” si alzò senza fare un minimo di rumore e raggiunse la porta del corridoio.
Il primo posto visitato fu il bagno, mediamente grande, ordinato con una cabina doccia degna di nota. Passarono poi alla camera da letto, spaziosa dove ritrovò altre foto decorare la parete: un uomo e una donna intorno ai vent’anni sorridevano in un ritratto in bianco e nero, mentre nelle altre cornici a colori Artemisia aveva inserito stampe a colori di lei, con il suo ragazzo e la sorella. Una toletta piena di trucchi era affiancata ad un grosso armadio, sotto la finestra invece, spuntava una scrivania.
“Questo è il muro dei ricordi.” disse indicando il muro pieno di foto. “Ci sono i miei nonni materni, mia sorella, Vladimir e la mia migliore amica.”
Vide il suo volto impresso nelle foto decorato da un riso spontaneo, sano e contagioso che per il momento su di lei non aveva mai visto. In quelle immagini poteva definirsi l’emblema della felicità; quando faceva naso a naso con il fidanzato, mentre abbracciava l’amica e poi mentre se ne stava accoccolata sulla spalla della sorella. Come se non volesse dimenticare che anche lei, una volta, era stata felice, come per non voler ammetter di aver perso qualcosa di importante e di non poter viverla più.
“Ti aiuta vedere certe foto?” disse piano Marco avvicinandosi al muro.
“Ormai non ci faccio neanche più caso.” rispose carezzando il volto del ragazzo impresso nella stampa.
Notò un’aria rassegnata segnarle il viso e l’amarezza contagiare quelle poche parole pronunciate. Era come se ancora non avesse realizzato la loro scomparsa nonostante gli anni passati, come se il loro ricordo fosse vivo in quelle foto e non volesse abbandonarle.
“Tu ti rendi conto che loro non ci sono più?” domandò cercando di essere il più delicato possibile.
“Certo che lo so.” rispose quasi irritata lei, guardandolo storto.
“Allora perché continui a comportarti come se loro fossero ancora vivi?”
“Non dire cazzate Marco.” disse Artemisia voltandosi verso di lui.
“E tu non negare l’evidenza.”
“Non posso dimenticarli.”
“Non devi.”
“E allora cosa dovrei fare?”
“Dovresti imparare a ridimensionare il loro ricordo e devi cominciare ad elaborare il lutto e capire che la vita deve andare avanti. Non puoi fermarti nel passato a disperarti, altrimenti il tuo presente ed il tuo futuro non avranno svolte. Vivrai nel buio e niente cresce nel dolore se non sai rialzarti e ricominciare.” Marco le aveva detto ciò che pensava, forse troppo oggettivamente, perché il suo sguardo sembrava perso e i suoi occhi era sull’orlo di piangere. Seduta sul letto, con le mani a reggerle la testa si sforzava di non sembrare provata da quelle parole dure sebbene veritiere.
“In questi anni il dolore mi ha rovinata e logorata dall’interno, non sento più di essere la stessa di una volta.” fece una pausa, poi riprese con calma. “Ho passato molto tempo senza uscire di casa, sola, a piangere la mia vita miserabile e la loro morte. Non mi sono mai sentita così vuota dentro, mai. Andavo a lavorare e sembravo un automa senz’anima e agivo solo perché dovevo. Ai miei occhi niente aveva più senso, mi sembrava tutto arido, privo di vita e senza colori. Ad oggi riesco a passare alcune giornate senza che l’incubo della loro morte mi perseguiti ogni dannato giorno, senza che i loro fantasmi infestino le mie relazioni sociali e mi impediscano di sopravvivere. Ma non è semplice Marco. A volte la depressione ritorna e come ieri, dopo essere tornata a casa, la sensazione struggente di averli persi mi ha dilaniata; ho urlato, gettato tutto all’aria, preso a calci il muro e poi mi sono addormentata per terra in un lago di lacrime. Non mi libererò mai di tutto questo, fa parte della mia vita.” le sue guance erano umide, ma la sua voce non era rotta dal pianto.
“Niente fa parte della tua vita se non vuoi che ci sia.” dichiarò Marco accovacciandosi di fronte a lei per stare alla sua stessa altezza. “Devi lavorare su te stessa, altrimenti continuerai a soffrire e anche la cosa più bella apparirà ai tuoi occhi senza valore perché non puoi condividerla con loro. Non funziona così Artemisia, devi andare avanti perché sei ancora viva, nonostante tu non voglia fartene una ragione.” le carezzò le guance bagnate con i polpastrelli come per asciugarle. “Devi salvarti. Nessuno può farlo al tuo posto.”

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